The 6th ward

di coldmackerel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Un nuovo turno ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Un sacco di nulla ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Fuori ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - L'albero di Giuda ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - All'aria aperta ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Polmonite ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Vivere per sempre ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Orari di visita e tequila sunrise ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Sobrio ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Ymir ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Furto ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Stelle ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - Condannato ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 - Ciò che non è stato detto ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 - Jean ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 - Luce e neve ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 - Insonnia ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 - Beethoven ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 - Il destino è sopravvalutato ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 - Avvocati e bourbon ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 - Mostri ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 - Fatti della stessa pasta ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 - Il problema con i cervelli ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 - Una nuova realtà ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 - Graffiti ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 - Fortuna ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 - Buio ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 - Solo gli stronzi non provvedono ad un epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Un nuovo turno ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice, che forse qualcuno ricorderà per 'The Little Titan Café' anche se ormai sono passati sei mesi buoni. Non molto da dire a parte che è ormai un anno e più che desideravo tradurre questa storia e che, in realtà, LTC era una prova per vedere se ero in grado di gestire qualcosa di più complesso, come in questo caso. Volevo iniziare prima ma stavo aspettando di mettere a posto i miei casini per fare in modo di aggiornare settimanalmente, anche perchè sono quasi 30 capitoli e sarà una cosa lunga xD. Non vi faccio la lista dei motivi per cui dovreste leggere questa fic, ma vi dico solo che è letteralmente straordinaria e sicuramente la migliore fanfic che abbia letto in vita mia. Vi consiglio vivamente di dargli un'opportunità, e ancora di più se vi piace la coppia ma, soprattutto, il personaggio di Levi... come sempre i commenti verrano tradotti e riportati all'autrice. Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: ci saranno millemila errori di battitura come al mio solito, mi dispiace. Non è detto che tutti conoscano il sesto senso, dunque nel caso in cui non lo sappiate Haley Joel Osment è il bambino che vede i morti nel film, e Bruce Willis è il tipo che è morto ma non sa di esserlo.


The 6th ward
CAPITOLO 1: Un nuovo turno

6 mesi, 0 giorni

C’è un qualcosa di indiscutibilmente ironico sul celebrare la propria guarigione ritornando all’ospedale dal quale sei appena stato dimesso. ‘Congratulazioni per il congedo, non vediamo l’ora di vederti di nuovo qui, tra una settimana.’ L’unica differenza è che al posto di avere il culo che spunta da una camicia da notte d’ospedale, ora lo aveva ficcato ordinatamente in un’uniforme da infermiere.

Comunque, complessivamente, si sentiva abbastanza bene. O, perlomeno, quanto bene ti possa sentire due mesi dopo un incidente mortale. Il che era incredibilmente bene. E mentre timbrava il cartellino e entrava nello sterile atrio dell’ospedale di San Trost, non poté fare a meno di trovare rinvigorenti i muri di un bianco immacolato e l’avvolgente odore di disinfettante.

Le sue fantasticherie furono interrotte bruscamente da un amichevole, ma abbastanza violento, colpo di karate sulla sua schiena. Facendo un suono che ricordava vagamente la gomma di una bicicletta appena bucata, si girò immediatamente verso la donna che stava ridendo fragorosamente alla sua inevitabile rabbia. “Levi, vecchio diavolo. Chi non muore si rivede! Ma guarda un po’, fatti guardare bene mio piccolo sopravvissuto!”

“Hanji – ” iniziò Levi, ma la donna strinse le mani con eccitazione e forza sulle sue guance. Lui cercò di apparire intimidatorio, ma per chiunque avesse la faccia schiacciata da una presa ferrea era un’impresa scoraggiante quella di far paura ad topolino indifeso, figurarsi ad una persona. E non aiutava di certo il fatto che Levi a stento arrivava alle spalle di Hanji, in altezza.

“Sei tornato a lavoro così presto,” disse lei enfaticamente, dandogli del colpetti affettuosi sulle guance. “Non crederai mai a cosa è successo l’altro giorno. Mike stava cercando di portare il pranzo nella sala delle infermiere ma quando ci ha chiamati…”

Hanji continuò a cianciare, enfatizzando i punti focali del suo discorso usando diverse pressioni sulle sue guance. Levi la fissava con disinteresse da sotto le palpebre semichiuse, tenendo le braccia incrociate. Lasciò che i suoi occhi vagassero sul viavai dell’ospedale, sulle infermiere che correvano da una stanza all’altra con le cartelle e pacchetti di vario tipo tra le mani, sui dottori incollati ai telefoni che camminavano audacemente in mezzo al traffico, avendo fin troppa fiducia nel fatto che tutti avrebbero avuto la prontezza di schivare il loro andazzo noncurante.

“Ehi, Levi!” Il tono di Hanji si fece perentorio e Levi si girò a guardarla in viso. “Che stai facendo ancora qui quando dovresti stare a controllare le funzioni vitali dei pazienti comatosi del reparto sei? Muoversi infermiere!” sorrise lei, dandogli un’ultima pacca sulla schiena, prima correre via e scontrarsi con uno dei medici distratti, facendo volare carte ovunque.

Levi fece una smorfia nella sua direzione prima di girare i tacchi e dirigersi all’ala sei.

Anche se sembrava premuroso che i supervisori gli avessero assegnato un compito tanto facile per sei mesi di seguito, avrebbe preferito qualsiasi altro posto. A parte essere intensamente noioso, l’atmosfera del reparto comatosi non era certamente invitante: nessuno di quei pazienti si sarebbe mai svegliato e l’infermiere del reparto era solo un babysitter per morti. L’unica differenza tra la corsia sei e un funerale era che, per qualche inspiegabile ragione, i cuori dei corpi che giacevano addormentati nel reparto battevano ancora. Ma non è il battito che fa una persona.

Dopo essere stato quasi in coma anche lui, per l’incidente d’auto, Levi pensava che avrebbe avuto un’opinione più romantica del reparto sei e dei suoi abitanti, ma un morto rimaneva un morto.

E fu sorpreso di scoprire che, quel giorno, la corsia sei aveva un’ospite.

Mentre entrava nel reparto, vide un nuovo letto con due persone sedute intorno. Le spalle larghe, i capelli biondi ordinatamente pettinati e il camice del dottor Smith erano facilmente identificabili, ma la donna con i capelli neri e lisci al suo fianco era sconosciuta agli occhi di Levi. Un visitatore, si disse.

Il dottor Smith aveva il suo solito tono da mi-dispiace-per-la-sua-perdita e stava parlando lentamente e profondamente. “… quindi non mi aspetto molto a questo stadio. Non sono un uomo abbastanza crudele da dare false speranze e non voglio che lei si faccia delle idee sbagliate. Eren è in stato di morte cerebrale e non c’è nulla che possiamo fare.” La donna sulla sedia stava annuendo passivamente, il suo volto di un bianco mortale. “Ora, questo è quello che suggerisco alla maggior parte delle famiglie con un parente in queste condizioni. Di solito diamo sei mesi al paziente: lasceremo Eren attaccato alle macchine e ne avremo cura per sei mesi e, se non troviamo nessun cambiamento nella sua attività cerebrale, noi – ah, intendo lei, staccherà la spina.” terminò l’uomo in un sussurro.

“Ah diamine no, non far avvicinare nessuno alla spina!”

Levi si girò, andando a sbattere contro lo scaffale e la macchina di lettura della pressione sanguigna. Un giovane alto, con una massa di capelli castani e arruffati e uno sguardo terrorizzato negli occhi verdi, stava gesticolando animatamente il suo dissenso. “Nessuno staccherà nulla!” insisté il tipo.

Per tutta confusione di Levi, il dottor Smith continuò a parlare sopra al giovane, e la donna seduta vicino al letto continuò ad annuire passivamente alle raccomandazioni del medico di donare gli organi.

“Non farai un cazzo con le mie spine dottor Ken. E nemmeno tu Mikasa.” disse il ragazzo. Stava agitando le sue mani con così tanto spirito che Levi temette che qualche areo avrebbe tentato erroneamente di atterrare su di loro.

Levi guardò di sfuggita tra il ragazzo e il piccolo raduno di gente attorno al letto, e ogni cosa tornò al suo posto nonostante la situazione fosse al di là di ogni possibile previsione. “Tu sei…” la voce gli si affievolì. “Come…” e così, Levi si trovò in un raro stato di inabilità a formulare pensieri coerenti.

Il ragazzo si girò un momento ad osservare Levi, poi guardò di nuovo le persone vicino al letto e poi tornò a guardare Levi mentre i loro occhi si incrociavano. Lo fissò apertamente. “Fissare è maleducato alle mie parti.” Levi disse seccamente.

“Be’ ora puoi chiamarmi credente,” affermò alla fine il giovane, unendo le mani in preghiera. “Grazie Gesù, Maria, Giuseppe, Tom Cruise o chiunque dovrei ringraziare,” disse. “Tu mi puoi vedere. Grazie a Dio.” continuò, passandosi una mano tra i capelli.

“Sì, la vista è stata un’invenzione veramente incredibile.” rispose Levi.

“Spiegalo a loro,” disse il ragazzo indicando la giovane donna e il dottore con il pollice. Poi, fece qualche passo verso Levi, abbassando inutilmente la voce in un sussurro. “Sono in un cazzo di coma.” sibilò, gesticolando animatamente verso il suo letto.

Levi fissò il ragazzo terrorizzato, e solo dopo due minuti buoni di incredulità, si schiarì la gola: “Ehm.” si annunciò goffamente al gruppetto vicino al letto.

Il dottor Smith si girò lentamente e alzò un sopracciglio con aria poco convinta. “Levi?” lo riconobbe.

“Ah, ehm. Sai se quello è… lui è…?” Levi si fermò, indicando cautamente l’uomo in piedi al suo fianco.

Il dottor Smith mosse lievemente il capo. “Scusami?”

“Lui è, ehm,” Levi cercò di cambiare strategia. “Il nuovo residente del reparto?” terminò mortificato.

“Eren Jaeger,” rispose sospettosamente il dottor Smith. “Ecco la sua cartella clinica se ne hai bisogno subito.”

A quel punto gli occhi di Levi si spostarono ansiosamente dal ragazzo al dottor Smith. Si avvicinò cautamente al letto e, proprio come sospettava, il giovane alzato al suo fianco era la stessa persona stesa nel letto e connessa a una serie di respiratori, monitor e macchine. Dio, quanto odiava aver ragione. A Levi piaceva considerarsi una persona razione, difficile da stupire e veloce a rifiutare le idiozie, ma la vista del doppio uomo, fece fluire via il colore dal suo volto e lo lasciò stranamente balbuziente. “Io ah… Io ho bisogno di… aria… pranzo – ” borbottò, afferrando la cartella clinica e fuggendo dal reparto.

Levi andò dritto dritto verso la sala delle infermiere dove trovò Hanji che cercava di bilanciare un termometro. Afferrando il collo della sua divisa, costrinse la donna ad abbassarsi alla sua altezza e sussurrò in panico: “Hanji questa è merda da sesto senso.”

Hanji guardò tristemente il termometro che, cadendo a terra, si era rotto. Poi strinse gli occhi, valutando la sua espressione ostile e preoccupata.

“Hanji io – ” Levi abbassò la voce in un sussurro a stento udibile. “Hanji credo di vedere la gente morta o qualche cosa simile.” poi lasciò la presa sulla sua camicia e fece un passo indietro, piegando le braccia come se si aspettasse che lei avesse una soluzione immediata al problema.

Invece Hanji annuì lentamente, alzando un sopracciglio. Dopo un minuto di valutazioni, il suo volto divenne pensieroso. “Quindi sei Haley Joel Osment?” chiese lei scetticamente. “O sono io Haley Joel Osment, e tu sei Bruce Willis. Voglio dire, perché forse se tu sei morto e io vedo la gente morta però tu non sai che sei morto.” Difficile giudicare se Hanji era seria.

“Sono sicuramente Haley Joel Osment.” affermò Levi.

“Voglio essere io Haley Joel Osment.” rispose Hanji.

“Nessuno vuole essere Haley Joel Osment! L’apice della sua carriera è stato quando aveva, tipo, dieci anni.”

“No, ha recitato in Forrest Gump e sono quasi sicura che ha prestato la voce per qualche videogame famoso.” rispose lei.

“Forrest Gump viene prima del Sesto Senso.” disse Levi, poco convinto.

“Gesù Cristo, allora qual è il problema per cui non vuoi essere Bruce Willis?”

“Bruce Willis era il morto, Hanji! Io non sono morto!” praticamente urlò Levi.

A questo punto, Hanji stava ridendo di gusto. La sua risata aveva iniziato ad attrarre l’attenzione delle altre infermiere, dunque Levi l’afferrò di nuovo per portarla alla sua altezza e le mise una mano sulla bocca. “Ascoltami, maledetta iena,” ringhiò. “Ero nell’ala sei e c’è un nuovo dannatissimo tizio e io l’ho visto in piedi di fianco al suo corpo quasi morto. Nessuno poteva vederlo. Stava andando in panico e merda simile e io era l’unico stramaledettissimo stronzo che sapeva che lui era lì.” Levi si mise a balbettare. Lui odiava balbettare. “Era lì, nel dannato letto, quasi morto, ma era anche in piedi al mio fianco a dirmi che nessuno aveva il permesso di staccare nessuna spina.” ormai stava ansimando, arrabbiato come non mai.

Gli occhi di Hanji brillarono con consapevolezza. “Ah, quindi è lui Bruce Willis.”

“Potresti chiudere quella boccaccia, tu e Bruce Willis?” disse Levi, prima di ripensarci. “Sì, intendo dire che sì, è lui Bruce Willis.”

“Maledizione, questo quindi fa di me la mamma di Haley Joel Osment nel film?” chiese Hanji tristemente.

“Credo che fosse Toni Collette.” rifletté Levi.

“Maledizione.” si lamentò Hanji.

“No-ma, cazzo Hanji. Sto impazzendo?” Hanji si aggiustò gli occhiali con disagio, guardando oltre Levi come se il muro della sala infermiere potesse darle qualche risposta. “Forse sono tornato a lavoro troppo presto.” Levi pensò a voce alta.

“Questa è merda fantascientifica di alto livello,” disse Hanji, riacquistando entusiasmo. “Forse quando eri in quel rottame di un’auto hai tipo… aperto qualche portale per l’aldilà. E ora vedi le persone che sono tipo mezze morte, più o meno.”

Si stava divertendo troppo con questa cosa. Anche se pure Levi era capace di apprezzare le cose divertenti, seppur non troppo spesso, questa situazione era l’opposto di divertente.

“Dunque, dunque. Perché non vai a parlare con il nostro Bruce Willis in coma? Dobbiamo capire che sta succedendo.” propose lei con un po’ troppa eccitazione per i gusti di Levi. Sembrava quasi che Hanji stesse per trascinare lui e sé stessa nel reparto sei, per parlare con il nuovo paziente in coma, quando vide la caposala che camminava verso di lei con uno sguardo irato. “Merda, devo dileguarmi in fretta Levi,” disse la donna. “Sto nella merda fino al collo con la caposala. Ci vediamo, ma tu, intanto, faresti bene ad andare a parlare con Bruce Willis.” scappò via, ma quando aveva ormai percorso quasi tutto il corridoio, si girò per urlare: “Non l’attore!” e andò a sbattere con lo stesso medico distratto con cui si era scontrata prima.





In piedi fuori dal reparto, Levi sapeva bene che doveva affrontare la cosa con delicatezza. Il ragazzo era probabilmente più terrorizzato di lui e lui non voleva peggiorare la situazione. Un parte di sé sperava che fosse un’allucinazione dovuta allo stress e che non avrebbe più visto il disperato giovane. Entrando nel reparto, però, dovette rinunciare a qualsiasi speranza. Il paziente, o chiunque egli fosse, stava camminando nervosamente avanti e indietro, di fronte al suo letto, su cui era seduta la ragazza bruna che stava stringendo silenziosamente la mano del suo corpo senza vita. Levi cercò disperatamente di ricordarsi il nome del ragazzo. Eren, pensò. Irving. Qualcosa.

Eren-o-Irving-o-qualcosa lo vide non appena entrò nella stanza e Levi lo invitò discretamente a seguirlo nel corridoio deserto.

Levi si ripeté mentalmente che doveva affrontare la situazione con calma e cercare di non spaventare il ragazzo. Stai calmo.

Questi si chiuse la porta alle spalle e si voltò a guardare Levi, che lo afferrò per la maglia e lo strattonò in avanti bruscamente, dicendo in un tono non intenzionalmente minaccioso. “Ascoltami bene stronzetto.”

Grandioso.

“Stronz-etto?” farfugliò il ragazzo con indignazione. Apparentemente l’affettuoso soprannome ‘stronzo’ era in qualche modo meno offensivo dell’accusa di non essere abbastanza alto. “Molto bene, mini wrestler vestito da infermiera…” iniziò in tono litigioso.

Levi decise, anche se con molta difficoltà, di ignorare il commento sulla sua bassa statura. Lasciò la maglietta del ragazzo con riluttanza e fece un passo indietro. “Riproviamo,” sospirò, prima di presentarsi brevemente, allungando una mano: “Levi.”

“Eren.” rispose sospettoso il giovane, stringendo la sua mano. Quella di Eren era incredibilmente fredda. Ci fu un momento di silenzio pesante prima che Eren parlasse di nuovo. “Sono morto?”

Perlomeno non aveva girato intorno alla cosa. L’istinto di Levi fu di confermare i sospetti di Eren, ma alla fine vacillò un pochino. C’era un certo peso nel modo in cui le spalle del ragazzo erano abbassate, e Levi non poté fare a meno di sentirsi almeno un po’ dispiaciuto per lui. “Vuoi una risposta dal punto di vista medico?” chiese Levi con freddezza.

Eren ci pensò un attimo. “Voglio la tua risposta.”

Levi sospirò. “Sei morto.”

“Il mio cuore batte ancora.” suggerì Eren ragionevolmente.

“Non ti sveglierai.” insisté Levi, forse un po’ troppo schiettamente.

Eren sembrò prenderla ragionevolmente bene. Stava annuendo pensieroso, anche se con uno sguardo decisamente esausto negli occhi. Se Eren non fosse stato già mezzo morto, Levi lo avrebbe avvertito che l’intensità con cui si stava passando distrattamente una mano tra i capelli lo avrebbe fatto diventare calvo molto presto. “Come mai mi riesci a vedere?”

Levi fece spallucce. “Non ne ho idea.”

“Questa merda è da sesto senso.” Rifletté a voce alta Eren.

Avendo le palle quasi completamente piene di menzioni riguardo il sesto senso, Levi iniziò a protestare ma fu interrotto –

“Yu-huuuuuu.” Una voce si intromise nella loro conversazione dal fondo del corridoio.

“Non ci possono sentire.” disse una ragazza con scetticismo.

“No, guarda, quel tizio indossa i nostri stessi vestiti da fantasmi mezzi morti.” rispose l’altra voce.

Una ragazza con dei lunghi capelli castani legati in una coda e uno sguardo timido, insieme ad un giovane più basso di lei, con la testa rasata e un sorriso a trentadue denti, si avvicinarono a loro. “Hey ragazzo,” il tipo chiamò Eren, ignorando completamente Levi. “Vedo che anche tu hai l’abbigliamento casual da morto.” gesticolò per indicare sé stesso e la ragazza. Tutti e tre indossavano dei pantaloni e una t-shirt bianchi e una cintura nera. “Benvenuto al reparto sei. Vedo che già ti sei messo l’uniforme.” scherzò, “Mi chiedo ancora perché i tizi dei piani alti hanno pensato che la divisa da pittore di muri andasse bene per le persone che non sono riuscite a morire come si deve. Personalmente, credo che l’arte figurativa religiosa sia un po’ sopravvalutata, ma cosa ci possiamo fare.” Poi tese una mano ad Eren. “Connie,” si presentò calorosamente, “E’ un piacere conoscerti anche se mi dispiace di doverlo fare qui.”

Eren lanciò uno sguardo a Levi prima di stringere la mano di Connie. “Eren.” rispose.

“Sasha,” la ragazza che era arrivata con Connie aprì bocca, alzando la mano per farsi riconoscere. “Anche io quasi morta, direi.”

“Questa giornata va di bene in meglio.” commentò Levi amaramente.

Connie e Sasha di girarono a guardare Levi a bocca aperta. Sasha si mise persino a sventolare una mano davanti alla sua faccia, dimenando le dita per avere una qualche reazione prima che Levi la guardasse male, facendola nascondere dietro Connie.

“Oh merda.” riuscì a dire Connie, riuscendo finalmente a muovere la mascella. “Anche tu sei morto?”

“Cazzo, ovvio che no.” borbottò Levi.

“Però riesci a vederci,” disse Sasha incredula. Lo stava guardando con un profondo stupore, che sembrava quasi adorazione. “Ci puoi vedere.” ripeté a voce bassa.

“Sfortunatamente.” rispose Levi. Lo stavano fissando tutti e Levi desiderò disperatamente di aver fatto finta di non poter vedere Eren. Ma aveva aperto la sua dannata bocca, e l’unica cosa buona di tutta quella situazione era che il reparto sei era deserto praticamente sempre.

“E’ una cosa ‘normale’ allora?” interruppe Eren. “Tipo tutti i pazienti in coma hanno questa sorta di esperienza ultra-corporale?”

Connie fece spallucce. “Da quel che ne so. Ma devo dirlo, i telefilm di fantascienza lo fanno sembrare molto più fico. La realtà è un po’ diversa, invece. Onestamente è una noia mortale.”

“Da quanto tempo stai così?” Eren sembrava a disagio.

“Be’,” Connie fece una pausa, facendo qualche calcolo veloce a mente, “Direi che io e Sasha siamo qui da circa due mesi. Alcuni degli altri stanno da più tempo. Il tempo passa in un modo strano da queste parti, e quando non sei veramente sicuro se vuoi che il tuo tempo vada avanti o indietro, questo inizia a non muoversi per nulla. E poi un giorno ti svegli e noti che le cose non sono come avevi pensato che fossero.”

Eren cercò di annuire come se avesse capito, ma riuscì solo a fare una faccia da uno con un gran mal di stomaco, e la cosa fece pensare a Levi che il ragazzo sembrava più incline a vomitare sulle sue scarpe di un bianco immacolato che altro.

Lui l’avrebbe semplicemente seguito a ruota.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Un sacco di nulla ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Volevo ringraziarvi tantissimo, sia da parte mia che da parte dell'autrice, per aver letto il primo capitolo... e in maniera particolare a chi l'ha commentato e inserito tra i preferiti/da ricordare/seguiti... siete già un sacco e non avete idea di quanto ci faccia piacere. L'altra volta non sono entrata nello specifico, ma volevo dirvi che questa storia (che è già stata completata ormai più di un anno fa, e tra l'altro fu scritta nel giro di un mese) è lunga 28 capitoli, per un totale di 90.000 parole circa (una volta e mezzo LTC, per capirci). Difatti, quando e se possibile, potrei decidere di aggiornare un poco prima, per portarmi avanti. Mi sembra tutto per oggi, per cui buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: a parte gli inevitabili errori di battitura... tutto regolare credo. Ah, come sempre, se qualcuno ha letto/sta leggendo la storia originale, che è linkata nel profilo, e trova errori di traduzione o altro, sarei più che felice di essere corretta.


The 6th ward
CAPITOLO 2: Un sacco di nulla

5 mesi, 20 giorni

‘Una routine confortevole’ non era proprio il modo in cui Levi avrebbe descritto il tempo che trascorreva nel reparto sei, ma, perlomeno, aveva finalmente raggiunto la capacità di sorprendersi con poco. Ad essere onesto, pensava di aver già guadagnato tale capacità prima di incontrare Eren e il resto della combriccola del reparto sei, ma solo perché non aveva mai immaginato che si sarebbe trovato a fare da babysitter a un mucchio di ragazzini morti per ventidue dollari l’ora. Questa, era stata giusto una prova in più che la vita ti può sorprendere sempre.

La passata settimana e mezzo si era rivelata come la più turbolenta della sua vita, sotto certi aspetti, ma, stranamente, anche come la più pacifica. I pazienti del reparto sei erano rumorosi, pericolosamente annoiati e una costante fonte di stress per i nervi di Levi, ma erano, anche, in qualche modo tranquilli, nella loro modesta esistenza. Vivevano perché gli era permesso, e c’era una sorta di melanconico appagamento tinto di una leggera felicità in ogni conversazione, sorriso e gesto. Era come un promemoria che loro erano ancora lì. Che erano morti, ma non lo erano. E qualche volta Levi non riusciva a capire se erano contenti o tristi della cosa, anche se, in generale, pensava che i pazienti del reparto sei semplicemente non fossero in grado di capire se essere contenti o tristi della loro situazione.

Dopo essere riuscito a districarsi da una discussione unilaterale con Hanji sull’utilizzo del catetere (lei aveva tenuto tutta una serie di argomentazioni, mentre Levi aveva fatto finta di ascoltare), riuscì a raggiungere il reparto sei nella sua solita quasi-routine. Normalmente a quest’ora era in corso qualche attività agitata. Che fossero Connie o Sasha che correvano per le stanze, o Jean che litigava con Eren, o Reiner che raccontava una delle sue storie – molte delle quali, Levi sospettava, erano del tutto o parzialmente inventate – c’era sempre qualche sorta di nullo avvenimento. Alla fin fine, non facevano niente di più di qualsiasi gruppo di persone che Levi avesse mai incontrato. Solo che lo facevano abbastanza rumorosamente.

Quel giorno, però, era silenzioso. Era esattamente come il reparto sei avrebbe dovuto essere se Levi non avesse perso qualche rotella, ma, sicuramente, non quello che si aspettava. Poi notò, attraverso gli oblò di una delle porte, che c’era un visitatore. Ymir, una donna alta con una personalità sicura di sé e vagamente dispettosa, aveva un visitatore seduto vicino al suo corpo.

Ymir era una persona con cui Levi riusciva ad andare d’accordo facilmente, perché nessuno dei due parlava molto. Lei lo faceva concisamente, dicendo solo quello che voleva e quando voleva dirlo, ma, se ascoltavi con più attenzione, aveva un umorismo tagliente e se ne usciva sempre con i migliori insulti. Si teneva le parole per i momenti in cui avrebbero davvero significato qualcosa, e Levi apprezzava questo suo modo di fare.

Seduta vicino al corpo di Ymir c’era una giovane e minuta ragazza, con capelli lisci e biondi e un bel viso innocente, che sembrava stare leggendo un libro a voce alta. Levi si infilò di soppiatto nella stanza e fu sorpreso di trovare tutti i pazienti del reparto sei raggruppati lì, senza fare rumore. Infatti, l’unico suono nella stanza, era quello della voce della ragazza mentre leggeva il volume che aveva posato sul grembo. Ymir sedeva sul suo stesso letto, incastrata di fianco al suo corpo immobile. I suoi occhi erano chiusi ma c’era un leggero sorriso sul suo volto, e lei stava annuendo piano alle parole recitate dalla donna.

Reiner e il suo compagno di stanza Bertholdt, sedevano a terra con la schiena poggiata al muro, sorridendo piano, mentre Connie e Sasha erano seduti sulle sedie dall’altra parte del letto, sporgendosi in avanti per posare il mento tra le mani e le braccia sull’angolo del letto di Ymir. Le loro facce erano assurdamente simili nell’espressione di meraviglia e assorta attenzione. Invece, Annie, un’altra ragazza del reparto, era poggiata contro il muro; non era una tipa particolarmente emotiva, ma anche il suo solito sguardo severo si era addolcito, e sembrava infinitamente più serena di tutte le altre volte in cui Levi l’aveva vista. Jean aveva la schiena rivolta verso il gruppo ed era affacciato alla finestra, ma la curva delle sue spalle e la postura rilassata lasciavano capire la sua calma, ed infine Eren, era steso a pancia in su ai piedi del letto, contemplando il soffitto con un sorriso stupidamente felice sul volto.

Levi si mosse verso l’angolo della stanza, cercando di essere presente senza effettivamente esserlo. Sarebbe stato un peccato rovinare il momento.

La donna con il libro aveva una voce stranamente confortante. Chiara, ma gentile. “‘Mi potrebbe dire, per favore, verso qualche direzione dovrei andare da qui?’ ‘Questo dipende molto da dove vuoi arrivare.’ ‘Non mi interessa dove – ’ ‘Allora non importa quale via prendi.’” Levi si ritrovò assorto nei pazienti del reparto sei, più che nella storia. Era come se improvvisamente non stesse più guardando un gruppo di adulti: i loro volti erano di nuovo giovani e i loro occhi avevano un’espressione così nostalgica che l'infermiere iniziò a pensare che si sarebbe sentito male anche lui. Reiner si stava strofinando gli occhi furiosamente, e Levi approfittò del momento per rendersi invisibile.





5 mesi, 19 giorni

“Levi,” si lamentò Hanji. “Non hai pranzato con me da quando sei arrivato dicendomi che sei Haley Joel Osment.” Stava facendo il broncio, camminando praticamente addosso a Levi mentre lui entrava nel reparto sei.

“Sto cercando di dimagrire.” rispose lui con sarcasmo. Be’, non è che stesse veramente cercando di dimagrire, stava direttamente perdendo peso. La cosa lo faceva arrabbiare, ma dei dannatissimi pazienti del reparto sei gli facevano passare l’appetito. Aveva troppi pensieri per la testa.

“Levi, se non mangi, non finirai solo per vedere i morti.”

“Sì, finirei per essere uno di loro. Non sarebbe strano?”

Hanji si ritirò dopo un altro po’ di proteste, eventualmente costretta a correre verso la sala dietro l’angolo per non farsi vedere dal supervisore con cui aveva incrociato lo sguardo. Levi non sapeva esattamente cosa avesse fatto Hanji per avere così tanti problemi con i suoi superiori, ma non era nemmeno così sorpreso. Chiamarla spirito libero non era abbastanza.

Il reparto era tornato alle sua normali attività dal giorno prima. Non c’era stato nessun altro visitatore, e tutti erano raggruppati nel corridoio, seduti o poggiati al muro. Eren agirò la mano allegramente quando vide Levi entrare nel reparto. Questi gli concesse un cenno del capo, prendendo le cartelle cliniche e unendosi a loro nel corridoio.

“Chi è venuto ieri?” chiese Levi, cercando di non suonare troppo interessato.

“Christa.” Rispose Connie dalla sua posizione sul pavimento. “La ragazza di Ymir.” aggiunse, con uno stupido sorrisone in faccia. Sasha fece una risatina dal suo fianco.

“Sì, mi piacerebbe.” borbottò Ymir. “Una buona amica, però. Abbastanza da essere l’unica persona che viene ancora a visitarmi. Sei quasi morta da un paio di mesi, ed ecco che la gente inizia a dimenticarsi di te,” continuò malinconicamente, “Legge sempre per me.”, aggiunse infine, in quello che a stento era un sussurro. Tutti concordarono silenziosamente, sembrando ancora persi nella calma che aveva portato Christa l’altro giorno.

“Quindi cosa si fa oggi?” chiese Levi, interrompendo le loro reminiscenze. Non gli interessava un granché della cosa in realtà, sperava solo non fosse rumorosa.

Eren grugnì. “Come diavolo hanno fatto alcuni di voi a restare qui per mesi. Non c’è niente da fare.” disse mentre grattava via un segno da una piastrella.

“Sì, certamente abbiamo un’abbondanza di nulla,” meditò Bertholdt. “Qualche volta faccio finta che il tempo non esista, e in qualche modo aiuta.”, fece spallucce, “Ti da l’opportunità di pensare ad un sacco di cose.” Poi sorrise, in segno di scusa. “Ma questa rischia di essere una cosa non buona.”

Levi diede un’occhiata esasperata al gruppetto. Dannati ragazzini. “Volete che vi porti qualche film o della musica o qualcosa?” Non era interessato a fare beneficenza, ma non poteva fare finta di niente considerando che era l’unico in grado di fare qualcosa. Nessun altro poteva portare ai pazienti del reparto qualcosa da fare.

Ci fu un improvviso frastuono perché cominciarono tutti subito a blaterare eccitati, parlando dei loro film preferiti, di giochi e di musica. Levi cercò di non girare gli occhi in irritazione, ma fallì.

“Ucciderei per vedere un film.” annunciò Reiner al gruppo.

“Il sesto senso?” propose Levi con sarcasmo.

Eren rise apertamente. “Cavolo, tu sei proprio Bruce Willis.”

“Non sono Bruce Willis,” lo interruppe Levi, con la voce più alta di quanto avrebbe voluto. “Tu sei Bruce Willis, deficiente. Io vedo i morti. Tu sei morto.”

Eren sembrò riconsiderare la cosa, prima di agitare la testa lentamente. “Non sono proprio morto,”, ci scherzò. “E non abbiamo nessuna prova che tu sia vivo, comunque. Dopotutto perché ci riesci a vedere?”, sorrise maliziosamente, “Sei sicuro di non essere Bruce Willis?”

“Si. Cazzo.” ribatté Levi. Odiava arrabbiarsi. “Sono Haley Joel dannato Osment. E voi siete tutti insopportabili.”

“Allora noi siamo tutti Bruce Willis?” chiese Sasha scetticamente.

“Nessuno è Bruce Willis, dannazione!” Levi era fuori di sé.

“Sì, ma chi non vorrebbe esserlo.” ghignò Ymir.

Il tutto si concluse in una risata mentre Levi se ne andava via.

Questi dannatissimi ragazzini morti erano una rottura di palle.





5 mesi, 16 giorni

Levi si stava meticolosamente lavando le mani, strofinando furiosamente la parte sottostante le sue unghie. Il sapone aveva un odore calmante di alcool isoprolipico e limone. Il pulirsi in generale lo metteva di buon umore, lo rendeva quasi felice.

“Levi!” quest’ultimo riconobbe la voce di Erwin, e si girò a guardarlo mentre questi lo raggiungeva. Erwin era perfettamente sistemato come al solito: la camicia stirata, la cravatta tenuta in posizione dal ferma-cravatta, i pantaloni stirati, il camice senza neanche una grinza e i capelli ingellati perfettamente.

“Dottor Smith.” disse Levi, inclinando la testa leggermente in segno di saluto. Dopo essersi rigirato verso il lavandino, riprese a lavarsi le mani, sperando che Erwin decidesse di lasciar stare un’indesiderata conversazione.

“Come ti sta trattando il reparto sei?”

Levi era ben in grado di sentire la punta di sarcasmo nella domanda dell’uomo. “Bene.” rispose brevemente. Era ovvio che Erwin era interessato a parlare di qualcos’altro ma non voleva arrivare subito al punto, anche se farlo sarebbe stato preferibile. Le chiacchiere di cortesia non erano proprio una cosa per Levi.

“Piuttosto silenziosi, ma almeno non fanno troppe domande.” disse frivolamente Erwin, arrotolandosi le maniche della camicia per lavarsi le mani nel lavandino di fianco a quello di Levi.

“Saresti sorpreso di scoprire che è il contrario.” mormorò lui.

Apparentemente Erwin non aveva afferrato il commento di Levi, e infatti portò avanti la conversazione. “Hai sentito dei lavori di ristrutturazione che sono appena stati approvati? Oddio, in realtà non è niente di grandioso. E’ solo strano che non sarà più qui.”

Levi chiuse il rubinetto e finalmente si girò verso Erwin, inaspettatamente desideroso di partecipare alla conversazione. Erwin non aveva notato il suo interesse improvviso, impegnato a finire di lavarsi le mani. “Cosa non sarà più qui?”

Il medico alzò lo sguardo e incrociò quello di Levi. “Ah.” riuscì a dire. Chiaramente non si aspettava che la conversazione diventasse bilaterale. “Immagino che tu non l’abbia saputo. L’amministrazione ha deciso di chiudere il reparto sei. Non accetteremo più pazienti comatosi e tenteremo di convincere le famiglie dei pazienti, che ci sono ora di scegliere una soluzione migliore di lasciarli lì a marcire.” Si stava grattando distrattamente la testa. “Tanto tutti quelli che hanno una famiglia che possa decidere per loro devono avere la spina staccata entro sei mesi. Poi abbiamo quel paziente nuovo, che ha ancora quasi sei mesi da fare, ma per la maggior parte degli altri abbiamo già le date in cui staccheremo la spina. Tutti gli altri sono quelli che non hanno una famiglia a cui interessi di loro. Probabilmente ci appelleremo allo stato per staccargli la spina nei prossimi mesi.” Erwin scosse la testa tristemente. “Non è giusto tenere i loro corpi vivi quando, sai… non lo sono veramente.”

Levi stava annuendo ammutolito, cercando di focalizzarsi su quello che Erwin diceva.

“Credo che verrà modificata la presa di posizione dell’ospedale riguardo ai pazienti tenuti in vita artificialmente. L’obiettivo è quello di non accettare più pazienti a lungo termine quando sono praticamente morti, e, se le famiglie vorranno mantenere in vita questi pazienti comatosi per più di una paio di settimane, dovranno trasferire il loro caro ad un altro ospedale. San Trost non lo farà più per loro.”

Erwin fece spallucce. “Probabilmente è la scelta migliore. E’ triste vedere quei pazienti stare lì così a lungo. Le famiglie hanno bisogno di una conclusione.” Con questo, il dottore si asciugò le mani e se ne andò, agitando un mano oltre la sua spalla in segno di saluto.

Levi cercò di determinare i suoi sentimenti sulla cosa, ma ebbe un’inusuale difficoltà a decidere come si sentiva. E la cosa più difficile da decidere, oltretutto, era come avrebbe fatto sapere ai pazienti del reparto sei che i loro giorni erano contati. La maggior parte di loro doveva saperlo già, ragionò. L’ospedale non aveva mai consentito più di sei mesi di supporto vitale artificiale. Ma per quanto sapeva bene che doveva dirglielo, non riusciva a fare a meno di provare una sensazione di disagio mentre si faceva strada nel reparto.

Non appena arrivato, Levi notò che il corridoio era deserto, ad eccezione di Eren, che se ne stava seduto sul pavimento fuori la sua camera, le gambe distese e le mani strette insieme e poggiate mollemente sulla sua pancia. Stava canticchiando distrattamente, fissando un punto sul muro di fronte a lui. Levi riuscì ad mettersi in piedi esattamente di fronte a lui, prima che Eren potesse anche solo notare che era lì.

“’Giorno.” lo salutò Eren con un sorrisino e il suo modo di fare disinvolto.

Levi non rispose. C’erano cose più importanti dei saluti e delle formalità. Dunque, andò dritto al punto. “Sai che hai meno di sei mesi prima che ti toglieranno il respiratore, vero?”

Eren sbatté gli occhi un paio di volte, con un’espressione confusa in volto. “Ah, sì. Cioè, direi che lo so. Mikasa ha accettato la cosa.”

“E’ la tua ragazza?” L’espressione di Levi non cambiò, rimanendo sempre perlopiù disinteressata.

“Sorella,” lo corresse Eren,“Sorella adottiva.”, aggiunse dopo un momento. “Cioè, sarò effettivamente morto a quel punto?”

Levi lo derise. “Non so, fammi controllare il manuale che abbiamo per le situazione di merda come questa, Ah, ecco qua,” disse con finta sorpresa, tenendo in mano un libro immaginario e facendo finta di cercare uno specifico paragrafo con l’indice. “Il manuale su come aiutare dei ragazzini quasi morti a diventare effettivamente morti dice sì, che effettivamente morirai quando verrai ucciso.”

Levi chiuse il libro immaginario e attese pazientemente che Eren reagisse alla sua provocazione. Di solito lo faceva. Ma stavolta, rimase silenzioso, tamburellandosi i polpastrelli l’uno contro l’altro, apparentemente assorto nei suoi pensieri. Passarono un paio di minuti di sgradevole silenzio in cui Levi rimase in piedi su di Eren, con le braccia incrociate, e in cui Eren stava pensando così rumorosamente che l’infermiere poteva quasi udire le sue riflessioni. Il dannato ragazzino non riusciva nemmeno a pensare silenziosamente.

Levi non si sarebbe seduto sul pavimento, soprattutto perché aveva speso abbastanza tempo lavorando in un ospedale da sapere che tipo di fluidi finivano a terra, ma si piegò di fianco ad Eren con la schiena contro il muro e i gomiti poggiati sulle ginocchia, tenendosi la testa tra le mani.

“Dovrei sentirmi meglio, no?”, chiese infine Eren. “Non dovrei essere nervoso o altro. Perché, sono già abbastanza morto, no? Quindi che problema ci sarebbe se morissi veramente.”

Levi fece un mugugno evasivo. “Sentiti come vuoi sentirti.”

“Non mi sento morto.” disse Eren, quasi più a sé stesso che a Levi.

“Sì, be’, hai quasi sei mesi per abituarti ad esserlo.”

Eren rise un pochino, ma la sua risata era più triste che altro. Levi lo guardò curiosamente.

“E’ stato così stupido.”

Levi alzò un sopracciglio.

“Stavo lavorando come operaio. Stavo lavorando a quel dannato edificio da più di cento giorni. E quel turno, durante quello stupido turno, mi sono dimenticato il casco protettivo. E quell’altro deficiente ha fatto cadere il martello dall’impalcatura sopra la mia.” Lacrime di rabbia minacciavano di scendere lungo le sue guance, allora Eren rise un attimo, come per cercare di ridurre la tensione nella sua voce. “So che ci sono un sacco di statistiche sulla possibilità di essere colpito da un fulmine. Ma un martello? Un dannatissimo martello.” sussurrò infine, agitando la testa incredulamente.

“Pensa a come si sentono quelli che vengono colpiti da un fulmine.” offrì Levi.

Eren rise genuinamente a quel commento. “E’ così stupido. E’ come fare la somma di ogni stupido errore che hai fatto nella tua vita e che vorresti non aver fatto, moltiplicarla per mille e lanciarla sulla tua stessa stupida faccia come un boomerang.” A questo punto suonava perlopiù solo arrabbiato. “E per qualche dannatissima ragione tutto quello che posso pensare sono quelle stupide pubblicità che ti dicono che potresti morire in qualsiasi momento e quindi dovresti dare il tuo meglio oggi e non domani. Ma nessuno ci crede. Tutti pensano di avere un domani. Tu pensi che sì, la persona dopo di te potrebbe non avere un domani, ma tu sei il protagonista della storia, quindi non puoi morire. Tutti vogliono pensare che loro sono un po’ più speciali del Joe, Dick, Harry che viene investito mentre va al supermercato, o che scivola sul ghiaccio e si spacca il cranio. ‘Non morirò in un giorno qualsiasi a metà della mia vita’, pensi. ‘Saprò quando arriverà il mio ultimo domani.’ ma non lo sai.”, terminò.

Levi cercò di trovare qualcosa da dire, ma, letteralmente, la cosa più creativa che gli venne in mente fu: “Che schifo.”

Eren gli lanciò uno sguardo frustrato, come se si aspettasse qualcosa in più di avere conferma delle sue lamentele. Qualche consiglio di vita magari. Qualcosa di più profondo di quello che Levi aveva da offrirgli. “Sì,”, concordò. “Fa veramente schifo.”

“Ti piace la musica?” chiese Levi.

Eren gli fece uno sguardo contrariato. “Potresti lasciarmi avere una crisi isterica sulla mia vita per dieci minuti?”

“Sei morto, non puoi essere in crisi per la tua vita. Ti saresti dovuto occupare della cosa prima di tirare le cuoia. Forza moccioso, dimmi che tipo di musica ti piace. Vedrò se riesco a portare uno stereo o qualcosa.”

Eren alzò le mano in resa, “Ok, va bene. Porta della musica classica. Mozart e Back e merda simile. E non sono un moccioso, ho ventidue anni, dannato nano.”

Levi ringhiò sommessamente. “Ohi! Smetterò di chiamarti moccioso quanto tu smetterai di comportarti da tale. Dacci un taglio con le battute sulla mia statura.”

Eren fece spallucce. “Ci darò un taglio quando tu smetterai di essere basso, allora.”

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Fuori ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Grazie mille a tutti quelli che stanno leggendo la fic e soprattutto un grazie grandissimo a chi l'ha commentata (alle recensioni risponderò non appena l'autrice mi risponderà al messaggio che le ho inviato ieri con le relative traduzioni) e a chi ha inserito la storia tra i preferiti/seguiti/da ricordare. Detto ciò, ho notato che nei commenti tutti si sono più o meno preoccupati del fatto che il secondo capitolo era in qualche modo più 'triste' dell'altro. Ovviamente, considerando la situazione, è ovvio che ci saranno tutta una serie di parti tristi nella storia ma rimane che l'autrice, a suo stesso dire (e io confermo), ha fatto del suo meglio per rendere il tutto il più leggero possibile e comunque non ci troveremo davanti a drammi o scene terribilmente angst. Non aggiungo altro per non rovinarvi la lettura, ma, insomma, abbiate fiducia! Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: gli intramontabili errori di battitura e... se volete ascoltare la sinfonia di cui si parla nel capitolo mentre lo leggete la trovate qui (spero, perchè oggi il mio computer e l'audio non vanno d'accordo -_-). Dato che sono stanchissima e il mio cervello non mi aiuta, questo capitolo mi sembra tradotto malissimo, quindi domani ci darò un'occhiata più approfondita.


The 6th ward
CAPITOLO 3: Fuori

5 mesi, 10 giorni

Eren fece una mezza smorfia alla pila di CD posata sul suo letto, di fianco al suo corpo immobile, suonando chiaramente deluso quando disse: “Niente Wagner? Tchaikovsky?”

“Wow, scusa. Non ho ricevuto la tua letterina di Natale, quindi ho dovuto improvvisare un attimo,” brontolò Levi, lasciando cadere un vecchio stereo sul tavolino di fianco al letto di Eren. “Prego.” aggiunse.

“Ehm, grazie,” rispose Eren frettolosamente. “Meglio dei fiori, comunque.”

Levi notò un bel bouquet di fiori posato sul comodino. “Che cos’hanno che non va?”

Il ragazzo fece spallucce, scegliendo con cura alcuni CD dalla pila sul suo letto. “Niente, cioè, sono molto belli e tutto. Solo che… non so, ma i fiori mi fanno arrabbiare per principio.”

Levi grugnì.

“E’ difficile da spiegare,” chiarì Eren precipitosamente. “E’ che si suppone siano qualcosa che serve a mostrare che qualcuno ti sta pensando, ma per mostrarti ciò, quel qualcuno sceglie una cosa che muore in un giorno. Come se dicesse ‘ehi, ti sto pensando, ma non voglio prendermi impegni’.”

Levi alzò un sopracciglio alla spiegazione.

“I fiori sono stupidi,” ripeté Eren, fissandoli contrariato. “Sono così belli e perfetti ma non vivono a lungo. Sono belli per una settimana e poi un giorno ti svegli e sono morti. E’ tutto così temporaneo.”

L'infermiere si chiese se il suo discorso avesse veramente a che fare con i fiori o meno.

“E le persone te li regalano comunque. Li adorano, anche se sanno perfettamente che moriranno.” sbraitò Eren con un’espressione sul volto così arrabbiata da essere quasi comica. Levi non poté fare a meno di sorridere.

“Se ci piacessero solo le cose permanenti, non ci sarebbe nulla di bello,” gli fece notare. “Nulla dura per sempre.”

“Eren pensò a quello che gli aveva detto Levi per un momento, con le sopracciglia che si toccavano in un’espressione di frustrata comprensione. “Qual è il senso di una cosa che muore così presto!?” insisté, questa volta chiaramente aspettandosi una risposta.

“Quindi la fine di qualcosa di bello nega il senso che la cosa stessa ha avuto?” Levi non aveva un’opinione a riguardo, ma l’argomento sembrava importante per Eren. E poi, discutere con lui era stranamente coinvolgente. “Solo perché i fiori muoiono, non significa che tu non li hai mai avuti.”

“O il senso è un concetto che esiste solo perché ci piace esista?”

“Forse,” concesse Levi. “Il senso delle cose è sempre stato sopravvalutato. Questi fiori sono belli oggi, a prescindere da se saranno vivi o no domani. Sono veramente belli.” disse.

Il volto di Eren si rilassò un po’ mentre annuiva, concordando.

Levi fece spallucce. “Ti poterò una pietra allora. Una bella roccia.” lo schernì, indicando con le mani quella che era più o meno la dimensione di una palla da basket. “Niente fiori.”

Le sopracciglia di Eren si alzarono e un sorrisetto cattivo gli stese le labbra. “Cavolo, Levi. Come sei duraturo. Non credevo ci tenessi così tanto a me.” lo prese in giro.

Levi roteò gli occhi. “Ho scelta?”, poi prese un CD dal letto, una collezione di sinfonie di Beethoven. “Hai ereditato il tuo amore per le belle arti dal tuo lavoretto di lusso in cantiere?” disse aprendo la custodia e mettendo il CD nello stereo, alzando il volume ad un livello ragionevole.

Eren grugnì divertito. “Ah sì, certo. Sai, io – ”, si fermò e girò la testa, seguendo l’inizio della sinfonia. “Beethoven?”

Levi annuì.

“C’è la settima sinfonia qua sopra?”

Levi girò la custodia e notò che la settima sinfonia era l’ottava traccia sul disco. “Sì, ottava traccia. Vuoi che metta quella?”

Eren annuì con entusiasmo. “Ma devi tacere durante il secondo movimento.”

Levi lo guardò scetticamente. “Io devo stare zitto? Sarà davvero difficile.”

Eren era seduto all’angolo del letto quando la sinfonia iniziò, con uno sguardo entusiasta nei suoi occhi verdi. Levi non poté trattenere un sospiro divertito: probabilmente il ragazzo non era conscio del sorriso che lentamente si stava spiegando sul suo volto, minacciando di cancellare i suoi lineamenti. “Cavolo, adoro questa sinfonia. Non so perché, ma per qualche ragione mi piace come Beethoven abbia composto un sacco di melodie semplici, adatte per gli strumenti a fiato. Di solito non sono un fan di queste cose, mi piacciono gli strumenti ad arco. Ma Beethoven sa fare meglio queste cose, secondo me. Il primo movimento è così leggero che vengo sempre sorpreso quando il secondo movimento – ” si fermò, guardando Levi contrito. “Ah, scusami. Stupidi pensieri da fanatico. Ovviamente fare l’operaio non era la mia prima scelta di carriera. Ma comunque faccio schifo a suonare.”

Levi lasciò che un sottile sorriso curvasse gli angoli della sua bocca mente faceva spallucce. “Tanto non stavo ascoltando,” disse. “Troppo concentrato a stare zitto per il secondo movimento.” mentì elegantemente.

Sedettero in un silenzio confortevole, Eren sbattendo gli occhi entusiasticamente a ogni cambiamento di tonalità della musica e tamburellando le dita ritmicamente sulla sua gamba. La melodia era piacevole e Levi la preferiva alla conversazione. Quando finalmente iniziò il secondo movimento, Eren chiuse gli occhi, godendoselo al massimo. “La musica dura di più dei fiori.” fu l’unica cosa che mormorò durante l’intera parte. Levi aveva una sola risposta. “Ti porterò comunque una pietra.”





5 mesi, 7 giorni

A Levi piaceva giocare a scacchi, perché vinceva sempre. A meno che non stesse giocando contro Hanji, perché, per qualche ragione, Hanji era sempre in grado di fargli il culo a scacchi, anche se lui se la cavava bene di solito. Lei ci rideva su e gli lanciava il suo stesso re in faccia, e Levi non le rivolgeva la parola per un paio di giorni, ma lei falliva spettacolarmente a notarlo. Ma, in ogni caso, era perchè lei che faceva il più delle loro conversazioni. E, comunque, a parte Hanji, Levi doveva ancora trovare qualcuno in grado di batterlo.

Sasha non era un’eccezione. Sicuramente giocava bene, sorprendendolo con un’avanzata strategia e un approccio profondamente intellettuale al gioco. Ma anche se era infinitamente migliore di Eren e Connie, Levi era in grado di dire già a metà del gioco che sarebbe riuscito a batterla. Connie ed Eren avevano optato per guardare, comunque. Durante la partita gli altri andarono e vennero, spesso fermandosi a fare scommesse o a cercare di impartire qualche inutile consiglio di strategia.

Reiner e Berthold avevano scommesso su Sasha, insieme a Connie, ma il resto della combriccola aveva puntato sulla vittoria di Levi. Solo Annie si era astenuta dal fare sommesse. Annie era il tipo su cui contare se si voleva continuare a fare scelte responsabili anche da mezzi morti. Quando Sasha aveva chiesto a Levi su cosa avrebbero dovuto scommettere, Levi le aveva proposto senza umorismo ‘le loro vite’. Quello era stato un bel colpo, perché Levi aveva notato che il reparto sei aveva un’inquietante affinità con le battute riguardanti le loro anime mortali, e tutti avevano finito per ridere.

La partita si stava concludendo velocemente. Levi avrebbe fatto scacco matto a Sasha in cinque o sei mosse, a prescindere da quello che avrebbe fatto lei. Toccava a Sasha e lei stava per prendere uno dei suoi pezzi quando il suo volto si abbassò e la mano si lasciò cadere al suo fianco. Lei sorrise tristemente a Levi. “Ho perso una mossa fa, vero?” chiese mestamente.

Levi nascose un sorriso per la sua onesta delusione. “Bella partita, ragazza,” le disse. “Sei abbastanza brava.” Lei sorrise e lui velocemente tossì portandosi una mano alla bocca, e aggiungendo: “Cioè, non brava quanto me. Continua ad esercitarti.”

Connie era sconvolto perché non capiva come mai Sasha avesse perso. Chiese una rivincita, ma la ragazza si rifiutò, con un semplice: “Il mio ego non può sopportare oltre.” Nessuno voleva sfidare Levi di nuovo perché a nessuno piaceva perdere.

Connie sfidò Eren, però, e sarebbe probabilmente stata una bella sfida, con il limite delle loro capacità. Così iniziarono una partita tremendamente lenta e con tanta strategia quanto una partitella a pallone con i vicini. Onestamente, era quasi doloroso da vedere. Sasha e Levi rimasero lo stesso, Levi ad aiutare Eren e Sasha ad aiutare Connie. Ad un certo punto del gioco, però, Connie fece una mossa incredibilmente scorretta, seguita da un altrettanto scorretta mossa di vendetta da parte di Eren. Il resto della partita finì con i due a lanciarsi pezzi a vicenda, e con Connie che rubò il re di Eren per sedervisi sopra, infantilmente.

Levi, eventualmente, li costrinse a raccogliere tutti i pezzi. Mentre tutti cercavano sotto i letti e in giro per i pavimenti puliti le sfortunate pedine degli scacchi, Connie interruppe il silenzio confortevole. “Avete visto quello che fanno con gli alberi fuori?”, stava cercando un po’ troppo ovviamente di suonare disinteressato alla cosa. “Sapete,” continuò. “Si vede dalla finestra di Reiner e Berthold.”

Levi ci pensò un attimo prima di capire a cosa si stava riferendo Connie. “Ah, il boschetto dei pazienti nel giardino a nord. Cosa c’è a proposito?”

Connie sembrava un po’ imbarazzato, ma proseguì comunque: “Non lasciano che, tipo, i vari reparti piantino degli alberi tutti insieme ogni anno? Tipo, i pazienti fanno una colletta e piantano un albero o qualcosa e fanno anche una piccola targa commemorativa. Un po' come a voler dire ‘ehi, siamo ancora vivi’, oppure ‘guardate, siamo invalidi ma abbiamo piantato il nostro dannato albero' e roba simile? Ho visto i pazienti con la leucemia là fuori l’altro giorno che piantavano un albero.” Poi agitò la mano, come per scartare l’idea. “Ah, dimenticatelo. Come non detto, è una cosa stupida.”

Sasha lo guardò affettuosamente. “I morti non possono piantare gli alberi.” disse intelligentemente.

“Ehi, vaffanculo,” Connie mise il broncio. “Giochiamo a scacchi, perché non potremmo piantare un albero. Il reparto sei non ha mai avuto un albero.”

Levi si grattò la testa. “Ma almeno potete uscire?” chiese dubbioso.

Connie e Sasha si scambiarono uno sguardo. “Be’,” disse Connie flebilmente, “E’ un po’ difficile da spiegare. Più ti allontani dal tuo corpo, peggio è. E’ tipo…”, fece una pausa, cercando le parole, “Come avere l’ansia? Credo che sia una cosa mentale, però. Posso andare più o meno in qualunque parte dell’ospedale senza sentirmi troppo a disagio. Uscire fuori, però, è veramente difficile. Non sono mai riuscito a mettere piede fuori la porta, anche se è possibile, con un po’ di pratica. Semplicemente rimaniamo qui tutto il tempo, perché essere vicini al tuo corpo è più confortevole. Credo sia l’istinto dei morti.”, fece un gesto vago, “Ma uscire è possibile,” ripeté, “Ci scommetto sulla mia vita.”

Sasha e Connie si diedero il cinque. Levi si girò verso Eren, curioso. “Hai mai provato ad uscire?”

“Credo che tutti abbiano provato,” rispose questi, sconcertato. “Pensi sia divertente essere chiusi qua dentro?”

“So per esperienza che non lo è.” disse seccamente Levi. Tutti stavano guardando trasognati fuori dalla finestra a questo punto, e Levi sentì un fastidioso spasmo di compassione al petto. Era odiosamente difficile non dispiacersi per questi ragazzi morti. “Che tipo di albero dovremmo piantare?”

Connie girò su se stesso con uno sorriso a trentadue denti in volto. Sasha batté le mani entusiasticamente. “Qualcosa che fiorisce!” propose.

Eren fece una smorfia. “Fantastico, fiori.” borbottò.

“Ma sono fiori che vanno e vengono nel corso degli anni.” gli ricordò Levi.

Eren fece spallucce stancamente. “Va bene, qualcosa che fiorisce.”

“Lo vado a dire agli altri.” disse Connie, correndo fuori dalla stanza. Sasha seguì il suo esempio, blaterando eccitatamente su quanto sarebbe stato grande l’albero e cosa avrebbe dovuto dire la loro placca.

“Sembra che dovrò farmi un giro all’arboreto.” sospirò Levi.

“Gli alberi sono belli, direi.” rispose Eren malinconicamente.

Levi annuì. “Vivono anche dopo di noi.”





5 mesi, 5 giorni

“Pronti?” Levi li guardò tutti con serietà.

“Aspettate ragazzi,” Connie allungò un braccio di fronte al gruppetto antistante la porta che dava accesso al cortile nord dell’ospedale. Li guardò seriosamente, lasciando che la suspense crescesse. “Potremmo morire.”

Ymir gli diede un ceffone dietro la testa, ma questo non fece abbassare di volume la risata fragorosa di Connie alla battuta che aveva fatto lui stesso. Questi ragazzi morti e il loro strano senso dello humor.

Erano tutti riuniti ad un'uscita che non veniva usata quasi mai, alla fine di una scala per i dipendenti. Levi doveva stare attento quando interagiva con i pazienti del reparto sei. Non si sentiva particolarmente in vena di spiegare a quelli di risorse umane il motivo per cui, alcune persone avevano riportato che stava, apparentemente, avendo delle conversazioni con sé stesso. Levi aprì le porte e uscì fuori dall’ospedale, nell’aria frizzante di ottobre. Era soleggiato, e una leggera brezza sollevò i suoi capelli neri con gentilezza, facendo muovere le ciocche contro il suo viso. Tenne la porta aperta per tutti loro, aspettando il primo che avrebbe deciso di fare un passo fuori.

Reiner si spinse davanti gli altri con calma, e con un veloce, coraggioso respiro, uscì fuori con un paio di passi leggeri. Le sue sopracciglia erano aggrottate e i suoi pugni serrati, ma non diede molte altre indicazioni su quanto si sentiva a disagio. Intanto, gli altri attesero silenziosamente che il biondo risolvesse la sua tempesta interiore. Dopo alcuni tesi minuti, le sue sopracciglia iniziarono a rilassarsi un pochino, e i suoi pugni a rilassarsi leggermente. Anche il suo respiro si regolarizzò e lui oscillò le braccia un pochino, come a volersi assicurare di potersi ancora muovere. Con un sospiro profondo, si girò verso il gruppetto all’interno dell’edificio e annuì incoraggiante, con un sorriso esitante in volto. “Il tempo è bello.” disse.

Berthold si fece strada verso la porta per essere il prossimo, con gran sorpresa di alcuni di loro. Non era una persona particolarmente diretta, e sembrava essere sempre marginale in ogni situazione. Aveva uno sguardo sicuro si sé negli occhi, e non fece una lunga pausa prima di uscire fuori la porta. Una volta uscito sbatté gli occhi un paio di volte, come se non si ricordasse dov’era. Sembrava confuso e un po’ in panico. Reiner mise una delle sue grandi mani sulla sua spalla, sorridendogli incoraggiante e Berthold sembrò riprendersi in un minuto o due, rispondendo con un sorriso nervoso. “E’ bello.” disse con semplicità.

“Ah, bene,” sospirò Jean. “Tutto questo per piantare un albero.”, mormorò, trascinandosi fuori. Fissò il suolo per un paio di minuti, prima di guardare su in cielo, in modo ribelle. “Non è così male.” li sbeffeggiò, sorridendo al gruppo fermo all’entrata, e richiamandoli. “Vi volete muovere ad uscire? Siete già morti, deficienti. E’ la vostra occasione.”, gli disse impazientemente.

Ymir guardò Connie, come ad offrire a lui chance di uscire per primo. “Prima le signore.” rispose Connie seccato.

Roteando gli occhi, Ymir attraversò la porta, andando oltre il gruppetto di persone già fuori, fino quando non era ad una distanza di sicurezza. A quel punto si sedette a terra, superando le sue ansie in privato.

Connie guardò nervosamente Eren, Sasha ed Annie. Sasha ed Eren sembravano terrorizzati, mentre Annie solo vagamente malinconica. Realizzando che nessuno si sarebbe fatto volontario per essere il prossimo, Connie agitò le sua mano nervosamente, come se stesse per esibirsi di fronte ad una grande folla. “Merda, merda, merda,” cantilenò, cercando di calmarsi. Alla fine fece una corsetta fuori fino al punto dove si trovavano Reiner, Berthold e Jean. Il suo volto si contrasse in uno sforzo e le sue ginocchia cedettero leggermente, ma Reiner afferrò le sue braccia, tenendolo in piedi. Dopo un momento, Connie di liberò dalla sua presa. “Sto bene, sto bene.” rassicurò, anche se sembrava stesse cercando di convincere più sé stesso che i presenti.

Annie fece un paio di passi fino quando le punte dei suoi piedi erano allineate con lo stipite della porta. Guardò oltre i confini dell’ospedale, il suo sguardo triste sulle strade e le macchine che passavano oltre i cancelli. Mosse leggermente la testa e ritornò indietro, verso le persone che erano ancora dentro, mormorando: “Non oggi.” Poi tornò indietro, in direzione del reparto sei, e sparì all’interno dell’ospedale. Reiner e Berthold la guardarono ritirarsi con la stessa espressione delusa.

Eren e Sasha si stavano occhieggiando nervosamente. Levi li richiamò da fuori. “Non abbiamo tutto il giorno.” disse, cercando di nascondere l’impazienza nella sua voce. Aveva tenuto un occhio su Eren sin da quando avevano attraversato l’ospedale prima, allontanandosi sempre di più dal reparto sei. Il ragazzo era chiaramente a disagio e gli era sembrato varie volte che stesse per tornare indietro e fuggire via ancora prima di raggiungere l’uscita. Sasha non era stata da meglio. Levi pensò che avrebbe dovuto aspettarsi degli imprevisti.

“Forza Sasha,” si lamentò Connie. “Non è così male.”

Sembrava che Sasha stesse tentando di deglutire, senza riuscirci. I suoi occhi erano spalancati e le sue mani stavano tremando visibilmente. Fece un passo verso la porta. Le sue mani si strinsero e lei fece un altro passo. Era arrivata quasi alla soglia, proprio dove si era fermata Annie prima di ritirarsi. Sasha allungò le braccia tremanti fuori, con cautela, agitandole nell’aria, come se si aspettasse che da un momento all’altro avrebbero preso fuoco.

Allungò un piede in avanti e sembrò che stesse veramente per uscire fuori, ma improvvisamente il respirò le si fermò in gola, con un rumore strozzato, e lei ritirò le braccia e il piede all’interno come se si fosse scottata. Con un sospiro colmo di rabbia, si sedette, senza tante cerimonie, nell’ingresso, portando le ginocchia al petto, e una lacrima di frustrazione le rigò il viso. “Dannazione.” mormorò.

Connie le sorrise tristemente e tornò dentro per sedersi al suo fianco. Le diede qualche pacca sulla schiena, facendo spallucce. “Ce la faremo la prossima volta.” disse dolcemente.

Sasha si liberò della tensione con un respiro profondo e si rilassò al contatto, annuendo. “La prossima volta.” disse con sicurezza.

“La prossima volta.” concordò Eren con gratitudine. Sembrava che stesse per sciogliersi e diventare una pozzanghera da quando avevano lasciato il reparto sei, quindi Levi non pressò oltre.

“La prossima volta.” disse piano anche lui.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - L'albero di Giuda ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Anche a nome dell'autrice vorrei ringraziarvi per il supporto che questa fic sta avendo sin dai primi capitoli, e che si è notato moltissimo negli splendidi commenti (risponderò a quelli del precedente capitolo nei prossimi giorni, scusate il ritardo) e nel numero di persone che l'hanno inserita tra le seguite/preferite/da ricordare. Questo capitolo è stato complicato da tradurre ma alla fine ce l'ho fatta! Ho anche notato che i prossimi tendono ad essere più lunghi ma cercherò di organizzarmi in modo da riuscire ad aggiornare sempre in più o meno una settimana. Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: possibili errori di battitura... poi, quando ho scritto 'compitare' ovviamente parlavo di fare lo 'spelling', che è una cosa che in verità noi facciamo poco perchè per studiare l'italiano è più utile dividere in sillabe... in ogni caso ho deciso di lasciare le cose come stavano al posto di stravolgere tutto, e difatti non ho nemmeno cambiato la parola 'Cecoslovacchia' che mi rendo conto che in italiano non è di grande difficoltà, ma che in inglese (Czechoslovakia) è definitivamente più complessa. Mi sono fatta anche un sacco di problemi su se tradurre 'redbud' (il nome dell'albero) con il suo nome in italiano 'albero di Giuda' oppure lasciarlo così... alla fine ho optato per il nome italiano anche se non ha proprio un nome felice nella nostra lingua xD... comunque è un bellissimo albero che in realtà è molto diffuso in nordamerica (in italia ne abbiamo pochi e di solo una variante), e questo è il suo aspetto.


The 6th ward
CAPITOLO 4: L'albero di Giuda

5 mesi, 4 giorni

Il morale nel reparto sei era stato un po’ basso da quando Sasha ed Eren non erano riusciti ad uscire dall’ospedale. Era come se il resto del gruppo avrebbe voluto festeggiare la loro nuova, limitata libertà, ma senza far dispiacere Eren e Sasha. Sembrava che non volessero lasciarli indietro e che, quindi, si fosse raggiunto un tacito consenso, dove nessuno parlava della cosa. O perlomeno, dove nessuno ne volle parlare fin da subito perché tutti avevano i nervi a fior di pelle.

Pertanto, quella mattina, mentre Levi faceva il suo solito giro, senza dire una parola, controllando i monitor, segnando le funzioni vitali e scribacchiando note sulle loro cartelle cliniche, non c’era una grande voglia di tenere una vera conversazione. Erano tutti spaparanzati in camera di Eren, ognuno sembrando assorto nei propri pensieri, e l’aria era così pregna di malinconia che Levi sarebbe quasi stato incline a cercare di alleggerire l’atmosfera se avesse avuto tali abilità, ma notoriamente non ne aveva. Era ben lontano dall’essere qualificato per qualsiasi attività che riguardava il sollevare gli animi, e quindi rimase silenzioso, tranne che per il rumore della sua penna sul porta-appunti.

Il silenzio cupo fu rotto da una risata bassa che sembrava essere stata invocata dal nulla. Tutti si girarono in automatico verso la fonte dell’interruzione di quella quiete opprimente, trovando un Reiner sorridente, che stava ridendo flebilmente tra sé e sé. Notando l’improvvisa attenzione degli altri occupanti del reparto sei, soffocò il suo risolino con leggero imbarazzo.

“Scusatemi, scusatemi,” disse, cercando di respingere la loro attenzione agitando la mano. “Stavo solo pensando ad una barzelletta stupida che mi diceva sempre il mio vecchio alle riunioni familiari.” Un sorriso affettuoso era ancora dipinto sul suo volto, e uno sguardo malinconico nei suoi occhi.

“Le battute che si fanno in famiglia sono sempre pessime.” grugnì Jean.

“Sì, soprattutto se le fai tu.” mormorò Eren a Connie, guadagnandosi una risatina.

“Non è nemmeno così divertente,” disse Reiner ripensandoci, ma con un sorriso sul suo volto che lo faceva sembrare un bugiardo. Si rimise una mano sulla bocca, cercando di soffocare un’altra serie di risatine. “E’ solo che – ”, scosse la testa, ancora ridendo, e gesticolando disperatamente.

“Be’ ora ce lo devi dire,” gli fece notare Connie. “Non ci puoi lasciare a metà.”

Bertholdt annuì incoraggiante. “Non puoi proprio.” disse.

“Giuro che non è nemmeno divertente,” riuscì a dire Reiner, trattenendosi un attimo dal ridere. “E’ che è così stupido.”

“Lo è anche Connie, ma noi lo troviamo comunque divertente.” disse Sasha, sorridendo scaltramente al ragazzo.

Connie aprì la bocca per protestare, ma sembrò riconsiderare un attimo, prima di richiuderla di nuovo, facendo spallucce con rassegnazione. “Dicci la barzelletta.” disse semplicemente.

Reiner sospirò. “L’avete voluta voi.” Si prese un momento per trovare le parole prima di iniziare a raccontare. “Va bene, va bene. Dunque, c’era una volta questa coppia sposata e un giorno la moglie si ammalò molto gravemente e alla fine morì di malattia. Andò in paradiso dove c’erano questi grossi cancelli e un angelo che faceva da guardia. Lei chiede all’angelo cosa avrebbe dovuto fare per andare in paradiso e questi le rispose che per entrare doveva compitare una parola. Dunque lei chiese quale parola avrebbe dovuto compitare per l’angelo, e questi si prese un minuto prima di decidere che la parola sarebbe stata ‘amore’. La donna gli disse correttamente come scriverlo – ”

“Colpo di scena – ” lo interruppe Connie, prima che Sasha lo colpisse al braccio, facendo segno a Reiner di continuare.

“La donna gli disse correttamente come scriverlo e l’angelo la fece accedere in paradiso. Molti anni dopo, l’angelo chiese alla donna di controllare il cancello mentre lui sbrigava delle commissioni. Mentre lei stava facendo la guardia vide suo marito comparire al suo cospetto. La donna era felice di vederlo e gli chiese come era stata la sua vita. Il marito le disse che era stata meravigliosa: si era risposato con l’infermiera che si era presa cura di lei durante la sua malattia, avevano avuto tanti bei bambini, e lui era morto in pace dormendo e in età anziana. Poi il marito le chiese che parola avrebbe dovuto compitare per avere l’accesso in paradiso.” A quel punto Reiner fu sopraffatto da un’altra crisi di risate silenziose. Non quel tipo di risata rumoroso e antipatico che era tipica dei pazienti del reparto sei, ma piuttosto una risatina silente, che gli faceva tremare un po’ le spalle senza fare un vero rumore.

“Be’?” disse Jean impazientemente.

Attraverso le sue risate, Reiner riuscì a rantolare: “Cecoslovacchia.”

Le reazioni andarono dai sorrisi educati alle smorfie, a vari rumorii delusi.

“Non è nemmeno divertente,” riuscì a dire Reiner, asciugandosi le lacrime. “E’ solo che ora che sono così vicino dall’essere morto, non riesco a smettere di pensare a come cose così stupide possano accadere a me. Già mi vedo ai cancelli del paradiso, incapace di compitare qualche parola complicata. Questa è letteralmente l’unica immagine di me stesso che riesco ad avere riguardo la mia vita ultraterrena. Niente cherubini, niente cori angelici, nessun bellissimo prato di fiori. Solo me impalato davanti a quei cancelli, desideroso di aver fatto attenzione durante le lezioni del professor Keith.”

Stavano tutti ridendo un pochino a questo punto, e Levi ne approfittò per scrivere qualcosa sul retro della cartella di Reiner. Si schiarì la gola rumorosamente e Reiner finalmente alzò lo sguardo verso di lui, con un sorrisone in volto e le lacrime ancora agli angoli degli occhi. Levi tenne la cartella in bella vista, mostrandogli cosa aveva scritto sulla parte dietro.

‘C E C O S L O V A C C H I A’

“Non lo dimenticare,” disse Levi severamente. “Incidilo nella memoria.”

Il reparto sei scoppiò di nuovo a ridere.





Hanji riuscì a prendere in corner Levi quello stesso giorno, più tardi, afferrando il suo braccio per trascinarlo in mensa per un vero pasto. Recitò il suo ordine al cassiere, chiedendo sia per sé stessa che per Levi, mentre questi la guardava impotente. Cercare di discutere con Hanji di solito era più problematico di quanto potesse valere la pena.

Quando gli fu portato il loro cibo, un paio di minuti dopo, Hanji spinse Levi in una delle sedie di plastica della mensa e gli gettò davanti una certa varietà di cibi fritti. “Niente cibo sano oggi, infermiere,” annunciò trionfante. “Obiettivo: ingrassare, o cercare di farsi operare di doppio bypass!”

Levi iniziò a mangiare senza proteste, e Hanji tirò un pugno in aria in segno di vittoria, prima di seppellirsi nel suo, a comparazione molto più sano, pranzo. “Hai sentito che Petra ha avuto una promozione? Auruo sembra essere arrabbiato perché non è più un suo superiore, ma secondo me lo è di più perché lei non lavorerà più con lui. E’ così – ”

“Quale albero che fiorisce andrebbe bene per questo clima?” la interruppe Levi.

Hanji alzò un sopracciglio, il sospetto disegnato su sul volto. Levi cercò di fare un’espressione piatta e disinteressata, tentando di fare l’indifferente al volto inquisitorio di lei. Poi i suoi occhi brillarono di comprensione e lei sorrise dispettosamente. “Questo non ha niente a che fare con il boschetto dei pazienti, vero?” Levi non rispose. “Questo non sei tu che stai cercando di aiutare un gruppetto di fantasmi a piantare un albero in un inusuale gesto di compassione, vero?”

“No.” rispose Levi frettolosamente, riempendosi la bocca di cibo in un tentativo di terminare la conversazione.

“Non è mica successo che ti sei affezionato a queste persone morte?” pressò lei, sorridendo a trentadue denti.

“No.” rispose Levi con la bocca ancora piena di cibo.

“Ti sei affezionato,” cinguettò una voce familiare al suo fianco. Levi girò su ste stesso per trovare Eren, sorridente e seduto sul posto accanto al suo. “Ammettilo che ci adori.” lo canzonò.

“Vattene.” sibilò Levi.

“Ehi, calmati,” disse Hanji. “Non dirò a nessuno che hai un cuore, il tuo segreto è al sicuro con me.”, e piegò le mani a croce sul suo petto, all’altezza del cuore.

“E anche con me,” aggiunse Eren, imitando il gesto della donna. “Perché non l’ho mai incontrata?”

“Lavora nel reparto di sviluppo e istruzione.” sussurrò Levi bruscamente.

“Vero.” concordò Hanji, con uno sguardo confuso.

“Smettila.” disse Levi.

“Smettere cosa?” Hanji fece una pausa, tenendo il suo panino in aria all’altezza della bocca.

“Niente.” disse Levi velocemente.

Eren sembrava stesse per farsi sotto nel tentativo di controllare le risate, e Levi cercò di pestargli un piede con il proprio il più discretamente possibile, da sotto al tavolo. Pressò con forza il primo piede con cui capitò a contatto, e Hanji strillò, balzando leggermente sulla sedia.

“Scusa!” riuscì a dire Levi. “E’ lo stress.” si giustificò poco convincentemente.

“Perché l’hai fatto?” chiese Hanji, facendogli il muso.

“Stai facendo un casino.” gli canticchiò Eren in un orecchio.

“Tu stai facendo un casino.” rispose Levi.

“Io non sto facendo nulla!” si lamentò Hanji.

Levi si sporse in avanti con urgenza, invadendo lo spazio personale di Hanji. “Senti catastrofe occhialuta,” sibilò. “C’è un ragazzo morto che mi sussurra cazzate nell’orecchio cercando di farmi impazzire.” e indicò con rabbia il posto che Eren stava occupando.

“Non credo tu abbia bisogno di aiuto.” osservò Eren.

Levi si girò verso di lui. “Ho bisogno di un sacco di aiuto!” urlò.

Hanji rise nervosamente. “E ci credo.”

Levi lasciò che la sua fronte colpisse il tavolo con un po’ più slancio di quanto era strettamente necessario e iniziò a massaggiarsi lo scalpo. “Hanji,” disse in tono lamentoso, con la voce attutita dal tavolo. “Questo non è più il sesto senso.”

“Che cos’è, allora?” gli chiese lei.

“Credo di aver superato ‘breakfast club’ ed essere arrivato direttamente a ‘qualcuno volò sul nido del cuculo’.”

“Quindi sei Jack Nicholson?” domandò lei simpateticamente.

Eren annuì. “Quindi sei Jack Nicholson.”

Levi batté la fronte contro il tavolo ripetutamente.

Hanji sospirò con soddisfazione. “L’albero di Giuda.”

Levi alzò lo sguardo con cautela. “Cosa?”

“L’albero di Giuda. Pianta un albero di Giuda. Sono molto belli.” Lui alzò la testa dal tavolo per guardarla negli occhi. Lei lo stava fissando affettuosamente, con il viso posato sulla mano e un sorriso sottile sulle labbra. “Pianta l’albero, Levi. Rendi felici i ragazzi morti, okay?” detto questo mise i resti del suo pranzo sul vassoio, per poi alzarsi dalla sedia.

Eren lo pungolò nel fianco. “Sì, rendi felici i ragazzi morti.”

“L’albero di Giuda, eh?” Levi posò il mento sul tavolo, facendo del suo meglio nel tentativo di ignorare Eren.





Levi finalmente riuscì ad intimidire Eren abbastanza da farlo tornare al reparto sei, in modo da riuscire a fare delle commissioni in ambulatorio. Lavorare in ambulatorio era la cosa che gli piaceva di meno, dal momento che, per la maggiore, si trattava di controllare la temperatura di bambini raffreddati e garantire ai loro genitori che non sarebbero morti. Mentre si faceva strada verso il reparto, vide Sasha e Connie sostare in una delle sale d’attesa meno utilizzate della corsia tre. Si fermò al bancone nelle vicinanze per prendere alcuni documenti, e senza dubbio anche per ascoltare la loro conversazione avendo il lusso di non essere ancora stato notato.

“Non è che non ci hai provato.” disse Connie con tranquillità.

“Non è un grosso problema. Rimarrò nel reparto mentre voi pianterete l’albero. Guarderò da una finestra o un posto simile.” rispose Sasha, cercando un po’ troppo chiaramente di non sembrare delusa.

Ci fu un silenzio significativo, e Levi pensò che avessero finito di parlare della cosa. Ma poi Connie sospirò, girandosi completamente per guardare la schiena di Sasha dalla sua posizione stesa. “E’ a causa dell’incidente?” chiese a bruciapelo.

La sua espressione si contorse per la rabbia e sembrò quasi che stesse per negarlo, ma poi alzò le mani in segno di resa e con frustrazione. “Ah, forse. E’ solo che – ”, fece un sospiro stanco. “Dimenticalo. Rimarrò nel reparto.”

“Sasha,” Connie fece una smorfia. “Siamo quasi morti. Se non è questo il momento di lottare, allora non so quale sia. Siamo stati stupidi ed è successo un casino. Ora è troppo tardi per poterci fare qualcosa.”

“Sì ma è stata praticamente colpa mia.” gli fece notare lei.

“Praticamente.” le concesse Connie. Poi la guardò male e fece una risata gentile. “Ma è anche colpa mia.”

“Non c’eri tu dietro al volante,” replicò la ragazza. “Non solo ho mandato al diavolo la mia vita, ma anche la tua. E’ così frustrante,” pigolò, “E ogni giorno devo vedere la tua stupida faccia a ricordarmi cosa ho fatto.”

“Anche io avrei distrutto quella dannata macchina, Sasha.” rise lui. “Anche io ero ubriaco.”

“Be’ allora perché non hai guidato tu?” chiese lei. “Non devi vivere con questo peso.”

Connie annuì pensieroso. “Già. Grazie per essere la stupida che ha ucciso entrambi ed aver evitato che fossi io,” disse lui sinceramente. “E grazie per essere morta anche tu. Avrebbe fatto veramente schifo se tu non fossi morta con me.”

Lei gli lanciò un’occhiataccia. “Quando vuoi.” disse.

“Lascia stare, Sasha.” insisté Connie.

Lei si guardò tristemente i piedi. “Come posso lasciar stare?”

“E se perdonassi te stessa?” suggerì Connie. “Tu sei l’unica ancora arrabbiata con te stessa.”

Sasha afferrò la sua mano, con la schiena ancora rivolta verso di lui, e strinse piano. “Sei uno stupido. Vorrei solo che tu mi odiassi…” mormorò.

“Siamo entrambi stupidi.” la corresse lui.

“Domani uscirò fuori anche se dovessi morire.” disse allora lei con convinzione, lasciando la sua mano.

“Non credi di aver fatto abbastanza morendo già una volta?” rise Connie.

Levi si girò per andarsene, ma notò la risata di Sasha e il suo ultimo commento mentre si allontanava. “Devo fare il record.” L’infermiere approvò la risoluzione della ragazza. Avrebbe piantato il dannato albero anche se sarebbe morto facendolo. E lo stress che stava avendo a causa di questi dannati ragazzini avrebbe davvero potuto ucciderlo.

Qualche minuto dopo incontrò Hanji, di nuovo, mentre lei girovagava per i corridoi cercando di evitare i suoi superiori. Si precipitò verso la donna, fermandosi giusto dietro la sua schiena. “Dove posso comprare un albero di Giuda?”

Lei balzò visibilmente, e fece un respiro profondo, mettendo una mano sul cuore nel tentativo di calmarsi. “Oddio,” sospirò. “Datti una calmata Nicholson. E avvisami la prossima volta.”





Prima che Levi finisse il suo turno, si ricordò di aver dimenticato di inserire i dati della cartella di Eren nel computer e fece un’altra capatina al reparto sei. Eren era seduto vicino alla sua finestra, ma nessuno degli altri era in vista, quindi lui cercò di registrare le informazioni senza disturbarlo. Quando stava per lasciare la stanza, tuttavia, Eren parlò, senza girarsi dalla finestra. “Ehi, Levi?” chiese piano.

Levi sospirò, e tolse la mano dalla maniglia della porta. “Cosa?”

“Ci credi nel paradiso e merda simile?”

“Ah, per favore, vediamo di evitare questa conversazione.” disse Levi. Non aveva risposte per lui, e tutto ciò che faceva era già ben oltre il contratto di lavoro.

“Non mi interessa cosa dirai,” rise Eren, finalmente girandosi verso Levi. “Sinceramente non ci credo granché, e sicuramente non sto cercando una risposta. Ero solo curioso di sapere cosa ne pensi.”

Levi ci pensò un attimo e fece spallucce. “Onestamente? Io credo che sotto sotto siamo tutti agnostici fino a quando qualcosa di buono o cattivo accade, che ci inizia a far credere o no. Le persone credono per necessità. E sempre per necessità negano. In ogni caso tutti vogliono sapere se c’è una buona ragione per cui le brutte cose accadono proprio a loro, e se è perché c’è qualche Dio per loro o se il motivo è che non c’è nessuno. Non importa qual è la verità.”

“Non importa affatto?” Eren suonò scettico.

“Non in questa vita.” Levi scosse la testa. “Non avremo mai una prova quindi che cosa importa? Credici se ti aiuta, non farlo se è meglio. Qualsiasi delle due che ti permetta di affrontare la giornata.”

“Questo ragionamento è un po’ superficiale.” lo accusò Eren.

“Allora credi in Dio?” rispose Levi, sulla difensiva.

“Chi non vorrebbe?” osservò Eren.

“Non lo so,” concluse Levi, “Forse qualcuno che si è messo il suo caschetto ogni singolo giorno in cui ha lavorato in cantiere tranne uno, e ha finito per farsi colpire da un martello per puro caso proprio quel giorno. Forse qualcuno verso cui ‘Dio’ non ha fatto altro che lo stronzo. Ma è giusto una supposizione, eh.”

Eren rise. “Wow, okay, capito,” disse, alzando le mani in segno di resa. “Datti una calmata. Non sapevo che fossimo in un processo. Posso chiedere la sospensione della seduta? Questa corte corrotta finirà per condannarmi.”

Levi roteò gli occhi. “Eren,” disse seriamente. “Non me ne frega una mazza di ciò in cui credi. Credi in tutto quello che ti fa andare avanti con la tua vita, perché potrebbe non essercene un’altra.”

Eren annuì tristemente. “A volte vorrei che avessi qualcosa di meglio da dire.”

Levi si lasciò cadere su una sedia rumorosamente, massaggiandosi le tempie. “Sì, anch’io moccioso.”

“Mikasa non crede in Dio. Lei pensa che se ci fosse un Dio nostra madre non sarebbe morta e nostro padre non se ne sarebbe andato.”

“E io avrei un lavoro migliore.” Aggiunse Levi.

“Sì, e io non sarei morto.”

“E io avrei una bella macchina.” rimuginò Levi.

“E le persone mi porterebbero qualcosa di diverso dai fiori.” rispose Eren, sorridendo.

“Dio sta proprio facendo un lavoro del cazzo.”

Eren rise un po’ più energicamente a quella frase. “Puoi dirlo forte.”

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - All'aria aperta ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Non dovrei assolutamentissimamente essere qui perchè ho un sacco da fare con l'uni ma questo capitolo già è corto, quindi non volevo rimandare visto che lo tengo già tradotto. Anche a nome dell'autrice volevo ringraziare tutte le persone che hanno inserito la fic tra le seguite/preferite/da ricordare e in maniera particolare a chi sta commentando. Purtroppo dovrete attendere ancora qualche giorno per avere risposta perché, sebbene abbia già tradotto e inviato i vostri commenti, e anche ricevuto risposta, non avrò tempo di fare nulla fino a mercoledì/giovedì :( . Non posso perdere altro tempo quindi mi defilo. Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: niente da dire dal momento che questo è abbastanza un capitolo di 'transizione'... l'unica cosa che potreste trovare sono orribili errori dovuti alla mia fretta e alla mancanza di sonno xD infatti mi sembra una traduzione pessima e vedrò di ritornare sul capitolo nel weekend.


The 6th ward
CAPITOLO 5: All'aria aperta

5 mesi, 2 giorni

“E’ uno scherzo?” borbottò Eren, fissando fuori la sua finestra con un’evidente espressione di irritazione sul volto.

Levi alzò lo sguardo dalla sua cartella clinica. Sembrava che Eren non volesse parlare, allora l’infermiere lo raggiunse alla finestra per venire a conoscenza del motivo della sua stizza. Con sua sorpresa, quando allungò lo sguardo, vide che Sasha e Connie erano fuori, nel giardino nord, a tentare di arrampicarsi su uno dei più grandi alberi del boschetto dei pazienti, ridendo di gusto.

“Davvero sono l’unico che non riesce ad uscire?”

Levi fece spallucce. “Nemmeno Annie ci riesce.”

Il ragazzo respinse la sua affermazione agitando una mano in aria. “Annie è diversa, è come se non fosse preoccupata dalla cosa. Lei in qualche modo riesce a tenere i suoi problemi per sé.”

“Avevo notato come lei sia la meno irritante di voi,” pensò Levi a voce alta. “Credi che sarebbe disponibile per darti qualche lezione?”

Eren fece una smorfia accigliata, incrociando le braccia sul petto. “Molto bene, mister saccente, quale pensi sia il motivo per cui non riesco ad uscire?”

Levi cercò di trovare un’altra risposta saccente, ma, alla fine, ci ripensò. Era perplesso dal fatto che Eren non riuscisse ad andare oltre le mura dell’ospedale, soprattutto quando gli altri ne erano stati in grado. Anche Sasha non ne era stata capace la prima volta, ma ora, per qualche strano motivo, ci era riuscita. Ripensò alla conversazione tra Sasha e Connie che aveva origliato, e pensò che forse la cosa potesse avere a che fare con l’improvvisa abilità di Sasha di superare l’ansia di lasciarsi dietro il suo corpo. Levi riportò l’attenzione sui due ragazzi fuori: ora Sasha stava cercando di spingere Connie giù dall’albero, e sembrava molto più contenta di quando Levi l’aveva incontrata la prima volta. Sorridere e ridere erano una cosa normale per lei, ma c’era qualcosa di diverso nel modo in cui il suo volto si stava illuminando in quel momento. C’era una sorta di liberazione nei suoi lineamenti.

Levi si rigirò verso Eren. “Hai accettato di essere morto?” chiese, ma il giovane gli concesse giusto un’espressione leggermente scocciata, a cui l’uomo rispose roteando gli occhi. “Intendo dire: non hai, tipo, rimorsi o altro?”

“Sì, morire.” disse Eren impassibile.

“Ah, come non detto.” mormorò Levi.

Il ragazzo si girò verso di lui, finalmente spostando i suoi occhi dalla finestra. “Perché?” chiese.

“E’ solo che,”, Levi fece una pausa, “Forse sei ancora troppo attaccato al tuo corpo. Come se non volessi credere veramente che sei morto o qualcosa del genere. O magari c’è qualcosa che devi ancora fare, qualcosa che hai bisogno di dire a qualcuno e così via. Non lo so, merda inconclusa da fantasmi.” Levi gesticolò vagamente, mentre Eren agitava la testa confuso. “Hai qualcuno da perseguitare? Qualcuno che ti deve dei soldi? Amori non corrisposti?” Questi continuò a muovere la testa in segno di diniego. “Insoddisfazione generale della vita? Qualcosa che ti viene in mente?” Eren fece spallucce. “Pensi che ci sia ancora una possibilità che tu possa svegliarti?”

A quella domanda Eren vacillò. Levi notò una chiara esitazione e le sue sopracciglia si rilassarono in una espressione simpatetica. “E’ così?”

Eren sembrava confuso. “E’ strano. Cioè, non è che creda di ritornare improvvisamente in vita o qualcosa di questo tipo. Me ne rendo conto, ho capito che questo non è un telefilm per famiglie.” disse, rigirandosi verso la finestra e posando il gomito sul davanzale, in modo da poter posare il volto tra le mani. “E’ solo che non avevo mai pensato che non sarei stato in grado di dire nemmeno una parola prima di morire. Del tipo: ‘Ehi, Mikasa, grazie per essermi stata accanto’ o ‘Armin, grazie per aver studiato con me tutti i pomeriggi dopo la scuola’. Loro vengono qui a visitarmi, ed è come se fossero i primi a sapere che sono morto, ma una parte di loro comunque non lo accettasse. Onestamente è ancora più difficile farlo per me se non ci riescono loro.”

Levi annuì silenziosamente.

“E’ come quando leggi un bel libro,” iniziò Eren. Lui era il tipo che gesticolava parlando, notò Levi. Ognuna delle cose che diceva doveva essere enfatizzata da un gesto. ‘Se Eren perdesse le mani, probabilmente perderebbe anche la sua abilità di parlare’, rimuginò l'infermiere. “E la fine del libro va bene, ma è un po’ troppo improvvisa. E tu giri l’ultima pagina, aspettandoti di trovare un epilogo, ma, invece, c’è solo una serie di fatti o le note dell’autore e roba simile. Qualche volta, addirittura, non c’è proprio niente.”, si passò lentamente una mano tra i capelli, “Ed è così frustrante, perché la storia principale è finita, ma tu sai che il tempo non si è fermato per i suoi personaggi. Ma non c’è modo di saperne ancora, anche se tu vorresti rimanere con loro più di qualsiasi altra cosa. Vorresti che la storia continuasse fino a quando tutti non smettano di esistere, ma invece l’autore scrive ‘fine’ e pretende che tu creda che non sia successo nient’altro, ma qualcosa succede,” brontolò, “probabilmente accadono un sacco di cose. Un’infinità.”

Levi sogghignò un pochino, ed Eren si girò verso di lui con una faccia sorpresa. L’uomo si ricompose velocemente, tornando alla sua documentazione. “Dunque vorresti un epilogo.” gli disse, dandogli le spalle.

Eren rise un pochino. “Onestamente vorrei un seguito. Sai, del tipo, un bel seguito di vari volumi.”

Levi annuì. “Ma sei all’epilogo, ragazzo, e ci sei adesso. Fai qualcosa che soddisfi i lettori.”

“Sì, ma nessuno verrà mai a sapere che esiste un epilogo. Mikasa sicuramente non lo leggerà, e neanche Armin. Non lo faranno i miei insegnanti. Non mio padre, sempre che decida di leggere il libro. E’ come se tu fossi l’unico che si guadagna l’espansione.”

“Scusami,” gli offrì Levi. “Mi piacerebbe condividere, ma non credo che qualcuno crederebbe mai che c’è un’espansione.” Eren mormorò qualcosa di impercettibile, allora Levi lo prese in giro: “Ma, alla fine, la storia ti è piaciuta di meno quando non c’era un epilogo? Credo che tu sia preoccupato che alla gente non piaccia il libro a causa della fine. Io ho letto un sacco di bei libri con finali del cazzo.”

Eren sorrise un pochino. “Forse i finali fanno schifo a prescindere.”

Levi afferrò Eren per il polso e tirò in modo che questi lo seguisse fuori la porta e via dal reparto sei, non lasciandolo fino a quando non fu sicuro che il ragazzo lo stesse seguendo. “Forza, moccioso,” sbiascicò con una caratteristica nota annoiata nella voce, “Questo epilogo continuerà ad essere noioso come la morte se non riesci nemmeno ad uscire dal dannato ospedale. E’ arrivato il momento di affrontare la cosa.”

Camminarono lungo i corridoi, scansando visitatori persi e dottori distratti, fino a quando non trovarono il corpo scale che veniva utilizzato di meno dai dipendenti. In fondo alle rampe, Levi aprì una porta e puntò la mano autoritativamente, da Eren all’esterno: “Ora o mai più, ragazzo.”

Eren si fermò allo stipite della porta, sbattendo gli occhi rapidamente prima che Levi lo afferrasse per il colletto della camicia, lanciandolo senza molte cerimonie sul prato che c'era fuori. Questi incespicò nel tentativo di non cadere di faccia, ma fallì miseramente, rialzandosi sui gomiti, mentre brontolava rumorosamente. Levi era in piedi su di lui, con le braccia incrociate. “Sei morto, moccioso,” lo sfidò. “Cosa farai ora? Scriverai il tuo epilogo o correrai dentro come un pollo, passando direttamente alle note d’autore?”

Dopo un minuto, le spalle di Eren sembrarono rilassarsi. “Fottuto stronzo,” ansimò. “Tu non puoi –… Io non – ” balbettò, terminando con un non-identificabile suono che sembrava quello di una vecchia auto che tentava di accendersi.

“Parla a modo tuo,” disse Levi, incapace di mantenere un tono condiscendente. “Non hai mai avuto problemi prima d’ora.”

Eren grugnì e allungò una gamba, spingendo, con un calcio, uno dei polpacci di Levi, che si trovò seduto sul morbido prato giusto al suo fianco. L’infermiere sbatté gli occhi sorpreso, cercando di capire cosa era successo mentre recuperava l’equilibrio. “Ora chi è lo stronzo?” disse infine, ritrovando la voce e massaggiandosi il sedere dolorante.

Eren si stese di schiena, con un impressionate sorrisone sul volto e gli occhi verdi che brillavano contenti, grazie ai raggi di sole mattutino. Sembrava più felice di quanto Levi lo avesse mai visto. Respirando profondamente, chiuse le palpebre, ma sempre tenendo lo stupido sorriso piantato in faccia. Il sole si rinfrangeva sui suoi capelli, mentre l’aria di ottobre gli sfiorava il volto, in modo che la luce potesse posarsi secondo varie angolazioni sulle ciocche per creare varie sfumature castane e, a volte, persino bionde, nella sua chioma disordinata. Sembrava incredibilmente in pace, al punto che Levi quasi temette che potesse scomparire lì, in quel momento, avendo risolto i suoi rimorsi inconclusi da fantasma.

Ma gli occhi di Eren si riaprirono, fissandosi in quelli dei Levi, quando lo stesso Levi non si era reso conto di stare fissando il ragazzo. L’uomo, dunque, girò lo sguardo con nonchalance, come se il suo fosse un gesto pensato. “E così non sono stato nemmeno l’ultimo a – ” Eren si fermò, lanciando uno sguardo corrucciato contro qualcosa dietro le spalle di Levi.

L’infermiere si voltò per vedere Annie, con le braccia intrecciate dietro la schiena, percorrere a passi svelti il prato. Eren chiuse la bocca facendo schioccare la lingua. “Be’, wow,” disse neutralmente. “Quando diavolo è riuscit –… Io credevo che – ” poi si fermò. “Ah, vabbè.”

Annie notò di essere stata vista e fece un secco cenno del capo prima di proseguire la sua sorta di marcia militare lungo l’erba. “A quanto pare possiamo piantare l’albero, adesso.” Scherzò Eren, guardandola ritirarsi.

Levi sbuffò. “Cosa c’è tra voi morti e quel dannato albero?”

Eren fece spallucce. “E’ il nostro epilogo, direi.”

“E’ un epilogo alquanto stupido.”

“Oh, vaffanculo!” rise Eren.





Levi non era sicuro del perché, ma rimasero seduti lì quasi per il resto della giornata, mentre lui trascurava palesemente ogni sorta di dovere che aveva nel reparto sei. Ma poteva dire di essere abbastanza certo del fatto che nessuno dei pazienti avrebbe finito con l’alzarsi ed andarsene, almeno. Il clima era sorprendentemente caldo per un giorno di ottobre, e dal momento non c’era proprio qualcuno a richiedere urgentemente i suoi servigi, rimase seduto lì a godersi la giornata, grato del fatto che Eren, a quanto pare, non sentiva la necessità di fare conversazione. Infatti, finirono per non dirsi quasi nulla.

Ad un certo punto Connie e Sasha li videro, e si unirono a loro sull’erba morbida. Levi si aspettava che quella sarebbe stata la fine della tranquillità e del pacifico silenzio, ma rimase sorpreso dal fatto che tutti stettero zitti, non pronunciando una sola parola. Tutti e quattro rimasero semplicemente a rilassarsi, seduti all’aria aperta. E, per la prima volta, Levi si ritrovò ad apprezzare la montagna di nulla che i pazienti del reparto faceva ogni giorno. Non era poi così male, e, quando nessuno lo stava guardando, Levi si lasciò sfuggire un sorriso leggero che addolcì i suoi lineamenti per un minuto o due. ‘Che diamine,’ pensò. ‘Se non puoi essere felice di nulla, per cosa dovresti esserlo?’





Quella sera, Levi lasciò il reparto sei sentendosi più leggero di quanto lo era stato per molto tempo. Mentre se ne andava, Connie e Sasha stavano raccontando, insieme, una storia alquanto volgare su una delle loro scorribande serali all’università, con grande divertimento dell’intero reparto. Lui si fermò davanti al suo armadietto, nella stanzetta delle infermiere, per prendere la giacca, e fu nuovamente colto di sorpresa da Hanji con uno schiaffo sulla schiena.

“Giuro su Dio che tu mi segui.” disse lui quasi strozzandosi.

“Sì che lo faccio,” disse lei seriosamente. Levi aveva paura di chiederle se stava scherzando o meno. Poi Hanji abbassò la voce per sussurrare discretamente: “Ho buone notizie.”

Levi corrugò le sopracciglia fissandola intensamente, mentre lei alzava e curvava le sue con fare saputo. Lui, in risposta, le alzò, ma in confusione.

“Non quelle notizie,” rise lei. “Lavoriamo per la sanità, pervertito. No, no, io parlavo di Petra, che ha un amico che gestisce un arboreto. Mi ha detto che pensa di poterti procurare un albero di Giuda.”

“Grazie, Hanji.”

“Ti può anche fare avere uno sconto, ma ha detto che non riesce a fartelo avere gratuitamente. Dovrebbe essere una cifra intorno ai centocinquanta dollari, che è un buon prezzo. Se vuoi il mio consiglio, e so che non lo vuoi, prendilo per quel prezzo perché non troverai di meglio.” continuò lei.

“Hanji – ”

“Per piantarlo… be’, non ho idea di come pensi di infilare quell’albero nel terreno da solo. Non è un alberello carino, è pesantissimo. Stiamo parlando di credo circa venticinque chilogrammi il giorno in cui verrà consegnato. E forse più considerando che – ”

“Hanji!” La interruppe Levi, colpendola in fronte con un dito, forse con un po’ più forza dello stretto necessario. Ma lei gli concesse finalmente la sua attenzione. “Grazie,” disse lui risoluto. “Sul serio.”

Lei gli fece l’occhiolino e lui roteò gli occhi. “Non lo ripeterò.” borbottò.

Hanji ci pensò un attimo su, girando la testa da un lato. “Sei molto diverso rispetto a come eri prima,” gli fece notare. “Avevo ragione,” cinguettò, “Questo lavoro ti fa bene.” Levi fece spallucce. “Anche quei ragazzi morti ti fanno bene.” aggiunse.

“Questo è ancora da vedere,” rispose lui noncurante, agitando la mano in segno di saluto mentre girava i tacchi e usciva.

Faceva molto più freddo fuori di quanto lo era prima quando, di giorno, era rimasto seduto sul prato con Eren. Ripensò allo sguardo pacifico sul volto di Eren e sospirò. “Va bene,” concesse, a nessuno in particolare. “Forse mi fanno almeno un po’ bene.”

Poi, agitando la testa mestamente, camminò silenzioso nel parcheggio buio, cercando la sua macchina.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Polmonite ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Yahoo! Non vedevo l'ora di postare questo capitolo, e dal momento che ho riso come una cretina tutto il tempo che mi ci è voluto per tradurlo, sono certa che vi piacerà. Detto questo, volevo ringraziarvi immensamente per il supporto che la fic sta avando, per il numero di preferiti/seguiti/da ricordare e per tutte le visualizzazioni/letture. Avevo un po' paura che questa storia piacesse ma a quanto pare mi sbagliavo. Grazie in maniera particolare a chi commenta! Domani alla prima ora libera rispondo a tutti i commenti ricevuti nell'ultima settimana. Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: mmh... nulla da segnalare?


The 6th ward
CAPITOLO 6: Polmonite

4 mesi, 30 giorni

“Ehi, Eren,” disse Connie svogliatamente. “Tu hai un elenco di cose da fare prima di morire?”

Il clima stava iniziando a raffreddarsi, come ovvia conseguenza al fatto che ormai erano i primi di novembre, ma questo fatto non aveva impedito ai pazienti del reparto sei di spendere la maggior parte delle loro giornate fuori. Ora che erano tutti in grado di lasciare l’ospedale, sembrava che questa fosse diventata una delle cose che preferivano di più. A Levi sarebbe semplicemente piaciuto che questo cambiamento fosse avvenuto in estate. Il clima freddo gli andava bene e tutto, ma sedere fuori per ore nelle gelide sere invernali, stava iniziando a non piacergli più. Ma veniva pagato per controllare dei pazienti comatosi, e, per quanto chiunque avrebbe potuto pensare che questo volesse dire effettivamente fissare i loro corpi morti, Levi credeva che le loro anime mortali avessero un posto più alto tra le sue priorità. L’unica cosa che desiderava è che fossero affetti dal freddo tanto quanto lui.

Eren fece un verso vago.

“Sei una palla.” disse Connie, facendo il broncio.

“Siamo già morti,” puntualizzò Eren. “Quell’elenco si fa prima di morire, non dopo.”

“Sì, ma quindi non ne avevi uno nemmeno prima di morire?” insistette Connie.

“Amico, quale ventiduenne ha una lista di cose da fare prima di morire? E’ un po’ morboso.” rise Eren.

“Sì, ma sono certo che c’erano un sacco di cose che avresti voluto fare non riuscendoci.”

“Ovvio.” rispose Eren.

“Bertholdt aveva una lista,” disse Connie, gesticolando verso il ragazzo allampanato che stava cercando di farsi i fatti suoi, seduto dall’altra parte della panchina.

Bertholdt sembrava un po’ imbarazzato dal fatto di essere stato messo in ballo, e scosse la mano come se fosse una cosa di poca importanza. “Non proprio. Volevo solo lasciare il paese, ma ero sempre occupato ad insegnare. Ho avuto intere estati in cui avrei potuto viaggiare, ma ho sempre rimandato ad un altro anno. Ma va bene così.” aggiunse subito, nascondendo una nota di mestizia nella voce.

“Io volevo imparare a ballare.” offrì Reiner.

“Che stupidaggine,” lo prese in giro Connie. “Ballare non è difficile.”

“Già, infatti proprio tu balli benissimo.” borbottò Sasha.

“Io volevo finire la scuola di legge.” disse improvvisamente Annie. Tutti si girarono verso di lei, mentre la ragazza tornò semplicemente a fissare il punto indefinito nella direzione verso cui guardava sempre.

“Chissà perché l’idea di presentarmi ad una corte e trovare Annie sulla panca opposta alla mia è così terrificante.” scherzò Eren, guadagnandosi una risata da tutti e persino un sorrisino da Annie stessa.

“Io volevo un bambino.” disse Jean esitante.

“Sì, ma poi avrebbe finito per somigliarti.” rise Connie. Eren e lui batterono i pugni a mezz’aria mentre Jean sembrava stare considerando se uno dei due sarebbe potuto morire una seconda volta.

Poi, tutti guardarono Eren in aspettativa, ma Sasha interruppe il momento: “Io volevo aprire un ristorante tutto mio.”, disse con aria sognante.

“Avere un ristorante significa servire cibo, Sasha, non mangiarlo.” la riprese Connie.

“Ehi, guarda che io so cucinare!” protestò lei, guardandosi intorno per vedere se qualcuno le credeva, “Va bene, Connie,” lo accusò, pronunciando il suo nome come se fosse una parola molto offensiva. “Tu cosa volevi fare prima di morire, saputello?”

Connie ci pensò un momento prima di stendersi sul prato, con le mani dietro la testa. “Bene o male quello che desideravo davvero già l’ho fatto. Stavo facendo esattamente quello che volevo fare prima di tirare le cuoia. Avrei potuto fare di più, sicuro, ma quello era più o meno ciò che volevo.”

“Sei così stupido,” disse Sasha, aggrottando le sopracciglia. “Tutto quello che facevamo era andare alle feste, mangiare fast food e saltare i nostri turni come camerieri.”

Connie rise brevemente. “Infatti andava più che bene.” concluse, facendo un sorrisone alla ragazza.

“Sei un perdente.” rispose lei affettuosamente.

“Ehi, Eren. Ultima possibilità: cosa c’era sulla tua lista?” lo riprese Connie.

Eren guardò pensierosamente il cielo. “E’ strano perché ci sto pensando solo ora che sono morto. Quindi, ciò vuol dire che non è una vera lista di cose da fare prima di morire, no?”

“Che ne dici di una lista di cose da fare prima di finire di morire?” offrì Levi.

Eren gli fece un sorrisino. “Ok, penso di poterla mettere in questo modo. Be’, direi che… se ci penso proprio sul serio, l’unica cosa che credo di aver veramente desiderato di fare era andare ad ascoltare una sinfonia suonata dal vivo da un’orchestra. Qualsiasi sinfonia. Non sono mai stato ad un concerto.”

“Be’, io so esattamente cosa c’è sulla mia ora lista di cose da fare prima di finire di morire,” spiegò Connie orgogliosamente. “Voglio piantare un albero per il reparto sei in quello stupidissimo boschetto dei pazienti. Dare a tutti un assaggio di cosa vuol dire essere veramente ad un passo dalla tomba, capite cosa intendo?”

Ci fu una serie di cenni del capo e rumori in segno di assenso, e tutti si ritrovarono a discutere sparpagliati, in modo quasi sconclusionato, dei loro piani per l’albero e la placca di accompagnamento. Levi trattenne uno sbadiglio, sospirando interiormente al prospetto di un’altra settimana di straordinari al reparto. I turni erano facili per il reparto sei, e ci si aspettava che la sfortunata anima assegnata ad ogni rotazione, lavorasse molte più ore di quelli che erano impiegati in reparti più frequentati. La sfortuna di Levi era che il reparto sei era un po’ più rumoroso di quanto tutti avrebbero mai potuto immaginare. Dunque, decise di scusarsi da quella piccola assemblea e andarsi a fare una passeggiata nel parco lì vicino, visto che, comunque, era in pausa. Una passeggiata serale in quell’aria pungente era la sua unica occasione di stare sveglio per il resto del suo turno. Connie lo lasciò andare con un avvertimento sullo stare attento ai fantasmi, perché i non-morti erano notoriamente scortesi.





Il parco era a una quindicina di minuti di cammino dall’ospedale, con un bel po’ di panchine di legno, molti alberi dai colori brillanti e un laghetto che rifletteva il cielo perfettamente nei giorni tersi. L’appartamento di Levi era convenientemente dislocato in un piccolo edificio di mattoni rossi a non più di cinque minuti dal parco, in un tranquillo, vecchio quartiere, pieno di silenziose persone anziane. Sarebbe riuscito a girare tutto il lago e fare in modo di essere puntuale a tornare al reparto. Non che ci fosse qualcuno che veniva a controllare se lui c’erano o meno, ma doveva comunque registrare le informazioni sulle cartelle dei pazienti e assicurarsi che tutti gli inutili corpi delle persone del reparto sei stessero funzionando normalmente, per quello che la situazione permetteva.

Perso nell’abitudine di percorrere sempre la stessa familiare strada, pensando alle solite cose, reagì un po’ eccessivamente quando sentì qualcuno tirare leggermente il retro della sua camicia, girandosi per torcere il polso del suo assalitore.

Questi stava sorridendo con un’espressione di scusa, alzando le braccia in segno di resa. “Ah, non uccidermi, ti prego!” supplicò Eren con sarcasmo. “Ho ancora così tanto da vivere.”

“Ti rendi conto che ci sono modi meno ‘da fantasma’ per attirare l’attenzione di qualcuno, vero?” chiese Levi. In ogni caso era una domanda retorica, e, probabilmente, Eren non era nemmeno dispiaciuto. Il moccioso.

Difatti, il ragazzo gli sorrise a trentadue denti, e decisamente senza dispiacere. “Volevo solo unirmi a te. Non è possibile che tu stia andando lontano, perché so bene che hai ancora da fare all’ospedale.”

Levi sospirò, permettendo ad Eren di seguire i suoi passi. “Non ti interessa nemmeno che qualcuno potrebbe vedermi parlare da solo? Non hai nemmeno un po’ di timore che possa essere inviato al manicomio?” chiese Levi, con un finto tono di offesa nella voce.

“Ah, sono più che preoccupato della cosa, ma non di certo perché parli da solo in pubblico.”

“Mi hai fatto questa volta.” concesse Levi.

I due continuarono a camminare in un amichevole silenzio, cosa di cui Levi fu grato. Non era particolarmente abituato ad avere qualcuno con lui durante le sue passeggiate serali, e non era certo se si sentiva contento o meno della presenza di Eren, ma, fin quando il moccioso teneva la bocca chiusa, apparentemente la cosa non era un problema nella sua ricerca di tranquillità.

Le foglie secche erano al loro ultimo stadio prima di cadere, con i colori al massimo della loro brillantezza. Rossi, gialli e verdi e ogni altra tonalità immaginabile, spiccavano audacemente sulla desolazione del grigio chiaro del cielo che faceva da sfondo. In una giornata ventosa, ci sarebbe stato un sussurro insistente tra tutti gli alberi del parco, a creare un’inquietante conversazione tra ogni foglia, ramo e filo d’erba del prato, ma oggi, tutto era quieto e le foglie rimasero silenziose, riservate nel loro posto d’onore sulle grandi vecchie querce, sugli aceri e sui salici che circondavano il laghetto. Ogni tanto, Levi lanciava uno sguardo verso Eren, chiedendosi vagamente se il fatto di essere uscito fuori dai confini dell’ospedale avesse effetti negativi di sorta sul ragazzo. Tuttavia, Eren sembrava perfettamente a posto, oltre che stranamente taciturno. Levi pensò che non era poi la turbolenta scocciatura che lui aveva etichettato. Non sempre, perlomeno. Sicuramente qualche volta, però.

Levi si fermò sulla riva del lago. Giorni così calmi erano rari, e guardare la quasi perfetta immagine riflessa del cielo sulla superficie liscia dell’acqua, era decisamente troppo ipnotizzante per quella che era la breve pausa concessa a Levi. Spostò lo sguardo al lato, per fare il suo controllo periodico di Eren. Stavolta il giovane lo stava guardando, con le sopracciglia aggrottate. Aveva chiaramente qualcosa da dire.

“Ohi, sputa il rospo.” sospirò Levi. “Questa non è una dannata biblioteca.”

“Mi stavo solo chiedendo cosa potrebbe esserci sulla tua lista.” disse finalmente Eren, con un ridicolissimo sguardo sincero sul volto.

Levi strinse gli occhi, quasi mettendo alla prova Eren, per vedere se era veramente curioso. “Voglio essere il primo presidente sotto i centosessantacinque centimetri.” disse gravemente.

Eren, per un attimo, sembrò considerare di prendere seriamente la risposta di Levi, prima di notare il tono di disapprovazione sull’espressione di questi. “Dico sul serio, Levi.”

L’infermiere sospirò. “Non lo so. Non ci ho mai pensato seriamente.”

“Non ti abbiamo insegnato niente, allora?” Eren gli lanciò uno sguardo feroce, come se Levi fosse un bambino petulante con qualche pretesa assurda.

Levi lo prese come un affronto personale. “Tu non avevi una lista quando eri vivo,” lo accusò. “E poi cosa c’è di male nell’essere felici ora?”

“Ah, certo. Sprizzi gioia da tutti i pori.” Eren gesticolò vagamente. “E’ davvero questo che vuoi? Niente più?”

“Scusa,” disse Levi bruscamente. “Per caso ti sei guardato intorno?” disse, per poi afferrare Eren per le spalle, facendolo ruotare su se stesso in modo che fosse di fronte un antico salice piangente, dai lunghi rami curvi che carezzavano la superficie dell’acqua, le foglie giallastre riflesse nella pozza come se si stesse specchiando. “Guarda quell’albero enorme. Hai mai visto un dannato albero più maestoso di questo?”

Eren gli lanciò uno sguardo scettico da oltre le sue spalle, prima che Levi lo facesse girare di nuovo a guardare l’albero. “Sono serio. Guarda quell’albero. Ogni cosa nell’universo è venuta fuori stranamente perfetta, e per gli ultimi due secoli quell’albero è stato qui a testimoniarlo. Quell’albero ha probabilmente avuto un milione di cause per smettere di esistere prima che noi nascessimo, ma guarda un po’! Per qualche strano motivo è ancora qui, e noi possiamo guardarlo.”

“E’ solo un albero, Levi.”

“E’ dannatamente maestoso.” mormorò furiosamente Levi nell’orecchio di Eren. Il ragazzo lo guardò leggermente allarmato. “Tu sei riuscito a rimanere vivo per ventidue anni. Quell’albero è stato qui probabilmente dieci volte tanto e non se ne andrà via tanto presto.”

Levi finalmente permise ad Eren di rigirarsi verso di lui, e provò una fitta di sensi di colpa allo sguardo malinconico che aveva preso forma sul volto di Eren. “Ehi, ragazzo,” disse dolcemente. “Vuoi sapere cosa c’è sulla mia lista di cose da fare prima di morire?”

Il giovane alzò le sopracciglia con fare interrogativo. “Voglio vivere tanto quanto quell’albero. Sono tremendamente spaventato dal fatto che l’universo non è così protettivo nei miei confronti come lo è per questo dannato albero. Vorrei solo esistere.”

Eren, addirittura, ebbe l’audacia di ridere a quella frase. “Sei così strano.” riuscì a dichiarare tra una risata e l’altra.

“Ohi, ho appena ammesso di aver paura di morire e tu ci ridi su?”

Eren si asciugò le lacrime, calmando le risate. “Tu sembri l’ultima persona sulla faccia della terra che ha paura di morire. Sei un cazzo di robot.”

Levi roteò gli occhi. “Odio parlare con te. Mi fai parlare troppo.”

“L’albero è molto bello,” si scusò Eren. “E’ solo che è un po’ noioso. Vivi un po’, Levi. Ti piace così tanto quell’albero? Arrampicati sopra. Intagliaci il tuo nome. Non lo so, il pacifismo è sopravvalutato. Questo stagno ti piace così tanto? Nuotaci dentro, lanciaci una pietra. Vivere per sempre non ha senso se non c’è nessuna prova che ci sei stato.”

“Tu sei solo un dannato moccioso,” borbottò Levi, fissandolo male. C’era un familiare atteggiamento di sfida negli occhi di Eren, che, però, lo faceva sentire a disagio. “Torniamo indietro.” provò a suggerire, anche se era chiaro che Eren stava tramando qualcosa. Il ragazzo gli lanciò un ultimo sorrisetto ribelle, prima di dirigersi verso il laghetto, tuffandosi entusiasticamente nell’acqua calma, e rovinando istantaneamente l’effetto specchio. “Torna qui.” sussurrò Levi con ansia, seguendo Eren fino alla riva dello stagno, e cercando di trattenere il panico nella sua voce.

Eren tornò a galla, i capelli disordinatamente attaccati alla testa, le ciocche della frangia a coprirgli la fronte, ma non abbastanza da nascondere il sorriso soddisfatto che aveva disegnato in volto. Si fece uscire un po’ d’acqua da un orecchio. “Levi, sono morto e ho fatto di più io nel tuo posto preferito che tu.”

“Congratu-fottute-lazioni.” disse Levi, in piedi sulla riva del laghetto. “Ora esci da lì, che io devo tornare a finire il mio turno, e tu… be’, tu devi tornare a fare il moccioso insopportabile.” Eren fece spallucce, e si trascinò fuori dall’acqua, facendosi strada verso Levi e la terra ferma. Contro ogni buonsenso, Levi allungò una mano verso Eren per aiutarlo a ritornare a terra. Ovviamente, realizzò che era stata una pessima idea approssimativamente mezzo secondo prima che Eren afferrasse la sua mano tirandolo in acqua, e facendolo immergere dalla testa ai piedi.

Levi emerse, anche lui con i capelli fastidiosamente attaccati in testa, e si girò su sé stesso per trovarsi la faccia di Eren ad una ventina di centimetri di distanza dalla propria, sempre con il solito sorriso stupido. L’uomo lo guardò male per un secondo, prima di mettergli una mano sulla fronte e spingerlo di nuovo sott’acqua. Senza guardarsi indietro, ritornò sulla riva, con le scarpe piene d’acqua e i vestiti pesanti. Eren lo raggiunse un minuto dopo, altrettanto grondante ma decisamente più soddisfatto della cosa.

“Vedi? Ora stai vivendo.”

“No,” rispose Levi. “Sto morendo, e di freddo. Potresti avermi fatto venire la polmonite.”

Non sembrava che ad Eren la cosa interessasse. “Cristo, vivi un po’, Levi. Smettila di sopravvivere. Non esistere solo perché qualche strana, fortunata formula cosmica l’ha voluto.”

“Ah, sì. Stare qui a morire di freddo nella mia divisa da infermiere inzuppata di acqua è sicuramente dovuto ad una fortunatissima formula cosmica.” Levi tentò di strizzare la camicia, ma c’era più acqua che cotone a quel punto. La stoffa bagnata non stava facendo nient’altro che rendere le cose peggiori, dunque si tolse la camicia della divisa e rimase lì impalato, mezzo nudo e sull’orlo dell’ipotermia, a litigare con un ragazzo morto in un luogo pubblico.

Eren alzò le sopracciglia. “Non intendevo vivere così tanto, Levi. Tieniti qualcosa per la camera da letto.”

“Odio qualsiasi cosa che ti riguardi al momento.” disse Levi, stringendo i denti per non farli battere.





I due si trascinarono a casa dell’infermiere, nelle loro scarpe strabordanti d’acqua, in modo che Levi potesse cambiarsi in una divisa asciutta e lanciare un asciugamano sulla testa di Eren. Poi, l’uomo prese una giacca e trascinò di forza Eren fuori con lui, per tornare in ospedale. Diversamente dalla camminata dal parco a casa sua, Eren parlò incessantemente per tutta la via del ritorno, mentre Levi faceva finta di non sentire, ma la cosa non sembrò affatto preoccuparlo.

Quanto tornarono, i pazienti del reparto sei erano tutti riuniti nella stanza di Reiner ad ascoltare un’altra delle sue storie ridicole. Avendo fatto parte di una squadra di football di serie B, prima che un incidente lo rendesse un morto cerebrale, Reiner aveva un sacco di belle storie sui suoi viaggi e su tutta la gente strana che gli era capitato di incontrare.

Il fatto che Levi fosse tornato con una divisa diversa da quella che indossava prima, fu motivo di grande divertimento per tutti, specialmente considerando che Eren era ancora leggermente bagnato. Tutti li presero in giro, e Connie mise la ciliegina sulla torta, dicendo: “La polizia di quartiere vorrebbe ricordarvi che la necrofilia è ancora illegale!”





Dopo essere molestato per circa un’ora, Levi riuscì finalmente a terminare di raccogliere le loro funzioni vitali e finire il resto delle sue incombenze. Eren gli augurò la buonanotte prima che se ne andasse, dicendogli affettuosamente: “Comunque quello era proprio un bel tatuaggio!”, e facendogli prendere in considerazione l’idea di strangolarlo. Ma il giovane si era già dileguato, avendo ben pensato di non mettere ulteriormente alla prova la pazienza di Levi, per l’ennesima volta in uno stesso giorno.





Sulla via di casa, l’uomo si fermò al parco, avvicinandosi cautamente al grande salice. Era sempre lo stesso albero, ma Levi rimase lì impalato per un bel po’, con le mani nascoste nel caldo delle tasche della sua giacca, a pensarci su. Dopo quella che era sembrata un’eternità, tirò fuori un coltellino dall’interno della giacca e incise una ‘L’ su una delle radici dell’albero. Era piccola e nitida, proprio come Levi stesso. Annuì con soddisfazione, sentendosi stranamente orgoglioso di quel suo traguardo. Lo faceva sentire un po’ felice, infatti. Era strano. Si posò dorso della mano sulla fronte: sì, decisamente polmonite.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - Vivere per sempre ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Tecnicamente è già martedì ma facciamo finta di niente, non è domani finché non vado a dormire (U_U). Parti con due annunci importanti: 1 - il capitolo 8 è stra-mega-lungo e io la settimana prossima ho un esame... già ho iniziato a tradurlo ma potrebbe arrivare con un paio di giorni di ritardo, anche se farò il possibile per essere puntuale. 2 - sono in ritardo con i commenti ma dovrei trovare un po' di tempo per rispondere domani, comunque lo farò al più presto. Quindi vi ringrazio tantissimissimo per il supporto, per i preferiti/seguiti/da ricordare e per i commenti stessi e vi lascio al capitolo (che pure è bello lungo xD). Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: niente di particolare... a parte una cosa che mi preme un po'... credo abbiate notato tutti che, a volte, i discorsi dei personaggi sono un po' sconclusionati, ripetitivi o/e grammaticalmente scorretti... volevo precisare che non è un errore mio ma è una cosa voluta (dall'autrice e riportata in traduzione), per rendere meglio il fatto che, in certi momenti, la persona che sta parlando lo sta facendo di getto, ovviamente senza preoccuparsi di essere corretta... si nota molto qui nella (pseudo) preghiera di Eren.


The 6th ward
CAPITOLO 7: Vivere per sempre

4 mesi, 25 giorni

Levi quasi andò a sbattere contro Petra, mentre girava per il reparto sei, assorto nel raccoglimento di alcuni dati che aveva precedentemente bistrattato. Lei era in piedi, esattamente davanti a lui, ad attendere che lui la notasse e si fermasse, ma, sfortunatamente, lui non la vide fino a quando non gli finì praticamente quasi addosso. Lei lo salutò, comunque, con un gioviale: “Ciao Levi!”

Tutto quello che riuscì a dire lui, invece, fu un: “Da dove sei spuntata?”, perché non gli piaceva essere colto di sorpresa. Dando la colpa della sua mancanza di attenzione al raffreddore persistente, che si era preso dopo essere stato spinto nelle acque di un lago in pieno novembre, si corresse velocemente: “Ah, uh, buongiorno Petra.” A quelle parole, lei sembrò leggermente meno offesa.

“Mi chiedevo se il mio amico poteva fare la consegna oggi? So che è un po’ all’improvviso, ma la ditta non ha molto tempo per occuparsi delle consegne, e avevo immaginato che tu fossi troppo impegnato per andare a prendertelo da solo. So che la tua vecchia auto non è un granché con le grandi distanze.” spiegò piano Petra. Levi la fissò con uno sguardo vuoto, cercando di non sembrare confuso quanto si sentiva, e si limitò ad annuire lentamente, sperando che il soggetto della loro conversazione sarebbe, prima o poi stato, rivelato. Ma Petra non se la bevette e gli lanciò uno sguardo preoccupato. “Stai dormendo abbastanza, Levi?”

“No.” tagliò corto lui.

“L’albero,” disse lei infine, chiarendosi. “L’albero di Giuda che volevi piantare nel boschetto dei pazienti, nel giardino nord. Ti dice qualcosa?”

Levi, finalmente, capì qual era l’argomento della loro conversazione. “Ah, sì, certo. Ehm, grazie Petra. Hai detto oggi?”

“Se ti va bene.”

“Si, credo vada bene.” disse lui, scrollando le spalle. Aveva già pensato che in qualunque momento avessero ricevuto l’albero sarebbero semplicemente andati tutti insieme a piantarlo in qualche orario strano, in cui nessuno l’avrebbe sentito parlare da solo e, soprattutto, visto piantare un albero per un gruppetto di cadaveri a stento in grado di respirare. Non che non sarebbe stato divertente, almeno per loro. “Chiamami con il cercapersone quando il tuo amico arriva, okay?”

Petra lo salutò gentilmente. “Lo farò. Buona fortuna.” aggiunse poi, non senza una nota di evidente preoccupazione nella voce.

“Tsk, ne avrò bisogno.” borbottò lui. La donna si girò per andarsene, ma Levi le afferrò delicatamente il braccio, fermandola. “Ehm, grazie mille. Lo apprezzo molto.” aggiunse, poco convincentemente. Levi sapeva di fare schifo quando si trattava di normali interazioni sociali, ma i suoi amici ormai erano in grado di capire e apprezzare un suo sforzo più di ogni altra cosa. Petra gli sorrise raggiante, prima che Levi lasciasse il suo braccio per lasciarla allontanare in fretta in direzione del suo reparto.

L’infermiere fece un sospiro interiore al pensiero di dover rimanere sveglio per un’altra notte. Uno di questi giorni avrebbe finito per addormentarsi a lavoro, anche se, realisticamente parlando, era molto probabile che nessuno sarebbe stato in giro per il reparto sei per accorgersene. Nessuno di vivo, almeno.





“Ehi, idioti,” li richiamò Levi, aprendo la porta della stanza di Eren, dove sembrava che i pazienti del reparto sei si fossero riuniti quella mattina. “Aspettatevi una consegna speciale questo pomeriggio.”

“Così, all’improvviso…” obiettò Connie, con finta serietà.

“Non sappiamo nemmeno chi è il padre, Levi.” si lamentò Ymir.

Sasha afferrò Eren per un braccio, trascinandolo al suo fianco con fare misterioso, e mormorando, intenzionalmente a voce alta, per farsi sentire da tutti: “Io credo che sappiamo tutti chi è il padre, no?”

Levi li fissò impassibile per quasi un intero minuto, prima di chiudere la porta silenziosamente e attraversare il corridoio, con tutte le intenzioni di abbandonare l’ospedale per la giornata. Ma non passò un attimo, che tutti i cretini del reparto sei gli stavano correndo dietro, pregandolo di tornare indietro. Connie si scusò, anche se solo dopo aver aggiunto un: “Non si nota nemmeno, davvero.”

Quella era la prima volta in cui l'uomo aveva raggiunto il suo limite di sopportazione a causa del gruppetto di idioti che lo stava seguendo nella piccola sala delle infermiere vicino l’entrata del reparto.





Si stava tenendo occupato, archiviando vari grafici e mettendo a posto alcuni utensili che erano stati spostati dal loro cassetto originale e lasciati in giro, mentre il resto di loro si era messo comodo nella stretta stanzetta, chi seduto sui banconi e chi poggiato sugli armadietti. Nonostante fosse un dato di fatto che nessuno di loro avesse una reale forma fisica e pertanto fosse portatore di germi, Levi sentì una terribile sensazione di disagio a tutti quei sederi posati sul suo bacone pulito, ma scelse, non senza grande difficoltò, di ignorare la sensazione, riprendendo il suo lavoro di riorganizzazione mentre tutti chiacchieravano della consegna dell’albero.

“Dannazione se era ora,” osservò Jean. “Nessuno di noi ha l’eternità da passare qui. Sicuramente Eren ha ancora un paio di mesi a disposizione, e lo stesso vale per Connie e Sasha. Ma dico io, Ymir è qui già un po’, ed anche Annie. E in pratica non abbiamo idea di cosa si deciderà di fare di Reiner e Bertholdt, o quando. E’ il governo a decidere delle loro sorti ormai.”

“Ah, chi se ne frega,” replicò Eren. “E’ stasera, quindi è tutto a posto adesso.”

“Ma dove lo pianteremo?” si chiese Sasha. “Cioè, nessuno immagina che i pazienti del reparto sei si alzino dai loro letti per andare a piantare un albero. Scommetto che non c’è un posto per noi nel boschetto…” mormorò rammaricata.

“Faremo spazio,” disse Levi, risoluto. “Non credo che il reparto di malattie infettive abbia bisogno di un’altra dannatissima quercia, a meno che non abbiano abbastanza ironia da piantare una quercia rossa o dell’edera velenosa. Ma non credo che i loro sederi malaticci abbiano bisogno di un altro maledetto albero,” borbottò. “Ci prenderemo il loro posto.”

“Sono sicuro che gli faranno spazio da un’altra parte se ci prendiamo quel posto,” Bertholdt cercò di giungere a un compromesso. “Non sarà un problema per loro.”

“E se sradicassero il nostro albero?” esclamò Connie. “Intendo dire che dobbiamo stare attenti. E se quei bastardi lo strappassero via in una rivolta ospedaliera?”

“Sarebbe come zombie versus fantasmi. La notte dei malati viventi!” disse Sasha, mimando quella che solo secondo lei era una perfetta faccia da zombie.

“Ah, smettetela,” rise Reiner. “Bertholdt ha ragione. A nessuno interesserà di un albero in più o in meno nel boschetto. C’è un sacco di spazio.”

“Sì, e se fanno qualcosa al nostro albero,” disse Connie minacciosamente, “Brucerò le loro querce. Tutte quante.”

Eren fece una faccia leggermente allarmata. “Facile a dirsi. Non credo che siamo già abbastanza qualificati da poter fare gli spiriti vendicativi.”

Così continuarono a chiacchierare su cose varie riguardo a scherzi e marachelle da fantasmi che avrebbero potuto commettere, se avessero voluto, e Connie insisté affinché rimanessero a infestare l’ospedale per il resto dell’eternità. Nonostante ciò, fu una conversazione allegra, anche perché, se così non fosse stato, Levi avrebbe finito con il sospettare che i pazienti del reparto sei volessero rovinargli l’intero resto della vita, quando, invece, sei mesi erano più che abbastanza. Poi, un familiare ‘bip’ lo allertò di una notifica sul suo cercapersone, e lui si scusò per andare a incontrare l’arborista all’entrata dell’edificio. Eren, come al solito, si scusò a sua volta per seguirlo, sempre fastidiosamente alle sue calcagna.

Così, iniziarono a farsi strada insieme attraverso i corridoi dell’ospedale, con Eren mai più di un passo dietro di lui. Uscendo dall’accesso principale, Levi trovò un camioncino beige lercio, che rilasciava larghe nuvolette nere dal tubo di scappamento, nella piazzetta circolare di accoglienza per i pazienti e i visitatori. Ad un secondo sguardo, si accorse che probabilmente la vettura era in realtà bianca, ma che essendo stata lo sfortunato mezzo di trasporto di qualsiasi tipo di pianta o albero per anni interi, aveva finito per cambiare colore.

Il proprietario del camion scese dal veicolo, e i suoi stivali fangosi colpirono con forza l’asfalto, a causa dello sventurato ruolo che copriva la gravità nel sollevare la sua mole corpulenta. L’uomo era di per sé massiccio sia in altezza che in peso, calvo e con una fitta barba a coprire la maggior parte del suo viso; aveva degli occhi scuri ed un’espressione che gli si accordava bene, e indossava una tuta da lavoro sporca di terriccio e erba, sopra ad una camicia verde su sui era cucito il logo della sua piccola compagnia.

“Il caro amico di Petra?” chiese Levi, cercando di trattenere il sarcasmo nel suo tono di voce.

Il gigantesco uomo di fronte a lui parve rallegrarsi al suono del nome della ragazza e stese una decisamente sporca mano verso Levi, in segno di saluto. “Patrick,” disse. “Piacere.”

Levi era intensamente tentato di declinare la stretta di mano, ma non gli sembrava il caso di offendere un uomo che era il doppio di lui in altezza e probabilmente il triplo in peso, e dunque, afferrò con cautela la mano che gli era stata offerta. “Levi.” disse, mentre allentava la stretta il più velocemente possibile, cercando di non essere maleducato. “Sembra che tu abbia un albero per me?”

“Centocinquanta,” disse Patrick brevemente, gesticolando verso l’alberello, già un po’ cresciuto, che sostava nel suo camion usurato. “Non troverai un prezzo migliore di questo.”

Levi sospirò, prendendo il suo portafoglio dalla tasca sul retro dei suoi pantaloni, grato del fatto che aveva con sé un inusuale ammontare di contanti, quella giornata. Immaginò che non avrebbe neanche potuto chiedere un rimborso all’ospedale, visto che avrebbe probabilmente finito per rubare lo spazio di verde riservato al reparto due, in una folle missione immaginaria. No! In questa situazione era solo, e il piantare alberi illegalmente non sarebbe stato qualcosa per cui avrebbe avuto un rimborso ma, neanche, perlomeno, qualcosa per cui poteva essere arrestato. Onestamente non era poi così certo del secondo punto, ma sperava seriamente che fosse la verità. L’arresto non era una di quelle cose tollerate per chi lavorava in un ospedale, e lui era già abbastanza tenuto d’occhio, tra le altre cose.

Avendo selezionato le giuste banconote, più un’altra ventina di dollari per ringraziare la generosità di Patrick nell’avergli fatto la consegna, Levi gli porse i soldi, rimpiangendo silenziosamente quelle otto ore di stipendio a cui aveva dovuto rinunciare.

Patrick sorrise ai soldi, sorrise a Levi, e poi sorrise all’alberello. “Hai fatto una buona scelta, Levi,” disse burberamente. “Gli alberi di Giuda sono stupendi. Davvero incantevoli.” Levi lo fissò, pensando che era come se un uomo delle caverne gli stesse dicendo che aveva una bella manicure. “Lo adorerai,” concluse Patrick, salendo nel rumoroso camion e facendolo abbassare di un paio di centimetri sotto il suo peso massiccio. Poi, piantando le spalle contro il gruppo di radici e sporco alla base dell’albero, lo spinse giù dal camion con un grugnito.

Levi osservò l’albero fermo di fronte all’entrata principale dell’ospedale, probabilmente pesante quasi quarantacinque chilogrammi, ma Patrick non sembrò notare il problema, concedendo a Levi un ultimo arrivederci e un’altra lercia stretta di mano, prima di risalire nel suo ecologicamente disastroso camioncino e andarsene via, lasciando l’infermiere impalato come un idiota, insieme ad un grosso albero, all’entrata di un ospedale.

Eren aveva seguito tutta la successione di eventi curiosamente, apparentemente aspettando il momento in cui Levi avrebbe saputo cosa fare, o in cui gli avrebbe proposto qualche sorta di piano per il da farsi, ma Levi, rimase lì impalato a fissare l’albero con cautela, come se avesse potuto mettersi in piedi da un momento all’altro, e scappare via correndo, se lui non l’avesse guardato abbastanza attentamente. Eren si stava grattando la nuca distrattamente e Levi gli lanciò uno sguardo, come a sfidarlo a chiedergli se aveva idea di cosa stava facendo.

Mai sfidare Eren a fare qualcosa. “Uhm, dunque cosa hai intenzione di fare con l’albero? Sembra un po’ – ”, fece una pausa, indicando con le braccia le grosse dimensioni dell’alberello. “E’ un po’ – ”, gesticolò vagamente in direzione dell’albero.

“E’ fottutamente troppo pesante.” finì Levi per lui.

Eren sussultò alla conferma dei suoi timori. “Quindi, ehm, ora, cosa?”

“Ho bisogno di voi imbecilli ad aiutarmi a spostarlo.”

Eren gli risparmiò uno sguardo incredulo. “Non possiamo aiutarti a spostarlo in pieno giorno.”

Levi annuì, tirando fuori un piccolo blocchetto di fogli dalla tasca anteriore della sua camicia per scrivere una nota veloce, che attaccò allo sporco alla base dell’albero. “Torneremo a prenderlo dopo.” decise, girandosi verso l’ospedale. Però, avverti una decisamente troppo ovvia mancanza di Eren alle sue calcagna, e si girò per trovare il ragazzo in piedi vicino all’albero, impotente.

“Non possiamo semplicemente lasciarlo qui.” si lamentò Eren, guardando tristemente da Levi all’albero.

“Ho lasciato una nota.” disse Levi, indicando il pezzettino di carta alla base del tronco.

Eren si abbassò, esaminando la nota.

‘Non toccare il mio dannatissimo albero. O ti troverò. – Levi’

“Ispirante.”

“Fai da babysitter a quel dannato coso se sei così preoccupato.”

Eren sospirò e si sedette a terra, posandosi contro l’albero. Poi agitò la mano in aria verso Levi, in segno di saluto. “Ci vediamo dopo allora.”

Levi era mediamente sorpreso del fatto che Eren avesse effettivamente deciso di controllare l’albero come gli aveva proposto lui, ma non la trovava una cattiva idea. “Non far toccare a nessuno quel dannato albero,” lo avvertì, “Dico sul serio.” E con ciò, se ne tornò in ospedale, lasciando un alquanto esasperato Eren a fare la guardia al piccolo albero di Giuda che era palesemente posizionato di fronte l’entrata dell’ospedale.

“Muoviti a tornare indietro!” gli urlò il giovane, mentre lui se ne andava via.





Una silenziosa agitazione si abbatté sul reparto sei per il resto della giornata. Ben presto finirono le cose da dirsi, e dunque tutti optarono per aspettare impazientemente il loro momento, in camera di Connie. A Levi stava bene la calma che c’era nel reparto, e si trovò a passare davanti all’entrata dell’ospedale un po’ più frequentemente di quanto avrebbe fatto normalmente.

La prima volta, trovò Eren ancora seduto a terra, poggiato sul tronco. La seconda volta, stava camminando avanti e indietro davanti all’albero. Mentre la terza, era steso a pancia in sotto sul pavimento, le braccia stese di fianco al corpo e il volto girato da un lato, con un’espressione di pura tortura disegnataci sopra. Quella posizione fece ridere Levi, al che Eren rispose con uno sguardo sorprendentemente astioso.

L’ospedale iniziò a svuotarsi intorno alle nove, ad eccezione della sola reale attività del vicino pronto soccorso, al lato opposto dell’edificio. Levi guardò gli ultimi visitatori che uscivano, e gli impiegati abbastanza fortunati da non essere condannati al turno di notte, unirsi a loro.

Finalmente, intorno a mezzanotte, andò a raccogliere i membri del reparto per aiutarlo a trasportare l’albero via dall’entrata. Il silenzio teso della giornata fu velocemente sostituito da un eccitato chiacchiericcio, mentre Levi li guidava dove aveva lasciato la pianta. Questa volta, Eren era avvolto contro la base del tronco, lamentandosi rumorosamente. Ma, al suono del gruppo che si avvicinava, alzò il volto, e si districò da quello strano abbraccio.

“Stavo iniziando a pensare che il vostro fosse solo un elaborato piano per sbarazzarvi di me,” protestò. “E’ stato tremendamente noioso. E, tra l’altro, ricordatemi di non farmi mai inserire nella lista dei cattivi di Levi. Per qualche ragione, la sua stupidissima nota ha mandato via qualsiasi persona fin troppo efficacemente.”

“Tu sei già nella mia lista nera.” borbottò Levi.

Reiner diede una serie di pacche sulla schiena ad Eren, così entusiasticamente da farlo incespicare un po’ in avanti. Poi, tutti afferrarono una parte del tronco, trascinandolo lentamente dal suo posto nella deserta entrata dell’ospedale, tutt’intorno l’edificio, fino all’area nord. Levi avrebbe voluto lasciar fare tutto a loro, ma, essendo l’unico con un corpo fisico veramente visibile, la sua partecipazione era necessaria per prevenire che qualche sfortunato passante vedesse un albero muoversi di propria volontà.

Levi aveva usato la sua pausa pranzo per tornare a casa sua e prendere le due pale che possedeva. Una era nuova, mentre l’altra era arrugginita, e probabilmente non sarebbe servita a molto, ma, nonostante ciò, aveva provato a portarla lo stesso. Le pale li stavano aspettando sull’area di terreno che era stato riservato per il reparto due, ma, ovviamente, il reparto sei aveva altri piani per quell’appezzamento.

Dopo parecchie imprecazioni e piedi pestati, il gruppo ebbe il sorprendentemente pesante alberello in posizione sul terriccio. Levi passò le vanghe, decidendo di rischiare che qualcuno vedesse una serie di pale scavare nel terreno, senza l’aiuto di una persona in grado di muoverle, perché era troppo stanco per mettersi a scavare un buco nel terriccio per un branco di mocciosi. Quindi, optò nella speranza che sarebbero stati abbastanza fortunati da non essere interrotti. Reiner e Eren furono i primi a fare il proprio turno, attaccando il terreno alla bell’e meglio il terreno duro, ancora rigido a causa del gelo.

Eren, infine, passò la vanga a Sasha, che la passò a Connie dopo aver fatto la sua parte. Reiner invece la diede ad Annie – che, incredibilmente, fece i migliori progressi fino a quel momento, mettendosi in risalto rispetto agli altri –, che poi la passò a Jean, che la passò a Bertholdt. Connie, alla fine, si diede per vinto, ridando la pala a Reiner, in modo che lui e Bertholdt potessero completare il già abbastanza profondo buco, che era stato creato da tutti insieme nel terreno. In un atto finale, Reiner uscì dalla buca, conficcando la pala nel terreno vicino al piccolo cratere. Bertholdt, notò l’azione e lo seguì a ruota, tirandosi fuori e posando la vanga.

Tutti rimasero in piedi intorno alla buca, fissandosi e aspettando che qualcuno parlasse. Era come se stessero attendendo una dannata preghiera o un discorso, e Eren sembrò decidere che era veramente così: “Ah,” iniziò, “Dio o Budda o chicchessia, benedici questo albero, e, uhm, benedici un pochino anche noi. Solo dio sa quanto ne abbiamo bisogno.” Tutti annuirono alla preghiera sconclusionata, stranamente sensibili alla cosa. “E, ehm, be’, forse quest’albero renderà possibile che nessuno si dimentichi di noi, o qualcosa del genere. Ah, e grazie se c’è qualcuno lì su, e non fa niente se non c’è. E, per favore, fai che morire non faccia schifo quanto io pensi che lo faccia.” Ci fu una serie di risatine sparpagliate a quell’ultima frase. “Ah, vaffanculo.” concluse infine il ragazzo. “Mettiamo questo dannato albero nel terreno.”

“Amen.” mormorò Levi, guadagnandosi un’altra serie di risolini.

Tutti lasciarono cadere l’albero nella fossa con un tonfo sordo e Eren e Connie si presero la briga di riempire lo spazio intorno alle radici. Quando l’alberello fu finalmente al suo posto, tutti vi gironzolarono attorno, come se stessero aspettando che partissero i fuochi d’artificio o qualcosa del genere. Levi guardò tra di loro, controllando qualche segno di soddisfazione, che c’era, anche se, per la maggiore, l’intero gruppo sembrava perlopiù apprensivo.

Alla fine, fu lui a rompere il silenzio. “E’ un bell’albero.” disse.

Fu come se la sua voce avesse rotto l’incantesimo che era caduto su di loro, e una serie di sorrisi iniziò a stendersi sui loro volti, mentre si congratulavano l’uno con l’altro e davano qualche pacca affezionata al tronco. Tutti sembravano essere d’accordo sul fatto che fosse una bella pianta.

“Possiamo fare la placca più avanti.” decise Connie.

Tutti apparvero concordare con lui, e lentamente iniziarono a tornare nelle loro camere per la notte. Levi non era certo del motivo per cui sentivano il bisogno di trascorrere la notte a far finta di dormire, ma aveva immaginato che la cosa gli desse una sorta di pace.

Lui, rimase in piedi al freddo, aspettando che tutti se ne andassero, e stranamente compiacendosi dell’atmosfera soddisfatta che si erano lasciati alle spalle. Ben presto rimase solo con Annie ed Eren, un confortevole silenzio instaurato tra di loro.

Annie si girò improvvisamente e fece un piccolo inchino verso Levi. “Grazie.” disse, prima di tornare diligentemente in ospedale.

Levi lanciò un’occhiata ad Eren. “Mi dimentico sempre che parla.”

Eren rise un pochino prima di tornare al silenzio accogliente che c’era stato fino a quando Annie era rimasta con loro. Tuttavia, dopo un bel po’, parlò di nuovo: “Credi che quest’albero vivrà tanto quanto quello stupido salice che adori tanto?”

“Diamine no,” rispose Levi. Eren sembrò avvilito dalle sua parole, ma Levi si limitò a roteare gli occhi affettuosamente. “Vivrà molto di più, qui il suolo è migliore.”

“Che diavolo nei sai tu del suolo?” lo sfotté Eren.

“Ah, ho un presentimento.”

“Un presentimento?” chiese Eren dubbioso.

“Sì, sai, una sensazione nel tuo subconscio. Un presentimento.” rispose Levi, il più seriamente possibile, nonostante il tentativo di avere un tono accondiscendente.

“E che tipo di presentimento?”

“Be’, immagino che una cosa non possa essere così amata e non vivere a lungo. Tutti ci tenete così tanto a questo stupido albero che è sicuro che vivrà più di tutti noi, secondo me.” Levi stava per voltare lo sguardo verso Eren, ma notò che vi erano delle lacrime sul suo volto e si girò di nuovo verso l’albero, prima che l’altro notasse di essere stato visto. “Vivrà per sempre. Questa rottura di palle di albero.”

“Niente dura per sempre.” disse Eren, con voce tremante.

“Correzione: niente di buono dura per sempre. Mentre questo stupido albero? Considerando la dannata rottura di palle che è, sicuramente durerà per sempre.”

“Non dovrebbe essere, che ne so, l’opposto? E non dovrebbe valere solo per le persone? Dov’è la giustizia in tutto ciò?” rise Eren, asciugandosi gli occhi.

“In quel caso sarei fottuto da ogni punto di vista.” sogghignò Levi.

Un nuovo silenzio minacciò di cadere su di loro per la seconda volta, ma Eren non riuscì a tenere la bocca chiusa. “Vorrei tipo abbracciarti ora,” singhiozzò. “Ma nella maniera in cui vorrei abbracciare qualcuno che è una grande rottura, e che odio così tanto, ma che voglio comunque abbracciare, nonostante tutto.”

Levi fece una serie di passi per allontanarsi da lui. “Sì, e non accadrà in questa vita.” disse amaramente. Eren, dunque, decise di afferrare entrambe le pale e pungolare Levi con l’estremità sporca di una delle due.

“Sei sicuro che non vuoi vivere per sempre?” chiese Eren scetticamente. “Sei un tale stronzo, che credo che tu possa riuscirci.”

“Io e questo fottuto albero dobbiamo fare una bella gara, allora. Vedere chi arriva primo.”

“Tu sei davanti.” cantilenò Eren dolcemente.

Levi ci pensò un secondo, prima di annuire. “Sono in testa.”

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Orari di visita e tequila sunrise ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Oggi pomeriggio ho finito la roba dell'università quindi eccomi qui dopo interminabili ore di proof-reading... non ho ancora toccato i commenti ma domani li traduco e li invio all'autrice, quindi aspettate risposta quanto prima ;). Il prossimo capitolo, dal momento che è corto, lo pubblicherò lunedì, quindi poi si torna ai normali ritmi, a meno che non ci siano novità di sorta. Volevo ringraziare di nuovo, sia da parte mia che da parte dell'autrice, tutti quelli che hanno inserito la storia tra i preferiti/da ricordare/seguiti, ovviamente chi la commenta <3, ma anche chi sta solo leggendo. Siamo ancora all'inizio, ma fra un paio di capitoli inizierà la vera e propria montagna russa xD. Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: a parte i soliti errori di battitura... niente da dire... vengono citate molte bevande alcoliche, ma sono abbastanza comuni o, se proprio vi interessa sapere cosa è cosa, si trovano subito su google xD


The 6th ward
CAPITOLO 8: Orari di visita e tequila sunrise

4 mesi, 19 giorni

I giorni di visita erano una sorta di esibizione per gli abitanti del reparto sei, un po’ come se ognuno di loro volesse far vedere agli altri a quante persone mancava e, soprattutto, quanto gli mancava. Certo, era un po’ triste vedere i loro cari fissare i loro corpi immobili, incapaci di dire una parola di conforto, ma, generalmente, tutti sembravano farsi bastare il fatto che c’era qualcuno che li pensava. Levi non credeva fosse poi questa grande pretesa.

I sabati, di solito, erano i giorni in cui veniva più gente in reparto, e, infatti, oggi era pieno come non lo era mai stato.

Reiner, Bertholdt e Annie non avevano mai nessun visitatore, a causa del loro estraniamento dalle rispettive famiglie. La squadra di football di Reiner era venuta a visitarlo un paio di volte, ma, apparentemente, aveva perso le speranze dopo circa sette mesi. La cosa non sembrava aver turbato molto il ragazzo, che precisava sempre che non aveva senso fare visita ad un cadavere, e che comunque la cosa aveva poca importanza, considerando che l'aver affidato le sue decisioni mediche allo stato richiedeva così tanta burocrazia che sembrava che lui, e gli altri due pazienti nella sua condizione, sarebbero rimasti attaccati alle macchine per sempre, nonostante gli sforzi di Erwin di dare fine a questa eternità di respiratori e monitor.

Neanche Bertholdt aveva una famiglia che lo visitasse. All’inizio dei suoi giorni nel reparto sei, alcuni dei suoi colleghi erano venuti a portare dei fiori, ma nessuno si era azzardato ad accompagnare nessuno dei suoi studenti. Essendo un maestro delle elementari, sembrava ovvio per tutti che un gruppetto di bambini non avevano bisogno di essere soggetto alla vista del corpo del loro quasi-morto maestro.

Per quanto riguardava Annie, invece, era difficile da spiegare, ma visto che anche per lei era lo stato a prendere le decisioni, sembrava ovvio dedurre che non aveva una famiglia o un tutore. Tra l’altro, nessuno l’aveva mai veramente visitata, quindi c’era ben poco da raccontare, anche quando lei era quella a trovarsi lì da più tempo. Levi aveva controllato la sua cartella clinica per curiosità, notando che la sua data di ammissione al reparto sei risaliva a quasi due anni prima. Non lo sorprendeva che Erwin volesse dare a questi ragazzi un po’ di pace.

Connie e Sasha avevano molti visitatori, dal momento che erano nel reparto da giusto un mesetto in più di Eren. Essendo cresciuti insieme, le loro famiglie erano in rapporti amichevoli, ma c’era sempre una sorta di atmosfera tesa tra loro, come se nessuno fosse veramente sicuro su a chi dare la colpa dell’incidente che li aveva resi entrambi cerebralmente morti. Sasha poteva essere quella alla guida, ma la famiglia di Connie sembrava covare una sorta di segreto imbarazzo riguardo alla situazione in cui lui l’aveva messa. Secondo Levi, era difficile che la decisione che non fosse stata presa insieme dai due. Per qualche motivo misterioso, era come se avessero un cervello solo, e guidare sotto l’influenza di un paio di drink di troppo era probabilmente stata una decisione congiunta, ma lui non avrebbe mai detto una cosa del genere alle loro famiglie. I ragazzi morti non parlano, e Levi non sarebbe stato quello a sfatare il mito.

Jean aveva raramente dei visitatori. Faceva parte di una famiglia tranquilla che si fermava in ospedale per dei brevi momenti, a stringergli la mano o a rimboccare le coperte al suo corpo immobile. Levi pensava che non gli piacesse un granché venire a fargli visita, ma che lo facessero soprattutto per una questione di dovere familiare. Tuttavia, uno dei migliori amici di Jean, veniva ancora a fargli visita. Si chiamava Marco, se Levi non ricordava male. Il giovane uomo era gentile e stranamente scherzoso quando veniva al centro di riabilitazione per quasi-morti e, come l’amica di Ymir, Christa, spesso leggeva qualcosa a Jean, o rimaneva a parlargli per un paio d’ore.

Lo stesso avveniva con Ymir: lei aveva solo Christa, e le sue visite la rendevano così felice che nessuno dei mocciosi si permetteva di invadere quei momenti sacri.

Qualche volta Levi guardava i visitatori andare e venire e si chiedeva chi l’avrebbe mai visitato se non si fosse svegliato dopo il suo incidente d’auto, finendo nel reparto sei. Hanji avrebbe probabilmente tentato di trascinare il suo cadavere nel reparto di ricerca e sviluppo per fare qualche esperimento su di lui. Per amore, ovviamente, o qualche altro motivo filantropico, volendo rimanere positivi. A parte ciò, Levi non credeva che qualcuno che non lavorava in ospedale sarebbe anche solo venuto a sapere che era quasi morto. La cosa non era un fastidio di per sé, ma era sicuramente gli dava a riflettere.

Eren era visitato incessantemente da Armin, un suo amico stretto dai tempi della scuola. Armin portava qualsiasi tipo di enciclopedia e brochure di viaggio e libro di storia musicale, per parlare nelle orecchie senza vita di Eren per un paio d’ore. Senza mai smentirsi, il biondo finiva per raccontare di qualche posto dove loro due sarebbero voluti andare o di qualche cosa che avrebbero voluto fare, ma poi si bloccava e tentava disperatamente, per i successivi minuti, di non scoppiare a piangere di fronte Levi. A meno che lui non fosse presente, perché in quel caso l’infermiere aveva dato per scontato che Armin semplicemente si lasciasse andare.

Era strano, ma alla fine erano le cose che non succedevano quelle che facevano star male i pazienti del reparto sei. Chi avrebbe mai detto che un sacco di nulla sarebbe stato più triste della somma di ogni cosa che avevano mai fatto?

Oggi c’era praticamente un convengo nel reparto. Marco si era presentato, e, come lui, anche Christa, vari membri delle famiglie di Connie e Sasha, e Armin che si trascinava dietro una riluttante Mikasa. Levi si sentì un po’ male per lei. A Mikasa non piaceva venire, perché aveva la stessa dolorosa visione della vita che Levi riconosceva in sé stesso. Per lei Eren era morto, e questo era tutto.

Levi cercò di finire i suoi doveri mattutini in fretta, in modo da poter lasciare Armin e Mikasa da soli in stanza. Lei lo guardava sempre male quando era dentro, come se tutti i suoi problemi, e la stessa situazione di Eren, fossero colpa sua. Armin, invece, gli lanciava uno sguardo di scuse, o anche due, perché, a quanto pare, era semplicemente lei che era fatta così. Levi se ne stava per andare quando Eren lo fermò vicino la porta. “Non devi andartene, sai.”

Levi alzò un sopracciglio con fare interrogatorio.

“Non potresti almeno provare a parlare con loro?” lo pregò Eren.

Levi fece spallucce e cercò di fargli comprendere con urgenza la sua totale inabilità di socializzare con degli esseri umani. Che cosa avrebbe mai potuto dirgli?

“Chiedigli come vanno le cose senza di me o, non lo so,” lo pregò ancora Eren. “Qualsiasi cosa. Loro non hanno idea del fatto che posso sentirli.”

Non dopo non avergli lanciato uno sguardo da mi-devi-un-sacco-di-cose-per-questo, Levi si rigirò verso i due ragazzi posizionati vicino al corpo di Eren, e si schiarì la gola goffamente. “Allora, ehm, come vanno le cose?”

“Che cazzo dici?” disse Eren, spalancando la bocca. “Hai mai parlato con un altro essere umano? Oh Cristo, vai via, sei un disagiato.”

Levi diede una discretissima gomitata ad Eren. Ora era una sfida.

Armin e Mikasa lo stavano guardando come se non fossero sicuri del fatto che era un essere umano, e comunque, probabilmente avevano più prove del contrario. Levi testò il terreno, cercando di sembrare compassionevole, ma probabilmente risultando semplicemente arrabbiato. Come sempre.

Armin puntò un dito interrogativo verso sé stesso, chiedendosi se Levi stesse parlando con lui, e l’infermiere annuì. “Ah,” il ragazzo cercò di trovare la voce. “Alla grande,” riuscì a dire sospettosamente. “C’è stata qualche sorta di cambiamento nella condizione di Eren?”

“No.” rispose Levi, rendendosi conto di dover aggiungere qualcosa. E’ quello che le persone facevano, no? “Come ve la passate senza Eren?”

Mikasa lo stava guardando male, ma non era poi una cosa così inconsueta. Fu di nuovo Armin a prendersi la libertà di rispondere per entrambi. “Meglio di quanto ci si sarebbe aspettati.” spiegò educatamente.

Levi si stava velocemente scocciando delle chiacchiere di convenienza. “Sentite,” disse, andando al punto. “Forse, se per qualche strano miracolo Eren fosse ancora qui, vorrebbe sapere come state. Del tipo: ‘Ehi, stiamo alla grande, Eren.’”

Mikasa lo stava ancora guardando male, ma i suoi occhi sembravano essersi raddolciti un pochino. “Infatti,” disse piano. “Sta andando tutto bene.”

Non desiderando tirarsi indietro, Levi si avvicinò risolutivamente al corpo di Eren. “Principianti,” borbottò, spingendo la sedia di Armin al lato, con Armin ancora sedutovi sopra. “Ehi, Eren!” urlò al corpo senza vita, allungandosi verso il suo volto inespressivo. “Vuoi saperla una cosa, moccioso?” disse, ancora urlando per qualche motivo sconosciuto, “Lo so che sei quasi morto e probabilmente scocciato talmente tanto da sentirti ancora più morto, ma indovina cosa mi è successo? L’altro giorno mi sono comprato un caffè ed era il dannatissimo caffè più buono che ho bevuto dall’inizio dell’anno! Era fottutamente fantastico! Sai, pensavo di fartelo sapere e renderti parte della mia vita invece si trattarti come un pezzo di carne!” Detto ciò, Levi incrociò le braccia e fece un passo indietro, occhieggiando Mikasa con tono di sfida.

Lei sembrava un po’ frastornata e non del tutto soddisfatta da quello che aveva appena fatto Levi. Ma lo spinse con forza e afferrò il bavero del pigiama di ospedale di Eren con un’intensità allarmante, strattonando il suo corpo fiacco in modo che fossero faccia a faccia. “Dal momento che so già che non ti interessa affatto della tazza di caffè di questo stronzo, permettimi di illuminarti su alcuni recenti eventi,” ringhiò. La sua voce non era alta quanto lo era stata quella di Levi, ma lui aveva chiaramente acceso un fuoco in Mikasa di cui non si aspettava di poter essere testimone. “Sono tornata all’università, e Armin si laureerà alla magistrale molto presto. Io, invece, dovrei prendere la triennale in circa tre semestri. Non grazie a te ovviamente. Perché cazzo non ti sei messo il tuo caschetto? Anche se non avessi avuto sfortuna, Eren, comunque non ti sarebbe andata bene!”

Il vero Eren era in piedi, immobile, dall’altra parte della stanza, con gli occhi spalancati dalla paura.

“Che cazzo ti ho detto riguardo a metterti quel dannatissimo caschetto?” Lo sfogo di Mikasa si stava trasformando in una terrificante combinazione di sarcasmo e ovvia frustrazione. Levi era affascinato, ma, perlopiù spaventato a morte. “Manchi tantissimo a me e Armin, figlio di puttana.” lei stava ancora gridando, notò Levi, ma cercando disperatamente di dominare il desiderio di nascondersi. “Ma va tutto bene! E continuerà ad andare tutto bene anche quando morirai. Non ci hai distrutto, Eren,” disse Mikasa, fieramente. “Ci hai fatto del male, ma lo supereremo,” terminò, lasciando la stretta sui vestiti del ragazzo, il cui corpo crollò senza tante cerimonie sul letto. Poi ci pensò un attimo, e ritornò a mormorare nella voce silenziosa con cui parlava di solito: “Ci manchi comunque tantissimo, stronzo.”

Armin stava piangendo di nuovo. Il che non era di certo una grande novità, tranne che per il fatto che era un pianto più felice del suo solito desolato piagnisteo, accompagnato da un leggero tremolio di spalle.

Dall’altro lato della stanza, Eren sembrava ancora voler scappare il più lontano possibile, ma, dominando il suo terrore, si avvicinò lentamente a Mikasa e posò una mano sulla sua spalla con affetto. “Sì, mi dispiace.” disse, sorridendo con tristezza.

Mikasa fece un lungo sospiro, come se avesse trattenuto ogni sua emozione nei polmoni per quell’intero mese e mezzo. “E lo so che ti dispiace,” mormorò, “E devo ammettere, che, contro ogni buonsenso, ti perdono.” Poi sorrise leggermente, il primo vero sorriso che Levi vide fare a quella donna accigliata.

“Non me lo merito affatto.” rispose Eren, posando la sua fronte contro la spalla di Mikasa.

“Ma non te lo meriti affatto.” disse Mikasa affettuosamente, a nessuno in particolare.

Levi fece un sorriso soddisfatto ad Eren, prima di scusarsi e uscire dalla stanza.





L’orario di visita terminò nel giro di un’ora, e Levi guardò lo strano gruppo di estranei andarsene insieme. Armin sembrava dieci anni più giovane, e stava sorridendo veramente dalla prima volta in cui Levi lo aveva incontrato, e persino Mikasa gli concesse un sorrisino prima che i due se ne andassero. L’uomo non poté far a meno di sentirsi compiaciuto della sua piccola vittoria.

Eren era poggiato contro il bancone, unitosi a lui nella supervisione dei visitatori che uscivano. “Prima che tu dica qualcosa, quella è stata solo fortuna.” disse.

Levi cercò di non sembrare troppo presuntuoso, ma falli miseramente, mentre rispondeva: “E’ solo che sono un tipo persuasivo.”

“No, tu fai letteralmente schifo a interagire con altri esseri umani.”

“Parla per te,” ridacchiò Levi. “Mi devi parecchio.”

Il resto dei pazienti si radunò lentamente nella hall, e vi era un’aura allegra che aleggiava su ognuno di loro. Le giornate delle visite erano un ‘vinci o perdi’ per loro, qualche volta li rendevano depressi, mentre altre li rincuoravano, e, per qualche strana ragione, quel giorno, tutti sembravano particolarmente soddisfatti.

Un silenzio socievole era caduto su di loro mentre indugiavano insieme nella sala, fino a quando Ymir non interruppe le loro fantasticherie. “Credo che mio padre staccherà presto la spina.” disse, in modo sorprendentemente disinvolto.

All’annuncio della ragazza, l’atmosfera piacevole di prima fece spazio alla tensione, e nessuno sembrava voler parlare per primo. Tutti erano lì a trattenere il fiato, aspettando che Ymir si rompesse in mille pezzi davanti a tutti, ma lei fece solo uno sguardo incredulo. “Ah, smettetela,” rise, mentre tutti la fissavano. “Seriamente, cosa vi è preso? Avrò finalmente l’occasione di darci un taglio con questa situazione, e tutto quello che vi viene da fare è stare impalati con le mascelle spalancate?”

Reiner fu il primo a recuperare la voce: “E tu sei – ” iniziò, ma poi chiuse la bocca, ripensandoci. “Va tutto bene, allora?”

“Bene?” Ymir scosse la testa affettuosamente, guardandoli. “Sono stata qui per un po’, e sono pronta per i grandi prati fioriti, o qualsiasi altra diavolo di cosa mi sta aspettando. Sinceramente, mi basterebbe anche se ci fosse solo un bel po’ di rhum.”

La tensione sfumò e tutti sembrarono ritrovare la calma, sia fisica che mentale. Levi annuì ad Ymir, mentre osservava: “Proprio il mio genere di drink.”

Ymir alzò un bicchiere immaginario verso l’uomo. “Ritiro ogni cosa possa aver detto sui tuoi cattivi gusti.” rispose diplomaticamente.

“Io preferirei un whiskey liscio.” disse Reiner.

Bertholdt gli sorrise. “Anche io.”

“Bourbon invecchiato.” aggiunse Annie. Tutti la guardarono allibiti per un secondo, prima di sciogliersi in una calda risata. Persino lei cercò di nascondere un sorrisino.

“Siete un branco di vecchi,” li sbeffeggiò Connie. “Screwdriver e martini.” suggerì, e Sasha annuì energicamente.

“Birra,” dissentì Eren. “O un bel tequila sunrise.” rettificò. Levi lo guardò incredulo, ma Eren alzò un mano, allertandolo. “Non parlare male dei cocktail fruttati con l’ombrellino, Levi, non ci provare nemmeno, perché sono fottutamente fantastici e non lascerò che tu dica qualcosa di male su di loro.”

“Ucciderei per un drink o due prima di andarmene,” disse Ymir con rimpianto. “O anche dieci.”

“Ma potete mangiare o bere?” chiese Levi con scetticismo.

“Sono quasi sicuro che non possiamo,” rispose Bertholdt. “O comunque non ci viene mai fame.”

“Credimi se ti dico che non possiamo,” li interruppe Sasha. “Credimi sulla parola.”

Connie guardò Levi maliziosamente. “Tu puoi però.”

Tutti fissarono lo sguardo su Levi, il quale, ebbe un cattivo presentimento riguardo al modo in cui tutti lo stavano guardando pensierosamente. “Non mi piace dove sta andando questa conversazione.”

Ymir si rimise in piedi, staccandosi dal muro al quale era poggiata, gesticolando per attirare l’attenzione di tutti i presenti. “Io credo, e sono quasi sicura di stare parlando a nome di tutti, che noi dovremmo raccogliere qui tutti i nostri drink preferiti.” Levi sapeva esattamente dove questa situazione stava andando a parare. Stava per protestare, ma Ymir fermò ogni sua lamentela. “E credo che Levi dovrebbe berli al nostro posto. Così saremo noi a berli indirettamente, tramite il nostro fedele infermiere.”

Ci fu una serie di esulti di approvazione, e Levi seppe di aver perso in partenza perché sarebbe stato largamente superato in numero. Se iniziava a correre subito, però, forse sarebbe riuscito a lasciare la città prima che i ragazzi potessero raggiungerlo. Eren, però, sembrò avvertire i suoi pensieri e lo afferrò per un braccio, strattonandolo al suo fianco. “Forza Levi, credo che abbiamo un negozio di liquori da saccheggiare.”

Una legittima fuga sarebbe stata meno gravosa per la sua salute e il suo portafoglio, rispetto a questi ragazzi morti.





Levi ed Eren fecero una passeggiata verso ‘la città dei liquori’, che era ad una discutibile distanza dall’ospedale e dal centro di riabilitazione dove gli alcolisti anonimi si incontravano. Eren aveva una sorprendentemente ottima memoria, e diresse tutti gli acquisti di Levi, che finirono con un conto decisamente troppo salato, che l’infermiere rimpianse silenziosamente. Il commesso gli lanciò uno sguardo stranito, come se stesse considerando di chiamare la polizia per avvisare di un tentato suicidio, e Levi sotto sotto sperò che l’uomo facesse veramente la telefonata. In realtà era più un tentato omicidio, soprattutto se i mocciosi intendevano veramente propinargli tanto alcool quanto lui sospettava, ma, alla fine, il tizio decise di non chiamare la polizia, e Levi si trovò a tornare al reparto sei, con abbastanza alcool da poter far ubriacare tutti gli esseri umani nel raggio di ottanta chilometri.

Fortunatamente, l’ospedale era praticamente deserto quando lui ed Eren tornarono, il che volle dire che Levi non dovette fornire spiegazioni a nessuno mentre tornava in reparto, anche se, fondamentalmente, non era molto convinto di avere una spiegazione plausibile da dare.

Reiner aveva messo su della musica jazz ad alto volume e dal tono allegro sullo stereo di Eren, che, così come il cd, era un regalo di Levi. Lo stesso Levi, che stava desiderando ardentemente di poter passare i suoi sabati sera con delle persone vive, come tutti i comuni mortali facevano, ma che, invece di pensarci troppo intensamente, mollò il contenuto delle buste a terrà, procurandosi alcuni bicchieri di carta dalla saletta delle infermiere, prima di lasciarsi cadere su una sedia e attendere la sua inevitabile intossicazione da alcool.

Da quel momento in poi, non era più sicuro di come si fosse evoluta la serata. Era certo che il primo drink che gli era stato dato era uno screwdriver, sotto richiesta esplicita di Connie. Ed era un irresponsabilmente forte screwdriver, a dirla tutta. Era anche certo che gli erano stati serviti abbastanza drink da poter riconsiderare l’idea di guidare per la successiva settimana, perlomeno. E, infine, era certo di aver letteralmente assaggiato e annusato la rumorosa musica jazz, ad un certo punto, per quanto la potesse suonare come folle. L’unica cosa buona era che si trovava in un ospedale.

E pensare che lui era anche il tipo che teneva bene l’alcool. Eppure, tutt’ad un tratto, realizzò che c’era bisogno di un termine oltre ‘ubriaco’ che potesse descrivere il suo livello di intossicazione. Poteva praticamente vedere attraverso il tempo dopo il secondo bicchiere di whiskey.

La mera presenza di alcool e l’allegria della musica ad alto volume, insieme al fatto di stare preparando i drink, sembrava essere bastato per far ubriacare anche i pazienti del reparto sei. Quando Levi riuscì finalmente a mettere insieme dei pensieri quasi coerenti, riuscì a notare che erano tutti esaltati oltre il loro normale livello emozionale.

Ad un certo punto, Eren finalmente fermò Levi, o, piuttosto, fermò tutti dall’intossicare ulteriormente Levi, avvertendoli che avrebbero finito per ucciderlo. E Levi era d’accordo. Ma, per sua grande sfortuna – come al solito – , a quanto pare Erwin lo stava cercando, ed era anche riuscito a trovarlo. Sentendo il rumore delle scarpe dell’uomo sulle piastrelle del pavimento, tutti si affrettarono a far sparire l’alcool, i bicchieri, e tutti i segni della festa, nell’armadietto basso di fianco al letto d’ospedale di Eren. Levi non cercò nemmeno di alzarsi.

Quando Erwin entrò nella stanza, Levi si mise composto, facendo del suo meglio per focalizzare lo sguardo sulla sua faccia. Erwin lo occhieggiò sospettosamente. “E’ terribilmente tardi, Levi.”

Levi non si fidava del fatto che le sue corde vocali avrebbero collaborato, dunque optò per annuire in quella che sperava fosse una maniera sobria.

“Mi chiedevo se sapevi che a uno dei tuoi pazienti verrà staccata la spina tra alcuni giorni. Ymir, credo che si chiami?” Erwin lo stava ancora guardando in modo strano, e Levi desiderò di avere abbastanza consapevolezza di sé da capirne il motivo.

Nonostante ciò, annuì di nuovo, cercando di sembrare assorto e interessato. Probabilmente sembrava solo nauseato e ignaro delle circostanze in cui si trovava.

“Va bene Levi,” disse Erwin con un certo disagio. “Ti auguro buona serata.” Scusandosi, l’uomo lasciò la stanza, accompagnato dal rumore dei suoi passi che si allontanava dal reparto sei.

Levi sbatté gli occhi rapidamente. “Vomiterò addosso a tutti se non mi portate un cestino in questo istante.” disse con calma.

Tutti si affrettarono a cercarne uno, prima che Eren, trovandolo, lo mise tra le braccia di Levi. Ovviamente, Hanji scelse quell’esatto momento per spalancare la porta, non essendo una persona da niente di meno che un’entrata in scena grandiosa. “Levi!” lo salutò calorosamente. “Erwin dice che sei completamente ubriaco. Totalmente andato, abbastanza da stare male una settimana.”

Levi agitò la testa in un ubriaco diniego. “No-non vero.”

“Oh merda,” rise Hanji. “E io che non ci avevo creduto.”

Una vocina nella sua testa lo stava esortando a dire la verità ad Hanji e pregarla di riportalo a casa. Invece, cercò di obbiettare di nuovo, finendo solo per crollare sul cestino incriminatorio che giaceva sul suo grembo.

Hanji si guardò intorno nell’apparentemente vuoto reparto. “Tu sì che sai come fare baldoria, Levi.” disse seriamente. “Ma la prossima volta che decidi di ubriacarti con un gruppo di fantasmi, me lo devi dire. Ci sono rimasta male.”

“Portami nel mio fottutissimo appartamento.” grugnì lui.





Quello che successe da quel momento in poi fu abbastanza confuso per Levi. A quanto pareva Hanji l’aveva riportato a casa, come lui le aveva chiesto, e, a quanto pareva, c’era anche Eren con loro. Evidentemente anche i ragazzi morti avevano una coscienza. Il reparto sei aveva applaudito alla sua uscita, esultando il suo coraggio nella battaglia contro una quantità spropositata di liquore. Perlomeno si erano divertiti.

Hanji lo aveva messo a letto, lasciando un secchio al suo fianco e una boccetta con degli antidolorifici sul comodino. “Me la vedo io con il tuo turno di domani,” disse di spalle, lasciando l’appartamento.

“Voglio morire,” si lamentò Levi contro il suo cuscino. “Ti prego uccidimi.”

Eren era anche lui lì, per qualche ragione, e fece una risatina. “Hai idea di quanto sia difficile trascinarti da un posto all’altro quando sei ubriaco?”

“Risparmiami la lezione.” Levi spostò il cuscino in modo da coprirsi la faccia. “Perché cazzo sei ancora qui?” chiese, sentendo il punto in cui il peso di Eren pressava sul materasso, sul quale si era seduto senza permesso, ma la sua voce uscì come un farfuglio incomprensibile.

“Vai a dormire, dannazione,” rispose Eren. “Mi assicurerò che non farai cadere il secchio e via così. Me la vedo io.”

Levi attese che il sonno lo trovasse, ma invece, per qualche strana ragione, si trovò ad aprire la bocca. “Sei fantastico.” Che cosa cazzo stava dicendo. “Non voglio che tu muoia. Non lo fare.” Perché cazzo non si stava zitto? “Sei un tale stronzo.” Oh Cristo, questo era il motivo per cui non beveva: la fottuta diarrea verbale. “Non morire, dannazione. Sarebbe così stupido.”

Poteva immaginare il sorrisino di Eren anche da sotto il suo cuscino. “Levi vai a dormire, cazzo.” rise Eren.

“Perché sei così morto?” Levi chiede, desiderando che Eren lo soffocasse nel sonno.

“Probabilmente per la stessa ragione per cui hai deciso di bere il tuo stesso peso in superalcolici stasera. Il mondo è strano, Levi,” disse Eren piano, fallendo nel suo tentativo di non ridere. La luce si spense e una coperta fu fatta cadere su di lui. “Seriamente, ti ucciderò se non ti metti a dormire.”

“Per favore fallo.” rispose Levi, prima di lasciarsi cullare dalla soffocante oscurità di un sonno ebbro.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Sobrio ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Eccomi qui come promesso, anche se leggermente in ritardo a causa della stanchezza. Niente da aggiungere a parte che questo capitolo è breve, mentre il successivo sarà di nuovo bello lunghetto ma spero di riuscire a tradurlo in una settimana giusta, farò del mio meglio. Ringrazio tantissimo tutte le persone che hanno commentato questa fic, che l'hanno inserita tra i preferiti/seguiti/da ricordare, e anche solo chi la legge. Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: in questo capitolo ci sono i primi accenni al 'passato' di Levi. Volevo solo dirvi che questa storia è stata scritta tra l'ottobre e il novembre del 2013, quando, ovviamente, non si sapeva ancora nulla del passato di Levi, per questo non ci saranno citazioni a 'a choice with no regrets' o altro. Scusatemi in anticipo per gli errori di battitura... sto dormendo XD

AVVISO 02/03/14 per motivi universitari mi devo prendere una breve pausa dalla traduzione. Il capitolo 10 verrà postato il 16/03 o prima se riesco. Scusatemi!



The 6th ward
CAPITOLO 9: Sobrio

4 mesi, 18 giorni

Levi si svegliò ad un’abominevole ora del mattino, realizzando che, se non avesse bevuto dell’acqua al più presto, il suo fegato avrebbe probabilmente deciso di fare i bagagli e andare in sciopero. Steso su un fianco, si rese conto, lentamente e dolorosamente, del freddo pungente sulla sua schiena, provocato da qualcosa che si trovava giusto dietro di lui.

Con un brivido, allungò il collo per trovare la schiena di Eren piegata contro la sua. C’era qualche si strano, perchè a quanto ne sapeva i fantasmi non dormivano. “Stai dormendo?” riuscì a biascicare stentatamente, perché, sì, era ancora ubriaco, e sarebbe stato fortunato se fosse riuscito a tornare sobrio per la settimana successiva. “Sei un fantasma, che diamine?”

Eren sobbalzò, allontanandosi da Levi con imbarazzo. “Scusa, è che sei – ” iniziò, ma chiuse la bocca. “Colpa mia.”

“Ti sei messo comodo?” chiese Levi seccamente.

“E’ che sei davvero caldo.” mormorò Eren.

“Ohi! E’ il mio calore, veditela da solo con il freddo. Sei gelido.” Levi si trascinò fuori dal letto per recuperare dell’acqua, mormorando, mentre usciva dalla sua camera da letto: “Non c’è nulla di buono nei fantasmi che rubano il calore alle persone.”

Eren lo seguì in cucina e Levi cercò di fare del suo meglio per non inciampare, ma tutto quello che riuscì ad ottenere fu una goffa camminata alla giuro-che-sono-sobrio. Versandosi un bicchiere d’acqua, Levi finì per curvarsi contro il piano di lavoro della sua cucina, cercando di far riconnettere il cervello alla realtà, e tornare ad essere in grado a compiere le funzioni base di un essere umano. Eren, ovviamente, lo stava fissando.

“Che c’è?” lo guardò male Levi.

“Non russi.” osservò Eren.

“Ovvio che non russo.” disse Levi con irritazione, prima di prendere un sorso della sua acqua.

“Però è un po’ come se ringhiassi.” aggiunse Eren, e a Levi andò storta l’acqua.

“Assolutamente no.” farfugliò.

Eren rise. “E invece sì. E’ come guardare un piccolo orso in ibernazione.”, poi fece una pausa. “Molto piccolo.”

Lesi si irrigidì con irritazione alla battuta. “Be’, tiro pugni come un orso molto grande, stronzetto. E a questo punto, sono abbastanza ubriaco da farlo e basta.” lo minacciò.

Eren alzò le mani in segno di resa, ritirando le sue dichiarazioni. “Scusa, scusa.” Levi, dunque, tornò a sorseggiare la sua acqua, lasciando che Eren se la cavasse con solo una minaccia, almeno per il momento. “Allora, su una scala da uno a dieci, quanto starai sentendo i postumi della sbornia domani?”

“Su una scala da uno a dieci? Zero.” Eren alzò un sopracciglio con aria dubbiosa alla sua risposta. “Non avrò postumi da sbornia, sarò ancora ubriaco.” borbottò Levi.

“Credo che mi piaci di più da ubriaco.” disse Eren, senza scherzare del tutto.

“Io credo che mi piaci di più quando sono svenuto.” rispose Levi.

Eren ignorò la cosa, ed entrambi furono assorti dai propri pensieri, lasciando che un silenzio piacevole si facesse spazio tra loro. Poi, dopo che ebbe finito il suo bicchiere d’acqua, Levi decise di lavare i piatti che si erano insolitamente ammucchiati nel suo lavandino. Era difficile che sarebbe riuscito a riaddormentarsi sapendo che erano ancora lì. Eren rimase a gironzolargli intorno, ma Levi lo lasciò stare, perché ormai aveva iniziato ad abituarsi alla cosa.

“Sai,” iniziò Eren con nonchalance. “Non so quasi nulla di te.”

“Bene.” disse Levi impassibile.

“No, sul serio,” Che bastardo persistente. “Tu sai un sacco di cose su di me, e io non ti chiedo mai nulla su te stesso.”

Levi lanciò un’occhiata scocciata ad Eren. “Non c’è nulla da dire. Sono un infermiere, e vivo da solo tranne quando Hanji viene a rovinarmi la vita.”

“Come hai conosciuto Hanji?” tentò Eren.

Levi sospirò, perché questa non era una conversazione che voleva avere. “Lei mi ha rapito.”

Eren non sembrava in grado di capire se Levi stesse scherzando o meno e, a dire la verità, neanche Levi stesso era in grado di farlo, soprattutto quando si trattava di spiegarsi. Ma il ragazzo, ovviamente, non aveva alcuna intenzione di arrendersi, allora l’infermiere, controvoglia, mise insieme un breve riassunto della sua vita fino a quel momento: “Famiglia povera, bravi genitori. Sono morti quando avevo diciotto anni e il vivere in una cattiva zona porta alla delinquenza. Solite cose. Sono finito in una piccola gang, ma niente teppisti, semplicemente artisti di strada.”

“Artisti di strada?” interruppe Eren.

“Graffiti. Non sparavamo le persone o roba del genere, facevamo qualcosa per noi stessi. Ho incontrato Hanji in una tavola calda dove lei lavorava. Ci conoscevamo appena e un giorno, di punto in bianco, lei si è presentata, mi ha trascinato nella sua macchina e mi ha detto che saremmo andati alla scuola per infermieri. Mi ha letteralmente rapito.” terminò Levi.

“Che vuol dire che ti ha rapito per farti andare a studiare?” chiese Eren dubbioso.

“Hai mai provato a dire di no ad Hanji? Ha pagato la prima retta per entrambi e poi mi ha fatto avere un lavoro alla tavola calda, cosicché potessimo sostentarci in quel periodo. Ed eccomi qua, l’emblema del successo e della stabilità mentale, con un ragazzo morto.”

Eren sembrò accettare la cosa. “Hai ragione,” disse con vaga delusione. “Sei noioso.”

“Te l’avevo detto,” rispose Levi, terminando di lavare i piatti. “E ora me ne torno a dormire per il resto della mia esistenza. Scusami.” disse con finta galanteria, girandosi per tornare in camera da letto.

“Stai bene adesso?” lo richiamò Eren. “Non finirai per, non lo so, affogare nel tuo stesso vomito o roba simile? Vuoi che me ne vada?”

“Eren, puoi rimanere o puoi andartene. Per quanto mi concerne puoi anche scalare l’Everest.”

Levi non si preoccupò di controllare se Eren era rimasto o se se ne era andato a scalare la montagna, ma si lasciò cadere sul suo letto e si addormentò non appena il suo corpo si posò sul solido materasso.





Trascinandosi di nuovo fuori dal letto intorno a mezzogiorno, Levi ritornò in cucina per mettere qualcosa nel suo stomaco brontolante. Ci fu un momento di confusione quando notò Eren seduto sul divano del suo soggiorno, ma passò in fretta. Al diavolo, concluse. Certa gente aveva cani, e altre persone avevano teneri ragazzi morti. No, non teneri – si corresse –, solo morti.

“Ti offrirei la colazione,” disse Levi, attirando l’attenzione di Eren. “Ma sono abbastanza sicuro che, mentre noi siamo qui a parlare, ti stia venendo servito il miglior liquame che l’ospedale possa offrire tramite un tubo.”

Eren si mise in piedi contento. “Sei già sobrio?”

“Chiedimelo la settimana prossima,” borbottò Levi. “Che cosa hai fatto tutta la mattinata con esattezza?”

Eren gesticolò verso il porta cd di fianco lo stereo di Levi. “Ho alfabetizzato la tua collezione di cd. E’ stato noiosissimo.” Levi fissò Eren silenziosamente, fino a quando questi non iniziò ad agitarsi. “Che c’è?” chiese infine, sulla difensiva.

“I miei cd erano ordinati cronologicamente secondo anno di uscita.” rispose Levi passivamente.

Eren sembrava mortificato. I due si fissarono vicendevolmente per un paio di minuti, fino a quando Levi ruppe la tensione con una risata stanca. “Il tuo è stato un tentativo sfortunato, Eren Jaeger. Ritenta.”

Eren rise nervosamente, roteando gli occhi. “Sei una palla incredibile.”

Eren rimase nei dintorni mentre Levi si costringeva a mangiare un po’ di pane tostato. Alla fine, l’uomo si decise a cacciare via Eren, dicendogli di tornare in ospedale per assicurarsi che il reparto sei non si fosse auto-distrutto durante la loro mancanza. Con una certa riluttanza, Eren se ne andò, lasciando Levi da solo nella tranquillità della sua abitazione.

Sapendo che Hanji sarebbe riuscita a coprire i suoi turni senza troppi problemi, Levi decise di lasciar stare qualsiasi cosa e di tornare semplicemente a dormire. Dio sapeva quanto ne aveva bisogno.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - Ymir ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Innanzitutto mi volevo scusare per essere sparita per due settimane, ma purtroppo studio una materia a suo modo 'imprevedibile' e, per quanto i miei programmi siano accurati, certe volte non funzionano. Spero che non accadrà più. Purtroppo ho anche ricominciato i corsi e ancora devo recuperare i commenti, ma cercherò di rimettermi in pari con tutto prima di lunedì prossimo, quando ci vedremo con il capitolo 11. Grazie tantissime a tutte le persone che stanno leggendo, a quelli che hanno inserito la storia tra le preferite/seguite/da ricordare, e soprattutto a chi commenta, sia da parte mia che da parte dell'autrice. Ma bando alle ciance e buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: questo capitolo è stato estremamente difficile da tradurre, perchè lungo e delicato e io sono anche terribilmente stanca. Spero non ci siano troppissimi errori T_T... tra l'altro c'è stata anche la poesia che mi ha richiesto parecchio... in origine era tutta in rime baciate, ma, a parte il fatto che ci avrei messo 4 anni per farla nello stesso modo, penso che in italiano sarebbe risultata un po' troppo come una filastrocca. Comunque ho cercato di fare del mio meglio con le reminescenze di letteratura studiata al liceo xD Come sempre, qualsiasi consiglio per migliorare è ben accetto!


The 6th ward
CAPITOLO 10: Ymir

4 mesi, 17 giorni

Levi, sotto sotto, stava scherzando, quando aveva affermato che sarebbe stato ubriaco per più di una settimana, dopo essere stato intossicato dagli imbecilli del reparto sei, ma solo per finire con lo scoprire, che quell’affermazione non poteva poi dirsi un’esagerazione. Si era trovato costretto a prendersi qualche giorno libero in più, per fare in modo di non tornare a lavoro come se fosse stato rapito, seviziato e lasciato in un vicolo abbandonato, ancora sotto l’effetto dei sonniferi. Dare spiegazioni era l’ultima cosa che voleva fare, dunque aveva optato per attingere dalle sue giornate di ferie per poter restare a casa ancora un po'.

Era preoccupato dal fatto che potessero staccare la spina ad Ymir prima del suo ritorno, allora, durante il suo periodo di guarigione, Hanji aveva spiato ogni movimento del reparto sei, per assicurarsi che Levi non si sarebbe perso la dipartita della ragazza. Fortunatamente, non era stata programmata prima di qualche altro giorno. Hanji aveva tenuto d’occhio il reparto sorprendentemente bene, durante la sua assenza. Sembrava quasi che fosse eccitata all’idea di qualsiasi cosa che somigliasse allo spionaggio o altre attività di dubbia legalità.

Prima di andare a lavoro quella mattina, Levi si fece un giro dal ferramenta. Il negozio non era, nello specifico, lungo la sua solita strada, ma la fatiscente mostruosità che utilizzava come auto, era riuscita ad arrivarci comunque. Un ragazzo gentile lo aveva aiutato a trovare un kit per una targa fai-da-te. Sembrava abbastanza semplice: tutto quello che dovevano fare era miscelare il cemento con dell’acqua, metterlo nello stampo e incidere quello che volevano prima che l’impasto si asciugasse. Levi non voleva che Ymir se ne andasse prima che avessero avuto l’occasione di fare la placca per l’alberello di Giuda, che ora occupava uno spazietto nel bosco dei pazienti del giardino nord. Lo avevano piantato tutti assieme, dunque era ovvio che dovevano dedicargli qualcosa tutti insieme. Non era mica che si era affezionato ai ragazzi… il suo era semplicemente buon senso. Ecco tutto.

Al momento del suo arrivo al reparto, fu accolto da uno scroscio di applausi entusiasti. Connie gli diede dato una pacca sulla spalla, annunciando allegramente: “L’eroe trionfante è tornato!”

Levi lo aveva guardato scocciato. “Voi idioti mi avete quasi ammazzato.”

Ma Sasha respinse le sue lamentele, cambiando discorso: “Avresti dovuto vedere la faccia del Dottor Smith quando è entrato nella stanza. Senza prezzo.”

“Be’, considerando che non potevo effettivamente vedere il Dottor Smith attraverso l’annebbiamento dovuto ad una quantità di liquore valida per cinque feste, dovrò usare la mia immaginazione.” rispose sarcasticamente Levi.

“Stai bene però, no?” chiese Bertholdt impacciatamente. “Non abbiamo fatto troppi danni, vero?”

Levi fece un sospiro profondo. “Sopravvivrò.”

“Ho sentito che tu ed Eren avete fatto un pigiama party.” disse Ymir, in tono malizioso.

“Già.” rispose Levi brevemente. Non sarebbe stato al loro gioco di dispetti inutili. Sapeva già come sarebbe finita.

“Come è stato?” chiese Connie, muovendo le sopracciglia su e giù.

Levi non riuscì a resistere. “Stellare. Il sesso fantasma è ancora meglio di quanto si dica,” rispose con espressione seria, e senza battere ciglio, nemmeno mentre recuperava le cartelle dalla saletta delle infermiere, lasciandoli tutti a chiedersi se aveva detto sul serio o meno. Era così facile prendersi gioco di loro.

Alla fine, raccolse le cartelle e si immerse nella sua routine mattutina, che consisteva nello scrivere sempre gli stessi identici dati sulle loro schede, indicando che sì, erano tutti ancora in grado di respirare, ma comunque mezzi morti. Eren era nella sua stanza e alzò lo sguardo con aria d’attesa quando Levi aprì la porta.

“Ancora ubriaco?” sorrise.

“Assolutamente.” rispose Levi con leggerezza. Iniziò a scrivere numeri e note vaghe sulla cartella di Eren, assicurandosi che tutto fosse a posto. E lo era, come al solito. Il ragazzo lo stava guardando con vago interesse, e Levi si ricordò della placca che aveva comprato prima quella mattina. “Ah, ho dimenticato di dirlo agli altri mocciosi, ma ho recuperato i materiali per fare la targa per l’albero, oggi. Sai, prima che Ymir venga dimessa e tutto.”

Eren annuì pensierosamente. “Sì, è stata una buona idea. Non sarebbe stato bello se lei non ci fosse stata.” Poi gli si mise alle spalle, guardando Levi muovere la penna sui fogli. “Cosa stai scrivendo su di me?”

Levi lo guardò. “Che adori le lunghe passeggiate sulla spiaggia, i tequila sunrise, e trovarti sotto i temporali improvvisi.” Eren sbuffò con frustrazione. “Ohi, datti una calmata. Sto solo mettendo per iscritto che sei, di fatto, ancora quasi del tutto morto e che, incredibilmente, non ci sono stati cambiamenti di sorta. Vai semplicemente avanti così.” aggiunse.

Eren pungolò la guancia del suo corpo mortale con fare disinteressato. “Stupido inutile corpo morto.” mormorò.

“Dovresti riunire tutti nella camera di Connie e decidere cosa volete scrivere sulla placca,” disse Levi, girandosi per uscire dalla stanza di Eren. “Dopo che avrò finito con le cartelle potremmo decidere cosa fare. La stanza di Connie è quella con la ventilazione migliore.”

Eren annuì, seguendo Levi verso la porta. Si stavano allontanando in direzioni opposte, quando Levi lo richiamò: “Ah, comunque potrei aver inintenzionalmente lasciato credere a tutti che abbiamo fatto del sesso selvaggio mentre ero ubriaco.” Eren si girò di scatto su sé stesso, le sue guance di un rosso fuoco. Era così facile da prendere in giro. “Rilassati, moccioso. Sappiamo tutti che ero troppo ubriaco per distinguere il mio cazzo dal mio naso. Divertiti!” rise Levi, lasciandolo lì impalato, praticamente fumante d’imbarazzo.

Una parte di lui sperava che gli altri gli avrebbero dato molto filo da torcere sull’argomento. Certe persone sono genuinamente divertenti da prendere in giro. Ma, sfortunatamente, Levi aveva anche l’impressione che questa cosa in particolare gli si sarebbe torta contro in futuro. Comunque, ne era valsa la pena.





“Be’ io credo che dovremmo tutti firmare la placca.” disse Connie testardamente.

“Connie,” cercò di farlo ragione Sasha. “Levi verrebbe portato dritto dritto in psichiatria. Non possiamo fare qualcosa che possa metterlo nei guai. Tutti crederanno che è stato lui a fare la placca.”

“O che sono stati dei fantasmi,” ribadì Connie. “Ed è molto suggestivo.”

“Magari potremmo semplicemente firmare il lato della targa che sarà poggiato sul terreno.” suggerì Bertholdt.

Reiner annuì pensieroso. “Sì, in questo modo l’avremo firmata, ma non se ne accorgerà mai nessuno. Poi potremmo mettere qualcos’altro sulla parte che sarà in vista.”

“Va bene, va bene,” concesse Connie. “Ma comunque non abbiamo idea di cosa mettere sul lato davanti.”

“Potrebbe semplicemente stare scritto ‘Reparto sei’.” propose Jean.

“Ah, ma quello è ovvio,” disse Connie. “Ma deve essere anche qualcos’altro. Qualcosa di speciale. Capite cosa voglio dire, vero?”

Tutti annuirono con comprensione. Se doveva essere l’ultima testimonianza della loro esistenza sulla terra, oltre il confine dei loro letti di ospedale, vi doveva essere una qualche sorta di ultimo messaggio. Ma nessuno sembrava essere in grado di immaginare cosa avrebbe potuto dire. Furono proposte un paio di idee, ma, per la maggiore, furono bocciate dopo una serie di discussioni e dissapori. Levi non si sentiva particolarmente paziente, dunque andò a prendere una brocca d’acqua nella stanza delle infermiere e iniziò a mescolarla con il cemento nello stampo.

“Che stai facendo?” chiese Eren, inginocchiatosi al suo fianco mentre mischiava l’acqua nella polvere di cemento, creando una pasta dura nella piccola forma quadrata.

Levi fece spallucce. “Non sono un tipo paziente. Ho immaginato che se mi fossi portato avanti e avessi iniziato a mischiare il cemento, voi sareste stati costretti a decidere qualcosa per la targa.” Levi batté le mani per far cadere la polvere in eccesso e annunciò ai litigiosi mocciosi: “Il tempo sta scorrendo.”

Un nervoso silenzio cadde tra i pazienti del reparto sei come se l’immediatezza della loro decisione avesse bloccato i loro pensieri. Levi alzò un sopracciglio, guardandoli uno per uno, con un’espressione impaziente che li fece agitare sul posto. Poi, dal momento che la miscela era del tipo che si asciugava in fretta, Levi decise di prendersi la responsabilità di fare qualcosa. Con il suo indice tracciò la scritta ‘PAZIENTI DEL REPARTO SEI’ in lettere maiuscole. Tutti si raggrupparono intorno a lui, osservando i suoi movimenti sicuri, come se fossero la verità rivelata di Dio in persona. Levi fece una pausa dopo quella prima frase, e sedette sulle sue ginocchia doloranti, pensando ad un messaggio appropriato per quel gruppetto di ragazzini quasi morti, che gli stavano con il fiato sul collo. Loro non dissero nulla, allora lui lo interpretò come un permesso per fare come preferiva.

“Va bene se scrivo qualcos’altro?” chiese loro con voce sottile. Ci fu un mormorio di consensi, ma la stanza ritornò silenziosa non appena posò nuovamente il dito sul cemento fresco, per continuare a scrivere con movimenti gentili. Levi divenne fastidiosamente conscio del fatto che tutti stavano trattenendo il respiro, come se, se qualcuno di loro si fosse mosso, lui e la placca si sarebbero distrutti in mille pezzi.

Infine, si alzò e permise al gruppo di guardare i frutti del suo lavoro. “C’è ancora tempo per cambiare, se volete.” aggiunse.

Tutti fissarono le parole con un tale silenzioso stupore, che Levi si sentì leggermente a disagio.


PAZIENTI DEL REPARTO SEI
2013

“Tra la vita e la morte,
non ci aspettiam di trovare,
minor volontà di una vita proseguire,
se non nella nostra stessa fantasia.

Quassù tra le stelle, sediamo,
ma sordida vista restiamo.
E, conduciamo le nostre esistenze,
in orrida transitorietà,
come se morti non fossimo.

Quassù tra le stelle sediamo,
ma queste, son troppo gentili per dirci:
non appartenete al cielo, e neanche alla terra,
e a nessun altro luogo.”


- Anonimo, 2007




“Chi l’ha scritta?” chiese Eren dolcemente.

“Non sai cosa vuol dire anonimo?” grugnì Levi, mentre si alzava per andare a lavarsi le mani. “Col diavolo che lo so. Belle parole, però.”

“E’ quasi perfetta,” rifletté Connie. “Ma credo di sapere cosa manca.” disse, per poi piegarsi a terra e incidere un’altra parola nell’angolino più in basso della targa, ma in grandi e definite lettere maiuscole.

CECOSLOVACCHIA

“Per essere sicuri di non dimenticarlo,” spiegò, con un sorrisone in volto. “Noi e nessun altro.”

La tensione lasciò la stanza non appena tutti si sciolsero in una risata accorata, mentre Reiner dava una serie di affettuose pacche sulla schiena di Connie. Tutti si congratularono con gli altri per il lavoro fatto, e iniziarono a discutere piani sull’andare a spiare cosa c’era scritto sulle placche degli altri reparti, per assicurarsi che la loro fosse la migliore. Connie, addirittura, si offrì di sabotare le placche degli altri con una serie di scritte oscene. Levi interruppe il loro chiacchiericcio per istruirli di venire a chiamarlo nella saletta delle infermiere dopo un’ora, in modo da poter girare la placca e incidere i loro nomi sul retro.

Prevedibilmente, Eren seguì Levi, dopo essersi congedato dagli altri. Ormai sembrava essere diventato la sua seconda ombra. Sbrigandosi per raggiungere Levi, i due si trovarono a camminare con lo stesso tempo dopo solo un paio di passi. “Quella è davvero una bella poesia,” disse Eren seriosamente. “Mi piacerebbe sapere chi l’ha scritta.”

“Che importa?” chiese Levi con disinteresse. “Le parole sono parole, e non importa di chi sono. Una volta che sono state scritte, appartengono a tutti.”

Eren camminò silenziosamente al suo fianco un paio di minuti, prima di chiedere piano: “L’hai scritta tu?”

Levi fece spallucce. “Non importa. Sono le vostre parole ora. Tue e del resto dei mocciosi.”

“Però le hai scritte tu, vero?” insisté Eren.

“E se dicessi di no?”

Eren sorrise. “Non ti crederei per un secondo.”

Levi gli fece un sorrisetto a sua volta. “Allora non importa cosa dico.”





Un’ora dopo, Sasha andò a chiamare Levi, in modo che potesse rigirare la targa e tirarla fuori dallo stampo. Teoricamente, avrebbe potuto farlo uno dei mocciosi, ma erano tutti troppo spaventati dall’idea di romperla. Però, Levi la rigirò con facilità, posando la parte asciutta sul pavimento mentre, quella che ancora doveva asciugare, era ora rivolta verso di loro.

“Grazie papà.” rise Connie.

“Prova solo a chiamarmi così un’altra volta,” disse Levi minacciosamente. “Provaci.”

Tutti iniziarono a litigare per firmare per primi, ma Annie li zittì tutti con uno sguardo severo, guadagnandosi il combattuto primo posto. La sua firma era piccola, chiara e senza pretese, lì sola sulla grande placca vuota. Lei annuì soddisfatta, e si mosse in modo da lasciare spazio al prossimo. Reiner incise una firma a lettere capitali, seguito dalla firma scribacchiata e slanciata di Bertholdt. Jean aveva una bella firma, ma quelle di Connie e Sasha erano grandi e plateali. La firma di Ymir era lunga e unica mentre quella di Eren era uno scarabocchio seghettato che, a modo suo, completava la placca. Tutti annuirono contenti, di fronte collezione di firme messe insieme a caso, come se fossero degne della Monna Lisa stessa.

Annie interruppe la loro affettuosa venerazione, dicendo lentamente: “Anche Levi dovrebbe firmare.”

Sasha annuì energeticamente. “Sì, forza Levi, firmala anche tu.”

Levi agitò la testa in segno di diniego. “Io non sono un moccioso deceduto. Sarà per la prossima volta.”

Eren gli lanciò uno sguardo scettico. “Credo che sai meglio di me che non ti lasceremo uscire da questa stanza fino a quando non avrai firmato.”

Diamine, Eren aveva probabilmente ragione. Levi era troppo stanco per mettersi a discutere, dunque si abbassò, e scrisse il suo nome con grafia chiara in un angolino della placca. “Contenti?”





Quella sera, l’intero reparto sei seguì Levi nel giardino nord, in una stramba processione formale per posizionare la – ora completamente asciutta – targa davanti al piccolo albero di Giuda. Gli spiriti erano alti e Levi non riuscì a fare a meno di sentirsi almeno un po’ contento per il gruppetto di ragazzi morti. Ma solo un pochino.

Tutti guardarono mentre incastrava la pesante placca di cemento davanti all’albero, seppellendo le loro firme nel terreno. Connie fece un ultimo appunto sul fatto che avrebbe voluto che le loro firme fossero state visibili, se non per loro stessi, perlomeno per spaventare chiunque avrebbe visto la placca. Ma, a parte quello, nient’altro fu detto. Tutti rilessero la targa un altro paio di volte nella loro mente, godendosi l’aria pungente delle serate d’autunno, e la leggera brezza che li aveva graziati della sua compagnia.

Come la notte in cui avevano piantato l’albero, tutti se ne andarono in momenti diversi. Sasha e Levi furono lasciati da soli, impalati davanti all’albero fino a quando Levi non decise che era ora di andarsene a casa e farsi una dormita. Mentre si voltava, Sasha gli afferrò un braccio, e, quando si rigirò verso di lei, la ragazza lo lasciò con imbarazzo. “Ehm, grazie,” balbettò. “Non sei per niente uno stronzo.” Levi la guardò sconcertato. “Ah… ehm, merda. Non era quello che volevo dire. Solo – ”

Levi alzò una mano per fermare i suoi discorsi sconclusionati. “Non ti preoccupare. Vai a dormire un po’ o a fare qualsiasi cosa facciate voi ragazzi morti durante la notte.”

Mentre se ne andava, sentì Sasha richiamarlo: “Non sei Bruce Willis!”

Levi rise tra sé e sé. “Non serve che me lo dici.” rispose senza girarsi.





4 mesi, 14 giorni

Sembrava strano, ma i pazienti del reparto sei erano rimasti di sorprendente buonumore durante gli ultimi giorni prima della morte di Ymir. Be’, non che fosse proprio come morire, perché – se era per quello – lei l’aveva già quasi fatto del tutto. Era più come una partenza. Levi sospettava che la cosa avesse a che fare con l’atteggiamento di Ymir, perché lei ne parlava come se se ne stesse andando a fare un viaggio, più che come la fine della sua vita. Ma, non avere a che fare con un gruppetto di ragazzini morti in lacrime, non gli andava poi così male, e, anzi, era grato che lei l’avesse presa così elegantemente.

Quella giornata era inusualmente calda per l’autunno, con una fresca brezza che soffiava attraverso le finestre per tutto il reparto, e caldi raggi di sole che illuminavano tutte le stanze. Il padre di Ymir si presentò durante il pomeriggio e Christa arrivò giusto poco dopo di lui. L’intero reparto sei era chiuso nella stanza della ragazza per aspettare il suo commiato. E, anche pochi momenti prima della sua inevitabile morte – o qualsiasi altra cosa fosse – erano tutti sorprendentemente allegri. Circa una mezz’oretta prima che Erwin venisse ad aiutare il padre di Ymir a staccare la spina, un paio di ospiti inattesi si era presentato alla piccola celebrazione nella stanza. Tre poliziotti in uniforme, fortemente decorati, si erano permessi di entrare, stretti nelle loro vesti da cerimonia.

Notando la confusione dei suoi amici, la ragazza spiegò: “Ero un agente di polizia, sapete? Un frammento di pallottola in una sparatoria mi ha ridotto il cervello in pappa. Immagino che il distretto abbia voluto dare un mimino di supporto a mio padre. Sapevo che sarebbero venuti al mio funerale, ma diavolo se non sono sorpresa del fatto che si sono presentati anche qui. Un bel gruppo di persone,” disse con riconoscenza. “Mi fanno sembrare molto più figa di quanto sia mai stata.”

Jean la occhieggiò sospettosamente. “Sei sicura che non eri una spia internazionale o roba simile? Quelli sono ufficiali di alto rango.”

Ymir gli rispose con un sorriso. “Non ho assolutamente nulla da ridire se la vuoi pensare così. Anzi, credo che sia meglio. Molto meglio della mia storiella sull’essermi fatta friggere il cervello da un teppistello che spacciava erba e ha fatto partire per sbaglio una colpo.”

Eren sembrava perturbato dall’atmosfera che regnava nella stanza. “Com’è che siete tutti – ”, gesticolò vagamente, “Tutti – ”, si fermò di nuovo, aggrottando le sopracciglia mentre tentava disperatamente di trovare le parole per esprimersi. “Siete tutti così contenti.” disse infine, sembrando decisamente sbigottito.

Un baluginio di compassione passò nello sguardo di Ymir, mentre ripensava alle sue parole. “Eren, sono stata morta per un bel po’ ormai. La devi smettere di pensare a questa cosa come se stessi morendo.” Eren la stava ancora guardando poco convinto, e lei sospirò, mentre cercava di trovare un modo diverso per esprimersi. “E’ come … lo sai com’è? E’ come se fossimo in un aeroporto: ci siamo tutti presentati qui per prendere un aereo, ma lo abbiamo perso, ed ora siamo bloccati ad aspettarne un altro. Non possiamo andare a casa ma non possiamo neanche salire sull’aereo. E gli aeroporti vanno bene,” si chiarì lei, “Ho incontrato un sacco di gente stupenda in questo aeroporto, al punto che sono persino riuscita a divertirmi un po’. Ma sono qui per imbarcarmi, non posso rimanere in aeroporto per sempre. Non è la mia casa, ma solo un punto di passaggio.” Eren stava cercando, con un certo successo, di trattenere la tristezza, e Ymir gli sorrise. “Il mio aereo è qui Eren. Non è la fine del mondo. Abbiamo perso un volo, ma ce ne sono sempre degli altri.” poi rise, all’espressione sul volto di lui. “E diciamocelo: alla lunga gli aeroporti scocciano.”

Eren annuì. “Ma questo è un gran bell’aeroporto.”

“Il migliore in cui sia mai stata.” rise lei. Poi fece spallucce. “Per quanto ne rimanga sempre uno. Il cibo faceva schifo. E i dipendenti erano fin troppo maleducati.” aggiunse, sorridendo a Levi, che le sorrise di rimando, prima che qualcuno potesse notarlo.

Ma Eren aveva un’ultima domanda per lei. “Hai paura?”

Ymir annuì. “Sarei stupida a non averne. La prima volta che viaggi hai sempre paura.”

Erwin si presentò di lì a poco, un’espressione di quieta comprensione sul volto. Ma non era pietà, e Levi fu grato che non lo fosse, perché, a quanto pareva, Erwin era abbastanza bravo con questo tipo di cose. Il dottore, spiegò gentilmente quali bottoni il padre di Ymir doveva premere per spegnere il respiratore e le restanti macchine del supporto vitale, e, questi sembrò abbastanza in pace riguardo all’intera situazione. Anche Christa era calma, e Levi dubitò che si sarebbe mai più trovato in una stanza di ospedale più calma di quella di Ymir in quel momento.

Era strano, ma Levi si era sempre aspettato un gran finale quando qualcuno doveva morire – fuochi d’artificio o una musica plateale o qualcosa, ma, alla fin fine, non andava mai così. Il padre di Ymir spense i bottoni e tenne la mano della figlia nella sua mentre la linea delle sue funzioni vitali si appiattiva. I tre ufficiali in uniforme rimasero bloccati in una posa rispettosa da una parte della stanza, mentre Christa teneva l’altra mano di Ymir dall’altro lato del letto. Il tutto durò meno di trenta secondi. Un attimo Ymir era lì, in piedi di fianco a suo padre, con una mano sulla sua spalla, e il successivo non c’era più. Non scomparì all’improvviso, né sparì piano piano, come se la sua forma spirituale stesse svanendo lentamente. Era più come se non fosse mai stata lì. C’era e poi non c’era più, il tutto in un batter d’occhio.

Per credito del reparto sei, si doveva dire che nessuno aveva pianto. Addirittura, Reiner e Bertholdt avevano sorriso quando Ymir aveva cessato di esistere in un quel battito di ciglia. Levi aveva immaginato che la cosa avesse a che fare con il fatto che loro capivano quanto fosse frustrante rimanere in supporto vitale così a lungo. Probabilmente lo capiva anche Annie, essendo una dei pazienti affidati allo stato.

Erwin fece nota dell’ora del decesso e Levi dovette affrettarsi a scriverla, quasi avendo dimenticato che era lì come testimone e impiegato, e non come amico. Dopo, se ne andarono tutti, e tutti i pazienti del reparto sei tornarono nelle loro stanze, come per cercare di trovare un senso tra i loro pensieri. Levi rimase lì, bloccato a seguire tutte le procedure, scribacchiando annotazioni delle informazioni che Erwin gli mormorava. Prima di andarsene, l’ufficiale più decorato donò al padre di Ymir il distintivo della ragazza.

L’uomo sorrise alla vista dell’oggetto, rigirandoselo tra le mani. “Era molto fiera di questo,” spiegò, a nessuno in particolare. “E credo di poterlo essere anche io.” Stava per metterselo in tasca, ma ci ripensò e lo porse a Christa. “Probabilmente avrebbe voluto che lo conservassi tu.” le disse affettuosamente. Christa lo accettò e i due se ne andarono insieme.

Quando rimasero solo lui ed Erwin in stanza, questi sbloccò le rotelle del letto e lo spinse fuori dalla stanza, probabilmente dovendolo portare nella sala mortuaria. Levi fu lasciato solo nella stanza.





Quella sera, Levi si addentrò nel giardino nord dell’ospedale, trascinandosi il tubo della pompa dell'acqua attraverso il boschetto dei pazienti. Rimase in piedi di fronte all’albero del reparto sei, per poi posarsi contro il suo sorprendentemente massiccio tronco, lasciando che l’acqua cadesse a fiotti sul terreno. Fissando la placca, pensò a quanto Ymir gli era sembrata contenta, nelle ore precedenti la sua dipartita. I ragazzi morti erano strani.

Levi guardò in cielo e vide un aeroplano lasciare una scia tra le nuvole che si stagliavano sui colori della prima serata, tracciando delicatamente il suo passaggio. “Buon viaggio.” disse, e, probabilmente, in qualche strana maniera, lei riuscì a sentirlo.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - Furto ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice, questa settimana in orario (incredibile!) xD. Fortunatamente questo capitolo è un pochino più breve del precedente, e soprattutto decisamente più leggero. Ringrazio tanto, sia da parte mia che da parte dell'autrice, tutte le persone che hanno messo la storia tra i preferiti/seguiti/da ricordare, tutti quelli che leggono, ma soprattutto chi ha lasciato un commento. Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: a parte i soliti errori di battitura... nulla da aggiungere, a parte che spero che la traduzione faccia ridere almeno la metà della versione originale! Ah sì, unabomber è un termine (ormai giornalistico) per definire i bombaroli.


The 6th ward
CAPITOLO 11: Furto

4 mesi, 4 giorni

“Ti ricordi quando ho detto che non avevo una lista di cose da fare prima di morire?”

Levi guardò Eren. Fino a quel momento c’era stato un piacevole silenzio nella saletta delle infermiere, ma ora che era arrivato il moccioso, avrebbe finito per rovinare tutto. Sospirò. “Sì.”

“Cioè, oltre andare ad ascoltare un’orchestra dal vivo.” chiarì Eren.

“Intendi la tua lista di cose da fare prima di finire di morire, vero?” chiese Levi.

Eren roteò gli occhi. “Sì, come vuoi metterla tu. Be’ ho pensato a qualcos’altro da metterci dentro.”

Levi fece un mugugno, facendogli intendere che aveva capito. Non che Eren avesse effettivamente bisogno di una risposta, dal momento che era in grado di portare avanti intere conversazioni tra di loro, con la sola necessità, per Levi, di fare qualche rumore a segnalare il suo accordo o disaccordo.

“Voglio fare qualcosa di illegale.” disse Eren con entusiasmo, sfregandosi le mani.

Levi si girò lentamente su sé stesso in modo che le sue spalle non fossero di più di fronte ad Eren. Poi gli fece uno sguardo di cauta preoccupazione. “Potrei chiederti come mai?”

Eren fece spallucce. “Ho passato la mia intera vita a fare quello che avrei dovuto – soprattutto perché Mikasa mi avrebbe strappato via l’anima dal corpo per darla in pasto a Satana, se mi fossi messo in qualche guaio. Credo di aver avuto bisogno di morire per riuscire a scrollarmi di dosso quella paura,” ammise Eren. “O, perlomeno, per renderla sopportabile. Sono ancora abbastanza terrorizzato dal fatto che Mikasa possa scoprirlo.”, si corresse.

Levi aguzzò lo sguardo. “Prima mi costringi a bere abbastanza alcool da far galleggiare una nave e ora mi vuoi far arrestare?”

Guardandosi la punta delle scarpe bianche che indossava, Eren fece spallucce con imbarazzo. “Non proprio. Non ho detto che devi fare qualcosa, stavo solo pensando ad alta voce.”

“Vorrei tanto che fossi in grado di pensare come una persona normale.” disse Levi.

Eren rimase zitto per un po’ ma, anche se Levi non era più girato verso di lui, poteva giurare che l’aria delusione che il ragazzo era in grado di emanare, minacciava di stritolarlo da un secondo all’altro. Sospirando abbastanza disperatamente da rischiare di farsi scoppiare un polmone, Levi si girò con rabbia, per guardare Eren di nuovo in faccia. “Cristo, potresti smetterla?”

Eren scattò sul posto, drizzando la schiena, irritato dalla strigliata improvvisa. “Smetterla di fare cosa?”

Levi gesticolò vagamente verso di lui. “Questo! E’ come se non potessi mai dirti di no, Dio santo. Come se avessi picchiato il tuo cane o chissà cosa.”

Facendo un’espressione vagamente dispiaciuta, Eren mormorò: “Non stavo facendo niente.”

Levi si passò le mani in faccia con forza. Magari, se avesse strofinato abbastanza, la sua faccia sarebbe venuta via e non se la sarebbe dovuta vedere con l’immagine di Eren sconsolato. “Quali cavolo di leggi vuoi infrangere? Stiamo parlando di un semplice furto o direttamente di un omicidio?”

Levi inciampò in avanti non appena qualcuno gli diede una pacca sulla spalla abbastanza forte da abbattere un edificio. “Infrangere la legge? Spero bene che stessi programmando di chiamarmi.” lo salutò Hanji.

“Da dove diavolo arrivi?” grugnì Levi, stiracchiandosi la schiena per lenire il dolore, e, più probabilmente, il livido, che Hanji aveva deciso di regalargli quella mattina. “Sono quasi sicuro che hai delle cimici.”

Hanji mosse le sopracciglia con fare misterioso. “Ho un sesto senso quando si tratta di atti illegali.”

Levi fece una smorfia. “Non serve che me lo dici.”

“Lei mi piace,” disse Eren. “Portiamola con noi.”

“Non la porteremo con noi.” sibilò Levi.

Hanji afferrò il braccio dell’infermiere. “Certo che la porterete con voi,” disse eccitata. “Non ho mai avuto l’occasione di passare del tempo con te e i ragazzi morti.”

“Il ragazzo morto,” la corresse Levi. “Solo Eren, che come al solito non sa far altro che rompere le palle.”

“Ah, il tuo caro fidanzato morto!” fece ammenda Hanji. “E’ un piacere conoscerti, Eren. Hanji è il nome, infermiera è l’incarico.” disse, agitando la mano verso lo spazio vuoto alla destra di Eren.

“Il piacere è mio!” rispose lui, rispondendo con la sua mano, e sorridendo stupidamente.

Levi si voltò verso Hanji. “Eren ha detto di smammare da questo reparto o inizierà a infestare il tuo stupido corpo.”

“Sì, ne dubito fortemente,” lo derise Hanji. “Sono certa che è troppo impegnato a infestare il tuo sedere.”

Eren annuì giudiziosamente. “Il suo sedere è un impiego da straordinari.”

“Oh mio Dio,” li interruppe Levi. “Possiamo smetterla di parlare del mio sedere, Gesù Cristo santo.”

“Voglio sapere cosa ha detto Eren sul tuo sedere.” si lamentò Hanji.

Levi le lanciò un’occhiataccia. “Ha detto che è favoloso.”

“Ehi!” protestò Eren afferrandogli l’uniforme. “Smettila di tradurre male tutto quello che dico, stronzo.”

Così, finirono a litigare, con l’ovvia barriera di comunicazione tra Hanji ed Eren, che dava la meglio a Levi, il quale non si fece scrupolo ad approfittarne. Hanji, però, era abbastanza abituata alle idiozie di Levi, quindi sembrava anche sapere che non doveva prendere sul serio nessuno dei suoi messaggi.

“Va bene, va bene,” disse l’uomo alla fine, mettendo fine alle discussioni. “Hanji può venire anche se è un’idea che va contro ogni buonsenso. Ma nel caso in cui verremo arrestati, nessuno ha il permesso di abbandonarmi al peggio.”

“Lo dici come se credessi che sarei in grado di abbandonarti sul serio.” gli fece notare Hanji.

Levi la ignorò. “Comunque faremo qualcosa di piccolo. Non posso mettermi nei guai ancora di più o perderò il dannato lavoro.”

“Svaligiamo un banca!” disse Hanji ridendo di gusto.

Levi la fissò un secondo, cercando senza successo di nascondere l’apprensione nei suoi occhi. “Cosa diavolo c’è che non va con te?”

“Che ne dite se rubacchiassimo qualche barretta di cioccolato o cose simili da una grande catena di stazioni di servizio? Non vorrei recare danno alle piccole imprese.” propose ragionevolmente Eren.

Levi annuì. “Va bene, non è un’idea poi così malvagia. Potremmo farlo.”

Hanji concordò, anche se sembrava abbastanza delusa dal fatto che i loro piani non implicassero l’uso di armi semi-automatiche e inseguimenti ad alta velocità. Si accordarono per incontrarsi quella sera a mezzanotte, nel parcheggio degli impiegati, vicino all’inaffidabile macchina di Hanji. Se veramente sarebbero finiti in un inseguimento ad alta velocità – e in questo caso la sola presenza di Hanji era una carta da giocare che Levi non intendeva dare per scontata – l’automobile di Levi si sarebbe probabilmente rotta in due minuti, lasciando lui e la donna dietro le sbarre, con una serie di poliziotti a deriderli per lo stupido veicolo che avevano scelto per darsi alla fuga. Inoltre, Hanji era abbastanza sicura di conoscere una stazione di servizio nelle vicinanze, parte di una catena bella grossa, aperta ventiquattro ore su ventiquattro, e la cosa sembrava aver placato i sensi di colpa di Eren.





“Che cosa diavolo ti sei messa addosso?” chiese Levi, mentre si avvicinava all’auto di Hanji.

Hanji era vestita in nero, con un impermeabile decisamente vistoso, che le arrivava giusto sotto le ginocchia, e un cappellino da baseball che le copriva gli occhi. Hanji gli concesse solo uno sguardo allibito. “Hai intenzione di commettere un reato con l’uniforme da infermiere?” sibilò. “Che cosa vuoi dire con cosa diavolo mi sono messa addosso? Cosa diavolo ti sei messo tu!?”

Levi agitò la testa meravigliato. “Non so più se voglio veramente sapere il motivo per cui hai certi vestiti sul posto di lavoro. Diversamente da te, io mi porto i vestiti da lavoro a lavoro. Quanto spesso credi di concludere la tua giornata andando a compiere un crimine?”

Hanji strattonò la visiera del suo cappello da baseball ancora più in basso, con movimenti plateali. “Sono sempre pronta per il crimine,” disse misteriosamente, prima di iniziare a indicare al fianco di Levi, dove si aspettava si trovasse Eren, per chiedere: “Be’ cosa si è messo Eren?”

“Le stesse cose che indossa sempre,” rispose Levi. “Tutto bianco. Sarà qualche strana metafora da ragazzo morto, col diavolo che ne so qualcosa.”

Salirono tutti nella macchina di Hanji – lei al volante, Levi al suo fianco nel posto del passeggero ed Eren sul sedile posteriore –, come una strana famiglia di fuori di testa. Eren, dal canto suo, era un po’ troppo eccitato. Ogni volta che Levi lanciava uno sguardo verso il sedile posteriore, lui stava muovendo le ginocchia su e giù, i suoi occhi verdi illuminati da un infantile entusiasmo. Ad un certo punto Hanji abbassò i finestrini. Era un autunno decisamente mite, dunque l’aria non era insopportabilmente fredda. Levi si girò un’altra volta a guardare Eren e lo trovò con la testa fuori dal finestrino come un cane. Non poté fare a meno di apprezzare quanto quella similitudine fosse adatta a lui.

Infine, si fermarono alla stazione di servizio e sedettero in auto cercando di farsi coraggio. Levi diede un ultimo sguardo ad Hanji e prese una decisione, annunciandola al gruppetto di futuri-criminali: “Ci arresteranno il secondo in cui Hanji entra dentro. Sembri un cazzo di Unabomber.”

Hanji gli lanciò uno sguardo esasperato. “Va bene, non entrerò dentro. Sei ancora arrabbiato?” Levi, dentro di sé, avrebbe voluto annuire. Certo che era ancora arrabbiato. Era sul punto di fare un furto in una stazione di servizio con un fantasma e una scienziata pazza. Arrabbiato era minimizzare. “Non entrerò,” rise Hanji. “Ma sarò il vostro conducente quando arriverà il momento di fuggire. Voi sarete la squadra di ricognizione: entrate e fate quello che deve essere fatto. Ma non metteteci troppo, mi raccomando.”

Levi le lanciò l’ennesima occhiataccia, prima di aprire la portiera e uscire dall’auto. Doveva aspettarsi che lei gli avrebbe fatto fare tutto il lavoro sporco. Eren uscì subito dopo di lui, seguendolo come un’ombra mentre raggiungeva la porta.

Il negozio era praticamente deserto: un uomo con una barba incontrollabile, il codino e una grossa pancia da alcool, era seduto dietro la cassa a sfogliare un magazine per donne, con uno sguardo annoiato sulla faccia pelosa. C’era anche un tipo dall’aria esausta vestito con camicia e cravatta di poco valore, che stava esaminando i vari accendini che erano in saldo al momento, lamentandosi, con nessuno in particolare, dei prezzi delle sigarette.

Eren seguì Levi mentre questi dirigeva verso l’isola che era meno visibile dalla posizione avvantaggiata del cassiere. Gli scaffali, apparentemente, erano quelli che ospitavano varie tipologie di salatini, barrette di cioccolato e preservativi. Ah, esattamente quelli che si potevano considerare come oggetti essenziali per sopravvivere, come indicato sul titolo dell’isola. Levi si chiese brevemente chi diavolo si era occupato di organizzare il negozio. Intanto, sembrava che Eren stesse per farsela addosso da un momento all’altro, mentre lui cercava di spiegarsi per la centesima volta il motivo per cui si trovavano lì.

L’uomo con la cravatta da quattro soldi iniziò a parlare dall’altra parte del locale: “Ehm, per caso c’è un bagno?” rantolò. Levi pensò che quel tipo non aveva veramente bisogno di comprare altre sigarette. Seguì un respiro profondo, chiaramente proveniente dal grosso cassiere. “Sì, certo, ma è sul retro. Devo venire ad aprirtelo.” Eren e Levi ascoltarono in teso silenzio il suono dell’uomo che girava intorno al bancone facendo sbatacchiare quello che somigliava ad un anello con delle chiavi. “Seguimi.” disse il cassiere al fumatore. I loro passi ritornarono sul fronte del negozio, fino a quando non ne fu aperta la porta. Dopo un secondo nervoso, questa si richiuse, lasciando Eren e Levi da soli nel locale.

Eren andò in panico non appena Levi gli sussurrò di afferrare qualcosa in modo che riuscissero ad uscire prima del ritorno dei due uomini. Senza pensarci, il ragazzo afferrò un bel po’ di buste di salatini, qualche barretta di cioccolata e un paio di scatole di condom. La sua testa si voltò in tutte le direzioni, come se lui stesse cercando un posto dove nascondere gli oggetti, prima di decidere che Levi era il più adatto. L’infermiere cercò di aprire la bocca per protestare, ma Eren aveva praticamente già lasciato cadere l’assortimento casuale di prodotti da rubare nella sua camicia.

“Che cazzo, Eren!” gridò Levi, facendosi prendere per il panico a sua volta, nonostante i numerosi sforzi di rimanere calmo. “Non sono la tua cazzo di borsa!”

Eren lo ignorò, lasciando cadere l’ultima bustina di salatini nella sua camicia. “Corri!” strillò, fuggendo dal negozio. Levi rimase impalato per un attimo, prima di correre dietro al fantasma, seguendolo ad un’andatura più lenta a causa della camicia piena di cose random, che stava cercando di non far cadere sul pavimento. Eren raggiunse per primo l’auto e spalancò la porta di Levi, lanciandosi oltre il sedile per fargli spazio. Hanji sembrò allarmata solo per un secondo alla vista della portiera che sembrava essersi aperta di propria sponte. Poi accese la macchina, con un sorrisetto stupido sul volto, prima ancora che Levi li raggiungesse. Il momento in cui lui riuscì a salire in auto, fu lo stesso in cui Hanji mosse l’auto per lasciare il parcheggio, mollando Levi attaccato alla portiera aperta. Dopo un minuto di lotta, l’uomo riuscì a chiuderla.

Hanji ed Eren stavano ridendo come due pazzi. Era in momenti come questi che Levi finiva a chiedersi cosa aveva fatto così male nella sua vita da meritare tutto ciò, quando avrebbe potuto condurre un’esistenza normale. Eren si asciugò una lacrima. “Levi, avresti dovuto vedere la tua faccia.”

Levi si girò per guardarlo male. “Ah, da che pulpito!” grugnì, lasciando cadere il contenuto della sua camicia sul proprio grembo. “Sembrava che stessi per fartela addosso.”

Hanji guardò Levi con la coda dell’occhio, facendo un sorrisetto scaltro. “Scommetto che lo stesso vale per te,” rise. “Che diavolo avete preso?”

Considerando quello che era attualmente posato sulle sue cosce, Levi fece spallucce. “Non ne ho idea. Eren ha solo lasciato cadere una serie di cose nella mia camicia.” rispose, occhieggiando il loro bottino con fare critico. “Per qualche diavolo di motivo hai preso abbastanza condom da stare a posto per quattrocento scopate?”

Eren guardò oltre la spalla di Levi con fare incredulo. “Merda.” rise. “Non ne ho idea, ho solo preso tutto quello che c’era.”

Hanji stava ridendo così di gusto da stare piangendo. “Credo,” rantolò. “Che il tuo fidanzato fantasma stia cercando di inviarti un messaggio.”

Levi ed Eren protestarono sonoramente, ma alla fine furono sopraffatti dalle risate di Hanji. Le richiese quasi tutta la strada del ritorno per riuscire a calmarsi, e, quando riuscì a farlo, si concesse una delle bustine di salatini. “Siete dei tali perdenti.” disse, rischiando seriamente di ricominciare a ridere. Levi prese in considerazione di afferrare il volante e mandare l’auto contro il lampione più vicino. Se fosse stato fortunato, sarebbero tutti morti orribilmente.

Hanji accompagnò Levi ed Eren in ospedale, congedandosi per tornare a casa per la notte. Levi le lasciò un paio di buste di salatini e qualche barretta di cioccolato per ringraziarla dello sforzo. Non che avesse idea di cosa farsene di quella montagna di merda.

Lui ed Eren entrarono in ospedale. Normalmente, si sarebbe preoccupato almeno un po’ di quanto sembrava strano a girare per l’ospedale con le braccia piene di salatini, cioccolata e scatole di preservativi, ma ora era un criminale, quindi al diavolo. Si guadagnò una serie di sguardi sconcertati, anche se nessuno osò chiedergli cosa stesse facendo con quell’improbabile collezione di oggetti. Camminò fino alla stanza di Eren, per poi lasciar cadere tutte le cose rubate su un lato del letto.

“Che cosa diavolo pensi me ne debba fare io di tutta questa roba?” protestò Eren.

Levi lo fulminò con lo sguardo. “Non lo so. Cosa diavolo pensi che debba farmene io?”

Discussero un po’, prima di decidere di nascondere le prove del loro crimine nel sacchetto dell’immondizia più vicino. Non c’era veramente nulla di utile. Subito dopo, Levi iniziò a prepararsi per andarsene, con tutta l’intenzione di concedersi una notte di sonno, ma Eren aveva quello sguardo, quello che aveva ogni volta che voleva dire qualcosa, ma al contempo non gli andava di scocciare Levi.

“Cosa?” chiese Levi brevemente. “Cosa c’è ora?”

Eren si agitò un pochino. “Mi sento un po’ male.” ammise.

“Per cosa? Aver rubato quella roba?”

Eren annuì, guardando ovunque tranne che a Levi. Questi non riuscì a trattenersi dal ridere. “Eren, tu sei senza dubbio il peggior criminale con cui ho avuto il dispiacere di compiere un reato.”

Eren gli sorrise. “Vale lo stesso per te.”

Levi agitò la testa affettuosamente. “Sei una tale rottura di palle.” Eren fece spallucce docilmente e Levi roteò gli occhi. “Scriverò un assegno e glielo manderò domani mattina, signorina.”

Con un irritantemente sincero sollievo, Eren fece quell’espressione che fece capire a Levi che ci sarebbe stato un abbraccio, se lui non si fosse congedato in fretta. “Non fare quella faccia, ragazzo,” lo avvertì. “Me ne tornerò a casa prima che tu decida di toccarmi.”

Eren cedette, alzando le mani in segno di resa. “Ehi, guarda che non stavo assolutamente pensando di abbracciarti.” Fottuto bugiardo. “Sarebbe come cercare di abbracciare un porcospino.”

Levi annuì. Diamine se aveva ragione. “Buonanotte ragazzo. Se mi denunci alla polizia, giuro che te la farò pagare.” E, con un gesto stanco, si ritirò dal reparto sei per la sua breve passeggiata verso casa.





Quando finalmente arrivò al suo appartamento, Levi riscaldò nel forno a microonde un inidentificabile pasto preconfezionato e si sedette di fronte al suo stereo. Mischiò con disinteresse la pila di cibo bollente che si era preparato, cercando di decidere quale CD gli andava di ascoltare. Qualcosa di rilassante. Oggi era stata una giornata un po’ troppo per i suoi gusti. Levi non era molto il tipo da Frank Sinatra, ma per qualche ragione stasera si sentiva dell’umore giusto. ‘1958’ pensò subito, perché era l’anno in cui era stato pubblicato l’album. Poi fissò la sua collezione di CD per un po’, incapace di comprendere lo strano arrangiamento di fronte a lui. Nulla era al suo solito posto.

Improvvisamente, si ricordò che Eren aveva riorganizzato l’intera collezione.

Si fece sfuggire una singola risatina.

Eren era un tale stupido, pensò, continuando a ridere.

Gli aveva richiesto giorni organizzare i suoi CD in quella maniera, ma Eren doveva essere un fottuto idiota.

Ormai stava ridendo più rumorosamente di quanto aveva mai fatto da anni. I lati della faccia gli dolevano dalle risate mentre tentava di trovare un orientamento nella nuova disposizione della sua collezione, e cercava invano di smettere di ridere.

Non era nemmeno così divertente. Era solo dannatamente stupido. Tutta colpa di quel fottuto ragazzo.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 - Stelle ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Scusate il ritardo di un giorno ma ieri ero letteralmente troppo stanca e non sono riuscita a finire di tradurre il capitolo che, comunque, è talmente bello che credo di poterlo usare come scusa xD Ringrazio come al solito tutti quelli che hanno messo la storia tra i preferiti/seguiti/da ricordare, che leggono, ma soprattutto chi ha lasciato un commento, che, vi ricordo, vengono sempre tradotti e inviati all'autrice. Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: sento di essere stata meno letterale del solito... ma è stato per rendere meglio il senso del capitolo.


The 6th ward
CAPITOLO 12: Stelle

3 mesi, 30 giorni

La polizia si era presentata all’ospedale qualche giorno prima. Levi li aveva visti solo di sfuggita, mentre parlavano con un gruppetto di infermiere, che credeva l’avrebbero identificato subito, anche se aveva inviato l’assegno al manager della stazione di servizio, come gli aveva chiesto Eren. Non che la cosa annullasse l’atto illegale, ma lui non pensava che qualcuno sarebbe stato perseguito penalmente per un piccolo furto come il suo. Forse non era stata una grande idea andare con la sua decisamente-troppo-facile-da identificare uniforme da infermiere. Ma si doveva dire, a difesa dei suoi colleghi, che nessuno lo aveva tradito, nonostante i poliziotti avessero il suo identikit. Alla fine, la polizia se ne era andata senza neanche cercarlo o fargli una domanda.

Quindi, Levi era grato di non essere finito dietro le sbarre. Davvero, aveva veramente fatto un reato insignificante, ma, da quella sera, si sentiva comunque nervoso, ogni volta che gli capitava di vedere un poliziotto. Mentre tornava al reparto sei, meditando sulle implicazioni delle sue bravate, quasi si scontrò con Petra.

“Scusa.” disse lui frettolosamente, afferrando al volo la pila di cartelle cliniche che stava portando lei, prima che fogli di carta si spargessero ovunque. Per qualche strana ragione, Levi era sempre troppo distratto per notare Petra, quando lei cercava di attirare la sua attenzione. Si sentiva veramente in colpa. “Ho tante cose per la testa.” le spiegò.

“Ne sono certa,” rispose Petra con comprensione, prendendo le scartoffie che lui le stava restituendo. “Ti starai davvero stressando parecchio.” aggiunse.

Levi annuì. “Colpa loro,” ammise. Petra fece uno sguardo stranito. Merda, lei non sapeva dei mocciosi del reparto sei. “Ah, intendo dire colpa del lavoro. E’ il lavoro a stressarmi tanto.”

Era una scusa stupida, ma l’infermiera si accontentò. “Vero, ma io parlavo dell’albero di Giuda. E’ ovvio che te ne stai prendendo cura, ma le cose comunque non vanno molto bene. Me ne sono accorta stamattina.”

Levi inspirò con forza, spalancando gli occhi. “Che è successo al mio albero?”

Petra fece un passo indietro, allarmata. “Ah, ehm,” balbettò, sembrando pentita di averne parlato. “E’ solo che… credo che ci sia qualche problema. Uno dei rami più grandi sta morendo. Probabilmente è un parassita o qualcosa del genere.”

Levi spinse il resto delle cartelle cliniche tra le braccia della donna. “Devo andare a salvare il mio maledetto albero.” borbottò, dirigendosi verso il boschetto dei pazienti.





Senza dubbio, c’era qualcosa che non andava nell’alberello, il quale, fino a quel momento, era stato normalmente sano. Uno dei rami più grossi sul lato destro stava penzolando sconsolatamente, e le sue foglie erano di un colore malaticcio. Levi fissò l’albero con disdegno: ovvio che sarebbe successo qualcosa del genere. Camminando avanti e indietro di fronte l’arbusto, cercò di pensare ad un piano d’azione. Prendere un nuovo albero era fuori questione. Questo era il loro fottuto albero e sarebbe sopravvissuto, dannazione.

Levi recuperò la pompa da giardino e la trascinò verso l’alberello di Giuda malato. Come diavolo un essere umano si prende cura di una pianta malata? Esistono medicine per gli alberi? Fissò con costernazione l’arbusto, lasciando che l’acqua cadesse silenziosamente alla base del tronco, ma la pianta rimase ferma lì, con aria insolente, come se stesse aspettando che Levi capisse come aiutarla.

“Cosa c’è che non va?” pregò l’uomo con voce sottile. “Stupido fottuto albero. Non puoi morire anche tu.”

L’albero si agitò stoicamente, a causa di una folata di vento freddo. Levi lo guardò male. “Tu eri quello che doveva vivere più di me, bastardo foglioso.”





3 mesi, 29 giorni

“Lei non capisce.” Levi si allungò oltre il bancone, occhieggiando l’impiegato quattrocchi con voluta ostilità. “Io non voglio un altro albero. Voglio salvare questo.”

“E’ così giovane,” rispose lo sfortunato uomo, aggiustandosi gli occhiali nervosamente. “Sarebbe meglio piantarne uno nuovo. E’ molto difficile riprendersi dopo l’attacco di un parassita.”

Levi, allora, si avvicinò ancora di più alla faccia barbuta del tipo, abbassando minacciosamente il tono di voce. “Non mi sono ancora spiegato?” L’uomo stava praticamente per finire in lacrime a causa del suo sguardo. “Devo salvare questo albero.”

L'infermiere aveva speso la gran parte del giorno precedente telefonando specialisti in alberi e negozi di giardinaggio, cercando di capire come prendersi cura dell’alberello malato. Tutti gli avevano detto che era troppo giovane, e di sradicarlo prima che diventasse un problema. Purtroppo, erano degli inetti, visto che la situazione era già un problema. Comunque, parlare al telefono non gli aveva permesso di esprimere l’urgenza che aveva come l’avrebbe potuto fare faccia a faccia, quindi aveva deciso di iniziare a presentarsi in questi negozi per scocciare i loro cosiddetti ‘esperti’. Questa era la settima tappa.

Rimettendosi a posto le lenti con gesti nervosi, l’uomo indentificato dalla targhetta come ‘Jeff’, si diede per vinto e annuì. “Va bene, signore. Capisco il problema,” Era ora, Jeff. “Credo che potremmo aiutarla. Vado a prenderle queste cose che in pratica sono delle barrette vitaminiche per il suo albero. Lei dovrà sotterrare una queste nel terreno alla base del suo albero una volta a settimana, ma quest’azione richiederà che l’alberello venga innaffiato ogni tre giorni, in modo che le sostanze nutritive possano dissolversi. A parte ciò, le posso prendere anche dei pesticidi da spruzzare sulle foglie e sui rami. Tutto quello che deve fare è assicurarsi che vi sia un collegamento ad una qualsiasi pompa dell’acqua. Ma se piove troppo,” lo avvertì Jeff. “O se lei lo annaffia eccessivamente, le vitamine e i pesticidi saranno troppo diluiti per fare effetto. La sua riuscita dipende molto dal tempo.” concluse Jeff. “Non le faccio promesse, ma le auguro che vada tutto per il meglio, signore.”

Quella era la prima risposta vagamente soddisfacente che Levi aveva ottenuto in tutta la giornata, e quindi annuì con approvazione all’uomo. “Grazie.” gli disse con cortesia.





Ovviamente, nemmeno dopo un’ora che aveva sotterrato la barretta di vitamine nel terriccio alla base dell’albero, annaffiandolo sufficientemente e spruzzandogli sopra il pesticida, scoppiò un fortissimo temporale. E non un semplice temporale, ma quel tipo di temporale per cui ti bastava uscire allo scoperto per tre secondi per bagnarti abbastanza da dare l’impressione di essere appena uscito da una piscina.

Levi era in piedi all’uscita, presso le scale di emergenza, dove aveva buttato fuori Eren giusto un paio di settimane prima, e guardava il piccolo albero agitarsi di qua e di là sotto l’acquazzone. Pregò che smettesse di piovere, ma lo scuro muro di nuvole all’orizzonte gli faceva dubitare fosse possibile. L’albero, di quel passo, sarebbe probabilmente affogato, e, in ogni caso, la strana medicina che gli aveva dato avrebbe fatto cilecca.

In un ultimo sforzo, Levi si trascinò all’armadietto del custode per prendere un paio di incerate e due grandi ombrelli tra gli oggetti andati perduti o dimenticati. Borbottando con riluttanza, camminò con fatica in quel clima inclemente, trovandosi ben più che bagnato, solo percorrendo il tratto dall’uscita all’albero. Posò le incerate alla sua base, tentando di bloccare l’acqua torrenziale, e poi, con una manovra attenta, si arrampicò sullo slanciato, ma sorprendentemente forte, tronco, fino a sedersi sulla diramazione più resistente. Non era una posizione piacevole, ma perlomeno gli alberi non si lamentavano. Cercando disperatamente di non cadere dai rami scivolosi, Levi aprì i due ombrelli e li alzò in modo che coprissero la maggior parte di fogliame possibile.

Ora c’era solo da aspettare.

E l’attesa, fu senza dubbio lunga: rimase seduto sullo stupido albero per quelle che dovevano essere state ore, ma con la differenza che, quando i due ombrelli che aveva in mano coprivano bene l fogliame, sulla sua testa cadeva la pioggia. Stanco, infreddolito e furioso, pregò di essere colpito da un fulmine, che lo ammazzasse per risparmiargli tutti quei problemi.

Ad un certo punto, Hanji aveva camminato fino a lì portandosi un ombrello in più sottobraccio. Lo aveva guardato con occhio critico, prima di fargli un sorriso affettuoso. “Sei così strano.”

Levi l’aveva fulminata con lo sguardo, attraverso le ciocche di capelli bagnati, attaccateglisi alla fronte. “Non voglio sentirmelo dire da te.”

A quel punto lei se ne era andata, perché persino Hanji sapeva che era meglio non punzecchiare Levi quando lui era arrabbiato, e, perlomeno, sapeva ancora quando era il caso di dargli fastidio e quando no.

Alla fine, il tempo si rischiarò, e Levi ebbe l’occasione di scendere dall’albero, con le braccia intorpidite e rigide e la schiena dolente. Si sarebbe probabilmente preso un’influenza, ma, perlomeno, il piccolo albero sembrava star meglio. Forse quella era solo una sua convinzione, ma lui decise che, anche se fosse stato così, gli andava bene comunque. L’albero stava meglio.

Più tardi, Levi avrebbe scoperto che il vento e le piogge torrenziali avrebbero persistito per tutta la settimana, con tregua solo di notte.

Temporali tutta la settimana.





3 mesi, 28 giorni

“Dove stai andando?” chiese Eren sospettosamente, mentre Levi si allontanava, armato di fitte incerate e due ridicoli ombrelli giganti.

“Da nessuna parte.” grugnì Levi.

“Allora verrò con te.” propose Eren.

Levi si girò, spaventando Eren. “No, non lo farai. Rimani qui.” sibilò, con un po’ troppa rabbia. Eren guardò a terra demoralizzato, lasciando stare con molte meno storie di quante Levi se ne aspettava. L’infermiere si sentì in colpa, ma si sarebbe fatto perdonare più avanti. Come se Eren non sapesse che lui era uno stronzo.

Così, per la seconda giornata di fila, si ritrovò ad arrampicarsi su quella rottura di palle di un albero, in mezzo alla pioggia torrenziale, con in testa il cappuccio fradicio della giacca che aveva portato con sé. Le incerate erano di nuovo spiegate alla base del tronco, mentre Levi teneva gli ombrelli a riparare la chioma.

Aveva pensato anche di ricoprirlo interamente di incerate, ma il vento era talmente forte che sarebbe comunque dovuto rimanere per prevenire spostamenti, e, anche se non l’avrebbe mai ammesso, si sentiva come se la sua presenza fosse almeno un po’ di conforto per la giovane pianta malata. Era un pensiero stupido, ma credeva comunque che la cosa fosse d’aiuto. Intanto, le scartoffie di cui si doveva occupare si stavano accumulando velocemente, e i suoi colleghi avevano iniziato a sparlare di lui.

Perché Levi era sempre sullo stupido albero? Perché ci teneva così tanto? Erano tutte belle domande.





3 mesi, 26 giorni

L’infermiere riuscì finalmente a mettere una parola fine a quella situazione quella sera, anche se non così presto, visto che il sole era già sparito da un po’. Dopo essere stato seduto quasi quattro giorni sullo stupido albero, il tempo si era calmato. La tempesta si era dissipata in una pioggerellina sottile, e la luna riusciva a brillare nel cielo terso, per la prima volta in un bel po’ di giorni.

L’uomo diede un colpetto stanco all’albero sotto di lui. “Era ora, eh?” La chioma dell’arbusto frusciò, come se concordasse. “Sei una gigantesca rottura di palle, lo sai?”

“Stai scherzando?”

Levi guardò in basso per trovare Eren che lo fissava con un’espressione divertita sul volto, e le braccia incrociate sul petto. “Era questo quello che stavi facendo durante tutta la settimana? L’intero ospedale avrà pensato che ti è saltata qualche rotella.”

“Be’, l’ho fatto comunque,” sbottò Levi. “A quanto pare quest’albero è una rottura di palle peggiore di te e, credimi, questo vuol dire davvero tanto.”

Eren ora stava ridendo. “Ti sei veramente seduto lì, a mantenere degli ombrelli sull’albero, per quattro giorni?” Si era messo una mano sulla bocca nel tentativo di fermare le risate, ma la cosa non stava funzionando granché.

A Levi non interessava nemmeno rispondere. Rimase a fissare Eren con astio, attraverso le ciocche di capelli bagnati, che gli si erano disordinatamente attaccate alla fronte. “L’albero è malato.” mormorò.

“Sei impazzito,” osservò Eren, con una nota di serietà nella voce. “Cioè, sul serio… ti senti bene?”

“Una favola.” rispose Levi, mentre cambiava posizione con movimenti goffi. Scuotendo la testa incredulamente, Eren allungò una mano verso di lui per aiutarlo a scendere. Al posto di continuare a prenderlo in giro, non fece altro che tenere alzata la mano che gli aveva offerto, mentre la luce lunare giocava strani scherzi sui suoi occhi, che sembravano più blu che verdi. Non senza risentimento, Levi accettò l’aiuto offerto e scese dall’albero, subito finendo a sguazzare nel fango con le suole delle scarpe.

Eren lasciò andare la sua mano e fece un passo indietro per ammirare l’aspetto leggermente più sano dell’alberello. “Sembra stare meglio.” disse.

Levi roteò gli occhi. “Non sapevi nemmeno che era malato.”

Eren semplicemente agitò la testa. “No, no. Intendo dire che – non lo so, ma sembra più felice.”

“E’ un albero.”

“E’ un bell’albero,” lo corresse Eren. “Credo che tu gli piaccia.”

Levi fece una smorfia. “Perché tutto quello a cui piaccio è una tale rottura di palle?”

Facendo spallucce, Eren alzò lo sguardo verso il cielo. “Mi piace pensare che quando piaci veramente a qualcuno, questo qualcuno diventa una grande rottura proprio perché ci tieni tanto. Fa schifo quando ci tieni a qualcuno.”

Levi alzò un sopracciglio. “Qualcuno? Pensavo stessimo parlando di alberi.”

“Scusa, qualcosa.” si corresse Eren. Stava ancora guardando in cielo, con un sorrisino sul viso. Ci doveva essere qualcosa di veramente interessante li su.

Levi gli concesse un saluto veloce, decidendo di tornare a casa sua per cambiarsi in un’uniforme pulita, per poi tornare a finire di raccogliere i dati per le cartelle dei pazienti del reparto sei. Aveva trascurato parecchio i suoi doveri, e qualcuno, prima o poi, se ne sarebbe accorto.





Cambiarsi con degli abiti asciutti era stato tutto quello che Levi era riuscito a fare prima di lasciare il suo appartamento. La settimana era stata lunga, e lui si sentiva esausto in ogni fibra del suo corpo. Riesumando un po’ di motivazione, però, riuscì a tornare in ospedale e buttare giù degli appunti sulle funzioni vitali di ognuno dei pazienti. Quando finì, decise di tornare un’ultima volta all’albero, per recuperare gli ombrelli che aveva lasciato lì prima di tornare a casa. Dopo, si sarebbe finalmente concesso una dormita.

L’aria era fresca a causa delle forti piogge di quella settimana, e tutto, tranne Levi, era illuminato da un bagliore vivace. Avvicinandosi all’area dove il reparto sei aveva piantato il suo albero, l’uomo aveva notato una figura stesa a terra, con lo sguardo diretto al cielo. Era buio, ma quella persona gli era stranamente familiare e, man mano che si faceva più vicino, fu capace di confermare che si trattava di Eren.

“Hai dimenticato dov’è la tua stanza?” chiese Levi, troneggiando dalla sua posizione alzata.

Eren ignorò sua domanda. “Ah, perfetto. Vieni qui, il cielo oggi è incredibilmente terso. E’ così tardi che è quasi abbastanza presto per vedere Marte. Il sole sorgerà in qualcosa tipo un’ora o due.”

“Stelle?” chiese Levi poco convinto. “Tu osservi le stelle?”

“Marte è un pianeta, mio caro amico.” lo rimproverò Eren. Stupido moccioso.

Levi si porse un attimo il problema del terreno sporco, ancora leggermente umido a causa della pioggia. Eren, semplicemente, diede un colpetto al prato al suo fianco, con fare impaziente. Oh, al diavolo. Levi si sedette a terra. “E ora?” domandò.

Eren virò lo sguardo verso di lui. “Stai scherzando vero? Guarda le fottute stelle.”

“Faranno qualcosa?”

Il ragazzo sospirò. “Ah, non fa niente. Credevo che riuscissi ad apprezzare qualcosa per cui non c’è bisogno di parlare.”

A dire il vero Levi apprezzava. E, senza dire altro, volse la propria attenzione al cielo, stendendosi come stava facendo Eren. Era bello, sicuramente, solo che lui non sapeva distinguere una stella da un pianeta, né, persino, un corpo celeste da un satellite.

Il promesso silenzio durò ancora meno di quanto il più grande si sarebbe aspettato. Eren fece un sospiro prima di dire: “Lo sai perché mi piace osservare le stelle?”

“Non me ne frega niente.” rispose Levi impassibile.

“Hai rovinato il momento, Levi...” borbottò Eren.

Levi fece spallucce. “Perfetto. Io odio l’astronomia, mi fa sentire decisamente troppo microscopico.”

“Non è difficile per te sent – ” Eren notò lo sguardo di Levi e chiuse velocemente la bocca. “Ehm, giusto. Volevo dire che ti dovresti proprio sentire piccolo. Prima c’è il nostro sistema solare, che è maledettamente enorme. Poi c’è la Via Lattea, che ha qualcosa tipo duecento miliardi di stelle ed è qualcosa come un triliardo di chilometri di larghezza.”

“Confortante.”

Eren annuì entusiasticamente. “Ed è sempre meglio: la nostra galassia è parte di un gruppo locale, che se vuoi attraversalo, ci vogliono tre milioni di anni.” Eren sembrava stranamente entusiasta. Perché cavolo un operaio sapeva così tante cose di astronomia, era un mistero per Levi. “E dopo il gruppo locale, c’è un super-ammasso locale , che invece richiede cento milioni di anni per essere attraversato. E questa è solo una piccola parte dell’universo, a dirla tutta.”

Levi fece una smorfia guardando in cielo. “Tutto ciò dovrebbe rendermi felice?”

“E’ che siamo così insignificanti,” rise Eren. “Uno solo degli atomi che formano un granello di polvere ha più importanza di te e me per questo universo.”

“Quindi?” Levi si aspettava la morale della favola.

“Esatto!” Eren tirò un pugno in aria. “Non importa!”

“Quindi,” disse Levi esitante, “Non importa nulla. Tutto quello che facciamo non conta?”

“Esatto,” confermò Eren soddisfatto. “Non per l’universo comunque. Potremmo anche non esistere, no?”

Levi lo guardò. Apparentemente Eren si aspettava una risposta. “Certo, non importa proprio niente.”

Eren sembrò soddisfatto della risposta, dunque Levi tornò a fissare il cielo. I ragazzi morti erano così strani. Oh, be’, forse era solo Eren ad esserlo così tanto, anche se, in verità, questa cosa veniva detta dall’uomo che aveva mantenuto ombrelli seduto su un albero, per quattro giorni di tempesta. Forse non era Eren quello strano.

Improvvisamente, Levi si sentì strattonare da una presa sul bavero della sua camicia. Eren lo tirò senza cerimonie su di sé, con una forza sorprendente, dandogli un profondo, gelido bacio. Dalla sua posizione di svantaggio al di sopra del ragazzo, tutto quello che Levi poteva fare era tentare di rialzarsi facendo leva sui suoi avambracci, ma perlopiù finì in una posizione scomoda e sbilanciata. Prima che avesse anche solo l’occasione di recuperare l’equilibrio, Eren si tirò indietro, spingendo Levi nella sua posizione precedente, steso al suo fianco, con un colpo secco.

Levi fissò un secondo il cielo, come per riprendersi dalla sorpresa. Considerando che non era abituato ad essere preso alla sprovvista, ritrovare la calma non era qualcosa che sapeva fare un granché bene. Chiamala mancanza di pratica. Quando finalmente riuscì a recuperare i sensi, si sedette di scatto, facendo un’espressione furiosa ad Eren. Il moccioso ebbe addirittura la sfacciataggine di sorridergli. “Perché diavolo l’hai fatto?” chiese Levi.

Eren cambiò la sua espressione in una di pura innocenza. “Non importa.” Levi cercò di balbettare qualcosa, indignato, ma Eren mantenne la sua espressione di finta purezza. “Hai detto che non importa niente, ricordi?”

Levi aguzzò gli occhi. “Va bene. Allora non importa se ti rompo il naso, giusto?”

“Esatto!” rise Eren. “Tutto quello che sto cercando di provarti è che quello che l’universo considera importante non deve controllare quello che troviamo noi importante. Tu puoi sapere di essere insignificante, ma non riesci comunque a fare a meno di trovare le cose che ti succedono importanti.” Levi lo guardò poco convinto. “Ci deve importare di noi stessi, perché sicuramente all’universo non importa un bel nulla.”

“Se lo dici tu…” borbottò Levi, cercando di cancellare dalla sua testa il ricordo di Eren stretto a sé. Era stata una sensazione strana, ma di una di quelle che non gli sarebbe dispiaciuto riprovare. Ah, Gesù Cristo, questo sì che era strano. No, sicuramente gli sarebbe dispiaciuto. Levi si rimproverò silenziosamente per aver pensato il contrario. Niente più baci ai ragazzi morti. Nemmeno a quello che erano stranamente adorabili.

“Non ti sentire così piccolo, Levi,” concluse Eren. “Potresti essere piccolo rispetto all’universo, ma è solo perché l’universo è troppo grande. Devi essere tu a dare un senso alle cose.”

Rimasero in silenzio un paio di minuti, con gli occhi rivolti alla moltitudine di luci scintillanti che gli facevano da tetto. “Hai pensato tutte queste assurdità grazie alle stelle?” chiese Levi piano.

Eren scosse la testa. “No, ma sono state una buona scusa per altro.”

Levi si girò verso di lui, con uno sguardo minaccioso. “Sei stato furbo, moccioso.”

Eren gli sorrise a trentadue denti. “Ah, sì?”

Senza riuscire ad essere sarcastico, Levi rispose: “No, voglio solo romperti il naso.”

“Già. E cosa ti ferma?” chiese Eren compiaciuto.

“Ho una febbre da cavallo e non mi sento più gambe e braccia.”

La faccia di Eren sembrava divisa tra la necessità di scoppiare a ridere ed esprimere preoccupazione, contemporaneamente. “Cavolo, hai ragione. Quell’albero non è nient’altro che un'enorme rottura di palle.”

Forse fu a causa della febbre e della spossatezza, ma Levi rise un po’ troppo di gusto a quell’affermazione. “Te l’avevo detto.”

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 - Condannato ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Arrivo giusto in tempo con la traduzione ma sono di nuovo in ritardo con i commenti T__T, mi dispiace ma sono un vero e proprio fallimento, cercherò di rifarmi il prima possibile e rispondere a tutti dopo aver tradotto. Un grazie quindi a chi ha commentato e a chi ha inserito la fic tra i preferiti/seguiti/da ricordare, e anche a chi legge solo. Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: questo capitolo è stra-lungo, spero sia venuto bene... se pensate debba mettere 'violenza' o altro negli avvertimenti fate un colpo. Ovviamente il nome del bar si riferisce al 'corpo di guarnigione', per come è in inglese.


The 6th ward
CAPITOLO 13: Condannato

3 mesi, 20 giorni

Levi si era davvero ammalato di brutto, dopo la settimana in cui aveva fatto da babysitter al dannato albero. Hanji si era presa la briga di coprire tutti i suoi turni, in modo che lui avesse la possibilità di prendersi un paio di giorni per farsi passare la febbre persistente e, in generale, il fatto che si sentiva uno schifo completo. Anche se Hanji aveva fatto abbastanza, da rendere impossibile a Levi di riuscire mai a ripagarla, lui le chiese comunque di prendersi cura dello stupido albero, che lo aveva costretto a letto per quasi una settimana. Stranamente, però, ogni volta che lei andava ad innaffiarlo o ad occuparsi della sua cura, c’era qualcuno che l’aveva già fatto. Lei aveva tentato di fare il suo dovere, ma insisteva sul fatto che c’era qualcun altro che ci stava già pensando. Ovviamente, Hanji non aveva idea di chi fosse questo qualcuno, ma le cose stavano comunque andando bene.

Svegliandosi quel mattino, Levi fu sicuro di essere guarito e poter tornare finalmente a lavoro. L’influenza ha davvero uno strano modo di metterti K.O. quando sei nel mezzo di qualcosa di importante, per poi finire con il ritirarsi non appena arrivi al punto di pensare che non guarirai mai. Nonostante la sua prima tappa avrebbe dovuto essere il reparto sei, per recuperare le scartoffie di cui doveva occuparsi e mettere a posto tutte le cose che la sua momentanea sostituta aveva fatto incasinare, lui si diresse dritto dritto al boschetto dei pazienti, perché chiunque si era occupato del suo albero, aveva probabilmente fatto qualche guaio. Era un alberello particolare, e nessuno sarebbe mai stato in grado di prendersene cura come faceva Levi. Okay, magari era lui ad essere un po' troppo geloso del dannato albero, ma, considerando tutte le pene che gli aveva fatto patire, era anche giusto che lo fosse.

Avvicinandosi alla pianta, Levi notò che c’era un bel gruppetto di persone a girovagare per il boschetto. Quello era un fatto inusuale, ma magari qualche altro reparto stava piantando il proprio albero quella mattina. Ma, la cosa che si notava subito nel gruppo, era che tutti erano sospettosamente vestiti di bianco – completamente di bianco. Levi si sentì quasi stupido per non aver capito chi era che si stava prendendo cura dell’alberello di Giuda convalescente.

“Ehi, non è morto!” gridò Connie, puntando il dito verso Levi con eccitazione.

“Sembra che ho vinto la nostra scommessa.” disse Sasha.

Perfetto. Levi sperò di non venire mai a sapere quante scommesse erano state fatte sulla sua possibilità di morire, dopo essere stato vari giorni sotto la pioggia. “Quanto male avete trattato il mio albero?” chiese.

“Il tuo albero?” chiese Jean quando Levi raggiunse il gruppo.

Levi annuì convinto. “L’ho pagato io.”

“Qualcuno si è affezionato.” canticchiò Eren dalla sua posizione sotto l’albero, a mantenere la pompa mentre l’acqua scorreva piano sul terreno alla base del tronco.

Annie si spinse in avanti e afferrò il braccio di Levi con serietà, facendogli un sguardo così impassibile che Levi stesso si sarebbe agitato, se non l’avesse considerata una sfida. Nessuno vinceva contro di lui in una sfida di sguardi. Be’, anche se Annie era una buona concorrente, quindi magari potevano proclamarsi pari. “Grazie,” disse lei, con una compostezza quasi comica. “Grazie per aver rischiato la tua vita per l’albero.”

Reiner rise fragorosamente ai modi di fare di Annie, nonostante lo sguardo fulminante che gli rivolse lei. Mentre Bertholdt cercava educatamente di far chiudere la bocca a Reiner, Levi ispezionò l’albero. Sembrava stare sorprendentemente bene. A quanto pareva, i mocciosi non avevano rovinato quello che lui aveva iniziato. Qualcuno aveva persino piantato quelli che sembravano essere i fiori rubati da sotto qualche altro albero lì vicino, alla base del loro. Levi avrebbe scommesso che erano stati Connie o Sasha, o una combinazione dei due.

Portando la sua attenzione via dall’albero, Levi notò che i pazienti del reparto sei lo stavano osservando cautamente. Tutti sembravano stare aspettando il giudizio di Levi sul loro lavoro. “Sembra star bene.” concluse lui. Ci fu un sospiro di sollievo collettivo, e tutti tornarono a chiacchierare allegramente del tempo, dei progressi della pianta, del ritorno di Levi e di qualsiasi altra cosa potessero trovare da dirsi dei mocciosi mezzi morti. Levi ne approfittò per scusarsi ed andare ad occuparsi della montagna di lavoro che si era lasciato indietro. Chi poteva mai immaginare che fare l’infermiere richiedesse di compilare così tante scartoffie – soprattutto quando tutti i suoi pazienti erano praticamente morti.





Levi era diretto verso la sala computer centrale, per recuperare alcuni dei suoi file già schedati, quando fu salutato da Auruo e Petra. I due sembravano presi dai loro battibecchi amichevoli ma, alla vista di Levi, Petra lo aveva chiamato con una tale insistenza che lui non era riuscito a far a meno di avvicinarsi a loro.

“Abbiamo appena saputo, Levi!” disse Petra calorosamente. “Congratulazioni, te lo meritavi proprio.” Perché ogni conversazione che aveva con Petra finiva con l’avere lei che parlava di qualcosa su di lui, di cui lui stesso non era stato informato?! Ogni loro conversazione lo faceva sentire sempre più stupido.

“Eh – grazie?” riuscì a dire Levi. “Per ehm… cosa esattamente?”

Auruo gli fece uno sguardo allibito. “Che cosa intendi con ‘cosa’?” Levi lo guardò con aspettativa. Sputa il rospo, Auruo, forza. “La tua promozione, magari?”

Gli angoli della bocca di Levi si abbassarono mentre rifletteva su quello che gli aveva detto Auruo. Non sembrava stare mentendo. L’uomo sospirò. “Sei veramente l’ultimo in tutto l’ospedale ad essere venuto a sapere del tuo trasferimento?”

Quel commento finalmente provocò un cambiamento nell’espressione facciale di Levi. “Trasferimento?” ripeté piano.

Petra annuì, mentre un’espressione leggermente imbarazzata si disegnava sui suoi lineamenti. “Sì, quello che hai rifiutato.” sussurrò, come se fosse una cosa troppo scandalosa da pronunciare.

“Sei pazzo, Levi.” aggiunse Auruo, con una nota di pietà nella voce.

Levi non era molto sicuro di come sarebbe dovuta proseguire la conversazione. Per quel che ne sapeva, non aveva avuto nessuna promozione, e non aveva rifiutato qualcosa che non gli era nemmeno stata data. Pensò che fosse arrivato il momento di andare a farsi una chiacchierata con quelli di risorse umane, e, dunque, scusandosi dai suoi colleghi, si diresse dai signori perditempo che popolavano il loro l’ufficio. Non erano proprio le persone preferite di Levi, ma, a volte, erano gli unici con cui poteva confrontarsi quando aveva un problema – quale che fosse.





L’ufficio era pieno di scaffalature grigie, divise in armadietti chiusi, e puzzava di deodorante per le auto da quattro soldi. Dentro, Levi fu in grado di individuare l’unica anima viva in quello che, usualmente, era un posto alquanto trafficato. Chiese educatamente riguardo le voci sulla sua promozione, aspettando che l’uomo, sovraccarico di lavoro e con una pelata che gli prendeva la maggior parte della testa, che ricordava a Levi delle migliaia di altri impiegati di ospedale con cui doveva avere a che fare ogni giorno, gli rispondesse.

“Ah sì,” rimembrò l’uomo, con voce appesantita dalla fatica delle lunghe ore di lavoro. “Sei stato inserito nella tabella delle promozioni alcuni giorni fa. Ti era stato offerto un posto come caposala con un trasferimento nel reparto quattro e meno ore di lavoro.” L’uomo fece una pausa, in modo che il suo cervello riuscisse ad andare a tempo con la sua bocca. “Ma, a quel che mi ricordo, hai firmato il rifiuto, lasciando stare. Però non hai dato nessuna ragione.” aggiunse infine.

Levi fece una smorfia. Niente di tutto ciò gli faceva accendere una lampadina. “Posso vedere il foglio delle promozioni?” chiese. Qualcosa gli diceva che la sua firma non sarebbe sembrata sua e, infatti, quando l’affranto tipo riuscì a riesumare il foglio, nell’area dove avrebbe dovuto trovarsi la firma di Levi, c’era solo una triste, misera imitazione di questa.

“Non ho firmato questa roba,” disse Levi impassibile. “Non controllate nemmeno queste cose? Non sembra assolutamente la mia firma.”

Sbattendo le palpebre un paio di volte, l’uomo rifletté, fissando il foglio. “Ah, ehm. Giusto. C’è qualcosa che non va ora che la guardo,” disse con aria abbattuta. “Sono veramente mortificato di non aver controllato.”

Levi sospirò. Qualcuno aveva tentato di rifiutare la sua promozione al posto suo. C’era qualcuno che voleva il posto? Levi non riusciva a immaginare qualcuno che fosse al suo stesso livello in termini di rango e anzianità. Non che importasse, perché, anzianità o no, gli era stato comunque appioppato l’indesiderabile turno al reparto sei per quella rotazione.

Ah.

Forse Levi sapeva chi aveva rifiutato la sua promozione.





I mocciosi non sembravano più stare gironzolando per il boschetto dei pazienti, dunque Levi era andato a cercarli direttamente in reparto. Fortunatamente, Eren era solo nella sua stanza, proprio dove avrebbe dovuto trovarsi. “Hai del fegato, ragazzo.” ringhiò Levi, mentre spalancava la porta.

Eren girò la testa da un lato, mentre la sua faccia tradiva la serie di pensieri confusi che gli stava passando per la testa. “Eh?” Chiaramente non aveva capito cosa intendeva Levi.

“Va tutto bene, Eren,” disse Levi amaramente. “Non volevo la promozione. Volevo essere costretto a fare rotazioni in reparti del cazzo per il resto della mia carriera.”

Stavolta, la lampadina nella testa di Eren sembrò accendersi. La sua faccia sbiancò, mentre fissava le sue scarpe con finto interesse. Levi rimase in piedi sulla porta, le braccia incrociate, le sopracciglia incurvate e la bocca stretta in una linea sottile. “Ti interessa spiegare?”

Apparentemente ad Eren non interessava spiegarsi. Sembrava gli interessasse di più buttarsi giù dalla finestra. “Perché?” chiese Levi. “Cosa ho fatto di così male per farti sentire il bisogno di fare qualcosa di male a me di ritorno?”

Al posto di chiudersi ulteriormente al rimprovero, una scossa di fiera determinazione sembrò attraversare il corpo di Eren, mentre si sedeva composto in uno scatto. “Ti volevano trasferire!”

Levi strinse gli occhi. Quando era il suo turno di arrabbiarsi, nessun altro aveva il diritto di farlo. Era così che andava. La sua voce era pericolosamente bassa mentre riprendeva a parlare: “E’ quello che succede quando vieni promosso, Eren.” disse, sibilando il suo nome.

“Ti sei preso un impegno qui,” ritorse Eren a voce alta. “Ti sei già stancato di noi?”

“Dal giorno uno.” rispose Levi tagliente.

Ci fu un silenzio teso, in cui i due si fissarono con odio dalle due estremità della stanza, ma Eren lo interruppe, con voce brusca e distante: “Sapevo che avresti accettato. Avrei dovuto lasciare le cose come stavano.” Si girò dando le spalle a Levi. “Vai a dirgli che vuoi la tua dannata promozione, tanto probabilmente capiranno subito che quella è una firma falsa. Faccio schifo a falsificarle. Ed esci fuori di qui.”

Levi pensò di andarsene seduta stante, e tornare indietro per accettare la sua promozione, ma qualcosa nelle accuse di Eren lo fermò. Quello stronzetto. “Stai cercando di farmi sentire in colpa?” chiese. Eren si girò per alzare gli occhi al cielo. “Stai cercando di farmi sentire in colpa stronzo.”

“Sentirsi in colpa richiede avere una coscienza,” rispose Eren da dietro le sue spalle. “Vai a prenderti la tua dannata promozione.”

Levi avrebbe voluto percorrere la stanza, spingere Eren a terra e picchiarlo con tutta la forza che aveva in corpo. “Pensi che sia facile giocare a fare il circo con voi mocciosi? Non dovrei neanche essere in grado di vedervi. Mi state facendo impazzire!”

“Allora vattene!” Eren si era girato di nuovo verso di lui. “Tu puoi andartene, allora fallo.”

“Perché non sei morto come avresti dovuto?” gridò Levi. Forse con questa era andato un po’ troppo oltre, ma non ci vedeva più dalla rabbia.

L’offesa di Eren vacillò e la sua rabbia si mitigò un pochino. “Per lo stesso motivo per cui non sei morto anche tu, credo. Ma a quanto pare tu sei stato fortunato, quindi prendi il tuo sedere fortunato e vai a fare le cose che una normale persona fortunata fa.” La sua voce era sottile e triste quando aggiunse: “Vai.”

Levi lanciò un’ultima occhiata velenosa ad Eren, prima di uscire dalla stanza, sbattendo la porta con un po’ più forza di quanto necessario. Virando dritto verso la sala break degli impiegati, Levi rimandò tutte le scartoffie che doveva compilare. Aveva bisogno di un drink, e ne aveva bisogno adesso.





C’era un solo bar in città che Levi frequentava. Lui era un tipo abitudinario, e non aveva intenzione di cambiare la sua routine. Seduto al bar, lasciò che l’odore rustico ma raffinato di sigarette, e quello di terra del fumo di una pipa, lo cullassero in un umore meno ansioso. Quello era il tipo di bar che era quasi solo frequentato da persone anziane, e da quelli non interessati a serate alcool turbolente o feste del sabato sera. Il locale, di per sé, era piccolino, stretto tra un negozietto dove affittare smoking e una chiesetta. Se cerchi un bar, il modo più facile di trovarlo è trovare una chiesa. Sembra che vadano in coppia. Dentro, c’era un lungo bancone di quercia, segnato dal tempo, e un paio di salette private nel retro. Un vecchio jukebox d’epoca, e una collezione di sgabelli tutti diversi, completavano il familiare rifugio di Levi. Era un posto calmo e meditabondo – non un bar per chiunque, ma perfetto per quelli che volevano nascondersi da tutto e tutti. Il Garrison era il suo tipo di bar, e questo era tutto.

“Whiskey on the rocks.” sospirò Levi, tamburellando le dita sul liscio bancone di quercia, segnato leggermente da decenni di bicchieri e unghie.

Il barista si girò, smettendo di lucidare un bicchiere, e alzando le sopracciglia non appena lo riconobbe. “Levi! E’ passato qualche mese ormai, no?”

Levi annuì. “Sono stato un po’ indaffarato, Hannes.”

“I pazienti dell’ospedale ti sfiniscono?” propose lui con leggerezza, facendo cadere un paio di grossi cubetti di ghiaccio nel bicchiere.

Passandosi una mano tra i capelli stancamente, Levi annuì di nuovo. “Non hai idea.”

Hannes si girò verso la selezione di liquori in bella mostra dietro il bancone, scegliendo con cura una bottiglia, prima di versare il liquido ambrato nel suo bicchiere. Lo poggiò con cura sul bancone e lo spinse di fronte a Levi con la facilità dovuta alla sua esperienza. “Non sapevo che fossi un bevitore depresso.”

“Non sono depresso.” mormorò Levi, facendo un bel sorso.

“Certo, ma di solito le persone normali vengono qui a bere sui propri problemi. Non tu, però,” spiegò Hannes, riempiendo l’ormai quasi-vuoto bicchiere di Levi con nonchalance. “Questi devono essere dei pazienti veramente difficili.”

“Se solo sapessi.”

Hannes aveva un sorriso affettuoso sul volto. “Conoscendoti, non sono solo i pazienti ad essere difficili.”

Levi fece spallucce. “Dimmelo tu.”

Ridendo piano, Hannes tornò a lucidare bicchieri. “Non credo che tu abbia bisogno che te lo dica, mi sembra che hai già raggiunto le tue conclusioni.”

Buttando giù il secondo bicchiere di whiskey, Levi posò il mento sul bancone. “Forse.”

Il campanello sulla porta tintinnò mentre questa veniva aperta, ed entrarono un paio di uomini, parlando a voce alta. I clienti tranquilli, che già si trovavano nel locale, li guardarono con diffidenza: quello non era un posto per discussioni animate e grasse risate. Con grande delusione, Levi si accorse di conoscerli. Il nome di uno di loro era Keith, un tipo che lui avrebbe saputo definire solo come ‘un vero stronzo che in qualche modo riusciva ad abbassare il Q.I. di chiunque intorno a lui, ogni volta che apriva bocca’. I suoi amici erano vagamente conosciuti a Levi, ma non era comunque in grado di dare un nome alle loro facce.

Il trio si sedette di fianco a Levi, esplodendo in una risata all’imitazione di Keith di qualcuno che l’infermiere non aveva saputo riconoscere. Non poteva essere un’imitazione molto buona. Keith, alla fine, sembrò notare Levi, e diede un’odiosamente forte pacca sulla sua schiena. Fantastico. Toccarsi. La cosa preferita di Levi.

“Levi! E’ bello vederti lontano da quel dannato albero.” Keith lanciò ai suoi amici uno sguardo pieno di significato. “Avevamo quasi iniziato a credere che avessi smesso di fare l’infermiere per iniziare a vivere insieme alle creature dei boschi. Cioè, sei sicuramente abbastanza piccolo, ma lascia qualche ghianda ai tuoi amici scoiattoli!” Lui e i suoi amici scoppiarono in un’altra risata. Chiaramente questo non era il primo bar della serata. Ma se avessero scocciato ancora Levi, avrebbe ben finito per essere l’ultimo.

Hannes gli lanciò uno sguardo dispiaciuto. “Stiamo calmi, okay ragazzi? Cosa vi posso servire?”

Tutti e tre si fecero portare un giro di birra, mettendosi a parlare un pochino più chetamente. Poi, stanchi della loro conversazione, riportarono l’attenzione su Levi, che era arrivato al suo quarto bicchiere di whiskey. “E quindi, qual è la storia dietro l’albero che hai piantato? Non sei alla rotazione del reparto sei?” Rise Keith simpateticamente, le parole strascicate a causa della serata movimentata. “I pazienti non sono, in pratica, morti?”

“Faccio solo il mio lavoro.” riuscì a dire Levi, digrignando i denti.

“E’ fottutamente stupido,” rise lui, dando una manata sul bancone. Hannes fece una smorfia all’abuso dell’attrezzatura del suo locale. “Ucciderei per quei turni, però. Un gruppetto di morti e un paio di diagrammi vitali da controllare ogni giorno.”

“Ah, è un po’ più complicato.” mormorò Levi seccamente.

“Ma l’albero,” farfugliò Keith. “A nessuno importa del reparto sei, Levi. Quell’albero è una cosa fottutamente gay. E’ meglio se lo dissotterri al più presto, amico. Le persone pensano che sei pazzo. Ascolta il mio consiglio.”

No. Levi voleva solo infilare il suo piede così profondamente nella gola di Keith che i suoi avi ne avrebbero vomitato i lacci. Voleva dargli un consiglio? No – lui ne poteva decisamente fare a meno.

“Liberati di quell’albero, amico. Sradicalo e forse le persone smetteranno di parlare. Non c’è bisogno di fare il frocio sulla cosa.”

Hannes aveva smesso di lucidare il bicchiere che aveva in mano, i suoi occhi troppo occupati a seguire la conversazione che si stava svolgendo davanti a lui. Il suo sguardò pregò Levi di lasciar stare, di andarsene. E Levi annuì lentamente, un sorriso teso sulle sue labbra. Finì il bicchiere praticamente quasi pieno che giaceva davanti a lui, e poi si girò a fissare Keith con una smorfia schifata, che avrebbe dovuto essere sorridente.

Con la forza del suo intero corpo teso dal tallone fino alla punta delle dita, Levi tirò lo spesso bicchiere di vetro sulla faccia di Keith, rompendolo sul cranio dell’uomo, che urlò di dolore, crollando dallo sgabello. Quattro uomini finirono impilati uno sopra all’altro, tra pugni oscillanti e bicchieri lanciati in aria. Il Garrison finì con l’essere testimone di più azione quella notte, di quanta ne aveva vista dalla sua fondazione nel 1978.





“Hai qualcosa da dire a tuo discolpa?” chiese stancamente il poliziotto a Levi. Le risse da bar erano tutt’altro che rare, ma l’uomo in uniforme sembrava decisamente poco contento dell’intera situazione.

Levi scosse la testa. No, non aveva nulla da dire.

“Sei sicuro di non voler andare all’ospedale?” Gli fu chiesto per la quinta volta. Gli altri tre erano stati portati via per farsi ricucire i punti e controllare eventuali commozioni cerebrali. L’agente Tankert – l’uomo incaricato di scortare Levi – aveva mandato il suo partner avanti, all’ospedale, per annotare le dichiarazioni e raccogliere le denunce degli uomini, dopo i dovuti trattamenti medici. Un paramedico aveva avvolto la ferita sulla testa di Levi con della garza, per far fermare le forti perdite di sangue. A parte quello, Levi si era rifiutato più volte di andare in ospedale. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era di presentarsi al suo posto di lavoro ubriaco, coperto di sangue e scortato dalla polizia.

“Sono sicuro.” rispose Levi impassibile, aggiustandosi distrattamente le manette.

L’agente Tankert annuì simpateticamente. “Va bene, signore. Sono obbligato a ricordarle che né la polizia né la squadra di soccorso sono soggetti a responsabilità in caso di decesso dovuto alle ferite.

Levi grugnì ad indicazione di aver capito.

“Adesso la portiamo alla stazione per processarla.” concluse l’ufficiale Tankert, aiutando Levi a sedersi sul retro della sua macchina di polizia. Mentre si allontanavano dal Garrison, Levi vide con la coda degli occhi che Hannes stava agitando la mano tristemente, fermo all’entrata. Annuì una sola volta, scusandosi silenziosamente.





3 mesi, 19 giorni

Con un sonoro click, e il rumore cigolante di metallo su metallo, la porta della temporanea cella di Levi fu aperta, e l’agente Tankert entrò dentro. “E’ questo il tuo imbecille?” chiese a chi era dietro di lui.

Hanji allungò il volto oltre la spalla di Tankert. “Sì,” confermò. “E’ questo il mio imbecille.”

Tankert guardò Levi per un’ulteriore conferma. “Sono il suo imbecille.”

“Allora qual è il danno?” sospirò Hanji, parlando con l’agente.

“Be’, non abbiamo ancora finito di processarlo. Il proprietario del bar ha detto che è stato istigato dagli altri, ma, sfortunatamente, il tuo imbecille è stato il primo a colpire, il che vuol dire che non possiamo lasciarlo semplicemente andare. A rigor di termini, non credo che potremmo lasciarlo uscire senza il pagamento di una tassa.”

“Una cauzione?” chiese Hanji cupamente.

Tankert poté solo fare spallucce. “E’ difficile da dire per ora. Mi faccia controllare se l’agente Reiss può completare la sua scheda e continuare quello che ho iniziato. Faremo prima.” Stava per andarsene, ma si girò di nuovo, puntando minacciosamente il dito tra Hanji e Levi. “Non vi muovete.”

Levi fece suonare le sue manette, che erano ancora attaccate alla scrivania. “Non proprio possibile.”

Tankert se ne andò a chiamare l’agente Reiss, e Hanji entrò nella cella con uno sguardo di disapprovazione sulla faccia, le braccia incrociate sdegnosamente.

Levi rimase in silenzio.

“Ne vuoi parlare?”

“Non proprio.” rispose Levi.

Facendo spallucce, Hanji si sedette sulla sedia dall’altra parte del tavolo dove era stato interrogato Levi. “Va bene.”

Un paio di minuti dopo, una poliziotta bionda e bassina entrò dalla porta. Levi capì subito di averla già vista, e lei sembrò riconoscerlo a sua volta. “Ah!” esclamò, mentre le si illuminava il volto. “L’infermiere di Ymir!”

Levi annuì piano. Il nome della ragazza era Christa – l’unica visitatrice abituale di Ymir. “Scusami,” disse lei, riprendendo un atteggiamento professionale. “Ero la partner di Ymir all’epoca.”

Levi annuì. “Ha parlato con affetto di te.” disse, ripensando a lei.

“Conoscevi Ymir da prima dell’incidente?”

Merda.

“Ah, sì,” mentì Levi. Poi, dicendo la verità, aggiunse: “Eri importante per lei.”

Christa sorrise tristemente a Levi. “Lo so,” rispose. “La cosa era reciproca.”

Levi decise che lei gli piaceva. Sorrise gentilmente, annuendo. “Già.”

Hanji guardò entrambi come se si fosse persa qualcosa di importante.

Christa si schiarì leggermente la gola, rompendo il confortevole silenzio. “Sai cosa? Dimentichiamo tutto. Ho letto il verbale e so che quei tizi hanno praticamente chiesto di venire attaccati. Che senso ha essere un agente di polizia se non posso esercitare a mia discrezione, una volta tanto? Fammi andare a prendere le carte per il tuo rilascio.” Christa gli fece l’occhiolino, prima di andare a respingere le denunce.

Hanji lo occhieggiò sospettosamente. “Da quando in qua hai degli amici?”





“Sei sicuro di non volerne parlare?” chiese Hanji, mentre Levi scendeva dalla sua auto.

Levi le sorrise prima di chiudere la portiera. “Buonanotte Hanji.”

Lei fece un mugugno divertito, prima di accendere la macchina e dirigersi a casa sua. Mentre lui si avvicinava al suo edificio residenziale, notò una persona vestita di bianco seduta sugli scalini che portavano all’entrata. Levi riuscì ad arrivare esattamente di fronte ad Eren, al punto che le punte delle loro scarpe si toccavano, prima di essere notato. La testa di Eren, che fino a quel momento era stretta tra le sue mani, fissando a terra, si alzò alla vista delle scarpe di Levi.

Si contemplarono per un momento, prima che Eren chiedesse: “Sei veramente stato arrestato?”

“Sì.”

Il ragazzo gli fece uno sguardo contrito. “Ho sentito Hanji parlare al telefono con la polizia. Hai ucciso qualcuno?” chiese sospettosamente.

Levi ci pensò un secondo. “Ci ho provato.” ammise.

Rimasero lì, Levi in piedi ed Eren seduto, entrambi semplicemente ad esistere nella stessa realtà.

“Mi – ” iniziò a dire Eren.

Levi lo interruppe. “Lo so.”

“Sì.” finì Eren stupidamente.

“Anche a me.” disse Levi piano.

Eren sospirò e afferrò distrattamente l’orlo della camicia di Levi dalla sua posizione sugli scalini. “Mi dispiace.”

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 - Ciò che non è stato detto ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Scusate il ritardo di un giorno ma ieri avevo una consegna entro mezzanotte e quindi ho dovuto dargli la priorità. Vi avviso che il prossimo capitolo è il più lungo che c'è stato fino ad adesso quindi, sebbene dovrei avere il weekend libero per riuscire a tradurlo tutto, potrebbero esserci i soliti incidenti di percorso che non me lo permettono, perciò se ritardo un paio di giorni è per quello, ma niente panico! Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: scusatemi per gli errori di battitura!!!


The 6th ward
CAPITOLO 14: Ciò che non è stato detto

3 mesi, 16 giorni

Era ormai fastidiosamente ovvio, per Levi, che Eren lo stava evitando. E non lo stava nemmeno facendo palesemente, ma semplicemente rivelando un attento disinteresse nelle sue attività. Normalmente, Levi sarebbe stato grato di poter tornare alla sua tranquilla routine, in cui, finalmente, tutti lo lasciavano in pace, ma si era così stranamente abituato ad avere Eren continuamente alle calcagna che, anche se non l’avrebbe mai ammesso, quasi gli mancava. Pensava anche che si fossero chiariti una volta e per tutte, dopo la discussione dell’altro giorno, ma era come se entrambi sapessero che c’era troppo e, contemporaneamente, troppo poco, da dire ancora.

Inoltre, sembrava quasi che lo stessero evitando tutti, e non solo Eren. A quanto pareva, la notizia della violenta rissa con i suoi tre cari colleghi, si era diffusa a macchia d’olio. Ma, dal momento che la polizia aveva chiuso l’intero caso, l’ospedale con poteva prendere nessuna azione disciplinare nei confronti di Levi, anche se aveva revocato la sua promozione. Non che la cosa lo preoccupasse molto. Cosa lo preoccupava, infatti, erano le occhiate scandalizzate, e il modo terrorizzato in cui lo avevano iniziato ad evitare anche persone che, mai prima d’ora, avevano avuto qualche problema con lui. Sicuramente Levi aveva conciato per le feste Keith e i suoi amichetti, ma lui stesso era rimasto con un orribile taglio che partiva dalla fronte, per proseguire tra i suoi occhi e finire sotto quello destro. Onestamente, Levi era stato fortunato a non aver perso un occhio.

Qualunque ne fosse la ragione, però, era stato lui quello a beccarsi un sacco di critiche per l’intero accaduto. Petra, nonostante l’ovvia disapprovazione di Auruo, aveva continuato a rivolgergli la parola, e aveva persino fatto lo sforzo di cercare di includerlo nelle conversazioni, come se volesse far qualcosa per annullare tutta l’attenzione negativa che aveva attirato. Era un gesto gentile, ma non interamente necessario. Sinceramente, a Levi non fregava un emerito nulla se tutti avevano paura di lui o meno. Anzi, se la cosa gli teneva la gente lontano, non aveva praticamente nessun problema. Anche Hanji gli era stata vicina, anche se Levi non riusciva a fare a meno di sentire uno schiacciante senso di debito per essere stato cacciato di prigione da lei. Si era sempre immaginato come quello che avrebbe finito per aiutare lei ad uscire di prigione, ma la vita è strana e non fa altro che prenderti in contropiede.

Anche il reparto sei era un po’ teso ultimamente. Era come se tutti stessero cercando, un po’ troppo palesemente, di non parlare del fatto che la data in cui sarebbe stata staccata la spina a Jean, si stava avvicinando un po’ troppo velocemente. A Levi sarebbe piaciuto avere un po’ di saggezza, o perlomeno qualche parola di incoraggiamento per rompere il silenzio inquieto che caratterizzava i loro incontri, ma aveva sempre fatto schifo in questo tipo di cose. E, a quanto pareva, faceva schifo anche a scusarsi, perché Eren lo stava ancora evitando, al punto che non avevano veramente mai più parlato dal giorno in cui Eren lo aveva aspettato sulle scale del suo condominio, e Levi non gli aveva permesso di dargli delle vere e proprie scuse. Levi odiava le scuse. Odiava riceverle e odiava darle. Il rimorso non era nelle sue corde, e le scuse erano un po’ troppo simili ai rimorsi per i suoi gusti.

Però, quando Eren distoglieva lo sguardo dal suo, o si isolava dalle conversazioni in cui Levi era coinvolto, gli faceva venire voglia di afferrargli il volto e gridargli le sue scuse. Era una cosa stupida, ma Levi voleva che le cose tornassero come erano prima di avergli detto tutte quelle stronzate nella foga del momento. Ma la cosa più frustrante di tutte, era che Eren era stato in grado di fargli perdere la calma così facilmente. Perché diavolo gli aveva detto tutte quelle cose? E perché diavolo aveva rotto quel bicchiere sulla faccia di Keith? Certe reazioni impulsive non erano da lui. Doveva essere stato lo stress o qualcosa. Ma rimaneva che ogni volta che Levi era sul punto di scusarsi sul serio, non riusciva a farsi uscire le parole di bocca. In realtà, probabilmente, lui non sapeva nemmeno come fare a scusarsi.

Quella mattina, l’infermiere era arrivato al reparto sei, dopo essere passato attraverso dozzine tra colleghi bisbiglianti e gente che lo evitava, per trovare tutti i mocciosi riuniti nella stanza di Sasha. Stava per entrare e controllare che fosse tutto a posto, quando si fermò, notando che Jean non era tra loro. Non era una cosa così strana, ma Jean, di solito, si asteneva dalle attività di gruppo solo quando Marco veniva a visitarlo. Ma quella non era una giornata aperta ai visitatori, quindi Levi decise di controllare prima la stanza di Jean, per vedere se c’era stato qualche cambiamento di orario.

E sì, effettivamente Jean era da solo – niente visitatori. Il ragazzo era seduto in una posizione rigida, su una sedia di fianco al letto, a fissare intentamente il suo corpo immobile nel silenzio della stanza, disturbato solo dai rumori dei monitor e i bip vari delle macchine che indicavano che era ancora, in qualche maniera, vivo. Levi si permise di entrare e fu sorpreso quando Jean non alzò lo sguardo dopo la sua intrusione.

“Stai dando una festa?” chiese Levi, attirando l’attenzione di Jean. “Mi dispiace di non essere stato invitato.”

Jean fece spallucce, con un sorrisino sul volto. “C’era una lista di invitati molto esclusiva.”

Unendosi a lui sul lato del letto, Levi iniziò a controllare i tubi e a leggere i vari monitor, assicurandosi che tutto stesse andando come doveva. “Morirò presto.” disse Jean improvvisamente.

Levi si fermò dalla sua attività di routine, e guardò Jean con attenzione. “Lo so.”

“Sono già morto?” chiese Jean seriosamente. “Cioè, non è possibile che possa rimanere qui, vero? Non c’è niente che si possa fare per me?”

Levi scosse la testa. “Niente.”

Chiudendo gli occhi, il ragazzo annuì stancamente. “Non sono sicuro se la cosa mi faccia sentire meglio o peggio,” rifletté. Levi non gli rispose per un po’, e allora lui fece un sospiro frustrato. “Diamine,” ringhiò. “Davvero non mi va di morire.” Poi si prese una pausa, passandosi le mani in faccia con rabbia. “Merda.”

Levi non era stato preparato per tutto ciò. “Neanche a me.” ammise.

Jean lo guardò cautamente. “Non stiamo per avere qualche discussione strappalacrime, vero?”

“Col cavolo.”

Levi continuò a scribacchiare numeri e altre informazioni nella sua cartella, che aveva ritirato dallo spazio apposito alla fine del letto.

“Dunque tu ed Eren state avendo una sorta di crisi di coppia?”

Levi lo guardò male. “Molto divertente.” disse impassibile

Jean fece spallucce, con un sorrisetto divertito stampato in volto. “Come vuoi, amico. Tutto quello che so io è che vi state comportando in modo strano. E’ come se tu avessi paura che se incrociate gli sguardi, qualcosa possa distruggersi.”

Levi fece un mugugno. Mocciosi ficcanaso.

“Quanto l’hai fatta grossa?”

Per qualche ragione strana, quella domanda lo fece sorridere. “Abbastanza grossa,” rise. “Gli ho detto che è una rottura di palle.”

“Mah,” disse Jean, agitando una mano in aria come se non fosse importante. “Lo siamo tutti, se lo doveva aspettare. Eren è la più grande rottura di palle dell’intero ospedale.”

Levi annuì. “Gli ho anche detto che avrei voluto che fosse morto, come avrebbe dovuto fare fin dall’inizio.” aggiunse con riluttanza.

“Cazzo amico,” rispose Jean. “L’hai fatta proprio grossa.”

“Grazie.” grugnì Levi.

“Eren è fastidiosissimo e la maggior parte del tempo vorrei ucciderlo,” iniziò il biondo. “Ma devi avere un po’ più di tatto su certe cose. Lo sai che praticamente ti adora?” Levi non rispose e Jean fece spallucce. “Ti adora così tanto che è diventato persino un mio problema.”

“Questo lo dici tu.” mormorò Levi.

“Sai qual è la cosa peggiore di Eren?” Jean sembrava infastidito al solo pensiero. “Credo che la cosa peggiore sia che non si fa abbattere mai. Ogni giorno, mi vorrei strappare i capelli dalla testa e urlare, affinché il mondo smetta di girare, perché non sopporto più questa situazione. Ma Eren si comporta come se avessimo qualche handicap minore. Siamo morti ma è come se a lui avessero detto che è diventato daltonico. Fottuto idiota.”

Levi annuì con una risatina. “E’ fatto così, no?”

Scuotendo la testa, Jean rise con incredulità. “Eccomi qui a tentare in tutti i modi di non scoppiare a piangere ogni volta che vedo Marco o il mio stesso cadavere, e lui la prende come se fossero cose che ti succedono tutti i giorni. Io sono fottutamente terrorizzato e lui è come se fosse andato a fare una scampagnata.”

“Sta solo cercando di resistere,” ragionò Levi. “Nessuno vuole morire.”

“Puoi dirlo forte.”

Rimasero seduti lì in tranquillità, sorridendo a nulla in particolare. L’atmosfera era stranamente leggera considerando la serietà del tema della conversazione. “Andrà tutto bene, vero?” Levi non era proprio sicuro su come rispondere, e probabilmente la cosa era evidente sul suo volto, perché Jean si corresse subito. “Cioè, Io – ” fece una pausa, cercando le parole. “Non farà male, vero? Tu sei quasi morto una volta, no?”

Annuendo con riluttanza, Levi disse: “Sono morto una volta. Ventitré secondi prima che mi trascinassero via dall’inferno.”

“Te lo ricordi?”

Un migliaio di possibili risposte passarono per la mente di Levi, ma sembrava come se lui non fosse in grado di trovarne una adatta ad esprimere quello che voleva. Dopo un paio di secondi di riflessione, sospirò. “E’ una sensazione… familiare. Non avevo paura,” disse cautamente. “E’ difficile da spiegare.”

“Be’, io sono fottutamente terrorizzato,” rise Jean. “Mi potresti fare un favore?”

“Farò quello che posso.” rispose Levi.

“Tu sarai lì, no? Quando tirerò le cuoia?”

Con quello che sperava fosse uno sguardo incoraggiante, Levi annuì. “Farò in modo di esserci.”

“Solo – ” farfugliò Jean e Levi notò che gli tremavano le mani. “Assicurati solo che io non faccia qualcosa di terribilmente imbarazzante. Del tipo non farmela fare addosso, o iniziare a piangere e cose del genere. Sono terribilmente spaventato, ma non voglio che loro lo sappiano.”

Levi suppose che Jean si stesse riferendo ai pazienti del reparto sei. Annuì. “Questo posso farlo.”

“Sei un stronzo,” disse Jean affettuosamente. “Ma mi piaci, sai?”

Sorridendo leggermente, Levi scosse la testa “Ci vuole uno stronzo per riconoscerne un altro, eh?”

“Va bene, va bene,” disse Jean, alzandosi dalla sedia, con uno sguardo di determinazione sul volto. “Posso farcela. Non voglio ma lo farò.” Era quasi come se si stesse preparando psicologicamente per un evento sportivo. “Andrà tutto bene.” disse con convinzione.

“Non sei poi così diverso da Eren, sai?” disse Levi maliziosamente.

La sua affermazione provocò un’espressione di puro orrore in Jean. “Ehi, non ti permettere.”

Alzando le mani in segno di resa, Levi si alzò per uscire dalla stanza. “Va bene, perlomeno non sei stupido quanto lui.”

“Puoi dirlo forte,” rispose Jean fieramente. “E per Dio,” aggiunse, mentre Levi apriva la porta per andarsene. “Fai pace con lui. Digli che sei uno stronzo, digli che sei tu quello stupido. Leccagli i piedi, non mi interessa, ma facci pace. Eren da silenzioso e meditabondo è ancora più fastidioso del normale.”

“Non credevo potesse essere possibile.” rise Levi.

“Sì, nessuno lo immaginava. Ma eccoci qui.”

Levi si girò per uscire, ma esitò un secondo, richiamando l’attenzione di Jean un’altra volta. “Non mi ricordo molto bene, ma mi sembra che morire è come essere così stanchi che non riesci a pensare a nient’altro che a dormire, ma nessuno te lo lascia fare. E poi, qualcuno ti prende per mano e ti dice che va bene se ti addormenti. Onestamente, credo che sarà la cosa più facile che hai mai fatto.” Senza girarsi per vedere la reazione di Jean, Levi si ritirò dalla stanza.





“Ehi, moccioso!” Eren era da solo, a gironzolare intorno all’albero di Giuda, facendo il broncio, dal momento che si era isolato dal gruppo riunito nella stanza di Sasha non appena Levi era entrato. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma Levi lo precedette.

“Mi dispiace.” Eren gli fece una faccia confusa. “Sono uno stronzo e mi dispiace.”

“Ti dispiace per cosa?” chiese Eren sospettosamente.

Levi digrignò i denti. Dillo, forza. “Mi dispiace per averti detto tutte quelle stronzate, mi dispiace di essermi ubriacato e aver picchiato a sangue i miei colleghi, mi dispiace che mi hai dovuto aspettare sulle scale del mio condominio per scoprire se ero ancora vivo, e mi dispiace se faccio schifo a scusarmi.”

Eren pensò un attimo a quello che gli era appena stato detto, con uno sguardo disorientato stampato in faccia.

Con un sospiro stanco, Levi aggiunse: “E mi dispiace di fare apparentemente così schifo ad esprimermi da averti fatto pensare che avrei lasciato te e gli altri mocciosi per un aumento.”

“Non sono arrabbiato con te,” disse Eren, con un sorriso confuso che gli stava lentamente stirando le labbra. “Pensavo che tu fossi arrabbiato con me.”

Levi strinse gli occhi. “Io pensavo che eri tu quello arrabbiato con me, stronzo. Per quale motivo dovrei essere arrabbiato con te?”

“La questione della promozione? Il fatto che ti costringo a subire le mie angosce da morto? Essere una rottura di palle? Non lo so, le solite cose.” rise lui.

“Be’, tu ti sei già scusato per quelle stronzate, quindi siediti e fammi scusare come una persona normale.” Eren si sedette lì, guardando Levi in aspettativa. “Ah, dannazione, faccio proprio schifo in queste cose. Siamo a posto?”

“Tu lo sei. Io sono quasi morto.” scherzò Eren.

“Be’, mi dispiace anche per quello allora. Ma siamo a posto, vero?” Levi fissò intensamente Eren negli occhi. Probabilmente non era la migliore tecnica per guadagnarsi il perdono, ma Levi era un novellino quando si trattava di fare queste cose.

“Come lo saremo sempre,” disse Eren affettuosamente. Levi sospirò e rilassò il volto, spostando il suo sguardo tagliente verso l’orizzonte, per dare una pausa ad Eren, dallo snervante scambio di occhiate. “Deve essere stata una brutta rissa.”

“Eh?” Levi guardò di nuovo verso Eren, che stava gesticolando, indicando il suo occhio.

“La tua faccia. Ehm, è messa abbastanza male,” Levi istintivamente toccò la garza avvolta intorno alla sua testa, che era lì più per la tranquillità degli altri che per la sua salute. Le ferite non avevano una bella faccia. “Quanto eri ubriaco?”

“Non ne parliamo,” disse Levi, ricordando l’incidente non senza rimorsi. “A quanto pare divento molto protettivo quando si tratta di alberi, se ho bevuto troppo.”

“Non morire, okay?” disse Eren dolcemente. Levi fece una mezza smorfia, in uno sguardo di domanda. “Intendo dire – non è molto divertente.” aggiunse Eren.

“Va bene,” concesse Levi. “Niente morti. Niente morti e niente più prigione.”

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 - Jean ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Finalmente sono qui... scusate l'attesa ma questo capitolo veramente non finiva mai, e mi dispiace dirvi che anche il prossimo è terribilmente lungo, quindi l'unica cosa che vi posso promettere e che non ci metterò 2 settimane per aggiornare ma potrei comunque metterci una decina di giorni. Mi dispiace tanto, anche se credo che sia questo che il prossimo siano due gran bei capitoli, quindi penso sia giusto perderci un po' di tempo e tradurli come si deve. Sono anche in ritardo con i commenti T_T, mi dispiace. Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: probabili errori di battitura e... il capitolo è stato scritto prima dell'uscita dell'OVA dedicato a Jean quindi si spiega la famiglia inventata di sana pianta xD


The 6th ward
CAPITOLO 15: Jean

3 mesi, 8 giorni

Stetoscopi, certo. Termometri? Sicuramente. Medicazioni, garze, agenti sterilizzanti, guanti in lattice, mascherine facciali, aghi sterilizzati e anche antidolorifici. Queste erano tutte cose che appartenevano a Levi, e che si trovavano nella saletta delle infermiere del reparto sei. Ma, il bambino biondo che sembrava essersi appena alzato dal letto, sicuramente non era una di quelle. E non era certamente qualcosa di cui Levi aveva bisogno, o che era abituato a trovare nella sua piccola oasi di pratici attrezzi di tutti i giorni.

Con uno sguardo svergognato e calcolatore, il bambino rimase immobile, seduto con le gambette che ciondolavano dagli scaffali, sterilizzati da Levi. Be’, che, una volta, erano stati sterilizzati. Levi fissò lo sguardo negli occhioni del bambino, sfidandolo a dargli una qualche spiegazione. Ma, non interessato a rispondere alla sua silenziosa domanda, il bambino sorrise leggermente, aumentando la frequenza del movimento delle sue gambe.

“Ciao.” provò a dire Levi, sperando di convincere il ragazzino a dargli una spiegazione, e magari anche di intimidirlo un po’. Non si faceva di certo scrupoli per cose così stupide.

“Ciao.” rispose il bambino con insolenza. Era come se fosse Levi ad essere l’intruso e il bambino stesse semplicemente cercando di essere educato, nonostante tutto. A parte il salutarlo, però, sembrava che non avesse nessuna intenzione di continuare la conversazione.

“Sei un infermiere?” chiese Levi impassibile.

“No.” I talloni delle sue scarpe stavano sbattendo contro le porte degli scaffali, mentre lui continuava a muovere le gambe, creando un suono irritantemente ripetitivo.

“Sei in coma?” chiese Levi retoricamente.

Il ragazzino piegò la testa da un lato. “Che cos’è un coma?”

Levi fece un’espressione accigliata. “Sei morto, ma i tuoi organi non lo sanno.”

Scuotendo la testa, il bambino disse: “No, non sono un coma, ho cinque anni e un quarto.”

Annuendo una sola volta, Levi rispose: “Allora non dovresti stare qui, signor cinque anni e un quarto.”

“Sei molto basso,” osservò il ragazzino senza cattiveria. “Sei un grande?”

Levi strinse gli occhi. “Dicono di sì.”

“Sei un dottore?”

“Sono un infermiere,” rispose Levi, stanco di essere interrogato. “Perché sei qui?”

“Io pensavo che tutte le infermiere fossero femmine.” proseguì il piccolo, ignorando la sua domanda.

“Già, io non lo sapevo.” disse Levi seccamente.

“Puoi far star meglio mio fratello?” chiese il biondino innocentemente. “I dottori hanno detto che non sta bene.”

Prendendo in considerazione la proposta, Levi si poggiò sullo scaffale di fronte al suo. “Forse. Qual è il problema, moccioso?”

“Mio fratello non sta bene. Come ti chiami?”

Cercare di portare avanti una conversazione con questo mocciosetto seduto sui suoi scaffali era un po’ come predire i numeri a lotto. “Levi. Perché sei qui?” Avrebbe giocato al suo gioco.

“E’ un po’ strano,” osservò il bambino. “Il mio è Benny. Cos’è questa cosa?” chiese poi, prendendo uno stetoscopio.

“Con quello posso sentire il battito del cuore delle persone,” spiegò Levi brevemente. “Io penso che il tuo, di nome, sia strano.” aggiunse.

“Non è vero,” contestò il bambino. “Senti il battito del cuore di mio fratello con questo? Mamma dice che non funziona perché sono successe delle cose al suo corpo nell’incidente. Posso sentire il cuore di qualcuno?”

Levi cercò di dare un ordine alla raffica di domande. “Tuo fratello è in ospedale?” In realtà voleva solo trovare i genitori del bambino il prima possibile, e tornare alla sua, relativamente pacifica, giornata nel reparto sei. Le giornate di visita erano quelle in cui non veniva scocciato dai mocciosi morti.

“Mio fratello si chiama Jean. Lui è molto più figo di me.” disse il ragazzino distrattamente, giocando con la parte dello stetoscopio che va nelle orecchie.

Ah.

Giornata di visite.

Jean sarebbe morto presto, quindi era normale che tutta la sua famiglia si fosse presentata il giorno delle visite, anche se lui non aveva mai parlato di un fratello minore.

Levi, comunque, non era tagliato per fare il babysitter. “Vuoi che ti riporti dai tuoi genitori?” chiese, offrendo una mano a Benny per aiutarlo a scendere dallo scaffale.

Benny ci pensò su un momento, ma scosse la testa, rifiutando l’aiuto. “No grazie, signor infermiere Levi. Non mi piace molto, non è come Jean.”

“Cosa vorresti dire?”

“Jean mi dice un sacco di storie divertenti e gioca a baseball con me e mi porta a fare i giri in macchina la sera quando mamma e papà dormono. Mi riesce anche a portare sulle spalle come un supereroe. Quello non è Jean, dorme sempre.” disse il bambino, con tono di voce imbronciato.

Levi annuì, ritornando alla sua posizione sullo scaffale di fronte, con le braccia incrociate. “Sì,” disse, “Hai ragione.”

“E’ colpa mia sai,” annunciò il ragazzino impacciatamente, tirando un paio di guanti di lattice dallo scatolo sul bancone, che però erano troppo grandi per le sue manine. Benny alzò lo sguardo verso Levi, per trovarlo ad aspettare silenziosamente che continuasse. “Stavo giocando sulla strada, dove non avrei dovuto. Jean mi ha spinto quando stava venendo una macchina che l’ha colpito.” Accigliandosi, Benny fissò con tristezza le sue mani guantate. “Ho rovinato tutto.”

Levi fissò il bambino, pensando bene alle sue prossime parole. “Ti dispiace?”

“Sì,” rispose lui come se fosse la cosa più ovvia del mondo, “Ma non so come dirglielo. Non si vuole svegliare.”

Levi fece una risatina e Benny lo guardò preoccupato. “E tu credi che il tuo fratellone non sia abbastanza intelligente da aver capito che ti dispiace? Rendigli giustizia, bimbo.”

Benny tornò a guardarsi le mani. “Mia mamma non riesce neanche a guardarmi. E piange anche tantissimo.”

Rimasero in silenzio per un paio di minuti, Benny a guardarsi le mani e Levi a guardarlo contemplativamente. Non era mai stato bravo con i bambini. O nelle cose di famiglia. O con gli esseri umani in generale. Tutto quello che sapeva era che non si sentiva di costringere il bambino a tornare nella stanza di Jean. Sapeva fin troppo bene quanto potesse diventare triste l’atmosfera nel reparto sei. Però, era quasi ora della sua pausa pranzo, quindi non sapeva bene dove portarlo. “Vuoi un panino o qualcosa?” chiese, attirando la sua attenzione. “Questo posto è una fottuta depressione.”

“Quella non è una bella parola.” disse Benny in tono accusatorio.

Levi fece spallucce. “E io non sono una bella persona. Ti conviene abituartici.”

Benny rise. “Okay, andiamo signor infermiere Levi.” Stavolta, afferrò la mano tesa di Levi e saltò giù dallo scaffale, toccando con i piedi a terra, con un piccolo tonfo. Levi lo condusse fuori dal sesto reparto, con Benny che si teneva ad un lembo della sua camicia.

Erano uno spettacolo singolare, Benny e Levi, e l’uomo non riuscì a fare a meno di notare gli sguardi straniti, i sorrisetti e i sussurrii che stavano provocando nei suoi colleghi. Contando il tempo che tutti passavano a non lavorare, era sorprendente che c’erano ancora persone che venivano in quell’ospedale. Comunque, Benny non sembrò notare la cosa, mentre seguiva Levi, ancora appigliato alla sua camicia come se, lasciandola andare, lui sarebbe scomparso per sempre. Una volta entrati nella caffetteria, Levi stava per ordinare qualcosa anche per il bambino, ma Benny insistette per ordinare da solo, alzandosi sulle punte per raggiungere il bancone e dire al cassiere cosa voleva. Levi stava per chiedere subito dopo di lui, ma Benny disse al cassiere di dargli la stessa cosa che aveva chiesto lui. A quanto pareva, che gli piacesse o no, Levi avrebbe mangiato un panino prosciutto e formaggio con contorno di patatine fritte.

Mangiarono in silenzio, Levi totalmente disinteressato agli guardi che stava ricevendo dai suoi colleghi. No, non aveva un figlio. No, non stava facendo da babysitter ad un bambino. Le persone parlano troppo. Benny interruppe il silenzio, con la bocca piena di patatine. Levi non riusciva neanche a capirlo a causa del cibo in bocca. “Eh?”

Benny deglutì. “Tu ce l’hai un fratello?”

Levi scosse la testa. “No. Ci sono solo io.”

“Non ti sei sentito solo?” chiese Benny, tirando via la crosta di pane dal suo toast.

Levi fece una pausa, fermando il panino a mezz’aria. “Sì,” disse onestamente. “Ma alla fin fine, mi è andata meglio così.”

“Sei proprio strano.” disse Benny con fare accusatorio.

“Ehi. Ci vuole uno strano per riconoscerne un altro,” disse Levi tra un boccone e l’altro. “Un po’ di rispetto, dannazione!”

“Non puoi dire quella parola.” sibilò Benny.

“Be’ diamine, a quanto parte nessuno me l’ha mai detto.” grugnì Levi.

Benny rise incredulo. “Ma tua mamma non ti ha mai insegnato che non si dicono certe cose? Mia mamma mi avrebbe chiuso in camera mia per qualcosa come cento anni al tuo posto!”

Levi fece spallucce. “Sì, be’, mia mamma è morta, e io dico il diavolo che mi pare.” rispose Levi testardamente, finendo il suo panino.

Sembrando imperturbato dalla rivelazione di Levi, Benny si allungò sul tavolo e rubò una manciata di patatine di Levi. “Se avessi una mamma, ti metterebbe in punizione per un milione di anni.”

Levi lo bloccò con le mani, proteggendo le patatine dalla presa di Benny. “Nessuno mi dice cosa posso fare.” insistette, un po’ infantilmente.

Alla fine, Benny riuscì a infilare una mano oltre la barricata creata da Levi, e a sgraffignargli qualche patatina, nonostante l’impegno dell’infermiere nel difenderle. “Visto che non hai una mamma, ti metterò in punizione io.”

Ridacchiando, Levi si arrese, lasciando il resto delle sue paratine a Benny, e spingendole dall’altra parte del tavolo, in modo che lui non dovesse stendercisi sopra con quasi tutto il corpo, per raggiungerle. “Buona fortuna, allora, ragazzo.”

Dopo un pranzo relativamente calmo, Levi si ricordò che ancora non aveva innaffiato il suo albero quel giorno. Quando offrì a Benny di riaccompagnarlo dai suoi genitori, lui si rifiutò, decidendo di seguirlo nel boschetto nord e guardarlo annaffiare il giovane albero di Giuda.

“A che serve questo albero?” chiese Benny, mentre Levi era in piedi di fianco all’arbusto, lasciando che l’acqua cadesse dalla pompa sulle sue radici. Una domanda migliore era come mai i bambini facevano tutte queste domande.

“E’ per un gruppetto di ragazzi morti.” disse Levi.

“Se sono così morti, perché dovrebbero volere un albero?” chiese Benny sospettosamente, giocando con il fango con un ramoscello.

“Me l’hanno detto loro.” rispose Levi speditamente.

Benny ci pensò un attimo. “Tu puoi parlare con i morti?”

“Sì, ma solo con quelli che non hanno capito come morire.”

“Non c’è bisogno di capire come morire.” obiettò Benny dubbiosamente.

“A quanto pare qualcuno ne ha bisogno.” Levi spense la pompa e fece un passo indietro per guardare l’albero.

Benny stava scrivendo il suo nome sul terriccio sotto l’arbusto con il ramoscello di prima. La ‘E’ era al contrario, ma a parte quello era tutto giusto. “Puoi parlare con mio fratello?”

Ragazzo intelligente. “Sì.”

“Mio fratello è morto?”

Benny alzò lo sguardo dalla scritta e guardò Levi con serietà. Dannazione, il bambino di meritava di sapere la verità come chiunque altro. “Sì. Sta solo aspettando che l’ospedale lo lasci finire di morire. Ci sono delle macchine che non gli permettono di andarsene, quindi il suo fantasma è ancora qui.”

Annuendo solennemente, Benny si alzò in piedi, togliendosi la polvere dai pantaloni. “E’ triste?”

“Credo.” disse Levi piano.

Benny afferrò la sua mano e Levi lo guardò con una certa curiosità. “Potresti dire a mio fratello delle cose, signor infermiere Levi? Visto che puoi parlare con i morti?”

Ah, al diavolo. “Va bene.”





Levi trovò Jean a fare il broncio vicino la stanza di Reiner, probabilmente nel tentativo di evitare il triste raggruppamento di familiari che aveva riempito la sua camera per quella giornata.

“Hey Jean,” sbiascicò Levi. “Ho trovato qualcosa che ti appartiene. Ti somiglia anche un po’.”

Jean si girò, e la sua espressione si incupì non appena vide il suo fratellino lì in piedi, con la manina che stringeva testardamente quella di Levi. Germi schifosi. Jean aprì la bocca per dire qualcosa, ma Levi lo interruppe.

“Il ragazzo ha delle cose da dirti, quindi stai zitto ed ascolta.” Levi tirò via la mano dalla stretta di Benny e lo spinse un paio di passi in avanti, per farlo stare di fronte al fratello. Benny si girò a guardarlo poco convinto. “Sta ascoltando, moccioso. Vai.”

Benny fissò lo spazio vuoto di fronte a sé. “Ehm, ciao Jean.” disse, per poi fare una pausa, fissando lo sguardo sui lacci delle sue scarpe. “Mi dispiace tanto, è tutta colpa mia.”

Jean sospirò, e poi sorrise tristemente al fratellino. “Gli vorresti dire che non è colpa sua, Levi?”

Levi annuì. “Jean dice che non è colpa tua ragazzo.”

Benny continuò a fissare le sue scarpe e Jean fece un passo in avanti per posargli una mano sulla spalla. “Sono davvero fiero di te,” disse stringendo i denti, con la voce un po’ tremante. “Starai bene. Lo sei sempre stato e lo sarai sempre.”

Questa non era una cosa facile. Levi si sentiva come se si stesse immischiando in una conversazione molto personale. Ma era un necessario mediano per lo scambio di informazioni. “E’ fiero di te, ragazzo. Dice che farai grandi cose.”

“Farei qualsiasi cosa per avere anche solo un paio di anni in più, se questo mi permettesse di vederti crescere. Mi dispiace così tanto.” disse Jean, con gli occhi vergognosamente pieni di lacrime.

“Gli dispiace di non poterti veder crescere.” ripeté Levi piano.

Jean rise, cercando di fermare il tremolio nella sua voce e asciugandosi le lacrime dagli occhi. “Adesso devi vivere per entrambi, amico. Ma andrà tutto bene. Le stelle hanno sempre brillato per te.”

Levi non riusciva ad aprire la bocca. Queste non erano parole che avrebbe dovuto pronunciare lui. Ma Jean lo guardò con fare supplichevole e Levi si costrinse a muovere le labbra. “Ha detto che andrà tutto bene. Le stelle sono sempre state dalla tua parte, ragazzo.”

Benny si accigliò verso nulla in particolare, cercando di capire. “Ha paura? Mamma dice che Jean andrà in paradiso presto.”

Jean guardò Levi. “Che cosa gli devo dire? Che suo fratello è dannatamente terrorizzato?”

Levi scosse la testa, incapace di rispondere. “Digli quello che pensi abbia bisogno di sentire.” propose.

“Digli che io – ” fece una pausa, “Digli solo…” si fermò di nuovo. “Non ne ho idea.”

“Non lo sa,” Levi disse la verità, “Ma io credo che stia cercando in ogni modo di non esserlo.”

Benny annuì, con uno sguardo determinato sul volto. “Va bene. Se lui non ha paura allora non l’avrò neanche io. Jean non ha il permesso di essere più impaurito di me.”





3 mesi, 5 giorni

Erwin si era chiuso nella stanza di Jean con la famiglia del ragazzo, per spiegare le varie formalità con praticata cortesia e in un’educata atmosfera di condoglianze. Levi era in piedi fuori la stanza, con Benny che gli stava stringendo la mano, con così tanta forza che si stava iniziando a chiedere se una mano ce l’aveva ancora oppure no. Jean era di fianco a Benny, a massaggiarsi la testa nervosamente. Rimasero lì in totale silenzio, ignorando la triste combriccola nella camera di Jean. Nessuno voleva veramente parlarne.

Marco si presentò in quel momento e Benny lo salutò entusiasta, come se nulla avesse potuto renderlo più felice di vedere Marco quella mattina in quel particolare luogo. Anche Marco sembrò contento di vederlo. “Hai fatto amicizia?” scherzò, liberando Levi della presenza del bambino.

“Lui può parlare con le persone morte,” lo informò Benny convinto. Marco fece un sorriso confuso a Levi, che si agitò con ansia. “Ho parlato con Jean.” aggiunse il bambino.

“Ah sì, e cosa ha detto?” chiese Marco scherzosamente.

“Ha detto che non mi devo sentire triste e che avrebbe voluto vedermi crescere, e gli dispiace che non può.” Il sorriso di Marco vacillò un secondo. “Ah, e che non sa se ha paura, ma che non può avere più paura di me, quindi se io non ho paura non ce l’ha neanche lui.”

Marco rise affettuosamente. “Credo proprio che lui possa parlare veramente con i morti.”

Levi fece un mugugno.

Erwin uscì dalla stanza, lasciando la porta aperta dietro di sé. “Inizieremo fra un paio di minuti, se vuoi entrare.”

Levi non voleva, ma non c’era scelta. Doveva entrare. E così, insieme con Marco, Benny e Jean, ed il resto dei pazienti del reparto sei, Levi si infilò nella stanza affollata.

La fine di Ymir era stata molto diversa. Con solo due persone, che non avevano neanche pianto, era stato relativamente tranquillo. Questo caso, però, non era proprio la stessa cosa. Nessuno stava strillando o piangendo rumorosamente, ma la mamma di Jean stava singhiozzando silenziosamente in un fazzoletto, mentre il padre era stoicamente in piedi al suo fianco, con un braccio intorno alle sue spalle. C’erano un altro paio di parenti non identificati, sparpagliati per la stanza, ma tutti sembravano più stanchi che altro. Benny e Marco rimasero in piedi vicino al letto, perché Benny non sembrava molto incline ad avvicinarsi troppo all’invalido che non era stato in grado di associare al suo vivace fratello.

Gli altri pazienti del reparto sei erano raggruppati rispettosamente in un angolo della stanza, a guardarsi cautamente l’un l’altro, come se avessero paura che Jean potesse rompersi in mille pezzi se uno di loro avesse detto qualcosa.

Eren fu il primo a parlare. “Buona fortuna lì fuori,” disse seriamente. “Non tutti sono simpatici come noi.”

Jean rise debolmente. “Lì fuori?”

Eren fece spallucce. “Ehi, non sappiamo cosa viene dopo. Tu sei un leader, quindi vai e spiana la strada per noi, okay?”

Le spalle di Jean finalmente si rilassarono, mentre lui rideva con più gusto rispetto a prima. “Sì, certo. Mi piacerebbe essere calmo su tutto ciò come lo è stata Ymir.” ammise.

“Anche Ymir aveva paura,” lo corresse Eren. “L’ha detto lei.”

Connie allungò la mano per stringere quella di Jean, ma quando lui gli offrì la propria, Connie se lo tirò in un abbraccio forte. Non disse niente, ma annuì risolutivamente verso Jean una sola volta, quando si staccarono. Anche Sasha lo abbracciò, mentre Bertholdt, Reiner ed Annie gli offrirono dei silenziosi cenni del capo per incoraggiarlo. Se qualcosa, i tre veterani del reparto sembravano tristi di essere di nuovo lasciati indietro. Ma loro erano lì da più tempo di tutti, alla fine. Avere la tua anima mortale bloccata a causa di una serie di scartoffie burocratiche doveva essere proprio una rottura. Eren semplicemente batté il pugno con Jean, con un sorrisone dipinto in volto.

Erwin stava spiegando alla famiglia dei due bottoni che dovevano spegnere, per terminare il trattamento di sostentamento vitale a cui era sottoposto il corpo di Jean. Mentre mormoravano a bassa voce, momentaneamente distratti, Levi afferrò Jean per un braccio e lo guardò dritto negli occhi. “Sarà la cosa più dannatamente facile che tu abbia mai fatto.” gli sussurrò piano.

Jean annuì e gli diede una pacca sulla spalla. “Cambia qualcosa se dico che davvero non ci voglio andare?”

“C’è un tempo e un luogo per tutto,” gli ricordò Levi. “Benny è un bravo bambino. Non tutti hanno la possibilità di lasciarsi dietro una tale parte di sé. Ora vai e fai quello che devi fare, da bravo fratello maggiore.”

Jean gli diede un’altra pacca. Nessuno dei due sapeva cos’altro dire, quindi Jean si diresse al lato del suo letto, sbirciando il suo corpo senza vita. Fece una mezza smorfia e poi si voltò, girandosi verso gli altri pazienti del reparto sei. La sua voce era forte e determinata. “Io vado. Non ci mettete troppo a raggiungermi, capito? E, diamine, non fate i fifoni come ho fatto io.”

Tutti gli sorrisero affettuosamente. A Levi non interessava se tutta la famiglia era lì. “Ehi, ragazzo,” chiamò Benny che era dall’altro lato della stanza, e che si girò verso di lui. “Non ha nessuna paura.”

Benny annuì contento. “Lo so. Non ha mai paura.”

“Solo quando si tratta di te.” rise Levi.

Lo strano scambio di battute ebbe un effetto sorprendentemente calmante sul confuso raggruppamento di persone. Per qualche ragione, le parole di Levi avevano zittito tutti in un silenzio piacevole, mentre il padre di Jean premeva i bottoni. Come Ymir, bizzarramente, anche Jean sembrò come se non fosse mai esistito. Levi avrebbe giurato di essersi immaginato tutto, se non avesse avuto dei ricordi molto vividi. E il più vivido di tutti era lo sguardo di quieta irritazione di Jean prima che sparisse. E, anche se Levi non credeva fosse possibile, il fatto che Jean davvero non gli era sembrato impaurito. E se lo era stato, sicuramente non si era visto.





“Ehi, signora!” chiamò Levi, affrettandosi un attimo per raggiungere la mamma di Jean, che era uscita per andare in bagno. Lei si fermò e si girò verso Levi con uno sguardo di biasimo. Levi le si avvicinò e la fissò intensamente in faccia – il suo volto sorprendentemente simile a quello di Jean. Doveva essere impazzito per aver seguito la donna, ma doveva dire qualcosa. Dannazione. Si prese una pausa, pensando bene alle sue parole. “Non si dimentichi che c’è un altro ragazzo fantastico che ha bisogno di lei.”

Gli occhi della mamma di Jean si addolcirono, mentre ascoltava le parole di Levi in silenzio e apprezzamento.

Levi continuò a guardarla. “Benny ha bisogno di lei come ne ha avuto bisogno Jean. E se Jean era di qualche indicazione riguardo al tipo di uomo che lei è in grado di crescere, allora Benny ha ancora più bisogno di lei di quanto io possa immaginare. Non lo abbandoni.”

Dopo essersi guadagnato un leggermente sconcertato cenno di testa dalla donna, Levi si girò e andò via. Sicuramente quella non era una cosa che gli spettava dire, ma al diavolo. La donna doveva smettere di piangere prima o poi, e iniziare a pensare a Benny.

Levi tornò alla saletta delle infermiere per trovare Benny seduto sugli scaffali che aveva pulito prima, proprio come il giorno che si erano conosciuti. Benny, al suo arrivo, alzò lo sguardo e sorrise. “Jean è ancora qui?”

Levi scosse la testa. “Se ne è andato, ragazzo. Ma gli ci è voluto un bel po’, dannazione.”

A parte una piccola smorfia, Benny non commentò la scelta di parole di Levi. “Allora ora è morto?”

“Sì,” rispose Levi brevemente. “E’ morto.”

Benny annuì un po’ tristemente. “Perlomeno non deve stare a letto tutto il giorno. Scommetto che ora può giocare a baseball e divertirsi con le altre persone morte.”

Per qualche ragione, quell’affermazione fece sorridere Levi. “Sai ragazzo, scommetto che hai ragione.”





La famiglia di Jean se ne andò e la sua camera fu ripulita con dei tempi così veloci da risultare deprimenti. Lì per più di sei mesi, e dieci minuti dopo era come se non ci fosse mai stato. Ma anche se le persone erano così, si disse Levi.

Prima di andarsene anche lui, deviò per visitare il boschetto dei pazienti per innaffiare un’altra volta l’albero. Eren stava carezzando distrattamente uno dei rami. Levi pensò di salutarlo con una battutina o un insulto innocuo, ma non riuscì a pensare a niente. Invece, afferrò il tubo della pompa e si mise in piedi di fianco ad Eren, lasciando cadere l’acqua alla base del tronco, senza una parola.

“Persino Jean è riuscito a rimanere calmo in questa situazione di merda.” disse Eren tristemente.

Be’, il silenzio era stato piacevole finché era durato.

“Come ha fatto?” continuò Eren, con una leggera irritazione nel tono di voce. “Improvvisamente andava tutto bene. Come se essere coraggiosi possa scacciare via le cose brutte. Ma non cambia che quello che è successo non è dannatamente giusto. Perché doveva essere così coraggioso? Il mondo l’ha trattato come se non fosse nessuno, e ora la deve prendere come un vero uomo? Al diavolo,” inveì Eren, prendendo a calci il terriccio intorno l’albero. “Non dobbiamo nulla a questo mondo.”

Levi ascoltò Eren sfogarsi, aspettando il silenzio per dire qualcosa a sua volta. “Tu non devi essere coraggioso.” sussurò.

Eren lo guardò male, ma Levi fece spallucce. “Sì, ma sai, forse lo voglio essere,” dissentì Eren. “Forse non mi voglio sentire come se il cuore mi stesse sbattendo contro le costole per finirmi in gola ogni volta che penso di dover morire.”

Levi fece una risatina, guadagnandosi uno sguardo assassino. “E’ divertente perché anche Jean era infastidito da come sei indifferente al fatto di essere morto. Lo faceva impazzire. Voi due siete molto simili, sai? Diamine, forse è proprio questo il motivo per cui litigate sempre.

“Risparmiati la predica,” borbottò Eren. “Farei di tutto per non avere paura. Qualche volta è così terribile che non riesco neanche a pensare. A muovermi. E’ paralizzante.”

“Bene.” concluse Levi.

“Bene?” Eren lo stava occhieggiando con rabbia. “Bene?”

Levi fece spallucce e spense la pompa. “Sì, bene.”

“Come può andar bene?”

Sospirando, Levi iniziò a trascinarsi dietro il tubo della pompa per metterlo a suo solito posto. “Voglio dire che se non avessi paura vorrebbe dire che non ti interessa, no? Che non avevi nessuna ragione di vivere. Non avere una ragione per vivere è molto peggio che la fine di una vita per cui daresti di tutto pur di riaverla indietro. Sei tu quello che ha detto che la fine di qualcosa fa schifo a prescindere. Ma chi se ne frega della fine di una brutta storia? Alla fine ci interessa solo del termine delle storie belle.”

Eren fissò le sue scarpe, illuminate leggermente dalla luce lunare. “Sì, ma io come faccio ad accettarlo?”

Levi ci pensò un secondo. “Sai, il coraggio non quello che molte persone pensano che sia. Il coraggio è letteralmente la cosa più stupida che può avere un essere umano. Se il tuo cervello ti sta dicendo di essere terrorizzato o di correre via, be’ è perché dovresti farlo.”

“Non sei di aiuto.” sospirò Eren.

“Il coraggio è solo un giochetto di magia,” proseguì Levi, ignorandolo. “Solo un’illusione. Tutto quello che devi fare è convincere il tuo cervello per un decimo di secondo che quello che sta succedendo o che stai per fare va bene. E se il tuo cervello funziona, ti darà ragione.”

“Perché è così?” chiese Eren.

Levi sorrise. “Perché in realtà noi non vogliamo sapere la verità, non vogliamo sapere come si spiega l’illusione. Non vogliamo sapere il motivo per cui la nostra mente ha bisogno di mentire a sé stessa. Vogliamo essere presi in giro.”

“Quindi devo improvvisare?”

“Hai bisogno di un solo momento Eren. Un trucco di magia ha un solo momento di verità. Tutto quello che c’è prima è una presentazione di quello che sappiamo essere vero, e tutto quello che c’è dopo è l’applauso. Ma in quel momento tu devi far succedere qualcosa che non è possibile. E’ per questo che si chiama trucco.”

Rimasero in silenzio per un po’, con Eren che aveva spostato lo sguardo dalle sue scarpe alle stelle. “Mi devo solo illudere da solo?”

“Solo per quel momento,” chiarì Levi. “Hai paura. E’ normale. Jean era sicuramente spaventato, ti posso dire questo.” Eren lo stava guardando intensamente, pendendo dalle sue labbra come se le sue parole fossero l’ultima cosa a cui potesse aggrapparsi. E forse lo erano. “Hai visto la sua faccia, no? Prima che morisse. Hai visto l’illusione. Jean ha visto l’illusione. E, improvvisamente, era come se non avesse più paura.”

“Ed è questo il trucco.”

“E’ questo il trucco,” confermò Levi. “Vogliamo essere tutti illusi. Aspetta il tuo momento, ragazzo. Se non vuoi avere paura, il tuo cervello ci penserà al posto tuo. Aspetta quel momento, però.”

“E se non ci riesco? E se il trucco non funziona? Che succede se qualcosa non va?”

Levi rivolse uno sguardo stranamente gentile ad Eren. “Ci sarò io, ragazzo. E applaudirò lo stesso.”

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 - Luce e neve ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Ugh, sono in ritardissimo lo so T_T. Mi dispiace tanto ma ho avuto veramente parecchio da fare e questo capitolo (nonostante quello che ho detto nelle note del precedente) si è rivelato ancora più lungo del 15 xD non ho mai tradotto un mostro simile e ci ho messo tre volte il tempo di un capitolo normale. Però è stupendo, per cui spero varrà la pena dell'attesa. Detto ciò ringrazio tantissimissimo tutti quelli che stanno leggendo, chi ha inserito la fic tra i preferiti/seguiti/da ricordare e soprattutti chi sta commentando! Siete straordinari! (domani rispondo a tutti i commenti!!!) Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: scusate in anticipo per eventuali errori... per il resto tutto regolare... immagino sappiate tutti chi è il Grinch xD mentre il Lo Mein è un piatto cinese a base di noodles. Ah, non credo che all'epoca della stesura si sapesse già che il compleanno di Levi è il 25 dicembre.


The 6th ward
CAPITOLO 16: Luce e neve

2 mesi, 27 giorni

“Che cosa farai a Natale, Levi?” chiese Sasha, facendo girare tutti gli altri verso di lui. Fantastico. Spirito natalizio, il suo preferito.

I mocciosi erano stati contagiati dall’umore festivo che soffocava l’ospedale in quel periodo dell’anno. Levi sperava che il fatto di essere morti rendesse le festività meno importanti, e quindi, in qualche modo, meno fastidiose, ma quegli stupidi erano eccitati come lo sarebbe stato ogni mocciosetto delle elementari. Non essendo un grande fan del Natale, Levi, ogni anno, sperava solo che passasse il più in fretta possibile.

“Lavoro. C’è la paga dei festivi.” rispose brevemente, cercando di chiudere lì la conversazione.

“Saresti meno un matusa se fossi letteralmente nato durante l’età della pietra.” ribatté Eren, con uno sguardo di leggera delusione nei suoi occhi verdi.

“Hanji e io ci prendiamo qualcosa da mangiare e ci ubriachiamo la sera dell'antivigilia, se la cosa conta come una tradizione per te.” aggiunse Levi.

“Ovviamente no,” Eren lo stava guardando con fare accigliato. “Intendo dire cose come addobbare l’albero e cantare qualche canzone di natale e cose del genere.”

“Ah, sì! Preparare dei biscotti e far sentire a tutti il mio spirto natalizio, portare dei regali ai miei colleghi e magari anche cucinare un bel tacchino ripieno! Era questo il genere di cose che intendevi?” chiese Levi con finta sincerità.

“Sì!” esclamò Eren con eccitazione.

Levi scosse la testa, con espressione impassibile. “Non faccio nulla di tutto ciò.”

“Lo sapevo che era come il Grinch.” rise Connie.

“Non è vero,” borbottò Levi, ignorando il modo infantile in cui suonava la sua protesta. “Non ho niente contro il Natale, e non lo odio. Semplicemente non mi interessa.”

Connie ed Eren si scambiarono un sorrisetto che lo fece incazzare come non mai.

“Ma scommetto che farai qualcosa almeno con la tua famiglia a Natale. E’ praticamente obbligatorio.” disse Reiner dubbioso.

L’espressione di panico sul volto di Eren fu abbastanza per far capire a Levi che, differentemente da come si sarebbe aspettato, il ragazzo non aveva detto agli altri che lui non aveva una famiglia. Era strano. Eren non era il tipo di persona che si tratteneva dal rivelare certe informazioni personali. Non che per lui fosse un gran problema se Eren avesse detto agli altri tutto quello che sapeva – non erano informazioni a cui Levi teneva particolarmente. Ma lo sguardo a metà tra il colpevole e il nervoso sul volto del ragazzo morto valeva la pena. Stava guardando Levi con una tale empatia, che il suo cuore iniziò a fare quella cosa stupida che lo faceva sbattere contro le sue costole come se si fosse improvvisamente dimenticato qual era il suo posto.

“Non ti preoccupare,” lo rassicurò infine, con un sorriso quasi impercettibile. Eren era un tipo nervoso di natura, ma l’unica cosa di cui era colpevole in quel momento era di tenerci troppo. “Quindi questa è la parte della storia dove voi volete che faccia cazzate natalizie con voi, giusto?” borbottò, ignorando gli sguardi vagamente confusi che gli altri si erano scambiati dopo le parole che aveva rivolto ad Eren. “Perché la risposta è no, quindi vi salverò dal disturbo di chiedermelo.”

“Ah, dai,” si lamentò Connie. “E’ il nostro ultimo Natale! Non puoi negarci l’ultimo Natale, no?” chiese astutamente.

Levi annuì. “Certo che posso.”

“Perlomeno portaci qualcosa per decorare o altro,” lo pregò Sasha. “Non c’è bisogno che ci aiuti. E’ solo che io adoro il Natale.”

“Già, amico,” concordò Reiner. “Concedici almeno questo, no?”

“Sarebbe bello.” disse Bertholdt nostalgicamente, ed Annie annuì discretamente al suo fianco.

Levi alzò le mani in segno di resa, cercando di fermare l’ondata di lamentele e preghiere. “Va bene, va bene, comprerò un po’ di roba in modo che possiate godervi la commercialità della una festa economica per antonomasia. Contenti?”

Senza realmente dargli una risposta, tutti iniziarono a parlare tra di loro con entusiasmo, discutendo delle varie cose che gli servivano per le decorazioni natalizie. Eren stava ancora fissando Levi con attenzione, come se non gli avesse creduto quando lui gli aveva detto di non preoccuparsi. Levi alzò gli occhi al cielo, e l’umore di Eren passò da preoccupato a leggermente irritato. La sua espressione lasciava capire che si era pentito di essersi preoccupato, e Levi si lasciò sfuggire una risatina all’istantaneo passaggio da pietà a rabbia. Eren era veramente un sempliciotto.

“Abbiamo bisogno di un albero di Natale,” disse Sasha risolutamente. “E di luci.”

“Sì, un fottuto chilometro di luci,” concordò Connie. “Per i corridoi e l’albero e tutto il resto. E intendo abbastanza luci da mandare in crisi energetica l’edificio quando le accenderemo. Tutto dovrà essere così festivo da intimorire chiunque entrerà qui dentro.”

Levi non credeva proprio che avessero veramente bisogno di mettere così tante decorazioni per riuscire a spaventare qualcuno.

“Peccato che i regali non valgono più nulla a questo punto,” rise Reiner. “Le possessioni materiali non contano molto se sei morto.”

“I regali non devono essere per forza per noi,” disse Bertholdt timidamente. “Potremmo preparare qualcosa per gli altri reparti. Per quelle persone che, come noi, non potranno tornare a casa per Natale.” Gli altri lo stavano fissano, quindi lui si rimangiò in fretta le parole. “E’ una stupidaggine, come non detto. Stavo solo pensando ad alta voce.”

“Stai scherzando?” chiese Sasha incredulamente. “E’ un’idea fantastica. Ci hai preso, Bert!”

Bertholdt arrossì leggermente, borbottando qualcosa di impercettibile. Reiner gli diede un paio di affettuose pacche sulla schiena, mentre gli altri tiravano fuori proposte per il resto dei pazienti costretti in ospedale a Natale. Levi era diviso tra il sentirsi infastidito dalla loro infantile sincerità o irritato a causa del suo spontaneo affetto per i mocciosi. Dannazione a loro e alla loro stupida tenerezza.

“Levi prendi un foglio,” gli disse Connie. “Avrai bisogno di farti una lista.”

L’infermiere sospirò, scusandosi dal gruppetto riunito in camera del ragazzo per andare a prendere il blocco note nella saletta delle infermiere. Perché un gruppo di ragazzi morti aveva il permesso di darsi alla pazza gioia con la sua carta di credito? Dei ragazzi vivi sarebbero stati meno costosi di quegli idioti. Mentre camminava, sentì qualcuno affrettarsi per raggiungerlo e scommise con sé stesso tutti i soldi che aveva mai scommesso in vita sua che era Eren. E aveva ragione.

“Scusa per, uhm, prima. Sai – ah, come non detto,” disse Eren piano, iniziando a camminare dietro di lui. “Immagino che neanche io non avrei fatto un granché a Natale se non avessi avuto una famiglia. Semplicemente ho sempre costretto Armin e Mikasa a fare stupide cose natalizie, perché siamo l’unica cosa rimasta a tutti e tre.” mormorò nervosamente.

Levi si fermò improvvisamente ed Eren gli finì addosso. Sospirando, l'uomo si girò per guardarlo con fare critico. “Ti ho detto di non preoccuparti. Non è che ci tenga molto.”

Eren si accigliò e guardò al di là della testa di Levi, ma a nulla in particolare. “Lo so che non ti interessa. E’ solo che è, be’ – un po’ sconvolgente?”

“Cosa è sconvolgente?” chiese Levi sospettosamente.

Finalmente ritornando a guardare Levi negli occhi, Eren si carezzò il braccio destro impacciatamente. “E’ solo che quando penso che non sarò con Armin e Mikasa a fare stupide cose natalizie mi deprime un po’, in un certo modo. Ed è esattamente quello che hai fatto tu per la tua intera vita – stare da solo,” Eren scosse la testa. “Dimenticatelo.”

“Già fatto.” rispose Levi brevemente, girandosi per terminare il tragitto verso la saletta delle infermiere.

Eren emise un gemito frustrano e seguì Levi in silenzio. Tuttavia, dopo che l’infermiere ritirò il blocco note dalla stanza, Eren decise di tentare di spiegarsi meglio. “E’ solo che mi dispiace, capisci?”

“Lo so,” disse Levi, perdendo la pazienza. “E io ti ho detto di non pensarci.”

“Non ci riesco.” rispose Eren testardamente.

“E allora cosa vuoi da me?”

Eren chiaramente non avrebbe lasciato il discorso a metà. “Semplicemente che tu rimanga qui. Per stare con qualcuno e fare le scemenze che si fanno a Natale, perché è quello che la gente normale fa. Solo questa volta. Va bene?”

“Va bene.” rispose Levi. Non aveva intenzione di litigare con Eren su una cosa del genere. Sapeva quando una battaglia era persa in partenza.

Eren sembrava stupito. “Sul serio?”

“Devo comunque lavorare. Non è che ci sia molta scelta.” disse Levi stancamente.

Con un sorriso stupidamente smagliante, Eren afferrò il blocco note di Levi dalle sue mani. “Non te ne pentirai.”

“Non ci scommetterei.” borbottò Levi.





2 mesi, 25 giorni

Non che gli desse poi così tanto fastidio, ma Levi sapeva che, senza ombra di dubbio, gli altri clienti del negozio di articoli per la casa, avevano cose migliori da fare che fissarlo. D’altra parte, era pur vero che stava praticamente per comprare l’intero stock di lucette bianche e colorate di Natale che il negozio offriva. Non era proprio sicuro di quale fosse un quantitativo normale di luci di Natale, ma i mocciosi avevano chiesto un sacco di luci e lui non aveva intenzione di essere rimandato indietro perché non ne aveva comprate abbastanza. Eren, che – ovviamente – lo aveva seguito, sembrava leggermente preoccupato dall’ammontare di luci che strabordavano dal loro carrello, ma non disse niente. Sotto il carrello, c’era una scatola piena di parti di un enorme albero di Natale finto. Per nessun diavolo di motivo avrebbe comprato un albero vero. Si stava già occupando di un albero vero, e quello era abbastanza una rottura di palle. Per nessun motivo avrebbe iniziato a curarne due.

“Quindi, ehm, credo che abbiamo abbastanza luci.” disse Eren, cercando di nascondere il sorriso che minacciava di stirargli le labbra.

Levi strinse gli occhi, sfidandolo a sorridere. “La lista dice ‘una montagna di luci’. Ho comprato una fottuta montagna di luci. Problemi?”

Eren scosse la testa velocemente. “Ah, no. Nessun problema, signore.”

Il cassiere che li servì sembrava voler veramente fare delle domande, ma Levi gli lanciò un’occhiataccia ogni volta che lui tentava di aprire la bocca, e alla fine sembrò che l’uomo decise che non valeva la pena farlo. Perlomeno non era stupido. Il conto degli acquisti di Levi era economicamente doloroso, ma lui passò comunque – per quanto riluttantemente – la carta di credito nella macchinetta. Eren si scusò profusamente, ma Levi gli lanciò un’occhiata molto più assassina di quanto avrebbe voluto, e il ragazzo chiuse la bocca all’istante.

Augurandogli una buona giornata, il cassiere porse a Levi uno scontrino ridicolmente lungo. Eren aiutò Levi a riempire la macchina, e poi quasi l’intero viaggio di ritorno all’ospedale si svolse in un timido silenzio. Mancavano solo cinque giorni a Natale, ma il traffico era già peggiorato parecchio. Le famiglie di tutti avevano iniziato a riversarsi in città da una settimana prima di Natale, come al solito, ed era già impossibile andare da qualsiasi parte senza fare ritardo. Mentre si avvicinavano all’ospedale, Eren decise di rompere il silenzio.

“Credo che abbiamo comprato troppe luci.” osservò timidamente.

Levi si accigliò. “Sì, lo so.”

Eren sorrise, ancora fissando il traffico che aumentava di fronte ai suoi occhi. “Va bene.”





“Ma fai sul serio?” chiese Sasha, che era stata la prima a parlare dopo che Levi aveva lasciato cadere i suoi acquisti sul pavimento del corridoio del reparto sei. I mocciosi avevano solo fissato la ridicola quantità di luci, non sicuri su come reagire.

“Probabilmente no,” disse Connie, raccogliendo una scatola di luci. “Questi fili sono anche lunghissimi. Dannazione Levi, stavo in parte scherzando quando ho detto di voler causare una crisi energetica.”

A Levi non poteva interessare di meno. Non li graziò nemmeno di una risposta, decidendo di iniziare il suo giro e occuparsi delle loro cartelle cliniche, che era la cosa per cui veniva effettivamente pagato.

Per il resto della giornata, fu costretto ad inciampare tra fili di luci che erano state tirare fuori dalle loro scatole a casaccio, e lasciate nel corridoio mentre i ragazzi tentavano di appenderne altre ai muri. Bertholdt era l’unico che riusciva effettivamente a raggiungere un’altezza appropriata per fissarle, ma Sasha e Connie avevano pensato che fosse una brillante idea far arrampicare lui sulle spalle della ragazza e tentare di fare come Bertholdt. Alla fine, il risultato fu che rallentarono il lavoro, facendo cadere luci anziché fare qualche progresso. L’idea non era cattiva, però, se non erano Connie e Sasha a metterla in atto, e, difatti, Reiner ed Eren imitarono la loro tattica. Con Eren seduto sulle larghe spalle di Reiner, fu possibile raddoppiare i progressi del lavoro di Bertholdt, e attaccare luci molto più velocemente.

Levi sarebbe stato contento di poter continuare la sua normale routine e ignorare le festività, ma Eren lo aveva delegato a mettere insieme l’albero finto con l’aiuto di Annie. Lavorarono silenziosamente, parlando solo quando necessario, e risultando più che efficienti. L’albero, di per sé, era facile da mettere insieme, nonostante le dimensioni ridicole. Fortunatamente, il reparto sei era in un’ala esterna dell’edificio, e questo voleva dire che il suo lungo corridoio era chiuso da un lato. L’albero non entrava in nessuna delle stanze, e quindi optarono per posizionarlo alla fine del corridoio, dove non avrebbe potuto bloccare nessuno.

“Credo che l’albero sia troppo grande.” disse Annie brevemente.

“Già.” concordò Levi. La cima era piegata in una strana angolazione nel punto in cui toccava il soffitto del corridoio.

Un paio di minuti di silenzio passarono prima che Annie aggiungesse: “Credo che tu abbia comprato troppe luci.”

“Già.”

Annie annuì. “Grazie.”

“Nessun problema.”

Levi aveva davvero comprato troppe luci. Una volta che ebbero finito di posizionarle su ogni superficie possibile e in ogni possibile angolino sia del corridoio che delle camere di ognuno, non avevano utilizzato nemmeno il dieci per cento dei fili disponibili. E così, concepirono un piano per posizionare il resto delle decorazioni negli altri reparti per lunga degenza, una volta caduta la notte. In genere, verso le due del mattino, l’ospedale era abbastanza tranquillo da poter essere quasi sicuri di non incontrare nessuno. Solamente il pronto soccorso non si fermava mai.

Quindi, nonostante il desiderio di Levi di tornare a casa e dormire, raccolsero tutte le luci e uscirono per costringere gli altri reparti a partecipare al loro ‘spirito natalizio’ alla fantastica ora delle tre del mattino.

“Non posso tornare a casa?” borbottò Levi, con le braccia piene di fili di luci.

“Abbiamo bisogno di qualcuno da incolpare se veniamo colti in flagrante.” disse Connie innocentemente.

Fantastico. Come se l’intero ospedale non pensasse già che Levi si era completamente bevuto il cervello negli ultimi mesi. Be’, tecnicamente lo aveva fatto. Qualche volta i gossip non erano poi così lontani dalla realtà.

Avendo guadagnato un certo slancio e una strana efficienza dopo aver decorato il proprio reparto, i mocciosi lavorarono molto più velocemente negli altri reparti. Nessuno li disturbò a quell’orribile orario, e quindi finirono in molto meno tempo di quanto avevano fatto precedentemente . Bertholdt lavorò da solo, Reiner si rimise in spalla Eren, e Connie rimase seduto su Sasha, un po’ aiutando, ma soprattutto facendo casini. Era una sorta di roulette russa con loro. Annie e Levi mantennero i lunghi fili di luci per quelli che li stavano posizionando.

Sasha insistette per lasciare le luci spente mentre lavoravano in modo che, una volta finito, avrebbero potuto accenderle tutte insieme e farla sembrare una vera e propria sorpresa. Terminarono intorno alle cinque e mezza e presero posizione vicino alle varie prese per iniziare ad accendere il frutto delle loro installazioni. Reiner emise un forte fischio aiutandosi con le dita, e così iniziò l’accensione in massa delle decorazioni per tutto l’ospedale. Sasha e Connie corsero per tutto l’ospedale, accendendo fili di luci con varie grida e piagnucolii, che avrebbero svegliato l’intero ospedale se si sarebbero potute sentire. Non appena tutte le luci furono accese, l’intero reparto sei fece una corsa folle verso il boschetto nel giardino a nord, trascinando Levi lungo il corpo scale di servizio e fuori la porta nell’aria gelida d’inverno.

Dopo essersi allontanati abbastanza da riuscire a vedere tutte le finestre su quella facciata dell’ospedale, anche Levi dovette ammettere che era una visione impressionante. L’intero ospedale brillava felicemente di vari colori, attraverso ogni reparto e in ogni corridoio visibile. Il caldo bagliore, poi, si rifletteva sulla neve a terra. L’intero dannato ospedale sembrava una specie di albero di Natale gigante.

Congratulandosi tra di loro, i mocciosi iniziarono a chiacchierare con entusiasmo, indicando le varie finestre e facendo stupide battutine riguardo l’assurdo consumo di energia che si stava svolgendo proprio di fronte ai loro occhi. Spostando lo sguardo verso di loro, Levi non riuscì a fermarsi dal lasciar curvare leggermente verso l’altro la punta delle sue labbra, mentre tutti si davano il cinque, si scambiavano pugni e ridevano fragorosamente. Il suo sguardo si fermò su Eren, che lo stava fissando furtivamente, con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia. Il brillio dell’ospedale si mischiava stranamente bene con i suoi occhi verdi, rendendo quasi impossibile dire quale fosse il loro vero colore. Il cuore di Levi fece di nuovo la cosa stupida. Che diamine.

Eren mimò con le labbra quello che sembrava un ‘Te l’avevo detto’, e Levi alzò gli occhi al cielo, incapace di fermare il suo sorriso.





2 mesi, 23 giorni

Nessuno venne mai a sapere chi aveva appeso tutte quelle luci in ospedale. Una volta che si ebbe la conferma che, né quelli della manutenzione ospedaliera, né nessuno dei molti volontari, erano stati gli autori del gesto, la cosa divenne motivo di lunghe speculazioni. Fortunatamente, Levi era l’ultimo di cui chiunque avrebbe mai sospettato. Similmente, il reparto sei era l’ultimo a cui si poteva pensare. Quindi, nessuno fu vittima delle speculazioni che, invece, avrebbero avuto credito riguardando loro.

Abbastanza stranamente, invece, Hanji capì subito chi c’era dietro l’intera faccenda.

“Non ho idea del motivo, ma qualcosa mi dice che sei stato proprio tu.” disse improvvisamente mentre pranzavano.

“Sono stato proprio io a far cosa?”

Hanji non alzò lo sguardo verso di lui, ma continuò a punzecchiare con noncuranza la sua insalata. “Tutta questa cosa delle luci di Natale. Sei stato tu e quei ragazzini morti, no?”

Levi prese in considerazione l’idea di mentirle, ma decide semplicemente di fare spallucce. Hanji avrebbe comunque inteso che stava mentendo, sebbene lui fosse un maestro a farlo.

“Cavolo, devono veramente piacerti questi ragazzi morti. Tu odi il Natale.” concluse Hanji, prendendo un boccone della sua insalata con disinteresse.

“Mi hanno costretto.” replicò Levi.

“Letteralmente chiunque in tutto l’ospedale è un sospettato migliore di te,” scherzò Hanji ad alta voce. Levi non rispose, ma continuò a mangiare la sua ben poco soddisfacente mela. “Ci sei ancora domani sera?”

Levi annuì. “Certo, ma compri tu da bere.”

Annuendo simpateticamente, Hanji abbandonò la sua insalata per un biscotto. “L’avevo immaginato. Quelle luci non saranno state una spesa da poco.”

Ridacchiando piano, anche Levi abbandonò la sua mela per un biscotto. Non me lo dire. E, a pensarci bene, porta anche da mangiare. Ormai sono un fottuto senzatetto.”





2 mesi, 22 giorni

“Quando esattamente abbiamo deciso che cibo cinese e liquore sono la migliore combinazione del mondo?” biascicò Hanji, mangiando un altro boccone di Lo Mein.

Levi sbuffò. “Credo sia accaduto quando abbiamo deciso di rovinarci Natale.”

“Scusami un attimo,” riuscì a dire Hanji nonostante la bocca piena. “Sei tu ad aver deciso di rovinarti il Natale. Io semplicemente non volevo lasciarti da solo a farlo.”

L’alcool era riuscito, in qualche modo, a far sentire Levi di buon umore, senza un motivo ragionevole. “Se vuoi fare una cosa a tre l’unica cosa che devi fare è chiedere.”

Hanji si strozzò con il cibo, cercando poi di riprendersi con un generoso sorso di whiskey. Dopo aver liberato le sue vie respiratorie, rise rumorosamente. “Mi dimentico sempre che mi piaci molto di più quando sei ubriaco.”

“Specchio riflesso.” sospirò Levi, afferrando la bottiglia dalle mani di Hanji per non permetterle di finirsela tutta. Avevano passato la serata della vigilia come facevano sempre, bevendo troppo e mangiando oleoso cibo cinese da quattro soldi. Era una tradizione ben poco sana, ma qualcosa che entrambi adoravano fare. Hanji se ne andava sempre la viglia per visitare i suoi genitori e il resto dei suoi parenti, quindi loro facevano qualcosa di stupido prima che lei dovesse andare a vedersela con la sua famiglia. Ogni anno, Hanji si offriva di passare il Natale con Levi – probabilmente perché sapeva che lui non aveva nessuno – ma lui rifiutava sempre, e lei non aveva mai insistito. Era stranamente confortante sapere che lei avrebbe scaricato la sua famiglia in un attimo, se Levi glielo avesse chiesto. Che imbecille.

“Anche se non ti sei esattamente rovinato il Natale quest’anno,” gli fece notare Hanji. “Quei ragazzi morti ti hanno veramente messo alle strette.”

“Lo fanno sempre.” ammise Levi.

“Te lo ha chiesto Eren di fare tutta quella roba per loro? Non riesci proprio a dire no al ragazzo, no?”

Levi ignorò la domanda, prendendo un sorso inutilmente lungo del whiskey che aveva confiscato ad Hanji.

“Sei difficile da capire, Levi,” scherzò lei. “Ma ti sei proprio innamorato di quel ragazzo, vero?”

Fantastico. Ora erano così ubriachi che si erano messi a parlare di sentimenti. Levi cercò di non stozzarsi con il whiskey, ma fallì miseramente. Ridendo di gusto, Hanji incominciò a dare una serie di pacche sulla sua schiena fino a quando questi non smise di tossire. “E’ una rottura di palle.” rantolò Levi, vincendo sul whiskey che gli stava bruciando la trachea.

Hanji fece spallucce. “Sì, ma lo sei anche tu, eppure io sono qui.”

“Si?” rise Levi, spingendo la bottiglia di whiskey dall’altra parte del tavolo, verso Hanji.

“Sì,” lo sfidò lei, prendendo la bottiglia offerta. “Amare qualcuno non dipende da quanto questi è uno stronzo o meno. In caso contrario ora staresti bevendo da solo, stronzo.”

“Grazie al cielo,” replicò Levi affettuosamente. “Mi stai dicendo che potrei essere sobrio e felicemente addormentato, al posto di stare a sentire la tua stupida vocetta? Sei una vera salvatrice. Cosa farei senza di te?”

“Sei un tale stronzo,” protestò Hanji, allungandosi per prendere le sue bacchette, ma non riuscendoci per un largo margine. Entrambi avevano bevuto decisamente troppo. “Ti mancherò quando me ne sarò andata.”

“Andata per sempre?” chiese Levi con leggerezza. “Non mi prendere in giro con false promesse.” si lamentò, aprendo un’altra birra. Diamine, era così ubriaco che ormai una in più o in meno non avrebbe cambiato nulla.

“Hai ragione,” disse Hanji. “Non me ne andrò mai. Sarai costretto a stare con me per il resto della tua vita.”

Levi buttò giù più di metà della birra in un sorso. “Destino crudele.” si lamentò, passandosi il dorso della mano sulle labbra.

Hanji si alzò in piedi, barcollando un po’ mentre camminava verso il punto della stanza dove aveva appeso il suo cappotto. “Certo, certo. Non pensare di potermi mentire. “ Poi cercò di indossare il suo cappotto, tentando svariate volte di infilare le braccia nei buchi delle maniche. “Devo andarmene prima che i pullman smettano di passare. Col diavolo che me ne torno a casa in auto.”

Levi si alzò, anche lui oscillando un po’, mentre l’accompagnava alla porta. “Sì, be’, buon viaggio,” la prese in giro, aiutandola a infilare le braccia nei punti giusti della giacca. “E goditi il Natale, o quello che è.”

“Cosa, niente regalo di Natale?” rise lei, con un finto tono di delusione.

“Al diavolo no. E se mi hai preso qualcosa, giuro su Dio che ti prendo a calci in culo, qui ed ora. Non mi interessa quanto sei ubriaca.”

Per sfotterlo, Hanji gli diede un pugno sulla spalla. “Come se ti prenderei mai qualcosa.” Poi ci pensò un attimo, prima di stringerlo in uno dei loro rari abbracci. “Fai qualcosa a Natale, okay?” mormorò nelle sue orecchie. “Mi arrabbierò un sacco che scoprirò che sei andato a lavoro anche se ho cancellato il tuo nome dalla lista dei turni.”

“Tu hai fatto cosa?” chiese Levi, districandosi dall’abbraccio.

“Sì, non hai il permesso di lavorare,” rise Hanji. “Ho corrotto il personale e tu sei fuori dalla lista. Vai a fare qualche cosa stupida e natalizia.”

Levi la guardò male, ma Hanji si limitò ad osservarlo soddisfatta, con le mani nascoste nelle tasche della giacca. “Ti voglio bene, stronzo.”

Alzando gli occhi al cielo, ma incapace di fermare il sorriso che gli si disegnò in volto, Levi sospirò. “Lo so.”

“Vai a fare qualcosa a Natale,” ripeté lei, cercando qualcosa in tasca. Con l’altra mano, aprì la porta di casa di Levi, uscendo al freddo. Prima di richiudersela alle spalle, tirò un pacchetto a Levi, ridacchiando, dopo aver visto l’occhiataccia che le aveva lanciato lui. “Ti ho comunque preso qualcosa! Goditela stronzo!” disse maliziosamente, prima di chiudergli la porta in faccia.

Ogni anno Hanji trovava un modo per lasciare un regalo a casa di Levi, o nella sua cassetta della posta o da qualche altra parte. Questa cosa lo irritava tremendamente. Le avrebbe preso qualcosa anche lui, ma ormai, per dispetto, era abituato ad ignorare ogni possibile standard sociale sulla cosa. Tornando in cucina, Levi scartò riluttantemente il pacchetto, per trovare una nota scritta nella grafia quasi illeggibile – e degna di quella di un medico – di Hanji.


Un’altra vittoria per me! Ecco un altro anno in cui sono riuscita ad essere migliore di te. Sapendo che avresti rotto le palle sull’aver perso la paga di un giorno festivo, ecco quello che avresti guadagnato se non ti avessi cancellato dal turno. In più, c’è una cosa che probabilmente ti serve, vista la tua nuova strana passione per le cose che fanno la fotosintesi. Se rimani a casa da solo a Natale, non ti perdonerò mai più.
- Hanji



Sotto la nota c’era un identicamente illeggibile assegno per quella che era circa la paga di otto ore in un giorno festivo, e un paio di guanti da giardinaggio nuovissimi. Hanji era irritantemente premurosa a volte.





2 mesi, 21 giorni

La viglia di Natale nel reparto sei fu sorprendentemente festosa per avere come partecipanti un gruppo di invalidi affetti da morte cerebrale. Levi aveva portato alcuni CD di Natale sotto richiesta di Sasha, e tutti si sedettero ad ascoltare, parlando dei loro ricordi natalizi preferiti. Connie e Sasha erano quelli con le storie migliori, avendo deciso già da piccoli di fare cose incredibilmente idiote ogni viglia di Natale, molte delle quali finivano con loro a passare la notte in punizione. Farli uscire dalla loro stanza solo la mattina di Natale era diventata una tradizione familiare per i loro poveri genitori. Levi era contento di poter stare semplicemente a sentire. Tutte le sue storie di Natale lo vedevano o a lavoro, o seduto sul divano di casa con una bottiglia di qualcosa di forte, o qualche sorta di combinazione delle due.

Più tardi, però, arrivarono le famiglie di Connie e Sasha, riempiendo le loro stanze per condividere un po’ di spirito natalizio con i mocciosi morti. Non rimasero molto a lungo, ma prima che se ne andassero, si presentarono Mikasa ed Armin. Neanche loro rimasero a lungo, perché, c’era davvero poco di cui parlare con un membro della famiglia praticamente morto. Mikasa aveva detto ad Eren di quanto era bello l’appartamento in cui lei ed Armin vivevano ora, del fatto che Armin aveva trovato un buon lavoro, e di come lei riusciva a lavorare nonostante la scuola, il tutto giocherellando un lembo della vecchia sciarpa rossa che sembrava indossare sempre.

Ad un certo punto, Erwin si era presentato per raccogliere alcune cartelle cliniche da Levi, e si era fermato quando aveva sentito la musica natalizia messa a tutto volume sul vecchio stereo.

“Non pensavo fossi un tipo sentimentale.” commentò.

Levi borbottò in risposta: “Non si può sentire un po’ di musica natalizia durante la vigilia? Dai.”

Confuso, ma dispiaciuto, Erwin si ritirò, mentre i pazienti del reparto sei scoppiavano a ridere a causa della sua breve conversazione con Levi.

Nonostante il malessere nei confronti delle festività, il turno non era stato particolarmente terribile. Quando Levi se ne andò quella sera per farsi una più che necessaria dormita, tutti erano riuniti intorno all’albero di Natale, mentre Reiner raccontava qualche favola poco conosciuta di Natale, con la sua voce bassa e calmante. Era in momenti come quelli che Levi apprezzava quanto tutti fossero giovani. Seduto vicino all’albero, Reiner sembrava una versione sbagliata di Babbo Natale, che raccontava storie a un gruppetto di mocciosi entusiasti. Levi odiava sapere che erano morti. I ragazzi non dovrebbero morire.





2 mesi, 20 giorni

“So che sembrerò terribilmente noioso,” iniziò Eren chetamente. “Ma darei qualsiasi cosa per passare il Natale con Armin e Mikasa.”

Levi alzò gli occhi verso il ragazzo, che aveva uno sguardo nostalgico sul volto, mentre guardava la neve che scendeva lentamente, fuori la finestra. “Sì sei abbastanza noioso.” confermò Levi.

“Oh, vaffanculo.” rispose Eren.

Levi fece spallucce. “Vai a passare il Natale con loro. Nessuno ti ferma.”

Considerando l’idea, Eren girò la testa da un lato. “Ma vivono così lontano. E poi, probabilmente finirà solo con l’essere deprimente. Non sono nemmeno nella stessa realtà in cui si trovano loro.”

“Arrangiati.” disse Levi, senza insistere. Tecnicamente non stava lavorando, visto che Hanji, a quanto pare, aveva corrotto quelli dell’organico in modo che lui non fosse nella lista nera dei dipendenti di Natale. Ma, avendo poco da fare, e volendo riluttantemente mantenere la promessa di non passare il Natale da solo, si era comunque presentato al reparto sei, ma non nella divisa da infermiere, per una volta. Ovviamente, i mocciosi gli avevano fatto passare un guaio, facendo finta di non riconoscerlo in abiti normali.

Immaginando di aver tenuto fede all’obbligo di avere compagnia a Natale, Levi decise di tornare a casa per quella sera. Non aveva da lavorare fino al tardo pomeriggio del giorno dopo, quindi si sarebbe potuto riposare e poi avrebbe potuto dormire di più. “Buona notte, moccioso.” disse ad Eren, facendo per andarsene.

“Hai qualche impegno?” chiese Eren dubbioso.

“No.”

“Ti dispiace se vengo?”

Levi fu preso alla sprovvista: non si aspettava una proposta del genere. “Cosa c’è? Mi vuoi di nuovo fissare mentre dormo? Per quanto sia eccitante – ”

Eren lo interruppe. “No, è che io, è solo – ”, fece una pausa, cercando di mettere in ordine i suoi pensieri. “Credevo solo che non volessi rimanere da solo a Natale.”

Levi lo fissò incredulo. “Quale parte delle cose che sai di me ti fa pensare che mi dispiaccia rimanere da solo a Natale?”

“Ah, dimenticatene,” borbottò Eren, ritornando a fissare fuori la finestra. “Divertiti in solitudine.”

Fermandosi alla porta, Levi prese una decisione di cui già sapeva si sarebbe pentito amaramente più tardi. “Muoviti moccioso, non ho intenzione di aspettarti.”

Eren si girò su sé stesso, con un sorrisone in volto. “Sì, signore.” scherzò, mimando un saluto militare, e seguì Levi come un ombra, mentre si dirigevano fuori dal reparto sei e verso il parcheggio. Viaggiarono in un relativo silenzio, con Eren che fissava fuori il finestrino del sedile passeggero. Levi si chiese come mai non stesse parlando a mille chilometri l’ora come al solito. Lo sguardo malinconico sul suo volto gli disse che sperava ancora di passare il Natale con la sua famiglia. Levi ripensò alla cartella di Eren, dove aveva letto l’indirizzo di Mikasa nei contatti di emergenza del ragazzo. Davvero viveva abbastanza lontano. Levi conosceva il posto, e sapeva che era ad almeno mezz’ora di macchina da lì.

Per la seconda volta quel giorno, prese una decisione che era decisamente non da lui. Al posto di girare nella strada che portava a casa sua, fece inversione e si diresse verso la strada principale. Eren alzò gli occhi dal finestrino, con uno sguardo di domanda nei suoi tristi occhi verdi.

“Dannazione, ragazzo, se devi fare quella faccia, non sei per niente di aiuto. Ora stai zitto e aiutami ad arrivare a Newland Hills.” Eren gli stava sorridendo affettuosamente, e Levi si agitò a causa delle attenzioni. “E smettila di fissarmi in quel modo.”

Eren non smise di fissarlo in quel modo, e Levi cercò, senza successo, di ignorarlo durante tutto il lungo tragitto in auto verso l’appartamento di Mikasa ed Armin. Alla fine lo trovarono, ma non senza aver sbagliato strada un bel po’ di volte. Levi non conosceva quella zona molto bene, e tutto quello che aveva era un indirizzo che sperava di ricordare correttamente. Quando si fermarono davanti all’edificio, Eren rimase in auto senza dare segno di volersi muovere.

“Allora?” disse Levi. “Datti una mossa. Non sarà Natale per sempre, grazie al cielo.”

Eren stava fissando nervosamente il condominio. “Sto cercando di decidere se mi farà più male esserci o meno.”

Levi annuì. “Va bene. Be’ io rimarrò qui e aspetterò di sapere se vuoi andare o no,” disse, parcheggiando la macchina in un posto vuoto. “Aspetterò.”

Annuendo calorosamente, Eren uscì dalla macchina. Si assicurò che nessuno stesse guardando, prima di entrare nell’edificio e sparire su per una rampa di scale. Levi accese il riscaldamento dell’auto e reclinò leggermente il sedile traballante. Non sapeva bene quanto tempo Eren aveva intenzione di trascorrere lì, ma se se ne fosse andato, il ragazzo sarebbe dovuto tornare a piedi, perciò non aveva molta scelta se non aspettare che tornasse indietro. Passarono un’ora o due e Levi era ancora seduto da solo in macchina, il vecchio ammasso di rottami che stava bruciando benzina mentre tentava di far funzionare il riscaldamento. Levi aveva raggiunto un piacevole stato di disconnessione con il suo stesso cervello, fissando la neve mentre cadeva graziosamente a terra e sul suo parabrezza, e godendosi l’intenso carole di quel piccolo spazio chiuso. Ad un certo punto, si addormentò, sconnettendosi completamente da ogni stato di coscienza.

“Ehi, Levi,” mormorò qualcuno dolcemente, intromettendosi nel suo piacevole, sognante annebbiamento. “Mi dispiace molto,” poi l’intruso fece una pausa. “Stai dormendo?”

“Non più,” borbottò Levi, strofinandosi gli occhi e cercando di dissipare la sonnolenza languente nel suo cervello. Eren era di nuovo seduto in macchina, con uno sguardo dispiaciuto sul volto. “Oh mio Dio, mi dispiace tantissimo. Mi sono dimenticato che eri qui fuori.”

Levi si guardò intorno, un po’ disorientato. “Che ore sono?”

Massaggiandosi impacciatamente la nuca, Eren mormorò: “Quasi mezzanotte.”

Sbadigliando, Levi accese la macchina. “Non ti preoccupare, ragazzo,” disse un po’ stordito. “Non avevo comunque nulla da fare.” Ed era la verità.

Eren si girò verso di lui e tirò Levi in un abbraccio goffo a causa della loro posizione sui sedili anteriori dell’auto. “Grazie.” disse brevemente, mentre il suo respiro freddo solleticava la nuca di Levi. “Solo – grazie.”

“Certo, certo. Possiamo andare ora?” chiese Levi piano.

Eren lo lasciò andare, balzando sul suo sedile imbarazzato. “Sì, ovvio. Scusa.”

Il viaggio di ritorno verso l’appartamento di Levi passò in un stato di stordimento per Levi. Non era proprio riuscito a scrollarsi di dosso la sonnolenza che aveva spento il suo cervello nelle ultime ore. L’unica cosa che era riuscito veramente a processare era quanto Eren sembrasse felice. C’era una luce nei suoi occhi dopo aver passato del tempo con la sua famiglia, e un sorriso permanente sul suo volto. Non era così male.

Levi si offrì di riaccompagnare Eren in ospedale, ma il ragazzo rifiutò, dicendo che avrebbe aspettato il giorno dopo quando Levi avrebbe dovuto tornarci. In segreto, Levi fu contento della cosa, perché era veramente troppo stanco per tornare fino in ospedale.

Una volta a casa, Levi si diresse dritto dritto verso il suo letto, togliendosi la maglietta in un unico movimento e lasciando cadere i pantaloni a terra senza vergogna. Al diavolo, era troppo stanco per curarsi di essere una persona decente davanti ad Eren. Salì sul letto, con nulla oltre i suoi boxer, e si rimboccò le coperte fin sopra la testa. Eren si sarebbe probabilmente messo a suo agio da solo, come faceva sempre.

“Immagino che questa sia una risposta riguardo la tua età: boxer o slip.” ridacchiò piano Eren.

Levi grugnì. “Chiudi quella boccaccia, Eren. Sono troppo stanco.”

Ci fu una pressione applicata dall’altro lato del letto di Levi, e lui assunse che Eren aveva deciso di guardarlo dormire di nuovo. Che facesse quello che diavolo gli pareva. Dal canto suo, lui si addormentò in fretta, ed Eren non disse nient’altro.





2 mesi, 19 giorni

Doveva essere qualche ora assurda del mattino quando Levi si svegliò, perché era ancora buio pesto fuori. Ma questa non era una cosa strana riguardo ai suoi risvegli. La cosa strana era che qualcosa di mediamente freddo era posato sulla sua schiena, e aggrappato al suo petto. “Se volevo un dannato parassita del caldo attaccato alla schiena, lo avrei fottutamente chiesto.” mormorò Levi con rabbia.

Quando non fu degnato di una risposta, e neanche di un singolo movimento, Levi allungò la testa oltre le sue spalle per trovare Eren che stava russando dolcemente. Fermi tutti, che diamine. I ragazzi morti non possono dormire. O sì? Be’, tecnicamente non esisteva un manuale esatto su quello che i ragazzi morti potevano o non potevano fare. Quindi apparentemente potevano dormire. “Stai dormendo?” esclamò Levi, ed Eren saltò a sedere sul letto, muovendo la testa velocemente avanti e dietro.

“Chi? Cosa?” balbettò. Sembrava che non avesse nessuna idea di dove si trovava, e Levi cercò di nascondere un sorriso.

“Stavi russando, ragazzo,” lo rimproverò. “Ti piacerebbe spiegare?”

Eren scosse la testa lentamente. Sembrava confuso tanto quanto lui. Mettendosi a sedere a sua volta, il più grande prese nota dello sguardo sconcertato del ragazzo. I suoi occhi erano spalancati e riflettevano quel poco di luce lunare che entrava attraverso la finestra. Improvvisamente, Eren sembrò realizzare di trovarsi troppo vicino a Levi e fece per scansarsi, mormorando qualche scusa. Una parte di Levi fece muovere la sua mano per afferrare la maglietta bianca dell’altro, fermandolo prima che potesse allontanarsi. Eren sembrò allarmato al contatto e guardò Levi con fare di scusa. “Mi dispiace,” riuscì a dire, alzando le mani in segno di resa. “Non sapevo di potermi addormentare.”

“Va tutto bene, ragazzo,” disse Levi dolcemente. Per qualche ragione non voleva che Eren lo lasciasse da solo in quell’enorme stanza vuota. “Grazie per essere rimasto qui.” aggiunse velocemente, in quello che era a stento un sussurro. Gli occhi di Eren si spalancarono ancora di più, e Levi lasciò la sua maglietta, ritornando a stendersi e rivolgendo la schiena ad Eren.

“Ah, come?” chiese Eren da dietro di lui.

“Sta' zitto,” mormorò Levi. “Torno a dormire.”

Eren non gli chiese altro, ma si allontanò di un paio di centimetri e si piegò all’indietro in modo da stendersi di nuovo. Levi non tornò subito a dormire, ma rimase ad ascoltare il respiro di Eren fino a quando rallentò ad un ritmo che indicava che stava dormendo di nuovo. Rigirandosi, Levi osservò la sua figura, con il petto che gli si alzava e abbassava lentamente nel sonno. Ma Eren era un tipo da sonno agitato, e ben presto Levi si trovò con la distanza tra di loro nuovamente annullata: la fronte del ragazzo era posata leggermente sulla sua spalla, e un mano avvolta intorno al suo braccio. Era come una fottuta piovra.

Levi fissò il soffitto e sentì il suo cuore fare quella cosa stupida che faceva ogni volta che non riusciva battere ad un ritmo salutare. “Ah, merda.” mormorò nel buio.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 - Insonnia ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Quasi quasi non ci credo neanche io ma sono incredibilmente puntuale per una volta xD. Sarà anche stato il fatto che questo capitolo è veramente breve, quindi non ci ho messo due anni a tradurlo (il prossimo invece è lungo quindi non so se ce la farò in una settimana T_T). Diciamo che è una buona pausa dopo i due capitoli precedenti, che invece sono stati decisamente densi di eventi. Ne approfitto per rigraziare con un po' più calma tutto quelli che leggono la fic, che l'hanno messa tra i preferiti/seguiti/da ricordare e in maniera particolare tutti quelli che commentano, siete veramente fantastici e per me è un vero piacere sapere che la fic stia piacendo a così tante persone. Avevo un po' di dubbi perchè mi rendo conto che non è proprio la tipica fanfiction che si trova di solito, ma la trovo comunque straordinaria, infatti è un piacere condividerla con chi apprezza. Vi assicuro che la storia non fa altro che diventare sempre più bella in ogni capitolo, per cui vi lascio all'aggiornamento al posto di farvi perdere altro tempo! Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: niente da segnalare a parte eventuali errori di battitura di cui mi scuso in anticipo.


The 6th ward
CAPITOLO 17: Insonnia

Levi non riusciva a dormire. Era talmente stanco dopo aver guidato dall’appartamento di Mikasa ed Armin a casa sua, che proprio non riusciva ad addormentarsi. Fottutamente fantastico. Con un grugnito, si alzò dal letto per dirigersi in cucina. Prese in considerazione di bere un po’ d’acqua come ogni persona normale, ma alla fine decise di lasciar stare e recuperare la bottiglia di whiskey nel freezer. Se non riusciva a farlo addormentare quello, non aveva idea di cosa ci sarebbe riuscito. Dopo un sorso generoso, sentì aprire la porta della camera da letto, seguita dalla, ben poco riuscita, uscita furtiva di Eren dalla stanza. Il fatto che il ragazzo stesse cercando di non fare rumore era ancora più divertente proprio perché Levi in quel momento non stava neanche dormendo. E comunque, in caso contrario lo avrebbe ucciso, al diavolo il fatto che era già morto.

Eren, ovviamente, non aveva nemmeno controllato se Levi era ancora nel suo letto, prima di uscire dalla stanza da letto, se no non avrebbe tentato di essere silenzioso. Parola chiave: tentato. Notando che il moccioso non si muoveva a raggiungerlo in cucina, Levi decise di assicurarsi che non stesse rompendo qualcosa o tentando di riorganizzare la sua vita, come aveva fatto l’ultima volta in cui l’aveva lasciato libero di fare quello che voleva in casa sua, mentre lui dormiva. Non ancora pronto a lasciar andare la bottiglia di whiskey, si trascinò fuori dalla cucina tirandosela dietro. Eren era in piedi di fronte alla larga finestra del salotto di Levi, con le mani unite dietro la schiena, saltellando da un piede all’altro mentre fissava pensosamente il paesaggio esterno. Levi notò che stava nevicando ancora più forte di quando erano tornati a casa un paio di ore prima.

“Che cosa ti turba, ragazzo?” chiese Levi, evitando le carineria di annunciare la sua presenza. Eren si girò su sé stesso, inciampando al lato, nel tavolino da caffè, e colpendo un piccolo vaso che riuscì ad afferrare giusto prima che cadesse a terra. Il ragazzo si portò una mano all’altezza del cuore, come se si trovasse in serio pericolo o se gli fosse venuto un vero e proprio infarto. “Gesù Cristo santo,” rantolò, guardando a turno verso la porta della camera da letto, dove pensava Levi stesse dormendo, e Levi stesso, in piedi all’entrata della cucina. “Pensavo stessi dormendo.” disse Eren stancamente, passandosi una mano tra i capelli, che erano già in uno stato anti-gravitazionale.

Levi fece spallucce, prendendo un altro sorso dalla bottiglia di whiskey, anziché concedergli una vera risposta.

Eren lo stava fissando accigliato, e Levi immaginò che fosse a causa del fatto che stava bevendo senza motivo nel cuore della notte. Ma, allo stesso tempo, poteva anche essere perché Levi era praticamente ancora mezzo nudo. Poco importava. Quella era la sua fottuta casa, e lui poteva bere whiskey alle quattro del mattino in mutande se gli andava a genio. Per dispetto, prese un altro sorso esagerato dalla bottiglia.

Levi era certo che Eren avrebbe detto qualcosa, ma per una volta sembrò che il ragazzo non avesse nulla da dire, e, difatti, si limitò a sospirare, rigirandosi per tornare a fissare fuori attraverso la grande finestra. Quando Eren era pensieroso, finivano sempre a fare qualche conversazione a cuore aperto, quindi Levi prese in considerazione di tornarsene semplicemente in cucina e tentare di evitare l’intera situazione. Ma, ovviamente, qualche stupida parte di lui sapeva che era il caso di chiedere al ragazzo cosa gli stesse passando per la testa, e magari farlo sul serio, stavolta. “Allora?” insisté Levi.

“Niente.” tagliò corto Eren. La sua non sembrava una bugia, ma era difficile dire a cosa stesse veramente pensando, perché non si era girato per rispondere.

Levi fece una smorfia fissando la schiena di Eren. “Be’, ehi, io non sto in piedi in mezzo alla stanza, mezzo nudo, perché mi diverto a congelarmi. Sputa il rospo o me ne torno a letto.” Si prese un altro lungo sorso di alcool, godendosi la sensazione del liquido cocente che gli riscaldava lo stomaco e gli faceva sentire il cervello leggero. Era probabilmente arrivato il momento di mettere la bottiglia a posto.

Eren fece un mezzo mormorio in risposta, come se non gli potesse interessare di meno se Levi se ne stava per tornare a letto o meno. La cosa lo fece irritare come non mai. C’era indubbiamente qualcosa sotto. “Non farti pregare, moccioso.” Disse minacciosamente, spostandosi come sé stesse realmente per andarsene.

Finalmente girandosi verso di lui, Eren mostrò un sorrisetto divertito sul volto. “Se non ti conoscessi meglio, Levi, direi quasi che ti va fare qualche discorso intimo.”

Levi guardò accigliato Eren, prendendo in considerazione la sfida. Rovesciando la bottiglia di fronte a sé, e facendogli vedere quanto si era svuotata, rispose: “Sono solo ubriaco. Ignorami. Me ne torno a letto prima che tu possa accettare l’offerta.”

“Ah, vieni qui.” mormorò Eren, muovendosi di lato per fargli spazio vicino alla finestra.

Levi era tentato di andarsene e lasciarlo a metà, ma era troppo ubriaco per fare qualsiasi cosa che non fosse obbedire. Forse buttare giù tutto quel whiskey a stomaco vuoto e in brevissimo tempo non era stata una grande idea. Riluttantemente, incespicò fino alla finestra e rimase impalato a fissare la neve che cadeva silenziosamente.

“Tu bevi troppo.” disse Eren semplicemente.

Non potendo negarlo, Levi fece spallucce. “Forse.”

“Ti faccio arrabbiare?” Un mormorio così sottile, da essere a stento un sussurro.

Levi sbuffò. “Ovvio. Sei come un cane non addestrato che non mi lascia un attimo da solo – tu e il resto dei mocciosi in ospedale.”

Lo sguardo sul volto di Eren sembrava seriamente dispiaciuto, e Levi decise di evitare altri insulti. “Cioè, voglio dire – be’, come… sappiamo entrambi che sarò morto in qualcosa come due mesi. Tutti nel reparto sei saranno morti. Mi chiedo solamente se non sarebbe stato più facile se non avessimo passato tutto questo tempo assieme.”

Levi non rispose. Il ragazzo era quasi morto e si stava preoccupando del fatto che lui sarebbe stato male una volta persi degli amici? Quante cazzate.

“Tu sei l’unico che dovrà ricordare tutto quello che è successo in ospedale,” continuò Eren, “Lo so che non te l’ho mai detto, ma mi dispiace tanto. In qualche maniera è come se fossi tu quello più sfortunato in questa situazione.” Levi lo fissò apertamente mentre parlava, troppo ubriaco per rendersi conto che stava imbarazzando Eren. “Se veramente ci tieni a noi, questa situazione sarà proprio uno schifo per te.”

“E’ ovvio che ci tengo a te,” borbottò Levi. “A tutti voi.” si corresse subito. “Rottura di palle che non siete altro.”

Eren annuì tristemente. “Era quello che temevo.”

Il ragazzo aveva ragione. La sua vita sarebbe diventata strana senza nessuno di loro. Non l’avrebbe mai ammesso, ma dannazione se gli sarebbero mancati quei mocciosi. “Ehi, preoccupati di te stesso,” tagliò corto Levi. “Io farò semplicemente quello che ho sempre fatto. Non la chiamerei sfortuna nera.” Era un fottuto bugiardo.

“L’importante è che starai bene, okay?” disse Eren stancamente, continuando a sorridergli tristemente dall’alto. Perché era così fottutamente alto? Dannato moccioso.

“Faccio quello che diamine mi pare.” sbiascicò Levi, prendendo un altro sorso di liquore contro ogni buonsenso.

Eren rise. “Sì, lo so. E’ quello che fai sempre.” Il suo sguardo stanco cambiò in uno di vago divertimento. “Ti congelerai se non ti metti un paio di fottuti pantaloni addosso.”

Levi abbassò lo sguardo verso le sue gambe nude e fece un sorrisetto. “Ah, ormai. Se mi congelerò non sarà perché sono nudo. Se qualcosa sarà perché tu non riesci a tenere le tue manacce gelide a posto quando sto cercando di chiudere occhio, dannazione.”

Arrossendo vistosamente, Eren strinse le labbra e tornò a guardare fuori la finestra, come se trovasse qualche sorta di pace interiore nella neve che cadeva, rispetto alle prese in giro di Levi. Perché diamine Eren continuava a sopportarlo? Levi rise ed Eren arrossì ancora di più. “Ah, dacci un taglio ragazzo. Sono solo un vecchio ubriaco. Non mi stare ad ascoltare.”

“Ah, non lo farò,” rispose Eren facendo il muso. “Puoi starne certo.”

La vista di Levi stava iniziando a peggiorare drasticamente, così lui decise di tornarsene a letto. Però, mentre si stava girando per tornare in cucina ad abbandonare la bottiglia di whiskey, prese a vederci doppio e barcollò leggermente, rischiando di crollare a terra. Eren lo afferrò per il braccio, e Levi gli fece un vago cenno del capo per ringraziarlo. “Non pensavo che il pavimento fosse in quella direzione,” rise Levi, dando una serie di pacche affettuose sulla spalla di Eren. “Dovrei tenerti con me in modo da non farmi male quando sono troppo ubriaco. Sei un’ottima parete di riserva.” Essere ubriachi era strano, perché Levi sapeva di sembrare uno stupido, ma non riusciva a fermare le parole che gli uscivano di bocca.

“Vai a dormire, vecchio,” disse Eren dolcemente. Tolse la bottiglia dalle mani di Levi con gentilezza, e la mise sul tavolino da caffè sul quale era quasi caduto prima. “Quanto sei ubriaco?”

“Be’, non mi ricorderò nulla di tutto ciò domani,” rise Levi, permettendosi di lasciarsi andare contro Eren un po’ più di quello che era strettamente necessario. Diede un’altra serie di pacche sul petto del ragazzo. “Questo potrebbe essere il momento buono per rivelare i tuoi più oscuri segreti.” lo prese in giro, mentre Eren se lo trascinava verso la camera di letto.

“In tal caso, grazie per essere uno stranamente affidabile stronzo,” disse Eren gentilmente. “Non avrei le palle di ringraziarti se potessi ricordarti di questo momento domani, ma, ehi, ora posso farlo senza aver paura che tu ricorda. L’opportunità di una vita.”

Levi mise una mano sulla cornice della porta, per fermare l’entrata di entrambi. “Non mi ringraziare, ragazzo,” disse seriamente. “Non mi ringraziare, perché così io non dovrò ringraziare te, e ci potremmo evitare un nel po’ di merda sentimentale da adolescenti al primo amore. Va bene?”

Prendendo seriamente in considerazione la cosa, Eren rimase impalato sul ciglio della porta aspettando che Levi togliesse il braccio da mezzo, in modo da poterlo portare a letto. “Nah, credo che ti ringrazierò lo stesso.”

Levi grugnì, facendo crollare la testa sul petto di Eren, in modo che la sua fronte fosse all’altezza del suo cuore. “Ah. Al diavolo, sappiamo entrambi che non siamo bravi a ringraziare la gente. Portami a letto prima che decida di vomitare sulla tua bella maglietta bianca, okay?”

Muovendosi un po’ più velocemente, a causa del pericolo incombente del vomito di Levi, Eren lo depositò nel suo letto. Forse era sperare troppo, quando pregava di non dire cose stupide sotto l’influenza del whiskey prima di addormentarsi di nuovo. “Accetto le tue scuse, ragazzo. Il mondo sarebbe un posto peggiore senza di te. Non l’avrei mai detto, ma è la pura verità.”

Coprendosi la bocca per nascondere il suo sorriso, Eren trattenne una risata. “Sì, certo, Levi.”

“Faccio sul serio,” Oddio, chiudi quella fottuta boccaccia. L’alcool era stata un’idea orribile, come al solito. “La tua stupida faccia è – ”, e i pensieri coerenti, apparentemente, non erano più fattibili. “Io solo – ah, al diavolo. Sai cosa voglio dire. Sei uno stupido, ma rimani qui. Questo appartamento è improvvisamente troppo grande.” Eren sedette a terra al lato del letto, vagamente confuso, ma paziente, posando la schiena contro il materasso. “Ti ha fatto piacere vedere la tua famiglia?” chiese Levi con voce assonnata. “Ne avevo una anche io quando ero un bambino.”

“E’ stato bello.”

“Anche Hanji ne ha una.” mormorò Levi sul cuscino.

“E anche tu.” sussurrò Eren. Levi avrebbe voluto vedere la sua faccia dalla sua posizione, ma non poteva.

Ripensando alla marmaglia di idioti in piedi nella neve, ad ammirare l’ospedale illuminato nella notte, Levi sorrise leggermente. “Sì, anche io.”

“Ti adorano, sai.” gli fece notare Eren.

Levi sospirò. Dannazione. “Gli voglio bene anche io.”

“E ti sono molto grati, anche se sei uno stronzo.”

“Sì,” disse Levi con voce attutita dal sonno. “Specchio riflesso.”

Eren non disse nient’altro, quindi Levi gli diede una serie di pacche sulla testa con fare ubriaco. “Sto per addormentarmi.”

“Va bene. Buonanotte Levi.”

Levi si addormentò, senza preoccuparsi di rimuovere la sua mano dalla testa di Eren. Era un po’ troppo sperare che non si sarebbe ricordato nulla la mattina dopo, perché sapeva già che lo avrebbe fatto. Non si dimenticava mai nulla quando era ubriaco. Era un fottuto bugiardo.





La prima cosa che Levi vide quando aprì gli occhi fu la faccia di Eren – che era fottutamente troppo vicina. “Perché diavolo sei così vicino?” chiese Levi minacciosamente.

Gli occhi di Eren si aprirono di botto, e lui sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di trovare una risposta appropriata. “Non ho una risposta plausibile.” disse alla fine.

Levi fece una smorfia e si trascinò fuori dal letto. “E’ come se mi fosse cresciuto un arto in più o qualcosa,” grugnì, dirigendosi in cucina. Il whiskey, purtroppo, era ancora nel suo stomaco, e Levi sapeva che lo avrebbe ricacciato dallo stesso punto da cui era entrato se non ci avesse messo del cibo sopra. Eren si unì a lui un paio di momenti dopo e preparò il caffè mentre Levi cucinava delle uova in una padella. Eren era tornato normale. A quanto pare aveva tre stati: chiacchiera sfrenata, iperattivo e stranamente filosofico. Quella mattina era in chiacchiera sfrenata.

Quando finalmente riuscì a cessare di parlare di ogni cosa che Mikasa ed Armin avevano fatto durante la sua visita segreta del giorno prima, guardò Levi con fare critico. “Prima o poi ti dovrai mettere dei vestiti.”

“Puoi denunciarmi.” controbatté Levi, continuando a prepararsi la colazione, con solo un paio di boxer addosso. A questo punto si trattava di puro dispetto.

“Tecnicamente non posso fino a quando non esci fuori,” sospirò Eren, porgendo a Levi una tazza di caffè. Lui la accettò mentre girava le uova goffamente. “Hai qualche idea di quanto è difficile parlare con te quando sei nudo ed ubriaco?” Eren gli stava sorridendo a trentadue denti. “Anche se parli veramente tanto quando sei ubriaco.”

Levi fece un mugugno.

Eren lasciò stare l’argomento e iniziò a pulire la cucina. “Allora, quali sono i piani per oggi? Includono il vestirsi?”

“I tuoi lo includono?” rispose Levi con irritazione.

Eren fece una risatina. “Sei mi vuoi nudo, tutto quello che devi fare è chiedere.”

Levi decise di stare al gioco. “E io che pensavo che le tue intenzioni fossero totalmente innocenti quando mi hai praticamente dormito addosso stanotte.” sbiascicò.

Arrossendo furiosamente, Eren si rigirò verso il bancone della cucina che stava pulendo, e iniziò a strofinarlo con forza. “Non ti vantare troppo, vecchio.” borbottò.

“Com’era?” continuò Levi, incapace di resistere dal continuare a provocarlo. “Ti adoro? Sei stato proprio dolce, ragazzo.” rise.

“Ehi!” Eren si rigirò verso di lui. “Ho detto che loro ti adorano. Sei un tale stronzo.”

Levi non insistette, ma rise dietro la sua tazza di caffè, chiudendo la conversazione.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 - Beethoven ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Mi dispiace tantissimissimo per essere così in ritardo, ma per una volta non è colpa mia ma del fatto che mi si è rotto il modem, quindi non ho potuto aggiornare nonostante il capitolo fosse praticamente pronto da una settimana. Credo che la sfortuna mi perseguiti, ma alla fine ce l'ho fatta. Ringrazio tantissimo - anche da parte dell'autrice - tutte le persone che stanno leggendo, quelle che hanno messo la fic tra i preferiti/seguiti/da ricordare e soprattutto chi commenta (riprenderò a rispondere nel weekend ai commenti, ovviamente il modem mi ha bloccato anche con quelli -_-). Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: questo è uno dei miei capitoli preferiti, e purtroppo ho l'impressione che non sia tradotto molto bene, ma forse sono io che in questi giorni non ho l'umore proprio alle stelle... in ogni caso vi consiglio vivissimamente di ascoltare tutti i pezzi che vengono citati (Settima di Beethoven, Marcia Funebre di Sigfrido di Wagner, Concerto di violoncello di Haydn e primo movimento della Sonata al chiaro di luna di Beethoven), perchè ne vale assolutamente la pena. Spero di non aver fatto troppo casino con i termini musicali, ma se l'ho fatto vi prego di correggermi perchè non ho mai studiato musica ed essendo una traduzione mi sono trovata a procedere un po' a tentoni (la diamonica alle scuole medie non credo valga come 'studiare musica' ahahah).


The 6th ward
CAPITOLO 18: Beethoven

2 mesi, 10 giorni

Il problema quando inizi a dar da mangiare ad un cane randagio è che qualsiasi altro cane randagio in giro lo prenderà come un invito a presentarsi davanti a te e richiedere le tue attenzioni, cominciando a farlo sempre. Magari era una metafora un po’ cattiva, ma Eren non faceva altro che tornare, ancora ed ancora. Qualche volta bussava alla porta, altre Levi lo trovava semplicemente addormentato sul suo divano, a dormire sul suo letto, steso sul suo pavimento o a rovistare nella sua collezione di CD per trovare qualcosa da ascoltare. I momenti da dedicare a sé stesso erano una cosa del passato. E forse la sua metafora non era così cattiva, visto che era anche inspiegabilmente accurata.

Levi, comunque, aveva deciso di ribellarsi continuando a passare la maggior parte del tempo in cui Eren si trovava nel suo appartamento, mezzo nudo. Normalmente non trascorreva così tanto tempo in boxer, ma visto che la cosa faceva arrabbiare Eren, la trasformò in un’abitudine. Se era fortunato, alla fine Eren decideva di andarsene prima. Anche se, a dire la verità, la sua compagnia non gli dava poi così fastidio. Alcune sere, semplicemente quando ad Eren non andava di trascorrere del tempo con gli altri mocciosi del reparto sei, passava la notte a casa sua, e Levi doveva vedersela con la sua tendenza ad attaccarsi all’unica fonte di calore nel suo letto. Ma, a parte ciò, non era un problema. Sicuramente, la loro era una sistemazione strana, ma Levi riusciva a vedere dei fottuti ragazzi morti, quindi non era poi la cosa più strana che si era trovato a vivere dopo il suo incidente d’auto. Le cose non avevano preso nessuna brutta piega, come ci si sarebbe aspettati da due persone che passavano molto tempo insieme in una situazione normale, e tutto sommato a Levi andava bene così. Ogni tanto, si trovava Eren praticamente addosso sul letto (fottuti fantasmi rottura di palle), finendo con il tentare di pensare al maggior numero possibile di cose spiacevoli che gli potevano venir in mente, nel tentativo di non eccitarsi. Ma questa era una cosa a cui aveva smesso di tentare di dare una spiegazione. Tutti e due erano praticamente senza vergogna, ma comunque riservati, in qualche misterioso modo. Ma, a parte l’occasionale istinto biologico di saltare addosso ad Eren quando gli si avvicinava troppo, la loro era una coesistenza abbastanza platonica.

Quando Eren non dormiva, cosa che aveva ormai iniziato a fare per la gran parte delle sue giornate, ascoltava i CD di Levi o fissava nostalgicamente il pianoforte che si trovava di fianco la grande finestra del salotto. Il piano aveva un design classico ma elegante, con un tocco moderno e minimale. Perfettamente tirato a lucido, la sua struttura in mogano risaltava come un trono reale nel piccolo appartamento, occupando così tanto spazio che era facile immaginare il motivo per cui Levi continuava a tenerlo lì.

“Ehi, moccioso. Se ti piace così tanto il piano, dacci un taglio e sposatelo. Hai la mia benedizione.” disse Levi dalla porta della camera da letto.

Alzando la testa, Eren gli lanciò uno sguardo leggermente colpevole. “E’ che se ne sta qui sa solo,” si lamentò. “Perché hai un pianoforte se non lo suoni?”

“Per rovinarti la vita.” rispose Levi, dirigendosi in cucina.

Eren lo seguì – che sorpresa! – come un’ombra. “E’ come trovare la Monna Lisa e chiuderla in una camera blindata per non farla vedere a nessuno. Che senso ha?”

“Finché posso vederla io, non me ne frega un bel nulla.” rise Levi.

Anche se si era girato per prendere un bicchiere da uno degli scaffali, l'infermiere sentì addosso lo sguardo accigliato di Eren. “Sei un egoista.” concluse il ragazzo.

“Ah, dacci un taglio. Una volta suonavo quel dannato coso, ma ora ho un gruppo di ragazzi morti di cui occuparmi. E ci faccio anche più soldi.” mormorò Levi, trovando il bicchiere e andando verso il lavandino a riempirlo.

Lo sguardo di cipiglio di Eren cambiò, e i suoi occhi presero e scintillare vivacemente. “Quindi lo suonavi?”

Be’, quella non era una cosa di cui Levi avrebbe voluto parlare. “Un pochino.” borbottò, sperando di non dover approfondire l’argomento.

“Che cosa? E questo lo facevi nel tuo periodo da gang, da cameriera o da infermiera?” scherzò Eren. “La possibilità di fare qualcosa di mascolino sembra averti sempre evitato.” aggiunse.

“Potrebbe sorprenderti il fatto che disegnare illegalmente sui muri e prendersi a pugni non ti mette un tetto sulla testa o un pasto caldo nello stomaco. Ma mi rendo conto che l’informazione potrebbe scioccarti.” disse lui con sarcasmo, alzando la voce per farsi sentire oltre il rumore del rubinetto.

“Un pianista criminale,” scherzò Eren. “Posso capire.”

Levi rise. “Scusa di averti riempito di aspettative, ma sono sempre stato abbastanza mediocre. Facevo un sacco di concerti di improvvisazione jazz in club, ristoranti e via così. La paga faceva schifo, ma essendo che ero uno schifo di pianista, doveva essere destino.” Nonostante le sue dichiarazioni, Eren lo stava ancora guardando come un bambino di fronte ad un negozio di caramelle. “Che c’è?” chiese lui acidamente, un po’ a disagio.

Scuotendo la testa, come a volersi riprendere dal suo stato di trance, Eren si sedette su uno degli sgabelli della cucina. “Scusa, è che avrei sempre voluto suonare in qualche locale o simili. Magari riscuotendo un po’ più successo di te.” lo prese in giro.

Levi si girò verso di lui per guardarlo con scetticismo. “Anche tu suoni?”

Arrossendo e scuotendo la testa con agitazione, Eren balbettò: “N-no, non bene, è che faccio veramente schifo, però, davvero, non import – ”

Interrotto dallo sguardo incredulo di Levi, Eren si azzittì. I suoi occhi erano spalancati e Levi si sciolse in una breve risata. “Be’, dai,” disse, cercando di controllare le risa. “Benvenuto nel club dei pianisti falliti, ragazzo.”

Eren rise sarcasticamente, accettando la mano tesa di Levi, come se stessero concludendo un qualche affare di lavoro. “Ah, grazie,” rispose. Però, mentre si stavano stringendo ironicamente le mani, Eren sembrò venire improvvisamente distratto da qualcosa alla destra del viso di Levi. “Stai sanguinando?” disse, afferrando Levi per le spalle per ispezionare il lato del suo volto.

Un po’ sorpreso dalla vicinanza al viso di Eren, Levi ci mise un attimo prima di alzare una mano e toccarsi il viso. Gli sembrava tutto a posto.

“No, il tuo orecchio.” aggiunse Eren in un mormorio.

Ah.

Quello.

Levi si sciolse gentilmente dalla presa di Eren sulle sue spalle per andare a prendere un asciugamano vecchia e fermare il flusso di sangue che stava scendendo dal suo orecchio alla sua canottiera, rovinandola definitivamente. “Ehi, non preoccuparti.” disse con nonchalance, tenendo l’asciugamano ferma contro l’orecchio sanguinante.

Ma Eren continuava ad essere visibilmente preoccupato. “Come faccio a non preoccuparmi?”

“E’ già successo un paio di volte ultimamente.” Quella era ovviamente la risposta sbagliata. Eren sembrava pronto a spedirlo in terapia intensiva da un momento all’altro. Levi alzò la mano in quello che sperava sarebbe stato un gesto calmante. “Va tutto bene. Probabilmente non è niente.”

Improvvisamente, il ragazzo sembrava furioso. “Ah sì? Sei tu l’infermiere. Guardami negli occhi e dimmi che è una cosa normale.” sibilò.

Ma Levi era un bugiardo eccellente. “Guarda che non è poi così strano,” disse tranquillamente. “Forse è qualche vaso sanguigno che si sta rigenerando dopo che uno di quegli idioti mi ha lanciato un bicchiere in faccia il mese scorso.” In verità, non era normale. La prima volta poteva anche considerarsi un avvenimento strano, ma di certo non preoccupante. Ma, dopo che la cosa aveva iniziato a ripresentarsi ad intervalli bizzarri durante tutta l’ultima settimana, Levi aveva iniziato a considerare l’idea di andare a chiedere ad Hanji se lei immaginava quale potesse esserne il motivo. Se lei avesse detto che era qualcosa di cui preoccuparsi, sarebbe andato a farsi controllare da Erwin. Semplicemente non voleva far star male il ragazzo per la cosa. “Non ti preoccupare.” ripeté in un tono convincente.

Così, la rabbia di Eren scemò, e lui fece un sospiro prendendo l’asciugamano dalle mani di Levi e ripulendolo del sangue che non si era riuscito a togliere da solo, non avendo un specchio. “Chiedi aiuto a qualcuno, okay?” chiese dolcemente.

“Sei una tale scocciatura,” borbottò Levi, incapace di rispondere con reale cattiveria. Eren gli fece uno sguardo triste, e quindi lui aggiunse in fretta: “Va bene, chiederò ad Hanji.” Il che non era un’idea poi così cattiva.

Eren non gli aveva ancora restituito l’asciugamano.

“Posso farlo io.” mormorò Levi.

“Anche io.” rispose Eren fermamente.

Levi non lo interruppe più.





Levi aveva veramente tutte le intenzioni di chiedere ad Hanji la sua opinione riguardo le occasionali perdite di sangue dal suo orecchio destro, ma quando la riuscì a trovare in ospedale, più tardi quel giorno, fu lei la prima a parlare. Non che fosse un avvenimento inusuale.

“Ehi, Levi. Ti piace la musica classica? Dovresti essere abbastanza anziano da saperne qualcosa di questa roba.” disse lei senza introduzioni.

“Non proprio.”

“Davvero?” chiese lei sospettosamente. “Credevo fossi il tipo.”

Levi fece spallucce. “Mi dispiace. Che è successo?”

Sospirando, Hanji tirò fuori un paio di biglietti, dalla tasca sul retro dei suoi pantaloni, e li agitò davanti alla faccia di Levi. “Li ho vinti in un contest alla radio, ma preferirei venderli. Non sono una grande fan della musica classica.” Stavano camminando verso la sala break dei dipendenti, e Hanji fissò i biglietti sconsolatamente. “A quanto pare nessuno vuole andare a vedere la Metropolitan Orchestra suonare la settima di Beethoven stasera – tra le altre cose che faranno, ovviamente. Ma se me lo chiedi – ”

Levi la interruppe. “Aspetta, cosa suonano?”

“A parte la settima di Beethoven, mi sembra che c’è un solista ospite che suonerà qualche concerto di violoncello di Haydn. Dovrebbe esserci un pezzo di Wagner in mezzo, ma il programma – ”

Di solito era Hanji quella che interrompeva sempre le conversazioni. “Quanto?”

La donna strabuzzò gli occhi. “Eh?”

“Quanto vuoi per i biglietti?”

“Datti una calmata.” Ecco. Adesso non gli avrebbe più reso la vita facile. “Cos’è questo improvviso interesse?”

Levi strinse gli occhi. “Conosco qualcuno che vorrebbe andarci.”

Hanji gli sorrise a trentadue denti. “Porti qualcuno ad ascoltare un concerto? Sei più elegante di quello che avrei mai detto,” lo sfotté. “Chi è la fortunata persona?”

“Mi vuoi vendere quei biglietti o no?” Levi incrociò le braccia e le lanciò uno sguardo cattivo. Probabilmente gli sarebbe stato tutto più facile se si fossero trovati alla stessa altezza.

“Sei solo un romantico vecchietto,” continuò Hanji, sembrando genuinamente sorpresa. “Non stai scherzando vero?”

“Ti do quaranta per biglietto.”

Con le sopracciglia alzate in un’espressione incredula, Hanji si prese solo un attimo di pausa prima di lasciar cadere i biglietti nella tasca davanti del camice di Levi. “Affare fatto.” I soldi sono l’unica cosa che fanno chiudere la bocca alle persone.

Dopo aver sborsato ottanta schifosissimi dollari per i biglietti, Hanji si girò per tornarsene a casa. Però, prima di uscire dalla stanza, disse, ancora di spalle: “Mi sarei presa trenta dollari per tutto.”

“Vai all’inferno.” le rispose Levi affettuosamente.

“Ci vediamo lì.” riuscì a rispondere lei prima di girare l’angolo.

Rigirandosi i biglietti in mano, Levi si prese un momento per leggere il testo stampato. Il concerto era in meno di tre ore, ed era una cosa buona che aveva già finito di compilare le cartelle per quella giornata, perché se voleva avere qualche speranza di arrivare in tempo, doveva andare a casa e cambiarsi subito. Non che fosse l’uomo più di classe del mondo, ma sapeva bene che non era il caso di presentarsi alla Metropolitan Concert Hall in un camice da infermiere. Però, prima di dirigersi a casa, Levi si fermò al reparto sei, per assicurarsi che tutti i mocciosi stessero facendo i bravi. Inoltre, aveva qualcuno da portare con sé.

“Hey, moccioso!”

Tutti e sei i pazienti del reparto si girarono verso di lui.

“Er – intendo Eren. Tutti gli altri mocciosi a cuccia.” chiarì Levi.

Separandosi dagli altri, Eren lo raggiunse in corridoio. “Che succede?”

“Stiamo uscendo,” disse Levi, già iniziando a correre via dal reparto sei, al punto che Eren dovette rincorrerlo per raggiungerlo. “Mi devo cambiare e poi dobbiamo andare in un posto.”

“Perché così di fretta? Siamo in ritardo per qualcosa?”

“Lo saremo se non ti muovi.”

Eren riuscì a fare tutto il percorso per tornare all’appartamento di Levi senza chiedergli niente riguardo alla cosa per cui rischiavano di arrivare in ritardo. Era una cosa impressionante da parte sua, e, avendo un po’ di pietà per il ragazzo, Levi lo informò brevemente: “Hanji mi ha dato dei biglietti per la Metropolitan Orchestra. Immagino che tu voglia venire.”

“Oh, sì!” rispose Eren festosamente, tirando un pugno in aria. “Un’altra cosa da sbarrare nella mia lista di cose da fare prima di finire di morire.”

Levi indicò il divano con sguardo severo. “Ora datti una calmata e aspettami, che vado a mettermi qualcosa di decente. Purtroppo non tutti siamo esenti dal giudizio pubblico.”

Eren si sedette obbedientemente sul divano. La metafora del cane tornò di nuovo in mente a Levi, che dovette trattenersi dal ridere. Eren era un cane migliore della maggior parte dei cani veri – sebbene un cane che occasionalmente aveva voglia di sbattere contro un muro e baciare fino a togliergli il respiro. No, così era strano. Brutta metafora. Le cose erano un po’ più complicate.

Fortunatamente, Levi aveva uno smoking nascosto nel suo armadio che usava durante le conferenze formali di medicina a cui era costretto ad andare. La cosa che l’aveva sorpreso, quando era diventato un infermiere, era a quante serate sociali e conferenze fuori città si trovava a dover partecipare. I dottori non erano gli unici che adoravano mettersi addosso vestiti eleganti e bere vino più costoso del suo pianoforte Steinway.

Il suo completo era ancora perfettamente stirato dall’ultima volta in cui l’aveva usato, così poté indossarlo abbastanza velocemente, ma senza far notare che, invece, ci aveva messo meno di 10 minuti. I suoi capelli erano a posto, ma in un guizzo dell’ultimo minuto, decise di tirarli indietro. Nello specchio sembrava molto più il giovane, vagabondo Levi che aveva sfigurato innumerevoli edifici e strombazzato una varietà di riff jazz orecchiabili in night club da pochi soldi. Il suo stesso riflesso era stranamente nostalgico.

Controllando il farfallino un’ultima volta nello specchio, Levi strinse la cinta e uscì dalla stanza, con la giacca appesa mollemente al suo braccio. Eren stava di nuovo fissando il pianoforte, e Levi annunciò la sua presenza con un semplice: “Sei in debito con me per avermi fatto mettere il maledetto completo addosso.”

Strabuzzando gli occhi un paio di volte alla vista di Levi, né mezzo nudo né nella divisa da infermiere, Eren lo fissò senza vergogna dalla testa ai piedi. “Toglimi gli occhi da dosso, Jaeger.” lo rimproverò Levi, dirigendosi in cucina per un po’ di rhum prima dello spettacolo. Sicuramente beveva troppo – ed Eren gli aveva provato che potevi tirare le cuoia da un momento all’altro, quindi meglio godersi quello che ti piace finché sei ancora vivo. E a lui piaceva l’alcool. Che sia.

Raggiungendolo in cucina, Eren continuò a fissarlo. “Mi sento vestito male,” scherzò nervosamente. “E’ la prima volta che vado ad ascoltare un concerto, e mi presento come se avessi appena finito di dipingere una casa.”

“Eh,” fece spallucce Levi, gesticolando verso i vestiti di Eren. “Sei in bianco e nero, va bene.”

“Sì ma non sto neanche lontanamente bene quanto te.” rispose subito Eren. Le sopracciglia di Levi si alzarono nella fronte libera da ciocche di capelli, in quella che era un’espressione sorpresa. Nessuno dei due disse nulla, ma dopo un paio di momenti di teso silenzio, Levi non riuscì a trattenere una risata. Cercò di nascondersi dietro la sua mano stretta a pugno, ma non c’era veramente modo di riuscirci. Eren si aggiunse a lui, ovviamente imbarazzato, ma apprezzando la stupidità della situazione.

“Ritiro tutto quello che ho mai detto sul fatto che sei un tipo furbo.” mormorò Levi, quando la sua risata era scemata.





Eren poteva anche aver parlato per tutto il tragitto verso il teatro, e anche lungo la fila e persino mentre cercavano i loro posti, ma il secondo in cui il suo sedere aveva toccato la seduta in velluto, la sua bocca si era chiusa definitivamente. Levi dovette fermarsi dal cercare il bottone che era stato premuto per zittirlo. Comunque, lui sicuramente era stato uno spettacolo strano: un uomo che si era presentato ad un concerto da solo, ma con due biglietti. Sembrava che avesse avuto un due di picche ad un appuntamento.

Visto che l’intera sala era disturbata solo da un quieto chiacchiericcio, Levi diede uno sguardo al suo orologio. Lo spettacolo sarebbe iniziato in una decina di minuti, e gli sembrava che quasi tutti avessero già trovato il proprio posto a sedere. I musicisti erano già sul palco, per provare alcuni passi dei loro pezzi, controllando un’ultima volta le parti dove era più facile sbagliare. Tutti stavano suonando al volume più basso possibile, usando solamente la punta dei loro archi, in modo che nessuno strumento coprisse gli altri. Era un caos, ma in qualche maniera educato e pianificato. Molto professionale.

Mettendosi comodo nel suo posto, Levi accavallò una gamba sull’altra e poggiando la schiena contro il confortevole schienale della costosa poltrona. Lanciò un’occhiata ad Eren, aspettandosi di vederlo fare lo stesso, ma il ragazzo era seduto sul bilico sul bordo della sedia, persino sporto un po’ in avanti. Le sue mani stringevano smaniosamente la stoffa dei pantaloni sui quali erano posate, al punto che le sue nocchie si erano fatte bianche, e sembrava quasi come se lui stesse per essere testimone di qualcosa di incomparabile interesse rispetto a qualsiasi altra nel mondo. Tutto sul suo linguaggio corporeo lasciava intendere un forte disagio o ansia, eccetto per gli angoli della sua bocca, che erano alzati in un riflesso di pura gioia. Era solo un sorrisino, ma Levi cercò di ricordare se aveva mai visto Eren così felice, e concluse che probabilmente non era stato così.

Eren si girò improvvisamente verso di lui, e Levi non riuscì a reagire in tempo da non venir colto in flagrante sul fatto che lo stava fissando. Decise semplicemente di continuare a farlo. Tirarsi indietro da una sfida non era proprio una cosa da lui – e questa era una cosa su cui lui ed Eren non erano poi così diversi. Però, il sorriso di Eren non fece altro che allargarsi, al punto da mostrare i denti mentre alzava entrambi i pollici. Levi avrebbe voluto alzare gli occhi al cielo, ma non appena lo fece, un sorriso distese anche le sue di labbra, rendendo il suo gesto molto meno antagonistico di quanto avrebbe voluto.

Le luci della sala si attenuarono fino a quasi il buio completo, mentre le luci sul palco si intensificarono, illuminando ogni musicista e tutti i vari strumenti. In meno di una manciata di secondi, l’intero pubblico cadde in un rispettoso silenzio. Mentre il direttore d’orchestra, un uomo basso e corpulento, con un paio di baffoni grigi e pochi capelli in testa, attraversava rapidamente il palco per raggiungerne il centro, Levi sfogliò il programma che gli era stato consegnato all’entrata. La settima sinfonia di Beethoven era l’ultimo pezzo che sarebbe stato suonato. E, ora che ci pensava, non aveva più detto ad Eren che la sua sinfonia preferita era nel programma del concerto. Levi fece un sorrisetto. Ops.

Senza fare grandi cerimonie, il direttore si immerse nella marcia funebre di Sigfrido. Hanji aveva ragione sul fatto avrebbero suonato anche Wagner durante il concerto. Levi preferiva ascoltare musica classica nel torpore del dormiveglia, ma con questa musica gli era un po’ difficile addormentarsi. La successiva, tuttavia, era abbastanza piacevole per appisolarsi. Una donna elegante aveva fatto la sua entrata in scena sul palco, portandosi dietro un altrettanto elegante violoncello, per suonare un concerto solista di Haydn. Era proprio un bel pezzo, notò Levi. E, anche se ci avesse provato, gli sarebbe stato difficile rimanere sveglio durante il secondo movimento. Prima che si appisolasse, però, si prese un secondo per lanciare un’occhiata ad Eren. Era ancora seduto sull’orlo della poltrona, ma le sue mani era rilassate, mentre le sue dita tamburellavano con leggerezza sulle sue cosce, allo stesso ritmo dei movimenti del direttore d’orchestra. A ciò seguì un’altra serie di pezzi che l’orchestra eseguì con facilità, mentre Eren fissava lo spettacolo davanti a sé con la bocca spalancata, quasi come se fosse una magia.

Fu solo quando iniziarono il primo movimento della settima di Beethoven che Levi iniziò a prestare veramente attenzione ad Eren. Dal secondo in cui il primo accentuato accordo risuonò in quello successivo, dove il clarinetto e il corno francese subentravano nell’armoniosa melodia di sottofondo, Eren si rilassò completamente. Levi si aspettava che si sarebbe irrigidito, in un moto di sorpresa, ma la musica sembrò avere un effetto calmante sulla frenetica agitazione del moccioso. Finalmente, il ragazzo lasciò che i suoi occhi si chiudessero, e si appoggiò con la schiena sulla poltrona, lasciandosi andare nel morbido abbraccio dello schienale.

Fu solo al secondo movimento, che Eren tornò a concentrarsi. Neanche dopo pochi secondi dall’inizio della melodia, quasi rigorosa quanto una marcia, Eren stava piangendo. O, perlomeno, se non stava piangendo, si poteva dire che stava lacrimando. Aveva un leggero sorriso sulla bocca, ma le lacrime gli rigavano visibilmente il viso. Lacrime che non si fermarono fino alla fine del secondo movimento. Contro ogni buonsenso, Levi si allungò verso di lui e mormorò: “Questo era quello in cui dovevo rimanere zitto, vero?”

Asciugandosi le lacrime dalle guance senza vergogna e ancora sorridendo, Eren sussurrò in risposta: “Era questo.”

“Sei una fottuta femminuccia.” disse Levi, ridendosela sotto i baffi. Fare lo stronzo era troppo divertente.

Eren gli diede una bella gomitata. “Chiudi quella boccaccia.” borbottò, senza smettere di sorridere.

La sinfonia terminò con un finale grandioso, come la maggior parte fanno, e tutto l’auditorium scoppiò in un applauso. Però, Eren non applaudì, né si alzò in piedi. Rimase solo lì seduto. E così, mentre l’applauso si acquietava e tutti iniziavano ad uscire fuori, Levi rimase anche lui lì, aspettando qualsiasi cosa Eren stesse aspettando. Alla fine, rimasero solo loro e una serie di impiegati col cravattino, che spazzavano l’immondizia nei loro secchi, e recuperavano gli oggetti spersi. Fortunatamente, Levi non era esattamente di fretta. Le sue palpebre iniziarono ad abbassarsi, ma rimase seduto sulla poltrona aspettando che Eren si decidesse ad andarsene o che uno degli impiegati lo cacciasse via.

“Grazie.” disse infine Eren.

Levi si risvegliò dal suo leggero intorpidimento e scosse leggermente la testa, cercando di scacciare la stanchezza. “Mhh?”

Eren fece spallucce. “Grazie.”

Levi sbuffò. “Niente perle di saggezza? Nessuna acuta osservazione?”

“Che altro c’è da dire?”

Pensando alla domanda, Levi gesticolò vagamente verso il palco. “Non lo so, sembra che tu abbia sempre qualcosa da dire su tutto.”

“No, stavolta è tutto.” concluse Eren, alzandosi.

Levi lo guardò sospettosamente, ma Eren si limitò ad allungare una mano verso di lui. Levi declinò l’invito. “Non sono così vecchio.”

“Ti sei addormentato durante il concerto di Haydn.”

Levi andò sulla difensiva. “E allora? Me lo stavo godendo a palpebre chiuse.”

Eren alzò gli occhi al cielo. “Va bene, ma torniamo a casa prima che inizi a goderti il viaggio di ritorno a palpebre chiuse.”

Levi ridacchiò, finalmente accettando la mano tesa di Eren. “Non credo che finirei per goderci molto in quel caso.”

Eren lo tirò in piedi e i due uscirono dall’auditorium in un amichevole silenzio.





Una volta tornati all’appartamento di Levi, questi si diresse direttamente verso il piano della Steinway che spiccava elegantemente nell’angolo del suo salotto. Senza spiegazioni, iniziò a provare un paio di chiavi, come a voler testare le acque, prima di irrompere in uno stranamente lento, elegante, pezzo jazz nel suo stile allegro. Era passato un po’ dall’ultima volta che aveva suonato, ma se sei abbastanza bravo, è come andare in bicicletta – non ti dimentichi mai come fare. Inoltre, il jazz non è una scienza esatta. Non c’era una ragione particolare per cui Levi aveva deciso di tornare a pedalare, ma in quel momento sembrava la cosa più giusta da fare. La musica si suonava quasi da sola, e non era così male. In una serie di veloci flash, l’uomo si sentì quasi di nuovo giovane, con una sigaretta sulle labbra mentre strimpellava un piano da quattro soldi, in qualche bar di un hotel, con un piattino delle mance semivuoto al suo fianco. Ma, altrettanto velocemente, era di nuovo nel suo appartamento vuoto, con lo Steinway a celebrare il suo uso dopo gli anni di abbandono che aveva sofferto.

Quando diavolo si era fatto così vecchio?

Levi ripeté un paio delle ultime note, terminando in un tetro, noioso ritmo che si affievolì nel buio, lasciandolo seduto da solo davanti al dannato piano, più vecchio di quanto ricordava e in un umore generalmente contrariato. Quello che voleva veramente era una sigaretta. Non ne aveva desiderata una da decenni.

“Mi avevi detto che non eri bravo.” Eren stava facendo il broncio al suo fianco.

Levi si irrigidì. Fino a quel momento, non si era reso conto che Eren era seduto a terra di fianco allo sgabello del piano, con la tempia poggiata contro al legno duro della seduta. Spostandosi al lato, Levi diede un paio di pacche allo sgabello. “Chiunque può mettere insieme una melodia jazz. E’ tutta una questione di non fregarsene nulla. E se lo dico io è vero, visto che è la cosa che so fare meglio.”

Eren rise, incespicando per sedersi al suo fianco. Lo faceva sentire bene farlo ridere.

“Tu invece? A te importa troppo. Il jazz non è cosa per te,” proseguì Levi pensierosamente. “Spiegami perché ti piace la musica classica. Chiunque sappia suonare anche solo un po’, ha una canzone che conosce come il palmo della sua mano. Sai di cosa sto parlando. Il tuo cavallo di battaglia. Qual è?”

Eren rispose praticamente in automatico: “Sonata al chiaro di luna, primo movimento.”

Levi conosceva vagamente il pezzo. “Beethoven, avrei dovuto capirlo subito. Non è che c’è qualcosa tra te lui di cui dovrei venire a conoscenza? Perché, sai, pensavo fossimo amici. Dovresti dire certe cose ai tuoi amici.” lo prese in giro. Per qualche motivo si sentiva improvvisamente di ottimo umore. Forse doveva suonare un po’ più spesso.

Il sorriso sul volto di Eren era rinfrescante e infantile e sembrò cancellare gli anni che pesavano su di lui a causa della sua condizione da quasi-morto e che parevano aumentare per ogni momento che lo avvicinava alla sua vera morte. “E’ una cosa puramente platonica, giuro.”

“Sì, certo, ragazzo.” Levi suonò quelle che pensava fossero le prime note della melodia. “E’ questa, vero?” Eren annuì entusiasticamente. “Va bene, suonala,” ordinò Levi. “Sentiamo.” Eren aprì la bocca per rifiutarsi, ma Levi gli lanciò un’occhiataccia e lui la richiuse subito. “Suona la fottuta canzone, Eren. Guarda che non sto ringiovanendo.”

Eren sospirò. “Va bene, vecchio. Prima che ti fai calvo.”

Per un paio di minuti, il ragazzo rimase a fissare la tastiera, le dita che carezzavano leggermente i vari tasti, come se si stesse preparando mentalmente a immergersi nel pezzo. Quando finalmente iniziò, il suo modo di suonare era solo falsamente terribile come quello di Levi, se non ancora meglio. La sua tecnica era rudimentale e alcune delle sue scelte musicali non erano ortodosse, al limite dall’essere accademicamente offensive, ma era bello proprio per quello, e non nonostante ciò. La sonata al chiaro di luna di Eren era adirata in punti della melodia dove non c’era rabbia, nelle normali interpretazioni del pezzo. Era veramente sua. Eren non era mai stato capace di distinguere chiaramente la linea di demarcazione tra la rabbia e la tristezza – era tutto molto confuso per lui. Ed era ovvio che non aveva mai avuto un vero insegnante, così come lo stesso Levi, sebbene nel suo caso sembrava essere stato solo meglio. Il suo talento non stava nella riproduzione delle note che erano scritte, ma nell’accorpamento dei lamenti della sua breve, turbolenta vita.

Le note, infine, scemarono nell’ultimo calante arpeggio e la canzone rantolò in una fine quasi calma. Levi non disse nulla, e nemmeno Eren pronunciò parola per un po’.

“Faccio abbastanza schifo, eh?” chiese Eren timidamente. “Non mi sono mai potuto permettere delle lezioni.”

Levi si limitò a scuotere la testa. Schifo non era una delle parole che avrebbe usato per descrivere il modo di suonare di Eren. Era, senza dubbio, irresponsabilmente crudo, ed esponeva ingiustamente i suoi sentimenti a chiunque stesse ascoltando. Ma uno schifo? Certamente no.

“Oh merda, ma stai piangendo?”

Levi non aveva nessuna idea di se stava piangendo o meno, ma si passò il polsino della camicia in faccia, giusto in caso. “Senza ombra di fottuto dubbio no. Non ti emozionare, moccioso.”

Eren fece spallucce. “Sarà stata la luce.”

“Va bene, ne ho avuto abbastanza di questo concerto di dilettanti. Ho bisogno di dormire,” disse Levi risolutamente, alzandosi e dirigendosi in camera da letto. “Vai o rimani, non mi interessa.” disse ad Eren.

Togliendosi i vestiti, si lasciò cadere sul letto senza grandi cerimonie. Poco dopo, Eren si infilò nella stanza per occupare la parte opposta del letto, borbottando quanto lui fosse solo un vecchietto, quanto presto andava a dormire e altre cose senza senso. Mentre Levi si addormentava, però, sentì una sensazione di calore all’orecchio e si alzò di scatto per andare in bagno. “Che succede?” chiese Eren.

“Devo pisciare.” mentì Levi. Una volta chiuso dentro, piegò un po’ di carta igienica e la pressò contro la piccola perdita di sangue che stava avendo il suo orecchio destro. Ecco cosa si era dimenticato di fare: si era dimenticato di parlare con Hanji.

Merda.

Il suo orecchio, però, era l’unica cosa che sembrava avere qualche problema, quindi non poteva essere qualcosa di terribile. Sicuramente la sua vista ultimamente sembrava sfocarsi leggermente, ma quello era probabilmente dovuto al fatto che stava invecchiando. La vista delle persone tende sempre a diventare una merda invecchiando, e questo è un fatto provato. Perciò, probabilmente stava bene.

Dopo essersi ripulito del sangue, ed essersi liberato di ogni prova, scaricandola nel gabinetto, Levi si lavò le mani e si rinfilò stancamente tra le lenzuola.

“Controlla la tua vescica, vecchio.” borbottò Eren, invadendo subito la metà di materasso di Levi.

“Controlla la tua boccaccia, moccioso.” brontolò l’uomo in risposta, muovendosi un po’ più verso il centro del letto rispetto al solito. Tanto ormai si era abituato a raffreddarsi innaturalmente durante la notte. Se il moccioso aveva deciso di portare la loro relazione ad un passo più avanti, tanto valeva non tentare di evitare l’inevitabile.

Eren non attese nemmeno che uno dei due fosse addormentato, prima di stringersi al corpo significativamente più caldo di Levi. Normalmente, lui avrebbe spinto il ragazzo più in là, prendendolo in giro e facendolo imbarazzare, ma per quella sera lo lasciò fare. Domani era un altro giorno. Avrebbe fatto lo stronzo domani.

Il suo cervello turbinò insieme al laborioso arpeggio della sorprendentemente rabbiosa versione della sonata al chiaro di luna di Eren, che infestò i suoi sogni e le sue riflessioni notturne.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 - Il destino è sopravvalutato ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Le ultime due settimane sono state un tale casino che non ricordo neanche più quanto tempo è passato dall'ultima volta che ho aggiornato. Mi duole avvisarvi che, infatti, ho scoperto che una persona molto vicina a me non sta bene, e che è esattamente questo il motivo per cui ho perso il conto dei giorni e probabilmente continuerò ad aggiornare in maniera più o meno sconnessa per tutta l'estate. "Fortunatamente" mancano ormai meno di una decina di capitoli dalla fine e spero di riuscire a finirli il prima possibile (e comunque li finirò sicuramente, quindi non vi preoccupate nel caso in cui possa scomparire un po' più a lungo del solito). Non ci voleva proprio questa cosa oltre agli esami ma farò del mio meglio per trovare un po' di tempo per tradurre. Ringrazio comunque tutti per il supporto che la fic sta avendo e in maniera particolare tutte le persone stupende che stanno commentando questa storia (mi dispiace tantissimo di essere sempre così in ritardo con i commenti T__T). Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: i soliti errori vari che immagino saranno ancora più del solito perchè non mi riesco a concentrare T_T.


The 6th ward
CAPITOLO 19: Il destino è sopravvalutato

2 mesi, 0 giorni

Era strano, ma Levi si trovò improvvisamente a suonare molto più di quanto aveva mai fatto in precedenza. Dopo quella sera, quando si era seduto per suonicchiare un breve pezzo jazz, che Eren aveva concluso con la sua versione della sonata di Beethoven, semplicemente non era più riuscito a smettere. Qualche volta. Eren andava e veniva, ma Levi non si alzava mai dal suo posto davanti al dannato piano. La musica gli faceva venire una strana nostalgia nei giorni in cui la smania lo prendeva di più, e lo faceva sentire allo stesso tempo troppo vecchio e molto più giovane di quanto era veramente. Per qualche ragione, Levi lasciava semplicemente correre. Ovviamente, Eren si era lasciato sfuggire con i ragazzi del reparto sei che Levi era un pianista jazz (sebbene mediocre) e tutti chiesero delle prove. Levi sarebbe stato più che contento di lasciar stare e fargli credere che fosse una bugia, ma Eren era stato insistente. E non valeva davvero la pena litigare per una cosa del genere.

“Andiamo.” disse Levi brevemente, dirigendosi a passi veloci fuori dal reparto sei, con i mocciosi che lo inseguivano come delle ombre.

“Non può saper suonare,” disse Connie, che però non sembrava completamente certo di quello che aveva appena affermato. “Non ha un’anima. Non c’è jazz senza anima.”

“Magari non ha un’anima perché la usa tutta per suonare,” propose gentilmente Sasha. “Perché Eren dovrebbe mentire su una cosa del genere?”

Connie non aveva una risposta plausibile, e quindi seguì silenziosamente il gruppo, mentre Levi li portava verso un economico, usurato pianoforte all’angolo della sala d’attesa del reparto tre. Senza nessuna introduzione, Levi si sedette davanti allo strumento per provare qualche nota sulle chiavi ingiallite. Erano evidentemente piatte, ma Levi aveva suonato su pianoforti molto peggiori, nei tempi in cui faceva il pianista a noleggio.

Così suonò.

Era un motivetto veloce e allegro, che gli fece stirare le labbra in un mezzo sorriso mentre risuonava intorno a lui. Semplice ma d’effetto.

Quando finì, con una scala di note al contrario che terminò in un breve, basso suono sordo, si alzò velocemente per tornare al reparto sei, senza aspettare che i mocciosi commentassero la sua breve performance o lo raggiungessero. E camminando, si ritrovò ben presto da solo. A quanto pareva, i ragazzi non l’avevano rincorso. Strano.

Non a caso, aveva già completato metà della raccolta di dati giornaliera di Reiner, quando tutti piombarono nella stanza, parlando tra di loro, e facendo una serie di sconnesse osservazioni di meraviglia.

“Be’, dannazione se mi sbagliavo,” disse Connie oltre il chiasso, sorridendo maliziosamente a Levi. “Tu sì che hai un’anima. Un cuore ed un’anima, se non ti da fastidio la citazione.”

Levi non alzò nemmeno lo sguardo dalla cartella. “Mi da fastidio.”

“Non avevi mai suonato questa qui.” gli fece notare Eren, in piedi al suo fianco.

Alzando finalmente lo sguardo, Levi notò la sincera espressione di orgoglio sul volto di Eren. Onestamente non era così bravo. “E’ questo il bello dell’improvvisazione,” rispose criticamente. “Non è mai la stessa cosa. Non lo è per definizione, ragazzo.”

Eren non si lasciò irritare dal commento. “Era bella.”

Facendo un grugnito, Levi terminò di scrivere sulla cartella di Reiner e passò a quella Bertholdt.

“Prendevi lezioni quando eri giovane?” gli chiese Bertholdt, con un simile sguardo di adorazione sul volto.

Levi scosse la testa. “No.”

Reiner annuì con ammirazione. “Si vede. Non che fosse male,” aggiunse subito. “E’ solo che hai questo stile slegato e destrutturato che ti descrive. E’ stato fantastico.”

“Eh, grazie.” disse piano l’infermiere, cercando un po’ troppo evidentemente di sembrare assorto nel suo lavoro.

Ma, anche se Levi non partecipò al resto delle discussioni sui suoi talenti, non poté fare a meno di ascoltare, mentre tutti si complimentavano per le sue abilità e ne discutevano tra loro. Levi odiava i momenti come quello: qualche volta i ragazzi sembravano un gruppo di fantasmi in attesa della loro morte, ma altre volte sembravano delle persone vere con vere speranze e vite reali. E questa era la cosa peggiore. Questi ragazzi non erano morti – non ancora.

Bertholdt stava insistendo nel dire di non avere nessun talento, ma gli altri lo stavano pressando per sapere se aveva degli hobby o qualche lavoro oltre quello di insegnante. Alla fine riuscirono a fargli ammettere che era stato un chierichetto da bambino e che, da adulto, durante i weekend, faceva da volontario in una chiesa protestante. Ovviamente – perché Bertholdt non poteva che essere una persona altruista.

“Non era niente di speciale,” insisté Bertholdt, arrossendo leggermente. “Abbiamo un piccolo spazio non lontano da qui. E’ un posto tranquillo e c’è sempre qualcuno dello staff con cui chiacchierare. Ci sono un sacco di persone agnostiche e altri che hanno avuto problemi con delle organizzazioni religiose. A me piaceva la calma.” aggiunse, sembrando evidentemente imbarazzato del suo passatempo.

“Tu sei troppo buono per stare tra di noi.” si lamentò Eren.

“Già, amico, devi stare attento alla tua anima mortale,” lo prese in giro Connie. “Cioè, io e Sasha finiremo sicuramente all’inferno. Forse dovresti limitare la tua esposizione alle nostre barbarie.”

“Parla per te,” protestò Sasha. “Io sono una persona integerrima.”

Alzando gli occhi al cielo, Connie cercò di fare un’espressione paziente. “Be’, sai cosa? Io invece non lo sono, e so anche dirti che la vera festa è all’inferno. Pensi che la gente divertente vada in paradiso? Senza offesa, Bertholdt,” aggiunse. “Tu sei a posto.”

“Be’, forse io voglio mettermi addosso una bella tunica da angelo e suonare un’arpa e così via,” protestò Sasha. “Puoi pure passare da solo il tuo tempo in mezzo a politici ed assassini. O, perlomeno, sicuramente in mezzo ai politici.”

“Ma non mi lasceresti mai da solo lì sotto,” sorrise maliziosamente Connie. “Se ti conosco bene, preferiresti sollevare l’inferno piuttosto che guardarlo dall’altro.”

Sasha scrollò le spalle innocentemente. “Il tipo mi conosce.”

“Mi sento come se dovessi passare più tempo in chiesa ora che sto morendo,” disse Reiner pensierosamente. “Capite cosa intendo?”

I mocciosi lo guardarono come se non avessero nessuna idea di cosa stesse parlando, quindi Reiner si affrettò a spiegarsi: “Come... non so, quando i vecchi diventano super religiosi perché sanno di stare per morire? Noi siamo tutti sulla stessa barca. Se foste legati a dei binari e vedeste un treno arrivare, quale sarebbe la prima cosa che vi verrebbe da fare?”

“Piangere.” propose Sasha.

“Morire.” disse Connie con sincerità.

Bertholdt era l’unico che lo stava seguendo. “Pregare.”

Reiner si girò verso di lui, sollevato perché qualcuno aveva inteso il suo punto di vista. “Esatto! Anche se non credi in qualcosa di specifico, preghi. E’ quello che fanno le persone.”

“Quindi dovremmo pregare?” chiese Eren scetticamente. “Non è un po’ tardi per farlo?”

Reiner fece spallucce. “Forse, ma vale la pena provare, no? Un piccolo esame di coscienza perlomeno?”

“Potremmo andare nella mia chiesa, se volete,” propose Bertholdt. “E’ piccola, ma accogliente.”

E così, in qualche modo, tutti concordarono nell’andarci. La chiesa non offriva nessun servizio speciale di sorta: era semplicemente un posto dove fare una preghiera o ascoltare un consiglio da chi si trovava lì, o da qualcuno dello staff. E comunque, a parte Bertholdt, nessuno di loro era particolarmente religioso, quindi la cosa andava più che bene. Tra l'altro, Levi aveva l’impressione che tutti fossero più eccitati per la sorta di gita scolastica, piuttosto che per avere la possibilità di farsi un sincero, spirituale esame di coscienza. Ma non gli interessava in nessun caso.

L’edificio, la Chiesa della Riflessione di Trost, era fin troppo lontana per arrivarci a piedi, quindi Levi fu costretto ad accompagnare i mocciosi in macchina. La sua piccola automobile, però, non sembrava adatta per sei potenziali passeggeri. Non avendo molta scelta, alla fine Levi strinse Reiner, Bertholdt ed Annie nel sedile sul retro, Connie e Sasha nel cofano (a lamentarsi rumorosamente), ed Eren sul sedile passeggero. Delle sardine in una scatoletta avrebbero avuto più spazio di quanto ne avevano loro in quel momento. Stretti tutti nell’abitacolo, Levi accese il motore che fece un singhiozzo esausto, e tutti insieme si diressero verso il luogo di preghiera.

Quando finalmente trovarono il piccolo edificio, stretto in mezzo a due bar rivali, Levi quasi dubitò che fosse una vera chiesa. Era stretto, alto e quasi impossibile da distinguere dagli altri palazzi. Allo stesso tempo, c’era una chiara, semplice targa dove era segnato il nome della chiesa e la frase ‘Sempre aperti’. Aveva un aspetto quasi tenero.

Dopo essere usciti dall’auto, con Connie e Sasha che non la smettevano di litigare rumorosamente su quale gomito era finito in quale fianco e quali arti appartenevano a chi, tutti entrarono in chiesa. La porta era così piccola che Reiner e Bertholdt si erano dovuti chinare per non rischiare di andare a sbattere contro la cornice. Dentro, anche se Levi l’aveva dubitato dopo aver visto l’esterno, l’aspetto della sala era stranamente molto più somigliante a quello di una chiesa. Era vecchia, con un pavimento cigolante di legno e un soffitto un po’ cadente, ma emanava comunque un senso di conforto che ti faceva sentire come se fossi stato lì una migliaio di volte. C’erano solo un paio di file di panche di legno e nessun pulpito, e, dove si sarebbe dovuto trovare un altare per un predicatore dalla bocca larga, non c’era nient’altro che un muro di vetrate colorate e polverose. Però, sopra, non vi era dipinta nessuna scena religiosa – solo disegni astratti o paesaggi. Nessuna cosa in quella chiesa sembrava avere una particolare connotazione religiosa. La sala era silenziosa e lasciava spazio alla meditazione, cosa che Levi apprezzava.

C’era un vecchio signore con un berretto che gli copriva il volto, seduto in fondo, che fissava pensosamente il vetro colorato di fronte a lui, ma con gli occhi velati dalla riflessione. A parte lui, nessun altro. Bertholdt si mosse per primo, scegliendosi un posto sulla seconda fila di panche e sedendosi piano, le mani giunte davanti a sé. Reiner lo seguì e si sedette al suo fianco, copiando i suoi movimenti. Sasha e Connie non sembrava sicuri sul da farsi, ma alla fine Connie si scelse un posto a metà, poggiando i piedi sulla panca davanti e stirando la schiena, incrociando le braccia dietro la nuca. Sasha lo raggiunse mettendosi a sua volta in una posizione rilassata. Annie si era già spostata sul retro della chiesa, dal lato opposto del vecchietto, portando lo sguardo sulle mani incrociate sul suo grembo. Anche Eren non sembrava a suo agio, ma alla fine si diresse in una delle file davanti, sedendosi stupidamente vicino alle vetrate. Non c’era una vera e propria regola che imponeva il silenzio, ma qualcosa in quel luogo vissuto sembrava richiedere rispetto, per riuscire a mantenere il suo potere contemplativo. Così, nessuno alzò la voce oltre il sussurro. Connie e Sasha si scambiarono giusto qualche parola, ma nulla andò oltre il breve mormorio.

“Come contattiamo Gesù?” sussurrò Sasha rumorosamente.

“Come, non hai il suo numero?” chiese Connie con finta serietà.

Gesticolando, Sasha aggiunse: “Questa è una cosa che le persone normali imparano a fare prima di diventare adulte?”

“Non saprei, ma credo sia meglio provarci. Chiudi il becco e prova a fare santi pensieri.”

Levi non aveva mai pianificato di finire in chiesa ad un certo punto della sua vita adulta, quindi anche lui non era molto sicuro su come comportarsi. Dopo aver girovagato come uno stupido per un paio di minuti, sentì una mano sulla spalla. Quando si girò, nonostante fosse pronto ad attaccare o urlare contro chi l’aveva toccato, rimase in silenzio. Un uomo pienotto, con dei capelli grigi ondulati senza controllo, e un paio di folti baffi sulle labbra carnose, gli stava sorridendo in modo disarmante.

“Mi scusi signore, non la volevo allarmare,” disse l’uomo dispiaciuto. “E’ che mi sembra perso. E’ mai stato qui prima?”

“Ehm, no,” riuscì a dire Levi. “Non sono il tipo che frequenta chiese.”

L’uomo sorrise. “Neanche io.” Poi allungò una mano verso di lui. “Rex,” disse. “Oggi faccio da custode.”

Levi gli strinse la mano. “Levi. Ho solo accompagnato qui un paio di amici.”

Stavano parlando in un tono molto basso per non disturbare i pensieri delle altre persone in chiesa, che Levi sapeva essere di più dell’uomo seduto in fondo a tutto. Ma questo Rex non l’avrebbe mai scoperto.

“Preghi per degli amici?” chiese Rex gentilmente.

Levi soppesò la sua risposta: “In un certo senso.”

“Non credi in nessuno Dio.” disse Rex. Non era neanche una domanda.

Ma non era neanche un’affermazione troppo sbagliata. “Non mi sembra pratico,” ridacchiò piano Levi. “Ho più prova del contrario.”

“Sembra che tu abbia già capito tutto,” gli sorrise gentilmente Rex. “Sono geloso.”

Scuotendo la testa vigorosamente, Levi rispose: “Non ce n’è motivo.” disse, cercando di non sembrare stanco come si sentiva veramente. “Comunque questo è un bel posto. Se tutte le chiese fossero così, probabilmente ci andrei. Anzi, ci vivrei. Magari così le persone mi lascerebbero un po’ in pace.”

Se possibile, il sorriso di Rex si stese ancora di più. “Ah, amici rumorosi,” lo prese in giro. “Sembra che tu gli voglia proprio bene.”

Levi fissò i mocciosi che erano sparpagliati sulle panche dietro di loro. “Sono una tale scocciatura,” rise. “A stento riesco a dormire.” Rex non disse altro, ma Levi aveva lo strano desiderio di confidarsi con quell’uomo tozzo e sincero. “Sono tutti morti.” disse semplicemente.

E se Rex era confuso dalla sua confessione, non lo diede a vedere. “Deve essere difficile.”

“Sì,” mormorò Levi. “E’ difficile. Non se lo meritano.”

Scuotendo la testa come se Levi fosse un bambino confuso, Rex si lasciò sfuggire una risatina. “Meritano? Puoi mai dire così di una cosa che succede a tutti? Tutti muoiono. Che c’è da meritare?”

“Sì, ma non se lo meritavano ancora.”

Rex fece spallucce. “Hai bisogno di cambiare il tuo punto di vista sulla morte, ragazzo,” spiegò gentilmente. “Se vai in giro pensando che la morte è un oscuro, inespugnabile nulla, sarà il tuo cuore a diventare così. Non essere così ossesso con la fine.”

“La fine fa schifo,” mormorò Levi. “Eren aveva ragione.”

“Sì, probabilmente è vero se pensi che la fine sia importante,” rispose Rex. “Ma se non lo fosse? Se pensassi semplicemente che è stato abbastanza bello aver avuto l’occasione di esistere, interagire, ridere, vivere ed amare?”

Levi fece presente la sua confusione alzando le sopracciglia.

Ma Rex annuì, continuando: “Quando muori ed è tutto finito, cosa diranno le persone di te? Se tu fossi un libro, potrebbero spendere decine o persino centinaia o migliaia di parole per dire tutto quello che c’è di bello e brutto su di te. Ma cosa ci sarebbe da dire sulla tua morte? Chiunque non avrebbe più che una manciata di parole per quella. Cosa c’è di più da dire oltre ‘è morto’? Ti fa solo capire che non c’è più nulla da raccontare.”

“Vorrei avere anche solo la metà del tuo ottimismo.” sbottò Levi.

“Hai paura di morire?” gli chiese Rex con serietà, piegando la testa da un lato.

Levi stava per rispondere sagacemente, ma qualcosa su quella domanda lo prese alla sprovvista. “Sai, una volta ne avevo.”

Rex fece un’espressione sorpresa. “E poi cosa è successo?”

Sorridendo alla stupidità generale di quella situazione, Levi scosse lievemente la testa. “Non ne sono proprio sicuro. Forse è che ho vissuto veramente tanto ultimamente,” iniziò. “Diamine, se questa non è la cosa più melensa che abbia mai detto.”

Il sorriso di Rex era ora a trentadue denti, ognuno dei quali brillava nella fioca luce della chiesa. “Tipico.”

“Che succede quando moriamo?”

“Quello che vuoi succeda, Levi,” disse l’uomo seriosamente. “Qualcosa. Tutto. Nulla. Che importanza ha?”

“Ho sei persone che penso siano veramente interessate alla cosa,” sospirò Levi, guardando la luce del sole attraversare pigramente il vetro, lasciando intravedere la polvere nell’aria.

“Nessuno ha una risposta. Abbiamo un indeterminato lasso di tempo per fare tutto, o almeno un po’, di quello che ci piace, e poi è finita. Il rimorso è quello che fa di un uomo un debole.” disse duramente, muovendo l’indice verso Levi.

L’infermiere lo guardò con scetticismo. “La morte non ha senso?”

“Ci sono letteralmente miliardi di cose per cui preoccuparti in vita, e tu ti preoccupi dell’unica sulla quale non puoi avere nessun controllo? Diventerai pazzo di questo passo.”

Quella risposta sembrò soddisfare Levi. “Giusto.”

Dopo essersi scusato, Rex lasciò Levi lì in piedi, da solo, ancora un po’ confuso, ma sicuramente più tranquillo di quanto lo era stato da un bel po’. Il vecchio aveva ragione. Avere più o meno tempo non importa in uno schema più grande di cose. Era come quello stupido interrogativo filosofico: se potessi sapere esattamente quando morirai, lo vorresti veramente sapere?

Si suppone la riposta sia no.

E Levi sapeva perché.

Fare qualcosa per arrivare alla fine può far schifo, ma fare qualcosa fino alla fine è gratificante. A volte succedono cose strane nella vita.

Non era molto sicuro di quanto tempo passarono in quella chiesa, ma quando finalmente si diressero fuori, il sole stava tramontando lasciandosi dietro una bella scia di nuvole rosa ed arancio. E, sebbene Levi non sapesse cosa ci avessero guadagnato a farsi quel viaggio, i mocciosi sembravano contenti. Connie e Sasha stavano scherzando su come morire fosse meglio di tornare al lavoro, e gli altri avevano un’umore soddisfatto nonostante la discussione stupida. Per una volta, il mondo girava dal lato giusto. Magari non sarebbe stato lo stesso domani, ma oggi sì.

Erano morti, ma andava bene così.





1 mese, 29 giorni

“E’ quello che ti sto dicendo Levi, ci siamo quasi.” si vantò Erwin.

Levi non stava veramente facendo molta attenzione alla conversazione che gli aveva imposto Erwin, ma avendo appena acceso il cervello, ora era abbastanza curioso di sapere quello che si era perso. Ad Erwin piaceva presentarsi di punto in bianco e parlare con Levi di fatti riguardanti l’ospedale, come se a quest’ultimo potesse interessare minimamente.

“Il giudice la pensa come noi, ne sono sicuro. In pratica lo stato non ci sta mettendo i bastoni tra le ruote. Nessuno vuole mantenere per sempre in vita, con una macchina, un paio di persone dimenticate da tutti. E’ deprimente.”

“Nel reparto sei?” chiese Levi, finalmente capendo di cosa si stava parlando.

Erwin annuì enfaticamente. “Sì, quei tre pazienti dipendenti dallo stato che stanno lì da sempre. Avremo una risposta del giudice più tardi questo pomeriggio su se possiamo staccargli la spina o meno. E scommetto che il responso sarà a nostro favore.”

Levi non sapeva esattamente come sentirsi. Il suo primo istinto era quello di panico, o tristezza, ma tutto quello che finì per sentire era una sorta di sollievo. Quando immaginava i volti di Bertholdt, Reiner ed Annie nella sua testa, tutto quello che riusciva a ricordare erano i sorrisi malinconici che facevano ogni volta che a qualcuno veniva data l’occasione di andare via. Erano rimasti lì così a lungo che era ancora peggio di quanto Levi avrebbe mai potuto dire.

“E’,” iniziò a dire, fermandosi per pensarci. “E’ una buona cosa.” disse infine, decidendo che era effettivamente così.

“Sì,” concordò Erwin. “Lo penso anch’io.”

“Grazie Erwin,” aggiunse Levi. “Per aver fatto qualcosa per loro.”

Un po’ confuso, ma lieto della gratitudine, Erwin annuì.





Eren si unì a Levi mentre questi innaffiava l’albero di Giuda, nel giardino nord.

Levi gli lanciò uno sguardo al suo arrivo, ma non disse nulla. Dopo un po’, però, non riuscì a trattenersi dal chiedergli: “Hai parlato con Dio?”

Eren fece spallucce. “Ho dovuto lasciargli un messaggio in segreteria. Credo sia un po’ impegnato.”

Sorridendo, Levi spostò il tubo dell’acqua nell’altra mano. “Forse.” E, dopo un momento di piacevole silenzio, aggiunse: “Il caso di Annie, Reiner e Bertholdt è stato chiuso. Erwin ha avuto il permesso di staccargli la spina una volta che saranno pronte tutte le carte.”

“Lo so,” rispose Eren con leggerezza. “Abbiamo origliato quando era a telefono.”

Levi sbuffò. “Perché sono sempre l’ultimo a venire a sapere queste cose?”

“Non è niente di importante,” Eren fece spallucce. “Credo sia più un sollievo che altro.”

“La morte stessa non è niente di che, deduco.” pensò Levi ad alta voce.

Annuendo pensierosamente, Eren alzò lo sguardo verso il cielo di prima serata, come se potesse portargli consiglio. “Credo di sì. Non credo di avere veramente paura di morire. E’ più il mistero che altro.”

“Già, capisco.”

Levi spense l’acqua e i due rimasero lì impalati, ad ammirare il giovane e sano alberello. Si stava riprendendo bene dalle sue afflizioni e sembrava essersi adattato bene al suo contesto. “Sarai triste quando morirò?” chiese Eren con serietà. Era una domanda infantile, ma Levi decise di non farglielo notare.

“Forse. Dio sa perché.” aggiunse affettuosamente.

Eren annuì con convinzione. “Okay.”

“Solo okay?”

Grattandosi la nuca con aria colpevole, Eren fece spallucce. “Sì. A quanto pare ho fatto abbastanza da mancare a qualcuno. E, a dirla tutta, se dovessi rifare tutto da capo, non sono così sicuro che cambierei anche una sola cosa. Credo che fosse quello di cui avevo bisogno,” rise. “Sono un po’ egoista in questo senso.”

“Già, infatti a chi diavolo mancherò io?” lo sfottè Levi. “Voi stronzi non sarete più in giro quando sarà il momento.”

Eren fece una risatina. “Mi dispiace.”

“Mi mancherai, ragazzo.” ripeté Levi controvoglia.

“Mi dispiace anche per questo.”

Levi gli tirò un pugno sulla spalla. “E fai bene a dispiacertene.”

Massaggiandosi la spalla, Eren sospirò. “Già. E tu hai paura di morire?”

Quella era la seconda volta che gli era stata fatta quella domanda quel giorno. Ma stavolta si sentiva un po’ più sicuro della risposta. Dando una pacca sul tronco robusto dell’albero, Levi scosse la testa con nonchalance. “Credo di no. Avevo ragione: che cosa avrei dovuto fare diversamente? Con il senno di poi, mi sembra normale andare nel panico e preoccuparsi di tutte le cose non fatte. Ma nella vita il vero vantaggio è non sapere quando smetterai di vivere. I programmi sono noiosi. Il destino è sopravvalutato. Lascia stare i piani e fai quello che ti pare.”

Eren sorrise. “Mi piace. Il destino è sopravvalutato.”

Le stelle stavano brillando lietamente nel cielo della sera e Levi non riuscì a trattenersi dal sorridere a sua volta. “Forse essere così insignificanti rispetto all’universo è la cosa che rende tutto più divertente. A chi diavolo dobbiamo delle ragioni?”

“Forse.” concordò Eren.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 - Avvocati e bourbon ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. So che torno quando iniziavate a darmi per morta, ma (s)fortunatamente per voi non è così. Purtroppo per tutto luglio ho avuto troppo da fare tra università ed ospedale (per il motivo che vi ho raccontato l'ultima volta) mentre ad agosto si sono messi una bella crisi di nervi, l'ospedale e un'altra cosa che non aggiornavo da 2 mesi e di cui dovevo veramente occuparmi, a farmi rimandare ancora la traduzione. Ma ci sono e ho assolutamente intenzione di continuare, anzi, possibilmente anche di aggiornare il più possibile fino a quando sarò in vacanza. Adesso è l'una del mattino e non conto di pubblicare prima di un'altra lunga rilettura del capitolo, però dai prossimi giorni cercherò di iniziare a mettermi finalmente in regola con i commenti, che ho vergognosissimamente ignorato fino ad adesso. Sono pessima, ma farò del mio meglio per farmi perdonare. Grazie davvero tantissimissimo a tutti per il supporto e godetevi questo splendido capitolo! Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: possibili errori di battitura + spero di non aver scritto stupidaggini quando vengono fatte delle descrizioni musicali, quelle parti sono difficilissime da tradurre per me perchè contengono un sacco di termini tecnici che non so come esprimere in italiano e mi danno un bel da fare... se qualcuno nota errori in questo ambito e me li vuole segnalare sarò più che felice di modificare!


The 6th ward
CAPITOLO 20: Avvocati e Bourbon

1 mese, 22 giorni

“Il testimone dello stato è presente. Il medico supervisore è presente. Il testimone dell’ospedale?”

“Qui.” disse Levi, alzando debolmente una mano per farsi riconoscere.

L’avvocato annuì, firmando diversi documenti e rovistando tra le pile di scartoffie piene di incomprensibili tecnicismi legislativi. Il procedimento per Annie, Bertholdt e Reiner fu molto più formale delle precedenti morti a cui aveva assistito. Nonostante ciò, nei giorni precedenti, il reparto sei era stato in una sorta di buon umore. Era ovvio che i tre pazienti in mano allo Stato fossero in qualche modo sollevati dalla decisione presa dal giudice, e quindi gli altri avevano semplicemente deciso di assecondarli. Tutti i documenti erano stati compilati, e una donna con lo sguardo severo, fasciata in un tailleur elegante e con appesa alla spalla una ventiquattrore firmata, era comparsa davanti a loro per controllare che Erwin staccasse la spina ai tre. Levi era lì come testimone dell’ospedale, Erwin era il medico supervisore e l’avvocato era il testimone dello stato. Tutto era decisamente in ordine.

Connie, Sasha ed Eren erano in piedi vicino ai tre, come se stessero tutti aspettando che iniziasse una cerimonia formale di laurea. Ed era un po’ come se fosse veramente così, perché Reiner, Bertholdt e, in un certo senso anche Annie, sembravano speranzosi e impazienti di finire in fretta. L’unica cosa che non permetteva di rendere il tutto ancora più simile ad una laurea venuta male era la mancanza di tocco e toga. Era davvero l’unico dettaglio che mancava. Be’, quello, e la capacità di far battere il proprio cuore senza una macchina.

“Presenza di conoscenti o relativi?”

Erwin alzò un sopracciglio all’avvocato. “Di cosa?”

Stringendo le labbra con condiscendenza, la donna chiarì: “Ci sono degli amici dei pazienti presenti per offrire la loro testimonianza?”

Levi alzò di nuovo la mano. “Qui.”

La donna in divisa gli lanciò uno sguardo fulminante. “Lei è un testimone dell’ospedale, signore.”

“E un amico.” insistette Levi, guardando male quella persona scostante.

“Ah, è così?” mormorò lei retoricamente. “Molto bene. Può iniziare secondo orario.” aggiunse, rivolgendosi ad Erwin e guardando l’orologio al suo polso.

Levi imitò l’azione, guardando il proprio orologio e scoprendo che mancavano quattro minuti allo scatto dell’ora. “Quattro minuti.” annunciò. Erwin gli lanciò uno sguardo stranito, perché anche lui aveva un orologio. Ma i mocciosi no.

Senza fregarsene di cosa avrebbero pensato gli altri, Levi parlò verso la parte apparentemente vuota della stanza: “Qualcosa che dobbiamo sapere prima che tiriate le cuoia?”

Erwin sembrava perplesso, ma decise che fosse meglio tenere la bocca chiusa. L’avvocato sbuffò impazientemente, fissano lo sguardo fuori la finestra.

“Sì,” disse Reiner con sicurezza. “Devo solo dire al numero 44, l’attaccante Richards, che è il suo stato un gran placcaggio.” rise amichevolmente. “Un vero onore.” aggiunse, alzando la mano come se avesse un bicchiere con cui brindare al giocatore che lo aveva messo al tappeto per sempre.

Berthold fece spallucce con fare contento. “Non sono mai stato bravo con queste cose. Ma è stato divertente,” disse. “Ci vediamo all’altro lato, magari?”

“Impossibile,” rise Connie. “Ma se vuoi vederci, batti un colpo all’inferno chiedendo di Springer e Blause.”

“E di Jaeger,” si intromise Eren. “Siamo realisti.”

Bertholdt strinse calorosamente le mani ai tre in successione, prima di abbracciarli velocemente. Con Levi, però, si limitò a dargli una pacca su una spalla, a cui seguì un flebile: “Grazie, Levi.”

Un solo angolo della bocca dell’infermiere si alzò a quell’espressione di gratitudine, e Levi rispose con un solo cenno del capo.

Dopo, fu il turno di Reiner di fare il suo giro, e questi, differentemente dall’amico, strinse ognuno dei pazienti rimasti in un abbraccio così stretto da essere doloroso, alzandoli da terra di un paio di centimetri, e guadagnandosi forti proteste da parte di Connie. Similmente a Bertholdt, però, a Levi diede una sola pacca sulle spalle e un cenno della testa, come ringraziamento.

Il tempo stava scorrendo. “Qualche ultima parola per noi, Annie?” scherzò Reiner.

Annie sorrise lievemente. “E’ stato bello, no?”

“Essere morta?” chiese Sasha criticamente.

Per la prima volta, Annie rise leggermente, ma con abbastanza forza da non farti pensare di essertelo immaginato. “Tutto,” sospirò lei. “Tutto è stato bello. E lo è ancora.”

Poi non disse altro, ma non fu in grado di nascondere il sorrisino che stava ancora distendendo i suoi lineamenti.

“Pensate a noi che saremo lassù, se è vero che c’è una vita nell’aldilà,” rise Reiner. “E se non c’è, be’, è stata una bella esperienza quella che abbiamo fatto insieme.”

Non fu pronunciata altra parola. Erwin spense i monitor di tutti e tre i pazienti in veloce successione e, nel giro di pochi secondi, fu come se non ci fosse mai stato nessuno lì. Sasha pianse un po’, e Connie la riprese per il suo comportamento da ragazzina, ma Levi sospettava che quelle non fossero lacrime di tristezza.

“Ah, lasciala in pace,” borbottò Levi non appena Erwin lasciò la stanza insieme alla donna impaziente, per chiamare lo staff dell’obitorio. “Aver accettato quello che è successo non significa che non ha il permesso di piangere.”

Connie fece una smorfia. Non riusciva a capire. Ma Sasha si asciugò le lacrime, con un sorriso di gratitudine sulle labbra. Levi rise a quella strana coppia. “Nessuno di loro ti ha chiesto di non piangere, Sasha. E nessuno ti ha detto di non essere triste.”

Avendo finalmente capito, Connie fece spallucce con aria di scusa. “Ah, come al solito dovresti aver ragione.” borbottò.

“Uh, Levi…” disse Eren improvvisamente, con un’espressione di panico sul volto. Stava gesticolando verso il suo naso.

Guardando in basso, l’uomo notò una serie di goccioline rosse cadere lentamente sul suo camice. “Ah, merda,” borbottò, alzando la mano per tamponare il flusso di sangue. “Cristo, perché cambia sempre orifizio!?” si lamentò nonostante lo scorrere del liquido incriminante rendesse il tutto più complicato. Rovistando tra i cassetti vicino ad uno dei letti, trovò un paio di garze impacchettate separatamente e le aprì tutte. Accartocciandole in una grande palla, le portò al naso, lasciando che il flusso terminasse il suo corso il più velocemente possibile.

“Metti la testa all’indietro.” suggerì Connie.

Levi gli lanciò uno sguardo furioso. “Potrei uccidermi così, idiota.”

“Wow,” rise Connie. “Per tutto questo tempo mia madre stava tentando di uccidermi, a quanto pare. Quando pensi di conoscere una donna…”

“Mi volete andare a prendere un asciugamano o no?” chiese Levi, sperando di far andare via i mocciosi. Lui odiava quando lo fissavano. Ma, sfortunatamente, solo Sasha e Connie corsero via, mentre Eren rimase, uno sguardo accusatorio sul suo volto preoccupato. “Ah, non iniziare moccioso.”

“Hai parlato con Hanji, vero?”

Levi alzò gli occhi al cielo. “Certo che l’ho fatto.” Non avrebbe mai ammesso che gli era completamente passato di mente. “E’ tutto a posto.” insisté.

“Sì, stai proprio alla grande.” lo sfidò Eren.

Levi lo guardò storto. “Be’ questo non sarebbe successo se – ” Ma fu interrotto da uno starnuto che diede fine alle sue lamentele, prendendolo completamente di sorpresa. In un orribile spettacolo della forza distruttiva di uno starnuto, Levi sputò sangue sul pavimento. “Cristo santo, dannazione.”

Gli occhi di Eren erano spalancati e il ragazzo si mise le mani tra i capelli, muovendole freneticamente. “Oh mio Dio, è disgustoso! Stai morendo?” Sembrava diviso tra l’essere mortificato e spaventato.

Il moccioso terrorizzato stava iniziando a far andare anche Levi in panico, sebbene lui sapesse che era stato solo uno starnuto. “Datti una calmata! Ho solo starnutito.”

Camminando avanti e indietro, Eren continuò a spettinarsi i capelli. “Credo che il tuo cervello ti sia appena uscito dal naso, Oddio credo che – ”

Levi fermò i suoi movimenti afferrandolo per il colletto della maglietta e costringendolo ad abbassarsi con la forza, in modo che fossero allo stesso livello, a solo pochi centimetri di distanza. “Eren,” disse tenebrosamente. Gli occhi del ragazzo erano sbarrati, ma tenne la bocca chiusa. “Chiudi quella boccaccia.” Annuendo, Eren rimase silente. “Ho solo starnutito mentre mi stava uscendo del sangue dal naso. Vammi a prendere altre fottute garze prima che arrivino quelli dell’obitorio e pensino che ho ammazzato qualcuno qua dentro.”

Finalmente in grado di riprendere il controllo, Eren cercò negli altri cassetti della stanza, tornando con le mani piene di pacchetti monouso di garze. Li aprì tutti, mettendoli insieme in modo da avere un bel po’ di tessuto per assorbire il sangue. Levi stava per prenderselo, quando Eren scostò la sua mano, afferrandogli il mento in una rara espressione di forza, e mantenendo lui ferme le garze. Levi gli lanciò uno sguardo scocciato, ma Eren non fece altro che fissarlo con lo stesso astio. Questa volta non l’avrebbe avuta vinta.

Dopo quasi un minuto di silenzio, Eren chiese piano: “Vuoi che controlli sotto il letto per assicurarmi che qualche parte del tuo cervello con sia finita lì?”

Era un’affermazione così stupida che Levi sbuffò divertito nella garza, facendo indietreggiare schifato il ragazzo. “Che schifo Levi. Dio, smettila.”

“Sei tu che ha iniziato.” rispose l’infermiere, con la voce comicamente nasale.

“Sei sicuro di stare bene?”

Puntando i suoi occhi in quelli verdi e inspiegabilmente ipnotici di Eren, Levi decise di fare finta. Era facile mentire al ragazzo. “Sì, Hanji ha detto che è normale.” Be’, non l’aveva ancora fatto – ma lui aveva intenzione di sentirglielo dire presto. Non era proprio una grossa bugia.

Sembrando soddisfatto dalla risposta, Eren lasciò il mento di Levi, permettendogli finalmente di tenersi la garza da solo. Il sangue aveva quasi smesso di scorrere quando piombarono nella stanza Connie e Sasha con le braccia piene di carta igienica. “Non riuscivamo a trovare un asciugamano.” farfugliò Sasha, porgendo un groviglio di carta igienica ai due.

“Questo è tutto quello che abbiamo trovato.” concluse Connie.

Levi strinse gli occhi. “E’ il mio naso che sta sanguinando, non il mio culo. Dove diavolo eravate?”

Gli occhi di Sasha si spalancarono: “Hai una sola idea di quanto ci voglia a srotolare tre interi rotoli di carta igienica?”

Eren sembrava sbalordito. “Perché non li avete semplicemente portati interi?”

Connie e Sasha si scambiarono una lunga occhiata di pentimento.

“Lasciatemi morire qui,” disse Connie cupamente, lasciando cadere la pila di carta igienica sul pavimento. “Ho appena superato il limite di stupidità umana. Ora ci possiamo ritirare, Sasha. Niente di quello che faremo d’ora in poi sarà mai stupido come quello che di cui abbiamo dato prova in questo momento.”

“Non ti permettere di far ridere di nuovo Levi,” lo avvertì Eren, cercando di trattenersi a sua volta. “E’ fottutamente disgustoso.”

“Ehi! Io non ti ho chiesto nulla,” obbiettò Levi. “Fatti i fottuti affaracci tuoi.”

Era troppo tardi, però. Tutti e tre i mocciosi erano distratti dalle proprie risa.





1 mese, 20 giorni

Eren stava migliorando molto. Ogni volta che si sedeva davanti al bellissimo Steinway di Levi, il susseguirsi delle note diventava più solido, ogni crescendo più emozionale, e le flessioni nell’armonia della melodia più piacevoli. Levi non era mai stato un grande fan della musica classica, ma ascoltare Eren suonare non era poi così male. Alcune sere l’uomo si sedeva al piano per ore, strimpellando vari pezzi di jazz uno dopo l’altro, cambiando il ritmo e partendo di nuovo come in una conversazione con sé stesso, ma la maggior parte delle sere, Eren lo cacciava dallo sgabello e si esercitava in varie sonate e studi, come era consigliato a tutti i musicisti classici. Levi aveva un sacco di spartiti, anche se non ne aveva mai suonato nessuno, e ad Eren bastava quello per fare pratica. Altre sere ancora, quando Eren stava suonando, Levi si sedeva comodo sul vecchio divano di pelle, mormorando qualche piccola critica o dei consigli costruttivi mentre beveva un po’ troppo. I consigli erano tutti abbastanza buoni, almeno fino a quando – se lo faceva – non arrivava al sesto o settimo drink.

La maggior parte delle volte, comunque, finiva per addormentarsi sul divano mentre aspettava che Eren ci desse un taglio con la musica, e, ogni volta, si svegliava con una coperta addosso e le luci spente. Era un peccato che Eren non avesse mai potuto permettersi un vero insegnante, ma Levi era segretamente preoccupato che degli insegnamenti accademici avrebbero rovinato l’emozione nuda e cruda dell’interpretazione che Eren dava a quella che normalmente era banale musica.

“Ragazzo, vai più piano quando fai quella scala, così perdi tutto il suo fascino,” biascicò Levi dal divano. “Non c’è bisogno di essere così fottutamente arrabbiato in ogni cosa che suoni.”

Eren staccò le mani dalla tastiera come se avesse in qualche modo recato danno alla musica. “Oh, ah, giusto.” E così partì di nuovo, ripetendo il passaggio, ma seguendo il consiglio di Levi di suonarlo più gentilmente.

“Sì, molto meglio,” disse Levi, annuendo alla ripresa della melodia. “Tieniti per il prossimo movimento. Lì puoi essere arrabbiato.”

E così, Eren si trattenne per la parte successiva. Levi non si alzava mai dal divano quando il ragazzo stava suonando, né lo ascoltava con particolare attenzione, ma la musica, stavolta, era sorprendentemente furiosa. L’uomo si girò verso l'altro con curiosità, occhieggiando il moccioso di schiena. Le spalle di Eren erano tese e lui continuava ad alzarsi leggermente dalla sedia tale era la ferocia con cui stava premendo le dita sulla tastiera.

“Ehi! Datti un calmata ragazzo!”

Eren si fermò improvvisamente, consapevole di stare maltrattando il pianoforte. Dopo un momento di teso silenzio, il giovane si lasciò cadere sulla tastiera, al punto che la sua fronte premette contro alcuni dei tasti, creando un dissonante accordo di note in completa disarmonia tra loro.

“Che ti viene?” chiese Levi, alzandosi dal divano.

“Brutta giornata.” borbottò Eren con aria abbattuta, la fronte ancora posata sulla tastiera.

Facendosi strada verso il piano, Levi si poggiò svogliatamente contro lo strumento.

Fantastico.

Emozioni.

Forse se non avesse chiesto ad Eren perché era una giornata no, il ragazzo avrebbe lasciato stare.

“Prima sono venuti a trovarmi Mikasa ed Armin. Le mie spese mediche li stanno distruggendo. Senza il mio guadagno da operaio sono fottuti. La mia assicurazione sulla vita era una merda.”

Be’, perlomeno non ci era voluto molto per farlo parlare. “Come mai non sei coperto da un’assicurazione per il lavoro?” si chiese Levi.

“Non avevo il mio fottuto casco protettivo in testa,” grugnì Eren. “Ergo, non è un problema loro.”

Levi pensò alla situazione in maniera pratica. “Be’, lo sai cosa si dice sulle assicurazioni: è una scommessa sul se spenderai molti più soldi di quanti ne vedrai mai tornare.”

Eren sbuffò divertito. “E che succede se muori giovane?”

“Hai vinto.”

Eren tolse la fronte dalla tastiera, cogliendo Levi abbastanza di sorpresa quando vide le lacrime di rabbia che gli rigavano il volto. Però, il ragazzo stava comunque sorridendo leggermente alla sua battuta, e la rabbia sembrava stare diminuendo. “Che schifo.” disse Eren scocciato.

Levi non rispose, ma lo spinse più in là sullo sgabello, per sedersi al suo fianco, mentre si arrotolava le maniche della camicia. Poi, si immerse in un ritmo jazz semplice, con cui era facile improvvisare e che era utilizzato da un sacco di novellini nel campo del blues. Poi guardò verso Eren. “Suona qualcosa.”

Un altro po’ di frustrazione sembrò dissiparsi dal volto di Eren. “Eh?”

“Io tengo il ritmo, tu suoni,” disse Levi impazientemente, continuando a suonare la base che aveva scelto. “Basta con questa roba classica. E’ ora di iniziare a fregartene di tutto e di tutti.” mormorò.

Con molta concentrazione, Eren studiò il movimento delle mani di Levi mentre strimpellavano l’accordo base un paio di volte, memorizzandone il ritmo. Dopo un po’, suonò tentativamente un paio di note che andavano bene con la progressione di Levi, prima di lasciarsi andare ad un’improvvisazione semplice. All’inizio suonava infantile e un po’ impacciata, ma dopo un paio di prove, Eren riuscì a entrare in contatto con il motivo della melodia e ad ottenere una buona performance. A Levi non piaceva duettare, ma per una volta lasciò correre.

“Ah, forza,” ridacchiò Levi. “Questo è tutto quello che sai fare?”

Eren aggrottò le sopracciglia un po’ infastidito, ma non tardò a inserire nella sua improvvisazione dei riff più veloci e dei giri di fase più complessi. Così era molto meglio. “Lo dici solo perché tu hai la parte facile, vecchio.” borbottò.

“Quando sei vecchio, te lo sei guadagnato il compito facile,” rise Levi, cercando di ingentilire il ritmo di base. “Va bene, chiudi alla fine di questo movimento, eh?”

Così, alla loro ultima sequenza, accompagnato dalla ripetizione di accordi di Levi, Eren si lasciò andare ad un bell’arpeggio che terminò in un eccezionale, ma inaspettato, accordo. Senza fare commenti, Levi si diresse in cucina. Purtroppo aveva finito il liquore, quindi avrebbe dovuto accontentarsi di un bicchiere d’acqua. O forse no, c’era ancora un po’ di vecchio bourbon non finito. Lo versò fino all’ultima goccia in un bicchiere – era quasi un drink e mezzo – e poi si voltò per tornare sul divano, ma non prima di aver bevuto più della metà del liquore in un sorso. In qualche modo, intanto, il moccioso lo aveva raggiunto, e quando Levi si girò, finì per scontrarsi contro Eren con un grugnito sorpreso, quasi rischiando di rovesciare il poco alcool che gli era rimasto.

“Gesù Cristo, Eren – ” iniziò a dire, ma Eren alzò gli occhi al cielo e afferrò Levi per la collottola per chiudere la distanza tra le loro labbra.

Onestamente non fu male. Eren lo baciò con forza e sorprendente sicurezza, lasciandogli ben poco tempo per guadagnare anche solo un po’ di controllo sulla situazione. Sfortunatamente, però, durò troppo poco. Quasi subito dopo che Levi era stato tirato per il collo della camicia, era stato anche spinto leggermente all’indietro. Eren stava scuotendo sdegnatamente la testa verso di lui. “Ovviamente sai di liquore. Che sorpresa!” sospirò, girandosi per uscire dalla cucina. “Scusa se ti ho preso alla sprovvista,” disse poi casualmente, ritornando al pianoforte. “Sapevo che tu non l’avresti mai fatto.” aggiunse.

Levi rimase lì impalato come uno stupido, stringendo il bicchiere quasi vuoto che aveva in mano. Il suono della sonata per pianoforte di Bach ricominciò a riecheggiare nel suo salotto, mentre lui replicava nella sua mente quello che era appena successo.

Be’, era stato strano.

Finendo il suo ultimo sorso di bourbon, Levi lasciò il bicchiere nel lavandino per poi tornare al suo posto sul divano, stavolta senza essere assalito da Eren nel processo. “La tua interpretazione dei mezzo forte di Bach fa schifo.” disse amaramente, lasciandosi cadere sul divano.

Eren sbuffò. “Come se avesse qualche importanza.”

“Tu invece sapevi di persona morta.” rispose Levi, come se fosse un bambino. C’era qualcosa nel fatto che Eren disapprovava le sue bevute un po’ troppo frequenti, che lo faceva imbestialire.

Con le spalle che gli tremavano a causa delle risa trattenute, Eren continuò a rimanere rivolto verso la tastiera. “Non ho detto che non mi è piaciuto.” disse.

Levi guardò male la schiena di Eren. Lo sborone non si degnava neanche di girarsi. “Sì, neanche io l’ho detto.”

“Avresti dovuto vedere la tua faccia.” rispose Eren ironicamente, senza smettere di suonare la sonata su cui stava facendo pratica.

Dannazione.

“Suona la tua stupida musica,” lo aggredì Levi. “E’ tremenda.”

“Credo sia arrivata l’ora di andare a letto,” rispose Eren seriosamente. “Diventi scontroso dopo la mezzanotte.”

Levi non rispose, ma fece la cosa peggiore possibile dopo rispondere, che voleva dire addormentarsi sul fottuto divano come se fosse veramente arrivata l’ora della nanna. Come al solito, si risvegliò con una coperta, ma, abbastanza stranamente, quando aveva aperto gli occhi, Eren stava suonando un motivetto jazz, anzichè uno dei soliti pezzi classici. Controllando il suo orologio, Levi fu sorpreso di scoprire che erano passate le tre del mattino. Ora che Eren era in grado di dormire, non stava quasi mai in piedi per molto tempo, dopo che Levi si era addormentato.

“Questo suona molto meglio ragazzo.” sbottò intontito l’uomo, dal suo posto sul divano.

“Non riesco a dormire,” spiegò Eren, rispondendo ad una domanda che non gli era stata posta. “Scusa se ti ho baciato in cucina.” aggiunse, in un ulteriore riflessione.

Levi fece un sorrisetto. “Non ti preoccupare. La prossima volta avvisa, okay?”

“Mi dispiace.” ripeté stupidamente Eren.

“A me no,” ridacchiò Levi. “Ora mettiti a dormire.”

“Hai intenzione di rimanere sul divano?” chiese Eren timidamente, con una nota di imbarazzo nella voce.

“Preferisci così?”

Girandosi verso di lui, Eren cercò di trattenersi dal rispondere “No.”, ma fallì miseramente.

Dannazione. Il divano era veramente comodo. Con un mezzo borbottio per lo sforzo, Levi si alzò dal divano per andare a letto, seguito poco dopo da Eren. Nessuno dei due era veramente sicuro su come e quando quell’arrangiamento bizzarro fosse diventato un’abitudine consolidata, ma è difficile tornare a dormire da soli quando ti sei abituato alla presenza di qualcuno – anche se questo qualcuno è fottutamente gelido e ti si attacca addosso come una piovra.

“Però credo che tu mi abbia convertito al bourbon, perlomeno.” mormorò Eren in una leggera, sospirata risata ad accompagnare la sua battutina.

“Hai quattro secondi per addormentarti prima che ti butti giù dalla finestra.”

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 - Mostri ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Yahoo, finalmente riprendo con i vecchi ritmi! Speriamo di riuscire a continuare così fino alla fine visto che mancano solo 7 capitoli, ormai. Grazie davvero tantissimo a tutti per il supporto, a chi ha inserito la storia tra i preferiti/seguiti/da ricordare e soprattutto chi commenta! E in maniera particolare grazie per il supporto e la pazienza che state avendo con me e i miei problemi... sono veramente contenta di vedere che la fic non è stata abbandonata nonostante non abbia aggiornato per tanto tempo. Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: errori di battitura + possibili triggers riguardo a storie di alcolismo/violenza. Lo dico nel caso qualcuno abbia problemi riguardo a questi argomenti e preferisca saltare il capitolo (che può eventualmente essere saltato senza perdersi niente della trama vera e proria), ma in realtà è tutto un accenno e non ci sono descrizioni né altro, quindi non dovrebbe dare problemi.


The 6th ward
CAPITOLO 21: Mostri

1 mese, 15 giorni

“Allora, è che io ho questo amico…” iniziò Levi con nonchalance. “Che continua ad avere sporadiche perdite di sangue dall’orecchio. Ma qualche volta anche dal naso, e poi pare che la sua vista stia anche peggiorando. Voleva un’opinione e tu sei l’infermiera meno deficiente a cui potevo chiedere. Che ne pensi?”

La faccia di Hanji passò da un’espressione confusa all’altra come in un circolo vizioso. “Aspetta, aspetta, aspetta. Mi hai appena fatto un complimento?”

Ovviamente quella era l’unica cosa che la donna era riuscita a comprendere. “Sì, sei fottutamente intelligente, ora dammi la diagnosi.”

“Ehm, be’, diciamo che io non sono un dottore, sai?” disse lei criticamente. “Dovresti decisamente dire al tuo amico di farsi vedere da un vero dottore.” Poi, i suoi occhi si strinsero improvvisamente. “Aspetta un minuto, tu non hai amici.”

“Ehi!” protestò Levi. “Ne ho eccome. Ora pensa quattrocchi. Cosa c’è che non va con il mio amico?”

Hanji fece spallucce. “Onestamente? Non ne ho idea. Direi che c’è qualcosa a che fare con il suo timpano, ma il fatto che ci sia del sanguinamento anche dal naso mi fa pensare che possa essere qualcos’altro. Magari non è niente, ma potrebbe anche essere qualcosa al cervello. Non lo so, Levi. Dici al tuo amico di farsi vedere. Meglio prevenire che curare.”

Levi fece un’espressione accigliata. Quella era esattamente la risposta vaga che sperava di non sentire. Voleva solo che lei gli dicesse che era una cosa normale e che si sarebbe risolta da sola.

“Il tuo amico ha avuto qualche trauma cranico ultimamente?” provò a chiedere Hanji.

Levi stava fissando il ben poco appetitoso pranzo che gli si stava freddando davanti. Per qualche ragione, entrambi tentavano ancora di mangiare alla mensa, nonostante avessero perso ogni senso del gusto rispetto alle pietanze che vi venivano preparate, e già da molto tempo. Per quel che riguardava il trauma cranico, sì, aveva avuto quel graffio causato dalla rissa con i suoi stupidi colleghi un paio di mesi fa, ma non l’avrebbe definita proprio una cosa ‘recente’. “Non credo.” rispose Levi contemplativamente.

Spingendo il suo cibo freddo via, Hanji fece di nuovo spallucce. “Difficile a dirsi, allora. C’è bisogno di un medico, un vero medico.”

Levi annuì. “Glielo dirò.” Poi alzò lo sguardo per trovare Hanji che lo occhieggiava con fare incerto.

“Sì, certo,” sospirò infine la donna. “Diglielo. E assicurati che anche a Levi arrivi il messaggio.” sbuffò, alzandosi dal tavolo.

Perché tentava sempre di ingannare Hanji, anche quando lei lo scopriva ogni volta, Levi non lo sapeva. Ma andare da un dottore? Non gli sembrava necessario. Negli ultimi giorni non aveva avuto nessuna perdita, e poi si sentiva abbastanza bene. Cercando un compromesso, Levi decise che ne avrebbe parlato con Erwin se le cose fossero peggiorate. Per adesso, comunque, sembrava che la situazione stesse andando leggermente a migliorare.

Sentendosi un po’ più sicuro sulla situazione, Levi tornò al reparto sei per la conclusione dell’orario di visita, e per finire di raccogliere i dati per le cartelle cliniche. Anche se, ora che c’erano solo tre mocciosi nel reparto, aveva decisamente meno scartoffie da compilare.

Levi controllò prima la stanza di Sasha e Connie, che era vuota tranne che per i loro corpi senza vita. Guardando dalla finestra, li vide che si arrampicavano su uno dei più grandi alberi del boschetto dei pazienti. Loro sì che erano una coppia di mocciosi che si rifiutava di smettere di morire anche dopo la morte. O erano incredibilmente più stupidi o incredibilmente più forti di tutti gli altri. Ma probabilmente entrambe le cose.

Ma, dirigendosi verso la stanza di Eren, Levi notò che la porta era stata lasciata socchiusa. Non era una cosa necessariamente strana, anche se Eren tendeva quasi sempre a tenerla serrata. Quello che era veramente bizzarro, però, era il fatto che dentro c’era un uomo dall’aria stanca, stretto in un completo consunto, e con la barba sfatta, in piedi di fronte al corpo di Eren.

“Ehm,” iniziò Levi con lieve disagio. “Posso aiutarla in qualche modo, signore?”

L’uomo aveva un paio di occhi stanchi e spenti, e il volto logoro, da quelle che facevano pensare fossero state tutte le delusioni che aveva dovuto affrontare durante la sua vita. “Cosa c’è che non va?” chiese piano. “E’ morto?”

In qualche modo quell’uomo aveva un che di familiare. “Essenzialmente sì.” disse Levi con calma, studiando il tipo con crescente sospetto. “E’ cerebralmente morto, ma il suo corpo è tenuto in vita dalle macchine.”

“Capisco,” tagliò corto il tipo dall’aspetto incolto. “Riceve delle visite?”

Levi annuì: “Ha una famiglia: la sua sorella adottiva e il loro migliore amico. Conosce Eren, signore?”

Un improvviso sguardo di intensa tristezza mosse gli occhi dell’uomo, ma solo per un attimo. “Sono suo padre.” Poi scosse la testa come se stesse tentando di dimenticare quell’informazione con il solo uso di un gesto. “Be’, avrei dovuto esserlo. Non credo di essere mai veramente stato come un padre. Non sono neanche molto sicuro di cosa voglia dirlo esserlo.”

Facendo educatamente un mugugno per fargli capire di aver inteso, Levi camminò per mettersi al lato del letto di Eren.

“Sono un alcolista.” disse improvvisamente l’uomo.

Levi rimase impalato sul posto, fissandolo intensamente. “Anche io.” disse impassibilmente, cercando di dissipare quell’atmosfera di disagio che si era instaurata tra loro.

Il signor Jaeger ispirò con forza. “Non dovrei essere qui.” E, senza nessuna spiegazione, uscì dalla stanza per correre via dal reparto sei.

Lì in piedi, stringendo con un po’ troppa forza la cartella clinica, Levi non sembrava in grado di decidere se voleva seguirlo o meno. Non era veramente qualcosa che gli competeva, ma la breve visita di quell’uomo aveva fatto sorgere in lui migliaia di domande, per cui non aveva neanche una risposta. Ma, i suoi pensieri furono bloccati ben presto da Eren, che era entrato nella stanza massaggiandosi distrattamente la nuca. “C’era qualcuno nella mia stanza?” chiese il ragazzo curiosamente.

Levi lo guardò. Che cosa avrebbe dovuto dirgli? Sì, ragazzo, il padre che ti ha abbandonato quando eri un bambino si è presentato qui per rimanere un totale di cinque minuti, prima di scappar via. “Ah, avevano sbagliato stanza.” borbottò Levi, facendo finta di essere assorto nella compilazione della cartella di Eren.

Facendo spallucce, Eren si sedette su una sedia, mettendo i piedi su quella di fronte. “Sembrava un tipo familiare.”

Levi fece un mezzo borbottio per fargli intendere di aver sentito. Non era molto sicuro sul motivo per cui non aveva semplicemente detto ad Eren la verità. Non era qualcosa di importante, no? Magari non gli andava di vedere Eren agitarsi e arrabbiarsi di nuovo, visto che, ultimamente, il ragazzo aveva iniziato ad accettare la situazione con una certa calma, e la riapparsa di suo padre avrebbe potuto rompere la stabilità emozionale che aveva finalmente raggiunto. Realisticamente, però, Levi stava solo facendo lo stronzo. Semplicemente non voleva affrontare la situazione. Quale diritto aveva il padre di Eren di presentarsi lì dopo tutti quegli anni?

“Cosa c’è che non va?” chiese Eren, interrompendo di nuovo i pensieri di Levi.

Alzando lo sguardo dalla cartella, Levi si rese conto dell’espressione intensamente corrucciata sul proprio volto, e dello sguardo preoccupato su quello di Eren. “Ah … niente. Non ti preoccupare. Ora me ne torno a casa per pranzo. Sarò qui tra un’oretta.” E così si allontanò dalla stanza di Eren dopo aver pronunciato un breve arrivederci.

La passeggiata verso il suo condominio era piacevole, nonostante facesse abbastanza freddo da farsi congelare anche le lacrime negli occhi. Però non era ventilato, e il ghiaccio si era solidificato sui rami nudi degli alberi, durante la notte, facendoli scintillare nella sorprendentemente intensa luce del sole, di giorno. Ma faceva comunque troppo freddo per stare all’aperto, e il parco era deserto. Mentre Levi attraversava il sentiero dove si trovava il suo salice preferito, che si affacciava sul laghetto ghiacciato, vide il padre di Eren che si era lasciato cadere su una delle panchine, con le mani nascoste nelle tasche. Levi non era sicuro se fosse il caso di dire qualcosa o passare velocemente, sperando che l’uomo non lo riconoscesse. D’altro canto, aveva un’inusuale, ma forte, curiosità riguardo quello che era il padre di Eren. Merda, non sapeva proprio cosa fare.

“Signor Jaeger.” si trovò alla fine a salutare l’uomo. Dannazione. Perché l’aveva fatto?

Il tipo saltò sul posto, i suoi occhi subito su di lui. “Ah, sì?” Era come se non avesse riconosciuto Levi.

“Sono l’infermiere di Eren,” spiegò brevemente Levi. “Dove è stato?”

Leggermente nervoso, l’uomo si guardò velocemente intorno, come se si fosse aspettato che Levi stesse parlando con qualcun altro. La cosa fece infuriare l’infermiere. Quest’uomo aveva abbandonato la sua famiglia per più di un decennio e ora era seduto lì come un animale impaurito.

“Ehi, dove diavolo sei stato?” chiese allora Levi con asprezza. “Tuo figlio sta morendo, stronzo.” Levi non aveva intenzione di arrabbiarsi a quel modo, ma quell’uomo lo faceva incollerire oltre ogni dire. Sarebbe stato più facile se fosse stato più simile al mostro che aveva immaginato lui, quando Eren gli aveva raccontato cosa era successo.

“M – mi dispiace.” balbettò lui, nascondendo il volto tra le mani.

Levi avrebbe voluto picchiarlo. “Dove diavolo sei stato?” ripeté, con la voce che era scesa ad un minaccioso sospiro.

Il padre di Eren scattò di nuovo, e indietreggiò leggermente da Levi, però alzando finalmente lo sguardo verso di lui, i suoi occhi colmi di tristezza. “Da nessuna parte.” fu la mormorata risposta. “Dormivo in giro, facevo un po’ di soldi, e poi li usavo tutti. Non ho concluso neanche una cosa.”

“Allora per qualche fottuto motivo non sei tornato indietro?”

“Non potevo,” disse piano l’uomo, con gli occhi ancora puntati in quelli di Levi. “Non potevo rimanere in quella casa con loro.”

Levi lo fissò con astio. “Sì, be’ avresti potuto smettere di bere.” sbottò.

“Già, come te, no?” rispose l’uomo, con un po’ più di forza di prima.

Be’, non aveva tutti i torti.

“L’ho picchiato,” confessò il padre di Eren. “Ma solo una volta.” aggiunse.

Levi fermò improvvisamente quella lite gratuita. Non era più sicuro di cosa farsene di quell’uomo fallito di fronte a lui. Non c’era nulla di lui che suggeriva fosse una persona pericolosa, men che meno un uomo cattivo. Era stupido, ma in una maniera in cui era più problematico per sé stesso che per gli altri. Qualcosa di lui faceva venire al più giovane solo voglia di afferrarlo e scuoterlo, in modo che il suo cervello tornasse a posto, e lui iniziasse a fare la decisione giusta, per una sola volta durante la sua patetica vita.

E, a dirla tutta, quella era un’ottima idea.

Così, Levi si trovò davvero ad afferrare il padre di Eren per il collo della sua giacca da quattro soldi, e a tirarlo giù dalla panchina, in modo che si trovasse con lo sguardo allo stesso livello del suo. L’uomo non fece nessuno sforzo per tenersi in piedi da solo o scacciare via l’infermiere.

“Perché sei tornato indietro?” sibilò Levi. “Perché sei venuto qui?”

Il padre di Eren scosse la testa, con uno sguardo di genuina confusione sui suoi lineamenti stanchi. “Onestamente non lo so. Forse per chiedere scusa? Ma non ci sono riuscito. Non posso farlo.”

I mostri non possono essere talmente patetici. Ma, guardando quell’uomo dritto negli occhi, Levi vide sé stesso più di quanto avrebbe voluto. E questa cosa lo faceva star male. Lo faceva star male perché il signor Jaeger non era un mostro. Tutti loro erano solo un gruppo di stupidi esseri umani che vivevano sullo stesso stupido pianeta, facevano gli stessi stupidi errori, e non erano in grado di costringersi a guardare i loro stupidi bambini negli occhi e ammettere di non essere perfetti – di dire quanto erano fottutamente dispiaciuti di essere stati una tale delusione.

“E’ un po’ tardi per questo,” sospirò Levi, allentando la presa sulla giacca dell’uomo. “Non a tutti gli errori c’è riparo.”

Il signor Jaeger gli sorrise con tristezza. “Probabilmente hai ragione. Ma vorrei solo che non fossimo tutti cresciuti pensando che ogni cosa possa essere risolta con delle scuse.”

Levi gli sorrise leggermente, sentendosi più stanco di quanto si era sentito da tanto tempo. Guardando l’uomo dritto in faccia, gli era sembrato che fosse dotato di un inquietante potere riflettente, come uno strano specchio per vedere il suo futuro. “Sì, anch’io.”

“Sarebbe meglio se lasciassi semplicemente che Eren continui ad odiarmi, vero?” chiese l’uomo mestamente. “E’ probabilmente l’unica cosa che posso fare per lui adesso.”

Lasciando finalmente andare l’uomo, Levi cercò di lisciare le pieghe che aveva causato sul collo della sua giacca, come per scusarsi, e poi fece un passo indietro per lasciargli il suo spazio personale. “Chi lo sa,” disse stancamente. “Io non sarei abbastanza forte da riuscire a mettere le cose a posto.”

Il signor Jaeger sbuffò divertito. “Già, neanch’io.” Poi si mise a giocherellare con l’anello che ancora portava al dito, perso nei suoi pensieri. “Non sono stato neanche capace di smettere di bere. Non tutti finiscono per avere un lieto fine, eh?”

“Non tutti.” concordò Levi.

“Quel ragazzo mi mancherà,” ammise il signor Jaeger. “Mi è sempre mancato e continuerà a farlo. Non me lo merito, ma non posso farci niente.”

Levi fece spallucce. “E chi lo sa cosa ci meritiamo e cosa no.”

“Non tornerò qui.” disse l’uomo, abbottonandosi la giacca come se fosse l’atto finale.

Levi annui. “Lo so. Buona fortuna lì fuori.”

“Se me la merito.” rise il padre di Eren, girando i tacchi e dirigendosi verso est, solo Dio sapeva dove.

Accigliandosi a quella risposta, detta in ritirata, Levi mormorò concordando: “Se me lo merito.”

Per il resto della giornata, non importa cosa stesse facendo, Levi non riuscì a togliersi dalla testa quel maledetto uomo. Perché, sul serio, i mostri non esistono.

Creiamo i mostri per nascondere il fatto che il male è un’invenzione umana. Creiamo i mostri in modo da non doverci guardare allo specchio e vedere la loro immagine riflessa. Facciamo cose mostruose, e diamo la colpa ai mostri. Un giorno, però, ti svegli, come aveva fatto il padre di Eren quella mattina, e sai che i mostri non esistono veramente. E con quello, Levi immaginava, arrivava la realizzazione che non sempre il perdono è dietro la porta. Che non tutte le azioni possono essere risolte con delle scuse.

E questa consapevolezza non ti rende per forza un dannato, ma certamente non ti fa più credere nei mostri.





Levi, quella sera, tornò al suo appartamento e iniziò a suonare la sonata la chiaro di luna di Beethoven.

Faceva fottutamente schifo.

Lui aveva sempre fatto schifo a suonare musica classica.

E ogni volta che la suonava, era sempre peggio. Dopo ogni tentativo fallito, si scolava un altro scotch. Inevitabilmente, la cosa non faceva altro che complicare, sempre di più, i suoi tentativi. E ogni fottuto drink gli faceva pensare sempre di più ai suoi genitori, e quanto poco ricordava di loro. La maggior parte dei giorni gli era difficile persino ricordare i loro volti. Anche suo padre era stato stronzo come lo era lui? Anche lui beveva come Levi? Magari sì. Magari così Levi avrebbe potuto dare la colpa alla genetica.

Ovviamente, stava anche continuando a pensare al padre di Eren. E solo quello lo faceva imbestialire. Anche se, effettivamente, qualsiasi cosa lo faceva arrabbiare quella sera. A peggiorare le cose, il suo orecchio aveva iniziato a sanguinare rovinandogli un’altra fottuta camicia. Così se la tolse da dosso e si risedette al pianoforte, ubriaco, arrabbiato, mezzo nudo, e coperto di sottili rivoli di sangue, tentando ancora e ancora di suonare quella sonata che non faceva altro che essere sempre peggio.

“Che cosa diavolo stai facendo?”

Levi si girò e trovò Eren in piedi in mezzo alla stanza, con uno sguardo leggermente impaurito sul volto. Era la paura sul volto di Eren che lo faceva arrabbiare più di ogni altra cosa. “Vattene.” sbottò, rigirandosi verso la tastiera.

Pregando che Eren capisse l’antifona e se ne andasse, Levi tornò a suonare con rabbia. Invece, Eren spostò cautamente la bottiglia di scotch dal lato del pianoforte al tavolino da caffè. “Credo dovresti andare a letto.” suggerì Eren in un mormorio.

Levi però non smise di suonare, ed Eren rimase in piedi al suo fianco come uno stupido. “Dovresti andartene, moccioso.” ripeté il più grande con gentilezza.

“Davvero?” chiese Eren incredulo. “Perché mi sembra proprio che sia il caso di rimanere.”

Levi sapeva bene che non era giusto, ma lo scotch lo fece alzare con rabbia, mentre gesticolava come un pazzo. “Sto bene,” insistette, completamente ubriaco. “Vai.”

Eren iniziò ad avvicinarsi, forse per offrirgli il supporto di un braccio prima che lui crollasse a terra, ma Levi finì per fare la peggior cosa possibile in quel momento, ovvero spingere Eren all’indietro. Non aveva idea sul perché lo aveva fatto. E, se Eren era rimasto ferito da quel gesto, non lo diede a vedere. Infatti, con uno sguardo risoluto sul volto, fece un paio di passi avanti, con l’intenzione di metterlo KO.

Allora Levi gli diede un pugno.

Merda.

Avrebbe veramente voluto credere nei mostri.

Ma, a quanto pare, il suo pugno non andò a segno, perché, fortunatamente, Eren sembrava essere sorprendentemente preparato al suo assalto. Difatti torse efficacemente il braccio di Levi, portandolo sulla sua schiena e facendolo abbassare sul pavimento, sedendosi testardamente sulla sua schiena, e continuando a tenergli le braccia ferme in quella posizione scomoda. Era fottutamente pesante per essere una non-entità.

Nessuno dei due disse nulla per un bel po’. Il cervello di Levi sembrava stargli urlando di scusarsi, ma tutto quello che lui riusciva a fare era immaginare una versione più piccola e impaurita di Eren, che veniva picchiata da suo padre, completamente ubriaco. Non tutte le situazioni potevano risolversi con le scuse. Le sue stesse parole gli rimbombavano con crudeltà nella testa, dolente a causa dell’alcool.

“Hai finito di fare lo stronzo?” chiese infine Eren. Non sembrava particolarmente arrabbiato, ma non aveva neanche accennato di voler lasciare la presa su di lui.

“Non proprio.” borbottò Levi.

Così rimasero in quella posizione per un altro paio di minuti, con Levi a cui faceva sempre più male la schiena, ed Eren che rimase chiuso in un testardo silenzio.

“Perché sei ancora qui?” riuscì finalmente a chiedere Levi, cercando di muovere una spalla addormentata, ma incapace di riuscirci.

Eren sospirò. “Probabilmente perché sono pazzo.”

“Può essere.” concordò Levi. L’alcool gli stava offuscando i pensieri, e ormai non desiderava altro che addormentarsi. E di scusarsi, il che era strano visto che lui non voleva mai scusarsi. Le parole, però, non sembravano volergli uscire. Improvvisamente si sentì veramente triste della sua litigata con il signor Jaeger. Lui era veramente una persona migliore di quell’uomo?

“E poi,” disse Eren piano, “Probabilmente perché la maggior parte delle volte penso di avere bisogno di te più di quanto tu ne abbia di me, ma poi succedono cose come questa.”

“Io non ho bisogno di nessuno.” sbottò Levi, fallendo per la seconda volta di liberarsi dalla presa ferrea di Eren sul suo braccio.

Eren rise. Perché quella fottuta sera qualsiasi cosa riusciva a far incazzare Levi oltre ogni dire? “Sì, certo, Levi. E’ tutto sotto controllo.”

“Per quale motivo continui a sopportarmi?” mormorò Levi. “Sono solo un’altra persona che ti deluderà.” aggiunse con tono di voce ancora più basso.

Eren sbuffò divertito. “Solo se te lo permetto.”

“A volte non possiamo scegliere, ragazzo. A volte le persone, che si presuppone stiano al tuo fianco, sbagliano tutto, e non c’è nulla che tu possa farci. Non è colpa tua.” Levi ormai non era più sicuro su a chi si stesse riferendo – soprattutto sé stesso, ma probabilmente un po’ anche del padre di Eren. Desiderava di aver detto ad Eren della visita di suo padre subito.

Eren lasciò il suo braccio, ma non sembrava intenzionato di scendergli da dosso. “Allora non fare casini.”

“Sì, e come lo chiami questo?”

“Lo chiamo colpa mia,” rispose Eren testardamente. “Mi sarei dovuto assicurare che non ti eri dimenticato che lo scotch è una sostanza controllata e di cui non si dovrebbe abusare.”

Questo stronzetto stava tentando di rendergli veramente difficile il sentirsi colpevole. “Se mi scusassi vorrebbe dire qualcosa per te?” chiese Levi cupamente.

“Non lo so,” disse Eren. “Perché non provi?”

“Sono davvero fottutamente dispiaciuto, capito ragazzo? Sono solo un vecchio ubriaco e, se tu fossi almeno un po’ più intelligente, te la saresti già filata da tempo. Ma non lo sei, perciò eccoci qui.”

Eren sbuffò. “Non sei capace di scusarti senza insultarmi in qualche maniera mentre lo fai?”

“No.”

Finalmente alzandosi da Levi, Eren si stiracchiò per poi offrire una mano a Levi, aiutandolo ad alzarsi, a sua volta, dal pavimento. L’uomo accettò e fu tirato via da terra prima di venire stretto in un abbraccio. Levi non era un grande fan degli abbracci, ma quello non era così male. O forse era solo l’effetto dell’alcool a fargliela pensare così. Ma se lui era autorizzato a tentare di prendere a pugni Eren, allora era il minimo che Eren avesse il permesso di abbracciarlo, no? Quale diritto aveva di lamentarsi?

Eren tirò su con il naso.

“Stai fottutamente piangendo?” biascicò Levi. Completa mancanza di tatto, come al solito.

“Sì,” rise sonoramente l’altro. “Sei un tale stronzo. Sono così arrabbiato con te.”

“Quale checca piange quando è arrabbiata?” borbottò Levi con il volto posato sulla spalla di Eren.

Eren non rispose, ma tirò di nuovo su con il naso. Rimasero così per un po’, finché il ragazzo non tornò a parlare, il suo respiro gelido che solleticava l’orecchio di Levi. “Credo di averti sporcato di muco.”

“Oh Cristo Santo, riuscirai mai a rimanere serio per almeno tre minuti di seguito?” grugnì Levi.

Eren ridacchiò. “Muco fantasma.”

Levi lo spinse via, strofinandosi con rabbia la spalla. “Stasera dormi fuori.” Eren gli sorrise a trentadue denti, prima di prendere la bottiglia di scotch e tornare in cucina per rimetterla al suo posto. “E’ venuto tuo padre oggi.” disse Levi, da dietro di lui, con un certo disagio. Dannato scotch.

Eren si fermò e si girò verso Levi, con un’espressione combattuta stampata sui suoi lineamenti. Ma questa rimase lì solo per un momento, e ben presto divenne pensierosa. “Interessante.” disse semplicemente, prima di sparire in cucina.

Questo era?

Interessante?

Levi gli corse dietro, afferrandolo per la spalla e costringendolo a girarsi prima che Eren riuscisse a posare la bottiglia nel suo scaffale. “Questo è? Quello è lo stronzo che ti ha fatto tutte quelle cose e tu lo perdoni e fai finta di niente?”

Eren fece spallucce. “Ho passato vari anni ad essere arrabbiato con lui. E’ un bel po’ di tempo per essere arrabbiato con qualcuno. Ad un certo punto ho semplicemente smesso.”

“L’hai perdonato?” chiese Levi cinicamente.

Scuotendo la testa, Eren finalmente ripose la bottiglia di scotch sul ripiano. “Non proprio. Ho semplicemente smesso di pensarci.”

“Mi dispiace tanto, ragazzo.” ripeté stupidamente Levi. Il fatto che fosse in grado di scusarsi per essere ubriaco solo quando era effettivamente ubriaco era insopportabile.

“Per cosa?” chiese Eren innocentemente. “Per aver tentato di prendermi a pugni come ha fatto mio padre?”

Levi si irrigidì. A quanto pareva, Eren aveva fatto due più due. Ma l’aveva presa così bene che Levi non pensava che avesse colto il collegamento. “Sì.”

“Non sei mio padre, Levi,” rise Eren. “Non mi devi niente. E a parte questo, sei basso. Non c’è molta competizione perché non saresti comunque in grado di farmi male. Non era il mio dovere prendermi cura di quell’ubriacone di mio padre, ma di te? Penso di potercela fare.”

Levi lo guardò male. Sarebbe stato più facile se Eren l’avesse semplicemente odiato. “Non devi affrontare questa cosa, imbecille. Sai dov’è la porta.”

“Sì, immagino sia ancora dove l’ho lasciata.” disse Eren con sicurezza. Il fatto che potesse guardare Levi dall’alto in basso era un costante motivo di irritazione per l’uomo più basso.

“Sei così frustrante.”

“Sì, ma tu sei comunque un po’ innamorato di me, no?” lo sfidò Eren.

Levi strinse le labbra, stringendo minacciosamente gli occhi. “Mi accusi di cose del genere solo quando sono ubriaco. Sei un bastardo, ma di quelli furbi, Eren.”

“Perlomeno sono furbo.” ridacchiò Eren.

“Visto che sono ubriaco,” iniziò a dire Levi, nonostante l’annebbiamento mentale causato dallo scotch, “Posso dire che mi mancherai da morire quando te ne sarai andato?”

Eren si limitò a sorridergli a trentadue denti. Levi si prese un attimo per osservare il moccioso. Essere ubriaco era un momento buono come un altro per fare cose stupide, ma, perlomeno, prima di tirare Eren alla sua altezza, ebbe la decenza e il buon senso di fargli un annuncio: “Sto per baciarti. Parla ora o taci per sempre.” Il fatto di avere un migliaio di anni più di Eren, era un più che ragionevole motivo per chiedere il permesso.

Eren alzò un sopracciglio, ma ripose con un divertito: “Va bene, allora.”

Era difficile odiare completamente l’alcool quando a volte portava a situazioni come quella. Anche il mal di testa lancinante della mattina dopo valeva la pena, quando Levi si svegliava steso su Eren, sul divano del soggiorno, con il ragazzo che ancora russava leggermente dalla sua posizione sotto di lui. Be’, da quello che si poteva intendere, Levi era certo di aver fatto il bravo – anche se non se lo ricordava particolarmente bene. Ma, perlomeno, erano entrambi ancora quasi del tutto vestiti, ed era una vittoria per Levi sapere di non aver completamente perso la testa, nonostante la quantità di scotch che gli stava circolando in corpo. Dare la colpa allo scotch, però, era sempre l’alternativa più facile.

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 - Fatti della stessa pasta ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Un po' in ritardo, considerando che il capitolo non è stralungo, ma ci sono. Purtroppo sono cambiate un po' le carte in tavola per quel che riguarda i miei programmi (sempre per il solito motivo) ma, fortunatamente, in questi giorni mi sono portata avanti con la traduzione quindi penso di riuscire ad aggiornare nei canonici dieci giorni circa. Grazie mille a tutti per il supporto, a chi ha inserito la storia tra i preferiti/seguiti/da ricordare e soprattutto chi commenta... sono veramente occupata con l'ospedale etc. ma spero di riuscire a continuare a rispondervi tra domani e i prossimi giorni. Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: a parte possibili errori di battitura, volevo dirvi che la parte del capitolo dove i ragazzi si scambiano una serie di frasi apparentamente senza senso (non siete i pastelli più belli dell'astuccio etc. etc.) aveva in realtà molto senso in inglese, dal momento che la cosa era basata su una serie di giochi di parole risultati intraducibili, ma che ho cercato di riportare (letteralmente o no) in modo da far sembrare il tutto il più plausibile possibile... ma se qualcuno ha suggerimenti per migliorare li accetterei volentieri. 'La famiglia Brady' è una vecchia sitcom americana. Sasha cita la scena finale di 'Die Hard'.


The 6th ward
CAPITOLO 22: Fatti della stessa pasta

1 mese, 10 giorni

“Avete paura?” chiese Eren in un sussurro.

Connie e Sasha si scambiarono uno sguardo, confrontando le proprie opinioni, anche senza bisogno di dirsi una sola parola. Era come se ognuno dei due possedesse metà cervello, ma che funzionava normalmente quando le due parti erano insieme.

“Non so se impaurito è la parola giusta,” disse Connie pensierosamente, e Sasha annuì, concordando. “A dirla tutta mi sento un po’ colpevole.”

Eren fece una smorfia confusa. “Colpevole?”

Era una giornata fastidiosamente soleggiata nel boschetto nord, come a voler lasciare a Connie e Sasha una nota positiva in quello che era il loro ultimo giorno. Il sole del tardo pomeriggio, quasi sul punto di tramontare, era intenso ma piacevole, mentre i suoi raggi danzavano sulla neve, sparsa disordinatamente sul prato, dell’area del giardino dedicata ai pazienti. Eren era appollaiato su uno dei rami più bassi di una vecchia quercia imbiancata, mentre Connie e Sasha si trovavano più in altro, come a voler testare la forza dell’albero anche nelle sue diramazioni più giovani. Levi era in piedi nelle vicinanze ad innaffiare il sempre più grande alberello di Giuda, come da routine.

Gli ultimi giorni erano veramente passati in un attimo. In un’improvvisa esplosione di energia, Connie e Sasha avevano preteso di essere portati nei loro posti preferiti, facendo correre Levi avanti e indietro come se fosse il loro autista personale, e spesso pregandolo di andare oltre i limiti di velocità o fare qualche strana manovra senza dubbio illegale. Sembrava quasi che il loro ultimo desiderio prima di morire fosse o di riprovare i brividi che avevano vissuto durante i loro ultimi attimi di vita, o di causare il decesso prematuro di Levi, e nessuna delle due opzioni sarebbe stata veramente sorprendente per l’infermiere.

Ma il loro ultimo giorno stava volgendo al termine, e, invece di chiedergli di fare un altro viaggio, erano semplicemente voluti rimanere ad oziare nel boschetto dei pazienti, per un’ultima volta. Levi trovava imbarazzante ammetterlo, ma sentiva di essere quello con l’umore peggiore di tutti – e proprio quando lui era l’unico che non era veramente ad un passo all’essere morto.

“Sì, colpevole,” insistette Connie. “Nel senso che, di solito, abbiamo sempre risolto ogni situazione, qualsiasi cosa avessimo combinato. E non mi fraintendere, è stato tutto una figata. E’ solo che le nostre famiglie sono ancora a pezzi sulla cosa, e non c’è modo per fargli sapere che va bene così – che ci siamo divertiti. E che questo era tutto quello che desideravamo. Tutti si ostinano a pensare che passare attraversare una fase ‘irresponsabile’ non dovrebbe ‘rovinarti la vita’, ma quella era la mia vita, e io mi sono divertito, te l’assicuro. Non vale per tutti il pensiero che mettersi a posto, trasferirsi in periferia, avere una carriera e 2 figli e mezzo sia la definizione di una vita di successo. La mia vita era perfetta per me. Non l’ho rovinata, come pensano i miei genitori, ma l’ho vissuta a pieno.”

“Non stavamo cercando di ferirli.” aggiunse Sasha.

Eren annuì. “Penso di capire. Sapendo che per quanto voi possiate aver accettato la cosa, per la vostra famiglia non sia lo stesso, fa decisamente schifo. Sarebbe più facile se riuscissimo a non sentirci responsabili anche di quello che provano tutti gli altri, no? Come sarebbe un mondo dove ognuno debba preoccuparsi solo della sua dannata vita?”

Sasha rise. “Mi piacerebbe.” Poi si mise a grattare distrattamente la corteccia del ramo su cui era seduta. “Un mondo fatto di creature solitarie che non si devono nulla tra loro.”

Ridacchiando, Connie si arrampicò su uno dei rami più alti dell’albero. “Non è più o meno il modo in cui viviamo? Siamo tutti degli stronzi, sotto sotto.”

“Sì, ma tu non ti senti comunque colpevole?” replicò Eren. “Non riusciamo comunque a non sentirci responsabili di quello che provano gli altri. Siamo senza speranza.”

Accigliandosi, Sasha si mosse per raggiungere Connie tra i rami più alti, emettendo un leggero grugnito, a causa dello sforzo fisico. “Quindi abbiamo fallito?”

Connie afferrò Sasha per un braccio, aiutandola a salire sul suo stesso ramo. “Fallito a fare cosa? Essere dei totali stronzi?” ridendo leggermente, spazzò via delle foglie secche dalla spalla della ragazza.

“Insomma,” rispose riflessivamente lei. “Direi più nel senso che abbiamo fallito a condurre una vita senza legami. Nell’essere completamente liberi. C’eravamo vicini, ma alla fine ci sentiamo ancora male per tutto.”

“E il senso di colpa né è la prova?” chiese Eren, decidendo di raggiungerli sui rami alti.

“Il senso di colpa ne è la prova,” confermò Sasha. “E nessuno riuscirà mai a non averne.”

Il sole brillava di una morbida sfumatura aranciata, e Eren fermò improvvisamente la sua arrampicata. “Ed è veramente una cosa cattiva?”

Allungando una mano per aiutare anche lui a salire più in altro, Connie rise. “Abbiamo sempre pensato che lo fosse. Ma ora chissà. Purtroppo non siamo esattamente i migliori della classe, per cui lascia giudicare qualcun altro.”

Sorridendo, Eren afferrò la sua mano. “Sì, non siete neanche i pastelli più belli dell’astuccio, effettivamente.”

Connie iniziò a tirare su Eren, sorridendo a sua volta. “Sì, o un mazzo di carte con i jolly.”

Afferrando Eren per l’altro braccia, Sasha aiutò entrambi a salire. “O un hamburger con le patatine.” aggiunse.

Levi spense la pompa con cui stava innaffiando, e li chiamò da sotto: “Siete come dei panini in meno ad un picnic!”

“O un circo senza clown!” rispose Eren, finalmente trovando la sua posizione sul ramo, seduto in mezzo a Connie e Sasha.

Alla fine tutti rimasero in un piacevole silenzio che quasi minacciò di diventare stabile, prima che Sasha sussurrasse: “Come un episodio de ‘la famiglia Brady’ senza la famiglia.”

Per qualche ragione, anche Levi aveva iniziato a salire sull’albero, solo di qualche ramo più giù dei mocciosi. Si trovò a ridere di gusto a quello strano scambio di frasi, concedendosi un gesto confortante a cui non era del tutto abituato. Non cercò di arrivare in alto tanto quanto ci erano riusciti i mocciosi, ma si trovò un comodo angolino un paio di metri sotto di loro e si rannicchiò lì, mentre il sole toccava la linea di terra, iniziando la sua pigra discesa oltre l’orizzonte da loro visibile. “Voi invece siete una famiglia di imbecilli.” disse con una soddisfazione dovuta al sorprendentemente piacevole posticino che si era trovato tra i rami della solida quercia.

“Questa non era neanche carina,” si lamentò Sasha. “Sei il solito guastafeste, Levi.”

“Mi stavo solo assicurando che non si perdesse il messaggio in mezzo a tutte queste metafore.” la prese in giro Levi.

Connie sospirò con appagamento, poggiando la testa contro il tronco dell’albero. “Quante possibilità ci sono che tu dica alla mia famiglia che mi dispiace?”

Anche se non poteva vederli sopra di lui, Levi sorrise tristemente. “Ah, al diavolo. Tanto tutti già pensano che sono completamente pazzo. Ma mi devi un favore, e non pensare che me lo sarò dimenticato quando arriverà il mio momento di tirare le cuoia!”

“Allora te lo devo anche io,” disse Sasha risolutamente. “Segnami nella tua lista di debitori.”

Facendo un mugugno per farle capire di aver sentito, Levi chiuse gli occhi, trovando un’insolita consolazione nell’aria gelida che gli risaliva tra gli strati di vestiti, facendogli venire la pelle d’oca. La neve era tinta di una piacevole colorazione tra l’arancione e l’azzurro grazie al riflesso dei raggi di sole del tramonto, e lo stava cullando in una sorta di pacato compiacimento.

“Sai, io penso che noi siamo stati liberi, nonostante tutto,” disse Connie risolutamente. “Non rimpiango neanche una sola dannatissima cosa. Quante persone potrebbero dire lo stesso?”

“Sicuramente non abbastanza.” ridacchiò Eren, allargando le braccia per metterle intorno alle spalle degli altri due.

“Annie aveva ragione,” disse Sasha incredula. “Noi parliamo tutti troppo, mentre lei non diceva quasi mai niente, ma diamine se aveva ragione. Facciamo tutti grandi discorsi, ma era Annie quella che aveva capito veramente.”

“Sì, ma cosa?” chiese Connie curiosamente.

“Che è stato bello,” gli ricordò Eren. “Quando ha detto che è stato bello – tutto.”

Annuendo, Sasha iniziò a scalciare in aria con contentezza. “E’ stato bello.” ripeté.

“Quindi dovrei ancora scusarmi con le vostre famiglie?” chiese Levi scetticamente. “Dovrei guardarli tutti negli occhi e dirgli che vi dispiace, anche se non vi dispiace?” Connie e Sasha guardarono in basso, verso di lui, con confusione. “Che ne direste se gli dicessi che l’unica cosa di cui siete pentiti è non aver avuto tempo di fare altre stupidaggini? Se gli dicessi che non c’è stato tempo per fare altre cazzate, anziché risolvere quelle già fatte. Che ne direste se gli dicessi la verità?” Poi alzò le mani, in un raro gesto appassionato. “Che ne direste se gli dicessi che eravate liberi? Perché, e che Dio mi fulmini se mento, è quello che eravate. Che siete ancora adesso.”

Sasha nascose il volto tra le mani, mentre Connie alzò gli occhi al cielo. “Ah fantastico. L’hai fatta piangere,” rise, incapace di nascondere un sorrisetto di apprezzamento. “Datti un tono Sasha.”

Ma era ovvio che, tra le lacrime, Sasha stava sorridendo.

“Gli dirò la verità,” decise Levi. “E poi gli dirò che l’unica ragione per cui vi sentite in colpa è che non li volete veder piangere. E se essere liberi, ed essere comunque in grado di dispiacersi per coloro che vi negherebbero la libertà, solo perché vi amano troppo, non è la cosa più folle che qualcuno possa fare, allora diamine. Che altro c’era?”

Connie a quel punto lo stava veramente guardando come se fosse sul punto di piangere anche lui, ma cercò valorosamente di trattenersi. “Certo che tu sei diventato un chiacchierone negli ultimi mesi.” commentò con voce strozzata dal pianto, ma comportandosi come se fossero risa.

Levi spostò lo sguardo dai rami più alti, non volendo vedere le occhiate fastidiosamente grate che gli stavano lanciando quei due mocciosi, e tornò a concentrarsi sul sole che stava lentamente scendendo, lasciandosi inghiottire dalla linea d’orizzonte in un brillante paesaggio dipinto di tonalità di viola, rosa, arancio e blu. Questi dannati mocciosi lo facevano sempre parlare a sproposito. “Quindi gli dirò che vi dispiace,” concluse Levi piano, parlando più a sé stesso che al gruppetto seduto sulla sua testa. “Ma gli dirò il motivo per cui vi dispiace. E gli dirò anche perché non vi dispiace, e, diamine, gli potrei persino dire perché sono contento che non vi dispiace.”

“Credo che abbia bevuto.” mormorò Eren con voce un po’ troppo alta, sopra di lui.

Connie e Sasha risero, ma Levi si limitò a fare un grugnito di disapprovazione.

“Vi ho mai detto la storia della volta in cui io e Sasha ci stavamo girando tutti i bar del quartiere, tre anni fa, e siamo quasi stati reclutati nell’FBI?” chiese Connie, tentando di alleggerire l’atmosfera. “E’ fantastica.”

“Nel vero senso della parola,” confermò Sasha. “E non saltare la parte dove ho quasi vinto la lotteria grazie a quel ragazzo ubriaco.”

Levi fece a turno tra l’ascoltare la mirabolante storia di Connie e guardare il tramonto, contento di non fare veramente attenzione a nulla





1 mese, 9 giorni

“Credi che farà male?” chiese Sasha, sembrando più fredda che preoccupata.

Connie fece spallucce. “Non credo più del mal di testa che abbiamo avuto dopo esserci ubriacati lo scorso Natale.”

Spalancando gli occhi con paura a quel ricordo, Sasha annuì velocemente. “Morirei una dozzina di altre volte piuttosto che ritrovarmi a quel punto.”

Dal momento che Sasha e Connie condividevano la camera, e le loro famiglie era rimaste unite negli anni in cui avevano dovuto cacciarli fuori dai guai, accompagnarli al tribunale, e non essere mai in grado di riuscire a vederne uno senza trovarsi presente anche l’altro, avevano deciso di riunirsi nella stessa stanza anche per il loro ultimo momento. Levi era segretamente grato della cosa, perché in quel modo non era stato costretto a scegliere con quale dei due rimanere. Fortunatamente, quel giorno entrambe la famiglie erano sorprendentemente calme, nonostante alcune delle loro visite fossero state così struggenti che Levi aveva temuto di finire affogato nelle loro lacrime il loro ultimo giorno.

Il padre di Sasha aveva raccontato a tutti i presenti una delle loro storie di natale, che comprendeva un inseguimento in auto e novanta chilogrammi di maionese rubata, che si era ritrovato all’uscio come regalo di Natale da parte dei due ragazzi. In generale, fu bello – con davvero poco per cui piangere, e molti ricordi.

Alla fine, Erwin iniziò a spiegare la semplice procedura per staccare la spina e togliere la vita ai due, nel tono gentile e confortante che aveva perfezionato nel corso degli anni. Connie ne approfittò per allungare una mano verso Levi. “Credo che questo sia un arrivederci.” disse brevemente.

Senza esitazione, Levi strinse la mano che gli era stata offerta. Non seppe mai perché, ma fu colto di sorpresa quando Connie colse l’opportunità per stringerlo in un abbraccio. “Sei il mio stronzo preferito,” rise il ragazzo, facendo scuotere le spalle. “Dopo me stesso, ovviamente. E anche Sasha, direi.”

Levi non riuscì a trattenersi dal sorridere a quell’affermazione. Avrebbe veramente voluto avere qualcosa di più intelligente da dire, ma tutto quello che gli uscì fu un: “Lo so.” E, non appena Connie lo lasciò andare, Sasha lo spinse di lato per stringere Levi in un altrettanto – se non di più – stritolante abbraccio, facendo scontrare le loro casse toraciche. L’infermiere si ritrovò, inevitabilmente, a ricambiare affettuosamente.

Voleva davvero bene a quei due mocciosi.

“Grazie.” gli mormorò Sasha all’orecchio.

Levi annuì, con il volto nascosto nell’incavo della sua spalla, e un sorrisino in volto. “Mi terrò pronto per la mia fine. Mi sa che ti devo anche una rivincita a scacchi.”

Lasciandolo, Sasha si girò verso Eren per abbracciarlo nella stessa maniera. Okay, magari era stata un pochino meno violentemente calorosa di quanto lo era stata con Levi, ma l’uomo sospettava che la cosa avesse a che fare con il fatto che essendo che era stato lui quello costretto a vivere un sacco di situazioni scomodamente pietose a causa loro, il che lo aveva eletto a passatempo preferito dei due mocciosi.

Quegli imbecilli.

Subito dopo, tutti diressero la propria attenzione verso i pulsanti centralinizzati che il padre di Connie e la madre di Sasha si stavano preparando a premere, per fermare tutte le macchine che li legavano ancora al mondo terreno.

“Ultime parole da dire, Sasha?” chiese Connie, con un sorriso genuino sul volto.

Sasha aggrottò la fronte con concentrazione. “Onestamente pensavo che mi sarebbe venuta in mente perlomeno una sola buona citazione di qualche bel film, ma invece tabula rasa.”

Connie allora fece una finta espressione seria, puntando una pistola immaginaria con fare drammatico. La sua voce era profonda e ridicola quando disse: “Che cos’è che mi avevi detto prima?”

Spalancando gli occhi dopo aver capito, Sasha imitò il suo gesto, cambiando il suo tono di voce per farlo abbinare a quello di Connie. “Yippie-ki-yay, pezzo di merda.” terminò lei.

“Die Hard?” chiese Eren con fare derisorio.

“Alan Rickman l’ha detto meglio la seconda volta, non provare neanche a contraddirmi,” disse Connie, puntandogli contro un dito con fare minaccioso. “Non ci provare neanche.”





“Quali idioti si danno il cinque mentre stanno morendo?” chiese Eren con sarcasmo, guardando le famiglie dei due lasciare la stanza in silenzio, ma con relativo buon umore.

Levi tentò invano di trattenersi dallo scoppiare a ridere, ma finì per farsi comunque sfuggire una serie di risatine. Si guadagnò una serie di sguardi sconcertati, persino scandalizzati, da parte dei parenti di Sasha e Connie che si trovavano ancora nella stanza, ma alla fine riuscì a darsi un tono abbastanza velocemente.

Quando furono finalmente soli, Levi si permise di fare un sospiro frustrato. “Ho parlato tanto, ma non credo che riuscirò a dire qualcosa alle loro famiglie. Non so come mettere insieme le parole senza sembrare un catechista stronzo.”

Eren lo guardò con la coda dell’occhio, con un sorrisino malizioso. “Sei molto diverso, sai? Rispetto alla prima volta che ci siamo incontrati, dico.”

Levi sbuffò. “Ne dubito altamente.”

Pensandoci su, Eren annuì, concordando. “A dirla tutta, forse hai ragione. Forse era che avevamo bisogno di conoscerti meglio.”

“Quindi, come faccio a mantenere la promessa a quei due idioti?” chiese di nuovo Levi, cambiando discorso. Non era così facile dire a un gruppetto di conosciuti che aveva passato parecchio tempo con la versione fantasma dei loro figli morti, negli ultimi sei mesi. Qualcosa gli diceva che non l’avrebbero presa molto bene.

“Non glielo devi dire subito,” disse Eren pensierosamente. “Prenditi del tempo per pensarci. Non credo che le tue parole possano valere di meno se dette con un paio di settimane di ritardo – o anche un paio d’anni. Dille quando sarai sicuro di quello stai dicendo.”

Levi annuì. Quello era un buon consiglio.

“Mi mancheranno.” osservò Eren brevemente.

“E’ normale che ti mancheranno,” replicò subito Levi. “E’ quello che fanno le persone. Si fanno voler bene, e poi scompaiono. Ci feriamo sempre tra noi. Ma sai cosa? E’ fantastico così.”

Eren rise. “Sì, ma perché lo facciamo?”

Afferrando le cartelle cliniche – ormai chiuse – di Connie e Sasha, Levi scosse la testa. “E’ l’unica cosa che riusciamo a fare, e credo che sia proprio il fatto di essere umani che ce lo fa fare. Che alternative ci sarebbero, se no?”

Facendo spallucce, Eren si grattò la nuca. “Be’, Sasha sembrava pensare che fosse possibile un mondo dove ognuno pensa a sé stesso, e non sente la responsabilità degli altri.”

“Tu ti senti responsabile per loro?” chiese Levi retoricamente. Già conosceva la risposta.

“No, direi di no.” disse Eren, accigliandosi.

E quello era il punto, per Levi. “Allora non c’è una risposta. Niente risposte. Il dolore è una cosa buona, Eren,” sussurrò, uscendo dalla stanza. “E’ quello che permette di misurare quanto abbiamo amato qualcuno.”

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 - Il problema con i cervelli ***


Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Eccomi finalmente, un po' in ritardo rispetto al solito ma ci sono! Anzi, a dir la verità l'unico motivo per cui sto aggiornando è che, fortunatamente, avevo già il capitolo pronto, ma non sono comunque riuscita a trovare un paio d'ore per correggerlo e postarlo fino ad adesso, uff. Ho letterlamente passato le ultime due settimane in ospedale e ora è pure iniziata l'università! Comunque, rispetto alla prima parte del mese sono in un periodo di tregua, per cui spero di riuscire a continuare ad aggiornare con una certa costanza... e so che ho smesso di nuovo di rispondere ai commenti, ma mi è stato veramente impossibile fino ad adesso, spero di recuperare anche con quelli presto. Detto ciò, ringrazio tantissimo chi sta leggendo la fic, chi l'ha inserita tra i preferiti/seguiti/da ricordare e, come al solito, chi commenta! <3 Per ora vi lascio! Buona lettura!
SULLA TRADUZIONE: niente di particolare oltre ai soliti errori di distrazione!


The 6th ward
CAPITOLO 23: Il problema con i cervelli

0 mesi, 29 giorni

Non importava quanto Levi provasse a far finta di essere di fretta, Erwin sembrava non essere mai in grado di notarlo. Se si trattava di lui, era ovvio che tutti dovessero avere del tempo da dedicargli. Ed era una cosa che si meritava, Levi ne era convinto, ma i dottori in generale, a volte, erano un po’ troppo fastidiosamente consapevoli di valere il tempo degli altri.

“Levi!” lo chiamò il dottore dall’altra parte del corridoio. Eppure si era impegnato così tanto per scappare. Con un sospiro, Levi fermò la sua corsa nel reparto sei, girando i tacchi per dedicare la sua attenzione all’uomo.

“Cosa posso fare per te, Erwin?” La maggior parte delle infermiere chiamavano Erwin con il suo titolo di ‘dottore’ o direttamente ‘dottor Smith’, come richiede l’etichetta, ma Levi l’aveva interpretata come una buona occasione per chiamarlo con il suo nome di battesimo. Non c’era nessun motivo per non farlo.

Erwin non sembrava aver mai trovato un problema il fatto che Levi si permetteva di chiamarlo per nome. “Ho appena finito di parlare con il direttore Pixis e abbiamo concordato nel proporti un’offerta.”

“Un’offerta.” ripeté Levi sospettosamente. Le offerte nel campo ospedaliero di solito avevano sempre a che fare con soldi, morti, promozioni, retrocessioni o altri soldi. Ma soprattutto soldi. In ogni caso, Levi non si fidava.

Erwin annuì entusiasticamente, con un’eccitazione infantile che gli brillava negli occhi. “Stavamo decidendo di alcune nuove iniziative per l’ospedale ed è uscito fuori il tuo nome. Ha detto che ti vuole vedere il prima possibile.”

Levi prese in considerazione di dire ad Erwin che sarebbe stato occupato per i prossimi due o tre anni, ma, fortunatamente, ebbe il buon senso di non spingersi un po’ troppo in là con il suo superiore. “Ci andrò prima di fare il giro del reparto,” sospirò. “E’ tutto, Erwin?”

“E’ tutto,” disse il biondo allegramente. “Buona giornata.” aggiunse, affrettandosi verso la prossima delle numerose tappe della sua giornata.

Pixis era una persona ragionevole, che piaceva ai più, ma Levi sapeva bene che sarebbe stato un grosso problema per lui se si fosse permesso di snobbare il direttore dell’ospedale. Quello che, invece, non sapeva bene, era cosa aspettarsi da quell’incontro, ma, con un vago senso di inquietudine, si diresse nell’elegante ala dirigenziale dell’ospedale, dove erano piazzati tutti quelli che si erano guadagnati almeno un po’ di vero potere. E Pixis ne aveva di potere.

Levi non entrava nel suo ufficio da anni – non da quando era stato assunto più di dieci anni fa. Però, non gli fu difficile trovarlo, dal momento che era enorme, lussuoso ed esattamente a sinistra dell’entrata dell’area. Anche se non c’era nessuna targa, Levi sapeva che era proprio l’ufficio di Pixis dalla mole e l’eleganza dello spazio. No, non c’era nessun dubbio che fosse proprio la sua stanza, e così bussò prontamente alla porta, due volte, aspettando di essere chiamato dentro.

Dopo un mero secondo, la voce impassibile di Pixis lo chiamò con un: “Prego.”

Anche se Levi entrò nella stanza non appena chiamato, rimase educatamente in piedi all’entrata, chiudendosi la porta alle spalle e rimanendo il più vicino possibile alla porta, in modo da poter essere mandato via il prima possibile. Non voleva sembrare riluttante di essere lì, ma non gli andava nemmeno di sembrarne contento. Un’educata indifferenza era quello che sperava di riuscire a convenire, sebbene, più probabilmente, sembrava solo vagamente incazzato.

“Levi,” lo salutò Pixis. “Non pensavo che Erwin sarebbe stato così veloce a trovarti. Che abbia trovato un modo per intercettarti?” suggerì l’uomo con naturalezza.

“Sto iniziando a pensare che sia la verità, signore.” rispose Levi impassibile.

Pixis rise alla sua stessa battura, facendo segno a Levi di sedersi sulla costosa poltrona dall’altra parte della sua grande scrivania in mogano laccato. Be’, a quanto pare non sarebbe stato facile tagliare corto. Levi si sedette, ma rimanendo sul bordo della poltrona, e Pixis, con suo grande fastidio, non tagliò la testa al toro, ma si mise a cercare qualcosa in uno dei cassetti della scrivania, per dei lunghi minuti, prima di far apparire di fronte a lui una bottiglia di scotch. Perlomeno, avevano gli stessi gusti in qualcosa.

“Vuoi favorire?” chiese Pixis, facendo materializzare anche un paio di bicchieri dallo stesso cassetto.

Ah, al diavolo. Se Pixis aveva tutte queste intenzioni di sprecare il suo tempo, tanto valeva accettare la gentilezza. “Perché no.” disse Levi, accettando un bicchiere di scotch assurdamente generoso. A quanto pare avevano veramente gli stessi gusti riguardo a certe cose.

Pixis posò la bottiglia da parte e osservò Levi oltre il suo stesso bicchiere di scotch. “Hai lavorato qui per molto tempo, Levi.”

Era vero. “Dove altro dovrei andare...” disse l’infermiere, non del tutto scherzando.

Annuendo, Pixis fece vorticare il contenuto del suo bicchiere con fare pensieroso. “Be’, comunque, Erwin ed io stavamo discutendo riguardo ad un nuovo seminario che verrà organizzato dall’ospedale, per una serie di fasce d’età e con vari livelli di merito, per persone interessate ad una carriera in campo medico – in pratica per diventare infermieri. La maggior parte delle persone oggi vogliono diventare medici e c’è una sorprendente mancanza di infermieri.” disse seriosamente.

Levi annuì, ma, dentro di lui, riusciva solo a immaginare con sarcasmo per quale motivo qualcuno non avrebbe dovuto preferire un bel camicie bianco e un sacco di soldi rispetto ad una divisa da infermiere, bambini con il vomito e le lunghe ore di lavoro che toccavano a loro. Chi è che non avrebbe preferito diventare dottore?

“Pertanto, nel nuovo edificio che abbiamo appena inaugurato – sono certo che l’hai visto – abbiamo fatto costruire anche una bella sala da conferenze. Abbiamo dato inizio a delle partnership con alcune università, scuole superiori e istituti di commercio locali, per offrire dei corsi pratici per le persone interessate. Avremo delle buone agevolazioni fiscali dallo stato, e guadagneremo l’opportunità di trovare personale. In generale un ottimo progetto.” disse Pixis, mettendo i piedi sulla scrivania e reclinando leggermente lo schienale della sua sedia girevole.

Levi fece un suono come per concordare. Non riusciva a comprendere cosa tutto ciò avesse a che fare con lui, ma non voleva comunque essere scortese.

“L’unico problema,” continuò Pixis, “E’ che, be’, per farla il più breve possibile: questi corsi possono rivelarsi solo una gran perdita di tempo se hai la persona sbagliata a insegnare, e non riesco a immaginare nessun insegnante già di ruolo a parlare di infermieristica e a dare una preparazione medica. Voglio qualcuno che non si limiti a parlare, ma faccia qualcosa di concreto, capisci?”

Levi annuì, per la seconda volta.

“Erwin ha proposto te, e quando abbiamo parlato un po’ meglio della tua persona, abbiamo avuto la folle pensata che tu possa essere un ottimo professore per questo corso.”

Levi non annuì stavolta. Anzi, a dir la verità, avrebbe voluto scoppiare a ridere, ma qualcosa nell’espressione seria di Pixis gli aveva detto che non era il caso.

Pixis, però, dal canto suo, sembrò intendere i pensieri di Levi e sorrise. “Anche io ho avuto la tua stessa reazione all’inizio, ma più ci penso, più mi piace l’idea. So già che tu non ti faresti mettere i piedi in testa dagli studenti, e che non dici stronzate, sei molto più vero di qualsiasi professore che potrei assumere. E i ragazzi non starebbero ad ascoltare qualcuno che non è sincero con loro.” Poi fece una pausa per rivolgere all’infermiere uno sguardo greve, oltre le sue mani intrecciate. “Voglio te per questo posto, Levi.” disse con serietà.

“Ma sono già stato assegnato al reparto sei,” rispose debolmente l'infermiere, anche se sapevano entrambi per il reparto avrebbe chiuso prima di un mese, per dare spazio a nuove, più utili, funzioni.

“E sarà chiuso prima che le lezioni inizino. Le mie conoscenze all’università di Shiganshina mi devono più di quanto vorrebbero mai ammettere. Posso farti avere un dottorato onorario e una licenza per insegnare prima della fine della settimana.”

Levi strinse le labbra, cercando di evitare di dare una vera e propria risposta.

Pixis sembrava mortalmente serio. “Puoi finire la tua rotazione nel reparto sei, ma poi ti voglio per questo posto. E ho bisogno di una risposta prima che tu esca da questo ufficio.”

Quell’uomo poteva essere una persona benevola e generalmente compassionevole, ma non era diventato direttore per caso. Il modo pratico con cui portava avanti i suoi affari rendevano difficile dirgli di no, e, realisticamente parlando, Levi non era solo intimidito da quell’offerta – ma anche affascinato.

“Perché dovrei accettare?” chiese l’infermiere. Si rifiutava di farsi intimidire al punto di acconsentire.

Pixis si fece sfuggire un sorriso, dietro le mani unite davanti al suo volto. “Ho più che abbastanza materiale nei tuoi registri per farti licenziare.”

Con un sorrisino a fargli alzare leggermente gli angoli della bocca, Levi annuì lentamente. “E’ vero,” osservò.

“Accetta questo incarico, Levi. Lavorerai meno ore e avrai una paga migliore. Niente esami, solo lezioni. Non te lo chiederò di nuovo.” disse Pixis alla fine, con la voce abbassata al punto da diventare un sussurro.

Levi finalmente riuscì a capire l’esatto motivo per cui Pixis aveva tutto il potere che aveva. L’uomo era un genio della manipolazione. Ma lui era capace di guardare oltre le tattiche e non gli dispiaceva poi così tanto quella proposta. L’offerta era buona.

“Se non ti piace, troveremo qualcun altro dopo i primi sei mesi.” concesse Pixis, fissando Levi dritto negli occhi.

“D’accordo.”





“Dove sei stato?” si lamentò Eren, pedinando Levi mentre si dirigeva nell’ultima stanza occupata del reparto per compilare la sua cartella clinica.

“Ho avuto un nuovo lavoro.” tagliò corto Levi, girando le pagine della cartella senza fermarsi neanche per un attimo.

Eren quasi inciampò. “Eh, come?”

Alzando gli occhi, Levi notò lo sguardo perplesso sul volto di Eren. “Hai capito bene.” ridacchiò, aprendo la porta della stanza del ragazzo.

“Lasci l’ospedale?” chiese Eren, ancora leggermente confuso, ma soprattutto curioso.

“No,” rispose Levi, iniziando la compilazione giornaliera della cartella di Eren. “A quanto pare dovrò insegnare.”

“Insegnare?” chiese Eren dubbioso. “Fai sul serio? Tu?”

Stringendo gli occhi, Levi alzò lo sguardo dalla cartella. “Sì, qual è il problema?”

“Tu sei il problema,” rise Eren, sedendosi su una delle sedie per i visitatori, dall’altro lato della stanza. “Spaventerai tutti al punto da mandarli via. E poi ti piacciono i ragazzini?”

Levi lo guardò male. “Mi stai proprio facendo ricordare che non mi piacciono.”

“Hey, io non sono un ragazzino.” disse Eren facendo il broncio esattamente come un bambino a cui erano state negate le caramelle.

“La paga è migliore,” disse Levi semplicemente. “Ho accettato il lavoro.”

Rimasero in silenzio per un po’, con Eren che rimase a giocare distrattamente con le tende. L’unico suono a fargli da sottofondo era quello della penna con cui Levi stava scribacchiando sulla cartella di Eren, e l’appena percettibile bip dei vari monitor. Tutti e due erano completamente assorti nei propri pensieri, al punto che, quando si sentì bussare energeticamente alla porta, saltarono leggermente sul posto. Con sorpresa di Levi, Erwin entrò nella stanza, con il volto appena appena arrossato, e le mani che stringevano qualche foglio con dei valori medici che non era in grado di riconoscere.

Erwin corse al lato del letto di Eren, fissando intensamente il corpo senza vita, come se si fosse aspettato di veder alzarsi il ragazzo da un momento all’altro, per chiedergli di lasciargli un po’ più di spazio libero.

“Va tutto bene?” chiese lentamente Levi. Eren stava spostando lo sguardo da Erwin al suo stesso corpo come un folle.

Riportando gli occhi su Levi, sembrò quasi come se Erwin non avesse realizzato, fino a quel momento, che l’altro uomo era lì con lui. “I – io,” balbettò, agitando in aria il foglio di carta che aveva in mano, come se fosse il motivo dei suoi problemi ad esprimersi in maniera coincisa- “Io – questo, questo non avrebbe mai – Io non avrei – Come…” farfugliò.

Levi alzò un sopracciglio. “C’è qualcosa che dovrei capire qui, vero?” chiese sarcasticamente.

Erwin scosse la testa energicamente. No – non c’era nulla da capire.

Optando per dare ad Erwin un minuto per riprendersi, Levi rimase in piedi al suo fianco, in silenzio. Erwin iniziò a scuotere la testa con violenza, come se quel gesto potesse fargli dimenticare qualsiasi cosa avesse scoperto, ma quei movimenti alla fine cessarono, e i suoi lineamenti sembrarono rilassarsi. Così aprì una delle palpebre di Eren, puntando una lucetta nella sua pupilla, con uno sguardo concentrato sul suo volto turbato. Levi desiderava disperatamente di afferrarlo per le spalle e farlo girare, costringendolo a spiegarsi, ma invece, attese pazientemente.

Infine, Erwin sospirò e si girò da solo verso Levi. “Conosci le differenze tra le varie tipologie di lesioni cerebrali?” chiese.

Levi fece una smorfia. “Vagamente.”

Erwin annuì. “Ognuna ha vari stati di risveglio e ripresa di coscienza,” iniziò, con le sopracciglia ancora aggrottate in un’espressione di leggera costernazione. “C’è la sindrome locked-in, dove c’è un risveglio e una presa di coscienza elevata e il paziente è completamente conscio di ciò che lo circonda e capace di rispondere agli stimoli, e poi ci sono degli stati di coscienza minima, che sono caratterizzati da forti risvegli, e vari livelli di consapevolezza. Infine, ci sono gli stati vegetativi dove ci possono essere dei veri e propri risvegli, ma nessuna coscienza. Questi sono facili da diagnosticare.”

A Levi non piaceva dove stava andando a parare il discorso.

“Il problema è,” continuò Erwin, facendo un smorfia mentre si fissava le scarpe, “che la differenza tra il coma e la morte cerebrale non è così ovvia. In entrambi i casi, anche se sono cose diverse, non vi è né risveglio né coscienza. Sembra la stessa cosa, anche se il coma tende a durare molto di meno e a volte può persino trasformarsi in morte cerebrale. E’ tutto abbastanza confuso.”

“E?” lo incitò Levi.

“Stavo guardando le stampe dei grafici della macchina che controlla l’attività mentale di Eren di due giorni fa e ho notato un segnale diverso.” borbottò Erwin, riportando l’attenzione al grafico sul foglio che teneva in mano.

Sbattendo gli occhi, Levi guardò Eren, che sembrava decisamente confuso. “E?” incitò di nuovo. Questi dannati dottori, sempre inconcludenti.

Erwin scosse la testa. “Onestamente? Non ne ho idea. Ero così sicuro che la sua fosse morte cerebrale, e in un certo senso lo penso ancora, ma chissà. Non lo so proprio.” continuò a ripetere.

“Quindi pensi che il suo possa essere anche solo un coma prolungato?” tentò Levi.

Con le sopracciglia alzate in un’espressione confusa, Erwin alzò le mani in resa. “Al diavolo se lo so. Queste cose sono ancora praticamente inesplorate in campo medico. Questo potrebbe essere un errore del computer, tanto quanto un segno che non è ancora entrato nella fase di morte cerebrale.”

“E c’è qualche modo per scoprirlo?” insistette Levi, cercando di non suonare tanto frustrato quanto si sentiva. Eren era seduto silenziosamente in un angolino, con la testa piegata da un lato, e le ginocchia piegate verso il petto, come se avesse deciso che era il caso di aspettare che gli adulti finissero di parlare.

Erwin sembrava frustrato tanto quanto lo era Levi. “Non proprio. L’unica opzione sarebbe staccarlo dalle macchine e causare una sorta di shock nel sul sistema, come un riavvio. Ma questa cosa potrebbe ucciderlo, se è in un coma troppo profondo, o se è già morto cerebralmente.” Passandosi una mano tra i capelli perfettamente pettinati come al solito, Erwin sembrò perdersi nel suo stesso mondo.

“Quindi cosa c’è da perdere?” gli chiese Levi impassibile. “Non morirebbe comunque?”

Smettendo di massaggiarsi lo scalpo, Erwin sbuffò divertito. “E’ un modo di vederla, direi. D’altro canto, gli umani non stati fatti per rimanere in coma per mesi. Ma, in verità, sono più spaventato dall’idea che si svegli.”

Eren non sembrava nemmeno stare più ascoltando. Era persino tornato a giocherellare con le tende. Levi sospirò. “Che cosa potrebbe succedere?”

“Insufficienza renale? Lesioni cerebrali irreversibili? Potrebbe succedere qualsiasi cosa,” disse Erwin con voce stanca. “Non credo che ci possa essere una buona uscita da questa situazione.”

“Va bene,” rispose Levi piano. “Hai intenzione di dire qualcosa di tutto ciò alla sua famiglia?”

“Dovrei?” Levi non aveva mai visto l’uomo così smarrito.

“Io non vengo pagato abbastanza per prendere certe decisioni.”

Finalmente, Erwin si lasciò sfuggire un sorriso, mentre le sue spalle si rilassavano leggermente. “Credo neanch’io,” ridacchiò piano. “Questo lavoro non vale i suoi soldi. Non credo che esista una somma che possa compensare il fatto di dover dire a qualcuno che la persona che amano di più non può essere aiutata neanche dal miglior trattamento di cui disponiamo. Non c’è nulla da guadagnare in queste situazioni, Levi,” disse esausto, sembrando molto più vecchio di come il moro l’avesse mai visto. “Odio dover quantificare le probabilità di successo quando si tratta della vita di una persona.”

Levi non riuscì a far altro che posare una mano sulla sua spalla, appesantita da quel carico di lavoro. “Non ti demoralizzare, Erwin. Nessuno ha mai pensato che andare contro natura potesse essere semplice. Siamo qui nel tentativo di dare filo da torcere alla selezione naturale.” Erwin sembrò concordare e annuì mestamente. “Hai accettato il lavoro che ti ha offerto Pixis?” chiese infine, alzandosi per andarsene.

“Sì, che diamine.” ridacchiò Levi.

Annuendo di nuovo, Erwin gli sorrise. “Mi fa piacere. Trovo che sia perfetto per te.”

Quando il dottore uscì dalla stanza, Levi si girò verso Eren, che era molto meno preoccupato da quell’intera situazione di quanto si sarebbe aspettato Levi. “Dimmi qualcosa, ragazzo.” tentò, infilandosi le mani in tasca.

Eren sussultò e poi si girò verso Levi. “Ah, e cosa?”

“Questa non è una svolta per te?”

“Non tanto,” disse Eren sinceramente. “E’ come se potessi vincere la lotteria e svegliarmi e vivere, ma lo sapevo dall’inizio che questa era una delle possibilità. Tecnicamente chiunque potrebbe vincere la lotteria, ma la maggior parte delle persone non ci riesce comunque.”

Levi non l’aveva proprio pensata in quella maniera. Tra sé e sé notò come suonava strano vedere Eren essere più pessimista di lui. C’era da sperare che il moccioso non avesse iniziato a rubargli il modo di pensare pessimista – perché gli aveva richiesto anni di perfezionamento. “Vero,” rispose. “Potrei esserne felice io per te se ti va.”

Eren gli sorrise. “Grazie.”

Mugugnando qualcosa in risposta, Levi segnò le ultime cose sulla cartella di Eren. “Me ne sto andando a casa. Tu rimani qui?”

Eren ci pensò un momento. “Ah, penso che preferirei suonare un po’. Vengo con te.”

“Me lo aspettavo.” rispose Levi, lasciando la porta aperta dietro di sé per Eren, mentre usciva dalla stanza.





Sulla strada del ritorno, Levi si pentì amaramente di non aver chiesto l’opinione di un dottore riguardo alla sua singolare sintomatologia. Mentre lui ed Eren tornavano a piedi al suo appartamento, la sua vista gli era sembrata diventare notevolmente offuscata, e si trovò persino a dover nascondere, con un fazzoletto, un leggero sanguinamento del naso, anche se, fortunatamente, era abbastanza buio da non far accorgere di nulla ad Eren. Inoltre si era anche aggiunto un altro allarmante sintomo, visto che gli sembrava di stare perdendo sensibilità alla gamba sinistra.

Levi decise che era veramente arrivata l’ora di fare visita ad Erwin, o a qualsiasi dottore disponibile, il giorno dopo. Sapeva che avrebbe dovuto farlo settimane fa, ma si sa che quando passi la maggior parte del tuo tempo a prenderti cura di altre persone, inizi a diventare indifferente al tuo stesso benessere. E non perché sei altruista, ma più per una sorta di caso cronico di paraocchi, che avevano sofferto anche molti dei suoi colleghi, e che quindi Levi conosceva bene. Ma domani avrebbe smesso di fare l’idiota, decise. Era arrivato il momento di farsi coraggio e risolvere quello che non funzionava, a prescindere da cosa fosse.





Era sul suo solito posto sul divano, quella sera, a dare ad Eren un piccolo consiglio qua e là, mentre il ragazzo suonicchiava una nuova sonata.

Ormai era diventato molto veloce a memorizzarle. All’inizio gli ci voleva un’eternità per imparare qualsiasi cosa, ma Eren era ingannevole. Anche se era stato lento all’inizio, la curva di accelerazione della sua velocità nell’imparare era parabolica. Però, si fermò all’improvviso, e Levi si alzò leggermente per vedere se il ragazzo si era messo in piedi. Ma, invece, Eren si stava segnando una nota sullo spartito, in modo da ricordarsi come suonare una specifica parte la prossima volta che l’avrebbe fatto.

“Stavi zoppicando quando siamo tornati.” affermò il più giovane, continuando a scrivere sullo spartito.

Levi non vide motivo di negarlo. “Sì, un pochino.”

“Stai bene?” chiese Eren bruscamente. Non sembrava molto preoccupato.

Levi ebbe di nuovo l’opportunità di mentire, ma decise che era arrivato il momento di smettere di raccontare stronzate a quel povero ragazzo. “Non credo,” disse semplicemente. “Domani vado a farmi vedere da un dottore alla fine del turno. Ho mentito quando ti dissi che ne avevo visto uno.” aggiunse onestamente.

Girandosi, Eren lanciò uno sguardo vagamente triste. “Ah.”

“Mi dispiace.”

Eren ritornò allo spartito e ci scrisse sopra qualcos’altro. Dopo un minuti di silenzio, sospirò. “Non fa niente. Grazie per averlo ammesso.”

Era strano. Levi si aspettava che Eren si sarebbe arrabbiato dopo la sua confessione, ma l’aveva presa bene – fin troppo bene. “A cosa stai pensando, ragazzo?”

Al posto di rispondere, Eren riprese la sonata dal punto in cui si era fermato. Allora Levi capì l’antifona e tornò a sonnecchiare sul divano. Non era mai stato il tipo a cui piaceva costringere le persone a parlare di qualsiasi cosa. O non gli interessava, o rispettava i limiti degli altri. Non ci voleva un genio per capirlo.

“Pensi che mi sveglierò quando proveranno a dare uno shock al mio cervello?” chiese infine Eren, continuando a suonare. Era una domanda fatta distrattamente, ma Levi apprezzava comunque che la sua risposta valesse la pena di essere ascoltata. E poi aveva già deciso di darci un taglio con le bugie, quella sera.

“Non credo.” rispose sinceramente.

Le note della melodia, intanto, continuavano a fare da sottofondo alla loro conversazione, in un’atmosfera coinvolgentemente allegra, che sembrava non aver nessun rispetto per la serietà delle loro parole. Dopo un momento, Eren annuì piano. “Sì, neanch’io.” Poi rise un po’. “Però pensa a quanti sensi di colpa se mi svegliassi.”

“Perché diavolo dovresti sentirti in colpa?”

Perché quella fottuta sonata era così allegra? “Non lo so. Pensaci, ci sono probabilmente miliardi di persone che si meritano un miracolo più di me. Non che io sia una cattiva persona, non fraintendere, ma statisticamente ci sono un sacco di persone più importanti o comunque migliori di me. Ci sono i bambini, i filantropi, madri, padri e un altro miliardo di persone che si meritano un miracolo. Io non lo voglio.”

Levi annuì pensierosamente. “Probabilmente sei l’unico che non ci spera.” scherzò.

Eren rise. “E’ che ho finalmente accettato la realtà, sai? Le persone dicono che la realtà fa schifo, ma siamo onesti, se tutto quello che ci accade è reale, non è possibile che faccia schifo ogni singola volta. E’ tutta una questione di probabilità, e, perlomeno, la matematica ha senso, se non ce l’ha tutto il resto.”

Ridacchiando, Levi si diresse in cucina per vedere cosa poteva scroccare per cena. “E pensare che hai detto che sono io quello che è cambiato tanto.” rispose.

La sonata ricominciò dall’inizio e Levi rimase in piedi in cucina desiderando di poter essere in grado di credere nei miracoli. Ma poi, ripensandoci, anche i miracoli sono sopravvalutati. Se un miracolo potesse cambiare ogni aspetto della tua vita, in quel momento non si sarebbe trovato lì a cercare una birra in frigo, ascoltando un ragazzo morto suonare una composizione troppo allegra per i suoi gusti. La vita in qualche modo era sempre strana. Ma al contempo, in qualche altro modo, era anche straordinaria.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 - Una nuova realtà ***


The 6th ward
CAPITOLO 24: Una nuova realtà

0 mesi, 28 giorni

Levi si svegliò nel bel mezzo della notte, con una nausea intensa e, in generale, sentendosi veramente male. Ma la cosa non sarebbe stata proprio anormale per lui, se solo non avesse considerato il fatto che non aveva bevuto neanche una goccia di alcool la sera prima. Era sempre stato incline a stare male, ma solo a causa del suo eccessivo consumo di liquore. Comunque, Eren non si svegliò quando lui si trovò a fare una corsa folle verso il bagno, per liberare il suo corpo di qualsiasi cosa avesse mangiato nelle ultime dodici ore circa. La sua gamba era ancora più addormentata di prima e anche la sua vista era peggiorata.

Levi non era stupido. Tirandosi dietro silenziosamente la gamba che non sentiva più, arrancò fino al soggiorno dove compose il numero di Erwin.

“Che succede?” chiese Erwin intontito, dall’altro capo della linea. I dottori non chiedevano mai come ti sentissi, né salutavano. Uno sfortunato effetto collaterale del loro redditizio lavoro era quello che praticamente quasi tutte le chiamate che ricevevano portavano cattive notizie, e ancor di più se erano le tre e mezza del mattino.

“Sono Levi. Credo che ci sia qualcosa che non va con il mio cervello,” tagliò corto. “E non perché mi è saltata qualche rotella ultimamente.” aggiunse.

Levi poteva sentire il suono di Erwin che si metteva a sedere in mezzo al letto, mentre soffocava uno sbadiglio. “Sintomi?” chiese il dottore. Perlomeno non gli aveva fatto duemila domande.

“L’orecchio e il naso mi sanguinano da un mese a questa parte, vista peggiorata, e stasera sembra che abbia anche perso sensibilità nella gamba destra.”

Erwin fece una pausa. “Traumi cranici recenti?”

“A parte l’incidente di cinque mesi fa?”

Il biondo fece un mugugno per invitarlo a continuare.

“Ho avuto una mezza rissa con dei tipi ad un bar un paio di mesi fa. Mi hanno rotto un bicchiere in testa.”

Un’altra pausa. “Nausea?”

“Credevo di no all’inizio.” Qual è il modo migliore per ammettere ad un tuo collega che sei un alcolizzato e che non hai idea di quali e quanti attacchi di nausea erano stati solo un errore di valutazione fatto da ubriaco? “Pensavo che fosse dovuto all’aver bevuto troppo,” decise di ammettere. “Ma stasera non ho bevuto e non è una cosa leggera.”

“Levi, corri in ospedale,” disse Erwin con calma, oltre il rumore che stava facendo vestendosi, nonostante fosse ancora a telefono. “Non dovresti giocare con certa merda. So che sei più intelligente di così.”

Levi fece una smorfia. “A quanto pare no.”

“Sarò lì tra una ventina di minuti.” tagliò corto Erwin, terminando la telefonata.

Mettendosi la sua giacca, Levi si sentì come quello fosse il suo atto finale, mentre usciva dall’appartamento. Quante persone erano uscite di casa senza aspettarsi che sarebbe stata l’ultima volta che lo facevano? Quante persone avevano pensato di stare andando a fare una semplice visita ed erano state ricoverate dopo il loro arrivo, solo per morire in quegli stupidi letti bianchi d’ospedale, settimane o persino solo qualche giorno dopo? Gli venne improvvisamente in mente l’immagine di un decisamente più vivo Eren che lasciava la sua casa per l’ultima volta, incosciente che sarebbe stato messo al tappeto da uno stupido incidente solo più tardi quella stessa giornata. Avrebbe veramente voluto che le cose che succedevano in quell’universo fossero almeno un po’ meno casuali.

Faceva un freddo cane fuori, e Levi si chiese se non fosse il caso di prendere la macchina. Ma, in quella situazione, mettersi dietro al voltante sarebbe stata una decisione probabilmente stupida. Pertanto, si alzò la sciarpa fino al naso e uscì, dirigendosi verso l’ospedale con andatura zoppa ma veloce. Fece persino dei buoni progressi, arrivando in pronto soccorso in tempi da record, ma, ovviamente, quella piccola vittoria fu totalmente eclissata dal fatto che svenne nell’atrio, subito dopo aver chiesto del dottor Smith. In realtà non si ricordava tutto questo, o l’ordine preciso in cui era accaduto tutto, ma gli era stato raccontato più avanti.

La prima cosa di cui si ricordava, infatti, era uno strano stato di risveglio, che era alla stregua di quello che immaginava si provasse quando iniziavi a sognare, sempre che fosse possibile per una persona definire quel preciso momento.

Ma come sapeva di stare sognando?

Quello sì che era strano.

Inoltre, perché diamine stava sognando di essere in una stanza d’ospedale? Certo Levi non era la persona più creativa sulla faccia della terra, ma questo era sorprendente stupido persino per lui.

Comunque, Erwin entrò nella stanza, seguito da Hanji. Ah. Be’, diciamo che ora il sogno si stava facendo un po’ più interessante. Le loro voci lo raggiungevano come se avessero avuto bisogno di attraversare mille miglia di nebbia fitta prima di sfiorare le sue orecchie.

“E’ lui il tuo imbecille?” chiese Erwin stancamente.

Tutto ciò sembrava stranamente familiare. Hanji annuì leggermente. “Non è la prima volta che mi viene fatta questa domanda quest’anno. Qual è la storia, dottore?” chiese Hanji con cautela.

Lo sguardò di Levi andava dall’uno all’altro, con vaga confusione. La nebbia si stava diradando leggermente, e lui si sentiva come se quel sogno stesse diventando reale di fronte ai suoi occhi.

“Frattura del cranio.” tagliò corto Erwin, picchiettando la penna contro la cartella clinica che aveva in mano.

Stringendo le labbra, Hanji lanciò un’occhiata di fuoco in direzione di Levi. “Ed è durato così tanto con una frattura al cranio?”

“Non è neanche finita qui,” disse Erwin, scuotendo la testa incredulo. “Immagino che quella se la sia procurata durante l’incidente d’auto, ma, a quanto pare, ha avuto una perdita di sangue estremamente lenta dal cervello, e per parecchio tempo. E’ raro che sia abbastanza lenta da non mostrare molti sintomi o causare svenimenti, ma può succedere. E’ difficile trovarle quando sono così piccole, e può essere che lui sia riuscito ad andare avanti a lungo senza problemi.”

“Perlomeno fino a quando ha deciso di prendersi a pugni con un paio di balordi al bar.” terminò Hanji.

“Sì. Si è rifiutato di andare in ospedale quando ne aveva veramente bisogno.”

“Lo fa sempre.” disse Hanji con amarezza.

Il ticchettio della penna di Erwin era aumentato con agitazione. “Ha subito una frattura veramente molto lieve, ma poi si è procurato un’altra ferita che ha mostrato sintomi con lentezza, e comunque facili da ignorare. Ma il trauma ha aggravato la perdita di sangue al cervello, e la pressione ha portato a sintomi più riconoscibili, accelerando la comparsa di complicazioni che si sarebbero potute presentare dopo anni, o persino anche decenni.”

“Che imbecille,” ribadì Hanji. “Tornerà a posto?”

“Sto bene,” intervenne Levi. “Mettetemi due bende e mandatemi a casa, okay?”

Erwin fece un’espressione accigliata. “Credo di sì. La mia unica preoccupazione è che il leggero coma a cui abbiamo deciso di sottoporlo diventerà più profondo, se non alleviamo la pressione al cervello e lo riportiamo a un punto in cui possa guarire.”

“Ma starà bene.” Hanji si stava stropicciando l’orlo della divisa nervosamente.

“Coma?” balbettò Levi.

“Onestamente? Sono preoccupato dai danni permanenti al cervello.” disse Erwin celermente, come se la notizia potesse essere meno sconvolgente se detta il più velocemente possibile.

Hanji smise di tirarsi il camicie. “Danni permanenti?”

“Si dovrebbe svegliare, ma il sangue ha fatto pressione in varie parti del cervello. E’ difficile dire cosa è stato danneggiato. Ed è probabile che qualcosa rimanga così.” disse Erwin in tono di scusa, anche se non era veramente colpa sua.

Passandosi una mano lentamente sul volto, Hanji non disse più nulla.

“Lascialo riposare,” propose Erwin. “Lo risveglieremo dal coma non appena il suo cranio sarà in via di guarigione.”

Levi stava fissando allibito l’uno e l’altro a turno. Questo non era un sogno – questo era un fottuto incubo. E, come se si fosse improvvisamente schiantato nella realtà, abbassò lo sguardo sul suo corpo. Maglietta bianca, pantaloni bianchi, cintura nera.

Porca fottuta miseria.

Merda.

Cazzo.

I due se ne andarono dopo un paio di minuti, nonostante Hanji rimase un attimo indietro per borbottare una serie di insulti al corpo inconscio di Levi, mentre la versione conscia dell’uomo guardava il tutto da una sedia dall’altro lato della stanza. Non si era mai veramente riconosciuto nella frase ‘trovarsi nella merda fino al collo’ fino a quel momento. Una serie continua di insulti si stava ripetendo nella sua mente, come una sorta di messaggio promozionale, mentre fissava il suo corpo.

“Adoro quando lascio accadere stronzate perfettamente evitabili,” borbottò a nessuno in particolare. “Perlomeno il bianco mi dona.” aggiunse alla stanza vuota.

Come lato positivo, almeno, pensò Levi, Erwin aveva suggerito che era molto probabile che si sarebbe ripreso e risvegliato. Ora si trovava in coma farmacologico e anche se era stato un completo deficiente, considerando la situazione in cui si trovava, era riuscito ad accorgersene prima che le sue ferite mortali fossero effettivamente riuscite ad ucciderlo. Sarebbe potuta andare molto peggio.

Come dei flash di vecchi ricordi gli spuntavano in testa senza nessun particolare ordine o senso. Era come se qualcuno avesse tentato di scrivere un algoritmo della tua vita facendotela passare davanti agli occhi giusto un secondo prima della tua morte, ma aveva finito per sbagliare tutto. Così quegli stessi ricordi erano diventati una pila ingarbugliata di cose che apparivano nella sua mente a intervalli irregolari. Un secondo stava firmando un suo graffito in un sottopassaggio, e quello dopo gli stavano consegnando un voto mediamente deludente ad uno dei primi test che aveva fatto alla scuola di infermieri. Era questo quello che si erano trovati a passare i mocciosi per tutto questo tempo? Erano veramente continuamente travolti da strani flashback delle loro vite? Tutto ciò faceva a dir poco infuriare Levi.

Sebbene la cosa più irritante di tutte, rimaneva la forte attrazione che sentiva tra sé stesso e il suo corpo. Essere a qualsiasi distanza dal suo essere fisico gli provocava un forte disagio, che diventava sempre più difficile da ignorare man mano che vi si allontanava. Come diavolo avevano fatto i mocciosi a riuscirci? Aveva sempre pensato che fosse una passeggiata.

Sospirando, con addosso il peso di tutte le cose che gli erano successe negli ultimi mesi, Levi si lasciò cadere su una sedia vicino al suo corpo, perché era praticamente l’unico modo per sentirsi un po’ meglio. “Be’, avevo comunque bisogno di una vacanza,” borbottò. “Anche se avrei potuto evitare il trauma cranico, e optare per le ferie pagate.”

Sentiva uno strano senso di solitudine. O, per dirla meglio, si sentiva incredibilmente piccolo. Era come se il mondo esistesse in una certa realtà, mentre lui si trovava in un’altra, e l’unica cosa accertata di quest’altro spazio-tempo era la sua completa isolazione.

Fermi tutti.

Questo non era del tutto vero, perché c’era almeno un’altra persona che si trovava nella sua stessa realtà, in quel momento. Anche se non era neanche lontanamente abbastanza. Si sentiva sopraffatto dalla necessità di ridere istericamente all’idea che aveva sempre creduto che l’ultima cosa di cui si sarebbe trovato a sentire la mancanza era la costante presenza di persone. Stava impazzendo. Come diavolo avevano fatto quei mocciosi a sopravvivere a tutto ciò?

Questo era molto peggio della morte. Levi cercò di pensarla come se questo fosse l’ultimo stato di esistenza che avrebbe mai provato prima di morire, come lo era stato per i mocciosi, e si sentì di nuovo salire la nausea. Era come vedere una bestia feroce inseguirti all’orizzonte, ma essere troppo paralizzati dalla paura per fuggire: puoi solo aspettare che la bestia ti raggiunga, sentendoti sempre più terrorizzato mentre pensi a tutte le caratteristiche orribili del mostro che si avvicina.

Levi rabbrividì. Non lo stupiva più il fatto che Eren gli dormiva praticamente addosso. Faceva così freddo.





Così passò la mattinata e Levi non fece altro che sentirsi sempre più in colpa. Non era ancora stato in grado di vincere l’ansia di lasciarsi dietro il suo corpo, ed era certo che Eren era decisamente confuso e possibilmente disperato, a questo punto. Perché non aveva lasciato un fottuto biglietto? Perché non aveva portato con sé il ragazzo? Stupido, stupido, stupido.

Doveva uscire dalla stanza. Doveva andare a cercare Eren.

Un brivido di ansia gli percorse la spina dorsale.

Stupido.

Dov’era Eren?

Stupido.

Perché non poteva semplicemente uscire da quella fottuta stanza?

Stupido.

Perché faceva così fottutamente freddo?

Stupido.

Perché non era andato da un dottore prima?

Stupido.

“Vaffanculo Levi,” disse a sé stesso, alzando le braccia con frustrazione. Poi si trascinò forzatamente verso la porta e si costrinse ad uscire prima che il suo cervello iniziasse a far partire altri pensieri incoerenti. Era come quando ti tiravano via un dente, ma il dolore era nel petto. Tuttavia, iniziò ad attenuarsi dopo un paio di minuti, fino a diventare un leggero fastidio. Si chiese se anche quello sarebbe scomparso ad un certo punto, o se ad Eren il petto faceva male continuamente, ogni volta che era lontano dall’ospedale. Sperava di no.

Lentamente, ignorando il fastidio, Levi si allontanò faticosamente dalla sua stanza, con testarda determinazione. Se aveva almeno un po’ di fortuna, Eren era tornato al reparto sei. Solo che ormai era prima serata, quindi era difficile dire cosa poteva aver fatto il ragazzo non sapendo che fine avesse fatto lui. Non è che avesse molto da fare per ammazzare il tempo.

Ma alla fine, con grande sollievo, Levi lo incontrò prima di quanto si sarebbe aspettato, in uno dei corridoi tra l’ingresso e i reparti situati nell’edificio adiacente. Eren sembrava abbastanza spaesato, ma soprattutto annoiato. “Ehi, moccioso!” lo chiamò.

Eren si irrigidì un secondo prima di girarsi e riconoscere Levi. “Dove sei stato?”

Levi odiava dare spiegazioni. Cosa avrebbe dovuto dirgli?

Ma Eren gli risparmiò la fatica. I suoi occhi si spalancarono non appena si rese conto del fatto che Levi era vestito esattamente come lui. La sua fottuta mascella era praticamente finita a terra. “Oh merda.” sussurrò.

“Oh merda, esatto.”

“Oh merda.” ripeté Eren, stavolta a voce alta.

“Puoi dirlo forte, oh merda.”

“Merda.”

Levi scosse la testa con frustrazione. “Sì, credo che abbiamo chiarito la cosa. Merda. Un mare di merda. Me ne rendo conto da solo, credimi. Ma sto bene.”

Strabuzzando gli occhi, Eren non sembrava in grado di distogliere lo sguardo dalla maglietta di Levi. “Bene come sto bene io?” riuscì a dire con sarcasmo.

“Coma farmacologico,” ripose Levi. “Dovrei svegliarmi in un paio di settimane quando il mio cervello la smetterà di fare lo stronzo.”

“Dovresti?” Eren stava ancora muovendo le pupille, ben più rapidamente di quanto si sarebbe detto normale.

Levi annuì. Si sentiva in colpa, in un certo senso. Perlomeno lui si sarebbe svegliato.

“Come ti senti?”

“Uno schifo,” ammise Levi. “Questa situazione è terribile.”

Eren gli sorrise simpateticamente. “Già. Fa freddo, vero?”

Annuendo, Levi si passò distrattamente una mano tra i capelli. “Sì.”

“Erwin ha notato un’altra onda di attività celebrale sui miei grafici,” ammise infine Eren, spostando subito lo sguardo verso il pavimento. “Ha detto che è improbabile che sia stato un altro errore del computer.”

Stavolta fu il turno di Levi di strabuzzare gli occhi. “Ah, davvero?” Stupido. Perché non aveva detto qualcosa di positivo per una volta!?

“Credo.” rispose cautamente Eren. Stava evidentemente cercando di non essere troppo eccitato dalla notizia. La speranza può essere pericolosa.

“Stai attento, ragazzo,” disse Levi con serietà. “Non ti fare grandi aspettative. Non voglio vederti soffrire se si scopre che questa faccenda è stata solo un falso allarme.”

Eren annuì brevemente. “Lo so. E’ una scemenza, dimenticalo.”

“Ehi,” disse Levi, facendo finalmente alzare lo sguardo di Eren dalle sue scarpe. “Io spero veramente che sia un campanello di allarme positivo per te, ragazzo. Davvero. Ma lascia a me le speranze, va bene?”

“Va bene.” concordò caldamente Eren.

Levi decise che era meglio evitare di fare qualsiasi discorso sui possibili handicap in cui sarebbe potuto incappare dopo un possibile risveglio. Eren aveva già abbastanza cose di cui preoccuparsi al momento, e a Levi non piaceva far preoccupare ulteriormente persone su cose di cui lui stesso non era propriamente informato. Per quel che ne sapeva, sarebbe stato normale dopo essersi ripreso.





0 mesi, 23 giorni

Le cose erano diventate molto incerte per entrambi, e quella era l’unica fottuta cosa certa. Era come se entrambi stessero aspettando che l’universo decidesse cosa voleva farsene delle loro vite. Comunque ebbero tempo per lavorare un po’ sul far uscire Levi dall’ospedale. Eren gli aveva promesso che una volta che fosse riuscito ad uscire per un paio di minuti, il resto era molto più semplice. E Levi non aveva dubbi, ma non era molto sicuro di farcela. Eren aveva fatto del suo meglio per avere pazienza con lui, ma alla fine decise di optare per la stessa tattica che Levi aveva usato con lui quando era dovuto uscire fuori per la prima volta.

Senza avvisare, il più giovane spinse Levi con forza fuori la porta, affrettandosi a scusarsi istantaneamente. Levi non voleva far altro che ributtarsi all’interno, ma Eren stava bloccando il passaggio con il suo corpo, balbettando scuse e promesse nonostante lo sguardo furioso sul volto di Levi.

“Togliti!” sibilò Levi.

Eren trasalì, chiudendo gli occhi e scuotendo violentemente la testa.

Levi fece un grugnito e si prese la testa tra le mani, cercando di far sbollire l’ansia e il disagio che avevano travolto ogni fibra del suo corpo. Da parte sua, Eren non si mosse – anche se sembrava essere tentato di farlo. Dopo un paio di minuti, Levi sentì acquietarsi lentamente quel vortice di emozioni negative. Piano piano, la tensione sembrò lasciare il suo corpo.

“Ugh.” disse intelligentemente.

Eren rise nervosamente. “Sì, lo so.”

“Che schifo, davvero.”

Con un ultimo sguardo sospettoso, Eren si mosse dalla sua posizione atta a bloccare il passaggio per rientrare in ospedale. “Sarà sempre meglio.” offrì comprensivamente.

“Hm.” mormorò Levi, sedendosi sul prato per riprendere le forze. Il semplice atto di uscire dalla porta lo aveva reso più esausto del peggior straordinario mai fatto in tutti i suoi anni di lavoro in ospedale. Eren rimase in piedi in silenzio al suo fianco, mani in tasca, torreggiando sopra di lui.

Gli faceva male il cervello. Tutto ciò era decisamente troppo. Così piegò leggermente la testa al lato, per poggiarsi sul fianco di Eren.

Troppo.

Eren gli carezzò piano la testa, in un gesto distratto che fu stranamente confortante.

Rimasero così per un lasso di tempo impreciso. Perché il tempo era un concetto strano nella realtà in cui si trovavano, constatò Levi. A volte un minuto si estendeva per anni, ma qualche volta il tempo di chiudere gli occhi e un’intera giornata era passata.

Perlomeno, per la prima volta in quasi una settimana, fu finalmente capace di trascinarsi a casa, fermandosi spesso per cercare di fermare e riprendere il controllo sulla sua ansia. Però, Eren aveva ragione: la parte più difficile era stata uscire dal maledetto ospedale. Ogni volta che aveva avuto bisogno di fermarsi, Eren aveva aspettato pazientemente un paio di passi più avanti. Levi aveva apprezzato come il ragazzo non gli avesse detto nessuna parola di incoraggiamento o esperienza. Era semplicemente lì.

Quando finalmente raggiunsero il suo appartamento, Levi si sentiva vecchissimo. Anche se era stato lontano da quel palazzo familiare per meno di una settimana, si sentiva come se non l’avesse visto per anni.

Sospirò. Perché tutto ciò doveva essere così stancante?

“Ti sentirai meglio,” disse naturalmente Eren, continuando a salire le scale davanti a lui. “Sei troppo testardo per non riuscirci.”

“Forse.” ammise Levi, mentre un vago sorrisetto gli stirava i lineamenti.

Avvicinandosi all’appartamento, Eren chiese divertito: “Non è proprio semplice, eh?”

“Una passeggiata.” rispose Levi.

Eren alzò gli occhi al cielo, ma non disse niente mentre faceva largo a Levi per farlo entrare a casa sua.




Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Da questo capitolo le note si spostano a fine capitolo perché ci avviciniamo alla fine e non voglio scocciarvi con le mie scemenze fino a quando non avete finito di leggere. Ahah! tra l'altro finalmente arriva il capitolo dove si scopre Levi la causa dei sintomi di Levi e anche le sue conseguenze! Non vedo letteralmente l'ora di leggere i vostri commenti perché per me questo capitolo fu un vero shock visto che questa era l'ultima cosa che mi aspettavo. D'altra parte ci sono anche buone notize per Eren. Chissà. Vabbè, detto ciò ringrazio sentitamente tutti i lettori, e in particolar modo chi ha inserito la storia tra le preferite/seguite/da ricordare e, ancor di più, chi commenta! Spero di avere un po' di tempo domani per continuare nei miei tentativi miseri di recuperare con le risposte. Ci sentiamo nel prossimo capitolo!
SULLA TRADUZIONE: partendo dal fatto che io non sono un'esperta di medicina, ma che non lo è neanche l'autrice (che avvisa che ci potrebbero essere delle incongruenze con la realtà medica, nonostante si sia informata nel miglior modo possibile), vi avviso che posso solo sperare di non aver scritto scemenze in questo ambito, ma se l'ho fatto fatemi sapere che correggo! Poi ci sono le scemenze dovute ad errori di distrazione, ma quello è un altro discorso xD


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Capitolo 25
*** Capitolo 25 - Graffiti ***


The 6th ward
CAPITOLO 25: Graffiti

0 mesi, 18 giorni

Sorprendentemente, le cose non cambiarono poi tanto, nonostante Levi fosse fuori dai giochi da un tempo ormai indefinito. Lui ed Eren litigavano ancora per suonare il piano, Levi era ancora perlopiù uno stronzo, Eren lo informava della cosa abbastanza spesso, e entrambi continuarono a vivere come se non fosse cambiato nulla. L’unica differenza era che Levi aveva un sacco di tempo libero dal lavoro. Certo, aveva dovuto mettere un piede nella fossa per prendersi delle ferie, ma, ehi, le ferie sono sempre ferie.

L’ansia di allontanarsi dal proprio corpo era man mano scomparsa, come Eren aveva anticipato, ma non l’aveva mai lasciato del tutto libero. Si sentiva come una nave senza ancora, disperatamente perso in un mare inesplorato, e con nulla a fare da punto fermo. Ed era una sensazione difficile da ignorare, nonostante Levi stesse facendo del suo meglio. Nei momenti in cui peggiorava, si trovava sempre a pensare ad Annie, Bertholdt e Reiner che erano stati costretti ad accettare quell’esistenza incoerente come la loro nuova realtà. E ogni volta che pensava a loro, ringraziava silenziosamente Erwin per essersi preso la briga di ottenere il permesso di staccargli la spina. Poteva anche andare bene come esistenza temporanea, ma anche i sei mesi a cui erano stati costretti gli altri mocciosi, a lui sembravano troppi da poter sopportare.

D’altro canto, Levi era in una situazione differente. Lui odiava questo stato di esistenza, ma solo perché aveva un posto in cui tornare, e, più ci pensava, più non era sicuro se avrebbe veramente scelto il nulla rispetto a questa realtà. Morire gli faceva ancora terribilmente paura. Ai mocciosi faceva grandi discorsi, ma alla fine sapeva che le sue rassicurazioni e il vago filosofeggiare erano perlopiù stronzate. Loro erano più coraggiosi di quanto lo sarebbe mai stato lui, e anche se si sentiva una merda a pensarla così, non poteva fare a meno di sentirsi sollevato del fatto che lui si sarebbe svegliato da questo incubo.

Spregevole.

L’unico vero sviluppo eccitante dell’ultimo periodo erano state le grandi attenzioni che aveva avuto Erwin nei confronti del precedentemente disperato caso di Eren. Le piccole onde di attività cerebrale erano diventate più frequenti in quelli che erano ora dei controlli rigorosi. E, sebbene fosse decisamente frustrato, da quello che Levi poteva giudicare, Erwin aveva accettato il possibile errore di diagnosi e si era immerso in ore di tedioso monitoraggio e infinite prove e test. Per quel che riguardava Eren, gli si doveva concedere che, nonostante le novità positive, era rimasto responsabilmente realista riguardo l’intera faccenda.

Quando Levi gli dava qualche aggiornamento del suo periodico spiare Erwin durante le sue attività, Eren lo ascoltava educatamente ringraziandolo dell’informazione, ma non si esaltava mai. Il che, in realtà, faceva arrabbiare un po’ Levi, perché era lui quello che si supponeva essere il testardo scettico. Quello era il suo ruolo.

In ogni caso, i due avevano continuato a vivere le proprie esistenze, in una ruotine ormai comprovata, piena di eclettici mix di improvvisazioni jazz, Beethoven, un sacco di battibecchi, e altrettanti lunghi, confortevoli silenzi. Solo che Levi non era un granché in grado di dormire, quindi lasciava spesso ad Eren quell’attività. Non che almeno uno dei due avesse idea del motivo per cui Eren fosse in grado di dormire. Da quel che ne sapevano, nessuno degli altri mocciosi era riuscito mai a farlo.

Quella sera era trascorsa più o meno come le altre, con Levi a suonicchiare un nuovo solo su una decisamente non convenzionale progressione armonica, mentre Eren si lamentava del fatto che fosse il suo turno di suonare.

“Lo sai,” disse Eren pensierosamente. “Credo di avere ragione.”

“A qualsiasi cosa tu ti stia riferendo, ne dubito altamente.” rispose Levi con leggerezza. Stuzzicare Eren era uno dei suoi passatempi preferiti.

“No sul serio,” insisté Eren, senza perdere il suo tono di ragionevolezza. Il suo tentativo di farlo arrabbiare era fallito. Ritirata. “Alla fin fine sei veramente Bruce Willis.”

“Ah, grandioso,” sbraitò Levi. “Il mio paragone preferito è ancora qui a tormentarmi.”

“Sei solo arrabbiato perché avevo ragione.”

Come non detto, missione riuscita. Eren era caduto nella sua trappola.

Levi gli lanciò uno sguardo raggelante. “Ah, per favore. Non è vero.”

Stringendo gli occhi, Eren fece quell’espressione che faceva sempre quando non era preparato ad arrendersi durante una discussione. “Be’, Haley Joel Osment non è morto nel Sesto Senso. Questa è la stessa cosa quando alla fine Bruce Willis realizza di essere morto. Sei stato fottuto per molto tempo, cretino. Il tuo stupido cervello malfunzionante ti ha fatto vedere gente morta sin dall’inizio – e non per qualche concessione divina.”

“Non sto morendo,” gridò Levi. “Bruce Willis sei tu. Chiuso il discorso.” Eren gli stava sorridendo a 32 denti. Quindi era lui quello che era stato appena preso in giro? Questa era nuova. Eren aveva usato il suo stesso gioco contro di lui. Il ragazzo stava iniziando a imparare un po’ troppo velocemente per i suoi gusti. “Credo di preferire il paragone con Jack Nicholson.” concluse Levi aspramente.

“Perché sei pazzo.” Non era una domanda.

Levi sospirò. “Perché sono pazzo,” confermò. “Ed è colpa tua.”

Eren sembrava un po’ troppo orgoglioso della cosa. Certo che Levi non poteva proprio farsi tormentare da uno spirito meno rompipalle, eh?

Parlando di rompipalle, a Levi venne in mente la sua visita di quella mattina all’ospedale, per controllare se Hanji stava veramente innaffiando il suo alberello di Giuda. Con un certo senso di colpa, l’infermiere aveva realizzato che la collega si era subito preoccupata di prendersi cura del giovane albero, senza perdere un attimo di tempo. A volte era irritantemente premurosa – sebbene completamente fuori di testa. D’altro canto, era probabilmente quello il motivo per cui andavano d’accordo. Fatti della stessa pasta, come si è soliti dire. Durante la sua visita, si era fermato anche all’ufficio di Erwin. A quanto pareva, l’uomo aveva finalmente informato Mikasa e Armin del fatto che le onde vitali di Eren stavano diventando sempre più prevedibili, e che avevano dato prove abbastanza consistenti da iniziare a pensare un piano per tentare di farlo risvegliare dal coma. Le stranezze saltuarie non erano poche, ma perlomeno c’era qualcosa adesso.

“Erwin proverà a svegliarti nel giro di un paio di settimane,” disse Levi di spalle. “Non è in grado di predire nulla, e comunque sarà un terno al lotto, ma pensavo che lo volessi sapere comunque.” Quando Eren non rispose, Levi si girò un pochino verso di lui. Sembrava arrabbiato. “Che succede?”

Eren fece spallucce con irritazione. “Avrei semplicemente voluto che niente di tutto ciò fosse accaduto. Le probabilità di riuscita sono pessime, ma non riesco a fare a meno di sperare. E’ una tortura.”

“Già.” concordò Levi. Cos’altro avrebbe mai potuto dire?

“Dovrei sperarci?” chiese piano Eren.

Levi rise, e l’altro lo fulminò con lo sguardo. “Ragazzo, stai morendo e sei preoccupato che avere qualche speranza possa rendere la situazione peggiore? Finché tieni conto di avere poche chance, non credo ci siano problemi. Consolati, deficiente. Non importa se è una bugia o no.”

Alzando gli occhi al cielo, Eren affondò tra i cuscini del divano. “Mi dovrei prendere in giro allora?”

“Sì, segui il mio esempio,” ridacchiò Levi, facendo rifiorire il suo solo con un veloce arpeggio discendente. “Però, sul serio, non diventare come me. Non mi sei mai piaciuto da cinico. Lascia a me quella parte, ragazzo.”

“Ti invidio davvero,” ammise Eren con lieve imbarazzo. “Sto cercando di essere contento del fatto che tu ti sveglierai, ma alla fine sono solo folle d’invidia. E’ ridicolo.”

“E io sono uno stronzo perché sono felice di non essere al tuo posto,” disse Levi, facendo spallucce. Non c’è nessuno da impressionare qui. Sentiti arrabbiato, triste, confuso… al diavolo, sentiti invidioso – non importa.”

Eren rise brevemente. “Sono felice del fatto che non sei un moralista. Il fatto che sei una persona tremenda è decisamente meglio di stare con qualcuno che mi direbbe di essere coraggioso e cazzate simili. Quella sarebbe stata la cosa peggiore possibile.”

“Le persone buone fanno schifo,” concordò Levi, sorridendo alla tastiera mentre le sue dita l’accarezzavano con gentilezza. “Ti fanno solo sentire una merda.”

“Allora credo di doverti ringraziare per essere uno stronzo.” ridacchiò Eren.

“Quando vuoi, ragazzo. Davvero – quando vuoi. Non che abbia qualche alternativa.”

Sorridendo con determinazione, Eren si mise a sedere sul divano. “In questo caso, vaffanculo per aver avuto una seconda chance. E vaffanculo perché ti sveglierai.” Non era detto con cattiveria, ma comunque con sottintesa sincerità.

Levi fece spallucce. “Va bene. Be’, vaffanculo a te e al fatto che devi morire.”

Entrambi si rilassarono in un silenzio comunicativo, mentre Levi continuava a suonicchiare un brano infinito, e un piacevole senso di realtà sembrava appropriarsi del loro mondo inconsistente.





0 mesi, 15 giorni

Per la mancanza di qualcosa di meglio da fare, e anche perché a volte non riuscivano a mettersi d’accordo su chi avrebbe dovuto suonare il piano, Levi ed Eren passavano un sacco di tempo a camminare. Non andavano da nessuna parte in particolare, e non avevano nessuna destinazione precisa – era solo un modo come un altro per perdere tempo. Il clima era ancora rigido, ma ora che l'esistenza di Levi era a sua volta spiacevolmente fredda, l’aria esterna non faceva più una grossa differenza.

Oggi avevano camminato un po’ più in là del solito, dirigendosi nelle vicinanze di una delle aree più urbanizzate della periferia. Erano in un vecchio quartiere con un numero infinito di edifici alti e sottili, stretti insieme in un disegno incredibilmente d’effetto. Ogni angolo era pieno di ragazzini seduti sui gradini, a dribblarsi una palla da basket, o semplicemente in piedi a fare qualcosa. Sebbene non fosse un’area incredibilmente povera, sicuramente non stavano nascendo ceppi di famiglie borghesi nella comunità. Levi era cresciuto in posto praticamente identico a quello che stavano attraversando e la puzza di gas di scarico delle auto, di vernice da quattro soldi e di sigarette gli erano piacevolmente nostalgici.

Piccole comunità come quelle avevano un certo fascino. Quando non hai la possibilità di aspirare a qualcosa di più oltre un lavoro sicuro e un piccolo appartamento, le persone rendono altre cose quelle importanti nella loro vita: così le famiglie diventano unite, i vicini si trattano come veri vicini, e i bambini crescono combattendo le proprie lotte e proteggendo i loro amici e vicini. Quello che gli mancava in benessere materiale, loro lo sostituivano con la lealtà e l’interesse mutuale a sopravvivere. Le persone ricche rubano per diventare ancora più ricche, mentre quelle povere rubano solo per sopravvivere.

Il crimine è differente nel mondo delle classi sociali basse, e a Levi mancavano le strade più di quanto avrebbe voluto ammettere. Camminando in quel quartiere, mentre il sole si nascondeva dietro un muro spesso di nuvole grigie, era come essere a casa.

“Questo posto mi ricorda quello in cui sono cresciuto.” osservò Eren.

Levi annuì. “Anche a me.”

“Ho conosciuto Armin e Mikasa nel mio vecchio quartiere.” Eren stava fissando un gruppetto di adolescenti che si stavano prendendo in giro tra di loro, tirandosi addosso un pallone da calcio vecchio e sporco. “Adoravo quelle strade diroccate,” disse affettuosamente. “Ne sono successe così tante lì.”

Sorridendo leggermente, Levi annuì ai suoi simili ricordi. “Mi sento quasi dispiaciuto per quei bambini ricchi che non hanno mai avuto modo di vivere in strada. Come fanno ad andare avanti senza passare quello che abbiamo passato noi?”

“Con i soldi, direi,” rise Eren. “A me invece non dispiace. Perlomeno hanno quasi tutti entrambi i genitori, e abbastanza soldi per pagare le bollette ogni mese.”

Levi annuì, concordando. Era un po’ distratto, e un po’ più che affascinato dai graffiti che decoravano praticamente ogni angolo del quartiere. Ma senza essere irrispettosi o crudi, solo artistici. Le persone spesso non sanno distinguere i graffiti dal vandalismo. L’interesse nelle gang era forte nel quartiere povero dove era cresciuto lui, ma quello che lo aveva veramente attirato erano i graffiti. L’odore delle bombolette spray e la soddisfazione di aver marcato il territorio come tuo con disegni improvvisati, e colorati sfoggi di creatività, lo incantavano.

Mentre giravano un angolo, un giovane ragazzo con il cappuccio della sua felpa nera a nascondergli il volto, si materializzò di fronte a loro, con un grosso borsone appeso alla spalla.

“Ho già visto questo look.” ridacchiò Levi.

Guardandosi intorno per accertarsi di avere via libera, il ragazzo posò delicatamente la borsa a terra, e ne tirò fuori una bomboletta di pittura spray di alta qualità. Però, prima ancora di riuscire anche solo a finire di agitarla, una poliziotta bassa e tarchiata, con i capelli legati in una coda ordinata, lanciò un grido verso di lui: “Spero per te che tu non stia pensando di fare qualche graffito su quel muro, ragazzo.”

Il giovane lasciò cadere la bomboletta per lo spavento, e iniziò a correre dal lato opposto del vicolo. Per un momento sembrò come se la poliziotta stesse per inseguirlo, ma invece si limitò a una scrollata di spalle. “Ah, questi ragazzi.” mormorò, confiscando la bomboletta caduta. Levi la guardò tornare alla sua macchina e andarsene, lasciando lui ed Eren da soli in quella viuzza.

Il borsone nero era rimasto abbandonato a terra.

Una tentazione irresistibile.

Levi osservò il muro che il ragazzino aveva pensato di taggare. Era stato imbiancato recentemente, ed era pericolosamente pulito – la tela perfetta. Nessuna sorpresa sul fatto che il ragazzo lo volesse marcare. Eren sentì che l’attenzione di Levi si era diretta verso il borsone nero e si inginocchiò per esaminarne il contenuto. Dentro c’erano quasi due dozzine di bombolette di vernice spray nuove, di vari colori tutti di alta qualità.

“Dovremmo probabilmente liberarci di queste.” disse Eren.

Levi annuì. “Infatti.”

“Non sarebbe una cosa positiva se finissero nelle mani sbagliate.”

Levi annuì di nuovo. “Probabilmente.”

Dopo un momento, Eren piegò la testa di lato, ancora pensando alle bombolette di vernice spray. “Vuoi usarle per disegnare su questo muro tanto quanto me?”

“Cristo, iniziavo a pensare che non me l’avresti più chiesto.”

Eren era alquanto poco dotato con la vernice spray, e quindi optò per fare giusto qualche disegno piccolino ai lati del muro, non volendo rovinare lo spazio principale o disturbare il lavoro di Levi. Così al centro di quella grande tela, Levi aveva dato vita ad un disegno dallo stile cubico, deciso, che mostrava la giungla di cemento in cui era cresciuto. Era fin troppo colorato, quasi esagerato, ma Levi si sentiva fiero del suo lavoro. Il fatto che non faceva più pratica non l’aveva reso meno capace di quanto era quando aveva iniziato da giovane.

E così rimasero lì per ore, con Eren a scarabocchiare negli angoli del muro, e Levi a lavorare meticolosamente al suo capolavoro. Alla fine, quando Levi fu soddisfatto, firmò il disegno con il suo vecchio nome di strada, per poi fare un passo indietro e ammirare il frutto delle sue fatiche.

“Quindi in pratica eri il Picasso delle gang di strada o cosa?” chiese Eren dubbiosamente. “Pensavo che i graffiti fossero semplicemente simboli delle gang, firme o riferimenti a droghe.”

“Nessun graffitaro che vale qualcosa chiamerebbe quella roba arte,” sbottò Levi. “I veri graffiti sono più della tua firma in un posto, ragazzo.”

Eren fece spallucce. “Ormai ho rinunciato a capirti.”

“Ti ci è voluto parecchio.”

Di buon umore e ricoperti di schizzi, gocce e macchie di vernice, i due si diressero verso casa, con Levi che si sentiva stranamente loquace. Normalmente, era Eren quello che parlava abbastanza da rompergli i timpani mentre lui faceva finta di ascoltare (o faceva finta di non ascoltare), ma, questa volta, Levi si mise a raccontare, una storia dopo l’altra, delle sue avventure per le strade, intrattenendo Eren con i suoi numerosi incontri con la legge, e tutte le stranezze che avevano reso la sua vita in strada coinvolgente come ancora la trovava.

Non aveva mai pensato molto alla sua infanzia o adolescenza fino a quel momento. Era stato tutto nascosto ordinatamente in un cassetto chiuso a chiave nella sua mente, archiviato come ‘inutile’ o ‘irrilevante’. Così parlò della sua vecchia gang. Parlò del suo primo contatto con il jazz in quel bugigattolo di bar ad un paio di isolati da casa sua. Parlò di tutto. Parlò e basta.

Levi aveva cancellato tutto fino a quando non era quasi morto. Ed era tornato a pensarci solo ora che aveva questo strano, disperato bisogno di provare la sua esistenza. Nessuno sapeva nulla di Levi, sul serio, e qualcosa sul suo stato attuale di quasi-esistenza, aveva scatenato in lui il bisogno di urlare all’universo che lui, invece, era esistito, ad un certo punto. Alla fine optò per chiacchierare al punto da far cadere i timpani anche ad Eren. Ma a lui non sembrava importare, comunque.

“Pensavo che somigliassimo a degli imbianchini, prima,” scherzò Eren. “Ma cavolo se mi sbagliavo. Guardaci adesso.”

A Levi non dispiaceva la cosa. Ora erano completamente vestiti di bianco ed effettivamente ricoperti di vernice. “Be’ stavamo pitturando in un certo senso.”

“Lo chiamerei più vandalismo,” replicò Eren. “Tu eri un dannato delinquente, lo sai? Io non ho mai fatto roba del genere,” rise. “O mia mamma o Mikasa mi avrebbero fatto una faccia di schiaffi. Non riuscivo a scamparla su niente.”

“Ah, non è una cosa cattiva,” ridacchiò Levi. “Vuol dire che ci tenevano. O che volevano semplicemente farti una faccia di schiaffi. In ogni caso, non è un problema mio.”

“Già, vaffanculo anche a te.”

Per una volta, Eren non iniziò a bisticciare per il piano, quando arrivarono all’appartamento. Invece, il ragazzo volle sedersi sullo sgabello e ritentare a suonare un po’ di jazz. Era ancora agli inizi, e con una base decisamente troppo tecnica dalla sua parte, ma non terribile. Levi suonò in un ritmo circolare, alzando di un tono ad ogni cambio di fraseggio. Alla fine, la cosa sembrò far infuriare Eren abbastanza da far sentire i primi segni del suo vero talento. Eren riusciva a fare qualsiasi cosa meglio quando era arrabbiato.

“Non ci stai nemmeno provando,” rise Levi mentre alzava le mani per poi riabbassarle in una mossa elegante. “Tieni il passo.”

Con le sopracciglia aggrottate per la concentrazione, Eren gli lanciò uno sguardo fulminante. “Sei il peggior insegnante possibile, sai? Ti stai solo dando delle arie.”

“Ovvio.”

Levi non l’avrebbe mai ammesso, ma Eren stava migliorando di volta in volta. Ecco di nuovo quella curva parabolica.

“Perché non suoni più per soldi?” chiese Eren.

Levi fece spallucce. “Non saprei.”

“Be’, dovresti ricominciare. Anche solo per hobby.” disse Eren , ripetendo un movimento che aveva fatto Levi un paio di progressioni fa. Non era un’idea orribile.

“Ci penserò su, ragazzo,” disse Levi con leggerezza. “Il lavoro da insegnante vorrà dire più soldi e meno ore di lavoro. Non è una proposta irragionevole.”

Rilassandosi notevolmente dallo stato di concentrazione in cui era finito, Eren sorrise guardando la tastiera. “Riesco a capire perché ti piace il jazz. Hai ragione: l’unica cosa che importa è che non te ne deve importare affatto. E questo è probabilmente anche il motivo per cui io faccio schifo.”

Levi fece un sorrisetto. “Probabilmente non è una cosa cattiva. E comunque non fai schifo. Sei giusto un livello sopra la merda. Come il terreno. Terreno di buona qualità, magari.”

“Quello era un complimento, vero?”

Invece di rispondere, Levi si immerse a capofitto in una delle progressioni di base che aveva cercato di suonare con Eren un paio di mesi prima. Poi alzò un sopracciglio come per invitare Eren ad unirsi a lui. Il ragazzo stava esitando e Levi gli lanciò uno sguardo di biasimo. “Che c’è? Non pensi di essere migliorato? Come al solito ti interessa la progressione, ti interessa cosa succederà domani, ti interessa se potresti suonare male o no, ti interessa sapere cosa farò quando tutto questo sarà finito. Ti interessano decisamente troppe cose, Eren. La vita non è una fottuta agenda gigante con cose da fare e non fare, e cose da fare adesso o dopo. Suona la fottuta musica.”

Eren annuì una sola volta, con un nuovo sguardo di determinazione negli occhi mentre subentrava nella progressione. Be’, così già era un po’ meglio.

Dopo un paio di cicli, Eren si girò per guardare Levi con la coda dell’occhio. “A te cosa interessa, allora? Visto che sembra che a me interessi tutto.”

“Non guadagni punti per tenerci, Eren,” disse Levi risolutamente. “Non c’è nessun conto finale alla fine. Vuoi sapere a cosa tengo? Tengo ad un sacco di cose. Ma riesco comunque a suonare come se non me ne fregasse di nulla.”

“Ma io come faccio a farlo?” si lamentò Eren, fissando intentamente le sue dita che si muovevano rapidamente. “Non posso semplicemente spegnere il cervello.”

“Il controllo è un’illusione, ragazzo. Io non spengo un bel niente. Ma accetto i miei pensieri e li lascio andare. Mi torneranno in mente dopo se sono abbastanza importanti. Le cose hanno modi strani di ripresentartisi davanti.”

“Ci riuscirò. Prima o poi,” decise Eren, rimanendo in silenzio mentre la progressione andava avanti e avanti, indisturbata. Alla fine, Levi lasciò che Eren suonasse da solo, ripetendo sempre lo stesso ciclo e improvvisando nella maniera più basica possibile. Dopo un po’, però, il ragazzo sembrava troppo esausto per continuare a suonare, e la musica si affievolì con tristezza fino a diventare un silenzio prolungato. “Perché è così difficile non tenerci?”

“Perché sei nato per tenerci, credo. Tutta sfiga, ragazzo.” rise piano Levi. Eren era appoggiato a lui, con le mani strette sul grembo, e gli occhi che si stavano chiudendo nonostante gli sforzi di tenerli aperti. Levi iniziò un ritmo a tre quarti con la mano destra, una reminiscenza di una vecchia canzone blues che aveva sentito suonare una volta in un bar da un vecchio intristito, senza preoccuparsi di complementarla con un accordo o delle note basse. La musica sembrava nuda, dopo i complicati incastri di motivi sinuosi, che avevano bombardato l’appartamento per tutta la notte. Ma la sua semplicità era piacevole, e dopo un paio di minuti di quella melodia sola, Eren lasciò cadere la testa leggermente al lato, posandola contro il braccio di Levi.

Be’, realizzò Levi, a qualcuno doveva pur interessare.

Lentamente, Levi accompagnò la musica con una melodia triste suonata con la mano sinistra, mentre cercava di muovere il braccio il meno possibile, visto che Eren stava sonnecchiando tranquillamente al suo fianco.

“Se mi sbavi sul braccio, ti do fuoco.” borbottò, oltre la laboriosa, triste melodia.

Eren non rispose.

Si era addormentato.

Ah, bene. Lasciamo stare.




Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Scusate il ritardo, ma ho avuto da fare nelle ultime settimane e mi sono trovata a tradurre in tutta fretta il capitolo negli ultimi giorni e, purtroppo, non era proprio brevissimo. Comunque ci sono! Nulla da aggiungere anche perché è un capitolo un po' di stallo ma, mamma mia, ormai mancano solo 3 capitoli alla fine! Non ci credo! Detto ciò ringrazio tantissimo tutti i lettori della fic, chi ha inserito la storia tra i preferiti/seguiti/da ricordare, e in modo particolare chi commenta! Mi farò viva presto con le rispose! Al prossimo capitolo!
SULLA TRADUZIONE: tradurre le parti 'musicali' è stato a dir poco un parto T_T purtroppo non sono sicura di niente ma spero di aver fatto un lavoro decente sebbene sia andata a interpretazione dove non riuscivo a trovare una spiegazione teorica decente! Soliti errori di battitura in agguato ;)


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Capitolo 26
*** Capitolo 26 - Fortuna ***


The 6th ward
CAPITOLO 26: Fortuna

0 mesi, 10 giorni

“Ehi!” borbottò Levi, mentre Eren gli strappava una sigaretta da bocca e la schiacciava contro la cornice della porta dove era poggiato lui, rendendola inutilizzabile.

Eren fece una mezza smorfia, con ancora in mano il mozzicone distrutto.

“Perché l’hai fatto? Qualcuno ha pagato soldi veri per quella,” lo aggredì Levi, afferrandogli la mano. Ma Eren lo allontanò con l’altro braccio, che era decisamente più lungo di quello dell’altro, e lo tenne effettivamente lontano. “Dammela!”

“Quindi l’hai presa a qualcuno?” chiese Eren dubbiosamente. “Hai rubato la sigaretta di qualcun altro?” Stava fissando Levi come un bambino che era stato sorpreso a fare qualcosa per cui non aveva avuto il permesso.

Fottuto moccioso.

“Ah, smettila. Era una sola,” mormorò Levi, ancora cercando di raggiungere l’altra mano di Eren. Adesso il ragazzo lo stava tenendo lontano con una mano sulla fronte, mentre lui tentava di divincolarsi da quell’ostacolo. “La smetteresti?” ringhiò.

Eren fece un sorrisetto. “No.”

Levi diede un colpo alla mano di Eren per spostarla dalla sua testa, e si allungò un’altra volta per la sigaretta, ma fu bloccato, di nuovo, dall’avambraccio di Eren, premuto con forza contro il suo petto. “Giuro su Dio che hai quattro secondi per ridarmela.”

A quel punto Eren non era più in grado di reprimere il sorriso che si stava facendo strada sui suoi lineamenti. “Che c’è Levi? Abbiamo le braccine un po’ corte?”

Levi non ne era certo, ma sospettava che gli fosse iniziato ad uscire vapore dalle narici. “Ti troverai steso a terra molto presto se non me la dai subito.” disse con un tono di voce pericolosamente calmo.

Eren stava cercando disperatamente di cercare di far tornare la sua espressione a qualcosa che rassomigliasse, almeno da lontano, ad uno sguardo serio. “Non credevo che fumare fosse uno dei tuoi modi per tagliare corto.” riuscì a dire, nonostante il suo modo di fare falsamente serio minacciava di crollare da un momento all’altro.

Gli occhi di Levi si spalancarono, mentre sentiva qualcosa scattargli nel cervello. In un ultimo disperato scatto, tentò di afferrare la sigaretta. Ma, di nuovo, fu trattenuto indietro dalle lunghe braccia di Eren.

“Che cosa c’è Levi?” chiese Eren, nascondendo un altro sorrisetto. “Mi sembra tu sia un po’ a corto di pazienza.” ridacchiò, incapace di non mostrare una stupida espressione di vittoria sulla sua stupidissima faccia.

“Sei fottutamente finito.”

Levi fece per dargli un pugno direttamente nello stomaco, ma Eren riuscì a schivarlo per pochissimo, correndo via per l’ospedale. Diamine no.

“Jaeger! Dammi quella fottutissima sigaretta o quando ti prenderò ti tirerò fuori l’intestino direttamente dalle fottute narici, e così dannatamente veloce che i tuoi nipoti andranno di corpo dal naso!” ruggì Levi, andandogli dietro a passi pesanti, lungo il corridoio.

Non si sarebbe ridotto a rincorrerlo, perché, differentemente dal moccioso, lui aveva una montagna di fottuto tempo per trovarlo. Però, dopo quasi venti minuti a setacciare l’ospedale, facendo cadere cartelle cliniche dalle mani di molte infermiere confuse, e continuando a sibilare una costante raffica di imprecazioni e alquanto creative minacce, la sua furia di ridusse ad un vago senso di irritazione, e si trovò a proseguire la ricerca solo perché non aveva veramente di meglio da fare, più che per vendetta. Il moccioso l’aveva sfiancato.

Un po’ di tempo dopo, Levi trovò Eren a riposarsi contro uno degli armadietti della stanza delle infermiere del reparto sei.

Ovvio.

Quello era l’ultimo posto in cui sarebbe andato a guardare. Non c’era da sorprendersi che Eren fosse lì.

“Ehi, big bird!” lo chiamò Levi, facendolo girare così in fretta da rischiare di cadere.

Eren sembrò considerare l’idea di fuggire di nuovo, ma si rilassò quando vide che Levi non sembrava più incazzato nero. “Certo che sei lento, vecchio.” ghignò.

Levi alzò gli occhi al cielo. “Sì, sì, ho capito: sono vecchio e basso. Ora dammi la fottuta sigaretta.” Stavolta allungò una mano, non facendo nessuna mossa per avvicinarsi ad Eren. Levi sapeva quando era inutile usare le maniere forti.

Sorridendo mestamente, Eren alzò le mani in segno di resa. “Scusa, ma l’ho buttata nel cestino.” disse, indicando il piccolo cestino della spazzatura dall’altra parte del corridoio.

Sospirando, Levi si lasciò cadere su uno degli alti sgabelli della sala infermiere, stanco di essere arrabbiato e ben poco volenteroso di iniziare a fare discussione. “Ah, come non detto.” mormorò.

“Ma se non fumi nemmeno,” osservò Eren. “Qual è il problema, vecchio mio?”

Levi fece spallucce. “Guarda che fumavo. E’ abbastanza difficile lavorare in un jazz bar negli anni novanta, senza fumare, ragazzo.” Si grattò la nuca distrattamente mentre davanti a suoi occhi si materializzavano immagini di bar annebbiati dal fumo, arredati con fare spiccolo. “Ma facendo l’infermiere è difficile dire alle persone di non fare cazzate che finiranno solo per ucciderli in anticipo, quando sei tu il primo a farle. Ho smesso il momento in cui ho iniziato a lavorare qui. E comunque non mi andava di morire di cancro ai polmoni.”

Ridacchiando, Eren annuì. “Sì, ma alla fine puoi anche non fumare per tutta la tua vita e finire comunque con il cervello in pappa, perché ti è caduto un martello in testa in cantiere, prima che sia arrivata la tua ora.”

“Credo sia tutta sfortuna, allora, no?” scherzò Levi.

Eren fece spallucce. “Non fino a quando ti succede qualcosa di veramente sciagurato. Le persone credono nella sfortuna solo quando non possono spiegare il motivo per cui qualcosa è successo. Se ti ammali di cancro dopo aver fumato un pacchetto al giorno per trent’anni, te la sei voluta, ma se ti ammali dopo essere stato attento alla salute per la tua intera vita, è sfortuna.”

Levi mugugnò qualcosa, ammettendo di trovarsi d’accordo.

“Ma non è sfortuna. Probabilmente è solo genetica, ma la sfortuna è più facile da accettare dell’inevitabilità, mi sembra di capire.”

Annuendo, Levi alzò un immaginario bicchiere in aria, in una finta celebrazione. “Vorrei brindarci su.”

Eren copiò il gesto, facendo toccare i bicchieri invisibili in un brindisi.

“Ma, ehi,” aggiunse, “Ci tocca quello che ci arriva nella vita. E’ inutile cercare un spiegazione, no?”

“Credo,” replicò Levi. “Quindi ora mi restituirai la sigaretta?”

“Solo se ti va di rovistare nella spazzatura.” sbottò Eren.

Facendo un sorrisetto, l’uomo fece spallucce. “Potrei provarci. Non pensavo che l’avessi veramente buttata.”

“Quella merda ti ucciderà, Levi.” Eren stava giocando distrattamente con la scatola dei termometri, con un vago sorriso in volto.

“Ma se non sono neanche vivo adesso, stronzo.”

Alzando lo sguardo dalla scatola dei termometri, Eren aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse subito alla vista di qualcosa al di là della testa di Levi. I suoi occhi si erano leggermente spalancati, mentre le sue sopracciglia erano praticamente sopra la sua testa.

Levi si girò per vedere un leggerissimo bagliore provenire dal corridoio, seguito da una sottile scia di fumo. Lui ed Eren si fiondarono fuori dalla saletta delle infermiere verso il cestino dove Eren aveva lasciato la sigaretta, per trovare un contenitore che ormai sembrava ospitare un piccolo inferno, ma che stava comunque producendo una quantità a dir poco ridicola di fumo.

“Che diavolo hai fatto?” sibilò Levi. “Così finirai per mandare a fuoco il fottuto ospedale, imbecille.”

Eren si stava quasi tirando i capelli dalla testa, in panico, e completamente incapace di fare pensieri coerenti. “Oh merda, merda, merda, merda, ho fatto una cazzata, l’ospedale va a fuoco, a fuoco! A fuoco! Dannazione, l’ho fatta grossa, merda, cristo, che facciamo? Ho fatto un casino, come? Levi fa qualcosa!” sbraitò in una successione veloce.

“L’estintore!” esclamò Levi, afferrando Eren per la collottola. “Abbiamo bisogno di un fottuto estintore, fottuto moccioso frignone!”

Eren riuscì a riprendere il controllo sulla sua colorata cantilena e indicò la fine del corridoio. “Credo che ce ne sia uno nella vecchia stanza di Connie.”

I due si precipitarono in fondo al corridoio, inciampando l’uno nell’altro per la fretta. Eren arrivò per primo alla cassetta in vetro che conteneva l’estintore, ma non era sicuro di come procedere. Quando Levi lo raggiunse, con un leggero fiatone, indicò il testo sul vetro. “Rompere il vetro in caso di emergenza,” lesse, cercando di normalizzare il respiro. “Dobbiamo rompere il vetro.”

“Con cosa?” chiese Eren come un pazzo. “Non c’è niente con cui romperlo!” Dopo aver girato su sé stesso, tentando senza successo di trovare qualcosa con cui rompere il vetro, ritornò a guardare Levi. “Quindi, dovresti solo, tirare un pugno o qualcosa?”

“Un pugno?” ripeté Levi impassibile. “Mi romperei la fottuta mano.”

Eren alzò le mani, mentre si diffondeva di nuovo il panico tra loro. “Non hai nemmeno una forma corporea – sei come… sei un fottuto fantasma, Levi! Non è che tu possa farti male o altro. Dai un pugno al fottuto vetro, andrà tutto bene.”

Il ragazzo non aveva tutti i torti.

Levi si prese un momento per prendere coraggio prima di puntare il braccio all’indietro e lanciare il pugno attraverso il vetro. Ah, bene.

Faceva male da morire.

Così ritirò il braccio in uno scatto dalla jungla di vetri rotti che aveva causato, fissando la massa sanguinante che fino ad attimo prima era stata la sua mano.

Gli occhi di Eren erano talmente spalancati che sembrava gli sarebbero usciti dalle orbite da un momento all’altro. Ma Levi realizzò che probabilmente i suoi non lo erano meno.

Il lungo singhiozzo di panico che emise Eren iniziò quasi silenziosamente, per poi alzarsi di tono, come il canto di una sirena, raggiungendo la massima frequenza quando Levi gli agitò la propria mano sanguinante davanti la faccia. “Tu fottuto stronzo!” ringhiò, facendo finire goccioline di sangue sulla maglietta di Eren. “Hai detto che i fantasmi non possono farsi male.” balbettò, continuando a far volteggiare in aria la sua mano ferita.

Eren si stava strappando di nuovo i capelli, nel tentativo di non vomitare. “Che cosa ne potevo sapere? Oh, merda, oh merda, oh merda,” cantilenò, visibilmente indeciso tra l’esprimere preoccupazione per la mano di Levi e la sua incapacità di guardare effettivamente l’arto sanguinante. “Prima ho fatto andare a fuoco l’ospedale, e ora ti ho fatto staccare una mano!”

“Non mi si è staccata la mano,” rispose Levi, cercando di controllare il panico nella sua voce. Non era poi così convinto di non essersi amputato la mano. “Perché diavolo ascolto le tue cazzate in situazioni di merda come questa? Gesù Cristo dannazione, Eren, smettila di urlare. Prendi il fottuto estintore e spegni il fuoco prima che moriremo tutti in questo ospedale del cazzo.”

Eren riprese il controllo sul suo panico, e afferrò l’estintore dai rottami della cassetta in vetro, correndo via per spegnere il fuoco nel cestino dell’immondizia. Dopo essere rimasto impalato come uno stupido davanti alla cassetta rotta per un paio di momenti, controllandosi la mano sanguinante, Levi si diresse fuori per controllare che il moccioso fosse almeno capace di spegnere l'incendio. Dopo un paio di secondi, però, scattò l’allarme antincendio e lui gemette. “Fottutamente perfetto.” borbottò, camminando verso Eren.

Il fuoco, fortunatamente, era stato spento, ma il fumo aveva comunque fatto innescare l’allarme antincendio, quindi l’ospedale sarebbe stato evacuato nonostante le fiamme fossero stato già state domate. Levi ed Eren, comunque, non si preoccuparono, perché ormai sapevano che l’incendio era sotto controllo. Infatti, rimasero lì impalati, a fissare stupidamente il cestino della spazzatura incenerito, mentre dalla mano di Levi cadevano piccole gocce di sangue sul pavimento.

“L’ho fatta grossa.” annunciò Eren.

Levi annuì. “L’hai fatta grossa.” Poi si pulì la mano sulla maglietta di Eren, facendolo silenziosamente sentire in colpa.

Eren porse a Levi una nuova sigaretta e, senza dire nulla, l’uomo l’accettò.

Poi, rispose alla silenziosa domanda dell’altro. “Non credevi mica che uno che ha lavorato per anni in cantiere non abbia iniziato a fumare?”

“Tu, fottuto stronzo.” rispose Levi.

Rimasero lì in piedi per un altro po’, guardando il cestino finire di incenerirsi, fino a quando i vigili del fuoco non arrivarono a stimare i danni. A quel punto, Levi ed Eren si diressero in una delle stanze vuote del reparto sei, in modo che Levi potesse spiegare ad Eren come fasciargli la mano, mentre Eren falliva miseramente nell’impresa. Eren era un infermiere di merda. Alla fine aveva avvolto la mano di Levi come quando ci si mette le bende prima di una scazzottata, ma Levi non gli disse comunque nulla. Era sempre meglio di niente.

Dopo, i due si diressero fuori per fumare, godendosi silenziosamente tutta la luce naturale che il tramonto gli poteva concedere.

“Sei un ipocrita, Jaeger.” biascicò Levi.

Eren sorrise a trentadue denti, e lasciò cadere la cicca sull’asfalto, pestandola poi con il piede. “Sì, lo so.”

Levi fece un sorrisetto. “Quindi credi nella sfortuna? O scommetti su te stesso? Hai deciso di giocare alla roulette russa prima che fosse la vita stessa a farlo per te?”

“No, semplicemente ammazzo il tempo.”

Facendo un mugugno, Levi pestò la sua sigaretta. “Ah, quando ero giovane e stupido queste cose erano molto meglio. A quanto pare non mi mancano tanto quanto avrei detto.”

Eren fece spallucce. “Mi dispiace per la tua mano,”

Esaminando il proprio arto fasciato malamente, Levi sospirò. “Be’, perlomeno adesso non ti devi più preoccupare della possibilità che io prenda sul serio i tuoi consigli.”

“Già, perché tu prendi sempre le decisioni migliori.” borbottò Eren.

Levi sorrise alla sua mano. “Quale diavolo è il senso di essere un fantasma se puoi comunque distruggerti la fottuta mano? Vorrei proprio chiedere a Dio il motivo di questa cosa.”

“Fa male?” chiese Eren casualmente, sbriciolando distrattamente la sigaretta spenta con il piede.

Facendo una smorfia, Levi ci pensò su. “Sai cosa? Fa veramente male. Come diavolo è possibile una cosa del genere? Tutta la fisica dei fantasmi è completamente all’inverso. Non riesco a capirci nulla.”

Ridacchiando, Eren si sedette su uno dei gradini della prima rampa della scala di emergenza dell’ospedale, stendendo le gambe di fronte a sé. “Perlomeno non abbiamo bruciato l’ospedale.”

“Scusa un momento,” lo corresse Levi, sedendosi accanto al ragazzo, “Io non ho quasi bruciato un bel niente. Quello eri tu, moccioso.”

“Ne dubito,” rispose Eren, stendendosi all’indietro facendo leva sulle proprie braccia. “Sei tu quello che non avrebbe dovuto mettersi a fumare.”

“Ehi! Sei tu quello con una scorta segreta di sigarette.”

Eren gli lanciò uno sguardo fulminante. “Sì, ma sto morendo. Posso fare il diavolo che mi pare.”

“Ah, è così che funziona?” sbottò Levi.

Eren si inclinò leggermente verso Levi in modo da far toccare le loro spalle, in un gesto affettuoso che non dispiacque poi tanto all’altro. “E’ così che funziona.” confermò Eren.

“La mia mano fa male.” si lamentò Levi, allungando le dita.

“Allora non avresti dovuto dare un pugno ad un pezzo di vetro.” ghignò Eren.

Lanciando un’occhiataccia al ragazzo, Levi gli diede una gomitata amichevole – ma non forte abbastanza da annullare il contatto tra di loro. “E’ stata una tua brillante idea, cretino.”

Eren arrossì, con un sorrisetto malizioso sul volto. “Sì, ma tu sai che sono un imbecille e mi hai ascoltato comunque. Come chiami qualcuno che segue i consigli di uno stupido?”

“Uno stupido.” ammise Levi, con un sorrisino ad incurvargli le labbra.





0 mesi, 9 giorni

Levi osservò il piccolo albero di Giuda. Era sano, e aveva un aspetto fantastico.

“Te l’avevo detto che sarebbe sopravvissuto a tutti noi.” disse orgogliosamente, lanciando uno sguardo compiaciuto ad Eren.

Eren gli sorrise a trentadue denti. “E avevi ragione,” confermò. “Ma probabilmente solo perché siamo entrambi degli stupidi. Gli esseri non senzienti non si devono preoccupare di rischiare di buttare la propria vita all’aria.”

“Ma immagina quanto possa essere noioso vivere così,” rispose Levi con leggerezza. “Alla fine si è scoperto che mi diverto più ora che ho fatto un gran casino con la mia vita, che quando era tutto sotto controllo.”

“State confessando, signore, che vi siete veramente divertito in questi ultimi mesi?” lo prese in giro Eren.

Aguzzando gli occhi, Levi ritornò ad innaffiare l’albero. “Mi avvalgo della facoltà di non rispondere.”





0 mesi, 8 giorni

“Hai ancora paura di morire?” chiese Levi con fare casuale, senza sbagliare una nota del duetto jazz che stavano suonando insieme.

Eren si stava concentrando così tanto sul solo che stava tentando di migliorare, che non rispose per almeno un paio di cambi di corda. “Sì.” disse poi distrattamente.

“Ah.” fece Levi, cercando di interrompere il solo di Eren con qualcosa di impressionante.

Eren si oppose all’interruzione e smorzò il riff di Levi in maniera ancor più impressionante. Il dannato moccioso stava diventando troppo bravo. “E tu?”

Levi cercò ancora di rubare i riflettori ad Eren, stavolta riuscendoci. “Sì.”

Eren tornò a fargli da secondo, permettendo a Levi di continuare il suo solo. “Okay.”





0 mesi, 7 giorni

“Mi sveglieranno dal coma il tuo stesso giorno.”

Eren annuì dalla sua posizione al pianoforte, seduto sullo sgabello giusto al fianco di Levi. “Strana coincidenza.”

“Pensi ancora che un colpo di fortuna sia una cazzata impossibile?” Levi aveva permesso ad Eren di suonare un lento, ritmico solo jazz senza interruzioni, mentre lui si permetteva di fargli solo un sottofondo basso.

“Un colpo di fortuna non cambierà quello che succederà la settimana prossima,” disse semplicemente Eren. “O anche quali spiegazioni ci daremo dopo. Non è una causa, è una razionalizzazione.”

Levi mugugnò. “Sì, ma cosa nell’esistenza umana è veramente razionale?”

“Praticamente quasi nulla.” rise Eren.





0 mesi, 6 giorni

Levi era finalmente stato capace di suonare la sonata al chiaro di luna di Beethoven senza fare un disastro. Certa musica la dovevi proprio sentire per riuscire a suonarla. Per certe canzoni non puoi permetterti di fabbricare delle finte emozioni – devi effettivamente sentirti come se ti si stessero attorcigliando le budella intorno al cuore, e come se avessi polmoni così pieni di ansia che vorresti vomitare per riuscire a suonare qualcosa così bene. Levi avrebbe voluto non essere in grado di suonare così bene, quella sera.

“Perché stai facendo questa?” chiese Eren curiosamente, dopo che Levi aveva finito di suonare la sonata per quella che doveva essere almeno la sesta volta.

“Perché stasera ci riesco.” rispose semplicemente Levi.

“Sta venendo bene,” offrì Eren. “E’ divertente come io riesca a capire come ti senti solo quando sei davanti a quel dannato pianoforte.”

“Ti piacerebbe capirlo, ragazzo.” ridacchiò Levi, lasciando levitare le dita sopra la tastiera, non sicuro di cosa iniziare a suonare adesso.

“Hai davvero così tanta paura?” chiese Eren piano.

Levi si accigliò, prima di lanciarsi di nuovo nella sonata. “Tu no?”

“Sto cercando di non averla.”

Dopo un paio di momenti, Levi fece per aprire la bocca, ma la chiuse di nuovo.

Stupido.

Non lo dire.

Non fare lo stronzo.

“Mi potresti fare un favore?” chiese infine, con la musica melanconica a fargli da sottofondo.

Ah, vaffanculo. Tanto era comunque sempre uno stronzo.

“Forse.” rispose Eren con una certa prudenza.

“Mi potresti dire che non hai paura? Anche se ce l’hai? Potresti semplicemente dirmi che ti va bene qualsiasi cosa accada?”

Eren ci pensò per un tempo dolorosamente lungo.

Levi decise di chiarirsi. “Potresti semplicemente dirmi una bugia, ragazzo?”

Dopo un altro periodo di penoso silenzio, Eren rise leggermente, facendo svanire la tensione nell’aria. “Certo, Levi. Va tutto bene. Nessuna preoccupazione.”

“Bene. Anche per me,” mentì lui. “Ora chiudi la bocca e fammi finire di suonare la fottuta canzone.”

Eren abbassò gli occhi a tutta quell’ipocrisia, ma non fece nessuna protesta udibile.





0 mesi, 5 giorni

“Ti ricordi quando hai detto che le persone credono nella religione solo quando ne hanno bisogno? Dicesti che le persone sotto sotto sono tutte agnostiche, almeno fino a quando non succede qualcosa di abbastanza buono o cattivo che le spinge a credere che ci sia qualcuno che controlla tutto, o, piuttosto, che nulla possa essere controllato.”

Levi annuì, fissando l’antico salice piangente, che colpiva con i suoi rami cadenti la calma superficie dell’acqua ad ogni fruscio di vento. “Sì, mi sembra che è quello che ho detto.”

“Ora la cosa vale anche per te? Questa situazione è abbastanza cattiva da averti fatto fare un’opinione sull’intera faccenda?” Le mani di Eren erano nascoste nelle sue tasche, e i suoi occhi puntati su Levi in un’espressione di genuina curiosità.

“Credo di no,” disse Levi onestamente. “E tu?”

“Credo di no,” ripeté Eren. “E’ peggio credere in qualcosa di sbagliato, o non credere in nulla?”

Era una bella domanda. Levi non rispose subito, ma continuò ad osservare i rami candenti del vecchio salice accarezzare il laghetto a tratti, creando delle piccole increspature che danzavano sulla superficie dell’acqua, ma senza interrompere la tranquillità serale. “Credere non è qualcosa che può essere giudicata, secondo me,” rispose Levi prudentemente. “Nessuno sa cosa ti passa per la testa. Credo che dipenda tutto da cosa fai. Puoi essere giudicato solo sulle tue azioni reali.”

“Quindi devo credere in quello che diavolo mi pare, ma comportarmi nel modo che mi farà sentire più soddisfatto, alla fine?” Ora anche Eren si era messo a guardare il salice piangente.

“Non mi sembra così male.” confermò Levi, afferrando un sassolino e facendolo rimbalzare sulla superficie di quello che prima era uno specchio d’acqua calmo.

Eren annuì convinto. “Mi piace.” Poi prese anche lui un sassolino e si unì a Levi sulla riva del laghetto dove fece rimbalzare la pietra levigata con abilità. “In questi casi, quello in cui credo io sono solo affari miei. Neanche Dio o Budda o come diavolo lo si voglia chiamare mi può giudicare.”

“Puoi dirlo forte.” concordò Levi.





0 mesi, 4 giorni

“Cosa farai se ti svegli?”

Eren toccò la guancia del suo corpo reale, cercando onestamente di non sembrare scocciato. “Mangiare. Mangerò qualsiasi cosa.”

Levi sorrise, perché tanto Eren non poteva vederlo dalla sua posizione. “Nessuno ti ha mai detto che sei proprio poetico?”

“Vai a quel paese,” rispose Eren. “Il cibo dava praticamente un buon cinquanta percento di senso alla mia vita.”

“Come ti pare, ragazzo. Io mi farò una bel bicchiere di whiskey e una lunga dormita.”

Eren si girò per guardare Levi in faccia. “Mi unirò a te se mi sveglio.” disse con calore.

“Oh, wow,” rise Levi. “Non ti devo nemmeno far ubriacare prima di chiederti di venire a letto con me. Sono ancora meglio di quel che credessi.”

Aguzzando gli occhi, Eren gli lanciò uno sguardo di rimprovero. “Continua a sognare, vecchio. Ci sono per una dormita, non per del sesso celebrativo.”

“Vedremo,” lo prese in giro Levi. “E sentiamo, ora chi è il vecchio?”

Eren alzò gli occhi al cielo. “Sei pessimo.”





0 mesi, 3 giorni

“Vogliamo fare una scommessa?”

“Sulla mia vita?” chiese Eren dubbiosamente. “Vuoi puntare qualcosa sulla mia vita.”

Levi annuì.

“Ah, e va bene.” sospirò Eren. “Su cosa scommettiamo?”

“Scommetto il mio pianoforte che non ti sveglierai. Se ti svegli, è tutto tuo.” disse Levi seriosamente.

“E se non mi sveglio?” chiese Eren sospettosamente.

“Niente, ti sto solo dando un incentivo per svegliarti. Mostrami che non è tutta fortuna, che ne dici?” Levi guardò fisso negli occhi Eren, in una sfida silenziosa.

“Sei solo un vecchio.” disse Eren, stringendo la mano che Levi gli aveva offerto in una presa ferrea.





0 mesi, 2 giorni

Levi ed Eren era seduti schiena contro schiena, appoggiati l’uno all’altro mentre cercavano di mettere a posto delle vecchie bollette di Levi, tentando di dare un senso a tutta quella roba nel caso in cui il risveglio dell’uomo non fosse andato come previsto. Era un lavoro monotono, ma Eren lo stava aiutando senza lamentarsi.

“Quindi non abbiamo nessuna ultima dichiarazione sdolcinata da farci, vero?” chiese Levi con nonchalance, sfogliando alcune ricevute.

Eren rise. “No, io sono a posto. Le parole non fanno altro che screditare tutto. Ma ti posso chiamare stronzo un altro paio di volte, se proprio ti senti nostalgico.” aggiunse.

“Ah, ti prego fallo!” disse Levi con sarcasmo.

“Va bene allora: sei uno stronzo. Anche se, per qualche strana ragione, sono stranamente…” Poi si fermò. “Non riesco a trovare il termine giusto,” spiegò. “Qualcosa di non terribilmente cliché. Aiutami.”

Ci pensarono un momento entrambi, smettendo di rovistare tra i documenti. “Stanco di me?” offrì Levi scherzosamente.

“No, no, qualcosa di più positivo.” rispose Eren.

“Follemente innamorato di me?” ridacchiò Levi.

“Ora ti stai lusingando fin troppo,” disse Eren, mentre una risata faceva tradire la sua frecciatina. Dopo un altro paio di momenti di silenzio, Eren fece schioccare le dita. “Ah! Infatuato. Sono infatuato di te.”

Levi annuì. “Non male, non credevo avessi questo tipo di vocabolario.”

“Sono infatuato di te, stronzo.” rise Eren, tornando a frugare tra i documenti.

“Mmh,” borbottò Levi. “I gusti non si giudicano.”

“Vero, no?”





0 mesi, 1 giorno

“Anche io.” disse Levi all’improvviso.

Eren alzò lo sguardo dal pianoforte. “Eh?”

“Ho detto che anche io sono infatuato di te, moccioso. Non farmelo ripetere.”

Eren sorrise affettuosamente mentre fissava le sue dita che tentavano di suonare un pezzo di Bach. “Lo so.”

Levi aguzzò gli occhi, osservando la nuca di Eren. “Come lo sai?”

“Perché suoniamo il piano, e litighiamo, e ci arrabbiamo l’uno con l’altro, e facciamo un sacco di cazzate insieme, e riusciamo a non dirci una sola parola per ora a volte, ma alla fine è la stessa cosa che farsi una bella chiacchierata. Mi sembra abbastanza ovvio.”

“Sì,” disse Levi pensosamente. “Forse hai ragione.”




Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Scusate se sono sempre un po' in ritardo, ma ero troppo in ansia per gli ultimi due capitoli (che sono uno lunghissimo e uno cortissimo) e diciamo che alla fine ho deciso di postare tutti e tre a intervalli regolari quindi mi sono presa due-tre giorni in più per iniziare a tradurre il prossimo xD (questo discorso avrà senso solo dopo che avrete letto il prossimo capitolo ma vabbè...). Siamo sempre più vicini alla fine, ma i lettori non stanno facendo che aumentare... grazie davvero a tutti quelli che ci supportano con i commenti o inserendo la storia tra le preferite/seguite/da ricordare. Al prossimo capitolo!
SULLA TRADUZIONE: Big Bird è uno dei pupazzi di Sesami street... e, come al solito, i miei errori di battitura sono sempre in agguato xD


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Capitolo 27
*** Capitolo 27 - Buio ***


The 6th ward
CAPITOLO 27: Buio

0 mesi, 0 giorni

Erano lì impalati, in ospedale, appena fuori la camera di Eren. Ovviamente avevano finito per dover essere svegliati praticamente alla stessa ora. Di tutte le ore disponibili in un giorno, si doveva decidere delle loro vite quasi nello stesso dannato momento. La vita è veramente strana, certe volte.

Osservandosi l’un l’altro, rimasero in piedi in silenzio.

“Come mai nei film sanno sempre cosa dire prima che succeda una catastrofe?” rise infine Eren.

Levi fece spallucce. “Ah, non ci pensare. Neanche io so cosa dire.” Era rimasto in piedi al suo posto, praticamente specchiando la posizione di Eren, con le mani infilate in tasca e la testa leggermente piegata al lato. “Quindi, ehm, buona fortuna, okay?”

“Sì, grazie, okay,” lo prese in giro Eren. “Anche a te, vecchio.”

“Vuoi che rimanga qui? Tecnicamente non c’è bisogno che sia nella mia stanza quando mi sveglieranno. Posso rimanere nei dintorni per quanto possibile, se vuoi.”

Eren scosse la testa. “Nah, a questo punto dobbiamo preoccuparci ognuno di sé stesso. E’ così che vanno le cose: non vale davvero la pena di fare scemenze come pensare che qualcuno sia più importante di noi stessi. Niente sacrifici – vediamo solo di sopravvivere. Vai a prenderti cura di te stesso. Per me, me la vedrò io.”

“Affermativo,” concordò Levi. “Ricordati solo che se vedi una luce alla fine del tunnel, devi cambiare direzione e iniziare a correre come un pazzo.”

Sorridendo a trentadue denti, Eren allungò una mano verso Levi. Questi la strinse con forza, mentre dava un paio di pacche sulle spalle di Eren con l’altra. “Capito,” ridacchiò Eren. “Devo stare lontano dalla luce.”

“Va bene, ragazzo,” disse Levi, chiudendo il discorso e lasciando la mano di Eren. “Buon viaggio.”

“Anche a te, Levi.” Eren lo guardò per un ultima volta, e gli lanciò un sorrisino prima di girarsi ed entrare nella stanza dove Mikasa, Erwin ed Armin erano riuniti intorno al suo letto.

“Ci vediamo.” rispose Levi con un filo di voce, guardando Eren di schiena scomparire nella stanza.

Levi non aveva mai immaginato cosa sarebbe successo una volta liberatosi – finalmente – anche dell’ultimo dei mocciosi, ma se l’avesse fatto, avrebbe finito con il pensare a qualcosa di simile a quello che era effettivamente avvenuto. Semplicemente non c’è un buon metodo per salutare qualcuno. Passi l’intera vita a pensare che la fine di qualsiasi cosa debba essere grandiosa e importante, con fuochi d’artificio immaginari e qualche grande rivelazione sul senso dell’universo, ma non è mai così. Ogni volta che arrivi alla fine è insoddisfacente, perché non importa quante volte ti sei ripetuto di non aspettarti i fuochi di artificio, le grandi scene e le rivelazioni, non puoi fare a meno di sperare che ci saranno lo stesso. Anche se non ci saranno. Tutto sommato, la fine è sempre la parte meno interessante della tua vita.

Magari alle persone piace pensare di meritarsi i fuochi d’artificio.

No?

Come dire: ‘congratulazioni per essere arrivato al traguardo, festeggiamo!’.

No, invece.

Niente del genere.

C’era solo lui a camminare nel corridoio deserto del reparto sei, il silenzio e la totale non-esistenza di tutto che lo schiacciavano come da ogni direzione. Non era neanche tanto sicuro di come si sentiva. Era solo tutto dannatamente tranquillo.

Si sentiva triste?

Probabilmente no. Non era quello. Si sentiva solo un po’ vuoto.

Ogni fine è vuota. Solo questo.

Ma questa non era la sua fine. Lo sapeva. Prima o poi ci sarebbe stato qualche grandioso nulla ad attenderlo, ma quel giorno non era oggi. E’ facile accollarsi la morte degli altri, prenderla sul personale o sentirti come se fosse la tua di fine, ma devi comunque rimanere oggettivo.

Infatti, Levi si trovò a pensare alla bottiglia quasi piena di whiskey che lo aspettava nel suo caldo e accogliente appartamento, e del lungo sonno che si sarebbe fatto una volta a casa. Questa era la cosa giusta da fare adesso. Ne aveva avuto abbastanza di tutto quel nulla, almeno per il resto della sua vita.

Sorrise leggermente mentre si avvicinava alla sua stanza, occupata da uno dei colleghi di Erwin – il dottor Morgan –, Hanji e persino il direttore Pixis in persona. Era un gruppo modesto, ma Levi non poteva fare a meno di apprezzare che c’era comunque qualcuno. Sembravano tutti ottimisti, mentre chiacchieravano cordialmente sul fatto che quel giorno c’era bel tempo e che Levi avrebbe iniziato a tenere le sue lezioni in un mesetto circa, e soprattutto su quanto sarebbe stato incazzato una volta sveglio.

Be’, perlomeno lo conoscevano bene.

“Va bene, dottore, è arrivato il momento di togliere dal freezer questo imbecille. Scongeliamolo.” disse entusiasticamente Hanji, strofinandosi i palmi delle mani. “E vediamo quanto fortunato è questo bastardo.”

“Non molto.” borbottò Levi tra sé e sé.

Il dottor Morgan era un uomo intimidatorio, con gli occhi talmente infossati nella testa, che sembravano quasi una lucetta in fondo alla caverna della sua orbita. L’uomo fece un mezzo mugugno, concordando con Hanji, e inserì l’ago di una siringa piena di un liquido trasparente in una delle prese della centralina di Levi. Pixis stava osservando il tutto con modesto interesse, e il solito sorrisino compiaciuto sul volto, a cui Levi si era ormai abituato.

Levi non poté fare a meno di sentirsi almeno un po’ eccitato all’idea di poter tornare a vivere. E prese quella sensazione come un buon segno. La sua vita non era poi così malaccio, ora che poteva tornare a guardare avanti. Lentamente, sentì i suoi arti come venire riempiti di calore e la sua vista iniziò ad offuscarsi non permettendogli più di vedere la stanza davanti a lui.

Tutto il processo è difficile da raccontare come una cosa unica. Fu come se fosse stato cancellato dalla sua memoria nello stesso tempo in cui stava accadendo. Un po’ come è difficile indicare l’esatto momento in cui passi dall’essere sveglio all’essere addormentato. Levi non era molto sicuro di quando era stato risucchiato nuovamente nel proprio corpo, ma si ricordava qualcosa del momento prima e qualcosa di quello dopo. Oltre a quello, però, era praticamente tutto un ricordo sfocato.





“Ehi! Imbecille! E’ ora di alzarsi!”

Cristo santo, chiudi quella boccaccia.

“Svegliati stronzo!”

Hanji.

Fottutamente ovvio.

“Vattene via deficiente.” gemette Levi, vagamente cosciente del fatto che si stava mettendo le mani in faccia. Hanji rise con un po’ più di sollievo di quanto si sarebbe aspettato lui.

“Be’, chi ci avrebbe mai creduto. Il figliol prodigo è tornato. Bentornato nel mondo dei vivi, Levi. Come ti senti?”

“Vai a quel paese,” borbottò Levi, cercando alla cieca il lenzuolo fermo all’altezza della sua vita per metterselo in faccia. “Mi sento come se mi avessero infilato un autocompattatore in testa.”

“Non hai avuto questa fortuna, purtroppo.”

Levi riusciva a percepire il sorriso sulla faccia di Hanji anche senza vederlo.

“Come ti senti?” Questo doveva essere Pixis.

“Bene, signore,” disse Levi controvoglia, ancora riluttante ad aprire gli occhi. “Mai stato meglio.”

“Levi, devi seguire la luce con gli occhi,” istruì Morgan, sorprendentemente vicino all’orecchio di Levi. “E’ fastidioso, ma devi farlo.”

Questo sì che era strano.

“I miei occhi sono aperti?” chiese Levi impassibile.

La stanza fu assalita da un silenzio teso. Levi sbatté gli occhi un paio di volte.

Be’, merda.

Quel silenzio era assordante, e improvvisamente tutto quello che Levi desiderava era sentire di nuovo qualcuno parlare – dire qualsiasi cosa che gli permettesse di distrarsi dal tremendo buio che premeva contro il suo cranio. “Terra chiama Major Tom,” disse Levi nervosamente, girando la testa dove sospettava tutti lo stessero fissando con le bocche spalancate. “Mi sentite?”

“Houston,” disse Hanji alla fine. “Credo che abbiamo un problema.”

Levi sospirò, cercando di fermare la paura che gli stava risalendo dallo stomaco alla gola, minacciando di strozzarlo. “Perlomeno,” disse con prudenza, “Adesso avrò diritto al parcheggio per handicappati.”

Hanji fu l’unica abbastanza coraggiosa da ridere, e Levi non le fu mai grato come in quel momento. Il buio sembrava un po’ meno buio.





“Hai saputo di Eren?” chiese Erwin curiosamente, mentre toccava alcuni dei legamenti del corpo di Levi, per accertarsi dei danni al suo sistema nervoso. A parte il torpore permanente alla sua gamba destra, i suoi riflessi andavano bene.

Levi alzò una mano per fermarlo. “Ho avuto abbastanza notizie per oggi, Erwin,” disse stancamente. “Una cosa alla volta penso sia meglio.”

Erwin non disse nulla e Levi poté solo provare ad immaginare l’espressione sul suo volto. Non poteva avere nessun segnale visivo a tradire quello che l'uomo stava cercando di dirgli.

Sospirando, Levi allungò tentativamente la mano nella direzione in cui pensava ci fosse la sua testa, trovandola esattamente dove l’aveva lasciata. Era sorprendente quanto fosse difficile trovare le parti del tuo stesso corpo senza la vista. Non aveva mai notato una cosa del genere prima. Una volta scovata la sua testa, si massaggiò stancamente lo scalpo. “Sono vivo.” disse fermamente.

Erwin si lasciò scappare una risatina. “Sei vivo,” confermò. Poi, dopo un paio di minuti, si schiarì la voce. “Ah, il tuo albero è in fiore,” disse con un certo disagio. “Pensavo volessi saperlo.”

Levi non riuscì a fermare il sorriso che gli stirò i lineamenti. “E’ bello?”

Sapeva già la risposta. Anche se non l’aveva mai visto in fiore, e non l’avrebbe mai fatto, semplicemente sapeva già che era bello. Dopo tutto, come avrebbe potuto essere possibile che qualcosa a cui tenevano così tanto, così tante persone, non fosse bello? Era impossibile anche solo immaginare che una cosa così amata potesse non essere assolutamente mozzafiato.

“E’ bello,” confermò Erwin. “E’ veramente molto bello.”




Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Questo sarebbe 'ufficialmente' l'ultimo capitolo, ma, vi tranquilizzo divendovi che ci aspetta un lunghiiiiissimo epilogo che spiegherà tutte le domande che vi starete sicuramente facendo, e che ho già finito di tradurre, per cui spero di postarlo nel giro di una decina di giorni massimo (ma anche meno perchè, sebbene sia veramente impegnata con lo studio, spero di riuscire a fare l'editing di sera in sera se non crollo prima). Detto ciò, vorrei ringraziare di nuovo tutte le persone che stanno seguendo questa fic e in maniera particolare chi l'ha inserita tra i preferiti/seguiti/da ricordare. Ancora di più, ringrazio chi ha pensato di lasciare un commento, che è sempre super apprezzato. E, a proposito di commenti, non vedo l'ora di leggere le vostre reazioni a questo finale che lascia sulle spine. Tenete duro che manca pochissimo alla fine vera e propria! Al prossimo capitolo!
SULLA TRADUZIONE: Quando Levi chiede 'terra chiama Major Tom' in pratica fa una citazione intraducibile della canzone di David Bowie 'Space Oddity'... credo che molti di voi avranno sentito cantare 'Ground control to major Tom'. Nient'altro a parte i soliti possibili errori di battitura!


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Capitolo 28
*** Capitolo 28 - Solo gli stronzi non provvedono ad un epilogo ***


The 6th ward
CAPITOLO 28: Solo gli stronzi non provvedono ad un epilogo

1 anno dopo

Non era stato facile, questo era certo.

Per la prima settimana, Eren era abbastanza sicuro che si sarebbe sentito meno morto se fosse stato senza pulsazioni e sepolto un paio di metri sotto terra.

Ma non c’era, a prescindere da se fosse una cosa buona o no.

Svegliarsi era stato come venire sepolto tra le sabbie mobili, per poi essere trascinato con un cappio alla gola, su e su, per centinaia di metri di melma, che lo tenevano incastrato con una pressione distruttiva. Quando finalmente si era svegliato, però, le cose non erano migliorate molto. Più che confuso, si era sentito perso. Inconsciamente, sapeva che era passato del tempo da quando era arrivato in cantiere più di sei mesi prima – ma non sapeva esattamente quanto. Era stato come svegliarsi da uno di quei rari sogni dove all’inizio non sei esattamente sicuro del motivo per cui ti trovi a letto, perché per te il sogno era stato più reale della realtà che ti stava aspettando una volta tornato tra le lenzuola. Solo che questa volta era stato venti volte peggio.

I dottori avevano cercato di spiegargli che era stato in coma per i passati sei mesi, dopo essersi procurato una ferita grave alla testa in cantiere, e gli sembravano tutte scemenze, eccetto per il fatto che stranamente si sentiva come se fosse effettivamente stato steso in un letto per sei mesi. Ma quella era solo la sensazione fisica – perché, emozionalmente, si sentiva come se fosse stato preoccupato per qualcosa che non riguardava direttamente la sua vita prima dell’incidente. Ma quello era apparentemente impossibile.

Ma non si trattava di uno scherzo. Eren aveva davvero passato sei mesi in coma, e i dottori, ovviamente, avevano ragione. Eren diede la colpa al suo cervello. La sua mente stava facendo un sacco di cose stupide infatti, e quindi, lui, semplicemente, attribuì la cosa alla ferita.

Si arrabbiava molto. La riabilitazione e la terapia fisica erano esasperanti a causa dei processi impediti dal suo cervello. All’inizio non riusciva neanche a ricordare i suoi pensieri per più di un secondo o due, e aveva problemi a formare una sequenza di idee in generale. Sapeva cosa avrebbe voluto dire, ma aveva dimenticato tutto prima di poterlo fare o anche mentre lo stava dicendo. E questa era la cosa che lo faceva arrabbiare.

Si dimenticava davvero un sacco di cose. I dottori gli avevano dovuto spiegare certe cose dozzine di volte durante la prima settimana, perché non gli rimaneva impresso nulla. Pensavano che avesse qualche sorta di leggera deficienza della memoria, ma a breve termine. Infatti, fortunatamente, le cose migliorarono. Si dimenticava comunque un sacco di cose, e la cosa continuava a farlo infuriare, ma stava sicuramente andando meglio.

Tutto si era evoluto con dannata lentezza. Prima dell’incidente, Eren era un tipo impaziente e incapace di fare le cose con calma, ma dopo fu ancora peggio. Sapeva che Mikasa ed Armin stavano cercando di aiutarlo quando gli parlavano lentamente o gli davano fin troppo tempo per fare piccole cose, ma la cosa lo faceva arrabbiare lo stesso. E, ancor di più, lo faceva arrabbiare il fatto di essere arrabbiato, perché loro stavano solo cercando di essere premurosi.

Ma la cosa che lo faceva arrabbiare più di tutte, era che aveva veramente bisogno di quel tempo in più e dei discorsi lenti che gli riservavano loro, ma ammettere di avere bisogno di aiuto non era qualcosa che Eren era bravo a fare – soprattutto quando doveva ammetterlo a sé stesso. Sapeva tutto ciò, ma cambiare il modo in cui sei fatto non è mai facile quanto si possa pensare.

Nonostante tutto, Eren sentiva di stare lentamente tornando a vivere una routine quasi normale. L’ospedale aveva pagato tutte le sue tasse a causa di alcune assurdità riguardo diagnosi errate e negligenze mediche. Armin si era occupato di tutto, mostrando un sorprendente lato combattivo quando aveva minacciato l’ospedale di portarli in tribunale per aver dichiarato Eren cerebralmente morto quando non lo era.

Eren non aveva proprio capito tutto, ma l’unica cosa che riuscì a pensare fu che era l’ospedale ad aver ragione. Lui era un po’ morto cerebralmente, e probabilmente avrebbe continuato ad esserlo. Ma, ehi, avere le ricevute mediche pagate non era qualcosa che avrebbe mai rifiutato, e, comunque, l’ospedale aveva accettato senza controbattere. Il dottore di Eren, Smith, aveva sobbarcato la spesa sulla sua assicurazione per negligenza medica ancor prima che l’ospedale fosse riuscito a portare Armin in tribunale, prendendosi la colpa prima che potesse iniziare un processo, e la cosa sembrò soddisfare tutti. Persino il dottor Smith sembrava soddisfatto – aveva addirittura insistito.

Così Eren si recava a fare le sue terapie fisiche e cognitive gratis, cercando contemporaneamente di fare del suo meglio per non perdere le staffe e raggiungere qualche traguardo, non importa quanto modesto. Era un processo lento, ma perlomeno era un passo avanti.

Poiché il suo lavoro non era particolarmente impegnativo dal punto di vista intellettuale, gli fu permesso di tornare a lavorare dopo sei mesi di terapia fisica. Stava continuando con quella cognitiva, ma riuscì ad organizzare i suoi impegni con l’ospedale in modo che potesse sia lavorare che continuare il suo percorso di guarigione.

Tutto sembrava stranamente normale.

Davvero, c’erano state solo due cose veramente fuori dall’ordinario.

La prima era stata l’arrivo nella sua stanza di un uomo basso e adirato, vestito con il pigiama dell’ospedale, che aveva posato un grosso sasso, sospettosamente pulito, sul suo comodino. Si erano fissati per un paio di minuti, prima che l’uomo sembrò notare la confusione negli occhi di Eren. Allora, senza molte spiegazioni, aveva allungato una mano verso Eren, presentandosi come Levi. Eren aveva stretto la sua mano, cercando di presentarsi a sua volta, ma Levi lo aveva interrotto dicendogli che già lo conosceva. A quanto pareva, Levi era stato l’infermiere di Eren mentre lui era in coma. Eren non considerava l’atto di mettere per iscritto una serie di numeri per un corpo inconscio come ‘conoscere’ qualcuno, ma non gli andava di essere maleducato. E poi, stranamente, quell’uomo lo intimidiva, quindi decise che era meglio tenere la bocca chiusa. La cosa più strana era stata che gli era sembrato che Levi non fosse mai stato in grado di vederlo veramente.

Quell’intera esperienza era stata solo un altro evento confuso nella ripresa di Eren, a cui lui, però, cercò di non dare troppa importanza.

Il sasso, comunque, era stranamente confortante. Eren lo teneva incastrato nella sedia passeggero della sua auto – almeno da quando gli era stato finalmente permesso di tornare a guidare – e, sebbene la cosa fosse nata come uno scherzo, non era più sicuro di riuscire a togliere quel sasso amico dalla macchina. Alla fine diede di nuovo la colpa alla ferita alla testa. Era quasi sicuro che anche Armin e Mikasa avevano pensato lo stesso, ma comunque non ebbero mai da ridire sulla cosa.

Levi non tornò più nella stanza di Eren, dopo quella volta. Una parte di Eren voleva trovare l’uomo e ringrazialo del sasso, ma non lo incontrò più.

Il secondo fatto strano era stata la consegna, decisamente improvvisa, di un assolutamente magnifico pianoforte giusto al suo appartamento. Eren era certo che ci doveva essere stato qualche errore, ma l’uomo delle consegne aveva insistito sul fatto che gli era stato ordinato di portare il piano a quell’indirizzo, trovare un certo ‘Eren Jaeger’ o (e qui faticò a rimanere serio) ‘stronzetto’ a cui far firmare, e lasciargli il piano senza fargli pagare nulla. Eren non era sicuro se sentirsi confuso, grato od offeso. Alla fine, optò per uno strano miscuglio tra le tre cose.

La parte frustrante fu che l’uomo delle consegne era stato chiaro sul fatto che il donatore aveva chiesto di rimanere anonimo. Eren aveva cercato di costringerlo a rivelargli l’identità della persona misteriosa, ma, a quanto sembrava, il tizio era decisamente più intimidito da chi l’aveva ingaggiato che da Eren. L’unico indizio che era arrivato con il piano era un bigliettino incastrato tra due dei lustri tasti di avorio:


Fai pratica che suoni da schifo quando non ti eserciti. Congratulazioni per aver vinto la scommessa. Non mandare tutto all’aria.

-L



Che persona fastidiosamente gentile.

Eren decise di essere solo vagamente arrabbiato, anche perché quella era praticamente diventata la sua reazione standard in quei giorni. Però, c’era qualcosa che lo tormentava da un angolino della sua memoria quando ripensava a quella frase scarabocchiata, e così si trovò a cercare di ricordare cosa si era perso nei meandri della sua memoria. Però, come la maggior parte delle cose, sembrava cancellarsi dal suo cervello prima che lui riuscisse finalmente a processarla.

Il piano, comunque, era una vera bellezza. Eren avrebbe veramente voluto suonarlo, ma ogni volta che tornava a casa da lavoro, si sedeva davanti allo strumento, guardava le sue mani sporche, poi osservava il legno lucidato e la tastiera brillante, e decideva di fermarsi. Non gli sembrava giusto. Mikasa aveva cercato di convincerlo a suonare, insistendo che lui adorava suonare il piano, ma Eren non aveva una buona risposta da darle. Semplicemente non si sentiva di farlo.

Una sera, però, Armin trascinò una grande scatola di spartiti dal loro piccolo stanzino, e iniziò a sfogliarne alcuni, cercando di trovare qualcosa che Eren avrebbe potuto aver voglia di suonare. Armin era sempre stato bravo a fare deduzioni, e dopo aver tirato fuori quasi tutti gli spartiti logori, aveva deciso che la sonata al chiaro di luna di Beethoven fosse il suo pezzo preferito. Lo spartito era così sbiadito dopo essere stato usato mille volte, scrivendoci e cancellandoci note e trasportandolo qua e là, che a stento le pagine si tenevano ancora insieme.

Fissando il vecchio libretto, Eren sentì qualcosa scattare nella sua testa, come dei pensieri che stavano cercando in tutti i modi di sfuggirgli. Così tentò difficoltosamente di rincorrerli, combattendo con la sua memoria, fino a quando non gli si illuminò una lampadina in testa. Lui sapeva suonare questa canzone. Non aveva neanche bisogno dello spartito. Era persino bravo.

No?

Non era mai stato malaccio a suonare quel pezzo prima dell’incidente.

Ma ora era molto più bravo, per qualche strano motivo.

Stupido cervello.

Così, cercò di non lasciarsi sconfortare dalla cosa, e si sedette al pianoforte per la centesima volta nell’ultimo mese. Stavolta, però, avrebbe suonato. Dopo aver tamburellato tentativamente sulla tastiera un paio di volte, Eren iniziò una versione insicura del pezzo, che però divenne sempre meno incerta e sempre più precisa.

E, in effetti, era praticamente quasi perfetta, come se l’avesse suonata migliaia di volte. Perché l’aveva suonata così tanto? C’era una sorta di buco nero di ansia e ricordi, bloccati nel suo cervello confuso, che faceva pressione sul suo cranio, ed Eren si dovette fermare improvvisamente a metà sonata. Si era fatto venire un mal di testa mostruoso a causa del tentativo di fare breccia nel muro della sua memoria, e fu costretto ad andare a letto presto. Mikasa sembrava preoccupata, ma Armin gli era sembrato solo curioso.

Steso nel letto, Eren sapeva di aver dimenticato qualcosa. La sua era lo stesso tipo di ansia che si ha quando ci si potrebbe dimenticare di consegnare qualcosa di importante, il compleanno di un amico, o di quando si rischia di lasciare qualcosa di prezioso in un luogo pubblico. Ma questa sensazione era ancora peggio.

Aveva dimenticato qualcosa di fondamentale.





La sensazione non si ripresentò il mattino dopo. Eren sperava quasi di poter tornare ai confini del muro della sua memoria anche quel giorno, in modo da avere un’altra possibilità di tentare di scavalcarlo, ma era tutto andato. Non riusciva neanche più a trovare il muro.

“Sei stato bravo a suonare, ieri.” disse Armin garbatamente, seduto davanti alla sua colazione e rompendo il silenzio di quel pasto condiviso.

Eren annuì pensierosamente. “Sì,” concordò. Perché gli veniva così bene?

Armin sorrise. “Dovresti suonare più spesso. Mikasa aveva ragione: probabilmente ti fa bene.”

Eren aggrottò le sopracciglia. Gli faceva bene. Lo rendeva felice. Quel piano in particolare lo rendeva felice, perché…? Non era un pianoforte qualsiasi. C’era qualcos’altro. C’era qualcosa su quel piano in particolare. “Credo di si.” riuscì infine a rispondere.

Annuendo con fare incoraggiante, Armin si alzò dal tavolo per lavare il suo piatto. Eren rimase al suo posto, guardando male le sue uova. “Oggi non vado a lavoro.” dichiarò.

Mikasa apparse dal soggiorno, sembrando leggermente preoccupata. “Ti senti bene?”

Eren scosse la testa. “Sto cercando di ricordare qualcosa,” disse vagamente. Sapeva che suonava stupido, ma era il modo migliore in cui poteva spiegarsi. “Non oggi,” chiarì. “Il lavoro, intendo. Non oggi.”

Dio, certo che si era proprio bevuto il cervello.

Ma né Mikasa né Armin dissero nulla in proposito.

Entrambi uscirono nel giro di un’ora – Armin per andare a lavoro, e Mikasa per seguire le sue lezioni – ed Eren fu finalmente lasciato solo. Si sedette davanti al pianoforte con incertezza per iniziare a fissare la tastiera. Senza suonare una sola nota, posò le dita sui tasti, sperando di riuscire a dare un input a qualche memoria salvabile.

Doveva esserci qualcuno seduto al suo fianco?

Forse.

Doveva esercitarsi di più?

Sicuramente.

Jazz.

Musica jazz?

Ma lui non suonava musica jazz. Chi era che suonava jazz?

Le sue mani sembravano suggerire tutt’altro. Per una qualche ragione, Eren iniziò a suonare una semplice, ciclica, progressione. Ma c’era sempre qualcosa che sembrava mancare. E lui era sempre più che sicuro che fosse quel qualcuno che doveva essere seduto al suo fianco.

Mancava l’assolo.

Eren smise di suonare, fissando con odio le sue mani. Poi, facendo un sospiro di frustrazione, prese a colpire senza convinzione i tasti, producendo una corda rumorosa e irritantemente stonata, che echeggiò per tutto l’appartamento.

Improvvisamente l’immagine di un appartamento sconosciuto si materializzò nella sua mente. Il pianoforte sembrava più al suo posto in quel ricordo. C’era qualcuno seduto al suo fianco, e lui stava suonando della musica jazz. Ma lui mica suonava musica jazz?

Secondo quel ricordo si.

Ah, al diavolo, tanto era comunque pazzo. Meglio non sforzarsi troppo. Eren si lanciò nella sonata al chiaro di luna perché era confortante e non gli richiedeva di pensare troppo. Non aveva un granché di intelletto da sprecare di quei tempi. E quella canzone familiare lo faceva sentire a suo agio.





Quei ricordi strani iniziarono a diventare sempre più frequenti per Eren. E in ognuno di loro si sentiva come se stesse riconcorrendo una verità che non era ancora riuscito a raggiungere. Avrebbe voluto essere intelligente come Armin in modo da riuscire a capire che cosa diavolo si era dimenticato. Armin ci sarebbe riuscito sicuramente.

Ma poi, ci fu una prima grande svolta quando, un giorno, decise di abbandonare la sua solita routine dopo la terapia cognitiva, optando per andare a fare una passeggiata nel parco vicino all’ospedale, nel tentativo di liberarsi della fatica mentale che gli intensivi esercizi per il cervello sembravano causargli. Il parco era bello, con un piccolo specchio d’acqua ombreggiato da un grande, antico salice piangente. E fu proprio mentre ammirava l’albero che scorse un piccolo edificio residenziale nelle vicinanze. Eren non era molto sicuro di quasi niente ultimamente, ma era più che certo di essere già stato in quel condominio.

E c’era stato molte volte.

Senza pensarci un granché, si diresse verso il familiare edificio residenziale. Non sapeva cosa avrebbe fatto una volta arrivato lì, ma poteva solo sperare che qualcosa di quell’edificio gli avrebbe fatto venire in mente abbastanza indizi da metterlo sulla giusta via.

E, in quel caso, aveva avuto quasi ragione. Una volta dentro il palazzo, i suoi piedi lo portarono a salire la rampa di scale, e poi verso una delle porte in fondo al corridoio. Si dovette letteralmente fermare dall’entrare e basta. Una parte di lui pensava fosse la cosa naturale da fare, ma si dovette ricordare che non sarebbe stato molto normale entrare improvvisamente a casa di qualcun altro.

Doveva bussare?

Al diavolo, bussò prima di poterci ripensare.

“Non mi interessa.” urlò qualcuno, con la voce attutita dalla porta.

Eren sbatté le palpebre. “Interessa cosa?”

Nessuna risposta.

Ah. Il residente pensava che lui fosse un venditore porta a porta.

Stupido.

Eren scosse la testa. E ora?

“Qualsiasi cosa. Sono davvero fottutamente felice. Non voglio nulla, e la mia vita è meravigliosamente completa. Ora vattene.”

“Ah.” borbottò Eren debolmente. Ma non diede segno di volersi muovere.

Dopo un paio di momenti, sentì qualcuno zoppicare per la casa. Il residente doveva essersi scontrato con qualcosa, però, perché imprecò sonoramente dopo aver causato un forte rumore. Con grande sorpresa di Eren, la porta fu aperta improvvisamente, mostrando un uomo che sembrava estremamente scontento.

Aspetta un attimo.

Questo tizio era il suo infermiere nel reparto sei. L’uomo che gli aveva regalato un sasso senza alcuna spiegazione.

Eren rimase in silenzio.

“Allora?” chiese Levi seccamente.

Una seconda volta, Eren non aprì bocca. Levi indossava un completo elegante, con un paio di pantaloni e una camicia neri, e un papillon di seta bianca ad accentuare il tutto. I suoi capelli erano pettinati all’indietro e i suoi occhi nascosti dietro un paio di strani occhiali da sole con le lenti perfettamente circolari.

Levi fissò il petto di Eren da dentro l’appartamento. Era come se non avesse assolutamente notato Eren. “Non dire nulla se mi capisci,” borbottò. “Ah, al diavolo,” disse poi a sé stesso. “Non posso far tardi a questo concerto.” E con questo, chiuse la porta in faccia ad Eren.

Eren avrebbe voluto fermarlo, ma era come se qualcuno avesse spento l’interruttore del suo cervello. Non c’era stata nessuna vera e propria causa innescante, ma improvvisamente un ordinato insieme di memorie sembrò tornare al suo posto, ed Eren si sentì uno stupido per non essersene ricordato prima.

Sapeva tutto.

Il reparto, Reiner, Bertholdt, Annie, Connie, Sasha, Jean, Ymir, la musica jazz, l’appartamento di Levi, mettere al tappeto Levi quando lui si era ubriacato troppo per riuscire a rifilargli un destro decente, rubare della merce da un autogrill, andare ad ascoltare una sinfonia dal vivo, visitare una chiesa, il peso di Levi sul suo corpo, piantare l’albero di Giuda, litigare, ridere e piangere. Era tutto lì, e non se ne era andato mai.

E anche se Eren sapeva che doveva probabilmente bussare di nuovo alla porta di Levi, rimase solo lì impalato. In piedi davanti a quella porta per quasi un’ora. Alla fine la suddetta porta si aprì di nuovo e poi Levi se la chiuse alle spalle, con un cane alle calcagna, facendo girare la chiave nella serratura mentre Eren fissava la sua schiena e il cane scodinzolava contento. Eren fu preso alla sprovvista quando Levi si girò finendogli contro, come se lui non fosse mai stato lì.

Il cane abbaiò e Levi fece una smorfia nella sua direzione. “Ehi! Per cosa credi che ti paghi?”

Abbaiando un'altra volta, il cane continuò a fissare Levi con aria contenta.

Levi annuì. “Ok ok, non ti pago veramente, lasciamo stare.” Poi, girandosi verso Eren, Levi fece spallucce con fare di scusa. “Mi dispiace.” disse, agitando la mano di fronte a sé. “Non ho visto che eri qui. Be’, anche se non ti avrei visto da nessuna altra parte.”

Eren fece un’espressione confusa. Levi era cieco? No, non era possibile.

Le parole non sembravano riuscire ad uscirgli da bocca.

E infatti si allontanò a passi veloci da quella situazione, dirigendosi al portone principale del palazzo e poi via, verso il parco.





Quella sera Eren ripercorse tutti i nuovi ricordi che aveva improvvisamente riacquistato. Era stato morto. Vero? Era quello che era stato, no?

No. Era diventato un fantasma?

Qualcosa del genere.

Contro ogni buonsenso lo avevano svegliato. Solo lui.

Gli altri pazienti del reparto sei erano morti come previsto.

Eren non poté fare a meno di ridacchiare tristemente tra sé e sé, ripensando a come, anche nella morte, era stato capace di non fare quello che avrebbe dovuto.

Il pianoforte era quello di Levi. Ora lo sapeva. Si era svegliato, aveva vinto la scommessa che avevano fatto, e Levi aveva mantenuto la parola, anche se Eren non si era ricordato di lui quella volta.

Che cosa stava facendo Levi adesso?

Era cieco.

Cosa fanno le persone cieche? Eren aveva sempre dato per scontato che non facessero nulla. Ma non poteva essere vero, perché Levi faceva sempre qualcosa.

Magari stava ancora lavorando in ospedale. Era anche lontanamente possibile? Eren non pensava di avere la faccia tosta di ripresentarsi di punto in bianco a casa di Levi, ma decise che la prossima volta che sarebbe andato in ospedale, si sarebbe informato su se Levi stava ancora lavorando lì. Vedere Levi all’ospedale sarebbe stato molto meno complicato che andare di nuovo a bussare alla sua porta.





“Levi?” Una donna alta ed occhialuta, con addosso la divisa da infermiera, sporse la testa oltre l’angolo del punto informazioni dove Eren stava cercando di parlare con un’altra signora, grassottella, con i capelli ricci e un caldo sorriso perfetto per un ufficio assistenza. “Quel vecchio, cieco, figlio di puttana?” disse la prima, sorridendo a trentadue denti verso Eren.

Hanji. Questa donna era Hanji, notò Eren. La conosceva.

“Ehm… sì?” Eren sorrise in segno di scusa. “Lavora ancora qui?”

Hanji fece una smorfia, e poi rispose, con un leggero tono di irritazione nella voce: “Sì, puoi scommetterci. E ora fa molti più soldi di me e ha il miglior fottuto orario dell’intero dannatissimo ospedale. Fatemi diventare cieca subito, perché la vista non vale le ore che mi devo fare qui dentro.”

Eren non era molto sicuro su come rispondere, quindi si limitò ad annuire educatamente.

Sembrando notare la confusione del ragazzo, Hanji gli sorrise di nuovo. “Se lo stai cercando, la sua prossima lezione inizia tra una decina di minuti. Vai all’ala sei, stanza 2123 – un’enorme auditorium, non puoi perderti. E’ la prima lezione del nuovo semestre, e credo che ti potrebbe piacere.” disse , facendogli l’occhiolino.

“Ah, grazie. Credo che ci andrò.” Così Eren salutò Hanji, per poi andare verso quello che immaginava fosse la versione rinnovata del suo vecchio reparto. Quindi Levi era veramente diventato un insegnante. Che lusso.

La nuova ala era decisamente molto meglio di quella dove era stato confinato lui un annetto prima. Avevano quasi completamente ricostruito l’intera parte di edificio, sostituendo i corridoi con le piccole stanze e la sala delle infermiere con un gigantesco auditorium e un asilo nido, sia per i bambini dei dipendenti dell’ospedale che dei visitatori. Niente male.

Eren trovò l’auditorium senza grandi difficoltà, ed entrò. Nella sala c’era un sorprendente numero di persone. Sembravano tutti dell’età dello studente universitario medio, e stavano chiacchierando tra loro a voce bassa prima che iniziasse la lezione, dando vita ad un rimbombo sordo nella vasta sala. Scegliendosi una sedia in una delle file davanti – una delle poche lasciate libere – Eren si mise comodo per seguire la sezione. Che cosa aveva da perdere?

Esattamente alle due, la porta al lato del livello più basso dell’auditorium, giusto di fianco alla lavagna e al podio, si aprì, e Levi entrò a passi veloci nella sala. Ai suoi piedi, c’era il cane con il pelo a macchie bianche e marroni – una sorta di pastore australiano, pensò Eren. Era un cane dall’aria costantemente contenta, ma ben educato ed estremamente attento ai movimenti di Levi.

Senza nessuna introduzione, Levi si diresse alla lavagna e vi scrisse sopra le parole ‘dottore’ e ‘professore’, prima di girarsi verso la folla. Sembrava così diverso da quello che Eren ricordava. Aveva messo su peso, e sembrava molto più in buona salute di prima. E, contro ogni previsione di Eren, sembrava anche che il ruolo di insegnante gli appartenesse. Indossava una bella camicia con papillon, con un quasi comico gilet color argilla, che lo faceva proprio sembrare un accademico. Il suo look era completato da un camicie bianco, perfettamente stirato, che gli arrivava giusto alle ginocchia. Senza una parola, Levi fissò, senza realmente vederla, la classe da dietro i suoi occhialini da sole circolari. Non ci volle molto perché l’aula cadde in un silenzio rispettoso.

“Salve.” disse brevemente Levi. La classe non rispose.

Levi gesticolò verso la lavagna dietro di sé. “Non sono un vero dottore, e non sono neanche un vero professore. Ma potete chiamarmi come preferite.”

Ci fu una sorta di nervosa risatina generale che echeggiò nella sala.

“Questo,” proseguì Levi. “E’ il mio cane. Il suo nome è Cane.”

Un’altra risata leggermente più nevrotica.

“Cane è qui perché sono fottutamente cieco, e lui non lo è. Saluta cane.”

Cane salutò abbaiando una singola volta.

Levi fece un gesto con la mano per fare segno a Cane di allontanarsi e lui si accoccolò ad un angolo della lavagna.

Con sorprendente sicurezza, Levi camminò fino al bancone al lato della lavagna e prese un piccolo secchio da sotto, posandolo gentilmente sulla scrivania. “Ho chiesto alla mia orribile amica, Hanji, di portarmi questo per vedere un po’ di abolire qualsiasi tipo di formalità in questa aula, prima che il corso inizi.”

A quelle parole ci fu un mormorio tra il confuso e il vagamente preoccupato.

Levi sorrise a tutti, il primo segno di pausa nella sua compostezza, da quando era arrivato. “Prendete.” disse semplicemente, infilando una mano nel secchio. Cacciò fuori quello che sembrava essere un cervello umano e lo lanciò con abilità in mezzo al mare di studenti universitari in attesa.

Una serie di urli e sussulti di sorpresa eruttò mentre la massa bagnaticcia di tessuto di cervello umano veniva letteralmente palleggiata tra gli studenti atterriti. Levi stava ancora sorridendo con malizia, evidentemente innamorato dei suoni di angoscia che provenivano dai suoi studenti. Alla fine un eccitatissimo studente, con una felpa di qualche squadra da hockey, aveva rivendicato il cervello, iniziando a farlo ondeggiare in aria con fare trionfale. Levi percepì cosa stava accadendo e allungò le mani di fronte a sé in aspettativa. “Molto bene, tiramelo dietro.”

Ci fu un attimo di esitazione, mentre lo studente sembrava stare riflettendo sulla possibilità di tirare qualcosa ad un uomo cieco. Decise di non farlo, tenendo il cervello in mano.

Annuendo, Levi batté le mani un paio di volte. “Molto bene. A quanto pare siete la prima classe che ha deciso di non cercare di tirare un cervello al suo professore cieco. Dieci punti in più a tutti per non aver tentato di dare inizio ad un battaglia a tirarsi pezzi di cervello con un cieco.” Ci furono una serie di gridolini entusiastici e coppie di persone a darsi il cinque. “D’altro canto, anche dieci punti in meno per aver sprecato la vostra unica opportunità di tirare un cervello addosso al vostro professore senza rischio di punizioni.” Questa volta la sua affermazione fu presa con una risata e qualche lamento scherzoso. “Siete tutti patetici.”

Infine, la risata che invase la sala fu più che genuina.

“Va bene, va bene,” disse Levi, girandosi verso la lavagna. “Non sono stato pagato per tirarvi cose. Impariamo qualcosa.”

Il resto della lezione fu abbastanza interessante, pensò Eren. Non che la seguì molto, ma Levi era un professore sorprendentemente competente, e sembrava un esperto nel mantenere tutti concentrati e interessati. Cane, alla fine, decise di iniziare a gironzolare un po’ per la sala, prima di concludere che Eren era la persona giusta per farsi una bella dormita. Ad Eren era sempre piaciuti i cani, quindi permise a Cane di arrampicarsi sulla sedia di fianco la sua e posare la testa sul suo grembo. Accarezzare le orecchie morbide di Cane era comunque molto più semplice che fare attenzione alla lezione.

Cane si addormentò lì e quando tutti erano usciti dall’auditorium, Eren rimase, continuando a carezzare distrattamente la sua testa, mentre Levi puliva meticolosamente la lavagna, costretto a ricoprire ogni centimetro per essere sicuro di aver cancellato tutto.

“Ehi! Cane! Dove sei andato?” chiese finalmente Levi, girandosi verso l’aula vuota.

Le orecchie di Cane si alzarono e lui abbaiò una volta.

Levi fece una smorfia. “Fammi indovinare: qualcuno ti ha lasciato dormire su di lui e ora ti sei innamorato.”

Eren si schiarì la gola. “Ah, mi dispiace. Il tuo cane è… ehm… davvero buono.”

Levi piegò la testa di lato. Eren realizzò che la sua voce gli suonava probabilmente familiare. “Grazie. E tu sei?”

Ora o mai più.

“Ah, Eren.”

Dici qualcosa, cretino.

“E, ehm, grazie per il pianoforte, Levi.”

Le sopracciglia di Levi si alzarono in mezzo alla sua fronte, dietro le ciocche di capelli neri, ma lui non disse nulla.

“Mi fa piacere vederti.” aggiunse Eren in fretta.

Finalmente, Levi riuscì a fare un sorrisetto. “Una scommessa è una scommessa, ragazzo. Sarò uno stronzo, ma sono uno stronzo che mantiene la parola.”

Cane stava guardando eccitatamente tra i due come se si fosse perso qualcosa di veramente straordinario.

“Quindi non sono pazzo,” concluse Levi. “Tu ti ricordi, e io non sono pazzo.”

Eren fece spallucce. “O siamo entrambi pazzi.”

“O siamo entrambi pazzi.” confermò Levi.

“Hai una bella cera.” disse Eren calorosamente, gesticolando con vaghezza verso la sua persona.

Levi ridacchiò. “Intendi dire che sono ingrassato.” rispose spontaneamente, dandosi qualche pacca sulla sua corporatura decisamente più robusta di una volta.

“No,” disse subito Eren. “Stai veramente alla grande.”

“Anche tu.” scherzò Levi.

Dopo un paio di attimi di confortevole silenzio, Eren si schiarì di nuovo la voce. “Quindi, ehm, hai smesso di suonare il piano?”

Levi scosse la testa. “No. Tengo dei concerti regolarmente presso alcune sale da cerimonia e qualche club. Ora che devo insegnare solo tre giorni a settimana, ho tutto il tempo di fare cose del genere.”

“Mi fa piacere.” disse Eren con entusiasmo genuino. Lo intendeva davvero. Levi stava davvero bene.

Sembrava stare proprio alla grande.

“Anche a me, ragazzo.”

Cane balzò via dal grembo di Eren e camminò sonnecchiante verso Levi, spingendo la sua testa contro la mano dell’uomo. “Sì, sì.” disse Levi, dando un paio di colpetti sulla testa di cane. “Devo andare a prepararmi per il concerto di stasera subito, lo so.”

Eren non era ancora pronto a vedere Levi andare via.

Levi fece una pausa. “Se ti va puoi venire.”





Levi era davvero migliorato, per quanto fosse possibile. Mentre era seduto al bar, ascoltando la sua musica, Eren aveva provato un ridicolo senso di gelosia. Levi sarebbe stato sempre migliore di lui, notò. Perlomeno col jazz.

Dopo, era tornato con Levi al suo appartamento. Era come ricominciare una confortevole routine. Sorprendentemente, erano cambiate ben poche cose nel complesso. L’unica vera differenza era che nella zona dove prima vi era il vecchio pianoforte di Levi – quello che era ora custodito a casa di Eren – c’era un altro pianoforte nuovo di zecca. Era un altro Steinway, che era alquanto simile al suo predecessore, ma forse ancora più bello.

Eren fischiettò non appena lo vide. “Diamine.” mormorò.

Levi fece un sorrisetto. “Diamine, hai ragione. Puoi ringraziare il mio nuovo stipendio per quello.”

“E io che mi sentivo in colpa per essermi preso il tuo piano.” borbottò Eren.

Facendo spallucce, Levi se ne andò in cucina. Prevedibilmente, tornò indietro solo dopo essersi procurato un bel bicchiere abbondante di whiskey.

“Certe cose non cambiano proprio mai,” rise Eren. “Una parte di me pensava che avessi avuto qualche rivelazione e ti fossi lasciato alle spalle l’abitudine.”

Levi sbuffò divertito. “Sì, certo. E tu? Anche tu sei quasi morto. Qual è stata la tua grande rivelazione?”

Alzando le mani in segno di resa, Eren si lasciò cadere sul divano di Levi. “Va bene, va bene, hai vinto tu. Sto ancora lavorando in cantiere, e sono ancora un cretino.” Fece una pausa. “E’ divertente, ma l’altro giorno mi sono di nuovo dimenticato il caschetto. E non sono riuscito a fare a meno di pensare a come certe persone non imparano proprio mai. Uno penserebbe che sono diventato la persona più prudente del mondo su certe cose. Ma semplicemente non lo sono, né lo sarò mai.”

Levi si sedette al fianco di Eren, sorprendentemente vicino, al punto che i loro fianchi si toccavano gentilmente. Poi fece un sorriso d’intesa. “Sì, non cambieremo mai. Saremo semplicemente sempre portati a fare sempre le stesse stupide cose. Fin troppo ovvio.” rifletté, mandando giù il resto del suo whiskey.

Eren sorrise a trentadue denti. “Sì, ma chi se ne importa?”

Togliendosi gli occhiali, Levi iniziò a pulirseli distrattamente sul gilet. Stava ancora sorridendo. “Insomma. In pratica io continuerò a bere troppo e tu a fare il cretino?”

“Immagino di sì.” concluse Eren.

Levi fece un’espressione accigliata verso il suo bicchiere vuoto. Senza una parola, Eren prese il bicchiere dalla sua mano e si alzò dal divano per andare a riempirlo di nuovo. Levi doveva aver capito le sue intenzioni, perché non protestò, attendendo silenziosamente che Eren tornasse e gli porgesse il bicchiere di nuovo pieno.

Quando furono di nuovo seduti come prima, nessuno dei due fece nulla per iniziare una nuova conversazione. Non era necessario. Non lo era mai veramente stato tra di loro.

Stettero per lo più in silenzio per il resto della serata, fino a quando Levi non decise di raggiungere a tentoni il letto, doppiamente impedito dalla combinazione data dall’aver consumato troppo alcol e dalla sua disabilità. La scena era alquanto comica, ma Eren non fece commenti. Semplicemente aiutò il più grande a mettersi a letto e poi si mise dall’altro lato del materasso senza dire nulla. Nessuno dei due spiccicò parola su quella ritornata abitudine.

Invece, Levi si limitò ad accarezzare la testa di Eren con gesti ubriachi, mentre Cane si accoccolava ai piedi del letto. “Sono felice che sei vivo.” biascicò Levi.

“Sì, buonanotte stronzo.”

Alla fine, si addormentarono entrambi, con Levi che decise, nel suo stato confusionale, che stendersi perpendicolarmente ad Eren, appoggiandosi sul suo petto, fosse una buona idea, ed Eren un po’ troppo alticcio per protestare. Nel bel mezzo della notte, Eren era quasi sicuro di aver spinto Levi via. Il tipo era pesante.





E questo fu.

Eren continuò a dimenticare cose, arrabbiandosi quando il suo cervello si rifiutava di connettere le sinapsi o di fargli finire un pensiero, e continuò ad avere problemi cognitivi. Levi continuò a bere troppo, finendo con lo sbattere addosso ad ancora più cose di quelle contro cui sbatteva solitamente. Mikasa e Levi battibeccavano quasi quanto lui ed Eren, ed Armin osservava sempre il tutto con uno sguardo affettuoso. Le uscite della loro strana quasi-famiglia si guadagnavano spesso le occhiatacce e gli sguardi confusi della gente, mentre loro quattro (talvolta cinque se Hanji si materializzava per rendere Levi ancora più miserabile) sembravano più inclini a litigare e tormentarsi l’un l’altro che a partecipare ad una qualsiasi forma di rapporto amicale.

Ma sembrava la cosa migliore per tutti, alla fin fine.





Questo fu.

Eren aveva probabilmente ragione: la fine faceva schifo per definizione.

D’altro canto, Levi pensava di essere lui quello ad avere ragione: una fine fa schifo solo perché la storia è stata dannatamente fantastica.

Ma perlopiù, tutti sembravano essere d’accordo sul fatto che fosse Annie quella ad avere ragione:

Era stato bello.

Tutto era stato bello.




Salve a tutti! Qui Seth, la traduttrice. Dopo quasi un anno, siamo arrivati, insieme, alla fine di questa splendida storia, e devo ammettere che trovo che le ultime frasi veramente esprimano in poche parole tutto quello che ci sarebbe da dire. Personalmente ho trovato questo lieto fine un po' dolce-amaro perfetto per questa storia, e spero che vi sia piaciuta questa conclusione, a mio parere all'altezza dell'intera fic. In ogni caso vorrei ringraziare tantissimo, e anche da parte dell'autrice, ogni singola persona che è rimasta con noi fino alla fine supportandoci più o meno silenziosamente. Grazie grazie davvero a tutti i lettori, grazie a chi ha inserito la storia tra le preferite/seguite/da ricordare e grazie a chi ci ha lasciato uno o più commenti. Siete davvero stati tutti fantastici e sappiate che non sarei riuscita ad arrivare alla fine di questa impresa senza voi a spronarmi, soprattutto considerando che ultimamente non me la sto passando proprio alla grande. Detto ciò, mi duole avvisarvi che l'autrice di questa fic (coldmackerel) non ha scritto altre fic ereri oltre a questa, e che quindi non mi è rimasto nulla da tradurre di questa formidabile autrice, perché se avessi avuto del materiale l'avrei sicuramente fatto. Dal canto mio, magari dopo una pausa e comunque con un po' più calma, continuerò a scribacchiare le mie cose (dopo aver completato urgentemente Darts of pleasure...), che so alcuni di voi seguono, e forse - tempo e voglia permettendo - mi troverò qualcosa di nuovo da tradurre, che tanto nel fandom ereri inglese il materiale certo non manca. Mi riconoscerete sicuramente per l'impostazione della pagina e altro, lo so. Grazie di cuore e alla prossima!
SULLA TRADUZIONE: ho riletto un sacco di volte per questo ho fatto tardi a postare... ma ci saranno sicuramente delle sviste T_T


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