Tales from Ibira

di Widelf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gerwin, l'Umano ***
Capitolo 2: *** Filvendor, l'Elfo ***
Capitolo 3: *** Berforth, il Nano ***



Capitolo 1
*** Gerwin, l'Umano ***


Gerwin si alzò dal letto quando il sole era già alto nel cielo. La luce filtrava dalla sua finestra attraverso le logore tende della sua stanzetta, mettendo in risalto il pulviscolo dell’aria. Il giovane ragazzo si stropicciò gli occhi e si stiracchiò, esibendosi in un rumoroso sbadiglio. Schiaritosi la mente, riuscì finalmente a decifrare le urla forsennate della madre che lo chiamava.

‹‹Gerwin! Gerwin! Maledetto scansafatiche! E’ appena passato mezzogiorno e tu sei ancora a letto! Maledizione, cosa ho fatto per meritarmi un figlio del genere…per Duher, a 24 anni ancora disoccupato, e senza uno straccio di famiglia!››.

‹‹Arrivo mà, non ti agitare così›› rispose Gerwin laconicamente. Il giovane si guardò nel vecchissimo specchio della sua camera e si aggiustò la folta zazzera di capelli neri, riccissimi. I suoi occhi erano ancora gonfi di sonno ma tradivano una forte vivacità e una certa furbizia; il suo naso era leggermente aquilino ma dava al suo viso un tocco di nobile fierezza. Prese una vecchia camicia di lino, un po’ unta ma quantomeno senza buchi, e un paio di brache marroni. Dopo essersi vestito alla bene e meglio, prese i morbidi stivali di pelo che il padre gli aveva regalato al suo ultimo compleanno, se li infilò e scese al piano di sotto, dal quale proveniva un forte odore di carne stufata, cavolo e altre spezie.

‹‹Lo stufato di coniglio è pronto. Serviti pure e mangia…certo non si può dire che anche oggi tu te lo sia guadagnato››. La madre di Gerwin si chiamava Mirella. Era un donna di circa 55 anni, piuttosto bassa e decisamente grassa. La sua faccia tonda aveva un colorito giallastro per via della sua salute cagionevole. I capelli le cadevano sulle spalle, piuttosto radi e unticci, e le sue labbra carnose rivelavano una chiostra di denti sbeccati e giallognoli. Non era quello che si poteva definire una gran bellezza, ma aveva fama di lavoratrice e massaia instancabile. Gerwin non la sopportava per via dei suoi continui richiami: sembrava che il suo primo pensiero fosse quello di infastidire suo figlio ogni mattina ricordandogli quanto fosse inutile da disoccupato e senza una famiglia. Era una frase così ricorrente che Gerwin la prendeva ormai come un “buongiorno”.

‹‹Di nuovo stufato di coniglio? Che Duher sia lodato, madre! E’ la quinta volta questa settimana!››

‹‹Non sei nella posizione di lamentarti, Gerwin. Non lo sei mai stato negli ultimi 24 anni. E comunque il coniglio è una delle poche cose che possiamo permetterci di questi tempi, visto lo stipendio da minatore di tuo padre. Certo, se tu ti trovassi un lavoro rispettabile…››

‹‹Va bene, va bene! Mangerò il coniglio! Non ricominciare!››. Gerwin si sedette al robusto tavolo di legno al centro della stanza, dove era poggiata la maleodorante pentola piena di stufato. Se ne versò due mestoli pieni nella ciotola e fissò il magro pasto; non si trattava che di qualche misero pezzetto di carne in un incolore brodaglia, con qualche cima di cavolo qui e lì.

‹‹Tuo padre dovrebbe essere di ritorno a momenti. Puoi mangiare ora o aspettarlo, non fa alcuna differenza››. Mirella si sedette di fronte a lui, si servì e cominciò a mangiare di gran gusto, come se stesse mangiando un piatto appena sfornato dalle cucine dell’Imperatore Dandelion IV. Gerwin piluccò di mala voglia un cucchiaio di brodaglia, quando sentì lo sferragliare della serratura dell’abitazione.
La pesante porta di legno si aprì con un roboante cigolio, e nella stanza entrò un uomo di mezza età, con la pelle e i vestiti ricoperti di polvere di marmo. La finissima polvere gli aveva imbiancato anche i riccissimi capelli, esattamente come quelli di Gerwin. Aveva delle folte sopracciglie nere e due occhi molto piccoli, anch’essi neri come due perle di elmstub, un estratto di radice che veniva consumato sotto forma di pastiglie simili al prodotto delle ostriche, che avevano un effetto rinfrescante e digerente. Una folta barba, intricata e disordinata, circondava il rosso foro della bocca. Portava alla cintola un piccone e un piccolo martello, simboli della sua attività da minatore. Il suo nome era Ursio.

‹‹Bentornato, padre›› lo apostrofò Gerwin. Mirella era così impegnata nello strafogarsi lo stufato che lo degnò a malapena di un grugnìo. I due si erano sposati 30 anni prima, nell’euforia giovanile che li aveva spinti a pensare che avrebbero avuto un futuro ben diverso: Ursio aveva sognato di perseguire l’attività di fabbro dopo aver fatto un lungo apprendistato presso il padre di Mirella, Rayford. Egli però aveva scoperto la tresca con la figlia e gli aveva tolto la dote, lasciando così Ursio privo della bottega e del titolo di artigiano necessario per gestirla. Nella foga giovanile Ursio aveva deciso di fregarsene e di sposare comunque Mirella, che all’epoca doveva essere un tipo ben diverso di donna.

‹‹Salute, figliolo. Mirella.››

Ursio si avvicinò a grandi passi al tavolo e si sedette a capotavola, nel posto riservato al capofamiglia. ‹‹Ho grandi notizie per te, Gerwin: ho parlato con Colby, giù in miniera. Dice che suo cugino Wiclif, il conciatore del mercato di quartiere, ha bisogno di un garzone. La paga non è delle migliori, ma Wiclif è una persona onesta e rispettabile. Inoltre, avrai la possibilità di cominciare ufficialmente un apprendistato. E per pochi che siano, i soldi fanno sempre comodo in questa casa.››

Gerwin lasciò cadere il cucchiaio sul tavolo e rimase per un momento con gli occhi sgranati e la bocca aperta. ‹‹Ma…padre…avresti dovuto almeno interpellarmi prima…insomma, ecco…il conciatore? Ma che razza di lavoro è? E poi lo conosco Wiclif, ha fama di essere uno schiavista! Non è un caso che sia a corto di garzoni, e io non voglio certo…››

‹‹Silenzio! Abbiamo bisogno che tu ti dia da fare per la tua famiglia, Gerwin. Dall’inizio della guerra contro i Goliarkh, il prezzo della vita si è alzato di molto. Il mio stipendio non basta più per sfamare tre bocche. Io e tua madre abbiamo tollerato abbastanza la tua nullafacenza.››

Gli occhi di Mirella quasi brillarono a quelle parole. ‹‹Ma padre›› incalzò Gerwin ‹‹credevo che fossi almeno libero di scegliere ciò che avrei dovuto fare della mia vita! Che razza di genitori siete a impormi…››

‹‹Basta così, figliolo›› lo interruppe Ursio. ‹‹Se tu avessi deciso cosa fare della tua vita, lo avresti già fatto tempo fa. Ormai è deciso. Nel pomeriggio andrai da Wiclif e ti proporrai come garzone. Colby mi ha detto che ci avrebbe messo una buona parola, per cui non dovresti avere grandi problemi nell’ottenere il lavoro.››

D’improvviso malumore, Gerwin si alzò e salì di corsa le scale, lasciando il misero pranzo dentro la ciotola e sentendo sulle sue spalle il sorriso e lo sguardo di sua madre.

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Capitolo 2
*** Filvendor, l'Elfo ***


La sala d’addestramento del palazzo di Melaluma era innaturalmente silenziosa. Cinque Elfi sedevano con le gambe incrociate, i lunghi capelli biondi che scendevano fluenti sulle spalle, con gli occhi chiusi, immersi in una profonda meditazione. Quattro di loro indossavano lucenti armature dorate, decorate in maniera tale che sembrassero ricoperte di fogliame. La parte inferiore del corpo era coperta da un tessuto morbido, di colore rosso, sulle cosce; le tibie erano ricoperte da lunghi gambali che partivano da appena sopra la rotula, con una forma a punta, e finivano appena al di sopra delle caviglie. Tenevano l’elmo, sormontato da una splendida cresta, al loro fianco.
 
Il quinto Elfo si distingueva dagli altri perché non indossava alcun tipo di armatura; il suo unico capo d’abbigliamento era una lunga tunica bianca, legata alla vita da una piccola catenina di argento puro, dalla quale pendeva quello che sembrava un medaglione. Sul medaglione erano incise, nell’esile grafia elfica, le parole “Pei ruiei zeifoowei z rooaì reiui”, che nella Pooei Aìpmuieei, la Lingua Elfica, significavano “la mia natura non muore mai”. Esattamente sopra di esse, al centro del medaglione, si trovava uno smeraldo rotondo. Sul capo dell’Elfo era posata una tiara della stessa fattura del medaglione, con tre piccoli smeraldi incastonati.
 
Il rumore di passi destò gli Elfi dal loro torpore mistico. La grande porta a forma di foglia si aprì, e nella sala entrò un altro Elfo, vestito in modo molto più modesto, ma non meno bello di quelli già presenti nella sala.
 
‹‹Mio signore Filvendor, la prego di perdonare questa mia brusca interruzione della sua sessione di meditazione.››
 
Il messo elfico sembrava piuttosto nervoso. Il figlio del conte di Melaluma, Filvendor, non amava essere interrotto quando meditava, e la sua stravagante educazione da figlio unico, viziato all’inverosimile, lo poteva portare a punire chi trasgrediva le sue disposizioni.
 
Filvendor, l’Elfo vestito di bianco, aprì i suoi bellissimi occhi a mandorla rivelando due occhi verdissimi. Corrugando un sopracciglio, si rivolse all’elfo con tono perentorio: ‹‹Elred. Spero che questa tua interruzione sia più che giustificata. Conosci le mie regole.››
 
‹‹Chiedo di nuovo scusa, mio signore. Ma si tratta di vostro padre: il conte Thanalil richiede la vostra presenza nella sala dei banchetti. Desidera parlarvi di un’urgente questione, a proposito della guerra contro i Goliarkh.››
 
Filvendor si alzò lentamente, e così fece il corpo della sua guardia personale, i quattro Elfi in armatura che stavano meditando con lui.
 
‹‹Molto bene›› disse il conte ereditario al messo ‹‹andrò subito da lui. Puoi ritirarti, Elred. Anche voi, eiìrneiczui. Riprenderemo la sessione più tardi, se ne avrò voglia.››
 
Il messo se la diede quasi a gambe levate, e le sue guardie, dopo un leggero inchino, si dispersero. Filvendor uscì dalla stanza e percorse un lungo corridoio che conduceva verso la sala dei banchetti. Il palazzo di Melaluma si trovava nella parte settentrionale della città imperiale di Narburg, nel quartiere elfico. Narburg era una città di radici antichissime, sede dell’Impero Umano da tempo immemore, ma era divisa in tre zone di influenza: nella parte settentrionale si trovava il quartiere elfico, nella parte meridionale il quartiere nanico e nelle altre due parti viveva la maggioranza della popolazione, di razza umana. Al centro della città si trovava l’enorme palazzo imperiale, residenza di Dandelion IV, attuale imperatore dell’Impero Umano. La famiglia Melaluma si era trasferita a Narburg in qualità di ambasciatrice dei Liberi Elfi di Mfrei Reib, la Foresta Madre che il Popolo Leggiadro venerava come unica divinità. Filvendor era nato a Narburg novantotto anni prima, e la sua famiglia si era stabilita nell’antica città umana già da più di due secoli, servendo come contatto diplomatico tra il Fuieiì Eepei, l’Antico Conclave che gestiva gli Elfi, e più di 4 generazioni di imperatori umani.
 
Filvendor giunse infine nell’enorme sala dei banchetti. C’era una tavolata enorme, completamente deserta, se non fosse stata per la figura china a capotavolo.
 
‹‹Paì aìaì coouibiì ui fooiìui neiui, neib.››
 
Dopo aver rivolto il tradizionale saluto elfico al padre (nella lingua umana il saluto suonava come “le stelle guidino i tuoi passi”), Filvendor chiese al conte: ‹‹Perché mi ha chiamato, neib? Elred mi ha detto che dovevi parlarmi dei problemi al fronte.››
 
La voce del conte, in risposta, era cupa e molto profonda. ‹‹E’ così, Filvendor. Abbiamo perso altri cinque maghi in un’imboscata. I Goliarkh stanno spostando la linea del fronte sempre più a sud. Le truppe di Dandelion non riescono a tenerli, e le sue richieste di maghi si fanno sempre più pressanti. Non posso permettermi di sacrificare ancora il sangue di altri aìpmui. Sai bene quanto il sangue elfico sia prezioso rispetto a quello degli umani o dei nani. Noi non ci riproduciamo alla loro velocità.››
 
Filvendor abbassò gli occhi. Era vero, era un evento estremamente raro che gli elfi si riproducessero, ma era anche impossibile che essi morissero in circostanze normali. Gli Elfi erano immuni agli effetti del tempo, ma soffrivano come ogni creatura vivente il tocco gelido dell’acciaio. La perdita di altri cinque Elfi era un disastro. Le file della loro razza si andavano assottigliando sempre di più a causa della guerra. Gli Elfi appoggiavano gli umani in guerra contro la terribile crudeltà Goliarkh, grazie alle loro incredibili capacità magiche, ma lo spargimento di sangue li stava portando sull’orlo dell’estinzione.
 
‹‹Che cosa vuoi che faccia in merito, neib? Non puoi chiedere agli umani di fare a meno di noi?››
 
‹‹Dandelion non ci concederà mai di ritirarci, e io non ho l’autorità necessaria per oppormi a lungo alle sue richieste. Quello che voglio che tu faccia, Filvendor, è che torni alla Mfrei Reib e che tu chieda consiglio all’Antico Conclave. Perfino Dandelion dovrà piegarsi agli ordini degli Undici Saggi, se essi decidono che gli aìpmui si debbano ritirare.››
 
Filvendor rimase a bocca spalancata. Il viaggio da Narburg alla Foresta Madre era molto lungo, e non privo di pericoli. Inoltre, lui non era mai stato nella Foresta Madre, e anche da Elfo aveva una certo timoroso rispetto nei suoi confronti. Non era un luogo da attraversare a cuor leggero nemmeno per uno della sua specie.
 
‹‹Dovrò andare da solo?›› chiese Filvendor al conte.
 
‹‹No, no, certamente no. Il mio unico figlio non affronterà un simile viaggio da solo. Tuttavia, non posso permettere che i tuoi eiìrneiczui ti accompagnino. C’è il rischio di perdere altri Elfi. No, piuttosto, nel pomeriggio ti recherai al palazzo imperiale e chiederai a Dandelion di fornirti una scorta. Non dirgli delle nostre reali intenzioni, o non te la concederà mai…digli piuttosto che torni nella Mfrei Reib a reclutare altri maghi per lui. Non è certo una soluzione onorevole, ma funzionerà.››
 
Filvendor annuì con un breve cenno del capo e prese congedo dal padre. Il suo inflessibile senso del dovere lo obbligava ad eseguire l’ordine del padre, ma in cuor suo covava una forte inquietudine per la missione che l’attendeva.

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Capitolo 3
*** Berforth, il Nano ***


La compagnia di mercenari entrò nella città di Narburg a mattina già inoltrata. I guerrieri erano entrati dalla porta orientale della città, e adesso si trovava nel pieno di uno dei due quartieri umani, più precisamente in quello del mercato. Le persone che si aggiravano per il mercato guardavano quella strana accozzaglia di individui in armature consunte con diffidenza; in tempo di guerra le compagnie mercenarie non erano viste di buon occhio.
 
‹‹Okay ragazzi! Mattinata libera! Avete quattro ore di tempo per rifocillarvi, andare a donne e godervi la vita come meglio credete! Ci rivedremo nel cortile del palazzo imperiale, e poi chiederò udienza al capitano delle caserme per offrirgli i nostri servigi!››
 
La voce tonante che aveva pronunciato queste parole strideva con l’aspetto fisico di chi la possedeva: si trattava in effetti di un ometto alto non più di un metro e venti, molto tarchiato e ben piantato su due gambette tozze. Indossava un’armatura pesante che sembrava forgiata nella nuda roccia e che gli copriva ogni parte del corpo. Sulla testa era calcato un elmo della stessa fattura dell’armatura, sul quale spiccavano due corna spropositate, lunghe almeno un terzo della lunghezza totale del corpo. Da sotto l’elmo spuntavano capelli nerissimi e ondulati; sul viso troneggiava un nasone tozzo, sotto il quale si trovava una barba nera foltissima, intrecciata nei più disparati modi. Sulla schiena, l’ometto portava un martello da guerra finemente lavorato nella thraosite, un minerale giallastro che la diceva più lunga del suo aspetto fisico sulla sua razza. Non poteva trattarsi che di un Nano.
 
Nel suo ambiente, quello delle compagnie di mercenari, il Nano era conosciuto con il nome di Berforth Cornalunghe. Il suo soprannome era naturalmente dovuto alle corna sul suo elmo: Berforth amava raccontare a chiunque gli capitasse a tiro di averle strappate a un enorme toro a mani nude, ma nessuno sapeva dire se ciò corrispondesse a verità.
 
Berforth aveva costruito la sua compagnia di mercenari dopo l’esilio volontario dalla sua città natale, Garn Torum, che si trovava alle pendici del monte Neuz, interamente scolpita nella stessa pietra dell’enorme montagna. Se ne era andato da una delle poche roccaforti rimaste interamente di sangue nanico per via della caduta in disgrazia del suo clan.
 
La rigida società nanica era molto dura con i clan che vendevano le Antiche Gemme per sopravvivere; si trattava del crimine più grande che un clan potesse compiere, poiché le Antiche Gemme racchiudevano dall’alba dei tempi l’essenza stessa del clan, ciò che gli dei avevano voluto che il clan avesse per differenziarsi dagli altri. La condanna per il suo clan, colpevole proprio di questo crimine, era la damnatio memoriae del millenario nome che la sua famiglia portava: nessun membro della società poteva pronunciarlo accanto al suo, e anche dalle tombe dei suoi antenati veniva cancellato a suon di scalpello.
 
Non potendo sopportare una simile vergogna, Berforth aveva scelto di lasciarsi alle spalle il sangue del suo sangue e si era dato alla fuga. Per un periodo aveva servito come fante nella compagnia mercenaria di Tristen Occhi D’Angelo, distinguendosi per l’ardore e per lo spirito guerrafondaio che lo animava. Una volta messo da parte un discreto bottino, aveva lasciato la compagnia di Tristen con la sua benedizione e si era messo in proprio, reclutando giovani bellicosi e spinti dallo spirito di avventura.
 
La sfortuna però aveva continuato a perseguitare il povero Berforth: nessuno era disposto ad ingaggiare dei mercenari che non avessero mai combattuto una vera battaglia. Il nano aveva avuto seri problemi a pagare ogni singolo uomo che militasse nella sua compagnia e ben presto il tesoretto che aveva accumulato si era dissolto, e gli uomini che lo seguivano, stanchi di essere mal pagati e mal equipaggiati, lo stavano lentamente abbandonando.
 
Per questo Berforth aveva deciso, segretamente, che una volta raggiunta Narburg, la capitale dell’Impero degli Umani, avrebbe fatto arruolare nell’esercito regolare tutti i suoi uomini. Certo, la paga era quella che era, ma si trattava pur sempre di uno stipendio regolare, e la sete di avventura dei suoi ragazzi sarebbe stata saziata. Aveva comunque deciso di mantenere il più stretto riserbo sul piano, e avrebbe detto ai suoi soldati che il capitano delle caserme li avrebbe assunti come compagnia mercenaria, in modo tale da mantenere comunque la sua autorità su di loro.
 
“E’ tempo di rinfrescare questa vecchia ugola di pietra, per Qymdur” pensò il nano fra sé e sé, mentre trotterellava verso quella che sembrava una locanda piuttosto affollata. Appeso sullo stipite della porta, l’insegna del locale recitava “Il Picchio Brillo”.
 
Entrato all’interno del locale, Berforth si trovò immerso in un frastuono assordante di voci che urlavano, mani che sbattevano sui tavoli e l’onnipresente tintinnio dei boccali ricolmi di birra torbida che brindavano allegramente. Il nano si avvicinò al bancone e, facendo una bella fatica per salire sullo sgabello da umani (così appesantito dall’armatura com’era non si poteva di certo chiedergli di fare una prova di agilità) chiese all’oste una bella pinta di birra artigianale. Mentre aspettava che il boccale gli venisse portato, Berforth aguzzò le orecchie per cogliere qualche pettegolezzo sulla vita cittadina.
 
Riuscì a cogliere solamente qualche scampolo di conversazione.
 
‹‹Sì…sì, esattamente…un’imboscata. I Goliarkh si muovono verso sud…gli Elfi stanno perdendo la pazienza…cosa? Oh no, Dandelion è nella confusione più totale…››
 
A Berforth si drizzarono i peli sul collo. Sapeva che la spaventosa razza dei Goliarkh, giganti estremamente bellicosi, era in guerra con l’Impero degli Umani. Da mesi i Goliarkh razziavano le terre di Dandelion, lasciando una scia di sangue che si stava facendo sempre più consistente. Tuttavia, Berforth non sapeva che quelle creature, di solito abbastanza solitarie, si erano riunite sotto un’unica egida e che marciavano compatti verso il cuore dell’Impero. In più, gli era parso di capire che gli Elfi meditavano di ritirare il loro supporto.
 
“A onor del vero, questo significa più probabilità di essere arruolati. Il capitano delle caserme farà i salti di gioia quando ci presenteremo. Tuttavia, non mi piace questa storia degli Elfi…i maghi sono fondamentali in qualsiasi esercito. E gli Elfi sono maestri nell’arte magica. Se si ritirano, saranno guai grossi.”
 
Finalmente l’oste arrivò con il boccale di birra freschissima. Berforth si scolò il boccale in un batter d’occhio e ne ordinò subito un altro. Stette lì seduto, pensoso, fino all’ora dell’appuntamento con i suoi soldati, buttando giù boccali di birra come se non avesse bevuto nient’altro per interi anni.
Tornato al luogo nel quale si erano dati appuntamento, Berforth realizzò di essere piuttosto alticcio; un grave difetto dei nani era infatti quello di reggere davvero poco l’alcool, in particolar modo quello di produzione umana. Inoltre, nessuno dei suoi uomini si era presentato; molto probabilmente la città li aveva già sedotti abbastanza da indurli a lasciar perdere quel nano e la sua paga da quattro soldi, in favore delle gioie mondane che Narburg sapeva offrire. Berforth aspettò per un’altra mezz’ora buona, e una volta resosi conto che nessuno sarebbe venuto, si incamminò imprecando verso le caserme, intenzionato ad arruolarsi comunque. Sapeva che le caserme erano adiacenti al Palazzo Imperiale.
 
Con andatura caracollante, Berforth cominciò a risalire le viottole del mercato, tenendo come punto di riferimento l’altissima torre bianca del Palazzo Imperiale. Dopo aver camminato, non senza difficoltà e sbandamenti, per un bel pezzo di tragitto, arrivò finalmente all’edificio delle caserme. Si trattava di una struttura piuttosto piccola, addirittura minuscola se rapportata alle dimensioni della torre del Palazzo, preceduta da uno spiazzo ricolmo di umani in armatura, che si stavano allenando colpendo manichini con armi di legno.
 
‹‹Sholdato! Dimmi dove trovo quella ca-ca-canaglia del tuo capitano, che Avtosh she lo porti.››
 
Così Berforth apostrofò un ragazzo in armatura, molto giovane, smunto, con la faccia piena di brufoli e gli incisivi sporgenti. Quello lo squadrò e poi gli fece un cenno col capo verso l’ingresso dell’edificio.
 
Berfoth si diresse in quella direzione e, mentre si apprestava ad aprire la porta dell’edificio, la porta stessa lo colpì sul naso, così forte da buttarlo in terra.
 
Pallini di luce colorata gli esplosero nella testa, oscurandogli per attimo la vista. Quando si schiarì le idee, Berforth vide davanti a sé quello che gli parve un gigante in piena regola, così buttato a terra com’era. L’uomo era di stazza davvero impressionante, vestito con una cotta di maglia da capo a piedi che a stento conteneva la muscolatura possente. Aveva la pelle del colore dell’ebano e un lucido cranio calvo. Il gigante aprì la bocca e gli parlò.
 
‹‹Questa è bella! Ho appena accoppato un nano!››
 
‹‹Che Avtosh ti porti, io ti shpezzo le osha, dannato gigante, fosse l’ultima cosha che fascio!››
 
‹‹Doppiamente divertente!›› lo derise l’uomo ‹‹Ho accoppato un nano, e per di più ubriaco!››
Berforth si rialzò da terra, furibondo, e cercò di prendere il suo martello da guerra, con l’unico risultato di sbilanciarsi all’indietro e cadere di nuovo.
 
L’uomo scoppiò in una fragorosa risata. ‹‹Stai calmo, campione. Stai parlando con Rawkin, capitano delle caserme imperiali.››
 
‹‹E tu shtai parlando con Berforth Cornalunghe, shpaccone! Ho shtrappato queshte corna a un dannato toro, anzichenò! Gigante dei miei shtivali!››
 
Rawkin corrugò un sopracciglio. ‹‹Ti sei messo nei guai, caro il mio gradasso. Nessuno mi insulta impunemente.››

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