HUNT

di Puerto Rican Jane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** HUNT ***
Capitolo 2: *** OMICIDIO LETTERARIO ***



Capitolo 1
*** HUNT ***


HUNT
 
«Questa è l’ultima volta che facciamo irruzione nella redazione del Daily Express!»
Il dottor Watson, col respiro pesante e la fronte imperlata dal sudore, si arrestò sulla porta del 221b di Baker Street. Era esausto, aveva i muscoli delle gambe che pulsavano dolorosamente per la spossante corsa: insomma, non era più un ragazzino.
«Ma non capisci, John? Abbiamo appena risolto il caso! In…» Sherlock estrasse il cellulare dalla tasca del cappotto «in quarantaquattro minuti».
John lo guardò strabuzzando gli occhi, cercando in modo maldestro di mascherare il suo stupore.
«Vuoi sapere come ho fatto, vero?» chiese Sherlock, con l’accenno di un sorriso.
«Non te l’ ho chiesto» rispose John, cercando di assumere un’aria distaccata: non voleva sembrare troppo meravigliato.
«Sì, ma l’ hai pensato».
Il dottore alzò gli occhi al cielo, scotendo la testa: sempre il solito.
«E’ stato semplice. Una poliziotta sotto copertura viene assassinata: come hanno scoperto gli spacciatori tra i quali si era infiltrata che era un’agente? Una soffiata, giusto? Qualcuno ha fatto la spia. Ma chi? Vediamo, chi sapeva  che era un’informatrice? I suoi colleghi più stretti, il suo capo e suo padre, un ex agente ora in parlamento. Proprio quest’ultimo ha di recente pubblicato un libro che ha riscosso un certo successo. Ne hanno parlato alla televisione, alla radio, nei giornali… e guarda un po’ questo articolo di una settimana fa». Il detective sventolò davanti agli occhi del dottore un ritaglio di giornale del Daily Express.
«Ma… è lei! L’agente! Hanno pubblicato una sua foto sul giornale!» esclamò John, prendendo il ritaglio tra le mani e leggendo le parole stampate in inchiostro ad alta voce in modo concitato.
«E’ un articolo sul libro del padre. “Il libro sta avendo un grande successole sue convinzioni repubblicane sembrano contagiare il pubblico…” Ecco! “Il signor Drake,ex membro del corpo della polizia, ha una figlia ventisettenne che segue i suoi passi nel mondo della giustizia (vedi foto in alto): forse un giorno troveremo anche lei tra i membri del nostro parlamento?”. Ma è incredibile! E’ stata uccisa a causa della stampa! Chiunque avrebbe potuto vedere questa foto! Per colpa di uno stupido di errore…».
«Un errore, John?». Rivolse un sorriso enigmatico a uno sconvolto dottore.
«Pensi che la foto sia stata pubblicata apposta per incastrarla?»
«Ovviamente. Più precisamente, non per incastrare lei, ma per colpire il padre. L’autrice dell’articolo è Robin Parker, la proprietaria della scrivania che abbiamo controllato poco fa nella redazione del giornale»
«Controllato, vero?» ridacchiò John. Per la precisione, avevano aperto ogni cassetto, ispezionato ogni cartella, ribaltato il cestino dei rifiuti, esaminato ogni singolo file del computer della giornalista, il tutto mentre si fingevano addetti alla pulizia. Dopo meno di dieci minuti erano stati scoperti e costretti a fuggire, inseguiti dalle guardie giurate. Ma a quanto pare, Sherlock in quel breve tempo era riuscito a trovare quello che cercava. «Quindi ha pubblicato di proposito la foto della ragazza. Ma perché avrebbe dovuto farlo?»
«Tra le e-mail di miss Parker ho trovato un’ambigua, fitta corrispondenza con Raymond Green, l’avversario politico di Drake. Inoltre la giovane giornalista non è molto brava nell’occultare prove fondamentali, infatti ha lasciato questo in uno dei cassetti» nella sua mano comparve un altro foglio di carta «un assegno di sette mila sterline, intestato a Robin Parker e firmato da Raymond Green. Fin troppo elementare. La Parker è stata pagata da Green per far saltare la copertura della figlia del suo avversario, dato che non poteva colpire lui in prima persona, ma voleva impaurirlo, stava avendo troppo successo, forse  voleva costringerlo a ritirarsi dalla vita politica. In questo modo gli spacciatori hanno riconosciuto la Drake e l’ hanno eliminata. Come faceva Green a sapere dell’operazione della figlia del suo avversario? Il vecchio signor Drake è troppo orgoglioso della sua piccola bambolina per non essersi lasciato sfuggire qualche parola di troppo, qualcuno deve avergli riferito questa preziosa informazione e lui ne ha usufruito. Forza, chiama Lestrade e digli che abbiamo risolto il caso».
«Sempre geniale. Fantastico.» John prese il cellulare in mano compose il numero dell’ispettore, impressionato come sempre dall’abilità del suo compagno.
«Pronto, Greg? Abbiamo risolto il caso dell’agente infiltr… come? Oh, allora saliamo subito». John riattaccò velocemente e aprì la porta del 221b.
«Lestrade è a casa nostra? Come mai? » intuì velocemente Sherlock.
Non appena entrarono, la signora Hudson si precipitò loro incontro.
«Oh, cari! E’ da un’ora che cerchiamo di chiamarvi! Il signor Lestrade vi sta aspettando di sopra con urgenza! E’ molto preoccupato » disse l’anziana signora con aria ansiosa e con una punta di rimprovero.
Il detective e il dottore si affrettarono a salire le scale per raggiungere il piano superiore, dove trovarono l’ispettore che camminava intorno alla stanza nervosamente.
«Sapete, dovreste seriamente prendere in considerazione l’idea di assumere una donna delle pulizie: è un miracolo che nessuno di voi due sia già morto avvelenato: la vostra cucina è un laboratorio chimico, e non sono sicuro di voler sapere il nome di ognuna di quelle sostanze ».
«Non me ne parlare, Greg» annuì con aria rassegnata John.
 Sherlock sbuffò rumorosamente: «Non credo che tu sia venuto fin qui per una ramanzina sull’igiene del nostro appartamento. Di che si tratta? Quale nuovo caso la tua brillante squadra non riesce a risolvere?».
John gli lanciò uno sguardo di traverso, stava per aprir bocca quando Lestrade lo anticipò:
«Avresti potuto dirlo in un modo più gentile, ma dopo tutto questo tempo ormai mi sono rassegnato. Ad ogni modo è così: c’è un nuovo caso, è non siamo sicuri che…»
«Di’ pure che state brancolando nel buio» lo interruppe Sherlock.
«Questo caso non è come gli altri.» riprese Lestrade ignorando la sua ultima osservazione. «E’… raccapricciante. Dovreste venire a vedere»
 
***
Sembrava un luogo come un altro, una distesa d’erba anonima ai limiti di un bel bosco nella provincia di Londra. Era una giornata soleggiata, il cielo era pressoché terso se non per qualche nuvola solitaria. Un luogo perfetto per una di quelle gite di campagna della domenica che le famigliole mondane sono tanto smaniose di fare, un luogo perfetto per portare i bambini a giocare a palla… un luogo perfetto per un omicidio.
A intaccare la tranquillità di quel panorama era un rumoroso gruppo di persone in divisa disposto attorno a una zona del campo delimitata da un nastro bianco e rosso con la scritta crime sceen. Alcuni di loro scattavano foto, altri prendevano concitatamente appunti, altri ancora strillavano qualche ordine al telefono e riattaccavano rassegnati.
«L’abbiamo trovata un’ora e mezza fa, la segnalazione ci è arrivata da un vecchio signore che abita a più di un chilometro da qui, venuto per una passeggiata. Era sconvolto» spiegò l’ispettore.
I tre uomini si avvicinarono alla scena del crimine, facendosi spazio tra la moltitudine di persone.
«Ci avrei scommesso che il geniaccio sarebbe venuto. Non avrebbe potuto resistere, questo è proprio ciò che gli piace, pane per i suoi denti». La voce irritata di Sally Donovan li raggiunse da dietro le spalle.
«Per favore, non parlare di denti, quando fino a pochi minuti fa hai usato anche quelli per far piacere al “pane” di Anderson.»
«Sei sempre così scortese con le persone?»
«Sì, non pensare di essere speciale.» la ammutolì Sherlock. John si coprì la bocca per mascherare una risata. «Allora, che cosa abbiamo?» proseguì Sherlock.
«Donna bianca, tra i venti e i trent’anni, capelli marrone scuro, nessun segno di identificazione: una perfetta signora nessuno.» snocciolò Lestrade.
«Causa del decesso?»
«Non ne siamo ancora sicuri, i nostri medici se ne stanno accertando al momento.»
«Falli allontanare dalle transenne mentre io e John diamo un’occhiata.» disse Sherlock con aria autoritaria. Il detective si fece ancora un po’ di spazio tra gli agenti, sollevò il nastro per far passare John ed entrò nell’aria recintata. Un macabro spettacolo si presentò ai loro occhi: il corpo di donna, disteso supino sull’erba con le braccia aperte, aveva al collo un taglio molto profondo che l’aveva quasi decapitata, lacerazioni sulla bocca che lasciavano intravedere le gengive, e due precisi tagli su ciascuna delle palpebre dell’occhio, a formare la sagoma di una sorta di stella. Ma ciò che più colpiva era lo squarcio che apriva la donna dall’inguine alla gola: l’intestino era stato preso appoggiato sulla spalla destra, sulla sinistra era stato posato quello che sembrava l’utero.
«Oh, mio Dio… oh merda » bofonchiò John. Aveva uno sguardo pieno di pena, che mal celava però una rabbia selvaggia, rabbia nei confronti di chi aveva commesso quell’atto.
«Mettiamoci all’opera» esclamò Sherlock infilandosi un paio di guanti in lattice ed estraendo la lente di ingrandimento. Si avvicinò al corpo e si inginocchiò, cominciando ad ispezionare il cadavere partendo dal capo. Esaminò con attenzione ogni lacerazione sul volto, soffermandosi sul taglio netto sul collo; passò poi al busto osservando lo squarcio con la lente per passare infine alle gambe. Per un momento la sollevò delicatamente per controllare la schiena, per poi riadagiarla sul terreno.
«Qualche idea?» chiese Lestrade dubbioso.
«Molte idee, una più probabile dell’altra. Tocca a te John. Causa del decesso? Non mi fido di questi dottori» disse Sherlock, ponendo l’accento in modo diffidente sull’ultima parola e lanciando uno sguardo alle sue spalle.
John si accovacciò lentamente sul corpo, cominciando ad esaminarlo scrupolosamente. Per qualche minuto non parlò, poi si rialzò e rispose alla domanda del detective.
«E’ morta circa alle quattro di questa mattina. A prima vista avrei detto che è stato il taglio netto alla gola ad essere fatale, ma la vera causa del decesso è strangolamento. Tutte le lacerazioni, i tagli, sono stati inflitti post mortem. Se non fosse per questo, avrei detto che è opera di Jack lo squartatore, è esattamente il suo modus operandi. Lo squarcio che ha sul ventre è stato fatto in modo impreciso, grossolano, non da un esperto. Oh, inoltre,» aggiunse John «le manca il cuore. E’ stato asportato.»
«Bene, John. Hai tralasciato il punto principale della situazione, ma va molto bene» disse Sherlock con un vago sorriso.
«Suppongo io debba chiederti di illuminarci.»
«La vittima, prima di essere uccisa è stata sedata. Non drogata, ma sedata proprio come si fa con gli animali. Guarda qui» disse, sollevando nuovamente il corpo ed indicando un punto sulla schiena della donna «questo arrossamento vuole dire che le è stato iniettato qualcosa, ma non con una siringa, quale tossico si inietterebbe una dose in questo punto della schiena? No, sembra quasi che sia stato sparato da un fucile da una distanza più o meno lontana, uno di quei fucili che usano i bracconieri. Solo allora è stata strangolata. Dopo naturalmente essere stata violentata: è evidente che ha avuto un rapporto in modo non consenziente poco prima di morire. Comunque sì, sembra proprio che abbiamo a che fare con un fanatico di Jack lo squartatore, infatti questa donna era una prostituta, si può notare che il suo… “ferro del mestiere” è molto usurato. Ma non è tutto: questa donna, prima  ancora di essere colpita dal fucile, ha corso, o ha dovuto correre, per molte miglia: guarda le sue gambe, sono piene di graffi probabilmente causati da spine e rami, lo stesso vale per le braccia, i suoi piedi sono verdi per aver corso sull’erba per molto tempo. Questo significa che correva in quello che sembra un bosco, scommetto che si tratta di quello laggiù.» e indicò il bosco vicino « Probabilmente l’assassino l’ha trascinata qui dopo averla uccisa. Inoltre, » disse estraendo una pinza e una busta di plastica «guarda cos’ha in mano.»
Sherlock si chinò sul corpo e aprì lentamente le dita della mano sinistra: stringeva qualcosa, qualcosa che sembrava…
«Un osso.» lo prelevò con la pinza e lo inserì nella busta «e anche piuttosto vecchio aggiungerei».
«Oh, merda. Perché ha un vecchio osso umano nella mano?»
«E’ quello che dobbiamo scoprire, John. Ma sono sicuro al 99,9 % che è stato messo nella mano della vittima dall’assassino, una volta terminato il suo lavoro. Sarei propenso a credere che si tratti di un indizio per noi. Come ogni killer che si rispetti, vuole far sapere al mondo che quell’opera è sua. Vuole soddisfare il suo ego, la sua vanità. Vuole essere catturato, alla fine.» terminò Sherlock con aria pensierosa.
«Hai detto che deve aver corso in quel bosco. Se correva… significa che era inseguita.» disse il dottore.
«Esatto, John. Ma quello che non capisco è: perché, dopo aver caricato la sua vittima in macchina e averla portata in un luogo lontano dalla zona abitata, l’assassino l’ ha lasciata libera di nuovo? Perché ha voluto rincorrerla? Perché l’ ha fatta scappare per poi catturarla di nuovo? Poteva concludere il suo lavoro con molta meno fatica, quindi perché? Perché l’ ha lasciata andare?» Sherlock sembrava nervoso, non capire lo irritava.
«Hai parlato del bosco qui vicino: lo farò ispezionare dalla mia squadra» disse Lestrade con aria decisa, prendendo già in mano il suo cellulare.
«Se vuoi perdere tempo, fallo pure. Non ci troverai niente. Sicuramente l’assassino non ha più messo piede in quel bosco da quando ha ucciso la ragazza. E se pensi di trovare qualche indizio lì dentro, beh, accomodati pure: non è uno sprovveduto, deve aver programmato questo omicidio da mesi, se non anni, ha prestato attenzione a ogni dettaglio: le lacerazioni sulla bocca, i tagli precisi sulle palpebre, il cuore asportato… è troppo furbo per aver lasciato tracce. In compenso,» disse rialzandosi ed avviandosi fuori dal nastro di delimitazione «qui ne ha lasciate a sufficienza per noi. Ho bisogno di un po’ di tempo per analizzare i dati che abbiamo. Andiamo, John: ogni minuto in eccesso che passo alla presenza di Anderson e Donovan sento che un neurone mi abbandona.»
«Ti terremo aggiornato, Greg» disse John scrollando le spalle, come a dire “lo sai com’è fatto”.
 
***
«Oh, adoro i serial killer!»
Sherlock camminava avanti e indietro velocemente lungo il salotto, con un’aria determinata in viso.
«Sono così imprevedibili, contorti, insani. Probabilmente anche io sarei stato un’eccellente criminale.»
John, dalla cucina, chinato ad esaminare l’osso che avevano trovato in mano alla vittima, sospirò spazientito.
«Una donna è stata appena sventrata. Potresti almeno provare a non essere entusiasta?»
«Tecnicamente è stata sedata e poi strangolata, e solo infine sventrata. E come ti ho già detto, affliggermi per la sua morte non mi aiuterà a trovare il suo assassino. Oh, signora Hudson!» esclamò Sherlock, vedendo l’anziana donna fare capolino dalla porta.
«Ecco caro, una donna è appena passata a darmelo, dice che è per te.» disse tendendogli un foglio di carta spiegazzato.
«Perfetto. La ringrazio signora Hudson. Vediamo cosa dice…» mormorò il detective aprendo il piccolo foglio.
«Lesile Cooper.»
«Come dici?» domandò John distrattamente, ancora impegnato ad esaminare l’osso.
«Lesile Cooper, è il nome della vittima. Era una prostituta, come ho già detto, ieri all’una di notte è stata vista salire su una Jeep blu scuro. Ovviamente non ha fatto ritorno.»
«Come…?» iniziò a domandare John, quando si interruppe. «Giusto: la rete dei senza tetto, non è così?»
«Esatto, John. Allora, ricapitoliamo cosa abbiamo: un uomo, probabilmente robusto e maturo, data la forza che è stata necessaria per mozzarle la faringe, si aggira in modo anonimo in macchina e fa salire una prostituta. La porta fino a un bosco, lontano da occhi indiscreti, la fa scendere, probabilmente la spoglia e le dice di correre, di scappare. Perché lo fa? Perché la porta proprio in un bosco? E lei perché accetta di correre? Probabilmente perché lui estrae il fucile, certo. Forse un qualche gioco erotico? No, non credo. In ogni caso lei comincia a scappare, corre, finché non ha più fiato, finché non si accascia stremata, e solo allora lui la colpisce col fucile a freccette per sedarla. Perché non si è fermata prima? Lui l’ ha minacciata. O corre o muore. Il killer allora…»
«Come fai ad essere sicuro che è stata colpita solo quando ormai non riusciva più a reggersi in piedi?» chiese John, interrompendo il fiume di pensieri del detective.
«Ovviamente esaminando i muscoli dei polpacci: erano molto, molto rigidi. Acido lattico. Tantissimo. Più di quello che si forma per una breve corsa. Ergo: ha corso fino a quando non è stata completamente stremata.» spiegò in modo spiccio.
«Io… wow. In ogni caso, ho scoperto qualcosa di piuttosto strano: l’osso che abbiamo trovato non è umano. E’ animale. Di un cane.» disse John, alzando una provetta all’altezza degli occhi.
«Osso di cane? Cane, cane, cane… un fucile, un osso di cane, un vecchio osso di cane, un bosco, lei scappa, lui la cattura…Ma certo! Perché ci ho messo così tanto! John, lui stava cacciando!»
«Come, scusa?»
«E’ evidente, lui non solo uccide le sue prede, le caccia letteralmente! Le porta in un bosco, le fa scappare e lui le cerca, le rincorre con il fucile e probabilmente con un cane da caccia, le sta col fiato sul collo. Devono continuare a correre, a fuggire, nel momento stesso in cui si fermano lui le colpisce e le uccide. Oh, è così malato, così malsano!» spiegò Sherlock in modo concitato «Ma non credo sia tutto: quell’osso di cane ha ancora molte cose da dirci, non può fermarsi qui.» disse dirigendosi verso la cucina, fermandosi alle spalle di John. «Ogni killer che si rispetti, quando lascia un indizio, non si limita mai ad esplicitare solo il modo in cui ha ucciso: se lascia un messaggio significa che lo rifarà ancora, e questo ossa ci dirà dove o quando. Precisamente, quanto è vecchio quest’osso?» chiese il detective, stringendo gli occhi e fissando la provetta.
«In effetti è piuttosto vecchio, direi ad occhio e croce circa cinquant’anni.» rispose John.
«Molto bene, molto bene…» commentò Sherlock soprappensiero, estraendo il telefono e cominciando a digitare velocemente i tasti.
«E questo come può aiutarci?» chiese John ancora perplesso «potrebbe significare qualsiasi cosa.»
«Oh, John, John… rifletti! Non ci ha lasciato un osso qualunque, ci ha lasciato un osso di cane, capisci? Un osso di cane vecchio cinquant’anni. Probabilmente questo non è l’osso di un cane qualunque, ma è di un cane da caccia. E’ tutto collegato, capisci? E dove si trovano i cani da caccia? Negli allevamenti, giusto? Ma quest’osso è vecchio, vecchio di cinquant’anni, quindi limitiamo la ricerca agli allevamenti di cani di cinquant’anni fa, » spiegò velocemente, le parole pronunciate in modo fulmineo, senza mai smettere di digitare, «in questo modo il risultato è uno solo» concluse Sherlock, eccitato, girando lo schermo del telefono in modo che John potesse vedere ciò che vi era scritto «”Allevamento Morrison & Reed”: è lì che troveremo la prossima vittima» esclamò infine Sherlock con aria soddisfatta.
«Chiama Lestrade e digli di controllare in quell’allevamento abbandonato, noi lo raggiungiamo lì. Sono in forma!»
«Ma Sherlock, come fai a…» iniziò ad obiettare John.
«… essere sicuro che quell’osso ci indichi proprio il luogo del prossimo omicidio?» lo anticipò Sherlock. «Beh, oltre al fatto che ho piena fiducia nelle mie capacità deduttive, poniti questa domanda: perché avrebbe dovuto lasciarci un vecchio osso, se non per indicarci qualcosa? Nella mia non trascurabile esperienza con assassini e serial killer, posso asserire che l’unico scopo di quell’osso è mostrarci il luogo del suo successivo assassinio. L’altra possibilità è che indichi che la prossima vittima sarà un  povero, vecchio cane, ma credo sia più probabile la prima ipotesi.» Sherlock sembrava decisamente fiero di sé: era da mesi che John non lo vedeva così pieno di energia.
«Avanti, io chiamo un taxi, tu avverti Lestrade. Questa volta riusciamo a prenderlo in flagrante, di certo non si aspettava che lo capissimo così in fretta!» continuò Sherlock, pensando ad alta voce, sicuro di sé.
 
***
 
«Mi dispiace Sherlock, siamo arrivati troppo tardi.»
La voce di Lestrade lo raggiunse da lontano. Come aveva fatto ad essere così veloce? Non ci avevano impiegato più di sei ore a svelare il significato dell’osso, una persona qualunque avrebbe speso come minimo due giornate. Come aveva potuto anticiparli?
«La vittima è morta da almeno un’ora. Il killer ha agito nello stesso modo: l’ ha sedata, violentata, strangolata, ha effettuato i tagli e le lacerazioni e infine l’ ha portata qui, in questa allevamento abbandonato. Sembra sia stato decisamente più crudele nei confronti di questa donna: come vedi le ha tagliato il naso e l’orecchio sinistro, ma li ha lasciati qui affianco.Come sempre le ha prelevato il cuore: credo che lo prenda a mo’ di trofeo. Ma questa volta c’è qualcos’altro: il carnefice ha estratto anche un rene, uno solo.» spiegò John dopo aver svolto l’autopsia.
«Un rene? Perché proprio un rene? Perché uno solo?» chiese Sherlock ad alta voce.
«E’ quello che speravamo ci spiegassi, Sherlock. A quanto pare questa è l’unica cosa fuori posto, l’unico indizio.» disse Lestrade con aria leggermente delusa.
«Anche la tecnica di cattura sembra essere la stessa della precedente: di nuovo graffi su gambe e braccia, residui d’erba e di foglie; deve averla di nuovo cacciata» proseguì John.
Sherlock cominciò a camminare avanti indietro, congiungendo le dita delle mani sotto il mento, gli occhi chiusi per l’intenso lavoro cerebrale. «Qualcosa manca, qualcosa manca…perché un rene? Non ha nessun significato particolare. Il cuore è il simbolo della vita, simbolo di vittoria, supremazia, ma perché prendere un rene? Per errore? Per intimorire? O forse per farci girare in tondo? Forse è proprio questo il suo scopo. Forse ora non vuole più farsi catturare, forse ha avuto paura. Ma è strano, è strano. Non ha lasciato impronte, ovviamente, è troppo scaltro. E allora perché preoccuparsi? Perché non divertirsi? Forse ha in mente qualcos’altro…»
Sherlock si allontanò in fretta dalla scena del crimine, il vecchio allevamento Morrison & Reed, ed entrò da solo nel primo taxi che riuscì a fermare. John sospirò, avviandosi anche lui per prendere un altro taxi: sarebbe stata una notte molto lunga.
 
Quando raggiunse il 221b di Baker Street, il suo coinquilino era disteso sul divano, ad occhi chiusi, le mani congiunte sotto il mento. «C’è qualcosa, qualcosa…»
Stava cercando un’informazione per lui vitale nel suo palazzo mentale, intuì John.
«Ti preparo una tazza di tè: è sempre la miglior soluzione» dichiarò John entrando in cucina. Sherlock non rispose.
Mentre aspettava che l’acqua bollisse accese il computer e cominciò a battere i tasti velocemente. Vedere Sherlock abbattuto era frustrante per lui: era raro vederlo in difficoltà, vederlo preoccupato.
Sorseggiando la sua tazza di tè, con la luce blu dello schermo del computer che gli illuminava il volto, a un tratto John esclamò, smettendo all’istante di digitare tasti, lo sguardo fisso sul display:
«Sherlock, questo assassino agisce proprio come Jack lo squartatore nell’uccidere le vittime, no?» cominciò.
«Esatto, dove vuoi arrivare.»
«Ho fatto una veloce ricerca, e ho scoperto che a una delle vittime di Jack lo squartatore , Catherine Eddowes, mancava proprio un rene. Fu inviato da Jack stesso qualche giorno dopo alla polizia, con una lettera. Potrebbe essere questo il pezzo mancante.»
Sherlock spalancò gli occhi all’improvviso: il suo cervello stava elaborando febbrilmente quei nuovi dati; infine esclamò :«Come ho fatto ad essere così cieco? Molto, molto bene John: cosa farei senza il mio blogger?» un leggero sorriso gli increspò le labbra, alzandosi dal divano «Ora non ci resta che aspettare: il killer si farà vivo da solo.»
 
***
«Perché hai fatto il giro per Hyde Park invece di tornare direttamente qui?»
La voce di Sherlock raggiunse John ancor prima che queste avesse varcato la soglia.
«Ho incontrato Sarah, abbiamo chiacchierato un po’. Credo sia inutile chiederti come hai fatto a capirlo.» gli rispose John, avvicinandosi per porgli una busta con la colazione appena comprata.
«Semplice: il terriccio sulle tue scarpe. In base al colore e alla consistenza, posso affermare che prima di tornare a casa hai allargato il tuo tragitto passando per il parco. So distinguere i tipi di terreno a colpo d’occhio.»
«Sempre modesto, vero?» disse John con un sorrisetto. Sherlock rispose emettendo una sorta di grugnito. Era nervoso, ma cercava di mascherarlo: era rimasto disteso sul divano tutta la notte, ma John sapeva che non aveva dormito; forse stavo ancora pensando, forse stava semplicemente aspettando.
«Hai visto? Siamo in prima pagina.» riprese John, sventolando un quotidiano Londinese «”Il detective Sherlock Holmes sulle tracce di uno spaventoso serial killer: il ritorno di Jack lo squartatore?” C’è persino una foto: siamo venuti bene, non pensi?» ridacchiò John, indicando un’immagine che ritraeva lui Sherlock la sera prima, nell’allevamento abbandonato.
«Pensi che possa essere opera di Moriarty?» disse John facendosi serio, seduto sulla sua poltrona, addentando una brioche alla marmellata.
«Di certo non direttamente. Sai che lui non si sporca mai le mani. Ma non escludo l’ipotesi che stia manovrando lui da dietro le quinte questo cacciatore fanatico di Jack lo squartatore. Ha già giocato con noi una volta in questo modo.» rispose Sherlock, senza toccare la sua colazione: riteneva che la digestione rallentasse i suoi processi cerebrali. «Potrebbe essere semplicemente un pazzo in cerca di gloria, ma un pazzo molto intelligente, scaltro, calcolatore. Ma ha anche lui dei limiti: quando ha squarciato il ventre di quelle donne, come hai già notato John, il taglio era impreciso. Certo, perché  evidentemente non è un chirurgo, ma quella lacerazione era decisamente troppo irregolare: gli tremava la mano. Aveva paura. Non solo, a differenza di Jack lo squartatore, lui non uccide mai le prede semi-decapitandole, ma le strangola. Una cosa molto vile, oserei dire. Il nostro assassino ha paura.» disse Sherlock con aria assorta, lanciando di tanto in tanto uno sguardo a John.
«E’ arrivato qualcosa per te Sherlock!» la voce della signora Hudson li raggiunse dal piano inferiore. Non fece in tempo a pronunciare metà frase che entrambi gli uomini si alzarono di scatto e si precipitarono giù dalle scale: stavano pensando la stessa cosa.
«Santo cielo! Perché tutta questa fretta per un bigliettino?» esclamò l’anziana signora.
«Me lo dia, signora Hudson.»
Appena Sherlock posò gli occhi sul contenuto del foglio di carta, un’espressione delusa occupò il suo volto. Si girò avvilito, e ripercorse le scale.
«Che cosa dice? E’ l’assassino?» chiese John agitato.
«Elaine Pratt.»
«Come?»
«Elaine Pratt. Il nome della seconda vittima. Rete dei senza tetto. Falso allarme.» rispose Sherlock telegrafico. Si riposizionò sul divano. Dovevano aspettare.
 
***
Le quattro di mattina. Il dottor Watson riposava pacifico nel suo letto. La sua pistola, una Smith &Weston, risposava anch’essa sul comodino: la cautela non era mai abbastanza.
Il detective Holmes giaceva in dormiveglia sul divano: si era alzato da lì solo quando era stato costretto dal suo coinquilino a mettere qualcosa sotto i denti. Ma lui non aveva bisogno di mangiare: aveva bisogno di risposte.
Perché l’assassino si faceva attendere? Cosa aspettava? Era forse tutto parte di un piano? Il suo intento era forse quello di fargli perdere la sua già scarsa pazienza? E soprattutto perché uccideva quelle donne? Chi si nascondeva dietro quella maschera invisibile?
Mentre era immerso in quelle considerazioni, udì un sottile fruscio provenire dal piano terra, seguito dal leggero chiudersi di una porta. Si sollevò all’istante dal divano, e avanzò velocemente verso le scale. Una figura nera si mosse alla sua destra non appena mise piede nel corridoio.
«L’hai sentito anche tu, Sherlock?»
John era in piedi, con la pistola stretta tra le mani e un’espressione decisa in viso.
«Ho sentito solo qualche leggero rumore provenire dall’ingresso.» rispose ora calmo Sherlock, la tensione di qualche secondo prima svanita, girandosi per tornare in salotto.
«Sherlock, credo dovresti dare un’occhiata a questo.»
La voce preoccupata di John lo fece voltare: il dottore stava indicando qualcosa sul pavimento, al principio della scale: una piccola scatoletta grigia di cartone, consunta e dall’aria usurata. Sotto di essa un foglio di carta logoro color giallo ocra, con i bordi strappati.
Sherlock e John si chinarono contemporaneamente. John estrasse il foglio, mentre Sherlock leggeva da dietro la sua spalla.
 
“Dall’inferno. (1)
Mr Holmes
Signore
Vi mando metà del rene che preso da una donna che ho conservato per voi l’altro pezzo l’ho fritto e l’ho mangiato era molto buono. Potrei mandarvi il coltelo(2) insanguinato con cui l’ho tolto se solo aspettate un po’
Firmato
Prendetemi se ci riuscite Signor Holmes.”

 
«Sherlock, guarda.»
John aprì la vecchia scatola di carta: mezzo rene vi giaceva dentro, ancora sanguinante.
«Accolgo la sua sfida. Ora abbiamo del materiale su cui lavorare. Avremo bisogno di molte tazze di tè, John.»
 
 
«Come pensi abbia potuto trovare la nostra casa, sapere che eravamo anche noi a seguire il caso? » chiese John.
«Qualche ora fa non mi hai forse mostrato un giornale con una nostra foto in prima pagina?» ribatté Sherlock.
«Oh, certo. Merda. Ultimamente la stampa londinese non sta esattamente aiutando i suoi cittadini.
«Lettera su carta vecchia, vecchia scatola, vecchio osso … al killer piace il vecchio» riprese John, già alla sua quinta tazza di tè. Era da due ore che riflettevano su quei nuovi indizi.
«L’assassino sta ripercorrendo esattamente gli atti principali di Jack lo squartatore: il rene, la lettera… questi ultimi sono ovviamente teatrali; l’unico indizio ce lo può fornire il testo contenuto nella lettera: ci sono errori ortografici e punteggiatura pressoché assente: uno scialbo tentativo di sembrare un illetterato. Ergo il nostro assassino è un uomo dotto. Questa tecnica è banale anche per lui. Che mi dici invece della carta su cui è scritta la lettera, John?» chiese Sherlock, mentre esaminava ad alta voce i dati appena raccolti.
«Come ci aspettavamo è una carta piuttosto antica, non credo la producano più da mezzo secolo. Inoltre è stata scritta con penna stilografica e inchiostro.» rispose John.
«Un’altra conferma. Potrebbe indicare una vecchia cartiera in disuso, ma che collegamento avrebbe con il tema della caccia? Nessuno, meglio scartare questa ipotesi. Questa scatola invece…» proseguì Sherlock, rigirandosi il vecchio contenitore in mano «Ho bisogno di analizzarla.»
Si posizionò sul tavolo della cucina, ingombro di ogni sorta di provette, beker, microscopi ottici e a elettroni. Esaminò con cautela la vecchia scatola con la lente d’ingrandimento, per poi analizzarne un campione al microscopio.
«John, vieni a dare un’occhiata.»
Quando John si avvicinò, Sherlock gli porse la lente d’ingrandimento.
«Osserva questo lato della scatola: cosa vedi?»
«Sembra… sembra ci siano stampate delle lettere maiuscole. La carta era così consunta che a occhio nudo non si notavno. Penso che quella sia una “B”. “BA”… “BANG”. C’è scritto “BANG”. Cosa può voler dire?»
«Dobbiamo scoprirlo, ma credo di avere già un paio di idee.» rispose Sherlock con aria enigmatica, con gli occhi che tornavano a brillare. «BANG. Cos’è BANG? Forse il Big Bang? No, no. B. A. N. G. Chi è BANG? Cos’è che fa BANG? Oh… Fin troppo scontato, avrei dovuto immaginarlo.»
Estrasse velocemente il cellulare dalla tasca della giacca, le sue dita volavano febbrili sui tasti.
«John, cos’è che fa BANG? I fucili, le pistole, no? E noi abbiamo a che fare con un cacciatore.» cominciò a spiegare Sherlock, senza mai staccare gli occhi dal telefono «Ma non è tutto. BANG non è solo un’onomatopea, è anche…» girò il display in modo che John potesse leggerlo «è anche il nome di una marca di proiettili(3). Non li producono ormai da molto tempo. Una marca vecchia. Proprio come questa scatola, che a quanto pare non è solo il contenitore del piatto preferito del nostro omicida, ma è anche la chiave per il prossimo indizio.» esclamò eccitato. «Ora basta vedere se ci sono fabbriche di proiettili in disuso nei dintorni di Londra. Infatti ecco qua: “Stabilimenti BANG, dal 1889”, in Spinner’s End. Avverti Lestrade: questa volta lo cogliamo in fallo. Meno di tre ore!»
 
 
***
«Com’è possibile!?»
Sherlock sembrava fuori di sé.
«L’abbiamo mancato di poco, Sherlock: la donna è morta da meno di mezz’ora.» cercò di tranquillizzarlo John.
«Beh, evidentemente ormai non ha più importanza. Avanti, procediamo con l’ispezione» disse Sherlock riprendendo controllo di sé.
«Stessa modalità, stessa tecnica: caccia, seda, stupra, strangola, squarcia. Ha prelevato come al solito il cuore, ma oltre a questo niente di insolito.» spiegò brevemente John.
«Forse è proprio questa la cosa insolita.» ribatté Sherlock chinandosi a sua volta sul cadavere.
«Come le altre due, è stata costretta a scappare fino allo sfinimento. Ma non mi sembra ci siano elementi di rilievo» proseguì John.
«Questa è la tua opinione. Come al solito guardi ma non osservi. Passami una provetta e una pinzetta, John» disse Sherlock imperioso.
«Dove sono?» chiese John rassegnato.
«Nella tasca del cappotto»
John sbuffò, prese i due oggetti richiesti dal cappotto che l’amico stava indossando in quel momento e glieli passò.
«Grazie, infermiera». Sherlock gli rivolse un sorriso divertito.
«Oh, ma stai zitto. A volte sei insopportabile.»
«Questo,John» disse Sherlock alzandosi e dando un colpetto alla provetta che conteneva una sostanza marrone-verde «è il nostro indizio.»
«Quello cosa dovrebbe essere?» chiese John dubbioso.
«Terriccio. A prima vista direi limo. Trovato nel palmo della sua mano destra.»
«Sei sicuro sia un indizio? Potrebbe essere finito nella mano della vittima per caso mentre stava scappando, magari in seguito a una caduta nel bosco» obbiettò Lestrade, che nel frattempo li aveva raggiunti
«Ispettore, a volte sono seriamente convinto che stia regredendo. Per prima cosa, questo campione è completamente diverso da quello trovato sui piedi nudi, si nota a colpo d’occhio: il primo, come ho detto, è limo; il secondo è terreno organico. Seconda cosa, si trovava nella mano. Non un posto qualsiasi. Sono sicuro che è stato messo dall’assassino quando ormai la donna era morta, esattamente come ha fatto con l’osso di cane. Come ho già ripetuto: l’assassino vuole essere trovato. Ci sta dando ogni volta un indizio. Ora ho tutto quello che mi serve. Andiamo John, più restiamo qui, più rischiamo di diventare ordinari.»
Sherlock trascinò John con sé fuori dalla vecchia armeria.
«Sherlock, stavo pensando: questa è già la terza morte, ed in genere a Jack lo squartatore vengono attribuite cinque vittime totali: questo significa che abbiamo ancora due tentativi per riuscire a catturarlo.» spiegò John.
«Questo significa che non possiamo permetterci che altre due prostitute vengano uccise.»
«Da quando ti preoccupi della loro sorte?»
Sherlock non rispose. Si limitò ad alzare un braccio per fermare un taxi.
 
Quando tornarono al 221b di Baker Street era già mezzogiorno. Sherlock afferrò il suo portatile e si precipitò al microscopio: doveva analizzare il campione di terriccio.
«Sherlock, hai bisogno del mio aiuto o posso uscire a comprare il pranzo?»
«Vai pure» rispose il detective, concentrato.
«Allora… bene. Torno tra poco»
Sherlock non diede segno di averlo sentito, ormai era completamente assorto.
«Limo. Proprio come avevo intuito. Quindi un luogo in riva al Tamigi. Ma dove precisamente? Rifletti: è un fanatico della caccia. Quali sono i luoghi legati a questa attività? Rifugi, riserve di caccia. Ora basta limitare la ricerca ai rifugi e alle riserve in riva al fiume. Come le altre volte il comune denominatore è l’antichità, quindi la ricerca si riduce a un solo risultato: “Riserva Wolf”. Vedi John?» esclamò Sherlock soddisfatto. Ma voltandosi non vide nessuno. Si ricordò che John era uscito. «Starà di nuovo facendo un giro per il parco con Sarah.» borbottò.
Estrasse il cellulare e digitò un messaggio:
“Ho trovato il prossimo luogo. Riserva Wolf. Raggiungimi lì. Ti aspetto. Avverti Lestrade. SH”
Questa era la volta buona. Doveva esserlo. Nessuno poteva sfuggirgli in eterno. Nessuno poteva.
 
Stava aspettando John da quasi un’ora. Nessuno si faceva vivo, né John, né Lestrade. Si trovava di fronte a un fitto bosco, la cui entrata era segnalata da un vecchio cancello di ferro. Alle sue spalle sentiva il fiume Tamigi scorrere. Si chinò, affondò un dito nel suolo molliccio e lo estrasse esaminando i residui di terra: esattamente la stessa sostanza. Limo.
Si trovava a una manciata di chilometri fuori Londra, nei dintorni non c’erano abitazioni, si estendevano solo boschi vergini.
La riserva, come riportava scritto un cartello provato dalle intemperie, non era più in funzione dal 1999. Era abbandonata.
Stanco di attendere, dopo aver guardato per l’ultima volta l’orologio, scavalcò con un’abile balzo il cancello arrugginito e si avviò verso il cuore della foresta.
Il bosco era cupo, l’umidità quasi palpabile. Si distingueva a fatica il cielo fra i fitti rami, ma si poteva intuire che si stava facendo lentamente sera. Ogni tanto il cri-cri di qualche grillo o un fruscio di foglie mosse da qualche piccolo animale turbava il silenzio altrimenti perfetto. Notò tra la vegetazione dell’erba calpestata, dei rametti spezzati: era passato di lì.
Sherlock si maledisse mentalmente per non aver portato la pistola. Contava sempre sul fatto che fosse John a provvedere a quello. Dove poteva essere finito quel dannato dottore? Sperava solo che le “chiacchiere” con Sarah non l’avessero distolto dalle sue priorità. Lui era la sua priorità.
Procedeva lentamente, guardandosi attorno alla ricerca di qualche segno, di qualcosa fuori posto, continuando a seguire la traccia lasciata dal probabile assassino. Il suo sguardo vagava tra la vegetazione, senza tralasciare nessun dettaglio. Un fruscio alle sue spalle. Si voltò: solo una piccola lepre. Continuò con passo più veloce: qualcosa aveva attirato il suo sguardo. La traccia finiva lì: sul terreno c’era qualcosa che sembrava…
«Una botola. Forse un bunker. Ma cosa…?»
Una mano, robusta, enorme, si serrò attorno alla sua bocca. Un altro braccio si chiuse attorno al suo busto, tenendolo fermo. Cominciò a dimenarsi, ma prima di riuscire a sciogliersi da quella morsa, sentì un forte bruciore, al braccio sinistro. Le sue membra cominciarono a perdere vigore, le ginocchia cedettero. Gli occhi minacciavano di chiudersi, stava scivolando giù, sempre più giù.
C’era oscurità, oscurità…
 
***
Aveva ripreso conoscenza, ma non aprì subito gli occhi: cercò di stabilire la situazione basandosi sugli altri suoi sensi. Sentiva tutte le ossa che gli dolevano: era costretto in piedi, impossibilitato di muoversi; sentiva delle sbarre fredde premergli sulla pelle: immaginò di trovarsi in una gabbia, alta stretta, che lo obbligava a restare in quella posizione. Il braccio sinistro gli pulsava ancora: dovevano avergli iniettato qualche sedativo. La seconda cosa che lo colpì fu il forte, stagnante, odore di chiuso, odore di terra, odore di umidità: doveva essere stato portato in quel bunker che aveva scoperto proprio prima di essere sedato. Gli tornarono alla mente ricordi confusi di quei pochi, angoscianti secondi: si era sentito braccato, intrappolato, non aveva potuto fare niente, non aveva potuto reagire.
Percepiva la presenza di qualcun altro, nonostante il completo silenzio che aleggiava in quel luogo: ne poteva sentire il respiro.
Spinto dal bisogno di sapere, aprì lentamente gli occhi: inizialmente non riuscì a vedere niente, il buio premeva contro i suoi occhi come una presenza materiale. A poco a poco cominciò a distinguere i contorni delle sbarre. Abbassò gli occhi a controllare le mani, risalendo poi sulle braccia e scendendo lungo il torace e le gambe: i vestiti erano sporchi di terra e umidi, probabilmente bagnati dal suo stesso sudore, con delle lacerazioni ai bordi, ma oltre a questo non sembrava aver subito ulteriori danni. I suoi occhi furono attratti da una luce proveniente di fronte a lui: era una torcia, sorretta da un gancio attaccato al muro di terra che fungeva da parete. Prima però di riuscire ad esaminare il resto del luogo in cui si trovava, vide ciò che aveva più cercato e allo stesso tempo temuto. Poco distante dalla torcia, vi era un’altra gabbia, identica alla sua. Al suo interno un uomo dai corti capelli biondi tendenti al grigio, dai lineamenti decisamente familiari, riposava con la testa abbandonata sulle sbarre. Avevano preso anche John. Probabilmente non appena era uscito da casa. Per questo non rispondeva ai messaggi, per questo Lestrade non era arrivato, per questo lui non era arrivato.
I suoi vestiti erano umidi e sporchi proprio come quelli di Sherlock: indagò velocemente con gli occhi per assicurarsi che non avesse subito violenze. Negativo.
Voleva cercare un modo per svegliarlo e catturare la sua attenzione, ma gli occhi di Sherlock furono attratti da qualcos’altro, qualcosa di più pericoloso. Non erano soli. C’era qualcun altro nell’oscurità.
Vide un uomo seduto nella penombra, con solo metà viso esposto alla luce della torcia. Era un uomo robusto, possente. Era completamente pelato e non mostrava accenni di barba. Aveva una mascella pronunciata, un viso squadrato nel quale erano inseriti due alti zigomi, sormontati da due occhi grigi dalle palpebre pesanti. Indossava una camicia nera dalle fattezze orientali, che lasciava intravedere il petto villoso. Aveva un’espressione di calma crudeltà. Aveva un aspetto che incuteva terrore, ma allo stesso tempo che affascinava e suscitava un rispetto riverenziale. Aveva l’aspetto di un uomo avvezzo ad ordinare e ad essere obbedito: l’aspetto di un soldato, di un colonnello.
«Lei ha mai ucciso un uomo, signor Holmes?»
L’uomo nell’ombra parlò: aveva una voce profonda, baritonale, con un velato accento americano.
Il corpo di Sherlock fu attraversato da un sottile brivido involontario al suono di quella voce: una cosa più unica che rara.
«Sì, ho ucciso.»
La sua voce uscì calma dalla sua bocca, quasi estranea, a nascondere l’angoscia che lo attanagliava. Angoscia per lui, ma in primo piano per John: perché non dava ancora segni di vita?
«Ho passato tre anni in Vietnam, ma è l’unico periodo della mia vita che ricordi. Rammento che la prima volta che uccisi un uomo rigettai. La seconda provai un vago senso di tristezza. La terza ero diventato indifferente. La quarta, la quinta, la centesima volta, provai piacere.»
Sherlock restò muto, in silenzio, a soppesare quelle strane, incredibili parole. Le parole di un pazzo, o forse le parole di un saggio. E’ risaputo che il confine tra follia e genialità è molto sottile.
«Ho visto orrori, orrori che lei non può neanche immaginare. Orrori che il dottor Watson ha visto solo attraverso una fitta nebbia. Quando un uomo ha visto ciò che ho visto io, non ritorna più ad essere come tutti gli altri. Si eleva a una sorta di grado superiore. Perché ormai ha visto tutto ciò che un uomo, spinto dalla brama, può fare.» continuò il colonnello.
Passò un minuto di silenzio.
«Lei è mai stato in oriente? In Vietnam?»
«No, signore.»
«Una volta, durante una spedizione, mi inoltrai in una foresta, in riva al fiume. Camminai fino a quando non raggiunsi un piccolo torrente. Sull’altra sponda c’era una tigre, che si stava abbeverando. Alzò lo sguardo su di me, e se ne andò semplicemente. La guardai allontanarsi. In quel momento, la guerra non sembrava così male. La notte pregavo perché la guerra non finisse. Mai. Avevo capito di averne bisogno. Sa cosa significa avere un’arma in mano? Significa poter decidere tra vita e morte. Significa essere un dio. Nelle tue mani viene posto un potere oltre ogni misura. Io non avrei mai abbandonato quel potere.»
«Allora perché è qui?»
Nonostante quelle parole fossero quanto di più squilibrato avesse mai udito, ne era affascinato. Voleva sapere.
«Consideravano i miei metodi malsani. Mi consideravano un assassino. Non lo trova divertente? La guerra è uno strano mondo. Ti chiamano eroe se uccidi nel modo in cui ti hanno insegnato. Ti chiamano mostro se eccelli con i tuoi mezzi. Anche lei crede che io sia un assassino, non è così? Anche lei crede che i miei metodi siano malsani?»
«Io non vedo nessun metodo.»
Il colonnello rimase in silenzio, come se non lo avesse udito. Aveva gli occhi chiusi, era assorto nei suoi pensieri: stava rievocando immagini di anni e anni prima.
«Perché John è qui?». Sherlock si era deciso a porgere quella domanda che dall’inizio gli premeva.
«Non si preoccupi, al dottor Watson non succederà niente. O meglio, dipenderà da lei.»
Il colonnello si alzò lentamente, e scomparì nell’oscurità, attraverso quello che doveva essere una porta. Sherlock rimase solo con John, ma quest’ultimo continuava a restare immobile. Sembrava… morto.
 
Il tempo sembrava non scorrere. Ma Sherlock aveva la presenza d’animo per stabilire che era passato un giorno, o poco più. Sentiva di avere sempre meno forze: non mangiava da trentadue ore. Per lui non era mai stato un problema mangiare poco, ma il sedativo l’aveva talmente stremato: aveva bisogno di energie. Il suo carceriere gli aveva dato solo un po’ d’acqua, che aveva bevuto attraverso un primitivo mestolo di legno. Il minimo per non disidratarsi. Il colonnello non si era più mostrato da quella volta.
La torcia si era spenta da molte ore ormai. Secondo Sherlock circa sei. Era immerso nella tenebra più cupa. Sherlock tentò di nuovo:
«John. John! Svegliati, ti prego.»
Era da ore che, contro ogni prudenza, provava a cercare un segno di vita da parte del dottore.
Ma finalmente: «Sh…Sherlock?»
Un flebile, roco sussurro. Ma bastò per far tornare un briciolo di speranza nel detective.
«John, come ti senti?» chiese agitato.
«Ho avuto giorni migliori. Dove siamo? Cosa ci facciamo qui?» La voce di John si fece via via più preoccupata, ansiosa. «Ricordo che non appena sono uscito per prendere il pranzo, un uomo mi ha fermato, e… non ricordo più niente poi. Spiegami cosa sta succedendo.»
«John, abbiamo trovato il nostro assassino.» la voce di Sherlock era poco più di un sussurro «E’ un vecchio soldato americano reduce del Vietnam. Non so cosa ci faccia qui. E’ stato allontanato dall’esercito per i suoi metodi barbari. E’ ossessionato da ciò che ha visto durante la guerra, ha bisogno di morte, bisogno di crudeltà. Ma ciò che è ancora più sconvolgente è che non sembra pazzo. Sembra quasi… saggio.» Sherlock si stupì nell’udire quelle sue stesse parole.
«Cosa vuole da noi?» John stava radunando tutta la sua calma e razionalità.
«Non lo so ancora, ma potrei tirare a indovinare. Ma ti prometto una cosa: se qualcuno morirà, di certo sarà lui.»
 
 
Erano passati tre giorni. Si reggevano a stento in piedi solo grazie alle sbarre della gabbia che li costringevano a stare eretti. Niente cibo, niente luce, niente aria salubre. Solo un po’ d’acqua che erano costretti a bere. Non avevano nemmeno la forza di parlare.
John sperava che Lestrade avesse mobilitato le sue forze per trovarli. Non sapeva per quanto tempo ancora avrebbe retto. Aveva bisogno di aria che non fosse viziata, del sole, di acqua fresca, di cibo, di energie, di muoversi.
«Come si sente, signor Holmes?»
Il colonnello era tornato, senza che loro se ne accorgessero. Aveva parlato con la solita voce calma. Era la prima volta che John lo vedeva: aveva riacceso la torcia. Aveva una aspetto che avrebbe definito tenebroso.
«Sto bene.» La voce tradiva le sue parole.
«Non mi menta, signor Holmes. Se c’è una cosa che non sopporto è l’odore marcio delle menzogne. Non insulti la mia intelligenza.»
«E allora perché me lo chiede, se crede di conoscere la risposta? Non insulti la mia intelligenza giocando con me.» Il suo tono era duro, ora. Non doveva lasciarsi ammaliare dalle sue parole.
«Quando ero in Vietnam,» cominciò il colonnello, di nuovo ignorando la risposta di Sherlock «c’era una cosa che non sopportavo più delle altre. Era il modo che i miei compagni avevano di convivere con la loro cosiddetta coscienza: prima facevano a brandelli civili vietnamiti, e poi offrivano loro un cerotto, per medicarsi. Era ipocrisia, erano bugie, e più vedevo bugie, più ne ero disgustato.»
La voce del colonnello ora era leggermente incrinata. La luce inondava il suo viso, nascondendo alla vista il resto del corpo. «I vietcong non avevano scelta: o vincere o morire. Per questo erano integri. Se noi americani davamo loro del cibo, lo vomitavano. Se facevamo loro dei vaccini per le malattie, si tagliavano il braccio nel quale avevano ricevuto l’iniezione. E allora pensavo: “Forse questi uomini meritano di vivere più di uno qualsiasi dei miei compagni. Forse loro dovrebbero morire”. Lei ha mai ucciso un amico, un compagno? Io una notte ne uccisi tre. Cosa ne pensa?»
«Penso che lei abbia perso il contatto con la realtà. Penso che non sia più umano,e nemmeno lei stesso si considera umano.»
 
Sherlock era in un tormentato dormiveglia da ore. Tutto il suo corpo gridava un muto urlo di protesta. Non riusciva più a sopportare niente: quelle sbarre, quell’oscurità, la sua stessa debolezza. Non si perdonava il fatto di essere stato così sprovveduto: aveva lasciato che John venisse catturato, si era lasciato lui stesso catturare, non aveva impedito la morte di neanche una di quelle donne. Ora lui e John erano entrambi sull’orlo del baratro.
La luce si accese all’improvviso. Non l’aveva sentito arrivare: la capacità dei suoi sensi si era notevolmente ridotta. Aveva anche la vista annebbiata. Sollevò piano la testa: il colonnello si trovava esattamente sotto la torcia, la sua figura massiccia per la prima volta esposta interamente alla luce. Ma c’era qualcosa di sbagliato. Qualcosa di profondamente sbagliato. No, no…
Il colonnello teneva fra le sue enormi mani la gola di John, il quale aveva la testa che si reggeva a stento, gli occhi che minacciavano di chiudersi: la prigionia l’aveva stremato molto più di Sherlock.
Il colonnello stava immobile. Lo fissava solamente. Gli occhi si Sherlock erano puntati sul dottore, così fece fatica ad accorgersi dell’altra cosa profondamente sbagliata.
Ai piedi del colonnello c’era… un corpo. Un corpo di donna nudo, le braccia lungo i fianchi, prono, con i capelli neri che si scioglievano lungo le spalle e la schiena, con quelli che sembravano residui di foglie. Le gambe erano ricoperte di graffi. Ma era ancora viva. Vedeva la schiena alzarsi e abbassarsi lentamente.
«In natura vige la legge del più forte. Ma anche fra gli uomini è ancora così. E’ inutile negarlo.»
Il colonnello parlò, con una sorta di vena di eccitazione nella voce.
Si avvicinò a Sherlock, senza mai lasciare la presa dalla gola di John, estrasse una chiave, la inserì in una toppa, e aprì infine la gabbia in cui era rinchiuso da quasi quattro giorni.
Non appena Sherlock fece per uscire, le sue ginocchia non furono in grado di reggerlo, e si accasciò al terreno.
«Una vita per un’altra. E’ questa la legge. Preda e predatore
«Che cosa vuole?» chiese Sherlock, ritrovando un po’ di forze, finalmente per alzarsi in piedi e fronteggiare il colonnello.
«Voglio che lei attui questa regola. Una vita per un’altra. So quanto tiene al Dottor Watson. Uccida definitivamente questa prostituta. La strangoli. Mi porti il suo cuore. E io lascerò vivere il dottore.»
La sua voce era come acciaio ora. Trapassò Sherlock da parte a parte.
«Perché dovrei farlo? Lei mi ha liberato. Posso affrontarla.»
«Sappiamo entrambi che non ne avrà la forza. E dopo che avrà perso, assisterà alla fine del dottore. Per colpa sua. Le lascio la possibilità di salvarlo.»
«Perché vuole che la uccida?»
«C’è qualcosa di straordinario, di mistico, nell’assistere alla fine di una vita. Un attimo prima un’anima vive in un corpo, un attimo dopo se n’è andata. Non è forse affascinante? Cos’è che regola questo magnifico processo?» Il colonnello sembrava quasi assorto dalle sue stesse parole.
«Prima mi dica una cosa: perché le caccia? Perché Jack lo squartatore?» Sherlock doveva sapere. E sperava di temporeggiare.
«Perché? Pensavo che l’avesse intuito. La morte è un fenomeno estremamente affascinante. Ne sono ammaliato. Dopo la guerra, dopo aver visto quegli orrori che ormai orrori più non erano, erano amici, la morte, i metodi di morte, sono diventati una sorta di… ossessione. Rimasi affascinato da Jack lo squartatore. Il suo desiderio di morte rispecchiava il mio. I suoi metodi rispecchiavano i miei. Era quasi come un mio predecessore. Ma leggere di morte non era abbastanza. Uccidere non era abbastanza. La caccia era ciò che era più vicino alle mie idee: preda e predatore, dominio, controllo, supremazia. Ho elaborato un piano per soddisfare i miei bisogni: c’è chi ha bisogno del lavoro per vivere, chi del cibo, chi del sesso… io ho bisogno di morte. La morte è potere.
Tutti quegli indizi per stuzzicare le vostre menti, l’orrore nei vostri volti… tutto ha portato a questo.» Fece un cenno verso il corpo della donna e si zittì.
Sherlock non si mosse, continuando a sostenere il suo sguardo.
Senza una parola, senza niente di più di un movimento delle mani, il colonnello cominciò a stringere la presa sulla gola di John. Il dottore cominciò a tossicchiare e a gemere, il suo colorito si fece paonazzo.
Sherlock impallidì. Si chinò sulla donna. Senza alzare lo sguardo, sentì John prendere una lunga boccata d’aria, continuando a tossire: il colonnello aveva allentato la presa.
Fissò per qualche secondo la donna: era grato che fosse girata di schiena, che fosse svenuta, che i suoi occhi fossero chiusi: non avrebbe sopportato di vedere la luce abbandonare i suoi occhi.
Era talmente disgustato, talmente arrabbiato, talmente impotente. Priorità. Qual’era la sua priorità ora? Era John, la vita di John. Doveva farlo. Strinse gli occhi e avvicinò le mani alla gola della donna, le posizionò attorno alla faringe: non aveva mai strangolato nessuno. Cominciò a stringere. Strinse, strinse… Sentiva un macigno nel suo petto, sentiva la sua testa che urlava. John, doveva pensare a John. Tutto si sarebbe risolto. Era quasi divertente come non riuscisse a credere alle sue stesse parole.
Il battito si era fermato. Era tutto finito.
«Sherlock…» John parlò. La sua voce era un’implorazione. Chiedeva aiuto.
«Finisca il lavoro, prego. Una vita per un’altra.» La voce del colonnello era alterata dall’eccitazione: la morte lo eccitava.
“No, no…”
Sherlock continuava a ripetere quel monosillabo nella sua testa. Si costrinse a pensare a John.
 “No, no…”
Voltò la donna sulla schiena.
“No, no…”
Era un corpo morto ormai. Ne aveva visti centinaia.
“No, no…”
Era come essere di nuovo al Bart’s. Un esperimento come molti altri.
“No, no…”
Afferrò un coltello dal manico di legno che giaceva al suo fianco. Sembrava si fosse materializzato lì apposta, per concludere quell’orribile scherzo.
“No, no…”
Quella donna era morta. Lui l’aveva uccisa. Chiuse gli occhi.
“No, no…”
Affondò il coltello nel petto. Sentiva il sangue ancora caldo scorrergli sulle mani, bagnargli le maniche della camicia logora.
“No, no…”
John, doveva pensare a John mentre faceva scorrere il coltello lungo lo sterno, fra la cassa toracica. Doveva pensare a John mentre approfondiva quello squarcio.
“No, no…”
Doveva pensare a John mentre poggiava il coltello e affondava la mano tra le viscere di quella donna.
Doveva pensare a John mentre le sue dita affusolate si chiudevano attorno all’organo vitale di quel povero corpo. Un colpo deciso.
“No, NO!”
Lo estrasse velocemente, lo posò a terra, ai piedi del colonnello, senza guardarlo in faccia. Si voltò dall’altra parte e vomitò. Erano solo succhi gastrici che gli bruciarono la gola. Rigettò tutto quel poco che aveva dentro. Basta, basta… Non voleva avere più niente dentro, voleva solo scomparire.
Si asciugò col palmo della mano. Cercò gli occhi di John: erano carichi di compassione e tristezza, e senso di colpa. Basta, basta…
«Molto nobile da parte sua. Strappare il cuore a una donna… davvero molto nobile. Cosa effimera la vita.» Lo stava deridendo. «Ha fatto i conti, signor Holmes? Questa era solo la numero quattro. Jack lo squartatore ne uccise cinque. E’ un uomo intelligente, sa cosa significa questo?»
Avrebbe dovuto immaginarlo. Si era illuso. Volontariamente. Non li avrebbe portati lì, se non ne avesse avuto intenzione fin da subito. Li aveva distrutti fisicamente, poi psicologicamente. Ora doveva concludere l’atto. L’aveva saputo sin dall’inizio. Era finita. Teneva John e lui stretti in pugno. Si alzò per fronteggiarlo. Se doveva morire lì, sarebbe morto combattendo. Lo sapeva, d’altronde, che sarebbe morto giovane.
Aveva le mani ricoperte di sangue. Provava ribrezzo per ogni cosa.
«Significa che lei muore.»
Non era stato Sherlock a parlare. Ma nemmeno il colonnello. La voce rauca e strozzata di John aveva spezzato quel silenzio di morte. Non riuscì ad assimilare il significato di quelle parole, che tutto avvenne in un battito di ciglia: John si contorse, fulmineo, nella stretta del colonnello, afferrò la sua testa ben rasata e senza concedersi un attimo di esitazione, la contorse con un movimento secco. Un crack deciso eccheggiò nel bunker. Vide le mani del colonnello lasciare la presa dalla gola di John. Si accasciò sul terreno. Morto. John si piegò sulle ginocchia: aveva radunato le sue ultime forze per porre fine a quella follia. Inspirò profondamente passandosi le mani sul collo. Era tutto finito. Basta, basta…
Sherlock si sedette al suo fianco. Si guardò con aria stravolta le mani. Senza potersi opporre, senza più autocontrollo, cominciò a singhiozzare, il petto scosso dai tremiti. Non riusciva quasi a parlare.
John gli passò un braccio attorno alle spalle. Lacrime solitarie rigavano anche il suo viso.
 
 
 
  1. Lettera realmente inviata da Jack lo Squartatore alla polizia.
  2. Nella versione inglese della lettera, si trova scritto “nife” invece di “knife” (il mittente voleva dare l’impressione di una persona di basso rango): l’ho reso come meglio ho potuto in italiano con “coltelo”.
  3. Il nome me lo sono inventato di sana pianta.
 
 
 
*angolo autrice*
Ciao a tutti! Ringrazio tutte le povere anime che sono arrivate fino alla fine. Spero che siate state comprensive con me: è la prima volta che scrivo un giallo, ed è sempre la prima volta che scrivo a proposito di Sherlock. Come avrete notato ho un certo senso del tragico: non uccidetemi, ma non mi piacciono i finali troppo “happy”.
Questa storia, scritta in circa ventiquattr’ore di delirio, era partita inizialmente perché ispirata ad un episodio della serie tv “Ripper Street” (a proposito, ve la consiglio caldamente: c’è il signor Darcy che risolve misteri a fine Ottocento), ma poi ho attinto anche alla mia non trascurabile mole di informazioni sulla serie “Law&Order” (probabilmente io e mia nonna siamo le uniche a guardarla in modo spasmodico): un bel minestrone. Inoltre, cosa importante, per la figura del colonnello, mi sono ispirata al personaggio del signor Kurtz, del libro “Cuore di tenebra”, di Conrad.

Tutte le informazioni su Jack lo squartatore le ho prese da Wikipedia (mia fonte di salvezza per ogni evenienza); inoltre un ringraziamento speciale va a Francesca che mi ha dato il suo prezioso aiuto durante la stesura (BANG!): che lo slash sia con te.
Ogni parere è ben accetto!
Madre, quanto parlo.
Alla prossima,
Puerto Rican Jane.
 

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Capitolo 2
*** OMICIDIO LETTERARIO ***


OMICIDIO LETTERARIO
 
“Sembra che quella attuale sia la crisi economica più pesante dell’ultimo secolo. Non si parla solo di disoccupati, senza tetto, cassintegrati, precari, ma di veri e propri morti. Solo negli ultimi cinque giorni sono stati tre i casi di suicidio nella città di Londra (info a pag. 13). Il clima di malessere, l’aria tesa e pesante attorno a noi si fa ogni giorno più opprimente e non sono pochi quelli che decidono di mettere la parola fine alla propria vita. Molti la chiamano “la crisi omicida”. Ma come possiamo affermare che non ci sia nessuno dietro di essa? Come non rendersi conto che il vero omicida è il governo europeo che…”
 
Noioso. Decisamente noioso.
Sherlock richiuse con un gesto spazientito il quotidiano che John aveva appena portato al 221B di Baker Street. Ne aveva abbastanza di suicidi. Provava per essi una repulsione senza limite. Era una cosa che lui non avrebbe mai fatto.
«John, dovresti smetterla di comprare questo giornale. Decisamente troppo demagogico» sentenziò.
«Niente di interessante, allora? Speravo ci fosse qualche indagine in corso sulla quale avremmo potuto investigare».
«Ne ho letto le prime tre righe. E’ sufficiente».
John scosse la testa. Sempre il solito. Gli offrì una tazza di thè che aveva appena preparato e sprofondò nella sua poltrona con il computer sulle ginocchia, una tazza fumante nella mano. Sollevò di sottecchi gli occhi, mentre con le dita fingeva di battere i tasti del laptop, imitandone il rumore. Osservò  il suo compagno: non aveva niente che non andasse. Beveva il thè come sempre, risolveva eccellentemente enigmi come sempre, aveva il carattere lunatico come sempre. Ma era proprio questo il problema: come poteva essere quello “di sempre”? Non dopo quello che era successo tre settimane prima. John lo aveva osservato attentamente in quel periodo: Sherlock doveva aver racchiuso l’episodio del bunker (1) nella polverosa soffitta del suo palazzo mentale. Non ne parlava, non lo menzionava, quando John aveva provato ad accennarvi, con il solo intento di aiutarlo, lui aveva sbrigativamente evitato la domanda. Perché lo faceva? Perché si teneva dentro gelosamente una cosa di quel genere? John non aveva la presunzione di dire di conoscere tutto di Sherlock, sapeva che era un uomo che parlava di sé raramente, e che si fidava in modo ancor più restio, ma sperava che almeno per quella volta ne avrebbe parlato con lui, che, insomma, si poteva considerare il suo migliore amico; lo avrebbe aiutato, era quello che faceva sempre: lo aiutava. Ora che ci pensava non l’aveva nemmeno ringraziato… Non che se lo fosse aspettato, certo: Sherlock esprimeva la sua gratitudine in modi decisamente bizzarri.
«Ti sarei grato se finissi di spiarmi da dietro il computer, John Watson» disse  Sherlock con voce monotona, senza smettere di mescolare lo zucchero nella tazza.
John borbottò qualcosa che assomigliava a: «Dovranno canonizzarmi».
Il cellulare di Sherlock spezzò il silenzio che si era appena formato. Allungò pigramente la mano e rispose con un secco: «Sì?». L’unico che potesse chiamarlo, e avesse inoltre l’onore di ricevere una risposta, era Lestrade. Mycroft non usava mai le chiamate, a meno che non ne fosse costretto. John si congratulò con se stesso per quella deduzione che Sherlock avrebbe definito ridicola.
«…perché dovremmo venire, quando il fatto è così chiaro? Non ho intenzione di… Oh! Potrebbe essere quasi interessante. Dacci mezz’ora». Sherlock riattaccò in fretta, e si alzò avvicinandosi a John e chiudendogli frettolosamente lo schermo del computer.
«Abbiamo quello che sembra un caso. Dobbiamo raggiungere Lestrade in Dean Street. Preparati» disse, dirigendosi verso l’uscio. John, cercando di ignorare i suoi modi e gesti bruschi, si separò dal tepore della sua amata poltrona.
 
Nella secondaria Dean Street, un condominio si levava solitario a guardia delle vie sottostanti come un silente guardiano. Ma non era riuscito a proteggere proprio uno dei suoi inquilini.
La scena del crimine si trovava al quarto piano dell’edificio. Era una normalissima stanza anonima, quella di un qualsiasi borghese medio londinese, un posto che sapeva di casa solo per chi vi abitava, un posto tranquillo. L’unica nota stonata era il corpo appeso al soffitto.
Il cadavere di un uomo sui trent’anni girava lentamente, appeso per il collo al lampadario, impiccato in mezzo al salotto, in una grottesca imitazione di un uomo che si guardi attorno curioso.
John e Sherlock si fecero largo tra gli agenti, scortati da Lestrade che intanto aveva iniziato a spiegare: «Si chiama Eric Williams. L’ha trovato il suo avvocato, che era passato per chiarire alcune questioni legali. Sembra che sia stato appena assolto da una qualche accusa, non ho ancora i dettagli».
«I tuoi uomini non hanno spostato qualcosa? Ne sei certo?» chiese Sherlock con una leggera nota aggressiva.
«No, penso di no. Nonostante tu non ci creda, i miei agenti possono anche essere professionali».
«Mi permetto di dissentire».
Sherlock cominciò a camminare attorno al corpo, gli occhi fissi su di esso. John fece per seguirlo, ma quasi inciampò su un grosso libro che giaceva a terra: “I fratelli Karamazov”. Era sicuro di non averlo mai letto. Lo appoggiò su un mobile sul quale troneggiava un grande televisore e raggiunse Sherlock.
«Sai dirmi, John, qual è la cosa sbagliata in questo suicidio?» chiese Sherlock con aria assorta.
«Io… non saprei. Forse non avrebbe dovuto suicidarsi perché era appena stato assolto dal tribunale» tentò John.
«Oh, no John. Questo è appena una debole eco della vera motivazione. Dimmi John, se volessi impiccarti, cosa faresti?»
«Come, scusa?» chiese John incredulo.
«Descrivimi le azioni che faresti se volessi impiccarti. Momento per momento» rispose calmo Sherlock.
«Ecco… prenderei una corda robusta, la assicurerei a un gancio o a qualcosa di simile. Poi… poi legherei l’altro capo attorno al mio collo e… scusa, ma cosa c’entra? » si interruppe John, non riuscendo a capire il punto.
«E’ fondamentale, John, è il primo passo per capire. Ma hai saltato la parte principale, il nocciolo. Prima di legarti il cappio al collo dovresti salire su una sedia e, una volta fatto, quale sarebbe la cosa indispensabile che dovresti fare? Dovresti calciarla via. Altrimenti sarebbe inutile. Ora dimmi, John, vedi la sedia in questione?»
John si guardò intorno. Poco lontano da dove si trovavano c’era una sedia di legno marrone scuro. Ma allora…
«Se si fosse realmente suicidato, avrebbe calciato la sedia. Se l’avesse calciata, ora si troverebbe a terra, e una distanza sicuramente minore. E dato che Lestrade mi ha assicurato che nessuno ha spostato niente, ecco la risposta alla mia prima domanda: la cosa sbagliata in questo suicidio è che è un omicidio» disse Sherlock con un velo di orgoglio. «Avrò bisogno di esaminare il corpo, c’è ancora un particolare che non quadra. Quando potrò analizzarlo al Bart’s?»
 
Il corpo di Eric Williams era adagiato su una barella bianca. Sherlock vi girava attorno indaffarato con la lente in mano. Si avvicinò alla sua bocca, così tanto che il naso era quasi a contatto con le labbra del morto, e inspirò rumorosamente. Si lasciò cadere su una sedia e chiuse gli occhi per un paio di minuti. Mentre era nel suo palazzo mentale, John osservò Molly affaccendarsi attorno al corpo di un uomo di quarant’anni che, a quanto pareva, si era sparato alla testa.
«Benzodiazepine» mormorò a un tratto Sherlock.
«Come dici?» chiese John, non sicuro su quello che il detective avesse appena detto.
«Avrò bisogno del tossicologico, Molly. Benzodiazepine, John. Sei un dottore, dovresti saperlo»
«Sonnifero?»
«Esatto, ma non so ancora quale esattamente. Per questo ho bisogno del tossicologico»
Molly tornò dopo poco tempo con due fogli di carta stampata in mano, e ne tese uno a Sherlock.
«Come pensavo: Lexotan. Quindi doveva conoscere il suo assassino. E’ evidente che gli è stato somministrato assieme ad un alcolico dopo averlo fatto ubriacare, cosa che si può dedurre sia dal suo alito e sia dal tossicologico. La vittima non era un bevitore inesperto, lo si può capire dal fatto che era affetto l’epatite cronico alcolica. Quindi quello che è l’assassino doveva conoscere questa sua tendenza all’alcool, deve averlo invitato a bere qualcosa e ne ha approfittato per somministrargli il Lexotan. Ergo, conosceva il suo assassino. Non credo sia stato un omicidio passionale, non era sposato né fidanzato, né aveva relazioni di alcun genere: guardalo, era povero, trasandato, sciatto, non aveva cura di sé, non cercava di piacere agli altri. Ma questo ci da un indizio: forse è stato un omicidio per denaro, forse un debito…L’assassino deve essere un uomo molto furbo e forte: ha tentato quasi brillantemente di far passare il suo per un suicidio, e ha avuto la forza fisica di sollevarlo e appenderlo alla corda, ma nonostante questo tendo ad escludere il fatto che sia un omicida navigato, ha commesso il fatale errore di riposizionare la sedia al suo posto in un attimo di ipercorrettismo: un omicida seriale non avrebbe mai commesso un errore così grossolano.»
«Sherlock, guarda un po’ qui» John interruppe il flusso di pensieri del detective, osservando un altro foglio che reggeva in mano. «Questo è il tossicologico dell’uomo che stava esaminando Molly, quello che si è sparato. Anche lui aveva assunto Lexotan. E’ morto il giorno prima della nostra vittima. Forse è solo una coincidenza, ma…»
«Non è assolutamente una coincidenza. Fa’ vedere.» disse Sherlock porgendo la mano per esaminare il foglio. Il detective prese a bisbigliare tra sé e sé, e si accostò al tavolo poco distante sul quale era adagiato quel secondo cadavere. Cominciò a girargli attorno, esaminando accuratamente la ferita alla testa procurata dallo sparo. Quando sollevò la testa era raggiante.
«John, vieni a vedere.» disse con la voce che vibrava per l’eccitazione.
Quando John lo raggiunse, gli indicò il lato della testa devastato dal proiettile. «Osserva bene questa ferita John. Ti sembra che la pistola possa essere stata impugnata da quest’uomo?»
John osservò attentamente il buco procurato dal proiettile: c’era in effetti qualcosa che non andava…
«No, non può decisamente essersi sparato. La traiettoria sarebbe diversa. Il colpo proviene da qualcun altro che reggeva la pistola in piedi su di lui.» concluse John.
«Esattamente, John. Stai facendo grandi progressi. Tenendo conto dell’altezza dell’uomo, il colpo è stato sparato da qualcuno che era lì al suo fianco, che lo sovrastava. Probabilmente era in stato di incoscienza quando è successo. La scientifica non si è premurata di verificare questo piccolo ma fondamentale dettaglio, affrettandosi ad archiviare il caso come un suicidio. Ma ora abbiamo le prove che questo è un omicidio, e il killer deve essere lo stesso di Eric Williams: il Lexotan è stato ingerito volontariamente, quindi si trovava in un drink, quindi, di nuovo, la vittima conosceva il suo assassino. Dobbiamo fare dei controlli incrociati per vedere se questi due uomini avevano conoscenze in comune.»
 
I controlli incrociati non diedero nessun risultato. Sherlock era frustrato: chi poteva volere quei due uomini morti, e per di più uccisi in un modo così particolare? Debiti? No, la seconda vittima, Arthur Federici, era un avvocato ricco ed influente, assolutamente senza debiti. Cosa si poteva volere da un povero e un ricco? Vecchie scaramucce? No, nessuna conoscenza comune, o almeno non ancora nota. Erano stati aggirati con maestria, con cautela, erano stati scelti e cercati espressamente, avevano ricevuto un trattamento preferenziale, ma allo stesso tempo l’assassino voleva che fossero umiliati con l’onta del suicidio, voleva che tutti credessero che fossero dei deboli. Chi poteva volerlo? Chi poteva avere un gusto così sottile e preciso del macabro?
«Sherlock, Molly ha appena mandato un messaggio, sembra piuttosto interessante»
La voce di John lo riscosse dai suoi pensieri: reggeva in mano il suo cellulare e lesse l’sms ad alta voce: «“Il tossicologico di altri due recenti casi di suicidio ha mostrato che anche queste vittime avevano ingerito Lexotan. Se ti sembra importante ti aspetto al Bart’s. MH”. Penso che dovremmo andare subito a dare un’occhiata, che ne dici?»
«Come fai a sapere la password del mio cellulare?» chiese invece Sherlock, senza aver apparentemente prestato attenzione alle sue parole.
«Ma… hai sentito quello che ho appena detto? Potrebbe essere la svolta per il caso! Comunque non serve essere un genio per sbirciare dietro la tua spalla e vedere mentre digiti “asdfghjk”».
 
Paul Kennedy era un parroco di provincia. Jane Bones un’importante cacciatrice di teste. Il primo si era gettato da una torre nel centro di Londra, la seconda sotto un treno a King’s Cross. Il primo conduceva una vita modesta, la seconda era immersa nella mondanità e nella sfrenatezza. Non si conoscevano, non sapevano dell’esistenza l’uno dell’altra, né conoscevano Eric Williams o Arthur Federici. Ciò che queste quattro vittime avevano in comune era l’aver ingerito senza saperlo il Lexotan e l’essere poi state uccise simulando un loro suicidio. Chi c’era dietro la maschera?
Esaminando le foto dei luoghi di ritrovamento dei due cadaveri, Sherlock e John erano giunti alla conclusione  che sia il parroco sia la cacciatrice di teste erano stati gettati contro la loro volontà da una terza persona dall’alto di una torre e sulle rotaie, poco prima dell’arrivo del treno al binario 9. Avevano le vittime. Avevano le prove. Non avevano il movente ma, soprattutto, non avevano l’assassino.
Il corpo ridotto a pezzi del parroco era una presenza inquietante al centro della stanza, fiancheggiato dalla giovane dal corpo devastato dall’impatto con il treno. Sherlock, senza premurarsi di chiedere niente a nessuno, preso dall’irritazione di non sapere e non capire, prese a perquisire il cadavere del sacerdote, apparentemente immune alla puzza di decomposizione.
«Questo è interessante…» disse estraendo da una tasca interna quello che sembrava un vecchio libro sgualcito e rovinato dall’acqua. «Cosa ci faceva un parroco con un libro di Victor Hugo pochi attimi prima di morire?». Nonostante fosse sporco di sangue rappreso, era ancora visibile il titolo sulla copertina “Notre Dames de Paris”.
«Forse aveva semplicemente la passione per la letteratura francese?» ipotizzò John.
«Sono restìo a crederci. Guardalo, era anziano, un parroco vecchio stampo, con una mentalità chiusa, probabilmente anche un po’ ignorante: come potrebbe mai apprezzare un libro ottocentesco che parla di un gobbo e di amori illeciti?»
«Hai letto “Notre Dames de Paris”? No, fammi indovinare, hai visto il film della Disney?» chiese John ridacchiando.
«Ho letto il libro quando era al liceo. Le mie conoscenze spaziano dall’apicoltura a “Les Miserables”.» ribatté Sherlock impassibile, che intanto si era già spostato sul secondo cadavere e aveva emesso una specie di grugnito di trionfo. Dalla borsa di Jane Bones estrasse un voluminoso libro che recava scritto in copertina a caratteri cubitali “Anna Karenina”.
«Anche questa è una coincidenza? Scommetto il 221B che Jane Bones non ha mai letto Anna Karenina» esclamò Sherlock soddisfatto. «Ora abbiamo un altro elemento di collegamento, per quanto possa sembrare futile. Ma da ciò che una persona legge si può scoprire molto di più di quanto si possa fare esaminando il loro cellulare. Pensa se quando ci siamo incontrati la prima volta mi avessi prestato il tuo libro preferito: avrei potuto disezionarti. Questo particolare libro però non dice niente riguardo Jane Bones Quello che bisogna capire è: questi libri sono messaggi da parte del killer o delle vittime? In realtà sono molto più propenso alla prima opzione. E’ evidente che queste due vittime non avessero la più pallida idea di chi fossero Tolstoj o Hugo o di cosa parlassero i loro libri. La domanda successiva è: perché? Perché aiutarci a capire quando avrebbe potuto lasciare la sua opera perfetta? Perché rovinarla inserendo queste pecche? E’ veramente deludente. O forse… Forse non sono indizi su lui stesso… ma sulle vittime!»
John si sentiva sempre così escluso quando Sherlock cominciava a dedurre: era come se non potesse essere ammesso a quell’interessante conferenza forense che si teneva nel Mind Palace di Sherlock.
«Ti dispiacerebbe spiegare anche ai poveri mortali?»
«Non c’è tempo John. Devo andare in biblioteca.»
«Devo cominciare a chiamarti Hermione?(2)»
«Non scherzare John! Siamo ad una svolta! Presto, usciamo da qui, non penso di poter sopportare a lungo il tanfo di putrefazione.»
 
Sherlock era nascosto da una pila di libri. John non era sicuro se quella fosse solo una scena teatrale o se avesse veramente intenzione di leggerli tutti entro la chiusura della biblioteca. Sbirciando dietro la muraglia di libri, vide che stava digitando un messaggio. Che melodrammatico.
«Quindi… dopo aver provveduto ad erudirci sui classici Ottocenteschi, mi spieghi qual è il legame con il caso?»
«Non cercare di fare ironia, John, non ti riesce bene. In realtà la nostra ignoranza letteraria ci ha rallentato molto in questo caso. Se avessimo prestato attenzione da subito a questi due libri in particolare avremmo subito capito il collegamento fondamentale. Sai qual è il finale di Anna Karenina e Notre Dames de Paris?»
«Niente spoilers, grazie.(3)»
«Anna Karenina muore. Come? Gettandosi sotto le rotaie. Claude Frollo, il sacerdote padre adottivo di Quasimodo, muore. Come? Gettato da una torre. Ti sembrano coincidenze? Esaminiamo i casi uno alla volta. Jane Bones: una adultera, alla moda, sofisticata, immersa nella mondanità. Proprio come la protagonista del suo libro, e come lei trovata sotto un treno. Paul Kennedy: un sacerdote, vecchio stampo, apparentemente dedito alla sua missione, stimato dai suoi fedeli come il personaggio del suo libro e, come lui, trovato morto dopo essere caduto da una torre. Ma la cosa più importante di questi libri è che ci spiega anche le loro colpe: Anna Karenina era un’adultera. Claude Frollo, uomo libidinoso, non riuscendo ad ottenere l’amore della fanciulla che credeva di amare, ne ha provocato la morte.»
«Sai vero che non siamo più nell’Ottocento, ed avere relazioni fuori dal matrimonio non è reato?» obbiettò John.
«Ovviamente, ma questo è solo ciò a cui i libri ci hanno indirizzato, ora sta a noi procedere. Questa è la mia supposizione: le colpe dei libri rispecchiano le colpe reali. Devono essere una sorta di… avvertimento, di monito, affinché i crimini commessi dalle vittime non cadano nell’oblio. Jane Bones doveva essere una squillo o qualcosa di simile. Paul Kennedy deve aver ceduto ai peccati della carne o, persino, all’omicidio. Il nostro killer si è posto come giustiziere, la sua intenzione era di riportare la giustizia nel suo mondo di valori distorti. Innegabilmente doveva conoscere tutte e quattro le vittime, e bene, se era conoscenza di quelle che credeva fossero le loro colpe (che oltretutto dobbiamo verificare). Ma allora come mai niente è emerso dai controlli incrociati? Ambienti diversi, lavori diversi, quartieri diversi, niente in comune. Mi sfugge qualcosa di essenziale, qualcosa qui davanti…Oh!» esclamò quando, però, il telefono vibrò. «Lestrade ha risposto al mio precedente messaggio. Anche nella valigetta che Arthur Federici aveva quando è morto è stato trovato un libro: il “Conte di Montecristo”. Dobbiamo darci ancora alla lettura. Manca solo Eric Williams… Lestrade dice non aver trovato niente»
Ma all’improvviso John, che dopo molto tempo passato in compagnia di Sherlock aveva cominciato a servirsi dei suoi metodi di memorizzazione, disse:
«Quando andammo alla casa di Eric Williams, io inciampai in un libro che era a terra. Era qualcosa di russo, un nome strano: Kari… Karm…»
«Karamazov! Ma certo! “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij. Ora abbiamo delle solide basi di lavoro, il resto verrà da sé. Dobbiamo solo individuare quali sono i misfatti del signor Williams e del signor Federici.»
 
La cosa non si rivelò così semplice. Sherlock insistette per leggere i due libri (due bei mattoni consistenti) integralmente. John, più pratico e sbrigativo, preferiva l’alternativa chiamata “Wikipedia”. Nonostante Sherlock ribadisse il fatto che qualcosa sarebbe potuto sfuggir loro se si fossero affidati ai discutibile riassunti del web, John si rifugiò in bagno col portatile per sfuggire alle proteste urlate del consulente investigativo. Dopo un quarto d’ora, John aveva le risposte alle loro domande.(3)
«Eric Williams è il servo che si impicca dopo aver ucciso il padrone e rubato i suoi soldi. Arthur Federici è il sostituto procuratore che incarcera un uomo innocente per suo tornaconto e, alla fine impazzisce. Non dovresti sottovalutare Wikipedia così tanto.»
Sherlock emise un sonoro grugnito di disapprovazione. «Ora sappiamo quello che è il movente, almeno apparentemente. L’assassino ha voluto punire vittime che non erano state condannate.»
Per la seconda volta, John ebbe un’intuizione decisiva.
«Ti ricordi quando andammo  nella casa di Eric Williams? Lestrade ci disse che il suo corpo era stato trovato dall’avvocato, che Eric era appena stato assolto dal tribunale da una qualche accusa. Se facessimo qualche ricerca in procura forse potremmo sapere qualcosa riguardo»
Sherlock si era alzato di scatto in piedi. Nei suoi occhi brillava di nuovo quella luce euforica che lo pervadeva durante un bel caso.
«Ottimo John! Magnifico! Ecco qual’era il particolare che non tornava!» e gli schioccò un umido bacio sulla fronte.
«Da quando tutte queste effusioni?» chiese John ridacchiando.
«Siamo vicini alla soluzione, John!»
 
Era ormai sera inoltrata, ma l’ufficio del procuratore distrettuale di Londra al terzo piano era ancora affollatissimo: avvocati in giacca e cravatta correvano da ogni parte con fascicoli giudiziari in una mano, un caffè, rigorosamente ristretto, nell’altra, e un auricolare all’orecchio, al quale urlavano senza ritegno.
«Cosa dice McCoy per il programma protezione testimoni?» «Allora, White farà l’accordo? Cosa? Credimi lo farà, ha le pezze al culo ormai, cederà.» «… e tu cita il caso Oswald! E fammi trovare il verbale domattina alle nove sulla mia scrivania.»
«Perché gli avvocati sono sempre così… impazienti. Insomma,quando pensi ad un avvocato te lo immagini che sbraita al telefono o che urla “Obiezione, vostro Onore!”» disse John guardandosi intorno con un mezzo sorriso. Sherlock rispose ridacchiando. No, non sapeva fare ironia.
 
«Buonasera, sono il vice procuratore distrettuale Malcom Goodman. Posso aiutarvi in qualche modo?»
Malcom Goodman era un uomo sulla cinquantina, con capelli grigi ancora ricci, delle piccole rughe maliziose attorno agli occhi azzurro ghiaccio, un ghiaccio che sembrava non poter essere sciolto, sormontati da due sopracciglia scure che davano un’aria di severità a quel volto aguzzo. Sembrava un uomo contro il quale era meglio non mettersi. John lo avrebbe definito “il classico avvocato”.
«Dobbiamo controllare dei fascicoli giudiziari.» disse Sherlock con aria imperiosa. Nella mente di John si formarono numerosi scenari, in ognuno dei quali loro venivano calciati fuori dalla porta dal vice procuratore a suon di imprecazioni.
«Forse non sa come funzionano le cosa qui. E’ della polizia? Ha bisogno di un mandato, di un permesso firmato dal giudice…» ribattè con aria scocciata il signor Goodman.
«Sono l’ispettore Lestrade», disse Sherlock senza lasciargli terminare la frase, estraendo quello che sembrava il distintivo di Greg, «sto seguendo un caso di vitale importanza. Mi lasci fare il mio lavoro o, come ben sa, può essere accusato di intralcio alla giustizia» terminò con aria sicura.
Malcom Goodman lo squadrò da capo a piedi, strinse gli occhi e dilatò leggermente le narici. Nonostante il tono convinto di Sherlock, non sembrava credere a una parola della sua versione
«Perfetto. La mia collega le farà strada.»  disse tuttavia, e  con voce severa chiamò quella che sembrava in realtà la sua assistente personale, una donna sui quaranta con delle scure ombre sotto gli occhi. «Porti questi due agenti agli archivi.» disse con voce incolore, senza guardarla, mentre afferrava il telefono e cominciava a comporre un numero, senza più badare a loro.
 
«Fammi indovinare. Rubi ancora i distintivi a Greg.» sospirò John., quando l’assistente del procuratore li lasciò soli, dopo aver procurato i quattro archivi.
«Perché me lo chiedi se sai già la risposta?»
«Spero in un improbabile diniego.» Avrebbe dovuto chiamare Greg per scusarsi da parte di Sherlock, anche se a lui l’idea non sarebbe passata per l’anticamera del cervello nemmeno tra vent’anni.
«Vediamo cos’abbiamo» disse Sherlock sfogliando il primo fascicolo «Eric Williams. Due capi d’imputazione nel novembre 2014: rapina e omicidio di primo grado. Esattamente come era da aspettarsi, proprio come nei “Fratelli Karamazov”. Assolto. Una perfetta combinazione tra un bravo avvocato e scarse prove. Questo è interessante: l’avvocato dell’accusa è il nostro caro Malcom Goodman. Non deve piacergli perdere. Arthur Federici ora, l’avvocato.», prendendo il secondo fascicolo, « Ha rischiato di essere radiato dall’Albo per frode processuale, ma è riuscito a cavarsela. A quanto pare aveva fatto condannare un uomo nonostante avesse le prove della sua innocenza. Ma potevamo già intuirlo da “Il conte di Montecristo”. E lavorava… in questo ufficio. Terzo piano. Jane Bones, la cacciatrice di teste: tribunale civile», e prese un fascicolo decisamente più piccolo degli altri «Aveva chiesto il divorzio e l’affidamento del figlio, ma le era stato rifiutato. Il marito, coincidenza vuole che sia morto due mesi dopo la sentenza. E infine Paul Kennedy, il sacerdote. Capi d’imputazione: omicidio di primo grado e stupro. Sentenza: innocente fino a prova contraria. Ma guarda qui, John: il procuratore era sempre Malcom Goodman. Cosa ne pensi?» chiese infine Sherlock, dopo quel soliloquio
«So cosa vorresti che io dicessi: Malcom Goodman ha qualcosa a che fare con questo caso. Ma è il vice procuratore di Londra e seguirà una marea di casi, mentre questi sono solo due su quattro» ribattè John. Non voleva giungere a conclusioni affrettate: nemmeno a lui aveva fatto una buona impressione Malcom Goodman, ma non era un buon motivo per accusarlo a priori.
«Tre su quattro, John. Non hai ascoltato attentamente: l’avvocato, Arthur Federici, lavorava per lui. Ricordi? Terzo piano. Non esistono coincidenze. Ora dobbiamo solo far quadrare il caso di Jane Bones. La procura non si occupa di casi civili, quindi come poteva, se supponiamo che il killer sia il signor Malcom, essere conoscenza del suo caso?» Sherlock si premette le dita sulle tempie, come a stimolare il suo cervello a ragionare. «L’avvocato della Bones era», disse leggendo il fascicolo «una certa Emma Stark. Oh! Elementare, i conti tornano(4)!» Si era alzato di scatto dalla sedia e aveva cominciato a camminare avanti e indietro, con un’euforia evidente «John, hai prestato attenzione alla collega di Goodman?»
«Quella specie di assistente? Penso sia piuttosto frustrata e scontenta del suo lavoro. Non ho notato molto altro»
«E invece c’è tutto da notare. Era proprio lei l’avvocato di Jane Bones. Segui il ragionamento: il signor Goodman la tratta con sufficienza, quasi con disprezzo, molto di più di quanto non riservi agli altri suoi collaboratori, quindi deve essere nuova. Nuova, ma non il suo primo lavoro da avvocato. Ha ben superato i quarant’anni, ed è stata molto veloce ed efficiente nell’archivio, quindi non è la prima volta che ha a che fare con l’avvocatura. Dunque come mai questo nuovo posto di lavoro? Se fosse stata trasferita da un altro ufficio della procura, avendo una lunga esperienza di cause penali, dovrebbe essere al lavoro su qualche processo. Invece, come vedi, è costretta a compiti marginali, fotocopie e noiose ricerche negli archivi. Come mai non le assegnano un  caso? Di certo in un ufficio come questo il lavoro non manca, e un aiuto a smaltire il carico è sempre ben accettato. Allora come si spiega? L’unica risposta possibile è che non ha esperienze di cause penali. E’ la prima volta che lavora nella procura. Questa ci porta ad intraprendere l’ultima ed unica strada possibile: se non lavorava in procura, fino a poco tempo fa era un avvocato della difesa, cause civili. Per un qualche motivo deve aver deciso di cambiare indirizzo professionale, forse per il salario. Ma ti dirò di più. Questo ex avvocato della difesa è la stessa che difese Jane Bones, la stessa Emma Stark. Non se hai notato il nome sul cartellino che ha dovuto mettere entrando nell’archivio.»
«Quindi l’assistente del signor Goodman era lo stesso avvocato di Jane Bones?» John non poteva negare di essere ammirato. Dando solo una breve occhiata a quella donna, senza scambiarci una parola, era riuscito a ricostruire la sua vita lavorativa. Stupefacente.
«Esattamente. Essendo l’avvocato della Bones doveva conoscere molto bene la sua situazione. Goodman deve averle fatto alcune domande sui suoi casi passati, e questo processo dev’essere emerso. Ora abbiamo un collegamento, una persona connessa a tutti i quattro i casi. E’ troppo una coincidenza per essere una coincidenza. Nello stesso momento in cui ho posato gli occhi sul signor Goodman, ho capito che aveva qualcosa di particolare. Un uomo rigido e intransigente, un uomo che ha faticato per raggiunger la sua posizione, uno che si è fatto da sé. E’ un uomo che vuole vedere applicata la legge in tutti i suoi aspetti, senza pietà, che si erge a insaziabile giudice. Un uomo che ha sempre vinto e non sopporta perdere.» terminò Sherlock con voce grave.
«Un egregio lavoro, signor Holmes»
Una voce fredda e calcolata li raggiunse dalle spalle. Sia John che Sherlock si voltarono velocemente, incontrando lo sguardo di ghiaccio di Malcom Goodman.
Il suo corpo era avvolto nell’ombra, e solo quegli occhi glaciali brillavano nell’oscurità. Se ne stava ritto, con le mani dietro la schiena, come se stesse per tenere la sua arringa finale in tribunale.
«Penso di averla sottovalutata signor Holmes. Sì, la conosco, nel nostro ambiente è piuttosto famoso. L’ho lasciata entrare solo per uno scrupolo personale: voleva sapere fin dove era a conoscenza, fin dove si sarebbe spinto. In poche agili mosse è riuscito a capire il mio gioco. Servirebbero uomini come lei in procura. Purtroppo, » sospirando, avvicinò la mano sinistra alla cintura, da dove estrasse una calibro 38, « non posso permettere né a lei, né al suo compagno di uscire da qui. Deve capire ho delle priorità».
Si avvicinò loro lentamente, inesorabile, la pistola salda nella mano, un’espressione fastidiosamente neutra in viso. Non potevano farsi illusioni: quell’uomo non avrebbe esitato.
«Assolutamente comprensibile. Priorità. Certo. Ma vorrei chiederle una cosa, un ultimo capriccio personale: come e perché. Non riesco a capirlo. Ho bisogno che lei me lo spieghi: siamo entrambi due uomini intelligenti, precisi e calcolatori e, nonostante tutto, nutro per lei un grande rispetto. Ho bisogno di sapere» disse Sherlock senza arretrare di un passo, la voce calma.
John non aveva dubbi che Sherlock, nella sua perspicace testa, avesse in realtà già capito i perché e i come di Malcom Goodman: stava solo stuzzicando lievemente il suo ego, guadagnando qualche minuto. Sperava solo che Goodman non lo capisse.
«Mi delude, signor Holmes». Male, molto male. «Da lei mi aspettavo qualcosa di molto più brillante. Le spiegherò tuttavia cosa mi ha spinto a fare ciò che ho fatto, ma per un mio capriccio personale. Non si illuda che questo mi distolga dai miei intenti. Farei qualsiasi cosa pur di salvare me stesso, ma non posso sfuggire alla tentazione di umiliarlo almeno un po’, Mr Holmes.»
Se non fosse stato per la pistola puntata contro di loro, sarebbe parso uno scambio di idee particolarmente acuto ad un circolo di dibattito: regnava una calma surreale, ma estremamente tesa.
«Ciò che ho fatto è facilmente spiegabile, se lei è bravo solamente la metà di quello che si dice. Un motivo semplice, quasi elementare, un motivo che ha spinto da sempre uomini molto più capaci di me: un bisogno di giustizia. Da tempi immemori l’uomo si pone a giudice universale: la necessità di armonia e di equità ha da sempre animato l’uomo. E ora mi guardi negli occhi, signor Holmes, e mi dica che è giusto che un Eric Williams giri tranquillamente per le strade di Londra dopo aver rapinato e ucciso il suo capo. Mi dica che è giusto che una Jane Bones partecipi a festini dopo aver ucciso il marito per la custodia del figlio. Mi dica che è giusto che un uomo innocente venga condannato all’ergastolo solo per soddisfare l’ego di un avvocato mezza tacca. Mi dica infine che è giusto che un sacerdote si nasconda dietro la sua religione e il suo Dio dopo aver stuprato e ucciso una povera ragazza. Non le crederei, tuttavia, anche se lo dicesse. Tutto ciò è stato fatto solo per equità, solo perché delle famiglie ottenessero giustizia. Niente di più, niente di meno. Ho sperato che quei libri, lasciati da me, avrebbero fatto luce sulle loro colpe e li avrebbero finalmente condannati per quello che erano. Ma devo aver sopravvalutato l’essere umano». Un veloce lampo di divertimento attraversò i suoi occhi per poi sparire così come era venuto. John non osava aprir bocca: temeva che dicendo una sola parola avrebbe interrotto quell’equilibrio irreale che si era creato.
«No». La voce decisa di Sherlock al suo fianco lo colse alla sprovvista. «Per quanto voglia illudere me e, forse, se stesso, non è così. Non è per questo che lo ha fatto. Oh, no! Decisamente no! Un uomo con sete di giustizia avrebbe semplicemente premuto il grilletto o, più normalmente, sarebbe ricorso in appello. Ma inscenare un suicidio? Il Lexotan? Gli indizi attraverso i libri? No! Questo è un uomo che vuole mostrare quanto è astuto, quanto è colto, quanto ama sopraffare gli altri. Ma non è solo questo: vuole anche vendicarsi, umiliare le vittime con l’onta del suicidio. Vittime che l’hanno fatta franca, vittime che l’hanno avvilito, non importa. Lei non sopporta perdere. Questa è una bassa sete di vendetta che non può trovare giustificazioni. Molto astuto, certo, ma è lei che mi ha deluso: per favore, come si può essere talmente idioti da lasciare una sedia a tre metri dall’impiccato, per di più in piedi! Veramente mediocre, Mr Goodman».
Evidentemente non aveva potuto resistere oltre. Sherlock doveva avere l’ultima parola, probabilmente ne andava della sua vita. E in questo modo aveva detto addio a una possibilità di fuga.
Il movimento di Goodman fu fulmineo, la sua mano quasi impossibile a vedersi: con una furia selvaggia abbattè il calcio della pistola sulla tempia di Sherlock. Fu così veloce che John realizzò ciò che era accaduto due secondi dopo. Intanto Goodman, senza smettere di puntare la pistola, aveva stretto un braccio attorno al collo di Sherlock: le sue palpebre sbattevano velocemente, presto sarebbe svenuto. Un rivolo di sangue gli contornò l’occhio.
«Non un passo, Dottor Watson. Non un movimento». La voce di Goodman risuonava imperiosa all’interno dell’archivio. Non un rumore. Tutti erano già andati. Non c’era più nessuno.
«Lasci. Subito. Il mio amico.» John si stupì di come la sua voce suonasse calma e decisa. Decisamente non come il resto del suo corpo e della sua mente: una lotta infuriava dentro di lui, diviso tra l’agire impulsivamente, usando la forza, e l’aspettare e usare il cervello. Sherlock. Doveva concentrarsi su quello. Cosa avrebbe fatto Sherlock? Avrebbe calcolato e usato il raziocinio. Se si fosse avvicinato, Goodman avrebbe sparato a Sherlock. Se fosse scappato, avrebbe sparato a lui. Se avesse parlato in modo avventato, il calcio della calibro 38 lo avrebbe presto raggiunto. Doveva rimanere fermo, aspettare e ascoltare. Tenne gli occhi fissi sul viso di Sherlock, viso che si stava lentamente rilassando, per poi cadere infine in un sonno che sarebbe stato molto agitato.
«Terrò il suo compagno come garanzia che lei non aprirà bocca. Non dovrà dire a nessuno quello che ha visto oggi o, mi creda, lo verrò a sapere. Non siete gli unici ad avere degli informatori a Londra. Il suo amico starà per un po’ in mia compagnia: se vuole che resti vivo non deve parlare con nessuno di quello che è successo. Mi ha capito? Con nessuno. Addio, non penso ci rivedremo».
Senza voltare le spalle a John, indietreggiò e tornò nell’ombra, andandosene.
John lasciò uscire l’aria finora trattenuta. Sherlock era in pericolo. Sapeva che non l’avrebbe tenuto in vita per più di qualche giorno, giusto il tempo per organizzare la sua fuga dal paese. E lui, John, era la sua unica salvezza. Ma sapeva cosa fare. Aveva un piano.
 
Tornò a Baker Street. Aveva il fiato corto, ma non per la stanchezza dovuta alla corsa che aveva appena fatto. Sapeva quello che doveva fare, ma aveva paura. Non per lui, certo. Aveva invaso l’Afghanistan, era pronto a qualsiasi pericolo, anelava il pericolo. Aveva paura per Sherlock. Non solo era in pericolo, ma era in pericolo lontano da lui. Non era mai successo. Avevano affrontato numerosi rischi, ma mai separati. John era sempre stato lì: la mano armata, il supporto, l’aiuto, l’amico. Aveva sempre potuto monitorare la situazione, calmare Sherlock, farlo ragionare, intervenire. Mentre ora era a Baker Street, e doveva aspettare, aspettare tre interminabili ore. E Sherlock era con quello squilibrato in stato di incoscienza. Ma persino in quel momento era riuscito ad essere geniale. Chiuse gli occhi e ripensò brevemente a ciò che era avvenuto poco prima: Goodman che colpiva Sherlock, lui che si accasciava, cercando lo sguardo di John.
Si riscosse e salì le scale, raggiungendo la sua stanza: nel primo cassetto, ad aspettarlo fedelmente, c’era la sua pistola. Aveva pensato che, tornando a Londra, sarebbe diventata un’estranea per lui; al contrario si era rivelata uno degli elementi che avevano sancito la sua amicizia con Sherlock quando, ancora sconosciuti, aveva sparato a un tassista per salvarlo. Sembrava una vita prima.
Tornò in soggiorno alla sua amata poltrona, e vi si lasciò cadere di peso. Doveva aspettare esattamente come sapeva di dover fare.
 
***
Immobile sul ciglio della strada, John fermò un taxi. Quelle tre ore erano stato interminabili, piene di dubbi e di paura, piene di vecchi scheletri. Sherlock si fidava di lui, non poteva deluderlo: la sua stessa vita dipendeva da lui, ora.
«All’industria Briscoe, in Sandson Street» disse deciso, entrando nel taxi. Durante il tragitto ripassò mentalmente per l’ennesima volta le fasi del suo piano d’azione. Era semplice, fin troppo semplice. Doveva funzionare.
Il taxi lo lasciò in una zona abbandonata di fronte al buio e massiccio edificio che recava la scritta “Vetreria Briscoe” a caratteri cubitali sul fronte. Come Sherlock ci fosse arrivato, John non sapevo dirlo. Ma si fidava di lui, ciecamente. Ripensò di nuovo a quei momenti nell’archivio, a Sherlock che, nonostante il colpo tremendo, era riuscito a ragionare instancabilmente, e quelli che all’inizio sembravano battiti di ciglia confusi, John aveva presto capito essere lettere in alfabeto morse:“t-r-e h b-r-i-s-c-o-e”.
Tre ore, Briscoe.
Dopo una breve ricerca su internet, aveva scoperto che Briscoe era il nome di un’importante industria di vetri negli anni novanta, ora fallita. A Londra rimaneva ancora un edificio appartenente a quella catena, abbandonato. Aveva dovuto aspettare almeno tre ore per dare a Sherlock il tempo di svegliarsi e a Goodman il tempo per portarlo in quell’edificio. Non sapeva come Sherlock lo avesse dedotto, ne come avesse avuto la certezza di quel luogo, ma non poteva mettere in dubbio ora le conclusioni di Sherlock.
Chiuse la cerniera del giubbotto e cacciò la mano destra in tasca, la sinistra chiusa attorno alla pistola. Con un passo calmo e deciso si diresse sul retro dell’edificio, aggirandolo: non gli sembrava una grande idea entrare dall’ingresso principale. Il sottile spicchio di luce della luna illuminava i suoi passi, nascondendolo però alla vista. Trovò una porta socchiusa sul lato sinistro dell’edificio: spinse lentamente ed entrò senza far rumore. Il buio all’interno era talmente opprimente che gli pulsava sugli occhi. Stette qualche secondo immobile, in ascolto, in modo sia da abituare gli occhi, sia da captare un qualunque rumore. Un impercettibile brusio davanti a lui stuzzicò le sue orecchie. Con passo felpato cominciò a muoversi. Iniziò a distinguere pian piano i contorni degli oggetti attorno a lui: vecchi carrelli, secchi di ferro, pezzi di vetro, pinze abbandonate. La stanza in cui si trovava si affacciava infine in un ampia sala vuota, sorretta da numerose colonne, inondata dalla luce della luna che passava attraverso i vetri rotti delle finestre. E proprio lì, al centro della sala, con i polsi legati a una delle colonne, c’era Sherlock. Se ne stava con la schiena ritta contro la colonna, lo sguardo attento sull’uomo che torreggiava su di lui: le linee marcate e dritte che formavano la sua figura erano evidenziate dalla luce spettrale che penetrava dai cocci delle finestre. Malcom Goodman, la pistola in pugno come un prolungamento del suo braccio, stava in piedi con fare imperioso davanti a Sherlock. La sua voce fredda raggiunse le orecchie di John, ma non riusciva a coglierne le parole. Si avvicinò lentamente, facendo ben attenzione a non calpestare la grezza polvere di vetro blu che ricopriva il pavimento, producendo un inconfondibile scricchiolio. Una volta a portata d’orecchio, vide che Goodman stava parlando al telefono: «…confermato per le cinque, allora. San Pietroburgo. Mi occuperò della burocrazia una volta arrivato. Devo solo provvedere ad un’ultima faccenda. Bene». Con poche frasi concise terminò la chiamata. John restò nascosto dietro una colonna, in attesa.
«All’archivio devo aver perso la testa.» bofonchiò Goodman, rivoltò più a se stesso «Certo, a quest’ora avrei già risolto il mio problema se avessi sparato a entrambi, ma voglio concedermi un po’ di divertimento. Sarà divertente vedere il suo piccolo dottore correre di qua e di là a cercarla, non osando parlare a nessuno, quando in realtà lei sarà già morto. Purtroppo io non sarò qui a godermi la scena» disse sogghignando tetramente
«Invece potrebbe sorprenderla, il mio dottore. Non dovrebbe sottovalutarlo, neanche per un istante». Sherlock non potè trattenersi dal rispondere. Adorava essere in superiorità rispetto ai suoi avversari, e ancora di più adorava farlo capire un po’ alla volta.
Una risata priva di allegria uscì dalla bocca di Goodman.
«Proprio lei, Holmes, fra tutti, non mi aspettavo avrebbe parlato spinto dai sentimenti. Watson sarà suo amico, ma perché si illude che verrà a soccorrerla? Lei è un uomo intelligente, non dovrebbe lasciare che speranza ed emozioni offuschino la sua vista, quando la realtà è così chiara».
Goodman si avvicinò di qualche passo, fino a trovarsi di fronte a Sherlock, la pistola carica puntata alla sua fronte.
«Quanto è idiota. Nemmeno se la realtà ballasse nuda davanti al suo naso la vedrebbe. E infatti così è stato» ridacchio Sherlock, incurante della canna a pochi centimetri da lui.
Con un movimento improvviso il calcio colpì violentemente la mascella di Sherlock.
Senza un altro attimo di esitazione John, con una mira da cecchino, mirò alla schiena di Goodman. Lo sparò rimbombò brutalmente nell’edificio. John scattò quando ancora Goodman non era a terra, e gli fu addosso in pochi secondi. Con una foga selvaggia colpì Goodman con un gancio sinistro tale da rompergli la mascella. Goodman era ancora vivo. Lo sparo di John era calcolato al millimetro: abbastanza da tramortirlo, ma non da ucciderlo. Non ancora almeno. In qualche minuto.
«Mai più! MAI PIU’!». La rabbia lo aveva colto alla sprovvista, improvvisa e brutale. Voleva solo causare più dolore possibile a Goodman, lui che aveva colpito Sherlock. La voce di quest’ultimo che gli intimava di fermare la pioggia di pugni gli giunse ovattata dalle spalle, ma si fermò, ricordandosi che aveva cose più importanti di cui occuparsi.
«Come stai, Sherlock? Ti fa male? Lascia che controlli» disse mentre lo liberava dai lacci che lo legavano alla colonna.
«Polvere… polvere di vetro» bofonchiò Sherlock, la cui mascella stava cominciando a gonfiarsi a vista d’occhio. Per un attimo John si chiese se quel bastardo avesse procurato a Sherlock anche danni al cervello.
«E’ stata la polvere di vetro blu sulle scarpe di Goodman che mi ha aperto la strada. Quella particolare tonalità di blu non è comune, e solo l’industria Briscoe la produceva. Sapevo che Goodman doveva avere una specie di base per lui e i suoi informatori. La deduzione da lì è stata facile. Dovevo solo essere veloce e prudente a fartelo capire, ma non ho mai dubitato di te. Ottimo lavoro, John». Il dottore sorrise in risposta e si chinò ad esaminare la mascella paurosamente gonfia di Sherlock: era un colpo decisamente brutto.
«Avanti» disse, aiutandolo ad alzarsi porgendogli la mano «torniamo a Baker Street: devo medicarti questa botta».
 
 
 
Note:
  1. Riferimento alla precedente storia di questa serie, “Hunt”. Se non l’avete letta non è assolutamente un problema per la comprensione di questa fanfic, e non dovrebbero esserci spoilers.
  2. Ovviamente Hermione Granger. Per chi non ha mai letto Harry Potter, Hermione, quando è in dubbio su qualcosa, si rifugia in biblioteca. Mi piace pensare a John come ad un Potterhead.
  3. Io vi ho avvertito. Attenti agli spoilers.
  4. Scusate, non resistito alla tentazione di far dire a Sherlock una frase di Kronk, da “Le follie dell’imperatore”. Per quante volte io abbia visto quel cartone, rido sempre come la prima volta.
 
*angolo autrice*
Questo sarebbe una specie di regalo di Natale. In realtà l’avevo iniziato ad agosto e sarebbe dovuto uscire a settembre ma… è stato un parto gemellare scriverlo. Spero che leggendo non troviate delle incongruenze o dei periodi mal formati: in tal caso vi prego di segnalarmeli. Questi pochi mesi di scuola mi hanno un po’ distrutta. Vedrò di rifarmi durante le vacanze. Mi scuso se ho causato atroci spoiler a chiunque stesse leggendo i libri citati. Spero di non avervi deluso con questa storia, e spero soprattutto non sia risultata banale.
Vorrei anche annunciarvi che ho un altro progetto in porto (per non farmi mai mancare niente): pensavo di scrivere una long da dieci capitoli su *rullo di tamburi*: Ten e Rose! Sono appassionata di Doctor Who, ed era da un po’ che questa idea mi ronzava in testa. Per ora ho solo progettato al trama e scritto il prologo, e qualora mi sembri decente la pubblicherò una volta terminata, altrimenti nada. Non scrivo qui maggior informazioni, voglio lasciarvi il dubbio.
 
(non so se avete notato, fra i vari riferimenti nei nomi a Doctor Who e Breaking Bad, quelli nel nome di Malcom Goodman: è una fusione tra Malcom Tucker e Saul Goodman. Un avvocato badass.)
 
Per FD. Affinché sappia che non è dimenticato. Spero gli sarebbe piaciuta.
 
PRJ

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