Falsa Relazione

di Maya98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prelude ***
Capitolo 2: *** Adieux ***
Capitolo 3: *** Air ***
Capitolo 4: *** Polonaise ***
Capitolo 5: *** Trio ***
Capitolo 6: *** Sarabande ***
Capitolo 7: *** Barcarolle ***
Capitolo 8: *** Arabesque ***



Capitolo 1
*** Prelude ***


Falsa Relazione

È una dissonanza prodotta tra due voci, o parti, e può avvenire fra due note con lo stesso nome, suonate in successione che siano una naturale e l'altra alterata, ma in parti differenti.

 
"He could be the making of my brother, or make him the worse than ever"


1 - Prelude
Chopin - Preludio della goccia d’acqua


Il ticchettare delle scarpe sul parquet — cadenzato e sottile, ma in qualche modo frenetico — non fa altro che irritare Mycroft profondamente.
-Come puoi capire, ho bisogno di un supporto di un certo tipo, in particolare di quello che tu puoi fornirmi in questo caso.
L’uomo osserva il fratello più giovane con la coda dell’occhio, fingendo di leggere ancora tra gli inserti governativi del giornale che ha in mano, mentre questo cammina avanti e indietro per la stanza, con il mento basso e le mani incrociate dietro la schiena.
-Purtroppo dovrò infrangere delle vie legali — numerose vie legali, in effetti — ma sono giusto alla conclusione che è l’unico modo. Per estirpare quest’erbaccia alla radice.
La sua postura rigida gli suggerisce una tensione di origine antica, sepolta sotto strati e strati di rimpianti, che affiora ogni tanto negli occhi chiari, increspandoli. Il suo passo sembra avere un vertiginoso aumento di velocità e Mycroft rotea gli occhi — quanto sentimentale si potrà ancora dimostrare, suo fratello?
-Probabilmente non dovrei compiere azioni drastiche in luogo aperto, a parte forse una o due — in tal caso devi tenerti pronto e fare tutto il possibile per sviare da me ogni sospetto, e impedire che i pochi che ne sanno qualcosa spifferino in giro — ma mi servirà una pulizia completa del mio nome appena potrò tornare in società, esattamente come l’ultima volta. L’ultima cosa che voglio è finire in un tribunale.
Un ricciolo ribelle gli danza sopra la fronte statuaria, accompagnando il dirupo con un drappo teatrale, che si perde nel colore pallido dei suoi occhi vispi. Il profilo del naso scivola alle labbra, contratte per lo sforzo e dalla determinazione, che rivelano in sé una grande agitazione.
-E per di più ho bisogno di un vecchio cellulare irrintracciabile che non abbia GPS, anche se probabilmente dovrà essere dotato di una fotocamera e un registratore audio, attraverso il quale ti manderò le informazioni che riuscirò a trovare nel frattempo. Non ho idea di quanto questa cosa potrebbe durare, ma la mia stima più ottimistica segna almeno tre mesi. Mamma e papà non dovranno saperne niente, così tutti gli altri.
Mycroft sbuffa nuovamente, questa volta più forte e con fare più plateale, cercando di attirare l’attenzione del fratello che invece, a quanto pare, è completamente concentrato sul suo discorso. Può sicuramente capire l’importanza del caso, ma il sospetto che si sia fatto coinvolgere troppo è ormai una certezza.
-Appena il problema sarà eliminato, tornerò alla mia vita di sempre. E preferirei nettamente non avere complicazioni.-improvvisamente il ticchettio si ferma, segnale che il proprietario delle scarpe e dei piedi in movimento si è bloccato sul posto. Questa volta Mycroft alza lo sguardo, solo per incontrare un volto sollevato verso l’alto a guardare il niente, distante, inafferrabile:-E finalmente, il mondo non sentirà più parlare di James Moriarty o di quel che ne è stato.
-Voglio sapere,-interviene bruscamente Mycroft, spazientendosi, abbassando il giornale e congiungendo le mani sotto il mento con aria severa:-se davvero reputi che questo ginepraio di azioni suicide ne valga la pena.
Lo sguardo di Sherlock si assottiglia, appena si posa su di lui, affilato come una lama. Un attimo e quegli occhi si spalancano, e la farfalla esce dal suo bozzolo, brillando in tutta la sua magnificenza nel cielo estivo:-Se ne vale la pena?
Sarebbe impossibile non cogliere quella nota vibrante di rabbia nel suo tono, così intensa e passionale, così tipica del suo sciocco fratellino, così impulsiva e temeraria, e al tempo stesso così fragile. Mycroft aspetta che l’altro continui, senza dire nulla, limitandosi ad appoggiare la schiena alla sua comoda poltrona.
-Mi sono gettato da un grattacielo. Sono stato torturato. Ho ucciso un uomo e sarei andato in esilio in una missione suicida — mi chiedi davvero se ne valga la pena?
Per John Watson. Nessuno dei due ha ancora pronunciato quel nome ad alta voce, quella semplice sequenza di suoni, quelle due corte parole, ma rimbombano tra loro come i colpi di un cannone. Una guerra mai dichiarata ma aperta da quando si ha memoria.
-Ma perché?-insiste Mycroft con tono spazientito, inclinandosi in avanti e appoggiando i gomiti sulla scrivania, le mani ancora intrecciate:-Ti chiedo il perché. E replicare con le cause non spiega l’effetto, centro della domanda che ti ho posto.
Per un secondo la bocca di Sherlock sembra stare per spalancarsi, quasi sorpresa, ma poi il suo proprietario riprende il controllo, e stringe le labbra, facendone solo una linea sottile, tremante, colma di rabbia quanto le sue mani convulsamente strette in pugno.
-Lo sai benissimo il perché,-sibila, con gli occhi di fuoco:-Non mi umilierò certo abbassandoti a dirtelo unicamente per compiacerti.
-Così cieco, Sherlock...-mormora l’uomo, ritirandosi dalla scrivania, facendoci scorrere un palmo sopra e seguendo il tragitto con sguardo perso:-Sempre così ostile, e così cieco in questa tua ostilità...
-Dammi quello che mi serve, e non mi vedrai più.-risponde risoluto, senza abbassare lo sguardo, le mani strette a pugno infilate nelle ampie tasche del cappotto. Una statua di gelido rancore, una statua di un legame andato in pezzi in modo univoco. Un legame risanato da una parte e ferito dall’altra.
-Ti garantirò la copertura che necessiti.-si arrende infine Mycroft con un sospiro, scuotendo la testa. Sherlock non fa neanche un cenno di ringraziamento, concedendosi al massimo un rigido movimento del capo, prima di incontrare nuovamente i suoi occhi, voltarsi e andarsene.
-Così cieco, Sherlock.-ripete Mycroft, fissando il punto in cui il fratello è sparito, oltre la porta, con sguardo assente e accendendosi una sigaretta. Tira una boccata e osserva spirali inesistenti formare forme indistinte di una nebbia viscosa, confusa, inafferrabile. Piega gli angoli della bocca nel principio di un sorriso amaro, prendendo un’altra boccata profonda, quasi sfinita:-Così incredibilmente cieco...




( Continua )



Note:
Questa storia è un'impresa, ma ci tengo molto. Saranno 18 brevi capitoletti, tranne qualche eccezione di capitoli più lunghi, a raccontare un improbabile seguito di His last vow molto Johnlock, molto triste, molto incentrato su Sherlock. Farò chiarezza su un paio di cose poi vi lascio andare, visto che le note tanto non le legge mai nessuno. 
Punto 1, il titolo. Falsa Relazione. Ha un duplice significato, il primo è la falsa relazione che Sherlock deve intessere con Moriarty per salvare John, il secondo significato è legato alla musica, come dice la definizione nel sottotitolo. Perché la musica? Perché questa storia è il mio tributo alla musica classica, e all'amore che, da pianista, provo per quest'ultima. Ogni capitolo ha infatti il nome di un brano (perdono che ci sarà poco Beethoven, nonostante io lo ami, perché non si adattava al contesto).
Punto 2, lo stile e il punto di vista di Sherlock. In questo capitolo non si vede, ma inizio a spiegare in vista già del prossimo, e soprattutto di quello dopo. Per renderlo IC, ho sviluppato una mia concezione tutta assurda sulla mente di Sherlock, e su questa concezione ho elaborato questo stile. Ogni personaggio normale lavora su tre livelli narrativi, giusto? Sherlock ragiona su almeno 8 livelli, se non 9. È un personaggio complesso, dalla mente straordinaria. Luigino ragiona su due piani diversi: il piano della realtà oggettiva, scientifica, esatta, e il piano della sua concezione delle cose, più metaforica, ma non poetica. Pertanto ho provasto ad evidenziare questi due aspetti nel suo punto di vista, due piani su cui luigino ragiona separatamente, ma che spesso si incontrano e sfociano l'uno nell'altro. Per esempio, quando Sherlock parla con Moriarty, non lo vede parlare con la bocca, umana, ma con le tenaglie di un ragno. È complicato da spiegare, la già nei prossimi capitoli ne avrete degli esempi. È un metodo e uno stile assolutamente sperimentale, e ciò che sto cercando di dirvi è che se avete pareri o consigli di qualsiasi genere, di offrirmeli pure, saranno ben accetti.
Alla prossima! E grazie per essere arrivati fin qui.

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Capitolo 2
*** Adieux ***


Note:
Capitolo ancora tranquillo, forse un po’ noioso. Dal prossimo arrivano i fuochi d’artificio, e James Moriarty. Non vi ho detto nulla circa gli aggiornamenti: ho i prossimi quattro capitoli già scritti. Pubblicherò il prossimo appena finirò di scrivere il successivo. E così via: ogni capitolo che scrivo è un aggiornamento, quindi non saranno proprio regolari, ma cercherò di non farvi aspettare troppo. L’altra cosa sono i ringraziamenti per il successo che la storia sta riscuotendo (inaspettato!). Tre recensioni e dodici che hanno inserito la storia tra le seguite, wow!. Non me lo aspettavo. Grazie, perché credevo fosse il genere di storia che al fandom non piace.
 
 
 
 
 
2. Adieux
L. Beethoven - Adagio-Allegro, l’Addio (*)

La stanza sembra quasi triste, mentre Sherlock raduna la propria roba. Cupa.
Non è che possa veramente dare questa impressione, in quanto oggetto inanimato, ma l’atmosfera le conferisce quest’aria di malinconia.
Lo infastidisce. Si potrebbe quasi dire che lo irriti fino a dargli sui nervi. Non è giusto che gli faccia pesare quel momentaneo addio a Baker Street. È come se gliene facesse una colpa, quando non ne ha. Per una volta, davvero, non ne ha.
La luce filtra debolmente attraverso uno spiraglio tra le tende, che rimarranno chiuse per un po’, illuminando le due poltrone. Una vuota ormai da mesi e un’altra che lo sarà presto. La polvere galleggia nell’aria, sottile e impercettibile, come se già tutto stesse cadendo in disuso. E i vuoti, là nella libreria, sul tavolo, sul pavimento, quello strano ordine impreciso e irriverente che pesa più del silenzio che regna.
Sherlock finisce di mettere gli ultimi vestiti nelle sacche, con il cappotto appeso al braccio e lo sguardo che si perde nella stanza cercando qualche dettaglio dimenticato. Non avrà tempo per tornare a prendere qualcosa, in caso se lo sia scordato. Forse non avrà neanche mai un tempo di tornare definitivamente.
Mentre il suo sguardo vaga su quelle lande desolate, abbandona quasi con nostalgia il profilo della sua apparecchiatura scientifica, in particolare del microscopio, che sembra guardarlo dal tavolo della cucina con disapprovazione. In ogni caso non potrà prenderlo con sé, sarebbe troppo sospetto. Una vacanza è la giustificazione della sua assenza, e non avrebbe senso portare via anche il suo set scientifico, quindi per un po’, purtroppo, dovrà farne a meno.
Ripercorre i libri, il teschio sulla mensola del caminetto e il coltello una volta destinato alla posta che ancora infilza al muro il tabellone di cluedo. Lascia che lo sguardo si perda sul tappeto, e poi sul divano dove è solito pensare, verso l’appendiabiti, lo smile giallo sul muro e poi di nuovo indietro. Ed infine, i suoi occhi si soffermano sulla longilinea forma di qualcosa di preziosissimo, che mai potrebbe dimenticare, neanche tra mille vite.
Si allunga e prende in mano il manico del violino, mentre le sue mani gioiscono a quel contatto, come se la mancanza di quella sensazione al tatto fosse qualcosa di incredibilmente doloroso. Apre la custodia con calma, facendoci scorrere le dita sopra, quasi con reverenza, saggiando la consistenza de velluto sotto i polpastrelli. Ripone accuratamente lo strumento e l’archetto, con l’attenzione che una madre riserverebbe ad un figlio, ed infine, dopo aver impugnato il manico della custodia, si decide ad alzarsi e andarsene. Non si guarda indietro, per osservare l’appartamento ormai vuoto, con quell’aria desolata.
Già era solitario prima, che mancava uno dei suoi due abitanti. Ora sarebbe autoinfliggersi ferite gratuitamente.
Si infila il cappotto, annodandosi la sciarpa attorno al collo e sistemandosi i guanti sulle lunghe dita. Daffodils, pensa, apparentemente senza motivo. (1). Scaccia in fretta dalla sua mente le strofe della poesia, così come si scaccia una mosca fastidiosa, concentrandosi sulla vestizione. Un gesto così familiare, compiuto milioni e milioni di volte in quell’ingresso, come se ormai fosse inciso nell’eco del tempo, ostinato a risuonare tra quelle pareti. Scende velocemente le scale, senza soffermarsi, arrivando con un balzo davanti alla porta del 221a. Un respiro, il tempo di calarsi sugli occhi la maschera. In fondo, ha sempre sostenuto che Londra ha perso un grande attore quando lui ha diretto la sua carriera altrove.
In scena, pensa teatralmente, senza spirito. Bussa con impazienza, stirando le labbra in un sorriso frettoloso e impaziente, che non ha assolutamente nulla di sincero. La signora Hudson gli apre con un’espressione quasi sorpresa, e lui le sorride prima di stringerla in un abbraccio entusiasta, come se stesse per andare a fare qualcosa di estremamente divertente, come se non vedesse l’ora. La sente ridacchiare un po’, mentre ricambia la stretta, scuotendo la testa per il troppo entusiasmo di lui. È convinta. Sente una fitta: avrebbe quasi voluto che si accorgesse che sta fingendo, che lo interrogasse sull’accaduto, che lo fermasse. È ancora in tempo, ma al tempo stesso non può: come al Bart’s con John, prima della Caduta. La recitazione impeccabile: oh, che grande dono e che grande condanna.
-Pronto per la tua vacanza, caro?-chiede con la sua voce sottile, mentre gli stringe un braccio con un po’ di apprensione, cercando il suo sguardo.
-Prontissimo, signora Hudson.-risponde allora, alzando le braccia e rivolgendole il solito sorriso-caso-in-corso:-In realtà, sono già in partenza, visto che il mio treno lascerà la stazione di King’s Cross esattamente tra quaranta minuti. Mi sento in forma!
-Allora immagino che tu abbia un po’ di tempo per un tè, non è vero?-chiede, mentre si avvicina ai fornelli, afferrando saldamente la teiera e un paio di tazze già pronte e consumate negli anni di uso:-Ne ho giusto fatto un po’.
-Ho sempre tempo per il suo tè, mrs. Hudson.-dice bonariamente, spostando una sedia con un gesto secco e appollaiandocisi sopra, mentre la donna gli appoggia di fronte un piccolo vassoio con le due tazze e lo zucchero, per poi sedersi anche lei.
Sorseggiano per qualche minuto, in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Sherlock continua a stirare le labbra verso l’alto, soprappensiero, più per automatismo che per vera intenzione.
Poi lei interrompe il silenzio:-Sono proprio contenta che tu abbia deciso di prenderti una pausa dopo tutta quella faccenda del...oh, sai cosa.-dice, portandosi una mano alla bocca e guardandolo con espressione sinceramente preoccupata.
Mrs. Hudson è stata una delle persone che ha preso peggio il processo per l’omicidio di Charles Augustes Magnussen, ed anche forse la più contenta del suo ritorno, preoccupazione per Moriarty a parte.
-Anche se forse la tempistica non è delle migliori, con la nascita della bambina così vicina...a proposito, come l’ha presa John?-si informa la donna, stringendosi nello scialle, con le sue dita sottili. Sherlock si affretta a buttar giù un sorso di tè, sperando che la sua lingua ne rimanga scottata abbastanza da permettergli di non rispondere. Non succede.
-Bene.-mente, annuendo con convinzione, accennando un sorriso con l’angolo della bocca, mentre qualcosa nel suo stomaco si attorciglia in modo spiacevole:-Meglio di quanto pensassi, in effetti.
-Meglio così,-commenta la signora Hudson, decisa, mordendosi un labbro come se temesse di essere indiscreta:-con tutto quello che ha passato, voglio dire...ma finalmente le cose sembrano essersi messe a posto, non è così?
-Sì.-dice Sherlock, ma questa volta con meno convinzione. Lascia passare ancora un paio di minuti, dopo quell’affermazione sussurrata a forza, quasi sputata, prima di decidersi a finire il suo tè a labbra strette. Getta un’occhiata all’orologio, non sopportando già più di stare lì, e si alza. Sente un’improvvisa nausea farsi largo nel suo stomaco e risalirgli fino al fegato, e poi ai polmoni, facendogli mancare l’aria. Non ha più così tanta fiducia nelle sue capacità di attore, o forse non vuole sostenere quella parte più a lungo:-Devo andare, signora Hudson.-si affretta a dire.
-Ma caro, sei appena entrato...-inizia a protestare lei.
-Mi sono appena ricordato che la mia partenza era stata anticipata. Mi scusi davvero.-la interrompe bruscamente, senza preoccuparsi: la signora Hudson è abituata ai suoi bruschi sbalzi d’umore e alla sua ruvidezza, non se la prenderà:-Passi dei buoni momenti e si riguardi, mi raccomando.
-Anche tu, giovanotto.-gli esclama lei dietro, sull’uscio della porta, mentre lo guarda allontanarsi. Sherlock apre la porta principale e poi la richiude dietro di sé, forse un po’ troppo bruscamente, con il viso contratto. Non si guarda indietro, non ancora. Non lo farà proprio ora. Non riuscirebbe a guardare il 221b di nuovo, sapendo che non potrà tornarci per molto tempo. Però si ferma, lì, sul marciapiede sul quale ha stretto per la prima volta la mano alla persona che ora è la più importante della sua vita. Si ferma lì, con il petto occluso e il respiro che manca.
Il suo cuore comincia a battere, lento, e a danzare al ritmo dei narcisi (2). Il vento tra i capelli e qualche goccia di pioggia lo riporta alla realtà, bruscamente, dolorosamente, riaprendo come una vecchia ferita.
Respira forte, secco dal naso, prima di avanzare velocemente, con un passo netto. Raggiunge la strada, alza la mano per chiamare un taxi, tutto come un automa.
Non ha detto nulla a John. Niente di niente, nemmeno la scusa della vacanza. Non ne ha trovato il coraggio, o forse la forza. Gli è mancata. Non una parola è uscita dalla sua bocca, l’ultima volta che è andato a trovare lui e Mary per chiedergli di seguirlo in un caso, neanche un sussurro tirato, o un accenno. Lui non sa che se ne sta andando via.
Di nuovo.
Dopotutto, a Sherlock non sono mai piaciuti, gli addii.


( Continua )


1 - Accontentatevi di sapere che è una poesia
“Daffodils”, di Wordsworth.
2 - È il riferimento alla poesia che gli era venuta in mente prima. Questa frase è la rielaborazione di uno degli ultimi versi della poesia.

(*) No, okay, questo ve lo devo dire. È il primo tempo di una sonata di Beethoven, i cui tempi si chiamano rispettivamente L’addio, l’assenza e Il ritorno. Cioè: una sonata per il Reichenbach. Non potevo non farne accenno anche qui, contando quanto io ami Beethoven.

 

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Capitolo 3
*** Air ***


3. Air
S. Bach - Aria dalle variazioni Goldberg



 
Loneliness Garage, tra cinque minuti. SH

Ooooh, a cosa devo il piacere di ricevere un messaggio da Sherlock Holmes!? :) JM

Credo di doverti una chiacchierata. SH

Più d’una, in effetti. Mi sei mancaaato, Sherly. Tanto tanto! JM
Non ti sei fatto sentire per due anni, in fondo :( JM


E tu per uno e mezzo. SH

Avevo un impero da ricostruire, su. Cerca di essere realista. JM

Cerca di non essere troppo impegnato per mancare all’appuntamento. È importante. SH

Mi auguro che mi offrirai una cena, come minimo. Ma ci sarò. JM


Mentre cammina, Sherlock sente freddo.
Si stringe la sciarpa, si sistema i guanti, alza il bavero per ripararsi dal vento.
Ma nulla: continua a sentire freddo. Una sensazione che gli scava dentro, nelle ossa, che supera la barriera della pelle e gli si raccoglie infondo agli occhi. Uno spiffero freddo che gli agita i riccioli, che gli confonde le idee e lo droga di aria pura. Cristo, ha bisogno di una sigaretta. Un dannato cerotto alla nicotina.
Sapeva che un giorno sarebbe successo. Sapeva che un giorno il granello avrebbe inceppato il meccanismo. Ma ora quella sembra l’unica soluzione possibile, e per quanto si prospetti un sacrificio di lunga durata, sembra valere il risultato. Ha sempre giocato, ha sempre rischiato, si è sempre sporto in bilico oltre il bordo, anche se il gioco non valeva la candela. E perché ora, che non è diverso, dovrebbe sembrarlo tanto? Simile al cadere.
Simile al fallire, quando la vittoria consiste nel raggiungere il tuo scopo e allo stesso tempo, perdere. Ma i sillogismi non gli sono mai piaciuti, pertanto non ha intenzione di mettersi a filosofeggiare proprio ora: ma la sua mente galoppa a briglia sciolta, via da lì, via da tutto il resto, come un fulmine si abbatte sulla terra cruda, e propaga l’incendio.
Una scelta di rinunce in vista dell’obiettivo. L’unico modo.
La sua vita sta radicalmente per cambiare per un po’ di tempo. Nessuno, nemmeno lui, sa esattamente quanto. Il garage dove deve entrare è davanti a lui, eppure esita, come insicuro, come se fosse qualcosa di sbagliato.
Bé, lo è.
Ma è l’unico modo, in fondo.
L’unico modo per fermare tutto questo una volta per tutto.
Nella sua mente, a forza e assolutamente contro la sua volontà, si fa spazio il viso di John. Lo guarda con gli occhi brillanti e l’aria ferita, i frammenti della sua anima nelle sue mani tagliano più del vetro acuminato. Teme quello sguardo che gli rivolgerà, se mai dovesse scoprire ciò che sta facendo. Quello, insieme all’espressione di profondo disgusto, e rinnego, e rabbia. Quello che lo tiene lontano, che lo ferma quando sta per fare qualcosa di sbagliato. Inghiotte il groppo e stringe le mani, mentre il volto di Mary sostituisce quello di John, con la stessa chiarezza, ma più solare, più deciso. Un sorriso, piccolo, appena accennato, e gli occhi che brillano di incoraggiamento. Anche lei lo farebbe, lo farebbe per salvare John. E per quanto questo non coincida con la cosa giusta da fare, lo sente giustificare tutto ciò che sta facendo. Stringe i palmi, tenendo stretta la custodia del violino e la sua sacca, e si avvicina alla porta laterale, circondata dai cespugli.
Dio, uno dei suoi nascondigli. Gli sembra di essersi trasformato in Mycroft. Sarà impossibile da riutilizzare in seguito, ma questo potrebbe dare la prova di una reale fiducia che in realtà manca del tutto.
Abbassa la maniglia della porta, con un sospiro. È stanco di esitare. Di aspettare. Di pensare.
Un’altra via non c’è: che la percorra fino infondo.
E apre la porta.

-Ti sei fatto aspettare,-lo accoglie una voce derisoria, così familiare da fargli quasi venire la nausea. Prende un respiro profondo prima di avanzare di qualche passo da dietro lo scaffale, mostrandosi, atteso, presentandosi a quel momento come ogni uomo al giorno del Giudizio Universale. In qualche modo potrebbe esserlo, se non fosse la costante recita che renderebbe falsa ogni dichiarazione successiva. Un altro paio di passi, rimbombanti sul duro pavimento di cemento, e poi eccolo, esposto, sul palcoscenico, senza più possibilità di ritirarsi al sicuro tra le quinte.
-Ho sempre trovato...snervante questo tuo fare il prezioso.-continua James Moriarty in tono affabile, stravaccato su una sedia piazzata strategicamente proprio nel mezzo della sala, quasi pronto per le luci di scena, quasi consapevole a sua volta del palcoscenico che li divide. Le dita agili e sottili, strette attorno ad una sigaretta appena accesa (oh, così plateale) hanno un breve scatto nervoso, mentre improvvisamente ritira le gambe dal bracciolo, girando il busto in avanti è balzando in piedi, con un fluido movimento elegante, ai limiti dell'artistico (è sempre un attore, fino alla fine. La sua copertura non poteva essere più adatta. È quasi confortante). E in un attimo è tre passi più avanti, col suo andamento ondeggiante, a sbilanciarsi anche lui, sempre più velocemente, sul bordo insieme come l'ultima volta sul tetto. Ti guarda con espressione felina, quegli occhi da gatto che celano più di quanto voglion mostrare di fare, che brillano nel buio come illuminati dai fari di una macchina. Sorride, e quasi Sherlock vede i denti aguzzi.
-Come se fosse l'unica cosa di me che trovi snervante.-dice Sherlock tranquillamente, procedendo con un passo sicuro, il volto ora in luce, avvolto nel suo lungo cappotto nero. L'incedere deciso stride con l'armonia su cui sono accordati i suoi pensieri, e la dissonanza è fastidiosa, ma non abbastanza da far sì che qualcosa trapeli sul suo volto pallido, anche solo un barlume, una luce. Non un foro nella maschera, non una pecca nella recitazione:-Non ti sei fatto più sentire, dopo il tuo plateale ritorno. Mi aspettavo...non so, un biglietto di auguri. Bentornato?-chiede poi ironicamente, lanciando un occhio attorno alla ricerca di qualche cecchino, o eventualmente qualche uomo armato a garantire la sicurezza del suo capo. Jim segue con gli occhi la sua ispezione, arricciando le labbra in un sorriso vanesio, leggendo le sue intenzioni come pagine di un libro aperto, sfogliandole pigramente a suo piacere:-Non c'è nessuno,-commenta infatti, avveduto, roteando gli occhi al soffitto come due biglie, per poi riportarli su di lui, incandescenti:-Solo tu e io, Sherlock. Dopo tutto, mi avevi detto che era un appuntamento.
-Non aspettarti che paghi il conto, però.-commenta in modo sibillino, appoggiando i suoi bagagli a terra per congiungere le mani libere all'altezza del viso, camminando in avanti fino ad arrivargli di fronte, per poi iniziare a girargli intorno, lentamente, senza fretta, le sopracciglia alzate e l'angolo della bocca arricciato da sbruffoncello, come se avesse ancora un'anima da vendere (l'ha regalata tempo fa, svenduta per due penny e un po' di adrenalina, e ora non ha nulla da perdere, non più). Ed è mentre lo guarda che la vede svanire, la maschera d'attore, che scivola lentamente via calata poco a poco dal suo possessore, ed ecco che gli occhi da gatto si moltiplicano, in paia e paia in più, il sorriso affilato si trasforma, la mascella si sporge in avanti, compaiono le tenaglie, e poi le braccia, si sdoppiano, si moltiplicano, diventando sempre di più, coperte da una peluria nera, scura. Lo spettatore della metamorfosi tace, continua a girargli intorno, come per distrarre il ragno dal creare la sua ragnatela, ben consapevoli entrambi che quello è solo l'ennesimo temporeggiare, l'ennesimo rimandare il loro Problema Finale.
-Va bene, basta flirtare.-Jim centellina le parole con cura maniacale, rasentando l'attenzione massima quasi come nel suo modo di vestire, impeccabile, inarrestabile, mentre l'eco di quelle stesse parole dette una sera di molti anni fa, in una piscina, riecheggiano tra loro attraverso i vari piani temporali, infiltrandosi nel presente:-Immagino tu non sia venuto qui perché avevi voglia di vedermi. Allora, che c'è sotto?
-Un importante momento, svolta, di cui volevo renderti partecipe.-anche lui sceglie le carte da giocare con l'abilità di un giocatore di poker, decidendo da quale partire per scoprirsi, e quali ancora tenere nascoste. È una partita, uno spettacolo o un valzer, ciò che si frappone tra loro? Non lo sa, ma sicuramente è un incanto che ha la strategia del primo, la creatività del secondo e l'eleganza del terzo:-Ci sono tante cose che sono cambiate dall'ultima volta in cui ci siamo visti.
Jim si sporge in avanti, verso di lui, come il marinaio attirato dal canto delle sirene. Resta ad una distanza ben precisa, tuttavia, come se fossero separati da uno specchio, o un vetro trasparente. Lo osserva da vicino, gli guarda negli occhi, due pozzi neri contro un verde brillante, come per cercare di capire se stia dicendo la verità o meno. Ma Sherlock sa come controllare il suo corpo, sa come mantenere basso il suo battito cardiaco, come evitare di deglutire, arrossire o sudare: si è cucito addosso la parte così accuratamente che pensa di poter riuscire ad ingannare anche sé stesso. O per lo meno, è ciò che spera di riuscire a fare, perché tutto - ogni cosa - dipende da quello.
-John si è sposato.
L'amarezza nella voce non è reale, anche se sarebbe giustificata. Non lo è mai stata. Ha avuto paura per il matrimonio di John, ne è stato triste, felice, colpevole, orgoglioso, ma mai amareggiato. È una percezione sottile diversa da quella che ha adottato, non scelto di adottare così come Mary non ha mai rappresentato per lui una rivale. E non lo è stata.
-Sapevi che prima o poi sarebbe successo. Sei sempre stato così codardo,-Moriarty dà una risatina, leggera, stridula, ma abbastanza per fare crepare il vetro tra loro, una piccola scheggia che inizia a far correre le spaccature lungo la superficie delicata, come i rami di un albero si protendono verso il sole:-per fare il primo passo. Non ti eri già preparato alle conseguenze?
-Mi ha lasciato indietro.
Il vetro si infrange. Cocci di speranze e sogni illusi, alimentati da anni di felicità effimera, nutriti da parole e silenzi e sottointesi mai pronunciati che hanno finito per rovinare il germoglio che stava nascendo dalle ceneri del vecchio mondo. Jim lo guarda, fermo, in silenzio, ed è come se lo vedesse davvero per la prima volta. Sherlock sa che esporsi, in questo caso, non solo è mettersi completamente alla mercé del nemico, ma anche guadagnarsi la sua fiducia.
-Mi ha lasciato indietro. Se ne è andato. L'unica cosa che mi ancorava a quella vita. L'unico angelo che tentava ancora di trattenermi sulla sua sponda.-il respiro affannoso, la voce tremante, ma non distoglie mai lo sguardo. Gli occhi di Jim sono neri, profondi, le sopracciglia aggrottate lo studiano come per giudicarlo. Sherlock alza le mani, i pugni serrati e le unghie nella carme, e apre le braccia, come per mostrarsi esposto completamente:-Non c'è più niente per me là fuori. Non c'è nulla per cui possa valerne la pena. Sono un estraneo, ora, e nulla cattura la mia attenzione.
-Perché sei venuto da me?-chiede Moriarty dopo un lungo silenzio. La sua immagine è tornata a coincidere con la realtà: nient'altro che un essere umano diffidente e ambizioso, davanti a lui, niente più della poesia che incarna. Se Jim Moriarty potesse essere un'essere astratto sarebbe l'Eleganza, perché nulla nei tratti, nella raffinata mente, può eludersi da questa sferzante impressione.
Sherlock dà una risata sprezzante, abbassando il capo:-Lo sai perché.
Lo sa, in effetti. Lo può vedere dagli occhi brillanti, increduli e diffidenti insieme, e così vogliosi. No, forse non sarebbe l'Eleganza, ma la Brama. Un concetto che quasi sfugge alle leggi dell'essere astratto, sconfinando continuamente nel materiale, fisico risultato delle cose. Ciò che, per la cronaca, Sherlock ha sempre disprezzato.
-Siamo diversi, Jim, siamo nemesi. Ma proprio per lo stesso concetto, siamo molto simili. So che questo puoi capirlo, e so che lo hai fatto. Dunque, possiamo direttamente saltare questa parte e arrivare a tu che mi dai una risposta?
Si ferma. Si fermano entrambi. Tutto è immobile, cristallizzato: una cornice di ghiaccio. Divisi e legati indissolubilmente da un legame cucito con sangue e morte. Sul precipizio, di nuovo, insieme, l'orlo della cascata. Sherlock sente il rumore dell'acqua così forte che lo assorda.
-Sherlock Holmes, un criminale.-Jim fa scivolare la parola sulla lingua, assaporandola, con una punta di sarcasmo nella voce, la sfumatura di chi ancora non è convinto del tutto:-Sembra nuova.
Sembra nuova. Tutto qui. Due parole, quattro sillabe e un'inflessione vocale. Deludente? Oh sì. Non immagini quanto, pensa Sherlock tra sé, rispondendo alla voce della sua coscienza, che al momento ha assunto il tono di Mary.
-Non lo è mai stata.
E poi, improvvisa nel silenzio, la risata. Sguaiata, acuta, rieccheggiante. Moriarty getta la testa all'indietro, la gola esposta e gli occhi rovesciati, lasciando che tutto ciò che c'era di armonioso nella sua figura si dissolva, lasciando la parte ingombrante, deforme, mostruosa. Sherlock fa un passo indietro, quasi spaventato, rompendo l'incantesimo. Gli occhi neri diventano rossi, e per un attimo si sente il respiro mancare.
-E tu pensi davvero che io ci creda?-la voce che stride come un'unghia sul vetro, o il gesso sulla lavagna. Ore di castelli in aria, perfezionando una scultura di per sé già fragile che crollano a terra spinti da un soffio di vento. Sherlock si sente già perso:-Tu, oh mio povero, sciocco illuso, hai davvero pensato che potrei mai credere allo stratagemma più comune, al classico, alla storia più vecchia del mondo?-Jim sbuffa, alzando le mani verso di luigino e inclinando il capo con fare pietoso:-Mi deludi, mi deludi, sciocco Sherlock...
Al detective non bastava che quello: l'eccesso di sicurezza che rivela una profonda debolezza. Le carte sparse sul pavimento con la polvere e i cocci di vetro si ricompongono in fretta, ricostruiscono le basi del castello, si riordinano da sé come un nastro di una vecchia videocassetta riavvolto all'indietro. Sorride amaro, e pensieroso, gli occhi bassi, e poi rialza lo sguardo, rinfrancato.
-Tu credi che non mi aspetti che mi chiederai una prova?
Un tono sbeffeggiante, derisorio, ma finalmente forte. Forte come è sempre stato, non come ha sempre finto di essere: quella forza oscura e ingovernabile che rianima lo spirito per non mollare ad un passo dalla fine, quella forza convincente che fa rialzare un uomo zoppo caduto a dieci metri dal traguardo, e lo fa correre pur di superare quella linea. Sherlock ha sempre padroneggiato una forza incontrollabile ed imprevedibile, che non avvisa mai quando sta per venir meno o giungere in soccorso, enigmatica, insormontabile, esattamente come lui, uomo mortale che ha tentato e finto per anni di essere un dio.
-Non sottovalutarmi di nuovo, Jim Moriarty; è stato un errore che hai pagato caro l'ultima volta.-come se ondate di energia si elevassero all'improvviso, scaturita da una voce due tonalità più profonda del solito. Sono fiamme quelle che gli danzano attorno, le fiamme in cui aveva giurato di bruciare, che stanno per rivoltarsi contro chi ha lanciato la maledizione. Una volta l'aveva concessa, una stretta di mano all'inferno. Ma allora era ingenuo, e disposto a dare così poco. Chissà per cosa si venderà ora, che ha come unica moneta uno scrigno di parole?
Jim lo guarda come si guarda un diamante prezioso, affascinato dalle luci che emette e conscio di non poterselo permettere. Lo guarda con quell'espressione indecifrabile, senza confine, senza filo che distingue l'odio e il disgusto dall'ammirazione, dall'attrazione, il motivo primo per cui quando si incontrano flirtano e quando si allontanano si temono, e si studiano come due belve feroci pronte al combattimento. Fa sfarfallare le ciglia, in un incanto senza fine, poi annuisce lento, pensieroso. La morte in quegli occhi gli fa capire che ha passato il primo test.
Poi schiocca le dita, appoggiato con una mano al pomello della sedia, tutto il peso caricato su quel braccio in una posa tesa e tediata. Una macchina scura avanza lenta come la morte, sfiorando il profilo della sua ombra, delicata come ogni cosa nel suo stile, in un'infinita sfilata macabra, così come il falco sfiora l'acqua per catturare la sua preda marina. Jim fa tempo a dire "Seb, apri." con tono al limite della sopportazione, che già la portiera scatta, e Moriarty fa un cenno a Sherlock di entrare. Questo raccoglie le sue cose, la sacca, il violino, il bagaglio che sarà d'ora in poi il suo ultimo collegamento con la vita precedente, l'unica cosa che gli ricorderà chi è stato il vecchio sé stesso. Prende un lungo respiro e con esso raccoglie il coraggio, poi abbassa la testa ed entra nella vettura. Jim, dietro di lui, monta sinuoso come un serpente.
-Seb, parti. Solita destinazione.-Jim schiocca di nuovo le dita, prima di accavallare elegantemente le gambe e, solo quando la macchina parte, volgersi di nuovo con la completa attenzione verso il suo prigioniero volontario. Lo studia con gli occhi scintillanti, Un sorriso che somiglia più alle fauci scoperte di una tigre che ad una vera e propria espressione umana. Un paio di tenaglie pronte a scattare sulla preda che agonizza, imbrigliata nella sua sottile ragnatela. Il mento sporto in avanti, il rispetto per gli spazi personali nullo, costantemente invadente, costantemente curioso, fin troppo, fino a peccare.
-Allora, mio caro.-scandisce, e la voce è così affettata da parere affilata come la lama di un rasoio:-Finalmente ci siamo dati una svolta. Se davvero le cose sono come dici, non penso che il cambiamento e le prove che ho in mente per te saranno così sgradevoli.-il ghigno di allarga, enorme, incontenibile, e continua a crescere fino a coprire tutta la visuale di Sherlock, che non vede altro, e stringe i pugni, le gambe accavallate, le unghie nella carne, e come unica ancora alla ragione il solo pensiero, un solo nome: John, John, John.
-Se davvero sei cambiato,-sussurra Moriarty al suo orecchio, improvvisamente vicino, improvvisamente soffocante, ma eterno, come se fosse sempre stato lì:-saresti davvero pronto a tutto.
Una mano serpeggia vicino al suo ginocchio, leggera come una farfalla, e si posa su di esso con una delicatezza che non avrebbe pensato, e lo stringe. Sherlock la segue con lo sguardo, concentrandosi solo su quella, eliminando ogni altro pensiero, ogni nausea, ogni conato che gli risale dal fegato, ogni per John che domina la sua mente, focalizzandosi sulle lunghe dita di quella mano (lunghe rispetto a niente). È la seconda parte del test. Se la fallisce, è tutto finito. Non ha più bisogno di prendere fiato per decidere: ormai si è buttato (di nuovo). Ormai sta già cadendo (ancora. E per sempre).
Lentamente, senza staccare gli occhi dalla mano, schiude leggermente le gambe.
Il sorriso di Jim è tagliente, ma soddisfatto. Ritira la mano, senza essere ingordo, come se semplicemente l'avesse fatto per dimostrare una tesi. Il bagliore dei suoi occhi è rosso scuro come il sangue, ma la fiamma che vi riluce e danza ipnotizzante è solo fuoco, che brucia ardente. La sua voce è carezzevole quando si china in avanti, per sussurrare all'orecchio di Sherlock:-Puoi stare tra le mie file. Ad una sola condizione.
Sherlock non si muove. Niente si muove. Non respira. Cristallo, vetro, ghiaccio, immobile contro le fiamme dirompenti. E attende. Attende. Attende.
-Uccidi Mary Watson.

( Continua )
 
 
Note:
Questo è il capitolo che per ora mi sembra venuto meglio. Potrebbe essere una mia percezione, visto che è terrificantemente metaforico e le metafore piacciono solo a tre persone nell’universo, e una di queste tre sono io, l’altra è la mia prof di italiano. La terza non lo so. Ah, Vichy, sei contenta? Jimmy-boy è arrivato
Volevo solo fare un ringraziamento a Mask of Roses, mia carissima amica, che mi ha lasciato come recensione al capitolo scorso una poesia sul suddetto capitolo che lei ha scritto addirittura in inglese. La lascio qui perché è giusto farla leggere, visto che è bellissima, e poi per ringraziarla tanto tanto tanto tanto perché le voglio bene punto.


Never nice this way to disappear
Looking around with eyes
Which can't spread a single tear

Telling yourself nothing but lies
Hiding regrets and fear
Well, you've never borne goodbies

This is not time for us
This is not time for joy
This is time for me to leave

Don't you hear a melody full of pain?
Your heart never cares
About feelings it cannot explain

Someone is waiting for you downstairs
Of a life there will remain
Just the shadows of two lonely armchairs

This is time for plays
This is time for games
This is not time for me to live.      

 

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Capitolo 4
*** Polonaise ***


4. Polonaise
F. Chopin – Polacca op. 40 n. 2

La porta è silenziosa nell’aprirsi, quando lui varca la soglia.
La chiave non ha emesso un lamento, nell’aprire la serratura. Una copia delle chiavi di una casa non sua. Uno copia delle chiavi di una casa non sua, affidatigli dalle due persone che ora sta per tradire (per salvarne una sola). Una dannata chiave, che non emette un lamento; scivola dentro e fuori così facilmente, e l’uscio si schiude con un breve sospiro. I suoi passi sono così leggeri – i passi di un ladro, presto di un assassino – e le sue scarpe non producono alcun ticchettio, frenate dalla consistenza soffice del tappeto. Uno spettro (lo è sempre stato).
Lei è in cucina. Può udirlo chiaramente: sente la sua voce allegra borbottare tra sé e sé e un rumore trafficato di tazza e teiera. Se chiude gli occhi riesce anche a vederla, ancora in camicia da notte, le maniche arrotolate su per gli avambracci, le pantofole infilate a fatica per via del grosso pancione che le impedisce la vista dei piedi; i capelli biondi e corti ancora scompigliati perché si è appena alzata, gli occhi scavati per l’ennesima notte insonne causata dai movimenti sempre più frequenti della bambina, l’odore di caffè forte e di sapone, in attesa che una doccia faticosa lo lavi via.
Esita, prima di scivolare silenzioso verso la stanza prescelta.
Respira piano, sulla porta. Ma sa che lei lo sente: l’udito finissimo e ben addestrato di un’agente dell’Intelligence è impossibile da ingannare, soprattutto quello di uno così in gamba come Mary.
È esattamente come se l’era immaginata: i bordi svolazzanti della vestaglia verde aperti, per far scorgere il ventre rigonfio, coperto appena dalla camicia da notte bianca come il latte. Delle mollette le tengono ancorate alla testa i ciuffi ribelli; le occhiaie violacee sotto gli occhi grigi sono più che eloquenti.
I borbottii si interrompono, mentre lei appoggia bruscamente la tazza sul bancone della cucina, immobilizzandosi.
-Sherlock, Sherlock, Sherlock,-dice, e la sua voce è una stilettata nel ventre di lui, più potente di una pallottola, all’idea che probabilmente quelle sono tra le ultime parole che le sentirà pronunciare:-lo so che sei qui, smetti di indugiare sullo stipite della porta.
Si volta, lentamente, appoggiandosi al ripiano per sostenere il peso della sua pancia. Il suo sorriso è radioso come sempre, un sorriso bellissimo. Sherlock pensa che esiste solo un altro sorriso al mondo che ama più di questo.
Se solo sapesse. Per lei è una giornata come le altre.
Sente qualcosa sul suo volto incrinarsi.
-Che sorpresa!-non si muove perché non può, ma Sherlock sa che lo farebbe. Ogni qualvolta lui arriva lei è lì, lo fa sedere, gli caccia giù per la gola qualche tazza di tè in attesa di John, gli fa parlare del caso che sta per seguire, fa qualche battuta sui drogati di adrenalina e poi lo lascia andare, ma non senza strappargli una promessa di tornare da loro per cena. Sa come farlo sentire il benvenuto, accettato: sa giocare le sue carte per illuderlo di far parte di quella nuova famiglia. Cosa che formalmente è scorretta, ma Mary fa costantemente in modo che sia realmente vera.
Sherlock lo vorrebbe tanto.
-Non ti aspettavo, soprattutto così presto e in una giornata così noiosa.-lo scimmiotta allungando un braccio verso di lui, per fargli cenno di avvicinarsi e di accomodarsi, se desidera:-John è in ambulatorio, non dovrebbe tornare prima di mezzogiorno.
Avanza di qualche passo, Sherlock, con circospezione. Mary non distoglie mai lo sguardo da lui, arricciando il naso e le labbra come se fosse infastidita da qualcosa, ma amichevolmente; inclina la testa e lo osserva meglio, con gli occhi analitici di uno scienziato, la precisione della diagnosi di un medico (lo è):-C’è qualcosa che non va.-asserisce, e finalmente smette di ancorarsi al piano cucina per sedersi al tavolo con lui.
Sherlock estrae lentamente la mano dalla tasca, appoggia ciò che sta tenendo sul tavolo e lentamente lo fa scivolare verso Mary. Lei guarda la pistola con occhi improvvisamente seri, allungando la mano per sfiorarla, e poi sollevando lo sguardo su Sherlock in un’implicita domanda.
-Per John.-è la prima cosa che Sherlock riesce a dire da quando è entrato, mentre ricambia lo sguardo:-È per salvare John.
Ora anche l’espressione sul suo volto è seria, compunta. Mary continua a fissare la pistola, in silenzio, facendoci scorrere le dita leggere sopra, come in una carezza. Sherlock riesce a vedere la metafora: una donna che accarezza il suo passato con amore, conscia che esso sarà anche il futuro che la ucciderà (1).
Ed è tremendo.
-Moriarty?-chiede Mary, dimostrandosi come al solito all’altezza delle aspettative. Sapeva che avrebbe capito con la minima spiegazione indispensabile; anche se questo fa quasi più male.
John non capirebbe. Per questo non saprà nulla.
Sherlock immagina la sua espressione quando tornerà a casa dal lavoro e si sente male.
-Io e te siamo i suoi problemi. E userebbe John per arrivare ad entrambi.-dice a bassa voce, tenendo lo sguardo incollato alla mano di lei, mentre continua a passare dolcemente le dita sulla canna della pistola, come incantata:-In questo modo John sarà in salvo. Ma ad un prezzo.
Mary annuisce lentamente, continuando a guardarlo. Poi, lentamente, spinge di nuovo la pistola verso di lui. Gli occhi le si fanno rossi, ma non piange, non ancora. Mary Watson rimane una donna forte fino alla fine.
Sherlock rimane fermo, senza prenderla:-Lo fai così? Semplicemente?
Non è incredulo. Ma sa quanto sia difficile giocare con una vita, e ormai ha imparato che ogni occasione è importante e se persa causa rimpianti. Quindi non tocca ancora la pistola, esitando. Alza finalmente lo sguardo su Mary, che gli sorride.
-Gli ho detto tutto quello che gli dovevo dire.-risponde tranquillamente, gli occhi azzurro-grigi solo leggermente lucidi:-L’ho salutato questa mattina. Avrò da te tutto il tempo che vorrò per fare qualsiasi cosa, ma non mi lascio indietro niente. Quindi fallo.
-Mary…-inizia Sherlock, senza neanche sapere perché. È più facile così. Eppure gli pare così ingiusto. Mary non merita di essere un’altra vittima di quella partita a scacchi. Lei è la Torre, così importante, così indispensabile, sempre accanto all’Alfiere per coprire le mosse di cui lui manca.
-Quando ci siamo conosciuti,-lo interrompe lei bruscamente, allungando una mano verso il tavolo e sfiorando la sua, esattamente come prima aveva fatto con l’arma:-eravamo entrambi dei bugiardi per il bene di John Watson. Tu eri pronto a morire per lui, e lo hai fatto. Io ero pronta ad uccidere per lui, e l’ho quasi fatto.
Sherlock sente la cicatrice da pallottola che ha sul torso iniziare a bruciare.
-Adesso la situazione si ribalta. Tu sei pronto ad uccidere per lui, e lo farai. E io, finalmente, sono pronta a morire. Per John.
Sherlock abbassa lo sguardo sulla mano di lei, lasciando che gli occhi scivolino sulla fede che le cinge l’anulare. Qualcosa, da qualche altra parte, prende dolorosamente a divampare come un incendio.
-Non ho mai voluto che questo accadesse.-mormora, chiudendo gli occhi.
-Nessuno di noi ha mai voluto che niente di tutto questo accadesse,-gli risponde Mary, con la labbra strette:-Ma qui non si è mai trattato di me e te, Sherlock.
-Sarà veloce. Non sentirai niente.-le dice lui, con gli occhi persi, guardando da nessuna parte per non dover guardare lei:-È il massimo che ti posso assicurare. Ti darò il tempo di chiamare John, se vuoi, per dirgli…
-Ho detto addio a John il giorno stesso in cui l’ho conosciuto,-sussurra Mary in tono confidenziale, sporgendosi verso di lui quanto la pancia glielo consente:-Perché sapevo che sarebbe finita in questo modo.
-Dimmi cosa vuoi.-dice Sherlock, con gli occhi chiusi, serrati, le dita che si arricciano attorno a quelle di lei, in un accenno ad una presa. Sente di nuovo quel sorriso sfiorargli le labbra, un sorriso triste, accordato con gli occhi rossi. Sembra benevola come se fosse lui quello che ha bisogno di aiuto, anche quando lei sta per morire.
-Mi prenderò cura di Sheridan, se tu ti prenderai cura di John.-sussurra lei, a voce bassissima.
Sherlock alza di scatto la testa, per specchiarsi nei suoi occhi chiari e trovarsi improvvisamente impreparato:-Sheridan?-chiede, in un bisbiglio.
Mary sorride di nuovo, accarezzandosi il pancione con la mano libera. È una bambina, una bambina e già un’adulta, una madre affettuosa. Così forte, così come lui mai lo sarà. E straordinariamente donna in tutta la sua essenza:-Ho insistito io. Sheridan Amanda Watson. John ha protestato per un po’ di tempo, ma alla fine ha ceduto.
Senza parole. Di nuovo. E terribilmente vuoto.
La solitudine che una volta era la sua droga ora gli pesa più di un macigno.
-Prenditi cura di John.-dice di nuovo Mary, in tono perentorio.
-Non posso prometterlo.
Ed è vero. John ti odierà. Avrà salva la vita e il cuore spezzato; come una volta, di nuovo e ancora.
-Sì invece. È molto incline al perdono. Ma ha bisogno di qualcuno che lo metta nei guai.-Mary gli strige più forte la mano, mentre con l’altra spinge di nuovo la pistola verso di lui.
Non può. Non può. Non vuole. Non Mary.
Ma deve.
(Per John).
-Prometti.
(Ne vale la pena?).
-Prometto.
(Così cieco).
-Addio, Sherlock.-dice Mary, regalandogli l’ultimo sorriso.
Sherlock si concentra sugli occhi. Solo sui suoi occhi. Poi impugna la pistola e mira alla fronte.
 
( Continua )
 
 
 
 
 

 
  1. Rielaborazione della metafora di The Fault in Our Stars.
 
 
 
Note:
Ho pianto. Scrivendo ho pianto. Lo giuro. Mary è il mio personaggio preferito.
Spero che il calo di recensioni non sia dovuto ad un calo di scrittura! In caso, fatemelo sapere, cercherei di migliorare.
Devo dirlo: questo è l’ultimo aggiornamento di qui a un mese, perché partirò dove non ci sarà abbastanza wi-fi per postare. Nel frattempo però scriverò, quindi una volta tornata non dovrebbe passare molto tra capitolo e capitolo. Vi chiedo di pazientare un po’.
Un bacio e buona estate!

 

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Capitolo 5
*** Trio ***


5. Trio
L. V. Beethoven – Trio per archi e pianoforte op. 1 n. 3
 
Le sistema i capelli e poggia delicatamente il corpo sulla sedia, come se stesse dormendo. Congiunge le sue mani sul ventre, e poi le chiude le palpebre, leggero. Lascia un bacio sulla fronte, come per scusarsi.
Il lavoro è stato pulito. Nessuna prova. Ma Sherlock non ha potuto lasciarla così, con il sangue che le deturpava il volto, pur sorridente fino alla fine. Ha preso uno straccio e le ha ripulito la fronte e il viso, poi ha sistemato il corpo per dargli un briciolo della dignità che merita. In questo si è sporcato: le sue mani ora sono macchiate realmente del sangue di Mary, non solo metaforicamente. E Sherlock non vuole lavarlo via. Per non dimenticare. Per ricordare.
(Avrebbe voluto che non fosse tra le vittime sacrificate. Ma lo è stata. E la ricorderà fino alla fine dei suoi giorni).
-Addio, Mary Watson.-bisbiglia, prima di chiudere la porta dietro di sé, e uscire con passi frettolosi.
L’aria sul suo viso è uno shock: gelida, e così solida. Reale. Tangibile. A ricordargli tutte le conseguenze del suo gesto (fisico, irreparabile).
Mary Morstan-Watson non vive più.
Non respira, non parla, non sorride (il silenzio è un cancro che cresce). E anche la creatura nel suo grembo (Sheridan Amanda Watson, Sherlock. Sheridan Amanda Watson) non ha più davanti un futuro. Se un attimo prima avrebbe potuto voltarsi e parlarle ancora, chiederle consigli, sentirla scherzare e ridere con lei, ora tutta questa realtà non è che un piano nella sua sente. Irreprensibile. Irreparabile.
Riesce quasi ad immaginare l’arrivo di John a casa. Riesce a vedere le sue labbra contratte in una morsa dolorosa, e gli occhi (blu screziati di marrone, bellissimi, ed eternamente disperati), le guance scavate, e tutto nella sua figura curva che urla in un profondo baratro “non di nuovo”.
Gli sale un conato. Se non fosse assolutamente certo dell’impossibilità di ciò, potrebbe quasi dire che gli sembra che i polmoni e il cuore gli stiano schiacciando il fegato così tanto da comprimerlo del tutto. Sente gli organi interni fluttuare gli uni sugli altri, in un ammasso doloroso informe di ossa fratturate che rischiano di perforare qualsiasi tessuto tenue gli si presenti abbastanza vicino.
(Che ossimoro ironico – e stupido –, metaforizzare scientificamente. Dovrebbe smetterla).
La nausea gli arriva e gli stringe la gola, come una mano forte dalle dita agili pronta a soffocarlo. I suoi problemi respiratori si fanno sentire unicamente quando la situazione si fa più grande di quel che lui si sente di poter gestire (alla Caduta, per esempio. Alla caduta gli era sembrato di non poter respirare), e questa è una di quelle volte. È come se avesse il setto nasale deviato, oppure come se si trovasse sott’acqua: non riesce ad inalare, ed è costretto a boccheggiare stupidamente come un pesce. Si ferma per qualche secondo, passandosi la manica sulla fronte e imponendo di calmarsi. Le mani ancora rosse sfiorano i capelli, lasciando dietro di loro scie che sembrano vernice. Non riesce a vedere dove va. La testa gli gira.
Quando, dopo aver chiuso gli occhi, finalmente riesce a sollevare le palpebre e a mettere a fuoco, il mondo si ferma.
John sta uscendo da un taxi, avanzando verso di lui con calma tranquilla, come se fosse l’unica cosa veramente reale in un’illusione spazio-temporale. Un uomo che cammina attraverso milioni di mondi, milioni di realtà, annullandole con un solo passo mentre ci transita attraverso, e che riempie Sherlock di puro panico.
Non sarebbe dovuto tornare così presto. Non avrebbe dovuto trovarlo lì.
Fa per alzarsi, per iniziare a correre via, ma è troppo tardi: John lo ha visto. La postura rigida del soldato si è sciolta, un braccio si è alzato (il sinistro) in segno di saluto, e il suo volto si è aperto in un incredibile sorriso che brilla di luce propria. (Oh, lo ama, lo ama così tanto). È incredibile il cambiamento facciale sul viso di John Watson: è così espressivo, e non se ne accorge neanche. Il suo volto gli parla continuamente, ancor più del suo corpo, e Sherlock è un abile lettore: ormai riconosce ogni occhiata, ogni espressione, ogni sfaccettatura. Potrebbe catalogarle, riempire taccuini di appunti, schizzi, consigli e annotazioni (e stupidi, stupidi commenti personali). Il suo passo si fa sensibilmente più veloce per venirgli incontro, e Sherlock torna bruscamente alla realtà, come una secchiata di acqua gelata. Deve andare via di lì. Andarsene il più velocemente possibile. Senza parlare con John.
Appena lui gli è vicino lo scansa velocemente, aggirandolo, senza guardarlo in volto (ne rimarrebbe ossessionato. Sarebbe l’incidente di percorso che lo farebbe capitolare) e avanza a testa bassa fingendo di non averlo visto, o di averlo ignorato di proposito. Ma John non si arrende, chiama il suo nome, a voce forte e alta:-Sherlock!-e gli corre dietro, e lo prende per un braccio, così irrimediabilmente testardo, così irrimediabilmente John. E Sherlock non vuole che lo veda così, non vuole, non può e soprattutto non deve. John rimane fermo, non realizzando subito. Poi il suo sguardo si abbassa sulle mani di Sherlock ancorate al cappotto, completamente rosse, completamente sporche di sangue, e il suo volto si trasfigura di nuovo, preoccupato. Temendo che sia ferito. (Oh John, così cieco). Sherlock si strattona via, allontanandosi di altri due passi. Orripilato, colpevole, sporco.
John finalmente, realizzando che ci deve essere qualcosa che non va, affretta il passo verso casa, arrivando quasi a correre. Spalanca la porta (dannazione, l’ha lasciata aperta), e si precipita dentro come un disperato.
Sherlock non ha tempo. Questa è l’occasione. Si guarda intorno, per vedere da che parte evadere. Dà una breve occhiata all’orologio, contando che Jim avrebbe già dovuto essere lì – o chi per lui – con l’auto promessa. Ma non ha abbastanza minuti per temporeggiare ad aspettarlo. Eppure qualcosa lo trattiene dal correre via nella prima direzione possibile. Si sente disperato. Si guarda attorno, confuso, come se avesse perso il senso dell’orientamento.
-Sherlock!-urla John dalla porta di casa, affacciatosi con il volto paonazzo, e il respiro affannoso.
Sherlock non si gira, non fa niente. Non vuole guardarlo negli occhi. Non vuole leggergli la disperazione che vi ha immaginato. Sarebbe una pugnalata, lenta e dolorosa, e continua. Sarebbe un suicidio: il suicidio del suo piano, la scomparsa dell’ultima spiaggia di salvezza (per John). E non può permetterlo.
-Sherlock, Mary…-dice di nuovo John, e Sherlock riesce a sentire ogni sfaccettatura di quella voce strozzata, spezzata, e gli echi di un cuore già frantumato che si infrange nuovamente. Riesce a sentire le lacrime dietro a quella voce, le lacrime nascoste alla visuale, cacciate agli angoli degli occhi perché un soldato non si fa mai vedere piangere. Sente il cuore – il suo, però, quello che credeva di non avere – pompargli forte nel petto. E aspetta. Aspetta.
Poi si volta.
Le mani  immobilizzate sui cardini della porta come se li stessero strappando. Si concentra solo su questo. Il peso sulle spalle, il volto sconvolto e già esausto, e la muta preghiera che quegli occhi gli rivolgono. I vestiti sfatti, come se fosse bastata una corsa a dargli quell’aria smessa e consunta. John apre la bocca e manda fuori bruscamente l’aria, senza riuscire a emettere parola. Tutto contratto: un concentrato di dolore e rabbia pura, così sottile, così celato, così dannatamente evidente ai suoi occhi. John. John. John.
-Che è successo?-chiede, esalando a mala pena le parole, mentre lo prega con lo sguardo di dargli un’altra spiegazione. Un’altra motivazione per la pistola nella tasca dei suoi pantaloni e le sue mani sporche di sangue.
Un rumore di ruote e un sottile ronzio del motore comunicano a Sherlock che il suo passaggio è arrivato.
Non riesce a continuare a guardare John negli occhi. L’immagine sua e di Mary si sovrappongono, convergendo in un’unica, gigantesca spirale di sensazioni contrastanti. Odio, rancore, minaccia, dolore, e amore, così tanto amore (troppo. Mycroft ha sempre avuto ragione sull’importarsene: non è vantaggioso).
Si volta di scatto, infilando le mani ree nelle tasche del cappotto, celando così la sua colpa, e comincia a camminare con passo sostenuto verso la classica macchina scura a pochi metri davanti a lui. Jim in persona sul sedile posteriore, il viso curioso sporto dal finestrino aperto.
-SHERLOCK!
È il canto delle sirene. Impossibile resistere alla tentazione di voltarsi: lo fa un’ultima volta. John ha iniziato a correre verso di lui, il volto duro, i muscoli contratti. La porta di casa sua lasciata spalancata dietro di lui.
Si ferma a pochi passi da lui. Sembra così vicino eppure è così distante. Sherlock riesce a contargli le lacrime sulle ciglia, e i solchi profondi sulla fronte scavati dalla rabbia e dalla disperazione. John non capisce. John non ha mai capito: è quella la chiave di tutto. Deve essere proprio un idiota, per essersi circondato di un tale idiota.
-Sherlock, spiegami- Di…dimmi-respira affannosamente, pinzandosi la radice del naso e inclinando la testa, senza aggiungere altro. Le parole che improvvisamente mancano, come il respiro, come la vita. Le stesse reazioni che stanno prosciugando Sherlock ora, come un fiore lasciato senz’acqua troppo a lungo appassisce su sé stesso, accartocciandosi sfiorito.
-Dimmi-dimmi…che è successo?-annaspa, alla ricerca d’ossigeno. Lo guarda negli occhi ed è così vicino quando protende una mano in avanti per fermarlo, così vicino, così pericolosamente vicino che scotta, che Sherlock si ritrae come se fosse fuoco. Scansa la mano, camminando in fretta e furia verso la sua destinazione, la mente un caos, il suo palazzo mentale invaso da un vento prepotente che porta scompiglio. Jim come punto di arrivo: Jim è l’obiettivo per salvare l’uomo che è alle sue spalle.
Ma non è ancora finita. Non è ancora iniziata. John riesce a vedere il volto di chi lo sta aspettando e scatta in avanti, lo afferra per l’avambraccio, lo costringe a guardarlo negli occhi. E Sherlock ci vede il mondo che lo porta alla rovina.
Delusione. Paura. Confusione. Amarezza. Dolore. E così tanta, così tanta straizante incredulità.
L’ha deluso. È capitato, alla fine. Doveva succedere (di nuovo), ma non credeva che sarebbe stato così doloroso. (È più che doloroso, è tremendo). È una lunga crepa che gli parte dal centro della fronte alla bocca dello stomaco. È il castello di carte che vede crollare, spinto dal vento e dalla mano di John.
-No.-dice John, e solo questo, solo questa sillaba, non inframmezzata, ma coincisa, sicura, è la sanzione. La pena, la condanna.  La tortura in sé stessa.
-No, Sherlock.-dice John. Lo tiene così vicino che Sherlock riesce a sentirlo respirare, ma al tempo stesso non potrebbe essere più lontano. È un ossimoro, e Sherlock non sopporta gli ossimori, per questo tira un forte strattone, liberandosi della mano ruvida di John, le dita callose sul suo avambraccio. Il suo ultimo tocco. Mano salvifica e condanna allo stesso tempo.
-Lasciami andare!-esala, disperato.
La fine. Due parole. Due dannate parole scivolategli di bocca troppo tardi per essere fermate. Due parole che ha sempre desiderato dirgli, due parole per cui il cervello ha ingaggiato una vera e propria battaglia per non pronunciarle. Soprattutto non di fronte a quella persona. Lasciami andare. Lasciami andare (lasciamiandarelasciamiandarelasciamiandare). Smetti di attirarmi a te. Smetti di trattenermi con te. Smetti di creare questo legame indissolubile tra noi. Smetti di costringermi a starti vicino (e a rinunciare a te). Lasciami andare. Lasciami andare. Lasciami andare.
John lo guarda, con la bocca aperta, incredulo. Gli occhi supplichevoli, occhi che a Sherlock sono insopportabili (perché così amati. Così tanto amati). Non ha capito il sottotesto (non lo fa mai). John non capisce semplicemente. Non ha mai capito. Non è nelle sue capacità. Ritira la mano e la incrocia con l’altra, senza riuscire a parlare, guardandolo solo con quella fierezza e strenuità dovuta alla volontà di non arrendersi. Non rassegnarsi.
È l’ultima volta in cui lo guarda, Sherlock. L’ultima volta in cui si bea della sua vista.
-Sherlock.-dice solo John, e non riesce ad aggiungere altro.
Sherlock gli volta le spalle, compunto, freddo e lapidario (come la maschera che indossa) e sale in macchina.
 
( Continua )
 
 
 
Note:
Capitolo straziante da scrivere perché non veniva come volevo io. Sono assolutamente insoddisfatta. Troppo dramma alla fine, troppo poco all’inizio. E il lato innamorato di Sherlock è emerso troppo prepotentemente. Uffa. Fallita, mi sento fallita.
Godetevi il Johnlock che sarà duro da riconquistare. Ah sì, parto per altre due settimane. Aggiornamenti ad agosto gente! Grazie a tutti quelli che recensiscono e seguono (siete in venti, wow!)

 

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Capitolo 6
*** Sarabande ***


6. Sarabande
J. S. Bach, Sarabanda dalla 5a Suite Francese

La suite è grande come un appartamento per cinque o sei persone. Spaziosa e luminosa, dotata di ampie finestre su cui si apre il cielo stellato di Londra, per una volta non rannuvolato, in una vista sorprendente anche per lui, che è abituato a contemplare la sua città dai tetti. È elegante e raffinata, lussuosa ma non sfarzosa, e soprattutto non vi è nulla di eccessivamente pacchiano. Il salotto è ampio e aperto, dominato da un pianoforte a gran coda nero e lucido, su un tappeto rosso dalla trama elaborata e un divano di pelle bianca che ha l'aria di essere molto costoso. Sul tavolino alla sinistra della stanza, scintillano una lunga serie di bottiglie di vini pregiati che fanno la loro scena, ampolla dopo ampolla come l’ordinato laboratorio di un chimico. La scrivania sulla destra, bianca e di metallo, è pulita e molto ordinata, e su di essa torreggia un semplice portatile Mac, bianco anch'esso, e un telefono fisso. Ovunque attorno a loro, sulle mensole, libri di matematica e fisica quantistica molto rovinati, con pagine strappate, pieni di post-it con varie indicazioni ad evidenziatore, e accanto ad essi  vasi con rose fresche tutte rosso cupo, in un elegante contrasto.
-Davvero Jim? Davvero? Il mio alloggio sarebbe dove abiti tu?-il tono sarcastico è una maschera per celare quello sorpreso, mentre una fitta di disagio si insinua attraverso la cassa toracica, lenta, sinuosa ed estremamente spiacevole.
-Sistemazione speciale per l'ospite d'onore,-canticchia Jim a bassa voce, abbandonando a terra la giacca e togliendosi le scarpe nel tragitto dalla porta al divano, sul quale si lascia cadere mollemente con un tonfo sordo:-ci sono due camere. La tua è quella a destra. Il bagno è inutilizzabile, comunque, quindi dovrai usare il mio. Se trovo un capello fuori posto ne pagherai le conseguenze.-aggiunge poi, con uno svolazzo della mano.
Sherlock ghigna, alzando un sopracciglio con fare di sfida:-Davvero?-chiede sottovoce, prima di avviarsi verso la porta scura, alla sua destra, che a quanto pare conduce al suo futuro alloggio del prossimo periodo. Mentre cammina, sente un fruscio dietro di sé, come quello di qualcuno che si sta stiracchiando. Un pigro, sonnacchioso gatto: riesce a vederlo con chiarezza nella sua testa, la coda maliziosa e i denti aguzzi come quelli di uno squalo:-Sbrigati: la cena arriva tra venti minuti, ma lo champagne tra due.
Lui ride di gola, basso e gutturale, fingendosi sereno, mentre attraversa la porta per giungere ad una stanza che sembra l'esatta trasposizione del salotto in una camera da letto. Non si sofferma a guardarsi intorno, conscio che avrà tutto il tempo per farlo più tardi, e appoggia frettolosamente il violino e i bagagli sul letto matrimoniale. L’odore della stanza è insopportabile: profuma di fresco e rose, di pulito, in antitesi a come  si sente. È sempre stata irritante, per lui, la dissonanza.  Guarda con la coda dell’occhio il vetro della finestra, su cui si infrangono le prime gocce di pioggia venute da un cielo che non poteva restare sereno più a lungo. Poi torna in fretta in salotto, dove Jim è accomodato in una posa antica, da nobile romano, con le gambe distese sul divano e un flûte di champagne ricolmo in mano, e la braccia spalancate posate sui braccioli del divano.
-Prego,-dice con voce sottile, indicandogli un altro bicchiere posato sul tavolino. Sherlock si accomoda a terra, con le gambe incrociate, a pochi passi dal pianoforte, che accarezza con lo sguardo mentre ci passa vicino, strappando a Jim un sorriso. Prende delicatamente il flûte con due dita, e lo sorseggia, emettendo un verso di apprezzamento. Jim ride, indecifrabile.
-Annata buona, il '63.-mastica Sherlock, prendendo un altro abbondante sorso, pensieroso:-E mi sento in dovere di congratularmi con te per il pianoforte, per la cronaca. Steinway & Sons da cento mila sterline?
-Non mi faccio mancare niente.-commenta Jim, con indulgenza, lanciandogli una lunga e penetrante occhiata, completamente disinibita e spoglia da qualsiasi concezione di privacy:-Al pari di te, comunque. Il tuo violino non è un delizioso Stradivari?
-Amati.-lo corregge pacatamente, giocherellando con il bicchiere, lo sguardo basso nel liquido chiaro, seguendo il corso delle bolle d’aria dal fondo alla superficie:-Del quattordicesimo secolo.
-A volte sei così pretenzioso che mi verrebbe voglia di farti strozzare.-dice Moriarty con voce tranquilla, quasi disinteressata, giocherellando ancora un po’ con il suo bicchiere vuoto, facendolo roteare ancora e ancora tra le dita agili:-Ma poi penso che mi annoierei a morte senza il mio compagno di giochi.
-Oh, che bambino.-sbuffa Sherlock, roteando gli occhi con fare seccato:-Evita di comportarti così tutta la sera, ti prego. O potrei rifiutare il tuo invito a cena.
Flirtare. Mostrarsi a suo agio, usufruire di nonchalance. Arti rilassati, discorsi facili ma interessanti, e lo stesso tono di sfida che li ha caratterizzati una volta. Sfrontatezza. Sicurezza di sé. Esattamente come la preparazione ad un esperimento: scegliere con accuratezza elementi e composti, e il materiale più adatto; poi rispettare i tempi e trarne delle conclusioni per vedere se sono conformi alle ipotesi. Allo stesso modo queste premesse gli permettono di costruirsi una maschera, una nuova identità di sé, da mostrare, da sfruttare per giungere all’obbiettivo. E qualche rischio per perfezionare la mira è qualcosa che gli è sempre piaciuto prendersi.
-Oh, tu credi che mi ferirebbe?-chiede Jim alzando un sopracciglio e accavallando le gambe.
Sherlock decide di ignorare volutamente quella domanda, ritardandola con un gesto seccato della mano:-Serata di lavoro o libera?-chiede invece, alzando il mento con fare superbo e una lieve nota di impazienza nella voce:-Il cibo mi rallenta, devo scegliere la mia alimentazione con cura se voglio che i miei riflessi siano pronti.
-Lavoro. Mi hai fatto perdere già abbastanza tempo.-l’angolo della bocca si arriccia in una smorfia precisa, una linea che taglia diagonalmente il viso in modo così geometricamente perfetto da sembrare studiato al millimetro. Ma Sherlock vede il caos, dietro a quel sorriso, quell’eterno e infuriato disordine che permane nella mente di Jim, al contrario della sua. Se si concentra riesce a scorgere anche i capi e le code di quei pensieri, che come fili si intricano in una matassa inestricabile:-Possiamo anche saltare la cena, allora.
-Magnifico!-esclama allora, attirandosi le ginocchia al petto e sfregandosi le mani con fare impaziente, improvvisamente carico, illuminato, come se non vedesse l’ora di iniziare:-Cosa dobbiamo fare?
-Dai per scontato che possa condividere con te il progetto.-l’espressione del consulente criminale diventa delusa, quasi infastidita, con gli occhi socchiuse e le labbra schiuse in una smorfia, i denti stretti. Il movimento oscillatorio della sua testa sembra quello di una marionetta alla quale abbiano tagliato i fili. Poi rimane immobile, per qualche secondo, osservandolo attentamente in viso. Il suo volto improvvisamente si apre, un sorriso sfacciato e affilato, e quando apre la bocca Sherlock percepisce il vento, solo il vento dell’Est, che soffia così forte che si sente come se stesse per essere sradicato:-Sfacciato.-lo accusa, con gli occhi che brillano di approvazione:-D’accordo, facciamolo insieme. Da programmare l’omicidio di sir Nottingam, cavaliere della Regina e della Nazione.-si alza con slancio, sfregandosi i pantaloni come se potessero in qualche modo essere sporchi, e si slaccia i polsini della camicia. Percorre il salotto in grandi falcate, recuperando sull’ordinata scrivania – maniacale – un fascio di documenti, che gli lancia sgraziatamente.
-Potrebbe morire per osmosi.-Sherlock afferra una cartelletta e la apre, sfogliandola con fare distratto, il busto appoggiato al pavimento e i polpacci sollevati ed incrociati. Aggrotta le sopracciglia nel scorrere velocemente quella lunga serie di dati sulla vittima designata, sfiorando delicatamente con dita leggere quelle pagine di carta ruvida:-Acqua distillata o acqua salata: le cellule nel primo caso scoppierebbero, nel secondo si rattrappirebbero fino ad accartocciarsi su sé stesse.
Jim si ferma a ponderare la proposta, con l’espressione troppo stupita per essere fasulla. Sherlock apprezza – nei limiti dell’apprezzamento che può avere per l’uomo che più odia al mondo e teme al tempo stesso – questo lancio di sincerità incontrollata, perché è così raro, così difficile da cogliere, così inafferrabile che può essere fatto passare per una tripla finzione. Un gioco di specchi: ogni sovrapposizione crea altre infinite possibilità.
-Creativo.-è il genuino commento di Moriarty, mentre torna a sedersi di fronte a lui, e poi a sdraiarsi, aprendo in mezzo a loro un’enorme piantina con l’enorme villa, abitazione di sir Nottingam. Lo guarda con quegli occhi da gatto, ma Sherlock vede solo il nero, nient’altro che il nero nebuloso degli oscuri spettri che giacciono infondo a quelle iridi. Vede solo quel nero farsi più grande, più oscuro, più minaccioso, e poi inghiottirlo.
Quello, è solo l’inizio.
 
( Continua )
 
 
Note:
Questo capitolo è tutto per la mia Nemesi preferita, vero Vichy? L’ho scritto quando ha avuto l’appendicite, mesi e mesi fa, ma anche se lo pubblico adesso sai che è tutto per te.
Flute. È una parola sia maschile che femminile, grazie per avermelo fatto scoprire, Dede <3
Le recensioni sono sempre gradite, positive o negative, purché siano costruttive e non distruttive: mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate, soprattutto voi persone che non conosco, un parere esterno è sempre il più oggettivo. Vorrei inoltre ringraziare la 21 persone che hanno inserito la storia tra le seguite <3 e anche coloro che leggono nell'ombra. Un bacio a tutti e al prossimo capitolo! E buone vacanze

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Capitolo 7
*** Barcarolle ***


Avviso:
E' il famoso capitolo "non è non-con ma sicuramente non voluto". Quindi a chiunque sia sensibile a questo argomento (vi assicuro che però è trattato con la più delicatezza possibile, ed è davvero molto, molto, molto, leggerissimissimissimo) sconsiglio la lettura.




7. Barcarolle
F. Mendelssohn



-Cavallo in B6.
Sono sdraiati sul soffice: Sherlock si sta dando alla catalogazione dei tessuti dei tappeti in quella suite, e certamente quello persiano della camera di Jim è il più morbido, e cinge elegantemente il pavimento come se fosse stato cucito appositamente per quella stanza. Con la pancia in giù e le ginocchia accoccolate sulle pieghe del tessuto, studia la scacchiera con una smorfia simile ad un broncio. Jim, seduto di fronte a lui con la schiena appoggiata al muro, sorseggia con fare distratto il suo bicchiere di vino, tradizione elegante dopo una cena frugale per via del lavoro (su questo aspetto, i due si intendono una meraviglia).
La scacchiera tra loro sembra antica, di quasi trecento anni a giudicare dall’odore e dal colore del legno: un pezzo da museo. Non sembra toccare affatto Jim, questo dettaglio, che con malgrazia getta la sua torre via dal piano di battaglia, quasi con ferocia. Sherlock è sempre più stupito di quel lato animalesco e sgraziato che emerge prepotente in lui, di tanto in tanto. Sotto l’eleganza e lo charme delle buone maniere e un completo costoso quanto l’intero albergo nasconde quanto più c’è di primario e istintivo, nell’uomo: la violenza nella sua forma più scarna, più innata, e definitivamente più pericolosa.
Sherlock lo guarda, e respira piano.
La sua situazione negli scacchi è nettamente in svantaggio, ma lui non fa trapelare nessuna espressione sul viso concentrato. Sa benissimo a cosa è dovuta l'imminente sconfitta: quando giocano a scacchi il silenzio regna, ed è l'unico momento nel quale lui, non costretto a pensare a parole da dire come maschera, si trova da solo con i suoi pensieri.
Il viso di Mary riaffiora continuamente, come un legno che si tenta di nascondere sott'acqua, e che inevitabilmente riemerge, galleggiando. I suoi occhi sono benevoli e non lo giudicano mai, ma il rimpianto, e il dolore che squarciano la mente di Sherlock sono decisamente reali e tangibili. Sente di avere al posto della testa, un grosso tamburo collegato delicatamente a tutti i suoi nervi. E ogni volta che qualcosa batte su questo tamburo, generando suono e vibrazione, si formano mille canali sottili che trasmettono il dolore, dalla testa a tutto il corpo. Continua a prendere medicinali per il mal di testa e l'emicrania, ma non sembrano fare effetto.
Dopo una lunga contemplazione, riesce a posizionare la torre in uno schema strategico potenzialmente utile. Azzera il suo orologio e fa partire quello di Moriarty, che appoggia il bicchiere e rannicchia le gambe al petto come un bambino. Sherlock non fa fatica ad immaginarlo: una figura pallida e magrolina, avvolta nell'ingombrante divisa scolastica della Daniell Street Comprehensive (1), lo sguardo basso, nelle mani un piccolo impero e gli occhi già morti. Si chiede se siano mai stati vivi. Espressivi, certamente. Ma vivi?
Jim non si prende la briga di riflettere così a lungo. Con un fluido, sicuro e prepotente movimento del braccio, sistema la sua regina in modo tale che faccia scacco. Il suo volto è una maschera di freddo acciaio, impenetrabile, irraggiungibile. Una maschera come quella degli antichi egizi, pregiata, raffinata e solida, ma destinata ai morti.
Alza le sue pupille nere come la pece su di lui, inclinando la testa di lato. Pigramente.
-Ti vedo distratto, mio caro.-mormora, allungando uno delle sue lunghe dita in direzione degli orologi, fermando nuovamente il tempo in modo da cedere il turno. La pressione non viene applicata con tutto il polpastrello; la sua curata unghia gratta la superficie dell'ottone con un'eleganza struggente:-Mal di testa nuovamente?
-Passerà. È semplicemente una cefalea da stress da cambiamento.-borbotta lui con tono scontroso, urtando con stizza una pedina nel spostare un pedone da sacrificare in difesa del re. La sua mano imponente risulta ingombrante, priva della solita grazia e precisione che John soleva declamare nel suo stupido blog. John, ancora lui. Deve smettere di pensarci.
-Spero che il nuovo lavoro non sia la causa di tutto questo stress,-dice Jim, con tono fintamente zuccheroso, una goccia di miele, allungando la mano verso di lui per gettargli a terra il pedone, brutale:-Non vorrei che le tue forze venissero meno in momenti tanto importanti.
Sherlock studia nuovamente la scacchiera. Sta per perdere, di nuovo. La faccenda gli brucia meno di quanto pensasse, ma è una terrificante, perfetta metafora della sua situazione. È giunto al capolinea, ed ha appena iniziato. Le poche notti in cui si concedono riposo dal lavoro, Sherlock a mala pena chiude occhio, perseguitato dagli incubi. Sente i suoi nervi al limite, e sa riconoscere quando si trova vicino ad un attacco di panico. Niente di tutto questo deve assolutamente succedere - pena il fallimento del piano - ma in questi momenti si sente empaticamente molto vicino a John, al John devastato appena tornato dall'Afghanistan con tutti i suoi fantasmi nella sua testa.
Un uomo solo (2), ecco cos'è. Senza parte, mezzi e identità, lasciato a naufragare tra le mura di un salotto spoglio di contenuto e rigido di forma. Uno spirito che vagabonda tra le terre ignote alla ricerca di qualcosa che ha perso e che non potrà mai ritrovare. Ricorda di quando, poco tempo prima, si era ritrovato a sfogliare il taccuino dei casi che John teneva quando vivevano insieme, e che aveva nascosto in un cassetto della sua ex camera a Baker Street. Si era soffermato sui post-it che si erano scambiati, rileggendo i loro innocui battibecchi, le loro frecciatine: da alcune frasi, aveva riscoperto di essere stato innamorato di John già da allora, da molto più tempo di qual che pensava. E poi aveva trovato i ritagli della Caduta, e tra essi nessuna nota, nessun post-it, perché mai c'era stata l'occasione di discuterne. Sherlock era morto e John si era trasferito. Nel constatare questa semplice faccenda, l'aria gli era mancata. Quanto erano giovani, prima della Caduta, quant'erano sconsiderati! Allora, forse, se si fosse spinto un po' più in là, se avesse osato un po' di più, le cose sarebbe cambiate. Ma poi c'era stato Moriarty, la loro linea di confine - e quando ne erano usciti erano già tutti e due troppo spezzati dentro per potersi riparare a dovere.
Nessuna. Speranza.
Muove l'Alfiere.
-Scacco Matto,-sibila Jim, con un fiato sottile, una carezza, un sussurro. Il suo ghigno si schiude, gli occhi si infiammano, e in un attimo l'intera sua essenza, un incendio bruciante, divampa. Sherlock lo guarda brillare, bruciare, consumare. Lascia che quell'anima impazzita divori la sua fino al punto di non ritorno. Tanto non c'è possibilità. Non c'è più da molto tempo.
-Magnifico!-batte le mani, salta in piedi, la sua figura sottile all'improvviso piena di vigore, non più della lasciva pigrizia e charme che lo accompagnano ad ogni passo, come un profumo così intenso da risultare quasi fastidioso:-Direi che abbiamo impiegato le nostri menti brillanti in attività proficue come lavorare, lavorare, lavorare e giocare un po' a scacchi. Meritiamo un po' di svago, non credi anche tu?
Il suo tono è cantilenante, in un'eterna parodia della noia, ma l'espressione è tagliente, acuta e ai limiti del malizioso. Sherlock non alza gli occhi, rimanendo concentrato sulla scacchiera per studiare i termini di quell'umiliante sconfitta, respirando piano, finché non percepisce tramite l'udito dei rumori di uno strano armeggiare. A quel punto, semplicemente, realizza. Boccheggia, di schiena, senza farsi vedere, riuscendo perfettamente ad immaginare la scena nella sua testa.
Sapeva che sarebbe successo, prima o poi. Sperava semplicemente fosse poi.
Jim si slaccia i polsini della camicia, lasciandola scivolare sulle spalle pallide e facendola cadere a terra con un tonfo morbido. Poi lo guarda. Di spalle non riesce a vedere niente di tutto questo, e pertanto confermarlo, ma Sherlock sente lo sguardo sulla sua nuca bruciare.
Non serve il tempo di prendere una decisione: è già stato tutto deciso. Solo non da lui.
Non c’è altro motivo di indugiare, dunque, in questa estremamente misera riluttanza. Pertanto, a quel punto si alza e si volta, senza mai incontrare lo sguardo del suo aguzzino. Si siede con grazia sul letto, accoccolandosi sul materasso in posizione fetale, quasi di difesa, tra i cuscini anche più morbidi del tappeto, e lascia che le sue dita corrano sull'orlo della trapunta, torturandolo le unghie. Jim ride.
-Però,-dice, le tenaglie tese per scattare:-Per essere un verginello mi sembri piuttosto impaziente.
Ha frainteso, pensa Sherlock, con uno sgradevole peso sullo stomaco. La sua stretta si fa più decisa, come una lenta presa di coscienza: altre vie non ci sono. Va fatto, non sarà né rapido né indolore, ma certamente sopportabile. Va preso come una pura conferma scientifica: per la riuscita del piano. Per la riuscita del piano, si dice, stringendo i denti e respirando profondamente come per calmarsi. Un sacrificio da fare, uno come un altro, unicamente per la perfetta riuscita del suo piano. Lo ripete diverse volte, sentendosi come se non facesse alcuna differenza, perché l'autoconvinzione è un'arma inutile. Ma che serve torturarsi con sillogismi e retorica ora? Scorge Jim avvicinarsi, con la coda dell'occhio, e reprime nuovamente la nausea, alimentata dal moto dei succhi gastrici che si attorcigliano nel suo stomaco. Si impone la calma, e come conseguenza, si calma sul serio.
Appoggia la testa sul cuscino e pensa a John.


( Continua )





(1) È la scuola di Carl Powers. Ho ipotizzato la frequentasse anche Jim.
(2) Leggetelo. Di Isherwood. Leggetelo.




Note:
*si rintana sotto venti coperte per sparire dal mondo* IO NON HO SCRITTO NULLA DI TUTTO CIÒ!

Cavolo, la vergogna. Voi non avete idea. Io vado in crisi quando si parla di questo. Punto. Infatti lo sono.
Voglio tornare al mio platonicooooo!

Almeno siate felici (o tristi?) che questo è l'ultimo capitolo 'Sheriarty'. Anzi, sappiate che il capitolo Jim ha i giorni contati. Ci avviamo verso i fuochi d'artificio della storia.

L'ultima cosa:
Sherlock non lo fa per John. Lo fa per il suo piano. Che poi il piano sia per salvare John è un altro paio di maniche. Comunque sì, è un piano dell'accidenti. Lo distrugge. Ma è la sua ultima speranza.
E per il discorso Mary, bambina di Mary e tutto quanto: le spiegazioni arrivano presto. Vi chiedo solo di pazientare un altro paio di capitoli.
Vorrei ringraziare i miei lettori e anche chi recensisce (a parte le mie due care amiche Mask e ThatStar - un grazie per sopportarmi, a voi due - ), sono lieta di avere i vostri commenti e le vostre critiche! Un grosso abbraccio a tutti voi.

Ah si! Vichy, Jim, NO NON MI AVRETE! Oltre non andrò. Avrete Sherlock però *lo spinge avanti per filarsela*
 

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Capitolo 8
*** Arabesque ***


8.  Arabesque
C. Debussy – n.2
 
Il suo rapporto con John è sempre stato una coniugazione batterica.
È affascinante, in effetti, questa parte della scienza. Un capitolo collocato subito dopo la riproduzione, ma che non c’entra affatto con essa. Come il loro legame trascende il sesso, è qualcosa di molto più mirato, utile e elementare con funzione immediata. Quando si sono incontrati, è avvenuto il contatto tra le cellule, e si è instaurato immediatamente in rapporto di interdipendenza, dove ognuno, attraverso il legame che creatosi tra loro, ha trasmesso all’altro il suo DNA. Ma non una sezione  qualsiasi: l’utile, la dote, la sua parte migliore. Entrambi hanno subito la ricombinazione genetica, divenendo così più forti e migliori di prima.
Ma purtroppo, questo è un tipo di legame che lascia un segno. Invisibile ma profondo.
Lascia che l’acqua scorra, ma senza farla scaldare. L’acqua fredda è un bene, è come rigenerativa: lava via ogni segno, ogni odore, ogni consistenza – anche illusoria – di sporcizia sulla sua pelle. E in qualche modo, lava via anche il dolore. Non quello spirituale, certo. Il ghiaccio è un anestetizzante naturale, ma Sherlock sa benissimo che un impacco freddo posato sul suo petto e sulla sua fronte servirebbe ben poco ad alleviare il suo male al cuore e al cervello.
Il bagno è ordinato e pulito, ma ha un tocco di vanità che caratterizza l’intero appartamento. La mensola della doccia è in marmo chiaro, e su di essa sono ordinate in file precise, quasi elenganti, boccette e flaconi con varie creme corpo o bagno doccia. Il suo non l’ha portato – non l’ha reputato utile, né necessario – ma non aveva messo in preventivo quanto lo avrebbe fatto sentire a disagio avere su di sé un odore sconosciuto. Già ha venduto la sua anima: non vuole perdere neanche un minimo della sua identità. Ormai è tutto ciò che li resta.
Ma ce n’è una.
Ha due porte del suo palazzo mentale che si aprono su stanze con quel profumo. Due porte care, in cui è entrato spesso anche se in momenti diversi della sua vita. Una camera è quella di suo padre, l’altra è quella di John. La prima, rifugio durante la sua infanzia; la seconda…la seconda rifugio attuale.
L’olio d’Argan. Il primo ne usava appena, il secondo abbondava. Era un odore forte, esotico, così adatto a John. Così da lui. L’odore del deserto, l’odore della guerra – era quello che si portava appresso. Sempre. Che stesse correndo dietro a lui per Londra all’inseguimento di un criminale o stesse preparando una tazza di tè prima di andare a dormire.
Non il suo profumo, in fondo, ma almeno familiare. E doloroso. Una scheggia che continua a pulsare ogni secondo cin cui resisti con essa conficcata nella carne, come monito, come ricordo costante delle tue azioni.
Illuso, pensa, quando apre il flacone con due dita. Ma non ha il coraggio di fermarsi.
 
-Vieni un po’ a vedere qui.
La voce di Jim lo richiama immediatamente, appena messo piede sulla porta. È già vestito di tutto punto, pronto per una nuova giornata lavorativa all’insegna del crimine. È ovviamente bravo, come John aveva immaginato una volta: le sue abilità si confacevano a quel campo più che mai, se avesse deciso di intraprendere quella strada. Ma Sherlock è un sociopatico, non uno psicopatico, e più va avanti in questo modo, più sente nostalgia della sua vecchia vita. Ma ogni pensiero turbato rimane con lui solo nel cuore della notte, o durante i momenti di assoluta solitudine. Ha disinstallato che telecamere che aveva in camera (una precauzione di Jim che lui ha trovato fin troppo fastidiosa) proprio per poter avere qualche momento di privacy: sa che se tiene al meglio la sua maschera di fronte al nemico, avrà la fiducia necessaria per potersi concedere qualche debolezza da solo.
E la fiducia ce l’ha. Insospettabilmente, sembra che per Jim l’avere ucciso Mary e distrutto nuovamente John sia una garanzia più che sufficiente a provare la sua sincerità: non esita mai a fare nomi di collaboratori o di sottomessi, in sua presenza, non nasconde le carte su cui lavora né fa mistero di dove tenga i file nel suo computer. Tranne che per la sua chiavetta – che tiene sempre con sé – Sherlock è in grado di visionare qualsiasi cosa. Ma non si arrischia ancora, per prudenza. E in ogni caso, ha come la sensazione che non troverebbe ciò che cerca. La rete che aveva tre anni prima era molto più estesa di quella che fa intendere di avere adesso, ma Sherlock sa bene che non sarebbe tornato allo scoperto se non avesse avuto una solida struttura alle spalle.
-Cosa c’è?
Si avvicina in fretta al suo avversario, che è seduto comodamente sulla sedia girevole di fronte alla scrivania. Su di essa è collocato il computer, acceso e aperto su un programma che Sherlock riconosce come un virus per infiltrarsi nei database di telecamere a circuito chiuso. Per la prima volta in una settimana, il suo pensiero cade su Mycroft, che sta aspettando nell’ombra, pronto a coprire ogni delitto di cui si sta macchiando le mani, fingendo di non sapere niente e attendendo solo informazioni.
Dopo di che, si concentra su quanto ripreso dal filmato. La sua mente per poco non vacilla, ma il suo volto rimane assolutamente impassibile e fermo.
I primi sono filmati ripresi da telecamere a Baker Street. Sherlock ascolta John parlare con la signora Hudson circa un funerale – quello di Mary. Ha il volto scavato e gli occhi rossi, e in tutto il suo essere sembra semplicemente consumato da dentro, come se qualche cosa gli stesse divorando le ossa. Le guance sono flosce, e la sua intera figura chiarisce chiaramente che è da diversi giorni che non dorme né tocca cibo. In sostanza, John è un campo di battaglia devastato e lasciato in balia del nemico.
La signora Hudson sembra preoccupata e triste anche lei, e non turba John con chiacchiere inutili come al solito. Viene diverse volte fatto il suo nome, la prima volta dalla signora Hudson per chiedere se sarà presente al funerale, le altre tutte da John, che chiede informazioni sulla sua presunta “vacanza”. È chiaro che non abbia detto niente di quanto successo alla villa. Sherlock si sente spezzare il cuore, perché non credeva che – anche dopo tutto quello che gli aveva fatto – John sarebbe rimasto così, totalmente, devastantemente fedele fino alla fine.
Nel terzo filmato, la signora Hudson se ne va lasciando John da solo. Sherlock lo guarda iniziare a frugare nei cassetti della scrivania, e poi in cucina, e in un altro filmato scandagliare passo per passo la sua camera da letto. Non riesce a capire cosa stia cercando finché Jim non zoomma il fotogramma di ciò che si trova sul tavolo: un giornale aperto alla pagina dell’articolo sulla morte di Sir Nottingam.
Evita di spalancare la bocca per non sembrare ridicolo, ma alza un sopracciglio con espressione stupita. Il sorrisino di Jim si accartoccia in un ghigno fin troppo familiare. Gli altri filmati sono ambientati davanti all’enorme tenuta in cui è morto Sir Nottingam. Sherlock la riconosce per le fotografie sulle quali ha lavorato per pianificare il suddetto omicidio. John gironzola avanti e indietro, per più giorni consecutivi, fin da quando c’è la polizia – non viene fatto avvicinare perché l’Ispettore a capo del caso non è Lestrade – e poi si allontana nei dintorni, soprattutto nel bosco di aceri che fiancheggia l’intero lato sinistro. Sherlock è piuttosto confuso: sua moglie è appena morta e lui cerca l’adrenalina nella risoluzione di un caso? Senza di lui?
Ma Jim non ha ancora finito. L’ultimo filmato che gli mostra, ha set in un vicolo poco conosciuto di Londra. Sherlock lo riconosce solo perché è una sua nota scorciatoia che utilizza per arrivare ai tetti: su quella stradicciola, infatti, si aprono innumerevoli scale che portano ad edifici alti. C’è passato con John innumerevoli volte, ma… perché si trova li?
Nel filmato, John getta un’occhiata alla telecamera, troppo a lungo per far sì che Sherlock creda che non l’abbia vista. Ogni cosa che sta facendo, quindi, è del tutto consapevole. Ha in mano un barattolo di vernice gialla, simile allo spray che era stato utilizzato dalla mafia cinese in uno dei loro primi casi, il Banchiere Cieco. Anche i simboli sono simili, ma non del tutto. John si ferma diverse volte a controllare che siano giusti in un foglio stropicciato che ha in tasca. Ma perché compiere un atto vandalico proprio davanti ad una telecamera? Che stia cercando di mandargli un messaggio?
-Hai Londra dalla A alla Z?-chiede allora a Jim, che gli indica annoiato la libreria in fondo alla stanza. Sherlock decodifica i numeri in base alla memoria che ha del caso – tutto archiviato in una curiosa stanza nel suo Mind Palace piena di cianfrusaglie, e comincia a sfogliare in fretta le pagine alla ricerca delle parole giuste. Non gli ci vogliono più di cinque minuti, prima di capire il messaggio che John sta cercando di mandargli.
“I will find you and why”
Si volta verso Jim, ancora al computer ma rivolto verso di lui, le gambe accavallate e un sorriso provocatorio sulle labbra:-Hai visto?-chiede, anche se il divertimento non sembra mai raggiungere i suoi occhi:-Ha capito che ci sei tu, dietro a quel delitto. E sta indagando a proposito unicamente per te. Bé, l’hai addestrato bene, il tuo animaletto.-fa una pausa, nella quale si nasconde una non tanto velata derisione:-Dovresti esserne fiero.
-Non essere stupido.-ribatte lui, con tono seccato, facendo battere il tacco della scarpa sul pavimento con fare impaziente. Il suo volto rimane impassibile come una statua di cera.
Ma il suo cuore no: non riesce a rimanere abbastanza controllato. Ha una lieve accelerazione, come se fosse emozionato, mentre lui realizza che oh, sì, è davvero fiero di John.
 
( Continua )








Note:
Scusate per il ritardo imperdonabile. C'è stato un periodo di crisi per questa storia perché ho completamente cambiato idea sulla concezione di alcuni personaggi e quindi per riprenderla ho duvotuo ritrovare un senso a ciò che voglio raccontare. Non so quando posterò ancora. Spero solo che vi piaccia come tutto quanto si sta sviluppando. Se volete lasciare un commento siete i benvenuti: potrebbe spronarmi a mandare avanti la baracca. Scusate anche se tardo a rispondere alle recensioni: mi lasciano esausta e non so cosa dire. Mi dispiace molto.
Buon 2015 a tutti

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