Gioco di ombre

di gingersnapped
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come uno stupido arco che sputa fuoco possa condizionare tante persone ***
Capitolo 2: *** Piacere di conoscerti, o almeno, spero che sia davvero un piacere. ***
Capitolo 3: *** Voglio lasciare il mio segno ***
Capitolo 4: *** Alterare le direzioni ***
Capitolo 5: *** Cambierebbe forse qualcosa? ***
Capitolo 6: *** La sicurezza è sopravvalutata ***
Capitolo 7: *** Piccoli miglioramenti ***
Capitolo 8: *** Questione di un attimo ***
Capitolo 9: *** Circostanze inaspettate, forse fin troppo ***
Capitolo 10: *** Notizie inaspettate e strane apparizioni ***
Capitolo 11: *** L'inizio della fine ***
Capitolo 12: *** Ognuno di noi è dannato. Moriamo tra fiamme e fortuna. ***
Capitolo 13: *** La (ri)scoperta dell'amicizia ***
Capitolo 14: *** Inquietudini, accuse e riti sacrificali ***
Capitolo 15: *** "Organizzo l'incontro" ***
Capitolo 16: *** “È un gioco, un gioco di ombre” ***



Capitolo 1
*** Come uno stupido arco che sputa fuoco possa condizionare tante persone ***



“Respira. Quando non respiri, non pensi.”
Le sue parole l’avevano colpito. Quelle stesse parole, pronunciate dalla sua piccola bocca in un giorno assai lontano da quello, ma chiare come se le avesse pronunciate qualche istante prima, risuonavano nella testa di Hiccup. La ricordava ancora davanti a lui, i lunghi riccioli rossi che si muovevano con la lieve brezza del vento, l’arco (il suo arco) in mano, gli occhi acquamarina sorridenti. Sembrava così lontana in quel momento.
“Respira. Quando non respiri, non pensi.” Hiccup sorrise, beffardo. Non si ricordava che Merida avesse mai avuto ragione, e lui aveva una memoria  notevole, ma questa volta aveva ragione. Se fosse mai uscito da quella situazione gliel’avrebbe detto, e magari l’avrebbe pure fatta felice. Guardò oltre la punta della spada, puntata nello spazio tra i suoi occhi verdi, così intensi. Stava per finire tutto, ormai.

 
-Un anno prima-
Il cielo di metà settembre era inaspettatamente senza nuvole, solo un gran vento si alzava da ovest, facendo piegare al suo volere tutti i fili d’erba che, morbidi e lunghi, sembravano formare un manto verde di mare. Era più autunno che estate ormai, ma questo evento non faceva desistere un giovane ragazzo dal dipingere, all’aria aperta e senza alcuna giacchetta, il paesaggio. Era smilzo, con lunghi capelli castani che gli solleticavano il collo, gli occhi verdi come quei fili d’erba che curiosavano in giro, alla ricerca di uno specifico oggetto, trovandolo poco dopo appoggiato al suo orecchio sinistro, il pennello che sempre dimenticava. Una larga casacca lasciava intravedere i suoi miseri pettorali. Quello era mercoledì e il mercoledì era destinato alla paesaggistica e lui avrebbe dipinto quel paesaggio. Solo che..No, evidentemente quello non era il mercoledì giusto. Già rassegnato, il ragazzo estrasse dalla sua casacca un quadernetto molto consumato, appuntando qualcosa accuratamente. Almeno, se non avesse dipinto quel paesaggio, avrebbe potuto fare altro: come ad esempio migliorare una delle sue invenzioni. Forse aumentando la superficie d’estensione e la distanza tra le diverse canne fumarie avrebbe potuto diminuire il tempo di raffreddamento e quindi incrementare il numero di colpi! Si, si disse che era così, e a conferma della sua tesi ne fece uno schizzo a bordo pagina, in modo da non dimenticarlo.
“Hiccup?”
Una voce lo destò da quel vortice di inventiva, e il moro sapeva benissimo chi era. Alzò lo sguardo e vide dinnanzi a sé Jack, il suo amico. Alzo, snello ancor più di lui, capelli castani ma privi dei riflessi rossi dell’inventore e perennemente scompigliati, e occhi marroni, caldi, e un sorriso inaspettatamente sornione, malandrino. Con quel sorriso lì sembrava avere quell’aria di aver combinato chissà quale diavoleria, per poi diventare il più innocente tra gli uomini appena cambiava espressione. 
“Dimmi, Jack.”
“Gobber mi manda a chiamarti.”
“Perché? Lo dovrà imparare prima o poi che il mercoledì mi esercito a dipingere”, disse Hiccup, abbastanza seccato. 
“Ma non stavi dipingendo”, ribatté Jack, sorridendo furbescamente.  
“Si, beh, questo..questo è un altro discorso”, bofonchiò l’altro, rimettendo il quadernetto dentro la casacca.  
“Comunque forse ti interessa sapere che hai una commissione.”  
“Sai che novità.” 
“Oh, smettila di essere così sarcastico e ascoltami! È una commissione di uno dei Dunbroch”,esclamò Jack, estasiato. Hiccup si voltò immediatamente. 
“Cosa possono volere i Dunbroch da me?” 
“Forse tuo padre ha elogiato le tue capacità”, azzardò Jack. Hiccup alzò di rimando un sopracciglio, come a dirgli che non avrebbe creduto mai a qualcosa del genere neanche se l’avesse visto con i suoi occhi. Suo padre, il comandante delle guardie, Stoick Haddock denominato l’immenso perché era grande e grosso quanto una delle porte della città, quando aveva saputo che non avrebbe percorso la sua stessa carriera, non l’aveva presa poi così bene. Diciamo che aveva pensato bene di diseredarlo, chiamarlo bastardo e far finta di non averlo come figlio. E a Hiccup andava bene così, visto che si era trovato da fare presso la bottega del rinomato Gobber, artigiano di corte, fornitore di progetti di armi da guerra, ritrattista ufficiale di palazzo. 
“Okay, va bene, forse semplicemente volevano farsi costruire qualcosa da Gobber e lui ti ha passato l’incarico”, riformulò il moro. Questa volta Hiccup annuì distrattamente, seguendo il ragazzo fino alla bottega del suo maestro.

 
(Gobber)
Gobber non era affatto nato per insegnare, infatti come maestro vero e proprio era pessimo. Non aveva una corporatura alta e minacciosa, semplicemente mangiava tanto e beveva troppo, il tono di voce era grossolano e chiassoso, la bocca sempre aperta a prendere aria, e gli occhi, troppo piccoli e troppo vicini tra di loro, acquosi, davano l’impressione che piangesse sempre ma non era affatto una persona sensibile, e chiunque avesse osato dire questo, non visse tanto a lungo per raccontarlo. 
“Sei in ritardo, ragazzo!”gridò rivolto a Hiccup, tirandogli un bicchiere di legno che aveva in mano. Fortunatamente questa volta il ragazzo lo evitò: peccato che colpì invece Jack. 
“Ahi”, si lamentò questo per il colpo, massaggiandosi dove era stato colpito. 
“Lo sai che è mercoledì”, cercò il spiegarsi il moro, senza alcuna efficacia però. 
“Non mi interessa”, abbaiò infatti Gobber, “e adesso pensa a costruire un arco.”
“Hai mandato Jack a chiamarmi, hai rovinato il mio mercoledì solo per uno stupido arco?”
“Hamish Dunbroch non vuole uno stupido arco, ne vuole uno intelligente e cito testuali parole, deve sputare fiamme” 
“E mi spieghi come farebbe un arco a sputare fiamme?”, chiese Hiccup, guardando Gobber. 
“E io che diavolo ne so. Inventalo!”, rispose di rimando quello. Il moro sospirò; quello era decisamente uno dei momenti in cui Gobber dimostrava chiaramente di non essere affatto nato per insegnare, ma Hiccup avrebbe voluto tanto che lo fosse.
 
 
(Rapunzel)
 Rapunzel era una ragazza estremamente graziosa: gli occhi grandi, verdi, erano contornate da lunga ciglia che addolcivano ancor di più il suo sguardo, sul nasino perfettamente all’insù vi erano poche lentiggini che la rendevano sbarazzina, il fisico era minuto, i capelli erano lunghi e descrivevano ampie onde dorate. Rapunzel era una ragazza estremamente graziosa, e anche per questo per Hiccup era sempre un piacere sfruttarla come modella, proprio come quel lunedì.
“Hic, come va il progetto dell’arco?”, chiese la bionda, spostando gli occhi dal fiore che teneva in mano, un bellissimo girasole, agli occhi dell’inventore. 
Deve sputare fiamme” ripeté Hiccup sovrappensiero.  “Come diavolo fa un arco a sputare fiamme?” “Immagino che il progetto dell’arco non stia andando poi così bene.”
“Immagini bene purtroppo.”
“Sono certa che ce la farai. Tu ce la fai sempre”, disse fiduciosa lei, riservandogli un sorriso rasserenante e contagioso. Anche Hiccup le sorrise.
“Come va a corte, invece?”, domandò lui, prendendo un carboncino un po’ più fine per disegnare anche i dettagli.
“Oh, va benissimo. Là sono tutti così gentili, e ilari: soprattutto il re Fergus! Non avrei mai creduto che il nostro sovrano fosse così bonaccione con tutti, con i figli e con i sudditi.”
“Spero che sarà bonaccione anche con me, quando scoprirò che non ho costruito un arco che sputa fiamme al figlio.”
“Ma nessuno dei figli sa tirare con l’arco”
Hiccup smise di disegnare. Rapunzel era sempre là, con la sua aria di serenità perenne, neanche una vera tragedia sarebbe riuscita a scalfirla. La diciassettenne era lì, di fronte a lui, con i nastri sui capelli e il vestito svolazzante, e gli aveva appena detto che nessuno dei figlioletti Dunbroch sapeva tirare con l’arco.
“Mi spieghi perché Hamish vuole che gli costruisca un arco che sputi fiamme? Voglio dire, non solo non sa tirare con l’arco, ma vuole che questo sputi fiamme!”, sbottò il moro, riprendendo a disegnare. Rapunzel rise.
“Sarà per la principessa.”
“Senti Punzie, mi sa che il tuo senso dell’umorismo è peggiorato.”
“Non era una battuta.”
“E da quando le principesse sanno tirare con l’arco?”, domandò Hiccup sarcastico.
“Oh, la principessa è assolutamente fantastica, sono certa che la adorerai”, fu tutto ciò che disse Rapunzel.
 
(Lo stupido arco che sputava fuoco)
“Sarà meglio per te che hai costruito quello stupido arco che sputa fuoco”, abbaiò Gobber, mentre sistemava un po’ di carte e di appunti nel suo tavolo degli attrezzi. Erano passate quasi due settimane da quando il maestro gli aveva dato quell’incarico, e Hiccup inizialmente non sapeva neanche come farlo. Certo, sicuramente quelle erano richieste fantasiose di un bambino, ma era un bambino regale, e in quanto tale andava accontentato, anche se avesse richiesto una catapulta fatta di marzapane che si muoveva da sola, l’avrebbe ottenuta.
“Non è uno stupido arco che sputa fuoco”, ribatté il giovane, “è uno intelligente.”
“Sei riuscito a costruirlo?” chiese Gobber, stupito. Era sempre così, quando si trattava del suo allievo prediletto, anche se non l’avrebbe ammesso mai: quando svolgeva le sue lezioni, il giovane mancava sempre perché aveva altro da fare. Però poi, quando aveva difficoltà –cosa che accadeva assai di rado- lo trovava nel suo ufficio e chiedeva.
“Certo.”
“E sentiamo, come avresti fatto?”
“In questa parte, lontano dal manico, ho messo una miscela di zolfo e resina polverizzata. Basta poi anche una sola scintilla per far sì che l’arco sputi fuoco”, spiegò Hiccup, tutto concentrato sull’arco.
“Ben fatto”, commentò estasiato il maestro, ritornando alle sue carte.
“Jack dov’è?”
“Sai come è fatto, sarà andato a rubacchiare qualcosa.”
“Ovviamente”, borbottò sovrappensiero, sbirciando tra gli appunti del maestro, sperando di trovare qualche progetto interessante. Niente, come al solito. Forse avrebbe potuto migliorare la sua altra invenzione, oppure avrebbe detto che era impossibile da realizzare, oppure gli avrebbe detto che era impossibile da realizzare e poi l’avrebbe migliorata di nascosto così da mostrarla al sovrano come sua invenzione. Non sarebbe stata la prima volta, certamente: come il caso del triplice mulinello, usato per portare più acqua in minor tempo. Il re Fergus l’aveva elogiato per settimane, facendogli inviare giornalmente doni e invitandolo a mangiare tacchino e chissà quante altre leccornie al suo banchetto. Quello sarebbe dovuto essere il mio tacchino, si ritrovò a pensare il moro, andando a sistemare l’arco e le frecce a portata di mano. Il principino sarebbe dovuto arrivare tra poco, e così fu. Il piccolo Hamish Dunbroch, accompagnato dai suoi due identici fratelli Harris e Hubert e una signora. Hiccup sorrise: quei tre arrivavano a malapena al metro e venti centimetri, i capelli sembravano fili di carota, gli occhi erano blu e sembravano alquanto innocenti e soprattutto, avevano sei anni. Gli occhi del giovane inventore si spostarono sulla signora, un po’ grassottella, che sembrava piuttosto affannata.
“Vecchio, hai costruito l’arco che sputa fuoco?”, gridò uno dei tre, facendo sobbalzare Hiccup. Non aveva poi così torto: aveva pensato che sembravano innocenti, non che lo fossero davvero.
“No, ma l’ha fatto questo ragazzo.”
Sei grandi occhi blu puntarono quelli verdi del ragazzo, intimidendolo non poco.
“Q-questo è l’arco”, disse il ragazzo, porgendo ai tre l’oggetto con le frecce. I bambini lo guardavano con attenzione, soffermandosi appena un po’ su un’incisione che Hiccup aveva fatto in un momento di noia.
“Non sputa fuoco”, commentò uno dei tre principini. Hiccup deglutì.
“No, non adesso ma le frecce e l’arco stesso sono formate da una particolare mistura che, anche con una scintilla, prende fuoco”, spiegò il moro.
“Pure l’arco?”, domandò estasiato un altro. Il ragazzo sorrise convincente.
“Maudie!”, riprese a gridare il primo che aveva parlato “paga il signore.”
“Oh, non chiamatemi signore. Sono un semplice artista.”
“Artista?”, chiese uno dei bambini. “Vuoi dire che fai anche dipinti?”
“Dipinti, ritratti..si, fa parte della mia formazione”, rispose il ragazzo, mentre la signora gli porgeva un sacchetto pieno zeppo di monete.
“Ehi, artista, perché non partecipi al concorso per il ritratto della nostra famiglia?”
“Già, se sei riuscito a costruire un arco infuocato che sputa fuoco puoi farcela.”
“Sicuro, potresti farlo eccome!”
“Allora parteciperò senz’altro, sperando di essere scelto”, disse Hiccup, mentre i tre principini lo salutavano. Guardò il sacchettino contenente le monete, e poi guardando in direzione dei tre bambini sorrise. Avrebbe partecipato eccome.
 
(Un po’ di Jack)
La sua figura era invisibile tra la folla, specialmente con quel cappello nero, sporco un po’ di polvere con qualche buco, e quella mantellina marrone. Tutti gli uomini erano vestiti di nero o di marrone, e ciò rendeva possibile la sua mimetizzazione nella folla sempre un po’ caotica della stagione autunnale. Quel giorno Jack virò in direzione del mercato, perché Hiccup era impegnato con un arco che sputava fuoco, qualunque cosa potesse significare, dove erano allestite diverse bancherelle che, a detta del ragazzo, offrivano la loro mercanzia su piatti d’argento. Si avvicinò appena al bancone della frutta, prendendo due mele che nascose velocemente sotto la mantellina, allontanandosi poi senza fretta. Come al solito, la fruttivendola non si accorse di nulla, continuando a parlare allegramente con il pescaiolo della bancarella accanto, al quale Jack stavolta non rubò niente. Il pesce non era un granché quel giorno. Invece, i suoi occhi caddero sui panini sofficissimi della signora Brot. La signora Brot era un’odiosa donna di mezza età, larga quanto alta, con due altrettanto odiose fossette sulle guancie grassocce, che odiava follemente Jack. Ed è per questo che i suoi occhi, neri come la liquirizia, avevano puntato Jack. In realtà, la storia di come la signora Brot, giudicata da molti una signora onesta e bonacciona, cominciò ad odiare Jack, è piuttosto buffa.

Tutto cominciò due inverni fa.
Era un evento raro un’uscita ufficiale della famiglia reale completa. Il re camminava accanto alla moglie, però con lo sguardo attento ai tre bambini piccoli che con i loro passi incerti sembravano quasi perdersi tra la folla. La regina invece parlava con l’unica figlia femmina, la maggiore. Cercava di convincerla a legarsi i capelli, magari in un’acconciatura come quella nella quale lei teneva legati i suoi capelli castani, ma la figlia scuoteva la testa dicendo di no, facendo ricadere i capelli, rossi e ricci come quelli del padre, sulle spalle. E proprio al mercato Jack li vide. La famiglia reale stava ispezionando le bancarelle, e di conseguenza tutti i venditori erano distratti. Non c’è occasione migliore, pensò Jack, avvicinandosi quatto quatto alla deliziosa bancarella della signora Brot: non era solo una panettiera, ma anche un’ottima cuoca e pasticcera, che di tanto in tanto vendeva anche sformati di carne o la dundee*, una torta colma di uvetta e bucce di arancia, che faceva venire l’acquolina in bocca. E nella sua bancarella, quel giorno, vi erano pure dei deliziosi dolcetti. Jack non era l’unico ad averli notati: anche i tre principini dai capelli rossi stavano guardando quegli stessi dolcetti, con l’aria sognante. Preso da un moto di gentilezza, Jack prese quattro biscotti, dandoli ad ognuno dei bambini regali e lasciandone uno a se stesso. Peccato che non fu abbastanza veloce da allontanarsi senza attirare l’attenzione. La signora Brot lanciò un urlo agghiacciante, e subito una marea di folla fu attorno alla donna, che invece con gli occhi non aveva mai smesso di seguire Jack.
“Signora, che cosa è successo?”, chiese il re in persona, mentre sua moglie si avvicinava alla signora.
“Quel ragazzo ha rubato i miei dolcetti”, rispose quella, con la voce alta di parecchie ottave.
“Quale ragazzo?”
“Quello!”, urlò, indicando un punto imprecisato della folla.
 La regina diede un’occhiata alla folla accanto a sé.
“Io vedo solo i miei figli mangiare i suoi dolcetti”, disse la regina.
“Elinor..”cominciò il re, ma la moglie lo zittì.
“No, Fergus, dobbiamo pagare. La signora potrebbe prenderci per delinquenti, e noi non lo siamo.”
“Ma, mia regina, io non mi riferivo ai vostri figli, un altro ragazzo ha rubato i miei dolcetti..”
“No, per carità, non voglio che i miei figli ricevano alcun trattamento speciale. Questo le basta per rimediare al danno?”
E Jack approfittò di quest’ultima distrazione per allontanarsi. Vide i bambini salutarlo, mostrando fieramente le mani sporche di dolci, e notò anche che la loro sorella maggiore, rimasta in silenzio per tutta la scenetta, lo guardava. Poi sorrise beffarda e poi si girò dall’altra parte.
Ed era per questo, che la signora Brot odiava Jack, per la brutta figura fatta con la famiglia reale.

“Salve, signora Brot”, salutò Jack quel giorno, rivolgendole il suo miglior sorriso innocente, ma quella continuava a guardarlo con diffidenza, facendogli a malapena un cenno.
“Ehm, vorrei tre dei suoi baps*”, disse, allungando gli occhi su quei sofficissimi panini dalla forma ovale, ripieni di uovo fritto e pancetta e pregustandoli già. A giudicare dal lieve fumo, erano usciti dal forno da poco.
“Mostra i soldi prima”, abbaiò la signora Brot. Jack ne rimase stupito, ma mantenne sempre quell’espressione angelica sul viso, mostrando due monete d’argento.  “Dammele!”
“Mi dia prima i panini”, ribatté Jack, ritirando la mano con i soldi. La signora Brot assottigliò i suoi occhi neri, e malvolentieri porse al ragazzo i tre baps. Jack aveva ragione, erano ancora caldi e più appetitosi che mai e per questo le diede i soldi.
“E adesso va’ via, piccolo screanzato!”
“Buona giornata anche a lei, signora Brot”, disse Jack, allontanandosi ridacchiando. Avrebbe ringraziato più tardi Hiccup per aver avuto la geniale idea di dipingere le monete di ottone con l’argento.


(*) dolci tipici scozzesi.

Salve! Questa è la prima storia che pubblico qui perchè non ne ho mai avuto il coraggio di farlo (coraggio racimolato nelle feste tra un pandoro e l'altro, o forse era semplicemente senso di sazietà). Sarei ben contenta se qualcuno di voi mi facesse sapere cosa ne pensa. Buone feste a tutti
gingersnapped

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Capitolo 2
*** Piacere di conoscerti, o almeno, spero che sia davvero un piacere. ***


(Al palazzo)
Era assurdo pensare che al palazzo reale, una sorta di fortezza costituita da trappole, guardie e armi, pericolose e potenzialmente mortali quanto un corsetto stretto un po’ di più, ci fosse silenzio, ma in quei giorni ancor di meno. Merida sbuffò, scarabocchiando qualcosa sul suo foglio, facendo finta di ascoltare quella tediosissima lezione sulle rune. Come se a me importasse, si ritrovò a pensare, mentre la voce del professore (chissà quale importante esperto) le faceva appesantire sempre di più le palpebre. Non sapeva neanche da quanto tempo stavano facendo effettivamente lezione, perché per lei sembravano passate ore intere, se non quasi tutta la giornata. Stava giusto per assopirsi di tutto punto, quando la porta si aprì improvvisamente, e la figura della madre si erse in tutta la sua grandezza piuttosto intimidatoria. Dietro a lei c’erano i suoi fratellini, con un’aria colpevole schiaffata su quei loro visi.
“Mi scusi professore, ma ho bisogno di parlare con mia figlia”, disse quella, gli occhi marroni colmi di rimprovero.
“Certo”, fece quello, col suo strano accento.  Merida si alzò, comunque contenta di sottrarsi a quella tortura, e seguì la madre nel corridoio.
“Merida, cos’è questo?”, domandò lei, mostrandole un oggetto nella sua mano destra, mentre quella sinistra era messa sul fianco.
“Un arco.”
“E cosa ci facevano i tuoi fratelli con un arco?”
“Magari volevano imparare a tirare con l’arco?”, provò ad indovinare la rossa, e a Harris spuntò un sorriso.
“Non è un arco qualunque. Questo, e cito testuali parole, sputa fuoco”, disse sua madre, glaciandola con lo sguardo.
“Io non vedo nessun fuoco.”
“Merida”, la rimproverò la madre.
“Cosa c’è? Io non ho nessun arco che sputi fuoco, non è mio”, ribatté la figlia.
“Maudie dice che te lo sei fatto commissionare, e che queste tre pesti” e guardò i suoi figli, “ti hanno coperta.”
La ragazza spostò lo sguardo, colpevole. Maudie chiacchierona!, pensava. Si preoccupa più di spifferare ogni cosa che faccio che fare i suoi compiti effettivi!
“Ma come ti è venuto in mente di spendere così tanti soldi per un arco?”
“Ho speso i miei soldi!”
“Soldi che avresti potuto spendere in un modo più utile, come fasce per capelli, vestiti, gioielli..”
“In modi più utili per te. Mamma, è inutile questa discussione.”
“Già, perché ti farai restituire i soldi.”
“Cosa?”, domandò Merida. “Non ci penso nemmeno.”
Ad interromperle fu la sopracitata Maudie che arrivò agitata in corridoio.
“Mia regina, il re ha interrotto gli accordi diplomatici”, soffiò velocemente, e Elinor le diede l’arco in mano e si affrettò a dirigersi nella stanza dov’era il marito. Merida guardò Maudie, che si era appoggiata alla parete.
“Spia spiona”, commentò, guardandola con i suoi occhi acquamarina, di un colore così freddo ma che erano capaci di prender fuoco come i suoi capelli. Le prese l’arco dalle mani e se ne andò nella sua stanza.

“E quindi ti sei ripresa l’arco?”, domandò la ragazza che si trovava di fronte a lei, guardandola con stupore e sorridendo serenamente.
“Certo! È mio di diritto”, rispose la rossa. “Punzie, tirare con l’arco è forse l’unica cosa in cui sono brava veramente. È la mia essenza. Dovresti vedermi una volta tanto.”
“Ma”, provò a ribattere la bionda, “la regina poi..”
“Non preoccuparti di mia madre”, commentò scocciata Merida, “e poi ho ancora un arco da collaudare.”
“Ti prometto che uno di questi giorni ti accompagnerò.”
“Fantastico!”, esclamò entusiasta la rossa, buttandosi sul suo letto a baldacchino, immenso.
“Sai, mia madre voleva che lo restituissi e che mi facessi ridare i soldi”, esordì qualche minuti dopo, mesta.
“Non puoi”, disse Rapunzel di getto, tappandosi immediatamente la bocca.
“È quello che ho detto a mia madre. Non posso! Questa” e prese l’arco in mano, “è la mia vita. Sarebbe come rinnegarla. E poi mi sembra brutto chiedere a Gobber i soldi, nonostante sia di casa.”
“Non l’ha fatto Gobber, quell’arco”, disse Punzie, sedendosi composta nel letto e allisciandosi una ciocca di capelli. Merida rizzò a sedere, accanto all’ufficiale dama di compagnia, che era diventata una sincera amica.
“E chi l’avrebbe fatto allora?”
“Hiccup. È un mio amico”, cercò di spiegare la bionda, “ed è un artista bravissimo. Sai, è pure un inventore!”
“Hiccup? Che strano nome!”, commentò la principessa, sdraiandosi nuovamente, stavolta con un ampio sorriso. “Un artista, dici? Perché non fai venire il tuo amico a palazzo? Così avrò il piacere di ringraziarlo di persona, dopo aver collaudato l’arco.”
“Certamente, sarà un vero piacere.”
(Amico, dove ce l’hai il cervello?)
“Dov’è Hiccup?”, chiese Jack piuttosto affannato quel giorno entrando in bottega. Dentro, Gobber stava giustappunto tenendo una lezione su come costruire un orologio, o qualcosa di molto simile. Il maestro (e Jack in quel momento si domandò come mai Hiccup, il suo geniale amico Hiccup, si ostinasse a chiamarlo così dal momento che in bottega veniva a lavorare e a dormire e non ad imparare) gli rispose bruscamente che Hiccup non c’era, come sempre, e che se Jack l’avesse trovato, avrebbe fatto bene a spedirlo subito lì, a seguire la lezione. Ma entrambi sapevano perfettamente che Hiccup non l’avrebbe fatto, e si ritrovarono per l’ennesima volta a chiedersi dove fosse andato. Meno male che, comunque, Jack aveva i suoi metodi.
“Ehi, Jen, hai visto Hiccup per caso?”, domandò ad una bambina, dopo che girovagava sulle vie della città da almeno cinque minuti. Questa scosse la testa, e Jack andò avanti. Dopo tutto quello che faceva per lui, non si degnava neanche di dirgli dove andasse e perché non si facesse trovare così facilmente. Non gli avrebbe più comprato baps, questo era sicuro.
“Fran, hai visto Hiccup?”, chiese nuovamente ad un altro bambino, più piccolo, in un’altra strada.
“Hiccup..chi?”
“Oh, andiamo! È un ragazzo più o meno come me, forse un poco più basso.. capelli castani, occhi verdi, ha sempre una matita dietro l’orecchio sinistro e ha un’aria piuttosto stramba”, descrisse Jack.
“Descrizione piuttosto accurata, solo che io non ho un’aria stramba”, disse l’interpellato alle spalle del brunetto. Questo si mise a ridere.
“Sappiamo entrambi che ce l’hai. Dov’eri?”
“In giro.”
“A fare?”
“Ancora niente.”
“Che significa ancora niente? Che hai intenzione di fare?”
“Devo solo entrare al palazzo alle dieci spaccate.”
“Per..?”
“Per il concorso degli artisti, Jack. Per poter avere l’occasione di fare un ritratto della famiglia reale”, spiegò Hiccup, camminando in direzione del palazzo. “Amico, dove ce l’hai il cervello?”
“Amico, dove ce l’hai tu il cervello? Non vincerai mai quel concorso, e non perché tu non sia bravo, ma perché sceglieranno chi è molto noto. E mi dispiace dirtelo, ma non sei noto.”
“I principini mi conoscono, e mi hanno detto loro di partecipare.”
“Assolutamente insignificante.”
“Potrei cercare di convincere il re.”
“Forse ci riusciresti ma” qui Jack si fermò, rendendosi  conto di essere arrivato davanti alle porte, spesse e imponenti, del palazzo, “non c’entri il punto. Quella che devi convincere, è la regina.”
“Oh, dei”, commentò Hiccup. Sul serio, dove ce l’ho io il cervello?, pensò.

Hiccup entrò da solo. Forse Jack percepiva un’aria di grande disagio, o semplicemente era troppo codardo per entrare insieme a lui. Quel posto irradiava veramente potere: la maggior parte del materiale era formata da pietra, o legno, ma le intagliature e i particolari in oro facevano risaltare la semplicità di quei materiali. Era semplicemente fantastico.
“Ehi, ragazzino, che ci fai qui?”, chiese una guardia, piuttosto gentilmente. Hiccup pregò semplicemente che non attirasse l’attenzione del padre.
“Sono qui per il concorso degli artisti”, rispose semplicemente, e la guardia scoppiò a ridere attirando ovviamente l’attenzione del comandante che li raggiunse in men che non si dica. Hiccup osservò la faccia di suo padre passare dal bianco, al rosso e al viola in pochi secondi, spostando gli occhi a terra. Improvvisamente anche le mattonelle del pavimento erano diventate estremamente interessanti, almeno quanto le sue scarpe.
“Che succede qui?”,  tuonò suo padre, facendo finta di non aver riconosciuto il figlio.
“Questo bambino vuole partecipare al concorso degli artisti”, spiegò tra le risate la guardia. Stoik invece rimase impassibile. Hiccup era convinto che sarebbero rimasti così per sempre, la guardia a ridere, suo padre impietrito, e lui obbligato a fissare un punto imprecisato tra le mattonelle perfettamente allineate tra di loro, fin quando le voci di tre bambini non destarono la sua attenzione.
“Signor artista!”, urlarono, andandogli incontro. Hiccup sorrise, profondamente grato ai tre.
“Miei signori”, salutò lui, inchinandosi esageratamente a terra e facendo ridere le tre pesti dai capelli rossi.
“Oh, finitela di importunare le persone.”
Una voce, chiara e limpida ma di sfuggita, rimproverò i bambini, senza curarsene però troppo. Hiccup si girò in direzione della voce e vide una giovane ragazza dai lunghi capelli ricci e rossi, camminare con al fianco la sua amica Rapunzel: quest’ultima lo salutò con la mano. Evidentemente erano indaffarate a fare qualcosa.
I tre bambini smisero di giocare con Hiccup.
“Non mi state importunando”, bisbigliò lui, e questi iniziarono nuovamente a rincorrerlo e a fargli mille feste.

“Numero trentadue”, chiamò la regina Elinor, facendo entrare nella stanza l’ennesimo artista. Questo era alto, corpulento, e con due mani decisamente non adatte a dipingere.
“Nome?”
“Snotlout Jorgenson”, rispose quello, rimanendo alzato ma guardando comunque la sedia posta davanti il tavolo dove si trovavano tutti i membri della famiglia Dunbroch, dal re ai figli, tutti annoiati.
“Salve, signor Jorgenson. Perché dovremmo scegliere lei per il ritratto familiare?”, chiese la regina, fingendo di essere interessata ma, dopo già trentadue artisti, si sentiva piuttosto stanca e certa di aver sprecato il suo tempo. Avrebbe fatto meglio a rivolgersi direttamente al pittore di corte, Gobber.
“Perché io” aveva una voce cavernosa, decisamente non ispirava fiducia “sono il migliore. Io e la mia famiglia siamo tra le più antiche di questo regno, e sono dell’opinione che il futuro è di chi ha un grande passato.”
“Oh, ehm, sì”, persino la regina si sentiva spiazzata. Si girò verso il marito, che aveva gli occhi chiusi e il respiro lento e regolare. Ancora una volta si era addormentato. “Ci sono domande?”
“Ma sai disegnare almeno?”, chiese Merida, generando le risa dei fratellini e il rimprovero della madre. 
“Numero trentatré”, continuò la regina, mentre Snotlout usciva dalla stanza. Finalmente era il turno di Hiccup, che entrò scontrandosi con quell’uomo.
“Haddock”, lo chiamò sorpreso, mentre stringeva una mano al moro.
“Cugino, che ci fai qui?”, chiese Hiccup. “Non sapevo sapessi dipingere.”
Questo alzò le spalle. “Ci ho provato”, rispose, uscendo dalla stanza. 
Hiccup fece ancora qualche passo in avanti: eccola, l’intera famiglia reale davanti a lui che lo guardava (più o meno). Per timore che le ginocchia cedessero per l’emozione, Hiccup si sedette sulla sedia e a quell’azione, tutti lo guardarono sorpresi.
“Nome?”, chiese la regina, guardandolo con una sorta di impazienza. Brutto segno, pensò il ragazzo.
“Hiccup. Hiccup Horrendous Haddock III”, rispose il moro, abbassando lo sguardo.
“Il figlio di Haddock, il comandante delle guardie?”, domandò il re, curioso. Non si era accorto, però, che anche un’altra persona lo guardava con interesse adesso.
“Esattamente.”
“Ah, tuo padre è uno spasso!”, esclamò il sovrano, sorridendo.
“Signor Haddock, allora”, disse la regina, stavolta più calma e rilassata, “il futuro è di chi ha un grande passato. Perché dovremmo scegliere lei per il ritratto della famiglia?”
“Mi scusi, mia regina, ma non sono d’accordo con lei. Il futuro è di chi ha le capacità e la forza di cambiarlo, e di ricostruirlo ex novo”, rispose Hiccup, lasciando che la famiglia lo guardassero di nuovo sorpresi.
“Mamma, scegliamo il signor Artista”, disse uno dei bambini, mentre gli altri due gli facevano l’occhiolino.
“Le faremo sapere di più a fine giornata, rimanga nella stanza accanto nell’attesa”, gli comunicò la regina. Pochi minuti dopo lo raggiunse la principessa dai folti capelli rossi.
“Tu sei l’amico di Rapunzel, vero Hiccup Horrendous Haddock III?”, gli chiese, avvicinandosi a lui.
“S-sì, sono io. Si è ricordata il mio nome, milady.”
“Non è certo facile dimenticare un nome come il tuo”, scherzò lei, spostandosi i capelli dietro l’orecchio sinistro.
“Gran bel nome, lo so. Ma non è il peggiore. La mia famiglia è convinta che i nomi orribili spaventino i mostri. È molto superstiziosa”, spiegò lui, facendola ridere ancor di più.
“Volevo ringraziarti per l’arco.”
“L’hai provato?”
Scosse la testa, facendo rimbalzare i suoi ricci.
“Ancora no. Comunque io sono Merida”, disse lei, sorridendo e offrendogli la sua mano. Lui la prese.
“Hiccup Horrendous Haddock III.”
“È un piacere conoscerti, o almeno, spero che lo sia davvero. Cioè, è sempre un piacere conoscere persone, ed è più che un piacere conoscere chi ha costruito il mio arco e..”
 “È un piacere anche per me, milady”, la interruppe Hiccup, interrompendo quel fiume di parole. E si sorrisero. Entrambi avevano la consapevolezza che sarebbe stato più di un semplice piacere cordiale.   

“Signor Haddock, congratulazioni. Abbiamo deciso di prendere lei come pittore”, gli annunciò la regina stessa a fine giornata. Hiccup si inchinò.
“Grazie, mia signora. Non la deluderò.”
“Ne sono certa”, fu tutto quello che disse, e se ne andò, lasciando il giovane ancora inchinato. 

Ri-salve. Scusatemi, ma ero troppo impaziente di postare il capitolo successivo. Ringrazion tutti coloro che leggono 
gingersnapped

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Capitolo 3
*** Voglio lasciare il mio segno ***


Voglio lasciare il mio segno



“Madre, sto uscendo”, annunciò Rapunzel quella mattina, rivolgendo un’occhiata di riguardo alla madre che si trovava ancora a letto. Stava ancora male, e lei non avrebbe voluto lasciarla da sola ma dopo numerose raccomandazione da parte sua e del medico fidato, si era finalmente convinta a uscire. D’altronde, aveva solo un brutto raffreddore.
“Va bene, Rapunzel”, accordò la madre, dandole un bacio sulla fronte, solleticandole il viso con i suoi capelli neri e ricci.
“Madre, volete che vi porti qualcosa al mio ritorno? Magari una bella zuppa calda?”
La signora, per nulla anziana, annuì. “In pochi giorni starò bene, cara. Non ti preoccupare: va’ e fa’ compagnia alla principessa.”
“Siamo amiche; capirà se non verrò da lei per aiutare voi”, disse la bionda, titubante.  La madre alzò gli occhi al cielo, esageratamente drammatica.
“Va’ tranquilla, starò bene.”
“Va bene, madre. Al mio rientro però vi farò la zuppa, promesso!”
“Certo, certo.”

“Milady”, la salutò Jack, facendole un inchino. La bionda arrossì.
“Jack!”, esclamò sorpresa di vederlo appena fuori la porta di casa. “E comunque non sono una milady.”
“Ne hai l’aspetto, però, e anche la bellezza d’animo.”
“Mi lusinghi così. Cosa vuoi?”, domandò, facendo un sorriso furbo.
“Oh, milady, cosa le fa credere che io voglia qualcosa da lei?”
“Jack, riconosco quel tuo sguardo malandrino. Che ti serve?”
“Voglio delle notizie. Non riesco a trovare Hiccup da giorni ormai”, confessò Jack, accompagnando Rapunzel in direzione del palazzo.
“Sarà a palazzo. Ho sentito da Merida che ha vinto il concorso”, ipotizzò la ragazza, soffermandosi a dare un’occhiata al mercando e soppesando l’idea di comprare in quel momento gli ingredienti per una zuppa di nocciole da fare alla madre più tardi.
“Merida?”, domandò Jack.
“La principessa”, specificò Rapunzel.
“Sì, lo so.. Mi chiedevo solo come mai la chiamassi per nome.”
“Perché siamo amiche”, disse lei, come se fosse la cosa più normale del mondo, evidente come il colore dell’erba o del cielo. “Lei non è come le altre principesse, Jack”, aggiunse, analizzando il bancone della frutta e trovando quello che cercava.
“Comunque.. Hiccup è riuscito a vincere?”, chiese, guardando la biondina pagare e mettere ciò che aveva comprato nel cestino.
“Ovvio, sai quant’è bravo.”
“Sì, lo so, solo che credevo avessero preso chi avesse già una reputazione.”
“Come Gobber?”
“Come Gobber.”
“Dimentichi che Hiccup possiede uno straordinario dono.”
“Quale?”
“Riesce sempre a sorprendere le persone”, disse Rapunzel, sorridendo dolcemente.
 
(Rapporti con parenti..)
“Merida, potresti stare ferma?” chiese Elinor, rimproverando sua figlia. Da quando le era stato detto che doveva posare, non c’era stata più di una manciata di minuti che fosse rimasta ferma, e ciò costringeva Hiccup a modificare sempre lo schizzo.
“L’artista non mi ha detto nulla”, disse la rossa, guardando stavolta Hiccup che ormai non guardava più neanche il foglio, la mano guidava il carboncino mentre gli occhi verdi erano fissi su di lei.
“Il signor Haddock è troppo educato per dirti una cosa che è evidente”, controbatté la regina.
“È così?”, domandò Merida. E Hiccup in quel momento avrebbe voluto sprofondare.
“I-io, non direi, forse sì.. Insomma, se voi stesse ferma mi facilitereste il lavoro”, balbettò il moro. 
“Bene”, rispose lei (che tono era quello? Serba rancore?, si domandò Hiccup), “lo farò.”
“Visto?”, fece la madre, facendo sospirare il giovane. Avrebbe preferito fiondarsi negli occhi una matita ripetutamente, piuttosto di assistere ai numerosi litigi delle due. Aveva impiegato la metà del tempo per fare gli schizzi dei tre fratelli, che, avendo preso a simpatia l’artista, avevano deciso di collaborare, e ancor meno tempo per disegnare il re, che gli aveva pregato di essere il più veloce possibile perché non poteva perdere tempo. 
“Mamma!”, sospirò rabbiosa la figlia, implorandola con gli occhi di abbandonare la stanza. E, inaspettatamente per Hiccup, lo fece per davvero. 
“Hai finito?”, chiese dopo una ventina di minuti. Hiccup guardò lo schizzo: definirlo finito sarebbe stato un azzardo, ma se avesse risposto di no probabilmente non lo avrebbe finito mai perché lei avrebbe continuato a muoversi ininterrottamente e lui avrebbe continuato a modificare lo schizzo. Per questo annuì, e la vide alzarsi svogliata e andarsene chiudendo la porta dietro di lei.

“Puoi dirmi cos’avevi intenzione di fare?”, domandò Gobber, con gli occhi spalancati più che poteva.
“Avevo intenzione di vincere il concorso per il ritratto della famiglia reale e l’ho fatto. Che problema c’è?”, ribatté il ragazzo, ritirandosi per la prima volta dopo giorni nella sua stanzetta nella bottega di Gobber. Certo, doveva ammettere che il rientro non se l’era affatto aspettato così ma piuttosto qualcosa come un congratulazioni ragazzo, adesso va’ a lavorare perché era sicuro che il maestro non gli avrebbe mai detto di essere fiero di lui. Ma questo.. questo decisamente non se l’era aspettato.
“Che problema c’è?”, ripeté Gobber facendo una pessima imitazione di Hiccup. “Il problema è che non sei pronto ancora!”
“Come fai a dire che non sono pronto?”, domandò, arrabbiato. “Tu.. tu mi hai rubato dei progetti!”
Gobber s’arrestò per una frazione di secondo, poi riprese.
“Li ho migliorati!”
“Beh, guarda un po’, io voglio lasciare il mio segno!”
“Ne hai lasciati molti, ragazzo, tutti nei posti sbagliati.”
“Gobber, lascia che io provi. Lascia che io fallisca piuttosto di non iniziare affatto”, disse Hiccup, guardandolo implorante con i suoi occhi verde foresta. Lo sapeva che in fondo (ancora più in fondo), sotto quello spesso strato di grasso e muscoli, c’era un cuore tenero, che lo amava e lo proteggeva come se fosse veramente un figlio, visto che per lui era la figura più vicina che potesse somigliare ad un padre. Ma quello non era più il momento di proteggerlo, era quello di incoraggiarlo a prendere il volo, e poi a volare sempre più in alto.
Gobber sospirò, l’espressione del volto grave. Avrebbe preferito fare quel discorso quando il ragazzo avrebbe potuto capirlo per davvero, ma doveva farlo in quel momento. Si sedette poggiando i gomiti al tavolo, e invitò Hiccup a fare altrettanto. Come aveva presupposto, si era seduto nel posto opposto, all’altro estremo.
“Io.. tu.. Allora”, iniziò, incerto su come cominciare per davvero il suo discorso, “sei cresciuto qui con me, eppure l’hai fatto da solo. Tu hai sempre fatto tutto di testa tua, come se l’unica cosa che i tuoi genitori avessero fatto fosse stata il metterti al mondo, e questo è qualcosa di apprezzabile, certamente. Ma guardati come ti sei tirato su bene: non rubi nemmeno per sfamarti! Solo che spesso ti dimostri piuttosto cocciuto, come per la faccenda di tuo padre.”
“L’ha detto lui stesso che non sarei mai stato capace di essere come lui”, disse semplicemente Hiccup. “Insomma, guardami!”
“Non è tanto l’aspetto esteriore, è quello che hai dentro che lui non sopporta!”
“Grazie di questa sintesi illuminante”, commentò sarcasticamente il moro.
“Stiamo parlando di te, Hic: non è sempre un bene ciò che fai.”
“Solo perché sono diverso?”
“No, perché sei uguale a tutti noi. Cadrai, ragazzo mio, e non voglio che tu la prenda troppo male quando questo succederà. Lo ammetto: sei un abile fabbro, un geniale inventore e un bravissimo pittore. Tutte caratteristiche che ti rendono un eccellente artista ma.. non andare troppo oltre figliolo. Non sei ancora pronto.”
Hiccup rimase in silenzio, incerto su come interpretare le parole del maestro.
“È solo un ritratto della famiglia reale”, ribatté poi.
“Spero solo che non lascerai troppi segni, a palazzo. Potresti ferire qualcuno.”
“Ma io..”
“Potresti ferirti tu.”
(..e amici)
“Sono giorni che ti cerco. Ho dovuto pedinare Rapunzel per sapere dove eri”, disse Jack, avvicinandosi al moro. Era dentro la bottega a lavorare in disparte sulla combinazione dei colori, aggiungendo qualcosa che Jack riconobbe come solfato di calce. Aveva passato tanto di quel tempo dentro quella bottega che ormai qualche nozione base l’aveva imparata.
“Immagino che gran sacrificio sia stato per te”, commentò sarcasticamente Hiccup, facendo sorgere un sorriso furbesco sulle labbra di Jack e continuando a miscelare i colori.
“Che c’è che non va?”
“Non riesco a riprodurre il colore esatto dei capelli dei Dunbroch”, rispose Hiccup, concentrato.
“Sono pel di carota, non mi sembra tanto complicato come colore.”
“Non sono pel di carota”, lo contraddisse l’esperto, “sono come il bronzo, no anzi, il rame, e poi hanno quel tocco di rosso fuoco.. è un colore piuttosto complicato.”
“Sono certo che ce la farai.”
“Grazie, Rapunzel”, lo prese in giro e Jack diventò rosso. “Sei in giro con quella ragazza da qualche giorno e già ti ha reso una persona migliore?”
“Ah ah”, fece Jack, fingendo di ridere. “In realtà ero venuto per farmi pitturare queste monete d’argento.”
“E io che quasi ci speravo.”
“Sbrigati, la signora Brot ha fatto i fagottini al manzo e non ho intenzione di perdermeli.”
“Certo che per essere un senza tetto, mangi meglio di me.”
“Certo che per essere un geniale inventore, sono più intelligente io”, disse il brunetto, facendo sorridere l’altro.
“Prendi un pennello, e dipingi tu. Io ho da fare.”
“Sei un pessimo amico”, commentò Jack, iniziando a cercare tra le diverse ciotole di colore quella che conteneva l’argento.
“Il migliore tra i peggiori”, specificò il moro sorridendo stancamente. E dopo qualche minuto..
“Eccolo!”, urlò, facendo sobbalzare l’amico che fece cadere a terra la moneta che stava meticolosamente dipingendo. Questo lo guardò esterrefatto, domandandosi il motivo di tutto questo entusiasmo e la risposta gli arrivò piuttosto velocemente quando Hiccup, trionfante, gli mostrò la tavolozza dei colori. Quella era l’esatta sfumatura dei capelli dei Dunbroch.
“Lasciatelo dire: sei..”
“Maledettamente bravo?”, lo interruppe Hiccup. Jack scosse la testa.
“Maledettamente fortunato.”

“Credevo che stesse dalla mia parte e invece si è schierato da quella di mia madre”, si lamentò la rossa, brandendo una spada in mano e menando fendenti contro uno delle colonne del letto a baldacchino.
Schierarsi è una parola grossa”, commentò Rapunzel, dispiaciuta in viso, “forse semplicemente dovevi stare ferma e non te lo voleva dire.”
“Perché avrei dovuto saperlo?”, chiese lei, in anticipo.
“Di solito per chi posa è così”, rispose la bionda. Merida si fermò dal colpire nuovamente il baldacchino, tenendo la spada con la mano destra mentre l’altra era libera di gesticolare. Ormai non era neanche più sicura di come voler ribattere, certa di essere dalla parte del torto. Vedendo l’amica in difficoltà, Rapunzel voleva in qualche modo tirarla su di morale. Cercò di pensare a qualcosa, aspettava qualcosa, un’ispirazione, che le balenasse nella mente in modo da poter vedere il viso dell’amica sereno e la colonna del letto finalmente libera dai continui e incessanti fendenti della spada. Poi il suo sguardo cadde vicino alla finestra e le venne quell’idea.
“Merida, che ne dici di collaudare il tuo arco?”
La rossa si fermò, sorpresa da quell’iniziativa, ma questo accadde solo per un istante: infatti impiegò ancor meno tempo a prendere l’arco e le frecce e trascinare l’amica nelle stalle del palazzo, dove avrebbero preso Angus, il possente clydesdale con il mano nero come la notte, e sarebbero andate nel bosco poco distante a testare la bravura della giovane arciera, e quella del costruttore dell’arco.
 
Una figura si muoveva nel cuore profondo della notte: mancavano giusto un paio di ore al sorgere del sole, e di lì a poco la vita avrebbe ricominciato a scorrere normalmente, come il flusso di un fiume che era stato precedentemente interrotto da qualche diga. L’uomo decise di affrettarsi, aumentando il passo per arrivare al posto desiderato. Bussò giusto una volta, pianissimo, ma l’uomo dall’altra parte della porta aprì lo stesso.
“Non ti aspettavo a quest’ora”, bisbigliò sorpreso, parlando pianissimo. L’uomo entrò, abbassandosi leggermente per passare dalla porta, un po’ bassa e stretta per lui.
“Dovevo informarti, Gobber. Come sta Hiccup?”, chiese, la voce anche lui un sussurro.
“Sta dormendo, ha lavorato fino a tardi stasera. Di che devi informarmi?”
“Uhm.” L’uomo annuì, sovrappensiero. “Non siamo gli unici.”
“Chi mai..?”, cominciò il vecchio artista, ma l’altro uomo lo interruppe.
“Ti ricordi il mio parente che aveva la pancia da birra?”
“Baggybum, come dimenticarlo!” esclamò Gobber quasi contento, e quello gli pregò di fare silenzio.
“Ho trovato uno dei suoi nipoti a Palazzo. Stavano curiosando in giro.”
“Questo è un bene.”
“Credi?”
“Certamente! Adesso ho la certezza di non essere pazzo!”
“Gobber, non scherzare.”
“Riusciremo a salvarli tutti quanti, vedrai.”
“Lo spero proprio” disse l’uomo, accarezzando la lunga barba ramata. “E non dirgli niente, mi raccomando.”
“Stoick, me lo dici ogni volta. L’ho mai fatto?”, domandò Gobber, un sorriso sghembo stampato sulle labbra. Anche Stoick sorrise.
“Casomai lo dimenticassi.”
 
 
 
Eccomi nelle note a piè di pagina! Questo capitolo lo vorrei dedicare a MaJo_KiaChan_ e vorrei ringraziare enormemente tutti quelli che leggono la storia. So bene che la trama di deve ancora delineare, ma pian piano ci arriverò, tranquilli!
gingersnapped

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Capitolo 4
*** Alterare le direzioni ***


Smettila


 
 

Smettila, avrebbe voluto dirle. Davvero, solo che.. dei, cavolo come lo stava guardando. Era stato chiamato all’ora di pranzo quel giorno da una certa Maudie, alla quale era stato ordinato di dire al giovane artista che la principessa avrebbe concesso due ore del suo prezioso tempo alla posa per lo schizzo che Hiccup avrebbe utilizzato nel ritratto di corte. Ed effettivamente, la ragazza stava posando per lui: si muoveva appena, l’unico movimento che faceva era dovuto al suo respiro regolare e i suoi occhi acquamarina non avevano smesso per un secondo di guardarlo. Smettila, avrebbe voluto dirle, almeno per quel sorriso a metà tra lo strafottente e il compiaciuto, come se sapesse che lui desiderava ardentemente leggere i suoi pensieri ma non poteva.
“Hiccup Horrendous Haddock III”, canticchiò lei, divertita dalle reazioni del ragazzo, “mi sembra nervoso.”
“Oh, milady”, disse lui, alzando gli occhi al cielo (forse anche per evitare di guardarla negli occhi), “mi chiami solo Hiccup.”
“Solo quando smetterai di chiamarmi milady.”
“Fai parte della famiglia reale. Sei una lady”, rispose Hiccup, ignorando tutti i toni formali visto che nella stanza (immensa, ovviamente) erano da soli e visto che lei voleva proprio questo.
“No, cioè, si. Mia madre è una vera lady ma..”, cercò di dire lei, sbattendo le ciglia anch’esse ramate.
“Certo, ma tu sei la figlia del re, e vivi in un castello che somiglia parecchio ad una fortezza inespugnabile e questo ti rende una lady e.. dovrei proprio chiamarti milady.”
“Non chiamarmi milady!”, esclamò lei, con il tono di una bambina capricciosa. A Hiccup venne voglia di ridere, ma si limitò a cercare di nascondere un sorriso che lottava con tutte le sue forze di venir fuori e alzando leggermente il suo sopracciglio sinistro.
“Come milady comanda”, commentò ironicamente, riprendendo a disegnare con il carboncino, quando gli arrivò un cuscino in faccia. Guardò dinnanzi a sé e vide Merida ferma, immobile nella sua posa, seduta sul divano al quale mancava evidentemente qualche cuscino in meno.
“Questo non era propriamente un gesto da milady”, aggiunse, ridendo. Lei fece solo un sorriso beffardo.
“Non lamentarti se continuerò a chiamarti Hiccup Horrendous Haddock III”, disse la rossa, come se lo stesse avvertendo di una disgrazia.
“Sempre se milady continuerà a ricordare il mio nome.”
“Te l’ho detto, non è facile da dimenticare.” Sorrise nel dire questo. “Sai, alla fine l’ho provato l’arco.”
“Davvero?”
Lo stupore e la curiosità presero il possesso del volto del ragazzo: le pupille si dilatarono, lasciando solo un esile cerchio verde attorno ad esse, la bocca leggermente aperta, in attesa di una risposta che però tardava ad arrivare. Perfino le mani avevano mollato la loro salda presa nella matita, facendola cadere a terra. La principessa sorrise.
“Davvero.”
“E come è andata? Hai.. ha provato ad accendere l’arco e le frecce?” , domandò Hiccup, tempestandola con queste domande e dimenticandosi quasi con chi stesse parlando.
“È andata bene, direi. L’arco è davvero molto flessibile e devo ammettere che quando era in fiamme aveva un certo fascino- sebbene Rapunzel si ostinasse a farmelo posare per il timore che mi bruciassi le mani. Però temo che sia inutilizzabile adesso”, rispose lei, un po’ dispiaciuta. Hiccup era invece completamente deluso.
“Credevo fosse buona come invenzione”, ammise.
“E lo è! Solo che ho bisogno di un arco normale con frecce normali. Saresti capace di farmene uno così?”, chiese lei, con un tono fintamente spontaneo. Al moro sembrò pure che fosse arrossita.
“C-certo”, balbettò lui, riprendendo in mano la matita. Passarono l’ultima decina di minuti in silenzio, poi Hiccup si alzò per andarsene.
“Aspetta!”, esclamò lei, forse a voce troppo alta, e lui si girò, forse troppo immediatamente. “Hiccup Horrendous Haddock III, come sono stata come modella?”, chiese, con un tono fintamente formale.
Lui aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse subito dopo, soppesando un attimo quale sarebbe stata la risposta più adatta mentre nella sua mente si configuravano possibili vie di fuga.  
“Lei come crede di essere stata, milady?”
“Questa non è una risposta!”, esclamò Merida, mentre il ragazzo con i suoi fogli sottobraccio usciva velocemente dalla stanza.

 
(In un’altra stanza, al palazzo)


“Lei sa perché è stato convocato qui, vero mastro Gobber?” chiese la regina, alzandosi dalla sedia accanto a quella del marito. Elinor sembrava essere nata per governare, nessuno guardandola avrebbe potuto ricondurla ad una famiglia di mercanti, dalla quale invece proveniva. Aveva lunghissimi capelli castani, che non portava mai sciolti ma sempre legati in strette acconciature o trecce che ne evidenziavano il carattere severo e intransigente, di chi  non ammetteva scuse o bugie. Gli occhi, anch’essi marroni, avevano una profonda espressività, capaci di trasmettere la gravità di un momento come quello. L’uomo interpellato si guardò attorno, leggermente stranito, ma non sentendosi affatto a disagio. Era l’atteggiamento di chi conosceva bene il posto e quelle persone che lo abitavano.
“No, mia regina, non lo so”, rispose. Elinor guardò prima lui, poi il marito che era rimasto seduto al trono.
“Stoick ci ha avvisati, Gobber. Lo sappiamo”, disse il sovrano, alzandosi anche lui. Il vecchio artista si accarezzò i baffi biondi con la mano destra.
“Cosa intendete fare?”
“Non possiamo fare niente”, sussurrò la regina. “Quest’anno abbiamo tantissimi eventi che ci costringeranno a tenere aperte le porte a tutti, come il ritratto della famiglia, il matrimonio combinato, gli accordi di pace con Corona e Arendelle,  la guerra con Drachma..”
“Non possiamo neanche incrementare il corpo di guardia, chi vuole distruggerci saprebbe che sappiamo, e non lo deve assolutamente sapere”, aggiunse Fergus, preoccupato.
“Potete però circondarvi di persone fidate”, propose Gobber. “Fate stare me e Stoick di più al palazzo, sicuramente se c’è una talpa la individueremo. E anche la famiglia Jorgensen, il figlio voleva essere impiegato come artista per indagare.”
“Gobber, noi ci fidiamo di voi”, disse Elinor, posando la mano sulla spalla destra dell’uomo. Questo annuì.
“Con quale scusa starò al palazzo?”
“Piuttosto di usare una scusa, perché non progetti una porta fortificata?”

 
(Specchio)

 
Jack guardò dinnanzi a sé la locanda che sembrava così calda e accogliente. Era troppo per uno come lui? Forse sì, forse per il tenore di vita che aveva non avrebbe dovuto entrare, ma per come la pensava lui, la sua condizione non era nient’altro che una trappola e non aveva intenzione di rimanere sopraffatto da qualcosa che non dipendeva da lui. Con questa motivazione ad alimentarlo, aprì energicamente la porta, ritrovando davanti a sé il posto caldo e accogliente che si era immaginato. Le tavole erano piene di persone le cui grasse risate si sentivano dalla soglie della porta, le luci calde, il profumo invitante. Era sera, ed era stata una giornata faticosa per il giovane: essendo Hiccup costantemente chiuso nel suo “antro oscuro” (era così infatti che Jack chiamava lo studio dell’artista), aveva curiosato in giro, aiutando i più a sostenere il peso di un portafoglio alleggerito, e racimolando tutte le monetine trovate in giro. Si sedette in un tavolo poco lontano dal centro, restando nella penombra. Dal suo posto poteva osservare una gara di bevute tra quello che presumibilmente era il locandiere e un cliente. Quest’ultimo stava evidentemente perdendo, visto il rossore del viso e la mollezza nei gesti: aveva persino mancato di prendere il bicchiere contenente il liquido ambrato. Il padrone della locanda invece era un uomo bel piazzato, alto, muscoloso, con capelli bianchi e una barba ancor più lunga, che scendeva fino al petto.
“Ha perso in partenza quell’uomo”, commentò Jack, non accorgendosi di parlare ad alta voce.
“Ci sono voci che raccontano che il vecchio non si sia ubriacato mai”, disse una voce alle sue spalle. Il giovane si girò e vide un ragazzo, più grande di lui, che sorrideva sarcasticamente. Aveva anche lui capelli e occhi castani, sguardo furbo, sorriso malizioso: sembravano parenti perfino negli atteggiamenti.
“Come hai detto tu, sono solo voci”, replicò Jack. Il ragazzo, all’incirca sui vent’anni, si spostò dal suo tavolo per posizionarsi davanti al giovane.
“Io sono Flynn. Flynn Rider”, si presentò quello, sorridendo maliziosamente e tendendo la mano.
“Io sono Jack. Solo Jack”, fece il bruno, non afferrando la mano. Era una delle prime regole di un ladro, dopotutto. Evita di venire derubato, gli ripeteva spesso lo spazzacamini, l’uomo che sfruttava un lavoro come quello che rubare in casa delle persone.
“Oh”, commentò Flynn ammirato, “conosci il mestiere.”
“A quanto pare anche tu”, disse Jack, adesso curioso. Non aveva mai incontrato una persona che lo somigliasse così tanto.
“Già, ma non sono di queste parti. Sai, sto in giro, rimango per poco nel regno di Dunbroch, poi passo per Macintosh e poi spedito a Corona. Sono un professionista, io”, sproloquiò l’altro, con tono arrogante, guardandosi attorno come se volesse sminuire e al tempo stesso esaltare le proprie imprese. Tutt’ad un tratto la sincera ammirazione si trasformò in parte in antipatia, riconoscendo forse fin troppo di sé in quello sconosciuto.
“Jack poi.. è il tuo vero nome?”, chiese quello, riaccendendo la perplessità del più giovane e, in quello caso, del meno esperto.
“Sì.. perché? Il tuo non lo è?”
“Ovvio che no”, rispose quello, ridendo. “Amico, lo sai che ho diverse taglie? Se utilizzassi il mio vero nome sarei sulla forca da tempo ormai! E poi chiedevo.. il tuo nome mi ricorda vagamente un tizio che ho conosciuto in Alsazia, un certo Jean..  Credevo avessi preso spunto da lì ma mi sbagliavo.”
“Infatti”, concordò Jack, guardando l’uscita come se avesse intenzione di alzarsi. Flynn se ne accorse.
“Resta, amico. Ti offro pure da bere!”, esclamò, chiamando una ragazza con un grembiule dai colori vivaci che lavorava lì. “Portaci due pinte!”
 
“Ehi, Hic, come va?”, chiese dolcemente la bionda amica, illuminando come un raggio di sole lo studio del moro. Era arrivata proprio al momento giusto, visto che Hiccup stava quasi per addormentarsi rovinando irrimediabilmente la tela.
“Sono sveglio!”, esclamò drizzandosi in piedi, e posando il pennello. Rapunzel rise.
“Buongiorno allora!”, commentò sedendosi in uno sgabello. Hiccup si stropicciò gli occhi, e si tirò i capelli all’indietro, con il solo risultato di scompigliarseli ancor di più.
“Come stai?”, domandò Rapunzel, non utilizzando un tono squillante. Il ragazzo la ringraziò mentalmente per questo.
“Sto bene, davvero. Forse sono un po’ stanco ma prima finisco questa commissione, prima io.. non so, potrei dormire forse”, rispose Hiccup, terminando la frase con un grande sbadiglio.
“Vedi che potresti lavorare solo di giorno e dormire la notte, piuttosto di dipingere”, gli consigliò la bionda, ma il moro dissentì.
“Non hai notato niente a palazzo?”
“Cosa avrei dovuto notare?”, chiese Rapunzel ingenuamente, gli occhi verdi (più chiari dei suoi, eppure così simili) perplessi. Hiccup sospirò.
“Forse è solo una mia sensazione ma.. c’è un’aria cupa a palazzo.”
“Dici? Eppure tutti sembravano così gentili come al solito!”
“Sicura di non aver avvertito neanche un po’ di tensione?”
La bionda scosse la testa, ma comunque si fermò a pensare ad un comportamento fuori dal normale. Con Merida era tutto normale, anche se ultimamente era più irrequieta del solito e lei poteva intuire il perché, tutto provocato da una certa persona, pensò sorridendo, con gli altri sudditi non aveva avvertito alcuna variazione di atteggiamento. Forse Stoick, il padre di Hiccup era più nervoso del solito, ma la ragazza dubitava che all’amico interessasse.
“Forse me lo sarò immaginato e basta. Sono così stanco”, disse, buttandosi sul letto poco distante. “Tra l’altro, ti ringrazio per la visita”, aggiunse, la voce soffocata dal cuscino.
“Figurati!”, replicò lei, “Merida mi ha fatto venire la voglia di venire a vedere come stavi.”
“Merida?”, domandò stranito il ragazzo, sollevando però la testa dal cuscino. “Perché?”
“Non saprei con certezza, si lamentava di una domanda o risposta..”
“Ah”, fece Hiccup, ricordandosi, “quello. Dille di mettersi il cuore in pace perché non le darò mai una risposta.”
Rapunzel rise maliziosamente, il che costrinse Hiccup ad alzare nuovamente la testa dal cuscino. Rapunzel non rideva mai maliziosamente, a meno che..
“Non è come pensi”, balbettò, le orecchie completamente rosse. Questo la fece ridere ancor di più. 
“Io non ho detto niente.”
“Sì, beh.. lo stavi pensando!”, replicò Hiccup, ancor più imbarazzato.
“Non sto mica insinuando che qualcuno si è preso una cotta per una certa principessa che entrambi conosciamo!”, esclamò lei, tra una risata e l’altra. Questo tranquillizzò di poco il giovane. “O forse sì”, aggiunse, maliziosa. Il moro riconobbe in questo atteggiamento della ragazza l’altro suo amico, Jack, che effettivamente non vedeva da un po’.
“Oh, sta’ zitta”, disse mentre tentava di nascondere un sorriso.
 
(Tacchino)


Era una sensazione piacevole ricevere un invito dal palazzo da parte dei sovrani per un banchetto dedicato a lui e in particolare, era davvero appagante sapere che avrebbero mangiato tacchino, finalmente per lui. Si sistemò per l’ennesima volta allo specchio quella casacca nuova che aveva comprato. Era passato circa un mese da quando aveva vinto la commissione del ritratto della famiglia reale. Aveva perfino migliorato il suo modo di dipingere, aveva cambiato i materiali per la pittura, era cambiato lui: quel mese aveva incessantemente lavorato al dipinto che stasera i Dunbroch avrebbero sfoggiato aprendo le porte del palazzo a tutti e invitando le famiglie più potenti del regno, ovvero Dingwall, MacGuffin e Macintosh, si sentiva in qualche modo più maturo. Sorrise di quel cambiamento, pensando a come era impacciato e goffo prima. Forse lo era anche tuttora, ma sicuramente di meno. Cercò di sistemarsi meglio i capelli, che gli ricadevano sugli occhi ma il risultato fu di scompigliarli ancor di più.
“Dovresti tagliarli”, suggerì Jack spuntando dalla porta come se fosse sempre stato lì. Anche lui era in tiro, visto che Hiccup aveva chiesto alla regina di invitarlo. Quest’ultima, come presupposto da Hiccup, aveva all’inizio rifiutato ma poi, stranamente, aveva accettato. Il brunetto sorrideva nervoso: si era pure comprato dei vestiti nuovi per non sembrare uno straccione e Hiccup non fece a meno di notare che probabilmente era pure vestito meglio di lui, ma non era rilevante. Lui era un artista, non un uomo elegante di corte, e questo non sarebbe mai cambiato.
“Forse”, concesse Hiccup, spostando nuovamente quei fastidiosi capelli che cadevano sugli occhi.
“Andiamo?”, chiese Jack, facendo l’occhiolino al moro.  Questo sospirò.
“Sai quanti tacchini si è mangiato Gobber al mio posto?”
“Molti, dato la sua pancia.”
“Per me è veramente importante questo tacchino, Jack.”
“Arriveremo in ritardo se continui di questo passo”, disse ironicamente il giovane alzando gli occhi al cielo.


“L’hai fatto davvero tu?”, chiese Jack osservando il dipinto da vicino. Sapeva che Hiccup sapeva disegnare benissimo, ma doveva ammettere che si era davvero superato: le figure presenti nel dipinto erano identiche nella realtà. Era perfino riuscito a cogliere quell’ombra ribelle negli occhi della principessa, il che era straordinario. E proprio per questo aveva ottenuto dei sinceri complimenti da parte della regina, che lo aveva invitato a sedersi accanto a loro nel banchetto. Jack, invece, sarebbe stato vicino a Gobber.
“Certo che l’ho fatto io”, rispose Hiccup, un po’ distratto, osservando le persone accanto a lui. Erano certamente nobili, che come Jack ammiravano stupidi il dipinto e lodavano la bravura del pittore, non sapendo che era proprio tra loro.
“Sei veramente bravo”, commentò una voce alle sue spalle, familiare. L’artista si girò e vide la principessa in tutto il suo splendore, con la chioma ribelle sciolta (esattamente come lui l’aveva ritratta) e un abito verde stavolta con i dettagli in oro. Accanto a lei c’era Rapunzel, i capelli dorati raccolti in una complicata treccia. Indossava un abito lilla, delicato. Sembrava la bionda quasi più regale della principessa stessa.
“Anche tu”, rispose immediatamente lui, mordendosi la lingua e maledicendo se stesso. Perché doveva ogni volta dir stupidaggini? “Intendo che.. è la risposta alla tua, cioè sua domanda di.. tempo fa”, balbettò cercando di non fare una figuraccia che stava in realtà facendo. La rossa lo stava guardando perplessa, concentrandosi sulle sue parole. “Grazie, milady”, disse alla fine Hiccup, appurando che probabilmente non avrebbe avuto più il coraggio di guardarla in faccia.
“Quale..”, iniziò lei, cercando di ricordare. Poi le venne in mente quella situazione e divenne un po’ rossa in viso. “La ringrazio, Hiccup Horrendous Haddock III. Mi lusinga”, disse, sorridendo. Anche Jack e Rapunzel sorrisero, interrompendo la loro conversazione per osservare quella scena.
“Quindi.. le piace il dipinto?”, chiese Hiccup, mentre una parte della sua mente lo insultava. Ecco che in pochi secondi aveva dimostrato che non era cambiato affatto.
“Molto, soprattutto perché mi hai lasciato i capelli sciolti.. Credevo che mia madre ti avesse minacciato di farmeli in un’acconciatura”, rise lei, avvicinandosi più al dipinto in uno stato di contemplazione. “Tra l’altro, siamo tutti identici. Sei veramente bravo”, ripeté, guardandolo fiducioso. “Ora aspetto solo il mio arco.”
“Io..”
“Tranquillo, ne parleremo meglio a tavola. Tu sei seduto con noi”, disse lei, sorridendogli e andandosene.


“Signori, prima di abbuffarci sul buffet,  vorrei dedicare due parole al promettente artista Hiccup Haddock, colui che ha realizzato il magnifico dipinto che è qui alle nostre spalle”, disse la regina, alzandosi. “Devo ammettere che all’inizio ero titubante sulla scelta, e non per il talento, ma per la giovane età del ragazzo ma le sue parole.. sì, credo che sono state le sue parole a illuminarmi. Il futuro è di chi ha la forza di costruirlo e noi Dunbroch vogliamo celebrare coloro che hanno distrutto gli ostacoli, alterato le direzioni e preparato il futuro di come vivremo. Vorrei adesso che il giovane artista illumini voi come ha fatto con noi quando lo abbiamo scelto come artista”, elogiò Elinor, invitando il giovane ad alzarsi. Questo pregò mentalmente che nessuno ricordasse quello che avrebbe detto di lì a poco, per timore di un’altra brutta figura.
“Io.. io credo che non devono esserci limiti agli sforzi dell’uomo. Il mio maestro una volta mi disse: non seguire il sentiero, traccia il tuo solco, e io ogni giorno, cerco di impegnarmi nel conseguimento di questo obiettivo. Per me è davvero molto importante essere riuscito a terminare un ritratto come questo, a cui ho dedicato anima e corpo. Forse sono uno sciocco, che non conosco nemmeno il mio stesso mondo, ma ho dei sogni e ho assolutamente voglia di realizzarli”, disse il ragazzo, imbarazzato. Molti, compresa la famiglia reale e Gobber, si alzarono e lo applaudirono. Scorse perfino suo padre, rimasto seduto al suo posto, sorridere e applaudire, per poi ritornare serio.
“Discorso illuminante”, commentò la principessa, seduta davanti a lui. Hiccup sorrise.
“Qualcosa la dovevo pur dire.”
“Sei veramente bravo, Hiccup. Lo dico per davvero”, si congratulò lei, stavolta seria, gli occhi fissi nel piatto colmo di cibo.
“Mi ha chiamato solo col mio nome”, disse stupito Hiccup.
“Dovresti anche tu.”


“Hiccup è stato veramente bravo”, commentò Jack, rivolgendosi a Gobber e a Rapunzel.
“Hiccup riesce sempre a sorprendere le persone, e spesso, riesce anche a sorprendere se stesso”, disse la bionda, guardando dolcemente in direzione del moro, seduto all’altra parte della sala che parlava con la principessa e con i suoi fratelli. Gobber, invece, rimase in silenzio.
“Avanti, vecchio, so che sei arrabbiato con Hiccup ma..”, cominciò il brunetto, arrestandosi poi vedendo il vecchio artista piangere, commosso. Il mio ragazzo, diceva di tanto in tanto, ricevendosi un abbraccio dalla bionda.
“Sai, anch’io mi sono commosso..”, disse tristemente, ricevendo a sorpresa uno scappellotto dalla ragazza, seguito da un sorriso.
Stavano tutti quanti ammirando le cuoche che portavano fiere il tacchino, quando qualcuno aprì le porte della sala, tutta affannata. Era Maudie.
“Maudie, cos’hai?”, chiese il re, stranito, ma la povera donna non riusciva a parlare.
“Maudie, dove?”, domandò Elinor, intuendo l’approccio da usare con la donna. Questa condusse la regina, e molte persone tra cui il re, Merida, Hiccup, Jack, Gobber, Punzie e Stoick in un corridoio stretto e buio nel quale vi era una guardia reale a terra, priva di vita e sgozzata. Fergus ebbe il modo di osservare la scena per pochi secondi, poi sorpassò il cadavere ed entrò nella stanza seguito da Gobber. Stoick invece si avvicinò al cadavere del suo subordinato e si chinò, chiudendo le palpebre in segno di rispetto.
“Beh”, bisbigliò Jack, notando che qualcuno aveva dipinto una sorta di sorriso sulla faccia della guardia, “non si può dire che non sia morto col sorriso sulle labbra.” A quell’esclamazione molti lo guardarono, Hiccup come a dire “questo è un pessimo momento per un battuta”, Rapunzel “era inopportuno da dire”, Merida lo guardò come se lui fosse inopportuno.
“Già, altrui però”, rispose Stoick, alzandosi e seguendo il sovrano e Gobber nella stanza che quella guardia doveva sorvegliare. 
La regina, che era rimasta impietrita, guardò terrorizzata i quattro ragazzi, indecisa sul da farsi.
“Ritorniamo dentro”, disse alla fine. Merida guardò la madre negli occhi, tanto simili ai suoi, eppure di un colore totalmente differente, e si costrinse a sorridere, lo stesso sorriso di quando al mondo non esisteva niente che potesse spaventarla, e si sedettero tutti ai loro posti, attendendo notizie terribili. 

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Capitolo 5
*** Cambierebbe forse qualcosa? ***


Cambierebbe forse qualcosa?
 
 


“Com’è potuto morire così? Senza dirci niente?”, chiese Gobber dopo aver seguito il re nella stanza delle strategie militari.
“Non è stata colpa sua, poveretto”, rispose Fergus, verificando se tra le varie scartoffie mancassero dei documenti. “Ha fatto il suo lavoro, fino alla fine.”
“Hanno rubato qualcosa?”, domandò Stoick, entrando nella stanza e chiudendo la porta dietro di loro. Gobber alzò le spalle, mentre il sovrano non rispondeva ancora, cercando in particolare un certo manoscritto. Dopo aver appurato che non ci fosse, guardò i due uomini, spaesato.
“Manca il piano militare contro Drachma.”
“Sapevano cosa cercare e dove.. Fergus, c’è una talpa qui. Una talpa di Drachma”, disse il comandante delle guardie, guardando con attenzione l’amico che sembrava stesse soffrendo molto di quella rivelazione.
“Come fai ad esserne certo che fosse di Drachma?”, domandò Gobber, conservando una parte di razionalità.
“Quel sorriso sulle labbra.. È Bludvist, ne sono sicuro”, rispose Stoick. Al nome di Bludvist il re osservò con sguardo accigliato il suo vecchio amico, compagno di infinite sventure.
“Bludvist?”, chiese, il tono intriso di odio.
“Il fratello di Mor’du”, chiarì l’altro e Fergus, inconsciamente, guardò la protesi di legno al posto della gamba sinistra e sfiorò con la mano destra la spada.  “Fergus, dobbiamo agire”, aggiunse Stoick.
“Io non farei nulla al momento”, s’intromise il vecchio artista, che curiosava in giro toccando di tanto in tanto qualche aggeggio che gli sembrava interessante. I due uomini (entrambi dai capelli rossi ma con sfumature diverse) lo guardarono straniti. Gobber ricambiò lo sguardo.
“Drachma non deve minimamente sapere che noi sappiamo!”
“Ma Drachma lo sa già”, insisté Stoick, “la talpa è qui a palazzo.”
“Devo riarmare un esercito”, mormorò Fergus. Poi a voce più alta disse: “Gobber, voglio che ti inventi qualcosa, spade che volano, proiettili di fuoco.. qualcosa, qualunque cosa. E tu, Stoick, cerca di addestrare dei giovani. Mi servono soldati.”
“Ma, sire..”, provò a ribattere l’omone.
“Sire, Stoick è più utile al vostro fianco: non riuscirebbe ad addestrare qualcuno neanche se lo volesse”, disse Gobber, fermandosi quasi improvvisamente. Poi aggiunse, con tono fortemente sarcastico: “Non c’è riuscito neanche con suo figlio, figuriamoci con quelli degli altri.” Per fortuna, il vecchio artista era troppo concentrato a guardare il re per accorgersi dello sguardo carico di astio di Stoick. “Posso addestrarli io, i soldati. Ho prestato servizio militare, sono sopravvissuto alla Grande Guerra dell’Est, sono rimasto pure senza una gamba. Sono capace di farlo.”
“Ho bisogno di un ingegnere militare.”
“Prenda Hiccup!”
“Come scusa?”, chiese Stoick, mentre Fergus valutava la proposta. 
“È bravo?”
“Fergus, non puoi considerarla un’opzione plausibile!”, commentò il comandante.
“È bravo?”, ripeté il sovrano.
“Più di quanto immagina”, rispose Gobber.
“Voglio che vi mettiate al lavoro tutti quanti il prima possibile”, ordinò Fergus, strofinandosi le mani, incerto sul da farsi. Gobber annuì, e uscì immediatamente dalla stanza. Stoick stava per seguirlo, ma la mano del re sul suo braccio lo fermò.
“Stoick, trova Bludvist e Mor’du. Abbiamo un conto in sospeso”, disse semplicemente, e se ne andò lasciando l’omone dalla folta barba rossa solo nella stanza.  
 


“Io non posso crederci”, disse Merida, fermando gli altri tre ragazzi in una stanza non molto distante da quella del banchetto. Non se la sentiva di fingere con tutte quelle persone, non se la sentiva di far finta che nulla fosse accaduto. Ci aveva provato, ma aveva ceduto: i suoi occhi erano infatti velati da un sottile strato di lacrime che aspettavano di essere versate. Dopotutto era sempre un uomo a cui aveva dato il buongiorno, un uomo che era morto nel proteggere qualcosa che le apparteneva.  La principessa notò che solo la sua amica Rapunzel stava versando qualche lacrima, come sempre estremamente triste quando avvenivano atti così brutali compiuti dagli uomini: gli altri due ragazzi, invece, sembravano insensibili riguardo a questa faccenda. Di tanto in tanto si lanciavano occhiate, più di due volte Hiccup aveva appuntato qualcosa su un pezzo di carta che teneva in una tasca nei pantaloni.
“Chi può essere mai stato?”, chiese Rapunzel, la voce che tremava per il pianto. Nessuno rispose alla domanda, per il semplice motivo che nessuno sapeva la risposta.
“La vera domanda è perché l’abbiano fatto”, disse Jack, volgendo la testa con uno sguardo evidentemente preoccupato in direzione del luogo dove avevano assistito al ritrovamento del corpo. Hiccup ripensò a quanto successo. Perché mai mettere un uomo a guardia di un corridoio così lontano dalle sale più importanti del palazzo? Evidentemente anche la stanza che sorvegliava quel soldato doveva essere importante ma cosa poteva contenere? Gioielli? No, altrimenti sarebbe corsa anche la Regina a vedere cosa mancava. Spade? Esistevano davvero spade così importanti da essere contenute lì dentro? Cosa c’era di così importante che aveva spinto il re a verificare di persona? E poi perché dipingere un sorriso con il suo stesso sangue? Che significava quel messaggio?
“Hiccup, dobbiamo andare”, lo destò dai suoi pensieri il brunetto, toccandogli un braccio. Le due ragazze di fronte a lui e l’amico lo guardavano preoccupati.
“Si, andiamo”, accordò lui, ma nessuno si muoveva. Rapunzel aveva un’aria intimorita e allo stesso tempo sconvolta e Hiccup sapeva esattamente cosa stesse pensando: come poteva essere accaduta una cosa del genere? Perché qualcuno avrebbe dovuto uccidere? Era stata un’infanzia serena quella della ragazza, era ancora un bocciolo nel mondo, e questo la rendeva sicuramente più pura e meno consapevole rispetto a tutti loro del male che scorreva nel mondo, nel sottosuolo, nascosto, come delle vene, e il loro fluire incessante non faceva altro che far marcire tutto quanto. Jack era cresciuto per strada, Jack sapeva, forse anche più di quanto ammettesse. Merida, la principessa, come non poteva? Sapeva tirare con l’arco, impugnare una spada meglio di lui, era destinata a diventare una regina. Era ovvio pensare che sapesse cosa comportasse la guerra. Sola igiene del mondo, gli aveva detto una volta suo padre, Stoick, quando ancora tentava di fargli da padre. E lui, cresciuto tra il caos dell’esercito, aveva visto con i propri occhi cosa era la guerra. Terrore. Distruzione. Morte.
“Come fai?”, gli chiese Merida, guardandolo con aria accusatrice. Gli occhi acquamarina sembravano ardere del più gelido dei fuochi.
“Cosa?”
“Un uomo è morto e tu sei impassibile. Come fai?”, ripeté.
“Quell’uomo sarebbe morto lo stesso. Forse non oggi, ma un domani sarebbe morto, e nessuno di noi avrebbe potuto far niente lo stesso”, spiegò Hiccup, rivolgendo uno sguardo di riguardo alla bionda, che si era appoggiata alla spalla di Jack.
“Ma è pur sempre un uomo!”
“Cambierebbe qualcosa forse?”
Merida rimase in silenzio, incapace di ribattere: era probabilmente la prima volta che Hiccup non la vedeva rispondere, sempre considerando che ogni volta scattava come una molla. Un’ultima carezza a Rapunzel, e la principessa se ne andò in direzione del corridoio dove li aveva condotti Maudie.
“Adesso andiamo”, disse Hiccup, andando nella direzione opposta, al banchetto.


 
(Qualche giorno dopo)

 
“Hiccup, ti vogliono a palazzo”, esordì Gobber, posando una busta sotto gli occhi increduli del giovane.
“Ho finito quello stupido ritratto, non ci voglio tornare a palazzo”, disse il ragazzo, spostando la busta dall’altra parte del tavolo. Gobber strizzò gli occhi e fece segno di sturarsi le orecchie.
“Come, scusa?”
“Non ci voglio tornare a palazzo”, ripeté il moro scandendo le parole. “Voglio evitare di lasciare segni, soprattutto nel posto più sbagliato del posto.”
“C’entra per caso la principessa?”, chiese l’uomo, inarcando il sopracciglio biondo.
“Cosa te lo fa pensare?”
“Anch’io ai miei tempi mi sono preso una cotta per qualcuno che non avrebbe mai potuto ricambiare.”
“E che hai fatto poi?”
“Ho fatto da testimone al suo matrimonio”, rispose Gobber.
“Quindi è questo quello che devo fare? Aspettare che si sposi ed andare al suo matrimonio?”, domandò sarcasticamente il giovane.
“Rassegnati, figliolo. E continua a lavorare a palazzo.”
“Non voglio dipingere al momento. La regina dovrà rivolgersi a qualcun altro.”
“Perfetto, perché non lo dovrai fare.”
“Cosa? E allora..?”
“Apri la busta.”
Stavolta la voce di Gobber assunse un tono di ordine che non ammetteva alcuna contestazione, e Hiccup si affrettò a prendere la busta ed aprirla. Non era la scrittura ordinata e precisa della regina Elinor, ma una più disordinata ma altrettanto chiara che il moro riconobbe come quella del re. Nessun fronzolo o ghirigoro, e neanche lusinghe: il re lo invitava a palazzo per mostrargli tutte le sue invenzioni militari. Era come se l’avesse fatto diventare ingegnere militare in una manciata di minuti. Hiccup alzò la testa, quasi immediatamente e vide Gobber che lo osservava con un’espressione concentrata, nella quale era impossibile stabilire se fosse preoccupato o orgoglioso.
“Gobber..”, chiamò Hiccup, un poco perplesso.
“Da domani cominci pure l’addestramento, quindi al posto tuo inizierei a scegliere i progetti da dare al re dal tuo preziosissimo scrigno e a perfezionarli”, disse l’uomo, sistemandosi la cintura.
“Quale addestramento?”
“Di sopravvivenza.”
“E perché?”
Gobber sospirò, un’aria grave si era dipinta sul suo volto. “Ne avrai bisogno.” 
 

 
Solo Jack, ma che piacere vederti in giro!”, esclamò un uomo alle sue spalle, la voce familiare.
“Flynn Rider, qual buon vento?”, chiese il giovane, con un tono così sarcastico che sarebbe stato davvero impossibile non capirlo.
“È il vento di Drachma a portarmi qui”, rispose Flynn, camminando con Jack in direzione del mercato.
“Bottino magro?”
“L’unica cosa che fosse di valore era un cannone che sparava almeno tre bombe contemporaneamente ma, per questioni pratiche, ho preferito lasciarlo lì.”
“Drachma si sta armando? Strano, chissà con chi vuole entrare in guerra”, commentò Jack, tenendosi ben alla larga dalla bancarella della signora Brot. Quella donna aveva cominciato a fissarlo, non notando che una bambina, molto magra e sicuramente priva di forze, le aveva preso sotto gli occhi un bocconcino!
“Chissà..”, fece Flynn, guardandosi attorno e bloccandosi un attimo dopo.
“Amico, tutto apposto?”, domandò Jack, vedendo il ragazzo accanto a lui fissare un punto imprecisato e rimanere fermo e in silenzio.
“Chi è lei?”, chiese, guardando una ragazza. Jack seguì la direzione del suo sguardo e con sua sorpresa si accorse che era Rapunzel, intenta a riempire il cestino con mele e altre leccornie.
“È una mia amica”, rispose, accorgendosi solo in seguito di aver assunto un tono possessivo.
“Io.. non so, ma lei sembra..”, borbottò Flynn, concentrandosi e guardandola intensamente, accarezzandosi la barba incolta di almeno tre giorni.
Un angelo? Una principessa? Una fata?, pensò Jack, domandandosi perché Flynn si fosse fermato così di colpo. Effettivamente Rapunzel aveva una bellezza che lasciava senza fiato, e agli occhi del brunetto era senza imperfezioni. Era come se irradiasse un alone di perfezione attorno a lei ma la vera bellezza risiedeva nel suo animo. Rapunzel era pura, incontaminata dal male del mondo.  Poi la biondina si girò, e vedendo che l’amico la guardava si avvicinò a salutarlo.
“Ciao Jack!”, esclamò, un sorriso dipinto sul viso.
“Ciao Punzie”, ricambiò lui. La ragazza, sentendosi fin troppo osservata dall’altro ragazzo, si volse a lui lentamente.
“Chi..?”, cominciò a domandare, ma il giovane fu più veloce.
“Piacere, Flynn Rider. Sono un amico di Jack”, disse presentandosi, e prendendo la mano della bionda baciandogliela. Questa rise per il comportamento bizzarro dell’uomo, mentre Jack si limitò ad alzare un sopracciglio.
“Mi scusi se mi permetto, milady”, cominciò Flynn, interrotto dall’imbarazzatissima Rapunzel che, così come ogni volta faceva con Jack, lo pregava di non chiamarla così. “Va bene, Rapunzel, scusami per la domanda indiscreta ma provieni per caso da Corona?”
Sia Jack che Rapunzel rimasero perplessi dalla domanda, scambiandosi pure uno sguardo eloquente.
“Io e mia madre abbiamo sempre vissuto qui, perché?”, chiese lei, mettendosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro, gesto che faceva sempre quando era nervosa o in imbarazzo.
“Giuro che sei uguale alla regina di Corona!”, rispose Flynn e Jack scoppiò a ridere. 
“È impossibile.”
“Io.. sono d’accordo con Jack. È impossibile che io somigli così tanto a qualcuno che non sa nemmeno che esisto!”
“Ti porterò il ritratto della famiglia reale di Corona e potrai constatarlo con i tuoi stessi occhi”, disse Flynn, forse per una volta con un barlume di sincerità in quegli occhi scuri.
“Va bene”, accettò Rapunzel, stringendo la mano che il ragazzo le porgeva mentre Jack assisteva ad una scena che mai avrebbe voluto vedere.
 

“Jack? Mi accompagni da Merida?”, chiese Rapunzel, dopo che Flynn se n’era andato.
“Perché?”, fece lui, ancora un po’ infastidito dalle attenzioni che la ragazza aveva rivolto al suo amico ladro. Dopo quello strano accordo, infatti, avevano iniziato a parlare e sembravano non volessero finirla più.
“È di pessimo umore, per questo le sto portando delle mele”, spiegò la bionda, alzando il cestino.
“Ancora per la faccenda di quell’uomo?”, domandò Jack, la voce come un sussurro che si perdeva nel vento. Rapunzel scosse la testa.
“Sua madre non vuole che lei faccia il corso di addestramento.”
“Che se ne deve fare una ragazza di un corso di addestramento?”, commentò Jack con un tono piuttosto leggero. “Poi è pure una principessa, sono d’accordo con la regina.”
Rapunzel arrossì. “Io.. io volevo partecipare.”
Jack, se possibile, diventò più bianco della neve e iniziò a balbettare. “I-io non volevo insinuare assolutamente niente. E per chi è aperto, questo addestramento?”
“Per ragazzi da sedici a vent’anni.“
“E perché vorresti partecipare, Punzie?”, chiese Jack, dolcemente. “Se mai ci sarà una guerra, non dovrai combattere.”
La ragazza sembrò titubante a quella affermazione, ma non obiettò.
“Vorrei semplicemente non essere un peso, un altro essere umano che non sa fare nulla e che deve essere protetto.”
“Rapunzel, non è vero che non sai fare nulla! Tu sei come il sole che risplende e cura tutto!”
“Ti ringrazio per le belle parole, Jack”, disse lei, sorridendo calorosamente.
“Perché non fai questo?”
“Come, scusa?”
“Perché non presti soccorso alle persone che si feriscono in guerra?”, domandò il brunetto. “Così sarai utile!”, aggiunse. Così non verrai a contatto con la crudeltà, avrebbe voluto dire. Gli occhi verdi della ragazza si illuminarono di luce pure.
“Grazie, Jack!”
 
 
(Spiegazioni)

 
“Cos’è questo?”, chiese Fergus, alzando uno dei fogli di Hiccup vicino ad una sorgente di luce. Non che così riuscisse a capirlo meglio, pensò sarcasticamente il moro mentre pazientemente gli spiegava a cosa servisse. Era almeno il decimo disegno che ispezionava. Persino Stoick accanto al sovrano osservava i disegni, rimanendone per qualche frazione di secondo sorpreso.
“E questo?”
“Questo non c’entra.. era l’arco che avevo costruito per vostra figlia”, spiegò, rimettendo quel foglio all’interno di una carpetta.
“Ma era infuocato!”, disse il re ammirato. Hiccup sorrise.
“Effettivamente era un po’ appariscente, ma faceva la sua figura. Peccato fosse monouso”, commentò il giovane.
“E se costruissi armi come quell’arco? Come delle spade?”, s’intromise Stoick, guardando il figlio. Hiccup sbatté gli occhi verdi per un paio di secondi: era rimasto impietrito dal fatto che il padre gli stesse rivolgendo la parola.. Che stesse apprezzando le sue invenzioni?
“Sì, si potrebbe fare e sicuramente funzionerebbe anche più a lungo. Bisognerebbe mettere la miscela di zolfo e resina lungo la lama della spada e isolare il manico e..”, cominciò il ragazzo, ma venne interrotto dal sovrano che chiedeva spiegazioni sull’ennesimo disegno.
“Questo dovrebbe essere un cannone formato da tre livelli in modo che mentre il primo livello spara, gli altri possono ricaricarsi. Serve ad aumentare il numeri di colpi che si possono sparare al minuto.”
“E cosa c’è scritto in basso?”
Hiccup prese in mano il foglio, e notò che ai margini aveva scritto di aumentare la superficie di estensione e la distanza tra le canne fumarie per diminuire il tempo di raffreddamento. Sorrise; ricordava quando l’aveva scritto, poco prima di ricevere l’incarico dai gemellini Dunbroch. Sembrava passato un secolo..
“Sono semplicemente appunti per il miglioramento.”
Il sovrano annuì. Da quanto aveva intuito Hiccup, il re aveva capito poco o niente riguardo le sue invenzioni, ma ne era rimasto affascinato e questo era certamente un bene.
“Hiccup, voglio che quanto prima queste.. cose diventino realtà”, gli disse, regalandogli un sorriso fiducioso che il giovane si sentì in dovere di ricambiare.
“Ehm, sire?”
“Sì?”
“Perché tutto questo? Perché l’addestramento e la corsa agli armamenti?”, chiese Hiccup, abbassando lo sguardo e riprendendosi i suoi disegni. Dopo aver fatto quella domanda, non era più così certo di volerne sapere la risposta. Forse, perché nel profondo, la sapeva, e la temeva. Fergus guardò Stoick, poi guardò il giovane Haddock.
“Temo che Drachma voglia distruggerci”, rispose il re.
“È per l’omicidio dell’altro giorno?”, domandò prontamente il giovane. Stoick lo guardò con sguardo imperscrutabile. “È stato un emissario di Drachma ad uccidere la guardia per rubare qualcosa?”
“Tu come lo sai?”, chiese Fergus, aggrottando le folte sopracciglia rosse.
“Io lo sospettavo”, rispose Hiccup. “E cos’hanno rubato?”
“Ragazzo, non stai correndo troppo?”, disse il re, sempre sorridendo. Hiccup lo guardò alzarsi, e fare un cenno alle guardie.
Beh, si disse Hiccup, almeno so chi è stato. Più o meno.
 


“No! Tu non lo farai!”
“Perché non riesci ad ascoltarmi?”
Le due andavano avanti così da molto ormai, la donna seduta vicino al camino, la giovane troppo agitata anche solo per stare ferma, con la spada in mano infieriva qualche volta colpi al suo letto, camminando avanti e indietro. 
“Merida, non rivolgerti così a me”, disse la madre, alzando la voce. La rossa alzò gli occhi al cielo in gesto di estrema esasperazione, facendo rimbalzare i suoi numerosi ricci.
“Certo, perché sono una principessa, con regole, aspettative, senza armi.. Chi credi che io sia? Tu non mi conosci!”, esclamò la figlia, continuando ad utilizzare il tono concitato e così incalzante che non permise alla donna di rispondere. “Non sarò mai quello che tu vuoi che io sia.”
“Merida, non ti permetterò di allenarti ad uccidere. Tu sei una..”, cominciò Elinor.
..principessa, lo so! Non fai altro che ripeterlo ogni secondo che per me è diventato impossibile dimenticarlo!”, completò Merida, sferzando un altro colpo alla colonna del letto, quasi totalmente distrutta. “E poi non mi alleno ad uccidere, ma a difendermi!”
“Ci sono le guardie per quello”, disse la madre, freddamente.
“Come la guardia che è morta l’altro giorno?”, chiese la rossa, e la madre si alzò, adesso agitata anche lei anche se tentava di celarlo.
“Non voglio che nessun altro muoia per me, o per il mio regno.”
“Quindi tutto quello che noi facciamo.. tutto quello che io faccio per proteggerti non conta niente? Non ha valore?”, domandò Elinor, gli occhi lucidi e la voce incrinata. Merida non aveva mai visto la madre così. Forse.. Ma si costrinse a non completare il pensiero, scuotendo forte la testa come se così lo avesse cancellato.
“Non ti ascolterò comunque”, rispose la figlia, puntando i suoi occhi acquamarina in quelli castani della madre, contaminati da pagliuzze dorate. “Qualunque cosa tu dica, non ti ascolterò.”
Un ultimo sguardo alla madre, poi Merida si voltò, prendendo l’arco e le frecce e, con la spada ancora in mano, uscì dalla stanza prima che le lacrime traboccassero dai suoi occhi, lasciando la donna sola, finalmente libera di piangere anche lei.
 




Rieccomi qui dopo una settimana che, per me, è durata quanto l’era glaciale. Tra compiti in classe e interrogazioni/interrogatori gestiti da agenti dell’Intelligence, la mia mente è stata violentata ai limiti della decenza umana e non ditemi di essere vivacemente drammatica perché lo so che anche voi avete passato una settimana tormentata, e le prossime a seguire saranno sempre peggio, considerando che la data di consegna delle pagelle si avvicina indecentemente come un treno carico di libri sulla fisica quantistica. Detto questo ringrazio chi segue la storia, chi la recensisce, e chi l’ha inserita tra le preferite. Vi ringrazio molto!
La vostra triste gingersnapped consapevole di dover studiare e di non aver voglia di studiare

 

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Capitolo 6
*** La sicurezza è sopravvalutata ***


“La sicurezza è sopravvalutata”
 
 

 
(Primo giorno)

 
“Chi siamo?”, chiese, forse per l’ennesima volta, Hiccup camminando alle calcagna di Gobber. Prima del vero e proprio addestramento il maestro doveva prendere la cintura degli attrezzi nel suo capanno e Hiccup ne avrebbe approfittato per prendersi la spada più adatta a lui, accontentandosi sicuramente della prima spada calibrata che gli fosse venuta alle mani. Il moro aveva tante certezze nella sua vita, e una tra queste era senz’altro la sua inadeguatezza tra i compagni dell’addestramento.
Gobber sospirò di rimando, anche lui per l’ennesima volta. “Siete dei mocciosi che pensano di salvare Dunbroch dal suo inopinabile destino.”
“Hey”, ribadì il giovane, facendo una smorfia “io sono stato obbligato. Da te.”
“Ti farà bene imparare a difenderti.”
“Perché? Cosa se ne potrebbe fare Drachma di me?”
“Immagino che gli servirà qualche stuzzicadenti”, rispose Gobber, trovando la sua cintura.
“Oh, andiamo Gobber! Chi altri ci sarà in questo addestramento?”
“Siete solo una decina di adolescenti disturbati guidati da un adulto..”
“Altrettanto disturbato?”
“No, preoccupato.”
“Credevo non fosse possibile data la tua scarsa preoccupazione per la sicurezza.”
“La sicurezza è sopravvalutata”, disse Gobber.
“Chissà perché mi aspettavo che dicessi qualcosa del genere”, commentò Hiccup prendendo tra le mani una spada non molto bene calibrata.
“Ci saranno tuo cugino, qualche suo amico, qualche nobile..”
“Snotlout?”, chiese Hiccup con tono sbalordito.
“Quanti cugini hai, scusa?”
“Solo lui ma, sai, mi ha..”
“Colto di sorpresa?”, domandò Gobber, stranito. Snotlout si allenava da quando erano piccoli, era impensabile che non volesse mettere la propria vita in difesa dello stato.
“No, hai ragione.”
“E poi c’è Jack”, aggiunse il maestro, osservando il moro afferrare una spada che sembrava troppo pesante per lui. Hiccup posò la spada e sospirò profondamente, tirandosi con una mano i capelli all’indietro.
“Perché c’è Jack?”, chiese subito dopo il vecchio, alquanto dubbioso.
“Perché è un idiota”, rispose semplicemente Hiccup, prendendo un’altra spada.
“È quella giusta?”, domandò Gobber, accennando alla spada che teneva in mano.
“No, ma è la migliore che ho preso al momento. Poi me ne costruirò una io.”
“Bene, perché gli altri saranno già arrivati.”


Gobber aveva ragione: gli altri erano già arrivati. Disposti al centro dell’arena c’erano dieci aitanti giovani muscolosi, volenterosi di combattere e di difendere il proprio Paese, con l’aria minacciosa nonostante al momento non avessero ancora alcun arma in mano. Dieci giovani ad eccezione di uno, messo in disparte, più gracile e mingherlino rispetto agli altri, più simile a Hiccup: si trattava di Jack.
“Amico, dov’eri? Mi hai fatto aspettare parecchio”, disse con tono accusatorio il bruno appena Hiccup gli fu vicino, rimanendo in disparte con lui.
“Le chiedo umilmente perdono, milady”, commentò sarcasticamente il giovane.
“Non scherzare, Hic. Questi tizi sono raccapriccianti!”
Hiccup alzò un sopracciglio scettico, e Jack si sentì in dovere di aggiungere: “Prima parlavano di cicatrici e mutilazioni, ed erano contenti.”
“Silenzio, laggiù”, gridò Gobber, fulminando con lo sguardo i due ragazzi. “Siamo tutti?”, chiese, prendendo poi l’elenco che aveva nella sua cintura degli attrezzi. Ecco perché aveva insistito così tanto per prenderla quella mattina.
“Bunnymund Aster.. Dingwall.. Dun- no, qui c’è un errore-“ disse schiarendosi la gola per poi ricominciare “Haddock, Hofferson, Ingerman, Jorgenson, MacGuffin, Macintosh, Overland, Thorston e Thorson. Ci siete tutti?”
“Adesso sì”, rispose una voce, chiara e squillante. Una figura si fece spazio tra la dozzina di ragazzi, fermandosi a pochi passi dal maestro di bottega che faceva loro da addestratore. Hiccup deglutì, guardandosi attorno e vedendo le facce confuse o perplesse dei suoi compagni: perfino Jack non riusciva a capire chi potesse essere, nonostante l’avesse già incontrata, nonostante conoscesse già la sua voce.
“Principessa Merida Dunbroch!”, esclamò sorpreso Gobber, accennando ad un sorriso. “Allora non era un errore.”
“No, non lo era Gobber”, disse lei, togliendosi il cappuccio del mantello e rendendosi riconoscibile “e chiamami solo Merida, almeno qui.”
Effettivamente senza quel mantello ingombrante, nessuno avrebbe mai potuto dire che era una principessa: l’abito era semplice, lungo, senza merletti o pizzi, di colore verde. Se non fosse stato per i suoi capelli, ricci e rossi, riconoscibili da lontano, non sarebbe stata neanche classificata come discendente dei Dunbroch.
“Bene”, fece lui, rivolgendole un sorriso d’affetto. Dopottutto, conosceva quella bambina da quando era piccola. Aveva costruito il primo arco per lei, l’aveva vista cadere numerose volte con l’arco del padre (di almeno due volte più grande), l’aveva vista crescere. Così come Gobber considerava Hiccup una specie di figlio, non poteva che ritenere Merida quanto più simile ad un nipote, sempre considerando i suoi interessi non tanto femminili. “Adesso, tutti a prendere un’arma!”, urlò, vedendo compiaciuto quella dozzina di ragazzini, non ancora pienamente uomini, correre per cercare l’arma adatta a loro. Hiccup, rimasto in disparte con la propria spada in mano, osservò il suo amico Jack prendere una lancia con una lama non molta affilata all’estremità, Snotlout e Astrid, la ragazza bionda che teneva i capelli legati in una treccia laterale e con i occhi più glaciali che il moro avesse mai visto, presero un’ascia bipenne, il giovane MacGuffin, un ragazzo tutto altezza e muscoli (particolarmente simile all’armadio che Hiccup e Gobber avevano in bottega), un martello da guerra, Aster, l’unico che sembrasse un uomo rispetto a loro un boomerang, mentre tutti gli altri una semplice spada, chi lunga, chi corta. Il giovane inventore rimase sorpreso da questa scelta comune della principessa: si sarebbe aspettato l’arco, ma sicuramente la ragazza pensava di imparare a combattere con un’altra arma piuttosto di perfezionare il tiro con l’arco.
Gobber passò tra di loro con aria di critica, le sopracciglia bionde aggrottate, gli occhi ristretti e indagatori, le mani che si grattavano la barba di qualche giorno, ogni tanto fermandosi ad accarezzare invece i baffi così lunghi da essere legati in trecce.
“Allora? Perché avete scelto queste armi?”, domandò. “Parla tu, MacGuffin.”
“Ho scelto questo martello da guerra perché mio padre ne usa uno”, rispose il giovane, rivelando di avere una voce piuttosto stridula e incomprensibile per un ragazzo alla sua età. Persino Hiccup riteneva di avere una voce più virile di MacGuffin, ed Hiccup non era certo un esempio di virilità.
“Motivazione piuttosto stupida”, commentò Gobber alzando gli occhi al cielo. “Chi sa cosa sia effettivamente un martello da guerra?”
Qualche mano si alzò, comprese quelle di Snotlout e Astrid.
“Giuro che chiunque mi risponda soltanto che è un’arma gli faccio saltare i pasti dell’intera settimana.”
La mano di Snotlout si abbassò lentamente, generando dei sorrisi complici sui volti di Jack e Hiccup.
“Parlando tra noi, a quello lì farebbe bene saltare i pasti di un intero mese”, commentò Jack, facendo sorridere ancor di più Hiccup.
“Un martello da guerra è un’arma il cui colpo mira a sfondare l’armatura e le ossa dell’avversario allo scopo di immobilizzarlo qualora fallisse il tentativo di ucciderlo.”
A rispondere era stata lei, quella ragazza bionda inquietante che sembrava fosse lì con lo scopo di uccidere tutti quanti loro.
“Risposta esatta, Hofferson”, disse Gobber, evitando di dare a vedere che era sorpreso. “E tu Jack, perché hai preso una lancia?”
“Mi sembrava abbastanza leggera e maneggevole per un tipo come me”, rispose Jack, tenendo saldamente la sua arma. Le nocche della mano destra che la reggeva erano diventate bianche.
“Hai fatto bene!”, esclamò il maestro, forse con troppa enfasi, “Per questo non capisco perché persone come Hofferson e Dunbroch hanno scelto armi così pesanti.”
Le due ragazze in causa si guardarono, stranite dall’affermazione dell’insegnante.
“Sapete che armi avete scelto, vero?”
“È la claidheamh mor”, rispose Merida, sospettosa dalla piega che stava prendendo quella prima lezione di addestramento.
“La mia è una labrys”, aggiunse Astrid, aggrottando anche lei le sopracciglia.
“Bene, se aveste avuto almeno dieci chili in più le avreste potuto tenere.”
“Come?”, chiese la riccia, alzando la voce come se le fosse caduto il mondo.
“Avere un’arma che non pesi molto”, cominciò a spiegare Gobber, camminando avanti e indietro tra i ragazzi, “serve per tenere qualcosa di vitale importanza.”
“Un’altra arma?”, domandò Snotlout.
“No.”
“La testa del tuo nemico?”, chiese un ragazzo biondo, fratello di una ragazza similissima a lui.
“No, Tuffnut”, rispose Gobber, con un’espressione schifata.
“Un medico?”, azzardò Hiccup, facendo ridere Jack.
“Ragazzi, ma ci state almeno provando?”, domandò il maestro, alzando un sopracciglio scettico.
“Uno scudo”, rispose correttamente Astrid e Gobber annuì.
“Preferirei tenermi la mia Claymor”, disse Merida a mezza voce, mentre gli altri, compreso Hiccup, correvano a prendersi lo scudo.
“Dovresti prenderti una normale spada bastarda, o uno spadino”, suggerì il maestro, osservando la principessa fare delle smorfie.  “Merida”, cominciò Gobber, e Jack che stava segretamente origliando la conversazione diede una gomitata tra le costole dell’amico per dirgli di prestare attenzione a quella scena, che sicuramente rivelava che Gobber aveva un livello di confidenza molto alto con la reale, “io ti insegno a difenderti. So già che sai perfettamente destreggiarti con quell’arma, ma non avrai sempre una spada reale o un’arco a tua disposizione. Cambia arma, e poi te ne farai costruire una calibrata da Hiccup.”
Il moro sbuffò. Era proprio tipico di Gobber scaricare le responsabilità sugli altri, come se lui non fosse già abbastanza occupato a lavorare in bottega e in armeria e dirigere i lavori per le proprie macchine da guerra che dovevano essere pronte il più presto possibile, costruirsi un’arma per sé e adesso costruirne una per la principessa! Jack lo notò e abbozzò un sorriso, prendendo in mano il primo scudo che gli era capitato, di legno, con qualche sostegno in acciaio. Dopo qualche momento, videro la rossa avvicinarsi per posare la sua Claymor e prendersi una spada più piccola, leggera ma ugualmente affilata, e uno scudo anch’esso leggero. L’altra ragazza, Astrid, aveva mantenuto l’ascia bipenne e si era preso pure uno scudo abbastanza resistente e pesante. 
Gobber le lanciò un’occhiataccia, ma non le disse niente. “Adesso vi sceglierò un compagno e inizierete a combattere.” A queste parole, tutti si guardarono attorno, straniti e taluno pure preoccupato.
“Ehm, Gobber, sei sicuro che sia sicuro per noi?”, chiese Jack, nervoso. Non aveva mai combattuto in vita sua, era abituato a non farsi beccare a rubare qualche mela o dolcetto, ma mai nulla di che e certamente avrebbe preferito non trovarsi faccia a faccia con quella bionda. O con il cugino di Hiccup, e nemmeno con il tizio del martello.
“Si, certo!”, rispose il maestro, sistemandosi la cintura e iniziando a formare le coppie.
“Ma la sicurezza..”, cominciò a parlare un ragazzo paffutello, un certo Fishlegs.
“La sicurezza è sopravvalutata!”, esclamò Gobber, ripetendo la frase che aveva detto quella stessa mattina a Hiccup, e proprio mentre la pronunciava spostò il moro davanti a Merida, che aveva dipinta sul volto un’espressione di pura sorpresa. Hiccup spalancò gli occhi verdi chiudendoli subito dopo, e corrugando le sopracciglie castane. Fa’ che non mi faccia troppo male, si ritrovò a pensare, rimanendo lì, fermo, con la spada e lo scudo bassi, neanche in una posizione di difesa.
Sul volto della rossa, la sorpresa fu sostituita da un’espressione alquanto stranita, rivolta al giovane che dopo una manciata (interminabile) di secondi, la guardò e abbozzò un sorriso.
“Dovresti metterti in una posizione di difesa o attacco”, disse la principessa, guardandolo come se dovesse essere ovvio.
“Oh, si certo”, si precipitò ad annuire, mettendosi in posizione proprio come gli aveva insegnato il padre anni addietro. Dopo mezzo minuto buono la ragazza sbuffò, nascondendo una certa impazienza.
“Hai intenzione di attaccarmi oppure possiamo rimanere così tutto il giorno?”, chiese, alludendo con lo sguardo alla sua posizione.
“Sono in posizione d’attacco?”, domandò stranito Hiccup e questo fece ridere fortemente la rossa.
“Guardami”, disse, smettendo di ridere ma ancora sorridendo, “questa è la posizione di difesa”, e alzò lo scudo facendo rimanere la spada invece più bassa, “questa”, e qui imitò Hiccup, alzando la spada e tenendo lo scudo più vicino al fianco sinistro, “è la posizione di attacco.” E dicendo questo fece un affondo colpendo di proposito lo scudo del moro.
“Ahi”, fece lui, facendo di nuovo ridere la rossa.
“Adesso fallo tu”, suggerì lei, mettendosi in posizione di difesa. Hiccup fece un affondo ma lei fu più veloce e gli fece una controffesa, colpendo nuovamente lo scudo del moro.
“Così non vale!”, esclamò lui, corrugando le sopracciglia.
“Certo che vale, Hic, sono le basi della difesa e dell’attacco”, commentò Gobber, passando in quel momento vicino ai due giovani per vedere se necessitavano di consigli.
“Cosa ne potevo sapere io se tu non ce le hai insegnate?”, domandò accusatore il ragazzo, mentre Gobber si limitò a fare un sorriso sornione.
“Oh, non prendertela con Gobber se ti fai battere da una ragazza”, disse Merida, parando appena in tempo il colpo che Hiccup le aveva inferto.
“Io non mi sto facendo battere da una ragazza. E poi non è neanche un vero duello!”, specificò il ragazzo, spostando i suoi occhi verdi da Gobber alla ragazza.
“Allora rendiamolo un vero duello.”


“Ancora.”
“Basta, sono stanca! È la decima volta..”
“La nona”, corresse il moro, mettendosi nuovamente in posizione d’attacco. Merida sbuffò.
“La spada non è calibrata bene, e inizio a stancarmi di batterti sempre”, commentò, facendo roteare la spada e posando lo scudo a terra.
“Un’ultima volta”, propose il ragazzo, e Merida, alzando prima gli occhi al cielo, riprese lo scudo in mano.
“Che sia davvero l’ultima volta”, lo avvertì, una piccola ruga di disapprovazione sopra il sopracciglio sinistro. “Gli altri hanno finito da tempo e tu dovresti andare a lavorare in armeria”, aggiunse, rimproverandolo.
“Chi sei, mia madre che mi ricordi cosa dovrei fare?”, chiese Hiccup con l’intento di stuzzicarla. Merida lo attaccò pesantemente, facendogli mollare lo scudo per il colpo ricevuto, ma mantenne la presa sulla spada.
“Abbandoni il duello, artista?”, lo sbeffeggiò lei, facendo una smorfia. Prima che il moro potesse rispondere lei infierì un altro colpo, facendogli abbassare la spada e puntando la sua lama contro il suo petto.
“Ho vinto. Di nuovo.”, disse lei, posando le armi a terra e massaggiandosi il polso destro.
“Magari un’altra volta..?”
“Assolutamente no.”
“Oh, andiamo!”, esclamò Hiccup, portandosi le mani ai capelli, tirandoseli indietro.
“Hiccup, sei un bravissimo artista e mio padre dice che prometti bene come ingegnere militare, ma sei pessimo con la spada”, disse la ragazza. Hiccup sgranò gli occhi: una principessa (una principessa!), diceva a lui, che costruiva anche spade, di non saper combattere con la spada.
“Ehi, voi due, avete finito?”, chiese Gobber avvicinandosi. Oltre ai due, solo una coppia combatteva ancora, quella costituita da Astrid e Snotlout, entrambi con l’ascia bipenne.
“Sì”, rispose decisa Merida, prima che Hiccup potesse dire una sola parola.
“Migliorerai col tempo”, disse il maestro, toccandosi i suoi baffi biondi. “Serve esercizio.”
“Molto”, commentò la rossa, ricevendo una meritata occhiataccia dal ragazzo.
“E a te serve un’altra spada”, aggiunse Gobber. “Propongo un baratto.”
“Un baratto?”, domandò Merida, titubante. 
“È uno scambio”, spiegò Hiccup, e stavolta fu lui a ricevere uno sguardo severo.
“So che cosa è.”
“Tu le farai una spada ben calibrata”, disse Gobber parlando a Hiccup, che si limitò a scrutare attentamente gli occhi del maestro, “e tu gli darai lezioni di scherma, tiro con l’arco e qualsiasi cosa che non sa fare”, concluse, rivolgendosi alla principessa.
Entrambi tacquero, guardandosi di sbieco. L’unica cosa che Hiccup aveva in mente in quel momento era lui vestito da testimone, mentre Merida si trovava all’altare con un tizio sconosciuto che somigliava parecchio a Macintosh.
“Bene, organizzatevi tra di voi, e tu Hiccup, dovresti proprio andare in armeria adesso.”
 
 
(Vento)
 
 
Era una giornata assolata, quella. Non c’era vento, quasi, solo una lieve brezza che scostava di tanto in tanto i capelli della bionda, e che la portò a respirare profondamente. Adorava quella giornata isolata di primavera in quell’umido autunno, e se la voleva godere appieno. Sapeva di libertà. La madre era partita per qualche commissione a Corona, e sarebbe rimasta via per qualche altra settimana, il che portava Rapunzel a passare intere giornate fuori, ascoltando gli entusiasmanti (o scocciati, dipendeva dal giorno) racconti della principessa alla fine della giornata, oppure andando a trovare Hiccup qualche sera, ma il più delle volte era così stanco e distrutto che sbadigliava continuamente. Quello che le era rimasto veramente accanto era Jack, che ogni giorno, finito l’addestramento, passava a casa sua con qualche dolcetto –e Rapunzel aveva ben imparato a non fare domande sull’origine di quei dolcetti per apprezzare appieno il loro delizioso sapore- e trascorrevano le serate parlando di tutto. Era anche vero che quella che parlava di più era lei: Jack infatti si limitava a fare qualche commento sarcastico qua e là per colorire le sue giornate, e a raccontare ermeticamente quello che faceva all’addestramento. Da quanto aveva capito la bionda, c’era proprio un tizio che Jack non sopportava e, conoscendo il ragazzo, era probabile che questo tizio non sopportasse neanche Jack, un certo Aster.
“Fidati, è un bene che tu non abbia fatto quell’addestramento”, rispondeva sempre quando lei cercava di ottenere più dettagli. Dettagli che certamente Merida gli avrebbe offerto su un piatto d’argento, ma Punzie sapeva bene che non sarebbero stati oggettivi.
“E tu che hai fatto oggi?”
“Ho forse trovato un medico che mi prenderà come assistente.”
Già, quel forse era la causa del suo stato di turbamento. Più volte era andata a domandare ai dottori dello stato di Dunbroch se c’era qualcuno che volesse un’assistente, ma tutti gli avevano detto no a prescindere. Solo uno, invece, era titubante, e Rapunzel pertanto ogni mattina da qualche giorno gli portava un po’ di torta o qualche porzione di stufato per tentare di convincerlo. Sapeva bene di non essere portata per la guerra, sapeva bene di non poter ferire neanche volendo una persona, però voleva aiutare. Voleva aiutare con tutto il cuore i suoi amici che di lì a poco avrebbero combattuto per salvare persone come lei, e pensare che i suoi tre amici più fidati sarebbero stati lì, con le armi in mano..
Chiuse profondamente gli occhi, cercando di godersi quella giornata di primavera autunnale che iniziava a somigliare sempre più alla prigionia.


Scusate per il ritardo, scusate se posto solo ora ma ho avuto la prova di essere una calamita per i guai. Il 24 gennaio ho avuto la festa del mio liceo, e dato che sono una maturanda era mio obbligo e dovere andarci e dopo quella fatidica data, il disastro. Ero riuscita a scrivere il capitolo ma si era rotto il computer e -indovinate un po'- ho perso tutto. Tutto. Poi, dopo averlo portato ad aggiustare me l'hanno restituito dicendo che "ormai non c'era più niente da fare", quindi ho preso un computerino che avevo a casa che risale all'era di Tutankhamon visto che ancora utilizza il fantastico Windows Internet Explorer che non mi apre tutte le pagine e si carica con la lentezza di un rinoceronte ancora dormiente.
La vostra stressata gingersnapped

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Capitolo 7
*** Piccoli miglioramenti ***





Piccoli miglioramenti


 
(Qualche settimana dopo)

 
 
Hiccup si sentiva stanco. Era poggiato sul suo piano di lavoro, inclinato verso l’alto per disegnare meglio e ricoperto da vari disegni, più che altro schizzi di progetti e migliorie da apportare. Almeno cinque giorni a settimana Gobber lo svegliava prestissimo per l’addestramento, e i restanti due era svegliato ugualmente presto dalla principessa, che tentava di alternare lezioni di scherma con tiro con l’arco; poi, dopo ore sfiancanti di addestramento che somigliava sempre più ad una lotta per la sopravvivenza, doveva andare in armeria dove vi erano sempre problemi con i materiali, le dimensioni, la funzionalità, i fabbri che non riuscivano a comprendere bene i suoi progetti, il re che aumentava la pressione perché voleva vedere al più presto dei risultati, Gobber che cercava di aiutare ma alcune volte non sapeva fare come, e poi c’era suo padre. Suo padre era quello che lo turbava di più: certe volte assisteva durante l’appartamento o era presente quando presentava un nuovo progetto ma i suoi sguardi erano imperscrutabili. Hiccup non riusciva a capire se suo padre stesse cercando di ristabilire un rapporto con lui, oppure volesse tenerlo d’occhio. Erano stati i gemelli Ruffnut e Tuffnut a insidiargli questo dubbio. Il moro si era accorto che cercavano di evitarlo e di stargli più alla larga possibile, e aveva chiesto spiegazioni al cugino Snotlout.
“Non te la prendere ma tutti qui sanno che sei inutile, simpatico ma inutile. E anche pericoloso, calcolando che sei una calamita per guai”, gli aveva risposto il cugino, corrucciando le sopracciglia in aria di scusa.
Pericoloso?”, ripetè Hiccup in cerca di spiegazioni.
“Hai quasi fatto esplodere la bottega l’altro giorno.”
“Ma stavo lavorando per creare un esplosivo!”
“E poi hai incendiato la nostra arena la settimana scorsa.”
“Gobber voleva che studiassimo un modo per tenere i nemici lontani da noi.”
“Gobber voleva che costruissimo delle barricate. Era implicito”, lo corresse Snotlout.  “E poi Ruffnut è convinta che uno di questi giorni la tua testa sarà appesa nella Sala Grande.”
“E perché?”
“Per la principessa! L’altro giorno mancava poco che la colpissi.”
Hiccup alzò gli occhi al cielo. “Lo so, devo migliorare”, cercò di dire ma Snotlout invece scosse la testa.
“Gobber ti ha messo con lei perché sei quello che non sa proprio combattere, e in questo modo la principessa non può farsi male.”
Hiccup voleva ribattere, voleva dire che Gobber l’aveva messo con lei perché era stupido, e anche perché sapeva che Merida avrebbe potuto combattere veramente ma non ebbe il tempo perché Gobber stava iniziando un’altra delle sue lezioni.
Chiuse gli occhi, e si perse in altre sue elucubrazioni, ma un rumore incessante lo costrinse ad aprirli. Si stiracchiò un po’ e poi si diresse verso la porta, aprendola lentamente. Fu come se fosse entrata una furia. Il giovane ci impiegò più di una manciata di secondi per riconoscere la chioma ramata della principessa.
“Cosa ci fai ancora qua?”, chiese, le braccia incrociate al petto e lo sguardo severo.
“Che ore sono?”, sbadigliò il moro, stropicciandosi gli occhi.
“È tardi, dovremmo già essere nel bosco.”
“Ma..deve ancora spuntare il sole!”, esclamò Hiccup, avvicinandosi alla finestra e riconoscendo l’inconfondibile manto della notte.
“E allora?”, fece Merida.
“Non puoi essere seria”, si lamentò il ragazzo.
“Lo sono eccome invece”, ribatté lei, mettendogli l’arco in mano.
 
 

“Impegnati”, lo rimproverò, dandogli uno scappellotto.
“AHIA”, fece il giovane, massaggiandosi la testa. Aveva appena scoccato una freccia senza centrare il bersaglio, facendo scappare quel magnifico esemplare di cervo. “Perché mi hai picchiato?”
“Perché hai sbagliato! Fa’ che non diventi un’abitudine.”
“Io non ci riesco. Il tiro con l’arco non fa per me.”
Merida si girò verso di lui, molto velocemente. Era molto difficile capire a cosa stesse pensando in quel momento, un attimo prima sembrava così arrabbiata e l’attimo dopo era invece davanti a lui, sorridente, non proprio calma ma non aveva più l’espressione di quando avrebbe voluto farlo a pezzi.
“Hiccup, mi racconti una storia?”, chiese lei, sedendosi su un tronco abbattuto nel bosco, i lunghi capelli rossi che cadevano come una cascata, gli occhi rivolti in alto, a guardare il sole che, timido, si faceva largo tra le nuvole, le ciglia ramate che pettinavano l’aria.
“Una storia?”, ripeté lui, confuso, sedendosi accanto a lei in quello stesso tronco. Lei chiuse gli occhi, sorridendo leggermente.
“La tua storia”, specificò.  
Hiccup la guardò, un po’ spaesato, ma deciso comunque a parlare. “Io fino all’età di otto anni non avevo mai preso una matita in mano. Non sapevo neanche scrivere, o leggere, figuriamoci disegnare. Ero il figlio di Stoick l’Immenso-“
“Lo sei”, interruppe la ragazza, lo sguardo ancora perso tra le nuvole.
“Come?”
“Sei ancora il figlio di Stoick. Tuo padre non è mica morto.”
“Sai, anche se siamo vivi entrambi abbiamo da tempo smesso di essere l’uno per l’altro ciò che invece avremmo dovuto essere”, disse Hiccup, con voce atona.
“E perché?”
“Immagino per colpa di entrambi. Sua perché avrebbe voluto che io fossi esattamente come lui, mia perché io non sono proprio il figlio che ci si aspetta. E così successe che un grandioso giorno rischiai di perdere il mio piede sinistro con un’ascia e-“
“Cosa?”, domandò lei, di scatto, facendo saltare in aria il moro.
“È una sciocchezza, sul serio. Praticamente mio padre voleva insegnarmi ad usare l’ascia solo che un attimo prima ero al suo fianco e un attimo dopo non c’ero più. Siccome credeva mi avessero rapito ha iniziato, ehm, a cercarmi.”
“E tu dov’eri?”
Hiccup arricciò il naso al ricordo. “Prometti di non ridere?”
La principessa lo guardò a metà tra il divertita e stranita. “Perché dovrei?”
“Ero andato a caccia di troll.”
Merida si teneva la pancia dalle risate. “Tu cosa?”
“Avevo otto anni!”, tentò di giustificarsi, ma era tutto inutile, ormai rideva anche lui.
“Poi mi ha trovato, ma siccome non aveva visto che fossi io per salvarmi mi stava quasi tagliando il piede. E io ero così spaventato, e lui così arrabbiato che iniziammo a litigare. Sai, le solite cose: tu non potrai mai essere come me, io non voglio affatto essere come te, sei un inetto, tu non sei un padre per me, devi combattere e dopo il classico pretendo altro da me stesso mi ha detto di andarmene. E l’ho fatto. Sono andato da Gobber. Ci conosciamo da quando ero più.. piccolissimo, ecco. E da quel momento, ho iniziato a vivere.”
“In che senso?”
“Ho studiato, ho imparato molte più cose di quanto ne immaginassi. E pian piano sto raggiungendo tutti i traguardi possibili.”
“Dici?”
“Per favore!”, esclamò lui, facendo un sorriso sghembo. “Sono seduto in un bosco con la principessa che mi sta insegnando a non essere completamente inutile sul campo di battaglia, e sono diventato un ingegnere militare con l’intenzione di salvare questo paese che ha davvero un clima tutto sole e spasso che fa venire il congelamento alla milza. Se questi non sono traguardi!”
Merida sorrise. “Allora vediamo di raggiungerne un altro?”
“Quale?”, domandò Hiccup curioso.
“Battere la principessa ”, rispose lei, alzandosi dal tronco, un sorriso ottimista sulle labbra.
“Te l’ho detto, il tiro con l’arco non fa’ per me”, ribadì il giovane ma la rossa scosse la testa.
“Hiccup, mi hai costruito l’arco migliore che abbia mai avuto. Devi solo credere in te stesso, e sono sicura che ce la puoi fare”, disse Merida, tendendogli la mano per aiutarlo ad alzarsi. Hiccup puntò i suoi occhi, verdi come quello stesso bosco, brillanti, sulla mano di lei, completamente bianca per il gelo, e la afferrò.
“Bene. Così come per tante altre cose, per tirare con l’arco c’è un’unica grande regola”, iniziò lei, mettendosi in posizione. “Respira”, disse semplicemente, come se fosse il principio regolatore della vita, del mondo intero. “Quando non respiri, non pensi.” Hiccup vide la ragazza fare un solo breve respiro, e poi la freccia andò a segno, colpendo il bersaglio. Merida si girò verso il moro, i lunghi riccioli rossi che muovevano con la lieve brezza del vento, descrivendo morbide onde, l’arco in mano, gli occhi radiosi. E in quel momento gli venne in mente Gobber. “Se smetti di pensare, sei spacciato. Sbaglia, perdi, rischia ciò che vuoi, ma non smettere mai di pensare.”
Hiccup prese l’arco che la rossa gli porgeva, e si mise in posizione. Respira, si disse tra sé e sé. Pensa.
Scoccò la freccia, dopo un paio di respiri profondi. Non fu proprio preciso come la ragazza, ma almeno quella volta aveva centrato il bersaglio.
 

 

(Finalmente qualcosa)
 

“Chi è?”, chiese una voce sgarbata. La bionda ragazza, seppur leggermente titubante rispose.
“Buongiorno signor Filottete, sono io, Rapunzel”, rispose la ragazza, con un tono estramamente cordiale.
Di nuovo”, borbottò l’uomo, ma le aprì ugualmente la porta. Si vide un uomo bassissimo, un nano, mostarsi per far accomodare la ragazza in casa, come da molti giorni.
“Fil, chi è?”, gridò una voce maschile all’interno della casa, e il nano gli rispose sempre urlando.
“Non ti interessa, continua ad esercitarti tu!”
Rapunzel abbozzò un sorriso, rimanendo alzata con un cesto pieno di frutta fresca.
“C’è Hercules che si sta allenando?”, domandò e Filottete annuì.
“Come mai?”
“Per lo stesso motivo per cui tu vuoi che io ti insegni a curare”, rispose Filottete, sedendosi e addentando una mela. “Cara la mia dama di corte, dovresti dire al tuo re che anche se non dice al popolo come stanno le cose, noi non siamo tutti stupidi. Ci sarà una guerra, e molti vogliono prepararsi.”
Rapunzel sbattè le lunghe ciglia un paio di volte. “Io non-“
“Certo che no. Comunque, anche se mi piace il fatto che mi porti del cibo buono ogni giorno, ti devo dire che non posso prenderti come assistente medico.”
“Ma signor Filottete-“
“No, niente ma signor Filottete. E non guardarmi in quel modo!”, esclamò, alludendo agli occhi tristi della bionda che erano appena diventati lucidi. “Conosco un tizio, un medico, che dicono sia talmente bravo da essere ritenuto un genio in quella disciplina”, disse poco dopo, come se fosse una notizia casuale. “Se aspetti altri cinque, dieci minuti ti scrivo una lettera di raccomandazione.”
“Signor Filottete?”, chiamò Rapunzel, costringendo il nano a girarsi. “Grazie”, disse, sorridendo caldamente. Perfino quel nano burbero sorrise. “Di nulla.”
 

 
(Beviamoci su)
 

“Stoick!”, lo chiamò un omone, molto simile a lui. L’uomo citato si girò, e si ritrovò il sovrano davanti. Sembrava molto preoccupato.
“Novità?”, chiese, e il comandante delle guardie annuì, assumendo un’espressione grave.
“Un’altra guardia è morta, all’entrata nord del palazzo. Fortunatamente avevo raddoppiato la sorveglianza e quindi non sono riusciti ad entrare, chissà per fare cosa stavolta.”
“Sicuro che fossero ancora loro?”
“Se c’è una cosa che Bludvist fa sempre, è lasciare il proprio segno. E anche stavolta..”
“Sì, certo. Ho capito”, lo interruppe il re, frustrato. “E adesso cosa possiamo fare?”
“Dobbiamo aspettare solo una dichiarazione di guerra”, rispose Stoick, dopo qualche minuto di meditato silenzio.
“Cosa?”, domandò il re, alzando la voce. Fortunatamente in quel corridoio non c’era nessuno. “E dovrei continuare a far morire inutilmente i miei uomini?”, sbraitò.
“Sembra che Mor’du ci stia concedendo del tempo, e noi lo dobbiamo sfruttare”, provò a farlo ragionare il comandante delle guardie. Sapeva  bene com’era il sovrano, e come avrebbe preferito fare un solo duello tra lui e Mor’du per risolvere la questione una volta per tutte, ma non poteva farlo.
“A me sembra solo che stiamo perdendo tempo”, commentò il re, portanadosi le mani in testa, nervoso. Hiccup ancora non aveva portato a termine una sola delle sue invenzioni, e, a quanto diceva Gobber, all’addestramento le cose non andavano certo meglio. In più, alcuni dei suoi concittadini avevano avvertito l’aria di cambiamento e stavano emigrando a Corona e ad Arendelle.
Stoick a sentire quelle parole si irrigidì.
“Non stiamo perdendo tempo. Sire, si fidi, vedrà i miglioramenti entro le tre lune.”
“Cioè fin quando non finirà questo gelido inverno e finalmente Drachma potrà dichiararci guerra?”, chiese Fergus, la voce stanca ed esausta. “Lo sai che mia moglie ha iniziato a pregare ogni giorno?”
Stoick sorrise. “Credevo lo facesse da quando si è sposata con uno scavezzacollo come te.”
Anche Fergus rise. “Sì, ma prima non pretendeva che lo facessimo insieme.”
“Andiamo a berci due pinte, Fergus. In memoria dei vecchi tempi”, propose il comandante delle guardie.  Il sovrano sembrò titubante all’inizio, ma poi accettò. “Fare sempre il sovrano consapevole mi porta via così tante fatiche..”
“Meno male che c’è tua moglie allora.”
“Già, meno male.”
 


Solo Jack!”
“Quando la smetterai di chiamarmi così?”, domandò il brunetto, scocciato, avvicinando quel boccale pieno di liquido dorato alle sue labbra. Il giovane uomo si sedette accanto a lui.
“È questo il modo di salutare un vecchio amico di ritorno da un viaggio importantissimo?”, chiese Flynn Rider, ordinando anche lui una pinta di birra. Un uomo alto e muscoloso lo servì.
“Noi due non siamo amici, tantomeno vecchi. Ci conosciamo da qualche mese al massimo”, rispose Jack.
“E non mi chiedi dove sono stato?”
“Sei stato a Corona.”
“E tu come lo sai?”
“Parlo con Rapunzel, lei sì che è una vecchia amica!”, esclamò, con le gote leggermente rosse. Flynn sorrise malizioso.
“E sai anche cosa ho trovato?”
“Secondo me hai soltanto finto che lei somigli alla sovrana di Corona per poter flirtare tranquillamente con le- per tutti gli dei che esistono in questo mondo!”, disse Jack, passando da un tono saccente ad uno meravigliato. Flynn infatti gli aveva messo sotto il naso un manifesto, su carta, che sembrava ritrarre Rapunzel, con i capelli più corti e castani, e ovviamente con un viso più invecchiato accanto ad un uomo basso, biondo, e con una barbetta ispida. Sotto vi era stampato il nome “Corona” con un invito a ballo per l’estate.
“Credi ancora che io finga?”, domandò il più grande, con un sorriso smagliante dipinto sul volto.
“Potresti”, rispose semplicemente Jack, cercando di nascondere la sua ammirazione per lui.
“Già, hai ragione, potrei”, concordò, ordinando altre pinte per sé e per Jack. Quella sera li servì sempre quell’omone canuto, che alla terza pinta si unì a loro in conversazioni profondamente culturali.
“Com’è che ti chiami, nonno?”, gli chiese nuovamente Jack, la faccia totalmente rossa e le lacrime agli occhi per il troppo riso.
“Io essere Nord”, rispose quello con uno strano accento.
“Nord? Che razza di nome è Nord? Da dove vieni, nonno?”, lo interruppe Flynn.
“Dal nord.”
Le loro risate invasero la locanda, l’omone canuto rivolse loro un gran sorriso. A dispetto del fatto che avesse barba e capelli completamente bianchi, le sopracciglia erano nere, e non sembrava un nonno, come si ostinavano a chiamarlo Jack e Flynn: era un uomo alto e muscoloso, ben piazzato.
“Nord, tutto a posto?”, chiese a quel punto un uomo, serio, spuntando da dietro il bancone.
“Sì, Aster, sta’ tranquillo”, rispose Nord, bevendo dal suo boccale.
“Aster?”, fece a quel punto Jack, drizzandosi in piedi e mettendo a fuoco il giovane uomo davanti a lui. “Io ti conosco!”
“Oh, no! Lo stupido ragazzino dell’addestramento”, commentò Aster alzando gli occhi al cielo.
“Aster? Che buffo nome”, rise Flynn, guadagnandosi un’occhiataccia da questo.
“Io non sono uno stupido ragazzino! Sei tu che sei stupido”, disse Jack, terminando la frase con un sonoro singhiozzo. Nord rise.
“Intanto sei tu quello che è ubriaco il giorno prima della prova di domani.”
“Prova di domani?”
“Sveglia! Domani dobbiamo combattere contro le guardie reali!”
Questo sembrò svegliare Jack: il giovane, infatti, sbarrò gli occhi.
“Devo andare!”
Flynn, che nel frattempo aveva continuato a bere e ridere allegramente con Nord, drizzò le orecchie.
“Dove?”, chiese, per poi scoppiare a ridere. Jack abbozzò un sorriso, ma non rispose, e uscì da quella locanda.


 
(Ti vuole morto)
 

“Che hai, Jack?”, chiese Hiccup l’indomani mattina all’addestramento. Il brunetto sembrava avere un forte mal di testa che non gli permetteva neanche di tenere gli occhi aperti. Questo pregò che quel giorno il sole fosse interamente nascosto da certi nuvoloni neri, presagi di un tremendo temporale, e guardò l’amico.
“Lascia perdere. Piuttosto, perché stiamo facendo questo addestramento?”
“Io perché sono stato costretto, tu perché sei un idiota e credi che Rapunzel in questo modo di innamori perdutamente di te”, rispose Hiccup, guardandolo sarcasticamente. “E posso dirti che stai fallendo miseramente.”
“Grazie Hic, proprio grazie.”
“Di niente.”
“Ciao Hiccup, Jack”, salutò Merida, con la spada già in mano. I ragazzi ricambiarono con qualche cenno, e la ragazza aggrottò le sopracciglia.
“Che c’è?”, chiese, turbata.
“Discutevamo su quanto Jack fosse idiota”, rispose Hiccup, alzando al cielo i suoi occhi verdi.
“Ha parlato l’altro idiota”, commentò il brunetto, facendo ridere la ragazza. Proprio in quel momento Jack si accorse che Merida non indossava il solito abito lungo, bensì un paio di pantaloni e una camicia larga. Sembrava una popolana a tutti gli effetti.
“Merida, perché sei vestita peggio di me?”, chiese Jack, ricevendo una gomitata da parte del moro. La rossa gli fece di tutta risposta una linguaccia.
“Non sono affari tuoi”, rispose semplicemente, ma poi decise di spiegarsi. “Oggi c’è la prova con le guardie reali, e con gli abiti non riesco a.. insomma, sono troppo stretti per certi movimenti”, disse, cercando accuratamente di balbettare. Jack rise. Era forse stato l’unico a non trattarla mai da principessa, prendendola in giro appena ne aveva l’occasione. E questo non faceva di certo riemergere il lato più maturo e regale della ragazza.
“Si presume che le ragazze non debbano fare certi movimenti”, commentò lui, rivolgendo alla principessa un’occhiata maliziosa con i suoi occhi assonnati.
“Ma dico, hai visto Astrid? E anche l’altra ragazza, Ruffnut? Loro sono ragazze, e fanno certi movimenti”, ribatté lei. Jack iniziò a ridere apertamente, iniziando ad innervosire la ragazza.
“Tranquilla, Jack non considera quelle ragazze, piuttosto come degli automi assetati di sangue che un giorno conquisteranno tutti i regni”, spiegò Hiccup, cercando di allontanare, senza che la rossa se ne accorgesse, la spada che Merida stava sempre più avvicinando al brunetto.
“Non che Merida sia da considerare proprio una ragazza..”, aggiunse Jack, e Hiccup, in cuor suo, sapeva cosa sarebbe successo.
Collisione.
“Non che tu sia da considerare proprio un ragazzo”, disse la rossa, e Hiccup, pensando al peggio, si contrappose ai due, evitando così che si facessero del male.
“Calma, ragazzi. Vi prego”, fece, corrucciandosi. Avvertì Jack alle sue spalle continuare a ridacchiare, mentre Merida lo fulminò con i suoi occhi acquamarina.
“Facciamo una sfida. Chi sconfigge più soldati non verrà più preso in giro dall’altro”, propose poi la ragazza, facendo tirare un sospiro di sollievo ad Hiccup.
“Ci sto!”, esclamò il ragazzo da dietro le spalle dell’inventore.
“Hiccup sarà il giudice”, concluse lei. “Buona fortuna, Frost”, disse, congedandosi per andare a parlare con Gobber.
Frost? Che significa?”, domandò Jack, leggermente spaesato. Hiccup lo guardò con un sorriso sbieco, quasi rassegnato.
“Che ti vuole morto.”


 
Sono tornata (finalmente). Lo so, lo so: ho iniziato un'altra raccolta senza essere arrivata ad un punto di svolta con questa, ma, come si intitola il capitolo, ci sono piccoli cambiamenti. Continuerò questa storia, non l'abbandonerò -anche perché nella mia mente, la storia va avanti incondizionatamente e spesso volte faccio fatica a starle dietro-. Comunque giuro che è colpa del mio computer, che continua a rompersi inesorabilmente. A quanto pare la sua ora è vicina, o almeno così sembra a me. Mio padre invece si ostina a farlo aggiustare. Di nuovo.
Comunque, spero che questo capitolo vi sia piaciuto!
La vostra
gingersnapped

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Capitolo 8
*** Questione di un attimo ***


 
Questione di un attimo
 
 
 
(Un nuovo inizio)
 
 
“Milady!”, esclamò Flynn Rider, correndo in direzione della giovane donna che stava camminando tranquillamente lungo una stradina un po’ più ripida delle altre, e che pertanto portava verso una zona della città non particolarmente affollata. Rapunzel si fermò, permettendo così al ladruncolo –Jack lo chiamava in quel modo- di raggiungerla.
“Flynn Rider”, disse di rimando lei, sorpresa dall’incontro inaspettato. “Comunque, chiamami pure Rapunzel, non sono una milady.”
“Ho visto milady che non erano davvero milady e che pertanto non erano degne di essere chiamate milady pretendere di voler essere chiamate milady, ma non avrei mai detto che una così bella ragazza, degna di essere chiamata milady, non volesse essere chiamata milady”, disse lui, facendo un inchino.
“Mi vuole forse confondere con tutti questi milady, Flynn?”, chiese lei, sorridendo.
“Niente affatto. Allora, biondina, dove stai andando?”
Lei sorrise, smagliante, mostrando una busta chiusa con un sigillo particolare, un sigillo che l’avventuriero non riconobbe in quell’istante ma che gli sembrava vagamente familiare.
“Finalmente imparerò a curare!”, rispose la bionda, al settimo cielo. Il giovane uomo con una mano si scombinò i folti capelli castani, chiudendo e aprendo le palpebre un paio di volte.
“Curare. Bello”, disse, atono.
“Certo, sicuramente a te sembrerà una capacità inutile, ma io sono felicissima di poterla imparare”, disse Rapunzel, sempre contenta. Niente avrebbe potuto turbarla in quel momento.
“Sì, certo. Io ho una notizia veramente bella invece”, replicò lui, camminando a fianco a fianco con la ragazza e notando soltanto in quel momento che la biondina si dirigeva verso un’unica abitazione che sembrava disabitata.
“Ah sì, e quale?”
“Ho il ritratto della famiglia reale di Corona”, annunciò lui, ma lei non gli prestò sufficiente attenzione.
“Flynn, potresti farmelo vedere dopo? È importante, per me, questo”, disse lei, bussando alla porta, e qualcuno aprì.

 
(Lei è così..)
 
 
“Jack, amico, stai perdendo miseramente”, gli bisbigliò Hiccup, sbaragliando all’ultimo momento una guardia reale e schivandone un’altra, che fu messa prontamente a K.O. dall’altro. Hiccup alzò i suoi occhi verdi sulla figura assai poco principesca di Merida: proprio in quel momento stava lottando con due uomini. Con la mano sinistra alzò lo scudo per difendersi  e contemporaneamente colpì con la spada nella mano destra il nemico davanti a lei.  Era assolutamente..
“Terrificante”, commentò Jack, completando il suo pensiero. “Quella ragazza è terrificante! E dovrebbe essere una principessa!”
“Questo non significa niente”, provò a ribattere Hiccup, girandosi totalmente verso l’amico e abbandonando ogni posizione di attacco o difesa. Jack, al contrario, evitò un attacco da parte di una guardia e quasi cadde a terra, costringendo l’amico ad aiutarlo.
“Attento!”, urlò, forse troppo tardi, vedendo una guardia catapultarsi davanti a lui ma qualcosa glielo impedì. Era stata la bionda glaciale, Astrid, a far scudo ai due ragazzi con la propria ascia, ingaggiando un duro scontro con la guardia.
“Ancora qui siete?”, chiese lei, con un tono irritato. Hiccup e Jack non esitarono un secondo a spostarsi, anche se ancora storditi da quell’intervento tempestivo. Astrid li aveva seriamente coperti? Ovviamente non si sarebbero fatti male per davvero, era solo una simulazione con gente più esperta di loro solo che era lo stesso sbalorditivo.
“Ragazzi, andiamo, ma ci state seriamente provando?”, domandò loro Gobber, camminando fra loro come se stesse facendo una tranquilla passeggiata al mercato, guardando con ammirazione o con delusione i ragazzi dell’addestramento come se fosse al reparto frutta e verdura.
“Sai chi è davvero terrificante? Lei!”, disse il moro, indicando con gli occhi la bionda.
“Intendi l’automa?”, scherzò Jack. “Comunque, a quanto stiamo?”
“Merida ne ha buttati a terra una quindicina, tu soltanto tre.”
Proprio il quel momento Jack colpì con la lancia una guardia che si stava vicinando pericolosamente loro.
“Quattro”, si corresse l’artista.
“Non è giusto! Non posso smetterla di prenderla in giro, lei è così..”
“Terrificante?”
“No!”
“Avevi detto che lo era.”
“Sì, lo era in quel momento, ma lei in realtà è..”
“Impetuosa? Frenetica?”
“Lo è?”, chiese il brunetto, per poi riprendersi. “Fammi parlare, Hic! È buffa e le persone buffe si prendono in giro!”, esclamò, esponendo il suo ragionamento. “E poi sei tu quello che mi sembra..”
“Estatico?”
“Svitato.”
I due ragazzi, dimenticandosi di star facendo una prova, cominciarono a parlare (o meglio, discutere) tra di loro, incuranti delle guardie reali che sfrecciavano verso di loro e anche degli altri compagni, che avevano anche iniziato a lottare tra di loro, e Gobber, infastidito dal comportamento di Hiccup e Jack, si avvicinò ai due per tirarli per le orecchie.
“AHIA, Gobber, fai male”, si lamentò Jack, massaggiandosi l’orecchio.
“Questo è un addestramento serio!”, gridò l’anziano, e alle sue parole tutti si fermarono, sia le guardie che i loro compagni. Hiccup vide di sfuggita la rossa abbassare la spada contro uno dei nobili dell’addestramento, che al contrario alzò lo scudo un po’ più in alto. “La guerra si avvicina e voi perdete tempo a sciorinare tutte le vostre vicende sentimentali come se importasse qualcosa?”
Scioricosa?”, chiese Jack, e Gobber lo guardò pericolosamente.
“Significa, in questo contesto, dire a qualcuno cose per lo più riservate”, spiegò Hiccup, a bassa voce.
“Con disinvoltura e scarso ritegno!”, aggiunse il maestro, sempre a voce alta. “Non abbiamo tempo e voi continuate a perderlo!”
“Ci dispiace, Gobber”, disse Jack.  
“Vi dispiace?”, urlò, la faccia completamente rossa. I gemelli Thorston ridacchiarono, ma la furia di Gobber non risparmiò neanche loro.
“Dovreste essere anche voi dispiaciuti. Prova penosa, da parte di tutti!”
Parecchi si guardarono tra loro, straniti. Hiccup spostò lo sguardo da Gobber ai suoi compagni, focalizzando l’attenzione su suo cugino e Astrid che avevano iniziato ad imprecare sottovoce, e su Merida, che proprio in quel momento teneva distante con la spada quello stesso nobile con il quale prima stava lottando. Hiccup non l’avrebbe definita una prova penosa, visto che quei tre si erano sbarazzati di almeno due terzi delle guardie reali, mentre Aster si era occupato della parte restante.
“Ma Gobber..”, provò infatti a parlare Snotlout, suo cugino, finalmente racimolate tutte le ragioni intelligenti per cui poterlo fare. “Come puoi dire da parte di tutti? Noi non siamo andati male!”
“Dici, Jorgenson?”
Suo cugino annuì, determinato.
“Qualcun altro la pensa come lui?”
Le mani di Astrid, Merida e di quel nobile si alzarono, e Gobber rise beffardo.
“Anche tu, Macintosh?”, chiese, con un sorriso che Hiccup conosceva bene. Stava per iniziare una ramanzina coi fiocchi. L’altro giovane invece, che ignorava il significato di quel gesto, si limitò ad annuire.
“Strano che tu lo dica, perché proprio tu hai sbagliato un’infinità di cose a partire dalla tua assoluta vanità che ti porta a preoccuparti più dei tuoi capelli che del nemico”, qui Gobber fece una pausa, mentre guardava scettico gli altri che ridevano di lui. “E voialtri, vi siete fermati così tante volte, chi a prendere in giro l’altro, chi a parlare, chi ad accusare mal di schiena, che se foste stati sul campo di battaglia con nemici reali sareste stati tutti morti in partenza!”
“Mastro Gobber, ma lei cosa ha sbagliato?”, domandò Snotlout, parlando di Astrid.
 Jack si girò verso il moro. “Certo che tuo cugino è veramente stupido”, commentò sottovoce.
“Hofferson, lei sa rispondere alla domanda di quell’idiota?”
La bionda rimase lì per lì interdetta, spostando una ciocca di capelli dietro un orecchio. “Sono..” cominciò, ma poi si schiarì la gola, parlando con il suo tono caratteristico, ovvero alto e severo “sono stata troppo lenta nel salto laterale, non sono stata veloce nei movimenti, ho perso tempo a coprire Haddock e Overland”, rispose. Jack e Hiccup si guardarono l’un l’altro con uno sguardo che rasentava lo sgomento.
“Sei troppo severa”, commentò l’altra bionda, la gemella Thorston.
Gobber la guardò severamente. “Deve esserlo.”
Merida si avvicinò, la spada in mano, il respiro affannato e le gote rosse per l’entusiasmo .
“Io, invece? Non mi sembra di essere stata lenta.”
Gobber si avvicinò a lei un po’ di più, poggiandole la mano –l’unica rimasta- sulla sua spalla con fare paterno. “Poca tecnica.”
Merida sbatté le ciglia un paio di volte. “Poca tecnica?”, ripeté la rossa, quasi non credendo alle proprie orecchie. “Seriamente, Gobber? Poca tecnica?”
“Già, è stata fantastica”, s’intromise Macintosh. La principessa alzò gli occhi al cielo e Gobber le risparmiò la pena di farla rispondere.
“Non avresti mai potuto fare quelle cose in una guerra vera. Nessuno ha combattuto come se questa situazione fosse stata reale”, spiegò lui. “Stasera addestramento extra.”
“Cosa?”
Tutti si guardarono tra di loro con aria sconvolta, non volendo credere alle parole del vecchio. Solo uno aveva un insolito sorriso tra le labbra, un certo moro con gli occhi verdi, e Gobber se ne accorse.
“Smettila pure di sorridere, caro mio ingegnere di guerra, perché parteciperai.”
 
 
(Il genio)

 
Rapunzel si guardava attorno cercando di individuale qualcosa che le facesse capire che aveva indovinato l’indirizzo e che sì, si trovava nella casa di un medico, ma non ne trovò. I suoi grandi occhi verdi vedevano soltanto stoffa pregiata, di una terra lontana, e tanti altri oggetti così strani che la portarono a domandarsi davvero come fosse capitata lì. L’uomo che le aveva aperto era più scuro di carnagione, con occhi e capelli legati in un codino (e anche il pizzetto) completamente neri, mostrava un sorriso (che spiccava davvero, i suoi denti erano bianchissimi come la neve) cordiale ed era vestito in maniera strana: non aveva alcuna casacca tranne un misero gilet che lasciava in mostra i suoi muscoli e invece dei pantaloni stretti che era abituata a vedere lei ne aveva un paio bianco, morbido. La bionda si girò verso Flynn che aveva smesso di guardarsi stranito (come invece faceva ancora lei) per posare gli occhi su una lampada d’oro, dalla forma allungata, messa in bella mostra sul tavolino davanti a loro.
“Mi scusi, ma lei è il genio?”, chiese Rapunzel, sperando di non apparire troppo indiscreta. L’uomo rise apertamente, facendole l’occhiolino.
“In carne ed ossa. E muscoli. E capelli. E pelle”, rispose lui.
“Avrei una lettera per lei”, disse la bionda, arrossendo leggermente, e porgendogli la lettera di Filottete. L’uomo guardò il sigillo con un’espressione tra il confuso e il meravigliato, guardando nuovamente la ragazza e poi si affrettò a leggere quel pezzo di carta. Lo rilesse più volte, accigliato, accarezzandosi il pizzetto nero. Poi si mosse di scatto, facendo sobbalzare i due giovani.
“Tu chi sei?”, domandò, assottigliando gli occhi riferendosi a Flynn. Questo ricambiò lo sguardo, confuso.
“Flynn Rider”, rispose, aggrottando le sopracciglia.
“Bene, Flynn Rider, te ne puoi andare.”
“Cosa?”, fece lui, girandosi verso Rapunzel che aveva gli occhi verdi spalancati.
“La lettera parla solo della ragazza, non di te. Quindi, te ne puoi andare”, spiegò l’uomo.
“Ma io dovevo parlare con lei”, provò a giustificarsi il giovane, ma quello non glielo permise.
“Lo puoi fare anche dopo.”
Rapunzel gli rivolse un senso di acconsentimento, e Flynn, dopo un breve tentennamento, si alzò e si diresse verso la porta, chiudendola distrattamente.  
“E adesso, cara, parliamo.”

 
(Extra)

 
“Gobber, non posso! Devo terminare..”, provò a ribattere Hiccup, pensando a quale scusa poteva inventarsi. Non avrebbe potuto terminare alcun progetto in quel momento, e il moro sapeva bene che Gobber lo sapeva. Infatti il maestro lo guardava con un’aria di rimprovero in quei suoi occhi chiari come a voler dire avanti, continua, ma intervenne Astrid, prendendolo per la camicia grandissima che indossava, macchiata qua e là da schizzi di colore.
“Senti, noi ci sorbiamo da qualche settimana a questa parte un addestramento extra per gli incapaci come te, e tu ,almeno stavolta, parteciperai. Sono stata chiara?”, ruggì lei, una strana luce in quegli occhi di ghiaccio. Hiccup deglutì sonoramente.
“Cristallina.”
Un mormorio sommesso di risatine si elevò dagli altri, per poi spegnersi dopo uno sguardo della bionda.
Una mano si alzò.
“Gobber, adesso possiamo andare a pranzare?”
A parlare era stato Fishlegs, un ragazzo molto corpulento che Hiccup ricordava vagamente nel periodo della sua infanzia. Ovviamente non aveva un buon ricordo neanche di lui, così come di tutti gli altri amici del cugino.
 “Ovvio che no! Allenatevi”, rispose Gobber urlando.
 
 
(Domani)

 
Rapunzel portò alle labbra quella tazzina così strana, contenente su sua richiesta semplice tè zuccherato. L’uomo di fronte a lei sorseggiò il tuo tè, abbassando poi la tazzina per sorriderle.
“Quindi tu sei la ragazza promettente di Fil”, disse lui, e la ragazza annuì.
“E lei è il genio di cui parla tanto il signor Filottete.”
“Sì, io sono il genio che si chiama Genio. È il mio nome.”
“Oh. Oh. Ho capito”, disse lei, abbozzando un sorriso timido e abbassando gli occhi sul liquido ambrato.
“Quindi vuoi imparare a curare. Perché?”, chiese Genio, guardandola incuriosito.
“Io voglio saper aiutare.”
“Perché aiutare? Per la guerra che Fil accenna?”
Rapunzel annuì, grave.
“E perché fermarsi ad aiutare? Perché non scappare via?”
La ragazza spalancò gli occhi verdi. “Non può dire questo! Molti miei amici combatteranno in questa guerra?”
“E quindi?”
“E quindi io non intendo scappare. Non intendo lasciarli da soli.”
“Sei sicura che saranno soli loro e non tu?”
“Non lo faccio per me stessa, se è questo che sta insinuando.”
”E allora per chi?”
“Lo faccio per chi non sa lottare e per chi non vuole scappare . Lo faccio per chi si sente un peso. Lo faccio non solo per essere utile a me stessa o ai miei amici, ma per tutti gli altri”, rispose Rapunzel, gli occhi lucidi e la voce tremante in procinto di piangere. Genio la guardò seriamente, senza fare nessuna smorfia o sorriso. Sempre seriamente, pose la tazzina sul tavolo, e riverso i suoi occhi neri su quelli verdi della bionda.
“Da domani ti insegnerò a curare allora. Per loro.”

 
(Lupo contro Fenice)

 
Parecchi si guardarono tra di loro, cercando di scegliersi il compagno per allenarsi. Forse anche per questo Hiccup ci rimase male quando la sua compagna abituale, Merida, si avvicinò ad Astrid chiedendole di potersi allenare con lei, e aveva costretto lui ad avere come compagno proprio Fishlegs che era pure peggio di lui. La bionda aveva sgranato leggermente gli occhi, chiedendole se ne fosse sicura, e dopo il cenno affermativo della principessa, avevano iniziato a combattere. Era palpabile all’inizio quanto la ragazza con la treccia cercasse di trattenersi, ma dopo un paio di colpi ben assestati dalla rossa –uno dei quali la fece pure quasi cadere a terra- decise di darci dentro anche lei. Quasi tutti dopo un poco smisero di allenarsi per guardarle, perché quello era un combattimento a dir poco magnifico. Gobber non li rimproverò nemmeno, troppo impegnato anche lui a guardarle. Si fermarono un secondo, leggermente affannate. La bionda buttò a terra lo scudo, lusso che la rossa non poteva permettersi con l’arma dell’avversaria. Merida roteò la spada, ringraziando mentalmente Hiccup per quell’arma così equilibrata e leggera ma ugualmente efficace,  e con lo scudo in mano, andò incontro ad Astrid. La bionda cercava di individuare quale potesse essere il punto debole della principessa, ma questa sembrava non averli, tantoché continuava ad attaccarla, arrivando anche –non proprio volontariamente- a sfiorarle il braccio sinistro con la punta della spada.
Hiccup le guardò attentamente, non potendo non notare quanto i due stili diversi delle ragazze, si somigliassero. Detto così poteva sembrare contraddittorio, ma non lo era. Erano entrambe aggressive, ma mentre quello di Astrid sembrava più rude per l’ascia, rendendo i suoi movimenti meno aggraziati, quello di Merida era perfettamente equilibrato, come se fosse una danza continua, come se non avvertisse la pesantezza dell’arma o dello scudo, o della stanchezza del combattimento. Agli occhi del moro non era stata più regale se non in quel momento.
Jack si avvicinò a lui, sfiorandogli il braccio.
“Sembra quasi di vedere un combattimento tra animali”, commentò Jack, non potendo distogliere lo sguardo. Hiccup non poté che trovarsi d’accordo: sembrava di vedere lottare tra loro un lupo bianco e la fenice, braccandosi senza mai colpirsi per davvero.
Poi accadde qualcosa: Astrid si fermò più di qualche secondo per la pesantezza dell’arma, e Merida si girò raggiante sorridendo in direzione di Hiccup, che ricambiò con un sorriso timido. Fu questione di un attimo, e nulla di più. La rossa notò gli occhi verdi del moro cambiare in una frazione di secondo, da felici a preoccupati e poi sentì il dolore, e chiuse gli occhi. Fu questione di un attimo, e nulla di più.



Scusate se non ho aggiornato la settimana scorsa, sono stata davvero impegnata tra compiti e interrogazioni e le idee per la tesina e gli Oscar -sì, perché me li sono visti- e poi ho avuto davvero un sacco di impegni e sono così stanca che non vedo l'ora che arrivi il mese di agosto ogni santo giorno. Poi da me piove da quello che mi sembra un'intera era e invece è solo da un mese che piove ogni giorno e tutto ciò mi sta facendo deprimere perché amo le nuvole e il sole e il vento e non vedo l'ora che smetta di piovere. Scusate anche per lo sfogo. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, ci vediamo alla prossima volta!
gingersnapped

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Capitolo 9
*** Circostanze inaspettate, forse fin troppo ***





Circostanze inaspettate, forse fin troppo


 
 
Era come se si fosse fermato il tempo, solo per poco, poi tutto riprese con un ritmo incalzante. Tutti rimasero fermi, gli occhi sbarrati dall’angoscia o dalla sorpresa, le pupille dilatate, la bocca semiaperta. Era come se fossero spettatori di uno scenario orribile e al contempo eccitante. Fu questione di un attimo, e nulla di più. La principessa si era distratta, credeva di aver vinto e si era girata per condividere la sua vittoria con quell’artista con cui nell’arco di mesi aveva costruito un bel rapporto, uno dei pochi amici che aveva, ma aveva sottovalutato l’avversaria. E proprio lei ne aveva approfittato, colpendo con tutta la forza che le era rimasta lo scudo della rossa, rompendolo in due con la sua ascia. L’impatto fu troppo forte. La rossa cadde a terra, chiudendo gli occhi per il dolore all’addome mentre sul volto della bionda un piccolo sorriso dettato dall’euforia del momento spuntò, ma nessun altro lo condivise. Ognuno rimase fermo.
“Merida!”, urlò Gobber, il primo a riprendersi da quello stato catatonico. Alcuni si mobilitarono, non facendo nulla di concreto. Jack iniziò a scuotere Hiccup per le spalle, ma questo sembrava non accorgersi di nulla. In quel frangente colmo di voci concitate Hiccup sentiva solo il respiro affannoso e il suono della gamba di legno di Gobber contro il pavimento di dura pietra, ma anche questi suoni si fermarono. La ragazza in questione, con la mano destra che teneva la spada e l’altra poggiata sull’addome, si era (faticosamente) alzata, assumendo una posizione di attacco. Astrid rimase interdetta, una piccola ruga di preoccupazione sopra le sue sopracciglia, e Hiccup, in quell’esatto momento, riprese a respirare. Jack accanto a lui tirò un profondo sospiro di sollievo.
“Ti sei fatta male?”, chiese la bionda, ansiosa, ma la principessa scosse la testa, con l’ombra di un sorriso.
“La finiamo qui?”
“Sì, la finiamo qui”, rispose Merida, attaccando l’avversaria con mosse così veloci che la ragazza con la treccia, non riuscendo a schivarle tutte, cadde all’indietro, lasciando andare l’arma. Gobber andò loro incontro, porgendo alla principessa la mano buona su cui appoggiarsi, ma lei la rifiutò, aiutando invece Astrid ad alzarsi.
“È stato un bel combattimento”, si congratulò con la ragazza, i cui occhi azzurri erano rimasti spalancati.
“Sei molto brava”, disse Astrid, il respiro veloce.
“Sicura che non vuoi farti vedere da un medico?”, domandò Gobber, e la principessa prima di rispondere guardò in alto, verso gli spalti solitamente vuoti. Hiccup seguì il suo sguardo e si accorse che quella volta molte persone erano presenti, tra le quali suo padre in quanto comandante delle guardie, e i sovrani. Il padre di Merida sembrava avere una strana espressione orgogliosa, con un sorriso soddisfatto e gli occhi che brillavano: la madre, al contrario, era visibilmente scossa e preoccupata, e anche arrabbiata.
“Sicurissima, Gobber”, rispose lei, girandosi.
“Allora ricominciamo.”


 
(Fuori)


 
“Finalmente!”, esclamò seccato Flynn Rider, appena la bionda uscì da quella casa tanto strana. Era rimasto ad aspettarla per più di due ore, un gesto che non aveva rivolto mai a nessuna ragazza –né aveva intenzione di ripeterlo. Rapunzel lo guardò con quei suoi occhi verdi, visibilmente emozionata, e questo lo costrinse ad evitare di apparire troppo infastidito. Ancora non riusciva a capire perché su di lui quella ragazza esercitasse tanto potere, ma solo in seguito capì che sortiva questo effetto a chiunque si trovasse accanto a lei. Man mano che la ragazza si avvicinava, il giovane uomo poteva accorgersi del suo sorriso che lentamente spariva, mentre un pensiero si faceva largo tra gli altri.
“Sei rimasto tutto questo tempo ad aspettarmi?”, chiese, profondamente colpita da quel gesto, e Flynn non poté far altro che sorridere.
“Certo!”, rispose, “Dovevo dirti una cosa importantissima.”
La ragazza si posizionò alla sua sinistra, ed insieme iniziarono ad incamminarsi tra le vie più abitate della città.
“Di cosa dovevi parlarmi?”, gli domandò, non cercando più di dissimulare il fatto che fosse curiosa.
“Ti ricordi quando ci siamo conosciuti e ti ho detto che eri identica alla sovrana di Corona? Beh, ho le prove che sei identica.”
Rapunzel lo guardò scettica, ricordando le parole di Jack su quanto Flynn fosse assolutamente un poco di buono, ma dovette ricredersi quando questi ,sotto ai suoi occhi, srotolò una pergamena che sembrava uscita dallo studio di Hiccup, tanto era disegnata bene. Ad un’occhiata superficiale, la figura ritratta era proprio lei, non lasciava spazio a nessun dubbio, solo che non aveva i lunghi capelli dorati ma più corti, castani, e qualche ruga di espressione. Accanto a se stessa, era rappresentato un uomo più anziano, basso, biondo, con una barbetta ispida. Rapunzel osservò meravigliata quella pergamena: era un invito al ballo che si sarebbe tenuto quella estate, e ovunque sul manifesto vi era il simbolo del regno di Corona, un sole, così come simbolo di Dunbroch era la spada su dei fili intrecciati. Una volta Merida le aveva detto distrattamente che quei fili rappresentassero delle virtù, ma in quel momento non ne era tanto sicura. Anzi, in quel momento Rapunzel era a dir poco sconvolta.
Flynn, d’altro canto, rimase stupito da quella reazione. Si aspettava che urlasse o qualcosa del genere, ma la bionda rimase in silenzio, i grandi occhi verdi intenti a osservare quel manifesto.
“Se vuoi ti ci posso portare questa estate”, disse Flynn, inteso a rompere quel perforante silenzio. La giovane si illuminò.
“Davvero? Sarebbe fantastico! Io non sono mai uscita oltre i confini di Dunbroch, quindi sarebbe un’esperienza assolutamente nuova!”, esclamò, ma dopo abbassò lo sguardo. “Però non so se potrò.”
Flynn la guardò, quasi irritato. “Non sai cosa ho dovuto fare per procurarmi questo invito al ballo!”, disse imbronciandosi.
“Lo so”, annuì lei, accarezzandogli il braccio “ma sai, la guerra..”
Il giovane rimase in silenzio, abbassando gli occhi a terra e Rapunzel fece altrettanto, mordendosi il labbro inferiore per il solo pensiero. Non sapeva neanche se sarebbero entrati in guerra, Merida le aveva detto che non c’erano state trattative ma la tensione era palpabile nell’aria. E lei aveva intenzione di esserci.
 
 

(Quella stessa sera)



“Merida, apri la porta”, disse Elinor, cercando di aprire la porta della camera della ragazza che era chiusa da dentro. Dall’altra parte della porta la rossa sospirò, abbassando gli occhi a terra.
“Merida”, la richiamò la madre con tono di rimprovero, immaginando la tipica espressione scocciata della figlia. Poco dopo Merida aprì la porta.
“Che c’è?”, chiese lei, prevedibilmente non entusiasta di vedere la donna. Questa entrò, osservando con aria di dissenso i vestiti che aveva indossato quel giorno all’addestramento.
“Non posso vedere come sta mia figlia?”, domandò lei innocentemente, lisciandosi  la gonna dell’abito e sedendosi sul letto della figlia.
“Mi hai visto, adesso te ne puoi andare”, disse la rossa, lasciando la porta aperta. Elinor alzò il sopracciglio castano scetticamente, posando i suoi occhi nocciola su un altro angolo della stanza, nel quale teneva il suo arco, le frecce, la spada e lo scudo rotto dall’altra ragazza.
“È stato un brutto colpo?”
“Cosa?”, chiese la figlia spaesata, rassegnatasi dalla presenza della madre.
“Quando ti si è rotto lo scudo e sei caduta.. Stai bene?”
“Sì, sto benissimo. Non è stato così forte, l’impatto”, cercò allora di rasserenare la madre, che si mostrava però ancora preoccupata. “Mamma?”, la richiamò Merida, e proprio in quel momento la donna assunse l’espressione regale che la caratterizzava.
“Ti voglio raccontare una storia”, disse Elinor, alzandosi e cominciando a vagare per la stanza della figlia, mettendo in ordine ciò che era fuori posto. “La storia di come tuo padre diventò re di Dunbroch.”
“Oh, no”, si lamentò la rossa, buttandosi sul letto. “La leggenda di Mor’du!”
“Non è una leggenda!”, esclamò la madre, incrociando le braccia, e Merida la guardò alzando il suo sopracciglio ramato.
E poi dal nulla apparve l’orso più grande che si sia mai visto! Il suo manto portava il segno delle armi di guerrieri caduti, il volto spregiato e privo di un occhio. Sguainò la spada e wash! iniziò a recitare la figlia imitando la voce profonda del padre, interrompendosi per fingere il suono della spada “con una zampata l’orso la frantumò. Poi wap! La gamba di netto gli staccò e giù per la gola del mostro andò.”
La madre non trattenne un sorriso per la pessima imitazione della figlia. “E sai pure come si conclude la storia?”
“Mor’du non è più stato rivisto da allora e si aggira per le lande selvagge in attesa dell’occasione per vendicarsi”, rispose Merida, imitando stavolta lo stile cancelleresco della madre.
“Le leggende sono insegnamenti, in esse vi è la verità”, disse Elinor, ritornando seria. “Specialmente in questa che è vera.”
“Che intendi, mamma?”
“Hai ragione, l’orso Mor’du è soltanto una leggenda che tuo padre si è inventato per giustificare la perdita della sua gamba quando eri piccola, ma Mor’du esiste veramente.”
“Mamma, non riesco a seguirti.”
“Mi seguiresti se avessi studiato la storia delle altre potenze invece di fare l’addestramento!”
La giovane rossa alzò gli occhi acquamarina al soffitto, non potendo evitare di ribattere alla madre.
“Almeno faccio qualcosa di utile! Stiamo per entrare in guerra!”
La donna si fermò, guardando la figlia con aria seria. “Non dovresti saperlo. Nessuno dovrebbe saperlo.”
“Lo sappiamo tutti, ormai. Solo non so con chi e perché”, rispose Merida, sospirando tristemente.
Elinor poggiò una mano sopra quelle della figlia, e posò lo sguardo altrove.
“Lascia che ti racconti questa storia, la vera storia.”


 
(Mi prendi in giro?)


 
Silenzio, era proprio quello che Hiccup cercava disperatamente da tempo, e che non riusciva mai a trovare. L’allenamento con Gobber era finito, gli operai stavano lavorando, il re era contento dei suoi progressi, e la principessa quel giorno non sarebbe venuta per la solita lezione di tiro con l’arco o con la spada. Finalmente aveva ritrovato il silenzio che tanto agognava in quell’ultimo periodo, e un po’ di tempo per se stesso. Fece due passi verso il letto, con l’intenzione di riposarsi serenamente, ma qualcosa lo spinse a far cadere gli occhi verde foresta sul tavolo da lavoro, dove ancora c’erano gli schizzi che aveva usato per la famiglia reale. Il disegno di Merida stava sopra agli altri, e quasi con nostalgia pensava al motivo. Tutta colpa del suo vitalismo, e del voler andare sempre contro la madre. Hiccup sorrise, prendendo tutti gli schizzi e riponendoli dentro uno scrigno dove c’erano tutti gli altri disegni, escluso quello della rossa. Gli mancava la sua vita. Non che quella non gli piacesse: riceveva molti più soldi, il re in persona si congratulava con lui, e le sue invenzioni stavano diventando realtà finalmente, non più relegate a semplici utopie, però in cuor suo gli mancava qualcosa. Forse più di una. Stava per fare andare a letto nuovamente quando un rumore lo incuriosì. Proveniva dalla stanza accanto. Il moro si alzò, e aprì la porta, aguzzando lo sguardo, ma non c’era nessuno. Chiuse la porta, stranito, ma non dando poi così tanto peso alla cosa, si volse in direzione del letto. Proprio in quel momento, sentì quello stesso rumore provenire dalla porta che dava sulla strada. Hiccup, quindi, si diresse verso l’altra porta ma nuovamente non c’era nessuno. Il giovane si strinse le spalle, sdraiandosi finalmente nel tanto desiderato letto. Non arrivò neanche a poggiare la testa sul cuscino che il rumore si ripresentò alla finestra.
“Oh, ma andiamo!”, imprecò il ragazzo, aprendo anche la finestra. Questa volta, qualcuno o meglio, qualcosa si manifestò a lui in tutta la sua bellezza.
“Wow”, sussurrò, mentre un magnifico uccello si accomodò sopra il tavolo da lavoro, guardando incuriosito il disegno di Merida. Abbandonata ormai l’idea di dormire e di recuperare il sonno perduto, Hiccup tese una mano verso il volatile, ma questo, rivolgendogli uno sguardo severo, si ritrasse.
“E tu che cosa sei?”

 
(Perché)


 
“Tutto accadde diciassette anni fa”, incominciò la madre, spostando lo sguardo sul camino. “Sai, me lo ricordo con estrema precisione. Eri nata da pochi giorni, e non eri certo piccolissima come mi avevano detto tutti..”
“Mamma!”, la interruppe Merida, sbarrando gli occhi.
“Ad ogni modo, alla tua nascita il regno era in ginocchio. Drachma era in contrasto con Dunbroch per ragioni che qualunque persona definirebbe futili.”
“Quali?”
“Brama di grandi onori, sete di potere, e un vecchio dissapore con tuo padre.”
Merida attese che sua madre parlò, ma visto che sembrava immersa nei ricordi ne approfittò per chiederle dei chiarimenti.
“E questi sono dei motivi necessari per andare in guerra?”
“No, non sono necessari, però sono sufficienti. Tuo padre ovviamente tentò di difendere il regno contro questi invasori. Erano tre fratelli: il primo, forte più di quanto la mente umana possa immaginare, Mor’du, il secondo, perfido e diabolico oltre l’umana ragione, Pitch, il terzo sembrava essere un’ottima sintesi dei due, Bludvist. Non avevano diviso il regno in tre, no, regnavano contemporaneamente ed erano uniti dall’ambizione di conquista.”
“Hai detto che avevano un contrasto con papà, qual era?”
“Allora mi ascolti!”, commentò sorpresa Elinor, facendo sbuffare la figlia. “Devi sapere che tuo padre, anche se è nato a Dunbroch, non è cresciuto qua, ma a Drachma.”
“Cosa?!”, esclamò la rossa. La sovrana annuì.
“Suo padre non era quello che noi definiremmo un sovrano eccellente, e stava per cedere il regno alla forza dominante, ma aveva degli abili consiglieri, che riuscirono a sancire un accordo: Dunbroch avrebbe pagato un pegno. E questo pegno consisteva in esercito e oro. L’oro fu dato via immediatamente, l’esercito invece bisognava formarlo. Vennero addestrati molti bambini, dall’età di tredici anni fino ai venti e tuo padre, che in quel momento aveva quattordici anni, in quanto figlio del re, doveva essere un exemplum per il popolo.”
“E quindi acconsentì ad andare a Drachma per fare un addestramento? E poi come ritornò qui?”
“In quanto principe, fu trattato meglio rispetto agli altri ragazzi, anzi: da Mor’du, Bludvist e Pitch fu trattato come un vero fratello.”
“Finché?”, domandò Merida, esortando la madre ad andare avanti.
“Come finché?”
“C’è sempre un finché. Qual è il ‘finché’ di questa storia?”
Elinor sospirò. “Finché a tuo padre non venne insegnato come impugnare una spada. Non era affatto bravo come lo sei tu adesso, era veramente maldestro, e ogni giorno si allenava con i suoi fratellastri. Un giorno impugnò male la spada e colpì Mor’du all’occhio sinistro, privandolo della vista. Quel giorno tuo padre fu rispedito qui immediatamente, e gli anni successivi furono relativamente tranquilli. Ci conoscemmo”, disse lei, fermandosi per sorridere, “morì il sovrano precedente, ci sposammo, e alla notizia del matrimonio, l’ira si risvegliò nei sovrani di Drachma, che vollero a tutti i costi frantumare ciò che avevamo costruito di buono io e tuo padre. Sai, volevano frantumare anche te. Eravamo una sera in tenda io, te e tuo padre, ed eravamo entrambi chini su di te, quando tu urlasti all’improvviso. Tuo padre fece in tempo a spostarmi, ma non fu altrettanto veloce per se stesso. Mor’du l’aveva privato della gamba sinistra.”
“Ma è orribile!”, commentò Merida, gli occhi acquamarina sconvolti. “Era stato un incidente, quello di papà.”
“Fortunatamente gli costò solo la gamba e non la vita.”
La ragazza si bloccò, annuendo poi lentamente. “E perché tornare adesso?”
“Forse perché pensano di poter frantumare anche quest’ultima cosa buona che stiamo facendo adesso.”
“E cioè? Il ritratto di Hiccup?”, chiese la rossa, facendo ridere la madre.
“Come sei ingenua! Ovvio che no”, rispose lei, “Dunbroch deve unirsi con un altro regno.”
“E come?”
“Tramite il tuo matrimonio.”
E lì Merida si bloccò, non facendo caso al fatto che non respirava più.


 
(Falco)


 
“E lui che cosa sarebbe?”, chiese Jack, l’indomani mattina, davanti all’uccello, mentre Hiccup sbadigliava sonoramente. Era giorno da appena pochi minuti, e Hiccup era seduto davanti il suo tavolo da lavoro con almeno cinque libri aperti. Prima di rispondere il suo sguardo cadde sul letto, ancora intatto, e sul volatile.
“È un falco biarmicus lanarius”, rispose il moro.
“Che?”
“È un falco bianco!”
“Fin qui c’ero arrivato da solo”, commentò il brunetto, cercando di accarezzare il falco con scarso successo. “Ma perché hai un falco?”
“È entrato da solo.”
“E perché è entrato da solo?”
“Chiediglielo a lui”, borbottò il ragazzo, sarcastico.
“Immagino che hai lasciato di nuovo la cena sul davanzale ed è entrato”, disse Jack, sorridendo.
“Passo dai piccioni ai falchi quindi?”
“Andiamo Hic, parli come se non avessi mai visto un falco! Qua a Dunbroch ce ne sono un sacco, assieme alle aquile.”
“Sai, l’ultima volta che ne ho visto uno..”
“Scommetto che eri con Merida a fare uno dei vostri allenamenti”, concluse lui, facendo arrossire Hiccup fino alla punta dei capelli.
“No, con Merida però.. Insomma, non è questo il punto. Il falco bianco si trova molto più a nord di qua, l’ultima volta che ne ho visto uno è stato quando se n’è andata mia madre.”
Jack rimase interdetto, guardando l’amico. “Ma è successo quando avevi poco meno di un anno.”
Hiccup ricambiò lo sguardo al brunetto, abbassando poi gli occhi verdi al pavimento appena sentì le guance bruciargli. “Lo sai, ho un’ottima memoria. Ed è l’unico ricordo che ho di lei.”
Jack rivolse totale attenzione all’amico, lasciando stare il falco che si stava infastidendo cercando di beccarlo, e allontanandosi dal tavolo da lavoro. Iniziò, come faceva sempre quando cercava di pensare, a camminare avanti e indietro, mentre Hiccup lo guardava leggermente seccato.
“Quindi”, esordì, camminando più velocemente “hai visto questo falco bianco diciassette anni fa e..”
“Dubito fortemente che sia lo stesso falco di diciassette anni fa”, lo interruppe il moro ma Jack era fermamente convinto di quello che stava elaborando.
“..adesso lo vedi. Sembra quasi un segno, non credi?”
Hiccup lo guardò dubbioso, prima di scoppiare a ridere, e Jack si risedette accanto a lui. Entrambi rimasero in silenzio, ad ammirare il magnifico falco, quando al brunetto venne in mente l’idea di ricominciare ad accarezzare il falco, che si mostrava infastidito dalla sua presenza.
“Attento Jack”, lo avvisò Hiccup, intuendo cosa sembrasse provare il volatile.
“Attento a cosa? Pensi che possa mordermi per caso? Ma se è pure sdentato!”, esclamò Jack, prendendo in giro l’amico, come faceva sempre quando questi si comportava come una madre apprensiva, quando proprio in quel momento il falco lo beccò sulla mano, facendogli uscire pure del sangue. Hiccup ridacchiò e Jack guardò l’uccello come se l’avesse tradito.
“Stupido uccello!”, imprecò il brunetto, alzandosi per cercare un panno con cui tamponare la ferita.
“Io penso sia intelligente invece”, commentò Hiccup, non perdendo il sorriso. “E ho pure un nome per lui: Toothless!”
“Mi prendi in giro?”, chiese Jack.
“Non sai quanto”, rispose l’altro.
 

 
 (Il Sole sorge per tutti)


 
“Io voglio imparare tutto il più presto possibile”, disse Rapunzel con un tono di voce squillante, presentandosi davanti casa del Genio.
“Buongiorno anche a te, signorina”, la salutò questo, bevendo da una tazza del the. Indossava ancora quei pantaloni strani in panno bianco.
“Buongiorno signor Genio, e mi scusi, ma ho fretta. Avverto una certa tensione nell’aria e tutto ciò non mi piace”, si confidò, entrando nella casa.
“Lo so, l’avverto anch’io”, ribadì l’uomo, avvicinandosi alla libreria dove sceglieva accuratamente dei grossi tomi dagli scaffali.
“Non abbiamo molto tempo, vero?”
L’uomo si fermò, guardando attentamente la ragazza in quei suoi occhi verdi. Non disse niente, si limitò a scuotere leggermente la testa, e riprese la tua attività di scelta dei testi.
“Fin a quando?”
“Questi dovresti chiederlo alla tua amica principessa.”
“Come fa a sapere che la principessa è mia amica?”, chiese Rapunzel, toccandosi i capelli biondi come faceva sempre, quando era nervosa.
“Non lo sapevo, ma adesso lo so”, rispose il Genio, sorridendo. “Inizia da questi” aggiunse poi, poggiandole accanto almeno una decina di tomi, pesanti e pieni di polvere.
Rapunzel emise un gemito lamentoso, e il Genio ne approfittò per rimproverlarla.
“Tutto il più presto possibile, mi raccomando!”


 
(-)


 
“Lo terrai?”, chiese Jack, capendo che quel volatile si faceva toccare solo da Hiccup, che lo accarezzava adesso tranquillamente.
“Solo se lui vorrà restare”, rispose il moro, abbozzando un sorriso al falco.
“Sembra che tu stia parlando di una persona, non di un animale.”
“Beh, gli animali e le persone non sono poi così diversi.”

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Capitolo 10
*** Notizie inaspettate e strane apparizioni ***





Notizie inaspettate e strane apparizioni
 

 
Merida Dunbroch era una principessa singolare, almeno così pensava Maudie. Aveva visto altre principesse prima di allora, di terre diverse, e l’anziana signora avrebbe potuto giurare sugli antichi dei che le altre seguivano un preciso protocollo che sembrava alla base del loro futuro di regine. Merida Dunbroch era invece diversa.
Negli anni della sua esperienza, Maudie aveva ben presto imparato a comprendere al volo con chi aveva a che fare, e aveva educato la sua unica figlia, di non molto più grande della rossa, a fare altrettanto, ma dopo tutti questi anni, non riusciva a capire chi fosse la principessa di Dunbroch. Già le sembrava strano chiamarla principessa: se la mattina non avesse bussato ripetutamente alla porta della sua camera, certe volte accompagnando il gesto con le urla, non si sarebbe svegliata. Altre mattine invece la ritrovava accovacciata davanti al camino della sala più grande del castello a riscaldarsi, oppure era fuori da sola, cosa che certamente le altre principesse non facevano. Certi giorni non mangiava quasi nulla se non una misera mela, altri giorni si abbuffava come se sentisse i morsi della fame da settimane intere. Preferiva gli abiti dei popolani ai suoi, tessuti con la seta più pregiata, e se li faceva passare sotto banco proprio da sua figlia. Non si pettinava mai i capelli, preferiva lasciarli sciolti, e non era assolutamente attenta al linguaggio che invece avrebbe dovuto adoperare. Per Maudie, Merida Dunbroch non sembrava una principessa, e credeva che se avesse potuto, ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma riconosceva in lei caratteristiche indispensabili per governare un regno, qualità che le altre principesse con il loro galateo non avevano di certo.
Merida Dunbroch era una principessa singolare, che non voleva diventare una semplice consorte del marito, almeno così pensava Maudie. Merida Dunbroch era una principessa che non aspettava altro di diventare Regina.

 
(È così che si fa)



“Il mio matrimonio?”, chiese la rossa, appena riprese a respirare. Non era semplicemente arrabbiata: un misto di incredulità e spavento le fece sobbalzare lo stomaco e sentire una stretta al cuore. Fece un altro respiro veloce, sperando di aver frainteso ciò che le avesse detto la madre, anche se c’erano pochi fraintendimenti. Di lì a poco avrebbe compiuto la maggiore età. Di lì a poco in qualità di principessa avrebbe dovuto sposarsi. Di lì a poco avrebbe dovuto rinunciare alla sua vita. E lei odiava decisamente questi suoi doveri. La madre non le rispose, continuandola  a guardarla con quegli occhi sgranati, così duri e severi in grado di pietrificare il più impetuoso degli uomini ma non la figlia, le labbra così disinvoltamente serrate in una linea praticamente sottile. La rossa si alzò, incapace di stare ferma.
“Perché?”, continuò, con un tono accusatorio.
“Lo sai il perché”, disse la madre. “È così che si fa.”
“Anche se è così che si fa non vuol dire che si debba fare!”, esclamò la ragazza. Elinor per qualche secondo rimase interdetta, poi anche questa espressione si sgretolò per ritornare la fredda sovrana.
“Sei una principessa, devi anteporre il bene del tuo regno.”
“È così ingiusto!”
 La madre si alzò, ergendosi in tutta la sua figura, e Merida quasi non la riconobbe. Tutto quello che concerneva il suo aspetto, come i capelli castani tirati –e intrecciati in un’acconciatura complicata- accuratamente via dal viso, rotondo esattamente come il suo, o le lunghe ed ampie vesti preziose che indossava, denotava una persona che non ammetteva sciocchezze. E per Elinor, la maggior parte di quello che diceva la figlia erano sciocchezze. L’unica cosa che doveva fare era comportarsi da principessa e Merida non riusciva proprio ad adattarsi a quella vita. Sua figlia era libera, e voleva rimanere tale.
Elinor amava la figlia, ed era senza dubbio un’ottima sovrana, ma in quel momento avrebbe desiderato tanto non esserlo.
“Merida!”, la rimproverò, girandosi verso la porta prima che la figlia potesse vedere un’ombra di vacillamento nei suoi occhi. “È un matrimonio, non la fine del mondo.”
Fu un bene che uscì dalla stanza senza girarsi, perché il solo suono della grande porta di legno della camera della figlia sbattuta violentemente le fece perdere un battito.

 
(Strane manifestazioni di amicizia)



Jack si stiracchiò, cercando di destarsi da quello stato di noia, e si volse a guardare l’amico. Non avevano dormito (Hiccup non aveva dormito; lui più volte aveva sonnecchiato nell’arco di quella giornata) per provare ad approcciarsi con quel falco, inutilmente: a parte farsi accarezzare di tanto in tanto dal giovane artista (infatti l’aveva pure beccato, causandogli una cicatrice non molto dissimile da quella sua), non era disposto a collaborare. E così Jack aveva visto Hiccup dare al falco ogni tipo di carne che avesse in casa, accarezzarlo, provare a zittirlo senza alcun risultato. E perché Jack non se n’era andato? Semplicemente per fare la parte del buon amico, e poi perché il brunetto era fermamente convinto che questo servisse a rendere Hiccup meno pazzo.
“Hic, non puoi aprire la finestra e farlo volare via?”, chiese Jack, sbadigliando apertamente.
“La finestra è già aperta. Mi sembra chiaro che non se ne voglia andare”, rispose Hiccup senza prestare molta attenzione all’amico, mentre provava a dare del pollo crudo al falco.
“Dici? Secondo me è perché non sa dov’è la finestra!”, esclamò l’amico, alzandosi per aprirla maggiormente.
“E se provassi a cucinarlo?”, domandò Hic, rizzandosi improvvisamente. Il falco, a quel movimento brusco, ricominciò a stridere.
“Hic, secondo te i falchi in natura mangiano carne cotta?”
“Cosa ne posso sapere io?”
Jack alzò gli occhi al cielo, facendo un enorme sospiro. “E poi dicono che sei più intelligente di me.”
“Sento di essere ad un passo dalla soluzione!”
“Pure il falco è stupito da tanta imbecillità.”
“Secondo me continua a stridere per la tua presenza”, disse Hiccup. Al che Jack si alzò, le mani in aria, in segno di resa, e si diresse verso l’uscita. Dopo aver fatto un segno con la mano all’amico e al volatile, uscì dalla porta, desideroso di dormire pesantemente, però rimase per un altro po’. Poi si affacciò dalla finestra e prima di correre al suo rifugio disse “Vedi che continua a stridere nonostante me ne sia andato?”

 
(Nel bosco)



Dopo aver preso Angus, il suo primo vero amico, la rossa era volata letteralmente verso il bosco, insofferente al vento freddo che si stagliava contro il viso e che la faceva tremare, lasciandosi in preda ad un pianto liberatorio. Cercava di non pensare a ciò che era successo, a ciò che sarebbe successo in un futuro non molto lontano, forse immediato conoscendo la madre. E mentre gli alberi sfrecciavano accanto a lei, presentandosi come macchie indistinte, Merida non poteva far altro che chiedersi chi avrebbe mai dovuto sposare, di chi avrebbe dovuto tenere i segreti e da chi sarebbe stata tradita con la prostituta di turno. Le sembrava così strano, eppure sapeva bene che non avrebbe dovuto essere così. Sua madre le parlava di matrimonio da sempre, a memoria della ragazza, ricordandole ogni volta quanto fosse fortunata a ricevere quella educazione che lei non aveva mai ricevuto ma Merida sembrava indifferente verso tutti gli sfarzi della corte. Le sembrava di essere in gabbia, prigioniera di un mondo che si aspettava che lei lo governasse, sottoponendosi al tempo stesso alle sue leggi. Non aveva pensato a cosa avrebbe fatto, e neanche dove sarebbe andata, almeno finché Angus non si bloccò improvvisamente facendola cadere.
“Angus!”, urlò lei, rimproverando il suo cavallo, quando si accorse che questo sembrava spaventato da qualcosa che stava davanti a lei, e di cui la giovane non si era neanche accorta. Merida si guardò attorno, toccandosi per istinto la spalla dove credeva che ci fossero le frecce, ma non si era portata la faretra e neanche l’arco, e si alzò da terra. Era finita nel vecchio cimitero. Fece qualche passo in avanti, cauto, fermandosi a guardare le enormi pietre disposte in un cerchio perfetto. Non si era accorta che prima ci fosse così tanta nebbia, che adesso non le permetteva neanche di vedere dove stava mettendo i piedi. Sobbalzò, quando si sentì sprofondare: fortunatamente per lei, era solo un acquitrino. Poi sentì un rumore.
“Angus!”, lo richiamò lei, a bassa voce, ma il cavallo si ostinava a rimanere fuori dal cimitero, costringendola ad armarsi di tutto il suo coraggio e a prendere un ramo secco da terra. E così, cercando di ignorare quel sentimento di paura che stava per pietrificarla, andò in direzione del rumore.

 
(Padri)



“Questo è troppo!”, esclamò il re, colpendo il possente tavolo di legno con un pugno. Dal lato opposto della tavola, anche il volto di Stoick si scurì. Un altro attacco alle guardie. L’ennesimo omicidio a qualcuno di Dunbroch, e chi lo stava facendo, non sembrava avesse alcuna intenzione di smettere.
“Fergus, dobbiamo fare qualcosa”, disse il comandante delle guardie, cercando di nascondere le mani che tremavano dalla rabbia. Gobber, che era presente, sobbalzò.
“Ma io non ho finito!”
“Non c’è tempo per finire”, disse il sovrano, alzandosi.
“Deve esserci. Tua figlia volteggia con la spada ancora convinta di essere imbattibile, e tuo figlio”, qui Gobber si girò in direzione di Stoick “si sta sorprendentemente rivelando meno incapace degli altri. Se non volete rimandare per gli altri, fatelo almeno per i vostri figli.”
Fergus abbassò lo sguardo, e si lasciò cadere sul trono, mentre Stoick rimase impassibile. Gobber sapeva bene che in realtà, sotto quello spesso strato di muscoli, il suo cuore si stava gonfiando di orgoglio per il figlio, ma sapeva anche che non l’avrebbe mai ammesso.
“Non possiamo aspettare”, sospirò Fergus, profondamente turbato.
“Concedimi un mese.”
“È troppo.”
“Allora solo due settimane. Solo due settimane, Fergus, e poi entreremo in guerra.”
Il re si alzò dal trono, ergendosi in tutta la sua possanza e autorità.
“Solo due settimane, Gobber. E niente di più.”

 
(Ancora)



“A che punto sei?”
Rapunzel sobbalzò, non riconoscendo la voce di chi le parlava, e si girò immediatamente, senza rispondere. Al suo fianco c’era un giovane ragazzo, pressoché della sua età, con la pelle color caramello, liscia e levigata, un paio di occhi castani, più scuri e più caldi di quelli di Flynn, e dei folti capelli neri. Aveva un abbigliamento non molto dissimile da quello del Genio.
Accorgendosi dell’espressione spaventata della bionda, il ragazzo si presentò. “Scusami, io sono Aladdin.”
“Anche tu sei apprendista presso il Genio?”, chiese lei, stringendo la mano che il ragazzo le porgeva con affidabilità.
“Oh, no, non mi sognerei mai di fare.. che materia è?”, scherzò lui, facendo ridere Rapunzel. “Il Genio mi deve tre favori, ecco.”
“Tre favori?”
“Sì..”, rispose lui, parecchio evasivo. Poi fece un grosso sorriso. “A che punto sei?”
“Al terzo libro”, disse Rapunzel, orgogliosa di se stessa e non riuscendo a mascherare la propria soddisfazione.
“Ancora?”, domandò invece Aladdin, frantumando tutte le aspettative della bionda. “Guarda che non hai molto tempo”.
“Lo so, ma credo che in qualche mese riuscirò ad apprendere tutto e..”, cominciò lei, delusa, a parlare ma Aladdin le fece segno di zittirsi.
“Non si tratta di qualche mese, ma di qualche settimana.”
“Come?”, fece lei, allarmata, sgranando i suoi grandi occhi verdi.
“Non lo sai? I tuoi amici non te l’hanno detto?”
“Smettila, Al! Rapunzel deve studiare ancora molto!”, lo rimproverò il Genio, entrando nella stanza proprio in quel momento.
“Ma non ce la farò mai a studiare tutto questo in qualche settimana, figuriamoci ad imparare come si cura!”, commentò Rapunzel, la voce più alta di due ottave e la confusione in corpo.
“Ce la farai, i migliori ce la fanno sempre”, disse semplicemente il Genio con tranquillità.
“E se io non fossi tra i migliori?”, chiese la ragazza, in preda allo sconforto.
“Questo dipende da te.”

 
(Wisp)



“Un fuoco fatuo!”, esclamò Merida, riconoscendo come fonte di rumore quella strana fiammella azzurra-blu. Ricordava quando era ancora piccola e sua madre le raccontava le leggende riguardanti queste strane luci. Affascinata, la giovane tese una mano in direzione del fuoco fatuo, ma prima che potesse anche solo sfiorarlo con le dita, quello scomparve.
“Angus!”, richiamò la ragazza, stavolta più forte di un semplice sussurro, e il cavallo trottò fino al suo fianco. Doveva salire al più presto sull’albero più alto, per vedere a che ora sarebbe sorta l’alba, e così organizzare il suo ritorno a casa, quando la visione di un altro fuoco fatuo, più lontano dal primo, la desistette. Avvicinandosi a questo, che come il primo scomparve, e vedendo che se ne formava un altro, la giovane si accorse che formavano un percorso, che la spingeva ad inoltrarsi ancor di più in quella parte di bosco mai visitata. E le sembrava così diversa: era convinta che mai, in quel frangente, avrebbe potuto riconoscere il luogo in cui suo padre le aveva insegnato il tiro con l’arco, o ancora il tronco sulla quale si era seduta insieme ad Hiccup e lui le aveva raccontato la sua storia, o la casetta sull’albero sulla quale adorava giocare ma che era vietata ai maschi. Non solo: non aveva mai visto una notte così buia come quella. Doveva sentirsi molto stanca, si disse, perché le era sembrato, mentre camminava seguendo la debole luce dei fuochi fatui, di vedere qualche ramo degli alberi allungarsi come se volesse afferrarla, o fermarla, ed effettivamente un paio di volte si era strappata il vestito poiché rimaneva impigliato tra quelli.
Se solo la madre non avesse voluto darle quella notizia in quel modo, pensò lei, mentre una vocina fastidiosa nella sua testa le sussurrava che sicuramente avrebbe avuto la stessa reazione e si sarebbe trovata sempre in quel bosco, di notte.
“Fantastico, adesso inizio a parlare sola!”, commentò al alta voce, mentre accarezzava il muso di Angus che, terrorizzato, tremava accanto a lei. In un caso come quello, avrebbe preferito che il suo cavallo si mostrasse più coraggioso piuttosto che fifone. Ogni suono lo faceva nitrire dallo spavento, facendo spaventare anche lei di riflesso. Non sapeva quando la notte sarebbe finita, le sembrava di essere in quel bosco da molto più di qualche ora, e stava per salire su Angus e ritornare indietro, quando vide che c’era una specie di uscita davanti a lei. Tese ancora una volta la mano verso il fuoco fatuo, e questo, come ci si sarebbe aspettato, scomparve, ma non se ne generò un altro. Camminò ancora un po’, osservando che la vegetazione diminuiva sempre più, fin quando uscì dal bosco. Angus di conseguenza cavalcò più veloce, superando la padrona e rilassandosi. Merida sorrise, alzando gli occhi al cielo e rivolgendosi alle stelle.

 

(Incontri inaspettati)



“Forse preferisci il tacchino?”, chiese Hiccup al falco, porgendogli l’unico pezzetto di tacchino rimasto in casa. Il volatile si girò dall’altra parte, come se fosse annoiato.
“Ma si può sapere perché sei qui?”, borbottò il moro, quando venne distratto da un rumore alla porta. Qualcuno stava bussando. Distrattamente, andò ad aprire, ritrovandosi davanti Merida e il suo cavallo.
“Ciao”, salutò lei, veloce.
“Ciao”, ricambiò lui, rimanendo stranito da quella apparizione. I due si guardarono negli occhi per qualche istante, poi abbassarono contemporaneamente lo sguardo.
“Non è ancora l’alba, quindi.. Insomma, cosa ti porta qua?”, chiese Hiccup, balbettando e gesticolando. Merida sorrise, guardando la casa e stringendosi nel suo vestito e il giovane si accorse che la principessa era senza il mantello. “Oh, certo. Accomodati”, aggiunse, spostandosi per far passare la principessa.
“Sfortunatamente il tuo cavallo deve restare fuori”, disse Hiccup, chiudendo la porta. Merida annuì, guardando Angus dalla finestra.
“È una lunga storia”, rispose lei, dopo.
“Cosa?”
“Quella che mi ha portata qua. È una lunga storia”, spiegò, sedendosi sul letto. 
“Fammi il riassunto”, propose Hiccup, sedendosi su uno sgabello non molto lontano. Merida rise.
“Ci provo.”
Stava proprio per star per parlare quando il falco ricominciò a stridere.
“Toothless, puoi stare in silenzio una volta tanto?”, si lamentò Hiccup, nella voce una nota di disperazione. “È un falco bianco! Cosa ci fa un falco bianco a casa tua?”, domandò Merida, alzandosi e avvicinandosi al volatile.
“In realtà non lo so”, rispose, corrugando le sopracciglia. Il che era vero.
“Da quanto tempo è qui?”
“Da un giorno ormai.”
“Gli hai dato del cibo?”
“Ci ho provato, ma non mangia.”
Al che la rossa abbassò gli occhi, notando il pezzo di tacchino. Sospettosa, si avvicinò ad Hiccup.
“Cosa gli hai dato, esattamente?”
“Tacchino, pollo, maiale..”
Merida sgranò gli occhi. “E secondo te i falchi mangiano questi animali in natura?”
“Adesso inizio a pensare che non sia così”, borbottò Hiccup.
Il moro vide la ragazza guardarsi attorno, per poi prendere un arco e delle frecce dalla sua cassa delle armi, e dirigersi verso la porta.
“Dove vai?”, chiese lui, forse un po’ troppo precipitoso.
“A caccia. Aspettami.”

 
(Coniugi)



“Elinor?”
La donna, con le mani congiunte e gli occhi chiusi, al suono della voce si alzò faticosamente dalla cassapanca in legno, facendo prima un inchino all’immensa croce disposta nella parete davanti.
“Come sapevi che mi trovavo qui?”
Fergus fece qualche passo in direzione della moglie.
“So chi frequenti”, rispose semplicemente, e i due coniugi si sedettero assieme, pregando.
“So che è morta un’altra guardia di Dunbroch”, disse la moglie, spezzando il silenzio religioso.
“Purtroppo”, commentò il sovrano, corrugando le folte sopracciglia ramate.
“Cosa faremo?”
“Lo sai quello che faremo.”
“Sì, ma non voglio che si faccia.”
“Mi ricordi Merida quando fai così”, scherzò Fergus. “A proposito, dov’è?”
La cieca fedeltà della moglie nei confronti del marito vacillò, tanto da farle mordere le labbra. “Non lo so”, sibilò, mentre l’espressione gioiosa (stanca ma gioiosa) del sovrano mutò.
“Una guardia è morta e nostra figlia non si trova?!”

 
(Amicizie inaspettate)



“Quindi mangia i conigli?”, chiese curioso Hiccup al fianco della rossa, mentre tutti e due osservavano Toothless divorare quella carcassa di coniglio morto voracemente.
“Conigli, topi, quaglie. Tutti gli animali del bosco più piccoli di lui”, rispose la principessa, soddisfatta.
“Adesso dovrebbe smettere di stridere, giusto?”
“Dovrebbe”, accordò lei.
“E quindi? Perché sei venuta qui?, domandò nuovamente il moro. “Non che mi dispiaccia”, si affrettò ad aggiungere, balbettando.
“Mi hanno guidata i fuochi fatui da te. Io ero nel bosco e..”
Merida non concluse neanche la frase, perché Hiccup stava ridendo.
“Che c’è?”
I fuochi fatui ti hanno guidata?”
“Sì, te l’ho detto!”
“Sono semplici luminescenze che derivano dalla combustione del metano e del fosfano dovute alla decomposizione di sostanze organiche.”
“Cosa? No!”
“Eri in un cimitero?”
“Sì, al cimitero antico.”
“E magari al cimitero antico ci sono laghi, fiumiciattoli, o acquitrini?”
“Sì, c’è un piccolo acquitrino nella zona est.”
“Semplici luminescenze”, ripeté l’artista.
“Mi hanno portato fuori dal bosco!”
“Forse eri stanca.”
“Non ero stanca”, disse lei, imbronciandosi, ma i non marcati cerchi violacei sotto agli occhi e uno sbadiglio smentirono quanto detto.
“E perché eri nel bosco?”
“Perché.. sentivo il bisogno di allontanarmi da mia madre e dalla corte”, rispose lei, volutamente vaga. Il giovane abbassò lo sguardo, soffermandosi a guardare il falco, che proprio in quel momento stava rigurgitando il coniglio appena mangiato.
“Merida, non mi pare che Toothless abbia gradito”, disse Hiccup, osservando preoccupato e anche abbastanza disgustato il cibo ingerito e rigurgitato.
“Te lo sta donando. Sai, come fa la mamma con i suoi cuccioli”, replicò lei, e di conseguenza il falco fece segno con la testa verso il cibo, guardando Hiccup fisso.
“E io dovrei..?”
“Mangiarlo, sì”, concluse lei.
“Non ci penso proprio”, ribatté lui, disgustato. In quel frangente sia la principessa che Toothless lo guardarono piuttosto severamente.
“E va bene!”
Con le mani prese un pezzettino di quel coniglio, cercando di dimenticarsi che, oltre ad essere stato mangiato e rigurgitato dal falco, era anche crudo, e, molto lentamente, se lo mise in bocca, cercando di dissimulare con i gesti e con le espressioni facciali una squisitezza. Toothless fece un altro gesto, e la rossa disse :”Ingoialo adesso.” Hiccup sgranò gli occhi, meravigliosamente verdi come la foresta, incredulo a quello che stava accadendo, ma nonostante tutto, forzatamente si costrinse ad inghiottire quel dannatissimo boccone, ignorando il suo corpo ben più propenso a vomitarlo. Merida gli rivolse un sorriso, e all’inventore sembro pure che il falco sorridesse di rimando, e questo lo rese immensamente felice.

 
(Casa non-dolce casa)



“Jack? Sei tornato?”, domandò una piccola vocina. Una voce così dolce, e affettuosa, per il giovane non sarebbe mai potuta appartenere se non a quella piccola e graziosa ragazzina, che timidamente faceva il suo ingresso oltre quella tendina lurida e avente i buchi in più parti.
“Emma!”, esclamò lui, inginocchiandosi e aprendo le braccia così che quella bambina potesse abbracciarlo.
“Com’è andata oggi la giornata?”, chiese lei, sorridendo. Jack si alzò, e fece finta di cadere morto sulla panca di legno, e la bambina si sedette sulle sue ginocchia. Il moro si sentiva sempre più leggero, dopo aver visto la sua dolce sorellina sorridere. Le si formavano le fossette agli angoli della bocca.
“Allora, sono sempre più convinto che Hiccup sia pazzo!”, rispose lui, facendola ridere.
“E perché?”
“Si è messo in testa di addomesticare un falco bianco!”
“Davvero? E perché mai?”
“Non lo sa neanche lui.”
“E tu, Jack?”
“Io gli ho fatto compagnia. Come sta la mamma, invece?”
A queste parole Emma si rabbuiò, e ciò non passò inosservato agli occhi attenti del giovane.
“Ha dormito tutto il giorno. Diceva di essere molto stanca.”
“Non ti preoccupare”, disse Jack piuttosto forzatamente. “Dopo questa bella dormita starà meglio.”
La bambina annuì, non molto convinta, e Jack non poté far altro che abbracciarla. L’avrebbe protetta per sempre.


Scusate se non pubblico da un po', ma la scuola mi sta uccidendo pian piano. In più devo ancora completare la mia tesina (come se l'avessi seriamente iniziata ma vabbé) e ho un sacco di cose da fare e sto iniziando ad odiare il mondo pian piano. Chiedo venia se il capitolo non è il massimo, anzi, proprio per il ritardo ho cercato di farlo più lungo. Le parti di Rapunzel sono ancora poche e lente, me ne rendo conto, ma, prendendo come modello come studio io, niente è divertente mentre si studia. Hiccup in questo capitolo potrà essere un po' diverso da nostro solito Hic, però mi piaceva l'idea di non renderlo un genio in tutto, ecco. E poi Jack.. è un ladro sì, ma non un senza-tetto. Al prossimo capitolo che spero sia prima degli esami, 
la vostra disperata gingersnapped

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Capitolo 11
*** L'inizio della fine ***


L’inizio della fine
 
 

Il tempo si fermò, almeno per lui. Posò i grandi occhi verdi su ciò che aveva attorno a sé, non riuscendo a distinguere altro che distruzione e morte. Accanto a lui persone ancora lottavano, chi per difendersi e chi per il piacere di uccidere. Forse c’era ancora qualcuno che lottava per i propri ideali in mezzo a loro ma in quel momento non sarebbe stato in grado di riconoscerlo. Una figura attirò la sua attenzione, tra la massa di persone che conosceva (d’altronde, come non avrebbe potuto riconoscere i suoi stessi concittadini?), che si precipitò a fornire aiuto a chi forse ne meritava di più, ma era difficile scegliere. Tutti, lì, erano vivi oppure morti. E chi era vivo stava per morire.
“Hiccup”, lo richiamò Jack, a primo impatto irriconoscibile con quell’elmo se non dalla voce fin troppo familiare, “dovremmo andarcene.”
“Andarcene, dici?”, chiese il giovane, accennando ad un sorriso. “Non possiamo. È la nostra casa, Jack.”
Jack si tolse l’elmo, gettandoglielo a terra. E nel gesto, il giovane artista riuscì a cogliere una smorfia.
“E allora combatti. Combatti fino alla fine.”
Hiccup guardò attentamente l’elmo ai suoi piedi, poi, con un sinuoso movimento, lo raccolse da terra e lo indossò.
“Per Dunbroch”, disse, facendo roteare la spada.
“Per Dunbroch”, ripeté l’altro alzando la lancia.

 
(Palazzo reale: un giorno prima)



“Madre!”, si lamentò Merida, all’ennesima spazzolata di Elinor. Odiava quelle circostanze, che da piccola aveva ben imparato a riconoscere. Ogni volta che la madre le veniva incontro, abbracciandola e dicendo che aveva buone notizie, significava sempre il contrario: ogni grande occasione per la madre, era una pessima occorrenza per la figlia. Specialmente se questa consisteva nel pettinarle i capelli, da sempre ribelli e selvaggi, i cui riccioli fitti erano intricati di nodi.
“Su, Merida, domani conoscerai il tuo futuro Lord”, la rimproverò la madre, fermando un attimo per quella tortura giusto per mettere una ciocca, sfuggita alla sua complicata acconciatura, al suo posto.
“Io non avrò Lord”, disse la ragazza, usando un tono di voce tagliente. “Né ora, né mai.”
“Fatto sta che ti sposerai lo stesso, ti piaccia o no”, replicò stizzita la regina, ricominciando a pettinare i capelli.
“Non mi piacerà, infatti.”
“Anch’io avevo dei ripensamenti su tuo padre, il giorno delle nozze..”, iniziò a raccontare la madre, cercando di far comprendere alla figlia che il suo matrimonio non era stato così meraviglioso come pensava lei.
“Tu e papà già vi conoscevate. Tu e papà già vi amavate. Non cercare di apparire simile ai miei occhi, risulteresti solo meschina.”
Dopo questa insinuazione, Elinor continuò la sua attività in completo silenzio, interrotto ogni tanto dai lamenti della figlia.
“Chi è?”, chiese poi la ragazza, gli occhi acquamarina privi del fuoco che la caratterizzava. Sembrava spenti, distaccati, come se non appartenessero a lei.
“Verranno molti nobili per sfidarsi e ottenere la tua mano.”
La giovane sbuffò. Ovviamente conosceva la tradizione, sua madre gliel’aveva insegnata quando era ancora troppo piccola per capire o immaginare cosa sarebbe successo, quando giocare con i figli dei servitori era ancora normale.
“E chi può partecipare?”
“Chiunque abbia origini nobili”, rispose Elinor. Fortunatamente si trovava dietro la figlia, non accorgendosi dell’espressione luminosa che le si era dipinta sul volto. Forse aveva un’idea.

 
(Altrove: un giorno prima)



“Grazie per tutto quello che hai fatto per me, ma ora è il momento che me ne vada.”
Rapunzel aveva  le lacrime agli occhi, eppure trovò la forza di sorridere e di abbracciare il suo insegnante, che alle parole della fanciulla, non poteva fare altro che emozionarsi.
“Sei stata un’allieva meravigliosa, la migliore.”
“Grazie di tutto.”
Alla vista dell’abbraccio tra i due, il giovane Aladdin, disteso sul divano intento a mangiare un po’ della frutta del Genio, si rattristò.
“Vuol dire che non verrai più qui?”, chiese, smettendo di mangiare.
Rapunzel sciolse l’abbraccio con l’uomo, si asciugò le lacrime e scosse la testa. “Assolutamente no! Quando finirà la guerra, tornerò a trovarvi”, disse, sedendosi accanto ad Al. “Ho ancora tanto da imparare”, aggiunse, rivolta al Genio.
“E io sarò fiero di insegnarti tutto quello che so.”
Aladdin fece una smorfia, incrociando le gambe. “Ma non devi andare per forza.”
Rapunzel sorrise amaramente. “Tutti i miei amici combattono.”
“Appunto! Lascia combattere loro! Sono certo che ti difenderanno”, disse Aladdin, ricevendo uno sguardo di rimprovero dal Genio che però non si espresse. Anche lui non voleva che Rapunzel si trovasse nel campo di battaglia, era troppo delicata.
“E chi difenderà loro?”, domandò semplicemente lei. Aladdin e il Genio si scambiarono un’occhiata, poi l’abbracciarono contemporaneamente.
“Cerca di ritornare viva”, le augurò Aladdin.
“Cerca di ritornare te stessa”, disse invece Genio.


 
(Palazzo reale: tempo presente)



Merida e Rapunzel correvano senza sosta. Il palazzo, la sua casa –si ritrovò a pensare la rossa-, era piena non solo di stranieri, ma di nemici. Nemici che avevano già catturato sua madre e i suoi fratelli. E proprio questo pensiero le consentiva di camminare, correre, sempre più veloce. Mentre continuava a correre, la principessa si girò: riconobbe suo padre che, con spada e scudo, stava combattendo contro due uomini contemporaneamente –uccidendone proprio in quell’istante uno-, e Stoick, accanto al padre, che gli difendeva le spalle. Questo bastò a rasserenarla, e continuò a correre più veloce insieme a Rapunzel.
“Dove andiamo?”, chiese questa, in procinto di piangere, fermandosi per riprendere fiato. Merida non sapeva cosa risponderle al momento, ma era certa che non sarebbe andate da nessuna parte con niente. Le serviva una spada, e un arco.
“Mi servono delle armi”, rispose, guardandosi furtivamente le spalle. “E possibilmente degli altri abiti.”
Quel vestito vistoso di seta azzurra con i ricami in oro non era certamente il più adatto per una fuga.
Rapunzel annuì, ma rabbrividì vedendo il continuo scontro tra gli uomini di Dunbroch e quella di Drachma. “E dove possiamo prenderli?”
Merida si voltò dietro, come se le fosse balenata l’idea di tornare indietro e prendere le armi nella sua stanza, ma sapeva che era pressoché impossibile tuffarsi in quell’inferno senza venire catturate. E poi..
“Hiccup!”, esclamò, sussurrando appena. Allo sguardo interrogativo di Rapunzel cercò di spiegare: “Hiccup ha una cassa piena di armi, possiamo anche cambiarci lì”, propose. La bionda annuì. Adesso dovevano solo passare dal mercato senza farsi travolgere dalla gente. 

 
 (Campo di addestramento: un giorno prima)



Gobber guardò ad uno ad uno quei ragazzi che nell’arco di qualche mese aveva addestrato. Non l’avrebbe mai detto loro, ma si era affezionato, anche ai più incapaci come Fishlegs, e in quel frangente sperò ardentemente di riuscire ad abbracciare almeno la metà di loro a guerra terminata.
“Allora”, gracchiò, interrompendo quel silenzio che iniziava a essere imbarazzante, “ci siamo. È arrivato il gran momento. Dovete dar prova di voi stessi, dovete proteggere non solo chi amate, ma chi non si può proteggere. Sarete in grado?”
Sarete in grado di uccidere, e di sopravvivere? Il vecchio artista guardò Hiccup, che nel corso di quei mesi era cambiato fisicamente: non era più così tanto mingherlino, era diventato più alto, gli era cresciuta l’ombra della barba e qualche muscolo –non al livello di Snotlout- faceva la sua comparsa plasmando il suo fisico asciutto. Il contrasto con quel ragazzino, troppo piccolo e insieme così testardo, che un giorno di molti anni fa aveva bussato alla sua porta, era evidente, e Gobber non avrebbe potuto essere più fiero.
“Dobbiamo”, disse Aster, proferendo una sentenza. Era la seconda o terza volta in assoluto che Hiccup lo sentiva parlare, eppure disse qualcosa di estremamente vero.
“E lo faremo”, aggiunse Astrid, facendo roteare la sua ascia, guardando con i suoi occhi glaciali ognuno dei presenti, soffermandosi qualche secondo in più su Hiccup e poi passando oltre.
“Spero che a fine guerra il re ci nomini tutti lord”, disse Tuffnut, dando una gomitata affettuosa a Jack che ricambiò con un sorriso stranito. Gobber rise grossolanamente.
“Sono certo che succederà come dici tu!”
Hiccup si voltò a guardare Gobber, con le sopracciglia corrugate: non aveva mai sentito dire dal suo maestro una frase del genere in anni di conoscenza. Che si stesse addolcendo con l’età?
“Davvero?”, chiese infatti Snotlout –anche lui conosceva bene il vecchio artista- “sono molto onorato che tu dica questo..”
“Sono molto bugiardo”, replicò Gobber, rivolgendo uno sguardo complice a Hiccup, che sorrise di rimando. Jack, tra i gemelli Tuffnut e Ruffnut , si mise a ridacchiare, ricevendo un’occhiataccia dalla bionda glaciale.
“Mi raccomando”, disse infine, ritornando estremamente serio, “state uniti, aiutatevi e cercate di non morire.”


 
(Fuori, mercato delle pulci: tempo presente)



“Oh, andiamo Rapunzel!”, cercò di richiamarla Merida, con i nervi a fior di pelle. Erano riuscite miracolosamente ad arrivare al mercato, di lì la strada fino all’abitazione del moro era molto breve, ma la bionda continuava a fermarsi per ogni cadavere che incontrava, convinta che potesse esserci qualcuno che era in grado di salvare.
“Sono tutti morti!”, esclamò Merida, prendendole –non molto garbatamente- il braccio e trascinandola fuori dall’onta. “E moriremo anche noi se resteremo qui.”
“Ma io..”, cercò di replicare Rapunzel, ma la rossa non le diede il tempo.
“Punzie, è più importante prendere quelle armi ora piuttosto di rischiare la nostra vita tentando di salvare persone che non si possono più salvare.”
“Questo non lo sai! Potrebbe esserci qualcuno, lì in mezzo, che ha bisogno di noi!”
Merida respirò a lungo, trattenendosi nell’urlare contro l’amica e farsi individuare dai nemici. “Andiamo a prendere le armi, e poi ti aiuterò io stessa.”
Rapunzel diede un ultimo sguardo alle sue spalle, alla pila dei corpi distesi a terra, chi con gravi ferite e chi con superficiali tagli, accanto alla quale combattevano le guardie cittadine contro gli invasori. E in quel momento, sperò ardentemente che i suoi amici fossero ancora vivi.

 
(“Mi ha salvato”)



Hiccup non aveva mai temuto la morte, non per davvero. Certo, non era uno sciocco desideroso di morire solo per sapere cosa avrebbe provato, ma non temeva la morte. Aveva ben imparato dal padre, in tenera età, che ognuno se ne sarebbe andato quando sarebbe stato il suo tempo, come sua madre. L’unica cosa che poteva fare un uomo, arrivato quel momento, era dire “non oggi” e sperare che la sua richiesta venisse accettata.
Hiccup non aveva mai temuto la morte fino a quel momento. Quando si ritrovò, puntata ai suoi occhi, la lama di una spada, ammise che si trovò completamente impietrito dalla paura, che non gli consentiva nemmeno di respirare. Pertanto, quando pensò, pregò, quel “non oggi” e vide che la sua richiesta fu stata accettata, la sua mente iniziò a pensare che forse esistevano delle forze più grandi dell’uomo. Non ebbe il tempo di reagire, o di realizzare l’intero accaduto: una freccia, velocissima, gli era passata vicino l’orecchio destro tagliandogli qualche capello e colpendo con meticolosa precisione l’occhio sinistro del suo aggressore.
Jack, accorgendosi in quel momento della condizione dell’amico, gli si avvicinò, allontanandolo dal corpo esanime dell’uomo di Drachma.
“Stai bene, Hic?”, gli domandò Jack, ma il moro si voltò immediatamente, cercando l’autore del colpo. E lo vide, o meglio, la vide. Jack, vedendo il comportamento dell’amico, si voltò anche lui, individuando immediatamente due figure estranee a quel paesaggio.
“Mi ha salvato”, sussurrò Hiccup, più a se stesso che a Jack.
“So che non ci credi ma sottile è il confine tra coincidenza e fato”, disse Jack, dirigendosi verso quella fonte di attenzione. Il giovane artista lo seguì, la spada ancora in mano, mentre si avvicinava anche lui a quelle uniche figure amiche presenti. Si soffermò sulla prima, la più vicina, china su un corpo che riconobbe come quella della signora Brot. La conosceva fin troppo bene. Molte volte si erano incontrati lì, in un periodo che qualsiasi altra persona avrebbe definito felice. Hiccup avanzò di qualche passo, inginocchiandosi anche lui sulla signora Brot, e la figura alzò gli occhi verdi. Il moro la ricordava ancora con quei lunghi nastri tra i capelli intrecciati, il vestito svolazzante per il gran vento e il girasole in mano e l’immagine che si presentò davanti non era poi così dissimile, eppure era totalmente diversa. La posa era essenzialmente la stessa: i lunghi capelli dorati erano legati, impedendo al vento di descrivere ampie onde con essi, indossava uno dei suoi soliti abiti graziosi, forse anche più sontuoso del solito ma in mano teneva una garza con la quale cercava di rallentare l’emorragia della panettiera. Agli occhi dell’inventore non sfuggì un solo particolare, nemmeno quel pugnale che teneva non molto nascosto nella borsa –ricordava di averne una simile, anzi, identica- sulla sua spalla sinistra.
“Ciao”, lo salutò lei, un triste sorriso sulle labbra sottili.
“Ciao”, ricambiò lui, tentando di imitarla.
“Sono contenta di vederti”, disse Rapunzel, abbandonando la garza e abbracciando di slancio il moro.
“Odio interrompere questi momenti”, disse la voce roca di Merida, “ma ce ne dobbiamo andare se non vogliamo morire”. Hiccup si staccò dall’amica, posando i suoi occhi su quelli della principessa. Il volto, serio, non lasciava spazio a nessun sorriso, nemmeno di stanchezza o di gentilezza come quelli che riservava Rapunzel in quel momento, e i capelli, stranamente non ricci, sembravano in quel contesto sempre più simili al sangue. Merida sembrava la raffigurazione della perdita di ogni speranza in quel momento, la più cruda realtà.
“E dove?”, chiese Rapunzel, ricominciando a premere la garza sulla ferita.  Jack guardò ad uno ad uno i presenti, poi parlò.
“So dove andare.”

 
(Il grande ballo: il giorno prima)



“Sembro ridicola”, annunciò Merida, guardandosi allo specchio dopo le ore di lavoro della madre. I capelli, i suoi capelli ricci, erano sistemati in onde morbide e raccolti in una semi acconciatura, che lasciava ricadere sul volto due piccole ciocche di capelli, anch’esse magistralmente acconciate in morbidi boccoli. L’abito, rigorosamente di seta, celeste, era fin troppo eccessivo: non bastavano i ricami in oro su tutta la parte superiore e la coda dell’abito, evidentemente sua madre ci teneva talmente tanto a sbarazzarsi di lei da progettare una scollatura posteriore, sotto le scapole fin sopra il bacino, che lasciava intravedere la pelle bianca della fanciulla, macchiata da qualche efelide.
“Sei assolutamente perfetta”, disse invece la madre, aggiustandole qualche dettaglio dell’abito.
“Sì, perfettamente ridicola”, sbuffò lei, insofferente. “Quanto tempo dovrò stare con questo ‘coso’?”
Elinor assottigliò i grandi occhi castani, fingendo di non aver sentito quell’orrore dalla figlia. “Per tutto il tempo necessario”, rispose, lisciandosi il suo di abito, verde smeraldo, più semplice ma non per questo meno regale. Poi, come se si fosse ricordata improvvisamente qualcosa, iniziò a cercare un oggetto nella stanza, trovandolo qualche momento dopo e aggiungendolo alla figlia. Era una corona, piccola e graziosa, che pesava però quanto un lingotto.
“Per le mutande di Odino, pesa un accidente!”, esclamò Merida, appena Elinor gliela mise in testa.
“Merida, modera il linguaggio!”, la rimproverò, assottigliando gli occhi.
“Alquanto pesantuccia, madre”, replicò la figlia, ironicamente, mentre la madre la metteva davanti lo specchio in modo da potersi ammirare. Ma Merida non sembrava convinta: continuava a cercare qualcosa di se stessa in quell’aspetto che non sembrava appartenerle. E lo trovò in un ciuffo ribelle, rimasto riccio, che lei mise davanti in bella mostra.
“Oh, è ora!”, esclamò la madre, mettendole di nuovo quel ciuffo dentro l’acconciatura –gesto che la fece sbuffare-. “E mi raccomando, sorridi”.

Era tutto agghindato magnificamente, questo Merida lo doveva ammettere. Ogni singolo centimetro del palazzo risplendeva e tutti, sudditi inclusi, erano vestiti bene. Pure Maudie, che probabilmente per il nervosismo, continuava a guardarsi attorno. La principessa non attese a sedersi nel suo posto, alla sinistra della madre, in una posizione non molto corretta per, appunto, una persona regale. La madre non perse tempo ad accorgersene e ad indicarle la posizione eretta, sistemandole nuovamente il ciuffo ribelle uscito dalla chioma.
“Oh, Rapunzel!”, esclamò Merida, abbracciando l’amica appena la vide. Indossava un abito lilla, con pochi decori, una scollatura non molto pronunciata che metteva ben in vista una semplice collana. A Merida non sarebbe piaciuto ugualmente indossare quell’abito, ma doveva riconoscere che era meglio del suo.
“Merida!”, ricambiò l’altra, accarezzandole i lunghi capelli ondulati. “Che hai fatto ai capelli?”, chiese, stranita. Come risposta ottenne solo uno sguardo esasperato dalla rossa, che la invitò a sedersi accanto a lei.
“Come è andato il tuo addestramento?”, chiese la principessa, curiosa di sapere cosa avesse fatto Rapunzel durante quel periodo, dato che si erano sentite appena.
“Direi bene”, rispose la bionda, con qualche incertezza. “Ho imparato molto, spero solo che sia sufficiente”, si affrettò a dire. “Tu, invece?”
Merida sorrise, soppesando la risposta, poi decise di fare un resoconto. “Non ho imparato niente di nuovo, riguardo la tecnica. Ho insegnato ad Hiccup come si tiene una spada, ho scoperto durante un combattimento con una compagna di corso che l’ultima cosa che devo fare in un combattimento è distrarmi e.. temo che Macintosh sia uno dei pretendenti per mia mano”.
Rapunzel la ascoltò, rapita, sorridendo. “Sono contenta che hai insegnato ad Hiccup qualcosa. È sempre stato sveglio, ma nelle faccende pratiche un po’ meno”, commentò la fanciulla, sistemandosi una ciocca dietro l’orecchio.
“Hai ragione”, concordò l’altra, sorridendo.
“E adesso che succede?”
“In che senso?”
“Ti sposerai davvero?”, chiese in un sussurro Rapunzel.
“Prima dovranno passare sul mio cadavere”, rispose Merida. “Gareggerò io stessa per ottenere la mia mano.”
“E si può fare?”
“Non mi importa”, disse la rossa, posando lo sguardo sul corteo che stava avanzando davanti a lei. Varie casate sfilavano, non solo quelle dei nobili più antichi di Dunbroch –tra le quali spiccava, come aveva previsto lei, Macintosh- ma anche famiglie nobili di altri regni. Merida li guardò annoiata, ricordandosi di meno della metà dei ragazzi visti, come ad esempio Hercules, un ragazzo che aveva scoperto di essere nobile da poco, Hans –Merida non aveva la più pallida idea di dove venisse-  di cui aveva notato i capelli ugualmente rossi ma molto più scuri dei suoi, e un certo Chang. O Shang. Dopo la sfilata dei pretendenti, un vessillo a Merida sconosciuto emerse. Non ricordava di averne mai visto uno simile, ma pensò in un primo momento di non essere stata molto attenta alle lezioni della madre. Quindi si girò verso la madre, curiosa di sapere di quale casata si trattasse, ma Elinor aveva assunto un’espressione terrorizzata. Confusa, Merida puntò gli occhi su chi portava quel vessillo e riconobbe quella che lei chiamava morte. L’aveva già visto prima d’ora, ed era ancor più terrificante di quanto ricordasse.
“Mor’du”, sussurrò, esalando appena. Sapeva che era l’inizio della fine.

 
(Bagno di fuoco)



Hiccup le camminava accanto. Jack e Rapunzel avevano molto da raccontarsi, parlando a bassa voce, ogni tanto interrompendosi per la voce spezzata . Hiccup invece le camminava accanto in silenzio, vedendo che la principessa sembrava persa nei suoi pensieri, sicuramente rivolti all’invasione di Drachma. Certo, se l’aspettavano, ma come avevano fatto ad entrare nel palazzo senza invadere la tranquillità cittadina? Ricordava molto l’omicidio della prima guardia. Aprì la bocca per parlare, per dire anche la più scontata sciocchezza, ma l’aspetto della rossa lo dissuase. Hiccup era certo che l’abito doveva essere stato meraviglioso, privo delle macchie di fango e sangue, anche se non adatto. I capelli erano l’aspetto che più gli facevano storcere il naso: non erano assolutamente i suoi, e non avrebbero mai potuto cogliere la sua essenza. Guardandola ogni cosa sembrava sbagliata.
“Sono contenta che tu sia ancora vivo”, disse lei, dopo un lungo lasso di tempo.
“Anch’io.”
Lei non rispose subito: si limitò a guardarlo a lungo negli occhi, soffermandosi sull’estremo pallore del moro che non faceva altro che far risaltare gli occhi verdi. Sembrava ardessero come quella volta in cui lei, seduta con la sua famiglia, lo sentì pronunciare quel discorso sul futuro, e sulle capacità dell’uomo di saperlo costruire, intravedendo in quel momento gran parte della passione che l’avevano costretta ad affezionarsi a quel ragazzo. Forse era semplicemente una sua impressione –che tuttavia per l’imbarazzo si costrinse a spostare lo sguardo, fulminea- ma Hiccup era diverso, più grande, più maturo. Si era accorta in quell’istante, guardando Hiccup in quelle sue iridi frondose, rigogliose come una foresta in primavera, che tutto era cambiato, a partire da quel principio di barbetta alla base delle sue mascelle, dalle caviglie perennemente scoperte di Jack, diventato ormai troppo alto, e dalla figura più morbida e formosa della bionda amica. Erano cambiati rimanendo esattamente gli stessi, al contrario di come si sentiva lei. In quel frangente voleva solo abbracciare la sua famiglia ma il pensiero che loro fossero stati catturati e suo padre che combatteva la fecero intristire ancora di più. Era avvenuto tutto così velocemente che ricordava a malapena come si erano svolti i fatti ma l’ultima scena, suo padre che uccideva uno dei soldati di Drachma, era vivida nella sua mente. Si asciugò in fretta quelle lacrime che le erano uscite di sfuggita senza che se ne accorgesse, e si voltò verso Hiccup, che nel frattempo si era avvicinato per darle un appoggio. Quello sguardo -intenso, carico di sentimento- mosse qualcosa in Hiccup, non sapeva bene se fosse il cuore o lo stomaco a fare delle continue capriole in quel momento.
“Cosa intendi fare?”, le chiese, timoroso, vedendo il cambiamento nella ragazza.
“Ucciderò personalmente chi ha dato inizio a tutta questa follia, a partire da Mor’du”, rispose lei, toccando istintivamente l’arco poggiato alle spalle. “Lascerò che le fiamme mi bagnino finché non avrò raggiunto il mio obiettivo. Io sono nata qui e morirò qui. Non ho intenzione di lasciare la mia libertà e quella del mio popolo a dei barbari.”
Hiccup l’ascoltava rapito, fin quando Jack non si fermò ed indicò una piccola abitazione nascosta.
“Siamo arrivati”, disse, aprendo la porta e facendo entrare per prime le due ragazze. Poi, quando fu il turno di Hiccup, lo fermò.
“Sta calando la notte.. qualcuno dovrebbe fare la guardia. La faccio io o tu?”
Hiccup spostò la propria attenzione sull’abitazione, dove vi era una piccola bambina che stava accogliendo le due ragazze, Rapunzel come al solito radiosa mentre Merida esibiva un sorriso di circostanza, evidentemente troppo scossa e concentrata sull’invasione per poter fare altro. Jack aveva ragione, la notte stava calando, e Hiccup si sentiva moralmente in dovere di proteggere il regno, ma di più la principessa. Per quel che l’etica gli urlava al momento, le avrebbe fatto da guardia fino alla propria morte, anche se aveva già consacrato la propria vita all’arte e alla conoscenza.
“Inizio io”, disse Hiccup, rimanendo fuori. 





Mi scuso per il ritardo, ma sono di maturità e l'ansia mi sta assalendo -aiuto, piango la notte e anche il giorno, salvatemi-. E con questo capitolo si entra finalmente nella vera trama della storia (e tendo a sottilineare finalmente perché, per come è strutturata, non siamo neanche ad un quarto). Io vi voglio ringraziare per le letture, ma mi rendereste davvero molto contenta se commentaste, dicendomi cosa cambiare, modificare o migliorare. Un commento non costa niente, è gratis. Spero che per mi dedichiate un minutino della vostra vita per dirmi cosa ne pensiate. Un abbraccio, 
Gianni Morandi gingersnapped

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Capitolo 12
*** Ognuno di noi è dannato. Moriamo tra fiamme e fortuna. ***


Ognuno di noi è dannato. Moriamo tra fiamme e fortuna.




Era sola. Si girò attorno, cercando di intravedere qualcosa tra la fitta foresta. Percepiva l’adrenalina nel sangue che la incitava a muoversi, ma non sapeva dove andare. Vagò per poco, in quel vuoto, prima di accorgersi di un fuoco fatuo poco distante da lei e non appena lo toccò, venne catapultata in un altro luogo.
“Merida, composta!”, le esclamò la madre, sgranando i grandi occhi castani in modo che avvertisse maggiormente il rimprovero ed esortandola a sedersi per bene, come lei le aveva insegnato. Lo sfarzoso abito verde che indossava sembrava frusciare ad ogni passo, finché si sedette nel trono accanto a quello del marito, incredibilmente grande e maestoso. E tutto trascorse velocemente, forse fin troppo, finché lei stessa non riconobbe quella figura possente che si ergeva fra tutte: Mor’du. Sua madre cacciò un urlo, mentre suo padre non perse tempo ad estrarre la spada ma purtroppo non era stato abbastanza veloce. Sua madre, i suoi fratelli e lei stessa erano intrappolati nelle mani dei nemici. Con un atto di forza che a lei parve in quel momento straordinario anche (e soprattutto) per lei stessa, si liberò dal quel nemico rovesciandolo con la sua stessa lancia e, spostando quella appena, colpì nella mano l’uomo accanto, nella cui mano teneva una spada. La prese al volo, e ne approfittò per colpire un terzo uomo davanti a lei. Sua madre le rivolgeva uno sguardo terrorizzato, mentre i suoi piccoli fratellini si guardavano attorno, i grandi occhi azzurri che non stavano fermi, non capendo esattamente cosa stesse succedendo. Suo padre aveva invece intrapreso un combattimento con un paio di guardie, mentre Mor’du guardava compiaciuto la sua gamba di legno, memoria dell’incontro precedente. Merida si soffermò a guardare quell’uomo, accorgendosi di avere la spada grondante di sangue e per questo la gettò a terra.
“Merida!”, urlò Elinor, gli occhi inondati dalle lacrime.



La rossa si risvegliò di soprassalto, gli occhi spalancati e la pelle imperlata di sudore. Si alzò da quel letto immediatamente, non riconoscendo a primo impatto quell’ambiente. Il soffitto troppo basso e quella camera troppo stretta non erano certamente suoi. Iniziò leggermente a rilassarsi quando riconobbe Rapunzel, in un letto poco distante dal suo, abbracciata ad una bambina, Emma, la sorella di Jack. Chiuse gli occhi, come se questo l’avrebbe riportata magicamente indietro nel tempo, nel suo palazzo. Nonostante sapesse che questo non avrebbe mai potuto funzionare, sembrò rimanere delusa. Doveva tornare là, dalla sua famiglia.


“Dove stai andando?”, chiese Hiccup, posando la matita e la pergamena. Merida, colpevole, si girò, non potendo evitare di maledirlo mentalmente per l’occasione.
“Sto tornando a casa, e tu?”
“Ritraggo Toothless”, rispose semplicemente lui, indicando il foglio e il falco che si trovava davanti a lui. Lei rimase stupita, fermandosi ad accarezzare l’uccello.
“Sei andato a prenderlo?”
“No, straordinariamente è venuto lui.”
“È proprio un uccello intelligente”, commentò Merida, sorridendo.
“Non puoi tornare a casa, lo sai questo, vero?”
La rossa poggiò i propri occhi a terra, fissi su un punto indistinto. La luna era estremamente luminosa nel cielo, quella notte, e non voleva che Hiccup le leggesse l’anima e capisse che non era così forte come voleva far pensare di essere.
“Ci devo tornare. Devo parlare con mio padre”, spiegò lei, certa che almeno lui avrebbe capito. Il moro sospirò profondamente, posando i suoi occhi verdi, parecchio malinconici quella sera, su di lei.
“Ti uccideranno se tornerai”, disse semplicemente.
“Hic, devo tentarci!”
“Anch’io devo parlare con Gobber e con mio padre, non credi?”, fece lui, sospirando ancora una volta. “E teoricamente anche con tuo padre, però quest’ultima chiacchierata potrebbe anche essere evitata”, aggiunse, riprendendo carta e penna.
“Per le armi?”, domandò Merida, curiosa.
“Per le armi”, confermò lui, continuando il disegno di Toothless. La principessa rimase in silenzio, guardando ora il falco, ora il ragazzo, e si accomodò negli scalini della porta accanto ad Hiccup.
“Ci sono stati..?, iniziò lei, ma l’artista le fece segno di rimanere in silenzio. Merida tese le orecchie, non riuscendo a percepire quasi nulla fin quando anche lei sentì un brusìo indistinto.
“Vai dentro”, le sussurrò Hiccup, tastando bene la spada al suo fianco, quasi per assicurarsi che fosse ancora lì.
“Non ti lascio da solo”, disse lei, corrucciandosi leggermente.
“Va’ dentro”, le ordinò lui, afferrandole le spalle. Era un tono che non ammetteva repliche e che nessuno, se non sua madre, aveva mai osato rivolgerle. E proprio per questo lo eseguì, sperando che quella notte passasse in fretta.



 
(Le gioie di una madre)




Jack si svegliò presto, quel giorno. Ancor più presto di quanto non fosse abituato. Ci mise davvero poco a capire che la principessa aveva cercato di squagliarsela ma che Hiccup l’aveva rispedita dentro, rimandando qualsiasi decisione al giorno successivo. Deciso a mantenere il silenzio in quella casa e a non disturbare l’amico che stava facendo la guardia, andò a controllare le condizioni della madre. Era davvero peggiorata in quegli ultimi giorni e Jack temeva ardentemente, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad anima viva, che sarebbe morta presto, lasciando la piccola Emma in un momento così delicato. Così si avvicinò verso la camera della madre con lentezza spropositata, ben attento a non fare il benché minimo rumore ma sua madre se ne accorse lo stesso.
“Jack”, lo chiamò con appena un sussurro, cercando di mettersi composta. Visto che non aveva la forza necessaria neanche per quel gesto, se ne occupò Jack, alzandole il cuscino e facendo in modo che si potessero guardare nel viso. La luna era maledettamente luminosa nel cielo, quella notta, non impedendogli di vedere il volto della madre. Il ragazzo si stupiva ogni volta di constatare quanto la madre e la sorella fossero simili: il viso rotondo, paffuto, conferiva maggiore dolcezza, che era comunque ben visibile dai grandi e caldi occhi castani e dalle fossette che si formavano quando sorridevano. E Jack si sentiva tremendamente male quando osservava anche il corpo sciupato della madre, estremamente magro, o i pochi capelli rimasti a causa della malattia.
“Jack, ho sentito movimento ieri sera”, cominciò lei, sempre sussurrando, incapace di parlare ad una voce più alta, “hai portato qualche amico a casa?”, chiese, accompagnando la frase con un sorriso. Il brunetto ne abbozzò uno anche lui, pensando che la madre si preoccupava per lui come se fosse ancora un bambino e non del decorso della sua malattia.
“Sì mamma, ho portato giusto qualcuno. Avevano bisogno di protezione”, rispose lui, scostandole qualche ciuffo di capelli dalla fronte ed approfittandone per controllare se avesse la febbre.
“E non me li hai fatti conoscere?”, domandò lei, posando la mano ossuta sulla guancia del figlio.
“Pensavo fossi stanca”, bofonchiò lui cercando di eludere la domanda e quindi di dare la vera risposta.
“No, tesoro, la mamma sta bene”, fece lei, sorridendo. Fu lì che Jack si ritrasse dal contatto.
“No mamma, tu non stai bene”, disse lui, abbassando lo sguardo. La madre sgranò gli occhi castani, più grandi del normale, come se gli stesse rivelando una terribile verità. “Sei malata e stai per..”
“Jack, sto bene. Come non potrei stare bene con dei figli come te ed Emma?”
Il brunetto non rispose, soffermandosi più del dovuto a guardare il cielo che, dal blu scuro, stava diventando sempre più chiaro fino all’azzurro del primo mattino.
“Jack, lo so benissimo che me ne sto andando”, affermò lei, la voce non più un sussurro, quasi lo stesse rimproverando. “Mi piacerebbe conoscere questi tuoi amici. Devono essere importanti, se li hai portati qua”, disse poi sorridendo, con la voce di nuovo dolce.
“Certo mamma”, accordò lui, annuendo. “È quasi mattina, ti porto un bicchiere di latte adesso.”
“No Jack”, replicò lei, cercando di afferrargli il braccio visto che si stava alzando. Ma Jack sorrise.
“Hai bisogno di forze, mamma. Sono amici speciali.”



“Hai dei capelli bellissimi! E sono così lunghi!”, esclamò Emma quella mattina a Rapunzel, proprio mentre era impegnata ad intrecciarle i capelli. In realtà la sua prima scelta era stata Merida ma la ragazza aveva decisamente ostacolato tutti i tentativi della bambina nel legarle i capelli (arrivando perfino a scappare e a farsi inseguire dalla brunetta) e aveva finito per lavarseli e ritornare al suo riccio indomabile.
“Grazie”, fece di rimandò Rapunzel, sorridendo ampiamente. “Li lascio crescere da sempre ormai.”
“Sono davvero meravigliosi. Sembrano tanti fili d’oro!”, continuò ad elogiarla la bambina, armeggiando con quei capelli –immensi-.
“Ragazze”, le salutò Jack, entrando allegramente nella loro stanzetta, “e Hiccup”, aggiunse, abbozzando un sorriso all’artista che stava per approfittarsi di quel momento per recuperare il sonno perduto, “vi voglio presentare una persona”, disse, facendo segno di seguirlo.
“È lei?”, chiese Emma, prendendo la mano del fratello maggiore. Questo annuì, e i tre amici non poterono fare a meno di guardarsi confusi. Lo seguirono per un corridoio stretto e lungo, finché non si trovarono in una stanza abbastanza piccola, con un solo letto e una persona. Era innegabile non definirla madre di Jack e di Emma data la somiglianza.
“Jack, presentami i tuoi amici”, disse la signora, in un sussurro. Il brunetto annuì ma Hiccup lo precedette. Era cresciuto senza una madre, e in quel momento non capiva bene perché Jack avesse voluto nascondere la sua esistenza. Per anni era stato convinto che Jack fosse solo al mondo, senza più una famiglia, mentre nel giro di una notte aveva scoperto che aveva una sorella e una madre malata. Si sentiva in un certo modo tradito –era davvero la parola esatta?-. Credeva che nessuno meglio di Jack avrebbe potuto comprende la sofferenza della separazione dalla famiglia, comprendere lui, ma Jack provava una sofferenza del tutto diversa.
“Salve signora Overland, io sono Hiccup e sono..”
“Tu sei l’artista”, lo interruppe la donna, lo sguardo febbricitante. “Mio figlio parla spesso di te”, spiegò, facendo segno al moro di avvicinarsi per osservarlo meglio.
“Hai degli occhi splendidi, ragazzo mio, capaci di leggere il mondo.”
“Grazie”, sussurrò Hiccup, “spero di esserne davvero capace.”
“E lo sarai. Grandi progetti porterai a termine, uno più straordinario dell’altro. Non spaventarti delle perdite, però. Anche queste saranno spaventose”, confermò lei, sfiorandogli appena la guancia tempestata da lentiggini. Poi il suo sguardo cadde sulla bionda, in piedi accanto ad Emma.
“Io sono Rapunzel, invece”, disse la bionda rispondendo a quella muta richiesta e tendendo una mano verso la madre di Jack ed Emma. Anche per lei la donna riservò un caldo sorriso, arrivando ad accarezzarle le mani, come se gliele volesse scaldare.
“Rapunzel”, ripeté la donna, sorridendo tra sé e sé. “Sei più forte di quanto pensi, ragazza mia. Ti auguro di realizzare ogni tuo sogno.”
“Grazie mille, glielo auguro anche a lei.”
“I miei due sogni si sono già realizzati”, commentò lei, posando il suo sguardo su Jack ed Emma. Poi questo si spostò su Merida.
“Io sono..”, cominciò la ragazza, ma la donna aveva già iniziato a scuotere la testa.
“Morissi all’istante se non riuscissi a riconoscere un membro della famiglia reale”, disse, con quella sua voce così debole, “tu devi essere Merida.”
“Sissignora”, confermò la rossa, avvicinandosi alla signora per vederla e farsi vedere meglio. Questa reclinò la testa a destra e a sinistra, come se la stesse studiando.
“Spero proprio che riuscirai a salvare il regno”, sospirò la donna, come se fosse estremamente stanca al punto che Emma le si avvicinò.
“Morirò tra le fiamme se non ucciderò Mor’du personalmente”, disse Merida duramente, ma la madre di Jack sorrise, come se stesse parlando ad una bambina.
“Quando il sangue bolle l’anima incita la lingua ad esprimere voti sacri e pericolosi. Fuochi fatui, bambina, che emettono più luce che calore, che sono già svaniti non appena pronunciati.”
Vedendo le sopracciglia ramate della principessa aggrottarsi, confuse, si affrettò ad aggiungere: “Non mi aspetto che tu capisca questo subito, ma non sempre va come noi vogliamo. Ognuno di noi è dannato, moriamo tra fiamme e fortuna.”
Merida non replicò, non volendo iniziare una discussione con una donna chiaramente malata e debole.
“Sono davvero contenta di avervi visto”, disse la donna, “adesso so che i miei bambini sono in mani sicure.”
E detto questo, i suoi occhi si chiusero.



 
(La morte. Suonava così maestosa)




Fu straziante rimanere là. Si guardò le mani che la donna prima aveva toccato, accarezzato come se ne conoscesse davvero il grande potenziale sicuramente meglio di lei. Le veniva voglia di piangere. Aveva sofferto, studiato per imparare a curare, a far continuare a vivere eppure l’unica cosa che aveva visto da quando aveva abbandonato la casa del Genio era stata la morte. Era dura fare i conti con questa entità che sembrava controllare le loro vite meglio ancora del destino. La morte. Suonava così maestosa. Chiuse gli occhi verdi, come se volesse ignorare quella scena che era rimasta impressa, comunque, nella sua mente. Poteva ancora vedere la sagoma di Jack fiondarsi sulla madre, abbracciandola, cercando di aiutarla, mentre Merida si era avvicinata quel tanto che bastava ad Emma per tenerla lontana dal corpo della madre. Hiccup aveva guardato insistentemente Jack, come se stesse cercando di fargli capire che ormai era tutto inutile. E lei continuava a rimanere immobile, cercando di estraniarsi da tutto questo dolore, da tutta questa sofferenza. Ma più semplicemente non poteva. Ed in quel momento, comprese perfettamente le parole di Hiccup qualche mese prima.
“Come fai?”, gli chiese Merida, guardandolo con aria accusatrice. Gli occhi acquamarina sembravano ardere del più gelido dei fuochi.
“Cosa?”
“Un uomo è morto e tu sei impassibile. Come fai?”, ripeté.
“Quell’uomo sarebbe morto lo stesso. Forse non oggi, ma un domani sarebbe morto, e nessuno di noi avrebbe potuto far niente lo stesso”, spiegò Hiccup, rivolgendo uno sguardo di riguardo alla bionda, che si era appoggiata alla spalla di Jack.
“Ma è pur sempre un uomo!”
“Cambierebbe qualcosa forse?”

Il Genio gliel’aveva spiegato, ma non le era mai stato chiaro fino a quel momento. Tutti loro erano immersi in un cerchio e tutti loro sarebbero morti, prima o poi. E questo era il momento della signora Overland. Pertanto Rapunzel decise di incanalare quella sofferenza in sé. Aprì gli occhi e andò ad abbracciare Jack ed Emma, lasciando che il loro dolore diventasse anche il suo dolore.


 
(Riunioni)




“Dove potrà essere finita?”, domandò Fergus, guardando intensamente quella mappa procurata prontamente da Gobber. Questo si limitò a fissarlo, toccandosi di tanto in tanto i lunghi baffi intrecciati, senza dire una parola. Stoick si avvicinò anche lui a guardare quella mappa della città, come se vi fosse scritto il luogo in cui si trovava la principessa in quel momento.
“Almeno sappiamo che non è stata catturata dal nemico”, disse il comandante delle guardie, sollevato. Fergus levò gli occhi acquamarina, dello stesso colore della figlia, al cielo. “Speriamo.”
“Se fosse stata catturata lo sapremmo. Mor’du se ne vanterebbe”, lo confortò quello. Il re annuì, come se non ne fosse pienamente convinto, poi si rivolse a Gobber. “Avevi detto che qui avevi un sacco di armi.”
Gobber alzò la mano –e anche la protesi- in aria, come a volersi dichiarare innocente. “Ce le avevo. Hiccup le avrà portate via”, cercò di giustificarsi.
“Perché quel ragazzo non ne combina una giusta?”, chiese Stoick sospirando. Loro avrebbero potuto utilizzare quelle armi, che ne avrebbe fatto invece Hiccup? Ma Fergus non sembrava così arrabbiato.
“Quanto vorrei avere quell’artista qui davanti!”, esclamò.
“Anch’io. Gli darei una bella stringata”, commentò Stoick, mentre Gobber si versava elegantemente un bicchiere di birra.
“Cosa? No!”, fece Fergus, guardando l’amico. “Gli parlerei delle armi. Devo solo espugnare il castello e poi la guerra potrà iniziare.”
“La guerra è già iniziata, Fergus”, disse Gobber, versandosi un altro bicchiere.
“Non ad armi pari.”
“Ci serve trovare solo Merida ed Hiccup”, disse Stoick, sospirando tristemente, ma Gobber sorrise. “So chi ci può riuscire.”



“Io non mi sono allenata per questo!”, esclamò Astrid, in risposta alla proposta di Gobber che la guardava come se da lei si aspettasse una risposta del genere.
“Già, e poi perché lo dovremmo fare?”, chiese Snotlout, svogliato, sbadigliando sonoramente. “Insomma, sono fuggiti di loro spontanea volontà. Non sono stati rapiti o cose del genere. Se ne sono andati. Io non vorrei essere trovato se fuggissi.”
“Poi sono solo due persone. Passano inosservate, solo due persone”, si aggregò Fishlegs, annuendo rivolto agli altri compagni.
“Non sono due persone! Sono quattro!”, gracchiò l’insegnante. Alla vista dello sguardo interrogativo degli allievi aggiunse: “Si tratta di Jack e di Rapunzel. Quattro persone non passano inosservate, specialmente per i capelli delle due fanciulle. E adesso, andate a cercarli!”
“Non ci penso nemmeno”, dissero in coro i due gemelli Ruffnut e Tuffnut, facendo roteare gli occhi al cielo al maestro. Era costretto ad affidare quella missione a loro: i nobili erano troppo occupati a difendere i loro possedimenti e Aster sembrava sparito, volatilizzato nel nulla.
“Sentitemi babbei”, tentò di persuaderli ancora il vecchio maestro ma venne interrotto da Stoick.
“Sentite, lo so che dopo il vostro addestramento andare a recuperare la principessa sembra una perdita di tempo, ma non lo è. Ne va della salvezza di Dunbroch. Avete fatto un voto, avete consacrato la vostra vita alla nazione. E ora il vostro re vi ordina di trovare la principessa”, disse il comandante delle guardie, camminando tra di loro. “E voi lo farete”, aggiunse, con un tono che non ammetteva repliche, fermandosi a guardare Astrid.
“Tu non sei il nostro re”, disse Ruffnut, ricevendo proprio un’occhiataccia da Astrid ma Stoick sorrise beffardo.
“Hai ragione. Io non lo sono, lui sì”, e indicò un punto imprecisato alle sue spalle dove comparve Fergus. Tutti s’inchinarono, senza nessuna eccezione. L’unica a parlare fu Astrid.
“Giuro che troverò sua figlia, sire”, disse, assottigliando gli occhi, ghiaccio puro incastonato.


 
(Scelta)




Jack si soffermò a guardare ognuno di loro, ringraziandoli mentalmente della loro presenza. Sua sorella si era già addormentata da tempo e lui li aveva chiamati a parlare in cucina a notte tarda. Poteva ben notare come Rapunzel lo guardava, come se dovesse crollare e perdere il controllo un’altra volta –cosa che, comunque, non sarebbe accaduta-, o Hiccup, che fingeva di fare altro mentre aspettava pazientemente che il brunetto si prendesse tutto il tempo necessario per dire ciò che aveva da dire. Merida, invece, sembrava immersa nei suoi pensieri, toccandosi di tanto in tanto la collana con lo stemma della sua famiglia. Gli dispiaceva, gli doleva dire quello che stava per dire, eppure non c’era altra soluzione.
“Vi lascio”, disse Jack, dopo quella che sembrava un’eternità. Tre paia di occhi puntarono la loro attenzione su di lui, anche più del dovuto. “Scusatemi, ma dopo..”, qui si fermò, sentendo un fastidiosissimo groppo alla gola, “dopo quello che è successo, non me la sento di lasciare Emma.”
Rapunzel annuì, mentre Hiccup rimase in silenzio. Solo Merida non riusciva a capire.
“Perché?”, chiese, la voce un sussurro. Jack la guardò di rimando, come se lui non riuscisse a capirla.
“Non voglio trascinare mia sorella all’inferno”, rispose il ragazzo, evitando di aggiungere per te.
“Ma c’è solo un inferno, e noi ci viviamo. Rimanere qua con tua sorella o portarla in viaggio non cambierà niente. Forse avrà una speranza in più di sopravvivere”, disse la rossa, cercando con gli occhi l’appoggio degli altri due. Jack si fermò un attimo a riflettere e Rapunzel ne approfittò per posargli una mano sopra la sua e gli sorrise.
“Non sarai solo a proteggerla, ci saremo anche noi.”
Ma Hiccup non era d’accordo. Anche se nella sua mente accusava Jack di avergli mentito, rimaneva sempre una delle persone a cui voleva più bene al mondo. “È vero”, disse cauto, ricevendo prontamente un sorriso dalle due ragazze, “ma portandola con noi la esporresti a più pericoli”, aggiunse, ritrovandosi due paia di occhi terrorizzati –ovviamente quelli di Jack e di Rapunzel, e un paio che lo guardavano con astio. 
“Certo, ma qui continueresti a non poter tenere d’occhio Emma sempre. Ci saranno sempre quelle volte in cui dovrai uscire per il cibo, o per controllare la situazione”, replicò Merida.
Jack chiuse gli occhi, sforzandosi di pensare lucidamente. Avevano ragione entrambi, purtroppo. Viaggiando con loro (a che scopo poi? Sarebbero riusciti semplicemente in quattro a sconfiggere un’intera nazione militare come Drachma?) avrebbe esposto sua sorella, che adesso costituiva tutta la sua famiglia, a continui pericoli uno dopo l’altro. E loro quattro sarebbero riusciti ad evitarli tutti? Contando che un pazzo voleva uccidere a tutti i costi la principessa? Rimanendo a casa, invece, avrebbe potuto sorvegliare meglio la sorella, uscendo solo per rubare qualcosa di indispensabile. Ma in quei momenti sua sorella, la sua curiosa sorella, sarebbe rimasta a casa senza fare alcun rumore? E se fosse uscito e non l’avesse più trovata? Magari andando in viaggio avrebbe potuto prestarle attenzione Rapunzel, compensando così quelle attenzioni femminili che lui non era in grado di darle. Ma se per sfortuna –visto che la fortuna sembrava essersi dimenticata di loro- fossero stati catturati? Potevano ricongiungersi semplicemente con i genitori, sperando che la loro fine non fosse troppo dolorosa.



“Cosa stai facendo?”, domandò Hiccup, rimproverando la ragazza dai capelli rossi.
“Sto cercando di aiutare un amico!”, rispose lei, offesa dal comportamento del ragazzo.
“No! Io sto cercando di aiutare un amico. Tu gli stai semplicemente proponendo di andare a morire con sua sorella!”
“Credi che stia facendo questo?”, chiese lei, sgranando gli occhi acquamarina che erano diventati pericolosamente gelidi. “Pensi che vi stia mandando tutti a morire?”
Hiccup indietreggiò, capendo di aver detto qualcosa di sbagliato. “Io non intendevo questo.”
“Gli ho dato una possibilità. O protegge da solo Emma, o la proteggiamo tutti quanti.”
“No, non è così semplice. Non si tratta di proteggere, si tratta di sopravvivere”, replicò Hiccup.
“E risolveremo ogni problema quando si presenterà!”
“Perché metti in discussione sempre tutto?”
“Parli tu che metti in discussione il punto e anche la virgola!”
“Che succede, ragazzi?”
Ad interromperli fu Emma, che faceva capolino dalla finestra sotto la quale i due si erano messi a discutere. La brunetta li guardava preoccupati, stropicciandosi gli occhi –evidentemente avevano disturbato il suo sonno- ma comunque rivolgeva ai due ragazzi un dolce sorriso.
“Sta’ tranquilla Emma, torna a dormire”, disse semplicemente Hiccup, abbassando la testa.
“Emma”, la chiamò Merida, utilizzando il tono di voce che utilizzava con i suoi fratelli, “stiamo parlando di una scelta che deve fare tuo fratello”, le rivelò e sentì immediatamente gli occhi dell’artista posarsi su di lui. “Magari tu puoi aiutarlo a decidere.”
La bambina annuì. “Di cosa si tratta?”
“Della vostra vita.”



Astrid stava perdendo la calma. Era tutto il giorno che cercava la principessa ed Hiccup, ma non era per questo che stava perdendo la calma. Era la compagnia. Sfortunatamente, il comandante Stoick le aveva ordinato di eseguire quella ricerca di gruppo ma sinceramente le sembrava di perdere del tempo prezioso. Era evidente che il capitano delle guardie non sapesse come si destreggiava con la sua ascia a bipenne se le aveva dato quel compito. Si fermò ancora una volta, aspettando che i suoi compagni si sbrigassero e si fermò a guardarli. A parte Snotlout erano tutti dei pessimi lottatori, e Snotlout non era nemmeno migliore di lei. I due gemelli Ruffnut e Tuffnut stavano –nuovamente- litigando, mentre Fishlegs aveva il fiatone non essendo abituato a camminare per così tanto tempo. E Snotlout invece sembrava troppo occupato a cercare di far colpo su di lei piuttosto che svolgere quella missione.
“Sono circondata da un branco di idioti”, commentò la bionda, voltandosi disgustata e riprendendo la sua spedita camminata.
“Cosa hai detto, Astrid?”, chiese Snotlout, sorridendo amabilmente. La ragazza strinse i suoi occhi glaciali.
“Niente”, disse semplicemente, sperando ardentemente di trovare il prima possibile Merida e Hiccup.
“Hai coinvolto una bambina!”, esclamò qualcuno, poco distante da dove erano loro.
“Aveva il diritto di sapere. La scelta riguarda anche lei”, disse di rimando una voce femminile.
“E va bene. Hai vinto”, fece l’altro in segno di resa, alzando pure le mani in alto. Astrid si avvicinò leggermente, attenta a non far rumore e riconoscendo le due figure. Era impossibile non riconoscere, anche nella notte, i capelli della principessa.
“Cosa? Non è un gioco, Hic. Voglio che Jack venga con noi, voglio che non muoia di solitudine cercando di salvare sua sorella. Io voglio aiutarlo. È questo che fanno gli amici. Perché tu lo vuoi tenere lontano, invece?”
La bionda ringraziò mentalmente Odino per aver realizzato il suo desiderio e fece segno agli altri di seguirla ma purtroppo non furono così silenziosi come lei sperava. Infatti, prima che il moro potesse dare anche una sola risposta alla principessa, i due interlocutori si girarono verso la fonte del rumore l’uno con la spada e l’altra con l’arco.
“Chi va là?”, chiese Merida, con un tono irato (più per la conversazione che per incutere timore). Astrid si fece avanti lentamente, le mani in aria e ben attente a non sfiorare neanche casualmente la sua arma. Aveva già avuto prova della bravura della principessa a combattere.
“Principessa, vostro padre mi manda a chiamarvi.”

 
(Nel frattempo, a palazzo)




Era buio, e faceva freddo. La donna pregò tutti gli dei in cui credeva affinché i suoi figli non fossero in quella stessa situazione in cui si trovava lei. Strinse ancora di più le mani nelle sbarre, mani che erano pure legate con le manette, fino a far diventare le nocchie bianche. Le veniva voglia di piangere, vista la situazione. Un forte rumore la destò, inducendola ad andare verso l’angolo più remoto della sua cella. Sentì altri passi, pesanti, strascicati, finché questi non si fermarono proprio davanti alla sua cella.
“Sua maestà”, disse una voce roca, profonda, quasi ferina e fintamente cortese, “sono venuto a parlarle. Sono alquanto dispiaciuto per il modo in cui l’hanno trattata. Ho saputo che non ha ricevuto nemmeno i pasti quindi ho provveduto a portarvene personalmente.”
L’uomo aprì la cella, porgendole un vassoio pieno di leccornie proprio davanti a lei. Elinor osservò tutto attentamente, senza toccare nulla, e posò i suoi occhi sull’uomo.
“Cosa vuoi, Mor’du?”, domandò, sprezzante, mentre l’uomo rideva, accarezzandosi la folta barba bruna.
“Da te niente, mia cara”, rispose, continuando a guardarla dall’alto con un sorriso compiaciuto.
“Credi di essere migliore di me, vero?”, chiese lei, con astio. “Io sono una donna libera!”
“Una donna libera?”, ripeté Mor’du, beffeggiandola, soffermandosi sulle manette e aprendo le mani ad indicare l’intera cella.
“Anche se sono una prigioniera rimango una donna libera”, rispose Elinor. “Anche se ho queste”, disse, alzando i polsi dove le manette di ferro avevano già fatto i propri segni sulla pelle rosea della sovrana, “continuo ad essere una donna libera!”
“Sei mia prigioniera!”, urlò l’uomo, perdendo la calma. “Sei mia prigioniera, sei imprigionata qui, non hai alcuna libertà, non puoi essere una donna libera. Questo vuol dire essere prigioniera.”
“E tu cosa sei?”, lo provocò Elinor, ricevendo un sonoro schiaffo da quell’uomo.
“Prendete quel vassoio”, ordinò Mor’du, irato. “E chiudete nuovamente questa cella. Sua maestà la regina non riceverà più niente da noi.”



Ciao a tutti e buone vacanze! La maturità non mi ha ucciso e io sono ritornata a scrivere solo adesso perché onestamente sono una persona stanca e annoiata dalla vita che non trova l'ispirazione in qualcosa che tra l'altro è semplicemente nella mia testa. Scusate il ritardo e spero che vi godiate il capitolo. Buona lettura
dalla vostra gingersnapped
 

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Capitolo 13
*** La (ri)scoperta dell'amicizia ***





La (ri)scoperta dell’amicizia
 
 
 
“Deciderò io per tutti e due, va’ a letto adesso.”
“No!”, esclamò la bambina, le lacrime agli occhi. “Merida me l’ha spiegato. È anche una mia scelta!”
Jack alzò gli occhi al cielo, e Rapunzel sapeva cosa stava facendo: stava maledicendo mentalmente la rossa. Il brunetto le aveva confidato che da quando era entrata nelle loro vite –più che altro, da quando erano in contatto- tutto sembrava essere precipitato, mandando nel più completo caos il loro futuro.
“Non è così semplice, Ems.”
“Sai cosa mi diceva sempre mamma quando tu eri via?”, gli chiese lei, le lacrime ormai scorrevano sulle guance. “Sii gentile e coraggiosa. E io voglio esserlo.”
Rapunzel rimase in silenzio, desiderando eclissarsi in quella cucina. Non aveva mai pensato che sarebbe andata a finire così. Per lei la scelta non era mai stata posta. Lei non aveva nulla e nessuno da perdere, tranne sua madre ma si era convinta che ce l’avrebbe fatta perché era una donna forte. Sperava di dimostrare che era forte almeno quanto lei ma Jack.. per lui era una terribile decisione, ora più che mai dopo le parole di Hiccup. Emma era davvero una bambina d’oro, e Merida aveva ragione a dirle che anche a lei spettava decidere solo che sembrava tutto così sbagliato.
“Sei troppo piccola!”, esclamò Jack, alzando la voce. Anche stavolta la ragazza rimase in silenzio, abbassando i grandi occhi verdi per non guardare quelli dell’amico che sembravano annegare nella disperazione.
“Non voglio vivere imprigionata qui per sempre, Jack”, lo supplicò Emma, andando ad abbracciarlo e il fratello ricambiò caldamente la salda presa.
“Salve ragazzi”, disse Hiccup, entrando nella stanza e abbozzando una sorta di sorriso, con un atteggiamento molto goffo. Rapunzel lo guardò confusa, domandandosi il motivo di quella interruzione. Non era un comportamento molto rispettoso nei confronti di Jack interrompere quella sorta di dialogo con la sorella, e Hiccup lo sapeva. La guardava sicuro, e molto preoccupato, completamente in antitesi con il suo ingresso nella stanza. Era successo qualcosa.
 “Sono piuttosto sicuro che ce ne dobbiamo andare adesso”, disse, con tono grave. “Anche tu Jack, ed Emma.”
“Perché?”, domandò Jack, aggrottando diffidente le sopracciglia. D’altronde lui e la sorella non erano giunti a nessuna conclusione.
“Vi ha convocati il vostro re”, rispose Astrid al posto del ragazzo entrando anche lei nella piccola cucina.


 
(Conversazioni impensabili)



“Fortunatamente non abbiamo problemi a passare inosservati in sole 10 persone”, scherzò Jack. “Dopotutto vogliono uccidere solo una di noi”, aggiunse, lo sguardo verso Merida che camminava assieme a Rapunzel ed Emma.
“Prima dovranno passare sui nostri cadaveri”, replicò Astrid, guardando il brunetto con superiorità.
“Purtroppo non faranno troppa fatica”, replicò sarcastico Jack, dando una gomitata fra le costole ad Hiccup. Era il suo migliore amico, avrebbe dovuto ridere a quella battuta! E invece se ne stava silenzioso, con quel suo dannato volatile sulle spalle, evidentemente troppo pigro perfino per spiccare il volo.
“Ehi amico”, lo richiamò Jack, fermandolo. Hiccup lo guardò, per poi spostare il suo sguardo in una manciata di secondi. “Amico, cos’hai?”, gli chiese Jack, sinceramente.
Hiccup non rispose immediatamente, pensando che la domanda fosse alquanto ironica, in sé. Davanti a lui c’era Jack, il suo amico Jack che aveva perso la madre e che lui stesso aveva visto perdere il controllo difronte a quella perdita, che gli chiedeva come stesse lui. “Niente”, borbottò lui, cercando di andare avanti, ma Jack aveva intuito che c’era già qualcosa.
“Cos’hai?”, ripeté, fermandolo nuovamente. Hiccup alzò gli occhi verdi al cielo.
“So che c’è qualcosa che non va e tu me la dovresti dire”, disse Jack, mesto, ma quelle non erano le parole adatte. Furono l’inizio di un’esplosione.
“Così come tu avresti dovuto dirmi che avevi una madre e una sorella?”, chiese l’artista, riprendendo a camminare con passo spedito. Jack rimase inizialmente impietrito, poi accelerò per stargli al passo.
“Era più complicata di così la situazione, Hiccup!”, esclamò il brunetto, gesticolando.
“No, non lo era”, replicò l’altro. “Ehi, Hic, io ho una famiglia”, disse a conferma quello, in un’imitazione –molto buffa e per nulla somigliante- dell’amico. “Non mi sembra così complicato.”
“Tu non hai vissuto tutti questi anni con il peso di una famiglia come la mia”, lo accusò Jack. “Dove mia madre non riusciva nemmeno a prendere Emma e mio padre..”
“Hai anche un padre?”
“No! Voglio dire, ci ha abbandonati quando è nata Emma.”
Hiccup rimase in silenzio, spostando il suo sguardo a terra. Si sentiva incredibilmente stupido in quel momento e Toothless, nella sua spalla, sembrava sottolineare questo fatto beccandogli la testa.
“Perché sei così arrabbiato per questa cosa?”, chiese Jack, tornando malinconico.
“Perché è importante. Da quando ci siamo conosciuti io ti ho raccontato ogni evento importante della mia vita e scoprire che tu non l’hai fatto. Mi hai mentito su un aspetto fondamentale della tua vita, perché dovrei continuare a fidarmi di te?”
“Sappi che io non ho mai mentito su di noi. Tu sei davvero il mio migliore amico”, disse il brunetto, dandogli una pacca affettuosa sulla spalla. Vedendo che Hiccup non reagiva –doveva ancora elaborare l’intera faccenda- pensò bene di lasciarlo da solo, aggregandosi invece alla sorella.
Hiccup rimase in silenzio, continuando a guardarlo camminare in modo buffo per far divertire la sorella. E gli doleva ammettere che Merida aveva posto la domanda giusta. Perché lo vuoi tenere lontano?



“Alla fine vieni con noi”, disse la rossa, appena Jack si avvicinò, rivolgendogli un piccolo sorriso. Questo ricambiò.
“Non ho avuto molta scelta”, ammise il ragazzo, lasciandosi scappare un altro sorriso. Forse il primo genuino della giornata dopo quel lutto. Come sembrava ironico, ciò che la sorte gli aveva riservato in una manciata di mesi. E tutto era iniziato da quelle tre pesti dei fratelli di Merida che si erano lasciati corrompere dalla sorella per farsi comprare un arco. In pochissimo tempo, con qualcosa che lui stesso avrebbe definito molto futile, la ragazza aveva iniziato a intrecciare i loro destini e adesso i fili stavano disegnando una trama oscura e poco definita, di cui neanche la fanciulla sapeva bene come sarebbe finita.
“Se avessi potuto, cos’avresti scelto?”, chiese lei, toccandogli appena la spalla e costringendolo a fermarsi. Rapunzel ed Emma andarono avanti, non curandosi dei due che rimanevano indietro. Jack rimase a guardare le due ragazze andare avanti, finché non si sentirono le loro risate, limpide e giocose come mille campanellini.
“Sarei partito”, rispose, riprendendo a camminare. “Sappi però che non l’avrei mai fatto per la principessa”, aggiunse, facendole l’occhiolino. Merida sbatté le ciglia ramate un paio di volte, prima di dargli un buffetto sulla testa.
“Dovresti scrivere un saggio. Come offendere un reale in dieci parole”, replicò lei, facendolo ridere, nonostante fosse offesa.
“Tu non sei la principessa. Tu sei Merida. Noi siamo amici, e sarei partito volentieri per aiutare un’amica.”
“Grazie, Jack”, lo ringraziò lei, profondamente colpita. “Grazie davvero.”
“Fermatevi”, disse Astrid ad alta voce, richiamandoli tutti. “Siamo arrivati.”

 
(Padri)



“Merida!”, esclamò Fergus, riconoscendo la figlia ed abbracciandola. Stoick e Gobber, invece, era troppo concentrati su Hiccup che cercava di farsi sempre più piccolo.
“Stiamo un po’ stretti qua, non è vero?”, disse Hiccup, seduto nel letto della bottega sua e di Gobber, tra suo padre e il suo maestro, mentre gli altri era sparsi nella bottega. Non erano mai stati così tanti là dentro, e adesso avevano pure mancanza di spazio.
“Cosa sono questi?”, chiese Fishlegs, rovistando tra i fogli.
“Non toccare, no, no, no”, cercò di fermarlo il giovane, in un tentativo di alzarsi ma il braccio del padre lo teneva fermo, così Fishlegs –stupido grosso e grasso ragazzino che non si faceva gli affari suoi- sparpagliò per terra gli schizzi che il moro aveva usato come prova per il dipinto dei Dunbroch, e altri che il giovane aveva realizzato al palazzo senza che la famiglia reale lo sapesse. Infatti in alcuni c’era addirittura la regina, Elinor, che parlava in maniera intima con il marito, le piccole mani sulle enormi braccia di lui mentre il sovrano sorrideva, o i tre fratellini, Hamish, Hubert e Harris che giocavano con delle spade di legno o, ancora loro, che si ingozzavano di dolcetti precedentemente rubati da Maudie. E poi non poteva mancare Merida, ovviamente. L’aveva ritratta in una delle sessioni del loro addestramento, proprio mentre gli insegnava a tirare con l’arco. Per come era stato fatto lo schizzo, molto velocemente, più attento a cogliere il carattere che non l’aspetto in sé, l’arco non era altro che parte della ragazza, una parte di sé, mentre gli occhi della figura femminile guardavano lo spettatore fisso negli occhi.
“Quale parte di non toccare non capisci?”, fece Jack in difesa del moro, che era rimasto impietrito, mentre Emma cercava di riordinare tutti i disegni. Hiccup gli rivolse un segno di riconoscimento e riservò un sorriso alla brunetta che, dopo aver raccolto i fogli, glieli consegnò in mano.
“Bene sire, avete sua figlia, avete l’artista. Adesso che dobbiamo fare?”, domandò Astrid, facendo un inchino –per quanto possibile dato il pochissimo spazio- al re dai capelli rossi.
“Ehm, io”, cominciò il re impacciato, finché la figlia non gli lanciò un’occhiata truce –proprio come la madre- “noi abbiamo bisogno di parlare, voi perché non sorvegliate qua fuori?”
“Va bene”, accordò Astrid, con referenza. “Circolare!”, urlò poi subito dopo, “Tutti”, specificò, facendo segno anche a Jack e Rapunzel che pendevano letteralmente dalle labbra per sentire quella conversazione.
“Bene”, disse Stoick appena si chiuse la porta, alzandosi per sgranchire le ossa, “come ti è venuto in mente di prendere tutte le armi?”, chiese furibondo rivolto al figlio. Questo si girò verso Gobber, rimasto fermo al suo posto, che si allisciava i lunghi baffi biondi.
“Non le ho prese io”, cercò di difendersi, mentre Stoick lo guardava trucemente con i suoi occhi, verdi esattamente come i suoi. Hiccup chiuse perfino i suoi, in attesa che l’ira dell’uomo passasse velocemente. Trovava decisamente strano e perfino curioso il fatto che il padre si stesse interessando di lui –o almeno, su qualcosa che riguardasse lui più o meno indirettamente- e questo lo metteva decisamente a disagio.
“Le ho prese io”, disse Merida, infilzando il tavolo con la spada e intromettendosi in quel modo in quell’interrogatorio. “Le altre le ho date a Jack e Punzie.”
“Principesse”, commentò Gobber, bevendo birra direttamente dalla mancante mano, “sono tutte matte.”
Stoick si voltò verso Fergus, imbarazzato e senza parole. Quello alzò le spalle, senza dire nulla riguardo la figlia.
“Bene”, brontolò, mentre Merida lo fissava con i suoi grandi occhi acquamarina, “abbiamo chiarito la faccenda delle armi della bottega.”
“Adesso parliamo di quelle che ti avevo commissionato, ragazzo”, sviò l’argomento il sovrano, attirando l’attenzione sul giovane artista.
“Le armi sono in progettazione all’officina. Non penso che siano pronte con.. con quello che è.. successo, ecco”, balbettò Hiccup, gesticolando ampiamente con spalle e mani.
“Io ho bisogno di quelle armi!”, esclamò Fergus, urlando.
“Re”, commentò nuovamente Gobber, stavolta a voce più bassa in modo che potesse sentirlo solo Hiccup che era al suo fianco, “sono tutti matti.”
“Io potrei raggiungere l’officina e terminare il lavoro ma non so quanto ci metterò”, disse il moro, muovendo velocemente le dita come se questo aiutasse a pensarlo, “avrò comunque bisogno di persone, e di tempo.”
“Io ne ho bisogno il prima possibile. Devo liberare mia moglie e i miei figli.”
“E hai delle persone a tua disposizione”, aggiunse la figlia, guardando in direzione del padre. Sia Gobber che Hiccup la guardarono dubbiosi, mentre Stoick cercava di mantenersi impassibile.
“Chi, di grazia?”, gracchiò Gobber mentre la principessa abbozzava un sorriso.
“Noi siamo già 4 persone che possono dare una mano, e là fuori ce ne stanno una decina”, spiegò lei.
“Potrebbe funzionare”, borbottò il vecchio maestro, alzandosi dal divano.
“Pensi di farcela, mastro Haddock?”, chiese Fergus, porgendogli la mano. Hiccup la guardò sorpreso, stringendola di buon grado.
“Io metterò anima e corpo, ve lo prometto.”

 
(All’officina)



“Non mi sono allenata per questo”, commentò Astrid, nuovamente, a mezza voce attirandosi in questo modo un’occhiataccia da Gobber che la zittì. Gobber non era affatto un buon maestro, e questo la bionda l’aveva pensato fin dal primo momento in cui l’aveva visto, ma sapeva farsi rispettare. D’altronde, lei stessa lo stimava molto. Era sopravvissuto alla Grande Guerra dell’Est rimanendo senza una gamba, e circolavano diverse voci su come si fosse mutilato la mano sinistra, e una di queste includeva un combattimento con Bludvist, uno dei tre re assassini  di Drachma che vantava di uccidere chiunque si mettesse nel suo cammino. Astrid lo stimava, perché Gobber era un sopravvissuto, un uomo morto mancato. Pertanto, quando Gobber le intimò con quell’occhiataccia di rimanere in silenzio lei lo fece, interessandosi di più alla sua treccia bionda che alle blaterazioni di Hiccup. Infatti nell’officina, completamente deserta eccetto che per loro, il giovane artista stava esponendo ciò che dovevano fare, come e quando, mentre Stoick e il re stavano cercando faticosamente di accendere tutte le braci.
“Ci sono domande?”, chiese Hiccup alla fine del suo discorso, guardando ad uno ad uno chi era presente. Astrid era ancora interessata ai suoi capelli, Rapunzel invece gli rivolgeva un sorriso incoraggiante, i gemelli Thorson stavano (nuovamente) litigando, chissà su cosa tra l’altro, Jack era indifferente, Snotlout lo guardava soddisfatto iniziando già ad arrotolarsi le maniche, Fishlegs era terrorizzato e Merida.. sembrava guardarlo con astio. Ancora. Hiccup deglutì, cercando di non apparire più nervoso di quanto desse a vedere quando la piccola Emma alzò la mano timidamente.
“Sì?”, gli fece Hiccup avvicinandosi alla sorella di Jack.
“Quindi il mio compito è assicurarmi che tutti lavorino?”, chiese per conferma, aggrottando le sopracciglia.
“Esattamente.”
“E se non lavorano?”
“Beh”, iniziò Hiccup, cercando un appoggio da Gobber che stava vicino a lui (e che, ovviamente, non gli diede), “lo dici a quell’uomo grande e grosso”, gli rispose con un sorriso, indicando il punto dove c’erano sia Stoick che Fergus.
“A quale, però? Sono tutti e due grandi e grossi!”, esclamò Emma, ancora dubbiosa.
“A quello che ha una lunga barba e un’espressione sempre arrabbiata sul volto. Non ti puoi sbagliare”, gli rispose il moro facendo ridere la bambina. Merida tossì appena, giusto per richiamare la sua attenzione, guardando un punto imprecisato alle spalle dell’artista con soddisfazione.
“Ce l’ho dietro, vero?”, chiese Hiccup e la brunetta annuì.
“Su, al lavoro!”, esclamò Rapunzel, cercando di dissimulare un sorriso nonostante le sue sopracciglia fossero aggrottate per la preoccupazione. Aveva appena salvato Hiccup da un destino crudele.

 
(Altrove)



“Andiamo Phil, è il mio momento!”, esclamò quel ragazzo, prendendolo in braccio e facendolo girare. Era irriconoscibile adesso. Fino a qualche mese fa era sempre stato magro, ossuto, con una costituzione molto esile sebbene fosse alto quanto una colonna: i capelli ramati e quelle lentiggini sulla pelle bianca gli avevano sempre donato un aspetto innocuo, per niente pericoloso. Adesso perfino i suoi stessi occhi sembravano cambiati: da azzurri, come il cielo a maggio senza neanche una nuvola, erano diventati rocamboleschi, come se ci fosse qualche terribile tempesta. Era maturato, ed era pronto per uccidere.
“Calma i tuoi spiriti bollenti, Hercules”, gracchiò il nano, ritornando –finalmente- con i piedi per terra, letteralmente. “Ti stai dimenticando l’aspetto più importante.”
“Tutto il paese è nel caos più totale, non penso che non vi sia bisogno d’aiuto!”
“Ma allora sei stupido!”, lo rimproverò l’uomo, dandogli uno scappellotto. “Ci deve essere una richiesta, non un bisogno.”
“Andiamo Phil”, ricominciò di nuovo Hercules, con tono persuasivo. “Non penso che il sovrano verrà mai qui a chiedermi di combattere per lui.”
“Fidati, succederà qualcosa”, disse Phil, sedendosi amaramente. “Succede sempre, purtroppo.”

 
(Scuse)



Hiccup si fermò per un momento, dopo aver finito di sistemare la prima fila costituita da 11 canne. Stavano lavorando ininterrottamente da circa due giorni e non avevano completato ancora nulla. Le occhiate di Fergus alternate con quelle del padre gravavano sempre di più sulla sua figura, che sembrava farsi sempre più piccola e inutile come qualche tempo fa. Avvertiva che anche gli altri erano tremendamente stanchi, ma nessuno in presenza del sovrano osava lamentarsi. E così in quell’officina sembrava essersi generato il clima del terrore: perfino nei momenti di pausa continuavano a sussurrare tra di loro, nella speranza di non disturbare il re, il cui umore precipitava insieme al tempo. Il moro si soffermò a guardare i suoi amici, presi anche loro nel lavoro. Jack stava forgiando proprio le canne dell’invenzione a cui stava lavorando Hiccup, mentre Merida e Rapunzel –entrambe pessime in questo lavoro- gli stavano dando il ferro bollente, simile alla lava. Sembravano divertirsi, dato le loro risate. L’artista rimase fermo a guardarli per un po’ di tempo, fin quando qualcuno richiamò l’attenzione proprio alle sue spalle.
“Sì?”, domandò immediatamente, senza voltarsi ma quando lo fece si ritrovò Emma accanto al padre.
“Scusa Hiccup, ma non stavi lavorando”, disse la bambina, con un’espressione estremamente dispiaciuta sul volto paffuto. Il padre invece lo guardava con profonda delusione. Hiccup le sorrise forzatamente, scuotendo la testa.
“Io stavo pensando e pensare fa parte del mio lavoro”, inventò lui al momento, muovendo le spalle.
“Pensavo che i progetti fossero tutti terminati”, disse Stoick, freddo e distaccato. Sembrava un gigante in confronto al figlio.
“Questo non vuol dire che non possano essere migliorati”, replicò Hiccup, prendendo il suo quaderno degli appunti e scarabocchiando qualcosa come se volesse avvalorare quanto detto. Il giovane si curò perfino di chiudere immediatamente il quaderno, nel caso il padre avesse voluto controllare cosa avesse scritto e constatasse che non era niente.
“Riprendi a lavorare”, gli ordinò l’uomo, dandogli una pacca nient’affatto affettuosa sulle spalle e andandosene.
“Credo di essermi abbassato di qualche centimetro”, commentò, con un accenno di sorriso sul volto cosparso di lentiggini ma non aveva nessuno accanto che poteva sentirlo. Già, gli mancavano così tanto.



“Ve lo giuro! Questo posto è maledetto!”, esclamò Fishlegs, scatenando le rise degli altri. Dopo una giornata sfiancante si erano riuniti attorno ad una fucina accesa e stavano cenando insieme, raccontandosi storie.
“Si, come no”, disse Ruffnut, la sorella gemella bionda. Ora che Jack la guardava da vicino, sembrava perfino più bruta di Astrid. I lineamenti erano più asciutti, smunti e tutto ciò che la riguardava sembrava urlare che non era affatto una persona ragionevole. Il viso era magro e scavato, così come il resto del corpo, ma questo non faceva altro che evidenziare gli occhi azzurri, spesso ridotti a due fessure, e le labbra estremamente sottili, contratte in un sorriso sornione. I lunghi capelli biondi, spenti –non affatto caldi come quelli di Rapunzel o luminosi come quelli di Astrid- erano legati in tre trecce grossolane. Sembrava in tutto e per tutto uguale al suo gemello maschile Tuffnut. Era assolutamente brutale, in tutto ciò che faceva. Jack odiava ammetterlo, ma Astrid, nella sua glacialità, possedeva un’eleganza che era assolutamente estranea a questa bionda.
“E perché dovrebbe essere maledetto, questo posto?”, domandò Astrid, scettica al riguardo.
“Io.. ho sentito dei rumori”, balbettò il ragazzo grassoccio. Snotlout rise sguaiatamente, assieme agli altri. Perfino Merida si aggregò, con la sua risata un po’ roca e provocatoria, che si discostava parecchio dalle altre, più simili a schiamazzi. Lui e Rapunzel si guardarono, mentre stringeva sua sorella in un abbraccio.
“Questo posto è pieno di rumori”, gli disse Tuffnut, guardando agli altri come se volesse una conferma.
“Ma ci sono anche le voci!”
“Oh, questa potrei essere io”, ammise Rapunzel, sorridendo nervosamente. “Da quando sono qui non faccio che parlare a dismisura.”
“Ma non è la tua voce che ho sentito!”
“Sei sicuro che la voce fosse fuori e non nella tua mente?”, sussurrò Merida,  con un accenno del suo tipico sorriso. Astrid, al suo fianco, rise. E mentre tutti erano interessati a sentire questa storia da Fishlegs, che tentava in tutti i modi di dimostrare che non aveva perso il senno, Hiccup si avvicinò lentamente. Non aveva avuto abbastanza fegato per fare quella pausa con Gobber, visto che si sarebbe ritrovato anche in compagnia del sovrano e di suo padre, e quindi era rimasto completamente da solo. Era riuscito perfino a progettare uno scudo che all’occasione diventava una balestra, ma si sentiva tremendamente triste. Sapeva cosa andava fatto.
“Jack, ti posso parlare?”, gli bisbigliò all’orecchio, mentre gli altri continuavano a prendere in giro il ragazzo grassoccio.
“Certo”, rispose il brunetto, facendo segno a Rapunzel di controllare Emma. “Cosa c’è?”, chiese, appena si furono allontanati abbastanza dal gruppo.
“Ti volevo dire scusa, anche se penso che ho ragione”, disse Hiccup, tirandosi indietro i capelli castani. Jack rise genuinamente.
“Beh, grazie!”, commentò il brunetto, non smettendo di ridere. “Anch’io penso che hai ragione tu, però. Non so perché avessi sinceramente così paura di dirtelo ma adesso mi rendo conto che avrei dovuto.”
“Beh, sì”, accordò l’artista, sorridendo. “Se c’è altro di importante che hai omesso di dirmi in questi anni sappi che questo è il momento decisamente più adatto per rimediare.”
“Purtroppo per te non c’è altro”, disse Jack, ed entrambi fecero una cosa mai fatta prima: si abbracciarono. Più che un caldo abbraccio fu uno scambio di pacche reciproche, ma fu davvero profondo e significativo per loro.
“Adesso ti fidi di nuovo di me?”, chiese il brunetto. L’altro fece finta di pensarci, guardandolo seriamente con i suoi occhi verdi.
“Sì ma non troppo”, rispose ironicamente ricevendo un’occhiataccia dall’amico. “Troppo presto per scherzarci?”
 “Forse”, ammise Jack, con uno strano sorriso soddisfatto sulle labbra. “Però sappi che non sono l’unico della lista con cui chiarire. Anche la selvaggia principessa vuole la sua parte”, suggerì il brunetto, dandogli un’altra pacca amichevole sulla spalla.

 
(Altre scuse)



In una situazione come quella, non poteva fare a meno di guardarlo. Il suo ciondolo era magnetico in quel momento: non riusciva a staccare i suoi occhi da quelli verde smeraldo dei tre orsi, intrecciati tra di loro come tutti i simboli della loro casata. Ricordava che sua madre le aveva messo al collo quella collana proprio prima della grande serata. Probabilmente per lei sarebbe stata una serata orribile lo stesso dato il matrimonio combinato, ma Mor’du l’avrebbe pagata per quello che aveva fatto. L’avrebbe ucciso personalmente, si giurò la ragazza. Avrebbe dovuto prendere prima le sue armi, sperando che fossero rimaste nella sua camera, e poi l’avrebbe ucciso senza alcuna pietà, così come lui non ne aveva dimostrata nei loro confronti. Si sentiva ubriaca di sete di vendetta, in quel momento, come se il mondo intero fosse nelle sue mani e lei si ritrovasse ad essere il giocoliere di turno. Sperava semplicemente di non essere un pessimo giocoliere o addirittura un buffone.
“Ciao”, soffiò una voce alle sue spalle, vicino al suo orecchio, facendole scivolare il ciondolo dalle mani. Lei si voltò immediatamente, ritrovandosi il volto di Hiccup fin troppo vicino al suo.
“Che c’è?”, chiese lei, ritornando alla posizione originaria, sperando che lui non si fosse accorto che lei aveva indugiato troppo a guardarlo.
“Posso parlarti?”
“Lo stai già facendo”, disse semplicemente lei, distaccata. Hiccup sussurrò un “già” poco convinto, prima di sedersi accanto a lei ad una debita distanza di sicurezza, sicuramente più di un semplice palmo dal viso come prima.
“Scusa”, mormorò, profondamente risentito. La rossa si girò immediatamente a guardarlo di nuovo, incatenando i loro sguardi. E Hiccup in quel dannato momento pensò che Jack aveva ragione a chiamarla principessa selvaggia. C’era qualcosa, in lei, che non apparteneva a nessun altro se non alla natura stessa. Quello sguardo così fiero, orgoglioso ed esasperato sembrava essere specchio non solo della sua anima, ma anche di qualche landa di terra desolata, completamente libera. Ma, inutile dirlo, la cosa più straordinaria di tutte erano i suoi capelli. Di un colore incredibilmente acceso, vivo, così meravigliosamente caldo in quella terra così fredda –Hiccup stesso amava dire che si trovava esattamente sul meridiano della miseria, dodici giorni a nord di disperazione e pochi gradi a sud di morire di freddo-, di una forma così misteriosamente ribelle, rendendo le ciocche vere e proprie fiamme danzanti con una parvenza di vita. Selvaggia era decisamente qualcosa che le si addiceva.
“Tu ti stai scusando?”, chiese, in un sussurro. “Era la tua opinione, non ti devi scusare per questo.”
“No, non lo era. Non penso che ci stai mandando a morire, è molto più di questo”, rispose, estremamente serio come mai ricordava di essere stato. “Ho sbagliato a dire ciò che ho detto. Voglio molto bene a Jack, è stato il mio primo e unico amico e continuamente lo resterà per sempre, ma ero ferito e lo volevo tenere alla larga da me. E poi, comunque, la situazione sarebbe lo stesso pericolosa per la piccola Emma. Quindi sono qui a chiederti scusa, perché anch’io ti ho ferito.”
Merida rimase interdetta dalla confessione, tanto che rimase qualche minuto in silenzio. Hiccup la osservò rigirare tra le dita sottili, tese come se dovessero scoccare l’ennesima freccia, con la sua collana, fin quando si decise a parlare.
“Ci vuole gran forza ad affrontare i nemici, ma ancor di più ad affrontare gli amici”, disse lentamente, come se si trattasse di una sentenza. “Jack non è il solo amico che hai, Hiccup. Ci siamo anch’io, e Rapunzel, e anche gli altri se ti mostri per ciò che sei.”
“No, no, no”, replicò lui, sorridendo nervosamente, “io sono sempre stato ciò che sono e loro mi hanno sempre deriso perché non sono come gli altri, perché non sono come loro.”
“Hiccup, perché mai dovresti essere come gli altri?”, chiese Merida, lasciando perdere nuovamente il ciondolo. “Tu sei coraggioso, estremamente buono e incredibilmente leale”, sussurrò, poggiando una delle sue mani sul cuore del ragazzo, guardandolo negli occhi verdi, “perché dovresti essere meschino e arrogante?”
“Ma sono comunque una persona che commette errori”, rispose Hiccup, abbozzando un altro sorriso.
“Non avevi poi così torto”, ammise la ragazza. “Vi sto portando alla morte, ma non alla vostra.”
“A quella di Mor’du”, completò il moro. Merida annuì gravemente.
“Dispiace anche a me, possiamo considerarci pari?”, chiese lei.
“Pari non lo possiamo mai essere, sei sempre un gradino sopra di me..”, rispose lui, titubante.
“Credevo avessimo smesso con tutta questa storia della milady!”, esclamò Merida, quasi sobbalzando e facendo muovere i suoi ricci sulle spalle.
“Ma, effettivamente, tu continui ancora ad esserlo!”
“Siamo pari, Hiccup Horrendus Haddock III.”
“Vedi? Continua a sembrare un ordine di una milady”, commentò Hiccup, gesticolando ma non riuscendo a trattenere un sorriso.
“Sta’ zitto”, replicò lei, ridendo.




Ed eccoci alla fine di questo capitolo. Spero che tu, lettore che sei arrivato fin qui, stia passando delle buone vacanze e spero che ti sia piaciuto il capitolo. Io sono fermamente convinta che la scrittura sia uno strumento di comunicazione così come l'arte, e la musica e so bene anche che non possono piacere le stesse cose a tutti, quindi ti esorto a lasciarmi una recensione -anche un breve commento-, giusto per dirmi cosa migliorare, se ci sono errori e, perché no, per dirmi cosa ti è piaciuto o cosa no. Ti auguro di passare buon ferragosto, 
la tua gingersnapped

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Capitolo 14
*** Inquietudini, accuse e riti sacrificali ***


 
 
 
Inquietudini, accuse e riti sacrificali
 
 


 
(Inquietudini notturne)




Non riusciva a smettere di strofinare il bancone quella sera. Era estremamente nervosa. Erano passati tre lentissimi giorni da quando il castello era stato occupato e in tutta Dunbroch giravano voci su come la principessa e il re fossero fuggiti mentre la regina e i tre figlioletti fossero rimasti all’interno. La giovane donna smise per un attimo di pulire, giusto per poter sbirciare dalla grande vetrata del locale il castello. Non si riusciva a vedere nulla, quella sera. Nel cielo era assente la luna, e ciò bastava a circondare nel buio più assoluto il grande e possente castello, da sempre simbolo del potere dei Dunbroch. Gli occhi violetti pieni di preoccupazione della donna indugiarono ancora sull’abitazione reale, fin quando non le sembrò di vedere qualcosa come una luce.
“Tooth, è inutile guardare sempre lì”, le disse un uomo alto e slanciato, facendola sobbalzare. Questa riprese di nuovo lo strofinaccio in mano e riprese a pulire il bancone.
“Dobbiamo fare qualcosa, e tu lo sai”, ribatté lei, calma, guardandolo di sbieco. L’uomo alzò le spalle con fare innocente, versando nel frattempo una birra all’ennesimo cliente. Toothiana si fermò nuovamente, posando lo strofinaccio sulla spalla sinistra e asciugandosi le mani sul grembiule colorato.
“Come riesci a rimanere calmo in un momento come questo, Aster?”, gli chiese la donna, sospirando profondamente.
“Cerco di rimanere razionale, al contrario di te!”
“Tu razionale?”, commentò Toothiana, ridendo sonoramente. “Ma se sei la persona più irascibile che conosca!”
“Intanto sei tu quella che si sta lasciando commuovere da una misera candela”, replicò Aster, intimidatorio. Toothiana non riuscì a non guardarlo con aria di sfida, mentre vedeva che l’uomo si stava srotolando le maniche della casacca di lino lasciando intravedere i tatuaggi che aveva sulle braccia, simboli di cui perfino lei ne ignorava il significato. La loro attenzione fu però richiamata da un semplice gesto, operato da un uomo di piccola statura con i capelli color oro, vagamente simili ad una soffice nuvola.
“Scusaci Sandy”, borbottarono entrambi, ritornando ai loro posti.
“Non possiamo fare davvero niente al momento?”, domandò la donna, guardando di nuovo il castello. La luce si spense, segnando definitivamente il calare delle tenebre su Dunbroch. L’uomo dorato scosse la testa tristemente, mentre Aster poggiò semplicemente i suoi occhi a terra. Avrebbero aspettato.




All’interno della sua cella, lontana da tutto e da tutti, Elinor non poteva fare a meno di pregare. Aveva le mani congiunte al petto, le labbra semichiuse si muovevano appena come se stesse recitando. Il suo aspetto era devastato: il vestito era sporco in diversi punti, i capelli era scombinati –diversi ciuffi, infatti, sfuggivano alla complicata acconciatura- e il corpo, non avendo ricevuto del cibo in quei giorni, era completamente smunto. Sul volto scavato, infatti, le occhiaie e le rughe erano assolute protagoniste, simbolo della stanchezza della sovrana completamente annullata nella sua funzione. Le veniva da piangere, ogni volta che pensava alla corona che Mor’du le obbligava a tenere in testa.
“Sono una persona, ti prego, Dio, perdonami”, sussurrò, mentre cercava di ricacciare le lacrime che insistentemente sgorgavano sulle sue guance. “Sono una persona, vi prego, non onoratemi. Sono una persona, non rispettatemi. Sono una persona, sentitevi liberi di correggermi.”
“Oh, tranquilla”, disse con voce calma –perfino per i suoi standard- Mor’du, avvicinandosi alle sbarre, “lo sto già facendo.”
“Cosa vuoi Mor’du?”, chiese Elinor, guardandolo con risentimento. Non avrebbe permesso a quella bestia di vederla piangere. Mor’du ringhiò, giusto per farla sobbalzare dallo spavento.
“Mi chiedevo se tu avessi mai conosciuto i miei fratelli”, rispose l’uomo, facendo un segno alla sua sinistra. “Bludvist e Pitch, credo che li conoscessi già di nome.”
La sovrana alzò i suoi occhi castani sugli individui che aveva innanzi. Il primo era decisamente mostruoso. Sul suo corpo, seppure era notte e la sua cella fosse parecchio scura, illuminata solo una singola torcia, si potevano vedere numerose cicatrici, più fitte vicino al collo e alla spalla sinistra, ma erano nascoste da un fitto manto di pelle nera, come i suoi lunghi capelli e gli occhi. Incuteva terrore con la sua sola presenza e l’accenno di sorriso soddisfatto dimostrava quanto fosse compiaciuto di questa sua caratteristica. L’altro, invece, era completamente diverso dai suoi fratelli. La sua figura, longilinea, sembrava a prima vista affabile, così come il sorriso cortese sul suo volto. Questo si avvicinò alle sbarre, permettendo a Elinor di vederlo chiaramente. La pelle era talmente bianca e pallida che sembrava appartenere ad un morto, i capelli neri –unico tratto che lo accomunava ai suoi fratelli- erano ritti in testa, ma gli occhi erano i più terrificanti che la regina avesse mai visto. Completamente dorati, la fissavano con un’aria di pazzia che riuscirono a pietrificarla senza che dicesse una parola, molto più di quanto c’erano riusciti Mor’du e Bludvist. Sembrava la rappresentazione dei peggiori incubi mortali.
“Buonasera, mia signora”, salutò Pitch, inchinandosi a Elinor.
“Vedi, mio fratello Pitch è convinto che tu possa essere una fonte inesauribile di informazioni”, spiegò Mor’du, aprendo la cella, “e pensa che tu sia disposta a collaborare se riunissimo il nucleo familiare.”
Detto questo, le porse una mano che Elinor non accettò. Non riusciva ancora a crederci di essere uscita da quell’inferno di gabbia. Si guardò intorno, circospetta, generando il riso dei tre fratelli.
“Ah, Elinor, vogliamo che tu faccia un proclama all’intero popolo di Dunbroch. Devi supplicare tuo marito e tua figlia di ritornare entro tre giorni al palazzo.”



 
(Il giorno seguente)




“Questi scudi-balestre sono eccezionali!”, commentò Gobber, provando lo strumento del suo allievo. Hiccup sorrise, pensando che in quei giorni dei miglioramenti erano stati fatti. Avevano terminato tre mitragliatrici con gli adattamenti da lui suggeriti, aveva costruito almeno una decina di scudi-balestre e stava lavorando ad una spada modificata, oltre a costruire armi classiche.
“Ha ragione Gobber, ma non è abbastanza”, disse Fergus, con tono grave. “Anche con tutto ciò che abbiamo non riusciremo mai a liberare il castello.”
Stoick rimase impassibile all’angolo della stanza. Ormai usavano la bottega di Gobber, e più precisamente la camera di Hiccup come sala riunioni, così che potessero parlare indisturbati. Spostò gli occhi verdi vibranti su ciascuna delle persone presenti, poi si avvicinò al centro della stanza, dove vi era un tavolo ed una mappa del castello su di esso.
“Forse sì invece”, replicò, attirando l’attenzione. Perfino il figlio lo guardava con gli occhi sgranati dalla curiosità e dall’interesse adesso. “Quanti ne abbiamo di quegli aggeggi?”, chiese ad Hiccup e questo alzò gli occhi al soffitto, intuendo che parlasse delle mitragliatrici.
“Al momento due ma tra due giorni ne avremo un’altra”, rispose il giovane, ma il padre era troppo concentrato ad osservare la mappa. Si accarezzò la barba rossa, legata in parte in una treccia, con aria pensosa mentre l’altra mano scorreva su determinate aree della fortezza.
“Il castello ha tre ingressi”, disse ma sia Fergus che Gobber scossero la testa.
“Sono quattro, in realtà, uno è reso inutilizzabile visto che vi sono le fognature”, spiegò il vecchio mastro, che lavorava a corte da così tanto tempo da sapere ogni passaggio, anche segreto.
“Potremmo mettere uno di quegli aggeggi ad ogni porta e mentre tre di esse attaccheranno, noi entreremo nel castello grazie al quarto ingresso”, spiegò brevemente Stoick.
“Sono fognature!”, esclamò Gobber, a voce più alta temendo che l’amico non avesse capito. Il re, amareggiato, si allontanò dal tavolo. Hiccup si avvicinò ulteriormente, invece, giusto per comprendere appieno ciò che stava dicendo il padre.
“Potrebbe funzionare”, borbottò. “Certo, se non ci fosse l’ostacolo delle fognature”, aggiunse, mesto. Stoick in quel momento lo guardò come non l’aveva mai fatto, verde nel verde, stavolta speranzoso.
“Non puoi fare niente? Inventare qualcosa che permetta di arrivare là a tutti noi?”
“Stoick, il ragazzo non può fare niente”, disse Fergus. “A malapena ci entrerebbe lui dal buco delle fognature anche volendo.”
“Però potrebbe aprire la porta a tutti noi.”
“E come, volando? Magari pure in groppa ad un folletto delle patate?”, gli chiese il sovrano con un tono fortemente ironico. “Sarebbe l’unico modo per non entrare a contatto con le fognature.”
Gobber si versò un bicchiere di birra, osservando attentamente la mappa. Ci doveva essere una soluzione che al momento le loro menti si rifiutavano di vedere.
“Forse non deve superare le fognature, ma immergersi in esse”, borbottò, certo che tutti l’avrebbero sentito. Hiccup drizzò immediatamente la testa.
“Non ho intenzione di immergermi nelle fognature!”, esclamò, cercando di non apparire isterico. “E poi non saprei nemmeno come respirare là sotto.”
“Purtroppo”, accordò Stoick a malincuore, “ha ragione.”
Gobber bevve direttamente dalla bottiglia questa volta. “E che mi dici di quella bambola acquatica che avevi progettato?”
Sia Stoick che Fergus guardarono il moro con aria interrogativa, come se volessero chiedergli sul serio se avesse progettato qualcosa di simile.
“Tu bevi troppo”, commentò Hiccup rivolgendosi a Gobber, il tono fortemente accusatore.
“No, bevo nella giusta quantità, solo troppo spesso”, ribatté il maestro, allisciandosi i lunghi baffi dorati intrecciati. “Però questo non cambia il fatto che tu l’abbia progettata.”
“Non è una bambola”, cercò di difendersi Hiccup. “È una sorta di tuta protettiva che non ho mai testato”, spiegò, sottolineando bene l’ultima parola per essere certo che non c’era motivo di essere sicuri di quel progetto.
“A me sembra che risolva i nostri problemi”, disse Stoick, cercando l’appoggio di Fergus.
“Ragazzo, tu sì che sei una fonte inesauribile di sorprese”, commentò il sovrano. “Va’ a lavorarci”, ordinò, senza lasciargli tempo di ribattere.
 



 
(Come respirare sott’acqua- la guida firmata Hiccup Horrendous Haddock III con la speciale collaborazione della graziosa Rapunzel)




“Hiccup, come mai quell’espressione truce sul volto?”, gli chiese Rapunzel curiosa, non appena vide il ragazzo. Hiccup si avvicinò subito alla bionda, aiutandola a versare il ferro liquido nelle rispettive stampe, anche per essere sicuro che non commettesse sbagli dato che era tremenda in quel lavoro e, preso un martello, iniziò a forgiare la spada. Rapunzel prese invece una grossa pinza e con quella cambiava il lato della lama.
“Il re mi ha affidato un altro progetto, come se non avessi abbastanza da fare qui”, rispose il moro, quasi seccato. Non riusciva più a sostenere certi ritmi. Ormai non riusciva neppure a dormire la notte e i migliori momenti li passava ormai con Toothless, ed era certo che fossero i migliori perché non parlava.
“Ce la farai”, disse con leggerezza la bionda, sorridendogli. Hiccup, vedendola, non riuscì a ribattere nulla di sarcastico o di potenzialmente offensivo.
“Vorrei avere il tuo ottimismo, Punzie”, replicò semplicemente, facendola sorridere ancor di più.
“Quale sarebbe questo nuovo progetto?”, domandò, passando alla spada successiva.
“Beh, sarebbe una tuta che permette di respirare sott’acqua”, rispose Hiccup, alquanto preoccupato.
“E come farai a fare in modo che l’acqua non ti sommerga?”
“Come scusa?”
“Anche con una protezione, l’acqua penetra”, spiegò Rapunzel, sperando di essere stata chiara. Effettivamente Hiccup non aveva pensato molto al materiale.
“Che ne dici della pelle di maiale?”, le chiese, titubante. Rapunzel aveva sempre avuto un certo occhio per le sue invenzioni, e ora che aveva aggiunto a quelle che aveva già le competenze mediche perché mai si sarebbe dovuta sottrarre per dare un suggerimento?
“Potrebbe funzionare”, rispose lei, le sopracciglia corrucciate. “Ma temo che un po’ d’acqua potrebbe penetrare lo stesso. Meglio ricoprire la pelle con una sostanza idrofoba.”
“L’olio!”, esclamò Hiccup, lasciando andare il martello. “Punzie, sei un genio”, disse, abbracciando la ragazza.
“Grazie”, fece la bionda, sorridendo.




“Pelle di maiale, vetro, rete da pesca, olio di pesce, bambù, sughero, legno, giunti di cinghiale.. una barca!”, lesse Jack con qualche difficoltà, guardando ora il foglio ora Hiccup. “Senti un po’, devi fare un rito sacrificale?”
“Jack, riesci a portarmi tutte queste cose il prima possibile?”, gli chiese il moro, ignorando la battuta dell’amico. Questo rilesse nuovamente la lista, dubbioso.
“Credo di sì ma non ho la più pallida idea di dove procurarti una barca”, rispose Jack, alquanto preoccupato.
“Ho sentito bene? Una barca?”, domandò Tuffnut, avvicinandosi ai due ragazzi con fare sinistro. Hiccup lo guardò sospetto, non fidandosi pienamente di lui ma decise lo stesso di fare un tentativo.
“Esattamente. Ne hai una?”
“No, ma conosco un tipo che è il miglior ladro al mondo. Lui saprà certamente come procurartela”, rispose il biondo, stringendo gli occhi con fare maligno.
“Dici che me la può fare avere in questi giorni? Magari entro oggi?”, chiese Hiccup, temendo di chiedere troppo.
“Certamente.”
“Allora noi andiamo”, disse Jack, tranquillo, riguardando ancora una volta il foglietto che Hiccup aveva scritto.



 
(Come accusare di tradimento le persone sbagliate- la guida firmata Merida)




Merida aveva lo sguardo fisso sulla possente figura del padre. Il suo corpo era pronto a scattare, a raggiungerlo, ma la sua mente le impediva di muoversi. E così rimaneva in quello stato, affatto in equilibrio come se fosse la lama di un coltello. Stava dando il cambio a Stoick nella costruzione di alcuni pezzi di armatura e in quel momento era completamente immerso nel lavoro.
“Anche se lo fissi intensamente, non si girerà a parlarti”, disse qualcuno, destandola dai suoi pensieri.
“Cosa?”, fece girandosi e vide Snotlout con uno di quei scudi progettati da Hiccup che sparavano delle frecce. Un’idea semplicemente geniale, se non fosse che non erano propriamente flessibili come gli archi che era abituata ad utilizzare lei.
“Tuo padre non ti sta ignorando, pensa ad altro al momento”, cercò di spiegare quel ragazzo, aggiungendo immediatamente un “milady”, al termine della frase.
“Lascia stare”, disse lei amareggiata. “Mi ricordo di te. Tu eri quello che non sapeva disegnare”, aggiunse, ricordandosi di quando avevano indetto quella specie di concorso per gli artisti, vinto poi da Hiccup. Snotlout sorrise, arrossendo leggermente. Di certo non si aspettava che lei, proprio la principessa, lo ricordasse per questo. “Già”, annuì imbarazzato. “L’ho fatto per il bene della vostra famiglia però.”
Merida rise, esasperata. “E come avrebbe potuto?”
“Beh, la mia famiglia sapeva di uno strano complotto che avrebbe riguardato tutti, e io volevo proteggerla.”
“Sapevi di un complotto? E non hai detto niente?”, domandò lei, abbandonando ogni traccia di sorriso sul volto che adesso guardava il ragazzo molto seriamente, con uno sguardo quasi intimidatorio.
“Ce l’aveva detto Stoick e Stoick aveva dett..”, cercò di spiegare Snotlout, indietreggiando alla furia della ragazza che, per essere una principessa, aveva una costituzione piuttosto atletica. Non ebbe bisogno di fare più passi indietro, però: la ragazza si era precipitata da un’altra parte.




“Credevo si bussasse, prima di aprire una porta”, commentò ridendo Stoick, mostrando le spalle alla porta, concentrato a togliersi parte della sua armatura, convinto che il suo visitatore fosse Gobber.
“Come hai potuto?”, chiese Merida, nemmeno cercando di nascondere tutto il suo risentimento. Il comandante delle guardie si girò sorpreso, vedendo che la principessa lo fissava con astio.
“I-io.. Di cosa sta parlando, milady?”, domandò Stoick, parecchio confuso dal comportamento della ragazza.
“Lo sai benissimo di cosa sto parlando.. E non chiamarmi milady!”, esclamò lei con rabbia, sbattendo forte la porta. “Credevo che tu e mio padre foste amici!”
“E lo siamo infatti”, disse l’uomo, non riuscendo a non alzare la voce. “Che cosa è successo? Di che parli?”
“Sapevi che ci sarebbe stato un attacco, un complotto a palazzo. Lo sapevi, e non hai fatto niente”, lo accusò lei, sfiorando appena il ciondolo della madre. La rossa tolse immediatamente la mano quando si accorse che il comandante delle guardie aveva notato quel gesto.
“Come hai potuto?”, chiese, subito dopo, con un tono di voce misto alla supplica e alla rabbia.
“Cos’avrei potuto fare?”, domandò Stoick, la voce estremamente grave. I suoi occhi verdi sembravano così spenti, confrontandoli con quelli di Hiccup o di Rapunzel.
“Avresti potuto difenderci, invece di darci in pasto a Mor’du!”, ribatté Merida, gesticolando. “Avresti potuto fare qualsiasi cosa, ma hai deciso di non fare niente.”
“Non è vero”, tuonò lui, alzandosi. “Non è vero. Io ho avvisato tuo padre, Gobber, ho avvisato i Jorgenson. Sono rimasto notte e giorno a palazzo a proteggervi tutti quanti.”
“Ma non hai salvato mia madre e i miei fratelli. Non hai salvato me”, sussurrò lei, un groppo alla gola pensando al resto della sua famiglia.
“Sei qui.”
“Perché mi sono salvata da sola, non per merito tuo”, disse sprezzante. Stoick abbassò gli occhi a terra, incapace di ribattere a questa affermazione.
“Lo so che sei arrabbiata..”
“No”, lo interruppe immediatamente lei, “io sono furiosa!”
“Non è colpa mia. Non vi ho venduti a Drachma o qualsiasi cosa tu pensi”, cercò di spiegare lui, esortando la principessa a sedersi. Questa rimase dritta come un ago vicino la porta, impaziente di ascoltare.
“Io ho fatto quanto mi ha detto tuo padre: mi ha detto di agire nell’ombra e io l’ho fatto. Purtroppo non abbiamo trovato nessuna spia, deve essere ben infiltrata”, continuò Stoick, toccandosi la lunga barba.
“Certo, e io dovrei credere che questa spia, nonostante tutte le guardie che tu hai messo a proteggerci, sia riuscita a far passare Mor’du e il suo esercito”, commentò Merida, sarcasticamente. “Magari usando qualche passaggio ignorato da tutti noi, che ne dici?”
“Può essere”, rispose Stoick, annuendo. Poi balzò in aria. “Hai ragione! Devono aver usato il quarto ingresso!”
La rossa alzò un sopracciglio ramato, guardandolo molto scetticamente. “Noi abbiamo solo tre ingressi, Stoick.”
Ma l’uomo sorrise, girovagando nella stanza alla ricerca della mappa che avevano utilizzato quella mattina nello studio di Hiccup. Liberò in fretta il tavolo e aprì la cartina, mostrando la riproduzione in miniatura del castello.
“È qui che ti sbagli. Sono quattro”, replicò, indicando un punto ben preciso. Merida, sospettosa, si avvicinò ulteriormente, con entrambe le sopracciglia corrucciate e la fronte increspata da rughe di preoccupazione.
“Quelle sono le fogne”, constatò dopo qualche istante. “Non sono utilizzate da anni!”
“Ed è per questo che noi le utilizzeremo per entrare.”



 
(Solo un’occhiata)




Il Genio sapeva sempre quando qualcosa non andava. Era una sua particolare caratteristica, come un dono speciale o un’abilità superiore agli altri. Il Genio sapeva che, in quel momento, c’era qualcosa che non andava, e la conferma gliela diede Aladdin quando, entrando quel giorno, notò che non era allegro e pimpante come al solito. Sembrava perfino triste.
“Ehi Al, cosa c’è che non va?”, chiese il Genio, guardandolo con attenzione con quei suoi occhi neri. Il ragazzo non rispose immediatamente, preferendo prima posare sul tavolo ciò che aveva racimolato quel mattino.
“La sovrana di questo regno ha fatto un annuncio”, rispose quello mesto, iniziando a giocare con una tabacchiera rubata.
“E allora?”, fece l’uomo, non capendo l’umore dell’amico.
“Riguardava anche Rapunzel”, disse Aladdin, attirando immediatamente l’attenzione del Genio che si precipitò accanto a lui. “Voglio dire, non parlava chiaramente di Rapunzel, ma riguardava anche lei, lo so di certo.”
“Cosa ha detto?”
“Voleva che suo marito e sua figlia tornassero da lei entro tre giorni. Ti ricordi che lei raccontava sempre di questa Merida che era sua amica? Beh, a quanto pare Merida è la figlia della sovrana di Dunbroch!”, esclamò il ragazzo, tirandosi indietro i capelli corvini. Il Genio rimase un attimo in silenzio, cercando di elaborare l’informazione.
“Perché vuole che suo marito e sua figlia tornino? Non sono con lei?”, chiese, sospettoso. Aladdin scosse la testa, sorridendo come se la sapesse lunga.
“No, sono scappati”, rispose sorridendo.
“Probabilmente Rapunzel è con lei”, ipotizzò l’uomo, aggrottando le sopracciglia nere.
“Probabilmente ha bisogno di aiuto.”
“Ma probabilmente ha tutto l’aiuto di cui necessita.”
“Ma forse no”, concluse Aladdin, preoccupato. E questo bastò a convincere il Genio di fronte a quella muta richiesta, che invece veniva urlata negli occhi del giovane.
“E va bene!”, esclamò l’uomo. “Ma darai solo un’occhiata, giusto per vedere se è in pericolo.”



 
(Alla ricerca del ladro perfetto)




“Allora”, cominciò Jack per fare conversazione, la mano che doleva per il sacchetto pesante che teneva, “chi è questo tipo che è il miglior ladro del mondo?”
Tuffnut rise, sorridendo compiaciuto mentre Jack ne approfittò per rubare una graziosa tabacchiera, ben esposta in una delle bancarelle del mercato.
“Il suo nome? Nessuno lo sa ma è una certezza che è il miglior ladro del mondo”, rispose il biondo, lasciando allibito l’altro.
“Stiamo andando da un tizio di cui non conosci nemmeno il nome!”, esclamò il brunetto, mentre quello annuiva. Jack cercò di mantenere la calma, respirando a fondo, ma per lui era impensabile andare a completare una missione per Hiccup –molto importante, anche- rifornendosi da un tizio di cui non sapeva la vera identità.
“E allora?”, fece Tuffnut, non capendo quale fosse il problema. “Ehi, è quello”, gli disse, strattonandogli il braccio per fermarlo, indicando un uomo di spalle con i capelli castani. A Jack ricordava vagamente qualcuno. Quando si avvicinarono, il brunetto capì che era proprio quel qualcuno che pensava.
“Flynn!”, esclamò riconoscendo il giovane uomo che lo guardava sorpreso.
“Jack”, ricambiò quello, “e Tuffnut. Che ci fate qua?”
Sul volto del biondo la sorpresa dominava, a dimostrazione del fatto che gli occhi azzurri –solitamente ridotti in due fessure come la sorella- erano leggermente sgranati e la bocca era aperta. “Vi conoscete?”
Jack e Flynn si guardarono tra di loro, castano nel castano, furbizia nella furbizia.
“Noo”, rispose Flynn, facendo il vago. “Allora, cosa posso fare per voi?”
“Ci serve una barca”, risposero in coro Jack e Tuffnut. Il giovane uomo rise.
“Una barca? Non si può fare”, disse, cercando di allontanarsi dai due ragazzi.
“Tu mi hai detto di essere il miglior ladro del mondo”, lo accusò il biondo, mentre Jack ne approfittava per ridere apertamente.
“O forse hai mentito?”, aggiunse con tono sospettoso, quando due paia di occhi –sia quelli azzurri di Tuffnut che quelli castani di Flynn- si posarono su di lui.
“No, no, no”, disse il moro, scuotendo la testa. “Io non ho mentito, e ve lo proverò. Seguitemi!”
“Dove stiamo andando?”, domandò Tuffnut, iniziando a seguirlo.
“A prendere una barca.”



 
(Niente è giusto a questo mondo)




Merida stavolta decise di avvicinarsi. Non era mai stata così indecisa in tutta la sua vita. Lei era sempre stata quella impulsiva, colei che agiva prima di pensare, e adesso era intrappolata dai suoi stessi pensieri e non se lo poteva permettere in una situazione come quella.
“Padre”, sospirò la ragazza, avvicinandosi alla figura possente, “so che sai quanto è successo. Dobbiamo agire, adesso!”
Fergus si girò verso la figlia, poggiando le sue grandi mani sulle spalle estremamente fragili di lei. Sorrise dolcemente, come solo un padre poteva fare, e la esortò ad ascoltarlo in silenzio, senza interromperlo. Sembrava essersi creato un momento di tranquillità familiare, uno di quei momenti che perfino a palazzo sembravano rari sebbene fosse la loro casa, quando il padre rispose con un semplice “no”, ritornando al suo lavoro.
“Papà!”, esclamò la rossa risentita, guardando il padre come se fosse impazzito. “Perché?”
Il sovrano non rispose immediatamente. Sapeva benissimo quanto fosse ardua l’intera situazione, sentiva come Merida –così simile a lui, nonostante tutto- il desiderio di tornare a palazzo e liberare la sua adorata famiglia, voleva più che mai uccidere Mor’du. Ma non si poteva fare. L’uomo si limitò solo a guardarla –anche piuttosto severamente- prima di parlarle. “So cos’hai detto a Stoick.”
Merida rimase lì per lì in silenzio. “E con ciò?”, ebbe il coraggio di dire qualche istante dopo.
“Tu non sai niente, Merida. Non hai la benché minima esperienza militare, come ho io da re, non hai nessun interesse per balli e intrattenimenti, come ha tua madre  da regina, non ti preoccupi nemmeno di uscire da palazzo per andare per le strade della tua città a leggere qualche libro di fiabe agli orfanelli. Sai cosa vuol dire, questo? Che devi smettere di perdere tempo dietro arco e spada e impegnarti come futura sovrana”, disse il re, come se stesse pronunziando un lungo monologo ma la figlia non aveva intenzione di farlo continuare.
“Stento a riconoscerti!”, esclamò, leggermente risentita. “Non eri tu che dicevi sempre: principessa o no, imparare a combattere è essenziale?”
“Credimi, sono stato orgoglioso di te quando ti sei liberata da sola e hai praticamente tolto di mezzo tre guardie ma qua si tratta di cercare di liberare tua madre e i tuoi fratelli. Non possiamo irrompere lì e ammazzare chiunque, sebbene lo voglia fare anch’io.”
“Quindi dovremmo restare qui a non fare niente? L’hai sentita la mamma, ci danno solo tre giorni!”
“E noi abbiamo già un piano”, la informò Fergus, riprendendo il lavoro.
“Stoick me ne ha già parlato”, borbottò la ragazza, un po’ amareggiata dal fatto che il padre non gliene avesse parlato per primo. “Cosa faremo noi?”
Io andrò a liberare tua madre e i tuoi fratelli come prima cosa, tu resterai qui al sicuro.”
“Cosa?”, chiese lei, non potendo impedire alla sua voce di alzarsi.
“Non rischierò di perdere anche te.”
“Ma non è giusto!”
Al che il padre la guardò intensamente: sebbene avessero lo stesso colore di occhi –acquamarina, incredibilmente freddo come se si trattasse di gocce di oceani profondi e sconosciuti- il taglio era quello di Elinor, estremamente dolce e delicato.
“Niente è giusto a questo mondo.”



 
(Come rubare una barca- la guida firmata Flynn Rider con la gentile collaborazione di Solo Jack e un idiota di nome Tuffnut)




Jack trattenne a stento una risata, pensando a quanto fosse buffa quella situazione. Guardava quell’imbroglione di Flynn Rider con aria di sfida, pensando che non ci sarebbe riuscito. Anzi, di questo Jack ne era proprio sicuro: la sua mente non aveva posto per un’assurdità del genere, ma non per questo biasimava Tuffnut che pendeva dalle labbra del maggiore dei tre.
“Facciamo così”, disse Flynn, richiamando l’attenzione su di sé. “Tu, Tuffnut, cerchi di distrarre tutti. Inventati qualcosa, perché tutti gli occhi dovranno essere puntati su di te. Nel frattempo, io e Jack prendiamo la barca”, spiegò semplicemente. Jack lo guardò dubbioso.
“Non è che pensi di svignartela e di lasciarmi solo?”, domandò, sospettoso. Flynn ne approfittò per fare una risata molto nervosa –ed estremamente falsa-.
“Non ci penserei nemmeno”, rispose, sorridendo sornione.
“Scusa, ma che cosa posso fare io?”, chiese il biondo, confuso. Sia Jack che Flynn alzarono gli occhi al cielo per la domanda.
“Inventati qualcosa, combina qualche danno.. che vuoi che ne sappia io”, commentò semplicemente Flynn come se stesse spiegando qualcosa di molto semplice.
“Oh, smettila di guardarmi in quel modo”, bisbigliò Flynn, rivolgendosi a Jack che non aveva smesso per un secondo di osservare ogni suo minimo movimento da quando erano rimasti soli. “Non ho intenzione di scappare.”
“E perché non dovresti?”, gli chiese sottovoce Jack. Entrambi stavano aspettando che Tuffnut si decidesse a fare la sua mossa e poi avrebbero provveduto loro a far uscire la barca. Era già sera e non potevano perdere ancora altro tempo prezioso. Hiccup era stato molto chiaro al riguardo: doveva lavorarci il prima possibile.
“Non sono stupido, sai”, mormorò Flynn. “Tu sei amico di Rapunzel e Rapunzel ha detto che non sarebbe venuto a Corona con me per proteggere i suoi amici dalla guerra. Quindi tu sai dove è Rapunzel.”
“Perché ti interessa così tanto Rapunzel?”, domandò il brunetto ma prima che l’altro potesse rispondere una folla di gente affluiva agli inizi del porto, evidentemente preoccupata per qualcosa.
“Sarà Tuffnut”, sussurrarono entrambi, tuffandosi in acqua. La barca che avevano intenzione di prendere non era esattamente piccolina, quindi impiegarono più forza del previsto a ribaltarla.
“Che faticaccia”, esclamò Jack, respirando a pieni polmoni nell’incavo della barca adesso. Flynn faceva altrettanto. Fortunatamente c’era bassa marea in quei giorni, quindi camminavano –molto lentamente anche per non farsi scoprire- a livello dell’acqua, toccando con i piedi la sabbia.
“A chi lo dici”, commentò l’altro, posizionandosi davanti. Con una mano sola estrasse dalla tasca dei suoi pantaloni una bussola, alquanto rovinata e vecchia, e con difficoltà la aprì.
“Dove hai detto che c’era una fessura da cui uscire?”, gli chiese, guardando attentamente l’ago.
“A ovest  del porto. Non è molto distante”, rispose Jack, sentendo già le braccia dolenti.
“Bene, andiamo di qua”, disse Flynn, iniziando a camminare. I due ragazzi rimasero in silenzio per un po’, poi Jack decise di domandargli di nuovo della sua bionda amica.
“Mi piace”, rispose semplicemente il moro, sorridendo. “È bella, è gentile, è simpatica..”, continuò sul vago. Il brunetto strinse gli occhi, riducendoli a due fessure. “Non ti credo.”
“E perché, solo Jack?”, lo sbeffeggiò l’altro. “A te non piace per lo stesso motivo?”
Le guance del ragazzo più giovane si colorarono immediatamente di rosso, lasciando spazio a ben pochi fraintendimenti. “È diverso”, disse infine, evitando di giustificarsi. “Io la conosco.”
“Come dici tu”, disse Flynn, facendo cadere il discorso. Ma quell’atteggiamento non convinceva affatto Jack. Egli sapeva che stava nascondendo qualcosa, quindi mise in moto quegli ingranaggi del cervello che Hiccup gli accusava di non far funzionare mai.
“Non è che per caso c’entra quella storia che Rapunzel somiglia alla regina di Corona?”, chiese, estremamente sospettoso. Notò che appena aveva pronunciato Corona la testa di Flynn era improvvisamente diventata dritta e il corpo teso, però il giovane era riuscito a camuffare la voce, mantenendola calma e cordiale.
“Ma cosa vai a pensare”, rispose, come se stesse semplicemente scherzando. “Guarda, penso che siamo arrivati”, disse, cambiando inaspettatamente argomento. Con assai fatica rigirarono la barca e videro che non molto distante da loro c’era Tuffnut che li guardava sorridendo. Ce l’avevano fatta.



 
(Come passarsi il tempo- la guida firmata Astrid Hofferson)




“Smettila di camminare o giuro che ti pianto la mia ascia sulla testa”, gli intimò un’ultima volta Astrid, gli occhi ridotti in due fessure. Hiccup deglutì, sedendosi sulla sedia più vicina, ma anche lì, in preda del nervosismo, aveva iniziato a muoversi. La bionda glaciale riservò un’occhiataccia alla sua gamba, tremante, ma lui non poteva farci niente. Almeno, non in quel momento.
“Avanti, sputa il rospo”, disse semplicemente lei, esortandolo a parlare.
“Jack e Tuffnut dovrebbero già essere qui”, rispose velocemente Hiccup, continuando a guardare la porta.
“Oh, ma che carino! Ti preoccupi per i tuoi amici!”, lo prese in giro lei, iniziando ad affilare le spade che avevano costruito in quei giorni.
“Non capisci”, replicò lui, alzandosi e camminando nuovamente, incapace di rimanere fermo. “Avevo affidato a loro delle commissioni importantissime. Il risultato ne va della vita di certe persone.”
“Torneranno prima o poi.”
“Ma io ho bisogno che tornino prima, così poi posso lavorare!”, esclamò il moro, scombinandosi i capelli con la mano. Astrid lo guardò intensamente, poi gli lanciò una spada che –inaspettatamente per lei, così come per Hiccup stesso- il ragazzo prese al volo.
“Che vuoi fare?”, domandò lui, alquanto stranito. La ragazza prese a sua volta una spada, e fece un inchino.
“Ci passiamo il tempo”, rispose semplicemente lei, mettendosi in posizione di difesa.
“Combattendo?”, fece lui, esasperato. Vedendo che la ragazza annuì con un lieve sorriso sulle labbra, decise di fare come lei voleva. Almeno si sarebbe allenato nell’attesa. Come previsto, Astrid era estremamente brava anche con la spada, nonostante si fosse sempre allenata con l’ascia bipenne, ma proprio per questo Hiccup notava nelle pecche nella sua difesa. Qualche mossa più tardi l’avrebbe perfino disarmata se la bionda non fosse stata più veloce di lui.
“Sei molto meglio adesso, anche se sarebbe stato difficile peggiorare”, commentò lei, facendo un affondo molto lento che il giovane schivò facilmente.
“Ho avuto un ottimo insegnante”, replicò semplicemente Hiccup, facendo un contrattacco veloce che spinse la ragazza ad arretrare.
“Gobber? Ma se è un pessimo insegnante!”, esclamò, avanzando e scontrandosi più volte con la lama del moro.
“Sta parlando di me”, disse Merida, spuntando da chissà dove, una certa fierezza nella voce. Entrambi si distrassero dal combattimento, guardando la rossa che si era avvicinata all’unica apertura che dava verso l’esterno. Astrid posò i suoi occhi di ghiaccio prima su Hiccup e poi nuovamente sulla principessa, cercando di capire che tipo di relazione si fosse instaurata tra di loro. Certe volte li vedeva estremamente vicini come non avrebbero dovuto mai essere, altre volte lontani, come se fossero due semplici estranei, viandanti senza volto in quel cammino comune. In quel momento si stavano guardando alquanto divertiti, come se stessero continuando una qualche conversazione in silenzio, di cui Astrid non sarebbe mai venuta  a conoscenza del contenuto.
“È vero”, confermò Hiccup, rivolgendosi alla bionda che, in cuor suo, aveva iniziato a sentirsi a disagio. “È merito suo se adesso so tenere una spada in mano e centrare un bersaglio, o quasi.”
Merida sorrise, iniziando a curiosare indiscretamente nella stanza, trovando infine quello che cercava.
“Oh, mele!”, esclamò contenta, prendendone tre e sedendosi vicino al fuoco. “Venite”, li esortò, facendo loro spazio e lanciando il frutto. “La speranza sopravvive meglio accanto al focolare”, aggiunse, prima di addentare la sua mela.
Hiccup la guardò, accennando appena ad un sorriso, e proprio mentre stava per mangiare la mela, la porta si aprì all’improvviso.
“Jack!”, esclamò Hiccup avvicinandosi, riconoscendo l’amico in uno di quei tre giovani che erano appena entrati con una barca.
“Ti ho portato tutto”, disse quello, sfinito e indicando un enorme sacco all’interno della barca.
“Grazie mille”, lo ringraziò Hiccup, dandogli un’amichevole pacca sulla spalla. “E grazie anche a te, Tuffnut, e a te che non ho la più pallida idea di chi sia.”
“Io sono Flynn”, si presentò il terzo ragazzo, visibilmente più grande di loro nonostante fosse alto quanto Hiccup. “Flynn Rider.”
“Piacere”, fece Hiccup, stringendo la mano che quello gli offriva. “Io sono Hiccup, mentre questa ragazza bionda è Astrid e quella con i capelli rossi..”
Flynn si inchinò immediatamente a Merida, facendola lievemente arrossire per l’imbarazzo. “Principessa Merida, è un piacere conoscerla.”
“Sì, ecco, è lei”, commentò l’artista, che prima aveva avuto un tentennamento su come presentare la ragazza. “Adesso io vado a lavorare a questa.. cosa”, disse, gesticolando.
“Se vuoi una mano..”
Astrid rimase stupita nel vedere che aveva pronunciato la frase assieme alla principessa, così come quest’ultima, che alzò immediatamente le mani in alto, come se fosse stato un suo errore.
“Magari ti aiuta Astrid a questo progetto”, propose, abbozzando un sorriso e ispezionando gli ingredienti cercando di capire di cosa si trattasse. “O rito sacrificale”, aggiunse, dubbiosa, vedendo la pelle di maiale.
“È quello che ho detto anch’io!”, esclamò Jack, ridendo.
“Oh, andiamo! Non è un rito sacrificale”, disse alquanto esasperato Hiccup, stanco di essere preso in giro.
“E se invece si trattasse proprio della maledizione di Fishlegs?”, chiese Tuffnut, proferendo per la prima volta da quando era entrato in quella stanza parola. Astrid trattenne un sorriso, mentre la principessa e il brunetto ridevano apertamente. L’uomo che aveva dichiarato di chiamarsi Flynn Rider rimase abbastanza stupito, ma ispezionava la stanza come se cercasse qualcosa.
“Mi arrendo”, annunciò Hiccup, tra le risate generali. Persino lui adesso tentava in tutti i modi di nascondere un sorriso divertito. “E adesso, al lavoro.”





Ehilà! Come avete passato le vacanze? Io devo ammettere bene, non ho fatto niente come al solito: il percorso più lungo che facevo era letto-cucina. Ma ritornando a noi e alla storia: questo e il prossimo capitolo, se ricordo bene -sì, ho già scritto altri due capitoli che pubblicherò successivamente- sono leggermente più lunghi dei miei soliti per il semplice fatto che prima della fine dei tre giorni a cui si appella Elinor ai nostri eroi succedono davvero tante cose, forse decisamente troppe! Qui ho deciso di fare interagire tra di loro personaggi a cui, personalmente, non avevo mai pensato come Merida e Snotlout, oppure Jack e Tuffnut e c'è un certo avvicinamento tra Astrid e Hiccup e -sorprendentemente- mi è piaciuto scrivere di questi rapporti che, ripeto, per me non sono affatto convenzionali -tranne Astrid e Hiccup, tecnicamente-. I mini titoli presenti in alcuni paragrafi -mi riferisco a quelli che sembrano usciti dalla catena For Dummies- per me erano congeniali a stilare un capitolo, seppur lungo, più leggero rispetto ai prossimi che usciranno, specialmente quello di Novembre. Spero che vi sia piaciuto il capitolo, spero che vi piaccia l'intera storia, vi auguro un buon fine estate -sempre se si possa dire visto il caldo che fa da me- e ci vediamo al prossimo capitolo! 

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Capitolo 15
*** "Organizzo l'incontro" ***


 


 
"Organizzo l'incontro"
 
 


 
A Merida facevano veramente male le mani. Era appesa alla finestra dello studio di Hiccup assieme a Jack, che le aveva appena insegnato come fare, ma mai si sarebbe immaginata che fosse così doloroso. Cercò di trattenere un’imprecazione di dolore, proprio mentre l’amico la rimproverava con lo sguardo. Dovevano fare assolutamente silenzio per sapere esattamente cosa avrebbero detto. Lei era stata esclusa dal padre, che l’aveva malamente cacciata da quel piano, e assieme a Jack sospettava che Hiccup non dicesse loro tutto. Tornava da queste brevi riunioni di strategia estremamente preoccupato, con una piccola ruga sul sopracciglio sinistro ad evidenziare il suo stato d’animo, ma si limitava ogni volta a far cadere il discorso e ritornarsene a lavorare al suo progetto, somigliante sempre più ad un automa, che Astrid faceva trovare sempre ben oleato come voleva lui.
Jack le fece segno di avvicinarsi ancor di più, e la ragazza ne approfittò per poggiare il piede su una sorta di spuntone, sospirando sollevata. Adesso le mani le facevano meno male. Il brunetto accanto a lei le poggiò un dito sulle labbra e poi indicò sopra.  
“Quanti siamo?”, sentirono borbottare il padre della rossa, estremamente chiaro come se parlasse a pochi metri di distanza.
“Dodici senza contare la bambina”, rispose prontamente Stoick, srotolando qualcosa come una pergamena. O forse, pensò Merida, ricordandosi di quando era andata nella sua stanza, è una mappa.
“Bene. Mia figlia, la sua amica bionda e la bambina rimarranno fuori dal conflitto”, disse Fergus con un tono che non ammetteva repliche.
“Ma”, provò a ribattere prontamente Gobber così come la ragazza da sotto la finestra, “Merida è brava a combattere. Potrebbe essere di grande aiuto.”
“No! Rimarrà fuori.”
“Potremmo mettere tutte e tre a governare le mitragliatrici che serviranno da diversivo”, propose Stoick, parlando più a se stesso che non agli altri. Merida provò a cercare di sollevarsi per osservare meglio la stanza, ma non ci riuscì. Credeva di avere molta più forza nelle braccia, che invece sembravano supplicarla di staccarsi da quella finestra e ritornarsene all’officina. Jack le intimò ancora una volta di star ferma, in quanto aveva fatto più rumore di quanto doveva. Si sentì Fergus dirigersi verso la finestra, sospettoso, fin quando Hiccup ne approfittò per parlare finalmente.
“Volete lasciare una bambina con una mitragliatrice da undici canne per fila per un totale di trentatré colpi al minuto?”
Il silenzio cadde nella stanza. Al fianco di Merida, Jack annuì inconsapevolmente, trovandosi d’accordo con il parere dell’amico.
“Gobber, chi è che non sa combattere lì?”, domandò il capitano delle guardie.
“Secondo me”, disse nuovamente il moro, intromettendosi prima che il suo maestro potesse parlare, “è la strategia intera che non funziona.”
“Cosa vuoi dire, ragazzo?”, fece Fergus, avvicinandosi a dove era il giovane. Merida sentiva il rumore della sua gamba di legno risuonare sul pavimento, lenta e pesante come sempre.
“Okay, chi non combatte attacca il palazzo con le mitragliatrici. Voi non mandereste degli uomini a uccidere gli attaccanti?”
“Come hai detto tu sparano trentatré colpi al minuto.”
“Ma non è detto che centrino trentatré bersagli”, disse Hiccup, in tono grave. “Attiriamoli fuori e facciamoli rimanere fuori! Così, pochi di noi si intrufoleranno a palazzo e libereranno la regina e i principini.”
“Ma così non riusciremo mai ad espugnare il castello”, replicò Stoick, carico di frustrazione.
“Non ci riusciremo mai, con così pochi uomini. Ci vuole un’armata, e noi abbiamo poco meno di una decina di ragazzini a disposizione”, commentò Gobber, cercando di far ragionare i due uomini.
“Prima di tutto salviamo la mia famiglia”, proferì Fergus, “e poi penseremo al resto.”
Merida si staccò dalla finestra prima che potesse sentire altro, e giunse a terra con un lieve rumore. Jack la seguì, facendo altrettanto ma con un tonfo sordo, spingendo la ragazza in un luogo sicuro. Stoick, infatti, sentendo il rumore, si era affacciato fuori dalla finestra per verificare se ci fossero intrusi.
“Devi migliorare”, le sussurrò il brunetto, alzandosi e liberando i propri abiti dalla polvere.
“Non è l’unica cosa che devo fare”, disse semplicemente, andando verso l’officina.



(Momenti di noia)



“So che non dovrei dirlo”, disse Rapunzel, parlando più a se stessa che alla piccola Emma che la guardava con degli occhi malinconici, “ma sono stanca di stare qui.”
“A chi lo dici”, accordò la bambina, sospirando lievemente. “Mi sembra di vedere il mio fratellone meno di prima!”
“Già, anche a me”, le diede ragione la bionda, gli occhi verdi sulla figura di Emma, con la testa poggiata sul tavolo. Si somigliavano tanto, lei e Jack. O almeno, pensò lei ridacchiando tra sé e sé, quando Jack non faceva il buffone: quel sorriso malandrino, gli occhi furbi e maliziosi, ogni connotato di Jack che le veniva in mente al primo istante non era altro che la maschera che si era costruito, che gli calzava così dannatamente bene, eppure era al tempo stesso estranea alla sua vera natura. Rapunzel era convinta che Jack avesse uno degli animi più gentili e nobili, nonostante i suoi atti poco nobili, ecco.
“Lady Rapunzel!”, esclamò una voce alle sue spalle, facendo sobbalzare sia lei che Emma. La bionda si girò, notando con sorpresa che la voce apparteneva a Flynn Rider.
“Flynn!”, ricambiò lei, alzandosi. “Lo sai che non devi chiamarmi Lady”, gli disse sorridendo, le gote leggermente rosse dall’imbarazzo. Emma si sporse a vedere meglio la scena, e Rapunzel ne approfittò per presentarla all’uomo.
“Flynn, questa è la sorellina di Jack”, disse la bionda, poggiando le sue mani –come sempre premurose- sulle spalle minute della bambina.
“Davvero? Solo Jack ha una sorella?”
“Smettila di chiamarlo così”, lo rimbeccò Rapunzel, corrucciando leggermente le sopracciglia ma sempre sorridente.
“Va bene, va bene”, si arrese lui, sbuffando non poco. “Ciao piccolina”, la salutò poi, scombinandole i folti capelli castani. La reazione di Emma, secondo la ragazza bionda, fu davvero divertente, degna del titolo di sorella di Jack. In quel primo momento, infatti, la bambina sbatté un paio di volte le lunghe ciglia castane, diffidente, per poi sistemarsi i capelli.
“Tu non mi piaci”, commentò semplicemente, stringendo gli occhi. A Rapunzel veniva da sorridere, proprio pensando che aveva avuto una reazione simile a quella del fratello quando c’era Flynn Rider nelle vicinanze.
Questo non rimase per nulla impressionato dalla reazione della bambina, ma non per questo si risparmiò dal farle una linguaccia.
“Flynn, che ci fai qui?”, chiese la bionda, interrompendo quella piccola faida accarezzando con tocco leggero i capelli di Emma.
“Cercavo te”, rispose lui, ritornando l’uomo affascinante di sempre. “Scappiamo insieme, andiamo a Corona. Sono certo che lì avrai il riconoscimento che meriti.”
“Scappare?”, ripeté lei, sgranando i grandi occhi verdi. “Io non voglio scappare. Io ho già il riconoscimento che merito, qui.”
“Avanti Rapunzel, hai l’aspetto di una principessa molto più della tua amica principessa”, replicò Flynn.
“Merida è una principessa di tutto rispetto”, cercò di giustificarla Rapunzel. “Forse non sarà particolarmente incline agli sfarzi della corte, o alle regole che essa comporta, ma..”
“Vorrei che Merida fosse qui per picchiarti”, la interruppe Emma, lanciando un altro sguardo carico d’odio a Flynn. “E credimi, ti picchierebbe per bene.”
“Emma, perché non vai a controllare se Gobber è ritornato?”, chiese la ragazza, scortandola verso l’altra stanza.
“Flynn, seriamente, io non voglio scappare e non so nemmeno perché insisti così tanto per andare a Corona. Come se, una volta arrivati là, potrebbero darmi tutte le ricchezze del mondo!”
“Ma è così!”, rispose il giovane, annuendo. “Rapunzel, ti fidi di me?”, chiese, porgendole la mano. La risposta sincera e immediata che la ragazza pensò fu un no secco. Non aveva nessun motivo per fidarsi di lui, non lo conosceva in pratica. Lo stesso Jack che gliel’aveva presentato non si fidava di lui, e lei si fidava del parere di Jack. Il brunetto era un suo amico, lui no. Flynn era semplicemente un uomo affascinante che si era avvicinato a lei dicendole di essere pressoché identica alla sovrana di Corona, dimostrandoglielo con un invito al ballo che si sarebbe svolto di lì a poco, solo che una parte di sé si rifiutava di credergli perché era un mascalzone. Avrebbe potuto farselo falsificare, non era difficile dato che si vantava di una certa fama, come ladro e furfante. Però.. purtroppo ogni suo ragionamento aveva un però. Forse anche Flynn, come Jack, era un furfante che operava per il bene. D’altronde aveva anche aiutato Jack e Tuffnut per una commissione di Hiccup senza neanche conoscerlo, e poi era sempre stato così gentile con lei. Rapunzel non si fidava affatto di Flynn, ma decise di dargli lo stesso un’occasione. Tese la mano, un po’ titubante, pronta a toccare quella di Flynn, quando si sentì un tonfo sordo nella stanza ed entrambi si girarono a vedere cosa stesse succedendo.
“Rapunzel!”, esclamò questa figura nell’ombra, quasi come se fosse felice di vederla lì. La bionda si avvicinò lentamente, scrutando con i suoi occhi verdi la figura al buio e sgranandoli per la sorpresa appena la riconobbe.
“Aladdin!”




(Riflessioni inaspettate - parte prima)



Astrid non era mai stata così affascinata da un ragazzo della sua età prima d’ora. Era da un giorno intero che osservava Hiccup, ma in quel momento si chiedeva perché non l’avesse mai fatto prima d’ora, anche solo per qualche minuto. Aveva tratti estremamente fini e delicati, per essere un maschio. Gli occhi, grandi e verdi, non si fermavano mai se non per qualche manciata di secondi così come le mani, le cui dita erano estremamente affusolate ed in qualche modo eleganti. Il naso a patata e le lentiggini sparse sulle guance erano gli unici tratti bambineschi che possedeva e che, in qualche modo, gli appartenevano. La bionda non avrebbe potuto immaginarlo diversamente. Ma non era il suo aspetto fisico, così atipico da quelle parti, quanto invece per il suo carattere che la affascinava. Chino sul tavolo da lavoro, operante direttamente sul casco che gli avrebbe permesso di respirare sott’acqua, con la linea del collo che tirava verso l’altro, Astrid si chiedeva davvero perché davvero non avesse mai impiegato prima qualche minuto per parlargli. Non era uno sbruffone, o un artista arrogante. Era prima di tutto un ragazzo che ancora non credeva in se stesso.
“Astrid?”, la chiamò lui, richiamando la sua attenzione. La bionda si rimise all’attenti, puntando i suoi occhi di ghiaccio su quelli del ragazzo, evitando di distrarsi ancora una volta inutilmente. La sua voce sembrava enormemente stanca, strascicata, come se avesse bisogno di numerose ore di sonno che gli venivano sempre negate, e anche un po’ preoccupata.
“Sì?”
“Vieni con me. Dobbiamo testare quest’invenzione.”
Astrid annuì, sentendo una strana sensazione allo sguardo del ragazzo, che si era soffermato sulla figura della bionda con i suoi occhi verdi. Nuovamente, lei si ritrovò a pensare che non era mai stata affascinata così ad un ragazzo della sua età, né tantomeno avrebbe pensato che ad attirare la sua attenzione sarebbe stato Hiccup, tremendamente magro e ossuto. Non riusciva nemmeno a sollevare un’ascia da guerra da solo! Era impacciato, timido e fisicamente debole, tutto il contrario di lei, però estremamente geniale. Ad ogni problema trovava una soluzione più o meno allo stesso tempo in cui, qualsiasi altro di loro, si sarebbe posto il problema.
“Hai già finito?”, gli chiese, seguendolo. Il suo passo era incerto, e anche molto goffo a causa di quella tuta perfino più grande di lui che trasportava.
“Oh, no”, rispose immediatamente. “Ancora devo riuscire a collegarla alla barca e poi nuovamente testare che funzioni a dovere.”
“Lo sai che hai solo oggi per finire, vero?”, domandò ancora Astrid, non nascondendo un tono decisamente preoccupato.
“Tecnicamente mi rimane tutto oggi e domani visto che andremo di sera, però.. sì, lo so.”
“Allora va bene, mi chiedevo solo.. Hiccup, cosa stai facendo?”
Astrid non poteva fare a meno di rivolgergli anche quella domanda: il ragazzo si era tolto il giacchetto di pelle che aveva solitamente indossava e solo Odino sapeva cosa stava cercando di fare con la tuta gigante.
“Sto cercando di indossarla, non si capiva?”, rispose lui, saltellando su un piede mentre cercava di infilare l’altro nella muta progettata. Purtroppo per il ragazzo, il suo equilibrio era parecchio instabile e il luogo in cui stavano entrambi era piuttosto scivoloso così Hiccup cadde rovinosamente sul laghetto in cui era andato a testare la sua invenzione.
“Aspetta che ti aiuto io”, disse Astrid, fingendo di sbuffare. In realtà, la bionda stava solo cercando di camuffare un sorrisino che le sue labbra non riuscivano a trattenere.




(Conversazioni sospette)



Camminava con passo svelto e deciso, come una qualsiasi persona che aveva un sacco di commissioni da sbrigare, ma quella era la tua tipica camminata. Phil non era di certo qualcuno che aveva del tempo da perdere. Si diresse al mercato, aumentando la velocità. Parecchie guardie stavano ispezionando la piazza dove erano situate le bancarelle ancora colme di prodotti nonostante l’ora tarda. Le poche persone che c’erano avevano la stessa andatura del nano, il quale fece un leggero sospiro intento a completare quello che doveva fare. Doveva assolutamente controllare che stesse andando tutto come doveva procedere.
“Vai di fretta, Phil?”, gli chiese una voce, incitandolo a fermarsi e a voltarsi verso la fonte.
“Sì, Genio”, rispose scorbutico il nano, alzandosi il cappuccio e ricominciando a camminare.
“Come sempre”, fece l’uomo, addentando una mela e seguendolo. “Devo parlarti!”
“Non ho tempo!”
“Penso proprio che riuscirai a trovarlo per me”, gli disse il Genio, posando una mano sulla testa di Phil che divenne rosso dalla rabbia e dall’umiliazione. “Vieni, andiamo in un posto sicuro”, gli bisbigliò, incitandolo a seguirlo in diversi cunicoli. Una volta fermi, Phil ne approfittò per togliersi il cappuccio.
“Cosa vuoi?”
“Stai andando da loro, vero?”, gli domandò sospettoso l’uomo, allisciandosi il pizzetto nero ed estremamente curato. Phil sgranò leggermente gli occhi, per poi rimuovere qualsiasi altro segno di sorpresa dalla sua faccia.
“E se anche fosse?”, ebbe il coraggio di ribattere.
“Avevi promesso! Avevamo tutti promesso che avremmo aspettato che loro sarebbero venuti da noi!”, esclamò il Genio, sempre parlando a voce bassa e guardandosi attorno di tanto in tanto. Il volto del nano divenne di una sfumatura minacciosamente rossa, come se fosse pronto ad esplodere.
“Non dire a me cosa dovevamo fare! Piuttosto, tu che ci fai qui?”
Il Genio sorrise sardonico, estraendo tre buste ancora sigillate dalla mantellina che indossava. “Avevo delle commissioni da ritirare.”
Phil non rispose, diventando ancora più rosso per la vergogna di essere stato umiliato ancora una volta da quel medico da due soldi. Peccato che entrambi sapevano che il Genio era molto più di questo.
“Sono di Merlino, Rafiki e Sebastian?”
“Esattamente.”
“Perché ti sei messo in contatto con loro?”, chiese Phil, aggrottando le sopracciglia. Adesso era il suo turno di sospettare dell’uomo, la cui lealtà era sempre piuttosto controversa.
“Per lo stesso motivo per cui ti ho fermato poco fa.”
“Per disturbarmi?”
Il Genio fece un sorriso sghembo, un suo tratto tipico, posando gli occhi maliziosi sulla figura del nano. Phil era sicuro che stesse per rivolgergli un’altra delle sue battute sfacciate e derisorie quando lo sorprese ancora una volta.
“Secondo me è il momento”, disse semplicemente, in tono piuttosto definitivo. Si soffermò a guardare negli occhi ancora una volta il nano e poi lo lasciò solo, tra quei cunicoli che in quel momento sembravano avere occhi e orecchie.




(Tu bari!)




“Non sei male”, si complimentò Jack alla ragazza con i capelli rossi. “In un’altra vita saresti stata un’ottima criminale.”
“In un’altra vita? Perché non in questa?”, chiese lei, ridacchiando. Da quando avevano assistito –in maniera più o meno legittima- a quella riunione erano rimasti in giro. Il brunetto aveva visto un’ombra scendere sugli occhi della principessa e sapeva benissimo che l’unica cosa da fare in questi casi era distrarsi. Pertanto si trovavano a correre sui tetti delle abitazioni di Dunbroch cercando di non cadere. Quantomeno, era questo quello che avevano fatto prima di mettersi a non fare niente sul tetto dell’officina. Non era certamente al centro di Dunbroch, ma da lì avevano davvero un’ottima visuale del castello che sembrava, ciononostante, grande e sicuro come sempre.
“Credo che la Regina non esiterebbe a tagliarmi la testa se vedesse cosa ti sto facendo fare”, disse Jack, abbozzando un piccolo sorriso. Nonostante tutto quello che era successo, il ragazzo era ancora terrorizzato dalla figura autoritaria della madre di Merida. Poco importava che fosse imprigionata o meno, Elinor era una donna forte che incuteva terrore con un solo sguardo.
“Tranquillo, non hai una cattiva influenza su di me”, replicò Merida,  battendogli dei colpetti affettuosi sulle spalle.
“Davvero? Quand’è stata l’ultima volta che sei salita su un tetto?”
“E quand’è stata l’ultima volta che hai spiato il Re?”
La sorpresa e la paura diventarono protagonisti del volto di Jack. Il ragazzo sgranò gli occhi, le pupille erano talmente dilatate da far sembrare gli occhi quasi interamente neri e la bocca era spalancata in un’espressione di sorpresa.
“Tu bari! Lo fai sembrare come qualcosa di terribile! Noi abbiamo spiato Hiccup.”
Merida rise, sfacciata come sempre. “Ma c’era il Re con lui, quindi è come se avessimo spiato il Re e tecnicamente è qualcosa di terribile. Punibile con la morte, secondo le nostre leggi”, gli disse, non potendo evitare di sorridere.
“Sappi che se cado io, tu cadi con me”, la avvertì Jack, lanciandole un’occhiataccia.
“Correrò il rischio”, ribatté lei, lasciando che il vento la inebriasse. Jack si fermò a guardarla. In quel momento sembrava così normale, così differente dall’essere la figlia dei sovrani di Dunbroch –e pertanto una principessa, aspetto che Jack tendeva sempre a dimenticare quando pensava a lei- o una delle fonti d’odio degli invasori di Drachma. Forse erano gli abiti che indossava a conferirle questo alone di normalità –abiti che Hiccup aveva concesso a lei e alla dolce Rapunzel- , ma Merida non sembrava essere nessun altro se non una ragazza molto sfortunata a cui capitavano decisamente gli eventi più sfortunati che sarebbero mai potuto capitare ad una persona. Jack, in fondo, era sempre cresciuto sapendo di non avere niente: non aveva mai avuto speranza che qualcosa di migliore sarebbe capitato nella sua vita, eppure ogni volta rimaneva sorpreso. Invece la rossa in pochi giorni aveva assistito alla sua inesorabile rovina e più affannosamente cercava di aggrapparsi a quel poco che era rimasto nella sua vita, più la crepa in quel suo castello di vetro si allargava.
“Senti, Merida”, cominciò lui, indeciso su quali parole usare, “n-ne vuoi parlare?”, biascicò semplicemente, come se la sua bocca fosse momentaneamente bloccata e le parole si impastassero tra di loro.
“Cosa?”, fece lei, non avendo capito una singola parola che era uscita dalla bocca dell’amico. Jack stava per rispondere quando una voce sotto di loro –acuta, decisamente di una ragazza- attirò la loro attenzione.
“Aladdin!”
“Cosa è stato?”, chiese Merida, guardandosi attorno.
“Non lo so, ma è meglio che andiamo a vedere”, rispose Jack, quasi volando verso il terreno.




(Commissioni)



“Allora?”, gli chiese frettolosa Astrid, ferma alla riva anche se tecnicamente non era davvero ferma. Si vedeva lontano un miglio che era nervosa ed impaziente, proprio perché, sebbene non si muovesse, non riusciva a stare ferma. La gamba sinistra tremava, la mano destra correva ad aggiustare il ciuffo di capelli che, troppo lungo, le cadeva sugli occhi e proprio questi non avevano smesso di guardare il ragazzo dentro la tuta da quando era entrato in acqua.
Hiccup emerse, dopo quelli che alla bionda erano sembrati minuti interi, e si tolse il casco.
“Non entra acqua, ed è un bene”, disse, tastandosi come se stesse cercando il suo quadernetto. “Devo usare un altro vetro perché non riesco a vedere bene con questo, e ho bisogno di almeno cinque stecche di cannella.”
“Cannella?”, domandò adesso confusa Astrid, aiutando Hiccup a raggiungere la riva e il piccolo molo.
“Sì, la puoi trovare facilmente al mercato”, rispose Hiccup, togliendosi anche il resto della tuta e rimettendosi il suo amato gilet di pelle.
“So dove trovarla ma.. a che ti serve?”
Hiccup non evitò di abbozzare un sorriso divertito, prima di spiegarle il vero motivo. “Sono un pittore, e sono abituato all’odore pungente dei materiali che utilizzo per i miei dipinti ma questa tuta puzza terribilmente di cadavere imputridito di maiale.”
Astrid fece un’espressione alquanto disgustata, che diede il pretesto ad Hiccup di continuare. “E dimentichi la parte migliore! Mi devo immergere nelle fognature.”
“Fortuna che ci vai tu ed apri la strada a tutti noi allora”, disse la ragazza, accompagnando la frase con un sorriso davvero poco convincente, andandosene in direzione del mercato.
“Certo, figurati, lo faccio con piacere”, brontolò lui di rimando, sistemando la tuta e ritornando all’officina.




(Lo straniero)




“Cosa sta succedendo qui?”, chiese Merida, entrando dalla finestra esattamente come aveva fatto Aladdin prima di lei. Jack era entrato immediatamente dopo, osservando immediatamente la stanza per vedere cosa avesse spinto Rapunzel –l’unica presenza femminile della stanza- ad urlare.
“Chi è questo?”, domandò il brunetto, non riconoscendo il ragazzo più basso. Flynn alzò le spalle, abbastanza confuso anche lui, mentre la bionda si mise al centro della stanza con le mani alzate.
“Ehm, scusate, ci sto capendo poco pure io”, cercò di giustificarsi, abbozzando un sorriso e facendo pure una risata abbastanza nervosa. “Lui è Aladdin”, disse Rapunzel, presentando quel ragazzo così atipico. Con quella sua pelle scura, così simile al caramello, e i suoi tratti morbidi e caldi, aveva certamente acceso la curiosità –e il sospetto- della rossa, che sembrava decisamente il suo opposto.
“Chi sei tu, Aladdin?”, domandò, guardandolo meglio come se volesse studiarlo.
“Sono un viaggiatore”, rispose immediatamente lui, ricambiando lo sguardo sorridendo sardonicamente. Gesto che infastidì leggermente la ragazza.
“Lui è il ragazzo che abita insieme all’uomo che mi ha insegnato la medicina”, spiegò Rapunzel al posto suo, avvicinandosi all’amica.
“E da dove vieni?”
“La mia è una terra di fiabe e magie, credo che tu la conosca. I cammelli vanno su e giù, brilla il sole da Sud, soffia il vento da Nord e le notti nella mia terra sono calde, più calde che mai. Tutto il contrario di Dunbroch direi”, disse il ragazzo con i capelli corvini, iniziando a gesticolare con le mani per coinvolgere la rossa. Ed in parte, ci riuscì.
“A Est di Dunbroch c’è il regno di Corona ma..”
“..ma a Corona le persone non sono così”, concluse la sua frase Flynn, intromettendosi nel discorso. Lui e Jack erano rimasti in disparte, non riuscendo ad ingranare bene i meccanismi di quella conversazione. Specialmente il ragazzo più grande che aveva dovuto interrompere il suo discorso importante con Rapunzel.
“Dai.. come si chiama lei?”, fece Aladdin, rivolgendosi a Rapunzel. Questa non riuscì a trattenere un sorriso.
“Stai parlando con Merida, primogenita discendente del clan Dunbroch.”
Gli occhi neri del ragazzo si sgranarono piacevolmente dalla sorpresa, scorrendo dall’amica bionda alla ragazza con i capelli rossi che, in quel momento, aveva un sorriso beffardo stampato sulle labbra. Questa reazione fece divertire molto Jack, che ridacchiò sommessamente per non ricevere uno sguardo torvo proprio da Merida.
“Scusami, non sapevo che fossi proprio tu Merida. Rapunzel mi ha parlato così tanto di te!”, si giustificò lui, facendo un profondo inchino che risultò perfino buffo. “E comunque, principessa, puoi fare meglio di così. Ti ho già dato tutti gli elementi necessari”, disse Aladdin, non utilizzando un benché minimo tono formale stavolta. Merida corrugò le sopracciglia ramate, ripensando alla descrizione che quel ragazzo le aveva dato. Ricordava qualcosa di vagamente simile, forse gliel’aveva raccontato suo nonno in uno dei suoi innumerevoli viaggi ma ciò che le diceva era assurdo. Si trattava di straordinarie avventure con cammelli che camminavano senza sosta, persone che si ritrovavano in galera senza un vero perché, tappeti colorati ed intensi e uomini che bruciavano di passione.
“Vieni dalle Terre d’Oriente?”, chiese sbalordita la ragazza, come se non ci credesse per davvero ma il giovane annuì con un sorriso fiducioso.
“Aladdin, cosa ci fai qui?”, chiese Rapunzel, finalmente. In quel trambusto non era riuscita più a capire niente tranne il fatto che la presenza stessa del corvino fosse alquanto inaspettata.
“Sono venuto a vedere se avevi bisogno di aiuto”, rispose Aladdin, posandole le mani sulle spalle esili. “Ho sentito il proclama della Regina e io e il Genio pensiamo che questo sia davvero un momento pessimo per Dunbroch.”
“A chi lo dici”, borbottò Merida, andando a sedersi in un angolo della stanza accanto a Jack.
“Oh, come siete gentile”, commentò la bionda, leggermente commossa. “A me personalmente non serve aiuto, io mi sto battendo per una causa, ma a Dunbroch..”
“Mi dispiace non dirti immediatamente sì”, cominciò Aladdin, spegnendo ogni possibile speranza dei ragazzi, “ma non sono io a decidere. Avevo chiesto a Genio se potevo aiutarti ma per Dunbroch intera.. di certo io non riuscirò a convincerlo da solo. Serve un rappresentante degno.”
Sentendo quelle parole a Jack si illuminarono gli occhi, alzando immediatamente lo sguardo per quel ragazzo orientale. “E chi meglio della principessa?”, domandò, attirando l’attenzione.
“Io non vorrei offendere nessuno ma soltanto due persone in più non cambierà di molto la situazione”, s’intromise Flynn, estremamente cinico.
“Oh, ma noi non siamo solo in due”, replicò Al, guardando nuovamente Merida. “Il Genio ha altre conoscenze e potrebbe parlare con queste per salvare Dunbroch. Sempre se si possa salvare.”
“Ogni cosa può essere salvata”, disse Rapunzel, con decisione. “Tu parla con il Genio, fallo venire qui il prima possibile. Noi, invece, parleremo con il Re Fergus e..”
“No”, la interruppe Merida, ricambiando stavolta lo sguardo di Aladdin. “Tu vai a parlare con questo genio o quello che è, e organizza un incontro. Parlerò io con lui.”
“Ma Merida”, cercò di farla ragionare l’amica, “tu..”
“Io che cosa? Posso farcela, Punzie, davvero”, ribatté lei, mettendo fine a quella conversazione. Aladdin spostò lo sguardo tra le due ragazze, poi si girò verso la finestra.
“Allora io vado. Stanotte, probabilmente, tornerò con il Genio. A presto!”, salutò, facendo l’occhiolino alle due ragazze e appena un cenno a Jack e Flynn che si guardarono tra di loro.
“Non volevo dire che non puoi farcela”, disse la bionda appena il corvino se ne fu andato, abbassando gli occhi verdi a terra. “Il Re è una figura più autoritaria della principessa e, anche quando tu riuscissi a convincere il Genio, dovresti sempre informare tuo padre di una futura strategia..”
“Mio padre non è il fantastico uomo che tutti crediamo che sia”, commentò Merida, estremamente decisa, uscendo dalla stanza e interrompendo così quella conversazione. A Jack sembrò di inghiottire un rospo, sapendo che la rossa stava dicendo quella frase più a se stessa che alla dolce amica. Rospo che era deciso a sputare proprio in quel momento.
“Punzie, ti dovrei dire una cosa”, la esortò, le mani congiunte e un tono supplicante davanti all’amica. Peccato che in quel momento entrò Gobber nella stanza, seguito da Emma.
“Cos’è successo qui?”, tuonò l’uomo, scrutandoli con i suoi occhi azzurrini. Emma, nel frattempo, si era ancorata alla gamba del fratello maggiore.
“Ho visto la principessa uscire parecchio turbata.. E tu chi sei?”, domandò, guardando Flynn.
“Io..”, iniziò a presentarsi, ma Gobber era deciso a non farlo parlare.
“Non mi interessa, vai a lavorare. Anzi, andate a lavorare tutti! Manca un giorno e abbiamo bisogno di un sacco di armi. Su!”, li incitò, indicando la porta con decisione. “Da quando Hiccup lavora all’altro suo progetto sembra che qui nessuno voglia lavorare!”




(Richieste)



“Genio, Genio!”, chiamò a gran voce il giovane Aladdin, correndo verso la casa dove lui e l’uomo più grande sostavano. Quest’ultimo si affacciò dalla finestra –esattamente come se fosse rimasto tutto il tempo lì, a poltrire come al solito- con aria lievemente annoiata, lisciandosi il suo amato pizzetto nero.
“Sì?”
“Ho avuto una richiesta”, disse compiaciuto, non nascondendo un certo sorrisino. “Ho avuto una richiesta dalla principessa.”
“Immagino quindi che alla nostra Rapunzel non servisse aiuto”, replicò il Genio, sbadigliando sonoramente.
“No, ma serve a Dunbroch il nostro aiuto. Il nostro.. e quello degli altri.”
“Uhm, sì, questo lo vedremo”, commentò l’uomo, invitando il giovane ad entrare nell’abitazione.
“Perché? Non hai sentito cosa ho detto? La principessa vuole organizzare un incontro con te. Con te!”, esclamò Aladdin, mettendosi a giocherellare con la sua tabacchiera.
“Non so se voglio andarci”, borbottò svogliatamente il Genio, girando per la casa alla ricerca di qualcosa che trovò poi appoggiata al caminetto. Erano, in realtà, delle lettere già aperte e prive del loro sigillo.
“Cosa?”, fece Aladdin, abbastanza confuso. “Tu ci andrai!”
“Perché dovrei farlo?”
“Ricordi quei tre favori che mi devi?”, gli rinfrescò la memoria il giovane, lanciandogli la bella lampada d’oro che soleva essere sempre messa dove il Genio potesse vederla e Aladdin potesse ammirarla. Anche quando c’era Rapunzel in quella casa che studiava medicina quella lampada non aveva smesso di attirare l’attenzione, distraendo la bionda dalle lezioni più tediose. L’uomo la prese la volo, con un’espressione seccata.
“Odio questa dannata lampada”, disse semplicemente, posandola sulla mensola più alta ma non meno visibile agli occhi suoi e di Aladdin.
“Quindi lo farai?”
“Ho altra scelta?”
“Organizzo l’incontro”, disse Aladdin, ammiccando all’uomo.




(Riflessioni inaspettate- parte seconda)




Hiccup non si fermò dal masticare la sua stecca di cannella. Doveva assolutamente mantenere la calma. Non aveva ancora finito la sua invenzione, stava lavorando assiduamente sulla barca che avrebbe contenuto il marchingegno che gli avrebbe permesso di respirare ma non riusciva a completarlo. Che ci fossero errori di calcolo? Beh, con tutto il baccano che stavano facendo gli altri non gli sarebbe nemmeno parso fin troppo strano. Sentiva in sottofondo le risate sguaiate di Tuffnut e Snotlout che con ogni probabilità si prendevano gioco di Fishlegs che, di fatto, si lamentava come una femminuccia, Ruffnut sembrava addirittura fare le fusa –di questo Hiccup non poteva essere certo, si era rifiutato categoricamente di alzare la testa- e Jack, Rapunzel e Merida sembravano discutere. Questo era l’unico di quegli avvenimenti che aveva destato la sua attenzione e curiosità, ma sapeva che non poteva abbandonare quel lavoro per aiutare i suoi amici. Finita la stecca alzò finalmente lo sguardo, incontrando la mano di Astrid che gliene offriva prontamente un’altra.
“Oh, grazie”, ringraziò lui, abbozzando un sorriso. E dire che quando erano più piccoli lei- e tutti gli altri amici del cugino- lo picchiava e non mancava mai dal prenderlo in giro!
“Figurati”, ricambiò la bionda, masticando anche lei una stecca di cannella. “Quanto ne hai ancora?”
“Su una scala da uno a dieci direi.. non penso di andare a letto”, rispose lui. “Dovresti riposarti, prima della giornata di domani. Sarai a fianco a fianco con il re e il capo delle guardie”, le raccomandò il moro.
“Oh, ma è bello starti a guardare”, commentò lei, perfettamente seria. Hiccup la guardò stralunato, come se non riuscisse a credere che quelle parole venissero dalla bocca di Astrid. Insomma, Astrid era sempre la bionda ragazza con gli occhi di ghiaccio, l’automa senza sentimenti che era fortissima nel combattimento e che –con ogni probabilità- avrebbe fatto mangiare la polvere perfino ai migliori combattenti, era sempre la bambina spocchiosa che gli tirava i capelli castani –sempre lasciati più lunghetti, in modo da solleticargli la nuca- e che lo spintonava.
“Sembra che niente possa urtare la tua incredibile concentrazione. Poco fa Fishlegs ha nuovamente tirato fuori la storia di qualche maledizione che incombe su tutti noi e Tuffnut e Snotlout non hanno perso un momento per prenderlo in giro, prima di andare a dormire Emma e Jack hanno giocato a rincorrersi, poi il tuo amico ha iniziato a litigare con la principessa e la sua amica bionda e Ruffnut ha cercato tutto il tempo di saltare addosso a quel tizio che ti ha portato la barca.. e tu sei rimasto a lavorare. Non hai alzato lo sguardo neppure per un attimo”, spiegò lei, non nascondendo una certa ammirazione. “Non ho mai visto nessuno così incredibilmente concentrato.”
Hiccup sorrise in modo molto dolce, le guance leggermente rosse, sentendosi in qualche modo lusingato da quell’attenzione non desiderata. “Oh, ehm, grazie.” 




(Litigi)



“Che cosa le hai detto precisamente?”, chiese Merida in tono di accusa, indicando Rapunzel ferma accanto a lei. Era la prima volta che il brunetto vedeva quest’ultima adirata almeno quanto la prima.
“A cosa ti riferisci?”
“Mi riferisco”, iniziò la rossa, avvicinandosi ancor di più all’esile figura del ragazzo, “al fatto che io non sono abbastanza lucida perché sono in collera con mio padre.”
Jack sbarrò gli occhi scuri, spostandoli da Merida alla bionda. “Io non ho detto questo!”, cercò di difendersi, mentre la stessa espressione si dipingeva sul volto di Rapunzel.
“Si che me l’hai detto!”
“Io sono abbastanza lucida!”
“Ti ho detto che lei non ce l’aveva con te, perché quella frase era per se stessa. Ed era per se stessa perché suo padre l’ha esclusa totalmente dal piano di domani. Piano, tra parentesi, da cui anche tu sei esclusa”, disse Jack, spiegandosi meglio.
“Perché?”, domandò Rapunzel, priva della rabbia iniziale. Sembrava delusa, e ferita adesso.
“Perché mio padre pensa che siamo inutili”, commentò Merida, rispondendo lei.
“Vedi che sei in collera con tuo padre?”, fece Jack, facendo digrignare i denti alla principessa. Rapunzel scosse la testa, muovendo con essa i lunghi capelli biondi che in quei giorni erano rimasti sciolti, privi delle acconciature complicate o delle trecce della dolce Emma.
“Basta litigare”, disse semplicemente, posando una mano sulle spalle dei suoi amici. “Abbiamo chiarito.”
“Non c’è stato nessun chiarimento qui”, ribadì Merida, guardando l’amica.
“Già, perché tu dovresti chiarire con tuo padre!”, esclamò Jack.
“Beh, forse avresti dovuto semplicemente parlarmene con me prima di dirlo a Rapunzel.”
“O forse avresti dovuto parlarmene prima tu”, s’intromise Punzie, guardandola tristemente. I tre ragazzi rimasero in silenzio per qualche secondo, ognuno con lo sguardo fisso per terra. Nessuno dei tre riuscì a raccogliere il coraggio per scusarsi.
“Noi.. non abbiamo tempo di litigare al momento”, borbottò Merida, un po’ più tardi dopo una lunga pausa di riflessione. “Dobbiamo parlare con Aladdin e il Genio e poi vedremo cosa fare.”
“Merida?”, la chiamò la bionda, mordendosi il labbro inferiore. “Forse potremmo semplicemente.. parlare”, propose, guardando speranzosa Jack per qualsiasi segno di sostegno.
Merida ricambiò lo sguardo, leggermente stanco e –vagamente- stufo di quella situazione, con un accenno di sorriso. “Dopo. Devo pensare a cosa dire al Genio per convincerlo.”
“Io non voglio litigare”, iniziò il brunetto, mettendo le mani avanti, “ma come pensi di convincerlo delle tue buoni intenzioni, che l’unica cosa che vuoi è salvare la tua famiglia, se escludi proprio questa dai tuoi piani?”
“Perché non è l’unica cosa che voglio”, sussurrò, mantenendo lo sguardo fisso sugli occhi scuri del ragazzo.

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Capitolo 16
*** “È un gioco, un gioco di ombre” ***







“È un gioco, un gioco di ombre”




 
Sebbene fosse una serata estiva, faceva piuttosto freddo quella sera. Merida, infreddolita da quell’inaspettata aria, aveva rivolto il proprio sguardo alla luna piena che sembrava essere lo specchio delle sue preoccupazioni, con tutti quei crateri. Si sfiorò ancora una volta il suo ciondolo, ripensando che stava facendo tutto per salvare la madre e i fratellini e non solo perché voleva dimostrare che lei non era debole, e ritornò a braccia conserte, stringendosi in quella camicia –estremamente morbida e macchiata di colore-, che le aveva prestato Hiccup. Si girò alla sua destra, osservando Rapunzel nella sua medesima posizione. L’amica bionda, a dirla tutta, sembrava anche vagamente preoccupata, come se non fosse pienamente convinta di ciò che stavano facendo o forse, più semplicemente –idea che Merida cercava di respingere dalla sua mente- non credeva in lei. Jack, al contrario, sembrava godersi quella brezza quasi autunnale, respirando a pieni polmoni: Merida non poté fare a meno di notare che anche lui osservava la luna solo che, a differenza di lei e di Punzie, il brunetto sembrava ipnotizzato da quel corpo celeste, come se non potesse fare a meno di osservarlo. Rimasero così, ad aspettare, fin quando non sentirono un rumore, stranamente proveniente dall’interno.
“Flynn!”, esclamò sorpresa Rapunzel, mentre Merida riposava nel fodero il pugnale velocemente come l’aveva uscito e Jack alzava gli occhi al cielo, scocciato da quella apparizione.
“Non vi ho visti a letto ed ero preoccupato”, si giustificò il giovane uomo, facendo sbuffare sia Jack che la principessa, che aveva –anche lei- un’innata antipatia verso quello.
“E sei andato a ficcanasare, altroché”, commentò Jack.
“Shh!”, li rimproverò la bionda, riservando ai due ragazzi uno sguardo truce. “Flynn, va’ a letto, noi dobbiamo.. fare una cosa ecco.”
“Che dovete fare?”, domandò il giovane, ammiccando.
“Niente che ti riguarda”, borbottò Jack, ricevendo stavolta uno sguardo fulminante proprio dall’altro ladro.
“No, seriamente, niente che ti riguarda”, disse Merida, difendendo l’amico con cui lei stessa, fino a poco fa, stava litigando.
Oh, ho capito”, fece Flynn, sorridendo sornione, “avete quell’incontro speciale con un ragazzo che, sinceramente, mi sembra fittizio.”
“Anche tu e Jack potreste essere definiti fittizi, siete dei ladri anche voi”, ribatté Rapunzel, in difesa del corvino che in quel momento era assente.
“Ma io non vengo da una terra lontana!”
“Ma tu non usi neanche il tuo vero nome!”, commentò Jack, gesticolando. Le due ragazze si fermarono a guardarlo, in particolare Rapunzel che sembrava sconvolta.
“Cosa?”, fu tutto quello che riuscì a dire, anche perché spuntò in quel momento la figura di Aladdin con tanto silenzio che sembrò apparire dal nulla.
“Ehi ragazzi, principessa”, disse, facendo l’occhiolino a Merida che alzò gli occhi al cielo, gesto che fece ridere il ragazzo con la pelle color caramello, “com’è che quando vi vedo litigate sempre?”
I quattro ragazzi a quella domanda cercarono seriamente di rispondere, chi balbettando, chi parlando a bassa voce, chi arrancando semplicemente una scusa e chi non dicendo niente. Aladdin sorrise.
“Va bene. Vi voglio avvisare che stasera non parlerete solo col Genio, ma anche con altre simpatiche personcine”, disse, usando un tono particolarmente vago.
“Al..?”, cercò di chiamarlo Rapunzel, confusa da quel cambio di programma ma, com’era giusto che fosse, un’altra persona lo era più di lei.
“Cosa?”, domandò Merida, alzando la voce di un paio di ottave.
“Se prima c’era ancora la possibilità di non essere scoperti, adesso l’abbiamo certamente eliminata”, scherzò Jack, facendo ridacchiare il corvino.
“Piuttosto che parlare per convincere il Genio e poi il Genio dovrà convincere gli altri suoi alleati, convincerai lui e tutti gli altri allo stesso tempo.”
“Un enorme risparmio di tempo”, commentò Flynn, ricevendo un’occhiataccia dalla rossa.
“Merida, ce la puoi fare”, sussurrò Rapunzel, guardandola speranzosa. Merida annuì, non convinta come lo era la bionda, ma ormai era inutile piangere sull’orso trasformato. Ormai era arrivato il suo momento.
“Dove dobbiamo andare?”, chiese titubante. Aladdin sorrise teneramente.
“Seguimi”, sussurrò, cominciando ad addentrarsi verso il centro abitato. Merida guardò ancora una volta la bottega, ripensando al padre che, ignaro di tutto, dormiva e si toccò il ciondolo regalatole dalla madre. Si mise il cappuccio e guardò i suoi amici.
“Andiamo”, disse, incamminandosi anche lei verso il centro.
 
 
 
“Sono convinto che mi piaceresti di meno se parlassi”, disse Hiccup, continuando a lavorare imperterrito al suo progetto. Mancava davvero pochissimo –aveva in programma pure di dormire qualche oretta, giusto per essere certo di non crollare e addormentarsi sul campo di battaglia-  e non riusciva a collegare l’aggeggio che gli avrebbe consentito di respirare sulla barca. Il moro alzò i suoi occhi verdi sulla figura accanto a lui, che ricambiò lo sguardo. Anzi, Toothless sembrava rimproverarlo. Hiccup sorrise, scuotendo la testa, riprendendo a lavorare. Ormai anche Astrid, dopo avergli dimostrato che le persone possono impazzire dal nulla e cambiare radicalmente la loro personalità, era andata a letto –il moro sapeva di star pensando qualcosa di cattivo e si vergognava un po’ di questo- con tutto il sollievo e la gratitudine del ragazzo. Non bastava, ovviamente, tutto il rumore che gli altri facevano fuori, ma anche la bionda a distrarlo, fissandolo con quegli occhi di ghiaccio. Doveva però darle i suoi meriti: oltre ad essere rimasta in silenzio la maggior parte del tempo, aveva ben oleato nuovamente la sua tuta e, ancor prima che lui glieli chiedesse, gli passava tutti gli strumenti che stava per utilizzare. Nonostante Astrid era una brava assistente, Hiccup preferiva Toothless. Il falco in quel momento lo beccò sulla mano, evitandogli di forzare maggiormente il marchingegno da collegare alla barca.
“Ahi”, si lamentò Hiccup, accorgendosi dello sbaglio che stava per fare. “Oh, grazie. Da quand’è che te ne intendi di invenzioni?”, gli chiese, non trattenendo un sorriso. Chi l’avesse visto in quel momento l’avrebbe considerato un folle, dal momento che parlava con un uccello. Ma Toothless non era un uccello normale, continuava a ripetersi l’artista. Sembrava rispondergli, come in quel momento. Anzi, in quel momento sembrava sghignazzare e ridere di lui, per poi beccarlo nuovamente.
“Sì, sto lavorando, sto lavorando”, borbottò, accorgendosi di quel momento di una presenza dietro di lui. Si girò lentamente e vide il padre guardarlo con gli occhi sgranati e fissi sulla sua figura. Il giovane abbozzò un sorriso.
“Ehi”, salutò, accompagnando il tutto con il gesto della mano nonostante desiderasse con tutto se stesso ritrovarsi altrove. Stoick, probabilmente sceso per andare in bagno, non ricambiò affatto il saluto.
“Adesso mi fai seriamente paura”, disse solamente, ritornando in camera sua silenziosamente com’era apparso. Hiccup sbatté le palpebre un paio di volte, riprendendo a lavorare. Pensando a quant’era stato strano quell’incontro, non poté fare a meno di mettersi a ridere.
 
 
 
“Sei pronta?”, le chiese Aladdin, immergendo i suoi occhi neri in quelli acquamarina di lei ma i suoi erano fissi sulla porta di legno. Una volta aperta poco avrebbe importato se si sentisse pronta o meno, doveva agire. Sentì Rapunzel stringerle la mano, forte, e questo riuscì ad infonderle coraggio. Nonostante l’avesse trascurata tutto quel tempo, lei si dimostrava sempre la grande amica di cui Merida aveva bisogno.
“Sicuro che sia questo il posto, Al?”, domandò Jack, guardando l’edificio –e l’insegna in particolare- come se la riconoscesse.
“Sicurissimo”, rispose il corvino, aprendo la porta. Il locale era proprio come se lo ricordava Jack: pieno di persone che bevevano e consumavano un pasto caldo e, dal profumo che emanava, anche invitante. Ma c’era un uomo particolare con un codino –estremamente buffo e ridicolo- , nero come il pizzetto e gli occhi, molto più magnetici di quelli di Aladdin nonostante il colore della pelle fosse lo stesso. Indossava anche un abbigliamento simile, con morbidi pantaloni in panno chiaro con una fascia rossa –dalla quale sporgeva minacciosamente una sciabola- e parecchi gioielli vistosi in oro. Merida, la cui mano era ancora stretta a quella di Rapunzel, si mosse appena, giusto per individuare i famosi altri con cui avrebbe dovuto parlare ma di persone sospette come quell’uomo che veniva dalle Terre d’Oriente non ce n’era traccia nel locale. La rossa era ancora concentrata nella sua analisi quando all’improvviso le si parò una donna davanti.
“Oh, cielo!”, esclamò, entusiasta. Merida la guardò attentamente e adesso le appariva evidente che anche lei non era di Dunbroch: la pelle era abbronzata, gli occhi erano di uno straordinario color violetto mentre i capelli, lunghi e neri, le ricadevano dolcemente sulle spalle.
“Ma sei carinissima!”, squittì nuovamente la donna, con una voce decisamente acuta. Merida continuò a guardarla di sottecchi, come se fosse impaurita dalla figura femminile che le si era parata davanti quando un uomo venne in suo soccorso.
“Seguimi, e non ti preoccupare di questa svampita”, le disse, facendo segno a tutti quanti di seguirlo al piano superiore. L’uomo era vagamente familiare..
“Aster!”, esclamò infatti Jack, riconoscendolo a colpo d’occhio. “Tu che ci fai qui?”
L’uomo alzò gli occhi al cielo, come la prima volta che si erano incontrati in quella locanda così bizzarra. “Io ci lavoro, qui.”
“Dov’è il nonno?”, chiese a questo punto Flynn, sistemandosi accanto al bancone e attirando lo sguardo di tutti. “Preferirei rimanere qui e farmi un paio di pinte col vecchio”, spiegò, con tutta la scioltezza di quel mondo.
“Intendi North? Oh, ma lui è di sopra insieme agli altri”, rispose la donna, parlando nuovamente con quel suo tono così frenetico.
“Allora è il caso di salire”, disse il Genio, alzandosi.
Il piano superiore del locale era veramente grazioso e molto caratteristico. Gli inserti in legno, il caminetto acceso nonostante non ce ne fosse bisogno, il vetro colorato alla finestra.. Sembrava che in quella stanza fosse protagonista assoluta l’aria natalizia che fece venire alla rossa la voglia di una cioccolata calda, quelle che lei, Rapunzel e la madre prendevano sempre insieme accompagnandola con i famosi biscotti di Maudie. Quattro uomini erano presenti nella stanza, ognuno con le proprie caratteristiche. Sulla poltrona più grande accanto al camino era seduto un uomo possente, immenso, di tarda età, con capelli e barba completamente bianchi ma le sopracciglia ancora scure gli conferivano un aspetto più giovanile. Sulle braccia –le maniche infatti erano rimboccate, probabilmente per il caldo- erano presenti dei tatuaggi che indicavano un lato buono e uno cattivo. Eppure questo non era di certo il più anziano presente nella stanza. Quest’ultimo era magro, non molto alto e decisamente molto vecchio, a giudicare non solo dall’argento dei capelli e della barba, talmente lunga che gli arrivava quasi ai piedi, ma anche dalle numerose rughe che solcavano in viso.  Dietro gli occhiali tondi che ricadevano sul naso lungo e ricurvo si nascondevano due occhi di un azzurro chiaro, luminosi e scintillanti che a Merida ricordavano vagamente quelli di Astrid. Un uomo dalla carnagione scura, più simile al carbone che al caramello del Genio e di Aladdin, la guardava incoraggiante, attirando la sua attenzione per i vistosi e vivaci colori di cui il corpo era ricoperto, decisamente tribali. L’altro uomo.. era decisamente il più strano e il più normale tra i quattro. Era alto, sistemato e vestito come solo un uomo di classe e di una buona condizione economica poteva essere, ed era curato e sarebbe apparso anche gradevole se non avesse avuto un’espressione scocciata stampata sul viso.
“Lasciate che vi presenti i cinque uomini più influenti a Dunbroch in questo momento, esclusi, ovviamente, i membri della famiglia reale”, annunciò il Genio, lanciando un’occhiata penetrante alla principessa.
“Cinque?”, domandò Jack, esprimendo ad alta voce il pensiero di tutti. Il Genio non rispose, sghignazzando tra i baffi, quando Jack fece una smorfia di dolore.
“Ahia!”, si lamentò, toccandosi una gamba. Un nano, o come preferivano chiamarlo Jack e Flynn –una delle poche cose che avevano in comune- il piccolo uomo, gli aveva tirato un calcio alla gamba –e più precisamente allo stinco destro, come ebbe modo di constatare Rapunzel più tardi, medicandogli la ferita-.
“Phil!”, esclamò Rapunzel, riconoscendo e andando ad abbracciarlo. Il nano arrossì vistosamente sul volto, ma si lasciò comunque abbracciare dalla bionda.
“Tu sei un nano!”, esclamò Merida, guardando la figura di quell’uomo stupita e affascinata.
“Però, perspicace”, commentò Jack, facendo ridere Aladdin. Quei due sarebbero stati grandi amici.
“È un dono, Jack”, disse lei, fulminandolo con lo sguardo come a rimproverarlo. “Dicono che i nani portino fortuna. E poi deve essere proprio forte, altrimenti non ti terresti ancora la gamba dal dolore.”
“Ha fatto della propria debolezza.. un’armatura”, s’intromise Rapunzel.
“Grazie”, accordò Phil, facendo un inchino alla principessa. “Come dico sempre al mio ragazzone mai dimenticare chi sei, perché di certo il mondo non se lo dimenticherà.”
“Una frase molto saggia”, sospirò la rossa, sentendosi meno nervosa di prima.
“Hercules è qui?”, domandò Rapunzel, ma venne interrotta dal Genio.
“Scusate, mi sembra di star perdendo di vista il motivo dell’incontro. Io sono il Genio, e questi sono i miei colleghi Phil, Rafiki, Sebastian e Merlino”, disse, indicando rispettivamente il nano, l’uomo tribale, quello elegante ed il vecchio con la barba ai piedi. “E questo è North.”
L’omone indicò a Merida la poltrona vicino alla sua accanto al camino, e la ragazza, prima di sedersi, ne approfittò per togliersi il mantello, piuttosto pesante nonostante la stagione estiva.
“Chi siete voi?”, chiese, non riuscendo a stare ferma con le mani che si contraevano come se dovesse scoccare una delle sue frecce.
“Milady, ho appena presentato..”, iniziò a rispondere il Genio, facendo un sorriso nervoso ma Merida non si stava rivolgendo a lui. Infatti, l’uomo chiamato North alzò una mano verso l’uomo col pizzetto facendogli segno di stare in silenzio.
“Cosa intendere con chi siete voi?”, domandò questo, sorridendo giocoso alla ragazza. Parlava con uno strano accento.. del nord.
“Intendo proprio quello che ho chiesto. Chi siete voi?”, ripeté Merida, estremamente seria. “Siete stati presentati come i cinque uomini più influenti risiedenti al momento a Dunbroch, dovete per forza essere delle persone importanti. Quindi, chi siete voi?”
“Sei”, la corresse il Genio, alzando le mani in aria. “Non mi sono incluso perché credevo che Aladdin vi avesse già detto qualcosa di me.”
“Essere solo uomini seduti su poltrone”, rispose North, sempre sorridendo.
“Questo lo vedo.”
“Non metto in dubbio tue capacità di osservazione.”
“E come possono degli uomini seduti su delle poltrone aiutarmi?”
Il più anziano di tutti, Merlino, scoppiò a ridere, accendendosi la pipa tirata fuori dalla sua lunga barba.
“Noi siamo spettatori, bambina. Osserviamo. Ed in certi casi, ci piace alzarci da queste poltrone che, odio ammetterlo, sono estremamente comode”, disse questo, guardando la ragazza con i suoi occhi azzurri scintillanti attraverso gli occhiali rotondi.
“Anche se”, obiettò Sebastian, “non è detto che ti aiuteremo.”
“Cosa?”, fece Rapunzel, guardando l’uomo con i suoi grandi occhi verdi, spaventata. Phil sembrò implorarla con lo sguardo di fare in silenzio, e s’intromise lui stesso nella conversazione.
“Il mondo ha un modo tutto suo per ristabilire un equilibrio. Forse è destino che Dunbroch venga distrutta da Drachma.”
“Io non ho intenzione di aspettare che il mondo decida di rimettere le cose a posto!”, esclamò Merida. “Ne va della vita di molte persone e..”
“E quindi noi dovremmo aiutare te per uccidere chi minaccia di uccidere altre persone?”, domandò l’uomo tribale, Rafiki. Merida rimase in silenzio, con la bocca semiaperta guardando i suoi amici, cercando un qualsiasi appoggio.
“La morte essere qualcosa che spaventa te?”, sussurrò North.
“Senta, chi è davvero lei?”, chiese la rossa. “E non mi dica che è un uomo seduto sulla poltrona, o che è North, o chissà qualche altra sciocchezza. Voglio sapere la verità. Perché questo circolo di uomini strambi e bizzarri dovrebbe essere il più influente nel mio regno?”, esclamò la ragazza, infervorata da ogni frase detta da quegli uomini. Rapunzel e Jack si guardarono, stringendosi –consapevolmente o meno- la mano, mentre Flynn sembrava tentare una tecnica –decisamente malriuscita- di mimetizzazione con la tenda, Aladdin si era avvicinato sempre più al Genio e gli altri due, la donna entusiasta e Aster, erano scesi da un bel po’ per continuare a gestire il locale.
“Mostra rispetto”, dissero i cinque uomini, in coro, con un tono piuttosto intimidatorio mentre North rimaneva in silenzio.
“Basta sapere che io fare parte dei buoni”, rispose North, sorridendole dolcemente. Praticamente non aveva fatto altro per tutto il tempo.
“Davvero? E perché somiglia tanto ai cattivi? Ha pure l’accento di Drachma”, lo accusò Merida, corrucciando le sopracciglia. Iniziava davvero a temere che tutto ciò che aveva pensato di fare si sarebbe rivelato non inutile, ma decisamente un peggioramento dato che si stava inimicando tutti invece di convincerli ad aiutarla.
“Brutta rassomiglianza, lo so. Ma potere parlare di parentele più tardi”, ci scherzò sopra l’uomo e, sebbene stesse ridendo, Merida intuì che era il suo modo di far cadere l’argomento.
“Per cosa ci sta chiedendo aiuto?”, chiese Sebastian, puntando i suoi occhi, blu come il mare ma maledettissimamente molto più severi, prima sui capelli, come ad solito rossi e ribelli, e poi sul viso.
“Ho bisogno di una guerra”, rispose questa senza mezzi termini, stupendo in qualche modo anche Rapunzel e Jack che strinsero ancor di più le loro mani. Un brusìo iniziò a scorrere tra gli uomini, placato immediatamente da North.
“Tu sai a che cosa servono le guerre, ragazzina?”, fece il Genio, chiudendo gli occhi e scuotendo la testa, incredulo a quelle parole.
“E dire che fino a qualche minuto fa mi ha chiamato Milady”, bisbigliò Merida piuttosto freddamente, ritornando a contrarre le mani.
“Le guerre sconvolgono sempre l’umanità, ma vedo che non hanno lo stesso effetto sull’uomo”, borbottò Rafiki, ottenendo il consenso del nano.
Ancora una volta North rimase in silenzio, lasciando che lei e la principessa comunicassero con lo sguardo. Merida pensò che, se avesse dovuto giudicarlo solo dagli occhi –blu come quelli di Sebastian ma decisamente più intelligenti-, il suo giudizio avrebbe attestato che North era certamente un uomo saggio e probabilmente il più saggio da lei conosciuto. L’omone tirò fuori un campanellino, che servì a far salire la donna estremamente entusiasta di prima.
“Toothiana, porta due tazze di cioccolata per favore”, disse quello, sorridendo. Poi tornò a parlare con la principessa.
“Sai cosa essere una guerra?”, chiese semplicemente, lanciandole uno sguardo penetrante. “Essere un gioco, un gioco di ombre”, continuò, utilizzando un tono più basso e cavernoso, proprio mentre la donna portava a lui e alla rossa le tazze con la cioccolata. “Tu essere pronta a giocare?”
“Prima di rispondere a questa domanda”, s’intromise Merlino, “voglio che risponda alle nostre domande. Solo cinque, una per ognuno, ovviamente. Questa è la mia. È così che intende misurare la sua grandezza, dal numero di morti che si lascerà alle spalle?”
Merida prima di rispondere non poté fare a meno di incrociare lo sguardo di Rapunzel. “Se quel numero di morti riuscirà a garantire la pace per un numero maggiore di vite umane, sì.”
“Morte o vita?”
La principessa sbatté le sue ciglia ramate un paio di volte, non capendo immediatamente la domanda di Phil. “Come, scusi?”
“Morte o vita?”, ripeté il nano, meno sgarbatamente di quanto Merida si sarebbe mai aspettata.
“Penso morte, se servisse a qualcosa”, borbottò lei, incerta. “Non fraintenda”, aggiunse immediatamente dopo, allungando la mano, “io non voglio morire. Voglio fare così tante cose..”, si fermò appena, le guance visibilmente rosse, “e la morte le ucciderebbe tutte. Ma sarei morta, e la questione non mi toccherebbe più.”
“Mi piaci”, le disse Phil, rivolgendole uno sguardo che sapeva vagamente di compassione. “Ma voglio che tu sappia questo. Morire è facile, è vivere che richiede coraggio. Ricordalo, sempre.”
Il terzo uomo che le si parò davanti fu Sebastian, apparendole –come se fosse possibile- ancor più antipatico di prima. La osservò attentamente, con quegli occhi blu così scrupolosi, reclinando la testa diverse volta.
“Perché non c’è tuo padre?”, chiese semplicemente, come se volesse togliersi quel piccolo sfizio. Merida, prima di rispondere con una rispostaccia come al suo solito, prese un lungo sorso di cioccolata cercando di scaldare il buon senso oltre che il cuore.
“Mio padre non sa che siamo qui. Non gliel’ho detto. Il mio fato è solamente mio, le mie scelte sono solamente mie”, disse Merida, con un tono di voce più basso del suo solito.
“Peccato che riguardino un’intera nazione, cara”, commentò Sebastian, alzando le spalle e ritornando al suo posto.
La rossa si girò, cercando di capire chi fosse il prossimo a rivolgergli la domanda. Era decisamente stufa di quell’interrogatorio: le stavano proponendo delle domande la cui risposta non poteva mai essere totalmente giusta e di questo lei ne era conscia. Non aveva mai smesso di guardare con la coda dell’occhio North, che sorseggiava la sua amata cioccolata calda, e aveva notato che alle risposte che lei dava si toccava l’uno o l’altro braccio con scritto buono o cattivo, e talvolta tutti e due.
“Perché la guerra?”, chiese il Genio, attirando la sua attenzione. Non si era alzato. Era rimasto semplicemente seduto, ipnotizzandola con quei suoi occhi neri.
“Perché no? La guerra non perdona. Avanza inesorabile e inarrestabile.. e quando si decide a soccombere lascia dietro di sé strati indelebili di morti. Una volta mio nonno mi disse che la guerra è l’unica cosa al mondo in grado di pulire il mondo, come se venisse salvato da chi versa il suo sangue per una buona causa. Io ho bisogno della guerra perché..”
“Asante sana cocco banana!”, esclamò Rafiki, interrompendola e agitandole un bastone sotto il naso.
“Oh, non di nuovo”, commentò di sottofondo Phil, mentre Sebastian sospirò pesantemente. Seduto in un posto vicino a lei, Merlino scoppiò a ridere, accendendosi –nuovamente- la pipa.
“Asante sana cocco banana!”, ripeté l’uomo, sfoggiando i colori che portava come veri e propri abiti. Prima che Merida potesse chiedere che cosa stesse blaterando, Rafiki fece la sua domanda. “Chi sei tu?”
“Io sono Merida”, rispose lei, riprendendo a contrarre le mani. “Primogenita del clan Dunbroch, unica principessa di questo regno..”
“No, chi sei tu?”
“Una ragazza visibilmente confusa”, commentò, un po’ troppo ironicamente, tanto che Jack, Aladdin, Flynn e perfino Merlino scoppiarono a ridere e Rafiki la colpì in testa col bastone.
“Ahi!”, si lamentò, toccandosi immediatamente dove era stata colpita. “Perché l’hai fatto?”
“Non ha importanza, è già passato!”
“Sì, ma continua a fare male”, borbottò Merida, massaggiandosi la testa. “Se proprio vuole saperlo sono una ragazza che ricerca costantemente la libertà, ma credo di aver trovato la prigionia più bella e duratura di tutte”, rispose. Rafiki si avvicinò maggiormente alla principessa, sussurrandole qualcosa all’orecchio che gli altri non compresero, ma la rossa si limitò ad annuire seriamente, prima che l’uomo tribale la colpisse nuovamente con il bastone.
“Smettila di colpirmi”, disse in tono supplicante, toccandosi il bernoccolo che aveva iniziato a formarsi. Poi il suo sguardo cadde nuovamente su North che la guardava incoraggiante. Guardò il ciondolo –ultimamente lo faceva più spesso di quanto avrebbe voluto- e le venne in mente una cosa che le disse sua madre quando era più piccola.
“Le leggende vengono narrate, alcune cadono nel dimenticatoio mentre altre diventano così famose che chiunque le conoscerà. Tu, bambina mia, verrai ricordata per secoli.”
“Io non sono pronta a giocare. Io sono pronta a vincere”, rispose, lasciando che i suoi occhi acquamarina ardessero di passione. 



Con questo capitolo ci tengo ad augurarvi buone feste! Tanti Auguri! 

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