Random words

di malpensandoti
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Avevo già pubblicato questa storia, tempo fa! Dopo averla cancellata, stamattina mi son detta che non ne valeva la pena lasciarla marcire dentro al computer, no? 
Rileggendola, non è niente di che, davvero! Ma finché mi dedico agli altri progetti che ho in mente, perché no? 
Sono quattro capitoli complessivi, già tutti completati! L'ho scritta un sacco di tempo fa, quindi non scandalizzatevi se è penosa o quant'altro, sono migliorata (spero) da allora!
E niente, spero che la cosa possa farvi piacere, fatemi sapere!
A presto,
Caterina



 
 


random words 



 

L’hexanchus griseus è una razza di squalo famosa per la modalità con cui è solita a riprodursi.
Non sappiamo granché su questo atto, molti biologhi e scienziati lo studiano tutt’ora senza arrivare mai a reali conclusioni.
Le ipotesi più certe è che i denti del maschio si siano adattati alle fessure delle branchie della femmina. Questi buchi, tra l’altro, sembrano essere nati apposta per l’accoppiamento.
In altre parole, entrambi gli squali hanno modificato il proprio essere per il partner.
La cosa più interessante comunque, è  che durante l’atto della riproduzione, questi animali scatenano il loro lato più selvaggio, arrivando addirittura a farsi male reciprocamente.
Si stringono talmente forte da lasciarsi i graffi sulla pelle.
 
 
 
 
Harry ha la schiena martoriata da segni rossastri.
Sono cose che probabilmente Kalia nemmeno conosce, perché nel momento in cui glieli procura, lei ha gli occhi serrati e la testa nell’incurvatura elegante del suo collo. Sono cose, segni, graffi, che lei probabilmente nemmeno ha visto se non di sfuggita, ma che lo fanno stare bene.
Certo, Harry deve pur sempre evitare sforzi troppo grandi per qualche giorno, deve ricordarsi di entrare piano nella doccia e di non appoggiarsi alla testata del letto, ma è pur sempre un sollievo sapere di essere ancora suo.
Perché Harry, anche se gli costa ammetterlo, anche l’idea di essere posseduto gli fa venire voglia di stringere i pugni e sospirare, è di Kalia.
Esattamente come Kalia appartiene a lui e a nessun altro.
I graffi dietro la schiena sono un chiaro invito a ricordarsi di respirare, Harry sente la pelle tirare mentre si stiracchia e non può fare a meno di sorridere perché anche oggi, come ieri, lui è qui, lui è un qualcosa e anche un qualcuno.
Il problema è che quando poi succede quello che è successo, le cose si complicano e gli stessi segni che tirano la pelle bruciano sulla schiena.
E il dolore piacevole e di compiacimento diventa solamente sofferenza e rimpianto, e Harry pregherebbe Dio solo sa cosa per potersi strappare quei graffi che inevitabilmente sanno di Kalia e tornare a respirare ancora.
Harry non è un bugiardo, non lo è mai stato neanche da piccolo. Lui non mente, omette. Fa credere alla gente ciò che vuole o non vuole sentirsi dire, senza aprire bocca, ed è una cosa che Kalia – lui stesso sa – non riesce a sopportare.
Ma comunque lui se ne accorge sempre troppo tardi, sul divano di casa di Louis, con il borsone riempito malamente delle sue cose e la testa che rischia di scoppiare.
È stato lui a sbagliare come tutte le volte che hanno litigato, perché i silenzi accondiscendenti di Harry la fanno stare male e no, Kalia non se lo merita.
Perché se le avesse detto fin da subito di aver accompagnato Beth a casa, Kalia non l’avrebbe scoperto due giorni dopo da Ella e loro non avrebbero litigato furiosamente.
E forse lui non le avrebbe dato della bambina infantile, lei non lo avrebbe colpito al braccio e non gli avrebbe urlato di essere stufa dei suoi cazzo di silenzi.
E quindi forse Harry non sarebbe andato nella loro stanza, non avrebbe riempito il borsone della piscina con le sue cose e non avrebbe preso le chiavi della macchina.
E Kalia non sarebbe scoppiata a piangere, lui non le avrebbe detto di essere stanco di lei e non sarebbe uscito dal loro appartamento.
E adesso i graffi sulla schiena smetterebbero di fare solo male a contatto con il maglioneContro il divano di Louis.
I pensieri sconnessi, i ricci tra le dita e Kalia nella testa.
Come sempre. 





 
 

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Capitolo 2
*** 2 ***




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Appoggio le gambe sul tavolino del salotto di Louis e penso che Kalia non me lo lascerebbe mai fare.
Lui si affaccia dalla cucina, il viso sbarazzino, la barba da tagliare e gli occhi piccoli e chiarissimi.
“Vuoi un po’ di tea? Così ti calmi e mi spieghi cos'è successo”
Annuisco piano, chiudo gli occhi.
Lo sento sospirare e la mia gola si secca.
È colpa mia, Louis sta male per me perché sono un coglione.
Questa è la sesta volta in tre mesi che appoggio le gambe sul suo tavolino, che bevo il suo tea dolce e che fumo le sue Merit gialle.
Kalia non riesce mai a calcolare quanto zucchero deve essere messo, il suo tea è sempre troppo amaro. Glielo dico, lei ride e “Arrangiati”, io la bacio, ti bacio e va tutto bene.
Da quant'è che sono qui? Fuori ormai è buio, mi tremano le mani, ho la schiena a pezzi, il fiato di chi ha corso per chilometri e invece sono venuto in macchina.
Sbuffo, stringo le palpebre e infilo le dita tra i capelli.
Quando riapro gli occhi, Louis è seduto sulla poltrona ed è ancora colpa mia.
Mi metto seduto composto a mia volta, sospiro, afferro la tazza di tea sul tavolino e soffio sul liquido scuro.
“Allora – lui arriva dritto al punto, come ogni volta – Cos’hai combinato stavolta?”
Le parole che usa mi fanno sorridere.
Louis ha ventitré anni e studia psicologia. Dice sempre che sono la sua cavia preferita, il più complessato e stronzo del gruppo. Io rido, ma so che ha ragione.
Mi lecco le labbra, continuo a soffiare sulla tazza, “Non ho parlato” rispondo poi.
Louis annuisce lentamente, appoggia la schiena sulla stoffa verde della poltrona e una caviglia sul ginocchio dell’altra gamba.
“Parla a me, allora” mi sprona.
Louis non è insistente. Il suo tono è calmo, tipico degli strizzacervelli. L’espressione è serena ma concentrata, il viso disteso, le orecchie tese e gli occhi vigili.
Louis è il mio rifugio, la casa in cui scappare quando le cose si fanno difficili, quando ho voglia di una canna, quando Kalia è fuori con le sue amiche. Mi calma, mi sgrida, a volte perfino alza la voce. Sorride, mi prepara il tea, un “Sei un idiota” e torno forte anch’io.
Mia madre me lo ripeteva sempre, “Sei troppo misterioso, Harry, a cosa pensi tutto il giorno?”, mio padre mi ha sempre voluto più loquace, mia sorella più presente ai pranzi di Natale, io ho sempre parlato il giusto.
Non ho mai mentito, la bugie non mi piacciono e anzi, mi spaventano. Le ho sempre considerate basi su cui la gente c’impianta rapporti e poi scatena terremoti. Non ti puoi fidare, e crolla tutto.
Per questo ho sempre optato per il silenzio. Nel silenzio ci affogo, prendo Kalia e la trascino con me. Nel silenzio facciamo l’amore, le afferro le mani, le bacio il collo, la gola, le labbra.
Nel silenzio, nel mio silenzio, ci sto bene che bene è riduttivo. Il silenzio lo riempio con le parole di Kalia, coi suoi sorrisi sempre così importanti, le sue lamentele, le sue scapole, le dita abili, le gonne sempre troppo scure e sempre troppo lunghe, i messaggi inaspettati, lei lei e solo lei.
“Cosa farai adesso? – mi chiede Louis poi, con un piccolo sospiro – Puoi restare quanto tempo vuoi, Harry, ma la situazione non cambierà, lo sai”
Lo so, certo che lo so.
Non sono scemo, sono un idiota.
È diverso.
Annuisco, mi lecco le labbra, appoggio la schiena al divano e sorrido.
Non capiresti perché ci sono cose di cui non riuscirei mai a parlarti. Mi piacerebbe confidarti tutto quello che vuoi sentirti dire, amore mio. Ma non ti ho ancora detto nulla e mi dispiace.
Ti amo mi risulta difficile, non mi piacciono le parole perché non è quello che provo, perché con ti amo io ti amo come tutti gli altri, ti amo come ti amo lo dice mio padre e lo dice il tuo, ti amo come il ti amo che dice Louis o dice Ella. E io non ti amo come gli altri, io ti amo che mi scoppia il cuore e la milza e chiudo gli occhi e la schiena brucia. Ti amo nei miei silenzi e nel nostro silenzio che tanto facciamo l’amore e quindi chissene frega.
 
 
 
 
Ti ho mandato un messaggio a cui non hai risposto.
Voglio solo sapere come stai. Come stiamo così distanti?
È il terzo giorno che non mi prepari la colazione, che non mi sgridi per il dentifricio senza tappo. Louis volta pagina del libro che sta leggendo sul divano e io lascio che la cenere della mia sigaretta cada sul tavolo.
Come stai?
Non ci siamo baciati. Ho accompagnato Beth a casa perché era ubriaca, perché Zayn è andato via prima e io dovevo ancora finire di bere.
Il bar era troppo affollato, c’era della brutta gente. Mi sono preoccupato, ma non nel modo in cui pensi tu.
L’ho accompagnata a casa, le ho aperto la porta e l’ho fatta distendere sul letto.
Non è successo niente e niente è quello che ti ho detto.
Beth poi ne ha parlato con Ella e sai com’è fatta Ella.
Sai anche come sono fatto io.
Me ne rendo conto solo adesso, perché se Louis mi dicesse che sei stata a casa di un tuo amico, un tuo amico ubriaco, impazzirei.
Quindi mi dispiace per essermene andato, mi dispiace per il mio atteggiamento, per quello che ti ho detto, per ciò che mi hai fatto e che abbiamo distrutto. Mi dispiace perché non ti do le basi necessarie su cui impiantare qualcosa e impiantare noi.
E non m’interessa se le gambe sul tavolo non posso metterle che tanto alla fine s’intrecciano sempre e solo con le tue. 

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Capitolo 3
*** 3 ***



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La sesta notte sul divano di Louis è probabilmente la peggiore dei miei ventidue anni di vita.
Fuori soffia il vento, c’è il cigolio continuo di una porta della casa e sento perfino le gocce d’acqua che in cucina cadono dal lavello rotto.
Kalia non è stata la mia prima fidanzata.
Ci siamo conosciuti al liceo, è vero, ma io stavo con Ashley. Kalia ha sempre fatto parte della mia compagnia di amici, frequentavamo gli stessi locali, gli stessi luoghi, i parchi un po’ deserti, i pub del sabato sera e anche gli stessi ristoranti.
Non ho mai capito perché il mio cervello abbia scelto proprio lei.
Ashley era bella, bionda, con gli occhi grandi e le mani intraprendenti. Abbiamo fatto sesso, siamo stati in vacanza insieme un anno e l’ho presentata perfino a mia madre.
Kalia è arrivata un giorno di dicembre, con i vestiti tutti bagnati per la neve e un sorriso genuino. È arrivata, mi dico sempre, anche se in realtà era sempre stata lì. Da qualche parte, seduta nei miei stessi luoghi accanto agli stessi amici.
L’ho baciata quello stesso giorno, con le guance gelate per il freddo e le mani infilate nei guanti. E l’ho rifatto altre volte, quando il tempo si è scaldato e il mio corpo si è abituato. A lei.
Ashley l’ho lasciata più avanti, al quarto anno. Era un mercoledì, un mercoledì che probabilmente non scorderò mai.
Ashley era bella, forse è lo è tutt’ora. È stato il mio primo ‘Ti amo’, uscito forse più per l’eccitazione del momento tra le lenzuola che per altro. Ma è stato comunque bello, mi sono divertito, sono stato bene.
Poi è arrivata Kalia e sono stato meglio.
Ci siamo trasferiti nell’appartamento appena finito il liceo, coi soldi del diploma e parecchia fortuna.
Un materasso largo, qualche mobile usato, il tappeto dei miei e il divano dei suoi, il quadro che ha fatto Zayn, il bagnoschiuma che è sempre lo stesso, noi.
Kalia è quel tipo di ragazza che non pretende di tenerti la mano mentre ti cammina affianco ma lascia comunque i palmi ben aperti nel caso in cui volessi stringerglieli un po’.
Io non l’ho mai fatto, i miei pugni sono sempre chiusi.
Però mi piacerebbe, giuro.
Adesso, per esempio, se lei fosse qui, probabilmente le stringerei le mani fino a farle male.
E forse, sempre se fosse qui, potrei chiudere gli occhi e non sentire l’acqua e non sentire il vento e sentire lei.
 
 
 
 
Il Randy’s è un piccolo pub dopo il parco in cui da piccolo mi sono rotto il braccio.
Vengo qui da almeno cinque anni, ho bevuto su ogni tavolo presente in sala, ho provato tutte le birre che Peggie mi ha offerto e qui, proprio qui, sulla sedia su cui sono adesso, Kalia ed io abbiamo deciso di andare ad abitare insieme.
E anche i nomi dei nostri figli, e il suo vestito da sposa, la razza del cane, gli anelli, le promesse, le lenzuola, la prima parola della nostra bambina, le nostre ultime parole in generale.
Zayn lavora in un’officina in pieno centro, guadagna abbastanza da potersi permettere di dipingere quadri astratti e volti di persone ed è uno spirito libero.
Non si è mai fidanzato, “L’unica cosa in cui voglio essere coinvolto – ripete sempre, dopo il terzo bicchiere di birra – è l’arte”
Adesso è seduto davanti a me nel tavolo numero 7 del Randy’s, sta spiegando a Louis qualcosa sul basket e l’altro sta ridendo perché sa già che si scorderà ogni cosa nel giro di mezz’ora.
La situazione è alquanto comica sotto diversi punti di vista, sorrido a Zayn e ai suoi capelli scuri, all’orecchino destro, la lingua incastrata tra i denti bianchi e gli occhi dorati.
Ordiniamo tre birre grandi, è sabato e Kalia inizia a mancarmi.
“Non puoi semplicemente chiederle scusa?” mi chiede Zayn dopo qualche minuto, con le sopracciglia scure inarcate.
Louis tossicchia perché la birra gli è andata di traverso, si lecca le labbra: “Ma tu ce lo vedi Harry? Harry. Harry Styles che chiede scusa?”
No, certo che no. Non striscio ancora.
Sorrido, strizzo gli occhi che mi sembra tutto appannato: “Non è così semplice, Zayn” mormoro.
Il pub si sta riempiendo visibilmente, le luci si fanno più opache e il biliardo in fondo alla sala è circondato da ragazzi che ho già visto.
“Invece è semplicissimo – Zayn si appoggia alla sedia, allarga le braccia infilate dentro una camicia a scacchi blu scuro – La chiami, torni a casa, ammetti che sei una testa di cazzo e ti scusi. Non è un’impresa, sono due parole. Mi dispiace”
“O tre – Louis fa schioccare le dita, sorridendo – Sono uno stronzo”
“Mi faccio schifo” aggiunge Zayn, e probabilmente è un gioco che piace ad entrambi. Sorridono complici e hanno ragione.
“Sono una merda”
“Odio me stesso”
“Sono un fallito”
“Mi faccio pena”
Rido, scuoto la testa e mi mordo il labbro inferiore.
Fa un male cane.
“O magari quattro parole – ribatto, con la lingua pesante – Ti prego, vieni qui”
Tutti e due stanno in silenzio, il bar si agita.
“Sì – Louis sospira, prende un sorso di birra – magari anche quattro”

 
 
 
 
Kalia è seduta al bancone, Ella al suo fianco. Stanno bevendo un Martini, due paia di gambe lunghe e incrociate sotto dei sorrisi furbi.
Probabilmente mi hanno già visto.
È la seconda partita a biliardo che Louis vince, ho perso dieci sterline e Zayn si sta arrabbiando.
Giochiamo ancora e mi sento osservato. Guardo Kalia e lei è ancora di schiena, il profilo elegante del suo viso, i capelli legati, le mani sempre a gesticolare.
Deglutisco, mi passo una mano tra i capelli e appoggio il bastone da biliardo al muro: “Torno subito”
Ma spero sia una bugia.
Indossi un paio di jeans che io conosco a memoria. Hanno una cucitura sull’interno coscia sinistro per via del buco che ti sei fatta al lago l’anno scorso. Il maglione è il mio, quello grigio con le maniche strette, e mi fai sorridere perché stai cercando di ignorarmi anche se sappiamo perfettamente che entrambi non siamo mai stati capaci di farlo come si deve.
Quando provi a fare finta che io non esista, sorridi appena esattamente come adesso. E quando ci provo io poi ti bacio ti bacio e ti bacio ancora.
Mi schiarisco la voce e le tue spalle si irrigidiscono, Ella smette di parlare e Dio solo sa quanto questo mi faccia felice.
Cerco le parole adatte, devo andarci piano e farlo bene.
“Ciao”
Continui a guardare Ella che ride, ma poi sospiri e chiudi gli occhi: “Ciao”
Mi sei mancata più di quanto ammetterei.
Ti chiedo se possiamo parlare, inclino la testa e tu mi guardi.
Hai gli occhi più belli del mondo e non dire che non è vero perché non riesco ancora a dormire la notte.
Ti alzi, “Tienimi la borsa” dici a Ella e mi segui fuori dal locale.
Ci stringiamo nelle spalle ma non tra le braccia, sei ancora più bella quando tremi e fa ancora più male non poterlo fare insieme.
“Dimmi tutto” mi sproni, e la riga tra le tue sopracciglia è il segnale che vorresti una sigaretta.
Io vorrei te.
Cerco ancora le parole, parole che non ho e non posso darti. Mi dispiace, non lo dico.
“Come stai?”
E sono anche un po’ patetico.
Tu ridi, scuoti la testa e stringi i denti.
“Starò meglio quando inizierai a parlarmi seriamente – ribatti – Non riesco più a sopportare una relazione in cui tu non dici niente e io cerco di capirti ugualmente. Sono stanca”
Le cerco di nuovo, cerco anche la voce per cacciarle fuori.
Ho le parole ma non ho le palle.
Mi dispiace, non lo dico, lo sai?
Ti prego, vieni qui.
Sei già rientrata.

 

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Capitolo 4
*** 4 ***


ho finito questa storia nel settembre del 2013, leggendo la data è veramente tanto ma tanto tempo fa!
è solo una sciocchezza, scritta per il gusto della prima persona e delle cose nuove, ma in quel momento mi piaceva molto, adesso un po' meno, come è giusto che sia :)
spero che vi sia piaciuta quanto a me era piaciuta scriverla!
vi mando un bacione grandissimo e grazie di cuore!
a presto :)

 





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Siamo troppo forti o troppo codardi e sono tredici giorni che ho mal di schiena.
Louis scoppia a ridere ogni mattina, forse per le mie gambe un po’ troppo lunghe che sbucano dal suo divano blu, beve il suo caffè seduto sul bracciolo della poltrona e dice: “Non credevo fossi così idiota, altrimenti avrei preso un divano più grande”
Mi fa piacere vederlo così rilassato nonostante tutto, ogni tanto sospira come per rimproverarmi ma opta ormai per il silenzio.
Esattamente come me.
Al negozio faccio il turno pomeridiano, più che altro mi assicuro di consegnare il numero di scarpe richiesto e non sbagliare la taglia delle magliette che mi vengono chieste.
Ieri mi sono sbagliato, ho preso la metro per tornare a casa, nell’appartamento mio e di Kalia. A metà strada sono scoppiato a ridere da solo, un ragazzo di colore mi ha guardato male e la signora seduta affianco a me si è spostata leggermente, a disagio.
Sono sceso a Wembley e ho sospirato.
L’abitudine, mi sono detto.
Mi sono abituato come un cane che ritorna dal suo padrone, un gatto che trova sempre la via di casa. E l’ho immaginata mentre cucinava per me, dopo una lezione all’università o un esame importante.
Il forno caldo, le luci soffuse per l’atmosfera, la radio accesa e i suoi capelli legati, io che le stringo i fianchi un po’ troppo forte per istinto e per paura e lei che sorride. Il mio dito dentro al sugo, “Altro sale” e un altro bacio.
L’abituarmi alle piccole cose, al suo telefono lento, i messaggi che non arrivano, i quadri astratti quanto noi.
Il tempo di una sigaretta, la connessione ad internet della vicina che non ha la password, Kalia che s’infila sotto le coperte piano per non svegliarmi e non sa che non sono mai riuscito a dormire se non riesco a sentirla.
Ti. Prego. Vieni. Qui.
Afferro il telefono lasciato sul tavolo della cucina, Louis sta già sorridendo mentre chiude il frigorifero.
M’infilo il cappotto all’ingresso, le scarpe e la sciarpa, digito sul cellulare, apro la porta ed esco.
Sto arrivando”
 
 
 
 
 
 
Kalia non ha pregiudizi, è buona con chi se lo merita, e ogni tanto pure con me.
Mi apre il portone d’ingresso appena suono e io non ho avuto il tempo e il coraggio di alzare gli occhi verso la nostra finestra per vedere se mi stava aspettando.
Faccio le rampe di scale saltando troppi gradini, mi aggrappo al corrimano e arrivo sul pianerottolo col fiatone.
Lei è davanti alla porta, vestita con la sua divisa da studio, i capelli slegati e le labbra rigide.
Riprendo fiato, mi passo la lingua sui denti e la sciarpa inizia a farmi caldo: “Ciao”
Ciao, di nuovo.
Non riesco a dormire, non mi piace il buio, ho paura, come stai, vieni qui.
Dico solo ciao.
Tu spalanchi la porta, “Hey” mormori e i tuoi occhi azzurri fissano il tappetino sotto i miei piedi. Mi fai entrare, i mobili esattamente dove li ho lasciati.
Tolgo la giacca e la sciarpa e penso: “Sono a casa”.
Inizi a morderti il labbro inferiore e a sospirare più pesantemente, le tue dita si muovono appena.
Tredici giorni sono abbastanza. Io ho avuto una sola notte per adattarmi al tuo corpo e alle tue mani.
Tredici giorni sono trecentododici ore, diciottomila settecentoventi minuti e più di un milione di secondi. Capisci?
Capisci che in mezzo a tutto questo tempo, ho ancora i segni, i tuoi segni? Che ho dormito con altri odori, altri cuscini e altri rumore, e non mi sono ancora abituato?
Alle assenze non ci si abitua, me lo hai detto tu.
Io non parlo, mi guardo intorno, controllo che non ci sia qualcun altro appiccicato a queste mura. Questa casa è mia, tu sei mia.
Riesco a vederti sorridere anche con la coda dell’occhio, sei davanti a me in salotto. Incroci le braccia e sospiri.
“Odio quando stai in silenzio. È snervante”
Ora sorrido un po’ anche io, la tua voce ha un non so che di confortevole.
Ti guardo di nuovo, sei così bella che ho paura di romperti.
Sei paziente, aspetti le mie scuse perché non ti dico le cose, io che sono lusingato segretamente dalla tua gelosia.
“Mi sei mancata” ammetto, ed entrambi sappiamo quanto sia difficile.
Annuisci: “Lo so – certo che lo sai – Altrimenti non saresti qui”
“E mi dispiace – continuo – Non sono bravo con le parole e quelle stronzate lì”
Tu schiocchi la lingua al mio tono confuso: “Non si tratta di questo. Si tratta di…di noi, Harry. Non voglio stare male come un cane o tirarti fuori le parole di bocca perché parlare ti costa fatica. Voglio solo… - sospiri ancora, e sembri stanca il doppio. Chissà se hai dormito queste notti – Voglio solo sapere a cosa pensi”
“Lo sai”
A te.
Tu sorridi ancora, fai un passo avanti. C’incontriamo a metà strada, sei ancora arrabbiata?
“Sì, è vero – osservi le mie occhiaie, hai lo sguardo vagamente orgoglioso. Passi le mani sul mio maglione verde, parli piano – So anche che mi ami, ma è sempre bello sentirtelo dire”
Ora sorrido anch’io, ricurvo le spalle per proteggermi e proteggerci, afferro i tuoi fianchi e sfioro le tue labbra con le mie.
“Ho dormito poco” dico solo.
Tre parole come ha detto Louis, tre parole come io ti amo.
Te lo fai bastare, mi baci.
Le tue mani sulla mia schiena.
Ti prego, vieni qui.

 


 

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