Thinking about you.

di Raya_Cap_Fee
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***




 
Capitolo 1
 
 
Inspirai profondamente l’aria mattutina di Chicago e, con le mani ancorate ai fianchi, aspettai che il tassista scaricasse le due valigie dal bagagliaio. A guardarmi intorno quasi sembrava che non me ne fossi mai andata, tutto fermo in quell’immutabile bellezza del lusso. Sembrava ieri, quando avevo impacchettato tutte le mie cose ed ero partita per Yale, più determinata che mai a diventare la donna che avevo sempre voluto essere, invece erano passati anni.

-Tenga- mormorai all’uomo che mi aveva accompagnata a casa dall’aereoporto porgendogli le banconote. Lui mi ringraziò con un cenno e poi risalì nel suo taxi, pronto sicuramente a soddisfare nuovi clienti. Trascinai i trolley fino al citofono vicino al cancello e suonai, ero più che sicura che stessero ancora dormendo tutti.  Ne approfittai per guardarmi ancora intorno. La crisi economica di sicuro non aveva colpito quella zona della città. I cancelli di ferro battuto, i vialetti di pietra con fiori sgargianti, erba tagliata con precisione e poi ville bianche: in stile coloniale o moderno, lo sfarzo era evidente. E mi piaceva.

-Heike!- la voce di mia madre, assonnata e lievemente scocciata, irruppe nel silenzio. Sollevai lo sguardo verso la telecamera nell’angolo tra il pilastro di pietra bianca e il cancello e sorrisi –Ciao mamma-

-Che cosa ci fai qui a quest’ora? Sono appena le sette del mattino-

-Hai sempre detto che dovevo tornare a casa e ora eccomi qui. Hai intenzione di aprire il cancello?- ribattei divertita. Sentii un lieve mugugnio dall’altoparlante del citofono e poi il cancello cominciò ad aprirsi, lentamente.
-Casa dolce casa-.
 
Con entrambi i trolley a occuparmi le mani percorsi il lungo vialetto cementificato con enormi aiuole di lavanda a costeggiarlo. Il profumo delicato mi colpì le narici ed emisi un piccolo sbuffo. Ero proprio a casa.
-Tesoro…- mia madre apparve sulla soglia di casa avvolta in una lunga vestaglia di seta blu. All’età di quarantacinque anni c’era ancora qualcuno che, vedendoci insieme, la scambiava per mia sorella. Ogni volta mi sentivo offesa. Lei mi sorrise e scese gli scalini che precedevano il portico per venirmi incontro. In meno di quanto credessi possibile mi raggiunse e fui risucchiata in uno dei suoi tipici abbracci. Di quelli che ti fanno desiderare di respirare più di ogni altra cosa al mondo e ti chiedi se non ti ha appena attaccato un boa constrictor.

-Sorpresa- mormorai, la voce soffocata contro la sua spalla.

-Sono così contenta di vederti a casa finalmente-

-Non sembravi contenta al citofono-

-E’ solo perché mi hai svegliata. Su, dammi una valigia. Dov’è il resto della tua roba? Bisogna chiamare qualcuno per andare a prenderla? Potrei chiamare James, ha fatto un ottimo lavoro quando hai traslocat…-

Mia madre adorava fare domande.

-Il resto della mia roba è ancora a Yale, perfettamente inscatolata e pronta per arrivare qua martedì. Ho già badato a tutto-

Mia madre sorrise, mostrando una perfetta fila di denti bianchi e allungò una mano per allungarmi un buffetto sulla guancia. Tentai inutilmente di scostarmi.

-Bentornata a casa, Heike-

Alzai lo sguardo verso la villa di William De Vries, il luogo in cui ero cresciuta, e sorrisi ancora una volta. Da quando ero partita per Yale non ero mai tornata a casa, né per il mio compleanno, né per le vacanze, né per le feste. Ero stata assorbita dal mondo, dallo studio, dalle nuove opportunità, dagli stage, dal giornale. E niente era più importante del mio futuro, per me. Erano i miei genitori a venirmi a trovare, a trascorrere qualche weekend con me.

-Jackson è a casa?- domandai varcando la soglia. Un enorme salotto entrò nel mio campo visivo e, dalle vetrate che coprivano un’intera parete, riuscii a vedere il giardino sul retro –Avete fatto qualche lavoretto di ristrutturazione eh?-

Jenna De Vries, mia madre, si posizionò al mio fianco e si guardò orgogliosa intorno – Te ne avevo parlato ricordi? Ti piace?-

Annuii, guardandola. I capelli rossi, ricci le scendevano oltre le spalle, appena scarmigliati dal cuscino. La pelle appena abbronzata dalle lampade che era solita farsi, era solcata da qualche sottile e impercettibile ruga ai lati della bocca carnosa, gli occhi neri struccati e forse un po’ troppo piccoli erano come sempre illuminati da una luce entusiasta.

-Sì, molto. Bel divano…- commentai indicando il divano ad angolo bianco che occupava il centro della stanza davanti ad uno schermo piatto. Lei sorrise –Jackson è tornato poco fa da una festa. Non credo che lo vedrai prima di stasera. Non sveglio almeno-

Arricciai appena le labbra e sospirai. Jackson, il mio unico e maggiore fratello, non aveva molto in comune con la sottoscritta. Almeno non la questione college, carriera e lavoro. Era iscritto all’University of Illinois at Chicago alla facoltà d’Arte, era fuoricorso e, personalmente, non avevo mai capito cosa c’entrasse Jackson con l’arte.

-Pazienza. Magari andrò a svegliarlo tra qualche ora. Ho intenzione di farmi accogliere con tutti i dovuti festeggiamenti- sorrisi nell’immaginare le sue proteste. Mia madre ridacchiò e mi fece cenno di seguirla in cucina. Un ambiente ampio e moderno con mobili ed elettrodomestici bianchi e piani di lavoro neri. Anche quello era un ambiente nuovo, che non conoscevo, ma a mia madre piaceva cambiare.

-Heike?-

-Papà!- esclamai nell’udire la sua voce alle spalle. Un uomo di cinquantasei anni, alto e colpito da una calvizia incipiente sulla chioma biondastra, sorrise allargando appena le braccia per accogliermi. Lui era già vestito di tutto punto nel suo abito di dirigente della De Vries Enterprises, un’azienda di sua fondazione che si occupava d’informatica.

-Non sapevo saresti arrivata oggi-

-Una piccola sorpresa-

Mi poggiò le mani sulle spalle e fece un passo indietro per guardarmi –Avvocato De Vries. Suona proprio bene, eh, Jenna?-

-Benissimo, William-

Sorrisi apertamente e lanciai un’occhiata a entrambi –Beh, già da domani avrò qualche colloquio ma non vi dirò assolutamente dove-

-Sei appena arrivata, Heike, non hai intenzione nemmeno di prenderti qualche giorno libero?- mormorò mia madre stringendo tra le mani una scatola di cereali all’avena, i miei preferiti.

-Assolutamente. Valuterò le occasioni in città prima di tastare altrove il terreno. Chicago mi è sempre sembrata il posto ideale-

-E lo è- ribattè mio padre. Allungai le mani per aggiustargli il nodo della cravatta e lo guardai negli occhi, uguali ai miei, di un azzurro chiaro –Sono contenta di essere a casa con voi-

 
Passai l’ora successiva ad aggiornare i miei genitori sulla mia vita dell’ultimo mese dopo la laurea poi finalmente potei trascinare me e i miei bagagli su per le scale del salotto che conducevano al piano superiore. Non mi preoccupai di non fare rumore lungo il corridoio di marmo e riuscii addirittura a bussare alla porta di Jackson, oltre il quale non provenne altro che un leggero russare.

Quando entrai nella camera di fianco tirai un sospiro di sollievo nel trovarla immutata. Almeno mia madre non aveva deciso di modificare anche quella. Ritrovai così le mura dipinte di un tenue beige e il letto a una piazza e mezza con la testiera di ferro battuto a fiori, la poltrona e il tavolino davanti alla finestra, l’ampia scrivania perfettamente organizzata, la libreria stracolma e la mensola con le mie foto nel corso degli anni.

Dopotutto, nonostante mancassi da un pezzo da casa, ero tornata a Chicago felice di riabbracciare tutto ciò in cui ero cresciuta. Se tutto andava come previsto, e sarebbe successo, entro le prossime due settimane avrei avuto il mio posto in qualche studio legale.

Mi lasciai andare in un nuovo sospiro e mi sdraiai a stella, sul mio vecchio letto, socchiudendo gli occhi.


 
La vita dai ritmi placidi e tranquilli non faceva per me, perciò, appena due ore più tardi dall’aver preso nuovamente possesso della mia camera ero pronta per uscire di nuovo. Vestita con un paio di pantaloni neri e una camicetta bianca scesi nuovamente al piano inferiore. Dalle vetrate adocchiai un tagliaerba fermo e spento nel bel mezzo del giardino –Mamma?-

Non l’avevo sentita uscire perciò doveva essere da qualche parte intenta a inventarsi chissà cosa per passare la giornata. -Mamma?- chiamai più forte nel mentre che sceglievo le chiavi della macchina da prendere. Alla fine presi le chiavi della BMW e mi sistemai la borsa in spalla. A parte le chiavi della Porsche di mio padre non ne mancava nessuna che conoscessi. Sentii dei rumori provenire dal bagno degli ospiti –Io esco e potrei non rientrare per pranzo- aggiunsi avvicinandomi alla porta bianca, che quasi si confondeva con la parete in un angolo remoto del salotto.

Rimasi in silenzio per qualche momento, in attesa di risposta ma l’unica cosa che udii fu un rumore metallico. Aggrottai la fronte.

-Mamm…-

Sobbalzai quando la porta si aprì all’improvviso per far apparire sulla soglia un ragazzo che non avevo mai visto. Il giardiniere, supposi.

-Mi hai fatto prendere un colpo- borbottai adocchiando alle sue spalle il bagno vuoto.

-Jenna è sul retro a trapiantare altre lavande- rispose il ragazzo con un lieve sorriso. Mi superava di buoni dieci centimetri, piuttosto magro e dalla carnagione chiara. La sua figura era illuminata dalla luce naturale delle vetrate e gli occhi grigi spiccavano sul viso dai lineamenti appuntiti. Prima che potessi studiarlo più approfonditamente il mio sguardo fu attirato da quello che aveva il mano.

-E’ disgustoso- protestai arricciando appena il naso. Una volta avevo visto mio fratello uscire dal bagno con un metro da sarto tra le mani e quando gli avevo chiesto a cosa gli fosse servito lui aveva riso e scrollato le spalle. Avevo undici anni. Lui dodici. Quando ci ero arrivata avevo sempre associato i metri a quell’episodio traumatico.

Il ragazzo inarcò appena un sopracciglio biondo e guardò il metro senza capire –Cos’è disgustoso?-

-Non dovresti stare in giardino a tagliare l’erba? Che schifo-

Avrei detto a mia madre di stare bene attenta ai giardinieri che assumeva. Lui mi guardò ancora e scrollò le spalle –Tu devi essere la Yalies-

Lo guardai stranita. Quel ragazzo mi conosceva? Ed io lo conoscevo? Mi aveva appena chiamato con il nomignolo che la gente usava per indicare gli studenti di Yale.

-Già- risposi orgogliosa, sollevando gli occhi azzurri verso quelli dell’altro, grigio chiaro. Lui sorrise come se stesse rivedendo una vecchia amica e allungò la mano libera nella mia direzione –Sebastian Jenkins-

Guardai la sua mano –Scordati pure che io ti tocchi, Jenkins-


 
Angolo Autrice

Ebbene. Se avete letto questo capitolo e vi è piaciuto sprizzo gioia da tutti pori. Questa è un’idea che mi è balzata in mente…ieri xD e, nonostante stia portando avanti altre storie sul pc e su efp stessa, avevo bisogno di qualcosa di nuovo che mi facesse tornare voglia di scrivere. Quindi ecco a voi Heike De Vries e Sebastian Jenkins <3 Pronti a conquistarvi il cuoricino.


 
Raya_Cap_Fee
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***






Capitolo 2

 

Sebastian mi guardò appena sorpreso e le labbra gli si piegarono in un sorriso divertito –Pensavo che Jay scherzasse quando diceva che non ti piacciono le persone- disse accennando una breve risata. Ritrasse con nonchalance la mano e se la ficcò nella tasca dei jeans scuri, continuando a guardarmi.

Incrociai le braccia al petto, notando soltanto in quel momento che non era vestito per lavorare in giardino e, proprio a conferma di quell’ipotesi, il tagliaerba si accese guidato da un uomo dai capelli brizzolati e la barba lunga. Entrambi guardammo oltre la vetrata –Se non sei il giardiniere allora che ci fai qui?-

Da che ricordavo a occuparsi delle pulizie era Beth, una donna in carne, con la faccia sempre rossa e i capelli castano chiari sempre legati in una coda bassa.

Sebastian in risposta si voltò appena verso il bagno –Prendevo le misure per la nuova finestra. Jenna vuole cambiare modello- rispose semplicemente lanciando un’occhiata alla semplicissima finestra a due vetri del bagno.
Mi sentii in imbarazzo per il sospetto che avevo avuto sul suo conto. Maledetto Jackson.

-Oh…- non riuscii a fare a meno di dire. Sebastian sorrise ancora e si appoggiò con la schiena alla parete del salotto –Cosa pensavi stessi facendo, Yalies?- agitò il metro. Non avevo nessuna voglia di dirgli la verità.

-Pensavi stessi misurando determinate parti del mio corpo?-

Piegai appena la bocca in una smorfia, udendo le sue parole, e rilasciai le braccia lungo i fianchi –Disgustoso-

Lui rise di gusto e io mi ritrovai a fissarlo inebetita –Non ci trovo nulla da ridere, Jenkins. E ancora non ho capito chi sei esattamente e perché chiami Jackson con un imbarazzante nomignolo- cominciai a sentirmi piuttosto irritata dalla presenza di Sebastian che rideva dei miei traumi adolescenziali, tutti ovviamente causati da mio fratello.

-Sono un amico di Jackson- sottolineò riponendo il metro nella tasca posteriore dei jeans –E mi sono occupato della nuova disposizione della casa. Come avrai potuto notare- fece un gesto sbrigativo con la mano per indicare la stanza.

-Sei un arredatore? Un designer d’interni?-

-Sto studiando per diventarlo-

Annuii –Bene, hai fatto un buon lavoro-. D’altronde l’avevo pensato davvero e mi sembrava giusto farglielo notare. Sebastian incrociò il mio sguardo e poi accennò un sorriso che quasi mi parve timido.

Un sorriso che non era affatto male.

-Ho sentito parlare molto di te, in questi anni, Heike- disse. Ovviamente lui mi conosceva più di quanto io non conoscessi lui.

-Ne avrai senz’altro sentito parlare bene-

-A volte- ghignò lui –Jay inveisce spesso contro quella che definisce la tua stronzaggine-

-Solo perché abbiamo diverse opinioni su diverse questioni-

Lui fece spallucce e io guardai oltre la vetrata. Avevo fatto la sua conoscenza, ora potevo anche andarmene.

-Beh, allora io…- feci per dire ma Sebastian m'interruppe con tono divertito –L’ho fatto anche io-

-Cosa?- ribattei senza riflettere

-La cosa con il metro. Avevo tredici o forse quatt…- alzai una mano per interromperlo –Non voglio saperlo, davvero-

Lui soffocò una risata –Non sapevo fossi così pudica. E poi sei stata tu ad insinuare per prima, Yalies-

-Hai seri problemi- feci per andarmene ma mia madre comparì in salotto, aprendo la portafinestra.

-Sei già di partenza, Heike? Ah! Vedo che hai conosciuto Sebastian- fece un largo sorriso nel guardare il ragazzo.

-Sì, è adorabile mamma. Ora vado- nel voltarmi lanciai un’occhiataccia a Sebastian che invece sorrise.

-Ci vediamo- ribattè lui.

 
Se c’era una cosa, o meglio, qualcuno che avevo sempre tenuto alla larga da me erano i ragazzi che mi mettevano in situazioni imbarazzanti, perché ero tremendamente abituata a mio fratello e per niente al mondo avrei voluto a che fare con un suo clone. Sebastian Jenkins avrebbe vissuto molto alla larga da me. Per mio fratello non potevo fare granchè, era pur sempre sangue del mio sangue.
 
La prima tappa del mio tour di preparazione ai colloqui era lo studio legale di Ernest Lowell. La larga scalinata di pietra che conduceva in questi uffici, al centro esatto di Chicago, era il mio sogno fin da bambina. Qualunque neo-laureato si sarebbe tagliato un braccio pur di essere ascoltato per un minuto da Ernest.

Io non avevo intenzione di tagliarmi niente e sapevo che Ernest mi avrebbe ascoltato anche per due minuti. Non avevo nessuna intenzione di uscire altrimenti. Ero ferma ai piedi delle scale con un leggero venticello a scompigliarmi i capelli rossi, lunghi a sfiorarmi appena le spalle.

“Heike De Vries, avvocato dello studio legale Lowell. Pupilla dello squalo di Chicago”

Diamine se non suonava bene. Un sorriso mi increspò le labbra e guardai ancora il palazzo piuttosto antico come una bambina guarda la sua casa delle bambole.
 
 
Quando rientrai in casa, nel primo pomeriggio, l’unico pensiero che aleggiava nella mia mentre era quello di Ernest Lowell. Non c’era nient’altro che valesse il mio tempo a parte la mia famiglia. Bussai forte alla porta di Jackson –Svegliati! Jackson! Jackson!- cercai di trattenermi dal ridere quando lui urlò qualcosa di irripetibile a quel risveglio.

-Dammi il benvenuto che mi merito, Jackson De Vries, oppure te ne farò pentire amaramente!- gridai più forte continuando a bussare sul legno. D’un tratto la porta venne a mancare sotto la mia mano e, sulla soglia della sua camera, con un paio di boxer e una maglietta sgualcita apparve mio fratello. Sorrisi –Ciao, Jackson-

Mi somigliava per molti versi con quei capelli rossi, che teneva corti e scompigliati, ma aveva gli occhi neri della mamma. Più belli però. Occhi che mi fissavano con astio.

-Tu hai un grosso disturbo mentale, Heike. Uno di quelli seri-

Se c’era una cosa che mio fratello odiava era quello di essere svegliato. Non mi sentii offesa e invece lo guardai severa incrociando le braccia al petto. Ci guardammo in silenzio per qualche secondo poi, con un sospiro, Jackson mosse qualche passo verso di me –Bentornata a casa, stronzetta- mi abbracciò stretta serrandomi le braccia intorno al corpo.
Meno male che dopo la festa si era almeno fatto una doccia.

-Sei sempre così genuino-

-Stai zitta- mormorò lui con la guancia poggiata contro la mia testa. Avvertii chiaramente quando quell’abbraccio divenne sincero. Jackson trovava il modo di imbarazzarmi, di insultarmi, di litigare con me come nessun altro. Eppure, nessuno mi voleva bene più di lui. Lo sapevo.

Sorrisi –Ora lasciami. Va bene così. Ho avuto il mio abbraccio sincero-

-Meriteresti anche una sberla per il fatto di essere tornata a casa soltanto dopo Yale-

Jackson si fece indietro di un passo guardandomi –Sei dimagrita ancora-

-Ho avuto una dieta a base di libri, questo mese. Pensi di alzarti? Vorrei passare un po’ di tempo con mio fratello-

Lui mi guardò aggrottando la fronte –Sei a casa ora, no? Mi vedrai per un sacco di tempo-

-Conto nel fatto che presto avrò un lavoro e un posto tutto mio-

Jackson assottigliò appena gli occhi –Hai già pianificato tutto come tuo solito eh?-

Io sorrisi apertamente e mi lasciai andare ad un sospiro teatrale –Esatto. Ora torna presentabile. Non ho voglia di parlare con te quando sei ancora in mutande-.

Fu come se non avessi nemmeno parlato. Jackson si appoggiò allo stipite della porta e continuò a guardarmi.

Sbuffai –Che c’è?-

-Perché non ti rilassi un po’?-

Lo guardai male –Non ho tempo per rilassarmi, Jackson. Né mi piace farlo-

Mio fratello era sempre stato dell’avviso che vivevo troppo poco la mia età. Alle volte mi ero quasi sentita d’accordo con lui, quando vedevo le mie compagne di università uscire con i ragazzi, partecipare alle feste, saltare qualche lezione. Ma erano stati momenti di debolezza. Perché io volevo da Yale tutto ciò che poteva offrirmi riguardo al mio futuro e non distrazioni.

-Stasera, dopo cena, esci con me-

-No. Domani ho dei colloqui e…-

-Non era una domanda, Heike. Esci con me-

-No, Jackson- ribattei arricciando le labbra –Non voglio litigare-

-Odio ripetermi perciò ci vediamo a cena. Ora io me torno a dormire. A dopo, stronzetta- disse prima di sparire oltre la soglia, chiudendo la porta a chiave dietro di sé.
 
Ecco, era in momenti come quelli che io odiavo con tutta me stessa mio fratello.

Angolo Autrice
Non abituatevi ad aggiornamenti giornalieri ma oggi ero ancora ispirata e così è venuto fuori il nuovo capitolo <3 Spero che vi sia piaciuto e ringrazio di cuore chi ha già inserito la storia tra le preferite e seguite. Siete sempre così gentili ç___ç

I prestavolto dei miei personaggi sono Jessica Stam per Heike e Roby Schinasi per Sebastian.
Enjoy it.


 
Raya_Cap_Fee
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 

 
Capitolo 3

 
Guardai Jackson sorridere di fronte a me e avvertii un muscolo della guancia avere un guizzo nervoso.

-Andiamo, Heike, togliti quell’espressione dalla faccia. Hai un becco al posto della bocca- ribattè lui in seguito alla mia occhiataccia. Intorno a noi in un bar del Loop, il centro di Chicago, c’era un fastidioso brusio di chiacchere e della pessima musica techno.  L’ambiente era minimalista, dalle luci stroboscopiche che facevano male agli occhi. Almeno ai miei.

-Mi hai caricata in spalla come un sacco di patate, Jackson- sbottai a voce abbastanza alta perché potesse sentirmi bene –Ti avevo detto che volevo restarmene in pace a casa-

Mio fratello invece aveva ignorato le mie proteste e, incurante del fatto che non fossi nè vestita e né truccata adeguatamente per uscire, mi aveva caricata nel suo Suv Toyota. Ero nel pieno centro di Chicago con dei jeans e una T-shirt di Yale blu e bianca di due taglie più grande, ancora non riuscivo a crederci. Jackson sorrise ancora una volta e si raddrizzò sullo sgabello di metallo al tavolino, portandosi tranquillamente alla bocca un bicchiere con un drink mai sentito.

-Ti andasse di traverso…- mugugnai sottovoce arrabbiata. Jackson tossicchiò –Cos’hai detto? Non ho capito-

-Niente-

Incrociai le braccia sul tavolino e con espressione torva cominciai a fissare il Martini che avevo davanti. Ero lì a perdere tempo, a poche ore dal mio colloquio con Ernest Lowell, invece di studiare un modo per fare colpo su di lui.
Ero pessima.

-Heike?- mi chiamò Jackson. Io non risposi, ostinandomi a fissare il mio drink intatto.

-Heike, per favore, puoi provare a divertirti solo un po’?-

La faceva sempre facile lui. Non aveva un obiettivo preciso nella vita, non si era impegnato con tutto se stesso nel sogno di sempre, non aveva speso ore e ore sui libri a studiare né a desiderare con tutto se stessi che tutti quei sacrifici sarebbero stati ripagati. Alzai lo sguardo su Jackson e incrociai i suoi occhi seri. Durante i miei anni a Yale l’avevo visto poche volte ma mi aveva telefonato quasi ogni giorno per chiedermi come stavo.

Sapevo che, anche il quel bar, lui sapesse esattamente ciò che stavo pensando.

-Voglio andare a casa- dissi convinta. Jackson mi guardò ancora e fu in quel momento che scorsi, alle sue spalle, l’ultimo che avrei voluto in quella serata. Inspirai profondamente l’aria pesante e chiusi per un attimo gli occhi –C’è Jenkins dietro di te- dissi a mio fratello. Ma Sebastian ci aveva già individuato e, con aria tranquilla, ci raggiunse al tavolino.

-Tu lo conosci?- mi chiese Jackson, sorpreso. Annuii soltanto e poi guardai Sebastian –Ho conosciuto Heike stamattina- esordì lui con un mezzo sorriso, prendendo posto al mio fianco. Indossava un paio di jeans neri e una camicia azzurra che gli stava proprio bene.

-Non me lo hai detto- ribattè Jackson quasi offeso, guardandomi. Inarcai un sopracciglio e lo guardai male per l’ennesima volta –E quando avrei dovuto dirtelo? Quando dormivi? O magari mentre mi trascinavi in garage e avevo la faccia contro il tuo sedere?-

Sebastian ci guardò entrambi e poi sorrise –Ah, ora sì che mi sembrate fratelli. Comunque ho incontrato la tua sorellina mentre prendevo le misure in bagno per la finestra di Jenna…-

“Fa che non spiattelli tutto per favore” pregai tra me e me.

-…Heike ha pensato che fossi il giardiniere e che stessi lì, in bagno, a misurarmi il coso come un tredicenne- ridacchiò. Anche mio fratello rise. E anche due ragazzi fermi ad un passo dal tavolo che, sentendo le parole di Sebastian sorrisero divertiti nel guardarmi. Per la prima volta nella mia vita mi sentii ardere dalla vergogna e riuscii perfino a sentirmi in fiamme le orecchie e l’intera faccia.

Maledetto Jenkins.

-Credo che sia colpa mia, sai?- fece Jackson al suo amico –Una volta mi ha beccato che uscivo dal bagno con il metro da sarto e…- mi guardò -…nonostante non le abbia mai detto cosa stessi facendo credo lo abbia intuito- e fece un ampio sorriso –Dovrei chiamarti maliziosa invece di stronzetta-.

Evitai con tutta me stessa gli sguardi che mi venivano rivolti e decisi di concentrare la mia attenzione sul mio drink che finalmente fu svuotato. In un lungo sorso.

“Calma, Heike. Jackson ama metterti in imbarazzo e la miglior contromossa è quella di non mostrarsi turbata. Prendi le redini”  mi feci coraggio. Avvertii lo sguardo lo sguardo di Sebastian sul  mio profilo ma lo ignorai per rivolgermi a mio fratello – Se hai finito,  Jack Pannolone, vorrei cambiare aria- sorrisi a mia volta. Era il mio primo sorriso della serata.

Jack Pannolone era il soprannome più imbarazzante che avessero mai dato a mio fratello, altro che Jay o Jake. Il nonno Wilhelm aveva cominciato a chiamarlo così fin quando aveva cominciato a sgambettare qua e là per la casa con il sedere che sembrava una mongolfiera. Ed era la prima volta che lo tiravo fuori in pubblico.

Jackson assottigliò gli occhi neri su di me e sentii Sebastian prenderlo in giro.

-Sorella cara, non hai idea di ciò che hai scatenato. Hai idea di quanti dettagli imbarazzanti della tua vita potrei spiattellare qui davanti a tutti?-

Alzai il mento in segno di sfida –Non m’importa-

Oh, m’importava eccome ma confidavo nel buonsenso di mio fratello. Non mi avrebbe mai messo così in ridicolo.

-Già, raccontaci di più su questo bocconcino- sentii dire da uno dei due ragazzi sconosciuti. Jackson lo guardò mentre io facevo una smorfia, disgustata da quei termini adolescenziali e volgari.

-Sparisci, prima che ti riduca la faccia in un capolavoro d'astrattismo- sbottò mio fratello rivolto al ragazzo. A quanto pareva, Jackson non voleva davvero spiattellare i miei segreti in quel locale.

Il ragazzo guardò con astio mio fratello ma il suo compare lo trascinò via tra la folla.

-Non tirare più fuori Jack Pannolone o la prossima volta ti lascio con un tizio del genere- disse e io sorrisi. No, non l’avrebbe mai fatto. L’aria di sfida tuttavia era stata smorzata, insieme a parte del mio imbarazzo. Sebastian non sembrò deluso dalla tregua e si voltò a parlarmi come se non fosse stato la causa di tutto.

-Allora, Yalies, come vanno le cose fuori dal grande campus?-

Incrociai i suoi occhi grigi che per via delle luci sembrarono molto più chiari e feci spallucce. Potevo perdonare mio fratello, ma non lui.


-Senti, Jackson, io me ne torno a casa. Sono stanca. Chiamerò un taxi, tu resta pure a divertirti- annunciai dieci minuti dopo quanto lui e Sebastian erano intenti a discutere su un film d’azione in uscita al cinema.

Entrambi mi guardarono sorpresi –Proprio non ce la fai, eh, Heike?- disse Jackson. Scossi la testa e allungai una mano nella sua direzione –Ora mollami dei contanti per il taxi, visto che qualcuno non mi ha permesso di prendere il portafogli-

Jackson mi allungò un paio di banconote –Stai attenta-

-L’unico di cui devo aver paura sei tu, Jackson. Ci vediamo domani- mi voltai verso Sebastian e feci un cenno di saluto silenzioso.
 
Uscire da quel locale fu un vero e proprio sollievo per le mie orecchie. Inspirai l’aria fresca all’aperto mentre un folto gruppo di ragazze schiamazzanti entravano da dove io ero scappata. Mi spostai di qualche metro dalla ressa all’ingresso per adocchiare qualche taxi in transito.

-Heike?-

Mi voltai più in fretta di quanto avessi  voluto e adocchiai Sebastian che mi affiancava sul marciapiede. –Cosa c’è?- ribattei guardandolo. Forse, se non avessi avuto la mente così occupata dal mio futuro, avrei potuto dire che era almeno un bel ragazzo. Lui sorrise. Di nuovo quel sorriso che sapeva di timidezza anche se, di timido, quello lì non sembrava avere niente –Non devi andartene per quello che è successo. Voglio dire, non potevo sapere che la storia del metro ti avrebbe messa così tanto in imbarazzo-

“Nega anche l’evidenza”

-Non mi hai messa in imbarazzo. Voglio andarmene perché domani ho un paio di incontri importanti qui in città e voglio essere concentrata e riposata- ribattei. Ero in parte sincera.

-Jay mi ha detto che quando menti ti trema l’angolo destro della bocca. E’ vero-

Sempre colpa di Jackson.

Tornai a guardare la strada e alzai una mano per fermare un taxi in arrivo.

-Non tirerò più fuori la questione del metro in pubblico-

Come se ne potessimo parlare in privato.

-Va bene- lo liquidai muovendo qualche passo verso il taxi che si era fermato, guidato da un uomo nero di mezz’età –Ma sappi che mio fratello ci ricamerà sopra ancora per un po’, perciò…non disturbarti tanto, Sebastian. Mi rende già la vita un inferno senza il tuo intervento- ribattei poi. Mi voltai appena a guardarlo, lo sportello del taxi già mezzo aperto.

Sebastian stava sorridendo –In bocca al lupo, Yalies-

Per quanto strano mi sembrasse mi ritrovai ad accennare a mia volta un sorriso –Non ho bisogno di nessun lupo, Jenkins, ma grazie lo stesso- dissi per poi accomodarmi nel taxi che mi avrebbe riportata a casa.


Angolo Autrice
Ringraziate Madame Ispirazione per questo terzo capitolo già così di fretta xD Era da tempo che non scrivevo così tanto ahahah <3 Comunque, ciance alle bando, vi ringrazio davvero per l'accoglienza di "Thinking about you". Perciò ringrazio giordip15 GrazieMR aver inserito la storia tra le preferite e Rinie, prettyvitto, irtam, pepapig, _maryan_, Chantalbrunenghi, CristinaSun, maya tabitha, Moon236 e Drachen per aver inserito la storia tra le seguite. Inoltre e ovviamente chi ha deciso di recensire <3 se lasciate la vostra opinione fa sempre piacere, davvero *.*


 
Raya_Cap_Fee
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***






 

Capitolo 4

 
Intrecciai le dita tra loro per nascondere il tremore e, piano,  cominciai a contare i miei respiri per calmarmi. L’ansia era sempre stata un’amica immancabile prima di ogni esame, figuriamoci ad un incontro con Ernest Lowell. Mi sistemai meglio contro la poltrona imbottita della sala d’attesa e mi guardai intorno.

Era un ambiente molto luminoso grazie alle tre grandi finestre che si affacciavano sulla strada dal terzo piano e tutto, lì dentro, sembrava gridare “Sono costoso”. Io ero cresciuta in una villa e i soldi, per la mia famiglia, non erano mai un problema ma vedere con i propri occhi cosa si era costruito Ernest a Chicago era notevole. Avevo letto molto di lui e sapevo che si era fatto strada con il talento e non con i soldi. Quelli erano arrivati dopo. A centinaia di migliaia.

I soldi non mi interessavano, o meglio,  credevo che si avesse bisogno del giusto per vivere in modo dignitoso e nonostante la gente abbia sempre creduto che volessi fare l’avvocato per guadagnare verdoni  non era del tutto vero.

Io volevo davvero essere un avvocato, al di là dei benefici economici.

La segretaria, una donna con i capelli biondi tagliati in un ordinato caschetto e gli occhi neri, uscì dall’ufficio di Ernest e mi sorrise –Signorina De Vries, il signor Lowell l’attende nel suo studio-

Tirai un sospiro di sollievo e mi alzai in piedi. Sistemai la giacca del tailleur blu che indossavo e sorrisi alla segretaria –Grazie-
Accantonai l’ansia in un’angolo della mia mente, avevo bisogno di essere concentrata e di non fare figuracce. Entrai nello studio di Ernest Lowell dopo aver bussato e ricevuto il suo consenso.

-Signorina De Vries, è un piacere conoscerla- esordì l’uomo da dietro la sua scrivania di legno scuro perfettamente in ordine. Davanti a sé aveva il mio fascicolo, quello che riportava i corsi seguiti a Yale, gli stage e tutto ciò che dimostrava la mia passione per quel mestiere.

-Il piacere è tutto mio, signor Lowell-

Ernest Lowell era un uomo affascinante sebbene non fosse d’aspetto particolarmente prestante con la pancetta e il viso butterato dall’acne giovanile. Si alzò in piedi e mi porse una mano oltre la scrivania che io strinsi cercando di trasmettergli la mia decisione.

-Si sieda pure-

Eseguii e mi accomodai sulla sedia imbottita, di fronte alla scrivania. Agli altri due colloqui che avevo sostenuto quella mattina non ero stata così tesa. Sorrisi, cercando di rilassarmi. Seguii un momento di silenzio in cui l’avvocato mi studiò attentamente e io riuscii a sostenerne lo sguardo –Ho letto ciò che mi ha sottoposto e devo ammettere di esserne colpito. Non è certamente da tutti aver voti così, anche a Yale, che brulica di giovani brillanti. Lei si ritiene brillante, signorina De Vries?-

Lo guardai. I capelli scuri e corti che cominciavano ad essere, all’altezza delle tempie, interrotti da fili grigi; i vivaci occhi blu sembravano mettere a nudo tutta la sua sicurezza .

-Certo. Ho dato il massimo per ottenere quei voti. Da quando avevo otto anni ho smesso di desiderare il futuro da principessa e ho cominciato ad interessarmi alla legge. Yale mi ha formato e sono sicura delle mie capacità, signor Lowell-

Lui accennò un sorriso e si appoggiò allo schienale della sua poltrona, assumendo così una posizione più rilassata –Ed è qui per…- fece, in tono interrogativo. Alzai appena il mento e lo guardai tranquilla.

-Tutti sanno che lei è il miglior avvocato di tutta Chicago e nulla mi renderebbe più onorata che poter lavorare per lei. Ho seguito tutti i suoi casi più famosi, mentre ero a Yale, e dovevo assolutamente riuscire ad avere l’opportunità di parlarle-

-Si è laureata da poco, non vuole un periodo di riposo dopo tutto il suo impegno?-

Gli angoli della mia bocca si sollevarono appena –Non ne ho bisogno, signore. Ho sempre desiderato questo momento-

-Di certo non le manca la convinzione…- lanciò un’occhiata al fascicolo -…Heike-

Riuscii a mascherare la delusione dal fatto che non si ricordasse il mio nome ma lui sembrò accorgersi lo stesso della mia espressione interdetta.

-Ha idea di quante persone vengono qui a chiedermi un colloquio? La maggior parte di loro non supera Lauren alla scrivania e quelli che attirano un po’ del mio interesse vengono convocati. Ho l’impressione che lei sappia dei miei impegni…-

-Ovviamente- ribattei

-Cosa dovrebbe indurmi a richiamarla qui e a offrirle un posto di lavoro nel miglior studio legale di Chicago con me?-

I suoi occhi erano fissi sul mio volto e io avvertii i palmi delle mani sudare. Quell’occasione era troppo importante per me. Non potevo fallire.

-Io vorrei davvero lavorare qui con le…-

Ernest mi interruppe con un gesto della mano –Ma perché io dovrei volere qui una ragazzina che si è appena laureata anche se brillante?-

Fu come se avessi ricevuto un pugno in pieno stomaco e i polmoni di fossero svuotati di tutta l’aria. Ebbi qualche momento di sconforto poi guardai l’uomo davanti a me, decisa –Credevo che lasciasse venire a colloquio le persone che suscitano il suo interesse, signor Lowell. Mi chiede perché io voglia lavorare qui e la mia risposta è che la considero il migliore qui a Chicago, la mia città, e nella mia vita non ho desiderato altro che il meglio. Lei può insegnarmi tantissime cose e io sarei qui ad ascoltarla- replicai a voce ferma.

Sentivo il fallimento serpeggiare tra me e lo squalo di Chicago. Eppure all’inizio era sembrato entusiasta, che avevo combinato?

-Questa è la sua arringa, signorina De Vries?-

-In un certo senso-

-Ha mai fallito in qualcosa nella sua vita? Si è mai sentita dire no?-

Il mio stomaco ebbe un contrazione nervosa –Non ho mai fallito in quello che volevo davvero-

Io ed Ernest ci guardammo nuovamente negli occhi e lui sorrise appena –Bene. Per me è tutto, signorina De Vries-

Non mi mossi dalla poltrona quando quello era un chiaro invito ad andarmene. Aspettai che aggiungesse qualcos’altro. Un “Si presenti lunedì” o un “E’ stato un piacere. Le farò sapere” invece non disse niente.
Il mondo aveva cominciato a girare al contrario, per caso?

-Signor Lowell…- cominciai di nuovo, più decisa, ma lui m’interruppe con un nuovo finto sorriso –Arrivederci, Heike- e si alzò in piedi porgendomi di nuovo la mano così come aveva fatto appena dieci minuti prima. Dieci minuti in cui avevo detto sicuramente qualcosa che non gli era piaciuto. Dieci minuti in cui avevo mandato tutto a quel paese. Tutto.

Tornai in piedi anche io e mi schiarii la voce –Arrivederci, signor Lowell- non fui capace di dire nient’altro e me ne andai, irrigidita. Salutai la segretaria in modo meccanico, per educazione, e poi mi precipitai fuori dal palazzo.


 
Avanzavo lungo i marciapiedi della città senza nemmeno avere idea di dove stessi andando. L’unica cosa che riuscivo a pensare era quella di aver perso l’unica occasione con il sogno della mia vita, ovvero lavorare in quello studio. Al confronto dei due colloqui conclusosi con dei “La contatteremo presto” molto convinti, quello che volevo davvero era andato malissimo.

Ernest Lowell mi aveva detto no.

Mi fermai all’improvviso e una donna che camminava dietro di me mi venne addosso, imprecò nella mia direzione e mi guardò storto. Io le lanciai appena un’occhiata mentre tornava a camminare e io recuperai il cellulare dalla borsa.
Aveva detto di essere sinceramente colpito dai miei voti a Yale, cosa contava più dei voti e del mio evidente desiderio di lavorare lì? Strinsi le labbra e composi l’unico numero che conoscevo a memoria.
La linea cadde due volte prima che si degnasse di rispondermi.

-Heike?- la voce di Jackson risuonò tranquilla, chissà che stava combinando d’importante per non rispondermi subito.

Non risposi e allora lui ripetè il mio nome –Heike cosa c’è?-

-Dove sei?- domandai e riconobbi a stento la mia voce, paurosamente incrinata da una crisi in arrivo.

-Dove sei tu piuttosto. Cos’è successo? Stai bene?-  avvertii la preoccupazione nel suo tono.

–Vienimi a prendere, Jackson, per favore-

-Heike mi stai spaventando. Dimmi dove diamine sei e vengo a prenderti subito-

Gli dissi dov’ero e poi chiusi la chiamata senza attendere la sua replica. Andai a sedermi su una panchina e mi concentrai nuovamente sul ritmo del mio respiro per calmarmi. Chicago intorno a me continuava a vivere, a muoversi, eppure a me sembrava giungere tutto così ovattato…

Sembravano essere passati secoli quando avvertii qualcuno sedersi al mio fianco con un sospiro –Stava per venirmi un colpo apoplettico, stronzetta- disse Jackson. Aveva il fiatone e quando mi voltai verso di lui notai che era sudato. Lui mi guardò e io serrai le labbra.

-Mi spieghi cos’è successo per favore? Ero a lezione quando ho capito che c’era un motivo valido per cui mi stavi chiamando. Tu mi chiami sempre quando c’è qualcosa che non va- mormorò preoccupato, scivolandomi un po’ più vicino.

-Ha detto che non mi vuole,  Jackson. Ernest Lowell ha detto che non mi vuole nel suo studio legale, tra la sua cerchia di avvocati- dissi cercando di trattenere il tremolio della voce. Mio fratello mi guardò e poi mi passò un braccio intorno alle spalle attirandomi in un mezzo abbraccio. Non m’importava che non avesse un odore idilliaco, importava che fosse corso da me non appena aveva percepito che avevo bisogno di lui.

-E chi se ne frega, Heike. Puoi avere di meglio- replicò lui in un tono che somigliava vagamente ad un ringhio.

-No…-

-Invece sì. Stai zitta-

Mi diceva sempre di stare zitta quando mi regalava uno dei suoi abbracci sinceri.


 
Angolo Autrice
Ebbene questo è un capitolo, anche se non sembra, molto importante per quello che accadrà nei prossimi perciò tenetelo bene a mente eh? <3 Qui non vediamo Seb ma abbiamo l’intervento del supereroe Jack Pannolone, non è tenero? *.*
Comunque, ciance alle bando, ringrazio __Anna__e  ellyb1611 per aver inserito la storia tra le preferite; Iridium e GothicLolita96 per averla inserita tra le ricordate e, infine; angycullen, pipicalzelunghe, cris_90, Rocket Girl, mariaannachiara, scheggia_94, Diane95 e demetrinadevonne82 per averla inserita tra le seguite. E pensare che solo ieri ne ho ringraziati altrettanti. Mi fate davvero emozionare y.y
Un bacione e al prossimo capitolo care <3

 
Raya_Cap_Fee
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***






 

Capitolo 5


 
Sospirai per l’ennesima volta, nel silenzio della mia camera, e avvertii Jackson voltarsi di nuovo della mia direzione per guardarmi preoccupato. Eravamo sdraiati l’una accanto all’altro sul mio letto, a guardare il soffitto pulito e beije. Ma io vedevo la faccia di Ernest Lowell ovunque.

Jackson sospirò a sua volta, in attesa che finalmente mi decidessi a raccontargli per filo e per segno ciò che era successo in quello studio. Era paziente, mio fratello, quando avvertiva che ero profondamente turbata.

La verità era che, nonostante io potessi maltrattarlo e insultarlo, Jackson era il mio punto fermo. Anche più dei miei stessi genitori. Ci dividevano appena tredici mesi ma era comunque il mio fratello maggiore che si era presentato a Yale, con il brodo di pollo e gli occhi stanchi dal viaggio, dopo che l’avevo chiamato perché avevo la febbre alta.
Era stronzo la maggior parte del tempo ma restava il mio migliore amico.

-Stronzetta… hai intenzione di stare qui a deprimerti per il resto della giornata?- ruppe il silenzio proprio lui, sollevandosi sui gomiti, con la testa voltata nella mia direzione. Lo guardai con la coda dell’occhio e, annuendo, incrociai più forte le braccia sullo stomaco.

-Hai almeno intenzione di raccontarmi come quell’imbecille si è comportato?-

Scossi la testa e poi tornare a parlare, dalla prima volta da quando eravamo tornati a casa dopo l’ora di pranzo per evitare nostra madre –No, non voglio- mormorai con voce gracchiante. Avevo sempre la stessa voce quando trattenevo le lacrime.

Era strano che non provassi nemmeno a confidarmi con lui ma la delusione era troppo cocente per ammetterla ancora a voce alta. Jackson si alzò dal letto e si passò una mano tra i capelli –Vorrà dire che ti aspetterò nella dependence, avevo dato un appuntamento ad alcuni miei amici per venire qui-

Annuii soltanto e lui continuò –Fa un salto anche tu, okay?-

Annuii di nuovo. Non avevo nessuna intenzione di muovermi da lì. Tantomeno per andare a conoscere gli amici di mio fratello dopo che la mia carriera a Chicago si era appena volatilizzata con un “Per me è tutto, signorina De Vries”.

-Ciao, Jack Pannolone- lo salutai con gli occhi ancora fissi al soffitto e lo sentii accennare uno sbuffo infastidito –Rimani pur sempre una stronzetta. Solo che ora che una stronzetta disoccupata-

Gli lanciai un cuscino che lo colpì alla nuca mentre stava per uscire. Imprecò a voce talmente alta che si sentì mia madre dal salotto chiamarlo e poi ridacchiò, guardandomi. Ricambiai lo sguardo da sotto le sopracciglia aggrottate in un espressione che voleva essere minacciosa quando lui mi spiazzò –Sei sempre la migliore per noi, Heike, non te lo dimenticare- disse, poi sparì oltre la soglia. Mi misi a sedere a gambe incrociate sul letto e strinsi l’unico cuscino rimasto.


 
Qualche ora più tardi, quando sentii che il modo migliore per smettere di pensare a Lowell fosse distrarmi, feci una doccia e indossai dei pantaloni da ginnastica e una t-shirt viola. L’eleganza in casa non era la mia priorità. Scesi al piano inferiore e incrociai lo sguardo di mia madre, comodamente seduta sul divano, con gli occhi occhiali da vista e un libro tra le mani. Mi sorrise e allungò un braccio, battendo la mano di fianco a lei in un chiaro invito a sedermi.

-Sei a casa ma è come se fossi ancora a Yale, Heike. Raccontami di stamattina-

La voglia di mentirle, per la prima volta nella mia vita, si fece strada nei miei pensieri. Non volevo deluderla. Non volevo deludere mai nessuno, io.

-Il colloquio agli uffici pubblici e quello da Cassandra Blane sono andati bene. Riceverò loro notizie tra qualche giorno, suppongo- mormorai guardando la tv spenta. Lei non sembrò particolarmente convinta dal mio tono piatto –E? Non era quello che volevi, Heike?-

-Penso che valuterò la possibilità di lasciare Chicago, mamma- ammisi quel pensiero che mi aveva colto subito dopo l’incontro con Ernest –New York, magari, o San Francisco-

Il libro di mia madre si chiuse di scatto e lei si allungò per toccarmi una spalla –Heike, hai sempre detto che Chicago era la tua città, che volevi essere la migliore qui-

Alzai gli occhi al soffitto, incapace di guardarla e feci spallucce –Forse ho cambiato idea. Forse non c’è posto tra i migliori, qui- ammisi con amarezza. La guardai brevemente e lei colse qualcosa di non detto –Heike…-

-Non ne voglio parlare, va bene? Per favore-

Jenna annuì –Adesso capisco perché Jackson aveva quell’espressione preoccupata. Tu sei l’unica che riesce a preoccuparlo- sorrise appena e mi diede un buffetto sulla guancia –Noi siamo qui per te, Heike-

La mia famiglia mi aveva sempre appoggiata, era sempre stata orgogliosa di me da quando avevo deciso di voler essere un’avvocato e io non volevo deluderli lavorando in un ufficio pubblico per criminali che non potevano permettersi i migliori avvocati per difendersi. O il meglio o niente. Ernest Lowell non mi voleva? Allora me ne sarei andata altrove.

Accennai un sorriso tirato in direzione di mia madre poi vidi due ragazze attraversare il giardino spintonandosi a vicenda e ridendo. Mia madre seguì il mio sguardo e alzò gli occhi al cielo –Ecco che cominciano ad arrivare gli amici di tuo fratello. Dovrò tenere d’occhio la telecamera e evitare che mi riempiano la dependence di fusti di birra- disse con voce esasperata e si alzò –Vai anche tu, Heike-

Guardai le ragazze girare intorno alla piscina ed entrare nella dependence e scrollai le spalle –Magari più tardi, ora mi va un panino-


 
Solitamente il mio “magari più tardi”  coincideva con un “No” eppure, quando fuori cominciò ad imbrunire, bussai alla porta della dependence nemmeno troppo convinta. Ad aprirmi venne un ragazzo che sfiorava sicuramente i due metri, con un dei folti ricci biondi e gli occhi azzurri –Ciao a te! Chi sei?- domandò allegro squadrandomi.

Spostai lo sguardo dietro di lui e incrociai gli occhi di Jackson –Quella è mia sorella Heike, Jeremiah!- mi presentò e io guardai in direzione del ragazzo biondo –Mistero svelato, Jeremiah. Posso entrare ora?-

Non ero mai stata una persona amabile con gli sconosciuti ed era per questo che potevo contare sulla metà delle dita di una mano il numero dei miei amici.

-Uh, la Bulldog!- esclamò Jeremiah, scostando la sua enorme mole per lasciarmi entrare. Annuii con il capo, accettando l’altro soprannome di Yale e mi guardai intorno. C’erano all’incirca quindici persone intente a chiaccherare animatamente tra loro, qualcuno si voltò nella mia direzione e non sembrarono turbati dalla mia mise sportiva. Mi avvicinai a mio fratello, abbandonando Jeremiah sull’uscio.

-Sei venuta- disse Jackson, soddisfatto. Mi passai una mano tra i capelli sciolti e lanciai ancora un’occhiata al gruppo –Così, questi sono i tuoi amici della UIC?-

Lui annuì e poi mi prese per un braccio, trascinandomi dietro il divano di pelle, davanti al quale erano tutti impegnati a parlare –Signori e signore- ammiccò verso le uniche due ragazze oltre me –Vi presento la mia adorabile e stronzetta sorella Heike-

-Jackson…- tentai di protestare e liberarmi dalla sua presa ma lui intrappolò le braccia dietro la schiena, provocando l’ilarità generale. Socievole non era un aggettivo che mi si addiceva.

-Jackson, mollami. So presentarmi da sola alle persone-

Quasi.

Mio fratello mi lasciò andare, non prima di avermi scompigliato i capelli e fui raggiunta nell’immediato dalle due ragazze che si presentarono come Hannah e Maggie o, come le chiamavano gli altri quando erano insieme, H&M.

-Non sapevo che Jackson avesse una sorella- disse Hannah, una ragazza piuttosto bassa dai capelli castani a spaghetto e gli occhi marroni, magra come un chiodo.

-E’ perché probabilmente non sei mai passata per l’entrata principale della casa. Ci sono una marea di foto imbarazzanti- ribattei tranquilla.

-Guarda che ci ha parlato di lei, Hannah, quando ha fatto la pipì a letto nelle vacanze dai nonni ad Amsterdam, e ha cominciato a piangere perché lui la prendeva in giro-

Raggelai sul posto, guardando Margaret. Non aveva riso ma io volevo ammazzare mio fratello. Lo individuai nella stanza e gli perforai la nuca con un’occhiata. Jeremiah, di fronte a lui, mi notò e gli mormorò qualcosa e allora Jackson si voltò.

-Ti ammazzo- mimai con le labbra.

 
 
Contro ogni previsione riuscii a risultare simpatica agli occhi di H&M quando svelai loro qualche segretuccio di mio fratello Jackson e gli disse che mi ero appena laureata in giurisprudenza a Yale.
-Figo- commentò stupita Margaret, una rossa tinta dai capelli lunghi acconciati in tante piccole treccine e gli occhi verdi –Io non vorrei mai essere un avvocato. Insomma, non riuscirei mai a difendere un serial killer in tribunale. Tu lo faresti?-

Scrollai le spalle –Rimane un cliente. Puoi essere libera di accettare o meno-

Hannah mi guardò dubbiosa –Tu hai tutta l’aria di una che accetterebbe, sai?-

Riuscii ad accennare un sorriso poi la voce di Jeremiah interruppe le chiacchere –Bene, e ora diamo inizio alla serata cinema. Perché, vi ricordo, che siamo qui per guardare un film e non a ubriacarsi- tolse dalle mani di un ragazzo una bottiglia di birra –La nostra cara seconda mamma, Jenna, ci ha sequestrato due fusti perciò razionate le bevande ragazzi-

Sorrisi divertita e immaginai la soddisfazione di mia madre e mi accorsi solo in quel momento che, da quando ero entrata, ero riuscita a non pensare al mio disastroso colloquio, e il sorriso si allargò.


 
Quando, all’incirca, a metà di un film horror sentimmo un tonfo e un’imprecazione degna di nota provenire dalla porta tutti smisero di sussurrare commenti –Porca miseria, Jackson, smettila di spegnermi le luci lungo il vialetto- giunse una voce distinta e maschile.

Tutti scoppiarono a ridere e io riconobbi la voce di Sebastian Jenkins che comparve proprio in quel momento sulla soglia.

Fu accolto da una risata generale e la cosa sembrò adombrarlo –Siete un gruppo di marmocchi, ecco cosa siete- indicò Jackson che se la rideva più di tutti vicino agli interruttori delle luci esterne della piscina –La prossima volta il cibo lo portate voi- rimbrottò ancora Jenkins mollando sul tavolo all’ingresso tre cartoni di pizza e tre confezioni di quello che sembrava cibo cinese.

Io sorrisi divertita dal mio posto sul divano ma Sebastian non mi aveva notato. Aveva i capelli biondi disordinati e la maglia sembrava essersi unta all’altezza dello stomaco. Borbottava qualcosa tra sé e Jeremiah parlò –Sempre il solito ritardatario, Jenkins, dovrebbero ficcarti un orologio nel cervello-

-Ho un’idea di cosa potrebbero ficcare a te, Jeremiah, da qualche altra parte- ribattè lui provocando un altro scoppio di risate –Io ho un lavoro, al vostro contrario, e quando qualcuno sarà abbastanza pazzo da assumervi forse lo capirete-.


 
Angolo Autrice
Yuhu! Ecco a voi il quinto capitolo :) Sono meravigliata dalla mia velocità davvero. Non ci credo nemmeno io di stare qui ad aggiornare giornalmente, non me lo aspettavo o.o Comunque spero che questo capitolo vi sia piaciuto nonostante non succeda granchè. Ringrazio chi ha lasciato le meravigliose recensioni <3 e Giuliii23  che ha inserito la storia tra le preferite e Lacoer,piccolissa e Auror08 che l’hanno inserita tra le seguite. Grazie mille davvero e per le vostre opinioni io sono sempre qui, pronta ad ascoltarvi.
Un bacione,

 
Raya_Cap_Fee
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***







Capitolo 6


 
Alle parole di Sebastian si levò un coro di proteste e qualche insulto dal gruppo tutto raccolto ai piedi della tv.
Maggie, al mio fianco, si mise in ginocchio sul divano e si voltò verso il nuovo arrivato –Hai portato la pizza, Jenkins, ed è solo per questo che non mi esprimo nei tuoi confronti- disse con un mezzo sorriso, adocchiando i cartoni di pizza sul tavolo. Sebastian spostò lo sguardo su di lei e, inevitabilmente, mi vide. Sembrò parecchio sorpreso di vedermi lì, tra quell’accozzaglia di personalità vivaci.

-Yalies- mi salutò quindi con un mezzo sorriso. Hannah al mio fianco mi lanciò un’occhiata incuriosita e Maggie la mise al corrente che con quel termine si indicavano gli studenti di Yale. Rivolsi un cenno di saluto a Sebastian mentre Jeremiah provvedeva a mettere in pausa il film –Bene, ragazzi e ragazze, è arrivata la cena!- annunciò a gran voce. Come un’orda di barbari tutti si raccolsero, nel giro di qualche secondo, intorno al tavolo con il cibo. Jackson aveva ancora il sorriso stampato in volto mentre Sebastian gli parlava a bassa voce.

Ero rimasta l’unica seduta davanti alla tv perciò dopo qualche minuto decisi di alzarmi. Non avevo fame dopo il panino ipercalorico con cui mi ero consolata nel pomeriggio –Heike, vieni anche tu- mi esortò Hannah facendomi cenno di avvicinarmi. Sorrisi e scossi la testa.

-Son contento che tu sia qui, stronzetta- sussurrò poi al mio orecchio Jackson, nel passarmi al fianco, e mi assestò una pacca sulla schiena.

Feci in tempo ad afferrarlo per la maglietta e lo tirai nuovamente verso di me per rispondere –Racconta di nuovo a qualcuno che ho fatto la pipì a letto e ti giuro che ti faccio diventare mia sorella, Jack Pannolone-

Lui ridacchiò e si liberò dalla presa –Così ti voglio, Heike, aggressiva!- mimò una mossa di pugilato e io alzai gli occhi al cielo, sospirando.

Andai verso il corridoio che conduceva alla camera da letto e al bagno, avendo bisogno davvero di fare pipì, e incrociai Sebastian sulla soglia. Aveva una maglietta pulita e quando mi vide alzò le mani –Giuro che non stavo facendo niente di male in bagno-

Sollevai un angolo delle labbra –Così pare- risposi con ironia. Dal salotto della dependence proveniva l’alto chiacchericcio degli altri –Allora, come ti è andata stamattina, Yalies? Posso fare affidamento su di te per i miei problemi con la giustizia?-

Aggrottai la fronte, colpita dalla seconda domanda –Tu hai problemi con la giustizia?-

Lui si appoggiò allo stipite, sbarrandomi l’entrata in bagno, e sorrise –No, ma non si sa mai. E’ meglio avere le giuste conoscenze-

Inspirai profondamente, rincuorata che mio fratello non avesse un criminale per amico e incrociai le braccia al petto –Posso andare a fare pipì o vuoi trattenermi ancora, Jenkins?-

Lui sorrise ancora e si fece di lato per lasciarmi passare –Non hai risposto però. Come ti è andata stamattina?-

Deglutii e mi fermai sulla soglia –Forse avevo bisogno del tuo lupo, dopotutto- risposi senza voltarmi, e chiusi la porta.
 
La domanda di Sebastian mi aveva riportato immediatamente al colloquio di quella mattina e allora la voglia di stare lì nella dependence, a far nulla, passò. Uscita dal bagno salutai Maggie e Hannah e andai via senza badare a nessun altro.

 
La sensazione di fallimento aveva di nuovo cominciato ad invadermi. Aggirai la piscina e poi, attirata dal colore dell’acqua, mi fermai. Tolsi i sandali e accorciai il pantalone per poter immergere i piedi seduta sul bordo.

L’ultima volta che avevo messo piede in quella piscina risaliva al mio secondo anno di liceo ed era davvero tanto tempo. Ero nascosta da un cespuglio perciò potevo avere il mio angolo di privacy fuori dalla dependence. Allungai le braccia dietro di me e mi appoggiai sulle mani muovendo piano i piedi.

Chiusi gli occhi e presi un grosso respiro.

-Ah, me lo sentivo che eri fuggita via. Jeremiah ha cominciato una gara di rutti-

-E tu non partecipi? Sembra essere abbastanza disgustoso per te-

Sebastian ridacchiò e lo sentii sedersi al mio fianco. Addio privacy. Aprii un occhio e lo vidi armeggiare con le scarpe di tela –Non ho idea di cosa pensi di me, Heike, ma ti assicuro che non sono così disgustoso come credi- sottolineò con un sorriso mentre immergeva i piedi nella piscina, i jeans arrotolati fino alle ginocchia.

Non risposi e cercai di riprendermi il mio momento di solitudine, ignorandolo.

-Jackson mi ha accennato a Lowell- mormorò Sebastian e io sbuffai, reclinando la testa indietro.

-Mio fratello dovrebbe tenere la bocca chiusa ogni tanto. Pare gli piaccia raccontare i miei affari in giro- ribattei stizzita.

-In realtà sono stato io a chiedergli se ti fosse successo qualcosa-

Lo guardai ma lui si stava osservando i piedi immersi nell’acqua illuminata di blu.

 –Ah, sì?-

Lui accennò un sorriso –Vedi, Yalies, nessuno ti direbbe, nel caso un colloquio fosse andato bene, che gli sarebbe servito il tuo lupo-

Soppesai le sue parole e ammisi con me stessa di aver toppato –Già. Forse hai ragione, Jenkins-

-Ernest Lowell è attorniato da leccaculo ventiquattr’ore al giorno. Tutti prendono per oro colato ciò che gli esce dalla bocca-

-Faccio parte della categoria-

-Invece non dovresti. Non buttarti giù per il suo no, Heike, esistono milioni di opportunità per una laureata a Yale con il massimo dei voti. Potresti addirittura candidarti alle elezioni- continuò lui, convinto. Io sorrisi e lui fece lo stesso guardandomi.

-La Presidenza non m’interessa e ci tenevo a quel lavoro negli studi legali di Lowell. Non hai idea del tipo d’influenza che ha in città, Sebastian, del potere e della reputazione che quell’uomo si è costruito con le sue vittorie. Se lui non mi vuole nel suo studio perché dovrei rimanere qui a Chicago?-

Lui parve sorpreso e smise di agitare i piedi, così come avevo fatto io quando avevo iniziato a parlare –Getti la spugna, Yalies? Davvero?-

Scrollai le spalle e mi concentrai sull’acqua. L’odore di cloro mi raggiunse le narici  e inspirai piano cercando di calmarmi.

-E’ esattamente quello che vogliono i tipi come Ernest Lowell, lo sai? Lui ama umiliare le persone, nel caso non te ne fossi accorta-

-Tu non lo conosci- ribattei

-Perché, tu sì? O tra le righe del giornale leggi solo il meglio di lui, Heike?- replicò lui, sarcastico.

Gli lanciai un’occhiataccia e lui si sporse appena verso di me –Fregatene di Ernest Lowell e dimostragli chi sei. Non piangerti addosso come una ragazzina-

-‘Fanculo, Jenkins. Io non mi sto affatto piangendo addosso-

Un angolo della mia bocca tremò. Lui se ne accorse ma non sorrise, continuando a fissarmi con i suoi occhi grigi –Scappando gliela dai vinta, Heike, e non è detto che in città non possa esserci qualcuno più in gamba di lui-

Fissai Sebastian, incredula –Ma…-

-Onestamente gli avvocati non mi sono mai piaciuti. Perciò invece di insistere potrei convincerti ad intraprendere una carriera da giardiniera- aggiunse lui in tono più leggero. Mi scappò un sorriso e lui si passò una mano tra i capelli –Non ci riusciresti- mormorai e lui annuì –Bene, vuol dire che la convinzione non ti manca- replicò ritirando i piedi dall’acqua e rimettendosi in piedi.

-Potrei andare a New York- mormorai io mentre lui si rimettava a fatica le scarpe ai piedi bagnati.

-O potresti rimanere qui e dargli filo da torcere. La stronzaggine  ce l’hai- ridacchiò lui. Non mi sentii offesa e accettai la mano che mi porgeva per rialzarmi.

-Vuoi che lo sfidi? Sono appena laureata e…-

-Jackson mi ha sempre detto che hai un ego grande quanto il lago Michigan. Non deluderci, eh?-

Nuovamente in piedi gli lasciai la mano fredda ma continuai a guardarlo –Io non…-

-Certo che puoi-

Gli mollai uno schiaffo sull’avambraccio –Smettila di interrompermi-

Lui rise e fece un passo indietro, stranamente accennai una risata a mia volta.

 –Parla a tuo fratello ma non pensare di darla vinta a Lowell, va bene?- disse poi tornando serio ma con gli occhi ancora illuminati.

Presi un respiro e mi strinsi appena nelle spalle –Ci penserò- e fui sincera. Lui sorrise –Vado a vedere come se la cava Jeremiah, vuoi rientrare?-

Scossi la testa –Ciao, Jenkins-

-Ciao, Heike- mi sorrise e poi si allontanò verso la dependence, dalla quale provenivano grasse risate. Rimasi a guardare per un momento l’acqua della piscina e poi recuperai i sandali, rientrando in casa a piedi nudi.


Ad essere sincera non ero mai stata colta, da quando ero uscita dal lussuoso ufficio di Ernest, da un desiderio di rivalsa. Forse avevo trascorso talmente tanto tempo a desiderare di lavorare lì che avevo dimenticato, con mio grande disappunto, che potevo fare moltissimo grazie a Yale.

“Perfino intraprendere una carriera politica e mirare alle elezioni” pensai con un mezzo sorriso mentre mi chiudevo nella mia camera.

Come sempre mio fratello aveva ragione.

Il mio ego non avrebbe mai accettato di rinunciare a Chicago per colpa dello Squalo.


 
Angolo Autrice
Salve salvino a tutte/i (?), eccomi qui un po’ in anticipo con il capitolo sei! :’) Mi è piaciuto tanto scriverlo e mi è piaciuto pasticciare con il banner sopra u.u che, tanto per la cronaca, raffigura Sebastian, Heike e Jackson (non fate caso al fatto che abbia i capelli scuri eh xD). Insomma…spero che il capitolo sia piaciuto anche a voi e che vogliate lasciarmi la vostra opinione <3

Ringrazio Marty_0202 per aver inserito la storia tre le preferite; LittleSun tra le ricordate e WeAlwaysSurvive e Kaliy per averla inserita tra le seguite.

Peace&Love


 
Raya_Cap_Fee
 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***




 


Capitolo 7


 
Una settimana dopo la chiaccherata con Sebastian a bordo piscina, il colloquio con Lowell e la mia idea di restare comunque a Chicago; mi ritrovai a stringere la mano a Cassandra Blane nel suo ufficio legale.

-Sarà un vero piacere averti qui, Heike- disse la donna di fronte a me. Cassandra era una donna di quarantasei anni, dai lunghi capelli castani, il naso alla francese e profondi occhi nocciola. Quel che sapevo di lei era che si è laureata a Harvard con un anno d’anticipo e che, al contrario di Lowell, fosse sua prerogativa in tribunale, restare assolutamente calma.

-Anche per me, Cassandra- ribattei con un sorriso sincero lasciandole la mano. L’idea di lavorare con lei non era così terribile dopotutto. Era una donna magnifica e un avvocato ancora più eccezionale. Non le avevo taciuto il fatto di essere stata scartata da Lowell, il mio sogno, ma lei si era mostrata comprensiva e aveva detto che in me vedeva del potenziale.

-Per i primi tempi mi farai da assistente, non hai ancora davvero messo in pratica il mestiere e credo che sia la cosa migliore prima di affidarti qualche caso- disse, con una mano sulla mia spalla, mentre uscivamo dal suo elegante studio.

Annuii senza problema, già abituata all’idea che nessuno mi avrebbe affidato un incarico nei primi giorni di lavoro –Va benissimo direi- aggiunsi.

Lei mi indicò una scrivania nella stanza accanto a quella della riunioni –Quella è tutta tua. Ti ho già preparato qualche pratica da archiviare- e mi accennò ad alcune cartelline blu –E mi sono presa la briga di lasciarti qualche vecchio caso da studiare in modo che tu possa capire qual'è il mio metodo di gestire le cose, Heike- aggiunse in tono pacato.

Annuii ancora e riuscii a trattenere l’emozione di avere una scrivania tutta per me in uno studio legale, nella mia amatissima città. Cassandra sorrise, probabilmente leggendomi nello sguardo quello che io cercavo di reprimere, e mi lasciò andare la spalla –Benvenuta tra noi-

 
Negli studi di Blane non lavoravano più di sei avvocati e, al confronto di altri studi legali, era un numero piuttosto esiguo. Certamente io ero molto contenta di far parte della cerchia. Non era Lowell ma avrei presto dimenticato lo Squalo anzi, meno pensavo a lui e meglio era per i miei nervi e il mio orgoglio.

Nel mio primo giorno di lavoro perciò, fui contenta di studiare i casi più famosi di Cassandra e di archiviare le pratiche dei processi appena conclusi. Mi concessi un’unica pausa nel primo pomeriggio e andai verso la macchinetta del caffè che avevo adocchiato durante il tour mattutino, in fondo al corridoio nell’ingresso.

Con le mani nelle tasche dei pantoloni eleganti che indossavo, vidi una figura alta e che mi dava le spalle, proprio di fronte al distributore. Una schiena e una nuca che mi pareva di riconoscere, un gusto eccentrico nel vestire che non passava inosservato e che avevo sempre guardato con un certo disappunto.

Rallentai il passo, incredula, quando nel voltare appena la testa avevo intravisto il volto della figura. Seguii solo un attimo di sconcerto poi, con un sorriso beffardo sulle labbra lo chiamai –Carter Mills, qual buon vento-

Il ragazzo si voltò subito, un bicchiere di caffè in una mano e un foglio ripiegato nell’altra. Un sorriso si fece strada sul volto pallido e un po’ scarno, gli occhi verdi che puntarono i miei –Heike De Vries- annunciò lui a sua volta muovendo un passo nella mia direzione.

Io mi fermai e continuai a sorridere in una smorfia –Non sapevo lavorassi qui-

Carter mi fissò a lungo e poi, vuotando in un solo sorso il caffè dal bicchierino, scrollò le spalle –Anche tu scartata da Lowell, eh?- disse divertito.

Carter Mills era un ex-studente di Yale, esattamente come me, ma si era laureato l’anno prima in giurisprudenza con ottimi voti. Lo conoscevo perché ci eravano incontrati spesso in biblioteca e perché, con un certo rammarico a tre anni di distanza, c’ero stata a letto. Due volte.

Alzai il mento e mi appoggiai alla parete del corridoio bianco –Magari son stata io a dirgli di no, non credi?- inarcai un sopracciglio e lui accennò una risata buttando il bicchierino nel cestino di fianco alla macchinetta e si passò una mano tra i capelli neri e corti che ritornarono tuttavia al loro posto, schiacciati.

-Non credo sai?- disse semplicemente.

Feci spallucce e mi avvicinai alla macchinetta, passandogli al fianco. Non ero mai stata innamorata di lui perciò ritrovarlo lì non mi aveva causato nessun dolore e nostalgia dei tempi passati. Sapevo benissimo che tipo era quando mi ero lasciata andare tra le sue braccia.

-Ti trovo bene-

-Mhm- mugugnai in risposta –Quindi lavori qui, Carter? Da quanto tempo?- gli chiesi nel mentre che ordinavo il mio caffè macchiato.

-Sei mesi- rispose lui e avvertii, più che vedere, che stava sorridendo compiaciuto.

-Cause vinte?-

-Due-

-Non male- ribattei. Quando il mio caffè fu pronto tornai a voltarmi verso il ragazzo. Indossava un completo elegante grigio scuro, con una camicia rosa e una cravatta di dubbio gusto gialla. Che fosse bello non avevo dubbi ma Carter non ti restava nel cuore da nessun altro punto di vista o almeno, non era successo con me.

-Sarà interessante vederti lavorare qui, per Cassandra, sei sempre stata così aggressiva nel dire le tue opinioni che dubito resisterai molto- tornò a parlare lui fissandomi. Stava lisciando contro il muro il foglio che nel bere il caffè aveva stropicciato con assoluta noncuranza.

Guardai quel documento straziato e sospirai esasperata più dalla sua convizione di conoscermi che per altro –Staremo a vedere- risposi in tono piatto tenendo tra le mani il mio bicchiere aspettando che il suo contenuto raffreddasse.

Carter sorrise, una sfilza perfetta di denti smaltati che gli illuminò i lineamenti spigolosi –Ah, Heike. Hai intenzione di festeggiare il tuo nuovo lavoro?-

Una luce disgustosamente maliziosa brillò nei suoi occhi troppo verdi e io sollevai un angolo delle labbra in un sorriso finto –Magari con te?-

Lui alzò le sopracciglia scure e si battè una mano sul petto – Sono profondamente dispiaciuto ma devo dirti che sono occupato con una ragazza meravigliosa-

La notizia mi sorprese ma non lo diedi a vedere –Non avevo nessuna intenzione di stare con te, Carter- ribattei seria, a scapito di insinuazioni future davanti a Cassandra.

-Ma sei dispiaciuta per il fatto che io non sia a tua disposizione, vero?-

Alzai gli occhi al cielo –No, Mills-

Carter sorrise e la luce maliziosa nei suoi occhi sembrò affievolirsi –Non ci sarei venuto comunque con te- ribattè tranquillo –Sono innamorato-

Bevvi finalmente il mio caffè e lanciai uno sguardo al mio orologio da polso –Buon per te allora. Ora ho da finire alcune faccende- mi avvicinai a lui e gli porsi una mano.

Lui allungò la sua e ci scambiammo quel saluto formale –Benvenuta, Heike-

-Piacere di conoscerti, Mills- sorrisi, ironica.


 
Avere Carter Mills, sul mio luogo di lavoro, poteva essere un’arma a doppio taglio. Era indubbio che da parte di entrambi non ci fosse nessun imbarazzo per i trascorsi ma non ero sicura che Cassandra l’avrebbe pensata allo stesso modo. Decisi d’informarla subito dopo aver lasciato Carter ma lei non diede segno di preoccupazione una volta che ebbi chiarito che non ci sarebbe stato nessun problema.

D’altro canto, Carter era geniale nel suo modo di esporsi e di formulare ipotesi e discorsi. Era una capacità che gli avevo invidiato, qualche volta, nel sentirlo discutere con i suoi amici in mensa o nei giardini di Yale. Perciò non ero così tanto dispiaciuta di averlo come collega, tanto più che anche lui, a quanto avevo intuito, era stato lapidato da Ernest.


 
Alle sei del pomeriggio uscii dal mio ufficio soddisfatta e, valigetta ventiquattrore alla mano, ero pronta a tornare a casa. Lungo le scale d’ingresso al palazzo, in strada, scorsi Carter abbracciato ad una ragazza nel tentativo, secondo il mio parere, di volerle mangiare la faccia.

-Per la miseria, Carter, non vorrai essere denunciato per atti osceni in luogo pubblico- scherzai nel passargli dietro e lui si staccò da quella che presumibilmente era la sua ragazza e mi lanciò un’occhiata divertita –Mia cara, questa è Heike. Era nella lista. Yale-

Non osai chiedere in che razza di lista ero finita ma lanciai un’occhiata alla ragazza mora, che ora mi guardava con espressione truce. Alzai una mano –Tutto tuo, ragazza- la rassicurai sebbene ebbi il perfido presentimento che quelle parole non le sarebbe piaciuto affatto in quanto sostenevano che, un tempo, Carter era stato mio.

Se lo tenesse. Sorrisi divertita e li lasciai lì, a guardarsi.

 
Non arrivai lontano prima che intercettassi, a pochi metri, i capelli scompigliati di Jackson. Era fermo accanto alla sua macchina parcheggiata, la testa china e lo sguardo concentrato sul cellulare con cui stava armeggiando.

-Piccolo adorabile fratellino- esordii sventolandogli una mano sotto il naso. Lui sorrise accorgendosi di me e si appoggiò con le braccia al cofano anteriore della macchina –Grande, adorabile e amabilissimo fratellone, vorrai dire- mi corresse agitando un dito.

Accennai una risata divertita e poi sospirai –Grazie di essere passato a prendermi. Questa zona della città è maledettamente trafficata per i miei nervi alla guida-

-Nessun problema-

Avevo parlato a Jackson la mattina successiva alla dependence e gli avevo spiegato chiaramente cos’era successo al mio colloquio. La sua ipotesi era che Lowell fosse un coglione di quelli ricchi e montati. Non aveva preso bene l’idea che colpa di quell’uomo avessi considerato l’idea di andarmene ma era stato contento che Sebastian fosse intervenuto facendo leva sul mio ego grosso quanto il Lago Michigan.

-Mamma ha organizzato una cena speciale stasera- mi annunciò Jackson, una volta che eravamo nell’auto, diretti a casa.

-Per me, suppongo- sorrisi divertita lanciandogli un’occhiata e lui sorrise a sua volta.

-Proprio per te, viziatissima sorella. Credo che abbiano un regalo da farti-

Mi morsi un labbro per trattenere un nuovo sorriso. D’altronde un po’ mi sentivo in colpa per Jackson.

-Mi piacciono i regali- commentai soltanto, guardando la strada.


 
Angolo Autrice

*lancia fiori* ecco il sette. Spero vi sia piaciuto e che Carter (la new entry) abbia le vostre simpatie u.u Non ho molto da dirvi se non ringraziarvi per le vostre recensioni <3 e in particolare chi ha aggiunto la storia tra le preferite (Gnegne1), seguite (Anonyma777, d_ali, desire2011) <3
Io mi fermo per il week-end ma voi, se volete, potete farmi contenta e lasciare una piccolissima recensione per i vostri dubbi, ipotesi, tutto quello che volete dirmi insomma xD io sarò lieta di rispondervi.
Buon fine settimana :D a lunedì.


 
Raya_Cap_Fee
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***





 
 

Capitolo 8


 
Quando in casa De Vries veniva annunciata una cena speciale, voleva dire che si aveva qualcosa d’importante da dire o grossi regali da consegnare. Era una specie di tradizione, una delle tante che si era inventata mia madre e a cui era affezionata. A me le cene speciali piacevano sempre perché, solitamente, ero io quella che aveva da dire qualcosa.
Da che ricordavo mio fratello e mio padre prendevano la cosa sempre alla leggera, instituendo una cena speciale per “Sono riuscito a piegarmi una maglietta” o “Mi sono comprato una nuova cravatta di seta”. Al contrario io avevo annunciato l’intenzione di essere un avvocato, di aver preso la patente, l’iscrizione a Yale e il mio primo esame andato a buon fine.

Io non scherzavo insomma. E nemmeno mia madre che, per l’occasione, si metteva ai fornelli personalmente. Jenna De Vries era un’ottima cuoca a discapito dell’idea che la gente aveva sulle donne ricche. Lei diceva semplicemente che le piaceva aiutare l’economia offrendo un posto di lavoro in più, risparmiandosi il disturbo di andare a fare la spesa e stare ai fornelli nelle ore in cui credeva di poter produrre qualcos’altro di altrettanto utile, come un maglione o un evento di beneficenza.

Quando io e mio fratello entrammo dalla porta sul retro della casa, trovammo mia madre con l’espressione concentrata e gli occhi fissi sul vetro del forno, in cucina.

-Mamma?-

Lei, che non sembrava essersi accorta di noi due impalati sulla soglia a guardarla, alzò lo sguardo e le labbra si piegarono a formare uno dei suoi sorrisi migliore.

-I miei due tesori finalmente a casa-

C’era da dire che mia madre era fin troppo mielosa nei nostri confronti. Sorrisi incerta e Jackson mi imitò, spingendomi appena in avanti con una mano, in modo da poter chiudere la porta. Jenna si tolse il guantone per il forno e si appoggiò al piano di lavoro in marmo –Com’è andato il tuo primo giorno da Cassandra?-

Ero riuscita a confessare ai miei geniori il mio fallimentare colloquio allo studio di legale di Lowell sebbene avessi provato un enorme imbarazzo. Entrambi avevano accolto con un sorriso la mia idea di rimanere a Chicago, almeno per il momento, e lavorare da Cassandra Blane.

-Come un qualsiasi primo giorno di lavoro, suppongo. Premesse e futili compiti per aiutare l’adattamento- accennai un sorriso al quale mia madre rispose –Per il momento-

Annuii –Per il momento. Cassandra ha detto di avere fiducia nelle mie capacità e perciò suppongo che non attenderò molto per aver il mio primo e vero lavoro in un caso-

Jenna annuì e poi guardò mio fratello, intento a curiosare tra le varie pentole sollevando i coperchi, e il suo sguardo si addolcì appena. Sebbene non fossi mai stata gelosa di Jackson, dovevo ammettere che mia madre aveva sempre dimostrato un maggiore attaccamento a lui.

Si somigliavano molto dal punto di vista caratteriale e lei lo appoggiava sempre in tutte le sue scelte. Non sapevo se perché, a volte, percepiva il disagio di Jackson di fronte ai miei successi scolastici o perché le ricordava troppo se stessa da giovane, senza un preciso obiettivo.

-A te, Jackson, com’è andata la giornata?- domandò e lui scrollò appena le spalle –Al solito, mamma-  rispose –Chiamatemi per l’ora di cena- aggiunse poi scomparendo in salotto per andare probabilmente al piano di sopra.

In cucina aleggiò un momento di silenzio e poi mia madre sospirò appena.

La guardai e notai la ruga di preoccupazione che le increspava la fronte –Sta bene- dissi senza un preciso motivo –Jackson sta bene, mamma, non preoccuparti-

-Ormai non mi racconta più niente di quello che gli succede- sorrise un po’ triste e io abbandonai la mia valigetta ventiquattrore ai piedi del bancone e presi posto su uno degli sgabelli.

-E’ naturale. Non ha più otto anni- risposi incrociando le dita sotto al mento. Mia madre ridacchiò –Lo so. Ma è dura accettare che state crescendo, okay? Lui ormai è un uomo e tu sei una donna in carriera. Mi mancano un po’ i miei bambini- ribattè mescolando lentamente qualcosa in una pentola.

Ero dell’opinione che quando si arrivava ad una certa età si cominciava ad essere piuttosto nostalgici e mia madre ne era la prova. Erano almeno tre anni che diceva che le mancavano i suoi bambini.

-Avessi almeno dei nipotini, sai…-

A quel suo pensiero espresso a voce alta mi lasciai andare ad un sorriso divertito –Mamma puoi sempre adottare qualche marmocchio, se ti senti sola-

-Tu e tuo fratello siete assolutamenti spregevoli. Anche tuo padre non vede l’ora di essere nonno, lo sai?-

Alzai una mano per fermarla e poi scossi lentamente il capo –Non è vero-

Jenna sollevò il mento e sorrise ancora –Oh sì invece. Non lo ammetterebbe mai davanti a voi ma è così-

-Vorrà dire che resterete delusi- dissi tranquilla, dondolando appena i piedi. Non che non avessi mai pensato alla questione bambini ma davvero non sarei mai stata capace di essere una madre amorevole. E poi avevo il mio lavoro e non avrei avuto tempo da dedicargli.

Non sapevo cosa ne pensasse Jackson al riguardo, né avevo intenzione di chiederglielo in verità.

-Fai affidamento su Jackson, mamma-

Lei sembrò piuttosto sorpresa e poi sorrise continuando nel suo mescolare metodico e preciso. Nel silenzio che seguì quella mia frase ero sicura che si fosse persa nell’immaginare un nugolo di marmocchi dai capelli rossi che attorniavano lei e mio padre nel giardino di casa.

-Quindi…- la riportai alla realtà -…questa sera c’è una cena speciale-

-Festeggiamo il tuo primo lavoro-

-E?-

Mia madre mi guardò e poi la consapevolezza si fece strada nei suoi occhi scuri e perfettamente truccati –Tuo fratello ti ha detto del regalo- affermò rassegnata.

-Sei consapevole del fatto che Jackson mi spiffera tutto-

Lei serrò le labbra –Non ti dirò niente in merito. Aspetterai la fine della cena, Heike. Ora vai- disse in tono piuttosto duro.

Sorrisi e balzai giù dallo sgabello con un’espressione felice. La conoscevo tanto da sapere che mi stava mandando via per non dirmi in cosa consistesse il regalo. Non sapevo cosa aspettarmi ma ero sicura che mi sarebbe piaciuto.

 
 
-Ehi, non rubarmi il cibo mentre parlo con papà!- minacciai mio fratello con la forchetta. Avevo notato già da qualche scambio di battute che il mio numero di mozzarelline era diminiuto. E io non ne avevo mangiate. Jackson rise e mi rifilò una gomitata nel fianco. Gli risposi pestandogli un piede. In fondo noi due eravamo ancora tremendamente infantili, tra di noi.

Mio padre rise e mia madre inclinò appena la testa e sorrise divertita. Probabilmente aveva ben chiara la parte del discorso in cucina in cui le avevo detto che eravamo cresciuti.

-Quante storie, Heike-

Emisi un verso strozzato di protesta e poi lanciai un’occhiata ai miei genitori.

-Stavamo parlando delle tue azioni, papà-

-Basta parlare di lavoro, per favore- protestò mia madre toccando il braccio a mio padre, pronto a riprendere il discorso sulle buone quotazioni in borsa che avevano raggiunto in quel momento.

-Va bene. Hai ragione- rispose lui tranquillo, sorridendole. Incassai appena la testa nelle spalle e volsi la testa in direzione di mio fratello che, oltra a rubarmi il cibo, era pure riuscito ad intervenire nel discorso.

-La mamma vuole dei nipoti, Jackson, vedi di attivarti- gli sussurrai divertita e lui, in risposta, si rilassò contro lo schienale della sedia –Io sono attivo sorellina-

All’improvviso mi resi conto di quello che significava la sua risposta e scossi la testa, maledicendomi –Non…bleah! Che schifo, Jackson!-

Lui rise divertito dalla mia espressione –Sei sempre così buffa, Heike, credi che faccia una vita da casto come te?- mormorò e io arricciai le labbra –E chi l’ha detto che io sono casta?- risposi a mia volta.

Non ricordavo di aver mai visto Jackson sbiancare e sorrisi soddisfatta della sua espressione. Era bello stupirlo ogni tanto.

-Che cosa state confabulando voi due?- chiese mio padre, guardandoci. Gli occhi di Jackson erano ancora fissi su di me e io inarcai un sopracciglio. Per una volta ero riuscita a farlo stare zitto, era una soddisfazione da appuntare sulla mia agenda.

-Niente d’importante- sorrisi –Che ne dite di consegnarmi questo regalo? Vorrei godermi davvero il dessert-

William e Jenna si lanciarono un’occhiata e poi, con uno sguardo complice, si alzarono da tavola e scomparvero dalla sala da pranzo.

-Devo seguirli? Tu sai che cos’è, vero? Tu sai sempre tutto- domandai a Jackson senza guardarlo.

-Non dirmi mai più nulla al riguardo della tua vita sessuale, Heike, per favore- ribattè lui e io mi voltai –Cosa?-

I suoi occhi scuri erano puntati nei miei azzurri e ripetè quanto aveva detto. Sorrisi divertita –Allora sono capace di stupirti ancora eh?-

-Sei mia sorella minore. Certe cose di te non voglio saperle, siamo d’accordo?-

-Ti ho forse turbato, Jack Pannolone? Benvenuto nel club “Traumi provocati dai fratelli” io sono membro da almeno quindici anni-

Jackson assottigliò lo sguardo poi prese un grosso respiro, bevendo dell’acqua dal suo bicchiere –Sei proprio una…-

-Stronza. Lo so-

Non potei fare a meno di ridere soddisfatta poi, il ritorno dei miei genitori mi distrasse. Li guardai perplessa visto che non tenevano nulla di grosso tra le mani, c’era solo mio padre che stringeva tra le mani una chiave.

Mi alzai da tavola mentre loro mi guardavano soddisfatti –Cos’è?-

Non era una chiave di una macchina ma sembra più una adatta ad un portone. Mia madre battè le mani –Da ora hai ufficialmente un appartamento tutto tuo, Heike- annunciò a gran voce.

La mia mascella cascò inevitabilmente in basso, dipigendomi sul viso un’espressione di assoluto stupore.


 
Angolo Autrice

Buon inizio settimana! <3 Spero che il weekend sia andato bene. Come dicevo, ecco qui il  capitolo 8. Volevo dirvi che ho intenzione di non affrettare le cose perciò alcuni capitoli a voi sembreranno noiosi ma ognuno serve per far conoscere meglio l’ambiente e le idee di Heike in merito a certe questioni di vita. Probabilmente, non aggiornerò più giornalmente in modo da potermi dedicare anche alle altre storie che ho in corso ma gli aggiornamenti saranno comunque frequenti (due volte a settimana magari) <3 Ringrazio ajaG, Lovespanda, thegirluntitled e roncatella per aver inserito la storia tra le preferite; maaaallllaaaa che l’ha inserita tra le ricordate e infine allemari, Chiara_86, sun92 e Impasse_ che l’hanno inserita tra le seguite. Siete tantissime :’) e mi farebbe piacere avere una vostra opinione.
Un bacione e a presto,


 
Raya_Cap_Fee
 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***




 

Capitolo 9

 
 
La mia incredulità di fronte a quel regalo era ancora nell’aria quando mia madre, con un sorriso rassicurante, lasciò la parola a William De Vries –Sappiamo che volevi comprarti un appartamento con i tuoi soldi, Heike, perciò questo sarà provvisorio se lo vorrai- accennò un sorriso mentre m’invitava a prendere la chiave dalla sua mano aperta.

-Perché?- domandai ancora sorpresa. Come aveva detto mio padre ero sempre stata dell’opinione che il mio primo appartamento sarebbe stato acquistato con i miei soldi, quando avrei cominciato a lavorare.

-Sei indipendente ora e sei abbastanza grande per avere un posto tutto tuo- aggiunse William. Instintivamente mi voltai verso Jackson pronta a ribattere qualcosa in merito all’affermazione quando lui mi fermò –Calma sorellina. Hanno offerto un appartamento tempo fa anche a me- incrociò le mani dietro la nuca stiracchiandosi appena e sorrise –Ma perché dovrei andarmene da qui? Ci sto bene-

Rimasi in silenzio a fissarlo per un momento poi scossi appena la testa. Indipendenza. Non c’era cosa più bella a mio parere dopo un lavoro soddisfacente. Non riuscivo a credere che Jackson avesse davvero rifiutato.

-Naturalmente, abbiamo provveduto ai primi mesi d’affitto e, se vorrai rimanere lì, il resto toccherà a te. Siamo pur sempre i tuoi genitori- disse mia madre ed io annuii concorde. Guardai la chiave, reggendola tra con l’indice e il pollice davanti al viso e tirai un grosso respiro.

-Grazie davvero. Io…- scossi la testa –E’ il regalo migliore del mondo-

Feci due passi avanti e li strinsi entrambi in un abbraccio non proprio comodo. Un posto tutto mio.

 
 
-Per quando uscirai da lavoro, domani sera, gli ultimi ritocchi saranno pronti e  a quel punto potremmo far portare lì la tua roba- mormorò mia madre più tardi mentre, sole in cucina, caricava la lavastoviglie. Seduta sul mio solito sgabello davanti al bancone la guardai armeggiare –Non vi ripagherò mai abbastanza per tutto che fate per me- le risposi con un mezzo sorriso.

Jenna si voltò  nella mia direzione, gli occhi neri fissi su di me –Sarà bellissimo vedrai. Sebastian ha lavorato l’intera settimana, volevo farti avere l’appartamento al più presto-

-Sebastian?-

Lei sorrise e si sedette al mio fianco, entusiasta –Si è occupato lui dell’arredamento e della tinta alle pareti. Sebastian Jenkins, lo hai incontrato il giorno in cui sei tornat…-

-Sì, ho capito- ribattei alzando appena una mano –Lo conosco-

Era dalla chiaccherata in piscina che non lo vedevo.

-Mamma? Quando hai preso accordi, esattamente, per l’appartamento?- socchiusi appena lo sguardo su di lei, sospettosa. Lei sorrise tranquilla –Da quando ci hai annunciato che avresti lavorato da Cassandra. Io e tuo padre d’altronde non eravamo sicuri che saresti rimasta a Chicago…-

Annuii rassicurata e poi mi alzai –Sarà meglio che vada a dormire- le scoccai un bacio sulla guancia e le sussurrai ancora un grazie all’orecchio prima di tornare nella mia camera.

 
 
Il giorno successivo, al lavoro, avevo avuto modo di conoscere meglio attraverso lo studio delle cartelle il metodo con cui Cassandra era solita affrontare i casi e i processi in tribunale.  Aveva vinto molte cause contro personaggi illustri della città eppure nessuno mai sembrava affiancarla a Lowell in quanto ad audacia ed arroganza. Non appena ero arrivata, con qualche minuto di anticipo rispetto all’orario, Cassandra aveva provveduto a informarmi della sua udienza in tribunale per il giorno successivo, alla quale voleva che le facessi da assistente perciò il mio umore, quando la sera raggiunsi l’indirizzo che mi aveva dato mia madre, era più che ottimo.

Il mio nuovo e primo appartamento era a soli otto minuti a piedi (constatai) dallo studio in cui lavoravo e non poteva essere che un altro punto a favore.  Non che fossi una ritardataria ma almeno avevo modo di alzarmi un quarto d’ora dopo.

Guardai il palazzo dall’aria piuttosto signorile e poco moderna, e accennai un sorriso contenta della scelta dei miei genitori. Avrei apprezzato di meno un modernissimo palazzo nel loop di Chicago, quelli erano posti adatti a Jackson.

Salii in fretta le scale di pietra che precedevano il grosso portone d’entrata.

-Lei è Heike De Vries?-

Mi voltai verso la voce che aveva parlato, non appena varcata la soglia di marmo, e i miei occhi si fissarono su un’anziano dai capelli incredibilmente bianchi e gli occhi chiari. Stava in piedi al lato interno del portone con quella che sembrava una divisa da portiere, un completo elegante interamente grigio e un cappello.

-Sì- risposi. L’anziano sorrise prima che potessi aggiungere altro e mi si avvicinò, porgendomi una mano –E’ un piacere fare la sua conoscenza- disse con un sorriso a cui mancava qualche dente. Dimostrava più di sessant’anni e mi chiesi quanti ne avesse in realtà.

-Oh, per favore, può chiamarmi Heike- ribattei imbarazzata dalla formalità. Lui mi fece un cenno d’assenso con il capo e sorrise ancora –Io sono Tom, per tutti gli inquilini di questo palazzo. Sono il portinaio da un ventennio circa-

Sorrisi –E’ un piacere conoscerla, Tom- alzai una mano prima che potesse dire qualcosa –Mi spiace ma sono abituata a dare del lei alle persone più anziane di me e che lo meritano soprattutto-

Lui sembrò vagamente sorpreso ma non ribattè, sorridendo ancora –Benvenuta, Heike, per qualunque problema rivolgiti pure a questo vechietto-

Annuii e poi cominciai a salire le sei rampe di scale che mi dividevano dal mio appartamento. Essendo un palazzo piuttosto vecchio non era fornito di ascensore, forse l’unico problema che fino a quel momento avevo riscontrato. Arrivai davanti alla porta di legno chiaro con la targhetta di ottone che recava, elegantemente incisa, il mio cognome e sospirai impaziente. Il mio appartamento. Recuperai la chiave dalla borsa e feci scattare la serratura senza suonare prima al companello. Dall’interno udii delle voci concitate.

Aprii un po’ il portone.

-Sta arrivando! Jackson, sta’ attento con la torta. William? William dove sei? Oh, eccoti qui. No, non lì. Ahia!-

Trattenni a stento una risata, nell’udire la voce di mia madre. Aspettai ancora un momento prima di aprire –Benvenuta Heike!- esclamarono i miei genitori a cui si unì uno stronzetta da parte di Jackson. Tutti e tre e Beth, la donna delle pulizie e cuoca di casa De Vries, erano allineati perfettamente davanti a me a pochi passi dall’ingresso piuttosto angusto, a quel punto.

Sorrisi e lasciai che lo sguardo vagasse per l’ingresso –Io credo di non riuscire a trovare le parole, davvero- mormorai. Di fianco a me c’era un tavolinetto di legno scuro e lucido, dove appoggiai le mie borse, e un mobiletto. Jenna De Vries fu la prima e l’unica ad abbracciarmi, mentre mio fratello con la torta in mano mi guardava con aria furba e mio padre e Beth sorridevano felici.

Mia madre mi lasciò il tempo di guardarmi intorno e l’unica cosa che potevo dire è che mi piaceva tanto. Il parquet ricopriva tutto il pavimento fatta eccezione per il bagno, le tonalità neutre delle varie stanze poi, avevano un effetto più che rilassante ai miei occhi. Non ero un’esperta d’arredamento ma il contrasto con i mobili dall’aria piuttosto antica e quelli moderni aveva la capacità di rendere l’ambiente ancora più armonioso.

-Ho sempre desiderato una cosa del genere- mormorai a mia madre, accennando all’angolo del salotto, sotto una delle due grandi finestre, una panchina imbottita e i cuscini bianchi e celeste chiaro.

Jenna sorrise guardando nella mia stessa direzione –L’aveva immaginato- rispose. Non le chiesi chi perché mi aveva già informato chi aveva lavorato all’ambiente che mi circondava. Il salotto, un unico ambiente diviso solo da una penisola di legno chiaro e marmo della cucina, era la stanza più grande con una libreria che occupava un intero lato della stanza e nella quale era incassata perfettamente una tv. Riuscii a intravedere anche una console e a quel punto lanciai un’occhiataccia a Jackson, che sorrise facendomi un occhiolino.

-E quella?-

-Credi forse che non godrai più della preziosa compagnia del tuo amatissimo fratello? Vuoi che mi annoi a morte con i tuoi volumi di legge?-

Lo guardai un momento e poi alzai gli occhi al cielo –Okay, ho capito-.

Il divano aveva tutta l’aria di essere comodissimo così come la poltrona imbottita dietro la scrivania che occupava un angolo dello spazio. Era quello il mio studio. Oltre alla cucina, il bagno, il salotto e una camera da letto non c’erano altre stanze. Mi avvicinai alla cucina e al frigo d’acciaio che mia madre con l’aiuto di Beth aveva provveduto a riempire.

-Per la cena di questa sera abbiamo già provveduto. Basterà riscaldare la pasta nel forno- disse Beth con un grande sorriso.

-Per i prossimi giorni sarà compito tuo non morire di fame, sorella-

Guardai Jackson e inarcai un sopracciglio –Credi forse che…-

Il campanello, un suono piuttosto stridulo, interruppe la mia frase e guardai sorpresa mia madre. Lei in risposta non mi calcolò nemmeno e scomparì all’ingresso,  negandomi probabilmente l’onore di ricevere il mio primo ospite.

-Mamma?- la seguii e il portone era già aperto a metà. Incrociai un paio di occhi grigi, sorpresi –E’ già qui? Sono in ritardo?-

-Tu hai il ritardo nel sangue, Seb!-  gridò Jackson dal salotto e io guardai Sebastian che muoveva un passo dentro, ringraziando e salutando mia madre. Aveva i capelli scompigliati e aveva sbagliato ad abbottonarsi la camicia bianca, che penzolava storta da un lato sui jeans neri. Trattenni un sorriso divertito ma mi ritrovai comunque a sorridergli, quando mi si avvicinò porgendomi quella che sembrava una bottiglia di vino –Scusami, Heike. Non riesco proprio a essere puntuale con tut…-

Una risata e un mezzo insulto di Jackson dal salotto gli fecero alzare gli occhi al soffitto. Accennai una mezza risata e recuperai la bottiglia dalle sue mani –Non preoccuparti, Sebastian. Mio fratello non ha idea di cosa voglia dire essere impegnati- mormorai.

Mi chiesi perché mia madre l’avesse invitato a casa mia senza dirmi niente ma, nel corso della serata, mi resi conto che la cosa non mi dispiaceva. Insomma, il mio primo incontro con Sebastian Jenkins non era stato esattamente normale e ancora non ero sicura di che tipo fosse fatto stava che era in confidenza con la mia famiglia molto più di quanto potessi immaginare. Perfino Beth, nel servire l’arrosto, gli riservò una delle parti migliori.


Intorno alle undici dichiarò di dover andare via e fu solo allora, mentre mi passava accanto sulla soglia dell’appartamento, che mi chiese se mi piacesse quello per cui aveva lavorato per un’intera settimana. Accennai un sorriso, appoggiata alla porta aperta e annuì –E’ perfetto. Io non ne so nulla di queste cose ma hai senz’altro talento-

Lui mi guardò e un angolo delle labbra si sollevò in un sorriso appena accennato –Sarà meglio che vada ora. Ci vediamo, Heike-

Annuii e lui si avviò giù per le scale –Sebastian?- lo chiamai, piano, per non risultare rumorosa agli altri inquilini. Lui si voltò a guardarmi, la luce gialla che illuminava le scale rendeva più biondi i suoi capelli.

Non sapevo perché l’avevo chiamato ma nel guardarlo trovai cosa dire –La camicia-

Sebastian si guardò, forse per la prima volta da quando era uscito da casa sua e sorrise poi, imbarazzato –Andavo di fretta. Credo proprio che con te farò sempre delle figuracce, eh?-

Mi strinsi nelle spalle e poi lo salutai –Grazie anche per quella sera in piscina. Insomma non che sia stato tu a convincermi a rimanere ma…-

Lui rise –Non preoccuparti, Heike. Ci vediamo-

Annuii –Sì, ci vediamo- e lo guardai scendere i primi gradini prima di rientrare nel mio appartamento.



 
Angolo Autrice
Lo dicevo io che vi avevo abituato troppo bene xD Perdonatemi per questo periodo d’assenza ma si sa che Dicembre porta sempre qualche impegno e scrivere non è sempre possibile. Nonostante sia in ritardo vi auguro comunque Buon Natale e un felice anno nuovo, a tutte voi che leggete questa storia <3  Ringrazio piccola_piromane27 e Horan_girl che hanno inserito la storia tra le preferite;  Gnegne1 e SugarKane che l’hanno inserita tra le ricordate; free_to_think, MilkHoney, babizlola93 e picci12 che l’hanno invece inserita tra le seguite. Siete davvero tante e mi farebbe piacere leggere una vostra piccolissima opinione. Non mordo, anzi xD
Con la speranza che il capitolo vi sia piaciuto vi do appuntamento al prossimo. Un bacione e ancora buone feste.

Raya_Cap_Fee

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***






 


Capitolo 10
 
 
 
1 mese dopo
 
 
Mi sistemai sul divano e, tazza di tè verde in una mano e svariati fogli in grembo, cominciai la lettura del mio nuovo e primo caso per lo studio legale di Cassandra Blane. Il mio capo mi aveva dato la notizia solo quella mattina e io ci tenevo a fare bella mostra delle mie capacità e del frutto degli anni trascorsi a Yale.

Ero giunta a leggere appena i dati di Hugo Blackburn, il mio cliente nonché parte offesa del processo, quando qualcuno bussò alla porta. Lanciai un’occhiata all’orologio che avevo al polso e sollevai le sopracciglia. Erano le nove e mezza di sera e c’era una sola persona che poteva anche solo pensare di venire a disturbarmi.

-Va’ via, Jackson!- gridai senza nemmeno alzarmi. L’ultima volta aveva funzionato.

Ci fu un momento di silenzio e poi risuonò di nuovo qualche colpo.

-Ho da fare- sottolineai ancora.

Nessuno rispose ancora una volta e a quel punto appoggiai la tazza sul tavolino, sistemai i fogli nella cartelletta e mi alzai in piedi percorrendo il breve corridoio d’entrata.

-Jackson, giuro che se non la smetti di presentarti qui a casa mia per trascinarmi fuori…- borbottai senza nemmeno guardare dallo spioncino, come ero solita fare. Aprii la porta di scatto, nel tentativo di spaventare il mio fastidiossimo fratello, ma non feci in tempo a sollevare lo sguardo verso il viso dell’altro che un pugno mi colpì in viso.


 
 
-Signorina De Vries? Heike? Mi senti?-

Strizzai le palpebre, avvertendo un dolore lancinante alla testa, e mi lasciai scappare un lamento dalle labbra socchiuse.

-Ho chiamato il 911 e l’ambulanza sta arrivando. Riesci a capirmi?-

Mi sforzai di aprire gli occhi e mi agitai non appena mi resi conto che dall’occhio destro non vedevo quasi niente, sotto la guancia ricobbi il parquet di legno e il tappeto dell’ingresso.

-Non muoverti-

Tom, l’anziano portiere del palazzo, fece il suo ingresso nel mio limitato campo visivo. La fronte corrugata, lo sguardo ansioso.

-Cos’è successo?- chiesi. Provai a girarmi su un fianco ma una fitta al costato me lo impedì facendomi digrignare i denti –Perché non ci vedo? Tom?-

-Hai un taglio sul sopracciglio e il sangue ti disturba. Non so cosa sia successo. Sono salito per il mio primo giro di ronda serale e ho trovato il tuo portone spalancato con te a terra-

Anch’io non ricordavo niente ma di sicuro mio fratello non mi avrebbe mai colpito. Sentii una mano sulla spalla, come per rassicurarmi.

-Non mi pare abbiano rubato nulla, o almeno, niente mi sembra fuori posto-

Un’aggressione senza rapina in un palazzo con un portiere e probabilmente videosorvegliato. Feci per dire qualcos’altro, o almeno provarci, ma le sirene dell’ambulanza sembrarono coprire ogni cosa.

 
 
-Heike? Heike?- avevo riconosciuto la voce allarmata di Jenna De Vries anche prima di vederla sbucare oltre la tenda, nel pronto soccorso.

-Mamma, sto bene-

I coniugi De Vries, nonché i miei genitori, apparivano per la prima volta da che ricordassi chiaramente sconvolti. Li guardai entrambi e cercai di distendere le labbra in un sorriso.

Dopo che mi avevano ripulito dal sangue sul volto finalmente riuscivo a vederci nuovamente da tutte e due gli occhi, nonostante i quattro punti di sutura sul sopracciglio. Mia madre mi prese le mani e mi guardò con i suoi occhi scuri e pieni d’apprensione –Cos’è successo? Ti senti bene? Ti hanno fatto del male?-

Spostai lo sguardo verso mio padre e lui si sedette di fianco al letto, sulla sedia, allungando una mano per accarezzarmi un braccio. Raccontai quello che ricordavo, cioè molto poco, e sembrarono sconcertati.

-Com’è possibile che qualcuno sia entrato senza che Tom l’abbia visto? E perché poi ti hanno aggredito?-

-E’ una cosa orribile-

-Disgustosa-

-L’importante è che tu stia bene-

Mia madre e mio padre si alternavano ad ingiuriare contro il mio sconosciuto aggressore quando avvertii chiaramente la voce di Jackson oltre la tenda –E cosa aspettate allora? Controllatele quelle stramaledettisime costole-

Trattenni un sospiro –Jackson?- chiamai. Mio fratello sbucò oltre la tenda, seguito dall’infermiera bionda che aveva assistito il dottore nel mentre che mi ricucivano.

-Il prima possibile provvederemo a farle la lastra, signorina De Vries. Non ci vorrà molto. Il dolore è sopportabile?- parlò l’infermiera ignorando l’espressione torva di Jackson alle sue spalle.

Annuii –Si tratta solo di muovermi il meno possibile ma va bene- risposi calma. Ero stata aggredita nel mio appartamento eppure tutti sembravano più agitati di me, ed io ero turbata senza dubbio.

Non appena l’infermiera se ne andò, Jackson mi lanciò una lunga occhiata indagatrice ed io per la prima volta sentii scalfire il muro che avevo eretto per non piangere. Piangere mi avrebbe fatto senz’altro male, con tutti i singhiozzi derivanti. Restituì per un breve momento lo sguardo di mio fratello poi mi concentrai sul lenzuolo che mi copriva e la mise ospedaliera.

Ma a quanto pareva i visitatori non erano terminati. Qualcun altro entrò e quasi non mi sorpresi di vedere l’inseparabile amico di mio fratello: Sebastian Jenkins. I suoi occhi, a metà tra l’azzurro e il grigio, mi scrutarono oltre i miei genitori e mio fratello.

-Ehy- mi salutò quasi soffiando via l’aria dai polmoni.

-Ehy- risposi prima che Jackson mi si avvicinasse –Lo sapevo che dovevi restartene a casa con noi. Chi è stato? Descrivimelo nei minimi dettagli quello stron..-

-Jackson- lo riprese mia madre

-Quello stronzo mamma. Ed è la parola più gentile che potessi usare in tua presenza-

Mio fratello sembrava fuori di sé.

-Potreste smetterla di gridare?- mormorai io, guardandoli. Mia madre socchiuse gli occhi e poi guardò William –Andiamo a parlare con i dottori-. Si allontanarono in silenzio e io ripetei a mio fratello le stesse parole sull’aggressione che avevo detto poco prima ai nostri genitori.

L’impossibilità di calmare mio fratello dall’insultare, maledire e minacciare mi fece ben presto rinunciare a stare ad ascoltarlo.

Presi a giocherellare con un lembo del lenzuolo senza guardare nessuno dei due, nel tentativo di scaricare il mio nervosismo.

Io non avevo visto chi mi aveva aggredito ed ero stata così stupida, come aveva tenuto a ricordarmi Jackson, dal non guardare prima dallo spioncino. La polizia non mi aveva ancora interrogato e probabilmente, a meno che le videocamere del palazzo non avessero registrato qualcosa, ci sarebbe stato ben poco da fare.

Era chiaro che non era stata un’aggressione casuale e non potevo fare a meno di chiedermi perché o, soprattutto, chi.

-Vado a cercare di nuovo quell’infermiera. Non vorranno farti stare in eterno qui!-

Jackson scomparì come una furia oltre la tenda, rischiando quasi di scardinare i gancetti, e io mi trattenni ancora una volta dal sospirare profondamente. Era rimasto soltanto Sebastian che dopo quel saluto appena mormorato non aveva aggiunto nient’altro.

Aspettai qualche momento prima di guardarlo e lo trovai con le mani affondate nelle tasche dei jeans scuri e la testa volta verso la tenda. Come se avesse avvertito il mio sguardo tornò a guardarmi.

Non riuscivo a capire cosa gli passasse per la mente ma il fatto stesso che non mi stesse asfissiando con delle domande mi rincuorò. Ci guardammo in silenzio per qualche secondo poi venne a sedersi sulla sedia abbandonata da mio padre.

-Te l’avranno già chiesto un’infinità di volte ma sei sicura di stare bene?-

Mi parlò con tono calmo, basso. Affondai la testa nel cuscino e feci appena una smorfia quando il movimento sembrò ripercuotersi in tutto il corpo.

-Non mi piace quello che è successo- risposi. Diversamente da quanto avevo detto ai miei genitori stavo comunicando come mi sentissi davvero –Non mi piace per niente sentirmi così confusa e turbata-

Sebastian incrociò le braccia sul bordo  del mio letto –E’ comprensibile. Quello è un quartiere dove non accade mai niente ed è quantomeno strano che ti abbiano aggredita, Heike. Non hai proprio idea di chi possa essere e perché?-

Scossi appena la testa e ripresi a torturare il lenzuolo –Perché sei qui?- domandai poi. Lui non si scompose, rimanendo serio –Ero con Jackson in un locale del centro quando l’hanno chiamato-

-Stavate abbordando qualcuna?-

Colsi l’ombra di un sorriso increspargli le labbra –Jackson si stava dando da fare, sì-

-E tu? Non eri tenuto a rovinarti la serata- un attimo dopo aver fatto quella domanda avrei voluto rimangiarmela. Implicava che gli importasse di me.

-Io ci lavoro lì. Due volte a settimana, la sera. Perciò facevo solo da spettatore- mi rispose lui. Distesi le labbra in un sorriso e tornai a guardarlo. Anche lui accennava un sorriso ed io mi chiesi per la prima volta come potessi apparire in quel momento.

-E poi, Heike, l’unica cosa a rovinarmi la serata è stato sapere che ti avevano portato all’ospedale dopo che eri stata aggredita in casa tua. Sei la sorella di Jackson ed io sono suo amico, di conseguenza anche il tuo, no?-

Sebastian Jenkins mio amico? Ricordavo bene cosa avevo pensato di lui la prima volta che l’avevo visto.

-Sì, suppongo di sì-

Ma ricordavo bene anche cosa avevo pensato di lui dopo. Rimanemmo in silenzio e poi fui io a fargli una domanda –Sebastian?-

-Mhm?-

-Quando andremo via di qui, mi accompagneresti al mio appartamento? Sono sicura che la mia famiglia non mi lascerebbe un attimo in pace e io vorrei riuscire a stare calma-

Lui mi guardò senza che, ancora una volta, riuscissi a capire cosa stesse pensando –Sei sicura di voler tornare lì?-

Io annuii e lui fece un cenno del capo –Se è quello che vuoi ti accompagnerò ma non sono sicuro che Jackson sarà d’accordo che ritorni lì e nemmeno io-

-Lo farai, Seb?- chiesi conferma e lui annuì, guardandomi.



 
Angolo Autrice
Buon anno nuovo carissime! <3 Grazie di essere qui a leggere questo nuovo capitolo del nuovo anno xD Ringrazio crazy99 e nuvoletta14 che hanno inserito la storia tra le preferite; Lacoeur che l’ha inserita tra le ricordate e Eli12, et239 e Be_My_Friend che l’hanno inserita tra le seguite. Che ne dite di lasciarmi un’opinione? Giuro che non mordo, anzi, mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate. Un bacione e alla prossima,

Raya_Cap_Fee

 
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***





 
 
 
Capitolo 11



 
Riuscii ad uscire dal pronto soccorso soltanto alle tre del mattimo. La polizia aveva raccolto la mia dichiarazione ed era stata fatta una denuncia a carico d’ignoti. Il mio appartamento era stato controllato e i nastri delle videocamere presi in consegna. Non c’era altro da fare se non aspettare qualcosa.

Io, d’altro canto, me l’ero cavata con quattro punti di sutura sul sopracciglio e una lieve incrinazione della costola fluttuante, perciò era previsto riposo. Avevo dovuto litigare con la mia famiglia per ritornare nel mio appartamento e Sebastian, costretto quasi ad appoggiarmi, si era sorbito senza battere ciglio le minacce poco velate di mio fratello. La capacità di Jenkins a rimanere calmo mi faceva intuire che era abituato a quegli sbalzi d’umore di Jackson.

Tuttavia, quando fui sola in macchina con lui, mi scusai.

Lui sorrise appena e scrollò le spalle –Figurati, Heike. Tuo fratello ha tutto il diritto di essere paranoico, specie se ti hanno aggredito appena sei ore fa-

Mi allacciai la cintura di sicurezza, facendo attenzione ai movimenti bruschi e poi mi volsi verso Sebastian con la testa.

-E’ per questo che piomberà nel mio appartamento tra un paio d’ore, no?-

-Molto probabilmente sì-

-Non riesco mai ad arrabbiarmi davvero con lui- ammisi scuotendo appena la testa. Lui sorrise ancora e mi lanciò un’occhiata –Tra fratelli funziona così-

Rimasi in silenzio per un po’ a guardarlo guidare nella città mai davvero addormentata. Sebastian Jenkins, nella sua schiettezza, mi risultava sempre più facile da accettare e mi ricordava sempre meno Jackson, il che era senz’altro a suo favore.

-Tu hai fratelli o sorelle?- domandai. Sapevo veramente poco di lui nonostante fosse il migliore amico di mio fratello. Anche se ero a conoscenza di alcuni dettagli imbarazzanti che aveva ammesso lui stesso, la prima volta che l’avevo visto.

- Tre sorellastre e due fratellastri ma sono tutti al di sotto dei dodici anni e vivono a chilometri da qui perciò non conta essere il maggiore-

Compresi la situazione molto prima che lui continuasse a parlare.

-I miei hanno divorziato quando avevo dieci anni. Sono cresciuto con mia madre, in Florida mentre mio padre si è trasferito a Rio con la sua nuova famiglia-

Mi ero sempre ritenuta fortunata ad avere una famiglia tutta intera.

-Quindi non sei di Chicago- constatai mentre eravamo fermi ad un semaforo. Sebastian si voltò verso di me –Vivo qui da quando ho finito il liceo. Mia nonna ha un appartamento poco lontano dalla UIC-

-E tua madre?-

-Lei è in Florida con il suo nuovo marito- rispose tranquillo. Non sembrava turbato né sembrava covare del rancore.

-Insomma hai una famiglia sparsa per il continente-

-Diciamo di sì-

Inclinai appena la testa e osservai il suo profilo –E ti sta bene?-

-Sì. Non ero un bambino stupido, sapevo che tra loro due non funzionava per cui non ne ho mai fatto una colpa a nessuno dei due per la separazione. Le cose della vita vanno così, a volte-

Mi ritrovai a distendere le labbra in un sorriso –Almeno sei cresciuto bene-. Lui accennò una risata nel mentre che parcheggiava al lato del marciapiede, davanti al palazzo in cui abitavo da appena un mese.

-Stai forse ritrattando il tuo trovarmi disgustoso, Heike?- mi chiese divertito e io inarcai un sopracciglio –Non dubito che sia qualcosa di disgustoso in alcuni tuoi trascorsi- ribattei nello stesso tono.

-Ci avevo quasi sperato- scoccò la lingua sotto il palato, poi si voltò verso il portone e divenne improvvisamente serio –Sei sicura di non voler andare dai tuoi genitori?-

-Sicurissima-


 
Sebastian mi aiutò a scendere dalla macchina ed io nella tuta che mia madre mi aveva procurato mi sentii appena a disagio. Solitamente, a parte le ore che trascorrevo fuori casa, non m’importava del mio abbigliamento ma quella mattina dovevo avere sicuramente un aspetto pietoso.

-Signorina!- la voce sorpresa di Tom, il portinaio, mi distolse dai miei pensieri e mi fermai, Sebastian al fianco, appena varcato l’ingresso. Era davvero impossibile entrare lì dentro senza essere visti da lui. Sembrava notare anche l’entrata di uno scarafaggio.

-Che cosa ci fai qui?- continuò l’anziano aggirando la sua scrivania per avvicinarsi a noi. In quel mese di conoscenza ormai aveva imparato a darmi del tu. Stirai appena le labbra in un sorriso imbarazzato –Torno a casa, Tom. Ormai quel che è successo…è successo- scrollai le spalle.
Mossa sbagliata.

La costola protestò e feci un’evidente smorfia di dolore. Sebastian si chinò appena verso di me –C’è qualcosa che non va?-

Scossi la testa, riprendendo fiato -E’ solo la costola-. Tom mi prese le mani tra le sue e mi guardò preoccupato –Vedrai che la polizia lo prende quel bastardo. Mi sento così in colpa e se…se ti avessero fatto qualcosa di più grave…- si interruppe con il tono di voce smorzato dal rammarico.

Un leggero brivido mi percorse la schiena.

-Non è colpa tua, Tom-

-In tutti questi anni non è mai successo niente di simile…-

-Non è colpa tua- ripetei sincera. E non era nemmeno mia.
 


Quando riuscii a convincere Tom a ridarmi la chiave del mio appartamento guardai le scale con aria preoccupata. Avevo dimenticato il dettaglio della mancanza di un ascensore.

-Vuoi che ti porti in braccio?- mormorò Sebastian, appena dietro di me. Sorrisi quasi divertita e mi voltai piano a guardarlo. La sua espressione seria mi fece intuire che non stava scherzando e lo guardai stupita –Sei pazzo? No, davvero. Ce la faccio, Seb- risposi per poi corregermi in fretta –Sebastian-

Lui mi affiancò e sollevai appena gli occhi verso il suo volto –Non peserai più di sessanta chili- mi squadrò rapido.

Mi morsi appena l’interno della guancia –Cinquantaquattro-

Lui inarcò le sopracciglia bione e poi un sorriso gli increspò le labbra –Forse dovresti mangiare di più, Heike-

Non mi venne nemmeno da irritarmi visto che ero concentrata a pensare quanto fosse incredibilmente carino con i capelli perennemente in disordine.

-Heike?-

Forse dovevo accettare di essere presa in braccio da lui. Strinsi le palpebre e mi diedi della stupida. Che cavolo andavo a pensare? Io non avevo tempo per simili sciocchezze da film romantici.

-No. Ce la faccio da sola- ribattei in tono secco. Lui sembrò spiazzato per un momento ma io mi aggrappai al corrimano e cominciai a salire un gradino alla volta, torturandomi con i denti il labbro inferiore, senza badargli.


 
Sebastian mi seguiva in silenzio, rimanendo un gradino dietro di me, non accennando a toccarmi e nemmeno a parlare. Non sapevo se fosse risentito per il tono che avevo usato poco prima.

-Chissenefrega…- rantolai quasi mugugnando tra me e me.

-Hai detto qualcosa?- ribattè lui salendo due gradini con un solo passo. Incrociai i suoi occhi –Parlavo tra me e me…-

-Sei bianca come un cencio, Heike- aggrottò la fronte e mi si parò davanti, bloccandomi dall’avanzare di un altro gradino.

Fermarmi mi fece bene in realtà, il dolore stava diventando più forte. Socchiusi gli occhi.

-Non svenire per le scale eh-

-Non sto per svenire-

-Hai comunque una bruttissima cera. Ora ti lasci prendere in braccio senza proteste oppure lo dirò a Jake-

Il suo tono mi indusse a tornare a guardarlo –Usi mio fratello per minacciarmi?-

Lui mi si avvicinò e un braccio mi circondò la vita, prima che protestare lui mormorò qualcos’altro –Non voglio che tu ti faccia male di nuovo perciò metti da parte il tuo super ego e lasciami essere gentile con te-

Averlo così vicino mi fece sentire a disagio ma non dissi niente, più che altro non ne trovai assolutamente motivo. Mi limitai ad annuire piano e lui allora lo fece.

Io tra le braccia di Sebastian Jenkins. Mi concentrai sulle mie unghie, sulle pareti, sugli scalini, tutto che non fosse Sebastian. Perché era decisamente imbarazzante per me, trovarmi così. Quando vidi la porta dell’appartamento fui tentata di essere sollevata ma poi ripensai a quello che era successo poche ore prima.

Chi? La domanda mi rimbalzava nella testa senza trovare nulla. Non avevo incontrato nessuno a parte i miei colleghi, Cassandra e Jackson con la sua solita compagnia di amici.

-Ecco qui- disse Sebastian, fermandosi. Aveva il respiro irregolare per lo sforzo e io sollevai lo sguardo rendendomi subito conto di quanto fosse sbagliato. Troppo vicino.

-Grazie- soffiai. I suoi occhi sembravano più scuri da vicino –Sei stato fin troppo gentile-

Tornai a poggiare i piedi per terra –Puoi ritornare a trovarmi disgustoso adesso- disse divertito. Io gli davo le spalle, recuperando dalla tasca della tuta la chiave.

-Mi riesce difficile ora come ora-

Mi bloccai subito dopo. L’avevo detto davvero? Spalancai gli occhi –L’unica cosa a cui sto pensando è quella di dormire- cercai di rimediare. L’angolo destro della bocca mi tremò, come sempre quando mentivo, ma fortunatamente Sebastian non mi vide.

Infilai la chiave nella toppa e aprii la porta, fermandomi sull’uscio. Il tappeto sul quale avevo sanguinato era arrotolato e riposto al lato dell’ingresso, il parquet era stato ripulito visto il profumo di prodotto per legnoche mi raggiunse le narici. Le luci erano rimaste accese, probabilmente la polizia e Tom avevano pensato che fosse meglio così. Sentii Sebastian dietro di me –Heike…- era di nuovo serio.

-Va tutto bene. Va…tutto bene-

E l’angolo della bocca tremò di nuovo.



 
Angolo Autrice

Eccomi qui con il capitolo 11. Non avete dovuto aspettare poi molto eh? Spero ne siate contente. Il prossimo capitolo riprenderà da qui, dove si interrompe per cui Sebastian sarà ancora presente. Ringrazio chi mi lascia sempre recensioni <3 Inoltre ringrazio BluePunkChic e mimi_cullen che hanno inserito la storia tra le preferite, Rose6 per la recensione e per aver inserito la storia tra le ricordate  e infine vallinda, ninfa666, shekkosa, vitadiunalettrice, sax77 e di nuovo mimi_cullen. Se vi va fatemi sapere che pensate.


 
Raya_Cap_Fee
 

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