Assasin's creed: Red Star

di Goran Zukic
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il cervo (prologo) ***
Capitolo 2: *** Voci nella notte ***
Capitolo 3: *** Dasvidania ***
Capitolo 4: *** Risposte d'acciaio ***
Capitolo 5: *** Guerra e Pace ***



Capitolo 1
*** Il cervo (prologo) ***


1911: Boschi nei dintorni di Omsk, Oblast di Omsk, Siberia

Sentì un rumore, pochi metri davanti a lei, oltre un gruppo di alberi. Si mosse lentamente, cercando di fare il minimo rumore.
La neve non la aiutava, la notte prima era arrivata una forte perturbazione da nord che aveva portato il freddo e con il gelo la neve; quella mattina intorno alla loro casa ogni albero, ogni prato, ogni fiume era bianco o gelato. Arrancando nella neve, che le arrivava alla vita, si nascose dietro un albero e sporse di lato la testa per vedere cosa aveva prodotto quel rumore.
Si alzò la frangia, che ormai le arrivava quasi agli occhi, con la mano e non credette a quello che vide.
Poco sotto di lei, ai piedi di un piccolo pendio c’era un cervo che cercava di rompere il ghiaccio per liberare un po’ di erba. Era grande, il più grande cervo siberiano che avesse mai visto, aveva un palco di corna enorme e un manto marrone chiaro.
Aveva già visto dei cervi, quando aveva sei anni, suo padre l’aveva portato oltre i confini dei boschi, oltre le colline e lì, nelle immense praterie avevano visto un intero branco, che pascolava, ma nessun cervo era paragonabile a quello che aveva sotto gli occhi.
Aveva l’adrenalina a mille, sentiva il cuore batterle all’impazzata sotto il cappotto di lana, riusciva a guardare negli occhi l’animale, come se il cervo ricambiasse lo sguardo e la stesse sfidando. Impugnò il fucile e puntò l'animale.
  “Cosa ti ho detto?” chiese una voce alle sue spalle. Il cervo, udita la voce, corse via, nella neve. Nadia ora era ferma immobile, la bocca aperta in un misto di sorpresa e delusione, non poteva credere di aver perso quel cervo, chi le aveva fatto perdere il cervo. Si girò con le sopracciglia aggrottate, i suoi occhi marroni sprizzavano odio, ma come all’improvviso il suo viso mutò e sulla sua faccia ora c’erano solo imbarazzo e una leggera linea di paura, nascose il fucile da caccia dietro la schiena e iniziò a sospirare.
Davanti a lei c’era un uomo, alto e massiccio, che la guardava dall’alto al basso con sguardo severo e serio.
“Che ti ho detto Nadia?” chiese ancora l’uomo.
Lei lo guardò con occhi dispiaciuti e rispose: “Papà, io…mi dispiace”
“Ti ho detto mille volte che non lo devi toccare” disse lui togliendole il fucile dalle mani. “Che sia l’ultima volta”
Nadia annuì con gli occhi bassi, era imbarazzata e delusa per la caccia mal riuscita e anche per aver deluso un’altra volta suo padre.
Lui la guardò e il suo volto si rilassò, mostrando compassione e un pizzico di soddisfazione.
“Non andrà lontano con questa neve” le disse lui sorridendole.
Lei alzò lo sguardo e ricambiò il sorriso, mordendosi il labbro. Quando aveva otto anni suo padre la aveva insegnato a cacciare, l’aveva portata nei boschi e le aveva insegnato ogni cosa sulla caccia. Le disse come riconoscere i funghi buoni da quelli velenosi, come costruire trappole per catturare le lepri, aveva persino imparato a salire sugli alberi e a tagliare la legna; solo una cosa non le aveva insegnato.
Un giorno trovò il fucile, un vecchio fucile risalente al secolo prima, più volte aveva visto il padre tornare la sera con quell’aggeggio in spalla e, mossa dalla curiosità lo aveva preso. Il padre la trovò mentre ci giocava e la fermò appena in tempo, le diede una bella sgridata e la mise in punizione.
Ovviamente questo non bastò per fermarla, era fatta così Nadia: curiosa, testarda e amante del pericolo, lo prese più volte e imparò a usarlo, anche grazie al fratello Sergey che le insegnò, in cambio della cena e della pulizia della loro camera per un mese.
Andava a fare pratica oltre i confini dei loro boschi, oltre il fiume, da un vecchio amico di suo padre di nome Alexandr, che lei chiamava semplicemente “Zio”. Era un uomo vecchio, che per vivere faceva il pescatore, ma che molto volentieri insegnò a Nadia tutto su come usare il fucile; era il loro piccolo segreto.
Le insegnò come impugnarlo, come sconfiggere il rinculo e infine come sparare. Poco dopo uccise la sua prima preda, una volpe rossa, che vendette a Omsk, un giorno in cui accompagnò il padre in città, ricevendo denaro, una piccola fortuna che nascose sotto il materasso.
Il padre si incamminò giù per il piccolo pendio e Nadia si accinse a seguirlo, ma venne tirata indietro per il cappuccio. “Lascia lavorare i grandi, nana” le disse il fratello scompigliandole i capelli.
Lei lo gelò con lo sguardo irritata e disse: “Sei il solito idiota”
“Ti voglio bene anch’io” rispose lui sorridendole seguendo il padre.
Fece qualche passo nella neve, attraverso il passaggio aperto dal padre e scese il pendio.
Suo padre era un formidabile cacciatore, sapeva seguire le tracce come nessun altro e prima che morisse sua moglie lo faceva di professione, per conto del sindaco di Omsk. Conosceva tutte le piante e le erbe delle zone limitrofe, conosceva tutte le specie animali e tutte le tracce che potevano lasciare ed era considerato il più grande cacciatore di tutta la Siberia.
Quando era giovane aveva partecipato a battute di caccia alla tigre, nelle zone più lontane della Russia e raccontava ai figli di come era arrivato faccia a faccia con una enorme tigre bianca e di come l’aveva lasciata andare dopo un lungo incontro tra occhi.
All’improvviso il padre fermò il passo, proprio mentre si apriva un piccolo spiazzo innevato aperto, davanti a loro. Nadia e Sergey rimasero a guardare in silenzio. Il cervo era qualche decina di metri davanti a loro, fermo in mezzo alla neve.
“Ora, guardate con attenzione” disse lui e impugnò l’arma.
Si sentì un forte sparo, alcuni uccelli volarono via dalle cime degli alberi e il cervo cadde a terra morto. Nadia era esterrefatta, non riusciva a credere che fosse ancora in grado di un tiro del genere.
“Vieni con me Sergey, aiutami a portarlo su per la collina” disse il padre al ragazzo “Nadia, tu vai a casa, prendi della legna e accendi il fuoco”
Lo guardò un po’ delusa, ma non disse niente, era già bello che suo padre non si fosse arrabbiato troppo per la questione del fucile.
“Perché sei piccola” le disse il fratello, abbastanza piano per non farsi sentire dal padre.
“Gna gna gna” canzonò lei arricciando il naso.

Era Dicembre, l'inverno stava arrivando.  
 

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Capitolo 2
*** Voci nella notte ***


Voci nella notte

La tormenta infuriava. Il vento batteva violentemente contro i muri in legno e gli spifferi entravano da sotto la porta.
All’interno però si stava bene grazie al camino, che era acceso ed emanava una grande quantità di calore. Nadia era seduta per terra, avvolta nella sua coperta rossa di lana di yak e beveva il thè alle erbe che le aveva preparato suo padre.
Quella sera avevano mangiato come dei re: la carne di cervo era un prelibatezza che solo pochi potevano permettersi.
Si raccontava che lo zar nella sua tenuta estiva avesse un intero parco pieno di cervi, cinghiali e altri animali e che lui personalmente li cacciava e se ne cibava il giorno stesso, con tutta la famiglia.
Lo zar...
Nadia non aveva mai visto lo zar Nicola e di lui sapeva pochissimo, solo qualche parola o frase origliata a Omsk, nelle rare occasioni in cui il padre la portava in città.
Lei si era sempre immaginata lo zar come un re immenso, potente e incredibilmente cavalleresco, la moglie come una stupenda regina, vestita di abiti splendidi e luccicanti, le principesse come delle bellissime ragazze, nobili d’animo e gioiose. Diciamo che l’aveva sempre affascinata la famiglia Romanov, sin da quando era piccola, ma non ebbe mai l’occasione di conoscerla di persona.
Suo padre non parlava mai dello zar, anzi non le parlava affatto di nulla al di fuori della loro casa e dei loro boschi. Certe volte aveva provato a fargli delle domande su Mosca, San Pietroburgo, ma il padre non aveva dato grandi risposte, aveva risposto vago, per poi cambiare argomento. Da un po’ di tempo non aveva più provato a chiedere, amava vedere le cose come le immaginava: cupole d’oro che svettano nel cielo, palazzi sfarzosi dove si organizzano balli tra dame e principi, paesaggi da favola accompagnati da musica di violini e flauti.
Anche in città il padre la portava di rado. Odiava andare in città, ma se volevano sopravvivere doveva andare in città per vendere qualche pelliccia di volpe o donnola e guadagnare qualche soldo per le provviste invernali e i vestiti.
Certe volte lasciava che Nadia venisse con lui, ma di rado, solo quando lei era particolarmente insistente. La prima volta che giunse a Omsk rimase affascinata dalle cupole della cattedrale di San Filippo e dai vestiti sfarzosi delle dame e dei signori che camminavano per le strade.
Lei ,vestita di un vecchio vestito rattoppato e con degli scarponi da montagna in cuoio, non si rispecchiava in quel mondo e questo la metteva un po’ in imbarazzo, ma non c’erano solo ricche dame e sfarzose cattedrali in città.
Ad ogni angolo c’era un mendicante che invocava qualche spicciolo, sporco, magro, nella povertà più assoluta, centinaia di persone che facevano l’elemosina o rubavano.
Lei non sapeva la causa di questa diversità, ma questo incontro l’aveva segnata nella mente e non si era mai dimenticata della miseria che si nascondeva dietro allo sfarzo e al lusso.
“Chi è Lenin papa?” chiese Nadia d’un tratto girandosi verso il padre, che stava bevendo al tavolo un bicchiere della sua vodka preferita, quella che prendeva in città ogni mese.
Lui alzò lo sguardo e spalancò gli occhi, come spaventato da quello che la figlia gli aveva chiesto.
“Come conosci quel nome?” chiese lui.
“In città ho sentito degli uomini parlarne…non ho capito a cosa riferissero, ma elogiavano questo Lenin. Chi è papà?”
Lui si alzò dallo sgabello di legno e le disse: “Quel nome non può entrare in questa casa”
“Come il nome dello zar?” chiese lei.
“Sì, proprio così” rispose lui, facendole intendere che non voleva ne avrebbe voluto parlare di lui in seguito.
Nadia si lasciò andare annoiata a terra, sapeva che suo padre sapeva, ma non sapeva perché non volesse parlarne.
Si sentì all’improvviso un forte colpo di vento e la porta cadde a terra con un tonfo. Entrarono gli spifferi e la neve invase la casa, ricomprendo di bianco l’ingresso.
Sergey, che stava leggendo un libro sdraiato sul letto, corse giù e aiutò il padre a fermare la neve. Nadia, si mise il cappotto di lana sopra il maglione rosso e si accinse ad aiutarli, ma all’improvviso udì una voce.
Non sapeva da dove venisse, ma la percepiva nella sua testa come un suono che si ripeteva nelle sue orecchie. Ebbe una fitta alla testa e chiuse gli occhi. All’improvviso il rumore del vento, della neve, della tormenta si attenuò e sentiva solo quella voce, che non era più un brusio lontano e profondo. “Aiuto! Aiuto!” diceva la voce.
Aprì gli occhi e intorno a lei tutto era sfuocato, non riconosceva bene ciò che le stava intorno, ma d’istinto si mise gli scarponi e corse fuori, nella furia della tormenta.
La neve era alta, ma riusciva a correre, nonostante il vento che le faceva sbattere la frangia di qua e di là. La voce si intensificò di volume, e si fermò nel mezzo della foresta per sentire da che punto proveniva.
Girò su sé stessa e vide poco distante da lei un uomo, quasi coperto dalla neve, immobile. Corse attraverso gli alberi e lo raggiunse.
Era congelato: le labbra erano viola e piene di tagli, le orecchie erano talmente congelate che sanguinavano, i baffi folti e neri erano pieni di ghiaccio e tutte le sue membra tremavano insistentemente.
“Sergey! Papà!” urlò lei, ma ricevette solo la risposta del vento.
Allora cercò di tirare il corpo dell’uomo fuori dalla neve che era debole, ma ancora vivo, ma era troppo pesante per lei.
“Aiuto!” urlò lei di nuovo.
Sentì dei passi nella neve e proprio davanti a lei arrivò Alexandr, con in mano una lampada a olio. Dietro di lui c’era Sergey, che tremava dal freddo.
“C’è un uomo…è vivo…io…non” disse lei con il fiatone.
“Ci pensiamo noi, ora torna a casa” le disse Alexandr prendendo in spalla l’uomo.

Nadia si inginocchiò nella neve, non sapeva come, non sapeva perché, ma qualcosa dentro di lei era successo, qualcosa di nuovo, o almeno così pensava.

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Capitolo 3
*** Dasvidania ***


Dasvidania

Aprì gli occhi e subito sentì un brivido di freddo percorrerle la schiena.
Era sdraiata a terra e sentiva sotto di lei la terra e l’erba. Con le mani sfiorò i ciuffi di erba verde che le stavano intorno e si mise seduta. Era in un prato, un prato pieno di fiori, circondato da un alta e impenetrabile foresta di abeti.
Osservò il paesaggio estivo intorno a lei, il sole era appena sorto e il cielo era di un azzurro rosato.
Sentì degli uccelli cinguettare e ascoltò in silenzio. All’improvviso sentì però un rumore, un rumore diverso, come un sibilo, lontano, quasi impercettibile, ma fastidioso. Il rumore aumentò e dovette tapparsi le orecchie dal dolore, poi tutto divenne bianco.

Si svegliò ed era nel suo letto, nessun albero, nessun fiore, nessun rumore fastidioso, niente del posto dov’era prima.
“Solo un sogno” pensò lei e scese dal letto, con qualche sbadiglio di stanchezza.
Un timido sole penetrò da un buco nel muro e le arrivò negli occhi svegliandola definitivamente. Camminò lungo la sua piccola stanza, facendo attenzione a non svegliare Sergey, che russava nel suo letto, coperto come al solito da ben due coperte di lana.
Si avvicinò alla porta, allungò la mano per aprirla, ma rimase nascosta dietro di essa, qualcosa aveva colto la sua attenzione.
“Ah andiamo Marat!” esclamò qualcuno nella stanza adiacente “Sei vissuto in esilio per troppo tempo…l’ordine ha bisogno di te”
“Boris lo sai, te l’ho detto dopo quel giorno e te lo ripeto ora, non sono più un assassino”
Questa era la voce di suo padre, forte, chiara, come mai l’aveva sentita, ma di cosa parlavano? Assassino? Ordine? Nadia non capiva, non sapeva, ma rimase in silenzio ad ascoltare.
“Marat, ciò che è passato è passato. Lo so che per te è stata molto più dura che per gli altri, ma penso tu sappia cosa sta accadendo là fuori…capisci perché abbiamo bisogno di tutti” disse ancora lo sconosciuto.
Nadia aprì leggermente la porta senza farla scricchiolare, in modo da vedere con chi suo padre stava parlando.
“Mi prenderei io cura dei tuoi figli, sono vecchio per combattere, ma sono stato un assassino, so crescere dei giovani ragazzi” disse un'altra voce, che riconobbe essere quella di Alexandr.
Nadia guardò con cautela dentro la sala e vide tra uomini: suo padre al centro, in piedi, con la bottiglia di vodka stretta nella mano destra, a sinistra c’era un uomo seduto su una sedia, aveva i capelli corti e neri, era robusto e aveva un bel paio di baffi neri.
Nadia lo riconobbe, era l’uomo che la notte prima aveva salvato, vestito di un mantello nero di lana.
A destra invece c’era Alexandr, ma non era lo stesso Alexandr, non aveva la barba lunga e bianca di sempre, i capelli erano più corti e non lunghi e spettinati come a solito.
“E così ti hanno mandato qui per sorvegliarmi?” chiese suo padre con un tono nervoso ad Alexandr.
“Proteggerti Marat, Proteggere Nadia e Sergey. Ci sono spie ovunque” rispose Alexandr.
Ci fu un attimo di silenzio poi l’uomo con i baffi disse: “Non puoi stare lontano dal mondo o sarà il mondo a trovarla e ti farà male Marat”
Suo padre allora lanciò a terra la vodka che andò in mille pezzi a terra e disse alzando la voce: “No! Non potete chiedermi una cosa simile? Dopo quello che è successo, ho giurato che non sarei tornato e non tornerò!”
“E così hai creato questo mondo immaginario per te e per i tuoi figli. Dimmi, Marat, sa scrivere Nadia, Nadia sa scrivere? Nadia sa leggere? Nadia sa come è morta Alija?” chiese allora l’uomo alzandosi dalla sedia.
“Non pronunciare quel nome!” replicò Marat urlando.
Alexandr si intromise tra i due evitando che si prendessero a botte. Ci fu un attimo di silenzio, in cui sia Marat che Boris guardavano in basso, senza fissarsi.
“Mi dispiace…non avrei dovuto” disse Boris con tono rammaricato.
Marat lo guardò e chiese: “Sapevi che non avrei accettato, sei qui per un altro motivo vero?”
L’uomo lo osservò nervosamente e gli rispose: “Penso ti sarai reso conto che Nadia non è una bambina come le altre…ha i tuoi geni Marat, ma come poi negarle un futuro, nasconderla al mondo”
“Voglio nasconderla da quello che c’è la fuori, non voglio le succeda quello che è successo a sua madre” replicò Marat scuotendo il capo.
“Non voglio farla diventare un’assassina, solo offrirle un educazione, imparerà a leggere, a scrivere, conoscerà gli scritti di Tolstoj, le opere di Tchaikovsly. Solo lei deciderà se far parte dell’ordine o continuare la sua vita per conto suo. Marat…i templari sono tornati”
Marat alzò gli occhi al cielo, guardò Alexandr e gli disse: “L’ho sempre saputo che le insegnavi a sparare, non ti ho fermato, perché avrei dovuto insegnarle io”
Poi si voltò e fissò Boris negli occhi. “Sarà lei a decidere, solo lei” disse con una lacrima che gli scese sulla guancia.
Nadia era impietrita dalla confusione e dalla sorpresa. Non aveva capito nulla del discorso e non sapeva come il padre conosceva l’uomo con i baffi, non sapeva cosa centrava lei nei loro discorsi e soprattutto non sapeva cosa c’entrava sua madre Alija.
Boris annuì e fece per abbracciare Marat che però si sposto per evitarlo.
“Sai dove trovarmi, parto questa sera alle sei dalla stazione, direzione Mosca. Dasvidania compagno, dì grazie a Nadia da parte mia per avermi salvato la vita” E detto questo uscì dalla casa, dopo aver salutato Alexandr.
“E’ molto generoso quello che hai fatto, sono fiero di quello che sei diventato” disse Alexandr.
“Sono passati i tempi in cui mi insegnasti come impugnare un fucile e ora Nadia prenderà il mio posto, sta crescendo ed è giunto il momento che la lasci libera di vivere come meglio crede” disse allora Marat con un leggero tono di tristezza.
Alexandr gli mise una mano sulla spalla e gli sorrise, poi si girò e uscì anche lui.
Nadia continuava a guardare la scena, ma venne interrotta da Sergey che sceso dal letto le chiese: “Che stai facendo?”
Nadia saltò in aria dallo spavento e sfiorò la porta che scricchiolò. Guardò il fratello male e poi sentì la voce del padre dal salotto.
“Hai sentito tutto vero?”
Nadia uscì dal suo nascondiglio, con gli occhi bassi, nella sua camicia da notte bianca, e annuì. “Mi dispiace, per averti nascosto tutto questo. Ti sembrerà strano, sono successe molte cose in pochi giorni e tu…solo ora capisco che stai crescendo e mi rendo conto di quanto tu sia speciale” le disse lui.
Nadia lo guardò negli occhi, con i suoi grandi occhi marroni e pianse. Le scesero delle lacrime che le rigarono il viso, ma non riusciva a trattenerle, era felice, erano lacrime di gioia. Corse incontro al padre e lo abbracciò.
“Non voglio farti domande…sono felice, le risposte verranno da sé” disse lei.
“Vuoi andare a Mosca?” le chiesi lui senza sciogliere l’abbraccio.
Nadia e Marat si guardarono negli occhi intensamente.
“Hai gli occhi di tua madre” le disse lui.
Lei sorrise e annuì con un po’ di imbarazzo.
“Sono fiero di come sei diventata”
“E’ merito tuo se sono così, solo tuo” gli disse lei.
Nadia si alzò e disse: “Vado a preparare le mie cose” Il padre annuì e la lasciò andare.
Sergey lo guardava, appoggiato alla porta della camera da letto con un sorriso e uno sguardo indagatore.
“Poi mi spieghi vero?” chiese lui.
Marat sorrise e poi rispose: “Niente di più di quello che non sai già…Nadia andrà a Mosca a farsi una cultura”
“Solo?” chiese allora lui.
Marat fece un sospiro profondo, guardò Nadia che stava preparando dei vestiti e rispose: “Non credo”

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Capitolo 4
*** Risposte d'acciaio ***


Risposte d'acciaio

Il treno viaggiava veloce tra le immense e sterminate steppe della Siberia Occidentale. Omsk era ormai alle loro spalle, anche se le cupole della cattedrale si vedevano ancora, in lontananza, scintillare nella notte scura.
Nadia non era mai salita su un treno, ne mai aveva pensato che esistesse un treno capace di percorrere tutta la Russia, da Mosca a Vladivostok, l’ultima città russa.
La ferrovia Transiberiana era il più grande ferrovia esistente, presentata nel 1900, all’esposizione universale di Parigi, e terminata nel 1905, collegava le maggiori città dell’impero e Omsk era una delle più importanti.
Non era riuscita a trattenere le lacrime quando dovette salutare suo padre e suo fratello. L’avevano accompagnata alla stazione, per passare ogni secondo possibile insieme e l’avevano affidata a Boris.
Faceva freddo, molto freddo, Nadia era avvolta nel suo cappotto pesante, che le arrivava sotto le ginocchia e il cappello di lana di suo fratello le continuava a cadere sopra gli occhi.
“Almeno non ti si vede quell’orribile frangia. Tagliati i capelli a Mosca mi raccomando” le aveva detto Sergey, scherzando, tentando di nascondere un po’ la tristezza.
Lei lo aveva abbracciato come mai aveva fatto e le erano scese delle lacrime.
Poi aveva abbracciato suo padre: tra le sue braccia il freddo sembrava allontanarsi e le sembrava come quando la prendeva in braccio per portarla le prime volte nei boschi, o per cullarla quando aveva la febbre.
“Sei con l’uomo di cui più mi fido” le aveva detto lui vedendola molto nervosa per la partenza “Io e lui siamo stati grandi amici in passato e non ti succederà niente di male con lui, ha giurato di proteggerti”
Le aveva dato un po’ di coraggio, ma erano rimaste la tristezza e le lacrime.
Si era sentito un fischio che segnalava l’imminente partenza del treno. Aveva guardato un’ultima volta i suoi familiari, ma questa volta senza piangere, sapeva che non li avrebbe più visti per molto tempo, ma sapeva anche non li avrebbe dimenticati e che sarebbero stati sempre con lei.
Poi il treno era partito e con il treno si erano allontanati sempre di più, per poi scomparire nella nebbia gelata.
Boris l’aveva ringraziata per avergli salvato la vita e si era presentato.
Si chiamava Borislav Klimenko e non era un uomo molto socievole o almeno non lo sembrava. Era molto impacciato quando cercava di attaccare discorso con Nadia e la prima parte del viaggio fu abbastanza silenziosa, anche se fu piacevole per Nadia dato che poteva osservare gli altri passeggeri della carrozza.
Amava guardare le persone, leggere i loro sguardi, cercare di capirli, era un passatempo che adorava e che più volte le aveva riempito le giornate in città.
Due posti davanti a lei c’era un uomo che leggeva il giornale, un giornale che non aveva mai visto, intitolato Pravda, aveva un colbacco grigio in testa e indossava un cappotto pesante ed aveva ,come Boris, un bel paio di baffi neri.
Dall’altra parte della carrozza c’erano due coniugi che litigavano, erano borghesi e la moglie insultava il marito perché non aveva comprato i biglietti per la prima classe.
Dietro di loro c’era un giovane uomo con un grande cappello nero che fumava il sigaro e proprio in fondo alla carrozza un altro uomo, pelato e con degli occhiali sottili, che leggeva un libro.
All’improvviso Boris interruppe i suoi pensieri dicendole: “Penso che avrai molte domande, la notte sta scendendo in fretta”
La sua voce era un po’ rauca, ma forte e risoluta.
Nadia, come uscita da un sogno, annuì e i due si guardarono per la prima volta negli occhi.
Boris si mise in ascolto, pronto a rispondere alle domande di Nadia.
Nadia non sapeva da dove cominciare, ma le venne in mente una domanda, alla quale non aveva ancora avuto risposta.
“Chi è Lenin?”
Boris rimase colpito da questa domanda e non sapeva da dove cominciare per risponderle, per comprendere Lenin avrebbe dovuto spiegarle tutto quello che stava succedendo in Russia e non pensava che sarebbe stata pronta per conoscere tali informazioni.
“Vedi Lenin è…ecco…Lenin è…” ma venne interrotto da una voce, una voce forte e di basso tono.
“E’ un grand’uomo” disse l’uomo due sedili davanti a loro, che aveva posato il giornale e si era avvicinato a loro.
Nadia e Boris lo guardarono straniti, ma subito l’uomo sorrise, sotto quei suoi grandi baffi e si presentò: “Iosif Vissarionovic Dzugasvili, piacere”
“Io sono Nadia” disse la bambina e Boris la gelò con lo sguardo; non amava gli sconosciuti, ma qualcosa in quel nome non gli era nuovo.
“Posso sedermi?” disse indicando il posto accanto a Nadia “Sapete, fare il viaggio in solitaria, può essere noioso”
Nadia annuì sorridendo e l’uomo si sedette.
“Vuoi sapere chi è Lenin Nadia? Lenin è la più grande speranza che la Russia ha per uscire da questa dittatura” le disse lui.
Boris emise un piccolo gemito, sapeva che questa frase avrebbe causato una valanga di domande e sapeva anche che quell’uomo le avrebbe dato le risposte, ma all’improvviso la figura dell’uomo lo colpì, lo aveva riconosciuto.
“Lei è Stalin, non è vero?” chiese Boris.
L’uomo lo guardò confuso, ma incuriosito e rispose: “Sì, ma…solo i miei…più cari amici, mi conoscono come Stalin. Come mi conosce? Ci siamo incontrati? Ah, forse ricordo! A Tbilisi, vero, all’assemblea? No, no. Forse eri quell’uomo taciturno che non parlava mai…quello della baracca 33, a Tubolsk, si devi essere lui. Ti facevo più magro”
“No, niente di tutto ciò. L’ho riconosciuta dalla foto di un giornale ed è un onore poterla conoscere di persona” disse allora Boris.
Stalin, inorgoglito dall’elogio, dimenticò i suoi sospetti e sorrise.
Boris lo conosceva, lo conosceva di fama e sapeva che non c’era da scherzare con un uomo come Stalin, il cui appellativo significa appunto acciaio, sottolineando il suo carattere, duro come l’acciaio.
“Che cosa fate qui allora?” chiese Stalin.
“Porto mia nipote a Mosca, sa è la prima volta per lei, siamo di Novorossibisk” rispose Boris.
Nadia lo guardò confusa, ma Boris le fece segno di stare al gioco.
“E’ bella Mosca piccolina. Vado là anche io…torno meglio dire” disse a Nadia.
Nadia allora sorrise nervosamente e disse: “Sì non sono mai stata a Mosca e ho così tante domande”
Boris la guardò storto, quasi spaventato, spaventato da quello che avrebbe potuto chiedere a Stalin, non aveva un fama di uno che perdonava e se solo avesse avuto dei sospetti, non poteva sapere quale sarebbe stata la sua reazione.
“Puoi chiedere qualsiasi cosa. Sono qui” disse Stalin toccandosi il baffo sinistro.
Nadia pensò un attimo e poi chiese: “Com’è lo zar?”
Stalin sembrò sul punto di esplodere quando sentì quel nome, ma si tranquillizzò subito e le rispose: “Lo zar è un tiranno, un omicida. Nessun’altra parola per descrivere un uomo del genere”
Nadia ebbe un sussulto, che significava omicida? Non sapeva a cosa credere, si immaginava un uomo diverso dalla descrizione di Stalin e a giudicare dal suo tono quasi di disgusto, si sarebbe detto fosse un uomo orribile.
Stalin comprese l’inquietudine di Nadia e continuò: “Ti sei accorta mai della povertà, magari celata che c’è in Russia?”
Nadia ripensò a quelle giornate a Omsk, la gente che elemosinava per strada, le schiere di barboni senza casa e senza cibo; guardò Stalin e annuì.
“Se ti dicessi che Nicola è la causa di tutto ciò tu come lo definiresti?” le chiese Stalin.
Nadia lo guardò e rispose timidamente: “Un uomo cattivo”
Stalin scoppiò a ridere e la cosa infastidì Boris, che cominciava a sentirsi a disagio.
“Hai ragione Nadia, hai ragione” disse Stalin sorridendole.
Poi girò lo sguardo verso Boris e gli chiese: “E lei? Non pensa che sia così?”
Boris notò negli occhi di Stalin un grande sospetto, come se potesse pensare che fosse un realista.
Stalin faceva infatti parte dell’opposizione se così si può chiamare il partito bolscevico, fondato sulle idee del filosofo Marx, basato sul socialismo e sul potere operaio. Il loro leader era Vladimir Ilic Iulianov, meglio noto come Lenin e nel corso degli anni aveva reclutato parecchi sostenitori, così tanti che lo zar aveva deciso di prendere posizioni drastiche nei confronti dei continui scioperi operai a Mosca e San Pietroburgo, sparando sulla folla nel 1905 e imprigionando in Siberia i maggiori esponenti del partito, tra cui lo stesso Stalin.
Non era un caso che Stalin avesse questi sospetti, i bolscevichi erano molto contrari alla politica dello zar Nicola II e puntavano al rovesciamento del sistema tramite la rivoluzione proletaria.
Boris ebbe un attimo di esitazione, ma sapeva che doveva cauto.
“A Novorossibisk non siamo così informati sulla politica, ma vedo come vanno le cose e se c’è un responsabile, quello è lo zar” rispose lui.
“Parole Sante Compagno!” esclamò Stalin, non curandosi che era ormai notte e la gente dormiva e tirando una pacca sulla spalla di Boris.
“E’ bello sapere che anche in Siberia c’è gente con la testa sulle spalle”
Boris sorrise e anche Nadia, nonostante non capisse molto di quello che stava succedendo, aveva ancora tantissime domande, ma sapeva che doveva parlare con cautela, dato che più volte Boris le aveva fatto segno di stare attenta.
“Vi lascio ora, anche un uomo come me…ha bisogno di dormire, non sempre sono Stalin, a volte sono semplicemente Iosif” disse Stalin, alzandosi, salutando i due e lasciando la carrozza in cerca di un bagno.
Nadia guardò Boris confusa, ma poi si mise a ridere.
“Perché ridi?”
“Perché avevi paura, tremavi come un cervo prima di essere colpito da una pallottola” rispose lei.
Boris lo guardò stupito e le disse: “Non è vero…e poi che ne sai tu di pallottole?”
“Sparo da quando ho otto anni. Me l’ha insegnato Alexandr, ma da quanto ho sentito ieri penso tu lo sappia già”
La risposta colpì molto Boris, si chiedeva come facesse una bambina così piccola ad essere così intelligente.
“E’ giunto il momento di darti delle risposte…sappi che alcune cose non potrò dirtele, ti porto a Mosca per insegnarti la cultura e ho fatto una promessa a tuo padre” disse lui, leggermente nervoso.
“Quell’uomo chi era?” chiese Nadia, riferendosi a Stalin.
“Come ha detto lui, in Russia…c’è una grande povertà e lo zar non fa niente per evitarla. Stalin fa parte di un gruppo rivoluzionario che cerca di rendere migliore la Russia, non sempre nel modo giusto, ma cerca di cambiare le cose”
“Anche mio padre era amico di Stalin?” chiese allora lei.
Boris ebbe un attimo di esitazione, sapeva che questa era la pastiglia più dura da digerire per Nadia e un’informazione che non sarebbe autorizzato a darle.
Boris scosse la testa e si strizzò gli occhi, assonnato, erano infatti ormai le 10 di sera e nel vagone c’era ormai un gran silenzio. Si guardò intorno come vedere se qualcuno lo stesso sentendo e poi iniziò a parlare.
“No, non è un rivoluzionario, è un assassino, ma non giudicare la parola e solo il nome della nostra confraternita, mia e di tuo padre. Il nostro compito è garantire la giustizia e la libertà, tuo padre è un grand’uomo”
Nadia lo guardò, molto confusa, ma non troppo; aveva già sentito tante verità che non conosceva e non pensava potessero essere vere.
“So che può essere difficile credere che esista una tale organizzazione, ma questo siamo noi, assassini di nome, ma uomini di fatto, uomini prima di tutto”
“Anche la mamma lo era?”
Boris annuì, quasi piangendo, ma sapeva che aveva già detto troppo, gli assassini dovevano rimanere segreti, come sempre e non poteva andare oltre.
Nadia ora era sul punto di piangere, ma riuscì a trattenersi, guardò Boris, uno sguardo diverso, intenso, due grandi occhi marroni che sembravano dirgli grazie.
“Grazie” disse lei, ma non riuscì a dire nessun’altra parola, stava piangendo, ma non era triste, era felice, solo un po’ stanca.
Boris la abbracciò e per la prima volta si sentì davvero protetta.

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Capitolo 5
*** Guerra e Pace ***


Guerra e Pace

Ci si impiegava più o meno due o tre giorni, in treno, da Omsk a Mosca, ma la transiberiana era munita di tutto il necessario. Anche nelle cabine meno lussuose infatti c’erano disponibili letti e brande e il cibo non era mai negato a nessuno, ovviamente nei limiti dei costi.
La notte scese veloce in quel giorno di Dicembre, Nadia stava dormendo da un pezzo e anche Stalin, il cui russare si sentiva in tutto il vagone.
Boris non dormiva invece, non perché volesse stare sveglio, ma solamente perché non aveva sonno.
Leggeva un libro di Lev Tolstoj, Guerra e Pace, un romanzo storico ambientato durante le guerre napoleoniche, alla luce di una piccola candela.
Stava leggendo di Pierre Bezuchov, un giovane ragazzo che, ereditata una fortuna, si avventura nella vita della Russia ottocentesca.
All’improvviso sentì un rumore, lungo il corridoio e si mise in ascolto attento, allungò la mano verso il coltello, nascosto nello stivale, ma prima che potesse raggiungerlo sentì un rumore, molto vicino al suo orecchio, uno scatto di pistola. Intanto Pierre Bezuchov, nel romanzo, stava sconfiggendo in duello il principe Kuragin, del quale aveva preso in sposa la figlia.
Sentì una mano che raggiunse la sua spalla e, girandosi vide due uomini, che alla luce della candela si mostrarono nella loro interezza.
Erano due uomini, entrambi alti, uno vestito di nero con un cappello nero e un sigaro in bocca, l’altro era pelato, aveva un paio di occhiali sottili ed indossava un completo grigio.
Aveva davanti ai suoi occhi una pistola, che mirava il centro della sua fronte, il libro cadde a terra, lasciando Pierre Bezuchov, vincente nel duello, tra le braccia della moglie Helene.
I due uomini lo misero in piedi, tirandolo per la giacca e lo condussero in u altro scompartimento del treno, un magazzino chiuso dove nessuno poteva sentirli.
“Chiudi la porta Vitalyi” disse l’uomo pelato senza mai lasciare la pistola, puntata su Boris.
I due si guardarono, entrambi gli sguardi trasmettevano rabbia, rivalità, come una guerra a distanza combattuta nelle pupille scure di Boris e in quelle chiare dell’altro.
L’uomo arricciò il viso in un sorriso maligno e disse: “Mi dispiace di aver interrotto il tuo viaggio di piacere Klimenko”
Boris arricciò il naso e replicò: “Niente di personale Prokofiev. Sono solo rammaricato di non poter finire il mio libro”
“Penso tu sappia perché siamo qui, è la figlia di Izmailov quella?”
“Fatti gli affari tuo bastardo!” rispose secco Boris.
“Non credo tu sia nella posizione di insultarmi” disse Prokofiev sorridendo.
“Hanno davvero incaricato te di fare questo sporco lavoro, ripongono così tanta fiducia in un uomo così inutile” disse Boris.
Prokofiev bestemmiò e arrivò a toccare la fronte di Boris con la sua pistola.
“Un’altra parola e ti faccio saltare la testa, non mi importa se tutto il treno si sveglierà!”
Ma all’improvviso si sentì un tonfo e la porta di legno cadde a terra. Vitalyi si girò coltello in pugno, ma venne steso da un forte gancio destro.
Stalin fece irruzione nello stanzino.
Prokofiev si girò e Boris gli trafisse la caviglia con il coltello, per poi deviargli mano che sparò bucando la parete. Prokofiev emise un gemito di dolore, ma venne raggiunto da un pugno e cadde a terra privo di sensi.
“Un compagno, è sempre un compagno” disse Stalin.
Boris vide che dietro di lui c’era Nadia, nascosta dietro il cappotto dell’uomo.
“Dobbiamo andare via di qui” disse Boris.
“I realisti sono ovunque” esclamò Stalin.
I tre tornarono nel vagone e si chiusero la porta alle spalle, bloccandola con un asse di legno.
I due coniugi si erano svegliati e ora la moglie urlava di paura, a causa del colpo di pistola.
“Mi ha svegliato la ragazzina” disse Stalin a Boris “E sono subito corso in aiuto”
Boris ringraziò Stalin stringendogli la mano e poi guardò Nadia, vide che aveva paura, i suoi occhi marroni correvano in tutte le direzioni, ma vide anche in lei qualcosa di nuovo, la guardò e vide che nel suo sguardo, qualcosa di innaturale.
“Dobbiamo andare via di qui” disse lei.
All’improvviso si sentì un colpo violento e la porta del vagone cadde a terra scardinata. Vitalyi, dotato di una forte muscolatura, l’aveva abbattuta.
“Correte ci penso io” esclamò Stalin e Boris e Nadia corsero verso l’altro vagone.
Gli occhi di Stalin ora erano diversi, si leggeva nel suo sguardo il suo lato più incontrollabile, il suo odio, la sua tempra d’acciaio.
“Vieni qui, leccaculo dello zar. Fammi vedere come le tue palle reali combattono” disse Stalin prima che Nadia e Boris corressero via.
Superarono anche l’altro vagone correndo, ma prima che arrivassero alla porta sentirono uno sparo e un proiettile si conficcò sulla porta poco sopra la testa di Boris. Prokofiev correva verso di loro dalla parte opposta, zoppicando vistosamente, ma abbastanza veloce.
“Corri Nadia!!” urlò e tramite delle scale salirono sul tetto del treno.
Un terzo colpo mancò di nuovo il bersaglio. Corsero lungo il tetto del treno, con Boris che teneva in braccio Nadia, il vento era sferzante, ma Prokofiev era alle loro spalle.
“Fine dei giochi Klimenko, fatti ammazzare” disse lui, salito sul tetto.
Boris nascose Nadia dietro di sé e si girò.
“Dimmi Prokofiev, che ne farai di lei quando mi ucciderai?” chiese Boris.
“La missione era di uccidere te, ma lei ci porterà da Marat Izmailov, ci sarebbe molto utile” rispose Prokofiev e mirò Boris.
La neve cadeva sulle loro teste, il freddo era glaciale, Nadia tremava, un po’ per la paura un po’ per il freddo.
“Dasvidania…assassino” esclamò Prokofiev, ma proprio prima di colpire vide che il treno stava entrando in una galleria, la vide all’ultimo, ma riuscì ad abbassarsi in tempo, prima che venisse decapitato.
La galleria finì presto, ma davanti a sé non aveva nessuno, erano fuggiti.
“Niet!” urlò.
Nadia camminava a fianco di Boris tra i vagoni del treno, attenti a ogni singolo movimento, attenti a qualsiasi cosa potesse attirare la loro attenzione.
“Quelli erano quello per cui io e tuo padre abbiamo combattuto per tutta una vita” disse Boris a Nadia. “Sono templari, un ordine antico, malvagio, che semina zizzania per raccogliere potere, sempre più potere”
Nadia lo guardò attenta e chiese: “Loro sono quindi i cattivi?”
Boris annuì e le rispose: “Noi non combattiamo lo zar, combattiamo i templari che sono molto più pericolosi di decine di Nicola II”
Intorno a loro la gente spaventata si lamentava e urlava di paura, chiedendo aiuto. Alcuni uomini del personale avevano cercato di sedare il panico, ma senza molto successo.
Entrarono in un vagone e videro Stalin, era sciupato, stanco e ferito alla gamba da un colpo di pistola. I due accorsero da lui per aiutarlo.
“Era più tosto di quanto pensassi il bastardo” disse lui indicando il corpo di Vitalyi che giaceva a terra morto.
“Hai bisogno di un medico” gli disse Boris.
“Credi che una pallottola sporca di sangue blu, mi faccia male? Mi chiamano acciaio per un motivo” replicò Stalin e fece per alzarsi, ma venne fermato da Boris che lo invitò a stare seduto.
Nadia guardava la scena in disparte, seduta su un sedile. Aveva freddo e tremava, ma non aveva paura. All’improvviso venne come scossa da un sussultò, sentì dei passi nella sua testa e poi i suoi occhi si chiusero. Vedeva Boris e Stalin, ma non erano loro che camminavano, era un rumore diverso, erano stivali, neri e venivano verso di lei. Nadia aprì gli occhi e sospirò affannosamente, le era successo di nuovo, un’altra volta e non si spiegava cosa fosse questa sensazione strana.
“Prokofiev” disse all’improvviso Nadia, ma Boris non fece in tempo a girarsi che Prokofiev era comparso da dietro la porta e aveva preso in ostaggio Nadia, puntandole la pistola addosso.
Aveva uno sguardo folle, quasi impossessato e guardava Boris con occhi di fuoco.
“Lasciala stare!!” urlò Stalin alzandosi, ma fu costretto a risedersi dal dolore.
“Taci tu! Comunista infame” disse Prokofiev “Allora Boris, cosa farai ora? Non vedo gallerie, come farai a sopravvivere, fai un passo e il suo cervello salterà come un petardo”
Gli occhi di Nadia e Boris si incrociarono, Nadia lo guardava intensamente, ma non aveva più paura, non tremava, guardava Boris, ma i suoi occhi erano fermi e risoluti.
Stalin guardava quell’uomo con disprezzo, quasi con disgusto, i suoi occhi erano fessure e sotto i baffi aveva un ghigno di guerra.
Boris era invece in piedi, dirimpetto all’avversario, davanti a Nadia, con in mano il coltello.
“Conosci guerra e pace Prokofiev?”
“Sì”
“Allora saprai che non c’è onore in quello che stai facendo, sono qui, duelliamo come fecero Bezechov e Kuragin, se vincerai guadagnerai l’onore oltre alla mia morte, dimostra di essere forte in un combattimento alla pari”
Prokofiev guardò il nemico e rimase scosso dalle sue parole, annuì e disse: “Va bene…duelliamo, sul buon nome di Tolstoj”
E detto questo gettò la pistola dal finestrino.
“Armi pari” aggiunse Prokofiev.
I due si avvicinarono ed entrambi sguainarono i coltelli.
Stalin e Nadia osservavano speranzosi, ma già erano pronti a fuggire in caso di sconfitta di Boris.
I due si studiarono per qualche secondo poi Prokofiev attaccò violentemente. Il suo coltello fendeva l’aria velocemente, ma mancò il bersaglio. I due iniziarono un feroce combattimento.
Prokofiev evitò il colpo di Boris e lo colpì di striscio al fianco, del sangue cominciò a macchiargli i vestiti.
Dopo uno scontro i coltelli volarono a terra e divenne un violento scontro corpo a corpo. Boris colpì Prokofiev al mento, ma egli lo colpì ripetutamente allo stomaco.
Gli occhiali di Prokofiev caddero e vennero calpestati dallo stesso, venne colpito sull’occhio, ma a sua volta colpì Boris sul naso e poi con un calcio nello sterno lo stese a terra.
“Avanti Bezechov! In piedi” esclamò Prokofiev che aveva il labbro tagliato.
Boris si rialzò dolorante, emise un gemito di dolore, aveva un taglio sull’occhio e il fianco gli doleva.
Prokofiev si gettò su di lui, ma rotolando a terra Boris evitò l’avversario.
Boris venne placcato a terra e uscirono dal vagone sfondando la porta. Prokofiev ora, tratteneva Boris a terra, cercando di fargli andare la testa nelle ruote del treno.
Prokofiev spinse più violentemente, ma Boris non mollava e riuscì a sbattere Prokofiev di lato, liberandosi dalla presa.
Erano nel piccolo spazio tra due carrozze, al freddo della notte, feriti, ma pronti a tutto pur di uccidersi l’uno con l’altro.
Boris si aggrappò ad una trave e colpì con un calcio in faccia l’avversario sbilanciandolo. Prokofiev stava cadendo a terra, ma riuscì ad aggrapparsi ad uno spuntone di ferro.
“Ti auguro un buon inverno Kuragin” disse Boris, mentre Prokofiev tentava di bilanciarsi.
“Inverno?” esclamò lui confuso.
Boris si avventò su di lui e lo colpì al volto facendolo volare giù dal treno.
Prokofiev cadde nella neve e scomparì dalla vista del treno.

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