Cronache di inenarrabili eventi. di Afaneia (/viewuser.php?uid=67759)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Scommessa. ***
Capitolo 2: *** Veleno. ***
Capitolo 3: *** Nome di famiglia. ***
Capitolo 4: *** Prima ancora dell'aria (Parte Prima). ***
Capitolo 5: *** Prima ancora dell'aria (Parte Seconda). ***
Capitolo 6: *** Dubbio. ***
Capitolo 7: *** Inferno. ***
Capitolo 8: *** Si mens non laeva fuisset (Parte Prima). ***
Capitolo 9: *** Si mens non laeva fuisset (Parte Seconda). ***
Capitolo 10: *** Concedi la pace ai nostri giorni. ***
Capitolo 1 *** Scommessa. ***
Cronache
di inenarrabili eventi.
«Nonno,
ci aiuti a
leggere questa rivista?» cinguetta Gary eccitato,
spingendogli sulle
ginocchia un settimanale che reca il titolo I
Superquattro della Lega Pokémon: gli imbattibili allenatori
dell'Altopiano Blu e, poco sotto, il sottotitolo
provocatorio: Sicuri
di sapere
tutto?
Deve
averlo comprato
Margi, Samuel ne è certo, ormai ha quasi undici anni e sta
sviluppando una cotta per quel bel giovanotto di nome Lance. I suoi
nipoti lo stanno guardando speranzosi, e anche se Margi è
grande
abbastanza da leggere per entrambi, Samuel sa che per loro leggere
con il nonno è una tradizione immancabile la sera. Beh, non
è una
rivista per bambini, ma di certo non può contenere niente di
inadatto a loro, e poi ci penserà lui a censurare il
necessario,
eventualmente. Perciò si siede sulla poltrona del salotto,
con la
rivista aperta sulle ginocchia in modo che i suoi nipotini possano
guardare le fotografie, e domanda: «Da dove volete
partire?»
«Da
Bruno» esclama
Gary, che nutre per quell'energumeno un'ammirazione senza pari
–
qualche volta Samuel ha paura che possa farsi male nei suoi tentativi
di emularlo quando gioca, questo scricciolo di sei anni che
peserà
forse venti chili con tutti i vestiti addosso. A volte Gary
è un po'
irruento – un bambino vivace, era solito dire suo figlio, al
contrario di Margi, così dolce e posata e casalinga, e
Samuel teme
che a volte possa metterle i piedi in testa. Perciò si volta
verso
sua nipote e dice: «Gary, lascia scegliere tua sorella, per
una
volta! Tu, Margi, di chi vorresti leggere?»
È
così sicuro
della risposta che sta già consultando l'indice per cercare
le
pagine che trattano di Lance, ma quando sua nipote gli risponde, con
la sua vocina flebile che sembra non volersi fare udire, dice
qualcosa che non si sarebbe mai aspettato.
«Possiamo
partire
da Agatha, per favore?»
Samuel
la guarda
sorpreso. Margi è accomodata tranquillamente sul tappeto,
col mento
appoggiato sulle ginocchia reclinate, e attende che lui cominci.
«Beh,
va bene. Non
sapevo che ti piacesse Agatha» risponde in tono incerto,
tornando a
consultare l'indice.
«Da
grande mi
piacerebbe essere come lei» risponde la bambina, guardandolo
dal
basso coi grandi occhi castani. «Tu la conoscevi, vero,
nonno?
Sembra forte e coraggiosa e indipendente...»
Dolce,
innocente
Margi, così responsabile e premurosa verso il fratellino di
cui si
prende cura come un' affettuosa mamma di dieci anni. Da quando i loro
genitori sono morti, lei è la piccola donna di casa, attenta
e
dimessa, e vive la sua infanzia appartata e sola. Samuel le ha detto
più volte che, se volesse partire, potrebbe farlo: si
occuperebbe
lui di quella peste di suo fratello. Ma Margi è fatta
così, il
sacrificio le viene spontaneo e le riesce meno doloroso di un atto di
egoismo, e anche se nei suoi occhi egli legge tutti i giorni il
dolore di sentirsi orfana e sola e un desiderio inappagato di
avventure e cose grandi, sa che preferisce rinunciarvi
perché Gary
possa goderne più appieno tra qualche anno.
Esiste
forse una
creatura più diversa da Agatha?
«Sì,
la conoscevo»
ammette Samuel. Tutto sommato, non può che dirsi contento
che sua
nipote voglia prendere a esempio una donna fiera e assoluta come
Agatha, piuttosto che da un'oca superficiale e vanitosa come Lorelei,
per esempio, coi suoi vestiti corti e oscenamente scollati –
perché
per quanto riguarda certe cose, come l'abbigliamento, Samuel Oak
è
un terribile tradizionalista ed è il primo ad ammetterlo.
«È una
validissima allenatrice, Margi, e probabilmente la donna più
coraggiosa che io abbia mai conosciuto. Non può farti che
bene
prendere esempio da lei.»
A
questo punto, Gary
scoppia a ridere senza ritegno, di quella sua infantile risata
sguaiata e irrefrenabile, e Margi lo fulmina con un'occhiataccia.
«Zitto, Gary! Sei antipatico!»
«Cosa
c'è da
ridere?» chiede Samuel senza capire.
Ma
ora anche Margi
sta ridendo e Samuel sente di essersi perso qualche passaggio.
«Su,
bambini, ditemi che cosa c'è!»
«La
nonna di Ash
dice che da piccoli eravate fidanzati!» esclama Gary come se
lo
avesse appena colto in fallo. Samuel è sconvolto.
«La
nonna di Ash?»
ripete perplesso, guardando alternativamente entrambi i suoi nipoti.
«Ma io non la conosco.»
«Dice
che lei e
Agatha hanno la stessa età e vivevano entrambe a Lavandonia
da
giovani» spiega Margi sorridendo deliziata, di quell'ingenuo
sorriso
che hanno le bambine che parlano d'amore. «Dice che avete
viaggiato
insieme e a quei tempi lo facevano solo i fidanzati.»
Samuel
non potrebbe
essere più esterrefatto di così. Tossisce
discretamente, un po'
irritato, e cerca di mettere le cose in chiaro. «Beh, la
nonna di
Ash dovrebbe sapere che non è gentile raccontare le faccende
private
degli altri. Comunque deve aver capito male: io e Agatha non eravamo
fidanzati. Abbiamo viaggiato insieme per qualche tempo, anche se quei
tempi era raro, ma questo è quanto.» Non
è propriamente tutta la
verità, ma non sta mentendo su quello che interessa ai suoi
nipoti.
I
due bambini si
scambiano uno sguardo deluso e appoggiandosi alla sua poltrona Margi
insiste: «Non vi siete mai neppure baciati?» Margi
va matta per le
storie d'amore in cui due innamorati si baciano, ma Samuel deve
disilluderla di nuovo.
«No,
Margi, a quei
tempi i baci erano una cosa seria. Ci si baciava solo quando si era
fidanzati.»
«Allora
la nonna di
Ash deve aver sbagliato» conclude Gary arrabbiato. Samuel
vorrebbe
dirgli che la nonna di Ash, evidentemente, è una gran
pettegola e
dovrebbe farsi gli affari propri, ma non vuole che suo nipote
apprenda un linguaggio del genere, perciò si limita ad
annuire.
Frattanto
Margi sta
sfogliando la rivista per cercare le pagine che parlano di Agatha.
«Era bella da giovane, nonno?»
Questo,
almeno,
Samuel pensa di poterglielo concedere. «Beh, sì.
Era una ragazza
molto bella, anche se già allora aveva un suo
caratterino.»
Dopo
un po', Margi
smette di girare le pagine e a Samuel fa quasi male vedere quella
donna anziana dal profilo severo e lo sguado torvo – ma i
suoi
occhi sono ancora quelli di una volta sotto le palpebre pesanti, neri
e profondi tanto da potervi sprofondare. Non si sono schiariti con la
vecchiaia. Guarda le pagine con simulata indifferenza: c'è
anche una
foto d'epoca, di quelle che andavano tanto ai loro tempi, scattata
per qualche occasione ufficiale. È in un nitido bianco e
nero e
un'Agatha di vent'anni è di tre quarti, coi capelli ordinati
e
raccolti come si usava allora per le fotografie –
perché per
quanto può ricordare i suoi capelli erano sempre onde
scomposte e
ribelli di riccioli turbinosi; il suo profilo è
già severo e cupo,
ma ancora armonico e giovanile, la sua bocca è come fatta di
petali
di rosa sovrapposti, ma nei suoi occhi c'è già
quel dolore amaro e
rancoroso, immedicabile, ch'egli ricorda anche troppo bene. La indica
a Margi. «Ecco, puoi vederla da te.»
«Ooooh»
esclama
Margi, ammirata, e Samuel sorride.
Ma
Gary sta
guardando le altre foto, quelle più moderne, quelle di una
donna dai
capelli bianchi che si appoggia a un bastone. «Nonno,
perché non ci
parli tu di quando viaggiavate assieme? La rivista possiamo leggerla
domani!»
«Oh,
ti prego, ti
prego!» soggiunge Margi, accogliendo l'idea del fratello e
aggregandosi a lui quasi senza riflettere.
Stretto
com'è tra
due fuochi, Samuel non se la sente di rifiutare, e del resto, non ci
sarebbe niente di male... almeno per quanto riguarda la parte del
loro viaggio e delle loro piccole sfide. Al pensiero di come si
è
sciolta quella loro alleanza, della loro ultima avventura, Samuel
sente un nodo stringersi alla bocca dello stomaco e un senso d'ansia
che lo assale, ma dura solo un attimo. Sono passati quasi
cinquant'anni da allora, ma ancora non è trascorso un solo
giorno
senza che lui abbia ripensato, anche per un minuto solamente, a
quegli eventi. È un dolore che ha imparato a sopportare, a
tollerare... chissà se Agatha, dalla cima di quell'Altopiano
Blu
dove ormai si è trasferita stabilmente, vi è
riuscita anche lei, a
modo suo, dopo tanto tempo.
Samuel
non vuole
sconvolgere i suoi nipotini proprio all'ora di andare a dormire
– è
già abbastanza difficile mettere a letto Gary in condizioni
normali
– ma dopotutto, lavorando un po' di fantasia, può
raccontare loro
qualche cosa, mitigando e alterando un po' gli avvenimenti
più
terribili.
«Va
bene» accetta
perciò, appoggiandosi più comodamente allo
schienale della
poltrona, e comincia a raccontare. I suoi nipoti non vi prestano
attenzione, ma se guardassero sulle sue ginocchia, si accorgerebbero
che non ha chiuso la rivista. Quella foto lo fa sentire come se
Agatha fosse al suo fianco e lo aiutasse a rievocare e a descrivere
la loro storia, risalente all'anno della prima Lega Pokémon.
Capitolo
primo –
Scommessa.
PRIMO
TORNEO
UFFICIALE DELLA LEGA POKEMON DELL'ALTOPIANO BLU
In
occasione del
cinquantesimo anniversario dalla sua fondazione, la Lega
Pokémon che
unifica le regioni di Kanto e di Johto ha indetto un torneo aperto a
tutti gli allenatori maggiorenni che possiedano almeno un
Pokémon
sopra il livello cinquanta. Il Torneo si svolgerà il primo
di giugno
nella modernissima arena situata presso la Sede centrale della Lega
Pokémon.
Ulteriori
informazioni saranno disponibili su richiesta presso il Colosseo di
ogni Centro Pokémon. Le iscrizioni saranno aperte dal primo
al dieci
di maggio presso la Sede centrale.
Fin
dalla sua
fondazione, la Lega si era sempre occupata di garantire la
regolarità delle lotte tra allenatori e tutelare la
sicurezza dei
Pokémon tramite l'applicazione di ferree norme e restrizioni
sulle
mosse consentite in battaglia: era ormai diventata l'istituzione di
riferimento per chiunque avesse fatto dei Pokémon il proprio
mestiere. Un torneo ufficiale, aperto oltretutto agli allenatori di
entrambe le regioni, sarebbe stato probabilmente uno dei più
grandi
eventi mai realizzati in quell'area.
Quando
Samuel lesse
questo annuncio, appeso in bella vista sulla bacheca degli avvisi del
Centro Pokémon di Fucsiapoli, ebbe l'impressione di non
avere atteso
altro per tutta la vita.
Sin
da quando si era
messo in viaggio, ormai sei anni prima, Samuel aveva percorso in
lungo e in largo sia la regione di Kanto che quella di Johto e la sua
squadra, che, modestia a parte, era piuttosto notevole, aveva
superato ormai da un pezzo il livello cinquanta. Quale occasione
migliore di un torneo come quello per mettersi alla prova e trovare
avversari del suo calibro?
Samuel
aveva raggiunto
Fucsiapoli quella sera dopo una giornata di viaggio sulla groppa del
suo Gyarados: il giorno seguente aveva stabilito di trovarsi alla
Zona Safari con un amico che aveva preferito prendere la via terra
passando dal Ponte Silenzio. Aveva perciò davanti a
sé tutta la
notte per riposarsi e far rimettere in sesto i propri
Pokémon e
aveva deciso di trascorrerla al caldo e all'asciutto all'interno del
Centro Pokémon.
Per
quanto fosse stanco
dopo aver navigato per ore attraverso le onde, quell'annuncio lo mise
di buonumore. Era il venti di aprile: non mancava poi molto
all'apertura delle iscrizioni e per quanto l'Altopiano Blu fosse
difficoltoso da raggiungere – si era sempre chiesto
cos'avesse
spinto i suoi fondatori a scegliere come sede un fianco del Monte
Argento – non sarebbe stata la prima volta che attraversava
la Via
Vittoria per recarvisi. Aveva tutto il tempo per organizzarsi,
concluse tra sé accostandosi al bancone.
Affidò
all'intermiera
i suoi Pokémon stanchi e le chiese una stanza per
trascorrere la
notte. Appena la donna ebbe preso la sua scheda allenatore per
compilare il registro ed ebbe letto il suo nome, levò gli
occhi su
di lui come a richiamare alla memoria un ricordo confuso.
«Lei
è il signor
Samuel Oak?»
«Per
l'appunto»
ribatté Samuel con rassegnazione. La donna non doveva essere
particolarmente sveglia:aveva ancora in mano il suo documento e la
foto era piuttosto recente. Doveva avere un aspetto orribile dopo
aver viaggiato per ore su Gyarados, ma era convinto di non essere
così stravolto da non ricordare il ragazzo ritratto sul
documento.
«Credo
che qualcuno
abbia mandato un telegramma per lei. Se aspetta un momento glielo
porto.»
In
quei tempi privi di
telefono cellulare, inviare telegrammi nei Centri Pokémon
era
l'unico modo che gli allenatori girovaghi avessero per comunicare tra
loro. Il telegramma era del suo amico e portava la data del giorno
prima: lo avvertiva che, a causa di un problema tra Celestopoli e
Zafferanopoli, aveva dovuto prendere la via più lunga del
Tunnelroccioso e lo pregava di volerlo aspettare a Fucsiapoli per un
altro giorno, senza rimandare il loro Safari.
Un
giorno di riposo non
gli avrebbe certo fatto male, decise Samuel con filosofia. La donna
terminò le formalità di registrazione e gli porse
le chiavi della
sua camera, informandolo in tono smorto che la mensa era già
aperta.
Da
diversi anni i
Centri Pokémon si erano dotati di mense per gli allenatori
girovaghi, dov'era possibile consumare un pasto caldo con poca spesa.
Ovviamente la qualità variava di molto a seconda del Centro:
nella
fattispecie, quella di Fucsiapoli era piuttosto scadente che
mediocre. Ma era pur sempre un pasto caldo, e Samuel si sentiva
troppo affamato e troppo stanco per andare a cercare un ristorante,
per non parlare del suo aspetto. Perciò la
ringraziò e andò a cena
senza neppure salire in camera: sentiva che se si fosse avvicinato a
un letto sarebbe crollato immediatamente.
La
sala era caotica e
affollata: via via che s'inoltrava tra i tavoli, Samuel poteva
sentire quasi fisicamente l'inusuale eccitazione dovuta alla
prospettiva del Torneo. Quando trovò un posto vuoto a un
tavolo e
sedette davanti a un vassoio ricolmo di tutto ciò che la
mensa
poteva offrire – perché, per quanto scadente, era
pur sempre cibo
e Samuel era dotato di un appetito invidiabile – nel brusio
confuso
di voci attorno a lui non riuscì a sentire altro che le
parole Lega
Pokémon, Via Vittoria e Altopiano Blu.
Al
tavolo alla sua
destra, un gruppetto di allenatori stava discutendo animatamente su
qualcosa che non riusciva a capire con precisione. Li
ascoltò
distrattamente mentre si avventava sulla sua cena con foga assai poco
dignitosa: un ragazzo basso e tarchiato dalle spalle larghe e tozze
gambe muscolose, in canottiera e pantaloni corti malgrado la stagione
non fosse poi così avanzata, stava propugnando con
ostinazione una
qualche teoria ripetendo vigorosamente: «C'è
scritto che è aperto
a tutti gli allenatori, capisci? Gli allenatori!»
Per
un po', Samuel non
riuscì a capire quale fosse l'argomento di tale fervore:
proprio in
quel momento tutti gli altri allenatori del gruppo alzarono la voce
in contemporanea, discutendo vivacemente, ed egli continuò a
mangiare senza curarsene troppo. Ma dopo forse un paio di minuti,
all'improvviso una ragazza che non aveva notato, coperta com'era dai
suoi più ingombranti vicini di posto, si alzò in
piedi e si protese
in avanti sul tavolo, esclamando: «Come ti devo dire che
allenatore
è la definizione ufficiale della Lega per chi allena i
Pokémon? Non
c'entra niente col sesso!»
A
parlare era stata una
ragazza minuta con lunghi capelli castani attorti in una folta massa
di riccioli, con un'espressione esasperata e accigliata, che scrutava
spazientita il ragazzo che aveva parlato poco prima.
«Oh,
andiamo! Anche se
le donne possono partecipare, pensi davvero di farcela a superare la
Via Vittoria?» ribatté quegli.
Per
quanto piccola e
sottile, la ragazza parve quasi gonfiarsi d'indignazione alle sue
parole. Tutto attorno a loro, gli altri ragazzi scoppiarono a ridere.
«Sono
pronta a
sfidarvi anche adesso!» affermò quella, alterata.
«Dai,
non c'è da
arrabbiarsi» esclamò un terzo del gruppo,
afferrandole un braccio
per farla tornare a sedere accanto a sé. «Nessuno
dice che non puoi
partecipare, ma devi tenere presente che la Via Vittoria è
lunga e
pericolosa e che competeranno i migliori allenatori di Kanto e di
Johto.»
«Allenatori
come te?»
lo rimbeccò la ragazza, aggrottando un ardito sopracciglio
nero
fortemente angolato.
Dunque
quella era
un'allenatrice. Per quanto la Lega Pokémon avesse
riconosciuto ormai
da quattro o cinque anni eguali diritti anche alle ragazze, esse
continuavano a essere paurosamente rare, tanto che Samuel ricordava
di averne incontrate a malapena una decina in tutti i suoi viaggi; ma
quella, decisamente, piccola com'era, non gli sarebbe sembrata
davvero una temibile avversaria. Tuttavia, quando la ragazza,
anziché
tornare a sedersi, si volse verso l'esterno del tavolo e vi si
appoggiò, incrociando le braccia sotto il petto, Samuel
notò che le
sue gambe, lasciate scoperte dalla lunga gonna, erano scolpite e dai
muscoli ben segnati sotto la pelle. Tutto sommato, pensò
fugacemente, forse non era poi davvero una ragazzina alle prime armi.
«Come
me, esatto!»
esclamò il ragazzo divertito, allargando le braccia sulla
sedia, con
la chiara intenzione di provocarla. Aveva una corporatura snella e
slanciata, ma a Samuel non piaceva la sua espressione da sbruffone.
Aveva l'impressione che quella ragazza gli piacesse e che la
indispettisse solo per farsene notare – atteggiamento
piuttosto
infantile per qualcuno che dimostrava più o meno vent'anni.
«Suvvia,
scherzi a parte, pensi davvero di poter arrivare sull'Altopiano Blu e
competere con gli altri?»
«Vogliamo
scommettere?» replicò la ragazza seccamente.
Per
un solo attimo, i
suoi interlocutori la fissarono sgomenti, colti alla sprovvista.
Subito dopo, il ragazzo che l'aveva provocata si raddrizzò
sulla
sedia. «Che scommessa?»
«Su
quello che vuoi.
Per esempio, su chi di noi si piazzerà più in
alto in classifica»
affermò la ragazza con calma. «Una scommessa
simbolica, s'intende.
Che cosa ne dici?» concluse porgendogli la mano.
Il
ragazzo scoppiò in
una risata eccessiva e le afferrò la mano senza pensarci due
volte.
«Certo che sì!»
«Ehi,
volete
escludermi?» esclamò allora il ragazzo tarchiato
dalle spalle
larghe che Samuel aveva sentito parlare per primo.
«Accomodati»
ribatté
la giovane senza scomporsi.
L'idea
della scommessa
investì la sala come un'ondata, dilagò come una
mania. Se la
ragazza l'aveva proposta solo per mettere a tacere i suoi rumorosi
interlocutori, non aveva fatto i conti con l'intraprendenza degli
allenatori che frequantavano quel Centro Pokémon,
evidentemente. Nei
minuti successivi si scatenò un inferno: la voce
circolò tra i
tavoli, cominciarono a circolare fogli di firme e banconote...
Che
iniziativa puerile.
Samuel finì di mangiare con calma, andò a riporre
ordinatamente il
vassoio sul carrello diretto alle cucine e si avviò al
bancone che
fungeva da caffetteria vicino all'uscita. Aveva bisogno di un
caffè
caldo dopo quella cena– il cibo della mensa di Fucsiapoli non
era
migliorato affatto nell'ultimo periodo. Sentiva che avrebbe avuto
diverse difficoltà a digerire quella notte e non dubitava
affatto
che, stanco com'era, sarebbe stato capace di dormire anche dopo due o
tre tazze di caffè.
Il
ragazzo tarchiato
riuscì a intercettarlo a pochi metri dalla sua meta. «Ehi,
amico, tu non vuoi partecipare alla scommessa?»
Il
secco no che
gli saliva spontaneamente alle labbra era un po' troppo rude. Samuel
gli si rivolse pazientemente, con un sospiro profondo, e chiese:
«Come funziona?»
«Siamo
in tanti a
partecipare» lo incoraggiò il ragazzo.
«Versiamo tutti cinquecento
pokédollari e li lasciamo in custodia a qualcuno che non
partecipa:
quello dei partecipanti che si piazza più in alto nella
classifica
della Lega Pokémon li usa per pagare da bere a chi ha perso.
È
meramente simbolica» concluse con un sorriso entusiasta.
A
dire il vero, Samuel
non era mai stato il tipo di persona da partecipare a una cosa del
genere; tuttavia, non aveva voglia di discutere con quel tipo per una
sciocchezza come quella cifra. Assentì con un sospiro
profondo
mentre prendeva il portafogli dalla tasca.
«Va
bene, ci sto. Devo
firmare da qualche parte?»
«Aspetta,
il foglio ce
l'ha Austin, adesso. Austin, vieni!» gridò rivolto
al suo amico
dall'altra parte della sala. Il ragazzo che per primo aveva accettato
la scommessa, intento a far firmare qualcun altro, gli fece cenno di
aver capito.
«Samuel
Oak» si
presentò nel frattempo Samuel, porgendogli la mano per
mostrarsi
educato per quanto la sua stanchezza glielo consentiva.
«Jake,
Jake Waters.»
Jake gli strinse la mano di una stretta forte e gioviale.
«Ah, ecco
Austin. Fallo firmare, Austin: anche Samuel è dei
nostri.»
Samuel
non poté che
confermare la prima impressione negativa che gli aveva dato Austin:
sembrava decisamente troppo arrogante e sicuro di sé.
Firmò
pazientemente e versò la sua quota: sul foglio c'era
già quasi una
ventina di nomi.
«La
vostra amica ha
avuto proprio un'idea di successo» commentò
restituendogli il
foglio.
«Agatha?
Oh, non è
nostra amica, l'abbiamo appena conosciuta» rispose Austin
distrattamente. «Neppure noi due ci conoscevamo prima. Beh,
grazie
per la tua quota, Samuel» concluse alla svelta: era evidente
che
aveva fretta di andare a coinvolgere altra gente nell'iniziativa.
«Ci
vediamo sull'Altopiano Blu, eh?»
Non
appena Jake e
Austin si furono allontanati, Samuel poté finalmente
ordinare il
caffè che tanto bramava e sedersi per un attimo al bancone,
gettando
uno sguardo sulla sala. Molto probabilmente, neppure la metà
di
quegli allenatori che ora aderivano tanto allegramente alla sciocca
scommessa sarebbe riuscita a superare la Via Vittoria –
persino
quell'Austin, pur con la sua aria saccente, gli sembrava decisamente
troppo ordinato e benvestito per essere un allenatore serio.
Proprio
mentre si
alzava e pagava, scorse fugacemente la ragazza che Austin aveva
chiamato Agatha mentre si avviava a lasciare la sala. Teneva le
braccia conserte sul petto, stringendosi in un golfino blu, e gli
passò accanto in una folata di lunghi riccioli castani.
Buongiorno
e buona
domenica a tutti!
Sono
rimasta molto
sorpresa quando mi sono resa conto che non riuscivo a trovare nemmeno
una storia su questi due personaggi, che almeno a me sembrano molto
interessanti, visti i pochissimi accenni al loro passato nel corso
dei videogiochi; spero di riuscire a impiegarli in qualcosa di
piacevole e degno di loro.
Ho
cominciato a
lavorare a questa storia nel mio tentativo di riutilizzare vecchie
leggende metropolitane ormai trite e ritrite in modo innovativo e
originale, senza cioè proporle passivamente come modelli
ormai
immutabili. Dunque sì, si parlerà di una leggenda
metropolitana di
prima generazione, per la precisione una di quelle che mi piacciono
di meno: volevo cercare di riproporla innovandola quel tanto che
basta a non riuscire ripetitiva e noiosa rispetto alle
poképaste che
vanno tanto di moda ultimamente, si trattava quasi di una sfida con
me stessa.
Ciò
detto, non
posso che ringraziarvi per essere arrivati fin qui.
Al
prossimo
capitolo, se qualcuno dovesse decidere di proseguire!
Afaneia
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Veleno. ***
Capitolo
secondo –
Veleno.
L'Altopiano
Blu aveva
richiamato a sé più di un centinaio di allenatori
già il primo
giorno delle iscrizioni e affluenze ancora maggiori si prevedevano
per quelli a venire. Samuel, che aveva raggiunto la Sede centrale
molto presto nella mattinata, il primo di maggio, fu uno dei primi a
iscriversi.
Quel
giorno egli rivide
anche la ragazza della scommessa di Fucsiapoli.
Aveva
appena
completato le varie formalità burocratiche dell'iscrizione
–
ridicolmente brevi in confronto al tempo necessario ad arrivare
lassù
– e stava attraversando l'androne verso la caffetteria per
procurarsi qualcosa da mangiare quando all'improvviso, da un
capannello di allenatori che chiacchieravano in un angolo, una nitida
voce di donna lo folgorò quasi sul posto. «Sono
pronta a sfidarvi
anche adesso!»
Quella
frase l'aveva
già sentita. Samuel si fermò là dove
si trovava e cercò di
scrutare nel piccolo gruppo di persone che si era raccolto attorno a
un paio di divanetti, un gruppetto di soli uomini disposti quasi a
cerchio: al loro centro, una piccola ragazza dal lunghi capelli
castani con le braccia conserte sul petto.
Se
a Fucsiapoli Samuel
era stato convinto, per chissà quale motivo, che fossero
stati
spontaneamente gli altri allenatori presenti a provocarla, ora non ne
era più così sicuro. Quella ragazza doveva avere
un gran
caratteraccio, per litigare con tutti ovunque andasse, pensò
mentre
si avvicinava quasi senza accorgersene. A ogni modo, quella ragazza,
ah!, Agatha ce l'aveva fatta: aveva raggiunto l'Altopiano Blu, e
già
il primo giorno. Davvero piuttosto notevole.
Era
evidente che
nessuno degli altri aveva intenzione di accettare la sfida: Samuel
osservò i loro sguardi imbarazzati, i loro cenni impacciati
mentre
cercavano di trovare una scappatoia alle sue parole. Si
collocò alle
spalle di uno di loro per seguire la scena, suo malgrado incuriosito.
«Allora?»
chiese
Agatha con viva impazienza. Era evidente che era in viaggio da
qualche giorno: i suoi capelli avevano un aspetto impolverato e
opaco, raccolti in uno stretto nodo sulla sommità del capo.
Quella
pettinatura, per quanto castigata e poco elaborata, esaltava la forma
regolare, proporzionata, della sua testa e donava in qualche modo ai
suoi tratti.
«La
mia squadra è
stanca» borbottò un ragazzo che dimostrava forse
diciassette anni.
Agatha gli gettò un'occhiataccia, sollevando un poco il
mento con
aria di disprezzo.
«In
tal caso mi farai
il piacere di non criticare più la mia.»
Che
tipino,
pensò Samuel senza riuscire a trattenere un sorriso.
Possibile che
si mettesse nei guai ovunque andasse? Le iscrizioni non erano aperte
che da due o tre ore e già quella ragazza era riuscita a
mettersi
contro una decina di allenatori. Decisamente... bellicosa.
Spinto
da una curiosità
irrefrenabile, Samuel mosse un passo in avanti e disse ad alta voce:
«Se sei d'accordo, accetto io la tua sfida.»
La
tensione si sciolse
bruscamente mentre Agatha si voltava e lo cercava con lo sguardo.
Alla sua vista, i suoi occhi si riempirono di perplessità:
era
chiaro che non capiva perché un perfetto sconosciuto che non
l'aveva
provocata volesse accettare la sua sfida. «Ci
conosciamo?»
«Beh...
io conosco
te.» Samuel si strinse nelle spalle. «Ho scommesso
assieme a te a
Fucsiapoli.»
«Fucsiapoli?»
A
giudicare dalla sua espressione, la ragazza non doveva aver
più
pensato alla scommessa da quel giorno... esattamente come lui.
Impiegò qualche istante a ricordare. «Oh... la
scommessa.»
A
questo punto, Samuel
non aveva più intenzione di tirarsi indietro. Aveva parlato
davanti
a tutti e, perdipiù, era decisamente troppo curioso di
scoprire se
davvero Agatha fosse tanto forte come si reputava. «Allora...
accetti?»
Davanti
alla
prospettiva della sfida, Agatha perse la benché minima
traccia di
dubbio. Gli sorrise di un sorriso che era sfida e soddisfazione e
domandò: «Andiamo fuori?»
Il
lastricato
dell'accesso monumentale alla Sede era un campo di battaglia
perfetto: attorno a loro si formò rapidamente un fitto
cerchio di
spettatori, richiamati dalla prospettiva di poter assistere a una
sfida. Samuel li fissò con vago disprezzo, domandandosi
perché non
lottassero a loro volta anziché limitarsi a guardare chi
aveva più
spirito d'iniziativa di loro. Dal canto suo, Agatha non sembrava
minimamente infastidita dalla loro presenza: il suo volto stanco era
eccitato e preso dall'idea della lotta.
«Desideri
porre
qualche condizione particolare?» gli domandò
dall'altra parte del
piccolo cerchio: distavano l'uno dall'altra poco più di una
decina
di metri. Samuel scosse il capo.
«No,
ma devo
avvertirti che possiedo solo cinque Pokémon.»
«Non
fa alcuna
differenza» assicurò Agatha. «Io ne ho
tre, ma valgono per sei.»
Un
fischio si levò a
queste parole, ma la ragazza non perse tempo a cercare nella folla
chi l'avesse emesso: doveva già sapere bene quanto lui che
non
l'avrebbe trovato. Samuel si sentì fremere i polsi davanti a
una
vigliaccheria così gratuita: i ragazzi che l'avevano
provocata
apertamente, sia lì che a Fucsiapoli, avevano almeno avuto
il
coraggio di darle modo di replicare e difendersi. Pur sentendosi
profondamente irritato, si sforzò di dominarsi quando le
rispose:
«In tal caso, ne userò tre anch'io.»
Colse
il subitaneo
mutamento di espressione di Agatha nel contrarsi delle sue labbra e
nello stringersi dei suoi occhi. «Non c'è alcun
bisogno che tu
faccia il cavaliere.»
«Ti
tratto come ho
sempre trattato ogni mio avversario» garantì
Samuel. Stava già
riflettendo rapidamente su quali Pokémon usare: avrebbe
fatto
piacere a tutti sgranchirsi le zampe con una lotta, ma il suo senso
dell'onore era troppo radicato e forte in lui per permettergli di
utilizzare più Pokémon di quanti ne possedesse un
rivale. Scelse
accuratamente una Pokéball dalla cintura.
«Cominciamo.»
Prima
ancora che Agatha
potesse dargli un solo cenno di assenso, una voce dai loro spettatori
la invitò sarcasticamente a far vedere a tutti il suo
grazioso
Wigglytuff, o qualcosa del genere. Stavolta entrambi riuscirono a
identificare chi aveva parlato: un ragazzo tarchiato e grassoccio
piuttosto vicino ad Agatha, ma anche stavolta ella non
replicò e si
limitò a gettare sul terreno una sfera.
«Vai,
Vileplume!»
Certo,
a modo suo,
Vileplume era un Pokémon molto carino, ma Samuel aveva
smesso ormai
da tempo di credere, come invece sembravano fare tutti gli astanti,
che fosse inoffensivo solo perché somigliava a un fiore. Si
levò
dal loro pubblico uno sgradevole coro di fischi alla sua volta.
Del
tutto
inconsapevolmente, anche Samuel aveva scelto un tipo Erba:
mandò in
campo il suo Exeggutor. Molto spesso qualche avversario l'aveva
criticato per aver scelto un Pokémon come quello e, in
generale, per
la sua scelta di preferire l'Erba all'Elettro; ma Samuel aveva sempre
confidato nel suo aspetto apparentemente vacuo e distratto.
«Vileplume,
Riduttore!»
Agatha
era passata
subito all'attacco senza dargli il tempo di elaborare una strategia.
Mentre Vileplume si avventava su Exeggutor con
un'aggressività che
aveva ben poco di femminile o grazioso o indifeso, tutto ciò
che
Samuel fu in grado di ordinare fu: «Exeggutor, usa
Riflesso!»
Quando
Vileplume lo
urtò pesantemente con tutto il peso del suo corpo, Exeggutor
indietreggiò di vari passi nel tentativo di ammortizzare la
forza
d'urto del suo colpo, ma eccezionalmente non cadde, riuscendo ad
abbassare il proprio baricentro abbastanza da ribilanciarsi e
rimanere in piedi. Riflesso aveva funzionato, anche se Samuel
gliel'aveva ordinato all'ultimo momento, e approfittando del breve
attimo di sbilanciamento del suo avversario, egli ne
approfittò per
gridare ancora: «Attacco Pioggia!»
Fu
ora il turno di
Exeggutor di scagliarsi contro il suo avversario, scrollando
rumorosamente le lunghe foglie che portava sul capo con un fruscio
come di stormire di vento. Fu un attacco vigoroso e violento, che per
qualche istante fece crollare Vileplume a terra sotto l'infierire dei
suoi colpi; ma proprio quando Samuel pensava di essere già
riuscito
a sconfiggere quel Pokémon, Agatha gridò
seccamente:
«Velenpolvere!»
Mai
avvicinarsi troppo
a un Pokémon Veleno, questo Samuel aveva sempre cercato di
tenerlo a
mente, ma per qualche istante si era lasciato prendere dalla foga
della battaglia. Exeggutor sovrastava il nemico in tutta la sua
altezza, ma la posizione di sottomissione di Vileplume si
rivelò
drammaticamente ingannevole quando il Pokémon
reclinò il capo in
avanti e dal bulbo che portava gli soffiò un vaporoso getto
di spore
dritto sui tre volti.
Exeggutor
emise tre
strida brucianti di dolore e balzò indietro, scuotendosi e
dimenandosi nel tentativo di liberarsi gli occhi e le nari dalla
polvere velenosa che cominciava già a indebolirlo. Con un
sorriso di
trionfo, Agatha protese un braccio in avanti per ordinare:
«Acido!»
«Exeggutor,
attento!»
gridò Samuel istintivamente, ma invano: il
Pokémon teneva gli occhi
chiusi per attenuare il bruciore e il getto nero e vischioso,
maleodorante che Vileplume gli spruzzò addosso lo
colpì in pieno
sul torso d'albero e su due delle sue tre facce. Sbilanciato e quasi
acciecato, Exeggutor cadde pesantemente seduto al suolo, gemendo di
dolore ma, forse proprio perché Riflesso aveva aumentato le
sue
difese, non ancora del tutto sconfitto.
«Ancora
Acido!»
esclamò Agatha furiosamente.
Vileplume
era già
pronto ad attaccare di nuovo, il suo capo si stava reclinando in
avanti, prendendo la mira verso l'avversario: no, Exeggutor non ce
l'avrebbe fatta a resistere a un altro attacco, avvelenato e
semicieco com'era. Confidando nei suoi riflessi, Samuel non
poté
fare altro che tentare un'ultima carta. «Exeggutor,
Psichico!»
Il
breve attimo
necessario a Vileplume per preparare il suo fluido tossico fu
sufficiente: volgendo il torso di lato, Exeggutor lo
fronteggiò con
l'unica delle sue facce che ancora non era stata colpita dall'Acido e
gli sparò contro un violento raggio violaceo che lo
colpì
precisamente al centro dei suoi grandi petali.
Agatha
vide crollare il
suo Pokémon con una viva espressione di
contrarietà e stupore
dipinta in viso, tuttavia non proruppe in esclamazioni o proteste. Lo
richiamò freddamente nella sua sfera e si limitò
a riconoscere:
«Stavolta hai vinto tu, lo riconosco.»
Samuel
non aveva
bisogno delle risate e delle grida di scherno del loro pubblico per
innervosirsi ancor più nei loro confronti: si
sforzò di dominarsi e
concentrarsi sulla lotta. Sì, aveva sconfitto Vileplume, ma
Exeggutor non era comunque più in condizioni di lottare. Lo
sostituì
a sua volta con il suo Arcanine prima ancora che Agatha mandasse in
campo il suo prossimo Pokémon.
«Vai,
Tentacruel!»
Samuel
non aveva potuto
prevedere che Agatha avrebbe mandato in campo un Pokémon
d'Acqua,
eppure ebbe l'impressione che non si sarebbe approfittata del
vantaggio di tipo che aveva evidentemente su di lui: sembrava
decisamente troppo orgogliosa per vincere a quel modo. Scelse
comunque di optare per una strategia di difesa: «Cominciamo
con
Pazienza, Arcanine!»
Agatha
arricciò il
naso su quella scelta. «Pazienza? Tutto ciò che
intendi fare è
incassare i miei colpi?» Tuttavia Samuel non le
prestò attenzione
ed ella esclamò bruscamente: «Tentacruel,
Limitazione!»
Quando
Tentacruel
abbatté su di lui un enorme tentacolo viscido, Arcanine
divaricò le
zampe per sostenersi meglio sul terreno. Il suo avversario lo
colpì
violentemente sul fianco destro, con un suono secco che
rincoccò in
aria come un colpo di frusta, ma Arcanine resistette strenuamente
rivolgendogli solo un ringhio sommesso, cogli occhi socchiusi e il
muso contratto.
«Ottimo,
Arcanine!
Resisti ancora» lo incoraggiò Samuel: aveva sempre
avuto una grande
fiducia in quella strategia. Ma subito Agatha alzò la voce
dall'altra parte del piccolo campo di battaglia per ordinare:
«Tentacruel, Supersuono!»
Questo
lo colse
impreparato. Il suono che Tentacruel emise subito dopo, in risposta a
quell'ordine, era evidentemente troppo alto perché egli
potesse
udirlo, ma colpì le orecchie canine di Arcanine con una
forza tale
da sconvolgerlo e confonderlo. Poiché si era già
chinato in avanti
per resistere a Limitazione, Arcanine ora si sbilanciò
paurosamente,
cadendo al suolo con un uggiolato confuso, e per qualche istante
parve non sapere più dove si trovasse.
«Ottimo!
Ora usa
Tossina» gridò Agatha, con una profonda vibrazione
di compiacimento
nella voce.
A
quell'ordine Samuel
ebbe un involontario gesto di preoccupazione: confuso e
iperavvelenato, come avrebbe potuto il suo Pokémon
proseguire la
lotta?
Tentacruel
schizzò
addosso ad Arcanine un liquido nero e denso simile a inchiostro, ma
quegli era tanto confuso e spaesato che parve non accorgersene
neppure. I suoi occhi erano vacui e privi: cercò di
rialzarsi, con
un lungo guaito di dolore e paura, ma tutto ciò che fu in
grado di
fare fu barcollare paurosamente sulle zampe instabili e tremanti.
A
questo punto, Samuel
aveva già visto abbastanza: con un sospiro, levò
il braccio e lo
richiamò dentro la sfera, provocando un coro di proteste
tutto
attorno a loro e uno sguardo perplesso negli occhi di Agatha.
«Hai
vinto tu, non è
più in grado di lottare» disse soltanto. Si
sentiva seccato e
confuso, turbato per aver perso anche un solo round, colpevole verso
Arcanine per le sue condizioni. Agatha gli fece cenno di aver capito
e Samuel, ben consapevole che era la sua ultima carta, mandò
in
campo Tauros.
Era
stato il primo
Pokémon che avesse catturato alla Zona Safari, dopo ore di
appostamenti nel fango putrescente di una zona palustre, e Samuel
confidava molto in lui. Tauros mugghiò rumorosamente contro
Tentacruel, percuotendosi più e più volte con le
tre code i fianchi
poderosi, e Agatha sorrise con aria di superiorità.
«Non
hai niente di
meglio? Tentacruel, usa Tossina!»
Ma
la ragazza non aveva
fatto i conti con la rapidità del proprio nemico: con uno
scalpitare
tonante di zoccoli, Tauros si scansò decisamente dalla
traiettoria
del veleno, che inzuppò le pietre del lastricato con uno
sfrigolio
sinistro. Davanti a quel fallimento, persino Agatha si
lasciò
sfuggire un gemito di stizza, stringendo i pugni, ma Samuel si mosse
prima di darle il tempo di reagire.
«Tauros,
usa Fulmine!»
Era
la sua arma
segreta, era la mossa che nessuno si aspettava mai da un
Pokémon
Normale: Samuel ebbe la soddisfazione di vedere la bocca della sua
avversaria spalancarsi di sorpresa quando il folto pelo di Tauros si
rizzò per l'accumularsi dell'energia statica e una sottile,
rapida
saetta colpì Tentacruel prima ancora che questi potesse
allontanarsi.
L'elettricità
avviluppò il suo corpo come una nube statica, attanagliando
i suoi
lunghi tentacoli: impossibilitato a muoversi e a tenersi in
equilibrio, Tentacruel oscillò pesantemente più
volte, lottando per
non cadere, e finì per abbattersi pesantemente al suolo dove
rimase
immobile, come paralizzato.
«Tauros,
Pestone!
Finiscilo» ordinò Samuel, ma prima che Tauros
potesse obbedirgli e
precipitarsi su Tentacruel coi suoi zoccoli, un fascio di luce rossa
lo ricatturò di nuovo all'interno della sua sfera. Quando
Samuel
alzò gli occhi, vide che Agatha aveva le labbra strette e la
fronte
accigliata.
«Non
c'è bisogno di
infierire» constatò semplicemente con voce cupa,
mentre riponeva la
Pokéball e ne estraeva un'altra. Ora a entrambi restava un
unico
Pokémon, ma subito la ragazza volle precisare: «Se
vuoi usare un
altro Pokémon, non mi lamenterò.»
«Tauros
sarà
sufficiente» ribatté Samuel. Del resto, erano alla
pari.
«Come
vuoi, io ti ho
avvertito. Vai, Nidoking!»
L'esemplare
che apparve
davanti a loro era semplicemente gigantesco, il più grande
che
Samuel ricordasse di aver mai visto, a tal punto che Tauros
arretrò
di qualche passo, scalpitando nervosamente mentre continuava a
percuotersi i fianchi: quello non era decisamente
un Pokémon
femminile.
«Buono,
buono... è
tutto a posto» mormorò Samuel a bassa voce, per
quanto in realtà
comprendesse anche troppo bene i suoi timori: quel Nidoking era
spaventosamente grande... Agatha lo stava fissando compiaciuta con
duri occhi neri e orgogliosi: persino i suoi detrattori sembravano
ammutoliti di fronte a quel colosso di nerboruta prestanza fisica che
attendeva con incredibile mansuetudine gli ordini di quella piccola
ragazza.
«Rinnovo
la mia
offerta» ribadì Agatha. «Sei sicuro di
non voler chiamare un
quarto Pokémon?»
«Sicurissimo»
sbottò
Samuel spazientito, anche se non si sentiva più
così sicuro
riguardo all'esito di quello scontro. Tutto sommato, Agatha sapeva
davvero il fatto suo.
«In
tal caso...
Nidoking, Doppiocalcio!»
Agatha
era furore,
era attacco fisico e aggressività immediata, impulsiva. La
sua
strategia era un attacco continuo, scoperto e palese –
curioso che
una ragazza del genere avesse scelto proprio i Pokémon di
tipo
Veleno, un tipo infido e sottile. In qualunque caso, la tecnica di
Samuel era del tutto diversa, misurata e difensiva e calcolata, ed
egli non poté che esclamare: «Pazienza!»
Quando
Nidoking colpì
Tauros in pieno, egli dovette imporsi quasi fisicamente di non
distogliere lo sguardo. Il primo calcio si abbatté
letteralmente sul
suo petto con un suono orrendo, tanto forte che Samuel fu tentato di
interrompere la lotta seduta stante e portare di corsa il suo
Pokémon
al centro Pokémon, ma contro ogni aspettativa, Tauros non
cadde.
«È
questa la tua
strategia?» gridò beffardamente Agatha. Il secondo
calcio raggunse
Tauros con la stessa forza del primo: stavolta il Pokémon fu
sollevato di qualche centimetro, oscillando, e arretrò sulle
zampe
posteriori, muggendo di dolore. «Continuare a incassare i
miei colpi
e sperare che prima o poi funzioni?»
Ignorando
deliberatamente le sue provocazioni, Samuel si limitò a
seguire con
lo sguardo i movimenti nervosi e lenti di Tauros: era paurosamente
indebolito, ma ancora in grado di lottare e attendeva i suoi ordini.
«Adesso,
Tauros!»
Dopo
aver incassato
senza reagire quei formidabili colpi, Tauros accolse quest'ordine
più
volentieri di quanto Samuel stesso si sarebbe aspettato, scagliandosi
contro Nidoking con furia di vendetta. Anche sollevandosi sule zampe
posteriori, non raggiungeva a malapena che il petto del suo
avversario, ma non si lasciò intimidire: lo colpì
colle corna,
cogli zoccoli, con tutto il proprio peso, troppo rapidamente
perché
Nidoking potesse scacciarlo colle tozze braccia robuste... la furia
incalzante del suo attacco fu tale da sbilanciarlo e farlo
indietreggiare verso Agatha, spazzando rabbiosamente il terreno con
la lunga coda e tentando di appoggiarvisi per non cadere.
Quando
finalmente
Tauros abbandonò il suo attacco serrato e tornò
sulle quattro
zampe, era evidente che Nidoking aveva incassato il colpo dal modo in
cui vacillava. Ruggì minacciosamente, ma di un ruggito
fiacco e
affaticato, e per un attimo piegò faticosamente un ginocchio
per
appoggiarsi al suolo.
Agatha
era incupita e
corrucciata: scrutava la battaglia col volto scuro e il respiro
trattenuto.
«Nidoking,
usa
Tossina!»
«Ti
piace proprio
questa mossa, non è vero?» esclamò
Samuel, parzialmente divertito:
ora che Tauros pareva aver rimontato, si sentiva assai più
disposto
a scherzare.
Dalla
bocca di Nidoking
eruttò un fiotto di veleno scuro e repellente, ma Tauros
riuscì ad
allontanarsi di scatto dalla sua traiettoria e appena qualche spruzzo
colpì i suoi zoccoli. Era il momento: Samuel sentiva ormai
di avere
la vittoria in pugno.
«Tauros,
Terremoto!»
La
terra cominciò a
tremare sotto gli zoccoli di Tauros, tanto violentemente che persino
Samuel, pur trovandosi a qualche metro da lui, ne sentì le
vibrazioni sotto i piedi e Agatha, ben più vicina di lui ai
due
combattenti, parve vacillare.
Per
un tempo che a
Samuel parve interminabile, Nidoking lottò disperatamente
per
mantenersi in piedi, ruggendo di dolore e di sgomento e battendo al
suolo la lunga coda nel tentativo di reagire a quelle scosse. Ma poi
vi fu una vibrazione più forte, le sue zampe incespicarono:
per un
istante incredibilmente lungo, Nidoking oscillò su se stesso
prima
di cadere al suolo con un rombo secco che echeggiò contro le
pareti
delle montagne che li circondavano.
Al
violento tremito di
Nidoking che cadeva al suolo, Samuel strinse silenziosamente il pugno
in un gesto di discreto trionfo. Dignitosamente contrariata, Agatha
si limitò tuttavia a richiamare il suo Pokémon
nella sfera senza
una parola.
Un
coro di esclamazioni
di ammirazione e di scherno, non troppo chiaramente distinte tra
loro, si levò rumorosamente dal loro pubblico, ma Samuel li
ignorò
come al solito. Si precipitò verso Tauros, che ancora
rimaneva in
piedi quasi per miracolo, e affondò affettuosamente le dita
nella
folta pelliccia scura che gli copriva il petto e le spalle.
«Sei
stato bravissimo»
mormorò al suo orecchio. Gli accarezzò il muso,
là dove il crine
era più corto e ruvido, e sentì che la sua pelle
era madida di
sudore. «Ti ringrazio, mio caro. Tutti voi siete stati
bravissimi.»
Ma
quando sollevò il
capo per ringraziare la sua avversaria e farle i complimenti,
all'improvviso si rese conto che Agatha era scomparsa.
«Posso
sapere il tuo
nome?» gli chiese senza preavviso una dura voce di donna,
cogliendolo
di sorpresa mentre stava leggendo il giornale.
Quando
Samuel alzò lo
sguardo, vide che Agatha lo stava fissando con sguardo accigliato,
appoggiandosi al tavolo della caffetteria dove lui stava facendo
colazione. I suoi capelli erano ora di nuovo puliti e sciolti,
distesi in una massa voluminosa sulle spalle e la schiena. Era
davvero carina, constatò Samuel chiudendo il giornale con un
sospiro, malgrado il suo sguardo truce e l'arroganza con cui si
appoggiava al bordo del tavolo.
Inutile
dire che non si
era aspettato di vederla quel giorno: per quanto l'avesse cercata per
tutto il pianterreno, il giorno precedente, non gli era stato
possibile trovarla da nessuna parte. Aveva cercato di ignorare un
vago senso di rimpianto alla bocca dello stomaco e di non
prendersela, ripetendosi che, dopotutto, le ragazze erano fatte
così, ma ora che la vedeva, era evidente che proprio come
lui anche
Agatha doveva aver dormito lassù per far curare i propri
Pokémon
durante la notte: discendere dall'Altopiano Blu senza
Pokémon in
grado di lottare sarebbe stato semplicemente un suicidio. Egli stesso
aveva dovuto rimandare la discesa per lo stesso motivo: Charizard e
Gyarados da soli sarebbero stati probabilmente in grado di scortarlo
fino a Smeraldopoli, ma in ogni caso era impensabile camminare per
ore con Exeggutor e Arcanine in quelle condizioni, per quanto chiusi
nelle sfere.
«Prego?»
chiese
Samuel abbassando lentamente il giornale per osservarla a proprio
agio.
«Posso
sapere il tuo
nome?» ripeté Agatha spazientita, aumentando
nervosamente la presa
sul bordo del tavolo. Samuel sorrise appena, distogliendo per un
attimo il volto da lei: come aveva supposto fin dal primo momento,
quella ragazza doveva avere un bel caratterino.
«Samuel
Oak» disse
infine, porgendole la mano. «Mentre tu sei...?»
«Agatha»
rispose la
ragazza in tono di sufficienza, ricambiando la sua stretta.
«Ti
ringrazio.» Dopodiché si voltò e fece
decisamente per andarsene,
senza un'altra parola di commiato.
«Aspetta,
aspetta»
esclamò Samuel accennandole di fermarsi. «Ieri sei
scappata in
fretta e non ci siamo neppure presentati. Ora per quale motivo vuoi
sapere il mio nome?»
«Sarei
forse dovuta
restare più a lungo assieme a quegli ignoranti?»
replicò Agatha
con alta voce alterata, trattenendosi accanto al tavolo quasi con
disgusto. «In ogni caso, volevo solo avere la
possibilità di
poterti chiedere la rivincita, tra qualche tempo. Mi sembra
ovvio.»
Tanto
ovvio non era, a
dire il vero: la maggior parte degli allenatori temeva troppo una
seconda batosta per chiedere una rivincita a un avversario... ma
ciò
che colpì Samuel fu la prima parte della sua affermazione
stizzosa e
d'un tratto, ripensando al giorno precedente, gli dispiacque quasi di
aver vinto. Certo, egli l'aveva trattata alla stregua di un qualsiasi
avversario, e per la verità era ben consapevole di aver
vinto con un
margine decisamente ristretto e in buona parte grazie alla fortuna:
se solo l'ultima Tossina di Nidoking fosse andata a buon segno o se
il Terremoto di Tauros fosse stato appena un poco più
debole, molto
probabilmente egli avrebbe perso. Tuttavia, Agatha non doveva vederla
allo stesso modo: tutta la sua bravura, la sua strategia non avevano
alcun significato per quegli allenatori che l'avevano vista perdere
come una ragazzina qualunque. A quel pensiero, Samuel si
sentì un
po' in colpa: aveva vissuto quella sfida come una delle tante e non
avrebbe mai voluto umiliarla... sì, ma come dirglielo senza
mortificare ancor più il suo orgoglio?
«Certo»
rispose con
una lieve esitazione. «Spero che ci incontreremo di nuovo
alla
Lega.»
«Splendido»
concluse
freddamente Agatha, allontanandosi con decisione dal tavolo.
Era
la sua ultima, la
sua unica occasione per chiederle scusa, in qualche modo. Quasi
istintivamente Samuel balzò in piedi e la superò
in poche ampie
falcate, tagliandole la strada: la ragazza si fermò quasi
esasperata. «Sì?»
«Volevo
solo dirti
che sei stata davvero brava» disse in fretta Samuel.
«E anche
che... insomma... per me non era nulla di personale, se questo
può
cambiare le cose tra noi. Spero che tu non ce l'abbia con me.»
«Nulla
di personale?»
ripeté Agatha incrociando le braccia. Ora che Samuel la
vedeva da
vicino, notò che i suoi occhi erano notevolmente grandi,
neri e
liquidi, con un taglio particolare che dava loro una sorprendente
dolcezza malgrado l'espressione altera. «Cosa vuoi
dire?»
«Voglio
solo dire che
non ti ho sfidata perché non credevo nella tua forza a causa
del tuo
sesso» spiegò. Si sentiva profondamente stupido,
eppure sentiva di
doverle almeno quelle parole. «Tutto qui. Per me è
stata una bella
sfida e vorrei che potessimo ricordarla senza rancore.»
Per
qualche secondo,
egli temette che Agatha lo avrebbe schiaffeggiato: l'espressione dei
suoi occhi era imperscrutabile. Del resto, era trascorso molto tempo
dall'ultima volta che aveva parlato con una ragazza e in questo
genere di cose doveva confessarsi un po' impacciato: il mondo
dell'allenamento era un mondo quasi interamente maschile, un mondo
immediato e trasparente dove una pacca sulla spalla significava senza
rancore, eh e un pugno in faccia esattamente l'opposto,
mentre
per quanto ne sapeva lui, con le ragazze la faccenda era più
complicata – quando si parlava con una ragazza, chi poteva
dire se
sì voleva dire sì
oppure no?
Finalmente,
dopo un
tempo che a lui parve infinito, l'espressione di Agatha parve
alleggerirsi un poco e le sue dita bianche, che affondavano nella
stoffa del suo golfino sulle braccia in modo quasi minaccioso, si
rilassarono un po'. «Oh. Capisco.» Esitò
un istante, vagando con
lo sguardo tutto attorno come a cercare le parole, e disse con voce
improvvisamente incerta, come se fosse la prima volta che diceva una
cosa del genere: «No, non ce l'ho con te. Sei stato molto...
uhm,
molto bravo. Anche se personalmente non apprezzo le strategie
passivo-difensive.»
In
quel momento, a
Samuel venne in mente che come lui non era molto abituato a parlare
con delle ragazze, allo stesso modo ad Agatha poteva capitare assai
di rado di parlare con degli allenatori, e in effetti, se tutti si
comportavano come quelli che le aveva visto attorno fino ad allora,
interessati solo a deriderla o a provarci o entrambe le cose, egli
non poteva biasimarla... per quanto, evidentemente, col suo carattere
ella non facesse nulla per rendersi le cose più facili. Ma a
differenza sua, Samuel aveva ogni giorno la possibilità di
confrontarsi con qualche allenatore del suo sesso, qualcuno con cui
la comunicazione fosse facile e immediata e istintiva, mentre di
certo Agatha non poteva aver incontrato molte allenatrici sul proprio
cammino... con ogni probabilità, doveva essere una ragazza
molto
sola.
«Allora...
senza
rancore eh?» chiese porgendole la mano. «Dai, vieni
a sederti con
me. Visto che non è l'ora adatta per una birra ti offro un
caffè,
vuoi?»
Questa
volta, Agatha
studiò il suo gesto con occhi incerti e perplessi, prima di
stringere la sua mano senza la benché minima convinzione.
Sì,
concluse Samuel con una fitta lievissima di dispiacere e, forse, di
rimorso: doveva essere davvero piuttosto solitaria per non conoscere
quell'usanza che era la prima e più spontanea degli scontri
di
Pokémon, quella di bere assieme a battaglia finita.
Chissà fino a
che punto era lei a evitare gli uomini e quanto invece gli uomini a
scansare lei; fino a che punto il suo carattere acido fosse in lei
naturale e quanto invece fosse una reazione alle derisioni e
all'isolamento...
Pochi
minuti dopo,
davanti a una colazione calda ai due lati opposti del tavolo (per
Samuel si trattava della seconda colazione, ma questo non costituiva
di certo un problema), egli ebbe finalmente modo di osservarla a suo
agio, discretamente, e intavolare una conversazione. A suo modo,
Agatha lo incuriosiva terribilmente, forse proprio perché
era a
prima vera allenatrice che avesse mai conosciuto.
«Allora...»
cominciò
schiarendosi la voce. «Ti piace il tipo Veleno, eh?»
«L'hai
notato?»
chiese Agatha con un lieve moto di stupore, mescolando lentamente un
caffè amaro. «Non molti ci fanno caso. Comunque,
sì. È il mio
tipo preferito.»
«I
tipi dei Pokémon
sono la mia specialità» disse Samuel, sperando di
non apparire
troppo presuntuoso. «In generale tutto ciò che li
riguarda mi
affascina, è una mia passione. Spero anche di farne un
lavoro, un
giorno.»
«Un
lavoro?» ripeté
Agatha sorpresa. Bevve un lento sorso di caffè.
«Lo studio dei
Pokémon?»
Samuel
annuì.
«Esattamente, ci sono moltissime cose ancora tutte da
scoprire al
riguardo, anche se non sembra. Come nascono, da dove vengono... cose
del genere.»
Prima
che Agatha
facesse in tempo a rispondere alcunché, una forte voce
maschile da
qualche parte alle sue spalle tuonò: «Ehi,
Agatha!»
Samuel
si sollevò
leggermente per cercare di vedere oltre la sua testa chi avesse
parlato; davanti a lui, Agatha si voltò sulla sedia ed egli
la sentì
dire: «Oddio.» Solo dopo qualche istante, quando
finalmente vide
delinearsi tra la folla un fisico tarchiato e muscolare e un paio di
spalle già ustionate dal sole della primavera appena
iniziata,
Samuel comprese il motivo del suo sconforto. Era Jake Waters, il
ragazzo della scommessa di Fucsiapoli.
«Allora,
Agatha»
esclamò Jake, irrompendo letteralmente tra loro e
appoggiandosi al
tavolo quasi con tutto il proprio peso. Sembrava irradiare
eccitazione da tutti i pori. Guardandolo, Samuel non poté
fare a
meno di chedersi se sul suo corpo il clima fosse diverso rispetto al
resto della regione – non gli sembrava ancora così
caldo da
indossare solo pantaloni corti e canottiera, in particolar modo a
quell'altitudine, e non capiva come potesse essersi provocato quegli
arrossamenti sulle guance e sul naso. «Ce l'abbiamo fatta,
eh? Siamo
sull'Altopiano Blu!»
«Jake»
disse Agatha a
bassa voce. «Che sorpresa incantevole.» Il suo tono
era tanto
gelido che avrebbe ucciso l'entusiasmo di chiunque, ma il sorriso di
Jake non si rimpicciolì minimamente. Parve accorgersi anche
di lui
in quel momento.
«Ehi,
mi ricordo di
te! A Fucsiapoli, la sera della scommessa. Barry, giusto?»
Infrangere
la sua
convinzione era quasi un peccato. «Beh... non proprio.
Samuel.»
Jake
schioccò le dita
scoppiando a ridere. «Giusto, Samuel! Scusami, sai, ma con
tutti
quei nomi sulla lista...»
«Sei
arrivato oggi?»
chiese Samuel, sforzandosi di comportarsi civilmente. Agatha stava
sorseggiando il suo caffè con sguardo tanto truce che
chiunque, se
avesse pensato di esserne la causa, si sarebbe defilato il
più in
fretta possibile, ma Jake non se n'era accorto o non gli importava.
«Giusto
mezz'ora fa.
Ho già completato le iscrizioni e ora mi sto riposando... e
magari
cerco qualcuno con cui fare un po' di riscaldamento. Qualcuno di voi
è interessato?» s'informò rapidamente,
volgendo lo sguardo su di
loro.
Il
silenzio scontroso
di Agatha era quasi imbarazzante. Samuel decise di prendersi la
libertà di rispondere anche per lei.
«Ti
ringrazio, ma i
nostri Pokémon sono a riposo adesso. Ieri abbiamo
lottato.»
«Ah,
allora siete voi
i due che si sono sfidati, ieri!» esclamò Jake.
Preso dalla
conversazione – anche se a Samuel non sembrava che
né lui né
Agatha stessero facendo particolari sforzi per renderla viva e
interessante- prese una sedia da un tavolo vuoto e l'accostò
a sé
per sedersi con loro. «Ho sentito dei ragazzi
laggiù che ne
parlavano. Beh, chi ha vinto?»
Questa
volta,
evidentemente scocciata, Agatha aprì la bocca per
rispondere, ma
Samuel la precedette istintivamente. «Una sorta di pareggio,
direi.»
«Ah,
capisco» rispose
Jake, cui del resto sembrava non importare poi molto.
Tamburellò con
le dita sul tavolo. «Beh, se siete qui da ieri vi sarete
già
iscritti. Ora che progetti avete in attesa che inizi il
Torneo?»
Per
qualche strano
motivo, Samuel e Agatha si scambiarono uno sguardo al di sopra del
tavolo, probabilmente perché entrambi, dal tono che Jake
aveva
usato, avevano capito che egli pensava che avessero un progetto
condiviso. Samuel non era sicuro di cosa fosse meglio rispondere o
fargli credere: Jake non gli stava decisamente antipatico, dato che
lo conosceva così poco, ma non voleva rischiare di trovarsi
coinvolto in un qualche allenamento a tre.
«Nulla
di preciso»
rispose ruvidamente Agatha, con un tono tanto secco da rendere
superflua qualsiasi altra risposta, e Samuel si limitò a
unirsi a
lei annuendo.
«Meglio
così»
esclamò Jake, come se non avesse atteso altro che quella
risposta.
«Io e altri ragazzi stavamo organizzando una settimana di
allenamento intensivo alle Isole Spumarine in vista del Torneo, tanto
per fare amicizia e studiare un po' di strategie alternative. Dal
dodici al diciannove maggio. Che ne dite, eh? Siete dei
nostri?»
Sul
tavolo calò il
silenzio. Samuel gettò un'occhiata ad Agatha e si
sentì un poco
rassicurato al ricevere da lei uno sguardo incredulo in risposta.
Senza una parola, era certo che entrambi stessero pensando a quali e
quante ridicoli iniziative quel ragazzo amasse organizzare.
«Sarei
l'unica
ragazza» disse in fretta Agatha, levando le mani in segno di
resa.
«Non starebbe bene.»
Jake
parve colpito
dall'idea solo in quel momento. Le scoccò uno sguardo
dispiaciuto.
«Hai ragione, in effetti. Sarebbe inappropriato»
ammise, prima di
rivolgersi di nuovo a Samuel con aria fiduciosa. «Beh, non ha
altri
impegni, vero? Sarai dei nostri?»
Samuel
annaspò per
qualche attimo alla ricerca di una buona scusa: sapeva che Jake
glielo stava proponendo in buona fede e gli dispiaceva mortificare la
sua offerta con un rifiuto immotivato. In mancanza di meglio, stava
per affermare nel modo più convincente possibile che era
troppo
abituato ad allenarsi da solo, quando Agatha disse improvvisamente:
«Samuel ha promesso di allenarsi con me. Non è
vero?»
Samuel
si augurò che
Jake non notasse il sollievo che si era dipinto nei suoi occhi. Si
affrettò ad annuire con un improvviso moto di gratitudine
nei
confronti di Agatha, guardando Jake con espressione profondamente
rammaricata. «Esattamente... ho promesso, ormai. Mi
dispiace.»
«Oh..
capisco»
concluse Jake, prolungando tanto quell'oh e
scrutandolo con
tale fissità da rendere chiaro che aveva capito molto
più di quanto
ci fosse da capire. Gli gettò un sorriso ammiccante prima di
alzarsi
dalla sedia quasi bruscamente, come se all'improvviso la sentisse
bruciare. «Beh, in tal caso, non vorrei disturbarvi. Se
doveste
decidere di unirvi a noi solo per una giornata, sapete dove trovarci,
va bene?»
«Grazie,
Jake» disse
finalmente Agatha con un sorriso luminoso, evidentemente sollevata e
impaziente all'idea di toglierselo di torno. «Se decideremo,
verremo
direttamente lì.»
Di
fronte all'evidenza
di quel congedo, persino l'insistente presenza di Jake finì
per
allontanarsi attraverso la mensa. Agatha attese che l'eco del suo
passo pesante fosse ben lontana prima di chinarsi verso di lui sul
tavolino, spingendo via la propria tazzina ormai vuota. I suoi
capelli spiovvero attorno al suo volto, giunsero a sfiorare i dorsi
delle sue mani bianche appoggiate sul piano. «Spero che non
ti sia
dispiaciuto. Mi sembravi... in difficoltà.»
«Ti
dico una cosa.»
Samuel si sporse a sua volta in avanti e accostò
discretamente il
volto al suo per parlarle all'orecchio con aria di segretezza. La
ragazza s'irrigidì appena, ma non si allontanò da
lui. «Mi hai
salvato.»
Agatha
rise.
Buonasera
a tutti!
Questo
capitolo è stato per me incredibilmente impegnativo,
principalmente
a causa della scena di lotta. Nelle mie precedenti fanfiction ho
sempre evitato di descrivere le sfide di Pokémon, ma sto
disperatamente cercando di migliorare sotto vari aspetti e, visto che
questa storia dovrebbe essere più di avventura rispetto alle
altre,
ho deciso d'impegnarmi molto. Sono perfettamente consapevole che
questa non è la squadra di Agatha nei videogiochi, ma non
temete:
col progredire dei capitoli tutto si chiarirà. La squadra di
Samuel
è invece quella che avrebbe dovuto avere il Professor Oak
nei
videogiochi se avessero inserito questa lotta – le mosse sono
una
mia scelta, ma spero che mi si possa perdonare questa
libertà.
Sarei
molto contenta di sapere che ne pensate della battaglia, proprio
perché è la prima che descrivo. È
troppo lunga, troppo noiosa?
Semplicemente orrenda?
Un
ringraziamento e un bacio enorme a Mad_Dragon e a crystal_93 per le
loro recensioni, mi hanno fatto davvero piacere!
Afaneia
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Nome di famiglia. ***
Capitolo
terzo –
Nome di famiglia.
Cominciarono
la discesa
assieme, senza rendersene conto, appena mezz'ora dopo. I loro
Pokémon
stavano bene, l'infermiera aveva rassicurato entrambi, pur
raccomandandosi di evitare loro sforzi eccessivi. Samuel si domandava
quanto frustrante dovesse essere ripeterlo in continuazione a ogni
allenatore, sapendo in anticipo di dover rimanere inascoltate: faceva
parte della loro deontologia professionale avvertire gli allenatori
di non pretendere troppo dai loro compagni, ma esse erano anche
troppo consapevoli di quanto le lotte significassero per chi ne aveva
fatto il proprio mestiere.
Se
qualcuno avesse
chiesto loro per quale motivo stavano lasciando assieme l'Altopiano
Blu, molto probabilmente nessuno di loro avrebbe saputo trovare una
risposta univoca: nella sua mente, Samuel dava per scontato che fosse
semplicemente normale per due persone che andassero nello stesso
posto andarci insieme, e che arrivati a Smeraldopoli, altrettanto
naturalmente, si sarebbero divisi. Nel frattempo, tuttavia, avere
compagnia non gli dispiaceva, per quanto silenziosa quella compagnia
fosse: certo, non era molto facile portare avanti una conversazione
discendendo attraverso gli intricati sentieri rocciosi della Via
Vittoria – paradossalmente, quella strada era quasi
più semplice
da percorrere in salita, quando erano più ridotti i rischi
di
sbilanciarsi in avanti e scivolare sui crinali di roccia. A ogni
modo, Agatha lo affiancava senza lamentarsi, né sembrava
affaticata
o in difficoltà più del normale.
«Non
ci sono molti
Pokémon selvatici, oggi» constatò
semplicemente a un tratto,
mentre scivolavano lentamente lungo un'angusta strettoia tra due
pareti di roccia. Era una semplice affermazione, tuttavia ella
levò
lo sguardo su di lui come se si attendesse una risposta.
Era
vero, in effetti:
in lontananza Samuel aveva visto un paio di Graveler e dietro un
masso aveva colto lo scattare guizzante della coda di un Onix, ma
nessun Pokémon si era avvicinato troppo a loro o li aveva
attaccati.
«Molto
probabilmente
l'afflusso di allenatori che è passato di qui in questi
giorni li ha
sconvolti.»
Agatha
assentì appena
col capo, poi s'inginocchiò al suolo per valutare l'altezza
di un
dislivello. «Prima che Jake c'interrompesse, hai detto che ti
piacerebbe fare dello studio dei Pokémon il tuo
lavoro.
Era questo che
intendevi?»
«Beh...
più o meno.»
Samuel le fece cenno di aspettare e scese il dislivello con un
piccolo balzo. «Non so ancora cosa m'interesserebbe di
più: forse
le evoluzioni, o le relazioni tra umani e Pokémon... il
campo è
talmente vasto. Mi affascinano vari argomenti.» Le porse la
mano per
aiutarla a scendere a sua volta e Agatha l'accettò senza
esitazione:
sembrava che al di fuori delle lotte gli atti di cavalleria non le
dispiacessero.
«Vuoi
dire che non
continuerai ad allenare i Pokémon per sempre?»
chiese con
interesse.
«Beh...
tu intendi
farlo?»
«Certo.
Perché no?»
replicò Agatha quasi sorpresa, alzando le spalle.
«Io
no» disse
sinceramente Samuel. «Voglio dire, non è quello
che intendo fare
per tutta la vita.» Si prese un momento per gettare uno
sguardo alla
strada che si stendeva davanti a loro: la lunga grotta della Via
Vittoria era parzialmente illuminata dal sole che filtrava attraverso
profonde spaccature nella roccia. «Non fraintendermi, adoro
viaggiare e allenarmi con i miei Pokémon: siamo in viaggio
già da
sei anni... ma non penso che sia quello che continuerò a
fare tra
qualche anno. Trovo che un uomo adulto abbia bisogno di un lavoro
sicuro.»
«E
che cosa farai? Ti
fermerai e metterai su famiglia?» domandò Agatha
con un sorriso
ironico, come se l'idea la divertisse. Continuava a camminare
lentamente, appoggiandosi al muro con la mano e saggiando cautamente
col piede i punti incerti per non rischiare di scivolare. Sembrava
cavarsela bene persino su quei passi di montagna.
«È a questo che
ti serve il lavoro sicuro?»
«Beh,
sì» ammise
Samuel, fermandosi un attimo. Non si era mai soffermato a riflettere
molto su questo aspetto, a dire il vero: aveva sempre assunto con
grande naturalezza dentro di sé l'idea di fermarsi, un
giorno, e di
costruire qualcosa di stabile – una casa e una famiglia,
magari.
Fare l'allenatore errrante per tutta la vita non rientrava nei suoi
schemi, forse proprio perché aveva sempre guardato con un
po' di
pietà quegli eterni ragazzini di quaranta o cinquant'anni
che
vagavano senza neppure un vero scopo, fingendosi molto più
giovani
di quanto realmente fossero; forse perché suo padre...
Scacciò
il pensiero di
suo padre quasi con un gesto fisico di ripulsa e tornò a
concentrarsi sul discorso. «Sì, mi piacerebbe
avere una famiglia
mia, un giorno. Inoltre... insomma, quando s'invecchia, viaggiare
è
più difficile, e anche i Pokémon si stancano e
s'indeboliscono.
Suppongo che faccia piacere anche a loro un po' di riposo, dopo tanti
anni di lotte.»
«Davvero?
Glielo hai
mai chiesto?» lo rimbeccò Agatha alquanto
severamente. Samuel
sorrise tra sé in silenzio: quella ragazza era un demonio.
«Hai
ragione, non l'ho
mai fatto. Glielo chiederò appena ci fermiamo per il
pranzo»
promise, senza sapere neppure lui fino a che punto scherzasse e
quanto invece fosse serio.
Per
qualche tempo
dovettero camminare in silenzio, concentrandosi su dove mettevano i
piedi: stavano attraversando il tratto più difficile della
Via
Vittoria e nessuno dei due aveva intenzione di cadere e rotolare per
metri sul duro terreno accidentato. Samuel si soffermò
spesso ad
aiutarla, nei punti più stretti o pericolosi, e di nuovo
Agatha
accettò con buona grazia la mano o il braccio che le
venivano porti,
ringraziandolo con semplici cenni del capo. Quando finalmente
raggiunsero una zona vagamente più pianeggiante, o almeno
meno
ripida e pericolosa, Samuel le propose di fermarsi per mangiare: il
suo fisico giovanile e robusto gli chiedeva a gran voce già
da un
po' un rifornimento di energie fresche ed egli si era trattenuto
soprattutto per evitare di sconvolgerla col proprio appetito.
Sedettero su una sporgenza di roccia per aprire un paio di latte di
fagioli, ma proprio allora, come se non avesse fatto altro che
riflettere su quella conversazione e l'avesse proseguita nella
propria testa, Agatha la riprese: «Sai, non è che
si debba per
forza viaggiare per tutta la vita per continuare a fare
l'allenatore.»
Samuel
faticò un
attimo a recuperare il filo del discorso. «A che cosa ti
riferisci?»
Agatha
si strinse nelle
spalle. «Questo Torneo non rimarrà un unicum, se
avrà anche solo
la metà del successo che sembra destinato a riscuotere.
Questa è
solo la prima edizione, ma se diventerà a cadenza regolare,
l'organizzazione si complicherà, si creeranno posti di
lavoro... ce
n'è bisogno dopo la guerra.»
Il
suo ragionamento
pragmatico e semplice lo colpì: Samuel rimescolò
per qualche
istante col cucchiaio all'interno della scatola di latta, producendo
un tintinnio sonoro che parve rincorrersi echeggiando negli anditi
oscuri. «Non l'avevo mai vista a questo modo. È
questo che intendi
fare tu, tra qualche anno?»
«Perché
no? Non ho
alcuna intenzione di trovarmi a fare la stenografa o la maestra o
cose simili.» La sua voce suonava determinata e inflessibile,
ma
quando pronunciò quei mestieri suonò piuttosto
altezzosa e
sprezzante, come se li ritenesse troppo umili e inadatti a qualcuna
come lei. «Questa è l'unica cosa che mi piace
davvero fare. I miei
Pokémon possono proteggermi e finché
avrò loro, non avrò bisogno
di nessun altro.»
Samuel
scrutò il suo
profilo nella semioscurità della caverna senza trovare nulla
da
rispondere alla sua veemenza: qualcosa nel suo volto altero, nel suo
atteggiamento di superiorità gli diceva che c'era qualche
motivo
profondo alla sua solitudine e alla sua determinazione, qualche
motivo che ovviamente mai egli avrebbe potuto scoprire, conoscendola
tanto poco. Agatha non voleva aver bisogno di
nessuno, Agatha
voleva stare sola, ma perché? Sentiva che
in quella ragazza
c'era qualche mistero che a nessuno era dato conoscere, eppure non
aveva idea di cosa potesse trattarsi.
Avrebbe
voluto
chiederle qualcosa, ottenere una qualche risposta che lo aiutasse a
comprenderla almeno un poco, ma non voleva essere invadente. Le diede
un pugno scherzoso sulla spalla.
«E
tu come le sai
queste cose?»
Agatha
gli rivolse all'improvviso uno sguardo teso, come se si sentisse colta
in fallo,
e tornò rapidamente ad abbassare gli occhi sul suo pranzo.
Scrollò
le spalle con indifferenza. «Non so, le ho intuite.
No?»
A
un tratto ripose
nervosamente la latta nello zaino, chiudendola con un coperchio, e
avvolse il cucchiaio che aveva usato in un foglio di giornale. Si
alzò in piedi sotto il suo sguardo perplesso.
«Quando hai finito,
andiamo. Ti va?»
Continuarono
per tutto
il pomeriggio la lunga discesa attraverso i cunicoli claustrofobici
della grotta, e anche se non parlarono molto, il viaggio parve a
Samuel meno noioso che all'andata con quella ragazza accanto. Se
Agatha gli era parsa turbata all'inizio, per qualche motivo,
quest'impressione svanì nelle ore seguenti: sembrava ora
contenta e
tranquilla, e quando parlavano la sua voce suonava squillante e
serena. Decisamente le ragazze costituivano un mondo misterioso,
concluse Samuel con profonda rassegnazione.
Uscirono
finalmente
dall'interminabile Via Vittoria quando già il tramonto
tinteggiava
il cielo di colori aranciati che si perdevano nel blu, ma fu solo al
limitare di una notte limpida e tiepida che raggiunsero Smeraldopoli,
in un vorticare di vento che s'insinuava tra le case. Anche stavolta,
per un tacito accordo condiviso, si diressero assieme al Centro
Pokémon senza realmente averlo deciso: probabilmente,
pensò Samuel
mentre le apriva cortesemente la porta, si sarebbero separati il
mattino seguente. Non aveva ancora deciso dove sarebbe andato ad
allenarsi nelle settimane che lo separavano dal Torneo, ma dubitava
comunque che Agatha sarebbe andata proprio nel suo stesso luogo,
ovunque questo fosse.
Richiesero
due stanze
alla reception, ma quando l'addetta prese il documento di Agatha,
dopo un attimo di riflessione la informò che in mattinata
era
arrivato un telegramma per lei. «Vuole leggerlo subito o
preferisce
che terminiamo prima la registrazione?»
Agatha
s'incupì prima
ancora di avere il telegramma in mano. Samuel si allontanò
discretamente di qualche passo mentre ella leggeva, fingendo
indifferenza, ma non la perse di vista, continuando a scutarla con la
coda dell'occhio: via via che leggeva, lo sguardo dela ragazza si
faceva più scuro e alterato, finché con sua
grande sorpresa ella
appallottolò rabbiosamente il foglio nella mano e lo
gettò nel
cestino posto sotto al bancone. Il suo profilo era ora teso e quasi
vibrante di rabbia. Sentendosi un poco preoccupato, Samuel
l'avvicinò
cautamente, quasi accostandosi a un fuoco troppo caldo che rischiasse
di scoppiare da un momento all'altro.
«Ehi...
tutto bene?»
chiese piano. Collo sguardo nervosamente infisso sul legno del
bancone, i pugni stretti, la ragazza non rispose. Schiarendosi appena
la voce, Samuel ritentò: «Brutte
notizie?»
Agatha
si riscosse con
uno scatto secco, scuotendo bruscamente il capo come per riaversi da
un sogno. Volse gli occhi su di lui quasi con rabbia, erano occhi
scuri e tempestosi profondamente turbati, e Samuel dovette resistere
alla sciocca, infantile tentazione di ritrarsene di un passo. Rimase
faticosamente immobile a poca distanza da lei, cercando di conservare
un'espressione rassicurante.
«Sì...
sì, tutto
bene» disse Agatha. Vagò con gli occhi per la
sala, come in cerca
di una via di fuga, e sorrise di un sorriso nervoso. «Solo un
telegramma da un vecchio amico.»
«Oh»
disse Samuel
senza capire, cercando di decidere se dovesse accontentarsi di quella
risposta o se potesse invece permettersi d'insistere un poco: Agatha
era decisamente troppo sconvolta per un semplice telegramma di una
vecchia conoscenza. Ma prima che potesse risolversi a prendere un
qualsiasi partito, Agatha si rivolse di nuovo all'infermiera e le
chiese qualche moneta per il telefono: tutto il suo corpo snello
sembrava vibrare d'indignazione. Strinse le monete nel pugno chiuso e
gli passò accanto, diretta al telefono in fondo alla sala,
mormorando: «Ti dispiace aspettarmi? Dopo possiamo salire
insieme.»
«Certo»
borbottò
Samuel, sentendo come di parlare al niente: in quel momento, egli
sapeva anche troppo bene che Agatha non lo stava ascoltando.
Il
telefono era
nell'angolo all'estrema destra della sala, poco oltre il Club Via
Cavo. Samuel non voleva sentire qualunque cosa Agatha avesse da dire,
neppure accidentalmente: sarebbe stato impensabile ascoltare la
telefonata di una signorina, perciò rimase in piedi
là dove si
trovava, alla massima distanza consentitagli da quel telefono, e
attese pazientemente, limitandosi a gettarle talora qualche occhiata
perplessa. Anche da lontano, era impossibile non notare l'agitazione
di Agatha: gesticolava convulsamente e si scostava i lunghi capelli
ribelli dal volto quasi con stizza, come a volervisi sfogare. Pochi
minuti dopo sbatteva già il telefono e tornava verso di lui
a passi
pesanti, con le braccia incrociate sul petto, in un gesto che Samuel
aveva ormai imparato a interpretare da lei come una minaccia. La
guardò inquietamente.
«Va
tutto bene?»
insisté con cautela.
Col
volto assorto e
gelido, gli occhi assenti, Agatha gli accennò di
sì, ma stavolta
non si premurò neppure di cercare di convincerlo. Si
limitò a
dirigersi lentamente verso le scale e a Samuel non rimase altra
scelta che seguirla a sua volta.
Salirono
le scale in un
silenzio teso e angoscioso: Agatha era assorta e distratta. Le loro
stanze erano entrambe allo stesso piano, aprendosi nel medesimo
corridoio angusto dalla tappezzeria antiquata, con la moquette che
odorava di polvere. In quel corridoio stretto, in quell'ambiente
così
casalingo e rassicurante, all'improvviso Samuel afferrò il
polso di
Agatha per fermarla. La ragazza si volse verso di lui con aria
interrogativa.
«Agatha,
non ti credo.
È successo qualcosa di grave?»
Forse
per prendere
tempo, Agatha chinò lo sguardo sulla sua mano robusta che
l'artigliava. Ritrasse pensierosamente il polso per scioglierlo dalla
sua presa.
«Ti
ringrazio, Samuel,
ma non è davvero nulla di preccupante. Io e il mio
amministratore
abbiamo spesso da ridire su alcuni argomenti.»
Amministratore?
Per
quanto ne sapeva lui, un amministratore si occupava di grandi
patrimoni, o cose del genere. Per la prima volta scrutò
Agatha con
occhi nuovi: cosa se ne faceva di un amministratore? La ragazza parve
cogliere i suoi dubbi e gli spiegò pazientemente:
«Il signor
Firefly si occupa dei miei beni immobili e di una parte di quelli
mobili bloccata in investimenti. È stato anche il mio
tutore, fino a
sei mesi fa» soggiunse a voce appena più bassa,
con tono amaro. «Il problema è che pensa di poter
continuare a darmi ordini.»
Per
avere un tutore,
Agatha doveva essere orfana di entrambi i genitori, comprese
all'improvviso Samuel con una fitta di dispiacere. Dunque vi era
già
qualcosa, di quel mistero che gli era parso avvilupparla all'interno
della grotta, che si stava svelando a poco a poco... Agatha non gli
aveva ancora detto niente di particolare, tuttavia, per qualche
motivo, egli sentì che era il momento giusto per chiederle,
ma non
perché volesse sapere. In quel momento, semplicemente,
Samuel
sentiva che quella ragazza era in difficoltà e voleva
aiutarla.
«Dunque
qualche cosa è
successa» mormorò. «Mi
sbaglio?»
Finalmente,
come se le
sue difese fossero crollate, Agatha diede in un sospiro profondo.
Scosse la testa.
«Non
è mai stato
d'accordo a che io intraprendessi questa carriera, ma non me l'ha mai
impedito... probabilmente perché sono molto più
facile da
sopportare quando sono lontana. Ma ora ha saputo della mia iscrizione
al Torneo ed è assolutamente contrario. Dice che potrei
danneggiare
il nome di famiglia o cose del genere.»
Dunque
Agatha doveva
appartenere davvero a una famiglia piuttosto importante, per avere un
nome di famiglia da danneggiare. D'un tratto alcuni
elementi
del suo carattere che gli erano parsi semplicemente particolari
assunsero ai suoi occhi un diverso significato: l'aria di
superiorità, i vezzi da capricciosa, l'apprezzamento per la
cavalleria... A questo punto avrebbe voluto chiederle il suo nome, ma
non era il momento giusto e lo sapeva anche troppo bene:
cercò di
fare ordine tra le domande che gli affollavano la mente.
«Ma
come può averlo
saputo? Ti fa seguire?»
«Oh,
no, non proprio.
Ha molte conoscenze all'Altopiano Blu, è uno dei loro
consulenti o
amministratori... non l'ho mai capito molto bene.»
«Va
bene.» Samuel
annuì, più per dimostrare a se stesso di aver
capito, che per
altro. «Ma qual è il problema? Insomma,
può lamentarsi quanto
vuole, ma tu ora sei maggiorenne. Non può impedirti di
partecipare.»
«All'inizio
mi ha
minacciato di farlo.» Agatha chinò lo sguardo sui
propri piedi con
aria stanca. «Tuttavia...»
«Tuttavia?»
chiese
Samuel ansiosamente. Quell'ingiustizia gli bruciava addosso come se
l'avesse subita lui stesso. Agatha ebbe all'improvviso un guizzo, un
sorriso malizioso, per quanto amaro.
«Gli
ho ricordato che
nel caso fossi estromessa ingiustamente dal Torneo, il mio avvocato
sarebbe pronto a far causa a lui e all'intera Lega.»
Proprio
come i suoi
Pokémon, Agatha era dunque molto meno indifesa e sprovveduta
di
quanto poteva sembrare: ben nascosti, ella aveva i suoi artigli ed
erano avvelenati. In modo del tutto irragionevole eppure
irresistibile, Samuel se ne sentì compiaciuto. Quella
ragazza gli
piaceva sempre di più, ma tornò a cercare di
concentrarsi sul
problema. «Non puoi cambiare amministratore?»
«No.
Beh, potrei,
ovviamente, ma non saprei a chi rivolgermi e non voglio mettermi in
mani sbagliate. Il signor Firefly era l'amministratore di mio padre
ed è comunque molto bravo per le questioni amministrative:
finora,
sotto questo aspetto, non ho mai potuto lamentarmi.»
Alla
luce di tutte
queste rivelazioni, Agatha era sola al mondo e affidata a uno stuolo
di burocrati e legali. Tutto sommato, il suo caratterino e la sua
solitudine sembravano aver assunto ai suoi occhi già ragioni
più
profonde.
La
ragazza levò il
capo verso di lui ed ebbe un pallido sorriso stanco. «Ti
ringrazio,
Samuel, ma so come difendermi, e comunque non è nulla di
grave. Il
signor Firefly minaccia sempre più di quanto sia
effettivamente
disposto a fare.»
No,
Agatha non aveva
bisogno di essere protetta e difesa, questo era appurato, ma in
quelle condizioni, dopo ciò che di lei egli aveva scoperto,
Samuel
non se la sentiva proprio di abbandonarla. Non sapeva bene come
trattare con le ragazze, perciò si risolse ad agire come
avrebbe
fatto con un amico, a costo di compiere qualche errore imperdonabile,
e le diede una pacca sulla spalla.
«Sembra
proprio un
gran bastardo, il tuo amministratore» disse. «Pensi
che potremmo
farlo infuriare un po' di più allenandoci insieme per
qualche
giorno? Chissà... magari qualche spia potrebbe riferirglielo
e
causargli un colpo apoplettico.»
La
ragazza parve un
poco risollevata alle sue parole. Rise appena.
«Già... sono certa
che gli verrebbe.»
«Guarda
che ero
serio.» Per sottolineare le proprie parole, Samuel le porse
gravemente la mano. «Affare fatto, signorina?»
Levando
su di lui occhi
neri e profondi come abissi, Agatha afferrò la sua mano e la
strinse.
Samuel
non aveva pensato che a due o tre giorni di allenamento condiviso, ma
quel
periodo cominciò a protrarsi a dismisura senza che nessuno
dei due
manifestasse la benché minima intenzione di porvi fine.
Non
era mai stato il
tipo di allenatore da viaggiare con qualcun altro, condividere il
proprio spazio, accettare di sottostare ai bisogni e ai tempi di
un'altra persona, ma non aveva neppure mai avuto niente in contrario:
semplicemente, non ci aveva mai provato.
Certo,
Agatha aveva
talora atteggiamenti imperiosi e arroganti, ma Samuel non li trovava
particolarmente difficili da tollerare: nel suo profondo li trovava
interessanti, forse perché ella differiva di molto dall'idea
di
donna che aveva sempre avuto e disprezzato nella propria testa,
quella di una creatura sottomessa e bisognosa, immatura e incapace di
difendersi. Pur nei suoi piccoli atti da capricciosa, ella non aveva
alcunché d'infantile. Era testarda, certo, e assolutamente
irremovibile dalle proprie decisioni, ma proprio questa sua grande
capacità di decidere per se stessa, di aggrapparsi alle
proprie idee
e opporsi strenuamente a chiunque le fosse contrario, gli sembravano
piuttosto qualità che non difetti. Per contro, anche Samuel
reputava
di esserle simpatico: non poteva esserne certo, ma era convinto che
se così non fosse stato, Agatha non avrebbe esitato a
mandarlo al
diavolo.
Tutto
sommato,
allenarsi con lei non gli dispiaceva dunque, per quanto più
di uno
gettasse loro sguardi strani o mezze parole di sospetto: era ancora
troppo insolito che un ragazzo e una ragazza viaggiassero insieme, ma
Agatha era decisamente troppo superba per darvi peso e a Samuel,
semplicemente, non importava. Si spostarono gradualmente più
a nord
a partire da Smeraldopoli: per quanto Samuel conoscesse quei percorsi
ormai come le proprie tasche, si rese conto in fretta che percorrerli
al fianco di Agatha dava loro un aspetto nuovo. Viaggiare con lei era
piacevole: era incappare in un temporale estivo, inaspettato e
travolgente, e correre spontaneamente, senza averlo stabilto, a
ripararsi dalla grandine nelle voragini profonde della Grotta Diglett
e trascorrere il pomeriggio seduti nell'ombra, senza vedersi se non
quando un lampo improvviso squarcava l'aria illuminando i loro volti,
e parlare a bassa voce senza bisogno di guardarsi. Era attraversare
il Bosco Smeraldo, camminando adagio sul sottobosco fangoso e sotto i
giochi luminescenti che il sole, filtrando attraverso le foglie,
disegnava sui loro volti, alterando i loro tratti in strane
tonalità
gioiose e virenti. Era dormire sotto le stelle, in un prato ancora
umido e profumato di vita e di terra, distanti ma consapevoli l'uno
della presenza dell'altra persino tra il sonno; era inseguirsi sui
pendii montani e dentro le grotte del Monteluna, raggiungendosi e
distanziandosi in un gioco di risate echeggianti attraverso le pareti
gocciolanti; era parlare a lungo nella notte che calava, attorno a un
fuoco fin oltre l'ora di dormire, e vedere la luna riflettersi in
grandi occhi neri e insospettabilmente melanconici che erano come
specchi di cielo notturno privi di altre luci.
Come
sospettava, Agatha
apparteneva davvero a una famiglia molto importante, proveniente da
Lavandonia: quando Samuel riuscì a scoprire il suo cognome,
rimase
tanto sopreso da farla ridere. «Non l'avresti mai detto,
vero?»
«Non
so.» Samuel
disegnò distrattamente con un bastone incerti disegni nella
cenere
del loro fuoco. Si erano accampati per la notte poco a est di
Celestopoli, in una zona molto amata per i campeggi. «Solo,
non me
l'aspettavo, ecco. Non pensavo che una ragazza di buona famiglia come
te facesse l'allenatrice.»
Agatha
si rigirò tra
le mani la tazza del loro tè insipido. «Beh, non
c'era molto altro
che potessi fare... a parte vivere di rendita. Ma visto che
è il
signor Firefly a occuparsi di tutto il mio patrimonio, neppure quello
era molto interessante.»
«Suppongo
di no»
riconobbe Samuel. «Torni spesso a casa? A Lavandonia,
insomma.»
«Ogni
due o tre mesi,
per discutere col signor Firefly e mettere qualche firma. Non ho mai
voluto concedergli la mia delega plenaria, perciò ha ancora
bisogno
di tutti i miei consensi per intraprendere un investimento o cose del
genere.» Agatha scosse un poco la tazza, osservando il
volgersi
degli archi di liquido sulle pareti. «E tu? Torni mai a casa?
Ah,
che sciocca» soggiunse ridendo appena. «Non ti ho
neppure chiesto
da dove vieni.»
Samuel
si appoggiò
alla parete di roccia che pendeva a picco dietro il loro piccolo
accampamento, allungando le gambe verso il fuoco, e levò
pensierosamente gli occhi verso le stelle. Qualche nuvola
dall'aspetto poco rassicurante si stava affacciando attorno alla sua
visuale, mascherando a tratti uno spicchio di luna calante.
«Non è
nulla di che.»
«Su,
dimmelo» insisté
Agatha, protendendosi verso di lui. «Non hai l'accento di
Johto,
dunque devi essere di Kanto, ma di dove precisamente?»
Al
suo confronto,
quello di una ragazza di una delle famiglie più importanti e
antiche
di Lavandonia, Samuel sapeva anche troppo bene di non avere
alcunché
d'interessante da dirle. Si prese qualche istante di silenzio,
continuando a osservare le stelle, ma all'improvviso un oggetto duro
e angolato lo colpì inaspettatamente alla fronte,
strappandogli
un'esclamazione dispresa. Afferrò l'oggetto prima che
cadesse,
accostandosi in fretta al fuoco per vederlo alla luce: era una pigna.
«Agatha,
sei
impazzita? Mi hai tirato una pigna addosso!»
«Ovviamente»
sbottò
Agatha stizzita. «Da dove vieni, insomma?» Gli
mostrò il pugno
chiuso, le dita appena allargate a trattenere qualcosa. «Se
non mi
rispondi, stavolta ti tiro addosso un sasso.»
«Sei
proprio un
demonio» sbuffò Samuel scuotendo la testa, ma del
tutto incapace di
arrabbiarsi con lei. «Ti avverto che rimarrai delusa. Vengo
da
Biancavilla, contenta?»
«Biancavilla?»
ripeté
Agatha, con lo stesso tono che avrebbe usato se lui le avesse detto:
Vengo dall'asteroide B612.* «E
dov'è?»
Samuel
dovette
trattenersi dal tirarle a sua volta la pigna addosso. Non si
picchiano le ragazze... anche se a volte quella ragazza in
particolare sembrava non chiedere altro che una buona scrollata.
«A
sud di Smeraldopoli, sulla costa, più o meno alla stessa
longitudine
dell'Isola Cannella. Valeva la pena di tirarmi una pigna addosso per
un villaggio di quattro o cinque case?»
«Quante
storie per una
pigna!» sbuffò Agatha. «Beh, non
c'è nulla di male. Anche
Lavandonia è un paese molto piccolo. Abbiamo solo la Torre,
e ti
garantisco che non ha nulla d'interessante.»
Rimasero
in silenzio
per qualche istante, era un silenzio quieto e rilassato di crepitare
del fuoco e di membra stanche e contratte per il troppo camminare.
Samuel tirò pensierosamente la pigna tra le fiamme, dove
essa
crepitò e diede un piccolo scoppio per l'eccessivo calore.
«Non
sono più tornato
a casa da quando sono partito» disse. Parlava rivolto alle
fiamme,
eppure lo stava dicendo solo per lei. Sentì che Agatha si
sistemava
meglio accanto al fuoco, si tendeva verso di lui con tutta la propria
attenzione. «Mia madre si è risposata quando avevo
quattordici anni
e suo marito... non so, non mi è mai piaciuto. Eppure
è un
brav'uomo, sai.»
«Per
questo non sei
più tornato?» chiese Agatha a bassa voce. Samuel
assentì
semplicemente. Non c'era davvero nulla da dire al riguardo.
«Il tuo
papà è morto?»
Un
ciocco di legno
scivolò verso il basso tra le fiamme, levando una nuvola di
scintille. «No. Se n'è andato.»
Agatha
colse al volo il
senso profondo delle sue parole. Gli si accostò
maggiormente,
scivolando verso di lui. «Era un allenatore?»
«Sì.»
Dopo lunghi
secondi, Samuel si decise finalmente a guardarla direttamente. Il suo
volto era arrossato per il calore, la sua pelle brillava di toni
aranciati. «Suppongo che per lui fare l'allenatore fosse
molto più
importante che avere una famiglia. È per questo che io non
intendo
continuare a fare l'allenatore per tutta la vita, come lui... voglio
fermarmi da qualche parte, costruire una casa, sposarmi e veder
crescere i miei figli. Una cosa del genere, insomma. So che la
riterrai un'idea stupida» soggiunse con una mezza risata
imbarazzata. «Forse lo è, ma per me la famiglia
è importante e io
ne voglio una mia. Ora ridi pure.»
Ma
il volto di Agatha,
molle di fuoco e di luna, era serio e immobile. Solo i suoi occhi
liquidi guizzavano nella notte, scrutandolo fissamente.
«Non
c'è nulla da
ridere» mormorò invece con voce strana.
«La famiglia è... beh,
non importa. Su, prepariamoci per la notte» concluse poi
all'improvviso, in modo decisamente troppo brusco, alzandosi in
piedi; ma a Samuel non dispiaceva cambiare argomento e non si oppose.
Non pensava mai a suo padre, se poteva evitarlo, anche se non lo
aveva infastidito parlarne ad Agatha. Si alzò a sua volta e
si
stiracchiò.
«Sai
che non ti
perdonerò mai per quella pigna, vero?» chiese
sforzandosi di essere
serio, ma sentendosi suo malgrado più divertito che
irritato.
Continuava a stupirsi di quanto si sentisse profondamente incapace di
arrabbiarsi con lei.
Volgendosi
appena verso
di lui, Agatha gli gettò un'occhiata di
superiorità. Persino quei
suoi sguardi altezzosi da aristocratica erano diversi, quando li
riservava a lui, o almeno Samuel di questo era convinto.
«Smettila
di
lamentarti. Piuttosto, dove andiamo domani?»
«Beh,
ora siamo
piuttosto a nord.» Con un sospiro, Samuel mise da parte la
storia
della pigna: sapeva già che con Agatha era impossibile
spuntarla,
dopotutto. «Possiamo andare a sud, non so...
Azzurropoli?»
«Un
po' snob, ma
perché no?» Agatha prese il proprio sacco a pelo e
lo distese
ordinatamente al suolo a poca distanza dal fuoco. Sollevò
gli occhi
su di lui. «Ti dispiace, Samuel?»
Ti
dispiace?,
nella lingua di Agatha, voleva dire semplicemente: posso
avere
qualche minuto di privacy? Samuel si era ormai rassegnato al
suo
lungo rituale di preparazione per la notte, che le richiedeva una
decina di minuti ogni sera, e aveva imparato fin dal primo giorno che
era suo preciso compito allontanarsi per quel lasso di tempo per
permetterle di sistemarsi in pace.
Trascorse
perciò il
quarto d'ora seguente aggirandosi a un centinaio di metri dal loro
accampamento: il percorso era vuoto e silenzioso, la notte era nera e
limpida. Quando tornò, trovò Agatha avvolta in
una nube di coperte,
coi capelli intrecciati e gli occhi già chiusi.
Probabilmente stava
già dormendo. Samuel gettò sul fuoco un po' di
cenere e s'infilò a
sua volta nel proprio sacco a pelo, voltandosi dall'altra parte sul
terreno duro.
Oltre
che di un
appetito formidabile, il suo corpo era naturalmente dotato anche di
una straordinaria capacità di addormentarsi quasi
immediatamente
ovunque si trovasse. Qualche minuto dopo, perciò, quando era
già
ormai sprofondato nello stato di pesante dormiveglia che precedeva
immediatamente il sonno, non riuscì a determinare
subito se
la nitida voce di donna che gli giunse all'orecchio, lontana e
assieme vicinissima, fosse un sogno o invece reale.
«Samuel...»
«Mmh?»
riuscì appena
a borbottare, cercando di compiere lo sforzo sovrumano di sollevare
le palpebre ormai divenute grevi come macigni. Dopotutto non valeva
veramente la pena di farlo, probabilmente: era sicuro che Agatha
stesse già dormendo, perciò doveva trattarsi di
un sogno.
«Scusa
per la pigna.»
Sì,
decisamente era un
sogno: evidentemente stava già dormendo anch'egli. Samuel si
concesse di sorridere tra sé tra il sonno, o di sognare di
sorridere, e fece sogni strani e confusi in cui si chiedeva se una
persona potesse vederne un'altra sorridere al buio.
*Piccolo
omaggio a Il
piccolo
principe,
che ho riletto
pochi giorni prima di scrivere questa scena. Ah, e prima che me ne
dimentichi, il nome dell'amministratore di Agatha è invece
ispirato
al meraviglioso protagonista de La
guerra lampo dei Fratelli Marx,
uno dei miei film preferiti, anche se non ha nulla da condividere con
quel personaggio.
Buonasera
a
tutti!
Un
capitolo di
passaggio, ma fondamentale per i prossimi sviluppi: spero che non
risulti noioso o pesante. Il prossimo sta venendo smisuratamente
lungo, almeno per ora, quindi temo che si farà un poco
aspettare, ma
vi prego di voler avere pazienza.
Che
dire di
questa parte? Decisamente, l'Agatha dei giochi mi dà
l'impressione
di una vecchietta aristocratica, di quelle vecchie famiglie
decadute... ho voluto rendere anche questo aspetto in questa storia e
suppongo che se ne capirà più avanti il
significato.
Un
bacio e un
abbraccio di cuore a crystal_93 e a Mad_Dragon per le loro
recensioni: grazie infinite, come al solito, e alla prossima!
Afaneia
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Prima ancora dell'aria (Parte Prima). ***
Eccomi
di nuovo qua!
Questo
capitolo era venuto davvero, davvero lunghissimo rispetto alla media,
e mi sembrava francamente un brano troppo lungo per leggerlo tutto in
una volta, perciò ho deciso di dividerlo in due parti;
tuttavia, per
mantenere un minimo di logicità, ho dovuto dividerle in modo
un po'
disomogeneo. La prossima parte, molto più breve,
sarà online tra
pochissimi giorni, o almeno spero, impegni accademici permettendo!
Come
al solito, tengo a fare i miei ringraziamenti: un grazie di cuore a
crystal_93, a Mad_Dragon e a Bankotsu90 per le loro recensioni e,
ovviamente, un grande abbraccio a tutti!
Afaneia
Capitolo
quarto –
Prima ancora dell'aria.
Discesero
verso
Azzurropoli passando per la colossale Zafferanopoli, ma vi si
fermarono solo una notte. Qui Agatha insistette per dormire in
albergo, affermando che non ne poteva più delle stanze
claustrofobiche e squallide dei Centri Pokémon, e Samuel non
si
oppose: in effetti, il Centro di Azzurropoli sorgeva in un edificio
assai poco moderno, risalente probabilmente alla fine del secolo
precedente, e dopotutto non gli dispiaceva concedersi qualche
comodità, per una volta. La receptionist dell'hotel, dopo
aver
appurato che non erano sposati e in luna di miele, né
fidanzati
venuti a sposarsi di nascosto e no, neppure amanti
in fuga
d'amore, si mostrò fin da subito un po' troppo cordiale
verso di
lui, a tal punto che Agatha, qualche minuto dopo, gli chiese
maliziosamente se gli capitasse spesso.
«Direi
di no» replicò
Samuel divertito, anche se non era propriamente vero – era
capitato
più di una volta che qualche barista gli avesse offerto il
caffè o
che qualche infermiera si fosse casualmente fatta scappare l'ora a
cui terminava il turno al Centro Pokémon. Non ne era certo,
ma quel
lampo di velato fastidio che gli era parso saettare fugacemente negli
occhi di Agatha gli faceva pensare che, per qualche motivo, non
sarebbe stato gentile raccontarglielo. E poi, scherzosamente, le
scompigliò i capelli, gesto pericoloso più o meno
quanto infilare
la mano nella bocca di un leone, con Agatha, soggiungendo:
«L'ultima
ragazza che ho conosciuto mi ha tirato una pigna in testa.»
«E
ha fatto bene» lo
rimbeccò Agatha con la massima calma, allontanandogli la
mano. «Di
sicuro te lo meritavi. Quella ragazza ha tutta la mia stima.»
«Beh,
glielo dirò se
la incontrerò di nuovo» promise Samuel.
Fecero
qualche acquisto
strategico al centro commerciale prima di proseguire verso sud il
giorno seguente. Si vociferava di un colossale progetto di costruire
una pista ciclabile sul mare per unire Azzurropoli a Fucsiapoli, ma
per ora non era stato installato neppure un cantiere, e l'unica via
terra possibile rimaneva quella di una stretta strada scoscesa lungo
la scogliera, umida e disagevole da percorrere anche con la bassa
marea. Questo, tuttavia, non aveva mai scoraggiato nessun vero
allenatore: nel giro di un giorno e mezzo, erano a Fucsiapoli.
Avevano
continuato a
vagare senza un vero motivo, né tantomeno una meta, per
più di una
settimana dal giorno del loro scontro sull'Altopiano Blu, ma quando
finalmente raggiunsero la città nella quale per la prima
volta si
erano incontrati, anche se in modo un po' insolito e indiretto,
finalmente parvero entrambi rendersi conto del loro girare a vuoto.
Quel
pomeriggio, poco
dopo il loro arrivo, si riversò un temporale sferzante cui
assisterono da dietro le finestre del Centro Pokémon, dove
avevano
fatto appena in tempo a rifugiarsi alle prime gocce di pioggia. Era
troppo tardi per il pranzo, ma la caffetteria era aperta: quando
Samuel si avvicinò al tavolo dove Agatha era seduta ad
aspettarlo,
portando galantemente un paio di caffè, la trovò
cupamente seduta
vicino alla finestra, con lo sguardo infisso nel cielo plumbeo e
tempestoso al di fuori.
«La
pioggia ti rende
malinconica?» domandò poggiando le tazze sul
tavolo. Si sentiva
inspiegabilmente di buon umore. Al suono della sua voce, o forse
delle tazze che tintinnavano sul piano, Agatha parve riscuotersi e
levò lo sguardo su di lui.
«Grazie.»
Attirò a
sé la tazza più vicina. I suoi occhi erano cupi e
pensierosi:
temendo di averla urtata, Samuel sedette in silenzio dal lato opposto
del tavolo. «Stavo solo pesando a cosa potremmo fare. Sai,
mancano
ancora diversi giorni alla Lega.»
Si
trattava davvero
solo di questo? Eppure Agatha gli sembrava un po' troppo triste per
quel solo motivo, pensò Samuel mentre mescolava lentamente
il
proprio caffè. Continuò a guardarlo, sentendosi
un po' preoccupato,
ma decise di non contraddirla – non ancora, quantomeno.
«Non
saprei, io non ho
progetti precisi. C'è qualche posto che ti interesserebbe
particolarmente?»
Agatha
rimase in
silenzio per un po', un silenzio teso e innervosito, e passò
lentamente le dita sul bordo della tazzina. Anche quel giorno aveva i
capelli raccolti in un modo che esaltava i tratti armonici del suo
volto.
«Vuoi
continuare a
viaggiare con me?»
Questa
domanda lo colse
decisamente impreparato: Samuel spalancò quasi la bocca per
lo
stupore. Certo, non era una domanda immotivata, ma ormai quella
situazione gli sembrava tanto naturale, tanto spontanea e,
perché
no?, tanto gradevole, da non aver più bisogno di conferme...
tuttavia, in effetti, forse era sbagliato dare per scontato che per
Agatha valesse lo stesso.
«Beh,
io... tu non
vuoi?»
Agatha
aggrottò un
sopracciglio scuro in un'espressione di fastidio. Tamburellò
con le
dita sul tavolo. «Non rigirare la domanda contro di me, per
favore.
Rispondi: vuoi continuare a viaggiare con me o no?»
Era
una richiesta
diretta, inevitabile, da cui Samuel continuava a sentirsi spiazzato.
Forse comprendendo la sua perplessità, Agatha
spiegò
sbrigativamente: «Mi avevi proposto di allenarci insieme per
qualche
giorno. È passata più di una settimana e non ci
siamo neppure
allenati, dunque ora ho bisogno di sapere che cosa intendi
fare.»
Va
bene. Davanti
a una tale energica inquisitoria, stavolta Samuel prese un respiro
profondo: non capiva il motivo di quella domanda improvvisa e proprio
per questo sapeva di non poterle dire che la verità.
«Sì,
a me farebbe
molto piacere. Ma che mi dici di te?»
Agatha
ricevette la sua
risposta soltanto annuendo gravemente, senza guardarlo. A quel punto,
Samuel ebbe l'impressone di aver intuito cosa non andava.
«Il
tuo amministratore
ti ha mandato qualche altro telegramma?»
Vide
le guance di
Agatha sollevarsi appena in un principio di sorriso. «No, non
ancora. Anche se me ne aspetto uno nei prossimi giorni,
conoscendolo.»
«A
meno che non abbia
davvero avuto quel colpo apoplettico di cui parlavamo»
suggerì
Samuel. Sapeva che era una battuta idiota e di pessimo gusto, ma
sperava che potesse bastare a strapparle almeno un accenno di risata.
Non funzionò, ma Agatha lo guardò più
serenamente.
«Non
stavo pensando al
signor Firefly, a dire il vero. Sei stato molto gentile ad
accompagnarmi per tutti questi giorni, ma non vorrei diventare un
peso per te... so bene cosa pensa la gente quando ci vede assieme. Un
ragazzo e una ragazza... non sta bene.»
«Giusto»
convenne
Samuel con voce sorda. Il suo caffè si stava raffreddando
rapidamente: si decise a berne almeno un sorso, ma all'improvviso gli
parve più amaro del solito. Lo spinse via seccamente con un
sospiro
profondo. «Dunque a te importa?»
Agatha
sbatté le
palpebre più volte. «M'importa di cosa?»
«Di
ciò che dice la gente.» Senza accorgersene, Samuel
si stava
alterando: se ne rese conto quando notò che stava battendo
nervosamente il piede a terra. «Dopo tutte quelle sfide, quei
sono
pronta a lottare anche adesso... Ora
all'improvviso t'importa di cosa pensano gli altri di te, di
noi?»
Aveva
alzato la voce,
ma per fortuna la caffetteria era quasi vuota. Agatha parve turbarsi
un po'.
«Samuel,
aspetta.» La
sua voce, al contrario, era calma e lucida: sembrava non capire a
cosa si riferisse. «Mi hai fraintesa, non intendevo questo.
Io mi
preoccupavo solo per te.»
Ah.
Samuel si sentì
piuttosto stupido per aver male interpretato le sue parole e non
poté
non chiedersi cosa gli era preso. Afferrò la tazza ancora
piena a
metà e bevve con un senso di agitazione e imbarazzo, per
quanto
ormai fosse quasi freddo e comunque non fosse mai stato un
granché.
«A
me non importa»
borbottò solamente.
Finalmente
Agatha
sorrise. Scosse il capo ridendo. «Non temere, Samuel, nemmeno
a me.
Volevo solo essere sicura che valesse lo stesso per te. In tal
caso»
proseguì, decisamente più sollevata
«Dovremmo decidere cosa fare
domani.»
Il
suo volto si era
rischiarato come un cielo, ora era disteso, sereno. Samuel continuava
a sentirsi un po' stupido per averla fraintesa a tal punto, ma tutto
sommato era contento di aver chiarito quell'argomento, anche solo per
averla tranquillizzata. Si appoggiò allo schienale della
propria
sedia. «Abbiamo diverso tempo davanti a noi. Potremmo
allenarci un
po' in questa zona e poi... beh, possiamo sempre andare a trovare
Jake e i suoi amici» concluse scherzosamente.
Era
ovvio che non aveva
parlato sul serio, ma in modo del tutto inaspettato, l'interesse di
Agatha si risvegliò. Batté le mani come una
bambina: «Perché no?»
Per
la seconda volta in
pochi minuti, Samuel rimase sbalordito. «Stai scherzando? Tu
odi
Jake!»
«Non
lo odio affatto!»
Agatha agitò una mano come a scacciare quell'idea.
«Come ti è
venuta in mente una cosa del genere? Semplicemente non avevo alcuna
intenzione di trascorrere una settimana con lui e i suoi amici folli
su un'isola in mezzo al mare. Lo trovo un po' eccessivo e i suoi
amici non potevano essere da meno.»
Forse
Samuel non era
abbastanza aristocratico, o abbastanza femminile, per vedere la
differenza, ma nel dubbio rimase in silenzio mentre Agatha
proseguiva: «Pensavo solo che un giorno non potrà
ucciderci e che
come ha detto lui stesso, potremmo studiare qualche strategia
alternativa. Che ne dici?»
«Beh...»
Tutto
sommato, un giorno non sarebbe stata una tragedia, e avrebbe comunque
portato dei vantaggi. Samuel si sforzò di concentrarsi su
queste
motivazioni, piuttosto che sulla tendenza ad acconsentire ad Agatha e
a qualunque suo capriccio. «Perché no,
dopotutto?»
Si
allenarono sulla
spiaggia per qualche giorno, ma senza metterci poi troppo impegno, o
almeno Samuel aveva quest'impressione. Dopo il temporale, le giornate
si fecero calde di sole e quasi torride nelle ore centrali: il dodici
maggio era tanto caldo che fecero il bagno in mare e rimasero a lungo
in ammollo nell'acqua bassa, parlando piano, e giocarono a inseguirsi
sui fondali sabbiosi.
Quando
decisero di
andare a trovare Jake, era ormai il quindici di maggio. Per quanto
entrambi sapessero nuotare, le Spumarine non erano decisamente un
luogo dove andare a nuoto, in particolar modo per chi non era molto
esperto, ed essi scelsero perciò di viaggiare sui loro
Pokémon.
Già
quando giunsero in
vista delle isole entrambi colsero la profonda eccitazione che le
pervadeva: vi si distingueva un frenetico movimento di sagome tutte
diverse sulla spiaggia e sulle alture retrostanti e Samuel
mormorò:
«Il tuo amico è riuscito a raccogliere un bel po'
di gente.»
«Non
è il mio amico»
protestò Agatha, fulminandolo con lo sguardo dal dorso del
suo
Tentacruel. «Sei stato tu ad aderire alla scommessa, devo
ricordartelo?»
«Beh,
sei tu ad averla
proposta, e inoltre sei tu ad aver insistito per venire qui»
disse
Samuel.
«Non
ti ho sentito di
certo piangere e lamentarti. Zitto, ora» ordinò a
bassa voce, con
lo sguardo infisso sull'isola. «Siamo abbastanza vicini e il
vento
potrebbe portar loro le nostre parole.»
Samuel
le diede
silenziosamente ragione in cuor suo, perché via via che si
avvicinavano, sembrava che sull'isola sempre più ragazzi si
stessero
accorgendo di loro: qualche braccio si sollevava a indicarli,
qualcuno si parava gli occhi dal sole con le mani per vederli meglio.
Quando
approdarono
sulla spiaggia biancheggiante di sole, davanti a loro si era raccolta
un'abbondante ventina di persone, ma ad accoglierli, quasi come il
sovrano di quella piccola comunità, fu ovviamente Jake.
Era
abbronzato in modo
quasi abominevole per essere maggio – la sua pelle doveva
contenere
una quantità anormale di melanina – e nel suo
volto cotto dal sole
il suo sorriso brillava di un bianco quasi accecante. Li accolse
stagliato sulla spiaggia come un capovillaggio di una qualche isola
esotica, a gambe larghe e colle mani sui fianchi.
«Samuel,
Agatha! Che
sorpresa! Vi unite a noi, alla fine?»
Samuel
balzò agilmente
giù dalla groppa di Gyarados e aiutò Agatha a
scendere dal dorso di
Tentacruel sollevandola per la vita. «Buongiorno, Jake... se
non vi
dispiace, ci uniremmo volentieri a voi per qualche ora.»
«Se
ci dispiace? Siete
i benvenuti!» tuonò Jake. «Ragazzi, vi
presento un paio di amici,
Samuel e Agatha... Agatha è la ragazza che ha lanciato la
scommessa»
spiegò con visibile orgoglio.
Dunque
almeno una parte
di quei ragazzi aveva aderito alla scommessa di Fucsiapoli, o
quantomeno Jake doveva averne parlato diffusamente. Depositando
Agatha sulla spiaggia, Samuel ne approfittò per gettarle uno
sguardo
significativo che voleva dire hai combinato un bel guaio, ed
ella per tutta risposta gli tirò un discreto scappellotto
sul
braccio, fingendo di aggrapparsi a lui.
Non
c'era bisogno di
possedere doti soprannaturali per percepire la molteplicità
di
sguardi interessati che si appuntarono su Agatha, mentre essi si
avvicinavano a Jake per salutarlo meglio. Samuel avvertì una
lieve
fitta d'indignazione a quegli sguardi: sapeva bene che quei ragazzi
erano in completo isolamento sulle Spumarine già da qualche
giorno,
e che in generale la maggior parte di loro, probabilmente, vedeva una
ragazza solo al bancone e alla mensa di un Centro Pokémon,
ma non
gli sembrava comunque educato riservare occhiate del genere a una
signorina. A ogni modo Agatha non parve darvi peso: stavolta strinse
benevolmente la mano a Jake, ringraziandolo del suo invito e
dell'accoglienza con un sorriso luminoso. Che lunatica, pensò
Samuel con ironica rassegnazione: solo poco tempo prima,
sull'Altopiano Blu, l'aveva quasi cacciato via... Ma le ragazze erano
fatte così, e Agatha era la più lunatica di tutte.
«Come
sta andando il
vostro allenamento?» s'informò quando Jake gli
riservò una
poderosa manata sulla spalla.
«Fantastico,
assolutamente fantastico» si esaltò Jake. Appariva
sinceramente
entusiasta. «Ci divertiamo un sacco e stiamo migliorando
tantissimo... ve ne renderete conto se oggi vi unirete a noi per una
lotta. Allora, ragazzi» propose poi a voce ancora
più alta
«Facciamo un giro di presentazione? Samuel e Agatha si
fermeranno
con noi solo oggi, quindi non perdiamo tempo!»
Le
ore seguenti
trascorsero in modo quasi surreale. Vi furono rapide presentazioni,
al termine delle quali Samuel non aveva recepito nessun nome, ma
aveva visto bene in quale misura tutti quei ragazzi erano contenti di
avere un'allenatrice tra loro. La maggior parte di loro aveva circa
vent'anni o poco più, proprio come lui e Jake, mentre gli
altri si
aggiravano intorno ai diciotto; i più giovani fissavano
Agatha come
un'apparizione divina. Quattro o cinque ragazzi, spiegò Jake
mentre
si spostavano lentamente verso il centro dell'isola, proprio quel
mattino erano andati in esplorazione verso nord, ma sarebbero tornati
per l'ora di pranzo.
«Siete
arrivati giusto
in tempo» commentò vivacemente. «Stavamo
proprio per fare il
nostro streching di gruppo mattutino.»
Per
quanto Samuel non
capisse cosa c'entrasse questo con i Pokémon,
partecipò con
infinita pazienza allo streching mattutino in cerchio, piuttosto
simile a una seduta di yoga, gettando continue occhiate di rimprovero
alla volta di Agatha, che sembrava mordersi le labbra per non ridere.
Quell'allenamento isolato gli ricordava decisamente di più
una setta
di fanatici, ma, pur ripromettendosi di chiedere ad Agatha per quale
motivo l'avesse trascinato fin lì, lo trovò quasi
divertente.
Dopo
lo stretching, i
ragazzi si divisero in varie coppie estratte a sorte per una piccola
sfida e Jake propose che lui e Agatha si separassero per lottare
ciascuno con uno degli altri allenatori.
«Con
qualcuno dei più
giovani bisogna andarci piano» gli confidò a bassa
voce, traendolo
lievemente in disparte dagli altri. «Non tutti sono
esattamente
all'altezza, ma... cerchiamo di non scoraggiarli, okay?»
«Non
devi dirlo a me»
gli sussurrò Samuel in risposta, a una prudente distanza da
Agatha.
«Dubito che la signorina sia capace di trattenersi.»
«Ah,
con lei me la
vedo io» lo rassicurò Jake, chiaramente
elettrizzato. «Ho proprio
voglia di scoprire se è davvero brava come affermava a
Fucsiapoli!»
Nella
sua curiosità
quasi morbosa, Samuel faticò per un attimo a riconoscere
ciò che
egli stesso aveva pensato ormai un paio di settimane prima, quella
mattina ventosa sull'Altopiano Blu. Era trascorso tanto tempo?,
pensò
fugacemente mentre si specchiava negli occhi limpidi e privi di
esitazione di Jake. Gli sembrava passata una vita intera da quando
aveva sfidato Agatha, l'aveva sconfitta, le aveva chiesto scusa, una
vita intera da quando viaggiava da solo coi suoi Pokémon...
all'improvviso gli parve che, prima di quel giorno, la sua esistenza
fosse stata molto vuota.
«Divertiti»
disse a
Jake con una pacca sulle spalle. «È un osso duro,
ti avverto.»
«È
una ragazza»
rispose Jake con semplicità, e Samuel comprese che con
quelle parole
non intendeva sminuirla, ma che si riferiva a quella grande
imprevedibilità che le ragazze hanno e che egli stesso aveva
imparato a conoscere... sorrise tra sé mentre Jake gli
sfrecciava
accanto gridando: «Ehi Agatha, ci vieni in coppia con
me?»
Jake
possedeva un
Hitmonlee, un Lickitung e un Golem: non erano niente male,
considerò
Samuel mentre li osservava lottare, seduto sull'erba con gli altri
ragazzi, e quell'allenatore, tutto sommato, sapeva il fatto suo, ma
neppure una volta egli si sentì preoccupato per Agatha.
Ormai
conosceva bene la sua strategia aggressiva e furiosa, ma ben
calibrata sulle sue reali forze, che rimaneva valida anche senza
l'uso del veleno – perché ovviamente, per
dimostrare la sua reale
bravura, Agatha non avrebbe potuto tollerare di servirsi d'altro che
dell'aperta e brutale forza fisica. Dall'espressione rilassata dei
suoi occhi neri, egli sapeva che stava giocando senza troppo impegno,
ma in ogni caso la sua superiorità emerse con evidenza
schiacciante:
gli attacchi di Jake erano lanciati con sicurezza, ma scoordinati e
irresoluti, sembravano non arrivare mai al momento giusto, egli non
sapeva approfittare del vantaggio acquisito...
Ma
anche quando parve
chiaro che, in una battaglia seria, Agatha avrebbe vinto senz'altro,
Jake non si scoraggiò: si limitò a scoppiare a
ridere
rumorosamente, richiamando il suo Golem dal campo di battaglia, e a
dare segno di resa alzando le braccia.
«Mi
arrendo, Agatha,
mi arrendo! Sei fortissima. Vedo con piacere che non mentivi a
Fucsiapoli!»
Agatha
avrebbe potuto
gioire della sua piccola vittoria in moltissimi modi diversi, ma in
quel momento, soddisfatta e compiaciuta delle parole di Jake, ella si
voltò e guardò direttamente verso di lui,
sorridendo di un largo
sorriso felice che le illuminava gli occhi, quasi a renderlo
partecipe della sua vittoria. E in qualche modo, anche se non avrebbe
mai saputo dirne la ragione, Samuel si sentì davvero
orgoglioso come
ad aver combattuto lui stesso.
A
sua volta, Samuel
combatté poi con un ragazzo di un paio d'anni più
di lui che
possedeva solo un Schyther, ma eccezionalmente forte: per
sconfiggerlo, egli ebbe bisogno di chiamare sia il suo Tauros che il
suo Arcanine in successione. Quando si voltò per tornare a
sedere
sull'erba, dopo aver ricevuto i complimenti del suo avversario, vide
che Agatha teneva gli occhi fissi su di lui e che ancora portava sul
viso il suo sorriso felice.
Si
succedette una lunga
serie di lotte di quello stampo di cui Samuel perse ben presto il
conto, ma poiché il livello fu in generale di gran lunga
inferiore
al loro, fu grato di essere riuscito a evitare una settimana di
allenamenti inutili come quelli e dalle occhiate di sottecchi che gli
gettò Agatha, continuando a mordersi le labbra, ebbe
l'impressione
di non essere il solo a pensarla così.
Intorno
a mezzogiorno,
come previsto, il gruppetto di allenatori che si era allontanato in
esplorazione fece ritorno: Samuel se ne accorse quando Jake
balzò in
piedi e corse incontro a quattro figure indistinte che si
avvicinavano in lontananza. «Ehi, Austin, com'è
andata? Venite a
vedere chi è venuto a trovarci!»
«Austin!»
Seduta
al suo fianco,
Agatha gli afferrò improvvisamente la mano con tanta
violenza da
affondarvi quasi le unghie. Samuel si voltò di soprassalto,
quasi
spaventato da quella reazione improvvisa: gli occhi di Agatha si
erano riempiti d'ansia. Samuel strappò la mano dalla sua
stretta.
«Che
ti prende?»
«Austin!»
ripeté
Agatha a mezza voce. Qualcuno attorno a loro si alzò per
andare
incontro ai ragazzi che stavano tornando; approfittando del
movimento, Agatha si chinò verso di lui per parlargli a
bassa voce.
«Non ti ricordi di lui? Il ragazzo della
scommessa!»
Samuel
non ebbe bisogno
di frugare troppo nella propria memoria per capire a cosa si stesse
riferendo: certo, il ragazzo presuntuoso e arrogante del Centro
Pokémon di Fucsiapoli... Agatha gli scrollò il
braccio fissandolo
con urgenza. «Non voglio vederlo, andiamo via!»
«Ma
Agatha... siamo
appena arrivati!»
«Samuel,
per favore!»
sibilò ansiosamente Agatha.
«Ma
come facciamo
a...»
«Vieni,
andiamo!»
Il
gruppo di allenatori
appena apparso si stava facendo più vicino, ora Samuel era
quasi
convinto di distinguere chiaramente i tratti duri di Austin; tutti
gli allenatori attorno a loro erano ormai in piedi. Agatha gli diede
un ultimo strattone intenso, insistendo con gli occhi, e con un
sospiro profondo Samuel si alzò in piedi e la
seguì silenziosamente
nella direzione opposta a quella che stavano prendendo tutti.
Scivolarono
in fretta
lungo la spiaggia, correndo in silenzio sulla sabbia; Samuel non
poté
che augurarsi che i dislivelli e le dune potessero nascondere la loro
fuga almeno per qualche decina di metri. Si sforzò di
affiancare
Agatha nella sua corsa e di afferrarle il braccio per obbligarla ad
ascoltarlo.
«Mi
spieghi che ti
prende? Cosa penseranno tutti?»
«Sht!
Zitto» ordinò
seccamente Agatha, voltandosi appena verso di lui per posarsi un dito
sulle labbra.
Proseguirono
in
silenzio per un paio di minuti, sgusciando tra gli sterpi secchi
sulla spiaggia biancheggiante di calore: ben presto Samuel
capì
dov'era che Agatha si stava dirigendo tanto in fretta. La
strattonò
ancora. «Stai scherzando? Vuoi nasconderti nella
grotta?»
Il
silenzio di Agatha
era anche troppo eloquente: con stizzita rassegnazione Samuel la
seguì all'interno della stretta imboccatura nera della
caverna,
inoltrandovisi per qualche metro. Solo allora, finalmente, Agatha
accennò a fermarsi e a girarsi verso di lui:
nell'oscurità della
grotta, i suoi occhi lampeggiavano dei raggi di sole che penetravano
a malapena. Samuel si scoprì ad ansimare dopo la corsa.
«Sei
ammattita? Ora mi
spieghi perché siamo scappati come...»
«Non
voglio vedere
Austin» sbottò Agatha. La sua voce aveva un
accento amaro e
rancoroso.
«Ma
cos'hai contro di
lui?» protestò Samuel. Sentiva di star cominciando
ad alterarsi
seriamente, per la prima volta da quando la conosceva: aveva
accettato di aggregarsi a Jake solo per farle piacere, e ora...
«Lo
odio» ribatté
Agatha freddamente. «Non avrei mai immaginato che Jake
avrebbe
contattato anche lui... non erano amici, in fin dei conti. Si erano
solo appassionati insieme alla storia della scommessa.»
«Sei
incredibile!»
esclamò Samuel esasperato. «Hai voluto venire fin
qui, e ora... A
Fucsiapoli ti hanno provocata entrambi, che cos'ha Austin peggio di
Jake?»
Dopo
un attimo di
silenzio, Agatha disse infine con calma glaciale: «Non mi
piacevano
le sue attenzioni. Questa è una risposta
sufficiente?»
«Oh»
disse Samuel, e
per un po' non seppe trovare niente di più intelligente da
dire. Il
suo pensiero tornò per l'ennesima volta a quella sera, ai
due
ragazzi che l'avevano coinvolto nella scommessa, alle loro
provocazioni... Si passò una mano tra i capelli.
«Oh.»
«È
tutto ciò che hai
da dire?» chiese Agatha acidamente. Ora che i suoi occhi si
stavano
abituando alla penombra della grotta, Samuel riusciva a vedere
nitidamente la sua figura appoggiata alle pareti di roccia con le
braccia conserte sul petto. Sbuffò. «Il giorno
dopo la scommessa mi
è venuto dietro per ore, insistendo che dovevamo allenarci
assieme,
che mi avrebbe accompagnata sull'Altopiano Blu, che voleva cenare
con me... non sembra, ma è incredibilmente appiccicoso e non
voleva
proprio capire l'antifona. Ora hai qualcosa di serio da dire?»
Anche
se oh era
comunque la risposta che gli veniva più spontanea, Samuel
s'impegnò
a trovare qualcosa di più serio.
«Capisco.»
«Bene»
disse Agatha
bruscamente. «Mi fa piacere che tu capisca.»
Nei
giorni precedenti,
Samuel l'aveva vista alterata sino a quel punto solo a causa del suo
amministratore e anche se non riusciva a immaginare quanto realmente
potesse essere stato fastidioso Austin – ma in fondo, che
speranze
poteva avere di comprenderlo, essendo un uomo? - suppose che dovesse
averla fatta arrabbiare davvero tanto. Sentendosi un poco dispiaciuto
per averla aggredita, ebbe la tentazione di protendere la mano, darle
una pacca sulla spalla, stabilire un contatto, ma si trattenne
temendo che Agatha potesse fraintendere il suo gesto.
«Scusami,
io... non lo
sapevo.»
Persino
nell'oscurità,
egli sentì che il contegno di Agatha si ammorbidiva.
«Non potevi
saperlo, ma grazie per essere venuto con me. So che non eri
d'accordo. Comunque, se vuoi tornare là, puoi farlo.
Dì pure che
abbiamo litigato o quello che vuoi.»
«Scherzi?»
esclamò
Samuel. «Non ci tengo a tornare a lottare contro quei
ragazzini...
Jake e il ragazzo contro cui ho combattuto io sembravano davvero gli
unici allenatori decenti di quella masnada.»
Agatha
emise una bassa
risata che parve vibrare tra le pareti anguste che li racchiudevano.
«Qualcuno dovrebbe dire a Jake che non è tenuto a
far loro da
maestro e che farebbe bene ad allenarsi da solo per la Lega.»
«Beh,
se sono contenti
così...» Samuel scrollò le spalle.
«In ogni caso, siamo venuti
qui insieme ed è insieme che ce ne andremo. E comunque
Austin non mi
è molto più simpatico che a te.» A dire
il vero, in quel momento
non pensava che potesse esistere al mondo una persona capace di
odiare cordialmente Austin più di lui, sebbene non riuscisse
a
focalizzarne con precisione il motivo. Le fece cenno di avviarsi
verso le profondità della grotta. «Forza, andiamo.
Se non ricordo
male, ci dev'essere un'altra uscita da questo posto... così
potremo
allontanarci senza dover dare spiegazioni.»
Agatha
non si mosse.
Samuel sentì il suo respiro rallentare nel buio, farsi
incerto ed
esitante. «Grazie, Samuel. Sei un buon amico.»
Camminarono
a lungo
nell'oscurità, l'uno accanto all'altra con le mani che
scorrevano
sulle pareti per mantenere l'orientamento, in silenzio. Era un
silenzio quieto e rilassato, privo di ogni tensione: Samuel sapeva,
con una piccola parte di sé, che avrebbe dovuto essere
almeno un po'
arrabbiato con lei per i suoi capricci, per averlo trascinato su
quell'isola ed essersene voluta scappare dopo appena poche ore,
eppure, per quanto frugasse nel proprio animo alla ricerca di
sentimenti d'irritazione o di fastidio, non riusciva a trovare
niente. La verità, si sorprese a pensare, era che si trovava
tanto
naturalmente, spontaneamente d'accordo con lei su così tante
cose,
anche sull'antipatia per Austin, sebbene in modo diverso, che nessuno
dei suoi atteggiamenti riusciva a contrariarlo. Come quella mattina,
egli ripensò di nuovo a ciò che era stata la sua
vita prima di
conoscere Agatha e di nuovo, inspiegabilmente, gli parve
incredibilmente vuota... eppure non era passato poi
tanto
tempo.
«Hai
sentito?» chiese
Agatha improvvisamente, fermandosi. Samuel la imitò senza
rispondere, tendendo l'orecchio. «Acqua»
sussurrò Agatha
nell'oscurità, e finalmente l'udì anch'egli: era
uno scrosciare
sonoro e indistinto, di cui non riusciva a percepire l'origine.
«Siamo
vicini»
constatò. «Quando avremo trovato l'acqua, ci
basterà risalire la
corrente per capire da che punto il mare entra nella grotta.»
Proseguirono
ancora, ma
più lentamente: il terreno cominciò a declinare,
si fece
sdrucciolevole e umido e la roccia calcarea di cui era costituito
rese il cammino sempre più difficile. A poco a poco il
rumore si
fece più forte e intenso e dopo qualche minuto entrambi si
fermarono
quando sentirno l'acqua lambire i loro piedi.
Samuel
non era mai
stato all'interno di quella grotta, ma aveva sentito parlare
più
volte delle correnti violente che la percorrevano: in effetti, l'eco
della risacca che risuonava tra le pareti ricurve era forte e
fragorosa. Agatha stava probabilmente pensando la stessa cosa,
perché
disse: «È meglio se saliamo entrambi sul mio
Tentacruel. È forte
abbastanza da portarci e non rischieremo di separarci al
buio.»
A
questa proposta il
suo orgoglio virile ebbe un moto di protesta: cavalcare il
Pokémon
della sua compagna non gli sembrava molto da gentiluomo. Tuttavia
sapeva che Agatha aveva ragione: la grotta era buia, le correnti
troppo forti... quanto bastava per doversi cercare per ore dopo una
distrazione di pochi secondi.
«Va
bene» disse
perciò dopo pochi secondi, sentendosi un po' impacciato.
Salirono
alla cieca sul
dorso di Tentacruel, più volte rischiando di scivolare sulla
sua
schiena viscida e untosa; quando si furono sistemati, tuttavia,
Samuel trovò che non era poi disagevole come aveva pensato
in un
primo momento.
Quando
Tentacruel si
staccò dal bordo del bacino, Samuel dovette reprimere il
mascolino
impulso di protezione che gli suggeriva di stringere Agatha per
evitare che cadesse; del resto, dal modo in cui ella si chinava in
avanti per suggerire a bassa voce a Tentacruel come seguire le
correnti, era evidente quanto abile fosse già. A volte era
difficile
tenere a mente che quella ragazzina non aveva nulla da invidiargli in
fatto di esperienza.
Tentacruel
navigò in
silenzio per qualche minuto, fendendo l'acqua coi lunghi tentacoli in
grandi tonfi sordi e interrotti: Samuel si sentiva sul viso i capelli
vaporosi di Agatha, via via che ella spostava il capo per cercare di
vedere nel buio dove stessero andando.
«Ci
siamo» la sentì
mormorare. «Tentacruel, penso proprio che...»
Ma
da quel momento in
poi, tutto accadde molto rapidamente.
Tentacruel
ebbe uno
scarto inatteso e sprofondò di un paio di metri, gettando
uno strido
acuto che rimbombò nell'aria; con un'esclamazione soffocata,
Agatha
scivolò paurosamente di lato e Samuel l'afferrò
appena prima che un
nuovo violento scrollone la sbalzasse in acqua, tra le onde fattesi
all'improvviso alte e impetuose e turbinose.
«Tentacruel,
attento!»
Tra
le cosce Samuel
sentiva tutti i muscoli di Tentacruel che si tendevano, si
contraevano, s'irrigidivano nel tentativo di resistere alla forza
violenta e irresistibile di quelle correnti, udiva le sue strida
angosciate e i suoi gemiti mentre si sforzava disperatamente di
mantenersi in equilibrio tra le onde che lo trascinavano;
istintivamente egli strinse maggiormente la vita di Agatha,
attirandola a sé.
Dunque
quelle
erano le correnti delle Spumarine! Ora Tentacruel veniva trascinato
nelle acque scure senza potersi opporre, in completa balia di quella
fiumana irrefrenabile, ma poi a un tratto vi fu uno scrollone ancora
più forte, un'inclinazione paurosa, e Samuel si
sentì precipitare
mentre una forza avversa lo strappava ad Agatha...
Quando
Samuel riemerse
dopo una lunga lotta dalle acque gelide e soffocanti, il nome di
Agatha riempì la sua bocca prima ancora dell'aria. Si
trovava al
centro di un vasto bacino nero, sovrastato da una cupola di roccia
solcata da profonde spaccature: il sole filtrava attraverso di esse e
i barbagli dorati dei flutti cangianti si riflettevano sulle pareti
in liquide evanescenze. La corrente doveva dunque averlo condotto in
un punto sollevato rispetto al livello del mare.
«Agatha!»
tuonò con
voce stentorea che echeggiò ripetendosi sull'acqua e contro
la
roccia. Si sentiva le membra fiacche e intorpidite, ma si
rigirò
furiosamente nell'acqua, ruggendo come una belva. Dov'era Agatha?
Stava bene, era ferita, aveva bisogno di lui?
«Agatha!»
«Samuel!
Sono qui.»
La
sua voce sembrava
vibrare di sollievo, ma in quel momento Samuel realizzò che
mai
nessuna persona vivente avrebbe potuto sentirsi più
sollevata di lui
all'udire quella voce. Gli parve che il sollievo lo coprisse e lo
annegasse, lo avvolgesse più ancora dell'acqua. La voce di
Agatha
veniva dalle sue spalle: quando si voltò, egli la vide a
pochi metri
da sé, sulla sponda che risaliva lentamente di quel piccolo
bacino.
Sembrava smarrita e stravolta: i suoi capelli erano ora divenuti una
massa enorme che le ricadeva sul petto e sulle spalle, avvinghiandosi
in sottili serpenti scuri attorno al collo, mentre i suoi abiti erano
divenuti rigidi veli aderenti sul suo corpo. Fendendo l'acqua con
tutta la rapidità che le sue membra spossate gli
consentivano,
Samuel nuotò verso di lei.
«Stai
bene?» chiese
affannosamente. Quella domanda si ripeté in una strana eco
un po'
troppo rimbombante, e solo dopo un attimo Samuel si rese conto che
Agatha gli aveva chiesto la medesima cosa. Vide un sorriso fugace
attraversarle il volto e si concesse di sorridere a sua volta: erano
ancora insieme, dopotutto. In qualche modo sarebbero usciti da quella
piccola disavventura.
Si
issò faticosamente
sulla riva: forse comprendendo che sarebbe stato troppo umiliante per
lui, Agatha non tentò di aiutarlo, ma si limitò a
inginocchiarsi al
suo fianco. Vedendo finalmente da vicino il suo pallido volto
accorato, Samuel notò per la prima volta il sottile graffio
che le
attraversava la tempia come una linea rossa. Glielo accennò
col capo. «Ti fa male?»
«Macché...
è solo un
graffio.» Se non si fosse sentito ancora troppo turbato,
Samuel
avrebbe scosso il capo.
«Diresti
lo stesso
anche se ti strappassero un arto.»
La
sua battuta le
strappò un nuovo sorriso ed ella ammise:
«Probabile.» E subito
dopo: «Tu, invece? Sei ferito? Puoi camminare?»
«Certo
che posso
camminare» ribatté Samuel con decisione, per
quanto non ne fosse
poi tanto sicuro. Tuttavia, non provava dolore, se non un senso
d'intorpidimento ai muscoli per aver dovuto lottare contro la
corrente che minacciava di annegarlo, perciò era
ragionevolmente
certo di non essere ferito.
«Voi
maschi dite
sempre così» lo rimbeccò Agatha, ma
finalmente la sua fronte si
rasserenò un poco. Si alzò in piedi, sfiorandogli
appena la spalla
con la mano in qualcosa che Samuel avrebbe chiamato una carezza se
non fosse venuta proprio da lei, e si guardò attorno. Un
declivio di
roccia piuttosto ripido, ma con ogni probabilità
affrontabile, si
stendeva dietro di loro risalendo di pochi metri. «Bene,
visto che
puoi camminare come un vero uomo, perché non trovi un modo
per
portarci fuori di qui?»
«Ehi,
genio» sbuffò
Samuel, levando gli occhi su di lei. «Devo ricordarti chi
è che ha
avuto la brillante idea d'infilarsi in questa grotta?»
Non
vi fu risposta, ma
Samuel non poteva sinceramente dire di essersela aspettata. Si decise
ad alzarsi in piedi a fatica, cercando di sgranchire le membra
contratte e intorpidite, e una folata d'aria più fresca che
sembrava
provenire proprio dalla sommità della parete di roccia lo
fece
rabbrividire, rapprendendogli addosso gli abiti bagnati.
«Beh,
direi che
abbiamo già scoperto come fare»
borbottò. «Sembra proprio che
dobbiamo
arrampicarci.»
«La
fai facile»
constatò Agatha a bassa voce, ma si avvicinò alla
parete di roccia
e prese a passeggiare nervosamente davanti, studiandola con
attenzione. Samuel le si accostò a sua volta, osservando il
pendio
alla magra luce del sole che filtrava attraverso la grotta. Era
scoscesa, ma sembrava declinare gradualmente e presentare molteplici
appigli a una scalata... volgendo lo sguardo verso di lei, colse nei
suoi occhi arrossati dal sale uno sguardo d'intesa.
«Te
la senti?» chiese
cautamente, ma per tutta risposta ella si avvicinò al pendio
e
appoggiò le mani sulla pietra, saggiando i primi appigli.
«Te
la senti, tu?»
replicò maliziosamente.
Niente
di cui
sorprendersi, si disse Samuel scuotendo la testa: non riusciva
proprio a immaginare un'Agatha che rinunciasse a una sfida... anche
se quella sfida le veniva da qualcosa d'inanimato come una parete di
roccia. Ma Samuel non era assolutamente disposto a permetterle di
andare per prima, perciò, per evitare di stimolare ancor
più la sua
competitività, la scostò gentilmente col braccio
e mormorò: «Vado
prima io. Salire dopo una ragazza... non sta bene.»
«Oh»
borbottò
Agatha, allontanandosi di scatto dalla parete con un movimento che
parve all'improvviso imbarazzato.
Sentendosi
curiosamente
consapevole del suo sguardo nero puntato su di sé, Samuel si
apprestò a dare la scalata. La luce che proveniva dalla
sommità
della grotta era scarsa e disomogenea, ma sembrava sufficiente a
vedere gli appigli che il pendio offriva: con un sospiro profondo,
Samuel cominciò a salire.
Non
era mai stato molto
abile con quel genere di cose: solo di rado, all'interno di qualche
caverna, aveva risalito pochi metri alla ricerca di Pokémon
rari,
ma aveva sempre preferito non correre rischi: si sentiva troppo
responsabile nei confronti della propria squadra per permettersi di
metterla in pericolo senza un valido motivo. In quel frangente,
tuttavia, quella di aver evitato le scalate non poté non
sembrargli
una pessima idea. Tutto ciò che sapeva in merito era che era
fondamentale assicurarsi di essere stabil sui piedi prima di cercare
appigli per le mani... o qualcosa del genere. Davvero non molto,
pensò mentre il duro bordo di pietra gli affondava nella
carne delle
mani.
«Sei
in difficoltà,
Oak?» esclamò Agatha, da un paio di metri appena
sotto di lui.
Samuel dovette reprimere l'istinto di chinare il capo per gettarle
un'occhiataccia: in quel momento, rischiare di sbilanciarsi sembrava
una pessima idea, oltre che molto umiliante.
«Fammi
vedere come te
la cavi, signorina» ribatté, sperando che la sua
voce non lasciasse
troppo chiaramente trasparire lo sforzo di quel momento.
«Mi
piacciono le
sfide, lo sai.»
Ora
che Samuel era
salito a sufficienza, Agatha cominciò a sua volta la
scalata. Via
via che procedeva, Samuel cercava di indicarle gli appigli di cui lui
stesso si era servito, reclinando impercettibilmente il capo per
seguire i suoi movimenti con la coda dell'occhio: il pensiero di
saperla aggrappata a una parete di roccia lo riempiva, se possibile,
ancor più di panico. Ma ovviamente, come al solito, si stava
preoccupando troppo: Agatha riusciva a seguire puntalmente le sue
istruzioni, pur trovandosi talora in difficoltà a causa
della sua
statura minuta, e sembrava nell'insieme piuttosto bilanciata.
Ringraziando
il cielo,
la salita fu più breve di quanto Samuel aveva temuto, e a
ogni modo
sempre meno ripida via via che salivano, tanto che a un tratto
divenne quasi possibile avanzare gattonando. Prima ancora di arrivare
a vedere oltre il crinale di roccia, egli sentì sul volto il
soffio
d'aria fredda, mobile del giorno; quando si sollevò, egli si
aspettava già di veder occhieggiare una qualche finestra
d'azzurro...
Ma
fu un altro
l'azzurro che vide.
Rimase
immobile,
incredulo, rischiando quasi di vacillare davanti all'enorme corpo dal
piumaggio d'aspetto vellutato, bianco e azzurro e blu, che riposava
statuario al centro della grotta, raggiungendo quasi col capo la sua
sommità. Fu un'apparizione, un'epifania: boccheggiando
davanti
all'innegabilità di quella presenza, tutto ciò
che Samuel fu in
quel momento in grado di fare fu afferrare la mano di Agatha, che lo
stava raggiungendo, e implorarla con lo sguardo di fare piano.
«Dio,
Agatha...
guarda!» sussurrò, attirandola a sé
verso l'alto.
Quando
videro, gli
occhi di Agatha si fecero se possibile più grandi. Si
posò una mano
sulla bocca quasi a trattenere un grido, si voltò verso di
lui...
È
Articuno!
sillabò muovendo appena le labbra, e Samuel
annuì. Si sentiva il
cuore battere in petto con violenza sconcertante, emozionante, e se
il polso di Agatha non mentiva, anche il suo cuore aveva accelerato.
Rimasero
immobili per un tempo incredibilmente lungo. Articuno dormiva. In
quel momento dava loro le spalle: era apppollaiato sulla roccia nuda,
colla lunga coda stesa al suolo, il capo infossato tra le ali
possenti che parevano gonfiarsi impercettibilmente al ritmo gelido
del suo respiro... era ammaliante, era perturbante.
Quando
Samuel riuscì a riscuotersi da quell'incantesimo, non
avrebbe saputo
dire quanto tempo fosse trascorso, ma di certo la luce che filtrava
attraverso il soffitto si era fatta più smorta e livida.
Quante ore
potevano essere trascorse da quel mezzogiorno che ora sembrava
così
lontano?
Se
fosse calato il buio, avrebbero dovuto trascorrere la notte nella
caverna. A malincuore, Samuel si voltò verso Agatha per
richiamarla.
Aveva continuato a trattenere la sua mano per tutto quel tempo, si
rese conto con un moto improvviso d'imbarazzo, ma ella non sembrava
darvi peso: Samuel osservò nella magra luce il suo profilo
rapito,
estatico. Tutto il suo volto sembrava come trasfigurato
dall'emozione, irresistibilmente attratto verso quella creatura
mitica e meravigliosa, primordiale e selvaggia, che ora dormiva: i
suoi occhi erano spalancati e fissi, le labbra dischiuse...
Sentendosi
ancora un po' a disagio, Samuel strinse con delicatezza la sua mano.
Contrariamente a quanto egli si era aspettato, Agatha si volse subito
verso di lui, ricambiando rapidamente la sua stretta prima di sfilare
la mano dalla sua, ma senza fretta o imbarazzo o dissimulazione.
«Andiamo»
mormorò Samuel, accennandole un punto alla loro destra,
là dove la
corrente d'aria sembrava farsi più intensa e ventilata, ma
meno
fredda, poiché non condizionata dalla gelida
corporeità di
Articuno. «Si sta facendo buio.»
Un
lampo di rimpianto attraversò lo sguardo nero di Agatha,
eppure ella
annuì: bagnati e infangati com'erano, doveva essere
consapevole
quanto lui che non era pensabile rimanere là dentro per
tutta la
notte. Gettò un ultimo sguardo di desiderio verso Articuno,
prima di
cominciare a strisciare lentamente incontro all'aria che soffiava.
Quando
uscirono finalmente dalla grotta nel sole che declinava fiammeggiando
verso l'orizzonte, Agatha sembrava non riusciva a smettere di ridere.
Era eccitata, contenta come una bambina: si scostò dal viso
i lunghi
capelli sporchi, che si erano rappresi piuttosto che asciugati, e lo
guardò scalpitando d'irrequietezza.
«Dio,
Samuel, Articuno! Non credevo neppure che esistesse davvero!»
«Nemmeno
io» ammise Samuel, anche se non riusciva a star dietro alla
sua
gioia: in qualche modo, tutto il suo entusiasmo lo lasciava
perplesso, forse perché non l'aveva mai vista
così felice, e quella
vista non gli dispiaceva. La gioia donava ai suoi tratti assai
più
della sua compostezza signorile e una parte della sua mente si
ritrovò a sperare di vederla più spesso
così, d'ora in poi.
«Era...
meraviglioso» esclamò Agatha, e parve che con
quella parola si
sforzasse di esprimere tutta la sua emozione.
Il
cielo cominciava a ingrigire e l'aria attorno a loro sembrava farsi
via via più fredda e ventosa; sulla costa dell'isola
gemella, dove
incredibilmente si erano trovati appena poche ore prima,
rosseggiavano già i primi fuochi degli allenatori in
isolamento.
L'entusiasmo
di Agatha non li abbandonò per tutto il viaggio di ritorno,
era
contagioso, coinvolgente; irradiava dai suoi occhi, dalla sua voce
vibrante, dalla sua risata liberatoria... era travolgente. Parlarono
di ciò che avevano visto per tutta la traversata fino
all'Isola
Cannella, che ospitava il Centro Pokémon più
vicino; dopo
l'accettazione e un rapido bagno nelle loro camere, continuarono a
parlarne per tutta la cena al ristorante di pesce sulla costa,
durante la passeggiata sulla spiaggia buia e fresca bagnata di
luna...
Quella
notte, quando Samuel, ormai in pigiama, si stava già
infilando sotto
le coperte - dopo quella giornata infinita, il suo corpo era
seplicemente esausto – una serie di colpi alla porta lo
strappò al
suo riposo. Con un sospiro, egli si rassegnò ad andare ad
aprire.
Agatha
fece irruzione come una piccola tempesta: indossava già la
camicia
da notte e i suoi lunghi capelli vaporosi, lavati di fresco, le
scendevano in una morbida treccia rigonfia sulla spalla destra. Alla
sua vista, Samuel ebbe un tuffo al cuore e si sentì
avvampare.
«Agatha!
Sei ammattita? Se ci vedesse qualcuno...»
Agatha
respinse le sue obiezioni agitando la mano. «Non essere
sciocco,
starò qui solo un minuto.»
«Beh,
fai in fretta, allora» borbottò Samuel,
terribilmente a disagio,
accostando la porta senza chiuderla, solo per evitare che qualcuno
che attraversasse il corridoio potesse vederli nella stessa stanza.
Si mantenne a una prudente distanza da lei, stringendosi nervosamente
le braccia attorno al petto, e Agatha si accigliò.
«Santo
cielo, Samuel... dormiamo sempre a pochi metri l'uno
dall'altra»
disse. «Sei più pudico di una donna.»
«Qui
siamo al chiuso» disse Samuel seccato: quella situazione lo
stava
turbando sinceramente e non vedeva l'ora che Agatha se ne andasse.
«Ora vuoi dirmi che cosa c'è di tanto
urgente?»
«Sei
terribile» disse Agatha, ma finalmente si decise a
rispondergli. Sul
volto le saettò di nuovo un lampo d'eccitazione.
«Tu sai bene che
Articuno non è l'unico Pokémon del suo genere qui
a Kanto.»
«Dove
vuoi arrivare?» chiese Samuel con impazienza. Possibile che
Agatha
lo costringesse ad allontanarsi per quasi un quarto d'ora ogni sera e
che ora piombasse in camera sua di notte? Davvero le ragazze erano
incomprensibili e quella lo era in particolar modo. Agatha colse di
nuovo il suo disagio, ma stavolta si limitò a stringere le
labbra e
a fare finta di nulla. Fronteggiandolo con aria di sfida, ma
mantenendo rispettosamente le distanze da lui, incrociò le
braccia
sul petto e lo scrutò fieramente.
«Sei
mai stato alla vecchia Centrale Elettrica?»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Prima ancora dell'aria (Parte Seconda). ***
Eccomi
di nuovo qui!
Avrei
voluto postare questa
seconda parte un po' prima, ma sono stata letteralmente investita da
una serie di impegni e solo stasera ho trovato il tempo di mettermi
con calma a ricopiarla.
Suppongo
di poter dire che
qui si conclude la prima parte della storia e che, col prossimo
capitolo che è stato anche il primo a essere ideato, si
giungerà
finalmente alla principale. Nel frattempo, non posso davvero che
ringraziare di cuore Bankotsu90, crystal_93 e Mad_Dragon per le loro
recensioni e anche solo per aver continuato a leggere fin qui: mi
fate davvero tanto, tanto piacere!
Per
la questione dei
Pokémon leggendari mi rendo conto di non essere stata troppo
chiara
nel capitolo precedente e me ne scuso molto, ma credo che in questa
parte si capirà tutto molto meglio, o almeno me lo auguro.
Vi
lascio alla lettura:
come al solito, un abbraccio e un bacio a tutti!
Afaneia
Capitolo
quinto –
Prima ancora dell'aria (Parte Seconda).
Sgusciare,
attraverso
la vecchia finestra rotta, nell'enorme salone pieno di ragnatele e di
rifiuti, di detriti e di sporcizia della Centrale Elettrica
fatiscente, e strisciare lungo i corridoi stipati di oggetti scassati
e macchinari fuori uso. La puzza asfissiante, la sporcizia e la
polvere che si rapprendono sui capelli e sul volto e sui vestiti:
respirare appena, via via che s'inoltrano nell'edificio pericolante,
scendendo lentamente le interminabili rampe di scale. Le mani
allacciate per non perdersi mentre si muovono nel buio, il crepitare
dell'energia statica tutta attorno a loro che cresce via via che
s'inoltrano in profondità; le strida minacciose del
leggendario
risvegliato e affamato, le ore di attesa nell'oscurità,
acquattati
dentro un vecchio armadio dalle ante arrugginite, con la schiena di
Agatha involontariamente premuta contro il suo petto e il profumo dei
suoi capelli nelle narici per tutto il tempo... e poi, avvicinarsi a
Zapdos dormiente al centro del suo impero di devastazione e rovina,
nella dimora di solitudine e decadenza che esso stesso si è
eletto,
e ammirare il suo corpo vibrante e solido, la possenza divina delle
sue ali saettanti... Per poi sgusciare via di nuovo, ripercorrere a
ritroso l'infinito cammino della Centrale in una corsa eccitata che
si fa irrefrenabile, coi passi che echeggiano amplificati sulle scale
di ferro, e infine uscire, uscire nella notte fresca e ventosa del
Percorso Dieci, nell'aria incredibilmente pulita fuori da
quell'edificio chiuso, e abbandonarsi ridendo sul prato, cogli occhi
ancora pieni di quella magia e incantesimo che è Zapdos.
Mentre
si godeva un
lungo bagno nella piccola stanza del Centro Pokémon del
Percorso
Dieci, che sorgeva poche centinaia di metri più a nord della
Centrale, Samuel si domandò se avrebbe mai potuto
dimenticare tutte
quelle sensazioni. Solo un mese prima, a Fucsiapoli, chi l'avrebbe
creduto mai che quella ragazzina arrogante l'avrebbe trascinato sotto
le Spumarine e nella Centrale Elettrica, e chissà dove
altro...?
Eppure in quel momento, immerso nell'acqua calda che gli scioglieva i
muscoli contratti e lavava via la repellente polvere della Centrale
sporca, dopo aver visto quei Pokémon della cui esistenza
ormai quasi
nessuno parlava più, non riusciva a smettere di pensare a
quanto più
appassionante fosse la sua vita con lei.
Avevano
raggiunto il
Centro a notte ormai alta che quasi volgeva al mattino, a un orario
tanto inusuale e sconveniente, per un ragazzo e una ragazza, che
l'anziana infermiera ne era rimasta scandalizzata e aveva tirato un
sospiro di sollievo quasi plateale, quando avevano detto di essersi
persi e le avevano chiesto due camere separate. Samuel avrebbe potuto
giurare che, se solo non si fosse trattato di uno dei Centri
più
piccoli della regione, dotato di sole quattro camere disponibili,
l'infermiera avrebbe fatto in modo di sistemarli a due piani diversi
per tenerli alla massima distanza possibile, e aveva avuto
l'impressione di leggere lo stesso pensiero nello sguardo che Agatha
gli aveva gettato sulle scale.
Erano
arrivati
decisamente troppo tardi perché valesse la pena di dormire:
prima di
separarsi nelle rispettive camere, lui e Agatha avevano convenuto di
trovarsi a colazione all'apertura della caffetteria per decidere cosa
fare. Quando Samuel si decise finalmente a uscire dall'acqua, che
stava diventando troppo fredda per i suoi gusti, erano le sei e
mezza: si vestì perciò con la massima calma,
cercò di dare ai
propri capelli, che si stavano allungando un po' troppo, una parvenza
d'ordine, e scese al piano di sotto alle sette in punto.
Come
al solito, Agatha
si decise a raggiungerlo in caffetteria con un'abbondante decina di
minuti di ritardo e l'espressione più radiosa che Samuel
ricordasse
di averle mai visto. Dirle qualcosa del ritardo sarebbe stato
più
che inutile, e tutto sommato neppure gli interessava: Agatha lo
salutò mentre gli passava accanto in silenzio, limitandosi
ad
appoggiargli familiarmente una mano fresca sulla schiena.
«Buongiorno,
Samuel.
Sei stanco?»
«No»
rispose Samuel
dopo un istante, ed era sorprendentemente la verità. Il suo
corpo
era solito esprimere i suoi bisogni con grande intensità e,
a dire
il vero, sebbene quella non fosse stata di certo la sua prima notte
trascorsa in bianco, era di sicuro la prima volta che non provava il
bisogno di dormire per tre giorni di fila. Forse era ancora
l'emozione provata a mantenerlo sveglio, pensò, o forse era
semplicemente la gioiosa presenza di Agatha a metterlo di buonumore.
La realtà era che non si era sentito mai così
vivo.
Agatha
sorrise. «Questa
è proprio la risposta che volevo, perché avevo
intenzione di
proporti di partire per Smeraldopoli oggi stesso.»
Senza
bisogno di
spiegarlo, il suo piano era già abbastanza evidente:
raggiungere
Smeraldopoli in due o tre giorni e dirigersi di nuovo verso la Via
Vittoria... la tana del terzo leggendario, almeno stando alle
leggende. Tuttavia, in quel momento Samuel era decisamente troppo
preso dalla colazione, che aveva rimandato a sufficienza, per poter
pensare a qualcosa che non avesse immediatamente a che fare col cibo.
Inoltre, aveva notato che nei momenti di particolare agitazione
Agatha tendeva a trascurare i pasti e poiché, almeno secondo
i suoi
standard, quella ragazza mangiava già come un uccellino, non
intendeva permetterle di rimanere oltre a stomaco vuoto. La
lasciò
perciò esporre il suo progetto solo quando ebbe procurato
dal
bancone della caffetteria, che andava rapidamente riempiendosi, un
vassoio dignitosamente colmo di cibo e le ebbe messo tra le mani una
tazza di caffè. Agatha lo ringraziò con un
sorriso prima di
proseguire.
«Abbiamo
ancora quasi
dieci giorni davanti a noi prima dell'inizio del Torneo. Sono
più
che sufficienti per esplorare come si deve la Via Vittoria e cercare
Moltres.»
Samuel
assentì
pensierosamente. «Credi che sarà facile? La Via
Vittoria è molto
transitata, rispetto alle Spumarine e alla Centrale, specialmente
ora; eppure nessuno è mai riuscito a vederlo o a trovare
tracce
della sua presenza.»
«Nessuno
l'ha mai
esplorata a dovere» replicò Agatha, come se
proprio quello fosse il
punto focale del suo piano ed ella non avesse atteso che quella
obiezione per esporlo. «Non nell'ultimo cinquantennio,
quantomeno,
da quando è stato scavato il tunnel per salire
sull'Altopiano.»
Non
aveva tutti i
torti: dopotutto, la Via Vittoria era stata scavata nei fianchi del
Monte Argento e non doveva essere difficile, seguendo le condutture
secondarie che erano state costruite per i lavori e poi abbandonate,
penetrare nelle profondità delle grotte. Samuel
annuì,
sospingendole cautamente in mano, quasi senza farsene accorgere, la
metà già imburrata di un panino. «E
dove nessuno è mai andato in
esplorazione, Moltres ha un sacco di spazio per nascondersi.
Ragionevole.»
Agatha
assentì con
soddisfazione, gli occhi che ardevano di una luce di eccitazione e
aspettativa. «Sono sicura che insieme lo troveremo, Samuel.
Che cosa
ne dici?»
Insieme
l'avrebbero
trovato. Tutta quella storia aveva dell'incredibile: percorrere
grotte ed edifici abbandonati, trascinato senza sosta da quella
scontrosa ragazza dagli occhi neri e tempestosi, solo per vedere per
qualche istante la maestosità senza pari degli uccelli
leggendari...
certo, era assurdo e quasi ridicolo, eppure egli non desiderava altro
che continuare a lasciarsene trascinare. Se qualcuno gli avesse
chiesto per quale motivo stesse facendo tutto ciò, arrancare
e
cercare e strisciare nel buio per godere per solo qualche istante
della vista di Pokémon che neppure gli interessava
catturare, Samuel
si sarebbe trovato piuttosto in difficoltà. Avrebbe avuto
mai il
coraggio di dire ad alta voce, quando non riusciva ad ammetterlo
neppure a se stesso, che in fondo l'unico vero motivo che avesse era
Agatha? Certo, una parte di lui, una parte virile e razionale che
ancora si sforzava di mantenere un minimo di dignità, gli
diceva che
la ragione delle sue riceche era raccogliere informazioni su quei
Pokémon tanto rari e introvabili; ma era una parte che
veniva messa
a tacere assai presto, quando egli si rendeva conto di non aver mai
neppure provato a guardare quelle creature con gli occhi della
scienza. No, le sue ricerche non c'entravano proprio niente: anzi,
ripensando alla notte appena trascorsa, alla polvere e all'armadio e
al profumo dei capelli di Agatha... non poteva non convincersi che se
non fosse stato per lei non avrebbe goduto affatto di nessuna di
quelle emozioni.
Perciò,
quando
finalmente la vide con soddisfazione mandar giù qualche
boccone del
panino che con tanta discrezione le aveva preparato, Samuel si decise
a risponderle. «Hai ragione. Sono certo che insieme lo
troveremo.»
Trascorsero
il resto
della colazione progettando i loro movimenti dei giorni seguenti,
mentre la caffetteria continuava a riempirsi: si trattava
perlopiù
di campeggiatori che avevano pernottato lungo il percorso, ma che
approfittavano del Centro per godere di una colazione calda in quelle
mattine che si rivelavano ancora fredde, nonostante la primavera
ormai inoltrata. Dopo aver prolungato con le più assurde
scuse la
conversazione, Samuel acconsentì a porvi fine e ad alzarsi
dal
tavolo solo quando gli parve che Agatha avesse mangiato a
sufficienza. Andò a riporre sul carrello delle stoviglie
sporche il
loro vassoio – perché per quanto non potesse che
approvare
pienamente la piena eguaglianza tra uomini e donne, non si sarebbe
mai sentito a suo agio a lasciarlo fare a lei e preferiva di gran
lunga comportarsi da gentiluomo, per quanto era nelle sue
possibilità
– ma quando tornò a voltarsi verso di lei, Agatha
non era dove
l'aveva lasciata.
Il
suo smarrimento durò
poco: guardandosi attorno, Samuel non fece fatica a trovarla vicino a
un tavolo occupato da tre o quattro campeggiatori –
perché tali
sembravano essere, almeno a giudicare dagli enormi zaini che avevano
appoggiato al suolo – mentre stava chiedendo: «Ho
sentito senza
volere che parlavate di Lavandonia e volevo sapere...»
I
ragazzi la fissavano
sorridendo, che era all'incirca la reazione più comune che
Samuel
avesse notato quando Agatha si approcciava al genere maschile, ma ai
suoi occhi i loro sorrisi apparvero untuosi e viscidi, quasi
perversi, ed egli, semplicemente, scattò come una belva.
Si
ritrovò al fianco
di Agatha quasi senza accorgersene, sovrastandola da vicino con la
sua mascolina prestanza fisica, proprio mentre i campeggiatori
stavano per presentarsi; levando gli occhi su di lui, Agatha gli
sorrise, per nulla infastidita dalla sua intromissione, e
tornò a
rivolgersi ai ragazzi: «Ah! Lui è Samuel, il mio
compagno di
viaggio, e io sono Agatha.»
In
qualche modo, per
motivi totalmente irrazionali, Samuel si sentì stupidamente
rassicurato quando Agatha lo presentò, e questo lo fece
sentire
ancora più idiota di quanto già non stesse
facendo. Cosa l'aveva
spinto a precipitarsi accanto a lei come un marito geloso? Agatha era
libera e indipendente e poteva parlare con chi più le
piaceva,
dopotutto, e per di più, ora che era più vicino,
i sorrisi dei
ragazzi che lo accoglievano con cenni di saluto non sembravano aver
più nulla di vile o malizioso: erano solo quattro
campeggiatori
allegri e amichevoli, che almeno a prima vista si aggiravano tra i
venticinque e i ventisette anni.
Non
era abbastanza
concentrato per ascoltare con attenzione i loro nomi ma, finite le
presentazioni, il ragazzo più vicino ad Agatha, che aveva
una nube
di capelli rossi e un volto aperto e gioviale asperso di lentiggini,
domandò: «Ci stavi chiedendo di Lavandonia,
giusto?»
Agatha
annuì in segno
di attesa. I quattro ragazzi si scambiarono uno sguardo, come a
raccogliere le idee e a decidere tacitamente chi tra loro dovesse
parlare, e subito dopo un secondo, un ragazzo alto e moro dagli
zigomi alti, si protese in avanti sul tavolo.
«A
dire il vero, non
ne sappiamo molto» disse. «Perlopiù
sappiamo quel poco che
abbiamo sentito al Centro Pokémon quando ci siamo passati,
due
giorni fa: dicono che ci sia uno strano Pokémon all'interno
della
Torre.»
Quasi
istintivamente,
Agatha si voltò e levò un rapido sguardo verso di
lui; Samuel le
diede una breve stretta al braccio in risposta, provando
un'improvvisa fitta di preoccupazione. Parlare di Pokémon
misteriosi, con Agatha, doveva essere più o meno come
pronunciare
una formula magica... e questo, per la prima volta, lo inquietava.
«Che
tipo di Pokémon?»
chiese per lei con simulata indifferenza.
Il
ragazzo che aveva
appena parlato si strinse nelle spalle, sorridendo come a scusarsi di
non saperlo; al suo posto rispose invece il suo vicino, un piccoletto
dai capelli color di stoppa e le orecchie a sventola, che
parlò con
voce sorprendentemente grave per la sua taglia. «Non lo
sanno, non
riescono a capirlo, o almeno non dicono niente. Pare che algi ultimi
piani abbiano trovato tombe scoperchiate, pezzi di...»
Interrompendosi, gettò ad Agatha uno sguardo impacciato,
come se
temesse di aver detto troppo, e tacque bruscamente.
«Pezzi
di cadaveri?»
completò ella in sua vece, incrociando le braccia sul petto
in un
gesto che Samuel conosceva ormai anche troppo bene. «Sono di
Lavandonia, non mi sconvolgo per così poco. Ma non
è nulla di
strano, sono cose che capitano ogni tanto»
constatò poi. «Sono i
Pokémon Spettro, ogni tanto fanno questo genere di
dispetti... a
volte anche i Cubone, ma non è nulla di
preoccupante.»
«Sei
di Lavandonia?»
domandò all'improvviso il ragazzo che fino ad allora era
rimasto in
silenzio, protendendosi in avanti. Per essere un campeggiatore, era
molto pallido, notò Samuel osservandolo per la prima volta,
e i suoi
occhi azzurri e slavati si erano affissi su Agatha con attenzione
quasi malsana. A ogni modo, Agatha annuì. «Vengo
anch'io da lì, ma
non ti ho mai vista. Di che zona sei?»
Anche
senza toccarla,
Samuel riuscì a percepire il modo in cui i muscoli di Agatha
si
contrassero nervosamente: benché non capisse bene
perché, sapeva
quanto poco le piacesse parlare della sua infanzia.
«Devo
avere quasi
dieci anni meno di te» rispose in modo elusivo, ma
sforzandosi di
sorridere. «Non puoi ricordarti di me.»
«Giusto»
riconobbe il
ragazzo senza insistere oltre, ma continuò a scrutarla
fissamente
negli occhi. «Comunque, se vieni da Lavandonia dovresti
sapere cosa
si dice veramente a proposito di questo genere di cose.»
«Oh,
ma per favore!»
sbottò Agatha allargando bruscamente le braccia, e quasi
simultaneamente anche gli altri campeggiatori emisero esclamazioni
esasperate, come se quella non fosse affatto la prima volta che il
loro amico sosteneva una simile tesi.
«È
da due giorni che
ripete questa storia» le disse infatti il ragazzo con le
orecchie a
sventola, come a volerle suggerire di non dargli retta.
In
quell'universalità
di reazioni condivise, Samuel si trovò non poco confuso.
«Che
cos'è che si
dice?» chiese perplesso, sentendosi piuttosto indietro
rispetto a
loro.
«Nulla
d'importante,
te lo garantisco» affermò Agatha, volgendosi verso
di lui con aria
seccata. «Una città con un cimitero monumentale
è molto
superstiziosa, ma questa è la leggenda più
stupida di tutte.»
«Non
mi aspetterei di
sentirlo dire proprio da qualcuno che viene da Lavandonia!»
la
rimproverò il ragazzo pallido in tono amaro. Agatha gli
gettò
un'occhiataccia che avrebbe ammutolito chiunque, prima di tornare a
rivolgersi verso di lui.
«La
leggenda di cui
parla sostiene che ci sia un sepolto vivo all'ultimo piano della
Torre, tutto qui. Lavandonia è una città
superstiziosa, non dargli
retta» concluse con un altro sguardo gelido. «Non
siamo tutti
così.»
«No,
certo» balbettò
Samuel, guadagnandosi per questo un'occhiataccia da parte del ragazzo
pallido. A dire il vero, non sapeva cosa potesse essere più
inquietante tra un uomo sepolto vivo all'interno di un gigantesco
cimitero e dei Pokémon Spettro che si divertissero a
disseppellire
pezzi di cadaveri – perché per quanto Agatha la
considerasse una
cosa normale, a lui sembrava semplicemente grottesca e ripugnante e
fu grato di non essere nato a Lavandonia.
«Beh,
se non volete,
non siete tenuti a credermi» borbottò infine il
ragazzo, con aria
evidentemente contrariata e offesa , ma non protestò oltre.
Scuotendo
la testa,
Agatha tornò a rivolgersi agli altri tre.
«È solo di questo che
stavate parlando, dunque?»
«Solo
di questo»
confermò il ragazzo dai capelli rossi con un sorriso
gentile. «Ci
dispiace non saperti dire di più, ma stavamo solo discutendo
se
potesse trattarsi degli scherzi di qualche Gengar o di qualche
Pokémon più raro, visto che sono stati trovati
segni di graffi e
cose del genere.»
«Capisco»
disse
Agatha, e con suo grande stupore Samuel si rese conto che dalla sua
voce non traspariva alcuna traccia di delusione. La sua testolina
incostante stava macchinando qualcosa, realizzò
immediatamente, e
quest'idea non gli fece piacere.
Declinarono
in fretta
la loro cortese proposta di unirsi a loro per fare colazione e si
limitarono a ringraziarli per le informazioni: era evidente che
Agatha scalpitava d'impazienza, per qualche strano progetto che le
frullava in testa...
Samuel
scoprì di aver
indovinato non appena uscirono dalla caffetteria passando da una
porta secondaria che dava direttamente sull'esterno. L'aria era
fredda e umida, vicini com'erano al fiume, e Agatha gli si rivolse
entusiasta presso un angolo appartato dell'edificio.
«Dobbiamo
andarci,
Samuel!»
Come
aspettarsi altro
da lei? Scrutando i suoi occhi brillanti d'eccitazione, Samuel emise
un sospiro di rassegnazione.
«Senti,
Agatha... non
mi sembra una buona idea» disse in tono ragionevole.
«Sono solo
voci assurde e hai detto tu stessa che probabilmente si tratta solo
di Pokémon Spettro che...»
Agatha
scosse il capo
in un vortice di ciocche vaporose. «È quello che
pensavo
all'inizio, tutto suggeriva questo: le tombe scoperchiate, i
cadaveri... sono cose che è in loro potere fare. Ma quei
graffi...»
Ma
certo: i graffi
erano una cosa un po' troppo insolita per dei Pokémon che,
per loro
propria natura, non disponevano di un corpo. Samuel sentì di
star
perdendo terreno su di lei, ma si sforzò di mantenere il
controllo.
«Dunque di cosa pensi che si tratti? La leggenda di cui
parlava quel
ragazzo...»
«Che
c'è, Oak? Hai
paura degli zombie?» esclamò Agatha ridendo.
«Non dire
sciocchezze, nessuno ci crede... ma pensa invece se ci fosse
veramente un Pokémon raro!»
Per
la prima volta,
Samuel temette che quella storia dei Pokémon rari fosse
andata
troppo in là. La soppesò cautamente con lo
sguardo, passandosi una
mano sul collo per prendere tempo: Agatha era eccitata come una
bambina, come quando avevano visto Articuno e ora lo guardava con
occhi carichi di aspettativa, di sicura attesa del suo consenso.
«Pensaci,
Samuel!»
insisté congiungendo le mani, ma di certo non per pregarlo.
«Poremmo
essere i primi a vedere questo Pokémon misterioso!»
«Io...
beh, anzitutto,
si può entrare nella Torre?» balbettò
infine. Non riusciva a
trovare nessun altro motivo da opporre al suo entusiasmo: dopotutto,
se avevano trovato Zapdos e Articuno basandosi su delle leggende, non
c'era alcuna ragione logica per cui non fare lo stesso con quel
Pokémon misterioso, sempre ammesso che esistesse. Non le
avrebbe mai
detto il vero motivo per cui non se ne sentiva affatto convinto, e
cioè che c'era qualcosa, in tutta quella storia, che gli
dava un
pessimo presentimento. Sarebbe stato incredibilmente semplice da
dire, ma come al solito c'era una parte di lui, quella parte
imperiosa che non riusciva ad arrabbiarsi con Agatha e a cui piaceva
vederla sorridere, che non poteva tollerare di sentirle dire che era
un codardo.
Agatha
scrollò le
spalle come se la cosa non la riguardasse minimamente.
«Perché no?
Certo, non si potrebbe, ma tutti i bambini giocano e si sfidano a
entrare nella Torre, dopo il tramonto. È una cosa comune,
l'abbiamo
fatto tutti almeno una volta.»
«Anche
tu?» chiese
Samuel prima di riuscire a trattenersi. Chissà
perché, aveva sempre
avuto l'idea che Agatha fosse stata una bambina molto sola.
«Certo,
anch'io.»
Agatha lo guardò con perplessità da sotto le
sopracciglia
aggrottate, ma non parve darvi troppo peso. «C'è
una porticina
secondaria che non è mai ben chiusa, te la farò
vedere quando ci
andremo.» Gli porse una mano vibrante d'eccitazione.
«Allora,
Samuel, sei d'accordo? Un Pokémon misterioso!»
«Aspetta,
Agatha»
disse Samuel lentamente. Non avrebbe saputo dire cosa, né
perché,
ma qualcosa riguardo a quella storia lo stava inquietando
maledettamente: in modo del tutto irrazionale, saprva di non doverci
andare. «Non penso che sia una buona idea.»
La
mano che Agatha gli
stava porgendo non vacillò affatto. «Che
c'è, Oak? Hai paura di
qualche spettro?» chiese causticamente, ma con le labbra
piegate
nell'anticipazione di una risata. Continuò a tendergli la
mano con
maggiore insistenza. «Allora?»
«Non
è questo, è
che...» E poi, la risposta gli salì alle labbra
spontaneamente,
senza bisogno di cercarla più oltre. «Se dobbiamo
entrare di
nascosto, non penso che dovremmo farlo.»
Si
aggrappò a questa
spiegazione come alla verità stessa, mentre la sua mente
lavorava
angosciosamente per convincersi che lo fosse. E del resto,
perché
non avrebbe dovuto essere quello il problema? Era sempre stato una
persona rispettosa e attenta alle regole, dopotutto, e non soltanto a
quelle scritte... perché stare con Agatha avrebbe dovuto
cambiare le
cose? Perché accettare e lasciarsene convincere a infrangere
le
regole? Si sentì più risoluto e deciso mentre
nella sua testa
stabiliva che sì, era quella la verità, che era
inquieto solo
perché ciò che Agatha gli proponeva era sbagliato.
«Stai
scherzando?»
Il
volto di Agatha si
fece all'improvviso di una durezza che solo di rado Samuel ricordava
di aver visto. Allontanò la mano, ma senza ritrarla del
tutto, come
sperando di aver capito male, e ripeté: «Stai
scherzando, non è
vero?»
Samuel
sospirò. Sapeva
di non poter nulla contro la rabbia che stava per scatenarglisi
addosso come una tempesta e allora, semplicemente, vi si arrese.
«No,
non sto scherzando.»
«Non
verrai lassù
solo perché pensi che sia sbagliato?»
esclamò Agatha con
voce spezzata, ritirando ora la mano con uno scatto secco.
Indietreggiò di un passo: tutto il suo piccolo corpo
contratto
sembrava scosso dalla rabbia.
«Agatha...»
«No!
Sei un bugiardo!»
gridò Agatha, ritraendosi ancora quasi con disgusto.
Sembrava
ferita, ferita in un modo eccessivo e spropositato
per un
rifiuto, e per un attimo Samuel temette che sarebbe scoppiata in
lacrime, ma questo, ovviamente, non accadde. Ma per quale motivo
stava reagendo così? Samuel avrebbe voluto avanzare,
toccarla,
cercare di spiegarsi e difendersi e giustificarsi, ma come
avvicinarsi a quel furore ferino e sconvolgente? Tornò ad
aggredirlo
rabbiosamente: «Perché non ammetti che hai paura e
che non volevi
dirmelo? Sembreresti molto meno patetico!»
Se
qualcuno fosse
uscito dal Centro in quel momento, o vi si fosse avvicinato,
chissà
che cos'avrebbe potuto pensare di loro. Ma per fortuna il percorso si
stendeva vuoto e silenzioso sotto la luce limpida del primo mattino e
le sue parole rimbombavano inudite contro le pendici dei monti.
«Non
ho paura, Agatha»
disse Samuel stancamente. Non c'era nulla che potesse dire o fare per
convincerla e sapeva già in anticipo che ella non gli
avrebbe mai
creduto, qualunque cosa avesse detto; perciò, a che alzare
la voce
inutilmente?
«Va
bene, Samuel» disse infine Agatha, a voce più
bassa, dopo qualche attimo di
silenzio. Gli rivolse uno sguardo ferito da sotto le lunghe ciglia
scure, scostandosi dal volto i lunghi capelli ribelli, e Samuel ebbe
una fitta atroce di rimorso, di... ma non poteva tirarsi indietro
adesso! «Va bene, Samuel. Fa' come ti pare. Non ho bisogno di
te. Se
tu non vuoi venire, ci andrò da sola.»
Era
la sua ultima
sfida, la sua estrema provocazione alla sua innata
protettività
virile, Samuel lo sapeva e sapeva che se avesse ceduto, se avesse
acconsentito solo per non lasciarla andare da sola, avrebbe perduto
tutto il terreno che aveva guadagnato fino ad allora. Agatha
attendeva una sua risposta con le braccia conserte, sembrava
già in
procinto di voltarsi per andarsene, bisognava prendere una
decisione...
«Agatha,
non posso
permetterti di farlo.»
Ma
quando Samuel si
rese conto di aver detto la cosa sbagliata, era troppo tardi.
Non
volevo dire
questo, non fraintendermi, lasciami spiegare. Mentre qualcosa
si
spezzava negli occhi di Agatha che si spalancavano per lo stupore,
egli avrebbe voluto dirle tutte queste cose, urlargliele, chiederle
scusa, ma quando aprì la bocca per parlare si
ritrovò senza fiato,
ammutolito dal suo stesso orrore per ciò che aveva detto.
«Sei...
sei uno...»
L'umiliazione
di Agatha
gli si riversò addosso come una piena: come quando
combatteva, ora
Agatha era furore, era impulsività e rabbia e voglia di
ferire.
«Io
non ti ho mai dato
il diritto di decidere per me!»
Le
sue parole
echeggiarono tra le montagne che li circondavano, si rifransero
sull'acqua, penetrarono nella sua carne. «Sei come tutti gli
altri,
non è vero? Tutti voi uomini che pensate di poter decidere e
comandare e condannarci solo perché vi sentite
più forti!»
«Agatha,
non volevo
dire che...» Ma le sue parole erano come una diga di sterpi
davanti
alla violenza del fiume in piena: Samuel arretrò verso il
muro
mentre Agatha lo incalzava, lo aggrediva.
«Stai
zitto! Sai una
cosa, Samuel? Tu non sei il mio fidanzato e neppure mio padre e non
sei nessuno, nessuno per decidere per me, hai
capito bene?»
In
quel momento, Samuel
seppe con precisione incalcolabile che una ferita che gli scavasse
nella carne non avrebbe potuto essere più dolorosa di quella
parola.
Nessuno. Si appoggiò alla parete alle sue
spalle con gli
occhi che all'improvviso bruciavano e la testa che pulsava, le gambe
che sembravano divenute incapaci di reggere il suo peso...
«È
questo che sono
per te?»
Avrebbe
voluto urlare e
piangere, afferrarla e scuoterla e costringerla a dire che non era
vero, che aveva mentito solo per ferirlo, che era una bugiarda e che
in realtà teneva a lui quanto egli stesso teneva a lei... ma
non era
più sicuro che fosse vero. Agatha si morse le labbra e
Samuel
avrebbe voluto credere che fosse pentita, che non lo pensasse
davvero, che gli avrebbe chiesto scusa, ma illudersene gli avrebbe
fatto troppo male e neppure per un istante permise a se stesso di
crederlo.
«Dopo
tutti questi
giorni, tutto quello che... non sono proprio nessuno per preoccuparmi
per te? È questo che sono per te, nessuno?»
Se
solo Agatha avesse
detto una sola parola che negasse quanto aveva appena detto, se solo
nei suoi occhi egli avesse letto una minima traccia d'esitazione o di
rimorso, Samuel l'avrebbe perdonata come aveva sempre fatto con ogni
suo capriccio. Ma Agatha era orgogliosa, era testarda e altera e
incrociando le braccia sul petto lo fissò severamente,
immobile
sull'erba umida a pochi passi da lui.
«Che
c'è, Oak? Non ti
sarai veramente illuso che potessimo diventare qualcosa di
più?»
Non
lo pensava
veramente, di questo Samuel era certo, il tremito rancoroso della sua
voce era rivolto verso lei stessa piuttosto che verso di lui; eppure
l'aveva detto, aveva pronunciato quelle parole con tanta fredda
convinzione, con tale acredine da non lasciare adito a dubbi. Forse
non era ciò che pensava, ma era ciò che voleva:
tenerlo
lontano, rinnegare quegli ultimi giorni, negare prima di tutto a se
stessa che quella loro amicizia potesse mai, un giorno...
«Lascia
stare, Agatha»
disse. Aveva l'impressione che a parlare fosse l'enorme baratro
d'abisso che si stava scavando nel suo petto, un vuoto immane che
soffriva e voleva farla soffrire a sua volta e farle provare quel
senso di solitudine e tradimento e dolore che provava egli stesso...
«Perché mai avrei dovuto voler costruire qualcosa
con te?»
Non
vi furono lacrime o
grida o recriminazioni. Agatha accolse quest'orribile, vergognosa
frase in un gelido silenzio distante: egli avrebbe potuto credere che
le sue parole non l'avessero toccata, se solo non l'avesse conosciuta
anche troppo bene.
«Hai
ragione, Samuel»
disse dopo qualche istante, con voce sorda ma sicura e decisa, priva
di qualsiasi vibrazione. «Nessuno vorrebbe restare con
me.»
Non
disse nient'altro.
Con le braccia ancora conserte sul petto, Agatha si voltò e
si avviò
a grandi passi verso l'ingresso del Centro in una folata di lunghi
capelli castani, come la prima volta che gli era passata accanto, una
vita prima, a Fucsiapoli. Samuel rimase immobile contro il muro, col
respiro trattenuto e ansimante mentre per l'ultima volta vedeva la
figura snella di Agatha che si allontanava e si perdeva.
Si
passò una mano
sulla fronte. Era veramente finita? Ma che cosa era accaduto?
Possibile che avessero litigato a quel modo quando appena mezz'ora
prima Agatha gli aveva accarezzato la schiena e gli aveva sorriso...?
Ma
poi, che cos'era
finito? Che cosa erano stati in quella strana inusuale alleanza? In
quel momento Samuel si sentiva la testa piena di domande e di dubbi e
di urla mute e gli occhi pieni di lacrime brucianti e umilianti. Il
suo corpo ora fremeva e scalpitava, il suo sangue ribolliva e
turbinava: Samuel voleva correre, voleva urlare, voleva fuggire il
più lontano possibile da quel luogo dove ancora le parole di
Agatha
perduravano e lo pungevano e lo assordavano...
A
pochi metri da lui il
fiume ruggiva rifrangendosi in cascate col suo grido fragoroso.
Samuel avanzò quasi ciecamente: sotto i suoi piedi la terra
divenne
molle e fangosa, l'acqua si levò in spruzzi gelidi sul suo
viso ed
egli ne fu grato, perché non voleva rendersi conto di stare
piangendo.
L'acqua
scorreva e
turbinava in onde fluttuanti che s'increspavano e riflettevano la
luce in spume dorate che attraevano il suo sguardo. Senza neppure
sapere perché, Samuel fece uscire il suo Gyarados e
udì, senza
realmente ascoltarlo, il suo ruggito vigoroso, socchiudendo gli
occhi. Nella voce del suo Pokémon c'era una nota
interrogativa:
Samuel sapeva che cosa voleva dire: che cos'hai?
Dov'è Agatha?,
o forse queste erano soltanto le domande che stavano affollando la
sua mente...
«Se
n'è andata.»
Riaprendo
gli occhi,
Samuel cercò disperatamente di infiggere lo sguardo in
quelli di
Gyarados, di sostenerlo, eppure scoprì di non esserne in
grado, che
gli occhi gli bruciavano troppo e lacrimavano e che il dolore
diventava insopportabile...
«Agatha
se n'è
andata!»
Gyarados
sapeva di
cos'aveva bisogno. Samuel si aggrappò al suo dorso e
pregò di
sprofondare mentre esso s'immergeva nel fiume, e disperatamente
sperò
di non riemergere mai più e di annegare e di non pensare,
non dover
affrontare il vuoto immenso che gli aveva lasciato Agatha.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Dubbio. ***
Capitolo
VI –
Dubbio.
Trascorsero
giorni
ardenti e intorpiditi, avvolti nelle spire brucianti di una febbre
che era l'assenza di Agatha.
Gli
sembrava non
esservi luogo in tutta Kanto che non gli parlasse di lei, e non
soltanto perché vi fossero stati insieme. Semplicemente gli
sembrava
di vivere in un mondo nel quale i suoi occhi lo scrutavano dal cielo
nero che lo ricopriva di notte, nel quale i suoi ribelli capelli
castani parevano flettersi al vento nelle spighe dorate dei campi di
grano. Agatha gli mancava e il suo cuore la cercava ovunque, e questo
lo umiliava e lo adirava perché era arrabbiato, era furioso
con lei.
Agatha l'aveva cacciato, aveva rinnegato tutto ciò che erano
e che
avrebbero potuto essere, allora perché avrebbe voluto
ritrovarla?
Si
allenò
svogliatamente in solitudine, scegliendo i luoghi dove reputava assai
meno probabile che si recasse anche lei, ma senza convinzione o
entusiasmo. Persino la prospettiva del Torneo gli sembrava aver perso
ogni possibile attrattiva ed egli continuava a dedicarvisi solo per
non avere altre idee: dopo la Lega, pensava, si sarebbe recato a
Johto per qualche mese. In quella regione avrebbe forse potuto
sperare di scordarsi di lei.
Il
primo di giugno
sorse su un Altopiano Blu soleggiato e spazzato dal vento. L'androne
era gremito, l'aria quasi irrespirabile mentre gli addetti si
occupavano delle operazioni di riconoscimento dei partecipanti.
C'erano iscritti di tutte le età, che parlavano tra loro
mescolandosi e scontrandosi in un brusio indistinto di accenti e voci
diverse: sembrava proprio l'occasione adatta per fare conoscenza e
stringere nuove amicizie, ma in quel momento, sentendosi
profondamente lontano da tutti coloro che lo circondavano, Samuel non
era in grado di fare altro che sedere in silenzio in un angolo della
sala, cogli occhi inquietamente infissi sulla porta principale.
Aspettava
Agatha sin
dalla mattina.
Non
le avrebbe parlato,
ovviamente, questo era ben chiaro nella sua mente sin da quando per
la prima volta, pochi giorni prima, aveva affrontato il problema del
loro probabile incontro al Torneo; no, non l'avrebbe neppure
salutata, per evitare l'imbarazzante mortificazione di veder
rifiutato il proprio saluto. Ma di non vederla no, non ce n'era
bisogno, ed egli aveva saputo fin dal primo momento che, del resto,
non gli sarebbe stato possibile trattenersi dal cercarla, sapendola
tanto vicina. Come del resto avrebbe potuto, quando i suoi occhi
l'avevano cercata persino nelle campagne assolate, nelle distese
scure del mare notturno?
Le
operazioni di
riconoscimento e accettazione dovevano concludersi alle tredici del
pomeriggio, ma già intorno a mezzogiorno la maggior parte
dei
presenti aveva già completato le ultime
formalità. A mezzogiorno e
mezzo, tutti erano ormai stati registrati e attendevano con vaga
impazienza l'inizio del Torneo.
A
mezzogiorno e
quarantacinque, Samuel non aveva ancora visto Agatha.
Lo
riempì un senso
greve d'angoscia. Era stato tra i primi ad arrivare sull'Altopiano,
quella mattina, assieme a una manciata di altri ragazzi: se Agatha
fosse stata tra loro, l'avrebbe vista sicuramente nel salone quasi
vuoto. Nelle ore seguenti, egli aveva sorvegliato la porta quasi
ininterrottamente, aveva tenuto d'occhio la lunga fila che si
stendeva dal bancone dell'accettazione, aveva scorso distrattamente
con lo sguardo la folla chiassosa di allenatori che lo circondava e
non poteva non esserne certo: semplicemente, Agatha non era venuta.
Quella
conclusione lo
sprofondò nella confusione. L'idea che Agatha decidesse di
non
partecipare al Torneo non l'aveva mai neppure sfiorato, e come
sarebbe stato possibile? Rifiutò d'istinto il pensiero che
avesse
potuto rinunciare per non incontrarlo: no, Agatha, l'orgogliosa
Agatha con i suoi atteggiamenti di superiorità sarebbe
venuta
apposta per poterlo affrontare e potergli dimostrare che non aveva
bisogno di lui, che era forte e indipendente e che non necessitava
del suo permesso – cosa di cui Samuel non aveva mai dubitato,
malgrado ciò che le aveva detto.
Si
alzò lentamente in
piedi dall'angolo che aveva occupato per tutto quel tempo e
attraversò a grandi passi la sala, guardandosi attorno con
grande
attenzione per esaminare con lo sguardo i vari gruppetti che si erano
formati, alla ricerca di una massa di morbidi capelli castani, di un
paio di neri occhi profondi sovrastati da scure sopracciglia dal
taglio duro e altero... ma proprio come aveva in fin dei conti sempre
saputo, Agatha non si trovava. Ma se non si era tirata indietro
all'ultimo momento – e questa possibilità Samuel
non riusciva
nemmeno volendolo a prenderla in considerazione – allora
l'unica
ipotesi che rimaneva era più inquietante e angosciante
ancora della
prima e cioè che qualcosa doveva averla trattenuta. Ma cosa?
La
Torre Pokémon,
gli disse una voce nella sua testa, ma egli respinse anche quest'idea
con un brivido. E perché no? Una
ragazza sola, di notte,
in quell'edificio abbandonato... No,
Agatha c'era stata altre volte, persino da bambina, gliel'aveva detto
lei stessa; aveva una forte squadra in grado di difenderla... È
stata ai primi piani, ma stavolta voleva salire fino agli ultimi.
Basta!
Non poteva più
non sapere. Continuò a percorrere ansiosamente la sala,
mancavano
solo pochi minuti all'inizio del Torneo: cosa doveva fare?
«Ehi,
Samuel! Allora,
sei pronto?»
Si
voltò di scatto,
col cuore che balzava di aspettativa e poi subito tornava a
rallentare i suoi battiti: eppure era Jake, Jake col suo fisico
robusto e ben piantato e gli occhi luccicanti di eccitazione e
compiacimento! Gli fu addosso in un istante, sentendosi come di
fronte a un araldo del destino: non poteva essere un caso incontrarlo
lì, tra tutti, in quel preciso istante in cui egli tra loro
cercava
Agatha.
«Jake!
Jake, hai visto
Agatha?»
«Agatha?»
Jake scosse
la testa senza la minima esitazione; il suo viso entusiasta,
luminoso, non ebbe alcuna perplessità. «No, ma mi
piacerebbe
salutarla. L'hai persa di vista tra la folla?»
Quell'ultima,
minuscola
speranza che gli rimaneva si spense nel suo petto: Samuel si
sentì
proiettare a una distanza incolmabile, insuperabile da quella sala
affollata, in uno spazio interstellare e silenzioso nel quale gli
mancava l'aria e non riusciva a pensare. Non rispose.
Al
suo silenzio, Jake
ebbe finalmente un lampo di dubbio. «Non è venuta
qui con te?»
chiese cautamente. «Pensavo che foste fidanzati, voi
due.»
Samuel
riuscì appena
a scuotere la testa, guardando altrove. Si sentiva mancare la voce, e
solo con un notevole sforzo di volontà riuscì a
mormorare: «Abbiamo litigato.» Non sapeva in quale
senso Jake avrebbe
interpretato queste parole e francamente non gli interessava neppure.
«Oh...
accidenti.»
Jake assunse un'aria impacciata, come se temesse di aver fatto una
gaffe imperdonabile, ma parve sinceramente dispiaciuto. «Mi
dispiace
un sacco, ma farete pace, vedrai» esclamò in tono
conciliante. «Si
vede che siete fatti l'uno per l'altra.»
Samuel
sarebbe altrove
arrossito, avrebbe protestato che lui non era affatto innamorato di
Agatha, che la vedeva solo come un'amica, ma dopo aver ignorato e
rintuzzato per settimane qualsiasi ombra di questi sentimenti in un
angolo remoto e appartato della propria mente, non si sarebbe di
certo soffermato a riflettervi o a discuterne in quei momenti
d'urgenza. Tutto ciò che contava era la salute di Agatha.
«Dev'esserle
successo
qualcosa, Jake» disse ansiosamente. Non sapeva neppure
perché
gliene stesse parlando, visto che Jake non poteva avere idea di cosa
fosse accaduto tra loro, e neppure di quanto complicata e incostante
Agatha fosse, eppure provava un bisogno quasi fisico di parlarne a
qualcuno, di esprimere ad alta voce quel dubbio inquietante che lo
stava consumando, di renderlo reale e razionale e poterne discuterne.
«Oh,
Samuel!» Jake
scosse enfaticamente la testa, sorridendo di lui quasi con
compassione. «L'amore non ti fa ragionare, eh? Ma sono certo
che non
è successo assolutamente niente. Agatha non è
venuta perché non
voleva incontrarti, tutto qui.»
Ma
certo, era ovvio che
Jake non potesse capire: non conosceva Agatha, coi suoi difetti e il
suo ego, il suo orgoglio e la sua attitudine alla sfida. Per lui,
tutte le ragazze non erano che una massa indistinta di creature
vezzose e incostanti, irrazionali e fragili e in ogni caso
incomprensibili; ma in quell'idea che Samuel stesso aveva sempre
condiviso del mondo delle donne, in quella massa imprecisata di
vestiti e voci squillanti, egli sapeva che Agatha si stagliav a su un
piano più elevato, si differenziava per la sua alterigia e
il suo
coraggio e la sua incrollabile determinazione. Egli sapeva
perfettamente di non avere alcuna prova concreta per temere veramente
per lei, eppure una voce continuava a mormorare da qualche parte in
fondo alla sua mente: Ti aveva chiesto di andare con lei.
In
quel momento un gong
rintoccò all'altoparlante e una voce di donna
annunciò che le
operazioni si erano ufficialmente concluse e che tutti gli allenatori
erano pregati di recarsi nell'arena fuoristante. Jake parve
dimenticarsi istantaneamente dell'argomento della loro conversazione.
«Ah!
Si comincia»
esclamò in tono eccitato. «Vieni, Samuel, andiamo.
Non ci pensare,
eh? Risolverete tutto dopo il Torneo, ne sono sicuro.»
Sì,
tutti gli
allenatori che li circondavano si stavano alzando, raccoglievano le
loro cose, si avviavano verso l'arena. Sentendosi perduto all'interno
di quella fiumana di gente che lo urtava, Samuel sentì come
di star
nuotando controcorrente in un fiume che lo affogava. Sarebbe stato
semplice abbandonarsi a quella corrente, seguire gli altri
allenatori, raggiungere l'arena e pensare ad Agatha solo più
tardi,
a Torneo finito: quella era l'occasione della sua vita e non doveva
niente a quella ragazza, non era suo padre o suo fratello o il suo
fidanzato, come ella gli aveva tanto amaramente ricordato, era solo
un amico (e forse nemmeno più quello!) che lei non aveva
voluto
ascoltare quando avrebbe potuto. Aveva fatto di testa sua, come al
solito, ed egli non aveva nessuna responsabilità. Ma in quel
fiume
di eventi che lo trascinava, Samuel continuò a dare
bracciate
furiose e sfiancanti e udì la propria voce vacua dire:
«Vado a
cercarla.»
«Stai
scherzando,
vero? Sta iniziando il Torneo!»
Samuel
scosse la testa.
«Vai tu e divertiti. Vinci anche per me. Io non
posso.»
«Tu
sei pazzo.» Jake
lo scosse per le spalle, fissandolo incredulo. «Samuel, tu
sei qui
ora. Puoi andare a cercarla domani. Di sicuro avrà cambiato
idea.»
«Tu
non capisci,
Jake... Agatha non l'avrebbe mai fatto.»
Forse
Jake lesse la sua
determinazione nei suoi occhi, comprese quanto forte fosse in lui il
bisogno di accertarsi che Agatha stesse bene. In ogni caso lo
lasciò
e proseguì a bassa voce, ma con aria profondamente delusa:
«Come
vuoi, allora. Spero che tu non debba pentirtene.»
Samuel
sorrise appena
in risposta. «Buona fortuna, Jake. Ricordatevi anche di noi
quando
berrete coi soldi della scommessa.»
Pochi
minuti dopo, egli
fendeva il cielo sul dorso di Charizard, diretto verso est.
Era
stato di rado a
Lavandonia, ma non era una città nella quale fosse molto
difficile
orientarsi, pur conoscendola appena: anche trovare la casa di Agatha,
che era l'ostacolo che maggiormente aveva paventato venendo
lì, non
si rivelò particolarmente difficile: la famiglia di Agatha
era una
delle più importanti della città ed egli non ebbe
problemi a
farsene indicare la casa.
Non
aveva idea di cosa
si era aspettato di trovare. Era una villa modesta, che avrebbe fatto
pensare piuttosto a una famiglia benestante che aristocratica, e
tuttavia il suo aspetto squadrato, maschio, imponente gli trasmetteva
un senso di autorevolezza e minaccia. Agatha non poteva che essere
cresciuta in una villa del genere, pensò, sola e senza i
suoi
genitori. Il cancello era chiuso: aldilà di esso, tutto era
immobile
e silenzioso. La casa avrebbe potuto benissimo essere disabitata da
mesi, con le sue imposte chiuse, eppure egli sentiva, egli sapeva che
Agatha era lì, era vicina, raggiungibile...
Il
cancello era alto a
dir molto un paio di metri. Samuel non aveva mai fatto nulla del
genere in vita sua, ma aveva un corpo forte e atletico di vent'anni e
dopo tanti viaggi, dopo aver scalato la grotta delle Spumarine
–
quanto dolorosamente ora gli tornava alla memoria quel ricordo! - un
cancello di ferro battuto non rappresentava di certo un problema.
Si
guardò nervosamente
attorno, ma non ce n'era bisogno: la strada era deserta, la casa
isolata. Si caricò meglio sulle spalle il peso dello zaino,
si
aggrappò alle robuste sbarre scurite e cominciò a
salire.
Nel
giro di un minuto
aveva raggiunto il portone e vi si era letteralmente scagliato
contro. Se avesse potuto, l'avrebbe abbattuto, ma dovette
accontentarsi di tempestarlo di pugni e di grida.
«Agatha!
Sono io, sono
Samuel. Stai bene?»
«Ti
prego, Agatha,
aprimi! Voglio solo parlarti.»
«So
che sei
arrabbiata, ma ti prego, voglio solo sapere se stai bene!»
«So
che sei qua
dentro, Agatha!»
Perché
egli lo sapeva,
lo sentiva che Agatha era a pochi metri da lui, e non importava che
non fosse in grado di spiegare perché: semplicemente, egli
ne era
certo, ed era altrettanto certo che non lo stava ignorando soltanto
perché era arrabbiata. Agatha aveva bisogno di lui.
Doveva
entrare in
quella casa a qualsiasi costo. Percorse a grandi passi il lato
frontale dell'edificio, si avvicinò alla prima finestra
chiusa: le
imposte erano serrate, ma piuttosto vecchie, e chinandosi,
torcendosi, sbirciando, Samuel riuscì a scorgere con grande
fatica
qualcosa dell'interno: era un salottino d'ingresso accogliente ma
semibuio, con larghe pozze di tenebra ai margini del suo campo visivo
e, proprio sul divano, una magra silhouette di donna dai lunghi
capelli scuri...
Non
poteva più
aspettare. Agatha non lo stava ignorando, di questo egli era certo, e
ora doveva aiutarla. Tornò di corsa al portone, col respiro
che si
faceva affannato e ansimante e nervoso, e vi abbatté
disperatamente
l'ultima definitiva scarica di pugni.
«Agatha!
Aprimi, o
butterò giù la porta.»
Non
vi fu risposta, e
di certo Samuel non se ne era aspettata una: riusciva quasi a vederla
fisicamente, nella sua mente, seduta all'interno di quella casa
silente colle braccia incrociate e gli occhi infissi sulla porta, in
una tacita, ansiosa sfida alla sua volta, in attesa di scoprire se
avrebbe davvero fatto qualcosa di così sbagliato...
Ma
in quel momento,
neppure se l'avesse voluto Samuel avrebbe potuto trattenersi: nella
sua mente ottenebrata dalla paura per Agatha, i valori morali e le
regole scritte non trovavano più alcuno spazio che valesse
la pena
d'essere preso in considerazione.
La
porta era ovviamente
troppo spessa e robusta per poter anche solo pensare di riuscire ad
abbatterla con le sue forze. Samuel gettò al suolo una
Pokéball,
liberando di nuovo nell'ampio giardino il suo Charizard.
«Charizard,
aiutami!
Dobbiamo buttare giù la porta!»
Non
occorreva possedere
lo stesso numero di muscoli facciali di un essere umano per esprimere
stupore: sul suo duro volto squamoso, gli occhi di rettile di
Charizard si strinsero scrutandolo fissamente. Ma Samuel lo
guardò
con disperazione crescente, accennandogli la porta con gesto di
preghiera.
«Ti
prego, Charizard!
È per Agatha.»
Questo
fu sufficiente a
fargli intendere quanto importante e urgente quel compito fosse per
lui. Charizard lo scostò semplicemente dalla porta con un
braccio
robusto: con un moto di profonda gratitudine nei suoi confronti,
Samuel si fece obbedientemente da parte mentre il suo
Pokémon si
scagliava in avanti.
L'impeto
di Charizard
fu tale da sollevare la porta dai cardini e rovesciarla al suolo in
una nube di polvere e schegge di legno. Samuel entrò come
una
fiumana irrefrenabile, ma una fredda voce femminile ordinò:
«Fermati.»
Agatha
era seduta
immobile al tavolo davanti a lui, coi lunghi capelli sciolti e
spettinati che scendevano in cascate disordinate sulle sue spalle,
incorniciando un bianco volto stravolto e smagrito, con grandi
occhiaie sotto gli occhi divenuti spettralmente enormi. Indossava
ancora gli abiti che Samuel le aveva visto addosso qualche giorno
prima, quando si era diretta a Lavandonia, ma non fu questo a
sconvolgerlo.
C'era
una pistola
appoggiata sul tavolo davanti a lei, e la sua pallida mano esile
riposava, priva di forza e di decisione, accanto alla sua
impugnatura.
«Agatha...»
«L'ho
visto, Samuel.
Ho visto quell'uomo. È tutto vero...»
I
secondi gocciolarono
tra loro come acqua, increspandosi tra le pareti di quella stanza.
In
quel tempo
smisuratamente dilatato, Samuel mosse un passo in avanti con lentezza
innaturale e grottesca e udì la propria voce lontana dire:
«Agatha,
no.»
«Fermati,
Samuel.»
«Agatha,
ti prego...»
«Se
fai ancora un
passo, sparo prima a te e poi a me.»
Samuel
s'immobilizzò
bruscamente davanti alla canna della pistola che lo scrutava
inappellabilmente, mentre il tempo ricominciava a scorrere e pareva
rifrangersi come onde sulle pareti intorno a loro. Quando aveva
alzato la pistola?
«Agatha,
che cosa è
successo?»
Gli
occhi della ragazza
erano folli ma incrollabilmente determinati. Con la massima lentezza,
spostò lentamente la pistola verso la propria tempia. La sua
mano
non tremava.
«Avevano
ragione loro,
Samuel. Lassù, al sesto piano... ho visto una cosa
orribile.»
La
bocca della pistola
era appoggiata contro la sua tempia pallida, tra le folte onde di
capelli: Samuel la vide con tanta vividezza da immaginarne la
sensazione di gelo sulla pelle. Il dito di Agatha sul grilletto
tremava leggermente, Samuel lo vide dal riflesso vibrante della luce
sulle sue unghie a confetto, eppure sapeva che quella lieve
manifestazione d'incertezza non sarebbe stata sufficiente a fermarla.
La sua mente vagliò freneticamente una serie di
possibilità: poteva
cercare di balzarle addosso per strapparle l'arma di mano, ma ammesso
che Agatha non si fosse sparata al suo primo movimento, ci sarebbe
comunque stata una colluttazione. Poteva cercare di convincerla a
posare la pistola, ma conoscendola sapeva che questo l'avrebbe
agitata di più.
«Parlamene,
Agatha»
disse allora. «Raccontalo anche a me. Che cos'hai
visto?»
La
mano di Agatha
conobbe un tremito improvviso: per la prima volta da quando egli la
conosceva, i suoi occhi si riempirono di lacrime. Allontanò
dalla
tempia la canna della pistola.
«Non
vuoi saperlo,
Samuel. Nessuno deve saperlo.»
«Dimmi
perché,
Agatha» insisté Samuel, con voce forzatamente
calma e controllata
quando invece avrebbe voluto urlare. «Ti prego, dimmelo. Ti
prometto... ti prometto che quando me lo avrai raccontato non
farò
niente per impedirti di...»
«Non
sono pazza,
Samuel!» esclamò la ragazza, riavvicinando
furiosamente la pistola
alla propria tempia con un lampo folle negli occhi. La sua voce aveva
un accento disperato che Samuel non avrebbe mai potuto immaginare da
lei: ebbe un fremito involontario, ma Agatha non lo notò.
«Ti giuro
che è la verità!»
«So
che non sei pazza»
disse. Ora era la sua voce a tremare. Socchiuse per un attimo gli
occhi e, con sforzo indicibile, proseguì. «Per
questo voglio che tu
me lo dica.»
«Esiste
davvero,
Samuel» sussurrò Agatha, spalancando ancor
più gli occhi già
innaturalmente grandi. «Te lo giuro. Quello che chiamano il
sepolto
vivo.»
Non
era possibile, era
assurdo. Quelle parole, sepolto vivo, si rifransero
contro le
sue orecchie incredule senza riuscire a penetrare realmente le difese
della sua mente, erano incredibili, irripetibili.
Sepolto
vivo. Poteva
davvero Agatha, la razionale, scettica Agatha aver realmente
pronunciato quelle parole? No, era assurdo, era...
«Vattene,
Samuel»
disse Agatha. I suoi occhi erano ancora seri e disperati.
«Hai
promesso. Ora devi andartene.»
Certo,
aveva promesso,
ma nella sua mente la promessa non aveva alcun valore,
perché egli
sapeva che proprio quando lo cacciava da sé Agatha aveva
più
bisogno di lui, e che proprio ordinargli di andarsene era l'unico
modo che il suo orgoglio conoscesse per gridargli di aiutarla. Si
sentiva ancora incredibilmente lontano da lei, a una distanza
infinita dal divano dal quale Agatha lo stava minacciando e
inconsciamente implorando, eppure doveva aiutarla.
Avanzò.
«Fermati!»
Ora
la pistola era
nuovamente puntata su di lui, puntata in un modo tremante e incerto,
e Agatha era terrorizzata. Si ritrasse sul divano.
Samuel
non aveva
davvero idea di cosa stesse facendo, ma questo non aveva importanza.
Sapeva di non poterla disarmare con la forza, perciò non gli
restava
che credere alla sua richiesta d'aiuto, a quella parte di lei che in
quel momento – egli lo sapeva, ne era certo –
voleva davvero
soltanto ch'egli le credesse e la salvasse da se stessa. Mosse ancora
un passo avanti.
«Se
fai ancora un
passo...!» esclamò Agatha con ansia crescente,
annaspando sul
grilletto, ma Samuel la interruppe prima che potesse finire.
«Lo
so. Spari prima a
me e poi a te.»
Non
si sentiva affatto
coraggioso e neppure aveva un piano. Agatha non era in sé:
era
sconvolta, era pazza, aveva bisogno di aiuto ed egli era quasi certo
che avrebbe sparato, eppure non aveva alternative: se voleva
aiutarla, doveva farlo così. Socchiuse per un istante gli
occhi di
fronte all'ineluttabilità dell'arma puntata su di lui e
follemente
pregò che Agatha mantenesse la parola e sparasse davvero
prima a lui
prima di rivolgere la pistola verso se stessa, perché che
senso
avrebbe avuto vivere in un mondo privo di lei?
Ora
le mani di Agatha
tremavano incontrollabilmente, ma Samuel non approfittò
neppure di
quel momento per tentare di disarmarla fisicamente. Aspettò
con la
massima calma, ma senza sapere neppure cosa con precisione, con gli
occhi infissi in quelli di Agatha che erano lucidi e arrossati,
esageratamente grandi e gonfi.
«Samuel,
per
favore...»
Ma
poi la sua preghiera
scemò in un silenzio attonito e stupefatto. All'improvviso
le
braccia di Agatha le ricaddero pesantemente contro i fianchi, la
pistola rotolò da qualche parte sul tappeto, sotto il
tavolo, ed
ella, semplicemente, fece per alzarsi e si accasciò al suolo.
Finalmente
quello
strano incantesimo parve spezzarsi, il tempo smise di scorrere troppo
lentamente: Samuel balzò in avanti, scavalcando il tavolino,
e
sollevò stringendola quella magra figura esausta che lo
scrutava
come una bestia ferita. Sotto le sue mani, attraverso gli abiti
divenuti troppo larghi, egli sentì che le sue costole
sporgevano
esageratamente. Da quanto tempo non mangiava?
«Agatha!»
Agatha
si agitò appena
tra le sua braccia, ma non fece niente per respingerlo, e i suoi
occhi ora dicevano con sufficiente eloquenza ciò che la sua
bocca
voleva tacere. Gli appoggiò una mano sul braccio con aria
terribilmente confusa.
«Samuel...
mi credi,
mi credi, non è vero?»
La
sua bocca lo
implorava, lo supplicava. Agatha aveva bisogno di lui e della sua
fiducia, aveva bisogno che egli le credesse, e come si poteva non
crederle? Samuel sentiva di crederle come a un bambino svegliatosi da
un incubo lungo e tormentoso: le credeva come avrebbe creduto a quel
bambino, al vero e sincero orrore suscitatogli da quel sogno, e nulla
di più, perché certo lo spavento di Agatha era
concreto e reale e
innegabile. Perciò, stringendola appena a sé,
mormorò contro il
suo orecchio: «Ma certo che ti credo.»
Agatha
serrò
maggiormente la mano attorno al suo braccio in un gesto che era
riconoscenza e bisogno di lui. Trasse un respiro profondo.
«Grazie,
Samuel, io... se tu non mi avessi creduto, avrei pensato
di...»
Temendo
che finisse per
agitarsi di nuovo, Samuel le fece cenno di tacere poggiandole un dito
sulle labbra fredde. Sapeva già anche troppo bene, senza
bisogno che
lo dicesse, cos'avrebbe pensato, e all'ipotesi che fosse pazza, ora,
era bene non credere. Doveva occuparsi di lei e aveva bisogno di
concentrarsi interamente su quel compito.
«Non
importa, Agatha.
Va tutto bene ora. Vieni...»
La
sollevò da terra
senza curasi delle sue reazioni, ed era un corpo minuscolo e tiepido
che si strinse a lui involontariamente come in cerca di protezione.
No,
quella non era
Agatha, Samuel ne era certo e la sua consapevolezza si rafforzava
ogni istante di più mentre scrutava il suo volto esangue e
languido,
reclinato sulla sua spalla. La vera Agatha, la sua Agatha mai gli
avrebbe permesso di sollevarla così come una bambina, mai si
sarebbe
arresa a lui in modo tanto incondizionato e stremato. Provò
una
fitta di rabbia verso quella creatura mansueta e bisognosa che in
tutto e per tutto ricordava Agatha, ma che non era, assolutamente non
poteva essere lei e che in quel momento stava celando ai suoi occhi
quella vera...
E
tuttavia Agatha era
lì, era nascosta da qualche parte nella ragazza affranta e
spezzata
che portava tra le braccia, il suo sguardo altero ardeva ancora in
fondo a quei placidi occhi bovini, ed egli a qualsiasi costo
l'avrebbe ritrovata.
Trascorse
il pomeriggio
sforzandosi di non pensare, di non riflettere: sentiva che se si
fosse soffermato anche per un istante soltanto a chiedersi se Agatha
fosse sincera o pazza, se gli avesse detto la verità o gli
avesse
piuttosto raccontato un incubo, non sarebbe stato in grado di
prendersi cura di lei come doveva.
Quando
Agatha si fu
finalmente ritirata nella stanza da bagno al piano di sopra, Samuel
richiamò ancora il suo Charizard e se ne fece aiutare a
sistemare
alla meglio la porta d'ingresso: il risultato non era certo un
granché, ma avrebbe resistito finché non ci fosse
stato il tempo di
chiamare un fabbro.
Ripensò
alla pistola
solo nel momento in cui fece per muoversi verso la cucina e la vide
sul tappeto, là dove Agatha l'aveva lasciata cadere. Gli
salì un
rinnovato senso d'angoscia: doveva fare in modo che Agatha non la
trovasse. Alle spalle del divano, dirimpetto alla porta, c'era
un'ampia credenza dalle cui ante occhieggiava verso di lui un
servizio di piatti d'aspetto antico. La chiave era inserita nella
serratura. Samuel sapeva anche troppo bene che era un nascondiglio
ridicolo e pericoloso, ma non conosceva quella casa abbastanza bene
da cercarne uno migliore: aprendo le ante con grande lentezza per
evitare che tintinnassero, nascose accuratamente la pistola dietro
una pila di piatti e pregò che Agatha non fosse solita
osservare
quella vetrina con troppa attenzione.
I
piatti gli diedero un
nuovo pensiero, assai più urgente, tanto che Samuel si
sorprese di
non avervi pensato prima: da quanti giorni Agatha non mangiava?
Represse furiosamente il pensiero assillante di cosa potesse averla
ridotta in quello stato, poiché non poteva, no,
assolutamente non
poteva permettersi di pensarvi.
La
cucina era
sorprendentemente moderna, ma quando Samuel provò ad aprire
il
grande frigorifero all'americana, lo trovò pietosamente
vuoto. Era
ovvio, si disse con rabbia, sbattendo con forza la porta per
richiuderla: era stato assurdo anche solo credere che vi avrebbe
trovato dentro qualcosa. Aprì una dopo l'altra le varie
dispense,
sentendosi drammaticamente smarrito dalla quantità di
pentole e
posate e piatti che gli sembravano decisamente sovrabbondanti anche
per una famiglia numerosa, per non parlare di una ragazza sola.
Proprio
la penuria di
viveri contribuì a fargli ricordare che uno stomaco vuoto da
molto
tempo può rifiutare il cibo. Non ricordava dove avesse letto
o
sentito quest'informazione, ma gli parve particolarmente preziosa
quando riuscì finalmente a recuperare, da qualche parte in
fondo
all'ennesima dispensa, una piccola scorta di scatole di zuppa
instantanea, dalle etichette un po' fuori moda, ma le cui scandenze
erano ancora da venire.
Quando
Agatha lo
raggiunse, una ventina di minuti dopo, con l'espressione di qualcuno
che lo avesse cercato per un po' in casa, i capelli le scendevano ora
sulle spalle in quella massa districata e luminosa, vaporosa e
spettinata ch'egli aveva conosciuto nel mese precedente, ancora
vagamente umidi: attorniato da quella nube gonfia e ariosa, il
pallore del suo volto smagrito sembrava risaltare in modo ancora
più
inquietante, ma Samuel si sforzò di sorriderle come se nulla
di
terribile e assurdo fosse mai avvenuto tra di loro, come avrebbe
fatto se l'avesse vista scendere dalla sua camera in una delle loro
tante mattinate trascorse in un Centro Pokémon, o come di
certo
aveva fatto al vederla svegliarsi dopo uno dei loro accampamenti
notturni.
Trattenendosi
sulla
soglia della cucina, Agatha non gli sorrise in risposta, ma Samuel
vide i suoi occhi illuminarsi un poco al di sopra delle profonde
occhiaie scure. Sentì che una morsa di dolore gli stringeva
le
viscere a quella vista: possibile che potesse esistere al mondo
qualcosa, anche solo un'allucinazione in grado di ridurla
così?
Dopo
lunghi secondi,
Agatha parlò. Disse: «Perdonami, Samuel. Sai bene
che l'ultima cosa
che avrei voluto è esserti di peso.»
Come
dirle che egli non
voleva altro che essere lì, di più: che non
avrebbe potuto trovarsi
in nessun altro luogo senza che il suo cuore la bramasse e la
cercasse e avesse bisogno d'esser certo di dove si trovasse; che
avrebbe avuto decine di giustificazioni per rimanere sull'Altopiano
Blu, ma che non aveva avuto bisogno che di una sola per andarsene?
Eppure si trattenne. Per la prima volta in quel momento gli
attraversò la mente il fugace pensiero che Agatha poteva non
avere
idea di che giorno fosse e che proprio per quel motivo, forse, non si
era rpesentata al Torneo quel mattino. Informarla bruscamente non
poteva essere una buona idea e decise di affrontre con calma
quell'argomento.
Le
accennò col capo al
tavolo della cucina: non aveva realmente apparecchiato, ma confidava
che dopo anni di pranzi all'aperto Agatha non avrebbe fatto problemi.
Si sentiva un po' impacciata. «Ho pensato che avessi
fame.»
«Grazie.»
Accostandosi al tavolo, Agatha fissò in silenzio per un
istante la
scodella di zuppa precotta, ma ancora fumante. Teneva le braccia
conserte sul petto e in quel gesto che le era tanto naturale Samuel
notò con una fitta di dolore quanto gli abiti che indossava
le
stessero larghi.
«Non
vuoi tenermi
compagnia?» domandò a bassa voce levando gli occhi
su di lui. Si
sforzava di sorridere, ma le sue labbra erano pallide e i suoi occhi
soffusi di una languida foschia.
«Non
ho fame» disse
Samuel nervosamente, e per una volta in vita sua non era una bugia.
Sentiva che se avesse mangiato qualcosa avrebbe vomitato.
Le
spostò la sedia per
farla sedere, proprio come tante volte aveva fatto nel mese
precedente, e sedette accanto a lei. Agatha cominciò a
mangiare
lentamente, in silenzio, e Samuel dovette complimentarsi con se
stesso: era evidente che persino sorbire cibi liquidi doveva costarle
un'immensa fatica. Si fermò a riprendere fiato dopo poche
cucchiaiate, poggiandosi una mano sullo stomaco come se si sentisse
già gonfia. Poggiò il cucchiaio contro il bordo
della scodella con
un tintinnio sonoro,
«Perché
sei venuto a
cercarmi?» chiese direttamente, guardandolo negli occhi.
Samuel non
poté tratenere un sospiro: non poteva proprio evitare di
dirle che
giorno era. Sostenne con forza il suo sguardo.
«Ero
convinto che ti
avrei incontrata questa mattina sull'Altopiano Blu, ma quano non ti
ho vista ho capito subito che doveva esserti successo
qualcosa.»
Rimase
a fissare la
consapevolezza farsi strada dentro di lei attraverso le espressioni
del suo viso. Gli occhi d Agatha si spalancarono via via ch'ella
comprendeva il significato delle sue parole, collegava le date agli
eventi, ripercorreva colla memoria i giorni trascorsi... si
coprì la
bocca con la mano e per un attimo Samuel temette che i suoi nervi
avrebbero ceduto di nuovo, ma finalmente ella mormorò:
«È passato
tanto tempo?»
Samuel
assentì col
capo, senza saper che dire. Lo stupore doloroso negli occhi di Agatha
lo ammutoliva tanto che distolse lo sguardo: la sua mente affaticata
e sconvolta sembrava quasi stentare a collegare quelle informazioni,
dopo tanta nebbia di confusione. Si passò una mano tra i
capelli in
disordine.
«Ma
tu sei qui, ora»
balbettò. Non aveva bisogno di dire altro. Prima che quel
pensiero
potesse turbarla troppo, Samuel si protese verso di lei e le prese
cautamente la mano senza stringerla. Questa volta neppure per un
istante distolse gli occhi dai suoi.
«Non
sarebbe stato lo
stesso, da solo.»
La
mano di Agatha parve
rilassarsi sotto la presa della sua, tuttavia ella non fece nulla per
allontanarla o sottrarsi a quel contatto. Tornò a scostarsi
le
ciocche ribelli dalla fronte con la mano libera e le sue labbra si
piegarono a modulare un grazie che non assunse mai
voce, ma
che a lui parve più chiaro e più udibile di
decine di parole
diverse.
Sottraendo
finalmente
la mano alla sua, Agatha accennò a mangiare ancora un poco,
ma
dovette darsi per vinta dopo appena un paio di minuti: era evidente
che anche la minima quantità di cibo era sufficiente a
riempirla
dopo giorni di digiuno quasi assoluto. Poggiò
definitivamente il
cucchiaio in segno di resa, gettandogli un'occhiata dispiaciuta, e si
appoggiò contro lo schienale della sedia per riprendere
fiato.
«Samuel...»
cominciò.
Ora la sua voce aveva un tremito esitante: Samuel si protese verso di
lei col cuore colmo di trepidazione.
«Non
pensavo nulla di
quello che ho detto quel giorno. Questo non significa niente, ma
grazie di essere tornato da me.»
Non
vi fu modo di
sapere alcunché riguardo a ciò che aveva visto, o
forse piuttosto
immaginato, all'interno della Torre. Ogni volta che Samuel
provò ad
avanzare con grande cautela qualche domanda, Agatha si chiuse
perlopiù in un cupo mutismo terrorizzato: tutto
ciò che acconsentì
a dire fu che, in qualche modo, era riuscita a scappare. Questo
sembrava per lei un pensiero odioso più che un sollievo, ed
egli non
stentava a indovinare perché: come poteva una creatura fiera
e
orgogliosa come lei ammettere di aver avuto paura, anche solo per un
istante?
Indagare
oltre e
cercare di capire qualcosa di tutta quella storia era più
che
impossibile: era ovvio che doveva essersi immaginata tutto, ma come?
Che il funereo ambiente della Torre l'avesse suggestionata a tal
punto? Eppure era ridicolo, Agatha gli aveva ben detto di esserci
stata altre volte, quand'era solo una bambina...! Ma tutto
ciò che
ebbe modo di sapere dopo una lunga serie di caute domande incerte fu
la cosa che meno gli interessava: che la pistola era appartenuta a
suo padre. Anche questo però parve turbarla un po' ed egli
non volle
insistere.
Provò
allora a
cambiare strategia e le chiese, con tranquilla indifferenza:
«Hai
trovato qualche traccia di quel Pokémon di cui...?»
Ma
una semplice
occhiata quasi impietosita di Agatha bastò a metterlo a
tacere. Si
strinse maggiormente tra le braccia. «Non mi hai ascoltata,
Samuel?
Aveva ragione quel ragazzo. È stato lui.»
Lui,
lui, sempre lui,
ma chi era questo lui? Il sepolto vivo? E com'era possibile credere a
tanta assurdità? Samuel si sentiva la testa pulsare, come
troppo
piena d'informazioni, greve di dubbi e d'incertezze. Che Agatha fosse
convinta di aver visto il sepolto vivo nella sagoma di qualche
Pokémon selvatico? Che la sua mente avesse cercato
d'interpretare e
razionalizzare a quel modo un'ombra o un suono?
Comunque
stessero le
cose, da lei non c'era più da scoprire altro e continuare a
infierire sarebbe stato semplicemente crudele. Samuel attese che
Agatha acconsentisse finalmente, seppur malvolentieri, a riposarsi
per qualche ora, per poter uscire e andare a procurare qualcosa da
mangiare. L'idea di lasciarla sola gli dava un senso d'inquietudine
non indifferente, ma si sforzò di soffocarlo e sopprimerlo:
non
aveva alternative, se voleva fare in modo che quella ragazza
mangiasse qualcosa di solido. Poteva soltanto fidarsi di lei e
sperare di essere riuscito a calmarla a sufficienza.
Si
concesse di vagare
per qualche minuto per le quiete strade di Lavadonia: l'aria di
giugno si era rapidamente fatta calda a Kanto, ma in quegli antichi
paesi dalle alte case arroccate sulle pendici dei monti, tanto
addossate l'una all'altra da non lasciar passare la luce del sole
sulle strade strette, si sentì a un tratto cogliere dai
brividi. Non
aveva addosso altro che la camicia, pensò chinando lo
sguardo, e gli
parvero passati giorni interi da quando l'aveva indossata, quella
mattina, col cuore piendo di vaga ambizione al pensiero del Torneo, e
anche di intensa trepidazione all'idea di rivedere Agatha. E poi, e
poi...
Finalmente
smise di
respingere il pensiero di ciò che aveva visto quel giorno,
doveva
soffermarvisi, affrontarlo. Fermandosi bruscamente in mezzo alla
piazza che stava attraversando, chiassosa e vivace ed echeggiante
delle grida di un gruppo di bambini che giocavano rumorosamente
vicino a una fontana, levò uno sguardo incerto sulla Torre
Pokémon
che svettava dall'altra parte della cittadina. Non c'era mai stato
–
aveva attraversato Lavandonia assai di rado e mai per scopi turistici
– e a dire il vero l'aveva sempre degnata di poca attenzione,
se
non per considerarne talora la bella architettura armonica che pareva
volersi congiungere al cielo; ma questo era quanto. Come forestiero
non aveva mai saputo nulla di quanto vi accadeva all'interno,
né
delle grottesche abitudini dei Pokémon Spettro che lo
abitavano, né
delle leggende che Agatha gli aveva raccontato; e ora, invece...
In
quella Lavandonia
irrorata di sole, nel placido pomeriggio gioioso in cui i bambini
urlavano e s'inseguivano e si schizzavano, credere alle parole di
Agatha era semplicemente impossibile, ma proprio questo gli diede un
grande dolore: era ovvio che il sepolto vivo non esistesse, ma in tal
caso Agatha doveva averlo immaginato, e con tanta vividezza e
realismo da pensare che togliersi la vita fosse l'unico modo per non
doverlo ricordare oltre. Ripensò ai suoi occhi smarriti e
terrorizzati, alla decisione delirante della sua voce confusa... cosa
poteva averla sconvolta a tal punto? Considerò per qualche
minuto
l'idea di consultare un medico, ma decise che non era una buona idea:
se un dottore l'avesse visitata con l'aria di voler mettere in dubbio
le sue facoltà mentali, nel migliore dei casi Agatha si
sarebbe
infuriata. No, quell'idea era impraticabile, e Samuel si ripromise di
far ricorso a un medico solo se strettamente necessario: per quanto
lo riguardava, sentiva che occuparsi di Agatha era un suo preciso
dovere, e poco importava ch'ella fosse tanto cambiata, forse persino
ammattita. Fintanto che non fosse stata lei a cacciarlo, avrebbe
fatto di tutto per far riemergere, da quella creatura smarrita dagli
occhi annebbiati, la sua Agatha altera e insospettabilmente gioiosa.
Quando
fece ritorno
alla grande casa a nord di Lavandonia, forse un'ora dopo,
scoprì con
lieve rammarico che Agatha era già sveglia: stava
armeggiando
attorno a una grossa radio nel salottino. Samuel si fermò a
guardarla un po' meravigliato, finché Agatha, percependo il
silenzio
invadente della sua presenza, levò lo sguardo su di lui.
«Sto
cercando di farla
funzionare» spiegò semplicemente, indicando la
radio. Sembrava
quasi contrariata di essersi fatta scoprire in
quell'attività. «Ho
pensato che ti avrebbe fatto piacere sentire come sta andando il
Torneo, dal momento che...»
Non
concluse la frase,
tornando seccamente a studiare la radio senza più guardarlo.
Samuel
si sentì interdetto per un attimo, ma poi, temendo che dar
troppo
peso a questo episodio potesse agitarla, si sforzò di
riderne con
naturalezza.
«Beh,
credo che sia
ovvio. Starà vincendo Jake, no?»
«Oh,
senza dubbio»
convenne Agatha, colla voce bassa vibrante di una risata, ma ancora
senza levare gli occhi dal retro della radio.
Sapeva
che il fatto che
Agatha fosse tanto in sé da riuscire a concentrarsi su
qualcosa di
così pragmatico come far funzionare una radio avrebbe dovuto
sembrargli un buon segno, eppure Samuel si sentì
inspiegabilmente
confuso. Sistemò rapidamente in cucina ciò che
aveva comprato prima
di tornare in salotto ad aiutarlo: come probabilmente molti ragazzi,
quel genere di cose gli era sempre piaciuto, per quanto non avesse
ovviamente occasione di dedicarvisi spesso, dato il mestiere che si
era scelto. Era un modello piuttosto vecchio, risalente probabilmente
agli anni dell'infanzia di Agatha, ma proveniente addirittura da
Unima: portava la marca di una famosa, e costosa, casa produttrice di
Austropoli.
Riuscirono
a
sintonizzarlo dopo una decina di minuti: la voce gracchiante di un
telecronista stava descrivendo in quel momento uno scontro tra un
Gengar e un Nidorino.* Trascorsero il resto del pomeriggio sul
divano, seduti ad ascoltare in silenzio l'interminabile telecronaca
delle battaglie: Samuel si sforzava di mostrarsi tranquillo e
rilassato, ma con la coda dell'occhio osservava i movimenti e le
reazioni di Agatha. Non era del tutto certo che riuscisse ad
ascoltare tutta la battaglia con attenzione: sul suo profilo un tempo
scostante, ma ora soltanto triste, i suoi occhi parevano talora farsi
estranei e distanti, coperti da una foschia impenetrabile, ed ella
gli sembrava in quegli istanti incredibilmente lontana. Allora
avrebbe voluto tendere la mano e toccarla, ricordarle la propria
presenza e confortarla, comunicarle che era al sicuro, ma sapeva che
il suo bisogno di raggiungerla era anche altro da ciò: era
il
desiderio profondo e incontrastabile, dopo tutti quei giorni di
terribile assenza, di stabilire un contatto e sentire di averla
ritrovata. Tuttavia egli sentiva che, in quel frangente, approfittare
della sua debolezza sarebbe stato imperdonabile, e si trattenne.
La
sera incominciò a
calare attorno a loro, appena fuori dalle mura spesse che li
circondavano: una sera tiepida, ancora rosata, che gettava sulle
brulle pendici dei monti i suoi riflessi dorati. Di lì a
poco le
battaglie ebbero fine: la seconda parte delle sfide avrebbe avuto
luogo il giorno seguente, per dar modo a tutti i concorrenti di
combattere colla luce.
Agatha
parve
riscuotersi con la fine della trasmissione. Spense lentamente la
radio, come se non sapesse bene cosa fare, e si voltò verso
di lui.
Per l'ennesima volta, Samuel fu colpito dal pallore del suo volto.
«Speriamo
che Jake non
abbia ancora combattuto» commentò scherzosamente,
facendo per
alzarsi. A giudicare dal declinare del sole dietro le cime dei monti
dovevano essere le otto passate, perciò domandò:
«Hai fame?»
Agatha
sembrò dover
riflettere persino su quella domanda tanto concreta e immediata, come
se da lungo tempo non avesse più riflettuto sulle reazioni
del suo
corpo, ma infine annuì.
Misero
assieme una cena
alla buona – Samuel aveva scoperto con profondo scorno che
cucinare
su un fornello a gas era piuttosto diverso che farlo su un fuoco da
campo – e sotto il suo sguardo vigile Agatha si
sforzò di mangiare
un po' di più, ma pochi bocconi di pane e di carne furono
più che
sufficienti a saziarla completamente: sapendo che il suo corpo aveva
bisogno di riabituarsi ai cibi solidi, Samuel evitò
d'insistere.
Accadde
quando ormai
persino l'uniforme luce grigia della sera aveva già ceduto
il passo
alla piena oscurità ed essi stavano riordinando la cucina:
la notte
lavandoniense era calata sulle case come un manto. All'improvviso,
mentre Samuel era chino per una qualche ragione sul lavello, un grido
inumano lacerò l'aria smorta della città.
Era
un suono
straziante, indescrivibile e smisuratamente lungo –
decisamente
troppo, troppo per un petto umano! Continuò a ripetersi
echeggiando
per svariati interminabili secondi, modulandosi in agghiaccianti
evoluzioni sonore che risultavano stridule e assordanti da udire, e
Samuel ebbe un tuffo al cuore. Si voltò bruscamente per
cercare
Agatha con lo sguardo, e chissà cosa avrebbe voluto dirle: è
lui! È tutto vero, avevi ragione, come ho potuto credere che
ti
fossi inventata tutto?, ma poi si scontrò coi
suoi occhi fissi e
qualsiasi cosa avesse voluto dire gli morì sulle labbra.
Agatha
era
incommensurabilmente tranquilla e parve quasi stupita del suo
spavento. Stava asciugando i piatti, seduta al tavolo: gli
gettò uno
sguardo di benevola comprensione e gli sorrise appena.
«Non
è come pensi»
disse ad alta voce, sovrastando l'orrendo suono raggelante senza
darvi troppo peso. «Dev'essere un Gastly. No, aspetta: credo
che sia
un Haunter...»
Se
Samuel avesse avuto
qualcosa in mano, l'avrebbe lasciato cadere. Fissò a bocca
aperta
quella ragazza calmissima che solo porche ore prima aveva tentato di
uccidersi davanti ai suoi occhi, troppo convinta dell'esistenza di un
orribile mostro per voler anche solo continuare a vivere, e che ora
non aveva la benché minima reazione all'udire quell'urlo
orrendo e
spaventoso e...
«Non
hai paura?»
balbettò. Gli sembrava che il suo cuore stesse rallentando i
propri
battiti per lo stupore.
«È
solo un Haunter,
Samuel» ribatté Agatha dolcemente, quasi pensasse
di dover essere
lei a tranquillizzarlo. «Non c'è nulla di cui aver
paura, lo fanno
sempre. Ti abituerai anche tu. Non c'entra niente con...»
Tacque
improvvisamente, distogliendo lo sguardo, con espressione
d'indicibile tristezza.
Samuel
non riusciva a
capire, tutto era confuso e tutto era sbagliato! Aveva creduto che
Agatha fosse pazza e non più in grado di distinguere la
fantasia
dalla realtà, e ora eccola lì, perfettamente
lucida e razionale, a
distinguere persino i versi di un Gastly e di un Haunter e a
dissociarli in modo del tutto ragionevole dal pensiero del sepolto
vivo...
Samuel
non era un
medico o uno psicanalista, ma di una cosa era certo: non era
così
che ragionava una ragazza pazza.
Quel
pensiero lo colpì
con tale intensità da lasciarlo fermo in piedi, stupidamente
immobile, a scrutare Agatha come se la vedesse per la prima volta.
Forse avvertendo la fissità del suo sguardo spaesato, Agatha
lo
guardò di nuovo con aria interrogativa. «Non
preoccuparti, davvero.
Sono un po' dispettosi, ma non sono Pokémon cattivi.
Condividono il
tipo Veleno, sai?» soggiunse con voce forzatamente vivace,
quasi a
voler cambiare argomento o a volerlo distogliere da qualunque
pensiero lo stesse agitando in quel momento.
Finalmente
Samuel cercò
di riscuotersi. Annuì per dar segno di aver capito, anche se
non
aveva sentito una singola parola, e si guardò attorno per
cercare
qualcosa di cui parlare. Tossì per schiarirsi la voce.
«Sono
un po' stanco»
cominciò in tono incerto, guardandola con attenzione.
«Se sei
d'accordo, potrei andare a cercare una stanza al Centro per stanotte
e poi tornare a trovarti domattina...»
Ma
come c'era da
aspettarsi Agatha non era assolutamente d'accordo: scosse la testa e
per un attimo egli ebbe l'impressione che il tremulo spettro di una
risata le attraversasse gli occhi, ma fu solo un secondo.
«Sei
venuto fin qui
per me, Samuel. Vado a prepararti la camera degli ospiti.»
Samuel
sapeva che
quello era l'unico modo che Agatha avesse per domandargli di restare,
senza doversi direttamente abbassare a chiederglielo, ma la sua
integerrima coscienza non poté egualmente trattenere un
guizzo
serpentino. «Ma siamo in casa da soli!»
«Oh,
andiamo, Oak!»
sbuffò Agatha, ma sorridendo appena, alzandosi in piedi.
«Come al
solito, sei più pudico di una donna.»
Era
la stessa frase che
gli aveva detto quella sera all'Isola Cannella, dopo aver fatto
irruzione in camicia da notte nella sua camera. Samuel non avrebbe
saputo dire se avesse ora ripetuto quelle parole senza riflettere o
se piuttosto avesse consapevolmente voluto recuperare colla memoria
quel momento e quella situazione tanto simile, ma una cosa era certa:
forse era stravolta, forse era spaventata, ma Agatha era pienamente
padrona di sé. Era terrorizzata da qualcosa di specifico e
definito
che aveva ben chiaro nella sua testa, e nulla di più. Certo,
probabilmente il suo arrivo l'aveva aiutata a razionalizzare
ciò che
aveva visto e a mettere ordine nella sua testa; ma per il resto...
Si
sforzò di mostrarsi
tranquillo e indifferente quando Agatha, pochi minuti dopo, gli fece
strada al piano superiore e gli mostrò un'anonima stanza
dall'arredamento impersonale e vagamente obsoleto, ma colla
biancheria appena cambiata e la finestra aperta sulla notte
all'esterno per lasciar filtrare un po' d'aria. Per quanto facesse
finta di nulla, comunque, anche Agatha era visibilmente imbarazzata
da quella situazione: gli porse in fretta degli asciugamani puliti,
una coperta in più e gli augurò la buonanotte.
Samuel
non aveva
mentito quando aveva detto di essere stanco: l'angoscia e lo stress
della lunga giornata che aveva trascorso cominciavano a farsi
sentire, ed egli si sentiva i muscoli intorpiditi e stanchi, la testa
tanto confusa e pesante da scoppiare. Sedette sul bordo del letto
senza spogliarsi, beandosi in silenzio del soffio fresco e vagamente
umido che gli accarezzava il viso dalla finestra: chissà,
forse sui
monti stava piovendo.
Quel
pomeriggio, nella
piena luce del giorno, era stato così facile attribuire
ciò che
Agatha gli aveva detto agli insensati vaneggiamenti di una pazza, ma
in quel momento, per la prima volta, Samuel temette d' aver tratto
quella conclusione un po' troppo in fretta. Ora egli sentiva di
credere alle sue parole come avrebbe creduto ai suoi propri occhi, e
proprio questo lo confondeva in modo straziante. Se non avesse posto
fine a quei dubbi sarebbe uscito di senno.
Attese
la mezzanotte
disteso immobile sul letto, completamente vestito, dapprima
ascoltando i movimenti di Agatha a pochi metri di distanza da lui, e
poi cercando di percepire nella notte il suo respiro, come tante
volte le sue orecchie avevano fatto, senza nemmeno ch'egli se ne
rendesse conto, nelle notti della sua solitudine. Sentiva che quel
suono l'avrebbe rassicurato se solo fosse riuscito a udirlo, ma la
camera di Agatha doveva essere troppo lontana, o forse le mura troppo
spesse, ed egli sentiva soltanto i deboli fruscii della notte
circostante.
Si
levò dal letto solo
quando fu ragionevolmente certo che Agatha stesse dormendo. Si era
tolto le scarpe e le tenne in mano per percorrere il corridoio a
passi felpati, scendere le scale con la massima lentezza e il cuore
in gola all'idea che scricchiolassero... Fu attraversando il
salottino d'ingresso, fiocamente illuminato dalla magra luce che
filtrava dalle finestre, che gli venne alla mente il curioso pensiero
della pistola. Sostò a lungo davanti alla credenza, incerto
e diviso
tra due opposti partiti. C'era veramente qualcosa da cui doversi
difendere?
Si
decise a prendere
l'arma solo dopo lunghi tentennamenti: se quel pomeriggio aveva avuto
ragione, se veramente Agatha si era immaginata tutto, allora egli
sarebbe stato di ritorno nel giro di un paio d'ore a dir molto e la
pistola sarebbe stata al suo posto entro il mattino. E se poi i dubbi
della notte si fossero rivelati autentici, se veramente Agatha avesse
avuto ragione, gli avrebbe di certo perdonato quel piccolo prestito
senza permesso. La infilò cautamente in una tasca interna
del
giubbotto di pelle, controllando nel riflesso della vetrina che fosse
invisibile a occhi esterni, e uscì.
Lavandonia
gli appariva
incredibilmente diversa ora, mentre la percorreva in piena notte, era
vuota e silenziosa e totalmente immersa nel buio: rispetto alle vie
vitali e caotiche che aveva attraversato quel pomeriggio, credere ad
Agatha sembrava molto più semplice. Gettò di
nuovo un'occhiata
inquieta verso la cima della Torre, ora quasi invisibile e perduta
nel buio, e accelerò il passo.
Per
quanto egli si
sentisse stupido, ingenuo e infantile, l'idea dell'esistenza del
sepolto vivo martellava senza sosta la sua testa. L'unica
consolazione cui la sua mente, che ancora si dibatteva nel disperato
tentativo di discernere la verità in quel cumulo di fantasie
superstiziose e deliranti eppure stranamente reali, tentava di
aggrapparsi, era che una volta che fosse entrato dentro
quell'edificio finalmente si sarebbe liberato dei suoi dubbi
angoscianti; nessuno avrebbe saputo mai ch'egli aveva creduto al
sepolto vivo, anche se per pochi minuti soltanto, o che era entrato a
verificare all'interno della Torre. I suoi dubbi sarebbero morti
entro così poco tempo ch'egli stesso avrebbe finito per
dimenticarsene, si sarebbero fatti inconsistenti come acqua o come
aria e sarebbero scivolati via dalla sua mente estenuata, e proprio
per questo, per quei pochi minuti che ancora lo separavano dalla
verità, poteva concedersi di credere a quella colossale
bugia.
La
famosa Torre Pokémon
sorgeva piuttosto a nord-est del paese, in direzione dei monti, ma
Lavandonia non era di certo nota per la sua vasta estensione: Samuel
la raggiunse dopo una passeggiata di una decina di minuti appena. Non
aveva incontrato nessuno: era evidente che la vita notturna, in
quella zona, era drammaticamente scarsa.
Sul
Percorso Dieci,
poco prima del loro litigio, Agatha gli aveva parlato chiaramente di
un'entrata secondaria, o qualcosa del genere: trovarla non sarebbe
stata di certo difficile in pieno giorno, ma ora la luce della luna
non gli sembrava una garanzia sufficiente ed egli non aveva
intenzione di perdere più tempo di quanto fosse strettamente
necessario, dato che si sentiva già abbastanza stupido
così.
Entrare, accertarsi che tutto fosse a posto e poi andarsene,
dimenticare tutti quei ridicoli pensieri sul sepolto vivo: voleva
sbrigarsi alla svelta e di certo non aveva alcuna intenzione di
perdere tempo a cercare a tentoni nel buio.
Estrasse
la ball del
suo Arcanine: le sue fiamme erano molto più tenui di quelle
di
Charizard, ma egli sentiva d'aver già fatto lavorare troppo
il suo
primo Pokémon per quel giorno, e inoltre non voleva
rischiare di
richiamare l'attenzione dall'esterno. Checché ne dicesse
Agatha, non
era del tutto convinto che entrare là dentro di notte fosse
considerato un comportamento socialmente accettabile, in particolar
modo per un forestiero.
La
compagnia di
Arcanine contribuì a farlo sentire un po' più al
sicuro e, per
dirla tutta, anche un po' meno ridicolo: Samuel lo accarezzò
a
lungo, scompigliandogli il pelo folto alla base del collo, e nei suoi
occhi grandi e colmi di fiducia poté bearsi della sensazione
familiare, confortante, che i suoi Pokémon non l'avrebbero
giudicato
mai, neppure per quelle missioni insensate, e che l'avrebbero seguito
ovunque ciecamente fidandosi di lui. Il pensiero che Arcanine sarebbe
stato l'unico testimone e complice della follia che stava per
commettere lo fece sentire molto meglio: sollevandosi in piedi dal
fianco del suo Pokémon, Samuel avanzò.
Percorse
in silenzio il
perimetro dell'edificio, ispezionandone cogli occhi le pareti alla
luce fioca ma omogenea che filtrava dalle fauci dischiuse di
Arcanine: non si era mai reso conto di quanto fosse grande,
osservandola da lontano. Svoltò a sinistra all'angolo a
sud-est e
proseguì il suo giro nella notte. Arcanne era tranquillo:
per lui
quella non era che una delle loro tante esplorazioni e Samuel sorrise
pensierosamente della sua fiducia, grattandogli piano la zona dietro
le orecchie.
Svoltarono
di nuovo a
sinistra, stavolta per percorrere il muro settentrionale
dell'edificio; ed eccola là, ovviamente, una porticina scura
dall'aria arrugginita, proprio dove sembrava più logico
trovarla,
precisamente all'opposto dell'entrata principale. Agatha gli aveva
detto che quell'ingresso non era mai ben chiuso: quando Samuel
provò
cautamente ad abbassare la gelida maniglia di ferro fu salutato da
uno scatto secco e immediato e la porta oscillò quasi da
sola, senza
bisogno di spingerla. Di certo i responsabili della Torre
Pokémon
non dovevano essere particolarmente preoccupati all'idea dei furti.
Entrò
per primo.
All'interno l'aria era più fredda che all'esterno e odorava
di muffa
e d'incenso, un miscuglio intenso ma che in qualche modo non gli
riusciva sgradevole. Fece cenno ad Arcanine di entrare a sua volta,
ma non richiuse la porta, limitandosi ad accostarla con delicatezza:
aveva imparato da tempo a non fidarsi delle serrature, a maggior
ragione di quelle dall'apparenza difettosa, e non voleva correre il
rischio di rimanere chiuso là dentro senza
possibilità di uscire.
Era ovvio che non c'era nulla di cui aver paura – ovvio!
continuava a urlargli la parte razionale della sua mente che si
vergognava di ammettere di aver bisogno di rassicurazioni –
ma
quella Torre era già sufficientemente inquietante anche
senza dover
necessariamente celare un morto vivente nelle sue profondità.
A
quel piano non
c'erano tombe. Samuel si guardò attorno alla luce di
Arcanine, ma
senza troppa preoccupazione o aspettativa: Agatha gli aveva parlato
esplicitamente del penultimo piano. Individuò le scale e
cominciò a
salire.
Le
fiamme che danzavano
tra le fauci di Arcanine proiettavano sulle pareti le mostruose ombre
orrendamente distorte delle possenti sculture sepolcrali, statue di
angeli e di Pokémon defunti che parevano occhieggiarlo
malignamente
al suo passaggio: Samuel continuava involontariamente a seguirle con
la coda dell'occhio, scrutando il loro multiforme cangiare irregolare
negli angoli. Qua e là lo scrutavano cautamente da dietro le
lapidi
gli occhi incerti di un Cubone, e più di una volta egli si
voltò di
soprassalto sotto lo sguardo malevolo di un Gastly, tuttavia nessun
Pokémon lo attaccò, forse percependo la possenza
vitale, focosa
dell'Arcanine che gli camminava a fianco.
Se
solo fosse stato più
attento, avrebbe notato che anche la presenza dei Pokémon
selvatici
si diradava via via ch'egli saliva. Ma la sua mente era troppo presa
dalla fretta di terminare quella ridicola ricognizione per prestarvi
attenzione, anche se in circostanze normali questo non gli sarebbe di
certo sfuggito, e fu per questo motivo che non si mise all'erta.
Il
sesto piano,
finalmente. Samuel si accorse di aver trattenuto il respiro solo
quando si trovava lì già da svariati secondi,
immobile col cuore
palpitante a fissare nel buio. Si riscosse bruscamente, sentendosi
seccato in cuor suo anche solo per aver esitato: non c'era niente di
cui aver paura, si disse con rabbia. Anche solo a un'occhiata
superficiale era evidente che quel luogo non celava nulla,
esattamente come i piani sottostanti; che era vuoto e squallido,
spoglio e silenzioso come qualsiasi dannato cimitero, e che salire
fin lì era stato un maledetto spreco di tempo.
Beh,
ormai che era lì,
tanto valeva dare almeno un'occhiata in giro. Provava un senso
persistente di rabbia verso se stesso, verso la sciocca ridicola idea
che gli era venuta, verso i suoi dubbi e la sua credulità,
ma
proprio per questo motivo, quasi per autopunirsi, sentiva di dover
rimanere lì, fissare fino in fondo la vergogna della sua
dignità
perduta. Avanzò lentamente, tutto immerso assieme ad
Arcanine al
centro del cerchio di luce che si perdeva progressivamente nel buio,
osservando il ritmico danzare delle ombre, ora lunghe e ora corte,
che si ritraevano e si protendevano e si piegavano e si spezzavano
quasi sprofondando nel silenzio d'abisso che lo avvolgeva...
Vagò
senza scopo tra
le tombe per un tempo infinito, senza riuscire a decidersi a smettere
e a lasciar perdere, a porre fine a quella tortura. A un tratto
Arcanine, col suo superiore senso dell'orientamento, dovette
accorgersi del loro girare in tondo e gli diede una timida testata
contro il retro delle ginocchia, forse cercando di richiamarlo
all'ordine. Finalmente Samuel si fermò. Era ancora
arrabbiato, ma
all'improvviso si rese conto di sentirsi anche immensamente deluso, e
di non capire perché.
«Hai
ragione,
Arcanine» disse. Le sue parole rimbombarono nel silenzio,
ingigantendo a dismisura la portata della sua disillusione.
«Andiamo
via. Qui non c'è proprio niente. Agatha... temo che abbia
bisogno di
aiuto.»
Solo
in quel momento
egli realizzava quanto profondamente avesse desiderato di trovare
qualcosa, qualsiasi cosa che dimostrasse che Agatha non si era
immaginata tutto. Non certo un morto vivente, no – era
impossibile!
- ma un Pokémon, uno Spettro, un... e invece, non c'era
nulla. Solo
un'ampia spianata di terreno e lunghi filari di lapidi. Si
voltò e
tornò lentamente sui propri passi. Agatha era veramente
pazza, si
era inventata tutto.
È
passato tanto
tempo...
Il
suo cuore saltò un
battito. Samuel si fermò così bruscamente da
rischiare d'inciampare
nei propri piedi. Era una voce, egli ne era certo, aveva udito una
voce! Ma dove? Si guardò freneticamente attorno,
girò su se stesso
trattenendo il fiato: dove...
Sei
tornata a
prendermi?
Si
gettò di corsa tra
i filari di tombe, cercando invano di aggrapparsi al suono di quella
voce di farsene guidare nell'oscurità; avrebbe voluto
urlare,
chiederle di parlare ancora, ma temeva parlando di sovrastarla con le
sue proprie parole e di perdere un'indicazione preziosa. Arcanine
stentava a stargli dietro: Samul percorreva tutto con lo sguardo,
cercava, frugava...
Ho
un ricordo di te
che mi dicevi...
Alla
sua destra! Si
gettò attraverso i corridoi silenti, scavalcò
d'un balzo una lapide
di marmo rosato, si precipitò nel buio. Agatha non mentiva,
non era
pazza!
Pensa
che bellezza.
La
voce era più forte,
era vicina, vicina, Samuel era certo di non sbagliarsi! Nella luce
del fuoco di Arcanine ora vedeva profilarsi in fondo al corridoio una
scala che s'inerpicava, un'ombra, il mormorio indistinto si fece vera
voce, la parola incorporea divenne carne, Agatha aveva ragione...
Sarà
un po' come
morire ogni giorno.
… c'era davvero un
morto vivente nella Torre.
*Tributo
direi quasi
obbligato, in questo contesto, all'epico filmato di apertura di
Pokémon Rosso e Blu.
Eccomi
qua, so di essermi
fatta attendere un po', ma almeno posso postare proprio di
venerdì
17!
Ho
notato che nei commenti
avevate già intuito su cosa si sarebbe incentrata la storia
e
finalmente, dopo quasi sessanta pagine, ci siamo: ormai volevo
confrontarmi anche io con questo elemento ricorrente delle
Poképasta.
Spero di risultare all'altezza nei prossimi capitoli.
Forse
a qualcuno potrebbe
interessare sapere che la scena in cui Charizard butta giù
la porta
e Agatha minaccia Samuel è stata la prima di tutta la storia
a
essere scritta, durante una lezione particolarmente noiosa, tanto per
scrivere qualcosa. Non avevo in mente niente di preciso e volevo solo
passare il tempo, ma quella scena mi è piaciuta tanto che ho
voluto
costruirle una storia intorno.
Come
al solito, un
caldissimo ringraziamento e un caro abbraccio a cristal_93, a
Mad_Dragon e a Bankotsu90 per le loro recensioni e i loro pareri,
contano molto per me!
Alla
prossima
Afaneia
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Inferno. ***
Buongiorno
e
buona domenica a tutti!
Mi
rendo conto
di aver lasciato passare un tempo assurdamente lungo dall'ultimo
aggiornamento, ma devo confessare che ho avuto orari di lezione
improponibili e la sessione non mi ha di certo aiutata; comunque ho
deciso di prendermi qualche giorno di riposo per dedicarmi a scrivere
e ad aggiornare la storia, e ne avevo proprio bisogno. Spero di non
impiegare lo stesso tempo anche per il prossimo aggiornamento!
Questo
capitolo
è stato una bella sfida per me, ma non penso che sarei stata
in
grado di scriverlo meglio di com'è venuto: nell'insieme,
sono
abbastanza soddisfatta. Spero di non aver deluso troppe aspettative,
se mai qualcuno ne avesse nutrite al riguardo, e di non lasciare
molti dubbi o punti poco chiari.
Tutti
i miei
ringraziamenti e i mie abbracci a cristal_93, a Bankotsu90 e a Persej
Combe per le loro recensioni e i loro pareri: contano davvero
tantissimo per me!
Detto
questo,
non posso che lasciarvi alla storia: buona lettura e buon primo
giorno di estate!
Afaneia
Capitolo
VII –
Inferno.
Fuoriusciva
a mezzo da
una profonda buca nel terreno. Le sue carni erano scavate, flaccide e
marcescenti, vive e purulenti sul petto, come se vi fossero state
ferite che ormai non potevano più sanguinare; ma ferite
lunghe e
sottili, come se si fosse dilacerato il petto con le sue proprie
unghie... Era nudo, era calvo, colle intimità orrendamente
rattrappite, il cranio ferito e ammaccato cosparso di nauseabonde
croste. Il suo volto era grottescamente scavato, esangue sotto una
sozzura nera che lo ricopriva, i suoi occhi affondavano all'interno
di orbite profonde come abissi...
«Sei
qui, finalmente»
disse muovendo con difficoltà la bocca marcescente, come se
un tempo
qualcuno gli avesse slogato la mandibola. Ma Samuel capì che
non
parlava direttamente, intenzionalmente con lui; parlava con la
persona a cui si stava rivolgendo prima del suo arrivo, e che ora
identificava con lui.
«Non
sono stato io a
rinchiuderti qui dentro!» esclamò, immobile
là dove si era fermato
a pochi metri di distanza da lui, poiché questa gli sembrava
l'unica
cosa che il mostro poteva desiderare di sentirsi dire da lui, o dalla
persona alla quale credeva di rivolgersi.
Gli
occhi del mostro
saettarono da una parte all'altra dello stretto corridoio tra i due
filari di tombe: forse cercava se vi fosse qualcun altro oltre a lui?
«Sono
in trappola»
disse con bassa voce lenta e rantolante, muovendo un passo nella sua
direzione.
Era
troppo, era molto
più di quanto Samuel fosse in grado di reggere. Alla vista
di quel
corpo ripugnante che si muoveva verso di lui, delle sue ferite
straziate e purulente che si riaprivano nel torcersi dei muscoli, dei
suoi orridi e grotteschi movimenti nel tentativo di uscire dalla
buca, un senso profondo di orrore e di disgusto lo invase. Senza dare
allo zombie il tempo di reagire, né a se stesso quello di
riflettere, afferrò la pistola dalla tasca del giaccone,
tolse la
sicura e sparò tre colpi nella direzione di quell'essere.
Samuel
Oak era un
allenatore, non un tiratore. Di quei tre colpi, solo uno
andò a
segno e affondò nella carne putrescente del sepolto vivo,
trapassandola come acqua: l'orrida creatura fu spinta all'indietro
per la forza d'urto del proiettile, col petto trapassato da parte a
parte – ma non chiuse gli occhi, non gridò, non
ebbe reazione.
Rimase stupidamente in piedi col volto decomposto privo di qualsiasi
espressione di stupore o dolore o rabbia, e Samuel comprese
improvvisamente che essendo morto non poteva morire, e che alle sue
carni decomposte non era dato provare dolore.
«Mi
sento solo» disse
semplicemente.
Anch'io
fu
il suo primo, drammatico pensiero, e anche l'ultimo, prima di
cominciare a correre.
Ripercorse
a ritroso il
corridoio tra le tombe, con Arcanine che gli correva dietro guaendo
di terrore: ma ora in che zona della Torre si trovavano, in quale
angolo di quella stanza immensa? Rimpianse di non aver memorizzato la
posizione delle scale, di non aver scelto dei punti di riferimento
mentre scavalcava correndo lapidi e statue che mai come in quel
momento gli erano parse identiche e indistinguibili tra loro.
Attratto da quella voce, solo pochi minuti prima aveva attraversato
di corsa la stanza buia e ora non sapeva più dove si
trovasse e
poteva darsi persino che avesse girato in cerchio...
«Molto,
molto solo»
disse all'improvviso una voce nel buio.
Il
sepolto vivo era ora
di fronte a lui, a due o tre metri scarsi di distanza. Samuel si
scoprì ad ansimare rapidamente mentre, con gli occhi infissi
in
quell'abominevole sembiante, cercava di convincersi della concretezza
della sua presenza. Non era possibile – l'aveva superato.
Quel
mostro poteva muoversi all'interno della Torre con rapidità
disarmante. Era in trappola.
«Vuoi
venire con me?»
«No!»
tuonò Samuel.
Sapeva di starsi comportando in modo illogico e insensato, ma che
poteva fare, poiché non vedeva vie di fuga? «Non
sono io che ti ho
fatto questo! Non è stata colpa mia!»
Il
sepolto vivo lo
fissò in silenzio senza dar segno di aver udito o tantomeno
comprese
le sue parole: Samuel rimase come sospeso, in attesa di una qualsiasi
risposta o reazione a ciò che aveva detto, senza desiderare
altro
che di vedere cosa sarebbe accaduto a quel punto.
«Mi
sento solo»
ripeté ancora il sepolto vivo e poi all'improvviso, calando
dall'alto con un sibilo acuto, apparve tra di loro un grosso Gengar.
Samuel
rimase sulle
prime sconvolto, del tutto stupefatto: di tutto ciò che
aveva
creduto, non si sarebbe aspettato certo che... ma era un
Pokémon,
quantomeno.
«Vuoi
lottare?»
chiese stupefatto, e non vi fu risposta, ma non poteva che essere
così. Quello era un allenatore zombie, e quello il suo
Pokémon
fantasma... in un modo del tutto orribile e allucinato, aveva senso.
«Se vinco, mi lascerai andare?»
Di
nuovo non vi fu
risposta, ma quale altra scelta aveva? Era pur sempre una lotta ed
era la sua unica possibilità.
«Va
bene, va bene...
lottiamo.»
Sentirsi
sollevato era
da folle, Samuel lo sapeva bene, eppure in quel momento era
così che
si sentiva: di tutta quella storia, di quell'orribile luogo, una
lotta era l'unica cosa ch'egli potesse concepire. Il mostro voleva
una lotta, Samuel era un allenatore: ma certo! Cosa poteva esserci di
più logico, di più conseguente? S'egli avesse
vinto la lotta, il
sepolto vivo avrebbe smesso d'inseguirlo e di raggiungerlo. Era
così,
doveva essere così, e Samuel represse furiosamente nella
propria
mente ogni possibile ombra di dubbio che vi si stesse insinuando al
riguardo, sopprimendo con rabbia i viticci sottili d'incertezza che
minacciavano di minare quell'idea. Non poteva essere altrimenti! Una
lotta era stata sempre un mezzo di scambio o una fonte di prova, era
sempre stato così per tutti gli allenatori... e negli ultimi
anni
egli non aveva mai perso. Sì! Si sarebbe aperto la strada
lottando,
come sempre aveva fatto negli anni dei suoi allenamenti, come se
quella Torre diabolica non fosse stata altro che il dedalo senza fine
di una grotta nella quale egli si fosse perso e il sepolto vivo, e il
Pokémon che combatteva con lui, nient'altro che qualcuno dei
tanti
Pokémon selvatici che lo allontanavano in continuazione dal
fiotto
d'aria fresca che giungeva dall'alto e che voleva mostrargli la
strada per uscire.
«Vai,
Arcanine!»
ordinò seccamente, ed esso non se lo fece ripetere due
volte. Con un
balzo poderoso delle zampe ben piantate, Arcanine si schierò
davanti
a lui, faccia a faccia con Gengar, al centro di un immaginario campo
di battaglia che Samuel vedeva disegnarsi con rapidità nella
propria
mente, e ruggì. Il suono di quel ruggito gli diede un senso
di
conforto che fino a quel momento gli era parso inimmaginabile: Samuel
sentì il sollievo crescere e dilagare nel suo petto come una
calda
marea. Arcanine non lo aveva mai deluso. Li avrebbe tirati fuori
entrambi da quella situazione e l'incubo sarebbe finito.
Il
sepolto vivo non
disse una parola. I suoi occhi si mantenevano vacui e privi ed egli
li teneva infissi sul terreno di scontro quasi senza vederlo, eppure
Samuel era convinto ch'egli fosse attento e consapevole di quanto
stava per accadere.
Se
lottare era la sua
via di salvezza, Samuel non poteva permettersi di perdere tempo.
Arcanine attendeva i suoi ordini con la sua infaticabile fiducia ed
egli vedeva i suoi fianchi trepidare d'impazienza e di eccitazione;
poteva leggere la sua voglia di combattere nella luce che tremava
sulle pareti... Non era il frangente adatto per adottare una
strategia di tipo passivo-difensivo: in quella lotta dall'esito
fatale, egli non poteva permettersi di lasciare la prima mossa al suo
nemico.
«Arcanine,
Fuocobomba!»
Arcanine
non ebbe esitazione. Le fiamme che eruppero dalla sua bocca
illuminarono a giorno l'aria stantia dell'enorme sala, divamparono
come fiumane incandescenti, tanto che persino Samuel, che pure vi era
abituato, chiuse istintivamente gli occhi e vi si portò una
mano
davanti, pur continuando a guardare, fissando con difficoltà
attraverso le fessure tra le dita: il fuoco aveva avviluppato il
corpo di Gengar, egli sentiva le sue strida di dolore soffocate dal
crepitio delle fiamme, eppure presto esse si sarebbero dissolte...
nella luce abbagliante di quella torcia, Samuel non seppe resistere
al gettare un'occhiata al suo orrido nemico. Com'era naturale, i suoi
occhi erano ormai quasi ciechi, troppo sensibili alla luce:
disturbato dall'incendio che divampava a pochi passi appena da lui,
il sepolto vivo si era riparato il volto con ambo le braccia e ora,
attraverso i viluppi delle sue membra scheletriche, egli leggeva la
smorfia di dolore e fastidio che gli si era dipinta sulla bocca.
Rapido
com'era
iniziato, il fioco si consumò e si spense e la sala
sprofondò di
nuovo nel buio, ma più profondo e impenetrabile di quello
che
l'aveva preceduto. Samuel si ritrovò ad avere gli occhi
lacrimanti,
abbagliati dalla luce intensa che aveva folgorato la sala, e si rese
conto di non riuscire più a vedere in
quell'oscurità. Trovarsi al
buio senza preavviso lo riempì di terrore: come seguire ora
la
battaglia?
«Arcanine!»
urlò,
continuando a sbattere le palpebre per cacciare via le lacrime e
abituarsi a quella nuova oscurità. Come avrebbe fatto il suo
Pokémon
a lottare senza il suo aiuto? «Arcanine, stai
attento!»
Udì
provenire
dall'oscurità, a una distanza imprecisabile da lui, un suono
orribile e umidiccio, tanto evocativo da dargli la precisa sensazione
di qualcosa di gelido e viscido che gli scivolasse lungo la schiena,
e urlò di nuovo: «Attento!»
Era
certo che Gengar
stesse attaccando, quel suono che aveva sentito non poteva essere
altro che quello di una Leccata, ed egli sapeva bene quanto infida
potesse rivelarsi quella mossa. Infisse disperatamente gli occhi
davanti a sé, cercando di penetrare lo schermo della notte:
sì!
Riusciva a intuire la grossa sagoma nera di Arcanine, stagliata
contro il buio che stava diventando un grigio uniforme ai suoi occhi,
ferma ma tesa e nervosa; non vedeva Gengar, eppure era certo che
fosse vicino... doveva rischiare.
«Arcanine,
Lanciafiamme!»
Sarebbe
rimasto
accecato ancora per vari secondi, tuttavia non poteva permettersi di
distogliere lo sguardo: socchiuse gli occhi mentre una frusta
fiammeggiante dilaniava le ombre e di nuovo illuminava la sala a
giorno, ma stavolta con l'effetto fugace e inquietante di un lampo.
In quel rapido attimo di luce, Samuel vide gli occhi spalancati di
Gengar, la sua bocca ammutolita e contorta dal dolore, ma il suo
gemito strozzato perdurò nell'aria anche più a
lungo, quando le
fiamme si furono spente e i suoi occhi non furono più in
grado di
vedere.
Si
spense solo dopo una
decina di secondi. Samuel rimase a lungo interdetto, sforzandosi di
mantenere il respiro per evitre di sovrastare col suo rumore quello
di qualsiasi suono che potesse dargli indicazioni sull'esito della
battaglia: aveva vinto? Aveva sconfitto Gengar? Ah, se solo fosse
riuscito a distinguere qualcosa nella luce della luna che filtrava
dai finestroni sporchi, e che di certo sarebbe stata sufficiente
s'egli non fosse stato abbagliato da un fuoco più intenso!
Gli
giunse alle narici
un odore terribile, tanto forte e nauseante che Samuel si
tappò
istintivamente il naso. Cos'era quella puzza? Gli invase la mente un
dubbio terribile, angosciante, ma poi fu la puzza stessa a
dissolverlo: egli la conosceva, l'aveva già sentita altre
volte, ma
non era sangue, era... era...
Ma
certo! Aveva ricordato cos'era, e ora che sapeva esattamente cosa e
dove cercare i suoi occhi percorsero con più sicurezza
l'oscurità,
frugarono le tenebre con maggiore prontezza: si soffermarono quando
trovarono una sagoma irregolare, d'aspetto molle e flaccido, come una
macchia più scura sul pavimento stagliata contro il grigio
uniforme
della notte... era un Muk, e ora che aveva un punto di riferimento la
sua vista si abituò più facilmente al buio,
riuscì a discernere
con sufficiente precisione i contorni e le distanze. Non riusciva a
individuare da nessuna parte la sagoma di Gengar, e questo voleva
dire almeno che Arcanine era riuscito a sconfiggerlo: vedeva ancora
infatti la silhouette eretta del suo Pokémon, riuscendo
persino a
riconoscere le striature del suo pelo variegato, e più oltre
vedeva
senza possibilità d'errore il pallore malaticcio della pelle
del
sepolto vivo: scorgeva persino, sul suo volto corrucciato e
indecifrabile, le strane linee d'ombra dovute al susseguirsi sulle
pareti delle finestre e all'incrociarsi nella sala delle loro
proiezioni di luce... si trattenne dal guardarlo ancora e
cercò di
concentrarsi sulla battaglia, perché la sua vista lo
riempiva di
ribrezzo e continuava a insinuare nella sua mente il dubbio che, da
quella Torre, lui e i suoi Pokémon non sarebbero usciti mai;
che non
era certo di una sfida che quel mostro si sarebbe accontentato...
Arcanine
sembrava
turbato dall'odore terribile emanato dal corpo del suo rivale: Samuel
lo vide arretrare nervosamente di qualche passo, pur sforzandosi di
mantenere la posizione, e lo udì emettere un basso ringhio
di
protesta e di minaccia. Era stranamente più agitato di
quanto fosse
mai stato di fronte a un nemico, e aguzzando la vista
nell'oscurità
Samuel non fece fatica a intuirne il motivo: anche Muk sembrava
sepolto lì da tanto tempo.
«Va
tutto bene,
Arcanine!» gridò. Le sue parole ebbero una strana
eco rimbombante
nell'enorme sala vuota, eppure non gli fecero paura: chissà
perché,
l'impressione di sentire un'altra voce che fosse veramente umana lo
faceva sentire un po' meno solo al mondo e inascoltato.
«Ancora
Lanciafiamme!»
La
sala si accese
un'altra volta, un disegno di fiamma si delineò nell'aria
immota e
stavolta Samuel non riuscì a trattenersi dal chiudere gli
occhi e
dal volgere il capo all'indietro, tuttavia la battaglia non
cessò di
raggiungerlo per altri mezzi: più forte del crepitio che
perdurava
nell'aria, egli udì il forte mugghiare sofferente di Muk,
gli giunse
alle narici un odore ancora più intenso che sapeva come di
gomma
bruciata... Quell'odore era il più forte e disgustoso che
avesse mai
sentito, più crudo e vivido assieme di qualsiasi altro che
fosse
stato prodotto durante una battaglia, forse proprio perché,
di
quella lotta, egli non riusciva a percepire altro che dolore e carne
bruciata. Quell'odore gli diede una sensazione tanto immediata,
fisica, che credette di dover vomitare. Si premette di nuovo e con
più violenza la mano sul naso mentre cercava di tornare a
guardare
avanti a sé.
Ovunque
posasse lo
sguardo, ora lunghe fruste colorate gli abbacinavano gli occhi come
dopo aver fissato troppo a lungo il sole, e per diverso tempo egli
non vide nient'altro che quegli odiosi giochi di luce che si
spostavano assieme ai suoi occhi. Ma il Lanciafiamme aveva avuto
effetto?
Udì
il verso sonante
di Muk mentre di esso non riusciva a distinguere a malapena che la
sagoma informe attraverso le macchie di luce: sforzandosi di
mantenere lo sguardo fisso su di lui, vide che contraeva il proprio
corpo molle sul pavimento nei suoi tipici movimento scomposti che
preparavano un attacco. «Arcanine, spostati!»
L'enorme
bocca di Muk
si spalancò per eruttare un fiotto maleodorante di liquido
denso che
Arcanine non riuscì a evitare: il Fango lo colpì
in pieno muso, sul
petto e sulle zampe anteriori, ed esso ringhiò scuotendosi e
dimenandosi per liberarsene, ma invano: quella melma brunita andava
già rapprendendosi sulle sue membra. Samuel aveva assistito
altre
volte agli effetti di un attacco Fango: sapeva che aderiva alla
pelle, finendo per ostruirne e soffocarne i pori, e paralizzava le
membra rallentando i movimenti. Entro pochi secondi Arcanine non
sarebbe quasi più stato in grado di muoversi, allora
bisognava
attaccare ora, compiere un atto inaspettato che fosse in grado di
sorprendere il suo nemico. «Arcanine, usa Morso!»
Quando
ricordò quanto
insidiosi e subdoli fossero i Pokémon Veleno, per l'ennesima
volta,
era troppo tardi. Muk rilasciò una nuvola di Velenogas nel
medesimo
istante in cui Arcanine gli infliggeva il colpo definitivo affondando
le zanne nel suo corpo flaccido. Era l'ultimo attacco, il suo canto
del cigno, perché di certo ora non sarebbe più
stato in grado di
combattere, ma questo contava poco: Arcanine aveva inalato il gas
quasi puro nello stesso istante in cui era stato emesso e di certo il
veleno doveva avergli già contaminato i polmoni e le vie
respiratorie: Samuel lo sentì annaspare e tossire e lo vide
fremere,
contorcendosi in preda ai conati di vomito...
Se
fosse stato possibile, Samuel avrebbe in quel momento potuto giurare
di essersi scordato della presenza del sepolto vivo. La vista di
Arcanine gli riempiva la mente così come il veleno stava
consumando
i polmoni del suo compagno: era avvelenato, paralizzato, stava
soffocando! La sua mano corse da sola alla cintura, si trovò
ad
annaspare tra le Pokéball alla ricerca dell'unica rimasta
vuota...
Fu
allora che arrivò
la mano.
Capì
che apparteneva
al sepolto vivo con la stessa certezza con la quale l'aveva saputo
per Gengar e Muk. Era bianca e avvizzita, con lunghe dita
scheletriche su cui la pelle sembrava ricadere come morta, rugosa e
flaccida; sembrava recisa all'altezza del polso – ma di un
polso
immane di alcuna creatura esistente, di almeno quaranta centimetri di
diametro – e brani di muscolo e tendine ne pendevano in modo
raccapricciante, muovendosi in risposta a ogni suo gesto.
Questa
volta il suo
corpo non ebbe alcuna reazione fisica. Samuel rimase stolidamente
immobile davanti a quel prodigio ripugnante e terribile, del tutto
incapace di muoversi o di urlare o di reagire, e una parte di lui
avrebbe voluto gridare e mettersi a correre, fuggire il più
lontano
e il più velocemente possibile da quell'abominio, ma quella
parte
era impotente e inascoltata. Gli sembrava che gli impulsi che il suo
cervello inviava si dibattessero ululando lungo i suoi nervi nel
tentativo di scorrere giù, di raggiungere le sue membra e
scuoterle
per farlo reagire, ma contemporaneamente ogni singola parte del suo
corpo sembrava aggravata di un peso infinito, totalmente sorda e
insensibile a quelle urla...
Arcanine
emise un
tremulo guaito di terrore.
Quando
finalmente, dopo
un tempo lunghissimo, Samuel riuscì a distogliere lo sguardo
dalla
pallida mano, vide che il suo Pokémon si era accucciato al
suolo,
col corpo tutto raccolto e premuto contro una lapide, e che respirava
a fatica. Anch'esso non riusciva a distogliere lo sguardo dalla mano
e proprio per questo non accennava ad allontanarsi dalla tomba:
sembrava sperare di farsi il più piccolo e insignificante
possibile,
quasi riuscire a sprofondare e fondersi con la dura pietra contro la
sua schiena, e sfuggire così all'oscuro potere di quella
mano. Da
quando lo conosceva, quella era la prima volta che Arcanine aveva
veramente paura.
Ma
che cosa stava
facendo? Ce lo aveva portato lui lassù, e ora lo lasciava
alla mercé
di quella cosa terrificante! Arcanine si era fidato della sua scelta,
lo aveva accompagnato e condotto attraverso la notte perché
era
certo ch'egli l'avrebbe protetto sempre, e ora egli non stava facendo
niente per proteggerlo e per salvarlo! Tornò ad annaspare
con la
mano sulle ball appese alla cintura, graffiò più
volte senza
riuscire ad afferrarla la superficie sferica con le dita che
tremavano; riuscì alfine a strapparla da suo sostegno e
cercò di
stringerla solidamente nel pugno per richiamare Arcanine...
Ma
poi la Pokéball gli
scivolò dalla mano sudata e rotolò con tintinnii
echeggianti da
qualche parte nel buio. Quanto tempo avrebbe impiegato per
ritrovarla?
Samuel
non si rese
conto di essersi precipitato in avanti finché non
avvertì la
sensazione concreta e umida delle sue mani che affondavano nella
pelliccia morbida di Arcanine, ora intrisa e appiccicosa di Fango, e
sentì il suo corpo che ansimava e sussultava dolorosamente a
tratti
irregolari mentre i suoi polmoni ustionati si dilatavano per
respirare. Non si sarebbe reso conto neppure di stare urlando se
Arcanine non lo avesse guardato, con le pupille enormemente dilatate,
come richiamato dalle sue grida, e non avesse emesso un basso
uggiolato che era come una richiesta di pietà.
«Lasciaci
andare, ti
prego! Ha bisogno di un medico, ha bisogno...»
Non
sapeva neppure cosa
precisamente stesse urlando o chiedendo, e neppure per quale ragione.
La sua voce finì per ammutolirsi da sola quando una parte
della sua
mente si rese finalmente conto che alle sue preghiere non rispondeva
che il silenzio: allora Arcanine emise un'ultima nota incerta e
stranamente calma, come se volesse rassicurarlo e dirgli di smettere,
di non affannarsi, che non ne valeva la pena...
Alle
sue spalle, la
mano scattò.
Samuel
lo percepì
dall'improvviso sibilo nell'aria che fischiò dietro di lui.
In un
tempo che sembrava scorrere a una velocità eccezionalmente
lenta e
snaturata egli riuscì a voltarsi e a vederla con precisione
stupefacente. La vide avvicinarsi e diventare ai suoi occhi sempre
più grande, più vivida e più distinta,
ne distinse con curiosa e
malsana attenzione persino i più orridi dettagli delle vene
sporgenti di colore violaceo, delle scure macchie brunite della
pelle, dei tendini che cadevano in grossi viluppi rattrappiti
fuoriuscendo dal polso...
Alzarsi
in piedi e fare
un balzo indietro fu istintivo.
La
spinta che si era
dato con le gambe per alzarsi fu tale da farlo sbilanciare: Samuel
inciampò nei propri piedi e cadde pesantemente al suolo con
un urto
che gli fece serpeggiare fitte di dolore per tutta la schiena, ma
probabilmente non fu questo a togliergli il respiro. Fu la
consapevolezza istantanea, cominciata già nel momento stesso
in cui
il suo corpo aveva fatto forza sulle ginocchia per alzarsi in piedi,
di essersi scansato mentre un enorme mostro aggrediva il suo
Pokémon
esanime.
La
botta alla schiena
gli aveva fatto chiudere gli occhi in modo involontario. Ora gli
parve che invece tutta la sua volontà non fosse abbastanza
per
costringere le sue palpebre ad aprirsi e a fronteggiare l'orrore di
quanto aveva fatto abbandonando il suo Pokémon; che se non
avesse
guardato, non avesse visto, nulla di male sarebbe mai accaduto. Il
tempo si sarebbe fermato nel buio delle sue palpebre chiuse, la
cecità sarebbe diventata un limbo inviolabile ed eterno
privo di
consapevolezza o di sofferenza... ma l'ululato di Arcanine
abbtté
ogni difesa.
Tenere
gli occhi chiusi
non gli impedì minimamente di udire quanto accadeva. Aveva
udito il
rumore molle e flaccido della carne che veniva squarciata con tale
nitidezza da non avere alcun bisogno degli occhi per visualizzare
l'intera scena nella propria mente, ma pochi attimi dopo l'odore del
sangue che gli riempiva le narici fu più terribile ancora
del resto
e forse fu la scossa decisiva che gli permise di aprire gli occhi.
La
sagoma nera di
Arcanine era ora totalmente immobile, non manifestava più il
minimo
movimento o scatto convulso: sopra di essa ora la pallida mano si
allontanava, ma Samuel la vide nitidamente nella luce della luna, ora
le sue dita erano nere, erano nere, nere, nere...!
A
questo punto Samuel
fece forse la cosa più orribile che potesse fare.
Annaspò alla
cieca per rovesciarsi sulla pancia, perché a qualsiasi costo
doveva
dare le spalle a quell'orribile cosa, non poteva guardarla!, si
trascinò sulle ginocchia fino a sollevarsi in piedi e poi,
semplicemente, corse via.
I
suoi passi
rimbombavano nel buio, sovrastavano il suono dei suoi singhiozzi e
del suo cuore che martellava nel petto a velocità
straziante.
Arcanine era morto! Per colpa sua, per non aver saputo difenderlo, e
ora... oh, ma dove stava correndo? Tutto, tutto si confondeva attorno
a lui, le lapidi parevano emergere dal niente e proiettarsi verso
l'alto come pallide sagome che perforassero una nebbia, ma tutto era
buio attorno a lui! I corridoi parevano perdersi negli altri e
mescolarsi e non condurre da nessuna parte, o minacciare a ogni
momento di riportarlo là dove giaceva Arcanine e farglielo
rivedere,
costringerlo a fronteggiare ancora una volta la realtà
innominabile
di quanto aveva fatto... ma ora non cercava neppure più le
scale,
correva alla cieca urtando e inciampando sulle tombe: Arcanine era
ovunque! Arcanine era dappertutto! Era nelle foto sulle lapidi, era
nei volti delle statue dai tratti sbiaditi, era in fondo al
corridoio, era nei passi della sua folle corsa furiosa... no, no, non
era vero, non poteva essere vero! Non lo stava vedendo veramente!
Sì,
Arcanine pareva occhieggiarlo da ogni angolo, pareva pronto ad
attenderlo immobile ogni volta ch'egli svoltava in un corridoio, lo
fissava coi suoi grandi occhi privi di qualsiasi segno d'accusa o di
rabbia, eppure Samuel lo sapeva, lo sapeva che non era vero! Che
Arcanine era rimasto alle sue spalle disteso al suolo contro una
lapide col ventre squarciato, là dove egli l'aveva
abbandonato...
oh, e ora tutto si confondeva e s'inseguiva, l'intero, enorme piano
sembrava vorticare su se stesso...! Ma perché mai era
fuggito, lui?
Quando
inciampò su una
stele poco più bassa delle altre e rotolò al di
là di essa,
abbattendosi al suolo su un fianco, provò uno strano senso
di
sollievo, come se fosse esattamente ciò di cui aveva
bisogno. Non
fece nulla per ammortizzare la caduta. Sbatté dolorosamente
la
spalla e il gomito sul pavimento, mordendosi le labbra per non
urlare, e non perché non volesse che il sepolto vivo udisse
il suo
grido. Rimase immobile, distendendo al suolo le braccia e le gambe
come in segno di resa, e lasciò che la vergogna della sua
fuga gli
riempisse il petto e lo calmasse risalendo su di lui in placide
ondate.
Rimase
forzatamente
fermo, col petto che si gonfiava e si svuotava rapidamente in cerca
d'aria. Rialzarsi in piedi, riprendere a correre e cercare
disperatamente quelle maledette scale, o almeno morire nel tentativo,
sarebbe stato ancora una volta così spontaneo,
così facile e
immediato, come pochi secondi prima, ch'egli doveva impedirselo con
tutta la sua volontà per rimanere là disteso.
Tutti i muscoli del
suo corpo, tutta la parte più istintiva e purtroppo
sinceramente
sensata del suo cervello pareva scalpitare e urlare dentro di lui le
scale! le scale!, eppure egli si costringeva a rimanere
lì. Non
la smetteva di tremare, eppure egli sapeva – egli, Samuel,
dopo
aver ripreso tutto il possibile controllo sulla sua volontà
e il suo
corpo – che ora il suo dovere era di non muoversi. Chiuse gli
occhi, inalando profondamente col naso in una specie di singhiozzo
che lo scosse tutto, e gli riempì le narici un odore di
polvere e
cera e sporcizia e pavimenti che nessuno lavava da un po'.
Aveva
abbandonato
Arcanine. Si era scansato e gli aveva dato le spalle, era corso via e
aveva a malapena guardato il suo corpo, e non importava quanto fosse
stato spaventato, o quanto avesse prevalso in lui l'istinto di
sopravvivenza... era scappato. Arcanine era stato con lui per molto
più tempo di quanto riuscisse a ricordare (o meglio, lo
ricordava,
ma i ricordi che possedeva dei loro viaggi gli sembravano
così tanti
e si assommavano in così gran numero nella sua testa che non
sembrava possibile che si fossero verificati tutti in quei soli otto
anni), ed egli aveva odiato ogni singolo passo di quella corsa
meschina, ma prendere il controllo del suo corpo in quegli spasmi di
terrore era stato impossibile, e al terrore egli si era abbandonato.
Ora
che era caduto lo
aveva riempito uno strano senso di pace, come se fosse stato
inaspettatamente sollevato dalla responsabilità della fuga.
Era
stata la Torre a decidere per lui e ad aiutarlo, dopotutto, a
sopprimere quell'indecente istinto di sopravvivenza che lo aveva
privato di ogni genere di umanità e nel quale non riusciva
più a
riconoscersi nonostante non fossero passati che pochi minuti
solamente, perché non avrebbe mai voluto aver abbandonato
Arcanine.
La verità era che si sentiva come se ora che il mondo
attorno a lui
gli aveva precluso ogni via di fuga e messo a tacere quella parte
orribile e riprovevole di lui che voleva solo salvarsi, egli ora
potesse veramente fermarsi in pace. Non c'era più bisogno di
scappare. Era stato un allenatore mostruoso per qualche istante,
d'accordo, ma poi la ragione aveva di nuovo riottenuto la sua
dominazione sul corpo e Samuel era certo che Arcanine avrebbe saputo
perdonargli quel solo attimo di debolezza. Non era stato veramente
lui a fuggire, dopotutto – era stato quell'altro Samuel!
L'altro,
quello meschino e viscido e codardo: e ora lui, quello vero, era
tornato e avrebbe affrontato il destino che doveva. Era quello il suo
dovere. Era certo che il sepolto vivo l'avrebbe trovato, presto o
tardi, ammesso che già non sapesse dove si trovava, e quando
fosse
arrivato egli non si sarebbe opposto. Sarebbe rimasto ancora
immobile, e non importava quanto male questo gli avrebbe fatto, era
il suo dovere...
«Samuel!»
Scattò
a sedere col
cuore che palpitava, il respiro bloccato in gola. No! Non era
possibile, stava impazzendo. La sua mente se ne stava andando, egli
non doveva aver fatto che immaginare la sua voce in quegli ultimi
suoi minuti di vita, per il solo desiderio che nutriva di udirla,
di...
«Samuel,
aiutami!»
Non
stava impazzendo,
era tutto vero. Agatha era lì.
Balzò
in piedi per
poter scrutare nel buio, percorrendo freneticamente con lo sguardo
l'enormità senza fine della sala che si estendeva attorno a
lui: ma
come fare a vedere qualcosa in quell'oscurità?
«Agatha,
dove sei?»
Dio,
perché quella
ragazza l'aveva seguito fin lassù? Samuel represse l'impeto
di
rabbia che gli saliva alla gola mentre per l'ennesima volta si
gettava alla cieca lungo quei corridoio sterminati, con tutti i suoi
sensi concentrati alla ricerca del benché minimo indizio che
potesse
guidarlo verso di lei. «Agatha, vattene da qui!»
Gli
parve di udire
ancora la sua voce, ma più bassa e indistinta, ed emise
un'imprecazione oscena al pensiero di essersi allontanato.
Ritornò
correndo sui propri passi, col cuore che batteva forte e pareva
percuotergli la cassa toracica, cercando di discernere nell'ombra il
tracciato delle lastre che si stendevano davanti a lui, anticipandone
con le mani la posizione per evitare di sbattervi contro...
«Nidoking,
Iperraggio!»
Se
prima aveva corso
ora gli parve di volare. Smise di evitare gli urti contro le sculture
e le lapidi a malapena visibili, si riparò a malapena il
volto con
le braccia mentre saltava e correva alla cieca. Stava andando nella
direzione giusta? «Agatha, non lottare con lui!»
L'Iperraggio
di
Nidoking folgorò la sala illuminandola come un sole: Samuel
vide per
un istante l'intera distesa funerea illuminata come in pieno giorno
dal raggio sgorgato da qualche parte alla sua destra, distinse
persino con la coda dell'occhio l'enorme sagoma di Nidoking in
controluce, ma poi dovette chiudere gli occhi che gli bruciavano...
«Agatha, è un trucco!»
Con
gli occhi chiusi
sbatté in pieno contro una statua che non aveva notato e si
ritrasse
di scatto al sentirla oscillare sul suo piedistallo di marmo.
Continuò a correre cercando di indirizzarsi verso destra,
là dove
aveva visto brillare l'Iperraggio, con gli occhi ora chiusi e ora
aperti che gli lacrimavano, immaginandosi in qualche modo un
ipotetico tracciato che si stendesse tra lui e Agatha e che potesse
condurlo a salvarla. Si stava avvicinando alle finestre, riusciva a
distinguerle dalla massa tutta indistinguibile e omogenea delle
pareti di legno...
«Samuel!»
Il
corridoio finì a
pochi metri dalla parete, ora egli vedeva la figura di Agatha, ma
proprio quando gli sembrava di averla raggiunta, fu costretto a
fermarsi bruscamente: l'impeto della corsa lo fece quasi cadere
quando si rese conto della situazione. Agatha stava lottando contro
il sepolto vivo, che era a pochi metri di distanza da lui... ma
davanti a lei, tra di loro, c'erano due mani.
Samuel
vedeva
nitidamente la sagoma di Agatha stagliata contro la finestra,
dall'altra parte del campo della battaglia che aveva intrapreso. Il
suo volto era immerso in una pozza di tenebra che ne rendeva
indistinguibili i tratti, ma vedeva la nube crespa e vaporosa dei
suoi riccioli che infrangeva la poca luce, riconosceva il modo in cui
le sue ginocchia magre si congiungevano in controluce... era in
trappola. Doveva aver retroceduto finché le era stato
possibile,
incalzata dalla lotta, perdendo terreno un passo dopo l'altro
finché
non si era ritrovata con le spalle al muro e priva di ogni via di
fuga. Le scale erano dall'altra parte della sala, ma se anche
così
non fosse stato, in nessun modo avrebbe potuto raggiungerle.
Infisse
lo sguardo
davanti a sé, là dove Nidoking stava ruggendo e
scalpitando mentre
cercava di trattenere e opporsi a un'enorme mano con tutta la
possanza del suo corpo nerboruto, là dove Tentacruel e
Vileplume
assieme cercavano di tener testa insieme alla sua compagna,
respingendola in un insieme confuso di tentacoli e vischioso acido
nero. Persino le loro forze congiunte sembravano insufficienti a
opporlesi: la mano continuava irresistibilmente ad avanzare a
mezz'aria, agitando le dita ossute nel tentativo di afferrare, di
graffiare,di... Se tre Pokémon forti come quelli di Agatha
avevano
mai avuto una possibilità contro una sola di esse, unendo e
moltiplicando le loro forze, ora egli era certo che non ce
l'avrebbero mai fatta.
«Agatha!
Sono qui!»
Non
avrebbe mai voluto
esserle vicino più che in quel momento, ma a separarli c'era
lo
stesso scontro che era l'unica momentanea salvezza di Agatha. Doveva
dirglielo! Doveva dirle cos'erano in grado di fare quelle enormi mani
avvizzite, doveva metterla in guardia, avvertirla di ritirare i suoi
Pokémon... non poteva permettere che succedesse di nuovo. Ma
proprio
quando si protese verso di lei, prese fiato per gridare...
all'improvviso si rese conto che nessuna parola riusciva a prendere
voce nella sua bocca. Si ritrovò a boccheggiare nel
tentativo di
dire qualcosa, di urlare, ma ora gli sembrava di trovarsi in uno di
quegli incubi orrendi e asfissianti nei quali si sente che solo
urlare potrà salvarci eppure ci manca la voce. Era sciocco,
era
orribile, ma come poteva dire ad alta voce la verità su
ciò che era
successo? Dire ad Agatha che Arcanine era morto non l'avrebbe forse
reso reale e innegabile?
Dopo
interminabili
secondi di lotta intestina, tutto ciò che la sua gola secca
fu in
grado di dire fu: «Sto arrivando.» Cos'altro poteva
fare a parte
cercare di raggiungerla?
Vide
che Agatha si
contraeva inconsciamente a quella proposta, la sagoma del suo corpo
s'irrigidiva: scosse freneticamente il capo. «No, Samuel,
ascolta!
Insieme possiamo sconfiggerlo, e allora...!»
C'era
tutto un tumulto
di voci dentro di lui che urlava: ti stai sbagliando! Nessuno
può
sconfiggere quella pallida mano e lui non ci lascerà andare
mai! Era
come una grande folla che rumoreggiava dentro di lui e urlava, ma per
quale diamine di motivo allora Samuel non riusciva a dar voce a
neppure una parola di tutto quel tumulto?
«Agatha...»
«Tentacruel,
Limitazione!»
La
voce di Agatha era
un insieme di terrore e di combattività: Samuel lo percepiva
dalla
lieve nota incerta che tremolava in fondo alle sue frasi. In quel
momento realizzò che era quella Agatha, la sua Agatha: che a
seguirlo lassù, su quella Torre, senza nessun vero motivo se
non la
sua volontà, non era stata la ragazza terrorizzata di quel
pomeriggio sul divano, ed egli seppe che ella non avrebbe smesso di
lottare per aprirsi la strada a nessun costo. Non era proprio per
questo che occorreva dirle di stare attenta, e subito, prima che
fosse troppo tardi?
Mosse
il primo passo
verso di lei nel preciso istante in cui l'enorme tentacolo di
Tentacruel si abbatteva contro il palmo della mano con uno schiocco
raccapricciante di carne marcia e putrefatta che lo fece sobbalzare.
Non seppe trattenersi dal gettare uno sguardo verso il sepolto vivo:
non era possibile che fosse tanto astratto ed estraniato dal mondo
che lo circondava, tanto chiuso all'interno della sua propria mente,
da non venir scosso quanto lui da quel suono. Eppure, quando si volse
verso di lui, vicino tanto che avrebbe potuto balzargli addosso e
colpirlo, il sepolto vivo non aveva avuto alcun moto o reazione. Era
accasciato al suolo, in un modo tanto scomposto e sgraziato da essere
quasi insostenibile alla vista, e seguiva la battaglia con occhi
vacui e persi. Non sembrava trovarsi lì e il suo sguardo
vago,
distratto, gli diede un impeto di rabbia che per un attimo
pensò di
non poter trattenere. Qual era la ragione di tutto quel dolore?
Tutto
il suo corpo
tremava del desiderio insaziabile che l'aveva preso di saltargli
addosso, colpirlo, affondare le mani nella carne marcescente del suo
corpo e sfogare su di lui tutta la rabbia per ciò che
Arcanine...
eppure si trattenne. Non poteva fare nulla per Arcanine dopo averlo
abbandonato, ma Agatha era viva, era vicina, i suoi Pokémon
potevano
ancora essere salvati!
«Agatha,
richiamali!»
Le
parole gli uscirono
finalmente di bocca in un grido confuso e stentoreo, forte abbastanza
da superare le strida dei Pokémon che combattevano: Samuel
vide che
Agatha si volgeva verso di lui in un vorticare di ricci in
controluce. Ora che aveva iniziato, o almeno detto qualcosa, Samuel
si rese conto che parlare diventava più facile, quasi
necessario.
«Sono troppo forti Agatha! Ha ucciso Arcanine, devi
richiamarli ora!
Ha...»
All'improvviso,
dalle
sue spalle il sepolto vivo emise un sibilo lungo e minaccioso, un
suono serpentino e contrariato al quale Samuel si voltà
immediatamente per istinto: eppure, quando i suoi occhi lo
ritrovarono nel buio, si rese conto che non stava guardando lui. Non
aveva sentito le sue parole, di certo non era lui che voleva mettere
a tacere. Ma allora cosa...
Gli
occorse un istante
di troppo per rendersi conto che quello era il suo modo di dare
ordini.
Il
ruggito di dolore di
Nidoking si levò alle sue spalle già prima ancora
ch'egli riuscisse
a voltarsi verso di lui, si mescolò nell'aria a quello di
stravolto
stupore di Agatha, eppure ancora non era nulla rispetto a quello di
Arcanine.
Con
un rinnovato impeto
di energia, l'enorme mano aveva vinto le difese di Nidoking. Samuel
vide le sue lunghe dita pallide che si stringevano attrno alle sue
spalle in una morsa formidabile, immobilizzandogli le braccia contro
i fianchi, costringendogli il petto in una pastoia soffocante: sul
suo corpo corazzato egli scorse i riflessi di luna tremare e cangiare
nell'ombra. Nidoking cercava di scuotersi e di divincolarsi, ma
quella stretta era troppo forte.
«Agatha,
sta
soffocando!»
Agatha
non aveva certo
aspettato di sentirselo dire da lui per reagire. Una serie di raggi
rossi balenò a ripetizione nel buio, colpì
Nidoking più e più
volte, eppure non funzionava.
«Nidoking,
rientra!»
Eppure
tutto rimaneva
immobile, Nidoking ancora stretto da quelle dita immani: la voce di
Agatha si fece più acuta, si riempì di panico a
ogni colpo che
andava a vuoto. «Dannazione! Ti prego, ti prego,
rientra!»
Con
un ultimo sforzo
condiviso, Vileplume e Tentacruel respinsero la pallida mano con la
quale si stavano scontrando e si gettarono verso Nidoking per cercare
di liberarlo; sebbene non ci fosse nulla che potesse fare, Samuel
stesso balzò in avanti. Non aveva alcun modo per opporsi a
quell'immenso abominio, ma Nidoking stava soffocando!
Con
gli occhi infissi
su Nidoking, le orecchie piene della voce di Agatha, non ebbe la
minima percezione della mano che precipitandosi in volo verso i
Pokémon lo colpiva alla testa.
Riemerse
dal buio
boccheggiando come dopo un'apnea che era parsa eterna, cogli occhi
annebbiati e le tempie che pulsavano furiosamente, immerso in una
cappa d'odore ferrigno e nauseante di cui non riusciva a individuare
l'origine.
Tirarsi
su di scatto fu
un errore: la tempia gli diede una fitta fortissima e l'odore gli
riempì il naso con tale intensità ch'egli si
chinò in avanti e
vomitò. Dio, che cosa era successo? Perché tutto
era silenzio,
tutto era sfocato?
«Agatha!»
Quando
il suo stomaco
ebbe espulso tutto quanto era possibile, Samuel fece appello a tutte
le sue forze per cercare di alzarsi. Perché gli sembrava di
essere
così lento, e la stanza attorno a lui pareva girare e le
vetrate
confondersi e le statue circondarlo e inseguirlo...? Cercò
con le
mani qualcosa a cui aggrapparsi in attesa che la sua testa smettesse
di girare: dopo lunghi secondi d'incertezza, le sue dita incontrarono
una fredda superficie dura e la strinsero ed egli si concesse di
abbandonarvisi interamente. Ma perché al di sotto del ronzio
che gli
risuonava nelle orecchie tutto era silenzio? «Agatha,
rispondimi!»
A
poco a poco la stanza
cominciò a rallentare il suo strano girotondo, le sagome
scure
ch'egli scorgeva a malapena assunsero lentamente una loro precisa
collocazione nello spazio, divennero masse plastiche e solide che non
vorticavano più tutte attorno a lui e non recavano
più alcuna
minaccia. Aggrappandosi con tutte le sue forze a quella lapide che
era l'unico vero punto di riferimento stabile che avesse, l'unica
ancora di salvezza dalla quale egli potesse cercare di capire cosa vi
fosse nella sala, Samuel si sforzò di continuare a guardare,
cogli
occhi lacrimanti che faticava a tenere aperti, come se davvero
qualcosa li premesse pulsando dall'interno. Vedeva veramente quelle
immani sagome scure riverse al suolo? Erano forse macchie nere che i
suoi occhi proiettavano su ciò che vedeva in seguito al
colpo in
testa? Ma se non erano reali, allora perché tutto era
silenzio?
Eppure
una parte di lui
era consapevole di sapere già cos'era accaduto, cos'erano
quelle
sagome nere che si rifiutava di guardare direttamente ai margini del
suo campo visivo. Stare in piedi lo stava lentamente aiutando: il
sangue gli defluiva dalla testa, le tempie gli pulsavano un poco
meno. Ora i suoi occhi erano in grado di mettere a fuoco più
cose, e
proprio per questo egli levò lo sguardo imponendosi di non
guardare
mai verso il basso: sapeva già in fin dei conti cos'erano, e
per
quanto si sforzasse di reprimere in un angolo del suo subconscio quel
pensiero, sentì che esso gli faceva scendere un brivido
freddo lungo
la schiena.
Freddo!
Ma l'aria era
fredda! Samuel realizzò all'improvviso cos'era quella strana
impressione di brividi che gli scendevano lungo le spalle, e non era
solo orrore: c'era una corrente d'aria. Quando la sua attenzione si
sforzò di concentrarvisi per capire da dove provenisse, il
suo cuore
ebbe un improvviso sbocco di gratitudine ed egli si sentì
inspiegabilmente commosso. Era l'aria fresca, pulita della notte che
entrava da chissà dove, che mitigava un po' l'odore
nauseante della
sala – perché all'odore di chiuso e d'incenso si
era ora assommata
quella strana puzza disgustosa e ferrigna sulla quale la sua mente
preferiva non soffermarsi – ma che soprattutto gli ricordava
che da
qualche parte, appena al di fuori della Torre, vi era un tempo che
continuava a scorrere e un vento che accarezzava la terra. Forse la
sua mente era troppo sconvolta da ciò che aveva visto, forse
il
colpo in testa che la mano gli aveva inferto lo aveva davvero
turbato, ma comunque stessero le cose, quel soffio d'aria fresca
sulla schiena era quanto di più simile alla speranza che
egli fosse
in quel momento in grado di concepire.
Il
soffio d'aria
proveniva dalle sue spalle. Samuel si voltò lentamente con
la testa
che aumentava le sue dolorose pulsazioni a ogni momento, nel
disperato tentativo di mantenere l'equilibrio, e cercò con
gli occhi
cosa potesse esserne l'origine. Le finestre erano ancora chiuse, le
pareti erano troppo scure per poter distinguere chiaramente qualcosa.
Quanto tempo avrebbe perso così al buio?
Aveva
bisogno di luce e
per quanto quest'idea gli ripugnasse, sapeva che c'era un solo modo
per procurarsela. La sua mano esitò a lungo all'altezza
della sua
cintura, oscillò incerta sugli ultimi centimetri che la
separavano
dalla Pokéball che gli occorreva, ma infine egli si decise a
prenderla e a gettarla al suolo. Non aveva alternative. Se fosse
rimasto all'interno di quel luogo d'inferno, egli ne era certo,
sarebbe morto, e allora anche per i suoi Pokémon non vi
sarebbe
stata alcuna speranza... ma neppure per un momento egli avrebbe anche
solo pensato di uscire da lì senza di lei. Era stato stupido
e
sciocco e Agatha era venuta a salvarlo dalla sua stupidità
– era
solo arrivata troppo tardi per riuscirvi.
La
luce della coda di
Charizard era tanto calda e abbagliante da fargli lacrimare gli occhi
e distogliere lo sguardo, ma quando il suo Pokémon emise il
suo
solito, famigliare ruggito di saluto, Samuel non provà la
benché
minima sensazione di conforto. Quanto tempo avrebbe impiegato a
scoprire di Arcanine? Ed egli stesso sarebbe mai più stato
in grado
di fronteggiare la fiducia tradita dei suoi occhi allungati?
Il
saluto gioioso di
Charizard non si era ancora spento quando esso vide direttamente, in
piena luce, i corpi orrendamente deturpati che Samuel si era
impegnato a non guardare per tutto il tempo: Charizard conosceva i
Pokémon di Agatha e ricordava di certo com'erano fatti,
dunque come
avrebbe potuto non riconoscerli anche ora?
Samuel
ebbe la certezza
che li aveva visti quando il ruggito di Charizard si tramutà
in un
lungo ululato di dolore e di sgomento: in preda all'agitazione,
Charizard cominciò a sbattere forsennatamente le grandi ali
possenti, sollevandosi dal suolo di quasi un paio di metri, in un
tripudio di suoni terrorizzati e raspanti.
«Charizard,
ascoltami!»
Quali
parole potevano
bastare a calmarlo? Socchiudendo gli occhi nei lampi di luce
fiammante che la sua coda disegnava nell'aria, Samuel fece un balzo
verso di lui, si sforzò di saltare e raggiungerlo per
istituire un
contatto e cercare con esso di calmarlo. «Charizard,
fermo!»
La
sua mano urtò
contro la zampa di Charizard in una fitta di dolore che lo fece
ritrarre di scatto, ma poi con un ultimo, deciso scatto rabbioso egli
riuscì ad afferrare per un istante il suo ginocchio ruvido e
a
stringerlo. «Devi aiutarmi!»
Se
non a calmarlo, il
suo contatto riuscì a richiamare almeno la sua attenzione:
Charizard
non si abbassò, ma le sue ali rallentarono il ritmo a cui
sbattevano, spazzando l'aria con minore violenza, e il suo
Pokémon
chinò lo sguardo di occhi colmi d'orrore.
«Ha
preso Agatha,
Charizard!» singhiozzò. «Farà
anche a lei quello che ha fatto a
loro!»
Questa
volta però
Charizard non si limitò a obbedirgli con la stessa naturale,
spontanea complicità con la quale aveva sempre eseguito ogni
suo
ordine durante le lotte. Questa volta Charizard lo guardò.
Samuel sapeva cosa vedevano i suoi occhi e questo gli diede una certa
fitta di disagio all'altezza del petto: Charizard vedeva un
allenatore che per qualche strano motivo lo aveva condotto in un
inferno di Pokémon morti e di membra dilaniate, e
nient'altro.
Cos'avrebbero visto se Charizard avesse saputo che in quella stessa
stanza, a pochi metri di distanza da loro, giaceva senza vita il
corpo di Arcanine?
«Ti
porterò fuori da
qui» esclamò ansiosamente, aumentando la presa
sulla sua zampa
squamosa. «Ti prometto che usciremo da qui, ma ti prego,
aiutami a
salvare Agatha!»
Stava
giocando il tutto
per tutto. Charizard era sconvolto, aveva appena visto i
Pokémon di
Agatha fatti a pezzi, doveva essere furioso con lui per averlo messo
in un pericolo del genere: non era tenuto affatto ad aiutarlo. Tutto
ciò che Samuel poteva fare era sperare che l'affetto che li
legava
da ormai troppi anni per poterli enumerare fosse più forte
del senso
di orrore e tradimento, e che in nome della loro antica amicizia
Charizard acconsentisse a portarlo fuori da lì...
Il
suo Pokémon ebbe
un'esitazione tanto lunga, tanto angosciosa che Samuel temette che
non gli avrebbe obbedito. Non avrebbe di certo potuto biasimarlo se
davvero la vista dei Pokémon smembrati lo avesse adirato e
spaventato a tal punto da fargli rifiutare di muoversi, ma infine
Charizard acconsentì ad abbassarsi un poco verso di lui,
fissandolo
con un certo distacco. Samuel colse la freddezza del suo
comportamento dall'insolita rigidezza del suoi muscoli guizzanti, ma
proprio della sua freddezza gli fu grato. Era rimasto –
qualsiasi
sentimento di rabbia o di dolore provasse nei suoi confronti, era
rimasto con lui. Era molto più di quanto egli potesse
chiedere.
«Grazie»
mormorò
mentre cercava di guardarsi attorno alla luce della sua coda. Provava
la percezione quasi fisica del tempo che scorreva, e quella
sensazione non gli piaceva.
I
suoi occhi tornarono
a percorrere la sala, si allontanavano dalle finestre, tornando a
seguire un loro affrettato percorso sulle pareti. Da dove diamine
veniva quel fiotto d'aria fresca?
Charizard
emise un
ringhio basso e nervoso al quale Samuel si volse di scatto: il suo
Pokémon doveva aver capito che cosa stava cercando e
guardando nella
sua stessa direzione, egli si sentì sollevato. C'era una
scala di
servizio profondamente incassata nella parete, che saliva
inerpicandosi su, verso... ma verso cosa, se si trovavano all'ultimo
piano?
«Il
tetto!»
Si
mosse verso la scala
più rapidamente di quanto le sue reali forze gli
permettessero: si
sentiva le gambe instabili e tremanti, le ginocchia che minacciavano
a ogni passo di piegarsi sotto il suo peso, e anche la sua vista
sembrava sempre più annebbiarsi. In qualche misura tuttavia
la
presenza di Charizard sembrava aiutarlo e proteggerlo ed egli
intraprese la salita consapevole che il suo Pokémon lo
seguiva da
vicino.
In
tanti anni di
viaggi, mai nessun tragitto che avesse compiuto era parso
più lungo
di quei pochi gradini. Samuel strisciò più che
percorrerli di corsa
come aveva pensato, aggrappandosi al rozzo corrimano di ferro e
appoggiandovisi con tutto il suo peso via via che saliva, con la
testa che gli martellava furiosamente proprio dietro gli occhi.
Eppure, in un modo o nell'altro, emerse infine da quella tromba di
scale angusta come un dedalo oscuro e si stagliò alfine
sulla cima
della Torre.
Lassù
il vento era
molto forte, umido e freddo: dalla sua destra, là dove
doveva
trovarsi il nord, egli colse con la coda dell'occhio grandi ammassi
di nubi scure che salivano a coprire le stelle presagendo un
temporale. Sforzandosi di mantenersi ben saldo contro le folate di
vento, Samuel avanzò di qualche passo, percorrendo con lo
sguardo la
sudicia distesa di assi di legno che aveva davanti. Il suo primo
impulso sarebbe stato quello di urlare, chiamando Agatha con tutta la
voce che era in grado di emettere, ma s'impose di trattenersi: se
aveva anche solo una possibilità di sfruttare l'effetto
sorpresa del
suo arrivo, non poteva sprecarla.
Avanzò
ancora,
acquisendo sicurezza sulla superficie irregolare e accidentata del
tetto, e si volse cautamente girando su se stesso. Si rese conto di
stare ansimando dal movimento irregolare del suo petto, ma il vento
infuriava sulle sue orecchie impedendogli di udire il suo respiro.
Forse anche il vento avrebbe potuto aiutarlo, se solo...
Charizard
emise un
ruggito di guerra levandosi in volo.
«Charizard,
non lo
fare!»
Il
suo Pokémon non
voleva scappare o abbandonarlo: Samuel vide dalla fiamma nei suoi
occhi che ardeva più del suo respiro che ciò che
voleva era
tutt'altro. Aveva visto morti i Pokémon di Agatha, e non li
aveva
mai particolarmente amati, ma erano Pokémon come lui, e ora
era
furioso: cos'avrebbe fatto se avesse saputo del suo antico compagno
di squadra?
Samuel
non poteva fare
niente per fermarlo, lo sapeva anche troppo bene, e del resto, quale
diritto ne avrebbe avuto? Poteva solo approfittare della situazione
così com'era: nel cerchio di luce proiettato al suolo che
andava
sempre più allargandosi, egli scattò in avanti
senza esitare oltre.
Charizard
si gettò in
volo verso l'estremità settentrionale della Torre. Samuel lo
seguì
correndo controvento per quanto gli era possibile sulle tegole
sdrucciolevoli, con la testa che pareva vibrare come di un coro di
tamburi militari particolarmente violenti e il cuore che pulsava di
preghiere.
Il
sepolto vivo,
finalmente. Samuel ne scorse da lontano la figura quando ancora non
era che una nera silhouette asciutta contro il tono più
tenue del
cielo di sfondo, e proprio a quella vista il suo cuore saltò
un
battito: dov'era Agatha? Ma poi, quando Charizard lo
sovrastò
sbattendo ripetutamente le ali e inondandolo della luce della sua
coda che fustigava l'aria, i suoi occhi colsero dietro di lui,
riversa al suolo a pochi metri dal bordo del tetto, una miserabile
figura immobile avvolta in un manto di capelli scomposti.
Perché
non si muoveva?
Samuel ebbe uno scatto nervoso verso di lei, ma appena sopra la sua
testa Charizard gli rivolse uno strano gesto di ammonimento, come a
impedirgli di avanzare oltre, ed egli si trattenne all'ultimo
secondo. Mai come in quel momento quel colosso di fiamma incarnata
gli era parso tanto minaccioso.
Ora
rivedeva di nuovo
il sepolto vivo in piena luce, per la prima volta dopo ciò
che era
accaduto ad Arcanine, e le sue carni vizze e scomposte gli diedero un
rinnovato senso di disgusto, di quel disgusto offeso, risentito, di
chi vede qualcosa d'indecente. L'espressione del suo viso non era
più
tanto vacua: ora era alterata, colle labbra contratte, ed esprimeva
un vivo risentimento per essere stato interrotto. All'improvviso, in
quella luce, Samuel si rese conto che era sporco di sangue sul viso e
sulle mani, e che non si trattava di semplici schizzi.
Il
senso di gelo e di
rabbia che lo prese quando notò per la prima volta il sangue
sulle
gambe di Agatha fu indicibile.
«Charizard...!»
Non
occorse altro.
Charizard si precipitò in picchiata sul sepolto vivo in una
vera e
propria esplosione di fiamme e di ruggiti: nonostante l'elevata
velocità dei suoi movimenti, Samuel riuscì a
distinguere comunque
il momento in cui una zampata in pieno petto lo squarciava
letteralmente, lacerando pelle e tessuti e mettendo a nudo le ossa
biancheggianti al di sotto... ma fu solo un attimo. L'urto
sollevò
il sepolto vivo da terra e lo scaraventò a quasi due metri
di
distanza, mandandolo a rotolare sul tetto in un cigolare di legno, e
subito dopo Charizard si lanciò al suo inseguimento con una
foga
selvaggia. Per un attimo Samuel credette che l'avrebbe gettato
giù
dalla Torre o qualcosa di simile, ma poi la furia stessa dei suoi
gesti gli diede torto. Charizard non era salito fin lassù
per
difendere lui e Agatha. Era lì perché era molto
arrabbiato.
Non
poteva fare nulla
per contrastarlo o aiutarlo, se anche l'avesse voluto. Samuel si
precipitò accanto ad Agatha e si chinò su di lei,
cercando di
vedere qualcosa alla luce intermittente e in movimento della coda di
Charizard che infieriva sul sepolto vivo.
La
chiamò, la scosse,
cercò di sollevarla e di stringerla contro il petto, ma
tutto ciò
che ottenne fu di sentirla completamente molle e inerme tra le sua
braccia, col capo reclinato all'indietro sulla nuca che si scuoteva
senza opporre nessuna resistenza quando egli l'agitava.
«Agatha, mi
senti? Ti prego, parlami!»
Le
fece scorrere la
mano sulle gambe per trovare la ferita: il sangue le aveva
impiastricciato completamente persino le cosce, ma le sue dita
trovarono il segno di una ferita profonda sul polpaccio destro. Si
sentì impotente.
Distendendola
di nuovo
sul terreno, si sfilò la camicia e alla cieca, basandosi
più
sull'istinto che su altro, cercò di annodarlo attorno alla
sua
ferita in una misera imitazione di bendaggio. Ne venne fuori un nodo
confusionario e storto, ma sarebbe bastato fino a quando non se ne
fossero andati da lì... già, ma quando?
Si
voltò a guardare la
devastazione che Charizard stava operando sul tetto. La sua coda e le
fiamme che talora gli sfuggivano dalla bocca nell'agitazione avevano
disegnato sulle assi di legno striature più o meno regolari:
ora
Charizard non stava volando. Avanzava in quel momento sulle quattro
zampe, spazzando il terreno con la coda in archi regolari, e
incombeva sul sepolto vivo come una promessa di morte. Lo zombie ne
era completamente soggiogato: aveva il petto squarciato in
più
punti, ma dalle sue carni ormai morte non sgorgava sangue.
«Charizard,
non puoi
ucciderlo!» gridò Samuel al di sopra del vento. Si
rese conto di
star piangendo, anche se non riusciva a individuarne un motivo
specifico. «Andiamocene via, ti prego!»
La
successiva zampata
di Charizard colpì il sepolto vivo all'altezza del collo,
disegnando
uno squarcio che dilacerò anche la spalla. Non gli avrebbe
obbedito,
si rese conto Samuel. Era furioso per ciò che aveva visto e
non se
ne sarebbe andato finché non avesse visto il sepolto vivo
morto,
o... ma quanto tempo avrebbe impiegato?
«Charizard,
non ce la
farai mai! Agatha ha bisogno di cure, ti prego...»
Ma
nulla di quanto
avrebbe mai potuto dire avrebbe potuto sortire il minimo effetto.
Charizard non lo avrebbe mai ascoltato, e nel profondo Samuel sapeva
che aveva ragione. Gettò un'occhiata al volto di Agatha che
pareva
andare sempre più sbiancandosi, al sangue che aveva
già tinto di
rosso la sua camicia continuando a sgorgare da sotto la fasciatura...
All'improvviso
egli
comprese qual era l'unica cosa che Charizard avrebbe ascoltato, e
anche ciò che aveva diritto di sapere nell'infierire sul
sepolto
vivo.
Si
levò in piedi
stagliandosi contro il vento. Charizard stava aggredendo quel corpo
con rumori quasi vomitevoli, ma quando Samuel lo chiamò, la
sua voce
suonò inaspettatamente calma.
«Fai
bene, Charizard»
disse ad alta voce. Le sue parole tremavano e si accorse di tremare
lui stesso in procinto di pronunciarle. Stava piangendo. «Se
lo
merita. Ha ucciso Arcanine, Charizard!»
La
cima della Torre
divampò di fiamme.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Si mens non laeva fuisset (Parte Prima). ***
Buonasera
a tutti!
Anche
se nel precedente capitolo mi ero augurata di riuscire a ridurre un
po' i miei tempi di aggiornamento, mi rendo perfettamente conto di
averli praticamente raddoppiati e per questo sento di dovere a tutti
le mie scuse: a mia discolpa, posso dire soltanto che questo
capitolo, a sorpresa, si è rivelato ancora più
difficile da
scrivere del precedente, e inoltre che è venuto
straordinariamente
lungo. Proprio per questo motivo sarò costretta a dividere
anche
questo in due parti, per agevolare la lettura, ma cercherò
di
postare entrambe stasera stessa. Mi sembra il minimo, dopo tutta
quest'attesa.
Devo
davvero ringraziare dal profondo del cuore tutti coloro che hanno
recensito il capitolo precedente: cristal_93, Bankotsu90, Gabbotron01
e Persej Combe. I vostri pareri mi hanno fatto davvero moltissimo
piacere! Nell'ultimo capitolo ringrazierò diffusamente anche
tutti
coloro che hanno aggiunto la storia a una qualsiasi lista, ma per ora
mi limito a dire un grazie di cuore a tutti.
La
frase che dà il titolo al capitolo è una
citazione virgiliana
traducibile così:
se la mente non fosse stata funesta,
ma per chi fosse interessato al testo originale o ricercasse una
traduzione migliore della mia, rimando direttamente alla lettura
originale: Eneide, Canto II, versi 54 e seguenti.
Riguardo
al capitolo precedente, devo confessare che ne sono rimasta tanto
colpita io stessa che ho finito per adottare un Nidoking su
Pokémon
Giallo e un Arcanine su Pokémon Bianco 2. Naturalmente non
interessava a nessuno, ma mi faceva piacere dirlo.
Ciò
detto, mi sembra di aver davvero detto anche troppo: non posso che
augurarvi una buona lettura!
Grazie
anche solo per essere arrivati fin qui
Afaneia
Capitolo
VIII – Si mens non laeva fuisset (Parte
Prima).
Quando
Charizard li
ebbe lasciati entrambi nell'ampio giardino della casa di Agatha,
Samuel la sollevò tra le braccia e fece letteralmente
irruzione nel
salotto.
Raggiunse
a tentoni il
tavolino per distendervi Agatha e corse ad accendere la luce,
là
dove ricordava di aver visto l'interruttore, quel pomeriggio: la
testa gli pulsava ancora quando si muoveva, ma il dolore si era
attenuato all'aria aperta e l'adrenalina ancora in circolo nel suo
corpo lo spingeva ad agire a velocità sorprendenti.
Nella
piena luce
elettrica, il pallore di Agatha gli parve ancora più
inquietante, ma
egli non riusciva a mantenere lo sguardo sul suo viso: i suoi occhi
scendevano irresistibilmente verso le sue gambe, che erano rosse del
sangue che andava rapprendendosi per tutta la loro lunghezza, almeno
fin dove egli riusciva a vedere. Rimosse la camicia che aveva usato
per bendarla alla meglio, sforzandosi in ogni modo di non fare gesti
bruschi: era sgradevolmente rigida e pesante di sangue, tanto che
sciogliere il nodo che aveva fatto fu difficile, ma perlomeno
sembrava essere servita almeno in parte a frenare l'emorragia. Quando
guardò la ferita, gli parve che il flusso di sangue fosse
almeno
diminuito.
Non
c'era tempo da
perdere. Samuel non aveva mai visto una ferita del genere –
non che
in generale avesse dovuto mai affrontare molte ferite gravi, nella
sua carriera di allenatore – e non aveva la più
pallida idea di
cosa fare, ma forse fu proprio questo a spingerlo ad agire.
Saccheggiò
letteralmente la cucina e il bagno: prese acqua calda, asciugamani,
disinfettante, garze, qualsiasi cosa che pensasse anche solo
lontanamente poter servire. Lavò e tamponò la
ferita con acqua
tiepida, strofinando e bagnandole le gambe finché sul
tavolino sotto
di lei non si fu formata una repellente pozza d'acqua rossa di sangue
ed egli non riuscì a distinguere nitidamente il calore della
sua
pelle, e solo allora riuscì a vedere distintamente la
ferita. Gli
sfuggì una bestemmia. La carne di Agatha era scavata in
profondità
dal segno perfettamente distinguibile di un morso umano.
Si
sforzò di guardarla
il meno possibile. La disinfettò nel modo in cui
più o meno
supponeva che si disinfettasse una ferita e vi legò attorno
un
bendaggio ridicolmante spesso, cercando di valutare a intuito quanto
stringerlo o meno.
Continuò
ad affannarsi
attorno a lei per i minuti più angoscianti della sua vita.
Le
frizionò il viso, i polsi e le mani con acqua tiepida, le
strofinò
le braccia, le fece bere sorsi di acqua zuccherata tenendole il capo
reclinato, la chiamò e la scosse e la accarezzò:
le sue dita
insanguinate lasciavano pallidi segni rosati sul suo viso.
Finalmente, alla terza volta che la faceva cautamente bere, Agatha
spalancò gli occhi tossendo per l'acqua che doveva esserle
andata di
traverso e si appoggiò pesantemente alla sua spalla, col
corpo
scosso dai colpi di tosse.
Era
finita. Samuel la
sostenne senza stringerla con gli occhi che gli si riempivano di
lacrime di sollievo, il volto immerso nei suoi folti capelli
incrostati di sangue, e gli parve di esalare, in quel momento, il suo
primo vero respiro da quando era entrato nella Torre. Sentì
che il
petto di Agatha si comprimeva e si dilatava contro il suo e che le
gocce calde delle sue lacrime gli cadevano sulle spalle e sulla
schiena. Osò appena sollevare una mano ad accarezzarle la
nuca, in un
gesto che voleva essere rassicurante, ma che forse era solo bisogno
di lei.
«È
finita, Agatha.
Siamo a casa. È tutto finito.»
«No!»
singhiozzò
Agatha contro la sua spalla, con la voce colma di un dolore tanto
atroce, tanto straziante, che Samuel non avrebbe voluto mai udirlo da
lei. Una sensazione improvvisa, pungente sulla schiena lo fece
fremere inaspettatamente e impiegò qualche istante a
rendersi conto
che nell'aggrapparsi a lui, Agatha gli aveva conficcato le unghie
nella carne. «No, Samuel, no!»
«Sht...
zitta, Agatha,
zitta. È finita.»
«Samuel,
io li ho
visti! Ho visto quello che ha fatto la mano, l'ho visto, l'ho
visto!»
«Lo
so, Agatha!»
Sentiva
che se avessero
continuato a parlare di ciò che era avvenuto, di tutti gli
orrori
che avevano visto, avrebbe pianto... e in quel momento non poteva
permetttersi di farlo.
Mise
a tacere Agatha
cullandola come una bambina contro il proprio petto. Non l'aveva mai
vista piangere, no, neppure quel pomeriggio, e ora gli parve che
nessun suono umano potesse essere più doloroso,
più straziante e
disperato di quello... eppure, l'ascoltò. Non poteva
permettersi di
abbandonarsi al dolore adesso, e ascoltò il pianto di Agatha
sforzandosi di estraniarsene e di non pensare, di reprimere da
qualche parte in fondo alla sua coscienza il pensiero di ciò
che
egli stesso aveva perduto, lassù. Si concentrò
sulla sensazione dei
graffi che gli scavavano sulla carne, del petto di Agatha oppresso
contro il suo e scosso dai singhiozzi, e chiudendo gli occhi nei suoi
capelli sperò di poter provare solo quello: divenire un
ammasso di
sensazioni fisiche e indistinte completamente scevre da qualsiasi
sofferenza. Se così fosse stato, s'egli avesse potuto essere
una
creatura fredda e inumana, non avrebbe mai dovuto affrontare il
pensiero della morte di Arcanine. Ma la verità, egli lo
sapeva bene,
era che di soffrire non avrebbe smesso mai; che ogni singulto di
Agatha gli sembrava strappato dalla sua propria carne...
A
un tratto i
singhiozzi di Agatha si mutarono in un gemito di sofferenza
improvvisa: staccandosi bruscamente da lui, ella chinò lo
sguardo
come se non comprendesse l'origine di quel dolore.
«Samuel!
La mia
gamba...!»
Samuel
ebbe appena il
tempo di trattenerle con più vigore le braccia prima ch'ella
allungasse meccanicamente una mano per cercare di sciogliere il
bendaggio e vedere la ferita: senza neppure cercare di ribellarsi,
Agatha lo guardò con occhi enormi e spaventati.
«È stato lui,
Samuel! È stato lui che mi ha fatto questo?»
Samuel
non poté far
altro che annuire senza rispondere. Gli mancava la voce, e come
avrebbe potuto dirle ciò che aveva visto lassù?
«Va
tutto bene,
Agatha, io... ho fatto del mio meglio. Chiameremo il dottore
e...»
«No,
no, il dottore
no» balbettò freneticamente Agatha, scuotendo la
testa. Dopo aver
perduto tanto sangue, persino quel movimento così semplice
parve
indebolirla terribilmente: separandosi da lui, ebbe bisogno di
sostenersi con entrambe le braccia ai bordi del tavolo per rimanere
sollevata.
Possibile
che riuscisse
a essere così insopportabilmente testarda persino in quel
momento in
cui a malapena riusciva a rimanere seduta? Ignorando le sue proteste,
Samuel la sollevò con decisione dal tavolo, e subito ella
cercò di
allontanarlo e respingerlo senza troppa efficacia.
«Non
lo voglio il
dottore, Samuel!» singhiozzò con voce terribile,
aggrappandosi
furiosamente al suo petto. «Loro sono morti!»
I
compagni della sua
anima e dei suoi viaggi, con i quali ella aveva programmato e sperato
di condividere la sua vita per tutti gli anni a venire, non c'erano
più. Agatha non aveva davvero bisogno di aggiungere altro,
ma in
quel momento, a Samuel non importava realmente che cosa volesse.
Arcanine, quella nera creatura che a ogni istante lo fissava con
occhi sbarrati dal fondo della sua coscienza, e al cui sguardo
d'accusa e di delusione egli continuamente cercava di sottrarsi,
Arcanine era morto per colpa sua, e questo mai avrebbe potuto
cambiare, ma Samuel poteva ancora salvare qualcuno!
Non
ascoltò le sue
proteste. Sollevò di peso e senza alcuna
difficoltà il suo corpo
minuto, totalmente incapace di opporgli una vera resistenza, e si
diresse a grandi passi verso il grande bagno del piano terreno.
Non
aveva alcuna
intenzione di bagnare la goffa fasciatura che aveva faticato tanto a
fare, ma in qualche modo Agatha doveva essere lavata. La fece sedere
sul pavimento, contro il bordo della grande vasca bianca d'aspetto
antico, e prese a spogliarla con grande delicatezza.
Agatha
non gli oppose
la minima resistenza e a dire il vero, neppure lo guardava. Si
limitava talora a facilitarlo, in modo completamente passivo,
sollevando o piegando le braccia per assecondare i suoi movimenti, ma
non fece mai niente di sua spontanea iniziativa; quando addosso non
le rimase che una leggera sottoveste di lino bianco, non
manifestò
il minimo segno d'imbarazzo o moto di pudore.
Samuel
cercò di
lavarla passandole spugne imbevute d'acqua su tutto il corpo, o
almeno fin dove poteva decentemente arrivare, ma anche quando sarebbe
stato un bene per lui che Agatha lo aiutasse, ella non fece nulla. Il
suo sguardo era stranito, del tutto perso nel vuoto, ed ella sembrava
non accorgersi nemmeno di ciò che accadeva.
Strofinò
la sua pelle
così forte da farle quasi male, e di certo con molta
più energia di
quanto ve ne fosse effettivamente bisogno: ma forse i suoi occhi
vedevano molto più sangue di quello che c'era in
realtà, e l'idea
di quel sangue gli faceva orrore.
Quando
finalmente non
riuscì a vedere altro che il biancore arrossato dagli
sfregamenti
della sua pelle, si decise a lasciar finalmente cadere la spugna
nella vasca da bagno. Inalò un respiro profondo, strenuato,
e da
qualche parte fuori da quel silenzio echeggiò un tuono.
Dunque il
temporale era arrivato, finalmente.
Rimase
a lungo
immobile, inginocchiato sul pavimento accanto a lei. Aveva le
ginocchia immerse nell'acqua che era gocciolata a terra dal corpo di
Agatha, e questo gli diede una spiacevole sensazione di freddo cui
non si sottrasse. Pensò che sarebbe stato piacevole
strarsene là
fuori, sotto il temporale che scendeva e inondava la terra, e bearsi
a occhi chiusi delle sue acque e del suo profumo.
Trascorse
tra di loro
un tempo indefinibilmente lungo, infine Agatha parlò. Le sue
parole
furono tanto flebili da mescolarsi al gorgoglio d'acqua che scorreva
lungo le grondaie dell'edificio.
«Come
hai fatto,
Samuel?» domandò. Quando Samuel sollevò
lo sguardo su di lei, si
rese conto che doveva averlo fissato per un po', cogli occhi spenti e
arrossati fissi su di lui. «Non c'era modo di andarsene da
lì. Come
hai fatto?»
«È
stato Charizard»
disse Samuel senza riflettere. Agatha aggrottò la fronte,
come a
chiedergli col volto di spiegarsi meglio, e Samuel avrebbe voluto
essere in grado di spiegarle così, dopo neppure un'ora,
com'era che
la vendetta di Charizard li aveva salvati entrambi. Si passò
una
mano sulla fronte, come a cercare nella sua mente un numero
sufficiente di parole per descrivere l'orrore di quanto aveva visto
lassù, sulla Torre, ma forse era troppo stanco per
ricordarle, o non
ne conosceva abbastanza, o semplicemente tutte le parole del mondo
non bastavano a descrivere il momento in cui le fiamme si erano
levate sul tetto della Torre alte e inesorabili, illuminando
Lavandonia come una grande torcia nella notte, mentre Charizard,
folle di dolore, sbatteva le ali per alimentarle e riversava ancora
sulla Torre rigurgiti di fuoco.
Aveva
visto il sepolto
vivo avvampare e bruciare in quell'inferno mentre il fuoco consumava
le sue carni già dilaniate, ma per non più di
pochi secondi: presto
le fiamme erano diventate troppo alte e aldilà di esse egli
non era
riuscito a scorgere niente. Il vento aumentava il fuoco, lo spingeva
verso sud; Samuel aveva trascinato Agatha il più lontano
possibile
da quell'inferno, ma dove rifugiarsi se tutto attorno a loro si
stendevano decine di metri di strapiombo? Aveva urlato e supplicato
Charizard di portarli via da lì, di non lasciarli morire
come topi
in trappola, che almeno portasse via Agatha...
E
forse per parlarle di
tutto questo le parole che la sua mente conosceva sarebbero persino
state sufficienti, ma poi come avrebbe potuto parlarle di quella
decina di secondi, così angosciosa da fare quasi male,
in cui
Charizard era rimasto a fissarlo in silenzio, a molta distanza da
lui, sospeso a mezz'aria in chiaro segno di completa
estraneità? In
quei secondi Samuel aveva saputo, l'aveva letto nei suoi occhi, che
Charizard era stato tentato di lasciarlo lì. E
perché non avrebbe
dovuto? Egli aveva vendicato Arcanine, ma Arcanine era morto per
colpa sua! Perché scioccamente era andato lì,
perché quella
Pokéball gli era scivolata di mano, perché
all'ultimo momento si
era scansato...
E
se Charizard, alla
fine, li aveva salvati, egli sapeva che non era stato per nient'altro
che per mostrarsi migliore di lui. Samuel aveva letto anche questo
nei suoi occhi, nella superiorità che i suoi gesti
esprimevano,
nella rabbiosa insofferenza con la quale gli aveva permesso di salire
sul suo dorso, nella sgraziata rapidità con la quale aveva
solcato
l'aria discendendo dalla Torre e li aveva deposti al suolo, nel
giardino di Agatha, senza troppa indulgenza. Gettando uno sguardo
verso la finestra, Samuel si augurò che Charizard avesse
trovato un
riparo da quella pioggia, dato che aveva rifiutato con un ringhio
sommesso e alterato di rientrare nella Pokéball.
Chissà dov'era
andato a nascondersi.
«Charizard
l'ha...
bruciato vivo» disse a fatica. «Ha dato fuoco al
tetto della Torre.
Suppongo che ora tutta Lavandonia stia cercando di spegnere
l'incendio.»
Anche
se la sua mente
sconvolta non era in quel momento degna di particolare fiducia, era
ragionevolmente certo che nulla di ciò che era successo
potesse
essere ricondotto a loro, e questo era un bene, perché
nessuno gli
avrebbe creduto se avesse affermato di aver dato fuoco a uno dei
più
importanti beni artistici e culturali di Kanto per salvarsi da un
morto vivente. Le fiamme avevano cominciato a propagarsi in modo
strano verso il basso mentre loro si allontanavano in volo: con ogni
probabilità, la Torre doveva essere rivestita di un qualche
materiale impermeabile e altamente combustibile. E questo non poteva
voler dire che una cosa: la Torre stessa era diventata la pira
funebre dei loro Pokémon. Si augurò che un giorno
questo pensiero
potesse dargli un po' di conforto, anche se per ora non gliene veniva
nessuno.
Sgranando
gli occhi,
Agatha cercò di raddrizzarsi contro la vasca da bagno,
sollevandosi
sul pavimento: dalla smorfia di dolore che fece, Samuel capì
che la
gamba doveva dolerle molto, ma quando cercò di aiutarla,
ella
sollevò una mano per fargli cenno di fermarsi.
«Hai dato fuoco alla
Torre?» balbettò.
«È
stato Charizard»
insisté Samuel. Questo punto gli sembrava di fondamentale
importanza: non era stato lui a salvarli, né a salvare gli
altri
suoi Pokémon. Egli non era stato in grado che di fuggire e
abbandonare Arcanine e sperare di morire presto per sperare di
potersi sottrarre al ricordo del suo peccato innominabile, e per
questo non voleva che nulla di eroico gli venisse attribuito.
Questa
volta Agatha si
limitò ad assentire col capo, ma stancamente, come se fosse
troppo
esausta per avere la forza di fare altre domande. Allungò la
mano
per sfiorare con la punta delle dita la spessa fasciatura sulla gamba
e di nuovo strinse le labbra per il dolore, ma non le sfuggì
un solo
gemito.
«Tu
li hai visti,
Samuel?» mormorò. Gli gettò una lunga
occhiata esitante, come se
non fosse del tutto sicura di voler conoscere la risposta, ma si
sforzò d'indagare ancora. «Quando mi ha trascinato
via, le pallide
mani stavano... ora devo sapere. Che cosa hanno fatto ai miei
Pokémon?»
Samuel
ebbe
l'impressione che quell'orribile odore raccapricciante e disgustoso
di sangue e viscere gli riempisse ancora le narici, persino
lì, in
quel bagno così piccolo e pulito e raffinato, e la tempia
gli diede
una nuova pulsazione dolorosa. Ciò che aveva visto e sentito
era
orribile, ma mai come in quel momento egli sapeva che Agatha si
meritava la verità. Le prese cautamente la mano,
stringendola piano,
e s'impose di non abbassare lo sguardo mentre le parlava.
«Li
hanno fatti a
pezzi.»
Agatha
accolse l'orrore
della verità che lui le rivelava senza altre lacrime, o
urla, o
gemiti, ed egli comprese che in fin dei conti aveva sempre saputo,
prima ancora di chiederglielo, che cosa era accaduto di loro; che nel
suo cuore ella l'aveva sentito, e che poteva darsi persino che su
quel tetto, negli attimi della sua agonia prima di perdere i sensi,
ella avesse udito le grida atroci del loro dolore; ma che comunque
aveva chiesto per quel grande bisogno che aveva di affrontare la
realtà, di
sancire definitivamente la loro perdita e la fine dei suoi
Pokémon.
Volse
lo sguardo verso
la finestra, là dove un lampo in quel preciso istante
dilacerava la
notte e brillava attraverso i vetri come luce del giorno, e Samuel
distinse pienamente in quella luce le fredde lacrime che solcavano il
suo volto.
«Perché,
Samuel?»
mormorò. «Perché tutto questo
dolore...?»
Ma
nella notte e nel
temporale che infuriavano fuori da quella casa, e che lavavano via
sangue e fiamme e soffocavano gli incendi, non sembrava esservi
alcuna risposta.
Samuel
trascorse ciò
che restava della notte cercando di tenersi il più lontano
possibile. Ignorando le sue smorfie e le sue tenui proteste,
portò
Agatha in camera da letto e trovò per lei, frugando senza
troppa
cura in un cassettone, una sottile camicia da notte ch'ella potesse
indossare.
Mentre
oltre quelle
mura il cielo si rovesciava su Lavandonia in un concerto di tuoni e
con grande spettacolo di lampi, egli lavorò instancabilmente
per
ripulire il salotto e il bagno dal sangue e dall'acqua sporca. Gli
sembrava che lavorare lo aiutasse: concentrandosi solo e unicamente
su ciò che stava facendo, senza visualizzare altro nella sua
mente
che l'opera delle sue mani, egli riusciva ancora a sopprimere nella
sua mente il pensiero di Arcanine.
Trovò
la forza di
affacciarsi alla finestra solo quando la fredda luminescenza grigia
dell'alba cominciò a filtrare attraverso le imposte. Il
temporale
sembrava essere finito: salendo al primo piano, nella camera da letto
dove Agatha lo aveva fatto sistemare meno di dodici ore prima, Samuel
spalancò la finestra e si sporse per vedere al di fuori. La
cima
della Torre, per quel che poteva vedere, era completamente bruciata.
Da dove si trovava non era in grado di dire se vi fosse qualcuno alla
sua base, ma era quasi certo di sì: sapeva bene quanto
valore la
Torre rivestisse per gli abitanti di Lavandonia, ma quel pensiero non
gli diede il minimo senso di colpa. Il suo Charizard aveva
danneggiato uno dei più importanti edifici sacri di Kanto,
ma una
torre di legno si ricostruisce facilmente, e nessun prezzo sarebbe
stato troppo alto per ciò da cui Charizard li aveva
liberati. Il
sepolto vivo non esisteva più.
Chinando
gli occhi
dalla Torre che levava ancora una magra colonna di fumo, Samuel
perlustrò con lo sguardo il giardino molle e profumato di
pioggia
che si apriva sotto di lui. Non riusciva a vedere Charizard da
nessuna parte. Era certo che avesse trovato un luogo asciutto dove
stare al riparo dalla pioggia, ma non era per quello che era
preoccupato.
Scese
finalmente
dabbasso per telefonare al dottore. Agatha si era rifiutata di dirgli
il nome del suo medico, ma perlustrando con attenzione il mobile del
telefono, Samuel riuscì a trovare una vecchia rubrica
rivestita di
pelle sulla cui prima pagina, tra le varie annotazioni urgenti,
spiccava il biglietto da visita di un certo dottor Ross.
Dopo
quattro lunghi
squilli d'infinita angoscia gli rispose una cameriera dalla voce
assorta e distratta, che aveva tutta l'aria di non star tanto
ascoltando lui, quanto piuttosto fissando la cima della Torre dalla
finestra ma che parve riscuotersi un po' almeno quando egli
pronunciò
il cognome di Agatha: l'uomo che sollevò la cornetta di un
secondo
appareccho, domandandogli sussiegosamente chi fosse e se la signorina
Agatha avesse bisogno di lui, gli promise che sarebbe stato
lì nel
giro di mezz'ora.
Quando
Samuel riappese
il ricevitore, con la vaga sensazione che il dottor Ross non gli
avesse dato una particolare fiducia, si rese conto quasi con sgomento
di non avere più nient'altro da fare. Aveva trascorso tutta
la notte
ripulendo la casa dal sangue di Agatha, e ora persino ai suoi occhi
ossessionati sembrava che non ci fosse più niente da pulire.
Trascorse
la mezz'ora
seguente lavandosi e cambiandosi rapidamente d'abito, e poi
passeggiando nervosamente in salotto con le palpebre che stentavano a
rimanere sollevate. Da quante ore non dormiva?
Dal
piano superiore non
sentiva provenire alcun suono. Talora egli si soffermava sul posto,
mentre camminava, per evitare di coprire coi propri passi qualsiasi
rumore potesse giungere dall'alto, e levando gli occhi ascoltava:
tutto era silenzio, eppure egli era certo che Agatha non dormisse.
Avrebbe voluto salire di sopra e parlarle, o almeno sedere in
silenzio al suo fianco e non far altro che accumulare l'una
sull'altra le loro presenze, eppure, ogni volta che provava anche
solo ad avvicinarsi alla grande scala, qualcosa lo tratteneva con tale
forza ch'era come venir afferrati per le braccia... allora, egli
tornava indietro. Non c'era niente che potessero fare l'uno per
l'altra, ora.
Il
dottor Ross arrivò
dopo un tempo che a lui parve sproporzionatamente lungo per qualcuno
che abitasse in un paese piccolo quanto Lavandonia: erano quasi le
otto e un quarto. Quando Samuel si precipitò ad aprire la
porta, col
cuore che traboccava di conforto e gratitudine, senza nemmeno
premurarsi di chiedere chi vi fosse dall'altra parte, si
ritrovò
davanti un uomo basso e di mezz'età, piuttosto corpulento
che
robusto, che lo fissò per qualche istante con
severità prima di
chiedere: «Il signor Oak, presumo. È lei che mi ha
telefonato,
stamattina?»
A
dire il vero, il suo
tono era alquanto freddo per un medico, ma Samuel era troppo preso
dal pensiero di Agatha per farci caso. A colpire la sua attenzione fu
invece l'aria di grande sicurezza che quell'uomo sembrava emanare,
al di là della sua espressione severa, e la stretta decisa e
secca che
gli diede. Si affrettò a farsi da parte. «Sono
stato io. Grazie per
essere venuto subito.»
Il
medico emise un
verso di disapprovazione mentre varcava la soglia: portava con
sé
una valigetta piuttosto rigonfia. «Subito! Ah! Lavandonia
è in
preda al panico. Avrei voluto venire in automobile, ma le strade sono
congestionate per... avrà visto cos'è successo,
presumo»
soggiunse, gettandogli uno sguardo distratto mentre appoggiava
l'ombrello contro la porta.
Samuel
si sentì quasi
vacillare. Nella domanda del dottore non c'era assolutamente niente
che potesse suonare accusatorio o indagatore, anzi lo aveva a
malapena guardato ponendogliela, ma ma come avrebbe potuto non
sentirsi sotto processo sapendo cos'aveva fatto? Ebbe bisogno di
appoggiarsi con la mano alla parete per cercare un sostegno e si
augurò che il suo gesto non sembrasse troppo insolito.
«Ho
visto l'incendio
dalla finestra» disse a voce bassa, fissando il pavimento
nella
speranza di tradire il minor turbamento possibile. «Avrei
voluto
uscire a dare una mano, ma dovevo occuparmi di Agatha, e...»
«Bah!
Nessuno avrebbe
potuto aiutare» commentò il medico con voce
sprezzante, come s'egli
avesse espresso un'idea molto sciocca. «Nemmeno i pompieri
sono
riusciti a salire così in alto. È stato il cielo
a salvare la
Torre: se non si fosse messo a piovere... comunque. Vuol farmi
strada, prego?» soggiunse, in tono appena meno scostante.
Muovendosi
come un
automa, Samuel scattò in avanti per condurlo al piano di
sopra. Si
sentiva molto incerto e l'ultima cosa che avrebbe voluto era proprio
suscitare sospetti sugli eventi della Torre, ma non poté
trattenersi
dal domandare ancora. «Si sa come è scoppiato
l'incendio?» chiese
con tutta la calma che riuscì a simulare mentre salivano le
scale.
«Un
fulmine, suppongo»
ribatté il dottor Ross quasi con disprezzo: per gli abitanti
di
Lavandonia, l'idea che un fulmine potesse essere stato tanto
irrispettoso da colpire la loro Torre doveva avere qualcosa di
sacrilego e irriverente. Il dottor Ross aveva detto un
fulmine con
la stessa aria di superiorità con la quale avrebbe potuto
dire:
un monellaccio. «Ma la ricostruiremo,
vedrà. La Torre è qui da
prima dei nostri nonni e non permetteremo a niente di buttarla
giù.
Ah, ecco...»
Erano
già nel
corridoio del primo piano: quando Samuel si voltò, colpito
dalle sue
parole, vide che il dottor Ross si era fermato davanti a una porta
chiusa e che lo stava guardando con aria interrogativa,
accennandogliela leggermente. Senza aver capito affatto cosa
quell'uomo intendesse, Samuel si limitò a indicargli la fine
del
corridoio. «Veramente, la camera di Agatha
è...»
Per
il medico fu come
un'illuminazione improvvisa. Si riprese subito, con una mezza risata
di circostanza, e riprese il corridoio. «Ha ragione, sa!
È da tanti
anni che non visito più la signorina. In effetti, quella
stanza ora
sarebbe un po' troppo piccola per una donna fatta.» Solo
allora Samuel
realizzà che dietro quella porta chiusa doveva esserci la
camera
d'infanzia di Agatha e che il medico vi si era rivolto
istintivamente dopo tutti quegli anni.
La
porta dell'attuale
stanza di Agatha era stata appena accostata: accostandovi l'orecchio,
Samuel bussò chiaramente e disse ad alta voce:
«Agatha, il dottor
Ross è qui.»
Attese
invano la
risposta per una decina di secondi: dall'interno della stanza buia
non giungeva in risposta altro che silenzio. Del resto, che altro ci
si sarebbe potuti aspettare? Non la vedeva meno chiaramente che coi
suoi occhi, orgogliosamente asserragliata nella fortezza del suo
letto, contrariata e offesa all'idea che nonostante la sua
opposizione egli avesse egualmente chiamato il medico... ma con la
sua rabbia egli avrebbe fatto i conti quando tutto fosse finito.
«È
sveglia, comunque»
mormorò un po' imbarazzato. «Prego,
entri.»
Aprì
lentamente la
porta e si fece da parte, facendogli cenno di entrare. Dal letto che
scorgeva appena in fondo alla camera non giunse alcuna parola di
saluto o di protesta, quasi che la stanza fosse disabitata, quando il
dottor Ross entrò col cappello rispettosamente in mano; ma
poi,
quando Samuel si mosse istintivamente per seguirlo, quegli si volse
verso di lui e si bloccò, ostruendogli il passo con la sua
mole.
«Lei
è il fidanzato
della signorina?» chiese severamente, guardandolo dall'alto
in basso
con aria di disapprovazione.
Samuel
non avrebbe
creduto mai di poter ancora arrossire, eppure ebbe la precisa
sensazione delle proprie guance che bruciavano. Si ritrasse di
scatto, scuotendo la testa, e balbettò in fretta senza
riuscire ad
articolare nulla di concreto: «No, io... compagni di viaggio.
Sono
un suo amico.»
«Capisco.
Un motivo in
più per rimanersene fuori, suppongo» concluse il
medico, afferrando
la maniglia della porta per chiuderla dietro di sé: era
evidente che
considerava chiusa la questione. Ma poi, rendendosi conto d'esser
stato troppo duro,proseguì: «Stia tranquillo,
signor Oak. Me ne
occupo io. Ma lei perché non va a riposarsi un po', nel
frattempo?
Verrò io a chiamarla quando avrò finito. Mi
sembra molto stanco.»
Stanco,
già: stanco. Quando la porta si fu richiusa davanti a lui e
alla sua angoscia,
Samuel appoggiò la fronte contro il legno fresco,
socchiudendo gli
occhi. Era l'unico modo ce avesse per sentire di star vicino ad
Agatha anche in quel momento, appoggiarsi alla porta e convincersi di
essere lì.
Sentì
che il dottor
Ross la salutava con la massima cortesia: dopo qualche secondo,
Agatha rispose piuttosto freddamente. Udì il rumore della
finestra
che veniva spalancata per lasciar entrare un po' di sole, il tono
leggero e di circostanza con il quale cercava d'instaurare una
convesazione. Da dove si trovava, Samuel non riusciva a distinguere
le parole, ma udire la voce di Agatha, per quanto debole, stanca e
fredda, lo fece sentire un po' meglio. Agatha era viva, quantomeno.
Continuò
ad ascoltare
le loro voci basse provenienti dall'interno, cercò di
distinguere
dalle loro modulazioni almeno il parere del medico... ma era
impossibile. Dopo qualche minuto udì il gemito di Agatha
–
un'emissione di voce bassa e contrariata, come se fosse riuscito a
sfuggirle nonostante tutta la sua volontà, e una parola
rassicurante, come se il dottor Ross volesse tranquillizzare una
bambina. Cominciò a camminare su e giù per il
corridoio, incapace
di ascoltare ancora, e aspettò.
Il
dottor Ross rimase
nella stanza per i venti minuti più lunghi della sua
esistenza.
Quando uscì, non parve affatto sorpreso di trovarlo ancora
lì,
nonostante le sue raccomandazioni.
«Ah,
eccola» constatò
flemmaticamente, richiudendo la porta dietro di sé.
«Meglio così,
suppongo. Può accompagnarmi giù?»
Aveva
tutta l'aria di
volergli dire qualcosa. Si avviarono in silenzio lungo le scale, ma
Samuel esitò a domandare: aveva la bocca piena di domande,
ma vedeva
bene che il dottor Ross era pensieroso, catturato da riflessioni
tutte sue.
Quando
giunsero ai
piedi delle scale, come continuando un discorso che avesse
già
lungamente avviato nella sua testa, il medico parlò.
«Per telefono
non avevo capito che si trattasse di una cosa tanto grave.»
Ogni
singola speranza
che Samuel avesse concepito nella propria mente sino ad allora
scomparve, parve soffocare e afflosciarsi proprio come un fiore. Dopo
lunghi istanti di lotta, quando l'aria finalmente accennò a
tornargli nei polmoni, esclamò: «Quanto
grave?»
Il
dottor Ross non
rispose subito. Si sfilò gli occhiali, con gesti molto lenti
e
misurati, e prese a pulirli pensierosamente. «Una ragazza
così
giovane, così bella... è un peccato.»
«Che
cosa è un
peccato?» sbottò nervosamente Samuel. Sentiva che
se solo avesse
dovuto attendere un altro minuto solamente, avrebbe cominciato a
urlare.
Finalmente
il dottore
si decise a smettere di evitare il suo sguardo. Si rimise gli
occhiali sul naso e si volse nettamente verso di lui.
«È una ferita
piuttosto profonda» disse. «È stato lei
a fare la fasciatura,
presumo. Andava bene per contenere l'emorragia, ma ho dovuto comunque
ricucirla. Questo non sarebbe un problema, ma le resterà una
cicatrice molto visibile, e bisognerebbe capire bene l'estensione dei
danni, ma con i soli mezzi a mia disposizione, io... La signorina mi
ha detto che non avrebbe voluto che lei mi chiamasse»
soggiunse
all'improvviso, in modo del tutto slegato da quanto stava dicendo un
attimo prima, tornando a guardarlo. Samuel fu quasi sollevato dal
pensiero di doversi concentrare su una risposta da dargli: questo lo
distraeva quantomeno dal pensiero di Agatha.
«Lei
la conosce»
borbottò. «È così
orgogliosa...»
«Oh,
lo so, lo so»
esclamò il medico agitando una mano, come se gli parlasse di
un
argomento che conosceva anche troppo bene; ma ora dal suo tono aveva
una certa nota compiaciuta, come s'egli fosse stato fiero del suo
carattere indomito e ne avesse avuto un qualche merito.
«È sempre
stata così, sin da bambina. Ma è stato molto
bravo a convincerla,
sa? Se non le avesse dato retta, non si sarebbe lasciata visitare.
Non mi permetteva mai di toccarla quando a chiamarmi era il signor
Firefly... voglio dire, il suo tutore.»
Di
che genere di
complimento si trattasse, questo Samuel non sarebbe stato in grado di
dirlo, e anzi aveva il sospetto che si trattasse piuttosto di una
velata insinuazione, ma decise di sorvolare. Si limitò ad
assentire, allora il medico proseguì: «Pensa che
le sarebbe
possibile, se volesse... convincerla a farsi ricoverare?»
Questa
volta Samuel non
poté trattenersi dal fissarlo con tutto lo stupore e
l'orrore di cui
era capace. «Ricoverare dove?»
In un manicomio, forse?
Possibile che Agatha avesse detto la verità – ma
no, ma no! Agatha
non era una sciocca! Sapeva bene come lui che nessuno le avrebbe
creduto mai! E allora, se non in un manicomio, la sua ferita era
tanto grave da...?
«Non
c'è nulla per
cui alterarsi, signor Oak!» protestò il medico,
sollevando entrambe
le mani contro l'aggressività della sua voce. «Non
volevo dire
che... ma insomma, in un ospedale potrebbero seguirla meglio di me.
Lavandonia è una piccola città, signor Oak, e io
non sono che un
medico di campagna. Non posso certo paragonarmi al primario
dell'ospedale di Azzurropoli, le pare?»
Di
fronte alla candida
ragionevolezza delle sue proteste, Samuel si sentì molto
stupido per
aver alzato la voce. Si strinse nelle spalle e mormorò
impacciato:
«Proverò a parlargliene, se vuole. Ma non posso
fare
l'impossibile.»
Il
dottor Ross
approfittò della sua resa per sospingerlo discretamente
verso la
porta. «Lei mi pare stanco, signor Oak. Da quanto tempo non
dorme?»
Per
evitare di dover
rispondere con precisione, Samuel fece un cenno vago con la mano.
Cominciava ad avvertire molto intensamente lo sguardo del dottore su
di sé e fu contento che i capelli che non tagliava da un po'
coprissero a sufficienza la brutta escoriazione che la pallida mano
gli aveva provocato. Non aveva voglia di dover dare spiegazioni al
riguardo. «Questa notte ho dovuto occuparmi di
Agatha.»
Ormai
erano davanti
alla porta, ma vedendo che il medico si fermava, Samuel
esitò ad
aprirla: non voleva dare l'impressione di volerlo cacciare per
correre al piano di sopra. Gli parve che ora il dottor Ross fosse di
nuovo pensieroso.
«Questa
notte, è
vero?» ripeté. «A proposito... forse lei
può aiutarmi, signor
Oak: c'è qualcosa di questa storia che mi sfugge. La
signorina mi ha
detto che a morderla è stato un cane. Lei può
confermarlo,
presumo?»
Solo
in quel momento
Samuel realizzò che lui e Agatha non avevano pianificato
nessuna
storia comune da raccontare in queste circostanze. Avrebbe voluto
mordersi le mani per la stizza, invece rispose:
«Naturalmente.»
«Suppongo
che lei si
renda conto che i cani sono una specie rarissima a Kanto e che ci si
aspetterebbe che lei ne denunciasse la presenza alle
autorità, tanto
più visto che si tratta di un esemplare
aggressivo.»
Samuel
non sapeva
niente di tutto ciò, ma promise che appena possibile,
sarebbe andato
a presentare la segnalazione.
«Molto
bene, molto
bene.» Il dottor Ross assentì gravemente con aria
di grande
approvazione. Accarezzandosi piano il mento, proseguì:
«A questo
punto, devo confessarle di essere un po' confuso, signor Oak. Vede,
la ferita sulla gamba della signorina è un morso
umano.»
Un
morso umano! Forse,
se solo Samuel fosse stato meno stanco e meno sconvolto, non avrebbe
avuto bisogno che qualcuno glielo dicesse per immaginare che un
medico avrebbe saputo distinguere a una prima occhiata un morso umano
da uno di cane... ma stanco e sconvolto era quello che era, e solo
allora egli si rese conto di quanto lui e Agatha fossero stati
imprudenti.
«Non
so che cosa
dirle» disse rudemente.
«Davvero?»
chiese il
dottore, fissandolo con attenzione. Dal suo sguardo indagatore Samuel
si sentì infastidito e appoggiò discretamente la
mano sulla
maniglia della porta: ora tutto ciò che voleva era che
quella visita
avesse fine. «Lei era con la signorina quando è
stata ferita?»
Dopo
un attimo di
esitazione, Samuel rispose: «Era buio e mi ero allontanato di
qualche metro dal nostro accampamento. Non ho visto il cane.»
«Presumo
che lei non
conosca nessuno che potrebbe averla aggredita, non è
vero?»
All'improvviso
Samuel
comprese a cosa miravano tutte quelle domande, cos'era che il medico
stava insinuando sin da quando avevano incominciato a parlare....
«Lei
pensa che sia
stato io!»
Quello
era troppo. Il
pensiero di Agatha, così come l'aveva vista appena poche ore
prima,
riversa al suolo col sangue che le impiastricciava le gambe e il
volto sbiancato, gli riempì gli occhi tanto intensamente
ch'egli di
nuovo si sentì lassù, stagliato sopra il nulla
dall'alto di quella
Torre, e si sentì vacillare... Colla vista annebbiata e le
orecchie
che ronzavano, non si accorse neppure di essersi appoggiato alla
porta con tutto il peso del suo corpo. Lo comprese solo quando
sentì
la sensazione morbida del divano sotto le cosce, quella fredda e
dolciastra dell'acqua zuccherata che il dottor Ross gli stava facendo
bere...
«Non
è niente, non è
niente... un calo di pressione, mio caro ragazzo, ma va già
meglio,
eh? Come si sente?»
«Non
sono stato io»
balbettò Samuel meccanicamente, spingendo via il bicchere.
Avrebbe
voluto alzarsi in piedi, ma decise che aveva bisogno di qualche
istante per riprendersi. Cercò di respingere il pensiero
anche
troppo concreto della notte passata per potersi concenrare e
guardarlo negli occhi. «Perché mai avrei dovuto
fare qualcosa di
tanto orribile?»
«Dovevo
chiederlo,
signor Oak.» Il medico era di nuovo serio e grave come prima.
«Quello non può essere un morso di cane e non
farei il mio dovere
se non indagassi. »
Posò
ordinatamente il
bicchiere sul tavolo, ritraendosi di qualche passo per lasciargli un
poco di spazio per respirare. Samuel respirò profondamente:
si
sentiva molto meglio, ora, e si vergognò del mancamento che
aveva
avuto poco prima.
«Se
non mi crede,
chieda ad Agatha» disse amaramente. «Può
chiedere a lei se ha
mentito.»
Non
avrebbe potuto
trovare una parola magica più efficace: non appena aveva
sentito
pronunciare il nome di Agatha, il dottor Ross si era irrigidito. Gli
accennò appena quello che avrebbe voluto essere un sorriso.
«Non è
il momento adatto per contraddire la signorina, suppongo»
disse, un
po' troppo in fretta perché non suonasse come una scusa.
«E
sconsiglio di farlo anche a lei. Cerchi di lasciarla tranquilla.
È
sicuro di non poterla convincere a ricoverarsi?»
Dal
momento che
finalmente il medico sembrava ansioso di porre fine alla visita,
Samuel non avrebbe potuto essere più contento di
accompagnarlo alla
porta. Tornò ad alzarsi in piedi, sulle gambe fiacche ma che
ora non
minacciavano più a ogni istante di cedere, e si mosse verso
l'ingresso. «Farò del mio meglio.»
«Suppongo
che in tal
caso sia meglio non insistere.» Ormai sulla porta, in
procinto di
rimettersi il cappello, si prese qualche istante di riflessione prima
di parlargli ancora. «Tornerò stasera a visitarla
ancora, ma la
prego di chiamarmi se dovesse salirle la febbre. Contatterò
un'infermiera per la notte, per non lasciarla sola...»
«Un'infermiera?»
esclamò Samuel. Si affrettò a scuotere la testa.
«La ringrazio,
ma non credo che Agatha accetterebbe di farsi curare da altri. Non
sarebbe una buona idea.» Non ne avevano mai parlato, a dire
il vero,
ma con ogni probabilità, per Agatha un'infermiera non
sarebbe stata
altro che una vittima da tiranneggiare. «Posso rimanere io
con
lei.»
Il
dottor Ross ebbe uno
strano sorriso imbarazzato che somigliava più a una smorfia.
«Vuol
dire che intende rimanere qui per la notte?»
Ora,
decisamennte,
Samuel cominciava a non aver più voglia di discutere, di
difendersi,
di giustificarsi di fronte ad altri che alla sua coscienza solamente.
Era stato lui stesso, la sera precedente, a porsi il medesimo
problema, ma all'improvviso si rese conto di quanto inutile e stupido
questo fosse.
«La
ringrazio molto,
dottore» disse in tono un po' più duro di quanto
avrebbe voluto. «A
stasera.»
Quando
finalmente la
solenne intimità della casa si fu richiusa su di lui,
separandolo
dal mondo esterno e da quel medico e dalle sue insinuazioni, Samuel
prese un lungo respiro profondo prima di salire lentamente al piano
di sopra. Si sentiva diventato in una sola notte molto vecchio.
La
porta della camera
di Agatha era di nuovo chiusa, ma Samuel sapeva di non aver bisogno
di bussare. La sospinse con delicatezza, aprendola piano sull'enorme
stanza bianca e inondata di luce.
«Samuel...»
La
specchiera
rifletteva barbagli dorati sulla parete sopra la testiera del letto,
dove Agatha giaceva minuscola come una bambina, seduta con la schiena
appoggiata ai cuscini e i capelli che incorniciavano lugubremente il
languore del suo volto. Via via ch'egli s'avvicinava al letto, le sue
occhiaie sembravano a ogni passo più scure. «Hai
parlato col
dottore?»
Samuel
annuì. «Sì.
Dice che tornerà stasera, ma di avvertirlo se dovessi avere
la
febbre.»
«Dimmi
la verità,
Samuel. Perderò la gamba?»
Quella
grande forza, da
dove le veniva? Samuel la fissò ammutolito per qualche
istante.
Ferita, estenuata, straziata in ogni luogo della sua persona com'era,
da dove le veniva il coraggio di fronteggiare la realtà con
determinazione titanica? Samuel avrebbe avuto un gran bisogno di
poter fare lo stesso, ma per quanto cercasse dentro di sé,
non
trovava altro che un grande vuoto e debolezza.
Scosse
la testa in
risposta alla sua domanda. «Certo che no, Agatha. La tua
gamba non è
in pericolo, purché evitiamo che la ferita s'infetti. Ti...
ti hanno
fatto male i punti?»
Agatha
non udì neppure
la sua domanda. Chinò lo sguardo sulle proprie gambe sotto
le
lenzuola e mosse lentamente i piedi. Non c'era bisogno di troppa
attenzione per rendersi conto che la gamba ferita era innaturalmente
più rigida dell'altra.
«È
normale» disse
Samuel d'istinto, in risposta alla muta scettica domanda che sentiva
echeggiare nell'aria, e quella sua rassicurazione suonò
ancora più
forzata e falsa, proprio per il fatto che non era stata richiesta.
Agatha non ebbe reazione.
«Sei
arrabbiata con me
per averlo chiamato?»
Questa
volta,
finalmente, ella levò gli occhi su di lui. Scosse lentamente
la
testa. «No, Samuel... sai che non lo potrei mai. Avevi
ragione tu.»
Se
quella notte egli
non fosse andato sulla Torre, i loro Pokémon non sarebbero
morti.
Sapeva che Agatha non glielo avrebbe rinfacciato mai, perché
aveva
scelto liberamente di seguirlo, ma nonostante ciò, era molto
difficile credere di aver avuto ragione su qualcosa. Sforzandosi di
ignorare quel pensiero, Samuel allungò una mano ad
accarezzarle i
capelli.
«Dormi,
adesso. E
cerca... cerca di non pensare a niente.»
Senza
preavviso, Agatha
allungò una mano dalle coperte e gli accarezzò
con due dita le
livide occhiaie grigiastre sotto gli occhi. Le sue dita erano fredde
e lisce come un flutto d'acqua lacustre, e socchiudendo gli occhi
egli si concesse di abbandonarsi per un solo istante alla beatitudine
del suo tocco. Ma quella beatitudine era troppo più di
quanto il suo
rimorso potesse tollerare, e a essa finì per sottrarsi.
«Dormi
anche tu,
allora. La stanza degli ospiti...»
«Va
bene. Ora
riposati.»
Accarezzò
la sua mano
e l'appoggiò sul letto, tra le lenzuola fresche e pulite che
sembravano parlare ancora di una vita normale, di un mondo in cui
bianco significava pulizia e purezza piuttosto che
pallore e
morte, e uscì dalla camera chiudendo la porta.
Si
trascinò fino alla
camera degli ospiti che Agatha gli aveva preparato con tanta cura e
si spoglià lentamente, gettando al suolo via via ciascun
abito, fino
a rimanere in mutande, e si guardò a lungo nello specchio in
un
angolo della stanza. L'uomo che ricambiava il suo sguardo aveva un
fisico tonico e snello dai muscoli guizzanti, la pelle bronzea di
sole, ma anche il volto corrucciato e stanco e profonde occhiaie
nere, e nei suoi occhi colmi d'accusa Samuel non vide alcuna traccia
di perdono.
Dormì
di un sonno
pesante e inquieto dal quale si destò a fatica dopo forse
quattro
ore. Non era mai stato abituato a dormire di giorno e ora si sentiva
intorpidito, e più assonnato e confuso ancora di quando si
era
addormentato. Guardandosi attorno, Samuel faticò qualche
momento a
riconoscere l'asettica stanza degli ospiti di Agatha. La luce che
filtrava attraverso le persiane chiuse disegnava sulle pareti macchie
dorate che, per qualche istante, parvero voler richiamare alla sua
memoria le chiazze luminose che gli avevano abbagliato gli occhi
lassù, sulla Torre...
Non
riusciva a rendersi
conto di quanto tempo fosse effettivamente passato. La luce esterna
era quella del pieno mezzogiorno, eppure egli faticava ad abituarsi
all'idea che fosse trascorsa già, e al tempo stesso che
fosse
trascorsa solo una decina di ore appena da
quell'orrore... ma
era giorno, ora.
Sarebbe
stato così
facile rimanere in quel letto fresco fino a che il sole non fosse
calato di nuovo, concedersi per qualche ora ancora di credere che
tutto non fosse stato che un orribile incubo dal quale egli avrebbe
finito per svegliarsi quando avesse avuto l'impressione di cadere, o
quando tutto fosse diventato troppo da sopportare... Ma l'assenza di
Arcanine gli dava una consapevolezza tanto intensa, dolorosa e
innegabile da non poter essere un sogno, e neppure per un istante si
concesse di credere che Arcanine non fosse morto davvero, e per colpa
sua. Si era già comportato da vigliacco una volta, quella
notte, ed
era anche troppo.
Non
si rese quasi conto
di sollevarsi dal letto e di vestirsi lentamente, in silenzio,
respirando appena per paura di svegliare Agatha. Era il suo corpo,
ora, a guidarlo e a scegliere per lui, condotto da un certo pensiero
che balenava nella sua mente a intervalli regolari, ma che sembrava
scomparire ogni volta ch'egli vi si soffermava con la mente e cercava
di afferrarlo per riflettervi su. Era un qualche pensiero confuso che
non riusciva a realizzare logicamente, eppure provava la persistente
sensazione che fosse la cosa giusta da fare.
Scese
le scale per
uscire all'aperto, sul vasto prato molle di pioggia. Non
sollevò lo
sguardo. Se l'avesse fatto, se avesse guardato, avrebbe visto di
nuovo la cima bruciata della Torre, vicina e concreta tanto che
avrebbe creduto di poterla toccare: ma cos'avrebbe potuto dirgli di
nuovo? Dalla sua desolazione non gli sarebbe giunta di certo alcuna
rassicurazione o pietà, e guardarla gli avrebbe solo fatto
del male.
Attraversò
il
giardino tenendo gli occhi bassi, compiendo un lento giro tutto
attorno alla casa. Non aveva idea di dove stesse andando, e solo
un'idea molto poco chiara di cosa stesse cercando, ma nel suo
profondo sapeva che avrebbe capito non appena avesse visto.
Si
fermò quando si
trovò davanti a una specie di capanna degli attrezzi,
addossata
contro il muro orientale della casa: il suo istinto gli disse che era
proprio là che doveva fermarsi. Le girò attorno
per trovare la
porta, piuttosto accostata che chiusa, e vi appoggiò una
mano sopra:
sentiva che dall'interno proveniva un certo calore.
Charizard
ruggì quando
egli spalancò la porta, e Samiel sentì un fiotto
d'aria calda
investirgli il viso, ma non retrocedette, non vacillò. Si
sforzò di
tenere gli occhi aperti anche in quell'aria bollente e,
semplicemente, attese.
Charizard
si era
rannicchiato sul fondo della capanna, contro alcune vecchie scatole
di legno dall'aria trascurata. Così acquattato com'era, col
collo
proteso verso di lui e gli occhi colmi di dolore come una bestia
ferita, a Samuel non era parso mai tanto indifeso. All'improvviso si
accorse di essersi aggrappato con le mani allo stipite della porta e
che vi si era appoggiato con tutto il suo peso, forse perché
di
fronte a tanta rabbia e a tanto dolore le sue gambe minacciavano di
cedere.
«Mi
dispiace» disse,
ed ebbe l'impressione che la sua voce suonasse lontanissima e
assente, tutt'altro che sua. Eppure, era tutto quanto poteva dire.
Charizard
scosse la
testa e fece per voltarsi dall'altra parte. Quel gesto gli diede coma
una fitta lancinante in pieno petto: Charizard non voleva guardarlo!
Charizard, ch'egli conosceva da quando l'uno e l'altro non erano che
bambini inesperti che andavano ovunque, ma il più lontano
possibile
da Biancavilla...!
Era
avanzato verso di
lui attraverso la rimessa. Ora a malapena udì se stesso
balbettare,
con voce straziata e incerta: «Hai ragione, Charizard, hai
ragione
tu... è stata tutta colpa...»
Charizard
ruggì di
nuovo.
Quando
si era alzato in
piedi? Ora la sua presenza sembrava riempire tutta la stanza, era
immensa e torreggiante su di lui, e Samuel non poté fare a
meno di
fermarsi bruscamente proprio là dove si trovava, sollevando
le mani
in segno di resa.
Ora
taceva
semplicemente, sforzandosi di non chinare gli occhi, di
sopportare la fissità acusatoria dello sguardo di Charizard.
La sua
coscienza colpevole fremeva, trepidava, lo supplicava da dentro di
lui di abbassare lo sguardo e di arrendersi, ma Samuel s'impose con
tutta la forza che gli rimaneva di continuare a guardare. Le sue
parole non erano bastate a calmarlo, ed egli sapeva che ora Charizard
lo disprezzava e lo odiava, ma forse era proprio del suo disprezzo
ch'egli aveva bisogno. Arcanine era morto per colpa sua, e nessuno
mai oltre a chi era stato presente quella notte l'avrebbe saputo, ma
tutto ciò che Samuel in quel momento desiderava era essere punito,
voleva che dall'esterno qualcuno riversasse su di lui tutto
l'odio e la rabbia e il disprezzo ch'egli stesso provava per
sé, ma
che erano destinati a rimanere confinati e brucianti dentro di lui
solamente. Tutta la persona che era stato fino al giorno prima ora
gli sembrava che fosse in piedi dietro di lui, dentro di lui, a
giudicarlo e a urlargli che era accaduto tutto a causa della sua
sciocchezza, ma quella voce era muta e soffocata e a Samuel non
sembrava sufficiente!
Mi dispiace così
tanto, avrebbe voluto gridare, e poi ancora: Hai ragione, hai ragione
su tutto. Avrei dovuto credere ad Agatha quando avrei potuto,
ma
qualsiasi giustificazione ora gli sembrava peggiore e più
vile
ancora del silenzio, e tacque.
Il
ruggito ribollente
di Charizard finì di riversarsi su di lui bruciando sulla
sua pelle
come se fosse fuoco così com'era iniziato, sfumando in un
gorgoglio
sommesso e minaccioso e poi, lentamente, nel silenzio, ma ancora
Samuel non accennava a muoversi, né a reagire.
Aspettò.
La
coda di Charizard
che fiammeggiava in un angolo della baracca emanava una luce intensa
e un calore soffocante di cui Samuel si sentiva ormai sgradevolmente
sudato. Proveniendo dal basso, la luce annegava il muso di Charizard
in una grottesca, espressiva maschera di luci e ombre fortemente
chiaroscurali, ma in quella pozza nera di contrasti egli continuava a
distinguere a ogni momento la fissità dolorosa dei suoi
occhi. La
rabbia del ruggito non si rifletteva nel suo sguardo: tutta la
minaccia e l'odio che Charizard gli aveva rovesciato addosso quando
era entrato non si ritrovavano nei suoi occhi. Al contrario, essi
erano enormi e spalancati, colle pupille dilatate, e spaventati e
sgomenti. In quegli occhi, egli si accorse che c'era ancora una parte
del suo vecchio amato Charizard: una minuscola, infida parte di lui
che forse ancora non poteva credere che Samuel fosse un assassino,
che avrebbe voluto perdonarlo, finalmente, e cedere a quel bisogno di
essere consolato che tuttavia non era forte abbastanza per prevalere,
e anzi Charizard faceva di tutto per sopprimerlo e metterlo a tacere
e non permettere a se stesso di nutrire il minimo dubbio sul fatto
che Arcanine fosse morto proprio per colpa sua.
Con
guardinga lentezza,
Charizard tornò ad abbassarsi fino a sedersi di nuovo e poi,
altrettanto lentamente, ad accovacciarsi contro il fondo della
baracca, col ventre quasi coperto e protetto dalla distesa delle sue
ali. Continuava a non perderlo d'occhio, come a volersi accertare
ch'egli non avrebbe tentato di avvicinarsi, e a emettere talora bassi
sbuffi di fumo nero e pesante. Ma ora anche lui sembrava risentire di
tutta la stanchezza di quella notte troppo lunga, e non aveva
più
niente di aggressivo.
Samuel
rimase immobile
in quella baracca bollente e asfissiante per un tempo estremamente
lungo, incurante del calore che continuava a salire e a bruciare
sulla sua pelle sudata come fiamma. La temperatura si faceva di
minuto in minuto più insopportabile, ma Charizard ancora non
accennava a compiere il minimo gesto verso di lui.
«È
stata la pallida
mano» disse all'improvviso. Non sapeva neppure per quale
motivo lo
stesse spiegando, ma in fin dei conti, Charizard aveva diritto di
sapere tutto, e per tutto di odiarlo.
Charizard
gli rivolse
uno sguardo carico di confusione, sollevando leggermente il capo con
il collo proteso verso di lui.
«È
stata lei a
ucciderli tutti, ma ha ucciso Arcanine per primo. Gli apparteneva, o
qualcosa del genere.»
Charizard
ebbe uno
scatto acuto di fastidio, agitando nervosamente la coda, ma non
distolse lo sguardo e non sbuffò neppure. Samuel sapeva che
nonostante tutto esso voleva sapere la verità. Nei suoi
occhi c'era
un grande interrogativo muto che Charizard era troppo orgoglioso per
porre, anche solo ruggendo, ma Samuel era ben consapevole di
non
essere in grado di descrivere cosa fosse la pallida mano.
«L'ha
sventrato»
disse con voce sorda. Si sorprese di riuscire a pronunciare a voce
tanto alta e tanto semplicemente quell'orribile parola, ma non ne
esistevano di migliori, e usare un eufemismo per riferirsi a
ciò che
essa aveva fatto ad Arcanine sarebbe stata un'offesa alla sua
memoria.
Si
passò una mano
sulla pancia per imitare su se stesso la ferita che aveva ricevuto
Arcanine, dal basso verso l'alto, e stavolta Charizard
spalancò gli
occhi e sbatté più volte le ali, tendendo i
muscoli fin quasi a
volersi sollevare in volo, ma di nuovo non ruggì, non
soffiò, non
lo aggredì. Voleva ancora sapere, dopotutto.
«Era
avvelenato»
proseguì Samuel. Sentiva che quel racconto stava diventando
sempre
più difficile e doloroso da portare avanti: rivedeva tutto,
tutto
ciò che era accaduto nella sua mente, e nelle sue orecchie
sembrava
echeggiare ancora l'ululato di Arcanine. «Ha combattuto
contro tutti
gli altri suoi Pokémon e ha vinto. È stato molto
bravo, e molto
coraggioso, a combattere così, al buio, contro tutti... ma
nessuno
poteva niente contro la pallida mano. E io, invece... non sono
riuscito a richiamarlo in tempo.»
Avrebbe
voluto che
fosse stata questa tutta la sua colpa, ciò che per tutta la
sua vita
avrebbe dovuto rimproverarsi: aver tardato per un istante di troppo a
trovare la Pokéball, essersela fatta scivolare tra le mani e
averla
perduta nel buio. Ma il complesso delle sue colpe era troppo grande e
vergognoso per poterlo ridurre a quella mancanza solamente: era non
aver creduto ad Agatha, essere stato avventato, stupido e imprudente;
era aver creduto che lottare contro il sepolto vivo li avrebbe salvati
entrambi ed era, finalmente, essere indietreggiato.
Ma
quel balzo
all'indietro, il fondo dell'abisso della sua meschinità,
quella
Samuel aveva giurato di non rivelarla mai: era l'estrema colpa della
sua vita, l'unica vera vigliaccheria che avesse compiuto mai, troppo
umiliante e terribile da tollerare: ed egli confidava che per
quell'unica omissione, ovunque fosse, Arcanine sarebbe stato in grado
di comprenderlo e di perdonarlo. Dopotutto, egli ricordava ancora
quell'ultima nota consolante e pietosa che l'uggiolato di Arcanine
aveva avuto nei suoi confronti, come a dirgli di non prendersela, che
non poteva fare nulla, che esso non era arrabbiato con lui, e
l'avrebbe ricordata sempre. E poi, ancora, egli avrebbe potuto
superare l'onta che quella vigliaccheria comportava: sarebbe
diventato un uomo migliore, sì, avrebbe dimostrato a se
stesso che
il suo non era stato altro che un unico atto di debolezza in una vita
d'integrità d'atti e di parole, e allora veramente Arcanine
non
avrebbe avuto più alcun motivo di avercela con lui.
Quella
notte, quando
aveva saputo della morte di Arcanine, Charizard aveva dato fuoco alla
Torre ed eliminato il sepolto vivo; ma ora che tutti i dettagli della
morte di Arcanine gli venivano rivelati, ora che poteva immaginarsi i
suoi ultimi istanti tanto vividamente come se fosse stato presente
anch'esso, non reagiva. Era come se tutta la sua rabbia si fosse
esaurita in quell'incendio, e ora che aveva vendicato la sua morte e
riversato tutta la sua furia in turbini di fuoco e scoppi di fiamme,
ogni suo impulso si fosse spento. Era troppo stanco, troppo disperato
per provare ancora furore, e forse si era reso conto che la sua
vendetta non gli aveva dato il minimo conforto. Arcanine non sarebbe
tornato.
Vi
era di nuovo
silenzio, ma stavolta Samuel non si sorprese di non sentirsi
più
minacciato. Ora realizzava quanto Charizard lo amasse ancora,
nonostante il dolore, e si diede dello sciocco per non averlo capito
all'istante, quando era entrato: se Charizard non lo avesse amato
ancora, non l'avrebbe odiato tanto.
All'esterno
della
baracca, il cinguettio degli uccelli impazziti di gioia per il
ritorno del sole si faceva a ogni istante più forte e
assordante e
frenetico. Fu solo dopo lunghissimi minuti che Samuel si rese conto
quasi con angoscia di aver bisogno di porre quella domanda, e che
doveva farlo adesso, quando ancora esisteva quel minuscolo filo che
lo legava a Charizard e che presto sarebbe stato reciso per sempre.
Forse la sua sarebbe stata una domanda egoistica, insensibile, eppure
Samuel sentiva che se non l'avesse posta sarebbe soffocato.
Per quell'ultima volta, Charizard lo avrebbe ascoltato.
«Credi...
credi che si
soffra molto, a morire così?»
Si
susseguì un odioso
numero di giorni.
Se
Samuel fosse stato
abbastanza padrone di sé da soffermarsi a riflettervi
lucidamente,
con ogni probabilità avrebbe provato grande pietà
e benevola
invidia per il se stesso che quel primo di giugno aveva potuto
permettersi il lusso di credere che Agatha fosse pazza, prima di
affondare nel suo stesso inferno. Crederle ora era inutile e
inevitabile, e quella fatalità di doverle credere proprio
quando
ormai non serviva più a salvarsi era amaramente crudele.
I
primi giorni, la
salute di Agatha diede davvero di che preoccuparsi. La ferita
sanguinava spesso attraverso i punti, talora macchiando persino le
lenzuola, e sebbene Agatha si astenesse orgogliosamente dal
lamentarsene, sembrava che le desse un prurito terribile. Ma non ebbe
mai febbre, e questo, quantomeno, era un buon segno: quando Samuel le
sfiorava con simulata noncuranza il viso o le mani, sentì
sempre la
sua pelle fresca sotto le dita. Anche l'aspetto della sua gamba non
sembrava presentare nulla di anomalo, e per fortuna: Samuel non osava
pensare a come avrebbero potuto occuparsi di una cancrena senza
portarla in ospedale.
Quando
velatamente le
aveva fatto presente, col tono di chi si stia limitando a considerare
una semplice possibilità, la proposta del dottor Ross,
Agatha si era
limitata a scuotere gravemente la testa ed egli aveva lasciato cadere
l'argomento. Tutto il suo dovere morale si era compiuto nell'atto di
quella semplice proposta, ma insistere oltre avrebbe voluto dire
offenderla, e non ve n'era bisogno: Agatha sapeva perfettamente quali
rischi comportava la sua ostinazione, ed era ostinata perché
i suoi
Pokémon erano morti. Non c'era altro da dire.
A
detta del dottore,
non c'era motivo perché Agatha non dovesse comunque tornare
a
camminare, a patto di non sforzarsi troppo: non si espresse
chiaramente, ma dal tono particolarmente cauto col quale lo disse,
Samuel intuì che volesse accertarsi della reale portata dei
danni
della ferita.
Ci
vollero comunque
altri due giorni prima che Agatha decidesse infine di alzarsi e di
riprendere a camminare, dapprima appoggiandosi al muro, e poi
gradualmente da sola, ma senza molto entusiasmo. Il pensiero di non
aver riportato danni irreparabili non sembrava recarle il
benché
minimo conforto. Zoppicava leggermente, questo era vero, ma non
più
di quanto fosse normale per una persona che fosse stata ferita a quel
modo, e il medico sembrava ritenere che coll'affievolirsi del dolore
sarebbe tornato a camminare in modo assolutamente normale; ma quando
questi stabilì che era venuto finalmente il momento di
togliere le
cuciture, ella gli ordinò fermamente di farle comunque
un'altra fasciatura.
Il dottor Ross obbedì senza replicare, quasi schiacciato
dall'imperiosità del suo duro sguardo nero, ma Samuel, che
assisteva
a quella visita dalla soglia della stanza – Agatha era
completamente vestita, ma quand'anche non lo fosse stata, il suo
altero comando di lasciare la porta aperta avrebbe annichilito la
volontà di uomini ben più determinati di quello
– Samuel sapeva
che in quel momento Agatha era fragile come non mai. Non voleva
vedere la ferita: malgrado il suo coraggio e la sua titanica
determinazione, non era ancora in grado di sopportare la vista della
propria carne martoriata.
Ma
mentre Agatha
guariva il dolore si amplificava e cresceva a dismisura –
l'altro
dolore, quello profondo e incommensurabile di cui non si poteva
parlare. Lavandonia sembrava infuriare e incalzarli da ogni parte
fuori da quella casa, premendo sui vetri come una tempesta, e non
perché vi fosse o accadesse qualcosa di eclatante, ma
perché
semplicemente era Lavandonia, con la sua atmosfera cupa e sempre
immancabilmente conscia della presenza della Torre. Tutta Lavandonia
esisteva in funzione della Torre, coi suoi ostinati fiori viola che
sbocciavano solo per venir portati sulle sue tombe, colla sua lunga
ombra che proiettava le ore sull'intera città: in quei
giorni,
decine di ragazzi erano tornati dai loro viaggi o dai loro studi per
dare una mano come volontari. Tutta la città si dedicava
incessantemente a quel vasto edificio grottesco che la prosciugava
come una sanguisuga.
Vi
erano giorni in cui
Samuel avrebbe voluto afferrare Agatha e scuoterla e gridarle: che
cosa facciamo noi qui? Restare qui non li riporterà da noi,
e loro
sono morti per colpa nostra! Andiamo via, il più lontano
possibile
da qui. Andiamo a Johto a cercare di superare questo dolore. A Johto,
a esplorare quelle vaste antiche torri che odorano d'incenso ma che
non celano in sé alcun pericolo! O affittiamo una casa
lontana, che
si affacci sulla vasta schiena del mare, ovunque tu possa guarire,
ovunque, ma che sia lontano da qui... ma ogni volta che
avrebbe
voluto alzarsi, afferrare le sue spalle e gridare e supplicarla,
tutta la sua disperazione finiva per sprofondare in un luogo
recondito della sua mente. Non sarebbe servito. Al suo minimo cenno,
egli sapeva perfettamente che Agatha si sarebbe alzata e avrebbe
accettato di partire, ma abbandonare Lavandonia non li avrebbe
aiutati. Se ne sarebbero andati un giorno, certo, non appena Agatha
fosse tornata perfettamente in salute, ma fino ad allora, a che
affrettare le cose? Il dolore era immutabile e odioso e li avrebbe
seguiti ovunque, e cercare di rifuggirlo era una vigliaccheria ch'egli
sentiva di non potersi concedere.
Ma
poi, che senso
avrebbe avuto rimettersi in viaggio, e verso dove, poi? Il tempo
delle avventure era finito, ormai. Tutta la squadra di Agatha era
morta, e quanto a lui...
Aveva
affrontato il
resto della sua squadra il giorno dopo aver parlato con Charizard.
Non aveva avuto alternative, dopotutto: li aveva evitati anche troppo
a lungo, ed essi avevano il diritto di sapere e di odiarlo. Aveva
fronteggiato l'incredulità, la rabbia, il dolore nei loro
occhi,
aveva parlato con loro e risolto ogni loro dubbio, rinunciando a
qualsiasi tentativo di difendersi, e poi, semplicemente, li aveva
lasciati andare.
Charizard
era stato il
primo ad andarsene, spiccando il volo con furenti battiti d'ala, e
senza guardarsi indietro: aveva gettato soltanto un unico grido per
lui incomprensibile di richiamo e d'intesa, rivolto al resto dei suoi
compagni, ed era svanito. Charizard era stato il suo primo
Pokémon,
con lui da molto tempo prima che lasciasse Biancavilla, e se n'era
andato senza guardarlo. Questo pensiero era per lui fonte di un
dolore inconcepibile, eppure insieme, incredibilmente, di uno strano
senso di giustizia e di accettazione, come una punizione da troppo
tempo meritata ma che aveva tardato ad arrivare. Essere odiato era la
sua punizione, e sentirsi punito riusciva stranamente catartico.
Uno
dopo l'altro anche
gli altri se n'erano andati, ma con un misto di rabbia e di
tristezza, forse senza un vero senso di rancore, e non era difficile
intuire perché: loro non avevano visto. Non avevano
conosciuto il
senso di squallore e desolazione dell'ultimo piano della Torre,
l'odore atroce di sangue e viscere, e non avevano visto il sepolto
vivo. Forse Charizard avrebbe saputo spiegarglielo meglio di lui , ed
essi finalmente avrebbero davvero potuto odiarlo, ma per ora, nelle
loro menti, egli era solo il responsabile di un terribile incidente,
e non il reale colpevole della morte di Arcanine.
Exaggutor
era stato
l'ultimo ad andarsene. Assieme a Tauros, era stato l'ultimo a entrare
nella sua squadra, il giorno del suo primo indimenticabile safari; ma
era anche sempre stato il più affettuoso del suoi
Pokémon, ed era
stato l'unico, quel giorno, a richiedere da lui un abbraccio. Si era
avviato sulle tracce dei suoi compagni lentamente, di controvoglia, e
gettando indietro frequenti occhiate e grida di disperati addii:
probabilmente, era anche l'unico di loro che non l'avrebbe odiato.
Quando
era rientrato in
casa, Agatha lo attendeva nel salottino. Non aveva detto nulla, ma lo
aveva guardato, con tanta intensità da
fargli comprendere,
senza alcun bisogno di parole, di aver visto tutto. Aveva il volto
contratto dal dolore e dallo sforzo di aver camminato, colle labbra
strette ed esangui e le guance sbiancate.
Non
c'era bisogno di
dire niente. Samuel si era seduto vicino a lei sul divano, sentendosi
gli
occhi colmi di lacrime e la testa che pulsava, e aveva posato la testa
sull'incavo della sua spalla per non essere costretto a guardarla
negli occhi.
Agatha
non aveva avuto
reazione. Così appoggiato a lei com'era, Samuel percepiva
appena il
battito del suo cuore contro la pelle, e chiudendo gli occhi egli si
sforzò d'ignorare tutto e non pensare, divenire un tutt'uno
con quel
battito rassicurante e credere che esso fosse tutto ciò che
esisteva
al mondo...
«Continuare
a punirti
non lo farà tornare, Samuel» aveva mormorato
Agatha dall'altra parte di
quel suono.
Le
sue parole suonavano
tremendamente vere: Arcanine non sarebbe tornato mai più da
lui, e
nulla di tutto quanto avrebbe mai potuto fare avrebbe potuto cambiare
questa realtà. Agatha aveva ragione, eppure, nel suo
profondo, egli
sapeva che di cercare di punirsi per ciò che aveva fatto non
avrebbe
smesso mai, e mordendosi le labbra non le aveva risposto.
I
loro dolori erano
troppo grandi, erano come vasti e profondi baratri d'abisso che non
avrebbero mai potuto colmarsi a vicenda. Samuel avrebbe
disperatamente voluto sapere se esistesse una ragione capace di
giustificare e redimere il loro dolore, s'egli avesse compiuta la
scelta migliore, e poi altre cose ancora, ma non non c'era bisogno di
aggravare Agatha del
peso di domande cui sapeva già non esistere una risposta.
Parlare in
quel momento sarebbe stato lo stesso che domandare urlando contro
l'algido cielo assolato che li ricopriva, e udire la propria voce
vibrare attraverso l'aria immota, ma rimanere tuttavia inascoltato e
ignaro sotto l'indifferenza del muto cielo distante.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Si mens non laeva fuisset (Parte Seconda). ***
Capitolo
IX – Si
mens non laeva fuisset (Parte Seconda)
Cominciò
la
ricostruzione della Torre Pokémon.
Gli
ultimi due piani
erano stati completamente devastati dalle fiamme: non c'era
più
niente da salvare o da recuperare tra le pareti distrutte. Persino le
lapidi in pietra o in marmo erano state a tal punto danneggiate o
annerite dal calore da risultare pressoché irriconoscibili,
e solo
alcune delle statue sepolcrali meglio conservate furono trasportate
via per cercare di procedere a un restauro.
L'inizio
ufficiale dei
lavori fu salutato da un'orgogliosa cerimonia formale presieduta dal
sindaco ai piedi della Torre stessa: Samuel non riusciva proprio a
concepire il motivo di tutto quel furioso attaccamento alla Torre.
Proprio com'egli aveva notato nel dottor Ross, sembrava che tutta la
città avesse vissuto l'incendio come un affronto alla sua
propria
dignità civile. La decisione di ricostruire non solo
ciò che era
andato distrutto, ristrutturando il resto della struttura, ma anche
di costruire un altro piano ancora dedicato alle sole onoranze,
sembrava esser stata presa sull'onda di una forte indignazione
generale, quasi come fiera risposta all'ordine naturale degli eventi
che aveva sfidato la sacralità di Lavandonia.
«Sono
proprio degli
sciocchi, non è vero?»
Appoggiandosi
a lui,
Agatha era scesa in salotto quel giorno. Indossava un modesto abito
da casa di colore scuro, stretto in vita in un modo che risaltava
ancor più la sua innaturale magrezza, ma aveva i capelli
ancora
raccolti nella voluminosa treccia spettinata della notte precedente,
gettata con noncuranza sulla spalla destra.
Non
aveva pronunciato
una sola parola in tutto il pomeriggio, e proprio per questo Samuel
sollevò bruscamente il capo quando la sentì
parlare. In quel
momento, Agatha non lo stava guardando: aveva lo sguardo rivolto
lontano, fuori dalla finestra aperta, e ascoltava.
La
Torre era ovviamente
troppo lontana per poterne vedere altro che la cima o udire le parole
della cerimonia, ma dovevano essere stati installati degli
altoparlanti, e talora il vento portava loro l'eco strascinata di un
discorso indistinguibile e confuso.
Dovette
schiarirsi la
voce per poter parlare, dopo tante ore di silenzio. «Loro non
sanno
che cos'è successo, dopotutto. Vogliono solo...»
«Non
ci credevano»
lo interruppe Agatha, come seguendo il filo di segreti pensieri.
«Sapevano, eppure non ci credevano. Non
è terribile, questo?
Abbiamo sempre vissuto tutte le nostre vite ignorando il fatto che
lui fosse lassù, che potesse vederci, sorvegliarci tutti,
eppure
avevamo tutto quello che occorreva per accorgercene! Tutti i nostri
libri e le nostre leggende hanno sempre parlato di quel sepolto vivo,
sin dalla fondazione della Torre, dunque qualcuno doveva sapere,
all'inizio, quando qualcuno lo ha rinchiuso là dentro.
Allora perché
quando qualcuno parlava del sepolto vivo nessuno ci credeva
mai?» Le
tremò la voce per qualche istante mentre parlava, ma non
distolse
gli occhi dai suoi, non li chinò. «Sono stata
stupida quanto loro,
non è vero, Samuel?»
Molto,
molto di più,
avrebbe voluto gridare Samuel, ma non gridò. Tutta
Lavandonia aveva
ignorato ogni possibile diceria sul sepolto vivo, ne aveva ignorati
gli indizi, deriso coloro che vi credevano, ma nessuno mai era salito
lassù da solo, di notte, a controllare... oppure, se
qualcuno
l'aveva fatto, di certo non aveva avuto occasione di raccontarlo, e
più niente di lui era rimasto a testimoniare al suo posto.
Ma
ciascuno di loro aveva voluto salirvi egualmente, per sciocchi e
futili motivi d'orgoglio, forse proprio per dimostrare a se stessi
che non ci credevano, e ora che erano sopravvissuti non potevano
raccontarlo, perché sarebbero stati creduti più
pazzi ancora di
quanto effettivamente fossero stati.
Ma
di tutte queste
riflessioni e questi pensieri, Samuel non disse nulla. Dopotutto,
parlarne non avrebbe avuto alcun senso: con la sua codardia e il suo
scetticismo, Lavandonia era stata molto più saggia di loro,
e questo
non si poteva in alcun modo cambiare. I suoi abitanti avrebbero
potuto sapere, ma avevano scelto d'ignorare, avevano preferito vivere
in un mondo concreto e razionale, pieno di sole, in cui nulla di
così
orribile come il sepolto vivo e la pallida mano avrebbero potuto
trovare spazio: quel mondo in realtà non esisteva davvero,
ma almeno
nessuno di loro era morto. Lui e Agatha avevano scoperto la
verità,
ma questo a cosa li aveva portati?
«Perché
mi stai
dicendo queste cose?»
Mentre
Agatha apriva la
bocca per rispondere, un'esplosione di applausi amplificata dagli
altoparlanti sgorgò dalla piazza affollata con tanta forza
da
risultare udibile anche alla loro distanza, e si affievolì
poi senza
spegnersi dopo lunghi secondi.
Agatha
gettò una lunga
occhiata esitante verso la finestra aperta. L'incertezza che sembrava
esprimersi da sola attraverso i suoi occhi, rivolti quasi con
ansietà
verso la Torre, sembrava il timore di parlare così vicino a
quel
grande edificio incombente, onniveggente, e da esso di farsi udire.
«Tu credi davvero che sia morto, Samuel?»
Non
avrebbe saputo dire
perché questa domanda lo facesse infuriare tanto, come una
scossa
indicibile in mezzo alla schiena che risalisse fulmineamente in tutto
il suo corpo. Quella scossa lo fece balzare in piedi in modo
involontario, come per un impeto di rabbia, ed esclamò:
«Charizard
lo ha ucciso!»
Agatha
non dimostrò la
benché minima impressione davanti al suo scatto d'ira.
Continuò a
scrutarlo a lungo, con la fronte penosamente aggrottata, e chiese con
calma: «Tu lo hai visto morire?»
«Certo
che l'ho visto
morire!» gridò Samuel. Era incapace di tornare
seduto: prese a
percorrere nervosamente il salotto a grandi passi, sebbene non vi
fosse modo di sottrarsi a questa domanda. I grandi occhi di Agatha lo
seguivano pazientemente lungo la stanza. «È morto
bruciato,
Agatha.»
Non
avrebbe mai avuto
modo di dimenticare quel magro orrido corpo ripugnante che scompariva
stridendo tra le fiamme e il fumo. Ma quando si voltò
bruscamente,
incapace di fuggire ancora l'intensità dello sguardo puntato
su di
lui, lo scontro coll'incredulità dei suoi occhi fu
inevitabile.
Agatha non lo stava accusando di niente, ma nei suoi occhi egli vide
che quel dolore la pervadeva e la divorava ancora da quel giorno.
Dopotutto, ella non aveva visto.
«Noi
non sappiamo se
potesse morire.»
Forse
le sue domande e
le sue incertezze lo stavano facendo ignorare perché negli
abissi
della sua mente, in una zona inesplorata e repressa del suo pensiero,
egli inconsciamente nutriva i suoi medesimi dubbi. Samuel sapeva
perfettamente che cos'aveva visto, la grande fiumana d'inferno e le
orbite nere del sepolto vivo in mezzo alle fiamme... ma tutto
ciò
che, dopo di questo, era veramente riuscito a vedere, era il fumo.
Poteva davvero dire d'averlo visto morire?
Ma
no, no, no! Non era
così che si doveva fare! Lasciarsi prendere dal dubbio,
permettere
che le speculazioni e le incertezze si assommassero al rimorso e al
dolore, e tollerare anche la sola idea che il sepolto vivo fosse
ancora vivo su quella terra, non sarebbe stato come accettare di
continuare a vivere in eterno lo stesso incubo?
«Abbatteranno
gli
ultimi due piani» disse con voce decisa, come a voler
chiudere la
questione, avvicinandosi a una finestra. «Se fosse ancora
lì, lo
troverebbero.»
La
risposta di Agatha
era tanto logica e conseguente alle sue parole da essere presente
alla sua mente prima ancora ch'ella la pronunciasse: avrebbe potuto
dirla egli stesso, se solo non fosse stato troppo impegnato a
negarla. «Samuel... quell'uomo è stato sepolto
vivo alla fondazione
della Torre, eppure nessuno lo ha mai visto.» Dopo un
momento, con
una sfumatura più tenue nella voce, soggiunse:
«Non hanno trovato
alcun corpo.»
Quella
tonalità più
lieve parlava di tante cose non dette, che Samuel colse come se le
avesse urlate. Si volse di scatto verso di lei: non hanno
trovato
neppure loro, era l'obiezione che avrebbe voluto muoverle o
meglio ancora gridarle addosso nella sua disperazione, ma in fin dei
conti sapeva già che non si sarebbe trattato neppure di una
vera
obiezione, ma solo di una delle tante proteste vocianti della sua
coscienza, che lottava per venire alla luce. Non era stata segnalata
alcuna presenza sospetta all'interno della Torre bruciata, ma questo
indicava soltanto che non ve n'era stato alcun bisogno. I loro
Pokémon, o quello che era stato di loro, erano bruciati
nell'incendio, non abbastanza a lungo da divenire cenere e polvere
nell'ultimo residuo di dignità che avrebbero meritato, ma di
certo
abbastanza da apparire scure e inconoscibili forme carbonizzate a
malapena identificabili... perdute in mezzo a decine di altri corpi
carbonizzati. Nessuno aveva avuto interesse a riconoscere i cadaveri
o ad analizzarli, e perché avrebbero dovuto? I loro
Pokémon erano
cadaveri in un cimitero per Pokémon. Le autorità
avevano avuto
fretta di chiudere il capitolo dell'oltraggio alla loro Torre e
avevano provveduto a cremare immediatamente i corpi.
La
verità era che
Agatha aveva ragione: non era stato trovato alcun corpo umano. Un
ritrovamento del genere avrebbe di certo fatto tanto scalpore che non
se ne sarebbe potuto non parlare: vi sarebbero state indagini,
accertamenti. Ma questo non significava niente, niente! Anche il suo
corpo era bruciato, doveva essere così, e le sue ossa
scomposte
dovevano essersi perdute in mezzo a tutte le altre, ma certo: doveva
essere così!
Ma
quando si volse
verso di lei, tutte le sue parole e le sue proteste gli morirono
sulle labbra prima di trovar voce: Agatha non lo stava guardando.
Aveva assunto un'espressione strana, attonita, e i suoi occhi erano
puntati fuori dalla finestra come se non potesse credere a
ciò che
stava vedendo. Quano Samuel si volse nella direzione del suo sguardo,
per cercare di capire cosa l'avesse colpita tanto, scorse la lucida
carrozzeria di un'automobile che varcava il cancello.
«Agatha...»
iniziò
con voce incerta, senza sapere con precisione che cosa chiederle. Era
assolutamente certo che non si trattasse dell'auto del dottor Ross:
quella che stava avanzando era un'auto recentissima e moderna, tirata
a lucido con cura quasi maniacale.
«La
conosco, sì»
disse Agatha con voce fredda e atona, improvvisamente distante da
lui, senza attendere la sua domanda. «È l'auto del
signor Firefly.»
L'auto
procedeva ora
con grande lentezza sul viale d'ingresso per evitare di sollevare
troppa polvere. Sottraendosi alla sua vista, Samuel tornò a
voltarsi
verso Agatha: ella si era alzata in piedi, calma e determinata e
gelida com'egli l'aveva spesso vista prima di allora. «Sa che
sei
qui?»
«Sa
che siamo
qui» lo corresse Agatha seccamente. «E ovviamente
questo non gli
sta bene.» Gettò un'occhiata di controllo verso il
giardino, dove
ancora la macchina del suo tutore proseguiva lentamente e
inesorabilmente verso la porta, e proseguì: «Deve
avergli detto
tutto il dottor Ross, naturalmente. È venuto a gioire delle
mie
ferite, ma io non gli darò nessuna soddisfazione.»
Prima
che Samuel avesse
modo di chiederle esattamente per quale motivo il suo amministratore
dovesse essere così crudele verso di lei, il rombo dell'auto
che
parcheggiava davanti al portone gli disse che il signor Firefly era
arrivato. Quand'anche lo avesse voluto, non vi sarebbe stato il tempo
di allontanarsi – ed egli non lo voleva assolutamente,
perché
allontanarsi sarebbe stato fuggire, ed egli non aveva nulla di cui
vergognarsi e dover fuggire davanti a quell'uomo: perciò,
egli si
limitò a sistemarsi il colletto della camicia, a sedersi sul
divano
come un qualsiasi ospite, e ad aspettare, mentre Agatha, zoppicando
un poco, si avvicinava alla porta.
Il
campanello ebbe vari
squilli provocatori, insistenti, di svariati secondi, ma per quanto
Agatha fosse a un passo appena dalla porta, non aprì
immediatamente.
Al contrario, attese un tempo spropositatamente lungo, anche
più di
un minuto, continuando a fissare la porta in silenzio, immobile e con
la braccia incrociate. Finalmente, proprio quando Samuel si aspettava
da un momento all'altro una nuova raffica di suoni, o semplicemente
che il signor Firefly se ne andasse, ella spalancò
inaspettatamente
la porta e disse con voce prima di qualsiasi particolare
inclinazione, e proprio per questo più terribile:
«Buonasera,
signor Firefly.»
Al
di sopra della
minuta statura di Agatha che si stagliava davanti all'ingresso,
Samuel scorse la figura di un uomo che dimostrava almeno
sessant'anni, dai capelli già bianchi, e completamente
sbarbato.
Dall'alto della sua altezza, gli parve che chinasse gli occhi su
Agatha con grande benevolenza, ma il suo sguardo gli diede anche un
vago sentimento d'ipocrisia, come s'egli volesse dare l'impressione
di essere sorpreso di trovarla lì, ma in realtà
non lo fosse
affatto.
«Buonasera,
Agatha...
spero di non disturbarti. Ho saputo che eri a Lavandonia e, a dire la
verità, mi sono sorpreso...»
«Che
cosa ci fa qui?»
lo interruppe Agatha bruscamente, incrociando le braccia sul petto.
«Il dottor Ross le ha telegrafato appositamente ad
Azzurropoli per
dirglielo?»
La
sua aggressività
parlava da sola: Agatha non lo voleva lì. Ma il signor
Firefly non
ne rimase affatto colpito: al contrario, si limitò a
sorridere
pazientemente, come se vi fosse ormai ben più che abituato,
e
rispose: «No, Agatha. Posso entrare? Dal momento che sono
qui,
vorrei approfittarne per parlarti.»
Dopo
lunghi attimi di
silenziosa contrarietà, Agatha si fece da parte per farlo
passare.
Sì, quella era proprio l'Agatha ch'egli conosceva sin dal
primo
giorno: non lo voleva lì, ma non poteva rifiutare la sfida
ch'egli
gettava al suo orgoglio. Gli fece cenno di entrare e
proseguì:
«Forse sa già qualcosa del mio ospite.»
Sì,
decisamente,
Firefly sapeva che l'avrebbe trovato lì.
Quando il suo
sguardo si posò su di lui, Samuel non percepì nei
suoi chiari occhi
slavati la benché minima sorpresa. Agatha non era paranoica:
quell'uomo era stato davvero avvertito della sua presenza e di certo
anche delle condizioni di Agatha.
Prima
che il signor
Firefly facesse in tempo a mentire anche a quel riguardo, Samuel si
alzò e gli si avvicinò con la mano protesa, quasi
con sfida nei
suoi riguardi, e reprimendo il senso di fastidio che quell'uomo gli
provocava disse a voce alta: «Samuel Oak, signore. Piacere
d'incontrarla.»
Nel
momento in cui
Firefly appuntò lo sguardo su di lui e sorrise, Samuel
decise
definitivamente e una volta per tutte che quell'uomo non gli piaceva.
Si sentiva come davanti a una trappola che fosse stata tesa per lui,
nella quale in ogni caso sarebbe stato destinato a cadere, che avesse
scelto di fuggire o al contrario di affrontarlo, proprio per il fatto
che quell'uomo era stato curioso fino a un attimo prima di scoprire
se l'avrebbe trovato lì oppure no.
«Ah!
Molto piacere,
signor Oak» esclamò Firefly stringendogli la mano.
Non gli aveva
detto il suo nome, notò Samuel, con quell'arrogante senso di
superiorità che hanno talora gli adulti nel rivolgersi ai
bambini.
«È anche lei un allenatore, suppongo? Non mi pare
di averla mai
vista a Lavandonia...»
Samuel
si limitò ad
annuire lentamente per tutta risposta. Frattanto, alle spalle del
signor Firefly, Agatha richiuse bruscamente la porta principale e si
avvicinò a loro. Pur sforzandosi di non guardare le sue
gambe per
non richiamarvi l'attenzione, a Samuel parve che camminasse con
qualche difficoltà, e questo non sfuggì
sicuramente al suo
amministratore: al contrario, egli lo vide gettarle una lunga
occhiata eloquente.
«Mi
dispiace avervi
disturbati, ma mi fermerò solo qualche minuto»
riprese in tono di
garanzia, strofinandosi le mani. «Devo essere di ritorno ad
Azzurropoli assolutamente entro le otto per una cena di lavoro,
perciò, Agatha, potremmo scambiare due parole?»
«Prego»
ribatté
Agatha freddamente, colle braccia incrociate, accennandogli appena
col capo al divano davanti a loro. «L'ascolto.»
Il
signor Firefly
continuò a fissarla con lo stesso immutabile sorriso, senza
mutare
espressione, né volgere lo sguardo altrove. «In
privato.»
«Non
c'è niente che
Samuel non possa sentire, o che io non gli direi comunque una volta
che lei se ne fosse andato» sbottò Agatha, la cui
fronte andava
increspandosi in una dura linea rabbiosa, esasperata. I suoi occhi
sembravano emanare unicamente sfida e provocazione, ma il signor
Firefly continuò a non manifestare il minimo segnale di
cedimento.
«Mi
dispiace, Agatha»
disse a bassa voce. Gettò a Samuel una rapida occhiata
mortificata.
«Se non vuoi ascoltarmi, sarò costretto ad
andarmene.»
«Benissimo»
sbottò
Agatha imperiosamente. «In tal caso, la prego...»
«Va
bene così,
Agatha» si affrettò a dire Samuel.
Allungò la mano a dare una
rapida stretta alla sua ed ella lo guardò con occhi colmi di
disappunto, ma non si oppose. Si limitò a ricambiare
brevemente la
sua stretta, come a dire di aver capito. «Posso aspettarti
nello
studio.»
«Come
vuoi» mormorò
Agatha senza troppa convinzione. Al contrario, il signor Firefly lo
guardò sorridendo, pieno di riconoscenza e forse anche di
compiacimento, come se si fosse appena trovato a pensare che fosse un
po' meno stupido di quanto aveva pensato all'inizio. «La
ringrazio
molto, signor Oak.»
Samuel
si limitò ad
assentire di nuovo col capo, ma senza rispondergli, e si diresse
lentamente verso lo studio aiacente al salotto. Non scambiò
neppure
uno sguardo con Agatha: passandole alle spalle per uscire dalla
stanza le sfiorò appena la schiena, quasi inavvertitamente,
e basta.
In quel contatto appena accennato c'era tutta l'intesa di cui avevano
bisogno.
Gli
era capitato di
entrare altre volte in quella stanza, durante quegli ultimi giorni di
angoscia, ma non gli era mai piaciuta molto. La percorse di nuovo con
lo sguardo mentre chiudeva la porta e vi si appoggiava con tutto il
proprio peso, sentendosi improvvisamente stanco: era arredata di
quell'eleganza maschia, pragmatica e sobria delle stanze private, da
lavoro, in blu e grigio fumo, e perlopiù spoglia se non per
pochi
oggetti: un telefono all'americana, ormai un po' antiquato, e lunghe
scaffalature colme di quelli che sembravano albi dell'esercito e
della marina, tanto asettici e noiosi da non suscitare in lui la
minima curiosità. Persino senza guardarli con attenzione
sembrava
evidente che la maggior parte di essi fosse ancora intonsa.
Al
di là della porta
chiusa, sentì la voce bassa, misurata del signor Firefly
dire:
«Siediti, Agatha. Sai bene che non devi sforzarti.»
«Dunque
lei sa» disse
la voce sferzante di Agatha. «Vuole ancora
negare...»
«Tutto
il paese lo sa,
Agatha» esclamò il signor Firefly in tono
esasperato, come se fosse
costretto a metterle qualcosa di proprio evidente davanti agli occhi.
«Il dottore veniva qui due volte al giorno. Pensi che a
Lavandona
questo possa sfuggire a qualcuno?»
Non
vi fu risposta, per
qualche momento: Samuel immaginò che Agatha si fosse infine
seduta,
nella speranza di abbreviare il più possibile la durata di
quella
visita. Poi: «Sei troppo magra. Non mangi abbastanza? Stai
ancora
molto male?»
«La
smetta con queste
sciocchezze» rispose bruscamente Agatha.
«Mi
sto solo
preoccupando per te, Agatha. Non sono più il tuo tutore,
d'accordo,
ma questo non significa nulla.» Seguì un silenzio
più lungo, rotto
solo da un suono di passi che attraversavano il salotto più
e più
volte. «Lo so quello che credi, ma non sono venuto qui a
dirti che
te l'avevo detto.»
«In
tal caso, continuo
a chiedermi cosa ci faccia qui.»
«Sarei
venuto a
Lavandonia comunque» affermò il signor Firefly,
quasi sulla
difensiva. «Obblighi di rappresentanza. Ho fatto leva sul
Consiglio
per ottenere dei finanziamenti per la Torre, e sono stato finora alla
cerimonia per i lavori. Ma volevo vederti, Agatha, e se non ti avessi
trovata in casa ti avrei scritto o telefonato. Questa volta l'hai
combinata grossa.»
«È
stato un
incidente» disse Agatha, ma per la prima volta dall'inizio
della
conversazione, la sua voce ebbe una nota incerta. Sminuire
così la
portata di quella notte nelle loro vite era come gettare fango sulla
morte dei suoi Pokémon, ma come si poteva dire altrimenti?
«Un
incidente, Agatha!
Quel cane avrebbe potuto sbranarti! Si sa almeno se ti rimetterai mai
completamente?»
Cane.
Dunque era questo
che sapeva il signor Firefly: che era stato un cane. Qualsiasi cosa
il dottor Ross gli avesse detto, se veramente era stato lui ad
avvertirlo, quantomeno non gli aveva detto tutta la verità e
aveva
taciuto sulla vera natura della ferita di Agatha. Quel pensiero
improvviso gli fece valutare più positivamente il ricordo
del
medico: aveva parlato al signor Firefly, questo era vero, ma aveva
mentito a loro favore.
«Sarebbe
potuto
accadere a chiunque.»
«Ma
è successo a te»
concluse il signor Firefly con voce amareggiata. «Guarda
caso, a una
ragazza di buona famiglia che viaggia da sola.»
«Credevo
che non fosse
venuto qui per farmi la predica» disse Agatha freddamente.
Seguì
un sospiro, poi
di nuovo il suono ritmico di passi che percorrevano il salotto.
«Vorrei soltanto vederti tranquilla, Agatha. Al sicuro. Tu
sai bene
che io non voglio limitarti, ma ci sono tante cose che una ragazza
come te può fare... cose importanti, come gli uomini, voglio
dire...
senza correre pericoli. Senza dormire all'aperto e non sapere mai chi
incontrerai. Io sono responsabile per te, Agatha...»
«No,
invece. Non lo
è.»
«Per
la legge, forse,
ma per tuo padre?»
Samuel
levò il capo di
scatto. Non si era neppure accorto di aver davvero ascoltato, quanto
piuttosto di udire con una parte distratta e incostante della sua
mente; ma quella svolta improvvisa del discorso lo richiamava
bruscamente alla realtà. La loro conversazione aveva assunto
una
piega completamente diversa, un taglio personale e delicato, privato,
di cui egli sentiva di non dover partecipare... ma ignorare le loro
voci era impossibile da quella breve distanza. Si allontanò
dalla
porta e andò a sedere al centro della stanza, su una
poltrona blu
sgradevolmente morbida, ma neppure allontanarsi gli permetteva
d'ignorare il fervore del signor Firefly proveniente dal salotto.
«Per
me le cose non
sono così semplici come le vedi tu, Agatha... e i miei
doveri non si
fermano dove vorresti tu. Io mi sento ancora responsabile per te.
Forse sono stato troppo permissivo con te, e non ho calcolato bene i
rischi... non dimenticare che sono stato proprio io a regalarti il
tuo primo Pokémon, non poi così tanto tempo fa.
Devo credere di
aver fatto uno sbaglio, quel giorno?»
Non
vi fu risposta, per
l'ennesima volta. Anche senza vederla, alla distanza di una porta
chiusa, Samuel riusciva a immaginarsi Agatha come doveva essere in
quel momento, barricata nella roccaforte del suo orgoglio, colle
braccia conserte e gli occhi che lampeggiavano di rabbia sotto le
sopracciglia arditamente aggrottate.
«Ho
sempre cercato di
fare del mio meglio con te, Agatha, ma qualche volta ho il dubbio di
non aver compiuto le scelte che avrebbero preso i tuoi genitori, se
fossero stati al mio posto. Mi piacerebbe solo saperti al
sicuro.»
Vi fu un attimo di pausa e poi, in tono più mite:
«Tuo padre
avrebbe voluto vederti sposata, Agatha.»
Finalmente,
dopo lunghi
minuti di sinelzio ostinato e rabbioso, Agatha parlò. Ma la
sua voce
tremava di furore, era tesa e vibrante come una corda sottoposta a
troppo sforzo: «Mio padre non è qui,
ora.»
«Ma
lo sai anche tu
che sarebbe la cosa migliore per te, ora. Non ti fa bene stare sola,
Agatha... questa casa è così grande.»
«Non
sono sola, ora.»
La voce di Agatha si era inaspettatamente calmata. «Samuel
è qui
con me.»
«Già...
lo so. Ma non
voglio insistere su questo, Agatha. Bisognerebbe che lo facessi, ma
sai già anche tu che tutta Lavandonia parla anche troppo di
questa
faccenda. È una cosa che non sta bene.»
«Mi
ha insegnato lei a
non curarmi di tutte le cose che si dicono a Lavandonia, tanti anni
fa» constatò Agatha in tono eloquente.
«Ma
lo sai anche tu
che questo è diverso, Agatha! Abitare con un uomo non
è proprio
come quella storia... eppure basterebbe così poco per
regolarizzare
la vostra posizione. So che non mi darai retta, ma pensaci, Agatha.
Sai perfettamente che ho ragione e che sarebbe la cosa migliore per
tutti.»
«È
questo tutto ciò
che aveva da dirmi?» ribatté Agatha per tutta
risposta. Vi fu un
fruscio lieve, come di stoffa smossa: doveva essersi alzata dal
divano, in un chiaro segnale di congedo.
«Sì,
Agatha»
concluse il signor Firefly, ma con un certo accento di delusione
nella voce. «Ho finito, ma vedo che come al solito non hai
capito.»
Non vi fu risposta. «Come vuoi, Agatha. No, non
accompagnarmi»
aggiunse in fretta, come per fermare un suo movimento.
«Rimani
seduta, ti prego... e mangia un po' di più. Sarai meno
bella,
altrimenti. Dammi retta almeno su questo. Saluterai tu il signor Oak
per me, vero? Io non voglio disturbare oltre, e poi, non posso
assolutamente fermarmi...»
Di
fronte a quel
torrente di parole e di domande che sembrava addirsi così
poco a un
uomo così serio e posato, Agatha rimase impassibile.
«Arrivederci,
signor Firefly.»
«A
presto, Agatha.»
Un attimo di esitazione, e poi: «Mi chiamerai se avrai
bisogno di
qualche cosa, siamo intesi?»
Ma
non vi fu alcuna
risposta e una porta si aprì e si richiuse.
Il
silenzio che calò
di nuovo sulla casa sembrava più pesante ancora di prima. Le
celebrazioni alla Torre dovevano essere finite, o quantomeno aver
smorzato i toni: anche tendendo l'orecchio, concentrandosi molto,
Samuel non riusciva più a udire il minimo accenno di voci o
di
musica. Tutto ciò che entrava dalla finestra dello studio
era un
gioco di luce e di ombra che si rifletteva sul tappeto blu e che si
commutava a misura del vento che stormiva tra i rami del giardino.
Finalmente,
Samuel si
decise ad alzarsi dalla poltrona. I suoi passi non produssero alcun
rumore sul tappeto quando percorse lentamente lo studio per andare ad
aprire la porta.
Agatha
sedeva del tutto
immobile sul divano, cogli occhi vacui e pensierosi perduti nel
vuoto. Sembrava esausta, estenuata, come se quello scontro verbale,
che pure era stato almeno in apparenza tanto calmo e civile, l'avesse
tremendamente spossata. Al rumore della porta che si apriva, ella
levò lo sguardo su di lui.
«Mi
dispiace, Samuel»
disse lentamente. Anche la sua voce suonava fiacca e spenta.
«È
stato terribilmente scortese.»
«Lo
sai che non
importa.» Samuel sedette a sua volta sul divano al suo
fianco,
soppesando con lo sguardo il suo profilo cupo e distratto.
«Ne vuoi
parlare?»
Come
riscuotendosi dai
suoi pensieri, Agatha gli gettò uno sguardo carico di
riconoscenza.
«Hai
conosciuto il
signor Firefly, finalmente» constatò.
«Che te ne è parso?»
Se
glielo avesse
chiesto solo venti minuti prima, quando il signor Firefly era entrato
in casa e gli si era rivolto in tono così untuoso e
ipocrita, Samuel
non avrebbe avuto dubbi su cosa risponderle. Ma glielo stava
chiedendo adesso, dopo ch'egli aveva suo malgrado udito ogni parola
della loro curiosa conversazione, e in quel momento egli si rese
conto di non essere più sicuro di disprezzarlo tanto.
«Mi è parso
che ti volesse molto bene.»
«Già...
è così.»
Agatha si strinse nelle spalle. «Mi vuole bene, ma mi
disprezza. È
strano, vero?»
In
un certo senso,
quella era un po' la stessa impressione che aveva avuto egli stesso.
«Già... è molto strano.»
Agatha
si alzò
lentamente dal divano. Dopo quella giornata insolitamente lunga,
anche il suo equilibrio sulla gamba malata sembrava un po'
più
instabile di prima, ed ella dovette appoggiarsi un momento al
bracciolo del divano per poterlo guardare con calma negli occhi.
«Mi
sento tanto stanca, Samuel. Ti dispiacerebbe se andassi a riposarmi
un po'?»
Quando
la porta del
piano di sopra si fu richiusa alle spalle di Agatha, la villa
sprofondata di nuovo nel silenzio gli parve all'improvviso
intollerabilmente solitaria.
Nei
giorni precedenti
non se n'era accorto, forse, tutto preso com'era da Agatha e dal suo
dolore, dalle visite del dottor Ross e dal pensiero di dover
mantenere il segreto, eppure quel pomeriggio per la prima volta,
forse per la strana viscida presenza del signor Firefly che ancora
sembrava aleggiare per tutta la casa, la vastità imponente e
silenziosa della villa gli parve soffocante e invasiva, quasi
perturbante come un veleno, e d'improvviso gli parve che se fosse
rimasto ancora lì sarebbe impazzito.
Era
la prima volta che
varcava di nuovo il cancello dopo quella notte.
Lavandonia
sembrava
ancora dolorosamente identica a se stessa, così placida e
suo
malgrado irrorata da un inconsapevole sole. Scorgendo da lontano la
folla che si assiepava lungo le strade e per le piazze, attardandosi
dopo la festa di inaugurazione, Samuel mutò bruscamente
direzione:
il centro era troppo gioioso per lui, quel giorno. Tutte quelle
persone celebravano i lavori per la ricostruzione della Torre, ma
come volentieri egli avrebbe assistito alla sua rovina!
Si
volse decisamente
verso sud, in direzione del lungo Ponte Silenzio che si snodava sulla
piatta distesa del mare: avrebbe camminato colle spalle rivolte alla
Torre, rifletté pigramente con una parte della sua mente, e
per
l'ora del suo ritorno forse Lavandonia sarebbe stata abbastanza
tranquilla da non attrarre continuamente il suo sguardo in quella
direzione.
Ma
quando alla sua
destra cominciò ad aprirsi il Percorso Otto, coi suoi grandi
alberi
ancora rigonfi di fiori e il lieve vento profumato, pulito, che lo
accarezzava spesso, una voce che non gli era del tutto ignota
esclamò: «Signor Oak, prego!»
Samuel
si voltò
bruscamente, sentendosi d'improvviso allarmato come non era stato
mai, e i suoi occhi saettarono più e più volte su
e giù lungo
l'imboccatura del percorso, ma non videro nulla. Non c'era nessuno, e
per un attimo egli provò l'istintivo irrazionale impulso di
voltarsi
e correre via, ma s'impose di dominarlo e di rimanere fermo: non
c'era più nulla da temere. Quello era il mondo esterno, un
mondo
reale e assolato dove niente di inspiegabile poteva più
minacciarlo...
«Signor
Oak, che
piacere! Va di fretta?»
Vi
fu un bagliore
appena fuori del suo campo visivo, tra gli alberi, in corrispondenza
di un largo spiazzo ch'egli coglieva appena con la coda dell'occhio:
il bagliore fulmnineo, inaspettato della portiera di un'automobile
che si spalancava un istante. Quando Samuel si volse in quella
direzione, il signor Firefly lo stava avvicinando con un largo
sorriso caloroso. «Sta andando da qualche parte?»
Gli
riempì la mente
un'infinità di possibili risposte e domande perfettamente
coerenti e
logiche in relazione alla sua affermazione di poco prima di dover
tornare in fretta ad Azzurropoli, l'una più offensiva e
accusatoria
dell'altra, ma sorridendo con calma domandò:
«Problemi con il
motore, signor Firefly?»
«Il
motore?» Il
signor Firefly gettò una rapida occhiata, quasi
involontaria,
all'automobile perfettamente parcheggiata all'ombra, prima di
cogliere la velata ironia delle sue parole. «Oh, no, io... ho
fatto
quattro passi con un vecchio amico. L'ho appena salutato.»
Samuel
ascoltò le sue
ridicole giustificazioni con la massima calma, continuando a
sorridergli. Non riusciva a credere a una sola parola di quanto gli
aveva appena detto, ma per smentirlo si limitò a fargli un
breve
cenno col capo. «In tal caso, suppongo di non doverla
trattenere
oltre. L'attendono a cena, giusto?»
Il
signor Firefly
assunse un'espressione leggermente imbarazzata, come se da quella
domanda si sentisse colto in fallo, e diede in una breve, secca
risata, strofinandosi le mani. «Beh, non è poi
così urgente, in
realtà. Con l'automobile non ci vuole più di
mezz'ora, e poi... non
possono cominciare senza di me, dopotutto. Sta andando da qualche
parte?» insisté, accennando all'automobile.
«Potrei darle un
passaggio.»
Era
anche troppo
evidente che quell'uomo aveva qualcosa da dire a lui personalmente,
per qualche suo oscuro proposito, e oltretutto qualcosa che non
poteva dirgli in presenza di Agatha. Scrutandolo dall'alto per quanto
gli permetteva la loro differente statura, Samuel non poté
fare a
meno di accigliarsi davanti alla sua palese insistenza. «A
dire il
vero, stavo andando soltanto a fare una passeggiata.»
«In
tal caso, potrei
accompagnarla per un pezzo. Le dispiace se mi unisco a lei?»
Per
quanto potesse
voler bene ad Agatha, quell'uomo continuava a non piacergli, colle
sue maniere untuose e subdole e i suoi atteggiamenti anche troppo
infidi, e anzi i suoi sospetti nei suoi confronti crescevano a ogni
minuto che passavano insieme. Ma come opporsi senza risultare
terribilmente maleducato?
«Come
preferisce»
rispose a malincuore. «Prego.»
Ripresero
a camminare
verso sud, a una prudente distanza di cortesia l'uno dall'altro. A
costo di mantenere per ore quello strano silenzio imbarazzato, Samuel
era determinato a non parlare per primo. Era curioso di scoprire
perché il signor Firefly avesse tanta premura di parlare con
lui, ma
domandargli qualcosa sarebbe stato facilitargli quel compito e
metterlo nella condizione ideale per parlare, ed egli non ne aveva
alcuna intenzione.
Dopo
poche decine di
metri, finalmente il signor Firefly parlò. «Spero
che non se la sia
presa per prima, signor Oak. Sa com'è, quando si tratta di
affari...»
«Capisco
benissimo»
ribatté Samuel con calma. «Non c'è
bisogno di scusarsi.»
Ora
che aveva rotto il
ghiaccio e si era accertato della sua disponibilità, il
signor
Firefly parve acquisire sicurezza e muoversi con più
scioltezza sul
terreno pericoloso della loro conversazione. «Le confesso che
Agatha
non mi aveva mai parlato di lei. Posso chiederle se vi conoscete da
molto?»
«Un
paio di mesi»
rispose Samuel con sufficienza. Continuava a guardare davanti a
sé,
con l'aria di osservare il piatto paesaggio cittadino che degradava e
inclinava il direzione del mare, ma nonostante ciò non
perdeva di
vista il suo interlocutore, scrutandolo attentamente con la coda
dell'occhio; per contro, era certo che anche il signor Firefly, al di
là del suo sguardo benevolo e della sua
cordialità stesse facendo
altrettanto con lui. «Ci siamo conosciuti alla Lega
Pokémon, il
primo giorno delle iscrizioni al Torneo.»
«Ma
poi non avete
partecipato, eh?»
Quella
di certo era una
prima, velata insinuazione alla sua volta, ma Samuel s'impose di non
lasciarsene intimorire: non c'era nulla da nascondere, si
ripeté.
Perciò, con la massima calma, ribatté:
«Abbiamo preferito
dedicarci ai viaggi e alle esplorazioni.»
«Oh,
capisco»
constatò il signor Firefly a bassa voce. «Ma che
drammatica
fatalità, non è vero? Se solo voi foste andati
alla Lega, non
sarebbe successo quel terribile incidente...»
Samuel
non accolse la
sua provocazione. Erano in una zona ormai piuttosto periferica di
Lavandonia, dove già le cose cominciavano a diradarsi;
scrutando il
paesaggio attorno a lui, Samuel decise tra sé di non
proseguire per
più di altri cinque minuti. Se il signor Firefly non fosse
riuscito
a dirgli ciò che doveva entro quel tempo, avrebbe dovuto
arrendersi:
per quanto lo riguardava, non voleva lasciare Agatha sola troppo a
lungo.
Era
evidente che era
proprio qui che il signor Firefly voleva arrivare, o quantomeno, era
da qui che voleva partire. «Lei era lì, non
è vero? Voglio dire,
quando Agatha è stata aggredita.» Samuel si
limitò ad annuire. «È
stato lei a salvarla, non è vero? Dev'essere stato un
miracolo che
lei fosse lì. Pensi che quel cane avrebbe potuto sfregiarla,
o
peggio ancora!»
In
quel momento,
all'ennesima violenta immagine vivida di ciò che il sepolto
vivo
aveva fatto ad Agatha, mantenere la calma e non tradirsi gli richiese
uno sforzo terribile. Volgendo lo sguardo altrove, cercò di
mantenere una voce bassa e indifferente, quando disse:
«Agatha
avrebbe potuto cavarsela benissimo anche senza di me. Quella bestia
l'ha colta alla sprovvista, ma se non fossi arrivato io, si sarebbe
salvata ugualmente da sola. E poi aveva i suoi
Pokémon» soggiunse,
un po' troppo bruscamente, ma Firefly non vi fece caso. Ancora non
sapeva che la squadra di Agatha non c'era più, dopotutto.
Preso
com'era da questi
pensieri, Samuel si accorse a malapena che il signor Firefly gli
stava domandando: «Posso chiederle se è innamorato
di Agatha?»
Samuel
si fermò
bruscamente là dove si trovava, e in modo tanto inaspettato
che il
suo accompagnatore quasi incespicò per fermarsi a sua volta.
Come si
permetteva? Forse che essere ricco, essere influente gli dava
l'autorità necessaria ad avanzare insinuazioni e domande...
e per
conto di chi, poi? Ma se non era neppure più il tutore di
Agatha!
Si
rendeva
perfettamente conto di essere avvampato: persino il suo cuore aveva
ora accelerato i suoi battiti come un martellio incessante, pressante
nella gabbia toracica. Non poteva fare nulla per impedire queste
manifestazioni fisiche, ma la valanga d'improperi e indignazione che
stava per rovesciargli addosso poteva almeno fermarla. Gridare e
alterarsi sarebbe stato peggio ancora che arrendersi e dargli vinta
quella battaglia senza nemmeno provare a lottare: infuriarsi sarebbe
stato tanto eloquente quanto rispondere sì, e a quel punto
ogni
negazione sarebbe stato inutile.
Perciò,
scostandosi
nervosamente da lui, rispose gelidamente: «Spero che lei si
renda
conto di quanto è indiscreta la sua domanda. Da lei non me
l'aspettavo.»
L'espressione
di
mortificazione che apparve sul volto del signor Firefly fu tanto
ipocrita e stucchevole che neppure un uomo molto più
bendisposto e
fiducioso di lui avrebbe potuto rimanerne persuaso.
«Oh,
ma non c'è
bisogno di prendersela!» protestò con troppa calma
per poter essere
sincero, levando le mani in un plateale cenno di scuse. «Non
volevo
mica dire che... del resto, nessuno potrebbe mettere in dubbio
così,
al solo vederla, che lei sia un uomo d'onore, un uomo di saldi
principi morali. Altrimenti lei mi avrebbe dato del bugiardo
già
qualche minuto fa, quando io mi sono smentito riguardo alla
cena...»
Gli sorrise con aria di complicità, come a volergli dire che
sapeva
che lui sapeva, ma Samuel non ebbe reazione.
«È pur vero che
speravo d'incontrarla, signor Oak, anche se non potevo sapere se lei
sarebbe uscito... ma ho deciso di rischiare e di aspettare comunque
fuori dal cancello, e come vede, audentis Fortuna iuvat.
* Lei
lo riterrà assudo, forse, ma io sono il tutore di Agatha e
ho a
cuore la sua felicità.»
«Agatha
è
maggiorenne» ribatté Samuel nervosamente.
«Questo
è vero»
ammise Firefly, con l'aria di dovergli fare una grande concessione.
«In tal caso, poniamo che io abbia a cuore il suo patrimonio,
se
così preferisce. Non potrà negare almeno che io
sia ancora il suo
amministratore! Ma indipendentemente da come lei preferisce pensarla,
signor Oak, io voglio molto bene ad Agatha.»
«Questo
lo so»
riconobbe Samuel.
«Ah,
lo sa» ripeté
il signor Firefly in tono molto compiaciuto, come scoprendo
all'improvviso di avere contro un mare di nemici un inaspettato
alleato. «In tal caso, forse la mia domanda non dovrebbe
sorprenderla tanto, ma potrei porla in modo meno personale, se
così
crede. Ha mai pensato ai vantaggi che le deriverebbero da un
matrimonio del genere?»
Quell'ultima
domanda fu
così offensiva che Samuel, semplicemente, scoppiò
a ridere. Non
avrebbe mai potuto neppure immaginare che qualcuno al mondo fosse in
grado di risultare così maleducato e meschino e vigliacco
con una
sola domanda, e all'improvviso questo gli diceva anche qualcos'altro,
che forse avrebbe dovuto essergli lampante e scontato fin
dall'inizio, ma di cui solo ora, infine, si rendeva conto: quell'uomo
non costituiva una minaccia, o quantomeno, tutt'al più, non
era che
una minaccia fatta d'aria e di parole ma del tutto incapace di
concretizzarsi in atti.
«Agatha
non è un
vantaggio» esclamò, ma senza più difese
alzate, né rabbia o
sdegno. L'uomo che aveva di fronte era meschino e vile, e non valeva
troppo la pena di prendersela.
Davanti
alla sua
risata, il signor Firefly non parve scomporsi troppo.
Continuò a
scrutarlo in silenzio con sguardo attento e perspicace per svariati
secondi, prima di stabilire che, evidentemente, da lui non avrebbe
ottenuto altra risposta.
«Non
mi fraintenda,
signor Oak, non sto cercando di farle credere che Agatha sia
letteralmente molto ricca. Suppongo che, dopo la guerra, questo non
si possa dire di nessuna famiglia, ormai... ma penso di poter
affermare che il suo patrimonio la renda decisamente benestante.
Sì,
mi piace questa definizione: decisamente benestante.»
«Tutto
questo non mi
interessa» sbuffò Samuel. «Il patrimonio
di Agatha non mi riguarda
assolutamente e non intendo continuare questa conversazione.»
«Come
vuole lei,
signor Oak. Del resto, ammiro la sua intransigenza» disse
Firefly,
per nulla deluso. «Ma quello che stavo cercando di farle
capire è
che da una regolarizzazione della vostra posizione non potrebbero
derivarne che vantaggi anche a lei personalmente. La situazione
sociale della signorina è ormai, diciamo così...
compromessa, ma ci
sono tanti modi per aggiustare le cose. Non c'è neppure
bisogno di
fare le cose in fretta, a meno che... insomma, si potrebbe procedere
dapprima a un fidanzamento ufficiale, e solo dopo...»
«Ma
per quale motivo
tutto questo le preme tanto?» domandò Samuel
spazientito. Non aveva
più alcun desiderio di continuare quegli stupidi discorsi:
non
vedeva l'ora di tornare da Agatha e di scrollarsi di dosso quell'uomo
apprensivo e insistente, ma ormai la conversazione non si poteva
proprio lasciarla a metà, ed era meglio finirla in fretta.
«Agatha
non è neppure più sotto la sua tutela, ormai.
È una ragazza
indipendente e matura e ha sempre preso le sue decisioni da sola,
dunque perché insistere tanto? Sa benissimo che non le
darà retta,
e io ancor meno di lei, dato che non la conosco neppure. Dunque
perché?»
Ora
tutto lo scherno,
tutta l'ipocrisia e la superiorità sembravano essere svanite
dal suo
volto quando il signor Firefly, con aria all'improvviso divenuta
molto grave, rispose: «Lei non può capire, signor
Oak.» Per una
volta, Samuel non protestò. «Lei è
giovane, e io non la giudico
per questo: sono stato giovane anch'io. Tutta l'esperienza dei suoi
viaggi non può averle insegnato di quale
responsabilità io sia
carico, e inoltre, Agatha le avrà sicuramente parlato di me
come di
un mostro... oh, so che lo ha fatto. Lo so, ma mi creda, io non ce
l'ho con lei. È fatta così, a modo suo, e mi ha
sempre odiato per
aver tentato di imporle delle regole senza essere suo padre. Non ha
mai voluto riconoscere che io facessi del mio meglio, e di tutti gli
anni in cui mi sono preso cura di lei, e nel modo migliore che ho
potuto, oltretutto, sono assolutamente certo che Agatha non ricorda
nient'altro che i miei errori, le mie mancanze, le mie debolezze. Io
le sto parlando così, proprio come se lei fosse davvero il
marito o
il fidanzato di Agatha, in modo del tutto spassionato, e lei
può
vedere che io non la sto affatto criticando per questo. Ho sempre
cercato di essere obiettivo con lei: amo Agatha come se fosse una mia
nipote, ma vedo anche i suoi difetti, eppure non glieli rimprovero
proprio tutti: non è poi tutta colpa sua. Se non fosse stato
per la
tragedia, sono certo che non sarebbe cresciuta
così...»
La
trappola era lì,
nascosta e intessuta tra le sue parole, ma così ben tesa e
così
mascherata che per Samuel cadervi fu proprio inevitabile, come
avanzare alla cieca nel buio. Forse il signor Firefly non voleva
neppure prenderlo così, non era sua intenzione ingannarlo o
attirarlo coll'inganno, eppure, tutto preso dalle sue parole, senza
minimamente rendersi conto del tranello, Samuel udì la
propria voce
domandare: «Quale tragedia?»
Il
signor Firefly
interruppe bruscamente il lungo fluire dei suoi pensieri.
Sbatté più
volte le palpebre, come a voler rendersi conto d'aver capito bene, e
domandò: «Lei non lo sa?»
Che
avesse cercato di
attirare così, meschinamente, la sua attenzione, oppure no,
sembrava
comunque terribilmente sincero, e a quel punto Samuel non poteva
più
tirarsi indietro. Si sentiva mosso da quella stessa strana, cieca
curiosità che lo aveva condotto di notte sulla Torre, e a
quella
curiosità tutta la volontà del mondo non era
capace di opporsi.
«Voglio dire... lei sa che Agatha è orfana. Non le
ha mai detto
perché?»
Di
qull'uomo non si
doveva fidarsi, no: Samuel avrebbe dovuto andarsene via, tornare da
Agatha, dimenticare tutto... invece, scosse la testa.
«Oh,
cielo» constatò
Firefly con aria molto confusa. Si guardò un po' attorno,
come se
non avesse idea di cosa dovesse dire, e poi: «Beh, io...
certo, non
è una cosa di cui si parla volentieri, e Agatha, forse...
insomma,
forse non dovrei dirglielo io, ma dopotutto, ne parlarono anche i
giornali, quando accadde.» Esitò ancora un poco,
come cercando una
giustificazione in ciò che aveva appena detto egli stesso,
poi
disse: «Non pensi male di quello che sto per dirle. Giuro che
non
era una persona cattiva, e sono assolutamente certo che quello che ha
fatto, non l'ha fatto intenzionalmente. Preferirei piuttosto che
giudicasse me, perché ho sempre pensato che se io fossi
stato un po'
più attento, se mi fossi reso conto... le cose non sarebbero
andate
proprio così. Comunque, il punto è che il padre
di Agatha era
colonnello, ma quando è scoppiata la guerra si è
tolto la vita per
non dover combattere.»
Fu
come sprofondare.
Sì, a modo suo, tutto aveva un senso, tutto era
sufficientemente
sensato e razionale da non dover credere che Firefly stesse
mentendo... la pistola con cui Agatha aveva cercato di suicidarsi,
per esempio. Da quel poco che aveva capito o dedotto della sua
infanzia, certo, aveva sempre intuito e accettato con naturalezza
ch'ella fosse rimasta orfana durante la guerra, e non vi aveva
trovato nulla di strano; ma ora...
Il
signor Firefly
tacque per qualche istante per dargli il tempo di comprendere appieno
la portata della sua dichiarazione, guardandolo con occhi carichi di
pietosa comprensione: sembrava che riuscisse a cogliere il complicato
svolgersi dei suoi pensieri al solo guardarlo.
«Forse
lei era troppo
giovane per ricordarsi dello scandalo, ma se le capitasse di leggere
qualche vecchio giornale, non creda a quello che c'è
scritto. Quello
che ha fatto il colonnello è orribile, ma io lo conoscevo, e
sulla
memoria di mia madre potrei giurarle che in quel momento non
ragionava come me o lei possiamo fare adesso.»
«Che
cos'ha fatto?»
chiese Samuel a bassa voce. Ricordava piuttosto bene quando era
finita la guerra: non poteva aver avuto più di undici anni,
a
quell'epoca, e dunque circa nove, quando era iniziata: non c'era da
sorprendersi che non ricordasse affatto una storia del genere.
«Voleva
solo fare la
cosa migliore per tutti» insisté il signor Firefly
in tono quasi
disperato. Di tutta quella storia, sembrava che non gli importasse
d'altro che di difendere il suo vecchio amico. «Aveva
già
partecipato ad altre compagne nelle zone coloniali, aveva sempre
fatto il suo dovere. Questo può confermarglielo qualsiasi
annale
dell'esercito. Ma quando hanno cominciato a usare il gas, allora
lui... credo che non l'abbia mai superato.»
«Era
sconvolto, sa, ma
era troppo orgoglioso per ammettere di esserlo. È per questo
che non
ce ne siamo mai accorti, e anche se ce ne siamo accorti, abbiamo
sempre pensato che in qualche modo gli sarebbe passata. Avremmo
dovuto tutti preoccuparci un po' di più, ma il colonnello
sembrava
sapere perfettamente quello che faceva, e allora...»
«Quando
è scoppiata
la guerra, ha pensato ai gas. Io, io lo so che è a quello
che ha
pensato, non può davvero aver avuto paura d'altro!, che di
dover di
nuvo dare ordine di usare i gas, o di vederli usare da altri... Io so
che ormai nella sua mente non c'era spazio per altro, che pensava
continuamente a sua moglie e a sua figlia che morivano asfissiate! Lo
so che non è andata così, poi»
esclamò con aria terribilmente
angosciata. «Noi lo sappiamo che sul nostro territorio non li
hanno
usati, ma lui, lui come avrebbe potuto saperlo? Non poteva mica
prevedere il futuro! Ormai non pensava ad altro che ai gas.»
«Eppure,
all'esterno,
sembrava così calmo, così determinato. Ho fatto
quello che allora
tutte le persone piuttosto abbienti facevano: ha iscritto Agatha in
un prestigioso collegio femminile di Kalos, proprio a Luminopoli, per
tenerla lontana da qui. Era la scelta migliore: non sarebbe neppure
stata sola, perché con lei erano iscritte anche le figlie di
un
generale... All'inizio, anche la signora doveva trasferirsi a
Luminopoli, la madre di Agatha, voglio dire»
precisò. «Era già
tutto previsto, mi ero occupato io di trovarle un appartamento
adeguato. Ma vorrei farle capire che donna fosse la signora: lei si
figuri un'Agatha di trent'anni, solo un po' meno testarda e un po'
più posata di lei... ecco, vedo che ha capito»
soggiunse in fretta,
abbozzando un sorriso. «Non ci fu modo di farla allontanare
dal
colonnello. Neppure lei si era resa conto di cosa progettasse suo
marito, ma rimase a Lavandonia, ostinata come lei può
immaginare.»
«Solo
che il
colonnello non riusciva proprio a liberarsi del pensiero dei gas.
L'abbiamo capito solo dopo, ma lui ormai era certo che non sarebbero
sopravvissuti, e credo che tutto ciò che gl'importasse,
ormai, fosse
di non morire come aveva visto morire quei disgraziati soffocati,
nelle colonie. Eppure non intendeva fare del male a nessuno! Allora,
proprio la notte prima di partire, ha messo del veleno nel
tè della
signora, è sceso nel suo studio, e si è
sparato...»
Il
racconto era finito.
Malgrado Lavandonia fosse anora calda, Samuel si rese conto di avere
i brividi: faticò qualche momento a riscuotersi
dall'impressione
forte che quel racconto gli aveva provocato, mentre Firefly
proseguiva a bassa voce.
«Aveva
già progettato
tutto. Aveva lasciato un testamento datato ben tre settimane prima,
in cui mi nominava tutore legale e amministratore di Agatha, e questo
voleva dire che sapeva già da tempo cos'avrebbe fatto.
Questo
potrebbe far pensare che fosse in sé, ma non lo era. Aveva
ucciso
sua moglie nel sonno perché aveva paura che altri gliela
uccidessero
col gas e non voleva che soffrisse, e questo non vuol proprio dire
che fosse in sé. Però, aveva almeno salvato la
bambina, e questo
gli era riuscito.»
«Feci
tornare
immediatamente Agatha dal collegio per i funerali, ma più
tardi non
ebbi il coraggio di farla ripartire. Forse non fu la scelta migliore
quella di farla vivere sola, in quella grande casa vuota, ma che cosa
avrei dovuto fare? Se ho sbagliato, mi si riconoscerà almeno
che
l'ho fatto in buona fede, e questo nessuno me lo potrà
negare.»
«È
vero anche che
l'ha viziata un po' troppo, ma anche su questo sono molto indulgente
con me stesso. Era una bambina così sola! Io non potevo
venire a
visitarla più di due o tre volte alla settimana,
perché ero
continuamente impegnato alla Lega Pokémon, e d'altronde, lei
mi
odiava. Non c'era stato modo di addolcirle la verità,
poiché a
Lavandonia tutti sparlavano del colonnello: dunque lei odiava anche
suo padre, per aver ucciso sua madre. Allora era troppo piccola per
capire le sue ragioni o poterlo giustificare, ma anche da grande, le
cose non sono cambiate molto. Tutto ciò che ho detto a lei
adesso,
sui gas e sulla guerra, lei non l'ha mai voluto ascoltare. Suo padre
l'ha salvata perché l'adorava e, nella sua follia, voleva
risparmiarle una morte orribile, ma per lei, invece, si è
suicidato
perché non l'amava abbastanza da restare in vita. Io cerco
di
giustificarla, perché aveva solamente otto anni quando il
colonnello
è morto. Conosciamo davvero i nostri genitori, a
quell'età?»
«Ho
cercato
d'ingraziarmela in ogni modo possibile, ma naturalmente non
è
servito, come può vedere, dato che mi odia ancora
terribilmente. Fui
io a regalarle il suo primo Pokémon, sa?»
soggiunse sorridendo,
come se quel ricordo gl'ispirasse una grande tenerezza.
«Faceva
impazzire ogni possibile governante, ma io pensai che un
Pokémon
carino come Nidoran avrebbe potuto darle un po' di affetto e di
serenità. Aveva una predilezione tutta sua per il tipo
Veleno,
chissà mai perché, e almeno questo parve
apprezzarlo: adora ancora
il suo Nidoking, dopotutto, o no?» chiese con una breve
risata
imbarazzata, da cui Samuel si sentì raggelare.
Dunque
era andata così,
allora. Egli non aveva mai saputo nulla dell'infanzia di Agatha, e
non c'era da sorprendersi, se le cose stavano così. Non
poteva
sapere quanto ci fosse di vero in quel racconto terribile e
portentoso che gli aveva fatto Firefly: per quanto ne sapeva lui,
avrebbero potuto essere tutte menzogne, ma il punto era che era tutto
così credibile. Le sue parole
s'incastravano perfettamente
con i pochi dettagli e accenni ch'egli conosceva della vita di
Agatha, colmandoli e armonizzandoli, e di certo il signor Firefly non
avrebbe potuto avere idea di cosa lui sapesse o meno...
«Perché
mi sta
dicendo tutto questo?» chiese cautamente, scrutandolo di
sottecchi.
La sua descrizione lo aveva preso e trascinato oltre ogni dire, ed
egli si era sentito tutto immerso in quel passato e in quella
tragedia... ma non poteva permettersi di perdere la concentrazione,
ora. Non c'erano dubbi: il signor Firefly gli aveva raccontato tutto
ciò per un motivo, ed era ora fondamentale capire quale.
«La
ringrazio per averlo fatto, ma perché le interessava che io
sapessi?»
«Perché
dopotutto era
giusto signor Oak» rispose Firefly. Scosse piano la testa.
«Di
certo Agatha avrebbe raccomandato comunque, prima o poi, ma lei
poteva davvero aspettare? Agatha non sarebbe così se non
fosse stato
per la tragedia, e di questo io sono profondamente convinto: ora,
anche lei sa per quale motivo Agatha è fatta proprio
così... e poi,
lei non capiva perché io tenessi tanto a lei. Capisce,
capisce ora
perché mi sta tanto a cuore questa sua felicità?
Suo padre me l'ha
affidata quando aveva bisogno che qualcuno più in grado di
lui si
occupasse di lei, e io come potevo tradirlo?»
C'era
una strana
mescolanza inquietante nelle sue parole, di cui Samuel riusciva a
rendersi conto appieno solo ora. Il signor Firefly diceva la
verità,
ma stava mentendo: tutto ciò che gli
aveva raccontato era
vero, ed egli aveva udito con quanto ardore d'angoscia egli
difendesse il suo amico, eppure quella verità,
contemporaneamente e
senza alcuna contraddizione, egli la piegava e la volgeva a suo
vantaggio. Era la stessa contraddizione unicamente apparente con la
quale egli adorava Agatha eppure lo considerava alla stregua di una
creatura incomprensibile e odiosa di cui conosceva e indicava ogni
difetto con consapevole, sadica lucidità.
Decise
di arrischiarsi
un poco su quella fragile distesa di ghiaccio secco che era la loro
conversazione. «Dunque lei vorrebbe proprio che noi ci
fidanzassimo.»
«Beh,
signor Oak»
disse il signor Firefly con aria benevola e sorridente, persino
scherzosa. «Lei si rende conto che io non avrei pensato
subito a
lei, quando m'immaginavo... senza offesa, naturalmente. Comunque,
sì.
Io sono un uomo molto più moderno di quanto lei e Agatha
crediate, e
come le ho detto quello che ora mi sta a cuore è la sua
felicità.
Agatha le è molto affezionata, altrimenti non sarebbe
rimasta con
lei per tutto questo tempo, e io non sono così intransigente
da non
acconsentire di buon grado a ciò che non posso
impedire.»
«Dunque
lei voleva
parlare con me solo per questo» concluse Samuel finalmente.
«Perché
io potessi convincermi e chiedere ad Agatha di sposarmi e metterle
così l'animo in pace. A lei Agatha non darà retta
mai, ma a me
sì... ho ragione?»
«Lei
è un ragazzo
molto intelligente, signor Oak» disse il signor Firefly con
una
forte affermazione di commiato, come se si alzasse da un tavolo dopo
aver concluso una trattativa che fosse andata in tutto e per tutto
come si aspettava. «So che forse le parrà un
metodo subdolo, un
metodo indiretto... ma io gliel'ho detto: ho davvero a cuore il bene
di Agatha, e tutto ciò che ho fatto negli ultimi dieci anni,
non
l'ho fatto che per lei. Ma se io le avessi parlato di questo, se io
avessi insistito, Agatha si sarebbe opposta semplicemente
perché
ormai contraddirmi e odiarmi è diventata un'abitudine molto
più
radicata che pensare al suo proprio bene. Come le ho detto, non la
giudico per questo, perché so qual è il motivo
profondo per cui mi
odia e mi contraddice. In fin dei conti, anche la decisione di
diventare un'allenatrice, qualche anno fa, non è stata che
perché
sapeva che io non sarei stato d'accordo...»
Samuel
gli tirò un
pugno in faccia.
In
tutta la sua vita
egli non aveva mai colpito nessuno, ma quello era troppo! Era molto
più di quanto chiunque potesse sopportare! Quell'uomo aveva
offeso e
ingiuriato Agatha in tutti i modi più sottili in cui aveva
potuto
farlo, e la cosa più terribile era proprio che non si
rendeva
affatto conto di offenderla! Egli la trattava ancora come una bambina
viziata e capricciosa cui concedere piccoli doni dall'altro della sua
clemenza e generosità, con la pretesa di capirla meglio di
quanto
fosse capace lei stessa, e la considerava e la trattava così
proprio
perché Agatha al contrario era intelligente e determinata e
non
aveva alcun bisogno del suo permesso!
«Lei
non sa niente
di Agatha!»
Il
suo pugno non era
stato particolarmente forte, ma Firefly era ingloriosamente rovinato
a terra e questo, se possibile, glielo fece odiare e disprezzare
ancora di più.
«Agatha
è la ragazza
migliore e più coraggiosa che io abbia mai conosciuto e in
tutti
questi anni lei non è mai riuscito neppure a capirlo!»
Ma
continuare a
urlargli addosso o anche solo a guardarlo non sarebbe servito, ed
egli lo sapeva. Quell'uomo vile e debole che ora si stava goffamente
rialzando davanti a lui, impolverato e col naso sanguinante e che gli
gridava gli improperi più allucinanti, non avrebbe compreso
mai la
grandezza e la superbia di Agatha, e perdere altro tempo con lui
sarebbe stato ridicolo e controproducente: aveva sprecato con lui
anche troppo tempo. Acompagnato da una pioggia d'insulti e di
minacce, Samuel si voltò e si avviò a grandi
passi verso casa.
Ma
che sciocco era
stato a fidarsi di lui, anche solo per un breve istante! L'affetto
che provava per Agatha l'aveva ingannato oltre ogni dire, eppure
quell'uomo voleva solo ingannarlo perché convincesse Agatha
a
obbedirgli, e questo era così orribile e meschino che...
Colle
nocche della mano
destra che gli pulsavano dolorosamente e la testa tutta piena di
pensieri di rabbia e di disgusto che non avrebbe saputo ricondurre
con precisione a Firefly o a se stesso, ripercorse Lavandonia senza
quasi rendersene conto. Non si accorse neppure di attraversare a
grandi passi il vialetto d'ingresso e di varcare la soglia di casa:
in quel momento tutta la sua mente era sconvolta, alterata, e non gli
importava d'altro che di dimenticare tutte le ridicole storie che
Firefly gli aveva raccontato, e che egli era stato tanto stupido da
rimanere ad ascoltare.
Ma
quando ebbe salite
le scale con pochi passi furiosi ed ebbe percorso una buona
metà del
corridoio, la voce di Agatha lo fermò. Era una voce stanca,
estenuata e incerta, in nulla carica di quell'accento imperioso e
autoritario che le era proprio, ma era la voce di Agatha, finalmente.
«Samuel...»
Agatha
era vicinissima
a lui, appena al di là di quella porta chiusa, ed era ancora
la
stessa persona straziata, ma titanica e coraggiosa, ch'egli aveva
lasciato meno di un'ora prima. Era sempre e comunque lei, e tutte le
menzogne infami e le calunnie che il signor Firefly gli aveva
raccontato su di lei non avevano alcun significato: rimanevano
davvero, proprio com'egli aveva pensato, nient'altro che aria in
volo, da cui Agatha era totalmente immune. L'unica vera Agatha era
quella ch'egli aveva conosciuto.
Aprì
delicatamente la
porta. Agatha aveva chiuse un poco le persiane, ma una lunga lama di
luce attraversava comunque la stanza, percorrendo il suo letto prima
di piegarsi e riprendere a salire lungo la parete. In quello sprazzo
di sole, egli vedeva il nero splendore dei suoi occhi, perfettamente
lucidi e svegli, infissi su di lui.
«Ti
ho sentito uscire,
e ho pensato che... Va tutto bene?»
Valeva
la pena di dirle
del suo incontro col signor Firefly e farla infuriare? No,
decisamente no: Agatha era anche troppo stanca, mentre tutto
ciò di
cui avrebbe avuto bisogno era il riposo. Il suo incontro con Firefly
sarebbe rimasto soltanto ciò che era effettivamente stato:
nient'altro che aria destinata a dissolversi, priva di qualsiasi
importanza.
Nascondendo
con
noncuranza la mano arrossata dietro la porta, Samuel rispose:
«Ho
fatto soltanto una passeggiata.»
Nell'aria
fresca,
immobile della notte, la sua rabbia aveva finito per acquietarsi e
scemare a poco a poco. Era passata la mezzanotte, ma Samuel si
avvicinò comunque, piano, alla stanza di Agatha, e
bussò per darle
la buonanotte. Era una sciocca scusa per trascorrere con lei gli
ultimi minuti della giornata, e dimenticare nella pace dei suoi
occhi, eppure a quella sciocca convenzione entrambi si attenevano
ogni sera per un tacito accordo condiviso.
«Samuel...
vieni,
entra pure.»
La
voce di Agatha suonò
fiacca e remota, quasi incrinata. Sentendosi all'improvviso
preoccupato, Samuel sospinse la porta ed entrò.
Agatha
era seduta per
terra, rivolta verso la grande specchiera a figura intera vicina al
suo armadio, e vi scrutava fissamente qualcosa ch'egli non riusciva a
vedere: il suo sguardo fu attratto prima dal riflesso dei suoi occhi
nello specchio, arrossati e gonfi, lucidi ancora di pianto.
«Agatha...»
«È
orribile» lo
interruppe Agatha bruscamente. «Puoi dirlo.»
Fu
allora che Samuel
vide: seduta com'era per terra, colla gamba ripiegata davanti a
sé
sul pavimento, Agatha aveva svolto l'ultimo bendaggio.
Era
davvero orribile.
Non c'era altra parola per descriverla: la cicatrice che si stava
formando era di un ripugnante rosso acceso, una doppia mezzaluna
irregolare e grottesca, circondata per tutta la sua estensione dai
segni che le cuciture avevano lasciato... Samuel si sentì
come se
tutta l'aria avesse abbandonato la sua gola, ma Agatha non si
meritava il suo silenzio o le sue bugie. Si schiarì la gola.
«Sì,
lo è.»
Agatha
non rispose.
Percorse delicatamente con le dita il bordo fiammante della ferita,
senza distogliere lo sguardo dal suo riflesso nello specchio: Samuel
poté vedere le sue labbra che si stringevano in una fitta di
dolore
che non era solo fisico.
Sedette
con grande
lentezza dietro di lei, continuando a scrutare il riflesso dei suoi
occhi. In quel momento egli le era vicino, e non importava quanto
indecente o sbagliato questo fosse: quel pavimento freddo accanto a
lei era l'unico luogo nel quale egli volesse trovarsi.
A
differenza di lui,
Agatha era già pronta per la notte: in altre occasioni, egli
si
sarebbe vergognato tremendamente di starle vicino in quelle
condizioni, vestita com'era appena di una sottoveste leggera, e
avrebbe rifuggito quella vicinanza come se da questo dipendesse tutto
il suo onore e la sua dignità di uomo. Ma in quel momento,
vicinissimo a lei com'era, Samuel si accorse per la prima volta di
non provare alcun imbarazzo, alcun disagio. Egli vedeva le curve
morbide dei suoi fianchi divenute ora un po' troppo magre, la linea
sottile della sua schiena che s'insinuava scivolando sotto il bordo
della sua sottoveste, percepiva il profumo naturale dei suoi capelli
scomposti... ma non ne provava il minimo turbamento. Là dove
non era
stata abbronzata dal sole, la carnagione di Agatha aveva mantenuto il
naturale biancore, e la pelle sulle sue cosce era tanto pallida,
ch'egli distingueva perfettamente l'intricato percorso delle sue vene
azzurrine, là dove affioravano in superficie, e avrebbe
potuto
seguirlo e ripercorrerlo con la punta delle dita. Come aveva potuto
mai credere che tutto questo fosse indecente?
«Suppongo
che non
potrò più venire con te a cercare Moltres,
vero?» chiese Agatha,
con una risata tremula e gli occhi colmi di lacrime. «Non
penso che
sarò più così atletica, dopo
che...»
Samuel
avrebbe potuto
farle milioni di promesse. Sarebbe stato così facile dirle
che no,
non avrebbe avuto mai alcun problema a camminare; che se anche ne
avessi avuti, egli sarebbe stato per lei il suo bastone, e di
più
ancora, che a costo di sollevarla sulla schiena, come una bambina,
egli l'avrebbe portata ovunque lei non fosse più stata in
grado di
arrivare con le sue proprie forze. Ma egli non poteva sapere se tutte
quelle promesse sarebbero state verità, se entrambi
sarebbero stati
forti abbastanza da mantenerle. In quel momento, mentre i loro corpi
sovrapposti e così diversi si riflettevano entrambi nel
medesimo
specchio, egli si rese conto di non poterle garantire o promettere
niente, se non la sola verità che in quel momento conoscesse.
«Sei
comunque
bellissima.»
Agatha
si volse verso
di lui, molto lentamente, con occhi resi enormi e ancora più
belli
dallo stupore, e lo guardò. Non fece nient'altro, ma egli
vide la
luce riflessa nei suoi occhi tremare e vacillare piano, come su uno
specchio d'acqua di fiume.
«Grazie»
mormorò, e
arrossì.
Quella
notte, il rossore
sulle guance di Agatha gli parve più bello della prima alba
che
avesse visto mai.
*La
Fortuna
favorisce gli audaci (Eneide, X, 284; traduzione di
Alfonso
Traina)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Concedi la pace ai nostri giorni. ***
Capitolo
X –
Concedi la pace ai nostri giorni.
Il
signor Firefly tornò
il mattino seguente, ma in modo più composto e dignitoso,
dopo aver
telefonato per avvertire del suo arrivo. Quella volta, Agatha lo fece
accomodare nell'asettico studio che era appartenuto a suo padre, come
per un normale incontro d'affari: quel giorno era sorprendentemente
fredda e calma. Non si era scomposta affatto al ricevere quella
chiamata, come se se la fosse aspettata, e anzi avesse dato per
scontato sin dall'inizio che quegli sarebbe tornato, e appariva
determinata ma tranquilla, come se la cosa, ormai, non la riguardasse
più.
Per
contro, Samuel
aveva temuto per tutta la mattina il momento in cui il signor Firefly
sarebbe entrato nella stanza e lo avrebbe guardato, sotto forma di
una lieve morsa angosciosa che gli stringeva lo stomaco e le vie del
respiro. Era probabilmente la prima volta in vita sua ch'egli
nascondeva qualcosa a qualcuno, tanto più ad Agatha, e
quella
sensazione non gli piaceva.
Ma
quando il signor
Firefly fece il suo ingresso nello studio, col cappello mortalmente
stretto tra le mani e gli occhi lampeggianti rabbia, senza degnarlo
d'uno sguardo, tutta la tensione che lo aveva attanagliato si
disciolse dentro di lui tanto subitaneamente da lasciarlo quasi
inebetito, in piedi immobile accanto alla finestra. Era stato sciocco
a non pensare prima a ciò che il contegno nervoso e
indispettito del
signor Firefly e l'occhiata di minaccia e di preoccupazione che
questi gli aveva gettato al suo ingresso dichiaravano abbastanza
eloquentemente: il signor Firefly aveva molto più interesse
di lui a
che Agatha non venisse a sapere della loro conversazione e della sua
proposta. Per quanto Agatha conoscesse già molto bene
l'opinione del
suo antico tutore riguardo al suo nubilato, Samuel era alquanto certo
che se ella fosse venuta a sapere dei suoi tentativi di organizzare
addirittura il suo matrimonio, ogni remora sarebbe in lei scomparsa.
No, Firefly non aveva alcuna intenzione di tradirlo, e al contrario
la consapevolezza che se fosse stato Samuel a parlare per primo egli
sarebbe stato umiliato e svergognato davanti agli occhi di Agatha gli
faceva bruciare ancor più il suo orgoglio ferito all'altezza
del viso, dov'era stato colpito. Alla sua vista, il signor Firefly
cacciò nervosamente la mano in tasca, ma con violenza, come
imponendoselo, e quel gesto equivaleva a un'inconsapevole ammissione
di sconfitta, più ancora che se cedendo a un impulso si
fosse
toccato la guancia dolorante.
«Una
cena di lavoro
particolarmente accalorata, signor Firefly?»
s'informò Agatha in
tono leggero e vagamente pungente, accomodandosi alla scrivania. Non
c'era bisogno di specificare a cosa si riferisse: il livido violaceo
sul suo zigomo era già abbastanza vistoso senza bisogno di
sottolinearlo a parole. Scrutandola infastidito come punto sul vivo,
senza scomporsi troppo, Firefly ringhiò:
«Già.»
«Credevo
che a parer
suo un vero signore non risolvesse mai i suoi problemi con le
mani»
proseguì Agatha in tono amabile. Ma i suoi occhi erano
gelidi e
attenti, perfettamente consapevoli, ed era evidente che ella si stava
divertendo un mondo a prenderlo in giro a quel modo. Samuel si chiese
fuggevolmente se essi si fossero rapportati così, mentendosi
e
deridendosi e mortificandosi a vicenda per tutti quegli anni,
finché
Agatha non era finalmente partita da lì.
Al
veleno delle sue
parole il signor Firefly doveva essere ormai assuefatto, dato che
incassò il colpo senza battere ciglio.
«Già» constatò
semplicemente. «Ma queste sono cose da uomini, Agatha...
nulla che
una signorina dovrebbe ascoltare. Sono certo che il signor Oak
è
d'accordo con me.»
All'espressivo
sguardo
d'intesa che Firefly gli gettò, distogliendolo appena da
Agatha,
Samuel non ebbe reazione. Forse quel velato accenno indiretto non
voleva essere un'altra trappola, quanto piuttosto un tacito tentativo
di assicurarsi della sua complicità su quel segreto, ma
proprio per
questo egli non intendeva rassicurarlo in alcun modo. Quell'uomo lo
disgustava già abbastanza senza bisogno di prestargli
più
attenzione di quanta gliene avesse già riservata il giorno
precedente, ed egli continuò a rimanere perfettamente calmo
e
immobile accanto alla finestra, ad ascoltare.
Come
se si fosse già
stancata delle loro schermaglie preliminari e fosse pronta a parlare
sul serio di affari, Agatha accennò con la mano alla sedia
di fronte
alla scrivania con fare sbrigativo. «Vuole essere
così gentile da
cacciare il mio ospite fuori della stanza anche oggi, signor
Firefly?»
Rimanendo
ostinatamente
in piedi al di là del tavolo, Firefly le porse dalla tasca
della sua
giacca un foglio minuscolo, delle esatte dimensioni di un assegno
ripiegato. «Si tratta solo di una firma. Una questione di
beneficenza. Non c'è nulla da leggere.»
Agatha
non spiegò
l'assegno. Al contrario, lo posò davanti a sé
sulla scrivania e
senza dare minimamente segno di volerlo leggere, completamente
reclinata contro lo schienale della sedia, domandò:
«Beneficenza
per che cosa?»
«Se
tu aprissi
l'assegno, potresti leggerlo coi tuoi occhi»
sibilò Firefly. Agatha
rimase perfettamente immobile, allora egli, con un moto d'impazienza,
sbuffò: «Per la ricostruzione della Torre,
ovviamente. Tuo padre
diede un grosso contributo dopo l'inondazione del Trentuno,
perciò è
ragionevole che anche tu faccia lo stesso.»
La
Torre, ancora la
Torre, ovunque la Torre! Possibile che il suo nome fosse in grado di
raggiungerli ovunque, trapassando come aria gli schermi delle porte e
delle mura frapposte?
Quando
Samuel si voltò
bruscamente verso di lei dalla finestra aperta, Agatha era ancora
immobile sulla sedia e almeno in apparenza perfettamente
indifferente. Ma ai suoi occhi che avevano ormai imparato a
distinguere sul suo volto il susseguirsi di innumerevoli emozioni,
senza bisogno di parole, non poteva sfuggire l'innaturale pallore che
le era affiorato d'improvviso sulle guance, né la stretta
delle sue
mani che avevano artigliato i braccioli della sedia come una
richiesta d'aiuto.
«Ti
sconsiglio di
cambiare la cifra, Agatha» disse infine il signor Firefly, a
voce
bassa, come se questo motivo gli paresse l'unica spiegazione
possibile alla sua esitazione. «Credimi, Lavandonia non si
aspetta
niente di meno da te, e un solo centesimo in meno apparirebbe
meschino. È il prezzo di appartenere a una famiglia antica,
Agatha,
te l'ho già spiegato.»
Agatha
non diede alcun
segno di averlo sentito. I suoi occhi continuavano a scrutare
l'assegno, ma senza muoversi, ed era dunque evidente che non lo stava
leggendo. Semplicemente, pensava.
Con
poche ampie
falcate, Samuel si ritrovò quasi senza accorgersene di
fianco alla
sua sedia: dall'altra parte della scrivania, il signor Firefly gli
gettò uno sguardo di disapprovazione, ma di nuovo si
trattenne dal
fare commenti. In quel momento, doveva essere troppo preso
dall'assoluta mancanza d'interesse della sua assistita per potersi
preoccupare anche di lui.
«Ho
sentito dire che
le ceneri dei Pokémon le cui tombe sono state devastate
dall'incendio saranno collocate in una forno comune» disse
infine
Agatha, come riemergendo infine dalle nebbie della lunga riflessione
che l'avevano catturata sino a quel momento. Non aveva distolto gli
occhi dall'assegno, ma subito Samuel colse nel suo tono e
nell'intensità dei suoi occhi tutto l'appuntarsi della sua
concentrazione.
Firefly
scrollò le
spalle come se la questione non lo toccasse particolarmente.
«Già,
è l'unica soluzione praticabile... e anche la più
sensata, se
proprio lo vuoi sapere. Lo spazio è sempre stato un problema
in quel
posto, perciò, per quanto mi riguarda, avrebbero dovuto
approntare
una fossa comune già una ventina di anni fa, come in tutti
gli altri
cimiteri. Anzi, se non ci fosse stato l'incendio...»
Samuel
si augurò che
il signor Firefly amasse parlare per il gusto di farlo,
perché
almeno a lui, che non aveva perso di vista Agatha per un solo
istante, era evidente che ella aveva smesso di ascoltarlo
già dopo
le sue prime parole, non appena aveva ottenuto la risposta che
voleva. Ma a un tratto, bruscamente, e in modo troppo plateale
perché
persino Firefly potesse ignorarlo, Agatha lasciò perdere
l'assegno e
si alzò in piedi. Senza curarsi di nessuno, andò
lentamente alla
finestra, zoppicando appena, e si accostò al vetro. Non
aveva avuto
alcuna intenzione di interrompere il monologo del suo protettore, ma in
realtà probabilmente non si era neppure accorta che egli
stava
parlando. Quando si avvicinò al vetro, scostando appena le
tende con
la punta delle dita, il suo volto appariva tutto chiuso e
concentrato.
«E
lei dice che li
seppelliranno lì tutti, signor Firefly? Insomma... proprio
tutti?»
Firefly
ebbe un moto
stizzoso d'impazienza. «Dio, Agatha, che domande mi fai? Non
ne ho
la più pallida idea, ma non vedo per quale motivo non
dovrebbero
seppellirli tutti. È anche per una questione d'igiene,
dopotutto.»
I
cadaveri dei loro
Pokémon giacevano tra tutti quelli insepolti e anonimi che
avevano
perduto le loro tombe e i loro nomi nell'incendio, e con loro erano
stati cremati. Ma questo Agatha lo sapeva, ne aveva parlato a
entrambi il dottor Ross qualche giorno prima, allora perché
voler
sollevare ancora quell'argomento, perché rimestare
inutilmente un
dolore che già non trovava pace? Nessuno di loro poteva
più fare
nulla per i loro Pokémon, poiché le loro ceneri
riposavano ormai in
urne cinerarie fornite dal comune, asettiche e identiche in tutto e
per tutto le une alle altre, accatastate alla rinfusa in qualche
magazzino vuoto in attesa di venir di nuovo seppellite con tutti gli
onori... con quella domanda, ella che cosa voleva ottenere?
Le
dita di Agatha si
serrarono maggiormente sul lembo della tenda, la curva delle sue
labbra si contrasse un poco: ma queste furono le sue uniche reazioni
fisiche a quel pensiero. Annuì pensierosamente col capo.
«Vorrei
donare una
targa alla cittadinanza, perché possano appenderla sul luogo
della
sepoltura comune. Che cosa ne dice, signor Firefly? Pensa che si
possa fare?»
Un
simile spirito
d'iniziativa nella sua assistita doveva essere quantomeno
inaspettato: Firefly continuò a scrutarla per vari secondi
in
perfetto silenzio, come aspettandosi da un momento all'altro che
Agatha scoppiasse a ridere e ritrattasse tutto quanto; ma quando fu
anche troppo evidente che, al contrario, ella aveva parlato con
perfetta serietà , e che probabilmente non avrebbe nemmeno
accennato
ad allontanarsi dalla finestra finché non avesse ottenuto
una
risposta, finalmente egli si schiarì la voce e fece
rapidamente
mente locale.
«Intendi
una targa
commemorativa, suppongo? Alla memoria dei Pokémon morti?
Beh, mia
cara... non me l'aspettavo, certo, ma non vedo perché no. In
effetti, sarebbe un gesto splendido da parte tua...»
«Non
voglio che sia da
parte mia» lo interruppe bruscamente Agatha, voltandosi
all'improvviso verso di lui. «Su questo non
transigerò. Io donerà
la targa e voglio che sia fatto tutto come dico io, ma la donazione
dovrà restare anonima e Lavandonia non dovrà mai
sapere che è da
parte mia. E sarà bene che anche lei ne rimanga fuori il
più
possibile, signor Firefly» soggiunse in tono eloquente.
«Tutti
sanno che lei si occupa dei miei affari, perciò renderebbe
troppo
facile risalire a me. Faccia solo il minimo necessario, siamo
intesi?»
«Bah!
Come vuoi,
Agatha» borbottò Firefly, seppur con l'espressione
di qualcuno che
avrebbe colto molto volentieri l'occasione di incensare un poco il
nome di famiglia grazie a quella targa. «Non vedo il motivo
di tutto
questa segretezza, anche se, certo, la beneficenza dovrebbe sempre
essere... Comunque, è un'ottima idea, mia cara. Ma
perché ci tieni
tanto?»
Con
voce
sorprendentemente fredda e dura, totalmente priva di qualsiasi
inflessione o cedimento, Agatha rispose: «Perché
se tra quelli ci
fossero i miei Pokémon, e io fossi morta e non fossi
più in grado
di provvedere a loro, mi farebbe piacere che qualcuno avesse
pietà
della loro memoria.»
Agatha
aveva parlato in
tono asciutto e distaccato e con calma davvero ammirevole, date le
circostanze; ma nonostante ciò, ella non era un automa
insensibile,
e l'emozione che le aveva infiammato il volto e acceso lo sguardo,
quelli non aveva potuto far niente per impedirli. Il signor Firefly
ne rimase vagamente colpito, ma con una punta di scetticismo, quasi
che quell'eccesso di ardore gli risultasse esagerato e inopportuno,
forse persino fastidioso, come una scena troppo patetica. Ne distolse
lo sguardo con ostentazione.
«L'incidente
ti ha
resa un po' troppo suscettibile, eh?»
Samuel
desiderò
improvvisamente tantissimo avergli tirato un pugno più forte
il
giorno precedente. La passione di Agatha come si poteva confonderla
con la fantasia nevrastenica di una ragazzina capricciosa?
«Comunque
sia, non mi riguarda. Avrai ciò che chiedi, ma ora
perché non mi
firmi quel maledetto assegno e mi lasci andare?»
La
sua indignazione
doveva esserglisi dipinta in volto nel momento in cui Firefly aveva
parlato. Passandogli accanto, Agatha gli posò una mano
discreta
sulla spalla per un momento, come a volergli suggerire che non valeva
la pena di prendersela, e tornando alla scrivania si chinò a
firmare
l'assegno.
Lo
passò al suo tutore
senza accennare a sedersi. Firefly lo studiò con
un'attenzione quasi
oltraggiosa, per accertarsi che Agatha non avesse fatto scherzi, e lo
ripose con cura nella tasca della giacca. «Il mio compito
è finito,
Agatha. Devo assolutamente scappare, ma ci accorderemo per la targa,
sì? A proposito, non mi hai detto dove potrò
contattarti. Visto che
stai in piedi, suppongo che ripartirete presto.»
Più
che una
supposizione, le sue parole sembravano piuttosto un'intimidazione, ma
Agatha non si scompose. «Sarò io a contattarla,
signor Firefly.
Fortunatamente, il suo indirizzo è sempre lo stesso da vari
anni.»
Il
suo ultimo tentativo
di allontanarla da Lavandonia, dal momento che proprio non era
riuscito a convincerla a sposarsi, era andato a vuoto, ma Firefly
accolse questo fallimento con notevole sportività. Richiuse
accuratamente la giacca sorridendo appena. «Bene
così, Agatha, dal
momento che non riesco a farti cambiare idea. Signor Oak»
soggiunse
in tono di saluto, ma degnandolo appena di uno sguardo. «A
presto,
Agatha. No, non disturbarti» soggiunse in fretta, vedendo che
Agatha
faceva per accompagnarlo. «Mi ricordo ancora da dove sono
entrato.
Buon proseguimento, signori miei.»
Dopo
un ultimo inchino
poco meno che derisorio, il signor Firefly uscì dalla stanza
senza
voltarsi indietro. Il suono dei suoi passi pesanti si
allontanò
lungo l'ingresso; poco dopo, una porta sbatté e un motore si
accese
rombando sul vialetto d'ingresso. Sì, Firefly, finalmente,
se n'era
andato.
Per
un po', nessuno di
loro parlò. Tornando a sedere alla scrivania, Agatha aveva
avvicinato a sé una grossa bottiglia d'inchiostro blu
dall'etichetta
piuttosto pretenziosa e aveva cominciato in silenzio a giocherellare
con lo stantuffo della stilografica con la quale aveva firmato,
svuotandone e riempiendone alternativamente il serbatoio senza alcun
motivo apparente. Non sembrava avere molto da dire. Per parte sua,
Samuel si sentiva la testa così piena di domande che gli
sembrava
proprio impossibile essere in grado di rimetterle in ordine, o anche
solo di sceglierne una sola.
Arcanine
avrebbe avuto
una sepoltura onorata, per quanto possibile. Dopo tutto ciò
che
aveva visto, Samuel avrebbe dovuto sentirsi abbastanza scettico e
disilluso a questo riguardo da non sentirsene minimamente toccato,
eppure, quando si soffermò a riflettervi, si sorprese di
sentirsene
così confortato. Una targa su una sepoltura comune non
avrebbe
potuto sottrarre nulla del suo dolore alla sua morte, poiché
Arcanine era morto nel modo meno umano che potesse esistere... ma
proprio per questo, forse stupidamente, l'idea che quella sepoltura
potesse restituirgli almeno una parte della dignità che
Arcanine
meritava lo riempiva di un grande calore. E Arcanine, col suo amore
vivace per tutto ciò che era umano e benevolo, avrebbe
apprezzato di
certo, se solo una porzione della sua anima fosse esistita ancora in
qualche luogo del creato.
Tutte
le domande e i
dubbi che quella conversazione aveva suscitato dentro di lui erano
ancora in subbuglio nella sua mente, ma almeno a questo pensiero
Samuel poteva dare voce. Accostandosi a lei, ancora seduta alla
scrivania, egli le posò una mano sulla spalla e
mormorò: «Grazie,
Agatha. A nome di Arcanine.»
Agatha
si voltò per
poterlo guardare in faccia, accennandogli un sorriso. Anche quel
giorno, dopo tutti i suoi atteggiamenti di sfida e di disprezzo,
sembrava d'improvviso enormemente stanca.
«Non
ringraziarmi,
Samuel. Non potevo lasciarli così, senza neppure una targa.
E poi,
se non fossi stata io, ci avrebbe pensato qualcun'altro.»
«Davvero?»
Samuel si
sentì perplesso dalla sua convinzione.«Come fai a
esserne così
sicura?»
Agatha
scrollò le
spalle, come se fosse qualcosa di così ovvio che non ci
fosse
neppure bisogno di spiegarlo; ma sembrava contenta di parlare con
lui, perciò Samuel non fece niente per ritirare la domanda.
«Le
famiglie ricche di Lavandonia hanno sempre fatto a gara in questo
genere di cose. Hai sentito quello che ha detto il signor Firefly:
Lavandonia se lo aspetta.»
Si
alzò faticosamente
in piedi, senza più curarsi di mascherare le sue
difficoltà, dal
momento che era sola con lui, e tornò ad accostarsi alla
finestra
per guardare fuori. Parlando di quell'argomento, il suo volto aveva
assunto una certa piega severa e un po' sprezzante, come se
disapprovasse molto quel modello di comportamento: «Se fosse
stato
qualcun'altro a donare una lapide per la sepoltura, molto
difficilmente avrebbe fatto una donazione anonima... e non volevo che
la loro sepoltura diventasse un modo per mettersi in mostra.»
Per
parlarne così,
Agatha doveva conoscere molto bene i meccanismi che muovevano i suoi
concittadini. Samuel annuì tra sé mentre si
sedeva alla scrivania,
sulla sedia da poco rimasta vuota. «Credevo che la gestione
fosse
interamente comunale.»
«Sì,
certo che lo è.
Ma Lavandonia è una città molto piccola, e si
è sempre trovata in
difficoltà davanti ai grandi disastri: anche mio
padre...»
Bruscamente, come se aver a malapena nominato suo padre fosse stato
un grave errore ch'ella si era ripromessa di non commettere
più, la
voce di Agatha ebbe un fremito e s'interruppe. Qualche secondo dopo,
quando ella fu ragionevolmente certa che Samuel non vi aveva prestato
una particolare attenzione, si affrettò a concludere quel
discorso:
«Insomma, tutte le famiglie più abbienti hanno
sempre collaborato
sotto forma di donazioni. La Torre è sempre stata un
problema
economico, è un monumento troppo imponente per una
città così
piccola... ma del resto, era una fondazione privata,
dopotutto.»
Questo
dettaglio gli
giungeva completamente nuovo: Samuel aggrottò la fronte
mentre
cercava di rielaborarlo. «Vuoi dire che non è
stata fondata con
fondi pubblici?»
«Beh,
no. Non lo
sapevi?» Agatha tornò a volgersi verso di lui,
appoggiandosi con la
schiena al davanzale della finestra, colle braccia strette attorno al
corpo ma l'espressione un po' più serena. Parlare del
più e del
meno sembrava distrarla un po'. «La città ha
incamerato la Torre
sotto forma di eredità dopo la morte della fondatrice. Era
un
lascito testamentario, o qualcosa del genere.»
Una
fondatrice.
All'improvviso Samuel sentì che qualcosa dentro di lui
sprofondava,
mentre un ricordo che fino a quel momento la sua memoria si era tanto
impegnata a reprimere e a passare sotto silenzio proprio
perché non
riusciva a comprenderlo tornava a occupare prepotentemente la sua
mente.
Sei
tornata a
prendermi?
«Vuoi
dire che a
fondare la Torre è stata una donna?»
esclamò angosciosamente.
Colpita
dall'urgenza
che sembrava animare la sua voce, in modo del tutto improvviso e
immotivato, Agatha lo guardò interrogativamente.
«Va tutto bene,
Samuel?»
«È
stata una donna?»
insisté Samuel, senza neppure badare alla sua confusione.
Possibile
che quella soluzione fosse sempre stata lì, sepolta nella
miniera
dei suoi ricordi sin da quella notte, e che egli non vi avesse mai
prestata attenzione? Il sepolto vivo aveva creduto di parlare con
una donna!
«Sì,
è stata una
donna, ma... Samuel, c'è qualcosa che dovrei
sapere?»
L'eccitazione
che lo
aveva animato tanto intensamente in così poco tempo si
spense di
fronte all'intransigenza della voce di Agatha: nella sua
severità e
nella sua confusione, ella torreggiava ora su di lui implacabilmente,
senza lasciargli scampo. Agatha non aveva sentito le parole del
sepolto vivo, quella notte, ma aveva capito che c'era qualcosa che,
all'improvviso, lo aveva colpito, e ora voleva sapere.
L'impeto
che lo
scuoteva si spense prima di raggiungere le sue labbra. Forse
ho
capito, forse possiamo scoprire chi era il mostro che ci ha fatto
questo, avrebbe voluto dirle; ma proprio prima di poterle
parlare, d'improvviso tutto ciò che stava per dirle gli
parve un
ultimo colossale inganno, e si fermò.
«No,
io... va tutto
bene, Agatha. Era solo stupito che una donna...» Si
passò una mano
tra i capelli per riprendersi dallo stupore, e proseguì:
«Insomma,
è successo tanto tempo fa, e credevo che, allora... Voglio
dire, mi
è parso strano.»
Lo
sguardo di Agatha
che lo scrutava percorse interamente il suo viso, soffermandosi sui
suoi occhi. Non gli aveva creduto, ovviamente – e come
credergli? -
eppure, per qualche strano motivo, ella non lo aggredì, non
lo
incalzò, non fece niente.
«Ne
sei certo,
Samuel?»
Tutto
era confuso e
tutto si mescolava nella sua testa: le parole del sepolto vivo e le
fiamme abbaglianti della battaglia, e ora quella nuova informazione
che Agatha gli dava con tanta semplicità: c'era una donna!
Ma ora
che egli si soffermava a riflettervi e cercava di districare, in
quella caligine nebulosa che gli offuscava la mente, la
verità,
l'unico pensiero che gli tornava insistentemente alla mente e che
egli non riusciva a reprimere era che nulla di quanto avrebbero
potuto scoprire avrebbe cambiato le cose.
«Ne
sono certo.»
Senza
troppa
convinzione, Agatha indietreggiò un poco, allontanandosi di
qualche
passo dalla sedia, ma senza distogliere lo sguardo da lui. Samuel
ebbe l'impressione di ritrovare aria solo in quel momento.
«Samuel»
disse Agatha
dopo un po', ma con calma. La sua voce era tesa e cauta come una
corda tesa sin quasi a spezzarsi, ma ella era sorprendentemente
fredda e lucida. «Mi fido di te. Non m'interessa quale sia la
verità, ma qualunque cosa mi dirai, ti crederò.
C'è qualcosa che
pensi che dovrei sapere?»
Se
in quel momento egli
le avesse rivelati i suoi sospetti, avrebbero potuto indagare. Quella
casa era piena di libri, alcuni dei quali molto vecchi, e di certo
qualcuno doveva pur contenere qualche informazione su... e
quand'anche tutti quei libri non avessero parlato di nient'altro che
dell'esercito e della marina, egli era certo che ogni altro archivio
entro Lavandonia avrebbe potuto parlar loro del sepolto vivo. Ma il
punto era un altro: valeva veramente la pena di sapere?
Era
stato proprio il
voler saper troppo che li aveva trascinati all'inferno. Ora non c'era
più niente da temere, certo, ma tornare a rimestare ancora
tra quei
segreti perduti nel tempo, non sarebbe stato esattamente come far
sì
che Arcanine fosse morto proprio per niente? E quand'anche, poi,
avessero scoperto... forse che sapere chi quell'uomo era stato
avrebbe potuto cambiare ciò che era successo e farli tornare
da
loro? Sapere che il sepolto vivo era stato un uomo normale,
una volta, un uomo proprio come loro, e che magari era stato
ingannato da una donna che aveva promesso di tornare a prenderlo,
avrebbe forse potuto dar loro pace?
Raddrizzando
le spalle
sulla sedia, Samuel lasciò che per l'ultima volta quelle due
figure
misteriose, quelle di un uomo e di una donna, si perdessero negli
abissi del tempo. Sostenendo a testa alta lo sguardo di Agatha, egli
rispose con decisione: «No, Agatha. Non c'è nulla
che valga la pena
sapere.»
Alla
cerimonia della
posa della targa partecipò un numero curiosamente esiguo di
persone,
rispetto alla grande affluenza dell'apertura dei lavori; ma questo,
stando ad Agatha, era normale. Lavandonia celebrava il culto
ossessivo della Torre solo nella misura della sua
monumentalità e
del motivo di vanto che essa costituiva in tutta Kanto; ma quanto
alle funzioni cultuali che vi si svolgevano e a tutto ciò
che
riguardava il raccoglimento e l'idea stessa della mortalità,
la
città preferiva non soffermarsi a riflettere troppo.
Dopotutto, essi
sapevano meglio di chiunque altro quanto fosse pericoloso guardar
troppo a fondo dentri certi misteri, e lo sapevano per averlo
imparato a proprie spese.
Vi
presero parte tra le
prime file, poiché sarebbe stato impensabile che l'ultima
rappresentante di una famiglia di tale rilievo sedesse in disparte o
tra le ultime file; ma tutti coloro che diedero segno di riconoscerla
la salutarono con una certa freddezza, e più di una signora,
dopo
averla soppesata per un momento, fece finta di non averla vista. Di
certo, notò Samuel con una certa soddisfazione, Agatha non
faceva
niente per ingraziarsi l'opinione del resto della popolazione:
rispose a chi le aveva mosso un cenno di saluto con altrettanta
freddezza, ma quanto al resto ignorò chiunque.
Quella
era la prima
volta che usciva dopo la tragedia. Quando era scesa dabbasso, vestita
da uomo come il giorno precedente, avanzando lentamente ma con
l'equilibrio malsicuro di chi sia ancora convalescente dopo una
brutta ferita, Samuel si era domandato con preoccupazione se fosse
prudente che si stancasse tanto proprio la prima volta che tornava a
uscire di casa, e proprio per tornare là;
ma ovviamente
impedirle o anche solo sconsigliarle qualcosa era impensabile, e in
fin dei conti egli era certo che, una volta che fossero usciti,
Agatha non avrebbe permesso a nessuno di vederla debole o stanca.
Chissà
perché, quel
giorno era soprendentemente bella, persino vestita da uomo, con
aderenti pantaloni a vita alta e i capelli pettinati, o quantomeno
sistemati in un'acconciatura elegante dalla quale continuavano
inistentemente a sfuggire i suoi ricci ribelli. Era ancora
mortalmente pallida, ma quantomeno le occhiaie pesanti attorno ai
suoi occhi, da qualche giorno, si erano attenuate.
La
cerimonia fu una
tortura, ma fu breve. All'interno della vasta sala affollata l'aria
era torrida e soffocante, malgrado le finestre spalancate; ma
quand'anche la giornata non fosse stata tanto calda, era evidente che
nessuno provava alcun vero interesse per il discorso del sindaco.
Tutto ciò che si poteva dire dell'oltraggio alla Torre era
già
stato detto all'apertura del cantiere, e quella, dopotutto, per chi
non aveva perduto qualcuno nell'incendio, era solo una targa. Il
sindaco si limitò a dire lo stretto necessario, col volto
lucido per
il caldo e l'espressione di chi non vedesse l'ora di concludere
quell'incombenza noiosa: dopo qualche parola ben spesa sulla
generosità dell'anonimo donatore e il significato universale
del
ricordo dei defunti, scoprì la targa e accennò
agli operai di
procedere. Per quanto lo riguardava, Samuel trovava che andasse
più
che bene così.
Al
termine della
cerimonia, quasi tutti si mostrarono assai impazienti di lasciare la
sala il prima possibile. Dopo l'ultimo applauso vi fu uno stridio
collettivo di sedie spostate mentre tutti si affrettavano ad alzarsi
in piedi, e solo per qualche minuto ci si trattenne a conversare e a
scambiarsi commenti e apprezzamenti, o persino a osservare la targa
con compunzione, per non dare l'impressione di voler sfuggire senza
riserve dall'aria tetra e irrespirabile della Torre; ma poi,
finalmente, la folla cominciò a defluire dalla sala come
acqua che
si abbassa, dapprima insensibilmente, poi più rapidamente a
misura
che ciascuno si accorgeva che tutti se ne andavano; e poi non rimase
quasi nessuno.
Qualcuno
si era fermato
a pregare, ma nell'intimità della propria solitudine, e
doveva avere
perciò atteso proprio che la folla disinteressata si
dileguasse per
poter rimanere un po' in pace, in silenzio, a pensare. Qua e
là,
molto isolate nella vasta sala dalle volte ricurve, Samuel scorgeva
le loro figure remote che si aggiravano in silenzio, rispettosamente,
e talora si inginocchiavano per pregare.
Dopo
lunghe esitazioni,
Agatha aveva deciso di far scolpire una scritta molto semplice, di
pura commemorazione del disastro, senza alcun riferimento che potesse
far intendere una maggiore partecipazione emotiva da parte del
donatore; eppure, al di sotto della fredda apparenza indifferente di
quelle parole, In memoria dei defunti..., Samuel
aveva
l'impressione di sentirle vibrare di tutto il vigore bruciante
dell'anima di Agatha, che scalpitava più forte proprio
perché non
poteva esprimersi ad alta voce.
«Sono
sicuro che
avrebbero apprezzato» mormorò appena, tanto piano
che nessuno al di
fuori di lei avrebbe potuto capire se per caso gli fosse capitato di
ascoltare.
Ma
Agatha non diede
alcun segno di averlo udito. Stava guardando la targa, con tale
intensità e con tale ardore, ch'era come se i suoi occhi
potessero
vedere qualcosa al di là del marmo, ed ella stessa credesse
di
potervi sprofondare; ma di più, non la stava solo guardando
– la
stava ascoltando, e le stava parlando,
e guardandola
Samuel provò per un attimo la strana sensazione che, su
quella
targa, ella avesse riversato più sentimenti di quanti gliene
avesse
lasciati intendere sino ad allora. La sua donazione era stata davvero
dettata solamente dalla volontà di dare loro pace?
Finalmente
anche quel
breve incanto finì. Con gli occhi ancora vacui ma che a poco
a poco
riacquisivano luce, Agatha posò una mano sulla lapide e si
concesse
di accarezzarla a lungo; e infine, come riscutendosi da un sogno,
ella se ne ritrasse lentamente, quella strana corrispondenza si
spezzò, si spense, e sollevando su di lui occhi che
finalmente
tornavano a vederlo, Agatha gli si accostò maggiormente e
mormorò:
«Possiamo andare, se vuoi.»
A
quella lapide che
celava le ceneri del suo Pokémon scomparso Samuel non aveva
proprio
niente da dire. La prospettiva di una sepoltura onorata lo confortava
oltre ogni immaginazione, ma questo era tutto ciò che la
targa
significava per lui; e quel luogo non aveva per lui altra attrattiva,
poiché il ricordo di Arcanine lo avrebbe accompagnato
sempre, e non
gli sarebbe in nessun caso stato possibile circostriverlo a quel
luogo soltanto. Quanto a pregare, Samuel dubitava di poterne trarre
alcuna pace.
All'esterno
della
Torre, l'aria era ancora bollente, ma meno irrespirabile che
all'interno. Samuel la respirò a pieni polmoni, con
gratitudine, e
se ne beò a occhi chiusi per qualche momento.
Eppure
Agatha sembrava
ancora pensosa, come se non fosse ancora uscita dalla Torre. Teneva
gli occhi bassi, col capo reclinato sulla spalla, e il suo sguardo
per lui assente era asperso di una tale dolorosa concentrazione, che
tentare d'infrangerla gli parve pericoloso, come se entrandovi in
contatto fosse possibile ferirsi. Ma lasciarla sola e senza aiuto gli
sembrava ancora più pericoloso che parlarle, e toccandole
cautamente
la mano Samuel mormorò: «Ehi.»
Sottraendosi
a fatica
da quei pensieri che minacciavano di catturarla e avvincerla, Agatha
si sforzò di sorridergli. Era un sorriso stanco,
notò Samuel,
penosamente tirato sul suo volto emaciato che ancora non si era
ripreso dalla lunga convalescenza, certo; ma era il sorriso di
Agatha, la cui dolcezza riusciva ancora, malgrado tutto, a estendersi
ai suoi occhi. Sentendosi incoraggiato da quel sorriso che gli
indicava che Agatha era ancora lì per lui –
lì, all'interno della
sua mente – Samuel aumentò un poco la stretta
sulla sua mano e
proseguì: «Stai bene?»
Certo
che no, che
domanda sciocca. Ma Agatha comprese egualmente quanto significasse
per lui questa domanda e senza guardarlo, come anticipando una
risposta che era di là da venire, disse in tono
perfettamente neutro
e privo d'intonazione: «Facciamo una passeggiata.»
No,
non andava tutto
bene, eppure Samuel non riusciva proprio a intuire, attraverso la
strana tonalità della sua voce, che cosa c'era esattamente
che
Agatha volesse dirgli. Camminando, Agatha si appoggiava ancora al suo
braccio, come i primi giorni dopo la sua ferita, ma leggermente, e il
peso suo peso era leggerissimo e privo di qualsiasi abbandono. Per un
po' camminarono in silenzio, tutti immersi nella luce e nel calore
del giorno, e attraversarono con calma il centro della
città.
Lavandonia era particolarmente vitale, quel giorno: in una piccola
piazza un po' isolata, ombreggiata in parte da un folto pergolato
ombroso, due ragazzi di qualche anno più giovani di loro si
stavano
sfidando coi loro Pokémon, ma più per passatempo
che in modo serio,
e attorno a loro s'era raccolta una piccola folla di bambini eccitati
e persino qualche più maturo amatore. Attraverso la folla
accalcata,
Samuel non riusciva a vedere di che Pokémon si trattasse, ma
mentre
passavano udì urlare distintamente: «Pidgeotto,
Agilità!»
«Sediamoci
qui»
propose, accennandole col capo una panchina in piena ombra, avvolta
dall'atmosfera fresca e semibuia del pergolato, e Agatha non fece
obiezioni. Tutta presa dall'interesse per la piccola sfida, la gente
era in quel momento troppo distratta per badare a loro, ed essi
avrebbero quantomeno potuto star seduti con calma per qualche minuto
senza che Lavandonia si soffermasse a guardarli con disapprovazione.
Vista
da quella
prospettiva, da una fresca panchina di pietra collocata in piena
ombra, e circondati dal vociare gioioso della folla che assisteva
alla lotta, Lavandonia non era poi diversa da qualsiasi altra
città
ch'egli avesse visitato negli anni precedenti. Appoggiandosi con la
schiena al rigido schienale scolpito della panchina, socchiudendo gli
occhi, Samuel provò a figurarsi quella città in
modo diverso,
unicamente come la vedeva ora, solare e vivace, e pensò che
forse
era così che sarebbe stata sempre, ora che il sepolto vivo
non
esisteva più.
«Mr.
Mime, usa
Sostituto!»
«Vorrei
ripartire,
Samuel.»
Era
di questo che si
trattava, dunque. Riaprendo bruscamente gli occhi, Samuel si volse
verso di lei, che in quel momento era china in avanti, coi gomiti
puntati sulle ginocchia, e guardava fissamente davanti a sé.
Dalla
sua posizione, ovviamente, ella non poteva vedere l'esito dello
scontro più di quanto vi riuscisse egli stesso; ma
ciò che ella vi
scrutava tanto intensamente, egli lo sapeva, era la lotta,
lo
scontro assoluto e totale, del tutto indipendente dalla singola
contingenza di quella lotta e di quello scontro.
Le
sue parole non
l'avevano sorpreso tanto quanto avrebbero dovuto, forse
perché,
dopotutto, una parte di lui aveva sempre saputo che Agatha non aveva
cessato, come lui, di essere un'allenatrice nel momento stesso in cui
erano morti i suoi Pokémon. Si limitò ad annuire.
«Era per questo
la targa, dunque.»
Agatha
accennò appena
un segno d'assenso col capo, stancamente, ma il suo sguardo era colmo
di gratitudine, come se gli fosse grata di esser stato lui a dirlo ad
alta voce. «Non potevo lasciarli così, insepolti,
senza salutarli.
Almeno questo glielo dovevo, prima di andarmene.»
Erano
parole vacue,
parole vane, Samuel lo sapeva: Nidoking, Tentacruel e Vileplume erano
morti come lo era Arcanine, e le loro anime non trovavano
più spazio
in alcun luogo dell'universo: le loro volontà e il loro
amore non
esistevano più, ma Samuel sentì egualmente di
doverglielo dire.
«Sono certo che vorrebbero la tua
felicità.»
Con
sguardo
insolitamente deciso e l'espressione serena e consapevole e priva di
qualsiasi traccia di dubbio, Agatha rispose: «Già,
lo sono
anch'io.»
Da
qualche parte in
mezzo alla folla si levò una forte raffica di vento e il
Pidgeotto
si sollevò a mezz'aria nella foga della battaglia. Per
quanto
intensamente guardasse in quella direzione, però, Agatha non
lo
vedeva.
«Tu
sapevi che
Nidoking ha scelto di morire?»
Se
la sua decisione se
l'era aspettata, quest'informazione per lui era decisamente nuova.
Samuel rimase in silenzio per svariati secondi, aspettandosi una
spiegazione che facesse da complemento a quelle parole, ma quando fu
chiaro che non ve ne sarebbe stata alcuna, si decise a domandare:
«Che cosa?»
«Non
ha voluto
rientrare. Quando l'ho richiamato, quella notte...» Samuel lo
ricordava bene: decine di raggi rossi che balenavano nel buio,
folgorando invano l'aria, e le urla strazianti di Agatha che lo
imploravano, lo supplicavano di rientrare. «È
stata una sua scelta.
Lui non l'ha voluto.»
Il
ruggito sofferente
di Nidoking che veniva stritolato dalla morsa della pallida mano non
era l'ultimo dei ricordi che avrebbero vegliato per sempre i suoi
incubi: Samuel non ebbe bisogno di concentrarsi per richiamare alla
memoria quel momento. Sì, egli ricordava bene tutti i
tentativi
della Pokéball che andavano a vuoto, ma non se n'era stupito
affatto, poiché fin troppe volte gli era capitato, nella sua
carriera di allenatore, di rimanere intrappolato con la sua squadra
in qualche campo di battaglia da una mossa che gli avesse reso
impossibile fuggire. Doveva aver pensato che la stretta formidabile
della mano avesse più o meno lo stesso effetto di un
Avvolgibotta,
ma ora Agatha gli veniva a dire che, in tutto questo, Nidoking aveva
soltanto disobbedito e si era rifiutato di tornare da lei. Sapeva
bene che non c'era modo di confondere i due eventi: il piccolo
strattone che la Pokéball sembrava avere quando un
Pokémon si
rifiutava di obbedire era completamente diverso dalla piena
immobilità della sfera che corrispondeva a un richiamo
andato a
vuoto, e Samuel conosceva la differenza per aver avuto un
Pokémon
testardo e selvaggio come Gyarados, che ancora continuava
saltuariamente a disobbedire dopo anni da quando egli era riuscito a
domarlo...
Nidoking
era rimasto
sul campo ad affrontare la morte perché sapeva di essere
l'unico
ostacolo che ancora si ergeva tra Agatha e il sepolto vivo. Samuel
non riusciva neppure a immaginare quale portata di colpevolezza e
responsabilità tutto questo comportasse per lei, ma tornando
a
reprimere con forza quei ricordi ai margini della sua coscienza,
rispose: «Nidoking ti amava moltissimo.»
«È
così» disse
Agatha a bassa voce. «E anche Vileplume e Tentacruel, anche
se non
ho fatto in tempo a cercare di richiamarli. È per questo che
non
posso gettar via il loro sacrificio, Samuel» soggiunse poi,
con la
massima gravità possibile nello sguardo; e Samuel comprese
che in
fin dei conti era questo ch'ella aveva veramente voluto dirgli sin da
quando erano usciti dalla Torre. «Loro hanno fatto di tutto
perché
io sopravvivessi, Samuel. Che cosa direbbero se dopo aver tanto
lottato, se dopo tutto quello che hanno fatto per me, io tornassi a
chiudermi in quella casa da cui ho faticato tanto a scappare?»
Qualsiasi
forma di
approvazione o di sostegno alle sue parole sarebbe stata vana e
sterile e non avrebbe avuto alcun significato: la decisione di Agatha
era stata presa nel momento in cui Nidoking si era sacrificato per
salvarla. Non c'era altro da dire.
A
pochi metri da loro,
l'aria si rischiarò del bagliore rosato di uno Psichico, e
il
Pidgeotto che poco prima si era levato in volo gettò uno
stridulo
grido di protesta. Samuel fece cenno di aver capito. «Quando
intendi
ripartire?»
«Domani»
rispose
Agatha a bassa voce, guardandolo fissamente come se si aspettasse una
sua reazione; ma Samuel non ne ebbe nessuna. Era giusto
così: se si
doveva ripartire, meglio farlo il prima possibile, senza
ripensamenti. E poi, a che rifletterci troppo? Forse che sarebbe
cambiato qualcosa, se fossero rimasti più a lungo in quella
misera
cittadina angusta? (E a far che, poi?) Ma come se ancora non fosse
certa della sua opinione, e volesse una risposta più
concreta del
tacito silenzio d'assenso ch'era tutto ciò che egli le
offriva,
Agatha insisté: «Ho bisogno di sapere se sei
disposto a venire con
me.»
Affrontare
di nuovo un
viaggio, ma senza la sua squadra, aiutare Agatha a catturare nuovi
Pokémon e poi seguirla e sostenerla lungo l'infinito
percorso che si
stendeva davanti a loro verso un incerto futuro. Soffocando lo strano
sentimento di sconforto che questa prospettiva gli causava, Samuel
allungò una mano e le scompigliò i capelli.
«Scema»
disse.
Il
pallore di Agatha si
colorì del suo sorriso.
Si
erano alzati prima
dell'alba, in una Lavandonia ancora grigia e fresca e meno soffocante
che durante il giorno. Affacciandosi alla finestra della sua stanza,
Samuel aveva visto in lontananza biancheggiare ancora di nebbia la
vasta schiena del mare, dove forse appena una brezza lievissima
increspava le onde in superficie.
Quando
era sceso
dabbasso, aveva trovato Agatha già sveglia, tutta presa da
un senso
d'angoscia e attesa. Indossava ancora un completo di foggia maschile,
con morbidi calzoni blu che si stringevano eccessivamente attorno
alla sua vita smagrita, e rimaneva immobile davanti alla finestra
della cucina, colle mani aggrappate al davanzale. Guardava fuori, ma
i suoi occhi non si volgevano verso il mare, e neppure verso la
luminescente aurora che infiammava la possenza dei monti. Samuel si
era chiesto se rimanesse ancora spazio per la bellezza in lei.
Esisteva ancora in lei, da qualche parte, l'Agatha gioiosa e vitale
che aveva ammirato per ore, senza volersene staccare, la meraviglia
senza tempo di Articuno? O forse quel rancore che in lei era sempre
esistito, e che egli aveva accettato con naturalezza, come aveva
accettato i suoi capricci e il suo coraggio, si stava nutrendo del
suo dolore tanto da acquisire in lei più forza della vita?
Non
aveva acceso la
luce, forse per non richiamare l'attenzione del pase, o almeno di
qualche singolare paesano che fosse già sveglio a quell'ora,
ma la
scarna luce livida del mattino era già sufficiente a
illuminare in
parte il suo profilo. Samuel aveva distinto occhi smisuratamente
grandi sul pallore del volto, scure ombre dolorose che scavavano e
approfondivano la sua bellezza ancora quasi infantile, la curva
angosciosa delle altere sopracciglia contratte e labbra dischiuse che
s'impedivano di tremare. Tutto in lei parlava di dolore,
pensò
Samuel osservandola dalla porta, ma di una sofferenza dura e
statuaria, più inaccessibile della vetta di un monte, che si
era
fatta carne e non poteva più profondersi in lacrime.
Agatha
si era accorta
di lui solo dopo qualche momento, forse per aver percepito una
diversa tonalità nel silenzio che la circondava, o per aver
avvertito l'impercettibile suono del suo respiro. Si era riscossa
dalla sua contemplazione come da un interminabile sogno, lentamente,
e altrettanto lentamente si era voltata; ma finché non si
erano
posati su di lui, i suoi occhi erano rimasti colmi ancora del suo
sogno, trabordanti tanto ch'egli aveva creduto di poterne leggere il
suo pensiero. Poi il suo sguardo si era posato su di lui, quasi con
voluttà di riposo, ed ella era finalmente riemersa dal
ricordo di
quella notte ed era tornata da lui.
Per
qualche istante
Agatha aveva come combattuto l'impulso di domandargli s'egli fosse
davvero deciso, o di ricordargli che su di lui, se si fosse tirato
indietro anche solo in quel momento, ella non avrebbe rivendicato
alcun diritto; ma poi la sola idea di mettere in dubbio la sua
decisione, che già di per sé era divenuta
evidente nel fatto stesso
ch'egli si era presentato al loro incontro, le era parsa offensiva, e
aveva lasciato perdere.
«Hai
fame?» aveva
domandato invece, colle dita ancora nervosamente strette attorno al
piano della cucina e gli occhi infissi su di lui, quasi a voler
percepire il suo stato d'animo da tutto ciò che a voce non
si poteva
esprimere: forse la piega delle labbra, o la postura delle spalle, o
qualcos'altro ancora, che agli occhi era invisibile ma che lei,
egualmente, avrebbe visto.
«No»
aveva risposto.
Sentiva l'ansia stringersi in una morsa proprio alla bocca dello
stomaco, e neppure volendolo avrebbe potuto mangiare.
Non
c'era stato
nient'altro da dire, nient'altro che Agatha avesse potuto trovare da
chiedergli per poter prolungare quel momento di ancora un istante
senza esser costretta a dirgli ciò che davvero avrebbe
voluto: che
non era tenuto a seguirla, che lei comunque gli era grata; che...
Ma
rimandare ancora non
avrebbe avuto senso, ed erano usciti.
Avevano
attraversato la
città come spettri, in silenzio e senza neppure guardarsi,
accontentandosi di percepire l'uno la presenza dell'altra attraverso
l'aria solamente. Senza voltarsi, guardando dritto davanti a
sé e
sforzandosi d'ignorare il suono lieve del suo respiro, Samuel avrebbe
potuto credere d'esser solo e abbandonato in tutta Lavandonia... ma
non era così, e quand'anche egli non fosse riuscito a udirlo
e
neppure a percepirlo nell'aria scura e impenetrabile tutta attorno a
lui, egli ugualmente avrebbe capito, e non avrebbe potuto nutrire
alcun dubbio sul fatto che l'ardore di Agatha fiammeggiasse troppo
intensamente perché la paura potesse trattenerla.
In
piena notte, il
cantiere deserto sembrava semplicemente immenso. Si erano insinuati
attraverso le transennature, sgusciando appena tra i macchinari a
riposo, e avevano strisciato lungo il muro della Torre camminando con
difficoltà sul terreno smosso di fresco.
La
porticina si era
aperta senza alcun problema. Al di là di essa si stendeva il
vasto
piano terreno della Torre, ma quando Samuel era entrato, e dopo
lunghi istanti di angosciata apnea finalmente aveva ricominciato a
respirare, quell'odore familiare ch'egli ricordava anche troppo bene,
odore di cera e incenso e di fiori lasciati a imputridire nell'acqua
da ormai qualche giorno, non c'era. Quel giorno, la Torre era stata
così affollata e caotica che non sarebbe stato neppure
possibile
percepire quell'odore, in mezzo a una folla di signore profumate e di
signori in acqua di colonia, e al di sopra dell'aria troppo calda ma
ventilata che spirava dalle finestre spalancate; ma ora era deserta,
e proprio il silenzio tombale che vi aleggiava incoraggiava gli altri
sensi. Curiosamente, egli si era reso conto di essersi aspettato di
trovare quell'odore ad attenderlo solo in quel preciso momento in cui
l'aveva assalito il sollievo per non averlo trovato, e forse era
meglio così. La sala odorava ora di intonaco e calce e della
polvere
smossa dei lavori, e di quel misero evento che sembrava serbar di lui
tanta pietà egli si sentì smisuratamente grato.
All'interno
della
Torre, dove nessuno poteva più vederli, Agatha si era
abbassata
sulle spalle lo scialle con cui si era coperta i capelli –
malgrado
l'ora, Samuel aveva insistito, poiché era certo che se
qualcuno li
avesse visti, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a
distinguere
persino nella notte la crespa nube dei suoi capelli scomposti
– e
avevano raggiunto a tentoni il piano di sopra. Più su,
Samuel aveva
messo bene in chiaro che non solo non l'avrebbe seguita, ma le
avrebbe impedito di andare, anche a costo di trascinarla di peso
giù
per le scale; e Agatha aveva capito.
Vederla
avanzare ora
tra le tombe, nella luminescenza dell'alba appena un po' più
intensa
e meno livida di quella della luna piena, lo riempiva d'ansia e di
ricordi e di spavento: per impedire a se stesso di afferrarla e di
stringerla, di portarla via da quel luogo orribile in cui i loro
Pokémon erano morti, Samuel si era aggrappato alla
superficie
levigata di una lapide, con tanta forza che quasi si era meravigliato
che le sue dita non penetrassero attraverso il marmo come fosse
carne, e aveva aspettato.
Agatha
aveva camminato
tra le lapidi in silenzio, col volto concentrato e tutto preso da
quel momento. Non si era mai allontanata molto da lui, e anzi
più
volte si era voltata a cercarlo, ma non perché non fosse
certa di
quanto si fosse allontanata da lui, o perché volesse
assicurarsi che
egli non l'avesse abbandonata; ma nei suoi occhi senza luce, che lo
vedevano senza soffermarsi su di lui, Samuel vedeva specchiarsi il
medesimo incubo che lo avvinceva, e allora era certo che ella lo
cercava con lo sguardo e lo ritrovava perché aveva bisogno
di sapere
di essere sveglia e che tutto era reale.
Gastly
era arrivato
dopo lunghi interminabili minuti di attesa, proprio quando sembrava
ormai diventato tutto inutile e insperabile. Samuel non l'aveva visto
subito, forse perché non ne aveva mai visto uno, e per
questo motivo
non sapeva precisamente che cosa aspettarsi, o forse soltanto
perché
era buio: tutto ciò che aveva visto, in quella lunga notte
che
volgeva al mattino, era l'improvvisa rigidità di Agatha,
come s'ella
si concentrasse per un momento per capire da dove venisse quel rumore
che aveva sentito – o forse quella sensazione che aveva avuto
– e
poi, al di là della sua figura, una nube scura e indistinta,
stagliata contro la finestra. Ma ecco, proprio quando Samuel
finalmente aveva levato lo sguardo su quella finestra, e aveva
distinto l'informe sagoma inconoscibile che spiccava per contrasto
contro la luce dell'esterno, egli per un attimo aveva avuto la stessa
impressione di Agatha, e subito dopo quell'impressione era divenuta
consapevolezza: quella nube aveva occhi che lo scrutavano...!
E
poi, e poi. Non c'era
quasi nulla che valesse la pena ricordare di quel momento. Agatha si
era mossa con rapidità sconcertante, molto più
rapida del suo
impulso di correre in suo soccorso: la sua mano non aveva esitato un
solo istante, e quando il lampo della Pokéball che si apriva
per poi
richiudersi subito dopo aveva illuminato a giorno il suo viso, egli
aveva visto i suoi occhi seri e concentrati e le sue labbra serrate
in una linea dura e determinata che non lasciava spazio
all'incertezza.
E
poi, e poi. Le
catture si erano susseguite rapidamente e con via via maggior
sicurezza, a misura che i Pokémon si erano avvicinati
incuriositi
dalla loro presenza , e forse persino un po' intontiti dopo tutti i
lavori e il caos che avevano animato la Torre negli ultimi giorni, e
la mano di Agatha aveva saettato nel buio ancora e ancora. Vi era
stato un momento soltanto, in quella sequenza di lampi di luce, in
cui Samuel aveva provato una fitta di panico, e staccandosi dalla
lapide al quale si era aggrappato si era ritrovato alle sue spalle: a
un tratto, un esemplare particolarmente grosso – o quantomeno
una
nube gassosa particolarmente estesa – si era liberato
sibilando
dalla Pokéball e si era scagliata contro di lei... eppure,
come al
solito, Agatha si era rivelata molto più all'altezza della
situazione di quanto egli si ostinasse a considerarla. Senza
permettere a se stessa di arretrarsi solo di un passo, ma
fronteggiando ancora a testa alta il suo nemico, aveva agito senza
esitare, e dopo un ultimo lampo di luce e una breve serie di
oscillazioni, la Pokéball si era richiusa.
Avevano
lasciato
Lavandonia quel mattino stesso, senza neppure tornare alla vasta casa
vuota, mentre la cittadina cominciava a svegliarsi e a stiracchiarsi,
in procinto di dedicare un'altra giornata a vivere in funzione del
suo enorme parassita, e si erano diretti verso ovest, dove cresceva
Zafferanopoli dalle strade color di croco. Scegliere una prima tappa
così vicina per riprendere il loro viaggio si era rivelata
una buona
idea: Samuel stesso, che pure non aveva altra infermità che
quel
mese di ozio forzato – era la prima volta da quando era
partito che
si fermava tanto a lungo nel medesimo luogo – si era sorpreso
di
arrivare a Zafferanopoli molto più stanco e dopo molto
più tempo
del normale; quanto ad Agatha, egli aveva potuto leggere il dolore
accrescersi e avvicendarsi alla stanchezza sul suo volto, a misura
ch'esso sbiancava o si arrossava o che la sua fronte s'increspava; ma
ella non si era mai lamentata.
Dopo
Zafferanopoli, le
città e i percorsi si erano susseguiti senza sosta. Quando
si
soffermava a riflettervi, nelle lunghe notti gelide in cui stentava
ad addormentarsi, Samuel sbigottiva di quanta strada avessero
percorso.
Erano
avanzati molto
lentamente, all'inizio. Per Agatha, quella era la prima volta dopo
anni che combatteva con Pokémon diversi dalla squadra alla
quale era
abituata, e per i primi tempi – anche s'ella non l'avrebbe
ammesso
mai ad alta voce! - Samuel aveva letto nei suoi occhi tutta la guerra
d'amore e di dolore che scatenavano in lei i suoi nuovi
Pokémon.
Agatha si era imposta di sopravvivere a quel
dolore perché
non farlo sarebbe stato offendere la memoria e il sacrificio della
sua squadra, e non avrebbe ammesso a nessun costo che quell'impegno
segreto che non si poteva tradire era forse troppo grande di lei; no,
non avrebbe confessato mai che tutta una parte intera di lei non
avrebbe voluto affatto andare avanti, e che quella vita non valeva
più niente, che il suo sogno era divenuto irrealizzabile e
privo di
significato da quando loro...! Proprio guardare quei nuovi
Pokémon
che si era scelta le ricordava ogni giorno di più che quelli
che
erano stati i suoi non c'erano più, che non sarebbero
tornati mai
più da lei; e proprio questo la riempiva di un grande dolore.
Samuel
ricordava
precisamente il momento in cui Agatha,
all'improvviso, si era
innamorata di loro e li aveva accettati.
Non
c'era voluto più
di un istante, dopo mesi di lotta e di conflitto e di pianto; o
meglio, mesi di guerra e confusione erano culminati sublimandosi in
quel solo attimo, e da allora Agatha aveva smesso di lottare con se
stessa.
Era
accaduto durante
una di quelle rare sere in cui Agatha aveva fatto uscire i suoi
Pokémon dopo cena, mentre sedevano in silenzio attorno al
fuoco,
poco a ovest di Fucsiapoli. L'estate non era ancora finita, certo, ma
le giornate cominciavano già ad abbreviarsi, e a quell'ora,
a breve
distanza dal mare, la notte era fredda.
Agatha
aveva accettato
di buona grazia il giubbotto che Samuel le aveva offerto, e ora
sedeva in silenzio con lo sguardo perdutamente infisso nel fuoco,
preso come da pensieri tutti suoi. Aveva la fronte penosamente
aggrottata, con le braccia conserte sul petto con forza, e le fiamme
che si avvicendavano per salire al cielo davanti a lei tratteggiavano
sul suo viso nere ombre mutevoli e ognora cangianti, alterando a ogni
momento le la luminescenza dei suoi occhi. Proprio su di essi Samuel
si sforzava disperatamente di concentrarsi, perché guardare
il
fuoco, da un po' di tempo a quella parte, non gli piaceva
più.
I
suoi Pokémon
giocavano a inseguirsi a pochi passi da loro, sovrastando con le loro
stridule risate sguaiate, che sarebbero risultate agghiaccianti se
Samuel non li avesse conosciuti bene, il crepitio delle fiamme.
Era
successo tutto così
in fretta. A un tratto Haunter – l'unico Pokémon
già parzialmente
evoluto che Agatha avesse catturato quel mattino, quello che per poco
non l'aveva aggredita – forse stufo dell'indifferenza un po'
distante che era tutto ciò che Agatha, seppur
involontariamente, era
stata in grado di riservare loro, si era avvicinato a lei, l'aveva
guardata da vicino per qualche secondo, come a stabilire se i suoi
vacui occhi pensosi fossero in quel momento in grado di vederlo o se,
invece, non occorresse fare ricorso a qualche metodo più
ardito per
ottenere la sua attenzione, e infine, forse arrendendosi
all'evidenza, aveva afferrato i suoi capelli e aveva tirato.
Agatha
non aveva
neppure gridato. Samuel l'aveva vista sobbalzare per la sorpresa,
quando quello strattone l'aveva bruscamente richiamata alla
realtà
dall'abisso senza fondo dei suoi pensieri, ma questo era tutto quanto
ella aveva concesso a quel primo attimo di sgomento. Era balzata in
piedi in un impeto di rabbia, volgendo furiosamente su Haunter occhi
ardenti e severi come braci incandescenti: Samuel si era aspettato
che... e poi Haunter aveva fatto una boccaccia, e Agatha era
scoppiata a ridere.
Erano
Pokémon un po'
malevoli, anche se non fino a essere decisamente cattivi,
più di
Veleno che di Spettro, almeno per come li vedeva Samuel,
cioè
alquanto infidi e subdoli; e non c'erano dubbi che ad Agatha questo
aspetto del loro carattere piacesse molto. Nidoking era stato
coraggio e brutale aggressività fisica, e si era arrogato il
compito
di difendere Agatha come il padre o il compagno ch'ella non aveva mai
voluto avere; ma dopo di lui, e dopo Vileplume e Tentacruel, forse
Agatha non voleva più affatto qualcuno che la proteggesse.
In lei
bruciavano una fiamma di vendetta e un'amarezza sorda e rancorosa che
non potevano riversarsi su alcun oggetto reale, per il semplice fatto
che il sepolto vivo era morto e che il dolore che abitava il suo
animo era immotivato e ingiusto, del tutto privo di ragioni
materiali, e che non avevano bisogno di coraggio o mera forza fisica,
dal momento che non potevano concretizzarsi in atti. Ma la rabbia di
Agatha era immedicabile: non poteva sfogarsi né trovare
pace, e
perciò la rendeva inquieta e furiosa e priva di riposo;
anche se
forse, chissà, quella subdola e mendace malignità
dei suoi Pokémon,
che si esprimeva attraverso scherzi e dispetti e veleno
voluttuosamente gettato in faccia al nemico, forse dava un po' di
sollievo al suo animo dilaniato dal senso impotente della rivalsa...
Beninteso,
non erano
Pokémon cattivi, o almeno non avevano alcuna intenzione di
essere
davvero crudeli. No, Gengar e Haunter erano semplicemente il caos, ma
un caos allo stato puro, primordiale, e del tutto privo di qualsiasi
connotazione morale. Nella loro mente non c'era spazio per
nient'altro che non fosse il loro divertimento, sfrenato e senza
limiti, - o meglio, lo spazio ci sarebbe stato, ma semplicemente a
loro non interessava curarsi d'altro – e tutto ciò
che a quel
divertimento poteva contribuire, e poco importavano le possibili
conseguenze dei loro scherzi e della loro follia. Tutto il mondo
sensibile esisteva, nella loro ottica, per nient'altro che la gioia
caotica della loro malignità, e in tutto questo Agatha non
li aveva
mai fermati. I suoi Pokémon si ergevano davanti a
lei come un
esercito di demoni indisciplinati e ribelli, che amavano la lotta e
la confusione e che non chiedevano di meglio che seminare un po' di
zizzania al loro passaggio, ma che si mostravano ai suoi ordini
mansueti e docili proprio come bambini un po' irruenti, che
però
amassero la loro madre di tutto l'amore del mondo e volessero
compiacerla in tutto e per tutto.
Sì,
Gengar e Haunter
adoravano Agatha di un'adorazione incontrastata e senza pari,
mettendo incondizionatamente al suo servizio tutta la loro violenza
e la loro sottile perfidia, e forse l'amavano proprio perché
sentivano ch'ella si compiaceva della loro natura e trovavano in lei
una perfetta corrispondenza. Il mondo appariva loro come un immenso
parco giochi privo di ogni proibizione o confine, d'accordo, ma quel
mondo girava attorno a lei, mutando in base alla sua
volontà. Anche
gli scontri con gli altri Pokémon non sarebbero stati, per
loro, che
eterni giochi vagamente perversi in cui dar sfogo ai loro orribili
poteri; ma ciò nonostante essi non avevano mai tardato,
neppure un
istante, a eseguire i suoi ordini ponendo così fine alle
lotte.
Del
resto, Samuel era
convinto che quei tre nutrissero una particolare forma di rispetto e
di riguardo anche per lui, se non proprio un'aperta e palese
simpatia; ma questo era quanto. Amavano coinvolgerlo nei loro
scherzi, naturalmente, così com'erano abituati a fare con
qualsiasi
essere vivente che non fosse Agatha; ma si trattava di scherzi
innocui, che non miravano a spaventarlo o a mortificarlo davvero,
come amavano fare con gli altri. Volevano ridere con lui, non di lui,
e se questa mitezza nei suoi confronti fosse dovuta a un loro reale
affetto o piuttosto al fatto che non volevano entrare in contrasto
con la volontà di Agatha, questo Samuel non avrebbe saputo
dirlo e
neppure gli interessava. Era la squadra di Agatha, non la sua, e in
che misura e per quali motivi la loro perfidia prendesse forma sulla
bruciante ambizione di quella ragazza, non lo riguardava.
Allenarsi
all'inizio,
naturalmente, era stato difficile. Al momento della loro cattura
erano Pokémon molto deboli, incostanti, e privi di
particolari
talenti. L'autorevolezza di Agatha era tale che essi non avevano mai
esitato a obbedirle, e questo era stato una fortuna, perché
ella
aveva al contrario faticato moltissimo ad abituarsi a loro e a
trovare per ciascuno un ruolo e una strategia nell'economia della
squadra: erano Pokémon nuovi, con mosse e
vulnerabilità e debolezze
completamente nuove rispetto a quelle cui ella era sempre stata
abituata e sulle quali aveva costruito quella sua tattica aggressiva
e furiosa che ormai, per forza, non aveva più modo di
mettere in
atto.
Eppure,
e senza che
Samuel ne avesse mai dubitato, Agatha aveva superato ogni
difficoltà
che le provenisse dai suoi Pokémon con implacabile
determinazione.
Non erano certamente ancora al livello della squadra di cui ella
aveva potuto vantarsi con tanta sicurezza a Fucsiapoli, d'accordo,
eppure in loro brillava qualcosa di orribilmente
forte,
macabro e selvaggio e pronto in ogni momento a rivelarsi, ed ella
aveva bisogno soltanto di un po' più di tempo per poter
tornare di
nuovo a competere, verbalmente e non solo, coi gradassi che avevano
cercato di umiliarla sull'Altopiano Blu.
La
sua ambizione li
aveva trascinati per tutta Kanto per la seconda volta da quando la
loro alleanza si era costuita, e alla sua ambizione Samuel non si era
mai oppposto. Si era limitato a seguirla in silenzio, senza opporlesi
mai, neppure quando la sua passione aveva raggiunto vette
irraggiungibili e inusitate... era stato per lei più un
sostegno che
un compagno per tutti quei mesi, un osservatore più che un
amico;
eppure sentiva che della sua presenza silenziosa e discreta, ma
immancabile, Agatha gli era grata.
Vi
era tutta una parte
di lui che avrebbe voluto poterle dare un'altra pace da quella che
ella cercava nella lotta. La sua rabbia impotente si riversava nelle
battaglie in grandi ondate, si faceva guerra e scontro in cui era
ella stessa, Agatha, la prima a volersi distruggere... nella
battaglia ella cercava uno sfogo anche solo temporaneo all'ira focosa
che le bruciava dentro e che non la lasciava mai, e Samuel avrebbe
disperatamente voluto poterla salvare da quella
rabbia e da
quella disperazione... o almeno conoscere le parole per dirle che
tutto il suo odio e la sua cieca ostinazione, protese verso il nulla
e verso l'infinito, erano altrettanto inutili, vane e prive di
significato quanto l'incessante splendere del sole; e che non solo
non avrebbero potuto riportare indietro i suoi Pokémon, ma
non
avrebbero nemmeno potuto darle sollievo.
Ma
per quanto
profondamente egli volesse aiutarla, per quanto ogni giorno, mentre
la guardava lottare, egli desiderasse stringerla e scuoterla e
urlarle di smettere di tormentarsi – perché era
questo che stava
facendo, esattamente come lui, seppure in modi diversi –
Samuel
sapeva che non sarebbe bastato. Quel dolore che in lui era divenuto
compassione, in lei si era trasformato in durezza, ma una durezza
totale e priva di scrupoli, ed ella sembrava voler punire il mondo
intero con la stessa inflessibile severità con la quale
aveva
castigato se stessa. Non c'era altro da dire.
Compassione,
già. Era
così che si poteva dire quel sentimento nuovo che ora lo
penetrava
quando guardava Agatha lottare e spronare al massimo la sua squadra,
con quello stesso ardore che egli stesso aveva avuto, fino a poco
tempo prima, ma che ora proprio non sarebbe più riuscito a
trovare
in se stesso? Era compassione, certo, quella che provava quando di
fronte a lui, a pochi passi da lui, un'Agatha più selvaggia
di
quella ch'egli aveva affrontato sull'Altopiano Blu incrudeliva
sull'avversario, partecipando alla lotta non meno dei suoi
Pokémon;
compassione, d'accordo, ma egli sapeva che cosa volesse dire lottare,
per un allenatore. Agatha non faceva altro che aderire, sebbene con
più veemenza di prima, al medesimo codice di comportamento
non
scritto, ma di certo universalmente adottato, che egli stesso aveva
riconosciuto fino al preciso momento in cui aveva mandato Arcanine in
campo per il suo ultimo scontro. Lottare aveva comportato da sempre
cicatrici e sangue e grida di dolore, e quel prezzo egli era sempre
stato disposto a versarlo: ma allora in quel rinnovato sentimento di
compassione ch'egli sentiva sbocciare in sé non vi era,
forse, una
parte di orrore e di spontaneo rifiuto di ogni forma di sofferenza
che potesse ricordargli del peccato ch'egli aveva commesso, quando
aveva creduto che la lotta potesse salvarlo?
Agatha
questo non
riusciva a comprenderlo, o meglio, aveva capito le sue ragioni, con
la stessa naturalezza con la quale egli aveva compreso la natura
della sua rabbia; ma non riusciva proprio a condividerle. Nel suo
protratto rifiuto di tornare a essere l'allenatore di un tempo, ella
non riusciva a vedere altro che un'ostinata volontà di
continuare a
punirsi per qualcosa che aveva causato, ma che non avrebbe mai potuto
impedire, e che soprattutto non poteva ormai cambiare. Di fronte alle
sue preoccupazioni, e alla sua speranza di poterlo strappare alla
prospettiva di una vita di rinunce e privazioni autoinflitte, Samuel
non poteva che sorridere in silenzio tra sé della sua
tenerezza. Con
quali parole parlare alla sua rabbia, e come dirle che egli non
avrebbe allenato mai più un Pokémon non soltanto
perché di tale
onore e responsabilità non si sentiva più degno,
ma anche perché,
persino volendolo, non ne sarebbe stato in grado? Come mandare in
campo un Pokémon, anche solo per gioco, senza pensare ogni
volta
all'ultima lotta di Arcanine?
All'estate
troppo calda
della prima Lega Pokémon si era succeduto un autunno precoce
e
freddo, ma ancora limpido, ed essi avevano camminato sui terreni
variopinti di quell'autunno; durante i loro accampamenti isolati
sulle colline, troppo lunghi e troppo solitari, Samuel aveva tolto
lentamente foglie e dorate dai capelli di Agatha, ed ella le aveva
scrutate a lungo, tristemente, prima di gettarle nel fuoco. Avevano
percorso strade dritte e interminabili, lunghe tanto da perdersi
all'orizzonte ben oltre il limite del loro sguardo, fiancheggiando
neri campi spogli che il mattino ricopriva di nebbia, ma che si
stendevano poi limpidi e netti per tutte le giornate che andavano
insensibilmente abbreviandosi.
Non
avevano smesso di
camminare neppure quando all'autunno si era avvicendato un inverno
insolitamente rigido per quella regione, e neppure avevano cercato il
conforto del mare. Avevano accolto il gelo che li flagellava come
avrebbero fatto con qualsiasi clima che mandasse loro il cielo, senza
lamentarsene, e avevano continuato a camminare, Samuel con la
sensazione di avanzare controvento contro una tempesta che lo
respingeva, ma sempre senza poter rinunciare all'obbligo di andare
avanti, ancora avanti, e Agatha col volto offerto alla neve e al gelo
quasi voluttuosamente, per l'insano sentimento di autodistruzione che
aveva, affrontando l'inverno così come si sarebbe consumata
nel
fuoco. Della perversità del suo dolore Samuel provava
pietà, ma
proprio perché la conosceva bene e sapeva che ella lo
avrebbe
respinto, non aveva mai fatto niente per impedirle di farsi del male.
Agatha voleva soffrire, e che questa fosse una
sorta di
tortura autoinflitta per redimersi, o piuttosto una forma catartica
nella quale il suo dolore potesse trovare pace, non cambiava le cose,
poiché egli non era nella posizione adatta per dirle se
stesse o
meno sbagliando. Tutto ciò che riteneva di poter fare per
partecipare della sua pena e assieme per mitigarla un po', e che
Agatha del resto non gli aveva mai impedito, era tenere tra le sue le
piccole mani di Agatha, infreddolite e screpolate dal vento,
scaldandole a lungo col proprio calore. Ognuna delle piccole piaghe
sanguinanti che il freddo aveva scavato nella sua carne era per
Agatha una punizione cui non faceva nulla per sottrarsi, ed egli lo
sapeva... ma il suo calore e il suo conforto ella non l'aveva mai
rifiutato, e Samuel avrebbe voluto poter fare questo per tutta
l'eternità: lenire le sue ferite, poiché non
poteva impedirle di
infliggersele.
Ma
a mano a mano che
l'inverno si era ritirato verso le cime dei monti per cedere il passo
a una primavera più benevola nei loro confronti, si era
confermata
in lui la certezza di non poterla accompagnare oltre nel suo viaggio.
La stanchezza aveva preso possesso di lui come una malattia,
invalidante più di una ferita, nauseandolo e assalendolo
ogni
mattina, e gli faceva desiderare ogni sera di non svegliarsi per non
essere costretto ad affrontare ancora un'altra giornata. Non era la
stanchezza del viaggio, o delle alterne vicende di sole e di pioggia
che fustigavano i loro corpi nella primavera già inoltrata
ma ancora
incostante... no, Samuel era stanco perché aveva gli occhi
ancora
pieni dell'inferno della Torre che bruciava e le orecchie eternamente
echeggianti dell'ululato di Arcanine, e tutto ciò che
avrebbe
desiderato era di trovare pace. Ma se lui si fosse fermato, Agatha
avrebbe proseguito da sola, ed egli l'avrebbe dunque perduta per
sempre? E se l'avesse perduta, chi si sarebbe preso cura delle sue
mani screpolate dal freddo?
Preso
da tutti questi
pensieri che si dibattevano dentro di lui, contrastandosi e
opponendosi gli uni agli altri con le loro opposte motivazioni, e
già
sapendo, in fondo al suo cuore, quale sarebbe stata la risposta, il
primo di giugno – il giorno dell'anniversario di quella
notte, che
li aveva ricondotti, senza ch'essi lo avessero deciso né
concordato
ad alta voce tra di loro, a Lavandonia - sotto un cielo
meravigliosamente terso e caldo e sotto un sole che brillava, Samuel
si risolse infine a dirle con voce ferma e priva di qualsiasi
esitazione: «Sposami, Agatha.»
Chissà
perché, Agatha
accolse la sua proposta con calma, malinconica compostezza, come se
avesse atteso ch'egli le chiedesse di sposarla ormai da molto tempo,
forse persino da prima ch'egli stesso prendesse questa decisione in
fondo al proprio animo, e non ne fosse perciò affatto
stupita.
Non
si voltò verso di
lui. I suoi occhi erano infissi lontano, verso Lavandonia che si
stendeva ai piedi della collina dove si trovavano, e più
oltre,
verso la vasta schiena del mare traslucido che proseguiva fino a
confondersi col cielo... ma di tutto quel panorama così
estivo e
pacifico, solare e vitale, Samuel sapeva che non riuscivano a vedere
alcunché, e anche se ne fossero stati in grado, non
sarebbero
riusciti a coglierne la bellezza. No, dopo ormai quasi un anno di
viaggio, il sospetto che aveva concepito nella sua mente la notte
della loro partenza era divenuto certezza: l'Agatha che aveva
accanto, e alla quale aveva appena chiesto di sposarlo, non era
più
la ragazza gioiosa e appassionata delle Spumarine e della Centrale
Elettrica. La donna che era sopravvissuta a quella notte e che era
scappata dall'inferno non riusciva a vedere altro, in quella giornata
di sole, che l'esile linea nera e slanciata che congiungeva la terra
al cielo, e che era la Torre; e forse, oltre l'orizzonte che non
riusciva a raggiungere con lo sguardo, ella poteva intuire o
immaginare uno spazio sterminato e ricco di nemici sui quali sfogare
la sua furia sconfinata... ma niente più di questo. No, non
c'era
più spazio per la poesia e la bellezza in Agatha, non
più di quanto
ne fosse rimasto in lui per l'avventura; ma proprio per questo egli
sentiva di amarla di più, perché Agatha aveva
più bisogno del suo
amore; e forse, chissà, se per qualche miracolosa
congiunzione del
cielo ella avesse accettato di sposarlo, magari, in moltissimo tempo,
e con tutto il suo amore incondizionato e senza riserve, egli sarebbe
riuscito ad apportare qualche beneficio alla sua anima inaridita; un
giorno, osservando quel medesimo spettacolo d'acqua e di cielo che si
congiungevano sino a perdersi, magari Agatha avrebbe sorriso...
La
fronte di Agatha
s'increspò di dolorosa concentrazione, la linea delle sue
labbra si
fece più sottile e rigida; persino la curva della sua gola
parve più
severa e statuaria. Col profilo così contratto e indurito, e
gli
occhi distanti e pensierosi, Agatha domandò:
«Perché me lo stai
chiedendo adesso?»
Dunque
Agatha sapeva,
aveva sentito ch'egli stava cambiando a poco a poco, che in lui si
stava formando una risoluzione; che Samuel non solo era stanco di
viaggiare con lei, ma che addirittura a quel viaggio aveva meditato
di porre una fine... ma del resto, non c'era motivo di
sorprendersene. In quei mesi di vicinanza continua, egli l'aveva
osservata e studiata ininterrottamente, giungendo a conoscerla come
il ritmo del proprio respiro; ma neppure Agatha era cieca, e
soprattutto, anche Agatha lo amava. In quei mesi egli lo aveva letto
in ogni gesto delle sue giornate, in quasi ogni pensiero che le
scorgesse negli occhi: Agatha glielo aveva dimostrato ogni singolo
giorno da quando erano partiti, senza che neppure ci fosse bisogno di
parlarne, col mostrargli le proprie ferite e permettergli di
prendersene cura, e col trovare, nonostante il dolore e la rabbia,
ancora tanta forza e luminosità, dentro di sé, da
sorridergli
dall'altra parte del fuoco prima di dormire... dunque per quale
motivo ella avrebbe dovuto ignorare ciò che andava
formandosi dentro
di lui?
«Vorrei
fermarmi,
Agatha» rispose sinceramente, con semplicità. Non
c'era bisogno di
discorsi altisonanti, o di far tragedie. Le loro anime spoglie, prive
di schermi, erano l'una davanti all'altra e potevano parlarsi senza
urlare. «Tu sai che io ti avrei seguita, ma... non ci riesco.
Ho
bisogno di fermarmi, Agatha, e di riposare. Vorrei costruire una
casa, una famiglia, magari.»
Agatha
accolse le sue
parole con una compostezza che sarebbe stata difficile da credere
altrimenti. Si limitò a chinare lo sguardo, molto
lentamente, e ad
annuire. «È quello che hai sempre
desiderato.»
Sì,
Agatha aveva
ragione. Una casa e una famiglia, un lavoro che lo appassionasse e
una moglie che lo amasse quanto lui l'avrebbe amata, e magari persino
dei figli: questa era sempre stata la felicità, per lui. Ma
dopo
aver concepito questo sogno, egli aveva conosciuto Agatha: e non
valeva forse la pena di sacrificare una parte del sogno di una vita,
per lei?
«Se
mi sposi, io
rimarrò a casa, ad aspettarti mentre viaggi.»
Gli
occhi di Agatha,
enormi e stupefatti, finalmente. Ma mentre Agatha si strappava
bruscamente dalla contemplazione del paesaggio per voltarsi a
guardarlo e la sua bocca si spalancava per lo stupore, Samuel non
faceva altro che convincersi una volta per tutte che proprio i suoi
occhi valevano bene la pena di un sacrificio.
«Non
è quello che
vuoi» obiettò Agatha, quando finalmente ebbe
trovato la voce. Parve
che quella fosse l'unica obiezione che riuscisse a formulare
logicamente. «Tu vuoi una moglie vera.»
«Ma
lo sto chiedendo a
te.» Perché se avesse potuto avere Agatha al suo
fianco, anche solo
pochi giorni solamente di tutta la sua vita, sarebbe valsa la pena
dell'attesa, e di quei pochi giorni ch'ella avrebbe liberamente
scelto di trascorrere con lui, egli le sarebbe stato più
grato che a
una qualsiasi altra donna per una vita di fedeltà...
poiché
l'abnegazione si misura in base alla grandezza del proprio ego, e non
era forse Agatha la donna più fiera e indipendente che
potesse
esistere? «Io non posso seguirti, ma posso aspettarti.
Costruirò
una casa dove saprai in ogni momento di poter tornare.»
Il
volto di Agatha
sembrava una pozza di confusione di cui Samuel poteva leggere sui
suoi tratti ogni singola incertezza. Si passò una mano tra i
capelli
per allontanarli dal viso e mormorò: «Sarebbe
proprio come con tuo
padre, Samuel.»
Il
punto debole del
piano, la chiave di volta che minacciava a ogni momento di far
crollare ogni cosa: Agatha l'aveva scoperta subito, e subito
sottolineata. Certo, era ovvio che avrebbe capito subito: era quello
il sacrificio, costringersi ad accettare che il comportamento di suo
padre fosse comprensibile e accettabile, che potesse esistere un
valido motivo per andarsene di casa senza che fosse un peccato da
dover scontare... dopo aver trascorso tutta la sua vita senziente a
rinnegare la sua figura e a giurare che mai si sarebbe comportato
come lui, all'improvviso Samuel aveva dovuto accorgersi che non era
lui a essere uguale a suo padre – era Agatha. Ma egli non
poteva
comunque fare a meno di amarla, e per questo motivo doveva accettarla
così com'era.
«Non
ha importanza,
Agatha. Se mi prometterai di tornare, io ti crederò
sempre.»
Una
scintilla di
consapevolezza cominciò a farsi sempre più strada
nello sguardo di
Agatha: a poco a poco, ella comprendeva sempre di più la
reale
portata della sua proposta. In quel preciso minuto in cui ella lo
scrutava intensamente, era forse possibile che si proiettasse tanto
avanti con l'immaginazione e le si prospettassero davanti le lunghe
fila di innumerevoli anni futuri, trascorsi come sua moglie ma
lontana da lui?
Samuel
capì di averla
perduta per sempre nel momento in cui Agatha tornò a
voltarsi verso
Lavandonia, e distolse lo sguardo da lui.
«Non
posso, Samuel.»
No,
non poteva. L'aveva
sempre saputo, in fin dei conti, quale sarebbe stata la risposta, ma
solo in quel momento, quando Agatha distolse gli occhi da lui e il
suo profilo si fece impenetrabile e troppo carico di dolore per
poterlo sopportare, Samuel si rese finalmente conto di quanto si
fosse illuso di poter cambiare le cose, e di quanto si fosse
sbagliato. Agatha gli era appartenuta nello stesso modo in cui egli
stesso era stato suo, fino a quel preciso istante in cui gli aveva
detto no: ma ora tutto era finito, e Samuel si sentì lieto,
per un
istante, che la ferita che gli aveva inferto fosse troppo profonda,
venenifera e mortale per poter essere avvertita immediatamente.
«Perché
no, Agatha?»
Gli
occhi di Agatha si
chiusero sull'orizzonte, come a volersene escludere, e la sua fronte
si contrasse e si accigliò in uno spasmo di disperazione, ma
silenzioso e misurato come un grido senza voce.
«Tu
non mi impediresti
niente, Samuel... ma io ti odierei lo stesso per non essere con me.
Se il prezzo da pagare è quello di odiarti, preferisco non
averti
affatto.»
Era
veramente finita,
ora. Samuel si sentì d'improvviso sollevato, come dopo
l'ultimo
scatto convulso di un corpo che muoia dopo una tremenda agonia. Si
concesse di chiudere gli occhi e d'inspirare profondamente nel vento,
e di prestare attenzione al vago dolore sordo che palpitava nelle
profondità del suo petto, ma che non trovava ancora una
forma e una
collocazione precisa dentro di lui. Era finita, si ripeté, e
fu
veramente felice di sentirsi stordito e come anestetizzato, per il
momento, perché sapeva che quando veramente avesse avvertito
il
colpo, esso sarebbe stato formidabile. Agatha non era più
sua, ed
egli si rendeva conto che da quel momento, ogni ora che avesse
trascorso con lei sarebbe stata un guadagno, un dono del cielo da
assommare a ciò che aveva già goduto, e di cui
essere grato.
«Che
cosa farai ora?»
domandò dopo un po', quando proprio il silenzio si fece
troppo
assordante, ed egli temette che se fosse durato ancora, non avrebbe
potuto fare a meno di continuare a riflettere su quella perdita.
«Parteciperai alla Lega, l'anno prossimo?»
Agatha
chinò il capo.
«Già... penso proprio che dovrò farlo.
Ho rimandato anche troppo a
lungo.»
In
quel preciso
istante, molto lontano da loro, si stavano combattendo le prime fasi
della seconda edizione del Torneo. Era soprendente come
quell'istituzione avesse finito per affermarsi già dopo un
anno
dalla sua introduzione, e fosse divenuta ormai un ostacolo
irrinunciabile su cui comprovare la propria forza per tutti gli
allenatori, tanto che dire la Lega, ormai, aveva
finito per
indicare più il Torneo stesso che non l'istituto burocratico.
«E
tu? Che cosa
farai?» soggiunse poi Agatha forzatamente, come se si
imponesse di
proseguire la conversazione proprio per il suo stesso motivo, per
evitare il silenzio; ma quello sforzo che s'imponeva sembrava venirle
strappato dalla sua carne stessa.
Al
di sopra del vento,
concentrandosi molto, Samuel riusciva a indovinare appena il suono
del fiume che scorreva giù dalla montagna, trascinando verso
il mare
le sue strabordanti correnti. «Tornerò a casa a
rivedere mia
madre.»
Aveva
odiato
Biancavilla per così tanti anni della sua vita, e tanto
inutilmente,
che ora che avrebbe davvero avuto un luogo da odiare e rifuggire come
peste, gli sembrava che l'odio fosse sterile e inutile, e che
nutrirne tanto fosse solo uno spreco di forze. Aveva impiegato molto
tempo ad accorgersene, ma ora che l'aveva capito, si sorprese a
ripensare a Biancavilla con una certa nostalgia. Forse si sarebbe
rivelata un buon posto dove riposare, chissà.
Avrebbe
rivisto
volentieri sua madre. L'aveva lasciata quando era ancora poco
più
che un bambino, ormai sette anni prima, e da quel giorno non l'aveva
mai più rivista. Non ne aveva neppure sentito molto la
mancanza,
forse perché non credeva di averla mai davvero conosciuta,
quando
era piccolo, dopo il baratro di disperazione in cui la partenza di
suo padre l'aveva sprofondata: si chiese se sarebbe stata in grado di
riconoscerlo e se avrebbero trovato finalmente qualcosa da dirsi, ora
che lo stesso dolore li aveva resi più simili di quanto
fossero mai
stati.
«E
poi? Troverai il
tuo lavoro sicuro?» proseguì Agatha; ma per la
prima volta non
c'era ironia nella sua voce, parlando di quell'argomento. Voleva
soltanto saperlo, immaginare cosa sarebbe stato di lui dopo il suo
rifiuto, e Samuel gliene fu grato.
«Mi
piacerebbe
diventare un biologo» ammise. Lo studio dei
Pokémon era sempre
stata la sua passione, dopotutto, anche se non aveva mai riflettuto
seriamente su come trasformarla in un lavoro; ma ora che Arcanine era
morto, che egli aveva giurato a se stesso che mai più
avrebbe
toccato una Pokéball, quella gli era parsa la soluzione
migliore. E
chissà, forse un giorno, se si fosse impegnato molto e fosse
stato
molto fortunato, una qualche sua ricerca avrebbe potuto dare buoni
frutti e aiutare la scienza a comprendere qualche nuovo funzionamento
nel corpo o nelle dinamiche di lotta dei Pokémon.
«A ottobre mi
iscriverò all'Università.»
Per
tutta risposta,
Agatha mormorò: «Starai bene col camice.»
Quando
Samuel si decise
finalmente a chinare gli occhi su di lei, strappandoli al conforto
delle sue palpebre chiuse e al sollievo del vento, non si sorprese di
notare che Agatha continuava a evitare ostinatamente di guardarlo,
barricata dietro lo scudo del suo orgoglio e del suo dignitoso
dolore. Ma proprio mentre stava cercando qualcosa da dirle per
addolcire un poco l'amarezza della loro separazione, Agatha si
alzò
in piedi e disse ad alta voce: «Andiamo, Samuel.»
Samuel
non poté
evitare di sentirsi frastornato dalla sua improvvisa fretta. Dove mai
dovevano andare? «Agatha...»
«Dal
momento che
dobbiamo separarci, non c'è motivo di restare insieme
più del
necessario. Partiamo subito. Ti accompagnerò a Smeraldopoli,
e
poi...»
«E
poi?» chiese
Samuel stancamente. Chissà perché, ora che
finalmente Agatha gli
stava offrendo la prospettiva concreta della fine del suo viaggio e
di tutte le sue fatiche, quella meta gli sembrava lontanissima e
più
irraggiungibile ancora di tutte le tappe che avevano percorso fino ad
allora.
Il
volto di Agatha in
controluce si mantenne una maschera dura e impenetrabile, priva di
qualsiasi cedimento: ma la sua debolezza, per Samuel che la conosceva
così bene, stava proprio nel fatto che ella ancora non
riusciva a
guardarlo. «Partirò per Johto con i miei
Pokémon. Hanno ancora
bisogno di allenamento.»
A
Johto, il più
lontano possibile dal suo ricordo o da qualsiasi momento che avessero
vissuto insieme. Commentare sarebbe stato superfluo: per evitare di
dire qualsiasi cosa che potesse ferirla più ancora di quanto
avesse
già fatto, Samuel si rimise faticosamente in piedi e le fece
cenno
di fargli strada.
Cominciarono
a
discendere il crinale della collina.
E
poi, il racconto
finisce.
Sono
bastate meno di
due ore a raccontare ai suoi nipoti quella grande terribile storia
della loro amicizia e della loro distruzione. Questo pensiero
è per
lui cagione di un senso terribile di incredulità alla bocca
dello
stomaco: sono bastate due ore. Ma questo tempo può essere
bastato ai
suoi nipotini per percepire, con l'intensità con la quale le
ha
provate lui, la bassa sorda eccitazione virile della scommessa e
della possibilità di prendere parte a qualcosa di grandioso
come il
primo Torneo della storia, l'adrenalina perturbante della sfida sulla
cima dell'Altopiano Blu, il fascino vagamente inappropriato della
loro amicizia, e poi la bellezza sacrale e senza tempo di Articuno e
Zapdos...? Ma no, ovviamente no. Questo pensiero lo riempie di
un'innegabile tristezza. Hanno avuto dunque così poco
significato
quei mesi nella sua vita, perché sia possibile riassumerli
in
nient'altro che due ore?
Non
ha detto tutto,
naturalmente. Quand'anche egli non avesse solennemente giurato a se
stesso, e tacitamente ma con non minor valore con Agatha, di non
parlar mai ad alcuno di quella notte terribile, egli sa che i suoi
nipoti sono troppo piccoli e che non meritano di conoscere tutto
quell'orrore. Non c'è davvero motivo di spaventarli
inutilmente per
qualcosa che non esiste più e che non potrà mai
più minacciarli:
del sepolto vivo, Samuel non ha fatto parola nel suo racconto. Col
cuore palpitante di rimorso, ha dovuto ridurre la lotta sulla cima
della Torre a un brutto spavento e a una piccola scialba avventura
tra i Pokémon Spettro, resa spaventosa dalla cupa atmosfera
del
temporale che infuriava. Spiegare le morti dei loro Pokémon
è stato
più difficile, ma anche a questo compito egli non ha voluto
sottrarsi: bisognava che sapessero. La morte di Arcanine e lo
spontaneo sacrificio dei Pokémon di Agatha sono stati troppo
importanti nella loro vita e nella loro separazione perché
fosse
possibile passarli sotto silenzio, ma, nel tentativo di addolcire un
po' la tristezza di quelle perdite, egli ha narrato loro scomparse
dolci e lente come malattie, piene di pace e di naturalezza. Gary e
Margi, che già anche troppo hanno conosciuto della
sofferenza della
morte nelle loro vite, hanno compreso senza bisogno di parole tutto
il dolore che quelle perdite hano portato. In questo modo, certo,
essi non conosceranno mai la nobiltà della sconfitta e della
morte
di Arcanine, ma Samuel sa che il suo Pokémon, ovunque sia,
sarebbe
in grado di capire. Se fosse vissuto abbastanza a lungo da
conoscerli, dopotutto, avrebbe amato i suoi nipoti dello stesso
affetto incondizionato e fedele che ha avuto per lui, persino
nell'ultimo istante della sua vita, e avrebbe voluto a sua volta
difenderli dal male.
Samuel
si accorge
veramente che il suo racconto è finito quando Margi esclama
con voce
trepidante: «Oh, nonno, ma allora è vero che non
vi siete mai
neppure baciati! Ci speravo tanto...»
Sì,
il racconto è
davvero finito, e Samuel Oak si ritrova catapultato di nuovo sulla
vecchia poltrona scomposta del salotto senza aver mai realizzato di
essernsene allontanato. Eppure, per un breve attimo della sua vita,
per quelle intere due ore, egli si è sentito di nuovo
l'allenatore
virile e coraggioso di quell'anno, il ragazzo quasi uomo che
viaggiava con la piccola ragazza dagli occhi neri e tempestosi come
abissi. Ha percepito ancora la sensazione, ormai quasi completamente
dimenticata, del suo corpo muscolare e guizzante, pronto a rispondere
all'istante a ogni impulso della sua volontà, il profumo dei
capelli
di Agatha, l'odore acre di terra e di fumo dei loro campeggi...
quanto al dolore, quello non è una novità.
«Il
nonno te
l'aveva detto fin dall'inizio che non si erano baciati!»
salta su
Gary, ormai così abituato a provocare sua sorella da farlo
quasi
d'istinto, senza un motivo, cogli occhi piccoli e la voce ormai
impastata di sonno. Di sonno?
Solo
allora gli
occhi di Samuel si posano sull'orologio.
«Santo
cielo,
bambini! Perché non mi avete avvertito che si era fatto
così
tardi?» esclama allarmato, chiudendo di scatto la rivista.
L'orologio segna ormai le undici e cinque minuti, il che, se per
Margi può essere tollerabile, è assolutamente
inaccettabile per un
bambino di sei anni. «Domattina dovete andare a scuola!
Filate
subito a letto.»
«Oh,
aspetta,
aspetta, nonno! Non puoi lasciarci così» protesta
Margi,
aggrappandosi alle sue ginocchia con occhi imploranti e, almeno per
ora, perfettamente svegli. Già dimentico della sua pseudo
rivalità
con la sorella, e spiritualmente alleatosi con lei per ottenere
qualsiasi cosa che possa farli stare in piedi ancora qualche minuto,
Gary si affianca a lei, appoggiandosi all'altro suo ginocchio con
sguardo altrettanto supplice, ma assai meno sveglio.
Di
fronte ai loro
occhi imploranti, e coll'animo scosso da tutto ciò che per
la prima
volta dopo anni ha scelto di narrare a parole, Samuel scopre che
quella sera assumere il cipiglio del nonno severo gli riesce
particolarmente difficile. «Per stasera vi ho già
raccontato
abbastanza, bambini. La rivista la leggeremo domani.»
«Ma
ci sono delle
cose che io non ho capito!» insiste Margi con voce petulante.
Prima
che Samuel faccia in tempo ad avere un tuffo al cuore al pensiero di
essersi tradito e di quello che Margi potrebbe chiedergli, la bambina
prosegue: «Agatha l'ha vinta la Lega, quell'anno? Come ha
fatto a
diventare Superquattro?»
Pur
timida e
remissiva com'è, quella bambina ne sa comunque una
più del diavolo.
Con tutto ciò, Samuel è contento che gli abbia
chiesto qualcosa cui
può rispondere. «Certo che vinse. Fu la prima
donna in assoluto a
vincere un Torneo, e rimase l'unica per diversi anni... quanto ai
Superquattro, lo sono stati così tanti allenatori diversi,
prima di
stabilire una formazione standard come questa, che il nonno ha
proprio perso il conto, tesoro. Agatha lo è stata comunque
per molti
anni di seguito, assieme ad alcuni dei Campioni di quegli anni, ma
quanto al resto non saprei.»
La
Lega, quell'anno,
era stata epica. Samuel l'aveva seguita alla radio, minuto per
minuto, e aveva ascoltato col cuore palpitante d'emozione,
visualizzandolo altrettanto vividamente che se l'avesse visto coi
suoi occhi, l'orgoglio di Agatha che si faceva strada sui suoi
avversari furiosamente, come tutto quello che faceva. Aveva trepidato
ed esultato delle sue vittorie proprio come se fosse stato con lei,
parteggiando per lei tanto spudoratamente che tutti i suoi compagni
di corso gli avevano riso dietro, eppure mai come in quel momento,
attraverso i filtri gracchianti della radio, egli l'aveva sentita
lontana. L'Agatha che trionfava sull'Altopiano Blu, riuscendo
finalmente a dimostrare al mondo oltre che a se stessa il proprio
valore, non gli apparteneva più. Gli era passata tra le mani
come
acqua piovana, fuggevole e impossibile da trattenere, e dopo essersi
incontrati per qualche istante delle loro vite, si erano divisi.
Quella sera, mentre alla radio tutti celebravano la nuova
Campionessa, che appariva sui giornali bella e terribile come una
distesa di neve campeggiante in pieno sole, egli avrebbe potuto
inviarle un telegramma che ella, di certo, avrebbe letto... ma non
l'aveva fatto. Le loro vite si erano divise proprio quando era stato
necessario, e tornare indietro, ormai, era troppo tardi.
«E
non l'hai
rivista mai più?» domanda Gary, puntellandosi con
maggior forza
alle sue ginocchia, per obbligarlo a prestargli tutta la sua
attenzione.
Fissando
i suoi
occhi verdi che lo fissano, lucidi e arrossati, limpidi ancora della
sua infanzia, Samuel risponde con voce sorda, con una strana fitta di
rimpianto che non ricordava più di poter provare:
«No, Gary. Non
l'ho mai più rivista.»
«E
ora, forza!
Filate a mettervi il pigiama» riprende poi bruscamente, in
tono
appena un po' più alto del solito, stavolta in un modo che
non
ammette repliche: «Salirò tra dieci minuti a
rimboccarvi le
coperte. Siamo intesi?»
Samuel
rimane
immobile sulla poltrona a guardare i suoi nipoti che corrono
rumorosamente al piano di sopra, bisticciando già in
anticipo su chi
debba andare in bagno per primo. Sa giò che, prima ancora di
aver
attraversato il corridoio, Margi finirà per cedere alle
insistenze
del fratello, cedendogli la precedenza con più piacere che
rammarico
nel sacrificio, e che quando egli salirà a dar loro la
buonanotte,
nessuno dei due sarà ancora a letto. Non c'è
ragione di
affrettarsi.
La
domanda di Gary
sembra pulsare ancora da qualche parte in fondo alla sua coscienza,
come se fosse ancora in attesa di una qualche risposta... eppure,
quella risposta Samuel l'ha già data, e non saprebbe proprio
dove
cercarne altre. Ma allora perché?
Torna
ad aprire la
rivista, scorrendo lentamente le pagine fino a ritrovare la sezione
che parla di Agatha: sulla carta, i suoi occhi tornano a scrutarlo
severamente, furenti e infuocati proprio come egli li ha visti
l'ultima volta. Percorre con lo sguardo le pagine centrali.
C'è
un'altra foto d'epoca, nota per la prima volta, molto più
piccola e
a più bassa risoluzione: è la foto della
premiazione e Agatha è in
piedi, minuscola e fiera di fronte a una folla di grandi uomini, e
riceve la coppa dalle mani del Presidente. Sì, ricorda
vagamente
quella foto per averla vista sui giornali, in quei giorni in cui
ancora appariva incredibile ed eroico che una donna potesse vincere
un Torneo, e ricorda anche che da qualche parte appariva persino il
signor Firefly, assai in disparte, col volto atteggiato a
un'espressione di rallegramento ipocrita. Si domanda se sarebbe
ancora in grado di riconoscerlo, su una foto di qualità
maggiore.
Chissà poi che ne è stato di quell'uomo, pensa
distrattamente
abbandonandosi contro lo schienale della poltrona.
Aveva
incontrato sua
moglie poco più di due anni dopo aver lasciato Agatha, ad
Azzurropoli.
Non
le aveva dato
molta importanza, all'inizio. Ella era tutto ciò che Agatha
non era:
una persona remissiva e modesta, che si accontentava di un lavoro da
stenografa con la stessa semplice gratitudine colla quale aveva
accettato tutto lo scorrere della propria vita, e straordinariamente
gentile. Di lei, per tutta la sua vita, Samuel aveva amato la sua
bontà e il suo sacrificio disinteressato, la sua dolcezza e
la sua
compassione.
L'aveva
conosciuta
nel modo più banale che si potesse immaginare, a una festa
dove un
amico l'aveva trascinato, e non c'è molto da ricordare al
riguardo:
all'inizio, quella ragazza graziosa come un fiore di campo, molto ben
vestita e molto accuratamente pettinata, silenziosa, e timorosa tanto
da chiedere scusa anche quando le veniva fatto un torto, non gli era
parso altro che il perfetto modello di donna bisognosa e incapace che
aveva tanto temuto e disprezzato prima di conoscere Agatha, e molto
di più dopo. Aveva impiegato un po' di tempo a vedere che in
quella
delicatezza si celava tutta la sua forza, e che proprio nella sua
umiltà ella era più sicura e incrollabile del
mondo esterno.
Talvolta, guardando Margi, Samuel si stupisce di quanto profondamente
assomigli a sua nonna, quasi senza averla mai conosciuta.
Sua
moglie è stata
a modo suo un antidoto al veleno che Agatha aveva costituito per lui.
Della sua bontà che non conosceva esitazioni o cedimenti
Samuel si è
innamorato poco a poco, colla naturalezza di qualcosa che fosse
già
destinato ad accadere. La sua pietà e la sua arrendevolezza
sono
state come un balsamo quotidiano per la ferita che pulsava sempre e
che egli non le ha mostrato mai, ed è stato bello
invecchiare
insieme per gli anni che sono stati loro concessi.
Sua
moglie è morta
a sessant'anni. La sua agonia non era stata molto lunga, ma era stata
atroce, ed egli era rimasto impotente a vederla consumarsi a poco a
poco per un brutto cancro che tutta la sua scienza non poteva bastare
a curare. Negli ultimi giorni, quando ormai anche le sue corde vocali
erano irrimediabilmente compromesse, ella non era più in
grado di
parlare. Samuel era allora rimasto al suo fianco in silenzio, a
osservare immobile e impotente la malattia farsi strada e
trasfigurare i suoi occhi in oceani di sofferenza che non trovavano
voce, e infine a vederla morire lentamente. Contrariamente a quanto
aveva creduto, la fine delle sue pene e la consapevolezza che non le
rimaneva più alcun dolore da affrontare su quella terra, e
che la
pace del suo cuore si era ricongiunta con la serenità del
cielo, non
gli avevano recato alcun sollievo. Sua moglie era in pace, ma non era
più con lui, e Samuel si era sorpreso di essere ancora in
grado di
provare tanto dolore di fronte alla sua morte.
Aveva
creduto sempre
che gli anziani affrontassero il dolore molto meglio dei giovani, che
fossero più saggi e perciò più
preparati di fronte alla morte; che
soffrissero, certo, ma che dall'alto della loro saggezza avessero
trovato una ragione che giustificasse il dolore e che li aiutasse a
sopportarlo.
Samuel
aveva atteso
per tutta la vita di diventare vecchio. Si era illuso che con
l'età
e con l'esperienza di vita che dalla vecchiaia derivava si sarebbe
sentito più saggio, e una volta che fosse stato vecchio e
saggio,
finalmente, avrebbe potuto voltarsi indietro e riconoscere nel
ricordo delle sue sofferenze le ragioni che gli erano sempre
sfuggite, e che le avrebbero arricchite di un senso nuovo. Quel
giorno il dolore avrebbe smesso di tormentarlo, finalmente. In
alternativa, si sarebbe accontentato anche di diventare un vecchio
stolido e insensato, e di dimenticarsi completamente chi fosse e chi
lo circondava: tutto a patto di non soffrire più.
Samuel
si è accorto
di essere diventato vecchio senza alcun preavviso, quando una sera,
durante un programma di approfondimento culturale, un malaccorto
giornalista senza troppa esperienza ha avuto l'incauta idea di citare
un suo studio attribuendolo all'anziano
professor Oak. Samuel ricorda ancora i suoi
impacciati
tentativi di sminuire la portata della sua gaffe, e allo stesso modo
ricorda di aver esitato a lungo, quella sera, di fronte allo
specchio, senza decidersi ad andare a dormire. Tutto ciò che
vedeva
dava ragione al giornalista, continuava a pensare: i capelli ormai
grigi che protendevano al bianco, gli occhi gonfi e pesantemente
borsati, le rughe che si spandevano tutte attorno al suo viso...
sì,
ma possibile che non si fosse accorto prima d'esser diventato
vecchio? Che la mascella ancora incrollabilmente volitiva sotto la
barba sempre più grigia e più rada, che le sue
spalle ancora
insolitamente dritte per la sua età lo avessero ingannato a
tal
punto?
Ma
la verità è che
Samuel non si era accorto d'esser diventato vecchio perché
di
soffrire non aveva smesso mai. Nella sua mente, essere anziano
corrispondeva a tutt'altro che a una mera età anagrafica, ed
egli
finalmente si rendeva conto, in quel momento davanti allo specchio,
che se non fosse stato per quel giornalista avrebbe continuato ad
aspettare d'essere vecchio per chissà quanti anni ancora.
È stato
un brutto ritorno alla realtà. Anziano, evidentemente,
Samuel lo era
già senza ombra di dubbio, e a qualcuno doveva apparire
anche molto
saggio; ma questo era quanto, poiché egli aveva la
sensazione di non
essere diventato molto più saggio e di non aver compreso
nulla che
non sapesse già a vent'anni.
Ma
dopo aver sperato
che con la vecchiaia avrebbe smesso di soffrire, la sua disillusione
è stata ancora più amara, dopo quella sera. A
distanza di
cinquant'anni, vi sono notti in cui ancora egli si sveglia, sentendo
echeggiare nella notte l'ululato di Arcanine, e si ritrova nel suo
letto, col cuore palpitante, senza sapere né
perché né dove si
trovi, colle narici piene dell'odore di sangue e viscere e la
sensazione persistente che da qualche parte, in quella notte
sconfinata che sembra non trovar fine nel tempo né nello
spazio, ci
sia una ragazza che muore... oh, ed è così
mortificante dover
continuamente mentire ai suoi nipoti e assicurar loro che i mostri
non esistono, che non esiste al mondo nulla d'irrazionale in grado di
far loro del male, quando egli lo sa, lo ha visto coi suoi occhi che
questo non è vero! E guardare sotto i loro letti e nei loro
armadi,
per poter garantire loro, sul proprio onore, che là dentro
non c'è
nessuno, per poi restar sveglio tutta la notte, in silenzio, ad
ascoltare se per caso si udisse una qualche voce nel buio...
Alla
morte di
Arcanine si è assommata la perdita di sua moglie, proprio
quando
credeva di essere più al sicuro e che niente, ormai, potesse
più
turbare la poca quiete che si era guadagnato. Dopo questa morte,
Samuel si è convinto al di là di ogni ragionevole
dubbio che la
vecchiaia non comporta neppure la più miserabile briciola
d'atarassia, e ciò nonostante ha finito per accettarla e
sottomettersi al dolore, proprio come sua moglie avrebbe voluto per
lui. Perdere una compagna, dopotutto, dopo quasi quarant'anni di
matrimonio, non aveva nulla di così profondamente ingiusto e
innaturale da autorizzarlo a ribellarsi contro il cielo, nulla di
così inaspettato da farlo soffrire più di
quanto...
Poi
è morto suo
figlio, e quel dolore dal quale egli già una volta aveva
creduto di
venir sopraffatto è tornato e si è fatto
più grande,
insopportabile, è diventato inumano e intollerabile ed egli
veramente ha sperato di non dovergli sopravvivere neppure di un
giorno, di un'ora solamente! Arcanine è morto per la sua
sciocchezza
e sua moglie per volontà della natura, ma suo figlio
perché è
dovuto morire? Era suo figlio, suo figlio!
Suo
figlio e sua nuora sono morti entrambi in un'antica tomba durante
alcuni scavi. Samuel non è mai riuscito ad accettare che due
archeologi potessero morire così, semplicemente, soffocati
nel giro
di pochi minuti... non era giusto. È successo tutto
così
rapidamente che non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di chiamare le
famiglie sul luogo dell'incidente, ma egli vi è andato lo
stesso,
per poter avere l'illusione di riportare a casa le loro salme. Quella
è stata la prima volta che volava su qualcosa di diverso
dalla
schiena del suo Charizard, e in un'altra occasione, probabilmente,
l'idea di prendere un aereo completamente da solo lo avrebbe turbato
un po'; ma quella volta Samuel ha viaggiato sentendosi del tutto
estraneo a quello che lo circondava. Non si sarebbe sottratto al suo
compito, quella volta, continuava a ripetersi, e in un certo senso
è
stato proprio come se tutta la sua vita non fosse trascorsa per
nient'altro, dopo quella notte, che per condurlo a quel momento in
cui andava a prendere il corpo di suo figlio per riportarlo a casa e
seppellirlo come meritava. Ha scontato il peccato d'essere balzato
indietro, sì, ma a quale prezzo?
Se
in tutte quelle morti che hanno costellato la sua vita esiste una
ragione univoca, una verità superna che possa giustificarle,
riscattand almeno in parte tutto il dolore che esse hanno comportato,
Samuel non vuole conoscerla. Al dolore non esiste riscatto, non
può
essere così, sarebbe terribile e peggiore ancora che
affrontare il
dolore per quello che è, cieco e immotivato e casuale.
Scoprire che
da qualche parte qualcuno aveva prevista, e anzi persino ordita la
morte di suo figlio coi polmoni pieni di sabbia non la renderebbe
forse più terribile ancora di quanto già non sia?
Dal
piano di sopra non sembra provenire più alcun suono. Questo
silenzio
lo colpisce per contrasto rispetto al rumoroso scalpiccio sguaiato
dei suoi nipotini che si preparavano per la notte: devono essersi
già
infilati a letto, e questo indica probabilmente che sono davvero
molto, molto stanchi. Bisogna salire subito da loro, stabilisce
Samuel, e anche trovare un modo per mandarli a letto un po' prima
domani. Si sforza d'ignorare la persistente sensazione della voce di
suo figlio che lo rimprovera per averli lasciati svegli fino a tardi.
Una piccola parte di lui vorrebbe voltarsi e chiedergli scusa, e
spiegargli che ha fatto così tardi perché... ma
Samuel rimane
rigidamente immobile sulla poltrona, sforzandosi in ogni modo di non
voltarsi, aspettando che quella sensazione scompaia lentamente da
sola. Suo figlio non è lì.
Gli
occhi di Agatha ancora campeggiano neri e alteri sulla rivista, in
nulla più pietosi di quanto lo siano stati mentre egli
raccontava, e
al di là della loro durezza, Samuel si chiede per l'ennesima
volta
se la sua antica compagna sia riuscita a rappacificarsi col suo
dolore, a modo suo, e se almeno lei abbia smesso di soffrire, dopo
tanti anni.
Le
sue dita sostano un po' troppo a lungo sul suo volto ritratto, questa
sera, prima che egli si decisa a chiudere la rivista. Sospirando
profondamente, Samuel si alza e si avvia lentamente al piano di sopra
per andare a dare la buonanotte ai suoi nipoti.
Era
stata una strana ironica fatalità, dopotutto, che l'ultimo
viaggio
della loro grande e terribile alleanza avesse dovuto essere proprio
quello, un percorso di poco meno di tre giorni dalle pendici del
Tunnelroccioso a Smeraldopoli. Ma in fondo, si disse Samuel quando
era ormai evidente che erano arrivati, e che prolungare ancora il
loro ultimo viaggio sarebbe stato impossibile se non
controproducente, era giusto così: proprio il desiderio di
grandezza
insito nella loro amicizia li aveva condotti alla rovina.
Avevano
trascorso le ultime ore del pomeriggio passeggiando, più che
camminando, tanto lentamente e con la più perfetta calma
apparente
che chiunque li avesse visti senza sapere che cosa si accingevano a
fare non avrebbe creduto mai ch'essi andassero intenzionalmente in
qualche luogo preciso. Per tutto quel tempo, ormai dall'inizio del
pomeriggio, non si erano rivolti la parola. Eppure avrebbero dovuto
approfittare di quegli istanti che erano gli ultimi che trascorrevano
insieme, Samuel lo sapeva, e questa consapevolezza cresceva
disperatamente in lui a ogni minuto che passava e che li avvicinava,
inesorabilmente, al momento in cui si sarebbero separati per
sempre... ma per quanto cercasse dentro di sé qualche parola
da dire
per rompere quel silenzio, per fare almeno finta che che quello fosse
un momento come tanti delle loro infinite giornate, non trovava
niente. Ogni parola che potesse pronunciare sarebbe stata come
sottolineare crudelmente che a partire dal giorno seguente non si
sarebbero rivisti mai più, e che ogni curva del percorso
accorciava
invariabilmente sempre di più il tempo che restava loro a
disposizione...
Per
quanto lentamente avessero camminato, il bivio si profilò
infine ai
loro occhi quando ormai persino il tardivo sole d'estate aveva
incominciato a stemperarsi di tinte più tenui, e la sfera
incandescente del sole che calava proiettava sulla campagna
un'uniforme luce rosata.
Non
c'era più tempo di rimandare, ormai. Di fronte a loro, tutto
attorno
a loro, si diramavano gli imbocchi di mille possibile vite e delle
ultime scelte possibili: la strada per Jhoto e per la Lega
Pokémon
si allontanava da loro, risalendo la collina verso la grande massa
frastagliata del Monte Argento, la cui cima ancora innevata pareva
avvampare e infervorarsi tutta sotto gli obliqui raggi del sole
calante. Ma alle loro spalle una seconda strada digradava dolcemente,
senza tornanti o brusche discese, verso Smeraldopoli, e da essa
Samuel non poteva fare a meno di sentirsi attratto.
Non
c'era più tempo, e ora che egli sapeva di non averne
più, avrebbe
avuto milioni di cose da dirle. Come dire addio alla ragazza che per
più di un anno era stata la sua amica e compagna, e molto di
più,
fino a diventare una parte di lui più irrinunciabile della
sua
anima, ma che ora cessava per sempre di appartenergli?
Ma
contro ogni aspettativa, fu Agatha a parlare.
Aveva
trascorso le ultime ore in silenzio, cogli occhi cupi e bassi e la
fronte dolorosamente contratta, presa come al solito da pensieri
tutti suoi. Ma in quel momento, proprio mentre Samuel stava ormai per
protenderle le braccia e arrendersi alla banalità di un allora,
ciao, levando bruscamente gli occhi, Agatha disse senza
preavviso: «Vieni a Johto con me.»
«A
Johto?»
Samuel
rimase per lunghissimi momenti spiazzato, senza capire, e del tutto
incapace di reagire o anche solo di comprendere il significato delle
sue parole. Sbatté più volte le palpebre.
«Agatha...»
«Tu
mi hai dato la possibilità di scegliere, ed è
giusto che anch'io
faccia lo stesso» sbottò Agatha, sbattendo
impetuosamente un piede
a terra. Era tutta rossa in viso, eppure andò avanti
egualmente, con
un ardore indicibile. «Se vieni a Johto con me, ti sposo. Non
posso
essere la tua moglie lontana, Samuel, ma se vieni con me
ricominceremo tutto dall'inizio. Catturerò un
Pokémon per te e
presto torneremo com'eravamo una volta, e andremo finalmente alla
Lega insieme, come desideravamo tanto tempo fa. Ti sposo domani,
stanotte stessa, se vuoi, ma devi venire con me.»
Sarebbe
stato così semplice dire di sì. Per un attimo,
mentre Agatha lo
investiva di tutto questo torrente di parole e di promesse, per un
attimo soltanto Samuel fu tentato di dire di sì.
Ricominciare tutto
di nuovo, con un nuovo Pokémon e poi una nuova squadra, e
poter
viaggiare di nuovo in un mondo fresco e luminoso; avere Agatha,
soprattutto, e poter curare le sue ferite e trovare finalmente il
modo di darle la pace che tanto desiderava... per quell'unico
istante, socchiudendo gli occhi, Samuel si concesse di credere che
una nuova vita, del tutto identica alla prima, fosse possibile... ma
poi quell'istante passò. Quella nuova vita che Agatha gli
prometteva
celava in sé, nel tessuto stesso dell'illusoria
felicità di cui era
composta, le sue minacce, e Samuel si ricordò appena in
tempo, un
momento prima di dire sì, a cosa andava incontro: sarebbe
stato
forse in grado di varcare veramente quel confine e vivere la vita che
Agatha gli richiedeva, e trascinarsi avanti, ancora avanti, dal
mattino alla sera, anche se insieme a lei?
L'illusione
passò lasciando dietro di sé una grande dolcezza.
Avvicinandosi a
lei sul prato vellutato d'erba, Samuel posò piano le mani
sulle sue
guance: trasalendo leggermente, Agatha continuò a sostenere
il suo
sguardo in attesa della sua risposta.
Chino
com'era su di lei, con gli occhi pieni del suo viso e le dita colme
dei suoi capelli dorati, Samuel mormorò: «Se me
l'avessi chiesto
prima di quella notte, io ti avrei detto di sì.»
Ciò
che avrebbe voluto che ella capisse dalle sue parole era che egli
rifiutava non lei, ma solo la vita ch'ella gli proponeva; e questo
non perché non l'amasse abbastanza, ma perché il
sepolto vivo aveva
esercitato sulle loro vite così tanta influenza, ch'egli non
aveva
più a quel riguardo alcuna libertà di scelta. Ma
quando
quell'ardore che aveva infervorato gli occhi di Agatha fino a un
minuto prima si spense per sempre, ed ella si sottrasse in silenzio
alla presa delle sue mani, Samuel temette ch'ella non avesse capito.
Col suo rifiuto egli aveva forse contribuito ad aggiungere altra
durezza al suo profilo già troppo severo?
Prolungare
ancora quell'addio sarebbe stata una crudeltà eccessiva e
inutile
per entrambi. Sforzandosi di sorridere nonostante il dolore che
minacciava di dilacerargli il petto, e tentando in ogni modo di
fingere che andasse bene così, Samuel disse:
«Addio, Agatha. So già
che sarai la Campionessa più bella e più
coraggiosa che l'Altopiano
Blu vedrà mai.»
«Già»
constatò Agatha a bassa voce. I raggi del sole calante
spiovevano
trasversalmente sul suo volto, donando ai suoi occhi una
luminosità
triste e malinconica che non si sarebbe potuta dire a parole. Si
strinse nelle spalle. «E tu...tu dirai a quelli
dell'Università che
avranno tra di loro il biologo più coraggioso e
più stupido
della loro storia. Siamo intesi?»
Nella
sua inflessibile severità, forse Agatha non sarebbe riuscita
a
comprendere mai davvero per quale motivo egli aveva scelto di
rinunciare a una carriera brillante e ormai già scritta, o
per quale
motivo avesse gettato via tutto il suo talento e il loro amore
rifiutando, quel giorno, di seguirla, e forse per questo lo
considerava stupido. Ma l'amarezza delle sue parole non trovava alcun
riscontro nel tremito sofferente e orgoglioso della sua voce, e
Samuel sapeva di amarla anche per la sua incomprensione e il suo
orgoglio.
«Siamo
intesi» promise, e Agatha accennò un sorriso.
Non
c'era bisogno di altri addii tra di loro. Dopo un'ultima, angosciosa
esitazione, Agatha si voltò e s'incamminò
lentamente lungo la
ripida via verso ovest, senza voltarsi indietro. Samuel rimase
immobile sull'erba fresca del percorso finché la lontananza,
o forse
il tramonto, gli sottrassero alla vista l'ultimo bagliore dorato dei
capelli di Agatha, prima di avviarsi in silenzio, solo, verso
Biancavilla.
Fine.
Eccomi
qua, finalmente, a più di un anno dalla pubblicazione del
primo
capitolo. Suppongo che il mio ritardo ad aggiornare, questa volta,
sia già abbastanza abominevole senza bisogno di
sottolinearlo
ulteriormente: mi dispiace davvero, ma purtroppo questo è
veramente
il massimo che sia riuscita a fare considerando le lezioni e gli
esami da preparare.
Finire
questa storia, dopo tutto questo tempo e questo lavoro, è
contemporaneamente un dispiacere e un sollievo, perché da
una parte
mi lascia libera di concentrarmi su altri progetti, ma dall'altra mi
accorgo che questi personaggi mi mancheranno moltissimo. Comunque,
come al solito, mi rendo conto che tutte le cose belle devono finire.
È stato un lavoro davvero grosso per me, tanto che qualche
volta
avrei voluto mandare tutto al diavolo e gettare nel cestino tutti
quei fogli volanti, ma ora che l'ho finito e che posso guardarlo
serenamente, lo rifarei, lo rifarei, lo rifarei.
Apro
una piccola parentesi che forse non importa a nessuno: anche se chi
mi conosce sa che non sono solita utilizzare foto o altri mezzi che
non siano le descrizioni per descrivere i personaggi, ove necessario,
questa volta ho deciso di fare una piccolissima eccezione, visto che
la storia è finita e quindi non mi pare di influenzare
l'immaginazione di nessuno se ricorro a un mezzo esterno per darvi la
mia personale visione fisica del giovane professor
Oak. Dato
che sono una grandissima appassionata del film Metropolis,
sappiate che per me Gustav Fröhlich sarebbe stato un perfetto
attore
per interpretare Samuel in questa storia. Detto questo, mi affretto a
chiudere questa parentesi!
Passo
ora a ringraziare diffusamente, come al solito, tutti coloro che
hanno seguito questa storia in qualsiasi modo e in qualsiasi misura.
Ringrazio quindi di cuore Bankotsu90, cristal_93, Gabbotron01,
Mad_Dragon, Persej Combe e yugen_roku per aver aggiunto la storia
alle seguite;
Gabbotron01
per averla aggiunta alle preferite;
cristal_93,
Mad_Dragon, Bankotsu90, Persej Combe, Sunshine_Drew, Gabbotron01, e
Fiulopis per aver recensito. (Ho seguito in tutti i casi l'ordine
delle liste dato dal sito; qualora mi fosse sfuggito qualcuno, si
tratta sicuramente di una svista e vi prego di farmelo sapere,
così
che possa correggere!)
Ringrazio
anche Fiulopis per avermi tirato una bottiglietta in testa quando
è
morto Arcanine... questo ringraziamento è un po' estraneo al
sito,
ma era dovuto! ;)
Una
volta conclusi i miei ringraziamenti, penso che non mi rimanga
davvero altro da dire. Grazie infinite a chiunque per essere anche
solo arrivato fin qui, e buon proseguimento!
Afaneia
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2983111
|