Bedroom Hymns

di Phoenix394
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Persefone ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Premessa: questa è una storia a quattro mani. Le autrici in questione sono Harmony394 ( ovvero l'autrice che scrive i POV di Sansa) e Phoenixstein (ossia colei che scrive i POV di Sandor). Non per niente il nostro nickname, Phoenix394, è un "miscuglio" dei nostri nomi. 
Questa storia nasce come role, ma dopo un po', forti del sostegno che i nostri "lettori" ci davano, abbiamo deciso di farla diventare una fanfiction vera e propria. I vari POV verrano separati da due simboli: un mastino per indicare i POV di Sandor ed un uccellino in gabbia per indicare quelli di Sansa. Per chi legge o ha letto Safe&Sound, sempre di Harmony394, noterà che l'idea è stata presa da lì.
La fanfiction segue un contesto "WhatIf", come avrete capito dall'introduzione, in cui Sansa e Sandor saranno "costretti" a sposarsi. Non vi faremo ulteriori spoiler per non rovinarvi la sorpresa.  ;)
Speriamo sia di vostro gradimento, per qualsiasi perplessità saremo liete di rispondervi. :)
 




Prologo
 
 


 
Camminava per i corridoi della Fortezza Rossa, il corpo pieno di lividi e le lacrime appese in bilico all'orlo delle ciglia. Un’altra punizione. Joffrey l’aveva fatta picchiare di nuovo, questa volta davanti a diversi lord e lady di corte. Sansa non aveva capito bene il motivo, impegnata com'era a cercare una supplica che potesse risparmiarla da quella furia spietata e ingiustificata, ma non importava. Colpevole o meno, Joffrey l’avrebbe fatta picchiare comunque, ancora e ancora, finché non fosse stato soddisfatto. I giorni in cui Sansa aveva sognato di diventare la sua regina, la sua amata moglie devota, adesso sembravano lontani mille miglia. L’amore era stato sostituito con l’odio e l’odio l’aveva fatta diventare bugiarda, disillusa e arrabbiata col mondo.

Ed era così che si sentiva adesso: arrabbiata. Arrabbiata con se stessa per essere stata così stupida da illudersi di poter essere amata da qualcuno e arrabbiata per non riuscire a fare nient’altro che stare in silenzio, a trattenere le lacrime e le parole. Strinse i pugni e guardò in cielo per impedirsi di lasciarsi andare alle lacrime. Una vera lady non piangeva mai, o perlomeno non di fronte agli altri.

Si avviò spedita verso le sue stanze. A metà del corridoio che portava lì, però, il suo sguardo si posò sulla figura alta e massiccia di Sandor Clegane, il Mastino, e il suo cuore fece un balzo. Oh, no. Non doveva vederla. Non in quello stato! L’avrebbe presa in giro come al solito e lei non se la sentiva proprio di sottostare alle sue ingiurie dopo quello che le era accaduto quella mattina. Fece dietrofront, pregando gli dèi di non essere vista, ma, come la maggior parte delle preghiere, anche la sua non venne esaudita.

«Uccelletto», Sansa si fermò, il cuore in gola e gli occhi sgranati. Lui l’aveva vista, e adesso stava venendo verso di lei. Sentiva i suoi passi pesanti che si avvicinavano, il respiro che le si mozzava in gola e le mani che le tremavano. Non sapeva che fare: scappare? No, l’avrebbe rincorsa immediatamente. Fingere di non averlo udito? Figurarsi. Conoscendolo gliene avrebbe dette di cotte e di crude. Era senza via di scampo, non poteva evitarlo. Rassegnata, prese un respiro profondo e tentò di ricordare le parole della sua cara septa: “Una lady non fugge di fronte ai problemi, ma li affronta a testa alta come una vera Regina”. Si asciugò le lacrime in fretta e furia, sperando in cuor suo di non avere gli occhi gonfi, e si voltò verso di lui. Subito incrociò il suo sguardo: alla luce delle candele, la sua cicatrice sembrava ancora più grottesca. Deglutì a fatica. Ormai non era più la sua cicatrice a metterla in soggezione, quanto più quei suoi occhi grigi costantemente pieni di rabbia e di odio. Fu costretta a distogliere lo sguardo.

«Mio signore…».
Sul volto deturpato del Mastino si aprì un sorriso beffardo. «Cosa fai, svolazzi in giro per il palazzo? Il Re sa che il suo uccelletto ammaestrato è uscito fuori dalla gabbia?».
«N-No, lui… » Sansa detestava quel suo modo di parlarle. La chiamava “uccelletto”, quando lei non lo era. No, lei era una lupa. Una Stark di Grande Inverno! Avrebbe voluto dirgliele, quelle parole, urlargliele dritte in faccia, ma gli occhi grigi di Sandor Clegane la intimorivano e alla fine Sansa fu costretta ad inghiottirle come ogni volta. «Stavo solo tornando nelle mie stanze, sir».
«L’uccelletto non impara mai, nevvero?» Sansa non fece in tempo a scansarsi che lui l’afferrò per gli avambracci, immobilizzandola. Il panico si impossessò del suo cuore e la prima cosa che le venne in mente di fare fu di urlare, ma il Mastino premette una mano callosa sulla sua bocca prima che lei potesse farlo. L’odore della sua pelle era forte, un misto di vino e sangue e ferro, e Sansa ne fu terrorizzata. «Se urli ti uccido. Farai bene a crederci», qualcosa di acuminato premette contro il suo ventre. All’improvviso, Sansa si rese conto che il Mastino era ubriaco. «Non sono un sir. Io ci piscio sopra ai tuoi schifosi sir. Quante altre volte dovrò ripetertelo prima che ti entri in testa?».
«Scusatemi… vi prego, lasciatemi andare. Per favore, mi state mettendo paura».

Ma lui non la lasciò andare. Abbassò il pugnale e lo rinfoderò nella cintola dei pantaloni, si allontanò un po’ da lei e si soffermò ad osservarla in silenzio. Sansa non sapeva cosa dire. Tutto il suo corpo era come paralizzato. Poteva sentire lo sguardo crudele del Mastino su di sé, i suoi freddi occhi grigi che la scrutavano, e per un istante si trovò in imbarazzo. Ad un tratto lui levò una mano sul suo viso. Sansa credette che volesse picchiarla e d’istinto chiuse gli occhi, preparandosi mentalmente al dolore, ma non arrivò.

Non era mai arrivato con lui. Al suo posto, vi fu una carezza proprio lì dove sir Meryn l’aveva picchiata. Sconcertata e con la mente piena di domande, Sansa alzò lo sguardo su di lui. Sandor Clegane la guardava con gli stessi occhi con cui si guarda un cagnolino ferito, con compassione e allo stesso tempo rabbia.

«Non ti avevo detto di accontentarlo, uccellino?», la sua voce era raschiante e profonda. Sansa ricordò il momento in cui, tempo prima, lui le aveva asciugato il sangue dal labbro spaccato e le aveva detto di fare quello che Joffrey voleva che facesse. Anche quel giorno si era sentita sola al mondo e anche quel giorno lui era stato l’unico a darle un po’ di conforto. Prese un respiro profondo, tentando di non piangere, e mentì di nuovo.

«Io sono la figlia di un traditore e condivido il suo sangue sporco. Il Re ha solo compiuto ciò che riteneva più giusto ed io gli sono fedele» Il suo sguardo si posò su un punto imprecisato della stanza mentre recitava quelle menzogne, quasi che in quel modo non fosse lei a mentire ma qualcun’altra. “Non fidarti di nessuno”, continuava a ripetere quella vocina nella sua mente. “Non hai amici ad Approdo del Re”. Sapeva che il Mastino l’avrebbe odiata per quelle bugie, ma a Sansa importava fino ad un certo punto. Lui odiava tutti, dopotutto, soprattutto lei che era solo una sciocca ragazzina con sciocchi sogni, e le spie di Varys erano ovunque. Una sola parola di troppo avrebbe potuto costarle la vita, e lei non poteva rischiare. Cercò di districarsi dalla sua stretta. «… vi prego, lasciatemi tornare nelle mie stanze, adesso!».

«Smettila!», la presa del Mastino sul suo braccio era forte, possente come non mai, e lei gemette di dolore. Lui la voltò verso di sé, il viso era così vicino al suo che Sansa poteva sentirne l’alito caldo sulla pelle.

«Sei una pessima bugiarda, il tuo bel visino non ti proteggerà per sempre.», le disse. Sansa boccheggiò alla ricerca di parole. Niente da fare, era come se la lingua le fosse rimasta attaccata al palato. Deglutì a fatica, le lacrime che le pizzicavano la gola, e cercò di districarsi dalla sua stretta in uno scatto d’ira.
Era furiosa perché lui aveva ragione. Non sarebbe potuta scappare per sempre, prima o poi Joffrey avrebbe ordinato a qualcuno di ucciderla e quel qualcuno avrebbe persino potuto essere lui. Sansa lo odiava per questo, per aver detto una verità tanto cattiva quanto reale, e lo odiava perché riusciva sempre a farla sentire indifesa e sola contro il mondo intero.

«Perché dovete sempre comportarvi così?», le parole lasciarono le sue labbra prima che potesse fermarle. «Mi odiate a tal punto da volermi umiliare ogni volta che il mio sguardo incrocia il vostro?».
Il volto del Mastino divenne una maschera di rabbia e furia. Per un istante, Sansa ebbe paura che lui le avrebbe fatto del male. Le si avvicinò, il volto così vicino al suo che poteva contargli tutte le ciglia, e all’improvviso realizzò che la sua non era una rabbia pericolosa e violenta, ma piena di frustrazione. Non le avrebbe fatto del male.

«Sono l'unico qui che non ti umilia, uccelletto. Ma sei troppo stupida per capirlo, vero?» Le sussurrò appena quelle parole, ma nel silenzio innaturale della stanza rimbombarono forti quanto un grido. Sansa rimase in silenzio, incapace di rispondere. La sua mente tornò ad un ricordo lontano, quando Joffrey l’aveva denudata di fronte a tutta la corte e Sandor Clegane, prima che arrivasse il Folletto, era stato l’unico ad avanzare una protesta. “Basta così”, aveva detto, e a lei non era sfuggito il tono pieno di disgusto con cui lo aveva fatto. Si sentì in colpa perché lui aveva ragione. Fra tutti, Sandor Clegane era forse l’unico che non le aveva mai fatto del male e che anzi l’aveva sempre protetta ed aiutata, e lei era stata un’ingrata a parlargli così.

«Io…» Io cosa? Sansa trinse i pugni così forte da graffiarsi i palmi delle mani e far diventare le nocche bianche, e trattenne un singhiozzo. Perché doveva essere tutto così complicato? Perché non poteva essere come nelle ballate, dove tutto era bello e delicato e tutti erano suoi amici? Il Mastino poteva essere suo amico ma anche la Regina Cersei lo era prima che suo padre tradisse Joffrey. Come faceva a riconoscere i nemici da coloro che chiamava amici? Non lo sapeva, non lo avrebbe mai saputo. E questo la costernava.

«Lascia perdere, uccelletto. Vieni, ti accompagno nelle tue stanze» E così fece. Quando entrò nelle sue stanze, il Mastino non entrò e chiuse la porta dietro di lei. In quel momento Sansa ricordò di non averlo ringraziato e d’istinto corse dal lui e fece per dirglielo. Troppo tardi. Lui era già andato via.

Col cuore pieno di rimorso, si lasciò cadere nel letto. Poteva ancora sentire gli occhi grigi del Mastino fissi su di lei, il suo respiro caldo sul collo, le sue dita che premevano sulla sua pelle; un brivido le percorse la schiena e col cuore in gola Sansa si rese conto che non si trattava di paura. La sua mente vagò per ricordi lontani, dolorosi: la prima volta che lo aveva conosciuto, Sansa aveva provato per Sandor Clegane una paura che andava oltre ogni limite ed il giorno in cui, al torneo del primo cavaliere, lui le aveva afferrato il braccio e le aveva urlato contro il modo in cui il fratello aveva premuto il suo volto nella brace era quasi morta di paura.

Dopo quel giorno aveva tentato di allontanarsi da lui il più possibile, ma lui continuava ad essere sempre lì, in agguato come una malattia. Solo dopo che la testa disuo padre era stata recisa dal suo corpo e Joffrey l’aveva costretta a guardarla, Sansa aveva compreso la verità: Sandor Clegane non era una malattia, ma la cura. Era sempre lì quando ne aveva bisogno, silenzioso nel suo essere rumoroso e gentile nel suo essere crudele. Era un ossimoro fatto di luci ed ombra e tanto muto dolore, e lei aveva sbagliato a rivolgergli quelle parole, prima. Si chiese perché avesse reagito così, proprio lei che era sempre stata tanto gentile con tutti, persino con Joffrey, e si sorprese nel non riuscire a trovare una risposta.

“Domani mi scuserò con lui”, si disse, slegando i lacci del proprio corpetto e infilandosi la camicia da notte. Lo sguardo le cadde sul portagioie che conteneva tutti i suoi gioielli. Dal bauletto, sporgeva una catenella d’argento. La prese: era bella, con una grossa pietra color acquamarina al centro, e sarebbe di certo valsa una fortuna in quei tempi di guerra.Un’idea le balenò in mente, sciocca quanto ammaliante.

“Gli darò questa collana come pegno di pace, proprio come facevano le lady nelle ballate”, pensò, rigirandosela in mano. Forse sarebbe stata abbastanza per acquietare di un po’ la rabbia dentro il cuore del Mastino. Sansa pregò ardentemente che fosse così e andò a dormire.

Dormì male. Sognò il Mastino, le sue dita ruvide che le premevano sul braccio, il fiato caldo contro il suo, le sue labbra troppo vicine alle sue, e al risveglio era madida di sudore, col cuore che le batteva troppo forte nel petto e la testa piena di domande.
 

 

 
Il giorno dopo.
 
 
Abituato com'era ad esaminare ogni nota del silenzio, il leggero fruscio che il passo elegante di Sansa portava con sé gli comunicò che lei era vicina. Sembrava che non potesse fare a meno di incrociarla e, dopo tutti quei mesi, non voleva ancora ammettere a se stesso che forse sceglieva determinati tragitti all'interno della fortezza perché imbattersi in lei era, nonostante tutto, il momento migliore della sua giornata. Si voltò ad osservarla: aveva il busto stretto dal vestito azzurro che stava così bene col colore dei suoi occhi, ed i capelli sciolti, morbidamente adagiati sulle spalle. Sandor li preferiva così, che riflettevano i bagliori del giorno in tutta la loro lunghezza. Non volle intuire, forse, che servissero anche a nascondere degli orrori.

«Buongiorno.» cinguettò lei, procedendo nella sua direzione con una sicurezza che Sandor non le aveva mai visto prima durante i loro casuali confronti. Certo, la sua voce tradiva incertezza, ma la piccola aveva tutta l'aria di aver qualcosa in mente. O magari si era semplicemente ficcata in testa che lui era l'unica persona sincera lì nei paraggi, l'unica a trattarla senza quei finti salamelecchi di facciata solo per poi pugnalarla alle spalle. In ogni caso, al Mastino non riuscì di essere meno sgarbato del solito. Era più forte di lui: per quanto si sforzasse di conciliare quello che provava con quello che voleva dimostrare, una vaga paura che non era pronto a riconoscere, lo spingeva ogni volta ad essere ruvido e scostante. In questo, era molto simile ad un bambino capriccioso, ma per nessuna ragione al mondo l'avrebbe ammesso.

«Che vuoi, uccellino?» bofonchiò bruscamente, irrigidendosi nelle spalle non appena lei si fu fermata ad un passo da lui. Era bella da togliere il fiato, come sempre. Quel coglione di Joffrey non meritava di lei neppure un sospiro.

Sansa ammutolì di colpo quando Sandor Clegane le parlò. Sospirò, le dita che si torturavano a vicenda e le gote in fiamme, e lui la vide afferrare con mani tremanti una scintillante catenella d’argento. «Io… ecco… riguardo a ieri sera...», cominciò, visibilmente a disagio. Era perfino arrossita, ma il Mastino non ebbe il tempo di tagliare corto che lei riprese a parlare. «M-Mi dispiace di avervi detto quelle cose. Non avrei dovuto, so bene che mi sorvegliate solo perché sotto ordine del Re e che non volete farmi del male. Quindi, ecco…», mormorò, solo per poi fermarsi ancora una volta. Sandor era molto istintivo, erano rari i momenti in cui rimaneva spiazzato. Tuttavia, quando Sansa gli prese una mano per posarvi sul palmo una catenina d'argento, si immobilizzò. Il suo intero essere sentì la necessità di fermarsi, osservare. Era come se quello non stesse accadendo a lui ma a qualcun altro, qualcuno che in realtà lui si era soffermato a spiare da lontano.

«Vorrei donarvi questa come segno del mio dispiacere. È in argento, vale molto; potrete venderla, se vorrete, ma vi prego: non ditelo alla Regina, o al Re o a chiunque altro della corte. Sarebbe solo l’ennesimo motivo per farmi picchiare… loro aspettano sempre e solo questo» La fanciulla ammutolì di colpo, come realizzando di aver osato troppo.

Solo quando la giovane Stark esibì uno sbrigativo inchino e si fu voltata, pronta ad andarsene, il Mastino si riscosse da quello stato assorto. Era reale, era reale e, qualunque cosa fosse, era sicuro di non volere che finisse così presto. Non gliene fregava un cazzo che quella catenina fosse d'argento e che potesse riguadagnarci qualcosa vendendola. Era un regalo dell'uccellino. L'idea gli procurava emozioni contrastanti. Perché non riusciva ad esserne semplicemente grato? Perché, come chiunque altro avrebbe fatto, non accettava il pegno e lo considerava una gentilezza che gli rendeva onore?

Nel notare che era terrorizzata all’idea che Joffrey o Cersei la scoprissero, decise di evitarle almeno quello. La afferrò, le sue dita possenti che premevano sulla sua spalla forti come ferro, scortandola verso un’ala secondaria del corridoio, sotto un arco dove difficilmente qualcuno si sarebbe imbattuto in loro. Lei si ritrovò, in un turbinio di gonne, braccata al muro e senza via d’uscita.

«Non voglio le tue scuse, non voglio i tuoi regali.» disse Clegane, pur tenendo stretta in pugno la collanina come se non avesse alcuna intenzione di restituirla. «Mi hai preso per uno dei tuoi valenti cavalieri? Cosa credi che valga questo per me?» Era così arrabbiato, eppure tenne la voce bassa, anche se sporca di risentimento, roca come sempre. "Sei promessa a Joffrey!" avrebbe voluto urlarle contro, quasi fosse colpa sua. «Sono il cane del re!» mugugnò, invece. Una parte di lui sperava che lei fosse così arguta da capire cosa intendesse.

Ma la piccola Sansa – labbra e pugni stretti, intenta a lottare contro l’istinto di piangere – a quel punto sembrava essersi ritrovata a corto di parole.

Probabilmente non si era aspettata una reazione del genere, forse aveva creduto ancora una volta a tutte quelle stronzate che narravano le ballate. Deglutì e d’istinto si premette ancor di più contro il muro, come se in quel modo avesse potuto nascondersi dallo sguardo pieno di odio che il Mastino le stava riservando. «Non volevo offendervi…», pigolò, la voce spezzata dalla tristezza. «Non volevo fare niente di male, lo giuro. So che questo oggetto non vale nulla per voi… Però… io… io pensavo che potesse farvi piacere… e… per favore, lasciatemi, mi fate male… vi prego, sir!», urlò con disperazione.

L’uomo la gelò con lo sguardo e lei si accorse di avergli di nuovo affibbiato quell’appellativo che lui detestava. Sansa si premette le mani alle labbra e sbatté le palpebre, sinceramente dispiaciuta.

«M-Mi dispiace!».

Sandor lasciò la presa, appurando ancora una volta quanto l'uccelletto fosse delicato. I polpastrelli fremevano ancora per il contatto appena terminato, solleticati dal fantasma della stoffa azzurra stropicciata sulla spalla di lei. L'uomo sentì il petto gonfiarsi in un ampio respiro pensando a quanto sarebbe stato estasi per i suoi sensi toccare la pelle della giovane Stark senza barriere, essere buono laddove altri erano stati impietosi.

Chissà, chissà cosa avrebbe provato in un'occasione del genere. Represse immediatamente quel pensiero, specchio di una realtà inesistente, e sentì i propri lineamenti corrugarsi nella frustrazione. Sansa seppur libera non si mosse, restò incollata al muro, pietrificata nelle proprie parole. Lui stringeva ancora la catenina, quel filo d'argento così sottile che quasi scompariva nel suo palmo. Avrebbe dovuto lanciargliela contro, restituirle con un sadico sberleffo quel pegno che lui non poteva accettare e che lei non avrebbe mai dovuto donargli da principio. Eppure non era in grado di farlo. L'espressione sul viso angelico di lei era così costernata, sopraffatta da autentico dispiacere, che Sandor non esibì altro che un ghigno sarcastico, prima di abbassare per un attimo lo sguardo. Quando lo sollevò nuovamente, si sentì dilaniato dagli occhi spauriti di lei. Fu allora che capì quanto male dovesse farle il suo atteggiamento. Era vero, lei continuava ad aggrapparsi a quei "sir" privi di significato ma lui, gettandole addosso la sua rabbia incessante, non era meno bestia di quelle che la picchiavano. Più la guardava e più si chiedeva come si potesse desiderare di calpestare un fiore di rara bellezza.

«Tutto sommato, potrei davvero tirarci su qualche soldo. Con questa...» fece saltare la catenina nel palmo, «...mi assicuro anche tre o quattro puttane a scaldarmi il letto.» Si ritrovò a mentire, forse per la prima volta davanti a lei. Non avrebbe barattato la collanina per niente al mondo, ma ammetterlo era un passo troppo difficile, più lungo della gamba. Sandor Clegane non voleva credere a quello che il suo cuore, strepitando, gli suggeriva ormai da tempo.
La ragazzina strinse i pugni lungo i fianchi, il labbro inferiore che tremolava senza ritegno. “Ma che cazzo di problemi ha?” pensò il Mastino quando, senza dire una sola parola, Sansa si voltò dalla parte opposta e camminò il più velocemente possibile lontano da lui. I suoi passi riecheggiarono a lungo per il corridoio.

Che diavolo avrebbe dovuto fare con lei? Era una tortura decidere se inseguirla o lasciarla andare. Non ebbe il tempo di crucciarsi con simili questioni, però. Un boato improvviso proveniente da fuori lo mise in allarme. Si affacciò alla finestra e vide il cielo coperto di enormi nuvoloni che sembravano oscurare il sole ed un centinaio di guardie sparpagliate lì attorno che si preoccupavano di procurarsi armi e frecce. Stannis Baratheon stava arrivando alle porte di Approdo del Re. Sandor poteva annusare nell’aria l’odore della battaglia imminente.

Un odore che si componeva di sudore, polvere bagnata, densa umidità e soprattutto sangue, fiumi di sangue.

Al di sotto dell’armatura, Clegane avvertì un lungo brivido di eccitazione. La Morte incombeva, su di loro come sul nemico, ma lui se la sarebbe fottuta in culo e avrebbe assaporato la gioia più cruda che avesse mai conosciuto: uccidere.




- Note delle autrici. 
Ed eccoci qui, a scrivere una nuova storia. A scrivere in questo momento è Harmony394, che al momento ha 39 di febbre e sta un po' morendo. 
Non ci divulgheremo molto dato che abbiamo già scritto tutto nella premessa. Speriamo solo che il prologo vi sia piaciuto!
Grazie mille a tutti coloro che ci seguiranno eo recensiranno questa storia. I vostri pareri sono preziosi!

Alla prossima!
Un bacione.

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Capitolo 2
*** Persefone ***



Persefone


 

Non riusciva a credere di averlo fatto. Aveva mandato a farsi fottere il re, la Guardia Reale e la città intera. E che soddisfazione immensa era stata quella! Sarebbe scoppiato a ridere per l'espressione amareggiata e incredula di Joffrey, se la paura non avesse preso dimora nelle sue membra sconfiggendo la baldanza.
Nel cuore della mischia aveva mietuto una vita dopo l’altra, impavido e rabbioso, mulinando lo spadone senza tregua e senza indugio. Quando tuttavia il fuoco aveva cominciato a divorare i soldati, Sandor Clegane aveva rischiato di morire. Ottenebrato dal suo più aspro ricordo, dal suo unico meschino terrore, era rimasto immobile mentre un uomo in fiamme gli rovinava addosso. Se poche ore prima gli avrebbero giurato e spergiurato che l’intervento di quel mercenario – quel Bronn – gli avrebbe salvato il culo, il Mastino si sarebbe fatto una grassa risata di scherno. Eppure, così era stato.

Voltando le spalle a tutto e dopo aver masticato le sue belle imprecazioni ad ogni entità che minacciava di trattenerlo in quella carneficina, Clegane se la squagliò e portò con sé soltanto l'otre di vino. Il suo unico e più vecchio amico, tuttavia, non gli stava donando il conforto in cui aveva sperato. Più beveva e più si sentiva sperduto alla deriva di un incubo. Dove poteva andare mentre là fuori la battaglia infuriava? Quale oscurità gli si sarebbe presentata priva di mostri?

Ogni vicolo della città era nel panico, lui era appena diventato un disertore e la Fortezza non sarebbe più stata la sua dimora. Dove cazzo poteva ripararsi? Stava accadendo tutto così rapidamente, in maniera confusa e a dir poco folle. L'adrenalina e l'alcol non gli avevano dato la prontezza di stabilire un piano per la salvezza. Il suo mondo traballava e crollava e rideva di lui. Sandor si precipitò su per le scale rischiando di cadere e spezzarsi l'osso del collo. Doveva raggiungere il Fortino di Maegor. Doveva lasciare la città, doveva portarsi via l'uccelletto, doveva... doveva...

Prese a spintoni chiunque gli si parasse davanti e si addentrò nelle mura del castello. I suoi passi riecheggiavano lungo i corridoi bui, mentre la fioca luce delle torce proiettava ombre semoventi sulle pareti di pietra. La mano sinistra di Sandor tremava, stretta attorno alla caraffa di vino, la destra si faceva largo a tentoni come a spazzare il buio in cui avanzava. Spalancò la porta della stanza di Sansa con un calcio ma lei, sfortunatamente, non era lì. Sarebbe mai tornata? Dov'è che venivano chiuse le donne durante la battaglia? Tentò di ricordarlo ma era troppo frastornato per riuscirci.

Senza pensarci caracollò verso il letto, lasciandosi cadere sul materasso. "Uccellino" pensò, chiudendo le palpebre pesanti. Fu solo allora che si accorse di come i rumori dello scontro gli arrivassero attutiti. Il verde dell'altofuoco, invece, filtrava dalla finestra quasi vivo quanto lo era là fuori.
 
Non sapeva quantificare il tempo in cui era rimasto lì a giacere. Non sapeva nemmeno dire se si fosse addormentato o la sua fosse stata una condizione di incoscienza ad occhi aperti. Poi la porta si aprì e lei era con lui. Sansa. I suoi capelli brillavano sotto i bagliori di giada ma lui non si mosse, restò acquattato nel buio. Tacque, osservando come lei studiava ciò che accadeva fuori dalla finestra. Solo quando la ragazza arretrò verso il letto, Clegane si sollevò silenzioso come un'ombra e la catturò nella sua presa, tappandole la bocca affinché non urlasse.

Quel piccolo, sinuoso corpo si dibatteva debolmente contro il suo, e tutto ciò che otteneva in cambio era una trappola più stretta. «Uccellino, sapevo che saresti venuta.»

Il respiro di Sansa si fece concitato, Sandor lo sentiva scaldargli la mano in rapidi sussulti. «Se urli, ti uccido.» disse, minacciandola in un rantolo mentre le liberava cautamente la bocca. La stretta attorno al polso, però, restò salda com'era. «Ho perso la battaglia, uccellino.» vomitò quelle parole intrise di tristezza, consapevole – perfino nell’ubriachezza - del totale fallimento della propria esistenza. «Me ne sto andando.» Non credeva che quel giorno sarebbe mai arrivato. Fino a quel momento si era figurato una vita al servizio dei Lannister; una vita triste, certo, ma per lui lo sarebbe stata in ogni caso.

«Andando?» fu la domanda di Sansa nel cercare di divincolarsi. Niente da fare. La presa di Clegane era una morsa di ferro. «E dove?»

«Lontano da qui. Lontano dai fuochi. Fuori dalla Porta di Ferro, immagino. E poi da qualche parte a Nord.» disse il Mastino, l'angolo bruciato della sua bocca che a tratti si contraeva. «Io potrei tenerti al sicuro» ansimò, più serio che mai, «Tutti quanti hanno paura di me. Nessuno ti farà mai più del male. Se lo faranno, io li ucciderò.» Non era una promessa, quella, ma una fiera constatazione. Non ricevette risposta alcuna, così attirò a sé la giovane con uno strattone, tenendosela così vicino da poter sentire il battito forsennato del suo cuore.

«Sarò al sicuro qui. Stannis non mi farà del male» disse alla fine lei, sguardo basso, le lunghe ciglia che le sfioravano il viso.

«Guardami» ringhiò lui, frustrato dall’incapacità di Sansa di sostenere la furia nei suoi occhi. E lei, timorosa delle conseguenze, obbedì. Tutto di lui la faceva rabbrividire: Sandor non aveva alcun dubbio a riguardo. Si comportava ancora da sciocca bambina piena di sogni, quanto ci sarebbe voluto perché capisse? In una notte come quella, intessuta di orrori e grida, di ferro e sangue, il Mastino avrebbe voluto strapparle dal cuore la sua fottuta ingenuità. «Stannis è un assassino; i Lannister sono assassini; tuo padre era un assassino; tuo fratello è un assassino e anche i tuoi figli, un giorno, lo saranno. Il mondo è costruito da assassini… quindi farai meglio ad imparare a guardarli in faccia.»

Poi la tirò violentemente per un braccio, facendola roteare su se stessa e gettandola sul letto. Da quella prigione - lui che torreggiava su di lei in tutta la sua imponenza - la piccola Stark non sarebbe riuscita a liberarsi. Squittì di terrore quando il Mastino, snudata la daga in un sibilo, gliela puntò alla gola. L’uomo la guardava dritto negli occhi, due laghi placidi le cui acque adesso si agitavano per il freddo metallo che le toglieva il respiro; si abbeverò presso quelle acque del Nord, attingendone come un dannato in cerca del perdono, o come un uomo in fiamme in cerca del sollievo.

Dopo quello che parve un tempo interminabile, Sansa osò parlare, con la sicurezza di una lepre bianca immobile nella neve. «Voi non mi farete del male», sussurrò, e nel silenzio innaturale della stanza la sua voce riecheggiò simile a un urlo.

Sandor sentiva le braccia tremare impercettibilmente sotto il proprio peso da ubriaco. Un piccolo movimento brusco e la lama sarebbe affondata nella gola di Sansa. «Canta. Mi devi una canzone, uccellino. Florian e Jonquil o- o quel cazzo che ti pare ma canta.» le ordinò con voce raschiante.

Lei era così bella... Così delicata... E lui aveva voglia di distruggerla, di fotterla, di rubarle tutto quello che le era rimasto: la sua verginità. Poteva portarsi via almeno quella. Poteva vincere il suo trofeo quella notte, l'ultima immensa e agognata soddisfazione prima di fuggire come un cane sciolto. Sì, gli sembrava un'ottima di idea. Ci si aggrappò con la disperata prepotenza di chi ha troppo vino in corpo e nulla da perdere.

La voce della giovane era flebile, assottigliata dalla paura, ma cantò davvero. L'ultima canzone che il Mastino si sarebbe aspettato di sentire.

"Gentle Mother, font of mercy,
save our sons from war, we pray.
Stay the swords and stay the arrows,
let them know a better day.
Gentle Mother, strength of women,
help our daughters through this fray.
Soothe the wrath and tame the fury,
teach us all a kinder way."

 
Quale meraviglia… Come faceva, come ci riusciva? Quel cinguettio strozzato si sciolse come balsamo sulle ferite di Sandor, toccando corde che lui aveva dimenticato di possedere. Fu liberatorio come un lungo acquazzone dopo la siccità. La guardava, splendida sotto di lei, con le guance arrossate, piccola eppure già donna, così perfetta e così buona, così... pura. Il cuore palpitante di Sandor si aggrovigliò e si accartocciò, ed il suo volto si bagnò di lacrime. Cosa gli aveva fatto, quella fanciulla del Nord? Cosa aveva spezzato o riedificato in lui perché riscoprisse il valore eterno e umano del pianto? Gettò lontano la daga ed il metallo tintinnò gelido sul pavimento. Fu come se ogni cosa avesse perduto senso all'improvviso per acquistarne uno nuovo, come se lui non fosse stato mai il Mastino del re, come se lei non fosse stata mai altro che sua, sua, sua. Era sua, la voleva sua. Ma non poteva farle del male, no. Era stato un folle a crederci. Neppure da ubriaco marcio avrebbe osato. Lei era... troppo. L'unica cosa che fu in grado di rubarle fu un bacio. Si abbandonò fra le labbra di lei, liberando tutto ciò che di inespresso li univa. La bocca di Sansa non era mai stata accarezzata a quel modo così passionale, così onesto. Con sua sorpresa, lei non lo respinse. Clegane tremava fin dentro il nucleo più profondo del proprio essere, le vene che pulsavano nell’estremo tendersi del desiderio.

Le urla dei soldati mandati a morire sotto le mura esplosero in un boato più alto. C’era una guerra là fuori, lui aveva deciso di fuggire, e le stanze di lady Sansa non erano un rifugio in cui potersi trattenere a lungo. In un esile barlume di lucidità, pur afflitto dai capogiri, il Mastino si staccò da lei e Sansa sembrò rinvenire dal torpore in cui era caduta con la stessa irruenza con la quale ci si risveglia da un incubo.

«Uccellino...» disse lui, rubandole un ultimo sospiro. Rigido come una lastra di marmo, Clegane si sollevò dal letto. Le sue grandi dita erano malferme, le sue guance viscide di sangue e di qualcos’altro che non era sangue. Se ne stava andando, doveva salvare la pelle. Eppure lasciare lei lì, confusa e boccheggiante, era un dolore che non avrebbe mai pensato di provare. Neppure se ne accorse, ma fece scivolare la mano fino alla tasca dei calzoni inzaccherati di fanghiglia e lasciò che il palmo si aprisse a mostrare il luccichio dell’argento che custodiva. Aveva tenuto con sé la catenina durante la battaglia e d’improvviso desiderava che lei lo sapesse; non l’avrebbe mai venduta, non ci avrebbe mai ricavato una ricca bevuta o puttane vogliose. Piuttosto, era pronto a morire stringendola fra le dita. La ripose nuovamente e, a testa china, era ormai deciso a svanire nell’oscurità.

«Fermatevi!» gridò Sansa, contro ogni aspettativa. Il Mastino, senza neppure riflettere, obbedì. Le gambe si erano semplicemente fermate. I suoi occhi grigi adesso erano fissi su di lei, ancora lì per accarezzare da lontano quel viso di bambola segnato da una qualche repentina realizzazione. «Vi prego» sussurrò lei, con voce rotta dall’emozione. «Vi prego non… non lasciatemi».

Sandor cercò di mettere ordine fra i propri pensieri, per una volta. Doveva allontanarsi, la corte non era più un posto per lui; l'avrebbero imprigionato e condannato da disertore, se fosse rimasto. Aveva ancora sulle spalle la cappa bianca della Guardia Reale, tutta insozzata di sangue. Quel pezzo di stoffa era uno sberleffo, una gran presa per il culo; un simbolo che aveva acconsentito a vestire ma che aveva tradito. Era tanto diverso dallo Sterminatore di Re, in quel momento? L'onore non significava niente se non si è disposti a sopportarne il peso fino in fondo. In quello, Ned Stark, il padre dell'uccellino, era stato un uomo diverso ed esemplare. Sandor diede uno strattone deciso e, lacerando la stoffa, si strappò via il mantello dalle spalle. Aveva chiuso col bianco. Salire in groppa a Straniero e correre senza voltarsi indietro, ecco cosa c'era da fare.

Istintivamente decise di lasciare a Sansa l'ultimo brandello della sua dignità e gettò la cappa ai piedi del letto. Lei gli aveva donato quella catenina, lui non aveva meglio per lei che una cappa logora e macchiata di sangue. Uscì senza dirle altro.

Brancolò a lungo su e giù per i corridoi, ancora stordito dal vino e dal bacio. Un turbinio di emozioni lo strattonava con violenza, conducendolo senza sosta sull'orlo della pazzia. La voce dell'uccellino gli si era conficcata in testa. "Vi prego, non lasciatemi" l'aveva implorato lei, ancora abbarbicata sul letto. Quel letto, il letto che era stato loro per pochi attimi. Colto da un conato di vomito, Sandor si piegò su se stesso, tirando fuori alcol e bile. Si lasciò cadere in ginocchio sul pavimento di pietra. Da una feritoia filtrava la luce smeraldina dell'altofuoco, la battaglia non era ancora giunta al termine.

Si prese il viso fra le mani, affondò le unghie nella carne, soffocò il grido di un uomo disperato. Doveva prendere una decisione. Sarebbe morto. Sarebbe morto da coglione se fosse rimasto; un ordine di quel reucolo ed un'intera vita di diligente servizio non gli sarebbe valsa a niente. Eppure lei gli chiedeva di non abbandonarla, di non lasciarla sola in quell'orrida tana di leoni, dov’era pronta a venire sbranata. Si interrogò a lungo, forsennatamente, su quale fosse la scelta migliore.
Quando capì quello che doveva fare, serbava in sé perfino più dubbi di prima. Com'era possibile che lei fosse diventata più importante della sua stessa vita? Presto, doveva trovare un posto in cui nascondersi. In culo tutti, sarebbe rimasto. Sfidò il destino e si rialzò, cercando una via d'uscita. Sporgendosi oltre quel baratro, un uomo saggio non avrebbe visto che la fine, ma il Mastino era ubriaco e pazzo, di vino e di le
i.


 
 
La battaglia delle Acque Nere era stata vinta dai Lannister. Le truppe di Stannis, dopo aver conquistato Capo Tempesta, avevano raggiunto Approdo del Re ed assediato le sue terre. Durante l'attacco, Sansa aveva passato tutto il suo tempo a piangere e pregare, timorosa all'idea di morire o di essere stuprata da qualche invasore. Quella notte il Mastino era giunto da lei, la sua enorme ombra scura stagliata contro il verde smeraldo dell’AltoFuoco, e ricordava ancora perfettamente il momento in cui le sue labbra ruvide e crudeli si erano premute sulle sue. Le aveva rubato una canzone e un bacio, lasciandole nient’altro che una cappa bianca insanguinata, e Sansa lo odiava per questo.

Nonostante lei lo avesse supplicato di restare, umiliandosi come mai prima di allora con nessuno, lui era andato via. Lo odiava, e allo stesso tempo lo capiva: era il fuoco la sua paura più grande, lei lo sapeva. E il fuoco, la scorsa notte, era ovunque: nel cielo, sugli alberi, nel suo cuore. Se persino lei, che era rimasta fra le mura del palazzo per tutto il tempo, aveva avuto paura, non osava immaginare ciò che il Mastino doveva aver provato.
Quando Dontos, la mattina seguente, le aveva detto che i Lannister avevano vinto, Sansa era piombata in un’angoscia persino più devastante di quella contratta la notte prima. Joffrey era ancora vivo, dunque, così come tutti i Lannister ed i loro alleati, e lei non poteva fare nulla per cambiare le cose. Stringendo i pugni lungo i fianchi, si disse che Ditocorto aveva avuto ragione: la vita non è una canzone. Nella realtà, i mostri vincono.

Quella mattina il cielo era limpido, il sole piacevole e l'aria fresca. Sembrava che nulla fosse accaduto la notte precedente, quasi gli dèi avessero deciso di farsi beffe di tutto il dolore e la morte che avevano seminato. Con il cuore a pezzi, Sansa si rivestì e si fece acconciare i capelli dalle sue ancelle in completo silenzio. Dopo un po’, un paggio giunse a comunicarle che Joffrey aveva un annuncio importante da fare e che lei doveva essere presente.

"Un'altra umiliazione", fu il suo primo pensiero, e d’istinto strinse la stoffa della sua veste con fervore. "Quale colpa mi sarà attribuita stavolta?".

Accompagnata da Shae, si diresse verso la Sala del Trono: le si prospettò dinanzi Joffrey, tutto vestito di porpora ed oro, stravaccato a braccia conserte sul Trono di Spade. Al suo fianco vi erano la Regina Cersei, Tywin Lannister e sir Ilyn Payne, la Giustizia del Re. Con una fitta di tristezza, Sansa pensò che non avrebbe mai più rivisto il Mastino. Si sistemò fra gli spalti della corte, le dita che tamburellavano nervose sulla sua coscia ed il cuore in gola. L’avrebbe fatta denudare come l’ultima volta? Sansa pregò gli dèi di risparmiarle quella crudeltà. Questa volta non ci sarebbe stato il Folletto a salvarla, né il Mastino a coprirla con la sua cappa bianca. Un brivido le salì lungo la schiena e, con la coda dell’occhio, scorse Joffrey puntare i suoi occhi acquosi su di lei. Si costrinse a sorridergli accondiscendente e ad abbassare lo sguardo, mentre la rabbia e la paura le facevano prudere le mani. Lo odiava. Lo odiava con tutte le sue forze. Odiava le sue labbra tanto simili a vermi, le sue dita ossute e lunghe, il suo sorriso perverso e quei suoi orribili occhi verdi. Oh, come avrebbe voluto che fosse morto durante la battaglia! Ma questo era impossibile, perché Joffrey non era neppure sceso in battaglia, di questo lei ne era certa: era troppo vigliacco per combattere davvero, sapeva solo dare ordini e far agire gli altri al suo posto, nascondendosi fra le sottane di sua madre quando il pericolo diventava imminente.

Ad un tratto, Joffrey si schiarì la gola ed iniziò col suo discorso di formale routine. Sansa sapeva cosa sarebbe successo dopo: avrebbe donato delle terre o dei titoli nobiliari a chiunque gli aveva fornito aiuto durante la battaglia, poi avrebbe sancito nuove alleanze e infine declassato – o ucciso – chiunque gli avesse disubbidito in qualche modo. Tra questi, Sansa ne era certa, vi sarebbe stata anche lei: Joffrey l’avrebbe fatta picchiare per i crimini contro la Corona commessi da suo fratello, proprio come l’ultima volta.

Rimase ad ascoltarlo per un tempo che parve infinito, finché un nome in particolare attirò la sua attenzione, facendola sussultare.

«Sandor Clegane della Casata Clegane», urlò uno dei paggi. Nella sala presero a sibilare un centinaio di voci, tutte cattive e piene di sdegno. Sansa le udiva bene eppure, allo stesso tempo, non ne sentiva neanche una. Era come se il tempo si fosse fermato assieme al suo cuore e alla sua mente. Non era in grado di formulare alcuna parola, di respirare persino. Qualcosa dentro di lei scalpitava ed il suo cuore batteva così forte da sentirne il rimbombo nelle orecchie. Non ci credeva… non ci credeva! Il Mastino, lo stesso Mastino che l’aveva salvata dalla rivolta della folla, che le aveva asciugato il sangue dal labbro quando sir Meryn l’aveva schiaffeggiata e che l’aveva baciata… era proprio lì, a pochi passi da lei. Dunque era rimasto... ma perché? Forse lo avevano catturato prima che potesse fuggire, non c'era altra spiegazione.

I suoi dubbi vennero ben presto colmati quando udì le altre parole del paggio. «Siete accusato di tradimento nei confronti della Corona, di aver infranto il Vostro giuramento di Guardia Reale e di aver rivolto al Vostro Re ingiurie tali da meritare la forca. Cosa avete da dire al riguardo?».

Lui rimase in silenzio, i suoi occhi crudeli che vagavano per la sala del Trono, e quando il suo sguardo incrociò il suo, grigio contro azzurro, Sansa si sentì avvampare. Per un istante, un breve, pericolosissimo istante, fu tentata di corrergli incontro, chiedergli perché fosse rimasto, che in questo modo sarebbe andato incontro a morte certa e che lei non aveva mai voluto questo, ma le parole erano come incastrate in gola e l’unica cosa che riuscì a fare fu avvicinarsi maggiormente alla balconata dello spalto davanti a lei, protendendosi verso di lui. Ad un tratto il Mastino distolse lo sguardo, serrò la mascella e la sua voce bassa e prominente riecheggiò forte nella sala.

«Così è stato. La battaglia ha disorientato i miei sensi, ma ho combattuto finché non ho creduto di vedere la fine e ho agito in maniera avventata.».

Attorno a lei, cortigiane e lord e nobili iniziarono a parlottare fra di loro, chi con aria sconvolta e chi con finti sorrisetti di circostanza di chi la sapeva lunga. Sansa li odiò tutti, dal primo all’ultimo, e li odiò ancora di più quando si rese conto con angoscia che per il Mastino non c’era più niente da fare, che le sue parole erano inutili e che Joffrey lo avrebbe fatto decapitare ugualmente proprio com’era accaduto per suo padre. Strinse i pugni così forte da graffiarsi i palmi delle mani, le lacrime che le pizzicavano la gola all’idea di dover perdere anche lui. Poi, Joffrey parlò.

«Silenzio!», disse, e la l’intera sala tacque. Non sembrava divertito, ma neppure angosciato. Era semplicemente nervoso. Dopotutto, il Mastino era stato il suo fedele cane da guardia dacché lui era nato, in un qualche modo era persino normale che fosse amareggiato. “Forse adesso capirai che se persino chi ti ha visto crescere ha finito con l’odiarti, allora sei tu il problema”, pensò Sansa, ma sapeva già che non sarebbe successo. «Il Primo Cavaliere del Re, lord Tywin Lannister, prenderà la decisione in merito al tuo fato al posto mio, Clegane».

Sotto gli occhi stupefatti e increduli di tutta la platea, Tywin Lannister si alzò dal proprio scranno e proferì, con tono solenne ed asciutto: «In ginocchio, Clegane. Il tuo re ha deciso di mostrare la sua misericordia e concederti la grazia, a fronte dei servigi resi con ineccepibile fedeltà per tutti questi anni. Non sarai più un cavaliere della Guardia Reale, ma è pur vero che hai guidato l'assalto con intrepido vigore e questo non può passare in secondo piano: il regno ha bisogno del tuo pugno di ferro. Bada, Clegane: che non esiti più, o tutto ciò che ti viene concesso quest'oggi ti sarà tolto.», lord Tywin fece una pausa, sul suo viso scavato dall’età si dipinse un mezzo sorriso. Per una frazione di secondo Sansa fu certa che avesse guardato dalla sua parte, ma presa com’era dall’euforia per la grazia concessa al Mastino non vi badò più di tanto. Poi lui prese di nuovo la parola. «Il Re è inoltre capace di grande generosità anche con chi ha perso la retta via: alla luce dei conflitti con il Nord e delle rivolte da parte di Robb Stark, a giudizio del Concilio Ristretto non sarebbe né conveniente né saggio per Sua Maestà sposare la figlia di un uomo decapitato per tradimento. Ragion per cui, per il bene del Regno, i consiglieri di Sua Maestà hanno chiesto di mettere da parte il fidanzamento con Sansa Stark a favore di un altro fidanzamento con lady Margery della Casa Tyrell, nostra alleata. Tuttavia non possiamo permettere di perdere il Nord, e poiché la tua Casata è di dominio dei Lannister e sir Gregor non può prender moglie poiché deve adempiere ai suoi obblighi da Cavaliere, sarai tu a farlo. Consideralo come un modo di ripagare il tuo debito, Clegane».

Nella sala piombò un silenzio di marmo. Sansa sperimentò la più totale assenza di emozioni. Era come se il mondo intero fosse stato messo in pausa. Poi, tagliente come un fulmine, il panico la travolse dalla testa ai piedi. Guardò la Regina in cerca di risposte, aspettandosi che le dicesse che si trattava solo di uno stupido scherzo, ma il sorriso diabolico dipinto sulle sue labbra voluttuose le fece capire che non lo era affatto e che Tywin Lannister l’aveva davvero data in sposa al Mastino.

«Cosa?» Era assurdo il modo in cui la sua stessa voce fosse tanto lontana. La testa le girava e Sansa non riusciva a capire. Perché? Era… era assurdo! I sussurri sconvolti della corte le giunsero alle orecchie e all’improvviso Sansa si accorse che tutti gli sguardi erano su di lei. Volle parlare, chiedere spiegazioni, fare qualsiasi cosa, ma la sua bocca era secca e le parole non volevano uscire.

«Dunque, cane, cosa ne pensi? Preferisci la ragazza Stark, o il cappio al collo?» Domandò Joffrey, un sorriso sardonico dipinto sul volto. All’improvviso Sansa comprese il vero motivo di tutto questo: non era per trarne dei profitti. Joffrey la stava dando in sposa al Mastino solo per umiliarla. Sapeva che per una lady del suo rango andare in sposa a qualcuno di una Casata insignificante come quella dei Clegane sarebbe stata considerata un’umiliazione senza precedenti, e sapeva anche che il Mastino non la amava e di certo pensava pure che l’avrebbe picchiata una volta che sarebbe divenuta sua moglie, considerata la sua indole violenta. Stava facendo tutto questo per il suo sadico gusto di vederla soffrire!

La risposta del Mastino non tardò ad arrivare. «Sarà un onore per me, Vostra Maestà», disse, inchinandosi al suo cospetto.


«Bene. Perché la cerimonia del vostro matrimonio si terrà fra tre giorni, esattamente una settimana prima del mio matrimonio con lady Margaery. Sei lieto del giocattolo che ti ho regalato, cane? Mi sarai ancora infedele?!».
«Mai più, Vostra Grazia».
Joffrey si protese verso di lui, gli occhi assottigliati in due fessure verdognole. «Bene. Perché la prossima volta ti ucciderò. Puoi andare, cane».

Sandor mormorò qualcosa che Sansa non riuscì ad udire. Poi si alzò, si inchinò e fece per andarsene, concludendo lì la questione. Se per lui era considerata conclusa, però, lo stesso non poteva dirsi di lei. Il suo sguardo corse su quello del Mastino e vide che non la guardava. Proprio come prima, era come se lei non esistesse, come se non fosse appena stata promessa a lui. Lo odiò per questo. Lo odiò con tutta se stessa. Perché aveva accettato? Perché non aveva detto qualcosa… qualsiasi cosa per impedire quell’unione? Il ricordo delle sue labbra ruvide che si premevano sulle sue le sfiorò la mente e Sansa sentì un nodo all’altezza del cuore. Avrebbe davvero dovuto diventare sua moglie? E a lui stava davvero bene? “Non che abbia avuto scelta, dopotutto”, le ricordò una vocina nella sua mente, e Sansa si sentì a disagio. No… era assurdo. Lei non poteva sposarlo. Lui non la amava, solo l’altra notte le aveva puntato un pugnale alla gola!

Con la mente piena di domande, corse via dalla Sala del Trono. Doveva parlare con lui. Lo avrebbe convinto a fuggire da Approdo del Re e così il matrimonio sarebbe stato annullato. Corse con così tanta fretta che quando andò a sbattere contro il petto di Ditocorto fu in procinto di perdere l’equilibrio e rovinare a terra, e così sarebbe stato se lui non l’avesse trattenuta.

«Lady Sansa», sussurrò lui, corrucciando la fronte. «Stai tremando».
«Lord Baelish…», la voce di Sansa era ridotta a poco meno di un sussurro. «I-Io… stavo cercando il Mastino, lui—».
La sua fronte si corrucciò. «Lui è appena stato promesso a te come tuo marito. Posso capire il tuo dolore, piccola. Nessuno vorrebbe un mostro del genere come compagno… anche se, a conti fatti, sarebbe senza dubbio migliore di un certo Lannister, non ti pare?».

Sansa ci pensò su. Ditocorto aveva ragione: il Mastino valeva mille volte Joffrey. Lui non era crudele come lui: l’aveva salvata tante volte, questo lo ricordava, e non le avrebbe mai fatto del male. E forse era proprio per questo che voleva impedire quell’unione: il Mastino non aveva mai amato nessuno in quel senso, e se lo avessero forzato ad amare uno stupido uccelletto dalle ali spezzate come lei  avrebbe certamente finito con l’odiarla, e lei questo non lo voleva.

«Lord Baelish, io...».

Petyr le prese le braccia fra le mani e le sorrise. «Chiamami Petyr, Sansa», disse. Sansa si sentì improvvisamente a disagio e desiderò trovarsi ovunque fuorché lì con lui. Si sentiva nuda sotto il suo sguardo, proprio come la prima volta in cui lo aveva incontrato. «Ascoltami: tua madre era per me come una sorella, e per l’affetto che provo per lei ti assicuro che ti porterò lontano da qui. Ora che non sei più la futura moglie di Joffrey non dovrebbe essere un problema, ma devi essere pronta a seguirmi in ogni momento. Non vuoi sposare Sandor Clegane, non è così?».

Al pensiero di poter finalmente tornare a casa, il cuore di Sansa ebbe un fremito e rispose d’istinto, senza pensare. «No. Non voglio essere data in sposa a nessuno, nemmeno al Mastino!».

Sul viso di Petyr Baelish si designò uno sguardo pieno di soddisfazione e i suoi occhi si puntarono verso qualcosa dietro di lei. Sansa si voltò e si trovò improvvisamente davanti a Sandor Clegane, alto e possente come una roccia. Ebbe l’impulso di correre da lui, di dirgli che avrebbe fatto di tutto pur di non costringerlo ad un’unione che sicuramente non desiderava, ma poi notò l’espressione del suo volto e le parve di ricevere una stilettata al centro del cuore.

Il Mastino non disse una parola, ma non ve ne fu bisogno. I suoi occhi parlavano. Con orrore, Sansa capì che aveva sentito tutto.
 
 
 
 - Note delle Autrici. 


1) Ho scelto come titolo "Persefone" perché, come il mito racconta, ella è stata obbligata a sposarsi contro la sua volontà. 

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Salve! :)
Scusateci per l’immenso ritardo, ma alla fine ce l’abbiamo fatta ad aggiornare! Yeeeee! 
Finalmente si entra nel “vivo” della storia... e naturalmente Sansa ne ha già comminate una delle sue. =_=’’ Speriamo che il capitolo possa esservi piaciuto, vi ringraziamo davvero di cuore per il seguito che state dando alla storia, per ogni dolcissima recensione che avete lasciato e per l'entusiasmo che dimostrate. Grazie, grazie e grazie mille ancora!.
Se vi va, passate anche dalle nostre altre ff sempre su Sansa e Sandor. :)

Harmony394: Safe&Sound - http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2914068&i=1


Phoenix: Untouchable -  http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2738361&i=1

Grazie mille ancora. Al prossimo capitolo! ^^

 

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