You're never gonna be alone

di Kagedumb
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dimenticanze e ritardi ***
Capitolo 2: *** Solitudine in due ***
Capitolo 3: *** Finte verità ***
Capitolo 4: *** Dove sei nascosto? ***
Capitolo 5: *** Nuovamente amici ***
Capitolo 6: *** Dov'è il gatto? ***
Capitolo 7: *** Cambio di programma ***



Capitolo 1
*** Dimenticanze e ritardi ***


Il quartiere dove trascorsi la mia infanzia era sicuramente uno dei quartieri più vecchi di Burbank. Le stradine asfaltate erano molto strette, tracciate rimpiazziando i vecchi sentieri di campagna. Le case, tutte disposte caoticamente ai lati, davano l'idea di un vecchio paesino dove la civilizzazione era stata dimenticata in un altro angolo del mondo. Nello spazio rimanente, dietro le casicciole, sorgevano grandi boschi che spesso venivano dimezzati per la costruzione di nuove strade o di nuovi edifici. Per quanto Burbank fosse grande, a quei tempi non si pensava che un giorno sarebbe stata in grado di ospitare una popolazione numerosa.
Dei negozi non ricordo quasi nulla, se non qualche piccola bottega con gestione familiare che distava un po' dalla scuola. Era lì che da bambini andavamo sempre a comprare i dolci, spesso nel pomeriggio, quando mia madre tornava a casa da lavoro e mi lasciava due dollari sul tavolo in legno che aveva comprato qualche anno prima con tanti sacrifici. Ricordo che mentre preparava la cena aspettava sempre che io sgattaiolassi in cucina silenziosamente per prendere i due dollari e poi uscire di corsa, ma nonostante fosse sempre indaffarata ai fornelli e mi rivologesse ogni volta le spalle, mia madre aveva un udito così fine che riusciva a beccarmi sempre proprio un secondo prima che facessi scivolare dal tavolo le banconote. - Ad, tesoro, mi raccomando di non fare tardi per la cena! -, mi raccomandava. Rammento chiaramente il sorriso che mi si dipingeva sul volto e il bacio affettuoso che mi stampava su una guancia quando mi avvicinavo per salutarla. - Non preoccuparti mamma, tornerò presto! - E in effetti, non tardavo mai.


Una sera di settembre, più o meno nel periodo in cui tutti i bambini si preparavo per l'inizio del nuovo anno scolastico, me compreso, stavo tornando con in mano una busticciola di carta piena di caramelle. Ero stato fortunato, perchè la proprietaria della bottega qualche caramella in più aveva voluto offrirmela come un regalino. Mi trattava sempre bene, e diceva di me che fossi un cliente fidato, e che quindi potevo meritare qualche pensierino di tanto in tanto.
Ero così felice di trotterellare verso casa con tanto ben di Dio, che non mi accorsi che il sole stesse già tramontando. Avevo fatto un po' tardi, m'ero trattenuto a parlottare con l'anziana signora dietro al bancone, e dimenticato che fosse già arrivato settembre, che l'estate fosse terminata da un pezzo. Ingenuamente, iniziai a correre senza mai fermarmi.
La mamma, mi diceva sempre di non restare fuori quando scendeva la sera.
Tuttavia, la strada era lunga, e per la prima volta nella mia vita mi sembrò interminabile. Per quanto correvo, ansimando e col volto della disperazione, mi venne da pensare che ero solo uno sciocco fifone: quella strada la percorrevo tutti i giorni dopotutto, e non era mai successo niente di spiacevole. Perchè adesso volevo andare di fretta? Perchè avevo disobbedito alla mamma? -
Ad, tesoro, mi raccomando di non fare tardi per la cena! - Non preoccuparti mamma, tornerò presto!
La mia mente si perse nelle riflessioni ingenue di un bambino di sei anni qual ero. Ingenuo, curioso, alla scoperta del mondo... E per questo mi diedi dello sciocco quando mi sembrò di avere paura. Dopotutto, cosa sarebbe potuto succedere in una qualsiasi sera di settembre?
Rallentai il passo. Il viottolo era deserto e mi resi conto che Burbank, al calar della luce del sole, diventava una cittadina piuttosto sinistra. Le luci che la illuminavano di notte erano davvero poche, e così riuscivo a malapena a vedere dove stessi mettendo i piedi. Quando arrivai ad un incrocio, mi fermai un secondo per riflettere, iniziando a chiedermi che ore fossero. Mi resi conto che se avessi continuato dritto, ci avrei messo almeno un'altra buona mezz'ora per tornare a casa, perchè da quella parte la strada avrebbe attraversato tutto il paesino, ed io abitavo all'estremo sud di Burbank. Casa mia era piuttosto lontana, e ancora non intravedevo i tetti rossastri delle abitazioni. Feci un sospiro.- Mia madre si arrabbierà se tarderò ancora di mezz'ora, cavolo.

Non ci pensai due volte, e presi il sentiero di destra, quello che tagliava per il bosco più grande, abbandonando completamente quello straccio di civiltà che la cittadina di Burbank conosceva. - Arriverò in tempo, sicuro!
Solo dopo diciassette anni mi rendo conto che quella fu una scelta poco saggia.


Quando mi inoltrai nel bosco, non riuscivo più nemmeno a vedere il cielo per quanto erano alti gli alberi. La luna illuminava lievemente il mio cammino e la sua fu l'unica luce che mi permise di andare avanti per alcuni minuti.
Cercai di camminare nel buio seguendo una linea dritta, fiducioso che sarei uscito dall'altra parte del bosco, a pochi metri da casa mia. Tentavo di correggere sempre la direzione quando prendevo alcune piccole deviazioni, ma quando iniziai a sentirmi stanco e affamato capii che erano più di dieci minuti che vagavo nel bosco senza meta. Cercai di orientarmi, ma tra quegli arbusti non riconoscevo niente di familiare. Mi vienne da chiedere dove fossi finito e cosa stessi facendo lì, iniziando ad avere seriamente paura per la mia incolumità. I rumori e i suoni della notte erano sempre più sinistri, incutendomi terrore e sgomento. Resistetti alla tentazione di gridare aiuto, ricordandomi che nei boschi ci sarebbero potuti essere animali pericolosi. L'ultima cosa che avrei voluto sarebbe stata attirare l'attenzione su di me e ritrovarmi spacciato contro un cinghiale, o una belva più grossa e feroce.
Camminai, camminai fino a quando i piedi non iniziarono a farmi male. Ormai non facevo nemmeno più tanto caso a dove stessi andando, ma mi sembrava di girare intondo, e l'ansia crebbe bruscamente quando mi sembrò di sentire dei passi pesanti dietro di me. Un rumore di passi, che via via diventava più forte. Fu solo allora che non esitai di più, che abbandonando le mie caramelle a terra, vicino al tronco di un albero, iniziai a correre senza sosta, assalito dal panico. Corsi, evitando sul mio percorso rami spezzati e cespugli di spine, fino a quando, nella notte più buia, dove ormai la luna non riusciva più ad illuminare il sentiero, andai a sbattere contro qualcosa, o meglio, qualcuno.

Indietreggiando lievemente per l'urto, un suono che sembrò l'inizio di un pianto precedette le sillabe che avrei voluto pronunciare. In quel momento la luna tornò ad illuminare un terzo dell'enorme bosco, e solo allora realizzai: ero andato a sbattere contro un bambino.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 ANGOLO AUTORE!

Facciamo finta che non vi abbia avvisato e ripeto ancora una volta (XD) : la FF sarà un po' creepy per tutta la sua durata! Quindi sì ragazzi, tratterà tematiche delicate, ci sarà un briciolo di violenza, tanti misteri irrisolti e spero, davvero spero con tutto il mio cuore, molto coinvolgimento!
Per questo primo capitolo ho preferito introdurre solo il contesto in cui si troveranno i personaggi, e ovviamente il protagonista è..! *rullo di tamburi* ADAM! :D
Mi son divertito a scrivere questa FF, che voi ci crediate o no. E' venuta fuori dopo che ho passato la serata con storie dell'orrore e non saprei, credo sia la prima FF postata in questa sezione che tratti qualcosa del genere!

Se vi è piaciuta e specialmente se volete leggerne un seguito, per favore lasciate una recensione! Almeno soprattutto saprò cos'è che non va! ^w^
Grazie mille.

Lars ~

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Capitolo 2
*** Solitudine in due ***


Quando la luce della luna mi permise di distinguere i contorni della figura che avevo davanti, mi riempii di una disperazione che non avevo mai provato prima. Il bambino, più basso, forse con qualche anno in meno, aveva iniziato a piangere per la stessa paura che aveva fregato anche me.
Il piccolino aveva la chioma bionda, di un biondo chiaro e puro, e la sua pelle tanto bianca e delicata lo faceva assomigliare ad una bambola. Doveva essersi perso, perchè era da solo. In quel momento però, eravamo soli insieme, in un bosco lontano da casa, e ormai non ero più neanche tanto sicuro che quello in cui m'ero addentrato fosse il boschetto che dista pochi metri dai tetti di paese, quello dove tutti i bambini andavano sempre a giocare.

Gli posai una mano sulla testa strofinandone il palmo affettuosamente tra i capelli. - Ciao, come ti chiami?
La risposta che ricevetti fu tutt'altro che un nome sussurrato ingenuamente, perchè il piccoletto iniziò a piangere più spaventato di prima e si spostò velocemente da me quando si rese conto che ormai avevo una mano sulla sua testolina. Troppo tardi, urlava a sguarciagola e piangeva con i lacrimoni che gli venivano giù uno dopo l'altro da quelle guance pallide e morbide. Tentai di zittirlo pacificamente ma non ne volle sapere, e fui costretto a piombargli addosso e a tappargli la bocca bruscamente, lasciando che si dimenasse qualche secondo tra le mie braccia prima di perdere tutte le forze. Mi accasciai al suolo e tentai di tranquillizzarlo ancora una volta. - Io mi chiamo Adam, mi sono perso. -, dissi, cercando di risultare quanto più convincente possibile agli occhi di un cucciolo spaventato a morte. I suoi singhiozzi si bloccarono nel giro di pochi minuti ed io ebbi la forza di spostare la mano da quelle sue labbra rosee.
Non parlò, si mise in piedi davanti a me e mi osservò schivo e poco fiducioso. - Come faccio a sapere che posso fidarmi di te?!
Quella sua vocina arrabbiata e al contempo tenerissima mi fece scoppiare in una risata. Non mi erano mai piaciuti i bambini più piccoli di me a quell'età, ma quel biondino probabilmente fu l'eccezione di tutta una vita, perchè lo trovai buffo e dolce.


- Mi sono perso anch'io, sono solo e voglio uscire di qui. Non basta questo, per convincerti che non voglio farti del male?

Il bambino mi guardò titubante e nei suoi occhi riuscii a leggere chiaramente la sua confusione, mista allo stupore di aver incontrato qualcun'altro in quell'enorme bosco che appariva probabilmente infinito. - Vuoi dirmi come ti chiami? -, lo sollecitai. Ancora, non ottenni nessuna risposta, ma quelle sue iridi nocciola non trasmettevano altro che una profonda malinconia. Si rimpicciolì come un riccio, e da pochi tremori che iniziarono a scuoterlo, capii che aveva freddo. - Voglio tornare a casa... -, fu l'unica cosa che borbottò. Era notte fonda e non avevo ancora trovato l'uscita. Mi sfilai la giacca che portavo e la poggiai sulle sue spalle, avvolgendolo nel calore e nel mio profumo, che probabilmente in quel momento gli stava già invadendo le narici.

- Troveremo l'uscita, ok? Devi solo starmi vicino. Ti porto a casa. -, il mio tono rassicurante riuscì a farlo rimettere bene in piedi e a farmi un cenno con il capo. Lo presi per mano, e nonostante sentissi ancora dei passi dietro di me, evitai di correre ancora inutilmente. - Tanto, se proprio dovrà prenderci, ci prenderà lo stesso.
La sua manina gelida strinse la mia immediatamente, e per un solo secondo mi chiesi se quello scricciolo non fosse che un fantasma. Dopotutto era tanto pallido, freddo e spaventato che quella fu l'unica ipotesi riuscita a sbucare nella mia mente. Per quanto i fantasmi mi facessero paura quando ero un bambino, in un certo senso fui felice di pensare che lui fosse uno spiritello del bosco: mi rassicurò l'idea di non essere solo.


Mi feci coraggio, e chiesi a me stesso come avrei fatto ad uscire da lì. Adesso avevo sulle spalle la responsabilità di condurre fuori sano e salvo anche quello scricciolo oltre che me stesso, e per un secondo pensai che se fosse successo qualcosa me lo sarei portato a vita sulla coscienza.
Mentre camminavamo insieme, alzai gli occhi al cielo: la luna era alta ed eravamo fortunati che nel buio della notte, le nuvole non coprissero le stelle. A quel tempo poi, pensavo che la stella polare fosse la più luminosa, così la cercai con lo sguardo e la seguii, ricordandomi che dalla finestra della mia camera era l'unica stella che potevo vedere più da vicino. Quella, mi avrebbe condotto a casa.


- Io mi chiamo Thomas. - pronunciò il bambino nel più agghiacciante dei silenzi. - Ho quattro anni, e tu?

- Ah, ti chiami Thomas? Beh, io ne ho sei. Sono più grande di te! - un suo lieve sorriso mi rallegrò un po'. I piedi mi dolevano molto e avevo rallentato il passo sempre di più, ma quando mi resi conto che l'ambiente del bosco iniziava a farsi più familiare, capii che ero vicino casa e non persi le speranze. Quando vidi la corteccia di un albero rovinata, realizzai che eravamo vicini alla tana, un luogo dove io ed i miei amici andavano a giocare tutti i pomeriggi. Riconoscere un ambiente dove sono di casa fu la sensazione di più bella in assoluto dopo tanta paura e sofferenza.
Quando in lontananza avvistai la luce del paese e riconobbi il tetto della mia abitazione, non riuscii a trattenere un respiro di sollievo ed iniziai a correre. Volevo solo arrivare a casa, mettermi a letto o piangere per un po', ancora spaventato, tra le braccia di mia madre. - Eccoci Thomas, ci siamo quasi! Corri!

Nel momento che uscimmo dal bosco, sentii qualcosa muoversi nei cespugli alle nostre spalle, ma forse estremamente terrorizzato che fosse un cinghiale, non mi voltai a controllare cosa fosse e continuammo la nostra corsa sfrenata verso casa.


Non appena riuscimmo a distinguere le luci degli edifici completamente accese, mi presi un secondo per recuperare le forze. Ci fermammo, e mi resi conto che avevamo corso per più di quindici metri e che il piccoletto non ne poteva più, - Ehi Thomas, ma dov'è casa tua? - chiesi, con l'intenzione di riaccompagnarlo a casa prima di sparire nella mia. Il cucciolo, ansimando come non mai, sollevò gli occhi color nocciola alle mie gemme turchesi e mi indicò una casina che distava pochissimo dalla mia: fui felice di non dover camminare per molto.
Non mi lasciò la mano nemmeno per darsi una sistemata o per strofinarsi gli occhi, ormai stanco e distrutto. Quando arrivammo proprio fuori la porta di casa sua mi guardò attentamente e con un abbraccio amichevole mi ringraziò. - Sei un eroe! -, mi disse, con la felicità e l'euforia dipinte sul volto.  - Sei stato davvero fortissimo! Se non ti avessi incontrato sarei rimasto in quel brutto posto per sempre!

Gli sorrisi sinceramente, e carezzandogli la testa senza che indietreggiasse o si spostasse bruscamente, gli augurai la buona notte, rassicurandolo che l'indomani sarei tornato da lui a salutarlo e magari a raccontarci l'un l'altro come eravamo finiti in quel bosco.


Quando mi allontanai dalla sua casa sentii la porta aprirsi e la voce dei suoi genitori preoccupati che lo accolsero affettuosamente in un abbraccio caldo. Mi dimenticai persino di avergli lasciato la mia giacca, ma per qualche strano motivo che non riguardava il mio già irrimediabile ritardo, decisi di non tornare indietro per andare a riprenderla. Forse fu un regalo che decisi di fargli, chissà.

Mentre mi avviavo verso casa, avevo ancora addosso quella sensazione opprimente di qualcuno che mi osserva in silenzio e si nasconde alla luce affinchè nessuno riesca a vederlo. Nonostante avessi una paura fregata di tutto ciò che non riuscivo a spiegarmi, decisi di essere un leone e di non voltarmi a controllare, nè tantomeno di iniziare a correre via come una femminuccia. Mantenni i nervi saldi e feci un respiro profondo riprendendo a camminare lentamente, stanco e ancora più affamato. Un senso di malinconia aveva preso a divorarmi in quel preciso istante, inspiegabilmente, e ricordai all'improvviso che avevo addirittura lasciato le caramelle nel bosco e che stavo tornando a casa a mani vuote.  - Sei un genio, Ad.


Quando rientrai a casa, mia madre mi accolse tranquillamente come se non fosse successo niente, come se non fosse minimamente preoccupata per me. Aveva appena finito di preparare la cena e non riuscii a spiegarmi questa cosa insolita: dopotutto ero stato fuori per troppo tempo, ormai era notte fonda e la luna era alta in cielo già da un pezzo. Non capii, ma la abbracciai ugualmente e lasciai che lei consolasse quelle lacrime che apparirono ai suoi occhi come insensate e misteriose.

Andai a cambiarmi e a ripulirmi in una calda bacinella d'acqua lasciando a terra tutti i vestiti sporchi, affinchè mia madre l'indomani potesse andare a lavarli come ogni mattino le era d'abitudine.
Fui sorpreso nel rendermi conto che anche in casa, anche mentre cercavo di distrarmi, ormai ero arrivato a sentirmi osservato, e che quella spiacevole sensazione spariva solamente quando si spegnevano tutte le luci.

Finii il mio bagnetto serale molto presto e affamato com'ero, feci una corsa dal bagno alla cucina per prendere posto in tavola e gustarmi la cenetta calda che aveva preparato la mamma. Lei mi guardava amorevolmente mentre mi sistemavo con riguardo sulla sedia e mi preparavo a mangiare quel delizioso bacon accompagnato da pane e uova.

Preparando ad affondare la forchetta nel piatto, mi ricordai che con tutta quella confusione non avevo nemmeno guardato l'orologio per capire a che razza di improbabile orario fossi tornato a casa. Ancora, mi chiesi perchè mia madre non si fosse arrabbiata con me, perchè non mi avesse fatto delle domande, perchè non mi avesse tirato un orecchio urlandomi di essere stato un incosciente a fare tanto tardi quando ormai la notte era calata da un pezzo. Non capii, e passai alcuni istanti immerso nei miei pensieri e nelle mie domande.


Quando portai alla bocca il primo boccone, scoccò la lancetta delle sette. Il mio cuore affondò.
Fuori era ancora giorno.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 ANGOLO AUTORE!

RAGAZZI RAGAZZI RAGAZZI RAGAZZI! :D EEEEHI.
Il secondo capitolo c'è, e con estremissimo anticipo!! Dovrei iniziare a studiare, leggere i miei libri di italiano, fare inglese, studiare per l'esame di matematica (debiti FTW ç_ç).. e invece resto al pc fino alle 5 (grazie mia piccola amica insonnia <3) a scrivere per voi! Al primo capitolo non ho ancora ricevuto molte recensioni ma le visite hanno superato il 40, quindi magari riuscirò ad ottenere riscontri postivi.

Il finale è.. è strano. Lo so. Ma alla fine è proprio sulla base della stranezza che ho creato questa FF, no? (fatti inspiegabili INCOMING LOL). Spero di non aver traumatizzato nessuno, e tadaaaaaan TJ è solo nella foresta a 4 anni! Volete sapere come ci è finito? Beh, lo saprete probabilmente nei capitoli a seguire perchè per ora non posso accennarvi assolutamente niente!

Lasciate una recensione se vi va, vi adoro ragazzi!

Lars ~

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Capitolo 3
*** Finte verità ***


Le luci chiarissime dell'alba penetrarono dalla finestra della mia stanza illuminando tutto l'ambiente di un barlume roseo, appoggiandosi lentamente sulle mie coperte calde e svegliandomi improvvisamente da quello che sembrava il mio sonno più profondo.
Rammento che fu come se qualcuno mi stesse puntando in faccia una torcia elettrica dalla potenza infinita. Non riuscirò a dimenticarla quella mattina, perchè un'alba così non la vidi mai più.

Non ricordavo di essermi mai svegliato più riposato di così. Così come non ricordavo di aver lasciato la finestra aperta.
E così come non ricordavo di essermi messo a letto, la sera precedente.

Mi sembrò di aver cancellato i ricordi delle ultime dodici ore. Lo stupore nell'essermi risvegliato nel mio letto caldo mi fece strabuzzare le iridi azzurre un paio di volte, incredulo. Come era possibile? E perchè poi, la finestra era completamente spalancata? Di notte, mia madre non mi aveva mai permesso di tenerla aperta, nemmeno di pochi centimetri. Temeva da sempre che un ladro potesse infiltrarsi in casa nostra e portare via i pochi beni di famiglia che ci restavano.
Non avevamo mai discusso per questo,  avevo sempre capito i suoi buoni motivi, ma trovare improvvisamente spalancata una finestra che non ricordavo di aver lasciato aperta, mi fece restare perplesso. - L'avrà aperta la mamma -, rimuginai titubante.
Non che quella considerazione mi convincesse, ma io cosa ne potevo sapere dei veri pericoli, a sei anni? Non pensai che qualcuno fosse entrato in casa.

Perchè nessuno, infatti, ci era realmente entrato.

Un soffio di vento gelido mi accarezzò il viso e mi ricordò che non potevo restare a letto a indugiare; stiracchiandomi, scostai le coperte dal mio corpicino caldo e feci dondolare i miei piedi scalzi al lato del letto, pronto a farli incontrare col pavimento scricchiolante di casa. Quando riuscii a rialzarmi in piedi, sentii un rumore metallico alle mie spalle, proveniente dall'esterno della casa. Il suono mi fece credere che qualcosa avesse sfiorato il catenaccio che teneva ben chiusa l'entrata alla cantina, ma pensai ingenuamente che qualche scoiattolo dei pini ci si fosse avvicinato, magari saltellando buffamente con una noce tra le zampine, scuotendo il catenaccio involontariamente per poi fuggire spaventato a morte dallo stesso rumore assordante di ferri e legno marcio che si scontrano.
L'unico vero problema era che, questo scoiattolino, faceva lo stesso benedetto rumore anche in piena notte, tutti i giorni, spaventandomi più del dovuto ogni volta. Ogni sera, proprio mentre stavo per addormentarmi, avrei sentito quel suono metallico ripetersi diverse volte, riportandomi ad uno stato di coscienza, terrificato. Col tempo, avevo iniziato a credere che lo stesso scoiattolo saltasse sull'entrata della cantina con delle noci così tante volte solo per poter ridere di me, che mi paralizzavo atterritto sotto le mie caldissime coperte.

Solo crescendo, mi resi conto che la teoria era del tutto sbagliata, se non addirittura improponibile. Gli scoiattoli preferivano gli alberi, non le entrate alle cantine altrui, non il legno consumato di quelle porticine mai aperte.

Perchè infatti, da quando abitavamo in quella casa, mia madre non era scesa in cantina neppure una volta a controllare cosa i vecchi proprietari ci conservassero dentro davvero. Lei di solito ipotizzava ci fossero delle vecchie cianfrusaglie di poco valore, oppure della farina scaduta e del vino puzzolente di cui sicuramente non ci saremmo fatti un bel niente.
Il suo non chiedersi mai che altro potesse nascondersi lì sotto, in quello scantinato tanto grande e buio, era per me fonte di preoccupazioni. Perchè la mia immaginazione riempiva la mia mente di una paura fottuta che ci si nascondessero dei mostri spaventosi, o che quella porticina sul retro della casa conducesse in un mondo parallelo pieno di scenari e personaggi raccapriccianti.

Ci fu un periodo della mia infanzia che insistetti talmente tanto con la storia dei mostri, che ogni notte mia madre per farmi conciliare il sonno veniva a raccontarmi fiabe allegre e con dolci lieto fine che avrebbero dovuto rasserenarmi e tranquillizzarmi. Ricordo chiaramente i momenti in cui avvicinava la poltrona al mio letto e rispolverando un vecchio libraccio dalla carta ingiallita e consumata, iniziava a raccontarmi storie di folletti al lavoro o di fate alle prese con la magia.

Il peggio però, era sentire dei rumori inspiegabili dalla cantina e il solito catenaccio che si scuote, anche mentre lei spensieratamente mi raccontava le storie dal vecchio libro.

Ogni volta che le chiedevo se anche lei avesse sentito, scuoteva il capo e mi diceva che me l'ero sicuramente immaginato, perchè lei non aveva sentito niente. Ed io, cosa potevo risponderle? Era mia madre dopotutto, mi fidavo di lei. Le credevo ciecamente e non battevo ciglio, nemmeno quando i rumori si intensificavano e continuavano per interi minuti senza mai interrompersi un momento. Beh, dopotutto se lei diceva così un motivo ci sarà pure stato, no?
Mi convinsi che era la mia immaginazione.


Ma sicuramente, realizzai dopo tanti anni, che lei la verità sulla cantina l'aveva scoperta da tempo.


Mi avvicinai alla finestra finalmente per chiuderla, iniziavo a sentire freddo. Sul davanzale, abbassando lo sguardo, trovai un pezzetto di carta consumato: sembrava l'angolo strappato via da un'immagine più grande, forse una foto. Non riuscivo a distinguere i contorni per quanto fosse consumato, ma per un secondo mi sembrò di riconoscere l'angolino di camera mia, quello dove sistemavo la cesta dei giochi ogni volta che non avevo più voglia di giocare. - Camera mia?
Chiusi velocemente il pannello di vetro e mi voltai a controllare dove fosse la cesta dei giochi, perchè nel pezzetto di carta non c'era nessuna cesta, ma solo quello che mi sembrò il muro della stanza. E nemmeno quando mi voltai in quel momento la cesta era lì. Non era al suo posto.

La cesta era rovesciata ad un lato del letto, come se qualcuno distrattamente l'avesse fatta cadere, sfiorandola appena. Mi meravigliai di trovarla accanto al letto questa volta, perchè di solito quando succedeva la ritrovavo allo stipite della porta, proprio come se qualcuno avesse provato per un secondo a portarla via. Sbuffai stanco, ma fui veloce a rimettere tutto in ordine. - Quando scoprirò chi è che si diverte a rovesciare a terra la mia cesta dei giochi, io-..

Una voce familiare mi chiamò calorosamente dall'altra stanza. - Adam, tesoro? Sei già sveglio?
Dalla cucina, un profumo di latte e miele si espandeva in tutta la casa. Mamma iniziava a preparare la colazione già di prima mattina, sin dall'alba. Mi sentivo molto fortunato per questo, dal momento che alcuni dei miei compagni di scuola non avevano mai provato la sensazione di svegliarsi e trovare in cucina un bel bicchierone di latte fresco sul tavolo e qualche buona brioche al miele o alla marmellata. Molti di loro, infatti, non potevano permetterselo. Oppure, forse nei più probabile dei casi, tante volte i genitori uscivano entrambi presto per lavoro e non avevano mai del tempo per cucinare qualcosa di squisito ai loro bambini.

- Buongiorno mamma! -, scattai velocemente in cucina, felice. Quando arrivai, lei era ai fornelli come al solito già indaffarata, ma correndo ad abbracciarla lasciò qualsiasi cosa stesse facendo per scoccarmi un bacio affettuoso sulla guancia e abbraccio. - Buongiorno tesoro. Hai dormito bene? -, mi fece segno di accomodarmi, perchè probabilmente la colazione era già quasi pronta. Sorrisi contento e andai a prendere posto.

- Beh, sì, ho dormito come sempre. Ho trovato di nuovo la cesta dei giochi rovesciata e... - non mi fece terminare la frase che, porgendomi il piatto con le brioche calde, mi incitò a mangiare. - Tesoro, non devi preoccuparti. Probabilmente la sera prima di addormentarti torni a giocare e poi dimentichi di averla lasciata in disordine. - sospirai. Mamma non capiva mai che io non ero mai stato l'artefice di tutte le cose strane che succedevano in quella casa. - Mamma, il fatto è che... - mi interruppe di nuovo, questa volta per rispondere al telefono, che già squillava. - Aspetta un attimo, Adam.


Sollevò la cornetta del telefono e iniziò a parlare con una sua collega di lavoro, probabilmente per organizzare la giornata in ufficio e le cose da fare. La sentii blaterare un paio di volte di una cucciolata di gatti, mentre poi scivolava velocemente da un argomento all'altro. Intanto avevo già quasi finito di mangiare.
Quando lei riagganciò la telefonata, mi guardò sorridente e mi chiese - Allora, com'era questa colazione?

- Buonissima come sempre, mamma! Sei bravissima. - fu felice di sentire dei complimenti, allora mi permise di continuare quello che stavo dicendo prima, perchè un secondo dopo mi guardò interrogativamente e mi domandò - Cosa mi dicevi, prima? C'è qualcosa che non va?
Feci un sospiro profondo, preparandomi al fatto che anche questa volta avrebbe potuto non prendermi sul serio; un po' come per la storia dei mostri, lo scoiattolo e la cantina, mi sarei sentito dapprima giudicato per avere paura, e poi ignorato. Pensai quanto fosse doloroso ignorare le paure più grandi.
Quello fu il periodo della mia vita che imparai che ogni timore va affrontato e sconfitto, sempre, perchè abbiamo bisogno di risposte e non di continui punti interrogativi. Abbiamo bisogno di constatare coi nostri occhi che i mostri non esistono, né in cantina né sotto al nostro letto.


- Mamma, quando mi sono svegliato c'era la finestra spalancata in camera mia. - Notai bene e ricordai il cambio della sua espressione, per anni. Se prima era felice, spensierata, contenta di quel nuovo giorno insieme, improvvisamente il suo viso sbiancò. Le sue pupille si dilatarono e capii che la sua mente incontrò la paura e il panico. - Ma posso giurare che io non l'ho aperta, mamma. Davvero, lo giuro.
Il suo sguardo incontrò il mio, ormai mortificato. Ero un cucciolo che pareva prendersi colpe che non aveva. Lei mi si avvicinò velocemente e mi abbracciò, forse per rassicurarmi. - Adam, non preoccuparti tesoro. Non è niente. - per un secondo mi sembrò di sentirla singhiozzare sulla mia testa, ma forse mi sbagliai. - L'ho aperta io, tesoro, mentre questa mattina ancora dormivi. Volevo che la stanza cambiasse aria. Non è successo niente, va bene? La mamma ti crede.


Fu quel La mamma ti crede, che dopo tanti anni, mi fece dubitare della veridicità dei fatti.
Mia mamma, quella finestra, non l'aveva mai aperta quel giorno.

Nella tasca del pigiama avevo ancora il pezzetto strappato della foto, ma decisi di non farle vedere ancora niente. Non c'è n'era motivo, ed io non mi sentivo spaventato o minacciato da una foto. Pensai che fosse il minore dei problemi, quello.
Quando ci staccammo da quell'abbraccio le sorrisi tentando di tranquillizzarla come lei aveva fatto con me. - Va bene mamma! - ero più tranquillo anche io. Facendole un cenno col capo scappai nella mia stanza a vestirmi, perchè quella mattina avrei dovuto sbrigare delle commissioni per lei.
Quando infilai la mia salopette e sistemai le bretelle, non dimenticai di infilare in un taschino il pezzo della foto che avevo trovato. - Lo conserverò -, mormorai parlando con me stesso. - Dopotutto se era capitato proprio sul davanzale di camera mia, aspettava me, no? Qualcuno voleva che io lo tenessi. Forse questo pezzettino cercava proprio me! - non ne fui turbato, quindi quando ormai ero pronto per uscire tornai in cucina da mia madre, Leila.

- Mamma? Posso chiederti un'ultima cosa?

Si voltò falsificando un sorriso. Non capii perchè, ma il suo sorriso era falso. Che fosse ancora scossa per prima? - Dimmi, tesoro.

- Ieri sera a che ora sono tornato, di preciso?

Fu stranita da quella domanda perchè non se l'aspettava. Sembrò sobbalzare un secondo, mentre un brivido mi percorreva la schiena. Perchè aveva reagito così? Avevo detto qualcosa di sbagliato? Che stava succedendo?

- ...Tornato? Tesoro, ieri pomeriggio non sei mai uscito! Te ne sei forse dimenticato? Il tempo era così brutto che sei rimasto a casa e abbiamo persino saltato la cena. Sei andato a letto molto presto, eri davvero stanco.

Non capii. Mi balenò in mente che forse non avessi sentito bene. - E' stato meglio così, Adam. C'è stato un temporale terribile, sarebbe stato pericoloso. Sai bene che Burbank diventa una città di fango e stradine che cedono, quando piove molto forte... - Si era già persa in altre faccende con la sua agenda ed io continuai ad essere confuso e in un certo senso, addirittura deluso. Come sarebbe a dire "Non sei mai uscito"? Io ieri ero andato a comprare le caramelle, mi ero perso nel bosco e avevo incontrato Thomas e-... - Thomas -, mormorai. Mia madre nemmeno mi sentì.
Tornai in camera per cercare la giacca, ma non la trovai da nessuna parte. - L'avevo data a Thomas, è vero! - esclamai. Dovevo andare a riprendermela, dovevo tentare di capire cosa stesse succedendo. Stavo forse diventando matto?

No. Impossibile. La mia giacca non c'era ed io ricordavo perfettamente di averla lasciata a quel bambino, così come ricordavo di averlo riportato a casa e di averlo abbracciato per salutarlo. Dovevo uscire subito e trovare delle rispsote che valessero qualcosa, e soprattutto che risolvessero tutta la mia eterna confusione.


Tornai nella stanza accanto per avvisare mia madre che sarei uscito per un po' prima di aiutarla a fare la spesa, e lei acconsentì, a patto che giurassi di tornare precisamente tra un'ora, senza ritardi, senza scuse. - Un'ora, perfetto.
Mi fece le sue solite raccomandazioni, poi si tolse lo scialle di lana che portava sulle spalle e lo avvolse alle mie. - Stamattina fa molto freddo, Adam. Non dovresti uscire senza coprirti, ti prenderai un raffreddore! - mi disse, mentre con un debole sorriso mi accompagnava alla porta. - Fai attenzione, non tardare e non fare pasticci. Voglio vederti di ritorno esattamente tra un'ora, va bene?
Le risposi con i soliti Sì mamma, d'accordo, non preoccuparti, sarò puntuale e mi dileguai per le strade di Burbank.


Di questi tempi mi chiederei chi permetterebbe al proprio bambino di uscire da solo di casa a soli sei anni, ma il fatto è che a Burbank tirava un'altra aria, le cose funzionavano diversamente e non era un problema lasciare andare i bambini a giocare da soli in paese.
Oh, ma questo era quello che pensavano tutti i cittadini solo perchè mai nessuno aveva assistito a cose strane, in quegli anni. Se adesso sapessero... Beh, sarebbe troppo tardi, già, ma troverebbero le loro risposte.


La prima cosa a cui pensai fu dirigermi dove, la sera precedente, ricordavo di aver accompagnato Thomas. Sperai tanto di trovarlo e chiedergli tutto ciò che non riuscivo a capire di quello che era successo nel bosco, perchè mi sembrava che alcuni tasselli dei miei ricordi fossero spariti improvvisamente, sbiaditi come un colore cancellato dalla forza tempo.
Seguii la stradicciola che ricordavo meglio e arrivai velocemente lì dove c'era la casina del bambino biondo e pallido che ricordavo, ma con mio grande stupore, le cose non erano proprio come le ricordavo dalla sera precedente.

L'edificio era disabitato e instabile.  Cadeva a pezzi.
Tutto ciò non era possibile. Non doveva essere possibile. Pensai di star sognando. Provai a colpirmi il viso con la mano un paio di volte, a stuzzicarmi il braccio stringendolo forte fino a sentirlo dolorante... Ma presto realizzai di non star sognando. Quella era la realtà.

La casa era disabitata probabilmente da anni, o perlomeno fu quello che mi sembrò quando provai ad avvicinarmici di più. Dalle mura vecchie e corrose proveniva una puzza di muffa e morte che mi fece rabbrividire e indietreggiare velocemente. - Impossibile, impossibile! - esclamai. Al che, un'anziana signora mi si avvicinò e con immensa curiosità mi chiese - Cosa succede, ragazzo?
Avrei voluto urlare al mondo intero che mi sentivo preso in giro, che i fatti inspiegabili erano troppi e che iniziavo ad essere stanco di assistere a certe stranezze... Ma non fu certo quello che le risposi. Tentai di nascondere la frustrazione e guardai negl'occhi la vecchietta, umettandomi appena le labbra. - Oh, signora... Io pensavo che qui ci abitasse una famiglia con un bambino. Non mi aspettavo di trovare questo - indicai l'abitazione malconcia, riferendomi a come era ormai ridotta.
La signora mi passò una mano tra i capelli, all'epoca ancora rossicci, e mi sorrise amorevolmente. - Piccolino, questa casa è in queste condizioni da almeno dieci anni. Chi ti ha riferito che ci abitasse qualcuno? - quel sorriso mi fece sentire un po' meno triste, un po' meno solo, un po' meno confuso.

- I-io non-...- non continuai la frase, perchè il vecchio campanile annunciò che era già trascorsa un'ora. Erano quasi le otto. Avrei fatto tardi se non fossi tornato a casa immediatamente, e mia madre si sarebbe arrabbiata come non mai. Ci teneva molto alla puntualità, e lo sapevo bene. - Devo andare, è tardi. Grazie per l'informazione signora, grazie mille.


Iniziai a correre verso casa, ringraziando il cielo che il sentiero fosse in discesa riuscissi a gestire la mia velocità perfettamente. Il vento mi sfiorava il viso e il capelli con un soffio sempre più gelido, e per qualche secondo riuscii a sentire molto freddo. Mamma aveva ragione, faceva molto freddo. Pensai che forse finalmente stesse arrivando l'inverno, e in un certo senso ne fui felice.


Quando tornai a casa, avevo dipinto sul volto un'espressione di assoluta delusione e di tristezza. Mi ricordai che per mia madre non ero mai uscito il pomeriggio precedente, che non avevamo neppure cenato, e che m'ero messo direttamente a letto a dormire perchè fuori faceva brutto tempo e non avrei potuto mettere un solo piede fuori di casa. Quella era una realtà che io non ricordavo per niente.
Ripensai a quando in mattinata mi ero ritrovato a letto nonostante non ricordassi di essermici infilato, ripensai alla finestra aperta, al pezzetto della foto che era ancora nel taschino della mia salopette, alla cesta dei giochi trovata rovesciata per l'ennesima volta... E sospirai. - Devo essermi sognato tutto. L'avventura nel bosco, le caramelle lasciate a terra, i passi, l'incontro con Thomas, la giacca che gli ho lasciato... Sì, tutto questo lo avrò sognato stanotte. E' per forza così. Non ci sono altre spiegazioni.

Entrando in camera mia come mi era solito fare ogni volta che rientravo a casa, trovai per l'ennesima volta la cesta dei giochi rovesciata sul pavimento.
Mi arrabbiai.

I miei passi risuonarono per tutta la casa come un terremoto. Il vecchio pavimento scricchiolante tremò un paio di volte. Ero una furia.
Mi avvicinai per rimettere i giocattoli a posto come sempre, mentre me la prendevo con me stesso per non riuscire a scovare mai il colpevole, pensando di arrivare sempre troppo tardi per coglierlo con le mani nel sacco... Ma poi ancora, ancora sentii il rumore del catenaccio e qualche tonfo secco provenire dall'esterno della casa.
La mia finestra era nuovamente aperta.
Superai la cesta, arrivai al davanzale e mi accorsi che c'era nuovamente qualcosa ad aspettarmi.

La mia giacca.
Era lì.

La cosa che mi turbò di più, non fu trovare la giacca sul davanzale come se ce l'avesse lasciata qualcuno proprio per me.
La cosa che mi turbò, in realtà, fu che io la finestra l'avevo lasciata chiusa.

 
 
 
 
 
 
 
 
 ANGOLO AUTORE!

Bene, aggiornare con un nuovo capitolo dopo soli due giorni non è MAI stato da me, che io ricordi ahahahhah. Beh che dire, il capitolo c'è ed è ETERNO! Oltre che ad essere pieno di colpi di scena.. Spero di non avervi annoiato nemmeno una volta, di aver narrato bene i fatti, di non aver creato nessuna confusione particolare nelle vostri giovani menti.. E spero di non avervi deluso in alcun modo con questi finali creepy che io in realtà adoro alla follia! XD Scusatemi tanto ma non potevo trattenermi, sto iniziando ad apprezzare moltissimo l'idea di scrivere delle storie horror e questa FF per me è in assoluto l'esperimento più bello ed importante che io abbia mai fatto!

E TADAAAAAN! :D
Vi piace l'idea di un Thomas che.. esiste, ma non esiste? Cioè, vi viene da chiedervi che fine abbia fatto, no? Lo scoprirete solo nei prossimi capitoli, MWAHAHAHAH ~
(come convincere le persone a continuare a leggere/recensire, guida veloce by Lars)

Se la storia vi sta piacendo lasciate una recensione, ne sarei felice.
Lars ~

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Capitolo 4
*** Dove sei nascosto? ***


I giorni seguenti trascorsero abbastanza velocemente. La scuola sarebbe iniziata tra meno di venti giorni ed io ero fin troppo impegnato nello studio per continuare a pensare a tutti gli accaduti più sinistri che erano successi negli ultimi periodi.
Mia madre, inoltre, continuava a non voler spiegarmi  come stessero realmente le cose, quindi fui costretto ad abbandonarmi ai miei dubbi e alle mie paure. Ogni volta che provavo a capire quanto ne sapesse lei, tentava di sviare il discorso come meglio poteva, oppure scompariva infaccendata, dicendomi "Ne riparleremo". Il fatto è che non ne abbiamo mai riparlato.

Quando mi resi conto di non poter più tenere dentro quello che avevo visto nel sogno, quando mi trovavo nel bosco la sera che mi persi, lasciai perdere la fiducia che avevo riposto in lei. Le raccontai delle sensazioni opprimenti prima dell'incontro con Thomas, e di quanto tutto mi sembrasse estremamente realistico, ma mia madre non mi credette. Mi giustificò dicendomi che erano mie fantasie, che dopotutto era solo un sogno, e che quella casa ammuffita in fondo alla stradicciola di Burbank era stata da sempre disabitata... Ed io mi sentii mortificato, umiliato, incompreso. Avevo fiducia in una sola persona, avevo una sola persona con me e questi non mi credeva. Inutile dire che iniziò il mio periodo di solitudine assoluta. Non avevo più certezze e imparai a non dare fiducia neppure a Leila, la mia giovane madre.

Non avevo capito che stava solo cercando di proteggermi.


Persi la voglia di andare a giocare con gli altri bambini e di fare amicizia. Preferivo la solitudine, e in quell'inizio di settembre imparai ad arrampicarmi sugli alberi che c'erano sul retro di casa mia, vicino all'entrata della cantina. Mi sentivo forte e coraggioso, perchè probabilmente ero l'unico dei miei amici a voler imparare ad inerpicarsi sui rami dei pini.
C'era un pino più piccolo che per me sembrava perfetto, perchè era quello più facile da scalare. Aveva i rami molto bassi, ed io mi aggrappavo senza troppi sforzi fino ad arrivare su, ad un metro e mezzo o forse più, da terra. A quel punto mi sedevo sul ramo più robusto ed osservavo le stradicciole vicine, per quello che un metro e mezzo d'altezza mi consentiva di vedere.
Il fatto più inquietante non era che a sei anni mi piacesse arrampicarmi sui pini ad osservare gli ambienti circostanti.
Il fatto più inquietante era che non mi sentivo osservatore,
ma osservato.

Ero quasi sicuro che qualcosa, da laggiù, studiasse i miei movimenti e tutte le cose che facevo. Avevo sempre la sensazione di essere spiato, ma pur guardandomi attorno non avevo mai notato nessuno. Che fosse suggestione?


Solo più tardi, da un giorno all'altro, mia madre iniziò ad osservarmi dalla finestra della cucina. Dal momento che lei era sempre indaffarata a lavare piatti, pulire i fornelli oppure a cucinare, quando era a casa trascorreva molto del suo tempo lì. Questo le permetteva di tenermi d'occhio quando uscivo fuori a giocare da solo. Io mi davo la spinta per salire su un ramo più in alto, e lei dalla casa mi urlava - Tesoro, attento! I rami potrebbero spezzarsi!
Ovviamente, non le davo mai ascolto. - So cavarmela da solo, mamma!
Era più o meno quando notò che non le davo più ascolto, che iniziò a domandarsi se avessi perso la fiducia in lei e nelle sue parole. Infatti, molti di quei pomeriggi vuoti, quando il sole iniziava a calare presto, la cena la portava in un sacchetto di stoffa sotto al pino, poi mi raggiungeva con un vassoio contenente una brocca d'acqua e delle fette di pane. Alzava gl'occhi al cielo e cercandomi con lo sguardo tra le fronde, mi chiamava impensierita per avvisarmi che finalmente la cena era pronta.

Una di quelle sere, le chiesi come mai avevamo smesso di mangiare in casa. Eravamo sull'erba umidiccia, proprio sotto al mio pino e avevamo addentato dei grissini preparati al grano e cereali. Lei mi sorrise amorevolmente e mi rispose - Beh, ho notato che ti piace stare qui, ormai ci passi tanto tempo; in più l'estate è quasi finita, forse dovremmo goderci dei momenti all'aria aperta prima di rinchiuderci in casa per il freddo dell'inverno, non trovi?


Mi aveva chiesto spesso, in quelle sere, come mai non raggiungessi mai i miei amici in paese, ma non le avevo mai dato una risposta effettiva. Perciò, credo avesse iniziato a pensare che avessi bisogno di spezzare la routine, di rintanarmi un po' in me stesso e soprattutto imparare qualcosa di nuovo.

Mia madre fu molto orgogliosa di vedermi scalare i pini con facilità, quando una volta, al tramonto, le mostrai quanto fossi diventato bravo.
Le mie abilità erano cresciute in davvero poco tempo, circa qualche settimana. Gli alberi poi, parevano infinitamente alti, e i rami s'assottigliavano man mano che li scalavo, diventando sempre meno rigidi e adatti a sopportare il mio peso. Ma non mi importava. Ero entusiasta.
Erano quelli, i giorni, in cui tentavo di arrampicarmi battendo il record di velocità, mentre mia madre, Leila, dal prato contava a gran voce tutti i secondi che ci mettevo a issarmi sul ramo più alto. In quei momenti, non conoscevo limiti.

Diciotto, diciannove, venti, ventuno... Una sera, caddi al ventunesimo secondo.
Precipitai di cinque metri e mi ruppi un braccio. Ero scivolato sul ramo sbagliato e non ero riuscito ad aggrapparmi al successivo. Mia madre sentì solo il tonfo sordo del mio corpo che si schiantava sull'erba, poi i miei lamenti e le mie urla. Ricordo con chiarezza il braccio fuori asse che mi doleva da morire, poi nient'altro.

O forse sì, qualcosa la ricordavo.
Un rumore metallico tra le frasche alle nostre spalle, poi dei passi.
Passi, dannati passi.
Sembravano quelli che sentivo in cantina ogni notte.




***

All'inizio delle elementari, portavo il gesso al braccio sinistro. Scoprii solo il primo giorno di scuola che i miei amici avevano scelto una scuola esterna a Burbank, e che quindi mi sarei ritrovato da solo, in una nuova classe, con bambini che non conoscevo nemmeno di vista. Mia madre mi diceva che i miei vecchi compagni della materna fossero in una scuola privata, parecchio costosa. Noi non potevamo permettercela, e in più distava troppo da casa, quindi ero stato iscritto alla scuola vicino il centro del paesino.


Al mio primo giorno, mia madre mi teneva per mano mentre mi sistemava lo zainetto sulle spalle. Mi aveva raccomandato di comportarmi bene e aveva tentato di incoraggiarmi a fare amicizia con altri bambini, ma dopo il mio periodo di solitudine, quello che ora chiamerei summertime sadness, mi sentivo ben poco motivato a conoscere nuove persone. Non avrei stretto amicizia con nessuno.
E infatti, mi ritrovai presto senza amici.

Sei anni e senza amici, credo fosse una delle situazioni più frustranti della mia vita. Voglio dire, un bambino ha bisogno di avere degli amici, ha bisogno di scoprire come ci si relaziona, come ci si comporta in gruppo, ha bisogno di rintagliarsi i suoi momenti e di organizzarsi gli impegni coi compagni... Io invece ero con la testa in un universo parallelo, da solo. Come se non bastasse, le stranezze nella mia casina continuavano, e avere un braccio ingessato non mi facilitava le cose. Fu in assoluto uno dei periodi più stressanti, sia per me che per mia madre.
Al ritorno da scuola, nei pomeriggi, lei mi trovava sempre a colorare in camera mia, sdraiato prono sul pavimento, con lo sguardo spento di chi non ha più voglia di vivere la vita. Iniziava a preoccuparsi davvero.

Un giorno mi trovò ad armeggiare con dei vecchi pennarelli indelebili, tutti molto colorati, e notò che mi stavo imbrattando il gesso bianco di disegni e colori. Che non bastassero più i fogli di quaderno? Beh, no, non era quello il problema. Semplicemente volevo abbellire qualcosa che ormai mi apparteneva da dieci giorni, o poco più.
Quando mi si avvicinò tentai di nascondere il misfatto, credendo di aver combinato un pasticcio, perchè magari non ero autorizzato a sporcare così il gesso medico... Ma lei mi sorrise, e con un dolce abbraccio materno afferrò uno dei pennarelli e scrisse sul gesso il mio nome, senza dire niente. La sua espressione contenta mi risollevò il morale, e per quanto mi sentissi solo e perso, quell'attenzione mi fece sentire felice.

- Così è più bello, no?

Non seppi cosa dire, mi mancò il fiato per qualche istante. Più bello? Pensai a quanto potesse essere effettivamente bello riempire quello spazio bianco, vuoto, di tanti infiniti schizzi di colore, come un vero artista. Scoppiai in una risata fragorosa. - Bellissimo, mamma!
Continuammo a disegnare sul mio gesso tutta la sera, tra sorrisi e contentezza. Mia madre tentò di capire cosa non andasse in me in quei periodi, e forse finalmente iniziò a capirmi come meritavo. Mi sembrò un sogno.

- Adam, posso chiederti come mai ultimamente sei così triste, tesoro? - la sua serietà arrestò i miei sorrisi per alcuni istanti. Non era arrabbiata, solamente preoccupata. Per quanto lei non volesse incollerirsi con me, per quanto le sue parole furono dolci e gentili, mi sentii ugualmente in colpa per come mi ero comportato fino ad allora.

- Mamma, io... - mi accarezzò la testa. - Avrei voluto continuare ad arrampicarmi sugli alberi, e rivedere i miei amici a scuola, e... - non sembrava per niente confusa o sorpresa. Sembrò quasi che sapesse già tutto. - E la cantina, mamma... Di notte sento ancora... - non mi lasciò continuare. Mi scoccò un bacio sulla guancia mentre si rialzava dal vecchio pavimento scricchiolante.

- E se domani ti presentassi qualcuno? - mi domandò all'improvviso. Qualcuno? La mia espressione incerta la diceva lunga. Che cosa voleva dire? Pensai ai nostri vicini, i quali erano dei vecchi anziani e non avevano mai avuto bambini. Loro li conoscevo bene, e di certo non avevano nessun interesse nel fare amicizia con me.
A quei tempi, vista l'assenza di bambini nel vicinato, ero impossibilitato dal condividere le mie giornate con un coetaneo con cui avessi potuto stringere amicizia vicino casa, come invece in passato facevano molti dei miei amici dell'asilo. Non capii affatto cosa volesse dirmi mia madre, ma feci un cenno col capo ed ebbi fiducia di lei, per la prima volta dopo molto tempo. Accettai che mi presentasse quel qualcuno, senza fare storie.



L'indomani, all'ora di pranzo, mia madre tornò da lavoro e si presentò a casa con un gattino. Pensai fosse diventata pazza, dal momento che non aveva mai accettato di tenere un cucciolo, ma quella volta fu lei stessa a propormi di allevare una bestiola tanto carina quanto un gatto.
Ricordo che aveva il piccolo tra le braccia avvolto in una vecchia coperta che lo tenesse al caldo, e che questi doveva avere almeno un paio di mesi. Era già svezzato e abbastanza grande, quindi mi venne in mente della telefonata che ascoltai circa un mese prima. Leila aveva parlato di una cucciolata di gatti con una sua collega di lavoro, ma non avrei mai immaginato che l'idea di avere un gattino le avesse sfiorato l'anticamera del cervello. Fui piacevolmente sorpreso però, perchè quello era davvero un bel gatto, e capii che sarebbe stato il mio unico vero amico non appena mia madre si chinò a terra e lo lasciò andare nella cucina.

Aveva il pelo grigio, con una coda lunghissima e due occhioni grandi di colore azzurro. Assomigliavano ai miei, mi disse lei.

Quando abbandonò la coperta si venne a strusciare tra le mie gambe facendo subito le fusa. Mi meravigliai di quanto fosse affettuoso, non avevo mai avuto un gatto e pensavo che certi comportamenti fossero destinati solo ai cani, gli animali di casa per eccellenza, i migliori amici dell'uomo... Beh, fu evidente che mi ero sbagliato.
Chinandomi ad accarezzarlo sulla testolina morbida, per ricambiare quell'attenzione, il gatto incrociò il mio sguardo e mi fece una smorfia divertente, forse apprezzando la carezza. Ricordo che mi aveva mostrato i denti, miagolando, e per un secondo aveva scodinzolato come un cagnolino. Quel musino contornato dai baffi mi faceva davvero ridere, era bellissimo, ed i suoi miagolii assomigliavano moltissimo a dei guaiti di un cucciolo di lupo, più che a quelli di un gattino.
Fu per questo che decisi di chiamarlo Lupo.


Lupo non era un gatto di casa, e per questo prese subito il cattivo vizio di consumare gli artigli sulla tappezzeria della mamma, la quale non fu per niente felice degli accaduti. Quel piccolino era una testa calda, testardo, pieno di energie, e non ascoltava mai nessuno. In effetti, ripenso solo ora quanto mi assomigliasse sotto certi aspetti... Forse era per questo che andavamo tanto d'accordo e che le marachelle le facevamo sempre assieme.

Qualche mese dopo, decidemmo di tagliargli la parte più affilata degli artigli, così che smettesse di consumarli sulle tende o sui mobili. Inutile dire che finalmente riuscì ad andare d'accordo con Leila, diventando un bravissimo e affettuosissimo piccolino di casa, pronto alle coccole e alle carezze di tutti.
Per esempio, scoprii presto che Lupo adorava mordicchiare le mani e le dita mentre riceveva i grattini sul ventre. Lo adoravo, era molto dolce con me. Per quei comportamenti tanto espansivi, avevo quasi dei dubbi sul fatto che fosse davvero un gatto. Voglio dire, i gatti non dovrebbero dormire tutti i giorni?
Capii che Lupo era diverso, e fu l'amico più leale e grazioso che io potessi mai desiderare.

Dopo poco tempo riuscì ad ambientarsi perfettamente e capimmo che si era legato alla casa, così gli permettemmo di uscire fuori molto spesso a giocare sotto ai pini, o ad inseguire le lucertole in cortile. Avevamo la fortuna che fosse un gatto molto rumoroso e quindi riuscivamo sempre a localizzarlo. Inoltre, avendo preso confidenza col posto e con la casa, eravamo fiduciosi che non si sarebbe mai allontanato volontariamente. Quella era casa sua, e non sarebbe mai scappato.


***


 
Un pomeriggio, quando tornai a casa dopo una dura giornata di scuola, Lupo era scomparso. Mia madre aveva provato a cercarlo tutta la mattina urlando il suo nome a gran voce, ma senza mai vederlo trotterellare per tornare in casa. Non avevamo idea di dove si fosse cacciato.

- Lupo, dannazione! - sbottai in cortile, cercandolo in ogni angolo in cui pensavo avesse potuto nascondersi. Iniziai a credere che si fosse addormentato da qualche parte e che ci fosse rimasto tutto il giorno. Non avevo nemmeno idea di cosa gli avrei fatto quando lo avremmo ritrovato. Odiavo quando andava a nascondersi e non si faceva trovare, anche se al contempo era uno dei giochi che adoravo di più in assoluto. Lupo era bravissimo a nascondersi, e sapeva aspettare per ore che io lo trovassi, senza mai muoversi dal nascondiglio che aveva scelto. Era davvero intelligente.


Attesi per ore in cortile, non trovandolo da nessuna parte. Mi stavo preoccupando, specie perchè era l'ora della cena e Lupo non aveva mai osato tardare. Aveva imparato gli orari in cui gli mettevamo il tonno nella ciotola, d'abitudine, e avrebbe fiutato l'odore delle sue scatolette preferite anche per chilometri e chilometri di distanza.

Infilai una mano nella tasca dei pantaloni per provare a richiamarlo con un sonaglino, sperando che finalmente si facesse vivo. Era uno di quei giochini che hanno dentro un campanellino, ed ogni volta che vengono agitati emettono quel dlin dlin grazioso che piace tanto ai gatti.
Mentre tentavo di scuoterlo un po', mi cadde dalle mani e rotolò in un angolo del cortile che non avrei mai usato perlustrare... Vicino l'entrata alla cantina. Deglutii e respirai profondamente. Avrei dovuto davvero avvicinarmi? Lì? All'entrata del luogo che per anni aveva reso le mie notti insonni? Mi sentivo uno sciocco, mi rendevo conto di essere fin troppo pauroso. Dopotutto la cantina era sempre chiusa con quel gran catenaccio, quindi tentai di rassicurarmi che mai niente di spaventoso sarebbe potuto venire fuori da lì.

Feci un passo, poi un altro.
Poi un altro ancora.
Ero sempre più vicino. Tremavo di paura.


Mi chinai a raccogliere il gingillo di Lupo e notai che sui mattoni della casa, proprio a mezzo metro dall'entrata della cantina, c'era un pannello di vetro che toccava terra, come l'accesso di un tunnel sotterraneo. Non capii. Che diamine era? E mi toccava scoprirlo proprio adesso?
Non l'avrei mai aperto.
Mai.
...Se solo non fosse stato che dall'altro lato del pannello di vetro, arrivò una zampata. Poi un'altra. E ancora, ancora.

Era Lupo. Era chiuso dietro il pannello.

- LUPO! - urlai. Tentai di spostare il vetro dall'entrata del tunnel e dopo alcuni sforzi riuscii a liberarla. Lupo, col pelo arruffato e la coda arcuta, uscì di corsa da lì dentro e iniziò a soffiare come un dannato. Ma non soffiava verso di me, non era con me che ce l'aveva. Era con l'entrata del tunnel, che era arrabbiato e probabilmente spaventato a morte. Lo presi immediatamente in braccio e lo strinsi forte a me, chiedendomi per quanto tempo fosse rimasto chiuso là sotto, e sopratutto come ci fosse finito. Non avrebbe mai potuto spostare da solo quel pannello.
Lo misi immediatamente a terra mentre lui miagolava tentando di tranquillizzarsi, distendendosi sull'erba. - Povero Lupo... -, mormorai, richiudendo il tunnel. Ipotizzai che magari lo avesse spinto troppo forte con le zampe, magari per inseguire un topo o un insetto, e che poi ci fosse rimasto chiuso dentro perchè impossibilitato dal riaprirlo. Sì, quel tunnel doveva sicuramente essere la tana di molte bestiacce non proprio gradite.
Accarezzai il gatto sulla testa e sollevandolo da terra per l'ennesima volta, lo riportai in casa.


Mia madre si ritrovò stupita e confusa almeno quanto me, ma sembrò supportare la mia teoria del pannello spostato da Lupo stesso, da bambino ingenuo e piccolo che ero. Non mi disse nient'altro, se non un - Avrà voluto giocare tesoro, stai tranquillo. Non è niente. Vedrai che la prossima volta farà più attenzione e sarà più furbo.

Fatto sta, che al mattino dopo, mi svegliai a causa di alcuni rumori all'esterno della casa, come se qualcuno stesse martellando dei chiodi sulla parete esterna. Provai a chiamare mia madre, ma non mi rispose. Balzai giù dal letto svegliando il gatto, che mi seguì tempestivamente solo fino alla porta d'entrata, senza varcare la soglia per uscire. Non badai a quel comportamento, e andai a controllare cosa stesse succedendo, senza Lupo.

Mia madre stava murando il pannello con delle assi di legno.
Non capii. Non feci domande.

Lupo non volle uscire mai più di casa.

 
 
 
 
 
 
 
 ANGOLO AUTORE!

Sto aggiornando ogni capitolo abbastanza in fretta e cavolo, non pensavo di poter essere così veloce owo.. Bene ragazzi, questa è la mia seconda long e devo dire che mi sta prendendo parecchio! XD La mia prima, No I ain't giving up on us era la prima schifezzuola che mi son permesso di scrivere e purtroppo è un fallimento (infatti penso che a breve la cancellerò perchè oltre alla perdita di ispirazione, non mi dice più niente neanche a livello di trama). Un tempo era una storiella originale, ma adesso.. =__= mi rendo conto di quanto sia ridicola e inutile.
MA PASSIAMO A QUESTO CAPITOLO E LASCIAMO STARE LE ALTRE COSUCCE ~
Beh, che dire xD l'evento di Lupo rinchiuso nel tunnel è molto sinistro, almeno quanto la madre che poi va lì e mura tutto.. Vorrei tanto sapere a cosa vi fa pensare questa cosa, perchè sono molto curioso. Ovviamente come al solito, più la storia andrà avanti e più avrete dei chiarimenti a proposito! Non vi preoccupate! Non lascerò niente in sospeso e tutti i vostri dubbi saranno chiariti a poco a poco! ^^

Ah, se vi va lasciate una recensione, ne sarei molto felice x)

Lars ~

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Capitolo 5
*** Nuovamente amici ***


Furono tanti i momenti in cui mi chiesi come mai mia madre avesse deciso di rendere inaccessibile quel tunnel sotto la casa, da un momento all'altro. Ogni volta che le chiedevo perchè l'avesse murato, all'alba di quella fresca giornata di settembre, tutto ciò che ricevevo in risposta era - Volevo solo evitare che Lupo andasse di nuovo a nascondersi lì. A quanto pare non è molto abile a spostare il pannello dall'interno, non voglio che gli succeda qualcosa.

Per quanto il gatto non uscisse più di casa ormai, mi ritrovai d'accordo con lei.
Ovviamente, non dubitavo della veridicità della faccenda.
E sbagliavo, perchè mia madre, di quel tunnel, sapeva qualcosa.

Per fortuna, la faccenda non mi interessò molto e non mi causò altre notti insonni. Per quello, d'altronde, c'era già la cantina coi suoi rumori sinistri e soprattutto inspiegabili. Non avevo bisogno di ulteriori pensieri, o di ulteriori cose di cui avere paura.


A volte, quando Lupo in piena notte mi trovava sveglio nel mio letto, balzava sul materasso e si infilava sotto alle mie coperte. Aveva preso quest'abitudine perchè, per quanto Leila non volesse, mi sentivo più tranquillo a dormire in compagnia del mio gattone. Quando fissavo la finestra terrorizzato, in piena notte, o iniziavo a sentirmi a disagio, sussurravo il suo nome e lo richiamavo a me battendo una mano sulle lenzuola. In pochi secondi ascoltavo uno zampettare nel corridoio e osservavo i suoi occhi luminosi sbucare nel buio della mia stanza.

Quel suono simpatico del suo trotterellare verso il mio letto, mi rassicurava ogni volta.

Ringrazio Lupo ancora oggi, perchè il suo accorrere e vegliare su di me in ogni momento della giornata, mi faceva sentire al sicuro. Di notte, poi... Quando iniziavo a sentire i passi era un inferno. Col passare del tempo erano diventati sempre più assillanti, potevo sentirli in qualsiasi circostanza, qualsiasi cosa facessi. Mi spaventavo a morte, ma sapevo bene che riuscisse a sentirli anche il mio Lupo. Mi sentii compreso, perchè finalmente sapevo di non immaginarmeli. Avevo la certezza che non fossero frutto della mia immaginazione e che tutto fosse realtà. Il mio amico gatto, infatti, non dormiva mai. I felini poi, con quell'udito così fine che si ritrovano... Posso solo immaginare quanto quel fracasso gli martellasse il cervello, a tutte le ore del giorno.

A volte, proprio in piena notte, venivamo entrambi svegliati da questo continuo via vai giù in cantina, era terribile. Quando succedeva, Lupo mi fissava malissimo, come per dirmi - Ehi amico, vuoi farli smettere? -, poi infilava la testolina sotto le coperte per coprirsi le orecchie e tentava di tornare a dormire. Che capisse che non ci potevo fare niente? Che si rassegnasse? Mi chiedevo tante volte cosa pensasse di me e della mia impotenza. Ero arrivato a sperare che in una di quelle notti, Lupo iniziasse magicamente a parlare e mi confessasse cosa aveva visto in quel tunnel maledetto, sotto la casa. Beh, ovviamente oltre alle confessioni me ne avrebbe dette quattro per tutte le volte che involontariamente lo spingevo giù dal letto e lo facevo rotolare come una palla (di pelo) sul pavimento scricchiolante... Ma ne sarebbe valsa la pena.


 
***

In poco tempo ero finito per abituarmi perfettamente a condividere tutto il tempo in casa con Lupo, e lui s'era legato tantissimo a me. Invitandolo tutte le notti a dormire nel mio letto, avevamo creato quella sorta di legame indissolubile che avrebbero due fratelli gemelli. Eravamo Pappa & Ciccia, sempre insieme.
Dal momento che gli avevamo tagliato la parte frontale degli artigli ed era impossibilitato dal saltare e sfrecciare sulla mobilia di casa, aveva imparato ad arrampicarsi sui miei vestiti fino ad arrivare sulla mia spalla destra. Siccome era ancora abbastanza piccolo, ci stava perfettamente e ci si appollaiava come un uccellino che cova le sue uova. Sembrava divertirsi, anche perchè sui miei vestiti trovava sempre degli appigli. Così, a volte mentre aiutavo mamma in casa, sentivo qualcosa inerpicarsi sulle mie gambe, poi sulla schiena, e su, fino alla spalla.

Questa situazione divenne molto più utile in seguito, poichè Lupo non mi lasciava solo nemmeno un momento. Per questo, evitavamo sempre di doverlo riacciuffare quando era l'ora della nanna e lui non voleva più smetterla di giocare e zampettare ovunque. Infatti, se lui era a terra a rosicchiare un giocattolino o ad elemosinare qualche pezzetto della nostra cena, non appena osavo allontanarmi prendeva a miagolare, frustrato, e risaliva sulla mia spalla.


A volte lo lasciavo a casa di malavoglia, quando per esempio dovevo andare a scuola. I suoi occhietti azzurri, tanto tristi, mi guardavano dalla soglia della porta imploranti di tornare indietro e restare con lui, ma ovviamente non potevo.
Dal momento che era il mio unico vero amico, in certi momenti tramavo di infilarlo nello zaino e portarlo a scuola con me, per sentirmi meno solo. Ovviamente erano piani che non attuavo mai, perchè ero letteralmente terrorizzato dal pensiero che qualche bulletto potesse fargli del male o che addirittura potesse rubarlo, portarlo via da me.

Perchè come se le sventure non bastassero mai, alle elementari ero preso di mira dai bambini più grandi, più carini e più espansivi di me. Venivo deriso per i capelli rossi, per le lentiggini, e dal momento che m'ero presentato col gesso al braccio sin dal primo giorno, anche per quello. - Oh oh che femminuccia, s'è spezzato il braccino! -, - Guardatelo ragazzi, oggi i suoi capelli assomigliano alle carote! 

Ricordo ancora i loro sorrisi felici mentre si prendevano gioco di me.


Persi l'abitudine di chiamare amici i miei compagni di classe. Loro non erano miei amici, Lupo lo era.
Solo Lupo.

 
***

Un giorno arrivai tardi a lezione. Quella mattina avevo dormito più del dovuto e mia madre s'era completamente dimenticata che fosse un venerdì. Sono sicuro che fosse convinta fosse già arrivato il sabato.
Quando arrivai in classe, col viso stanco e i capelli arruffati, tutti i bambini avevano iniziato le attività creative che quel giorno avevano illustrato le insegnanti. Sembrava divertente, perchè tutti stavano disegnando insieme, divisi in piccoli gruppetti ognuno composto da cinque, o sei persone. C'era coinvolgimento, e nonostante non ci sperassi più da un pezzo, per qualche istante pregai il cielo che qualcuno mi dicesse - Adam, vieni a disegnare con noi!

Ovviamente non successe. Sarebbe stato troppo facile.


Mi isolai per l'ennesima volta in un angolino dell'aula, iniziando a disegnare un enorme sole giallo, che coi suoi raggi illuminava un prato verde pieno di fiori. Per un secondo guardai il mio gesso, tutto colorato: pensai che mi sarebbe piaciuto riempire tutti gli spazi ancora incolore per renderlo speciale come un vero dipinto di arte contemporanea. Afferrai un pennarello a caso, e colorai anche quelli.
Stavo incosciamente coprendo anche altri colori col pennarello arancione che mi era capitato, quando d'un tratto un bambino sconosciuto si sedette accanto a me. Non ci badai neppure, fino a quando non disse qualcosa.

- Bello il gesso. Che ti sei fatto?

- Sono caduto da un albero e... - Staccai gli occhi dal gioco di colori e incrociai lo sguardo dell'interlocutore. Mi mancò il respiro.
Quei capelli biondi, quegli occhi nocciola, con quella pelle chiarissima... Era Thomas! Lo stesso Thomas che avevo sognato!
Il mio viso, che in quel momento ritraeva un'espressione sbalordita, lo confuse immediatamente. Sembrava infinitamente più grande di quando qualche settimana prima lo avevo sognato nel bosco. Era invecchiato di almeno due anni. Che diamine era successo? Ma soprattutto... Thomas non doveva essere solo frutto della mia immaginazione?
Mi ci vollero alcuni istanti prima che realizzassi di non star sognando. - Ma tu... Tu sei... - provai a mormorare qualcosa di comprensibile, ma forse non mi capì.

- Anche io una volta ho portato il gesso. Stavo giocando e mi sono fratturato il polso. E' stato terribile, faceva malissimo! L'ho odiato infinitamente, desideravo non essere mai uscito a giocare! - provò a sorridermi, interrompendo ciò che probabilmente avrebbe voluto continuare a raccontarmi. - Come ti chiami?

Mi venne in mente che nel sogno, quando eravamo nel bosco, ero io a chiedergli per primo come si chiamasse. Mi mancavano le parole, non riuscii a rispondere. Si portò una mano tra i capelli e fece una smorfia. - Hai vergogna?
Tentai di scuotere il capo e mi feci coraggio, ritornando alla realtà. - N-no, io... Io sono Adam.

Il nuovo sorriso che mi rivolse mi scaldò il cuore. Era una sensazione nuova, e mi afferrò in pieno trascinandomi in un misto di felicità e tranquillità. Sembrava simpatico, avevo già conosciuto quel bambino, anche se in una realtà diversa, immaginaria, ma qualcosa mi diceva che potevo fidarmi. Ero sicuro che non si sarebbe preso gioco di me.

- Thomas Joseph! Ma per gli amici sono Tommy Joe - mi allungò una mano aspettando che gliela stringessi, come per un patto eterno. Mi chiesi cosa significasse. Amici? Conoscenti? Compagni di disegno? Oppure semplicemente estranei?

Gli allungai la mia mano destra e il contrasto che si creò tra la sua pelle pallida e la mia olivastra mi fece sorridere. Improvvisamente non mi sentivo più a disagio, non mi sentivo più solo. Fu la prima volta in assoluto che trovavo conforto nel rapportarmi con qualcuno che non fossero Lupo e la mamma.
Afferrai un pennarello dal mio banco e glielo porsi.

- Vuoi firmare il mio gesso? Hai detto che è bello, no? Potrebbe essere ancora più bello se ci scrivi qualcosa!

Mi fece un cenno col capo e lo osservai impegnato a incidere qualcosa sul mio braccio ingessato. Sembrava concentratissimo, col nasino arricciato all'insù, ed era una visione molto buffa. Mi venne da ridere, e risi, senza più vergogna, o paura di cosa potesse pensare di me.
Quando ebbe finito e guardai cosa avesse scritto, mi riempii di felicità. "Sei forte - da TJ". Io? Forte? Assolutamente no, ma non capii in che modo lo intendesse. Forse perchè ero caduto da un albero e m'ero rotto solo il braccio sinistro? La teoria era sbagliata, ma lo realizzai solo qualche anno più tardi.


Con Tommy, successivamente conobbi anche altri bambini, suoi amici, ma noi tra tutti eravamo i migliori. Cosa intendo, i più bravi? No. Eravamo migliori amici, la coppia più affiatata, quelli più in simbiosi. Penso che sapessi sin da quel venerdì di settembre che lui sarebbe diventato il mio unico vero amico, per tutta la vita.


Ci divertimmo talmente tanto, che quello stesso giorno gli chiesi se avesse voluto venire a casa mia. Gli raccontai che avevo un gatto, che vivevo da solo con mia madre, che avevo tanti giocattoli e che potevamo uscire fuori a giocare in cortile. Rimase così tanto meravigliato da tutto quello che gli dissi, che riuscii a convincerlo in fretta. Tommy Joe abitava dall'altra parte di Burbank e per questo non ci eravamo mai incontrati prima. Non sapevo quando ci sarebbe capitata di nuovo l'occasione di restare assieme un intero pomeriggio, quindi colsi l'occasione per proporgli di venire da me.

Quando Leila venne a prendermi all'uscita da scuola, corsi immediatamente a presentarle TJ.  Le piacque subito perchè aveva l'aria gentile e mite di un bambino dall'animo speciale e garbato. Accettò di portarlo a casa con noi per un pomeriggio e andò a conoscere i suoi genitori, per avvisarli e spiegare con precisione dove si trovasse la nostra casina. Inutile dire che da allora, anche i nostri vecchi strinsero una grande amicizia. Ricordo ancora l'euforia con il quale ci scambiammo i numeri di telefono, e il modo in cui trotterellamo nel sentiero verso casa mia mentre Leila invitava i suoi genitori a prendere un caffè in sua compagnia. Fu l'inizio di una relazione interminabile e mi sentii molto fortunato.


Ai tempi era difficile riuscire a tenere salde le amicizie anche fuori dal contesto scolastico, perchè abitavamo tutti molto distanti l'uno dall'altro. Tommy per esempio, abitava all'estremo nord di Burbank, quindi le nostri case erano ai due poli opposti del paesino.
Ma nonostante questo, sapevamo entrambi che i nostri caratteri e la nostra personalità si amalgamavano perfettamente. Sapevamo che saremmo rimasti amici, insieme, nonostante tutto. Nonostante la distanza.
Ci piacevamo le stesse cose, senza farlo apposta. La sua estroversione e la sua simpatia erano in contrasto con la mia timidezza, eppure ci completavamo, eravamo unici. Fisicamente eravamo bianco e nero, opposti e troppo differenti. Ecco, insomma... Io rossiccio e lui biondo platino, io con gl'occhi di cristallo e lui due nocciole grandissime. Però suvvia, eravamo come due fratelli.

 
***

Quando quel giorno arrivò la sera e lo accompagnai sulla soglia della porta per salutarlo assieme ai suoi genitori, sentii una tristezza immensa assalirmi e depositarsi sul petto, proprio dove si trovava il cuore. Mi sembrò di stargli dicendo addio per sempre, e invece probabilmente il giorno seguente ci saremmo rivisti a scuola e avremmo parlato di quanto c'eravamo divertiti quel pomeriggio, a casa mia.

Inoltre, ricordo che gli piacque Lupo immediatamente, non appena poche ore prima arrivammo a casa e lo vide ad accogliermi alla porta d'ingresso. Si fiondò ad accarezzarlo e a sbaciucchiarselo come se fosse un peluche, e chiunque avesse Lupo in simpatia, guadagnava la mia completa fiducia in un istante. In più, Lupo sembrava apprezzare e in un momento imparò che poteva andare da Tommy a chiedere tutte le coccole del mondo. Ero felicissimo che il mio gattone avesse subito legato con quello che presto sarebbe diventato il mio migliore amico.


 
***

Rimanemmo vicini tanti anni, e con grande sorpresa, completammo gli anni delle elementari insieme.
Crescevamo forti, curiosi, impavidi e con le stesse passioni. I videogiochi, l'esplorazione, l'horror, i bagni al lago oltre il bosco... E mia madre iniziava a lavorare di meno e a frequentare di più i genitori di Tommy, con cui si trovava molto bene. Erano persone dalla mentalità estremamente aperta e avevano miliardi di conoscenze e compagnie. Per questo, riuscirono ad introdurre mia madre in altri ambienti, presentandole amici che non sarebbero stati solo colleghi di lavoro, ma veri e propri punti di riferimento per un'anima solitaria come quella di Leila.


Quando compiemmo dodici anni, con pochi mesi di differenza, Tommy iniziò a venire a dormire da me tutti i weekend. Mia madre era riuscita a comprare e mettere un secondo letto nella mia stanza, e aveva piacere di tenerci entrambi a casa, perchè così potevamo darle una mano a sbrigare delle piccole faccende domestiche, e riuscivamo a dare colore alle sue giornate.
Tommy, probabilmente, era quel secondo figlio che lei non era mai riuscita ad avere ma che desiderava da sempre, e lo trattava come tale. Ne ero felice, perchè in questo modo lui assomigliava sempre di più ad un fratello di sangue.


Ogni volta che dovevamo metterci a letto quei weekend, ci raccontavamo leggende e miti che alla fine ci rendevano difficile il sonno. Eravamo così tanto sciocchi da spaventarci delle solite tre o quattro favolette dell'orrore, che poi non riuscivamo mai a dormire tranquilli. A volte restavamo a parlare fino a tardi di cose senza senso pur di sdramatizzare e riuscire a chiudere occhio, e la cosa sembrava divertente, perchè per quanto parlavamo e ridacchiavamo, Lupo aveva perso l'abitudine di venire a dormire in camera mia. Per il baccano che facevamo, lo sentivamo sempre zampettare in cucina che ancora giocava nel buio, impossibilitato dal trovare la quiete.

Io e Tommy parlottavamo sempre accompagnati dalla luce flebile di una candela appoggiata sul comodino che c'era tra i due letti. Oltre alla candela, sul comodino ci appoggiavamo i romanzi da leggere assieme e... un coltellino. Apparteneva a TJ ed era un ricordo prezioso per lui, lasciatogli dal nonno prima che morisse. Lo portava sempre con sé e non se ne separava mai.
Se ci ripenso adesso, lucidamente, dormire con chi accanto costudisce un coltello è abbastanza inquietante.
Ma allora non lo era.
Perchè mi fidavo di Tommy. Quel coltello, per lui, era solo un oggettino da conservare gelosamente.


Un sabato sera di quei week, eravamo riusciti a metterci a letto un po' prima del solito. Avevamo preferito leggere un romanzo di fantascienza anzichè un horror, e questo non ci aveva reso difficile chiudere gli occhi senza timore. Fu Tommy a proporre di addormentarci. Spense la candela con un soffio e ci infilammo sotto alle coperte. Era un febbraio gelido e in mattinata eravamo riusciti a scorgere un po' di neve che fioccava giù dal cielo. Forse fu l'inverno più freddo di tutta la mia vita.

- Buona notte, Ad. - mi disse in un sorriso, prima che il buio mi rendesse impossibile scorgerlo in viso. - Notte, Tommy.


Cinque minuti di silenzio, che diventarono dieci, poi quindici. Venti, venticinque. Trenta.

Trenta minuti.
Fu la prima volta che dopo tante notti, sentimmo i passi. Tommy Joe aveva avuto la fortuna di non sentirli mai, nonostante venisse a stare da me già da qualche tempo. Non gli avevo mai svelato delle stranezze che in passato erano successe in casa mia, per tanti anni, quindi lui era all'oscuro di tutto. Non aveva idea di cosa fosse quel rumore incessante di qualcuno che fa casino camminando su e giù.

- Ad? -, sussurrò. Lo sentii appena. - Mh?

- Li senti anche tu?

Feci un sospiro, prima di rispondergli. Dovevo mentirgli? Ricordai quando mia madre mentiva a me, da piccino, quando per rassicurarmi mi diceva che non sentiva alcun rumore e che era tutto frutto della mia immaginazione. No, non dovevo mentirgli. Non potevo prendere in giro Tommy, era il mio tutto. Non doveva vivere nelle stesse menzogne a cui per tanti anni avevo creduto io.

- Sì, li sento.

- Ad... E' Lupo che fa casino, vero? - immaginai si stesse pietrificando sotto alle coperte. Ci azzeccai.

- Tommy... - mormorai. Non dovevo mentirgli. Non mentirgli Adam, non mentirgli, mi suggeriva la coscienza. Feci un altro sospiro, tentai di non rabbrividire ma rabbrividii ugualmente. - No Tommy. Lupo è qui, è sul mio letto.


Sentii la sua mano che scivolava dal letto e sfiorava la superficie piana del comodino in legno. Afferrò il coltellino da tasca pieghevole e fece scattare la lama. A quel rumore del ferro arrugginito che raschiava nel rigirarsi, Lupo sobbalzò e si svegliò.
Non dimenticherò mai la determinazione che, in qualche modo, percepivo in quei movimenti. Avevamo solo dodici anni, ma cazzo, Tommy era... Era forte. Più forte di me. Più forte di quando, da bambini, sul mio gesso ci scrisse Sei forte. Tommy aveva coraggio da vendere, lo ammiravo.
Si rigirò a pancia in su sul materasso, probabilmente pronto a reagire qualsiasi cosa fosse successa. Sapevo che adesso impugnava il suo coltellino tra le mani.

Lupo intanto, si spostò da me. Istintivamente balzò sul materasso di Tommy Joe e gli finì addosso. Gli fece prendere un colpo, perchè TJ non sapeva che il gattone si fosse svegliato. Prontamente si tirò su col busto. Sentii il suono dei suoi muscoli fare quello scatto repentino. Trattenni il fiato. Nel buio non vide Lupo.

Affondò la lama verso quella cosa che gli era finita addosso.
Chissà cosa pensò.

Un lamento straziante si liberò nella stanza.
Fu un urlo di dolore.
In quel momento i passi diventarono più veloci, come quelli di qualcuno che è intento a correre via.

Accesi un fiammifero per fare luce.

Il coltello di Tommy era affondato di netto nella testa di Lupo.
Le lacrime iniziarono a sgorgare dal mio viso come una fontana.

 
 
 
 
 
 
 
 
 ANGOLO AUTORE!

Capitolo strappalacrime, un finale tremendo, Lupo che insomma.. Ragazzi mi dispiace tanto ma è per il bene dello svolgimento della storia. D: non frustratemi.
SCUSATE SE IL CAPITOLO E' ETERNO MA SE LO AVESSI DIVISO IN 2 CAPITOLI NON AVREBBE PIU' AVUTO SENSO, LO GIURO ;;
Perdonatemi ragazzi, magari i prossimi tenterò di farli più brevi. Possiamo dire addio ad un grande amico.. O forse due, chi lo sa. Scusate se ho urtato la vostra sensibilità con questo finale terribile ma.. çç bisognava. Davvero davvero davvero, scusatemi. Anche io volevo tanto bene a Lupo çWç ..

Lars ~

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Capitolo 6
*** Dov'è il gatto? ***


Fui costretto a tapparmi la bocca con le mani per non urlare. Soffocai un unico lamento sofferente mentre tiravo su col naso. Tommy era scioccato, incapace di darsi una mossa, con gli occhi sgranati sull'amico che aveva appena ucciso.
Sperai solamente che Lupo non avesse sofferto mentre la lama gli trapassava il cervello.
Mi alzai dal letto tentando di ingoiare le lacrime. Tremavo tutto e mi mancavano le parole. 



 
How could you be so Dr. Evil?
You're bringin' out a side of me that I don't know
I decided we wasn't going speak so,
how could you be so heartless?
How cold you be so heartless?
 

Tentai di avvicinarmi, perchè lui era rimasto lì immobile, con Lupo ormai sdraiato sulle sue gambe, senza vita.
Ricordo ancora lo sguardo spaventato e mortificato che mi rivolse, e il modo in cui si coprì il viso con le braccia. Sapeva bene di aver fatto una cosa terribile. Riuscivo ad immaginare quanto si sentisse dannatamente in colpa. - A-Adam... Adam, io... - iniziò a piangere. Se un attimo prima credevo che Thomas fosse una persona davvero forte, coraggiosa, sicura di sé...  Beh, in quel momento dovetti ricredermi. Deglutendo, gli passai la scatola di fiammiferi. - Mia madre non deve saperlo. - fu l'unica cosa che riuscii a dire. Afferrò la scatolina e accese uno zolfino per fare altra luce. I suoi occhi nocciola, in quel momento lucidi come due gemme preziose, sembrarono affogare nei miei per qualche istante. Non disse nient'altro, mentre col fiammifero riaccendeva la candela sul comodino.

Con molta cura, spostò da sè quella creatura ormai esanime. Ebbi il piacere di vedere nei suoi gesti il rispetto e l'attenzione che ebbe nel fare con gentilezza quelle movenze, come se il gattone fosse fragile e prezioso come la porcellana. Strinsi i denti per trattenere l'ennesimo pianto che sarebbe scoppiato da lì a poco. Sii forte Adam, sii fortissimo. Ce la puoi fare. Non riuscii a trattenermi e altre lacrime vennero giù, senza che io potessi fermarle.

Tommy fece per rimuovere il coltello dalla testa dell'animale, ma lo trattenni bloccandolo per il polso. - No. Sgorgherebbe sangue a fiotti.
Sollevai Lupo tra le mie braccia mentre facevo segno a Tommy di aprire la finestra. Sarei uscito da lì e avrei portato il mio amico al sicuro, lontano da tutto quello che era appena successo.


Quando ci calammo nel cortile, i rumori sinistri si erano interrotti di nuovo. I passi non erano più udibili, e non c'era un anima. Era notte fonda e il freddo di febbraio penetrò fin dentro le nostre ossa, ma non mi importò troppo. Uscimmo in pigiama. - Dobbiamo fare in modo che mia madre non lo scopra mai. - spiegai a Thomas, mentre avanzavo verso l'uscita del cortile. Ci saremmo diretti al boschetto vicino casa, lì dove c'era il pino che da bambino avevo tanto adorato scalare.

- Cosa vuoi fare, Adam? - sembrava confuso. I suoi occhioni ancora rossi per il pianto mi perforarono l'anima. Sentii il buio divorarmi la mente e il cuore. Il dolore era immenso, e iniziai a chiedermi quando e se avessi potuto superare un lutto così grande. Lo guardai per un istante prima di procedere tra le frasche. - Seppellirlo. Lupo non merita di venire dimenticato così.
Il cenno che mi fece mi diede la forza necessaria per procedere. Sentirmi capito mi incoraggiò e non mi fermai.


Trovammo un posticino adatto tra gli alberi, dove in passato andavo sempre a giocare. Lì vicino c'era il lago e di notte era tutto estremamente inquietante e spaventoso, ma di prestarmi alla paura e ai mostri del buio in quel momento non mi importava. L'atmosfera cupa e i versi degli animali notturni rendevano quel bosco più terrificante di quanto già non fosse, ma nessuno di noi due parlò. Tommy non spiccicò parola.
Scegliemmo un albero maestoso dalle radici estremamente grandi dove appoggiare Lupo per il suo sonno eterno. Il magone che avevo in gola non riusciva a scendere giù. Gli stavo dicendo addio, per sempre.

Nel poggiarlo sull'erba umidiccia, dei tremori mi scossero completamente. L'ennesima lacrima che scivolò dalle mie guance, gli bagnò il pelo grigio, lucente e soffice, mentre con una mano gli chiudevo le palpebre e poi tiravo fuori dal suo cranio la lama. Fu un movimento veloce, come se temessi che rigirarlo lentamente nella carne potesse provocargli altro dolore, nonostante fosse già morto.
Il sangue schizzò dalla ferita e iniziò a sgorgare come mai avevo visto, neppure nei film d'azione.

Non ce la feci. Non fui forte abbastanza.
Iniziai a piangere più forte, accarezzando il mio piccolo Lupo.


 

This day's ending is the proof of time killing all the faith I know,
knowing that faith is all I hold.


Thomas si inginocchiò accanto a me, prima prendendo il suo coltellino, e poi  toccandomi la spalla per confortarmi. Sapevo che stesse piangendo anche lui, potevo sentire l'irregolarità del suo respiro e la voce che gli tremava. - E' giusto così, Ad... Adesso è in un posto migliore... - si fece il segno della croce ed io con lui. Riuscii a dargli ragione: mi consolò il pensiero che Lupo fosse in un posto migliore.

Gli fece una carezza mentre si chinava maggiormente sul corpo del mio gattone. - Perdonami, piccolo - lo abbracciò a sè piangendo più di quanto non stessi già piangendo io. In qualche modo tentai di assecondare quel comportamento e provai a comprendere. Tommy non avrebbe mai fatto del male a Lupo, non di proposito. Tommy non l'aveva ucciso con cattiveria, non l'avrebbe mai fatto... Era stato un errore. Un errore dettato dalla paura, dal panico che cresceva, da quei rumori che sembravano sempre più vicini a noi. Dannazione, i rumori.

- Perdonami Adam, non volev-... - gli sfiorai un braccio mentre mi facevo coraggio per entrambi. La sua frase si interruppe a metà. Chissà quante scuse mi avrebbe ancora rivolto, quante suppliche in ginocchio, quante lacrime avrebbe ancora versato per me.

- Lasciamolo riposare -, bisbigliai, mentre mi rialzavo e mi ripulivo i pantaloni all'altezza delle ginocchia, adesso sporchi di terriccio. Tirò su col naso e si asciugò tutte le lacrime. Mi accorsi che avevamo entrambi un'espressione eternamente addolorata, e se ci ripenso ancora oggi, non riesco proprio a cancellare dalla mente l'immagine di Tommy Joe che prova con tutte le sue forze ad acquistare un po' di coraggio, per il bene di entrambi. Quando si rialzò e raggiunse la mia altezza, mi prese la mano in segno di solidarietà. - Buonanotte piccolo Lupo, ti vogliamo bene - pregò per entrambi, ancora una volta. Tentò di sorridermi ma non ricambiai, mentre ci dirigevamo nuovamente a casa.


Allontanandoci, potrei giurare che avevo ascoltato di nuovo quel rumore metallico e quei passi provenire dagli arbusti alle nostre spalle. E sono sicuro che anche Tommy, li aveva sentiti ancora una volta. Mi perseguitavano, non erano più solo roba proveniente dalla cantina. Era qualcosa di incessante, qualcosa che mi assillava, qualcosa che mi seguiva.
Avrei dovuto prevenire da allora e immaginare che prima o poi quei passi sarebbero arrivati a me, ma non prevenii, non immaginai, non ci pensai.

Fu l'errore più grande.

 
***

Il mattino seguente, quando mia madre si svegliò e si dimostrò terribilmente preoccupata per Lupo e la sua scomparsa, fingemmo di essere sorpresi e preoccupati almeno quanto lei. Tentò di rassicurarmi che i gatti a volte si allontanano ma che poi tornano a casa e da chi li ha voluti bene... Ma io sapevo che Lupo non sarebbe mai tornato. E lo sapeva anche Tommy.


Tutta via, fingemmo di credere anche a quelle parole.

Non le svelai mai il segreto e tutto quello che era successo la sera precedente. Sentivo di aver fatto qualcosa di sbagliato, e così mi cucii la bocca. A volte mi chiedo se mia madre ancora pensi che Lupo semplicemente si fosse allontanato di casa per poi perdersi e non tornare mai più.
Non riesco mai a trovare il coraggio per dirle la verità.


 
***


Tommy andò via prima dell'ora di pranzo, perchè mia madre quel pomeriggio avrebbe dovuto lavorare e non poteva restare a casa a badare a noi, così aveva preferito non prendersi responsabilità troppo grandi e telefonare ai genitori di TJ affinchè passassero a prenderlo prima del dovuto. Era mortificata perchè il suo Thomas non potesse passare il pomeriggio con noi, ma purtroppo fu obbligata dalle circostanze.


L'occhiata piena di rammarico che mi rivolse sulla porta mentre portava via con sè i suoi adorati romanzi e le sue cose, mi provocò un grande dispiacere. Avevo perso tutti. Stava andando via anche Thomas, e presto sarei rimasto con la mia solitudine, probabilmente a riattaccare vecchie cards sugli album delle figurine. Sentivo già la mancanza di Lupo.

Mentre TJ andava via, dalla macchina mi fece un cenno col capo e lo vidi farsi il cenno della croce, come la sera precedente nel bosco. Lo ringraziai con un sorriso che di vera felicità non ne sapeva niente, ma lo ringraziai.


 
***
 

Quando tornai in camera mia nascosi sotto al mio letto tutti i giocattolini di Lupo, come se non volessi più averci a che fare. Ero terrorizzato che mi portassero altra nostalgia, e non volevo essere ancora più triste di quanto già non fossi.

Mi misi a guardare fuori dalla finestra e un soffio di vento gelido mi portò sul davanzale un pezzetto di carta.
Erano passati cinque anni dall'ultima volta che avevo trovato qualcosa alla finestra della mia stanza. Un flashback mi fece sorridere.

Ma quando guardai cosa fosse quel dannato pezzetto di carta, la mia espressione cambiò.
Non sorridevo, non più. Ero inorridito.


L'ennesimo pezzetto di carta che ritraeva un angolo della mia stanza. Il secondo.
Ma era.. diverso. Come se non appartenesse alla stessa foto di cui avevo già collezionato un pezzo.

Corsi ad aprire l'armadio dove conservavo con cura tutti gli oggettini importanti, o le cose a cui tenevo particolarmente. Devo dire che nonostante fossero tutte cosucce di poco valore, le custodivo con molta gelosia e cura. Passavano gli anni, ed io ero sempre attento a conservarle senza rovinarle.
Volevo essere sicuro di non sbagliarmi, volevo constatare che davvero le due foto fossero uguali, ma.. diverse.


Quando trovai il pezzetto di foto più vecchio, iniziai a confrontarlo con quello che avevo appena afferrato sul davanzale della mia finestra.
Ritraevano entrambi due angoli di camera mia, ma avevo ragione.
Era come se entrambe le foto fossero state scattate dalla stessa angolazione, ma in momenti differenti.
La foto aveva una qualità diversa, e la carta stessa era diversa.
Moderna, ecco.

- Ma che diamine? - riuscii a sibilare.
In quel momento mia madre mi chiamò dalla cucina con un tono visibilmente preoccupato. Accorsi immediatamente e la trovai che aveva la cornetta del telefono premuta sull'orecchio. Mormorava cose incomprensibili e sembrò che stesse cercando di respirare in una stanza dove mancava l'aria. Era sbiancata.
Sul tavolo c'era la posta.

- Mamma, che succede?

Non mi rispose, e iniziò freneticamente a camminare nel corridoio, urlando al telefono cose che non riuscii capire. Sapevo che in qualche modo fosse tutto collegato al contenuto delle buste, così andai a controllare cosa ci fosse di tanto disarmante lì dentro. 

Bollette. Solo inutili bollette.
Sfogliai altre buste come a voler trovare il pelo nell'uovo, e vidi subito un biglietto. Era scritto con una penna rossa, e la scrittura era visibilmente distorta. La penna aveva sbavato sul foglio ed era quasi illegibile.


"where is
the cat?"



Passai un polpastrello sulla scrittura. Non riuscii a misurare il panico che si precipitò da me in quell'istante.
Non era stato scritto con una penna rossa.
Ma col sangue.

- Adam, sto chiamando la polizia, tesoro! - si prese una pausa prima di urlare di nuovo - E' terribile!

Il cuore sembrava voler uscire fuori dal mio petto. Che significava "where is the cat"? Qualcuno cercava Lupo?  Avrebbero voluto fargli del male? Avremmo dovuto avere paura? Iniziai a sudare freddo e tentando di basarmi sull'autocontrollo che mi restava, continuai a cercare tra le buste.
C'è n'era una aperta, stracciata probabilmente da mia madre, ma che non presentava il timbro postale. Qualcuno l'aveva consegnata a mano. Inquietante.
Infilai la mano nella busta e ci trovai altri inutili pezzi di carta, e poi... delle foto.

Le guardai con attenzione, una ad una.

In ogni foto c'ero io. Sullo sfondo. Come se fossi un secondo piano.
Ma c'ero.
Erano tutte foto che ritraevano i miei momenti; di quando ero nel bosco a giocare, o fuori in cortile con il mio Lupo, una addirittura mentre dormivo, scattata dall'esterno della casa.. E come se non bastasse, c'era una foto che ritraeva quando a sei anni ero caduto dall'albero.
In quella foto c'era anche mia madre.

Mi spiegai il rumore metallico che sentii quel giorno tra le frasche, quando mi ruppi un braccio.
C'era qualcuno che scattava delle foto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 ANGOLO AUTORE!

Bene bene, questo è il capitolo che charisce alcuni punti che purtroppo restavano ancora dei segreti nei precedenti!
Perdonatemi se è più corto degli altri ma non potevo andare oltre e svelare tutto in un solo capitolo :P spero mi perdonerete se a volte sono così cattivo. Buahahah.
Inutile dire che mentre scrivevo il pezzo dell'addio a Lupo mi piangeva il cuore çWç.. anche perchè oggi ho preso il mio nuovo coniglietto e so bene in prima persona cosa significa perdere un animaletto tanto caro. (spero che con questo cucciolotto le cose mi vadano meglio)

Scusatemi se ci ho messo tempo ad aggiornare ma gli impegni della real life mi hanno risucchiato!
Ringrazio tutte le persone che mi seguono e mi recensiscono attivamente, siete dolcissimi ~ ♥

Lars ~

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Capitolo 7
*** Cambio di programma ***


In serata, degli agenti di polizia arrivarono a perquisire i dintorni della casa. Quando bussarono alla nostra porta per parlare con mia madre, lei aveva gli occhi rossi e gonfi per i disperati pianti dettati dalla paura, mentre spiegava la situazione. Mostrò all'agente più giovane tutte le foto che mi ritraevano, e poi il biglietto scritto col sangue. Sembrava una vicenda surreale; se l'avessi raccontata in giro, probabilmente nessuno mi avrebbe creduto e tutti avrebbero riso di me.
Il panico, letteralmente dipinto sul volto della mia giovane madre, Leila, era sicuramente la cosa che mi incuteva più preoccupazione in assoluto. Non avevo mai visto mia madre spaventata così. Iniziai a capire che avevamo bisogno di riguardarci un po' di più.


Dalla finestra di camera mia potevo vedere la polizia che perlustrava il bosco con circospezione, dando un'occhiata ovunque e interrogando chiunque si trovasse sulla loro strada. Gli agenti erano velocissimi a lanciare sguardi attenti in giro, persino nella mia direzione. Sicuramente erano più veloci di quanto non fossi io a nascondermi alla loro vista. Con quelle occhiatacce pensavo volessero dirmi Cosa fai ragazzino, ficchi il naso?, così ogni volta mi spostavo dalla finestra di colpo, abbassandomi.
Ovviamente, dopo qualche minuto tornavo ad osservarli, come un ladruncolo che aspetta il via libera per fuggire via.

Potevo chiaramente distinguere i gesti che si facevano, le occhiate di delusione che si scambiavano, anche se iniziavano ad addentrarsi sempre di più tra la vegetazione del boschetto. Realizzai che neanche loro sapessero davvero cosa fare con la nostra ambigua situazione. Non avevano risposte, tracce, o piste da seguire. E non potevano aiutarci.


Quando a sera tornarono ad avvisarci dei risultati, - inesistenti -, che avevano ottenuto con la perlustrazione dei dintorni, l'agente più giovane e quello che mi ispirava più simpatia - Credo avesse circa trent'anni -, si sedette al nostro tavolo chiedendo gentilmente un bicchiere d'acqua a mia madre. Il suo sguardo preoccupato e al contempo rassicurante, penetrò il mio animo. Li avevo mai visti degli occhi così profondi?
Non riesco proprio a dimenticarlo. Aveva due perle nere, grandissime, e la loro espressività era eccezionale. Oltre ad essere un bellissimo uomo, sembrava una persona molto devota al suo lavoro, disposta ad aiutare il prossimo. Mi piacque forse troppo il modo in cui parlò; con quei suoi modi gentili era decisamente un tipo da ammirare. Ed io lo ammirai.
Per un secondo mi passò per la mente che da grande sarei voluto essere anche io un poliziotto. - Fortuna che ho cambiato idea... -

Quando trovò in casa nostra la quiete e la pace di una casina isolata dal traffico cittadino, sembrò rinascere. Si sistemò sulla sedia e mia madre gli sedette di fronte. Sembrava una di quelle riunioni di famiglia che si fanno per discutere per cose realmente serie... Ma questa riunione di famiglia la stavamo facendo con un perfetto sconosciuto. Rimasi ad ascoltare tutto sullo stipite della porta della cucina, senza spiccicare parola.

- Signora Lambert, voglio darle un consiglio spassionato. Le parlerò come agente, ma anche come... padre. -, quelle parole mi colpirono in pieno. Mia madre per un secondo non riuscii a trattenere un sussulto. Padre? Non riuscii ad afferrare subito il concetto dei suoi discorsi. - Deve prendere suo figlio e scappare il più lontano possibile da qui. - Potrebbe sembrare una minaccia se ci penso a lucido, ma credo che fosse il consiglio migliore che mia madre avesse mai sentito, per la prima volta, da uno sconosciuto.

Ma cosa significava scappare? E da chi, poi?

- Suo figlio è giovane, è ancora solamente un bambino. Ha tutto il diritto di vivere una vita normale, e lei deve aiutarlo a realizzare questo progetto, per il bene di entrambi. Deve preservarlo da certe cose, salvarlo, e anche piuttosto in fretta. Inoltre non sappiamo chi ci sia dietro tutto questo, signora Lambert. Non ne abbiamo la più pallida idea.
Lei crede che restare ancora in questa casa le porterà qualcosa di buono? - si prese una pausa, mentre potevamo udire lo scorrere dei secondi dettato dal ticchettio dell'orologio da muro che c'era nella nostra cucina. - Adesso siamo potuti intervenire. Fortunatamente, o sfortunatamente, dipende dai punti di vista, non abbiamo trovato niente che ci sembrasse sospetto. Ma la prossima volta? La prossima volta potrebbe non essere una lettera consegnata a mano, potrebbero non essere solo delle stupide foto. E noi potremmo arrivare troppo tardi.


I suoi colleghi lo raggiunsero nella nostra umile abitazione, probabilmente per scrivere un verbale e fare un resoconto di tutto ciò che era successo. Portavano delle pistole vere sulla cintura dei pantaloni. Uno dei tre ricaricava un'arma, gli altri appuntavano delle cosucce su un foglio.
Fui sicuro che mia madre si prese un attimo per riflettere, perchè la sua risposta al giovane agente arrivò con qualche minuto di ritardo, ma fu una risposta breve, diretta e coincisa. - Ha ragione, agente.

 
***


 Il mattino seguente, mia madre mi avvisò che ci saremmo trasferirti e che era già in cerca di una nuova casa, magari più grande, più bella, e soprattutto meno isolata dal centro. Non capii immediatamente, ma ricollegando velocemente il discorso dell'agente riuscii a venire a capo di tutto. Dovevamo scappare da lì. Dalla vicinanza col bosco, dalla casa, dalla cantina, dai mostri, dalle lettere scritte col sangue. Un brivido mi percosse la schiena.
In breve tempo, avrei detto addio al luogo in cui ero cresciuto. Un incubo, che purtroppo era la nostra realtà.

Ci saremmo trasferiti.

In quanto tempo? Ah, all'epoca non lo sapevo, non lo immaginavo neppure. Credevo si trattasse di mesi, tre o quattro, magari cinque oppure sei. Mi ero fatto un'idea tutta mia della situazione e per questo non sentivo questo opprimente bisogno di fuggire via il più lontano possibile da lì. Non percepivo il pericolo, sembravo non ne avessi coscienza. Eppure, avevo dodici anni suonati e una spiccatissima intelligenza... Beh, comunque ci saremmo trasferiti nel giro di tre settimane.
Mia madre aveva trovato un appartamento di nuova costruzione abbastanza vicino al centro di Burbank, ma decisamente lontano da quella che era ancora la mia vecchia casetta. Insomma, mi spiegò che saremmo stati lontani dai guai.


- Niente più mostri, mamma? Niente più rumori in cantina? - il suo sguardo sembrò rasserenarsi per un secondo.

- Niente di niente, piccolo mio.


Aveva messo in vendita la casa circa cinque giorni dopo l'incontro con gli agenti, e ormai era inevitabile; ce ne saremmo andati e basta.

 
***



Quando Leila iniziò a inscatolare tutto ciò che avremmo dovuto portare via, nella vecchia casa iniziai a vivere il caos, la fretta e la preoccupazione che genera la parola trasloco.  
Nei giorni a seguire, quando trovavo del tempo per me stesso, passavo i pomeriggi ad impacchettare con cura tutti miei vestiti ed i miei giocattoli. Con tanto ordine, riponevo i miei affetti in degli scatoloni abbastanza grandi e resistenti, li richiudevo con attenzione e poi andavo ad appoggiare tutto in un angolo del pavimento della cucina, dove mia madre stava raggruppando quel che avremmo portato con noi nella nuova abitazione. Non avevamo molto, e per questo ce la prendemmo con comodo. Poi, per quanto mi riguardava, ero pronto da un pezzo per andare via da lì.  Le mie cose erano già pronte per essere portate via.




Era un Martedì. Mamma stava sistemando le ultime cose e faceva l'ultimo giro di telefonate prima che ci staccassero la linea telefonica. Ricordo che ero nella mia stanza, seduto sul letto con le gambe incrociate. Avevo tra le mani un vecchio fumetto ingiallito, e fingevo di parlare col me cattivo che, vista la mia infinita noia, mi consigliava di andare fuori a giocare... Nonostante la mamma me l'avesse proibito.

Quando lei spalancò la porta, con ancora la cornetta del telefono appiccicata all'orecchio, mi guardò con un sorriso e mi disse che ci saremmo trasferiti il giorno stesso, perchè aveva parlato con l'agente immobiliare ed era riuscita ad organizzare una partenza anticipata. Restai piuttosto stranito, perchè non me l'aspettavo, e improvvisamente mi assalì una sensazione di malinconia.

Ci saremmo trasferiti con una settimana di anticipo? Come, dove sarei stato senza la mia vecchia casina?


Provavo a rallegrarmi col fatto che avrei messo un punto con i mostri, i rumori, e tutte le cose spiacevoli che avevo visto succedere tra quelle quattro mura... Ma, per una manciata di secondi, mi sembrò che ben presto quegli incubi mi sarebbero mancati. Voglio dire, ormai ai rumori  mi ci ero abituato. Di notte, anche se non riuscivo quasi mai a dormire per tante ore di fila, dopo dodici anni non mi sembravano più tanto spaventose.
Certo, ero ancora triste per la scomparsa di Lupo e per tutto ciò che avevo passato le settimane precedenti, ma pensai che avrei sentito davvero tanto la mancanza della mia casa.


Scattai in piedi, giù dal letto, e corsi ad aiutare la mamma a ricontrollare che non avessimo dimenticato niente. Mettemmo a posto altri oggettini, prendemmo lo stretto indispensabile e finimmo di impacchettare gli ultimi scatoloni.
Lei sembrava così felice della notizia della partenza, mentre io, invece, avevo appena assunto un'espressione di rammarico. Avevo giusto infilato l'ultimo maglione in uno scatolo, quando mia madre mi prese il viso con le sue mani delicate e calde e mi guardò negli occhi. Vidi chiaramente il mio riflesso nelle sue iridi, e scrutai la mia espressione così triste e desolata che... Non riuscii a trattenere le lacrime, alla vista di come ero conciato.


- Lo so che ti mancherà questa casa, Ad... - mi sussurrò in un abbraccio materno, nel quale non trovai altro che amore e protezione. Sentivo un bisogno smisurato di provare affetto e conforto. La strinsi forte, mentre quel suo buon profumo mi faceva sentire a casa.

- Non possiamo ritardare la partenza? Per favore, mamma... - Le feci quella supplica quasi in ginocchio, ma non ci fu verso di convincerla. Scosse la testa in un quasi severo No, e non ne volle sentir parlare. Nè le lacrime, nè il mio lamentarmi, e nè i miei occhioni tristi riuscirono a farla ragionare e a ritardare la partenza. Neppure di un giorno.


E fu la cosa migliore.



Quelli del camion dei trasporti sarebbero venuti a ritirare la roba e ci avrebbero portati nella nuova abitazione in un'oretta, o forse meno. Mamma richiuse la finestra della cucina mentre gli impiegati entravano per trasportare i pacchi fino al camion.
Quando guardò fuori dalla finestra, per l'ennesima volta, potè vedere l'albero sul quale avevo passato l'infanzia ad arrampicarmici, e si fece scappare un lieve risolino. - Qualche anno fa ti tenevo sempre d'occhio da qui, mentre sistemavo le stoviglie... - mormorò, mentre io mi avvicinavo a lei a passo lento; volevo condividere direttamente quei pezzi di memoria.
Mi affacciai alla finestra e ammirai l'imponenza del boschetto. Tanti ricordi mi sfrecciarono velocemente davanti agli occhi. - Quando ti arrampicavi, alcune volte Lupo usciva in giardino a cercarti. - mi disse. Mi mancava tanto, Lupo. - Non ti trovava, ovviamente, e tornava qui, in cucina. Faceva dei borbottii strani, come se piagnucolasse... - Riuscii a vedere il sorriso dolce che le illuminò il viso - Eri ancora sull'albero, quando balzava sul tavolo e iniziava a miagolare disperatamente. Gli mancavi molto, anche se stavi via solo qualche minuto...


Dovetti trattenere le lacrime, o sarei scoppiato e le avrei raccontato tutta la verità.
Deglutii a fatica per farmi coraggio e resistere. Forza Ad, non cedere. Non adesso. Queste parole mi rimbombavano incessantemente in testa.

Mamma mi posò una mano sulla testa mentre mi accarezzava i capelli. Si chinò a baciarmi la fronte, e poi ad accarezzarmi una guancia. Aveva sul volto un sorriso molto rassicurante, che mi calmò in un istante. In cuor mio la stavo ringraziando infinitamente. 

- Vedrai, Lupo è molto intelligente. Se è scappato e si è perso, magari un giorno ci ritroverà e tornerà a casa.

- Ma, mamma... Cambieremo casa... - Mi portò un dito sulle labbra, sussurrando uno shhhhh!

- Lupo è in gamba, lo sai.

Feci un cenno col capo. Nonostante sapessi che Lupo non sarebbe mai tornato, avevo la fiducia che un giorno, col tempo magari, lo avrei rivisto in paradiso o da quelle parti lì. Pensavo che quello sarebbe stato il giorno più bello di tutti, perchè finalmente avrei potuto riabbracciare il mio gattone e scusarmi se qualche volta l'avevo fatto star male, regalandogli alcune carezze tra le orecchie.
Beh, quelli erano i periodi in cui non avevo ancora perso la fede.

Avevo dodici anni, d'altronde.


Andammo via col camion dei trasporti alle undici in punto del mattino.


 
 
 
 
 
 
 ANGOLO AUTORE!

Indovinate con quanto ritardo?
INDOVINATE?!
Ragazzi, sono quattro mesi.
Quattro, suonati.
RAGAZZI MI DISPIACE UN CASINO DI AVERVI FATTO ATTENDERE MA PURTROPPO D: ... Tentate di capirmi. Mi sono calato a pieno in questo terzo anno di liceo (del cazzo, perchè mi sta dando non pochi problemi -.-) e mi sono allontanato da tutti e tutto!! Specie da EFP e amicizie. Mi dispiace un casino anche per quanto è corto il capitolo, ma è uno stacco importante che avevo bisogno di fare, perchè nell'ottavo ricomincerò meravigliosamente : )
Scusatemi, perdonatemi l'assenza e tutte le cose bruttissime.. çwç non volevo essere così ritardatario e così scemo!

Vi mando tanti bacini, grazie se mi seguirete anche dopo mesi e mesi. Vi voglio tanto bene!

♥ Lix, a te che leggerai.. Mi manchi un casino piccola, appena posso ti chiamo. Promesso!

Lars ~
 

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