L'amore che non muore mai di semplicementeme (/viewuser.php?uid=13489)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
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L’amore che
non muore mai
PROLOGO
La osservava silenzioso. Il respiro regolare.
La testa leggermente piegata di lato. Si era addormentata sul divano mentre
guardavano un film, il loro film. Quante volte si erano incontrati per vedere
quella stupida commedia italiana dove tutti finivano felici e contenti? “L’ultimo
bacio”. Quel film che aveva per titolo una canzone che per loro era
diventata qualcosa di unico e speciale, la loro canzone. Lo avevano scelto come
loro film solo perché la colonna sonora era perfetta per loro, per lei. Quelle
note erano forti e dolci allo stesso tempo, proprio come lei. Era un vulcano in
piena attività quella piccola ragazza che dormiva sul suo divano. I capelli
rossi, ormai lunghi e mossi, ricadevano morbidi sulle sue spalle, faceva
sorridere vederla così, strette in un abbraccio immaginare. La frangia
ricopriva le iridi col cioccolato. Le guance erano rosa come quelle di un
neonato e le labbra erano schiuse, ma non in una smorfia di piacere, ma
sofferenza. La stessa sofferenza che vedeva ogni giorno nei suoi occhi.
Si conoscevano da una vita, o quasi. Ormai erano otto anni. Erano stati
colleghi di studi a Fukuoka e poi insieme avevano scelto di trasferirsi lontano.
A Tokyo, la più importante metropoli giapponese. Lui si era trasferito per far
compagnia a lei. Lei, non lo avrebbe ammesso mai, per cambiare aria e
dimenticare un amore finito male. Avevano deciso di vivere in due appartamenti
differenti, ma entrambi nel quartiere di Shinjuku vicino la Waseda University.
Lo aveva deciso sempre lei, ma a lui stava bene. Almeno così ognuno avrebbe
mantenuto la propria privacy, ma una volta alla settimana, era tassativo
incontrarsi. Dovevano avere la loro serata tutta per loro, e questa era una di
queste.
- Kaori è meglio se stasera
resti a dormire da me.
La ragazza neanche lo sentì. Si accucciò meglio tra le braccia
dell’amico e continuò a dormire mentre lui la portava nella sua camera da
letto.
Magica
quiete velata indulgenza
Dopo
l’ingrata tempesta
Eccomi tornata. Quella che sto scrivendo è una storia già pubblicata,
ma in una sezione diversa, tra gli originali. Per certi aspetti, anche per
questo prologo, i primi capitoli saranno simili a quelli della fic che sto
scrivendo (il titolo è L’ultimo bacio e nel caso qualcuno volesse leggerla è
nella sezione originali!), ma a partire dal III capitolo tutto cambia.
Per intenderci, la fic che ho già scritto fa solo da bozza a
quest’altra. Non credo di commettere alcun plagio dato che la storia è mia e,
soprattutto, non credo di andare contro il regolamento dato che vi ho avvertiti.
Nel caso in cui ci fosse qualcosa che, secondo voi, non va vi pregherei di
avvertirmi subito e procederò con la cancellazione di questa fic, ma non
dell’altra dato che è stata pubblicata precedentemente.
Adesso vi saluto e vi auguro buona lettura.
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Capitolo 2 *** Capitolo I ***
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CAPITOLO
I
Il mattino successivo la ragazza si risvegliò nel letto dell’amico. Si
stropicciò gli occhi e dopo aver trovato le sue scarpe, ai piedi del letto,
scese dal suo giaciglio e si diresse con calma nella piccola cucina che era
accanto alla stanza da letto. Guardò in direzione del soggiorno, che faceva
anche da sala da pranzo, e notò Hayato sdraiato sul divano con una piccola
coperta che a mala pena gli ricopriva le spalle grandi e possenti. Sorrise
all’amico e tornò indietro per prendere una delle coperte che, il suo angelo
custode, aveva adagiato sul “suo” letto. Facendo attenzione a non
svegliarlo, sistemò il plaid sulle sue spalle e dopo si diresse in cucina.
Nel silenzio più assoluto, e cercando di fare il minimo rumore, al buio
preparò il caffè. Dal frigo tirò fuori il cartone col latte, versò un po’
del contenuto in un pentolino che mise a riscaldare sul fornello. Preparò il
vassoio dove mise delle fette biscottate e marmellata alla ciliegia, la
preferita di Hayato, versò il caffè parte in una tazzina, parte in una tazza
dove già era stato versato il latte appena scaldato, e silenziosamente andò
dall’amico. Poggiò il vassoio sul tavolino, dove ancora giacevano i rifiuti
della serata precedente, e spintonandolo delicatamente, iniziò a chiamarlo. Il
ragazzo, o per meglio dire l’omone, mugugnò un paio di volte prima di aprire
gli occhi castani e dopo un sonoro sbadiglio salutò l’amica.
- Buongiorno Scimmia. Sai che dovresti metterti a dieta? Ieri, per
portarti a letto, a momenti mi veniva l’ernia.
- Molto gentile da parte tua Capellone.
Hayato fece una smorfia non appena sentì il nomignolo affibiatolgli
dall’amica; si passò una mano tra i capelli, anzi tra ciò che ne restava,
infatti, aveva deciso di rasarli perché iniziava a perderli, sbuffò e si girò
a fissare Kaori che, mentre parlava, aveva tirato le tende.
Fuori pioveva come ormai accadeva da tre giorni. Kaori guardò la pioggia
scendere e si sentì sprofondare nella depressione più nera, si volse verso
l’amico che canticchiando si regalava un’abbondante dose di marmellata. Si
avvicinò e sedendosi al suo fianco, e coprendosi le gambe con la coperta che
aveva usato poco prima con lui, iniziò a sorseggiare il latte e caffè caldo.
- Appena finisco di bere devo scappare in ospedale.
Hayato si voltò a guardarla con espressione perplessa. Cercò un
orologio ma non lo trovò, dove lo aveva messo?
- Kaori… ma che ore sono?
- Le sei.
Quasi cascò dal divano per la sorpresa. Lui aveva la mattina libera,
poteva dormire fino a tardi e quella pazza della sua amica cosa faceva? Lo
chiamava all’alba. Si passò una mano a stropicciare ancora una volta gli
occhi. Si accomodò meglio sul divano e portò la testa indietro. Sospirò
rumorosamente e riprese a sorseggiare il latte che aveva preso prima che Kaori
gli desse la “lieta novella”.
Hayato, dopo aver finito il suo latte, si alzò e si guardò attorno e
prese una decisione: perso per perso, quella stessa mattina avrebbe rimesso in
ordine casa sua che iniziava ad apparire come un tugurio. E dire che Kaori
glielo ripeteva sempre: “O prendi una donna delle pulizie o giuro che la
prossima volta che vengo qua utilizzerò tua maglia preferita per lavare il
pavimento! ” Era arrivato il momento di prendere una donna delle pulizie?
No, sarebbe stato lui a mettersi a sudare, olio di gomito e tutto splenderà.
- Prendo la giacca e ti accompagno in ospedale. Non mi va di mandarti in
giro da sola a quest’ora.
Kaori annuì, conosceva Hayato ed era certa che se fosse andata senza
svegliarlo, l’amico avrebbe fatto fuoco e fiamme per la sua imprudenza. Andare
in giro di “notte” da sola era un’assurdità. Da questo punto di vista era
un viscido maschilista convinto della fragilità delle donne. Inoltre c’era da
aggiungere che secondo Hayato era un’assurdità la sua idea di diventare
chirurgo. Ma poi perché voleva diventare chirurgo? Il suo sogno non era
oncologia pediatrica? Almeno era questo che aveva ripetuto per i primi tre anni
in cui si era nata la loro amicizia. La risposta era semplice. La sua era una
rivalsa. Contro chi? Quella è un’altra storia.
- Sono pronto. Andiamo?
E così uscirono ed insieme, si diressero verso l’ospedale del
distretto dove prestavano servizio.
Riprendi
fiato e con intenso trasporto
celebri un mite e insolito risveglio
Ed ecco il secondo capitolo. Credo che alcune precisazioni siano
necessarie.
Come
avrete notato i personaggi sono molto OOC, vedete il comportamento di
Hayato che, per chi non lo avesse intuito è il vero nome di Umibozu, in Italia
conosciuto con il nome di Falcon. Vorrei anche dire che la fic trae spunto solo
dalla canzone di Carmen Consoli e non ha nulla a che fare con il film omonimo
(che se non ricordo male dovrebbe andare in onda stasera stessa). Con questo
credo di aver detto tutto, vorrei ringraziare NANALOVE, per il suo
commento ed assicurarle che, anche se da queste battute iniziali la storia
sembra noiosa in realtà non è così. Basta arrivare al fulcro. Spero solo che
tu abbia la pazienza di attendere ancora un paio di capitoli!
Credo
di aver detto tutto, buona lettura al prossimo capitolo!
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Capitolo 3 *** Capitolo II ***
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CAPITOLO
II
Camminavano silenziosi in direzione della macchina parcheggiata sotto
casa di Hayato. L’aria era gelida, ed un vento tagliente mozzava il fiato.
Aveva smesso di piovere e le nubi avevano lasciato spazio al sereno, con il
cielo che iniziava a tingersi di rosa mentre la città si risvegliava. Appena
saliti, Hayato mise in moto e subito accese il riscaldamento, al ché Kaori aprì
leggermente il finestrino. Hayato la guardò perplesso ed alla fine si decise a
porle la domanda che da tanto attanagliava la sua mente ogni qualvolta Kaori
compiva questo gesto.
- Kaori perché ogni volta che accendo il riscaldamento abbassi il
finestrino? Ti dà fastidio l’aria calda?
Kaori guardò sorpresa Hayato, non si aspettava certo quella domanda,
aveva sempre fatto così e mai l’amico le aveva posto domande a riguardo.
- Un paio d’anni fa ho letto che il riscaldamento delle auto non fa
altro che aumentare la concentrazione di monossido di carbonio all’interno
dell’abitacolo. Dato che non mi va di morire asfissiata, ma neanche
assiderata, preferisco abbassare il finestrino.
Kaori rispose con un po’ do imbarazzo mentre Hayato roteò gli occhi.
Ecco le solite fisime mentali di Kaori! Senza ribattere continuò a guidare.
Kaori accese la radio e la voce della giornalista del giornale-radio di diffuse
nell’abitacolo. Hayato cambiò stazione e le note di una hit di anni prima
volteggiarono attorno a loro. Una canzone che Kaori conosceva bene.
Una canzone legata al suo passato. A quel passato che la vedeva ancora
studentessa universitaria piena di sogni ed aspettative per il futuro. Quel
passato non tanto lontano, ma allo stesso tempo distante anni luce.
La ragazza strinse le braccia attorno al suo corpo come a volersi
riscaldare. I suoi occhi erano divenuti improvvisamente lucidi, persi ad anni
addietro. Una lenta musica che richiamava il tango argentino riempiva la sua
testa ed il vuoto del suo cuore. Hayato notando l’espressione vuota negli
occhi dell’amica fece per cambiare stazione ma la mano di Kaori glielo impedì.
- Va bene così.
Sorrise. In maniera triste. Un sorriso finto. Il ragazzo strinse le mani
attorno al volante con una voglia incredibile di riempire di botte un individuo
in particolare. Quanti anni erano trascorsi da quando quel Verme l’aveva
abbandonata? Due? Tre? No, erano trascorsi quattro anni, ma per Kaori sembrava
essere trascorso solo un giorno. Fingeva che tutto andasse per il meglio ma in
realtà nulla andava bene. Non era più uscita con un ragazzo. Per lo meno, non
era più uscita con un ragazzo come avrebbe fatto una qualsiasi ragazza della
sua età: per conoscerlo e magari frequentarlo per poi, chissà, far nascere una
storia. Era da quattro anni che non la vedeva con gli occhi luminosi. Da quattro
anni Kaori era il fantasma di se stessa.
- Umi, davvero, sto bene. Mai stata meglio. È stato solo un attimo.
Umi… da quanti anni Kaori non lo chiamava più così? Era stato il
soprannome che gli aveva affibbiato la prima sera che uscirono in comitiva. Umi,
diminutivo di Umiboozu, “Mostro Marino”… e tutto perché, preda dei
fumi dell’alcool, aveva deciso di fare uno scherzo a tutti gli amici riuniti
in spiaggia. Era emerso dalle acque completamente ricoperto di alghe ed
iniziando ad urlare come un ossesso. Lui e Kaori, sua partner in quella
diabolica idea, risero come matti per più di mezz’ora… ricordava sempre con
piacere i bei tempi andati. Adesso era tutto diverso. Da quattro anni era
cambiato tutto e non mancò di farlo notare alla stessa Kaori.
- Un attimo che dura da quattro anni.
Le due voci erano opposte. Kaori, in precedenza, aveva parlato con calma,
mentre Hayato sembrava pronto ad esplodere, la sua voce era leggermente
stridula. La ragazza posò i suoi occhi sull’amico e lo fissò per un attimo,
poi tornò ad osservare la strada ancora sgombra dal traffico intenso del
mattino.
- Credo che sia arrivato il momento di voltare pagina.
- Piantala, ormai non ti credo più.
Kaori abbassò il capo colpevole. Hayato aveva ragione. Ogni volta che
vedeva l’amico preoccupato per lei, cercava di rassicurarlo. Cercava di
confortarlo, ma in realtà, era lei che aveva bisogno di conforto.
Abbassò il parasole e si specchiò. Vide i suoi occhi lucidi e spenti.
Si pentì della mossa appena fatta. Si stava facendo male da sola. Doveva
reagire. Doveva andare avanti. Era riuscita a laurearsi in meno di un anno dal
suo addio. Aveva dato quindici materie in otto mesi ed aveva preparato la tesi
in tre.
Si era concessa solo un mese per piangere tutte le lacrime di cui era in
possesso, ma se ci pensava bene, sapeva che ne aveva molte altre che però, si
era rifiutata di versare per lui.
Alla fine il suo voto di laurea non era quello sperato, non aveva
ottenuto un 110/110 e lode, ma non c’era da sputare sul suo 108. Lei era
riuscita da sola, con le sue forze ad ottenere quel voto. Un anno dopo la laurea
era riuscita ad entrare nella scuola di specializzazione in Chirurgia Generale
di Tokyo. Era al suo secondo anno. Altri tre e sarebbe arrivata la
specializzazione, il suo sogno.
Il sogno di lui.
Lei i sogni li aveva chiusi a chiave in cassetto e poi aveva buttato la
chiave. Non sarebbe diventata mai oncologa, né pediatra. Lei sarebbe diventata
chirurgo. Un grande chirurgo. Il migliore di tutti.
Lei, una donna, la migliore. Questo pensiero la fece sorridere. Un
sorriso vero che le illuminò il viso come non accadeva ormai da troppo tempo.
Cerchi
riparo fraterno conforto
tendi
le braccia allo specchio
ho davvero poco tempo. Ho
aggiornato prima del 19 luglio giusto perché oggi non avevo molta voglia di
cenare, tra un po’ arriva il mio ragazzo e cena a casa mia quindi non ho la
testa che per lui! Passo veloce ai ringraziamenti!
RINGRAZIAMENTI
-
KA CHAN: Ryo… un bel dilemma, non so quando entrerà in scena… ma
soprattutto non so con che ruolo! Celibe o sposato. Giovane o anziano? Quanti
dubbi, spero solo che tu possa avere la pazienza di aspettare! Grazie per aver
commentato!
-
NANA LOVE: meno male che ti ispira. Ammetto che i primi capitoli sono
quelli più noiosi ma abbi fede e vedrai…
-
HAKARU_ANGELIC: Ryo… leggi la risposta che ho dato a Ka chan… e se ti
stupisci per così poco attendi e vedrai.
Ragazze
mi spiace essere stata così sbrigativa nelle risposte ma il tempo è tiranno ed
io devo scappare, alla prossima
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Capitolo 4 *** Capitolo III ***
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CAPITOLO
III
Kaori scese dalla macchina di Hayato e lo salutò con un caloroso
abbraccio. Il ragazzo percepì qualcosa di diverso nell’amica ma non volle
crearsi false illusioni. Troppe volte era stato vittima delle sue stesse
speranze.
Ripensò al giorno in cui Kaori gli chiamò disperata e gli raccontò di
come il Verme era partito per gli States. Erano trascorsi solo tre giorni dalla
notizia. Kaori gli aveva chiamato il giorno della partenza del suo Amato.
Lui era partito.
Era andato via.
Senza un cenno.
Senza un preavviso, tre giorni prima della partenza, se n’era uscito con un
semplice “Parto per gli Stati Uniti, resterò via tre anni”. Fu così
che l’Idiota decise di buttare al vento cinque anni insieme, la liquidò solo
con una frase. Una di quelle frasi vuote, dette solo per pura formalità. Fu così
che il mondo di Kaori andò in pezzi in meno di un minuto. Hayato ricordava
ancora come la ragazza trascorse il mese successivo piangendo giorno e notte, e
quando non piangeva dormiva ed i suoi sogni non erano certo migliori della realtà
visto il modo in cui si risvegliava, sconvolta e più disperata di prima. I suoi
bellissimi occhi nocciola versarono fiumi di lacrime in quel mese, si gonfiarono
e si arrossarono a tal punto da non poter più restare aperti tanto era il
dolore e tanto dava fastidio la luce. In quel mese Kaori perse più di sette
chili, diventò irriconoscibili, pelle ed ossa. Andava avanti a forza di succhi
di frutta e solo per non far preoccupare il padre cardiopatico. Hayato temette
che l’amica potesse compiere qualche sciocchezza data la disperazione in cui
era precipitata, ma per fortuna non fu così.
Un giorno la svolta, erano trascorsi quaranta giorni dalla partenza della
causa di tanta sofferenza, Hayato come sempre era a casa dell'amica cercando di
farla ragionare. Kaori lo guardò e con un sorriso spento iniziò a
parlare:
“Hayato sono stanca. Basta. Non posso più buttare al vento la mia
vita per lui. Devo reagire. ”
E poi il miracolo. Kaori reagì. Quindici materie in otto mesi, la tesi
in tre. La laurea e poi la decisione di partire insieme. Il primo tentativo andò
male, ma l’anno successivo l’ammissione a Tokyo diventò realtà, almeno per
Kaori. Lui non era riuscito ad entrare in Chirurgia e così aveva
“ripiegato” su Diagnostica per Immagini, come se fosse più semplice. Ma
Kaori era felice per l’amico, Radiologia era stato da sempre il suo sogno.
Però Kaori non era più la stessa. Esternamente sembrava tranquilla ma
Hayato sapeva che non era così. Rideva, scherzava, giocava ma non lo faceva più
con la stessa spontaneità. I suoi occhi erano spenti, vuoti. Ed il rapporto con
la gente che la circondava era cambiato. Non si confidava più con nessuno, non
regalava più un sorriso a nessuno. Era diventata fredda e vuota. Aveva perso
quel fuoco che la caratterizzava anche se, ultimamente, con il nuovo lavoro, e
con la competizione che ne seguiva, aveva trovato nuovamente un po’ della sua
schiettezza. Altra cosa che lo faceva stare inquieto era non l’averla più
vista piangere.
Lui conosceva Kaori e sapeva quanto era emotiva ed adesso la sua
freddezza non lo tranquillizzavano per nulla, al contrario, lo preoccupava. Come
dimenticare poi la sua decisione di abbandonare Oncologia Pediatrica per
Chirurgia Generale? Il sogno di sempre messo da parte per una branca della
medicina che non l’aveva mai interessata. Lui sapeva perché lo aveva fatto,
anzi per chi lo aveva fatto, ma restava una domanda: era un modo per
dimostrare al Verme che anche in Giappone si poteva diventare grandi chirurghi,
oppure, era un modo per restare legata al suddetto Verme? Hayato moriva dalla
voglia di porre questa domanda a Kaori, ma non voleva rischiare di litigare con
lei, la sua amicizia era troppo importante. Le voleva bene come ad una sorella.
La considerava la sua sorellina giacché lui non ne aveva.
Kaori dopo aver salutato Hayato entrò nell’ hall dell’ospedale in
cui prestava servizio al centro di Shinjuku. Quella mattina, rischiarata da un
pallido sole, si sentiva diversa. Piena di energie e con una nuova grinta. Si
fermò davanti le porte scorrevoli e tornò sui suoi passi. Notò che Hayato era
già andato via e così, un po’ a malincuore, attraversò la strada ed andò
al bar di fronte per comprare la colazione per i colleghi che avevano fatto il
turno di notte.
Con il sorriso sulle labbra si diresse al posto di lavoro con una strana
energia, quella che stava per iniziare sarebbe stata una giornata interessante.
Salutò Kenji, il portinaio, si fermò a scambiare qualche parola sulle notizie
politiche del giorno e subito dopo andò a timbrare come una brava operaia. Era
così che si definiva la giovane chirurga. Si fermò alla macchinetta del caffè
e presa il suo solito caffè macchiato per poi portarsi davanti agli ascensori.
Salì sorseggiando la bevanda e pensando alla giornata che stava per iniziare.
Il turno in ambulatorio lo aveva cambiato per passare una sana mattinata
al pronto soccorso.
L’ascensore si fermò al quinto piano, scese e non si sorprese di trovare
ancora una calma che presto sarebbe svanita come neve al sole. Entrò
silenziosa, per non disturbare i degenti del reparto di chirurgia I, per poi
andare dritta spedita nella sala dei medici. Aprì piano la porta per paura di
svegliare i colleghi, nel caso stessero dormendo, ed accostò altrettanto
silenziosamente l’uscio. A quanto pare però Akira era già sveglio.
- Dimmi che sono le otto.
- Buongiorno anche a te. Spiacente, ma sono appena le sette.
Un mugolio di protesta si era levato dal letto sotto la finestra. Haruka
si stava svegliando. Stiracchiandosi mugolò ancora qualche parola
incomprensibile per poi coprire la bocca per nascondere un sonoro sbadiglio.
Kaori fece l’occhiolino ad Akira, il primo ad essersi svegliato, e si avvicinò
al letto di Haruka tirando da fuori la borsa nera, una busta bianca dalla quale
si alzava un profumino invitante, e la sventolò sotto il naso della collega
dormiente. La mora, appena il profumo arrivò alle sue narici, si alzò di
scatto sbarrando gli occhi castani.
- Oddio Kaori sei il mio angelo. Dimmi che hai preso il mochi.
Kaori sorrise e tirò fuori dal sacchetto un fagottino rotondo di riso
glutinoso. Lo porse alla collega che addentò la sua colazione senza tanti
complimenti. La marmellata che farciva il mochi alla fine fuoriuscì ai lati del
morso dato dal medico. Akira guardò la ragazza disgustato, e dire che quella
ragazza era bellissima, quando però non mangiava! Alla fine Akira, preso da un
senso di nausea, si decise a redarguire la ragazza che si stava inzaccherando
con la marmellata.
- Haruka ti prego datti un contegno, non puoi mangiare in questa maniera
obbrobriosa. Ed ad ogni modo, se continui a mangiare in questo modo dubito che
qualcuno sia disposto a sposarti.
La dottoressa rideva divertita davanti al collega e, per un attimo, la
sua risata cristallina riempì la stanza dove sino a pochi minuti prima regnava
il silenzio.
Ormai la mattina era inoltrata e stranamente al pronto soccorso non erano
giunti casi urgenti che riuscirono ad esaltare Kaori. Qualche taglietto troppo
sanguinante a causa di capillari superficiali; dei punti di sutura dati ad un
bambino troppo vivace, ma nulla di particolarmente complicato. Il giovane
chirurgo adesso era seduto nella comoda poltrona dell’ambulatorio tre di
chirurgia. Rileggeva gli appunti presi il giorno precedente durante il corso di
specializzazione. Si chiedeva come i colleghi potessero affermare che la sua
calligrafia fosse chiara e leggibile quando, in realtà, lei era la prima ad
avere delle difficoltà nel tradurre ciò che scriveva.
Qualcuno bussò con decisione alla porta e Kaori mise subito via gli
appunti dando il permesso di entrare.
- Posso?
- Harumi ciao! Entra coraggio. Oggi tutti hanno deciso di fare vacanza.
Nessun intervento particolarmente interessante. E tu? Come mai così libera?
Anche i tuoi piccoli pazienti hanno deciso di andare in vacanza?
Harumi era una strutturata del reparto di oncologia pediatrica, oltre ad
essere una cara amica di Kaori. Era una donna sulla cinquantina ma con lo
spirito di una ventenne. Longilinea e bruna rappresentava la ventata di allegria
nelle giornate di Kaori. Si erano conosciute quando Kaori si era trasferita da
poco a Shinjuku. I primi tempi Kaori spesso andava al reparto in cui lavorava
Harumi e si fermava a giocare con i bambini, fu giocando che conobbe la
strutturata e così nacque una bella amicizia.
- Ma che! I miei bambini si sono stanno divertendo con
alcuni animatori. Così si sono dimenticati di me che ogni volta li faccio
divertire con i miei giochi di prestigio. Che ingrati!
La voce della donna era divertita
e serena, non tanto per la libertà di quella mattinata, piuttosto per quei
bambini che ogni tanto potevano dimenticare la loro sofferenza con quei
volontari che li facevano sentire normali, ma soprattutto sani.
Kaori osservò Harumi e sorrise. Se voleva ricominciare cosa ci poteva
essere di meglio di un gruppo di bambini che ridevano felici? Magari poteva
divertirsi con loro e farli sorridere come aveva sempre sognato di fare.
- Sai Harumi pensavo di andare a trovare i tuoi bambini. Che ne
dici di farmi compagnia?
Senza attendere oltre, Kaori si alzò e prese le chiavi
dell’ambulatorio. Con il sorriso sulle labbra si diresse alla porta e fece
cenno all’amica di seguirla. Chiuse la porta senza dare alcun giro di chiave.
Si avvicinò all’infermiere e lasciò detto di rintracciarla al suo
cercapersone.
Con un lieve sorriso sulle labbra, e seguita da Harumi, si diresse verso
il reparto dell’amica. Per un po’ avrebbe finto di essere al suo posto.
Quello che aveva sognato per tanto tempo. Tra i suoi bambini. Peccato che non fosse così.
Aveva rinunciato al suo sogno per dimostrare a qualcun altro di poter essere i
migliori anche restando in patria.
Si dice che ad ogni rinuncia
corrisponda una contropartita
considerevole, ma l’eccezione alla regola
insidia la norma.
Buongiorno
a tutti! Avete visto? Sto aggiornando con una certa frequenza, ma solo perché i
primi capitoli sono già pronti e devo solo rivederli e sistemarli un po’.
Passo ai ringraziamenti! Per quel che riguarda il MOCHI, è un dolce della
tradizione giapponese, non so se è utilizzato per la colazione ma, se così non
fosse, datemi per buona questa piccola licenza poetica!
RINGRAZIAMENTI:
-
NANALOVE: ciao bla bla bla… sto diventando come te… ripeto il bla non
so quante volte! Ma no, scherzi a parte! Kaori era triste anche nei capitoli
passati, solo che adesso sta tentando di rimettersi in carreggiata! Speriamo
solo che ci riesca e che non cadi nuovamente nella depressione… avrai ancora
fede anche se sei atea? Un bacio e grazie per la costante presenza!
-
ISY_264: ipocondriaco? No, giuro è
tutto vero. Se sei in auto ed accendi il riscaldamento devi tenere aperto o il
finestrino oppure tenere acceso anche il meccanismo del condizionatore ad aria
fredda altrimenti l’aria che entra nell’abitacolo è satura di monossido di
carbonio… è tutto vero! A parte questa piccola noticina di salute pubblica
spero che il capitolo ti sia piaciuto!
-
KA CHAN: Kaori depressa vero, ma come puoi vedere già da adesso sta
cercando di tirare fuori un po’ di forza per far contenta gli altri, ma
soprattutto se stessa. Forse si sta rendendo conto che lei è la sola a perderci
in tutta questa storia!
I versi riportati alla fine del capitolo sono tratti dalla canzone “L’eccezione”
che dà il titolo all’album omonimo dell’anno 2002!
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Capitolo 5 *** Capitolo IV ***
Nuova pagina 1
CAPITOLO
IV
Quando Kaori decise che, almeno per
quel giorno, il suo lavoro era terminato già era trascorsa un’ora dalla fine
del turno. Prima di andare a casa, infatti, aveva deciso di passare a fare
un’ultima visita ai suoi pazienti. Quel pomeriggio, tra l’altro, avrebbero
dimesso il signor Kytharami e lei non era come il caro Gregory House, lei aveva
un buon rapporto con i suoi pazienti, e li salutava sempre prima che fossero
dimessi.
Appena entrata nella sala-degenza sorrise al signor Kytharami, un uomo di
mezza età abbastanza robusto. Pensò, ampliando il sorriso in modo quasi
sadico, che presto però, questi avrebbe dovuto rinunciare alle sue porzioni
extra di onigiri e ramen (*). Non era sicura che l’uomo avrebbe retto lo
shock, in ogni modo il suo pensiero si fermò lì, non poteva certo sapere quale
sarebbe stata la reazione del paziente appena letta la dieta prescritta. Ritornò
al suo essere un medico responsabile e rassicurò, il degente in uscita,
sull’esito dell’intervento e soprattutto sul cessare dei fastidiosi bruciori
di stomaco che accusava, generalmente, un’ora dopo i pasti. Certo, a causa
dell’intervento le abitudini alimentari sarebbero cambiate, drasticamente a
parere del signor Kytharami, ma almeno la sua vita avrebbe riacquistato una
parvenza di normalità.
Kaori, al momento della diagnosi, era rimasta sorpresa: ulcera e per di
più complicata! Era questo che la tormentava anche dopo aver timbrato il
cartellino per segnalare la sua uscita. Si era chiesta com’era possibile che,
nel 2008 ancora, c’era chi era costretto a sottoporsi ad un intervento
chirurgico a causa di una banale ulcera. La cosa che più la sconvolgeva era la
presenza di una malattia simile in un paese come il Giappone, dove l’incidenza
di tale patologia era assai bassa. Era talmente immersa nelle sue riflessioni
che non si accorse di una voce che la chiamava.
- Kaori è da più di mezz’ora che ti chiamo.
La ragazza si voltò in direzione della voce e sorrise felice nel vedere
Hayato. Quando i loro turni non combaciavano, i due amici, cercavano sempre di
vedersi. Di solito si davano appuntamento al bar dell’ospedale e restavano lì
a parlare per un po’, magari scambiandosi casi clinici o divertendosi a
prendere in giro qualche collega. A volte Hayato le proponeva qualche uscita con
un amico ma lei il più delle volte rifiutava, non se la sentiva di uscire con
nessuno, non adesso che stava costruendo il suo futuro.
- Non ti ho sentito. Ero immersa nei miei pensieri…
Kaori pronunciò l’ultima frase con fare drammatico, mettendo il dorso
della mano davanti la fronte ed Hayato la fissò stralunato. Ogni tanto il
giovane dubitava della sanità mentale dell’amica. Kaori sorrise all’amico,
quel pomeriggio si sentiva euforica, l’indomani avrebbe assistito il primario
in un delicato intervento, sperava solo di non dover reggere tutta la mattinata
solo i bisturi.
- Cosa prendi?
La ragazza osservò ciò che era rimasto e si rattristò. Non c’era
molto e la tavola calda dell’ospedale non l’attirava per nulla. Guardò in
direzione dei dolci, la delusione aumentò, non era rimasto nulla. Non aveva
voglia dell’ennesimo panino così optò per un succo di frutta.
- Come mai un succo di frutta?
- Quando torno a casa mi preparo un piatto di ramen e mentaiko (**).
- Tua madre ti ha spedito un altro pacco da casa?
Kaori annuii in direzione di Hayato mentre sorseggiava il succo che aveva
preso. Il giovane la guardò infastidito, perché sua madre non si ricordava mai
di spedirgli un pacco con tutte le prelibatezze della sua Fukuoka. Kaori intuì
i pensieri dell’amico e sorrise.
- Ha pensato anche a te. Stasera quando finisci il turno passa a prendere
quel che ti ha mandato.
- Ti ho mai detto che ti adoro?
Kaori sorrise si diresse alla cassa dove pagò sia per lei sia per
l’amico che obiettò come sempre. Di solito era Hayato ad offrire, ma ogni
tanto Kaori riusciva ad anticiparlo e pagare lei per entrambi e, quando
accadeva, lui ne faceva un dramma. Uscirono dal locale ed una volta all’aperto
Hayato si accese la solita sigaretta post-caffè, pre-turno-in-corsia.
- Hayato ma tu non dovresti essere in reparto?
La ragazza osservò l’amico comodamente seduto su una panchina. La
schiena poggiata alla spalliera metallica e le braccia distesa su questa.
Guardava il cielo di novembre e si accorse che non era perfettamente sereno. Il
ragazzo non era molto contento di ciò, ripensando alla pioggia di quel mattino,
si maledì per non aver preso l’ombrello. Aveva lasciato la macchina al
parcheggio dell’ospedale, quello riservato ai dipendenti, ma per andare al suo
reparto doveva attraversare mezzo ospedale, a piedi ed all’aperto. Se avesse
piovuto, si sarebbe inzuppato. Fumava silenzioso il giovane medico e Kaori gli
stava seduta accanto, avvolta nel suo cappotto pesante. I capelli le ricadevano
sulle spalle indomiti e lei li riportava indietro di continuo.
- Dovrei essere in reparto, solo che… oggi c’è quel lecchino di
Mithushi e ne ho approfittato per fare una pausa.
Kaori alzò un sopracciglio scettica. Pausa? Ma se era trascorsa appena
un’ora dall’inizio del turno! Conosceva Mithushi e sapeva quanto poteva
essere conveniente lavorare con un tipo del genere, sempre pronto a leccare i
piedi a tutti, infermieri compresi.
Lei aveva un buon rapporto con tutto il personale medico con cui lavorava
ma era solo un rapporto lavorativo. Si mantenevano determinate distanze, specie
con gli infermieri. Lei era una giovane specializzanda e se, malauguratamente,
gli infermieri avessero preso troppa confidenza lei sarebbe stata declassata a
porta caffè, era questa la dura legge dell’ospedale. E questo era quello che
era capitato al povero Mithushi, sfruttato da tutti. Medici. Infermieri. E pure
pazienti.
- Non dovresti approfittare così della cortesia dei colleghi.
- Kaori piantala. Lo sai meglio di me che quello, pur di mettersi in luce
agli occhi del primario, sarebbe disposto a vendere sua madre. Non lo sopporto.
È un lecchino e lo tratto come merita. Non lo considero. Ne approfitto e basta.
Kaori non apprezzava il modo di pensare dell’amico. Era vero che
Mithushi avrebbe fatto di tutto per farsi bello agli occhi del primario ma non
poteva certo accettare un atteggiamento simile da parte da Hayato, il suo
migliore amico. Sbuffando diede le spalle all’amico e lo salutò con la mano.
Hayato sorrise. Kaori era sempre troppo precipitosa e si incendiava per
un non nulla. Come prima. Se era andata via era per non saltare al collo
dell’amico e punirlo per la sua mancanza di rispetto. Hayato di contro era più
tranquillo. Raramente perdeva le staffe ma quando accadeva era rischioso.
Il giovane adesso osservava l’amica andare via. Le spalle dritte. I
capelli lunghi e ramati ondulavano ritmicamente. Ancheggiava in maniera sensuale
anche se lei non se ne rendeva conto. Sorrise da solo pensando a come tutti
credevano che i due fossero amanti, o per lo meno, lo fossero stati un tempo. Ed
invece… niente. Mai nulla, se non gli abbracci fraterni.
Kaori per lui era una sorella. A volte diventava il suo migliore amico.
La trattava come un ragazzo senza badare al registro e, se aveva da fare qualche
commento pesante nei confronti di qualche ragazza, non si preoccupava; con lei
poteva permetterselo, non avrebbe mai detto nulla e non si sarebbe mai
scandalizzata.
Dopo averla persa di vista e finita la sigaretta si alzò per tornare a
lavoro. Era vero sfruttava Mithushi ma alla fine si sentiva in colpa nei
confronti del collega, appena salito lo avrebbe mandato a fare una pausa.
Kaori non tornò direttamente a casa come suo solito, ma decise di fare
una passeggiata al parco di Shinjuku. In assenza del mare doveva accontentarsi
di camminare tra il verde del parco cittadino. In realtà Tokyo era una città
sul mare ma per arrivare lì Kaori avrebbe impiegato troppo tempo ecco perché
preferiva il parco di Gyoen.
Prese la linea ferroviaria che la portò vicino alla sua destinazione,
però, decise di scendere un paio di fermate prima per poter camminare
liberamente. Le piaceva camminare e pensare.
Tokyo, e soprattutto Shinjuku, erano frenetiche, in città del genere
difficilmente ci si poteva sentire soli, ciò nonostante lei si sentiva così:
sola e triste. Si sentiva tremendamente sola in questa grande metropoli. Lontana
dal calore della sua casa. Dalla dolcezza dei suoi ricordi. Si strinse nel suo
cappotto ed alzò il colletto. Un vento gelido soffiava tra le vie della città.
La scelta di trasferirsi a Tokyo, a Shinjuku ad essere precisi, per
completare gli studi non era stata casuale. In realtà tutto ciò che aveva
fatto negli ultimi quattro anni della sua vita non era stato casuale.
Chirurgia generale. Il sogno nel cassetto del suo ex.
Tokyo. La città preferita dal suo ex.
Indipendenza. Quello che le rimproverava di non avere il suo ex.
Questi erano tre dei punti fondamentali della sua vita. Le parti più
rilevanti della sua esistenza.
La specializzazione, la città in cui farla e la sua indipendenza.
Questo era il suo futuro e lei lo aveva fatto pensando al suo ex.
Inizialmente era una vendetta, ma adesso le stava stretto tutto ciò. Non voleva
più vendicarsi.
Il suo sogno era Oncologia Pediatrica ed a volte parlando con Harumi
rimpiangeva la scelta di abbandonare tutto solo per vendetta. Era per questo che
aveva stretto questa amicizia con la donna, per non abbandonare totalmente il
suo sogno. Ed era anche per questo che aveva deciso di aiutarla con i suoi
piccoli pazienti.
Inoltre c’era da dire che tra le altre cose, lei non amava Tokyo. Era
una bella città. Viva. Allegra. Magica. Ma non era la sua città e poi non
c’era la tranquillità di Fukuoka. Non c’era il sole a causa dello smog. Non
c’erano le sue montagne.
Lei amava Fukuoka.
Voleva tornare nella sua città, ma non lo avrebbe fatto, voleva vivere
lontano dal luogo in cui aveva vissuto insieme a lui. In quella città, ogni
angolo, ogni via, ogni locale sapevano di lui.
Unica nota positiva, da quando aveva lasciato casa, era l’aver
acquistato l’indipendenza che avrebbe solo desiderato restando a Fukuoka. I
suoi genitori la trattavano ancora come un’adolescente nonostante i ventinove
anni.
Quei pensieri la incupivano e così chiuse gli occhi cercando di
tranquillizzarsi. E poi c’era dell’altro.
Erano trascorsi quattro anni ma ancora non aveva superato la separazione
da lui. Ma perché? Perché era così difficile dirgli addio? Si erano lasciati
così di punto in bianco. In realtà non si erano mai detti addio, anche perché
Kaori si rifiutò di vederlo dopo aver scoperto la verità.
Lui da sei mesi era a conoscenza del viaggio che avrebbe intrapreso a
settembre ma non le aveva mai detto nulla.
I loro amici lo sapevano ma non avevano detto nulla. Tutti sapevano
tranne lei.
L’aveva avvertita tre giorni prima di prendere quel maledettissimo
aereo che lo avrebbe condotto negli USA.
Lui si aspettava che lei accettasse tutto con il sorriso sulle labbra.
Lui si aspettava che lei sorridesse e lo abbracciasse dopo la
confessione.
Lui si aspettava che lei versasse qualche lacrima di dispiacere ma
invece…
- Kaori, fra tre giorni parto.
- E dove vai di bello?
Kaori conosceva le pazzie del suo ragazzo. Sapeva che appena aveva
qualche difficoltà tentava di scappare. In questo periodo, per lui, per il suo
Principe, le difficoltà erano parecchie tra università e liti con il padre.
Spesso prendeva il treno e si rifugia da sua sorella a Saga o, quando poteva,
scappava nella casa a mare che la sua famiglia possedeva fuori città. Restava
un giorno e poi tornava da lei. Sereno o per lo meno un po’ più rilassato.
Kaori tornò al presente quando sentì la risposta alla sua domanda.
- Yale. Nel Connecticut.
Sollevò un sopracciglio perplessa. Era uno scherzo. Stava riprendendo a
farle stupidi scherzi. Alla fine sorrise al suo ragazzo e gli diede un bacio
sulla guancia. Erano in macchina, sotto casa sua. Avevano trascorso tutto il
giorno fuori. Erano stati al mare, tutto il giorno, proprio come lei aveva
chiesto un po’ di tempo prima. Proprio nella casa al mare di lui. Tutti e due
soli. Mattinata in spiaggia e poi il pomeriggio… un pomeriggio di passione
come non capitava da tempo. A Kaori era sembrata strana tanta brama nel suo
ragazzo, sembrava quasi… scacciò via quei pensieri e tornò a guardarlo in
viso, ma lui era rimasto serio.
- Non sto scherzando. È tutto vero. Parto fra tre giorni. Resterò via
tre anni.
- Certo… spiritoso.
Il ragazzo sospirò e prese dal cassettino del cruscotto un biglietto
aereo e lo porse a Kaori che lo prese con mani tremanti.
Lesse il nome.
Lesse il cognome.
Lesse l’aeroporto di partenza. Aeroporto Internazionale di Narita.
Lesse l’aeroporto d’arrivo. New
Haven CT.
Lesse la data di partenza. Il 10 settembre.
Oggi ne avevano 7. Mancavano tre giorni. Anzi no. Due giorni dato che
ormai erano le 22 del 7. Due giorni e sarebbe andato via. Per sempre?
Lentamente si voltò verso di lui. Tratteneva le lacrime, ancora sperava
in uno scherzo. Vide gli occhi di lui lucidi ed allora capì che era tutto vero.
Scese una lacrima. Poi un’altra. Ed altre ancora.
- Da quanto tempo hai deciso?
Era riuscita a parlare tra le lacrime ed anche lei non capì come.
Tremava come una foglia. Un senso di nausea la colse improvvisamente. Si piegò
su se stessa per evitare di vomitare e lui fu subito su di lei per stringerla,
ma lei lo scansò.
- Cazzo da quanto sai che devi partire.
Si girò verso di lui urlando. La vista offuscata dalle lacrime che non
volevano saperne di fermarsi. Nelle loro litigate Kaori non urlava mai e questo
lo faceva innervosire ancora di più. Ma adesso era diverso, Kaori aveva urlato
e non era un buon segno. La guardò e la vide piccola e fragile. Avrebbe retto?
Certo che sì. Kaori era forte, più forte di lui.
- Sei mesi.
Aveva risposto alla domanda. Kaori non disse nulla. Aprì lo sportello
raccolse le sue cose e scese dalla macchina. In silenzio, senza dire una parola.
Chiuse piano la portiera senza provocare il minimo rumore. Come se quell’atto
di cortesia avesse un senso. Corse verso il cancello e lo aprì. Si fiondò
dentro richiudendolo alle spalle senza mai voltarsi indietro.
Kaori ricordava tutto.
Era sera. Salì di corsa le scale. Mentre saliva cadde e batté forte il
ginocchio. Se lo sbucciò. Uscì sangue. Molto sangue, ma lei non si preoccupò.
Arrivò a casa ed era tutto buio. Era da sola. Meglio. Non voleva vedere
nessuno. Si cambiò e si buttò sul letto. Pianse nella solitudine della sua
stanza. In silenzio, per non farsi sentire dalla madre. Era sciocco però. Lei
era sola a casa. I suoi erano fuori. A Fukuoka in quel periodo faceva
particolarmente caldo, sembrava di essere ancora piena estate eppure erano in
piena stagione dei tifoni.
La stessa sera lui la chiamò.
Una.
Cento.
Mille volte.
Lei non rispose. Spense il cellulare. Chiamò la madre dicendole che era
rincasata, dopo mise fuori posto il telefono. Non voleva essere disturbata. Da
nessuno. Quando i suoi rientrarono fece finta di dormire. Il giorno dopo avrebbe
raccontato tutto. Ma per quella sera voleva rimanere sola nel suo dolore.
Kaori tornò al presente. Una lacrima le solcava la guancia. Hayato
credeva che lei non piangesse più ma non era vero. Quando era sola piangeva
spesso. Ripensare a quella sera la faceva stare male.
Ancora.
Le faceva stare male il ricordo di quel pomeriggio. La passione e la
dolcezza. Aveva avvertito che c’era qualcosa di diverso, ma non volle farci
caso. Ricordava di essersi data della cretina. Era tutto normale ma poi la
catastrofe.
Però ancora non le era chiaro cosa la facesse stare peggio. Il pensiero
di lui che era andato via, oppure il come l’aveva presa in giro? Probabilmente
entrambi. Lei si era fidata. Lo aveva amato con tutta se stessa. Fuori da ogni
logica. Contro tutto. Lui l’aveva delusa. Presa in giro.
Kaori sbuffò, da sempre era stata presa in giro dai ragazzi. Era, forse,
il suo destino essere vittima dell’amore che provava per il prossimo. Ecco
spiegato il perché in quei quattro anni aveva rifiutato l’amore di qualcun
altro. Temeva di soffrire ancora.
Scrollò la testa. Per quella sera troppi pensieri. Si strinse ancora di
più il cappotto in vita. Osservò una coppia scambiarsi teneri baci poco
distante da lei e li invidiò.
Anche lei aveva avuto qualche storia nei quattro anni appena trascorsi ma
nulla di particolare. Niente sesso. Solo qualche bacio. Appena si accorgeva che
l’altro voleva di più lo mandava a quel paese e, generalmente, questo
accadeva già al quarto appuntamento. Era arrivata ad un settimo appuntamento
poi, però, anche quello l’aveva mandata a quel paese. Sbuffò indispettita.
Girò sui tacchi e se ne tornò a casa.
Intanto da qualche altra parte un ragazzo stava guardando quel cielo
autunnale accendersi dei colori del crepuscolo. Sorrise pensando alla sua “depressione
crepuscolare” ed il suo pensiero volò ad una ragazza dai capelli
ramati ed un dolce sorriso sulle labbra.
L'ultimo
bacio mia dolce bambina
brucia
sul viso come gocce di limone
l'eroico
coraggio di un feroce addio
ma
sono lacrime mentre piove
piove
mentre
piove
(*)
Onigiri e ramen sono due piatti tipici della cucina
giapponese. Il primo consiste in
involtini a base di riso e alghe crude, solitamente di forma triangolare.
Possono essere di solo riso oppure ripieni di pesce o carne. Molto diffusa è la
versione con all'interno l'umeboshi una tipica prugna giapponese seccata
con il sale, dal sapore aspro. Il ripieno degli onigiri può variare (tonno e
maionese; gambero e maionese; prugna; riso al pomodoro ed arrotolato attorno ad
una frittata; riso al pomodoro e pezzetti di pollo; con ripieno di salmone); il secondo
piatto, il ramen, è un piatto a base di spaghetti. Zuppa con carne, spaghetti
di grano, uova e alghe crude. Tutti vengono serviti in brodo ed è buona norma
sorbirli in maniera rumorosa per dimostrare gradimento. I Ramen sono spaghetti
cinesi all'uovo e oltre che in brodo si servono asciutti conditi con verdure.
(**)
Mentaiko piatto tipico di Fukuoka, questo cibo, originario della
Corea, è costituito da uova di Merluzzo marinate in sale e peperoncino. Esso può
essere mangiato assieme a del riso bianco (gohan), oppure con gli spaghetti e
con la carne. Ci sono inoltre diversi livelli di piccantezza.
Tornata!
Vi sembra impossibile? No, non scherzo! Sono io! Ecco a voi il quarto capitolo.
Mi spiace non ringraziarvi singolarmente ma non ho tempo. Mi raccomando, però,
ditemi cosa ne pensate! Un bacio a presto! Prossimo aggiornamento: 10 Ottobre.
I versi riportati a sinistra sono tratti dalla canzone L'ultimo bacio di Carmen Consoli, parte del disco L'anfiteatro e la bambina impertinente dell'anno 2001.
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Capitolo 6 *** Capitolo V ***
Nuova pagina 1
CAPITOLO V
Kaori rientrò a casa che ormai era
sera. Aprì la porta e posò le chiavi sopra il mobile all’ingresso. Accese la
luce e si diresse con passo pesante nella sua camera da letto. A peso morto si
buttò sul letto a due piazze, unico sfizio che si era concessa nel suo
appartamento di Tokyo. Chiuse gli occhi e sbuffò.
- Buonasera dottoressa.
Alzò la testa di scatto, doveva
essere sola in casa ed invece non era così, sorrise alla sua coinquilina, poi
le domandò:
- Ma tu non dovresti essere su un
treno diretta alle terme di Arima?
- Dovrei… peccato che domani mattina
devo essere allo studio alle 7. Quello stacanovista del mio capo mi fa lavorare
anche il sabato.
Kaori prese il cuscino e lo lanciò
all’amica.
-
Certo! Ma dimmi è stacanovista anche tra le lenzuola?
Eriko arrossì alle illazioni di Kaori
e uscì di corsa dalla stanza per rifugiarsi nella sua. La rossa sorrise
interiormente. Era stata un po’ troppo cattiva con la coinquilina, ma quella
ragazza non era mai contenta. Aveva la fortuna di avere sul posto di lavoro
l’uomo di cui era follemente innamorata da ormai un anno ed aveva il coraggio
di lamentarsi. Come si poteva? Era un’offesa verso coloro che non avevano la
fortuna di amare.
La suoneria del suo cellulare la
riscosse da quei pensieri troppo pericolosi per il suo inconscio. Rovistò nella
borsa lasciata in terra accanto al letto e trovò il telefonino. Il display
illuminato riportava la scritta “Mamma” e Kaori, sospirando, rispose
alla chiamata.
- Ciao mamma!
Dopo il suo amore finito male, Kaori
aveva deciso di non permettere più a nessuno di intravedere nel suo animo. Il
rapporto con la madre, già da prima difficile, dopo quella decisione si era
ulteriormente complicato. Kaori recitava la parte della figlia diligente e
sempre pronta a rendere fieri ed orgogliosi i genitori, in realtà cercava di
stare il meno possibile in contatto con i suoi. Temeva che riuscissero a vedere
la tristezza nel suo sguardo. Aveva deciso di non essere più felice. La felicità
non era per lei ma non poteva farli preoccupare. Non voleva far pesare la sua
situazione sui genitori, già impensieriti per lei e per la sorella che viveva a
Ichikawa. E poi Kaori tornava a casa durante le ferie estive, a volte anche per
la festa dei ciliegi in fiore.
I genitori qualche volta venivano a
Shinjuku a farle visita e quel periodo per Kaori era estremamente difficile.
Doveva cercare di essere disponibile e solare, anche quando il suo unico
interesse era quello di andare a dormire e non pensare che doveva ancora cenare.
- Sto bene. Tu e papà?
Sua madre era iperprotettiva. La
trattava come quando aveva dieci anni e non si rendeva conto che a ventinove
anni Kaori ormai era una donna abbastanza in gamba per cavarsela da sola. Viveva
a Tokyo da ormai due anni e sapeva come muoversi per la città. Kaori ricordava
come la madre l’assillasse i primi tempi che si era trasferita nella metropoli
giapponese.
Kaori fai lo squillo quando ti svegli.
Kaori fai lo squillo quando esci da
casa.
Kaori fai lo squillo quando arrivi a
lavoro.
Kaori fai lo squillo quando esci da
lavoro.
Kaori fai lo squillo quando rincasi.
Un giorno, Kaori esplose di fronte al
continuo assillo della madre, le disse chiaramente che non avrebbe fatto più
alcuno squillo. Se sua madre avesse trovato qualcosa da ridire sulle sue scelte
avrebbe cambiato anche gestore telefonico e numero di telefono. Era
improponibile vivere col fiato della madre sul collo anche se lei si trovava
dall’altra parte della nazione. D’altro canto sua madre accettò quietamente
le imposizioni della figlia anche perché Kaori aveva dalla sua il padre.
Suo padre. Era il suo idolo. Amava suo
padre con tutta se stessa anche se il rapporto tra loro era parecchio
conflittuale. Lui non era uno di quei padri geloso dei capelli della figlia. Non
l’aveva mai chiamata Principessa, neanche per scherzare. Era un padre e si
comportava come tale. Litigavano sempre anche perché avevano lo stesso
carattere. Testardi e ottusi. L’ultima parola doveva essere la loro. Sayuri
era la figlia perfetta. Laureata. Sposata. Madre di due adorabili bambini. Era
tutto ciò che un genitore poteva desiderare. Fin da adolescente era stata
ubbidiente. Non si era mai opposta al volere del padre cosa che Kaori non
accettava, anche se il suo non era un padre-padrone, ma solo uno di quei
padri vecchio stampo.
Non voglio che tu parta da sola con il
tuo ragazzo.
Non voglio che tu esca da sola di sera
con la macchina.
Non voglio che tu la sera vada a
dormire a casa di qualche amica (figurarsi a casa del proprio ragazzo!).
Non voglio che tu disubbidisca alle
mie regole.
Kaori non era riuscita ad imporsi solo
su di un punto. Il primo. Non era mai partita con il suo ragazzo, e dopo tanti
anni doveva ringraziare suo padre, almeno avrebbe avuto meno ricordi piacevoli.
Nonostante il rapporto, apparentemente
conflittuale, Kaori era pronta a dare la vita per i suoi genitori.
Quando suo padre era stato male si
alzava anche la notte per vedere se il genitore respirasse normalmente nel suo
letto. Il mondo le era crollato addosso. Il suo eroe era in un letto di
ospedale. Debole. Stanco. Non sembrava neanche lui. Aveva avuto paura di
perderlo e questo non lo aveva confessato mai a nessuno; era il suo segreto.
Perse un anno di studi. Un altro anno lo aveva perso precedentemente a causa
alla morte della nonna.
I genitori erano convinti che avrebbe
perso altri anni in seguito alla separazione dal suo amore, ma non fu così.
Kaori reagì buttandosi nello studio e loro furono ancora più orgogliosi della
figlia.
I genitori di Kaori non erano medici.
Erano persone comuni. La loro istruzione arrivava alla licenza media ma avevano
preteso che le loro figlie si laureassero come effettivamente era stato per lei
e Sayuri.
- Andate a far visita a Sayuri.
Quando?
Naturalmente oltre che andare a
trovare Kaori i genitori di andavano anche a trovare Sayuri. Il padre di Kaori
era un ferroviere ormai in pensione ed usufruiva, insieme alla moglie, di una
tessera che permetteva loro di viaggiare gratis. Così spesso prendevano il
treno ed andavano a trovare le figlie. Questo avveniva in media ogni due mesi.
Più frequenti erano le visite a Sayuri, non perché la primogenita fosse
preferito a Kaori, ma perché i signori Tachiki avevano capito che la figlia
aveva un ritmo di vita che le permetteva di passare poco tempo con loro e così
cercavano, in tutti i modi possibili ed immaginabili, di non alterare
l’equilibrio del giovane medico.
- Potreste passare a trovarmi. Mi
prendo un paio di giorno se mi assicurate che salite.
Di contro Kaori adorava le incursioni
dei suoi. Certo era contraddittoria ma era nel suo carattere. Voleva mantenere
la sua indipendenza ma le mancava da morire casa, soprattutto le mancava da
morire la sua famiglia.
- Bene. Allora aspetto la vostra
conferma. Certo mamma, è arrivato oggi. Sì. Ho parlato con Hayato, certo che
gli darò il suo pacco. No. Mamma non sono gelosa! Mamma fammi parlare prima che
mi dimentichi: domani mattina lavoro, ho un intervento importante. Lo so che è
sabato… no… mamma aspetta… si, fammi parlare. Ho un intervento importante
ti dicevo, devo fare da aiuto al professore… certo che è un’opportunità
importante. Capita raramente ai miei colleghi. Ho risolto, certo. Bene. Adesso
vado a fare una doccia. Certo ci sentiamo dopo. Bene. Un bacio!
Kaori chiuse la chiamata. Sua madre
era davvero un osso duro, se iniziava a parlare difficilmente la lasciava
andare. La capiva in un certo senso, anche lei un tempo era così. Chiamava alle
sue amiche e restava ore al telefono, poi tutto era finito. No. Non era colpa
del Verme. Stavolta non era colpa sua. Era tutta colpa dello studio. Kaori non
perdeva un attimo, era sempre china sui libri. Non aveva tempo da perdere, certo
ma intanto rovinava delle belle amicizie. Meno male che le erano rimasti Hayato
ed Eriko. Loro non l’avevano abbandonata anche se il suo comportamento era
stato pessimo. Ed adesso era più che felice di vivere con loro a Tokyo.
Guardò l’orologio. Quasi le
diciotto. Si alzò di scatto dal letto ed uscì dalla sua stanza. Bussò alla
porta chiusa della camera della sua coinquilina, attese il consenso per entrare
quindi aprì piano la porta.
- Eri! Sei arrabbiata per la battuta
di poco fa?
- No, cosa vai a pensare!
- Bene. Dimmi ti va di andare in
palestra. Sola mi secca da morire e poi se ci sei tu posso tenere alla larga
quel cretino di Akito.
Eriko scosse la testa disgustata. Al
pensiero di Akito il sangue nelle sue vene si era ghiacciato. Certo un bel
ragazzo, ma gli anabolizzanti dovevano avergli mandato in fumo il cervello.
Ragazzo più strano non lo avevano mai conosciuto.
- Kaori, sai qual è il mio problema?
Sono troppo buona, dopo la battutaccia di poco fa dovrei mandarti sola in
palestra ed invece, il mio buon cuore mi suggerisce di farti compagnia. Guarda
che mi devi un favore enorme, ricordalo!
Kaori sorrise. Eriko era la ragazza più
dolce che avesse mai conosciuto. Le ricordava un po’ lei prima del cambiamento
come era solita definire la separazione con il suo ex.
Ognuno preparò il proprio borsone per
poi sorridenti dirigersi in palestra.
Tre ore dopo erano nuovamente a casa,
stanche ma soddisfatte. Akito le aveva stressate come al solito ma quando erano
insieme riuscivano a sopportarlo con più facilità. Il proverbio non sbagliava
mai: mal comune mezzo gaudio!
- Cosa vuoi per cena?
Kaori dalla cucina attendeva la
risposta dell’amica che non tardò ad arrivare.
- Ceno fuori, sto uscendo con Akira.
Venerdì sera e lei sarebbe rimasta
sola a casa. Ancora una volta. Situazione deprimente se si fosse trovata a
Fukuoka, ma a Tokyo era normale. Nella sua vita a Shinjuku era normale il suo
essere pigra. Lei si giustificava dicendo che dipendeva tutto dal lavoro
stressante, ma sapeva perfettamente che non era così. Aveva paura. Paura di
uscire e conoscere gente nuova.
Sorrise all’amica, ma quella stretta
allo stomaco che avvertiva ogni qualvolta ricordava la sua vita a Fukuoka, si
fece ancora una volta viva. A Tokyo era tutto diverso. Era sola. Completamente
sola. Non aveva un ragazzo col quale passare le serate. No! Non era corretto,
lei aveva l’amicizia di Hayato, ma aveva bisogno di altro. Non le bastava più.
Hayato era solo un amico, non le faceva battere il cuore, non la faceva sentire
speciale solo perché le sorrideva. Non la faceva sentire viva come invece era
stato un tempo con l’altro. Kaori non si sentiva più viva e questo da quando
aveva rotto con il Verme. Si riscosse dai suoi pensieri quando si accorse che
l’amica la scrutava attentamente. Scosse il capo e le sorrise.
- Si deve fare perdonare per il fatto
che domattina lavorerete?
Eriko fece una smorfia e sparì dentro
la sua stanza senza rispondere alla domanda della coinquilina.
*
* * * *
Kaori era sul suo testo di Chirurgia
Medica e leggeva attentamente la tecnica descritta, l’indomani avrebbe
affiancato il suo professore, una duodeno-cefalo-pancreasectomia su di una donna
di 83 anni. L’intervento di per sé non era particolarmente complesso, l’età
della paziente ed il precario quadro clinico, però, non erano certo di aiuto.
Era talmente immersa nella sua lettura
che sussultò appena sentì il suono squillante del citofono. Guardò l’ora,
le 22 e 35, certamente era Hayato. Si alzò dalla sedia ed andò a rispondere.
Aspettò l’amico davanti la porta di
casa e quando lo vide arrivare infagottato nel suo giubbotto verde militare, la
sciarpa multicolore attorno al collo, il cappello stretto in testa e le guance
arrossate, un moto di tenerezza la invase. Si fece da parte e lo fece entrare.
- Si gela fuori. Sembra quasi che
debba nevicare.
- Non credo, è ancora presto, sei
solo infreddolito.
Hayato intanto si tolse il cappello e
la sciarpa. Diede un bacio sulla guancia alla sua amica e la guardò. I
pantaloni della tuta grigia e la maglia aderente dello stesso colore, nella loro
semplicità, le donavano un’eleganza innata. Il tutto contornato dai suoi
ricci ribelli che le ricadevano liberi sulle spalle coprendone buona parte.
- Se non fosse che ti conosco da quasi
una vita, ti chiederei di uscire!
Kaori sorrise all’amico e lo
abbracciò con dolcezza. Gli diede un altro bacio sulla guancia e poggiò la
fronte sulla spalla.
- Se non fosse che sei il mio migliore
amico potrei anche accettare il tuo invito!
Hayato senza accorgersene iniziò ad
accarezzare i capelli di Kaori. Stavano bene in quel momento. Entrambi, nelle
braccia dell’altro, trovavano la pace e la dolcezza di cui avevano bisogno.
Hayato era sempre stato un ragazzo
estroverso. Lo si intuiva dai vestiti sempre colorati e dal fatto che, quando
arrivava lui, portava seco un’ondata di allegria. Aveva avuto solo una storia
importante ma finita male. Yukiko, il nome della ragazza che era riuscita a
rubargli il cuore, voleva delle certezze dal loro rapporto, certezze che Hayato,
all’età di 23 anni, ancora non si sentiva pronto a darle. Si erano lasciati,
di comune accordo. Per un periodo si erano sentiti come amici ma poi, quando
Yukiko aveva trovato un nuovo amore, per il bene di entrambi, avevano deciso di
interrompere i loro contatti.
Hayato perso nella dolcezza di
quell’abbraccio, e forse di quei ricordi, non si accorse di stringere più del
dovuto Kaori. La ragazza, di contro, stava talmente bene stretta al suo amico
che a malincuore interruppe quel contatto.
- Hai già cenato?
Hayato osservò Kaori e la vide più
piccola ed indifesa del solito. Probabilmente, il tutto era dovuto a
quell’attimo di dolcezza che era già stato superato. Ultimamente si ritrovava
a chiedersi come sarebbe stato avere un rapporto più profondo con lei. Come
sarebbe stato conoscerla anche come ragazza. Come sua ragazza. Si sentiva
terribilmente in colpa nei confronti dell’amica per quei pensieri. Le sembrava
di tradire la fiducia che lei aveva riposto nella loro amicizia per questa
ragione ricacciava indietro quei pensieri, a suo modo di vedere, malsani.
- Veramente no. Sono venuto
direttamente qui appena uscito dall’ospedale.
Senza perdere altro tempo Kaori andò
in cucina ed iniziò a preparare per la cena. Neanche lei aveva cenato, sicura
che Hayato sarebbe passato appena uscito dall’ospedale. E poi quella sera non
le andava di cenare da sola, era certa che Umi le avrebbe fatto compagnia. Mise
sul fornello un pentolino con dell’acqua.
- Preferisci ramen oppure sushi?
- Ardua sentenza. Non saprei. Cosa mi
consiglia lo chef?
Kaori sorrise ad Hayato che intanto
era entrato in cucina e si stava lavando le mani nel lavabo. La ragazza lanciò
all’amico un panno dove poteva asciugarsi le mani riflettendo sulla risposta
da dare.
- Lo chef consiglia ramen… anche
perché domani ho un intervento importante e non voglio coricarmi troppo tardi.
Se dovessi prepararti il sushi perderemmo troppo tempo.
Hayato intanto stava iniziando ad
apparecchiare. Aveva sistemato la tovaglia ed adesso stava aggiungendo
tovaglioli e posate. Kaori era intenta a cercare gli ingredienti per la loro
cena.
Presto il ramen fu pronto ed a questo,
Kaori, aveva aggiunto una semplice insalata. I due amici consumarono la cena
ridendo e scherzando, lodando le prelibatezze della loro terra ed immaginando le
abbuffate che avrebbero fatto appena tornati a casa. Dopo cena lavarono insieme
le stoviglie sporcatesi nel corso della serata e parlarono un po’ del loro
lavoro.
Kaori spiegò l’intervento che
avrebbe dovuto eseguire il giorno dopo con il professore che la seguiva.
Spiegava la difficoltà di operare una donna tanto anziana e così debilitata.
Annunciò anche l’arrivo di un luminare della chirurgia proprio dall’America
e delle possibilità che avrebbe avuto lavorando gomito a gomito con un chirurgo
così preparato.
Hayato ascoltava distratto le parole
dell’amica. Era stanco. Aveva lavorato tutto il pomeriggio dato che avevano
avuto tre ricoveri durante il suo turno, due donne ed un uomo e giacché lui era
il più anziano tra i medici presenti, si era dovuto occupare di tutto. Poco
dopo mezzanotte si alzò dal divano dove stava per crollare addormentato e si
mise il bomber verde militare. Anche Kaori si alzò solo che lo fece troppo in
fretta e fu colta da un capogiro. Se non fosse stato per il pronto intervento
dell’amico si sarebbe ritrovata in terra.
- Ti sei alzata troppo di fretta.
Dovresti fare molto più lentamente.
- Ha ragione dottore. Le prometto che
non accadrà più.
Sollevò il viso e si fermò ad
osservare i tratti dell’amico. Non si era mai accorta che le iridi castane di
Hayato fossero screziate di verde, generalmente le nascondeva sempre dietro a
degli occhiali spessi come fondi di bottiglia, preferendo questi a delle lenti a
contatto. Il suo sguardo scese, poi, sulle guance glabre dell’amico, sui
baffetti che ricoprivano il labbro superiore, ed infine si soffermò proprio
sulle labbra carnose del ragazzo. Non ricordava che le labbra di
Hayato fossero così stuzzicanti.
Hayato di contro rimase interdetto.
Gli occhi di Kaori erano stranamente grandi e… belli. I capelli profumavano di
pesca e solleticavano le sue mani. Il seno della ragazza premeva contro il suo
torace, o forse lo immaginava lui dato che il bomber creava uno spessore
discreto. Quello che lo facevano impazzire però erano le labbra. Rosse.
Carnose. Vellutate. Invitanti.
Non capirono come ma presto le loro
labbra si sfiorarono in modo delicato. Come se avessero timore di ciò che stava
accadendo.
Effettivamente, avevano timore di ciò
che stava avvenendo. Non si capacitavano del perché di quel bacio, ma non
volevano curarsene in quel momento.
Hayato strinse un po’ di più Kaori
e continuò a baciarla sempre con la stessa delicatezza. Nulla di impetuoso. Uno
sfioramento di labbra che mano a mano diventava sempre più intenso. La stretta
attorno ai fianchi di lei aumentò come le carezze lungo la sua schiena. Di
contro, Kaori, stringeva con forza il bomber di Hayato come se avesse paura di
vederlo andare via da un momento all’altro. Le lingue si sfiorarono ma non si
toccarono perché interrotte dallo scatto della porta.
Infatti, questo li riportò alla realtà,
si separarono velocemente e chinarono subito il capo come se il solo osservarsi
potesse, in qualche modo, riaccendere le emozioni appena provate. Eriko fece il
suo ingresso nel salone.
- Kaori ancora in piedi? Oh, ciao
Hayato.
Nessuna risposta. Eriko era sorpresa
del silenzio che regnava nella stanza. Hayato aveva alzato il capo ed osservava
Kaori che era rimasta con la testa china. Si sentì un perfetto idiota. Cosa era
accaduto? Perché si era comportato in quella maniera? Aveva mandato alle
ortiche l’amicizia con Kaori per un bacio.
- Tutto a posto? Mi sembrate strani…
- Tutto bene Eriko. Adesso io vado,
domani Kaori ha un importante intervento e già si è fatto tardi. Notte
ragazze.
Così dicendo Hayato uscì di casa
lasciando dall’amica la sciarpa oltre che il pacco che aveva ricevuto da
Fukuoka.
Kaori senza fiatare si rinchiuse in
camera e si lasciò cadere a peso morto sul letto. Era impazzita. Baciare
Hayato, non uno qualsiasi, no. Proprio Hayato. Era una stupida. Aveva distrutto
un’amicizia a causa di un bacio.
E
quando il sole tornerà, a riscaldare quest'aria
e quando poi tramonterà, ti potrò dire ancora,
ti potrò urlare ancora:
Resta ancora o sempre con me, fino a domani
per potermi dire se hai bisogno di me!
Eccomi gente! Aggiorno anche 24 ore prima del previsto, ma non fatevi
trarre in inganno. Non sarà sempre così. Sono delle necessità. Il 15 ho esami
e così ho deciso di aggiornare prima e non togliere ulteriore tempo ai miei
studi! Un grazie particolare va a ISY_264 ( ancora non si sa chi ha fatto
del male a Kaori, ma sembra che ci sia qualcuno pronto a consolarla… tu che ne
pensi? )e NEPTUNE87 (ciao! La mail è nel mi pc ero convinta di averla
spedita ma così non è stato, adesso mi trovo dal mio amore e non ho la copia
con me, appena sarò a casa ed avrò due minuti di tempo la rileggo e la mando,
ok? Per quel che riguarda questa storia grazie ancora per i complimenti, ma
dimmi a te chi è venuto in mente? Vediamo se la pensiamo alla stessa maniera!
Un bacio a presto! )che hanno commentato lo scorso capitolo. Sperando che questo
vi abbia lasciato piacevolmente sorprese vi saluto. Al prossimo aggiornamento il
10 novembre.
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Capitolo 7 *** Capitolo VI ***
Nuova pagina 1
CAPITOLO VI
Kaori quella mattina arrivò in
ospedale prima delle sette. La sua notte era stata insonne o quasi, in verità
aveva dormito poco e male. Il bacio con Hayato l’aveva sorpresa più di quanto
avesse creduto.
Prima di segnare il suo ingresso in ospedale con
il badge magnetico decise di passare direttamente alla cappella
dell’ospedale. La trovò senza troppe difficoltà, in fin dei conti lei era
un’assidua frequentatrice di quel luogo di preghiera.
Prima di ogni intervento, anche il più banale, si recava in quella
cappella e pregava. Pregava per sé e per la persona che doveva operare.
Chiedeva a Qualcuno Lassù di proteggere se stessa e chi si trovava sotto i
ferri. Il suo non era un rito scaramantico ma era un modo per trovare un po’
di conforto.
Il suo bisogno di affidarsi a Dio non era dovuto a scarsa fiducia nelle
proprie capacità, no. Lei era sicura quando operava, raramente la sua mano
tremava. Il suo affidarsi a Dio era dovuto prettamente ad un bisogno spirituale.
Gli imprevisti nel corso di un intervento potevano capitare, ma lei preferiva
cercare una specie di “assicurazione” nelle preghiere.
Entrò silenziosa. La cappella, come sempre, era aperta. Il buio la
sorprese solo per un attimo. I suoi occhi si adattarono quasi immediatamente
alla penombra di quel luogo. La cappella era piccola e contava in totale quattro
panche per lato. Un crocifisso era posto nella parete di fronte. Entrando a
destra si poteva osservare un quadro raffigurante l’immagine della Madonna con
Gesù Bambino. Il piccolo altare era adornato con qualche rosa rossa, le più
resistenti dato il periodo in cui si trovava, e qualche girasole. Sorrise
nostalgica.
- Il giorno della mia laurea vorrò solo rose rosse e girasoli.
Promettilo!
- Ogni suo desiderio è un ordine Principessa.
Scosse la testa come a scacciare quei ricordi. Alla fine lui che era più
religioso di lei aveva giurato il falso. Non c’era il giorno della sua laurea.
Perché? Perché pensarci ancora? Arrabbiata con se stessa fece il segno della
croce e poi si inginocchiò iniziando a pregare come era solita fare.
Chiese un po’ di attenzione per lei e la serenità per la donna che
quella mattina doveva operare. Pregò per i suoi cari e chiese perdono per il
suo essere così lontana da casa. Chiedeva di trovare una soluzione al problema
insorto con Hayato. Lei non era innamorata dell’amico e sperava che il bacio
della sera prima non fosse altro che uno scambio di affetto, al più un momento
di debolezza reciproco. E poi, come accadeva sempre, alla fine chiedeva un po’
di pace per la sua anima. Kaori soffriva e tanto. In silenzio ma soffriva. Mai
nessuno si era accorto della sofferenza celata nei suoi occhi castani. Forse
solo suo padre aveva intuito qualcosa, ma il carattere riservato dell’uomo,
non gli aveva permesso di indagare più a fondo.
Si alzò e ringraziò il Signore per aver ascoltato le sue preghiere. Uscì
silenziosa come era entrata, ma l’animo era più leggero. Si sentiva più
tranquilla per essersi affidata a Qualcuno più potente di lei.
Entrò nella hall dell’ospedale e timbrò il badge. Non passò dal
reparto. Salì direttamente nel suo studio. Estrasse il portachiavi e cercò la
chiave per aprire la porta dello studio. Dopo pochi secondi entrò. Le imposte
chiuse furono subito aperte. Dopo si tolse il pesante cappotto ed i guanti
insieme al cappello di lana che teneva calcato sulla testa. Infilò il camice e
gli occhiali che teneva chiusi nel cassetto della sua scrivania. Aprì il testo
di chirurgia che aveva portato con sé ed iniziò a ripassare nuovamente. Era la
sua occasione, non poteva farsela sfuggire. Lesse e rilesse attentamente
immaginandosi davanti il pezzo operatorio. Immaginò come intervenire. Come
muovere le mani. Come porsi rispetto alla paziente. Immaginò tutto questo ed
alla fine giunse l’ora di scendere ed andare in sala operatoria.
Il bacio con Hayato? Era sempre presente nei suoi pensieri, per quanto
cercava di non pensarci il bacio era sempre lì. Nei suoi pensieri. Fisso ed
immobile. Il sapore di quel bacio era qualcosa di incomprensibile. Era diverso
dai baci dati in passato. Non c’era amore, solo affetto. Un affetto profondo
che lo legava da tempo ad Hayato. Alla fine di questa giornata avrebbe parlato
con l’amico, era necessario farlo. Non voleva illuderlo, ma forse anche Umi
non era innamorato di lei. Forse si erano trovati entrambi in un momento di
difficoltà ed avevano bisogno solo di conforto reciproco. Forse…
- Buongiorno dottoressa.
La voce cupa del professore la distolse dai suoi pensieri. Senza
accorgersene era giunta già davanti le porte della sala operatoria. I suoi
pensieri l’avevano estraniata dalla realtà che la circondava.
- Buongiorno professore.
Salutò il direttore della scuola di specializzazione con voce sicura.
L’intervento che stava per iniziare era troppo importante. Non poteva
rischiare di perdere un’occasione simile. Raramente il professore Itou si
faceva assistere da uno studente del suo stesso anno per interventi così
delicati. Generalmente loro potevano assistere ma mai avevano un ruolo attivo.
- Come si sente? Non avrà paura spero…
Non permise al docente di concludere la sua affermazione e rispose
immediatamente, ma col sorriso sulle labbra.
- Paura no professore. Ho solo fretta di iniziare. Non sono calma lo
ammetto, ma non le permetterò di prendersi tutto il merito per questo
intervento.
Il professore sorrise di fronte alla finta arroganza della sua allieva.
Conosceva Kaori da quando era arrivata a Tokyo cinque anni prima. Il primo anno
non era riuscita ad entrare: nessuno la conosceva, era prevedibile un risultato
deludente al primo tentativo. Restò un anno internata a chirurgia II, il
successivo tentò nuovamente e sbaragliò la concorrenza. Fu la prima. Itou
aveva sempre ammirato la forza e la determinazione di quella ragazza. Molti
colleghi la stimavano altri, soprattutto le donne, affermavano che era una
ragazza facile, lui non prestava attenzione ai commenti, non gli interessava.
L’importante che fosse in grado di fare il suo lavoro e questo sapeva farlo
davvero bene.
- Vedremo dottoressa.
Kaori sorrise al professore. Era una sfida e questo le metteva a suo
agio. Il rispetto che nutriva per il suo mentore era qualcosa che andava al di là
della stima professionale. Lo rispettava, ma ciò non le impediva di prendersi
qualche confidenza. Aveva imparato a non farsi piegare dagli altri altrimenti
non avrebbe mai fatto strada nel mondo della medicina.
Entrarono nell’anticamera della sala operatoria. Un forte odore di
disinfettante le fece arricciare il naso come ogni volta che vi metteva piede. I
tre lavabi erano perfettamente lucidi come ogni volta. L’orologio posto sopra
di questi segnava le otto e trenta. Puntuale come un orologio svizzero.
L’intervento, come previsto sarebbe iniziato da lì a quindici minuti. Dodici
minuti per le operazioni di lavaggio, tre prima che il professore desse il via.
- Non è passata a parlare con la signora Nakamura, come mai dottoressa.
Non era una domanda. Non era un’osservazione. Era un ordine esplicito.
Il professore era un uomo ligio al dovere, ma prestava attenzione anche al
rapporto tra medico e paziente. Prima degli interventi, anche i più banali, si
premurava a rassicurare personalmente i pazienti e pretendeva che lo stesso
facessero i suoi allievi. Non ammetteva una mancanza simile.
- Ha ragione professore. Solo che, non appena arrivata in ospedale, mi
sono chiusa nella mia stanza a rileggere alcuni studi riguardanti proprio
l’intervento a cui dobbiamo sottoporre oggi la signora.
- Dottoressa il compito di un medico è rassicurare il paziente, veda di
non dimenticarlo per il futuro, ed adesso mi segua.
- Bene professore.
Kaori era mortificata dalle parole che le aveva rivolto il proprio
insegnante. Aveva dimenticato il rapporto con il paziente e si sentiva in colpa.
Si lavarono le mani in silenzio, senza fiatare. Il professore Itou,
quando voleva, sapeva essere severo. Entrarono in sala operatoria e subito due
infermieri erano pronti con i guanti per i chirurghi.
La signora Nakamura era già incosciente. Kaori sollevò lo sguardo sulla
paziente. Sembrava che dormisse. Prima di avvicinarsi ulteriormente al piano
operatorio recitò un’ultima preghiera, poi attese che il professore iniziasse
ad operare.
Tre ore dopo uscì dalla sala operatoria. Aveva un diavolo per capello:
non aveva fatto nulla. Era rimasta lì ferma ad osservare il professore che
operava. Non l’aveva fatta intervenire neanche quando la situazione era
peggiorata a causa di un’emorragia. Non aveva fatto nulla. Il professore
voleva punirla per la mancanza di rispetto nei confronti della paziente.
Kaori aveva tolto i guanti e li aveva buttati in malo modo in un cesto
presente nell’anticamera della sala operatoria. Aveva tolto anche la cuffia
che nascondeva i capelli, ed aveva liberato quest’ultimi dalla rigida crocchia
in cui li aveva legati quel mattino.
- Dottoressa!
Kaori si era fermata e si era voltata verso il suo professore. Lo sguardo
fisso oltre le spalle dell’uomo.
- Mi dica professore.
La voce di Kaori era dura ed alterata. Era arrabbiata con il suo
supervisore e con se stessa. Aveva buttato alle ortiche un’occasione unica ed
il suo insegnante offriva solo un’opportunità.
- Secondo lei perché oggi non le ho
permesso di mettere un solo dito addosso alla signora Nakamura.
Altra constatazione. Altra risposta.
- Colpa mia. Immagino sia dipeso dal fatto che stamattina io non sia
andata di persona a rassicurare la paziente, quindi, non ho meritato la fiducia
di questa, né tanto meno la sua Professore.
- Esattamente. Adesso vada dai parenti della signora e comunichi
l’esito dell’intervento. Dopo può ritenersi libera per tutta la giornata.
Arrivederci.
Bene! L’aveva liquidata. Per quella giornata aveva finito. Ciò
significava solo una cosa, non si sarebbe occupata più della signora Nakamura.
Abbassò il capo mortificata. Strinse i pugni e se la prese con il suo
professore, ma che senso aveva farlo? Era solo colpa sua se era stata
estromessa.
- Bene. Allora vado.
A testa bassa uscì dall’ambiente asettico in cui si trovava. Una
cocente delusione, ecco cosa era stato quel sabato mattina. Mestamente attese
l’ascensore che la riportò al piano zero dove si trovava la sala d’attesa
per i parenti. Li cercò con lo sguardo. La cuffietta di cotone stretta ancora
in mano. Li trovò seduti in un angolo, gli occhi fissi sul tavolino di fronte.
Due uomini ed una donna.
Si avvicinò alle uniche persone ferme in sala d’attese. Inspirò ed
espirò poi con una calma che in realtà non possedeva, come capitava tutte le
volte che si trovava a parlare con i parenti di pazienti che aveva operato, si
schiarì la voce ed iniziò a parlare. Si sentiva una principiante.
- Siete i parenti della signora Nakamura?
Tre teste si sollevarono contemporaneamente. Un uomo anziano la guardò
con i suoi occhi di un azzurro ormai sbiadito, completamente canuto e la pelle
del volto macchiata dai segni del tempo.
- Sì, io sono il fratello.
Kaori annuì e si fermò ad osservare gli altri due parenti. Una ragazza
all’incirca della sua stessa età ed un uomo più maturo. Osservò i volti dei
presenti.
Decise di sorridere per allentare la tensione, sperò che gli altri tre
cogliessero il suo tentativo di alleggerire gli animi. Poi con voce
professionale riprese a parlare.
- Sua sorella è in terapia intensiva.
Appena finì di pronunciare la prima frase colse uno scatto nervoso da
parte della più giovane dei tre. Si soffermò ad osservarla. I suoi occhi neri
erano pieni di paura. Riprese a parlare osservando la ragazza che non aveva
avuto il coraggio di parlare.
- È la prassi. Resterà lì fino a domattina, dopo sarà il professore a
dire se potrà tornare in camera. L’intervento è andato bene, solo una
piccola emorragia ma subito tamponata. Nonostante l’età la signora Nakamura
ha retto bene sia l’anestesia sia lo stress pre-operatorio. Adesso dovremo
attendere e vedere se il suo organismo saprà reagire alla nuova situazione.
Abbiamo dovuto asportare un tratto maggiore dello stomaco, ma siamo comunque
riusciti a dare continuità tra vie biliari, pancreas, stomaco ed intestino.
Si fermò cercando di dare il tempo, ai parenti della signora Nakamura,
di elaborare le informazioni che aveva dato. Osservò i volti e notò che tutti
e tre gli sguardi erano puntati sulla sua persona. Si sentì imbarazzata come
capitava ogni volta che si trovava in quella situazione. Lei, in quel momento,
rappresentava il legame tra il parente operato e il mondo della medicina.
- Dottoressa… come sta mia nonna.
Per la prima volta Kaori sentì la voce dell’unica presenza femminile
presente. Osservò la ragazza e notò come le ricordava lei quando era stato suo
nonno ad essere ricoverato in ospedale. Vedeva la stessa angoscia e la stessa
ansia.
- Le ripeto. È in terapia intensiva. Domani sarà il professore a
sciogliere o meno la prognosi. Io non posso dirle di più.
Alla fine prevalse il tono professionale. Non poteva permettersi di dare
false speranze, era meglio preparare i parenti al peggio anche se… anche se
era stata più ottimista del solito. Aveva detto che l’intervento era andato
bene. Aveva detto che l’organismo della signora aveva retto bene. Aveva detto
che c’era da aspettare, ma credeva di essere stata abbastanza positiva, forse
quelle persone volevano di più ma lei non poteva. Non ne aveva l’autorità.
- Possiamo vederla?
Almeno questo poteva concederlo, o no? Poteva permettere di vedere la
loro cara. Che male potevano fare?
- D’accordo, ma solo per pochi minuti e… non potrete entrare nella
stanza…
- È la prassi, lo sappiamo.
Anche l’altro uomo aveva parlato. Adesso tutti e tre avevano espresso
la loro opinione. Tutti e tre avevano dato voce ai propri pensieri. Kaori si
ritrovò ad annuire e fare loro cenno di seguirla.
Presero l’ascensore interno, quello riservato al personale medico, e
scesero di un paio di piani e si ritrovarono di fronte un corridoio grigio. La
temperatura era decisamente elevata, tanto che la ragazza che era con loro tolse
il pesante giubbotto che aveva, sino a poco prima, tenuto indosso. Camminarono
silenziosi fino a giungere davanti ad una porta. Kaori bussò lievemente ed
un’infermiera aprì loro.
- Buongiorno. Sono la tirocinante del professore Itou, accompagno i
parenti della signora Nakamura nella stanza della paziente. Per favore, mi
servirebbero tre tute usa e getta.
L’infermiera senza aprire bocca rientrò nella stanza e chiuse loro la
porta in faccia.
- Si vede che l’educazione non è di casa.
Kaori si ritrovò a commentare il gesto dell’infermiera senza neanche
rendersene conto.
- Per voi… per alcuni di voi, non per tutti però, è normale tutto
questo. Intendo operare, parlare con i parenti, rassicurarli, accompagnarli in
terapia intensiva. Per noi che stiamo da questa parte è tutto più difficile.
- Resta il fatto che l’educazione non dipende dal tipo di lavoro. O si
ha o non si ha.
Dopo questo scambio di battute tra Kaori ed il più giovane dei due
uomini, la porta chiusa si riaprì e l’infermiera diede loro tre buste di
plastica dopo, la stessa infermiera, porse a Kaori un foglio dove la dottoressa
mise la propria firma, restituì il foglio e la porta si richiuse senza alcun
saluto.
- Io resto dell’idea che per fare certi lavori occorra una certa
vocazione.
- Il medico si fa per vocazione.
- Forse una volta, adesso non più.
- Ma come fai a parlare in questa maniera. Tu perché hai scelto
medicina?
- Io? Forse perché mi è sempre stato detto che questa sarebbe stata la
mia strada. Kaori, io non sono come te. Non ho avuto la possibilità di scelta.
Si sorprese a ricordarsi di quella conversazione. Generalmente pensava ad
altro che riguardasse il loro rapporto, raramente pensava alle conversazioni
serie. Preferiva ricordare episodi più allegri. Le parole dell’uomo più
anziano del gruppo l’avevano sorpresa e non poco.
Consegnò ad ognuno un sacchetto, attese che si vestissero e poi fece
strada per altri corridoi. Raggiungere il reparto di Terapia Intensiva era una
caccia al tesoro dato che i cunicoli ed i corridoi era interminabili. Alla fine
dell’ennesimo corridoio si ritrovarono davanti la porta del reparto che
stavano cercando. Kaori fece passare la chiave magnetica nell’apposito sensore
e le porte si aprirono automaticamente.
Sorrise nel ricordare la sensazione strana provata i primi tempi che
entrava in quel reparto grazie all’ausilio della chiave magnetica. Le sembrava
di essere la protagonista di uno dei tanti film catastrofici che facevano alla
televisione e che in estate propinavano a bizzeffe perché non avevano nessun
nuovo programma da presentare.
- Per favore aspettatemi qui. Io controllo un attimo le condizioni
generali della paziente e poi vi faccio entrare.
I tre annuirono, la più convinta parve la ragazza. Kaori sorrise ed entrò
nella stanza numero tre.
La signora Nakamura sembrava dormire. Kaori sapeva che quel sonno indotto
dagli anestetici si sarebbe protratto sino al tardo pomeriggio. Osservò le
macchine collegate alla paziente, l’elettrocardiogramma era normale, una
leggere bradicardia ma normale, probabilmente effetto di qualche anestetico.
Controllò il contenuto del catetere. Esaminò il colorito della paziente. Toccò
la cute tiepida. Tutto nella norma. Un ultimo sguardo alla tabella con la
temperatura ed alla fine si decise di coprire la paziente con il lenzuolo
fornito dall’ospedale. Non voleva mettere in imbarazzo la signora Nakamura
anche se incosciente. Lo stesso valeva per i parenti. Il protocollo obbligava i
pazienti di terapia intensiva ad essere nudi nei loro letti. Il tutto era per
facilitare le potenziali manovre di rianimazione e poter ispezionare di continuo
la cute del paziente e notare eventuali cianosi dei tessuti. Si fermò un ultimo
istante, la osservò un’ultima volta e poi si avvicinò alla finestra della
stanza, quella che dava sul corridoi dove si trovavano i suoi parenti. Tirò la
tendina e si scostò. Uscì silenziosa e si mise in disparte ad aspettare.
La ragazza che aveva pressappoco la sua età aveva gli occhi lucidi e le
mani poggiate sul vetro. Osservava il corpo inerme della donna.
- Entra. Però solo per pochi minuti.
Kaori poggiò la mano sulla spalla della giovane ed aprì nuovamente la
porta che aveva chiuso con l’abbandono della stanza. La ragazza la osservò
spaesata e poi annuì debolmente e si precipitò verso la donna dormiente.
- Grazie dottoressa. Mia moglie è morta quando Rika aveva solo quattro
anni e da allora è stata mia madre a prendersene cura.
Kaori rimase immobile osservando Rika posare delicatamente la mano su
quella della nonna. Non disse nulla né fece fretta alla ragazza per uscire.
Attese in silenzio. Dopo solo pochi minuti la giovane lasciò la stanza con gli
occhi pieni di lacrime che ormai non riusciva più a trattenere. Sorrise
mestamente alla dottoressa e si buttò tra le braccia del padre dove diede
libero sfogo al suo dolore.
*****
Dopo aver lasciato i parenti della
signora Nakamura, Kaori decise di passare nel suo reparto per vedere come
stavano gli altri pazienti. Dopo aver svolto la normale routine decise di poter
tornare a casa, ormai erano le tredici e la mattina era finita.
Il pensiero di Hayato per un po’
l’aveva risparmiata. Si sentiva meglio. Più rilassata. Più tranquilla. Prese
il pullman che l’avrebbe portata a casa e si andò a sedere nella fila
infondo, il cappello sempre calcato per benino in testa.
Scese quattro fermate dopo, aveva
intenzione di camminare un po’. Aveva chiamato sua madre durante il viaggio in
autobus ed aveva chiuso che era stanca, peggio di stare tre ore in sala
operatoria senza far nulla. Sua madre era capace di sfinirla anche a chilometri
di distanza. Camminò per un po’ di tempo osservando la punta delle scarpe.
Arrivata a casa salutò cordialmente
il portinaio, ritirò la posta e salì a piedi le scale. Girò le chiavi nella
toppa e si stupì di non trovare la porta blindata chiusa a dovere. Entrò e
chiamò Eriko a risponderle però fu Hayato.
Speriamo
che finisca presto questo giorno nero,
speriamo torni un bel sorriso largo un anno intero.
Si spera vengano di nuovo le mezze stagioni
così almeno ci sarebbe un armistizio, asole e bottoni.
Anche
oggi sono di corsa… ho pochi minuti grazie a Tanya per aver commentato.
Stavolta ho scelto un pezzo di Alex Baroni, il titolo è “Speriamo” e
fa parte della raccolta Semplicemente (conosciuta anche come
SemplicementeAlexBaroni), uscita nell’autunno del 2002 a sei mesi dalla morte
di questo grande artista che nella sua breve esistenza ci ha regalato grandi
successi. Il prossimo aggiornamento sarà in data 20 dicembre!
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