Schegge di ossidiana

di Lady Viviana
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***
Capitolo 3: *** Parte III ***



Capitolo 1
*** Parte I ***


Schegge di ossidiana


Ad E.P.
A V., come sempre

 

Fu un attimo: la lama saettò fuori, arrivando a pochi centimetri dalla gola del ragazzino, tanto che questo iniziò a tremare, sentendo il freddo del metallo a contatto con la sua pelle. Lo fissai, lanciandogli uno sguardo minaccioso, poi, con tutta la durezza di cui ero capace, sibilai «Dammi i soldi o ti faccio molto, molto male!».
Quello, ovviamente, non se lo fece dire due volte e, messa una mano in tasca, ne estrasse qualche spicciolo e un banconota da cinque euro, che mise nel mio palmo aperto. Poi scappò via più veloce che poté.
Sul volto, senza che lo volessi, mi si dipinse un ghigno soddisfatto, mentre contavo le monetine, ma questa distrazione mi fu fatale e presto esso si trasformò in un’orribile smorfia allorché una mano mi artigliò con presa ferrea il polso. «Ti ho preso, piccolo delinquente!»
Lentamente, mi voltai, osservando con attenzione e indifferenza il poliziotto davanti a me. Poi annuii e, senza dire una parola, mi lasciai trascinare via.

~

Trafelata, come se avesse appena finito di correre, nella stanza dell’ispettore entrò una donna che, scusandosi, si accomodò sull’unica sedia libera accanto a me, rivolgendomi appena uno sguardo di rassegnazione. L’uomo dall’altra parte della scrivania ci osservò per qualche istante, probabilmente stupendosi della somiglianza che avevamo io e mia madre: stessi occhi neri come l’ebano, stessi capelli scuri come la notte, ma diverso sorriso – remissivo il suo, glaciale il mio – e poi finalmente si decise a parlare.
«Mi dispiace averla costretta a lasciare il lavoro, signora, ma, purtroppo, abbiamo di nuovo colto Pietro in flagrante. E stavolta si è trattato di un ragazzino di dieci anni. Lei capisce che non possiamo più far finta di nulla, vero?»
Lei annuì, abbassando lo sguardo, incapace di dire una sola parola. Io, invece, sostenni quello dell’ispettore, per sfidarlo.
«Questa che gli diamo è davvero l’ultima possibilità. Ormai ha 15 anni, al prossimo reato saremo costretti a prendere provvedimenti. Le è chiaro?»
«Sì, certo. Mi scusi.. mi dispiace davvero, è colpa mia. Avrei dovuto controllarlo di più. Ci scusi tanto…»
Notai che all’uomo mia madre faceva quasi compassione, probabilmente perché conosceva la nostra situazione, ma questo pensiero non dovette occupargli la mente più di un paio di attimi, perché, subito dopo, ci congedò bruscamente e noi lasciammo la stanza.

Non appena fummo abbastanza lontani dalla centrale, dalla labbra di mia madre uscì un vero e proprio fiume di parole, a tratti disperate, a tratti supplicanti, ma, più di tutto, rassegnata.
«Perché l’hai fatto di nuovo? Avevi promesso di lasciar stare i ragazzini, Pietro! Cosa devo fare con te? Devo davvero mandarti in quell’istituto di cui parla l’ispettore? Ti prego, cerca di comportarti bene. Fallo per me…»
Per tutto il tempo, avevo tenuto lo sguardo basso, concentrato sui miei passi, la solita maschera di indifferenza sul volto. Per me erano soltanto parole vuote, l’ennesima recita di una donna che giudicavo scialba, insignificante e, sicuramente, non degna della mia attenzione. Comunque, ero abbastanza intelligente da aver imparato come comportarmi con lei e, per questo, quando terminò il suo monologo, la guardai negli occhi con uno sguardo di scusa, cercando di essere  sincero.
«Scusami davvero, mamma. Io… io ci ho provato, ma i ragazzi ce l’hanno con me. Sono… cattivi. Giuro che non lo farò più.»
Lei annuì, sconsolata, illudendosi per l’ennesima volta che quella fosse la verità, poi, senza dirsi altro, ci dirigemmo verso casa.

~~

Mi chiamo Pietro, domani compirò 18 anni e, finalmente, diventerò maggiorenne. Ma quel giorno non lo vedrò mai, perché sto per morire. E lo so con la stessa certezza con cui tu sai cosa farai domattina, perché l’ho scelto io. Intendiamoci, non sono pazzo, anche se molti mi definiscono così, semplicemente non trovo senso nell’andare avanti ogni giorno per anni, sempre immersi nella stessa routine. No, io sono diverso e oggi lo dimostrerò, in questo deserto pieno del rumore degli spari. Li senti? Amici, nemici, non importa. Sono altri soldati, ma, a differenza di me, loro vogliono vivere. Mi dispiace soltanto per il mio assassino, ma è un pensiero cui non voglio dedicare più di una manciata di secondi. Lascio queste ultime righe perché il mondo possa comprendere la mia storia e capire che il mio non è un suicidio, ma il compiersi di un destino.

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Capitolo 2
*** Parte II ***


Tutto è iniziato quando avevo 15 anni e passavo il mio tempo in uno scomodo banco del liceo scientifico, in cui ero stato mandato perché “ero intelligente”. A dire il verità, penso sia l’unico complimento che mi sia mai stato detto e, per una volta, avevano ragione: lo sono, più di tutti voi. Ma, dall’altro lato, questo mi ha portato a vedere il mondo in modo… diverso, più… lucido, scandaglio la realtà nei suoi dettagli più infimi. E poi la faccio a pezzi.
Voi mi definite matto, ma io mi ritengo un illuminato.
“Quella che il bruco chiama fine del mondo, per il resto del mondo si chiama farfalla”

Comunque sia, passavo le mie ore su quella sedia a pensare ai fatti miei, interrotto soltanto da qualche professore che non si rassegnava al mio mutismo. I miei compagni, invece, generalmente mi ignoravano, ma ce ne erano tre che non erano niente male, due di loro giocavano anche a basket e ogni tanto fare una partitella con loro mi aiutava a schiarirmi la mente e, soprattutto, teneva buona mamma. Le uniche ore in cui non mi annoiavo erano quelle di arte; la professoressa, infatti, era una vecchia pazza che ci lasciava fare e, anche se regnava l’anarchia, potevo dedicarmi ai miei progetti senza scomode domande. Questo finchè un giorno Quella non sequestrò una pallina da tennis a un mio compagno e la lanciò fuori dalla finestra. Eravamo al terzo piano e cadde nel parcheggio, finendo sotto una macchina. Il lancio mi aveva incuriosito così tanto che, non visto, sgattaiolai fuori dalla porta, scesi le scale e la recuperai, per poi tornare al mio posto.  Nessuno si accorse di nulla, finchè, la pallina stretta nel palmo, non la diedi al legittimo proprietario, sotto lo sguardo sconvolto dei presenti. Da quel giorno, la vecchia megera si fece più attenta e quei momenti di tranquillo far niente finirono.
D’altra parte, spesso a scuola non ci andavo, o non potevo farlo, perché venivo trattenuto in centrale. Mi piaceva minacciare i ragazzini, vedere il loro terrore, il sudore che imperlava le loro fronti quando la lama li sfiorava, la paura e l’angoscia nei loro occhi di bambini appena cresciuti. Mi dava tutte le volte una scarica di adrenalina, una sensazione di piacere. E no, al contrario di ciò che puoi pensare, non lo facevo per i soldi. Non mi interessavano, erano soltanto un di più gradito, ma non cercato. A me interessava solo il potere.
Purtroppo, però, presto divenni noto e gli agenti iniziarono a fermarmi, minacciando di spedirmi in riformatorio se non avessi smesso di comportarmi come un criminale.
Un giorno, però, mia madre, esausta, su consiglio di un professore, mi portò da un uomo. Aveva una trentina d’anni ed era di bell’aspetto, quel genere di persona che non puoi non notare quando ti passa per strada, se sei una ragazzina. O anche una donna come mia madre. O mio padre, ma solo per invidiare i suoi successi e nasconderti per i tuoi fallimenti. Capii che voleva fregarmi, ma era simpatico, così gli rivolsi anche un paio di parole. Quando uscii, mi strinse la mano come se fossi stato un uomo e mi diede appuntamento alla settimana successiva. Tornai lì diverse volte, ma ora non so quantificarle. Alla fine,  disse soltanto una parola, ma questa cambiò tutto. Sociopatico.

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Capitolo 3
*** Parte III ***


Purtroppo, alla fine del secondo anno fui bocciato. Finalmente i professori avevano una buona scusa per liberarsi di me e ammetto di non essere stato esattamente uno studente modello in quei mesi. Comunque, decisi che avrei proseguito in un altro istituto e lì continuai i miei giorni, fra progetti e giornate al parco. Stavolta, però, quella parola pesava sul mio destino come un macigno e tutti – insegnanti, genitori e compagni – sopportavano i miei comportamenti con pazienza, confusi e disorientati di fronte a qualcosa che, semplicemente, li terrorizzava. Fu in quei mesi, comunque, che nella mente si delineò il mio Progetto, la ragione cui dedicare i successivi anni della mia vita, quella che mi avrebbe aiutato a sopportare l’ambiente chiuso di quella periferia alla fine del mondo:  sarei diventato un soldato, sarei entrato nell’esercito e avrei combattuto. Per la mia patria. Per il mio paese. Per eliminare gli indegni che calpestano questa terra.
Ovviamente, fui costretto a parlarne ai miei genitori e, se mia madre, crollata su una sedia, reagì piangendo, mio padre si limitò a stare dietro di lei, tormentandosi le mani rovinate dal duro lavoro. Ero determinato e quel giorno capirono entrambi che, per quanti sforzi avrebbero fatto, ormai ero sfuggito al loro controllo. Ero mio e mio soltanto. Avevo io fra le mani il mio destino. E avrei fatto di tutto per realizzarlo.

I successivi cinque anni trascorsero tranquilli, se così si può dire: smisi di minacciare i ragazzini perché sapevo che nell’esercito non amavano i teppisti con la fedina sporca, ma continuai a vagare per la città a ogni ora del giorno e della notte, scappando di casa quando i miei genitori me lo impedivano. Mi diplomai, seguì il mio progetto e ora, beh, ora eccoci qui, all’inizio della mia storia.
Sono nel deserto, ora, la mia prima missione. Le stelle ormai sono alte sopra la mia testa, mente vergo queste ultime righe.
Avrei voluto dare di più, è vero, ma pochi giorni mi sono bastati per capire che questo mondo non fa per me. Perciò ho deciso di lasciarlo. Sarò un eroe. E questo mi darà l’immortalità.

~

Il sole è ormai alto nel cielo e presto raggiungerà la zenit, ma noi da ore siamo in marcia in questa terra arsa, l’arma stretta fra le mani, soldati che marciano compatti, simili ad automi. Mi cullo nel suono ritmico che i nostri stivali producono quando toccano la terra, finchè non ci fermiamo. Pochi minuti e ci disponiamo tutti in posizione, pronti. Subito, veniamo dispersi, il luogo è grande e le forze poche. In breve tempo, proprio come avevo previsto, mi ritrovo solo, i sensi all’erta per cogliere ogni minimo rumore. Poi lo vedo, proprio davanti a me: il nemico. La Morte che cammina nel corpo di un giovane coetaneo.
Esco allo scoperto, l’arma a terra dietro di me, ben nascosta. I nostri sguardi si incrociano per un attimo, una frazione di seconde nel quale vedo che nel nocciola dell’altro passano tutti i sentimenti possibili: paura, rabbia, determinazione, sorpresa. Gli sorrido.
«Sarò un eroe. Muoio per salvare tutti voi.»
Poi accade tutto in fretta, così tanto che quasi non me ne accorgo.
Sparo. Dolore. Allargo le braccia, come un angelo, e sento che sto cadendo. Tocco terra. Buio.

~

Report n°72 – Paziente P.E.T.

In data 06/05/2015, il paziente, eludendo la sorveglianza degli infermieri, è riuscito a rubare la chiave e a scappare sul tetto della struttura. Subito scoperto, è stato trovato in piedi sul parapetto, intento a guardare nel vuoto, sussurrando frasi confuse a proposito di un deserto e di una battaglia. Purtroppo, tutti i tentativi di comunicare con lui sono falliti e poco dopo, senza che nessuno riuscisse ad avvicinarsi a lui o a fermarlo, ha sorriso ai presenti, mormorando parole che nessuno è stato in grado di decifrare, ha spalancato le braccia e si è gettato nel vuoto. Quella che segue allegata è una lettera, trovata nella sua stanza dalla madre qualche ora dopo.

Dott. * - Reparto Psichiatrico Ospedale **
 

THE END

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