Let the Games begin.

di Its Ellie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue: Stark snow ***
Capitolo 2: *** REAPING: Part One - Fate has spoken (Districts 1-4) ***
Capitolo 3: *** REAPING: Part Two - Faith has broken (Districts 5-8) ***
Capitolo 4: *** REAPING: Part Three - Ain't no way to get off (Districts 9-12) ***
Capitolo 5: *** Say goodbye (Pt. 1) ***
Capitolo 6: *** Say goodbye (Pt. 2) ***



Capitolo 1
*** Prologue: Stark snow ***


Let the Games begin.
-Stark snow-
 
Quando Menelaus Stark entrò nel giardino del palazzo, la prima cosa a colpirlo fu l’odore nauseante delle rose.
Lo sentiva impregnare i cespugli, le panchine di marmo, i suoi stessi vestiti e aveva l’impressione che gli stesse penetrando anche nelle ossa, come a marchiarlo. Dovette reprimere l’istinto di tapparsi il naso.
E se lui non poteva far altro che ignorare il disagio, il presidente Snow sembrava gradire molto il forte profumo dei fiori. L’uomo lo fissò inespressivo e il Capo Stratega sentì il suo sguardo di ghiaccio scavare dentro di lui e congelargli il cuore.
«Sei arrivato, Menelaus.» Gli fece cenno di sedersi accanto a lui e Stark obbedì. Rimasero in silenzio per lunghi attimi, Stark perso nei suoi pensieri – l’arena, i tributi, gli ibridi, le trappole – Snow osservando semplicemente il comportamento composto dell’altro, cercando di guardare oltre la maschera.
«Ebbene» esordì infine il presidente. «È tutto pronto?»
«Sì, non ci resta che assistere alle Mietiture» replicò Stark con calma, lasciando ad intendere che aveva tutto sotto controllo. «Confido nel fatto che i tributi di quest’edizione siano più interessanti dei ragazzi dell’anno scorso.»
Era così. Dopo un’epica Edizione della Memoria, la cinquantunesima edizione degli Hunger Games non aveva riscosso molto successo, in parte per l’arena, una vasta landa ghiacciata dove la maggior parte dei tributi erano morti assiderati e non c’era stato quasi spargimento di sangue, in parte per i tributi stessi, molti dei quali erano dei giovani ragazzini dal fisico esile per colpa della malnutrizione. Gli abitanti di Capitol City non si erano divertiti e il precedente Capo Stratega, Gillian Blacknight, ne aveva pagato le conseguenze. Nella capitale risultava “disperso”, ma sia Snow che Stark conoscevano la verità: chi non riscuoteva abbastanza successo ne avrebbe subìto le conseguenze.
«Nel caso questo avvenga, sai già che l’arena dovrà essere spettacolare per compensare le carenze, altrimenti il pubblico potrebbe annoiarsi» disse il presidente. Il suo tono era calmo, quasi disinteressato, ma la minaccia nascosta tra le innocue parole era chiara al Capo Stratega, che annuì.
«Non ha motivo di preoccuparsi.»
Stark era deciso a rendere quegli Hunger Games memorabili, voleva che i suoi concittadini si divertissero, voleva il successo e la gloria. E ciò che Menelaus Stark voleva, se lo sarebbe preso, non importava con quali mezzi.
L’arena da lui ideata non avrebbe avuto niente da invidiare alle altre.
«I tributi non avranno vita facile.»



NdA
Salve a tutti!
Dopo che la mia precedente interattiva è fallita miseramente (non mi sono arrivate tutte le schede e ho aspettato tipo tre mesi) ho deciso di ritentare.
Potrete prenotare un massimo di due tributi e, solo se volete, anche un Mentore.
Ecco qua la scheda che dovete compilare se volete partecipare:

Nome:
Cognome:
Età:
Distretto:
Famiglia e rapporti con essi:
Amici (o nemici) e rapporti con essi:
Descrizione fisica:
Descrizione caratteriale:
Background (storia del tributo, stato sociale, ecc.):
Abilità:
Fobie e vizi (se ce ne sono):
Cosa ama e cosa odia:
Alleanze (con chi preferirebbe stringere un'alleanza):
Altro:

Quanti più dettagli inserirete, meglio sarà per me, cercate di dilungarvi!
Ah, e cercate anche di essere realistici. Voglio dire, un tributo del 12 non potrà mai avere idea di come si usa una spada (per fare un esempio). Cercate anche di non crearmi tutti tributi perfetti e fate anche in modo che io non mi ritrovi con tipo otto storie d'amore da scrivere (due o tre andranno bene). Ricordate anche che il vincitore può essere uno solo quindi mi servirà anche qualche personaggio solitario!
Va bene, smetto di rompere. Se volete creare anche un Mentore avvisatemi e vi mando la scheda!
VI RICORDO ANCHE CHE LA SCHEDA NON VA SCRITTA IN RECENSIONE MA MANDATA PER MESSAGGIO PRIVATO!
Andando avanti nella storia vi chiederò alcune indicazioni, ad esempio per i saluti, l'intervista e la sessione privata con gli Strateghi.
Bene, direi che è tutto. Per qualsiasi cosa chiedete pure.
Qui sotto vi lascio anche la lista dei Distretti disponibili:

DISTRETTO 1: Occupato
DISTRETTO 2: Occupato
DISTRETTO 3: Occupato
DISTRETTO 4: Occupato
DISTRETTO 5: Occupato
DISTRETTO 6: Occupato
DISTRETTO 7: Occupato
DISTRETTO 8: Occupato
DISTRETTO 9: Occupato
DISTRETTO 10: Occupato
DISTRETTO 11: Occupato
DISTRETTO 12: Occupato

A presto!
It's Ellie

PS: Se il nome del Capo Stratega vi suona familiare è perché ho scelto lo stesso della mia precedente interattiva, ormai mi sono affezionata a lui (?)
 

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Capitolo 2
*** REAPING: Part One - Fate has spoken (Districts 1-4) ***


And the players have been chosen, and it seems like fate has spoken,
when it seems your faith has broken, by the second, losin' focus,
ain't no way to get off, get off, get off, get off,
unless you move foward.

Alicia Keys - It's On Again

 


REAPING
Part One: Fate has spoken (Districts 1-4)

 
Distretto Uno
 
District 1 makes the luxury goods that decorate and beautify our great Capitol. Its excellent taste and craftsmanship keep Capitol residents bewigged and bedazzled year-round.

Se c’era una cosa che Silly Crook amava da impazzire, era essere al centro dell’attenzione.
Sopra il palco del Distretto Uno, circondata da lussuose gioiellerie, riflettori e telecamere puntate su di lei e migliaia di occhi che la fissavano, non poteva che sentirsi a suo agio.
Rimase per un po’ in silenzio, assaporando quella sensazione e ripetendosi quanto fosse fortunata ad essere l’accompagnatrice del Distretto Uno. Niente di meglio per lei! I Favoriti erano sempre così pieni d’energia, così sicuri di sé, dotati e di bell’aspetto. Adorava sentire le sue amiche esclamare con invidia “Vorrei fare il tuo lavoro!”.
«Ehi, Crook! Vogliamo i tributi!» urlò qualcuno tra la folla dei diciottenni. Ci furono altre grida d’approvazione, fischi e risate, finché sia dalle ragazze che dai ragazzi non si levò il famigliare coro che ripeteva: “Vogliamo i tributi! Vogliamo i tributi!”.
Silly sorrise al suo pubblico e rispose «E tributi siano!»
I ragazzi urlarono e alzarono i pugni in aria e le ragazze applaudirono.
I primi anni la capitolina si era trovata in difficoltà a gestire la folla rumorosa, scalpitante e impaziente. Le urla la facevano sentire a disagio e odiava le persone che le mettevano fretta, specie se prima voleva godersi la sua immagine su ogni mega schermo della piazza, ma alla fine aveva imparato a farci l’abitudine, fino ad assecondare i ragazzi ogni anno.
Aveva scoperto che era divertente giocare un po’ con loro, che sentirli urlare ed applaudire la caricava. Sorrise eccitata.
«Bene, cominciamo dalle signore!» esclamò facendo l’occhiolino alle ragazze con aria complice.
Si avvicinò alla boccia, immerse una mano tra i biglietti e la fece girare più e più volte, poi afferrò tre biglietti e scelse quello centrale, aprendolo.
«Megan Gray!» annunciò, ma sapeva già che Megan non avrebbe neanche avuto la possibilità di salire sul palco.
Infatti, come da copione, più mani si levarono in aria e parecchie voci urlarono «Mi offro volontaria!»
Silly scelse la ragazza che, secondo lei, aveva alzato la mano per prima. O più probabilmente le piaceva il suo smalto.
«Tu!» La indicò. «Sì, tu! Vieni pure!»
Le ragazze non scelte sospirarono deluse, mentre la bionda che l’accompagnatrice aveva invitato a salire sul palco sorrise soddisfatta e la raggiunse velocemente.
Era bella. Non “carina”. Bella. Aveva lunghi capelli biondi, che alla luce del sole risplendevano, gli occhi azzurri e magnetici, un fisico snello e flessuoso, con tutte le curve al posto giusto. Si muoveva con grazia ma allo stesso tempo in modo deciso. Sembrava proprio una guerriera.
«Vai, Glass!» urlò una ragazza dai lunghi capelli neri e gli occhi grigi, probabilmente una sua amica.
Altri due ragazzi la incitarono, dalle file centrali. Uno dei due, in particolare, la fissava intensamente.
Che stiano insieme?, si chiese Silly. Le avrebbe fatto comodo qualche pettegolezzo di cui parlare con possibili sponsor, una volta arrivati a Capitol City.
«Allora, come ti chiami?» le chiese sorridendo. La ragazza ricambiò il sorriso con espressione determinata.
«Sono Glass Sparks, diciassette anni» rispose scrutando la folla in cerca di una persona.
Quando la trovò le rivolse un ghigno soddisfatto. Eccola là, Mirell, che la fissava invidiosa. Detestava Glass solo perché una volta, durante un allenamento, era riuscita a batterla, lei che si definiva la più forte dell’Accademia. E adesso eccola là, a morire d’invidia. Anche lei aveva alzato la mano, ma non era stata scelta. Glass ridacchiò.
«Vedo che sei molto felice di partecipare agli Hunger Games» osservò la capitolina. Le piaceva il suo spirito combattivo, la determinazione.
«Ma certo.» Gli occhi chiari di Glass si spostarono verso la zona dei ragazzi e incontrarono quelli del gemello, Silver, vincitore degli Hunger Games due anni prima. L’avrebbe reso fiero di lei.
Non avrebbe ripetuto lo steso errore di Marley, ce l’avrebbe fatta.
«Renderò il mio Distretto fiero di me» aggiunse poi. Ci furono altre urla e fischi.
«Non ne dubito! E ora, passiamo ai signori!» Silly prese a saltellare – come fosse possibile sulle vertiginose zeppe che portava, nessuno lo sapeva – e infilò la mano tinta di una lieve sfumatura di fucsia dentro la boccia, arrivando a toccare il fondo. Estrasse un biglietto e lesse il nome al suo interno.
«Rubinrot Krane!»
Stranamente nessuna mano si alzò, nessuno annunciò di voler prendere il posto del ragazzo estratto.
Il tributo non sussultò neanche, si fece semplicemente avanti senza esitazioni, salendo gli scalini con sicurezza e prendendo posto accanto a lei.
Era altissimo, muscoloso ma non in modo esagerato, la pelle rosata, il naso dritto e le labbra carnose. Aveva i capelli biondi ben curati e gli occhi di un bellissimo azzurro con qualche striatura argentata, sembravano quasi elettrici. Silly ne rimase colpita.
Sembrava che tutti lo conoscessero: le ragazze lo osservavano rapite, i ragazzi gli lanciavano sguardi rispettosi. L’accompagnatrice non faticò a capire come mai nessuno si fosse offerto volontario al suo posto. Anche lei era curiosa di vederlo in azione.
«Sembra che nessuno voglia prendere il tuo posto, non è fantastico?» gli chiese elettrizzata.
Lui annuì e sfoggiò il suo sorriso migliore. «Sì, è una gran bella notizia.»
Anche lui, come la capitolina, sembrava gradire tutta l’attenzione che gli veniva riservata.
«Magnifico, magnifico!» A Silly piacevano ogni secondo di più i suoi tributi. «Abitanti del Distretto Uno, fate un grandissimo applauso ai due tributi di quest’anno: Glass Sparks e Rubinrot Krane!»
La folla gridò, fischiò, batte le mani e i piedi e alzò i pugni in aria. I due ragazzi avevano tutto l’appoggio della loro gente.
Glass e Rubinrot si strinsero la mano e si scambiarono uno sguardo d’intesa.
Nessuno dei due era intenzionato a perdere.




Distretto Due
 

Our nation would be nothing without District 2's superb stonework. It builds and fortifies our cities and its citizens are known individually for their strength.


Petty Tulle “amava, amava, amava!” il Distretto Due.
Pur essendo l’accompagnatrice più giovane, era già stata assegnata ad uno dei Distretti Favoriti grazie alla sua carriera come modella che l’aveva resa famosa a Capitol City.
Salì sul palco con sicurezza e, come ogni anno, si prese prima del tempo per osservare la piazza in tutta la sua bellezza. Proprio davanti al palco, infatti, si trovava l’Accademia di Addestramento, dove più della metà dei ragazzi di fronte a lei si allenava fin dalla tenera età. Alta, imponente, da dietro di essa si ergeva L'Osso.
«Che bellezza, non è vero?» chiese alla folla, ma la reazione fu la stessa di sempre.
«Chi se ne frega, Tulle!» urlò qualcuno dalle file centrali. «La vediamo ogni giorno, l’Accademia! Vuoi cominciare la Mietitura o no?»
Petty sospirò rassegnata. «Va bene, va bene! Non c’è bisogno di scaldarsi!»
Prese posto accanto al Sindaco che le sorrise comprensivo, mentre l’inno di Panem risuonava per tutta la piazza e i maxi-schermi s’illuminavano.
«Sono sempre molto eccitati, non è vero?» commentò osservando i ragazzi che non degnavano di un’occhiata il filmato e che invece fissavano ansiosi le due bocce di vetro.
«Sì, ma non ci vuole molto per farci l’abitudine, sa» rispose Petty con il suo accento affettato. Sempre meglio dei ragazzini esaltati che quelli mingherlini degli altri Distretti. Lei adorava i combattenti del Due!
Venne nuovamente il suo turno e la folla l’accolse con urla e applausi. All’improvviso erano tutti molto più sorridenti.
«Be’, direi che nessuno di noi ha voglia di perdere altro tempo, perciò passiamo subito all’estrazione del tributo femminile!» esclamò la capitolina con l’approvazione del pubblico.
Si sistemò prima il lungo vestito color turchese per poi avviarsi verso la boccia delle ragazze.
Vi infilò dentro il braccio con una lentezza esasperante, facendolo girare a lungo, estraendo infine un bigliettino.
«Avanti, Tulle! Vuoi aspettare che si faccia notte o ci leggi quel nome?» esclamò irritata una ragazza dal fondo della piazza.
«Sì, sì! Abigaile Foster!»
Automaticamente varia braccia si alzarono in aria, ma l’attenzione di Petty venne catturata da una ragazza alta e snella, che in silenzio scansò le altre ragazze e salì sul palco senza nemmeno venir prima chiamata dall’accompagnatrice.
«Seraphine Alyeska Rapier. Diciotto anni» annunciò secca.
La capitolina poteva intuire la sua bellezza, nonostante fosse chiaro che Saraphine aveva provato in ogni modo a nasconderla: aveva indossato dei semplici pantaloni e una felpa di almeno due taglie più grande del dovuto, inoltre aveva anche raccolto i capelli castani, quasi neri, in una coda disordinata. Tuttavia, con quei bellissimi occhi color verdeazzurro che da dietro gli occhiali da vista la fissavano intensi, seppur stranamente malinconici, quelle labbra piene color pesca e le ciglia lunghe che facevano da contrasto con la pelle chiara, Petty sapeva che Seraphine era molto più attraente di quel che dava a vedere.
Fece per dire qualcosa, ma la ragazza le voltò le spalle e, senza dire niente, entrò nel Palazzo di Giustizia nello sconcerto generale.
«O-oh... io...» si guardò intorno confusa, senza sapere cosa fare. Cercò lo sguardo del Sindaco, aspettando delle istruzioni.
«Va bene così» disse l’uomo. «Mandate i Pacificatori a sorvegliarla.»
Dalla folla si levò un coro di proteste, le ragazze non erano per niente contente, ma vennero subito messe a tacere dai Pacificatori.
Petty, ancora un po’ sorpresa, si avviò verso la boccia dei ragazzi.
Lasciando perdere la suspance, estrasse subito un bigliettino e lesse il nome.
«Aidan Lohan!»
«Mi offro volontario!» annunciò subito un ragazzo, facendosi avanti.
Raggiunse Petty sul palco e le sorrise con fare cavalleresco. «Salve, madame.»
La capitolina lo fissò stupita. Era alto e aveva i muscoli ben definiti, i capelli neri erano tirati indietro, gli occhi azzurri brillavano come due diamanti. Era molto attraente.
«Salve, tu saresti…?»
«Richard Charles Edward Dwayn Xavier Devillers III, ma lei può chiamarmi Rick, Miss Tulle.»
E menomale, pensò lei. Osservandolo meglio, notò gli abiti costosi e ben stirati che indossava, il portamento elegante e i modi di fare da gentiluomo. Ma chi diavolo era?
Non fece altre domande e si affrettò a concludere la Mietitura. Certo che le erano capitati due tributi proprio strani...
Rick, intanto, fissava la sua amica Yvonne. Non ci aveva messo molto per individuarla: i capelli di un rosso accesso, la faccia costellata di lentiggini e il suo abito dai colori sgargianti l’avevano aiutato non poco. Lei gli rivolse un sorriso tirato, ricambiò il suo sguardo cercando di non vacillare, eppure non era contenta. Sapeva che Rick non si sarebbe mai offerto volontario se non fosse stato obbligato dai suoi istruttori. Avrebbe preferito che fosse rimasto lì con lei, non voleva che rischiasse la vita, ma doveva aver fiducia.
«Bene! Abitanti dei Distretto Due, fate un grandissimo applauso ai tributi di quest’anno: Seraphine Alyeska Rapier e Richard... Charles... insomma, Rick Devillers!»
La maggior parte dei visi degli spettatori era contratta in una smorfia scettica, ma l’applauso ci fu comunque.
Voglio proprio vedere cosa faranno questi due una volta nell’arena, si disse Petty.
Chissà, magari le avrebbero riservato qualche sorpresa.




Distretto Tre

Panem is one of the most advanced nations in mankind's history, thanks to the efforts of District 3. Its computers keep us all connected and its electronic gadgets keep us all entertained.


Frothy Trifling non aveva mai preteso troppo dalla vita.
Era una ragazza modesta, si accontentava facilmente. Così, quando l’avevano promossa al Distretto Tre, si era detta “Oh, be’, sempre meglio del Dodici!”
Si sistemò gli occhiali da sole e sorrise alla folla di ragazzini che la osservava terrorizzata. In realtà il cielo era abbastanza nuvoloso, ma i suoi nuovi occhiali le piacevano così tanto che aveva deciso di indossarli lo stesso.
«Benvenuti, benvenuti, benvenuti!» trillò con la sua voce stridula, che da ormai due anni torturava i timpani di mezzo Distretto. «Sono così felice di essere qui con voi in questo giorno speciale!»
Una ragazzina in prima fila scoppiò a piangere. Frothy annuì soddisfatta, le faceva piacere vedere i ragazzi emozionarsi così tanto, anche lei non stava più nella pelle ormai!
«Anche quest’anno abbiamo uno splendido filmato da Capitol City» proseguì distratta, accennando ai mega-schermi sparsi intorno tutta la piazza e lungo il corso principale. Scrutò il cielo da dietro i grandi occhiali, pregando che non cominciasse a piovere. Non voleva mica che il suo costosissimo mascara colasse tutto!
Mentre il video partiva, Frothy osservò il panorama – se così si poteva definire – che ogni anno le riservava il Distretto Tre: fabbriche.
Fabbriche su fabbriche, una addossata all’altra, dalle quali s’innalzava un denso fumo nero che, insieme al ronzare monotono dei macchinari e ai grigi nuvoloni che ormai avevano nascosto tutto l’azzurro limpido del cielo, rendevano l’atmosfera così deprimente che anche all’accompagnatrice venne voglia di piangere.
Toccò nuovamente a lei e si alzò in tutta fretta per poi afferrare il microfono, ansiosa ormai di farla finita. Voleva raggiungere il treno prima del temporale.
«Bene, è ora di scoprire chi sarà la fortunata ragazza che parteciperà all’edizione di quest’anno!» esclamò battendo le mani, poi, con fare sbrigativo, infilò velocemente il braccio incipriato dentro la boccia di vetro, afferrando un bigliettino e aprendolo senza troppe cerimonie.
«Dinah Hungover!»
La ragazza nominata sussultò e sul suo viso si dipinse una smorfia scontenta, ma non si scompose più del dovuto. Gli occhi scuri non mostravano paura e, mentre si avviava verso il palco e saliva gli scalini, Frothy pensò che sembrava quasi che se lo fosse aspettato.
«Ma certo, – la sentì borbottare mentre prendeva posto vicino a lei – sono stata troppo fortunata nella vita, eh? Il destino doveva rimediare.»
«Tutto bene, Dinah?» le chiese Frothy vagamente preoccupata.
«Sì, certo» sbottò la ragazza senza nemmeno voltarsi. Era alta e slanciata, magra ma comunque con le forme al posto giusto. Aveva i capelli castani legati in una crocchia alta e le guance colorate di un sano rossore. La capitolina ne dedusse che, a differenza di molti dei ragazzini lì presenti, Dinah non soffriva la fame.
«Se lo dici tu...» mormorò. Non ci furono volontari.
L’accompagnatrice raggiunse allora la boccia contenente i nomi dei ragazzi. Sperò in qualcuno di più simpatico, mentre apriva il primo biglietto che le era capitato sottomano e annunciava «Nemesis Harper!»
La folla dei sedicenni cominciò ad agitarsi finché Frothy riuscì ad intravedere il ragazzo. Non era molto alto, era magro e un po’ pallido e anche lui aveva i capelli castani e gli occhi marroni.
Nemesis, sconvolto, si fece avanti lentamente, cosa che fece esasperare l’accompagnatrice. Insomma, quanto pensava di farla aspettare? Lanciò un’altra occhiata alle nuvole sopra di lei, che sembravano ancor più grigie di prima.
Nemmeno per lui ci furono volontari.
Proprio mentre il ragazzo si avvicinava a lei, le prime gocce cominciarono a cadere.
Rovinarono il trucco di Frothy.
Mascherarono le lacrime delle famiglie dei due tributi.
Lavarono via tutta la speranza che era loro rimasta.
Il ronzare delle macchine. Il fumo delle fabbriche. La pioggia fitta.
La natura piangeva i suoi figli.
Dinah si disse che non avrebbe pianto, non davanti alle telecamere.
Nemesis continuava a ripetersi che sarebbe stato forte, che avrebbe provato a non darsi subito per spacciato.
«Oh, diamine, ci mancava solo questa!» si lamentò la capitolina tirando fuori un fazzolettino dalla tasca dei pantaloni attillati e cercando di limitare il danno.
«Be’, fate un applauso ai due tributi del Distretto Tre, Dinah Hungover e Nemesis Harper!»
L’applauso svogliato di quell’anno non era mai stato così deprimente.
«Ragazzi, stringetevi pure le mani!»
Quella che sarebbe dovuta essere un’esortazione amichevole sembrava più una sentenza di morte.
Dinah e Nemesis si scambiarono una stretta poco convinta.
Una cosa era chiara: per sopravvivere, entrambi avrebbero giocato d’astuzia.




Distretto Quattro

Do you like seafood? Shrimp and crabmeat? Often overlooked, District 4 plays an essential role, bringing us the bounty of the sea. These citizens are adept with nets and tridents, and can swim like fish themselves.


Zed Misled osservò da dietro le lenti a contatto viola la massa informe di teste che aveva davanti.
Era un tipo incontentabile, lui. Avrebbe preferito di gran lunga il Distretto Uno, la certezza degli Hunger Games.
Forse, se quest’anno mi capitano due tributi decenti, mi daranno una promozione. Mi andrebbe bene anche il Distretto Due, sarebbe già qualcosa, pensò mentre dai mega-schermi partiva il solito filmato al quale – come ogni anno – si disinteressava completamente.
Gli abitanti del Distretto Quattro erano così noiosi, si diceva con disappunto. Tutti uguali, con quella pelle abbronzata, il mare negli occhi e la passione insensata per la pesca e le nuotate. A lui neanche piaceva, il pesce!
Quando infine fu il suo turno, si alzò dalla sedia controvoglia, ma non appena ebbe il microfono davanti alle labbra, si obbligò a sorridere ed assumere un tono gioioso.
Fallo per la promozione, s’intimò, mentre ravviandosi i capelli argentati esclamava «Signori e signore, abitanti del Distretto Quattro, ancora una volta felici Hunger Games e possa la buona sorte sempre essere a vostro favore!»
E anche a mio, aggiunse mentalmente. Forse con una bella ragazza dagli occhi azzurri che avrebbe attirato qualche sponsor lui...
Si accorse che la folla stava attendendo con ansia che proseguisse e – come spesso accadeva – fu costretto a distogliere la mente dai futili pensieri dai quali spesso si lasciava distrarre.
Così non andava per niente bene. Ci voleva una bella frase ad effetto.
«Bene, è ora di conoscere i due fortunati, coraggiosi tributi che quest’anno avranno il grande onore di rappresentare il proprio Distretto davanti tutta Panem!»
Come sempre, tra i ragazzi le reazioni furono diverse: una scintilla d’eccitazione accese gli occhi di alcuni, mentre altri si torcevano le mani nervosi e cercavano di mantenere la calma ed altri ancora facevano finta di essere totalmente indifferenti alla faccenda. Alcuni lo erano davvero, Zed lo sapeva. Persone preparate come molte altre all’Accademia di Addestramento, che avevano tutte le carte in regola per vincere, ma che non bramavano la gloria ad ogni costo.
«Ed è un onore per me – disse “onore” a denti stretti, continuando a sorridere – estrarre il tributo maschile che prenderà parte all’edizione di quest’anno!»
Si diresse verso la boccia contenente i nomi dei ragazzi, come spesso faceva. Non sopportava la frase “Prima le signore!”. E perché mai? Tanto valeva cambiare le cose, no?
Immerse il braccio tra i biglietti fino a quasi arrivare infondo, poi pescò il primo che si ritrovò fra le dita. Aspettò due secondi prima di aprirlo, com’era sua abitudine, poi lesse il nome.
«Calum Arwed!»
Il ragazzo nominato si fece subito avanti e Zed, prima che potesse evitarlo, esultò.
Era un diciottenne dal fisico scolpito, i capelli mossi e castani che, sotto il sole, diventavano ancora più chiari e gli occhi di un colore particolare, magnetico, a metà tra il verde e il grigio.
Avanzò sicuro e il capitolino lo classificò subito e senza esitazioni come uno di quei ragazzi indifferenti agli Hunger Games, che non li temevano ma non morivano certo dalla voglia di offrirsi volontari.
Quando infine prese posto sul palco, accanto a lui, si ritrovò a gongolare all’idea di tutti gli sponsor che, con un po’ di fortuna e l’ottimo lavoro del Centro Immagine, avrebbe potuto attirare. Nessuno si offrì volontario al suo posto.
«Ma che fortuna, tesoro!» esclamò, per una volta tanto, felice. «Sei emozionato all’idea di essere uno dei tributi di quest’edizione?»
«Farò del mio meglio» si limitò a rispondere lui. Zed lo vide cercare con lo sguardo, tra la folla delle ragazze, quella che doveva essere la sua sorellina. Anche l’accompagnatore non faticò a riconoscerla: si somigliavano molto, con i capelli mossi e chiari e quegli occhi tanto particolari, con l’unica differenza che quelli della ragazzina erano arrossati e traboccanti di lacrime.
 «Oh, be’, lo immagino!» Non perse tempo e si diresse subito verso la boccia delle ragazze, che cominciarono ad agitarsi e trattenere il respiro.
«Vediamo un po’...» mormorò pensoso. Fece girare la mano un paio di volte in superficie, poi afferrò uno dei primi bigliettini che c’erano.
«Jadette Kingsley!»
Ma la suddetta Jadette non fece neanche in tempo a fare un passo che subito, dal gruppo delle quindicenni, una mano si alzò sicura.
«Mi offro volontaria come tributo!» esclamò una ragazza.
Poi, senza esitare, si fece avanti. La prima cosa che notò Zed furono i capelli: mossi e lunghi fino alle spalle, color acquamarina, chiaramente tinti.Che bel colore!, pensò il capitolino. Aveva gli occhi piccoli e marroni, la pelle abbronzata, come la maggior parte dei suoi concittadini, ed era bassina e robusta.
Prese a saltellare, eccitato. «Vieni avanti, cara! Su, forza!»
La ragazza salì sul palco a grandi passi e sorrise soddisfatta. Sembrava molto sicura di sé e determinata.
«Come ti chiami, cara?» le chiese scrutandola bene.
«Lioness, ma mi chiamano tutti Ness» rispose sicura, lanciandogli uno sguardo di sfida.
«Lio... ness? È il tuo vero nome?» Zed ormai era perplesso.
«Ha importanza? È il nome con cui tutti mi conoscono, sono Ness.»
«Ma... il tuo vero nome?» insistette il capitolino.
«Harel. Harel Leewa. Ma il mio nome è Ness.»
Lui annuì, per poi domandarle come mai si fosse offerta volontaria.
«Non è ovvio? Voglio vincere.» La ragazza gli rivolse il suo sorriso più sfrontato.
Zed ormai non stava più nella pelle. «Be’, allora buona fortuna, cara! Signori, ecco a voi i due tributi del Distretto Quattro: Calum Arwed e Har- ehm, Ness! Fate loro un grande applauso!»
I ragazzi applaudirono e Ness e Calum si strinsero la mano, lanciando un’ultima occhiata al vasto mare che, da sopra il palco, si poteva scorgere far da sfondo agli edifici.
Sono perfetti, si disse Zed, ormai ansioso di vederli all’azione. Con questi due ho la promozione per il Distretto Due assicurata, chissà, forse anche quella per l’Uno!








 

-_-_-_-_-_-_-_-_-_-_- Ellie's Corner -_-_-_-_-_-_-_-_-_-_-
Salve a tutti!
Dopo più di un mese di attesa, sono finalmente riuscita ad aggiornare!
*alleluia alleluia*
Spero che le Mietiture vi siano piaciute, forse sono un po' lunghe, ma volevo che conosceste i vostri accompagnatori (vi avverto, la maggior parte saranno insopportabili)! Per i loro nomi... be', diciamo che ho accostato vari nomi di tessuti ad aggettivi come "stupido, frivolo" ecc.
Avrei voluto mettere qualche bella citazione per ciascun Distretto, ma non ho né il tempo né la pazienza per cercare qualcosa di adatto, perciò vi dovrete accontentare delle citazioni sui Distretti prese dalla Guida ai Tributi degli Hunger Games. Sono sicura che siano già state usate e riusate, perciò vi prometto che mi rifarò dai saluti in poi!
Comunque sia, ci terrei a sapere se ho caratterizzato bene i vostri tributi. Essendo una cosa a cui tengo molto, vorrei che me lo faceste sapere.
Ho già pronte le Mietiture del 6, del 7 e dell'8, ma mi manca quella del 5. Non so bene quando arriverà il prossimo capitolo, ma non dovrei metterci molto.
Bene, direi che è tutto.
A presto (spero)!
It's Ellie
 

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Capitolo 3
*** REAPING: Part Two - Faith has broken (Districts 5-8) ***


And the players have been chosen, and it seems like fate has spoken,
when it seems your faith has broken, by the second, losin' focus,
ain't no way to get off, get off, get off, get off,
unless you move foward.
Alicia Keys - It's On Again


REAPING
Part Two: Faith has broken (Districts 5-8)

 
Distretto Cinque

Electric, solar, and nuclear - District 5 harnesses the energy of the earth and the sky in order to power our great nation.

Georgette Tricked chiuse gli occhi e ascoltò il mormorare dell’acqua del fiume che entrava nella centrale idroelettrica per poi uscirne sottoforma di piccola cascata. Era rilassante e aveva l’impressione che anche gli abitanti del Distretto Cinque, una volta giunti in piazza, si tranquillizzassero all’improvviso nell’udire quel suono.
Essere l’accompagnatrice del Cinque non le era mai dispiaciuto più di tanto. Nonostante molti dei presenti fossero semplici operai, non avevano gli stessi sguardi ostili della gente del Distretto Undici o del Dodici e Georgette considerava già da tempo il posto come la sua seconda casa. Ogni scusa era buona per andare a visitare i vincitori e passeggiare per le vie del centro.
Spostando lo sguardo verso l’orizzonte poteva scorgere le serre della centrale geotermica e le turbine eoliche sparse intorno ad esse. La grande valle aveva il suo fascino e Georgette non poteva far altro che apprezzarla.
«Buongiorno a tutti, cari cittadini del Distretto Cinque! Sono molto felice di essere qui con voi oggi!»
Notando le telecamere spostare l’inquadratura nella sua direzione, si sistemò velocemente la parrucca color porpora, assicurandosi che fosse bel salda alla testa. Non voleva di certo ripetere l’errore dell’anno precedente, quando per il troppo vento la sua bellissima parrucca color argento era volata via. Non era stato bello e le sue amiche avevano riso di lei per tutta la durata degli Hunger Games.
Ma, per fortuna, quel giorno il sole splendeva su tutto il Distretto – a beneficio dei pannelli solari impiantati sul tetto del Palazzo di Giustizia – perciò poteva stare tranquilla.
«Come al solito, prima di cominciare, abbiamo sui mega-schermi il filmato arrivato per voi direttamente da Capitol City. Buona visione!»
Si pentì di averlo detto poco dopo. “Buona visione”? Suonava un po’ ridicolo. Il video, nonostante fosse diverso da quello dell’anno prima e di quello prima ancora, parlava comunque delle stesse cose ed era chiaro che tutte le persone che in quel momento stavano osservando il filmato inespressive conoscevano già a memoria la storia di Panem.
Dovremmo cambiarlo, pensò. Magari si potrebbe mostrare un breve resoconto dell’edizione precedente, oppure parlare dell’onore e della gloria che si possono ottenere vincendo.
Raggiunse nuovamente il microfono con la mente immersa nei pensieri. Magari avrebbe potuto parlarne con il Capo Stratega e lui, a sua volta, lo avrebbe riferito al presidente. Perché no?
Raggiante per l’idea geniale che aveva trovato, sorrise a trentadue denti.
«Bene bene bene! È ora di scoprire chi di voi adorabili fanciulle parteciperà agli Hunger Games!» trillò eccitata.
Curiosa anche lei di vedere la ragazza, pescò velocemente un bigliettino e lesse il nome scritto all’interno.
«Ginger... Amira... Melanie... Evelyn... Shiori... Watts!» esclamò scandendo bene ogni nome.
Nella zona delle sedicenni le ragazze si voltarono ad osservare la loro coetanea, che spalancò gli occhi ambrati e si irrigidì di colpo, portandosi una mano alla bocca. Una di loro la strinse in un abbraccio e le sussurrò qualcosa all’orecchio. Ginger annuì e prese un lungo respiro, poi si avviò con decisione verso il palco, di nuovo calma ed impassibile.
Era una ragazza di media altezza, dal fisico sano e forte, i capelli di un castano tendente al rosso raccolti in uno spillone, la carnagione chiara e coperta di lentiggini.
«Che bei capelli, Ginger!» Georgette osservò con invidia i boccoli naturali della ragazza. «Mi piacciono tanto!»
«Grazie» sussurrò lei, accennando ad un sorriso, apparentemente sincero. La capitolina si stupì di tutta quella gentilezza. In genere i suoi tributi si limitavano ad ignorarla per gran parte del tempo.
«Di niente, tesoro! E ora vediamo chi sarà il tuo compagno negli Hunger Games.»
E di nuovo immerse la mano tra i pezzetti di carta, di nuovo ne afferrò uno e lesse il nome del tributo maschile.
«Andy Layle!»
Il ragazzo, dopo alcuni instanti di shock, cominciò a muovere qualche passo, ma tra la folla che assisteva alla Mietitura e non vi prendeva parte qualcuno cominciò a correre e spingere via gli altri, urlando «No! No! Mi offro volontario! Mi offro volontario come tributo!»
E, quando il ragazzo si fece finalmente vedere, ci furono parecchie esclamazioni sorprese.
«Jesse
Andy lo fissava a bocca aperta. Doveva essere un’allucinazione. Jesse non poteva essere lì, probabilmente era tutto nella sua testa.
«Andy, va’ via. Vattene.»
«Ma tu... tu...»
Jesse gli lanciò uno sguardo disperato. «Andy, ti prego, vai via di qui. Ne parleremo dopo. Mi dispiace tanto, ora vai.»
Poi, ignorando le occhiate stupite, incredule, confuse e anche un po’ spaventate che gli riservavano gli altri, salì sul palco.
Georgette intanto stava farfugliando. «Ma... ma... tu non eri con gli altri... non dovresti...»
«Ho sedici anni, sono ancora sorteggiabile, perciò posso offrirmi volontario» ribatté duro lui.
«Io... oh, e va bene.» Georgette gli portò il microfono alle labbra. «Allora, qual è il tuo nome?»
«Jesse Layle.»
«Quello era il tuo fratellino, capisco!»
No, non capisci proprio niente, pensò Jesse. Chiuse gli occhi e pregò il cielo che lo lasciassero stare, che non lo portassero via. Non poteva lasciare che Andy rischiasse la vita.
Ginger, intanto, rifletteva. Aveva già sentito quel nome, ma dove? Fissò curiosa il volto del suo compagno, cercando di capire. E ricordò.
Non aveva già sentito quel nome, lo aveva già visto.
Al cimitero, accanto alla lapide di suo cugino.
Jesse ricambiò il suo sguardo confuso senza esitare e, quando le strinse la mano tra gli applausi dei suoi concittadini, capì di non aver paura.
Lo avrebbe fatto per suo fratello.
Per lui sarebbe morto una seconda volta, se fosse stato necessario.


Distretto Sei

Our hovercraft, our high-speed trains, and our cargo trains come to us from District 6. Ironically, the citizens here have little love for travel.

 
Un fischio assordante risuonò nell’aria, subito accompagnato dal rumore del treno che sferragliava sulle rotaie prima di fermarsi davanti alla stazione.
Orbace Tweed, nel suo primo anno, aveva odiato il Distretto Sei. La stazione dei treni si trovava proprio dietro il Palazzo di Giustizia e, poiché nel giorno della Mietitura ne arrivava uno ogni dieci minuti, significava che lui ogni dieci minuti doveva tapparsi le orecchie sensibili per non dover udire ogni santa volta quel dannato fischio.
Poi ci aveva fatto l’abitudine (più o meno) e si era rassegnato al dover praticamente gridare per farsi ascoltare sopra il rumore dei treni.
L’unico lato positivo era il non dover fare chissà quanti giri per arrivare alla stazione: bastava varcare un portone di legno ed ecco che ci si ritrovava con i binari sotto il naso.
Un forte odore di cavolo riempì l’aria. Chiaramente il treno proveniva dal Distretto Undici.
«Oh, diamine!» Orbace si tappò il naso e fece una smorfia. «Che puzza!»
In un altro momento la scena sarebbe potuta sembrare quasi comica, ma quel giorno nessuno aveva voglia di ridere. Nessuno sembrava far caso all’odore di ortaggi tranne il capitolino.
«Okay, okay, cominciamo» borbottò infine lui. «Salve a tutti, benvenuti a questa cinquantaduesima Mietitura. Visto che le mie narici non sopporteranno questa puzza ancora per molto, vediamo di sbrigarci.»
Raggiunse la boccia di vetro con i nomi delle ragazze quasi di corsa, cosa che gli era possibile visto che, a differenza di tutti i suoi colleghi, odiava i tacchi. Quel giorno indossava una semplice camicia bianca ed elegante e dei normalissimi pantaloni blu scuro, abbinati a delle scarpe comode. Sarebbe potuto sembrare un ragazzo qualsiasi, se non fosse stato per i capelli tinti di un azzurro acceso, l’unica stravaganza che si era concesso.
Afferrò un biglietto con un piccolo sospiro e lo aprì subito, senza nemmeno tornare prima davanti al microfono.
«Ma-»
Un altro fischio squarciò l’aria e l’ennesimo treno passò davanti alla stazione. Una folata di vento investì il capitolino e gli strappò il biglietto dalle mani. Orbace si voltò irritato e vide vagoni pieni di carbone. Distretto Dodici.
Sempre meglio dei cavoli... si disse.
Si girò di nuovo e pescò un altro bigliettino, scocciato.
«Cindy Ferill!»
Dopo qualche secondo una ragazza si staccò dal gruppo delle quindicenni. Era piuttosto esile, ma anche molto alta. Aveva i capelli nerissimi e gli occhi scuri lucidi e traboccanti di lacrime. La pelle, invece, era molto pallida, tanto da sembrare quasi bianca. Quando Cindy gli fu accanto, Orbace notò una sottile cicatrice nascosta dietro la frangetta.
Cindy, intanto, si era accorta che il suo fratellino, Rino, era corso dai suoi genitori e stava piangendo. Diana, invece, era rimasta dov’era e la fissava con espressione ferma. Non arrenderti, diceva il suo sguardo. Non lo farò, le rispose Cindy con il suo.
Gli occhi erano tornati asciutti e la ragazza si obbligò ad assumere un’espressione calma.
Orbace decise di non dire niente per non peggiorare la situazione, anche perché sembrava che se la ragazza avesse aperto bocca sarebbe scoppiata a piangere.
Le diede una piccola pacca sul braccio e si voltò, dirigendosi verso la boccia con i nomi dei ragazzi.
Immerse la mano fino a toccare il fondo e prese un bigliettino. Senza perdere tempo annunciò il nome scritto all’interno.
«Hybrid Evans!»
Il ragazzo avanzò subito, abbattuto ma non esitante. Raggiunse gli scalini a grandi passi e in un attimo fu sul palco, così che Orbace riuscì a prendersi del tempo per studiarlo meglio.
Era alto e magro, non aveva un fisico particolarmente robusto ma non era neanche esile. Aveva lunghi capelli biondi che gli coprivano appena gli occhi grigi, che lo fissavano ostili da dietro gli occhiali da vista.
Sembrava molto meno sconvolto della sua compgna, così il capitolino si azzardò a chiedergli che età avesse.
Hybrid rispose dopo un’eternità. «Sedici.»
Orbace gli domandò qualcos’altro, ma il ragazzo non lo stette neanche a sentire. Non sembrava intenzionato ad aprire di nuovo bocca, così l’accompagnatore decise di finirla lì.
«Ed ecco a voi Cindy Ferill e Hybrid Evans, i tributi del Distretto Sei! Fate un bell’applauso a questi due coraggiosi ragazzi!» esclamò senza molta convinzione.
L’applauso fu debole e, quando il treno delle due sfrecciò dietro il Palazzo di Giustizia, venne completamente coperto e rimasero solo persone dalle espressioni spente che battevano piano le mani.
Nessun incoraggiamento per Cindy e Hybrid.
Non erano mai stati così soli in vita loro.

 
Distretto Sette
 

This beautiful district is lush with trees, from which these citizens supply our lumber and paper. The people of District 7 are hardworking and down-to-earth.


Airy Cretonne si guardò intorno, imbarazzata, cercando di ignorare le luci dei riflettori puntate su di lei.
Non le era mai piaciuto essere costantemente al centro dell’attenzione. Era una persona molto introversa e la folla numerosa, insieme al brusìo assordante, la faceva sentire  a disagio.
Perché aveva deciso di accontentare sua madre? Perché aveva ceduto alla sua idea di farla diventare una degli accompagnatori? Forse perché desiderava tanto vederla sorridere soddisfatta, orgogliosa di lei, almeno una volta nella vita. Ma non era mai successo.
Cercò di inumidire un po’ le labbra con la lingua, ma la gola continuava a dolerle. Avrebbe dovuto accettare quel bicchiere d’acqua prima di salire sul palco.
Prese un lungo respiro per poi cercare di sollevare gli angoli della bocca in su, in quello che sarebbe dovuto essere un sorriso.
Possibile che – anche dopo tanti anni da accompagnatrice – non si era ancora abituata all’idea di avere gli occhi di tutti puntati addosso?
«Salve a tutti, abitanti del Distretto Sette!» esclamò con falso tono entusiasta. «Anche quest’anno avrò l’onore di estrarre i due tributi che rappresenteranno questo bellissimo Distretto agli Hunger Games!»
I ragazzi non erano di certo d’aiuto. La fissavano astiosi con i loro sguardi accusatori, quasi fosse stata Airy la colpevole di tutto ciò a cui erano obbligati ad assistere.
La capitolina tornò seria e si morse un labbro, nervosa. «D’accordo, allora vediamo un po’ chi sarà il tributo femminile di quest’edizione...»
Raggiunse velocemente la boccia, decisa a non perdere tempo. Non avrebbe fatto soffrire oltre quella povera gente.
Immerse la mano tra i biglietti e la tirò fuori velocemente con un fogliettino stretto tra le dita.
Mi dispiace tanto, sussurrò mentalmente alla proprietaria del nome contenuto al suo interno.
«Celeste... T.?»
Fissò confusa la scritta. Perché il cognome non era stato scritto per intero?
Eppure una ragazza si fece comunque avanti, le mani in tasca, il passo pesante, la testa bassa, lasciando in gruppo delle diciassettenni. Era magra, troppo magra, chiaramente denutrita. Aveva la pelle lattea e le guance costellate di lentiggini, i capelli neri come il carbone tenuti in modo che ricadessero davanti al viso, contratto in una smorfia infelice, ma non spaventata. Sembrava quasi arrabbiata.
Si fermò al fianco di Airy, che le chiese come mai sul biglietto fosse stata riportata solo l’iniziale del suo cognome. Celeste si voltò lentamente e la incenerì con lo sguardo. I suoi occhi, dello stesso colore del cielo terso di quel giorno, inquieti, inchiodarono la capitolina lì dov’era.
«Perché i miei genitori, quando mi hanno abbandonata davanti l’orfanotrofio, non hanno avuto la decenza di completarlo» fu la sua risposta secca, poi si girò di nuovo e non la degnò più di uno sguardo.
Airy aprì la bocca, alla ricerca di qualcosa da dire, ma la richiuse. Sospirò, abbassò la testa e mormorò «E ora il ragazzo...»
Poco dopo era di nuovo davanti al microfono. Senza nemmeno fingere un sorriso, annunciò «Damien Powell.»
Il brusìo che si era dapprima calmato quando Airy aveva dato il benvenuto agli abitanti cominciò nuovamente a diffondersi tra la gente e, quando il ragazzo nominato si fece avanti, divenne davvero forte.
Molti lo fissavano ostili, i Pacificatori cominciarono ad agitarsi, ma Damien non sembrava curarsene. Salì gli scalini in tutta tranquillità, con un’espressione terribilmente seria a velargli gli occhi color nocciola, e prese posto sospirando leggermente.
Airy lo osservò meglio: alto, muscoloso, dalle spalle larghe. Anche lui aveva i capelli neri, che gli ricadevano sulla fronte spettinati. Aveva i tratti del viso duri e la mascella leggermente squadrata. Sembrava un tipo davvero poco affidabile.
«Quanti anni hai, Damien?» gli chiese titubante.
«Diciotto.»
Il mormorare delle persone non si calmava, ma non era più quello a preoccupare l’accompagnatrice. Erano i Pacificatori: fissavano intensamente il ragazzo e parlottavano animatamente tra loro.
«C’è... c’è forse qualcosa che non va?»
Airy ormai capiva ben poco di quel che stava succedendo. Il Capo Pacificatore, Augustus Krant, salì sul palco e disse qualcosa al Sindaco Blake, che annuì cupo per poi replicare brevemente. Krant fece cenno di sì e scese dal palco. Intanto Damien aveva osservato tutta la scena con sorrisetto appena accennato. L’aveva scampata di nuovo.
«Può proseguire, signorina Cretonne» disse il Sindaco senza aggiungere altro, facendole capire che era meglio non fare domande e concludere lì la Mietitura. Airy, rassegnata si rivolse di nuovo alla folla.
«Ed ecco qui i tributi del Distretto Sette: Celeste T. e Damien Powell! Fate loro un bell’applauso!»
Gli abitanti applaudirono controvoglia, come ogni anno.
Celeste e Damien si scambiarono una stretta veloce e uno sguardo inquietante.
Airy, dal canto suo, pregava che l’anno successivo le capitassero due tributi normali.
I tributi imprevedibili non mi piacciono, pensò. Non mi sono mai piaciuti.

 
Distretto Otto
 

From the simple, lovely fabrics of the districts to the brocades favoured in the Capitol, District 8 makes it all.


Flimsy Slight trovava che il Distretto Otto – per quanto deprimente ed anonimo con quelle fabbriche tutte uguali, addossate l’una all’altra – fosse uno dei più importanti di Panem.
Dopotutto, era grazie ad esso che gli abiti, le gonne e le camicette di stoffa morbida arrivavano già confezionati a Capitol City, pronti per essere indossati.
E poi essere l’accompagnatrice dell’Otto aveva i suoi vantaggi: ogni anno, prima di scortare i due tributi al treno, ne approfittava sempre per fare un salto nei magazzini delle fabbriche e scovare i pacchi pronti per essere spediti a Capitol City. Una volta adocchiati i vestiti che voleva, bastava semplicemente tirare fuori i soldi e i proprietari delle fabbriche non avevano improvvisamente più niente da ridire. Non solo risparmiava molto di più, ma era sempre la prima a sfoggiare i capi più esclusivi delle nuove collezioni e questo faceva morire d’invidia le sue colleghe.
Gongolando all’idea dell’abito da sera viola che aveva scelto dal catalogo il giorno prima e all’espressione che avrebbe fatto Frothy quando gliel’avrebbe visto addosso, raggiunse il microfono con le labbra tinte di un rosso troppo acceso incurvate in un sorriso ebete.
«Eccoci qua di nuovo tutti insieme, abitanti del Distretto Otto!» esclamò sinceramente emozionata. «Siete contenti?»
Ignorando gli sguardi inespressivi dei ragazzi, si rispose da sola con un bel “Ma certo!” convinto.
«Direi che possiamo anche passare all’estrazione del tributo femminile, non vi pare?»
Ancora silenzio.
«Ovvio!»
Detto questo, si avviò barcollando verso la boccia di vetro alla sua sinistra. Sorrise alla folla, indugiò con le dita tra i biglietti in superficie, poi le immerse fino in fondo, estraendo due biglietti. Li osservò attentamente, poi scelse quello dietro. Intanto qualcuno aveva già cominciato a piangere.
«E la fortunata è... Clemency Forest!»
La ragazza nominata sbarrò gli occhi, mentre le mani affusolate cominciavano a tremare. Senza che potesse impedirlo, una lacrima le rigò la guancia, ma lei se l’asciugò velocemente e sbatté le palpebre un paio di volte per impedire alle altre di seguirla.
Alla fine cominciò a muovere qualche passo, cercando di nascondere come poteva il tremolio delle mani. Era bassa per avere quindici anni e magra, con poche curve, aveva i capelli corti fino alle orecchie di un biondo così chiaro da sembrare quasi bianco, gli occhi grandi e leggermente allungati, verde foresta, il naso piccolo e all’insù e le guance rosse.
Una volta salita sul palco cercò di mantenere lo sguardo dritto davanti a sé, ma non ci riuscì. Quasi inconsciamente i suoi occhi cercarono tra la folla ancora e ancora, finché non li trovarono. Eccoli, i suoi genitori, Magnus e Isabel, nella divisa da Pacificatori. Naturalmente facevano finta di non conoscerla, non potevano fare altrimenti. Sembravano completamente indifferenti alla faccenda ed effettivamente era così. Era stata Clemency, in preda alla disperazione, a voler illudersi per un attimo che potessero anche essere addolorati, almeno un po’. Ma no, lei era la figlia indesiderata, che non sarebbe dovuta mai nascere. Già, probabilmente erano anche contenti di non averla più tra i piedi.
Sospirò e distolse lo sguardo, senza ascoltare ciò che le stava dicendo Flimsy che, ancora una volta ignorata, decise di andare ad estrarre il tributo maschile.
La mano piccola e delicata della capitolina si mosse rapida e strinse tra le dita un unico bigliettino. Lo aprì e lesse il nome.
«Hannibal Lightning!»
All’inizio Flimsy non riuscì ad individuare il ragazzo. In genere chi veniva nominato reagiva quasi subito e non ci voleva molto per trovarlo. Quella volta, tuttavia, non successe.
Dopo un po’ qualcuno si fece avanti. Era un ragazzo alto e dal fisico robusto e slanciato, i capelli neri e mossi, gli occhi grigi e sottili. Aveva un’espressione leggermente accigliata, con le sopracciglia appena aggrottate, come se tutto quello fosse stato semplicemente un imprevisto, qualcosa che non si era aspettato del tutto. Quando raggiunse l’accompagnatrice sul palco, era già ritornato inespressivo.
Flimsy lo guardò meglio: aveva i lineamenti del viso duri, la mascella squadrata e la sua compostezza e lo sguardo freddo gli ricordavano tantissimo qualcuno. In quel momento, tuttavia, non riuscì ad associare il suo volto a nessuno.
Scrollò le spalle e non ci pensò più. «Allora, Hannibal, quanti anni hai?»
«Diciassette.»
«E come ti senti?»
La fronte del ragazzo si aggrottò nuovamente. La guardò in silenzio per qualche secondo, poi rispose. «Sto bene.»
Flimsy si sentiva quasi a disagio. Hannibal sembrava strano. Sembrava... che gli mancasse qualcosa.
Cercò di ignorare la sensazione e si aprì nuovamente in un grande sorriso, volgendo nuovamente lo sguardo alla folla.
«D’accordo! Signore e signori, fate un grandissimo applauso a questi due meravigliosi ragazzi, Clemency Forest e Hannibal Lightning!»
Gli abitanti del Distretto applaudirono svogliatamente.
La capitolina, intanto, fissava rassegnata i suoi due tributi.
Che ragazzini difficili!







Ellie's Corner
Prima di cominciare, mi scuso per il ritardo.
Avevo detto che avrei aggiornato presto e invece sono passati... quanti? Venti giorni? Scusatemi, ma ho avuto una serie di problemi che non sto qui ad elencarvi e non ho potuto aggiornare presto come speravo.
Devo dire che non sono neanche tanto soddisfatta del capitolo, ma i pareri li lascio a voi.

Blue_glo: Ho leggermente modificato la storia di Clemency. I Pacificatori in teoria non possono avere figli, quindi ho dovuto cambiare qualche cosetta. Vedrai più avanti, ma in generale la sua storia è rimasta com'è.

TheBerserker: Devo ammettere che Hannibal mi ha dato parecchio filo da torcere! Non sono sicura di averlo caratterizzato bene, perciò vorrei sapere cosa ne pensi tu.

Alcuni di voi mi hanno indicato dei prestavolti per i loro tributi, quindi vi lascio qua quelli dei ragazzi conosciuti fino ad ora nel caso li vogliate vedere.

Glass Sparks, D1 (Chloè Moretz)
Seraphine Rapier, D2 (Maya Neubert)
Rick Devillers, D2 (Logan Lerman)
Calum Arwed, D4 (Zac Efron)
Ginger Watts, D5 (Kate Mara)
Damien Powell, D7 (Dylan O'Brien)

Mi farò viva presto, promesso.
Alla prossima!
Ellie



 

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Capitolo 4
*** REAPING: Part Three - Ain't no way to get off (Districts 9-12) ***


And the players have been chosen, and it seems like fate has spoken,
when it seems your faith has broken, by the second, losin' focus,
ain't no way to get off, get off, get off, get off,
unless you move foward.

Alicia Keys - It's On Again



REAPING
Part Three: Ain't no way to get off (Districts 9-12)
 
Distretto Nove

District 9 is Panem's bread bowl, giving us the fertile harvest we need to keep rising as a nation. Its amber waves of grain are an inspiration to us all.

Skimpy Shallow rischiò di cadere e rompersi il naso rifatto almeno dieci volte nella sua corsa. I tacchi alti almeno quindici centimetri non aiutavano di certo.
«Oh, diamine» ansimò una volta uscita dal corso principale del Distretto Nove, precipitandosi nella piazza gremita di persone. «Il sindaco sta finendo il discorso!»
Come ogni dannato anno, l’hovercraft che doveva portarla dal bell’appartamento che aveva a Capitol City fino ai vasti campi di grano del Distretto Nove era arrivato con due ore di ritardo.
E chi ci faceva brutta figura? Lei, ovviamente! Lei, che essendo l’accompagnatrice sarebbe dovuta essere la persona su cui fare affidamento per arrivare in orario alla stazione, al Centro Immagine, al Centro di Addestramento.
Questa è la volta buona che faccio licenziare il pilota, pensò furiosa mentre, sotto lo sguardo di tutti, saliva le scale cercando di non slogarsi una caviglia e si parava davanti al microfono giusto in tempo.
Quell’idiota che arrivava sempre in ritardo e non si sentiva nemmeno in dovere di scusarsi. Che educazione!
«Io... ehm... salve a tutti!» Doveva prendere in mano la situazione o gli Strateghi, l’edizione successiva, l’avrebbero fatta retrocedere al Distretto Undici. L’ultima cosa che desiderava.
«Salve a tutti, abitanti del Distretto Nove!» ripeté con un sorriso raggiante. «Mi scuso per il ritardo, il pilota ha avuto dei... problemi. Ma ora sono qui e non vedo l’ora di accompagnarvi, ancora una volta, nella Mietitura che deciderà chi di voi adorabili ragazzi saranno i due fortunati a partecipare agli Hunger Games!»
Molto meglio, pensò soddisfatta ravviandosi il ciuffo di capelli tinto di blu scuro.
Osservò la folla sotto di lei: gli abitanti del Distretto Nove erano in gran parte contadini e passavano le giornate nei campi di grano zappando, coltivando e raccogliendo. Che vita orribile!
Avrebbero tutti bisogno di una vacanza, pensò notando le numerose borse sotto gli occhi, le spalle ricurve e le gobbe di molti. Tutto di loro trasmetteva stanchezza e rassegnazione.
A Skimpy un po’ dispiaceva per quelle povere persone, infondo a chi sarebbe piaciuto lavorare tutte quelle ore al giorno con una pala od una falce in mano ed un cesto di vimini per raccogliere le spighe di grano? Non dovevano essere molto felici.
Be’, per questo ci sono gli Hunger Games, no? Per rallegrarli!, ricordò elettrizzata.
«Ma bando alle ciance, non perdiamo altro tempo!» esclamò avvicinandosi alla boccia delle ragazze. Le reazioni furono le stesse di ogni anno: pianti disperati, schiene irrigidite, respiri trattenuti. La capitolina continuava a chiedersi perché fossero tutti sempre così infelici. Partecipare agli Hunger Games era un grande onore!
Dopo aver deciso che non avrebbe fatto soffrire oltre le ragazze, visto che sembravano tutte sul punto di svenire, e che avrebbe riservato lasuspance per un’altra volta, fece affondare appena la mano tra i pezzetti di carta, la spostò un po’ verso destra e pescò un bigliettino, aprendolo subito.
«Sei Disraeli!»
E, quando ognuno si accorse di chi fosse la ragazzina, un mormorio scontento si diffuse tra gli abitanti del Distretto. Era solo una dodicenne, e non una dodicenne qualunque, ma questo Skimpy non poteva certo saperlo.
Non poteva sapere che la gente era sorpresa, perché in molti l’avevano riconosciuta. La piccola Crème, la ragazzina dalla voce “dolce come la crema”, come diceva Jordan, la piccola suonatrice di sax, che aveva incantato tutti nelle serate al teatro, ricchi, poveri e anche Pacificatori.
La piccola Crème che si era rivelata essere Sei Disraeli, una dei numerosi figli di Cedric Disraeli.
La ragazzina si fece avanti, cerando sì di dominare la paura, i pugni serrati, ma con passo esitante.
Aveva dei bellissimi capelli biondi, gli occhi luminosi ed azzurri e la pelle chiarissima, tanto da sembrare quasi trasparente. Era magra e piccolissima, sembrava davvero fragile.
Skimpy provò dispiacere per lei e la incitò dolcemente a salire sul palco. Quando fu accanto a lei, chiese piano «Come ti senti, tesoro?»
Sei mormorò qualcosa, ma così piano che l’accompagnatrice dovette avvicinarsi ancor di più a lei e chiederle di ripetere.
«Io... io mi chiamo Crème» disse la ragazzina torcendosi le mani. «Chiamami Crème.»
«Oh, d’accordo...» Skimpy le poggiò una mano sulla spalla. In un altro momento probabilmente Crème l’avrebbe scostata, ma lì, su quel palco, davanti ai musicisti del teatro che ormai erano diventati la famiglia che non aveva mai avuto, era troppo sconvolta per far qualcosa che non fosse reprimere il terrore e cercare di mostrarsi forte.
Nessuno annunciò di voler prendere il suo posto.
Skimpy le diede una leggera pacca, poi raggiunse la boccia dei ragazzi.
Infilò la mano dentro la palla di vetro e la fece girare un paio di volte, poi afferrò un foglietto. Lo aprì e ed esclamò «Julian Underwood!»
Ma il Distretto Nove, in genere relativamente noioso, le riservò un’altra sorpresa.
«Mi offro volontario come tributo! Mi offro volontario come tributo!»
La capitolina impiegò due secondi appena per trovare il proprietario di quella voce potente. Era un gigante: enorme, altissimo, grandissimo e con un sacco di muscoli, biondo e con gli occhi grigi. A Skimpy per un attimo sembrò di trovarsi in un Distretto Favorito, con quel tipo grande e grosso che si offriva come volontario con tutta quella sicurezza.
Rimase in silenzio per un po’, senza parole, a fissare quel ragazzo con gli occhi sgranati e la bocca schiusa, poi si riprese.
«A-ah... eh...» balbettò alla ricerca di qualcosa da dire. «Fa-fantastico! Wow, grandioso! Vieni pure, ragazzo, fatti avanti!»
Il gigante avanzò a grandi passi e la capitolina notò che tutti lo fissavano ammutoliti e sorpresi. Ma chi era quel tipo?
Una volta che l’ebbe raggiunta, gli chiese «E quindi, qual è il tuo nome?»
«Mi chiamo Roy Gaison, ho diciotto anni» rispose lui, ma sembrava avere la mente da tutt’altra parte. Continuava a fissare la ragazzina, Crème.
«E... posso chiederti il motivo per cui hai deciso di offrirti volontario?»
«Voglio proteggerla.»
Skimpy lo fissò confusa. «Chi, tesoro?»
«Crème. Voglio proteggerla.»

 
Distretto Dieci

The gentle lowing of cattle is the first thing a visitor to District 10 hears. This region raises strong, healthy livestock, which becomes the meat that helps us raise strong, healthy children of Panem.

Void Tartan, eccentrico uomo dai lunghi capelli verdi raccolti in tante piccole treccine, come ogni anno era inevitabilmente e completamente ubriaco.
Cullen Rentock, il Sindaco, lo fissava a disagio, ma il capitolino non se ne curava minimamente. Pensava piuttosto alla vecchia signora che ogni anno gli vendeva ogni tipo di superalcolico a prezzi esorbitanti, che Void pagava ogni volta. Non poteva farci niente, gli alcolici della signora-degli-alcolici, come la chiamava (aveva dimenticato il suo nome già da tempo), erano i migliori nonché i più forti – per lui “forte” era sinonimo di “migliore”.
Andava bene qualsiasi cosa che riuscisse a stordirlo abbastanza da non ricordare più chi fosse, dove si trovasse, cosa dovesse fare. Quel giorno aveva cercato di restare un po’ più lucido del solito, giusto per non svenire e cadere dal palco, ma non ci era riuscito granché.
«Sa, signor Sindaco...» Quando aprì bocca una forte puzza di alcool fuoriuscì insieme alle parole strascicate. «Io credo che... che...» Aggrottò la fronte.
«Che?» chiese Rentock, paziente.
«Lo sa, no? Tutta questa storia delle Mietiture... con quelle telecamere... se capisce che intendo...»
«Ma certo» rispose l’uomo senza voltarsi. Void sapeva che cercava di assecondarlo, ma quella volta era qualcosa di davvero importante.
«Ma io dico sul serio... quelle telecamere, io le odio... che bisogno c’è di...» farfugliò.
«Io penso» lo interruppe bruscamente il Sindaco. «Che dovrebbe alzarsi, signor Tartan. Il filmato è finito.»
Il capitolino strizzò gli occhi più volte e chiese all’altro di schiaffeggiarlo. L’uomo sospirò. «Sa che non posso farlo.»
«Va bene, va bene, lo faccio io.»
Si mollò da solo uno schiaffo così forte da lasciarsi tramortito. Rimase lì, immobile, la faccia ancora voltata di lato e gli occhi stralunati per qualche secondo, poi si alzò di scatto e raggiunse il microfono.
Chissà perché non mi hanno ancora licenziato, pensò distrattamente. Ci sono così tanti giovani motivati mentre io...
Lasciò il pensiero a metà, come spesso gli capitava. Certe volte non aveva neanche la forza di completarli, i suoi pensieri.
«Allora, adesso dobbiamo... devo...» Si fermò. Stava ansimando. «Sì... insomma... il tributo femminile.»
Si avviò con passo malfermo verso la boccia alla sua destra, sperando fosse quella giusta. Prese il primo biglietto che gli era capitato tra le dita e lesse il nome scritto dentro.
«Andras Riley Lennen.»
Sbuffò. Aveva sbagliato di nuovo, quello era un nome maschile. Be’, poco importa, si disse.
Ad avanzare fu un ragazzo non troppo alto e dal fisico tonico. Aveva i capelli neri che facevano risaltare la pelle color avorio e le guance coperte da efelidi chiare. Gli occhi castani erano spalancati e gli tremava leggermente il labbro inferiore.
«Quanti anni hai... com’è che ti chiami?» gli chiese Void, che non ricordava già più il nome del ragazzo, strizzando di nuovo gli occhi di un verde troppo acceso, chiaramente non il suo colore naturale.
«Andras Linnen. Ho sedici anni» rispose lui senza sapere come reagire. Aveva una voce profonda che contrastava la sua aria infantile. Quando era stato estratto, aveva sentito la gemella Vienna urlare disperata, ma non ebbe il coraggio di cercarla con lo sguardo. Chissà dov’erano le sue sorelle, come si sentivano, se sarebbero state forti. Ce l’avrebbero fatta anche dopo aver perso l’unico uomo rimasto in casa? O il dolore le avrebbe uccise lentamente? No, ce l’avrebbero fatta.
Ora basta, Andras, si ordinò mentalmente. Non pensare a loro, le vedrai tra poco. Ora sii forte e mantieni la calma.
Com’era sua consuetudine, pensava sempre alle persone a cui voleva bene prima di sé stesso. Era più forte di lui, era la sua natura.
Void, intanto, era riuscito a barcollare fino all’altra boccia e ad estrarre un biglietto.
«Jilne... Blikat...» annunciò con voce impastata. Si sentiva stordito e cominciava a vederci doppio.
Ma non ebbe il tempo di provare a ripetere il nome che una ragazza si fece avanti scansando le altre ed esclamò «Mi offro volontaria!»
Un verso stupito si propagò per tutta la piazza, mentre la ragazza saliva gli scalini con decisione e si fermava accanto al capitolino, che la guardava confuso.
Visto che Void non sembrava nella condizione di aprire bocca, la ragazza si presentò da sola. «Mi chiamo Marghareth Scarlett Stock e ho diciotto anni. Mi sono offerta volontaria perché...»
...perché probabilmente è l’unica cosa che le mie sorelle non hanno ancora fatto e in cui non sono migliori di me.
«...perché voglio vincere e dimostrare a tutti il mio valore.»
Per fortuna la voce non tremò. Era suonata sicura, determinata.
Void cercava di studiarla, ma anziché vederne una, aveva davanti a sé due ragazze che continuavano a tremolare. Aveva un fisico formoso, non esile ma nemmeno troppo in carne, la pelle olivastra, capelli ricci e voluminosi del colore del cioccolato, labbra carnose, naso all’insù e gli occhi di due colori diversi: uno verde e l’altro di uno strano viola tendente al rosa.
Perché ti sei offerta volontaria? Non siamo nel Distretto Due, avrebbe voluto ricordarle l’accompagnatore, ma non ci riuscì perché si sentì mancare e crollò a terra.
Un gruppo di Pacificatori lo prese per le braccia e le gambe e lo portò via, mentre, con un debole applauso di sottofondo, Scarlett ed Andras si scambiavano una stretta di mano.
Anche quella Mietitura era giunta a termine.

 
Distretto Undici

Known for its bountiful orchards, District 11's workers spend their days among rustling fruit trees and sizeable farms.

Emiane Chiffon era una donna di bassa statura e grassa, motivo per cui era odiata da gran parte della popolazione dell’Undici. La sua pancia rotonda suscitava l’invidia dei ragazzini esili e mingherlini che in vita loro non avevano mai avuto abbastanza da mangiare.
La capitolina, come ogni anno, lasciò che gli sguardi furiosi dei ragazzi le scivolassero addosso come acqua e scrollò le spalle facendo ricadere in avanti i lunghi riccioli rosso rubino.
Scrutò la piazza da dietro gli occhiali scuri, che proteggevano gli occhi dal sole che quel giorno picchiava con violenza su tutta la zona: come al solito il piazzale era sovraffollato e i vicoli laterali erano gremiti di persone che si sporgevano sgomitando per avere una vista migliore sui maxi-schermi. Molti ragazzini piccoli che non partecipavano alla Mietitura erano saliti sui tetti degli edifici e si sporgevano pericolosamente per vedere meglio.
Emiane odiava il Distretto Undici. Non aveva niente da offrirle, era noioso, povero e non c’era una sola persona che la trattasse in modo amichevole.
Insomma, pensava con disappunto. Dovrebbero essermi grati visto che sono io a portare in questo posto un po’ d’allegria!
I Pacificatori non erano d’aiuto. Intorno alla piazza erano sparse varie torrette ed in cima ad ognuna stavano due di loro, i fucili puntati sulla folla nel caso si fosse agitata troppo.
Emiane ricordava ancora con orrore il suo primo anno nel Distretto Undici, quando un padre il cui figlio era stato estratto aveva cominciato ad inveire contro Capitol City e gli Hunger Games. Un gruppo di Pacificatori l’aveva subito raggiunto e gli uomini l’avevano buttato a terra, mentre le persone intorno a loro si facevano indietro rapidamente.
Ricordava di averli visti estrarre i manganelli e cominciare a picchiarlo violentemente. Ricordava l’uomo continuare ad alzarsi, più e più volte, urlando di tutto. Ricordava il Capo Pacificatore, alto e terribile, estrarre la pistola e sparare. Ricordava il corpo dell’uomo sussultare e poi accasciarsi a terra. Poi altri Pacificatori l’avevano presa per le spalle e l’avevano costretta ad entrare nel Palazzo di Giustizia.
Scosse la testa e ritornò al presente, un presente non molto diverso. Si obbligò a sorridere, ma il sorriso non raggiunse gli occhi, fortunatamente coperti dagli occhiali da sole.
«Buongiorno, Distretto Undici! Sono davvero felice di essere tra voi oggi!» Esitò solo per un attimo, poi continuò a parlare.
«E’ una bellissima giornata, non trovate? L’ideale per la Mietitura!» Cercava di infondere allegria alla voce, ma non era mai stata molto brava a fingere. Decise di finire l’estrazione dei tributi in fretta, prima che il suo malumore diventasse troppo evidente.
«Bene, è ora di estrarre la fortunata ragazza che sarà il tributo femminile!»
Raggiunse la boccia quasi di corsa e un attimo dopo aveva già stretto tra le dita un pezzettino di carta.
«Charlotte Elisabeth Thompson!» annunciò cercando di sembrare eccitata.
La ragazza nominata si staccò subito dal gruppo delle diciassettenni, gli occhi color nocciola che vagavano per la piazza allarmati, cercando le figure dei Pacificatori che però non si presentarono. Se ti facevi avanti abbastanza in fretta generalmente ti lasciavano in pace.
Si avviò velocemente verso gli scalini lasciandosi sfuggire un piccolo gemito. Tempo di raggiungere Emiane e il suo sguardo era già ritornato fermo e deciso.
L’accompagnatrice la studiò bene, cercando di intuirne le potenzialità: era alta, aveva la pelle scura tipica del suo Distretto e delle belle curve. Ne fu sollevata, odiava quando veniva estratta la solita ragazzina denutrita senza possibilità di vittoria.
I capelli neri erano raccolti in un’elegante pettinatura a cucù e, guardandoli meglio, la capitolina notò che i suoi occhi avevano anche delle piccole pagliuzze dorate. Adorabili!
Charlotte, invece, evitava accuratamente lo sguardo di Emiane, cercando con una punta di disperazione quelli dei suoi amici e della sua famiglia. Sapeva già da quel momento che non si sarebbe mai arresa, l’avrebbe fatto per loro. Nella vita aveva sempre lottato per sopravvivere e quella volta non sarebbe stato diverso. Non era mai stata debole e non si sarebbe permessa di crollare nemmeno in quell’occasione.
Quando finalmente vide sua madre con in braccio la piccola Mary, che Charlotte aveva partorito a soli quindici anni, non ebbe più dubbi.
«Ce la farò, ve lo giuro» disse una volta che la capitolina le ebbe avvicinato il microfono alle labbra. Non aggiunse altro, per il resto ci sarebbero stati i saluti.
Emiane annuì e si diresse verso la boccia dei ragazzi, pronta ad estrarre il nome del tributo maschile.
«E il tributo di quest’edizione è... Zedor Onebee!»
Nel sentire quel nome, molti si girarono in direzione del suo proprietario.
Zedor era un bel ragazzo di sedici anni, anche lui alto e dalla pelle color caffè, muscoloso grazie ad anni e anni di lavoro nei campi e dagli occhi blu intenso, che spiccavano come un cigno tra le cornacchie. Era figlio unico di una delle pochissime famiglie “ricche” – per quanto ricca potesse essere una famiglia nel Distretto Undici – del posto, cosa che tuttavia non lo aveva esonerato dal dover trovare un lavoro.
Il ragazzo avanzò inespressivo, mascherando perfettamente la paura. Non si sentiva a disagio nonostante avesse gli occhi di tutti puntati su di lui, infondo ci era abituato. Lui era “quello ricco”, che non aveva mai sofferto la fame, e sapeva di essere invidiato da tutti i suoi colleghi.
Eppure non se n’era mai curato, e non se ne curava neanche in quel momento. L’unica persona di cui gli importava veramente era Seliane.
Quando la vide, le spalle scosse da singhiozzi violenti e gli occhi traboccanti di lacrime, sentì una stretta al cuore che lo lasciò senza fiato. E fu allora che gli stessi pensieri di Charlotte attraversarono anche la sua mente: non l’avrebbe mai abbandonata, doveva vincere e tornare da lei.
Sì, pensò. Se vincessi finalmente avrei i soldi per la cura.
E non solo. Se avesse vinto, non solo avrebbe sconfitto la malattia di Seliane, ma avrebbe anche potuto sposarla, mettere su famiglia insieme a lei. Avrebbe potuto essere finalmente felice.
Quando Charlotte e Zedor si scambiarono la stretta di mano, i loro sguardi determinati si scontrarono con violenza.
Nessuno dei due si sarebbe arreso.

 
Distretto Dodici

One of the outer districts, this is nonetheless a crucial one. These brave and hardy workers descend deep into the earth each day to mine the coal that keeps our nation running.

Blank Denim non riuscì a trattenere uno sbuffo osservando i visi smunti che ricambiavano il suo sguardo con espressioni ostili.
Ma cosa poteva farci lui se gli era toccato proprio il Dodici? Era il suo primo anno da accompagnatore e, naturalmente, gli avevano assegnato il Distretto dei piccoli e rognosi minatori che lo guardavano come se fosse stato la cena di quella sera.
«Mh, salve a tutti» borbottò senza enfasi. «Io sono Blank Denim, il nuovo accompagnatore di questo Distretto. Spero di trovarmi bene qui, eccetera eccetera. È un onore per me essere con voi in questo bel giorno e via discorrendo. Guardiamo ora il filmato che arriva per voi da Capitol City “per ricordare e giù di lì”.»
I ragazzini adesso lo fissavano sconcertati, ma l’uomo non se ne curava più di tanto. Aveva altri problemi a cui pensare, come quel bellissimo paio di scarpe su cui aveva messo gli occhi il giorno prima passeggiando davanti le vetrine dei negozi più costosi di Capitol City.
Quelle paillettes argentate facevano proprio al caso suo!
Speriamo che siano ancora lì quando sarò tornato, pensò. Ci manca solo che mi perda quelle scarpe stupende per colpa di due stupidi ragazzini morti di fame.
Non poteva certo immaginare cosa lo aspettava di lì a poco.
Sentì il sindaco schiarirsi la voce accanto a lui, per poi sussurrargli «Denim, credo tocchi a lei.»
«Oh» fece lui, accorgendosi che in effetti la folla lo stava attendendo ansiosa. «Oh!»
Si alzò dalla sedia e afferrò di nuovo il microfono quasi fosse stato l’arma che gli avrebbe permesso di proteggersi da quella povera gente.
Non si sentì in dovere di porgere delle scuse, così andò direttamente al sodo. «È arrivato il momento di scoprire chi sarà il tributo femminile che parteciperà agli Hunger Games, ma ovviamente lo sapete già, quindi non perdiamo altro tempo.»
Arrivato davanti la boccia delle ragazze, fece per prendere un bigliettino ma, all’improvviso, si fermò.
«Sapete che vi dico? Estraiamo prima il nome del ragazzo.»
Così girò sui tacchi – letteralmente, portava un paio di stivaletti col tacco alto almeno dieci centimetri – ed estrasse un fogliettino dalla boccia dei ragazzi.
Lo aprì con calma e, invece di urlare il nome come facevano tutti i suoi colleghi, lo lesse con voce bassa e suadente.
«Colton Gage.»
Il ragazzo si trovava nelle ultime file, quelle dei diciottenni. Nel sentire quel nome, tutti si voltarono a guardarlo, chi dispiaciuto, chi sollevato, chi indifferente. Tutti, però, lo stavano fissando. Blank capì che quel ragazzo doveva essere molto conosciuto nel Distretto Dodici.
Lui si fece avanti, visibilmente sconvolto, ma cercando comunque di mantenere la calma. Salì sul palco e raggiunse il capitolino, che si concesse solo qualche secondo per osservarlo meglio: alto e magro, dal fisico tonico, aveva la pelle abbronzata. I capelli erano mori e lisci, gli ricadevano sulla fronte coprendo leggermente gli occhi grandi di un blu intenso. Aveva il naso piccolo e dritto e le labbra sottili. Almeno non ha il tipico aspetto da Giacimento, si consolò Blank. Già, perlomeno non era il solito ragazzino scheletrico. Ma non era quella la sorpresa del giorno.
Senza dir niente, voltò le spalle a Colton, che intanto aveva puntato lo sguardo sulla sua sorellina, Darcy, che era scoppiata a piangere e cercava di sostenere il suo sguardo pur di dargli un minimo di conforto.
L’accompagnatore mescolò un paio di volte i bigliettini, poi ne prese uno.
«Gwendolynh Withman!»
E fu allora che tutto il Distretto rimase a bocca aperta.
In altre circostanze, la prima cosa che si sarebbe notata di Gwendolynh sarebbero stati sicuramente gli occhi, grandi e di un azzurro sfavillante, che le permettevano di fissare le persone intensamente ed intimidirle, ma non era quello il caso.
A rubare tutta la scena agli occhi era il ventre rigonfio della ragazza, che si fece avanti con coraggio. Non era intenzionata a mostrarsi spaventata, avanzò con determinazione, cercando di sembrare forte nonostante l’impressione che poteva dare da fuori. Non avrebbe pianto, a qualsiasi costo. Avrebbe superato anche quello.
Blank non sapeva cosa dire. Continuò a fissare sbigottito la diciassettenne anche una volta che l’ebbe raggiunto sul palco.
Nessuno si offrì volontario al suo posto.
Gwendolynh, dal canto suo, lo osservava con aria di sfida. Il capitolino preferì non fare domande, tuttavia non poteva fare a meno di chiedersi come avrebbe fatto quella ragazza a sopravvivere. I suoi concittadini la guardavano dispiaciuti, alcuni anche furiosi, mentre da infondo la piazza si era levato un mormorio sommesso.
La ragazza, intanto, cercava con lo sguardo suo fratello, Kody. Lo trovò, gli occhi lucidi e le labbra ridotte ad una linea sottile, stretto a sua moglie, Marianne. Nonostante lei e Gwendolynh non si sopportassero, la donna sembrava sinceramente dispiaciuta. Non che alla ragazza importasse, non voleva la pietà di nessuno.
Si accorse che anche la sua ex-amica Janelle era sul punto di scoppiare a piangere. La scrutò bene, senza sapere cosa provare. Ci avrebbe pensato dopo, sempre che fosse venuta a salutarla.
Blank, intanto, era riuscito a riprendersi.
«E-eh... ehm... signori, f-fate un applauso ai due tributi che quest’anno rappresenteranno il Distretto Dodici agli Hunger Games... Gwendolynh Withman e Colton Gage!»
Nessuno applaudì. Non quell’anno.
I due ragazzi si strinsero la mano senza troppa sicurezza, mentre anche l’ultima Mietitura degli Hunger Games volgeva al suo termine.

 
Capitol City

Era tutto pronto.
L’arena, gli ibridi, le trappole e, naturalmente, le telecamere.
Menelaus Stark osservò compiaciuto i tributi di quell’edizione, pregustando già il sapore della vittoria. Quell’anno Capitol City avrebbe avuto gli eccitanti giochi della fame che si aspettava e lui avrebbe ottenuto la meritata gloria.
Sentiva dietro di lui lo sguardo di ghiaccio del presidente Snow scrutarlo a fondo. Ma anche lui aveva un cuore duro e freddo, lui era uno Stark e non avrebbe permesso a nessuno di portargli via la fama per cui aveva versato sangue e sudore.
Tenetevi pronti, avvertì mentalmente i ragazzi, ancora ignari di ciò che li aspettava. Se pensate di aver qualche possibilità di tornare a casa, sappiate che state sottovalutando l’arena.
Rise, e fu una risata priva di allegria.
Gelida.





Ellie's Corner
Ce l'ho fatta! *si levano dal nulla cori angelici*
Pensavo che il mio computer fosse ormai andato, e invece mi ha sorpresa riprendendo a funzionare!
Sono quindi riuscita a pubblicare l'ultima parte delle Mietiture (lo so, sembra impossibile anche a me) e ora posso mettermi a lavorare sui saluti e tutto ciò che segue!
Le Mietiture sono state abbastanza critiche per me, sono in assoluto la parte che preferisco meno. Dai prossimi capitoli potrete finalmente avere un quadro più completo dei tributi e farvi un'idea di chi sono davvero.
E ora qualche piccola indicazione:
  • I SALUTI. Alcuni di voi mi hanno già mandato un breve resoconto dei saluti dei loro tributi perciò, per chi non l'avesse ancora fatto, c'è tempo fino a domenica prossima (26 OTTOBRE) per mandarmi un resoconto (max 10 righe) via MESSAGGIO PRIVATO di come si svolgeranno i saluti. Naturalmente alcuni potrebbero non avere tempo, perciò se non lo riceverò entro la data stabilita inventerò io per voi (oppure potrei direttamente non mettere i  saluti del tributo, dipende se saranno un punto cruciale per la caratterizzazione del personaggio o no). Se deciderò di non scrivere i saluti di alcuni tributi, allora troverete i loro punti di vista sul treno. Ah, un'altra cosa: se avete già scritto le indicazioni per i saluti nella scheda del tributo, ma magari volete aggiungere/cambiare/approfondire qualcosa, potete mandarmi un messaggio privato per scrivermelo, sempre entro il 26.
  • LE ALLEANZE. Naturalmente ho già formato l'alleanza tra i Favoriti, ma per tutti gli altri lascio una lista dei tributi disponibili (ho messo quelli di cui i creatori l'hanno detto esplicitamente. Se il vostro tributo è disponibile ma non rientra nella lista fatemelo sapere e lo aggiungerò.)
    DINAH HUNGOVER (Distretto Tre)
    JESSE LAYLE (Distretto Cinque)
    DAMIEN POWELL (Distretto Sette)
    CLEMENCY FOREST (Distretto Otto)
    HANNIBAL LIGHTNING (Distretto Otto)
    ZEDOR ONEBEE (Distretto Undici)
    CHARLOTTE THOMPSON (Distretto Undici)

    P.S.: Per i creatori dei Favoriti: se notate qualche altro tributo che potrebbe entrare a far parte dell'alleanza, potete sempre decidere di fargli una proposta.
    P.P.S.:
    Kirlia: Ho dato per scontato che Andras e Gwen vogliano formare un'alleanza esclusiva quindi non li ho inclusi nella lista, ma se ho fatto male fammelo sapere e li includerò!
    Up_me_memories e elena14: Idem per i vostri tributi.
    gattapelosa: Idem per Roy e Crème.

Detto questo vi lascio i prestavolti che mi avete indicato per i tributi di questo capitolo:

Andras Lennen, D10 (Skandar Keynes)
Gwendolynh Withman, D12 (Alexandra Daddario)

Non so bene quando arriverà il prossimo capitolo, purtroppo sono molto impegnata con la scuola, ma farò di tutto per non ritardare troppo.
Come al solito un commentino è sempre molto, molto gradito!
Questo è quanto!
Un abbraccio e alla prossima,
Ellie

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Capitolo 5
*** Say goodbye (Pt. 1) ***


“ In ogni addio c’è un’immagine della morte.
    George Eliot
 
Say goodbye (Pt. 1)
 
Distretto Uno - Glass Sparks
 
Se avesse potuto, Glass avrebbe sicuramente cancellato dal volto di suo fratello Silver quell’espressione contrariata. Perché doveva fissarla sempre in quel modo?
«Non avresti dovuto farlo» ripeté infatti lui per l’ennesima volta in quei minuti. «Tu-»
«Adesso basta, Silver!» sbottò lei all’improvviso, sorprendendolo. «Tu hai vinto, e a soli quindici anni! Hai sconfitto tutti i tuoi avversari, hai dimostrato quanto vali, perché non posso farlo anche io?»
«Lo sai perché!» replicò lui altrettanto bruscamente. «La fine di Marley è stata...»
Le parole gli morirono in gola. Glass sapeva che Silver non aveva mai superato del tutto la morte della sorella. Quando Marley era stata uccisa, suo fratello aveva cambiato completamente atteggiamento: da ragazzo esaltato, superbo e violento era diventato calmo, silenzioso e riservato, ma soprattutto aveva cominciato ad odiare gli Hunger Games e, nonostante non potesse ammetterlo a voce alta, Glass non aveva mai avuto dubbi a riguardo.
Eppure lei non aveva cambiato idea. Era più motivata che mai a farcela.
«Andrà tutto bene» gli promise addolcendo il tono della voce. Litigare non sarebbe servito a niente. «Lo sai che ho tutte le carte in regola per vincere. Riporterò la nostra famiglia alla gloria di una volta.»
Silver scosse la testa, ma si avvicinò per stringerla in un abbraccio. «Spero che tu sappia quello che stai facendo, Glass» mormorò piano, poi, senza aggiungere altro, lasciò la stanza.
Glass rimase con i suoi genitori e i due piccoli gemelli, Lumi ed Emerald.
Il padre l’abbracciò a sua volta e le disse «Non preoccuparti per Silver, gli passerà. Io so che puoi farcela, vincerai sicuramente.»
Fu quello sguardo fiero di lei che l’aiutò a sopportare quello addolorato della madre, che era sempre stata dalla parte di Silver.
«Glass, tesoro...» Non riuscì ad aggiungere altro che scoppiò a piangere. Per i minuti successivi si limitò a stringere la figlia tra le braccia, mentre i gemelli le rivolsero dei grandi sorrisi e parole d’incoraggiamento.
Alla fine la sua famiglia se ne andò e nel salottino arredato con piccoli divanetti di velluto rosso e mobili dalle decorazioni d’oro fecero ingresso i suoi amici.
«Glass!» esclamò una voce squillante. Lily le corse incontro e si gettò su di lei a braccia aperte. «Sono così felice per te! Sei la migliore, quelli possono solo tremare vedendoti!»
Glass rise. «E io che speravo di giocare la carta della ragazza affascinante!»
«Quella riservala per me.» Quando Jace comparve alle spalle di Lily, Glass trattenne il respiro. Eccolo lì, Jace, con il suo fisico alto e statuario, uno dei ragazzi più forti e belli dell’Accademia. Le aveva promesso che si sarebbe offerto volontario insieme a lei, che avrebbero combattuto fianco a fianco, se non fosse stato per...
Il ragazzo sembrò intuire i suoi pensieri, perché disse «Dannazione, se solo non avessero estratto Krane! Non mi sarei mai potuto offrire volontario al suo posto, altrimenti i suoi genitori si sarebbero assicurati che morissi di una bella morte dolorosa e...»
Ma Glass si era alzata e l’aveva zittito con un bacio. Ad un tratto niente sembrava avere più importanza. C’erano solo loro due, e a Glass tanto bastava.
«Ehi, è meglio così» sussurrò al suo orecchio. «Sei salvo, conta solo questo per me.»
«Avrei dovuto provarci lo stesso...» tentò di ribattere lui, ma lasciò perdere definitivamente quando Glass si avvicinò per baciarlo di nuovo. Sentiva Lily ridacchiare dietro di lei, ma non le interessava.
«Vincerò» disse a bassa voce, perché sentissero solo loro due. «Vincerò e quando tornerò saremo felici e lo saremo insieme.»
Sarebbe tornata da vincitrice per tutti loro.

 
 Distretto Due - Seraphine Rapier
 
Seraphine, gli occhi chiusi e la testa reclinata indietro, cercava di concentrarsi unicamente sul suo respiro. Non aveva intenzione di perdere la calma, si era preparata per quel momento per più di un anno e ormai era pronta a tutto.
Il silenzio tranquillo che era sceso sul salottino non le dispiaceva. Era un po’ come lei, calmo e malinconico, eppure non si poteva ignorare.
Alla fine però, nonostante avesse cercato in tutti i modi di evitare qualsiasi pensiero, i ricordi cominciarono a sovrapporsi nitidi nella sua mente, e riguardavano tutti la stessa persona.
Arya.
Arya, ad otto anni, mentre le rivolgeva un sorriso spavaldo che nascondeva una certa timidezza la prima volta che si erano incontrate.
Arya, più grande, mentre scoccava una freccia e centrava perfettamente il bersaglio, prendendola in giro perché lei era negata con l’arco.
Arya, a sedici anni, mentre con i pugni serrati si faceva avanti e gridava a tutta la piazza che si offriva volontaria come tributo.
Arya, nell’arena, mentre incitava gli altri Favoriti e correva, combatteva, urlava, esultava.
Le immagini si conclusero con il suo volto pallido mentre chiudeva gli occhi e se ne andava, quella volta per sempre.
Seraphine aprì gli occhi di scatto e si sforzò di mantenere la calma.
Ricordati perché lo stai facendo, si disse dura. Lo stava facendo solo per lei, perché non avrebbe tollerato mai più che qualcuno desse alla sua migliore amica della debole, della codarda, della vergogna del Distretto. Arya era la persona migliore che ci fosse.
Alla fine i suoi genitori entrarono nel salottino e Seraphine distolse la mente da quei pensieri.
Suo padre Bolt si stava chiaramente sforzando di non piangere, lo sguardo fiero e addolorato insieme. La strinse forte, le disse che era orgoglioso di lei, che era una ragazza forte e che ce l’avrebbe sicuramente fatta, le diede consigli, le sussurrò che le voleva bene, commosso.
Poi arrivò il turno di sua madre, Maya. La donna era diventata muta a quindici anni, dopo che suo fratello maggiore Dylan era morto in un’edizione degli Hunger Games. Non disse niente, non avrebbe potuto, così rimase a fissarla per svariati secondi, con uno sguardo così intenso che Seraphine fu quasi tentata di distogliere il suo, uno sguardo che valeva mille parole.
Poi la abbracciò, e la strinse tra le braccia come se la ragazza fosse tornata una piccola bambina spaventata dai tuoni, le carezzò i capelli, e pianse.
Alla fine tirò fuori carta e penna e le scrisse velocemente una lettera.
 
Seraphine,
non ho alcuna intenzione di rimproverarti per ciò che hai fatto. Capisco la tua scelta, Arya era una ragazza splendida e sicuramente non meritava di morire. Tuttavia solo il pensiero di te in quell’arena che mi ha già portato via una delle persone più importanti della mia vita mi terrorizza. Ho paura per te, temo il tuo destino e non posso neanche pensare al terribile dolore che mi procurerebbe la tua morte senza sentire una stretta al cuore. Eppure sono anche orgogliosa di te: hai dimostrato che la vecchia Seraphine è ancora lì da qualche parte e presto si farà valere. Posso solo dirti che sono fiera di te e credo in te come ho sempre fatto. Sono sicura che presto ti riavrò qui, più forte e bella che mai, e credo anche che riscatterai non solo la morte di Arya, ma anche quella di mio fratello Dylan con la tua vittoria.
Ti voglio un bene immenso, ricordalo sempre.
                                                                                            Tua madre Maya
 
Seraphine, a quel punto, dovette ricorrere a tutte le sue forze per trattenere le lacrime. Annuì e cercò di sorridere alla madre. Lei le prese la lettera dalle mani e ricambiò il sorriso, poi infilò il foglio dentro un bracciale in bronzo dove sopra era stato inciso il disegno di un drago dormiente.
“Il tuo portafortuna”, mimò la madre con le labbra, poi glielo porse.
Seraphine lo indossò subito, ma non fece in tempo a ringraziarla che il Pacificatore che la sorvegliava annunciò che il tempo era scaduto.
«Ti vogliamo bene!» esclamò il padre mentre la porta si chiudeva alle sue spalle.
Poco dopo un’altra persona cercò di entrare nella stanza, ma appena la ragazza di accorse di chi fosse si alzò e fece sfoggio del suo miglior sguardo tagliente.
«Vattene» sibilò rivolta alla madre di Arya. Era solo colpa sua se la sua migliore amica era morta. L’aveva costretta ad offrirsi volontaria nonostante sua figlia si fosse sempre opposta.
«Seraphine, tesoro...»
«Vattene subito!»
La donna la fissò sbigottita per qualche secondo, poi chinò la testa e, imbarazzata, se ne andò.
Seraphine si lasciò cadere sulla poltroncina e chiuse nuovamente gli occhi. Poi, in un sussurro impercettibile, dichiarò a tutti e a nessuno «Giuro che vincerò.»

 
Distretto Cinque - Jesse Layle
 
Nella sua mente, Jesse continuava a rivedere se stesso mentre si toglieva con un gesto deciso il cappello che teneva calcato in testa e buttava via gli occhiali che gli coprivano metà faccia, insieme alla sciarpa che nascondeva l’altra metà. Gli sembrava ancora di sentire le mani spingere via la folla che lo circondava, nel disperato tentativo di farsi notare, mentre urlava la fatidica frase.
Mi offro volontario.
No, non se n’era pentito. Aveva salvato la vita ad Andy ed era ciò che contava.
Strinse tra le mani il portachiavi a forma di asinello che suo fratello aveva sepolto nella sua falsa tomba. Poteva sembrare un po’ comico, forse anche ridicolo, ma Jesse ci era davvero affezionato. Gli ritornò in mente l’espressione stupita di Andy quando l’aveva visto e gli venne quasi voglia di sorridere. Quasi.
La porta si spalancò di colpo e uno dei consiglieri del Sindaco si fece avanti, accompagnato da uno strano oggetto quadrato da cui un fascio tremolante di luce verde usciva prendendo la forma di un uomo calvo dalle sopracciglia folte e aggrottate.
«Signor Layle, c’è qui un funzionario di Capitol City che vorrebbe parlare con lei» annunciò freddamente il consigliere, poi fece segno al Pacificatore che sorvegliava Jesse di lasciare la stanza.
Quando furono rimasti soli, l’ologramma parlò.
«Signor Layle, è un piacere» esordì l’uomo senza sorridere. Parlava con un tono inespressivo, come se non gli fosse importato niente del fatto che tutti credevano Jesse morto quando in realtà si era appena offerto volontario al posto di suo fratello. «Mi chiamo Ludwig Roach, mi occupo delle giustizia a Capitol City e in tutta Panem. Come può immaginare, sono qui perché ho bisogno di alcuni chiarimenti. So che lei, nel Distretto Cinque, risulta deceduto da ormai ben quattro anni, ma a quanto pare c’è stato un errore, visto che è qui, vivo e vegeto davanti ai miei occhi. Vorrebbe per favore spiegarmi cosa sia successo?»
Jesse si sforzò di reprimere il terrore. Si era aspettato quella visita, ma non pensava che uno dei capitolini in persona – o quasi – gli avrebbe chiesto delle spiegazioni. Aveva una sola possibilità di raccontare la sua bugia e farlo in modo convincente.
«Il piacere è tutto mio, signor Roach» rispose cercando di sembrare perfettamente calmo, come se tutto quello fosse stato un semplice equivoco. «Vede, il fatto è che c’è stato un piccolo errore. C’era un ragazzo che viveva vicino casa mia, si chiamava Lawrence. Era un figlio della strada, abbandonato dai genitori appena nato, e campava di piccole commissioni fatte per altri. Mi assomigliava molto – era facile scambiare l’uno per l’altro – e lui non era nemmeno registrato all’anagrafe, così ho pensato che ogni tanto avrei potuto mandarlo a lavorare in fabbrica al posto mio, fingendo che lui fosse me. So che è stato ingiusto da parte mia, ma comunque gli davo una parte del mio stipendio. Quando l’hanno portato dietro La Porta, non ho potuto far niente, ma in realtà non ero io, era lui. Solo che gli altri hanno dato per scontato che fossi io, ecco tutto.»
I secondi successivi furono i più lunghi della sua vita. Ti prego, ti prego, ti prego, fa che ci creda, urlava dentro di sé mentre aspettava una reazione da parte dell’uomo. Fa che ci creda!
«Sicuro che questa sia la versione dei fatti?» chiese il signor Roach, ancora accigliato. «Me lo conferma?»
Jesse sentì un brivido percorrergli la schiena. Sospettavano qualcosa?
«Confermo» rispose cercando di mantenere saldo il tono.
Alla fine il signor Roach gli rivolse un piccolo sorriso. «Capisco, quindi era tutto qui. Bene, ora è tutto molto più chiaro, grazie per la sua collaborazione, signor Layle. A presto.»
Mentre il consigliere – e insieme a lui l’ologramma – se ne andava, Jesse mormorò un «A presto» poco convinto, poi si lasciò cadere nuovamente sulla poltroncina.
Ce l’ho fatta, esultò mentalmente. L’ho convinto!
Eppure qualcosa dentro di sé gli diceva che quella non era la verità.
Pensò preoccupato ad Hazel e ai suoi amici nella nella corte. Altre persone che, come lui, avevano attraversato La Porta e che tutti credevano morte, quando in realtà vivevano nel mondo sotterraneo che tutti chiamavano la corte dei miracoli. Cosa sarebbe successo se li avessero trovati?
Sta’ calmo, non succederà. La corte dei miracoli è protetta dalla Coin in persona.
Poteva solo sperare che fosse vero.

 
Distretto Sette - Damien Powell
 
Damien, sdraiato comodamente sulla poltroncina di velluto, fissava il soffitto come se non avesse mai visto nulla di così interessante prima.
Nonostante fosse fuori dalla sua visuale, il ragazzo poteva percepire lo sguardo del Pacificatore che l’aveva accompagnato in una delle lussuose stanze del Palazzo di Giustizia trapassarlo più e più volte, come se avesse davvero potuto ferirlo con la sola forza della mente.
Sapeva anche che l’uomo stava facendo di tutto per trattenere la rabbia e non saltargli addosso per cercare di strangolarlo, così alla fine lasciò andare un lungo, teatrale sospiro e disse «Senti, lo so che stai morendo dalla voglia di uccidermi, perciò perché non lo fai? Almeno mi risparmieresti tutta la fatica dell’arena.»
Il Pacificatore non rispose subito. Damien si chiese se gli avrebbe davvero dato retta, quando improvvisamente lo sentì replicare «Gli Hunger Games sono il giusto prezzo che devi pagare per ciò che hai fatto.»
Il ragazzo fece roteare gli occhi nonostante l’altro non potesse vederlo. «Ma sentilo! Il giusto prezzo che devi pagare, bla bla bla... non si paga mai il giusto prezzo, non te l’ha detto nessuno?»
E lui lo sapeva meglio di chiunque altro. Vivendo per strada aveva presto imparato che la giustizia non esisteva. Potevi solo cercare di limitare il danno il più possibile.
«Morirai, ed è ciò che meriti» insisté l’uomo con tono duro. Damien sbuffò annoiato. Pensava che sarebbe stato divertente provocarlo, e invece niente... era meglio lasciar perdere.
Per un po’ riuscì a starsene in silenzio ma, più i secondi passavano, più sentiva l’atmosfera farsi opprimente, così alla fine riaprì bocca prima ancora di poterselo impedire.
«Dai, dimmi chi era il Pacificatore a cui ho sparato stamattina! Il tuo migliore amico? Tuo padre? Oh, aspetta... sarà mica stato il tuo ragazzo?» esclamò fingendosi scioccato.
Inclinò la testa di lato per potersi godere lo spettacolo dell’uomo che perdeva il controllo, ma non ottenne la reazione sperata. Infatti il Pacificatore si limitò a lanciargli uno sguardo carico d’odio, uno sguardo che spesso era stato rivolto a Damien nella sua vita, e a rispondere secco «Mia sorella.»
Il sangue gelò nelle vene del ragazzo.
Quella che aveva ucciso prima di scappare dal negozio era una donna? E sua sorella, per giunta.
Quando la parola “sorella” si formò nella sua mente, un’altra l’affiancò subito dopo.
Lorene.
Istantaneamente un’immagine nitida e talmente reale da sembrare una fotografia gli apparve nella testa. Lunghi capelli rossi, due bellissimi occhi verde chiaro, labbra sottili incurvate in un sorriso...
Basta.
Scosse la testa violentemente. Quello non era assolutamente il momento per pensare a Lorene. Pensare a Lorene significava abbandonarsi alla malinconia e al dolore, e abbandonarsi a malinconia e dolore significava provare emozioni.
E un’altra legge della strada era proprio quella: allontanare le emozioni. Damien le evitava come una malattia contagiosa.
Ormai era rimasto solo, non poteva farci niente. La conferma gli arrivò quando il Pacificatore annunciò «Il tempo per le visite è finito. È ora di raggiungere il treno.»
Un sorriso amaro si dipinse sul volto del ragazzo. Né suo zio Hector né Noah, il falegname – e trafficante d’armi e droga, ma quello lo sapeva solo Damien – per cui lavorava, si erano presentati. Non che si aspettasse nulla di diverso.
Solo per un attimo pensò ai suoi genitori, cosa che cercava di evitare il più possibile.
Sua madre sarebbe stata una dei Mentori quell’anno? L’avrebbe vista, magari avrebbe provato a parlarci?
E perché dovresti? Ha abbandonato te e Lorene.
Per non parlare di suo padre. Aveva convinto il Pacificatore ad organizzare un incontro l’anno prima per chiedergli aiuto, ma non appena l’uomo aveva sentito della malattia di sua sorella gli aveva detto “Forse non ti ricordi perché vivi con tuo zio. Io me ne lavo le mani di voi due ragazzi. È un tuo problema, risolvilo da solo”.
E se n’era andato. Se l’avesse aiutato, Lorene si sarebbe salvata. E invece...
Poi all’improvviso si riscosse.
Sai che ti dico? Anch’io me ne lavo le mani. Vincerò e pareggeremo i conti una volta per tutte.
Si alzò dalla poltroncina e lasciò che l’uomo lo scortasse fuori dalla stanza.
Infondo, cos’era quella se non l’ennesima sfida che avrebbe dovuto affrontare?

 
Distretto Otto - Hannibal Lightning
 
«Hannibal, finalmente ci siamo!»
Il ragazzo sospirò. Era ovvio che Alaric sarebbe andato dritto al punto, diretto com’era. Ma non era forse una delle qualità che più apprezzava del vecchio Bibliotecario?
Gli occhi grigi dell’uomo erano inquieti ed emozionati al tempo stesso, come se fosse stato indeciso se gioire del fatto che Hannibal fosse stato estratto o esserne addolorato.
Sembrava una persona completamente diversa da quella colta ed elegante che Hannibal conosceva. Il che poteva significare solo che grandi notizie erano in arrivo.
«Ci siamo?» si limitò a ripetere, fissandolo con uno sguardo curioso ed interrogativo.
«Sì, sì! Heimrich, Daven e Govert stanno arrivando, e naturalmente c’è anche Axel. Ti spiegheranno tutto quanto. So che mi crederai pazzo, ma il fatto che tu sia stato estratto è chiaramente un segno del destino-»
«Tu non credi nel destino, Alaric.»
«Lasciami finire, ragazzo. Non avevamo il coraggio di chiedere a nessuno di voi giovani di offrirsi volontario per condurre le operazioni da dentro l’arena, ma a quanto pare il problema è stato risolto e non dovremo pensare ad una soluzione alternativa. Oh, e sei capitato proprio te! Siamo stati così fortunati-»
«Tu non credi neanche nella fortuna, Alaric.»
«Siamo indisponenti oggi, eh? Be’, sai che ti dico? Non ha la minima importanza. Oggi è un gran giorno! Con te lì dentro l’operazione avrà sicuramente successo!»
Hannibal non disse niente. Sentiva i passi dei suoi amici mentre si avvicinavano alla porta. Dalle voci che discutevano animatamente poteva intuire che erano eccitati quanto Alaric.
«Quindi tutto sta per avere inizio» disse piano. Non aveva paura che il Pacificatore lo sentisse – lo aveva già informato sul fatto che anche lui era un ribelle – ma non gli sembrava appropriato dirlo a voce troppo alta. La notizia che le operazioni stavano per avere inizio non lo rendeva impaziente ed eccitato come i suoi amici, ma creava in lui un leggero senso d’ansia. Lui attendeva e non dava niente per scontato. Poteva solo sperare che nell’arena tutto andasse per il meglio, e lui odiava sperare e basta, restandosene lì con le mani in mano. Doveva passare all’azione e presto.
«Sì, è davvero fantastico!» esclamò il bibliotecario. All’improvviso sembrava ringiovanito di vent’anni. Aveva l’aria di uno che era pronto a tutto. Quando la porta si aprì, però, ritrovò d’un tratto il suo contegno e lo fissò con la solita espressione fredda e calma da “Bel lavoro, ragazzo.”
«Hannibal!» Axel, il giovane Ingegnere di soli venticinque anni, fu il primo ad avvicinarsi. Gli sorrise complice e sussurrò «Brutta faccenda, eh? Ma non preoccuparti, se tutto va secondo i piani-»
«Sì, lo so. Ma non ho avuto tutte le istruzioni.»
«Non preoccuparti per quello» replicò Axel senza smettere di sorridere. Aveva un’aria così spensierata che alla fine anche Hannibal accennò ad un sorriso. «Il vostro Mentore, Wren, è uno dei nostri. Fidati di lui e ascolta ciò che ti dice. Lui è al corrente del piano.»
«Wren Ridley, giusto?» Hannibal si ricordava di lui. Sembrava un tipo affidabile. «Va bene.»
Axel lo fissò in silenzio per qualche secondo, poi gli diede un’energica pacca sulla spalla. «Lo so, siamo insopportabili oggi, ma cerca di capirci! Al Distretto 13 sono tutti impazienti di cominciare e hanno grande fiducia nelle tue capacità. Sembra davvero crudele che siamo tutti così felici di vederti andare nell’arena, ma...»
«Sì, lo so, è la nostra occasione. Sopravvivrò.»
Il sorriso dell’ingegnere si ampliò. «Vedrai, andrà tutto per il meglio.»
Heimrich e Daven, due ribelli che avevano legato con Hannibal, della sua stessa età, si complimentarono con il ragazzo, per assumere subito dopo un’espressione imbarazzata. Nemmeno loro sapevano bene come comportarsi e Hannibal non poteva biasimarli. Govert, il Chimico che aveva spesso partecipato alle missioni insieme al ragazzo, notò la tensione tra i tre e scoppiò a ridere. «Be’, che vi prende? Qua c’è solo da essere felici! Ben presto avremo molto per cui festeggiare.»
Heimrich e Daven si lasciarono trasportare subito dall’entusiasmo dell’uomo e annuirono, di nuovo di buonumore, ma Hannibal finse semplicemente un sorriso.
Dentro di lui sapeva bene come stavano le cose.
Prima veniva la sopravvivenza, e poi tutto il resto.
Anche la rivolta.

Distretto Undici - Zedor Onebee
 
«Zedor!»
Seliane corse incontro al ragazzo come se avesse temuto che uno dei Pacificatori avesse potuto impedirle di avvicinarsi a lui. Si gettò tra le sue braccia prima che Zedor potesse anche solo aprir bocca e lo strinse così forte da fargli male.
«Ehi, Sel…» Malgrado la situazione, il ragazzo si ritrovò a sorridere. Seliane gli faceva sempre quell’effetto: quando la vedeva si dimenticava completamente della realtà che lo circondava, il suo sorriso era come una boccata d’aria nelle giornate soffocanti, i suoi occhi erano cieli stellati che poteva rimanere ad ammirare per ore. Amava tutto di lei: il carattere forte e deciso, i capelli morbidi, la sua risata particolare, le fossette che si formavano quando sorrideva...
Seliane era tutto ciò di cui aveva bisogno per andare avanti, proprio per questo non aveva intenzione di perderla.
«Sel, va tutto bene, sai che sono forte» sussurrò ricambiando la stretta, come se abbracciarla avesse potuto salvarlo all’istante. «Posso vincere, e quando vincerò...»
Ma ad un tratto lei s’irrigidì. «Zedor» disse con voce stranamente ferma, quasi dura.
«Che succede?» chiese preoccupato. Che aveva? Il cuore cominciò a battere più velocemente.
«Giurami che non vincerai solo per me, giura che lo farai soprattutto per te.» Si scostò da lui per poterlo guardare negli occhi, quegli occhi tanto particolari che contrastavano con la pelle scura. «Dico davvero, non devi farlo per poter curare la mia malattia. È per riabbracciare la tua famiglia che vincerai. Per salvare te stesso.»
A Zedor girava la testa. E adesso cos’era quella storia? Perché Seliane si stava comportando in quel modo?
«Ehi, lo sai che noi abbiamo abbastanza soldi per vivere in modo decente, quelli non ci mancano» tentò di protestare. «Certo che lo sto facendo anche per la mia famiglia, ma ricorda che “la mia famiglia” comprende anche te. Stai male e quando ti vedo soffrire lo sai che sto male anche io. Non avrebbe senso vincere per poi farsi sconfiggere da una dannata malattia. Se vinco avrò tutti i soldi che servono per-»
«Potrebbe non essere sufficiente» lo interruppe lei. Sembrava sul punto di scoppiare in lacrime, e lei odiava piangere.
A Zedor sembrava che d’un tratto la terra sotto i suoi piedi fosse sparita. Gli sembrava di precipitare dentro un abisso dal quale era impossibile uscire. Gli sembrò che il cuore avesse smesso di battere, quando solo un attimo prima stava martellando con forza nel petto.
«Potrebbe...?» La voce gli si spezzò e la sua rimase solo una domanda lasciata in sospeso.
«Zedor, mi dispiace così tanto, ma io sto solo cercando di avvertirti...» A quel punto le lacrime stavano già solcando il viso della ragazza. Zedor si sentì morire dentro. «La malattia sta progredendo velocemente, le cure degli ospedali dell’Undici sono limitate e se non si muovono in fretta anche le cure più sofisticate che hanno potrebbero non...»
Non aggiunse altro e il ragazzo la ringraziò per quello. Un’altra parola e sarebbe potuto crollare.
Per lunghi istanti rimasero in silenzio, a fissarsi negli occhi, lanciandosi sguardi che non avevano bisogno di essere tramutati in parole. Poi Zedor si riprese e sentì dentro sé una determinazione che mai aveva provato in vita sua. Si sentiva pronto a tutto, avrebbe fatto qualsiasi cosa per ritornare da lei. Si sentì forte, forte davvero.
«Seliane.» Quando parlò il tono non vacillò. Il ragazzo giurò a se stesso che mai più si sarebbe lasciato andare ad attimi di debolezza. Quello sarebbe stato l’ultimo in assoluto. «Vincerò e lo farò per te. Hai capito? Per te. Se le cure dell’Undici non basteranno, ti porterò a Capitol City. Ti salveranno e ti giuro che quando sarà successo ti sposerò.»
Lei lo stava fissando con gli occhi spalancati. Era rimasta senza parole. «Che... cosa…»
«Quando ti avranno curata mi sposerai?»
E poi successe. Le labbra della ragazza si schiusero nel sorriso più bello che Zedor avesse mai visto in vita sua. Ogni dubbio venne cancellato. Ce l’avrebbe fatta.
«

 
Distretto Dodici - Gwendolynh Withman
 
Quando la porta si aprì, Gwendolynh stupì se stessa nel ritrovarsi a sperare che fosse Janelle.
Aveva davvero bisogno di rivederla, erano passati mesi da quando avevano litigato e non si erano più parlate, ma non poteva andarsene prima di averla rivista un’ultima volta.
E quando la vide in piedi sulla soglia, titubante e con le guance in fiamme, sentì le labbra incurvarsi in un sorriso che nemmeno lei si aspettava.
«Gwen...» sussurrò lei, ma non riuscì ad aggiungere nient’altro. Rimase a fissarla immobile per qualche secondo, poi scattò e corse ad abbracciarla.
«Gwen, mi dispiace, mi dispiace tantissimo… Non so cosa dire, io...» annaspò alla ricerca disperata di qualcosa da dire, poi si arrese e si limitò a scuotere la testa. «Mi sento così in colpa per quello che ho fatto, capirò se non vorrai perdonarmi.»
Anche Gwendolynh si sarebbe aspettata una reazione diversa. Forse aveva il diritto di avercela con lei, forse avrebbe dovuto risponderle male, chiudersi nuovamente in se stessa, ma a che scopo?
Voleva solo cercare di recuperare sei mesi di silenzio in quei pochi minuti. Non si era resa conto di quanto Janelle le fosse davvero mancata finché non se l’era ritrovata lì davanti.
«Jan, io ti ho già perdonata» le disse, sapendo di essere sincera. Ci aveva messo molto, all’inizio non riusciva a credere che la sua migliore amica avesse davvero creduto alle voci che dicevano che lei aveva baciato il suo ragazzo, Travis.
Ma, soprattutto, all’inizio non era riuscita a perdonarle quando non aveva creduto al fatto che la gravidanza fosse stata frutto di una violenza. Invece di credere a lei, al fatto che fosse stato un uomo del Giacimento a violentarla e ridurla in quelle condizioni, aveva pensato che il padre del bambino fosse Travis.
«Non ha più importanza» le assicurò. «Non pensiamoci più.»
Janelle sembrò soppesare quelle parole, forse valutando quanto in fretta potesse liquidare la faccenda.
«Gwen, ascolta» disse alla fine, giocherellando nervosa con una ciocca di capelli. «Non merito il tuo perdono, questo è poco ma sicuro, però se mi vorrai ancora bene a me basterà.»
Gwendolynh annuì e le due ragazze passarono il resto del tempo in un abbraccio silenzioso. Avevano chiarito e tanto bastava.
Poco prima di andarsene, Janelle si voltò un’ultima volta. «Gwen?»
«Sì?» chiese lei, curiosa di sentire cos’altro avesse da aggiungere l’amica ritrovata.
«Non ti darai subito per spacciata, vero? Mi prometti che combatterai? Che farai di tutto per tornare da noi? Non può finire così, io e te abbiamo sei mesi da recuperare, lo sai vero?»
Gwendolynh le regalò un ultimo sorriso. «Te lo prometto.»
Janelle annuì, poi a malincuore lasciò la stanza.
Ma la ragazza non ebbe neanche il tempo di ripensare a quella conversazione e cercare di riordinare i pensieri che la porta di spalancò di nuovo e suo fratello Kody entrò nel salottino come una furia.
Aveva gli occhi ancora lucidi e arrossati e continuava a borbottare «Non è possibile, non è possibile, non può essere successo...»
Marianne lo seguiva poco più dietro. Cercava di tenersi in disparte, chiaramente indecisa su cosa fare. Negli ultimi mesi lei e Gwendolynh avevano litigato spesso e il fatto che Kody si fosse schierato dalla parte di sua moglie, che secondo Gwendolynh aveva torto, non aveva fatto altro che contribuire ad aumentare la tensione in casa.
Ma in quel momento suo fratello non sembrava pensare a niente che non fosse sua sorella. La strinse forte tra le braccia, la baciò sui capelli, sulla fronte, sul naso e poi si limitò a guardarla intensamente, consapevole forse del fatto di aver pochi minuti per imprimere nella memoria quanti più dettagli possibili.
«Com’è possibile? Prima la morte dei nostri genitori, poi lo stup-»
«Kody.»
«Scusa, scusa... e ora questo. Perché a noi?»
Gwendolynh non aveva una risposta. Era vero, la loro famiglia non era mai stata troppo fortunata. Kody era tutto ciò che le era rimasto: era un fratello gentile, premuroso, che l’aveva sempre protetta e aveva cercato di non farle mancare mai niente. Davvero non l’avrebbe più rivisto?
«Ma tu sei forte» proseguì lui, lo sguardo pieno di fiducia. «Sai come difenderti, Irina te l’ha insegnato. Ce la farai.»
Alla fine anche Marianne si avvicinò per abbracciarla. «Torna da noi» mormorò. Sembrava sincera. «Torna.»
Gwendolynh non disse niente, ma annuì.
Tornerò.






Ellie's Corner
E ce l'ho fatta!
Mi dispiace per il ritardo tremendo (come dite? L'ho già detto?), ma alla fine il nuovo capitolo è arrivato.
Avrei voluto mettere tutti i saluti insieme, ma il capitolo poi sarebbe venuto troppo lungo e sarebbe risultato troppo pesante così ho dovuto dividerlo in due parti. Non preoccupatevi, la seconda parte arriverà a breve -  nei primi giorni di gennaio - e avremo altri otto punti di vista.
Poi ci saranno le scene sul treno e spero di non essere costretta a dividere anche quelle perché altrimenti non finiremmo più. Perciò vi avverto che probabilmente, dopo la seconda parte dei saluti, avremo poche scene sul treno. Dividerò i restanti punti di vista tra treno, sfilata e giorni d'allenamento. Poi avremo metà dei tributi nelle sessioni private e l'altra metà nelle interviste. Il bello verrà dopo però!
Spero di non metterci più così tanto ad aggiornare, ma non posso promettervi niente. Comunque non preoccupatevi, anche se i prossimi capitoli arriveranno con un po' di ritardo la storia non verrà cancellata né sarà abbandonata!
Detto questo vi saluto e aspetto i vostri commenti (sperando che stiate ancora seguendo la storia!).
Un abbraccio e alla prossima, e buone feste!
Ellie


 

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Capitolo 6
*** Say goodbye (Pt. 2) ***


“ In ogni addio c’è un’immagine della morte.
    George Eliot
 
Say goodbye (Pt. 2)
 
Distretto Quattro - Lioness
 
Lioness non si era mai sentita così bene in vita sua.
Era così eccitata ed ansiosa che non riusciva nemmeno a stare ferma, così camminava da un lato all’altro della sala pensando a Capitol City e all’arena. Ma quelli non erano di certo i suoi unici pensieri: continuava a chiedersi cosa le avrebbe detto il padre. Fosse stato per lei, avrebbe rimandato quel momento all’infinito, ma si ritrovò costretta ad affrontarlo quando la porta si aprì lasciando entrare la sua famiglia.
Quando vide l’espressione delusa di suo padre Pern, la ragazza dovette trattenersi dallo sbuffare.
Il pacifico pescatore aveva sempre disapprovato il comportamento ed i desideri della figlia, per cui Ness non aveva mai avuto un buon rapporto con lui. La ragazza detestava quando le persone si mostravano scettiche riguardo le sue abilità e non sopportava di venir sottovalutata.
Sua madre Selm, invece, da giovane aveva sempre desiderato offrirsi volontaria. Aveva un lavoretto secondario che le permetteva di guadagnare discrete somme di denaro in poco tempo: coltivava marijuana per poi venderla a Pacificatori e uomini benestanti, così era riuscita a mettere da parte abbastanza soldi da potersi iscrivere all’Accademia di Addestramento. Il gran giorno, però, i genitori avevano pagato una ragazza povera per offrirsi volontaria al suo posto. Lei allora era scappata di casa e, per assicurarsi un tetto, aveva sedotto e sposato Pern.
Ness, nonostante tutto, l’adorava e condivideva i suoi stessi sogni, perciò erano sempre andate d’accordo.
Infatti la donna la raggiunse e l’abbracciò, gli occhi che luccicavano di una sincera ammirazione. «La mia Lioness... finalmente il giorno è arrivato. Sono così fiera di te!»
Lo disse con un’intensità tale da far dimenticare a Ness tutte le paure per la reazione del padre.
Pensi pure quel che gli pare, si disse stizzita. Ormai è fatta.
Pern, però, si limitò a lasciarle una leggera carezza sulla guancia e a mormorare «Sei una ragazza forte, ce la farai di sicuro.»
Nel sentire quelle parole, la ragazza rimase a bocca aperta. E dire che aveva sempre pensato che il padre non credesse in lei...
«Grazie» borbottò. «Voglio dire... sono contenta che lo pensi.»
E, per una volta nella vita, provò sincero affetto per lui.
I suoi due fratelli, Isper e Cirs, sembravano contenti e addolorati allo stesso tempo ma, ben conoscendo Lioness, non fecero altro che incoraggiarla tutto il tempo per dimostrarle il loro appoggio.
Ness era felice e sorpresa da tutta quella positività così, quando arrivò il turno dei suoi amici, si sentiva più carica ed impaziente che mai.
Shark, probabilmente il ragazzo nel gruppo con cui aveva il miglior rapporto, esclamò «Già non vedo l’ora di vederti tornare da vincitrice! Così metterai a tacere i tuoi compagni di classe una volta per tutte!»
Ness sbuffò, l’entusiasmo smorzato tutto d’un tratto. Quella massa d’invidiosi! Continuavano a chiamarla “Capelli Verdi” nonostante lei avesse ribadito più volte – anche con le parole, sì, ma soprattutto con i fatti – che quel nomignolo non le andava per niente a genio.
Tigress, l’altra ragazza del gruppo, doveva aver notato la sua espressione accigliata, perché le rivolse un gran sorriso e ribatté «Dai, Ness, chi se ne importa di quelli là! Quando vincerai non avranno più nessun motivo per stuzzicarti.»
Hyena, il fratello minore di Gress, le sorrise pigramente a sua volta. «Mia sorella ha ragione, lasciali perdere.»
Ness stava per ribattere che lasciar perdere era forse l’attività preferita del ragazzo ma di sicuro non la sua, poi però ricacciò dentro le parole. Infondo stavano solo cercando di darle un po’ di supporto.
«Avete ragione» concordò, recuperando di nuovo il suo buonumore e il ghigno soddisfatto. «Chiuderanno quelle bocche una volta per tutte.»
Il tempo restante lo passarono a chiacchierare e ridacchiare come se quella fosse stata una giornata qualunque.
Quando gli Animali – così si erano soprannominati i suoi amici – se ne andarono, l’ultimo a lasciare la stanza fu Shark.
Prima di chiudere la porta, però, si girò un’ultima volta.
«Ness?» la chiamò con un’incertezza che non gli apparteneva.
«Sì?» rispose lei incuriosita e un po’ sorpresa dall’atteggiamento dell’amico.
Ma lui si riprese all’improvviso. «No, niente, solo... vinci, okay? Torna.»
Lioness lo fissò confusa. Che bisogno c’era di dirlo? Ma gli sorrise comunque. «Ma certo, tu sai meglio di tutti quanto voglio vincere, no?»
«Già. Allora a presto.» Shark le voltò le spalle e, con passo esitante, se ne andò.
La ragazza osservò richiudersi la porta alle sue spalle, ancora un po’ confusa da quella piccola conversazione. Ma alla fine si riscosse.
Ma certo, vincerò.
 

Distretto Quattro - Calum Arwed
 
Calum si riteneva una persona forte, in tutti i sensi.
Suo padre era uno degli istruttori all’Accademia di Addestramento e lo aveva allenato sin da piccolo, soprattutto nell’uso del tridente.
Il fisico robusto e scolpito rappresentava un vantaggio nelle lotte corpo a corpo e inoltre resisteva piuttosto bene al dolore.
Ma, soprattutto, aveva sempre superato tutti gli ostacoli che la vita gli aveva riservato.
Non si era lasciato abbattere da tutti gli scontri avuti col padre, che non avrebbe mai voluto avere un figlio appena dopo essersi sposato.
Non si era arreso durante le prime sessioni di addestramento, quando l’idea di maneggiare un’arma ancora non lo attirava per niente e suo padre lo riteneva incapace di farcela.
Aveva superato l’incidente con la barca. Era stato in coma per un mese ma, nonostante le gravi condizioni in cui si trovava all’inizio, alla fine si era ripreso.
Aveva sofferto di attacchi di panico e d’ansia, che gli impedivano di rimanere solo ma, soprattutto, di vedere il mare e nuotare.
Aveva sofferto molto per quel fatto, ma alla fine, con tutta la forza di volontà di cui disponeva, aveva preso la decisione di superare tutto. E ci era riuscito.
Passo dopo passo, con grande difficoltà, si era riabituato all’idea dell’acqua che gli lambiva i fianchi, della corrente che non rappresentava più un nemico ma qualcosa di famigliare, dei piedi che affondavano nella sabbia. E aveva ricominciato a nuotare. Per lui era stata una sensazione unica, come se fosse rinato. Finalmente si sentiva una cosa sola col mare e alla fine gli attacchi di panico col tempo si erano fatti sempre più radi fino a svanire del tutto.
Mentre la sua famiglia gli correva incontro, Calum ricordò tutte queste cose e decise che avrebbe lasciato da parte la paura ed i dubbi. Non c’era spazio per la debolezza.
La prima a gettarsi tra le sue braccia fu la sorellina Kayleen. Era molto più piccola di lui ma sapeva comunque cosa fossero gli Hunger Games e di conseguenza capiva anche che Calum avrebbe potuto non fare ritorno da Capitol City.
Il ragazzo la strinse forte. Era molto affezionato a lei e la sola idea di lasciarla sola lo faceva stare ancora più male.
«Calum» sussurrò lei con in viso premuto contro il petto del fratello. «Tu sei forte.»
«Sì, sì. Sono forte, lo sai» le rispose lui pregando che la voce non gli tremasse.
«Papà ti ha addestrato.»
«Già.»
«E sei bravo con le armi.»
«Sì, è vero.»
«Quindi vincerai» concluse lei e, quando si staccò da Calum, i suoi occhi grandi lo fissarono intensamente.
Infatti, avrebbe voluto rispondere lui, ma quella parola gli morì in gola. Non poteva mentirle, non poteva darle false speranze.
«Farò il possibile per tornare» le promise allora. «Va bene?»
Kayleen non sembrava per niente soddisfatta, ma alla fine annuì.
Poi fu il turno dei suoi genitori.
Sua madre era ancora giovane, bella e, soprattutto, felice. Calum non sopportava il pensiero di perderla, ma più di tutto il pensiero che lei perdesse lui. Aveva ancora tutta una vita davanti e non voleva che soffrisse, non voleva che cadesse nello stesso abisso oscuro in cui era finita dopo l’incidente.
Suo padre, i primi anni, non era stato gentile con lui. Non sapeva come comportarsi con il figlio, cercava di evitarlo il più possibile e lo trattava in modo distaccato, ma quando Calum era uscito dal coma si erano uniti di più. E, dopo la nascita di Kayleen, era riusciti ad aggiustare tutto.
«Promettetemi che sarete forti» disse loro con tono fermo. «Non voglio altro. Non voglio che versiate lacrime per me, voglio che, se non dovessi farcela, vi riprendiate e andiate avanti. Proprio come ho fatto io dopo l’incidente.»
Li guardò con un’espressione talmente determinata da sorprendere entrambi. «Promettetemi che sarete forti» ripeté. «E che starete accanto a Kayleen e vi assicurerete che non le manchi mai niente e che...»
Poi suo padre si avvicinò e lo abbracciò, e Calum si dimenticò cos’altro dovesse aggiungere.
«Sono fiero di te» disse piano l’uomo. «Sei un ragazzo forte, un combattente. Hai superato tutte le difficoltà meglio di quanto non sarei riuscito a fare io. Non ti sei piegato né spezzato, e io ti ammiro per questo. Mi dispiace solo di non aver capito prima il tuo valore. Ricorda che hai tutte le carte in regola per vincere.»
Calum si era ordinato più volte di non piangere, ma in quel momento dovette far ricorso a tutte le sue forze per trattenere le lacrime.
Annuì, e in quel momento capì che mai si sarebbe arreso.
Avrebbe vinto.

 
 Distretto Cinque - Ginger Watts
 
Quando Roger la strinse a sé e la baciò, Ginger riuscì quasi a dimenticare – anche se solo per un breve istante – che di lì a poco sarebbe finita nell’arena a combattere per la vita.
Tutto si ridusse alle labbra del ragazzo che amava, ai suoi occhi turbati, alla curva del suo collo, ai capelli morbidi e tutti quei dettagli che Ginger adorava di lui.
«Non mi sembra neanche vero» sussurrò lui con voce roca, staccandosi dalla ragazza. Aveva un’espressione talmente preoccupata che Ginger si trovò costretta a ritornare alla realtà, insieme a tutte le sue conseguenze.
Forse non l’avrebbe più rivisto. Non l’avrebbe più abbracciato, baciato, toccato o anche solo guardato. Come avrebbe fatto a lasciarlo lì, da solo, a combattere un dolore più forte di lui? Il ragazzo timido e riservato che era cresciuto e maturato insieme a lei, e che aveva sempre fatto parte della sua vita. Un segno indelebile che le era stato inciso sul cuore.
Come avrebbe fatto ad abbandonare la persona che amava?
Roger era stato uno dei pochi ad accettare subito il suo problema. L’aveva sempre sostenuta. Sempre. Le aveva sorriso imbarazzato quando all’improvviso, nel bel mezzo di un appuntamento, era diventata la vanitosa e sensuale Evelyn. L’aveva osservata attentamente quando Melanie aveva preso possesso di lei e aveva cominciato a condurre i suoi strambi esperimenti. L’aveva guardata sorpreso e divertito allo stesso tempo quando era spuntata Shiori ed aveva cominciato a parlare in versi.
La ragazza sentì un’amara tristezza serrarle la gola con un nodo stretto, che lei non riusciva a mandar giù. Roger c’era sempre stato per lei. Era impossibile dirgli addio.
Eppure si fece forza e recuperò il suo solito sorriso, quello di Ginger, la ragazza dalla risata squillante, dal carattere solare e spensierato, che contagiava tutti con la sua allegria e la voglia di vivere.
Cercò di ricordarselo, mentre si avvicinava per baciare Roger un’ultima volta. Lei era Ginger, e Ginger non si sarebbe arresa per nessun motivo al mondo. Avrebbe combattuto fino all’ultimo respiro.
Quando si fu allontanata dal ragazzo, gli rivolse un gran sorriso. «Ehi, Roger, promettimi una cosa.»
«Cosa?» le chiese lui, continuando a tenerla stretta, come se avesse avuto paura che qualcuno, da un momento all’altro, avesse potuto portargliela via senza preavviso.
«Promettimi che...»
«Che?»
«Che non guarderai le altre ragazze mentre sarò via! Se vengo a sapere che hai baciato un’altra mentre sono stata a Capitol City, quando torno ti faccio nero!» esclamò con un’espressione esageratamente seria.
I due rimasero in silenzio per un attimo, poi scoppiarono a ridere.
E, quando Roger lasciò la stanza per far entrare la sua famiglia, Ginger si sentiva già un po’ meno impaurita. Più forte, più decisa. Sì, poteva farcela.
Per primo si fece avanti suo padre. Aveva l’aria distrutta e la ragazza dovette sopportare l’ennesima stretta al cuore. Non ce la faceva a vederlo così. Non riusciva a vedere suo padre, un uomo divertente, per il quale le battute erano pane quotidiano, sempre di buonumore, in quelle condizioni. Era come se qualcuno gli avesse risucchiato via tutta l’energia, lasciando al posto di Cole Watts una persona irriconoscibile dallo sguardo stanco e pieno di dolore.
L’uomo la strinse e le sussurrò poche parole prive di convinzione, per poi allontanarsi, visibilmente abbattuto.
La madre invece, di parole, sembrava che dovesse dirgliene anche troppe. L’abbracciò, la osservò in silenzio, poi la strinse una seconda volta come se la prima non fosse stata abbastanza calorosa. Poi cominciò a riempirla di raccomandazioni, a ripetere che poteva farcela, riempiendo le frasi di “Ti voglio bene” e “Sei una ragazza forte”. Poi le rivelò qualcosa a cui Ginger non aveva mai fatto caso: «Quando sei nata ti abbiamo dato più nomi, facendo in modo che le iniziali componessero la parola “G.A.M.E.S.”. La W di Watts, invece, sta per “Winner”. Abbiamo pensato che avrebbero potuto portare un po’ di fortuna in caso di estrazione.»
Ginger sorrise commossa. Stava per replicare che la sua era in assoluto la miglior famiglia di sempre, quando qualcuno le tirò una manica.
Abbassò lo sguardo e vide i due piccoli gemelli, Tim e Jim, osservarla curiosi e un po’ preoccupati.
«Dove vai?» le chiesero insieme. Il sorriso di Ginger vacillò e minacciò di scomparire del tutto, ma la ragazza si affrettò a recuperarlo. Non poteva dirglielo.
«Vado a Capitol City, la città più bella di Panem!» esclamò cercando di infondere allegria al tono della voce. «Così bella che quasi sicuramente potrei decidere di rimanerci per sempre!»
I due gemelli annuirono e la abbracciarono senza aggiungere altro.
E Ginger decise che avrebbe combattuto per tutti loro.

Distretto Nove - Crème
 
Crème.
Seduta su una poltroncina di una delle lussuose stanze del Palazzo di Giustizia, la ragazzina, aspettando con ansia che il pesante portone di legno si aprisse, si portò la mano piccola alla spalla, lasciando scorrere le dita nel punto in cui si era tatuata il suo nome.
Crème.
Era una parola semplice, una parola qualunque, ma per lei era piena di significato.
Era il suo urlo di protesta. Era come se, su quel palco dannato, lei avesse annunciato a tutti di non essere solo una dei figli di Disraeli. Lei era qualcuno. Aveva visto la sua libertà, quella per cui aveva lottato per anni, venirle tolta bruscamente. Ma lei se l’era ripresa annunciandosi con quel nome.
Crème.
Non Sei. Non la ragazzina oppressa dai fratelli più grandi, costretta a vivere in una casa infestata dall’odio e dall’oppressione e a far finta di non esistere per essere lasciata in pace.
Con quel nome lei era rinata e si era data una nuova identità. Crème era una persona molto più forte e decisa, che avrebbe superato anche quello e si sarebbe più piegata alla volontà di nessuno.
«Crème.»
Quando alzò lo sguardo tutti i musicisti del teatro, che l’avevano accolta calorosamente nel gruppo e la consideravano una di loro, si stavano avvicinando a lei.
Jona si staccò dal gruppo e corse ad abbracciarla, poi le mise in mano un foglio di carta.
«Avremmo dovuto suonarla stasera ma visto che...» S’interruppe, poi scosse la testa e sospirò. «Suoniamo un po’, ti va?»
Crème, con la mente invasa da mille pensieri, non si era accorta che Jona aveva portato anche il sax. Il ragazzo lo tirò fuori dalla custodia e cominciò a suonare.
«Il testo è lì.» Nel frattempo anche Layla si era avvicinata e, con un cenno della testa, le aveva indicato il foglio che Jona le aveva dato prima. «Segui me.»
E così, prima con esitazione, poi sempre più convinta, Crème aveva cominciato a cantare insieme alla sua amica. La canzone parlava di loro, dei ragazzi del teatro. Nessuno di loro aveva avuto vita facile, quasi tutti provenivano dalla strada ed in precedenza erano delinquenti, e quel teatro, la musica, il palco, il pubblico, li avevano salvati. Quella canzone era un grosso e sincero “Grazie”.
Crème non pianse. Cantò con passione, sorrise ai suoi amici e li salutò, i loro incoraggiamenti che continuavano a risuonarle nelle orecchie. Poi loro se ne andarono.
Mancava solo Jordan.
E infatti, un attimo dopo, qualcuno aprì il portone. Ed eccolo lì, il responsabile del teatro, il suo salvatore, quello che per lei era stato come un padre e una guida. Jordan.
«Piccola Crème...» L’uomo, prima di abbracciarla, si fermò ad osservare la ragazzina. La squadrò dalla testa ai piedi, le mani strette in due pugni, con lo sguardo pieno di dolore e affetto.
«Piccola, dolce Crème... quando ci siamo conosciuti eri così piccina, una bambina bagnata come un pulcino. Te lo ricordi? Te ne stavi lì, ferma, ad osservare il palco. Non avevi il coraggio di andartene, e io non avevo il coraggio di mandarti via. E ti ho presentata ai musicisti. Sembra solo ieri... e invece eccoti qua. Sei forte, Crème. Ma immagino che tu lo sappia già. Qualsiasi cosa succeda, sappi che è stato un onore incontrarti e conoscerti. Ti voglio tanto di quel bene che...»
A quel punto era stata lei a correre incontro a lui e a stringerlo forte. Ma, di nuovo, i suoi occhi rimasero valorosamente asciutti.
«Oh, Crème. Vorrei che una cosa simile non fosse mai successa. È un’ingiustizia. Se potessi, ti porterei via. Scapperemmo. Non sarebbe fantastico? E verrebbero anche tutti gli altri. E suoneremmo camminando per i boschi. Lo sai che lì dentro ci vivono le Ghiandaie Imitatrici? Te lo immagini, Crème, camminare per i boschi suonando, mentre le Ghiandaie Imitatrici cantano insieme a te? Sarebbe davvero bello. Magari una volta possiamo farlo. Quando tornerai ti porterò nei boschi e suoneremo per le Ghiandaie, che ne dici?»
E con quell’immagine bella e dolce Jordan la lasciò. Crème si aggrappò a quella promessa come se fosse stata la sua ancora di salvezza.
Non si aspettava nessun’altra visita, ma ad un tratto il portone si spalancò per la terza volta.
E Crème, per un istante, ebbe l’impressione di essere tornata Sei.
Cedric Disraeli in persona era davanti a lei. Le andò in contro velocemente, mentre la ragazzina si faceva piccola piccola ma, quando fu giunto di fronte a lei, si lasciò cadere sulle ginocchia.
Crème indietreggiò di un passo, sorpresa.
Cedric la fissò, poi aprì la bocca, e la richiuse poco dopo. Di nuovo la guardò intensamente. E parlò.
«Sei una dei figli di Gabrielle, non è vero?» disse piano, quasi mormorando. Crème annuì lentamente.
«Sì, certo che lo sei. Sei bella come lei. Hai i suoi stessi occhi blu, sono quelli che mi hanno stregato, insieme ai capelli biondi. E hai la pelle chiara come la sua. Sei così piccola... sei la sesta, Sei, giusto?»
Crème scosse la testa. Avrebbe voluto replicare che lei non era più Sei, ma non ci riuscì.
«Ah, già. Ho sentito cosa hai detto. Tu ora sei Crème. È un bel nome, mi piace. Quando sarai tornata a casa, andremo a cambiarlo, che ne dici? Ti chiamerai Crème Disraeli. Suona bene. E potresti andare a vivere con i tuoi amici al teatro. So che ti piace lì.»
Crème non disse niente. Non riusciva nemmeno ad aprire la bocca. Lo fissava e basta.
«Scusami, Crème» sussurrò infine lui. «Sono un pessimo padre, non è vero? Scusami, mi dispiace tanto.»
Poi si alzò e l’abbracciò. E allora Crème non ce la fece più. Pianse, pianse tra le braccia del padre.
E si disse che, se per confermare una volta per tutte il fatto che lei era Crème ed era libera, avrebbe dovuto vincere, allora l’avrebbe fatto.
Sì, l’avrebbe fatto.

 
Distretto Dieci - Scarlett Stock
 
L’aria dentro il salottino era opprimente.
Scarlett sentiva il bisogno di prendere una grossa boccata d’aria fresca, così si alzò ignorando le parole della madre – tanto non la stava ascoltando neanche prima – e si diresse verso la finestra, aprendola.
Fa che tutto questo possa finire in fretta, si disse alzando gli occhi al cielo.
Dietro di lei sua madre, in preda ad una crisi isterica, continuava a sparare parole a raffica – quasi fossero state dei proiettili – con voce stridula.
«Io non riesco a capirti, Scarlett!» esclamò con gli occhi talmente spalancati che per un attimo la ragazza pensò che le sarebbero schizzati via dalle orbite. «Che bisogno c’era di essere così avventata? Hai una minima idea di ciò a cui stai andando incontro? Alla fine sarei comunque riuscita a trovarti un ragazzo da sposare. Saresti comunque stata ricca, avresti vissuto nel lusso senza correre tanti rischi, e invece...»
«Non m’interessa, mamma!» Scarlett non lo urlò, né si mostrò irritata come la madre. Era solo esasperata dal suo comportamento, dalla sua ossessione per l’apparire. Lei non era così, lei era qualcosa di più di un bel visetto e qualche curva. «Voglio far vedere a tutti che anche io sono brava in qualcosa, d’accordo? Qualcosa che non sia ancheggiare, o suonare il piano, o uscire con i ragazzi... e non m’importano neanche i soldi. Voglio solo essere ammirata per qualcosa di grande, di importante...»
«Come uccidere qualcuno?» disse la sorella maggiore, Kendall. Solo per un istante Scarlett pensò che Kendall fosse sconvolta per le regole brutali degli Hunger Games, ma l’illusione durò poco. «Non è per niente femminile, anzi, fa abbastanza schifo! Tutto quel sangue, e il dover dormire in mezzo a un bosco e sporcarsi... io ed Ann siamo state proprio fortunate a salvarci!»
Ann era d’accordo. Lanciò un’occhiata penetrante alla gemella, poi sospirò. «Non riesco proprio a capire perché tu l’abbia fatto, Scarlett. Non c’era davvero bisogno di...»
Ma la sorella la interruppe. «Non importa, non devi capire. Non mi aspetto che nessuno di voi capisca. Continuate pure a vivere le vostre vite. Io non voglio più avere niente a che fare con queste faccende.»
L’unico sinceramente dispiaciuto sembrava Devon, il fratello più grande.
I suoi genitori lo consideravano il figlio perfetto: biondo e dagli occhi azzurri, sorriso smagliante, intelligente – ai suoi tempi era stato il migliore della scuola, ottimo atleta, ricco, divertente... il sogno di ogni ragazza. Un principe azzurro. Nessun difetto...
... ma era comunque tutto terribilmente noioso. Scarlett non capiva come i suoi genitori e i suoi fratelli riuscissero a convivere con le loro ossessioni senza impazzire. O forse sono già pazzi, pensò sconfortata la ragazza.
«Lasciate che faccia ciò che voglia» disse piano Devon. Fissò Scarlett con pietà, il che la irritò. Non voleva la sua compassione. Solo un po’ di comprensione, forse. «Se si aspetta di farcela e vincere, tanto meglio. Altrimenti... be’, in ogni caso è troppo tardi per tornare indietro. Accettatelo e basta.»
Scarlett stava quasi per perdonargli l’occhiata compassionevole che le aveva lanciato, ma poi si rese conto che suo fratello stava semplicemente dicendo al resto della famiglia di perdonare la stupidità della ragazza. E lei non resse più.
«Andatevene» disse stanca. «Abbiamo parlato abbastanza, non voglio sentire altro. Andate via.»
Voleva solo rimanere sola. Non si era pentita per ciò che aveva fatto. Era ancora determinata a vincere.
Si era allentata per ben quattro anni, di nascosto, per potersi offrire volontaria nella sua ultima Mietitura. Era pronta, si sentiva forte come i Favoriti. Non aveva paura.
Gliela farò vedere io, si disse. Quando vincerò non mi criticheranno più e smetteranno di guardarmi come se fossi solo una stupida ragazzina. Vedranno.
Sì, ci avrebbe pensato lei.

 
Distretto Dieci - Andras Lennen
 
Vienna era furiosa. Andras non aveva mai visto la sua gemella in quello stato.
«Se solo quella ragazza, Stock o come si chiama, non si fosse offerta volontaria! Andras, stavo per farmi avanti, lo giuro, ma poi lei mi ha praticamente spinta via e io sono andata a sbattere contro un’altra ragazza. Quando mi sono ripresa era già troppo tardi! E ora io devo stare qua e guardarti mentre...»
Non riuscì ad aggiungere altro perché la voce si spezzò e sua sorella scoppiò a piangere. Andras corse subito ad abbracciarla. «Vienna, va bene così. Tu non dovevi offrirti volontaria. Se fossimo finiti nell’arena insieme io avrei fatto il possibile perché tu potessi tornare a casa. Invece così ho qualche possibilità...»
Ma Vienna non sembrava credere alle sue parole. Lo guardava turbata, forse anche un po’ irritata per un motivo che apparentemente non c’era. Andras non riusciva a capire perché. «Non ti fidi di me?» sussurrò ferito.
Ma sua sorella scosse la testa e gli prese il viso tra le mani. «Tu sei troppo buono, ho paura che...»
Di nuovo non sembrò trovare le parole. Era visibilmente sconvolta, e Andras non riusciva a sopportare quell’espressione scossa dipinta sul suo viso. Era troppo per lui. Si sentiva come se qualcosa dentro di lui si stesse spezzando nel vedere le sue sorelle che soffrivano così tanto. Non riusciva ad essere preoccupato per sé, per la sua sorte. Voleva solo che la sua famiglia stesse bene e fosse felice.
Vienna sembrò riprendersi per un attimo. «Senti, io ti conosco meglio di chiunque altro. So che, se vedessi una ragazza in difficoltà, magari una dodicenne del Distretto Undici, non esiteresti a... ecco, vorresti salvare lei. Ma io voglio vederti tornare a casa, Andras. Pensa anche a noi. Noi, la tua famiglia. Ti vogliamo bene e vogliamo che tu vinca. Perciò...»
«Vincerò» disse Andras in tono risoluto. «E’ una promessa.»
Vienna si morse un labbro e inchiodò il suo sguardo a quello del gemello, continuando a tenere le mani posate sulle sue guance. «Spero solo che tu stia dicendo sul serio. Senza di te io... io... non sono niente. Sono persa. Non riesco neanche ad immaginare una vita in cui tu non sia al mio fianco. Non ci riesco, capisci? Non posso perderti. Io ho bisogno di te. Noi abbiamo bisogno di te.»
Andras posò la sua fronte su quella della sorella. Sentiva il suo respiro sul collo. Chiuse gli occhi e ripensò alle sue parole. Era vero: la sua famiglia aveva bisogno di lui.
Suo padre era morto quando aveva dieci anni. Il toro che aveva accudito per anni con amore un giorno era impazzito senza una causa apparente e lo aveva colpito improvvisamente al petto con un corno, che si era conficcato nella gabbia toracica. 
Fin da subito era stato chiaro che suo padre non ce l’avrebbe fatta: alla ferita profonda era seguita un’infezione che non gli aveva lasciato scampo e che presto lo avrebbe portato alla morte. 
Prima di andarsene, però, l’uomo aveva voluto parlare con Andras, che era l’unico uomo di casa, nato dopo ben altre quattro figlie. Gli aveva parlato come se anche lui fosse stato un vero e proprio uomo, e gli aveva chiesto di occuparsi di tutte le donne della casa e di  assicurarsi che a nessuna mancasse mai niente. 
Andras era solo un bambino, ma aveva subito capito l’importanza del compito che suo padre gli aveva assegnato. Gli assicurò che sarebbe stato all’altezza. 
Così la sua infanzia era terminata bruscamente: il ragazzo aveva abbandonato subito la scuola ed era riuscito a convincere il capo di suo padre a trovargli un lavoro nel suo allevamento. Aveva cominciato ad occuparsi dei cavalli e aveva continuato a lavorare lì ogni giorno, fino a quel momento.
Era lui a mantenere la sua famiglia e si riteneva responsabile di sua madre e delle sue sorelle. Pensava sempre prima a loro. Erano tutto ciò che aveva, le amava tutte alla follia e il pensiero di lasciarle sole lo faceva star male. Era quasi un dolore fisico.
Eppure... qualcosa dentro di lui gli diceva che non era giusto dover uccidere altri ragazzini per poter riabbracciare la sua famiglia. Come si sarebbe sentito nello stringere sua sorella dopo aver privato delle vite ragazzi senza nessuna colpa? Era tutto talmente ingiusto...
E così, nonostante tutto, Andras dubitò di se stesso.
Avrebbe davvero ucciso per poter tornare a casa?








Ellie's Corner
Eccomi qua!
Stavolta sono stata piuttosto puntuale *si sente fiera di sé*
Nel capitolo precedente avevo detto che le scene nella seconda parte sarebbero state otto, ma di nuovo ho dovuto fare i conti con la mia prolissità (ogni volta mi pongo un limite di parole e puntualmente lo supero, non posso farci niente). E dire che non mi sembra neanche di aver scritto abbastanza in ogni scena. Avrei voluto dire molte più cose nei saluti, ma mi sono ritrovata ogni volta a dover tagliare frasi a destra e a manca. Non sono per niente soddisfatta, vi chiedo scusa.
Almeno spero di essere riuscita a far capire qualcosa di più sui caratteri dei tributi. Vorrei che mi faceste sapere se siete riusciti ad inquadrare meglio i ragazzi o se c'è bisogno di lavorare meglio sulla caratterizzazione. Dite pure senza esitazione! Non mi offendo mai, io.
Per il resto... non saprei darvi una data precisa per quanto riguarda la pubblicazione delle scene sul treno. Non credo che vci vorrà molto, ma come al solito non posso promettere niente.
Spero che nonostante i miei dubbi abbiate comunque gradito il capitolo. I vostri commenti sono molto importanti, dopotutto scrivo questa storia anche per voi, quindi ci tengo molto a sapere cosa ne pensate.
Detto questo posso anche smettere di annoiarvi!
Un abbraccio e alla prossima,
Ellie

 

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