What a prophecy cannot predict

di _Pulse_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. The knight of the lake ***
Capitolo 2: *** 2. The sins of the father ***
Capitolo 3: *** 3. The once and future king ***
Capitolo 4: *** 4. Queen of hearts (and her hair straightener) ***
Capitolo 5: *** 5. The moment of truth ***
Capitolo 6: *** 6. The beginning of the end ***
Capitolo 7: *** 7. The ashes of the past… ***
Capitolo 8: *** 8. …And the fires of the present ***
Capitolo 9: *** 9. A remedy to cure all ills – Part I ***
Capitolo 10: *** 10. A remedy to cure all ills – Part II ***
Capitolo 11: *** 11. The tears of the Pendragons – Part I ***
Capitolo 12: *** 12. The tears of the Pendragons – Part II ***
Capitolo 13: *** 13. With all my heart ***
Capitolo 14: *** 14. The witch’s quickening ***
Capitolo 15: *** 15. The Destiny’s Call ***
Capitolo 16: *** 16. A lesson in vegeance – Part I ***
Capitolo 17: *** 17. A lesson in vegeance – Part II ***
Capitolo 18: *** 18. Sorcerers’ hearts ***
Capitolo 19: *** 19. Sweet dreams ***
Capitolo 20: *** 20. The labyrinth of chances ***
Capitolo 21: *** 21. Love in the time of insecurities ***
Capitolo 22: *** 22. Excalibur (and other stuff) ***
Capitolo 23: *** 23. The mark of Abigail ***
Capitolo 24: *** 24. The secret sharer – Part I ***
Capitolo 25: *** 25. The secret sharer - Part II ***
Capitolo 26: *** 26. The nightmare begins ***
Capitolo 27: *** 27. The sword in the stone ***
Capitolo 28: *** 28. The darkest hour ***
Capitolo 29: *** The coming of Alex ***
Capitolo 30: *** The gates of Avalon ***
Capitolo 31: *** Diamond of the day ***
Capitolo 32: *** 32. Epilogue ***



Capitolo 1
*** 1. The knight of the lake ***


Buongiorno a tutti! 

No, non state sognando: sono proprio io, sono tornata. Molti di voi mi avranno data per dispersa (lo avrei fatto anche io) e non mi dilungherò troppo nello spiegarvi il perché della mia prolungata assenza; sappiate soltanto che non ho mai smesso di scrivere, cercando di ritagliare una fetta del mio - poco - tempo libero per dedicarlo all'attività che amo di più al mondo. 

Sono tornata con una nuova avventura, una sfida che mi mette i brividi di eccitazione e di paura.

Non ricordo esattamente come ho scoperto il telefilm Merlin, ma so per certo che è entrato nel mio cuore con una prepotenza che non ritenevo possibile. Non scherzo, dicendovi che è diventato il mio preferito e che non smetterei mai di guardarlo. Per questo scrivere una long in questo fandom (comincio subito alla grande) mi rende felice e spaventata allo stesso tempo. Sarò mai all'altezza? Sarò in grado di non andare OOC? Questo non posso saperlo, ma di una cosa sono certa: in ogni capitolo, in ogni paragrafo, in ogni riga, c'è un pezzetto del mio cuore. Spero che lo si capisca.

Questa storia non è ancora conclusa ma, contrariamente al mio modus operandi, ho deciso di iniziare a pubblicarla ugualmente come incentivo a me stessa: è un progetto che voglio portare a termine nel migliore dei modi e visto che mi sento un po' bloccata al momento, magari il vostro sostegno e i vostri consigli saranno in grado di darmi una scrollata. Sempre se vi piacerà...

Ora, visto che ho già farneticato abbastanza, un paio di piccole precisazioni prima che iniziate a leggere - finalmente - il primo capitolo:
1) fino a cinque minuti fa, questa storia non aveva un titolo: non è per giustificarmi, ma almeno sapete il perché faccia così pena;
2) la storia è ambientata nel futuro, ai giorni nostri, con Merlino alle prese con la vita e i problemi che ognuno di noi potrebbe avere;
3) i personaggi di questa storia non mi appartengono (ho pregato e pregato al mio altare della BBC, ma è stato inutile,
sob) e le loro azioni e i loro pensieri sono del tutto inventati da me medesima, secondo il mio particolarissimo punto di vista e la mia fantasia sfrenata (ogni commento in proposito è ben accetto). Tutto è scritto senza alcuno scopo di lucro, anche ogni riferimento a persone e a fatti reali.

Ora vi lascio davvero e spero che sia di vostro gradimento. Grazie per aver letto fino a qui, se ci siete arrivati. 

Un abbraccio enorme.

_Pulse_

 

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 1. The knight of the lake

 

Una mano leggera, delicata come una piuma, si posò sulla sua spalla sinistra.
«Merlino», lo chiamò piano Alex, china di fianco al suo orecchio, su cui sentiva il suo respiro caldo ed aromatizzato al caffè.
«Merlino, svegliati».
Il ragazzo trattenne abilmente un sorriso. Abilmente perché ormai mentire era diventato il suo più grande talento, visto il tempo che aveva avuto per fare pratica.
Non aveva dormito quella notte, ma non era un problema per lui. Non più. Lo faceva ancora e il suo corpo richiedeva qualche ora di sonno quando tirava troppo la corda, ma un essere immortale come lui non era per forza costretto a vivere secondo i bisogni fisici dei mortali.
Finse quindi di svegliarsi all’improvviso, rendendosi conto pian piano di dove si fosse addormentato, e quando voltò il capo verso Alex accennò un sorriso, stropicciandosi gli occhi con i pugni.
«L’ho fatto di nuovo?», domandò, schiarendosi un poco la voce.
«A quanto pare», rispose lei, offrendogli un bicchierino di caffè.
Merlino la ringraziò con una semplice occhiata e la guardò mentre si dirigeva verso le finestre per scostare le tende e lasciar entrare la luce del sole appena sorto.
«Al meteo davano pioggia per oggi, ma credo proprio che si siano sbagliati».
«Lo spero», commentò Merlino. «Ho l’auto dal meccanico e non la riavrò prima di giovedì».
«Ecco perché sei venuto in bicicletta, ieri». Alex sorrise birichina e si fermò al suo fianco, gli occhi posati su Steve e Gabriel, i bambini che dormivano profondamente nei loro lettini con le sbarre rialzate, le coperte accuratamente rimboccate fin sotto il mento.
«E io che pensavo volessi tenerti un po’ in forma…».
Merlino sollevò gli occhi, improvvisamente venati di tristezza.
Non smetteva mai di pensare ad Artù – il re del passato e del futuro, il suo migliore amico, il destino che aveva compiuto solo a metà – ma c’erano momenti in cui i ricordi lo travolgevano come un’onda anomala, lasciando il suo cuore ad annaspare in un mare di nostalgia e dolore.
Quella battuta era stata lo scossone che aveva agitato le acque di solito quiete nel suo animo, riportando a galla spezzoni della sua ormai lontanissima vita a Camelot.
Ciononostante ripeté le stesse parole che si era sentito dire troppo tempo prima, improvvisando persino un tono di voce vagamente offeso: «Stai dicendo che sono grasso?».
Alex arricciò le labbra, trattenendo una grassa risata. «Tu, grasso? Sei magro come un chiodo! Dovresti fare seriamente un po’ di palestra, ecco cosa».
Merlino inarcò un sopracciglio, sogghignando. «Ti sorprenderesti, se vedessi che cosa c’è sotto questi vestiti».
Riuscì a farla boccheggiare, rossa d’imbarazzo fino alla punta dei capelli, e quando se ne accorse il mago ridacchiò e le pizzicò più volte il fianco, facendola scostare con una risata stretta tra le labbra e il viso rivolto verso il pavimento.
Quindi finì il caffè bevendolo tutto d’un fiato e si stiracchiò sulla poltroncina che aveva portato accanto al letto la sera prima. Solo in quel momento si rese conto del plaid arancione che aveva sulle gambe.
Era sempre la stessa coperta, e compariva solo quando Alex faceva il turno di notte e lo trovava addormentato in una delle tante stanze del reparto di oncologia infantile, con il suo libro di favole ancora tra le mani o semplicemente rannicchiato con la testa abbandonata su una spalla.
La guardò di sottecchi e la ringraziò mentalmente, conscio che l’avrebbe messa ancora una volta in imbarazzo se l’avesse fatto ad alta voce. Un tempo avrebbe reagito allo stesso modo. Un tempo.
Piegò con cura la coperta e si alzò per gettare il bicchierino di plastica vuoto nel cestino e recuperare il libro di favole che aveva lasciato sul comodino.
«Merlino».
Il ragazzo si voltò verso Alex e gli bastò un’occhiata per capire che avrebbe fatto l’ennesimo tentativo e lui avrebbe dovuto rifiutare ancora, facendo sì che un’altra piccola crepa si aprisse sul suo cuore.
«Che ne diresti di una colazione vera e propria? Il caffè della macchinetta è pessimo».
Merlino annuì, dirigendosi verso la porta. «Sì, lo è».
Era già nel corridoio ancora deserto ed immerso nella quiete della mattina presto, quando la voce di Alex lo costrinse a fermarsi sul posto.
«Non hai risposto alla mia domanda».
Merlino chiuse gli occhi e respirò profondamente. Quanto avrebbe voluto dire di sì, quanto avrebbe voluto poter stare con lei come entrambi desideravano. Ma ci aveva già provato e sapeva come sarebbe andata a finire: il suo cuore sarebbe andato in pezzi e ci sarebbe voluto troppo tempo, troppa fatica, troppe lacrime, prima che riuscisse a rimetterlo insieme alla bell’e meglio.
Si voltò di tre quarti, guardando distrattamente l’orologio che aveva al polso. «Credo di non riuscire a fare in tempo», esclamò, stiracchiando un mezzo sorriso. «Ho proprio bisogno di una doccia e conosci la signora Begum: durante l’orario di lavoro non si fanno i propri comodi».
Alex si sforzò di sorridere a sua volta, ma i suoi occhi, verdi come l’erba nuova in primavera, erano incapaci di mentire, e Merlino li conosceva troppo bene ormai per non accorgersi della delusione che aveva tolto loro la solita luminosità.
«Sarà per la prossima volta, allora».
Merlino annuì con un breve cenno del capo e sollevò una mano in segno di saluto, poi si allontanò a passo svelto lungo il corridoio.

 
Inforcata la bicicletta, aveva pedalato a più non posso, così forte da farsi venire il fiato grosso, e nonostante non ne avesse il tempo aveva deciso di fare il giro largo per tornare a casa, quello che, seguendo la pista ciclabile senza tagliare in stradine secondarie, l’avrebbe portato a passare davanti al lago.
Il sole appena sorto oltre le colline tingeva il cielo di rosso, rosa ed arancione, e la nebbia che si sollevava sopra le acque tranquille di Avalon era così fitta da nascondere l’isola posta proprio al centro di esso.
Merlino rimase per diversi minuti fermo sulla strada, ancora in sella alla propria bici e stretto nel giubbotto blu, ad osservare quel paesaggio che nonostante il passare dei secoli non era mai cambiato, intoccato.
Per quanto ne sapeva, era uno degli ultimi posti in cui la forza della Religione Antica non era ancora svanita del tutto, uno degli ultimi posti in cui poteva sentirsi un tutt’uno con la terra, il cielo e l’acqua e la magia scorreva irrefrenabile dentro le sue vene, cercando uno sbocco qualunque e trovando solo resistenza.
Non era più lo stesso Merlino di una volta: i sensi di colpa, la nostalgia, la sofferenza e il tempo – in modo particolare il tempo – l’avevano cambiato, inevitabilmente; soprattutto,  gli avevano tolto la speranza.
Lui che una volta riusciva a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno e che lottava fino a che ne aveva le energie, senza arrendersi di fronte alle difficoltà, ora non aveva niente per cui combattere, nulla per cui essere ottimista.
Si limitava ad occupare il tempo, aspettando un qualcosa che probabilmente non sarebbe mai accaduto, nonostante il grande drago Kilgharrah avesse predetto il contrario. Ma come poteva fidarsi ancora delle sue parole, dopo aver realizzato che tutto ciò che aveva fatto per aiutare Artù a costruire Albione era stato vano, dato che il suo re se n’era andato senza avere il tempo di godere dei frutti dei loro sforzi?
Il rumoroso passaggio di un camion alle sue spalle lo riscosse dai propri pensieri.
Tirò fuori le mani dalle tasche del piumino e rendendosi amaramente conto che certe cose, invece, sarebbero sempre state delle costanti nella sua vita immortale – come per esempio il suo arrivare continuamente in ritardo e le lavate di capo che per questo riceveva dai propri superiori – riprese a pedalare.

 

***

 

Alex lanciò con ben poca delicatezza la borsa sul divano e si sciolse la coda di cavallo.
Si sentiva una stupida, una perfetta idiota, e quello che le faceva più rabbia era che non poteva comportarsi diversamente quando c’era Merlino nei paraggi: era più forte di lei.
Frustrata più che mai, salutò a malapena Artù, il piccolo gattino randagio che aveva trovato una mattina, di ritorno dall’ospedale, e che non aveva più avuto la forza di lasciare.
Quel piccolo batuffolo di pelo nero su cui risaltavano due magnetici occhi azzurri aveva ben poco in comune col valoroso re di Camelot, ma quando aveva dovuto decidere come chiamarlo le era sembrato inopportuno dargli lo stesso nome del ragazzo di cui non aveva proprio potuto fare a meno di innamorarsi.
Sarebbe stato quantomeno imbarazzante se un giorno – anche se non riusciva nemmeno ad immaginare un motivo per cui sarebbe mai potuto accadere – avesse dovuto presentarglielo: «Merlino, questo è Merlino. L’ho chiamato come te perché i suoi occhi mi ricordano terribilmente i tuoi».
L’unico altro nome che le era venuto in mente era stato per forza di cose Artù, il protagonista delle favole che Merlino non si stancava mai di raccontare ai bambini dell’ospedale, così ricche di dettagli, colpi di scena mozzafiato e passione da far pensare che avesse vissuto quelle avventure in prima persona.
Seguendo la borsa, si gettò a peso morto sopra il piccolo divano in salotto e sbuffò rassegnata: non avrebbe mai trovato il coraggio di dire a Merlino ciò che provava ogni volta che lo vedeva o gli stava vicino e tantomeno l’avrebbe trovato per dirgli che se lui non ricambiava i suoi sentimenti avrebbe fatto meglio a metterlo in chiaro fin da subito. Probabilmente Alex non sarebbe più riuscita ad essergli amica se le avesse spezzato il cuore in quel modo, perciò era contenta, più o meno, che Merlino trovasse sempre qualche scusa per non trovarsi da solo con lei fuori dall’ospedale – in quello che le sarebbe sembrato un appuntamento, illudendola – anziché schiaffarle in faccia che non era interessato.
Merlino non si sarebbe mai comportato così. A volte aveva la netta impressione di conoscerlo come le sue tasche, altre che venisse da un altro mondo e che nascondesse mille e più segreti dietro quei suoi limpidi occhi azzurri e i suoi mezzi sorrisi spesso e volentieri intrisi di tristezza.
Quello di cui era convinta, era che Merlino avesse l’animo di un cavaliere e che mai, mai l’avrebbe fatta soffrire intenzionalmente. Per questo forse era arrivato il momento di comportarsi da adulta e di smetterla di illudersi, sognando notte e giorno quell’amore evidentemente unilaterale. Doveva sforzarsi di reprimere qualsiasi sentimento provasse per Merlino, per il bene della loro amicizia e soprattutto del suo cuore.
Artù si accoccolò sul suo addome e Alex sorrise teneramente, accarezzandogli il soffice pelo nero e tirandogli le piccole orecchie.
«Troverò anch’io il mio cavaliere un giorno, vero Artù?».
Il micio iniziò a fare le fusa e prima che se ne rendesse conto Alex si addormentò.

 
Solo la sveglia che fortunatamente si era dimenticata di disattivare il pomeriggio precedente fu in grado di destarla dai propri sogni.
Raccattò la borsa che vibrava sotto i suoi piedi e una volta trovato il cellulare la spense, massaggiandosi poi il viso gonfio di stanchezza.
Si sentiva distrutta, ogni osso ed ogni muscolo le dolevano, tanto che pensò che sarebbe stato meglio se non avesse dormito affatto.
Con uno sforzo sovraumano si alzò e si trascinò in bagno, dove si sciacquò la faccia e si rese conto di essere più che assetata. Si attaccò direttamente al rubinetto e fu un vero piacere sentire l’acqua gelata scorrere nella sua gola arida. Quando ne ebbe abbastanza, si guardò allo specchio e si sistemò sulla fronte la frangetta un po’ bagnata.
Controllò l’ora ancora una volta e capì che solo una cosa le avrebbe ridato l’energia giusta per affrontare l’ennesima nottata in ospedale: correre.

 
Faceva freddo, dannatamente freddo, ma Alex non poteva davvero farne a meno.
Adorava sentire il cuore batterle più forte nel petto, col sangue che le riscaldava i muscoli e le arrossava le guance; adorava correre immersa nel verde, vedere il paesaggio non cambiare mai e cambiare in continuazione, riempirsi i polmoni del profumo della natura, anche gelata com’era ai primi di marzo, svuotare la mente da qualsiasi preoccupazione ed ascoltare le sue canzoni preferite con le cuffiette calcate nelle orecchie, sotto il cappellino di lana.
Il loro era un piccolo paesino, in confronto la vicina Caerleon sembrava una metropoli ben più interessante, perciò non si sorprese di non incrociare anima viva dopo le cinque del pomeriggio, orario di chiusura dei piccoli negozi del centro. Ma se anche ci fosse stato in giro qualcuno di sicuro non le avrebbe fatto compagnia: era lei l’unica matta in grado di fare jogging a qualsiasi ora, giorno e stagione dell’anno.
Era quasi a tre quarti del suo percorso abituale, nelle vicinanze del lago – avvolto dalla nebbia e tetro più che mai, – quando si rese conto del vento che alzandosi aveva portato con sé delle minacciose nuvole scure, probabilmente cariche di pioggia. Doveva affrettarsi, prima di ritrovarsi a dover correre per non prendersi una bella lavata anziché per il piacere di farlo. Anzi, forse avrebbe fatto meglio a prendere l’autobus per tornare a casa, giusto per non rischiare. Decise che quella era la soluzione migliore e che, se non ricordava male, aveva ancora dieci minuti buoni prima che il mezzo raggiungesse la fermata una ventina di metri più avanti.
Si appoggiò al muretto in pietra che delimitava il giardino di una villetta a due piani e respirando profondamente fece un po’ di stretching, piegando le gambe al petto, stirando i polpacci e roteando le spalle.
All’improvviso un fulmine dalla potenza dirompente, in grado di illuminare a giorno l’intera superficie del lago e di far tremare la terra, la fece trasalire.
Si strappò le cuffie dalle orecchie e dimentica dello stretching si appoggiò al muretto, una mano stretta sul cuore che le batteva furiosamente nel petto. Aveva i brividi, brividi che non c’entravano nulla col freddo, ma piuttosto con lo spavento che si era presa.
Provò a calmarsi, dicendosi che nonostante fosse caduto davvero vicino a lei – forse proprio sull’isola al centro del lago – era ancora tutta intera e non c’era davvero nulla di cui aver paura. Ci provò, ancora e ancora, invano. Avvertiva una sgradevolissima sensazione alla bocca dello stomaco, come se il peggio dovesse ancora venire, ed infatti una manciata di secondi dopo l’acqua scura e fredda sotto lo spesso strato di nebbia iniziò a ribollire, in un modo tutt’altro che naturale, come dopotutto lo era stato quel terribile fulmine.
In quel momento avrebbe tanto voluto fuggire, correre via sotto la debole pioggerellina che aveva iniziato a cadere, ma le sue gambe sembravano come paralizzate, i suoi piedi ben radicati al suolo.
Ad un tratto, proprio nel bel mezzo di quel furioso ribollire, emerse una figura annaspante e senza fiato, con i capelli biondi incollati al viso e puro e semplice terrore negli occhi blu.
Per quanto fosse incredula e spaventata, non dovette nemmeno pensarci prima di lasciar cadere il lettore mp3 sull’erba e correre verso il lago, spogliandosi del giubbotto e del cappellino e lasciando che la pioggia, ora più forte e scrosciante, la bagnasse da capo a piedi.
Si tuffò nell’acqua gelata e nuotò più in fretta che poté verso il ragazzo che non faceva altro che agitarsi, guardandosi intorno e respirando affannosamente. Probabilmente stava avendo un attacco di panico.
«Sto arrivando! Calmati!», urlò per farsi sentire sopra il rumore del temporale.
Il ragazzo biondo si voltò verso di lei e Alex rischiò quasi di annegare, stordita dalla bellezza di quegli occhi blu come il mare. Si costrinse a fare ancora qualche bracciata, sentendo i muscoli intirizzirsi ora che l’adrenalina stava abbandonando il suo corpo. Sapeva di non potersi fermare, o sarebbero arrivati i crampi e sarebbe stato davvero il colmo se quel ragazzo fosse stato costretto a doverla salvare, quando lei si era gettata apposta per salvare lui.
«Sai nuotare, vero? Ti prego, dimmi di sì!».
Il ragazzo annuì con un cenno del capo e Alex sospirò di sollievo, allungandogli una mano. Il biondo la fissò per qualche secondo, intimorito o forse solo in stato confusionale, fino a quando Alex non gridò ancora, gettando un’occhiata preoccupata verso il cielo, terrorizzata dalla possibilità che un fulmine colpisse l’acqua: «Non è la giornata migliore per una nuotata, magari il prossimo week-end!».
Quelle parole, o forse il tono scherzoso con cui aveva cercato di pronunciarle, riuscirono a far breccia nell’animo del ragazzo, il quale decise di fidarsi ed afferrò la sua mano, iniziando a nuotare insieme a lei verso la riva.
Erano all’incirca a metà strada dal loro agognato traguardo, quando Alex sentì avverarsi il suo peggior incubo: i crampi. La corsa e quella folle nuotata avevano sfiancato i muscoli dei suoi polpacci, che ora le dolevano facendole vedere letteralmente le stelle.
Si voltò sulla schiena, provando a respirare profondamente per stare a galla e a nuotare solo con le braccia, ma la stanchezza era troppa. Per un attimo finì sott’acqua, gli occhi increduli ancora aperti. Fu solo un attimo però, perché il ragazzo la recuperò e stringendosela al petto con un braccio riuscì a raggiungere la riva.
Entrambi senza fiato e allo stremo delle forze rimasero sdraiati nell’acqua bassa, tra le canne e la ghiaia che pungolava loro la pelle ricoperta di brividi, fino a quando Alex non sentì i denti batterle così forte nella bocca da farla tornare alla realtà. Guardò il ragazzo che avrebbe dovuto salvare e che invece aveva salvato lei e solo in quel momento si rese conto del suo stranissimo abbigliamento: sembrava una specie di uniforme da cavaliere, molto realistica, con tanto di armatura, maglia di ferro e un lungo mantello rosso, ma era logorata dal tempo e chiazzata qua e là di verde, come se vi fossero cresciute sopra delle alghe.
Mille e più domande le affollarono la mente, ma le scacciò via tutte quante, rimandandole a più tardi, quando si accorse che anche lui stava andando in ipotermia.
Lo sforzo che aveva fatto quando poche ore prima si era alzata dal divano dopo il pisolino le era sembrato “sovraumano”, ma allora non aveva la minima idea di quanto potesse essere spossante tuffarsi in un lago gelato per cercare di tirarci fuori qualcuno.
Con immensa fatica si alzò a quattro zampe e poi in piedi, nonostante il cerchio alla testa e i crampi. Il ragazzo sollevò le palpebre sentendola muoversi e la guardò quasi incredulo, con le labbra blu che tremavano, prima di perdere del tutto conoscenza.
Alex raggiunse il giubbotto che aveva lasciato cadere qualche metro più in là, vicino al ciglio della strada, e cercò freneticamente il cellulare.
Avrebbe dovuto chiamare un’ambulanza, sarebbe stata la cosa migliore da fare viste le loro condizioni, ma gettando un’occhiata a quel ragazzo emerso all’improvviso dal lago, con indosso quegli strani indumenti, decise di non farlo. Selezionò invece il primo numero memorizzato nella sua rubrica, nonostante non l’avesse mai chiamato negli ultimi sei anni. Ma quella era una vera e propria emergenza, e aveva bisogno del suo aiuto.

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Capitolo 2
*** 2. The sins of the father ***


Buongiorno! :)


Volevo rapidamente ringraziare chi ha letto il primo capitolo e stritolare in un abbraccio virtuale chi ha messo questa storia tra le ricordate, le seguite e le preferite. Troppo buoni, veramente!
E poi volevo spiegare una cosuccia che l’altra volta mi sono dimenticata di dirvi… Forse qualcuno l’avrà già notato, ma per chi se lo fosse perso voglio precisare che i titoli dei capitoli saranno più o meno ispirati ai titoli degli episodi della serie TV, non in ordine cronologico ovviamente e adattati in base agli argomenti trattati nei vari capitoli.
Credo sia tutto! Vi auguro buona lettura e mi raccomando, aspetto i vostri pareri! ;)

Vostra,

_Pulse_

 

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     2. The sins of the father

 

Il suo corpo tremò violentemente, come se fosse appena stato attraversato da una potente scossa elettrica, e la vista gli si oscurò del tutto prima di mostrargli chiaramente il lago di Avalon, la pioggia battente che si schiantava sulla sua superficie increspata e da cui saliva una nebbia quasi impenetrabile, e la figura che vi si agitava, muovendo freneticamente le braccia alla ricerca di un appiglio qualunque. Avrebbe riconosciuto quella figura in qualsiasi luogo e in qualsiasi epoca: Artù.
«Merlino!», urlò una voce iraconda ad un soffio dal suo orecchio, riuscendo a riportarlo al presente.
Il ragazzo abbassò gli occhi e si rese conto che a causa di quella visione aveva combinato un vero e proprio disastro: tutti i piatti, le tazze e i bicchieri che poco prima aveva raccolto su un vassoio ora erano frantumati a terra – non si era salvato nulla. Ci sarebbe voluta un’eternità per pulire, ma in quel momento non aveva nemmeno un secondo a disposizione.
«Mi dispiace, giuro che ripagherò tutto», esclamò, togliendosi frettolosamente il grembiule e lasciandolo tra le mani della padrona della caffetteria, pasciuta ed irascibile esattamente come la cuoca reale di Camelot.
La donna lo fissò sbigottita per un paio di secondi, abbastanza perché Merlino saltasse i cocci di ceramica e i pezzi di vetro sparsi a terra e corresse verso la porta. 
Quando la rabbia le fece ritrovare la voglia di gridare improperi contro quel ragazzo combina guai che aveva avuto la sfortuna di assumere, Merlino stava già pedalando a più non posso sotto la pioggia fredda.

 
Saltò giù dalla bicicletta e, stremato ed infreddolito, con le tempie che gli pulsavano dolorosamente, corse verso la sponda del lago.
Era quella la prospettiva che aveva avuto nella sua visione, eppure non c’era niente oltre la pioggia e la nebbia. Che con il tempo avesse dimenticato come distinguere le visioni del presente da quelle del futuro?
Col cuore che batteva a mille per la corsa in bici e il nervosismo, si scostò i capelli bagnati dalla fronte, camminando avanti e indietro nel vano tentativo di capire cosa stesse succedendo.
Aveva visto Artù emergere dalle acque di Avalon, risorgere come era stato predetto da Kilgharrah, e sentiva che era davvero accaduto, ne era certo com’era certo di aver vissuto mille e passa anni in attesa del suo ritorno, avvertendo uno straziante vuoto all’interno della propria anima, quello che solo la sua presenza era in grado di riempire e che ora pulsava in modo doloroso, ma vivo. Ciononostante, di lui non c’era traccia.
Merlino provò ad immaginare diversi scenari in cui Artù riusciva ad uscire dall’acqua e si allontanava dal lago, magari alla ricerca di un posto asciutto in cui ripararsi e chiedere aiuto. In ogni caso, non sarebbe stato difficile trovarlo: non sapeva come fosse uscito dalle acque di Avalon, ma un giovane uomo rimasto agli usi e costumi del Medioevo avrebbe attirato l’attenzione di chiunque.
Deciso a fare il giro dell’isolato, nella speranza che non si fosse allontanato troppo e che soprattutto non si fosse cacciato in qualche guaio, tornò dalla bici che aveva malamente abbandonato sul ciglio della strada.
Non fece in tempo a mettere entrambi i piedi sui pedali però che un oggetto, lasciato sull’erba tagliata di recente accanto ad un muretto in pietra, attirò la sua attenzione. Solo avvicinandosi riuscì a capire di che cosa si trattava: un mp3 di un bel rosso vivo e con l’adesivo di una ranocchietta incollato sul retro. Lo riconobbe subito. Se lo infilò nella tasca del giubbotto e senza pensarci su due volte tornò da dov’era venuto, pedalando con una nuova energia che gli scorreva nelle vene.

 

***

 

Sentiva gli occhi di suo padre bruciarle addosso, ancora.
Lo avevano fatto quando aveva fermato l’auto sul ciglio della strada ed era corso ad aiutarla per tirare fuori dall’acqua del lago il misterioso ragazzo; quando Alex si era seduta sui sedili posteriori per tenere la testa dello sconosciuto sulle proprie gambe e controllargli costantemente il polso; quando insieme l’avevano trasportato dentro casa ed entrambi, pur non volendolo, avevano esclamato che tutta la ferraglia che aveva addosso era davvero pesante, oltre che ingombrante.
Ora, inginocchiata sul letto e china sul corpo privo di conoscenza del ragazzo, sapeva che suo padre la stava osservando con quei suoi occhi tristi ed apprensivi. Se solo avesse saputo quanto l’avrebbe messa a disagio vederlo in quello stato avrebbe davvero chiamato l’ambulanza: al diavolo quell’assurda situazione in cui si era trovata coinvolta, quell’assurda armatura e anche quel ragazzo! Non era affar suo, dopotutto, e non era lei che doveva preoccuparsi, bensì…
«Merlino».
Alex strabuzzò gli occhi, osservando le labbra appena dischiuse del ragazzo. Non poteva essere stato lui, non nelle sue condizioni. E se anche fosse stato lui non avrebbe potuto invocare il suo Merlino. Oddio, era sicura che pochissimi genitori sani di mente avrebbero dato il nome di un mago leggendario al proprio bambino, ma era impossibile che il Merlino che conosceva lei conoscesse il ragazzo emerso dal lago. Come avrebbe potuto?
«Dovremmo…», provò a dire suo padre, a bassa voce, ma Alex lo interruppe immediatamente, brusca: «Sono una dannata infermiera, so che cosa devo fare!».
Doveva togliergli i vestiti bagnati e tenerlo al caldo, ma con gli occhi di suo padre addosso non riusciva a concentrarsi: le tremavano le mani e le si appannava la vista. O forse suo padre non c’entrava niente ed era solo la stanchezza che la stava per sopraffare.
Stava per dirgli di andarle a prendere delle coperte, cosicché si allontanasse e lei potesse pensare ad una cosa per volta, quando qualcuno iniziò a giocare con il pulsante del suo campanello, facendolo suonare così a lungo e in modo così insistente che Alex temette per un momento che la sua testa sarebbe esplosa.
«Chi diavolo è a quest’ora?», chiese, respirando nervosamente a causa di quella maledetta armatura che non aveva alcuna intenzione di slacciarsi dalla spalla del ragazzo.
Suo padre andò alla porta e con un orecchio teso Alex giurò di sentire la voce di Merlino al piano di sotto. Si voltò di scatto verso le scale e vide proprio lui, bagnato come un pulcino e col fiato grosso, gli occhi sgranati che si posarono sul ragazzo steso sul letto e non lo abbandonarono più.
Alex strabuzzò gli occhi e cercò quelli di suo padre, il quale si morse l’interno della guancia e, mortificato, chiese: «Non dovevo aprirgli?».
La ragazza lo ignorò per concentrarsi su Merlino. Aprì la bocca per chiedergli perché fosse lì, se conoscesse quel misterioso ragazzo che – ora era evidente – aveva chiamato proprio il suo nome, e mille altre cose che le frullavano nella testa da quando quel maledetto fulmine si era schiantato sull’isola al centro del lago, ma non un suono uscì dalla sua gola.
Merlino infatti le passò accanto, senza prenderla minimamente in considerazione, per cadere in ginocchio al capezzale del ragazzo, con le mani che gli scostavano i capelli bagnati dal viso e la fronte quasi contro la sua, e mormorare frasi che lei non riuscì ad afferrare, tanto era lo shock e il freddo che ora sentiva fin dentro le ossa. Una sola parola le giunse chiara e nitida alle orecchie, un nome: Artù.

 

***

 

Merlino non poteva crederci. Artù era davvero risorto, ed era a casa di Alex.
L’aveva a malapena guardata, preoccupato com’era per la salute del suo re, e non era stato affatto gentile con lei, facendo irruzione in casa sua senza darle alcun tipo di spiegazione ed aggredendola come aveva fatto quando si era reso conto delle condizioni in cui riversava Artù, tremante e con addosso i vestiti ancora fradici, ordinandole di portargli degli asciugamani e delle coperte anziché starsene lì ferma impalata.
Sotto i suoi occhi sempre più increduli aveva spogliato il re di Camelot, ricordando ancora perfettamente, come se non avesse fatto altro per più di mille anni d’attesa, dove mettere le mani per sfilargli l’armatura.
Ora che Artù era più che sufficientemente al caldo, anche se nudo sotto le coperte perché nessuno aveva pensato a procurargli dei vestiti di ricambio, Merlino, ancora seduto al suo capezzale, ripensava a tutto questo e si sentiva più che in colpa per come si era comportato con Alex, specialmente da quando aveva realizzato che era stata lei a tirare fuori Artù dalle acque di Avalon. Non riusciva nemmeno ad immaginare che cosa sarebbe successo se lei non si fosse trovata nel posto giusto al momento giusto: il minimo che si meritava erano delle scuse e dei ringraziamenti.
Si alzò dalla sedia che aveva portato accanto al letto, sentendo le membra irrigidite per il freddo che dopotutto aveva preso anche lui, pedalando sotto la pioggia fino al lago e poi fino a casa di Alex. Esitò ancora un attimo, accarezzando con gli occhi il viso di Artù, poi si diresse verso la porta.
«Merlino…».
Il mago si pietrificò sul posto, con una mano stretta intorno alla maniglia. Quella voce… Pensava che non l’avrebbe mai più sentita e che un giorno ne avrebbe dimenticato anche il ricordo.
Si girò lentamente, sentendo le lacrime affluire agli occhi, dietro i quali si celava più tempo di quello che si sarebbe mai potuto immaginare, e vedendo quelli di Artù semiaperti, fissi su di lui, il suo cuore perse un battito.
«Merlino, che cos’è successo? Dove mi trovo?», domandò con voce impastata, ancora debole, sforzandosi di tirarsi su.
Lo stregone lo raggiunse con due rapide falcate e gli posò delicatamente le mani sulle spalle, costringendolo a tornare sdraiato.
«Dovete riposare, Sire. Domani mattina vi spiegherò tutto ciò che mi sarà possibile, ve lo prometto».
Artù lo guardò negli occhi intensamente e alla fine cedette alla stanchezza, abbandonando di nuovo il capo tra i cuscini.
«Non allontanarti», biascicò, già in dormiveglia.
Merlino accennò un sorriso mentre una lacrima di gioia gli rigava la guancia, quindi gli rimboccò le coperte fin sotto al mento. «Lo sapete che senza di me non durereste un giorno».
Inaspettatamente, anche Artù sorrise, e Merlino provò l’ennesima fitta al cuore gonfio di felicità.
Rimase in silenzio per un po’, aspettando che il re si addormentasse profondamente, poi spense la luce dell’abat-jour sul comodino.
«Bentornato, Sire», sussurrò ancora, prima di chiudersi delicatamente la porta alle spalle.

 

***

 

Alex osservò la tazza di camomilla che suo padre le aveva preparato e si passò stancamente le mani sul viso, gettando un’occhiata all’orologio appeso al muro.
Dopo essersi tolta i vestiti fradici per indossarne altri puliti ed essersi asciugata alla bell’e meglio i capelli si era seduta al tavolo della piccola cucina, a gambe incrociate sulla sedia ed avvolta in una pesante coperta di lana. Quindi aveva chiamato una sua collega dell’ospedale, spiegandole che aveva avuto un imprevisto e aveva bisogno che le coprisse il turno, promettendole che le avrebbe restituito il favore appena possibile.
Suo padre, seduto accanto a lei, era rimasto in silenzio per tutto il tempo, fino a quando non aveva trovato il coraggio di chiederle: «Perché l’hai portato qui? Non lo conosci nemmeno».
Alex aveva sollevato appena gli occhi, girando il dito sul bordo in ceramica della tazza. Aveva scrollato le spalle, rispondendo con sincerità: «Pensavo fosse la cosa giusta da fare».
«E l’altro ragazzo, Merlino… è un tuo amico?».
Alex aveva incurvato ironicamente un angolo della bocca. «Non ci vediamo da sei anni e il tuo primo pensiero è che tipo di ragazzi mi porto a casa?».
«Sei pur sempre la mia bambina, ho il dovere di…».
«Proteggermi?», aveva concluso per lui la frase, ridacchiando apertamente. «Detto da te, è il colmo».
L’uomo aveva chinato il capo, fissandosi le mani unite sul tavolo. «Non avrei mai voluto farti soffrire. Né te né tua madre lo meritavate».
«Già. Dovevi pensarci prima, temo».
Suo padre aveva sospirato, sistemandosi gli occhiali sul naso, e senza troppi convenevoli si era alzato e si era diretto verso la porta. Alex sapeva di non essere come lui, perciò l’aveva raggiunto, tenendosi la coperta sulle spalle come un mantello, e lo aveva trattenuto.
«Mi hai davvero delusa, papà. Non so se riuscirò mai a… Ma un grazie per ciò che hai fatto oggi te lo devo».
Suo padre aveva accennato un sorriso e aveva allungato una mano per accarezzarle i capelli biondi ancora un po’ umidi, per poi ritrarla all’ultimo momento, con gli occhi di nuovo cupi di dolore.
«Non mi devi niente», aveva sussurrato, andandosene senza più guardarsi indietro.
Da quel momento, Alex non era riuscita a pensare ad altro, stretta nella sua coperta e con quella tazza di camomilla che non aveva ancora toccato tra le mani. E avrebbe dovuto pensare a Merlino, a come appena qualche ora prima aveva pensato che mai e poi mai ci sarebbe stato un motivo abbastanza valido che lo avrebbe spinto ad entrare in casa sua ed ora sapeva che c’era, ed era un ragazzo che da quello che aveva capito si chiamava Artù ed era emerso dal lago del loro tranquillo paesino con indosso l’armatura di un cavaliere medievale. Questo avrebbe dovuto interessarla più di ogni altra cosa, ma forse era tutto troppo assurdo perché la sua mente si arrendesse all’evidenza e la smettesse di credere che prima o poi si sarebbe svegliata sul suo divano e quello strano sogno sarebbe finito.
Sentì un lieve rumore di passi e si voltò sulla sedia, scorgendo Merlino emergere dalla scalinata buia. Sembrava imbarazzato e un po’ dispiaciuto, ma le regalò comunque un sorriso carico di tenerezza, prendendo posto al suo fianco.
«Come sta?», gli chiese Alex, rompendo quel silenzio che l’avrebbe fatta diventare matta se sommato all’innocente bellezza degli occhi di Merlino.
«Molto meglio. Ora dorme».
«Bene. Come hai detto che si chiama?».
«Artù».
«E tu e lui… vi conoscete da molto?».
«Da sempre».
Alex sollevò di scatto gli occhi e trovò i suoi luminosi, anche se velati di lacrime. Si chiese se fosse il caso di continuare con quell’interrogatorio o se fosse più opportuno aspettare che fosse Merlino a parlarle di lui. Dopotutto l’aveva soccorso – se non salvato – e l’aveva ospitato a casa sua: qualche informazione in più era un suo diritto, se la meritava.
Ma forse l’unica vera ricompensa che desiderava era proprio quella che Merlino le offrì, prendendole inaspettatamente una mano e stringendola forte tra le sue, facendo sì che i loro occhi si incatenassero.
«Ti sei tuffata nel lago per aiutarlo, vero?».
Alex non riuscì ad articolare una risposta di senso compiuto, mentre sentiva le guance arrossarsi come sarebbe successo ad una dodicenne alla prima cotta. Si limitò ad annuire con un cenno del capo.
«Sei stata coraggiosa, Alex, più di quanto avresti dovuto. Se ti fosse successo qualcosa…».
«Ho fatto ciò che ritenevo giusto», disse bruscamente, interrompendolo.
Merlino le rivolse un altro di quei suoi caldi sorrisi e si alzò, invitandola a fare lo stesso tenendo le dita delle loro mani ancora intrecciate.
«Mi dispiace per come ti ho trattata, prima. Sono stato un vero maleducato».
«Eri preoccupato, non c’è nulla di cui essere dispiaciuti».
«Come ti senti?».
«Ahm…». Alex deviò il suo sguardo, sentendo il cuore batterle forte in gola, e pensò che se si fosse avvicinato ancora un po’ sarebbe crollata tra le sue braccia, provata dagli sforzi fisici ed emotivi che aveva patito quel giorno. In ogni caso, sapeva che Merlino non l’avrebbe lasciata cadere.
«Bene, sto bene».
«No, invece. Dovresti riposare anche tu, sei distrutta».
«Sì, ma… Artù si è preso il mio letto».
Merlino ridacchiò, alzando gli occhi al cielo. «Sì, è una cosa che fa ogni tanto. Scusalo».
Alex gettò un’occhiata alle sue spalle e Merlino la imitò, guardando il divano arancione addossato contro la parete.
«È un divano-letto».
«Non credo che dormirò», rispose il ragazzo con una scrollata di spalle, scostandosi per esaminare il divano e capire come aprirlo.
Alex avrebbe voluto dirgli che con quell’affermazione non aveva voluto sottintendere nulla – non era di certo sua intenzione invitarlo a dormire con lei! – ma lasciò perdere ogni tentativo: aveva già raccolto la sua bella dose di figuracce per quel giorno.
Lo aiutò ad aprire il divano-letto e gli augurò la buonanotte, dicendogli che nel caso avesse voluto cenare poteva servirsi da solo, come se fosse stato a casa sua.
«Il cibo è proprio il mio ultimo pensiero», le rispose. «Buonanotte, Alex. E grazie».
«Ma figurati», mugugnò, abbracciando il cuscino sotto la testa. «Artù e Merlino, eh? Come nelle tue favole…».
«È solo una coincidenza».
«Certo che lo è. Che cos’altro potrebbe mai essere?».
Alex ridacchiò e l’ultima cosa che vide prima di abbassare le palpebre pesanti e cadere in un sonno profondo e senza sogni fu Merlino rivolgerle un piccolo sorriso e poi voltarsi per tornare da Artù.

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Capitolo 3
*** 3. The once and future king ***


Ciao a tutti!
Allora, questo è il terzo capitolo ed entriamo un po’ più nel vivo della storia. Come se la caverà Artù nel mondo moderno?
Beh, come si suol dire… Non vi resta che leggere! :D
Ringrazio chi ha letto e recensito lo scorso capitolo, spero che anche questo vi piaccia!
Un abbraccio.

Vostra,

_Pulse_

 

 

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3. The once and future king

 

Un fruscio aveva attirato la sua attenzione, svegliandolo dal torpore in cui era piombato di continuo, durante la notte, ogni volta che provava ad alzarsi per rendersi conto di quello che stava accadendo intorno a lui. Aveva infatti la sensazione di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato e voleva capire perché.
Girò il viso verso la sua sinistra e vide la ragazza che lo aveva soccorso china su un mobile di legno chiaro, che frugava in uno dei cassetti.
Era vestita in un modo che a lui risultava strano, in quanto i pantaloni, così particolarmente aderenti poi, e le camicie non erano indumenti consoni ad una ragazza. I capelli biondi e mossi erano legati in una coda alta sulla testa, arrotolati in un morbido chignon, e sul naso portava un paio di grandi occhiali da vista dalla montatura nera.
Artù si schiarì la gola e la ragazza si voltò di scatto, regalandogli un sorriso dolce e al contempo sbarazzino. Dedusse che non poteva avere più di trent’anni, anche se i tratti del suo viso e i suoi occhi luminosi la facevano sembrare molto più giovane.
«Ehi», esclamò tenendo un tono di voce basso, sedendosi sul letto accanto a lui. «Scusami, non volevo svegliarti. Come ti senti?».
«Bene, credo».
Si puntellò sui gomiti e guardandosi intorno per la prima volta capì di essere nella camera della ragazza. Il fatto che l’avesse costretta a rinunciare al suo letto era l’ultimo punto di una lunga lista di motivi per cui avrebbe dovuto ringraziarla. Quella ragazza infatti, pur non conoscendolo, si era tuffata nell’acqua gelata del lago per aiutarlo, l’aveva portato a casa sua e si era presa cura di lui. Accodandosi a quei pensieri, le parole sgorgarono dalle sue labbra senza che potesse fermarle: «Non so nemmeno il tuo nome».
«Già, ieri non abbiamo proprio avuto tempo per i convenevoli, eh?». Gli porse una mano, sorridendo: «Alexandra Greenwood».
Artù gliela strinse delicatamente e la fissò per il tempo necessario ad intuire che una mano morbida e curata come la sua non era abituata ai lavori manuali e che, quindi, Alexandra doveva avere per forza sangue nobile nelle vene. Se la portò alle labbra, chinando un poco la testa.
«Il mio nome è Artù Pendragon, re di Camelot, e vi sarò eternamente debitore per tutto quello che avete fatto per me, Lady Alexandra».
Alex, con gli occhi sbarrati per l’incredulità, ci impiegò qualche secondo per ritrovare la propria espressione gioviale ed affabile. Ridacchiò e si alzò in piedi per sollevarsi i lembi della camicetta e rivolgergli un mezzo inchino: «My lord, offrirmi un bel boccale di birra basterà a sdebitarvi».
Artù corrugò la fronte, preso in contropiede e vagamente insospettito dal tono scherzoso con cui si era rivolta a lui. Avrebbe sicuramente chiesto spiegazioni se Lady Alexandra non si fosse nuovamente girata verso il cassettone, riprendendo la propria ricerca da dove l’aveva interrotta.
Solo in quel momento, udendo gli uccellini cinguettare fuori dalla finestra, si rese conto del silenzio che regnava nella casa della ragazza. Sbuffò, sentendosi tanto infastidito quanto allarmato, e le chiese: «Sai dov’è Merlino?».
«È andato a recuperarti dei vestiti puliti, dovrebbe tornare a momenti».
«E vi ha lasciata qui da sola, con un perfetto sconosciuto?».
La ragazza lanciò un urletto di trionfo ed agitò tra le mani uno strano oggetto che brillò alla luce del sole, tanto che Artù credette per un attimo che si trattasse di un pugnale, rimpiangendo di non avere il proprio a portata di mano per difendersi. Guardandolo meglio, capì che aveva ben poco in comune con qualsiasi arma che lui avesse mai visto, ma questo non lo tranquillizzò, anzi, lo mise in allerta.
Lady Alexandra posò gli occhi verdi luminosi su di lui, portandosi le mani sui fianchi. «Smettila di essere così formale e dammi del tu, per favore. Puoi anche chiamarmi semplicemente Alex, lo fanno tutti. Comunque conosco Merlino e mi fido di lui: non mi avrebbe mai lasciata da sola con uno sconosciuto qualunque».
«Che cosa intendete dire, con questo?», le chiese, accigliato e, al contrario di lei, per nulla abituato a dare del tu a qualcuno che aveva appena conosciuto.
«Intendo dire che non ho mai visto Merlino così preoccupato. Tiene davvero molto a te, è palese, perciò non puoi che essere un suo carissimo amico, uno senza il quale non riuscirebbe a stare nemmeno per un giorno».
A disagio a causa del terreno su cui quella conversazione li aveva portati, Artù rimase in silenzio e spaziò ancora con lo sguardo, soffermandosi sui particolari oggetti che ornavano le pareti e i mobili della stanza: una collezione di piccole sfere di cristallo in cui erano stati riprodotti paesaggi imbiancati dalla neve; stranissime boccette con dentro liquidi densi e dai colori più sgargianti, altre di ogni forma e dimensione che sembravano contenere acqua; un insignificante dipinto, completamente nero, sorretto da un cavalletto così sottile da sfidare le leggi della fisica; degli animali impagliati, tra cui un cagnolino davvero minuscolo e un altrettanto piccolo cucciolo d’orso, che da sopra l’armadio lo fissavano immob–
«Ah!», urlò all’improvviso, facendo spaventare la ragazza che aveva iniziato a pettinarsi i capelli di fronte allo specchio.
«Che c’è?», chiese, gli occhi leggermente sgranati.
«C’è qualcosa che si muove lassù! Lo vedete?».
Lady Alexandra si alzò sulle punte e scoppiò a ridere prima di prendere una sedia e di accostarla all’armadio.
«Non vi preoccupate, my lord, è solo Artù!», esclamò divertita, allungando le mani per afferrare un piccolo gattino nero e portarselo al petto teneramente. «Ieri sera deve essersi spaventato a causa di tutto il trambusto che abbiamo fatto e deve essersi rifugiato quassù, senza più sapere come fare a scendere. È ancora piccolo, sai».
Artù, col naso arricciato e la fronte aggrottata, evitò di chiedere perché tenesse in casa un animale che non aveva alcuna utilità in assenza di topi da stanare, pensando che magari sarebbe stato offensivo, e preferì concentrarsi su un’altra questione, ben più strana: «Perché il vostro gatto si chiama come me?».
La ragazza smise di accarezzare il pelo del micio e di sussurrargli dolci parole nelle orecchie per poter fissare lui, mentre il viso le diventava sempre più rosso. 
«È un nome come un altro», tagliò corto, chinandosi per lasciare che l’animale zampettasse agilmente fuori dalla stanza.
Artù tornò a fare ciò che stava facendo prima che quel tenero micino lo spaventasse; tornò a guardarsi intorno, sempre più stranito.
Sullo scrittoio addossato alla parete, vicino alla porta, c’era uno strano oggetto allungato, con una base d’appoggio e una mezza sfera rivolta verso il ripiano ricoperto di libri ed altri oggetti che non riuscì a riconoscere, tra cui una specie di sottile vassoio nero opaco e senza manici.
Tutto in quella stanza, fatta eccezione per il letto, i mobili e i libri ordinati sugli scaffali, gli sembrava strano e senza uno scopo ben preciso, ma non si azzardava ad ammetterlo ad alta voce, dicendosi che probabilmente erano accessori con cui non aveva familiarità perché quella ragazza doveva appartenere ad una famiglia nobile straniera, i cui usi e costumi si differenziavano da quelli a cui era abituato a Camelot.
Non poté più stare in silenzio, però, quando i suoi occhi si posarono sulla parete accanto allo scrittoio, su cui era appesa una cornice con all’interno tanti piccoli ritratti che non potevano essere altro che opera di stregoneria: tante persone, tra cui molti bambini senza capelli, sorridenti oppure colte di sorpresa, erano intrappolate in quei ritratti, bloccate nell’attimo in cui la magia li aveva colpiti, chissà quanto tempo prima e per quale scopo malvagio.
«Ehi, qualcosa non va?», gli chiese all’improvviso Lady Alexandra, guardandolo col naso arricciato in un modo che avrebbe trovato grazioso se non avesse appena realizzato di trovarsi nel covo di una strega.
Era evidente ora perché tutto ciò che lo circondava non avesse senso: erano tutti strumenti magici, a lui sconosciuti. Anche l’oggetto che teneva tra le mani, quella specie di pinza gigante con l’esterno color della pece e l’interno argentato, doveva essere un’arma magica e potente, dato l’affanno con cui l’aveva cercata.
Forse l’aveva riconosciuto, in mezzo all’acqua del lago, e l’aveva salvato nella speranza di ottenere la sua fiducia e quella di Merlino, per poi...

Merlino, pensò atterrito. Lady Alexandra gli aveva detto che era andato a prendergli dei vestiti puliti, ma come scusa non valeva un granché: la sera prima il suo servo gli aveva promesso che non si sarebbe allontanato e poi perché mai avrebbe dovuto aver bisogno di vestiti puliti? Bastava aspettare che la sua tunica e i suoi pantaloni si asciugassero e poi sarebbero tornati a Camelot.
In qualche modo Lady Alexandra doveva averlo messo fuori combattimento per stare da sola con lui e portare a termine il suo piano. Ma Artù non gliel’avrebbe permesso, no, e avrebbe ritrovato Merlino, ad ogni costo.
«Artù?», lo chiamò ancora, preoccupata, e il re di Camelot le rivolse un pallido sorriso.
«Scusatemi, ma avrei proprio bisogno di mettere qualcosa sotto i denti: sto morendo di fame».
La ragazza sorrise imbarazzata. «Scusami, avrei dovuto pensarci prima. Ti porto subito qualcosa».
Quando uscì dalla stanza, lasciando la propria arma sul mobile, Artù si alzò in piedi, nonostante il giramento di testa dovuto dal protratto digiuno, ed iniziò a cercare la propria armatura, sperando che quella strega non fosse stata tanto astuta da nasconderla da qualche parte.
Sogghignò vittorioso quando trovò tutti i suoi pochi averi abbandonati sul pavimento in fondo al letto. I vestiti erano ancora umidi – quello stolto di Merlino non li aveva stesi ad asciugare – ma li indossò comunque: sempre meglio che affrontare una strega nudo. Non aveva tempo per l’armatura e detto in tutta onestà non l’avrebbe di certo protetto dalla magia, perciò si accontentò della sola cotta di maglia sopra la casacca imbottita, dei pantaloni e degli stivali. Quindi estrasse il pugnale dalla cintura e si appiattì contro la parete per sbirciare giù dalle scale.
Stava per avanzare, cauto, quando si ricordò dell’arma che Lady Alexandra aveva lasciato sul cassettone. La osservò da lontano per qualche istante, poi la toccò con la punta del pugnale e quando intuì che era innocua nelle mani di persone non dotate di poteri magici si azzardò ad impugnarla e a spezzarla usando una gamba come appoggio.
Soddisfatto, lanciò sul letto i due pezzi della pinza magica e si preparò a combattere quella strega che se non altro aveva avuto il buon cuore di offrirgli l’ultima colazione della sua vita.

 

***

 

Sentì un forte schiocco, simile a quello che avrebbe fatto una tavoletta di cioccolato se rotta a metà, e con la testa rivolta verso la scalinata rimase in ascolto. Non sentendo più nulla d’insolito, tornò a concentrarsi sulla colazione di Artù, canticchiando e ripensando a quella mattina.

 
Il cielo fuori dalla finestra si era appena tinto di rosa e Alex, stropicciandosi gli occhi, capì che nonostante la stanchezza non sarebbe riuscita a dormire ancora, non con tutte le domande che, da lei abbandonate prima di addormentarsi, erano tornate a frullarle nella mente.
Le sue narici vennero subito stuzzicate dal profumo del caffè appena fatto, un aroma che fu in grado di farla alzare in quattro e quattr’otto e di guidarla fino in cucina, dove trovò Merlino intento a spalmare un po’ di marmellata su una fetta biscottata già ricoperta di burro.
«Ben svegliata», la salutò, sorridendole. «Fame?».
«Moltissima».
Merlino annuì, per nulla sorpreso. Si voltò verso il ripiano della cucina e le mise di fronte al naso un piatto di pancakes ancora caldi, con un aspetto ed un profumo da far venire l’acquolina in bocca.
«Avanti, dillo», la incalzò, sorridendo con uno scintillio di furbizia negli occhi.
Alex lo guardò e preoccupata si chiese se fosse così evidente il suo crescente stato di adorazione nei confronti di Merlino. Non solo era un ragazzo dolce, con la testa sulle spalle e di buon cuore, ma sapeva anche cucinare! Era decisamente l’uomo della sua vita.
«So che cosa stai pensando».
«Davvero?», squittì, strozzandosi con la sua stessa saliva.
«Sì, che sono pieno di talenti nascosti. Beh, è così». Le fece l’occhiolino e prima di voltarsi verso la caffettiera le disse: «Assaggiali e dammi la tua onesta opinione. Sono secoli che non cucino per il re e…».
Alex corrugò la fronte, con la forchetta sollevata a mezz’aria. «Per il
re?», ripeté, scandendo bene le parole.
Merlino, con le spalle rigide e gli occhi fissi sui fornelli, impiegò qualche secondo a rispondere, sorridendo nervosamente.
«Scusa, forza dell’abitudine. Artù non fa altro che parlare di Cavalieri della Tavola Rotonda, duelli all’ultimo sangue, missioni e quant’altro… Ha una specie di disturbo della personalità e spesso è convinto di essere il re di Camelot. E io lo assecondo, per farlo contento. Mi considera il suo valletto».
Alex abbandonò la forchetta nel piatto, senza curarsi dei brontolii di protesta che si innalzarono dal suo stomaco, e si strinse le braccia al petto, in un inconscio meccanismo di difesa.
«Ma tranquilla, non farebbe male ad una mosca!», si affrettò a dire il ragazzo, cercando di rendere meno tragica la situazione in cui si trovava Artù. Alex però non prestò attenzione ai suoi sforzi, troppo concentrata a mettere al loro posto i vari pezzi del puzzle.
Le nebbie si stavano lentamente diradando, ma era sicura che Merlino le stesse dicendo solo lo stretto necessario, e avrebbe voluto almeno saperne il motivo.
«È per questo che ieri si trovava nel lago?», gli chiese, gettandogli un’occhiata penetrante. «Pensava di dover abbattere un mostro marino, di recuperare il Graal o chissà cos’altro?».
Lo sguardo di Merlino si fece improvvisamente cupo e con voce atona rispose: «Una cosa del genere, sì».
«Sembra un tipo piuttosto incasinato».
Accennò un sorriso, quasi divertito, annuendo prima di tornare a darle le spalle.
L’immagine di Artù che emergeva dalle acque del lago si ripeteva in loop nella sua mente, ormai sempre più sfocata e distorta da ciò che le suggeriva la logica. Non poteva essere davvero
emerso e basta, come se fosse sempre stato sul fondo del lago, in attesa di chissà che cosa. Ma qualcosa – qualcosa di potente, anche – le diceva che doveva credere a ciò che i suoi occhi avevano visto.
Per questo si prese il volto tra le mani e, puntando lo sguardo su Merlino per non perdersi nemmeno un dettaglio della sua reazione, esclamò: «Non ti ho mai sentito parlare di lui. Sembra quasi sbucato fuori dal nulla, all’improvviso».
Il ragazzo si irrigidì ancora una volta ed iniziò a balbettare: «Oh no, lui… fino a poco tempo fa…». Si passò anche una mano sul viso, come per cercare di frenare l’emozione, e Alex sobbalzò sulla sedia, colpita all’improvviso da un’idea che le fece portare entrambe le mani sulla bocca, tremendamente dispiaciuta.
«È stato in un ospedale psichiatrico, non è così? Perdonami Merlino, non avrei dovuto… Sono stata indelicata».
«Non c’è problema», rispose il ragazzo, accennando un sorriso mesto e quasi sollevato.
Alex decise di non fargli più domande: ne aveva poste fin troppe e tirando le somme tutto ciò che aveva fatto era stato riaprire vecchie ferite sul cuore di Merlino.
Finalmente il ragazzo la raggiunse al tavolo, sedendosi al suo fianco dopo averle consegnato la sua tazza di caffè fumante, e le rivolse un lieve sorriso.
Mangiarono in silenzio, sentendo entrambi il peso della tensione sulle loro spalle, e dopo quella che le era sembrata un’eternità fu Merlino ad aprire bocca, tirando fuori dalla tasca davanti della felpa il suo mp3 e posandolo di fronte a lei.
«L’ho trovato sulla strada davanti al lago. Se non l’avessi perso, non avrei mai capito che Artù si trovava con te».
In effetti Alex si era più volte chiesta come avesse fatto Merlino a rintracciare l’amico così in fretta. Il suo mp3, che aveva lasciato cadere a terra quando aveva deciso di tuffarsi, era stato un indizio chiave, ma i conti non le tornavano ancora.
«E come sapevi che Artù si sarebbe cacciato nei guai al lago?».
«Io… Mi ha lasciato un biglietto, voleva che lo raggiungessi per una delle sue
avventure».
«Carino da parte sua».
«Molto».
I loro sguardi si incrociarono ed entrambi scoppiarono in una leggera risata, mentre il caffè e i pancakes si raffreddavano davanti a loro.

 
Prima di uscire le aveva raccomandato di tenerlo d’occhio e di dargli corda nel caso avesse iniziato a blaterare a proposito del suo regno, di sua moglie la regina oppure dei suoi cavalieri, e lei l’aveva rassicurato, rispondendogli che se la sarebbe cavata fino al suo ritorno. Poi era successo l’imprevedibile: Merlino le aveva preso il volto tra le mani e l’aveva attirata a sé per posarle un bacio sulla fronte, sussurrandole l’ennesimo «Grazie».
Alex non aveva risposto, si era limitata a guardarlo andare via e successivamente a fissare la porta, in trance. Quando era riuscita a metabolizzare il fatto che Merlino l’avesse baciata – non importava dove, né come: l’aveva fatto! – era corsa in bagno per darsi una sistemata prima che tornasse, vergognandosi profondamente di come si era lasciata vedere da lui: i capelli gonfi e spettinati sulla testa, gli occhi piccoli dietro gli occhiali e la maglietta sformata che metteva ben poco in risalto i suoi punti forti.
Così si era cambiata, mettendo una camicetta carina e un paio di jeans attillati, e si era intrufolata nella sua stanza, in punta di piedi, per recuperare la piastra per capelli. Era stato allora che aveva fatto l’ufficiale conoscenza di Artù, il ragazzo del lago che si era dimostrato tanto incasinato come aveva immaginato.
Come previsto si era presentato come il re di Camelot, poi aveva utilizzato i termini e le formalità che avrebbero contraddistinto un vero e proprio cavaliere del Medioevo, dandole del voi e appellandola persino Lady Alexandra.
Lei aveva seguito il consiglio di Merlino e gli aveva retto il gioco, scoprendo che Artù, mettendo da parte quel suo piccolo disturbo di personalità, non era niente male come tipo. Ovviamente era un bel ragazzo, con quei capelli color del grano, quegli occhi blu come il mare e quelle spalle possenti, ma era una bellezza del tutto diversa da quella di Merlino, anche se sospettava che avesse anche lui le sue buone qualità.
Forse era solo davvero una questione di abitudine e presto anche lei, come Merlino, non ci avrebbe più fatto caso, permettendole di apprezzarlo appieno e chissà, forse diventargli anche amica.
Pensava a tutto questo, mentre preparava un vassoio con la colazione del re e non vedeva l’ora che Merlino tornasse per raccontargli quant’era stato facile e sorprendentemente divertente chiacchierare con Artù.
Alex avvertì all’improvviso una sgradevole sensazione, come se qualcuno alle sue spalle la stesse osservando, e smise di canticchiare. Cercò di tranquillizzarsi, dicendosi che probabilmente era solo Artù che aveva deciso di sgranchirsi un po’ le gambe e aveva dimenticato di annunciarsi.
Accennò un sorriso e fece per girarsi, ma un braccio muscoloso e con una stretta d’acciaio si strinse intorno al suo addome e un corpo altrettanto ben piazzato, premuto contro la sua schiena, la immobilizzò contro il lavello della cucina, togliendole per un attimo il fiato.
Smise del tutto di respirare – e di sua spontanea volontà – quando sentì la lama fredda di un coltello ad un soffio dalla pelle del suo collo e il respiro caldo di Artù sull’orecchio destro.
«Dimmi che cosa ne hai fatto di Merlino, strega, e forse ti risparmierò la vita».
Alex sentì la paura crescere dentro di lei, ma in qualche modo riuscì a metterla da parte e, appellandosi a tutto il coraggio che aveva in corpo, disse con voce rassicurante: «Artù, va tutto bene. Merlino sta per tornare».
«Non ti conviene mentirmi, Alexandra».
«Te lo giuro, non ti sto mentendo. È andato a prenderti dei vestiti nuovi, sarà già di ritorno a quest’ora…».
La lama si avvicinò pericolosamente al suo collo e Alex si concesse un respiro profondo, chiudendo gli occhi.
«Non hai scampo», disse ancora Artù, in modo quasi dolce, caritatevole. «Non è mia intenzione farti del male, nonostante tu sia una strega, perciò non costrin–».
«Io sarei una strega? D’accordo, ma tu sei proprio un imbecille!», urlò, ora davvero incazzata.
Se doveva morire okay, sarebbe morta, ma non senza prima aver provato a combattere. Non dandogli il tempo di prevedere le sue mosse gettò la testa all’indietro, colpendolo tanto forte sul naso da fargli mollare la presa, con gli occhi sbarrati per la sorpresa.
Alex non sprecò un attimo del proprio vantaggio ed afferrò per il manico la padella con cui Merlin aveva cotto i pancakes, poi gli corse incontro e gliela sbatté in testa, mandandolo al tappeto.
La ragazza lo osservò, riverso in maniera scomposta sul pavimento, senza realizzare appieno ciò che aveva fatto e come si sarebbe dovuta comportare quando si sarebbe svegliato. Se si sarebbe svegliato.
Per scrupolo e deformazione professionale si chinò cautamente su di lui, tenendo ancora ben stretta la padella, per sentirgli il battito con due dita premute sul suo collo. In quel momento la porta di casa si aprì di colpo, mostrando un Merlino affannato e con gli occhi fuori dalle orbite, e Alex trasalì per lo spavento.
«Ho sentito urlare, cosa…?», iniziò a dire, ma la voce gli morì in gola quando il suo sguardo, attraversato da un lampo di terrore, si posò sul corpo immobile di Artù e sul pugnale che teneva ancora stretto nella mano destra.
Merlino lasciò cadere a terra lo zaino che portava sulle spalle e lo raggiunse di corsa, inginocchiandosi sul pavimento e tastandogli furiosamente il polso e la carotide, con l’orecchio ad un soffio dalle sue labbra.
«È solo svenuto», spiegò Alex.
Merlino alzò di scatto gli occhi su di lei e la guardò in attesa di altre spiegazioni, fino a quando non si accorse della padella che impugnava.
«Non l’avrai colpito con quella, spero», esclamò, più che sconvolto.
Alex si mordicchiò le labbra, gli occhi fissi in quelli azzurrissimi di Merlino, capaci di farla sentire terribilmente in colpa. Ma le bastò scorgere di nuovo il pugnale con cui Artù le aveva quasi tagliato la gola perché la tensione e la rabbia tornassero a circolarle nelle vene, così dirompenti che ebbe voglia sia di piangere che di urlare.
All’ultimo momento la rabbia prevalse sulla paura che aveva provato e lanciandogli un’occhiata truce urlò: «Non ho avuto scelta! Il tuo amico qui non è semplicemente incasinato, è un fottuto psicopatico! Credeva fossi una strega e stava per sgozzarmi, che cos’altro avrei potuto fare?!».
Il ragazzo boccheggiò come un pesce fuor d’acqua, guardando lei e poi Artù, incapace di formulare una frase di senso compiuto.
Ad un tratto Alex si stufò di star lì ad aspettare che dicesse qualcosa e si sbatté le mani sulle gambe, sospirando con rassegnazione: «Cambialo, lo portiamo in ospedale per accertamenti. L’ho colpito forte, potrebbe avere un trauma cranico».
Merlino si limitò ad annuire e la seguì con lo sguardo mentre si avviava verso il piano superiore.

 

***

 

Sapeva che Artù avrebbe potuto dare di matto non appena fosse entrato in contatto con il mondo moderno, non poteva essere diversamente, ma mai avrebbe potuto immaginare uno scenario peggiore di quello.
Mentre si dirigevano verso l’ospedale, Alex, al volante della sua piccola utilitaria, gli spiegò nei minimi dettagli tutto quello che era successo nel breve lasso di tempo che aveva impiegato ad andare a casa per prendere un po’ di vestiti per Artù e tornare indietro.
Alla fine del suo racconto, Merlino si sentì malissimo: non solo perché non si sarebbe mai perdonato se fosse successo qualcosa ad Alex a causa di una sua imprudenza, ma anche e soprattutto perché realizzò che era stata tutta fatica sprecata.
Aveva speso un’eternità attendendo il ritorno di Artù, pianificando ogni cosa per il grande giorno: il modo in cui gli avrebbe spiegato la situazione, come l’avrebbe introdotto alle novità dell’epoca in cui sarebbe risorto, alla storia che gli avrebbe fatto imparare per mantenere nascosta la propria identità e mille altri particolari. Ciononostante, in quei due giorni niente era andato come si aspettava, partendo dal fatto che era stata Alex a ripescare il re del passato e del presente dal lago di Avalon e non lui.
Da quando il suo cammino aveva incrociato di nuovo quello di Artù non aveva fatto altro che improvvisare e così avrebbe continuato a fare, visto che ogni suo programma era stato stravolto, lasciandolo impreparato e senza la più pallida idea di come comportarsi.
Quando finalmente raggiunsero il pronto soccorso, davanti al quale le infermiere e i dottori in pausa bevevano il caffè e fumavano godendosi il sole e un’ambulanza a sirene spente marciava lentamente verso il parcheggio, Merlino iniziò a temere che quella fosse stata l’ennesima cattiva idea.
Che cosa sarebbe successo se Artù si fosse svegliato accerchiato da uomini e donne con strani camici bianchi e azzurri, con in mano strani strumenti e ai comandi di attrezzature il cui scopo ed utilizzo sarebbe sempre rimasto un mistero inspiegabile ai suoi occhi abituati ad un passato così… passato? Sarebbe stato un miracolo se fosse andato in panico, ma conosceva bene Artù e rimanere paralizzato dalla paura non era nel suo stile: avrebbe combattuto, come faceva sempre, e nel caso in cui non fosse riuscito a fronteggiare tutti i suoi avversari sarebbe fuggito, pensando sicuramente ad un complotto per uccidere il re di Camelot.
«Merlino, per l’amor del cielo, esci dall’auto».
Alex lo fissava piuttosto irritata, con le mani sui fianchi e gli occhi stretti dietro gli occhiali. Lui stiracchiò un sorriso, stringendosi nelle spalle.
«Sono sicuro che non l’hai colpito così forte. Insomma, come avresti potuto?».
«Stai dicendo che sono una pappamolle?».
Merlino aprì la bocca per replicare, frettolosamente, che non era assolutamente quello che voleva dire, ma Alex gli puntò minacciosamente un dito contro.
«Stai zitto, Merlino. Altrimenti il prossimo ad essere messo K.O. con una padella, appena ne avrò una in mano, sarai tu».
Il mago annuì mestamente, abbassando gli occhi sul viso inespressivo di Artù, rannicchiato sui sedili posteriori e con la testa sulle sue gambe.
Non poteva permettere che Artù reagisse ancora in modo sconsiderato, rischiando di fare del male a persone innocenti.
Non sapeva come avrebbe fatto né come lui l’avrebbe presa, ma meritava di conoscere la verità, o almeno di sapere quel tanto che bastava a non farlo apparire un vero e proprio psicopatico agli occhi di tutti.
«Scusami, hai perfettamente ragione: dev’essere visitato», disse, facendo sospirare Alex di sollievo.
«Finalmente hai rimesso in moto il cervello».
Merlino ignorò il suo ultimo commento ed indicò con un cenno del capo un paio dei suoi colleghi, appena usciti dalle porte scorrevoli per prendere un po’ d’aria.
«Perché non vai a chiedere una barella? Non possiamo trasportarlo ancora».
«Giusto, rischieremmo di fare altri danni. E poi sta diventando una specie di abitudine, trasportarlo di qua e di là mentre è privo di conoscenza», esclamò, rivolgendogli il sorriso sincero e sbarazzino che di solito le incurvava le labbra, il primo dopo lo spiacevole e quasi tragico episodio di quella mattina. Per Merlino fu un vero sollievo vederlo di nuovo, perché stava a significare che aveva qualche speranza di poter essere perdonato, col tempo.
Alex si allontanò e lo stregone aspettò qualche secondo, poi balzò fuori dall’auto e si avvolse un braccio di Artù intorno al collo per far uscire anche lui dall’abitacolo. Il re mugugnò lamentosamente e Merlino lo insultò, incitandolo a svegliarsi: non sarebbe mai riuscito a trascinarlo a peso morto e di certo non poteva farlo volteggiare al suo fianco, non con tutti quegli occhi addosso.
«Merlino…».
«Artù, dovete camminare. Vi guido io».
Il sovrano si fece forza ed iniziò a muovere le gambe lentamente, lasciando che Merlino lo portasse via, ma non alzò mai la testa, ciondolante sul petto, per vedere dove stessero andando.
Merlino lo condusse nel parchetto di fronte al pronto soccorso e non appena vide la grossa quercia che offriva ombra e quiete a volontà, lontana dagli scivoli e dalle altalene, pensò che avrebbe concesso loro un po’ di tempo. Forse non tutto quello che avrebbe voluto, ma quello necessario a convincere il suo re che doveva fidarsi di lui ancora una volta.
Appoggiò Artù contro l’imponente tronco della quercia e lo fece sedere con delicatezza, per poi inginocchiarsi al suo fianco e prendergli il volto tra le mani.
«Artù. Artù, dovete ascoltarmi attentamente».
«È un ordine, Merlino?», gli chiese debolmente, faticando a tenere gli occhi aperti.
«Sì, Sire, è un ordine».
«Tu non puoi…».
«Ascoltatemi e basta, testa di legno».
Artù racimolò tutte le proprie energie e riuscì a tenere gli occhi blu aperti, fissi in quelli del suo servitore. Merlino deglutì, rendendosi conto che Artù l’aveva guardato in modo così sincero ed aperto solo nei momenti più cruciali, tra cui proprio ad un passo dalla morte. Quel ricordo straziante tornò a bruciargli nella mente e nel cuore, ma si fece coraggio con un respiro profondo ed iniziò a raccontare.
«Voi siete stato ferito mortalmente da Mordred durante la battaglia di Camlann, nell’anno 537 del VI secolo. Anch’io ho combattuto, utilizzando la magia, ma non sono riuscito a proteggervi. Ho fatto del mio meglio per salvarvi: ho cercato di portarvi ad Avalon, il lago in cui dimoravano i Sidhe, gli unici in grado di poter contrastare la magia nera di cui era impregnata la spada di Mordred, ma siamo arrivati troppo tardi».
«Perché mi dici queste cose, Merlino?». Il re tremava contro la quercia, gli occhi sbarrati e il cuore che gli batteva dolorosamente nel petto, iniziando a rendersi conto che quel pulsare non era naturale.
Merlino continuò, imperterrito: «Ricordate il drago che vostro padre aveva imprigionato e che è riuscito a liberarsi dalle catene? Si chiamava Kilgharrah ed è stato lui a rivelarmi che il mio destino era ed è tutt’ora quello di affiancarvi e proteggervi, a qualsiasi costo. È stato un prezioso consigliere in molte occasioni, solo ora me ne rendo conto, e forse non l’ho mai ringraziato abbastanza per tutto quello che ha fatto per me, per noi, per Albione. Voi non l’avete mai sconfitto, Sire. A dire la verità è stato proprio Kilgharrah ad accompagnarci ad Avalon, e prima che i nostri cammini si separassero per sempre mi ha lasciato un’ultima profezia: “Nel momento in cui Albione avrà più bisogno, Artù rinascerà.”».
Artù sbatté le palpebre e due lacrime perfette, due gocce simili a diamanti, rotolarono sulle sue guance, ma non fece nulla per nasconderle.
«Siamo nell’anno 2014, questo è il XXI secolo, e voi, solo ed unico re, il più grande che abbia mai messo piede su questa terra, siete finalmente risorto. Vi ho aspettato per più di millequattrocento anni, Artù».
Merlino fece un respiro profondo, al contempo esausto e sollevato, e cacciò indietro le lacrime intrise dei rimpianti del passato e della gioia del presente, gettando uno sguardo oltre la quercia: Alex si era accorta da un pezzo della loro fuga e aveva mandato un paio di infermieri a cercarli proprio lì, nel parco, mentre lei era corsa verso l’incrocio.
«Non abbiamo molto tempo», esclamò. «Il mondo è molto cambiato nel corso dei secoli e non sarà facile abituarsi, lo so, ma dovete sforzarvi e fingervi un uomo di quest’epoca. Io sarò sempre al vostro fianco, non dovete preocc–».
Merlino sgranò gli occhi, ritrovandosi stretto tra le braccia di Artù. Ancora una volta non aveva previsto abbastanza bene il futuro: aveva immaginato che Artù sarebbe stato sconvolto, arrabbiato, disperato, ma non che lo sarebbe stato a tal punto da aver bisogno di un suo abbraccio.
Il ricordo degli ultimi minuti di vita di Artù lo colpì nuovamente, facendogli male con la stessa intensità di sempre e se possibile ancor di più. Ricordava che cosa gli aveva chiesto con la voce spezzata dal dolore, il frammento della magica spada ormai già penetrato nel suo cuore: «Solo… Stringimi e basta. Per favore».
Lui non l’aveva fatto, col tempo si era reso conto di non averlo fatto: lo aveva sorretto, aveva continuato a pensare ad un modo per potergli salvare la vita, ma non gli aveva donato l’ultimo contatto umano di cui il suo re aveva bisogno, spaventato dalla morte come ogni uomo. Era stato uno dei suoi più grandi rimpianti, uno dei motivi per cui aveva versato le lacrime più amare. Non avrebbe fatto lo stesso errore, non esaudendo quella richiesta per la seconda volta.
Gli avvolse le braccia intorno alla schiena e lo strinse forte, accarezzandogli anche i capelli biondi, dimentico dell’anno e del luogo in cui si trovavano, di Alex e degli uomini e le donne che li cercavano, di tutto ciò che non c’entrasse con Artù, l’altro lato della medaglia, la metà che lo rendeva completo.

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Capitolo 4
*** 4. Queen of hearts (and her hair straightener) ***


Buongiorno!
Come al solito, due paroline di ringraziamento per chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha messo questa storia nelle preferite, nelle seguite e nelle ricordate. Mi rendete una donna felice :)

Buona lettura!

 

_Pulse_

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4. Queen of hearts (and her hair straightener)

 

«Mi hanno detto che ieri hai avuto un imprevisto. Di che tipo?».
Alex sbatté più volte le palpebre, riemergendo dai propri pensieri, e si voltò verso la collega con il carrello della biancheria pulita che si era fermata accanto a lei.
Accennò un sorriso, sistemandosi dietro l’orecchio una ciocca di capelli che era sfuggita allo chignon. «Se te lo raccontassi, non ci crederesti».
La donna scrollò le spalle, ridacchiando, e si allontanò senza indagare oltre.
Alex respirò profondamente e tornò a fissare il distributore automatico davanti al quale era stata imbambolata per più di cinque minuti, senza comprare nulla. Alla fine infilò un paio di monetine nella fessura e selezionò il numero corrispondente alle barrette di cioccolato. Ne aveva un estremo bisogno.
Quindi si incamminò di nuovo lungo il corridoio e, girato l’angolo, trovò Merlino nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato – il labbro inferiore stretto tra i denti, le braccia incrociate sul petto e i piedi uniti – davanti al vetro attraverso il quale poteva vedere l’interno della stanza in cui il dottor Ellis e un’infermiera stavano visitando Artù.
«Non hanno ancora finito?», chiese, scartando la propria barretta ed offrendola a Merlino, il quale la rifiutò con un cenno del capo.
«No. L’infermiera mi ha chiesto che cosa gli è successo».
Alex sobbalzò impercettibilmente, smettendo di masticare quando avvertì gli occhi del ragazzo bruciarle sul profilo del viso.
«Le ho detto che è stato aggredito, ma non da chi».
«Ti ho già detto che non ho avuto scelta, è stata legittima difesa. Per quanto tempo hai intenzione di…?», si interruppe, sentendo il braccio di Merlino avvolgerle delicatamente le spalle. Alzò gli occhi verso i suoi e li trovò sorridenti.
«Hai fatto bene. Se l’è cercata».
Sollevata che non fosse arrabbiato con lei, si sciolse in un piccolo sorriso. Poi tornò ad osservare il medico che controllava i riflessi di Artù illuminandogli le pupille con una torcetta elettrica.
Iniziava a farle pena ora che si trovava seduto su quel letto d’ospedale, con le spalle curve in avanti, il volto privo d’espressione, gli occhi tristi fissi su un punto morto e il naso su cui si era già disegnato un grande livido violaceo. Ciononostante non poté fare a meno di ammettere che non avrebbe mai pensato che si sarebbe fatto visitare così tranquillamente. Lo disse a Merlino, finendo la propria barretta di cioccolato ed allontanandosi per buttarne la carta. Il ragazzo le rispose, ma così a bassa voce che non riuscì a distinguere le sue parole. Tornando da lui, gli chiese di ripetere.
«Ho detto che credo abbia capito di non essere il re di Camelot», sospirò con gli occhi improvvisamente privi della loro solita luce e colmi solo di dispiacere.
«Quindi la mia padellata è stata d’aiuto, dopotutto», provò a scherzarci su Alex, ma quando si accorse che Merlino non l’aveva nemmeno ascoltata si schiarì la gola, imbarazzata, ed abbassò gli occhi.
Senza riuscire a controllarsi, si ritrovò a pensare ancora una volta a come li avevano trovati nel parco: abbracciati dietro una grande quercia.
Sapeva che non avrebbe dovuto trarre conclusioni affrettate, ma non poteva proprio evitare di pensare che se non altro quella sarebbe stata la spiegazione più logica ai continui rifiuti di Merlino e al suo non essere chiaro con lei. Magari il suo era un amore segreto, proprio come quello che custodiva lei nel profondo del suo cuore, oppure era spaventato dalla reazione che il personale dell’ospedale e lei avrebbero avuto se si fosse venuto a sapere; o ancora, più semplicemente, non voleva che fosse di dominio pubblico e basta.
Ci avrebbe impiegato un po’ ad accettarlo e a mettersi l’anima in pace, ma sapeva che la simpatia e l’affetto che provava per Merlino non sarebbero mai cambiati, qualsiasi fossero state le sue preferenze sessuali. E voleva che anche Merlino lo sapesse.
Per questo cercò di raccogliere il coraggio e, con le dita intrecciate sullo stomaco, esordì: «Merlino, noi siamo amici, vero?».
Lui la guardò sorpreso. «Certo che lo siamo. Perché me lo chiedi?».
«Perché voglio essere davvero tua amica. Voglio che tu sappia che puoi sempre contare su di me e che puoi fidarti, ecco».
«Grazie, Alex. Per me è lo stesso».
«Bene», sorrise, nonostante il nervosismo. «Perciò se vuoi dirmi qualcosa… sentiti pure libero di farlo». Alex accennò ad Artù con un lieve movimento del capo, ma Merlino non colse il significato del suo gesto, o forse non lo notò nemmeno, e la superò, piombando subito addosso al medico che aveva terminato di visitare Artù e che era appena uscito dalla stanza.
«Come sta? Si tratta solo di una botta, non è così? Non ha subìto danni permanenti, giusto?», iniziò a subissarlo di domande e avrebbe continuato per chissà quanto se Alex non l’avesse preso per le spalle e tirato indietro, rivolgendo al dottor Ellis un’occhiata di scuse.
«La pressione sanguigna, le pulsazioni e i riflessi sono nella norma, ma sarei più tranquillo se gli facessimo una TAC e lo tenessimo sotto osservazione per questa notte».
«Perché?», chiese la ragazza, corrugando la fronte. «Hai detto che è tutto nella norma…».
«Ciò che mi preoccupa è che non ha reagito a nessun altro tipo di stimolo. Abbiamo provato a fargli delle domande, cose semplici, come il suo nome, quello dei suoi familiari e degli amici, ma non ha aperto bocca. Sembra sotto shock».
«E lo è!», urlò Merlino, con un po’ troppa foga. Sia Alex che il medico lo fissarono, quest’ultimo vagamente indispettito.
«Insomma… è stato aggredito, lo sarebbe chiunque», aggiunse, passandosi una mano sulla nuca. «Sono certo che non c’è bisogno della TAC».
«Forse. Ma è meglio esserne certi, non credi? Non c’è nulla di cui aver paura, come esame è del tutto innocuo», lo rassicurò il dottor Ellis, togliendosi lo stetoscopio dal collo ed iniziando ad avviarsi lungo il corridoio. «La mia collega ti spiegherà tutto, ma in questo caso specifico ci serve la firma di un familiare o di un tutore per procedere».
«Non ha né familiari né un tutore. Io sono l’unica persona che ha al mondo».
Quelle ultime parole le aveva pronunciate con la voce rotta dalla commozione e Alex provò una fitta al cuore, sentendosi così vicina al suo dolore e allo stesso tempo così inutile. Le uniche cose che riuscì a fare furono percorrergli il braccio con una mano fino ad intrecciare forte le dita alle sue e fare un passo avanti, verso il dottor Ellis, per esclamare: «Il paziente torna a casa e me ne prendo io la responsabilità. Lo sorveglierò personalmente e se noterò delle anomalie lo riporterò subito qui».
«Non posso di certo costringervi a farlo rimanere qui», fu la risposta del medico, il quale le rivolse un breve sorriso prima di dare loro le spalle definitivamente.
Alex respirò profondamente e fece per portarsi le mani al viso, quando si rese conto che Merlino non aveva alcuna intenzione di mollare la presa. Si girò per lanciargli un’occhiata interrogativa e lui, nonostante gli occhi lucidi, le sorrise.
«Sei incredibile. Artù ti ha dato della strega, ti ha minacciata con un pugnale e tu… tu continui ad aiutarlo».
Alex si sciolse in un sorriso e dimentica persino dell’imbarazzo confessò: «Non sto aiutando lui, ma te». 
Quindi gli colpì il braccio con un pugno leggero e si allontanò, senza aspettare una sua risposta.

 

***

 

«Possiamo andare?», chiese Alex, sorridente.
Merlino annuì e gettò un’occhiata ad Artù, al suo fianco.
L’infermiera aprì l’auto con il piccolo telecomando e si sedette davanti al volante. Solo allora Artù parve tornare alla realtà ed afferrò saldamente il braccio del mago, tenendo gli occhi sempre fissi su quella scatola di metallo e vetro dentro la quale si era infilata la ragazza che aveva scambiato per una strega.
«Questa devi proprio spiegarmela», disse.
Merlino seguì il suo sguardo e non poté trattenere una breve risata. «È un mezzo di trasporto, si chiama “automobile”. È molto comune, persino io ne ho una».
Artù lo guardò strabuzzando gli occhi. «Tu possiedi una di queste… cose? E sei in grado di condurla?».
«Non è stato facile imparare, lo ammetto, ma sì».
Alex tirò giù il finestrino del lato passeggero e si sporse verso di loro. «Qualcosa non va?», chiese con cipiglio perplesso.
«No», rispose Merlino. «Arriviamo».
Aprì la portiera dei sedili posteriori e con un cenno del capo invitò Artù a salire, poi si infilò al suo fianco e si allungò su di lui per allacciargli la cintura di sicurezza. Quando ebbe finito trovò gli occhi di Alex che lo fissavano attraverso lo specchietto retrovisore.
«Siamo pronti», esclamò.
Alex inserì la prima marcia e partì lentamente, uscendo dal parcheggio dell’ospedale ed immettendosi nella strada praticamente sgombra. Ciononostante Merlino sentì Artù irrigidirsi al suo fianco e guardare tra lo spaventato e l’incredulo fuori dal finestrino.
«Come diavolo fa a muoversi senza cavalli?», chiese, bisognoso di soddisfare la propria curiosità e forse di essere anche rassicurato sulla sicurezza di quel mezzo. Peccato però che non l’avesse fatto a bassa voce. Alex, infatti, roteò gli occhi al cielo e sbuffò miseramente.
«Fantastico, è tornato il re di Camelot. La prossima volta vedrò di colpirlo più forte».
«Non ci sarà alcuna prossima volta», si affrettò a dire Merlino, per poi voltarsi verso Artù. «A questo proposito, credo che dobbiate delle scuse ad Alex».
«Come? Di cosa stai parlando, Merlino?».
«Non vi ricordate? Pensavate che Alex fosse una strega e che mi avesse fatto del male. Le avreste tagliato la gola se lei non fosse riuscita a mettervi al tappeto, colpendovi in testa con una padella».
«Giusto per essere chiari», si intromise Alex, fissandoli entrambi attraverso lo specchietto retrovisore. «Io non ho alcuna intenzione di scusarmi per questo».
Artù corrugò la fronte e per un paio di secondi rimase in silenzio, a bocca aperta, poi si colpì le cosce con le mani, arrendevole.
«Mi dispiace di avervi dato della strega e di aver tentato di uccidervi, Lady Alexandra. Spero possiate perdonarmi».
Alex si strinse nelle spalle, mordendosi un sorriso. «Okay. Ma con questa sono due i boccali di birra che mi devi offrire».
Merlino inarcò un sopracciglio, ma non chiese spiegazioni.
Per tutto il resto del viaggio nell’abitacolo regnò il silenzio e lo stregone ne fu felice, perché sapeva fin troppo bene che una volta solo con Artù avrebbe dovuto rispondere a mille e più domande sulle “stranezze” del mondo del Ventunesimo secolo.
Nessuno parlò nemmeno quando Alex parcheggiò l’auto di fronte a casa sua: una tra le tante piccole villette a schiera a due piani, con un bovindo rettangolare sulla facciata a punta triangolare e un semplice steccato in legno come cancello d’entrata al piccolo giardino, la cui privacy era assicurata da folti cespugli di bellissime rose rosa e gialle e spontanei fiori di lillà.
Solo quando si trovarono tutti in salotto, Alex si voltò per chiedere: «E adesso che si fa?».
Merlino ricambiò il suo sguardo, poi disse ad Artù di andare a prendere ciò che aveva lasciato nella camera da letto. Il re non ne fu entusiasta e Merlino avrebbe giurato che gli avrebbe ricordato, di fronte ad Alex, che come suo servitore quello era un suo compito, ma sorprendentemente serrò le labbra e si avviò su per le scale, lasciandoli soli.
«È ovvio che non può più stare qui», aggiunse Alex, assumendo un’espressione severa. «So di aver detto che l’avrei sorvegliato personalmente, ma ho un lavoro, una vita, e dopo quello che è successo stamattina non mi sentirei proprio tranquilla a…».
«Non te l’avrei mai chiesto, Alex».
La ragazza sollevò gli occhi nei suoi, sorpresa, ed imitò il sorriso che gli aleggiava sulle labbra, molto più tranquilla.
«Hai fatto fin troppo per Artù e non potrò mai ringraziarti abbastanza».
Lei mosse una mano, come a voler scacciare una mosca, e poi se la passò sui capelli raccolti nello chignon. «L’avrebbe fatto chiunque».
«Non ne sono affatto convinto», rispose Merlino, avvicinandosi d’un passo.
Alex alzò gli occhi per immergerli nei suoi e il mago sentì quella usuale fitta allo stomaco, quel desiderio impellente di chinarsi, stringerla tra le braccia e…
Artù si schiarì la gola alle loro spalle, facendoli sobbalzare entrambi. Si scostarono velocemente l’uno dall’altra, imbarazzati, e Merlino stiracchiò un sorriso, chiedendogli: «Avete preso tutto?».
«Non trovo i pantaloni, la maglia di ferro e…».
«Oh, quelli sono in cucina. Li ho lasciati lì, quando vi ho messo i vestiti che state indossando».
Artù parve accorgersi solo in quel momento del suo abbigliamento: una maglietta a maniche corte che gli fasciava il petto muscoloso, una felpa con la zip slacciata e un paio di jeans. Aprì la bocca per chiedergli qualcosa, ma Merlino lo fulminò con lo sguardo e la richiuse, rimandando anche la questione abbigliamento a più tardi.
«Che cosa nascondi dietro la schiena?», gli chiese all’improvviso Alex, attirando la loro attenzione.
Il re si irrigidì, dondolandosi nervosamente sui talloni. «Ecco, io…».
«Artù?», lo esortò a sputare il rospo lo stregone, aggrottando la fronte.
«Temo di dovervi delle altre scuse, Lady Alexandra», mormorò, mostrando loro ciò che aveva tenuto dietro la schiena.
Alex sgranò gli occhi, iniziando a respirare affannosamente, e lo raggiunse a piccoli passi. Prese tra le mani la sua piastra per capelli, irreparabilmente spezzata in due, e la fissò incredula fino a quando la rabbia non le fece alzare gli occhi su Artù, il quale dovette richiamare a sé tutto il proprio coraggio per non arretrare.
«Artù… Perché?», chiese sinteticamente Merlino, sconvolto.
«Pensavo fosse una specie di arma magica! Mi dispiace!».
Alex sbuffò forte dal naso, come avrebbe fatto un toro inferocito, e gli rivolse un’occhiata astiosa. «Avrei dovuto lasciarti annegare, ecco cosa!».
Artù parve punto nel vivo e serrando forte la mascella esclamò: «Sarei riuscito a cavarmela benissimo anche da solo! Anzi, non siete stata voi a salvarmi, dato che senza di me non sareste riuscita a tornare indietro!».
Alex strinse i denti, con i pezzi della piastra per capelli ancora in mano, e Merlino temette che sarebbe potuta diventare una vera strega proprio in quel momento, se non fosse intervenuto lui.
Fece per mettersi tra i due, ma la ragazza gli puntò contro l’ormai inutilizzabile piastra per capelli – anche se come arma contundente non sarebbe stata affatto innocua – e lo costrinse a fermarsi sul posto.
«È vero, senza il tuo aiuto probabilmente non sarei riuscita a tornare a riva, ma già che siamo qui lascia che ti dica una cosa». Assottigliò gli occhi, avvicinando il viso ad un soffio dal suo, e gli puntò un dito sul petto. «Il vero re di Camelot non si sarebbe mai fatto stendere da una ragazza e dalla sua padella».
Merlino si passò una mano sulla faccia, preparandosi a fare da scudo umano a uno dei due nel caso la situazione fosse diventata tanto critica.
Nonostante la rabbia cocente che doveva provare in quel momento, Artù non rispose a quella terribile provocazione e si voltò, impassibile, verso il suo servitore.
«Andiamo via, Merlino», disse in tono piatto, ma comunque ben lungi da accettare rimostranze.
Gli passò accanto, diretto verso la porta, e gli mollò tra le braccia il mantello e l’armatura, con così poca delicatezza che per un attimo Merlino pensò che gli sarebbe caduto tutto quanto. Quindi uscì sbattendosi la porta alle spalle.
Il mago sospirò e cercò gli occhi di Alex per scusarsi al posto di Artù, ma la ragazza gli indicò la porta con un cenno del capo, dicendo: «Dovresti andargli dietro, per evitare che si cacci in qualche altro guaio».
Merlino annuì mestamente e si girò, quando Alex lo chiamò di nuovo. La guardò con un luccichio di speranza negli occhi, ma gli ricordò soltanto di prendere anche lo zaino, lasciato lì nell’ingresso.
«Sì, grazie. Ehm…».
«Che c’è, Merlino?».
«Non posso andare in giro con tutta questa roba tra le braccia, pesa un accidenti».
Alex parve comprendere e sparì in cucina, da dove tornò con un grande sacchetto di carta, con la firma di un negozio d’abbigliamento femminile stampata sopra. Lo aiutò ad infilarci dentro tutti i vestiti e l’armatura di Artù, poi gli aprì la porta di casa.
Merlino le passò accanto a testa china e una volta sotto il piccolo porticato disse: «Mi dispiace Alex, sul serio».
«Era una vecchia piastra per capelli, ne avrei comprata una nuova a breve».
«Te la ripagherò comunque. Ma non mi riferivo solo alla piastra. Di solito Artù non si comporta così, lui… sono stati due giorni difficili».
«Non devi darmi spiegazioni. E non ce l’ho con te, né con lui… Sono stati due giorni difficili anche per me e sono scoppiata».
Merlino imitò il suo lieve sorriso e si strinse il collo tra le spalle. «Allora non è che potresti darci un passaggio fino a casa?».
Il sorriso di Alex crebbe in larghezza come in malignità. «Sai, ad essere sincera quella piastra ce l’avevo da un mese soltanto e sono incazzata nera con Artù. Perciò no, non vi darò un passaggio fino a casa. Ci vediamo, Merlino». Detto questo gli sbatté la porta in faccia, lasciandolo stordito sul vialetto di pietre grezze.
«Magnifico», mormorò, iniziando a percorrerlo per raggiungere il cancello in legno, socchiuso.
Trovò Artù appoggiato al cofano dell’auto grigia di Alex. Osservava quella via tranquilla, con le case tutte in fila l’una all’altra, i giardini curati, i vialetti con le auto parcheggiate sotto il sole e un campo di pallido fieno a renderla una via senza sbocchi.   
«Sei sempre stato pessimo a sceglierti gli amici», esclamò, senza nemmeno guardarlo.
Merlino gli rivolse un’occhiata eloquente. «Sì, me ne sono accorto molto tempo fa».
Artù colse la frecciatina ma non rispose: non era dell’umore per accettarle e riderci su. Si alzò dall’auto e si stirò le spalle, spingendosi i gomiti verso la gola con le mani.
«Allora, dov’è il tuo carro di metallo?», gli chiese, impaziente.
«A riparare», rispose semplicemente Merlino. «Grazie a voi ci siamo assicurati una bella camminata».
Artù sbuffò, passandosi una mano tra i capelli biondi, e lo seguì lungo il marciapiede. Si era scusato troppe volte quel giorno, il suo orgoglio non era disposto a tollerarne delle altre, perciò esclamò: «Meglio così, un po’ di moto ti farà bene».
«A voi, forse, che siete rimasto fermo sul fondo del lago per più di millequattrocento anni».
Merlino si rese conto troppo tardi di essere stato indelicato, ma viste le circostanze decise di ignorare la delicatezza: la prossima volta ci avrebbe pensato su due volte prima di rompere la piastra per capelli di Alex.

 

***

 

La collega a cui Alex aveva dato il cambio le aveva assicurato che i bambini erano già tutti a letto, quindi rimase a bocca aperta quando, durante la “ronda” – come la chiamavano gli infermieri notturni – scoprì che alcuni dei loro piccoli pazienti, tutti riuniti nella camerata più grande, erano più che svegli.
«Dovreste essere a letto», esclamò a bassa voce, guardando severamente i più grandi del gruppo e chiudendosi la porta alle spalle.
«Stiamo aspettando Merlino. Ieri non c’era, quindi…».
Alex sospirò e si avvicinò al primo dei lettini per infilare le braccia di Steve, un bambino di sei anni appena e con una grave forma tumorale ai polmoni, sotto le coperte.
«E che cosa vi fa pensare che questa sera invece verrà?», chiese, odiando ancora di più Artù per ciò che la stava costringendo a fare: dire a quei poveri bambini che non ci sarebbero state favole della buonanotte nemmeno quella sera.
«Perché ci avrebbe avvisato, almeno», ribatté con convinzione Mark, tredici anni, uno degli ultimi arrivati, a cui era stato diagnosticato il linfoma di Hodgkin e aveva da poco iniziato la chemioterapia.
Alex continuò a rimboccare coperte, pensando a come avrebbe potuto rispondere a questo. Non era affatto da Merlino comportarsi in quel modo, lui che si era sempre fatto in quattro per poter stare almeno un po’ ogni sera con i bambini, ma da quando era comparso Artù era come se non ci fosse nulla di più importante, come se tutto il resto fosse addirittura scomparso.
Non era obbligata a difenderlo, probabilmente non se lo meritava, ma fu più forte di lei.
«E va bene», esclamò, guardando i bambini che la stavano fissando trepidanti. Avrebbe comunque spezzato loro il cuore, ma almeno Merlino sarebbe stato salvo.
«La verità è che ieri mattina Merlino mi ha detto che in questi giorni non sarebbe riuscito a passare perché sarebbe arrivato un suo amico da molto lontano. Mi ha chiesto di avvisarvi, perché lui non avrebbe fatto in tempo, ma… mi sono dimenticata. Mi dispiace, bambini… Non so dove ho la testa!».
I piccoli pazienti si guardarono in silenzio l’un l’altro, giù di morale, fino a quando Mark non esclamò, sorridendo sghembo: «Non è che sei innamorata, Alex?».
Sobbalzò e proprio non riuscì a non arrossire; lo fece tanto vistosamente che Mark ridacchiò, gettando un’occhiata complice ad Abigail, sua coetanea ma molto più abituata alla vita in ospedale, dato che da più di due anni, cioè da quando le era stata diagnosticata una forma acuta di leucemia linfoblastica, alternava visite frequenti a lunghi periodi di ricovero.
«Ehi, voi due, smettetela! Piccoli impiccioni che non siete altro!», li rimproverò, trattenendosi dal battere i piedi per terra.
«E va bene, va bene», disse Mark, alzando le mani in segno di resa. «Per questa volta siamo disposti a perdonarti…».
«Grazie mille, non sarei proprio riuscita a dormire sonni tranquilli sapendo che eravate arrabbiati con me», rispose con una vena di sarcasmo.
«Ma ad una condizione!».
Alex assottigliò gli occhi e si posò le mani sui fianchi. Quella sera erano proprio dei piccoli diavoli!
«Sentiamo questa condizione».
«Io e Abby abbiamo promesso una favola ai più piccoli e, costi quel che costi, avranno una favola».
«Oh, vi prego, lo sapete che non sono brava ad inventare le favole».
«Non dovrai inventarle: Merlino lascia sempre qui il suo libro».
«Non sono brava nemmeno a leggerle, sapete?».
«Una promessa è una promessa, Alex».
«Non l’ho fatta io, quindi…».
«Se ti rifiuterai, dirò a tutti di chi sei innamorata».
Alex sentì la mandibola cederle, mentre quel terribile scenario prendeva vita nella sua testa. Quando tornò alla realtà, Mark la guardava con gli occhi svegli sicuri della vittoria.
«Non puoi saperlo sul serio», rispose cercando di dimostrare anche un solo briciolo di sicurezza, che non aveva.
«Vuoi mettermi alla prova?».
Alex ci pensò su e no, non ne aveva alcuna intenzione. Ci avrebbe pensato in un altro momento a come potersi liberare di quel ricatto – se davvero si trattava di un ricatto e non di un semplice bluff. Ora doveva pensare ad accontentare quei bambini, ai quali, per quanto a volte potessero dimostrarsi diabolici, voleva davvero un mondo di bene.
«Vado e torno», esclamò alla fine, sorridendo quando i volti dei bambini tornarono a splendere di gioia. «Ma voi fate silenzio: se qualcun altro vi dovesse trovare svegli mi licenziano».
Mark si portò l’indice davanti alla bocca, invitando tutti quanti a non aprire più bocca, e le fece l’occhiolino.
Alex si guardò intorno e quando fu sicura che il corridoio fosse deserto corse verso gli spogliatoi degli infermieri, dove Merlino con il passare del tempo si era guadagnato un armadietto tutto per sé.
Aprì la porta quel tanto che bastava per sbirciare all’interno, poi entrò e cercò la targhetta con su scritto il nome del cantastorie dell’ospedale, trovandola quasi subito. L’armadietto non era chiuso a chiave, perciò le bastò tirare l’anta di metallo grigio chiaro per accedere ad un pezzetto di Merlino. Veramente dentro non c’era nulla di significativo: un paio di cambi di vestiti, un pettine, un piccolo set d’emergenza per lavarsi i denti e un paio di libri, tra cui quello per cui si trovava lì. Lo afferrò e fece per chiudere l’armadietto, quando non riuscì a resistere ed afferrò uno dei fazzoletti che ogni tanto il moro portava legati intorno al collo. Si portò il morbido tessuto rosso al naso e respirò avidamente il suo profumo, appoggiandosi agli altri armadietti con gli occhi chiusi.
Un rumore le fece scattare la testa di lato all’improvviso. Iniziò a boccheggiare, scioccata e colta in flagrante nel bel mezzo di qualcosa che non avrebbe mai dovuto fare.
«Keith», squittì, dandosi subito della stupida.
«Alexandra», la salutò il dottor Ellis, sorridendole come se non si sentisse affatto a disagio nel mostrarsi a lei con solo un asciugamano avvolto intorno alla vita. Ma, Alex avrebbe dovuto ricordarselo, lui non si sentiva mai a disagio nel mostrare il proprio corpo perfetto e dai muscoli scolpiti, di fronte al quale persino il David di Michelangelo sarebbe impallidito.
«Che ci fai nello spogliatoio degli infermieri con, uhm… è la sciarpa di Merlino, quella?».
Alex si accorse di essersela portata al petto e sorrise imbarazzata, gettandola di nuovo dentro l’armadietto. «Sì, era caduta».
«Mi sembrava che ci stessi facendo altro, ma sorvolerò».
«Ottima idea. E tu che ci fai ancora qui a quest’ora?».
«C’è stata un’emergenza al pronto soccorso e mi sono trattenuto. Un uomo stava tagliando la legna nel giardino dietro casa quando l’accetta gli è scappata di mano e… beh, puoi immaginare».
«Dev’essere stato proprio un bello spettacolo», commentò, stirando un sorriso nervoso.
«Così bello da togliermi l’appetito».
Alex aspettò qualche secondo e poi si avviò silenziosamente verso la porta, sperando che Keith la lasciasse andare senza dire altro. Le sue preghiere però, come sempre, non vennero ascoltate.
«Come sta il tuo amico?», le chiese, prendendo un altro asciugamano dalla panchina per passarselo sui capelli corti e sulle spalle.
«Quale amico?».
«Quello che ho visitato stamattina».
«Io e lui non siamo affatto amici», disse con una certa irritazione, ripensando alla fine che quell’imbecille aveva fatto fare alla sua piastra nuova.
«Scusami, non volevo ficcare il naso, ma ho pensato…».
«Hai pensato male», tagliò corto, per poi dirigersi in modo più spedito verso la porta. «Ci vediamo, Keith».
«Alexandra?».
L’infermiera sospirò pazientemente, socchiudendo gli occhi, ed infilò nuovamente la testa all’interno dello spogliatoio.
«Non ci eravamo più parlati, dopo…».
«Vero».
«Sei ancora arrabbiata con me?».
Alex ci pensò un po’ su, poi scosse il capo, facendo sbocciare un sorriso sul volto del dottor Ellis.
«Ci vediamo allora».
«Ciao», lo salutò Alex, sentendosi all’improvviso più intrappolata di prima, quando non riusciva ad uscire dallo spogliatoio e il corpo di Keith era lì in bella vista di fronte ai suoi occhi.
Cercò di scacciare via quell’immagine dalla testa e respirò profondamente, stringendosi al petto il libro di favole di Merlino.

 
«Cominciavamo a pensare che il fantasma dell’ospedale ti avesse rapito», esclamò Mark.
«Non c’è nessun fantasma dell’ospedale», rispose bruscamente Alex, afferrando una sedia e sistemandola tra il secondo e il terzo letto della camerata, in mezzo a tutti i bambini. «E ora facciamola finita. Quale favola volete che vi legga?».
«Quella del grifone!».
«No, quella del goblin è più divertente!».
«L’unicorno, l’unicorno!».
Mark si alzò in piedi dalla propria sedia a rotelle e fece segno di fare silenzio. Quando tutti gli occhi furono puntati su di lui, disse con voce pacata: «Facciamo a votazione. Alzi la mano chi vuole la storia del grifone».
Una piccola manina, quella di Steve, si alzò.
Alex, in attesa che finissero le votazioni, iniziò a sfogliare alcune pagine del libro, scoprendo che quello non era un libro di favole qualunque: era completamente scritto a mano, con una grafia bella e dall’aspetto antico, e le parole erano accompagnate da tanti bellissimi disegni, colorati oppure semplicemente in bianco e nero, ma così particolareggiati e realistici da toglierle il respiro.
Non fu solo una metafora – il respiro le mancò veramente – quando i suoi occhi si posarono su quello che doveva essere un ritratto di re Artù nel giorno della sua incoronazione. 
Due particolari attirarono la sua attenzione: uno meno evidente, ossia lo stemma col drago dorato cucito sul mantello rosso vivo e lungo fino ai piedi; il secondo, il suo viso serio e concentrato, fiero di portare quella splendida corona d’oro e allo stesso tempo un po’ spaventato, consapevole che da quel giorno in poi avrebbe avuto un regno e la vita di tutti i suoi abitanti tra le mani.
Lo stemma sarebbe potuto essere benissimo il vero simbolo araldico della casata della famiglia Pendragon, ma quel volto… Perché mai Merlino avrebbe dovuto disegnare re Artù con le stesse identiche sembianze di Artù l’imbecille che le aveva rotto la piastra?
«Alex? Alex, sei tra noi?».
La ragazza scosse il capo, trovando il viso di Mark ad un soffio dal proprio, e sbuffò allontanandolo spingendo due dita sulla sua fronte.
«Avete deciso?», chiese annoiata.
«Da un pezzo! Ma tu eri troppo impegnata ad immaginarti con il tuo innamorato…».
«Ti ho già detto di piantarla. Alla terza, farò in modo che il fantasma dell’ospedale diventi realtà e che ti tormenti tutte le notti».
Mark prese quella minaccia come la barzelletta più divertente che avesse mai sentito e scoppiò a ridere, tornando alla propria sedia a rotelle. Alex aspettò che finisse, prima di chiedere ad Abigail, la voce della saggezza e dell’intelligenza: «Quale storia, quindi?».
«Quella dell’unicorno è andata per la maggiore. Nell’indice è intitolata “Il labirinto di Gedref”».
«Molte grazie, Abby».
Cercò la pagina corrispondente ed iniziò a leggere, trovandosi ben presto tanto coinvolta quanto i bambini.

 
Quando la storia finì, i bambini più piccoli si erano già addormentati nei loro lettini, ma non solo loro: lo stesso Mark, appoggiato al materasso con le braccia incrociate e una guancia su di esse, ronfava da un pezzo.
Alex incrociò gli occhi scuri di Abigail, l’unica rimasta sveglia, e le sorrise, stropicciandosi gli occhi.
«È proprio ora di andare a dormire, adesso. Lo svegli tu Mark?».
Abigail annuì e gli posò una mano sulla spalla per scuoterlo leggermente. Il ragazzino aprì gli occhi e si guardò intorno, spaesato. Non appena realizzò cosa doveva essere accaduto si precipitò a difendere il proprio orgoglio, esclamando a bassa voce: «Non ero stanco, è Alex che non è capace a raccontare».
«Sicuro», rispose l’infermiera, ridacchiando.
I due ragazzini uscirono dalla camerata mentre Alex finiva di rimboccare le coperte dei bambini; poi, non appena ebbe spento tutte le luci sui comodini, li raggiunse.
«Filate nelle vostre camere, teppistelli. E senza farvi beccare, mi raccomando».
«Non mi hanno mai beccato e mai ci riusciranno», disse Mark, strizzandole l’occhio.
Alex lo guardò andare via con le mani sui fianchi e poi posò gli occhi su Abigail, ancora ferma al suo fianco.
«Vuoi che ti accompagni?», le chiese Alex.
«No, volevo solo dirti una cosa».
«Ti ascolto».
Abigail le fece segno di chinarsi e Alex l’accontentò, porgendole l’orecchio.
«Mark crede che tu sia innamorata del dottor Ellis».
Alex trattenne a stento una risata, più che sollevata. Fece per alzarsi e dirle che allora non aveva più nulla da temere, ma la ragazzina la prese un polso, trattenendola.
«Io però lo so di chi sei innamorata veramente», le sussurrò ancora, dolcemente, posando l’altra mano sulla copertina consumata del libro che l’infermiera teneva stretto al petto. «Custodirò gelosamente questo segreto, te lo prometto».
Alex cercò i suoi occhi e le sorrise, accarezzandole i corti capelli castani. Quindi le posò un bacio sulla fronte, mormorando: «Grazie, Abby».
Abigail ricambiò il sorriso e spinse in avanti le ruote della carrozzina, guardandosi indietro una sola volta per augurarle la buonanotte e dirle: «Penso che lui ricambi i tuoi sentimenti».
Alex non rispose, colta all’improvviso da quelle parole, e strinse ancora un po’ di più il libro di favole tra le braccia, chiedendosi se sarebbe mai riuscita a scoprire almeno una parte, anche una piccolissima, dei segreti di Merlino.

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Capitolo 5
*** 5. The moment of truth ***


Buongiorno! :)
Allora, la settimana scorsa ci siamo lasciati con un po’ di domande sparse qua e là: quanti e quali sono i segreti di Merlino? Cosa si è perso Artù in ben quindici secoli di storia? Come farà ora Alex con la piastra per capelli rotta? Diciamo che queste sono quelle fondamentali, soprattutto la terza xD
Quella che però voglio mettere in risalto quest’oggi, prima di lasciarvi al capitolo (che in parte risponderà alle domande sopra citate), è: Merlino è lo stesso stregone che ricordiamo? Perché sì, qualcuno di voi ha portato a galla la questione magia, la quale - per chi non l’avesse notato - ancora non si è vista. E la risposta meno spoilerosa che riesco a darvi è che il tempo secondo me può cambiare le persone, può renderle migliori o peggiori a seconda dei casi. Ho cercato davvero di immedesimarmi in Merlino, di immaginare tutto quello che può essere successo dopo la – ugh… mi è difficile dirlo, scusate – dopo la morte di Artù… E quello che leggerete ne è il risultato. Ho viaggiato di fantasia e se riuscirò a far viaggiare anche voi… beh, dire che ne sarò felice è poco. Quindi bando alle ciance, vi lascio al capitolo.
Un grazie a tutti i lettori attenti (e anche a quelli un po’ meno attenti, sì!), a chi ha recensito e a chi ha messo questa storia tra le preferite, le seguite e le ricordate. Love u all!

Vostra,

 

_Pulse_

 

 

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5. The moment of truth

 

Artù trattenne un grido frustrato e si girò ancora una volta nel letto, col cuscino premuto sull’orecchio.
Non aveva chiuso occhio per tutta la notte, con la mente affollata da troppi pensieri, e ora che finalmente sentiva le palpebre pesanti e la testa svuotata quegli odiosi gabbiani non facevano altro che strillare, impedendogli di addormentarsi.
Si mise seduto sul letto, appoggiato con le spalle alla testata, e si guardò intorno ancora una volta.
Merlino aveva preparato una stanza per lui, spiegandogli che l’aveva fatto in qualsiasi casa si fosse trovato ad abitare, e aveva cercato di renderla il più simile possibile a quella che aveva a Camelot, in modo che potesse sentirsi più a suo agio, quasi a casa.
Artù aveva apprezzato, gli aveva anche detto che aveva fatto un ottimo lavoro, ma sapeva benissimo che non si sarebbe mai più sentito a casa ora che era venuto a conoscenza che casa sua non esisteva più da secoli.
Tutto ciò che aveva costruito e per cui aveva combattuto fino alla fine, tutte le persone che amava… non era rimasto più niente, spazzato via dal tempo. Persino lui non era più nessuno: non essendoci più Camelot, era il re di niente.
Dalla finestra socchiusa entrava un’arietta frizzante ed impregnata dell’odore del fiumiciattolo che scorreva dietro la casa e che andava ad immettersi nel lago di Avalon, il suo luogo di sepoltura e di rinascita.
Si tastò il petto, ripensando al dolore che aveva provato in punto di morte, quando quel pezzo di spada gli aveva trafitto il cuore, e rabbrividendo si chiese se fosse ancora dentro di lui, in attesa che compisse il proprio destino prima di riportarlo nuovamente ad Avalon.
Quella notte aveva pensato molto alle parole di Merlino, alla profezia che il drago gli aveva lasciato prima di dirgli addio, e non riusciva proprio a venirne a capo: che cosa avrebbe potuto mai fare lui, un re senza regno e del tutto ignorante riguardo alle novità e alle scoperte fatte in più di quindici secoli di storia? Sarebbe stato un miracolo se fosse riuscito, molto, molto lentamente, anche solo ad ambientarsi; chiedergli di salvare il mondo moderno era veramente una pazzia.
Si alzò in piedi e aprì del tutto la finestra per affacciarsi sul piccolo giardino anteriore, dove scorse Merlino seduto sull’erba umida di rugiada, intento a fissare l’alba all’orizzonte.
Non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma era felice di averlo ancora al suo fianco. Fra tutti, anche se avesse potuto scegliere tra i suoi valorosi cavalieri, non avrebbe esitato un attimo a puntare il dito verso il suo servo, il più fedele e coraggioso degli uomini, quello che più di una volta si era dimostrato un amico eccezionale, pronto a sacrificare la propria vita per lui e salvandogliela di continuo.
Ora sapeva che Merlino era anche qualcos’altro, qualcosa che non avrebbe mai nemmeno immaginato, ma non aveva alcuna intenzione di affrontare l’argomento. Non l’avrebbe ignorato se fosse venuto fuori, ma ormai non aveva senso rivangare nel passato in quel modo, cercando spiegazioni di cui, alla fine, non aveva bisogno. Merlino era uno stregone e aveva usato la magia per proteggere lui e Camelot: tutto questo gli bastava.
Decise di non disturbarlo e si diresse verso il paravento, dietro il quale trovò dei vestiti puliti, simili a quelli che aveva indossato il giorno prima. Se li infilò, non senza qualche difficoltà, poi lasciò la camera da letto per dirigersi nella stanza che Merlino gli aveva spiegato essere adibita e specializzata nella cura del corpo.
Era rimasto senza parole quando gli aveva mostrato come utilizzare il rubinetto, un manico da cui sgorgava acqua calda o fredda alzando semplicemente una leva, e il gabinetto, un oggetto ancora più sorprendente ma molto funzionale. L’avrebbe sempre ricordato come la prima cosa che gli aveva fatto apprezzare la modernità a volte disarmante ed incomprensibile dell’era in cui era stato catapultato.
Dopo essersi sciacquato il viso ed essersi dato una sistemata ai capelli, imbronciandosi di fronte al brutto livido che Alexandra gli aveva lasciato sul naso, scese le scale per trovarsi nell’ampio salotto che, in confronto alla sua camera, era dieci volte più moderno: c’erano divani in pelle bianca lunghi quanto una persona, due poltrone della stessa manifattura e il pavimento in legno era ricoperto in vari punti da tappeti orientaleggianti.
Ai lati dell’ampio camino c’erano due alte librerie piene zeppe di libri ed oggetti che sembravano provenire da regni lontani, e in mezzo ad una di esse era stato messo un quadro quasi identico a quello che aveva visto nella camera da letto di Lady Alexandra, forse un po’ più grande. Non aveva avuto ancora il tempo di chiedere a Merlino se fosse una specie di moda moderna, ma aveva la sensazione che l’avrebbe scoperto presto.
Il suo olfatto non fu in grado di riconoscere il profumo che gli stuzzicava le narici, ma era quasi sicuro di averlo già sentito a casa di Lady Alexandra. Spinto dalla curiosità, entrò in cucina, rimanendo un attimo disorientato di fronte a tutti gli oggetti sconosciuti su cui si posarono i suoi occhi. Si promise di non toccare nulla, per evitare di fare altri danni – la storia della piastra per capelli gli aveva insegnato un’importante lezione – e cercò la possibile provenienza di quell’odore forte ma piacevole.
Si avvicinò al tavolo dove Merlino doveva aver già consumato la propria colazione ed afferrò lo strano bicchiere, giallo e con il manico, dentro il quale era rimasto un po’ di liquido nero. Se lo avvicinò al naso per annusarlo e sorrise, soddisfatto di aver trovato ciò che cercava. Si portò alle labbra il bicchiere e lo assaggiò, risputandolo fuori quasi subito, disgustato da quel sapore intenso ed amaro.
«Ma che accidenti beve, quell’idiota?», si chiese passandosi una mano sulla bocca, quando un rumore improvviso, una specie di cinguettio forte e prolungato, lo fece trasalire. Il bicchiere gli scivolò dalle mani, infrangendosi sul pavimento, ma Artù non se ne curò ed afferrò la prima arma che gli capitò sotto tiro: un coltello non molto affilato e sporco di gelatina rossa. Sempre meglio di niente.
Il verso acuto si ripeté e Artù ne individuò la provenienza grazie ad un luccichio arancione. Si trattava di un oggetto allungato, infilato in una base e con tanti piccoli bottoncini di gomma su cui erano segnati dei numeri. Prima di decidere se fosse pericoloso o meno, Merlino arrivò di corsa e sobbalzò quando si accorse della sua presenza.
«Niente paura, è solo il telefono», gli spiegò, ma subito si rese conto che quella spiegazione gli sarebbe servita a ben poco. Il mago gli fece segno di lasciare giù il coltello e di aspettare, quindi tirò su l’oggetto allungato, che si azzittì, e se lo portò all’orecchio.
«Pronto? Oh, buongiorno signora Begum».
Artù sgranò gli occhi, più che confuso. Perché stava parlando con quell’oggetto, chiamandolo oltretutto “signora”?
«Sì, sto meglio, ma ho ancora qualche linea di febbre. No, non sono ancora andato dal dottore, ho preso l’appuntamento per oggi. Lo so, non sarei dovuto andare in bici sotto la pioggia, ma era un’emergenza. Pensavo lunedì, ma se il dottore dirà che… Davvero? Beh, la ringrazio infinitamente signora Begum. Ah, i microbi nei piatti, certo. Sì, grazie per aver chiamato. Arrivederci».
Merlino pigiò uno di quei bottoni di gomma, poi lanciò un’occhiata ad Artù. La sua espressione sconvolta lo fece sorridere e alla fine anche ridacchiare, tanto che il re si riscosse e lo fulminò con lo sguardo.
«Non è divertente, Merlino».
«Oh sì che lo è, credetemi».
Sospirò, recuperando il controllo di sé, e gli si avvicinò. Si sedette sul bordo del tavolo e gli mise in mano l’oggetto allungato, iniziando a spiegargli: «Si chiama “telefono”, serve per comunicare a distanza con le persone che ne possiedono uno. Ogni telefono ha un numero specifico, perciò basta solo conoscere il numero dell’altra persona, digitarlo sui tasti e far partire la chiamata».
Artù non aveva capito esattamente tutto, ma finse di sì e gli chiese: «Chi è la signora con cui hai parlato?».
«La signora Begum. È la proprietaria della… taverna dove lavoro».
Artù gli rivolse un’occhiata di rimprovero, con le sopracciglia inarcate e un angolo della bocca sollevato in un sogghigno. «Non hai ancora perso il vizio, eh?».
Merlino roteò gli occhi al cielo, ma alla fine rise anche lui. Poi si accorse del disastro sul pavimento.
«Che cos’è successo qui?», gli chiese, indicando i cocci e il liquido ora marrone sulle mattonelle bianche. «Vi siete spaventato sentendo il telefono?».
Artù allungò una mano per tirargli uno scappellotto, ma Merlino lo deviò con estrema facilità e gli disse di spostarsi, così da poter dare una pulita.
Il re si sedette al tavolo e guardò Merlino armarsi di straccio per asciugare e raccogliere i pezzi di ceramica più grossi. Gli stava per chiedere perché non utilizzasse semplicemente la magia, ma poi ci ripensò e cambiò del tutto argomento.
«Perché hai detto alla signora Begum che hai la febbre?».
«Perché non posso andare al lavoro e lasciarvi solo».
«Posso badare a me stesso».
«Disse colui che stava per attaccare il telefono con un coltello sporco di marmellata».
Artù sospirò ed incrociò le braccia sul ripiano del tavolo. I suoi occhi si posarono sul cesto di frutta posato proprio di fronte a lui e fu felice di scorgere qualcosa che conosceva anche lui: una mela.
Possibile che anche un qualcosa di così semplice gli facesse provare nostalgia? Mordendola infatti gli era venuto in mente Gwaine e quella volta in cui, nel silenzio più assoluto, aveva fatto sobbalzare lui e gli altri cavalieri addentando con gusto proprio una mela.
«Perché proprio io?».
Merlino alzò di scatto la testa e lo guardò, aggrottando la fronte. «Che cosa?».
«Ero il re, va bene, ma questa non è più l’Albione che conoscevo. Come hai detto che si chiama?».
«Gran Bretagna».
«Quello che voglio dire è che ci saranno stati uomini ben più grandi di me, in questi secoli, quindi perché sono stato scelto proprio io?».
Merlino smise di pulire e si alzò in piedi per appoggiarsi al tavolo, con le braccia incrociate al petto. «Ho detto Gran Bretagna, ma si chiama anche Regno Unito. E siete stato voi ad unire per primo queste terre, Sire. Voi non siete stato un semplice re: siete e sarete sempre il solo ed unico re, il re del passato e del futuro».
«No, Merlino; sono solo una figura del passato, una leggenda».
«Una figura ed una leggenda così importante da essere studiata ancora oggi, a cui si ispirano libri, film, opere d’arte…».
Artù lo fissò intensamente per qualche secondo, cercando di trattenere la frustrazione, invano. Sbatté le mani sul tavolo, facendo sobbalzare il mago, ed urlò: «Sono stanco di dover vivere solo per portare a compimento un destino che non ho scelto!».
Merlino rimase in silenzio, turbato da quelle parole, poi chinò il capo. Artù attese una sua risposta per quella che gli sembrò un’eternità, e quando fu sul punto di alzarsi e scuoterlo per le spalle, notò che il suo servitore stava sorridendo, nonostante i suoi occhi si fossero inumiditi.
«Se solo fosse così semplice scappare dal proprio destino…», mormorò, iniziando a ridacchiare. «È questo che mi ha detto Kilgharrah quando sono andato a chiedergli come fosse possibile che il mio destino fosse quello di proteggere e servire qualcuno che mi odiava».
«Non ti ho mai odiato», disse Artù, lasciando parlare il cuore anziché la mente, solo per quella volta.
«L’ho capito, poi. E mi sono reso conto che anche se non avessi conosciuto il mio destino non mi sarei comportato diversamente, mai. Il mio destino si è unito alla mia volontà: stare al vostro fianco… era l’unica cosa per cui valesse la pena di rimanere a Camelot».
Artù deglutì e deglutì ancora più forte quando Merlino posò gli occhi nei suoi, rivolgendogli un sorriso emozionato.
«Non conosco cosa vi riservi il destino, Sire, ma io so che il vostro ritorno ha già fatto moltissimo».
«Cioè?».
Merlino sospirò tristemente, ma il sorriso che gli incurvava le labbra non scomparve. «Stavo per perdere la speranza. E sapete che cos’è un uomo senza speranza? Un uomo morto».
Artù avrebbe tanto voluto dire qualcosa, anche un semplice «Grazie» sarebbe andato bene, ma dalla sua bocca dal sapore amaro – non solo per quella bevanda che aveva assaggiato – non uscì un suono.
Merlino però non sembrava in attesa di un suo commento, anzi fu proprio lui a tirarlo fuori dalla pozza di disagio in cui era lentamente affondato, come nelle sabbie mobili, chiedendo divertito: «Che cosa stavate facendo con la mia tazza di caffè in mano?».
«Tazza di… cosa?».
«Caffè», ripeté Merlino, indicando il liquido che presto si sarebbe asciugato sul pavimento, lasciando una brutta macchia. «Lo bevono praticamente tutti in quest’epoca, a qualsiasi ora e più volte al giorno. In effetti può diventare una specie di droga, se non ci si sta attenti».
Artù si passò la lingua tra i denti, ricordandone il sapore, ed arricciò il naso. «L’ho assaggiato, ma non mi è piaciuto. È troppo… amaro».
«Questo perché io lo prendo così. Provatelo con lo zucchero».
Merlino gli versò una tazza di caffè fumante e gli versò dentro due cucchiaini di zucchero, mescolò per qualche secondo e poi gliela porse, sorridendo incoraggiante.
Artù si fidò del proprio servitore e con gli occhi semichiusi si portò la tazza alle labbra, assaggiando la bevanda. Li aprì, trovandola molto più bevibile, e guardò Merlino meravigliato.
«Meglio?».
«Assolutamente!».
«Bene. Ma ci sono moltissimi altri modi in cui il caffè si può bere. C’è il caffè espresso, quello macchiato, il cappuccino, il caffelatte, il marocchino…».
«Deve piacerti davvero molto questa bevanda», esclamò Artù, divertito.
«Prima vi ho detto che può diventare una specie di droga. Beh, io sono un caso irrecuperabile ormai».
I loro sguardi si incontrarono ed entrambi scoppiarono a ridere, non riuscendo più a trattenersi.

 

***

 

Molte spiegazioni dopo, tra cui quella sul forno a microonde, sui fornelli, sul tostapane e sulla televisione, Merlino si sentiva esausto, come prosciugato, e si era rifugiato nel giardino sul retro, sotto l’ombra del salice piangente che aveva piantato circa dodici anni prima, quando aveva comprato quella casa con l’aspetto di un vecchio, aspetto che aveva dovuto mantenere per otto lunghi anni prima di fargli tirare le cuoia e subentrare come il suo giovane nipote, unico erede e senza un preciso scopo nella vita.
Di solito si trasferiva solo quando i vicini iniziavano a domandarsi quanti anni avesse quel vecchio scorbutico che se ne stava sempre in disparte a farsi gli affari suoi – era stato il suo modus operandi per tutta l’eternità, spostandosi di villaggio in villaggio senza mai allontanarsi troppo da Avalon, – ma dodici anni prima era stato diverso: durante uno dei suoi pellegrinaggi al lago aveva cambiato strada e si era imbattuto in quella villetta simile ad un piccolo castello, con quelle specie di torrette a punta ai lati, isolata da tutte le altre e circondata da un piccolo bosco, vari ettari di campi e prati in cui la natura si era sviluppata incontrollata e persino un fiumiciattolo, e se n’era perdutamente innamorato.
Era in evidente stato d’abbandono e chiedendo in giro aveva scoperto che non apparteneva a nessuno da più di vent’anni e che nemmeno il comune sapeva con esattezza che cosa farci, anche se si vociferava che l’avrebbero abbattuta all’inizio dell’anno nuovo. Merlino aveva colto la palla al balzo e l’aveva acquistata ad un prezzo nemmeno troppo alto, nonostante tutti quanti avessero pensato almeno una volta che aveva letteralmente buttato al vento tutti i risparmi di una vita.
Si erano dovuti ricredere però, quando avevano visto il risultato del duro lavoro di ristrutturazione in cui Merlino aveva messo anima e corpo.
Era davvero magnifica e più la guardava, più il suo petto si gonfiava d’orgoglio. Aveva passato dei brutti momenti quando si era soffermato a pensare a quando avrebbe dovuto lasciarla per trasferirsi in un altro villaggio, ma ora che Artù era tornato sapeva che quella sarebbe stata la sua ultima casa, quella in cui avrebbe trascorso la sua ultima vecchiaia prima di morire. Ne era certo, lo sentiva in quelle ossa vecchie e spesso e volentieri doloranti. Ora che Artù era risorto, non c’era più bisogno che vivesse una vita immortale: probabilmente aveva iniziato ad invecchiare nello stesso momento in cui Artù era uscito dall’acqua.
Morire in sé non lo spaventava, era il quando: doveva aiutare Artù a portare a termine il proprio destino e per questo doveva rimanere vivo; poi, qualsiasi cosa aspettasse il suo re, se anche fosse stata la morte, lui l’avrebbe seguito. In ogni caso vederlo morire una seconda volta sarebbe stato un dolore troppo grande da sopportare e sapeva esattamente che cosa avrebbe fatto se fosse accaduto.
Accarezzato dal vento freddo, dal rilassante fruscio delle foglie verde-argentate e dal gorgoglio dell’acqua, si abbandonò ad un sonno leggero, dal quale fu bruscamente svegliato dalla voce di Artù che chiamava il suo nome.
«Che c’è?», mugugnò, affondando ancora di più il mento nella sciarpa blu che portava al collo.
Il re di Camelot spostò un paio di lunghi rami e raggiunse il mago per sedersi al suo fianco, sulle radici del salice.
«Avete bisogno di qualcosa?», chiese Merlino, guardandolo con la coda dell’occhio.
«Voglio che mi parli di Camelot, di ciò che è successo dopo la mia morte».
Merlino si tirò su lentamente, appoggiando le spalle alla corteccia dell’albero, e lo guardò con gli occhi colmi di dolore: «Non volete saperlo veramente».
«Invece sì, Merlino. È un ordine».
Pensare a Camelot, a tutte le persone a cui aveva voluto bene e che aveva visto morire l’una dopo l’altra era un’enorme sofferenza ogni volta, ma riusciva a capire come si sentisse Artù. Conoscere la verità, o almeno una parte, era un diritto che non poteva negargli.
«Dopo la vostra morte Ginevra è salita al trono e ha regnato saggiamente per tre anni, mantenendo la pace nel vostro regno, fino a quando gli altri re, aggrappandosi al fatto che non avesse alcun diritto di essere regina, viste le sue origini popolane, hanno stracciato i trattati stipulati con voi, si sono alleati e Camelot… è caduta».
Artù sgranò gli occhi, stordito dal dolore. «Come… caduta? Non avevamo alleati, nemmeno uno?».
«Solo la regina Mithian di Nemeth», rispose Merlino, accennando un sorriso ricordando il volto di quella principessa che, al loro primo incontro, l’aveva trattato prima di tutto come un essere umano, nonostante fosse il servitore del re.
«Ho sempre pensato avessi un debole per lei e quel tuo sorrisino me lo conferma», biascicò Artù, scuotendo il capo. «Merlino! Smettila di sognare ad occhi aperti e continua!».
«Avremmo avuto anche il sostegno della regina Annis, se fosse sopravvissuta ad un altro inverno. Il suo successore, un cugino sbucato dal nulla, non aveva alcun motivo per imbarcarsi in quella missione suicida. E, come avevo predetto, è stato un massacro».
«Come avevi predetto? Che vuol dire?».
«Beh… Gwen è venuta a conoscenza dei miei poteri, credo anche grazie a Gaius, e mi ha eletto consigliere di corte. Prima della battaglia di Camlann i miei poteri sono aumentati notevolmente e con lo studio e la pratica ancor di più, tanto che ho iniziato a sviluppare il dono della Vista, riuscendo a vedere il futuro senza l’utilizzo dei cristalli. Avevo visto la battaglia che si sarebbe svolta, avevo visto le mura crollare e il castello sotto assedio, ma Gwen fu irremovibile».
«No. No, no…», mormorò Artù, con le lacrime agli occhi, ma Merlino evitò di guardarlo e finì il proprio straziante racconto.
«Lei e i cavalieri si sono rifiutati di fuggire e hanno lottato fino alla fine, con coraggio. Sono periti tutti nella sala del trono, anche Gaius».
«E tu… tu e tutta la tua magia… non hai fatto nulla?!», gridò, alzandosi in piedi di scatto, così in collera da prendere a calci il tronco del salice.
«Ho lottato fino allo stremo delle forze e ho protetto la regina fino a quando ho potuto, fino a quando non sono morto anch’io».
Artù si fermò improvvisamente, con i pugni stretti sulla corteccia, e lo guardò incredulo. Merlino si alzò in piedi a sua volta ed iniziò a spogliarsi, togliendosi il giubbotto, la sciarpa, la felpa e infine la maglietta. Il freddo gli entrò fin nelle ossa e tremò, ma sul suo petto martoriato, pieno di cicatrici, ne indicò una lunga almeno cinque centimetri, poco sotto il cuore.
«Ancora non sapevo di essere immortale, ma non avrebbe fatto alcuna differenza: il mio cuore si è fermato, quando la spada che avrebbe dovuto infilzare Gwen ha trapassato me. Sono morto tra le sue braccia, Artù, e mi sono risvegliato solo un paio d’ore dopo, quando ormai era troppo tardi per tutti. È stato in quel momento che mi sono reso conto di essere diventato immortale».
Artù si appoggiò al tronco del salice e si lasciò scivolare a terra, con le gambe tirate verso il petto e il viso nascosto tra le braccia.
Merlino, tremante come una foglia, si rivestì in fretta, stringendosi nel giubbotto quando tornò a sedersi al suo fianco.
«Non si è mai risposata?», domandò ad un tratto Artù, con voce debole.
«No, non avrebbe mai amato nessuno tanto quanto amava voi».
Il re sollevò il viso per rivolgergli un breve sorriso di gratitudine. «E tu? Una volta caduta Camelot… che cos’hai fatto?».
«Mi sono nascosto. Tutti mi credevano morto nel tentativo di difendere la regina, ho finto di esserlo veramente. Era la soluzione migliore. Poi ho viaggiato per il mondo, aspettando il momento opportuno per poter tornare ad Albione ad attendere il vostro ritorno senza che nessuno mi riconoscesse».
«E non ti sei mai innamorato? Non hai mai avuto una famiglia?».
«Mi sarebbe piaciuto, ma no».
«Non ci credo».
Merlino fissò gli occhi nei suoi ed aprì la bocca per spiattellargli addosso tutta la verità su quanto fosse stato difficile vivere da solo per più di millequattrocento anni e su quanto lo sarebbe stato ancora di più sposarsi, avere dei figli e dei nipoti e poi vederli morire uno dietro l’altro senza poter fare nulla per impedirlo.
Era quasi accaduto una volta: si era arreso all'amore, rifiutando la logorante solitudine che si era imposto. Alla fine però il buonsenso gli era tornato prima che fosse troppo tardi. Aveva spezzato il cuore alla sua amata, come lei aveva spezzato il suo, ma era stato un male necessario. Si era evitato la pazzia.
«Sta per venire a piovere», esclamò, alzandosi in piedi in fretta e furia ed uscendo dal nascondiglio che il salice aveva offerto loro fino a quel momento.
Artù alzò gli occhi al cielo e scorgendo il sole tra le fronde del salice sbuffò, urlando nella sua direzione: «Cos’è, hai visto il futuro?».
«No, sono vecchio, ricordate? Le ossa hanno iniziato a dolermi!».
Merlino si fermò sotto il porticato, con le braccia strette al petto, ed attese che Artù lo raggiungesse.
«Vi faccio assaggiare una cosa che sicuramente adorerete: si chiama cioccolata. È una bevanda calda e dolce, perfetta per quando…».
«Merlino», lo interruppe il re, fissando gli occhi nei suoi. «Non volevo essere invadente, ero solo curioso. Mi dispiace se ti ho riportato alla mente ricordi dolorosi».
Lo stregone abbozzò un sorriso, scrollando le spalle. «Mi è già passata».
Artù ricambiò e a sorpresa gli avvolse saldamente un braccio intorno al collo, sfregandogli la testa con le nocche della mano.
«Mi sorprende che tu non l’abbia ancora detto, sai?».
«Che cosa?», chiese Merlino con un fil di voce, faticando persino a respirare.
«Che devo guardare il lato positivo, che ho ancora te al mio fianco e che questo dovrebbe tirarmi su di morale…».
«Per poi cosa, lasciare che mi diate del completo idiota?».
«Esatto! È proprio questa la parte che mi tira su di morale!».
Merlino rise e si lasciò strapazzare ancora un po’. Perché sì, anche essere maltrattato da lui gli era mancato da morire.

 

***

 

Sentì a malapena il lieve bussare alla porta della sua stanza, immerso com’era nella lettura, ma con la coda dell’occhio scorse Merlino sporgersi all’interno.
«Hai intenzione di venire a controllarmi ancora per molto?», gli chiese annoiato, con una mano a sorreggere il viso e lo sguardo ancora incollato alle pagine del libro. «Sembri una mamma apprensiva».
«E voi siete proprio un bambino dispettoso e cocciuto».
Artù alzò il capo e lo fissò severamente, ma Merlino non si lasciò intimidire e lo raggiunse di fronte al camino scoppiettante. Prese la sedia sistemata accanto all’armadio e si sedette dall’altro lato dello scrittoio, sporgendosi in avanti per scoprire a che punto fosse arrivato del grosso volume, scritto di suo pugno, che raccontava praticamente tutta la storia della Gran Bretagna, della sparizione, della nascita o dell’espansione dei vari regni e dei sovrani che si erano succeduti l’uno dopo l’altro.
«Vi fonderete il cervello, se andate avanti così».
Artù si portò le mani di fronte alla bocca, su cui si era disegnato un sorrisino maligno. «Dimmi, Merlino, vuoi che nel mio destino ci sia anche la reintroduzione della gogna?».
«No».
«Bene, allora fai silenzio. E prendi dall’armadio del freddo un’altra dose di questa bibita moderna: la adoro».
Merlino sospirò. «Frigorifero, lattina e Coca-Cola».
«Mi hai capito, no?».
«Io sì, ma… è proprio di questo che volevo parlarvi». Si massaggiò la fronte, abbandonandosi allo schienale della sedia, e si girò la lattina ancora fredda tra le mani. «Dovete sforzarvi di sembrare un uomo di quest’epoca, il che comporta il saper parlare un linguaggio più moderno – l’uso del voi è da eliminare, – conoscere almeno i nomi degli oggetti che per voi sono nuovissimi ma che qui sono di uso comune da anni, dimenticare il codice dei cavalieri…».
«Non posso rinnegare la mia natura, Merlino!», urlò, scioccato da ciò che le sue povere orecchie avevano dovuto sentire. Dimenticare il codice dei cavalieri, che assurdità! Gli scorreva nelle vene, non poteva dimenticarlo!
«Non è quello che vi ho chiesto, ma… Insomma, non possiamo di certo sbandierare ai quattro venti che voi siete il leggendario re Artù!».
«Perché no?».
«Perché? Ah». Merlino ridacchiò e sollevò una mano per contare sulle dita: «Uno, non ci crederebbe nessuno; due, ci rinchiuderebbero in un ospedale psichiatrico – una struttura dove si cercano di curare i malati di mente; terzo, se mai qualcuno dovesse crederci sarebbe un disastro! Vi prenderebbero, vi rinchiuderebbero in un laboratorio e vi farebbero ogni sorta di analisi per capire come siete risorto e… Non si può fare, assolutamente no. Abbiamo bisogno di rimanere nel più totale anonimato, come ho fatto io per tutti questi secoli, e capire il motivo per cui siete qui».
Artù strinse i denti, accecato di nuovo dall’ira. «E poi? Una volta compiuto il mio destino, se mai ci riuscirò, che cosa accadrà? Di nuovo nel lago, in attesa che il mondo abbia bisogno di nuovo di un eroe? Morirò definitivamente, ad uno schiocco di dita, come un pupazzetto comandato da chissà chi?».
«So come vi sentite, mi faccio le stesse identiche domande da millequattrocento anni, ma urlare non risolverà la situazione!».
I loro occhi si incatenarono e nessuno dei due si mostrò intenzionato a perdere quella battaglia, perciò rimasero in silenzio per un minuto e mezzo o forse di più, pensando a come procedere in quell’assurda discussione.
Fu Merlino a parlare per primo, con voce di nuovo pacata: «Dovete ambientarvi in fretta ed imparare a cavarvela da solo, perché non potrò starvi accanto ventiquattr’ore su ventiquattro: ho una facciata da tenere in piedi, non posso mollare tutto solo perché uno sconosciuto è arrivato nel villaggio. Lo capite, vero? La gente inizierebbe ad insospettirsi se di punto in bianco lasciassi il lavoro, se non facessi più tutto ciò che ho fatto fino ad adesso».
Artù annuì lentamente, anche se avrebbe giurato che ci fosse anche un’altra ragione per cui Merlino non voleva abbandonare quella vita. In fondo l’aveva fatto moltissime volte. Ci doveva essere qualcosa che non voleva perdere e giurò sul suo nome che presto o tardi avrebbe scoperto di che cosa si trattava.
«Farò del mio meglio», promise.
«Grandioso», esalò Merlino, soddisfatto. «Ora devo confessarvi una cosa».
Artù sospirò, cercando di buttare fuori tutta l’irritazione. «Oh, lo sapevo che c’era sotto qualcosa».
«Ecco, Alex vi ha visto emergere dal lago con indosso la vostra armatura e ovviamente ha iniziato a far domande, perciò… ho dovuto inventarmi una scusa plausibile».
Il re si prese la testa tra le mani, poi si massaggiò il viso e si preparò al peggio. «Sentiamo».
«Le ho detto che avete un disturbo della personalità e che è per questo vi credete il re di Camelot, che quella sera eravate al lago per una specie di missione e che fino a poco tempo fa eravate in un ospedale psichiatrico».
«Quindi, fammi capire bene, le hai detto che sono… pazzo?».
«Esatto. L’ospedale psichiatrico però l’ha suggerito lei».
«Merlino, giuro che ti…».
«Se ci pensate bene è una storia di copertura perfetta! Se a volte il vostro “spirito cavalleresco” dovesse prevalere posso sempre ripiegare su questo… disturbo».
Artù lo avrebbe volentieri utilizzato come manichino per gli allenamenti, ma provò a calmare la propria rabbia pensando che il suo intento in fondo era quello di proteggerlo. Stava facendo del suo meglio, nonostante a lui sembrasse solo stupido.
«Quando le hai detto tutto questo?», gli chiese, colpito improvvisamente dal sospetto.
«Poco prima che voi tentaste di tagliarle la gola, perché?».
«Lo sapevo! Le hai anche detto di assecondarmi nella mia pazzia, non è così? Mi ha preso in giro tutto il tempo, facendosi delle grasse risate alle mie spalle!».
«Non era sicuramente sua intenzione darvi quest’impressione, ve l’assicuro», disse frettolosamente Merlino, seguendolo con occhi preoccupati mentre si alzava e si dirigeva verso il camino, alla cui mensola si appoggiò con un braccio. «Artù? Non siate arrabbiato con Alex, vi prego. Lei è l’unica vera amica che sono riuscito ad avere dopo…».
Artù si girò, in attesa della conclusione di quella frase, ma dallo sguardo cupo di Merlino, lo stesso che aveva visto quel pomeriggio sotto il salice, capì che sarebbe stato meglio cambiare argomento.
«Non sono arrabbiato con lei. È che ancora non riesco a capire se è degna della mia fiducia».
«Vi ha salvato il fondoschiena e vi ha aiutato almeno altre due volte, come può non essere degna della vostra fiducia?».
«Non capisco quale sia il suo fine».
Merlino chinò improvvisamente il capo, come a volersi nascondere, e Artù aprì la bocca per chiedergli che cosa non gli stesse dicendo, ma lo stregone lo batté sul tempo, tornando a sorridere esclamando: «Alex è di buon cuore, aiuta chiunque sia in difficoltà».
Il re si strinse le braccia al petto, insoddisfatto, e tornò a guardare le fiamme ora un po’ meno vive. Con la coda dell’occhio vide Merlino alzarsi dalla sedia e rimetterla al suo posto, per poi dirigersi verso la porta.
«In ogni caso, lo scoprirete presto».
A quelle parole sobbalzò e gli impedì di andare via, ordinando in tono imperioso: «Fermo lì».
Lo stregone si fermò con un piede già fuori dalla porta e si girò lentamente, come se temesse di ricevere qualche oggetto contundente in testa.
«Che cosa intendi dire?», gli chiese minacciosamente, con gli occhi stretti in due fessure.
«Beh…». Merlino sospirò, voltandosi del tutto, e confessò apertamente: «Abbiamo bisogno di lei, Sire. Non credo di riuscire, da solo, ad insegnarvi tutto ciò che c’è da sapere sul mondo moderno».
«Hai parlato fino ad adesso di anonimato e ora suggerisci di rivelarle la verità sul nostro conto?».
«Che cosa? Neanche per sogno! Ho solo pensato che passare un po’ di tempo con qualcuno che è nato e cresciuto in quest’epoca potrebbe essere più istruttivo».
«Ma perché proprio Lady Alexandra!?», esclamò lagnosamente, per nulla felice di dover passare del tempo con quell’isterica. Ma forse non era sempre così. La mattina precedente aveva avuto le sue buone ragioni per esserlo e Artù non poteva biasimarla. Doveva darle almeno una possibilità.
Respirò profondamente ed incrociando gli occhi pieni di speranza di Merlino annuì. «D’accordo».
Il mago sorrise a trentadue denti, il migliore dei ringraziamenti, e Artù gli lanciò la lattina vuota di Coca-Cola che aveva lasciato sul suo scrittoio.
«Non portarmene un’altra, vado a dormire».
Merlino si morsicò le labbra e gli gettò un’occhiata prudente. Artù conosceva bene quell’espressione e un po’ spazientito lo esortò a sputare il rospo.
«Posso iniziare a darvi del tu già da adesso, per abituarvi?».
«Scordatelo, Merlino. In privato continuerai a darmi del voi, a chiamarmi Sire e ad eseguire i miei ordini».
Lo stregone rimase deluso dalle sue parole, ma per un tempo record. Qualche secondo dopo, infatti, sogghignò e dandogli le spalle esclamò: «È proprio bello riavervi intorno di nuovo!».
Artù cercò di imitare Merlino nel venare di sarcasmo la propria voce e rispose: «Anche per me è lo stesso!».
Lo sentì ridere in fondo alle scale e sorrise. Solo in quel momento riuscì a capire appieno ciò che aveva cercato di dirgli quella mattina, in cucina, e realizzò che se fosse stato al suo posto nemmeno lui sarebbe riuscito a sorridere, a ridere, sostanzialmente a vivere veramente, così perennemente schiacciato dalla solitudine e dalla nostalgia.

 

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Capitolo 6
*** 6. The beginning of the end ***


Buon pomeriggio! 
Spero stiate tutti bene, perché io ho avuto una giornatina niente male al lavoro. E mi sono detta che per tirarmi su di morale ci voleva proprio una cosa: entrare nel mondo di Merlino e Artù! :)
In questo capitolo finalmente verrà spiegato il motivo dell'assenza della magia e spero vivamente sia una spiegazione plausibile (io fossi stata in Merlino avrei fatto lo stesso).
Alex l'ho un po' trascurata ultimamente, lo so, ma nel prossimo capitolo tornerà più in forma che mai! ;)
Ah, prima di augurarvi buona lettura volevo solo informare che chi fosse curioso (o si trovi con molto tempo da perdere) questa è la mia pagina facebook, dove potete trovare tante foto riguardanti questa storia: locations, prestavolto... cose così. u_u
Bene, ora vado. Buona lettura e alla prossima!

Vostra,

_Pulse_

 

 

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6. The beginning of the end

 

«Artù! Non ci posso credere, siete ancora a letto?! Alzatevi, pigrone!».
Il re respirò profondamente, cercando di trattenere la rabbia.
Si era abituato ai gabbiani che seguivano il corso del fiumiciattolo per arrivare al lago, ma non si sarebbe mai abituato ai risvegli bruschi di cui Merlino era sempre stato un professionista.
«Avanti, devo farvi vedere una cosa!».
Artù si alzò controvoglia e con un diavolo per capello, ma non appena fu alla finestra vide Merlino appoggiato al cofano di una di quelle automobili, con gli occhi luminosi e fieri. Era diversa rispetto a quella che aveva Lady Alexandra: era più lunga, più bassa, senza il tetto e color blu notte.
«Allora, che ne dite?», gli chiese, aprendo le braccia. «Sono andato a ritirarla mentre voi dormivate e ora fila che è una meraviglia!».
«Sorprendente, Merlino. Non ci salirò mai».
Lo stregone aprì la bocca, scioccato, ma Artù non gli diede il tempo di dire nulla, chiudendosi la finestra alle spalle.

 
«Perché non dovreste salirci?», gli chiese attraverso la porta del bagno.
Artù finse di non averlo sentito e si versò un po’ di shampoo sulla mano, per poi inschiumarsi i capelli.
Due giorni prima aveva scoperto la doccia – un’altra invenzione del XXI secolo che avrebbe voluto avere a Camelot – e da allora non ne aveva più fatto a meno.
«Artù, non avrete per caso paura?».
«Smettila di dire fesserie e lasciami in pace!», urlò.
«Avete nostalgia del vostro destriero? Lo capisco, ma è da secoli che non si usano più i cavalli per andare in giro! Se può rassicurarvi, i cavalli ci sono, dentro le auto!».
«Merlino…», cercò di azzittirlo pronunciando solo il suo nome, tra i denti.
«Sentite, dobbiamo percorrere diverse miglia e l’auto è il mezzo più comodo e veloce, perciò dovrete fare uno sforzo».
«E dove dovremmo andare? Non mi sembra di aver organizzato alcuna spedizione. Hai di nuovo dimenticato che sono io che do’ gli ordini?».
«Come volete. Dobbiamo andare a Newport, una città ad un quarto d’ora da qui in auto, per fare rifornimenti e comprare un regalo».
Artù spense l’acqua della doccia e tirò di lato il vetro zigrinato per afferrare l’asciugamano bianco che si legò intorno alla vita.
«Ho finito, puoi entrare», disse pacatamente.
Merlino entrò in bagno sospirando, ma si fermò subito, non appena si rese conto che Artù era uscito dalla doccia a piedi nudi e stava praticamente allagando il pavimento.
«Cosa vi ho detto? Dovete usare il tappetino!».
Artù gli fece il verso e prese un altro asciugamano per passarselo sui capelli fradici e sul petto, mentre osservava la propria immagine riflessa nello specchio.
«Un regalo per chi?», chiese ad un tratto, per ordinargli subito dopo: «Prendi l’oggetto col vento caldo».
Il mago roteò gli occhi al cielo e gli passò alle spalle. «Phon. Si chiama phon. O asciugacapelli, se vi è più facile da ricordare».
«Asciugacapelli sia. Allora, per chi è questo regalo?».
«Per Alex. Le ho promesso che le avrei ripagato la piastra per capelli che le avete rotto e sarete voi a dargliela, così che vi possa perdonare».
«E dobbiamo per forza andare a…».
«Newport».
«… per comprarle una nuova piastra per capelli?».
Merlino annuì e gli rivolse un sorriso attraverso lo specchio prima di accendere il phon ed iniziare ad asciugargli o, meglio, arruffargli i capelli color del grano.
«Questo è un paesino piccolo, non c’è molto», spiegò, alzando la voce perché Artù potesse sentirlo sopra il rumore dell’asciugacapelli. «Newport vi sembrerà gigantesca e avrete l’opportunità di vedere uno scorcio del mondo moderno. Sono sicuro che vi piacerà».
Artù strinse le labbra guardandosi allo specchio e respirò profondamente, pensando che prima che potesse piacergli avrebbe dovuto accettarlo, e non sarebbe stato facile.

 
Si sbagliava: era stato facile.
Il viaggio sull’auto di Merlino era stato piacevole, grazie al vento che gli scompigliava i capelli e che gli aveva dato la sensazione di essere su un cavallo velocissimo, in grado di percorrere miglia e miglia senza mai sentire la stanchezza o la sete.
E non appena il suo servitore gli aveva detto che si stavano avvicinando a Newport Artù ne era rimasto affascinato. I suoi occhi meravigliati avevano afferrato tutto ciò che potevano, senza alcuna restrizione, e non aveva nemmeno avuto il tempo di pensare a quanto tutto fosse diverso rispetto a Camelot e a tutti i regni che aveva visto in lungo e in largo.
Già da lontano aveva capito che si stavano avvicinando ad un fiume, quello che Merlino aveva chiamato Usk, e che presto avrebbero dovuto attraversarlo per entrare nei confini di Newport, ma mai avrebbe immaginato ad un ponte come quello che avevano attraversato.
Era enorme, come non ne aveva mai visti in vita sua, con addirittura quattro corsie per il passaggio delle auto e di altri mezzi sempre a motore a cui Merlino aveva dato dei nomi che lui non aveva nemmeno ascoltato, troppo impegnato a seguire con lo sguardo la struttura di fili metallici e bianche travi di sostegno che svettavano contro il cielo azzurro ai lati del ponte.
Una volta attraversato il ponte era stato tutto un continuo susseguirsi di abitazioni, edifici a volte imponenti in grado di riflettere la luce, cartelli, semafori, viali alberati e auto, tantissime auto.
Poi si erano immessi in alcune strade più piccole e meno trafficate e per un po’ costeggiarono un ampio parco circondato da mura in mattoni, fino a quando non tornarono a prevalere le abitazioni: file e file di casette tutte uguali, ma piacevoli alla vista.
Passarono davanti a quella che Merlino chiamò “cattedrale”, un luogo di culto, anch’essa circondata da una cinta muraria alta circa un metro e mezzo, e dopo altri dieci minuti raggiunsero il centro della città, dove la maggior parte delle vie che interessavano a loro erano chiuse alle automobili.
Merlino aveva parcheggiato sottoterra e prima di entrare nel Kingsway Shopping Centre, la loro meta originale, avevano fatto una camminata lungo le vie intorno a John Frost Square, fermandosi davanti alle vetrine dei negozi ogni volta che Artù ne sentiva il bisogno.
Non riusciva a credere a come il commercio fosse cambiato, nel corso del tempo, e soprattutto quanto l’offerta fosse aumentata: si poteva comprare di tutto!
Erano passati anche di fianco ad un Caffè Nero e Merlino aveva dovuto cedere, accompagnandolo all’interno e comprandogli un caffè al cioccolato che aveva adorato. Poi, alla fine, si erano apprestati ad entrare nel grande centro commerciale. Quello fu l’inizio della fine.

 

***

 

Per prima cosa entrarono nel negozio d’elettronica ed elettrodomestici per cercare la piastra per capelli nuova da regalare ad Alex.
Merlino non si perse nemmeno un battito di ciglia di tutte le varie espressioni che passarono sul volto di Artù: stupore, incredulità, shock, eccitazione, smarrimento… Era uno spettacolo così divertente che scoppiò a ridere, anche se non avrebbe dovuto farlo per non attirare l’attenzione dei commessi e degli altri clienti.
«Venite, forza», lo esortò, invitandolo a seguirlo.
Molti degli elettrodomestici accanto ai quali passarono Artù già li conosceva, ma gli faceva comunque un certo effetto vedere quanti tipi ne esistessero, di quanti colori e con quante caratteristiche specifiche.
«Questo che cos’è?», chiese ad un tratto, tirando Merlino per il gomito.
Merlino ridacchiò e batté leggermente la mano sul manico dell’elettrodomestico. «Si chiama aspirapolvere. Ne ho uno anche io, a casa, ma non l’avete ancora visto in azione. Come si può intuire dal nome è una scopa elettrica che risucchia lo sporco. Una specie di phon con il “vento” al contrario».
«Questo ti sarebbe proprio servito per pulire le mie stanze a Camelot», esclamò Artù, sogghignando.
Merlino scosse lievemente il capo e non appena vide un ragazzo con la divisa del negozio lo avvicinò per chiedergli dove avrebbe potuto trovare le piastre per i capelli.
«In fondo al corridoio sulla sinistra», gli spiegò brevemente e Merlino prese Artù per il braccio, evitando di fargli notare che qualunque tasto avesse pigiato sull’aspirapolvere questo non si sarebbe acceso, non senza la spina infilata in una presa elettrica.
Raggiunsero il reparto per la cura dei capelli e vi rimasero circa mezz’ora, discutendo su quale piastra avrebbe preferito Alex. Ce n’erano di tutti i tipi – grandi, piccole, in ceramica, a vapore – e di tutti i colori, ovviamente. Artù volle imporre la propria autorità, come sempre, ma Merlino riuscì a farlo ragionare, dicendogli che conosceva Alex da molto più tempo di lui, che conosceva i suoi gusti e che per questo era sicuro che la fantasia zebrata non le sarebbe piaciuta.
«Da quanto la conosci, esattamente?», gli chiese ad un tratto, guardandolo dall’altro lato del bancone espositivo.
Merlino sollevò gli occhi dalla piastra rossa che stava esaminando. «Chi?».
«Lady Alexandra, idiota!».
Lo stregone aveva capito a chi si riferiva, ma il suo tono vagamente malizioso non gli era piaciuto affatto. Non sapeva dove sarebbe andato a parare, ma aveva qualche sospetto e iniziò a sudare freddo.
«Tre o quattro anni, non ricordo di preciso», rispose con tono distratto, schiarendosi la gola. Ovviamente era una bugia: ricordava perfettamente quando i loro occhi si erano incrociati per la prima e la seconda volta, come il suo cuore avesse perso un battito in entrambe le occasioni e come lei gli avesse sorriso, incantandolo non una ma ben due volte. Non avrebbe mai potuto dimenticare.
«E dove vi siete conosciuti?».
«All’ospedale in cui siete stato anche voi».
Artù trattenne il respiro per un attimo, Merlino lo notò con la coda dell’occhio, per poi chiedergli a bassa voce, contenendo il fastidio per il fatto che non gliel’avesse detto prima: «Sei stato ferito in battaglia? Le altre cicatrici che avevi addosso…».
«Sì, le altre cicatrici sono ferite di… guerra. Ma questa è un’altra storia. Alex ci lavora, all’ospedale: fa l’infermiera. Io ero lì per un altro motivo».
«E quale, di grazia?».
Merlino sospirò e si disse che tanto, prima o poi, l’avrebbe scoperto comunque. «Quando posso mi piace trascorrere del tempo con i bambini malati. L’ospedale ha un reparto specializzato in tumori pediatrici, il migliore del Galles. I bambini ricoverati spesso vengono anche da molto lontano e i loro genitori riescono ad andarli a trovare solo nel week-end, quando non lavorano, perciò io… tengo loro compagnia, faccio quello che posso per non farli sentire soli».
Artù rimase in silenzio per un tempo infinitamente lungo e Merlino alzò lo sguardo per sbirciare la sua espressione: stava sorridendo, quasi dolcemente, mentre continuava a guardare le piastre per capelli. Il mago sentì il cuore riscaldarsi piacevolmente, come lenito da un balsamo, e sorrise a sua volta.
«Mi ci dovrai portare, un giorno», esclamò ad un tratto, facendo sobbalzare il mago. Diceva sul serio?
Non fece in tempo a chiederglielo, perché Artù afferrò una piastra dorata e la brandì come avrebbe fatto con la sua amata Excalibur, urlando: «Questa è perfetta!».
«Non credo proprio», rispose categorico, tornando di nuovo di fronte alla piastra laccata rossa che aveva adocchiato e che sembrava chiamarlo. «Questa è perfetta. Il rosso è il colore preferito di Alex».
Artù lo raggiunse ed esaminò la piastra, piegando la testa a destra e a sinistra. Alla fine annuì, dando al servitore la propria approvazione.
«Potremmo anche dipingerci sopra lo stemma dei Pendragon, per ricordarle che è stata un nostro…».
«Regalo».
Il re fissò Merlino con la fronte aggrottata. «Avresti dovuto contraddirmi».
«Avanti, anche a voi a volte – raramente – vengono delle buone idee».
Artù l’avrebbe picchiato volentieri, ma proprio in quel momento un commesso del negozio li avvicinò per chiedere loro se avessero bisogno d’aiuto e Merlino sorrise raggiante, esclamando che avevano deciso di comprare quel modello.

 
Per raggiungere le casse dovettero passare di fronte al reparto telefonia mobile. Non l’avessero mai fatto.
Artù si fermò bruscamente e Merlino gli finì addosso, colto di sorpresa.
«Quelli sono i telefoni portatili… Come hai detto che si chiamano?».
«Cellulari».
«Cellulari, cellulari», ripeté a bassa voce, per ricordarselo. «In ogni caso, ne voglio uno anche io».
Merlino rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva. «Che cosa? Come potrebbe tornarvi utile un cellulare?».
Artù si voltò a guardarlo e ancor prima che aprisse bocca Merlino capì che l’avrebbe preso a male parole. «Sei proprio stupido a volte, sai? Mi hai detto che non potrai stare al mio fianco ventiquattr’ore su ventiquattro e, detto sinceramente, io non ho alcuna intenzione di averti tra i piedi tutto il tempo. Se io avessi un cellulare potremmo comunicare a distanza in qualsiasi momento e nel caso si verificasse un’emergenza lo sapremmo e potremmo intervenire, non trovi?».
Lo stregone ci pensò un po’ su e alla fine fu costretto ad ammettere che Artù non aveva del tutto torto. Anzi, quella era la sua seconda buona idea della giornata. Non smetteva mai di sorprenderlo.
«Avete ragione».
«Ovviamente», rispose Artù, scoccando un sorriso vittorioso ed iniziando a dirigersi verso gli espositori. Merlino però lo prese per un braccio e, guardandolo seriamente, lo avvertì: «Non sarà facile imparare ad usarlo».
«Per chi mi hai preso, Merlino? Io sono Artù Pendra–».
Il mago gli tappò la bocca con una mano e si gettò un’occhiata intorno. Quando fu sicuro che nessuno avesse prestato attenzione alle parole del biondo, disse tra i denti: «So benissimo chi siete, microcefalo, non è necessario urlarlo ai quattro venti. Vi siete già dimenticato? Anonimato, riservatezza…».
«Tutti questi anni e continui ad insultarmi come se nulla fosse», fece notare Artù, dopo essersi tolto bruscamente la mano di Merlino dalla bocca. «Non sei cambiato di una virgola».
«Me l’avete chiesto voi, no?», rispose, ma a capo chino, conscio che quando la verità sarebbe venuta a galla Artù non ne sarebbe stato contento. Non tanto per la sua scelta, ma per il fatto che spesso e volentieri continuava a mentirgli, nonostante non ce ne fosse più alcun bisogno.
Artù sorrise, ma si voltò subito, esclamando: «Chissà che mi passava per la testa…», poi si avvicinò ai vari modelli di telefoni cellulari.

 
Ovviamente Artù non si era accontentato di un cellulare con le funzioni base: aveva scelto uno degli ultimissimi modelli in circolazione, con lo schermo interamente touch-screen, fotocamera potenziata, memoria esterna da chissà quanti giga e mille altre applicazioni di cui dubitava fortemente ne avrebbe anche solo notata l’esistenza.
Merlino però aveva ceduto, pur di vedere il proprio re felice come un bambino. Forse accontentare ogni suo capriccio non sarebbe stata la soluzione migliore per il suo portafoglio, ma i soldi erano l’ultimo dei suoi problemi. E a questo proposito Artù scoprì un’altra novità del mondo moderno: la carta di credito.
Dopo che la cassiera ebbe finito di battere ciò che avevano acquistato, Merlino tirò fuori il portafoglio e sotto gli occhi confusi di Artù le passò la carta.
«Come speri di pagare con quella?», gli chiese un po’ troppo ad alta voce, facendo voltare la commessa, la quale lo fissò insospettita.
«Non lo stia a sentire, proceda pure», disse nervosamente Merlino, per poi fulminare con lo sguardo il re di Camelot.
La transazione avvenne senza problemi e dopo aver firmato lo scontrino Merlino mise a posto la carta e si avviò verso l’uscita, con Artù alle calcagna, desideroso di chiarimenti.
«È troppo complicato, come faccio a spiegarvelo?».
«Mi stai dando ancora dello stupido?».
Merlino ridacchiò. «Non mi permetterei mai!».
«Non riuscirò mai a sembrare in tutto e per tutto un uomo di quest’epoca se tu ti rifiuti di spiegarmi cose come queste!».
«Okay, avete ragione».
Il mago si fermò di fronte ad una gioielleria e si voltò verso di lui, estraendo nuovamente il portafoglio dalla tasca interna del giubbino per fargli vedere la sottile scheda con il microchip.
«Si chiama “carta di credito” ed è uno strumento che serve per pagare quando non si hanno o non si vogliono avere soldi contanti appresso».
«E i soldi contanti dove sono? Come…?».
«Sono depositati in una banca, una specie di… forziere gigante. Quasi tutti in quest’epoca possiedono un conto corrente, cioè un forziere un po’ più piccolo nel forziere gigante, dove vengono messi i soldi che si guadagnano. Viene fatto tutto via computer».
«L’affare simile alla televisione, quello con la tastiera».
«Esatto. Se hai bisogno di soldi contanti, si va in banca o in uno sportello automatico e si prelevano usando una di queste. La carta è direttamente collegata al conto che hai in banca e la cassiera, quando gliel’ho data, ha preso direttamente da lì i soldi».
«Chiaro. Più o meno».
«Bene. Possiamo andare a fare la spesa, ora?».
«Io ho fame».
Merlino roteò gli occhi al cielo, respirando profondamente, ed indicò un punto in fondo al corridoio. Fu così che Artù scoprì McDonald’s.

 

***

 

Alex aprì gli occhi, infastidita dalla forte luce che entrava dalle finestre. Quando era tornata dal turno all’ospedale, quella mattina, era ancora buio e si era dimenticata di chiudere le imposte.
Rotolò verso la sponda del letto ed allungò una mano verso il comodino per afferrare il cellulare e guardare che ore fossero: era da poco passata l’ora di pranzo e si suo stomaco reagì subito borbottando.
Alex sospirò e si portò le braccia dietro la testa, rimanendo ad osservare il soffitto per un po’, pensando a Merlino e a quanto gli mancasse.
Erano ormai due giorni che non lo vedeva e la cosa che le faceva più rabbia in assoluto non era il fatto che non si facesse sentire con lei, bensì con i bambini dell’ospedale, con i quali ormai non sapeva più che scusa inventarsi. Avevano iniziato a chiedere chi fosse l’amico venuto da lontano che non permetteva a Merlino di andarli a trovare e lei si era limitata a dire che non lo sapeva. La verità, dopotutto.
Più ci pensava, più Artù le sembrava un mistero, così come la sua storia. Merlino era sempre stato un tipo riservato, ma le risultava difficile credere che avesse tenuto nascosto un qualcosa di così grosso e doloroso, senza mai sentire il bisogno di parlarne con qualcuno. O forse ciò che le risultava davvero difficile era accettare che lei non godesse ancora della sua fiducia. Ma in fondo come biasimarlo? Nemmeno lei era pronta a rivelare a Merlino i suoi scheletri, non ancora.
Ad ogni modo, aveva bisogno di vederlo e di assicurarsi che stesse bene. Il pensiero che Artù, in un raptus dei suoi, lo avesse accoltellato nel sonno l’aveva sfiorata più di una volta, facendola rabbrividire. E poi gli avrebbe fatto una lavata di capo coi fiocchi per il suo comportamento menefreghista: l’aveva lasciata da sola con quei piccoli demoni per tre sere consecutive!
Era stata una settimana abbastanza impegnativa, con tutti i turni di notte che aveva dovuto fare per sostituire uno dei loro colleghi in malattia, ma quel giorno e il giorno successivo era di riposo e aveva proprio bisogno di rilassarsi e staccare un po’ la spina, pensando prima di tutto a se stessa.
Per questo si alzò, si preparò un brunch leggero e si preparò per uscire, intenzionata a scaricare un po’ di tensione e ad affrontare Merlino a quattr’occhi.

 
Non era mai stata a casa di Merlino, ma sapeva dove abitava.
L’aveva scoperto una sera, quando la sua auto alla Supernatural l’aveva lasciato ancora una volta a piedi e lei si era offerta di accompagnarlo a casa, visto anche il tipo di tempesta che si stava scatenando. Lui dopo un paio di rifiuti si era lasciato convincere e aveva guidato Alex fino in aperta campagna. Quando le aveva indicato la grande villa a due piani che, nel buio e sotto la pioggia, aveva l’aspetto vero e proprio di un castello in miniatura, Alex era rimasta a bocca aperta, sconvolta. Si era chiesta come Merlino, lavorando come cameriere nella caffetteria del paese, potesse permettersi di mantenere una casa del genere, ma lui stesso le aveva rivelato che l’aveva ereditata da suo nonno e che la maggior parte delle stanze al piano superiore erano del tutto inutilizzate.
Dovette allungare di molto il proprio percorso abituale per raggiungerla, ma sotto quel cielo incerto, ricoperto di nuvole, non aveva sudato poi molto.
Si tolse gli auricolari dalle orecchie, mettendo in stand-by il proprio mp3, e percorse il vialetto fino a raggiungere il porticato in mattoni. Suonò il campanello ed attese per qualche minuto, poi si disse che non doveva essere in casa e sospirò, chiedendosi dove diavolo potesse essere andato.

 
Entrò nella caffetteria della signora Begum e trovò proprio lei dietro il bancone, lei che solitamente se ne stava rintanata in cucina a preparare i dolci da esporre in vetrina.
«Alexandra! Che piacere, tesoro», le disse, rivolgendole un sorriso ed indicandole di sedersi su uno degli sgabelli alti. «Ti preparo un bel milk-shake dissetante? Sembra che tu abbia corso la maratona di New York!».
Alex rise, slacciandosi la felpa. «Quasi. Contavo di trovare Merlino, ma a quanto vedo…».
«Ah, pensavo lo sapessi! È in malattia, tornerà lunedì. Si è preso un brutto raffreddore. Sei già passata a casa sua? Sicuramente sarà lì, al caldo sotto le coperte!».
Alex stiracchiò un sorriso, ripromettendosi che quelle orecchie a sventola gliele avrebbe staccate dalla testa a morsi. «No, non sono andata a casa sua. Magari più tardi, per vedere se ha bisogno di qualcosa».
«Sei sempre così gentile con lui, Alex. È proprio fortunato ad averti».
La signora Begum le fece l’occhiolino e Alex, rossa come un peperone, cercò di spiegarle che erano solo amici e che non sarebbero mai stati nulla di più, ma la proprietaria della caffetteria la ignorò e sparì in cucina, ridacchiando.
Alex sbuffò, facendo una pernacchia con le labbra, e ringraziò il cielo che la caffetteria fosse vuota.

 

***

 

Dopo l’iniziale fase di stupore, incredulità e una quantità esagerata di domande su praticamente tutto quello che gli balzava agli occhi, Artù aveva iniziato ad annoiarsi, seguendolo tra le corsie del grande supermercato.
Proprio come un bambino aveva iniziato a chiedergli quanto tempo ancora ci avrebbe messo, quando sarebbero tornati a casa e via discorrendo. Merlino aveva iniziato a non sopportarlo più e per un paio di volte si era persino domandando che cosa sarebbe successo se l’avesse abbandonato nel parcheggio sotterraneo del centro commerciale. Probabilmente un disastro di proporzioni epiche, ma meglio quello che avercelo intorno quando era impostato sulla modalità “irritante”.
Quando finalmente gli aveva detto che sì, potevano tornare a casa, Artù gli aveva chiesto di poter guidare. Merlino l’aveva guardato sconcertato, cercando di capire se stesse scherzando. Ma no, il re di Camelot non scherzava su questioni del genere.
Aveva cercato di spiegargli che non poteva imparare a guidare un’auto in cinque minuti e che per farlo legalmente avrebbe avuto dovuto prima ricevere la patente dalla motorizzazione, ma non c’era stato verso di convincere quell’asino reale a lasciar perdere. Anche Merlino però fu irremovibile e gli aveva detto chiaro e tondo che non gli avrebbe mai fatto toccare il volante della sua Fiat 1500 Cabriolet Pininfarina del 1964: molto spesso lo lasciava a piedi, ma era un modello più unico che raro ormai e ci era affezionatissimo.
Artù gli aveva tenuto il muso per tutto il viaggio e Merlino non aveva nemmeno provato ad avviare una conversazione: sarebbe stato inutile con quella testa di legno. Il tempo di sbollire e tutto sarebbe tornato alla normalità.

 
Merlino parcheggiò l’auto nel vecchio fienile che aveva messo a nuovo quando aveva comprato la villa, trasformandolo in una specie di garage, ed aprì il bagagliaio.
«Mi date una mano?», chiese ad Artù, fermo ad esaminare la sua vecchia ma fedele bicicletta.
«Non ci penso proprio. Non vedo nemmeno perché tu abbia ritenuto necessario comprare tutta quella roba».
«Se mangiate come un bue non è colpa mia», bofonchiò, guadagnandosi un’occhiata truce.
«Sono stanco, vado nelle mie stanze».
Merlino socchiuse gli occhi, sentendolo uscire dal fienile, poi si voltò chiamando il suo nome. Il re lo fissò ed afferrò al volo le chiavi che gli aveva lanciato.
«Ricordatemi di darvi le vostre, più tardi».
Artù annuì, accennando un sorriso, e si incamminò nuovamente verso l’ingresso sul retro.
Lo stregone guardò le tre borse che aveva incastrato faticosamente nel bagagliaio e sospirò, tirandosi su le maniche.

 
Merlino bussò piano alla porta e dall’interno sentì Artù dargli il permesso di entrare. Lo trovò sdraiato sul letto, con una mano sul petto e il respiro leggermente affannoso, gli occhi fissi sul soffitto.
«Artù», esclamò e corse subito al suo fianco, preoccupato. «Che cos’avete? State male?».
«Io… non lo so. È come se…», strinse gli occhi e con essi anche la mano che teneva sul cuore, scosso da un tremito di dolore.
Merlino gliela levò delicatamente e la sostituì con la propria. Senza alcuno sforzo di memoria, istintivo com’era sempre stato nei casi di pericolo, un incantesimo gli uscì dalle labbra e i suoi occhi si tinsero d’oro. Gli effetti della sua magia furono immediati: Artù si rilassò, sospirando di sollievo, e i suoi occhi blu tornarono a guardare quelli di Merlino, ancora chino su di lui.
«Grazie», disse a bassa voce, tirandosi lentamente su a sedere. «È stato… terribile. Come se quella spada mi avesse trafitto ancora. Ne ho sempre avuto il presentimento, ma questa ne è la prova definitiva: quel frammento è ancora lì, pronto a riportarmi nel mondo degli spiriti una volta adempiuto il mio compito. Merlino? Merlino, mi stai ascoltando?».
Il mago si stava guardando le mani tremanti, con gli occhi colmi di lacrime. Aveva sentito tutto ciò che Artù aveva detto ed era preoccupato quanto lui, ma sapeva che avrebbe trovato un modo per impedire che Artù morisse una seconda volta. Ciò che in quel momento lo destabilizzava davvero era un dolore molto più profondo, radicato saldamente nella sua anima: erano secoli che non utilizzava più la magia, secoli che non lasciava che quel flusso potente e pieno di vita gli bruciasse nelle vene. Non era preparato ad affrontarlo di nuovo, a sentirsi invaso da quel potere che, nonostante il suo rifiuto, non aveva mai smesso di aumentare dentro di lui. Era bastato vedere Artù soffrire perché ogni sua barriera crollasse, dandogli libero sfogo, e ora non riusciva più a rimandarlo indietro, ad imprigionarlo nuovamente in quell’angolo remoto della sua mente.
Sentiva le pupille tremargli e la temperatura del suo corpo aumentare inesorabilmente, potenziato da quell’energia troppo a lungo tenuta a freno. La vista gli si annebbiò e la razionalità iniziava ad abbandonarlo, ma con l’ultimo frammento di lucidità corse fuori dalla stanza di Artù e una volta in bagno si gettò sotto il getto freddo della doccia, ancora con i vestiti addosso.
«Merlino!».
La voce di Artù fu una manna dal cielo, ciò che gli diede le forze necessarie a stringere le catene intorno alla magia che lo invadeva da capo a piedi.
Completamente svuotato e con le spalle contro le piastrelle bianche si lasciò scivolare a terra, dove rimase seduto a testa china e le braccia abbandonate accanto alle gambe.
Artù si affrettò a spegnere il getto freddo della doccia e lo sollevò di peso per portarlo nella camera adiacente alla sua. La stanza di Merlino era decisamente diversa dalla sua, molto più moderna, ma non vi prestò molta attenzione. Posò delicatamente il mago sul letto e lo guardò, senza sapere che cosa fare.
«Merlino?».
«Sto bene», rispose con un rantolo. «Lasciatemi solo, per favore».
«Davvero credi che potrei lasciarti da solo in un momento del genere? Che diavolo ti è successo?».
«Non lo so», mentì. «Ora andate via, vi prego».
Artù sospirò, trattenendo a stento la rabbia, e se ne andò chiudendosi la porta alle spalle, delicatamente.
Merlino cercò di respirare profondamente, per calmarsi, ma le lacrime gli inumidirono gli occhi.
Come poteva sperare di proteggere Artù se ogni volta che utilizzava la magia rischiava di venirne sopraffatto, sparendo sotto la sua influenza? Era troppo anziano, nonostante il suo aspetto, e il potere che possedeva troppo grande. E non poteva chiedere aiuto a nessuno. 

 
Infilati dei vestiti puliti ed asciugati alla bell’e meglio i ricci capelli neri scese in salotto, dove trovò Artù seduto sul divano, a fare zapping, una cosa in cui si era rivelato essere molto bravo.
«Grazie per avermi tirato fuori dalla doccia», esclamò, fermo alle sue spalle.
Il re si voltò ed accennò un sorriso. «Siamo pari. Mi spieghi che cosa ti è successo?».
Merlino andò a sedersi al suo fianco, con una gamba sotto l’altra, e confessò: «Quando Camelot è caduta ho deciso che non avrei più utilizzato la magia in vita mia. L’ho rinnegata».
Artù sgranò gli occhi, incredulo. «Tu che cosa? Ti avevo detto che non saresti dovuto cambiare, mai».
«Voi non potete capire», mormorò, scuotendo il capo.
«Ci risiamo».
«È davvero così, Sire. Ho sempre usato la magia per Camelot, per aiutare voi e per proteggervi, ma nel momento in cui mi serviva di più è stata inutile! La magia non è riuscita a salvare voi, come non è riuscita a salvare Camelot, e questo è stato il peggiore dei tradimenti, per me. La mia fede nella magia è andata distrutta, in quel momento».
«Ma è stata la magia a renderti immortale, è stata la magia a far sì che io potessi tornare oggi!».
Merlino gli rivolse un sorriso, un sorriso colmo di amarezza. «Sì, ma come avete detto voi, per un destino che non abbiamo scelto. E anche io sono stanco di vivere così, controllato da qualcosa più grande di noi, in grado di buttarci via non appena raggiungerà il suo scopo».
«Non è una buona ragione per arrendersi e rinnegare se stessi».
«Forse», disse stringendosi il collo tra le spalle. «Comunque è passato troppo tempo e avete visto voi stesso: riesco a controllarla a malapena».
«Ti servirà dell’allenamento. Anzi, a tutti e due servirà».
Merlino colse nel suo sguardo una punta di malizia e capì subito dove voleva andare a parare. «Non vorrete usarmi ancora come manichino vivente, vero?».
«Chi può dirlo».
«Vi odio».
«È reciproco, allora!».
I loro sguardi si incontrarono ed entrambi sorrisero, felici almeno di aversi l’un l’altro.

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Capitolo 7
*** 7. The ashes of the past… ***


Buonasera! 
Finalmente la nostra Alex torna alla carica più forte che mai! Spero troviate il suo un ritorno in grande stile ;) 
Si scoprirà anche qualcosa di più sul suo passato e sul suo rapporto col padre, argomento che verrà ancora più approfondito nel prossimo capitolo (in effetti i capitoli 7 e 8 all'inizio ne formavano uno solo, che ho diviso per evidenti motivi di lunghezza). Quindi bando alle ciance, vi lascio alla lettura.
Un rapido ma caloroso ringraziamento a chi ha commentato e letto lo scorso capitolo e a tutti quelli che hanno messo questa storia tra i preferiti, le seguite e le ricordate! Vi adoro tutti! *o*
Un bacione, a settimana prossima!

Vostra,

_Pulse_

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7. The ashes of the past…

 

«Il mio cellulare non è ancora pronto?».
Merlino si girò verso Artù, appoggiato al piano di lavoro della cucina, di fronte alla finestra, che fissava lo schermo nero del suo telefono.
«Deve restare in carica ventiquattr’ore. Ancora un po’ di pazienza: domani mattina potrete iniziare usarlo».
«Uhm… A che punto sei con lo stemma?».
«Finito. Come vi sembra?».
Il re si avvicinò al mago, seduto al tavolo, ed osservò il simbolo della casata dei Pendragon che quest’ultimo aveva prima abbozzato su un foglio e poi ricopiato sulla parte superiore della piastra per capelli rossa con un pennarello indelebile dorato.
Sorrise, appoggiando la mano sulla spalla di Merlino. «Un altro dei tuoi talenti nascosti, eh?».
Lo stregone scrollò le spalle, modesto. «Mi piace disegnare. Passatemi quel rotolo di carta, facciamo un pacchetto».
«Possiamo andare a portargliela subito».
«Adesso?». Merlino guardò fuori dalle porte finestre che davano sull’ampio giardino sul retro, illuminato solo dal chiarore della luna che ogni tanto emergeva dal banco di nuvole che aveva reso il tempo incerto per tutta la giornata. «Non sarebbe meglio rimandare a domani? Rischieremmo di disturb–». Venne interrotto dal trillo del campanello, il quale li colse entrambi di sorpresa.
«Non ho idea di chi possa essere», rispose Merlino all’occhiata interrogativa di Artù; quindi lo superò, dicendogli di rimanere lì, e si diresse verso la porta.
Sbirciò dallo spioncino e rimase a bocca aperta, incredulo. Si voltò verso il re di Camelot e sottovoce disse: «È Alex! Ricordate: dovete comportarvi normalmente! E datele del tu!».
Artù annuì, sollevando i pollici, e Merlino respirò profondamente prima di aprire la porta con un sorriso.

 

***

 

Fu Merlino in persona ad aprire la porta e quasi immediatamente, come se si fosse preparato prima la battuta, esclamò: «Alex, che sorpresa! Che ci fai qui a quest’ora?».
L’infermiera sorrise, incrociando le braccia al petto ed inarcando un sopracciglio. «Oh, nulla, volevo solo chiederti se avessi bisogno di qualcosa, visto il brutto raffreddore che ti sei preso».
Merlino impallidì, ma prontamente rispose: «Mi sono imbottito di farmaci e sto molto, molto meglio adesso. Ho dormito per tutto il giorno».
«Non mentire con me, Merlino. Non funziona».
Il ragazzo sospirò, sciogliendo i muscoli contratti delle spalle. «E va bene. Il fatto è che non potevo lasciare da solo Artù, sai…».
«Ora va meglio», disse dolcemente. «Posso entrare?».
«Certo, accomodati. Artù! C’è Alex!».
Il re di Camelot uscì dalla cucina e le sorrise incrociando il suo sguardo, ma in un modo che prese Alex del tutto alla sprovvista: sembrava consapevole e soprattutto amichevole, due caratteristiche che non aveva mai visto nell’Artù con cui aveva avuto a che fare, se non soltanto di sfuggita.
«Ciao», la salutò sollevando una mano. «Come stai?».
Alex boccheggiò, senza sapere bene come rispondere, e cercò aiuto in Merlino, alle sue spalle. Anche lui sembrò sorpreso dal comportamento estremamente cordiale e rilassato di Artù, ma bastò un attimo perché gli sorridesse orgoglioso.
«Bene», rispose alla fine, cercando di sembrare convincente. «Sono passata anche stamattina, ma non eravate in casa».
«Sì, eravamo fuori» esclamò Merlino, per poi gettare uno sguardo ad Artù, dicendo: «Glielo racconti tu dove siamo stati, mentre io finisco di… pulire di là?».
Il biondo corrugò la fronte, poi sorrise ed annuì, facendo un passo avanti verso di lei ed invitandola a sedersi su uno dei divani. Alex, intimorita, guardò Merlino allontanarsi; poi posò gli occhi su Artù, così diverso e normale da come se lo ricordava, e si disse che probabilmente in quel momento non era preda di una delle sue allucinazioni che lo facevano diventare il leggendario re di Camelot.
Si sedette vicino al camino acceso e Artù l’affiancò, restando comunque a debita distanza, una cosa che Alex apprezzò molto.
«Siamo stati a Newport oggi», esordì guardando le fiamme sibilanti, il cui riflesso rendeva i suoi occhi di un blu più scuro, ancora più intenso e bello.
«Oh, non ci eri mai stato?».
«No, io… non sono di queste parti, in realtà».
Vedendolo già in difficoltà, decise di non indagare. Non quella sera.
«E ti è piaciuta?».
«Sì, molto. È diversa da qualsiasi città io abbia mai visto, ma in senso positivo. Siamo stati in un grosso centro commerciale per fare rifornimenti e abbiamo anche mangiato in un posto fantastico! Come si chiamava? Sull’insegna c’era una M colorata di giallo…».
«McDonald’s?», chiese Alex, con entrambe le sopracciglia inarcate.
«Esatto! Proprio quello! Non avevo mai assaggiato nulla di simile!».
I suoi occhi erano così luminosi, eccitati come quelli di un bambino, che Alex non poté far altro che ridere, rilassandosi.
«Non ci credo! I tuoi genitori non ti ci hanno mai portato da bambino?».
Anche Artù rise, tornando a fissare il fuoco. «Ah, non credo che mio padre l’avrebbe mai permesso».
«E tua madre?».
«Non l’ho mai conosciuta, è morta dandomi alla luce».
La tranquillità con cui lo disse la disarmò e la fece sentire estremamente in colpa, tanto che abbassò gli occhi e mormorò: «Mi dispiace, non volevo…».
«È passato tanto tempo ormai». Accennò un sorriso e cambiò rapidamente argomento: «Merlino mi ha detto che lavori all’ospedale».
«Sì, da quasi sei anni ormai. Prima lavoravo a Cardiff, quando ancora… è una lunga storia, non voglio annoiarti. Mi trovo bene qui, è tranquillo e di solito non succede nulla di eclatante, e i bambini… Ti ha detto anche che lavoro a stretto contatto con i bambini malati di cancro?».
«Mi ha accennato qualcosa, sì».
«Si impara molto da questi bambini che lottano ogni giorno per sopravvivere… E alla fine finisci per affezionarti. Non cambierei questo posto per nessun altro».
Il modo in cui le sorrideva la metteva a disagio e in imbarazzo, soprattutto perché non aveva la più pallida idea di che cosa avrebbe potuto dire. Per sua fortuna a salvarla arrivò Merlino, il quale uscì dalla cucina e chiamò Artù, chiedendogli di raggiungerlo.
L’infermiera osservò il biondo sparire in cucina e tornare subito dopo con entrambe le mani nascoste dietro la schiena. Gettò un’occhiata storta a Merlino, cercando di chiedergli col pensiero che cosa diavolo avevano architettato, ma a parte il suo sorriso fiero e i suoi occhi emozionati non riuscì ad ottenere altro.
Artù si avvicinò di nuovo a lei e si mise quasi in ginocchio, offrendole un pacco di medie dimensioni ed incartato alla perfezione. Alex, sbigottita, guardò prima lui e poi ancora Merlino, senza sapere cosa fare. Fu Artù alla fine a metterle il pacco tra le mani, dicendo con tono solenne: «Nella speranza che un giorno potremo essere amici, ti chiedo di accettare questo regalo e di perdonarmi, Lady… Alex».
La ragazza ridacchiò, gettando uno sguardo a Merlino, e nonostante il rossore che sentiva infiammarle le guance, disse: «Lady Alex suona proprio bene, potresti chiamarmi anche tu così».
Quella frase fece sorridere Artù, un altro di quei sorrisi incredibilmente contagiosi e tanto sinceri da sciogliere il cuore.
«Lo devo aprire qui, adesso?», chiese, iniziando già a strappare la carta argentata. Rimase davvero di stucco, scorgendo l’immagine sulla scatola: una piastra per capelli! E rossa fiammante, per di più!
«Oh mio Dio», balbettò, sbattendo più volte le palpebre. Si gettò la carta alle spalle, facendo ridacchiare il biondo, e si girò la scatola tra le mani fino a quando non si rese conto che era già stata aperta. Allora si immobilizzò e con lentezza l’allontanò da sé, sollevando gli occhi sui due ragazzi.
«In questa scatola c’è un rospo, vero?».
«Perché dovrebbe esserci un rospo?», chiese Merlino, con le sopracciglia aggrottate.
«Perché quand’ero piccola mio cugino mi ha fatto lo stesso scherzo. E poi ti ho pescato da un lago, insomma…».
Artù non riuscì ad impedire alla propria mascella di crollare, voltandosi verso Merlino prima di esclamare, oltraggiato: «Non mi starai paragonando ad un rospo, vero?».
«Beh, vedi il lato positivo: i rospi si trasformano in bellissimi principi».
«Quindi ora sarei… un bellissimo principe?».
Alex avrebbe voluto schiaffeggiarsi. Non provò nemmeno ad uscire da quell’intricato labirinto di fraintendimenti imbarazzanti e si fiondò sulla scatola, decidendo che avrebbe preferito di gran lunga affrontare qualsiasi ripugnante creatura vi fosse nascosta all’interno. Quello che ci trovò però fu solo la sua nuovissima piastra, di un rosso magnifico e con una sorpresa che le fece trattenere il respiro: sulla parte superiore della piastra era stato disegnato a mano lo stemma con il drago che aveva già visto dipinto sul libro di favole di Merlino e cucito sul mantello che indossava Artù al loro primo incontro.
«È… è bellissima. Non so cosa dire. Grazie mille».
Artù si limitò a sorridere e si rialzò, dirigendosi verso Merlino per battergli una mano sulla spalla.
«Vado in camera mia», disse. «È stata una giornata impegnativa e sono un po’ stanco. Spero che tu non ti offenda, Alex».
«Come? No, no, vai pure. Buonanotte, Artù. Grazie ancora».
«Non c’è di che».
Era già a metà scalinata quando Alex, mordicchiandosi il labbro inferiore, decise di dire ad alta voce ciò che il suo cuore le stava suggerendo: «Sono sicura che saremo ottimi amici».
Artù annuì ed accennò un piccolo sorriso – forse imbarazzato? – prima di sparire definitivamente al piano superiore, lasciando lei e Merlino soli nell’ampio salotto.
 

«È stata una tua idea?».
Merlino si lasciò cadere al suo fianco, con le braccia stese sullo schienale del divano. «Che cosa?».
«La piastra nuova», rispose Alex, sollevando le sopracciglia.
«Beh… gli ho dato un aiutino. Ma l’idea dello stemma è stata sua».
«È molto bello. È quello vero? Nel senso…».
«Oh sì, è il vero simbolo araldico della famiglia Pendragon».
«Così mi ricorderò sempre che re Artù ha cercato di uccidermi», esclamò ridendo, coinvolgendo anche Merlino, il cui viso, illuminato dalle lingue di fuoco, sembrava molto più vissuto e saggio, oltre che fragile.
«Che cosa succederà adesso?», gli chiese con delicatezza, nella speranza di non farlo richiudere subito in se stesso come capitava sempre più di frequente. «Hai detto che Artù non ha nessun altro al mondo a parte te, ma prima ha citato suo padre…».
«È morto anche lui, molto tempo fa», disse senza guardarla negli occhi, bensì immergendo lo sguardo nel fuoco scoppiettante. «So cosa stai per dire, Alex; che non posso abbandonare tutto per occuparmi di lui. Ma stai tranquilla, non accadrà. Ha solo bisogno di un po’ di tempo per ambientarsi, tutto qui».
«Merlino…». Aveva così tante domande sulla punta della lingua, così tanti punti oscuri che avevano bisogno di un po’ di chiarezza, ma per paura di essere troppo invadente e di sembrare addirittura gelosa dell’affetto che sembrava nutrire per Artù, non riusciva a parlare liberamente.
Deglutì, cercando di racimolare il coraggio, e disse: «Se c’è qualcosa che posso fare per aiutarti, qualsiasi cosa… puoi contare su di me».
Le rivolse un sorriso intriso di dolcezza e quella volta la guardò negli occhi, facendo sì che il suo cuore saltasse un battito.
«Lo so», rispose a bassa voce, sollevando la mano per sistemarle una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio sinistro. «E l’unica cosa di cui ho davvero bisogno è proprio continuare ad averti al mio fianco».
Alex sentiva le orecchie in fiamme e sospettava che anche sul suo viso il rossore fosse ormai troppo evidente per essere nascosto. Avrebbe voluto che Merlino la smettesse di guardarla in quel modo, di accarezzarle i capelli e di starle così vicino, ma se solo fosse stata la solita Alex coraggiosa e senza peli sulla lingua, se solo non avesse continuato a pensare che lui provasse qualcosa per Artù, si sarebbe fiondata tra le sue braccia senza un attimo di esitazione.
Ad un tratto Merlino si risvegliò dalla specie di trance in cui era caduto e si allontanò di scatto. «Scusami, sono stato un pessimo padrone di casa. Hai già cenato? Vuoi qualcosa da bere?».
Alex sorrise, alzando le mani. «Sono a posto così, grazie».
«Sicura? Non vuoi nemmeno un po’ di té?».
«Beh, se lo bevi anche tu…».
Si trovarono così seduti in cucina, davanti ad una tazza di tè fumante. Quello che era successo sul divano – qualsiasi cosa fosse stata – l’aveva messa parecchio a disagio, perciò fu Merlino a dover avviare di nuovo la conversazione, chiedendole dei bambini all’ospedale.
«Ammetto di averti odiato, a volte», confessò Alex, con la tazza ad un soffio dalle labbra. «Non sono brava come te, con quelle pesti».
«Non dire così».
«Ma è la verità! Non facevano altro che chiedermi: “Quando torna Merlino? Perché il suo amico è più importante di noi?”. Ti giuro che non sapevo più dove sbattere la testa».
Il moro abbassò gli occhi e girò lentamente il cucchiaino nella sua tazza, quindi disse: «Artù è il mio migliore amico, è la persona a cui voglio più bene al mondo… darei persino la mia vita per lui».
Accennò un sorriso incrociando lo sguardo di una Alex sorpresa e sempre più colpita dal legame che li univa, qualcosa che andava ben oltre l’amore stesso: erano quelle che sua madre avrebbe chiamato due anime affini, inseparabili l’una dall’altra, destinate a cercarsi e a trovarsi in ogni tempo ed ogni luogo.
«Gli ho parlato dei bambini, sai. Mi ha detto che un giorno dovrei portarlo all’ospedale, ma non so se stesse dicendo sul serio o scherzasse».
«Io la trovo una splendida idea», rispose, lasciando la tazza sul tavolo per concentrarsi meglio sul viso di Merlino. «I bambini rimarrebbero di stucco se si trovassero di fronte al vero re di Camelot, in carne ed ossa».
Merlino aprì la bocca, ma, scioccato, non riuscì a dire una parola, non prima che Alex aggiungesse: «Ho dovuto leggere alcune delle tue favole e ho visto i disegni…».
«Oh. I disegni, ma certo…».
Il ragazzo ridacchiò nervosamente e Alex si accigliò, senza capire in che modo avrebbe potuto fraintendere le sue parole.
Di nuovo ebbe la sensazione che Merlino le stesse nascondendo la verità, una verità così ingombrante da poterne percepire i confini precisi, pungenti come solo le verità scomode potevano esserlo. E di nuovo Alex capì che quella notte avrebbe fatto fatica ad addormentarsi, scervellandosi su Artù, sulla sua apparizione improvvisa e su come tutte le coincidenze puntassero verso un’unica direzione, per quanto folle fosse.
Guardò Merlino, chiedendosi perché mai si fosse innamorata di un ragazzo con così tanti segreti, e all’improvviso capì che non poteva più stare nella sua cucina, a prendere il tè delle… nove e un quarto, come se fosse del tutto normale. Perché di normale non c’era più niente, soprattutto nella sua testa, da quando Artù era emerso da quel fottuto lago.
«Si è fatto tardi», disse, alzandosi così bruscamente da far strisciare rumorosamente i piedini della sedia sulle mattonelle chiare.
Merlino la guardò confuso e si ritrovò a seguirla fino all’ingresso, incapace di formulare una domanda sensata. Alex gli avrebbe dato del patetico se non avesse avuto un buco nero al posto del cuore, tanto doloroso da farle mancare il respiro.
«Qualsiasi cosa abbia fatto, Alex, mi dispiace», disse alla fine, fermo sotto al porticato illuminato da un’applique in stile primi del ‘900.
L’infermiera ci rinunciò, schiacciata dalla tristezza, e si voltò per guardarlo in faccia.
«Non hai nulla di cui scusarti. In fondo sono affari tuoi, io non merito spiegazioni che evidentemente non vuoi darmi e di certo non posso obbligarti a fidarti di me».
«Dove vuoi arrivare? Lo sai benissimo che mi fido di te, sei l’unica persona a cui…».
«Cazzate. Ma va bene così, sono solo mie stupide paranoie, lasciami perdere».
«No, aspetta. Alex…».
L’infermiera provò a tirare dritto, verso la sua auto, ma Merlino glielo impedì, raggiungendola di corsa in mezzo al giardino ed afferrandole un braccio per farla voltare.
«Alex, dannazione, spiegami che cosa c’è che non va!», urlò, gli occhi azzurri sgranati ed inquieti, come se tutto il suo mondo gli stesse crollando addosso all’improvviso.
«Non farebbe alcuna differenza!», rispose alzando la voce per sovrastare la sua nel silenzio assoluto della campagna. «Mi credi davvero così stupida, Merlino? So che cosa ho visto quella sera al lago! E che tu ci creda o no riesco a capirlo, quando menti! Tutte le volte».
Sentì le lacrime salirle agli occhi e fece del suo meglio per ricacciarle indietro e continuare a fronteggiare i suoi.
«Per me è okay se non vuoi dirmi la verità; posso capirlo. Ma almeno non mentirmi, ti prego. Se è vero che tieni alla mia amicizia… non mentirmi, o temo che non riuscirò più a starti vicino».
Nonostante tutti i suoi sforzi, una lacrima le scivolò sulla guancia. Se l’asciugò rapidamente con la manica del giubbotto, per poi stiracchiare un debole sorriso e mormorare: «Siamo d’accordo, Dumbo?».
Merlino rise piano, avvolgendole le braccia intorno alla schiena e stringendola forte a sé. Era la prima volta che lo faceva e Alex sentì il proprio cuore triplicare i battiti non appena sentì il calore del suo corpo contro il proprio, il suo profumo invaderle i polmoni e le sue mani che le massaggiavano la schiena come a volerla scaldare. Era mille volte meglio rispetto a come l’avesse mai immaginato.
«Artù  voleva comprarti una piastra zebrata».
Alex sollevò il capo per guardarlo negli occhi e non poté impedire ad un sorriso divertito di incurvarle le labbra. «E questo che cosa c’entra?».
«È la verità. Un giorno saprai tutto Alex, te lo prometto».
«Non ho bisogno di sapere tutto, solo… permettimi di starti vicino».
Merlino annuì e sciolse lentamente l’abbraccio. Alex provò freddo, un freddo intenso non del tutto dovuto alla temperatura che con l’arrivo della notte si era abbassata notevolmente.
Si avviò comunque verso l’auto, parcheggiata sul ciglio della stretta strada sterrata, ma prima che potesse aprirla col piccolo telecomando Merlino disse: «Hai dimenticato la piastra dentro».
Alex sorrise e si voltò, trovando un sorriso anche sulle sue labbra. Le fece cenno di raggiungerlo e lei corse per potersi incamminare di nuovo verso quel piccolo castello al suo fianco, sentendo il cuore batterle impazzito nel petto quando la mano del moro strinse forte la sua. Lei gli picchiò l’altro pugno contro la spalla prima di posarvi sopra la tempia, felice, senza notare come la porta si fosse richiusa dietro di loro nonostante nessuno dei due l’avesse sfiorata.

 
Alex aprì gli occhi lentamente, ma capì subito di non essere in camera sua, bensì nel salotto di Merlino, e che ciò che aveva sotto la testa non era esattamente un cuscino, ma il petto del moro, il quale le aveva anche avvolto un braccio intorno al collo. Alex si sentiva una specie di ostaggio, un ostaggio che avrebbe chiesto più che volentieri al proprio rapitore di aumentare la stretta e di non liberarla mai più, e sorrise a quel pensiero.
Si sistemò la coperta sui piedi infreddoliti e si rannicchiò meglio sul tappeto, dando le spalle alle braci ormai spente nel camino. Diede una sistemata anche alla coperta che avvolgeva il corpo di Merlino, tirandogliela su fino allo stomaco, e poi chiuse di nuovo gli occhi, decisa a godersi quel momento fino a quando sarebbe durato.
Non le importava di essersi addormentata a casa sua, addirittura al suo fianco. Non provava nemmeno imbarazzo. Quella serata non poteva avere un epilogo diverso, semplicemente.
Davanti al fuoco del camino avevano finito le loro tazze di tè e poi si erano messi a parlare del futuro, interrogandosi su che cosa avrebbe riservato loro il domani, ora che Artù era entrato non solo nella vita di Merlino ma anche, a sorpresa, in quella di Alex, in cui, beh, non era stato proprio invitato. Ma Alex, pugnali, padelle e piastre per capelli a parte, gli aveva assicurato che non si pentiva di nulla: si sarebbe gettata in quel lago ancora e ancora per aiutarlo.
Il moro, molto apertamente, le aveva rivelato che non aveva la minima idea di cosa fare: poteva solo vivere giorno dopo giorno, senza farsi troppi programmi, e cercare di trovargli un posto nel mondo.
E Alex, nella speranza che un giorno avrebbe conosciuto almeno una parte dei suoi segreti, gli aveva parlato della sua famiglia: un tasto davvero dolente, un argomento che non aveva mai affrontato, con nessuno, da quando sei anni prima si era trasferita in quel piccolo paesino abbandonato persino da Dio.
Gli aveva raccontato dei sacrifici che sua madre e suo padre avevano fatto per vederla diventare un’amazzone di fama nazionale, anche se era sempre stato solo il sogno di suo padre, fantino in pensione diventato allenatore di giovani promesse, mentre sua madre l’aveva sempre spinta a seguire e a non abbandonare i suoi, di sogni.
Gli aveva raccontato di come si fosse impegnata per far felice suo padre, allenandosi per partecipare a tutte le gare d’equitazione organizzate nel Galles e non solo, e contemporaneamente per realizzare il suo sogno, diventare infermiera, studiando sodo, anche notti intere, per riuscire a passare ogni esame col massimo dei voti e prendere la laurea.
Gli aveva raccontato della delusione, della rabbia e del dolore che aveva provato quando aveva trovato il coraggio di dire a suo padre che non poteva andare avanti così, che doveva scegliere tra l’equitazione e il lavoro in ospedale, e lui le aveva confessato che aveva scommesso tutto ciò che avevano su di lei e perciò non poteva rifiutarsi di gareggiare.
Suo padre, l’uomo che le aveva fatto amare quello sport che aveva sempre definito come uno dei più nobili al mondo, l’aveva usata per tutto il tempo, cedendo di nuovo al vizio a causa del quale aveva più e più volte rischiato di finire sul lastrico e che l’aveva portato ad un finale di carriera disonorevole.
Gli aveva raccontato di come avesse vissuto la sua ultima gara, non con la gioia e l’orgoglio con cui di solito portava la divisa, ma con la consapevolezza che se non avesse vinto avrebbero perso tutto: la casa, la scuola d’equitazione, i risparmi di una vita. Ma proprio nel bel mezzo della gara aveva anche realizzato che, vittoria o meno, aveva già perso tutto ciò che contava davvero: la fiducia in suo padre.
Il pensiero di sbagliare di proposito, facendo cadere un ostacolo o forse più di uno, l’aveva sfiorata, ma era stato solo un attimo: per quanto avesse voluto fargliela pagare, sapeva di non essere come lui, di non poter barare a sua volta, sporcando quello che lei ancora riteneva il più nobile degli sport.
Ci aveva pensato il destino, poi, a non lasciargliela passare liscia. Nonostante Alex si fosse impegnata al massimo, un’altra amazzone aveva gareggiato meglio, guadagnandosi il primo posto.
Gli aveva raccontato di come suo padre fosse stato costretto a vendere la scuola, a vendere persino il suo fidato destriero, e dello scandalo che ciò aveva suscitato non appena la verità era venuta a galla; di come lei e sua madre avessero dovuto lasciare la loro casa, messa all’asta per fronteggiare i debiti, per poi trasferirsi in quel piccolo villaggio dove con fatica avevano dovuto ricostruirsi una vita.
Alex aveva parlato fino a quando le fiamme nel camino avevano fornito loro luce e calore, mangiando un intero pacchetto di marshmallows e trasformando il tappeto in salotto in un grande letto improvvisato, con i cuscini del divano sparsi intorno a loro e due coperte di pile avvolte intorno al corpo come mantelli.
Raccontare della sua famiglia, della sua incasinata ma felice vita a Cardiff, era stata la cosa più difficile che avesse mai fatto, ma ci era riuscita perché ad ascoltarla c’era Merlino, l’unica persona per cui valesse davvero la pena riportare a galla il passato, e alla fine si era sentita bene: era stato come levarsi dalle spalle un peso che aveva sostenuto troppo a lungo, spendendo troppe delle sue energie. Si era sentita di nuovo leggera, libera, e ora, per il bene di Merlino – non più per soddisfare la propria curiosità e il proprio egoismo – pregava perché anche lui trovasse la forza e il coraggio di lasciare andare, almeno in parte, il passato e il dolore.
Rannicchiata al suo fianco, con la testa sul suo petto e un braccio stretto intorno al suo addome, ricordò con chiarezza sua madre, alla quale, giusto qualche settimana prima che un aneurisma celebrale gliela portasse via all’improvviso, aveva chiesto perché non avesse mai chiesto il divorzio. Lei le aveva sorriso, accarezzandole i capelli, e con semplicità le aveva risposto: «Non sono stata io a mandare via tuo padre, bocciolo mio. È stata una sua decisione. Diceva di non ritenersi più degno di meritarci».
«A me sembra solo un uomo che preferisce scappare dai problemi, piuttosto che affrontarli».
Sua madre aveva riso, facendole appoggiare il viso contro il suo ventre per poi chinarsi a baciarle la testa. «Forse. Ma lo amo e nessun errore potrà farmi cambiare ciò che provo per lui. A te potrà pure sembrare una specie di maledizione, in questo momento, ma un giorno, se sarai tanto fortunata da incontrare la tua anima gemella, capirai ciò che voglio dire».
Alex voltò il capo verso quello di Merlino, posato direttamente sul tappeto e dai lineamenti del viso rilassati, e sorrise pensando che sua madre lo avrebbe adorato quasi quanto lei.

 

***

 

Artù si svegliò nel più totale silenzio, rotto soltanto dal cinguettio di qualche passerotto ritardatario.
Doveva essere già giorno fatto, visto quanto in alto fosse il sole fuori dalla finestra, e si chiese come mai Merlino non lo avesse svegliato. Poi ricordò quello che era successo la sera prima – complice la finestra aperta e il sonno che aveva tardato ad arrivare – e pensò che forse aveva fatto tardi.
Gli faceva strano pensarlo alle prese con una ragazza, impacciato com’era, ma sarebbe stato ancora più strano se in tutti quegli anni non avesse mai ceduto alle gioie dell’amore.
Forse era proprio di questo che si trattava: di amore. Forse era questo il motivo che lui si era ripromesso di scoprire, il motivo per cui Merlino sembrava così restio ad abbandonare la sua vita, o almeno a farlo il più tardi possibile, quando non avrebbero davvero potuto fare altrimenti per portare a termine il loro destino. Merlino, nonostante tentasse di nasconderlo – a farlo persino con se stesso, – era innamorato.
Si alzò dal letto e aprì l’armadio, da cui scelse e tirò fuori una maglietta rossa a maniche corte, un maglioncino nero e un paio di jeans – un particolare tipo di pantaloni che, da quello che aveva potuto vedere a Newport, in quell’epoca andavano molto di moda.
Una volta vestito andò in bagno e poi dovette passare di fronte alla porta della camera di Merlino per raggiungere le scale. Non riuscì a resistere e sbirciò all’interno, ma per suo enorme disappunto tutto ciò che vide fu il letto vuoto, ancora perfettamente intatto.
Entrò nella stanza e oltre ad assicurarsi che non fosse già sveglio, nascosto in qualche cantuccio a fare le cose che gli stregoni abitualmente fanno, si affacciò dal balcone – il maledetto si era preso la stanza col balcone! – per essere certo che l’auto di Lady Alexandra fosse ancora parcheggiata sul ciglio della strada.
Quindi scese al piano inferiore e circa a metà scalinata, quando poteva già avere una perfetta visuale del salotto, si fermò di colpo, aggrappato al corrimano: Merlino e Lady Alex erano addormentati sul tappeto, lei stesa con la testa sul petto del mago e lui con un braccio intorno al suo collo. Era un qualcosa di veramente innocente, ma Artù trovò che fosse un momento comunque molto intimo, uno di quei momenti che avrebbero proprio avuto bisogno di un cartello con su scritto “Non disturbare”. (A meno che non li avessero già inventati, avrebbe dovuto farlo lui).
Attraversò quella parte di salotto che lo separava dalla cucina senza fare il più piccolo rumore, eppure Lady Alex si svegliò ugualmente e gli sorrise, salutandolo con una mano. Artù ricambiò il gesto, anche se incerto, e sussurrò: «Fai colazione?».
«Sì, arrivo. Dov’è il bagno?».
«Salendo le scale, a sinistra, è la prima porta sulla destra».
Alex si grattò il capo e gli rivolse un altro sorriso. «Okay, grazie».
Artù la guardò salire le scale e poi si fiondò in cucina, cercando di ricordare dove fossero tutte le cose che di solito Merlino metteva sul tavolo la mattina, comprese quelle che chiamava “tovagliette” – piccoli riquadri di plastica che dovevano servire a proteggere il tavolo dalle macchie e via dicendo. Non avendo più a disposizione la servitù, gli uomini e le donne del Ventunesimo secolo si inventavano di tutto pur di non far fatica.
Voleva fare buona impressione a Lady Alex, soprattutto dopo il loro primo disastroso approccio, ma aveva come l’impressione che qualsiasi cosa avesse fatto non sarebbe mai stato abbastanza per farle credere che lui fosse un uomo di quell’epoca.
Negli armadietti accanto alla finestra aveva trovato i cereali, la scatola dei biscotti, le fette biscottate, il miele e la Nutella – una crema di cioccolato e nocciole grazie alla quale Merlino non aveva perso l’occasione di prendersi gioco di lui, dicendogli di non mangiarne troppa per evitare di aver bisogno dell’ennesimo buco alla cintura.
Nel frigorifero, invece, aveva trovato la marmellata, il burro e il latte. Poi aveva apparecchiato, tirando fuori i piatti, alcune posate e delle tazze, e con orrore si era reso conto di non saper ancora fare il caffè.
«Non c’era bisogno che tirassi fuori tutte queste cose».
Artù si voltò di scatto, preso alla sprovvista, e guardò Lady Alex allungare una mano verso la scatola di biscotti per portarsene uno alla bocca. Si era legata i lunghi capelli biondi sulla nuca e nonostante si fosse sciacquata il viso aveva ancora un po’ di trucco nero sbavato sotto agli occhi, oltre ai segni rossi che le cuciture della felpa di Merlino le avevano lasciato sulla guancia destra. Ciononostante, Artù dovette ammettere di trovarla bella.
«Perché mi guardi in quel modo?», gli chiese ad un tratto, guardandolo negli occhi con le sopracciglia aggrottate.
«In che modo?», chiese Artù, scuotendo leggermente il capo.
«Come se non avessi mai visto una ragazza in vita tua».
«Oh, ne ho viste, eccome se ne ho viste! Ma mai come te».
Lady Alex si accigliò ancora di più e solo allora Artù si rese conto di quanto la sua affermazione fosse fraintendibile. Sospirò e si girò di nuovo verso la macchinetta del caffè, irato con se stesso e con Merlino per non aver ancora imparato ad usarla.
«Che cosa c’è?», domandò ancora la ragazza.
«Niente».
«Non è vero. Dai, fammi vedere». Si avvicinò e si sollevò sulle punte per sbirciare oltre la sua spalla ciò che stava nascondendo col proprio corpo: la macchinetta del caffè ancora spenta e miseramente vuota.
«Non sai usarla, vero?».
Artù deglutì ogni briciolo del proprio orgoglio, trovandolo tanto acido da corrodergli lo stomaco, e negò con un breve cenno del capo.
«Tranquillo, ti faccio vedere io».
Il re la fissò, incredulo. Si era come minimo aspettato una battuta, se non una presa in giro vera e propria, e invece si era offerta di spiegargli come accendere quell’affare e i vari procedimenti per far uscire il caffè come se fosse la cosa più normale del mondo, rivolgendogli persino un sorriso. Quella ragazza era e sarebbe sempre stata un mistero ai suoi occhi.
«Io e Merlino siamo stati in piedi fino a tardi, a parlare; poi ci siamo addormentati», gli spiegò, come se si fosse sentita obbligata a chiarire la situazione, mentre attendeva che la caffettiera facesse il suo dovere, ronzando. «Non ti abbiamo disturbato, vero?».
«No, affatto».
«Bene».
Rimasero in silenzio fino a quando il caffè non fu pronto e si ritrovarono seduti l’uno di fronte all’altra, imbarazzati e senza sapere che cos’altro dirsi. Ad un tratto Lady Alex sospirò e dopo aver bevuto un sorso di caffèlatte esclamò: «So di aver detto che non l’avrei fatto, ma è più forte di me: mi dispiace di averti colpito con la padella, ho reagito d’istinto».
Artù si ritrovò a sorridere. «È stato un ottimo colpo, ad essere sinceri. E la testata sul naso… mi hai preso davvero alla sprovvista. Non accade spesso, sai».
Alex allungò una mano per passargli delicatamente il pollice sul livido ancora ben visibile sul suo setto nasale. «Già, il re di Camelot…», si interruppe nel bel mezzo della frase e anche il suo sorriso svanì, lasciando posto ad un’espressione incerta.
Artù stava per dirle che non c’era bisogno che stesse così attenta a cosa dire e cosa no, ma la ragazza aggiunse, lasciandolo ancora una volta senza parole: «Mi dispiace anche per quello che ti ho detto sul fatto che il vero re di Camelot non si sarebbe fatto mettere al tappeto da una ragazza. Se c’è una persona che potrebbe essere il vero re di Camelot quella sei proprio tu».
Artù non le chiese come facesse ad esserne così sicura, né si lasciò sopraffare dalla malinconia pensando che Camelot non avrebbe più avuto bisogno di un re; si limitò a sorriderle, grato.

 

***

 

Merlino aprì gli occhi e si girò su un fianco, cercando di ricordare quand’era stata l’ultima volta che aveva dormito così bene.
Nonostante si fosse addormentato sul tappeto, di fronte al camino spento, la vicinanza di Alex era stata una benedizione. Avere il suo corpo caldo accanto, sentire il suo respiro calmo, gli aveva assicurato una notte tranquilla, priva degli incubi che spesso, anche da sveglio, si trovava ad affrontare.
Sollevò il capo, chiedendosi proprio dove fosse finita, quando sentì la sua voce e quella di Artù in cucina. A quattro zampe raggiunse la poltrona sistemata proprio davanti alla porta e sbirciando oltre lo schienale li vide seduti vicini al tavolo, sorridenti, che confrontavano i loro cellulari: Artù le faceva mille domande, chiedendole a cosa servisse questo e quell’altro, e Alex, pazientemente e senza scoppiargli a ridere in faccia ogni due per tre, faceva del suo meglio per spiegargli tutto.
Ad un certo punto Merlino fu scoperto, colto in flagrante proprio da Alex, ma questa gli rivolse un sorriso e un rapido occhiolino per poi tornare a concentrarsi su Artù, entusiasta come un bambino alla scoperta di poter anche mandare messaggi scritti in tempo reale.
Il mago sorrise e sospirò, leggero e felice come non si sentiva da tanto, troppo tempo.

 

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Capitolo 8
*** 8. …And the fires of the present ***


Buonasera a tutti! :)
Ecco qui la seconda parte del lungo capitolo iniziato la settimana scorsa. Spero vi piaccia e che il passato di Alex sia ancora credibile, come alcune di voi mi hanno gentilmente scritto (thank you soooo much).
Non sono di molte parole questa sera - ho un mal di testa lancinante e del sonno arretrato (il che mi ricorda che dovrei fare gli auguri a tutte le donne qui presenti. Auguriiiii! ^-^) - perciò vi lascio direttamente alla lettura.
Un grazie infinito a chi ha messo la storia tra le preferite, le seguite e le ricordate, a chi ha recensito e a chi legge soltanto. 
Ricordo inoltre che sulla mia pagina Facebook potete trovare tante belle foto trovate qua e là con i personaggi, le ambientazioni e soprattutto le citazioni originali della serie a cui mi sono ispirata per diverse battute. Enjoy ;)

Alla prossima settimana, un bacio!


Vostra,

_Pulse_

 

 

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8. …And the fires of the present

 

Merlino sarebbe dovuto tornare al lavoro lunedì, secondo il certificato di malattia che il “suo medico” gli aveva firmato, ma Artù aveva fatto fuoco e fiamme perché tornasse quello stesso sabato, dicendogli che se la sarebbe cavata egregiamente anche da solo. Il mago non ne era così convinto, ma aveva dovuto cedere di fronte alla sua regale insistenza e quella mattina si era presentato alla caffetteria della signora Begum, sorprendendola non poco. Le aveva detto che a furia di aspirine il raffreddore era del tutto scemato e che si era sentito abbastanza in forma da tornare, aggiungendo anche che il lavoro gli era sinceramente mancato. La signora Begum aveva bellamente fatto finta di crederci e senza troppi giri di parole l’aveva spedito a mettersi il grembiule.
Non avrebbe mai nemmeno osato immaginare un migliore “bentornato”.
La signora Begum, infatti, si era dimostrata subito pronta – anche più del solito – a sgridarlo per qualsiasi sua mancanza e a cacciarlo in cucina a lavare i piatti ogni volta che lo sorprendeva con le mani in mano dietro il bancone. Ma Merlino era stato raramente con le mani in mano, in realtà: ogni cinque secondi aveva controllato il cellulare, chiedendosi per mezzo di quale innovazione del Ventunesimo secolo il solo ed unico re sarebbe perito per la seconda volta, e fino a quel momento aveva già immaginato tredici, no, quattordici tragici scenari tra cui il peggiore in assoluto, nonché il più splatter, aveva implicato il minipimer.
Verso mezzogiorno aveva implorato la signora Begum perché gli concedesse un quarto d’ora di pausa e questa non aveva trovato un motivo abbastanza valido per non dargli il proprio consenso, visto che di clienti non se ne vedeva nemmeno l’ombra e si prospettava il solito pomeriggio tranquillo. Merlino per ringraziarla l’avrebbe persino baciata – se solo ne avesse avuto il coraggio – e ormai ad un passo da un crollo nervoso era corso sul retro della caffetteria a chiamare Artù.
«Perché diavolo non rispondi, asino!», gridò a mezza voce, picchiando un piede a terra. Quindi, inoltrando una nuova chiamata, iniziò a sussurrare fra sé: «Quando Albione avrà più bisogno, Artù risorgerà… per morire miseramente a causa dell’uso improprio di un elettrodomestico da cucina».
«Che hai detto?».
Merlino sgranò gli occhi sentendo la voce del re dall’altro capo del telefono. «Artù! Artù, grazie a Dio siete vivo!».
«Certo che lo sono! E non urlare, non sono sordo!».
«Ah!». Rise sornione, mentre sentiva la rabbia iniziare a bollirgli nelle vene. «La fate facile voi! Dopotutto non siete voi che avete appena rischiato un infarto! Devo per caso ricordarvi che ho più anni di quelli che dimostro?! Perché non avete risposto subito?».
«Devo aver attivato il silenziatore per sbaglio e non ho idea di come si tolga».
Merlino si prese il setto nasale tra le dita, cercando di mantenere la calma concentrandosi sul perché l’avesse aspettato per più di millequattrocento anni. «Le istruzioni. Dove le avete messe le istruzioni? Lì c’è sicuramente scritto come…».
«Intendi quel libretto scritto in tante lingue?».
«Esatto,  proprio quello».
«L’ho buttato via ieri».
«Che cosa?! Per quale motivo?».
«Perché perdere tempo a leggere se posso chiedere a te o a Lady Alex?».
Il mago iniziava seriamente a pensare che avrebbero dovuto farlo santo per aver sopportato e aver creduto in quella testa di legno non solo per una vita, ma addirittura per due.
«A proposito di Lady Alex, hai cambiato idea o sarò costretto a fartela cambiare con la forza?».
«No. Non le riveleremo il nostro segreto, è fuori discussione».
«Ma perché no?!», domandò lagnosamente il re, per poi sbuffare irritato. «Hai detto che ti fidi di lei, che è l’unica a cui affideresti il nostro segreto… perché non glielo riveli subito e la facciamo finita?».
«Perché non ce n’è bisogno».
«No, fino a quando non ti urlerà contro come l’altra sera, stanca delle tue bugie. E lo sono anche io, Merlino. Non hai fatto altro che mentirmi, da quando ti conosco, e proprio perché so come ci si sente non mentirò ancora a Lady Alex. Se non glielo dirai tu, glielo dirò io».
«No, voi non capite! Non potete –!».
La porta sul retro si aprì di colpo, mostrando una signora Begum con gli occhi fuori dalle orbite e i capelli così scompigliati da far pensare che avesse appena messo due dita nella presa della corrente. Con voce lontana, quasi spiritata, disse: «Il pullman di una scolaresca diretta a Caerleon ha avuto un guasto, la tua pausa è finita».
Merlino sospirò massaggiandosi la fronte con una mano e rivolto ad Artù disse: «Devo tornare al lavoro. Ne riparliamo a casa con calma, d’accordo? A più tardi».
Terminò la chiamata senza nemmeno aspettare di sentire la risposta del re di Camelot, sperando ardentemente che quella giornata finisse presto.
«Tira fuori anche i piatti nuovi, ne avremo bisogno», disse ancora la signora Begum, indicando una scatola di cartone vicino alla piccola lavastoviglie.
Merlino prese il taglierino ed iniziò ad aprire la scatola, quando corrugò la fronte esclamando: «Avete sempre detto che non potevamo permetterci delle nuove stoviglie, come –?». Si interruppe, indovinando la risposta semplicemente dall’espressione eloquente della signora Begum; quindi sospirò mestamente: «Mi scalerà dallo stipendio il costo dei piatti che ho rotto l’ultima volta, chiaro».
Quella giornata non sarebbe affatto finita presto, poco ma sicuro.

 

***

 

«Ehi».
Alex sollevò gli occhi dalle tazze che stava sistemando nel lavello e sorrise quando incrociò quelli azzurri di Merlino, appoggiato allo stipite della porta della cucina.
«Ehi, ciao. Siamo crollati ieri notte, eh?».
Merlino annuì, avvicinandosi a lei per prendere una tazza pulita dalla credenza. Si chinò sul suo orecchio e a bassa voce, indicando con un cenno del capo Artù, seduto sulla veranda che dava sul giardino sul retro, disse: «Grazie per…».
«Ma figurati», lo interruppe sorridendo. «Caffè?».
«Sì, grazie. Un momento… l’ha fatto Artù?».
Alex arricciò le labbra, trattenendo una risata. «No, l’ho fatto io. È il classico tipo che non ammetterebbe mai di essere in difficoltà, non è così?».
«Oh sì, Artù è proprio così: orgoglioso, testardo, presuntuoso… ma ti posso
assicurare che si getterebbe nel fuoco pur di salvare le persone a cui tiene, senza pensarci su due volte. Vi assomigliate molto, lo sai?».
«Non so se prenderlo come un complimento o un’offesa».
Merlino rise e lasciò che Alex gli versasse un po’ di caffè nella tazza, poi se la portò alle labbra.
«Che cos’avete in programma per oggi?», gli chiese, appoggiandosi con la schiena al ripiano della cucina, al suo fianco.
Il moro si strinse il collo tra le spalle, scuotendo il capo. «Non ne ho idea. Tu, invece?».
«Devo fare i mestieri e ho una caterva di roba da stirare… Farò la serva», borbottò e con la coda dell’occhio scoprì Merlino intento a mordersi un sorriso divertito. «Vuoi fare cambio? Sto io qui a badare ad Artù, se preferisci».
«Ah, peggioreresti soltanto la tua situazione, credimi. Piuttosto…».
Alex lo guardò, in attesa che finisse la frase. «Cosa?», lo incalzò, iniziando a sentirsi sulle spine.
«Penso che dovresti parlare con tuo padre… perdonarlo». Merlino fissò gli occhi nei suoi, increduli e leggermente intimoriti, e le posò una mano sulla spalla. «Sono passati sei anni, Alex. Sei anni in cui non avrà fatto altro che pentirsi del suo errore e sentire la tua mancanza».
«È più complicato di così…», mormorò sfuggendo al suo sguardo, ma il moro le prese il mento tra le dita per recuperare il contatto visivo. Sorrideva, ma era il sorriso più malinconico che Alex gli avesse mai visto dipinto sulle labbra.
«No, invece. Tu non sei più una ragazzina, saresti in grado di stargli accanto questa volta, di aiutarlo, e lui è pur sempre tuo padre, ti vuole bene».
«Se mi avesse voluto bene non mi avrebbe usata in quel modo».
Merlino sospirò e socchiuse gli occhi, come a voler spazzare via ricordi troppo lontani e troppo dolorosi. Quando li riaprì sembravano di ghiaccio, freddi e taglienti.
«Qualsiasi errore abbia commesso, qualsiasi sofferenza ti abbia causato… devi trovare la forza nel tuo cuore di perdonarlo, altrimenti te ne pentirai per tutta la vita. Io avrei dato di tutto, darei ancora di tutto, per avere un giorno in più, uno solo, da poter spendere con mio padre. Tu invece hai già buttato via sei anni».
Alex aprì la bocca per ribattere, anche se non aveva la minima idea di che cosa dire di fronte a quegli occhi intrisi di antica rabbia e dolore, ma Artù fece scorrere la porta finestra alle loro spalle, interrompendoli. Quando si accorse di avere gli occhi di entrambi puntati addosso si scusò e fece per tornare in giardino, ma Merlino gli sorrise, dicendogli che non c’era problema. Il biondo allora attraversò la cucina e salì le scale di corsa, lasciandoli di nuovo soli.
«Mi dispiace per tuo padre», disse Alex ad un tratto, realizzando che, forse senza nemmeno rendersene conto, le aveva parlato per la prima volta della sua famiglia.
«È morto ancor prima che potessi conoscerlo», le rivelò ancora, sorprendendola. «Ho vissuto tutta la mia vita senza sapere chi fosse e quando finalmente sono riuscito a trovarlo… mi è stato portato via».
«Mi dispiace davvero tanto».
Merlino le rivolse un piccolo sorriso e le massaggiò le braccia. «Promettimi che ci penserai».
Alex annuì e lo abbracciò stretto, col viso immerso nella sua felpa. Lo sentì irrigidirsi, ma solo per un momento.

 
«Alex?».
L’infermiera si voltò verso Abigail, stesa nel suo letto, più pallida e debole del solito.
«È quasi finito, tranquilla», la rassicurò, controllando il liquido trasparente contenuto nella sacca della flebo.
«No, volevo sapere… a cosa stavi pensando. Eri così assorta…».
Alex accennò un sorriso, sedendosi al suo fianco per stringerle una mano fredda tra le sue. «A mio padre. Ha fatto una cosa brutta, sei anni fa, e da allora non ho più voluto vederlo. Mi stavo chiedendo se fosse arrivato il momento di perdonarlo».
«Sei anni sono tanti», mormorò Abigail, con un mezzo sorriso. «Tutti facciamo delle cose brutte, anche se a volte non ce ne rendiamo conto».
«Dici che dovrei metterci una pietra sopra?».
«Non lo so, devi deciderlo tu. Io prima di andarmene vorrei chiudere tutti i miei conti in sospeso».
Alex sorrise e le accarezzò i capelli. «Stai tranquilla, non te ne andrai tanto presto, te l’assicuro».
Anche Abigail sorrise, poi chiuse gli occhi, vinta dalla stanchezza. Alex rimase seduta al suo fianco ancora per un po’, fino a quando non prese la sua decisione.

 

***

 

Quando Alex se n’era andata, la mattina precedente, Artù gli aveva detto chiaro e tondo che aveva sentito quello che lei gli aveva urlato contro in giardino e che lui non si sarebbe opposto se avesse deciso di rivelarle il loro segreto; anzi, lo aveva addirittura invogliato a farlo, facendogli capire che aveva quantomeno intuito la natura del legame che c’era tra loro.
Merlino però era stato irremovibile, anche se non era sceso troppo nei dettagli quando aveva dovuto motivare la sua scelta. Per quanto ne fosse impaurito, forse era arrivato il momento di essere chiaro e dirgli come stavano le cose veramente.
Spinto anche dalla rabbia, accesa all’improvviso dalle parole che gli aveva detto per telefono, quando entrò in casa affrontò subito l’argomento, urlando: «Se dovete levarvi qualche peso dallo stomaco, questo è il momento opportuno!».
Artù, spaparanzato tranquillamente sul divano con una lattina di Coca-Cola in una mano e un pacchetto di patatine al formaggio sulle gambe, lo fissò confuso prima di capire a che cosa si riferisse. Quindi sospirò, stringendo le labbra tra loro. «No, Merlino».
«Strano, ho proprio avuto l’impressione che fosse così!».
«Non avrei dovuto dirti quelle cose, non intendevo riaprire l’argomento».
«Ma l’avete fatto! Significa che avete qualcosa da dire, no?».
Artù lascò giù la Coca-Cola e il sacchetto di patatine per potersi sbattere le mani sulle ginocchia, gli occhi leggermente sgranati. «Vuoi la verità? La verità è che non riesco ancora a capire il motivo per cui tu non mi abbia rivelato prima di essere uno stregone! Pensavo di essermi guadagnato la tua fiducia, come tu ti sei ampliamente guadagnato la mia!».
«Ed è così! Non ho mai smesso di credere in voi, di avere fiducia in voi!».
«E allora…?!».
Merlino gettò la borsa a tracolla accanto al divano, trattenendo a stento un verso frustrato. «Non ci arrivate, vero? Ciò che mi ha impedito di rivelarvi la mia vera natura è stata la paura di non essere più lo stesso Merlino ai vostri occhi; la paura di non essere più accettato da voi, di essere addirittura cacciato. Non volevo che tutto ciò che avevamo costruito andasse perduto. Non avrei mai sopportato di perdere…».
L’ultima parola della frase gli rimase incastrata in gola, a metà strada tra il cuore e l’aria, quando il campanello trillò. Voltò le spalle ad Artù, immobile come una statua, e con due rapide falcate fu di nuovo di fronte alla porta; l’aprì senza nemmeno chiedere chi fosse e boccheggiò incrociando gli occhi verdissimi di Alex, la quale, dondolandosi sui talloni e stringendo la fibbia della borsa a tracolla che aveva sulla spalla, sembrava un po’ nervosa.
Merlino respirò profondamente e si girò verso il re di Camelot, furioso. «Non spettava a te decidere, non questa volta. Ma ovviamente non hai saputo resistere, dico bene?». Artù aprì la bocca per ribattere, ma il mago non gliene diede la possibilità, concentrandosi di nuovo sulla ragazza di fronte a lui, ora confusa oltre che nervosa. «Mi dispiace, Artù ha esagerato. Qualsiasi cosa ti abbia detto, io non devo dirti…».
Alex agitò frettolosamente le mani di fronte al petto, costringendolo a tacere. «Artù non mi ha detto niente, sono venuta qui per conto mio. Ho bisogno di parlarti».
«Ah». Merlino gettò un’occhiata alle sue spalle e vide Artù con le braccia incrociate al petto e le sopracciglia inarcate, in quel modo che ai vecchi tempi preannunciava sempre una bella punizione. «Scusa, pensavo…».
«Pensi troppo, Merlino. Finirai col farti male», rispose, accennando un sorriso obliquo. Lo stregone riconobbe quella frase come un proprio cavallo di battaglia, ma per quella volta gliela concesse volentieri.
Artù salutò Alex con un cenno del capo e disse ancora: «Se avete bisogno di me, mi trovate in camera mia».
«Assicurati di chiudere la finestra, questa volta!», gli gridò dietro Merlino, sotto lo sguardo sempre più disorientato di Alex, alla quale sorrise, invitandola ad entrare.
«Di che si tratta?», le chiese quando fu seduta sul divano, con la borsa stretta tra le braccia.
Alex si mordicchiò il labbro inferiore, deviando il suo sguardo fino a quando Merlino non riuscì a catturarlo prendendole il mento tra due dita.
«Alex, che cosa succede?».
«Ci ho pensato», disse con tono di voce pacato, cercando di controllare il ritmo dei battiti del suo cuore. «Ho deciso di parlare con mio padre».
«Questa è… è la notizia migliore della giornata!», esclamò, davvero contento e anche un po’ soddisfatto del proprio operato. Arricciò il naso, accorgendosi della sua espressione ancora incerta. «Perché non mi sembri contenta?».
«Non so come sto. L’unica cosa che so è che non voglio andare da lui da sola. Ti sto chiedendo molto e forse non dovrei, ma sei l’unica persona che potrebbe… Insomma, mi accompagneresti?».
Merlino sorrise, accarezzandole una ciocca di capelli. «Se ti farà stare più tranquilla, ti accompagnerò volentieri».
Alex alzò di scatto gli occhi nei suoi e il suo volto si illuminò alla comparsa di un piccolo sorriso, carico di commozione. Gli strinse le braccia intorno al collo, ringraziandolo sottovoce, e solo in quel momento il mago si rese conto che Alex non avrebbe avuto solo lui a tenerle compagnia.
Come se gli avesse appena letto nel pensiero l’infermiera gli chiese: «Tu e Artù avete altri programmi per il pomeriggio?».
«No, non credo. Ma se preferisci posso lasciare qui Artù…».
Era un’ipotesi che lo terrorizzava – come lo aveva terrorizzato per tutto il giorno – perciò fu felice quando Alex, dopo essersi gettata un’occhiata intorno, rispose ridacchiando: «E lasciare che diventi esattamente come ogni ragazzo disoccupato del Paese? Non se ne parla».
Merlino lasciò correre lo sguardo sul tappeto sporco di briciole di patatine, sulle lattine vuote di Coca-Cola lasciate sul tavolino accanto al divano, sulla televisione ancora accesa su una partita di calcio, e per un attimo – un attimo soltanto – fu orgoglioso del modo in cui Artù si stava ambientando.
«Adesso mi sente», borbottò, nonostante sapesse perfettamente che alla fin della fiera avrebbe dovuto pulire e sistemare lui tutto quanto: era il suo destino, servire in ogni aspetto, anche quello più umile, quell’imbecille reale.
Alex sorrise e per dimostrare il proprio sostegno gli massaggiò la schiena. Quindi si alzò e si diresse verso la cucina per preparare un po’ di te.
«Merlino?», lo chiamò dalla soglia, leggermente preoccupata.
«Uhm?».
«Puoi venire qui un attimo?».
Il mago la raggiunse e rimase senza fiato di fronte alla sua povera cucina ridotta come quella della signora Begum dopo ore ed ore di lavoro ininterrotto.
«Troppo tardi», mormorò Alex, grattandosi la testa.
«Non lo è per rigettarlo nel lago e guardarlo mentre affoga», rispose Merlino prima di correre verso le scale per salirne i gradini due a due.

 
«Un goblin! È come se un goblin fosse stato liberato nella mia cucina! Come diavolo –?».
Merlino, entrato come una scheggia nella stanza del re di Camelot, si interruppe bruscamente nel bel mezzo della propria sfuriata quando vide Artù di fronte alla finestra, con la fronte solcata da rughe di apprensione e una mano sopra il cuore.
«State male? Sta succedendo di nuovo?».
Il biondo si voltò e dopo un attimo di esitazione espirò ed accennò un sorriso, scrollando il capo. «È passato».
«Siete sicuro? Artù…».
Il re non gli permise di terminare la frase, parlandogli sopra: «Cosa stavi dicendo a proposito di quel goblin?».
«La mia cucina è un completo disastro!», esclamò quando si fu calmato, sospirando esasperato. «Come ci siete riuscito?».
«Non volevo mangiare gli avanzi di ieri sera. Non sarò più il re, ma resto comunque di sangue reale!».
«E così avete provato a cucinare, fallendo miseramente».
«Sono sempre stato negato. Ginevra…». I suoi occhi si velarono all’improvviso della malinconia legata ai ricordi e Merlino pensò a qualcosa da dire per tirarlo su di morale, ma non gli venne in mente nulla di appropriato. In fondo sapeva bene quanto il passato facesse male e quanto fosse difficile porre rimedio alle sue ferite. 
Allora lo distrasse, dicendo: «Alex mi ha chiesto di accompagnarla da suo padre. Venite anche voi».
Più che una domanda era stata posta come un’affermazione, perciò Artù si voltò con un sopracciglio inarcato e chiese: «E se non ne avessi voglia?».
Merlino sogghignò sotto lo sguardo ora indagatore del re di Camelot. «Vedrete, vi piacerà».

 

***

 

Alex aveva cercato di pensare ad altro mentre guidava verso l’agriturismo in cui lavorava e viveva suo padre, nel bel mezzo del nulla a metà strada tra il loro minuscolo paesino e Caerleon.
Aveva seguito pezzi della conversazione tra Artù e Merlino, la quale ben presto si era trasformata in una discussione vera e propria: il moro aveva provato a spiegare al biondo che al più presto avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, ma quest’ultimo si era fermamente opposto sin dall’inizio, affermando semplicemente che non era lì per costruirsi una vita.
Alex non aveva colto il senso di quella frase e aveva guardato Merlino con la coda dell’occhio, trovandolo pallido e con il labbro inferiore stretto tra i denti, mentre i suoi occhi venivano attraversati da un bagliore di rabbia. In ogni caso la sua mente non le aveva permesso di rimuginarci sopra a lungo, costringendola invece ad immaginarsi i mille e più scenari che avrebbero potuto verificarsi una volta di fronte a suo padre.
Più attraversavano la campagna gallese, sotto quel cielo ricoperto di nuvole grigiastre dietro le quali il sole era solamente una sfera di pallida luce bianca, più il nervosismo le attanagliava lo stomaco, facendole maledire il momento in cui aveva preso quella folle decisione.
Le parole di Merlino avevano di certo sortito il loro effetto, tanto da convincerla che parlare con suo padre era la cosa migliore da fare, ma forse non ci aveva ragionato su abbastanza: il padre di Merlino era sicuramente una persona migliore rispetto al suo – o forse no, visto che da quello che le aveva raccontato non aveva avuto l’opportunità di conoscerlo a fondo – e lei non poteva rompere quel silenzio che durava da ormai sei anni solo perché lui non aveva avuto abbastanza tempo da spendere con il suo genitore. A dire il vero Alex in quel momento avrebbe fatto carte false per trovarsi al suo posto: avrebbe preferito essere orfana di padre, piuttosto che trovarsi in quella situazione.
Forse Merlino però ci aveva preso giusto, quando aveva detto che lei e Artù si assomigliavano: il suo orgoglio le impediva di fare inversione ad U e tornare indietro, ammettendo pubblicamente di non avere il coraggio di affrontare suo padre.
«Manca ancora molto?», domandò ad un tratto Artù, rompendo il silenzio.
«No, l’agriturismo è laggiù», rispose Alex, indicando, ad ormai pochi chilometri di distanza, un grande edificio di mattoni a vista, circondato da campi coltivati e vigneti.
Merlino si voltò verso i sedili posteriori e anche Alex gettò uno sguardo al biondo attraverso lo specchietto retrovisore: sembrava avere la luna storta, come la maggior parte del tempo, ma il pallore del suo viso e la sofferenza nei suoi occhi raccontavano anche qualcos’altro.
Alex aprì un po’ il finestrino e non appena l’aria fresca ed impregnata dell’odore della campagna lo colpì, arruffandogli i capelli sulla fronte, Artù parve rianimarsi, ricambiando il suo sguardo e rimanendo impassibile nonostante avesse notato il leggero sorriso che le aleggiava sulle labbra.
Dieci minuti dopo avevano già lasciato l’auto nel parcheggio – se così si poteva chiamare quello spiazzo quadrangolare pieno di buche da cui, a causa del forte vento che si era alzato nelle ultime ore, si sollevava così tanta polvere che le loro scarpe ne assunsero ben presto il colore chiaro – e si dirigevano verso l’entrata dell’agriturismo.
Avevano quasi raggiunto le scale in pietra che portavano alla piccola veranda riparata da un tetto spiovente, massicce travi di legno e tre spigolosi pilastri in mattoni, quando Artù l’affiancò e senza farsi sentire da Merlino, qualche passo davanti a loro, le disse: «Perché non hai detto niente? Avresti potuto…».
«Prenderti in giro perché soffri il mal d’auto?». Alex si strinse le braccia al petto, arricciando le labbra in un sorriso divertito. «Il tuo orgoglio ne avrebbe sicuramente risentito, ma so come ci si sente – anche io da piccola stavo male durante i lunghi tragitti – perciò non ho infierito».
«Beh… me ne ricorderò».
L’infermiera osservò quegli occhi blu seri e pieni di rispetto, come se avessero appena colto qualcosa di importante e di onorevole in lei, e si sentì sia lusingata che imbarazzata. Gli diede una pacca sul braccio per stemperare la tensione e sempre a bassa voce, poco prima che Merlino si voltasse per chiedere loro di che cosa stessero confabulando, disse: «Al ritorno farò in modo che tu sieda davanti».
Quindi sorrise e con una corsetta raggiunse Merlino sotto la veranda per entrare per prima nella piccola e semplicissima, ma accogliente, reception: un angolo con un alto bancone di legno scuro su cui spiccavano due stupendi vasi di fiori freschi e diverse brochure, un appendiabiti, un portaombrelli e alle pareti diverse fotografie d’epoca che immortalavano la campagna, degli animali da fattoria, soprattutto cavalli, e dei contadini. Alla sinistra del bancone iniziava la scalinata che portava al piano superiore, quello delle camere e dei bagni; seguendo il corridoio, invece, si arrivava all’area comune che altro non era che un ampio salotto ben arredato in stile rustico, con un grande camino dalle fiamme già scoppiettanti, diverse poltrone posizionate intorno ai tavolini bassi, una televisione e una biblioteca ben fornita che occupava praticamente tutta la parete est.
«Buonasera, posso esservi utile?».
Alex sorrise alla giovane ragazza dietro il bancone e non senza un po’ di nervosismo si presentò: «Mi chiamo Alexandra Greenwood, sono la figlia di Edwin».
La ragazza, dagli occhi scuri e i capelli castani, non fece in tempo ad aprire bocca che la voce roca di un uomo li raggiunse ancor prima della sua figura, nascosta alla loro vista grazie all’alto schienale della poltrona posta proprio davanti al camino: «Lo sapevo che questo giorno prima o poi sarebbe arrivato».
Alex, Merlino e Artù fecero un passo verso il salotto e l’uomo si alzò, lasciando il quotidiano spiegazzato sulla poltrona e sistemandosi gli occhiali sul naso. Sulla cinquantina, con corti capelli brizzolati e un accenno di barba sulle guance, Alex era sicura di non averlo mai visto in vita sua.
«Ci conosciamo?», gli chiese.
L’uomo sorrise bonario, porgendole la mano. «Il mio nome è Abraham Morris, sono il proprietario di questo agriturismo. Avete già conosciuto mia figlia, Rebecca», indicò la ragazza dietro il bancone della reception e lei accennò un timido sorriso, molto diverso da quello del padre, anche se di suo aveva preso sicuramente il colore degli occhi.
«Io e tuo padre siamo amici di vecchia data, abbiamo frequentato persino lo stesso college da giovani. Ora come ora, penso di essere l’unico amico che gli è rimasto».
«Quindi lei sa perché sono qui», disse atona, lo sguardo fisso sul suo viso rubicondo.
Il signor Morris nascose il collo tra le spalle, scrollando un poco il capo. «Edwin dice di essersi messo il cuore in pace, ma io lo so che l’unica cosa che lo fa andare avanti è il pensiero che un giorno riuscirai a perdonarlo. Se non sei venuta qui per questo, allora faresti meglio a tornare a casa».
Alex, presa in contropiede da quel suggerimento e dall’espressione ora tutt’altro che amichevole sul volto di Abraham, non riuscì a trovare le parole adatte con cui rispondere. Fu Merlino a correre in suo aiuto, anticipando solo di qualche istante Artù, il quale si era messo un passo davanti a lei come a volerla proteggere.
«Alex è qui per vedere suo padre, non può negarglielo, né minacciarla come ha appena fatto», esclamò il moro, coi pugni stretti lungo i fianchi e gli occhi che lanciavano saette.
L’uomo scoppiò in una grassa risata, per poi rispondere: «La mia non era una minaccia, solo un consiglio». Quindi tornò a fissare gli occhi in quelli di Alex, così severi che le fu impossibile non rimanerne impressionata, e aggiunse: «Penso solo che una figlia che rinnega il proprio padre per sei anni e che poi chiede il suo aiuto, solo perché non ha nessun altro, sia una bella ipocrita».
L’infermiera sentì il sangue andarle al cervello e ancor prima di poter realizzare le conseguenze delle proprie azioni lo schiaffeggiò.
«Lei non sa niente!», gridò, fuori di sé. «Non può parlare, non può giudicarmi!».
Abraham la guardò sbalordito mentre Merlino, piazzato di fronte a lei, tentava di farla smettere di urlare. Ad un tratto, scesa dal piano di sopra a causa del baccano che stavano facendo, anche la signora Morris si unì alla mischia. Gridò ai tre ragazzi di andarsene, senza voler sentire ragione alcuna, e a quel punto fu Artù a prendere in mano la situazione: si caricò semplicemente Alex sulla spalla, convergendo su di sé tutti gli improperi che altrimenti avrebbe gettato addosso al proprietario dell’agriturismo, e nonostante si divincolasse con tutte le sue forze riuscì a portarla fuori. La lasciò andare solo quando furono di nuovo nel parcheggio e la prima cosa che fece quando i suoi piedi toccarono di nuovo terra fu tempestarlo di pugni sul petto, o almeno ci provò, trovandosi nuovamente bloccata nella sua stretta d’acciaio, il viso ad un palmo dal suo.
«Toglimi le mani di dosso, imbecille», gli sibilò in faccia, trucidandolo con lo sguardo.
«Solo quando avrai finito di dare spettacolo e ti comporterai come una persona matura».
«Senti da che pulpito arriva la predica!».
Sconvolta dalla rabbia e dal grande dolore che sentiva bucarle il petto come una voragine, Alex avrebbe sicuramente detto qualcosa di cui poi sarebbe pentita, perciò fu grata della presenza di Merlino, il quale costrinse Artù a lasciarla andare e la prese per le spalle per guardarla dritta negli occhi.
«Alex, respira. Respira».
Fece come le aveva chiesto e non appena l’aria entrò nei suoi polmoni un singhiozzo le uscì incontrollato dalla gola, tanto forte che fu impossibile nasconderlo, come i suoi occhi che si erano velocemente riempiti di lacrime ardenti.
«Va tutto bene», le sussurrò ed alzò una mano per accarezzarle i capelli, ma Alex si scostò bruscamente, stringendosi le braccia al petto e dandogli le spalle.
«Non sarei mai dovuta venire».
«Ti sbagli».
«No, tu ti sbagli!», urlò, girandosi di scatto per puntargli un dito contro.
Le era perfettamente chiaro ora: tutto il rancore che aveva covato per suo padre in quegli anni… era sempre stato rivolto a se stessa, in modo così deleterio da renderla cieca di fronte all’evidenza.
«Come posso tornare da mio padre dopo sei anni e fare finta che non sia successo nulla? Il signor Morris ci ha visto giusto: sono un’ipocrita. Lui avrà anche sbagliato, più e più volte, ma sono io quella che ha commesso l’errore più grande, rifiutandomi di perdonarlo; il mio orgoglio me l’ha impedito». Tirò su col naso ed accennò un sorriso, ricordando la storia che aveva letto qualche tempo prima ai bambini dell’ospedale. «Non sono pura di cuore come credi tu, Merlino. Nessun unicorno si mostrerebbe ai miei occhi».
Merlino abbassò lo sguardo con le labbra strette in una linea sottile, Artù invece boccheggiò vistosamente, come se avesse appena detto qualcosa di cui non avrebbe dovuto essere a conoscenza. Ancora una volta non poté chiedere spiegazioni, distratta dalla signora Morris.
«Ragazzi!», li chiamò, correndo giù dalle scale in pietra con così tanta foga che l’infermiera temette per un attimo di doverla accompagnare al pronto soccorso. Quando fu sana e salva sul sentiero che portava al parcheggio Alex se ne dimenticò completamente e gettò la borsa a terra, sollevando una nuvola di polvere, per accovacciarcisi sopra e cercare le chiavi dell’auto, borbottando ad alta voce: «Sì, sì, ce ne stiamo andando!».
«No, non dovete!», esclamò, chinandosi davanti ad Alex per prenderle delicatamente le mani ed invitarla ad alzarsi. «Mia figlia mi ha raccontato quello che è successo e mi dispiace davvero tanto. Abraham a volte esagera, specialmente quando si parla di Edwin: è il suo migliore amico e si è angosciato molto quando ha saputo che vi siete visti».
Alex sentì un brivido correrle lungo la schiena. «Angosciato? E per quale motivo?».
La donna sospirò e gettando uno sguardo anche a Merlino e ad Artù disse pacatamente: «Venite, vi offro una tazza di tè».

 
«All’epoca tuo padre abitava già nella piccola dependance dietro le stalle, pranzava e cenava con noi, proprio come uno di famiglia, perciò abbiamo potuto constatare di persona quanto fosse stato distrutto dalla morte di tua madre. Ricordo come se fosse ieri che quella sera, dopo il funerale, tornò a casa ubriaco, piangendo e ripetendo il tuo nome e quello della tua povera mamma».
La signora Morris si fece un rapido segno della croce, guardando il soffitto, ma Alex continuò a fissare il tavolo, immersa nei ricordi: anche lei quella sera si era data all’alcool, ma al contrario di suo padre aveva trovato delle braccia pronte a sostenerla, quelle di Keith, il quale si era preso cura di lei come se davvero gli fosse importato qualcosa, sussurrandole parole di conforto e sostenendole la fronte quando si era ritrovata in ginocchio di fronte al water, con le collant nere strappate e il trucco che le colava sulle guance a causa delle lacrime.
«Abraham ed io abbiamo fatto tutto quello che potevamo per lui, cercando di non fargli mancare nulla e dimostrandogli ogni giorno il nostro sostegno, il nostro affetto. Quando sembrava che si stesse riprendendo – era tornato a lavorare, sorrideva ai bambini come aveva sempre fatto – fu allora che crollò definitivamente. Fu Abraham a trovarlo, insospettito dal fatto che quella mattina non avesse iniziato presto a prendersi cura dei cavalli. Aveva ingerito una dose massiccia di sonniferi, ma fortunatamente i soccorsi sono arrivati in tempo e i medici sono riusciti a salvarlo. Aveva anche lasciato un biglietto, ma Abraham non mi ha mai voluto dire che cosa ci fosse scritto: l’ha bruciato proprio là, nel camino».
Solo allora Alex alzò il capo, rivolgendolo verso la porta aperta da cui si intravedeva uno scorcio del salotto. E solo allora si rese conto di essere rimasta sola con la signora Morris nella grande cucina che faceva da sala colazione per gli ospiti dell’agriturismo, con una tazza di tè ormai tiepido, intoccato, e un piatto di biscotti fatti in casa davanti al naso.
«Dove sono Merlino e Artù?», chiese con voce lontana, così spiritata che stentò a riconoscerla come la propria.
La signora Morris le posò le mani solcate di rughe sulle sue, accarezzandole delicatamente con il pollice, e le rivolse uno sguardo carico di apprensione. «Li hai mandati via circa dieci minuti fa, tesoro».
Alex annuì con un breve cenno del capo, fingendo di ricordarselo.
Per quanto disperato fosse il bisogno di stringere forte la mano di Merlino, di trovare conforto e tranquillità nei suoi dolci occhi azzurri, pensò che nello sconvolgimento avesse fatto qualcosa di positivo: non avrebbe mai sopportato di vedersi così debole e fragile riflessa nel suo sguardo, né avrebbe mai voluto lasciargli capire che in fondo aveva e aveva sempre avuto bisogno di protezione e di qualcuno a cui aggrapparsi.

 

***

 

«Non dovremmo allontanarci troppo, Alex potrebbe…».
Artù si voltò e senza smettere di camminare, diretto verso le stalle, gli rivolse un’occhiata obliqua. «Alex è più forte di quello che sembra, sa cavarsela da sola. E poi credo che abbia bisogno di un po’ di tempo per poter perdonare se stessa».
«Perdonare… se stessa?». Merlino si fermò qualche passo dietro di lui, profondamente colpito da quanto a volte le loro menti fossero in sintonia.
Da quando Alex si era concessa quello sfogo il mago non aveva fatto altro che pensare a quanto le loro situazioni fossero simili, per quanto diverse. Tutto quello che aveva detto ad Artù quella mattina, sul fatto che non fosse riuscito a confessargli prima di possedere la magia perché aveva paura di non essere più visto lo stesso Merlino di sempre e di perdere la sua amicizia era vero, ma c’era anche un altro motivo, qualcosa di così profondo che il solo pensiero gli faceva tremare le ginocchia ma che lo avrebbe dilaniato, se avesse continuato a tenerselo dentro.
«Ma come faceva a sapere dell’unicorno?», chiese Artù ad un tratto, fermandosi nel bel mezzo del sentiero.
Merlino sbatté più volte le palpebre e quando capì a che cosa si riferiva si portò una mano sulla nuca, imbarazzato. «Io, ecco… Nel corso degli anni ho fatto di tutto per non dimenticare e una cosa che mi ha aiutato molto è stato scrivere».
«Tu hai scritto… di me? Di noi?».
La sua espressione innervosita, perfetta per celare l’imbarazzo, gli fece abbassare lo sguardo e calciare un paio di sassolini con le sue All Star rosse ora sporche di polvere. «Di voi, dei Cavalieri della Tavola Rotonda, di Gaius… Ho scritto tutto quanto. È stata l’unica cosa che ha saputo darmi un po’ d’ossigeno quando pensavo di soffocare».
«E Alex sa…?».
«No! Ho adattato alcune nostre avventure per poterle raccontare come favole ai bambini dell’ospedale e lei pensa che siano solo questo, favole; non sa che sono vere. Almeno credo».
Artù lo scrutò e, sapendo fin troppo bene che si era già tuffato in quel mare di dubbi ed ipotesi, lasciò perdere e non gli chiese altro.
Entrarono insieme nella grande scuderia e rimasero senza parole quando si trovarono nel bel mezzo del largo corridoio da cui sia a destra che a sinistra si aprivano i box di cinque bellissimi esemplari di cavalli adulti e di un paio di pony. Lo stregone non poté evitare di sciogliersi in un sorriso scorgendo gli occhi luminosi e allo stesso tempo malinconici del suo re di fronte ad una parte, seppur piccola, del mondo che conosceva.
Si avvicinò ad uno stallone dal lucido manto brunito e gli accarezzò il muso, provando le stesse identiche emozioni di Artù. E fu quella vicinanza, quell’atmosfera intrisa di ricordi, che lo invogliò a parlare.
«Alex non è la sola ad aver bisogno di perdono».
«Uhm?». Artù posò gli occhi nei suoi e il cavallo a cui aveva prestato tutta la propria attenzione fino a quel momento non ne fu felice e per dimostrarlo sollevò fieramente il capo nitrendo. Il re lo calmò con poche parole, sorridendo, e disse ancora: «Che cos’hai detto?».
Merlino abbassò gli occhi, appoggiandosi all’entrata del box con una mano. «È uno dei motivi, se non il motivo principale, per cui non sono mai riuscito a dirvi la verità».
«Cos’è, ora che il tuo amico drago non c’è più hai deciso di prendere il suo posto? Parla chiaro, per favore!».
«Io non sono mai riuscito a perdonare me stesso, Artù. Ho commesso tanti e tanti errori usando la magia, complicando le cose anziché migliorarle, costringendovi a correre mille e più pericoli inutili. Se solo voi vi rendeste conto di tutto il dolore che vi ho causato…».
«Ti riferisci a Morgana? A mio padre?».
Merlino trattenne il respiro e si azzardò ad alzare lo sguardo, trovando quegli occhi blu come il mare calmi, sereni, come se la tempesta fosse finita ormai da un pezzo e quasi dimenticata.
Il re di Camelot scrollò le spalle. «Millequattrocento anni sul fondo di un lago hanno avuto la loro utilità, dopotutto. Sono consapevole di tutto ciò che hai fatto e ti posso assicurare che i tuoi errori non sono nemmeno paragonabili a tutto l’aiuto che hai saputo darmi. Mi hai salvato la vita così tante volte che mi è impossibile tenere il conto, Merlino».
«Sì, ma…».
Gli posò entrambe le mani sulle spalle, immergendo gli occhi nei suoi. «Mio padre non è morto per colpa tua; tu hai fatto tutto quello che hai potuto per salvarlo, lo so. Era destino che perisse. E per quanto riguarda Morgana…». Sospirò, socchiudendo gli occhi. «Non so quanto avresti potuto aiutarla, ha scelto da sé quale uso fare dei suoi poteri».
Il mago aprì la bocca per ribattere, ma Artù lo fermò con un gesto imperioso della mano. «Davvero, Merlino, non hai nulla di cui essere perdonato. E non osare farmi ripetere che ti sono grato per tutto ciò che hai fatto per me a mia insaputa».
Merlino sollevò un angolo della bocca. «Così è come se l’aveste fatto».
Artù ricambiò il sorriso e provò a stringergli il collo in una morsa d’acciaio per sfregargli le nocche tra i capelli, ma non ci riuscì, preso alla sprovvista da una voce maschile che chiese loro: «Vi siete persi?».
I due si allontanarono in fretta l’uno dall’altro e guardarono spaesati l’uomo sbucato dal nulla, magro nei suoi consumati abiti da lavoro e negli stivali alti fino al ginocchio, con un cappellino da baseball blu impallidito dal sole che gli ombreggiava il volto scarno.
Merlino lo guardò meglio, assottigliando gli occhi, ma solo quando avanzò di qualche passo e si espose alla luce al neon della scuderia riuscì a riconoscerlo, nonostante la barba di due o tre giorni, ispida ed argentata. I suoi occhi, spenti e velati di un’antica tristezza dietro gli occhiali da vista, non potevano mentire.
«Lei è il padre di Alex, vero?».
L’uomo lasciò a terra il secchio che teneva in una mano e si fece ancora più vicino, guardandoli attentamente. Il suo sguardo finì inevitabilmente su Artù e si tolse il cappellino, rivelando una specie di caschetto spettinato di capelli argentati, prima di esclamare: «Tu sei quel ragazzo che Alex ha soccorso al lago, quello con tutta quella ferraglia addosso».
Il re strinse le labbra ed annuì, sollevando le mani come in segno di resa.
«Il suo nome è Artù», disse il mago. «Io invece mi chiamo Merlino».
Edwin li guardò e nonostante ci avesse provato il sorriso divertito che gli piegò le labbra non fu altro che una smorfia. «Mi prendete in giro?».
«No», sospirò Merlino, ricordando il momento in cui Alex gli aveva detto, ridendo, che quella era proprio una bella coincidenza. «Signor Greenwood, siamo venuti qui con sua figlia e prima che possa…».
«Alex è qui?», gli chiese interrompendolo, iniziando a sudare nonostante il suo viso si fosse fatto all’improvviso più pallido.
Lo stregone annuì solennemente, senza interrompere il contatto visivo. «Quando l’abbiamo lasciata, era ancora con la signora Morris».
A quelle parole l’uomo sobbalzò e lasciò cadere il cappellino da baseball a terra. Sia Artù che Merlino si chinarono a raccoglierlo e quando si risollevarono scoprirono che Edwin era corso fuori dalla scuderia. Non poterono far altro che seguirlo.

 

***

 

Una famiglia formata da mamma, papà e due bambini, ospite dell’agriturismo, si era trovata costretta a passare per il salotto già due volte e in entrambe le occasioni i genitori avevano rimproverato i figlioletti quando li avevano sorpresi ad osservare troppo a lungo Alex, rannicchiata sulla poltrona proprio di fronte al fuoco scoppiettante del camino e con gli occhi colmi di lacrime che stava tentando in ogni modo di sopprimere.
Continuava a guardare le fiamme, come se le parole che suo padre aveva scritto prima di tentare di togliersi la vita potessero apparire tra le scintille. Non sarebbe successo, no, ma Alex aveva la sensazione di conoscerle, di averle lette più e più volte nei suoi occhi stanchi e tristi, e facevano così male da toglierle il fiato.
Come poteva essere stata tanto crudele, tanto egoista? Come aveva potuto ignorare la sua sofferenza per così tanto tempo?
«Wanda!».
Alex sobbalzò e sentì le gambe cederle quando si alzò dalla poltrona, dando le spalle al fuoco.
La signora Morris uscì dalla cucina e dopo averle gettato una rapida occhiata si diresse velocemente verso l’ingresso sul retro, dove si imbatté in Edwin, seguito dagli ansimanti Merlino e Artù.
«Dov’è mia figlia? Perché non mi hai mandato subito a chiamare?», ruggì ancora, come un animale ferito.
La donna indicò il salotto con un braccio e sospirò stancamente, facendogli capire che era arrivato troppo tardi. «Aveva il diritto di saperlo».
«Non così! Lei…».
«Non è più una bambina», lo interruppe docilmente, posandogli una mano sul braccio.
Dalla sua posizione Alex poteva vederli, ma loro non potevano vedere lei. Poteva vedere la disperazione e lo smarrimento sul volto di suo padre, la confusione e il timore in quegli occhi che sua madre aveva amato tanto e che lei era sempre andata fiera di aver ereditato.
«Papà», lo chiamò, cercando inutilmente di mandare giù il magone che le faceva tremare la voce.
Edwin si girò verso di lei e lentamente la raggiunse, non riuscendo però a sostenere il suo sguardo, umido di lacrime e ciononostante bellissimo, la luce della sua vita, ancora più ardente del fuoco scoppiettante nel camino; l’unica ragione che inconsapevolmente gli aveva impedito di scegliere una morte più sicura ed istantanea.
«Non saresti dovuta venire qui», mormorò, ancora a capo chino sui suoi stivali sporchi di fango.
«Hai ragione», rispose Alex, accennando un sorriso mesto. «Perché non avrei mai dovuto lasciarti».
Suo padre alzò di scatto gli occhi e rimase senza parole quando Alex gli gettò le braccia al collo e lo strinse forte, passandosi una mano sotto gli occhi per cancellare i segni di quelle lacrime che alla fine l’avevano avuta vinta.
«Mi dispiace tanto, io…», singhiozzò, facendo i pugni sulla sua schiena e tra i suoi capelli.
«Shhh. Va tutto bene, amore mio. Va tutto bene».
Alex capì che per la prima volta da anni era davvero così e che c’era una sola persona che doveva ringraziare per averla spinta a dare quell’enorme calcio al sedere del suo orgoglio.
Incrociò lo sguardo di Merlino e gli rivolse un sorriso intriso di gratitudine, al quale lui rispose un tantino imbarazzato, guardandola solo di sottecchi. Al contrario Artù, al suo fianco, si appoggiò allo stipite della porta con una spalla e sorrise soddisfatto, come se il merito di quel lieto fine fosse suo.
Alex soffocò una lieve risata contro la spalla di suo padre e, circondata dalle sue braccia e dal suo infinito amore, chiuse gli occhi pregando perché quel momento non finisse mai.

 

***

 

«Siete sicuri di non voler restare per la notte? O almeno per cena?».
Alex sorrise gentilmente e chinò un po’ il capo, a mo’ di ringraziamento. «Abbiamo creato fin troppo scompiglio oggi. Sarà per la prossima volta, signora Morris». Quindi si voltò verso suo padre e il suo sorriso si ampliò quando stese le braccia verso di lui per poterlo abbracciare ancora. «Ti chiamo domani, promesso».
Edwin sospirò rilassato, massaggiandole la schiena, poi sollevò una mano per salutare anche Merlino ed Artù, quei due ragazzi strani senza i quali non avrebbe mai riavuto indietro la sua bambina.
Stavano per lasciarsi l’agriturismo alle spalle, quando il signor Morris si schiarì la gola dietro sua moglie e il padre di Alex, facendoli voltare sorpresi.
«Volevo scusarmi per… lo sapete, per come mi sono comportato. Non avrei dovuto dirti quelle cose, Alexandra».
Merlino avrebbe potuto indovinare i pensieri che aleggiavano nella mente della ragazza e seppe che avrebbe avuto ragione quando la vide offrirgli una mano in segno di pace ed esclamare: «Mi chiami pure Alex».
Abraham ricambiò il sorriso e le diede una stretta vigorosa, facendole promettere di tornare presto.
«Ci conti!», esclamò Artù al posto suo, con così tanto entusiasmo che sia Alex che Merlino si scambiarono uno sguardo accigliato.
Una volta nel parcheggio, il mago affiancò il re di Camelot e gli chiese che cosa avesse voluto dire con quella risposta.
«Niente, solo che ci torneremo!».
«Ah, ti conosco troppo bene ormai: dimmi che cosa ti frulla nella testa».
«Beh… Stavo pensando che se è davvero necessario che io mi trovi un lavoro, mi piacerebbe fare ciò che fa il padre di Lady Alex».
Alex si bloccò con una mano sulla maniglia della portiera e dopo un attimo di esitazione scoppiò a ridere accorgendosi dell’espressione sconvolta di Merlino.
«Mi stai prendendo in giro, vero?», gli chiese quest’ultimo, quando fu in grado di articolare una frase di senso compiuto, mentre Artù si era già impadronito del sedile accanto a quello del guidatore.
«No, perché dovrei?».
«Perché non puoi dire sul serio, è fuori da ogni logica!».
Alex sbuffò trattenendo una risata ed esclamò: «Falla finita e salta in macchina, è un lavoro come un altro».
«No che non lo è!», rispose, con gli occhi sgranati. 
Il re di Camelot che si abbassava a prendersi cura dei cavalli, a tenere puliti i loro box e in generale la scuderia? Non sarebbe mai successo, nemmeno in un universo alternativo.
Alex posò le braccia sul tettuccio dell’auto e gli rivolse un’occhiata esasperata. «Preferisci tornare a piedi?».
Merlino scosse il capo e sospirò, dicendosi che una volta da soli, a casa, avrebbe riaperto la questione. Entrò in auto e solo in quel momento si rese conto di essere seduto sui sedili posteriori.
«Perché hai lasciato che Artù sedesse davanti?», chiese ad Alex, insospettito. E lo fu ancora di più quando l’infermiera e Artù si scambiarono un sorrisino prima che lei rispondesse: «Perché no? Non c’è mica scritto il tuo nome su quel sedile».
Artù si allacciò la cintura e mentre Alex faceva manovra per girarsi ed uscire dal parcheggio si voltò verso di lui con un sogghigno per nulla rassicurante stampato sul viso. Infatti, con un luccichio perverso negli occhi, esclamò: «Hai qualcosa in contrario, forse? Non dirmi che sei geloso, Merlino!».
Il mago sobbalzò e sentì le orecchie andargli a fuoco, ma non fu l’unico a soffrire dei sintomi dell’imbarazzo: anche Alex, alle parole di Artù, aveva stretto più forte le mani sul volante, mordendosi nervosamente il labbro inferiore. E fu lei a sopprimerli per prima, rispondendo con l’ironia con cui era solita difendersi nelle situazioni critiche.
«E di chi dovrebbe essere geloso, di te? Mi dispiace dare questo colpo al tuo ego, Artù, ma ho visto ragazzi di gran lunga più belli di te».
Merlino si passò una mano sulla fronte, consapevole che se c’era un tasto che non doveva essere assolutamente toccato con Artù era proprio il suo aspetto fisico. D’altronde ne aveva più volte subito le conseguenze…
«Ah sì? Lasciami dire che invece io me ne intendo di bellezza femminile e sai, tu non sei nemmeno lontanamente paragonabile a nessuna donna abbia avuto l’onore di…».
Sospirò abbattuto e lasciò cadere indietro la testa.
Si prospettava un lungo, lunghissimo viaggio.

 
«Perché non ti fermi a cena?».
Merlino, il quale si era finto addormentato per la maggior parte del viaggio per non dover scegliere da che parte stare durante i loro continui battibecchi, rischiò di mandare a monte la sua favolosa copertura udendo la voce di Artù pronunciare quelle parole.
Si schiarì un po’ la gola e deglutì per poi schioccare le labbra come faceva durante il sonno – un motivo per cui veniva sempre picchiato da Artù nel caso gli capitasse di sentirlo. Il re di Camelot si voltò, appena infastidito, ma ben presto la sua attenzione fu di nuovo tutta su Alex, la quale sospirò e rispose: «Ti ringrazio per l’invito, ma è meglio di no».
«Non ti preoccupare, quando mi stuferò di starti a sentire mi porterò la cena in camera».
«Ah-ah, molto divertente», borbottò, lasciandosi andare ad una breve risata. Quindi il suo tono di voce tornò serioso, quasi dispiaciuto: «Vi ho già rubato fin troppo tempo oggi. A proposito, volevo scusarmi di avervi lasciati a voi stessi per tutto quel tempo…».
«Non devi scusarti. Avevi bisogno di stare da sola con tuo padre, per chiarirvi».
«Grazie, Artù. Ma la mia risposta è sempre no».
«Scommetto che c’è un altro motivo per cui non vuoi fermarti. Ho ragione?».
«Può darsi», biascicò.
Il biondo smorzò una risata per esclamare: «È così difficile ammettere che ho ragione? E sentiamo, quale sarebbe questo motivo?».
«Perché dovrei dirtelo?».
«Perché non dovresti?».
«Lo sai che sei proprio una seccatura? Non avrei dovuto coprire il tuo mal d’auto: a quest’ora saresti stato uno straccetto verdognolo sul sedile e avrei avuto un po’ di silenzio!».
Merlino dovette sforzarsi per non scoppiare a ridere e il suo silenzio venne ricompensato, perché vedere Artù così imbarazzato era un’occasione più unica che rara.
«Prometto che se mi dici qual è questo misterioso motivo starò in silenzio».
Alex sospirò e dopo qualche istante di esitazione confessò: «A volte mi sento di troppo, tra voi due. Sembrate così completi insieme e poi Merlino ti guarda in un modo…».
«Aspetta, aspetta, stai cercando di dire che sembriamo… Che io e lui…?», continuò a balbettare, sconclusionato, fino a quando Alex non lo interruppe dicendo: «Non c’è nulla di male, davvero. Siamo nel 2014, non nel Medioevo! E per quanto mi riguarda, se c’è l’amore…».
«Basta così! Non voglio più sentire una parola! Queste sono tutte assurdità! Tra me e Merlino non c’è quello che credi tu e mai niente del genere ci sarà, hai capito?».
Alex ridacchiò. «Ah già, dimenticavo… Il tuo cuore apparterrà a Ginevra per l’eternità».
Merlino riuscì quasi a sentire il dolore sordo che scavò una voragine nel petto del re di Camelot, come se il suo corpo e il proprio fossero collegati da un filo invisibile, e si sentì ancora peggio quando capì che non avrebbe potuto fare niente per alleviarlo.
Il silenzio calò nell’abitacolo, così pesante e carico di tensione da poterlo tagliare a fette, e il mago decise di svegliarsi. Aprì gli occhi e vide Alex che si mordeva nervosamente il labbro inferiore, il suo sguardo mortificato che si posava alternativamente sulla strada e su Artù, girato quasi di spalle e con la testa contro il finestrino.
«Era solo uno scherzo… uno scherzo stupido. Scusami, Artù».
Il re di Camelot non rispose e Alex incrociò quasi per caso gli occhi di Merlino attraverso lo specchietto retrovisore. Lanciò delle scuse silenziose anche a lui, il quale rispose con l’accenno di un sorriso incoraggiante e una scrollata di capo.

 
Alex aveva appena parcheggiato sul ciglio della strada sterrata di fronte alla casa di Merlino quando Artù si voltò con una mano stesa verso lo stregone. Quest’ultimo lo guardò spaesato e solo allora il biondo si decise a parlare, in tono brusco: «Le chiavi».
«Che senso ha avertene data una copia, se poi non te le porti dietro?», gli chiese, sollevandosi per infilare una mano nella tasca dei jeans.
Il re di Camelot non rispose e una volta ottenute le chiavi scese dall’auto rivolgendo uno scarno saluto ad Alex.
L’infermiera scese dall’auto contemporaneamente a Merlino, quando Artù era ormai sotto al porticato, e sospirando si appoggiò al cofano caldo.
«Gli passerà presto», la rassicurò il mago, mettendosi al suo fianco.
«Non è solo lui… È stata una giornata impegnativa», mormorò, passandosi stancamente le mani sul viso.
«Ma ne è valsa la pena, no?».
Riuscì a strapparle un sorriso. «Eccome. Grazie, Merlino».
«E di che cosa? Non ho fatto niente».
Alex scosse il capo e gli tirò un pugnetto sulla spalla. «Hai fatto tanto, invece. Mi hai fatto capire che non potevo più andare avanti così, che dovevo recuperare il rapporto con mio padre, cercare di capire, e poi mi sei stato accanto… Non ce l’avrei mai fatta, senza il tuo aiuto».
«Mi piace pensare che tu avresti fatto lo stesso per me».
«Pensi bene».
Merlino si perse nei suoi occhi verdi e una folata di vento gli riempì i polmoni del suo profumo, mentre una ciocca di capelli le scivolava sulla fronte. Sorrise quando la vide in difficoltà nel sistemarsela dietro l’orecchio e senza nemmeno rifletterci fu lui ad afferrarla tra due dita e a metterla a posto, sfiorandole la guancia, così calda per l’imbarazzo che si sentì bruciare a sua volta e ritrasse la mano di scatto, abbassando lo sguardo.
«Scusa, non volevo…».
«Non stavi dormendo prima, vero?».
Il mago inchiodò di nuovo gli occhi nei suoi e, preso in contropiede, boccheggiò per qualche istante, dando il tempo ad Alex di rispondersi alla prima domanda e di porne una seconda.
«Tu provi qualcosa per lui?».
Merlino la guardò intensamente, poi sogghignò. «Sì, provo per lui un affetto incommensurabile e una fede cieca. È solo il mio migliore amico, Alex, credimi. Ma non sei la prima a pensare che ci sia di più. Ho sentito dire molte volte che io e lui siamo due lati della stessa medaglia, ma questo non vuol dire che ci debba essere un coinvolgimento amoroso».
L’infermiera ricambiò il suo sguardo e nonostante avesse tentato di nascondere tutto ciò che quelle parole le avevano scatenato dentro, Merlino la vide rilassare le spalle, come sollevata, ed accennare un sorriso mentre alzava il viso verso il cielo punteggiato di stelle.
«Sarà meglio che vada».
Lo stregone annuì, allontanandosi dall’auto. Quando si accorse dell’espressione offesa di Alex corrugò la fronte, chiedendole silenziosamente di esprimersi.
«Non mi chiedi di restare?».
«Come? Beh, se vuoi…».
Alex sollevò un angolo della bocca in un sorrisino perfido e facendo il giro dell’auto per sedersi al volante esclamò: «E poi non dovrei pensare che tra di voi ci sia – come l’hai chiamato? – del coinvolgimento amoroso!».
Merlino lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e sbuffò, facendo ridere ancora di più Alex, la quale mise in moto ed illuminò con i fari la strada che già dopo pochi metri veniva nuovamente inghiottita dal buio.
Il mago restò a fissare le luci posteriori, due occhi color del sangue, fino a quando non sparirono, poi si infilò le mani nelle tasche dei jeans ed entrò in casa.
Con Alex non si era reso conto del freddo che era sceso con l’arrivo della notte, ma ora si sentiva intirizzito e la prima cosa che fece fu accendere il camino in salotto. O almeno l’avrebbe fatto, se non avesse sentito un clangore metallico e poi un tonfo provenire dal piano superiore.
Artù fu il suo primo pensiero e senza perdere tempo corse su per le scale. Si diresse verso il fracasso che stava aumentando d’intensità e con sgomento intuì che il re di Camelot era entrato nel suo studio, quello che lui chiamava la Stanza dei Ricordi.
Lentamente entrò nel riquadro della porta e scorse Artù inginocchiato a terra, accanto al manichino riverso su cui aveva sistemato la sua armatura, pulita e lucidata a dovere, rotoli e rotoli di pergamena e pile di libri spazzati via dal loro posto sulle mensole e ad un grosso baule chiuso con un lucchetto che Artù stava cercando di forzare con una delle spade che aveva trovato appese al muro, insieme a diverse altre armi che Merlino aveva recuperato e gelosamente custodito nel tempo.
«Sono qui, non è vero?», gli chiese con impazienza e una luce folle di dolore negli occhi. «Dimmi dove sono i libri che hai scritto, Merlino!».
«Siete sconvolto abbastanza, Artù, è inutile farvi altro male aggrappandovi ai ricordi».
«Io non voglio dimenticare!», ruggì e le lacrime iniziarono ad inumidirgli lo sguardo. «Da quando sono uscito dal lago, tutte le volte che ci ho provato è stato come ricordare un’eco, una proiezione distorta di quello che è realmente stato. Quei ricordi sono tutto quello che ho, non posso permettermi di –!», la sua voce graffiata dalla sofferenza si trasformò in un rantolo e fu costretto ad accasciarsi tra i libri, una mano stretta a pugno sul cuore.
Merlino corse al suo capezzale e gli tenne sollevata la testa, posando la mano sulla sua. Artù respirava a fatica, come se stesse per affogare, e lo guardava negli occhi con espressione implorante.
«Per favore, Merlino».
Ma il mago negò con la testa, socchiudendo gli occhi per richiamare la magia e concentrandosi al massimo per riuscire poi a contenerla e a rinchiuderla di nuovo.
I suoi occhi diventarono d’oro liquido e fu uno shock tremendo sentire quella terribile potenza scorrergli nel sangue, vibrargli nelle ossa e friggere nel suo cervello, ma in qualche modo riuscì a ricacciarla indietro quando vide il volto di Artù distendersi e sentì il suo respiro farsi più regolare. Le conseguenze però furono peggiori anche della prima volta: scosso dalle convulsioni crollò accanto ad Artù e non vomitò solo perché era da quella mattina che non metteva nulla nello stomaco, quindi svenne.
Dormì fino alla mattina successiva, ma al suo risveglio avrebbe ricordato chiaramente di aver ripreso conoscenza almeno una volta, quando Artù, nonostante la debolezza, lo aveva portato nella sua camera da letto e gli aveva rimboccato le coperte.
Avrebbe ricordato di avergli preso il polso, di averlo stretto più forte che poteva e di aver sussurrato: «Avete anche me. Sempre».
Avrebbe ricordato di aver visto l’ombra di un sorriso sul volto del solo ed unico re e di averlo sentito rispondere: «Temo proprio che tu abbia ragione».

 

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Capitolo 9
*** 9. A remedy to cure all ills – Part I ***


Buonasera!
Mi scuso enormemente per il ritardo, ma la "real life" ha chiamato e ho dovuto rispondere... sapete com'è -.-'
Piccole anticipazioni sul capitolo (chi non vuole rovinarsi la lettura salti questa parte): 
E' giunto finalmente il momento di mettere Alex e Artù a confronto e fargli trascorrere un po' di tempo da soli è l'occasione perfetta, non trovate? Spero che queste scene siano venute bene :)
E poi ci saranno delle novità anche in campo magico, perché Artù si avvicinerà di nuovo al lago in cui ha dormito per millequattrocento anni e chissà che cosa succederà...
Ritorneremo anche in ospedale, nel reparto oncologico, e ci ritorneremo ancora di più nel prossimo capitolo, in cui verranno introdotti persino dei nuovi personaggi. Insomma, stay tuned!
Ringrazio di cuore chi ha letto e commentato lo scorso capitolo. Un bacione!

Vostra,

_Pulse_

 

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9. A remedy to cure all ills – Part I

 

Alex riprese un po’ il fiato e si schiarì la gola più volte, poi, chiedendosi nuovamente se fosse la cosa migliore da fare, suonò il campanello. Attese, ma invano. Suonò ancora e poi bussò alla porta, chiamando forte il nome di Artù. Il suo sesto senso le fece trovare strano quel silenzio, se non addirittura preoccupante. Merlino era al lavoro e a meno che non se lo fosse portato dietro – eventualità di cui dubitava fortemente – non riusciva nemmeno ad immaginare dove Artù potesse essere andato, da solo.
Posò l’orecchio contro la porta e, non udendo alcun rumore, si decise ad entrare cautamente.
«Artù? Artù, sei in casa?».
Si guardò intorno nell’ampio salotto e a parte quel poco di confusione obbligatoria in una casa abitata da due ragazzi non trovò nulla di insolito. Sembrava davvero che il biondo fosse uscito, ma continuava ad avere il presentimento che non fosse così: Artù poteva anche essere un imbecille, ma avrebbe almeno chiuso la porta d’ingresso.
Diede un’occhiata sulla veranda sul retro e poi in cucina dove, già che c’era, si servì un bicchiere di succo d’arancia. Quindi salì le scale e la sua attenzione venne subito attirata dalla porta aperta in fondo al corridoio, da cui riusciva ad intravedere quello che sembrava proprio uno scrittoio d’epoca.
«Artù?», lo chiamò un’ultima volta, prima di sbirciare all’interno della stanza e di rimanere senza parole.
Si trattava di un’enorme camera da letto, divisa in due ambienti distinti: una zona giorno arredata in modo quasi principesco, con mobili antichi, arazzi e vecchie armi appese al muro; e la zona notte in cui saltava subito all’occhio il massiccio letto a baldacchino, veramente degno di un re.
Artù era seduto a gambe incrociate proprio sul materasso, tra le lenzuola stropicciate e ancora seminudo, con il PC di fronte agli occhi sbarrati. Indossava anche un paio di grosse cuffie, a causa delle quali non aveva sentito né il campanello né la sua voce, e farfugliava tra sé: «Non è possibile. Ma come diavolo…?».
Alex si avvicinò al letto e Artù si accorse di avere qualcuno alle spalle troppo tardi, quando ormai l’infermiera aveva già avuto modo di capire la causa di tutta la sua incredulità.
In una frazione di secondo si ritrovò seduto sul letto, con in mano il pugnale che teneva nascosto sotto uno dei cuscini, ora pericolosamente vicino al suo occhi sinistro. Nella fretta il mini-jack delle cuffie si era staccato dalla piccola entrata, lasciando che forti gemiti femminili spezzassero il silenzio. Artù si lanciò sopra il PC di Merlino per chiuderlo e poi, terrorizzato, urlò: «Tu! Si può sapere chi ti ha dato il permesso di entrare nelle mie stanze?!».
Alex, passata la paura di essersi trovata per la seconda volta di fronte alla lama ben affilata di un pugnale, si godette appieno la sua espressione, conscia che non si sarebbe più fatto cogliere così di sorpresa, e senza riuscire a levarsi quel sogghigno dalla faccia disse: «Evidentemente eri troppo concentrato per darmi il permesso».
«Che cosa vuoi?».
«Nulla, passavo di qui…».
«Beh, Merlino non c’è», disse Artù un po’ stizzito, togliendosi le cuffie ormai inutili per gettarle sul letto.
«Cosa ti fa credere che sia venuta per vedere Merlino?», gli chiese, posandosi le mani sui fianchi ed assottigliando gli occhi.
Fu il biondo a sogghignare quella volta. «Sei per caso venuta qui per me?».
Alex boccheggiò come un pesce fuor d’acqua, ricostruendo pezzo dopo pezzo il ragionamento che doveva aver fatto. Nonostante il rossore che le stava infiammando il volto, con tono deciso ed orgoglioso ribatté: «Certo che no!». Ma nemmeno quella risposta le sembrò ottima, perché si rese conto che aveva solamente confermato la teoria originale di Artù, a proposito della sua cotta per Merlino. 
«Cioè sì!», si corresse frettolosamente, per poi aggiungere subito, prima che il biondo avesse il tempo di aprire bocca: «Ma non per il motivo che credi tu!».
«Ossia?».
Quanto avrebbe voluto cancellargli quel sorrisino da sbruffone dalla faccia!
Alex mise a freno la rabbia, trovandosi costretta a dover confessare: «Merlino è mio amico e visto che lui sembra tanto affezionato a te, ho pensato che magari sarebbe stato contento se… sì, insomma, se avessimo legato un po’».
«Quindi vorresti passare del tempo con me per… far contento Merlino?».
Alex gli rivolse un’occhiata truce e tra i denti disse: «Azzardati a dirgli anche solo una parola di tutto ciò e giuro che la tua passione per i porno non rimarrà più un segreto».
Artù divenne paonazzo e senza pensarci su due volte esclamò: «Hai la mia parola».
«Perfetto!», rispose Alex, sorridendo raggiante. «Che ne dici di unirti a me per un po’ di jogging?».
Artù la guardò spaesato per una manciata di secondi, per poi rispondere, ridacchiando: «Certo! Jogging… Io adoro fare jogging!».
Alex ebbe come l’impressione che non le stesse dicendo la verità, ma lasciò correre. «Sbrigati a cambiarti, ti aspetto di sotto».
Il biondo annuì e lei si diresse verso la porta, nonostante fremesse per chiedergli come mai la sua stanza avesse un aspetto così… antico.
«Oh, ahm… Lady Alex?».
Sorrise appena udendo quel soprannome a cui si stava abituando sempre più e si voltò di nuovo verso Artù. «Che c’è?».
«Ecco…», esitò, passandosi una mano tra i capelli arruffati. «Che cosa mi consigli di indossare?».
Alex sentì la mandibola cederle poco a poco, ma incredibilmente riuscì a controllarsi e tornò al suo fianco per aiutarlo a tirar fuori dall’armadio degli abiti adatti.

 

***

 

Dire che non aveva la minima idea di che cosa significasse la parola “jogging” non era sufficiente a quantificare la gravità del trauma che aveva subìto quando aveva scoperto che era semplicemente il sinonimo di “corsa all’aperto”.
Era sempre stato un tipo atletico e di fronte alla fatica non si era mai tirato indietro, soprattutto se quella fatica poi veniva ricompensata – e con il jogging non era quello il caso – ma dopo millequattrocento anni in fondo ad un lago aveva dovuto ammettere a se stesso che era leggermente fuori allenamento; perciò si era morso la lingua ogni volta che Alex lo incitava ad accelerare perché non ne poteva più di “correre al passo di una lumaca”.
Anche se in realtà c’era un altro motivo, ben più grave, per cui non dava il massimo e preferiva essere preso in giro in silenzio: aveva paura che il suo cuore non reggesse lo sforzo e che lo colpisse un altro attacco, un attacco che, senza Merlino, avrebbe potuto costargli la vita.
«Vuoi che ci prendiamo una pausa?», gli gridò Alex, una decina di metri più avanti e con il suo aggeggio per ascoltare la musica in mano.
«Ottima idea», sospirò Artù chinandosi sulle ginocchia, distrutto e senza più fiato.
«Non puoi fermarti così di colpo! Cammina facendo dei respiri profondi, forza!».
«È da quando siamo usciti che non fai altro che dirmi che cosa devo fare!», sbottò, irato. «Chi ti credi di essere?».
«E tu, invece?», borbottò Alex tra sé, ma abbastanza ad alta voce perché Artù la sentisse, mentre si dirigeva verso di lui con sguardo determinato. Lo afferrò per un braccio e lo costrinse a mettersi dritto e a camminare.
«Avresti dovuto dirmi subito che non avevi mai fatto jogging in vita tua, invece di fare il pallone gonfiato come al solito».
«Io, un pallone gonfiato?!».
Alex sbuffò e roteò gli occhi al cielo, lasciandogli finalmente il braccio da cui lo aveva sorretto fino ad allora. «Smettila di sprecare fiato per rispondere a tutto ciò che ti dico e concentrati a respirare, o starai male».
Artù la guardò incredulo, chiedendosi se si sarebbe comportata allo stesso modo se avesse saputo di avere a che fare con Artù Pendragon, il vero re di Camelot. Probabilmente sì, visto che non esisteva più nessuna Camelot e lui non era più nessuno in quel mondo moderno, ma soprattutto perché quella ragazza somigliava molto anche a Merlino, con la stessa sfacciataggine, una dose massiccia di folle coraggio – quello che l’aveva spinta a gettarsi nel lago per lui, uno sconosciuto – e il sorriso contagioso.
Camminarono per un po’, fianco a fianco, respirando profondamente, ruotando le braccia in un modo che ad Artù sembrava ridicolo e fermandosi di tanto in tanto per fare quello che Alex aveva chiamato stretching.
Pur di rompere quell’irritante silenzio Artù disse la prima cosa che gli venne in mente, vedendo Alex sciogliersi la coda di cavallo per rifarla più stretta ed ordinata.
«Hai usato la piastra che ti abbiamo regalato io e Merlino?».
L’infermiera lo guardò stranita, con le sopracciglia aggrottate, e quando si tolse l’elastico dalle labbra rispose: «Sì, perché?».
«Perché ti stanno bene i capelli lisci. Non che ondulati non ti stessero bene, solo… Ah, ci rinuncio».
Artù avrebbe voluto schiaffeggiarsi perché con Alex non faceva altro che la figura del cretino, per questo rimase sorpreso di sentire la sua risata. La fissò, non riuscendo ad impedirsi di arricciare le labbra in un sorriso, e le chiese che cosa ci fosse di così divertente.
«Tu che provi a farmi un complimento», rispose, dandogli un pugnetto sulla spalla. «Grazie, è gentile da parte tua. Non pensavo fossi il tipo da notare queste cose».
«È evidente che non mi conosci bene».
«No, infatti. Ma è quello che voglio fare».
Il suo tono di voce intriso di determinazione attirò la sua attenzione e Artù non fece fatica a cogliere lo stesso sentimento fiammeggiare nei suoi occhi verdi. Ne rimase anche un po’ suggestionato, tanto che dovette imporsi di guardare da un’altra parte. Fu allora che il suo sguardo cadde sulla superficie del lago che si intravedeva oltre la curva del sentiero: Avalon.
Immediatamente ne fu attratto, come se ci fosse una forza misteriosa che lo chiamava con prepotenza, e a cui non riuscì a resistere. Si sentiva parte di quel lago, un figlio protetto e rinato dalle sue acque, e quel lago era una parte di lui, del suo passato.
«Artù? È tutto okay?», gli chiese Alex, vagamente preoccupata, guardandolo senza sapere se seguirlo o meno verso la sponda del lago. «Guarda che se hai intenzione di farti un tuffo io non ti tirerò fuori questa volta!».
Artù si voltò solo per farle il verso e poi si chinò tanto da vedere la propria immagine riflessa sull’acqua. Si guardò attentamente, come se Avalon potesse dargli un aspetto diverso rispetto a quello che vedeva ogni mattina nello specchio del bagno, e ad un tratto gli sembrò di vedere l’acqua incresparsi lievemente, facendo tremolare la sua espressione confusa, ma tutto tornò nella norma quando comparve al suo fianco la figura di Alex, in piedi e con le mani posate sui fianchi.
«Ehi Narciso, mi vuoi dire che ti prende?».
«Come mi hai chiamato?».
Alex sospirò, gettando un’occhiata affranta al cielo. «Lasciamo perdere. A che cosa stai pensando?».
Artù corrugò la fronte, rendendosi conto che in effetti c’era una cosa su cui aveva riflettuto molto in quei giorni. 
Alzò il capo verso il suo e senza nemmeno domandarsi se fosse opportuno le chiese: «Se davvero non vedevi tuo padre da sei anni allora perché hai chiamato lui il giorno in cui mi tirasti fuori da qui?».
L’infermiera boccheggiò per qualche istante, ma Artù non colse il suo disagio ed aggiunse: «Abraham, all’agriturismo, ha detto che non hai nessun altro, ma in realtà hai moltissimi amici su Facebook».
Quella volta Alex rimase a bocca aperta per lo shock, anziché per il disagio o i sensi di colpa. «Tu hai un profilo su Facebook?».
Artù scrollò le spalle. «Merlino non voleva, perciò…».
«Perciò hai fatto esattamente il contrario, chiaro».
La ragazza sospirò e si sedette sull’erba a mezzo metro dalla riva del lago, lasciando che il biondo la raggiungesse per sistemarsi al suo fianco, con le braccia posate sulle ginocchia.
«Non tutti gli amici su Facebook sono veri amici. Anzi, nella stragrande maggioranza dei casi non è così: molte persone si conoscono solo di vista, o non si conoscono affatto. Nella realtà l’unico amico vero che ho è Merlino, l’unico con cui sono riuscita a parlare della mia famiglia e a cui affiderei la mia vita».
Artù non avrebbe mai pensato di sentire quella confessione, né che Alex si sarebbe aperta in quel modo con lui, con naturalezza e spontaneità. Per questo non ci pensò su un attimo prima di chiederle: «Allora perché non hai chiamato subito lui?».
«Non lo so, io… ci ho pensato, è stata la prima persona a cui ho pensato, ma poi qualcosa… Non lo so, forse la fatica, o tutta la ferraglia da cavaliere medievale che avevi addosso, mi ha fatto pensare che la cosa migliore da fare era quella di chiamare qualcuno che non avrebbe posto domande». Si strinse nelle spalle, gli occhi fissi sull’isola al centro del lago, quella mattina non troppo nascosta dalla nebbia. «È successo qualcosa, quella sera. Non ho idea di che cosa, ma la sensazione che ho provato quando quel fulmine si è abbattuto sull’isola e poi ti ho visto sbucare fuori dall’acqua…».
Artù notò come il suo sguardo si fosse fatto ansioso e come avesse iniziato a strofinarsi le mani sulle braccia, come a voler cacciare dei brividi di freddo. Si morse il labbro, apprensivo, e qualche secondo dopo le colpì il braccio con un pugnetto leggero, molto più leggero in confronto a quelli che ogni tanto rifilava a Merlino.
«Lo so io che cosa è successo».
Alex lo guardò corrucciata, massaggiandosi con nonchalance il punto colpito, decisa più che mai a non fargli capire che, nonostante la sua premura, le aveva fatto male.
«Quello che hai provato si chiama “amore a prima vista”», concluse con un occhiolino che dapprima le fece arricciare le labbra in un sorriso divertito e poi la fece scoppiare in una risata argentina, il cui suono scacciò via ogni traccia di preoccupazione dal suo sguardo. E Artù non poté fare a meno di sentirsi sollevato per questo. Volente o nolente, le si stava affezionando.
«Sei proprio un idiota quando ti ci metti, lo sai?».
«Ehi, attenta a come parli! Vuoi per caso che ti metta alla gogna?». 
Ci provò a lanciarle un’occhiata minacciosa, ma era fin troppo consapevole del sorriso che gli aleggiava sulle labbra.
«Oh no, vi supplico Sire, mostrate clemenza!», stette al gioco lei.
«E sia. Solo per questa volta, però!».
«Me ne ricorderò». Gli rivolse un sorriso e per alzarsi appoggiò una mano alla sua spalla, a cui poi diede un colpetto leggero, esortandolo a fare lo stesso. 
«Ci siamo riposati abbastanza, no?».
«Che cosa? Hai intenzione di riprendere a correre?», esclamò con gli occhi sgranati, increduli.
Alex ridacchiò, facendo qualche saltello sul posto come riscaldamento. «Forza, sfaticato! Non vorrai che quel tuo bel fisico si guasti!».
A quelle parole un ghigno di soddisfazione si dipinse sul volto del re di Camelot, pronto a sfruttare l’occasione che gli aveva offerto su un piatto d’argento, ma l’infermiera gli puntò un dito contro e lo zittì, iniziando a correre subito dopo.
«Ehi, aspettami!», le urlò dietro, ma Alex era già lontana e se gli rispose Artù non la sentì. 
Sbuffò e ruotò le spalle, quando un bagliore sulla superficie del lago attirò la sua attenzione. Rimase per qualche secondo ad osservare il punto in cui aveva scorto quello strano luccichio dorato e alla fine si disse che doveva essersi trattato della semplice luce del sole.
Aveva appena iniziato a correre lungo il sentiero, quando la voce di una donna chiamò il suo nome. Artù si fermò di scatto e si guardò intorno, senza però scorgere nessuno.
«Chi va là?», domandò, sentendosi esposto ed inerme, completamente sprovvisto di armi e in quegli abiti che non l’avrebbero per nulla protetto da un attacco.
«Pendragon, da questa parte».
«Non è possibile», mormorò, avvicinandosi nuovamente alla superficie del lago.
Il bagliore che aveva visto solo di sfuggita si era fatto più intenso, ad una ventina di metri dalla riva, e qualcosa di viscerale gli diceva che quella voce proveniva proprio da Avalon, era una certezza.
«Chi sei? Che cosa vuoi da me?».
«Non si tratta di quello che voglio io, ma di quello di cui questo mondo ha bisogno».
«Fantastico, sono tutt’orecchi».
«Non è questo il momento adatto. Tornate questa notte, solo ed unico re, ed assicuratevi che Merlino non vi segua».
«E per quale ragione mi dovrei fidare di te? Potrebbe trattarsi benissimo di un’imboscata!».
«Vi ho protetto nelle profondità delle mie acque per più di millequattrocento anni, mentre il mondo intorno a noi cambiava. Questo non è abbastanza?».
«Vuoi la verità? No. E non aspettarti ringraziamenti. Fino a quando non saprò qual è il tuo fine, non –».
«Artù, giuro che ti lascio qui!», gridò Alex, la quale comparve dietro la curva del sentiero, accanto ad un cespuglio di rovi. «Che cosa diavolo stai aspettando?».
Il re le rivolse un rapido cenno d’assenso e quando si voltò nuovamente verso Avalon il bagliore dorato era sparito.

 
«Ehi, posso chiederti una cosa?».
Artù, seduto accanto ad Alex sulla panchina su cui l’aveva pregata di lasciarlo riposare, col volto paonazzo e i capelli umidi di sudore sulla fronte, la guardò con espressione disperata.
«Va bene, dillo! Sono completamente fuori allenamento, ma la prossima volta andrà meglio!», sbottò, passandosi una mano tra i capelli sulla nuca.
«Su questo non c’è alcun dubbio», mormorò Alex, senza farsi sentire dal biondo. «Veramente volevo farti una domanda su Merlino».
«Ah, ovviamente».
Alex gli schiaffeggiò la spalla senza nemmeno rivolgergli uno sguardo, facendolo sorridere.
«Quando sabato sono venuta a casa vostra per chiedere a Merlino se volesse accompagnarmi da mio padre credeva che mi avessi chiamato tu, vero? Perché? Che cosa dovrebbe dirmi, secondo te?».
«Ecco, io…».
«Se non c’entrassi in prima persona ti direi che spetta a Merlino decidere e non dovresti affatto intrometterti, ma… non faccio altro che pensarci da quel giorno».
Il biondo esitò ancora, deviando il suo sguardo. «Io davvero non so se…».
«Artù, ti prego», sussurrò, guardandolo negli occhi implorante.
Il re di Camelot si massaggiò il viso con le mani e le rivolse un breve sorriso. «Okay, come vuoi».
 

***

 

«Posso sapere dove stiamo andando?», chiese Artù lagnosamente, camminando molto lentamente dietro di lei. «Ho sete, tanta sete…».
Alex aveva ben altro per la testa al momento, ma non ne poteva davvero più delle sue lamentele, perciò rispose in tono piatto: «Stiamo andando alla caffetteria della signora Begum».
«Un momento… Merlino lavora lì!».
«Ottimo spirito di osservazione, Sherlock», ridacchiò, sicura al cento per cento che non avrebbe colto il riferimento al famosissimo consulting detective.
Forse fu così, forse non l’aveva semplicemente ascoltata, ma le prese il polso e la fece voltare bruscamente, tanto da trovarselo a pochissimi centimetri di distanza, occhi negli occhi.
Erano già stati così vicini – Artù se l’era addirittura caricata in spalla – ma in quel momento Alex venne paralizzata dall’imbarazzo e boccheggiò, senza riuscire a trovare la forza di dirgli di lasciarla andare. Artù non sembrava nella sua stessa situazione, affatto, e come se nulla fosse si avvicinò ancora di più, assumendo un’espressione colma di rimostranza.
«Non so come reagirà Merlino quando verrà a sapere quello che ti ho detto, forse…», esclamò, guardando sopra la sua testa.
Prima che potesse dire che forse era stato un errore Alex si schiarì la voce e fece un passo indietro. Sollevando il mento come avrebbe fatto una regina fiera della propria posizione disse: «In realtà c’è un altro motivo per cui sono passata a trovarti».
Artù inarcò le sopracciglia. «Davvero?».
«Spero che tu non ti sia già rimangiato quello che hai detto, perché ne ho parlato con mio padre e a lui farebbe comodo l’aiuto di un ragazzo giovane, in grado di svolgere i compiti più faticosi. Sai, ha una certa età ormai…».
«Stai dicendo che potrei stare con i cavalli?».
«No, sto dicendo che lavorerai per Abraham e mio padre: spetterà a loro decidere che cosa farti fare. Sempre se accetterai».
«Certo che accetterò! Andiamo a dare la notizia a Merlino, che aspettiamo?!».
L’afferrò di nuovo per il polso, ma questa volta per trascinarsela dietro, improvvisamente euforico e pieno di energie. 
Alex scrollò il capo e ridendo ricambiò la sua stretta, anche se il cuore aveva iniziato a batterle forte in gola al solo pensiero che di lì a pochi minuti avrebbe visto Merlino e sarebbe stato davvero difficile – per non dire impossibile – fare finta che Artù non le avesse detto nulla.

 
Respirò profondamente e seguì Artù, il quale da vero cavaliere le aveva tenuto aperta la porta, all’interno della caffetteria.
«Artù! Alex! Che… che ci fate qui?», balbettò Merlino, guardando prima l’uno e poi l’altra in un ping-pong alquanto imbarazzante.
Artù era impaziente di dargli la lieta novella e stava proprio per annunciarla, incurante dei pochi disinteressati clienti all’interno del locale, ma Alex gli pestò un piede e mostrò un sorriso smagliante esclamando: «Siamo assetati ed affamati, ma soprattutto assetati. Che cosa ci porti?».
Udendo la sua voce, la signora Begum uscì dalla cucina e sollevò le grosse braccia con gioia.
«Cara, che bello vederti! E chi è quel bel fusto al tuo fianco? Non sapevo fossi fidanzata!».
Le strizzò l’occhio e l’infermiera rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva, mentre Merlino, troppo occupato a cercare di distogliere l’attenzione dalle sue gambe affusolate sotto un paio di pantaloncini aderenti che le arrivavano fino alle ginocchia o dalla canottiera scollata che, da sotto la felpa slacciata, lasciava intravedere l’incavo tra i suoi seni, non riusciva a trovare la forza di aprire bocca e fare un po’ di chiarezza. Quanto avrebbe voluto che lo facesse, finalmente! Avrebbe dato qualsiasi cosa per sentirlo gridare: «Quell’imbecille non è il suo fidanzato! Lei è mia!», ma sapeva che non sarebbe mai successo.
«Le piacerebbe!», rispose invece il biondo, sogghignando. «Il mio nome è Artù, lieto di conoscerla».
«Un Artù e un Merlino nella mia caffetteria, che strana coincidenza!», esclamò la signora Begum, per poi pulirsi le mani sul grembiule e fare il giro del bancone per tirare a Merlino un bonario scappellotto. «Che cosa ci fai ancora qui? Hanno detto che sono assetati: porta loro due milkshake, tanto per cominciare!».
«Io preferirei un boccale di idromele, veramente».
Alex lo fissò sconcertata. «Che cosa?».
Artù scrollò le spalle e prima che potesse ripetere Merlino disse frettolosamente: «Succo di mele, ha detto succo di mele».
«No, ha detto idromele, tonto», lo rimbeccò la signora Begum, per poi concentrarsi su Alex. «Mia cara, non sai che cos’è l’idromele?».
«No, non è quello che… So che cos’è! Ma è una bevanda… insolita, per un ragazzo della sua età, no?». Si torturò le dita nervosamente, scorgendo con la coda dell’occhio Merlino lanciare uno sguardo esasperato ad Artù, il quale si era messo completamente a suo agio sulla panchina ricoperta di pelle verde intorno al tavolino subito accanto alla porta.
«I gusti sono gusti, Alexandra», rispose noncurante la signora Begum, tornando dietro il bancone. «Merlino, smettila di stare lì imbambolato e vai a controllare in magazzino se abbiamo delle bottiglie di idromele. Ci siamo capiti?».
«Certo», mugugnò allontanandosi, non prima di aver rivolto l’ennesima occhiata ad Artù, gongolante dietro il menù plastificato che aveva preso tra le mani nell’attesa.
Alex sentì il sangue andarle al cervello e sedendosi sulla panchina di fronte sbottò: «Perché ti comporti così?».
«Così come?», chiese innocentemente, sollevando gli occhi su di lei.
«Come se godessi nel vederlo in difficoltà! Hai visto come la signora Begum l’ha maltrattato per colpa tua e non hai fatto niente! Te ne sei stato lì, a ridacchiare come un… Tu sei uno stronzo, Artù».
Con estrema calma il biondo posò il menù sul tavolino di legno ed immerse gli occhi nei suoi, con una freddezza tale che Alex sentì un brivido percorrerle la spina dorsale. 
«Esigo delle scuse. Immediatamente».
«Te le puoi scordare», digrignò, stringendo i pugni sul tavolo.
«Molto bene». Artù incrociò le braccia al petto e si appoggiò allo schienale, guardandola dall’alto in basso. «Siamo più simili di quanto pensi allora, perché nemmeno tu l’hai difeso».
Alex si sporse verso di lui per poter parlare ancora a più bassa voce, certa che se avesse dato libero sfogo a tutta la sua rabbia anche quei pochi clienti se ne sarebbero andati e la signora Begum non ne sarebbe stata molto contenta.
«È vero, ma almeno io non ci ho provato gusto! La sai un’altra cosa? Oltre che uno stronzo sei anche un ingrato, perché Merlino non ti ha lasciato solo un momento da quando sei arrivato, ha fatto di tutto per aiutarti, e io non so nemmeno per quale motivo lo stia facendo: non è il servo di nessuno, tantomeno il tuo!».
Artù sbatté entrambi i pugni sul tavolo, facendo trasalire lei come gli altri clienti e la stessa signora Begum, la quale provò a chiedere se andasse tutto bene per essere semplicemente ignorata.
Alex non l’aveva mai visto così infuriato e determinato e ferito allo stesso tempo, nemmeno quando aveva creduto che lei fosse la strega che aveva rapito Merlino per i suoi scopi malvagi. C’era così tanta malinconia nei suoi occhi, e così tanto dolore... che sentì il cuore stretto in una morsa.
«Fa’ silenzio, Alexandra. Tu credi di conoscere me e Merlino, ma la verità è che non hai la minima idea di chi siamo veramente, di tutto quello che abbiamo passato insieme, di tutte le volte in cui io… Tu non sai niente».
Alex riuscì faticosamente a spezzare il contatto visivo, sentendo gli occhi bruciarle a causa delle lacrime, e ascoltò il silenzio che era piombato nella caffetteria, rotto soltanto dai battiti furiosi del suo cuore.
«Ecco qua il tuo milkshake, cara. Ti ho portato anche una fetta della tua torta preferita, offre la casa». La signora Begum lasciò l’ordinazione di Alex sul tavolino ed osservò prima lei e poi Artù prima di posarle teneramente una mano sulla spalla. «Cara, ti senti bene?».
«È un po’ impolverata, ma credo sia ancora buona!», esordì entusiasta Merlino, sbucando dalla cucina con una bottiglia di idromele in mano e paralizzandosi sul posto non appena si rese conto dell’atmosfera carica di tensione. Incrociò per una frazione di secondo gli occhi umidi di Alex, proprio prima che si alzasse e gli passasse accanto a testa bassa per andare a chiudersi in bagno.

 

***

 

«Che cosa diavolo è successo?», chiese Merlino lasciandosi cadere sulla panchina su cui fino a qualche minuto prima era stata seduta Alex.
La signora Begum, la quale aveva assistito a tutta la scena, aveva deciso di concedergli una piccola pausa e ora li stava osservando da dietro il bancone, apprensiva come una mamma nei confronti dei propri bambini.
«Non ne voglio parlare», bofonchiò Artù, versandosi un generoso bicchiere di idromele e bevendolo tutto d’un fiato, strizzando gli occhi. «Uh, non me lo ricordavo così forte!».
«Credo che i metodi di preparazione siano leggermente cambiati negli ultimi quindici secoli. Ma possiamo ritornare al motivo per cui Alex…?».
«Mi ha dato dello “stronzo”. Non so bene che cosa significhi, ma sono sicuro che non si tratti di un complimento».
Merlino sospirò, massaggiandosi il setto nasale con due dita. «No, decisamente no. E sentiamo, che avete combinato?».
«Niente».
«Alex non può avervi insultato senza un motivo più che valido, non è da lei!».
«Se l’è presa perché ti ho messo in difficoltà con la signora Begum e ho ridacchiato quando ti ha dato del tonto, ecco».
Si versò un altro bicchiere colmo fino all’orlo, ma Merlino gli bloccò la mano con cui stava per portarselo alle labbra, guardandolo seriamente. C’era dell’altro, ne era sicuro, e non avrebbe mollato la presa fino a quando Artù non avesse confessato.
Il re di Camelot roteò gli occhi al cielo ed aggiunse: «Mi ha detto anche che non mi ha mai sentito ringraziarti per tutto ciò che fai per me e che non sei il mio servo».
Merlino accennò un sorriso, stringendosi il collo nelle spalle. «Beh…».
«No, Merlino, non lo sei. Non più. È inutile continuare ad illuderci».
«Io sono nato per questo, per servire voi, Sir–».
«Non lo dire», lo interruppe bruscamente, chiudendo gli occhi e portandosi il pugno sinistro alla bocca.
Lo stregone capì al volo ciò a cui stava pensando ed allontanò la mano dalla sua, non riuscendo però a non provare lo stesso dolore che stava dilaniando il cuore di Artù.
«Sulla carta non sarete più il re di Camelot, ma per me sarete sempre il re a cui essere leali», affermò con voce pacata, tanto dolcemente che il biondo riaprì gli occhi blu per fissarli nei suoi.
«Le ho detto anche che non sa niente di noi, che non ci conosce affatto e non sa quello che abbiamo passato insieme. Mi dispiace, so che non avrei dovuto; la rabbia ha preso il sopravvento».
Merlino si posò entrambe le mani sul viso e se lo strofinò, cercando di trovare in fretta una soluzione all’ennesimo piccolo enorme malinteso. Alla fine rivolse un sorriso ad Artù, un sorriso di fronte al quale il biondo non seppe come reagire, e gli mise sotto al naso la fetta di torta al limone e semi di papavero che la signora Begum aveva portato per l’infermiera.
«Vado a recuperare Alex, potrebbe volerci un po’».
Si era appena alzato, quando Artù si schiarì la voce per attirare nuovamente la sua attenzione. Il biondo però esitò, aprendo e richiudendo la bocca un paio di volte, come se fosse indeciso sul parlare o meno. 
«Artù?», lo incalzò Merlino, già pronto al peggio.
«Oh, niente, solo… Fai le mie scuse a Lady Alex, so di aver esagerato un po’».
Annuì, anche se con la fronte corrugata e non del tutto certo che fosse quello che Artù avrebbe dovuto dirgli in realtà. Decise di lasciar correre e si diresse verso i bagni, dove trovò Alex intenta a sciacquarsi il viso struccato.
«È tutto okay?», le chiese, sforzandosi di dimostrarsi serio e di non far scivolare lo sguardo sul suo corpo atletico.
L’aveva sempre trovata attraente, ma era estremamente più facile – come bere un bicchier d’acqua – controllarsi quando indossava abiti normali o la ben poco provocante uniforme azzurra da infermiera. In versione jogging era una bomba, una vera bomba che gli esplodeva nel petto ogni volta che si distraeva abbastanza.
«Certo, perché non dovrebbe?», rispose in tono piatto, strappando con rabbia due, tre fazzoletti di carta ruvida con cui tamponarsi il viso bagnato.
Merlino, appoggiato contro la porta d’entrata, la guardò attraverso lo specchio ed accennò un sorrisetto. «Non devi starlo a sentire, Artù è un idiota».
«Sì, lo è, ma a volte dice cose molto sensate».
Si voltò verso di lui ed incatenò lo sguardo al suo, in un modo che gli fece venire ben presto la pelle d’oca. C’era determinazione, ma anche una certa dose di timore nei suoi occhi verdi, e non faceva altro che tormentarsi il labbro inferiore con i denti. Alex si avvicinò lentamente, un passo dopo l’altro, fino a quando i loro visi non furono a pochi centimetri di distanza.
«Artù ha ragione: io non so niente di voi, non so niente di te… Sono ormai quattro anni che ci vediamo quasi tutti i giorni, e a volte mi sembra di conoscerti come le mie tasche, altre in cui mi rendo conto che invece sei come un estraneo».
Merlino rimase a bocca aperta e non poté proprio controllarsi, stufo di quella storia. «Solo perché non conosci il mio passato, non puoi dire di non conoscere me. Mi hai chiesto di non mentirti, giusto? Allora non ti mentirò: io sono stanco, Alex, sono davvero stanco di tutto questo. Fino a qualche settimana fa nemmeno io sapevo niente sulla tua famiglia, ma non mi pare di averti mai fatto pressioni, di averti apprezzata di meno o di aver messo in dubbio la tua amicizia. Perciò non capisco, davvero non capisco perché tutto d’un tratto sei così ossessionata da –».
«Perché sto impazzendo, Merlino! Io sto letteralmente impazzendo!», urlò con gli occhi sgranati. «Io so che cos’ho visto quella sera! Non è stata un’allucinazione, non ero né ubriaca né drogata: Artù è emerso da quel fottuto lago, emerso dal nulla, e da quel giorno tu metti da parte tutti e tutto per lui, uno psicopatico schizofrenico che guarda caso si crede il re di Camelot. Mettiti nei miei panni, dannazione!».
«Non ce n’è bisogno, posso capire come ti senti, ma…».
«No, no che non puoi!».
«Smettila di urlare, o la signora Begum…».
«Che si fotta la signora Begum, che si fottano tutti quanti! Io urlo quanto mi pare e piace e non puoi imped–!».
Merlino se ne sarebbe pentito presto, ne era più che sicuro, ma al momento evitò di pensarci e si beò del silenzio che calò in quel claustrofobico bagno non appena le sue labbra e quelle di Alex si scontrarono bruscamente. Si aggrappò disperatamente al pensiero che quello era solo il metodo più efficace che aveva trovato per azzittirla, ma fu tutto inutile: gli piaceva, gli piaceva da morire sentire il suo corpo caldo contro il proprio, percepire sottopelle il suo cuore che le batteva furiosamente nel petto, lasciarsi stordire dal suo profumo e avere a disposizione le sue labbra, che tante e tante volte aveva immaginato. Poteva finalmente scoprire se erano davvero morbide, vellutate e dolci come il miele, ma con un mugolio di disappunto riuscì a scostarsi, tenendo gli occhi chiusi e con la fronte solcata da rughe di preoccupazione.
La maniglia della porta a cui Merlino era ancora appoggiato si agitò, facendoli sobbalzare entrambi.
«Ehi, ragazzi, siete lì dentro? La torta l’ho finita da un pezzo».
Merlino sospirò sollevato – ogni tanto era Artù a tirarlo fuori dai guai – ed evitando attentamente gli occhi di Alex aprì la porta.
«Eccovi qua, finalmente. È tutto risolto?».
«Assolutamente», rispose meccanicamente Merlino. Non poteva di certo dire che aveva elevato al cubo tutti i loro problemi, non sarebbe stato d’aiuto.
Artù dovette però fiutare la sua bugia ed infatti posò sospettosamente gli occhi su Alex, la quale alle spalle dello stregone si schiarì la gola ed accennò un sorriso, aggiungendo: «Tutto a posto, sicuro».
«Perciò… le hai già fatto le mie scuse, Merlino?».
«In verità ho pensato che sarebbe stato meglio se gliele avessi fatte tu di persona», stiracchiò un sorriso, dandogli una pacca sulla spalla. «Io penso proprio di dover tornare al lavoro».
Artù lo guardò sbalordito e quando posò gli occhi su Alex fu ancora peggio, perché l’infermiera esclamò in fretta: «Non ce n’è bisogno, avevamo torto entrambi. Pace fatta».
«Ma dove stai andando?», le chiese sempre più confuso, quando ormai era già arrivata alla porta.
«A casa. Tra meno di due ore inizio il turno in ospedale e devo prepararmi. Ci vediamo!».
Artù, rimasto solo nel locale perché Merlino si era rifugiato in cucina a lavare i piatti e Alex era praticamente scappata via, non fece fatica ad intuire che doveva essersi perso qualcosa, ma mai avrebbe immaginato di essersi perso un qualcosa di così grosso.

 

***

 

Odiava occuparsi delle cartelle cliniche, ma toccava a tutti, ogni tanto, e quel pomeriggio era spettato a lei. Quella “fortuna” non poteva capitarle in un giorno peggiore, dato che non faceva altro che distrarsi ripensando a tutto ciò che era successo solo quella mattina con Artù e poi con Merlino.
Si sistemò dietro l’orecchio una ciocca di capelli biondi che era riuscita a scappare dalla presa del mollettone ed espirò profondamente, cercando di concentrarsi sui dati che doveva inserire a computer.
«Conosco quell’espressione».
Alex alzò di scatto la testa ed incrociò un paio di occhi grigio-azzurri che ben conosceva, bellissimi e messi ancora più in risalto dalla carnagione mulatta del viso in cui erano incastonati come gemme.
«Keith», lo salutò senza entusiasmo né sforzandosi troppo di sorridere.
Il medico del pronto soccorso si appoggiò al bancone del ricevimento con le braccia incrociate tra loro e le chiese: «Vuoi parlare di ciò che ti preoccupa?».
«Veramente no. Ma grazie per l’offerta».
«Saresti più disposta a farlo davanti ad un bel boccale di birra, come ai vecchi tempi?».
A quelle parole Alex sollevò gli occhi e lo fissò intensamente, nonostante la gola le si fosse seccata all’improvviso. «Mi stai davvero chiedendo di uscire? Ho capito bene?».
Il dottor Ellis si strinse il collo nelle spalle, riservandole uno sguardo malizioso in grado di farle stringere involontariamente le cosce sulla poltrona girevole. Ricordava molte, moltissime serate iniziate con un boccale di birra e finite in un letto, e ad essere sinceri il sesso era stata l’unica parte della loro relazione che non era mai riuscita a dimenticare.
«È solo che mi sei mancata, Alex», disse con naturalezza, un misto di sincerità e disarmante spavalderia. «Mi piacerebbe dimostrartelo».
Pensieri ben poco pudichi le attraversarono la mente, ma ben presto si rese conto che il ritorno dell’ex era proprio l’ultima cosa che mancava per concludere in bellezza quella giornata.
«Sono parecchio impegnata in questo periodo», glissò, tornando a fissare lo schermo del computer ed in particolare il cursore intermittente sulla cartella clinica che stava finendo di compilare.
Keith sollevò le mani in segno di resa e con un sorriso mesto in volto si allontanò di un passo dal bancone. «Okay, ho capito. Promettimi solo che mi farai sapere se cambierai idea. Il mio numero di cellulare è sempre lo stesso».
L’infermiera sollevò un angolo della bocca in un minuscolo sorriso ed annuì con un cenno del capo. Dopotutto non le costava niente, soprattutto tenendo conto che mai avrebbe cambiato idea in proposito.

 

***

 

«Davvero, io non ti capisco. Prima dici che devo trovarmi un lavoro, poi quando finalmente mi convinco a fare questa pazzia tu non sei d’accordo? So di che cosa si occupa il padre di Alexandra, ne sono consapevole, ma voglio farlo! E vorrei che tu venissi con me. Non perché tu possa svolgere i lavori più umilianti – beh, solo ogni tanto – ma perché vorrei davvero che… che lavorassimo fianco a fianco, come abbiamo sempre fatto, ecco».
Artù alzò lo sguardo e trovò Merlino intento a fissare con occhi vacui il suo piatto di pasta ancora pieno. Sospirò lievemente e dopo aver bevuto un sorso di birra si portò entrambe le mani sotto al mento per esclamare con tono infinitamente serio: «Sai, penso che il regno di questa Elisabetta II sia durato fin troppo. Forse è arrivato il momento di farla fuori e di prendere il suo posto sul trono, svelando la verità al mondo intero. Gran Bretagna non mi dispiace, sul serio, ma questa nazione tornerà a chiamarsi Albione. Sarà la prima cosa che farò, insieme alla reintroduzione della gogna pubblica. Sei d’accordo con me?».
Gli occhi dello stregone non si mossero di un millimetro, segno inequivocabile che neanche una parola di tutto ciò che Artù aveva detto per attirare la sua attenzione si era fermata nella sua scatola cranica tanto a lungo da essere capita e catalogata come “assurdità”.
«Merlino!», urlò allora spazientito, picchiando forte il pugno sul tavolo, tanto che il moro trasalì e con una mano fece rovesciare sulla tovaglia il suo bicchiere d’acqua.
Artù provò quasi una fitta al cuore quando lo vide affannarsi per asciugare il tavolo con una manciata di fazzoletti di carta e per un attimo pensò di doversi scusare con lui.
Era certo che un tempo non ci avrebbe pensato due volte prima di usare la magia per impedire il disastro o per rimediarvi con la velocità di un battito di palpebre; dopotutto sapeva che Merlino l’aveva sempre praticata, anche sotto i suoi occhi ciechi, e sempre a fin di bene, ma sapeva anche che quei tempi erano ormai un lontano ricordo, quando ancora il cuore del suo migliore amico era pieno di speranza e voglia di vivere.
Il re di Camelot allungò le mani e le strinse forte intorno ai suoi polsi sottili, costringendolo a fermarsi e a prestargli la tanto agognata attenzione. I loro occhi finalmente si incrociarono e Artù vi lesse un tormento che gli fece allentare la presa, ma la sua voce rimase decisa e con una sfumatura irritata.
«È tutto il giorno che pensi ad altro, che non ti rendi conto delle cose che fai e guarda, non hai ancora toccato cibo. Tutto questo porta ad un’unica spiegazione, sai? Si tratta di Lady Alex. È successo qualcosa, tra voi due, quando sei andato a cercarla in bagno, non è così? Dovresti…».
«Cosa? Cosa dovrei fare?», chiese Merlino con aggressività, nella voce come negli occhi. «Voi non potete capire come sia stare nei miei panni, non lo potete nemmeno lontanamente immaginare, perciò non provate a dirmi come dovrei comportarmi».
Artù lottò contro il quasi irrefrenabile istinto di infilzargli il coltello sul dorso della mano e per farlo si aiutò con un respiro profondo. Quindi replicò, pacato: «Tu mi sottovaluti troppo spesso, Merlino. Credi davvero che non sappia che cos’è che ti spaventa?». 
Ci aveva pensato tanto, c’erano stati dei momenti in cui si era sforzato tanto da sentire del fumo uscirgli dalle orecchie, ma alla fine ci era arrivato. «Tu hai paura che quando lei scoprirà la verità – sempre se questo accadrà – ti darà del mostro, sarà spaventata da te e ti allontanerà. Forse sarà così, ma non puoi saperlo con certezza».
«Voi l’avete fatto», mormorò, con gli occhi bassi e pugni stretti ai lati del piatto.
«Hai ragione, ma sei tu ora a doverti mettere nei miei panni. Come pensavi che avrei reagito?».
«Non ci ho mai pensato. Voi non dovevate saperlo».
«Io non…». Il re di Camelot strabuzzò gli occhi, boccheggiando incredulo come un pesce fuor d’acqua. «Stai dicendo che se non fossi stato in punto di morte avresti continuato a mentirmi?».
Merlino si strinse nelle spalle, evitando il suo sguardo. «Che importanza avrebbe avuto? Voi non avreste cambiato le leggi di vostro padre per me, non avreste cambiato idea sulla magia e ora, a mente fredda, sono grato che le cose non siano mai cambiate: la magia, come ho detto, non porta a nulla di buono. Corrompe le persone, le cambia in peggio, fino a distruggerle. Riportarla nel mondo sarebbe stato di certo un errore».
Artù aprì nuovamente la bocca per ribattere, ma non trovò nulla di adatto da dire. Non poteva affermare che conoscere la verità su Merlino avrebbe cambiato qualcosa, era troppo tardi ormai; gli avrebbe dato altresì una speranza, la speranza che non tutta la magia era sinonimo di malvagità. Come aveva detto il suo ex servitore, però, erano così pochi i casi in cui l’aveva vista utilizzata a fin di bene… Solo Merlino, infatti, aveva sempre lottato perché portasse felicità, e nemmeno lui, così potente e di buon cuore, ci era sempre riuscito.
Guardò Merlino alzarsi col suo piatto ancora pieno, aprire la spazzatura e gettarvi dentro la sua cena. Addirittura sobbalzò, perché non se lo aspettava, quando il mago lanciò con stizza il piatto di ceramica nel lavello e vi si appoggiò con entrambe le mani, il capo chino e le spalle contratte.
«Non è questo che mi spaventa, comunque. Dopotutto Alex si abituerebbe in fretta, come avete fatto voi».
«E allora cosa…?». Il re corrugò la fronte e rifletté per qualche secondo. Non si era nemmeno posto il problema di trovare altri ostacoli ad una loro possibile storia. Era proprio vero: poteva essere il migliore stratega militare sul pianeta e il peggiore interprete dei sentimenti, una vera frana nelle questioni amorose.
«Io e Alex apparteniamo a due mondi, due epoche diverse. Come credete che si sentirebbe se scoprisse che ho più di millequattrocento anni? Sapere che prova qualcosa per un… vecchio decrepito… Sarebbe orribile, credetemi».
«L’hai già detto a qualcun’altra, prima?», chiese e si rese conto troppo tardi di non averlo fatto con la giusta delicatezza. Merlino si voltò con espressione cupa, gli occhi velati di lacrime, ma non gli rispose.
«Non posso farlo, Artù. Io non… non posso rischiare di essere felice, sapendo che prima o poi, in un modo o nell’altro, soffrirò terribilmente o peggio, farò soffrire lei».
«Che cosa intendi?».
Merlino scosse il capo e si coprì gli occhi umidi con un braccio. Quando lo tolse, ogni traccia di lacrima era svanita e il suo volto era tornato inespressivo, una maschera priva di qualsiasi emozione umana. Ad Artù vennero i brividi, guardandolo, e finalmente capì – o almeno immaginò – quanto avesse veramente patito, sacrificato e perso durante gli anni che aveva trascorso in attesa del suo ritorno.
«Vado in camera mia», esclamò atono lo stregone, iniziando a dirigersi verso le scale. «Lasciate pure così, sistemerò domani».
«Merlino, aspetta».
Artù sospirò, guardando quegli occhi azzurri dietro cui si celava un dolore immenso che aveva cambiato profondamente il suo unico e vero amico. Avrebbe tanto voluto aiutarlo, fare qualcosa perché potesse sentirsi meglio, ma per colpa del suo destino era costretto ad ingannarlo.
«Non so che cosa sia successo e non te lo chiederò di nuovo, ma se vuoi la mia opinione credo che dovresti andare da Lady Alex».
Merlino alzò gli occhi al cielo e lasciò sbattere le mani ai lati delle cosce. «E per quale motivo?».
«Potrei aver combinato un guaio, questa mattina».
Un lampo di preoccupazione attraversò gli occhi del mago, il quale improvvisamente ebbe bisogno di appoggiarsi allo schienale della sedia accanto a quella di Artù. «Un guaio? Che tipo di guaio?».
Il re stirò un sorriso. «Perché prima non ti siedi?».

 

***

 

«Voi che cosa?!».
Aveva un nido di vespe nella testa, ronzanti e tanto velenose che non riusciva più a ragionare con lucidità. Non riusciva nemmeno a stare fermo, come scosso dalle convulsioni, e avrebbe ben presto scavato un fossato intorno al tavolo da pranzo se non avesse smesso di camminare.
Artù aveva detto ad Alex che lui ricambiava i suoi sentimenti ma che era troppo spaventato per ammetterlo, spaventato di rovinare la loro amicizia nel caso in cui come amanti non avesse funzionato. Giustissimo, una scusa estremamente valida nel caso in cui Merlino non vedesse altri e più grandi problemi di fronte ad una loro possibile relazione.
«Come avete potuto farmi questo?!», urlò ancora, sull’orlo di un crollo nervoso.
Artù sbuffò con tanto di pernacchia e lo guardò con sufficienza, rispondendo: «Avresti preferito che le dicessi la verità su noi due? Perché stavo per farlo, Merlino. Solo all’ultimo momento ho cambiato idea».
Il pensiero che avrebbe potuto svelarle tutto quanto era ancora più terrificante di ciò che in realtà le aveva detto – forse – ma non poté impedirsi di chiedergli: «E per quale motivo avete cambiato idea?».
«Ho pensato: siamo qui insieme, sulla stessa barca, tanto vale affrontare tutto questo insieme. E poi tu sei qui da più tempo, sai come è meglio comportarsi».
Merlino si fermò, finalmente, ed incatenò lo sguardo al suo, sorpreso ed infinitamente lusingato. «State dicendo… che ho la vostra fiducia?».
«L’hai sempre avuta», replicò il re di Camelot, scrollando le spalle con noncuranza ma badando bene ad interrompere il contatto visivo.
Il mago provò una piacevole stretta al cuore, calda e rassicurante, e se Artù l’avesse guardato l’avrebbe visto sorridere dolcemente anche con gli occhi. Ma sarebbe stato molto imbarazzante e di sicuro il suo re non gliel’avrebbe mai perdonato, perciò cercò un modo per portare la conversazione su un terreno in cui lui si sentiva completamente a suo agio, un terreno in cui era imbattibile.
«Farete davvero tutto quello che vi dico senza lamentarvi?», chiese, concentrandosi al massimo per non dimostrarsi divertito e già compiaciuto.
Artù infatti reagì come aveva previsto: lanciandogli un’occhiataccia e ribattendo aspramente, con un dito puntato verso di lui. «Non ti allargare, Merlino. Prenderò in considerazione le tue opinioni, ma continuerò io a condurre la barca».
Lo stregone immaginò Artù conciato alla Jack Sparrow e soffocò a stento una risatina, annuendo solennemente inchinando un po’ il capo.
Il biondo giocherellò con il bicchiere di birra ormai vuoto, in silenzio, fino a quando non si accorse con la coda dell’occhio che Merlino era ancora fermo accanto al tavolo, con le mani unite davanti al ventre e gli occhi puntati su di lui, come in attesa di un suo ordine.
In realtà Merlino stava aspettando che gli desse la spintarella finale, quella che gli avrebbe dato un capro espiatorio per quando si sarebbe trovato faccia a faccia con Alex, così imbarazzato che avrebbe preferito trovarsi incatenato sul fondo del lago di Avalon.
«Allora, che cosa stai aspettando?», gli domandò ad un tratto, inarcando un sopracciglio. «Vai da lei e dille qualsiasi cosa tu voglia dirle, non fa differenza. Mi basta riaverti con la testa sulle spalle e non tra le nuvole».
Merlino colse il vero significato nascosto dietro le sue parole ed accennò un sorriso intriso di tenerezza: Artù poteva fare il duro e lo sbruffone, l’altezzosità reale dall’ego smisurato che tanto gli riusciva bene, ma in realtà si preoccupava per lui e aveva bisogno di lui nel pieno delle sue facoltà, perché da solo non poteva affrontare quel mondo strano e complicato.
«Non starò via molto», promise.
Artù sventolò una mano come a scacciare un insetto fastidioso. «Posso cavarmela benissimo da solo, quante volte te lo devo dire?». 
Quindi si alzò per aprire il frigorifero e tirarvi fuori un’altra bottiglia di birra. Quando si risollevò, Merlino era già corso in camera sua per darsi una sistemata.

 

***

 

«Qualcuno dovrebbe stare con lui».
Mark posò gli occhi su Abigail e per un attimo non seppe come rispondere, incantato dalla linea sottile del suo collo candido e dalla sua mano che accarezzava con delicatezza infinita la fronte umida di Steve, il quale si era da poco addormentato con una smorfia dipinta sul suo visetto più pallido del solito. La gelosia lo travolse per un attimo, tanto da voler stare male come lui per ricevere le stesse amorevoli attenzioni, ma si rese subito conto della follia di quel pensiero e lo scacciò via sfregandosi gli occhi con le mani.
«Mark, mi hai sentito?».
«Sì», biascicò, sforzandosi per trattenere uno sbadiglio. «Sì, ti ho sentito. Starò io con lui».
Abigail posò gli occhi su di lui, due occhi neri e profondi, tanto incredibili da fargli saltare il cuore in gola, e con tono non privo di disapprovazione chiarì: «Intendevo un adulto, un’infermiera».
«Oh. Sì, certo, vado a cercare qualcuno».
Sulla propria sedia a rotelle si avvicinò alla porta e prima di uscire voltò di nuovo il capo verso di lei: stava per dirle che per Steve sarebbe stato sveglio anche tutta la notte, ma ci ripensò, preferendo non distrarla dalle cure che con l’affetto e l’apprensione simili a quelli di una madre stava offrendo a Steve. Abigail era sempre stata la loro Wendy, essendo la più grande, la più responsabile e la più bella del loro piccolo gruppo, e per quanto ci avesse provato Mark non era mai riuscito a vederla come una sorella maggiore; lui sarebbe sempre stato il Peter Pan a cui lei non avrebbe mai concesso il suo amore e finché avevano del tempo da passare insieme doveva farselo bastare, senza capricci né rimpianti.
Spinse la carrozzina lungo il corridoio stranamente deserto. Possibile che tutte volte che si trovava nella situazione di dover sgattaiolare da qualche parte ci fosse un’infermiera ad ogni angolo e ora che aveva bisogno di una di loro si erano tutte volatilizzate?
Si diresse verso l’accettazione, certo che almeno lì avrebbe trovato qualcuno, ma non fece in tempo ad arrivarci che la sua sedia a rotelle sbatté contro un ragazzo alto e magro, il quale non cadde a terra per pura fortuna ed imprecò a mezza voce, tenendosi la tibia colpita tra le mani.
«Sto sognando?», si chiese Mark ad alta voce, per poi strofinarsi gli occhi.
«Non dire stupidaggini, Mark. Se questo fosse un sogno non soffrirei così tanto!».
«Merlino!», esclamò allora, entusiasta, sporgendosi per potergli avvolgere le braccia intorno alla vita. Durò solo una manciata di secondi, il tempo necessario a rendersi conto che non era affatto da lui abbracciare qualcuno che non fosse il suo cane, ma era davvero contento di vederlo. E molto arrabbiato.
«Dove diavolo sei stato?! Avevamo bisogno di te!», gli urlò contro, cercando di colpirlo con la propria carrozzina.
Merlino si spostò agilmente e mise tra loro la giusta distanza di sicurezza, quindi rispose: «Lo so, mi dispiace, ma c’era qualcun altro che aveva ancora più bisogno di me».
Mark fece una smorfia, sbuffando. «Oh sì, il tuo famoso amico. E ora dove l’hai lasciato?».
«A casa. E dato che non mi piace affatto lasciarlo da solo, possiamo rimandare le spiegazioni ad un altro momento? Sto cercando Alex, l’hai vista?».
«Anche io la sto cercando», rispose, mettendo da parte la rabbia che provava nei confronti di Merlino; al momento aveva altro a cui pensare. «Steve continua a stare male».
«Come? Aspetta un momento», si fermò di fronte a lui e lo guardò fisso negli occhi. «In che senso Steve sta male? Che cos’ha?».
«Ti sembro per caso un’infermiera?! Spostati, stiamo solo sprecando tempo».
Merlino odiava ammetterlo, ma Mark aveva dannatamente ragione. Dovevano trovare Alex, o qualcun altro, in fretta. E ovviamente il vero motivo per cui era andato all’ospedale avrebbe aspettato.

 

***

 

Alex sollevò ancora una volta gli occhi verso l’orologio a muro appeso sopra la porta: erano passati solo due minuti e quindici secondi. Mancavano più di due ore alla fine del suo turno ed era così stanca – e con la testa così tra le nuvole – che nemmeno la tazza di caffè che aveva tra le mani l’avrebbe aiutata.
Sentì una scossa percorrerle la spina dorsale, in grado di spazzare via ogni sintomo di stanchezza, quando vide Merlino arrivare di corsa e sbirciare tra le fessure della veneziana che dall’interno copriva la finestra della stanza relax degli infermieri. Che ci faceva lì? E perché sembrava così preoccupato? Il suo cuore saltò un battito e lasciò istintivamente la tazza di caffè sul ripiano della piccola cucina per andargli incontro.
Merlino aprì la porta con furia, ma si fermò sulla soglia, come paralizzato dall’imbarazzo. Alex lo sapeva riconoscere, perché era lo stesso che aveva bloccato anche lei a pochi passi dalla maniglia.
«Ciao», mormorò, lottando contro se stessa per non abbassare gli occhi, occhi che, solo ora se ne rendeva conto, dovevano essere lucidi ed arrossati a causa dell’infinito lavoro di archiviazione delle cartelle cliniche.
«Va tutto bene?», le chiese infatti, indicando il suo viso.
«Sì, ho solo passato le ultime quattro ore al computer. Tu, invece? È successo qualcosa ad Artù?».
Merlino corrugò la fronte. «No, lui… lui sta bene. Si tratta di Steve. Mark ha avvisato altre due infermiere, ma dovresti venire anche tu».
Alex si sentì morire dentro e senza dire una parola lo seguì, correndo disperatamente al suo fianco lungo i corridoi silenziosi e pregando con ogni fibra del suo corpo che non fosse nulla di grave.
Quando raggiunsero la stanza di Steve però si resero conto che il suo lettino non c’era più e che Mark ed Abigail si erano stretti intorno al compagno di stanza di Steve, Gabriel, di un solo anno più grande di lui e con lo stesso problema ai polmoni, anche se in maniera meno critica.
«Che cos’è successo?», domandò subito Merlino, avvicinandosi ad Abby.
«È successo tutto così in fretta…», mormorò la ragazzina, con gli occhi spenti e vacui fissi sul pavimento. Ma in un attimo si schiarì la voce ed alzò il viso, facendosi forza con un bel respiro. Abigail era davvero la più forte, la roccia che teneva in piedi i delicati equilibri e le speranze di tutti i bambini che erano ricoverati nel reparto oncologico.
«Prima sembrava solo agitarsi nel sonno, sudava e il suo respiro non era proprio regolare, poi tutto è precipitato: sembrava stesse annegando… Le infermiere hanno detto che ha avuto una specie di collasso».
Alex si passò una mano sul viso e le ci volle tutto il proprio autocontrollo per non scoppiare a piangere e perdere la calma. Se non le fosse stato assegnato quello stupido lavoro di scartoffie e avesse potuto stare accanto ai bambini come aveva sempre fatto…
Sentì la mano di Merlino stringere forte la sua e aprì di scatto gli occhi umidi di lacrime, sentendo la rabbia bollirle nelle vene. Se anche lui, invece di preoccuparsi tanto di Artù, avesse trovato il tempo per stare con loro tutto questo non sarebbe successo, o almeno avrebbero potuto intervenire in modo ancora più tempestivo.
«Steve è forte, si riprenderà di sicuro», cercò di rassicurarli il moro, ma Alex si liberò della sua stretta con un gesto brusco e dandogli le spalle si limitò a dire freddamente: «Vado a vedere se qualcuno ha già avvisato i suoi genitori».
Non si voltò mai indietro mentre percorreva il corridoio e non si preoccupò nemmeno della lacrima che le scivolò sulla guancia. L’unica cosa che fece fu continuare a pregare perché davvero Steve fosse forte abbastanza da superare quell’ennesima difficoltà.

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Capitolo 10
*** 10. A remedy to cure all ills – Part II ***


Buonasera!
A voi la seconda parte del mega-capitolo iniziato la settimana scorsa. Come vi renderete presto conto, nonostante io l'abbia diviso, il capitolo che leggerete è molto più lungo rispetto a quelli che vi ho proposto fin'ora. E devo avvisarvi che saranno più o meno tutti di questa lunghezza, d'ora in avanti. Perciò potrà anche darsi che la cadenza con cui posterò sarà diversa, magari vi darò più tempo, per permettervi così di leggere in tutta tranquillità questi papironi. Spero in ogni caso che non sia un problema e che vi piacciano comunque :)
Come vi ho anticipato la scorsa volta, in questo capitolo verranno introdotti ben tre nuovi personaggi originali - di cui vado onestamente molto fiera - e ne ritornerà uno dal passato di Merlino e Artù. Qualcuno forse avrà già capito di chi si tratta... ad ogni modo, ciò che porterà con sè sarà a tratti scioccante e straziante. Mi auguro con tutto il cuore di riuscire a raggiungere i vostri e che il tutto sia credibile.
Detto ciò, non voglio spoilerare altro e vi lascio alla lettura.
Un grazie a chi ha letto e recensito lo scorso capitolo e a chi ha messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate! Alla prossima!

Vostra,

_Pulse_

 

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10. A remedy to cure all ills – Part II

 

Alex non si voltò quando sentì la porta della stanza aprirsi e poi richiudersi delicatamente; si limitò ad abbassare le ginocchia che si era stretta al petto fino a quel momento e a passarsi le dita sotto gli occhi stanchi.
Merlino l’affiancò, lo sguardo apprensivo posato sul piccolo Steve, ora nuovamente stabile ma molto, molto debole.
«Hai bisogno di fare due passi?», le chiese a bassa voce.
«No, sto bene, grazie».
Si schiarì la voce, passandosi una mano sulla nuca. «I suo genitori hanno chiamato ancora, hanno detto che sono quasi a Newport».
«Bene».
«Vuoi che ti porti una tazza di caffè?».
Alex sospirò stancamente e alzò il viso verso il suo, guardandolo con una punta di irritazione. «A meno che tu non sia in grado di guarire Steve sussurrando una formula magica, non voglio proprio niente da te».
Merlino non rispose e l’infermiera si beò del silenzio ottenuto fino a quando non si rese conto di averlo fatto ancora: aveva riversato su di lui – quella volta ad alta voce, per giunta – tutta la frustrazione, il senso di inutilità e la paura che provava, nonostante non se lo meritasse affatto.
Era tutto un controsenso, a rappresentazione di quanto si sentisse in conflitto con se stessa: avrebbe voluto dirgli di restare, perché aveva bisogno di averlo al suo fianco, e invece gli aveva risposto in quel modo, alzando un muro invalicabile tra loro, perché quello che era successo alla caffetteria la spaventava più di quanto spaventava lui.
Aprì la bocca per scusarsi, ma quando girò il capo per incrociare i suoi occhi realizzò, con un doloroso nodo alla gola, che Merlino l’aveva lasciata sola, in quel silenzio angosciante.

 

***

 

Odiava non avere con sé il suo cavallo, odiava quel malridotto quanto ridicolo mezzo di trasporto a due ruote che aveva trovato nel vecchio fienile utilizzato da Merlino come garage per la propria auto e dal quale era caduto quattro volte prima di prenderci la mano. Avrebbe potuto raggiungere Avalon a piedi, certo, ma ci avrebbe messo davvero troppo tempo, rischiando di farsi scoprire dallo stregone. Perciò non si era arreso e al quinto tentativo era riuscito a stare in equilibrio tanto a lungo da capire che era tutta una questione di coordinazione.
Sotto una luna stranamente non velata dalle nubi, con la sua maglia di ferro infilata sopra la felpa e il cappuccio sulla testa, una balestra simile a quella che usava di solito durante le battute di caccia (sgraffignata dalla stanza in cui Merlino aveva accumulato molti ricordi del passato) appesa sulla schiena, il suo pugnale stretto alla cintura e il cellulare nella tasca dei jeans, aveva pedalato velocemente attraverso la campagna, tra le stradine secondarie che aveva percorso quella mattina con Alex e infine lungo il sentiero che costeggiava il fiume emissario del lago.
Aveva lasciato il suo destriero di ferro a qualche metro dalla sponda di Avalon e aveva atteso che quella voce di donna gli parlasse. Aveva atteso per quella che gli era sembrata un’infinità, camminando avanti e indietro e controllando quasi ossessivamente i minuti che passavano sullo schermo del suo smartphone. Alla fine si era voltato verso la superficie piatta del lago e aveva urlato a squarciagola tutta la sua impazienza, cosa che se qualcuno lo avesse visto o sentito l’avrebbe sicuramente fatto rinchiudere per davvero in uno di quegli ospedali psichiatrici.
Artù sospirò, svuotato e stanco, e si lasciò cadere sull’erba umida di fronte alla riva del lago, proprio dove si era seduto a parlare con Alex quella mattina.
Quella ragazza iniziava a piacergli, per quanto strana e alle volte irritante; gli piacevano la sua spavalderia e la sua determinazione, gli piaceva il fatto che dicesse tutto quello che le passava per la testa. Forse si sentiva così in sintonia con lei perché di carattere era molto simile a lui, come aveva detto Merlino, e proprio per questo sapeva che non sarebbe stato facile risolvere pacificamente tutte le questioni aperte con lo stregone.
Poteva quasi veder scorrere di fronte ai suoi occhi il corso degli eventi, cosa sarebbe successo e cosa no, e sapeva per certo che, in un modo o nell’altro, tutto si sarebbe risolto per il meglio. Perché se davvero lui e Alex si assomigliavano così tanto, allora anche lei avrebbe accettato Merlino per ciò che era, legata a lui da un sentimento ben più forte di qualsiasi pregiudizio.
Un’improvvisa vibrazione all’interno della tasca della sua felpa lo fece sobbalzare. Tirò fuori il cellulare e lesse a mezza voce il messaggio che Merlino gli aveva appena inviato: «Ci vorrà più tempo del previsto, non aspettatemi alzato».
Artù scosse il capo con delusione e iniziò a rispondergli, lentamente e ancora un po’ impacciato con l’uso della tastiera touch: «Non… sei… la… mia… balia. Smet–». Uno splash improvviso, come se qualcuno avesse appena lanciato in acqua un sasso, gli fece alzare di scatto gli occhi, stretti per scorgere il più piccolo movimento. E lo vide, perfettamente in diagonale rispetto a lui: una piccola barca, con la vernice blu scrostata e i remi ricoperti di alghe, si dondolava pigramente sulla superficie del lago, creando onde semicircolari che increspavano l’acqua limpida.
Era quasi certo che quella barca non ci fosse, quando era arrivato, ma ingoiò il rospo e in risposta a quell’esplicito invito optò per un più semplice «Okay» prima di alzarsi.
Sperando che non fosse così malridotta come sembrava, salì sull’imbarcazione e remò fino al centro del lago.
«Ehi, sono qui!», esclamò, guardandosi intorno un po’ spaesato.
Quell’intera situazione era surreale. Come aveva fatto Merlino a stare così in contatto con la magia e a non perdere il senno? Pensò tristemente che sarebbe stato meglio diventare pazzo, piuttosto che vedere tutte le persone a lui più care morire a causa della magia o per aver avuto troppa fiducia in essa.
«Non pensavo sareste venuto davvero, Pendragon».

Alla buon’ora, pensò prima di rispondere in tono sarcastico: «Conosci altre persone in grado di darmi qualche spiegazione riguardo al motivo del mio ritorno?». Artù continuò a guardarsi intorno, ma non aveva la più pallida idea da dove arrivasse la voce di quella donna. «Potresti farti vedere? È irritante parlare al vento».
«Allora abbassate lo sguardo».
Artù si protese verso l’acqua e sbuffò vedendo soltanto la propria immagine riflessa, ma non fece in tempo a lamentarsene ad alta voce che una mano cancellò il suo viso come se fosse stato disegnato su un vetro appannato. Lentamente iniziò a scorgere dei lineamenti femminili, due occhi scuri e una folta chioma di capelli neri. Si trattava di un’immagine non perfettamente nitida e spesso e volentieri diventava una semplice ombra a pelo dell’acqua, come se non possedesse l’energia necessaria a mostrarsi chiaramente, ma Artù la riconobbe subito e trasalì con così tanto trasporto che la barca si agitò con furia, rendendo ancora più sfocato il viso della giovane donna.
«E così vi ricordate di me? Questo sì che è davvero sorprendente».
Artù deglutì faticosamente e ritrovando il proprio regale contegno disse: «Tu sei la ragazza-pantera».
Un pallido sorriso comparve sulle labbra cianotiche della ragazza. «Il mio nome è Freya, e grazie a Merlino sono diventata la custode di Avalon».

 

***

 

Alex uscì dalle porte scorrevoli dell’ospedale e l’aria fredda della sera le fece venire la pelle d’oca sotto la leggera divisa azzurra. Quello però non era uno dei problemi in cima alla lista – a dire il vero non lo riteneva nemmeno un problema – perciò cercò subito Merlino con lo sguardo e lo trovò, seduto su una panchina in ferro dall’altro lato della strada, vicino ad un lampione che dava una strana sfumatura arancione ai suoi capelli e alle fronde degli alberi alle sue spalle.
Si fece coraggio con un bel respiro, ma sapeva che non sarebbe affatto bastato per il tipo di conversazione che avrebbero avuto, quindi si diresse verso un gruppetto di paramedici in pausa vicino ad un’ambulanza.
«Ehi ragazzi, come procede il turno?», chiese stirando un sorriso e gettandosi dietro le spalle i capelli ormai ribellatesi completamente alla presa del mollettone.
«Meglio del tuo. Ho sentito di Steve», rispose l’unica ragazza del trio, con dei vivaci occhi nocciola, i capelli rosso sangue raccolti in un compostissimo chignon – in contrasto col suo aspetto un po’ gotico – e il viso pallido tempestato di efelidi.
Alex annuì, chinando il capo quasi con vergogna. «Avrei voluto solo…».
«L’importante è che ora si sia stabilizzato e che i suoi genitori siano qui», la interruppe il paramedico, tirando fuori da una delle ampie tasche dei pantaloni dell’uniforme blu un pacchetto di sigarette con l’intenzione di offrirgliene una.
Alex le rivolse un debole sorriso, contenta di aver comunque raggiunto il suo scopo, e se la infilò tra le labbra.
«Cathleen, giusto?», le chiese mentre gliel’accendeva tenendo una mano intorno alla fiamma per proteggerla dal vento.
Il paramedico mostrò una fila di denti bianchissimi e bastò per farle capire che ci aveva preso giusto, oltre al fatto che l’aveva piacevolmente sorpresa.
«Finalmente posso dire di conoscere di persona la dottoressa Alexandra Greenwood», le sussurrò, ancora ad un palmo dal suo viso.
Alex arrossì violentemente. Poche, pochissime persone – tra cui Merlino – sapevano che il suo sogno nel cassetto era quello di diventare dottoressa specializzata in oncologia infantile. Come faceva perciò Cathleen, con cui non aveva mai parlato prima d’allora, ad esserne a conoscenza?
Come se le avesse letto nella mente disse: «Ho le mie fonti. Ma se vuoi che rimanga un segreto non hai di che temere con me».
L’infermiera annuì, riconoscente, ed arretrò di un passo, rendendosi improvvisamente conto che la distanza che c’era tra loro era troppo poca, tanto da metterla a disagio. Tirò avidamente la sigaretta ed accennò un sorriso soffiando fuori il muro, esclamando: «Grazie mille, ne avevo proprio bisogno. Ci vediamo».
«Ci conto», rispose Cathleen, strizzandole l’occhio.
Alex si voltò, più che altro confusa dal suo comportamento, e aveva fatto solo qualche passo verso Merlino quando sentì alle sue spalle il paramedico esortare in modo piuttosto colorito i suoi colleghi sghignazzanti a fare silenzio. L’infermiera comunque si impose di non voltarsi e cercando di godersi appieno la sua prima sigaretta dopo quasi otto mesi – quando aveva deciso di togliersi quel vizio che le aveva passato Keith – si sedette accanto a Merlino sulla panchina vicino al sentiero che attraversava il parco.
«Lo sai che sei incoerente?», fu la prima cosa che le disse in tono pacato, massaggiandosi il viso per poi guardarla obliquamente, con i gomiti sulle ginocchia. «Che senso ha tutto quel tenersi in forma col jogging se poi ti vizi in questo modo?».
Alex ricambiò l’occhiata e dopo qualche istante di silenzio gli porse la sigaretta tenendola tra indice e medio. «Smezziamo?».
Il moro si concesse un sospiro di estremo sollievo dicendo: «Pensavo non me l’avresti mai chiesto», prima di afferrarla delicatamente tra le dita e portarsela alle labbra. Aspirò a lungo, tanto da incavarsi le guance e mettere ancora più in risalto i suoi zigomi affilati, e quando espirò il fumo verso l’alto chiuse gli occhi, libero e in pace con il mondo.
«Promettimi che non lo dirai ad Artù», le disse, ripassandole la sigaretta.
«Come vuoi».
«Grazie».
Alex scrollò le spalle, picchiettando il filtro tra le dita per far cadere la cenere oltre la panchina. «Non devi ringraziarmi, ma perdonarmi».
«Per che cosa?».
«Ero preoccupata per Steve e me la sono presa con te, e non te lo meritavi. Non ti meritavi nemmeno la scenata che ho fatto questa mattina, davvero. È che a volte non riesco a non… Non so come spiegartelo, Merlino».
«Ti capisco benissimo».
Alex si voltò verso di lui e lo guardò intensamente, con un sorriso mesto sulle labbra. Il moro aveva gli occhi puntati nel vuoto di fronte a sé e la fronte solcata di rughe, sintomo che si era perso nei propri pensieri, di quelli seri e difficili da sbrogliare.
«Ricordi com’eri impaurita quando per la prima volta mi raccontasti della tua famiglia?», le chiese ad un tratto.
«Non ero… impaurita», cercò di sdrammatizzare, ma non ci riuscì: la verità era che era stato come lanciarsi nel vuoto e la sua non era stata semplice paura, bensì terrore.
«Per me è la stessa cosa, elevata alla potenza. Il mio passato… ciò che sono stato… non piace a me, come potrebbe piacere a te?».
Alex sentì una grande tristezza pesarle sulle spalle, come una coperta umida che fino a quel momento Merlino aveva sostenuto con le sue sole forze e che ora stava condividendo con lei. In uno slancio di empatia si avvicinò a lui ancora un po’, infilò il braccio sotto al suo e posò la testa sulla sua spalla. Sentì Merlino irrigidirsi, ma si beò del suo calore e della scossa elettrostatica che le corse sottopelle, la stessa che aveva sentito quando l’aveva baciata in quel bagno.
Gli mise la sigaretta vicina alle labbra, dicendo: «Come hai detto tu, che io conosca o meno il tuo passato non cambierò idea su di te: rimarrai sempre il mio Merlino».
Il ragazzo afferrò ciò che rimaneva della sigaretta tra le labbra e se solo Alex l’avesse guardato avrebbe trovato un sorrisino intriso di malinconia dipinto sul suo viso, un sorrisino che la diceva lunga su ciò che pensava a proposito di quella sua ultima frase.
Merlino finì la sigaretta e la spense sul retro del ferro della panchina, ma la tenne in mano: probabilmente perché non voleva gettarla a terra e non voleva essere lui a dirle di spostarsi, ma ad Alex piacque pensare che stava bene lì dov’era, sotto quel lampione dalla luce arancione, con il vento che gli scompigliava i capelli e la sua testa sulla spalla. In realtà, il motivo per cui era rimasto fermo su quella panchina era un altro.
«So quello che Artù ti ha detto questa mattina».
Stava solo prendendo tempo per trovare il modo migliore per aprire l’argomento.
Alex si schiarì la gola e sollevò la testa per poterlo guardare negli occhi, sfuggenti come mai.
«Non dobbiamo parlarne per forza, se non vuoi», disse, consapevole che lei era la prima a non voler affrontare quella conversazione, o almeno non in quel momento.
«Io penso che dovremmo, invece. Anche di quello che è successo questa mattina».

Di bene in meglio, pensò l’infermiera passandosi stancamente una mano tra i capelli scompigliati dal vento.
Respirò profondamente e si batté le mani sulle ginocchia, raddrizzando la schiena con determinazione, pronta ad accettare qualsiasi cosa Merlino le avrebbe detto, ma non fece in tempo ad aprire bocca che dalle porte scorrevoli uscì la capo-infermiera, la quale si diresse subito verso il gruppetto di Cathleen.
«Oh-oh, credo proprio che stia cercando me. Devo andare», esclamò Alex saltando giù dalla panchina proprio mentre uno dei paramedici la indicava dall’altra parte della strada.
«Ci vediamo dopo», la salutò Merlino con un tono che non ammetteva repliche e l’infermiera annuì con un sorriso tranquillo, palesemente falso.

 

***

 

Alle sue innumerevoli ed insistenti domande, Freya aveva risposto tendendo una mano pallida verso di lui e, afferrandolo con forza per la nuca, costringendolo ad immergere il viso nell’acqua gelata del lago.
Artù aveva pensato che si fosse stancata di lui e volesse ucciderlo o, ancora peggio, volesse imprigionarlo di nuovo sul fondo di Avalon, perciò si era dimenato con tutte le sue forze, rischiando più e più volte di cadere dall’instabile barchetta, fino a quando la stessa Freya non gli aveva sussurrato con voce suadente di calmarsi e di aprire gli occhi. Artù, come sotto l’effetto di un incantesimo, aveva fatto come gli era stato chiesto e con suo enorme stupore si era ritrovato a Camelot.
Rivisse quei giorni con gli occhi di Freya, scoprendo che era stato Merlino a liberarla dalla prigionia con l’uso della magia, a tenerla nascosta nei sotterranei del castello, a portarle acqua e cibo – il suo cibo! – e persino uno dei vestiti di Morgana.
Ora il comportamento del mago aveva tutto un altro significato e Artù iniziò a sentirsi male, come se l’acqua in cui era immerso fino al collo fosse riuscita a raggiungere il suo cuore per imprigionarlo in una morsa di ghiaccio, quando capì che Merlino si era innamorato di lei ed era pronto ad andarsene per costruirsi una vita diversa, lontana da Camelot e da tutti quelli che conosceva, e poter essere finalmente se stesso.
Freya però, nonostante lo amasse anche più di quanto la amasse lui, non aveva voluto che Merlino rinunciasse alla sua intera vita per lei e aveva provato a fuggire da Camelot, trovandosi circondata dai cavalieri e dallo stesso Artù.
La dama del lago non mostrò alcuna pietà per il re di Camelot e gli mostrò tutto nei minimi dettagli: quando, una volta trasformata in pantera alata, era stata messa all’angolo e circondata, quando Artù era riuscito a ferirla e all’improvviso un gargoyle era caduto tra lei e i cavalieri per evitare che la uccidessero. Era stato Merlino a crepare la pietra, a permetterle di fuggire, ma ciononostante non era riuscito a salvarla: era morta tra le sue braccia, proprio sulla sponda di quello stesso lago, e lo stregone aveva pianto, allora come quando aveva guardato il suo corpo bruciare sulla barca funeraria che con la magia aveva fatto scivolare lontano da sé.
«Basta! Basta!», urlò con tutte le sue forze, sentendo l’acqua dolce nella bocca. In quel momento Freya allentò la presa e Artù poté sollevarsi e riempirsi nuovamente i polmoni d’aria. Per quanto tempo era rimasto sott’acqua?
Crollò esausto sul fondo della barca, ansante, infreddolito e con gli occhi che gli bruciavano, forse per il freddo o più probabilmente per le lacrime che stava cercando di trattenere.
Era stato lui ad infliggere alla ragazza-pantera il colpo che l’aveva uccisa, lui aveva ucciso il primo amore di Merlino e non solo il mago non gliel’aveva mai confessato, comportandosi come se si fosse trattato soltanto di un brutto sogno, ma quando il giorno dopo l’aveva visto giù di morale gli aveva soltanto strofinato le nocche contro la testa, credendo che quello ed un sorriso avrebbero sistemato tutto. Quanto era stato sciocco.
«Ora che ho risposto a tutte le vostre domande, possiamo tornare al motivo per cui vi ho fatto venire qui? Mostrarmi a voi richiede molte energie e non posso davvero permettermi di sprecarle».
Artù si fece forza e aggrappandosi ai lati dell’imbarcazione si mise seduto, gettando un’occhiata timorosa al viso di Freya nuovamente riflesso sull’acqua ed illuminato dai raggi lunari.
«Sto morendo, Pendragon. La magia sta morendo».
Il re di Camelot sgranò gli occhi, scostandosi dalla fronte ciocche di capelli bagnati, e domandò nervosamente: «Che vuoi dire? Tutta la magia?».
Freya annuì, mortificata. «Anche Merlino, sì».
Artù strinse forte i bordi della barca, fino a farsi diventare bianche le nocche, e gettò uno sguardo al cielo, come a voler chiedere il perché di tutta quella sofferenza, perché dovessero essere loro i possessori di un destino così infelice.
«Non doveva andare a finire così», disse pacatamente Freya.
«E come sarebbe dovuta andare, esattamente?», chiese Artù, un sorriso ironico sul volto. In ogni caso non avrebbero vissuto felici e contenti, poco ma sicuro.
«Merlino avrebbe dovuto sbarazzarsi di Mordred la prima volta in cui ne ha avuto l’occasione, per esempio».
«Era solo un bambino, perdio!».
«Ma era scritto che quel bambino avrebbe causato la vostra morte! Merlino lo sapeva, l’ha sempre saputo; ciononostante, si è lasciato guidare dal suo buon cuore, dalla sua fede. Se Merlino avesse compiuto il suo dovere, sarebbe di certo riuscito a convincervi a riportare la magia ad Albione e successivamente in tutto il mondo conosciuto».
Artù aprì la bocca per fare quella che si rese conto essere la domanda più stupida del mondo. Sogghignò, commentando con rabbia più che con rammarico: «Io sono sempre stato un mezzo per il vostro fine, certo. Se non fossi stato figlio del re io e Merlino non ci saremmo mai incontrati, dico bene?».
«Può darsi, Pendragon. Voi eravate il piano A, al quale è succeduto il piano B quando siete morto. Ma anche questo è fallito miseramente, come avevo predetto». Freya scosse mestamente il capo, concedendosi un lieve sospiro che fece increspare l’acqua del lago. «Merlino vi è sempre stato così leale…». 
Quelle parole non solo paralizzarono il re di Camelot, ma gli fecero persino correre un brivido di freddo lungo la schiena. Tutto quello che la custode di Avalon gli stava raccontando non lo stava portando ad essere un fan sfegatato della magia.
«Quale era il piano B?», domandò a bassa voce, come se volesse essere palesemente ignorato: una parte di lui l’avrebbe davvero voluto – il dolore sarebbe stato troppo – ma l’altra invece stava bruciando dalla voglia di sapere fino a che punto si erano spinti.
«Che importanza ha ora?».
«È importante per me!», tuonò, lo sguardo fisso di fronte a sé e le mani che avevano stretto nuovamente i bordi dell’instabile barchetta.
Freya roteò gli occhi al cielo. «Suppongo che Merlino vi abbia raccontato a grandi linee quello che è successo immediatamente dopo la vostra morte». Artù si limitò ad annuire, sentendo delle schegge di legno penetrargli nei palmi delle mani, sempre più in profondità.
«Vostra moglie, la regina, non avrebbe voluto rendere Merlino solo consigliere di corte, ma addirittura re. Una mossa azzardata, probabilmente le mura di Camelot sarebbero cadute ancora più in fretta con due popolani come sovrani, ma almeno Merlino sarebbe potuto venire allo scoperto, abolire la pena di morte per chiunque praticasse la magia… sarebbe stato un inizio».
«Voi avete… avete usato la magia perché Ginevra si innamorasse di Merlino?», ripeté a denti stretti, furioso e con il cuore a pezzi – non tanto perché Merlino avrebbe potuto sposare Ginevra, anzi se avesse avuto più tempo prima di morire gli avrebbe detto lui stesso di prendersi cura di lei, ma perché solo l’idea che i pensieri e i sentimenti della sua Gwen fossero stati controllati ancora una volta dalla magia lo mandava in bestia.
«Non è stato difficile, dato che Ginevra ha sempre provato qualcosa per lui, sin dalla prima volta in cui l’ha visto affrontarvi a viso aperto e finire alla gogna. Ciò che abbiamo fatto è stato risvegliare quei sentimenti assopiti e convincerla che vedere Merlino sul trono sarebbe stato ciò che avreste voluto voi».
Artù cadde in un silenzio tombale, immerso nei ricordi e nella frustrazione, ma Freya non provò a confortarlo in alcun modo: continuò imperterrita nel suo racconto, senza curarsi del fatto che Artù non avrebbe fatto in tempo a riprendersi da quel duro colpo che avrebbe dovuto subirne un altro ancora più straziante.
«Merlino ha reso vano ogni nostro sforzo, rifiutando l’offerta di Ginevra ed imputandola al dolore del momento. Ha deciso però di starle ancora più vicino, pronto a sostenerla e ad aiutarla nelle decisioni più difficili.
«Con la vostra morte credeva di non avere più un destino da portare a compimento, ma che il suo destino, in poche parole voi, sareste venuto da lui quando sarebbe stato il momento. Non potevamo permetterlo, ma abbiamo atteso pazientemente e quando l’opportunità è giunta non abbiamo fatto altro che coglierla».  
«La guerra. L’allenza degli altri regni contro Camelot», fu la risposta automatica di Artù, il quale si rese conto di aver parlato solo dopo una dozzina di secondi, scosso dall’orribile immagine che gli aveva infilzato il cervello non appena aveva realizzato che persino la morte di Ginevra e dei cavalieri aveva avuto uno scopo preciso nel folle piano delle forze superiori, chiunque esse fossero, che volevano che la magia tornasse a regnare ovunque.
«Il nostro piano C», esclamò Freya quasi con orgoglio. «Pensavamo che se Camelot fosse caduta e tutti coloro che Merlino amava fossero morti lui si sarebbe dedicato completamente alla causa, ma… ancora una volta abbiamo fatto male i conti. Merlino ha perso tutto e non è riuscito a salvare vostra moglie, ma invece di provare rancore e cercare vendetta, occupandosi di tutti coloro che temevano e odiavano la magia, l’ha rinnegata completamente, promettendo a se stesso che non l’avrebbe utilizzata mai più. E ha mantenuto la sua promessa, eccome se l’ha fatto. Abbiamo dovuto improvvisare parecchio, a quel punto, e puntare un po’ più in basso».
Non ci fu nemmeno bisogno che Artù parlasse perché Freya gli sciorinasse quello che, se non aveva perso il conto delle lettere, doveva essere stato il piano D.
«Una volta lasciatosi le spalle Camelot, Merlino ha viaggiato in lungo e in largo, senza fermarsi mai per più di un paio di giorni nello stesso posto. Questo non ci ha facilitato le cose, affatto. Ma per fortuna ad un certo punto, quando ha iniziato a sentire la stanchezza, la mancanza di un luogo da poter chiamare “casa”, Merlino ha dato il via a ciò che ha fatto fino ad oggi: vivere sotto mentite spoglie, con una storia ed un passato sempre diversi, fino ad inscenare la propria morte per crearsi una nuova vita, con una nuova identità, altrove. Abbiamo influenzato tutte le donne che entravano in contatto con lui».
Artù alzò di scatto il capo, con impressa di fronte agli occhi l’immagine di Alexandra. Era già inorridito per ciò che stava per sentire, così tanto che sperò con tutto il suo essere che quel piano non avesse portato risultati e fosse stato abbandonato come tutti gli altri, evitando così ad Alex di correre pericoli.
«Ci saremmo accontentati di maghi di serie B, eredi del grande potere di Merlino ma estremamente più facili da influenzare. Ne sarebbero serviti molti, e sparsi in ogni angolo del mondo, ma in un modo o nell’altro saremmo riusciti a diffondere la magia. Peccato che Merlino non abbia mai avuto figli in più di millequattrocento anni, né relazioni durature, eccetto quella del secolo scorso. Sì, ricordo che quella Louise ci aveva fatto davvero ben sperare… Beh, ormai non ha più importanza. Grazie alla previdenza di Kilgharrah abbiamo sempre avuto un piano di emergenza, un asso nella manica: voi».
Il re di Camelot posò finalmente gli occhi sulla figura sotto la superficie del lago. «Me? Sul serio, me?!», urlò, così sconvolto, incredulo, arrabbiato e sofferente che avrebbe voluto prendere a pugni qualcosa, qualsiasi cosa, pur di buttare fuori tutto ciò che lo stava uccidendo dall’interno.
«“Nel momento in cui Albione avrà più bisogno, Artù rinascerà”!», gridò a sua volta la custode del lago, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Il destino di Merlino non girava intorno a voi, è sempre stato il contrario! E ora abbiamo bisogno di voi perché finalmente venga portato a termine!
«Il mondo ha bisogno della magia! Ora non starebbe collassando se Merlino avesse pensato al bene comune! Cosa credete che siano i terremoti, gli uragani, le eruzioni vulcaniche, l’inquinamento, il buco dell’ozono? Sono tutti sintomi! È la Terra che, prosciugata della magia che la rendeva sana, forte, piena di energia positiva, sta annunciando la sua lenta ed inesorabile morte».
Artù aveva aspettato pazientemente che Freya finisse di sfogarsi e preoccuparsi per le sorti del pianeta, anche quando il suo cellulare aveva iniziato a vibrargli insistentemente contro l’addome: l’aveva tirato fuori dalla tasca della felpa e aveva lasciato che il display su cui lampeggiava il nome di Merlino gli illuminasse il viso, poi lo aveva rimesso al suo posto. Non era proprio un bel momento.
«Finito? Bene, è il mio turno», esclamò, prendendo i remi e gettandoli in acqua. «A voi esseri magici piace proprio essere criptici, non è vero? Oltre che codardi, ovviamente. Credete di sapere cosa sia meglio per tutti perché conoscete a memoria il nostro destino, ma non avete il coraggio di informarci a riguardo, preferendo manipolarci come se fossimo solo delle stupide pedine senza coscienza dentro i vostri gloriosi quanto fallimentari piani. Beh, io non sono affatto come voi, perciò Freya – o come tu ti faccia chiamare ora – ti dirò una cosa: per quanto mi riguarda potete andare tutti all’inferno. Che la Terra si trasformi pure in un inferno: non mi interessa, io sono già morto!».
Aveva appena iniziato a remare con la forza del rancore verso la riva, quando una corrente innaturale gli oppose resistenza, bloccandogli i remi in una posizione alquanto scomoda.  
Sbuffò rumorosamente, come un toro infuriato. «Vuoi incatenarmi di nuovo nelle profondità di questo lago? Fantastico. Ma non osare tirarmi fuori di nuovo: non ti aiuterò ora, non ti aiuterò in futuro».
«Davvero lascereste questo mondo bruciare a causa del vostro orgoglio ferito?», gli chiese la dama di Avalon, facendo ribollire l’acqua intorno alla barca. La sua immagine era sparita e la sua voce gli rimbombava nella testa, tanto forte da fargli portare istintivamente le mani sulle orecchie.
«Non stiamo parlando del mio orgoglio qui!», urlò Artù in risposta, cercando disperatamente di tirare fuori dall’acqua i remi. «Avete distrutto la nostra casa e avete condannato a morte tutte le persone che amavamo!». Gli ritornarono alla mente le parole che lo stregone gli aveva detto giusto quella sera a proposito dell’enorme errore che sarebbe stato riportare la magia a Camelot, e lottando contro il feroce mal di testa che Freya gli stava provocando disse: «So per certo che anche Merlino non vorrà avere nulla a che fare con voi. E ne sarà ancora più convinto quando gli racconterò tutta la verità».
«Ne siete proprio sicuro, Pendragon? Merlino ha degli amici qui, persone che non vorrebbe vedere bruciare tra le fiamme dell’inferno. E poi c’è la ragazza».
Abbandonò ogni tentativo di raggiungere la riva, paralizzato dal timore che si riferisse proprio ad Alex. In quel preciso istante, per la prima volta, capì veramente quanto si era affezionato a quella ragazza impertinente e dalla testa più dura della sua. Nonostante tutte le incomprensioni, nonostante a volte lo facesse davvero uscire fuori dai gangheri… non avrebbe permesso a niente e a nessuno di farle del male.
«Quale ragazza?», chiese, deglutendo faticosamente il groppo che gli aveva ostruito all’improvviso le vie respiratorie.
«Sapete benissimo a chi mi riferisco. Alexandra Greenwood, la ragazza che si è gettata tra le mie acque quando siete ritornato nel mondo dei vivi. Non è stato un caso che vi abbia trovato lei, sapete? E non è nemmeno un caso che voi vi sentiate così legato a lei, così… protettivo nei suoi confronti».
«Smettila, fai silenzio!».
Ad Artù sembrò di sentirla ridacchiare, una risata sardonica o forse proprio maligna. «Lei è la vostra ultima erede, l’unica al mondo con ancora una piccolissima traccia di sangue Pendragon nelle vene».
«Erede?», balbettò, scioccato. «Io non… Non è possibile, io e Ginevra…».
«Capisco… Merlino non vi ha detto nemmeno questo. Avrei dovuto immaginarlo. Che sbadata che sono. Temo proprio che a questo punto vorrete un po’ di tempo per riflettere. Tornate non appena avrete deciso che cosa fare».
Freya se ne andò col solito ribollio e Artù sentì la barca scricchiolare come se fosse sul punto di affondare, ma fu solo un momento.
Venne ben presto avvolto da un silenzio totale, rotto soltanto da il bubulare di un gufo, da una ranocchia intenta a gracidare, dalle fronde degli alberi agitate dal vento freddo della notte e da un lieve singhiozzare. Solo quando si portò una mano sul viso si rese conto di essere lui l’autore di quell’ultimo suono.
Solo, nel bel mezzo di Avalon, si rannicchiò sotto quella luna tanto grande e luminosa da sembrare finta e pianse senza la paura di doversi vergognare un giorno delle proprie lacrime.

 

***

 

Merlino sentiva ancora in bocca l’odore di fumo quando si era fatto offrire una tazza di caffè da un infermiere che aveva incontrato nella stanza relax. Non ché gli desse fastidio, ma gli sembrava ipocrita parlare a dei bambini malati di tumore con l’alito che puzzava di un qualcosa che era guarda caso una causa di tumore.
Con la sua tazza di ceramica gialla tra le mani attraversò il corridoio per raggiungere la stanza di Abigail, trovandosi costretto a passare di fronte a quella in cui avevano sistemato provvisoriamente Steve, da solo, in modo che potesse riposare tranquillamente.
Si fermò di fronte alla finestra attraverso la quale vide sua madre, una giovane donna con i capelli biondi seduta al suo capezzale e con le mani strette intorno alla sua piccola e pallida, e suo padre, anche lui giovane, con i capelli scuri e gli stessi occhi di Steve, in piedi dietro di lei, che le massaggiava le spalle per infonderle coraggio nonostante anche lui stesse trattenendo a stento le lacrime.
Steve era stato stabilizzato e parte del liquido che gli si era riversato nei polmoni aspirato, ma era solo una questione di tempo ormai: il loro piccolo Capitan America – come lo chiamava spesso e volentieri Alex – se ne sarebbe andato, lasciando un vuoto incolmabile e un dolore non quantificabile in ognuno di loro.
Merlino venne ancora una volta investito dalle parole di Alex, parole dette per una semplice associazione ma per lui pungenti come poche: «A meno che tu non sia in grado di guarire Steve sussurrando una formula magica, non voglio proprio niente da te».
La verità era che lui avrebbe potuto guarirlo, se solo lo avesse voluto. E lo voleva, lo voleva più di ogni altra cosa al mondo, ma la paura era troppa. Nulla gli permetteva anche solo di sperare che quella volta la magia sarebbe stata dalla sua parte e l’ultima cosa che desiderava era far gridare al miracolo e dare un’illusione ai medici, alle infermiere, agli altri bambini, a se stesso, per poi scoprire che la guarigione era solo temporanea. Inoltre c’era un altro aspetto di cui tenere conto: la resistenza. Cosa sarebbe successo nel caso in cui non fosse riuscito a tenere a freno la magia, a controllarla una volta liberata dalla sua prigione? Non gli importava molto della propria vita, ma quelle di tutte le persone intorno a lui sì, eccome, e non voleva che nessuno si facesse del male per colpa del suo dono trasformatosi in maledizione.
Si guardò per un attimo le mani, cercando di venirne a capo, invano. Sospirò, ricordando com’era semplice quando bastava entrare nello studio di Gaius per ricevere un consiglio saggio che quasi sicuramente avrebbe ignorato. Ora c’era un’unica persona a cui avrebbe potuto porre i propri dubbi e per quanto gli sembrasse strano, quasi paradossale, sentiva che doveva almeno tentare.
Tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e raggiunse una delle varie uscite di sicurezza per chiamare Artù. L’apparecchio suonò a vuoto per una dozzina di secondi, dopodiché Merlino ci rinunciò, sospirando con due dita sulle palpebre pesanti.
Ripassò di fronte alla camera di Steve ma quella volta tirò dritto, gli occhi fissi sulle sue scarpe da ginnastica.
Bussò lievemente contro il legno della porta e quando ottenne il permesso di entrare si sforzò di sorridere ad Abigail, seduta sul suo letto, sotto le coperte e con un libro aperto sulle gambe, e a Mark, al suo fianco sulla propria sedia a rotelle, il viso cupo e gli occhi intrisi di rabbia.
«Ah, eccoti qui. Pensavo fossi sparito di nuovo», esclamò il ragazzino subito sulla difensiva, incrociando le braccia al petto ed evitando lo sguardo di rimprovero di Abigail, la quale invece sorrise dolcemente a Merlino, stendendo le braccia verso di lui.
Il mago si avvicinò e ricambiò l’abbraccio, posandole anche un bacio sui capelli corti.
«Sono così felice di vederti», gli sussurrò all’orecchio poco prima di sciogliere la stretta. «Come stai?».
«Non c’è male», rispose avvicinando al letto una sedia, su cui si sedette con un sospiro stanco. «Voi? Mi sono perso qualcosa di interessante?».
«A parte Alex che legge in modo pessimo le tue storie e Steve che combatte per la vita dici? No, proprio niente».
«Mark…», lo riprese ancora Abigail, ma il ragazzino le rivolse uno sguardo truce prima di aggiungere: «C’era bisogno che uno di noi rischiasse la pelle per farti tornare?».
«Adesso basta, Mark!», urlò Abigail, facendo sobbalzare sia il coetaneo che lo stesso Merlino. Nessuno dei due l’aveva mai vista esternare i suoi sentimenti in quel modo: era furiosa, i suoi occhi scuri erano pozzi d’oblio e la mascella contratta le dava l’aspetto di una leonessa pronta a tutto per i propri cuccioli.
«Siamo tutti preoccupati per Steve, ma non devi prendertela con Merlino», spiegò pacatamente quando riprese il controllo.
Mark la fissò per quella che sembrò un’eternità, per nulla incurante delle lacrime che gli avevano inumidito gli occhi. Quindi con rabbia girò la propria sedia a rotelle ed uscì dalla camera sbattendosi la porta alle spalle.
Abigail sospirò chiudendo gli occhi, poi accennò un sorriso nella direzione di Merlino: «Alex non è brava quanto te a leggere le storie, questo è vero».
Merlino si lasciò andare ad un mezzo sorriso e si scompigliò i capelli, abbandonandosi contro lo schienale della sedia.
«Mark ha ragione ad essere arrabbiato. Non mi aspettavo una reazione differente».
«Secondo me non hai fatto nulla di sbagliato», esclamò Abigail. «Hai una vita, al contrario di noi qui dentro, ed è giusto che tu la viva».
Merlino la guardò quasi con vergogna, pensando che lui aveva vissuto ben più di una vita ed era stanco, davvero stanco ormai, e che avrebbe dato qualsiasi cosa per poter dare un po’ di tutti gli anni che gli rimanevano ad ognuno dei bambini ricoverati.
«Avrei dovuto almeno avvisarvi», disse schiarendosi la gola.
La ragazzina scrollò le spalle, per poi sorridere più ampiamente: «Parlami di questo tuo amico così importante. È carino?».
Merlino ridacchiò e le strofinò affettuosamente una mano tra i capelli. «Giudicherai da te quando ve lo farò conoscere».
«Davvero ce lo farai conoscere? È una promessa?».
Dal suo punto di vista era sempre stato pessimo nel mantenere le promesse, ma per quella volta decise che non avrebbe deluso nessuno, qualsiasi fosse stato il prezzo da pagare. «È una promessa».
Abigail annuì con un cenno del capo ed abbassò gli occhi sul libro che stava leggendo prima che Mark si fiondasse come un razzo nella sua camera. Aveva cercato di rassicurarlo, gli aveva detto di tutto, ma sapeva di avergli mentito sin dall’inizio.
«A che cosa stai pensando?», le chiese Merlino, distraendola.
La ragazzina scosse tristemente il capo. «Steve non ce la farà, vero?».
Il moro aveva appena aperto la bocca per risponderle e darle altre false speranze, ma gli occhi di Abigail fissarono i suoi con un’intensità tale da ammutolirlo.
«Non ho bisogno delle bugie, Merlino. Quanto tempo gli resta?».
«A quanto pare…», si schiarì la gola per alleviare il magone che l’aveva all’improvviso bloccata. «A quanto pare sarà già tanto se supererà la notte».
Abigail si strinse forte le braccia intorno al corpo ed abbassò il viso, col mento contro lo sterno, per non mostrargli le lacrime che avevano iniziato a scorrerle sulle guance. «Non è giusto, lui è… è solo un bambino».
Merlino serrò le labbra e si alzò per sedersi accanto a lei sul letto; le avvolse le braccia intorno al corpo e la invitò a trovare conforto contro il proprio.
«Che cosa credi che avrebbe fatto il Merlino delle mie storie?», le domandò ad un tratto, a bassa voce. «Se avesse avuto la possibilità anche solo di dargli un altro po’ di tempo… credi che avrebbe usato la magia?».
La ragazzina sollevò il capo per guardarlo negli occhi e dopo un istante di profondissimo silenzio, durante il quale Merlino si sentì completamente messo a nudo, Abigail rispose: «Il tempo qui è ciò che più di prezioso abbiamo, perciò… sì, senza pensarci su due volte».
Detto questo tornò a rannicchiarsi contro di lui, col viso nell’incavo della sua spalla, e Merlino prese finalmente la sua decisione.

 

***

 

Alexandra, esortata dalla capo-infermiera, aveva fatto il giro di tutte le camere per mettere a letto i bambini e rassicurarli sulle condizioni al momento stabili di Steve, omettendo semplicemente che quella volta una bella nottata di sonno non l’avrebbe fatto stare meglio. Il solo pensiero le spezzava il cuore e più di una volta aveva dovuto tirare fuori lo stoicismo di sua madre per trattenere le lacrime mentre rimboccava le coperte, augurava la buonanotte e spegneva le luci.
Quando era arrivato il turno di Abigail, forse l’unica a cui non avrebbe dovuto dire di fare silenzio e provare a dormire, il nodo che aveva in gola si era stretto un po’ di più: Merlino era seduto al suo fianco e la stringeva delicatamente tra le braccia, accarezzandole di tanto in tanto i capelli con le labbra, dicendole quelle che Alex presuppose fossero parole di conforto.
In quel momento non poté fare a meno di pensare che avrebbe voluto essere al posto di Abigail e questo la fece sorridere, prima di proseguire verso la stanza di Mark e Danilo.
Già da fuori capì che c’era qualcosa di insolito: la stanza era buia e silenziosa in modo preoccupante, visto che da quando Mark era stato ricoverato non era mai successo che fosse andato a dormire prima delle dieci.
Aprì la porta facendo più piano possibile e nella semioscurità scorse Danilo già addormentato, sfinito dal ciclo di chemio, e il letto vuoto, nemmeno sfatto, di Mark.
«Dannazione», disse tra i denti, sopprimendo la tentazione di prendere a pugni la porta.
Respirò profondamente per calmarsi ed iniziò a pensare a dove potesse essere andato. Solitamente il binomio Abby-Mark era una sicurezza: trovavi uno e trovavi l’altro; raramente si imbarcavano in fughe e simili senza il sostegno reciproco, perciò le risultava chiaro come il sole che il suo intento era stato sin dall’inizio quello di isolarsi da tutto e da tutti.
All’improvviso capì che forse si era posta la domanda sbagliata. Pensò a come si sentiva lei in quel momento, a ciò che provava a causa delle condizioni di Steve, e si domandò dove sarebbe andata per trovare un po’ di solitudine. Le venne in mente un solo posto.
 

Si avvicinò all’entrata sul retro e sospirò vedendo una transenna con tanto di cartello “Vietato l’accesso ai non addetti ai lavori”, spostata quel tanto che bastava ad un ragazzino – ma anche ad una ragazza magra e atletica come lei – per sgusciare all’interno del cantiere. Lì accanto, abbandonata, la carrozzina di Mark. Lui, invece, proseguendo sulle sue gambe, era entrato nell’ampio spazio semicircolare e si era seduto a bordo piscina con le gambe penzoloni e i pantaloni della tuta tirati su fino al ginocchio come se ci fosse stata davvero dell’acqua nella vasca dalle mattonelle azzurre. Aveva il viso rivolto verso l’alto, dove la cupola di vetro faceva intravedere le rotondità della luna in cielo.
«È un peccato che non abbiano mai finito i lavori di ristrutturazione, eh?», esclamò Alex, facendolo sobbalzare leggermente.
«Come hai fatto a trovarmi?», le chiese stizzito, stringendo i pugni sulle ginocchia.
«Sono intelligente, che domande».
Si sedette al suo fianco e sospirò, appoggiandosi contro una gamba piegata e guardando il suo profilo. «Non dovresti essere qui, Mark. Ci sono calcinacci e impalcature ovunque, è pericoloso».
Mark scrollò le spalle, incurante. «Morire qui, morire a causa di un tumore… non c’è differenza».
Alex sollevò una mano per accarezzargli i capelli ricci, ma non riuscì nemmeno a sfiorarlo. Il ragazzino le rivolse un’occhiata torva, gli occhi di solito pieni di vita arrossati a causa delle lacrime ed intrisi di un dolore talmente grande da trasformarsi in rabbia cocente.
«Senti, se sei venuta qui per portarmi di nuovo là dentro va bene, andiamo, ma risparmiati le belle parole: fanno schifo».
«Sì, hai ragione, fanno schifo». L’infermiera annuì con un cenno del capo e si alzò. «Steve probabilmente non supererà la notte, la sua famiglia e tutti i suoi amici piangeranno fino a non avere più lacrime, il cancro non è ancora curabile come vorremmo e causerà dolore ad ancora molte persone, ma non azzardarti – non azzardarti mai più a dire che un modo di morire vale l’altro».
Mark sollevò il viso, sul quale era scivolata una lacrima solitaria, ma Alex non riuscì ad intenerirsi e ancora più infervorata aggiunse: «Steve ha sempre lottato, sta lottando anche in questo momento, mentre tu te ne stai sul bordo di una piscina vuota e dici stronzate, dimostrando che ti sei già arreso. Sono molto delusa, Mark, e se Steve ti vedesse in questo momento sono certa che lo sarebbe anche lui».
Il ragazzino scoppiò a singhiozzare e si aggrappò alla gamba di Alex, nascondendo il volto nei suoi ruvidi pantaloni azzurri.
Era stata dura, forse più di quanto intendeva esserlo, ma sperava che in quel modo Mark riuscisse a capire il valore della vita, non solo di quella degli altri ma anche della propria.
«Mi dispiace», farfugliò, tirando su col naso.
L’infermiera gli posò le mani sulle spalle per invitarlo a lasciarle andare la gamba, dopodiché si inginocchiò di fronte a lui. Gli accarezzò le guance arrossate a causa delle lacrime versate e scosse lievemente il capo: avrebbe voluto dirgli che non doveva chiedere scusa a lei, ma a se stesso, per non essersi dato nemmeno una chance, ma Mark le gettò le braccia intorno al collo e la strinse tanto forte da toglierle per un attimo il respiro.
«Ho paura, Alex. Ho tanta paura», mormorò, tremando come una foglia.
Alex gli passò le dita tra i capelli, massaggiandogli la schiena ancora squassata dai singhiozzi, e disse la verità: «Anche io».

 

***

 

Fermo sulla porta, rimase completamente di stucco quando la madre di Steve si ricompose, asciugandosi le lacrime, per sorridergli e salutarlo.
«Merlino, giusto? Il ragazzo delle favole».
Si erano incontrati solo una volta, eppure quella donna tanto addolorata e tanto forte si ricordava di lui.
«In persona», mormorò, porgendole la mano. Anche il padre di Steve gliela strinse, per poi tornare subito dopo a massaggiare teneramente le spalle delle moglie.
«Quello che fai per loro è… è bellissimo. Un semplice grazie non può bastare», aggiunse lei, tirando su col naso.
Merlino si strinse nelle spalle, con le mani nelle tasche dei jeans. «Basta e avanza, mi creda».
Si avvicinò ai piedi del letto di Steve, collegato ad una macchina per l’ossigeno e con una mezza dozzina di altri fili che dal petto gli uscivano dalla camicia da notte dell’ospedale; cercò di guardarlo senza mostrarsi in pena per lui, ma la sofferenza era davvero troppa e non c’era spazio per le finzioni.
«Ci sono novità?», domandò quindi, schiarendosi la gola.
«Stavamo per andare a cercare qualcuno», spiegò l’uomo, scostando una ciocca di capelli biondi dal viso pallido e stanco del figlioletto. «Le dispiace…? Ci vorrà solo un attimo».
Merlino annuì sicuro e si spostò di lato per lasciarli passare, ma la madre di Steve si abbandonò contro di lui per un abbraccio della durata di un secondo e mezzo circa, ma intenso come pochi.
«Grazie», gli sussurrò giusto prima di socchiudersi la porta alle spalle e Merlino annuì di nuovo, convincendosi ancora di più di star facendo la cosa giusta. Non poteva tenersi in disparte, lasciarlo semplicemente andare: doveva almeno provare a dargli un altro po’ di tempo.
Lui di sicuro ne aveva pochissimo prima che i suoi genitori tornassero, perciò si sedette sulla sedia fino a poco tempo prima occupata da sua madre e tenendo una mano sulla fronte di Steve lo chiamò dolcemente: «Ehi piccolo, riesci a sentirmi?».
Era imbottito di antidolorifici e ancora esausto a causa dell’operazione appena subita, ma incredibilmente Steve riuscì ad aprire gli occhi e gli regalò persino un minuscolo sorriso, stirando appena le labbra bluastre e screpolate. Le aprì per parlare ma dalla sua gola uscì a malapena un rantolo soffocato che gli fece accartocciare il viso in una smorfia.
«Shhh, non ti sforzare», sussurrò Merlino con gli occhi colmi di lacrime. «Sono felicissimo anche io di vederti».
Steve lo ignorò e provò a parlare nuovamente, questa volta riscuotendo più successo. «Stanno venendo a prendermi, li sento».
Merlino sgranò gli occhi, terrorizzato. «Chi? Chi ti sta venendo a prendere? Steve?».
«I Dorocha», soffiò, richiudendo gli occhi. «Ho tanto freddo…».
«No… No, Steve, i Dorocha non ti prenderanno».
«Ma la tua magia non funziona con loro…».
Il bambino stava delirando, a causa delle droghe oppure del poco tempo che gli rimaneva, e Merlino si odiò per aver raccontato a lui e agli altri bambini storie che, nonostante gli abbellimenti, erano ancora in grado di far venire gli incubi, a lui per primo.
Non badò alla lacrima che gli rotolò lungo la guancia, troppo occupato ad assicurarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi e a concentrarsi per raccogliere la magia necessaria a dargli un po’ di sollievo.
«Facciamo un tentativo, okay? Sarà il nostro segreto», sussurrò e con infinita delicatezza gli posò entrambe le mani sul petto. «E se non funziona mi metterò tra te e i Dorocha. Non ti faranno alcun male, te lo giuro».
Steve riaprì gli occhi velati di stanchezza ed incurvò appena le labbra. «Come ha fatto Artù per te?».
«Esattamente», rispose annuendo e sorridendogli incoraggiante.
Si guardò un’ultima volta alle spalle e poi respirò profondamente, gli occhi chiusi per trovare tutta la concentrazione possibile. Quando li riaprì, un brivido gli corse lungo la spina dorsale trovandosi di fronte ad un paio di iridi color dell’oro, riflesse sullo schermo stranamente spento di uno dei macchinari a cui Steve era attaccato.
Giusto prima di realizzare che se non fosse andato via subito sarebbe svenuto lì, dove i genitori di Steve lo avrebbero trovato, notò che tutti gli schermi intorno a lui erano diventati neri. Con le poche forze che gli rimanevano tirò la cordicella d’emergenza e si affrettò ad uscire dalla stanza, aggrappandosi a qualsiasi cosa per aiutarsi a reggersi in piedi.
Era già fuori, diretto verso una delle uscite d’emergenza, quando i macchinari si riaccesero tutti insieme, mostrando segni vitali nuovamente stabili, addirittura quasi nella norma.

 

***

 

La sua amicizia con Merlino, tutto ciò che avevano vissuto insieme… Possibile che fosse stato orchestrato tutto quanto dalle forze magiche? C’era mai stato di qualcosa di vero, qualcosa di non già scritto, negli anni trascorsi come compagni di battaglia, di sofferenza, di gioia… di vita?
Merlino era stata l’unica persona in cui aveva sempre riposto tutta la sua fiducia, l’unico che credeva non l’avrebbe mai tradito, eppure già una volta l’aveva deluso, tenendogli segreti i suoi poteri. Non poteva davvero credere che l’avesse fatto nuovamente, dimenticandosi di raccontargli una cosa così importante: la nascita di un Pendragon, suo figlio.
Di nuovo in sella, diretto verso casa, continuava a pensare a tutto ciò che Freya gli aveva detto, strofinandosi il viso inumidito dalle lacrime con la manica della felpa.
Venne distratto da un suono breve ed acuto e da alcuni flash di luce blu alle sue spalle. Si voltò con il capo e vide la donna alla guida fargli cenno di fermarsi. Artù acconsentì, più per curiosità che per senso del dovere – dopotutto non aveva idea di che tipo di istituzione avesse di fronte – e vide la donna parcheggiare l’auto sul ciglio della strada e scendere, zoppicando leggermente, lasciando i lampeggianti blu accesi sopra il tettuccio.
Era davvero una bella donna, con la pelle ambrata, i capelli neri raccolti sotto uno strano cappello rigido, arrotondato e con uno stemma argentato sopra la visiera, e due splendidi occhi grigio-verdi. Probabilmente aveva anche delle forme perfette, ma il suo abbigliamento più che insolito non le metteva di certo in risalto: indossava una camicia bianca con al collo una cravatta a quadretti bianchi e neri, dei pantaloni larghi e pieni di tasche e una felpa nera sopra la quale portava una giacchetta color giallo brillante con delle strisce argentate in grado di brillare in modo impressionante se colpite dalla luce dei fanali dell’auto.
«Spero abbia un’autorizzazione valida per quella», esclamò indicando la balestra che portava sulla schiena. «Anche se non riesco proprio ad immaginare come potrebbe usarla, visto che questa non è zona di caccia».
Artù corrugò la fronte e si tolse la balestra dalla schiena. «Questa, dite?», chiese, portandosela contro la spalla per esaminarne il teniere.
La donna però non vide di buon occhio quel gesto ed estrasse rapidamente la pistola dalla fondina, puntandogliela contro. «La metta giù. Lentamente».
Il re di Camelot la guardò a bocca aperta, incredulo. «Quella è una… una pistola?».
«Certo, che cos’altro potrebbe essere?», gli chiese innervosita, impugnandola saldamente con entrambe le mani.
«Beh, sa, è la prima volta che ne vedo una dal vivo. Voi siete una di quelle attrici…», sorrise malizioso, inarcando le sopracciglia. «Mi ha capito, no?».
Lei lo fissò allibita. «Farò finta di no, sul serio. Ora abbassi la balestra, per favore».
«Sì, certo. Perdonatemi, non volevo puntarvela contro. Non è mia abitudine minacciare una donna indifesa, ovviamente».
«Ovviamente. E chi minaccia solitamente?», gli chiese ancora, allungando una mano dietro la schiena per estrarre un paio di manette.
«Nessuno, assolutamente nessuno», rispose d’istinto Artù, mostrandosi ancora più sospetto di quanto non sembrasse già. «A che cosa vi servono quelle?».
«Una piccola precauzione mentre la porto in Centrale».
«Oh, sono lusingato, davvero, quello è uno dei miei video preferiti, ma… non posso, davvero non posso», rispose, avvampando ed iniziando a farsi prendere dal panico.
Non sapeva come comportarsi, né perché quella donna fosse così spaventata dalla balestra che teneva ancora tra le mani, ma una cosa la sapeva per certo: se Merlino fosse tornato a casa e non l’avesse trovato gli avrebbe fatto un milione e mezzo di domande, fino a quando non avrebbe ceduto, e Artù non aveva alcuna intenzione di cedere, non al momento almeno. Aveva bisogno di tempo per pensare, per capire perché il suo unico amico si fosse comportato in quel modo e, soprattutto, per scoprire se Alex fosse davvero una sua lontana, ormai unica, discendente.
«Glielo ripeto un’ultima volta: metta giù l’arma!», gridò la donna, tornando a puntargli contro la propria.
«Mi dispiace, devo proprio andare!», rispose frettolosamente Artù, dandole le spalle per saltare in sella al suo destriero a pedali. Non l’aveva ancora sollevato da terra quando un forte colpo alla nuca lo fece cadere svenuto sull’erba umida.

 

***

 

Alex spinse la sedia a rotelle di Mark fuori dall’ascensore ed entrambi strabuzzarono gli occhi quando videro un capannello di gente di fronte alla stanza in cui era stato sistemato il lettino di Steve.
Un’infermiera del pronto soccorso che conosceva solo di vista le passò accanto di corsa e Alex non poté trattenersi dall’esclamare, sconvolta: «Ma che diavolo sta succedendo?».
«Un miracolo, per quanto ne so».
Alex sobbalzò sentendo quella risposta e voltandosi di centottanta gradi vide Cathleen appoggiata allo stipite di metallo dell’ascensore con una spalla, una mela verde morsicata in mano e gli occhi che le stavano facendo un esame più dettagliato di quello che avrebbe fatto una TAC. Quando finalmente raggiunsero la giusta altezza, incrociando quelli di un’imbarazzata quanto confusa Alex, le rivolse un sorriso ammiccante che non fece altro che peggiorare la situazione, addentando sonoramente la propria mela.
«Andate in un motel, vi prego», borbottò Mark, abbastanza ad alta voce perché le due lo sentissero e reagissero in due modi completamente differenti, opposti: Cathleen ridacchiò, rivolgendogli uno sguardo eloquente, mentre Alex gli diede uno scappellotto, cercando parole di rimprovero che per un motivo o per un altro non le vennero mai in mente.
«Potresti spiegarti meglio?», le chiese anche con un pizzico di arroganza quando finalmente riuscì a riprendere il controllo di sé.
«Sembra che Steve non sia più in pericolo di vita, almeno per il momento. I suoi parametri vitali sono migliorati così, all’improvviso. Credo che, da quando è qui, non sia mai stato così bene».
Alex non credeva nei miracoli, non ci aveva mai creduto, perciò come Tommaso l’apostolo lasciò Mark accanto a Cathleen e si fece largo tra la piccola folla che si era creata per vedere con i propri occhi ciò che reputava fisicamente impossibile.
Appiccicata al vetro da cui si poteva vedere l’interno della stanza, sentì il cuore saltarle un battito di fronte all’immagine di un sorridente anche se assonnato Steve, con le guance e le labbra di nuovo colorite e gli occhi brillanti, che si lasciava accarezzare i capelli dalla sua mamma e dal suo papà, con le lacrime di felicità agli occhi, mentre la dottoressa gli prelevava di persona un campione di sangue da sottoporre alle analisi. Mettendo da parte tutta la gioia portata da questo miglioramento, c’era un gran bisogno di risposte scientifiche.
Alex si allontanò non appena capì di aver visto abbastanza e con gli occhi sbarrati fissi sul pavimento tornò verso Mark e Cathleen, ancora fermi dove li aveva lasciati.
«Allora?», le chiese il paramedico, rivolgendole un sorriso obliquo.
«Beh…», mormorò, senza alzare lo sguardo. «Steve sta… sta meglio, credo».
«Credi?», domandò Mark, inarcando le sopracciglia. «E vieni pure pagata per questo?».
«Quello che sta cercando di dire Alexandra è che ci vorrà del tempo per capire come sia potuto succedere», intervenne Cathleen, guardandolo severamente. Si chinò di fronte al suo viso, tanto vicino da farlo addossare contro lo schienale, e aggiunse: «Se ti sento ancora mancare di rispetto a lei o a qualcun altro te la vedrai con me. Mi hai capito, moccioso?».
Mark assunse la sua aria da ragazzino ribelle, trucidandola col pensiero, ma annuì. Il paramedico sorrise mostrando la sua perfetta dentatura e dopo essersi sollevata posò una mano sulla spalla di Alex, facendo del proprio meglio per confortarla. L’infermiera però non la calcolò nemmeno e si scostò per tornare ad impugnare i manici della sedia a rotelle di Mark.
«È tardissimo, ti riporto in camera», disse atona, per poi aggiungere: «Sei fortunato che tutti siano concentrati su Steve».
Cathleen le guardò la schiena mentre andava via proprio come se non esistesse e ad un tratto sollevò una mano in segno di saluto, dicendo tra sé e sé: «Anche per me è stato un piacere rivederti, buonanotte».

 
Alex aveva controllato nuovamente che tutti i bambini, Mark e Abigail compresi, si fossero addormentati prima di rendersi conto che il suo turno era finito ormai da un quarto d’ora.
Era stata una serata piena, di quelle sfibranti per il carico di emozioni, e aveva come la sensazione – un vero e proprio brutto presentimento in realtà – che non fosse ancora finita.
In ogni caso non sarebbe andata via senza aver parlato prima con la dottoressa di Steve: doveva capire che cosa era accaduto e come, soprattutto, nel breve lasso di tempo che aveva trascorso nella piscina in via d’abbandono con Mark.
Si era preparata un altro caffè, dato che non aveva avuto il tempo di finirlo quando era arrivato Merlino, e poi aveva passeggiato avanti e indietro davanti al bancone dell’accoglienza, nervosa come il parente di uno dei pazienti del pronto soccorso.
A dimostrazione di tutta la spossatezza che le pesava sulle spalle le era passata per la testa l’idea di scendere proprio al pronto soccorso con l’intenzione di trovare Keith e sfogarsi con lui – o almeno di chiedergli se conoscesse Cathleen – ma la sua coscienza, forse nell’ultimo sprazzo di lucidità, le aveva impedito di commettere quell’errore madornale.
Quindi aveva aspettato pazientemente che la sua collega del turno di notte le comunicasse che poteva trovare la dottoressa in una certa camera o in uno dei vari laboratori al terzo piano. Aveva aspettato e aspettato, desiderando ardentemente un intero pacchetto di sigarette, fino a quando non aveva visto la madre di Steve uscire dalla sua stanza per dirigersi verso la macchinetta. Fu in quel momento che decise di tentare il tutto per tutto.
Senza attirare troppa attenzione si allontanò dal bancone e si incamminò verso la macchinetta, quindi fece finta di averla vista solo in quel momento e a bassa voce, con tutto il tatto di cui era capace, disse: «Paige, ciao. Ti ricordi di me?».
La donna, col viso struccato e sfatto più del suo, la guardò e dopo un attimo di esitazione accennò un sorriso. «Certo, tu sei Alexandra. Steve mi parla in continuazione di te, dice che sei la sua infermiera preferita».
Quelle parole le scaldarono improvvisamente il cuore, facendola sentire profondamente in colpa per il subdolo motivo per cui l’aveva avvicinata: cercare di carpire da lei qualsiasi informazione avrebbe potuto aiutarla a circoscrivere quell’incredibile miglioramento, quel… miracolo.
«Oh, il mio piccolo Cap», sussurrò sentendo le lacrime riempirle gli occhi. «Sono così felice che stia meglio, davvero, ma continuo a chiedermi…».
«Come sia potuto accadere?», le rubò le parole di bocca Paige, sorridendo mestamente. «Me lo chiedo anche io. La dottoressa ci aveva già detto che la sua situazione era critica e che non avrebbe fatto altro che peggiorare, perciò… mi pongo anche io la stessa identica domanda».
Si voltò per prendere il bicchiere di caffè che intanto la macchinetta aveva preparato e si sedette su una delle poltroncine a muro lì accanto.
«Tu sei credente, Alexandra?», le chiese, mescolando ad occhi bassi il contenuto del bicchierino.
«Se credo in Dio, intendi? No, direi di no».
«Nemmeno io. Fino ad un’ora fa». Alzò finalmente il capo e ridacchiò amaramente. «Lo so, è il peggio dell’ipocrisia, ma… che altro può essere? In cinque minuti – il tempo di andare a chiedere della dottoressa – mio figlio ha vinto la sua battaglia quotidiana contro la morte nonostante non avesse alcuna speranza di farcela. L’unico che potrebbe saperne qualcosa è Merlino, ma nessuno l’ha più visto».
Venire a sapere che Merlino era coinvolto, e in modo così improvviso, fu come ricevere una botta in testa.
Alex sbatté più volte le palpebre, scioccata. «Hai davvero detto… Merlino? Lui che c’entra?».
«Beh, non volevamo che Steve restasse da solo, quindi abbiamo chiesto a Merlino se poteva… Alexandra? Alexandra, c’è qualcosa che non va?».
L’infermiera abbassò gli occhi in quelli di Paige, rendendosi conto della sua espressione preoccupata. Si passò entrambe le mani tremanti tra i capelli per appiattirli ai lati della testa e cacciarli dietro le spalle, un gesto che faceva sempre quando i livelli di tensione raggiungevano picchi estremi: toccarsi i capelli, o ancora meglio avere qualcuno che li toccasse per lei, era un ottimo metodo per tranquillizzarla.
«No, è tutto okay», mentì, sentendo del sudore freddo sulla schiena. «Scusami, è che sono davvero stanca e mi sono distratta. Dicevi?».
La madre di Steve non sembrava molto convinta, ma probabilmente anche lei era troppo stanca per distinguere le bugie dalla verità, perciò riprese da dove si era interrotta.
«Abbiamo chiesto a Merlino se poteva stare con lui nel frattempo. Erano passati cinque minuti, forse di meno, quando abbiamo notato un paio di infermiere che correvano proprio verso la stanza di Steve: qualcuno aveva tirato il cordoncino delle emergenze, ma i parametri vitali sui monitor erano perfetti, tanto da far pensare al personale che ci fosse stato uno strano blackout e che i valori fossero impazziti. È stata chiamata la dottoressa e… il resto è già storia ormai», si strinse il collo tra le spalle, bevendo un sorso di caffè. «Il miracolo di Steve».
«E… e Merlino? Che fine ha fatto, intendo? Hai detto che nessuno l’ha più visto, ma è impossibile!», esclamò, afferrandosi una ciocca di capelli biondi e rigirandosela freneticamente tra le dita.
«Non è la prima cosa impossibile che vedo accadere questa sera», mormorò tra sé, piegando un angolo della bocca. Poi aggiunse ad alta voce: «Ho chiesto a chiunque fosse nei paraggi: nessuno ha la più pallida idea di dove sia andato».
L’infermiera si guardò intorno come spaesata, senza sapere cosa fare. Alla fine si inginocchiò di fronte a Paige e le chiese di darle il suo cellulare. La donna non chiese perché, semplicemente glielo consegnò e la osservò mentre salvava rapidamente il proprio numero in rubrica sotto il nome di “Alex”.
«Chiamami, anche nel cuore della notte, se dovessero esserci novità. Ci proverai?».
La mamma di Steve annuì con un debole cenno e si lasciò stringere le mani con il cellulare ancora tra loro.
«Sono davvero, davvero felice che Steve stia meglio».
«Ti credo, Alex. Ora vai, vai a cercare Merlino».
«Come?», balbettò la ragazza, ma si rese presto conto che fingere ancora era inutile, una gran perdita di tempo. Annuì con maggior dignità possibile e si allontanò quasi di corsa, improvvisamente di nuovo piena di energie. Che fosse a causa dell’adrenalina, dell’ansia, della “forza dell’amore” o della magia vera e propria non aveva alcuna importanza in quel momento.

 

***

 

«Questo è tutto matto, te lo dico io», le disse il collega del turno di notte, l’agente Darrell Fisher, non appena lei uscì dalla piccola sala interrogatori. «Cioè, guardalo! Indossa una maglia di ferro, aveva con sé una balestra e un pugnale piuttosto autentici e dice di chiamarsi Artù Pendragon. O è matto oppure è un cosplayer che ci è andato giù pesante con la birra». Corrugò la fronte, pensieroso, e aggiunse: «O con qualsiasi bevanda alcolica i Cavalieri della Tavola Rotonda bevessero nel Medioevo».
«Non è ubriaco: gli ho fatto il test», gli rispose mentre si dirigeva a passo svelto verso la propria scrivania, dove aveva lasciato gli oggetti personali del ragazzo.
«È matto, lo sapevo», borbottò Darrell prima di finire tutto d’un fiato il suo caffè e di lanciarne il bicchiere di carta nel cestino.
«Come ci comportiamo, Myra?».
La donna alzò gli occhi sul collega e scrollò le spalle. «Non ha con sé documenti, solo il cellulare. Possiamo partire da qui, che ne dici?».
Darrell si fece consegnare lo smartphone e con la fronte aggrottata, ben poco entusiasta, esclamò: «Adoro chiamare tutti i numeri nelle rubriche dei matti, dovresti saperlo ormai».
Myra gli rivolse un sorriso e dopo avergli dato una pacca sul braccio si diresse nuovamente verso la stanza interrogatori nel tentativo di ottenere qualche altre informazione dal loro ospite.
L’agente Fisher si lasciò cadere sulla propria sedia girevole ed incrociò i piedi sull’angolo della scrivania, quindi si concentrò sul cellulare e senza alcuna difficoltà accedette alla rubrica. A bocca aperta, fissò lo schermo su cui comparivano due unici contatti – tra cui un “Merlino”, ovviamente  poi si voltò verso la porta chiusa della sala interrogatori. Qualcosa gli diceva che non ci avrebbe messo molto.

 

***

 

Alex aveva cercato Merlino dappertutto, senza cavare un ragno dal buco, quando aveva ricevuto quella chiamata da Artù. O meglio, dal suo cellulare. A cercarla infatti era stato l’agente Darrell Fisher, della polizia locale, il quale le aveva spiegato che avevano in custodia il signor Artù Pendragon – «Mi perdoni, questo è il nome che ci ha fornito». – ufficialmente per detenzione di armi e oltraggio a pubblico ufficiale, meno ufficialmente per atteggiamento sospetto.
«Non capisco, perché avete chiamato me?», aveva chiesto, esasperata, massaggiandosi la fronte.
«Perché è il primo dei due contatti sulla rubrica del cellulare del signor Pendragon. Da quando è stato portato in centrale non ha detto nient’altro che il suo nome e, in tutta onestà, io e la mia collega siamo un po’ in difficoltà».
Così aveva accettato di recarsi subito in Centrale, non prima di aver consigliato all’agente Fisher di non disturbarsi a telefonare al secondo contatto: sapeva che non l’avrebbe trovato, dato che lei per prima aveva provato a chiamarlo, a vuoto, almeno un centinaio di volte.
Si era cambiata e senza accorgersi minimamente dell’auto di Merlino ancora parcheggiata poco lontana dalla sua era sfrecciata via.

 
La Centrale di polizia del loro minuscolo paesino era, beh… minuscola. Le persone che ci lavoravano si potevano contare sulle dita di una mano e a dimostrazione di quanto fosse pressoché nullo il tasso di criminalità non vi era assegnato nemmeno un detective. In caso di necessità – e non era mai accaduto da quando lei si era trasferita lì – un ispettore delle cittadine vicine, o addirittura di Newport, veniva assegnato al caso e rispedito a casa una volta risolto, lasciando ai poveri impiegati la sola pila di scartoffie.
Da quanto aveva capito parlando con l’agente Fisher, seduta di fronte a lui nel piccolo ufficio con due scrivanie, quattro sedie, un mobile ad ante e una piccola libreria, l’incontro con Artù era stato ciò che di più emozionante, nonché strano, avesse visto da quando era arrivato – circa sei mesi prima.  
«Non è proprio Gotham City, eh?», aveva commentato Alex, stirando un sorriso imbarazzato prima di abbassare gli occhi sul bicchiere d’acqua che le era stato offerto.
«Né Camelot, a quanto mi risulta», le aveva risposto con un sorriso compassionevole, le sopracciglia inarcate. «Lei sa dove si è procurato quelli?».
Alex aveva seguito il dito puntato verso l’altra scrivania e aveva avuto seriamente paura che la mascella le cadesse a terra per l’incredulità.
Un pugnale e una… una fottuta balestra!

 
«Agente Fisher, io non… non penso siano suoi», si azzardò a rispondere una dozzina di secondi dopo, senza riuscire però a scostare lo sguardo da quelle armi piuttosto medievali.
«Nel senso che li ha rubati o…?».
«Rubati? No, no, no! Credo facciano parte della collezione di Merlino».
Darrell strabuzzò gli occhi e dopo un momento di imbarazzo disse, cercando di sembrare il più serio possibile: «Merlino… Il Merlino della rubrica? Si chiama davvero così?».
«Così ha sempre detto di chiamarsi. Posso vedere Artù, ora?».
«Veramente è sotto interrogatorio, al momento, e io avrei ancora qualche domanda».
Alex si passò stancamente una mano tra i capelli e sul viso e guardandolo implorante disse: «Senta, agente, le assicuro che io ne so tanto quanto lei. È stata una serata piuttosto pesante e se c’è una cauzione da pagare è okay, lo capisco, ma l’unica cosa che voglio è andare a dormire il prima possibile».
L’agente Fisher la fissò per quella che le sembrò un’eternità, poi le fece segno di aspettare e si alzò per andare a bussare alla porta della sala interrogatori. Alex riconobbe la sua collega non appena questa si affacciò sullo stretto corridoio e automaticamente balzò in piedi, esclamando: «Myra!».
La donna la guardò in silenzio per qualche secondo, con un’espressione che oscillava tra lo stupito e l’entusiasta. «Alexandra, ciao», la salutò infine, andandole incontro con entrambe le braccia tese verso di lei.
Alex l’abbracciò e si sforzò di sorriderle, non potendo fare a meno di notare che la sua bellezza era ancora più abbagliante di quanto si ricordava.
La sua famiglia, originaria di Mumbai, si era trasferita in Galles da ormai tre generazioni, ma nonostante tutte le influenze, nonostante sua madre stessa fosse gallese, Myra era nata indiana per il novantanove percento, prendendo da lei solo gli occhi grigio-verdi, da togliere il fiato sulla sua pelle ambrata.
Quindi, dopo un attimo di esitazione, abbassò lo sguardo verso la sua gamba destra. «Come va?».
La poliziotta scrollò le spalle, arricciando le labbra piene. «A parte qualche dolorino ogni tanto, direi bene. Tu, invece?».
«Sono distrutta. Come dicevo all’agente Fisher, è stata una serata piuttosto movimentata in ospedale e vorrei che questo disguido si risolvesse il più in fretta possibile».
«Tu conosci quel ragazzo?», le chiese, le sopracciglia inarcate.
Alex si sistemò ancora una volta i capelli dietro le spalle, nervosamente, mentre annuiva con un cenno del capo.
Myra, ora impassibile, si spostò verso il distributore d’acqua posto in un angolo dell’ufficio e se ne versò un bicchiere. Alex osservò le bolle d’aria salire verso la parte vuota del boccione, accompagnate da una specie di piccola esplosione, poi le tornò alla mente ciò che Darrell le aveva detto e si schiarì la gola, imbarazzata.
«Mi dispiace per quello che ti ha detto, lui… non è tanto a posto con la testa, ecco».
«Oh, ho sentito di peggio, credimi», le rispose dopo aver bevuto la propria acqua. «Come mai lo conosci?».
«È un amico di Merlino».
Myra posò di scatto gli occhi, stretti in due fessure, sull’agente Fisher, il quale raddrizzò la schiena e ricambiò lo sguardo quasi con timore.
«Tu lo sapevi? Sapevi che Merlino era coinvolto in questa storia? Perché diamine non mi hai avvisato subito?», gli chiese severamente.
«Io credevo… credevo che fosse un nome di fantasia! Artù, Merlino… eh». Si strinse il collo tra le spalle, sollevando le mani in segno di resa. Quindi sospirò e davvero mortificato aggiunse: «Mi dispiace».
«Lui dov’è?», chiese Myra ad Alex, una volta ritrovata la calma.
«Non ne ho la più pallida idea. È tutta la sera che lo chiamo, ma non risponde al cellulare».
«Strano, non trovi?».
L’infermiera annuì, anche se avrebbe voluto rispondere che di cose strane nell’ultima settimana e mezza – da quando era arrivato Artù, appunto – ne aveva viste fin troppe.
La poliziotta si strinse la coda di cavallo sulla nuca, un gesto automatico quanto il battito delle ciglia, riflettendo sul da farsi. Alla fine indicò la porta della sala interrogatori e puntò tutta la propria attenzione su Alex.
«Mi assicuri che non è pericoloso?», le domandò, fissandola col suo miglior sguardo indagatore.
Alex non poté fare a meno di ricordare la mattina in cui le aveva puntato un pugnale alla gola dandole della strega, ma scosse il capo con violenza e cercando di essere il più convincente possibile esclamò: «Non farebbe del male ad una mosca».
«Va bene allora», disse Myra, sospirando. «Viste le sue condizioni, mi sembra inutile fargli passare la notte in cella. Portalo a casa e assicurati che non ottenga altre armi del genere». Si avvicinò al tavolo su cui erano stati appoggiati i pochi effetti personali di Artù e dopo averle consegnato lo smartphone e un mazzo di chiavi indicò la balestra e il pugnale con un dito: «Questi è meglio se li teniamo noi».
«Ma sì, certo. Grazie Myra, davvero non so come…».
«Una cosa ci sarebbe: se riesci a rintracciare Merlino, portamelo qui».
L’aveva detto con un tono imperioso, quello che usava solitamente quando indossava l’uniforme, come se vedere Merlino fosse solo una questione di lavoro, ma Alex sapeva bene che c’era dell’altro. Non a caso Myra non l’aveva nemmeno guardata in faccia, consapevole che i suoi occhi avrebbero mostrato ciò che realmente provava al solo pensiero di vederlo di nuovo.
«’kay», mormorò l’infermiera, sorridendole nonostante tutto.
«Darrell, te ne occupi tu?», aggiunse Myra, sedendosi alla propria scrivania per compilare alcune pratiche.
«Sicuro», rispose prontamente l’agente Fisher, per poi voltarsi verso Alex e farle strada.
Alex rimase sulla porta mentre Darrell si avvicinava ad Artù per liberarlo dalle manette che gli legavano una mano al tavolo. Lo fissò in silenzio, così stanca da non riuscire nemmeno a commentare mentalmente la maglia di ferro che si era infilato sopra la felpa col cappuccio. E così fece anche il biondo non appena alzò lo sguardo e la vide: a bocca aperta, come se la sua presenza lì e in quel momento fosse inconcepibile tanto quanto quella di una cabina della polizia blu nel salotto di casa sua.
L’agente Fisher lo aiutò ad alzarsi ed esclamando: «Vedi di rigare dritto», gli diede una leggera spintarella verso di lei. Artù la guardò negli occhi con espressione quasi terrorizzata e Alex pensò che era l’espressione appropriata – prima o poi gliel’avrebbe fatta pagare, pagare cara – ma le fece comunque uno strano effetto vederlo ridotto in quelle condizioni. Per questo gli prese una mano e dopo aver ringraziato l’agente Fisher lo trascinò fuori.
In silenzio e tenendolo ancora per mano proprio come avrebbe fatto una mamma con un figlio che ha appena combinato una marachella punibile con una settimana senza videogiochi, raggiunsero l’auto parcheggiata proprio dall’altro lato della strada. Solo allora lo lasciò andare e, una volta trovate le chiavi nella sua disordinatissima borsa, gli aprì la portiera del passeggero lanciandogli un’occhiata truce.
«Idiota», grugnì, incapace di trattenersi, ma fu l’unica cosa che gli disse. Anche volendo non avrebbe avuto modo di aggiungere altro, visto che l’agente Fisher era uscito dalla Centrale e, chiamandola per nome, l’aveva raggiunta di corsa.
«Che altro c’è, agente?», domandò esasperata, sbattendo con violenza la portiera dell’auto. (Se Artù non fosse stato pronto di riflessi gli avrebbe spaccato la caviglia, come minimo).
«Chiamami pure Darrell», disse, guardandosi alle spalle come se non volesse essere sorpreso a parlare con lei. «Posso chiederti una cosa un po’ sconveniente?», le chiese, sottovoce e col viso pericolosamente vicino a quello dell’infermiera.
«Suppongo che lo farai ugualmente».
Il ragazzo si passò una mano tra i biondi capelli ricci, umettandosi le labbra. «Volevo sapere se Myra e quel Merlino…».
«Se Myra e Merlino cosa?», domandò Alex, irritata più che mai dal suo tono e soprattutto dal sorrisino malizioso che aveva stampato in faccia.
«Insomma, se hanno avuto modo di studiare insieme quel libricino famosissimo, pilastro della cultura indiana… Capito a cosa mi riferisco?».
Certo che aveva capito. Forse era lui che non aveva capito, dato che si era azzardato a farle l’occhiolino nonostante lei fosse un’infermiera perfettamente in grado di estrarre un occhio dall’orbita senza sporcarsi i vestiti.
«Perché non lo chiedi direttamente a Myra, Darrell?», gli chiese rivolgendogli un sorriso tutt’altro che amichevole. «Mi raccomando però, quando lo fai avvisami: potrebbe servire il mio aiuto e probabilmente quello di qualche altro mio collega dell’ospedale quando avrà finito di risponderti».
L’agente Fisher fece un passo indietro e leggermente intimorito dal suo sguardo carico di ostilità si voltò e tornò verso la Centrale per salire due a due i pochi gradini che conducevano alle porte a spinta.
Alex si appoggiò con un gomito al tettuccio dell’auto e si ravvivò i capelli sulla nuca, borbottando verso la luna: «Io odio i lunedì».

 

***

 

Trovarsi davanti Alex così all’improvviso, inaspettatamente, l’aveva scioccato nel vero senso del termine: muscoli paralizzati, voce sparita del tutto e sangue – il suo stesso sangue, secondo Freya – ghiacciato nelle vene.
Mentre l’agente Chandra non faceva altro che porgergli una valanga di domande, mentalmente si era dipinto diversi scenari, in cui però c’era sempre una costante: la furia di Merlino. (Motivo per cui aveva optato per il più religioso dei silenzi: non voleva finire in guai più grandi di quello in cui era già). Poteva però dire che in nessun caso, nessuno, aveva immaginato che in suo soccorso sarebbe arrivata proprio Alex.
Dopo averlo insultato non gli aveva più rivolto la parola – quasi sicuramente non l’avrebbe fatto per il resto del viaggio verso casa – e nonostante da un lato ne fosse sollevato, dall’altro era terribilmente preoccupato che la sua rabbia potesse sfociare davanti a Merlino, peggiorando una situazione che vedeva già complicatissima.
Ogni tanto la guardava di sfuggita, con la coda dell’occhio, ma la sua espressione concentrata non gli permetteva di capire se fosse arrabbiata, pensierosa o semplicemente stanca. Un mix di tutto, forse?
Alexandra parcheggiò l’auto sulla strada sterrata di fronte a casa e senza dire una parola spense il motore e scese, aspettando che lui facesse lo stesso per poi chiudere le portiere col piccolo telecomando.
Artù la guardò confuso, vagamente preoccupato, fino a quando non si trovò costretta a rompere il silenzio per dirgli bruscamente: «Se pensi che dopo la cazzata che hai fatto ti lasci da solo sei proprio pazzo».
«Hai intenzione di dormire qui?», riuscì a chiederle finalmente, seguendola verso l’entrata ma rimanendo sempre qualche passo indietro.
Alex gli gettò un’occhiata e tirando fuori dalla tasca dei jeans le chiavi di casa che l’agente Chandra gli aveva sequestrato insieme al cellulare e alle armi, esclamò: «Ci puoi scommettere il tuo regale didietro».
Il re di Camelot fu preso talmente in contropiede che anche se ci avesse provato non avrebbe trovato nulla di adatto con cui rispondere, perciò restò ancora una volta in silenzio. Aspettò che aprisse la porta, quindi la seguì all’interno e la guardò mentre accendeva le luci e si privava di scarpe, cappotto e borsa, lasciando tutto in giro, come se quella fosse casa sua.
Gli ci vollero un paio di minuti per capire che cosa c’era che non andava e quando finalmente capì il suo cuore saltò un battito. «Dov’è Merlino?».
«Questa è una domanda da un milione di dollari», rispose Alex con tono incurante, per poi voltarsi di scatto verso di lui e gridare: «Credi davvero che sarei qui a quest’ora se sapessi dove diavolo è andato a cacciarsi quello stupido?!».
Artù iniziò a collegare i puntini: alla Centrale si era presentata Alex perché Merlino non sapeva che era stato messo sotto custodia; e se Merlino non lo sapeva aveva del tempo extra per inventare una scusa convincente da rifilargli quando gli avrebbe chiesto per quale motivo era uscito con una balestra sulla schiena. Restava però da scoprire dove fosse finito e perché, e gli era chiaro ormai che Alex non voleva restare lì a dormire perché voleva tenerlo d’occhio ma perché voleva aspettare che lui tornasse a casa.
Un pensiero agghiacciante gli attraversò all’improvviso la mente. E se gli fosse successo qualcosa, se non potesse fisicamente tornare a casa e nemmeno mettersi in contatto con loro per chiedere aiuto? Dopotutto non era da Merlino sparire così, senza dare alcuna spiegazione – non ora che sapeva dei suoi poteri, almeno – e dopo tutto quello che gli aveva rivelato la custode di Avalon non pensare al peggio gli risultava molto, molto difficile.
«Dobbiamo andare a cercarlo», disse con determinazione.
«No, invece», rispose Alex, dirigendosi verso la cucina.
«Non possiamo starcene qui con le mani in mano! Merlino può essere in pericolo!».
Artù sentì il cigolio dell’anta della credenza che veniva aperta e richiusa, poi quello del fornello a gas che veniva acceso.
«Pericolo? Di che cosa stai parlando, Artù? Merlino è grande e vaccinato, può cavarsela benissimo da solo».
«No invece, tu non… non capisci». Camminò per qualche secondo avanti e indietro, indeciso se rivelarle o meno ogni cosa una volta per tutte, ma la stessa Alex interruppe il filo dei suoi pensieri, comparendo nel vano della porta con delle bustine di tè in mano.
«Al cellulare non risponde, all’ospedale nessuno l’ha visto e io stessa l’ho cercato dappertutto. La cosa migliore da fare è aspettarlo qui, credimi».
«Ma…».
«Shh-shh», lo azzittì sollevando l’indice a mezz’aria. «Senza di me saresti ancora sotto custodia, perciò sei in debito con me. Quello che ti chiedo è di fare semplicemente come ti dico, senza obiettare né porre domande. Sai quante domande ho io, domande che giorno dopo giorno cerco di dimenticare? Troppe. Sii solidale con me, solo per questa volta, e prometto che non dirò a Merlino che la tua passione per i porno ti ha quasi portato ad una notte al fresco con l’accusa di oltraggio a pubblico ufficiale».
Il suo tono di voce determinato e la punta di severità nel suo sguardo costrinsero Artù a fermarsi di colpo e a guardarla con gli occhi sbarrati.
Aveva avuto come la sensazione di guardarsi allo specchio, cogliendo in lei aspetti del suo carattere che conosceva a menadito. Poteva anche essere solo un’impressione, la prova che le parole della custode di Avalon lo stessero condizionando a tal punto da fargli credere davvero che Alex fosse la sua ultima discendente, ma non poteva comunque impedire al proprio cuore di battere impazzito nella gabbia toracica.
«Va bene», mormorò alla fine, cercando di mandare giù il nodo alla gola.
«Ottimo», replicò lei, rivolgendogli un debole sorriso. «Vuoi una tazza di tè?».
Artù scosse il capo. «No, vado a letto».
«Okay. Buonanotte».
Il re di Camelot non rispose, troppo occupato a tenere a distanza di sicurezza i pensieri dolorosi che, prima o poi, gli avrebbero fatto visita durante la notte. Mentre era sulle scale però sentì Alex borbottare: «Che ho fatto di male per meritarmi tutto questo?» e pensò che avrebbe potuto chiederselo fino alla fine dei suoi giorni, proprio come lui, senza mai ottenere una risposta.

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Capitolo 11
*** 11. The tears of the Pendragons – Part I ***


Buonasera!
Il titolo di questo capitolo (ancora una volta talmente lungo da necessitare una divisione in due parti) è abbastanza chiaro... si annegherà nei feels! T_T 
Spero soltanto che il passato che andrete a leggere sia tutto abbastanza realistico e plausibile. Perchè sì, è vero, adoro scrivere dell'era moderna, ma non potevo non cimentarmi nello scrivere qualcosa ai tempi di Camelot. Quindi aspetto con ansia i vostri commenti, anche solo per dirmi che ho scritto una marea di cavolate xD
Ringrazio chi ha letto e recensito lo scorso capitolo e ovviamente chi ha inserito questa storia tra le preferite/seguite/ricordate. Thank u so much! :)
Un bacio, alla prossima!

Vostra,

_Pulse_

 

 

 

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11. The tears of the Pendragons – Part I

 

Non aveva ancora recuperato appieno le forze, ma stava meglio – poteva guidare, camminare, pensare – e sapeva che Artù si sarebbe tremendamente preoccupato se non l’avesse trovato al suo risveglio.
Il cuore gli saltò in gola quando vide l’auto di Alex parcheggiata sul ciglio della strada sterrata. Si affrettò quindi a lasciare la sua Pininfarina di fronte al vecchio fienile ed entrò in casa passando dalla veranda da cui si accedeva direttamente alla cucina.
A passi felpati raggiunse il salotto e vide Alex rannicchiata sul divano, con una coperta avvolta intorno al busto e una tazza di tè vuota abbandonata sul tavolino.
Deglutendo in maniera più silenziosa possibile si avviò verso le scale e salendo due gradini per volta corse verso la stanza di Artù, trovandolo sì addormentato, ma ancora vestito e soprattutto con il cellulare stretto nella mano destra, pronto a rispondere anche nel cuore della notte.
Si avvicinò e non appena gli toccò la spalla per svegliarlo Artù balzò seduto sul letto, brandendo lo smartphone come se fosse una spada. Quando si rese conto di chi aveva davanti sul suo volto apparve un’espressione sollevata.
«Merlino!», esclamò ancora con la voce impastata, avvolgendogli un braccio intorno al collo. Subito dopo però gli tirò uno scappellotto, fulminandolo con lo sguardo. «Dove diavolo sei stato?!».
«Se mi aveste risposto quando vi ho chiamato, a quest’ora sapreste benissimo dov’ero!», ribatté lo stregone con lo stesso tono irato. «Che cosa ci fa Alex qui?».
Artù si passò la lingua sulle labbra, esitante. «È una lunga storia».
«Beh, fatemi un riassunto».
Artù parve rifletterci su, rifletterci su seriamente, ma alla fine aggrottò di nuovo le sopracciglia e disse: «Non usare quel tono minaccioso con me, Merlino. Ti ho chiesto dove diavolo sei stato, pretendo una risposta».
Erano quei momenti che gli facevano venir voglia di dirgli chiaro e tondo che non era più il re e non aveva alcun diritto di trattarlo in quel modo, ma non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo davvero. Quindi sospirò e sedendosi al suo fianco sul letto iniziò a raccontare quello che era successo: Mark e Abigail che, ognuno a modo suo, gli avevano messo davanti agli occhi tutta la loro sofferenza; i genitori di Steve distrutti dal dolore; la paura del bambino di essere preso da un Dorocha e Alex, Alex che con delle parole dettate semplicemente dalla frustrazione aveva involontariamente dato il via a tutto quanto.
Merlino pensava di aver concesso a Steve ameno qualche giorno in più, usando la magia, ma lo sforzo era stato immenso, tanto che il contraccolpo sul suo fisico era stato quasi insostenibile; tanto che c’erano stati dei momenti in cui, a causa del dolore atroce, aveva pregato perché la morte lo prendesse una volta per tutte, velocemente. Era rimasto nascosto nel parco di fronte all’ospedale per ore, per tutta la notte a dire il vero, e il freddo che l’aveva avvolto era stato provvidenziale nella sua lotta contro il fuoco magico che gli bruciava nelle vene. Poi all’alba si era svegliato, privo di energie ed intirizzito, e il suo primo pensiero era stato Artù, abbandonato a se stesso per l’intera notte.
«Come vedi, sto bene», bofonchiò il re, nonostante l’imbarazzo gli avesse colorito le guance.
«State bene, sì, ma in compenso c’è Alex addormentata sul divano. Avete per caso organizzato un pigiama party senza invitarmi?».
«Un che cosa?».
Merlino lesse della reale confusione sul suo viso e mormorò: «Non importa», per poi chiedere ancora: «Perché Alex è qui?».
«Ecco…». Artù si strinse una gamba al petto, il mento sopra il ginocchio. «Ieri sera mi annoiavo e sono andato a caccia».
«A… a caccia?», ripeté incredulo, strabuzzando gli occhi. «Qui è proibito, le aree verdi sono tutte protette».
«Già, l’agente Chandra mi ha messo al corrente».
Merlino non avrebbe voluto comportarsi da pappagallo, ma non poté trattenersi e ancora una volta ripeté le sue parole, come se farlo potesse rendere migliore il loro significato o, ancora meglio, ciò permettesse ad Artù di correggerlo, dandogli del sordo. «L’agente Chandra. L’agente Chandra vi ha…».
«Credo sia stata colpa della balestra. Non me l’ha restituita, tra l’altro».
Merlino si passò le mani sul viso e si alzò per iniziare a camminare nervosamente davanti al letto a baldacchino. Ad un tratto si fermò e fissò gli occhi nei suoi.
«Quindi l’agente Chandra vi ha portato in Centrale per farvi qualche domanda e suppongo che, dato che io ero irraggiungibile, abbiano chiamato Alex».
Artù annuì con un cenno del capo e Merlino concluse: «Lei è arrivata, ha parlato con Myra ed è riuscita a riportarvi a casa, grazie al cielo. C’è altro che dovrei sapere?».
Ancora una volta Merlino notò un’ombra velare gli occhi blu del re di Camelot, mentre scuoteva il capo e scendeva dal letto. Gli passò accanto per andare a prendere dei vestiti puliti dall’armadio e Merlino aprì la bocca per chiedergli se stesse bene, certo che qualcosa lo turbasse, qualcosa che probabilmente gli stava nascondendo, ma Artù non glielo permise dicendo in tono piatto: «Vado a farmi la doccia». Quindi si diresse verso la porta e quella volta Merlino lo chiamò, ma fu come parlare al vento: il biondo non si girò e lo lasciò solo nella camera.

 
Merlino scese in salotto, nonostante non si sentisse affatto pronto ad affrontare Alex. La trovò ancora addormentata sul divano e pensò che inventarsi una maniera non diretta per svegliarla sarebbe stata la mossa giusta da fare.
Si diresse in cucina e preparò del caffè mentre accendeva la radio e girava di proposito la manopola del volume al massimo. La voce di Adam Levine, cantante dei Maroon 5, fece sobbalzare lo stesso Merlino, il quale si affrettò ad abbassare un poco. Era una canzone di qualche anno prima e nonostante l’avesse aiutato a raggiungere il suo scopo – Alex si era tirata su di scatto, i capelli arruffati e un angolo della coperta che toccava il pavimento – lo stregone la trovò davvero inappropriata.
«Wake you up in the middle of the night to say… I will never walk away again…
I’m never gonna leave this bed».
Perciò spense la radio con un gesto stizzito e si concentrò totalmente sulla macchinetta del caffè, nascosto alla vista dell’infermiera, la quale chiamò lamentosamente: «Artù?».
Merlino ascoltò i suoi passi e riuscì a sentire persino il suo respiro mozzarsi non appena si affacciò alla cucina e lo vide di spalle. Contò i secondi che le ci vollero per tornare ad immagazzinare aria nei polmoni e poi si voltò, fingendosi sorpreso di vederla.
«Ehi, sei sveglia. Sto preparando del caffè, ne vuoi?».
Alex scosse debolmente il capo e cercò di appiattirsi i capelli ai lati della testa, rossa per l’imbarazzo. « Vado un attimo in bagno».
Merlino la guardò mentre faceva i primi passi verso le scale e la raggiunse solo quando ormai era già a metà rampa: «Il bagno di sopra è occupato: Artù si sta facendo la doccia».
L’infermiera lo guardò spaesata per un momento, poi scese i gradini fino a ritrovarsi più alta di lui di almeno due spanne e fissò gli occhi verdi, ancora un po’ gonfi di sonno, nei suoi: «Suppongo che ti abbia già raccontato perché sono qui allora».
Merlino annuì con un cenno del capo. «Mi dispiace, sono davvero…».
«Dove diavolo eri finito, si può sapere?! Ti ho cercato ovunque, dopo che Steve…».
«Steve!», esclamò lo stregone con gli occhi sgranati, interrompendola.
Dopo che aveva recitato quell’incantesimo guaritore si era allontanato senza sapere se avesse funzionato o meno e quando aveva recuperato le forze aveva pensato solo a tornare a casa, a tornare da Artù, senza domandarsi come stesse il piccolo Steve.
«Come sta?», domandò quindi, senza rendersi conto che l’ostilità che Alex provava nei suoi confronti cresceva di minuto in minuto.
«Quando l’ho lasciato stava una favola!», gridò, stringendo i pugni lungo i fianchi. «E guarda caso tu, l’ultima persona ad averlo visto prima del "miracolo"», le dita a mimare le virgolette, «sei sparito senza dire niente a nessuno».
Merlino la guardò per tanto, tantissimo tempo; un’infinità. Ora riusciva a vederla, nei suoi occhi leggeva l’ostilità, ma anche il rancore, la frustrazione, il dolore, tutto ciò che aveva già visto secoli prima negli occhi di Artù quando gli aveva detto la verità. Ciononostante, Merlino si sentì morire dentro per l’ennesima volta di fronte a tutte quelle emozioni insostenibili.
Si passò una mano sul mento e salì il primo gradino della scalinata, così che i suoi occhi e quelli di Alex fossero allo stesso livello. Scorse un guizzo di sorpresa nel suo sguardo, la tentazione di ritrarsi, ma la voglia di ottenere finalmente delle risposte fu più forte di tutto il resto: non solo le permise di rimanere lì dov’era, ma le fece persino raddrizzare la schiena.
Per Merlino sarebbe stato un vero sollievo, a quel punto, dirle tutto quanto, liberarsi del peso di ogni segreto, ma non poteva, non voleva, consegnare a lei una tale responsabilità: era un suo fardello e proprio come Prometeo si sarebbe fatto mangiare il fegato tutti i giorni, attirando tutta l’ira degli dèi su di sé, pur di proteggere le persone che amava.
«Stai per caso insinuando che io abbia magicamente curato Steve?», le domandò, con un sorriso di scherno dipinto sul volto.
Alex socchiuse le labbra per balbettare qualcosa in risposta, ma Merlino non gliene diede il tempo ed aggiunse: «Sei fortunata che di fronte a te ci sia qualcuno che ha a che fare con un pazzo tutti i giorni e che sa riconoscere i veri sintomi della pazzia». Le strinse brevemente le spalle e quella volta le rivolse un sorriso compassionevole, per poi darle le spalle e dirigersi di nuovo verso la cucina, da dove disse ancora: «La magia come quella che viene descritta nelle favole non esiste, Alex. Sarebbe bello se fosse diversamente, questo lo riconosco, ma…».
Merlino non terminò mai la frase, interrotto dal tonfo della porta d’ingresso. Uscì di corsa dalla cucina e si affacciò ad una delle finestre del salotto, inginocchiato sulla panchina del bovindo: Alex era saltata sulla sua auto, il cui motore ruggiva mentre le ruote slittavano sulla strada sterrata, lasciandosi alle spalle il sole appena sorto e una nuvola di polvere.

 

***

 

Merlino bussò per l’ennesima volta e Artù avrebbe tanto voluto aprirgli la porta solo per tirargli un pugno sul naso. Era davvero arrabbiato con lui, non solo perché pensava che non sarebbe stato in grado di utilizzare da solo il phon, ma soprattutto perché dopo tutto quello che aveva appreso grazie a Freya anche solo l’idea che Merlino avesse usato la magia, rischiando la vita, lo mandava fuori di testa.
«È successo qualcosa di cui io non sono al corrente?», ebbe la sfacciataggine di chiedere ad un tratto e la rabbia che già gli faceva bollire il sangue nelle vene esplose in una risposta che aprì l'argomento che avrebbe preferito affrontare con calma, a mente lucida, seduto magari davanti ad un barattolo di Nutella da un chilo.
«Questo dovrei dirlo io! Io che sono stato sul fondo di un lago per millequattrocento anni! Io che ho perso tutte le persone che amavo! Io che sono stato riportato in vita per il volere e i bisogni di qualcun altro!».
Il silenzio dall'altra parte della porta lo fece sentire sia soddisfatto che mortificato: Merlino aveva sbagliato a non dirgli tutta la verità – sempre se quella che Freya gli aveva detto fosse la verità – ma aveva iniziato a comprendere perché l’aveva fatto: sarebbe stato troppo, semplicemente troppo; avrebbe sofferto, eccome, e Merlino probabilmente non era ancora pronto a sorreggerlo per l’ennesima volta.
In conflitto persino con se stesso, si strinse l’asciugamano intorno alla vita e respirando profondamente aprì la porta. Rimase parecchio di stucco quando non vide il mago dall’altra parte, ma gli bastò abbassare lo sguardo per trovarlo: appoggiato con le spalle al muro e la testa inclinata verso la porta, lo guardava con gli occhi lucidi d’emozione e al contempo serissimi.
«Come l’avete capito?».
Fu in quel momento che Artù realizzò che se non avesse prestato attenzione si sarebbe di certo rovinato con le sue stesse mani.
«Che cosa?», domandò, fingendosi confuso.
«Che non vi ho detto tutto».
Artù deglutì, guardando un punto della parete sopra la testa di Merlino, e quando tornò a fissare gli occhi nei suoi improvvisò un’espressione sconvolta e balbettò: «Tu non mi hai... veramente non mi hai detto tutto?».
Merlino rimase a bocca aperta. Era lui, ora, quello che si era rovinato con le proprie mani, e Artù non poté che essere fiero delle sue doti recitative. (Se solo avesse saputo che esisteva un premio del genere, avrebbe preteso un Oscar). Ma come negli ultimi dieci minuti, subito dopo si sentì malissimo per lui, vergognandosi del suo comportamento meschino ed approfittatore.
Lo stregone si strinse più forte le ginocchia contro il petto, posandovi in mezzo il mento, e rispose con la voce spezzata: «Non vi ho detto tutto perché pensavo che certe cose non avreste voluto sentirle. Volevo proteggervi, risparmiarvi altro dolore».
Il re di Camelot rimase in silenzio per una dozzina di secondi, senza sapere come ringraziarlo per tutto ciò che faceva per lui, pensando al suo benessere ancor prima del proprio. Alla fine si chinò per dargli una pacca sulla spalla ed accennò un sorriso, dicendo: «Perché non vai a prepararmi la colazione? Sto morendo di fame».
Merlino parve confuso; di sicuro non si aspettava che cambiasse argomento così in fretta, ma bastò un’altra pacca per convincerlo ad alzarsi e a dirigersi verso le scale.
Rimasto solo in bagno, Artù si guardò allo specchio sospirando e poi cercò di ricordarsi come fare per accendere quel maledetto phon.
Ci provò e riprovò, schiacciando tutti i tasti sull’impugnatura, ma nemmeno una lieve brezza uscì da quell’aggeggio. Fu costretto a cedere: «Merlino come –?!».
«Avete attaccato la spina?!», urlò di rimando lo stregone, senza nemmeno lasciargli il tempo di finire la frase. Non aspettava altro.
Artù percorse con lo sguardo il filo che dall’impugnatura dell’asciugacapelli toccava il pavimento, inerte. La raccolse e nel momento stesso in cui la infilò nella presa un getto d’aria caldissima gli scompigliò i capelli.
«Non c’è di che!», urlò ancora Merlino.
Nonostante solitamente odiasse dargli ragione, quella volta non riuscì a trattenere un sorriso.

 
Una volta vestito e con i capelli quasi asciutti, Artù scese in cucina e trovò Merlino seduto al tavolo con un grosso libro tra le mani e una tazza di caffè abbandonata accanto al braccio sinistro. Quando si accorse della sua presenza chiuse il libro di scatto, alzandosi per servirgli la colazione.
Aveva detto a Merlino che non era più obbligato ad essere il suo servo, ma forse ad Artù piaceva essere trattato da re tanto quanto al mago piaceva occuparsi di lui, perciò non disse una parola e si accomodò.
Mentre era girato per prendere una bottiglia di latte dal frigorifero Artù allungò il collo per cercare di leggere ciò che era stato inciso sulla copertina di pelle del libro, ma non fu abbastanza svelto e come se nulla fosse accennò un sorriso a Merlino, domandando: «Non mi hai detto per quale motivo mi hai chiamato, ieri sera».
Lo stregone serrò le labbra e finì di mettere sul tavolo tutto ciò che gli occorreva, poi tornò a sedersi di fronte a lui, le braccia incrociate sull’antico volume, e finalmente rispose: «Volevo chiedervi un consiglio. Non sapevo che cosa fare, sono stato uno stupido…».
Artù corrugò la fronte e nonostante avesse la bocca piena esclamò, vagamente offeso: «Ehi, i miei consigli valgono oro!».
Il mago gli rivolse un’occhiata divertita e gli spiegò che non intendeva dire che era stato stupido cercare un suo consiglio, bensì avere dei dubbi.
«So che non sarà per sempre, e che è stato molto rischioso, ma aiutare Steve era la cosa giusta da fare». Abbassò gli occhi traboccanti di tristezza sul libro e ne accarezzò la copertina con una mano. «Ho fin troppi rimpianti, Artù; non posso permettermene altri».
Il re di Camelot deglutì a fatica e nemmeno il caffè caldo riuscì a sciogliere il nodo alla gola provocatogli dalle parole, dai gesti e dallo sguardo di Merlino.
Improvvisamente si rese conto che nei suoi panni avrebbe fatto esattamente lo stesso: non si sarebbe mai fatto da parte, non avrebbe mai guardato un bambino innocente morire sapendo di potergli dare ancora un po’ di tempo.
Quindi si passò una mano sulle labbra, pulendosi dalle briciole di fetta biscottata, e dopo un attimo di esitazione disse: «Sì, hai fatto la cosa giusta. Questa volta».
Merlino alzò di scatto lo sguardo, confuso. «In che senso, questa volta?».
«Dico solo che… che è rischioso, qualcuno potrebbe insospettirsi e ricordi?, dobbiamo restare sotto coperta».
«Sotto copertura», lo corresse, ma distrattamente, concentrato su ben altro: «Da quando siete così prudente? Solo ieri sera siete uscito con una balestra sulla schiena!».
«Va bene, la verità è che non voglio che usi la magia!», sbottò, guardandolo ad occhi sgranati e con le braccia aperte. «È così strano? Anche tu, fino all’altro giorno, dicevi che la magia ha sempre portato più male che bene e che sarebbe stato un errore tremendo diffonderla. Perciò… vacci piano, intesi?».
«Questa era un’emergenza», mormorò a capo chino.
Artù annuì, abbandonandosi allo schienale della sedia. Finì di bere il proprio caffè, mangiò un’altra fetta biscottata con la Nutella e poi tamburellò le dita sul ripiano del tavolo, guardando il libro che Merlino teneva ancora sotto le braccia. La curiosità era cocente, ma la paura di conoscere ciò da cui Merlino aveva pensato di doverlo proteggere lo era altrettanto. Alla fine scosse il capo e si ritrovò a dover urlare per sovrastare il caos di tutti i suoi pensieri: «Dov’è andata Lady Alex?».
Merlino gli rivolse un’occhiata circospetta, insospettito dal suo strano comportamento, poi si strinse nelle spalle e rispose: «A casa, credo».
«Ma avete parlato?».
«Mmm… non proprio».
«L’ennesima lite, fantastico». Artù sospirò e si sfregò i capelli sulla nuca, pronto a dire che loro due, nonostante si piacessero a vicenda, non facevano altro che bisticciare, ma ci ripensò quando si rese conto che la frequenza con cui Alex discuteva con Merlino era la stessa dei loro primi anni insieme come principe e valletto. Se il mago aveva davvero la straordinaria capacità di far saltare i nervi a tutti i Pendragon, allora quella era l’inequivocabile prova che Alex faceva parte della famiglia.
Merlino si morse il labbro inferiore, pensieroso, poi si alzò e iniziò a rassettare la cucina.
Vedendolo di nuovo di spalle, intento a sciacquare le tazze nel lavandino per poi metterle nella lavastoviglie, Artù si ritrovò a fissare ancora una volta il libro che aveva lasciato sul tavolo. Allungò una mano per toccarne la copertina, ma la ritrasse ancora prima di sfiorarla, come se avesse percepito un pericolo. Si alzò di scatto dalla sedia e si diresse verso il salotto, dove si lasciò cadere sul divano ed accese la televisione.

 

***

 

Alex era stanca, non solo fisicamente ma anche psicologicamente. Stanca di provare sentimenti così forti e dolorosi per Merlino, stanca di fare un lavoro così duro e da cui raramente riusciva ad allontanarsi.
Si sentiva a pezzi, letteralmente, e l’unica valvola di sfogo che aveva trovato era stata una doccia bollente, sotto cui aveva versato silenziosamente tutte le lacrime che non si sarebbe mai permessa di versare di fronte a qualcuno.
Quando quella mattina aveva trovato Merlino in cucina si era sentita sollevata, addirittura felice che stesse bene, ma non era stata in grado di dimostrarlo, un po’ per la sorpresa e un po’ per la rabbia che subito le aveva fatto andare il sangue al cervello.
Si rendeva perfettamente conto che pensare che fosse stato Merlino a guarire Steve era da malati mentali – lei stessa pensava di essere sull’orlo della pazzia, – ma sentirselo dire era stato comunque peggio di una pugnalata. In un attimo l’immagine di Merlino come nobile cavaliere le si era frantumata di fronte agli occhi, con la stessa delusione che avrebbe provato un bambino scoprendo che Babbo Natale non esiste, e aveva capito che lui non era altro che un essere umano, proprio come lei, in grado di pensare egoisticamente a se stesso e di ferirla.
Ciononostante, non riusciva a togliersi dalla testa la folle idea che doveva essere stato lui, che non c’erano altre spiegazioni plausibili. Ad avvalorare la sua teoria c’era ciò che gli aveva detto giusto qualche ora prima del miracolo: «A meno che tu non sia in grado di guarire Steve sussurrando una formula magica, non voglio proprio niente da te». Il fatto che poi fosse accaduto sul serio, che Steve si fosse effettivamente ripreso, non le sembrava proprio una coincidenza.
Lo amava, lo amava davvero, ma odiava i suoi segreti e quel suo passato che rinnegava così tanto. E questo odio, a volte, la portava persino a rinnegare l’amore che provava per lui.

 
Uscì dalla doccia con gli occhi arrossati e, ancora avvolta nell’accappatoio, con i capelli biondi appena pettinati che le si arricciavano all’altezza del seno, si lasciò cadere seduta sul letto, di fronte alla scrivania sopra la quale aveva appeso una grande lavagna di sughero interamente ricoperta di fotografie con i bambini dell’ospedale. Le venne di nuovo voglia di piangere quando i suoi occhi incrociarono quelli azzurri e spensierati di Steve, aggrappato al suo collo.
Tirò fuori il cellulare dalla borsa e provò l’ennesima fitta di delusione quando realizzò che Merlino non l’aveva né chiamata né le aveva scritto un SMS per scusarsi. Ma, dopotutto, se fosse stata al suo posto nemmeno lei l’avrebbe fatto.
Decise perciò di concentrarsi su ciò che in quel momento riteneva prioritario e scrisse velocemente un messaggio a Paige, la mamma di Steve, chiedendole eventuali aggiornamenti.
Mentre le concedeva del tempo per rispondere, Alex si alzò dal letto, ignorando Artù il micio che aveva tentato di accoccolarsi sul suo grembo per ricevere un po’ di carezze, e aprì l’armadio per prendere dei vestiti da indossare. Poi si fece una rapida coda di cavallo, ma non appena si guardò allo specchio, nonostante i suoi capelli fossero più lunghi, le venne in mente Myra con la sua cascata di seducenti onde corvine. Ripensò alla promessa che le aveva fatto la sera prima, quella di portarle Merlino non appena lo avesse visto, ma senza alcun rimpianto – d’altronde si erano allontanate molto da quando aveva avuto l’incidente – la mandò al diavolo, strappandosi bruscamente l’elastico dai capelli umidi che le ricaddero sciolti sulla schiena. (In effetti ci mancava solo la gelosia a fomentare il fuoco che le bruciava il cuore).
Prese nuovamente il cellulare tra le mani e impaziente cercò in rubrica il numero di Abigail, su cui sapeva di poter sempre contare.
La ragazzina rispose dopo un paio di squilli, con la voce ancora un po’ assonnata. «Ehi, Alex. Buongiorno».
«Uhm, lo spero per te. Ti ho svegliata?».
«No, non ho dormito molto questa notte. Ero in pensiero per Steve. Anche tu, non è così? È per questo che mi hai chiamata».
«Ci sono novità?».
«L’infermiera che è venuta a portarmi la colazione mi ha detto che le sue condizioni sono stabili, ma che dalle ultime analisi che gli hanno fatto risulta che i valori stanno lentamente tornando nella “norma della malattia”. Le ho chiesto se hanno scoperto come mai c’è stato quel picco di miglioramento, ma non ha saputo rispondermi. Mi ha solo raccontato che sua nonna, malata di Alzheimer, la sera prima di morire diceva di sentirsi benissimo e di ricordarsi i nomi di tutti i suoi nipoti. “Come se avesse raccolto tutte le sue forze per un ultimo saluto”, ha detto».
«Stronzate», biascicò, ma abbastanza forte perché Abigail la sentisse.
«Sono d’accordo. È successo qualcos’altro, ne sono sicura».
Alex sentì il cuore balzarle in gola a quelle parole e si afferrò una ciocca di capelli per rigirarsela tra le dita. «Che cosa?».
La ragazzina rise, dall’altro capo del telefono. «Se te lo dicessi mi daresti della pazza».
«Oh, non puoi evitarlo. Siamo tutti matti qui. Io sono matta. Tu sei matta», esclamò, citando a memoria lo Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie, un libro che aveva letto e riletto fino alla nausea all’età di dodici anni. Tutto quel parlare di matti le fece tornare alla mente Merlino, ma le bastò un battito di ciglia per cacciare via il suo pensiero.
«Sputa il rospo».
«Beh… Ieri sera, poco prima del miracolo, Merlino è venuto nella mia stanza. Aveva gli occhi spenti, tristi, rassegnati, e anche il suo sorriso era forzato. Gli ho chiesto di dirmi la verità a proposito di Steve e io... lo ammetto, ho pianto».
«E non devi vergognartene», la interruppe Alex, ma con tono di voce distratto, dato che stava pensando al momento in cui era passata di fronte alla sua stanza e aveva visto Merlino tenerla tra le braccia.
«In quel momento mi ha fatto una domanda che ho trovato un po’ strana. Mi ha chiesto che cosa avrebbe fatto il Merlino delle sue storie, se avrebbe usato la magia per concedere un po’ di tempo a Steve».
Il cuore di Alex fece una capriola. Si costrinse comunque a rimanere calma, mentre un tornado di pensieri le faceva girare la testa e alimentava la convinzione che nulla di tutto ciò che aveva vissuto negli ultimi dieci giorni era una coincidenza: ogni cosa stava assumendo un senso diverso, più giusto nel proprio contesto; ogni cosa tranne il bacio che Merlino le aveva dato nel bagno della caffetteria della signora Begum.
«Alex? Alex, sei ancora lì?».
L’infermiera ritornò alla realtà e scosse il capo, decidendo su due piedi che la tecnica di Merlino poteva rivelarsi a suo modo efficace. «Quindi pensi che Merlino sia veramente un mago, che le sue storie non siano del tutto inventate? Lasciatelo dire, Abby: questo sì che è da pazzi».
La ragazzina rise, esclamando arrendevole: «Te l’avevo detto».
«Ma, per curiosità, tu che cosa gli hai risposto?».
«Gli ho detto che il tempo è ciò che di più prezioso abbiamo e che secondo me l’avrebbe fatto, avrebbe usato la magia, senza pensarci su due volte».
Alex annuì, traducendo all’istante le parole di Abigail in fatti ed immaginando il percorso di Merlino: combattuto, aveva chiesto alla ragazzina un consiglio, celandosi dietro il suo libro di favole, e una volta sicuro che fosse la cosa giusta da fare, aveva fatto in modo di rimanere da solo con Steve il tempo necessario a… a fare quello che di solito i maghi fanno per curare le persone. Poi si era dileguato, per non farsi scoprire o forse perché ciò che aveva fatto richiedeva così tante energie da aver bisogno di riposo. All’improvviso realizzò che doveva essere stato così, vista la sua non rintracciabilità e il modo in cui Artù si era preoccupato quando non l’aveva trovato a casa. Le aveva urlato contro che non potevano stare con le mani in mano mentre Merlino poteva essere in pericolo e che lei non capiva. Solo ora si rendeva conto che quel non capire voleva dire in realtà non sapere. Aveva letto ed ascoltato fin troppe favole in cui Merlino si cacciava nei guai per e a causa della magia, troppe in cui Artù gli salvava la pelle, perciò, se davvero c’era della verità in quelle parole, la preoccupazione del biondo era più che comprensibile.
«Alex c’è qualcos’altro, vero? Sei così distratta…», disse Abigail, riportandola ancora una volta alla realtà. «Si tratta di lui?».
«Eh?». L’infermiera rischiò di strozzarsi semplicemente con l’aria diretta ai polmoni e tossicchiò, diventando rossa dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. «No, non c’è nient’altro. Come te, non ho dormito molto e sono stanca. Ci vediamo oggi pomeriggio».
«E va bene», rispose Abigail, evitando di insistere. «A più tardi».
Alex terminò la chiamata e si strinse il cellulare tra le mani, mordicchiandosi il labbro inferiore. Abbassò gli occhi e fu solo per caso che notò sullo schermo nero il riflesso del sorrisino che le aleggiava sul volto, ora più sereno.
Si alzò dandosi la spinta con entrambe le mani e passandosi le dita tra i capelli si guardò intorno nella stanza, disordinata come tutto il resto della casa. Accese il PC posato sulla scrivania, accanto ai libri ancora aperti e gli appunti scritti a mano, e dopo aver selezionato una playlist in grado di caricarla iniziò a riordinare.
Quella mattina Alex sentì di essere tornata alla normalità, facendo le faccende di casa, occupandosi del suo micio e preparandosi persino un pranzo completo, seduta al tavolo con tanto di tovaglia.
Ora non aveva più alcun dubbio e, pazzia o meno, questo la faceva sentire semplicemente bene.

 

***

 

Ormai gli era perfettamente chiaro l’intento di Merlino: lasciando quel libro sul tavolo della cucina, l’aveva esplicitamente invitato ad aprirlo quando si sarebbe sentito pronto, senza dover essere lui a fare la prima mossa ma piuttosto concedendogli del tempo e dello spazio per metabolizzare tutto ciò che quelle pagine conservavano.
Artù lasciò la televisione accesa in salotto, si alzò dal divano e si diresse in cucina. Dalle porte vetrate che davano sulla veranda vide Merlino nel bel mezzo del giardino sul retro, con i piedi nascosti da centinaia di fiori di campo bianchi, intento a stendere il bucato su dei lunghi fili con delle mollette colorate.
Si voltò e respirò profondamente prima di sedersi di fronte al volume con la copertina di pelle su cui, ora lo poteva leggere chiaramente, erano incisi dei numeri: 537-540. Cinquecentotrentasette… l’anno della sua morte.
Per un attimo si chiese se Merlino tenesse un libro come quello per tutti gli anni trascorsi nell’attesa del suo ritorno e se sì dove, ma fu solo un attimo.
Col cuore che gli batteva a mille nel petto sollevò la copertina e dovette girare una sola pagina bianca prima di trovarsi di fronte alla grafia di Merlino, precisa ed ordinata. I suoi occhi scorsero riga dopo riga, affamati di verità, incuranti delle lacrime che li appannavano sempre più di frequente.
Leggere di una Camelot in lutto, dei suoi cari che l’avevano pianto per mesi e mesi, dello stesso Merlino che non si era mai concesso un giorno di pace da quando aveva spinto la sua barca funeraria lungo la superficie di Avalon, fu più doloroso della morte.
Dopo una decina di pagine intrise di dolore e spesso con l’inchiostro sbavato – forse a causa del tempo, forse a causa di altre lacrime, versate molto prima delle sue – finalmente lesse una notizia che aveva portato la gioia negli animi di tutti gli abitanti del regno: la regina portava in grembo il figlio del compianto Artù Pendragon.
La gravidanza, scriveva Merlino, era già avanzata, ma nessuno eccetto Gaius ne era a conoscenza: Ginevra, infatti, aveva mantenuto il segreto finché aveva potuto, temendo per la vita stessa del bambino, un erede al trono inaspettato la cui nascita non avrebbe fatto altro che infiammare ancor di più gli animi già contrariati e già allora bramosi di potere degli altri sovrani. Vani erano stati i tentativi di tenere la notizia all’interno delle mura e una volta trapelata, nessuno era stato più in grado di fermarla: la gente, dai cavalieri ai più poveri contadini, non parlava d’altro e si sentiva di nuovo piena di speranza: presto sarebbe stato re il figlio del grande Artù, un re altrettanto buono, giusto ed amato quanto lui, se non addirittura di più.
Merlino aveva scritto di un colloquio privato avuto con Ginevra, uno tra i tanti che avevano intrattenuto da quando Artù non c’era più, nel quale aveva compreso perfettamente i timori della regina e aveva promesso di aiutarla a proteggere il bambino, ad ogni costo. Di comune accordo avevano organizzato un piano e ne avevano messo a conoscenza poche, pochissime persone, tra cui alcuni Cavalieri scelti – Sir Leon e Sir Percival in primis – e Gaius. Tutti erano convinti che la sicurezza del bambino fosse la priorità e col benestare di Ginevra era stato fatto circolare il pettegolezzo che quello che portava in grembo non era il figlio di Artù, bensì di uno dei servitori, procreato in una sola ed unica notte di desiderio.
Per i pochi che ci avevano creduto, i sospetti erano caduti immediatamente su Merlino, ma la stragrande maggioranza della popolazione aveva rifiutato il pettegolezzo, definendolo addirittura una forma di tradimento alla corona. Da quel momento in poi però nessuno aveva più avuto la certezza di conoscere la verità e questo per il momento era abbastanza: fino al giorno della nascita, insinuare il dubbio era la loro miglior difesa contro i regni vicini, già pronti ad attaccare.
I mesi precedenti alla nascita dell’erede furono un susseguirsi continuo di consigli segreti intorno alla Tavola Rotonda in cui l’argomento principale erano le misure di sicurezza da adottare per difendere il figlio di Artù e la regina. Poche settimane prima del parto fu presa finalmente una decisione, per quanto sofferta: il bambino non avrebbe mai lasciato le mura del castello e nessuno – nessuno eccetto sua madre, Gaius e Merlino, sarebbe mai entrato in contatto con lui. Sarebbe stato detto al popolo che il bambino era morto per motivi imprevedibili ancor prima di venire al mondo e se il flusso di informazioni avesse fatto il suo corso –  sospettavano da tempo che ci fossero delle spie all’interno della città – i sovrani nemici avrebbero aspettato ancora un po’ ad attaccare.
Probabilmente non era il piano migliore e presto o tardi il bambino si sarebbe chiesto perché non poteva mai lasciare la sua stanza, ma era tutto ciò che avevano.

 
Graalmir Pendragon – semplicemente Graal per Merlino – era nato in una notte silenziosa, tranquilla sotto la luna piena che illuminava quasi a giorno i corridoi del castello. Merlino aveva scritto di aver corso a perdifiato dietro il mantello di Sir Leon per raggiungere il più in fretta possibile le stanze di Ginevra, la quale, come concordato, durante il parto aveva voluto solo Gaius e lo stesso Merlino ad assisterla.
Il piano era stato seguito alla lettera: il bambino, bellissimo e in ottima salute, era stato subito avvolto in una coperta e portato via proprio da Merlino, la cui conoscenza di ogni angolo e passaggio segreto del castello era stata una vera benedizione. Mentre Gaius e Ginevra recitavano la loro parte, il primo occupandosi personalmente del fagotto di coperte sporche di sangue e la prima disperandosi con le ancelle pronte a sostenerla, Merlino si era rifugiato in una grotta poco fuori dalle mura, nascosta nel folto del bosco, che aveva trasformato nella sua seconda casa e che aveva già attrezzato con tutto il necessario per ospitare il figlio di Artù e Ginevra. Non era bella quanto la grotta di cristalli, ma con il tempo era diventata accogliente e soprattutto sicura, protetta da ogni tipo di attacco, magico e non.
Merlino e il piccolo Pendragon vi avevano trascorso tre giorni, il tempo necessario a Ginevra di mostrarsi addolorata, inconsolabile, e per convincere tutti quanti che il bambino davvero non era sopravvissuto.
Il mago aveva scritto pagine e pagine in quei giorni, probabilmente aveva occupato tutto il proprio tempo libero in quel modo. Aveva descritto Graalmir, ripetendo  più di una volta quanto somigliasse ad Artù con quei suoi occhi brillanti e curiosi, quel suo sorrisino sdentato ma già  beffardo e i capelli sottili come fili di seta nera. Aveva raccontato delle tre volte al giorno in cui Ginevra, scortata a turno da Sir Leon e Sir Percival, li raggiungeva per dar da mangiare al piccolo e del sorriso che le illuminava il viso ogni volta che lo teneva tra le braccia. (Dopo la morte di Artù, Graalmir era stato l’unico in grado di farla sorridere di nuovo). E, ancora, delle notti in cui era stato svegliato di soprassalto dal pianto del neonato ed era stato costretto a cullarlo per ore, cantandogli l’unica ninna nanna che conosceva – quella che gli cantava la sua stessa madre – e facendo danzare per lui tutte le fiammelle delle candele.
Quando la situazione a Camelot fu sotto controllo, Merlino e Graalmir furono introdotti nuovamente nel castello, passando per i sotterranei, e come avevano pianificato avevano trovato l’ala del castello in cui si trovavano le stanze di Ginevra completamente deserta: dopo il parto la regina vi aveva vietato l’accesso, fatta eccezione per il guaritore di corte e Merlino, il suo consigliere. Tutti avevano eseguito gli ordini senza porsi troppe domande, pensando che la regina fosse in lutto o addirittura soffrisse di vera e propria depressione, tanto da volersi isolare da tutto per il tempo necessario a guarire.
Il piano, una volta tanto, aveva funzionato alla perfezione.

 
Passarono due anni, due anni felici tra le mura che celavano l’erede al trono e di lutto e menzogne di fronte al popolo. Ginevra aveva trascorso un paio di mesi senza mai uscire dalle sue stanze, poi aveva iniziato a riapparire in pubblico, rassicurando i cittadini di Camelot e riprendendo, pian piano, ad occuparsi degli affari del regno.
Le misure di sicurezza erano state sempre altissime e lo stesso Merlino si era impegnato a stare più tempo possibile col bambino, diventando la sua balia, il suo compagno di giochi, ciò che più vicino ad un padre potesse avere. Lo aveva lavato, pettinato, vestito, curato; aveva mangiato con lui, dormito con lui, giocato con lui; gli aveva fatto sgranare gli occhi e l’aveva fatto ridere con la magia – adorava quando faceva apparire paesaggi mozzafiato sulle pareti della sua cameretta – e gli aveva raccontato di suo padre, del coraggioso, giusto e leale Artù Pendragon, il re del passato e del futuro, l’uomo migliore che avesse mai conosciuto, l’amico migliore che avesse mai avuto.
Poi erano iniziate le visioni. Confuse, spesso incomplete, ma con un significato ben preciso: presto l’esistenza di Graalmir Pendragon non sarebbe più stata un segreto. 
Merlino aveva visto Gaius steso sul suo letto, con la testa fasciata e il volto pallido, gli occhi vitrei, che farfugliava continuamente che era stata colpa sua; un uomo con un lungo mantello nero e il cappuccio calato sul viso, nascosto sotto un porticato; infine, pezzi di una lettera gettata tra le fiamme di un camino, su cui faceva sempre in tempo a leggere la frase: “Ho finalmente la prova che il figlio di Artù è vivo”.
Merlino convocò subito un consiglio speciale, in cui raccontò a tutti le proprie visioni, e si decise che la cosa migliore da fare era proteggere Gaius da eventuali attacchi, tenendolo il più possibile all’interno del castello. Il guaritore di corte era molto anziano e non fu un problema dire a chiunque si chiedesse dove fosse che si era ammalato e sarebbe rimasto a letto per un paio di settimane, e che Merlino l’avrebbe sostituito nelle visite dei suoi pazienti. Gaius era stato segregato nell’ala del castello riservata alla regina e a suo figlio e Merlino si era sentito più tranquillo, rasserenato anche dal fatto che le visioni avevano smesso di svegliarlo nel cuore della notte o – ma questo capitava più raramente – di estraniarlo dalla realtà anche nel bel mezzo delle faccende più semplici.
Tutti erano così convinti che Gaius aveva rischiato di essere rapito e torturato da una o più spie per farsi dire tutto ciò che sapeva sulla regina e sui motivi del suo isolamento, che nessuno sul momento realizzò che la profezia si stava avverando sotto i loro occhi.
Quella mattina Merlino stava facendo il giro dei pazienti di Gaius, con la sua borsa dei medicamenti sotto il braccio, quando una fitta alla testa lo aveva avvertito che stava per vedere uno squarcio di futuro. Si era accasciato sotto l’ombra di una bancarella di vestiti, destando l’attenzione di tutti, e nonostante avesse gli occhi aperti sulle persone che l’avevano accerchiato per accertarsi che stesse bene, tutto ciò che riusciva a vedere era l’interno della camera di Graalmir.
Il bambino, di ormai due anni e mezzo, stava giocando con uno dei pupazzi che gli aveva regalato Merlino e Gaius, seduto poco distante, lo teneva d’occhio mentre leggeva uno dei suoi libri di anatomia. Graalmir era un bambino tranquillo, molto silenzioso e sulle sue (proprio come suo padre quando non si trovava in mezzo ai suoi cavalieri o di fronte al suo popolo), ma aveva anche lui i suoi momenti no. Le cuciture di un braccio del coniglietto si erano col tempo allentate e quella fatidica mattina si smollarono del tutto, facendo uscire la sabbia con cui Merlino l’aveva riempito. Il principe rimase in silenzio per una manciata di secondi, sbigottito, poi scoppiò a piangere disperato. Gaius sobbalzò sulla sedia e non appena si rese conto di ciò che era successo andò da lui per cercare di consolarlo, ma Graalmir, sempre più agitato, fece cadere un barattolo di palline di legno su cui Gaius, alzatosi in piedi per andare a chiamare sua madre, scivolò. Per evitare di cadere si aggrappò alle tende che oscuravano le finestre, ma queste si staccarono e il guaritore di corte picchiò forte la testa sul pavimento, iniziando subito a sanguinare. Il piccolo Pendragon smise di colpo di piangere, spaventato, ma la sua attenzione venne ben presto catturata da un paio di tortore in volo proprio di fronte alla finestra ora priva di tende oscuranti. Si alzò, asciugandosi le guance con le manine, e a piccoli passi raggiunse la sedia su cui Gaius era stato seduto a leggere. Vi salì e, incantato, guardò i due uccelli esibirsi in un duo di danza aerea nel cielo azzurro, sopra la piazza della cittadella illuminata dal sole e in cui, all’ombra di un porticato, si celava un uomo con un lungo mantello nero e il cappuccio che gli celava il viso.
Non appena era rinvenuto, scriveva ancora Merlino, aveva subito capito che avevano interpretato male le sue visioni, le quali ora avevano tutto un altro senso. 
Nonostante il mal di testa lancinante e la folla da cui si era trovato attorniato, era corso al castello con Sir Percival, incontrato lungo la strada. I due cavalieri che quella mattina avevano il turno di guardia all’inizio dell’ala proibita non avevano sentito nulla – ovviamente, dato che il mago aveva insonorizzato con la magia la cameretta di Graalmir così che dall’esterno non si potessero sentire eventuali pianti e risate – e Merlino aveva sperato fino all’ultimo che Gaius non fosse ancora caduto, ma non appena aveva aperto la porta della camera l’aveva visto steso a terra in una pozza di sangue, mentre Graalmir era in punta di piedi sulla sedia, con le manine e il naso appiccicati sul vetro della finestra. Era arrivato troppo tardi.
Merlino aveva chiamato in suo aiuto Sir Percival, rimasto con gli altri cavalieri con il divieto d’accesso, e mentre lui, dopo un attimo di esitazione, si occupava di un Gaius incosciente e con una bruttissima ferita alla testa, lo stregone pensò al bambino, tirandolo subito giù dalla sedia e stringendoselo al petto, con una mano sul suo capo, per poi affacciarsi lui stesso alla ricerca dell’uomo misterioso – sicuramente una spia – che aveva visto nelle sue visioni. I loro sguardi per un breve attimo si incrociarono, giusto prima che straniero sparisse, inghiottito dall’ombra.
La caccia all’uomo era iniziata immediatamente e la regina stessa aveva annunciato pubblicamente che chiunque l’avesse aiutato, non solo a fuggire ma anche a mettersi in contatto con i suoi complici, sarebbe stato punito severamente. Era stato Merlino a guidare nelle ricerche un gruppo di Cavalieri scelti, tra cui lo stesso Sir Percival, il quale mentre attraversavano i boschi gli si era affiancato per scusarsi di quell’attimo di esitazione che aveva avuto non appena era entrato nella stanza del piccolo principe. Il mago aveva scritto che quella era stata la seconda volta in cui il cavaliere vedeva Graalmir – la prima era stata di sfuggita, due anni e mezzo prima, quando aveva aiutato Merlino a reintrodursi nel castello – e che era rimasto paralizzato di fronte alla sua somiglianza con Artù. Effettivamente, sia lui che Ginevra si erano resi conto che crescendo era diventato sempre più simile al solo ed unico re, con gli stessi occhi color del mare e lo stesso sorriso, mentre caratterialmente – per quanto avevano avuto modo di vedere – aveva preso le migliori qualità di entrambi.
La spedizione era durata un giorno e mezzo, grazie ai poteri di Merlino, con cui avevano rintracciato e successivamente messo in trappola la spia. Lo stregone non aveva scritto molto in proposito, solo che il prigioniero era stato interrogato per scoprire se aveva già inviato la lettera a chi l’aveva assoldato – cosa che aveva fatto – e che poi era morto.

 
Da quel giorno in poi, però, il dubbio riguardante alla presenza o meno di un Pendragon era tornato ad essere al centro dei pettegolezzi dentro e fuori Camelot. Forse la spia non era stata l’unica persona ad averlo visto affacciato alla finestra dell’ala proibita, forse la notizia che aveva raggiunto uno dei regni ostili si era già diffusa; l’unica certezza di Merlino, spesso e volentieri a contatto con la gente durante le settimane di convalescenza di Gaius, era che tutti avevano iniziato di nuovo a sperare.
Un tempo anche lui avrebbe fatto parte di quella schiera di persone che non volevano altro che un nuovo Pendragon salisse sul trono, che gioivano al pensiero che lo spirito del loro tanto amato Artù vivesse attraverso un suo discendente, ma all’epoca tutto ciò a cui riusciva a pensare era come proteggere quel bambino che, se le terribili profezie che gli toglievano il sonno si fossero avverate, non sarebbe nemmeno riuscito a vedere il mondo fuori dalla sua stanza.

 

***

 

Merlino rientrò in casa, col cesto del bucato vuoto sottobraccio, e si concesse un respiro profondo quando si accorse che la sua tecnica alla fine aveva funzionato: il libro non c’era più e con esso era sparito pure Artù.
Spense la televisione in salotto, poi salì lentamente le scale e dopo aver lasciato il cesto in bagno si diresse verso la stanza del re di Camelot. Si fermò sulla soglia, con una spalla contro lo stipite della porta, e con espressione colpevole fissò Artù seduto allo scrittoio, col libro aperto di fronte al viso e i palmi delle mani posati sugli occhi molto probabilmente umidi di lacrime.
Raccogliendo il coraggio, si avvicinò fino a portarsi quasi dietro di lui e gli posò una mano sulla spalla. «Era davvero straordinario. Sareste stato fiero di lui».
Artù sobbalzò leggermente, lasciandosi sfuggire un singhiozzo dalle labbra, poi domandò: «Che ne è stato di lui?».
«Mi piace pensare che abbia vissuto una vita piena e felice, lontano da Camelot ma con la consapevolezza di essere un Pendragon».
«Ti piace pensare?», ripeté il biondo, con una scintilla d’ira negli occhi. «Merlino…».
Lo stregone scrollò il capo, prese il libro tra le mani e si sedette di fronte a lui. Sfogliò alcune pagine, spesse ed ingiallite, ed iniziò a raccontare da dove Artù si era fermato: «La spia è riuscita a portare a termine la propria missione e non ci disse mai chi era il re a cui aveva inviato quella lettera. Non sarebbe servito a molto saperlo, vista la rapidità con cui la notizia ha raggiunto tutti i regni, e contrattare non sarebbe servito a nulla con i re che non aspettavano altro che un pretesto per dichiarare guerra a Camelot.
«Impiegarono pochi mesi per formare gli eserciti e mettersi d’accordo per la spartizione delle conquiste. Come vi ho già detto, molto prima che accadesse io ho predetto la caduta di Camelot e Ginevra ha deciso di rimanere comunque all’interno delle mura del castello, anche se questo significava morte certa. Non l’ha fatto perché si sentiva braccata, né perché non voleva più vivere senza di voi, come si è spesso detto… Aveva ben altro in mente. Non appena era venuta a conoscenza delle mie visioni aveva iniziato a pianificare un piano di fuga per me e Graalmir».
Merlino fu spettatore del susseguirsi di espressioni sul viso di Artù: prima confusa, poi incredula e alla fine tristemente consapevole che lui avrebbe pensato esattamente la stessa cosa. Ginevra, d’altronde, non era mai stata una servetta qualunque.
Con un debole sorriso, il mago riprese: «Gwen era convinta che rimanere a Camelot il più a lungo possibile ci avrebbe permesso di allontanarci abbastanza da renderci irrintracciabili. Nessuno infatti avrebbe pensato che la regina avrebbe abbandonato così facilmente quel figlio che aveva protetto sin dalla nascita, tenendolo nascosto agli occhi di tutti. Io mi sono subito opposto al piano, con tutte le mie forze, sostenendo che se qualcuno doveva scappare con il principe quella era proprio lei. È stato tutto inutile, ovviamente. Ricordo ancora le parole che mi disse, come se fosse ieri… Mi disse che io ero l’unico in grado di proteggerlo, l’unico a cui voi stesso avreste affidato la vita di Graalmir».
«Che cos’è accaduto?», chiese Artù con voce fioca, fissando con occhi vacui la superficie in legno dello scrittoio.
«Vi ho deluso, per l’ennesima volta». 
Merlino sentì gli occhi di Artù bruciargli addosso, ma fu il suo turno nel tenere lo sguardo basso su quelle pagine scritte alla rinfusa, con mani tremanti, l’inchiostro mischiato a sangue e lacrime.
«Tre giorni prima della battaglia ho insistito perché Percival partisse con me e Graalmir. Ho detto a Ginevra che l’avevo visto all’interno delle mie ultime visioni e che ci sarebbe stato d’aiuto durante la fuga verso la salvezza. In realtà la Vista non mi aveva mostrato nuove profezie, quello che volevo era solo riuscire a salvare tutti. Quant’ero presuntuoso, pieno di me e… patetico. Credevo di essere speciale, di poter portare del bene, quando in realtà…».
Sentiva il cuore dolergli ad ogni battito, come se ogni pulsazione fosse un errore, uno scherzo della natura, mentre le vie respiratorie erano ostruite da un grumo di disperazione e rimpianti.
«Merlino, tu non…». Artù esitò per quella che sembrò un’infinità – e lui conosceva abbastanza bene il concetto, – poi balbettò: «Tu hai fatto del tuo meglio».
«Esattamente. Mi sono sempre illuso di poter fare di più e questa è stata la mia rovina». Quella volta Artù non rispose e Merlino decretò che segretamente gli dava ragione.
«Ad ogni modo», riprese col proprio racconto, «Percival, Graalmir ed io siamo partiti alle prime luci dell’alba, travestiti e portando con noi lo stretto necessario, e abbiamo cavalcato quasi ininterrottamente per due giorni verso il regno di Nemeth, dove ero sicuro che Mithian ci avrebbe offerto il suo aiuto per proteggere Graalmir senza svelare la sua vera identità.
«Eravamo ancora ad un paio di giorni di viaggio, quando svelai a Percival il mio piano: lui sarebbe andato avanti con Graalmir, mentre io sarei tornato a Camelot per partecipare alla battaglia stando al fianco di Ginevra. Ovviamente non ha reagito bene, ma quando gli ho spiegato che la mia presenza avrebbe aumentato le possibilità che lui e Graalmir arrivassero sani e salvi da Mithian e che questo era tutto ciò di cui mi importava, ha accettato. Quella è stata l’ultima volta che ho visto Graalmir.
«Quando sono arrivato a Camelot la battaglia era già in pieno svolgimento, ma il castello non era ancora stato penetrato. Sono riuscito a raggiungere la sala del trono, dove Ginevra, i Cavalieri della Tavola Rotonda rimasti e Gaius si erano barricati in attesa della fine. Non dimenticherò mai il terrore che ho letto negli occhi di Gwen quando mi ha visto spalancare le porte senza Graalmir. Pensava che l’avessero catturato ed ucciso. L’ho rassicurata e poi mi ha schiaffeggiato e mi ha abbracciato, arrabbiata perché l’avessi tenuta all’oscuro di tutto e felice che fossi al suo fianco anche in quell’occasione. Il resto… lo sapete già».
Artù annuì lentamente e si alzò, raggiunse il camino e si appoggiò alla solida mensola con entrambe le mani, gli occhi fissi su fiamme invisibili.
«Graalmir e Percival sono riusciti a raggiungere Nemeth?», domandò ad un tratto, così a bassa voce che Merlino faticò a distinguere le parole.
Lo stregone socchiuse gli occhi per il dolore che rivivere quei momenti gli provocava, ma si costrinse a parlare con voce ferma. «Quando mi sono rianimato, quello è stato il mio primo pensiero. Ho rubato il cavallo di un cavaliere nemico, disarcionandolo dalla sella con un mini tornado simile a quello che avete visto quando…». Artù gli gettò un’occhiata fulminante e Merlino deglutì, ritornando a concentrarsi sulla storia. «Ho raggiunto Nemeth il più velocemente possibile e ho voluto vedere subito Mithian. Non le avevamo scritto una lettera di preavviso né avevamo mandato un nostro messaggero – c’era il rischio che venissero intercettati e che il nostro piano andasse in fumo – perciò quando le ho chiesto di Graalmir e Percival e lei non sapeva di che cosa stessi parlando ho capito che non ce l’avevano fatta. Ho cercato di non disperarmi, di dirmi che forse si erano fermati più volte del previsto o avevano dovuto prendere una strada più lunga per qualche motivo. Mi sono fatto ospitare dalla regina e dopo qualche ora di riposo sono tornato nel punto in cui li avevo lasciati, deciso a cercare qualche loro traccia. E anche se non ce l’avessero fatta… volevo indietro almeno i loro corpi.
«Ho perlustrato l’intera foresta, foglia dopo foglia, arbusto dopo arbusto, usando anche la vista che quella volta ci ha permesso di raggiungere la Torre Oscura, e quando stavo per arrendermi, ad ormai poche miglia da Nemeth, ho trovato la spada di Percival. Era stata infilzata nel terreno, accanto ad un albero con delle tracce di sangue, e seguendole sono arrivato vicino alla sponda di un fiumiciattolo. Prima di trovare Percival mi sono imbattuto nel corpicino di un bambino con indosso il mantello di Graalmir. Pensavo davvero fosse lui e sono crollato in ginocchio, urlando, ma non appena l’ho preso tra le braccia e gli ho scostato il cappuccio dal viso ho tirato un sospiro di sollievo. È orribile da dire, perché quel bambino era morto, ma il fatto che non fosse Graalmir… mi ha ridato la speranza.
«Ho trovato Percival vicino al fiume, addossato contro un albero, con una brutta ferita sul fianco. Si era medicato alla bell’e meglio, stringendosi una benda tutt’intorno al torace, e in quel modo è riuscito a non dissanguarsi. Ciononostante era molto debole e ci sono voluti due giorni di completo riposo prima che potesse raccontarmi ciò che era successo.
«La  mattina dopo la mia partenza hanno incontrato sulla loro strada una carovana di contadini, con mogli e bambini al seguito, e visto che anche loro erano diretti verso il regno di Nemeth, Percival ha pensato di accompagnarli sia per difenderli sia per mescolarsi a loro in caso di necessità. Nessuno di loro aveva accennato però al fatto che venissero da Camelot. Percival mi ha raccontato che una delle donne l’aveva riconosciuto subito, ma non ne ha fatto parola con nessuno perché, vedendolo solo con un bambino, aveva capito tutto. Percival l’ha scoperto solo quella sera, quando quella stessa donna, Hanna, gli ha servito la cena e si è seduta al suo fianco. Gli ha giurato che non aveva alcuna intenzione di venderli ai soldati nemici di Camelot e che avrebbe mantenuto il segreto con tutto il resto della carovana».
«È stato fortunato», disse Artù, interrompendolo per la prima vera volta. Merlino annuì con un cenno del capo, sfogliando ancora qualche pagina.
«Hanna viaggiava sola col proprio bambino, più o meno della stessa età di Graalmir, il quale si era preso una brutta polmonite poco dopo la partenza. Non potendo tornare a Camelot, la madre aveva provato a somministrargli dei rimedi casalinghi, del tutto inefficaci. Percival, come segno di ringraziamento, le promise che una volta arrivati a Nemeth avrebbe parlato con Mithian per farlo visitare dal guaritore di corte in persona».
«Ma questo non è mai successo», esclamò il re, già un passo avanti.
«È morto quella stessa notte, qualche ora prima che venissero attaccati da un gruppo di banditi che sapevano che un cavaliere di Camelot viaggiava col principe. Non abbiamo mai scoperto come sia potuto accadere, ma Percival aveva il presentimento che Hanna non fosse stata l’unica a riconoscerlo. Mi ha raccontato che quando si sono fermati per la notte, gli uomini sono andati a cercare della legna da ardere e uno di loro era tornato pallido come un lenzuolo, spaventato a morte. L’ha trovato sospetto e ha provato a farlo parlare, ma l’uomo sosteneva di essersi spaventato a causa di un serpente sbucato all’improvviso fuori da un cespuglio. Probabilmente quei banditi erano accampati poco lontano da dov’erano loro e hanno catturato l’uomo, forse per derubarlo, scoprendo però che aveva ben poco con sé. Hanno minacciato di ucciderlo, forse di uccidere sua moglie e i suoi bambini, e lui per salvare la sua famiglia deve aver detto loro che potevano avere molto di più: il principe di Camelot.
«Era quasi l’alba, quando hanno attaccato. Percival e Hanna erano rimasti svegli, scossi per la morte del bambino, perciò sono stati i primi a reagire. Mentre Percival lottava con i banditi, Hanna ha avuto l’idea geniale che ha salvato Graalmir: gli ha levato il mantello e l’ha sistemato sul corpo di suo figlio, poi ha recuperato un cavallo e ha fatto segno a Percival di muoversi. Lui ha capito subito ciò che aveva in mente e dopo aver gettato uno sguardo a Graalmir, promettendo a se stesso che l’avrebbe ritrovato, e aver ringraziato Hanna, certo che non li avrebbe mai traditi, è salito a cavallo col corpo del bambino e ha attirato su di sé tutti i banditi rimasti, i quali ormai volevano solo il principe.
«Presto è stato accerchiato e durante il combattimento è stato disarcionato da cavallo con tanta violenza che nella caduta ha battuto la testa ed è svenuto. Quando ha ripreso conoscenza i banditi non c’erano più, di sicuro si erano accorti del trucco, e quando Percival ha raggiunto a piedi il punto in cui si erano accampati la carovana era in fiamme e non c’erano sopravvissuti. Ha camminato tra i cadaveri di uomini, donne e bambini innocenti, ma non ha trovato quelli di Hanna e Graalmir. Col cadavere del bambino che aveva fatto da esca tra le braccia si è incamminato verso Nemeth, ma la ferita al fianco era più grave di quello che pensava ed è stato costretto a fermarsi sulle sponde del fiumiciattolo dove è rimasto semi-svenuto fino a quando non l’ho trovato».
Merlino si fermò e il silenzio che piombò loro addosso fu così profondo e prolungato che ad un tratto Artù si voltò e lo guardò con entrambe le sopracciglia inarcate. Conosceva bene quell’espressione, era quella che di solito accompagnava la frase: “Sei davvero così stupido, Merlino?”.
«E poi?», gli domandò infine, innervosito.
«E poi niente, la storia finisce qui», rispose amareggiato, chiudendo il libro così di colpo che una nuvoletta di polvere lo fece tossire.
«In che senso la storia finisce qui? Non può finire qui!».
Lo stregone scosse il capo. Quante volte aveva desiderato che non finisse in quel modo, quante aveva sperato di poter scrivere, un giorno, della vita che Graalmir aveva vissuto, di quanto era cresciuto ed era diventato simile a suo padre, di quanto lo aveva reso orgoglioso e felice? E invece si era dovuto accontentare dell’immaginazione, della speranza e dell’orribile poema del giovane – ed ubriacone – Chrétien de Troyes, conosciuto in una squallida bettola in cui dopo qualche boccale di troppo si era sentito così stanco da doversi sfogare con qualcuno. Ricordava ancora l’incredulità e il ribrezzo che aveva provato quando si era trovato di fronte ad una copia de “Le Roman de Perceval ou le conte du Graal”. Quello stupido e confusionario libricino, pieno di strafalcioni e in cui Graalmir si era assurdamente trasformato in un calice, aveva avuto così tanto successo che era diventato una leggenda vera e propria, su cui erano stati creati altri miti dalle mille e più versioni ed interpretazioni. L’unica cosa giusta scritta da Chrétien – probabilmente l’unica cosa che aveva chiaramente in testa quando si era ripreso dalla sbornia – era che Percival aveva cercato Graal in lungo e in largo.
«Merlino, mi stai ascoltando?!», urlò Artù, di nuovo allo scrittoio, con le mani posate sul ripiano di legno e gli occhi furenti fissi sul volto dello stregone. «Dimmi cos’è successo a mio figlio!».
«Se solo lo sapessi…», mormorò, sospirando. «Quando Percival si è ripreso siamo andati subito alla ricerca di Hanna e Graalmir, nella speranza che si fossero rifugiati da qualche parte a Nemeth. Abbiamo chiesto a chiunque e finalmente un venditore di frutta ci ha detto che era passata una donna con un bambino che corrispondeva alla nostra descrizione e che gli aveva dato un messaggio per un certo Percival. Hanna e Graalmir stavano bene e si sarebbero diretti verso sud, dove avrebbero cercato un villaggio tranquillo e si sarebbero fatti una nuova vita. Io e Percival siamo partiti subito, nonostante lui non fosse ancora in piena forma – credo si fosse innamorato di Hanna – e ci siamo fermati in ogni villaggio che incontravamo. Ci fermavamo per un paio di giorni al massimo, parlavamo con ogni abitante e poi partivamo di nuovo. Abbiamo vissuto così per quasi cinque mesi. Dopo l’ennesimo buco nell’acqua, io mi sono arreso. Continuavo a pensare che fosse tutta colpa mia, che non sarei mai dovuto ritornare a Camelot, e una notte, disperato, ho lasciato Percival addormentato nel bosco e sono scappato. È stato allora che decisi di vivere da solo, come un vagabondo, per paura che chiunque si avvicinasse troppo a me morisse, e che giurai che non avrei mai più usato la magia».
Artù rimase in silenzio, la fronte aggrottata, e dopo quella che sembrò un’infinità fece il giro dello scrittoio e gli diede una pacca sulla spalla.
«Non è colpa tua», disse, ma Merlino ebbe la netta sensazione che non lo pensasse davvero. Non poteva biasimarlo, davvero non poteva; aveva tutto il diritto di essere arrabbiato con lui per tutte le sciocchezze che aveva fatto e sapeva che delle semplici scuse, dopo più di millequattrocento anni, non sarebbero state sufficienti, ma non poté frenarsi.
«Mi dispiace tanto. Per tutto».
Artù, di nuovo appoggiato alla mensola del camino ma quella volta solo con una mano, levò su di lui gli occhi color del mare inghiottito dalla tempesta, cupi, intrisi di tristezza e rabbia, ed annuì. «Lo so».
«Io stesso non mi sono mai perdonato, perciò lo capirei se…».
«Oh, fai silenzio, Merlino».
Lo stregone chinò il capo, mordendosi il sorriso appena accennato che gli aveva incurvato le labbra senza che avesse il tempo per ricacciarlo indietro.
«Mi chiedevo se è per questo che ti occupi dei bambini, per… diciamo così, espiare le tue colpe».
Merlino non ci aveva mai riflettuto seriamente, ma doveva riconoscere che quello era sicuramente uno dei motivi. 
«Credo di sì», rispose, stringendosi nelle spalle. «Graalmir… adoravo stare con lui, raccontargli le vostre imprese eroiche… All’inizio è stato doloroso fare lo stesso con i bambini dell’ospedale, ma poi, vedendo i loro sorrisi, i loro occhi illuminarsi… è stato come riaverlo con me. Io non ero suo padre, ma perderlo è stato comunque atroce, quindi capisco come vi sentite».
Artù scrollò un poco il capo, per poi chinarlo verso il basso. «Non l’ho nemmeno mai visto».
Merlino esitò, chiedendosi se non fosse meglio così. Ma Artù aveva il diritto di poter scegliere, non sarebbe stato corretto da parte sua decidere ancora una volta al posto suo, temendo che potesse soffrirne.
Si schiarì la gola, passandosi una mano sulla nuca. «Artù, voi vorreste…?». Il re si voltò, gettandogli un’occhiata tesa, e il mago respirò profondamente prima di concludere la frase: «Vorreste vederlo?».
«E come…?». Si interruppe bruscamente, arricciando il naso come se fosse appena stato colpito da una zaffata di cattivo odore. «Vuoi usare la magia?».
«Non proprio. Rispondete alla domanda».
Artù ci pensò su un poco, una manciata di secondi, prima di annuire con un semplice cenno del capo.

 
Merlino lo condusse nella soffitta buia ed impolverata, ambiente ideale per i ragni che avevano tessuto le loro tele nella punta delle due torri che viste da fuori davano un aspetto così particolare alla casa.
Erano anni che non vi saliva e il disordine era impressionante, tanto che sentì Artù imprecare sottovoce, ma il mago si diresse con sicurezza verso il fondo, sotto il lucernario sporco che faceva filtrare quel minimo di luce grazie al quale riuscivano a camminare senza pestarsi i piedi a vicenda.
Prese con entrambe le mani un lenzuolo ingrigito e lo gettò a terra, sollevando un’onda di polvere; sotto di esso, una cassapanca di mogano pregiato con lo stemma dei Pendragon che aveva inciso lui stesso. Lo accarezzò con la punta delle dita, ricordando le notti che aveva trascorso al lume di candela nella falegnameria in cui aveva lavorato per qualche mese, con la paura di essere scoperto dal padrone, e della soddisfazione che aveva provato quando aveva finito il lavoro.
«Qui dentro c’è tutto ciò che di più prezioso io abbia», spiegò. 
Quindi sollevò il coperchio e sentì subito le lacrime affluirgli agli occhi. Dentro quel baule – una costante in tutti i suoi trasferimenti – c’erano tutti i momenti salienti della sua vita, i ricordi che custodiva più gelosamente, quelli che facevano più male di tutti.
«Questa credo sia vostra», esclamò schiarendosi la gola, prendendo tra le mani un oggetto avvolto in più strati di pregiato velluto color porpora.
Artù prese l’incarto tra le mani e con un tuffo al cuore sollevò la corona da re che indossava durante cerimonie ed eventi ufficiali.
«Come l’hai…?».
«Dopo che Camelot è caduta molte delle ricchezze reali saccheggiate sono andate disperse. La maggior parte le ho recuperate, in tutti gli angoli del mondo, e le ho donate ai musei, ma alcune le ho conservate. Sono tutte qui, da qualche parte». Indicò gli scatoloni e gli scaffali di metallo intorno a loro, coperti da lenzuoli o semplicemente accatastati gli uni sugli altri, poi indicò la corona che Artù teneva ancora tra le mani. «Quella è stata una vera impresa. Faceva parte della collezione privata di uno spregevole vecchietto fanatico della storia che nonostante le mie generose offerte non aveva alcuna intenzione di vendermela. Alla fine gliel’ho rubata».
Il re di Camelot strabuzzò gli occhi, incredulo. «Tu che cosa? Merlino!».
«Cosa? Quell’uomo non se la meritava. Lo rifarei seduta stante».
Artù si rigirò la corona tra le dita, poi l’avvolse nuovamente nel velluto e gliela porse. Merlino avrebbe voluto spazzare via le nubi di malinconia che avevano ombreggiato ancora una volta gli occhi dell’amico, magari con una battuta sul fatto che era sicuro che gli sarebbe andata larga dopo tutti quegli anni passati sott’acqua, ma fu contagiato dall’amarezza e rimase in silenzio. Ripose la corona dove l’aveva trovata e cercò ciò per cui erano andati fin lassù.
Trovò il libro, più sottile rispetto a quelli che aveva utilizzato per i propri diari, e non appena lo afferrò sentì una scossa percorrergli il braccio, così forte che fu costretto a mollare la presa e a stringerselo al petto.
«Merlino, stai bene?», chiese Artù apprensivo, inginocchiandosi al suo fianco. Il mago non poté evitare di pensare che si sarebbe sporcato i jeans, ma sorvolò e gli rivolse un sorriso tirato.
«Sì, nulla di grave».
«Che cos’è stato?».
«Quel quaderno. È così intriso di magia che mi è sembrato di avere le dita infilate nella presa di corrente».
Artù non capì fino in fondo il paragone, Merlino glielo lesse negli occhi, ma parve comprendere che era una cosa seria e allungò una mano per prenderlo al suo posto. Il mago aprì la bocca per dirgli di non farlo, ma non successe niente quando le dita del re sfiorarono il bordo del libro.
«Strano, io non sento niente», esclamò, con le sopracciglia inarcate.
«Reagisce solo con chi possiede la magia, allora». Merlino si sedette a gambe incrociate sulle assi del pavimento impolverato, dimenticandosi per un attimo della sua ossessione da casalinga, ed esortò Artù ad aprire il quaderno. «Se lo tenete voi non c’è pericolo».
Artù deglutì e dopo un attimo di indecisione aprì il libro, rimanendo senza fiato di fronte alle immagini disegnate a carboncino, semplicemente a matita e a volte dipinte ad acquarello. Erano disegni stupendi, realistici e fedeli in maniera quasi impossibile, ma ciò che li rendeva davvero incredibili era qualcos’altro: le persone ritratte sulla carta si muovevano, sorridevano e sbattevano le ciglia in modo naturale, proprio come in un video moderno.
Merlino allungò il collo e scorse anche lui ciò che aveva disegnato secoli e secoli prima, quando ancora viveva a Camelot e gli sembrava di aver ritrovato una parte di felicità.
Artù avvicinò le dita al viso sorridente di Ginevra, la quale teneva tra le braccia un bambino di forse qualche settimana, avvolto in una coperta. Per paura di interromperne i movimenti non sfiorò la carta e con voce strozzata chiese: «Quel bambino è…?».
«Graalmir Pendragon, sì. Vostro figlio».
«È bellissimo».
Merlino accennò un sorriso. «Già. Girate pagina».
Artù fece come gli era stato detto e gli scappò un versetto che poteva essere un singhiozzo come una mezza risata. Incrociò lo sguardo di Merlino e quest’ultimo capì che forse stava provando entrambi i sentimenti, tristezza e gioia, contemporaneamente.
Nell’immagine Graalmir era steso nella sua culla, che sorrideva sdentato e allungava le manine verso una giostrina da cui pendevano piccole spade, scudi, cavalli e draghi di legno.
«Sarebbe diventato un ottimo cavaliere, come suo padre».
«E io avrei potuto insegnargli alcuni incantesimi. Il primo cavaliere-stregone di Camelot, invincibile».
Artù arricciò il naso come se non approvasse del tutto la sua uscita, ma non protestò ad alta voce e Merlino lo apprezzò davvero.

Rimasero in quella soffitta per tutta la mattina, sfogliando le pagine di quel quaderno come se fosse un album di fotografie, vedendo crescere Graalmir ritratto dopo ritratto, commentando, ridendo e bisticciando, fino a quando non giunsero alla prima pagina bianca, in grado di riportarli bruscamente alla realtà.

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Capitolo 12
*** 12. The tears of the Pendragons – Part II ***


Buonasera! :)
A voi la seconda parte di questo capitolo ricco di feels. In questo incontreremo improbabili spasimanti, tanti fraintendimenti e un'investitura. Ma non solo. Essendo un altro capitolo ricco di avvenimenti vi lascio subito alla lettura, sperando che vi piaccia.
Grazie a tutti, come al solito, per il supporto. Vi lovvo tanto.
Alla prossima!

Vostra,


_Pulse_

 

 

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12. The tears of the Pendragons – Part II

 

Artù sentiva la testa scoppiargli. Aveva ricevuto troppe informazioni tutte insieme, senza avere il tempo di metabolizzarle singolarmente, e ora tutto il dolore, la gioia e la malinconia l’avevano prosciugato, lasciandolo con una voragine al posto del petto.
Aveva conosciuto suo figlio, aveva fatto in tempo ad amarlo e a sorridere di fronte al suo viso luminoso e pieno di vita e poi gli era stato strappato via, proprio come lui era stato strappato via dalla sua città, dalla sua vita, per doversene costruire una nuova con una perfetta sconosciuta.
Merlino aveva detto di sperare che Graalmir fosse venuto a conoscenza delle proprie nobili origini, che fosse andato orgoglioso del suo cognome, ma Artù pensava piuttosto che, data la tenera età, fossero bastati pochi anni per cancellare del tutto il ricordo di Camelot, di sua madre e di tutti coloro che gli avevano voluto bene. E probabilmente era stata la sua salvezza ricominciare da zero, senza sapere nulla del proprio passato. Lui, al contrario di Merlino, ne era sicuro, perché se davvero Alex era la sua ultima lontana discendente, allora non poteva essere diversamente: Graalmir aveva vissuto abbastanza da sposarsi ed avere dei figli, con un cognome diverso ma con sangue Pendragon nelle vene.
Mentre Merlino raccontava ciò che aveva dovuto passare, le sofferenze che aveva dovuto patire, Artù aveva più volte avuto la tentazione di rivelargli tutto, di dirgli che era vero che lui non c’entrava nulla, che tutte le morti a cui aveva dovuto assistere erano state orchestrate dai custodi della magia per costringerlo a reagire, ma non ne aveva trovato la forza. Non sapeva come Merlino l’avrebbe presa e lui, distrutto com’era da tutto ciò che aveva appreso, non sarebbe stato una buona spalla su cui piangere, la roccia in grado di sostenerlo. Doveva trovare il momento e il modo giusto con cui dirgli tutto quello che Freya gli aveva a sua volta detto e anche che la stessa Freya custodiva ancora Avalon. Poi avrebbero cercato di trovare una soluzione ragionevole per il problema “destino da compiere” che avevano per le mani.
Era tutto così grande e confuso e fuori dal tempo che non riusciva nemmeno a pensarci. L’unica cosa che poteva fare era affrontare un problema per volta, giorno dopo giorno, facendo del suo meglio per non aggravare la situazione.

 
«Artù, siete pronto?».
Il re di Camelot sobbalzò di fronte allo specchio quando, pettinandosi i capelli biondi, calcò troppo con la spazzola sul punto in cui l’agente Chandra gli aveva lasciato in ricordo un bel bernoccolo. Non poté fare a meno di realizzare – non senza vergogna – che nel giro di dieci giorni si era già fatto stendere due volte e da due donne, per di più. Aveva davvero bisogno di un po’ di allenamento, o persino Merlino, senza l’aiuto della magia, sarebbe stato in grado di metterlo K.O..
«ARTU’!».
Il re sospirò e si guardò un’ultima volta allo specchio, sistemandosi una ciocca di capelli biondi sulla fronte, prima di gridare che sì, stava scendendo.
Trovò Merlino già al volante della propria auto d’epoca, sulla strada sterrata di fronte casa, e Artù dovette chiudere a chiave la porta prima di raggiungerlo.
Il mago gli aveva proposto di accompagnarlo all’ospedale per una promessa che aveva fatto e per accontentare anche lui, che una volta aveva espresso il desiderio di voler conoscere i bambini. Artù aveva accettato, sperando di riuscire a distrarsi quel tanto che bastava ad alleviare quel maledetto mal di testa.
Il cielo era nuvoloso e il freddo non era eccessivo, permettendo loro di viaggiare anche a tetto scoperto. Trascorsero la maggior parte del tragitto in silenzio, Merlino guardando la strada di fronte a sé e Artù appoggiato con le braccia incrociate sulla portiera, la testa quasi fuori dall’abitacolo.
Ad un tratto l’odore salmastro del lago gli colpì il viso e il re, ripensando alla sera precedente, si ricordò del destriero metallico che l’agente di polizia gli aveva fatto lasciare per strada.
«Devo andare a recuperarlo, iniziava a piacermi».
«Che cosa?», domandò Merlino, facendogli capire che l’aveva detto ad alta voce.
«Il mezzo a pedali che ho usato per andare a caccia, quello che c’era nel fienile».
Il mago aggrottò la fronte, riflettendo. All’improvviso, l’illuminazione. «La bicicletta!», esclamò ridacchiando. «In che punto l’avete lasciata?».
«Non ricordo di preciso, era molto buio», mentì. Ricordava perfettamente dove la volante della polizia l’aveva costretto a fermarsi – una stradina secondaria poco lontana da Avalon – ma non voleva dirlo a Merlino perché temeva che potesse insospettirsi.
«Andremo a riprenderla più tardi», decise Merlino. «Mi pare di aver capito che Myra vi ha sequestrato anche il pugnale e la balestra. Cercherò di farmi ridare tutto nei prossimi giorni».
Artù si voltò a guardarlo, colpito dal fatto che avesse chiamato per nome l’agente Chandra. Era successo anche quella mattina, ma allora non ci aveva fatto troppo caso. Era piuttosto sicuro di non averla mai chiamata per nome e, come se non bastasse, il modo in cui Merlino lo pronunciava, con un misto di tenerezza e rimpianto, lo convinceva sempre di più che tra quei due ci fosse stato qualcosa.
«La conosci?», chiese a bruciapelo e il mago reagì come aveva previsto, irrigidendosi sul sedile ed evitando di guardarlo negli occhi.
«Chi, l’agente Chandra? Questa è una piccola cittadina, ci conosciamo tutti tra noi».
Artù arricciò al naso, per nulla convinto ed infastidito dal suo continuo glissare, come se non volesse raccontargli fasi della sua vita perché non avrebbe capito, ma non protestò, ricordandosi che anche lui gli stava celando un segreto ben più grande di una storia d’amore.
Dopo altri dieci minuti di viaggio Merlino parcheggiò l’auto nella piazzola di fronte all’ospedale e tirò su il tettuccio. Afferrò Artù per un braccio ancor prima che si muovesse per aprire la portiera e lo guardò intensamente negli occhi. Sapeva già cosa stava per dirgli: «Comportatevi come un uomo del Ventunesimo secolo, evitate di dare del voi e non fate nulla di strano», ed era già pronto a tappargli la bocca con un: «Stai zitto, Merlino», ma lo stregone lo sorprese ancora una volta, dicendo: «Siate voi stesso, solo per questa volta».
Artù sbatté più volte le palpebre, confuso. «Come hai detto, scusa?».
«L’effetto della mia magia svanirà presto, forse ha già iniziato a scomparire, perciò l’atmosfera sarà piuttosto pesante. I bambini hanno visto i miei disegni, vi riconosceranno subito: accontentateli, se potete. Distraeteli, fateli sorridere».
Il re di Camelot non riusciva a credere alle proprie orecchie. Davvero Merlino gli aveva appena chiesto di recitare il ruolo del principe, del re, ciò che era stato e che non era più? Non aveva un’idea precisa riguardo al significato dell’espressione “fenomeno da baraccone”, ma si sentiva comunque così, sfruttato e messo in mostra contro la sua volontà.
Avrebbe voluto rispondergli: «Scordatelo!», ma la tristezza che lesse nel profondo dei suoi occhi glielo impedì. Trattenendo la frustrazione, grugnì: «Va bene».
Fu piacevole, come scorgere il primo raggio di sole dopo una violenta tempesta, vedere il volto di Merlino illuminarsi di gioia e gratitudine. 
Artù non poté trattenere un sorriso mentre scendeva dall’auto e lo seguiva all’interno, perdendo presto il conto di quante persone lo salutassero affettuosamente, sorridendogli. 
Ovunque andasse, Merlino riusciva sempre a catturare la simpatia di chiunque lo incontrasse e Artù ne era tremendamente geloso, visto che per lui era sempre stato difficile affermare la propria identità in un ambiente che non era in grado di vedere nient’altro che il suo titolo regale. Merlino era stato il primo a farlo, seguito poi da Ginevra, e insieme avevano scalfito la dura corazza che aveva costruito intorno al cuore, facendogli capire il senso dell’umiltà, dell’essere se stessi e di fare ciò che riteneva giusto, imparando anche a ribellarsi e a lottare per i propri ideali. Gli ci erano voluti anni per rendersi conto di quanto Merlino contasse per lui, per ammetterlo apertamente, e nonostante sapesse quanto aveva fatto per lui sentiva che non sarebbe mai riuscito a ripagarlo del tutto.
Era ancora soprappensiero, quando rischiò di finire contro una ragazza con indosso una tuta blu piena di tasche. Aveva un bel viso, dalla pelle diafana punteggiata di efelidi, i capelli rosso sangue raccolti in una lunga treccia posata sulla spalla, una sfilza di orecchini – soprattutto cerchietti d’argento – e un brillantino sul naso.
«Ehi, sarai anche bello come un dio ma noi comuni mortali non siamo invisibili», lo rimbeccò con un pizzico di malizia negli occhi castani.
Artù non riuscì a reagire prontamente, colpito dal suo aspetto e dall’audacia che dimostrò passandosi la lingua sui denti mentre lo squadrava da capo a piedi, come se lo stesse valutando. Quindi gli sorrise, mostrando una fila di denti bianchissimi, ma prima che potesse dire qualcos’altro Merlino lo affiancò e lo prese per un braccio, stirando un sorriso alla ragazza.
«Ciao Cathleen, avremmo un po’ di fretta».
Lei arricciò le labbra, incrociando le braccia al petto. «Diavolo, in questo periodo non me ne va bene una. Posso almeno sapere il nome del tuo amico?».
«Artù», rispose schietto, già pronto a trascinarselo dietro. Il re non capiva perché Merlino risultasse così nervoso e schivo nei suoi confronti, ma nonostante la curiosità non glielo chiese: farlo di fronte a lei sarebbe stato alquanto sconveniente e avrebbe provocato l’ennesimo guaio.
«Artù e Merlino, fantastico!», esclamò esaltata, raggiungendoli con una corsetta e piazzandosi di fronte a Merlino, in modo da bloccargli la strada. Si era fatta improvvisamente seria, fissando gli occhi in quelli del mago. «Dimmi la verità, ricambierai mai i sentimenti di Alex?».
Merlino diventò rosso come un peperone ed iniziò a boccheggiare, in uno spettacolo tanto penoso che Artù si sentì in dovere di intervenire in suo soccorso: «Non sono affari che ti riguardano».
Cathleen si voltò rapidamente verso di lui, raggiante. «Quindi parli pure! Diventi più sexy ogni secondo che passa». Gli fece l’occhiolino, per poi concentrarsi di nuovo su Merlino, pregandolo: «Dimmi almeno se io ho qualche possibilità con lei!».
A quella domanda – alla quale Artù reagì domandandosi se si fosse sturato bene le orecchie quella mattina – Merlino rispose prontamente: «Non credo tu sia il suo tipo. Che le donne in generale lo siano, intendo».
«Oh. Che peccato». Era davvero delusa, glielo si leggeva in faccia, ma le passò presto.
Merlino l’aveva già trascinato oltre, quando la vide girarsi di scatto col sorriso di nuovo ad incurvarle le labbra rosse e quello sguardo malizioso che puntava proprio lui. Artù capì che prima o poi sarebbe tornata all’attacco e il pensiero lo agitò un po’, soprattutto perché quella ragazza era così diversa dagli standard a cui era abituato a Camelot che si sentiva un po’ disorientato ed intimorito.
Il mago lo portò di fronte a delle porte metalliche e premette un pulsante incassato nel muro, che si illuminò. Artù nell’attesa si schiarì la gola e chiese: «Chi era quella ragazza?».
«Cathleen», gli rispose sospirando, passandosi una mano sul volto. «Un paramedico eccezionale, una delle migliori a guidare le ambulanze, ma ha il piccolo difetto: è sempre in cerca di attenzioni».
«È lesbica?».
Le porte di metallo si aprirono con un ding, ma Merlino non parve accorgersene, con gli occhi fissi su di lui, scioccati ed indagatori. Artù capì di aver fatto una gaffe, usando un termine moderno che teoricamente non avrebbe dovuto conoscere, e ancor prima che Merlino potesse chiedergli dove l’avesse sentito si giustificò dicendo: «Passo un sacco di tempo davanti alla televisione».
«Già», mormorò il mago, entrando nell’ascensore ed invitando Artù a fare lo stesso.
Il re provò subito una sgradevole sensazione, che quando si chiusero le porte aumentò a dismisura, facendogli rizzare i capelli sulla nuca. Merlino aveva appena schiacciato un altro pulsante, il numero quattro, e il pavimento e le pareti e il soffitto che li circondavano, rinchiudendoli in un rettangolo abbastanza ampio ma comunque senza via d’uscita, iniziarono a salire verso l’alto.
«Merlino», lo chiamò con voce piatta, calmissima.
«Uhm?», rispose distrattamente, guardando i numeri sopra le porte metalliche.
«Fammi uscire da qui».
«Che cosa? Non mi dite che avete paura di…». Si interruppe e ogni traccia di scherno svanì dal suo volto, accartocciato in una smorfia di puro terrore. «Oh no, non può essere».
«Merlino…», ripeté, sentendo di star per perdere la calma: ancora pochi secondi e avrebbe iniziato a colpire le porte metalliche con qualsiasi cosa, persino con la propria testa, pur di uscire. Gli mancava l’aria.
«Artù, guardatemi. Guardatemi negli occhi». Merlino lo prese per le spalle ed incatenò i loro sguardi. «È solo un ascensore, un’invenzione moderna che sostituisce le scale. So che può fare un po’ paura, soprattutto se si fermasse tra un piano e l’altro e venisse a mancare la luce…».
«Questo dovrebbe aiutarmi?!», gridò, sentendo il panico crescere incontrollabile dentro di lui, tanto che si aggrappò alle braccia del mago con entrambe le mani, stringendo forte.
«No, certo che no. Sono uno sciocco, lo sapete che straparlo sempre nei momenti meno opportuni. Stavo dicendo… Molte persone soffrono di claustrofobia, ma io mi rifiuto di credere che voi siate una di queste: avete affrontato eserciti immortali, streghe, mostri di ogni genere, persino un drago!, senza mai tremare. Ero io quello fifone, ricordate? Spesso dicevo di sentire dei rumori ed erano solo le mie ginocchia…».
Riuscì a strappargli un sorriso e lo stava guardando con gratitudine, quando le porte metalliche si aprirono e mostrarono loro un ampio corridoio simile a quello da cui erano venuti e Alex, ferma proprio di fronte a loro, con una pila di cartelle tra le mani e gli occhiali da vista tra i capelli.
Li guardò piegando la testa di lato, senza sapere se ridere, provare compassione o ribrezzo, e alla fine scosse il capo, decidendo di non commentare. Si spostò di lato per permettere loro di uscire e per Artù fu un vero sollievo uscire da quella trappola per persone pigre, mentre Merlino tentava, senza successo, di spiegare che “non era come sembrava”. Solo in quel momento, riacquistato un minimo di lucidità, Artù realizzò che la loro posizione poteva risultare vagamente fraintendibile: più vicini del necessario, occhi negli occhi e aggrappati uno al corpo dell’altro… L’immaginazione di chiunque sarebbe stata stimolata.
«Ci vediamo più tardi?», domandò Merlino alla fine, quando ormai le porte si stavano chiudendo.
Videro Alex annuire giusto un secondo prima che sparisse dietro il metallo e poi si voltarono, incrociando subito lo sguardo di una donna appena uscita da una delle porte lungo il corridoio. Aveva i capelli disordinati e il volto privo di trucco era visibilmente stanco, gli occhi arrossati a causa delle lacrime e cerchiati per le poche ore di sonno. Quasi si mise a correre per raggiungerli e Merlino fece un passo avanti, poi gli gettò un’occhiata rassicurante e gli disse: «L’ultima porta sulla sinistra, chiedete di Abigail. Vi raggiungo tra poco».
Artù annuì con un cenno del capo e si allontanò, iniziando a percorrere il corridoio verso la stanza che il mago gli aveva indicato. Camminando, sbirciò dentro le camerette e vide moltissimi bambini, di tutte le età, molti dei quali li aveva già visti nelle foto appese in camera di Alex.
Stesi nei loro letti, addormentati o intenti a chiacchierare tra loro, a disegnare o a giocare con i telefonini e altri aggeggi elettronici, sembravano tutti quanti bambini normali, se non si faceva caso ai capelli radi o del tutto assenti, ai tubicini trasparenti che avevano infilati nelle braccia e all’immobilità a cui molti di loro erano costretti.
Da quello che sapeva, suo figlio Graalmir aveva sempre goduto di ottima salute, ma era sicuro che nel caso si fosse ammalato – febbre, raffreddore o un semplicissimo mal di pancia – si sarebbe preoccupato a morte, rimanendo al suo fianco giorno e notte fino a quando non l’avrebbe visto correre di nuovo in giro per il castello. Per questo non riusciva nemmeno ad immaginare lo strazio che dovevano provare i genitori di quelle povere creature, afflitte da malattie che presto o tardi gliele avrebbero portate via, inevitabilmente.
Giunse all’ultima porta sulla sinistra ed esitò un attimo sulla soglia prima di sporgere la testa all’interno. Incrociò subito lo sguardo di una ragazzina sui tredici anni, con i capelli castani tagliati alla maschietto e gli occhi scuri vigili e attenti. Vide una scintilla attraversarli e poi le sue labbra schiudersi dalla sorpresa, dei dettagli che gli fecero intuire di essere già stato riconosciuto.
«Ciao», la salutò stirando sorriso. C’era solo lei nella stanza, ma non poté fare a meno di chiedere: «Sei tu Abigail, vero?».
La ragazzina annuì con un cenno del capo, schiarendosi la gola e ricambiando il sorriso a sua volta. «E tu sei l’amico di Merlino, ho indovinato? Non vedevo l’ora di conoscerti».
Artù si avvicinò e le prese delicatamente una mano, piccola e pallida, per sfiorarne le nocche con le labbra, inchinandosi. 
«Lusingato. Il mio nome è Artù».
Abigail sorrise entusiasta ed imbarazzata allo stesso tempo, con le guance infiammate. Solo dopo una dozzina di secondi, con Artù in piedi accanto al suo letto, si rese conto dell’assenza di Merlino.
«Lui dov’è?», gli chiese, aggrottando le sopracciglia.
«Si è fermato a parlare con una donna. Minuta, capelli biondi…».
«La mamma di Steve, senza dubbio», dedusse sospirando tristemente. Si portò le dita alla bocca, per mangiucchiarsi le unghie già cortissime, e Artù, a disagio, si sedette accanto alla porta.
«Spero che tu faccia in tempo a conoscerlo», disse Abigail ad un tratto, rivolgendogli un sorriso dolce.
«Sono qui apposta», rispose, iniziando a capire che cosa Merlino aveva voluto dirgli in auto. Forse gli aveva chiesto di accompagnarlo anche per quello, per regalare a Steve un ultimo momento di gioia. E chi era lui per negarglielo?
Stava ancora riflettendo su quella possibilità, quando lo stregone bussò ed entrò nella camera senza attendere la risposta di Abigail. Sembrava invecchiato di colpo di almeno un altro paio d’anni, ma incredibilmente riuscì a sorridere salutando la ragazzina.
«Non c’è Mark?», le chiese.
«Credo stia ancora dormendo. Ho sentito dire che la chemio questa mattina è stata piuttosto dura».
«Capisco. Passeremo da lui più tardi. Abby, ti va di accompagnare Artù a fare un giro? Presentagli gli altri. Io cercherò Alex: voglio chiederle se possiamo far visita a Steve».
«Con piacere», disse gentilmente Abigail, scendendo dal letto per sedersi sulla sua sedia a rotelle, col trespolo della flebo stretto in una mano.
«Andate a spingerla», gli mormorò Merlino all’orecchio e Artù balzò in piedi, dandosi dello stupido perché non ci era arrivato da solo.
Afferrò i manici della sedia a rotelle e la spinse facilmente fuori dalla porta, ma Abigail strinse quasi subito il braccio del mago e lo invitò a porgerle l’orecchio per sussurrargli qualcosa.
Merlino ridacchiò, gettandogli un’occhiata, poi li salutò per dirigersi nella direzione opposta.
«Che cosa gli hai detto?», le chiese un Artù divorato dalla curiosità, quando rimasero soli.
La ragazzina sorrise furbetta. «È un segreto. Gira a destra».
Artù capì che in ogni caso non avrebbe ottenuto nulla e lasciò perdere, concentrandosi sulle indicazioni di Abigail e pregando perché Merlino e Alex si riappacificassero.

 

***

 

Alex aveva delle cartelle cliniche tra le mani quando l’aveva vista nei pressi dell’ascensore, perciò c’erano solo due posti in cui poteva essere andata: all’archivio o da una delle dottoresse che voleva vederle nuovamente per confrontare i dati con gli esiti degli ultimi esami. Tentò la sorte e scelse la seconda.
Per raggiungere le scale – dopo l’ultima esperienza non aveva molta voglia di usare l’ascensore – fu costretto a passare di nuovo di fronte alla stanza di Steve. Rivedere l’apprensione e il dolore negli occhi dei suoi genitori non fu piacevole, e non lo era stato affrontarli direttamente quando Paige, poco prima, gli era corsa incontro. Gli aveva chiesto che fine avesse fatto la sera precedente e perché avesse lasciato Steve da solo, e Merlino aveva risposto semplicemente che non era riuscito a reggere di fronte a quell’ingiustizia, alla crudeltà del destino, e che si era sentito male. La madre del bambino gli aveva creduto, ovviamente, e l’aveva abbracciato con delicatezza, dandogli leggere pacche sulla schiena.
Il mago non aveva mentito – aveva solo omesso alcuni dettagli – ma si era sentito comunque in colpa, oltre che inutile: avrebbe voluto fare di più, molto di più, ma sapeva che era impossibile. Aveva imparato a sue spese, nel più atroce dei modi, che la magia non dava mai nulla senza ricevere qualcos’altro in cambio. Come piaceva dire a Nimueh: “Una vita in cambio di un’altra vita, per ristabilire l’equilibrio nell’universo”.
Scese al terzo piano, dove si trovavano i laboratori, e per una volta ebbe fortuna. Vide Alex venirgli incontro a mani vuote, gli occhi attenti e fin troppo inquisitori per i suoi gusti.
«Che ci fai qui?», gli chiese subito, storcendo un po’ il naso e guardandolo da sopra le lenti degli occhiali.
«Ti cercavo. Ci sono novità su Steve?».
Alex sospirò – forse per la tristezza, forse semplicemente per la noia che ripeterlo per l’ennesima volta le provocava – ed iniziò a salire le scale con Merlino alle calcagna. «Le sue condizioni stanno lentamente ed inesorabilmente tornando quelle pre-miracolo».
Merlino l’aveva sempre saputo che la sua magia non sarebbe durata a lungo, ma la delusione fu comunque tanta e fece male come un pugno dritto nello stomaco.
«Io e Artù volevamo fargli visita, è possibile?».
«Dovrei chiedere il permesso alla dottoressa. Solo i suoi genitori sono autorizzati a stare con lui, al momento. A proposito, dove l’hai lasciato Artù?».
«Con Abby. Gli sta facendo fare un giro. Mi ha detto di tornare presto, prima che si innamori totalmente di lui».
«Oh Gesù», sussurrò e quello che vide di sfuggita sul suo volto fu il suo primo sorriso.
Sapeva che i motivi per sorridere non erano molti, soprattutto in quel momento, ma aveva comunque la sgradevole sensazione che stesse tenendo le distanze, che volesse allontanarsi da lui ad ogni parola. Ancora una volta Merlino si sentì impotente, come se lei fosse stata sabbia tra le sue dita e il vento gliela stesse portando via senza che lui potesse opporsi.
«Hai cinque minuti?», le chiese, cercando di starle dietro il più possibile.
«Veramente no. E se li avessi, non credo che questo sia il momento adatto per parlare».
«Sei arrabbiata con me, non è vero?».
Alex si fermò così all’improvviso che Merlino rischiò di finirle addosso. Era riuscito ad evitarlo, bloccandosi ad un soffio dal suo viso, e dovette arretrare di fronte all’occhiata tagliente che gli rivolse.
«Mi dispiace deluderti, ma non sei sempre al centro dei miei pensieri. E per cosa dovrei essere arrabbiata, comunque?».
«Per quello che ti ho detto questa mattina, suppongo. Non avrei dovuto, mi dispiace».
Alex sembrò soppesare le sue parole, gli occhi fissi sul suo viso come se dubitasse della sua sincerità, poi abbozzò un sorriso. «Non ce n’è bisogno, non mi sono offesa: so di avere qualche rotella fuori posto. Altrimenti non si spiegherebbe perché sono tua amica, eh».
«Giusto». Merlino tirò un sospiro di sollievo, percependo l’ostilità e la tensione scivolare via poco a poco.
«Sono davvero impegnata, però», gli disse, controllando il cercapersone appeso alla cintura che aveva appena iniziato a trillare. «Possiamo rimandare la chiacchierata?».
«Certo, io non vado da nessuna parte».
A quelle parole l’infermiera aggrottò la fronte, guardandolo di traverso. «Non hai il turno in caffetteria?».
Merlino scosse lievemente il capo. «Mi sono licenziato».
«Come? Quando?», quasi urlò, con gli occhi sgranati per la sorpresa.
«Un paio d’ore fa. Ho deciso di seguire Artù all’agriturismo, sempre se tuo padre e Abraham vogliano prendere anche me. Ma non gliel’ho ancora detto».
Il cercapersone di Alex trillò di nuovo e la sua insistenza fu l’unica cosa in grado di riscuoterla. Mentre si avviava, gettò a Merlino un’occhiata eloquente, traducibile in: “Ne parliamo dopo”.
Aveva quasi girato l’angolo, quando Merlino le urlò dietro: «Per quanto riguarda Steve?».
Alex si fermò e tirò fuori il cellulare da una delle tasche dell’uniforme azzurra, indicandoglielo. Merlino capì al volo che quello stava a significare: “Ti faccio sapere”. Le rivolse il pollice alzato e lei sparì.

 
Prima di tornare da Artù e Abigail, Merlino passò a prendere il suo libro di favole. L’armadietto che gli avevano concesso era nello spogliatoio maschile al piano terra, quello del pronto soccorso, perciò dovette fare un po’ di scale e nel frattempo sperò di non incontrare nuovamente Cathleen: quella volta non avrebbe ceduto fino a quando non avrebbe ottenuto il numero di cellulare di Artù.
Rabbrividendo solo al pensiero di quella stranissima coppia, entrò nello spogliatoio e si diresse direttamente verso il suo armadietto grigio, senza rendersi conto del ragazzo in piedi davanti alla fila opposta, al di là di un paio di panchine di legno.
«Ciao Merlino».
Il mago sobbalzò e si voltò, incrociando lo sguardo di Keith Ellis, un dottore del pronto soccorso che non gli era mai andato particolarmente a genio, forse perché era stato il ragazzo di Alex e l’aveva fatta soffrire come un cane tradendola più e più volte.
Si limitò ad accennare un sorriso, pescando il suo libro da tutto quello che col tempo aveva accumulato nell’armadietto.
«Come sta il tuo amico?», gli chiese ancora Keith. Probabilmente non aveva capito che con lui non voleva avere nulla a che fare.
«Quale amico?».
«Quello che è stato aggredito e che ho visitato, più di una settimana fa».
Solo allora Merlino realizzò che era stato proprio Keith a visitare Artù quando Alex l’aveva steso con una padellata, dopo che lui le aveva dato della strega e le aveva puntato un pugnale alla gola. Preoccupato com’era per le condizioni di salute del suo re, non solo fisiche ma anche psicologiche – gli aveva appena rivelato che Camelot non esisteva più, che tutte le persone a lui care erano morte e che quello era il Ventunesimo secolo – non si era minimamente reso conto che si era trovato di fronte all’uomo per cui Alex aveva versato così tante lacrime.
«Bene, grazie per l’interessamento», rispose freddamente.
«Interesse professionale».
Merlino chiuse l’armadietto con fin troppa forza, facendo vibrare persino il metallo, ma Keith non si arrese e tornò alla carica con la domanda meno appropriata che potesse fare. Lo faceva apposta o era semplicemente scemo?
«Ho sentito dire che Alex ha una cotta per te. È vero?».
«Anche se fosse, non ti riguarda».
«Ah no? Devo per caso ricordarti che volevo chiederle di sposarmi?».
«No, affatto», rispose astiosamente Merlino, guardandolo per la prima volta negli occhi. 
Sentiva la rabbia scorrergli nel sangue e insieme ad essa iniziava ad avvertire una sgradevole sensazione, come se tutto quell’odio stesse facendo cedere una delle tante barriere che aveva innalzato contro la magia, per tenerla congelata ed inoffensiva.
«E non l’hai fatto perché Alex ha scoperto che la tradivi», aggiunse, cercando di calmarsi. «Me lo ricordo bene».
«Sai, mi sono sempre chiesto come abbia fatto», disse, lanciandogli un’occhiata inquisitoria. «Avevo chiuso con Bess da due settimane ormai e fino al giorno prima della cena in cui le avrei fatto la proposta sono sicuro che non avesse mai avuto il minimo sospetto».
«Tutti commettono degli errori», rispose tranquillamente Merlino, con un sorrisino compiaciuto. Quindi, tornando serio, aggiunse: «Non ne commetterei altri, se fossi in te».
Keith assottigliò gli occhi, cercando di dimostrarsi il più calmo possibile nonostante l’ira lo stesse facendo sbuffare come un toro pronto alla carica. «Cos’è, una minaccia?».
Merlino sorrise nuovamente, dirigendosi verso la porta col libro sottobraccio. Prima di chiudersela alle spalle, esclamò: «Un semplice consiglio!».

 
Raggiunse Artù e Abigail nella sala comune, un grande ambiente rettangolare sulle cui pareti erano raffigurati i personaggi dei classici Disney.
Oltre ad un paio di grandi cesti trasparenti stracolmi di mattoncini lego, ad una pila di giochi di società e a diverse scatole piene di pennarelli, matite colorate e risme di fogli di carta bianchi, ad arredare quel grande spazio c’erano un paio di librerie stracolme di libri – dai romanzi ai libricini per i bambini più piccoli, – due piccoli flipper, un televisore circondato da un paio di poltrone e un divanetto e persino un modello non troppo vecchio di computer in un angolo.
Molto di quello che si vedeva in quella sala era stato donato dagli abitanti della cittadina, dai genitori dei bambini e ancora da donatori anonimi, tra cui spesso e volentieri Merlino. Quando si era trattato di qualche libro non c’erano stati problemi, ma quando aveva fatto portare il computer, i flipper e le poltrone reclinabili, allora sì che si era nascosto dietro l’anonimato. Era più sicuro così.
Artù e Abigail erano seduti intorno ad uno dei tanti tavolini bassi, il biondo con la schiena curva e le ginocchia incastrate a malapena sotto al ripiano, e stavano simulando una partita a scacchi. Con la pazienza infinita che solo lei possedeva, Abby cercava di spiegargli le regole base e le mosse di ogni pezzo e Artù annuiva attento, senza mai spostare gli occhi dalla scacchiera bianca e nera. Merlino lo aveva visto così concentrato solo ai consigli di guerra, di fronte ad una mappa. Si appuntò mentalmente di fargli provare Risiko: l’avrebbe adorato.
Il mago avvicinò uno sgabello colorato al tavolino e si sedette tra loro mentre Abigail spiegava: «Bisogna provare a prevedere le mosse dell’avversario ed usarle a proprio vantaggio, come ho fatto io in questo caso: io ho mosso un pedone e tu, mangiandolo col tuo, hai liberato la strada al mio alfiere che ora mangia la tua torre».
«Quindi tu hai… hai sacrificato un pedone per conquistare la mia torre».
«Esatto!», esclamò Abigail, felice che avesse capito il concetto, ma la sua espressione mutò radicalmente quando Artù la guardò in cagnesco.
«Come hai potuto? Sono sicuro che se avessi aspettato, se avessi pensato un po’ di più, avresti trovato un’altra soluzione! E invece l’hai mandato a morire per…».
Merlino gli tappò la bocca con la mano e rivolse un sorriso ai genitori con i loro bambini malati, alle infermiere e al tecnico del distributore automatico, mormorando tra i denti: «Okay, abbiamo capito il concetto. Ora calmati, stai spaventando tutti».
«Mi dispiace, non volevo…», provò a scusarsi Abigail, sulla difensiva, ma lo stregone le posò una mano sul braccio, teneramente.
«Non hai fatto nulla di sbagliato, è lui che è un po’… esuberante». Voltandosi verso Artù, gli scoccò un’occhiata di rimprovero e disse: «È solo un gioco, prendetelo così com’è».
«Questo gioco non mi piace», bofonchiò, facendo cadere il proprio re bianco. Di sicuro non sapeva che quella mossa era equivalente alla resa, altrimenti non l’avrebbe mai fatto.
Merlino non osò spiegarglielo e chiese: «Com’è andato il vostro giro?».
«Tranquillo», rispose Abigail. «Mark dormiva ancora, come pensavo, ma gli ho fatto conoscere Gabriel, Danilo e Jessica. Dovevi vedere le loro facce!». Li imitò, aprendo la bocca il più possibile e sgranando gli occhi in un’espressione esterrefatta. Quindi rise, spazzando via persino il broncio di Artù. «È così simile al re Artù dei tuoi disegni che i più piccoli l’hanno scambiato per quello vero. Poi però ho spiegato loro che l’hai solo usato come modello, ho fatto bene?».
Merlino si chiese perché non ci avesse pensato lui e sorrise, annuendo. «Benissimo. Grazie».
«Tu hai trovato Alex?», domandò Artù, mascherando non troppo il fatto che si preoccupasse dell’andamento della loro amicizia. Lo stregone lo trovò carino, ma strano.
«Sì», rispose giusto un momento prima che Artù, spazientito, gli ripetesse la domanda. «Ha detto che avrebbe chiesto alla dottoressa di Steve se potevamo fargli visita e che mi avrebbe mandato un SMS».
Artù inarcò le sopracciglia e sporse il viso verso il suo, in un silenzioso: «E poi?».
«Non ci siamo detti altro, aveva da fare».
«Scusa se mi faccio gli affari tuoi, ma che cos’altro avrebbe dovuto dirti?», chiese Abigail per la gioia di Artù, il quale rispose prontamente: «Hanno litigato, questa mattina. Ancora».
«Oh, lo sapevo che c’era qualcos’altro…».
«Qualcos’altro? Che vuoi dire?».
Abigail si morse il labbro nervosamente: non avrebbe dovuto dirlo ad alta voce.
«Abby?», la incalzò Merlino, gettandole un’occhiata penetrante.
«E va bene. Ma io non ti ho detto niente, okay? Questa mattina Alex mi ha chiamata per sapere come stava Steve, ma era giù di morale e distratta. Le ho chiesto se fossi tu la causa, ma mi ha liquidata in fretta».
«Perché devo essere sempre io la causa di tutto quello che le capita?», mormorò Merlino, passandosi stancamente una mano sulla fronte.
«Perché è innamorata di te, sciocco, e qualsiasi cosa tu faccia si ripercuote su di lei. Posso chiederti una cosa? È da molto che ho questa domanda, ma mi è sempre sembrato… inopportuno, ecco».
Il mago la guardò e cercò di farle capire che con Artù davanti, che non si perdeva una sola parola, sarebbe stato molto più che inopportuno, ma Abigail non colse i suoi segnali ed annuì mestamente, prendendosi le ginocchia tra le mani.
«Perché non vi mettete insieme? Siete fatti apposta l’uno per l’altra!».
Eccola, la domanda cruciale. Quante volte ci aveva riflettuto, rigirandosi tra le coperte in attesa di un sonno che non sarebbe mai arrivato? Quante volte aveva dovuto ripetere a se stesso che sarebbe stato un enorme sbaglio? Con lui Alex non sarebbe mai stata felice, mai.
Le mani di Abigail, estremamente piccole e pallide, strinsero forte la sua, riportandolo alla realtà. Incrociò i suoi occhi scuri, affascinanti quanto un pozzo senza fondo custode di mille e più desideri, e si sentì immediatamente avvolto da una sensazione di calore.
«Se non fai qualcosa, prima o poi cercherà qualcun altro per dimenticarti. Ma questo non la farà stare meglio, anzi».
Merlino, con le orecchie ben tese, aveva colto, nella sua voce preoccupata e nelle sue parole, diversi campanelli d’allarme. «Qualcun altro chi, per esempio?».
«Beh… Mark dice di aver visto il dottor Ellis gironzolare parecchio da queste parti, ultimamente. Non vorrei che stia provando a…».
Le orecchie gli erano diventate così rosse per la rabbia che Merlino ebbe per un attimo paura che gli schizzassero via dalla testa come razzi. Riuscì a calmarsi solo ripensando alla soddisfazione che aveva provato quando, poco prima, Keith gli aveva fatto capire che aveva intuito che era stato merito suo se la loro cena era saltata e non aveva potuto chiedere ad Alex di sposarlo. Grazie al suo intervento Alex non aveva commesso l’errore più grande della sua vita, e se Keith non avesse seguito il suo consiglio l’avrebbe fatto ancora e ancora. Alex non avrebbe mai più sofferto per colpa sua, poco ma sicuro.
«Merlino, ti senti bene?», gli chiese Abigail, chinandosi verso di lui.
«Benissimo. Abby, me lo faresti un favore? Tu e Mark dovrete tenere gli occhi aperti, d’ora in poi, e dovrete avvisarmi subito, se il dottor Ellis gironzola ancora da queste parti».
Abigail sorrise. «Certo, non c’è problema. Non mi è mai stato simpatico, quel tipo. La mia domanda però…».
«È troppo complicato da spiegare, Abby, sul serio».
La ragazzina si imbronciò e Artù, di fronte a lei, incrociò le braccia al petto, intervenendo stranamente in suo soccorso: «Merlino ha ragione, è complicato. E Alexandra non è una ragazza qualunque, merita il meglio».
Quell’ultima frase fece aggrottare la fronte sia ad Abigail che a Merlino. Quest’ultimo aprì la bocca per ribattere, ma la ragazzina fu più veloce: «Stai dicendo che Merlino non è abbastanza per lei?».
Artù parve accorgersi solo in quel momento dell’errore commesso e tentò di rimediare, balbettando: «No, non è questo che intendevo. È solo che… voglio che sia felice, tutto qui».
«E lo sarà, con Merlino. Dico bene?». Abigail posò gli occhi sullo stregone, ma lui continuò a fissare Artù, cercando di capire che cosa gli passasse per la testa, fino a quando la ragazzina non gli colpì il braccio con un manrovescio, ripetendo perentoria: «Dico bene?».
«Ehm… sì, farò tutto il possibile».
C’era qualcosa che Artù gli stava nascondendo, ne era più che sicuro, e l’idea che stava prendendo forma nella sua mente non gli piaceva per niente. Riuscì a distrarsi solo grazie a Mark.
Con una bandana da motociclista rossa sulla testa, entrò nella sala comune quasi con irruenza, spingendo le porte con entrambe le mani e dando vigorose spinte alle ruote della propria carrozzina. Ogni volta che si riprendeva da una seduta di chemioterapia si dimostrava irascibile, scontroso e pieno di pungente sarcasmo, come se al posto di medicine assumesse veleno, e l’unica in grado di tenergli testa in quei momenti era Alex, la quale non se lo faceva ripetere due volte e gli rispondeva per le rime, facendolo sorridere.
«Ho scommesso con Danilo che non rimarrò a bocca aperta di fronte a questo Artù e non vedo l’ora di avere tutti i suoi dessert del mese per abbuffarmi come un –». Mark si interruppe, incapace di muovere di un solo millimetro la mandibola che gli era quasi arrivata alle ginocchia.
Merlino ed Abigail si scambiarono un’occhiata e scoppiarono a ridere.

 

***

 

Alex si sentiva già esausta, con tutto quel correre su e giù, e non vedeva l’ora di sedersi accanto a Steve come aveva fatto fino a quando la dottoressa non le aveva detto con ben poca grazia di “alzare il culo” e fare il suo lavoro.
Le sue condizioni erano peggiorate, e in fretta. Tanto in fretta che si stava già preparando a dirgli addio per la seconda volta, certa che non ci sarebbe stato un altro miracolo. Merlino avrebbe potuto usare di nuovo la magia, ma sapeva che non l’avrebbe fatto. Lo sapeva punto e basta.
Trovando l’ascensore vuoto e con le porte già aperte si infilò dentro, quindi tirò fuori il cellulare e scrisse a Merlino il famoso SMS. Aveva dovuto sudare meno del previsto per aver l’autorizzazione da parte della dottoressa e nonostante avrebbe preferito non saperlo, quella volta conosceva anche il perché: non c’era più nulla di concreto che potessero fare, a parte rendergli più facile il trapasso in ogni modo possibile, incluse le favole che tanto amava. Steve aveva purtroppo raggiunto la linea dei desideri, oltre la quale tutto ciò che voleva diventava realtà.
Quando arrivò di fronte alla stanza del bambino, di nuovo pallido e solo semi-cosciente a causa del forte quantitativo di antidolorifici, Merlino e Artù non c’erano ancora. Mentre li aspettava guardò Paige e suo marito accarezzargli a turno le mani, le braccia, le guance, i capelli, il mento, con estrema delicatezza e allo stesso tempo la voglia straziante di stringerlo forte, di aggrapparsi al suo esile corpicino in modo che nessuno potesse portarglielo via.
Alex si ritrovò a pensare alla forza dei genitori, al coraggio che ci voleva per decidere di diventarlo consapevolmente. Dopo aver visto il loro dolore e quello di altre mamme e di altri papà, non era così sicura di poter essere altrettanto all’altezza delle aspettative: avrebbe continuamente temuto di sopravvivere anche lei ai propri figli e questo pensiero col tempo l’avrebbe logorata.
La verità era che bisognava essere delle fottute rocce per lasciarli andare per la loro strada, per lasciarli vivere.
«Ehi!».
Alex si voltò verso la voce di Merlino, che spingeva la carrozzina di Mark mentre Artù, al suo fianco, spingeva quella di Abigail. Si sentì stranamente sollevata quando incrociò i suoi occhi azzurri, limpidi come il cielo, e il suo sorriso; finalmente libera dal senso di oppressione che quei pensieri le avevano lasciato addosso.
«Ehi», rispose ricambiando il sorriso.
«Ma tu lo sapevi che questo tipo è identico a re Artù?!», urlò Mark, piuttosto scosso, indicando con il pollice l’Artù che lei aveva ripescato dal lago.
«Io direi piuttosto che il re Artù disegnato da Merlino è identico a lui», rispose, inarcando un sopracciglio. «Di regale e cavalleresco questo qui non ha proprio niente, te l’assicuro».
Artù venne scosso da un fremito di irritazione e aprì la bocca per difendere il proprio orgoglio, ma l’infermiera gli tirò un pugnetto sulla spalla, facendogli l’occhiolino, mentre Abigail sospirava sognante e mormorava, abbastanza ad alta voce perché tutti la sentissero: «Niente a parte l’aspetto».
Mark strinse i pugni sui braccioli della sedia e pestò i piedi, ora furente più che mai. «Avresti dovuto dirmelo!», strepitò con la voce che per lo sforzo gli era salita di parecchie ottave. «Ora dovrò dare a Danilo, per un mese – un mese! – tutti i miei dessert!».
Alex lo guardò per una dozzina di secondi, mostrandosi infinitamente dispiaciuta. Quindi gli posò una mano sulla spalla e con tono sofferto disse: «Mi dispiace molto per la tua perdita».
Tornata in posizione eretta, indicò con un cenno del capo l’interno della stanza e spiegò: «Potrete entrare solo con il consenso dei genitori, ma non avete un limite di tempo. Qualsiasi cosa abbiate in mente… fatelo sorridere, mi raccomando».
«Sarà fatto», le promise Merlino, annuendo solennemente.
Aprì la porta ed entrò per primo, da solo, per chiedere a Paige e a suo marito il permesso di entrare. La donna annuì abbozzando un sorriso, asciugandosi rapidamente le lacrime con i palmi delle mani, e si voltò per indicare a tutti di entrare.
«Abbiamo proprio bisogno di un po’ di compagnia», disse cercando di apparire entusiasta dietro il dolore e la stanchezza.
Alex sorrise incrociando gli occhi di Paige, ma si ritrasse e si apprestò a chiudere la porta quando anche Artù e Abigail furono nella piccola stanza. Merlino la bloccò appena in tempo e si sporse verso di lei in modo così fulmineo che non riuscì a reagire in alcun modo: le posò un bacio sulla guancia, vicinissimo all’angolo delle labbra, e le sussurrò all’orecchio: «Grazie», per poi guardarla negli occhi e sistemarle una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio sinistro.
Ferma immobile come una statua lo guardò scostarsi sorridendo e rientrare nella stanza, chiudendosi poi delicatamente la porta alle spalle.

 

***

 

Non appena si sedette di fianco a Steve – con gli occhi chiusi e il respiro irregolare nonostante i tubicini che gli iniettavano ossigeno direttamente nel naso – e gli prese una manina tra le sue, fu in grado di stabilire precisamente quanto tempo aveva prima che l’effetto della sua magia svanisse del tutto: pochissimo, molto meno di quello che si aspettava. Era quasi impazzito a causa del dolore e per cosa? Un solo giorno in più?
Fu come ricevere un colpo in testa, tanto forte da lasciarlo stordito e senza parole per una dozzina di secondi, e fu solo grazie ad Artù, il quale gli posò una mano sulla spalla, che si riprese.
Cercò di sorridere, accarezzando il dorso della mano di Steve con il pollice. «Ciao, piccolo».
Steve aprì gli occhi lentamente, a fatica, e Merlino sentì il cuore stretto in una morsa rendendosi conto di quanto già fossero opachi e lontani. Ciononostante incurvò le labbra in un sorriso, chiamandolo con un fil di voce.
«C’è qui una persona che vorrebbe conoscerti», disse ancora, prendendo Artù per un braccio ed avvicinandolo a sé, nel campo visivo del bambino.
Tutti, Paige per prima, si lasciarono scappare una risata di gioia in grado di soffocare le lacrime quando Steve lo riconobbe e il suo volto si illuminò, eccitato ed incredulo, di nuovo vivo.
«Re Artù», esclamò.
«È un vero onore per me fare la tua conoscenza», disse Artù, chinandosi per posargli una mano sul capo e sorridergli teneramente. 
Forse era stata solo una sua impressione, ma Merlino avrebbe giurato di aver visto un luccichio nei suoi occhi, come se fossero velati di lacrime.
«Che cosa ci fai qui?», gli chiese ancora il bambino, incantato.
«Sono venuto per te. Non ti lasceremo solo, giovanotto».
Steve sorrise beato, ma era chiaro come il sole che anche solo tenere gli occhi aperti gli costava un’enorme fatica. Così Merlino decise di andare subito al sodo, aprendo sulle ginocchia il suo libro di favole.
«Che ne dici di una favola, Steve? Quale vuoi sentire?».
Il bambino socchiuse gli occhi e soffiò: «Una nuova».
Merlino, che aveva già  iniziato a sfogliare le pagine alla ricerca della sua storia preferita, rimase parecchio colpito dalle sue parole e per un attimo non seppe cosa rispondere. Se c’era un bambino meritevole di una storia nuova, quello era proprio Steve. Ma quale? Tutte le favole che aveva scelto e opportunamente riscritto, riadattandole per il suo giovane pubblico, avevano una morale e soprattutto il lieto fine. Era difficile trovarne un’altra con le stesse caratteristiche, in quel momento.
Poi, alzando gli occhi verso Abigail e Mark e scorgendo sui loro volti la speranza e l’emozione, ricordò quando anche lui aveva avuto la loro stessa identica espressione. Grazie a loro, la storia si delineò perfettamente nella sua mente.
Chiuse il libro di scatto e si voltò verso Steve, sorridendo. «Vi ho mai raccontato della nascita di Aithusa?».
Artù, ancora al suo fianco, corrugò la fronte. «Chi è Aithusa?».
Merlino si morsicò la guancia, pregando perché quella fosse l’ultima volta che Artù apriva bocca, ed incrociò lo sguardo di Abigail mentre rispondeva con voce chiara e precisa, da prima della classe: «Il drago albino di Morgana».
E poi quello di Mark, con gli occhi sgranati per la sorpresa. «Io pensavo che fosse come Kilgharrah: un drago sempre esistito».
Lo stregone ridacchiò. «Kilgharrah era già vecchio quando ha incontrato Merlino per la prima volta, ma suppongo che anche lui sia nato e sia stato un cucciolo, solo che non se ne conoscono i dettagli. Per quanto riguarda Aithusa, invece…».

 
Come aveva sperato, Artù non l’aveva più interrotto. Era stato attento quanto Abigail, Mark, Alex – che li aveva raggiunti quasi a metà – e i genitori di Steve, e Merlino aveva più volte sentito il suo sguardo bruciargli tra le scapole.
Aveva raccontato quasi tutto ciò che era successo davvero: di come Julius Borden, anche grazie all’ingenuità del giovane Merlino, aveva riunito le tre parti del Triskelion, l’antica reliquia necessaria per aprire la tomba di Ashkanar in cui era custodito l’uovo di drago; del lungo tragitto che Artù, i Cavalieri e Merlino avevano dovuto percorrere prima di trovarsi di fronte all’imponente torre contenente il mausoleo, affrontando zuppe troppo salate o avvelenate ed ingannevoli tracce di cervi; dell’incontro di Merlino con i druidi, i quali lo avevano avvisato dei pericoli della tomba, e di come Artù avesse salvato lui e l’uovo, mettendo fuori gioco Julius e portando fuori il suo servitore prima che la torre si sgretolasse su di loro.
Come d’abitudine aveva modificato il finale, dipingendo Artù come il re buono e compassionevole che in quel caso non era riuscito a distruggere l’uovo di quella creatura ancora innocente e che aveva deciso di affidarlo a Merlino perché lo tenesse al sicuro, e il giovane stregone come il solito imbranato e disubbidiente che, ricordando la promessa fatta al Grande Drago Kilgharrah, aveva fatto nascere di nascosto il cucciolo di drago bianco – segno di prosperità per Albione.
Tutto sommato poteva affermare che era riuscito a trovare il giusto lieto fine per la favola di Steve.
Merlino era certo che il re gli avrebbe posto mille domande una volta fuori da quella stanza, ma per una volta non ne era preoccupato: ciò che aveva fatto per quel piccolo drago lo avrebbe rifatto ancora e ancora, senza pentirsene mai. E mai si sarebbe perdonato per averlo perso di vista, permettendogli così di avvicinarsi a Morgana e di subire le atrocità che l’avevano reso triste e malato.
Steve si era addormentato, sfinito, ma gli angoli delle sue labbra erano sollevati come se avesse sentito tutta la storia, sognandola magari. Merlino gli accarezzò dolcemente la fronte e scambiando uno sguardo con Alex si alzò, dirigendosi subito verso Abigail e Mark.
«Sarà meglio lasciarlo un po’ solo adesso, torneremo più tardi».
Quindi gettò un’occhiata anche ai suoi genitori, i quali gli chiesero di rimanere. Non appena Artù e i due ragazzini furono fuori dalla stanza, Paige si aggrappò ancora una volta alle sue spalle, riprendendo a piangere.
«Una storia bellissima, grazie».
«È stato un piacere», mormorò in risposta, riuscendo a percepire il suo dolore nelle dita che stringevano forte la sua felpa, nella sua schiena che tremava sotto le proprie mani.
In corridoio, incontrò subito lo sguardo serio e penetrante di Artù, ereditato senza ombra di dubbio da suo padre Uther. Accanto a lui, Mark e Abigail fecero a gara per raggiungerlo per primi, sommergendolo di domande.
Mark: «Perché Merlino l’ha lasciato libero? Avrebbe potuto crescerlo e addestrarlo per i combattimenti aerei!».
Abigail: «Kilgharrah pensava di essere l’ultimo drago rimasto, possibile che nonostante tutte le sue capacità non sia mai riuscito a recuperarlo?».
Mark: «Mi spieghi come mai Merlino ha scelto un nome così strano? Nessy non andava bene?».
Abigail: «Ma come ha fatto Aithusa a diventare compagna di Morgana? Che cos’è successo?».
Ad un tratto Merlino posò gli indici sulle loro labbra, azzittendoli, e sospirò sollevato. Poi abbozzò un sorriso, dicendo: «Risponderò a tutte le vostre domande, prometto, ma non oggi. Ora andate».
I due ragazzini, visibilmente delusi, fecero dietro-front e si allontanarono lungo il corridoio, scambiandosi ancora dubbi ed opinioni ed eccitandosi al pensiero di essere stati gli unici del loro gruppo, insieme a Steve, ad aver ascoltato una nuova storia di Merlino.
«Perché non l’hai mai raccontata prima?», gli domandò Alex, attirando la sua attenzione.
Merlino scrollò le spalle. «Non pensavo avrebbe avuto tanto successo».
«Beh, per quanto mi riguarda, è la mia preferita. Dopo quella in cui Artù si è ritrovato con le orecchie d’asino, ovviamente».
Lo stregone e Alex si scambiarono un’occhiata complice, mentre Artù incrociava le braccia al petto, oltraggiato.
«Sono solo storie», bofonchiò.
«Giusto», concordò l’infermiera, guardando Merlino intensamente negli occhi. «Immagino le risate di tutti, se fosse successo veramente!».
Il mago si sentì percorso da un brivido di freddo – la sensazione che ormai Alex sapesse – tanto paralizzante che non riuscì ad interrompere il contatto visivo. Solo quando gli passò accanto per superarlo si sentì libero da quella stretta micidiale.
«Vado a vedere se la dottoressa ha di nuovo bisogno di me, ci vediamo dopo».
«Ciao Alex», la salutò Artù, per poi afferrarlo per il braccio e trascinarlo nel bagno lì accanto, dove lo trucidò nuovamente con lo sguardo alla Uther Pendragon.
«Siete arrabbiato perché ho schiuso l’uovo di drago e vi ho mentito e l’ho fatto moltissime volte, lo so. So anche che volete sapere cosa significhi esattamente “moltissime”, ma non credo che ora ques–».
«No», lo interruppe Artù, sollevando una mano.
Lo stregone corrugò la fronte e deglutì. «No?».
«No, Merlino. Voglio sapere se hai modificato tutte le tue storie a mio favore, facendomi fare sempre la parte del giusto, rendendomi meglio di ciò che sono, e perché».
Si scambiarono uno sguardo intenso, lungo svariati secondi, e alla fine Merlino sospirò e sorridendo mesto rispose: «Sì, ho cambiato tutte le mie storie».
«Perché?».
«Perché non volevo dare un’idea sbagliata ai bambini. Io non sono un eroe, non lo sono mai stato».
Artù chinò il capo, rimasto all’improvviso a corto di parole, e quando finalmente le trovò le pronunciò a bassa voce: «Hai cambiato tutte le tue storie eccetto quella delle orecchie d’asino».
«Quella fa ridere sempre tutti», si giustificò Merlino, prima che Artù provasse a tirargli un calcio nel sedere.

 

***

 

Alex non era pronta, se doveva essere totalmente sincera con se stessa, ma continuare a rimandare era inutile. Inoltre, odiava avere questioni in sospeso.
Seduta al piccolo tavolino nella stanza relax degli infermieri, tirò fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scrisse un breve SMS a Merlino perché la raggiungesse. Trascorse quasi cinque minuti cercando di non pensare a niente, senza prepararsi alcun discorso, e dicendosi che qualsiasi cosa Merlino avesse detto avrebbe reagito da adulta, uscendo da quella stanza tutta intera o almeno come vi era entrata.
Quando sentì due veloci colpi alla porta, sobbalzò leggermente e levò di scatto lo sguardo per incrociare il suo.
«Artù ti ha concesso cinque minuti?», gli chiese, sogghignando.
«Sì, ha detto che sarebbe andato alla sala comune. Tu sei in pausa?».
Alex sospirò, passandosi una mano tra i capelli sciolti. «Una cosa del genere. Vieni, siediti».
Merlino la raggiunse al tavolo e si sedette accanto a lei, facendola sentire in imbarazzo come nessun’altro ne era in grado.
Per rompere il ghiaccio e al contempo cercare di andare subito al sodo 
prima che la chiamassero e dovessero rimandare per l’ennesima volta – disse: «Volevi parlarmi?».
«Sì, io…». Merlino esitò, mordendosi il labbro inferiore con fare così incurante da non rendersi nemmeno conto di quanto in realtà fosse sexy. «Ho incontrato Cathleen, prima».
Alex aggrottò la fronte. Questo proprio non se l’aspettava. «La conosci?».
«Non c’è nessuno che non la conosca, visto che, beh, non c’è nessuno con cui non ci abbia provato almeno una volta. Mi ha chiesto se avesse qualche possibilità con te».
«Con me nel senso… Oh, capperi».
Merlino rise, per poi rassicurarla: «Le ho risposto che non è il tuo tipo, perciò dovresti essere a posto».
«Oddio, ci mancava solo lei», esclamò, sorridendo nervosamente e lasciando gli occhiali sul tavolo per iniziare a girarsi una ciocca di capelli tra le dita.
«Perché, hai qualche altro pretendente?».
Alex sentì all’improvviso la gola arsa, ripensando alle avances di Keith, e pensò che magari Merlino aveva sentito qualche rumor in proposito. In quel caso, se davvero era intenzionato a capire se il suo ex fosse tornato alla carica, c’era solo un perché. Poteva essere solo curioso, o preoccupato per lei, ma il suo cuore batteva forte sperando che in realtà fosse geloso.
Quindi si fece coraggio e sorridendo rispose: «Già, con tutto quello che è successo mi è passato di mente. Keith mi ha chiesto di bere una cosa con lui, ma non accadrà mai».
«Ah, lo spero proprio! Dopo quello che ti ha fatto, ha avuto proprio una bella faccia tosta. Piuttosto che vederti di nuovo con lui, ti darei la mia benedizione persino con Artù».
«Artù?!», urlò, gli occhi sgranati per l’incredulità. «Ma come ti è venuto in mente? Finiremmo per ucciderci a vicenda!».
«Questo è vero. Comunque meglio morta che con Keith».
Alex accennò un sorriso, venato d’amarezza perché Merlino non si era nemmeno azzardato a proporsi come suo pretendente. Forse doveva accettare il fatto che la considerasse solo un’amica, la sua migliore amica, e volesse soltanto il suo bene, ma ogni volta che ci provava le tornava alla mente il bacio che le aveva dato nel bagno della caffetteria della signora Begum.

A proposito della signora Begum… «Okay, basta parlare di ex e assurdi spasimanti. Spiegami perché ti sei licenziato così, di punto in bianco».
«Non è stata una decisione presa a cuor leggero», ammise Merlino, guardandosi le mani unite sopra la superficie del tavolino. «Nonostante il caratteraccio della signora Begum, mi piaceva la caffetteria. E anche lei mi è sembrata dispiaciuta, in fondo in fondo. Molto in fondo. Ma non potevo lasciare Artù da solo, non dopo essere stati separati per così tanto tempo. Così le ho telefonato e le ho spiegato la situazione. Nei prossimi giorni andrò alla caffetteria per ufficializzare la cosa».
Ancora una volta, Alex fu colpita dall’affetto che Merlino nutriva per Artù. Aveva come la sensazione che si sarebbe gettato nelle fiamme per lui, e che avrebbe volontariamente sacrificato la propria vita in cambio della sua.
«Ho capito. Ne parlerò con mio padre, ma penso che non ci saranno problemi».
«Grazie, Alex. Per lui è importante rendersi utile, mettersi al servizio dei più deboli ed indifesi…».
«Ah, i bambini con cui avrà a che fare non sono né deboli né indifesi, questo te lo posso garantire. È probabile che dopo un paio di settimane avrà già perso tutto l’entusiasmo».
«Estremamente probabile, ma finché sarà felice lo sarò anch’io».
Si scambiarono un’occhiata, sorridendo, ma quando il silenzio divenne troppo pesante entrambi guardarono la superficie del tavolino, luogo di lunghissime e tesissime partite a carte durante le notti più tranquille.
Ad un tratto Alex ne ebbe abbastanza e ripescando il suo coraggio disse: «Tutto qui? Mi sembrava che mi dovessi dire qualcosa di più importante, prima».
«In realtà…». Merlino sospirò ed abbandonò la schiena contro lo schienale, come se il peso di tutte le parole non dette tra loro fosse diventato alla fine troppo gravoso per poterlo sorreggere. «Non abbiamo più avuto modo di parlare di quello che ha detto Artù e di quello che è successo alla caffetteria».
«Sì, hai ragione. Credo sia tempo».
Alex respirò piano, ma profondamente, e ad occhi socchiusi si preparò ad aprire come a chiudere completamente il proprio cuore.
«Credo che Artù abbia frainteso i miei sentimenti nei tuoi confronti, Alex. Gli ho parlato molto di te, ma non ho mai specificato che il mio amore per te è come quello che prova un fratello per la propria sorella. Sei la mia migliore amica, al pari di Artù sei ciò che di più importante e bello ci sia nella mia vita, e non voglio perderti per nessun motivo. E lo so che ti faccio soffrire e che a volte mi comporto come uno stupido, mi dispiace davvero tanto».
«Se tutto quello che hai detto è vero», balbettò Alex, sentendo le lacrime affluirle agli occhi inarrestabili, a dispetto della reazione da adulta che si era ripromessa di avere. «Se è vero, allora che significato ha quel bacio?».
«Suppongo volessi… provare. Mi sei sempre piaciuta, Alex, ma fino ad allora non sapevo con chiarezza in che modo. Ora lo so, ora mi rendo conto che diamo il nostro meglio come amici».
«Quindi il problema sono io? Cos’è, bacio male per caso?».
Iniziava a sentire la rabbia bruciarle nelle vene, una rabbia insensata eppure dolorosa quanto la delusione e la tristezza che quelle parole le avevano piantato nel cuore.
«No, certo che no», rispose Merlino, tranquillo come non l’aveva mai visto e con gli occhi azzurri così dolci e saggi da farle venire i brividi. «Al contrario, il problema sono proprio io. Tu meriti il meglio, Alex, e io non sono abbastanza per te».
Alex non ne poteva più delle sue frasi fatte, delle sue bugie e delle sue stronzate. Stava per urlargli contro, furiosa e dilaniata, quando si ricordò – appena in tempo – che aveva un’ultima occasione per dimostrarsi matura. Si alzò in modo composto e dall’alto incrociò il suo sguardo, cercando di dimostrarsi fiera e per nulla ferita, aprendo completamente il cuore anziché chiuderlo come la spingeva a fare la sua ragione resa cieca dal dolore.
«Sì, forse è vero che tu non sei abbastanza: non sei abbastanza bello, non sei abbastanza bravo negli sport, non credi abbastanza in te stesso, ma non puoi dire che non sei abbastanza per me perché non sei abbastanza onnisciente per farlo. A volte mi chiedo perché mi sia affezionata in questo modo a te, mi chiedo perché il colpo di fulmine non mi sia capitato con qualcun altro, uno qualsiasi, e vorrei far finta che tu non sia così importante, ma la verità è che è tutto inutile». Tirò su col naso, rumorosamente. Le lacrime alla fine abbatterono ogni sua barriera, scorrendole lungo le guance, e si sentì così piccola e stupida che pensò che non avrebbe mai potuto dimostrarsi adulta e matura perché dopotutto non lo era: ragionava col cuore, più che con la testa, e non è così che avrebbero dovuto comportarsi gli adulti. Merlino era un adulto, nonostante la faccia da ragazzino, così impassibile di fronte alla sua dichiarazione d’amore. O forse no.
Immobile, senza più le forze per scappare o reagire in qualsiasi modo, lo guardò alzarsi e andarle incontro. Le posò le mani sulle guance e le passò i pollici sotto gli occhi, spazzando via lacrime e mascara nero, poi la strinse forte a sé, puntando il mento sopra la sua testa.
«Non andrà a finire bene», sussurrò e Alex rischiò di non sentirlo, col viso premuto contro il suo petto magro e il cuore che le rimbombava nelle orecchie. «Prendi il libro più triste che tu abbia mai letto, uniscilo al film più triste che tu abbia mai visto e eleva tutto alla seconda».
Dato che i libri e i film tristi erano il suo pane quotidiano, non fu affatto difficile per Alex capire quanto quella situazione agli occhi di Merlino sembrasse tragica.
«È così tanto sbagliato volerti bene?», gli chiese, ormai senza più vergogna.
«Fallo, più forte che puoi, ma fallo lontano da me».
Il cuore le si fermò, letteralmente, per diversi secondi. Poi Alex scostò il viso quanto bastava per incrociare i suoi occhi, ora specchio della sua anima spezzata.
«Tutti quelli che amavo sono morti», confessò Merlino, guardando il soffitto forse per non piangere. «Non voglio aggiungere il tuo nome alla lista».
«Fottiti, Merlino. Sono troppo giovane e simpatica per morire».
Il moro abbassò finalmente gli occhi, spalancati per la sua risposta. Troppo audace e sfrontata? Troppo ironica in un momento così carico di sentimentalismo? Se c’era una cosa di cui Alex non aveva paura era proprio la morte, perciò sì, che si fottesse pure l’angelo con la falce.
«Che c’è?», gli chiese, stirando persino un sorriso.
«È per caso una delle tue citazioni che io non colgo?».
Solo in quel momento Alex pensò a Dean Winchester alle prese con la Morte, e dovette ammettere che probabilmente gli sceneggiatori di Supernatural l’avevano un po’ traviata.
«Sono piuttosto sicura non abbiano usato le stesse parole, ma in ogni caso non è stato volontario».
Merlino sorrise a sua volta, tenendola ancora tra le braccia. «Il mondo senza di te sarebbe un posto freddo e meno nerd».
La rabbia e il dolore erano improvvisamente scomparsi e Alex aveva come il sospetto che fosse perché Merlino si era mostrato finalmente per ciò che era: un ragazzo spaventato, spaventato dai suoi stessi segreti, dai fantasmi del suo passato. E a questo punto non le importava più come, tutto ciò che voleva era stargli vicino. Come fidanzata sarebbe stato meglio, ma…
«Cosa proponi di fare?», gli chiese, percorrendo con le mani le sue braccia e percependo il brivido che scosse il mago come se fosse proprio. Lo guardò in viso leggendovi desiderio e vergogna legato ad esso e lei stessa, per aiutarlo a tornare in sé, si scostò sciogliendo l’abbraccio.
Merlino tornò a respirare regolarmente e guardò altrove, forse troppo imbarazzato e preoccupato che potesse penetrare di nuovo nei suoi illeciti pensieri.
«Vorrei che non ne parlassimo più, che ci comportassimo come se non fosse mai successo niente in quel bagno».
Alex avrebbe conservato gelosamente quel ricordo, non l’avrebbe mai abbandonato, ma per farlo contento annuì. «Va bene».
«Va bene?», ripeté, sospettoso.
«Vuoi che firmi un accordo col sangue?».
Merlino negò col capo, mordendosi un sorriso. «Grazie, Alex».
L’infermiera sbuffò. «Okay, siamo stati fin troppo melensi, finiamola qui».
«Peccato, iniziava a piacermi l’Alex Piagnucolona Bisognosa d’Affetto».
Stava per tirargli un pugno sul braccio, senza trattenersi quella volta, quando Paige, accompagnata da una delle colleghe di Alex, bussò alla porta e sorrise incrociando lo sguardo di Merlino.
«Eccoti qui, finalmente. Posso rubartelo per un attimo?».
«Tutto tuo», esclamò Alex sorridendo, lasciandoli soli.
Merlino aveva detto che Artù sarebbe andato alla sala comune e decise di raggiungerlo. Mentre camminava lungo i corridoi, facendo del proprio meglio per celare i segni delle lacrime e mandando via il timore di essersi messa a nudo un po’ troppo, dimostrandosi così vulnerabile, ripensò a quello che Merlino le aveva detto.
Ci aveva provato, aveva fatto un ultimo tentativo prima di cedere, dicendo che ciò che provava per lei era solo amore fraterno. Era l’ennesima balla, ne era sicura, ma non era più arrabbiata con lui: c’era un motivo se continuava a comportarsi in quel modo, a non voler legami affettivi troppo forti, ed iniziava ad intuire quale fosse. Aveva detto che tutte le persone che amava erano morte e nonostante Merlino pensasse chiaramente che la colpa fosse sua, Alex non gli avrebbe mai permesso di credere che anche lei avrebbe fatto quella fine. Non ora che finalmente si stava avvicinando alla verità, sempre più chiara di fronte ai suoi occhi.
Trovò Artù proprio nella sala comune. Aveva portato una seggiola per bambini di fronte ad una delle pareti e fissava il muro con aria assente, la mente lontanissima nel tempo e nello spazio. Assorto com’era nei suoi ricordi, non si accorse nemmeno di Alex alle sue spalle, anche lei con gli occhi fissi su quei due famosissimi personaggi Disney.
Guardando l’immagine di quel Merlino vecchio, con la barba bianca lunghissima, il vestito blu e il cappello a punta, si chiese se al vero Merlino piacesse quella versione di sé o se si fosse mai sentito offeso. Si domandò inoltre cosa ci fosse di vero nei miti e nelle leggende riguardanti Camelot, Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda, rabbrividendo al solo pensiero che forse, un giorno, avrebbe potuto parlarne apertamente con i diretti interessati, coloro che avevano vissuto quell’epoca e chissà come e chissà  perché erano tornati nel Ventunesimo secolo.
«A che pensi?», gli domandò finalmente. 
Artù trasalì e si voltò di scatto, guardandola con un pizzico di irritazione nello sguardo.
«Da quanto tempo sei qui?».
«Un po’. Allora, c’è qualcosa che vuoi chiedermi?».
La fronte di Artù si increspò di rughe di sospetto e Alex trattenne un sorriso compiaciuto. Chissà  per quanto tempo avrebbero continuato a mentirle per tenere nascosto il loro segreto, chissà le loro facce quando si sarebbero resi conto che aveva già capito tutto quanto!
«Hai mai visto questo cartone animato?», gli chiese, inginocchiandosi al suo fianco ed indicando col capo le figure dipinte sulla parete. Artù si limitò negare, mordendosi le labbra.
«Te lo farò vedere, allora. Ci dovrebbe essere la cassetta, qui da qualche parte. Ma li hai riconosciuti, no? Sono famosissimi!».
«Ho riconosciuto quella», disse, indicando la spada conficcata nella roccia.
«La magica Excalibur, uh?».
Artù aprì la bocca, ma i suoi occhi si velarono ancora una volta, lasciando in sospeso qualsiasi cosa avesse voluto dire.
Alex gli circondò le spalle con un braccio e gli sorrise, posando una tempia contro la sua. «Questo cartone l’ho guardato un sacco di volte, quand’ero piccola. Penso fosse uno dei miei preferiti, dopo Hercules e Anastasia. Era bello poter credere che anche un ragazzino orfano e mingherlino, senza particolari doti né sangue blu, potesse diventare tanto importante».
Artù la guardò negli occhi per quella che sembrò un’infinità, poi si voltò di nuovo verso la parete e mormorò: «Non è andata così».
«Probabilmente, ma tutti hanno bisogno di sperare in qualcosa».
«E tu che in che cosa speri?».
Alex scrollò le spalle, facendo una pernacchia sospirando. «In una cura per il cancro? Non lo so. Io so solo di essere fortunata: sto bene, ho un lavoro che mi piace, un tetto sulla testa, mio padre e dei buoni amici. Un po’ strani, sì, ma buoni». Sorrise, scorgendo con la coda dell’occhio l’espressione stupita, quasi imbarazzata, di Artù. Aveva capito che stava parlando di lui e Merlino. «Spero che tutto questo non cambi mai, ecco. Tu, c’è qualcosa in particolare in cui speri?».
Artù chinò il capo fino a prenderselo tra le mani, le spalle scosse da un lieve tremore che fece sobbalzare Alex. Artù era stato travolto dall’emozione e se lo conosceva bene – e sentiva che era così – sapeva che non avrebbe voluto la sua compassione né pacche sulle spalle, ma solo solitudine. Ciononostante non riuscì a lasciarlo lì, seduto su quella sedia troppo piccola e con il suo piccolo sosia dipinto sul muro.
«Vuoi sapere davvero che cosa spero?», le chiese con un fil di voce, in cui c’era sia risentimento che dolore.
Alex deglutì e lasciò che le ginocchia toccassero il pavimento, così che potesse strisciarle fino a trovarsi di fronte a lui. Gli posò le mani tra i capelli biondi, rendendosi conto in una frazione di secondo che erano biondi tali e quali ai suoi, e li accarezzò piano, incerta.
«Prometto che questa volta non ti prenderò in giro», disse, nel vano tentativo di stemperare la tensione.
Artù sollevò la testa e i suoi occhi, blu come il mare e lucidi di lacrime, fissarono i suoi con tanta intensità che Alex ebbe voglia di piangere ancora, solo per tenergli compagnia e dirgli: «Vedi, non sei solo». Si sentiva così vicina a lui certe volte, così complice e simile a lui, e davvero non se ne capacitava. Era un sentimento che la lasciava stordita, ammutolita. Come poteva essersi affezionata a quell’imbecille in così poco tempo, sentendosi così responsabile per lui e allo stesso tempo così inadeguata al suo fianco, come se non fosse alla sua altezza?
«Ogni mattina spero di svegliarmi e di essere a casa, con la mia famiglia. Spero che tutto questo sia solo un brutto sogno».
Alex non l’aveva mai visto così fragile, pronto a rompersi in mille pezzi davanti a lei, e ricordò che giusto poco prima aveva visto la stessa fragilità negli occhi di Merlino. Che quella fosse anche la speranza di Merlino? Quanto avevano dovuto perdere e soffrire prima di ritrovarsi, cambiati dalla sofferenza e dal mondo che, nonostante tutto, aveva continuato a girare incurante?
All’improvviso ricordò la battuta che aveva fatto qualche giorno prima, di ritorno dall’agriturismo della famiglia Morris: «Ah già, dimenticavo… Il tuo cuore apparterrà a Ginevra per l’eternità». Solo ora si rendeva perfettamente conto di aver aperto una ferita con quella stupida presa in giro.
Alex non ci pensò su troppo, sicura che se l’avesse fatto non ne avrebbe più avuto il coraggio, e gli gettò le braccia al collo. Lo sentì irrigidirsi e poi, lentamente, rilassare le spalle e abbandonarsi contro di lei, la fronte contro la sua spalla sinistra. Le sue braccia forti la circondarono con delicatezza, come per paura di farle male oppure perché erano secoli che non abbracciava qualcuno, e Alex sentì un piacevole calore lambirle il cuore, facendola sentire al posto giusto, sicura e protetta come si sentiva da piccola tra le braccia di suo padre.
«Quando mia madre è morta, anche io speravo sempre di svegliarmi e di trovarla in cucina, intenta a prepararmi la colazione. Ad un certo punto però mi sono ricordata che quando facevo un incubo e andavo a rannicchiarmi al suo fianco, da bambina, mi diceva che spetta a noi trasformare gli incubi in bei sogni. Mi diceva di chiudere gli occhi, di rientrare nell’incubo e di affrontare qualsiasi cosa mi facesse paura, in modo che non tornasse più a disturbarmi. Avevo paura di non farcela senza di lei, di essere un totale fallimento, così mi sono impegnata al massimo per raggiungere i miei obiettivi e lo sto tutt’ora facendo, giorno dopo giorno. Sto cercando di trasformare l’incubo in un bel sogno e spero che sia fiera di me, ovunque lei sia. Credo che dovresti farlo anche tu».
Artù la guardò negli occhi e ancora una volta Alex provò quella sensazione di familiarità che le risultava così strana. Le sembrava di conoscerlo da una vita, di amarlo e di odiarlo da un’eternità, tanto da chiedersi se la pazzia non la stesse soggiogando del tutto.
«Alexandra Greenwood», pronunciò il suo nome in tono quasi solenne, facendola sussultare. «Merlino aveva ragione: sei davvero una ragazza di buon cuore».
«Ah sì? Lo sai che si dice delle persone di buon cuore?».
Artù si accigliò. «No. Che cosa?».
«Che pur di rendere felici gli altri sacrificano tutto e ottengono ben poco in cambio. E che sono bersagli facili per chi il cuore non ce l’ha e raramente c’è un lieto fine ad attenderli».
«Sono d’accordo», mormorò Artù, guardando l’immagine di quel Merlino vecchio e un po’ pazzo dipinta sul muro.
«Artù!», gridò il loro Merlino, venendo subito fulminato dalle infermiere che erano di turno in sala comune.
Lui ed Alex si scambiarono un’occhiata, sorridendo sghembi, e guardarono il moro raggiungerli di corsa, chiedendo silenziosamente scusa con le mani unite a mo’ di preghiera.
«Che cos’è successo?», domandò Artù, alzandosi in piedi.
«Si tratta di Steve», spiegò, col fiato corto.
Anche Alex allora si sollevò, preoccupata. «È ancora stabile, vero?».
«Sì, ma sua madre… Paige mi ha chiesto un favore e solo Artù può farlo».
«Fare che cosa? Merlino, spiegati!».
Il moro prese un respiro profondo e tutto d’un fiato disse: «Steve ha chiesto di diventare un Cavaliere della Tavola Rotonda».
Artù sgranò gli occhi e Alex rimase a bocca aperta.

 

***

 

«Lo so che è assurdo, ma da quello che ho potuto capire Steve ha sempre preso molto sul serio le tue storie. Crede persino che il tuo amico sia davvero Re Artù… Incredibile, vero? La dottoressa però ci ha appena detto che queste potrebbero essere le sue ultime ore di veglia, poi il dolore sarà così intenso che dovranno somministrargli un quantitativo di farmaci che gli impediranno di restare sveglio e…».
A quel punto la madre di Steve era scoppiata in lacrime, sorretta dal corpo di suo marito, e Merlino le aveva preso le mani tra le sue, promettendole che in un modo o nell’altro avrebbero esaudito l’ultimo desiderio di Steve: l’avrebbero reso un Cavaliere di Camelot.
Mentre raccontava tutto questo ai due amici, non riusciva a togliersi dalla testa ciò che aveva visto non appena si era affacciato alla sala comune: Alex inginocchiata davanti ad Artù, i loro visi più vicini del necessario e i loro sguardi incatenati, come se avessero appena condiviso qualcosa di unico ed irripetibile, in grado di legarli con un filo invisibile ed indistruttibile.
Quando aveva parlato con Alex e aveva fatto quell’uscita su Artù aveva capito che almeno da parte sua non c’era alcun interesse verso di lui, ma la gelosia di fronte a quella scena l’aveva colpito come una freccia avvelenata, facendogli pensare che se Artù era davvero interessato a lei avrebbe fatto di tutto per averla e ce l’avrebbe fatta, come era successo con Ginevra. Poi la ragione era tornata a prevalere nel suo cervello, facendogli realizzare che Artù non si sarebbe mai permesso di mettersi tra lei e Merlino, non sapendo quanto in realtà il mago fosse affezionato a lei. Più di una volta l’aveva spronato ad avvicinarsi ad Alex, ma nell’ultimo periodo, specialmente poco tempo prima, di fronte ad Abigail, gli aveva dato modo di pensare che fosse particolarmente attento a tutto ciò che la riguardava. Un po’ troppo per i suoi gusti, iniziando a risultare persino sospetto ai suoi occhi.
Il re lo prese per il braccio e bruscamente lo allontanò da Alex, parlandogli piano e allo stesso tempo in tono concitato all’orecchio: «Ti rendi conto che un’investitura è una cosa seria, Merlino?».
«E l’ultimo desiderio di un bambino non lo è?», rispose, fulminandolo con lo sguardo.
Artù boccheggiò per un istante, poi respirò profondamente facendo sibilare l’aria tra i denti. «Anche se fossi disposto a farlo, non ho gli abiti adatti né tantomeno la mia spada!».
«Di questo me ne occuperò io», esclamò con un sorriso a trentadue denti. «Allora, lo farete?».
Il re fu costretto a cedere, dondolando il capo su e giù senza molta convinzione. Merlino provò ad abbracciarlo, senza ovviamente riuscirci, quindi lo spinse fuori dalla sala comune: «Voi ed Alex iniziate ad andare, io vi raggiungo tra poco con tutto il necessario».
Si voltò e rischiò di sbattere proprio contro l’infermiera. Le sorrise imbarazzato, sentendosi non proprio a suo agio dopo le loro confessioni, ma fu sollevato nel notare che lei si sentiva proprio come lui. Non a caso abbassò gli occhi e si spostò senza dire nulla, seguendo Artù lungo il corridoio.
 

***

 

Artù non avrebbe mai immaginato che Alex potesse essere così di conforto, soprattutto tenendo conto che erano lontani parenti e lui non era mai stato bravo in questo. Poteva incitare milioni di soldati a lottare per Camelot, convincerli che morire sarebbe stato un grande onore, ma dopo, a battaglia finita, vinta o persa, non era mai riuscito a guardare le famiglie di quei soldati che per lui, per il suo regno, avevano dato la vita. Non avrebbe retto di fronte al loro dolore, così come pensava che non avrebbe retto di fronte ai genitori di Steve se si fosse prestato a fare quella pazzia.
Un tempo l’investitura era una delle cerimonie più sacre e lui stesso, quando aveva nominato Cavalieri diversi uomini che non avevano tutti i requisiti necessari ad esserlo – la nobiltà, in particolare – si era sentito vagamente in colpa. Col tempo aveva capito di aver fatto la scelta giusta, perché quegli stessi uomini si erano mostrati i più valorosi, coraggiosi e – caratteristica più importante – nobili di cuore che Camelot avesse mai avuto.
Ora, davanti a quel bambino che presto li avrebbe lasciati e che in qualche modo chiedeva di sentirsi importante, Artù pensava che non ce l’avrebbe fatta. Mentire di fronte al dolore era una specialità di Merlino, ma era consapevole che quella responsabilità toccava a lui e che non poteva tirarsi indietro: se suo figlio, in punto di morte, avesse avuto lo stesso desiderio, non l’avrebbe forse accontentato?
«Andrà bene, vedrai», disse Alex come se avesse seguito per filo e per segno tutti i suoi pensieri. Sorrideva incoraggiante e gli dava lieve pacche sull’avambraccio. «Merlino è un vulcano di idee, quando si mette d’impegno».
Artù avrebbe voluto ridere, perché per un attimo aveva pensato che Alex pensasse che lui fosse all’altezza della situazione, ma ovviamente non era…
«E poi tu hai proprio l’aspetto e il portamento di un re, sarai credibilissimo».
Costretto a rimangiarsi tutto in tempo record, le sorrise gentilmente. «Grazie, Lady Alex».
«Lo vedi? Ti viene naturale!».
Artù chinò il capo, fissandosi le scarpe da ginnastica – quanto gli avrebbero fatto comodo a Camelot! – fino a quando non trovò il coraggio di dire, a bassa voce: «Vale anche per prima. Non eri costretta a starmi a sentire, io… Non sono molto in me, credo».
«Strano», mormorò Alex, stringendosi le braccia al petto con un’espressione corrucciata sul volto. «Perché non mi sei mai sembrato tanto sincero».
«Può darsi che lo fossi, ma tu non eri obbligata a… Mi dispiace molto per tua madre». Finalmente era riuscito a dirlo. Alex si era confidata con lui dopo nemmeno dieci giorni, senza neanche sapere chi fosse veramente, e gli faceva specie pensare che con Merlino le ci erano voluti ben quattro anni. Che il loro legame fosse così forte, come aveva detto Freya?
«E sono sicuro che se fosse qui, sarebbe orgogliosa di te. Sei tutt’altro che un fallimento, credimi».
Quella volta fu Alex a sfuggire al suo sguardo e fu aiutata anche da Merlino, il quale girò l’angolo e corse verso di loro con quella sua andatura un po’ sbilenca, come se ad ogni passo rischiasse di cadere. Con la coda dell’occhio notò Artù sorridere sghembo guardandolo e si chiese se era sempre stato così: il principe bravo con le armi, viziato e sbruffone e il servitore impacciato e pronto a correre di qua e di là per lui, causando un guaio dopo l’altro. Riusciva ad immaginarseli così bene che non si accorse nemmeno che Merlino li aveva ormai raggiunti e le stava parlando.
Solo quando le schioccò le dita ad un palmo dal naso tornò alla realtà. «Che cosa?».
«Bentornata», la salutò con un sorriso divertito. «Pensi di poter recuperare un cuscino?».
Alex corrugò la fronte, non capendo a che cosa mai potesse servirgli un cuscino. Merlino non le diede il tempo di parlare e sventolando una mano aggiunse: «Ti aspettiamo qui».
L’infermiera annuì sistemandosi gli occhiali sul setto nasale e corse allo ripostiglio più vicino, dove trovò una collega intenta a rifornire il proprio carrello con lenzuola e federe pulite. Le rivolse un rapido sorriso ed afferrò un cuscino, poi tornò di corsa da Merlino ed Artù, trepidante ed emozionata come quando al liceo tutto il gruppo di teatro, unanime, aveva votato perché lei avesse la parte da protagonista nella recita di fine anno. Solo che quella volta c’era ben altro in ballo e molto probabilmente nulla di quello che avrebbe visto sarebbe stato pura finzione. A partire dai costumi.
«Fate attenzione, l’ho appena ritirato dalla lavanderia», esclamò Merlino più che preoccupato, mentre Artù finiva di allacciarsi il lungo mantello rosso con il grande drago dorato cucito su un lato.
«Non l’hai lavato tu? Ecco perché è più profumato e morbido del solito».
«Molto divertente», rispose Merlino con una smorfia sul volto. In quel momento si accorse di Alex a qualche metro da loro e il suo volto si illuminò quando vide il cuscino che teneva tra le mani.
«Quello andrà benissimo, grazie!», esclamò, ma Alex non fu in grado né di rispondere né di smettere di guardare Artù, tutt’altra persona – o meglio, veramente se stesso – avvolto in quelle onde di fuoco liquido. Provò ad aggiungergli con la mente l’armatura che gli aveva visto addosso quando l’aveva tirato fuori dal lago e la corona e sentì il proprio cuore saltare un battito.
«Ehm…». Merlino tossicchiò e Alex abbassò gli occhi sul cuscino che teneva ancora stretto tra le mani, tanto forte che il moro non era riuscito a strapparglielo via.
Mollò di scatto la presa e Merlino barcollò all’indietro, ma non cadde.
«Scusa», esclamò Alex portandosi una mano alla bocca, rossa come quel dannato mantello. «Non volevo, io… Quello è lo stesso mantello che indossava quando… sì, beh, al lago. Non è così?».
«Sì, è proprio quello», rispose Merlino con un tono leggermente diffidente, guardando Alex e Artù come se stesse assistendo ad una partita di ping-pong truccata, cercando di intuire chi dei due stesse imbrogliando e perché.
«Stavo pensando che la lavanderia ha fatto proprio un ottimo lavoro», disse, facendo del suo meglio per risultare convincente. «Dove hai detto che sei andato?».
Merlino scosse il capo con convinzione e Alex capì di essersi salvata in corner quando esclamò: «Non è questo il momento», per poi dirigersi verso le poltroncine a muro su cui aveva lasciato una spada giocattolo e una corona gonfiabile, sicuramente sgraffignate di nascosto dalla sala comune.
«Io quella non la metto», affermò con decisione Artù, indicando la corona di plastica.
«Quanto sei difficile», borbottò Merlino, roteando gli occhi.
Quindi posò la spada sul cuscino con fare quasi solenne e lo sollevò, pronto ad entrare nella camera di Steve. Artù però lo fermò stendendo il braccio di fronte al suo petto magro, su cui sbatté senza troppi complimenti, togliendogli per un attimo il fiato. Prese la spada con una mano e la esaminò per diversi, lunghissimi secondi.
«Mi stai prendendo in giro?», gli chiese poi, guardando Merlino quasi con ira. Alex non poteva dargli torto, visto che quella era chiaramente la versione giocattolo di una katana, una spada per samurai giapponesi: a lama curva, sottile e con taglio singolo. Ben diversa da Excalibur o da qualsiasi arma i Cavalieri della Tavola Rotonda avessero mai visto.
«Questa era l’unica che c’era e ce la faremo bastare!», decretò Merlino con tono da non ammettere repliche, guardando Artù negli occhi con così tanta determinazione che questo ebbe la forte tentazione di infilzargli la finta katana in un occhio.
«Andrà alla grande!», urlò Alex saltando all’improvviso in mezzo a loro, con entrambi i pollici alzati e un sorriso teso sulle labbra.

 

***

 

Il tempo si fermò e il silenzio inghiottì ogni suono quando Merlino porse ad Artù il cuscino con sopra la spada. Il re l’afferrò ed incrociò gli occhi azzurri di Steve, seduto sul letto grazie al sostegno di Alex e sua madre.
«Con i poteri a me conferiti da mio padre, io, Artù Pendragon, tuo re, ti nomino Sir Steve, Cavaliere di Camelot», disse con il tono di voce solenne e serio consono alla cerimonia, mentre con lentezza calcolata posava il piatto della spada sulle spalle del piccolo Steve.
Dopo averla restituita a Merlino, si sedette al suo fianco e gli sollevò il mento con delicatezza perché i loro sguardi si fondessero nuovamente. E con una mano posata sul suo capo, tra i suoi capelli biondi, concluse: «Quando combatterai, dovrai farlo con orgoglio, sapendo che ora appartieni al più nobile esercito che il mondo abbia mai conosciuto. E di fronte alla morte non dovrai temere, perché il tuo animo continuerà a vivere nel cuore dei tuoi compagni. Ci darà forza quando non ne avremo abbastanza per rialzarci, ci darà speranza quando tutto sembrerà perduto e sarà la luce che rischiarerà l’ora più buia».
Quindi fece segno ad Alex e a Paige che potevano farlo sdraiare nuovamente. Artù però non si allontanò, anzi: quando finirono di rimboccargli le coperte si slacciò il lungo mantello rosso con lo stemma dei Pendragon e glielo adagiò sopra, posandogli un bacio sulla fronte prima di risollevarsi e rimanere lì al suo fianco ad osservare il sorriso che per l’ultima volta avrebbe illuminato il suo viso dolce ed innocente.
Merlino chinò il capo in segno di rispetto e quando lo rialzò, quasi un minuto dopo, notò che ancora una volta il tempo si era fermato, pietrificando tutte le persone presenti nella stanza: Alex e il padre di Steve, ai lati di una Paige devastata; Artù accanto al lettino del bimbo; la dottoressa in camice bianco che, in un angolo, aveva insistito per vedere il compimento dell’ultimo desiderio di Steve.
Fu solo per caso che Merlino si voltò e vide, oltre il vetro trasparente, Mark, Abigail, Danilo, Jessica, Gabriel, gran parte degli infermieri del reparto e persino Cathleen con un paio di suoi colleghi paramedici. Tutti con le lacrime agli occhi, tutti in lutto, ma anche loro immobili come statue.
Merlino si girò nuovamente verso Steve e il suo stesso sguardo gli sfuggì per posarsi su Alex, la quale lo stava guardando sgomenta, facendogli capire che se solo ne avesse avute le forze si sarebbe allontanata da Paige e si sarebbe gettata tra le sue braccia per scoppiare a piangere come una bambina. Merlino annuì debolmente, segno che aveva capito tutto e che era come se fosse lì, stretto a lei. Alex provò a rivolgergli un minuscolo sorriso, ma non ci riuscì e una lacrima solitaria, lucente come un diamante, le cadde sulla guancia destra.

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Capitolo 13
*** 13. With all my heart ***


Buonasera!
Okay, inizio ad anticiparvelo già ora, così almeno avete del tempo per metabolizzare e far sì che nessuno mi insegua coi forconi e le torce. 
Un paio di capitoli ancora e poi la storia andrà in pausa (sì, tipo come quelle che ogni tanto si prendono le serie TV) per permettermi di scrivere i prossimi capitoli e sistemare il tutto nel migliore dei modi. Lo faccio per voi, su! *sorride nervosamente pregando di non venir linciata pubblicamente*
No, seriamente, dato che il tempo che ho per scrivere è poco e il mio modus operandi è quello di pubblicare soltanto una volta certa del risultato – non mi perdonerei mai se dovessi scrivere qualcosa, cambiare idea e non poter modificare – questa è l’unica soluzione che ho trovato. Riprenderò a pubblicare il prima possibile, ve lo prometto.
Ma, come dicevo, abbiamo ancora tempo prima che questo accada: almeno altri due capitoli (escludendo questo qui sotto).
E con questa notizia bomba, mi dileguo lasciandovi alla lettura. Spero di non averla rovinata!
Un grazie enorme a chi mi supporta, leggendo, commentando e mettendo la storia tra le preferite/seguite/ricordate e a chi continuerà a farlo :)
Un bacione!

Vostra,

 

_Pulse_

 

 

 

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13. With all my heart

 

Era stata Alex a chiedere di potersi occupare personalmente della stanza di Steve. La dottoressa aveva acconsentito semplicemente con un cenno del capo, gettandole uno sguardo così apprensivo e compassionevole che Alex era riuscita a capire all’istante che cosa si stava domandando: “Perché vuole farsi del male?”. Anche Alex si era fatta la stessa domanda, più e più volte, senza venirne mai a capo.
Era entrata nella grande camerata da quattro posti letto e le era sembrata davvero enorme, ora che ad occuparla c’era solo un bambino, Gabriel, che le diede il benvenuto con gli occhi arrossati, i capelli spettinati sulla testa e il viso sciupato.
Da quando era circolata la voce che Steve non ce l’avrebbe fatta – subito dopo la sua investitura – si era rifiutato di mangiare e niente e nessuno era stato in grado di convincerlo, nemmeno sua madre che, saputo ciò che stava succedendo, aveva preso dei giorni di ferie e lo aveva raggiunto per stare accanto a lui come a Paige, di cui era diventata molto amica da quando i loro bambini erano diventati compagni di stanza. Alla fine erano stati costretti a nutrirlo via flebo, ma aveva comunque una brutta cera.
Alex sperava che l’avessero già trasferito in un’altra stanza, anche con dei ragazzi più grandi pur di non lasciarlo da solo, ma ancora una volta aveva fatto male i conti e lui era lì, seduto sul suo letto, che la fissava con astio, già consapevole che il suo lavoro sarebbe stato quello di portare via tutto ciò che Steve possedeva, cancellandone del tutto il ricordo per poter offrire quel letto al primo bambino bisognoso.
«Vedo che non hai ancora mangiato la tua colazione», esclamò, fissando il vassoio pieno ai piedi del suo letto.
«Non ho fame», rispose lui con un ruggito.
Alex sospirò e senza insistere oltre spostò il letto già rifatto, con le lenzuola pulite e stirate, per poter iniziare a staccare i disegni di Steve che lei stessa tempo prima aveva appeso. 
Un mare blu e un sole giallo gigantesco, una casetta immersa nel verde di un bosco, la sua famiglia che si teneva per mano, i suoi amici e le infermiere, due cavalieri che lottavano in un’arena con dei serpenti tra loro, un cavaliere a cavallo che puntava la lancia contro una specie di cavallo alato con il muso d’aquila – sicuramente un grifone – e poi un enorme drago marrone che chinava il capo di fronte ad un Merlino dai vestiti logori ma con gli inconfondibili tratti del loro Merlino.
«Posso tenerli io?», chiese Gabriel, tirando su col naso.
Alex allineò i fogli tra le mani e lo guardò dispiaciuta. «Prima dovrò chiedere ai suoi genitori: magari li vogliono loro per, sai… ricordo».
«Ma loro hanno già un sacco di cose sue a casa!», si lamentò, il volto già sfigurato dal pianto imminente.

E ogni cosa farà male come una pugnalata al cuore, pensò. Ciononostante, ci vorrà del tempo prima che le lascino andare. Mesi. Forse anni.
Prima che potesse dirgli che non poteva farci nulla, sua madre entrò nella stanza e la salutò cortesemente, rivolgendole un sorriso. Vedendo lo scatolone che Alex aveva posato sul letto, chiese al figlioletto se volesse fare un giro. L’infermiera espirò a lungo, sollevata, quando Gabriel uscì dalla camera sulla sua piccola sedia a rotelle. Al contempo però, da sola con il doloroso ricordo di Steve, sentì crescere il magone e a stento riuscì a trattenere le lacrime.
In qualche modo fu in grado di portare a termine il proprio dovere. Una volta svuotato anche l’ultimo cassetto del suo comodino si apprestò ad uscire dalla camera, ma sulla soglia rischiò di andare addosso a Paige.
«Oh, hai già finito», esclamò la donna, sforzandosi di sorridere.
Alex annuì e si fece da parte per permetterle di entrare in quella che era stata la stanza del figlio per più di cinque mesi. Lasciò lo scatolone sulla sedia accanto alla porta e la osservò in silenzio: la sua gracile figura era già stretta in un vestito nero, lungo fino alle ginocchia, e le sue spalle leggermente curve, come sotto un peso insostenibile, sarebbero state nude se non le avesse coperte con uno scialle di pizzo nero, dai ricami floreali. I capelli biondi erano semplicemente raccolti sulla nuca, il viso acqua e sapone mostrava ancora i postumi della stanchezza, tra cui delle evidenti borse sotto gli occhi, ma Paige restava sempre e comunque una donna bellissima, anche nella sofferenza più atroce.
«È tutto così… vuoto», disse con gli occhi lucidi di lacrime.
Alex capì ciò che intendeva, ma non del tutto: lei non aveva mai perso un figlio bello, dolce e di soli sei anni, con ancora tutta una vita davanti.
«Ci sarai alla messa?», le chiese, cambiando del tutto argomento.
L’infermiera annuì con un cenno del capo. «Certo».
«Bene. Grazie, Alexandra».
Avrebbe voluto chiederle per che cosa, ma lasciò perdere ed indicò lo scatolone. «Qui dentro ci sono tutti i suoi oggetti personali».
Paige si avvicinò e vi diede una sbirciatina. Sorrise, scorgendo i disegni di Steve, i suoi giochi, la sua lucina per la notte e i regali che gli altri bambini gli avevano fatto durante la sua permanenza in ospedale. Quando le sue dita sfiorarono l’action figure di Capitan America si lasciò andare addirittura ad una risata.
«Questo era il suo preferito in assoluto. Glielo hai regalato tu, vero? Al suo compleanno».
Alex si limitò ancora una volta ad annuire, a capo chino, ricordando la sua espressione di pura gioia quando aveva scartato il pacco e si era trovato tra le mani il suo eroe preferito. Quel giorno non l’aveva mai lasciato, nemmeno quando era stato il momento di andare a letto. L’aveva tenuto accanto a sé, stretto come un pupazzo, fino a quando una collega non l’aveva posato sul comodino, in piedi e rivolto verso di lui, in modo che potesse proteggerlo durante il sonno.
Paige unì le gambe del giocattolo ed attivò il meccanismo che permise al braccio destro, quello a cui era attaccato lo scudo blu e rosso, di allungarsi verso il nemico in un gancio micidiale.
«Vorrei che restasse tutto qui. Ne ho già parlato con mio marito e siamo d’accordo che nei prossimi giorni faremo qualche scatolone con gli altri suoi giochi e ve li spediremo. Sapere che saranno tra le mani di altri bambini ci farà piacere».
«È molto bello da parte vostra», commentò, senza sapere bene che cosa dire.
«Questo però vorrei che lo tenessi tu», aggiunse Paige, mettendole tra le mani l’action figure e sorridendole teneramente.
Alex deglutì, ma il nodo che le stringeva la gola non si allentò nemmeno un po’. «No, io… non posso».
«Quando sarò andata via potrai farne ciò che vuoi, potrai lasciarlo in sala comune o buttarlo, ma fino ad allora… Steve avrebbe voluto che tornasse a te».
Guidata da Paige, Alex strinse le dita intorno al piccolo Capitan America e con la voce incrinata dal pianto disse: «Grazie».
Allora la madre di Steve l’abbracciò e si vergognò come non mai: non era lei che doveva essere consolata, non era lei che doveva aver bisogno del sostegno di tutti quanti. Perché non poteva dimostrarsi forte, una volta tanto?
Si rivolsero un breve sorriso, poi Paige fece per uscire dalla camerata. Alex la raggiunse nel corridoio, ricordandosi della piccola chiavetta USB che avrebbe voluto consegnarle dopo la funzione.
«Anche io ho una cosa per te», esordì, mettendogliela tra le mani. «Contiene le copie di tutte le foto e i video in cui compare Steve. Non è molto, ma…».
«Oh, invece è tantissimo. Grazie davvero, Alexandra».
Alex sorrise e fu lei quella volta ad abbracciarla per prima, massaggiandole la schiena.
Le sussurrò che si sarebbero riviste più tardi e prima di tornare nella camera la guardò sparire dietro l’angolo. Prese lo scatolone tra le mani ed osservò ancora una volta i disegni posati in cima, sorridendo mentre un’idea iniziava a prendere forma nella sua mente.
Con la coda dell’occhio vide una collega passare di fronte alla porta e la fermò, chiedendole un favore: «Puoi dire a Gabriel che se non inizia a mangiare non potrà venire alla messa?».
Poco dopo la collega avrebbe riferito il messaggio e il piccolo si sarebbe sforzato di spazzolare il vassoio, sotto gli occhi increduli della madre. Il vuoto che aveva nel petto, però, non si sarebbe riempito così facilmente.

 

***

 

«Artù! Dovete preparavi, o faremo tardi! Ma dove siete?».
Il re sentì i passi di Merlino avvicinarsi alla porta e non poté nascondersi, solo posare sullo scaffalo uno dei tanti diari scritti dallo stregone nel corso degli anni.
Era stupido intestardirsi in quel modo, e soprattutto dopo la morte di Steve, ma non riusciva a togliersi dalla testa le parole di Alex a proposito della “spada nella roccia”: l’aveva chiamata Excalibur e l’aveva definita magica, una coincidenza a cui non aveva creduto nemmeno per un istante.
Aveva sequestrato il computer portatile di Merlino, facendolo borbottare che avrebbe dovuto comprarsene un’altro, e negli ultimi due giorni aveva dedicato ogni momento libero e persino qualche ora di sonno su Google e Wikipedia, a fare ricerche. Merlino una volta gli aveva detto che lui e i Cavalieri della Rotonda erano diventati delle vere e proprie leggende, così famose da essere conosciute in tutto il mondo, a cui erano state dedicate decine di film, libri e opere d’arte. Ciononostante era rimasto sconcertato di fronte a tutti i link che aveva trovato e a tutte le finestre che aveva aperto e che, alla fine, avevano sovraccaricato il PC, impallandolo.
Aveva perso ore ed ore per leggere tutto, fino a sentire gli occhi bruciargli per lo sforzo, ma erano state utili per capire che la maggior parte dei miti tramandati di generazione in generazione erano stati stravolti, arricchiti di dettagli e situazioni messe lì per attirare l’attenzione e il piacere del pubblico (lui e Morgana marito e moglie e Mordred il figlio nato dalla loro unione?!) e che tra questi pochi, pochissimi, raccontavano ciò che era realmente successo. A volte coglieva dei frammenti di verità, dei nomi e dei luoghi che aveva sentito e visto, ma nulla di più.
Ad un tratto aveva cercato anche suo figlio Graalmir, senza ottenere successo fino a quando non aveva provato con “Graal”, il diminutivo con cui Merlino aveva l’abitudine di chiamarlo. I risultati erano stati talmente tanti e talmente insoddisfacenti che non si era nemmeno soffermato a leggere.
E infine aveva digitato sulla tastiera “Excalibur”, ciò che aveva stuzzicato per prima la sua curiosità, fornendogli la vanga per iniziare quel folle scavo nel passato.
Aveva letto di opere che l’avevano resa la protagonista della storia, che l’avevano ritenuta anche più importante del suo possessore, tant’erano la sua potenza e misteriosità, e che Excalibur era spesso identificata come la Spada nella Roccia, ma che in numerosi racconti erano due spade distinte. Tutte informazioni di poco conto, inutili per soddisfare la sua curiosità. Un altro buco nell’acqua, aveva pensato. Poi aveva letto del leggendario mago Merlino, il quale aveva annunciato che solamente l’uomo in grado di estrarre la spada dalla roccia sarebbe diventato re di Britannia. E, ancora, aveva visto un’illustrazione in bianco e nero in cui si vedeva un uomo in armatura, molto probabilmente un cavaliere, che gettava la spada nelle acque di un lago, dove una mano l’afferrava al volo per l’impugnatura.
Di fronte a quell’immagine aveva tremato come un bambino, pensando subito a Freya, la custode di Avalon, e a Merlino, il quale le chiedeva di tenere al sicuro quella spada che, stranamente, era sempre apparsa nei momenti più difficili.
Nessun sito né enciclopedia virtuale che aveva visitato però era stato in grado di dargli qualche certezza sulla provenienza di quella spada e Artù, desideroso di andare fino in fondo, aveva aspettato che Merlino si chiudesse in bagno per lavarsi e poi era corso nella stanza in cui custodiva molti oggetti del passato, tra cui tutti i suoi diari. Aveva iniziato a leggere, sperando di trovare da qualche parte delle informazioni utili, ma era stato tutto uno spreco di tempo e diottrie. Doveva darsi una regolata con la lettura, o anche lui avrebbe dovuto iniziare a portare gli occhiali da vista.
Merlino aprì la porta avvolto in un morbido accappatoio bianco, con i capelli bagnati che gli si appiccicavano alla fronte e ai lati del viso. Lo guardò in silenzio e con occhi sospettosi per diversi secondi, fino a quando non sospirò e gli domandò: «Perché non chiedete semplicemente a me quello che volete sapere?».
«Stavo solo curiosando, in attesa che uscissi dal bagno. Sono certo che una donna impiegherebbe meno tempo di te a prepararsi».
Merlino roteò gli occhi e si appoggiò allo stipite della porta con una spalla, le braccia incrociate al petto. «Ci sono ancora tante cose che non sapete sulle tecnologie del mondo moderno, tra cui come utilizzare un PC. Questa mattina, prima che vi svegliaste, ho controllato la cronologia delle ricerche e non ho potuto fare a meno di notare che vi siete concentrato su un particolare ramo della mitologia».
Artù lo fissò quasi con orrore, realizzando ciò che aveva appena detto. Si chiese se avesse visto anche le sue sempre meno frequenti capatine in quei siti per adulti e già rosso d’imbarazzo preferì confessare tutto prima che l’argomento potesse saltar fuori.
«È vero, ero curioso e ho fatto delle ricerche».
«Mmh», annuì Merlino, guardandosi le unghie. «Soddisfatto?».
«Non proprio».
«Lo supponevo. Chiedete pure».
«La spada che ho tirato fuori dalla roccia».
Merlino tornò a prestargli la dovuta attenzione, alzando il capo di scatto e guardandolo stupito e un po’ confuso. Ad un tratto sorrise, mormorando: «La sala comune. Avrei dovuto arrivarci subito».
«Non è mai stato il tuo forte», lo prese in giro Artù, facendolo sorridere.
«Volete sapere se ha poteri magici, non è vero?».
Il re non si chiese come facesse a saperlo, ormai era consapevole di essere sempre stato un libro aperto per lui, ed annuì con un cenno del capo.
«La risposta è sì. Ma non del tipo che credete voi: a dispetto del nome, la sua lama non può rompere l’acciaio; né tantomeno è in grado di proteggere chi la impugna».
«Me ne sono accorto», rispose con un sorriso mesto, portandosi una mano sul fianco, dove la spada di Mordred l’aveva ferito mortalmente.
«Quella spada è stata forgiata con alito di drago, il quale le ha dato il potere di uccidere qualsiasi creatura, mortale e non. È stata forgiata per voi, solo per voi, per questo sono stato costretto a sbarazzarmene dopo che vostro padre Uther le aveva messo gli occhi addosso».
«Mio padre? Che c’entra mio padre?».
Merlino sospirò, spazientito. Avrebbero sicuramente fatto tardi, ma Artù aveva bisogno di sapere.
«Ricordate il Cavaliere Nero che voi eravate così deciso ad affrontare, nonostante fosse una follia? Si trattava dello spirito di Tristan De Bois, fratello di vostra madre Igraine, evocato da Nimueh con un incantesimo perché si vendicasse per quello che Uther aveva fatto alla sua gente. Nessuna spada comune avrebbe potuto sconfiggerlo, essendo già morto, perciò sono andato da Kilgharrah e l’ho pregato di aiutarmi. La spada però è finita nelle mani di vostro padre, che con l’aiuto di Gaius vi aveva messo fuori combattimento. Grazie alla spada Uther è riuscito a vincere su Tristan e non appena il Grande Drago è venuto a saperlo… beh, mi ha detto che sarebbero successe cose terribili se quella spada fosse finita nelle mani sbagliate. Così l’ho gettata nel lago, dove nessuno avrebbe potuto trovarla».
Artù con un enorme sforzo di memoria – il passato si allontanava da lui ogni giorno di più, annebbiandosi e dandogli solo frammenti che lo prendevano alla sprovvista sempre più spesso e nei momenti più disparati – ricordò che la sfida del Cavaliere Nero era avvenuta molto tempo prima del suo incontro con Freya, la ragazza-pantera. Allora non era ancora la custode del lago, perciò l’illustrazione che aveva trovato su Internet, se aveva qualcosa di vero, doveva risalire ad un episodio successivo.
«Ora siete soddisfatto?», domandò Merlino con una punta di irritazione.
Artù capì che il suo comportamento era dettato dal dolore e lasciò correre la sua insolenza. «Un’ultima domanda», disse. «Ora la spada dove si trova?».
Merlino sobbalzò leggermente, come colpito da un ricordo troppo doloroso. Abbassò gli occhi sul pavimento e dopo aver raccolto la voce, lottando perché non si incrinasse rispose: «È sempre stata con voi, sul fondo di Avalon. Ma temo che, se non è tornata insieme a voi, sia impossibile recuperarla».
«Perché?», chiese Artù, col cuore che gli batteva forte nel petto.
Merlino esitò, dondolandosi sui talloni per una manciata di lunghissimi, strazianti secondi. Quindi scrollò le spalle, abbozzando un sorriso. «Non si può, senza la magia. È sempre stato così».
Avrebbe voluto chiedergli che cosa intendeva, ma non ce ne fu bisogno: l’unico motivo per cui Merlino avrebbe potuto dire una cosa del genere era perché era convinto che oltre a lui non ci fosse più nessuno con poteri magici, Freya compresa.
La custode di Avalon gli aveva detto che la magia stava morendo e che mostrarsi a lui era stato un enorme sforzo… Possibile che anche Merlino ne fosse a conoscenza, che lo percepisse e che sapesse che lui, come ogni creatura dell’Antica Religione, aveva i giorni contati?
Aprì la bocca, ma stordito da quell’orribile segreto che forse Merlino gli stava nascondendo con l’intento di non farlo preoccupare, riuscì soltanto a rantolare un «Non può essere» che lo stregone non udì.
«Ora sarà meglio che vi prepariate, o davvero arriveremo in ritardo», disse, lanciandogli un’occhiata di rimprovero prima di dirigersi verso la propria camera da letto.

 

***

 

«Ma sei sicuro che questo sia l’abito adatto?».
Merlino annuì senza distogliere gli occhi dalla strada, sbattendo più volte le palpebre per spazzare via le lacrime che glieli appannavano.
Pochi giorni prima aveva detto ad Artù che raccontare le favole ai bambini era come riavere Graalmir al suo fianco, ma ora che aveva perso Steve sentiva di aver perso il piccolo principe per la seconda volta, ancora più dolorosa della prima.
Aveva da poco iniziato a piovere e guardando le grosse gocce di pioggia striare obliquamente i finestrini si chiese perché si sforzasse così tanto per non piangere, quando il cielo per primo non se ne preoccupava.
«Avrei dovuto mettere l’uniforme da cerimonia, con tanto di spada. È così che si va ad un funerale, non con un cappio al collo», si lamentò ancora Artù, tirando più giù il nodo alla cravatta.
Merlino lo guardò con la coda dell’occhio e strinse i denti per non inveirgli contro. Conosceva abbastanza bene Artù da sapere che quando era nervoso o emotivamente instabile per qualsiasi motivo lui era quello che ne subiva di più le conseguenze, capro espiatorio o distrazione perfetta nel cento percento dei casi.
«Le tradizioni sono cambiate», spiegò mantenendo un tono di voce pacato. «Anche la cerimonia a cui assisteremo… non sarà come i funerali che celebravamo a Camelot. Cercate solo di astenervi da ogni commento e/o domanda inopportuna, per favore».
Il re acconsentì di buon grado, anche fin troppo mestamente. Per una volta però Merlino non se ne preoccupò: dopotutto anche Artù aveva un cuore ed era abbastanza intelligente da saper intuire i momenti in cui la sensibilità e il rispetto erano tutto.
Il parcheggio di fronte all’ospedale era quasi pieno, tanto per la pioggia che per il piccolo funerale che i genitori di Steve avevano voluto organizzare nella cappella per tutti i medici, gli infermieri e i piccoli pazienti del reparto di oncologia che si erano affezionati a Steve tanto da considerarlo parte della famiglia. L’impresa di pompe funebri poi si sarebbe occupata del trasferimento della bara nella piccola cittadina in cui il bambino era nato e cresciuto, dove si sarebbe svolto il funerale ufficiale, per amici e parenti, e dove una zolla di terra del cimitero comunale era già stata prenotata.
Merlino parcheggiò la Pininfarina e seguito da Artù entrò nell’ospedale.
Quella mattina poche persone li salutarono e quelle poche che ogni tanto riuscivano a tornare alla realtà, scalfendo la bolla di dolore in cui tutti si erano ritrovati intrappolati, lo avevano fatto debolmente, senza sorridere.
I due percorsero il corridoio principale in silenzio e non parlarono nemmeno quando di fronte alla scelta tra ascensore e scale presero entrambi le scale per raggiungere il quarto piano. Ad attenderli trovarono Mark ed Abigail, seduti sulle loro sedie a rotelle ed eleganti come non mai, specialmente quest’ultima: indossava un cardigan nero con i bottoni bianchi, una gonna a balze blu scuro che le lasciava scoperte le ginocchia e un paio di ballerine; tra i capelli aveva fissato un fiocchetto nero e si era persino truccata gli occhi con un po’ di matita e del mascara.
In confronto a lei Mark sembrava molto meno curato, con i suoi blu jeans e la camicia nera che teneva slacciata fino al petto, sotto cui si intravedeva una catenina d’oro, probabilmente un crocifisso.
«Wow», mormorò Abigail non appena i suoi occhi si posarono sui loro completi pressoché identici: giacca e cravatta nere, camicia bianca e pantaloni neri appena stirati. Merlino doveva ammettere però che Artù stava decisamente meglio di lui, forse per le sue spalle larghe o forse perché la sua figura si adattava perfettamente agli abiti costosi e di pregio, mentre Merlino non riusciva a sentirsi mai totalmente a proprio agio con vestiti che uno come lui, nato e cresciuto in una famiglia povera, non si sarebbe mai potuto permettere.
«Anche tu sei bellissima», ricambiò Artù con naturalezza, chinandosi su di lei per baciarle le nocche di una mano.
Merlino notò Mark irrigidirsi sulla propria sedia a rotelle, con le dita strette intorno ai braccioli, e sorrise pensando che aveva sempre avuto ragione nel sospettare che avesse una cotta per la coetanea.
Abigail, rossa come un peperone, incrociò gli occhi di Merlino e disse: «Alex è passata poco fa, ha detto che possiamo avviarci e che ci raggiungerà nella cappella».
«Va bene. Gli altri bambini sono già lì?».
«No, li accompagneranno gli infermieri quando inizierà la funzione, quando la…».
«Quando la bara sarà chiusa», concluse per lei Merlino, sorridendo teneramente. Abigail annuì, senza riuscire però a ricambiare.
Artù guardò Merlino con un grosso punto interrogativo sul viso, ma non aprì bocca, come gli aveva chiesto di fare. Il mago scosse leggermente il capo e si portò dietro la carrozzina di Mark per spingerlo verso gli ascensori. Il re, vergognandosi tanto da non guardare nemmeno i ragazzini negli occhi, disse che si sarebbero incontrati giù. Quando le porte dell’ascensore si chiusero, Mark sollevò il capo verso Merlino e chiese: «Che problema ha?».
«Claustrofobia».
Mark arricciò le labbra in un sogghigno, ma non riuscì a trattenere la grassa risata che rimbombò tra le quattro pareti, smorzata però quasi subito dalla mano di Abigail che l’aveva colpito sull’addome.
Merlino, alle loro spalle, sorrise.
Trovarono Artù già di fronte alle porte quando l’ascensore si fermò al piano terra. Sorrideva nervosamente, come se avesse appena visto un wildeon gigante e non volesse allarmarli. Il re mosse impercettibilmente il capo verso la sua destra e Merlino uscì per primo dall’ascensore per poter vedere che cosa lo aveva quasi paralizzato sul posto con quell’espressione idiota sulla faccia.
«Cathleen», esclamò non appena la vide fuori dalle porte vetrate del pronto soccorso, sulla rampa per disabili, intenta a fumare frettolosamente una sigaretta, una boccata dopo l’altra.
Era vestita normalmente, nel senso che per Cathleen era perfettamente normale indossare anfibi, collant nere smagliate in più punti, shorts di jeans neri e un giubbotto di pelle sopra ad un maglione traforato a collo alto. Cathleen spesso e volentieri passava intere giornate libere all’ospedale – Merlino sapeva che non aveva nessuno con cui trascorrerle, proprio come lui – e poteva dire con certezza di averla vista con look molto più stravaganti, quasi al limite della decenza, perciò trovò sobrio e quasi elegante l’abbigliamento che aveva scelto per il funerale di Steve.
«Quella è strana forte», disse Mark, quasi simpatizzando con Artù. Non appena se ne accorse però gli rivolse un’occhiata truce e si voltò verso Abby, incitandola ad affiancarlo. Ma la ragazzina non lo calcolò nemmeno, con lo sguardo ancora rivolto verso le porte vetrate.
«Io penso che sia tutta una messinscena, invece», disse.
Merlino si accigliò. «La conosci?».
«Sì e no. Ogni tanto passa a trovarmi, quando l’ambulanza è ferma nel parcheggio. Ed è la ragazza più gentile e simpatica che ci sia. Secondo me è semplicemente sola e questo è l’unico modo che ha trovato per farsi guardare».
Tutti rimasero in silenzio per qualche secondo, lasciando che le parole di Abigail aleggiassero nell’aria, fino a quando Cathleen non spense la sigaretta nel posacenere ed entrò, incamminandosi proprio verso di loro. Un sorriso sbocciò sul suo viso punteggiato di efelidi e Merlino sobbalzò accorgendosi per la prima volta di quanto fosse delicato e fragile senza il trucco pesante sugli occhi e sulle labbra, con le vene bluastre che si intravedevano sulla sua fronte e due ciocche di capelli rossi che le sfioravano le guance ad ogni passo, mentre il resto della sua chioma era raccolta sulla nuca in uno chignon morbido.
«Ciao», li salutò senza fermarsi, facendo scomparire il sorriso subito dopo e chinando il capo.
Quel comportamento non era proprio da Cathleen. Merlino la guardò andare via in silenzio, fino a quando i suoi occhi non si posarono involontariamente su Artù. In volto aveva un’espressione che conosceva bene e che gli fece correre un brivido lungo la schiena: quando il solo ed unico re guardava qualcuno in quel modo, voleva dire che ne era rimasto colpito e voleva dare una mano, se possibile. Lo stregone non voleva mettergli i bastoni tra le ruote, sapeva che in quel modo si sarebbe dedicato con ancora più impegno alla causa, perciò cercò di ignorare il brutto presentimento che gli gravava sulle spalle.
«A quanto pare era molto affezionata a Steve», disse Abigail, sospirando.
Merlino scosse il capo e strinse le dita intorno ai manici della sedia a rotelle di Mark, rispondendo malinconico: «Chi non lo era?».

 
La cappella dell’ospedale si trovava nella parte più a nord del complesso e per raggiungerla bisognava passare sotto uno dei porticati che, proprio come nei chiostri dei monasteri, racchiudevano un piccolo giardinetto interno dall’erba curata e con, al centro, un albero d’ulivo alto come i due ragazzini, circondato da grosse pietre bianche e piccole aiuole dai fiori lilla.
Gran parte degli infermieri e dei dottori che avevano avuto modo di conoscere Steve erano già seduti sulle panche e guidati da una suora recitavano pacatamente il rosario nell’attesa che iniziasse la funzione. Ogni tanto qualcuno si alzava per raggiungere la piccola bara bianca di fronte all’altare di marmo, adagiata sopra una ghirlanda di fiori, anch’essi bianchi.
Un impiegato delle pompe funebri, più simile ad un bodyguard a causa delle spalle larghe strette nel completo gessato e del cranio perfettamente rasato, era a pochi metri di distanza, pronto a chiuderla non appena il parroco gli avesse dato il via libera.
Il padre e la madre di Steve, seduti in prima fila, si voltarono proprio quando Merlino e gli altri fecero il loro ingresso e l’uomo posò un bacio sulla fronte di sua moglie prima di uscire dalla panca per andare loro incontro. Strinse loro le mani e salutò i ragazzini con un sorriso già umido di lacrime.
«Per i bambini abbiamo tenuto un paio di panche libere davanti», disse, invitandoli a proseguire con un gesto del braccio.
Artù e Merlino accompagnarono Mark e Abigail in seconda fila, sistemando poi le loro sedie a rotelle contro la parete, ma prima che il mago potesse allontanarsi la ragazzina lo guardò implorante, dicendo: «Voglio salutare Steve».
Merlino si guardò per un attimo le scarpe. «Non sei obbligata a farlo».
«Me ne pentirò, se non lo farò. Ti prego, Merlino».
Lo stregone annuì e fece per prendere di nuovo la sedia a rotelle, ma Abigail lo fermò dicendo che voleva andare da lui sulle sue gambe. Quindi le porse il braccio e camminarono insieme fino a trovarsi di fronte al visetto di quel bambino troppo piccolo per morire. Aveva gli occhi chiusi e le sue labbra pallide sembravano stese in sorriso – forse a causa della formaldeide, forse perché i muscoli facciali si erano naturalmente irrigiditi in quel modo.
«Sembra che stia dormendo», disse Abigail con voce tremante, sforzandosi di sorridere a sua volta.
Merlino non voleva essere cinico, ma odiò la falsità del suo sorriso come quello sul volto di Steve, dato che era impossibile che se ne fosse andato felice. Tuttavia rimase in silenzio, impassibile, sorreggendo Abigail anche quando si piegò leggermente verso il bambino per accarezzargli i capelli biondi ora un po’ spenti pettinati ordinatamente su un lato.
«Ti voglio bene, Steve. Hai capito? Ti voglio bene, te ne vorrò sempre. Con tutto il mio cuore».
Si sporse ancora un po’ di più e Merlino per un attimo ebbe paura che stesse per perdere i sensi; invece gli posò un delicato bacio poco sopra l’attaccatura del naso, sussurrando ancora qualche parola che lui, anche volendo, non sarebbe riuscito a sentire.
Era vero che Abigail era una coraggiosa. Lui aveva visto molte, moltissime persone morire, alcune delle quali avevano esalato il loro ultimo respiro proprio tra le sue braccia, e nonostante fosse già adulto aveva sempre lasciato che le emozioni prendessero il sopravvento su di lui. Abigail invece si risollevò e come se nulla fosse lo ringraziò.
Mentre la stava accompagnando di nuovo al suo posto alzò il capo per guardarlo negli occhi e sussurrò: «Sai che non devi sentirti in colpa, vero? Hai fatto tutto il possibile per lui, più di tutti noi messi insieme».
Lo stregone la fissò incredulo e spaventato dal significato intrinseco di quelle parole, senza riuscire a formulare una qualsiasi frase di senso compiuto. Abby arricciò le labbra in un minuscolo sorriso e si sedette accanto a Mark, a cui, per sua immensa gioia e sorpresa, strinse forte una mano prima di posare il capo sulla sua spalla.
Merlino si sforzò di spegnere il cervello e non poté fare a meno di sorridere scorgendo quello speciale bagliore negli occhi del tredicenne: la luce che solo gli occhi innamorati sanno emanare. Poi raggiunse Artù, seduto qualche panca più indietro, con lo sguardo rivolto verso il lato opposto della cappella. Il mago lo imitò, sedendosi al suo fianco, e scorse anche lui la figura di Cathleen, inginocchiata e con le dita delle mani intrecciate di fronte al viso. Merlino si chiese se fosse religiosa o se semplicemente si stesse appellando a Dio o a qualsiasi altra forza superiore, inveendo come lui aveva fatto più e più volte nel corso dei secoli e chiedendo: «Perché?», fino a farsi venire il mal di testa.
«Ha avuto coraggio Abigail», disse ad un tratto Artù, riportandolo bruscamente alla realtà.
«È più forte di quello che sembra».
«Già. Mi chiedo dove sia Lady Alex».
«Arriverà», lo rassicurò, cercando al contempo di rassicurare anche se stesso.
Ricordava lo stato in cui era quando due notti prima lo aveva chiamato nel cuore della notte per dirgli che una collega le aveva appena mandato un SMS con scritto che Steve se n’era andato per sempre: piangeva a dirotto e non riusciva a parlare, talmente forti erano i singhiozzi. A fatica gli aveva chiesto se poteva raggiungerla a casa e Merlino era corso da lei senza nemmeno svegliare Artù, il quale al suo risveglio l’aveva trovato già seduto in cucina, con la seconda tazza di caffè tra le mani. Il re non aveva sospettato nulla e Merlino non gli aveva raccontato nulla della notte trascorsa a casa di Alex, delle ore passate a cullarla tra le braccia e ad accarezzarle i capelli in silenzio e nella semi-oscurità, stretti sullo striminzito divano arancione, prima che smettesse di giurare che lei non avrebbe mai avuto figli e si addormentasse sfinita.
Artù in effetti non sapeva molto riguardo a come si era sviluppato il loro rapporto, più sincero che mai sul piano affettivo ma del tutto innocente, come quello tra due bambini, e in attesa del domani. E per il momento Merlino non era intenzionato a parlargliene, indispettito forse da tutte le gaffes che negli ultimi giorni Artù si era lasciato scappare riguardo ad Alex o ancora da ciò che aveva visto quel pomeriggio in sala comune, quella specie di complicità e di rispetto reciproco che gli avevano fatto venire la pelle d’oca.
I giovani pazienti del reparto di oncologia, accompagnati dagli infermieri, iniziarono ad arrivare uno dopo l’altro. La bara era già stata chiusa e sopra di essa era stato sistemato un grande primo piano di Steve, i suoi occhi azzurri brillanti sotto i raggi del sole e il suo sorriso dolcissimo sulle labbra, accompagnato da due adorabili fossette sulle guance.
Tra loro, Merlino e Artù scorsero anche Alex, che spingeva la carrozzina di Danilo, il compagno di stanza di Mark, appena tornato dalla chemio. Non lo prese in braccio per farlo sedere sulla panchina – l’undicenne era troppo debole – ma si chinò di fronte a lui con sguardo apprensivo. Merlino riuscì a leggere le sue labbra: “Sei sicuro di farcela?”.
Danilo, di cui riusciva a vedere solo la schiena, scrollò le spalle. Alex aggiunse: “Se cambiassi idea, se dovessi sentirti male… avvisami subito. Non vorrai mica vomitare di fronte a tutti, uh?”. Probabilmente Danilo ridacchiò, visto come le sue spalle sobbalzarono a scatti, e Alex si sollevò facendogli un buffetto sulla guancia. Poi si gettò un rapido sguardo intorno e senza alcuno sforzo individuò Merlino e Artù, i quali avevano alzato una mano contemporaneamente.
Si infilò nella loro panca e lo stregone, che le aveva tenuto il posto accanto a sé, fu costretto a scalare per farla sedere in mezzo a loro. Ancora una volta sentì il cuore stretto nell’ardente morsa della gelosia – immotivata, folle ed autodistruttiva gelosia – e di nuovo si disse che non aveva prove concrete per credere che tra Alex e Artù ci fosse qualcosa. E poi, anche nel caso avesse avuto ragione, non avrebbe avuto nulla di cui preoccuparsi: Alex meritava tutta la felicità del mondo e se pensava che Artù fosse la persona giusta doveva essere contento e solidale con lei, conscio che lui se ne sarebbe preso cura come e meglio di lui.
La funzione iniziò e tutti si alzarono in piedi. Le parole del parroco divennero senza senso nella sua mente, sovrastate da quei pensieri futili che però non riusciva ad allontanare. Poi, come vento in grado di spazzare via le nubi temporalesche, Alex infilò la mano nella sua, stringendola delicatamente. Merlino si rilassò e non dovette nemmeno sporgersi per guardare in direzione della mano sinistra di Artù: sapeva che Alex aveva scelto lui.

 

***

 

Sulla porta della cappella avevano aspettato il loro turno per fare le condoglianze ai genitori di Steve, dopodiché erano usciti.
Artù aveva notato che Alex e Merlino si erano tenuti per mano per quasi l’intera durata della messa e nonostante potesse essere un gesto del tutto innocente e causato dall’emozione del momento, non aveva potuto fare a meno di pensare che quei due gli stavano nascondendo qualcosa. Ne ebbe piena conferma quando, passando accanto al giardino interno, sia Alex che Merlino si paralizzarono sul posto accorgendosi dell’agente Chandra, appoggiata ad una delle colonne e con il cellulare tra le mani. Artù aveva avuto ragione nel pensare che avesse delle forme perfette sotto l’uniforme: le gambe lunghe e longilinee erano fasciate da un paio di blu jeans aderenti, i fianchi sinuosi e il seno prosperoso assecondati dal maglione di lana intrecciato intorno alla sua vita piatta. I capelli neri e lucidi come seta non erano raccolti, bensì ricadevano in morbide onde sulla sua schiena e quelli che le incorniciavano il viso facevano brillare ancora di più i suoi occhi più grigi che verdi, simili a pietre preziose. Artù si chiese come fosse possibile che tutte le ragazze intorno a Merlino fossero così belle e come se avesse appena ricevuto una botta in testa si ricordò delle parole di Freya: «Abbiamo influenzato tutte le donne che entravano in contatto con lui». Fu quello il motivo per cui guardò Alex – la preoccupazione che il suo amore per Merlino fosse solo frutto della magia – e la trovò scioccata e quasi intimorita dalla presenza della poliziotta.
Alla fine fu la stessa Myra a rompere il silenzio, alzando il capo ed accorgendosi a sua volta del loro arrivo. Il suo sguardo scivolò subito su Merlino e Artù notò il luccichio di felicità nei suoi occhi, nonostante fosse durato solo una frazione di secondo.
«Ciao», li salutò con un piccolo sorriso. «Ho saputo di Steve e ho pensato di passare. Inoltre, speravo proprio di trovarvi».
«Deve portarmi in Centrale un’altra volta?», chiese stupidamente Artù, pentendosene non appena chiuse bocca.
L’agente lo scrutò con la fronte aggrottata e poi ridacchiò. «No, a meno che tu, andandotene in giro con quel completo, non sia intenzionato a fare una strage di cuori».
Prima che Artù potesse rispondere a quella specie di complimento, Alex fece un passo avanti, come a volerlo proteggere, e rivolgendole un’occhiata diffidente disse: «Di che si tratta, Myra? Io dovrei tornare al lavoro».
«Oh, non avevo alcuna intenzione di intrattenerti, Alex», rispose l’agente continuando a sorridere, ma nel suo tono c’era un che di beffardo. «E non devi nemmeno scusarti per essersi dimenticata di dire a Merlino che avevo bisogno di parlargli. Dev’essere stato un periodo difficile».
L’infermiera si ammutolì, impallidendo e diventando paonazza subito dopo. Artù si sarebbe aspettato come minimo che le urlasse contro, invece chinò il capo come se avesse già capito che era una battaglia persa e si allontanò dicendo: «Devo tornare dai bambini adesso».
Il re fu tentato di rispondere per conto suo, ma Alex lo afferrò all’improvviso per un braccio e se lo trascinò dietro.
«Vieni, vorranno sicuramente un po’ di privacy».
Merlino la sentì, la sentirono tutti, e Artù vide lo stregone aprire la bocca per dire qualcosa e poi richiuderla quando l’agente Chandra l’affiancò, iniziando ad incamminarsi nella direzione opposta alla loro. Il mago esitò, da solo in mezzo al corridoio, e Artù avrebbe voluto prenderlo a pugni, pensando che se si trattava di una scelta, non poteva che fare quella giusta. Alla fine lo vide stringere i pugni lungo i fianchi col viso accartocciato e voltargli le spalle per raggiungere Myra con lunghe falcate.

Idiota! pensò frustrato, lasciandosi trascinare da Alex.
Erano quasi arrivati nei pressi dell’ascensore quando l’infermiera gli lasciò bruscamente il braccio che aveva stritolato a tal punto da farglielo sentire indolenzito. Ora la rabbia le sfigurava il volto e le alterava la voce, rendendola più acuta di qualche ottava e allo stesso tempo simile ad un ruggito.
«Con che coraggio ha osato venire qui?», strepitò, attirando parecchia attenzione su di loro. Tra tutti quelli che si erano girati a fissarli, Artù riconobbe persino il medico che l’aveva visitato.
«Ma dico, l’hai sentita? Ha persino tirato in mezzo Steve, quando il suo unico obiettivo era Merlino! Io non la sopporto, non la sopporto!».
Se quella non era gelosia, Artù non aveva proprio idea di che cosa fosse.
«E per quale motivo voleva parlare con Merlino?», le chiese, sperando che non sbranasse anche lui.
«Per quale motivo? Ah! Sono certa che inizierà dicendo che vuole chiarire alcuni punti del tuo quasi-arresto e che lo ammonirà di tenerti d’occhio, perché la prossima volta non sarà così clemente, ma poi gli dirà che c’è un altro motivo per cui voleva parlargli e può essere solo quel motivo!».
Alex aveva premuto o, meglio, preso a pugni il pulsante di chiamata dell’ascensore e quando le porte si erano aperte di fronte a loro era entrata, mentre Artù si era come pietrificato sul posto.
«Che fai, non vieni?», gli chiese, irritata.
«Veramente, io…».
«Muoviti!». Lo prese per la cravatta e rischiando di strozzarlo lo trascinò dentro l’ascensore giusto un momento prima che le porte iniziassero a chiudersi.
Artù sentì il cuore fermarsi nella cassa toracica e lo stomaco schizzargli dritto in gola, ma lottò con tutte le proprie forze per fare respiri profondi e regolari e controllare la paura, come gli aveva detto di fare Merlino. In fondo era vero che nel corso della sua prima vita, a Camelot, aveva affrontato molto di peggio, riuscendo in qualche modo a cavarsela tutte le volte.

Perché avevi Merlino a vegliare su di te, gli ricordò la propria coscienza che, guarda caso, aveva la sua stessa vocina irritante di quando gli ricordava che aveva avuto ragione e avrebbe dovuto ascoltarlo.
Sentiva il sudore colargli lungo la schiena e faceva sempre più fatica a respirare, ma inaspettatamente fu Alex ad aiutarlo, distraendolo col suo racconto intriso di tristezza e rammarico.
«Merlino era lì, quando Myra è stata investita. Stava facendo jogging da sola perché io ero di turno in ospedale e fuori era già buio, quando un’auto con i fari spenti è sbucata fuori dal nulla, a folle velocità, e l’ha travolta sulle strisce pedonali. L’uomo al volante era ubriaco fradicio e non aveva idea di dove fosse né perché. Merlino era uscito un po’ prima dalla caffetteria della signora Begum – nel periodo natalizio qui è un vero mortorio, te l’assicuro – e ha visto tutta la scena, senza però poter fare nulla oltre a prestare subito soccorso a Myra, chiamando un’ambulanza. Aveva fatto un brutto volo e aveva picchiato forte la testa, tanto che per un periodo è rimasta in coma farmacologico, sotto osservazione ventiquattr’ore su ventiquattro. E poi si era rotta il femore della gamba destra, la peggior frattura che io abbia mai visto: l’osso era spaccato in molti punti. Ci sono volute diverse operazioni perché venisse riassemblato completamente, ma l’osso è risultato comunque più corto di un centimetro o giù di lì rispetto all’altro. È per questo che zoppica».
Le porte dell’ascensore si aprirono dopo l’avviso acustico e Artù uscì per primo, insistendo perché proseguisse.
«Merlino è rimasto con lei da quando l’ha soccorsa fino a quando non è stata ricoverata in terapia intensiva. Si sentiva in qualche modo responsabile». Alex si interruppe, come se avesse appena colto un dettaglio fondamentale, poi riprese: «Ogni giorno passava a trovarla e anche se, come ti dicevo, era tenuta in coma farmacologico, parlava con lei: le raccontava la sua giornata, le leggeva i giornali, qualche libro… Fino a quando non è stata svegliata. Ovviamente non avevano mai avuto modo di presentarsi, ma indovina qual è stata la sua prima parola quando ha riaperto gli occhi?».
«Merlino».
Alex annuì, stringendosi le braccia al petto. «Myra ha trascorso quasi un anno qui in ospedale, praticamente tutto tempo speso nella riabilitazione, e lei e Merlino sono diventati molto amici. C’era qualcosa nel loro rapporto… forse perché lui le era stato così vicino, ma era come se si conoscessero da sempre. Merlino sosteneva che tra loro non c’era niente oltre ad una forte amicizia, ma io ero convinta che Myra si fosse innamorata di lui. Lo si percepiva da come lo guardava, da come rideva alle sue battute… Insomma, si capiva».
«Ma non ne hai mai avute le prove», concluse Artù, ricevendo un’occhiata fulminante che gli fece capire di aver commesso un grosso errore.
«Lei deve averglielo confessato ad un certo punto, perché pochi mesi prima della fine della riabilitazione Merlino iniziò ad andarla a trovare sempre meno, fino a quando non smise del tutto. Ho provato tante e tante volte a chiedergli cosa fosse successo, ma non mi ha mai risposto. Questa non è una prova, secondo te?».
L’immagine della sua Ginevra tra le braccia di Lancillotto lo fece trasalire.
Quei flashback del suo passato lo coglievano di sorpresa sempre più spesso, lasciandolo disorientato e col cuore stretto in una morsa ghiacciata, e non riusciva a capirne il motivo. Che fosse Freya che, anche da lontano, gli volesse ricordare del destino che incombeva su di loro?
«Non li hai mai colti sul fatto», rispose, scrollando il capo come se farlo potesse aiutarlo a dimenticare quel ricordo doloroso.
Alex sogghignò. «Non so come avrei reagito, in quel caso».
Artù pensò che se davvero era sangue del suo sangue, avrebbe senza dubbio afferrato la prima arma a sua disposizione e avrebbe cercato di uccidere Myra.
«Soprattutto perché allora ero fidanzata», aggiunse, posandosi una mano sulla fronte mentre scoppiava in una risatina sconsolata.
Artù aveva staccato il cervello quando aveva capito che Alex, prima di innamorarsi di Merlino, era stata con un ragazzo, perciò non fece lo stesso ragionamento dell’infermiera, chiedendosi per quanto tempo avesse fatto finta di non provare nulla per il mago. Continuava a chiedersi chi, quando, dove, come e perché e per poco non fu quella la sequenza di parole che uscirono dalla sua bocca.
«Aspetta un momento», esclamò portandosi le dita alle tempie. «Tu eri fidanzata?».
«Non fidanzata nel vero senso del termine… avevo un ragazzo», rispose, schivando il suo sguardo per poi rivolgergliene uno tagliente: «Lo trovi così strano?».
«Sì!».
Alex assottigliò ancor di più gli occhi. «Sì?».
«Pensavo… pensavo fossi sempre stata innamorata di Merlino!», rispose sinceramente e senza darle il tempo di aprire bocca le chiese: «Lui chi era?».
L’infermiera alzò le mani come a voler dire: «Io ci rinuncio», riprendendo a camminare lungo il corridoio.
«Lady Alex!», la rimproverò Artù, scandalizzato dal suo comportamento scortese. A volte era tale e quale a Merlino e Artù si promise che, se tutto quello che aveva saputo da Freya avesse trovato conferma, le avrebbe fatto un ripasso intensivo su come essere un’impeccabile gentildonna.
La rincorse e come un padre ossessivamente protettivo nei confronti della figlia le ordinò di dirgli chi era il suo “ragazzo”, abbassandosi pian piano fino ad implorarla.
«E va bene!», urlò alla fine, esasperata. Quindi gli puntò un dito contro il viso, guardandolo con la stessa sete di sangue che aveva visto negli occhi della Bestia Errante quando l’aveva attaccato. «Te lo dico e tu mi lasci in pace, affare fatto?».
«Parola di Cavaliere», promise con una mano sul cuore.
Alex sospirò. «Il dottore che ti ha visitato quando ti ho colpito in testa con la padella. Si chiama Keith, Keith Ellis».
Artù, incredulo – con il suo fisico prestante e il suo sorriso affabile era l’opposto di Merlino! – aprì la bocca per chiedere un’ulteriore conferma, ma Alex gli tappò la bocca con l’intera mano.
«Hai promesso», gli ricordò. «Ci vediamo più tardi».
Gli diede ancora una volta le spalle e sparì in una delle tante camere che si affacciavano sul corridoio.

 

***

 

Seguendo il corridoio fino alla sua fine, raggiunsero una delle uscite d’emergenza che davano sul retro dell’ospedale e in particolare sulla zona in cui si fermavano i fornitori per le operazioni di carico e scarico. Il venerdì mattina era il giorno fissato dalla lavanderia per il ritiro della biancheria sporca, raccolta in decine di grossi cesti di metallo.
«Potevi avvisarmi», esclamò risentita Myra, osservando i dipendenti salire e scendere dal lungo camion sulla cui fiancata saltava subito all’occhio il nome della ditta: “Kings Laundry Service”, scritto a caratteri cubitali e sormontato da una gigantesca corona.
Merlino non poté fare a meno di trovarlo ironico.
«Avrei preferito qualcosa di più romantico per il nostro primo incontro dopo… quanto, cinque mesi? Come vola il tempo».
«È di questo che volevi parlarmi?», le chiese, irritato dal suo sorriso sardonico, da come poco prima aveva risposto ad Alex e da come lui stesso si era comportato, rimanendo in silenzio invece di prendere le sue difese.
«In verità avrei preferito parlare prima del tuo amico con la balestra, ma visto che siamo già sul pezzo tanto vale proseguire». Si voltò verso di lui, le mani nelle tasche posteriori dei jeans e gli occhi grigi fissi nei suoi, feroci come quelli di una tigre ferita. «Cinque mesi, Merlino. Non un SMS, non una telefonata. Com’è possibile vedere una persona ogni giorno per otto mesi e poi sparire del tutto?».
Merlino si appoggiò al muro alle sue spalle con un piede, facendo attenzione a non aderirvi con parti dell’abito, e ricambiò il suo sguardo. «Ti avevo spiegato la situazione, Myra».
«Avevi detto che ci saremmo visti di meno, perché sarebbe stato imbarazzante per entrambi, non che mi avresti cancellato dalla tua vita!», urlò, furibonda, ed avanzò di un passo.
Anche Merlino si avvicinò a lei. «Io non ti ho cancellato dalla mia vita! Ci ho provato, ma non ci sono mai riuscito!».
Occhi negli occhi, Myra e Merlino rimasero in ascolto dei loro respiri leggermente affannati, pensando alla prossima mossa. Lo stregone si rese conto di aver fatto un errore dicendo la verità, e che ormai era troppo tardi per tornare indietro.
«Allora avresti potuto…», ruppe timidamente il silenzio l’agente, sfuggendo per un attimo al suo sguardo.
«No», la interruppe Merlino, negando anche con il capo. «Pensavo di farcela, di poter essere tuo amico nonostante tu volessi di più, ma non riuscivo a pensare ad altro che standoti intorno ti avrei fatto più male che bene. Speravo che, scomparendo, mi avresti dimenticato. A quanto pare mi sbagliavo».
«Dovrebbero spararmi in fronte», disse, sorridendo debolmente. Myra chinò il capo e si guardò le scarpe basse, calciando qualche sassolino d’asfalto. «Nessuno a parte i membri della mia famiglia mi era mai stato tanto vicino. E tu non dovevi farlo per forza, non avevi alcun obbligo… Ogni giorno aspettavo le ore che avrei trascorso con te con impazienza, erano gli unici momenti in cui non odiavo il letto in cui ero bloccata, il cibo della mensa, le infermiere che mi cambiavano le medicazioni… E quando mi allenavo davo il massimo per raccontarti dei miei progressi e vederti veramente felice per me. Quanto ti ho detto che mi ero innamorata di te mi ha spezzato il cuore capire di non essere ricambiata, ma è stato molto peggio quando hai smesso di venire a trovarmi. Ero così arrabbiata… Penso che alcune infermiere là dentro mi lascerebbero soffrire se per caso dovessi essere ricoverata di nuovo». Sorrise, incrociando di nuovo il suo sguardo. «Avrei dovuto capirlo subito. Non ho mai avuto alcuna speranza, vero?».
Merlino si strinse nelle spalle, nonostante fosse profondamente toccato e dispiaciuto per tutto ciò che le aveva fatto passare.
«Col senno di poi, è chiarissimo che hai sempre avuto un debole per Alex». Myra si avvicinò ancora e ancora, fino a trovarsi ad un soffio dal suo viso. Il mago non si mosse di un solo millimetro, conscio che quella che aveva di fronte non era più la Myra che conosceva. «L’hai sempre desiderata. L’innocente ragazza della porta accanto che si mostra tanto forte ma che al primo soffio di vento cade a terra ed è incapace di rialzarsi…».
«Sei ancora arrabbiata, Kajri».
«Non mi chiamare così!», gridò, bloccandolo contro il muro col proprio corpo e sbattendo un pugno accanto al suo viso. 
L’agente di polizia era più che arrabbiata, era una specie di vaso di Pandora pronto ad esplodere in qualsiasi momento, scatenando caos e distruzione in ogni angolo del creato.
«Perché?», le chiese Merlino, sollevando le mani per posargliele sui lati della testa, sui capelli, sulle guance e poi sul collo.
«Perché lei non ha niente più di me», rispose, ma con la voce rotta dell’emozione. L’implacabile agente Chandra era stata sopraffatta, alla fine.
Un paio di giovani dipendenti della lavanderia si erano fermati ad osservarli, appoggiati alla fiancata del camion, ma Merlino non fece caso a loro e scosse il capo, accarezzandole una guancia con il pollice.
«No», mormorò, mortificato per tutta la sua rabbia e il suo dolore. «Ma dovrebbero spararmi al cuore per costringerlo a non battere più per lei».
Myra lo guardò negli occhi per un’infinità, quindi si scostò con lentezza e respirò profondamente, riprendendo la calma. La rabbia però non l’aveva abbandonata, era solamente stata messa da parte per una tregua che non sarebbe durata a lungo, il mago ne era certo.
«Suppongo che in questo caso l’argomento sia chiuso definitivamente», disse con fermezza. La poliziotta che era in lei era tornata.
«Sarebbe la cosa migliore».
«Bene».
Merlino annuì e si apprestò ad aprire la porta per tornare da Alex ed Artù, ovunque fossero. In tutta onestà avrebbe voluto restare un po’ da solo, non voleva voglia di rispondere alle loro domande e dare spiegazioni, ma aveva ormai capito che rimandare quasi mai era la soluzione migliore.
«Un’ultima cosa, Merlino».
Si voltò di tre quarti, guardandola con la sola coda dell’occhio.
«Domani mattina dovresti passare in Centrale per mostrarmi i documenti del tuo amico e ritirare i suoi oggetti personali, mostrando ovviamente tutte le carte necessarie per la detenzione di armi di quel genere, anche solo per collezionismo. E ti converrà tenerlo d’occhio, d’ora in poi: se dovesse ricapitare un episodio spiacevole come quello di lunedì sera potrei non essere così clemente. Intesi?».
«Intesi», rispose pacatamente, sentendo un grande dispiacere avvolgergli il cuore come piombo fuso.
Già cinque mesi prima sapeva che abbandonandola l’avrebbe persa, ma ora che avevano consensualmente e definitivamente firmato la fine della loro amicizia quel pensiero solo teorico era diventato realtà e Dio solo sapeva quanto faceva male.

 

***

 

Merlino si passò ancora una volta le mani sul viso, borbottando: «Ma come vi è venuto in mente?».
«Cosa hai detto?», gli chiese Artù, rigirandosi tra le mani il suo boccale di birra quasi vuoto e gettando una rapida occhiata attraverso la vetrata accanto a cui era sistemato il tavolino alto intorno a cui erano seduti.
«Niente. Non pensavo che Alex accettasse».
«State parlando di me?», chiese proprio lei, comparendo all’improvviso e posando entrambe le mani sulle sue spalle.
Merlino le sorrise, prendendole una mano e facendole fare una giravolta prima di farle prendere posto sullo sgabello accanto al suo. La sua gonna a pieghe si sollevò un poco, rincorrendosi all’infinito sopra le sue gambe affusolate avvolte in un paio di collant color carne, e Alex gettò il capo all’indietro, l’ombra di un sorriso sulle labbra.
«Stavo dicendo che non pensavo che avresti accettato di venire», le disse alla fine, quando l’infermiera smise di girare e si sistemò sulla vita il maglioncino bianco a pois neri a maniche corte.
«E come potevo rifiutarmi? Artù mi doveva due boccali di birra!», esclamò, facendogli l’occhiolino. Poi si voltò verso Merlino e lo guardò con le sopracciglia inarcate, girandosi la fine della treccia bionda tra le dita. «Credevo che steste discutendo su quanto sono bella questa sera».
«Ma non c’è nulla di cui discutere: è un dato di fatto».
Artù, rimasto fino ad allora in silenzio a guardarli mentre si scambiavano tutta quella serie di smancerie, drizzò la schiena all’improvviso quando scorse una moto parcheggiare dall’altra parte della strada.
«È lei, ne sono sicuro», disse, trepidante come un bambino.
Il motociclista si tolse il casco – da motocross, con il parasole appuntito e senza la visiera – e un’inconfondibile cascata di capelli rosso sangue venne subito scompigliata dal vento freddo che nel tardo pomeriggio si era sostituito alla pioggia. Cathleen.
Merlino non aveva ancora afferrato perché il sovrano fosse così interessato a lei e non aveva neppure il coraggio di chiederglielo apertamente, temendo di aprire vecchie ferite facendogli notare quanto fosse diversa da Ginevra. Quindi rimase in silenzio e la osservò mentre legava la moto – e che moto, ora che riusciva a vederla meglio – e poi attraversava la strada per entrare nell’unico pub della loro cittadina, ancora semi-vuoto e con un disco dei Led Zeppelin che usciva piano dalle casse disseminate qua e là nel piccolo locale.
Rispetto a quella mattina era tornata la solita Cathleen di sempre, col trucco nero intorno agli occhi, le labbra rosso fuoco e il suo scintillante sorriso a trentadue denti.
Indossava una canotta nera dei Bullet For My Valentine con stampato sopra un teschio invaso da rovi di rose rosse e un paio di leggings neri con decine e decine di lacci intrecciati sul davanti, che lasciavano del tutto scoperte le ginocchia ora arrossate dal freddo. Intorno al collo portava un foulard porpora con piccoli teschietti bianchi e ai piedi i suoi irrinunciabili anfibi.
Non appena incrociò i loro sguardi però il suo sorriso tentennò e lei esitò prima di avvicinarsi, tenendo il casco stretto al petto e le spalle contratte sotto la giacca di pelle.
«Ciao Cathleen, grazie per essere venuta», esclamò subito Artù, alzandosi in piedi in segno di rispetto.
Merlino scosse il capo, realizzando che non avrebbe mai perso le abitudini cavalleresche. Poi lo imitò e salutò la rossa, invitandola a sedersi con un cenno del capo.
«Artù non mi aveva detto che…», si interruppe, scossa da una risata nervosa. «L’ultima volta che sono stata ad un appuntamento a quattro…».
«Appuntamento a quattro?», ripeté scioccata Alex, arrossendo. «Oh no, non è affatto un appuntamento a quattro. Anzi, se volete un po’ di intimità io e Merlino possiamo spostarci in un altro tavolo».
«Intimità? Loro due?!», squittì il mago, ansiolitico, ma Alex non vi badò e sorridendo ad Artù e Cathleen lo prese per il braccio e lo trascinò al bancone, su cui si sporse per attirare l’attenzione del barista, un uomo che col suo aspetto austero e arcigno avrebbe potuto benissimo essere stato un professore, l’incubo di tutti i suoi studenti. Bastò un sorriso però per trasformare il suo viso in quello dell’uomo più gentile e disponibile sulla faccia della terra.
«Cosa ti do’, tesoro?».
«Il secondo giro. Metta ancora sul conto del mio amico qui», disse, dandogli una pesante pacca sulla schiena.
Merlino però non se ne accorse neppure, troppo impegnato ad osservare ogni movimento ed espressione facciale di Artù e Cathleen, seduti ora l’uno di fronte all’altra, sorridenti e rilassati. Nonostante tutto sembrasse andare per il meglio, lo stregone era certo che presto o tardi tutto sarebbe precipitato, e rovinosamente, rendendo quella serata la peggiore di tutti i tempi.
Alex gli prese il viso con una mano, premendo le dita sulle sue guance magre, e lo costrinse a guardarla negli occhi. «Perché sei così preoccupato? Cathleen è grande e vaccinata, se Artù la importunerà se la saprà cavare».
Merlino non riuscì a spalancare la bocca per lo stupore solo perché Alex non aveva ancora mollato la presa. Per un attimo pensò di poterle dire che aveva pensato esattamente il contrario e che Artù non sarebbe stato in grado di difendersi – di nuovo buone maniere cavalleresche – ma evitò per non complicarsi ulteriormente l’esistenza.
«Credo solo che non siano fatti l’uno per l’altra», rispose, voltandosi ed attaccandosi al suo nuovo boccale di birra.
«Come fai a dirlo?».
Merlino si passò il dorso della mano sulle labbra per levare ogni possibile traccia di schiuma. «Conosco Artù e so che Cathleen non è il suo tipo».
«Credi che ci si possa innamorare di un solo tipo di persone? Perché per me non è stato così».
«Ti riferisci a Keith?». Le rivolse un sorriso beffardo. «Da come è andata a finire, credo che questa sia la conferma della mia teoria. Non era il tuo tipo».
«Quindi nemmeno Myra era il tuo, giusto?».
Merlino sapeva che prima o poi ci sarebbe arrivata, stava aspettando quel momento da quel pomeriggio, quando era andato a cercarla e aveva visto Artù rientrare dalle porte vetrate del pronto soccorso con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Aveva capito che il suo brutto presentimento si era avverato non appena aveva incrociato il suo sguardo e aveva capito che Alex avrebbe saputo quello che lui e Myra si erano detti quando il re gli aveva confessato che aveva l’aria di essere un po’ ostile nei confronti della poliziotta.
«Tra me e Myra non c’è mai stato niente», rispose sospirando, senza cercare un contatto visivo con Alex, evidentemente più interessata al fondo del suo boccale. «Ma sì, non sarebbe stata il mio tipo».
«Non vuoi proprio raccontarmi quello che è successo tra voi, eh?».
«Non c’è niente da raccontare, Alex. Pensavo di fare del bene, standole vicino, invece ho incasinato tutto, dandole false speranze. Lei era innamorata di me, è vero. Era questo che volevi sapere? Era innamorata di me, ma io la consideravo soltanto un’amica. Pensavo che sarebbe stato meglio per lei non farmi più vedere – lontano dagli occhi, lontano dal cuore – e invece, da quello che mi ha detto oggi, so di averla resa ancora più infelice. Va sempre a finire così. Sto cercando di dirtelo in ogni modo che anche tu presto o tardi…». 
Alex lo interruppe posandogli l’indice sulle labbra e dopo averlo guardato intensamente negli occhi per una dozzina di secondi sorrise smagliante, sussurrando: «Devo andare di nuovo a far pipì. La birra ha sempre questo effetto collaterale su di me, ma non ne farei mai a meno».
Merlino la guardò dirigersi sicura verso la toilette ed accennò un sorriso, capendo solo in quel momento la sua sottile metafora. E capì anche che per lui era lo stesso: se con Myra e ancora prima con Louise era riuscito ad allontanarsi in tempo, a rinunciare al loro amore, sapeva che non ne sarebbe mai stato in grado con Alex. Non avrebbe mai potuto fare a meno di lei.

 

***

 

Abbandonato da Alex, Artù si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e passeggiò lungo il corridoio ripensando a tutto ciò che gli aveva detto.
Si fermò accanto alle ampie finestre che davano sul parcheggio e sul parchetto di fronte, dove Merlino l’aveva trascinato per rivelargli che si trovava nel futuro.
Posò una mano sul vetro striato dalle gocce di pioggia e con l’altra si allentò il nodo di quell’odiosa ed insopportabile cravatta. Fu in quel momento che vide Cathleen, seduta su una vecchia altalena, con i capelli umidi e i piedi nel fango.
Non ci pensò su due volte e scese di corsa i quattro piani che lo separavano dall’uscita, dopodiché la raggiunse, incurante della pioggia sottile che presto avrebbe appiccicato anche i suoi capelli al volto e probabilmente avrebbe rovinato il vestito che Merlino, munito di ago e filo, aveva adattato per lui con tanto impegno.
Si dondolava pigramente sull’altalena cigolante e non si accorse della sua presenza fino a quando non le chiese: «Posso?», indicando il secondo seggiolino libero.
Cathleen lo guardò con occhi appannati, come se il suo corpo fosse lì e la sua anima no; sbatté le palpebre un paio di volte ed annuì, abbozzando un sorriso fulmineo tanto nell’apparire che nello scomparire.
Artù passò una mano sulla superficie bagnata del seggiolino nero e poi si sedette, guardando il cielo bianco grigiastro sopra di sé.
«Ti prenderai l’influenza», mormorò ad un tratto il paramedico, spezzando il silenzio.
«Anche tu».
«Già, ma se la prendo io nessuno se ne preoccuperà».
Artù la guardò e schioccò la lingua contro il palato. «Non ci credo».
Cathleen gli restituì l’occhiata, sorridendo ironicamente. «Non mi conosci, perciò posso anche capirti. Sai, io un terribile difetto: dico sempre la verità, nuda e cruda. Perciò se dico che nessuno si preoccuperà per me, vuol dire che è così».
«Nemmeno tu mi conosci. Per quanto mi riguarda, raramente ammetto di aver torto».
«Temo che questa sarà una delle rare volte, allora».
Artù sogghignò e si voltò verso Cathleen con tutta l’altalena, intrecciando le catene un po’ arrugginite di fronte al suo viso. «Ti sbagli. Io mi preoccuperei per te».
Cathleen rimase un po’ sbigottita dalle sue parole, per il tempo necessario perché le catene si districassero, facendo dondolare Artù da destra a sinistra e viceversa. Quindi scoppiò a ridere, sorprendendolo.
Soprattutto perché scorse sulla sua lingua, proprio nel mezzo, una piccola perla argentata.
«In questo caso», esordì, continuando a sorridere divertita, «o stai mentendo – e molto bene, davvero – oppure stai flirtando con me».
«Non sto mentendo», rispose sinceramente. E altrettanto sinceramente aggiunse: «Ma non so nemmeno che cosa voglia dire la seconda cosa che hai detto».
Il paramedico esitò, indecisa se stare al suo gioco o meno, e alla fine gli spiegò teneramente, inarcando le sopracciglia: «Non mi stai
corteggiando?».
«Oh. Beh, io non… Tu che cosa pensi? Perché sono sempre stato un disastro. Nel corteggiamento, intendo».
Artù sentiva il viso in fiamme e lo stomaco stretto in una morsa che non aveva ancora ben capito se fosse del tutto spiacevole. Non l’aveva raggiunta con lo scopo di
flirtare, piuttosto per tirarla su di morale, ma non gli dispiaceva nemmeno questo repentino ed inaspettato cambio di programma. Dopotutto Cathleen era una bella ragazza, una ragazza strana e diversa da qualsiasi altra, e gli sarebbe piaciuto molto conoscerla un po’ di più, approvazione di Merlino o meno. Ora che ci pensava aveva sempre avuto questo punto debole, il continuo cercare la sua approvazione, il suo sostegno… era ora che iniziasse a camminare da solo, visto che presto o tardi, con tutta probabilità, i ruoli si sarebbero invertiti: Merlino sarebbe stato quello da proteggere e lui avrebbe dovuto prendersi carico di quella responsabilità.
«Non mi sei sembrato così male», gli rispose, dopo aver riflettuto un poco, col naso arricciato e gli occhi castani fissi nei suoi. Erano così simili a quelli di Ginevra…
Artù scosse il capo per dimenticarsi del suo volto, presto sostituito da quello di Cathleen, e ridacchiò passandosi una mano tra i capelli ormai fradici di pioggia.
«Lo dici solo per essere gentile. Tutte le volte che mi sono cimentato nel corteggiamento le ragazze si rivelavano essere mostri o sotto l’effetto di una qualche droga».
«Per qualche tempo tra i bambini è girata la voce che io fossi un vampiro, ma come vuoi vedere tu stesso», aprì la bocca e si toccò il canino destro, indicandoglielo, «i miei denti sono solo frutto di una buona igiene orale. Per quanto riguarda le droghe… la mia ultima canna è stata all’ultimo anno del liceo». Scrollò le spalle, rivolgendogli un sorriso smagliante. «Sono pulita».
Era da tempo che Artù non si sentiva così spensierato e rilassato ed era tutto merito di Cathleen. E ne era spaventato, eccome se lo era, ma non voleva rovinare tutto.
Sorrise e nonostante un po’ di nervosismo disse: «Ne ero sicuro. Ad ogni modo, saresti stata il mostro più bello che avessi mai visto».
«Vedi, vai alla grande nel corteggiamento!», esclamò il paramedico, per poi scoppiare in una nuova risata cristallina, contagiandolo.

 
Artù non sapeva nemmeno che in quella minuscola cittadina ci fosse un pub – era così che venivano chiamate le taverne ora – ed era stata la stessa Cathleen a suggerirglielo, ma sua era stata l’iniziativa di portarla fuori. All’inizio aveva pensato ad una cena, poi la ragazza gli aveva fatto capire che non era il tipo di ragazza a cui piacevano i bei ristoranti e che, come primo appuntamento, sarebbe andata benissimo una birra.
Una volta a casa, con sua immensa vergogna, Artù aveva chiesto a Merlino che cosa fosse un ristorante e soprattutto che cosa intendesse con la parola “appuntamento”. Come aveva previsto il mago era andato su tutte le furie, ripetendogli fino alla nausea che quella storia non sarebbe andata a finire bene, ma era contento di non avergli dato retta. Cathleen era radiosa, nonostante l’inizio un po’ impacciato, e il suo sorriso gli trasmetteva la stessa calma e serenità che gli aveva trasmesso quel pomeriggio, su quell’altalena bagnata di pioggia.
«Scusami ancora per prima, solo che… mi ha colto alla sorpresa vedere Merlino e Alex. Pensavo saremmo stati soli», disse Cathleen dopo aver bevuto un sorso della sua birra.
«Non devi scusarti, è stata colpa mia», rispose cercando di rassicurarla, pensando in realtà che era tutta colpa di Merlino: era lui che aveva insistito perché lo accompagnasse e nemmeno la condizione che gli aveva proposto come deterrente era servita, dato che Merlino aveva davvero chiesto ad Alex di uscire con lui e lei aveva accettato.
Cathleen sorrise ed incrociando le braccia sul ripiano lucido del tavolino voltò il capo verso il bancone, da dove Merlino, rimasto solo, li stava spiando. Non appena si rese conto del suo sguardo si voltò, nascondendosi dentro il suo boccale di birra.
Cathleen ridacchiò e lo indicò col pollice, confessando: «Mi detesta, sai?».
«Perché dovrebbe?», le chiese Artù, la fronte corrugata.
«Abbiamo avuto un piccolo diverbio, qualche tempo fa».
Il re contrasse le mascelle. «Quanto piccolo?».
«Okay, non così piccolo. Voleva immischiarsi in questioni che non lo riguardavano e mi sono comportata da vera e propria stronza, ma penso che certi segreti debbano rimanere tali, soprattutto se riguardano qualcosa che fa paura e fa troppo male».
Quelle parole furono come una coltellata alla schiena. Non poteva immaginare quanto Merlino avesse sofferto in silenzio nascondendo a tutti il proprio segreto, ma attraverso gli occhi di Freya aveva visto quanto si era sentito sollevato quando aveva trovato qualcuno con cui condividerlo, qualcuno di cui fidarsi e che poteva capirlo. Per questo poteva benissimo immaginarsi anche come si doveva essere sentito quando aveva capito che Cathleen stava patendo la sua stessa sofferenza e perché aveva deciso di offrirle una mano a cui aggrapparsi. Una cosa che Artù non aveva mai potuto fare perché non aveva mai capito.
«Sono certo che Merlino volesse solo aiutare», disse schiarendosi la gola, gli occhi bassi.
«Beh, non poteva. Ma non si arrendeva, lui… continuava a dire che ce l’avrei fatta, ma… nessuno può o potrà mai aiutarmi, nessuno». Tirò su col naso, evidentemente scossa, ma invece di mostrare le proprie emozioni apertamente si nascose dietro un sorriso e tirò fuori dalla sua grande borsa borchiata un pacchettino da cui estrasse una di quelle sigarette che aveva visto in una serie TV.
«Ti dispiace se vado a fumare?».
Cathleen non aspettò la sua risposta né gli chiese di accompagnarla fuori: era chiaro che voleva stare da sola.
La guardò uscire dal pub, sedersi sul marciapiede, poco lontano dalla porta, e accendere la sua sigaretta proteggendo la fiamma dal vento con una mano. Poi Artù saltò giù dallo sgabello e raggiunse Merlino riservandogli l’espressione più minacciosa che avesse nel proprio repertorio.
Lo prese per il collo della maglia ed incatenò lo sguardo al suo, sibilando: «Ti sei per caso dimenticato di dirmi che tu e Cathleen vi conoscete piuttosto bene?».
«No», rispose calmissimo, per nulla intimorito dal suo sguardo furente. «Quello che so di lei è quello che mostra di sé, nient’altro».
Artù digrignò i denti. «Merlino…».
«Vi ha appena detto che abbiamo avuto una discussione, non è così? Questo mi lascia stupito, ma non importa. Non so cosa ci trovate in lei né che intenzioni avete, ma non spetta a me giudicare e non volevo fare il guastafeste, per questo non vi ho detto nulla».
Lo lasciò bruscamente e si sedette al suo fianco, senza smettere però di guardarlo in cagnesco. «Parla, avanti».
«Tempo fa ho scoperto che non è solo Cathleen che va in cerca di attenzioni, ma che molti, all’ospedale, vanno a cercare lei per qualche ora di… svago, chiamiamolo così. Cathleen viene sfruttata, si lascia sfruttare e io volevo solo capirne il motivo. Un pomeriggio l’ho vista mentre si rifiutava di andare ad uno di questi incontri e, insospettito, ho deciso di seguirla».
Artù aprì la bocca, sconvolto. «Non perderai mai questa abitudine, vero?».
«Ha sempre funzionato con voi», rispose sorridendo. «Comunque, Cathleen ha rinunciato all’offerta di quel dottore perché doveva andare al cimitero. L’ho raggiunta e l’ho vista piangere sulla tomba di quello che poi ho scoperto essere il suo fidanzato. È lì che abbiamo avuto quella discussione: io le ho chiesto perché continuava a farsi del male con le sue stesse mani, se per caso la morte del suo fidanzato c’entrasse qualcosa, e lei mi ha accusato di averla pedinata, di aver violato la sua privacy e che non ero nessuno per giudicarla ed intromettersi in quel modo nella sua vita, che non aveva bisogno del mio aiuto né di quello di nessun altro e alla fine… beh, mi ha mandato all’inferno».
Artù non rispose, addolorato com’era per ciò che aveva dovuto patire quella ragazza che, ora lo capiva, sorrideva solo per nascondere ciò che la stava dilaniando dentro, qualcosa che per un po’ era riuscito a prendere il sopravvento, al funerale di Steve. Ricordò inoltre le parole di Abigail, la sua teoria secondo la quale il suo abbigliamento, il suo trucco, tutta la sua esteriorità fossero soltanto una maschera in grado di celare la sua solitudine. Ora che sapeva quanto aveva perso gli sembrava ovvio, persino comprensibile e giustificabile, ma sapeva che in fondo non poteva esserlo. Cathleen non lo meritava, non meritava ciò che lei stessa si stava facendo.
«Con me è stata piuttosto chiara: non vuole aiuto. Perché voi dovreste essere diverso?».
Artù notò che gli occhi di Merlino si erano riempiti di amarezza e delusione, segno che aveva abbandonato quella battaglia già da molto tempo.
Gli colpì la schiena con una mano, lasciando che un sorriso affiorasse alle sue labbra. «Perché io non sono te».
«Ovviamente», mormorò il mago proprio quando Alex tornò dal bagno, accorgendosi subito della sua aria demoralizzata.
«Che è successo?», chiese e rivolse subito tutta la propria attenzione ad Artù, incrociando le braccia al petto e guardandolo con sguardo ammonitore. «Dov’è Cathleen? Che cosa le hai fatto?».
«Un bel niente», sbottò roteando gli occhi al cielo.
«Allora vai da lei», lo incoraggiò Merlino, anche se – Artù glielo leggeva in faccia – sapeva che presto se ne sarebbe pentito.
Il re annuì e afferrò il giubbotto per affrontare il vento gelato, ma prima che uscisse del tutto Merlino aggiunse: «Fai un complimento alla sua moto, le farà piacere».
Non avrebbe mai immaginato di poter accettare consigli del genere da lui, non a mente lucida almeno. Cercò di non pensare a quanto suonasse strano e lo ringraziò, chiudendosi la porta vetrata alle spalle.
Si avvicinò lentamente a Cathleen, intenta a fare dei cerchi di fumo muovendo le labbra come un pesce, e si sedette al suo fianco senza trovare nulla da dire. Non aveva altre carte da giocare, tanto valeva usare subito quella che gli aveva suggerito Merlino.
«Ti ho vista arrivare su quella moto, prima. È veramente bella».
«Te ne intendi?», gli chiese senza concedergli nemmeno uno sguardo.
«Assolutamente no. Ma mi piace e mi piacerebbe moltissimo farci un giro. Che ne dici?».
Sorrideva forzatamente, mangiato dall’ansia, ma veder affiorare uno spiraglio di buon umore sul volto di Cathleen fu un vero sollievo.
Rientrò nel pub solo per avvisare Merlino che Cathleen lo portava a fare un giro con la moto e salutare Alex, raccomandandole di non fare troppo tardi. Non ebbe il tempo di vedere le loro facce sconvolte, per un motivo o per l’altro. Quando entrambi uscirono dal pub, chiamandoli a gran voce, Cathleen era già schizzata via e non li sentirono sopra il rombo del motore.

 
Aveva urlato entusiasta, scosso dall’adrenalina, e il suo cuore batteva ancora forte quando Cathleen fermò la sua enduro – così l’aveva chiamata – e gli disse che ora poteva lasciarla andare. Artù si affrettò a sciogliere l’abbraccio che gli aveva impedito di volare via e realizzò, avvertendo un certo rossore farsi spazio sul suo viso, che probabilmente la vicinanza del corpo di Cathleen era stato uno dei motivi per cui il suo cuore non aveva ancora smesso di correre.
«Allora?», gli domandò sorridente, mentre lo aiutava a togliersi il casco – l’unico che avesse e che gli aveva fatto indossare prima con le buone e poi con le cattive maniere.
«È stato fantastico!», gridò, saltando giù dalla moto. «Ne voglio una anche io!».
Cathleen rise di gusto, passandosi le mani tra i capelli scompigliati dal vento, poi indicò la palazzina di fronte alla quale si erano fermati. «Ti va di salire per un caffè?».
Artù  sollevò il capo, osservando le piccole finestre illuminate oppure dalle persiane già abbassate. «Oh, tu abiti qui?».
«Già. L’ascensore è fuori uso, ma io sono al secondo piano, quindi…».
«Le scale vanno benissimo», la interruppe. «Andiamo».
Cathleen abitava in un piccolo appartamento, con una sala più grande che faceva contemporaneamente da cucina e da salotto, un bagno e un’altra stanza che non poteva che essere la sua camera da letto. Era ordinato e pulito, ma cosparso in ogni angolo di statuine di fate alate, spiriti della foresta e altri esseri chiazzati di muschio che davvero non riusciva nemmeno ad immaginare che cosa fossero.
«Benvenuto nel mio mondo», gli disse, invitandolo a darle il suo giubbotto e a fare come se fosse casa sua.
Artù si avvicinò ad una mensola su cui erano disposte piccole ragazze coi capelli e le ali di ogni colore, il seno prosperoso e le gambe nude sottili come fuscelli.
«Ti piacciono?», gli chiese, comparendo alle sue spalle all’improvviso con indosso la sola canotta col teschio e i capelli raccolti in una coda alta, il collo candido e sensuale in bella vista. «Tranquillo, non mi offendo. Non saresti il primo a dire che le trova inquietanti».

E quanti prima di me le hanno trovate inquietanti? si chiese il re di Camelot, ripensando alle parole di Merlino. Accennò un sorriso, deglutendo rumorosamente.
«Ho sempre avuto un rapporto complicato con gli esseri magici e via dicendo».
«E come mai?».
Artù scrollò le spalle. «Non sono… naturali?». Più che un’affermazione suonò come una domanda, perché davvero non aveva idea di cosa dire senza rivelarle che quasi tutta la magia che aveva visto nel corso della sua vita aveva provocato morti e sofferenze. E ne avrebbe provocate ancora.
«Chi ti dice che non sia il contrario? Io penso che non essere magici sia innaturale. Mi piace pensare che dentro ognuno di noi ci sia un pizzico di magia inespressa, pronta ad essere risvegliata…».
«Sciocchezze», la interruppe bruscamente, più bruscamente di quanto avrebbe voluto. Non appena si accorse della sua espressione corrucciata sospirò, maledicendosi. «Perdonami, non volevo essere scortese. È solo che… Se fosse come dici tu, se ognuno avesse un po’ di magia dentro di sé… Beh, non credo che tutti la utilizzerebbero per il bene».
La sua fronte si stese di nuovo, serena. «Su questo sono d’accordo con te».
«Questi che cosa sono?», chiese Artù, indicando delle piccole creature con pigne come cappelli e grossi funghi come ombrelli, tutti in fila su un ripiano della libreria accanto al televisore.
«Troll. Li adoro, sono birichini e anche molto vendicativi, se li si fa arrabbiare».
«Non lo metto in dubbio», mormorò, guardandoli più da vicino e sentendo un brivido corrergli lungo la spina dorsale al ricordo di Lady Catrina, il troll di cui suo padre si era follemente innamorato – nel vero senso del termine.
«Ma il pezzo forte della collezione è qui, vieni».
Cathleen lo prese per mano e Artù sentì un altro brivido, ben più forte e di tutt’altra natura. Si lasciò trascinare dall’altra parte del salotto, di fronte alla grande libreria bianca, formata da tanti quadrati accatastati gli uni sugli altri e senza fondo, che faceva da separé tra il salotto vero e proprio e l’angolo cottura. Dall’ingresso non li aveva notati, ma ora capiva perfettamente perché Cathleen li aveva definiti il pezzo forte della collezione. Erano quasi un centinaio, di ogni colore e dimensione e raffigurati in pose sempre diverse: draghi.
«Ho visto che sul tuo mantello ce n’era uno. Che ne pensi?».
Artù stirò un sorriso, rendendosi conto per la prima volta di quanto suonasse ironico il fatto che la casata dei Pendragon avesse un drago nel proprio stemma, la stessa casata che aveva quasi fatto estinguere quella specie affascinante e, diciamoci la verità, dannatamente pericolosa.
«Beh… sono impressionato», rispose senza dover ricorrere alle bugie. E in un certo senso non avrebbe mentito, omettendo che le mani di suo padre erano macchiate di sangue di drago e che lui stesso ne aveva ferito uno con l’intenzione di ucciderlo.
«Vorresti rimanere ancora più impressionato?», gli chiese a bassa voce.
Artù la guardò e non fece nemmeno in tempo ad accigliarsi che Cathleen si stava già sfilando la canotta, mettendo il bella mostra il suo reggiseno di pizzo nero che spiccava sulla sua pelle diafana. Gli gettò uno sguardo sensuale, un angolo della bocca sollevato in un sorriso soddisfatto, poi si voltò e posandosi la lunga coda sulla spalla sinistra si apprestò a slacciare i ganci che coprivano in parte il grande drago che aveva tatuato sulla schiena.
Aveva le zampe piegate come se la spina dorsale di Cathleen fosse un ripido pendio da scalare, la testa girata di profilo e le fauci spalancate a mostrare una fila di denti tanto aguzzi da far venire i brividi. L’intero corpo del drago era color rosso fuoco con sfumature verdi sulle scaglie del muso e sugli spuntoni che gli percorrevano tutto il dorso. Le ali gigantesche erano semi-aperte e ricoprivano praticamente tutta la pelle sopra la sua scapola destra, mentre la lunga coda, dopo alcuni giri su se stessa, si piegava poco sopra le fossette di venere alla fine della sua schiena.
Artù aveva la testa che gli girava, ma avvicinò comunque una mano alle ali della creatura, rapito dalla sua forza e, incredibilmente, dalla sua eleganza. Non appena le sfiorò però si ricordò che quella era la schiena nuda di Cathleen, bollente sotto le sue dita, e sobbalzò vedendola rabbrividire. Il paramedico si girò, del tutto incurante di essere nuda dalla vita in su, e lo guardò con occhi languidi e allo stesso tempo assenti. Gli posò una mano sulla nuca, all’attaccatura dei capelli, e lo baciò senza dargli il tempo di reagire, il petto bollente contro il suo.
Artù provò a rilassarsi, a dimenticare tutto quello che Merlino aveva detto e che forse lui era solo l’ultimo di una lunga lista e che il giorno dopo sarebbe stato dimenticato; provò a dimenticare anche il vuoto che aveva visto nel suo sguardo, un dolore profondo e inconsolabile. Per un attimo ci riuscì, il tempo necessario a posare delicatamente le mani ai lati del suo viso per approfondire il bacio. Poi l’ennesimo flashback lo fece trasalire.

«Io non voglio più perderti. Vuoi sposarmi?».
«Sì! Sì, con tutto il mio cuore».

Si scostò bruscamente e le lasciò il viso per guardare quella sbigottita non-Ginevra negli occhi, fino a quando non riuscì a trovare la forza per accennare un sorriso e dire: «È pronto il caffè?».
Cathleen boccheggiò come un pesce fuor d’acqua, come se non avesse messo in conto che avrebbe dovuto prepararlo sul serio, poi si piegò per raccogliere la canotta che aveva lasciato cadere a terra assieme al reggiseno e corse in bagno senza guardarsi più indietro.
Artù si passò il dorso di una mano sulla bocca e poi si coprì il viso per sospirare amaramente, col cuore che gli batteva dolorosamente nel petto.

 

***

 

Merlino si era lamentato all’inverosimile, raggiungendo livelli di paranoia che Alex non aveva mai avuto il piacere di riscontrare nel suo carattere, ma alla fine era riuscita a convincerlo che era inutile continuare ad aspettarli lì. Così erano usciti dal pub ed erano saliti sull’auto di Merlino, il quale aveva annunciato mestamente che la riportava a casa. Alex però aveva dato un’occhiata al suo orologio e rischiando il tutto per tutto aveva detto: «È ancora presto. Perché non andiamo a casa tua?».
Come aveva previsto Merlino si era irrigidito, con le mani strette intorno al volante, ma poi senza dire una parola, scrollando solo le spalle, aveva fatto inversione ad U.
Parcheggiò l’auto di fronte al vecchio fienile e per la prima volta Alex si trovò nell’immenso giardino che aveva avuto modo di osservare solo dalla cucina. Era bellissimo, sotto la mezzaluna che brillava nel cielo sgombro di nuvole: decine di piccole lucciole saltavano da un fiore di campo all’altro, quasi a perdita d’occhio, e tutto era pace e silenzio, eccetto per il delicato stormire degli alberi, in particolare del grande salice piangente, e del lento gorgogliare del fiumiciattolo.
«Tè?», le domandò Merlino, riportandola alla realtà.
Alex abbozzò un sorriso ed annuì. «Volentieri».
In casa c’era un piacevole tepore, merito dei termosifoni ancora accesi, ma Merlino insistette nel voler accendere il camino mentre l’acqua per il tè si riscaldava sul fornello.
Alex si sedette in cucina e si stava chiedendo che cosa stessero facendo Artù e Cathleen, quando la borsa che aveva appoggiato allo schienale della sedia cadde a terra rovesciando tutto il proprio contenuto sul pavimento. Si inginocchiò per sistemare e rimase pietrificata quando le sue dita sfiorarono l’action figure di Capitan America di Steve. Le lacrime le affluirono agli occhi con velocità sorprendente e si ritrovò a tirare su col naso ancor prima di accorgersi della presenza di Merlino alle sue spalle.
«Ehi…».
Alex voltò il viso dall’altra parte e respirò profondamente, cercando di cacciare nell’angolo più profondo della sua anima la tristezza che le stava scavando l’ennesimo buco nel petto.
«Questo me lo ricordo», disse Merlino sorridendo, inginocchiandosi al suo fianco per prenderle il gioco dalle mani. «Ero così invidioso… Steve non ha più calcolato nessun altro regalo quando tu gli hai dato questo».
«Che ci vuoi fare», rispose ridacchiando. Poi ingoiò il nodo che le stringeva la gola e come se nulla fosse disse: «Oggi, durante la messa, ho sentito quello che ti ha chiesto Artù».
Merlino socchiuse gli occhi, lasciando cadere le spalle: evidentemente aveva sperato fino all’ultimo che non se ne fosse accorta. Ma Alex aveva sentito fin troppo bene e quel pomeriggio, a casa, aveva fatto delle ricerche sui funerali nell’epoca medioevale, al tempo di Re Artù. Non aveva trovato molto, solo una serie di dipinti che raffiguravano un’imbarcazione ornata di fiori guidata da un individuo avvolto in un pesante mantello nero, probabilmente la personificazione della morte stessa. Quell’immagine le aveva fatto venire alla mente il film Thor: The Dark World e in particolare la scena del funerale di Frigga, la madre del Dio del Tuono. Da lì era riuscita a risalire ai funerali vichinghi, nei quali c’erano proprio barche funerarie su cui venivano cremati i morti.
Artù aveva proprio accennato al fuoco, chiedendo a Merlino quando il corpo di Steve sarebbe stato bruciato, e Alex, di fronte al computer, aveva realizzato che probabilmente era così che al tempo dei Cavalieri della Tavola Rotonda venivano celebrati i riti funebri: alla vichinga. Si era domandata se anche Artù avesse ricevuto lo stesso trattamento e aveva sentito un brivido di freddo percorrerle la spina dorsale pensando al lago da cui l’aveva tirato fuori. Perché avrebbe dovuto trovarsi lì, altrimenti?
«Devi imparare ad ignorarlo, ogni tanto», esclamò Merlino, scuotendo il capo.
«Lo so, è che…». Abbassò gli occhi sull’action figure e poi con determinazione riprese: «Ho fatto delle ricerche e penso che Steve si meriti più di un funerale normale. E pensare che non avrò un posto dove poterlo piangere mi spezza il cuore».
Merlino la guardò intensamente, tanto intensamente che Alex ebbe paura che potesse leggerle l’anima. Si sollevò per spegnere il bollitore e poi le porse la mano perché si alzasse a sua volta.
Alex lo seguì in giardino e senza dire una parola lo guardò entrare nel vecchio fienile, ora utilizzato come garage e deposito per la legna. Merlino afferrò una lanterna a led e una vanga e gliele passò, poi levò un grande telo di plastica da una carriola colma di sassi e metà di ceppi di legno intagliati come piccole barchette spartane.
Il moro sollevò gli occhi per cogliere la sua reazione e Alex gli mostrò un sorriso. Non ci fu bisogno di spiegazioni: l’infermiera aveva già capito che Merlino nei giorni precedenti si era già organizzato per celebrare il suo funerale personale, con o senza di lei, e l’unica cosa che poteva pensare era che era fortunata ad averlo al suo fianco.
Accese la lanterna e gli fece luce fino alla sponda del fiumiciattolo, a qualche metro dal salice piangente. Lì Merlino lasciò la carrucola ed iniziò a scavare con la vanga, facendo un mucchietto di terra e sassolini accanto a sé. Alex avrebbe voluto aiutarlo, fare qualsiasi cosa le avesse chiesto di fare, ma Merlino agiva in silenzio, veloce e sicuro come se lo avesse fatto centinaia di volte, e Alex stringeva forte l’action figure di Steve tra le mani.
«Merlino…».
«Ci sono delle candele e un accendino in cucina, nel cassetto sotto al cordless».
Alex annuì, sollevata, e corse verso la veranda.
Aveva appena aperto il cassetto indicatole da Merlino quando sentì il rombo di una moto avvicinarsi. Si diresse verso uno dei bovindi nel salotto e guardò Artù mentre si toglieva il casco e lo passava a Cathleen. Non riusciva a vederli bene in viso a causa del buio, ma vide Artù chinarsi su di lei per posarle un bacio sulla fronte prima che si infilasse il casco. Quando la salutò ed iniziò a percorrere il vialetto Alex corse di nuovo in cucina e come se non avesse visto nulla riprese a cercare le candele.
«Alex?», esclamò Artù non appena aprì la porta, sorpreso di trovarla lì.
«Finalmente sei tornato. È stato molto scortese da parte tua andartene così, sai?».
Artù aprì la bocca per parlare, le sopracciglia aggrottate, ma Alex fu più veloce di lui e aggiunse: «Per questo più tardi mi dirai per filo e per segno che cosa è successo con Cathleen, intesi? Ora seguimi».
Il biondo si arrese e mestamente lasciò che gli facesse strada fino alla piccola fossa che Merlino aveva appena finito di scavare. Lui e il mago si scambiarono un’occhiata d’intesa.
«Tocca a te, Alex».
L’infermiera deglutì rumorosamente e si inginocchiò per posare il piccolo Capitan America nella terra nuda e fredda e trasferire un bacio dalle proprie dita al suo scudo. Artù si fece dare la pala da Merlino e lo ricoprì di terra, poi, insieme, iniziarono a posarvi sopra le pietre raccolte dentro la carriola, fino a formare una specie di piramide.
Merlino prese l’accendino dalle mani tremanti di Alex, sfiorandole i capelli con un bacio, ed iniziò ad accendere le piccole candele, bianche e rotonde, posizionandole poi nelle conche di quei ceppi tagliati. Quando furono tutti pronti, allineati sulla sponda del fiume, Artù chinò il capo e con la sua voce solenne, la stessa che aveva usato durante la cerimonia d’investitura, disse: «Rendiamo omaggio a Sir Steve, uno dei Cavalieri più nobili che io abbia mai conosciuto».
Alex, ora accanto a Merlino, con le mani strette intorno al suo braccio, lo sentì trattenere un singhiozzo a quelle parole, mentre una lacrima silenziosa faceva capolino sulla sua guancia.
«Non dimenticheremo mai il suo coraggio, la sua dolcezza, il suo cuore generoso. Che gli spiriti siano buoni con lui come lui lo è stato con noi».
Merlino tirò su col naso e seguì Artù sulla sponda del fiume, dove uno dopo l’altro fecero scivolare tutti i ceppi nell’acqua. Anche Alex ne spinse uno e guardò la fiamma della candela che trasportava allontanarsi velocemente seguendo la corrente, continuando a brillare anche nell’oscurità più profonda.
Sentì la mano di Artù stringerle una spalla e poi scostarsi, ritornando verso la veranda. Alex rimase lì ancora un po’, accanto a Merlino, sperando con tutto il cuore che quelle fossero le sue ultime lacrime di tristezza.

 

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Capitolo 14
*** 14. The witch’s quickening ***


Buongiorno! :)
Allora, questo capitolo a mio parere è una vera bomba. Nel senso che tutti i nodi - o quasi - vengono al pettine e si scoprirà anche qualcosa di inaspettato... Non vedo l'ora di sapere che cosa ne pensate!

Per quanto riguarda invece ciò che ho scritto la scorsa volta, sono davvero convinta che sia la soluzione migliore per continuare a fornirvi un "prodotto" di qualità e con una certa regolarità. Inoltre, non so se qualcuno segue la mia pagina facebook, ma recentemente ho scritto un piccolo sfogo a proposito di una situazione che mi è capitata. In breve, mi è venuto in mente di poter aggiungere una scena in un capitolo, ma non avrei potuto farlo senza andare a modificare quelli precedenti. Quindi mi sono detta: che sarebbe successo se quei capitoli che sarei dovuta andare a modificare fossero già stati postati? Di certo avrei dovuto abbandonare un'idea che mi convinceva parecchio e io... sarà per il mio perfezionismo, sarà perché sono una cavolo di rompiballe quando mi ci metto, non voglio che ricapiti.
Quindi continuerò a postare fino alla fine della prima parte della storia, poi confermo che mi prenderò una pausa per continuare a scrivere e possibilmente, se ce la farò, concludere definitivamente questa FF, la quale si è rivelata molto più impegnativa di quanto pensavo ma anche molto più gratificante, un viaggio davvero fantastico. Spero che anche per voi sia lo stesso e che non ve la prendiate troppo per la mia decisione.

Okay, detto ciò vi lascio al capitolo, che è meglio :)
Buona lettura!

Vostra,

_Pulse_

 

 

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14. The witch’s quickening

 

«Mi prendo cinque minuti», esclamò estraendo una sigaretta dal pacchetto e portandosela alle labbra mentre faceva l’occhiolino all’infermiera seduta dietro il bancone del ricevimento del Pronto Soccorso.
Lei ricambiò il sorriso, chinando subito dopo il capo per l’imbarazzo.
Si accese la sigaretta e camminò fino alla stazione delle ambulanze prima di tirare fuori dalla tasca del camice il cellulare e selezionare il primo numero sulla lista delle chiamate effettuate. Se lo portò all’orecchio e si guardò intorno ancora una volta per accertarsi che non ci fosse nessuno, poi sorrise quando sentì una voce di donna rispondergli in modo freddo e distaccato, professionale. La forza dell’abitudine. O forse perché riteneva il loro accordo un lavoro vero e proprio. E pensare che all’inizio era stata tutta urla, lacrime e dubbi. Ora sembrava ancora più determinata e spietata di lui, un lanciarazzi impossibile da disarmare.
«Disturbo?».
«No, affatto. Novità?».
«Una, molto buona».
«Ci sei riuscito?».
«Ha già ricevuto la lettera».
«Hai visto come ha reagito?».
«No».
«Peccato. Avrei pagato oro per vedere l’espressione sulla sua faccia. Quanto tempo credi che le servirà prima di correre a supplicare il tuo aiuto?».
«Non molto, suppongo. Quel reparto è diventato la sua vita perciò, se la conosco bene come credo, non si arrenderà finché non avrà ottenuto nuovamente il suo posto. Vedrai, andrà tutto secondo i piani».
«Me lo auguro. So che tieni molto a lei, ma per favore, falla patire un po’ prima di andare di nuovo a parlare con il dottor Ellis».
Sogghignò, scuotendo il capo. «Ti ho promesso la tua vendetta e l’avrai, sono un uomo di parola. Ma questo non basterà ad allontanarli, lo sai vero? Dovrai fare la tua parte».
«Non hai di che temere, Keith. Devo andare ora, ci sentiamo».
«Sarà un piacere, Myra».

 

***

 

Dopo millequattrocento anni, pensava che ormai i tempi in cui per lavoro puliva stanze e rifaceva letti fossero finiti. Si sbagliava.
Mentre Artù era stato pienamente accontentato, stando praticamente sempre a contatto con i cavalli, Merlino si era dovuto adeguare pur di stargli vicino: si era messo a totale disposizione non solo del signor Greenwood, ma anche della signora Morris, la quale gli aveva subito fatto capire che in primo luogo si sarebbe occupato della manutenzione e della pulizia delle stanze dell’agriturismo. Poi, nel caso fosse avanzato del tempo – e succedeva sempre – si sarebbe occupato della pulizia della hall, dei piatti da lavare in cucina, della spazzatura da buttare e infine della cura delle stalle insieme ad Artù. Era una vita dura, soprattutto per uno della sua età, ma gli piaceva quasi quanto piaceva ad Artù.
Erano già passate due settimane e il solo ed unico re, a dispetto di ciò che Alex aveva predetto, non aveva per nulla perso il proprio entusiasmo: all’inizio gli scalmanati bambini in gita scolastica gli avevano quasi fatto dare di matto, ma col tempo, i consigli del padre di Alex e un po’ di pratica aveva trovato il modo per tenerli sotto controllo e farsi ascoltare, impegnandosi persino perché si divertissero il più possibile con gli animali e durante i laboratori nei campi. Per questo non mentiva, quando diceva che era orgoglioso di lui.
Il telefono posato sul comodino iniziò a squillare e Merlino dovette spegnere l’aspiratore per poter sentire la voce di Rebecca, di turno in reception.
«Merlino, i clienti della 208 hanno detto che c’è un problema con lo scarico della vasca da bagno. Potresti darci un’occhiata quando hai due minuti? Sono appena usciti, torneranno solo questa sera».
«Consideralo già fatto». 
«Grazie mille. Ciao!».
Merlino si avvicinò alla finestra che dava proprio sulle stalle e sul grande recinto in cui i cavalli venivano lasciati liberi di brucare l’erba e dove i bambini potevano provare il brivido di salire su un carretto trasporta persone della metà del ‘900.
Appoggiato allo steccato, baciato dal sole delle quattro del pomeriggio, vide Artù parlare proprio con Alex. Quand’era arrivata? E perché il re non l’aveva subito chiamato per avvisarlo? 
Li fissò per una dozzina di secondi, il tempo necessario perché il sangue gli bollisse nelle vene. Quando Artù le posò entrambe le mani sulle spalle, avvicinando fin troppo il viso al suo per guardarla negli occhi e sussurrarle qualcosa, Merlino non ci vide più e lasciò la stanza pulita a metà per correre di sotto.
Rebecca lo vide sfrecciare attraverso la hall, ma non ebbe nemmeno il tempo per chiedergli che cosa fosse successo: rimase così a bocca aperta, sbigottita.
«Alex!», urlò correndo verso di lei, così forte da togliersi completamente il fiato.
L’infermiera si voltò e i suoi occhi velati di lacrime gli trafissero il cuore come coltelli affilati. Provò a rivolgergli un piccolo sorriso, con scarsi risultati, per poi mettergli sotto al naso una lettera con l’intestazione dell’ospedale e la firma non solo della sua capo-infermiera ma addirittura dell’intero Consiglio d’Amministrazione dell’ospedale.
Merlino afferrò la pagina scritta al computer e lesse velocemente riga dopo riga, percependo ogni emozione che Alex doveva aver provato quando si era trovata quelle stesse parole di fronte agli occhi.
«Ma è… legale?», domandò, sconvolto.
Alex annuì, riprendendo il foglio tra le mani per infilarlo di nuovo nella sua busta. «Solitamente però sono gli infermieri a chiedere un cambio di reparto, di comune accordo con la direzione. In questo caso, invece, a causa del periodo di crisi e di ben due infermiere che sono andate in maternità… io non posso oppormi in alcun modo».
«E quando…?».
«Da domani. Merlino, io non credo di potercela fare. Sono più di tre anni che non lavoro in Pronto Soccorso e…».
«Ehi, ehi», le posò entrambe le mani sulla testa, sorridendole dolcemente. «Andrai alla grande», sussurrò. «A Cardiff eri una delle migliori, perché qui non dovresti esserlo? Li surclasserai, ne sono certo».
Alex corrugò la fronte, scostandogli le mani, ma non fece in tempo ad aprire bocca che la signora Morris, dalla finestra di una delle stanze, chiamò Merlino a gran voce, facendolo sobbalzare.
«Le camere non si rifanno da sole!», urlò. «Quando avrai finito potrai parlare con Alex e avere anche una fetta di torta, ma fino ad allora…!».
Con una mano si schermò gli occhi, infastiditi dalla luce del sole, e le rivolse un sorriso. «Arrivo subito, Wanda!». Quindi si voltò di nuovo verso Alex e le diede un buffetto sulla guancia. «Ci vediamo dopo».
Si diresse verso le scale, ma dopo appena pochi passi si girò e guardò Artù con irritazione. «Tu non devi andare ad occuparti dei cavalli?».
«Sono in pausa», rispose il re, smagliante, scrollando le spalle.
Merlino strinse i pugni lungo i fianchi e si allontanò mentre borbottava come una pentola di fagioli, per nulla stupito che anche in quella vita Artù fosse il privilegiato dei due.

 

***

 

«Merlino pensa davvero quello che ha detto, sai?».
Alex lo guardò con le sopracciglia aggrottate, poi scosse il capo con un sorriso non troppo convinto sulle labbra. «Lo so, lo so. È solo che ho avuto una sensazione di déjà-vu».
Artù rimase in silenzio, cercando di immaginare cosa diavolo significasse l’ultima parola che aveva pronunciato, e dopo essersi tirato via gli stivali da lavoro la seguì nella piccola reception.
«Ciao Alex», la salutò Rebecca con un sorriso. Quando i suoi occhi si posarono su Artù questo si allargò, ma chinò il capo e riprese a battere velocemente sulla tastiera del computer.
Anche Alex notò la sua reazione e una volta raggiunto il salotto si voltò per lanciargli un sorrisetto malizioso, canticchiando: «Il mio rubacuori…».
Si lanciò sulla poltrona di fronte al camino spento e lo guardò accomodarsi in quella vicina, facendo una pernacchia con le labbra.
«Non è colpa mia se sono così attraente».
«Assolutamente no». Si morse un sorriso ed allungò un braccio per sistemargli i capelli biondi su un unico lato della fronte. «Cathleen non si è ancora fatta sentire?».
Artù scosse il capo, ripensando all’ultima volta in cui l’aveva vista: la sera del loro primo “appuntamento”, quando l’aveva baciato e lui aveva rovinato tutto allontanandosi. Era stato parecchio imbarazzante, per entrambi, bere il caffè seduti l’uno di fronte all’altra al tavolo rotondo della cucina, tanto che alla fine Cathleen aveva detto che era meglio farla finita. L’aveva riportato a casa, dove era arrivato giusto in tempo per partecipare al secondo e simbolico funerale di Steve, ma prima di andare le aveva chiesto di perdonarlo. Il paramedico aveva annuito, con gli occhi bassi, e Artù l’aveva salutata con un bacio sulla fronte, promettendole che l’avrebbe chiamata il giorno dopo per spiegarle la situazione. Peccato che la mattina seguente e il pomeriggio e poi la sera, Cathleen non gli aveva mai risposto, ignorando sia le sue chiamate sia gli SMS. L’aveva persino evitato quando si erano incrociati in ospedale.
Si passò le mani sul viso, sospirando. «Non so davvero cosa fare, Alex».
«Forse dovresti lasciar perdere e aspettare che sia lei a fare il primo passo».
«Non è mai stato il mio forte, aspettare».
«Lo immaginavo. Però, rifletti, quale alternativa hai?».
Artù appoggiò i gomiti sulle ginocchia ed iniziò a giocherellare con l’anello che portava all’indice sinistro, un largo cerchio d’argento su cui era stato sovrapposto uno più piccolo, dorato. Lo faceva sempre, quando era teso e non sapeva qual era la cosa giusta da fare.
«Beh, so dove abita. Potrei…».
«Pessima idea», lo interruppe.
«Allora potrei usare un intermediario».
Realizzò ciò che aveva appena detto e si sorprese di non aver avuto prima quell’idea geniale. Si addossò allo schienale della poltrona e guardò Alex con un sorriso euforico. 
«Ma certo, è perfetto!».
«Se è quello che penso, levatelo dalla testa», rispose Alex, puntandogli un dito contro con espressione più spaventata che minacciosa.
«Ti supplico, Alex! Lei e Merlino non vanno d’amore e d’accordo, perciò tu sei la mia unica speranza! Devi parlare con lei e convincerla almeno ad ascoltarmi! È tutto quello che mi serve, sul serio».
L’infermiera lo fissò intensamente per diversi secondi, il labbro inferiore stretto tra i denti, poi sospirò e sbatté le mani contro i braccioli della poltrona, roteando gli occhi al cielo. «E va bene, ci proverò. Ma che cosa hai intenzione di dirle, precisamente?».
Artù esitò, boccheggiando. Di sicuro non poteva dirle la verità vera e propria, ossia che il ricordo di Ginevra gli aveva impedito di lasciarsi andare come avrebbe voluto, ma sarebbe bastato confessare che anche lui aveva perso la persona che amava – tutte le persone che amava, eccetto Merlino – e che capiva come si sentiva; che era okay soffrire, ma non lo era farsi più male di quello che si meritava.
Posò di nuovo gli occhi su Alex, ancora in attesa della sua risposta, e fu lui quella volta a puntarle il dito contro: «Tu preoccupati di fare la tua parte».
«Non hai la più pallida idea di che cosa dirle, ho capito».
«Non è così, io so che cosa –!». Si bloccò a metà frase alla comparsa di Edwin, il padre di Alex, il quale sorrise alla figlia e la salutò con un bacio sulla fronte.
«Come stai?».
«Bene, sì, alla grande. E tu?».
«Ogni tanto la mia schiena fa i capricci, ma va molto meglio da quando ci sono Artù e Merlino a darmi una mano. Ed è tutto merito tuo, bambina mia».
«Ah, figurati».
«Ti fermi a cena, questa sera?».
Alex guardò Artù e poi alzò di nuovo gli occhi su suo padre. «Non lo so, forse. Sai, domani devo lavorare».
«Certo, certo». Le passò una mano tra i capelli, dietro l’orecchio, e si diresse di nuovo verso la porta della cucina. «Torno dai cavalli a controllare che abbiano tutto per la notte».
«Vuole che venga anch’io, signor Greenwood?», chiese Artù, alzandosi in piedi.
L’uomo però gli fece cenno di restare pure dov’era, sorridendo e facendogli l’occhiolino. «Non ti preoccupare figliolo, me ne occupo io. Divertitevi».
Artù ricambiò il sorriso e gli ci vollero una dozzina di secondi per accorgersi dello sguardo inquisitore di Alex.
«Che c’è?», le chiese, stringendosi il collo tra le spalle.
«Mio padre ti ha appena chiamato figliolo e ti ha fatto l’occhiolino. Dimmelo tu che c’è».
«Gli sto… simpatico, suppongo».
«Simpatico, sì», mugugnò Alex, incrociando le braccia al petto.
Artù unì i palmi delle mani e se li sfregò nervosamente, chiedendosi perché Merlino ci mettesse tanto a raggiungerli. Per spezzare quell’imbarazzante silenzio, chiese: «Come vanno le cose tra voi due? Tra te e tuo padre».
«Bene», rispose passandosi due dita sulla fronte, poco sopra il sopracciglio sinistro. «Abbiamo sei anni da recuperare e molti errori a cui rimediare, ma ce la faremo. Sai, per tutto questo tempo non mi sono mai preoccupata di capire perché si fosse comportato in quel modo, ero troppo arrabbiata e delusa per farlo. Avrei voluto chiederglielo prima, pensare un po’ di più… Ci saremmo risparmiati moltissimo dolore».
Alex abbozzò un sorriso, ma nei suoi occhi c’era così tanta tristezza che Artù la sentì circondargli sinuosamente il cuore, strisciando e facendolo rabbrividire. Conosceva bene quella tristezza, una tristezza che non tutti erano in grado di cogliere; a lui era così familiare perché ricordava di averla vista più e più volte, fissandosi allo specchio.
«Mio padre ha ripreso a scommettere per recuperare i soldi che servivano per pagarmi l’università. I conti della scuola d’equitazione erano sempre in rosso, come quelli a casa, e pur di non deludermi è rientrato nel giro, convinto che sarebbe riuscito a risolvere tutto da solo. Così non è stato, ovviamente. Lui l’ha fatto per me e io non gli ho rivolto la parola per sei anni perché non me n’ero mai resa conto. Quanto sono stata stupida, eh?».
«Facciamo tutti degli errori», rispose mestamente Artù, pensando a quelli a cui lui e suo padre non avevano mai posto rimedio, mai del tutto. «E non è forte chi non ne commette, ma chi è in grado di perdonarli e ricominciare».
Alex sorrise dolcemente e si massaggiò il naso con una mano, poi infilò una gamba sotto l’altra e si voltò sulla poltrona per poterlo guardare dritto negli occhi con la testa posata sul morbido schienale in pelle.
«Grazie, Artù. Anche se devo ammetterlo: è strano sentirti fare discorsi così profondi».
«Perché, non suono credibile?», le chiese, sogghignando.
«Oh no, sei molto credibile. È solo che il novanta percento del tempo ti comporti da idiota, quindi…».
Artù prese il cuscino che aveva dietro la schiena e glielo lanciò contro, ma giusto una frazione di secondo prima che la colpisse in pieno viso questo cambiò improvvisamente traiettoria, finendo contro la libreria alla sinistra del camino. Sia Alex che Artù fissarono il cuscino, impietriti, per quella che sembrò un’eternità. Quindi si guardarono l’un l’altro, incapaci di articolare una frase di senso compiuto.
Alla fine Artù si alzò e si guardò intorno alla ricerca di Merlino. Era sicuro che Alex non avesse nemmeno sfiorato quel cuscino, che la sua mano fosse rimasta immobile di fronte al viso per proteggerlo dal colpo, perciò doveva essere stata per forza opera sua. Peccato che Merlino non fosse nei paraggi, al momento.
Il telefono della reception trillò, facendolo sobbalzare, e Rebecca rispose con un semplicissimo «Pronto», la risposta classica che usava quando si trattava di una chiamata interna. Alzò di scatto la testa in direzione di Artù e Alex, nel salotto, e li guardò per poi dire con tono incerto: «Sì, sono qui tutti e due e mi sembrano in ottima forma. Merlino, stai bene?».
Artù strinse i denti e si voltò verso un’Alex spaesata e con gli occhi sgranati. Con poche, lunghe falcate raggiunse il cuscino e se lo rigirò tra le mani, assicurandosi che fosse un semplicissimo cuscino ricamato a mano. Lo sistemò di nuovo sulla poltrona e rivolse un sorriso smagliante ad Alex, esclamando: «Ottimi riflessi!».
«Aspetta, dove stai andando?», gli chiese l’infermiera sull’orlo di un crollo nervoso, raggiungendolo proprio davanti alla reception.
«Vado a controllare se Merlino sta bene. Torno subito».
«Vengo anch’io».
Artù si voltò nuovamente e le posò entrambe le mani sulle spalle, guardando il soffitto per trovare la forza di ridacchiare. «Non è necessario. Avrà visto un insetto e si sarà spaventato per una possibile infestazione. È fissato con i tarli, sai? Va completamente nel panico quando si parla di tarli. Resta qui con Rebecca. Il tempo di calmarlo e torno, okay? Brava».
Quella volta non le diede il tempo di ribattere e corse su per le scale.
Trovò Merlino in una delle ultime stanze, in fondo al corridoio, seduto sul letto sfatto e con gli occhi fissi nel vuoto. Lo raggiunse e lo afferrò per le spalle per scuoterlo e farlo ritornare alla realtà. Lo stregone sbatté velocemente le palpebre e non appena si accorse della sua presenza gli strinse le braccia tra le mani ed esclamò, terrorizzato: «Qualcuno ha appena usato la magia! L’ho sentito!».
«Lo so».
Merlino rimase a bocca aperta, per poi percorrerlo velocemente con lo sguardo per verificare che non avesse ferite sanguinanti da qualche parte. Quando fu sicuro delle sue perfette condizioni di salute si accigliò, chiedendo confuso: «Come fate a saperlo?».
«L’ho visto! È stata Alex».
«Alex?». Merlino all’inizio sorrise, poi si lasciò andare ad una risata nevrotica. «Alex, sul serio?! Mi state prendendo in giro? Alex non ne sarebbe mai in grado!».
«Merlino!», lo fulminò con lo sguardo, facendolo azzittire.
Gli raccontò quello che era successo, quello che aveva visto, e poi entrambi rimasero in silenzio, seduti sul bordo del materasso.
«Pensavo di aver avuto un’allucinazione, ma se anche tu l’hai sentito…», concluse Artù, passandosi una mano sulla nuca.
«Non è possibile», mormorò in tutta risposta Merlino. «Non ha alcun senso! Perché Alex? Insomma lei… Che cosa c’entra?».
Artù deglutì rumorosamente, pensando alle parole di Freya. Alex poteva anche essere la sua ultima discendente, ma nessuno nella sua famiglia era stato mai in grado di utilizzare la magia. O forse no? Lui era nato grazie alla magia, probabilmente gli scorreva nelle vene ancor prima che venisse al mondo per strappare la vita a sua madre. Suo figlio Graalmir aveva vissuto quattro anni a stretto contatto con Merlino, il quale non gli aveva per nulla tenuto nascosto il suo talento, e poi era sparito insieme a quella Hanna, una sconosciuta che, chi lo sa, poteva anche essere una strega che l’aveva iniziato all’uso della magia.
«Artù? Artù, mi state ascoltando?».
Il solo ed unico re sollevò il capo e guardò Merlino passeggiare avanti e indietro per la stanza, stritolandosi le mani.
«Cos’hai detto?».
«Che dobbiamo esserne assolutamente certi, prima di fare qualsiasi altra cosa. Fino ad allora, faremo finta che non sia successo nulla e la terremo soltanto d’occhio. Va bene?».
«Sì, va bene», rispose mestamente, annuendo col capo.
«Posso sapere a che cosa state pensando?».
«Niente, io… Devo tornare di sotto. Sbrigati a finire».
«Ma sì, certo. Farò in modo che la mia schiena torni quella di un ragazzo di vent’anni», borbottò, ma Artù non rispose, già fuori dalla stanza.

 

***

 

Alex si passò nervosamente le dita tra i capelli, camminando avanti e indietro di fronte al bancone della reception.
Rebecca, con l’estremità della penna sulle labbra, era veramente indecisa se chiederle o meno che cos’era successo. Alla fine non ce ne fu bisogno, perché la bionda le rivolse un finto sorriso e a bassa voce disse: «Se Artù chiede di me, digli che avevo bisogno di prendere un po’ d’aria».
Uscì passando per la porta sul retro, quella della cucina, e si diresse verso le stalle con l’intenzione di raggiungere suo padre.
La borsa che aveva sulla spalla le sembrava pesante come un macigno, nonostante la busta che conteneva la comunicazione del suo trasferimento pesasse solo pochi grammi.
Le parole che Merlino le aveva detto per tirarla su di morale le vorticavano nella testa come un tornado, riportandole a galla ricordi che un tempo non riteneva così importanti e che ora lo erano eccome.
L’immagine di quel cuscino che cambiava completamente traiettoria, come se qualcuno l’avesse preso al lazo, continuava a scorrerle di fronte agli occhi, ancora e ancora, assieme allo sguardo preoccupato e al contempo consapevole di Artù. Lo stesso che aveva avuto lei, ne era certa.
Si guardò le mani, vedendole tremare ancora un po’, e si costrinse a fare respiri profondi per calmarsi. Si fermò nel bel mezzo del sentiero ed inspirò, espirò, inspirò, espirò, fino a quando non realizzò che non sarebbe servito a nulla. Fingere di non avere paura non sarebbe servito, non se ciò che la terrorizzava era un qualcosa di inspiegabile, lo stesso qualcosa che aveva cercato fino a due settimane prima: la prova dell’esistenza della magia. Ora finalmente ce l’aveva, e non una sola a dire il vero, ma non si sentiva affatto come aveva immaginato. Forse perché non si era mai immaginata come la strega della situazione.
Nei giorni successivi alla scomparsa di Steve aveva impedito ad un intero scaffale di rovesciarsi in testa ad una sua collega, aveva reso afono il cane della vicina e aveva curato delle rose gialle appassite solo sfiorandole. (Sua madre non perdeva mai l’occasione per dirle che la sua famiglia aveva sempre avuto il pollice verde, ma quello era decisamente troppo). 
Aveva cercato di darsi delle spiegazioni ragionevoli, almeno plausibili, e quando non ci era riuscita aveva deciso semplicemente di ignorare quegli strani avvenimenti. La storia però si era ripetuta ancora, con quel cuscino malvagio, e quella volta c’era persino stato un testimone oculare, un testimone che invece di gridare alla stregoneria era corso da Merlino, colui che da tempo sospettava essere proprio uno stregone. Ora poteva fare di tutto, eccetto ignorare ancora ciò che le stava succedendo.
Arrivata alle stalle, si appoggiò con una spalla allo stipite della grande porta di legno e guardò suo padre per un po’: stava parlando con un mansueto cavallo e gli spazzolava dolcemente il manto color cioccolato, dandogli qualche pacca sul fianco ogni tanto, come se fosse un vecchio amico.
«Sai che non mi sono più avvicinata ad un cavallo dall’ultima gara?».
Edwin si voltò lentamente, posando gli occhi dispiaciuti sulla figlia. Alex però sorrise e lo affiancò per levargli la spazzola dalle mani e riprendere da dove aveva lasciato.
«Mi dispiace tanto, tesoro».
«Lo so, l’hai già detto. È tutto passato, ormai».
Edwin si strofinò le mani sui pantaloni da lavoro, sporchi e di una taglia più grande, poi si guardò intorno e cambiando argomento chiese: «Dov’è Artù?».
«Con Merlino».
«Oh. Senti, ma non è che loro due…? Non c’è nulla di male, ma mi chiedevo se…».
Alex rise, guardando il volto rosso d’imbarazzo di suo padre con la coda dell’occhio. «No, sono solo migliori amici».
Il signor Greenwood sospirò, quasi di sollievo, e Alex corrugò la fronte, decisa ad andare fino in fondo all’argomento prima che si facesse strane idee.
«Mi sembra di aver capito che lui ti piace», disse, rivolgendogli un’occhiata inquisitoria.
«Beh, sì, è un bravo ragazzo. È onesto, gentile… A volte ti somiglia così tanto che mi sembra di vedere te».
«Quindi ti rendi conto che tra me e lui non potrebbe mai funzionare».
Edwin boccheggiò, colto sul fatto, ed arrossì di nuovo. «Che cosa? Tesoro, io non ho mai…».
«Ho visto l’occhiata che gli hai lanciato poco fa. E l’ultima volta che hai chiamato figliolo un ragazzo che mi stava vicino è stata in seconda superiore, quando Justin Patel, il secchione della classe, veniva a casa per farmi ripetizioni di matematica».
I loro occhi si incrociarono ed Edwin non poté fare a meno di ridacchiare di fronte all’espressione vittoriosa della figlia, con entrambe le sopracciglia sollevate.
«Gli voglio bene, sul serio, ma non potrebbe mai essere niente più di un amico», concluse, avvolgendosi il corpo con le braccia mentre un sorriso dolce prendeva il sopravvento sul suo volto.
«Ho capito». Edwin abbassò il capo e prese la scopa per ammucchiare in un angolo tutta la paglia che ricopriva il corridoio tra i vari box.
Alex si schiarì la gola con un finto colpo di tosse e nonostante il disagio, si disse che era un modo come un altro per recuperare in parte il loro rapporto padre-figlia.
«Che ne pensi di Merlino?», gli chiese con nonchalance, senza guardarlo.
«Merlino? Si dà un gran daffare, se può aiuta sempre tutti e passa spesso di qui per chiedere se Artù abbia bisogno di qualcosa. A volte mi sembra una madre protettiva, davvero». Ridacchiò, ma smise non appena si accorse dell’espressione seria di Alex. «Lui ti…? Per l’amor del cielo, tesoro!».
«Cosa?».
«Spesso è impacciato, fa tutto quello che gli si dice senza battere ciglio e una volta l’ho visto rovesciarsi addosso il bidone della spazzatura. A stento riesce a prendersi cura di sé, figuriamoci se potrebbe stare dietro a te, proteggerti e…».
«Io non ho bisogno di protezione!», urlò, facendo spaventare il cavallo che stava spazzolando. L’animale nitrì e si mosse agitato, facendo qualche passo avanti e indietro fino a quando Edwin non gli accarezzò il muso, fissando la figlia dritta negli occhi.
«Non voglio il coraggioso principe azzurro che tutti i padri vorrebbero per le proprie figlie, quello che ucciderebbe un esercito di draghi e risolverebbe i problemi mostrando i muscoli. Io ho bisogno di ragazzo umile, che mi ami per quella che sono e che affronti le difficoltà con la testa e con il cuore, tenendomi per mano. Un ragazzo che faccia amicizia con i draghi, invece di ucciderli».
Edwin scosse il capo, con gli occhi velati di lacrime. Allungò una mano e le accarezzò il capo, poi la guancia. «Sei tale e quale a tua madre. Mi manca talmente tanto…».
Alex sentì le lacrime riempire anche i suoi occhi e gettò le braccia intorno al collo di suo padre, nascondendo il viso nell’incavo della sua spalla.

 

***

 

«Hai finito, tesoro?».
Merlino accarezzò le spalle di Wanda, china su una torta appena sfornata, ed inspirò profondamente il profumo zuccheroso di mele calde.
«Avete ancora bisogno di me?», le chiese.
La donna gli rivolse un’occhiata intenerita e gli strinse una mano, mormorando: «Non bisogna far aspettare troppo le signore, dovresti saperlo».
La salutò con un sorriso raggiante ed uscì dalla porta sul retro. Corse verso le stalle, dove secondo Rebecca avrebbe trovato sia Alex che Artù. Ed infatti il solo ed unico re era lì, fermo sulla soglia, quasi nascosto. Merlino si fermò alle sue spalle e con una mano ammonitrice di Artù sul petto si sporse verso l’interno: Alex e suo padre erano stretti in un abbraccio commovente, accanto ad un cavallo dal manto bruno, ed era una scena talmente bella e rassicurante da guardare che Merlino non si sarebbe mai sognato di rovinare il momento. Peccato che la sua imbranataggine si mostrasse sempre nei momenti meno opportuni. 
Fece un passo indietro per ritirarsi ed inciampò in un secchio di latta pieno di vecchi stracci e qualche spugna. Rotolando fece parecchio rumore, attirando l’attenzione di Alex e del signor Greenwood, ma non fu tutto: per non cadere Merlino si aggrappò alla scala che era appoggiata alla parete, la quale ovviamente gli finì addosso, rendendo inutili tutti i suoi sforzi e bloccandolo a terra, senza fiato.
Artù lo fissò impietosito e pieno di disapprovazione, con le mani sui fianchi, e lo stesso fece il padre di Alex, corso fuori per vedere cosa fosse accaduto. L’unica che si preoccupò veramente delle sue condizioni di salute fu l’infermiera, la quale si affrettò a tirare su la pesante scala di legno e a porgergli entrambe le mani per aiutarlo ad alzarsi.
«Ti senti bene?», gli chiese, spolverandogli la maglietta sulle spalle.
«Sì, me la caverò. Grazie».
Alex gli sorrise e poi si voltò verso suo padre, gettandogli un’occhiata silenziosa il cui significato gli sarebbe rimasto celato per sempre. Ad ogni modo Edwin scosse il capo, morsicandosi un sorriso appena accennato, e tornò dal cavallo che avevano lasciato incustodito nel box aperto.
«Sei sempre il solito, Merlino», lo sbeffeggiò Artù, per poi tirargli via dei fili di paglia secca dai capelli.
Tutti e tre si guardarono a vicenda, fino a quando non scoppiarono a ridere contemporaneamente.

 
«Io non mi avvicinerei a quello», la avvertì Merlino non appena si avvicinò al destriero nero nell’ultimo box, in fondo alla scuderia.
«Si lascia toccare a malapena», spiegò Edwin, appoggiato con un braccio al manico della scopa. «In effetti l’unico da cui si fa accarezzare e spazzolare senza agitarsi troppo è Artù».
Alex guardò suo padre con aria annoiata, mentre Edwin accennava un sorrisino vittorioso. A quel punto gli era chiaro che quei due avevano parlato del re di Camelot, in un modo o nell’altro.
«Non è amichevole con i bambini, non si lascia imbrigliare e non segue gli ordini… È nato per correre», aggiunse ancora il signor Greenwood, sospirando. «Ha avuto un brutto incidente ad un palio, una lesione al tendine della zampa anteriore che gli ha distrutto la carriera. Ma non si adatterà mai a questa vita. Non so davvero a che cosa stavo pensando quando l’ho comprato».
«Io sì», mormorò teneramente, allungando una mano verso il muso dell’animale e tenendola a qualche centimetro di distanza, in attesa che fosse lui a fare il passo successivo. «Ti ricordava Arrow, vero?».
Edwin chinò il capo, pizzicandosi l’interno della guancia con i denti, poi accennò un sorriso. «Può darsi».
«Hai chiamato il tuo cavallo come il protagonista di una serie TV?», chiese Merlino, con le sopracciglia inarcate per la sorpresa – ma nemmeno troppa.
Alex rise, osservando quel magnifico esemplare mentre si avvicinava cautamente alla sua mano, tirandosi indietro con un nitrito per poi ricominciare da capo una, due, tre volte.
«Il nome per intero era proprio Green Arrow. Volevo dargli un nome che ricordasse il cognome della nostra famiglia e l’associazione mi è venuta spontanea, anche se all’epoca non c’era ancora la serie TV. Avevo visto dei fumetti a casa mio cugino».
«Ma di che state parlando?», bofonchiò Artù, passandosi una mano tra i capelli. «Eppure la guardo anche io la TV!».
«Devi provare lo streaming, Artù. Ohi, ciao bello».
Il cavallo finalmente aveva posato il muso contro la sua mano e Alex si esibì in una specie di inchino, piegando la schiena e il capo senza mai interrompere il contatto visivo con l’animale. Quando si risollevò, il cavallo si lasciò accarezzare senza fare una piega, dandole anzi qualche colpetto sul braccio e facendo dondolare la lunga coda setosa.
«Allora, come sono andata?», domandò Alex eccitata, massaggiando il fianco del cavallo con una mano.
Merlino aprì la bocca per congratularsi, ma non disse una parola a causa di Artù che, con gli occhi luminosi e un sorriso quasi orgoglioso sul volto, esclamò: «Voglio vederti cavalcare. Signor Greenwood, possiamo?».
L’uomo scambiò un’occhiata con la figlia, dopodiché scrollò le spalle, andando a prendere tre selle.
Merlino si morsicò il labbro inferiore e sentì le tanto ormai ben conosciute fitte di gelosia ed invidia trapassargli il cuore guardando Artù e Alex che parlavano con così tanto interesse e complicità di quel loro ennesimo talento – e passione – in comune.
«Quale cavallo avete intenzione di montare, mio Signore?», chiese ad alta voce, senza nascondere l’irritazione.
Artù si voltò ancora con quel sorriso instupidito sulla faccia e ci mise qualche secondo prima di rendersi conto della sua ostilità. «Qualcosa non va, Merlino?».
«Assolutamente. Ci pensi tu alla tua sella, non è vero? Sei così bravo…».
«Stai per caso insinuando che io non sappia…», non finì la frase, troppo occupato a digrignare i denti. 
Gli andò incontro e gli strappò la sella di mano, per poi infilarsi velocemente nel box del cavallo color cioccolato che Alex e suo padre avevano spazzolato poco prima. In quel momento Merlino sentì la voglia impellente di fargli fare brutta figura davanti ad Alex e bastò solo il pensiero perché una scossa gli facesse tremolare la vista. Strinse i pugni contro i fianchi e ricacciò indietro la magia, respirando profondamente quando Artù finì di sellare il suo destriero e lo guardò soddisfatto, sorridendo con quella punta di arroganza che aveva imparato ad adorare col passare degli anni.
«Qualcosa da ridire, Merlino?».
Lo stregone scosse il capo, stringendo le labbra tra loro mentre anche l’ultima briciola di incandescente magia ritornava al sicuro nell’angolo più profondo della sua anima.
«Allora andiamo, forza».
Alex finì di sistemare la sella sopra il dorso fremente del cavallo, come se avesse atteso quel momento da tutta la vita, e quando gli passò accanto per uscire dalla scuderia gli infilò una mano tra i capelli, dalla nuca fino alla fronte, scompigliandoglieli teneramente. E ancora, prima di uscire, si voltò per sorridergli ed incitarlo a sbrigarsi, a meno che non volesse essere lasciato indietro.
«Tu e Artù da soli non andate da nessuna parte», mormorò al proprio cavallo, un esemplare bianco chiazzato di nero sulla pancia e sulle zampe.
«Tornate prima del tramonto!», gridò il padre di Alex quando ormai si erano già addentrati nell’aperta campagna, seguendo lo stesso sentiero sterrato che bisognava percorrere in auto per raggiungere l’agriturismo.
Merlino fu l’unico a prestargli attenzione ed annuì con un cenno del capo, venendo quasi subito ricambiato con un’occhiata che non vedeva da secoli ormai, una di quelle che potevano benissimo essere tradotte: “Fai del male a mia figlia e ti farò patire le pene dell’Inferno”.
Se il padre di Alex pensava che avrebbe potuto farla soffrire voleva dire che sapeva dell’amore che sua figlia provava per lui, e se lo sapeva voleva dire che ne avevano parlato e che forse era quello il motivo per cui aveva cercato in tutti i modi di mettere in bella luce i pregi di Artù, perché credeva che tra i due fosse il più adatto a prendersi cura di lei. Se Merlino non avesse avuto il cervello sottomesso dal cuore avrebbe pensato che Edwin avesse ragione, ma in quel momento la felicità che provava sapendo che Alex l’aveva preferito apertamente anche di fronte al genitore era troppa, tanto che non riuscì a nascondere il sorriso idiota che lo faceva apparire un imbecille al cento percento.
Solo Artù fu in grado di riportarlo alla realtà, urlando il suo nome e guardandolo con espressione esasperata.
«A che cosa diavolo stai pensando?», gli domandò, stizzito.
«A niente».
«Com’è che questa risposta non mi stupisce affatto?».
Alex si lasciò andare ad una risata accondiscendente. «Smettetela, bambini. Piuttosto, non avevi detto di volermi vedere cavalcare?».
Artù ebbe solo il tempo di annuire prima che l’infermiera colpisse i fianchi del cavallo, si chinasse in avanti e partisse al galoppo, sollevando una nube di polvere dietro di sé.
Il re sorrise elettrizzato e diede il via all’inseguimento, costringendo il mago, ancora scosso dalla tosse e con gli occhi stretti in due fessure, a fare lo stesso.

 

***

 

«Te la sei cavata bene, nonostante il tendine», sussurrò Alex saltando giù da cavallo per potergli accarezzare amorevolmente la criniera con la fronte posata sul suo collo muscoloso.
«Ma hai perso la sfida», esclamò Artù, sorridendo beffardo, e l’infermiera gli rispose con una linguaccia.
«Secondo voi è affrettato da parte mia volergli dare un nome?», chiese poi riferendosi al cavallo, e non ottenendo altro che una scrollata di spalle da parte di Artù si rivolse a Merlino, ma la sua espressione la fece desistere dal ripetere la domanda: sembrava quasi spaesato e i suoi occhi erano lontani, lontanissimi, come se non stessero vedendo solo le grandi rocce, le felci, il muschio sulle cortecce degli alberi e le piccole foglie, nuove e verdissime, sui rami che ingabbiavano il cielo nella loro intricata rete.
«Ci siamo allontanati troppo?», domandò allora, preoccupata.
Merlino sbatté le palpebre e tornò in sé. «Che cosa? No… Beh, sì. Siamo vicini ad Avalon».
Quel nome fece correre un brivido lungo la schiena di Alex: si era imbattuta in esso qualche tempo prima, quando aveva fatto quelle ricerche sulle leggende riguardanti Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda, ma non solo.


«Mamma? Perché non posso più vedere la nonna? Mamma, rispondimi!».
Ellen, nonostante le lacrime, si inginocchiò di fronte a lei e le sorrise accarezzandole i capelli raccolti in due codini. «L’anima della nonna è andata in un posto migliore».
«Voglio andare con lei», mugugnò, cercando di reprimere un singhiozzo.
«Sei troppo piccola, amore mio. Un giorno, quando avrai la stessa età della nonna, Avalon aprirà i propri cancelli anche per te. È un posto magico, sai? Lì ci sono tutti i nostri antenati, tutti i membri della nostra famiglia».
«E papà? Ci sarà anche lui?».
Ellen ridacchiò, gettando un’occhiata al marito alle spalle della piccola Alex. «C’è questa leggenda, molto antica… Io l’ho saputa dalla nonna, lei l’ha saputa da suo papà e suo papà da suo padre… Tutti i membri della nostra famiglia la conoscono e forse è giunto il momento che io la racconti a te».
«Ellen», la rimproverò dolcemente Edwin, scuotendo il capo.
La donna lo ignorò e si sedette al suo fianco, con Alex di traverso sulle gambe.
«Verrà il giorno in cui Avalon aprirà i propri cancelli per far tornare sulla Terra il nostro antenato più importante. Insieme a lui dovremo affrontare un grande male e…».
«Non mi piace questa leggenda», la interruppe, iniziando a singhiozzare: seduta sulle ginocchia della sua mamma riusciva a vedere all’interno della stanza in cui c’era sua nonna, stesa sul letto, immobile e pallida. Non sembrava affatto che la sua anima si trovasse in un posto migliore.
«E invece dovresti. Sarà grazie alla nostra famiglia, al nostro sacrificio, che il mondo vivrà in pace e in armonia».
«Io voglio solo la mia nonna», ripeté, nascondendo il viso rigato di lacrime nel petto di sua madre.

 
«Alex. Alex, stai bene? Dio mio, stai tremando».
La ragazza sentì il calore del corpo di Merlino contro il suo e le sembrò per un attimo di stringere ancora una volta sua madre, poi tornò coi piedi per terra e cercando di dimostrarsi calma e padrona della situazione si scostò, sorridendo.
«La corsa. Non sono più abituata, mi ha sfinita».
«E non hai nemmeno vinto, pensa un po’», si intromise Artù. Se avesse accennato alla sua vittoria ancora una volta…
«Sicura che sia questo? Non è che magari ti stai ammalando?».
«No, stai tranquillo». Gli accarezzò il braccio e si voltò, imbarazzata dalla lunghezza di quell’abbraccio così dolce e protettivo. «Stavi parlando di… Avalon? Pensavo fosse solo una leggenda».
«Oh. Eh, eh», ridacchiò, passandosi una mano sulla nuca. Quindi si chinò verso il suo viso e col pollice indicò l’ignaro Artù, alle loro spalle, spiegando a bassa voce: «È come lui chiama il lago. Perdonami, forza dell’abitudine».
Alex portò tutta la propria attenzione sul biondo, tanto intensamente che Artù la fissò, facendola trasalire. Distolse immediatamente gli occhi e si morse il labbro con forza, maledicendosi: da bambina non aveva mai creduto alle storie di sua madre, non c’era proprio alcun motivo per cui avrebbe dovuto iniziare ora.
«Dovremmo tornare», disse Merlino, col volto alzato verso il cielo.
Artù aprì la bocca, sicuramente per ribattere, ma Alex lo anticipò e diede man forte allo stregone: «Hai ragione. Mio padre si preoccuperebbe a morte se non tornassimo prima del tramonto».
Montò a cavallo e tirò le briglie, facendolo impennare.
Si allontanò ancora senza guardarsi indietro, ma quella volta con la speranza di fuggire dalla verità.

 

***

 

«L’hai già detto ai bambini?».
Alex scosse il capo, stringendo i pugni intorno alle briglie del suo destriero. «Non ne ho avuto il coraggio».
Merlino allungò una mano e le accarezzò i capelli scompigliati dal vento, sorridendole tanto dolcemente da far scomparire gran parte della tristezza dal suo volto.
«Andrà tutto bene, fidati».
«Mi mancheranno così tanto…», mormorò sospirando, guardando Artù ondeggiare seguendo l’andatura del cavallo a qualche decina di metri avanti a loro.
«Sono solo a tre piani di distanza. E riavrai presto il tuo posto. Giusto?».
«Non lo so. Sinceramente non me lo sarei mai aspettato, un trasferimento. Mi ha colto totalmente di sorpresa. Perché io?».
«Perché a Cardiff lavoravi nell’ospedale più grande della città, hai fatto moltissima esperienza, preso parte a situazioni che probabilmente qui non saprebbero neanche come affrontare… Devo andare avanti?».
Alex ridacchiò e negò col capo prima che gli occhi le si adombrassero nuovamente. «E se non fossi stata abbastanza brava ad oncologia? Quando Steve stava male mi sono comportata più come un familiare che come un’infermiera e ho sbagliato: avrei dovuto mantenere le distanze, occuparmi anche degli altri bambini invece di stare al suo fianco tutto quel tempo…».
«Tu sei…». Merlino sbatté le palpebre, cercando di mettere a fuoco tutto ciò che lo circondava mentre nella sua mente, un tassello dopo l’altro, nasceva un dubbio atroce: se Alex possedeva davvero dei poteri magici allora poteva aver alterato – involontariamente, certo – la durata della magia guaritrice che aveva adoperato su Steve. 
«Merlino, Alex! Muovetevi, o farà davvero buio!», urlò Artù, l’unico in grado di riportarlo alla realtà sempre nel momento giusto.
Abbozzò un sorriso verso l’infermiera e disse: «Nessuno è stato professionale al cento percento quando Steve ha iniziato a peggiorare. Come al solito sei troppo dura con te stessa».
«Okay, ma… Io non posso perdere quel posto. Tu non capisci che cosa significhi per me».
«Quando sei arrivata qui e hai fatto domanda d’assunzione all’ospedale ti sei candidata come infermiera di Pronto Soccorso. Mai ti saresti aspettata un’assegnazione nel reparto di oncologia e ti ci è voluto un bel po’ prima di ambientarti. Hai dovuto studiare, fare corsi supplementari, imparare ad interagire con i bambini… Ti è costata molta fatica, ma ci hai lasciato un pezzo di cuore e, credimi, so perfettamente com’è perdere una parte di sé».
Il silenzio gravò su di loro per diversi secondi, un silenzio talmente profondo che Merlino, rabbrividendo, realizzò che aveva parlato troppo. Si arrischiò a guardare Alex con la coda dell’occhio e la vide spaesata, intimorita, come se le avesse appena dato una botta in testa.
«Come fai a sapere tutto questo?», gli chiese con un fil di voce. «Non ci conoscevamo ancora».
«Io… Sei sicura di non avermelo mai raccontato? Perché io me lo ricordo».
«No, Merlino, non ne abbiamo mai parlato».
«Allora dev’essere stato mio nonno di certo. Quel vecchio pazzo era un gran pettegolo, sai?».
Lesse l’incertezza e la delusione negli occhi di Alex, ma ci avrebbe convissuto. Non ci sarebbe riuscito invece con tutto ciò che avrebbe visto nel caso cui avesse scoperto la sua vera identità.
«Merlino...».
«Sì, ho capito, stiamo arrivando!», urlò irritato, senza distogliere lo sguardo da Alex.
«Aspetta… C’è qualcosa che non va», lo contraddisse lei, indicandolo con un cenno del capo.
Solo allora Merlino si rese conto che sì, c’era decisamente qualcosa che non andava: Artù si era accasciato sul cavallo, con un braccio penzolante lungo il fianco dell’animale e l’altro sotto il petto.
Senza perdere altro tempo Merlino frustò le briglie e galoppò verso il re di Camelot, seguito a ruota da una Alex davvero preoccupata. Saltò giù da cavallo e cercò di estrapolare qualche parola da Artù, ma aveva già perso conoscenza: un pallore quasi mortale aveva preso il sopravvento su tutta l’euforia che aveva provato cavalcando di nuovo e il sudore che gli ricopriva il volto era gelato.
«Ti prego, ti supplico, non qui, non adesso», farfugliò lasciando che il panico lo travolgesse, infilandosi un braccio inerte di Artù tra le spalle per tirarlo giù da cavallo. A stento riuscì a sostenerlo e a non cadere per terra insieme a lui, sul duro sentiero sterrato illuminato dalla luna appena sorta.
Alex si gettò in ginocchio accanto a lui e sollevò le palpebre di Artù, poi si chinò sulla sua bocca per sentire se respirasse ancora, con le dita strette intorno al suo polso per contare le pulsazioni.
«Sembra un attacco cardiaco», fu la sua diagnosi, nonostante il tono incredulo.
«Non è niente del genere», ribatté Merlino.
Solo allora Alex prese sicurezza, esclamando: «Sono un’infermiera e come hai detto tu poco fa mi sono fatta parecchia gavetta!».
«Artù non sta avendo un infarto!», gridò con tutto il fiato che aveva in gola, lasciandola ammutolita.
Lo stregone si sentì subito in colpa e stava proprio per scusarsi quando la mano di Artù gli strinse improvvisamente il braccio, traendo un respiro rantolante, quello di una persona andata e tornata dalla morte, con gli occhi sbarrati fissi su di lui.
«Se l’ho accettata io… anche lei lo farà», soffiò, riprendendo a respirare affannosamente, come se stesse lottando per non annegare.
«Che cosa sta dicendo?», chiese Alex, terrorizzata. «Merlino, dobbiamo fare qualcosa, ora! Spostati!».
Lo spinse via con forza ed iniziò il massaggio cardiaco. Uno, due, tre, quattro spinte e stava per posare le labbra su quelle di Artù per soffiargli aria nei polmoni quando fu il turno di Merlino a spingerla via, con tanta forza da farla cadere sull’osso sacro. Quindi posò entrambe le mani sul petto di Artù e lasciò crollare la sua diga interiore, quella che conteneva tutta la potenza devastante della magia, in grado di far ripartire il cuore del re di Camelot mentre il sangue gli bruciava nelle vene come fuoco vivo.
Artù aprì gli occhi di scatto e trasse un respiro profondo, di sollievo quella volta. Merlino, ancora con le mani sul suo cuore, ascoltò il ritmo delle pulsazioni ritornare normale ed abbozzò un sorriso quando i loro sguardi ora sereni si incrociarono. Lo furono per poco, però.
«Alex!», gridò Artù, sollevandosi di scatto per chinarsi sul suo corpo scosso da tremori simili a convulsioni. 
«Merlino, fai qualcosa!», gli urlò contro, guardandolo con gli occhi sgranati.
Lo stregone scosse il capo, arretrando con le mani a sorreggerlo dietro la schiena. «Artù, io sto bene».
«Lo vedo che stai bene! È Alex che…», si interruppe bruscamente, arrivando solo in quel momento alla stessa conclusione di Merlino.
«Ha assorbito la mia magia. L’ha fatto anche con Steve…».
«Ma lei è in pericolo?», domandò il re, gli occhi fiammeggianti nel buio sempre più avvolgente.
Quella fu la scossa che gli serviva per reagire. Merlino si precipitò al suo fianco, dall’altro lato di Artù, e le posò una mano sulla fronte mentre con l’altra le sollevava le palpebre. Sussultò quando vide le sue iridi dorate anziché verdi, sopraffatte dalla magia.
«È troppo potente, la consumerà».
«Allora tiragliela fuori!».
Merlino aprì la bocca e lo guardò sconvolto per un attimo. Aveva abbandonato la magia secoli e secoli prima e sapeva per esperienza che un tempo erano esistite terribili creature in grado di assorbire i poteri magici, ma mai aveva sentito parlare né aveva letto di un incantesimo in grado di fare altrettanto. Come poteva Artù pretendere che lui sapesse cosa fare? Perché non c’erano alternative. La vita di Alex era nelle sue mani e doveva almeno tentare.
Ripescò dalla memoria quella lingua antichissima che aveva sempre conosciuto, memorizzata nella sua testa ancor prima che imparasse a dire “mamma”, e si lasciò guidare dalla forza della magia in quell’incantesimo che fu in grado di espellere la magia dal corpo di Alex in un’onda di energia dorata che li fece ruzzolare entrambi a qualche metro di distanza.
Intontito e col cuore a pezzi Merlino, steso a pancia in su sulla terra gelata, guardò il cielo scuro punteggiato di stelle, ascoltando Artù trascinarsi al capezzale dell’infermiera e sussurrarle: «Apri gli occhi, forza. Non puoi lasciarmi proprio ora, ora che ho ritrovato tutto ciò che resta della mia famiglia… Non puoi farmi questo, Alexandra!».
Il mago si sollevò lentamente, sempre più disorientato dalla piega catastrofica che tutta quella situazione stava prendendo. Guardò Artù chino su Alex, una lacrima solitaria solcargli la guancia prima che nascondesse il viso contro il suo collo e la stringesse a sé.
«Artù», mormorò Alex dopo attimi di pura disperazione, la voce tanto debole e roca da non sembrare nemmeno la sua.
Il re sollevò la testa di scatto e fissò gli occhi nei suoi con un sorriso radioso, in grado di riportare la luce in quei campi immersi nel buio della notte. 
«Alex», ridacchiò. «Alex, pensavo di averti perso!».
L’abbracciò ancora, continuando a ridere tra i suoi capelli biondi.
«Non pensavo contassi tanto per te», disse lei, scherzosa ma anche genuinamente sorpresa.
«Tu non ne hai idea», rispose Artù in un sussurro, ma Merlino sfortunatamente lo sentì e una parte di lui venne messa K.O..
«Aspetta un momento. Tu stai bene, come…? Stavi avendo un non-infarto e poi Merlino ha… Oh mio Dio, è uno stregone!».
Artù sospirò ed annuì, accarezzandole le spalle. «Lo so. È dura da accettare, ma non c’è nulla di cui temere, davvero».
«Temere?». Alex si voltò per la prima volta da quando si era ripresa ed incrociò lo sguardo di Merlino per rivolgergli un sorriso eccitato. «Io lo sapevo, lo sapevo! Ne ero sicura!».
«A quanto pare l’ha presa meglio di me», esclamò Artù con le sopracciglia inarcate e un sorrisetto divertito sul volto. Un’espressione apprensiva prese presto il sopravvento quando si rese conto del silenzio e della rigidità del mago. «Merlino, ti senti bene?».
Lo stregone rilassò le dita delle mani e solo allora percepì il dolore delle unghie che doveva essersi rotto ficcandole nel terreno per il nervosismo. Si alzò lentamente e dando le spalle ai due disse pacatamente: «Ci staranno cercando tutti».

 

***

 

Si erano presi una bella strigliata non solo da suo padre, bensì anche dai signori Morris, i quali erano sul punto di chiamare i pompieri e la guardia forestale proprio quando avevano varcato la soglia della reception.
Quando si erano calmati, tutti quanti avevano voluto delle spiegazioni e Merlino era stato eccezionale in proposito, parlando con calma e dispiacere, mentendo così bene che nemmeno lei, se non fosse stata presente in prima persona, sarebbe riuscita a distinguere ciò che c’era di vero e ciò che c’era di falso nel suo racconto.
Nonostante il suo talento – anni e anni di pratica, ovviamente – non era riuscito a sottrarsi alla cena: Wanda li aveva costretti a mangiare lì, dicendo che era il minimo che potessero concederle dopo lo spavento che avevano fatto prendere loro.
Alla tavolata si era aggiunta anche Rebecca Morris, la quale non aveva fatto altro che lanciare occhiate ad Artù, venendo bellamente ignorata. Lei si era comportata praticamente allo stesso modo, cercando un qualsiasi contatto visivo con Merlino, con gli stessi deludenti risultati.
Era rimasto in silenzio per quasi tutta la durata di quella cena-punizione, aumentando e di molto i livelli di imbarazzo e disagio che, nell’ampia sala ristorante deserta e da ripulire, regnavano già sovrani.
Ogni tanto Alex aveva incrociato gli occhi di Artù, in una silenziosa richiesta d’aiuto, e più di una volta aveva provato ad intavolare una conversazione che avrebbe potuto stemperare l’atmosfera tesa, ma aveva o fallito o addirittura peggiorato la situazione, in particolare quando aveva accennato al suo cambio di reparto improvviso.
«Che cosa?», aveva esclamato suo padre, punto sul vivo come se lo avesse appena offeso personalmente.
Lei aveva annuito, stringendosi nelle spalle. «Ho ricevuto la lettera questa mattina. Trasferimento con effetto immediato, dice».
«Ci dev’essere stato sicuramente un malinteso».
«Ne dubito».
«Beh, in ogni caso dovresti parlarne con quel tuo amico, quello con il padre nel Consiglio d’Amministrazione. Keith, giusto? Potrebbe intercedere per te, o almeno provarci».
Il sangue le si era gelato così tanto nelle vene che si era stretta nella felpa, passandosi la lingua tra le labbra asciutte. Merlino aveva alzato la testa dal piatto per la prima vera volta da quando si erano seduti a tavola e l’aveva guardata con occhi vuoti, spenti, e lei si era sentita così in colpa che aveva abbassato lo sguardo, quasi con vergogna. La verità era che anche lei aveva subito pensato di chiedere aiuto a Keith, ma non aveva avuto il coraggio di confessarlo a Merlino per paura che la ritenesse una stupida e la dissuadesse nel farlo. Solo guardandola era riuscito a farle dire a suo padre che non l’avrebbe mai fatto; non voleva nemmeno immaginare come avrebbe reagito nel caso avesse aperto bocca. Ad ogni modo sapeva di aver mentito, almeno in parte: forse non avrebbe chiesto subito a Keith di parlare con suo padre per farle ottenere il suo vecchio posto ad oncologia, ma di certo gli avrebbe chiesto se sapeva il perché di quel trasferimento. Aveva bisogno di saperlo, che a Merlino stesse bene o meno.
Il mago era stato il primo ad alzarsi da tavola e ancora prima che Wanda gli dicesse che ci avrebbe pensato lei a sparecchiare, lui aveva già impilato tutti i loro piatti ed era schizzato in cucina, fuggendo al suo sguardo come a quello di Artù. Quest’ultimo aveva aspettato qualche secondo, meditabondo, poi aveva posato le mani sul tavolo per annunciare che sarebbe andato a dargli una mano.
«No», aveva esclamato lei, alzandosi e sporgendosi sul tavolo per arraffare i bicchieri. Tutti, suo padre in primis, l’avevano guardata accigliati, chiedendosi se fosse successo qualcosa durante la loro scampagnata, perciò si affrettò a raggiungere la cucina prima che potessero farle domande a cui uno, non aveva alcuna intenzione di rispondere e due, non avrebbe proprio saputo come farlo.
Nel giro di un quarto d’ora aveva visto Merlino utilizzare la magia per recuperare Artù dal regno di Ade, ottenendo la prova definitiva che fosse uno stregone (forse lo stesso protagonista delle favole che raccontava ai bambini in ospedale); era venuta a conoscenza del profondo affetto che Artù provava per lei (forse fin troppo profondo); e nonostante Artù le avesse raccontato che aveva avuto un attacco di panico ed era svenuta, aveva capito perfettamente quello che era successo veramente: la magia di Merlino era entrata dentro di lei, l’aveva sentita scorrere nelle sue vene, e non era riuscita a controllarla. Le aveva permesso di prendere il sopravvento su di lei e sul suo corpo e aveva rischiato di farsi uccidere. Probabilmente sarebbe morta se Merlino non fosse stato lì con lei, ma era anche vero che avrebbe vissuto la sua tranquilla e monotona vita – anche un po’ triste, sì – se non l’avesse mai conosciuto.
Quindi era un po’ sfasata, eccitata e spaventata, non poteva essere altrimenti, ma aveva anche bisogno di andare fino in fondo: aveva altre domande che necessitavano una risposta e non potevano aspettare, né Merlino poteva rifiutarsi di dargliele.
Spinse una delle porte della cucina con la spalla, trovando subito disorientante il contrasto tra la sala ristorante calda e accogliente, dalle luci soffuse, i muri di mattoni a vista e il basso soffitto di volte in pietra, e quell’ambiente freddo ed antisettico, con i fornelli e i ripiani d’acciaio, le mattonelle bianche alle pareti e lunghe luci al neon appese al soffitto piatto.
Con le due pile di bicchieri strette al petto, si aggirò tra i banconi fino a quando non vide Merlino intento a caricare la grande lavastoviglie, con un paio di guanti gialli infilati fino a metà avambraccio e il volto serio e concentrato, come se stesse detonando una bomba e non sciacquando i piatti.
«Lasciali pure lì, me ne occupo io», disse in tono piatto, senza degnarla nemmeno di uno sguardo.
Alex posò i bicchieri sul ripiano accanto al lavandino e poi incrociò le braccia al petto, il fianco contro il bordo del mobile. «Merlino, potresti fermarti un attimo e…?».
«Non ho voglia di parlare, Alex».
«Allora ascoltami».
«Voglio stare da solo. Chiedo troppo?».
L’infermiera respirò profondamente, ma non servì a nulla contro la rabbia che sentiva crescere dentro di sé, tanto forte da procurarle quasi un male fisico.
«Perché ti comporti così?», gli chiese cercando di mantenere un tono di voce normale, continuando a respirare lentamente. «Sono io quella che dovrebbe essere arrabbiata perché non hai mai detto la verità, quella che dovrebbe allontanare tutti per lo shock e la paura di ciò che potresti fare».
«È proprio questo il problema», esclamò, urlando quasi, col volto sfigurato dalla frustrazione. «Perché sei così tranquilla? Perché mi sei sembrata felice quando hai visto il mio… dono?». Pronunciò quell’ultima parola con disgusto e disprezzo, coprendosi la bocca con il braccio per un momento, come per ricacciare indietro un conato. «Perché non mi hai detto prima che sapevi?».

Espira, inspira. «Perché avresti negato, come sempre! Ti saresti inventato una scusa assurda e io avrei dovuto far finta di crederti, rompendo io stessa la promessa che ti avevo fatto fare. Te la ricordi? Niente più bugie, Merlino!».
«E infatti non ti ho più mentito, da allora! Ti ho solo nascosto un segreto che ho mantenuto per tutta la vita e con più o meno tutti quelli che ho conosciuto, Artù incluso! Anche lui lo sa da poco e sai perché, Alex, lo sai? Tu non hai idea di cosa sia stato per me mentire a lui ogni giorno per dieci anni, mentire a tutte le persone che amavo… Ma l’ho fatto proprio perché le amavo e volevo proteggerle dal mio stesso destino!».
Non aveva mai visto Merlino così arrabbiato e non riusciva a pensare lucidamente, immersa lei stessa in quell’atmosfera tesissima. Continuava a ripetersi di espirare ed inspirare lentamente, ma ad ogni secondo che trascorreva sentiva il cuore batterle sempre più in fretta nel petto e la gola bruciarle come se stesse per affogare in una pozza di acqua salata, scura e gelata.
«Non mi comporto così perché lo voglio, Alex, ma perché mi stai costringendo a farlo. Non hai mai smesso di fare domande, di voler sapere la verità. Pensavi che ti tenessi nascosta gran parte della mia vita perché non mi fidassi di te e ti sei sempre sbagliata su questo: lo facevo perché il mio non è un dono, è una maledizione, e io sono pericoloso. Lo facevo perché ti voglio bene e non volevo che ti succedesse qualcosa di male, perché chiunque viene a conoscenza del mio segreto prima o poi fa una brutta fine e non potevo nemmeno immaginare come sarebbe stato perderti».
I suoi occhi erano ora colmi di lacrime e le sue labbra incurvate in un sorriso addolorato. Si allontanò di un passo, togliendosi i guanti gialli con gesti calmi e misurati.
«Sono così arrabbiato perché ho fallito. Di nuovo», mormorò, chinando il capo. «Ora che sai ciò che sono dovrò starti lontano, dimenticarti, e nonostante sia l’unica soluzione perché tu sia al sicuro, per me sarà come morire».
Alex scosse il capo, sentendo le lacrime scorrerle inarrestabili lungo le guance. «No. Non puoi farlo, Merlino».
«Non ho alternative», mormorò con quel sorriso triste ancora sulle labbra.
«NO!», gridò con tutto il fiato che aveva in gola e sentì tutta la rabbia che covava dentro esploderle nel petto e poi scivolare via, lasciandola senza forze e con la testa che le girava vorticosamente.
Quando riaprì gli occhi si sentì ancora più male, constatando che quella volta aveva utilizzato la magia che aveva assorbito da Merlino non per fare del bene: le due pile di bicchieri che aveva posato accanto a sé erano letteralmente esplose, come colpite da una bomba ad ultrasuoni, e milioni di pezzi di vetro giacevano sul ripiano, per terra, ovunque.
Sollevando lo sguardo, Alex fu costretta a portarsi le mani alla bocca per non scoppiare in singhiozzi, terrorizzata da ciò che lei stessa era stata in grado di fare: non solo aveva distrutto un intero servizio di bicchieri, ma aveva ferito Merlino, il quale aveva fatto appena in tempo a portarsi le mani di fronte al viso, procurandosi solo un paio di tagli superficiali, uno sopra il sopracciglio sinistro e uno sullo zigomo destro. Ciò che la stava facendo lentamente scivolare a terra, scossa dai singhiozzi, erano i pezzi di vetro che gli avevano tagliuzzato la felpa e quello più grosso che gli si era conficcato nell’addome, provocando una ferita da cui perdeva sangue in modo già copioso, tanto da chiazzare il tessuto spugnoso dell’indumento.
«Alex. Alex, guardami».
L’infermiera sollevò lo sguardo fino ad incrociare gli occhi di Merlino e trattenne il respiro per poter sentire la sua voce flebile.
«Reggimi il gioco».

 

***

 

«NO!».
Tutti, alla tavolata, si pietrificarono e si guardarono l’un l’altro fino a quando il signor Morris non chiese, a bassa voce: «Era Alexandra?».
All’infrangersi delle stoviglie, tutti si alzarono per schizzare verso la cucina. Artù spinse le porte a spinta con così tanta forza che queste sbatterono contro le pareti, ma nessuno vi badò. 
«Alex!», gridò, la voce alterata dalla preoccupazione.
Si chinò per vederla oltre le padelle e le pentole appese e poi la raggiunse dietro ad uno dei banconi, quello dove si trovavano i lavandini, la lavastoviglie e un piano di lavoro.
Era in piedi sopra ad un tappeto di frammenti di vetro, alcuni dei quali insanguinati, e sorreggeva Merlino a fatica, piangendo a dirotto.
«Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace così tanto!», farfugliò, singhiozzando a più non posso.
Artù impallidì vedendo le condizioni in cui riversava Merlino, ma bastò una sua occhiata per fargli capire che aveva un piano e doveva reggergli il gioco.
«Alex, tesoro!», gridò Edwin, correndo sopra i vetri scricchiolanti per aiutarla a sorreggere lo stregone. Non appena vide la chiazza di sangue che si stava allargando sempre di più sulla felpa del moro esclamò ancora, terrorizzato: «Che cosa diavolo è successo?!».
«Chiamo subito un’ambulanza!», strillò Wanda, le mani sul viso cadaverico.
«Alex mi aveva appena passato i bicchieri», mormorò il mago, mentre Alex e suo padre lo trascinavano via dai pezzi di vetro per farlo stendere a terra ed evitare così che si dissanguasse ulteriormente. «Per terra era bagnato e sono caduto… sopra i bicchieri».
Artù camminò lentamente verso di loro, guardandosi bene intorno, e vedendo il ripiano di lavoro pieno di cocci di vetro capì che, nel caso qualcuno li avesse notati, le bugie di Merlino sarebbero state subito smascherate. Quindi, senza farsi notare né da Edwin né da Abraham, passò un braccio sopra il ripiano e fece cadere tutti i frammenti a terra, ricevendo un’occhiata d’approvazione da Merlino, sempre più pallido ed ansimante.
Rendendosi conto che non c’erano altre prove da cancellare, Artù corse al suo capezzale e gli scostò i capelli dalla fronte con una mano, sorridendo in modo beffardo.
«L’ho sempre detto che la tua goffaggine ti avrebbe fatto ammazzare, un giorno».
Merlino accennò una risata che subito gli accartocciò il volto in un’espressione di pura sofferenza.
«Ehi, ehi», richiamò la sua attenzione, guardandolo fisso negli occhi. «Non mi dirai addio, chiaro?».
«Chi può dirlo?», bofonchiò, guardandosi le mani insanguinate.
Artù le strinse forte tra le sue e pensò che in effetti non sapevano se Merlino avesse perso o meno la sua immortalità quando lui era risorto. Quello che sapeva di certo era che non poteva perderlo, che non poteva guardarlo morire e non provare a salvarlo fino alla fine. Ricordò come lui si era ostinato a volerlo portare ad Avalon, alle miglia che aveva percorso a piedi, sorreggendolo quasi a peso morto, senza darsi mai una tregua, mentre lui più volte gli aveva detto che ormai era troppo tardi. Ora capiva ciò che aveva dovuto passare, il dolore che aveva provato nel sentire che il suo migliore amico si era già dato per spacciato. Artù non gliel’avrebbe mai permesso.
In quel momento sentì le sirene dell’ambulanza e sospirò di sollievo. «Andrà tutto bene, vedrai».
Merlino annuì, per poi voltare il viso verso Alex, la quale riprese a singhiozzare forte, coprendosi il volto con entrambe le mani. Il mago liberò una mano dalla stretta di Artù e costrinse a Alex a guardarlo negli occhi mentre le accarezzava una guancia, lasciando lievi linee di sangue sulla sua mandibola.
«Non è colpa tua», mormorò. «Hai capito, Alex? Non è colpa tua».
«Ti prego, non mi lasciare».
Merlino abbozzò un sorriso, ma non fece in tempo a rispondere che due paramedici entrarono nella cucina con una barella, costringendo Edwin, Alex ed Artù a spostarsi.
Il re sobbalzò quando si trovò di fronte Cathleen, quella Cathleen, e anche lei si irrigidì, gli occhi fissi nei suoi. Fu solo una frazione di secondo però, il tempo di ricordarsi che c’era una vita in gioco, e non una qualunque.
«Porca…», bofonchiò il paramedico non appena realizzò che le condizioni di Merlino erano critiche. «Dobbiamo fare attenzione a spostarlo. Di chi è stata l’idea di lasciargli il pezzo di vetro conficcato nella pancia?».
«Mia», disse Alex, tremando.
«Sì, dovevo capirlo. Ottimo lavoro, Alex. Credo che sia l’unico motivo per cui non sia già morto: il pezzo di vetro sta facendo da tappo e se si dovesse muovere causerebbe ulteriori danni. Non accadrà stasera, ve lo prometto».
Scambiò uno sguardo col suo collega e lei da una parte, lui dall’altra, al tre sollevarono Merlino e lo posarono sulla barella, facendolo gemere di dolore.
«Non fare la femminuccia, Merlino», esclamò Cathleen e Artù, nonostante la tragicità del momento, non poté fare a meno di sorridere. La rossa se ne accorse e ricambiò, prima di sollevare la barella e dirigersi velocemente verso l’ambulanza.
«Uno solo», ordinò guardando Artù e Alex, entrambi in piedi di fronte alle porte aperte dell’ambulanza e ben intenzionati a non lasciare Merlino.
«Artù», mugugnò il mago dall’interno, ormai allo stremo delle forze.
«Okay, deciso», esclamò Cathleen spingendo dentro il biondo e chiudendo con forza le porte per poi correre alla guida, facendo partire al massimo le sirene.
Artù allungò il collo per vedere fuori dal finestrino e guardò Alex diventare una figura sempre più indistinta nel buio della notte mentre si dirigevano frettolosamente verso l’ospedale. Poi sentì Merlino lamentarsi al suo fianco, sotto agli occhi del paramedico che gli stava iniettando qualcosa nel braccio e nel contempo monitorava i battiti irregolari del suo cuore, e tornò a stringergli la mano, inerte lungo il suo fianco.
«Ci credo che poi la gente pensa che ci sia qualcosa tra di noi», disse, riferendosi a come avesse scelto lui, senza esitazione anche da mezzo svenuto. 
Il paramedico gli lanciò un’occhiata di traverso e Artù ripeté, serio più che mai: «Non siamo una coppia, lo giuro».
Non lo erano, e su questo non si poteva discutere, ma era altrettanto indiscutibile il fatto che si sarebbe rigettato nel lago di sua spontanea volontà se Merlino fosse morto di fronte ai suoi occhi.

 
Seduto su una poltroncina nella sala d’aspetto del pronto soccorso, la testa reclinata appoggiata alla parete e gli occhi chiusi, Artù aspettava come gli era stato ordinato di fare. Aspettava che Merlino uscisse dalla sala operatoria, aspettava che Alex arrivasse con suo padre, aspettava di poter tornare a casa col suo migliore amico e di tirare un grande sospiro di sollievo prima di chiudere gli occhi ed addormentarsi. L’attesa era davvero snervante, ma cercava di fare del suo meglio.
Un colpo di tosse vicino a lui non gli fece né caldo né freddo, dato che fino a poco tempo prima aveva sentito di tutto e di più uscire dalla gola di un vecchio seduto di fronte a lui dall’altra parte della stanza. Quando però ce ne fu un altro, eccessivamente prolungato, Artù inarcò le sopracciglia ed aprì gli occhi per incrociare quelli di Cathleen, ancora in uniforme da paramedico, seduta alla sua sinistra, con le mani unite tra le ginocchia e un sorriso incerto sulle labbra.
«Ciao», lo salutò.
«Ciao».
Si fissarono per un’eternità, bloccati in un silenzio così imbarazzante che ad un certo punto iniziarono a parlare contemporaneamente. Cathleen accennò una risata, massaggiandosi il naso.
«Pensavo accadesse solo nei film», mormorò. «Vai prima tu».
Artù si strinse nelle spalle, sospirando. «Volevo solo dirti che mi dispiace, se ti ho offesa in qualche modo».
«Non mi hai offesa in alcun modo, Artù», rispose, corrugando la fronte come se non si sarebbe mai aspettata di sentire quelle parole. «Al contrario, tu… Tu ti sei comportato come non ha mai fatto nessuno e questo mi ha… spaventata, ecco».
«Che cosa vuoi dire?».
Cathleen scrollò le spalle, puntando gli occhi sul pavimento. «Non so che intenzioni hai, ma è meglio che tu sappia subito che non voglio una relazione. Non posso».
«Già», mormorò Artù, incrociando le braccia al petto e tornando ad appoggiare la testa alla parete, gli occhi di nuovo chiusi. «Nemmeno io. Pensavo che avrei potuto, che sarei riuscito a mettere da parte il passato, ma mi sbagliavo».
Artù ripensò a quello che Merlino aveva scoperto su Cathleen e si chiese se quello non fosse il momento adatto per aprire l’argomento, dato che erano già in tema. Si sarebbe arrischiato a dire almeno quello che era successo a lui, confidandosi con la speranza che lei avrebbe fatto lo stesso, ma non ne ebbe il tempo materiale.
Alex entrò dalle porte scorrevoli del Pronto Soccorso e subito si precipitò verso di loro, cadendo quasi tra le braccia di Artù. Era ancora più che sconvolta, col mascara sbavato sotto gli occhi e i capelli arruffati, come se avesse tentato di strapparseli dalla testa, e il suo volto e le sue mani erano ancora macchiati del sangue di Merlino.
«Lui dov’è? Come sta?».
Cathleen si alzò e la prese per le spalle per farla sedere al suo posto, dopodiché in silenzio si inginocchiò di fronte a lei e tirò fuori da una delle tante tasche dei pantaloni un pacchettino di salviette umidificate, con cui iniziò a pulirle il viso. Quando le prese le mani tra le sue per toglierle il sangue dalle dita, iniziò a spiegare con calma e tranquillità: «Merlino è ancora sotto i ferri. Da quello che so hanno già rimosso il pezzo di vetro più grande, quello più complicato. Ha causato un taglio abbastanza profondo, ma non ha danneggiato gravemente nessun organo. Ora si stanno occupando dei frammenti più piccoli, ma è decisamente fuori pericolo. Dovrai sopportarlo per un bel po’ di tempo ancora».
«Grazie a Dio», mormorò Alex, tra il riso e le lacrime. «Grazie a Dio!». 
Gettò le braccia al collo di Cathleen e il paramedico, dopo un attimo di esitazione, ricambiò la stretta massaggiandole la schiena con una mano e scambiando un’occhiata d’intesa con Artù, il quale mimò con le labbra un «Grazie». Cathleen si limitò a sorridere.

 

***

 

Merlino aprì gli occhi lentamente e non dovette nemmeno guardarsi intorno per capire di trovarsi in un letto d’ospedale. Sollevò lentamente le mani e le vide fasciate da bende che gli impedirono di quantificare la profondità dei tagli. Si ricordò del pezzo di vetro che gli aveva perforato l’addome e scostò le coperte da un lato per poi sbirciare dal colletto della camicia azzurrina che gli avevano infilato: anche lì, un grande cerotto bianco che non gli permetteva di contare i punti che sicuramente gli avevano messo né di immaginarsi l’ennesima cicatrice che avrebbe decorato il suo corpo in maniera così unica e particolare.
«Le cicatrici», mormorò a se stesso, chiedendosi se il chirurgo che l’aveva operato e gli infermieri che avevano assistito si fossero posti delle domande a riguardo e se, prima o poi, sarebbero venuti a riscuotere le dovute spiegazioni. Come avrebbe potuto giustificare millequattrocento anni di ferite di ogni genere? Era per quello che raramente si era rivolto a strutture pubbliche per le cure, perché tutti si ostinavano a fare domande. Il più delle volte, quando riusciva a non svenire durante l’operazione, si era ricucito da solo, e per le vere emergenze aveva chiesto aiuto a qualche medico non troppo schizzinoso riguardo alle cause delle sue ferite o alla provenienza dei suoi soldi.
«Davvero le cicatrici sono il tuo primo pensiero? Sei davvero una donnicciola, Merlino».
Sollevò il capo e vide Artù seduto accanto alla porta, con una mano a sorreggergli la testa e un sorriso beffardo sul volto.
«Non pensavo al fattore estetico», rispose con la voce ancora roca, dovuta probabilmente alla lunga dormita che si era fatto. «Non importa. Che ore sono?».
«Le cinque del mattino».
«Non avete dormito?».
Il sorriso di Artù si allargò. «Una volta un mio amico è rimasto sveglio tutta la notte solo perché lo ero anch’io e quando gliene ho chiesto il motivo mi ha detto che non voleva che avessi la sensazione di essere solo».
«Un ottimo amico, davvero», rispose ricambiando il sorriso, per poi posare di nuovo la testa sul cuscino. «Alex dov’è?».
«Alle tre suo padre ed io l’abbiamo costretta ad andare a casa a dormire. Probabilmente non l’avrà fatto comunque, ma averla in giro in quelle condizioni non era piacevole. Merlino, lei c’entra qualcosa con quello che ti è successo, non è vero? Gliel’ho letto negli occhi».
«Che cosa?».
«Senso di colpa».
Merlino sospirò, chiudendo gli occhi. «Non è stata colpa sua», soffiò.
«Raccontami che cos’è successo».
Per un attimo pensò di mentire, o almeno di ammorbidire le colpe di Alex, ma realizzò che sarebbe stato inutile: il problema c’era, ed era anche piuttosto grave, e aveva bisogno anche dell’aiuto di Artù per poterlo risolvere.
Gli raccontò così la verità, ossia che Alex aveva lasciato che la magia usasse la sua rabbia come via d’uscita e che tutta quella che aveva assorbito e che non era stata espulsa dal suo incantesimo - la quantità che il suo corpo era stato in grado di gestire - era uscita tutta in una volta, con effetti piuttosto pericolosi.
«Non posso credere che abbia fatto una cosa del genere», mormorò alla fine Artù, passandosi le mani tra i capelli proprio come faceva Alex quando era agitata.
«Non è colpa sua, credetemi. La magia è in grado di sopraffarti quando meno te lo aspetti, di farti fare cose di cui non saresti mai stato capace. E controllarla, soprattutto se è potente come la mia, richiede anni ed anni di pratica ed esercizi. Persino Morgana all’inizio ha avuto problemi».
Udendo il nome della sorella Artù schizzò in piedi, gli occhi fiammeggianti fissi nei suoi. «Non ti azzardare a paragonare Alex a Morgana. Lei è passata dalla parte del male, voleva vendetta e ha ucciso decine di persone innocenti pur di…».
«Vostro padre non ha fatto lo stesso?», ribatté, furioso. Si sollevò a fatica, gemendo per il dolore, ma alla fine riuscì a mettersi seduto per fronteggiarlo. «Morgana ha scoperto di avere poteri magici per caso, era spaventata, temeva per la sua stessa vita, e senza una guida che le spiegasse come utilizzare la magia per il bene si è lasciata traviare da Morgause. Poi ha scoperto di essere figlia di Uther e ogni sua certezza è crollata, si è sentita sola come non mai e tutto questo le ha fatto provare odio per il mondo intero».
«Sembra quasi che tu la stia difendendo, che stia trovando una scusa per tutti i crimini che ha commesso».
«Sì, è quello che sto facendo. Perché sono convinto che il suo destino non era già scritto, che avrei potuto aiutarla e che è colpa mia se lei…». 
Si guardò le mani e ricordò il dolore che aveva provato, il rumore assordante del suo cuore che si spezzava in mille pezzi, quando aveva impugnato Excalibur e l’aveva uccisa. Il suo sangue era sulle sue mani, indelebile da più di millequattrocento anni, e mai sarebbe riuscito a perdonarsi.
«Sono state le sue scelte a delineare il suo destino, non le tue», concluse Artù, pacatamente. «In ogni caso Alex non sarà mai come lei».
«Perché?», gli chiese, stringendo i denti. Il re di Camelot lo fissò perplesso e Merlino riprese: «Perché non dovrebbe? Perché lei è tutto ciò che resta della vostra famiglia? Ho sentito quello che le avete detto. Che cosa intendevate?».
Artù scosse il capo stancamente ed accennò un sorriso. «Stavo solo farneticando…».
«Siete sempre stato un pessimo bugiardo».
«Forse hai ragione. Dopotutto sei tu l’esperto, no?», rispose sarcastico, con una punta di irritazione nello sguardo.
Merlino capì di aver esagerato e fece per scusarsi, ma Artù aveva già aperto la porta. «Dove state andando?».
«A casa, ho sonno».
«Artù, aspettate…».
Il re di Camelot si sbatté la porta alle spalle e Merlino rimase solo, pentito e con la ferita all’addome che gli pulsava dolorosamente, ma mai come il suo cuore infranto che sembrava battere solo per inerzia ormai.

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Capitolo 15
*** 15. The Destiny’s Call ***


Buonasera! (O buonanotte, per chi è anziano dentro come me ed è già pigiamato per andare a letto u_u)
Eccoci qui, questo è l’ultimo capitolo prima della pausa… il mid-season finale, come mi piace chiamarlo xD
No, a parte gli scherzi, come ho detto nelle ultime settimane mi scoccia molto interrompere la pubblicazione, ma a causa dei molti impegni e della scarsa ispirazione – lo ammetto, sto avendo un calo a causa di alcuni problemi personali – sono costretta a lasciarvi per un po’ di tempo. Tornerò il prima possibile, cross my heart.
Spero che questo capitolo vi piaccia e che in ogni caso mi facciate sapere qualcosa, qualsiasi cosa, con una recensione anche piccola, piccolissima, piccinapicciò.
Se avete qualche idea, qualche illuminazione fulminante, qualche sospetto su cosa succederà prossimamente… scrivetelo pure, magari mi aiuterete a sbloccare alcuni punti su cui sono ancora un po’ incerta. (Ovviamente vi darò credito poi! u_u)
Ringrazio tutti coloro che hanno letto e commentato fino a qui e chi ha messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate. Ognuno di voi ha un frammento del mio cuore!
Baci e abbracci a tutti, a presto!

Vostra,

 

_Pulse_

 

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15. The Destiny’s Call

 

Quando suo padre, circa alle quattro del mattino, era entrato di soppiatto nella sua camera da letto, Alex aveva solo fatto finta di essersi addormentata. Aveva aspettato che uscisse e aveva di nuovo acceso l’abat-jour sul comodino, fissando il soffitto con la mente affollata di pensieri.
Come avrebbe potuto abbandonarsi ad un sonno senza incubi, sapendo che Merlino era finito in ospedale per colpa sua? Come avrebbe potuto, ora che era sicura di poter assorbire dei poteri che non era in grado di controllare? Come avrebbe potuto, essendo ormai a conoscenza che tutto ciò che aveva sempre sospettato su Merlino e Artù era la verità?
Non vedeva l’ora di scivolare fuori dalle coperte per correre da Merlino, ma ne era anche spaventata a morte. Erano state le sue parole che l’avevano fatta reagire in quel modo, parole dure ed inaccettabili che le avevano infranto il cuore, e aveva paura che se lui le avesse fatto un altro discorso del genere lei avrebbe potuto fargli dell’altro male. 
Aveva paura che l’allontanasse veramente – per il suo stesso bene, aveva detto – che pensasse che fosse colpa sua se non era riuscito a tenerla al sicuro dalla sua maledizione e che soffrisse nell’inutile tentativo di dimenticarla. Anche per lei una separazione sarebbe stata l’equivalente della morte di una parte di sé e non poteva assolutamente permetterlo: Merlino doveva cambiare idea, capire che affrontare il destino e le maledizioni da solo non era la strategia giusta e che insieme, invece, avrebbero avuto qualche possibilità in più contro qualsiasi cosa lui combattesse.
Aveva ancora mille domande che avrebbe voluto porgli – tra cui perché le era sembrato così simile a suo nonno il pomeriggio prima – ma sapeva che non avrebbe ottenuto risposte fino a quando non avrebbe raso al suolo, mattone dopo mattone, il muro che aveva innalzato tra loro.

 
Alle cinque e un quarto spaccate si alzò dal letto e si infilò in bagno per darsi una veloce rassettata, si cambiò e poi si precipitò giù dalle scale. In salotto, sdraiato sul divano ed intento a guardare il telegiornale alla TV, trovò suo padre.
«Che ci fai già sveglia?», le chiese rassegnato, muovendo la mano come se non volesse davvero sentire la sua risposta. «C’è ancora un po’ di caffè se lo vuoi».
Alex bevve una tazza enorme di caffè, pucciandovi dentro una brioche preconfezionata, poi afferrò la borsa e rivolse un breve sorriso a suo padre prima di esclamare: «Andiamo, forza. Ti riaccompagno all’agriturismo».
«Se pensi che ti lascerò sola…».
«Oggi è il mio primo giorno al Pronto Soccorso, papà».
Edwin la guardò intensamente, corrucciato, e Alex sorrise tanto da lasciarsi sfuggire una risatina.
«Sto bene, davvero. Non devi preoccuparti per me».
«Lo faccio sempre, è più forte di me», rispose emettendo un sospiro ed alzandosi dal divano dopo aver spento la televisione.
La raggiunse e le infilò un braccio tra le spalle, seguendola fuori di casa, nell’aria fredda del mattino ancora buio.

 

***

 

Il sole era ancora ben lungi dal sorgere e il cielo buio, punteggiato da centinaia di piccole stelle, rendeva Avalon ancora più misterioso ed affascinante. Per nulla incline a prendersi un momento per ammirare la bellezza di quel luogo che era rimasto tale e quale a come se lo ricordava, Artù vide l’instabile barchetta lì dove l’aveva trovata l’ultima volta, nascosta tra i canneti sulla sponda est del lago. Non la raggiunse però, preferì urlare la sua frustrazione dalla riva, senza dover per forza guardare gli occhi ingannevoli di Freya.
«Vorrei dei chiarimenti, se non sei troppo impegnata a giocare col destino degli altri!».
La custode del lago rise e la sua voce rimbombò forte tra le pareti della scatola cranica di Artù, assieme ad una specie di ronzio che gli procurava sempre un gran mal di testa.
«Quindi non siete qui perché avete accettato di portare a termine la vostra missione».
«Al contrario, sto seriamente pensando di non prendere nemmeno in considerazione la tua offerta».
«Si tratta della ragazza, non è così? Che cos’è successo?».
Artù strinse i pugni lungo i fianchi, chiedendosi se lo stesse prendendo in giro. «Non lo sai?».
«Il vostro non è l’unico destino di cui mi interesso, Pendragon. Parlate, forza».
«Alexandra è in grado di utilizzare la magia», disse stringendo i denti.
Era furioso perché non l’aveva avvisato prima, perché tra tutti era toccato proprio a lei, perché il ricordo di Morgana, riportato a galla poco prima da Merlino, gli faceva battere ancora dolorosamente il cuore.
Il silenzio della custode fu lungo, tanto lungo che ad un tratto Artù si domandò se non se ne fosse andata per qualche motivo a lui sconosciuto, ma poi la sua risata squillante lo fece trasalire.
«Temo che questa sia proprio quella che viene definita "ironia della sorte", Pendragon».
«Stai per caso dicendo che non lo sapevi?».
«Oh, a vostro avviso sarò anche criptica e manipolatrice, ma non credete che sarei stata entusiasta di sapere che l’ultima Pendragon al mondo è in grado di controllare la magia?».
«Controllare è una parola grossa», mormorò, lasciandosi cadere a terra con le ginocchia piegate e i gomiti su di esse, le mani a reggere la testa. «Ha mandato Merlino in ospedale».
Ancora una volta Freya rimase in silenzio e fu proprio Artù a doverlo rompere, anche se con la fronte corrugata per un pensiero fulmineo che gli aveva attraversato la mente: possibile che fosse ancora innamorata di lui?
«È fuori pericolo ormai. Lo dimetteranno presto».
«Bene», rispose, fin troppo freddamente. «Per quanto riguarda la ragazza, ora che ci penso le sue capacità non sono così incredibili».
Artù sollevò di scatto la testa, rabbrividendo. «Che vuoi dire?».
«Vi ho già detto che la magia sta morendo. Le persone che un tempo sarebbero nate naturalmente col dono ora sono solo capaci di assorbire il potere, ma i luoghi e le creature che ancora riescono a sopravvivere sono pochi e più tempo passa meno ce ne saranno. Nel mondo c’è un intero esercito di maghi e streghe che non sanno nemmeno di esserlo. Ma se a queste persone venisse data l’opportunità di venire a contatto con una fonte, allora il dono che giace assopito in loro verrebbe risvegliato».
«Sì, io e Merlino ci eravamo già arrivati: Alex ha assorbito la sua magia. Ma perché è toccato a lei possedere questo…», Artù si interruppe, cercando la forza necessaria a pronunciare quella parola che non avrebbe mai voluto utilizzare come sinonimo di magia. Persino Merlino non la usava più. «Dono?».
«Ho sentito del disprezzo nella vostra voce? Come vi permettete, voi che così tante volte avete beneficiato della magia di Merlino? Voi che siete nato, grazie alla magia?».
«Mia madre è morta, a causa della magia che ha permesso la mia nascita!».
«Non poteva essere altrimenti», affermò pacatamente. «Ad ogni modo, il dono della ragazza non doveva sorprendermi proprio perché voi stesso siete frutto della magia, ce l’avete nel sangue. Ma per tramandarsi fino alla sua generazione doveva trattarsi di un potere enorme, ben oltre le capacità di Nimueh. Mi chiedo se…».
«Che cosa? Parla, Freya».
«Anche vostra sorella Morgana possedeva il dono. Mi chiedo se vostro padre Uther non vi abbia celato dell’altro, se il suo accanimento contro la magia fosse dovuto solo alla morte di vostra madre».
«Stai per caso insinuando che anche mio padre potrebbe essere stato uno…?». Non riusciva nemmeno a pronunciare la parola “stregone” associandola a suo padre. Si alzò in piedi, gridando: «È ridicolo! Morgana deve aver ereditato la magia da sua madre! Altrimenti come spiegheresti i poteri di Morgause? Lei non aveva alcun legame con mio padre!».
«Forse avete ragione. In ogni caso, non è importante sapere da chi abbia ereditato il dono la vostra discendente: il fatto che ce l’abbia è una speranza in più per il mondo intero. Se voi e Merlino non vorrete portare a termine il vostro destino, scommetto che lei non se ne starà con le mani in mano a guardare la Terra bruciare».
«Lei non dovrà mai sapere nulla di tutto questo, chiaro? Prova solo a metterti in contatto con lei e io…».
«Non potete impedirmelo, Pendragon. La ragazza si è tuffata nelle mie acque per aiutarvi, è già venuta in contatto con me. E in quello stesso istante il suo destino è stato scritto».
Artù scosse ripetutamente il capo, conscio che Freya avrebbe potuto vederlo. Con i pugni stretti lungo i fianchi e il viso sfigurato dalla rabbia gridò: «Non accadrà una seconda volta: non permetterò che il destino abbia ancora la meglio su di noi».
Freya accennò una risata. «Cosa avete intenzione di fare?».
«Lo cambierò».

 

***

 

Merlino continuava a ripetersi che non sarebbe dovuta andare a finire così: Alex non avrebbe dovuto sapere la verità, non avrebbe dovuto affezionarsi a lui e ad Artù in quel modo e soprattutto non avrebbe dovuto entrare in contatto diretto con la magia. Ormai però era troppo tardi, per tutte e tre le cose. Particolarmente preoccupante però era il fatto che, se era come pensava che fosse, la magia aveva già avuto tutto il tempo per insinuarsi nella sua anima, come un veleno senza antidoto, rendendola pericolosa.
Da quando Artù se n’era andato non era riuscito a chiudere occhio: era rimasto a guardare il sole sorgere lentamente fuori dalla finestra, rischiarando il cielo buio e facendo scomparire le stelle, e aveva pensato tanto da farsi venire il mal di testa.
Lo aveva chiamato al cellulare almeno una ventina di volte, senza mai ottenere risposta, e alla fine si era arreso, rimanendo sdraiato sul letto ad occhi chiusi fino a quando non aveva sentito la porta della sua stanza aprirsi. Aveva semplicemente continuato a fingere di dormire, dato che non era proprio dell’umore giusto per interagire con un altro essere umano, ma non appena aveva sentito una mano posarsi sulla sua e stringerla delicatamente e al contempo con forza non aveva potuto fare a meno di aprire gli occhi per incrociare quelli di Alex, in piedi al suo fianco, con i capelli legati in un’alta coda di cavallo e la divisa azzurra da infermiera.
«Ciao», gli sussurrò, stirando un sorriso.
Merlino si portò la mano stretta in quella di Alex sul petto e la strinse anche con l’altra, ma la sua espressione stanca e preoccupata non mutò. «Che ci fai qui?».
«Lavoro qui adesso, ricordi?». Con un cenno del capo indicò il carrello che aveva lasciato fuori dalla porta e aggiunse: «Come primo incarico ho ricevuto la distribuzione delle colazioni. Poteva andarmi peggio, no?».
Merlino conosceva quella tecnica: fare battute per stemperare la tensione, allontanare il dolore e la tristezza ancora per un po’. Artù l’aveva usata spesso con lui e non aveva mai funzionato.
«Non ho appetito», rispose atono.
Il sorriso di Alex scomparve del tutto, lentamente. Gli lasciò la mano per andare a prendere la sedia accanto al muro e una volta seduta al suo fianco si portò le mani davanti alla bocca, unite a mo’ di preghiera. Con poca voce, rotta da un pianto che stava cercando di soffocare, disse: «Non so come sia potuto succedere, Merlino. Perdonami, ti prego».
«Ti ho già detto che non è colpa tua».
«Non è nemmeno tua, se è per questo».
Merlino sospirò, gettando un’occhiata al soffitto. Non fece in tempo a replicare però che Alex riprese: «Ricordi la promessa che mi hai fatto? Mi hai detto che un giorno avrei saputo tutta la verità. Forse non è successo come avresti voluto, ma ora lo so e… non scherzavo, quando ti ho detto che qualsiasi cosa tu abbia fatto in passato non cambierà il mio modo di vederti: tu resterai sempre il mio impacciato e gentile Merlino dalle orecchie a sventola».
Il mago scosse il capo, non sapendo più come fare per farle capire che ogni cosa tra loro non sarebbe più stata la stessa ora che sapeva, che stargli ancora vicino non avrebbe portato a nulla di buono e che lui l’amava così tanto da rinunciare a lei, alla sua amicizia, pur di tenerla al sicuro.
«Tu non capisci, Alex. È più complicato di così».
«Perché? Spiegamelo, voglio capire».
A quel punto Merlino capì che non aveva alternative. Le prese di nuovo le mani tra le sue e la guardò dritta negli occhi, sussurrando: «Io ti amo, Alex. Ti amo come non ho mai amato nessun’altra e non voglio che tu sappia tutta la verità su di me perché sono certo che mi troveresti ripugnante. E ne morirei».
«Se credi che tutto questo possa farmi cambiare idea…», iniziò a dire con voce tremante, gli occhi colmi di lacrime dietro le lenti degli occhiali, ma Merlino la interruppe bruscamente.
«Devi starmi lontana, Alex. Devi farlo per te stessa. Tu hai un futuro di fronte a te, io… il mio destino è già stato scritto».
Alex rimase in silenzio di fronte a lui, senza sapere come rispondere, e Merlino, leggendo la disperazione nel suo sguardo, pensò più volte di rimangiarsi tutto. Alla fine fu il dottor Ellis a fare qualcosa di buono, comparendo di fronte alla porta e richiamando l’attenzione di Alex.
«Ehi, gli altri pazienti aspettano la colazione».
L’infermiera annuì debolmente e dopo aver sottratto le mani dalla stretta di quelle di Merlino uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Il mago inspirò ed espirò profondamente, poi si prese il cuscino da dietro la testa e vi immerse dentro la faccia per soffocarvi un grido.

 

***

 

«Inizio un po’ turbolento, eh?».
Alex scrollò le spalle, spingendo il carrello su cui vi erano posati i vassoi delle colazioni. «È sempre così, quando si tratta di Merlino».
E così sarebbe sempre stato, dato che sembrava davvero non voler più avere niente a che fare con lei. Le sue parole però, quella dichiarazione inaspettata che le aveva fatto tremare il cuore, continuavano a rimbombarle nella mente come un’eco interminabile e non riusciva proprio a credere che fosse tutto finito. Merlino non poteva farle questo e non si sarebbe arresa tanto presto. Dopotutto aveva ancora un asso nella manica, l’unica sua speranza perché cambiasse idea, e doveva almeno provarci.
«Spero che le sue condizioni non influenzino negativamente il tuo lavoro: abbiamo bisogno di te concentrata. Io ho bisogno di te concentrata».
Alex rivolse a Keith un pallido sorriso ed annuì, per poi bussare alla porta di una camerata da tre posti letto.
«Ci vediamo dopo», la salutò il dottore, ma non appena si girò Alex richiamò la sua attenzione.
«Più tardi avresti cinque minuti? Devo di parlarti».
Il dottor Ellis sorrise smagliante. «Ma certo, quando vuoi. Per qualsiasi cosa…», picchiettò due dita contro il cercapersone attaccato alla cintura dei pantaloni e si voltò, il camice bianco che svolazzava dietro di lui come una specie di mantello.
L’infermiera sospirò ed entrò nella camerata augurando il buongiorno ai pazienti, pretendendo che fosse davvero un buon giorno.

 

***

 

Qualcuno bussò lievemente alla porta e Merlino riaprì gli occhi istantaneamente, sforzandosi di mettersi di nuovo seduto. Aveva sperato con tutto se stesso che fosse Artù e forse fu quello il motivo per cui rimase tanto sconvolto nel vedere Myra entrare nella sua stanza.
«Sono venuta appena ho saputo», esordì sorridendo. «Disturbo?».
Merlino impiegò qualche secondo per rendersi conto che non si trattava di un’allucinazione da farmaci – ormai la morfina non gli faceva più alcun effetto – e formulare una risposta di senso compiuto.
«No, no che non disturbi. Ma da chi l’hai saputo?».
Myra scrollò il capo. «Non ha importanza. Come ti senti?».
Sì che aveva importanza, ne aveva molta a dire il vero, e Merlino corrugò la fronte, guardandola con scetticismo mentre si sedeva sulla sedia accanto al letto. C’era qualcosa che non gli tornava e quindi non si sentiva affatto tranquillo.
«Merlino, ci sei?».
Il mago sbatté più volte le palpebre e finse di cadere dalle nuvole, ridacchiando. «Scusami, è che sono ancora un po’ sottosopra».
«Capisco. Ti rimetterai, ne sono sicura». Gli prese una mano e la strinse forte, accarezzandone le nocche con il pollice. «Mi sono spaventata a morte, lo sai?».
Merlino ricambiò il sorriso, ma lentamente sottrasse la mano e con essa finse di doversi grattare il naso. «Figurati io».
Il silenzio piombò tra di loro e nessuno dei due si azzardò ad infrangerlo per due minuti buoni. Quindi lo stregone, sempre più convinto che Myra gli stesse nascondendo qualcosa, si schiarì la gola e disse, indicando la sua divisa: «Non dovresti essere in Centrale?».
«C’è Darrell, se la caverà».
«Lui è nuovo, vero?».
«È stato trasferito qui da circa sei mesi. All’inizio era semplicemente un mio sostituto, poi hanno deciso di affiancarmelo a tempo indeterminato a causa di questa», si picchiò la mano sulla gamba destra e sollevò un angolo della bocca in un sorriso.
«Allora forse dovresti raggiungerlo. Io sto bene, davvero».
Myra parve punta sul vivo dalle sue parole, probabilmente aveva intuito che la sua presenza, se non addirittura sgradita, non aveva molto senso.
Sospirò, sistemandosi una ciocca di capelli inesistente dietro l’orecchio sinistro. «So di essere stata parecchio dura, l’ultima volta che ci siamo visti. Ho esagerato e mi dispiace, Merlino. Non era colpa tua, tantomeno di Alex, se non ricambiavi i miei sentimenti. E purtroppo non esistono filtri d’amore».
«No, infatti», mormorò il mago, ricordando tutti quelli con cui era venuto in contatto durante gli anni trascorsi con Gaius.
«C’è qualcosa che posso dire… o fare, per farmi perdonare?», chiese, stringendosi nelle spalle.
Sembrava davvero dispiaciuta e desiderosa di voltare pagina, ma Merlino provava ancora la sensazione che ci fosse sotto qualcosa. Ricordava bene, benissimo, la sofferenza che aveva letto nei suoi occhi qualche settimana prima, quella rabbia cocente che aveva consumato la sua anima per mesi. Com’era possibile che fosse svanito tutto quanto nel nulla e che volesse sotterrare l’ascia di guerra, dopo che lei stessa aveva annunciato che non avevano più nulla da dirsi e che l’argomento era chiuso definitivamente? Che cosa voleva davvero da lui?
Myra si alzò sospirando e piegò la testa di lato, sorridendogli dolcemente. «Forse è meglio che ti lasci riposare, uhm? Puoi chiamarmi a qualsiasi ora».
Merlino la guardò uscire dalla stanza in silenzio, le labbra strette in una smorfia a causa del dubbio atroce che si era lentamente insinuato nella sua mente non appena gli aveva dato le spalle. E se si fosse sbagliato? Se Myra avesse davvero capito che non ne valeva la pena di mangiarsi il fegato, che era arrivato il momento di trovare un compromesso col passato e di perdonarne gli errori? In quel caso aveva gridato al complotto ancora prima di provare a capire e si sarebbe odiato per sempre, se non le avesse dato la possibilità di spiegarsi e magari aiutarla a guarire certe ferite.
Le sue riflessioni vennero bruscamente interrotte da delle forti manate contro il vetro plastificato accanto alla porta, grazie al quale lui poteva vedere i dottori e le infermiere camminare lungo il corridoio e i visitatori, invece, erano in grado di capire subito se i loro familiari o conoscenti fossero in una determinata stanza o meno.
Dopo lo spavento iniziale non poté fare a meno di sorridere, scorgendo Abigail, Mark, Gabriel e la piccola Jessica, di soli otto anni e mezzo, sorridergli a trentadue denti. Ad un tratto Mark sollevò il suo libro di favole e sbatté anche quello contro il vetro, urlando: «Hai bisogno di una storia?!».
Merlino rise e fece segno a tutti quanti di entrare, domandandosi chi poteva averli avvisati.
Ottenne la risposta che cercava pochi minuti dopo, quando Cathleen comparve dietro il vetro con le braccia incrociate al petto e un sorrisino soddisfatto sulle labbra. Merlino smise di ascoltare le parole di rimprovero ed apprensione di Abby e rivolse al paramedico un’occhiata colma di sorpresa e gratitudine. Cathleen annuì con un cenno del capo e si allontanò, lasciandolo in balia di quei piccoli demoni che a volte si dimostravano dei veri e propri angeli.

 

***

 

Artù si strinse al petto il quaderno con i disegni animati di Merlino e sospirò ad occhi chiusi prima di prendere il cellulare tra le mani e leggere l’ennesimo messaggio di Lady Alex.


Se quello che hai detto ieri sera è vero, allora devi aiutarmi.

 
Si alzò dal letto a baldacchino e camminò lentamente verso il bagno, dove si sciacquò il viso con acqua gelata. Si guardò allo specchio e strinse i bordi spigolosi del lavandino tra le mani, chiedendo ad alta voce: «Che cosa devo fare, Ginevra?».
Aspettò, invano, la sua voce dolce e i suoi consigli capaci di guidarlo sempre nella direzione giusta. Ma lei non c’era più. Non gli era rimasto più nessuno oltre a Merlino e Alex, la ragazza coraggiosa che si era tuffata nelle acque di Avalon per aiutarlo e che aveva scoperto essere la sua ultima discendente.
Aveva solo loro due e non poteva di certo rischiare di perderli, ma non poteva nemmeno continuare a mentire come se nulla fosse. Anche lui, proprio come Merlino, non voleva altro che Alex fosse al sicuro, ma forse starle lontani non era la soluzione migliore. C’era un detto, “L’unione fa la forza”, e ci credeva fermamente, dato che con l’aiuto dei suoi amici, Cavalieri e non, era riuscito a fondare un regno che non aveva avuto eguali. E credeva anche che Alex si sarebbe abituata presto ad essere una Pendragon: già se la immaginava a cavallo, con i lunghi capelli biondi sciolti sulla schiena, avvolta nel lungo mantello rosso e una spada appesa al fianco. Avrebbe potuto essere il padre che non era stato per Graalmir, ma quella era solo una sua stupida fantasia, una fantasia che non era importante nemmeno la metà di tutti gli avvertimenti di Freya: il tempo scorreva e l’intero mondo era sull’orlo del baratro. Non poteva agire da solo, non l’aveva mai fatto e come gli aveva ricordato la custode, non era il suo destino ad essere il punto fermo della storia, non era lui che avrebbe deciso la rinascita o la distruzione della Terra. Eppure… eppure non riusciva a prendere quella maledetta decisione.

A quanto pare, da solo non sono nessuno.

 
Io lo amo, Artù. Hai capito? LO AMO.

 
Sospirò leggendo l’ultimo messaggio, preceduto dall’ormai irritante fischiettio.
Con un salto tirò giù la scala con la quale si accedeva alla soffitta nascosta. Tossì ripetutamente a causa della polvere, ma raggiunse a passo sicuro la cassapanca con lo stemma dei Pendragon. L’aprì e pregò perché ciò che stava cercando si trovasse lì, che Merlino fosse stato in grado di recuperarlo in qualche modo.
Si imbatté in una scatoletta metallica nera, arrugginita in più punti, su cui era stato inciso – con un coltello, una chiave o qualcos’altro di appuntito – un nome: James McTrusty.
Artù non aveva idea di chi fosse, perciò si infilò la scatoletta nella tasca della felpa, deciso ad indagarvi con più calma in un altro momento, e continuò a cercare tra tutti i ricordi più cari di Merlino fino a quando non ebbe tra le mani un sacchettino di pelle. Lo aprì con le dita tremanti e fu quasi sul punto di piangere realizzando che l’ultima persona ad averlo indossato era stata proprio Ginevra.
Si portò alle labbra l’anello col sigillo reale e rimase così, ad occhi chiusi, per una manciata di secondi. Poi chiuse la cassapanca e si sollevò, spolverandosi i jeans all’altezza delle ginocchia. 
Stava scendendo la scala della soffitta, quando gli arrivò un altro messaggio.

 
Devi parlare con Merlino e fargli cambiare idea. Ti sto pregando.

 
Artù strinse più forte l’anello nel pugno e corse a recuperare la bicicletta nel vecchio fienile.

 

***

 

Presa com’era nel rileggere le decine di messaggi WhatsApp che aveva inviato ad Artù – a cui non aveva mai ricevuto risposta, tra l’altro – Alex sobbalzò quando sentì le mani di Keith sulle sue spalle. Il dottore aveva già una sigaretta tra le labbra e nonostante ne avesse una tremenda voglia anche lei, rifiutò quando gliene offrì una dal pacchetto.
«Di che cosa volevi parlarmi?».
«Del mio trasferimento».
Keith arricciò gli angoli della bocca in un sorriso amaro ed iniziò a scuotere il capo, ma l’infermiera gli posò una mano sul braccio ed imperterrita riprese: «Non ti sto chiedendo di convincere tuo padre a mettere una buona parola per me. Non ancora, almeno», ridacchiò nervosamente. «Voglio solo sapere perché. Perché sono stata scelta io? È per qualcosa che ho fatto ad oncologia?».
«Perché pensi questo?», le domandò Keith, soffiando una boccata di fumo verso il cielo ora coperto di nuvole.
«Ho le mie ragioni».
«Sono sicuro che siano stupidaggini. Tu sei un’infermiera eccezionale, Alex. Immagino che per il Consiglio sia stata una decisione ardua, soprattutto tenendo conto di quanto i bambini si sono affezionati a te».
Alex si passò una mano sulla fronte, ricordandosi che a loro non aveva ancora detto nulla. Non osava nemmeno immaginare come avrebbero reagito, e forse era proprio l’idea che si era fatta della loro reazione a spaventarla tanto.
«Farò un tentativo però», concluse Keith, spegnendo la sigaretta nell’apposito cestino di fronte all’entrata del Pronto Soccorso.
«Grazie, ti devo un favore».
Il dottor Ellis le strizzò l’occhio. «Preferirei una birra».
Alex, spiazzata, non riuscì a rispondere per una dozzina di secondi. Alla fine Keith scosse il capo, muovendo una mano come a voler cancellare le ultime parole scritte su una lavagna invisibile.
«Non importa, stavo scherzando».
Si era già voltato verso le porte scorrevoli, quando la voce di Alex lo costrinse a fermarsi sul posto.
«Come hai detto?», le chiese, con la fronte corrugata per la sorpresa.
L’infermiera si schiarì la gola e ripeté con fermezza ciò che aveva già detto a bassa voce: «Va bene. Una birra non ha mai fatto male a nessuno, dopotutto».
Il sorriso luminoso di Keith le provocò una fitta allo stomaco e allo stesso tempo la fece sentire maledettamente in colpa, nonostante non ne avesse alcun motivo. Merlino era stato chiaro riguardo al loro rapporto: doveva stargli lontana, dimenticarlo. E quale modo migliore per farlo?
«Okay. Fantastico. Allora… ci sentiamo, eh?».
Alex si infilò le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni, stringendosi il collo tra le spalle. «Sicuro. A presto, Keith. E grazie».
«Sai che puoi contare su di me per ogni cosa».
Annuì debolmente e lo guardò sparire dietro le porte scorrevoli, poi sospirò prendendosi la testa tra le mani e si sedette nuovamente sul panettone giallo, gli occhi fissi sui suoi zoccoli di gomma bianca.
«Ti stai rendendo conto che non è una buona idea?».
Alex sollevò il capo e alla sua sinistra vide Cathleen, in piedi e con le mani nelle tasche dell’uniforme da paramedico, lo sguardo rivolto verso il parco dall’altra parte della strada.
«Non è un buon momento, Cathleen».
«Oh, l’ho capito. Ma tuffarti nelle braccia del primo che capita non è la soluzione, soprattutto se è il tuo ex».
«Nessuno ti ha mai detto che è maleducazione origliare? E poi che cosa ne sai tu?», le chiese stancamente, ma se ne pentì subito dopo.
«Abbastanza, dato che l’ho fatto fino adesso. Ho cercato di riempire il vuoto che avevo dentro finendo a letto con chiunque me ne desse la possibilità, ma questo non ha fatto altro che peggiorare le cose».
Alex iniziò a rigirarsi una ciocca di capelli tra le dita. «Io non finirò a letto con Keith». 
Poi si ricordò della promessa che aveva fatto ad Artù il giorno prima e senza giri di parole le chiese: «Cosa ti ha fatto smettere?».
Cathleen chinò il capo, con un mezzo sorriso sul volto. «Chi, vorrai dire. Artù. Pensavo sarebbe stato l’ultimo dei tanti, ma lui… si è tirato indietro. E poi ieri notte, quando abbiamo portato qui Merlino, mi ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere. Non ho chiuso occhio, in effetti».
«Che cosa ti ha detto?».
«Che avrebbe voluto lasciarsi andare, ma che non è riuscito a mettere da parte il passato. Io non ho mai avuto la forza di ammettere che il mio passato è ancora lì, dietro l’angolo, pronto a farmi sanguinare. Ignorarlo per così tanto tempo ha reso tutto molto più complicato e doloroso, ma quando sto con Artù… Lui deve aver sofferto come me, glielo leggo negli occhi, e quando sto al suo fianco non mi sento più sola, sento che quel vuoto potrebbe ancora riempirsi… provo qualcosa che avevo pensato di aver perso per sempre: speranza».
Alex non aveva la più pallida idea di che cosa Cathleen avesse dovuto affrontare, ma aveva la sensazione che fosse la persona giusta per Artù. 
Sorrise dolcemente e si alzò in piedi per poterle prendere le mani tra le sue e accarezzarle.
«Artù è davvero un bravo ragazzo e quando tiene ad una persona non c’è nulla che non farebbe per aiutarla. Non è un tipo che si arrende facilmente, ecco. Se ti fa sentire meglio solo standoti vicino, forse dovresti dargli una possibilità e condividere con lui quello che ti è successo».
«Lo farò, quando mi sentirò pronta».
«Ma certo, non c’è fretta».
O almeno avrebbe voluto che fosse così. Il ricordo di ciò che gli era successo la sera prima, quell’attacco che solo Merlino con la sua magia era stato in grado di curare, le fece tremare le gambe. Ma forse non era tutto perduto: bastava solo capirne le cause, stabilire una diagnosi, ed era certa che in un modo o nell’altro sarebbero riusciti a trovare una cura permanente.
«Sei veramente intelligente, Alex».
L’infermiera corrugò la fronte, captando l’ultima frase di Cathleen. «Uhm?».
«Stavamo parlando di te e sei riuscita a rovesciare la frittata. Veramente in gamba, lo devo ammettere».
«Tra me e Merlino è leggermente più complicato», iniziò a dire, ma il paramedico le posò un dito sulle labbra, azzittendola.
«Qualsiasi cosa sia successa tra te e Merlino, non devi fidarti di Keith. Può essere il figlio di uno dei membri del Consiglio d’Amministrazione, ma non fa miracoli. È un periodo di merda: Steve, l’ospedale senza più fondi e il reparto di oncologia che rischia di chiudere…».
Alex sentì le gambe sul punto di cederle. «Che cosa?».
Cathleen si accorse del pallore mortale sul suo viso e la fece sedere nuovamente sul panettone, accarezzandole le braccia.
«Davvero non lo sapevi? Lo sanno tutti ormai. È una voce che ha iniziato a circolare da quando hanno interrotto i lavori di ristrutturazione della piscina. Il Consiglio ha cercato di mantenere la segretezza sulla questione, ma è palese ormai che il reparto di oncologia sarà la prima cosa a venire tagliata, dati gli elevati costi delle cure e dei macchinari».
«No, loro non… Mi stai prendendo in giro, Cathleen? Non possono farlo!».
Il paramedico fissò gli occhi nocciola nei suoi, seri come non li aveva mai visti. «Non scherzerei mai su una cosa così importante. Non hai notato che è ormai un paio di mesi che non accettano più nuovi pazienti? Sono già troppi quelli che ci sono e presto i casi più gravi verranno trasferiti altrove, probabilmente a Cardiff».
«No, io mi rifiuto di crederci. Ci dev’essere un modo!».
«A meno che tu non vinca alla lotteria o riesca a risollevare l’intera economia del Paese, dubito che si possa fare qualcosa».
Le accarezzò dolcemente i capelli e si risollevò quando sentì il suo partner chiamarla per un’emergenza.
«Devo andare», le disse. «Promettimi che non farai stupidaggini con Keith. Non mi piace quel tipo».
Alex annuì debolmente, senza aver prestato nemmeno attenzione alle sue parole ammonitrici, e Cathleen, in parte rincuorata, corse verso l’ambulanza con la sirena già in funzione.

 

***

 

«Alex è già passata a trovarti?».
Merlino incrociò lo sguardo di Abigail e sospirò prima di schiarirsi la gola.
«Che cosa ci state nascondendo?», domandò Mark, le sopracciglia aggrottate e le labbra sottili strette tra loro, insospettito.
«Alex lavora al Pronto Soccorso adesso».
Forse buttarla lì così, senza dare alcun preavviso, era stato un po’ avventato, ma Merlino non aveva trovato modo migliore: in ogni caso i bambini ci sarebbero rimasti male, con o senza tatto.
La prima a riprendersi dallo shock fu Abigail, come sempre, e dopo aver boccheggiato un paio di volte, forse indecisa su quale domanda porre per prima, esclamò: «Sono contenta per lei».
«Scusa?!», le urlò contro Mark, strabuzzando gli occhi. «Non puoi dire sul serio!».
«Beh, penso sia un salto di qualità in ambito medico. O no? Bisogna essere pronti a tutto, rapidi nelle diagnosi e nella somministrazione delle prime cure. Lavorare ad oncologia è come… fare la babysitter».
Merlino piegò il capo, sorridendo dolcemente. «Se Alex ti sentisse ti direbbe che stai dicendo un mucchio di cavolate».
«E per una volta io e lei saremmo d’accordo», aggiunse Mark, imperterrito.
«Non è stata una decisione di Alex, comunque», spiegò alla fine lo stregone. «In realtà non ne aveva idea, fino a ieri pomeriggio. Altri hanno deciso per lei e non ha potuto opporsi in alcun modo».
«Se è così perché non è venuta subito a dircelo di persona? Perché ha chiesto a te di…».
«Lei non mi ha chiesto niente, Gabriel. Sono certo che oggi alla fine del turno verrà da voi per dirvelo, ma ho voluto anticiparvelo per levarle la parte difficile».
«Non sto capendo», esclamò l’ex compagno di stanza di Steve, massaggiandosi le meningi con le mani.
Merlino sorrise e guardò tutti i bambini negli occhi, uno per uno, prima di domandare: «Secondo voi qual è il motivo per cui si mantengono i segreti?».
«Perché si pensa di proteggere le persone a cui si tiene», rispose subito Abigail, la prima della classe.
«Per vergogna», ipotizzò invece Jessica.
Merlino scrollò le spalle ed inarcò un sopracciglio incrociando per una frazione di secondo gli occhi sfuggenti di Mark. «Altro?».
Il ragazzino strinse i braccioli della propria sedia a rotelle e con poca voce disse: «Per paura».
Abigail si voltò verso il compagno d’avventure e lo guardò con cipiglio perplesso, ma ben presto si voltò verso Merlino, quasi infastidita: «Dove vuoi arrivare?».
«Volevo solo farvi capire che ci sono delle ragioni che ci spingono a mentire, ad evitare un certo argomento… Quando Alex verrà a dirvelo avrò paura, penserà che vi sentite feriti e proverà vergogna perché non poteva fare nulla per stare con voi. Sapendo tutto questo, potrete aiutarla».
«E possiamo aiutare anche te?», gli chiese Abigail, gli occhi stretti in due fessure, quasi minacciosi. «Anche tu hai un segreto, dopotutto».
«Sì, ce l’ho», rispose con sincerità. «Chi non ne ha?».
«Qual è la tua ragione?».
«Il mio caso è un po’ più complicato rispetto a quello di Alex», rispose anche lui con severità, lanciandole uno sguardo che avrebbe dovuto spingerla a lasciar perdere. Accadde proprio il contrario.
«Non starai per dire che siamo solo dei bambini e quindi non possiamo capire, spero. Forza, mettici alla prova».
Merlino strinse i denti e raccolse la sfida, concentrandosi al massimo per sostenere lo sguardo duro di Abigail. Sapeva di stare giocando col fuoco – il sospetto che lei sapesse la verità era ora più forte che mai –  e non sapeva nemmeno che cosa lo avesse attizzato, ma decise di andare fino in fondo comunque.
«Quindi», esordì come un professore – cosa che era stato, per un breve periodo, secoli e secoli prima. «Supponiamo che io abbia questo segreto».
«Ce l’hai, è un dato di fatto».
«Non mi interrompa, signorina Reed. Se avessi mantenuto questo segreto per anni, per tutti i motivi che avete elencato… Perché dovrei decidere di rivelarlo? Che cosa dovrebbe accadere, cosa mi spingerebbe ad una decisione così drastica?».
«Vedere che le persone a cui si tiene soffrono comunque, o soffrirebbero ancora di più stando all’oscuro del segreto, e capire che non c’è vergogna o paura personale più grande dell’affetto che si nutre per loro».
«Significherebbe non avere un briciolo di amor proprio», ribatté Mark, senza sollevare lo sguardo su Abigail.
«L’amor proprio non conta, se si ama davvero una persona».
«Non sono d’accordo».
«Perché?», chiese Merlino, colpito da quell’improvviso scambio di opinioni tra i due.
«Perché potrebbe anche darsi che quella persona prima o poi non ci sarà più e noi dovremo convivere comunque con noi stessi».
«Convivere con il rimpianto di non aver mai detto la verità, convivere col dubbio che magari quella persona provava lo stesso per noi e non le abbiamo mai dato la possibilità di esprimere i propri sentimenti perché anche lei aveva paura».
Mark si decise finalmente ad alzare il capo ed incrociò gli occhi neri di Abigail, rimanendone incantato. Gabriel aprì la bocca per urlare qualcosa, ma Merlino gli premette la mano contro le labbra, ammutolendolo.
«Amare una persona e poi perderla è come perdere se stessi, non si è più vivi», mormorò Mark, ancora incatenato al suo sguardo.
«Perché sei sempre così pessimista?».
«Sono realista. E la realtà è che sto morendo, Abby».
«Ma non sei ancora morto. Non puoi impedirti di essere felice perché temi il momento in cui non lo sarai più».
«Non si può rimpiangere un qualcosa che non si ha mai avuto».
«Che vita sarebbe senza felicità, senza amore?».
«La nostra non è vita!», gridò Mark, picchiando a terra i piedi.
Abigail allungò una mano per prendere la sua, ma il ragazzino si scostò bruscamente con la propria sedia a rotelle e si avviò verso l’uscita.
«Mark, aspetta!».
Ogni tentativo di Abigail fu vano: il tredicenne si sbatté la porta alle spalle e si allontanò in fretta lungo il corridoio, diretto verso l’ascensore. Lei sospirò, abbandonandosi allo schienale della sua carrozzina, e gettò un’occhiata agli sconvolti Jessica e Gabriel, i quali ormai avevano ben chiara la situazione e preferirono non aprire bocca.
«Noi andiamo a farci un giro», esclamò Gabriel anche per l’amica, uscendo dalla stanza di Merlino.
Una volta soli, Abigail e il mago rimasero in silenzio per diversi secondi, pensierosi. Alla fine Merlino disse: «Non me l’aspettavo, davvero».
«Tu lo sapevi?», lo interruppe, guardandosi le mani unite in grembo. «Sapevi che Mark aveva una cotta per me?».
«Era evidente. Non te ne sei mai accorta? E pensare che capisci sempre tutti al volo».
«Quando si tratta di se stessi è difficile vedere con chiarezza».
«Già».
«Merlino, Alex ti ama. Qualsiasi sia il tuo segreto, lei…».
«Lo so. Ma questa volta sono d’accordo con Mark, mi dispiace».
«Non capisco».
«Ci sono già passato, Abigail. Ho già perso una persona che conosceva il vero me, che mi amava per com’ero, e quello che ha detto Mark è vero: quando l’ho persa è stato come perdere me stesso, una parte di me è morta con lei e non voglio che accada ancora, non voglio che Alex soffra tanto quanto ha sofferto Louise».
Abigail rimase per un attimo senza parole, assimilando le informazioni che aveva appena ricevuto. «Non ti ho mai sentito parlare di lei».
«No, perché è un ricordo doloroso, ed è difficile riportarli a galla dopo che si è fatto di tutto per seppellirli in fondo al cuore».
«Alex non si merita tutto questo».
«Hai ragione».
«Non si merita di essere paragonata a questa Louise».
Merlino guardò Abigail negli occhi e li trovò ardenti, quasi feriti.
«Alex è una persona diversa e non farà la sua stessa fine, non se non lo vorrà. Devi fidarti di lei, Merlino. Amarti è una sua scelta e se continuerà a farlo nonostante i rischi tu non puoi fare nulla per impedirglielo».
«Anche Louise aveva fatto un ragionamento simile», le disse, col sorriso più triste del suo repertorio dipinto sul viso. «Non permetterò che Alex faccia il suo stesso errore».
Abigail scosse il capo, convinta più che mai della propria idea, e uscì dalla stanza come avevano fatto Mark, Jessica e Gabriel prima di lei. Sulla porta si fermò un’ultima volta per dire: «Il vero amore è incontrastabile. Sembra una frase da film, lo so, ma è la verità. Te ne accorgerai».
Merlino sentì il peso di quelle parole comprimergli il petto ed affondò la testa nel cuscino. Sul comodino c’era ancora il suo libro di favole e il disegno che Mark gli aveva regalato, raffigurante un piccolo drago albino, appena uscito dal suo uovo appuntito. Abbozzò un sorriso e chiuse gli occhi, abbandonandosi ad un sonno leggero e travagliato dai ricordi di un passato che gli bruciava ancora sottopelle.

 

***

 

Artù abbandonò la bicicletta contro un panettone giallo ed entrò di corsa nel Pronto Soccorso, cercando con lo sguardo la coda fiammeggiante di Cathleen. Aveva il fiatone e nonostante avesse avuto un attacco appena quella notte, non se ne curò e continuò a muoversi, scansando pazienti e chiedendo a tutte le infermiere e i dottori che incrociava se l’avessero vista.
Ad un tratto si imbatté in Alex, la quale per la sorpresa fece cadere tutte le cartelle cliniche che aveva tra le braccia. Entrambi si chinarono per raccoglierle frettolosamente e lei gli chiese dove fosse stato e se avesse letto i suoi messaggi.
«Non ora, Alex. Hai visto Cathleen?».
«No. Hai già provato alla stazione delle ambulanze?».
«Ma certo,  perché non ci ho pensato subito? Grazie».
Si sollevò e fece per correre fuori, quando sentì la mano di Alex stringergli il braccio. Si girò e la guardò negli occhi, confuso.
«Che cosa sta succedendo?», gli domandò, al contempo preoccupata ed irritata.
«Niente, ho solo bisogno di parlare con Cathleen».
«E io ho bisogno di te, Artù».
Il re di Camelot sospirò e la degnò di tutta la propria attenzione, prendendole il volto tra le mani per sussurrarle: «Sistemerò tutto, te lo prometto. Ti fidi di me?».
Alex annuì, anche se con fare sconsolato, e Artù sorrise dolcemente prima di posarle un bacio sulla frangetta. Si allontanò senza interrompere il contatto visivo, ma fu costretto a farlo quando picchiò contro una macchinetta del caffè. Scorse un sorriso divertito sulle labbra di Alex e quello gli bastò. Più tranquillo, le diede le spalle e riprese a correre.
«Cathleen!», gridò a squarciagola di fronte al garage delle ambulanze. «Cathleen, ci sei?».
Il paramedico saltò giù da una delle ambulanze in sosta, pulendosi gli angoli della bocca con un tovagliolo di carta, e lo guardò quasi terrorizzata. «Che c’è? Ti senti male?».
«No, sto bene. Scusami, non volevo spaventarti».
Si portò una mano sul petto e sospirò sollevata, per poi lanciargli un’occhiata truce. «Perché urlavi in quel modo?».
«Devo parlarti».
Cathleen lo fissò per una dozzina di secondi, cercando di intuire quale fosse la causa di tutta quella agitazione, e quando non ci riuscì indicò l’ambulanza con un cenno del capo. Artù la seguì all’interno del veicolo, occupando il sedile accanto a quello del guidatore, e la guardò mentre prendeva un sorso di Coca-Cola e chiudeva ciò che rimaneva del suo panino kebab nella sacchetto.
«Avanti, sputa il rospo».
Artù tirò fuori dalla tasca della felpa l’anello col sigillo reale ed iniziò a rigirarselo tra le dita, nervosamente.
«So che ci conosciamo da poco e che il mio istinto raramente mi ha fatto vedere le persone che mi stavano intorno per com’erano davvero, ma sento di potermi fidare di te. Posso?».
Cathleen sorrise, nonostante il rossore che aveva preso possesso delle sue guance, e ad Artù bastò come risposta.
«Se tu fossi a conoscenza di un segreto che potrebbe far male alle persone che ami e che allo stesso tempo è un segreto che loro meritano di sapere e che probabilmente potrebbe aiutarle a capire, ad accettare la situazione in cui si trovano… tu glielo diresti oppure no?».
Cathleen sbatté le palpebre un paio di volte, metabolizzando l’arduo quesito che le aveva appena posto. Quindi sospirò e si strinse nelle spalle, dicendo: «Credo che bisognerebbe sempre essere onesti con le persone che si amano, ma anche con se stessi: il fatto che tu abbia mantenuto il segreto è perché non vuoi fare del male a loro o perché non ne vuoi fare a te stesso?». Lanciò un’occhiata all’anello di Artù e il re fece lo stesso, certo più che mai della sua risposta.
«I segreti hanno rovinato la mia famiglia, l’hanno letteralmente fatta a pezzi; non posso permettere che accada una seconda volta. Forse mi odieranno, ma non m’importa: loro devono sapere la verità».
«Bene allora», esclamò una Cathleen sorridente. «Sai cosa devi fare».
«Grazie, Ginevra». Si pietrificò con la mano infilata nella maniglia della grande portiera. «Cathleen. Grazie, Cathleen».
Artù saltò giù dall’ambulanza e senza più guardarsi indietro corse di nuovo verso il pronto soccorso, con l’anello stretto in pugno.
Cathleen si guardò intorno nell’abitacolo semi-buio e sospirò tristemente, poi finì il proprio pranzo come se quella breve chiacchierata non fosse mai avvenuta.

 

***

 

«Alex! Finalmente ti ho trovata!».
La ragazza trasalì e si voltò, trovando Artù chinò sulle ginocchia, il respiro corto e rantolante. Non un buon segno. Lo raggiunse e si infilò un suo braccio tra le spalle per farlo sdraiare sulla panchina in mezzo agli armadietti, con la testa posata sulle proprie gambe.
«Respiri lenti e profondi. Ecco, così. Sai, ho pensato che potrei riuscire a farti fare una TAC».
«Una che cosa?», le domandò, continuando ad inspirare ed espirare come gli aveva suggerito, dato che stava lentamente dando i suoi frutti.
«Si tratta di un esame costoso e se quello che ho appena scoperto è vero sarà ancora più difficile ottenere l’autorizzazione per effettuarlo. Di certo esaurirei tutti i favori che ho accumulato in quasi quattro anni di lavoro, ma ne varrebbe la pena».
«È vero, per la famiglia si è disposti a tutto».
Alex abbassò gli occhi su di lui e senza nemmeno rendersene conto gli spostò delle ciocche di capelli biondi dalla fronte, teneramente. «Famiglia? Io ti voglio bene, Artù, ma credo che tu stia ingigantendo un po’ le cose».
«No», mormorò, scuotendo il capo con un mezzo sorriso. Aprì il pugno destro e le mostrò l’anello, riprendendo: «Meriti di sapere tutta la verità».
L’infermiera fissò il drago disegnato sulla parte piatta dell’anello: sembrava una specie di sigillo, il sigillo della famiglia Pendragon. Le parole di sua madre le attraversarono di nuovo la mente, facendola rabbrividire: «Verrà il giorno in cui Avalon aprirà i propri cancelli per far tornare sulla Terra il nostro antenato più importante».
«Non è un caso che ci fossi tu al lago, quella sera».
Alex avrebbe voluto dire ad Artù di smetterla, di stare di zitto, di non rendere ancora più incasinata la situazione in cui si trovava, ma aveva anche un disperato bisogno di sapere, di capire perché fosse toccato a lei e perché si fosse sempre sentita incompleta, come se le fosse sempre mancata una parte fondamentale di sé.
«Non è un caso che io e te ci somigliamo tanto, se proviamo questo senso d’appartenenza. In te scorre il mio sangue, tu sei la mia ultima discendente. Sei davvero tutto ciò che mi rimane della mia famiglia».
L’infermiera rimase in silenzio per quella che le sembrò un’infinità, mentre nella sua mente molti dei tasselli rimasti senza una collocazione trovavano finalmente posto nella grande trama che col passare dei giorni si faceva sempre più chiara.
«Merlino», sussurrò. «Merlino lo sa?».
Artù scosse il capo, prendendole le mani tra le sue e costringendola a guardarlo negli occhi. «So che cosa stai pensando. Vuoi andare da lui e dirgli tutto, non è così?».
«Che domande! Il fatto che io sia una tua discendente cambia tutto! Essendo una Pendragon, sono nella merda tanto quanto voi due! Non avrà più scuse per tenermi a distanza! Lasciami andare, Artù».
Il re si mise faticosamente seduto ed immerse gli occhi blu nei suoi verdi come le pianure intorno a Camelot. «Prima devi sapere tutta la verità anche su di lui».
Alex tornò al suo fianco muovendosi meccanicamente, proprio come un robot, ed ascoltò ciò che aveva da dirle senza mai interromperlo, venendo a sapere finalmente il segreto che Merlino aveva tentato in ogni modo di preservare. Ricordava bene le sue parole: aveva detto che se lei lo fosse venuta a sapere lo avrebbe ritrovato ripugnante. Ora capiva perché aveva scelto proprio quella parola. Capiva anche la sua paura, una paura legittima e più che fondata, ma che su di lui aveva avuto il tremendo effetto collaterale di annebbiare il suo giudizio, rendendogli difficile, se non addirittura impossibile, capire quanto più forte fosse il suo amore.

 

***

 

«Merlino? Merlino, svegliati».
Lo stregone aprì lentamente gli occhi, ma non appena si accorse che la persona al suo fianco era proprio Artù si tirò su di scatto, dimentico dei punti che aveva sull’addome.
«Siete qui, finalmente», gemette, mordendosi l’interno della guancia. «Dove siete stato?».
«Per un attimo ho quasi creduto che mi seguissi, sai? Era tua abitudine farlo, te lo ricordi? Quella volta in cui hai rischiato di farci ammazzare entrambi dai soldati di Annis…».
«Artù, state divagando. C’è qualcosa che vi preoccupa?».
Il solo ed unico re chinò il capo, colto sul fatto. Quindi si voltò per prendere la sedia accanto alla porta e la trascinò al suo capezzale.
«Freya è viva», esclamò senza giri di parole e Merlino, spiazzato, non riuscì a capire subito ciò che volesse dire. Poi, rendendosi conto che Artù non aveva mai conosciuto il nome della ragazza druida che a causa di una maledizione si trasformava in una pantera alata, la stessa ragazza che aveva ferito mortalmente e che era diventata la custode di Avalon, iniziò a tremare violentemente.
«Sono stato da lei, questa mattina. Ma non è stata la prima volta. Ricordi quando sono stato portato in Centrale dall’agente Chandra? Non ero andato a caccia, ero di ritorno dal lago».
«Questo è… è impossibile», balbettò Merlino, lasciandosi andare ad una risatina nervosa. «È da quando siete morto che provo a mettermi in contatto con lei, l’ho fatto centinaia di volte, e non ho mai ricevuto risposta».
«Non so perché l’abbia fatto», rispose Artù, serissimo. «Quello che so è che mi ha rivelato il motivo per cui sono risorto: la magia sta morendo. Nonostante tutti i loro sforzi, i loro piani… questo mondo sta collassando».
«I loro piani? Di che cosa state parlando?».
Artù gli raccontò tutto, proprio come Freya aveva fatto con lui.
Gli raccontò che il re di Camelot era sempre stato solo un mezzo dei guardiani della magia, un mezzo perché essa tornasse ad essere praticata liberamente ad Albione.
Che quando lui era morto a causa di Mordred avevano fatto in modo che Ginevra lo volesse sposare: una volta re, pensavano, Merlino avrebbe potuto cambiare le leggi riguardanti la magia e renderla di nuovo un dono, anziché una maledizione.
Che quando Merlino aveva rinunciato al trono avevano atteso in silenzio, nelle tenebre, che la guerra degli altri regni contro Camelot infuriasse, che essa togliesse allo stregone tutto quello che aveva e che amava e che questo lo portasse a cercare vendetta.
Che quando Merlino invece aveva rinnegato la magia, avevano influenzato le donne intorno a lui perché si innamorassero e volessero dei figli da lui, figli che avrebbero ereditato i suoi poteri magici e avrebbero potuto diffondere la magia al posto suo.
Che quando nemmeno questo aveva funzionato, avevano finalmente giocato il loro asso nella manica, l’asso che Kilgharrah aveva avuto il buon senso di tenere da parte come ultima risorsa: il ritorno di Artù Pendragon.
Merlino sentiva il vuoto che aveva dentro allargarsi sempre di più, scavando una voragine incolmabile, mentre la rabbia gli faceva tremare la vista e gli incendiava il sangue nelle vene come se si trattasse di benzina. Sentiva la potenza della magia premere contro le barriere che aveva creato, la stessa magia responsabile della morte di tutti i suoi amici, la sua famiglia.
Le lacrime iniziarono a scivolargli sul viso pallido, inarrestabili, e non provò nemmeno a nasconderle di fronte ad Artù, il quale gli posò una mano sulla spalla e la strinse leggermente, come se questo potesse dargli conforto. Artù voleva consolarlo, lui che aveva perso la vita, sua moglie, il suo regno, per un destino che non era nemmeno il suo, ma quello del suo stupido servitore.
«C’è dell’altro, Merlino».

Come se tutto questo non fosse abbastanza, pensò, tirando rumorosamente sul col naso e fissando gli occhi nei suoi.
«Si tratta di Alexandra».
Lo stregone iniziò a scuotere il capo, stringendo le coperte tra le dita, e i singhiozzi si fecero più forti, laceranti sia per il corpo che per l’anima.
«Alexandra è una Pendragon», mormorò Artù, alzandosi per sedersi al fianco di Merlino, posando una mano sul suo capo per accarezzargli quasi amorevolmente i capelli arruffati. «È stata Freya a farmi capire che non mi avevi rivelato tutto quello che era accaduto a Camelot dopo la mia morte. Se Alex era davvero la mia ultima erede, voleva dire che avevo avuto un figlio e che quel figlio aveva tramandato il mio sangue. Tutto combacia, Merlino. È per questo che è stata lei a recuperarmi dal lago; è per questo che mi sento così legato a lei, protettivo e responsabile nei suoi confronti».
«Alex non dovrà mai sapere nulla di tutto questo, lei non…». Merlino respirò profondamente, cercando di inghiottire il magone che gli bloccava la gola.
«Se non lo avesse saputo da noi, l’avrebbe saputo da Freya», intervenne Artù, sospirando. «Per colpa mia, questa volta».
Merlino lo fissò atterrito, gli occhi spalancati. «Cosa avete fatto?».
«Questa mattina sono andato da Freya per chiederle perché Alex fosse in grado di controllare la magia. Lei non lo sapeva. Ha detto che se noi ci rifiuteremo di compiere il nostro destino, allora sarà Alex a farlo; che il suo destino è stato scritto quando si è tuffata nelle acque di Avalon per aiutarmi».
Lo stregone si portò entrambe le mani alla bocca, soffocando nuovi e terribili singhiozzi.
Alex, la sua Alex, coinvolta nel loro spietato destino. Cercò di trovare una soluzione a quell’astruso problema, ma non riusciva nemmeno a pensare lucidamente, figuriamoci a pianificare una contromossa per impedire che Alex sapesse. Fu in quel momento che le parole di Artù lo colpirono come una frustata sulla schiena – e sapeva di che cosa parlava.
Si levò lentamente le mani dalla bocca e fissò il re di Camelot. «Se non l’avesse saputo da noi, l’avrebbe saputo da Freya», ripeté le sue parole con voce quasi spiritata. «Voi gliel’avete già detto».
Artù annuì solennemente. «Era la cosa giusta da fare».
«No. No, non lo era affatto! Avremmo dovuto decidere insieme! Forse c’era un’altra possibilità, forse…».
«Ti sbagli, Merlino. Metterla al corrente della verità, di tutta la verità, era l’unico modo per proteggerla veramente».
Il mago strinse i denti e voltò il capo per deviare il suo sguardo, ma Artù gli prese il mento tra le dita e lo costrinse a guardarlo di nuovo negli occhi.
«Hai detto che ti senti in colpa per quello che è successo a Morgana. Hai detto che pensavi che avresti potuto aiutarla a cambiare il suo destino se le avessi rivelato la tua vera identità, se le avessi fatto da guida. Non fare lo stesso errore una seconda volta, Merlino».
«Alex non ha bisogno di una guida, non deve imparare a controllare le sue doti! Deve dimenticarsene!».
«È troppo tardi, ormai».
«Cosa state dicendo? Artù, voi non…», si interruppe bruscamente, vedendo la porta aprirsi e mostrare una Alex con gli occhi lucidi e gonfi di pianto, l’anello col sigillo reale dei Pendragon stretto tra le dita.
«So tutto, Merlino». Si avvicinò lentamente al suo letto e gli sfiorò la mano, abbozzando un sorriso. «È tutto okay, davvero».
Lo stregone si voltò verso Artù, sconvolto e furioso come poche volte lo era stato nella sua vita.
«Era il mio segreto», disse tra i denti. «Come avete potuto farmi questo?».
«Sono tuo amico», rispose, e nonostante Merlino avrebbe dovuto rimanerne colpito – lo ammetteva di rado, quasi mai a dire il vero – la rabbia che gli sfigurava persino il volto non glielo permise.
«Andate via. Tutti e due, fuori».
«Merlino…», provò a tranquillizzarlo Alex, prendendogli una mano tra le sue, ma lui la ritrasse bruscamente e la guardò con astio.
«Ho detto andate via!», ruggì nuovamente, proprio come un animale ferito.
Un paio di infermiere che passavano di lì si fermarono di fronte alla porta e una di loro chiese timidamente: «Va tutto bene?».
Alex accennò un sorriso. «Sì, è tutto a posto. Scusateci».
Le due non si allontanarono: aspettarono che Alex e Artù uscissero dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
«Ha solo bisogno di un po’ di tempo», la rassicurò Artù, massaggiandole una spalla. «Gli passerà».
L’infermiera annuì col capo, senza guardarlo negli occhi. «Sarà meglio che torni al lavoro».
Aveva fatto solo qualche passo, quando tornò indietro e gli posò sul palmo della mano l’anello col sigillo reale.
«Ho bisogno di un po’ di tempo anch’io, perdonami».
Artù la guardò andare via in silenzio, senza sapere con certezza se avesse preso la decisione giusta. Solo il tempo gliel’avrebbe fatto capire.

 

***

 

Abigail trovò Mark nella sala comune, di fronte ai disegni, alle foto e alle frasi che i bambini, insieme ad Alex e ad altre infermiere del reparto, avevano incollato sul muro in memoria di Steve. Non c’era un vero proprio ordine nella disposizione: le piaceva pensare che fosse la rappresentazione della confusione che l’improvvisa e dolorosa scomparsa di quel bambino sempre felice e sorridente aveva lasciato nei loro cuori.
«Ehi».
Mark la guardò con la coda dell’occhio, sbuffando lievemente. «Non ho voglia di parlare».
«Bene, perché non ce n’è bisogno. Dobbiamo organizzare una festa per Alex e ho bisogno del tuo aiuto».
Quella volta il ragazzino si voltò verso di lei, guardandola allibita. «Una festa? Sei impazzita?».
Abigail roteò gli occhi al cielo. «Non c’è nulla da festeggiare, lo so, ma… dobbiamo dimostrare ad Alex che le vogliamo bene e saremo sempre qui per lei».
«Fino a quando non moriremo», mormorò e Abigail sospirò affranta, appoggiandosi allo schienale della propria sedia a rotelle.
«Mi viene voglia di prenderti a schiaffi quando fai così».
«Forse dovresti. Sai, ho fatto una promessa ad Alex, per Steve, ma continuo ad infrangerla. È solo che… non ce la faccio a non pensare al peggio, a non demoralizzarmi. È il mio destino, non vedo perché pretendere che non lo sia».
Abigail lo afferrò per il colletto della maglia e posò le labbra sulle sue, in un bacio a stampo che cristallizzò il tempo intorno a loro. Quando si scostò, Mark rimase ancora ad occhi chiusi, come se pensasse che quello fosse stato solo un sogno e non volesse in nessun modo svegliarsi.
«Non sei solo», sussurrò la ragazzina, rossa come un peperone. Dopotutto era stato il suo primo bacio. «Se hai paura… non devi far altro che dirlo».
In quel momento Mark aprì gli occhi ed incontrò quelli di Abby, neri e lucenti.
«Che cosa stiamo aspettando? Abbiamo una festa da organizzare».
Abigail rise e ruotò la propria carrozzina per andare a chiamare gli altri bambini del reparto.

 

***

 

Era tutto troppo, decisamente troppo, e l’unica cosa che voleva fare era cadere a faccia in giù sul letto e spegnere il cervello per l’intero pomeriggio. Ma aveva un ultimo dovere da compiere, una promessa che aveva fatto a se stessa e che doveva mantenere ad ogni costo.
Respirò profondamente e strinse più forte la tracolla della borsa mentre le porte dell’ascensore si aprivano sul corridoio principale del quarto piano: il reparto di oncologia infantile.
Vi entrò sentendosi quasi fuori posto, un’estranea in quello che avrebbe dovuto essere il suo territorio. Camminò lentamente, girando la testa a destra e sinistra per capire quanti bambini avrebbe dovuto salutare. Non si stupì, quando trovò le prime due stanze vuote. Iniziò invece a nutrire qualche sospetto quando anche le due camerate successive le sembrarono abbandonate, e con una certa fretta. Allora aumentò il passo e si diresse verso la stanza di Abigail, la quale avrebbe saputo certamente che cosa stava succedendo.
Entrò senza bussare, con lo stomaco – desolatamente vuoto – contratto dalla preoccupazione, e strabuzzò gli occhi quando trovò Mark nel bel mezzo della stanza, con delle grosse cuffie sulle orecchie e la testa che faceva su e giù a ritmo di musica. Lo raggiunse e gli posò le mani sulle spalle, ma il ragazzino non fece una piega: era come se sapesse che stava arrivando e la stesse aspettando.
«Ciao», la salutò con un sorriso fin troppo largo per essere rassicurante.
«Che cosa diavolo state facendo?».
Mark corrugò la fronte. «Ti riferisci al fatto che sono scomparsi tutti? Già, anche io me lo stavo chiedendo».
«Non ho proprio voglia di giocare», sbuffò, incrociando le braccia al petto. «Perciò facciamola breve e dimmi che cosa sta succedendo».
«Tempo al tempo, Alex. Andiamo».
L’infermiera non poté far altro che seguirlo lungo il corridoio, fino alla sala comune. Non aveva mai visto le porte chiuse e quella, oltre al cartello con la scritta “Do Not Disturb” a caratteri cubitali, fu l’ennesima conferma che doveva aspettarsi di tutto.
«So che questo non c’entra nulla, ma Abby mi ha baciato».
Alex abbassò di scatto gli occhi su Mark, non credendo alle proprie orecchie. Aprì la bocca per domandargli quando, dove, come e perché, ma il ragazzino sogghignò e spalancò le porte della sala comune, gridando insieme a tutti gli altri bambini: «Sorpresa!».
L’infermiera sbatté più volte le palpebre, disorientata. La sala comune si era riempita di palloncini colorati ed era stato persino allestito una specie di buffet, con bibite gassate, succhi di frutta, patatine e un vassoio di muffin che non potevano che provenire dalla caffetteria della signora Begum. Cathleen era seduta proprio accanto al banchetto, con in mano un dolcetto al cioccolato, e dalla sua faccia compiaciuta doveva essere stata lei a dare una mano ai bambini.
Alex fu quasi sul punto di lanciarle un’occhiata di rimprovero, quando si accorse che aveva la vista appannata dalle lacrime e non riusciva a leggere ciò che i bambini avevano scritto sui cartoncini colorati che tenevano tra le mani per formare una frase. Si passò le dita sotto gli occhi, assordata dai fischi e dagli applausi dei suoi ex colleghi di reparto, e si lasciò andare ad una breve risata.
«Era questo il vostro intento, farmi commuovere», mormorò, posando distrattamente la mano sulla bandana di Mark per poi avvicinarsi al semicerchio di carrozzine di fronte a lei.
«Buona fortuna Alex», lesse ad alta voce, sorridendo teneramente. «Grazie, siete davvero dei tesori. Non so come farò senza di voi…». Chinò il capo per nascondere le lacrime e tirò su col naso con una mano alla bocca.
Abigail si avvicinò a lei e le diede un fazzolettino di carta. «Saremo qui, per ogni cosa, e aspetteremo il tuo ritorno. Perché ritornerai, vero?».
Alex si chinò di fronte a lei e, facendole un buffetto sulla guancia, sussurrò: «Farò qualsiasi cosa, te lo prometto».
Quindi si alzò e con una mano sulla spalla di Abby esclamò, rivolta a tutti i presenti: «Vi ringrazio di cuore per tutto questo e… mi dispiace di non aver avuto il coraggio di dirvelo prima. A proposito, come l’avete saputo?».
«Pff, secondo te?», domandò Cathleen dal fondo della sala, con la bocca piena e tante piccole briciole di muffin sull’uniforme da paramedico.
«Ce l’ha detto Merlino, stamattina», disse Mark alle sue spalle.
E Abigail aggiunse: «Sapeva che ti saresti sentita a disagio ad affrontare l’argomento, quindi… ha voluto levarti la parte difficile».
Alex annuì, provando una fitta di dolore al ricordo del suo sguardo ferito ed arrabbiato e delle sue parole venate d’odio. Eppure continuava a starle accanto, ad aiutarla, in un modo o nell’altro. L’aveva sempre fatto. «Assicuratevi che abbia un muffin ai mirtilli, sono i suoi preferiti».
Cathleen sollevò il pollice, annuendo col capo mentre deglutiva e prendeva il secondo dolcetto di fila. Scorgendo le occhiate di Mark, Abigail e Alex, si giustificò dicendo: «Li adoro! Ma questo è l’ultimo, giuro».
Scoppiarono tutti a ridere, anche Alex, ignorando il vuoto che sentiva nel petto e la profonda convinzione che non sarebbe mai riuscita ad essere veramente felice senza il ragazzo che amava.

 

***

 

Stava finendo di compilare una multa per divieto di sosta, quando il cellulare iniziò a squillarle nella tasca del giubbotto. Se lo portò all’orecchio e senza nemmeno salutare esclamò irritata: «Finalmente».
«Perdonami, è il primo momento di pausa che riesco a prendermi. Ci sono novità?».
«Non hai letto il mio messaggio?».
«No. Che diceva?».
«Con Merlino è stato un disastro. Non è stupido, Keith».
«Non l’ho mai pensato, infatti».
«Mi sono persino scusata, ma non ha funzionato. Sospetta qualcosa, ne sono sicura».
«Ci saranno altre opportunità, non disperare. Per quanto mi riguarda, invece, sono riuscito a farmi offrire una birra da Alex. Dobbiamo solo decidere dove e quando. Ti terrò informata».
«Ottimo. Spero che Merlino cambi idea e mi chiami. Se lo conosco, si sarà sicuramente messo in dubbio e vorrà perlomeno dei chiarimenti».
«E per allora saremo pronti. Ti devo lasciare, Myra».
«Sì, certo. Ci sentiamo allora».
«Ciao».
Terminò la comunicazione proprio nel momento in cui il proprietario dell’auto a cui aveva appena dato quella multa iniziò a correre verso di lei, sollevando le braccia con espressione sconsolata.
«Mi dispiace, troppo tardi!», esclamò chiudendo la propria penna con il pollice e dandogli le spalle per ritornare all’auto di pattuglia.
Attraverso lo specchietto retrovisore Myra vide l’uomo imprecare e tirare un calcio contro lo pneumatico della ruota anteriore destra ed abbozzò un sorriso.
Avviò il motore girando la chiave nel cruscotto e si allontanò, chiedendosi se si sarebbe sentita così soddisfatta anche quando avrebbe visto Merlino disperarsi nello stesso modo o forse addirittura di più. Perché ormai anche per lui era troppo tardi: aveva rifiutato il suo amore una volta ed era troppo tardi per una seconda chance; troppo tardi perché riuscisse a dimenticare l’odio e il desiderio di vendetta che le avvelenavano corpo e anima.

 

 

FINE PRIMA PARTE

 

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Capitolo 16
*** 16. A lesson in vegeance – Part I ***


Ed così che, dopo 1 anno e 7 mesi e vari annunci, io ritorno a concludere questa storia su Merlin.
Non so bene che cosa dire, perché il tempo trascorso è veramente tanto e mi dispiace tantissimo per chi seguiva con passione ogni capitolo. Spero soltanto che ci sia ancora qualcuno e che ciò che leggerete sia valso tutta l'attesa.
Di seguito un piccolo recap per chi giustamente non ricorda nulla dei 15 capitoli precedenti:

Merlino è un essere immortale in attesa del ritorno del solo ed unico Re, Artù Pendragon, e che dopo aver rinnegato la magia per via di grandi delusioni, nel corso dei secoli si è sempre sforzato di apparire mortale, non senza qualche difficoltà.
Della sua ultima vita fa parte Alex - all'anagrafe Alexandra Greenwood e di professione infermiera di oncologia infantile - la quale è perdutamente innamorata di lui (e un po' meno di tutti i suoi segreti).
Merlino è restio a ricambiare i suoi sentimenti e le cose si complicano ulteriormente quando è proprio lei a ripescare Artù da Avalon.
Nasconderle la verità è quasi impossibile, ancor prima che Freya - custode di Avalon e vecchia fiamma di Merlino - riveli che in realtà lei è l'ultima discendente del leggendario sovrano e che, come se non bastasse, è in grado di assorbire la magia dalle ultime fonti disponibili (Merlino è una di queste) e di riutilizzarla.
Dopo varie disavventure, tra cui i tentativi di Artù di ambientarsi nel ventunesimo secolo e di capire il vero motivo per cui i custodi della magia lo hanno riportato in vita, i nostri si rendono conto che i loro destini sono intrecciati per un unico scopo: riportare la magia nel mondo e salvarlo così dall'autodistruzione. Facile, no?

Buona lettura, alla prossima!

Vostra,

_Pulse_



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INIZIO SECONDA PARTE






16. A lesson in vegeance – Part I

«Tesoro, che cosa succede?».
Alex continuò a girare pigramente il cucchiaino nella sua tazza di tè fino a quando non si accorse dello sguardo insistente della signora Begum, ferma di fronte a lei.
«Parlava con me?», domandò.
La donna si lanciò sulla spalla destra lo straccio con cui stava asciugando le stoviglie e si appoggiò accanto al registratore di cassa, una mano sul fianco e le sopracciglia inarcate.
«È da un po’ che hai quella faccia», esclamò la signora Begum. «Sei triste, distratta… come se qualcuno ti avesse strappato la voglia di vivere».
L’infermiera abbozzò un sorriso. «Addirittura?».
«Ti dico quello che vedo».
«Beh… ho diverse cose per la testa, sì».
«Ne vuoi parlare?».
«No, ma grazie per l’offerta».
Dopotutto non sarebbe stato semplice spiegare alla signora Begum che era passata ormai una settimana da quando Merlino era stato dimesso dall’ospedale e che da allora l’aveva a malapena visto, sempre inavvicinabile ed irreperibile, soprattutto quando sapeva che lei e Artù si dovevano vedere. Avevano persino cercato di organizzare una sua visita a sorpresa, ma lo stregone se l’era subito squagliata senza rivolgerle nemmeno uno sguardo.
Se la signora Begum l’avesse saputo avrebbe pensato ad una semplice litigata, un qualcosa che col tempo si sarebbe aggiustato da solo, ma non era affatto così: lei e Merlino non si parlavano per via del suo segreto, della magia e del fatto che più lui si era allontanato, più lei si era avvicinata ad Artù, trascorrendo ore ad ascoltarlo mentre raccontava del suo passato a Camelot ed iniziando persino l’addestramento che le aveva proposto – e a cui, in realtà, non avrebbe potuto dire di no comunque.
L’unica persona con cui avrebbe potuto parlare di tutto quello che le stava succedendo veramente, di quanto si sentisse sola ed abbandonata, confusa da quel passato che si era intrecciato così saldamente al suo presente, era proprio Artù, ma sarebbe stato alquanto imbarazzante per lei confessargli quanto Merlino le mancasse e quante lacrime aveva già versato a causa di quell’amore ancora una volta a senso unico.
«Si tratta dell’ospedale, non è così?».
Proprio quando si era finalmente decisa a portarsi alla bocca la seconda forchettata di torta di mele, a causa di quella domanda la posò di nuovo sul piatto.
«Anche, ma… lei che cosa ne sa, di preciso?».
«Che è da tempo non riceve più abbastanza fondi e che presto il Consiglio d’Amministrazione si troverà costretto a dover trasferire alcuni bambini in altri ospedali».
Alex scosse il capo, rivolgendole un’occhiata sconcertata.
«Che cosa?», chiese la signora Begum, sollevando le mani in segno di innocenza.
«Lei e Cathleen potreste mettervi in affari: siete sempre al posto giusto quando si tratta di captare informazioni che non vi riguardano».
«Stai dicendo che mi piace origliare? Piccola insolente, se ti prendo!».
Alex rise, scostando il viso perché la donna non le stringesse il naso tra le dita tozze e sempre profumate di zucchero.
«Ad ogni modo, sono molto preoccupata. Non so davvero che cosa farei, se il reparto di oncologia dovesse chiudere».
«Se solo Dio buttasse un occhio sul nostro piccolo paesino, di tanto in tanto!», esclamò la donna, sistemandosi la fascia che conteneva i suoi voluminosi capelli castani. Quindi le posò una mano sulla sua e le sorrise amorevolmente: «Le cose miglioreranno, vedrai. Soprattutto se mangi la tua torta».
Alex la ringraziò con un sorriso e la guardò sparire dietro la porta della cucina.
Finalmente si portò alla bocca la forchettata di torta alle mele, ma rischiò di andarle di traverso quando sentì la giornalista TV lanciare un servizio riguardante la cena di gala organizzata per raccogliere fondi per numerosi ospedali con reparti oncologici.
«Il telecomando!». Saltò giù dallo sgabello e andò incontro al nuovo ragazzo che la signora Begum aveva assunto come sostituto di Merlino, forse addirittura più impacciato ed imbranato di lui.
«Alza il volume, è importante!».
Il nuovo cameriere si dimenticò totalmente del signore anziano a cui stava prendendo l’ordinazione e corse dietro il bancone per fare ciò che quell’isterica ragazza gli aveva ordinato.
Alex non lo ringraziò nemmeno, troppo concentrata a catturare ogni parola e fotogramma del servizio di gossip: «La settimana prossima, precisamente giovedì 17 aprile, il Principe William parteciperà all’annuale raccolta fondi per aiutare gli ospedali che si impegnano continuamente nella ricerca e nella cura dei pazienti malati di cancro. La cena di beneficienza si terrà al Castello di Windsor e vi parteciperanno molte personalità influenti, tra cui anche celebrità del cinema e della musica. Alcuni nomi: Helena Bonham Carter, Benedict Cumberbatch e Taylor Swift. Visitando il sito Internet…».
Alex smise di ascoltare e diede le spalle alla TV, incrociando lo sguardo ansioso del cameriere. Aveva smesso di respirare e si era messo sull’attenti, come in attesa del prossimo ordine, ma l’infermiera scosse rapidamente il capo e tornò al bancone per tirare fuori dalla borsa il portafoglio, chiamando a gran voce la signora Begum.
«E adesso che cosa succede?», le domandò preoccupata, uscendo dalla cucina con le mani ancora sporche d’impasto.
«Devo scappare. Pago il mio tè e la mia torta, ma potrebbe mettermela in un sacchetto insieme ad una fetta di crostata all’albicocca? Altrimenti chi lo sente Artù…».
La signora Begum fece un cenno col capo al ragazzo ancora fermo dietro di lei e lui eseguì senza proferir parola.
«Tu e quell’Artù state legando parecchio o mi sbaglio?».
«Stiamo imparando ad apprezzarci a vicenda», rispose frettolosamente Alex, ignorando l’occhiolino che la donna le aveva rivolto. «Quant’è?».
«Sei e cinquanta».
Posò sul bancone una banconota da dieci sterline ed afferrò il pacchetto che il nuovo cameriere – Jake, a quanto diceva il cartellino – le stava porgendo con cura.
«Tieni il resto. A presto signora Begum, grazie di tutto!».
Schizzò fuori dalla caffetteria seguita dallo scampanellio della porta ed imprecò quando non riuscì a trovare subito le chiavi dell’auto nell’enorme borsa. Quando finalmente impugnò il telecomando, aprì la portiera e senza farci troppa attenzione incastrò il sacchetto con le due fette di torta nel vano porta oggetti, mentre con l’altra mano scorreva la rubrica sul cellulare alla ricerca di un numero in particolare.
«E dai, rispondi», mormorò, girandosi nervosamente una ciocca di capelli tra le dita.
Partì la segreteria telefonica e Alex fece per riattaccare, ma poi ci ripensò. Aveva fatto una promessa ad Abigail, una settimana prima, e non l’aveva dimenticata; prima però doveva fare in modo di avere ancora un reparto oncologico in cui tornare.
«Ciao Keith, sono io, Alex. Ehm… Ti ricordi la birra che ti dovevo? Che ne dici di riscuoterla tipo questa sera? Fammi sapere. Ciao».
Respirò profondamente, sentendosi tanto agitata quanto in colpa, ed avviò il motore dell’auto. Era già in ritardo e Artù non gliel’avrebbe fatta passare liscia, ma era sicura che sarebbe riuscita ad ignorarlo: la folle idea che le ronzava nella testa era decisamente più importante di qualsiasi sua ramanzina su come il Codice dei Cavalieri fosse una cosa seria.
Magari Dio non avrebbe buttato l’occhio sul loro piccolo paesino, ma se c’era anche una sola piccola possibilità che il Duca di Cambridge lo facesse allora doveva tentare.
«No, devo riuscirci! Ci sarà anche Benedict Cumberbatch!», urlò, partendo a tutto gas.

***

Era stato stupido da parte sua uscire dall’ospedale prima che lo dimettessero, ma aveva imparato la lezione e dopo solo un paio d’ore si era ripresentato al Pronto Soccorso, senza rispondere a nessuna delle insistenti domande dei medici e delle infermiere.
Si era vestito frettolosamente, tremando ancora per lo sconvolgimento e la rabbia, ed era uscito dalla finestra, sentendo i punti sull’addome tirare e bruciare. Quel dolore però era sopportabile, quasi piacevole in confronto a quello che gli stringeva il cuore in una morsa. In effetti quella sofferenza fisica era stata l’unica cosa che gli aveva fatto capire di essere ancora vivo, il motivo per cui non era crollato in mille pezzi e la spinta per continuare a camminare verso il lago.

Salì sull’instabile barchetta abbandonata sulla sponda est di Avalon e dopo aver remato faticosamente per una ventina di metri chiamò Freya a gran voce.  
«So che ci sei! Artù mi ha detto tutto!».
L’acqua sotto di lui si increspò fino a mostrare l’immagine di Freya, uguale a millequattrocento anni prima, esattamente come se la ricordava. Fu l’ennesimo colpo al cuore, soprattutto dopo aver saputo dal suo re quello che lei e altri custodi della magia avevano architettato, come avevano rovinato la sua vita e sacrificato quella di tutte le persone a cui voleva bene perché erano considerate solo pedine sulla grande scacchiera del suo destino.
«Merlino…», mormorò la dama del lago, sorridendo con malinconia. «Ho saputo che sei stato ferito. Mi dispiace molto. Lascia che ti aiuti».
«Non voglio il tuo aiuto. Ho abbandonato la magia, dovresti saperlo», rispose seccato, digrignando i denti. «Come la magia ha abbandonato me quando ne avevo bisogno. Non mi importa che vi siate messi a giocare col mio destino, è sempre stato così, ma farlo con le vite delle persone che mi stavano intorno, come se non fossero importanti… Non vi perdonerò mai per questo».
«Merlino, il nostro obiettivo è proteggere questo mondo, non importa a quale costo. Tu sei l’unica nostra speranza, e se vieni descritto come il più grande mago di tutti i tempi c’è un motivo».
«È evidente che quello che è sempre stato detto su di me è sbagliato. Non sono più il ragazzo di una volta, Freya, come tu non sei la ragazza di cui mi sono innamorato».  
Ricordava il loro primo incontro come se fosse stato il giorno prima, ricordava la sua paura e le sue lacrime, ricordava il sorriso che le era comparso sul viso quando aveva usato la magia per far colpo su di lei e le aveva donato quella rosa anziché la fragola che aveva chiesto.
Ricordava il momento in cui il destino gliel’aveva strappata via, togliendole la vita mentre era tra le sue braccia, e il funerale che aveva celebrato per lei. Era stato lui a portarla sulla riva di quel lago, era stato lui a spingere la sua barca funeraria sulla superficie piatta su cui si riflettevano le montagne che le ricordavano casa, era stato lui a creare ciò che poi era diventata: prima un’alleata fondamentale, poi una cospiratrice, infine una nemica.
«Se quella sera tu non fossi scappata, Artù non ti avrebbe mai inferto quel colpo mortale», disse Merlino con amarezza, gli occhi opachi immersi nel passato. «Avevamo i nostri progetti, condividevamo il desiderio di costruirci una vita lontano da Camelot, lontano da chiunque ci conoscesse, per essere ciò che eravamo senza la paura di essere braccati».
«Non mi pento delle mie scelte. Il tuo posto era al fianco di Artù, me lo sentivo nelle ossa, e se anche fossimo partiti saresti tornato da lui. Lui era ed è tuttora il tuo destino, la tua metà. Ed è per questo che è risorto, perché senza di lui non potresti mai farcela».
«Questo perché mi sono affezionato a lui! Se non ci fossimo mai incontrati…».
«La tua vita sarebbe stata triste e vuota! Non avresti mai conosciuto il valore dell’amicizia, della lealtà, del sacrificio… Non avresti mai capito che vivere è un continuo prendersi cura di ciò che si ha di più caro! E questo è il compito che ti è stato assegnato lune prima della tua nascita: devi prenderti cura e proteggere il mondo, perché è l’unico che abbiamo!».
Stava per consigliarle la carriera pubblicitaria nel settore ecologico, specializzandosi magari sugli slogan per incentivare il risparmio dell’energia e la raccolta differenziata, ma evitò.
«È scritto nel mio destino che ci riuscirò? A salvare il mondo, intendo».
«Questo non è mai stato predetto. O almeno così mi ha detto Kilgharrah».
Il Grande Drago. Anche lui alla fine l’aveva tradito, consegnando Artù a Freya per tenerlo come asso nella manica piuttosto che aiutarlo a salvarlo e far sì che Camelot continuasse ad avere il proprio adorato sovrano.
«Lascia allora che te lo predica io», esclamò, rigettando i remi in acqua. «Non lo farò».
«Merlino, pensa alle conseguenze della tua scelta. Sette miliardi di persone moriranno, i mari si prosciugheranno, le foreste scompariranno!».
Lo stregone cercò di non pensare alle parole della dama mentre remava di nuovo verso riva, ma continuarono a rimbalzargli nella mente, nauseandolo. Si disse che quel mondo gli aveva riservato ben poche gioie e che non gli doveva proprio nulla, eppure il pensiero di essere la causa della morte dell’intera popolazione mondiale, compresa la sua Alex, i bambini che tanto adorava, i figli, i nipoti e i bis-nipoti delle persone che aveva conosciuto durante tutte le sue vite, questo pensiero gli annodava lo stomaco.
Era anche vero che nessuno avrebbe mai saputo che era stata colpa sua, nessuno tranne Artù e Alex, le uniche due persone per cui sarebbe morto ancora e ancora, nei modi più atroci. Sarebbe più riuscito a guardarli negli occhi, sapendo di aver deciso consapevolmente di causare un genocidio mondiale?

Da allora era tornato al lago solo una volta, per urlare a Freya che se si fosse messa in contatto con Alex gliel’avrebbe fatta pagare cara. La dama non gli aveva risposto, ma Merlino sapeva che l’aveva sentito.
Aveva dormito poche ore a notte, il minimo necessario perché riuscisse a stare in piedi, e aveva evitato con determinazione sia Alex che Artù, scervellandosi sul crudele destino che gli gravava sulle spalle. Il re di Camelot gli aveva già detto come la pensava al riguardo: non era più il loro mondo, perciò non gli dovevano proprio nulla. Alex l’avrebbe pensata diversamente, non solo perché si era rivelata essere una Pendragon ma perché la conosceva e non avrebbe mai permesso che vite innocenti si spegnessero per il suo egoismo, il suo orgoglio e il suo desiderio di vendetta. Aveva evitato di incontrarla perché non voleva veder nascere in lei l’odio che lui stesso, spesso e volentieri, provava nei propri confronti.
Quindi aveva vagabondato di qua e di là, facendo tappa nei luoghi – quelli che erano rimasti, ovviamente – in cui aveva passato la sua giovinezza, tra cui la caverna di cristallo.
Nel corso dei secoli aveva cercato di proteggerla in ogni modo, anche se la grotta stessa, pregna della Religione Antica che aveva mantenuto intatto anche Avalon, si era ben difesa da sola. Almeno fino a quando, durante la Seconda Guerra Mondiale, una bomba sganciata da un aereo tedesco non l’aveva quasi distrutta del tutto. Merlino ci aveva impiegato mesi per togliere i detriti più grandi e scavarsi un passaggio secondario. Col passare degli anni poi aveva perfezionato il tutto, costruendo una ripida scalinata illuminata da luci al neon e mettendo una botola d’entrata e una seconda porta simile a quella dei caveau delle banche, apribili entrambe tramite un meccanismo a puzzle che solo lui conosceva.
Anche quella mattina vi si era rifugiato, cercando inutilmente di consultare i cristalli per conoscere il futuro che sarebbe stato deciso in base alla sua scelta. Il problema era che non aveva ancora preso una decisione, nonostante a Freya avesse detto il contrario. I dubbi lo torturavano di continuo, facendolo arretrare di due passi non appena avanzava di uno.
Steso sul freddo pavimento di ciò che rimaneva della caverna, aveva fissato i cristalli incastonati ovunque: sul soffitto, sulle pareti, sulle rocce appuntite che si ergevano intorno a lui. Aveva sperato di vedere non il suo futuro, ma quello di Alex, e non aveva ottenuto nulla. Ancora una volta, la magia lo aveva abbandonato.

Salì sulla sua Pininfarina e lasciò che il vento gli scompigliasse i capelli e gli asciugasse quelle lacrime che non aveva più la forza di versare.
Parcheggiò proprio di fianco all’entrata del Pronto Soccorso ed entrò, incrociando quasi subito lo sguardo di Cathleen, appoggiata al bancone del ricevimento. Spostò subito gli occhi, senza rallentare la propria andatura, ma Cathleen lo raggiunse con una corsetta e lo afferrò per la spalla.
«Non fare finta di non avermi vista», esclamò con una ruga di preoccupazione in mezzo alle sopracciglia.
«Non ho tempo di parlare, tutto qui».
«Sbagliato. Non vuoi parlare».
Merlino le rivolse un finto sorriso. «Perspicace, davvero. Ora se permetti…». Scivolò dalla sua stretta e si incamminò nuovamente verso l’ascensore.
Pensò di essersela levata dai piedi, ma all’ultimo momento si infilò tra le porte che si stavano chiudendo e lo fissò severamente.
Aspettò che l’ascensore iniziasse a salire prima di attaccare col suo discorso: «Artù mi ha detto che è da circa una settimana che non gli rivolgi più la parola».
Ma certo che Artù gliel’ha detto.
Non si era informato su come procedesse il loro rapporto – e non gli interessava, al momento – ma supponeva che stesse andando bene se Artù le confidava ciò che succedeva tra le mura di casa. Probabilmente quando stava ore svaccato sul divano, con un occhio rivolto verso la televisione e l’altro sulla tastiera del cellulare era con lei che parlava.
«So che io e te non siamo mai andati d’accordo. So di essere stata una stronza, di non aver accettato il tuo aiuto quando me l’hai offerto, ma voglio rimediare. Perciò se hai bisogno di qualcosa, se vuoi parlare…».
«Una cosa che potresti fare ci sarebbe».
Cathleen si sorprese della sua risposta e sgranò un po’ gli occhi: non pensava sarebbe stato così facile. «Quale?».
«Starmi lontana. E stai lontana anche da Artù, ti risparmierà un sacco di casini».
Cathleen aprì la bocca per rispondere, il viso contratto dall’ira, ma le porte dell’ascensore si aprirono al quarto piano e Merlino le passò accanto, sbattendo la spalla contro la sua, per uscirvi.
Quella volta non lo rincorse, ma con i pugni stretti lungo i fianchi gridò: «Alex è riuscita a fissare la TAC per Artù. Domani, alle otto e trenta. Ci sarai?».
Merlino si fermò nel bel mezzo del corridoio e si voltò lentamente di tre quarti, fissando il paramedico con una maschera d’impassibilità sul viso. «Forse».
«Faresti meglio a deciderti: o sei amico di Artù oppure no».
«Chi ti credi di essere per mettere in dubbio la mia –?».
«Nessuno», lo interruppe, scrollando le spalle. Premette un tasto dell’ascensore, ma prima che le porte si chiudessero nuovamente aggiunse: «Ah, è passata una poliziotta. Credo che faccia Chandra per cognome. Ti cercava, diceva che era importante».
Merlino sospirò e si voltò senza dire altro, sentendo lo sguardo di Cathleen bruciargli tra le scapole.

***

Artù era appena rientrato in cucina per attaccarsi direttamente al cartone di succo di frutta quando sentì il campanello suonare con insistenza.
Andò ad aprire passandosi un asciugamano sul viso e sul collo, guardando dalla spioncino prima di tirare verso di sé la porta e lasciar entrare un’Alex tesa come una corda di violino.
«Devo parlare con Merlino», esclamò senza nemmeno salutarlo.
Artù richiuse la porta e si sistemò l’asciugamano intorno al collo. «Buona fortuna».
«Non è in casa, vero? Sai quando torna?».
«Mi prendi in giro?», le urlò contro, gli occhi fiammeggianti e la mascella contratta per il nervosismo.
«No, certo che no». Alex si passò la mano sulla fronte e sospirò. «È che devo parlargli di una cosa molto importante».
«Cioè?».
«Ti ho detto che ho scoperto che l’ospedale non ha più fondi. Beh, prima mi è venuto in mente un piano che potrebbe salvare il reparto».
«E hai bisogno dell’aiuto di Merlino?».
«Volevo semplicemente avere il suo parere a riguardo».
Artù scosse il capo, senza riuscire a trattenere un sogghigno sarcastico. «Buona fortuna davvero».
Alex fece per lasciare la borsa sul divano quando si ricordò del sacchetto che teneva in mano. «Ti ho portato una fetta di crostata all’albicocca della signora Begum».
Il re di Camelot annuì senza nemmeno voltarsi e Alex sospirò, seguendolo mestamente nel giardino sul retro, dove lo aiutò a sostituire i manichini da vetrina martoriati. Quando il nuovo cerchio fu pronto, il re di Camelot sollevò la spada che aveva infilzato nel terreno e riprese a sferrare fendenti a destra e manca, amputando braccia e provocando lunghi e profondi tagli nella plastica, con una ferocia e una rabbia che sembravano non esaurirsi mai.
«Artù. Artù, guardami!».
Sollevò gli occhi su Alex, ferma di fianco al manichino a cui aveva appena infilzato il cuore, e vide sul suo viso tanta apprensione da fargli ingarbugliare lo stomaco.
«Sei stato tu a dirmi che ha bisogno di tempo e che gli passerà. Non possiamo ancora arrenderci».
Il suo voleva essere solo un incoraggiamento, un modo per fargli capire che era al suo fianco, ma Artù, poco incline al ragionamento quel giorno, lo prese come un rimprovero e scattò, puntandole la spada contro, a pochi centimetri dalla gola. Alex non arretrò né mostrò paura, un comportamento che in un’altra occasione l’avrebbe reso fiero di lei.
«Se vuoi allenarti bene, sai dov’è la tua armatura. Altrimenti vattene».
L’infermiera assottigliò gli occhi e gli diede le spalle, di nuovo diretta verso la veranda. Artù aspettò che fosse sparita alla sua vista e poi colpì il manichino alla sua destra con un colpo così ben assestato che gli fece volare via la testa.
Merlino si stava comportando in modo assurdo, tenendolo così a distanza.
Odiava che fosse lui la causa del suo allontanamento, odiava l’affetto che provava per lui, odiava che gli mancasse tanto e odiava il senso di solitudine che gli gravava sul cuore. E tutto quell’odio sfociava in rabbia, una rabbia cieca che colpiva chiunque gli stesse intorno, Alex per prima, l’unica che non l’aveva mai lasciato solo da quando aveva ripreso con sé l’anello col sigillo reale dei Pendragon.
Ancora una volta aveva preso la decisione sbagliata, non consultando Merlino prima di dire tutta la verità ad Alex, e aveva davvero paura che quella volta non potesse rimediare in alcun modo all’errore commesso. Nessun atto di onore, nessun sacrificio avrebbero portato Merlino di nuovo da lui. L’unico in grado di risolvere la situazione era ancora una volta lo stregone: solo lui poteva trovare la forza di perdonarlo, come aveva fatto tante e tante altre volte prima d’allora, in silenzio e senza che lui ne fosse a conoscenza.
Aveva paura di aver raggiunto il punto di non ritorno. Aveva paura di aver calpestato anche l’ultimo briciolo di rispetto e di lealtà che Merlino nutriva nei suoi confronti. Aveva paura di averlo perso per sempre. E quella era la paura peggiore che avesse mai provato, peggiore persino della paura della morte.

***

Merlino entrò nella Centrale di Polizia e dopo aver superato una reception deserta bussò alla porta dell’unico ufficio presente.
«Avanti!».
Si sporse solo con la testa e all’interno, seduti alle loro scrivanie, vide sia Myra che l’agente Darrell Fisher.
«Merlino», esclamò sorpresa la poliziotta, addossandosi allo schienale della propria poltrona. «Che cosa ci fai qui?».
Lo stregone scrollò le spalle. «Ho saputo che sei venuta a cercarmi all’ospedale».
«Oh, sì». Guardò in direzione del collega e con un cenno eloquente del capo gli indicò la porta.
«Capito», borbottò Darrell, prendendo la sua giacca dall’appendiabiti. Poi porse la mano a Merlino, presentandosi: «Agente Darrell Fisher. Ho sentito molto parlare di te».
«Davvero?», domandò senza interesse lo stregone, stringendogli la mano.
Il poliziotto esitò, per poi rispondere a bassa voce, deviando il suo sguardo: «No, veramente no». Si voltò un’ultima volta verso Myra e poi sorrise, esclamando: «Io vado a prendere dell’altro caffè. Ci vediamo, Merlino».
Lo stregone non rispose. Quando fu fuori dall’ufficio, si avvicinò alla scrivania di Myra e si lasciò cadere sulla poltrona, guardandola negli occhi.
«Spero che la tua visita non sia ancora per i documenti Artù».
«No, i documenti di Artù sono tutti perfetti. Certificato di nascita, carta d’identità, assicurazione sanitaria… ho trovato tutto. Ti cercavo per un’altra ragione».
«Sarebbe?».
Myra corrugò la fronte, sporgendosi sul tavolo con le braccia incrociate sul ripiano. «Merlino, ti senti bene?».
Lo stregone si massaggiò le tempie, improvvisamente colpite da un atroce mal di testa. «Sì, ho solo bisogno di un’aspirina», mormorò, cercando di stirare un sorriso. «Stavi dicendo?».
«Sì, ehm… Volevo chiederti se ti andava di bere qualcosa, questa sera». Portò subito le mani avanti, abbassando lo sguardo ed accennando una risata. «Se non vuoi non fa niente, so che non dovrei essere così insistente, ma mi piacerebbe davvero rimediare al casino che ho fatto e non so…».
La sua voce si abbassò fino a scomparire quando Merlino le strinse una mano, ancora fasciata a causa dei tagli non ancora totalmente rimarginati. Sollevò cautamente gli occhi e trovò quelli dello stregone quasi sereni, due frammenti di cielo incastonati nel suo volto stanco e pallido.
«Avrei dovuto chiamarti», le disse a bassa voce. «Facciamo alle otto? Vengo a prenderti io».
Myra sorrise incredula, ricambiando la stretta. «Alle otto è perfetto. Grazie, Merlino. Dopo le cose orribili che ho detto non meritavo una seconda chance».
«Tutti meritano una seconda chance».
Si alzò continuando a sorridere, chiedendosi perché gli costasse ancora così tanta fatica. Perché continuava a dubitare delle sue intenzioni? Perché si sentiva sull’orlo di una trappola, ingannato? Era più forte di lui, ma soffocò il suo istinto, ciò che più e più volte l’aveva protetto ed aiutato negli ultimi quindici secoli.
«Allora a stasera».
«A stasera», ripeté Myra, annuendo ed alzandosi a sua volta per avvicinarsi a lui quasi timidamente.
Merlino la osservò e nonostante avesse voluto lasciarsi andare, sollevò una mano in segno di saluto e si voltò prima che allungasse le braccia per stringergliele intorno al collo in un abbraccio rappacificatore.
Camminò rapidamente, senza voltarsi mai indietro: sapeva che se l’avesse fatto si sarebbe rimangiato tutto, sentendosi troppo in colpa nei confronti di Alex. Ma forse era quello che gli serviva per dimenticarla: una distrazione. Forse era quello che a lei serviva per dimenticarlo: un tradimento.
Si disse che in un modo o nell’altro stava facendo la cosa giusta e saltò in auto, mettendo rapidamente in moto e schizzando via ignorando il giovane agente Fisher di ritorno dalla caffetteria della signora Begum con due bicchieroni di caffè.

***

Alex non era arrabbiata con Artù. Non ci riusciva, visto che sapeva esattamente che cosa stava provando in quel momento. L’assenza di Merlino si faceva ogni giorno più dolorosa, una voragine sempre più profonda nel suo cuore che al contrario del suo corpo non era difeso da alcuna armatura.
Rassettando un po’ il disastro che regnava sovrano in cucina scoprì che in ogni caso, arrabbiatura o meno, Merlino non trascurava mai il suo migliore amico.
Aveva aperto il frigorifero per sistemare il cartone di succo di frutta che Artù aveva lasciato accanto al lavello pieno di piatti da lavare, e aveva sorriso addolcita leggendo i post-it gialli appiccicati su una serie di vaschette di plastica: contenuto e metodo di preparazione, ossia l’elettrodomestico in cui doveva infilarlo – quasi sempre il microonde – e i minuti necessari. C’erano primi piatti, secondi e contorni di verdura. Doveva aver speso delle ore ai fornelli per preparare tutto quanto e questo la convinse ancora di più che non aveva intenzione di abbandonarli, ma che aveva solo bisogno di un po’ di tempo per se stesso, per affrontare le sue paure. O almeno questo era quello che sperava con tutto il cuore.
Quando riuscì a dare una parvenza d’ordine in cucina, salì al piano di sopra per cambiarsi nella stanza di Artù. Prese la propria armatura, o almeno quello che il re era riuscito a recuperarle e che non risultava troppo grande rispetto al suo fisico minuto, e la indossò: una maglia di ferro che le arrivava fino alle ginocchia, un usbergo per il petto, due protezioni per i polsi e un elmo che nonostante fosse il più piccolo della collezione di Merlino le ballava un po’ in testa.
Appesantita da tutto quello che aveva addosso, si lasciò cadere sul letto a baldacchino di Artù. Chiuse gli occhi concentrandosi sul proprio respiro, ma sentendo il clangore della spada con cui il biondo continuava ad infilzare quei poveri manichini si fece coraggio e si risollevò.
Stava per uscire dalla stanza con l’elmo sotto braccio, ma la coda dell’occhio le cadde sullo scrittoio, in particolare su una scatoletta metallica che Artù era riuscito a scassinare.
Ne osservò l’esterno, ricordandosi che anche suo nonno ne aveva una uguale. Sul metallo arrugginito era stato inciso un nome, James McTrusty, e all’interno trovò alcune lettere, una catenina d’oro con una piccola croce ed una fotografia in bianco e nero e dai bordi usurati che ritraeva una bella ragazza, con i capelli castani acconciati in morbidi boccoli, due occhi grandi e dolci e un piccolo sorriso, quasi timido. Ebbe come la sensazione che non avrebbe dovuto vedere quella foto, che non avrebbe dovuto tenere tra le mani quelle lettere scritte sia nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale, dallo stesso James per sua figlia, sia poco prima della Seconda, quella volta per un certo Emrys e firmate Louise McTrusty.
Alex provò un brivido di freddo scorrendo rapidamente le parole ormai sbiadite scritte da Louise con una calligrafia ordinata e svolazzante allo stesso tempo. Diceva ad Emrys che lo amava, ma che non poteva scappare con lui perché avrebbe voluto dire arrendersi, ammettere la sconfitta. Lei invece voleva combattere come aveva fatto suo padre, servire la sua nazione, e l’unica cosa che sapeva fare era curare i malati. Chiedeva a Emrys di stare con lei, di aiutarla a fronteggiare il male che si stava per diffondere.
Alex si portò una mano alla bocca per trattenere un singhiozzo e trasalì quando sentì un rumore alle sue spalle. Artù, con i capelli appiccicati al viso sudato, era fermo sulla porta e la osservava.
«Anche Merlino aveva la brutta abitudine di ficcanasare», le disse quasi con dolcezza. Ed infatti quando si avvicinò le posò una mano sulla spalla, come se fosse dispiaciuto per lei. Ma lei non era triste perché Merlino, o Emrys, come si faceva chiamare allora, aveva amato un’altra prima di lei; lo era perché aveva amato un’altra e l’aveva persa. Era la maledizione dell’essere immortali: vedere le persone care morire, una dopo l’altra, senza poter fare nulla per impedirlo.
«Ti ha mai parlato di lei?», domandò cercando di tenere a freno l’emozione che le incrinava la voce.
Artù scosse il capo. «Non mi ha mai raccontato nulla di ciò che gli è capitato dopo la fine del mio regno. Una volta, stupidamente, gli ho chiesto perché non si fosse mai fatto una famiglia. Credo di averlo capito».
«Non voleva sopravvivere alla donna che amava, ai suoi figli, ai suoi nipoti…», continuò per lui, mentre una grande tristezza l’avvolgeva nel suo freddo abbraccio. Si strinse di più ad Artù, trovando il suo petto il luogo più accogliente del mondo, nonostante la sua armatura scomoda ed ingombrante.
«Dev’essersi sentito così triste, così solo…», mormorò Artù, posandole le labbra tra i capelli.
«Ma ora non lo è più. Noi due ci saremo sempre per lui, non è vero?».
Alex sollevò il capo per guardarlo negli occhi e solo il suo sorriso venato di amarezza le fece capire che entrambi avrebbero voluto credere a quella menzogna. Gli rivolse uno sguardo implorante: aveva davvero bisogno di sentirselo dire.
«Sì, noi ci saremo sempre per lui», disse Artù, tornando a stringerla forte a sé.

***

«Grazie per il caffè, Darrell».
«Figurati. Ma dove stai andando?».
Myra si voltò verso il collega strabuzzando gli occhi. «Al bagno. Prova a farmi di nuovo una domanda del genere e ne pagherai le conseguenze: io non devo rispondere a te di ciò che faccio».
«Sissignora», borbottò l’agente Fisher, tornando a battere velocemente sulla tastiera del proprio computer.
Uscì dall’ufficio e si chiuse nel bagno, dove prese il cellulare e se lo portò all’orecchio dopo aver premuto il testo di chiamata rapida.
«Pronto?».
«Ciao Keith. Puoi parlare?».
«Sì. Ci sei riuscita, vero? Lo si capisce dal tuo tono di voce».
Myra si guardò rapidamente allo specchio: sorrideva come non faceva da mesi. «Verrà a prendermi alle otto, questa sera».
«Chiamo subito Alex per confermare. Ci vediamo al pub allora».
«Già mi immagino la faccia di Merlino quando la vedrà con te!».
«Sarà un bello spettacolo, poco ma sicuro».
«Non sto più nella pelle».
Poco dopo, Myra tornò in ufficio e trovò Darrell accanto alla boccia dell’acqua. Le rivolse un sorriso nervoso e la poliziotta arricciò il naso, sospettosa, ma fu solo un momento: aveva molto su cui riflettere e il comportamento di Darrell non era nemmeno sulla sua lista. Si sedette alla propria scrivania e riprese a lavorare alle sue scartoffie senza mai smettere di sorridere.
«La visita di Merlino ti ha proprio cambiato la giornata, eh?», disse l’agente Fisher spezzando il silenzio.
«Non puoi nemmeno immaginare quanto», mormorò Myra, battendosi la penna sulle labbra.
Darrell fu scosso da un brutto presentimento, ma non fiatò. Anzi, abbassò il capo sulla tastiera e non lo rialzò fino alla fine del turno, meditabondo.

***

Merlino entrò in casa già consapevole che avrebbe trovato Alex in giardino, con una spada in mano e la visiera dell’elmo calata sugli occhi.
Non gli faceva piacere che Artù la coinvolgesse nei suoi allenamenti: solo perché aveva un lontano legame familiare con i Pendragon non voleva dire per forza che fosse una guerriera e che dovesse ad ogni costo esporsi ai pericoli che maneggiare armi del genere comportavano.
Impegnato a cucinare il pranzo e la cena di Artù, quella mattina non aveva fatto colazione. Così aprì un armadietto, leggendo di sfuggita il post-it che aveva appiccicato al barattolo di Nutella – “Un altro buco nella cintura?” – e tirò fuori una brioche preconfezionata. L’aprì facendo scoppiare la plastica e se la portò alla bocca mentre fuori Artù spiegava ad Alex come il suo braccio dovesse sembrare il naturale proseguimento della spada. Merlino scosse il capo con arrendevolezza e buttò l’involucro di plastica nel cestino, poi salì le scale due gradini per volta.
Entrò in camera di Artù e raccattò i vestiti sporchi che aveva buttato qua e là sul pavimento e sui mobili, tra cui sulla sedia dello scrittoio. Lì i suoi occhi si posarono su una scatoletta metallica che fece saltare un battito al suo cuore. Accarezzò con le dita il nome inciso su di essa e poi l’afferrò con decisione, portandosela con sé in bagno, dove caricò la lavatrice e poi si sedette sulla tazza del water, in attesa.
Artù doveva averla trovata per caso nella cassapanca in soffitta e doveva averla presa per curiosità, riuscendo a rompere il lucchetto ormai arrugginito con cui Merlino l’aveva chiusa decenni prima.
Aveva di sicuro letto le lettere in essa contenute, aveva visto l’unica foto che possedeva di Louise e preso tra le mani la sua collanina. Ma non poteva aver capito tutto ciò che c’era stato tra di loro, non poteva nemmeno immaginarlo.
«Artù, è un’ora che ci alleniamo! Facciamo una pausa?».
Merlino, udendo la voce di Alex, si alzò ed aprì la finestra. Si sedette sul davanzale e guardò gli ultimi due Pendragon fronteggiarsi in mezzo ad un cerchio di manichini mutilati.
«Rimettiti l’elmo, decido io quando è il momento di fare una pausa».
«Sarai anche il mio bis-bis-bis-bis-bis-bis e molti altri innumerevoli bis nonno, ma non puoi darmi ordini. Ho sete e sono stanca, quindi faccio una pausa».
Alex si voltò, ma Artù invece di lasciarla andare riprese la spada con entrambe le mani ed iniziò a correre verso di lei urlando: «Mai dare le spalle all’avversario!».
L’infermiera si girò di scatto, ma non ebbe i riflessi pronti di sollevare la spada per parare il colpo. Merlino sentì lo stomaco saltargli fino in gola e non riuscì a controllare la magia che distrusse ogni sua barriera: con una mano sollevata verso Artù mormorò poche parole nel linguaggio della Religione Antica e quando i suoi occhi si tinsero d’oro la spada del re di Camelot volò via, roteando in aria per una ventina di metri prima di infilzarsi nella fronte di uno dei manichini ancora in piedi.
Artù guardò esterrefatto la spada, poi Alex. «Pensavo avessi esaurito la magia assorbita da Merlino!», urlò.
L’infermiera, pietrificata, scosse il capo bisbigliando: «Non sono stata io».
«Allora chi…?», iniziò a chiedere il re, guardandosi intorno. Quando finalmente alzò il capo, incrociò gli occhi furenti di Merlino, tremante sia per la rabbia che per la magia che stava disperatamente ricacciando indietro.
«Non le avrei mai fatto del male!», gridò Artù in sua difesa.
«Si chiamano incidenti perché non sono prevedibili, testa di fagiolo!».
Merlino rientrò, ma prima di chiudere la finestra sentì il solo ed unico re scoppiare a ridere ed esclamare: «Non sono mai stato così felice di sentire quel nomignolo!».
Lo stregone non riuscì a trattenere un sorriso e tornò a sedersi sulla tazza del water, gli occhi fissi sull’oblò della lavatrice e la sensazione che la sua testa fosse proprio così, in quel momento: un cestello che non smetteva mai di girare, in modalità centrifuga, che sballottava e mescolava continuamente i suoi pensieri, rendendoli confusi ed inafferrabili.
Abbassò gli occhi per puro caso e vide una goccia di sangue sul pavimento chiaro, proprio tra le sue ginocchia. Si sollevò e si portò le dita al naso, scoprendo che era da lì che proveniva.  
Si alzò velocemente e si guardò allo specchio del lavandino, scorgendo un rivolo di sangue colargli dalla narice al mento, sporcandogli persino la maglietta. Si sciacquò con l’acqua fredda e si tirò via la maglietta sporca, gettandola nel cesto della biancheria da lavare e ringraziando il cielo che non fosse Artù a fare il bucato. Chissà come avrebbe reagito se avesse scoperto dei suoi continui mal di testa e ora del sangue dal naso. Sicuramente si sarebbe preoccupato, anche più di lui.
Non gli era mai successa una cosa del genere. Forse perché prima del ritorno di Artù non aveva più usato la magia, forse perché se quello che aveva detto Freya era vero allora il mondo aveva i giorni contati e lui, figlio della terra, del cielo, dei mari, stava morendo con esso.

***

«Vedi perché le ragazze non potevano essere cavalieri?».
Un’Alex senza fiato, stesa sull’erba, sollevò il medio nella sua direzione. Artù fissò quel gesto senza capirne il significato e si voltò non appena sentì la porta scorrevole della veranda scivolare nei cardini: Merlino, con il cesto della biancheria tra le braccia, era diretto verso i fili su cui stendeva i panni appena lavati.
Non sapeva che cosa fosse cambiato né perché, e in fin dei conti non gli importava: quello che contava era che Merlino gli avesse rivolto di nuovo la parola. E doveva sfruttare il momento, se voleva che le cose tra loro tornassero quelle di sempre.
«Ehi, Merlino!», urlò nella sua direzione, infilzando la spada nel terreno ed appoggiandosi al pomolo dell’elsa con entrambe le mani. «Ti va di farmi da scudiero ancora una volta? Come ai bei vecchi tempi!».
Merlino gli rivolse un’occhiata scettica e Artù si umettò le labbra, notando che persino Alex aveva alzato la testa per guardare il suo patetico tentativo di coinvolgerlo.
Si schiarì la gola e ci ritentò: «E dai, sarebbe un’iniezione d’incoraggiamento per Alex vedere che nonostante abbia appena iniziato è pur sempre più brava di te!».
Merlino sogghignò, allungando il collo oltre la felpa che stava stendendo. «Ne dubito».
«In che senso?».
«Lasciate perdere Artù, è meglio».
Il re strinse i denti e dopo aver tirato fuori dal terreno la spada stese una mano verso Alex, sibilando: «La tua spada, dammela».
L’infermiera gliela consegnò e nonostante temesse non fosse una buona idea non proferì verbo ed osservò il suo antenato dirigersi con passo pesante verso Merlino.
«Forza, ricordami quanto sei patetico!», gli urlò prima di lanciare nella sua direzione la spada di Alex.
Artù pensava che l’avrebbe schivata e l’avrebbe guardato con gli occhi sgranati come se fosse impazzito, invece l’afferrò senza alcuna difficoltà e se la fece roteare a destra e a sinistra del corpo come era solito fare lui. Perciò fu Artù a spalancare gli occhi per la sorpresa, ma non ebbe il tempo di dire o fare altro: Merlino gli fu subito addosso, menando fendenti così veloci e precisi che riuscì a malapena a pararli.
Dopo un minuto e mezzo di difesa, Artù provò ad attaccarlo, ma la tecnica con cui Merlino parò il colpo lo prese così alla sprovvista che mollò la presa sull’elsa. Abbassò il capo all’ultimo minuto nello schivare un colpo, ma non riuscì proprio a deviare il calcio in pieno petto con cui lo stregone lo fece cadere a terra, trovandosi poi con la punta della spada posata sotto il mento.
«In questi millequattrocento anni ho dovuto imparare a difendermi senza l’uso della magia», gli spiegò. «È sempre stato un mondo crudele, questo. L’ho imparato a mie spese».
Lanciò via la spada e gli porse una mano con l’abbozzo di un sorriso sul volto. Artù la strinse e si sollevò, provando vergogna per essere stato battuto dal suo vecchio servitore ma anche profonda ammirazione per quel ragazzo imbranato ed ingenuo che con le sue sole forze aveva dovuto imparare a lottare per sopravvivere e ci era riuscito.
Alex iniziò ad applaudire, lasciandosi andare a qualche urletto eccitato. Entrambi la guardarono con cipiglio perplesso, poi Merlino ritornò ai panni da stendere.
«Che cos’ho fatto di sbagliato?», chiese Alex di fronte allo sguardo ora pieno di rimprovero dell’antenato. «Ti ha umiliato, è stato fantastico!».
Artù sbuffò innervosito e mentre si dirigeva verso la veranda urlò: «Per oggi abbiamo finito!».

***

Alex respirò profondamente e ad occhi chiusi bussò alla porta della camera di Merlino. Non udendo alcuna risposta, disse: «Ehi, posso entrare?».
«Vieni», rispose il mago dopo qualche secondo.
L’infermiera infilò la testa all’interno e trovò Merlino steso sul letto con un libro tra le mani. Si chiuse piano la porta alle spalle e si avvicinò al letto fino a sedersi accanto a lui, all’altezza del suo fianco.
«Avrei bisogno di parlarti», esclamò, deglutendo a fatica a causa del nodo che aveva messo radici nella sua gola.
Merlino rispose senza staccare gli occhi dalle pagine del libro: «Ti ascolto».
Era pur sempre un miglioramento.
«Questa mattina ero dalla signora Begum e ho sentito una notizia interessante al telegiornale. Ci sarà un evento di beneficienza la settimana prossima, al Castello di Windsor, per aiutare gli ospedali con reparti oncologici e laboratori di ricerca. Capisci? Se potessimo partecipare e rappresentare il nostro ospedale riusciremmo a raccogliere i fondi sufficienti ad impedire che il reparto chiuda!».
«E come pensi di riuscirci?», le chiese con le sopracciglia aggrottate. Finalmente la guardava negli occhi e Alex rischiò quasi di dimenticarsi quello che voleva dire.
«Beh, innanzitutto devo capire se il nostro ospedale è nella lista dei beneficiari della raccolta».
«Metti caso che non lo sia – è l’ipotesi più probabile. Che cosa potresti fare tu?».
«Potrei provare a parlare col Consiglio d’Amministrazione e…».
«Credi che funzioni così? Quando si tratta di beneficienza è chi l’organizza che decide a chi e in che misura verrà devoluto il ricavato».
Alex posò istintivamente una mano su quella di Merlino, posata sulla copertina del libro aperto sul suo petto. «Non posso starmene in disparte e non fare niente. È il mio reparto, devo almeno provarci».
Merlino si tirò su, appoggiando le spalle contro la testata del letto, e ritrasse la mano da quella di Alex. «Che cosa c’entro io in tutto questo?», le chiese abbassando gli occhi.
«Ho bisogno che tu stia dalla mia parte, come hai sempre fatto». Sapeva di avere le lacrime agli occhi, ma sorrise comunque. «Ti ricordi? Sei stato tu ad incoraggiarmi a non abbandonare la nave quando mi hanno dato il posto in oncologia anziché al Pronto Soccorso. Mi hai detto di provarci, che forse avrei cambiato idea».
«Sì, mi ricordo», mormorò.
«È grazie a te se mi sono affezionata tanto a quel lavoro, se ora è quello che voglio fare per il resto della mia vita. E non mi arrenderò, perché quel vecchio inquietante e saggio mi ha detto di non farlo mai».
Merlino strinse gli occhi ed arricciò gli angoli della bocca nel tentativo di reprimere un sorriso. «In che senso inquietante?».
Alex scoppiò a ridere e dopo aver gettato da parte il libro abbandonato sul suo petto si chinò su di lui, con l’orecchio premuto contro quel cuore che batteva da più di millequattrocento anni e le mani strette sulla sua felpa.
«Ti amo, Merlino. Non odiarmi per questo», avrebbe voluto dirgli, ma rimase in silenzio e chiuse gli occhi quando sentì le mani dello stregone accarezzarle delicatamente la schiena.

Pioveva a dirotto da quella notte e Alex l’aveva preso come un cattivo presagio. Nervosa com’era, non era riuscita a fare colazione quella mattina e ora lo stomaco le brontolava rumorosamente.
L’avevano chiamata la mattina precedente, dicendole che c’era un posto disponibile ed erano intenzionati a farle un colloquio. Aveva quasi fatto i salti di gioia, piena di speranza, e sua madre con lei.
Trasse un respiro profondo e scese dall’auto aprendo immediatamente l’ombrello. Si diresse a passo spedito verso l’entrata del Pronto Soccorso, ma lo sguardo le cadde sul vecchio seduto su una delle panchine dall’altro lato della strada, accanto all’ingresso del parco. Lasciava che la pioggia gli bagnasse il viso rugoso, i capelli e la lunga barba bianca, e che gli inzuppasse il cappello di lana e il cappotto logoro.
Non era la prima volta che lo vedeva. Anche quando era passata di lì per lasciare il proprio curriculum l’aveva notato, seduto sempre sulla stessa panchina, intento a fissare qualcosa di fronte a sé oppure semplicemente immerso nei ricordi.
Si avvicinò cautamente e si chinò di fronte a lui, muovendogli una mano davanti agli occhi.
«Che cosa vuoi, ragazzina?», berciò senza rivolgerle nemmeno uno sguardo.
Alex rimase a bocca spalancata, colpita dal suo tono acido. Si portò una mano sul fianco e con una smorfia sul viso rispose: «Proprio niente».
«Vai ad infastidire qualcun altro, allora».
«Io non infastidisco nessuno!».
«Hai infastidito me!».
Il vecchio la guardò negli occhi per la prima volta e Alex ebbe subito l’istinto di arretrare e fissarsi le scarpe, profondamente a disagio, ma il suo orgoglio fu più forte e le permise di sostenere il suo sguardo penetrante, in grado di scavarle nell’anima.
I suoi occhi, esattamente come il volto in cui erano infossati, erano occhi da vecchio, intrisi di ricordi, specialmente ricordi spiacevoli e tristi. Sembravano aver visto il mondo intero e portarselo sempre dietro, incatenato dietro quelle iridi azzurre come il cielo.
«Hai coraggio, ragazzina».
«Non mi chiami ragazzina».
Il vecchio le sorrise e il suo viso non sembrò più tanto minaccioso e scorbutico, solo piuttosto buffo. Alex ricambiò, traendo un sospiro di sollievo, e poi fece quello per cui si era avvicinata: si tirò sulla testa il cappuccio della felpa e gli consegnò l’ombrello.
«Non posso accettarlo», esclamò il vecchio quasi con spavento, prendendole la mano con le sue avvizzite e ricoperte da degli usurati guanti senza dita.
«Ne ha più bisogno lei di me, lo prenda. Ora devo proprio andare».
Alex ritrasse la mano ed iniziò a correre sotto la pioggia. Era ormai quasi alle porte scorrevoli del Pronto Soccorso quando si voltò e trovò gli occhi del vecchio fissi su di lei.
«Mi perdoni, non mi sono presentata. Io mi chiamo Alexandra Greenwood, ma tutti mi chiamano Alex».
«Tu puoi chiamarmi Dragoon».
Alex trattenne a stento il sorriso che le arricciò gli angoli della bocca. A quel vecchio mancavano sicuramente un paio di rotelle, ma non poteva fare a meno di trovarlo simpatico.

***

«Ti fermi qui a cena, Alex?».
«Mi piacerebbe, ma ho già un impegno per questa sera».
Artù inarcò le sopracciglia, stupito. «Che tipo di impegno?».
«Non penso ti riguardi», rispose Alex rivolgendogli un sorriso, sfilandosi la lunga maglia di ferro. Quindi si raccolse i capelli sulla nuca e si massaggiò le braccia con una smorfia sul viso, borbottando che le spade del medioevo erano davvero pesantissime.
«Non mi riguarda? Certo che mi riguarda! Devo per caso ricordarti che tu sei…».
«Tutto ciò che ti è rimasto della tua famiglia. No, non ce n’è bisogno, grazie. Ma non puoi comportarti come un padre geloso, no davvero».
Artù sentì il sangue affluirgli alle guance e strinse i pugni lungo i fianchi, poi si voltò di scatto verso Merlino, intento a lucidare con un panno le parti d’armatura che si era già tolto.
Lo stregone lo guardò confuso per un attimo, il tempo necessario a capire che volesse il suo sostegno. Scrollando le spalle, disse: «Alex ha il diritto di fare quello che vuole».
«Grazie, Merlino», lo ringraziò lei, abbassando il capo in una specie di inchino.
Artù guardò quei due scambiarsi un fugace sorriso ed intuì che dovevano aver parlato, buttando giù uno dei tanti muri che li separavano. Era contento per loro, ma in quel momento era anche furente: Merlino gli era sempre andato contro e per una ragione, il suo bene; ora solo perché i sentimenti che provava per Alex erano di tutt’altra natura prendeva sempre le sue difese, facendogli fare la figura dell’allocco.
«Sì, molte grazie Merlino», berciò, lasciandosi cadere pesantemente sulla sedia a capotavola.
«Ad ogni modo anche io questa sera ho un impegno», aggiunse lo stregone, come se fosse una cosa da niente.
Prima d’allora non li aveva mai informati dei suoi spostamenti: spariva per ore, senza rispondere né alle chiamate né ai messaggi, e ritornava agli orari più impensabili. Era già un passo avanti quindi che li avesse resi partecipi, ma Artù non riuscì proprio a trattenersi e domandò, stizzito: «E nemmeno tu hai intenzione di approfondire l’argomento?».
Merlino sogghignò, scuotendo il capo.
«Perfetto!», sbuffò e sollevò le mani per poi sbatterle contro le ginocchia. «Un’altra serata triste e solitaria!».
Alex, che per un po’ era rimasta in silenzio, col capo chino e le braccia incrociate al petto, si rianimò di colpo, sforzandosi persino di fare un sorriso, e gli strinse le braccia intorno al collo mentre si sedeva sulle sue ginocchia.
«Tu continui a sorprendermi, Artù. Davvero dietro questa impenetrabile corazza c’è un cuoricino tenero che ha bisogno di compagnia?». Gli pungolò il petto con un dito, fino a fargli comparire un debole sorriso sul volto.
«Porta un po’ di rispetto, ragazzina!», la sgridò poi e Alex si fermò subito, stranamente, gettando un’occhiata di sottecchi a Merlino, il quale la ricambiò per un attimo.
Artù capì subito di essere il terzo incomodo, colui che non sapeva e che non avrebbero di certo informato a proposito di quello che stava succedendo tra loro, ma non appena aprì bocca per perdere definitivamente le staffe l’infermiera si voltò verso di lui, gli occhi ad un centimetro dai suoi.
«Potresti andare dai bambini in ospedale! Loro apprezzerebbero la tua compagnia!».
«Pessima idea», intervenne Merlino. «Sono passato a salutarli, questa mattina, ma c’era aria di tempesta: Abby e Mark hanno litigato».
Alex sgranò gli occhi, incredula. «Di nuovo?! È già la quarta volta questa settimana!».
«A volte superare il confine tra amicizia e amore può essere disastroso».
Artù sentì il brivido di freddo che scosse Alex come se avesse attraversato la sua stessa spina dorsale. Le passò una mano in mezzo alle scapole, per calmarla e farle sentire il suo supporto, ma l’infermiera non calcolò né lui né Merlino e come se nulla fosse venne fuori con un’altra proposta per la sua serata.
«Potresti andare da Cathleen, allora».
Artù la fissò, stordito, fino a quando lei non gli schioccò le dita di fronte al naso.
«Da Cathleen?», domandò, ridacchiando nervosamente. «Dovrei vederla di persona, faccia a faccia, dopo…? No, non se ne parla».
Alex sospirò e si alzò dalle sue ginocchia, restituendogli una leggerezza che pesava più di quanto pensasse. Era così che si era sentito suo padre – abbandonato, incapace di tenersi stretto quella parte di lui – quando da ragazzino si rifiutava di stare sulle sue ginocchia più del tempo necessario al discorsetto del giorno, impaziente di correre per il castello ad infastidire ogni guardia e servitore e passarla sempre liscia?
«Che cosa è successo?», domandò un Merlino piuttosto incuriosito.
Mentre Artù rispondeva: «Non ti riguarda», Alex spiattellò tutto spiegando: «L’ha accidentalmente chiamata Ginevra».
Lo stregone spalancò la bocca, ma per una buona dozzina di secondi non riuscì a dare fiato alle parole che gli passavano per la mente. Quando finalmente ne fu in grado, balbettò: «Avete chiamato Cathleen… Ginevra?».
«Grazie tante, Alex», mugugnò Artù gettandole un’occhiata di rimprovero.
«Ma come è potuto succedere?!», riprese il mago, rinvigorito. «Non potrebbero essere due persone più diverse!».
«È successo e basta! Non devo dare spiegazioni né a te né a nessun altro, chiaro?».
«Io se fossi in lei la vorrei, una spiegazione», disse Alex, con le mani posate sui fianchi. «È così difficile per te aprirti, mostrare le tue debolezze, le tue cicatrici?».
Il re di Camelot si alzò in piedi, il volto rosso di rabbia, e tuonò: «Sì, lo è! Perché in tutta la mia vita non ho fatto altro che fidarmi, di vedere il buono nelle persone, mentre loro alla prima occasione non hanno fatto altro che pugnalarmi alle spalle! Solo due persone mi sono rimaste accanto in ogni circostanza; solo due persone conoscevano chi ero veramente e io mi fidavo ciecamente di loro: una mi è stata portata via, l’altra… ho rischiato di perderla per colpa di quegli stessi segreti che l’hanno fatta soffrire così tanto e per così tanto tempo».
Non ebbe bisogno di alzare lo sguardo per percepire quello di Merlino su di sé, intenso e caldo come il sole allo zenit. Non ebbe nemmeno bisogno di sentire le braccia di Merlino intorno a sé: le sue parole lo avevano stretto, facendolo sentire di nuovo tranquillo e sicuro sotto le ali dell’angelo custode che, inconsapevolmente, aveva sempre avuto.
«Non ricordate? Sono felice di essere vostro servo, fino alla morte. Vi ho aspettato per millequattrocento anni, non mi perderete proprio ora che vi ho ritrovato».
Alex tirò su col naso e solo allora Artù sollevò lo sguardo, per guardare la sua ultima discendente sull’orlo delle lacrime.
«Scusatemi. È solo che… amo le bromance», mormorò, asciugandosi gli angoli degli occhi. Accennò un sorriso, guardando prima uno e poi l’altro. «Voi andate avanti, io… vado a prendere una boccata d’aria».
L’infermiera uscì in veranda e si sedette sugli scalini di legno, traendo lunghi respiri profondi. Artù la guardò a lungo, attentamente, cercando di capire perché si ostinasse ad usare parole di cui lui ignorava il significato. Merlino doveva aver capito invece, visto il sorrisetto che non era riuscito a trattenere. Lo stesso Merlino che smise di lucidare la sua armatura e sollevò una sedia per mettersi proprio di fronte a lui, occhi negli occhi.
«Mi dispiace se vi ho dato l’impressione sbagliata. Avevo solo bisogno di un po’ di tempo per me stesso», disse il mago, pacatamente. «Se solo mi aveste detto che avevate bisogno di me…».
«Non ho sempre bisogno di te», borbottò lamentosamente, conscio di star dicendo una bugia. E anche Merlino l’aveva intuito, dall’occhiata eloquente che gli rivolse.
«Ricordate quando stavate per sposare la principessa Mithian?», gli chiese a bassa voce, incrociando le braccia sullo schienale della sedia. «Quando avete trovato l’anello che avevate dato a Ginevra e continuavate a chiedervi come potevate amare qualcuno che vi aveva tradito?».
Artù strinse i pugni sulle ginocchia, mordendosi l’interno della guancia al ricordo di tutta la sofferenza che entrambi avevano dovuto patire prima di ritrovarsi. Merlino sapeva che non gli faceva piacere pensare a quel periodo buio della sua vita, allora perché lo stava riportando a galla?
«Tutto questo che cosa c’entra?».
Merlino sorrise dolcemente. «Voi, il re di Camelot, avete chiesto a me che cosa fare. Vi ho detto di seguire il vostro cuore e penso che dovreste farlo anche questa volta, visto che alla fine avete preso la decisione giusta».
«Il mio cuore vorrebbe Ginevra qui al mio fianco», confessò, sentendo le lacrime affluirgli rapidamente agli occhi. Respirò a fondo, cercando di ricacciarle indietro, e ci riuscì.
«Suonerà tremendamente sciocco e banale, ma lei è a vostro fianco, Artù. Lo sarà sempre, non la dimenticherete mai», sussurrò. «Ma sono certo che non approverebbe se voi decideste di non lasciarvi più amare da nessuno».
Artù pensò a sua moglie, a tutto l’amore che provava per lei, così forte ed incancellabile che ancora lo poteva sentire bruciargli le vene. Se solo l’avesse avuta al suo fianco… tutto sarebbe stato infinitamente più semplice.
«Lei non si è più legata a nessuno», mormorò, gli occhi rivolti verso il pavimento.
«Sir Leon le è stato molto vicino, sapete».
Artù sobbalzò, raggelato da un brivido di gelosia. Ciò nonostante, non sollevò gli occhi in quelli di Merlino.
«Le ho fatto lo stesso discorso, ma lei aveva un regno e una recita da portare avanti, per il bene di Graal. E sapete cosa mi rispondeva, tutte le volte? Che vostro figlio era l’unico uomo che desiderava. Un Pendragon basta e avanza, diceva».
Merlino ridacchiò, scuotendo il capo come a voler scrollarsi di dosso quei ricordi. Quindi si alzò dalla sedia ed iniziò a raccogliere dal tavolo i pezzi della sua armatura, dandogli le spalle.
Artù sentì le parole che il cuore gli suggeriva premergli sulla lingua, ma esitò fino alla fine, combattuto tra ciò che sapeva fosse meglio per i suoi migliori amici e cosa gli diceva quell’assurda logica che lui per primo aveva infranto, sposando Ginevra.
«Merlino, aspetta».
Lo stregone si fermò sulla soglia della porta della cucina e si voltò, il mento appoggiato ai pezzi d’armatura perché restassero in equilibrio. Rimase in attesa per qualche secondo, poi sbuffò ed esclamò inacidito: «Fate con calma, tanto non le rimpiangerò affatto le mie braccia!».
Artù lo raggiunse alzando gli occhi al cielo e lo aiutò a posare a terra tutta l’armatura. Poi gli posò le mani sulle spalle e fissò gli occhi nei suoi, avvertendo una stretta al cuore.
«Anche tu devi lasciarti amare».
Il mago aggrottò le sopracciglia e poi abbassò lentamente lo sguardo sulle mani di Artù, iniziando a sottrarsi dalla sua stretta.
«Non da me, idiota!», gridò il re di Camelot, rosso di vergogna. Col braccio teso indicò Alex, ancora seduta in veranda, respirando profondamente col naso.
«Oh», mormorò Merlino, voltando subito il capo nella direzione opposta. «Non posso».
«So di essere stato un po’... come dire, altalenante nei vostri confronti in questo periodo: volevo il meglio per l’ultima Pendragon e avevo paura che il suo amore fosse influenzato in qualche modo dalla magia, ma ormai mi è chiaro che non è così. Tu sei quello che vuole e solo con te sarà veramente felice. E anche tu meriti un po’ di felicità, finalmente. Sei il mio…», deglutì, imbarazzato come non mai. «Tu sei il mio migliore amico e hai la mia benedizione».
Merlino lo fissò in silenzio per quella che al re di Camelot sembrò un’eternità. Alla fine abbozzò un sorriso desolato e scosse il capo, per poi chinarsi a raccogliere nuovamente l’armatura.
Prima di uscire definitivamente dalla cucina gli disse, senza voltarsi: «Scrivete a Cathleen. Sono certo che avrà capito e perdonato la vostra gaffe».
Artù lo guardò andare via con la tremenda voglia di lanciargli dietro qualcosa di appuntito e pesante. Perché non riconosceva mai i suoi sforzi per aiutarlo? Perché faceva sempre di testa sua? E, soprattutto, che cosa diamine voleva dire gaffe?

***

Alex si guardò allo specchio un’ultima volta e si alzò i capelli sulla nuca, guardandosi il profilo del viso da entrambe le angolazioni prima di decidere che li avrebbe tenuti legati.
Ricordava bene i gusti di Keith, ma non voleva dargli l’impressione di essersi fatta bella per lui. Tuttavia sapeva anche che per ciò che doveva chiedergli il suo aspetto avrebbe potuto aiutarla, per questo non riusciva a decidersi e i sensi di colpa avevano già iniziato a tormentarla.
Se Merlino avesse scoperto che aveva invitato Keith ad uscire… beh, non voleva nemmeno immaginare come avrebbe reagito. D’altro canto, il fatto che Merlino le avesse detto di dimenticarlo le dava una motivazione, anche se piuttosto fiacca. Ciò che le impediva di cancellare quel folle appuntamento però era ben altro: la possibilità di salvare l’ospedale dall’imminente fallimento e di conseguenza riavere il suo vecchio posto di lavoro ad oncologia.
Si prese due ciocche di capelli tra le mani e sbuffò guardandosi allo specchio con espressione esasperata. Quindi recuperò il cellulare da sotto i cuscini decorativi con cui il piccolo Artù si era messo a giocare sul letto e si fece un paio di selfie, uno con i capelli sciolti e uno con la coda di cavallo. Quindi li inviò ad Abigail, sperando che le rispondesse prima che Keith suonasse alla sua porta. Il fischiettio fortunatamente non si fece attendere troppo, ma Alex non ottenne il consiglio che voleva. Lo aveva immaginato.

Con chi devi uscire?

Si gettò di schiena sul letto, spaventando tanto il suo micio da farlo balzare sul comodino, col rischio che facesse cadere a terra l’abat-jour. Lo fissò senza nemmeno trovare la forza di rimproverarlo e decise di tagliare direttamente la testa al toro: chiamò Abigail.
La ragazzina le rispose dopo appena il primo squillo, ripetendole la domanda che le aveva posto per iscritto.
«Non è come sembra», iniziò a rispondere l’infermiera, ma Abigail non la lasciò concludere.
«Con Keith! Oh mio Dio, non posso crederci! Alex, è una pessima idea. Davvero, la peggiore che tu abbia mai avuto!».
«Abby… Abby, ascoltami! Non lo sto facendo per quel motivo, credimi. È più complicato di così».
«Ah sì? Spiegamelo».
«Non posso».
«Grandioso, anche tu adesso hai dei segreti da mantenere ad ogni costo».
Alex si portò due dita negli incavi degli occhi, accanto al setto nasale, facendo attenzione a non rovinarsi il trucco. Come poteva dirle che il reparto in cui era ricoverata rischiava di chiudere e che tutti i suoi amici, compreso Mark, sarebbero stati trasferiti in altri ospedali?
«Lo sai che Merlino ci aveva chiesto di tenere d’occhio Keith e di avvisarlo nel caso si fosse trovato nel nostro reparto più volte del necessario?», esclamò Abigail, quasi con rabbia. «Lui voleva proteggerti, impedire che quello lì ti facesse altro male, e tu invece che fai? Ti getti tra le sue braccia!».
«Ti ho già detto che non è così, ma anche se fosse spetta a me decidere, non credi? Io ho detto chiaro e tondo a Merlino che cosa provo per lui e lui mi ha sbattuto la porta in faccia, dicendomi di dimenticarlo. Che altro dovrei fare? Non posso costringerlo a stare con me!».
Alex sentì le lacrime bruciarle gli occhi e si sollevò di scatto, facendo rotolare il povero Artù, fino ad allora accoccolato sulle sue gambe. Mormorò un improperio e si sventolò una mano di fronte agli occhi, respirando profondamente per calmarsi.
Ora più che mai capiva le parole di sua madre a proposito delle anime gemelle: Merlino era la sua, lo sapeva come sapeva che il sole sarebbe sorto ad est e tramontato ad ovest, e come ogni anima gemella di degno rispetto era in grado di risultare la più bella delle benedizioni e la più atroce tra le maledizioni. Al momento, propendeva per la seconda. Il dolore che provava a causa sua era inimmaginabile e avrebbe dato di tutto per farlo smettere, ma niente di ciò che possedeva valeva tanto.
«Mi dispiace, Alex. Non lo sapevo», disse Abigail, ora pacatamente.
«Sono successe un po’ di cose, ultimamente. Ma non ho intenzione di tornare con Keith, questo te lo posso assicurare».
«E io sono sempre qui, se hai bisogno di sfogarti oppure…».
«Ti ringrazio, Abigail, ma… essere adulti vuol dire cavarsela da soli, a volte».
«Solo gli adulti irresponsabili si aggrappano a questa convinzione».
Alex abbozzò un sorriso e passò una mano sul pelo morbido del suo gatto. Lo stava trascurando molto da quando un altro Artù era entrato nella sua vita, non poteva continuare così.
Il campanello al piano di sotto la fece tornare alla realtà. «Devo andare Abby, ci vediamo domani».
«Legati».
«Cosa?».
La ragazzina ridacchiò. «I capelli. Dovresti tenerli legati».
«Oh. Okay, grazie. Buonanotte».
«‘Notte. Non fare nulla di stu–».
Alex terminò la comunicazione prima che Abby terminasse la frase e si legò frettolosamente i capelli, poi si precipitò giù per le scale per aprire la porta a Keith.

***

«È una pessima idea, Merlino».
Il mago scosse lievemente il capo ed allungò il braccio per aprirgli la portiera. «Andrà bene, vedrete».
«Non mi riferivo a Cathleen». Artù lo fissò intensamente e poi sospirò, esclamando: «Qualsiasi cosa tu abbia in mente di fare, sento che è una pessima idea».
La sua preoccupazione era tanto lusinghiera quanto fuori luogo, perciò rimase in silenzio mentre nel suo animo si agitava lo stesso pensiero, rafforzandosi ogni istante di più. Per quanto provasse a convincersi del contrario, il comportamento di Myra gli risultava ancora sospetto e ogni muscolo del suo corpo era teso come una corda di violino. Ma non poteva davvero basarsi soltanto su una propria sensazione; doveva darle l’opportunità di spiegarsi.
«Tutto questo vostro interessamento mi onora, Sire, ma vi assicuro che posso badare a me stesso».
Artù trattenne uno sbuffo frustrato e aprì la bocca per ribattere, quando Merlino gli scoccò un ampio sorriso che lo fece ammutolire, imbarazzato. Scese frettolosamente dall’auto e si sbatté la portiera alle spalle, senza nemmeno salutarlo.
Lo stregone rimase in attesa col motore acceso fino a quando il portone non scattò e il re di Camelot non scomparve all’interno dell’androne illuminato fiocamente. Poi alzò al massimo la radio, per assordare i propri pensieri, e partì a tutto gas.

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Capitolo 17
*** 17. A lesson in vegeance – Part II ***


Buonasera a tutti! :)
Beh, non so veramente cosa dire... Non mi aspettavo proprio ci fosse ancora tutto questo seguito, ma ne sono felicissima e commossa. Grazie, grazie di cuore.
Non dico altro, vi lascio immediatamente alla lettura!

Vostra,

_Pulse_


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17. A lesson in vegeance – Part II


«Scusami se ti ho fatto aspettare, c’era coda».
Alex inghiottì le arachidi che si era appena messa in bocca ed abbozzò un sorriso scrollando il capo. «Figurati, non c’è problema».
Keith si sedette nuovamente sullo sgabello ed incrociò le mani sotto il mento, fissandola. L’infermiera passò un dito sul bordo del proprio boccale di birra, poi iniziò ad arricciarsi tra le dita le punte dei capelli raccolti. Sapeva che avrebbe dovuto rompere quel silenzio imbarazzante e chiedergli finalmente ciò che voleva sapere a proposito dei problemi economici dell’ospedale e del galà di beneficienza a Windsor, ma il nervosismo le aveva completamente tolto la voce. Nervosismo forse dovuto a ciò che le aveva detto prima di andare al bagno: delle numerosissime cicatrici ed abrasioni, di ogni forma e dimensione, che il chirurgo che aveva operato Merlino aveva notato su ogni angolo del suo corpo; delle domande che le aveva rivolto in proposito; oppure ancora della curiosità che aveva iniziato a tormentarla non appena era entrata nel pub in cui era stata proprio con Merlino, Artù e Cathleen solo qualche settimana prima: qual era l’impegno che il mago aveva affermato di avere?
«Va tutto bene, Alex?», le chiese ad un tratto, con la fronte corrugata.
«Sì, certo. Perché me lo chiedi?».
«È da quando ho nominato Merlino che non apri bocca. Stai pensando a lui, per caso?».
Alex prese un lungo sorso di birra, cercando disperatamente una scusa. Appoggiò di nuovo il boccale di vetro sul tavolino ornato di graffi e scritte di vario genere, opera indelebile di qualche ragazzino ansioso di lasciare un segno nel mondo.
«Mi dispiace, non avrei dovuto parlare di lui adesso. È stato tremendamente stupido», disse ancora Keith.
Alex trasse un profondo respiro e lo interruppe: «Non importa. Non stavo pensando a lui, ma al vero motivo per cui ti ho chiesto di uscire questa sera».
«Oh». Il dottore si addossò allo schienale del proprio sgabello alto e rimase in silenzio per qualche istante, poi accennò una risata. «Dovevo immaginarlo».
«No, no. Keith, ascoltami. Quello che hai fatto è acqua passata ormai, veramente, ma non potremo più essere quello che eravamo. Mai più».
«Capisco».
Alex inarcò le sopracciglia, sorpresa. «Davvero?».
«Sì, davvero», rispose sospirando e massaggiandosi la fronte. Rivolgendole un sorriso amareggiato, aggiunse: «Ho fatto un vero casino, eh?».
L’infermiera ricambiò e posò la mano sulla sua. «Forse era destino».
«Forse. Allora, qual è il vero motivo per cui mi hai chiesto di uscire?».
«Ecco…». Alex si schiarì la gola, fissando il liquido ambrato nel boccale. «Ho saputo dei problemi economici dell’ospedale. Probabilmente ero l’unica a non esserne a conoscenza, sai?».
Keith scosse il capo, respirando a pieni polmoni. «Alex, io non posso parlarne, lo sai».
«Lo so, non ti ho chiesto di farlo. Voglio solo che tu sappia che non starò con le mani in mano in attesa che i bambini vengano trasferiti chissà dove e che il reparto venga smantellato. Ho intenzione di provarle tutte, ma come saprai da sola non ho alcuna speranza di farcela».
«E qui dovrei entrare in gioco io? È vero, mio padre fa parte del Consiglio d’Amministrazione dell’ospedale, ma non fa miracoli. Da quello che so le ha provate tutte pure lui perché non si arrivasse al punto di chiudere il reparto, ma…».
«Il galà di beneficienza al Castello di Windsor», esclamò Alex, fissando gli occhi nei suoi e piantando entrambe le mani sul tavolino.
«Che cosa? Sono anni che l’ospedale non riceve più fondi dalle associazioni che organizzano quell’evento».
«Perché? Non è per caso all’altezza degli ospedali oncologici di Londra, di Edimburgo, di Belfast? Decine di bambini sono ricoverati da noi, provengono da ogni parte del Galles perché è la struttura migliore della regione. E per le loro famiglie è già difficile così, immagina che cosa succederebbe se dovessero essere trasferiti fuori dal Galles».
Keith si strofinò il viso e si strinse nelle spalle, guardandola mortificato. «Non so che cosa dirti, Alex. Vorrei davvero poterti aiutare…».
«Fammi parlare con tuo padre o con qualcun altro del Consiglio. Ti prego, Keith, se non vuoi farlo per me fallo per i bambini. È tutto ciò di cui mi importa».
Il dottor Ellis la guardò intensamente, gli occhi di ghiaccio incredibilmente caldi ed apprensivi, ma quando aprì la bocca per darle la propria risposta slittarono verso la porta del pub. Alex fece per girarsi, ma il medico le afferrò entrambe le mani e scosse il capo, un tacito consiglio a non farlo. Alex ovviamente non gli diede peso, anzi… il suo gesto le fece venire ancora più voglia di voltarsi e quando lo fece desiderò ovviamente di non essere stata tanto stupida. Myra era stretta al braccio di un Merlino quasi inespressivo, ma la fitta che provò al cuore fu comunque tanto dolorosa che le mancò il fiato.
Ecco l’impegno di Merlino: l’agente Chandra, con i suoi lucenti capelli corvini sciolti sulla schiena, i pantacollant color denim stretti intorno alle lunghe ed affusolate gambe e, sotto al cappotto, la camicetta verde smeraldo che lasciava ben poco all’immaginazione.
Pensava di aver provato il dolore più grande della sua vita quando aveva perso sua madre, ma si sbagliava. Il dolore più grande lo provò quella sera, quando Merlino si guardò intorno ed incrociò i suoi occhi lucidi di lacrime e quelli di Keith, seduto di fronte a lei e con le mani ancora sui suoi polsi. Furono i suoi occhi a causarle quel dolore, o meglio tutto ciò che vi lesse: stupore, confusione, sofferenza, delusione e infine rabbia, una rabbia tanto cocente da sfigurargli il viso, in grado di fargli dimenticare totalmente Myra e di farlo uscire dal locale sbattendosi la porta alle spalle.

***

«Merlino!».
Lo stregone si fermò nel bel mezzo della strada e strinse forte i pugni lungo i fianchi, forte quasi quanto gli occhi. Il buio dietro alle palpebre non fece altro che peggiorare il dolore che sentiva in mezzo al petto e che si estendeva pian piano in tutto il corpo, come un veleno di cui non conosceva l’antidoto. Ascoltò i battiti sordi del suo cuore vecchio e stanco, fragile e dimentico di tutte le esperienze che aveva vissuto negli anni. Non imparava mai.
«Merlino, guardami».
Il mago aprì gli occhi, ma non si voltò. «Non lo farò. Non ti guarderò negli occhi mentre mi dici che ti dispiace, raccontandomi l’ennesima bugia».
«Se ti riferisci a ciò che ti avevo detto, che non sarei mai uscita con Keith, beh…».
«Risparmiami le spiegazioni, ti prego».
Stranamente Alex lo ascoltò e rimase in silenzio, un silenzio così profondo che Merlino trovò la forza di girarsi e rivolgerle uno sguardo quasi sprezzante.
«Sei proprio una degna Pendragon», esclamò, annuendo. «Non importa quanto si faccia per proteggervi, che cosa si è disposti a sacrificare… voi troverete sempre il modo per farvi del male con le vostre stesse mani».
«Stai zitto, Merlino!».
Il volto di Alex, sfigurato dalla rabbia e dall’urlo che aveva appena lanciato, fu tanto simile a quello di Artù da fargli annebbiare la vista. Perciò non ebbe il tempo necessario ad arretrare, quando l’infermiera lo raggiunse in mezzo alla strada per prendergli il volto tra le mani e baciarlo con forza sulla bocca.
Stordito dal suo gesto e dalla facilità con cui tutta la rabbia e la delusione svanirono, facendolo sentire di nuovo leggero come una piuma, in alto come lo era stato solo in uno dei rari viaggi su Kilgharrah, impiegò diversi secondi a racimolare tutta la razionalità rimastagli e a scostarsi.
«Credi che questo risolvi le cose?», le domandò a bassa voce, evitando di osservare troppo a lungo le sue labbra, così calde e morbide, di cui sentiva già la mancanza.
«Non c’è niente da risolvere, a quanto mi risulta. Non c’è nessun noi, giusto? Quindi sicuramente le peggiora. Sono proprio una degna Pendragon, hai ragione».
Il mago si portò due dita alle tempie martellanti. «Non capisco…».
«L’unica cosa da capire qui è che io…», si interruppe di colpo, come se le parole che avrebbe voluto dire le fossero andate di traverso. «Che tu mi creda o no, sono uscita con lui questa sera perché ho bisogno del suo aiuto per salvare l’ospedale. Tu, invece?».
Merlino incrociò i suoi occhi accusatori, venati di gelosia, e davvero non poté credere di star avendo quel tipo di conversazione proprio con Alex, la ragazza che avrebbe dovuto essere irraggiungibile per almeno un milione di motivi.
«Myra mi ha chiesto di uscire», iniziò a spiegare, ma si bloccò improvvisamente quando gli ritornò alla mente il pensiero che aveva avuto quella mattina: uscire con Myra sarebbe stata sicuramente una distrazione per rendere Alex un terreno sempre più off-limits, ma non solo; Myra sarebbe stata anche l’espediente perfetto perché Alex lo dimenticasse e capisse che tra loro non avrebbe mai potuto funzionare. Si trattava di ingannarla e di mentirle spudoratamente, ma l’aveva già fatto prima per il bene di un Pendragon e sapeva che poteva conviverci.
«Myra mi ha chiesto di uscire e io ho accettato perché è da quando l’ho rivista che non faccio che ripensare a lei», riprese, guardandola negli occhi e vedendovi sparire ogni traccia di luminosità. «Non l’ho mai dimenticata. Inoltre lei non sa il mio segreto e, cosa più importante, non è di sangue reale come te».
Alex non interruppe mai il contatto visivo e per Merlino fu una tortura vera e propria, specialmente quando una lacrima rotolò sulla pelle chiara del suo viso e dovette costringersi a non alzare la mano per spazzarla via.
«Sono tutte cazzate», mormorò dopo infiniti attimi di silenzio. «Ti stai inventando tutto, tu…».
«Non è così», rispose e cercò di essere il più convincente possibile, nonostante il dolore si fosse trasformato in agonia. «Ma se così fosse, allora sai cosa dovresti fare. Avevi giurato che se ti avessi mentito non saresti più riuscita a starmi vicino, dico bene?».
Non lo vide nemmeno arrivare, lo schiaffo; sentì soltanto il bruciore intenso lasciato dalle sue cinque dita sulla guancia sinistra. E non sollevò più gli occhi, nemmeno quando Alex si strinse le braccia al petto e a capo chino, trattenendo le lacrime per una questione di orgoglio, rientrò nel pub. Fu costretto a farlo, invece, quando un’auto gli fece gli abbaglianti e l’assordò con il clacson, intimandogli di levarsi di mezzo. Per un attimo Merlino pensò di farsi tirare sotto, per poi convenire che farsi fuori non avrebbe aiutato. Quindi raggiunse il marciapiede opposto a quello del pub ed iniziò ad incamminarsi verso l’auto, parcheggiata dietro l’angolo.
«Hai intenzione di lasciarmi qui?», urlò Myra alle sue spalle, raggiungendolo più in fretta possibile, con i tacchi e la gamba.
Merlino sentì un’ondata di rabbia travolgerlo non appena fu al suo fianco e si sottrasse immediatamente dalla sua stretta quando provò a prendergli una mano.
«Sei arrabbiato a causa di Alex e Keith?», gli chiese allora, cercando di catturare il suo sguardo.
Il mago strinse i denti e tirò fuori dalla tasca del giubbino le chiavi dell’auto, ma Myra non si arrese.
Entrando nell’abitacolo, esclamò: «Forse quello che ho sempre pensato su di lei non era così sbagliato, dopotutto. Come può piacerti una sgualdrina del genere?».
Il sangue gli andò al cervello così in fretta che non riuscì nemmeno a dire addio all’ultimo briciolo di razionalità che era riuscito a conservare sino a quel momento. Scattò verso l’agente Chandra, bloccandola contro il finestrino freddo con un avambraccio premuto contro la sua gola, tanto forte da trasformare il suo respiro in un rantolo.
«Non sono io quella da incolpare per le decisioni della tua Alex», sibilò con un ghigno ad incurvarle le labbra.
Merlino dovette ammettere che era vero, e dovette ammettere anche che quella era anche la sola ed unica cosa vera che gli avesse propinato da quando era venuta a trovarlo all’ospedale. Tutti i suoi sospetti e i suoi brutti presentimenti erano sempre stati fondati.
«Potevamo andare ovunque, questa sera, ma tu hai scelto di venire qui. Una strana coincidenza che ci fossero anche Alex e Keith, non trovi?».
Il ghigno di Myra si allargò mentre scrollava le spalle. «Non troppo. È l’unico pub del paese, sai?».
«Tu volevi che li vedessi, volevi che…», si interruppe, colto alla sprovvista da un’illuminazione: come faceva Myra a sapere che Keith e Alex sarebbero usciti quella sera e che sarebbero andati al pub? C’era un’unica risposta logica: aveva un complice.
«Tu e Keith avete organizzato tutto, eravate d’accordo. Perché, Myra? Qual era il vostro scopo?».
«Proprio non ci arrivi, eh?». Myra scoppiò in una risata intrisa di rancore e lasciò che le lacrime iniziassero a scorrerle sul viso, rovinandole il trucco. «Volevo farvi provare un po’ del dolore che ho provato io in questi mesi, volevo che quella puttanella ti odiasse tanto quanto ti odio io».
«Kajri…», mormorò dolcemente Merlino, allontanando il braccio dalla sua gola per provare a scostarle una ciocca di capelli dalla guancia.
«Ti ho già detto di non chiamarmi in quel modo!», gridò e con un gesto rapido tirò fuori dalla borsa la sua pistola d’ordinanza, puntandogliela in mezzo agli occhi. «Kajri è morta! È morta quando tu l’hai abbandonata!».
«E mi dispiace, non avrei mai dovuto farlo. Ora però abbassa la pistola, hai bisogno di aiuto. Lasciati aiutare, Myra».
«Io non ho bisogno di aiuto! Avevo bisogno di te e tu non c’eri!», continuò a gridare, singhiozzando tanto forte da far tremare persino la pistola che teneva tra le mani.
«Quindi pensi davvero che la soluzione a tutto sia spararmi?», le domandò piano, quasi con dolcezza. «Avanti, fallo. Non ho paura».
Myra sgranò gli occhi gonfi di pianto e lentamente tolse la sicura, mentre Merlino ricambiava il suo sguardo con un debole sorriso sulle labbra, un sorriso quasi sereno.
«Avrai la tua vendetta. È questo che cerchi, vero? Vendetta. La otterrai, se premerai il grilletto. Ma non starai meglio, questo no. Te lo posso assicurare».
Myra si umettò le labbra e tirò su col naso, stringendo più saldamente il calcio della pistola. «Come… Come puoi dire una cosa del genere?».
«Ci sono tante cose che non sai di me, cose che non saprai mai, che non saprà mai nessuno. Prima parlavi di odio e di dolore… Tu non sai nemmeno che cosa sia, il vero dolore. Non sai cosa vuol dire odiare se stessi e convivere coi sensi di colpa più atroci, ricordare tutti i nomi e i volti delle persone scomparse, sentirsi gli unici al mondo…».
«Che cosa?», mormorò, accigliata.
Merlino sollevò le mani con cautela e le posò su quelle di Myra, ancora strette intorno alla pistola. Erano gelate e sudate, contratte come se fossero disperatamente aggrappate alla sua stessa vita.
«Mi dispiace, Kajri», sussurrò ancora il mago, avvicinando il viso al suo mentre le faceva abbassare la pistola.
L’agente Chandra provò ad arretrare ma, già premuta contro la portiera del passeggero, non poté andare da nessuna parte. Merlino le sfiorò i capelli con le labbra, in un bacio appena accennato, poi abbatté una delle tante barriere a contenimento della magia e le sussurrò all’orecchio una formula magica che la fece cadere immediatamente in un sonno profondo.
Rimase per qualche minuto appoggiato a lei, col viso nascosto nell’incavo del suo collo, a riprendere fiato e a sopportare il dolore indicibile che la magia continuava a provocargli, in un modo o nell’altro. Quindi si sollevò e le allacciò la cintura, girò le chiavi nel cruscotto e sgommò lungo la strada deserta.

***

Quando alla fine aveva trovato il coraggio e aveva chiamato Cathleen, aveva percepito dell’imbarazzo anche in lei e questo gli aveva permesso di non fare la figura del completo idiota chiedendole se quella sera poteva passare da lei.
Il paramedico, nonostante avesse deciso l’orario, gli aveva aperto la porta avvolta in un accappatoio di morbida spugna viola e con i capelli bagnati, appiccicati come rivoli di sangue scuro al suo collo e all’incavo del suo pallido seno. Si era scusata, mortificata, spiegandogli che aveva perso la cognizione del tempo, e l’aveva invitato ad accomodarsi e a fare come se fosse a casa sua mentre lei finiva di prepararsi.
Artù aveva percorso nuovamente con lo sguardo la sua collezione di fate, esseri magici e draghi, dopodiché si era fermato accanto ad una libreria su cui erano impilati libri di vario genere e decine di DVD. Ne aveva letto i titoli, realizzando che anche Merlino ne possedeva qualcuno, fino a quando non era stato distratto dalla figura di Cathleen: era comparsa quasi all’improvviso nel rettangolo della porta aperta della sua stanza e si era tolta l’accappatoio, restando in sola biancheria intima di fronte all’armadio in cui stava cercando dei vestiti da indossare.
Se i suoi capelli rossi, ancora bagnati ma legati in un alto chignon, erano in netto contrasto sulla sua pelle diafana, la sua biancheria nera era come una grande macchia d’inchiostro su un foglio ancora immacolato, tanto fastidiosa che Artù avrebbe dato qualsiasi cosa per levarla di mezzo. Quando si rese conto di ciò che quel pensiero comportava scostò subito lo sguardo, il volto ormai in fiamme, e si sedette su un angolo del divano.
Cinque minuti dopo il paramedico si mostrò a lui con indosso una tuta di almeno due taglie più grande, il viso struccato e quell’acconciatura semplice e a suo parere molto regale. Lo guardò con un sorriso incerto sulla bocca e le braccia strette al petto come se avesse freddo.
«Allora…», esordì, guardando a tratti il suo viso e a tratti le sue spesse calze arancioni. «A che cosa devo la tua visita?».
Artù scrollò le spalle, posando gli occhi sullo schermo nero della televisione. «Merlino e Alex sono usciti e io non volevo stare a casa da solo».
«Nel senso che Merlino e Alex sono usciti insieme?». La sua espressione stupita mutò in una entusiasta in una frazione di secondo, sedendosi al suo fianco sul divano.
Artù la osservò senza riuscire a levarsi dalla testa il pensiero che poco prima gli aveva attraversato la mente – quello di volerla spogliare e di percorrere con le mani e le labbra ogni centimetro della sua pelle lattea. Dovette scuotere il capo e deglutire con decisione prima di poter rispondere: «Sì. Cioè, no. Non credo. Se fosse così Alex me l’avrebbe di certo detto, ne sono sicuro».
«Uhm, capisco», mormorò meditabonda, sfiorandosi il labbro inferiore con il pollice.
Il re di Camelot fu come ipnotizzato da quel gesto e la sua mente gli ricordò la morbidezza e il sapore di quelle labbra, tanto intensamente che se non avesse trovato la forza per controllarsi si sarebbe sporto su di lei per assaggiarle ancora e non lasciarle più.
«Questa storia non mi piace nemmeno un po’».
«Nemmeno a me», rispose automaticamente Artù, rendendosene conto solo qualche secondo dopo, quando Cathleen lo fissò con un sopracciglio inarcato. «Cosa hai detto, scusa?».
Il paramedico scosse il capo e ridacchiò, alzandosi. «Hai già cenato?».
«Sì, ma se vuoi ti faccio compagnia».
«No, tranquillo, anche io ho già mangiato. Perciò… che cosa facciamo?».
Artù arrossì e, nonostante fosse a secco di saliva già da un po’, deglutì ancora. Per fortuna Cathleen si rispose da sola, sorridendo.
«Ti va di vedere un film?».
«Sì, mi piacerebbe».
«Perfetto, quale scegliamo?».
Artù la raggiunse accanto alla libreria e la guardò scorrere le custodie di plastica con un dito, senza nemmeno ascoltare i brevi riassunti che gli faceva, film dopo film. Ormai gli era perfettamente chiaro che non sarebbe riuscito pensare ad altro che a lei e alla tempesta di reazioni chimiche che gli scatenava.
«Scegli quello che ti piace di più», la interruppe.
Cathleen lo fissò con un grande punto interrogativo sul volto. «Ma…».
«Mi fido di te», mormorò e le sorrise dolcemente, tornando a sedersi sul divano.
Il paramedico sospirò e senza aggiungere altro scelse un DVD.

***

«Siamo quasi arrivati, un piccolo sforzo».
Keith scortò Alex fino alla camera da letto, con un braccio avvolto intorno alla sua schiena, e quando fu sul punto di accendere la luce la ragazza, in un attimo di estrema lucidità, gli prese la mano e la portò insieme all’altra sulla sua schiena, come se avesse voluto che l’abbracciasse.
Era la sua occasione, l’occasione che aveva sperato di avere da quando, per puro caso, aveva sentito parlare di Myra ed era riuscito a coinvolgerla nel suo piano. Quindi perché non l’aveva ancora colta? Era così semplice…
«Alex, non vedo niente», disse cercando di leggere nei suoi occhi – grandi, lucidi ed arrossati dall’alcool – tutto ciò che le stava passando per la mente.
«Vuoi dirmi che non ti ricordi come arrivare al mio letto?».
Arretrò di qualche passo, sempre barcollando, e Keith fu costretto ad assecondarla perché non cadesse. Alla fine l’infermiera sbatté contro il bordo del materasso e si lasciò cadere all’indietro, trascinando il medico con sé.
«Eccoci», esclamò con euforia, ridacchiando.
«Bene. Puoi lasciarmi andare, adesso».
Alex scosse il capo con un sorriso malizioso sulla bocca e faticosamente si sollevò fino a trovarsi ad un soffio dalle sue labbra. Gli accarezzò il naso col proprio, esitando e lasciandosi prendere da quel gioco perverso, poi gli diede un fuggevole bacio, un altro e un altro ancora. Piegò una gamba e gliela strofinò contro il fianco mentre gli prendeva una mano e gliela faceva posare contro il suo seno, inarcando appena la schiena.
«Sei ubriaca», mormorò Keith quando riuscì a sottrarsi dalla sua bocca famelica.
«E quindi? Non è la prima volta che succede. Mi ricordo che una volta mi hai detto che preferivi fare sesso con me quando ero ubriaca perché ero più… come avevi detto? Ero più disinibita. Sì, di-si-ni-bi-ta».
Keith la guardò ancora negli occhi, quegli occhi annebbiati dall’alcool e languidi, eccitati ed assenti. La migliore occasione della sua vita.
«All’epoca stavamo insieme, Alex. Adesso…».
«Sono consenziente, Keith!», gridò frustrata, interrompendolo. Nel suo tono c’era rabbia, impazienza e tanto, tanto dolore. «Che cosa vuoi, un permesso scritto per scoparmi?». Provò a spingerlo via, ma tutti i chupito che aveva ordinato senza che Keith riuscisse a farla smettere le avevano tolto le forze.  
«Pensavo che lo volessi», iniziò a dire in tono lagnoso. «Pensavo davvero che…».
«E io lo voglio, Alex. Io ti voglio più di qualsiasi altra cosa».
«Che cosa stai aspettando allora?».
Il medico si diede per la decima volta dello stupido e sorrise, chinandosi di nuovo su di lei. Ad un soffio dalle sue labbra mormorò: «Niente».
Alex lo afferrò per la nuca e lo baciò con prepotenza, lasciandosi spogliare e spogliandolo a sua volta. Il bruciore allo stomaco causato dall’alcool si mischiò a quello del piacere e desiderosa com’era di cancellarsi dalla testa il ricordo delle parole che le aveva detto Merlino, di fargliela pagare sbattendogli in faccia che era andata a letto con il suo ex, lo pregò di penetrarla subito, lasciando perdere i preliminari.
Dall’altro canto Keith, che era riuscito a mettere da parte la sgradevole sensazione di rimorso che gli aveva fatto sprecare così tanto tempo, si bloccò nuovamente udendo quella richiesta. Gli sembrò quasi che non fosse Alex a parlare e si rese conto che non era lei, non era l’Alex che amava quella che aveva di fronte. Quell’Alex era persa, lui l’aveva persa per sempre, e non sarebbe più tornata indietro. Era stato stupido illudersi che avrebbe potuto riaverla, la cosa più stupida che avesse mai pensato.
«Non posso farlo», disse rotolando dall’altra parte del letto, sulle lenzuola già stropicciate che profumavano della sua Alex. Quella che aveva di fianco sapeva di alcool e sale, il sapore delle lacrime che senza che se ne rendesse conto avevano iniziato a scivolarle sul viso.
«Che cosa stai dicendo? Certo che puoi», rispose l’infermiera, biascicando.
Si sollevò e provò a salire su di lui, ma rischiò soltanto di cadere giù dal letto; se Keith non l’avesse afferrata per le braccia si sarebbe di sicuro fatta male, ma quel dolore non sarebbe stato nulla in confronto a quello che già provava in mezzo al petto.
«Mi dispiace, Alex», sussurrò mestamente, accarezzandole i capelli intorno al viso. «Mi dispiace, non avrei mai dovuto… La verità è che era tutta una messinscena, io e Myra ci siamo messi d’accordo perché tu e Merlino vi allontanaste. Sono stato io a proporti per il trasferimento al pronto soccorso, sono stato io a dire a Myra che avrebbe potuto riavere Merlino tutto per sé se io avessi riavuto te. Pensavo di poterlo fare, che avevo tutto il diritto di farlo perché pensavo che ci fosse ancora speranza per noi due. Ma non è così, l’ho capito finalmente. Tu ami Merlino e ora stai facendo la stessa cosa che abbiamo cercato di fare io e Myra: vendicarci sulle persone che ci avevano portato via ciò che amavamo di più. Ma non è la cosa giusta da fare; fare sesso con me non lo è, te lo garantisco».
Keith serrò le labbra e continuò a guardarla negli occhi e ad accarezzarle il viso e i capelli mentre le lacrime scendevano copiose dai suoi occhi. E capì di aver fatto finalmente la cosa giusta.
«Dì qualcosa, Alex. Qualsiasi cosa».
L’infermiera si strinse nelle spalle, poi posò la fronte nell’incavo del suo collo ed iniziò a singhiozzare forte, tremando tra le sue braccia.
«Se potessi tornare indietro… Ho fatto tanti sbagli, Alex; ti ho fatto soffrire così tanto e non voglio più ripetermi. Ti prometto che sistemerò tutto, ci proverò. Hai capito?».
Alex sollevò la testa per annuire e subito dopo provò ad alzarsi, reggendosi a malapena in piedi da sola. Keith la sostenne e l’accompagnò quasi di corsa fino al bagno, dove le tenne la fronte mentre vomitava.

***

All’improvviso l’immagine si bloccò e Artù schizzò seduto sul divano, indicando a bocca aperta il televisore e posando poi gli occhi su Cathleen, sorridente e felice al suo fianco, come se stesse assistendo allo spettacolo più bello del mondo.
«Fallo ripartire!», gridò Artù con un insolito tono di voce stridulo, ma imperioso.
«Tra un attimo. Li vuoi i popcorn?».
Il re di Camelot cercò di ricordare se avesse mai visto o sentito nominare “i popcorn”, ma la sua mente era talmente scossa da quell’interruzione inaspettata proprio nel momento più teso del film che rispose sgarbatamente: «L’unica cosa che voglio è che tu faccia ripartire il film, adesso».
«Vedo che sei un tipo che vuole sempre tutto e subito, eh?».
Cathleen pronunciò quella frase in tono quasi provocante, sporgendosi su di lui fino a trovarsi ad un palmo dal suo viso. Artù iniziò a sentire il suo profumo e i battiti del suo cuore aumentarono a dismisura, mentre il suo volto diventava paonazzo.
«Non te l’ha mai insegnato nessuno che per le cose belle vale la pena aspettare?», concluse a bassa voce e si alzò, diretta verso la cucina.
Artù non la perse di vista nemmeno per un momento e si strinse forte le mani sulle gambe, cercando disperatamente di riprendere il controllo. Forse poteva sfruttare quel momento, forse poteva trovare il coraggio di fare ciò che andava fatto: chiederle scusa per averla chiamata come la sua compianta moglie.
Si alzò dal divano e la raggiunse dietro la libreria con i draghi. La osservò mentre prendeva un sacchetto da uno degli armadietti, leggeva le istruzioni sul retro e poi regolava il forno a microonde.
«Se proprio non vuoi aspettarmi il telecomando è sul tavolino», esclamò Cathleen, dandogli le spalle per osservare il sacchetto che come per magia iniziava a gonfiarsi.
«No, devo dirti una cosa».
«Che cosa?».
Artù rimase in silenzio tanto a lungo che Cathleen si voltò e lo fissò con un misto di preoccupazione e trepidazione negli occhi.
«Sei per caso preoccupato per la TAC di domani? Andrà bene, te lo prometto. Starò tutto il tempo lì nei paraggi, se vorrai».
Il re di Camelot corrugò la fronte, rispondendo: «Mi farebbe davvero piacere se tu ci fossi, ma non è di questo che si tratta. Io volevo scusarmi».
«Scusarti?».
Gli improvvisi scoppiettii provenienti dal sacchetto dentro il forno furono la distrazione perfetta per Artù, imbarazzato e a disagio come poche volte in vita sua.
«È normale che faccia così?».
Cathleen annuì rapidamente. «Scusarti per che cosa?».
«Beh, per… per averti chiamata “Ginevra”, qualche tempo fa».
«Oh. Non c’è problema, davvero».
«Tu non… non vuoi sapere chi era?», le domandò, davvero sbigottito. Alex aveva detto che se fosse stata in Cathleen avrebbe voluto delle spiegazioni, allora perché non faceva domande?
Il paramedico fece un passo verso di lui, ignorando gli ormai frenetici pop provenienti dal forno a microonde, e sorridendo dolcemente disse: «Ginevra era la tua anima gemella, era la persona che amavi e che ti è stata portata via. In qualche modo sono riuscita a fartela tornare in mente e ne sono felice, perché doveva essere una ragazza davvero straordinaria se era degna di stare al tuo fianco. Sono orgogliosa di avere qualcosa che aveva anche lei».
Artù abbassò gli occhi lucidi e si morse un sorriso, prima di annuire e rispondere: «Sì, hai ragione. Gwen era davvero straordinaria».
Cathleen annuì a sua volta e al din del microonde si voltò.
Stava tirando fuori il sacchetto di popcorn, tentando di non ustionarsi le dita, quando sentì una mano di Artù sulla base del collo. Chiuse gli occhi a quella carezza e si appoggiò a lui, chino sul suo orecchio per sussurrarle: «E anche tu lo sei».
La fece voltare con delicatezza e le prese il mento tra due dita, osservando i suoi occhi sgranati e le sue labbra rosse appena dischiuse.
«Tu hai il mio stesso sguardo, Cathleen; lo sguardo di chi ha perso tutto».
Il paramedico si passò la lingua tra le labbra, scostando la sua mano e dandogli di nuovo le spalle per prendere finalmente il pacchetto di popcorn tra le mani. Doveva scottare da morire, ma Cathleen non fece una piega, anzi lo strinse più del necessario.
Versò i popcorn in una ciotola di plastica e quando incrociò di nuovo il suo sguardo gli rivolse un largo sorriso, come se nulla fosse accaduto, esclamando: «Facciamo ripartire questo film, forza».
Artù lasciò ciondolare le braccia lungo i fianchi e sospirò, seguendola in silenzio.

***

Merlino trovò con facilità le chiavi dell’appartamento di Myra nella sua borsa e dopo averle tolto cappotto e scarpe la stese sul letto, rimboccandole bene le coperte.
Rimase seduto al suo fianco, al buio e con le mani intrecciate davanti alla bocca come se stesse pregando anziché riflettendo, per quasi un’ora. Poi perlustrò ogni centimetro della casa e nel bagno trovò ciò che aveva sperato di trovare: antidolorifici. Perfettamente normale che ci fossero – dopotutto l’incidente le aveva causato danni permanenti alla gamba – ma gli bastò contare i barattoli e rispolverare le sue conoscenze di medicina per capire che Myra aveva qualche problema con le dosi.
Fece qualche foto col cellulare e sistemò tutto esattamente come l’aveva trovato. Poi uscì per attuare la seconda parte del suo piano. Guidò lentamente fino in aperta campagna, fermò l’auto e senza spegnere il motore né le luci, scese. Respirò profondamente, guardando il cielo scuro sopra di sé, ed accarezzò il cofano della propria piccola, mortificato, mentre faceva il giro per sedersi sul lato del passeggero. Si mise nella stessa posizione in cui aveva bloccato Myra appena qualche ora prima e con la sua pistola stretta tra le mani, protette dai guanti, puntò verso il finestrino e sparò. Il rumore del vetro infranto fu molto simile a quello del suo cuore, ma si disse che non aveva avuto scelta.
Continuò a mormorare «Mi dispiace, mi dispiace» per un bel po’, durante il tragitto che lo riportò a casa di Myra.
In cucina trovò un blocchetto per appunti, una penna e dei sacchetti gelo. Dispose tutto sul tavolo, inclusa la pistola dell’agente Chandra e i guanti che aveva usato per sparare. Dalla tasca del giubbotto tirò fuori il bossolo che aveva raccolto sulla “scena del crimine” e lo infilò in uno dei sacchetti, poi si sedette ed iniziò a scrivere la lettera per Myra.
“Ho visto le tue medicine. Un poliziotto non dovrebbe essere in servizio se abusa di antidolorifici, è come se facesse uso di stupefacenti.”
“Ho raccolto un campione di polvere da sparo dalle tue mani e ho trovato per strada il bossolo della pallottola che era diretta alla mia testa. Hai tentato di uccidermi, Myra.”
“Nessuno sospetta niente, ho fatto qualche domanda. È un paese così tranquillo, questo… Avranno sicuramente pensato ad un petardo. Ma io so, Myra, e giuro che se ti rivedrò ancora ti rovinerò la vita. È la tua ultima chance, l’ultima chance che hai per sistemare le cose. Lasciati aiutare, Kajri.”
Apposta la propria firma alla fine della lettera, Merlino si alzò e tornò in camera da letto, dove trovò Myra come l’aveva lasciata. Tornò a sedersi al suo fianco e si preparò per la parte più difficile, quella di modificare i suoi ricordi. Pensò intensamente alla scena che doveva imprimerle nella mente: la pistola nelle sue mani, la paura e l’adrenalina che scorrevano nelle sue vene, il dito che si abbassava sul grilletto, la pallottola che Merlino schivava quasi per caso, abbassandosi con le mani sulla testa; il rumore del finestrino infranto, il colpo che Merlino fu costretto a darle perché mollasse la presa sulla pistola e il braccio che le strinse intorno alla gola, togliendole il fiato, la voce e alla fine i sensi. Poi più il nulla.
Respirò profondamente un’ultima volta, poi posò una mano sulla sua fronte e i suoi occhi dorati brillarono nel buio della stanza.

***

Cathleen infilò la mano nella ciotola dei popcorn, ma dentro vi trovò solo dei semi di mais inesplosi. Voltò la testa verso Artù e lo trovò con le guance piene e lo sguardo fisso sullo schermo del televisore, nonostante ormai scorressero i titoli di coda.
«Menomale che non li volevi», borbottò per poi scoppiare a ridere, facendo scontrare la sua spalla sinistra con la sua destra.
Il re di Camelot batté rapidamente le ciglia, come se fosse appena uscito da uno stato di ipnosi, e non poté fare a meno di venir contagiato dalla sua risata. Poi guardò l’ora sull’orologio appeso alla parete e il cuore gli balzò in gola rendendosi conto di quanto fosse tardi e dello strano silenzio di Merlino e di Alex. Non gli avevano mandato né messaggi né avevano provato a chiamarlo: che fossero ancora ai loro appuntamenti? Aveva un brutto, bruttissimo presentimento.
«Ehi, va tutto bene?».
Artù guardò con la coda dell’occhio la mano che Cathleen gli aveva posato sulla spalla e dovette sforzarsi per non raggiungerla con la propria.
«Sono preoccupato per Merlino ed Alex».
Il paramedico annuì, massaggiandogli la spalla. «Quei due sono fatti l’uno per l’altra… Spero davvero che non abbiano fatto qualche stupidaggine».
«Che cosa vuoi dire?». La fissò con la fronte corrugata, sedendosi meglio al suo fianco. «Cathleen, sai qualcosa che io non so?».
«Ma no, no. Sono sicura che si risolverà tutto».
Gli rivolse un tenue sorriso e gli tolse la ciotola dei popcorn dalle mani, quindi si alzò dal divano. Una volta in cucina, gridò: «E per quanto mi riguarda puoi stare qui tutto il tempo che vuoi».
«Grazie, ma non penso che sia una buona idea».
Cathleen rimase in silenzio più tempo del previsto e Artù non aprì più bocca. Aspettò che chiudesse l’acqua del rubinetto e si ripresentasse in salotto con uno straccio tra le mani.
«In che senso?».
Il re di Camelot scrollò le spalle. «Non sono bravo in queste cose, ma… temo che più tempo passo con te, più il rischio che mi affezioni diventi alto. E né io né tu vogliamo che accada, giusto? Non siamo pronti».
«Già, è vero», rispose balbettando.
Lo fissò per istanti che sembrarono eterni, mentre la colonna sonora dei titoli di coda riempiva il silenzio tra loro. Quando cedette, si portò il dorso di una mano sulla fronte e l’altra sul fianco, affranta.
«Tu almeno riesci a pronunciare il suo nome, tu riesci a ricordarla e a sorridere… Io non ce la faccio. Artù, non ce la faccio». Si coprì il viso con entrambe le mani per celare le lacrime e il biondo si alzò per cingerla delicatamente tra le braccia.
«È tutto okay», sussurrò respirando il profumo dei suoi capelli. «È normale che sia così».
«Da quanto tempo è morta Gwen?».
Quella domanda a bruciapelo gli fece chiudere gli occhi e tremare il cuore di dolore. Con la bocca improvvisamente impastata, rispose: «Una vita fa, ma fa male come se fosse accaduto ieri».
«Scusami, non dovevo chiedertelo».
«Ehi, non c’è problema». Le accarezzò una guancia, cancellando il percorso di una lacrima. «Un amico mi diceva sempre che il dolore non bisogna tenerlo dentro, va affrontato. Ed è ancora meglio se non lo si fa da soli. Quando vorrai farlo, quando sarai pronta… io ci sarò, te lo prometto».
Cathleen annuì con un cenno del capo, mostrando il suo sorriso migliore, poi sciolse l’abbraccio per tornare in cucina a lavare i piatti lasciati a mollo nel lavello. Artù tornò a sedersi sul divano e controllò ancora una volta il cellulare. Si sdraiò con la testa su uno dei braccioli e si girò nel dito uno dei suoi anelli fino a quando i suoi occhi non si chiusero, vinti dal sonno.
Fu così che mezz’ora dopo lo trovò Cathleen: addormentato. Decise di non svegliarlo e gli stese addosso una coperta, rimanendo ad osservarlo dolcemente per una decina di minuti prima di posargli un bacio sulla fronte, tra i capelli biondi, e di andare prepararsi a sua volta per la notte.
Si stava giusto lavando i denti quando ricevette un SMS. A quell’ora lo avrebbe di certo ignorato se non avesse avuto il cellulare accanto e non avesse scorto sul display il nome di Merlino.

Prenditi cura di Artù.


Questa è bella, pensò. Ma gettando un’occhiata verso il salotto si disse che sì, per Artù avrebbe fatto qualsiasi cosa Merlino le avrebbe chiesto, anche la più impensabile.

***

Merlino aprì lentamente gli occhi, abbagliato dal debole raggio di sole che da chissà dove penetrava le profondità della terra e si rifletteva su quasi tutti i cristalli che lo circondavano.
La testa gli faceva un male terribile, come se avesse un nido di vespe arrabbiate al posto del cervello, e i suoi vestiti erano sporchi e puzzolenti. Si sollevò lentamente, con una mano sulla fronte e l’altra all’altezza dello stomaco, e la sua immagine riflessa in uno dei cristalli lo fece sobbalzare: gli occhi stanchi ed incavati che mostravano la sua vera età; la pelle rugosa, chiazzata qua e là da macchie e talmente sottile da mostrare tutti gli intricati reticoli di vasi sanguigni sotto di essa; la barba lunga e i capelli bianchi spettinati, presenti in maniera sempre meno uniforme sul suo cranio.
Scostò lo sguardo e si massaggiò il viso, cercando di dimenticare l’immagine di quel vecchio, ciò che era veramente sotto il suo attuale aspetto, giovane e ancora piacevole. Rinnegare se stesso: l’aveva fatto per tutta la vita, era l’unica cosa che gli riusciva veramente bene.
Cercò il cellulare e nello svuotare le tasche trovò un flacone di antidolorifici. Mentre lo apriva per poter inghiottire un paio di pillole, ricordò a sprazzi di averlo preso dal bagno di Myra giusto prima di uscire, forse immaginando che gli sarebbe tornato utile. Non ricordava però se ne avesse già presa qualcuna prima di svenire, sfibrato dalle convulsioni e dall’agonia che più di una volta gli aveva fatto implorare l’arrivo della morte.
Il cellulare alla fine lo trovò sul pavimento di nuda roccia, macchiato di sangue. Pulì lo schermo sui pantaloni e quando lo sbloccò si ritrovò nella sezione dei messaggi inviati, in cui spiccava quello che aveva inviato a Cathleen quella sera stessa.
Guardando l’orario si ricordò dell’appuntamento che attendeva Artù: la TAC che avrebbe o meno rivelato ciò che gli provocava quei non-attacchi cardiaci. Non poteva assolutamente mancare.
Si alzò in piedi e barcollò fino alla cassapanca dentro cui aveva sistemato alcuni vestiti di ricambio. Si tolse la felpa e i jeans, macchiati di vomito e sangue. Ora ricordava: prima di entrare nella grotta di cristallo aveva rimesso; ecco da dove proveniva il sangue che aveva notato sul cellulare.
Con i vestiti puliti addosso e una lanterna elettrica in mano attraversò un paio di cunicoli bui fino a raggiungere il punto più profondo della grotta, dove si trovava un piccolo lago sotterraneo. Le sue acque erano così scure ed immobili che sembrava un vero e proprio specchio, in grado di riflettere il soffitto costellato di stalattiti. Si inginocchiò sulla sponda e guardò il proprio viso sporco e con una pessima cera, ma ancora giovane. Si lavò via il sangue e rimase diversi istanti sott’acqua, godendo della sensazione di gelo sulla sua pelle. Poi si asciugò e tornò tra i cristalli, dove recuperò il giubbino e le chiavi dell’auto per correre al fianco di Artù, dove doveva stare, dove sarebbe sempre stato.

***

«Sono preoccupato per Alex e Merlino».
Cathleen gli posò una mano sulla guancia e con l’altra gli sistemò la spalla della leggera camicia azzurrina che un infermiere gli aveva detto di indossare.
«Ti ho già detto che l’unica cosa di cui devi preoccuparti adesso è te stesso, sperare che la TAC non riveli nulla di grave».
«E se lo facesse? Se avessi davvero qualcosa di grave?».
Si guardarono negli occhi per una dozzina di secondi. Quindi il paramedico si chinò e gli posò un delicato bacio sulla fronte, sussurrando: «In quel caso lo affronteremo insieme, lo prometto».
Artù annuì e ricambiò debolmente, lasciando andare la sua mano non appena l’infermiere scostò bruscamente la tenda che circondava il suo letto e aveva protetto la sua privacy mentre si cambiava.
«È tutto pronto, andiamo».
Cathleen lo aiutò ad infilarsi il vecchio accappatoio bianco che aveva trovato sul fondo di un armadio e poi gli offrì il braccio, sorridendo furbescamente. Artù lo accettò chinando un poco la testa, come avrebbe fatto una vera dama con il suo cavaliere, ma non riuscì a fingere a lungo che il sorriso che aveva sulle labbra fosse sincero: la tensione per l’esame e l’assenza di Merlino ed Alex, la sensazione che l’avessero abbandonato in un momento così critico e la paura che ogni sospetto sulla causa dei suoi attacchi si rivelasse fondato gli facevano quasi tremare le gambe.
Guardò Cathleen stretta al suo fianco, quel giorno con i lunghi capelli ondulati sciolti sulla schiena e il viso delicato truccato, ma in modo leggero.
Il suo volto era stata la prima cosa che aveva visto quella mattina svegliandosi e si era sentito vagamente in colpa, come se fosse stato sbagliato, ma era stata una sensazione passeggera: aveva ricordato le parole di Merlino, la sua convinzione a proposito di Ginevra e di che cosa avrebbe voluto per lui, e in qualche modo aveva capito che ancora una volta aveva ragione. Perciò si era lasciato accarezzare da quello che sembrava un barlume di felicità, senza respingerlo, e non poteva negare che si era sentito bene, bene come non si sentiva da tempo.
«Ehi, perché mi fissi in quel modo?».
Artù ridacchiò e tornò a guardare quel corridoio quasi infinito di fronte a sé. «Ti sono davvero riconoscente, Cathleen».
«Per che cosa? Non ho fatto niente».
«Hai fatto moltissimo invece: ti sei presa cura di me, nonostante tu mi conosca appena. Non eri obbligata a farlo».
Il paramedico si grattò dietro l’orecchio sinistro, cercando di ignorare il rossore sul suo volto. «Beh, prego».
«Per questo, se avrai bisogno di me non dovrai far altro che chiedere. Intesi?».
«Intesi», rispose col petto in fuori e portandosi una mano sulla fronte, un gesto che lì per lì non riconobbe e che poi ricordò di aver visto in un film alla TV: un saluto militare.
Giunsero finalmente davanti alla stanza in cui si sarebbe svolta la TAC e Cathleen si fermò sulla porta, il braccio teso e la mano ancora stretta nella sua.
«Sarò dall’altra parte del vetro», gli spiegò scorgendo una punta di agitazione nel suo sguardo.
Cathleen lo incitò a proseguire con un cenno del capo e un sorriso incoraggiante sulle labbra. Artù lasciò lentamente la sua mano, ma non ruppe il contatto visivo fino a quando la porta non si chiuse alle sue spalle, lasciandolo solo con l’infermiere e quell’enorme macchina che solo a guardarla gli fece correre un brivido di freddo lungo la spina dorsale.

***

Merlino gettò nervosamente il centesimo sguardo all’orologio dal vetro crepato che aveva al polso – Quando era successo? Quella notte, alla caverna, oppure prima? – e colpì il volante con una mano, imprecando contro quell’esasperante semaforo. Ebbe quasi la tentazione di far scattare il verde con l’uso della magia, ma si costrinse a trattenersi: doveva conservare tutte le energie che era riuscito a recuperare per affrontare le eventuali conseguenze a cui Alex ovviamente non aveva pensato quando era riuscita a prenotare quella TAC per Artù.
Era dovuto passare a casa per recuperare alcune cosette che avrebbero potuto tornargli utili ed ora era in un ritardo mostruoso. Sperava soltanto che il loro sistema sanitario non avesse deciso di diventare improvvisamente puntuale ed efficiente.
Con uno stridio di gomme parcheggiò l’auto, col finestrino ancora mancante e alcuni pezzi di vetro sul tappetino. Quindi corse verso l’entrata del pronto soccorso con lo zaino che gli rimbalzava sulle spalle.
Fu davanti alle porte scorrevoli che incontrò Alex, proveniente dall’altra parte del parcheggio e in ritardo tanto quanto lui. Si squadrarono in silenzio per un po’, fermi immobili e con maschere d’inespressività ben calcate sui loro visi terribilmente sciupati.
«Hai un aspetto orribile», esclamò per prima Alex.
«Grazie, anche tu», rispose Merlino, invitandola ad entrare al suo fianco.
A passo svelto si diressero verso il reparto di radiologia. Nessuno dei due si fermò quando Merlino si chinò sul suo orecchio per sussurrare: «Hai pensato a che cosa accadrebbe nel caso in cui trovassero nel suo petto qualcosa che non potrebbe umanamente trovarsi lì? Un frammento di spada incantata, per esempio».
Alex lo fissò ad occhi sgranati, occhi arrossati e circondati da lividi violacei che gli facevano immaginare l’infermiera nel bel mezzo di un incontro clandestino di boxe.
«No, certo che no», si rispose da solo Merlino, inarcando le sopracciglia. «Per fortuna Artù ha me al suo fianco».
«Stai per caso insinuando che io non sono alla tua altezza?», esclamò Alex, serrando innervosita la mascella.
«Sto solo dicendo che se davvero vuoi far parte di tutto questo, allora devi seguire le mie regole. Un’altra stupidaggine come questa, un altro errore che potrebbe costare la sicurezza di Artù… Sarò costretto a prendere provvedimenti».
Alex si fermò di colpo e si esibì in una finta risata. «Ah! E che tipo di provvedimenti? Sentiamo».
Lo stregone si guardò intorno e si avvicinò a lei tanto da sfiorarle il naso col proprio, gli occhi fissi nei suoi. «Credi che in più di millequattrocento anni non sia mai capitato che qualcuno di scomodo abbia scoperto il mio segreto? Ho fatto quello che dovevo e lo farò ancora, se necessario». Le rivolse un’occhiata eloquente e le afferrò un braccio per riprendere a camminare ed essere sicuro che lo seguisse.

***

«Fermatelo! Fatemi uscire di qui, è un ordine! FATEMI USCIRE!».
Le urla di Artù si sentivano fin dal corridoio. Alex e Merlino entrarono nella stanza di monitoraggio facendo sbattere la porta contro la parete, così bruscamente che sia il tecnico col camice bianco chino sull’interfono, sia l’infermiere che Cathleen sobbalzarono dallo spavento.
«Che cosa diavolo succede?», urlò Alex, fissando inorridita Artù che si agitava in maniera disumana dentro la cavità della TAC per uscirne.
«Credo sia nel bel mezzo di un attacco di panico», rispose il tecnico.
«Certo che lo è, soffre di claustrofobia», mugugnò irritato Merlino, come se tutti in quella stanza, eccetto lui ovviamente, fossero dei perfetti idioti. E Alex dovette convenire con lui, dato che lei sapeva perfettamente di quella sua fobia e non ci aveva pensato. Davvero, dove aveva la testa?
Il tecnico gli lanciò un’occhiata gelida e riprese a parlare nel microfono: «Signor Pendragon, si calmi, adesso spengo tutto e manderò l’infermiere ad aiutarla».
«No, non può farlo».
Tutti quanti si voltarono verso Alex, confusi ed increduli.
«Invece sì, e lo farà», rispose Cathleen, il volto contratto dall’ira. «Guardalo, sta male!».
«Ma così non avremo mai più l’occasione di capire che cos’ha che non va!».
«Alex ha ragione», la sostenne Merlino, cosa che le fece spalancare la bocca per lo stupore: o quel giorno era particolarmente lunatico, o la sua insensibilità avrebbe dovuto farle paura.
Il mago scansò chiunque si trovasse sulla sua strada e strappò il microfono dalle mani del tecnico: «Artù, sono Merlino».
«Merlino! Merlino, sei davvero tu? Ti prego, tirami fuori di qui!».
«Mi dispiace, non posso farlo. Ho bisogno che vi calmiate. È necessario che restiate completamente immobile, solo così riusciranno a completare l’esame e noi otterremo che risposte che vogliamo».
«Merlino…», lo sentì singhiozzare, ma aveva già iniziato a rilassare le gambe sul ripiano su cui era sdraiato.
«Sono qui, non vi lascio. Concentratevi sul vostro respiro, fate respiri profondi e rimanete immobile. Non vi succederà nulla di male, ve lo prometto».
«Alex è lì con te?».
Merlino sollevò gli occhi in quelli di Alex ed abbozzò un sorriso. «Sì, è qui al mio fianco. Siamo qui Artù, insieme».
Alex chinò il capo, sentendo la stessa fitta di dolore che aveva provato da ragazzina quando aveva capito che sua madre e suo padre, dopo una litigata, si sforzavano di sembrare felici solo perché lei fosse felice.
Sentì la mano di Merlino avvolgerle delicatamente il polso e sollevò di scatto la testa trovando il suo sguardo, stanco ma dolce, ad attenderla. Le indicò l’interfono e l’infermiera si chinò al suo fianco: «Ciao Artù, sono qui».
«Ho quasi fatto», sussurrò il tecnico, controllando le scansioni del petto di Artù sui due schermi di fronte ai suoi occhi, l’unica fonte di luce in quella piccola stanzetta sovraffollata.
«Manca poco, Artù», disse ancora Merlino, sorridendo come se il re di Camelot potesse anche vederlo. «Continuate a rimanere immobile. Come quella volta che siamo stati costretti ad attraversare quei tunnel abitati dai wildeon e ci siamo spalmati quelle bacche puzzolenti sulla faccia. Vi ricordate? Rischiavamo di diventare il pranzo di quei mostri, invece siamo rimasti così immobili che se ne sono andati. Pensate di riuscirci ancora per un po’?».
Tutti quanti lo guardavano come se fosse appena diventato matto, ma le sue parole ottennero il risultato sperato: Artù non si mosse e la TAC andò a buon fine, tanto che il tecnico e l’infermiere esclamarono contemporaneamente: «Ma che diavolo…?», prima che Merlino acciuffasse dallo zaino due fazzoletti di stoffa e li tenesse premuti sui loro nasi e sulle loro bocche dopo averli inumiditi con il liquido contenuto in una bottiglietta di Pepsi. I due persero conoscenza nel giro di pochi secondi e Merlino li adagiò senza troppa cautela sul pavimento, uno appoggiato alla spalla dell’altro. Quindi, sempre sotto gli occhi sbarrati di Alex e Cathleen, si sedette sulla poltrona del tecnico ed iniziò ad armeggiare con le tastiere dei computer ed una chiavetta USB, dando ordini a destra e manca: «Alex, infilati uno di quei camici e quando ti do’ il segnale vai a recuperare Artù. Cathleen, tu stai fuori dalla porta e avvisami nel caso qualcuno volesse entrare. Poi dovrai coprirci mentre ce ne andiamo, trovare questi due e dare l’allarme. Tutto chiaro?». Non aspettò la sua risposta – sapeva che non ne avrebbe avuta alcuna, dato il suo stato di shock, – ed attivò di nuovo l’interfono per dire ad Artù: «È finita, mando Alex a prendervi».
Quando trovò il modo di spegnere tutta l’apparecchiatura fece segno ad Alex di entrare nella stanza. L’infermiera esitò, tanto da beccarsi un’occhiataccia dallo stregone, poi corse al capezzale di Artù, lo liberò dagli elastici che gli avevano stretto all’altezza delle spalle e del basso ventre perché non si muovesse e lo aiutò ad alzarsi. Tremava come una foglia, ma la sua espressione seria ed orgogliosa non lasciava trasparire alcuna emozione.
«Abbiamo portato a termine la missione?», le chiese soltanto, a bassa voce.
Alex abbozzò un sorriso e gli strofinò una mano tra le scapole. «Sì, missione compiuta».
Nonostante Cathleen avrebbe dovuto fare da palo fuori dalla stanza di monitoraggio, quando Alex e Artù raggiunsero Merlino la trovarono ancora lì, in piedi accanto ai due uomini che lo stregone aveva messo K.O., e la sua espressione non prometteva nulla di buono.
«Artù, potete dire alla vostra nuova fiamma di fare ciò che le dico, per cortesia? Forse voi sapete come farvi ascoltare».
«Ehi!», urlò Cathleen, attirando l’attenzione di tutti sul suo volto paonazzo ed accartocciato dal nervosismo. «Uno, io non sono la fiamma di nessuno; due, non farò un bel niente senza sapere perché rischio di cacciarmi in un guaio di proporzioni epiche!».
Merlino si addossò allo schienale della sedia girevole e la fece roteare fino a quando non fu perfettamente davanti a lei. La serietà e la schiettezza con cui riassunse la loro situazione fece venire i brividi ad Alex, ma non solo: erano i suoi occhi a serrarle il cuore in una morsa gelata, o meglio ciò che non c’era più in essi. Qualunque cosa fosse.
«Io e Artù siamo i famosi Merlino ed Artù delle storie, il potente mago e il re di Camelot della Tavola Rotonda e di Excalibur. Io ho più di millequattrocento anni e ho vissuto su questa Terra, immortale, per un’unica ragione: riportare la magia nel mondo per impedirne così la distruzione. Non ti sto a spiegare il perché, ma chi ha scritto il mio destino ha deciso che non avrei potuto farcela senza Artù, perciò è stato riportato in vita proprio ora che la Terra ne ha più bisogno. Dubito che tu sappia che durante quella che dagli storici è stata chiamata la Battaglia di Camlann Artù sia stato ferito mortalmente da una spada incantata. Beh, vedi questo rettangolino qui?», con una penna trovata sulla scrivania indicò un punto avvolto da un’ombra scura su uno degli schermi che mostravano da varie angolazioni l’interno della gabbia toracica di Artù. «Questo è un frammento di quella spada, si suppone ancora impregnato di magia, che di quando in quando decide di far patire terribili sofferenze al cuore del nostro Artù. Ora dimmi, che cosa farebbe un qualunque chirurgo nel caso in cui si trovasse queste lastre tra le mani?».
Cathleen abbassò lo sguardo, quasi con vergogna. «Non sono un chirurgo».
«Per favore, Cathleen… Basta aver guardato qualche episodio di Gray’s Anatomy per saperlo. Persino Artù potrebbe dirmelo!».
Alzò rapidamente gli occhi per incrociare quelli del biondo, improvvisamente pallido come un cencio, e si morse le labbra mormorando: «Lo opererebbe per estrarre il corpo estraneo».
«Corretto!», esultò Merlino con un sorriso forzato sul viso, battendo le mani. «Non possiamo permettere che accada».
Solo Alex fu tanto stupida da rompere il silenzio agghiacciante che li aveva circondati non appena Merlino aveva smesso di fissare Cathleen per tornare alle tastiere dei computer.
«Perché?», chiese e se ne pentì immediatamente.
La risata sadica di Merlino le fece accapponare la pelle e il suo sorriso maligno fece anche di peggio.
«Scusami, è che pensavo fosse ovvio. Abbiamo detto che la spada di Mordred era incantata e che quel frammento è impregnato di magia oscura, una magia così potente che è riuscita a sopravvivere per più di quindici secoli. Non sappiamo cosa potrebbe accadere se qualcuno tentasse di tirargli via quel pezzo di lama dal petto. E se la magia si ribellasse e lo uccidesse? Non possiamo rischiare».
«E quindi saresti disposto a lasciarlo lì e a starmi sempre accanto per intervenire durante gli attacchi, rischiando la tua vita usando la magia per salvare la mia?», domandò Artù con un nuovo fuoco negli occhi, divampato all’improvviso.
«Perché no? È quello che ho sempre fatto: sacrificare la mia vita per la vostra». Merlino abbozzò un sorriso e con quella luce azzurrognola riflessa sul viso Alex pensò che sembrava ad un fantasma vecchio e solo. «È l’unica cosa in cui sono bravo».
Artù fece un passo avanti e lo afferrò per la spalla, voltandolo perché i loro sguardi si incatenassero. «Non te lo permetterò ancora».
«E sentiamo, come avete intenzione di fermarmi?».
Il re di Camelot esitò, infastidito ed addolorato allo stesso tempo dal sorriso sereno di Merlino, il sorriso di un condannato a morte che aveva accettato da tempo la sorte che era stata decisa per lui. Quindi, inspirando forte dal naso, rispose: «Diventerò Iron Man».
«Questo è troppo», borbottò Cathleen, mettendosi entrambe le mani nei capelli. La sua espressione esasperata non aveva affatto bisogno di spiegazioni ed infatti nessuno ne chiese.
«Vado a fare quel maledetto palo, ma vi voglio fuori di qui entro dieci minuti. Ci siamo capiti bene?».
Merlino annuì con un solo cenno del capo a cui Cathleen ricambiò, anche se incerta, prima di uscire dalla porta evitando accuratamente lo sguardo dispiaciuto di Artù.
«Era proprio necessario che Cathleen sapesse?», esclamò irritato proprio quest’ultimo, fulminando Merlino con lo sguardo.
Lo stregone scrollò le spalle. «Era proprio necessario che Alex sapesse?».
Artù sospirò massaggiandosi gli occhi con due dita e nessuno osò più fiatare. La tensione si tagliava a fette, ma Merlino, proprio come se nulla fosse, continuò a scrivere parole immaginarie sulle tastiere dei computer, riempiendo intere schermate nere di codici. Stava per caso hackerando il sistema interno dell’ospedale?
Solo successivamente Alex avrebbe scoperto che in quei pochi minuti aveva cancellato ogni traccia della loro presenza: la prenotazione elettronica della TAC a nome Artù Pendragon, i filmati delle telecamere che li avevano ripresi entrare al pronto soccorso, i risultati degli esami… insomma, qualsiasi cosa avrebbe potuto portare a loro se ci fossero state delle indagini interne.
Dopo aver estratto la chiavetta USB, Merlino si voltò verso Alex e la fissò così intensamente che ebbe paura che il sangue le si congelasse nelle vene. «Se non avessi già forzato la mano ieri sera, non te lo chiederei mai».
«Forzato la mano?». Artù inarcò le sopracciglia prima per la confusione, poi per la rabbia. «Hai usato la magia. Dovevo capirlo, ne hai tutti i postumi. Ma non capisci che ti sta consumando, Merlino?!».
Lo stregone non lo degnò nemmeno di uno sguardo, la sua attenzione era ancora tutta focalizzata su Alex, la quale deglutì rumorosamente e sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio chiese: «Che cosa devo fare?».
«Sostenermi».
Le porse una mano e l’infermiera la osservò per diversi istanti, fino a quando non si rese conto che non avevano più tempo e che se c’era una persona di cui poteva fidarsi ciecamente, quella persona era Merlino.
Afferrò la sua mano e si inginocchiò al suo fianco di fronte ai due uomini svenuti. Solo in quel momento, raccogliendo i fazzoletti di cui dovevano sbarazzarsi, Alex realizzò che la sostanza che aveva fatto loro perdere conoscenza era cloroformio. Non si chiese dove Merlino l’avesse preso né volle mai saperlo.
«Devo cancellare i loro ricordi e rimpiazzarli con altri», le spiegò a bassa voce, il viso decisamente troppo vicino al suo.
«Perché devi anche rimpiazzarli? Ci metterai il doppio del tempo e delle energie…».
«E lasciargli un vuoto di memoria? No. Troppi rischi, troppe domande».
«Che cosa gli farai ricordare?».
Merlino accennò un sorriso quasi divertito. «Un qualcosa che non andranno a raccontare a nessuno, puoi giurarci».
Alex non ebbe nemmeno il tempo di prepararsi con un respiro profondo: la magia di Merlino la investì come un treno ad alta velocità e sentì il corpo andarle a fuoco, prima dolorosamente e poi donandole sempre più energia, tanto da farle passare il mal di testa e la nausea causate dall’alcool e dalla notte insonne. Vide sprazzi di ciò che Merlino immaginò per i due uomini, come se fosse dentro la sua mente, e pensò che non avrebbe proprio voluto essere nei loro panni al momento del loro risveglio.
Scoprire di essere gay così all’improvviso… Che shock!
Poi tornò il dolore, un dolore quasi insopportabile: il fuoco si era trasformato in un vero e proprio incendio e dovette sforzarsi terribilmente per non urlare.
Stava giusto per cedere, quando sentì Merlino sorreggerla per la schiena, trovandosi così abbracciato a lei, e sussurrarle tra i capelli: «Immagina una barriera in grado di contenere la magia, rendila vera e poi lasciala andare».
Le venne subito in mente il video animato della canzone “Another brick in the wall” dei Pink Floyd, un video che suo padre, fan della band, le aveva fatto vedere centinaia di volte, nonostante lei, piccola com’era, fosse terrorizzata da quel professore deforme e spietato.
Immaginò quello stesso muro di mattoni richiudersi sul fuoco dorato che le faceva male persino alla vista, ma fu faticoso e anche quando fu perfettamente sigillato non riuscì a staccarsene; continuò a spingere e a spingere con le spalle contro quei pallidi mattoni freddi, per paura che la magia fuoriuscisse e la riducesse in cenere.
La voce di Merlino la raggiunse a malapena: «Lasciala andare».
«Non posso, non posso», mugugnò scuotendo il capo contro i mattoni umidi e contro il petto di Merlino.
«Sì che puoi. Ci sono qui io, ti proteggerò. Ti proteggerò sempre».
Alex strinse forte gli occhi e respirò profondamente facendo un passo indietro. Aspettò che la magia la investisse nuovamente, ma non accadde. Quando aprì gli occhi, tutto ciò che vide fu il volto di Merlino, sudato ma sorridente.
«Sei stata bravissima», le sussurrò prima di svenire tra le sue braccia.
«No. No, no, no. Ehi, Merlino, dobbiamo uscire di qui. Apri gli occhi».
Gli tirò uno schiaffetto leggero sulla guancia, scrollandolo poi per le spalle, e Merlino parve riprendersi, tanto da alzarsi in piedi, stando aggrappato alle spalle di Alex ed Artù. Controllarono di aver preso tutto, compresa la bottiglietta di Pepsi col resto del cloroformio, poi aprirono un poco la porta ed intravidero Cathleen intrattenere un’infermiera dietro l’angolo del corridoio. Il paramedico li notò con la coda dell’occhio e con una mano dietro la schiena indicò loro di passare in fretta. Alex e Artù si scambiarono uno sguardo d’intesa e sgattaiolarono fuori con Merlino di nuovo a peso morto tra loro, la testa ciondolante contro lo sterno.
Camminarono il più velocemente possibile lungo il corridoio che conduceva alla cappella, ma sulla loro strada si imbatterono in un paio di giovani infermieri, un ragazzo e una ragazza tra cui sicuramente c’era qualcosa, e furono costretti a nascondersi dietro una delle colonne del porticato. Solo allora Alex si rese conto dell’abbigliamento di Artù: la camicia dell’ospedale e un accappatoio bianco troppo stretto per le sue spalle larghe.
«Non puoi uscire così», sussurrò ad occhi sgranati.
Artù si gettò una rapida occhiata e scrollò il capo: «Tutto ciò che mi interessa è portare Merlino a casa. Ha bisogno di riposo».
«Me ne rendo conto benissimo, ma attireresti troppa attenzione e renderemmo vani tutti i suoi sforzi».
I due Pendragon si scambiarono un lungo sguardo. Fu Artù a spezzarlo, respirando profondamente.
«Va bene», esclamò. «Qual è il tuo piano?».
Alex non aveva un piano, o almeno non l’avrebbe definito tale, perciò finse di dimostrarsi sicura di ogni parola: «Più avanti c’è una porta d’emergenza che dà sull’ingresso dei magazzini: aspettatemi lì. Io vado a recuperarti i vestiti e vi raggiungo. Ah». Si sporse su Merlino e gli infilò le mani nelle tasche del giubbotto e in quelle dei pantaloni, fino a quando non trovò le chiavi della sua Pininfarina.
Artù sgranò un poco gli occhi. «Andrà su tutte le furie, quando lo scoprirà».
«Me ne farò una ragione», rispose distrattamente Alex, per poi trarre un respiro profondo per farsi coraggio. Quindi assunse un’andatura normale e girò l’angolo, mostrandosi vagamente scocciata di trovare i due infermieri sul punto di scambiarsi un bacio. Si portò entrambe le mani sui fianchi, con le sopracciglia inarcate, e si schiarì la gola con prepotenza, facendoli sussultare.
«Farò finta di non aver visto nulla se tornate immediatamente al lavoro», disse con tono di rimprovero e i due ragazzi, a capo chino per l’imbarazzo, corsero via senza aprire bocca.
Quando furono lontani, Alex si voltò verso Artù e Merlino e gli fece segno di muoversi. Il re di Camelot le rivolse un ultimo cenno col capo, traducibile in un «Mi raccomando», poi sorresse lo stregone fino alla porta che l’infermiera gli aveva indicato.

***

«Allora?».
Alex si sollevò e gettò un’occhiata ad Artù, appoggiato con una spalla allo stipite della porta.
«Come un’ora fa: non ci sono peggioramenti, né miglioramenti. Sembra stabile, ma lo sai, Merlino non è un paziente comune. Chissà cosa sta succedendo dentro di lui…».
Il re di Camelot entrò nella stanza dello stregone e si abbandonò sul piccolo pouf accanto alle porte della cabina armadio. «E tu, invece?».
«Io che cosa?».
L’infermiera si sedette con delicatezza sul letto ed osservò il volto di Merlino, pallido ed inespressivo, fino a quando non allungò una mano per scostargli delle ciocche di capelli dalla fronte umida. Solo in quel momento si rese conto che c’era qualcosa di diverso.
«Si sono ingrigiti», mormorò avvicinandosi di colpo per osservare meglio la sfumatura di colore che avevano perso.
«Che cosa hai detto?», chiese Artù, le sopracciglia aggrottate.
«Niente, dev’essere una mia impressione. Che cosa volevi sapere?».
«Se tu ti senti bene: anche tu hai la faccia di chi ha passato una brutta serata».
Alex scrollò le spalle e si strinse le braccia al petto. «Sto bene».
«Sei una pessima bugiarda», le rispose con l’abbozzo di un sorriso sul volto, sorriso che si trasformò nell’accenno di una risata. «Ti ho trasmesso pure questo, a quanto pare».
L’infermiera non poté impedire ai ricordi della sera precedente, anche se frammentari e confusi, di invaderle la mente e farla sentire uno straccio. Chiuse gli occhi per cercare di cancellare l’immagine di Keith, il suo viso dispiaciuto mentre le confessava di aver fatto quello che aveva fatto per allontanarla da Merlino, ma fu ancora peggio. Li riaprì e fissò quelli di Artù, ancora posati su di lei.
«Non vedo perché dovrei essere onesta con te, quando voi non avete fatto altro che tenermi all’oscuro della verità», esclamò.
Il re di Camelot fece una smorfia ed evitò il suo sguardo. Nonostante sapesse benissimo a che cosa si riferisse, sussurrò: «Di che cosa stai parlando?».
«Di quello che ha detto Merlino all’ospedale: che il suo destino è quello di riportare la magia nel mondo per impedirne la distruzione. Perché non ne sapevo niente?».
«Perché tu devi stare fuori da tutto questo, ed è l’unica cosa su cui siamo entrambi d’accordo».
«Ecco, ci risiamo; lo state facendo di nuovo».
Artù si alzò in piedi di scatto e si avvicinò a lei con occhi fiammeggianti. «Vogliamo solo che tu sia al sicuro, perché non lo capisci?».
Anche Alex si alzò e lo fronteggiò senza paura, il viso a pochi centimetri dal suo. Parlò con determinazione e rabbia, sentendo il fuoco della magia scorrerle nelle vene, domabile a stento.
«Si tratta della mia vita, è un mio diritto poter fare le scelte che ritengo più giuste per me, e né tu né Merlino riuscirete a togliermelo».
Artù sostenne il suo sguardo così a lungo e con così tanta intensità che Alex credette che non ce l’avrebbe fatta, che l’avrebbe abbassato per prima, ma alla fine il biondo arretrò di un passo e si lasciò cadere nuovamente sul pouf alle sue spalle, una mano sulle labbra e il viso rivolto verso la finestra, verso il cielo coperto.
«È inutile scegliere», mormorò ad un tratto, a voce così bassa e con la bocca ancora coperta dalla mano che Alex faticò a distinguere le parole.
«Che cosa intendi dire?».
Artù scosse il capo come se non si fosse reso conto di aver parlato ad alta voce ed abbozzò un sorriso dolce. «Dimentica quello che ho detto. Saresti così gentile da preparare del tè?».
Alex aprì la bocca per rispondere che non era la sua cameriera personale, ma la richiuse quando si rese conto che comunque non avevano più nulla da dirsi. Si alzò sospirando lievemente ed uscì dalla stanza di Merlino.
Prima di chiudersi definitivamente la porta alle spalle però osservò di nascosto Artù mentre prendeva il suo posto accanto allo stregone e lo guardava con espressione talmente apprensiva che sentì una fitta al cuore. Ma fu ancora peggio quando lo sentì sussurrare: «Credi sia stato un caso che tu e mio figlio siate stati separati? Era destino. Separarvi era l’unico modo perché noi, oggi, potessimo avere al nostro fianco Alexandra. E sappiamo benissimo entrambi che alla fine non ci tireremo indietro: noi salveremo questo mondo, o almeno ci proveremo, perché non farlo sarebbe come abbandonare Alex. E né tu né io abbandoneremmo mai di nostra volontà qualcuno che amiamo, non è così?».
Artù si lasciò scappare una mezza risata e quando voltò il capo Alex si ritrasse, ma aveva fatto in tempo a vedere lo scintillio di una lacrima sulla sua guancia.

***

Merlino si svegliò urlando e traendo una lunghissima boccata d’ossigeno, come se fosse stato in apnea per tutto il tempo in cui era rimasto privo di conoscenza. E in effetti così era stato, almeno nella sua testa. Aveva sognato di essere ancora nella caverna di cristallo, col viso immerso nell’acqua gelida della falda, paralizzato da ciò che aveva visto sul fondale scuro rischiarato di tanto in tanto da qualche debole raggio di sole riflesso dalle pietre: Alex, con indosso lo stesso vestito che aveva regalato a Freya poco prima che venisse ferita a morte, e i lunghi capelli biondi che le ondeggiavano intorno al viso pallido.
Era assurdo quello che aveva visto, ma non riusciva a smettere di tremare di paura. Solo vedendo Alex sana e salva, il rossore sulle sue guance per aver fatto le scale di corsa, e sentendo la sua voce riuscì a calmarsi un poco.
«Ti senti male?», gli chiese preoccupata, mentre Artù la raggiungeva.
«No, era solo un incubo», mugugnò passandosi entrambe le mani sul viso. Quindi si ricordò di quello che era successo quella mattina all’ospedale e del vuoto che c’era dal momento in cui aveva usato la magia sul tecnico e sull’infermiere al suo risveglio nella propria camera da letto.
«Raccontatemi tutto quello che è successo da quando sono svenuto», ordinò, interrompendo Alex ancor prima che potesse porgergli qualsiasi altra domanda.
L’infermiera gli fece un breve riassunto su come erano riusciti a sgattaiolare via senza che nessuno li vedesse, anche se era stato a tratti un po’ complicato.
Gli raccontò di essere riuscita a recuperare tutti i vestiti e gli oggetti personali di Artù, ma non come (Alex aveva la sensazione che non sarebbe stato felice di sapere che aveva usato un pizzico della magia che aveva assorbito da lui).
Gli raccontò che era riuscita a prendere la sua auto e che era andata a recuperare lui e Artù senza che nessuno la notasse.
«Ah, il finestrino era già così quando sono salita in auto, quindi non te la prendere con me», aprì e chiuse parentesi, mordendosi il labbro per l’ansia.
«Sì, lo so», rispose Merlino con indifferenza, cosa che fece strabuzzare gli occhi sia ad Alex che ad Artù: entrambi sapevano quando fosse legato alla sua auto, eppure non aveva fatto una piega né sul fatto che l’avesse guidata Alex né, soprattutto, sul finestrino mancante.
Merlino li fissò con gli occhi leggermente sgranati e le sopracciglia inarcate, in attesa. «E poi?».
«Beh… ti abbiamo portato a casa e tu hai dormito per tre ore filate», concluse Artù per Alex, ora insospettita dal suo comportamento.
«E la tua auto?», chiese lo stregone indicando l’infermiera.
«La mia…? Oh, non sono arrivata con la mia auto stamattina, mi hanno accompagnata».
Merlino chiuse gli occhi ed annuì, dicendosi che avrebbe dovuto immaginarlo, poi si lasciò cadere ancora una volta sul letto, con la testa immersa nei cuscini: si sentiva a pezzi, non solo fisicamente ma anche mentalmente.
«Cathleen?», domandò a bassa voce, di nuovo privo di forze.
«Ho provato a scriverle, ma non ho ancora ricevuto risposta», disse Artù, demoralizzato.
Nonostante non ritenesse Cathleen all’altezza del suo re, Merlino si sentì come sempre in dovere di tirarlo su di morale: «Ha solo bisogno di un po’ di tempo. Si farà sentire, prima o poi».
«Lo spero».
Il mago riaprì gli occhi e si tirò sui gomiti, ricordandosi all’improvviso dell’insensata e folle risposta che gli aveva dato subito dopo la TAC.
«Che cosa intendevate dire esattamente con le parole: “Diventerò Iron Man”?».
Alex, interessata alla questione, si sedette sul fondo del letto senza staccargli gli occhi di dosso, senza perciò rendersi conto dello sguardo di Merlino, a tratti ancora terrorizzato da ciò che aveva sognato. Che poi, si era trattato solamente di un sogno, di uno scherzo della sua fantasia?
«Ieri sera con Cathleen ho visto il film e ho pensato che… sì, se non possiamo tirarmi fuori dal petto questo pezzo di spada perché rischiamo di fare danni peggiori, potremmo trovare il modo di controllarlo dall’esterno, come ha fatto l’uomo che ha salvato Tony Stark con quel coso che gli ha messo nel petto».
«Un elettromagnete», lo corresse Alex, arricciandosi subito dopo una ciocca di capelli tra le dita con espressione meditabonda. «Quindi una specie di calamita attira magia negativa, in grado di tenere il pezzo di spada lontano dal tuo cuore. Pensi si potrebbe fare?».
Merlino si rese conto che Alex stava parlando con lui solo quando Artù gli sventolò una mano di fronte al viso. Solo l’idea che il re di Camelot avesse avuto un’idea così geniale lo aveva sconvolto, immaginare un progetto così ambizioso lo aveva completamente mandato nel pallone.
Scosse il capo, troppo stanco anche solo per formulare un pensiero concreto: «Non lo so».
Artù annuì, dandogli una leggera pacca sulla spalla. «È meglio se ti riposi ancora un po’, uhm? Andiamo, Alex».
Ma l’infermiera non si mosse. Accarezzò con un dito la trama del piumone sul letto dello stregone e senza alzare gli occhi disse: «Ti dispiace se ti raggiungo tra cinque minuti? Ho bisogno di parlare con Merlino».
Il re di Camelot esitò, poi annuì ed uscì chiudendosi delicatamente la porta alle spalle.
Merlino gettò la testa all’indietro, sospirando con tono esasperato. «Non si potrebbe rimandare?».
«Non sai nemmeno quello che ti voglio dire».
«Sì che lo so. Vuoi dirmi che il fatto che tu e Keith foste lì insieme in quel pub non significa per forza che volevate riprovarci, che sono stato uno stupido a reagire in quel modo e che non credi a nessuna delle cose che ho detto riguardo a Myra. E fai bene, perché ho mentito: volevo che mi dimenticassi, che mi detestassi a tal punto da non volermi nemmeno più vedere. Questo era l’unico motivo per cui ho accettato di uscire con lei. Poi ho scoperto che il vero motivo per cui lei invece voleva uscire con me era cercare vendetta: era in combutta con Keith perché litigassimo e ci allontanassimo l’uno dall’altra, lo sai?».
Alex chiuse gli occhi ed annuì, umettandosi le labbra. Quando li riaprì, erano lucidi di lacrime.
«Me l’ha detto ieri sera», disse, schiarendosi la gola. «È stato lui ad insistere perché venissi trasferita al pronto soccorso».
Merlino si tirò su seduto di scatto e la stanza iniziò a girargli intorno, facendogli provare un vago senso di mal di mare.
«Ma non era questo che volevo dirti», aggiunse prima che il mago potesse replicare. Deglutì rumorosamente e fissando finalmente gli occhi nei suoi esclamò: «C’è una cosa che ho sempre voluto dirti, una cosa che non ho mai avuto il coraggio di dirti. Mi crederesti, se ti dicessi che l’ho pensata anche quella notte di Capodanno, quando ti sei presentato alla festa dell’ospedale al posto di tuo –?», si morsicò un sorriso. «Quando ti sei presentato con un altro aspetto e un altro nome?».
Merlino inspirò silenziosamente dal naso, sentendo il cuore appesantirsi di varie tonnellate e allo stesso tempo fluttuare libero nel suo corpo, pulsando ovunque e sempre più velocemente.
«Io ti amo, Merlino. Ti amo come non ho mai amato nessuno e qualsiasi cosa tu faccia, qualsiasi dolore tu possa farmi patire… non potrà mai sovrastare l’amore che provo per te. E se pensi che tra noi non possa funzionare, che è semplicemente sbagliato… è okay, non posso costringerti a pensare il contrario. Però dovevo dirtelo».
Si alzò dal letto con un tenue sorriso sulle labbra, intriso di amarezza, e senza aggiungere altro lo lasciò solo. Merlino raggiunse la porta troppo tardi, quando se l’era giù chiusa alle spalle. Scivolò con la schiena lungo il legno chiaro e si sedette per terra, col mento abbandonato contro lo sterno.
Cosa sarebbe successo se le avesse detto che anche lui aveva pensato la stessa cosa quando i loro sguardi si erano incrociati, nonostante fossero ai lati opposti della grande sala e divisi dalla gente che si era già arrischiata a calcare la pista da ballo? E che cosa sarebbe successo se le avesse detto che l’aveva saputo ancora prima, inconsciamente, e che per lei, per non farle fare una brutta figura a quella festa di Capodanno, si era tolto la vita?

Alzò gli occhi sullo specchio ancora una volta, si accarezzò la lunga barba bianca e le rughe che gli contornavano gli occhi, poi guardò la bottiglietta che aveva lasciato sul ripiano del lavandino e sospirò togliendone il tappo con le dita tremanti.
«Ad Alexandra Greenwood», mormorò in un brindisi col suo stesso riflesso ed inghiottì tutto in una volta il potente veleno.

Quando si risvegliò, steso nella vasca da bagno vuota, la prima cosa che fece fu quella di vomitare sul pavimento ciò che rimaneva della dose di veleno che non era servita ad ucciderlo e gli era rimasta in circolo.
Poi guardò l’ora sull’orologio che portava al polso. Mancava un’ora a mezzanotte. Era in ritardo.
Uscì dalla vasca facendo attenzione a non scivolare e prima di sciacquarsi la bocca si osservò allo specchio, chiedendosi per la centesima volta come mai ogni volta che moriva il suo aspetto tornava quello del giovane uomo che aveva sacrificato la propria vita per proteggere la sua regina.  
Ad ogni modo, ciò che vedeva nello specchio era proprio quello che aveva desiderato. Perché Alexandra Greenwood aveva bisogno di un cavaliere della sua età, non di un vecchio decrepito.

La festa di Capodanno era stata organizzata come al solito nella grande sala comune del reparto di oncologia, per il personale di turno ma anche per i pazienti che erano in condizione di poter festeggiare. I più piccoli erano stati messi a letto da un pezzo, ma Merlino era certo che avrebbero trovato il modo di celebrare l’arrivo del nuovo anno come tutti gli altri.
Godette appieno delle sue articolazioni ora più scattanti e dei suoi polmoni meno affaticati dagli anni, ma si pentì di non aver preso l’ascensore non appena raggiunse il quarto piano. O forse il suo cuore stava per scoppiare per un altro motivo?
Respirò profondamente per farsi coraggio e spinse avanti una delle porte della sala comune, rimanendo affascinato da come avevano letteralmente trasformato quell’ambiente solitamente a misura di bambino in una grande pista da ballo con tanto di angolo bar e postazione per il DJ. Il volume e i drink serviti non erano certo da far girare la testa, erano pur sempre in un ospedale, ma quell’anno avevano fatto davvero un lavoro fantastico!
Sotto le luci colorate e i riflessi di una piccola palla stroboscopica cercò Alex tra le persone che si erano già buttate in pista. Non trovandola, si avvicinò al tavolo con le bibite e gli stuzzichini e si versò un bicchiere di punch. Lo bevve tutto d’un fiato continuando a passare da un viso all’altro nel disperato tentativo di trovare il suo, scorgendo solamente un nonnino addormentato sulla sua sedia a rotelle e una ragazza dai capelli rosso fuoco – un paramedico, vista l’uniforme che indossava – sgattaiolare verso l’uscita di servizio seguita da un chirurgo che non aveva alcuna intenzione di lasciarle andare il sedere, col rischio di farli cadere entrambi faccia a terra.
Aveva incominciato a pensare che forse se n’era andata, che si era stancata di aspettarlo e aveva preferito tornare a casa da sua madre, quando si aprì una specie di varco nella pista da ballo e la vide proprio di fronte a lui, dall’altra parte della sala.
Stava parlando con un ragazzo della sua età, un dottore che conosceva solo di vista e di fama – suo padre faceva parte del Consiglio d’Amministrazione dell’ospedale – ma Merlino non si diede per vinto ed iniziò a camminare con passo deciso verso di lei.
Era bellissima, una delle ragazze più belle che avesse mai visto in tutta la sua vita, regine incluse: i capelli acconciati in morbidi boccoli d’oro che le accarezzavano le spalle nude, la vita sottile e le gambe longilinee accarezzate morbidamente dal vestito rosso cremisi che gli ricordava tanto il colore del mantello dei Cavalieri di Camelot, e un paio di occhi verdi, luminosi e determinati, splendidi.
Con un brivido che gli percorse tutta la spina dorsale ebbe la sensazione di essere stato riconosciuto: Alex, nonostante non l’avesse mai visto prima e non sapesse chi fosse, stava ricambiando il suo sguardo con intensità, dimentica di quel ragazzo che le stava raccontando qualcosa di divertente.
Il tempo si fermò mentre si andavano incontro, guardinghi ed impazienti, preoccupati e frementi, due calamite impossibili da tenere lontane.
«Tu sei Alexandra Greenwood», esclamò sorridendole dolcemente quando furono l’uno di fronte all’altra.
«Alex va benissimo. E tu conosci Dragoon, non è così?».
Merlino annuì, colpito dalla sua perspicacia. «È mio nonno. Mi ha detto di dirti che sarebbe stato sconveniente farti vedere con lui».
«Perciò ha mandato il suo giovane ed affascinante nipote?».
Alex arrossì non appena finì di porre quella domanda e lo guardò quasi terrorizzata, ma tutto si risolse con una risata che li coinvolse entrambi.
«È da lui, no?».
L’infermiera annuì con un cenno del capo, ma il suo sorriso svanì di colpo. «Lui sta bene? Ti prego, dimmi che sta bene».
Merlino aprì la bocca per mentirle o per dirle la verità, ancora non era sicuro delle parole che ne sarebbero uscite, ma fu interrotto dal conto alla rovescia. Guardò Alex negli occhi durante tutti e dieci i secondi che dividevano il Duemilanove dal Duemiladieci – i dieci secondi più belli di quella sua nuova vita. In quei dieci secondi, capì che si era innamorato di lei e capì che avrebbe sempre tenuto un occhio su di lei.
«Buon anno!», gridarono le persone accanto a loro e Merlino le scostò delicatamente una ciocca di capelli biondi dal viso, soffermandosi poi con le dita sulla sua guancia.
«Ora capisco perché ti voleva tanto bene», le sussurrò e lasciò che Alex si appoggiasse a lui, nascondendo il viso oltre la sua spalla per non mostrargli la lacrima che le era rotolata fino alle labbra, mentre tutto il resto del mondo festeggiava e roteava vorticosamente.

***

«Ehi, dove stai andando?».
Alex tirò su col naso e senza voltarsi verso Artù, seduto al tavolo della cucina con una tazza di tè tra le mani, mugugnò: «A casa, ho bisogno di una dormita».
«E ci vai a piedi? Ci metterai un’eternità!».
«Tranquillo, non ho impegni».
Artù la raggiunse prima che finisse di infilarsi il cappotto e la costrinse a voltarsi afferrandole un braccio. L’infermiera provò a divincolarsi e a tenere il viso rivolto verso il basso perché non notasse i suoi occhi lucidi e pieni di dolore, ma il re di Camelot sapeva essere insistente.
«Hai litigato con Merlino? Vuoi che gli dia una botta in testa? Farò tutto quello che vorrai».
Alex riuscì ad abbozzare un sorriso e gli accarezzò una mano, per poi scostarla dal suo braccio e dirigersi verso la porta.
«Voglio stare un po’ da sola, tutto qui. Ci sentiamo più tardi».
L’espressione impotente sul viso di Artù le fece tanta tenerezza, ma non ritornò sui suoi passi. Si lasciò la strana villa di Merlino alle spalle e pian piano la sua camminata svelta si trasformò in una corsa sfrenata, accompagnata dalle lacrime e dal cuore che le batteva furiosamente nella cassa toracica.
Ma la corsa non bastò: non alleviò il peso che le schiacciava il petto, non spense il fuoco che le bruciava nelle vene, non lenì le ferite che sentiva sanguinare in modo sempre più copioso.
Senza neanche rendersene conto aveva raggiunto il lago, lì dove tutto era  iniziato, lì dove si era trovata costretta a prendere una scelta che a quanto pareva aveva segnato non solo il suo destino, ma anche quello di Merlino e di Artù.
Una folle idea le attraversò la mente e Alex la cavalcò senza pensarci su due volte: nascosta dal folto del bosco, si spogliò e rimasta in intimo si tuffò nell’acqua gelida di Avalon.
Il sale delle lacrime che le irritava la pelle scivolò via e con esso tutti i suoi pensieri, ma non quella rabbia cieca e folle contro il mondo. Galleggiando a pancia in su, Alex urlò contro il cielo e qualcosa dentro di lei si strappò: il muro era crollato. L’acqua assorbì tutta la potenza della magia e vibrò come se si trattasse di un terremoto, creando intorno a lei cerchi che si ripeterono per una dozzina di secondi. Poi un punto del fondale, a una ventina di metri più a largo, iniziò a brillare.
Alex nuotò, sentendosi attratta in maniera irresistibile da quella luce dorata, e quando fu proprio sopra il bagliore si immerse. Nonostante il freddo le stesse mordendo ogni centimetro di pelle, ciò che vide tra le alghe e alcuni lunghi rami le fece dimenticare persino di aver bisogno di ossigeno: una spada dall’elsa e dalle incisioni dorate, una spada che non poteva che essere la spada. Excalibur.

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Capitolo 18
*** 18. Sorcerers’ hearts ***


18. Sorcerers’ hearts



Il sole non era ancora sorto e il bosco intorno ad Avalon era ancora avvolto dalla nebbia e dal freddo penetrante della notte, ma Alex trovava quell’atmosfera rinvigorente: tutti i suoi sensi erano in allerta mentre correva, saltando le radici degli alberi, facendo attenzione a non scivolare sul terreno irregolare e prestando orecchio ai rumori fuori e dentro di lei. Solo così riusciva a non pensare a quello che avrebbe dovuto affrontare di lì a qualche ora.
Excalibur, nel fodero che aveva rubato ad Artù qualche giorno prima, le sobbalzava sulla schiena ad ogni passo e la faceva sentire al sicuro come mai prima d’allora. Al sicuro ed invincibile, tanto da farle credere di non aver più bisogno di niente e nessuno per ottenere ciò che voleva.

***

«Ti prego, ti prego, rispondi».
Artù si allontanò il cellulare dall’orecchio ed ebbe voglia di lanciarlo con forza contro la parete per romperlo in mille pezzi. A che scopo avere quello strumento incredibile se poi le persone lo ignoravano?
In qualche modo riuscì a trattenersi dal fare qualcosa di cui si sarebbe pentito e si alzò dal letto per scostare da sé le tende dalle finestre che davano sul giardino sul retro.
Il sole appena sorto gli schiarì le idee e trasformò la sua rabbia in determinazione. Cathleen ignorava i suoi messaggi e le sue chiamate? Era curioso di sapere che cosa avrebbe fatto se se lo fosse trovato davanti, in carne ed ossa, occhi negli occhi.
Si vestì in fretta e si fermò in bagno solo per lavarsi i denti, pettinarsi i capelli e spruzzarsi addosso un’infinità di deodorante. Quindi si precipitò giù dalle scale e trovò Merlino seduto al tavolo della cucina con una tazza di caffè in una mano e la propria testa nell’altra, gli occhi spenti e circondati da evidenti occhiaie fissi su una valigetta nera chiusa di fronte a lui.
Vederlo ridotto in quello stato gli straziava il cuore, ma dopo la loro ultima tremenda litigata aveva deciso di non aprire più l’argomento, di lasciarlo nel proprio brodo fino a quando non si sarebbe reso conto che per quanto si opponessero non sarebbero mai riusciti a cambiare il loro destino, di cui Alex ormai faceva pienamente parte.
Strinse i denti e passò accanto al tavolo in silenzio, diretto verso la veranda sul retro. Si fermò di colpo quando sentì la voce atona di Merlino chiamarlo.
«Il taxi sarà qui alle nove, non fate tardi».
Artù sospirò pesantemente e, deluso ed arrabbiato, si chiuse con violenza le porte scorrevoli alle spalle, per poi correre verso il vecchio fienile. Montò sulla vecchia bicicletta dello stregone e sfrecciò verso il centro abitato.

***

Merlino finì il caffè ormai freddo e lentamente si alzò dalla sedia per posare la tazza nel lavello.
Nonostante avesse già preso la sua dose mattutina di antidolorifici e sapesse perfettamente che non doveva abusarne per non diventarne dipendente (era già abbastanza difficile sgraffignare un flacone dal magazzino del Pronto Soccorso, figuriamoci farlo in astinenza!), il corpo gli doleva come se ogni osso fosse sul punto di frantumarsi, ogni tendine di strapparsi e ogni muscolo di sciogliersi. Per non parlare poi della vista. Gli oggetti, anche quelli più vicini, non avevano più i bordi: erano solo chiazze di colori diversi, e la luce gli bruciava le retine come avrebbe fatto un raggio laser.
Artù pensava sicuramente che stesse male e non dormisse per colpa di Alex e aveva ragione, ma anche torto.
Nell’ultima settimana aveva trascorso gran parte delle sue notti nel bunker segreto la cui esistenza era stata sconosciuta anche per lui per i primi tre anni da proprietario della villa. Ne aveva scoperto l’accesso per caso, quando sistemando la stanzetta che usava come sgabuzzino per le scope, le scarpe e altre cianfrusaglie, la sua maglietta si era impigliata in un chiodo piantato a metà della parete. Un po’ insolito come posto per appendere un quadro, no? Aveva provato a toglierlo, ma era stato costretto a desistere quando lo aveva ruotato come una chiave e la parete si era ritirata verso l’interno, mostrando una scalinata in pietra stretta e ripida.
L’odore di muffa gli aveva fatto lacrimare gli occhi, ma Merlino si era coperto naso e bocca con l’incavo del gomito ed era sceso verso le fondamenta della villa illuminandosi la via con una piccola torcia elettrica.
Il bunker doveva essere stato costruito come rifugio antibomba, probabilmente durante la Seconda Guerra Mondiale. Merlino l’aveva trasformato in una specie di laboratorio forense. In quel luogo aveva ripassato più e più volte le pozioni di Gaius – perché non dimenticasse tutto ciò che aveva imparato con il curatore di corte – e proprio lì si era fabbricato il veleno che era stata la causa della sua ultima morte.
Su una scrivania aveva sistemato un paio di computer, una stampante e uno scanner. A vedere quella strumentazione si sarebbe detto che non era nulla di che… In realtà erano i file contenuti in quegli hard-disk ad essere di valore inestimabile per Merlino: foto, video, contatti che col passare degli anni aveva iniziato ad accumulare per avere qualcosa di compromettente tra le mani semmai qualcuno avesse avuto l’insana idea di denunciarlo per qualche favore o lavoretto richiesto. E ne aveva chiesti parecchi, da quando per essere qualcuno non bastava dire semplicemente il proprio nome, quello dei propri genitori e un paio di testimoni, o da quando per essere curato non bastava mostrare i sintomi del proprio malessere.
Aveva fatto uso di uno dei propri contatti giusto poco tempo prima, quando aveva dovuto procurare i documenti necessari ad Artù per essere considerato una persona reale, viva e vegeta, nata e cresciuta nel Ventunesimo secolo. Pagando un bel gruzzoletto aveva ottenuto in poco tempo dei documenti perfetti, ancora migliori degli originali, tanto che la stessa Myra non aveva sospettato nulla. Un lavoro impeccabile, ma non sempre i soldi comprano la fiducia degli uomini e prima di entrare in contatto con qualcuno del mondo dell’illegalità tendeva a procurarsi delle garanzie.
Col tempo e l’avanzamento della tecnologia, Merlino aveva dovuto per forza di cose adeguarsi e aveva imparato a destreggiarsi nel mondo dei computer, diventando un abile hacker. In fondo lui li aveva visti nascere i computer, evolversi, a tratti semplificarsi… Gli era bastato tenersi sempre aggiornato e svilupparsi con loro. Anche questa attività non era particolarmente legale, perciò si limitava a praticarla quando e se necessario. Il suo intervento all’ospedale ne era la prova.
Per aiutare Alex aveva sfruttato le sue abilità di hacker per autoinvitarsi al galà di beneficenza al Castello di Windsor, inserendosi nella lista dei facoltosi filantropi che, per finanziare i reparti oncologici di vari ospedali, avrebbero offerto direttamente generose quantità di denaro oppure avrebbero messo all’asta opere d’arte e cimeli di famiglia (a cui non dovevano poi tenere molto) perché altri facoltosi filantropi le comprassero con altre generose quantità di denaro.
Quello che gli aveva tolto il sonno durante quell’ultima settimana però era stato un progetto che non c’entrava niente con tutto questo, un progetto ambizioso e decisamente folle. Probabilmente avrebbe fatto meglio a dormire, invece di sfibrarsi in quel modo e di mettere ancora più a repentaglio le sue già precarie condizioni di salute. Eppure non ci sarebbe riuscito, non con le parole di Artù che gli ronzavano nella testa e il presentimento che se c’era davvero una possibilità su un milione che potesse funzionare allora doveva tentare.
Ora il prototipo era pronto, chiuso al sicuro in quella valigetta con tanto di combinazione numerica, ma era completamente inutile senza la magia che avrebbe fatto da polo positivo. E per quello aveva bisogno di Alex, la stessa Alex che gli aveva confessato ancora una volta di amarlo e a cui in quell’ultima settimana aveva  rivolto a malapena la parola per paura di dover affrontare l’argomento.
Sapeva che non avrebbe potuto rimandare per sempre, e sapeva anche che probabilmente trascorrere insieme tre interi giorni a Londra avrebbe potuto distruggere definitivamente il loro rapporto con le stesse probabilità con cui avrebbe potuto salvarlo. Ma, cosa più importante di tutte, sapeva di essere tanto stanco: stanco di mentire, stanco lottare contro se stesso, contro il proprio cuore… Perciò si promise che, in un modo o nell’altro, durante quei giorni a Londra avrebbe messo la parola fine a quella situazione. Lo avrebbe fatto in maniera definitiva.

***

Alex era appena uscita dalla doccia quando il campanello al piano inferiore trillò. Si strinse meglio l’accappatoio intorno al corpo e frizionandosi i capelli con un asciugamano scese al piano inferiore, raccogliendo Artù con l’altra mano quando lo incrociò nel bel mezzo delle scale, in vena di farle le fusa intorno alle caviglie nude.
«Il tuo baby-sitter è venuto a prenderti», gli sussurrò, posandogli un paio di baci tra le orecchie. «Non ti preoccupare, mammina tornerà presto».
Aprì la porta e si trovò davanti proprio Keith. Indossava vestiti freschi di bucato, ma le bastò guardarlo in viso per capire che aveva appena smontato: i suoi occhi stanchi ma soddisfatti erano una prova inconfutabile.
Il dottor Ellis esitò sulla scollatura dell’accappatoio, per poi abbassare frettolosamente lo sguardo, imbarazzato. «Scusami, momento sbagliato».  
Alex scrollò le spalle, abbozzando un sorriso. «Quando mai noi due abbiamo fatto le cose con il giusto tempismo? Dai, entra».
Keith ricambiò il sorriso e le passò accanto, ricordando la velocità con cui avevano deciso di andare a convivere e il giorno in cui tutto era andato a rotoli, lo stesso giorno in cui lui avrebbe voluto chiederle di sposarlo.
«Nottata impegnativa?», gli domandò lasciando che il gattino balzasse sul divano e stendendo una mano verso di lui perché le lasciasse il cappotto.
«No», rispose Keith. «Vado via subito».
«Oh. Okay, allora. Ti ho già sistemato le scatolette e i croccantini che di solito mangia in quella borsa. Lì invece c’è la lettiera e…».
«Ce la caveremo, vedrai», la interruppe.
«Bene, perfetto. Gli piace dormire accoccolato sul letto. Sul mio letto, almeno…».
«Alex, puoi fare silenzio per un attimo?».
L’infermiera serrò le labbra e lo fissò.
Il dottor Ellis deglutì, sentendosi agitato come la prima volta in cui si era avvicinato per parlarle, la notte di Capodanno di quasi cinque anni prima.
Si era sempre ritenuto un tipo sicuro di sé, forse persino un po’ troppo spavaldo con le donne, eppure ci era voluto del tempo e parecchi bicchieri di punch prima che trovasse il coraggio di attaccare bottone. Alex era stata la sola ed unica donna – e lo sarebbe sempre stata – che gli aveva fatto tremare le ginocchia per la paura di un rifiuto. E lui era stato tanto stupido da rovinare tutto per un’infatuazione passeggera.
Quando finalmente mise da parte i rimpianti e riprese il controllo di sé, si schiarì la gola e disse: «È che non capisco che senso abbia andare a Londra. Mio padre ti ha spiegato la situazione e lo sai che senza un invito non vi faranno mai entrare: sarà anche un galà di beneficenza, ma è un galà esclusivo».
«Ma noi ce li abbiamo, gli inviti. O meglio, Merlino e Artù ce li hanno. Io sarò il loro “più uno”».
Gli occhi di Keith erano così sgranati che Alex ebbe paura che gli schizzassero fuori dalle orbite in modo talmente splatter che avrebbe avuto gli incubi per almeno un mese.
«Ma come…? Com’è possibile?».
«Nemmeno io ci credevo quando me l’hanno detto, ma a quanto pare le loro famiglie erano molto ricche, talmente ricche che hanno lasciato loro un conto in banca a molti zeri, sai, per le emergenze».
Era una storia davvero assurda per lei che sapeva chi fossero veramente Merlino e Artù, ma per chi non li conosceva affatto, come nel caso di Keith, era una storia plausibile. Un estraneo non avrebbe potuto contestare il benessere economico della famiglia di due poveri orfani. Anzi, il fatto che fossero orfani alzava ancora di più le probabilità che i loro genitori fossero ricchi. Si potevano fare decine di esempi in questo senso: Bruce Wayne, Harry Osborn, Tony Stark, Harry Potter…
«Però… Insomma… Il fatto che siano ricchi non conta», riprese Keith, sempre più agitato. «Potranno anche spendere tutta la loro eredità, ma nemmeno una sterlina raggiungerà il nostro ospedale».
«E a quel punto dovrei intervenire io», disse tranquillamente, posandogli le mani sulle braccia e rivolgendogli il suo sorriso più supplichevole. «Sarebbe proprio il massimo, Vostra Altezza Duca di Cambridge, se anche una piccolissima parte del ricavato di questa sera venisse donata all’ospedale in cui lavoro. Ospitiamo bambini di tutto il Galles, siamo una vera benedizione per i genitori di queste povere creature…».
«Il tuo piano è davvero quello di far commuovere il principe William? Non riuscirai nemmeno ad avvicinarti a lui».
Alex si allontanò bruscamente, gettandogli un’occhiata fulminante. «E tu sei venuto qui solo per dirmi che ogni tentativo che farò sarà del tutto inutile? Beh, grazie tante, ma non ne ho bisogno. Non mi arrenderò fino a quando non avrò provato in ogni modo a salvare il reparto». Si avvicinò alla porta e l’aprì, rimanendo dietro di essa perché l’aria fredda non le lambisse le gambe.
A testa bassa, aggiunse: «Non mi aspetto che tu capisca, ma ho fatto una promessa e ho intenzione di mantenerla, anche a costo di farmi sbattere nella Torre di Londra per aver tentato di corrompere il principe William».
Keith si avvicinò lentamente e le posò una mano sulla guancia, sollevandole il viso per guardarla negli occhi. Quanto ammirava la lealtà, l’orgoglio e la determinazione che c’erano in quegli occhi verdi…
«Non sono mai stato bravo nel mantenere le promesse, lo sai. Non avrei mai dovuto fartene. Ti auguro buona fortuna, Alex. Se qualcuno può davvero compiere quest’impresa… sei tu».
Si chinò per posarle un bacio sulla fronte e poi si congedò, raccogliendo con una mano le borse che Alex gli aveva preparato e il trasportino con dentro il piccolo Artù nell’altra.
Dirigendosi verso la propria auto, guardò il sole appena sorto illuminare d’oro i fiori nel giardino e sentì dentro di lui un qualcosa che non provava da tempo: speranza.
La sua vita non sarebbe tornata come quella di un tempo, non avrebbe mai amato nessuna come aveva amato Alex, ma perlomeno ora poteva sperare che anche lui, presto o tardi, avrebbe trovato la felicità.
Il micino miagolò dentro il proprio trasportino, come se fosse d’accordo con lui, e Keith avviò il motore sorridendo.

***

La fortuna fu dalla sua parte.
Trovò il portone del condominio aperto e decise di sfruttare la situazione a suo vantaggio, aumentando l’effetto sorpresa.
Corse su per le scale e con un leggero fiatone si trovò di fronte alla porta dell’appartamento di Cathleen. Il cuore gli batteva all’impazzata nel petto, ma non era sicuro che fosse a causa di tutta l’attività fisica che aveva fatto quella mattina.
Suonò al campanello ed attese, sforzandosi di sentire qualsiasi rumore proveniente dall’interno dell’appartamento. Riuscì a distinguere dei passi avvicinarsi, ma nulla di più.
«Cathleen», la chiamò.
«Vattene, Artù».
Era lì, proprio dietro quella porta. Si appoggiò ad essa con entrambi i pugni chiusi e ricacciò indietro il cuore che si era fatto strada fino alla sua gola.
«Ti prego, fammi entrare. Ho solo bisogno di…».
«Hai per caso intenzione di spiegarmi perché hai mentito sulla tua vera identità? Diavolo, non so nemmeno perché credo che la tua vera identità sia quella che è. Forse vedere Merlino con quello sguardo da psicopatico mi ha influenzata. Ad ogni modo, non voglio sapere perché hai mentito. Non voglio avere nulla a che fare con te. Voglio vivere la mia vita senza più drammi».
«Avevi promesso…», mormorò Artù. Batté un pugno contro la porta, con rabbia, e ripeté: «Avevi promesso che l’avremmo affrontato insieme, se avessi avuto qualcosa di grave. Ho un pezzo di spada magica che potrebbe in ogni momento perforarmi il cuore. Hai intenzione di rimangiarti la parola data solo perché adesso sai chi sono veramente?».
Incredulo, Artù ascoltò il silenzio provenire dall’altro lato della porta. Trattenendo a stento il disprezzo, sibilò: «Ginevra, lei… Non so che cos’ho visto di speciale in te».
Arretrò, poi si voltò e si aggrappò al corrimano per correre giù dalle scale, ferito nell’orgoglio e con una gran voglia di tagliare le teste ai manichini. Il rumore della serratura però lo fece esitare e la voce di Cathleen, rotta dall’emozione e allo stesso tempo forte come un ruggito, gli fece schizzare di nuovo il cuore in gola.
«Io non sono Ginevra. Come tu non sei Zach. Io non ti ho mai paragonato a lui e tu non hai il diritto di…». Sobbalzò sotto lo sguardo di Artù, rendendosi conto di aver pronunciato ad alta voce il nome del suo fidanzato.
Il re di Camelot la raggiunse in poche rapide falcate e le prese il volto tra le mani per posare le labbra sulle sue in un bacio casto.
Si scostò quel tanto che bastava per incrociare i suoi occhi nocciola umidi di lacrime e le accarezzò lentamente la guancia con il pollice.
Cathleen sospirò come se un grande peso avesse smesso di gravarle sul cuore, quindi gli strinse forte le braccia intorno al collo e lo baciò di nuovo.

***

Merlino aveva appena faticosamente portato in salotto le due valige che la sera prima aveva preparato, una per sé e l’altra per Artù, quando attraverso una delle finestre dei bovindi vide di sfuggita una volante della polizia fermarsi di fronte alla villa. Sospirò stancamente, passandosi un polso sulla fronte madida di sudore.
Era trascorsa una settimana da quando aveva intimato a Myra di uscire dalle loro vite. Da allora non l’aveva più vista e aveva quasi sperato in un lieto fine, ma a quanto pare aveva cantato vittoria troppo presto.
Aprì la porta e rimase parecchio sorpreso di vedere l’agente Darrell Fisher percorrere il vialetto guardandosi intorno, sbattendosi sul palmo della mano sinistra una busta bianca.
«Agente Fisher», esclamò quando finalmente i loro sguardi circospetti si incontrarono.
«Buongiorno, Merlino».
«Credimi, non lo sarà nel caso in cui tu sia venuto per consegnarmi una multa».
Il poliziotto stirò un sorriso. «Credo che tu mi abbia confuso con Doherty. Non so se ritenermi offeso, sai...», allargò i gomiti e gonfiò le guance ad indicare la stazza del postino del paese, prima che la risata di Merlino lo contagiasse. «Scherzo, ovviamente».
«Rimarrà tra noi. Allora, che cosa ti porta qui?».
Darrell si fissò le scarpe, poi gli stese la busta e con voce tremendamente seria spiegò: «L’agente Chandra ha dato le dimissioni e due giorni fa si è trasferita a Swansea dai suoi genitori. Mi ha lasciato questa lettera per te».
«Due giorni fa?», ripeté con le sopracciglia inarcate.
Darrell non alzò gli occhi, sapendo di essere nel torto, e si strinse il collo fra le spalle. «Ho avuto la tentazione di aprirla più e più volte. Insomma… io e Myra non ci conoscevamo poi così bene, ma non avrebbe mai dato le dimissioni se non fosse successo qualcosa di veramente grave. E da quando avete iniziato a frequentarvi di nuovo mi è sembrata diversa, arrabbiata…».
«Le cose tra noi non hanno mai funzionato come lei avrebbe voluto», confessò Merlino senza mettere alcun sentimento nella propria voce. «Ma dubito che abbia deciso di dimettersi a causa mia».
«Già, è un’idea stupida vero?». Darrell sollevò il capo ridacchiando ed indicò la busta perfettamente chiusa. «Come vedi, alla fine te l’ho portata intatta».
«Grazie mille».
L’agente Fisher annuì. Si fissarono per un altro paio di lunghissimi secondi, senza sapere più che dire, fino a quando il biondino non lo salutò con un cenno del capo e girò i tacchi, incamminandosi di nuovo verso la volante.
«Devo dedurre quindi che rimarrai qui a tempo indeterminato?».
Darrell si voltò, la fronte corrugata. «Come?».
Merlino gli rivolse un sorriso. «Myra se n’è andata, qualcuno dovrà pur rimanere in questo posto dimenticato da Dio per interrogare i pazzi che vanno in giro con le balestre».
A quel punto anche il poliziotto si rilassò e ricambiò il sorriso. Sollevò un poco le mani, esclamando: «Chissà, potrebbe iniziare a piacermi».
«Lo spero, Darrell. Buona giornata».
L’agente Fisher lo salutò portandosi due dita alla fronte, poi salì in auto e fece inversione.
Merlino si chiuse la porta alle spalle ed aprì la busta che Myra gli aveva lasciato.

Avevi ragione, come sempre.
Spero che un giorno tu possa perdonarmi e ricordare il meglio di me.
Dì ad Alex che mi dispiace e che è fortunata ad averti accanto.

Per sempre tua,
Kajri


Pescò l’accendino da uno dei cassetti in cucina e diede fuoco alla lettera, osservando quelle poche parole andare in fumo tra le braci spente del camino.

***

Alex parcheggiò l’auto nell’enorme giardino sul retro, accanto al vecchio fienile come le aveva detto Merlino, quindi trasportò la propria valigia accanto alle altre due e si guardò intorno, trovando strano il silenzio che regnava in quella grande casa.
«Dov’è Artù?», chiese, gettando un’occhiata all’orologio appeso al muro. Mancava ormai poco all’arrivo del taxi che li avrebbe portati alla stazione di Newport, dove avrebbero preso il treno per Londra.
Il mago scrollò il capo, tornando a concentrarsi sulle persiane. Si era già occupato di tutte quelle al primo piano e di gran parte di quelle al piano terra, tanto che la villa era piombata in una sgradevole oscurità, ovattata nel silenzio.
«Da Cathleen, sospetto. Non mi ha rivolto la parola, questa mattina».
Alex non lo trovò strano, visto che da una settimana a quella parte Merlino era stato scostante anche con lei, sicuramente per ciò che gli aveva detto dopo la loro fuga dall’ospedale.
«Spero che arrivi in orario. Tutto il resto è pronto? I biglietti del treno, la prenotazione in hotel, gli inviti per il galà?».
«Rilassati Alex, è tutto a posto».
Il suo tono annoiato le fece venir voglia di prenderlo a pugni, ma si costrinse a calmarsi facendo dei respiri profondi. Non era la prima volta che le capitava di sentire quella rabbia sproporzionata incendiarle il petto e non sapeva proprio a che cosa fosse dovuta. Probabilmente era colpa dello stress. Lo stress era sempre la causa di ogni male.
«E tu? Stai bene?».
Merlino la guardò con la coda dell’occhio. «Sto bene».
Alex non ci credeva, ma non insistette. «Vado a prendere una boccata d’aria».
Uscì in veranda e camminò lentamente verso il fiumiciattolo, verso la tomba che lei, Artù e Merlino avevano costruito per onorare la memoria di Steve.
Non c’era giorno in cui non pensasse a lui, a volte persino nei momenti meno opportuni. Bastavano delle parole, delle immagini viste alla TV, una canzone alla radio… e il suo ricordo la travolgeva come un’onda anomala, lasciandola senza fiato.
Spesso una lacrima le scivolava sul viso, pensando che se non fosse stato per lei la magia di Merlino sarebbe durata di più: avrebbe concesso a lui e ai suoi genitori qualche ora, forse addirittura un giorno extra da trascorrere insieme.
Alex trasalì quando sentì una mano posarsi sulla sua spalla e in men che non si dica bloccò il braccio del proprio assalitore dietro la schiena ed estrasse un corto pugnale con la lama argentata simile alla punta di un arpione da pescatore, il manico in pelle marrone e un piccolo pomolo d’oro.
«Te l’ha regalato Artù, quello?», furono le prime parole di Merlino, accennando all’arma che aveva puntata alla gola. «Ricordo bene la prima volta che me l’ha fatto vedere».
La ragazza sgranò gli occhi e lo lasciò andare frettolosamente, terrorizzata dal suo stesso comportamento. Da quando i suoi riflessi erano diventati precisi come quelli di un ninja e i suoi movimenti rapidi ed agili come quelli di un ghepardo? Che gli allenamenti con Artù stessero davvero dando i loro frutti?
«Mi dispiace, io…».
«Colpa mia: mai prendere un cavaliere alle spalle», rispose sforzandosi di rivolgerle un sorriso, ma il suo tentativo fu così patetico che Alex morì di vergogna: l’aveva spaventato sul serio.
«Io non sono un cavaliere», sussurrò, riponendo il coltello nella fibbia legata alla cintura dei jeans per poi stringersi le braccia al petto, gli occhi rivolti verso la tomba di Steve. «Sono una strega».
Scorse Merlino rabbrividire, o forse fu solo la sua immaginazione.
«Non sei responsabile della sua morte, lo sai vero? Nessuno avrebbe potuto salvarlo, ormai».
Alex strinse così forte i pugni lungo i fianchi che sentì le unghie graffiarne i palmi. «Tu gli avevi dato del tempo… io gliel’ho tolto».
«Non sapevi di poterlo fare, non è colpa tua».
«Sì, invece!», urlò, digrignando i denti con rabbia. «È tutta colpa mia! Io… Io non voglio essere il motivo per cui il vostro destino dovrà compiersi, non voglio che voi vi sacrif–».
Alex si interruppe bruscamente quando sentì le braccia di Merlino stringerla forte – una forza che guardandolo non gli avrebbe mai attribuito – contro il suo petto. Respirando a pieni polmoni il suo profumo un po’ della rabbia che le bruciava dentro sfumò, facendole tirare un sospiro di sollievo mentre immergeva il viso nell’incavo della sua spalla e lasciava che le lacrime che le bruciavano gli occhi si asciugassero.
«Purtroppo è così che funziona col destino», le sussurrò tra i capelli, accarezzandole la nuca con una mano. «I custodi della magia sapevano che non avremmo mai accettato di essere ancora delle semplici pedine sulla loro scacchiera, per questo hanno messo te sul nostro cammino: un motivo per cui lottare, per cui non tirarci indietro».
«Io cambierò il destino, io vi salverò», mugugnò, stringendo forte i pugni sulla sua schiena.
Merlino si lasciò andare ad una lieve risata gutturale. «Questa non è la nostra epoca, Alex».
«Artù si sta ambientando bene, potrebbe…».
«Forse».
L’infermiera sciolse lentamente l’abbraccio e lo guardò con cipiglio interrogativo. «Che cosa stai cercando di dire?».
«Niente», rispose sbrigativamente scuotendo il capo, sperando che il discorso morisse lì. Ma Alex non era dello stesso parere.
«Artù ci sta aspettando e il taxi sarà arrivato ormai, sarà meglio…».
Lo afferrò per il polso prima che potesse fare un passo verso la veranda e fissò gli occhi nei suoi. Ripeté la domanda e quella volta Merlino fu costretto a risponderle.
«Rispetterò qualsiasi decisione prenderà Artù, ma per quanto mi riguarda… io sono stanco, Alex; non ce la faccio più. Ho vissuto per troppo tempo, ho visto troppe cose, amato e perso troppe persone… L’unico pensiero che mi faceva andare avanti era Artù e ora che l’ho rivisto e so che sta bene vorrei solo… chiudere gli occhi e riposare».
Un’Alex incredula mollò la presa sul suo polso. Merlino aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi ci ripensò ed abbassando lo sguardo si voltò.
Un freddo intenso, risalito dalle profondità della terra per avvilupparle il cuore, aveva congelato tutta la voglia di vivere che ardeva in lei. In quel momento avrebbe voluto soltanto accoccolarsi a terra e piangere tutte le sue lacrime, ma qualcosa di più forte, qualcosa di persino più forte del pensiero della morte, le fece percorrere con gli occhi il corso del fiumiciattolo, in direzione di Avalon. La rabbia era tornata, così cocente da farla tremare da capo a piedi.
«Che un fulmine possa colpirmi in questo istante se non cambierò il destino di Artù e Merlino. Vi farò pentire di aver architettato tutto questo, fosse anche l’ultima cosa che faccio».
Estrasse nuovamente il coltello di Artù e lo ficcò nella terra, dichiarando guerra.

***

Senza nemmeno dargli il tempo di aprire bocca, Merlino aveva avvicinato le labbra al suo orecchio e in tono mortalmente serio aveva sussurrato: «Lei sa di essere l’unico motivo che ci spingerà ad accettare il nostro destino».
Quelle parole e ciò che comportavano lo avevano fatto rabbrividire, tanto che non era riuscito a dirgli che non era stato lui a rivelarglielo. Ad ogni modo, dubitava che Merlino gli avrebbe dato ascolto.
Ci aveva rimuginato sopra durante tutto il viaggio in taxi, trovandosi spesso e volentieri a disagio tra Alex e Merlino, tesi come corde di violino e silenziosi come tombe.
La situazione era grave, e se aveva imparato a conoscere Alex come credeva, sapeva che se si era messa in testa qualcosa – come ad esempio cercare di cambiare il loro destino – allora avrebbe fatto di tutto pur di riuscirci, o sarebbe morta provandoci. Quel pensiero avrebbe dovuto far peggiorare il suo mal d’auto all’ennesima potenza, eppure nello stomaco sentiva soltanto le farfalle.
Era più forte di lui, si trattava di una debolezza che aveva sempre avuto e che a Camelot avrebbe potuto ucciderlo almeno una decina di volte se al suo fianco non avesse avuto Merlino.
Probabilmente le cose nel mondo moderno non erano migliorate, visto che appena sceso dal taxi aveva rischiato di farsi investire da un auto perché invece di prestare attenzione alla strada la sua mente era volata ancora una volta al viso di Cathleen, ai suoi occhi lucidi di lacrime, alle sue efelidi che avrebbe tanto voluto contare una ad una, alle sue labbra morbide e calde.
Alex l’aveva acchiappato giusto in tempo, facendolo sbattere contro la fiancata del taxi da cui Merlino stava ancora scaricando i bagagli.
«Ma sei impazzito?!», gli gridò in faccia, rossa come un peperone. Sembrava fosse sul punto di schiaffeggiarlo, ma poi gli accarezzò la guancia, scuotendo il capo con fare rassegnato. «Non farlo mai più, testa di legno».
Artù non riuscì ad impedirsi di fissarla a bocca aperta, mentre Merlino chinava il capo e ridacchiava sommessamente mentre consegnava una più che lauta mancia al tassista per l’aiuto.
Alex li fissò entrambi con cipiglio perplesso, per poi sbottare con un mezzo sorriso sulle labbra: «Che c’è? Mi spiegate ora perché fate così?».
Merlino la guardò per la prima volta da quando erano usciti di casa e lo fece sorridendo, cosa di cui Artù andò molto orgoglioso. Certo, aveva quasi rischiato di finire sotto un’auto e si era fatto insultare, ma se quello era il risultato allora ne era valsa decisamente la pena.
«È solo che anche io lo chiamavo così, quando mi faceva arrabbiare. E accadeva molto spesso, credimi». Inarcò le sopracciglia ed aspettò che l’autista fosse tornato sul suo taxi prima di aggiungere: «Prima del mio arrivo a Camelot non aveva nemmeno un valletto ufficiale, forse perché nessuno ambiva ad ottenere quel posto».
«Stai per caso insinuando che ero un tipo difficile da servire?», lo incalzò Artù, già pronto a sollevare una mano per schiaffargliela sul coppino.
Merlino affiancò Alex e le fece l’occhiolino. «Difficile? Persino suo padre il re aveva meno pretese di lui. Merlino, l’acqua del mio catino è troppo calda! Merlino, ho bisogno dell’armatura lucidata entro dieci minuti! Merlino, il mio cavallo deve essere strigliato! Merlino, c’è un topo che mi rosicchia gli stivali proprio sotto il tuo naso!», imitò la sua voce più petulante e lo fece così bene che Alex non riuscì a trattenere le risate. Però al contrario del mago, il quale aveva parlato sottovoce per non farsi sentire dagli altri passeggeri che raggiungevano il loro stesso binario, l’infermiera rise forte, piegando la testa all’indietro e chiudendo gli occhi. Praticamente tutti si voltarono a guardarla, ma anziché lanciarle occhiate scocciate si ritrovarono con un sorriso sulle labbra, contagiati dalla bellezza di quel suono.
«Oh, Dio», sospirò quando si fu calmata, asciugandosi gli angoli degli occhi. «Come hai fatto a sopportarlo per così tanto tempo? Io l’avrei ucciso nel sonno, come minimo!».
Artù sollevò le mani dietro di loro, sconvolto. «Ehi, sono qui, vi sento!».
Merlino però non gli prestò attenzione e scrollò le spalle, gli occhi fissi sul punto da cui sarebbe dovuto comparire il loro treno.
«Col tempo ho scoperto che era un uomo migliore di ciò che spesso e volentieri dimostrava. Al contrario di suo padre, lui lottava per ciò che era giusto, per una Camelot più equa in cui tutti potessero vivere in condizioni dignitose, che fossero fabbri, stallieri o ricchi mercanti. Il popolo lo rispettava e lo amava per questo, ma non solo… Tutti sapevano che avrebbe corso qualsiasi pericolo per Camelot, combattuto qualsiasi battaglia… avrebbe persino dato la propria vita se questo avesse voluto dire salvare quella di un solo uomo…».
Merlino gli rivolse una rapida occhiata e Artù sentì le orecchie andare in fiamme, ricordando immediatamente quando aveva corso mille e più pericoli solo per recuperare una pianticella oppure quando aveva creduto di bere un calice di veleno e sacrificare la propria vita per quella del mago.
«Ho capito che non era solo nobile di nascita», continuò Merlino. «Il suo cuore era nobile. Questo mi ha spinto a credere in lui, a credere in un mondo migliore, quello che lui avrebbe costruito una volta re».
«Wow», mormorò Alex dopo eterni istanti di silenzio, rotto soltanto da un fischio lontano. «E com’è che vi siete conosciuti?».
Merlino assottigliò le labbra in un sorriso che lottava per diventare una vera e propria risata.
«Posso raccontartelo io, se vuoi», esclamò Artù, incrociando le braccia al petto.
«Oh, questa non me la voglio assolutamente perdere», mormorò lo stregone.
Il re di Camelot si portò una mano sul petto, con un sorriso storto sul viso. «Sarò obiettivo, lo prometto».
E così, mentre aspettavano che il loro treno arrivasse – erano un po’ in anticipo – seduti su una panchina fredda e piena di scarabocchi, Artù raccontò ad Alex come Merlino era entrato nella sua vita.
Non l’aveva voluto, anzi, la prima volta che aveva osato fronteggiarlo era finito alla gogna, ricoperto di frutta e verdura marcia, ma col senno di poi aveva ringraziato il destino, dio o qualsiasi altra cosa li avesse messi sullo stesso cammino.
«E allora io gli dico: “Ti avviso, sono stato allenato ad uccidere sin dalla nascita”. Ma vuoi che Merlino ascolti un consiglio da amico?».
«Non eravamo amici, allora», borbottò Merlino, mordendosi un sorriso.
«Sai che cosa ha detto in risposta? “E da quanto tempo vi allenate ad essere un idiota, mio Signore?”».
Alex scoppiò in un’altra delle sue risate contagiose, ma durò poco. Si interruppe infatti quasi subito, puntando gli occhi brillanti di malizia in quelli di Artù: «Non mi dire che ha usato qualche trucchetto di magia per farti fare una pessima figura!».
La smorfia di disappunto del re di Camelot fu addirittura meglio di una risposta. «Oh mio Dio, l’ha fatto davvero! Com’è potuto diventare il tuo servitore, dopo tutto questo?».
«Oh, era la solita giornata tipo a Camelot…», esclamò Merlino scrollando le spalle. «Una vecchia strega che portava rancore verso il re perché aveva condannato a morte suo figlio voleva vendicarsi assassinando il suo di figlio, il qui presente Artù. Era stato organizzato un grande banchetto, con la presenza di una cantante molto famosa, e Gaius era riuscito a trovarmi un posto da servitore. Così, riempiendo una coppa o due, ho notato che tutti nella sala si stavano addormentando».
«Ehi, dovevo raccontare io!», urlò Artù, dandogli una manata. «Perché non vai a prenderci del caffè? Non ho fatto nemmeno colazione, questa mattina!».
Merlino fece per ribattere, ma il biondo indicò la caffetteria dall’altra parte della stazione. «Forza, sbrigati!».
«Artù, stai facendo di nuovo il bullo», lo rimproverò debolmente Alex, cercando di trattenere le risate.
«Ora capisci che cosa intendevo, dicendo che nessuno voleva fargli da valletto?», domandò Merlino, per poi allontanarsi con le mani nelle tasche.
Alex aspettò che fosse lontano, quindi si alzò dalla panchina e si sedette sulla propria valigia, in modo da trovarsi Artù di fronte. «Dai, continua».
Artù sorrise compiaciuto e riprese: «La strega era riuscita a prendere le sembianze della cantante, in modo da poter arrivare a noi del tutto indisturbata. Iniziò a cantare e come ha detto Merlino tutti iniziarono ad addormentarsi, me compreso. Solo lui si è coperto le orecchie in tempo e – ora me ne rendo conto – deve aver usato la magia per far cadere il lampadario sulla strega e spezzare l’incantesimo. A poco a poco ci siamo svegliati tutti, ma non avevamo idea del perché la nostra cantante fosse a terra, con un lampadario addosso e l’aspetto di quella brutta vecchia che aveva giurato vendetta poco prima che suo figlio venisse giustiziato perché aveva usato la magia».
«Che cosa hai detto?».
Artù sollevò gli occhi, senza capire immediatamente cosa l’avesse sconvolta tanto. Quando ci arrivò, si sentì nudo come un verme.
«Mio padre, lui… Aveva regole ferree per quanto riguardava la pratica della stregoneria. Aveva i suoi motivi e io…».
«Merlino praticava la magia per aiutarti e salvarti la vita ogni volta che poteva, credi che tuo padre l’avrebbe giustiziato comunque?!».
«Mia madre è morta a causa della magia», mormorò, ripensando dolorosamente al solo ed unico ricordo di sua madre, un miraggio che proprio una strega – Morgause – gli aveva mostrato.
«Non poteva avere figli, ma mio padre voleva così tanto un erede che chiese i servigi di una strega molto potente, una certa Nimueh. La strega acconsentì, ma non gli disse che, secondo le regole della Religione Antica, ogni vita che veniva donata ne necessitava una in cambio».
«Nimueh si prese la vita di tua madre quando tu venni alla luce», concluse Alex per lui, stringendogli una mano tra le sue, ricoperte da un paio di guanti viola.
Artù annuì. «L’odio di mio padre per la magia era così accecante… Avrebbe ucciso chiunque. Tranne forse…».
«Chi?», domandò l’infermiera, col fiato bloccato in gola.
«Scusami, sto divagando. Dov’ero arrivato con la storia? Ah sì, l’incantesimo si era spezzato e la strega aveva ripreso il suo vero aspetto».
Sentiva gli occhi inquisitori di Alex bruciargli la pelle, ma non era pronto per parlarle di Morgana. Era una ferita ancora aperta, una ferita che forse non si sarebbe mai richiusa.
All’improvviso si domandò come si sentisse Merlino al riguardo.
Il mago aveva capito per primo che Morgana aveva il suo stesso dono, però aveva mantenuto il segreto, forse per mancanza di prove da portare di fronte al re e al principe, o forse per altre ragioni, ragioni di cuore… Aveva sempre sospettato che Merlino provasse qualcosa per colei che alla fine si era rivelata la sua sorellastra, ma nemmeno lui aveva mai avuto prove concrete per affermarlo con certezza. Forse era arrivato il momento perché lo scoprisse una volta per tutte.
«Con le ultime forze che le erano rimaste, mi lanciò contro un pugnale. Merlino intervenne di nuovo e mi salvò, tirandomi via dalla sua traiettoria prima che mi trafiggesse il cuore. Ero ovviamente sconcertato: lo stesso ragazzo che mi aveva dato dell’idiota e del cretino mi aveva salvato la vita. Non aveva senso ai miei occhi. Per questo mi ritenni profondamente offeso quando mio padre decise di premiare Merlino trasformandolo nel mio servitore personale. Iniziai a pensare che quel piccoletto dalle orecchie a sventola l’avesse fatto per entrare nelle grazie del re e non perché tenesse alla mia vita, ma molto presto fui costretto a ricredermi».
Alex sorrise dolcemente, ma poteva ancora leggere nei suoi occhi la curiosità per quella frase lasciata a metà. Sarebbe sicuramente tornata sull’argomento e ne aveva paura, ma decise che fino ad allora non ci avrebbe più pensato.
Un enorme serpentone metallico sferragliò all’improvviso di fronte a loro, facendolo schizzare in piedi con i capelli spettinati dal vento. Sapeva cos’erano i treni – li aveva visti alla TV – ma vederne uno dal vivo lo impressionò tanto che avvertì alla bocca dello stomaco lo stesso rifiuto che aveva provato quando Merlino lo aveva fatto salire per la prima volta sulla sua auto.
«Potete scordarvelo. Anche a costo di rimanere qui seduto per tre giorni, io non salirò su quel coso».
«Che cosa?», esclamò Alex, scioccata, quando si voltò di scatto sentendo la voce di Merlino alle proprie spalle.
«Ci salirà, vedrai».
Con un sorriso le porse il suo bicchierone di caffè, poi recuperò le valigie e si avviò verso le porte metalliche della loro carrozza.
Artù sentì lo stomaco rimpicciolirsi ancor di più, ma la mano di Alex intorno alla sua, protettiva come quella di una madre, gli diede la forza di incamminarsi a sua volta e raggiungere il serpentone. Esitò ancora prima di salire le scalette e deglutì imbarazzato, alzando il viso verso quello di Alex, già a bordo.
«Avanti, non fare il fifone!», esclamò e lo tirò così forte che quasi non cadde con la faccia sui gradini.
Non sapeva con esattezza che tipo di espressione avesse sul viso, ma doveva essere una parecchio buffa, visto che due ragazze scoppiarono in un risolino nascosto dalle mani quando lo videro camminare incerto tra le due file infinite di sedili e tavolini, alcuni occupati ed altri ancora liberi.
Il solo pensiero che silenziosamente lo stessero prendendo in giro ferì così tanto il suo orgoglio che lasciò bruscamente la mano di Alex e deviò il loro sguardo, imbronciandosi. Avrebbe tanto voluto vedere loro, catapultate a mille e passa anni di distanza dalla loro epoca!
«Ecco i nostri posti», annunciò Merlino indicando un tavolino circondato da quattro sedili, del tutto identici a quelli dietro o davanti.
Artù lo guardò inerte mentre afferrava la propria valigia e la sistemava nello scomparto proprio sopra al tavolino e poi si voltava verso Alex con le mani tese.
«Ce la faccio anche da sola», rispose lei, ma non fece in tempo ad infilare del tutto la valigia che un ragazzo con delle grosse cuffie sul cappellino di lana la urtò, facendole perdere l’equilibrio.
Merlino fu più veloce di lui e si piazzò dietro Alex, afferrando la valigia prima che le cadesse addosso e spingendola di nuovo nello scomparto.
In un’altra occasione non ci avrebbe pensato su due volte prima di rincorrere il ragazzo e pretendere che si scusasse pubblicamente prima di metterlo con la testa fuori dal finestrino e tenercelo per tutta la durata del viaggio. Quella volta però non riuscì a muovere un muscolo, come ipnotizzato dal contatto che si era creato tra Alex e Merlino: lui aveva abbassato le braccia ora, ma non osava sfiorare quelle di Alex; mentre lei invece si era appoggiata al suo petto con la schiena, guardandolo in viso da una distanza fin troppo ravvicinata.
Due schieramenti differenti iniziarono a prendersi a pugni nel suo stesso cervello: uno affermava che non c’era nulla di male se Alex e Merlino fossero così intimi, anzi, lo incitava quasi ad avvicinarli ancor di più e ad autoproclamarsi il cupido del loro amore; l’altro invece gli sussurrava che non era giusto, che il fatto che lui avesse dato la sua benedizione a Merlino non voleva dire che quei due potevano fare tutto quello che volevano.
Alla fine il lato più all’antica vinse e si schiarì profondamente la gola, facendosi spazio tra i due per sistemare anche la propria valigia. Si sentì vagamente in colpa per averli separati, ma gli passò presto, preso in contropiede dal treno in movimento.
Era affascinante vedere il paesaggio scorrere rapido fuori dal finestrino. Affascinante e tremendamente spaventoso.

***

Tornare in sé dopo quello che aveva provato accanto ad Alex era stato difficile. Non ricordava l’ultima volta in cui si era sentito così eccitato, ed era stata una vera sorpresa per lui realizzare che il suo corpo era ancora in grado di reagire in quel modo agli stimoli.
Da quando aveva preso posto non aveva fatto altro che lanciare occhiate ad Alex, chiedendosi pieno di imbarazzo se se ne fosse accorta oppure no. Pure in quel momento, nascosto in parte dallo schermo del laptop, la osservava di sottecchi.
Era così bella… Anche se da qualche giorno a quella parte nei suoi occhi e nei tratti del suo viso c’era qualcosa di diverso, come se si fossero induriti ed affilati, in grado di ferire con la stessa facilità con cui potevano ammaliare. E poi quella mattina anche il suo comportamento gli era sembrato insolito: gli aveva puntato un pugnale alla gola con fin troppa facilità, come se si fosse aspettata un attacco a sorpresa, e questo non gli piaceva affatto. Non voleva che si sentisse minacciata; non voleva che Alex diventasse un cavaliere, né una strega. Amava Alex per ciò che era e…
Lui amava Alex. L’unica cosa che non avrebbe dovuto permettersi di fare, per nessuna ragione al mondo.
Abbassò di scatto lo schermo del laptop e si alzò. Nonostante non ne avesse mai sofferto prima, iniziò a sentirsi un po’ claustrofobico. Aveva bisogno di un po’ d’aria.
«Dove vai?», gli domandò Artù, lanciandogli un’occhiata preoccupata.
«In bagno», rispose nervosamente e senza nemmeno volerlo incrociò lo sguardo di Alex, cosa che peggiorò la situazione.
Si mosse in fretta lungo la carrozza e ne uscì, trovandosi così solo nel piccolo corridoio in cui si trovavano i bagni e le porte da cui erano saliti all’incirca un’ora prima. Si appoggiò al vetro di una di esse e lo guardò appannarsi all’altezza del suo naso.
Rimase così per cinque secondi, o forse per cinque minuti, con gli occhi fissi sulla campagna e i paesini che si susseguivano velocemente in lontananza, quando sentì le porte automatiche della carrozza aprirsi nuovamente. Con la coda dell’occhio scorse Alex e si morse l’interno della guancia, imprecando silenziosamente.
«Va tutto bene?», gli domandò l’infermiera, con le sopracciglia aggrottate.
«Sì, avevo solo bisogno di sgranchirmi un po’ le gambe. Tu, invece?».
Alex scrollò il capo, ridacchiando. «Mai stata meglio. Perché?».
«Mi sembri… diversa, tutto qui».
La sua espressione cambiò in modo assai repentino, insospettendolo ancora di più: sembrava stata colta sul fatto a rubare, con un misto di paura e vergogna negli occhi.
«Alex, c’è qualcosa che vuoi dirmi?», le chiese quasi dolcemente, avanzando di un passo verso di lei.
Nonostante si fosse mosso con cautela, l’infermiera sobbalzò come un cerbiatto spaventato da un rumore improvviso nella foresta – e lui ne aveva visti tanti scappare a causa della sua inettitudine nella caccia.
«Torno da Artù», gli disse con voce strozzata prima di scomparire di nuovo dietro le porte scorrevoli, veloce come Flash in persona.
Merlino sospirò e decise di tornare sull’argomento alla prossima occasione, ma per i prossimi cinque minuti sarebbe rimasto ancora lì in piedi, con la fronte contro il vetro freddo e gli occhi chiusi, cullato dal ritmico sferragliare del treno sulle rotaie.

***

«Allora, l’hai trovato?».
Alex fissò Artù come se fosse comparso dal nulla e sbatté più volte le palpebre. «Chi?».
«Come chi? Merlino!».
«Oh… No, è veramente al bagno», mentì, sedendosi di fronte a lui anziché di fianco.
Artù sospirò e si appoggiò al tavolino con le braccia incrociate, gli occhi blu come il mare e colmi di apprensione fissi nei suoi.
«Mi vuoi dire che cosa c’è che non va? È da qualche giorno che sembri diversa, quasi in collera con il mondo».
Anche Artù l’aveva notato. Allora non era solo una sua impressione… Da quando aveva recuperato Excalibur dal lago era veramente cambiata. Ma non poteva confessarglielo, né a lui né tantomeno a Merlino. Chissà come avrebbero reagito, se avessero saputo del suo ritrovamento! Sicuramente gliel’avrebbero portata via e questo non poteva assolutamente permetterlo: Excalibur aveva scelto lei per tornare alla luce ed impugnandola si sentiva invincibile, una sensazione troppo bella per potervi rinunciare.
«Non dovrei esserlo?», rispose alla fine, facendo del suo meglio per risultare una bugiarda migliore dell’antenato. «Ci ritroviamo in questa situazione per colpa mia».
«E che cosa ti fa pensare che sia per colpa tua?».
Era stata convincente, ma si era tradita con le sue stesse mani.
Sospirò, confessando: «La settimana scorsa ti ho sentito parlare con Merlino, quando era ancora privo di conoscenza. Hai detto che Merlino e tuo figlio sono stati separati perché oggi io potessi spingervi a lottare ancora una volta per questo mondo».
«Ma non sei stata tu a deciderlo. La colpa è di Freya e di quelli come lei».
«Chi è Freya?».
«La custode di Avalon, una lunga storia».
Artù sollevò di scatto gli occhi e si ammutolì, salutando Merlino con un cenno del capo.
Lo stregone si avvicinò al loro tavolo e dopo un attimo di esitazione si sedette accanto al suo re, lasciando Alex da sola.
Il vagone sembrava piombato nel silenzio più assoluto e l’infermiera cercò di pensare a qualcosa da dire, o almeno di inventarsi un passatempo che avrebbe fatto trascorrere più velocemente l’altra ora di viaggio che rimaneva, ma il cellulare di Artù le fornì l’argomento perfetto.
«Chi è?», gli chiese, sporgendosi così tanto sul tavolino che se Artù avesse sollevato di scatto il capo le avrebbe tirato una testata.
«Fatti gli affari tuoi, impicciona», l’apostrofò, coprendo lo schermo dello smartphone con una mano.
Ma Alex non si arrese e con sguardo malizioso riprese: «Prima hai detto che questa mattina non hai fatto colazione. Dove sei andato?».
«Mi lasci in pace? Vai a tormentare qualcun altro».
«Ma tu sei il mio bis-bis-bis-bis-bis-bis…».
«Piantala».
«Per favore!». Alex sbatté le ciglia così dolcemente che avrebbe potuto fare concorrenza al più tenero dei cuccioli. E Artù fu costretto a cedere.
«Sono andato da Cathleen», sbottò con irritazione. «Sei contenta adesso?».
«Affatto! Voglio sapere tutto quello che vi siete detti, parola per parola».
Artù aprì la bocca, poi arrossì e la richiuse.
Sia Alex che Merlino lo fissarono trattenendo il respiro, fino a quando l’infermiera quasi non si lasciò scappare un gridolino di emozione.
«Avete fatto sesso?!», esclamò sforzandosi per tenere un tono di voce basso, ma probabilmente i passeggeri dell’intera carrozza la sentirono.
Artù rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva, squittendo un «Che cosa?!» che attirò ancora maggiore attenzione sul loro trio.
«Te lo ricordi vero che questo è il ventunesimo secolo e non c’è nulla di male se due persone non sposate fanno sesso, vero?», gli domandò Alex, a voce bassissima quella volta.
«Io e Cathleen non abbiamo fatto sesso», precisò, paonazzo in volto. Quindi ribaltò la situazione, guardandola con sguardo assassino: «Stai per caso insinuando che anche tu hai…?».
Alex si ritrasse all’improvviso, appoggiando la schiena alla poltroncina ed incrociando le braccia al petto. «Questo è troppo anche per te, nonno. E non osare spostare l’attenzione su di me un’altra volta: stavamo parlando di te e Cathleen. Che cos’è successo stamattina?».
«Ho deciso di andare a casa sua perché da quando Merlino le ha rivelato la verità su di noi non mi aveva più rivolto la parola», rispose alla fine, grattandosi la nuca dopo essersi scompigliato i capelli biondi sulla testa. «Continua ad avere ancora forti dubbi su tutta la storia del re di Camelot, ma le ho promesso che quando tornerò le spiegherò ogni cosa».
Alex inarcò le sopracciglia, in attesa. «E?», lo incalzò con impazienza.
«E l’ho baciata», disse con un filo di voce, come se stesse confessando un crimine punibile con la pena di morte. «E poi lei ha baciato me ed è stato tutto fantastico, anche se…».
«Anche se cosa?», ansimò l’infermiera, guardandolo disperata.
Quella volta fu Merlino a rispondere, stringendosi il collo tra le spalle. «Anche se entrambi hanno perso l’amore della loro vita e i sensi di colpa saranno inevitabili». Si rivolse direttamente ad Artù, parlando con calma e dolcezza: «Ne abbiamo già parlato: Ginevra avrebbe voluto vedervi felice».
«Lo so». Si passò le mani sugli occhi ora lucidi di lacrime e pretendendo che non si fosse commosso stese una mano verso Alex. «Mi presti quel tuo affare per ascoltare la musica?».
L’infermiera annuì controvoglia, decidendo di concedergli un po’ di spazio per se stesso, e frugò nella borsa a tracolla fino a quando non trovò l’mp3. Glielo passò e lo osservò infilarsi le cuffie nelle orecchie ed isolarsi, rannicchiandosi ad occhi chiusi contro il finestrino, il giubbotto steso addosso a mo’ di coperta.
Alex esitò prima di gettare un’occhiata fugace verso Merlino, scoprendo che lui la stava già guardando.
Non voleva aumentare la tensione che c’era tra loro riportando a galla il desiderio di Merlino di “riposare” – l’altra parola era troppo spaventosa anche solo per pensarla, – oppure mettersi ulteriormente in ridicolo spiegandogli che i suoi sentimenti per lui non impedivano loro di essere solo amici; soprattutto, non voleva che il mago indagasse ancora sui motivi delle sue ultime stranezze. Quindi abbozzò un sorriso e scivolando sulla poltrona di fronte alla sua gli chiese candidamente di raccontarle una delle sue storie.
«Come, scusa?».
«A furia di parlare di Camelot mi è venuta una specie di nostalgia, come se vi appartenessi anche io. Credo che mi sarebbe piaciuto vivere al castello». E magari io e te ci saremmo incontrati e avremmo potuto essere felici insieme, almeno per un po’.
Merlino annuì lentamente, per poi aprirsi anche lui in un sorriso. «Sì, credo proprio che saresti stata felice. Di sicuro tutti i cavalieri ti avrebbero fatto la corte».
Il sorriso di Alex si allargò per il piacere. «Raccontami un’avventura in cui ci siano anche loro».
«Vediamo… La conosci la storia di Lamia?».
L’infermiera scosse il capo e Merlino iniziò a raccontare, senza rendersi conto che Artù si era tolto una cuffietta per poterlo ascoltare e ogni tanto accennava un sorriso, ricordando i tempi andati in cui non aveva la minima idea di tutto ciò che Merlino faceva per lui quotidianamente.

***

Era da poco passato mezzogiorno quando scesero dal treno.
Il viaggio era durato solo un paio d’ore, eppure furono tutti felici quando toccarono di nuovo terra e nessuno obiettò quando Merlino propose di camminare verso il loro hotel, invece di ritrovarsi di nuovo seduti su un taxi. Dopotutto fuori dalla stazione di Paddington il sole allo zenit splendeva in un cielo così azzurro e limpido da non crederci, riscaldando piacevolmente la pelle mentre un venticello primaverile e frizzante la levigava.
Non attraversarono Hyde Park, anche se stendersi sull’erba, in quell’oasi di verde piantata nel cuore pulsante di Londra, era un qualcosa che sarebbe piaciuto molto al re di Camelot. Ci girarono attorno, percorrendo prima Bayswater Road e poi la lunga Park Lane.
Sul loro cammino incrociarono almeno una mezza dozzina di autobus rossi a due piani che sponsorizzavano visite turistiche della città, molte cabine telefoniche rosse e un chiosco al quale si fermarono per comprare tre enormi porzioni di fish and chips. Solo il cibo fu in grado di far star zitto Artù, il quale non aveva mai smesso di porre domande da quando avevano messo piede fuori dalla stazione. Sembrava un bambino.
«E quell’arco che abbiamo visto prima? Perché era lì?».
Alex roteò gli occhi al cielo: aveva gioito troppo in fretta.
Merlino invece sorrise, felice di poter soddisfare la sete di conoscenza del suo re. Inghiottì le patatine che si era appena messo in bocca e rispose: «Quello era il Marble Arch. John Nash, l’architetto che l’ha progettato nel 1828, l’aveva pensato come nuova entrata trionfale alla residenza reale di Buckingham Palace, ma una volta costruito si rese conto che le carrozze da cerimonia non sarebbero mai passate sotto le arcate, erano troppo strette. Così venne spostato sui resti di Tyburn».
«Tyburn?».
Il mago scrollò le spalle, cercando un cestino in cui buttare i propri avanzi. «La vecchia piazza in cui fino al Diciottesimo secolo avvenivano le pubbliche esecuzioni, anche quelle post mortem. Uno spettacolo davvero macabro».
Alex non si sarebbe mai abituata alla quantità di informazioni storiche che Merlino conosceva. E mai, mai avrebbe smesso di chiedersi quante di esse le avesse soltanto lette sui libri e quante invece le avesse apprese di prima mano.
Rabbrividì solo al pensiero e si alzò a sua volta dalla panchina, stirando le braccia verso il cielo.
«Quanto manca al nostro hotel?», gli chiese con finta noncuranza: la curiosità infatti la stava logorando.
«Non molto».
«Non molto quanto, esattamente?».
Merlino le sorrise furbescamente e la ignorò. «Forza, andiamo».

Alex non sapeva il nome dell’albergo in cui avrebbero pernottato, ma si era immaginata un piccolo edificio bianco, con alcune bandiere sulla facciata e molti fiori sui davanzali delle finestre. Un ambiente accogliente, magari a conduzione familiare, con i servizi minimi ma ben curati in ogni dettaglio. Un due, tre stelle al massimo. Per questo rischiò un infarto quando Merlino indicò l’altissima torre di fronte a loro, così alta che venne loro il torcicollo per averla guardata troppo a lungo.
«Tu sei completamente pazzo!», gli urlò contro non appena ritrovò un briciolo di autocontrollo. «Hai prenotato un cinque stelle lusso?!».
Merlino scrollò di nuovo le spalle, continuando a sorridere angelicamente. «Domani sera al galà ci spacceremo per ricchi filantropi, questo ci aiuterà a calarci meglio nella parte».
Alex stava giusto per dargli ancora una volta del pazzo scriteriato, ma il mago attraversò la strada invitando Artù a seguirlo, lasciandola indietro. Non poté far altro che mordersi la lingua ed affrettarsi ad entrare con loro nella hall, anch’essa immensa ed elegante da togliere il fiato.
Rimase in disparte con Artù – più per soggezione che per altro – mentre Merlino, al bancone del ricevimento, consegnava i loro documenti e la propria carta di credito. Il portiere (che come secondo lavoro faceva sicuramente il modello ad Abercrombie) fece una rapida strisciata e dopo aver controllato che fosse tutto in regola allungò a Merlino le chiavi delle loro stanze e diede il via libera al facchino che con efficienza sistemò le loro valigie sul carrello e fece loro strada verso uno dei tanti ascensori dalle pareti dorate.
«Questo posto mi mette a disagio», sussurrò Alex all’orecchio di Merlino, cercando di non mostrarsi sofferente a causa della stretta micidiale di Artù sul suo povero polso. La sua claustrofobia era alle stelle.
I loro nasi quasi si sfiorarono quando il mago si voltò verso di lei e ci fu un attimo di imbarazzo. Poi a sua volta si chinò verso il suo orecchio e rispose a bassa voce: «Pensavo che essendo di stirpe reale ti sarebbe piaciuto il lusso».
Alex non riuscì a ribattere perché Artù la trascinò fuori dall’ascensore non appena le porte scorrevoli si aprirono, traendo un respiro profondo e ringraziando gli dei di essere sopravvissuto.
«Signorina Greenwood, da questa parte prego», disse il facchino, invitandola a seguirlo lungo il corridoio.
Alex lo fissò confusa, poi fissò Merlino che le consegnava la chiave della sua stanza, spiegando: «La nostra camera è due piani più su».
Artù sobbalzò. «Cosa?! Mi stai dicendo che devo risalire su quella cabina della morte? Io ti odio, Merlino».
Lo stregone sorrise e con un cenno del capo la invitò a proseguire.
«Ci vediamo dopo», li salutò sospirando e si incamminò dietro il facchino che ora trasportava solo la sua valigia.
Avanzarono per quella che le sembrò un’eternità, tanto che quando si fermarono di fronte ad una delle tantissime porte tutte uguali si lasciò scappare un «Finalmente» più maleducato di quanto non avesse voluto. Imbarazzata, chinò il capo e consegnò la chiave al facchino, il quale le fece strada all’interno della sua suite.
Non poté davvero evitare di rimanere a bocca aperta quando si ritrovò in un salotto grande quanto quello di casa sua, con un divano a tre posti addossato sulla parete di sinistra e una scrivania e una chaise-longue sulla destra, mentre sul fondo della stanza delle pesanti tende dalle sfumature autunnali si aprivano su una grande finestra da cui si poteva ammirare gran parte dello skyline di Londra, tra cui la famosa ruota panoramica sulle rive del Tamigi.
«Wow», mormorò, mentre il facchino depositava la sua valigia accanto al divano e accendeva mano a mano tutte le applique, spiegandole come regolarne l’intensità in base all’atmosfera che voleva creare.
Alex fece del suo meglio per prestargli attenzione, ma tutto le sembrava così surreale da farle temere che stesse sognando. Probabilmente era appena rientrata dall’ennesimo turno di notte in ospedale ed era collassata sul divano, dimenticandosi di dare da mangiare al piccolo Artù.
«Signorina Greenwood, se ora vuole seguirmi le mostro la camera da letto».
Annuì senza troppa convinzione, lasciando che il facchino la conducesse nella stanza attigua, ancora più grande e confortevole della precedente: il letto alla francese si trovava sulla sinistra, sormontato da un quadro famoso ma di cui non ricordava il titolo; sulla destra c’erano un altro divanetto e una porta scorrevole che il facchino indicò come il guardaroba. Nella parete in fondo alla stanza c’era un’alta finestra, ma a differenza di quella nel salotto quella sembrava più una specie di bovindo, con una panchina imbottita e un paio di cuscini su cui sedersi per godersi in tutta tranquillità il panorama.
Alex non vedeva l’ora che il facchino se ne andasse per potersi rilassare di fronte a quella vista magnifica, ma prima la invitò a seguirlo un’ultima volta perché le mostrasse il bagno.
Stava quasi per dirgli che l’avrebbe trovato sicuramente anche da sola, ma le parole le morirono in gola, sopraffatte dall’incredulità, quando tantissime luci piccole come candele si accesero intorno ad una vasca idromassaggio posta proprio di fronte all’ennesima vetrata.
«Credo sia tutto, signorina Greenwood. Se ha bisogno di qualcosa, non esiti a contattare la reception. Buona permanenza a Londra».
Alex annuì come uno zombie, seguendo il facchino fino all’ingresso, dove rimase fermo con le mani unite sul ventre. Il suo sguardo la mise così in imbarazzo che l’infermiera fu costretta a scrollarsi di dosso lo shock. Solo allora capì che il facchino stava attendendo la mancia.
Gli rivolse un sorriso quasi meschino, ma non era rivolto a lui. Sapeva che dopo tre giorni trascorsi in quella suite avrebbe odiato casa sua e Merlino doveva pagare per questo.
«Dica pure ai miei accompagnatori che le ho promesso una lauta mancia, provvederanno loro», gli disse e gli chiuse la porta in faccia, alla quale si appoggiò per guardarsi di nuovo intorno. Si lasciò scappare un risolino quasi isterico e corse in bagno per riempire la vasca idromassaggio.
All’improvviso il lusso non la metteva più a disagio.

***

Artù si gettò sul divanetto di pelle chiara, le lunghe gambe che sporgevano dal bracciolo, e guardò Merlino chiudere la porta della loro suite con un sorriso divertito sulle labbra, il portafoglio ancora stretto in mano.
«Adesso che si fa?», gli domandò, portandosi le braccia incrociate dietro la nuca.
«Pensavo che avremmo potuto riposare per qualche ora e poi fare un altro giro per la città».
In una frazione di secondo Artù fu seduto sul divano, gli occhi blu fissi nei suoi. «Perché, ti senti male? Non mi mentire, Merlino, o giuro che…».
«Ho solo dormito poco questa notte», lo interruppe, trovando comunque dolce il fatto che si preoccupasse per lui.
Il re di Camelot rilassò le spalle e tornò a sdraiarsi, ma non lo perse di vista nemmeno per un attimo.
Merlino recuperò la valigetta nera che aveva lasciato sul tavolo dall’altra parte del salotto e poi con il trolley nell’altra mano si avviò verso la propria camera. O almeno lo avrebbe fatto, se Artù non gli avesse chiesto che cosa ci fosse in quella valigetta.
«Gli inviti per il galà e altri documenti», mentì e Artù gli credette – o fece finta – permettendogli di chiudersi finalmente la porta alle spalle.
Merlino sospirò e posò la valigetta sul letto, quindi inserì i quattro numeri della combinazione. La serratura si sbloccò, mostrando un piccolo cerchio di metallo, spesso all’incirca due centimetri e ricoperto di incisioni, con un cristallo grezzo incastrato nel mezzo. Lo sfiorò, sentendo un brivido corrergli lungo la spina dorsale. Richiuse di scatto la valigetta e la cacciò sotto al letto, maledicendosi.
Lanciò a terra i cuscini di troppo e si stese sopra le coperte, dando le spalle al sole accecante che illuminava lo skyline di Londra. Non appena chiuse gli occhi piombò in un sonno profondo e tormentato dagli incubi.

***

Alex pensava che la sua camera fosse enorme, ma non aveva ancora visto quella di Merlino e Artù. La sua in confronto era uno sgabuzzino per le scope!
Incredula, non riusciva a far altro che vagare per l’immensa suite, notando ogni piccolo particolare ed ignorando lo sguardo scioccato di Artù, pigramente steso sul divano. Doveva essere davvero preoccupato per la sua sanità mentale, se distoglieva lo sguardo dalla replica di una vecchia partita di calcio che lui ovviamente si era perso.
«Posso vedere la tua camera da letto?», gli domandò ad un tratto, tanto all’improvviso che il re di Camelot sobbalzò, lasciandosi quasi sfuggire di mano il telecomando.
Sospirò, indicando con un cenno del capo la porta dietro la poltrona. «Da quella parte».
L’infermiera corse contro la porta come avesse voluto sfondarla e si pietrificò di fronte alla magnificenza di quella zona notte.
Mentre i toni della sua stanza erano prevalentemente quelli caldi ed avvolgenti del legno, quella suite sembrava un piccolo pezzo di Paradiso: il bianco candido delle lenzuola, delle tende e della poltrona ricordava un soffice manto di nuvole, le venature d’oro degli intagli nei mobili e dei ricami sui cuscini brillavano come raggi di sole, i fiori che si trovavano sul comodino e il sedile di velluto trapuntato ai piedi del letto sembravano frammenti di cielo.
Alex fece un passo incerto all’interno della camera e sfiorò uno dei pali di legno lucido a sostegno del baldacchino: era decisamente vero. Lei aveva sempre desiderato avere un letto a baldacchino!
Quasi pestò i piedi a terra per l’invidia, poi si gettò a volo d’angelo sul materasso soffice e chiuse gli occhi, beandosi del piacevole calore che la luce del sole le regalava sulla pelle entrando dalla finestra panoramica.
Senza rendersene conto si appisolò, ma credette davvero di star sognando quando aprì di scatto gli occhi e si ritrovò il viso di Merlino a pochi centimetri dal proprio, la sua mano che le accarezzava i capelli ancora un po’ umidi sull’attaccatura del collo dopo la sua immersione nell’idromassaggio.
«E il lusso ti metteva a disagio, uh?».
Alex si sollevò sui gomiti troppo in fretta, senza dare a Merlino il tempo necessario per scendere dal letto: le loro fronti si scontrarono ed entrambi gemettero per il dolore, per poi scambiarsi un’occhiata e scoppiare a ridere. Un sogno non avrebbe fatto così male.
«Per quanto ho dormito?», gli domandò, controllando se avesse sbavato o meno.
Aveva scoperto che poteva capitarle durante l’ultimo pigiama party della sua vita, a tredici anni, e il nomignolo con cui avevano iniziato a chiamarla a scuola l’aveva ossessionata tanto che anche adesso, a distanza di anni, si preoccupava di come qualcuno di estraneo potesse trovarla dopo un sonnellino. Non che Merlino fosse un estraneo, ma era pur sempre l’uomo di cui era innamorata…
«Una ventina di minuti, al massimo. Sono io che ho dormito troppo».
«Probabilmente ne avevi bisogno. Ma perché mi hai svegliata?».
Merlino aprì la bocca, ma qualcosa scattò nella sua mente e la richiuse, facendo svanire persino il sorriso che ne incurvava le labbra.
Alex si chiese se non avesse dovuto essere più specifica, ora che l’aveva preso in contropiede. Avrebbe potuto chiedergli perché le stava accarezzando i capelli di nascosto, perché si fosse avvicinato così tanto al suo corpo… Non ne ebbe il coraggio.
«Non che volessi dormire, comunque», esclamò, scendendo dal letto. «Allora, dove andiamo?».
Merlino riconquistò il proprio sorriso, gli occhi lucenti d’emozione. «Pensavo di far vedere ad Artù la residenza della Regina».
«Sperando che non voglia spodestarla».
«Ehi, vi siete dimenticati ancora di me? Vi sento!», urlò Artù dal salotto.
Alex trovò inquietante che il suo bis-bis-bis-eccetera-nonno origliasse le sue conversazioni con Merlino, ma non appena incrociò lo sguardo dello stregone scoppiò a ridere, contagiandolo.

Trascorsero un bel pomeriggio, come tre semplici turisti senza nessun altro pensiero oltre a quello di godersi la città inondata dal sole.
Avevano raggiunto Buckingham Palace passando per Constitution Hill, una strada che permise loro di vedere il Wellington Arch e l’Australian Memorial, su cui Merlino raccontò un paio di aneddoti probabilmente sconosciuti al resto del mondo.
Alex aveva scattato moltissime foto al Palazzo, mentre Artù continuava a borbottare che non poteva essere la vera residenza della famiglia reale: che castello era, senza le torri?
Così erano passati oltre, dirigendosi verso le rive del Tamigi per ammirare il Big Ben e il Palazzo di Westminster.
Mano a mano che si avvicinavano all’orologio più iconico del mondo Alex sentiva la delusione crescere sempre più dentro il suo cuore. Quando era stata a Londra da bambina, con i suoi genitori e poi in gita scolastica, le era sembrato molto più alto! Ora invece persino il loro hotel lo superava.
La sede del Parlamento invece era incantevole, un vero spettacolo per gli occhi, anche se le faceva specie osservare quell’edificio in stile neogotico affiancato, sull’altra sponda del fiume, dal London Eye, la gigantesca ruota panoramica che lei aveva sempre associato ad un’enorme ruota per criceti.
Il sole era già quasi calato all’orizzonte quando decisero di tornare in albergo per la cena. Merlino aveva detto proprio così: «Sarà meglio tornare in hotel, o ci perderemo la cena».
Alex l’aveva fissato sconvolta, chiedendosi se avesse davvero fatto quello che temeva avesse fatto.
«Hai prenotato a quel ristorante? Quello al ventottesimo piano?».
«Uhm-uhm», aveva annuito lui con un sorriso ebete in faccia.
Merlino era pazzo, veramente ricco e pazzo.
Raggiunsero l’albergo e Alex tirò fuori dalla valigia il vestito che teoricamente avrebbe dovuto indossare la sera successiva, al galà. Era l’unico abito che fosse adatto all’occasione e l’unico che si era portata dietro, certa che l’avrebbe usato appunto per una sera soltanto.
Continuò a dare dell’idiota a Merlino mentre si spogliava e si immergeva nella vasca per il secondo idromassaggio della giornata, il quale però non servì a molto.
Si era appena avvolta nel morbido accappatoio bianco in dotazione, quando sentì dei colpi inconfondibili alla porta della sua suite.
«Avevi detto alle sette e trenta, se ti aspetti che sia già pronta sei proprio…».
Si era interrotta a metà, guardando lo stregone sorreggere due buste di plastica con il logo rosso di un ristorante cinese take-away. Era così felice che quasi si dimenticò di indossare soltanto l’accappatoio quando gli gettò le braccia al collo.
Quella sera mangiarono tutti e tre cibo cinese, seduti per terra intorno al basso tavolino di vetro del suo soggiorno, commentando la giornata appena terminata e ridendo a crepapelle quando Merlino raccontò loro dell’occhiata piena di repulsione che la receptionist gli aveva rivolto quando si era resa conto che era rientrato con la cena take-away.
Alex non si sentiva così bene da tanto, troppo tempo, e quando arrivò il momento della buonanotte un nodo le strinse la gola, facendole desiderare che Artù e Merlino restassero lì con lei per altri cinque minuti. Probabilmente sarebbero rimasti se gliel’avesse chiesto, ma non le andava di fare la bambina capricciosa. Quindi li salutò rimanendo sulla soglia della sua suite, completamente a suo agio nel proprio pigiama azzurro con le pecorelle, e poi si chiuse la porta alle spalle, avvertendo immediatamente il silenzio e la solitudine come due macigni sul petto.
Si era messa a letto da dieci minuti (e si era girata e rigirata per altrettanti) quando le arrivò un SMS. Afferrò il cellulare e nel giro di due minuti si era già cambiata, pronta per sgattaiolare fuori dalla suite.

***

Vediamoci tra dieci minuti al bar del ventottesimo piano.

Lesse per l’ennesima volta il messaggio che le aveva inviato e sospirò, passandosi stancamente una mano sul viso per poi portarsi alle labbra il cocktail che nel frattempo aveva ordinato.
Forse seguire il proprio istinto era stata una mossa azzardata, considerando che Alex non si era ancora vista. Ma non sarebbe riuscito a darsi pace e non poteva più continuare così: doveva parlare con lei, riuscire a farle dire che non c’era futuro per loro e costringerlo ad accettarlo. Perché il vero problema – solo ora lo vedeva – era lui.
Alzò lo sguardo verso l’entrata del bar e finalmente scorse Alex affacciarsi e scrutare tra la folla. Merlino sollevò una mano per farsi notare e lei accennò un sorriso, incrociando il suo sguardo.
Indossava dei semplicissimi jeans e una camicetta rossa – quanto le donava il colore dei mantelli dei cavalieri di Camelot! – e aveva legato i capelli in uno chignon morbido, a cui sfuggivano diverse ciocche bionde che le sfioravano il profilo della mandibola e il collo candido.
«Scusami se ci ho messo tanto, non trovavo l’ascensore giusto», esordì, sedendosi al suo fianco mentre un solerte cameriere passava a ritirare la sua ordinazione.
«La stessa cosa che ha preso lui», rispose velocemente Alex, indicando il bicchiere di Merlino. «Qualunque cosa sia», mormorò quando si fu allontanato, guardando il cocktail con sguardo circospetto.
Il mago si strinse nelle spalle. «Non è male. È whisky con succo di lamponi, crema di cacao e succo di lime».
«Nah, troppo sofisticato per i miei gusti. Ma non siamo qui per bere, no?».
Merlino sentì il cuore battergli su per la gola, come se volesse anche lui un sorso del cocktail, ed abbassò lo sguardo.
Rimasero in silenzio per quella che sembrò un’eternità, avvolti dalla rilassante musica jazz, dalle leggere conversazioni degli altri avventori del bar e dalle luci soffuse che mettevano in risalto il bagliore notturno della città tutt’intorno a loro.
Solo quando arrivò anche il suo cocktail, Alex osò interrompere quell’imbarazzante silenzio.
«Perché mi hai detto di venire qui, se hai intenzione di startene zitto?», gli chiese quasi con rabbia, stringendo forte una mano intorno al bicchiere.
Merlino sollevò lentamente il capo e la guardò negli occhi, realizzando che se esisteva davvero un Paradiso allora i suoi prati dovevano essere per forza del colore dei suoi occhi.
«Ti amo», sussurrò, rendendosene conto troppo tardi: Alex l’aveva sentito, non poteva rimangiarselo. E che senso avrebbe avuto, in fin dei conti?
La sorpresa che vide prendere possesso del suo volto fu talmente grande che Merlino abbozzò un sorriso triste, prendendole una ciocca di capelli per sistemargliela dietro l’orecchio destro.
«È tutta colpa mia», aggiunse, cercando di leggere tutte le emozioni che le attraversarono lo sguardo, rendendolo annebbiato, lontano. «Non avrei mai dovuto provare questi sentimenti, non di nuovo. Lo sapevo che era uno sbaglio bere quel veleno, morire, rinascere con questo aspetto e presentarmi alla festa di capodanno all’ospedale. Lo sapevo, ma l’ho fatto lo stesso, perché ti amavo e volevo starti più vicino di quanto il vecchio Dragoon avrebbe mai potuto.
«Mi sono reso conto della pazzia che avevo commesso quando ormai era troppo tardi per tornare indietro, ma ho iniziato a sperare che mi sarebbe passata quando tu e Keith avete iniziato a frequentarvi. L’hai conosciuto alla stessa festa in cui hai, per così dire, conosciuto me. Ironico, non trovi? Mi sono sentito ferito, ero geloso, ma era proprio ciò di cui avevo bisogno: vederti felice era l’unica cosa di cui mi importasse veramente.
«Per un po’ mi sono davvero illuso che i miei sentimenti per te si fossero affievoliti, ma poi involontariamente ho ascoltato una telefonata di Keith e tutto quello che avevo cercato di dimenticare, di cacciare nell’angolo più profondo del mio cuore, mi è crollato addosso di nuovo. Keith ti stava tradendo e io non potevo, non potevo permettere che ti facesse del male.
«Ho iniziato a pedinarlo. Per settimane l’ho seguito durante le sue trasferte a Newport e ho raccolto prove della sua seconda relazione. Avevo foto, video… avrei potuto farteli avere in qualsiasi momento, eppure ho esitato. Ho realizzato che se tu e Keith aveste rotto, allora io avrei ripreso a sperare. Il mio amore assopito si sarebbe svegliato e mi avrebbe tormentato, giorno e notte, sapendo che mai e poi avrei potuto averti.
«Ad un tratto Keith smise. Aveva deciso che eri tu la persona che amava, che voleva spendere il resto della sua vita con te: in poche parole, voleva chiederti di sposarlo. Allora mi dissi di lasciar correre, mi dissi che per il mio stesso bene avrei dovuto far finta di niente, fingermi entusiasta quando mi avresti mostrato il tuo anello di fidanzamento e mi avresti raccontato per un milione di volte il modo romantico con cui ti aveva fatto la proposta. Però una parte di me continuò, imperterrita, a dirmi che non me lo sarei mai perdonato, se un giorno tu fossi venuta a sapere quello di cui io ero già a conoscenza. Ti saresti pentita di averlo sposato, avresti sofferto moltissimo e lo sai… io non sono un tipo egoista.
«Sapevo quando Keith avrebbe deciso di farti la proposta, così quello stesso giorno corsi a Newport e convinsi Bess, l’amante di Keith, a chiamarti. Non è stato difficile, lei era stata scaricata per un’altra e sapeva bene come ti saresti sentita se avessi sposato un uomo che ti aveva tradita per così tanto tempo. Usai un indirizzo email falso per inviarti quelle foto e il resto lo sai».
Le parole gli erano uscite come un fiume in piena, inarrestabili. E sarebbe stato bello se si fosse sentito anche solamente in parte libero da quel fardello che gli comprimeva il petto. La verità era che gli sembrava ancora più pesante, di fronte agli occhi colmi di lacrime di Alex.
«Perché mi stai dicendo tutto questo?», gli chiese dopo un minuto di silenzio, sforzandosi per mantenere la voce ferma.
«Ti ricordi quando mi hai chiesto se era così sbagliato amarmi? Ecco, per me amarti è la cosa più sbagliata che ci sia. Io non posso renderti in alcun modo felice, Alex. Quando tutta questa storia del nostro destino sarà finita, io… io ti lascerò, e questa volta per sempre».
«E credi che non soffrirò comunque?».
Ormai le era impossibile trattenere i singhiozzi, ma il suo autocontrollo era a dir poco spaventoso: le sue spalle, che solitamente tremavano quand’erano squassate dai singhiozzi, erano rigide come legno, e la sua voce, tremante e spezzata, usciva chiara e decisa, come se dentro di lei non stesse avvenendo alcun terremoto di livello dieci della scala Richter.
«Tu sei pazzo, se credi che ti permetterò di…», deglutì, mostrando così il primo piccolo segno di cedimento. «Tu non ti toglierai la vita di fronte ai miei occhi, Merlino».
«Non potrai impedirlo».
Alex aprì nuovamente la bocca per ribattere, ma Merlino scivolò più vicino a lei sul divanetto e le accarezzò la testa col palmo della mano, lasciandola scorrere dai capelli alla sua guancia rigata dalle lacrime.
«Ci ho pensato a lungo», sussurrò. «Se davvero la Terra sta morendo perché la magia sta morendo, allora qualcuno dovrà guarirla. Io sono l’unico in grado di ristorarla, di dare indietro al mondo tutto il potere che si è accumulato nelle mie vene durante i secoli. Man mano che la rilascerò mi indebolirò, le mie forze verranno meno… Quando tutta la magia avrà abbandonato il mio corpo, diventerò polvere».
«Stai zitto, zitto», gemette e lo colpì al petto con dei pugni leggeri, per poi affondare il viso nel suo petto.
Aveva attirato l’attenzione dei clienti dei tavoli vicini, tanto che Merlino capì che era meglio levare le tende. Prese Alex per mano e l’aiutò ad alzarsi, accompagnandola fuori dal bar tenendola stretta a sé.
Chiamò l’ascensore con ancora Alex appoggiata addosso, il suo respiro caldo ed irregolare contro il collo. Il desiderio di stringerla più forte, con entrambe le braccia, e di sentire quel respiro mescolarsi al proprio era quasi incontrollabile, perciò ringraziò il cielo quando le porte dell’ascensore si aprirono con un din.
Aveva intenzione di accompagnarla in camera, ma decise che forse non era l’idea migliore. Quando l’ascensore si fermò di nuovo, prese Alex per le braccia e la scostò da sé per guardarla negli occhi.
«È il tuo piano», le spiegò, indicando il corridoio con un cenno del capo.
«Non puoi davvero lasciarmi così. Cristo, mi hai appena detto che hai bevuto del veleno perché mi amavi e che secondo te l’unico modo per salvare il mondo è consumarti fino a diventare polvere!».
Merlino scrollò le spalle, rivolgendole un sorriso rammaricato. «Odiami pure, sarà più facile per entrambi».
Lo schiaffo arrivò forte e all’improvviso. E il bacio pure. Merlino chiuse gli occhi, la schiena contro la parete dorata dell’ascensore e le mani strette saldamente sui suoi fianchi.
Alex gli accarezzò la guancia su cui l’aveva colpito ed immediatamente il bruciore scomparve, donandogli in cambio una piacevole sensazione, come se vi avesse appena posato sopra un pugno di neve fresca. A quel tocco il mago recuperò un po’ di lucidità e si ritrasse bruscamente, voltando il capo dall’altro lato, evitando gli occhi dell’infermiera.
«Se potessi odiarti sarebbe davvero più facile», sibilò questa prima di aprire di nuovo le porte dell’ascensore ed uscire.
Merlino non riuscì a muoversi per diversi istanti. Quando lo fece, si portò istintivamente una mano sulle labbra, sentendole infuocate. Deglutì e socchiudendo gli occhi fece scorrere una mano di fronte a sé, mormorando poche parole. Come aveva temuto, le porte dell’ascensore eseguirono il suo comando e si chiusero per magia. Aspettò il contraccolpo, quasi lo sperò, ma non accadde nulla.
Sudando freddo, colpì il pulsante con il numero del piano in cui si trovava la sua suite e cercò di convincersi che doveva esserci un’altra spiegazione possibile.
Per quanto ci provasse però, quella notte si girò e rigirò nel letto, terrorizzato – tra le altre cose – dal pensiero che Alex fosse venuta a contatto con un’altra fonte magica, in grado di risvegliare ed alimentare i suoi poteri.


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Buongiorno a tutti! :)
Allora, in questo capitolo sono venuti al pettine alcuni nodi lasciati lì ingarbugliati l'ultima volta.
Primo Myra e Keith, che hanno preso strade diverse: la prima si è trasferita, il secondo cerca di rimediare ai suoi errori.
La situazione tra Artù e Cathleen - che sembra essersi risolta nel migliore dei modi *w* - e quella tra Merlino ed Alex - che più complicata di così non potrebbe essere. Quest'ultima in particolare sembra destinata a finire male già dal principio, dato che Merlino ha confessato la sua stanchezza nei confronti di quell'immortalità che non ha mai chiesto o desiderato. Ma Alex, la conosciamo, non si arrenderà e ha persino fatto un giuramento, una "dichiarazione di guerra" nei confronti dei custodi della magia. Come andrà a finire?
Per quanto riguarda la gita Londinese per il nostro trio delle meraviglie, staremo a vedere se Alex riuscirà effettivamente ad incontrare il Principe, anche grazie al "coraggio" fornitole da Excalibur.
E che ne pensate di questa ultima chiacchierata a cuore aperto tra Merlino e Alex? #shocking XD
Mi aspetto di leggere i vostri pareri, a questo punto! Un grazie a chi ha letto fino a qui e a chi ha commentato lo scorso capitolo! ;)
Ci vediamo tra un paio di settimane!

Vostra,
_Pulse_

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Capitolo 19
*** 19. Sweet dreams ***


Buonasera merliniani! :)
Vorrei tanto avere un giorno fisso per gli aggiornamenti, ma purtroppo lavorando non posso permettermi questo lusso, peciò spero mi perdonerete se a volte ritardo un po'.
Comunque questo capitolo è bello ricco: vedremo le reazioni di Merlino e Alex dopo il loro ultimo incontro al bar, il famoso galà di beneficienza (si è tenuto davvero, un paio di anni fa, ed erano anche circolati dei rumors sul Principe William e Taylor Swift) e nel finale... beh, questo non ve lo spoilero ;)
Ringrazio tutti per aver letto e commentato lo scorso capitolo e vi auguro un'ottima settimana!

Vostra,

_Pulse_


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19. Sweet dreams

Era tornato il gelo.
Non in senso letterale: le temperature di Londra erano fin troppo nella norma, ora che il cielo si era annuvolato e una sottile pioggia sembrava non voler dar tregua alla città.
Era tornato il gelo tra Alex e Merlino.
L’aveva scoperto quella mattina, quando Alex non si era presentata a far colazione nella loro suite – lei che giusto la sera prima si era mostrata tanto entusiasta all’idea – e Merlino invece di esserne sorpreso aveva scrollato le spalle e in silenzio era tornato a rintanarsi nella propria camera da letto con uno dei vassoi.
Rimasto solo e senza più appetito nel grande salotto della suite, Artù aveva deciso di scoprire che cos’era successo tra loro.
Merlino non aveva aperto bocca in proposito, anzi l’aveva proprio ignorato. Sperava che almeno Alex fosse più propensa a sfogarsi.

Bussò rapidamente alla porta della suite e dovette aspettare un po’, prima di sentire la serratura interna scattare. Alex aprì la porta quel tanto che bastava per vedere chi ci fosse dall’altra parte e al contempo nascondere ciò che aveva alle spalle. Ad Artù quel particolare non sfuggì, come non sfuggirono i suoi occhi gonfi ed arrossati, segno inconfutabile di un pianto recente.
«Giuro che lo ammazzo», mormorò a se stesso come promemoria. Quindi rivolse un tenero sorriso ad Alex, ma questa lo interruppe ancor prima che potesse aprire bocca.
«Mi dispiace per la colazione, ma non è un buon momento».
«Che cos’è successo?», le chiese e fece per entrare, posando una mano sul legno della porta; Alex però oppose resistenza, rendendo ancora più sottile la fessura che gli permetteva di intravedere la sua figura nella semioscurità della stanza.
«Alexandra? Fammi entrare, per favore».
La ragazza scosse lentamente il capo, mordendosi le labbra.
«Mi vuoi dire che cosa ti prende? Sto iniziando a preoccuparmi», sbottò Artù.
Non ottenendo alcuna risposta, perse definitivamente le staffe. Dando un colpo deciso alla porta riuscì a farla indietreggiare quel tanto che gli permise di intrufolarsi nella suite e di rimanere sbigottito di fronte al disastro che vi regnava. Era tutto a soqquadro, come se un tornado avesse deciso di fare una breve sosta nel salotto, ribaltando il divano e la poltrona e frantumando qualsiasi oggetto di vetro o ceramica presente– tra cui il tavolino intorno al quale avevano cenato la sera prima – per poi continuare per la propria strada, ignaro della distruzione che aveva arrecato.
Mentre Artù cercava invano di unire i puntini, l’asta di sostegno delle tende si staccò definitivamente dalla parete e cadde a terra, facendo entrare nella stanza la luce di quel giorno piovoso.
«Come diavolo…?», iniziò a chiedere voltandosi verso Alex, ma non riuscì più a continuare: le parole gli morirono in gola, guardando i suoi occhi di nuovo lucidi di lacrime e le sue spalle scosse da silenziosi singhiozzi.
«Non volevo. Te lo giuro Artù, è… è successo, non ho potuto fermarlo».
Piangendo, lo abbracciò ed affondò il viso nel suo petto. Artù si guardò intorno ancora una volta, incredulo che Alex fosse stata davvero l’artefice di quel di disastro, poi si fece forza e respirando profondamente la strinse a sé, posandole un bacio tra i capelli spettinati.
Ci volle un po’ prima che si calmasse. Artù la fece sedere sul divano – dopo averlo risistemato al suo posto ed aver tolto decine di frammenti di vetro dai cuscini – e con calma la invitò a spiegarle che cosa l’aveva portata a reagire in quel modo.
All’inizio fu comprensibilmente restia, poi si arrese all’evidenza di aver un disperato bisogno di confidarsi con qualcuno e gli raccontò tutto: di come una settimana prima aveva rivelato ancora una volta a Merlino di amarlo incondizionatamente, di quello che le aveva detto il mago a proposito del suo desiderio di riposo dopo che il loro destino si fosse compiuto e delle molteplici confessioni che le aveva fatto la sera prima, al bar dell’hotel. Era stato troppo, semplicemente, e non era più riuscita a tenersi tutto dentro. I suoi sentimenti – la rabbia, la paura, la frustrazione – erano stati i canali che la magia aveva sfruttato per tornare libera.
Quando finì il proprio racconto, Artù aveva almeno un milione di pensieri e di preoccupazioni che gli affollavano la mente. Per questo decise di procedere per priorità: numero uno, la sicurezza di Alex.
Dopo averle preparato una tazza di tè usufruendo della piccolo bollitore in dotazione nella suite, le disse di rilassarsi ed aspettarlo lì.
«Dove vai adesso?», gli chiese, tesa come una corda di violino.
Artù sospirò, abbassando le spalle. «Da Merlino. Deve sapere quello che è successo qui dentro, lui è l’unico che può…».
«No». Alex si alzò di scatto dal divano, senza trovare nessun posto a portata di mano dove poter lasciare la tazza di tè. La tenne quindi tra le mani, aggiungendo: «Non farlo, ti prego. Se dovesse scoprirlo potrebbe lasciarmi qui mentre voi questa sera andrete al galà, oppure potrebbe decidere che nessuno di noi ci andrà. Non possiamo rischiare».
Artù ebbe come la sensazione che si stesse arrampicando sugli specchi, come se non gli avesse detto tutto e avesse paura della reazione di Merlino per un altro motivo, ma non lo diede a vedere.
«Ma visto che è Merlino che paga il conto dell’albergo, penso proprio che debba essere avvisato delle condizioni in cui si trova questa camera».
Detto questo si voltò ed uscì dalla porta, senza dare il tempo ad Alex di obiettare nuovamente.

***

Artù era piombato in camera sua nello stesso momento in cui aveva deciso di alzarsi dal letto ed affrontare la giornata, invece di lasciare che gli scivolasse addosso.
Con Alex la sera precedente era stato un vero e proprio disastro: non aveva risolto pressoché nulla e aveva addirittura ottenuto un altro grattacapo, ma piangersi addosso era del tutto inutile.
Artù lo colse con i jeans infilati per metà e anziché arretrare per l’imbarazzo come credeva avesse fatto, non se ne curò minimamente e col fiatone esclamò: «È successo ancora».
Merlino lo fissò e tirò su la schiena, abbottonandosi i jeans. «Avete fatto le scale invece di prendere l’ascensore? Sapete che non dovete sforzarvi, potreste avere un attacco in qualsiasi momento».
«Merlino, hai sentito quello che ho detto? È successo ancora!».
«È successo ancora cosa?!», gridò a sua volta lo stregone, lanciandogli un’occhiata spazientita.
Artù fece un respiro profondo, massaggiandosi le tempie. «Alex ha usato di nuovo la magia, senza volerlo, e la sua camera è ridotta male, molto male».
Il cuore gli schizzò in gola, battendo all’impazzata. Ma prima che potesse dire qualsiasi cosa, il re di Camelot aggiunse: «È come con Morgana. Devi aiutarla, Merlino».
Il nome della sorellastra di Artù gli fece sanguinare il cuore e riportare a galla il suo incubo più frequente, quello che lo svegliava nel cuore della notte madido di sudore e con la sua voce ancora nella testa.
«Non posso aiutarla, se lei non vuole», si lasciò scappare, riferendosi al pensiero che l’aveva tormentato tutta la notte, ovvero che probabilmente aveva trovato una fonte magica di cui non gli aveva parlato. Ma questo Artù non poteva saperlo e rispose in base a ciò di cui era appena venuto a conoscenza.
«Senti, mi ha raccontato tutto quello che vi siete detti ieri sera e nonostante io non sia d’accordo con la maggior parte dei tuoi programmi per il futuro – ammettilo, sono pessimi – per quanto riguarda Alex devi fare tutto il possibile perché sia al sicuro. Se la ami come dici, non puoi arrenderti».
Merlino non si sarebbe mai aspettato che Alex andasse a piagnucolare da Artù. Ad ogni modo, se Artù era venuto a sapere delle sue intenzioni tanto meglio, aveva una conversazione scomoda in meno da affrontare.
«Non ne ho alcuna intenzione, infatti», rispose sbrigativo, afferrando la felpa blu con la zip e superandolo.

***

Alex camminò avanti e indietro nel salotto della suite, mordicchiandosi le unghie. Aveva provato a fermare Artù, un tentativo fiacco e poco convinto che non aveva portato ai risultati sperati. Forse perché una parte di lei voleva l’aiuto di Merlino.
Si era sentita svuotata quando rientrata nella suite aveva lanciato quell’urlo di rabbia, ma era stata una sensazione piacevole. Si era sentita meglio, come se si fosse liberata di un peso. Gran parte di quella che lei aveva stupidamente chiamato “rabbia” era sparita. Solo ora si rendeva conto che in realtà si trattava magia, pura ed incontrollabile magia. E pensava anche di aver capito da che cosa l’avesse assorbita: l’unico oggetto proveniente dal passato e strettamente legato alla magia, nato proprio grazie ad essa, era Excalibur.
La preziosa spada forgiata per il re di Camelot non aveva effetti positivi su di lei, lo capiva, ma era comunque terrorizzata dal pensiero che qualcuno potesse portargliela via. Anche in quel momento avrebbe tanto voluto aprire l’armadio e scavare tra i vestiti per impugnarne l’elsa e beneficiare della sicurezza che le infondeva, ma era a diversi chilometri di distanza.
Tornò a sedersi sul divano, facendo attenzione a non pestare le schegge di vetro sulla moquette. Si prese la testa fra le mani e le sfuggì una risata, pensando che si trovava nella stessa situazione del povero Bilbo Baggins: aveva trovato per caso un tesoro pericoloso, capace di renderla ciò che non era per natura, e pur sapendolo non riusciva a liberarsene. Non da sola, almeno.
La trovarono così, quando Merlino e Artù entrarono nella sua stanza.
«Alex, stai bene?», le chiese immediatamente lo stregone, inginocchiandosi di fronte a lei.
L’infermiera annuì con un cenno del capo, guardando Artù sulla soglia della porta.
«Come avete fatto ad aprire?», fu la prima cosa che chiese.
«Al check-in mi sono fatto dare un doppione di entrambe le nostre chiavi, in caso di necessità», spiegò Merlino distrattamente, intento ad esaminarle gli occhi e a sentirle le pulsazioni con due dita sul suo polso, proprio come un vero dottore.
«Quindi saresti potuto sgattaiolare in camera mia mentre dormivo?».
«A giudicare dal tuo aspetto, dubito che tu abbia dormito questa notte. E poi perché mai avrei dovuto?».
Alex roteò gli occhi al cielo, assumendo un’espressione tra l’annoiata e l’irritata. «Non ne ho idea. Per tenermi d’occhio, magari? Sai come siamo fatti noi Pendragon: ci impegniamo al massimo per vanificare gli sforzi altrui e farci del male con le nostre stesse mani».
Merlino la fissò con le labbra serrate e poi si voltò verso Artù, spettatore silenzioso e piuttosto confuso.
«Potete lasciarci soli per un momento?», gli chiese con gentilezza.
Il re spalancò la bocca e dopo un attimo di esitazione, sfiatò: «E dove dovrei andare?».
Merlino lo guardò con una certa eloquenza, lasciando intuire persino a lei che avrebbe voluto dirgli che quello non era un suo problema.
Scocciato, Artù uscì dalla suite sbattendosi la porta alle spalle.
Rimasti soli, Alex e Merlino si fissarono per qualche secondo, fino a quando entrambi non provarono l’istintivo impulso di baciarsi o strozzarsi.
Il mago fu il primo a reagire, sollevandosi ed incrociando le braccia al petto. «Se vuoi che mi scusi per aver mandato a monte il tuo matrimonio, sappi che non lo farò».
«Perfetto, perché non le voglio le tue scuse. Non avrei mai sposato Keith, tradimento o meno».
Non avrebbe voluto dirlo, non in quel momento. Aveva già messo il proprio cuore a nudo troppe volte di fronte a lui, senza ottenere nient’altro che rifiuti. L’aveva capito ormai che si trattava di una portata non gradita, assaggiata e poi sputata, da rimandare in cucina.
Gli occhi di Merlino le bruciavano addosso come tizzoni ardenti, perciò continuò ad evitarli mentre si metteva sempre più in ridicolo: «Ti sei preso il mio cuore quella notte di capodanno, senza chiedere. Sei entrato nella mia vita senza chiedere, l’hai cambiata, l’hai resa migliore e allo stesso tempo peggiore… Tutto questo ancor prima di rovinare il mio matrimonio. Ne avevi il diritto?».
«Non volevo che soffrissi, io…».
Lo azzittì con un movimento della mano. «Il dolore è inevitabile, non puoi controllarlo. Ho sofferto questa notte, persino adesso ho il cuore a pezzi. Che hai intenzione di fare in merito?».
Un sorriso amaro le incurvò le labbra, scorgendo l’impotenza negli occhi di Merlino. E l’ennesima crepa si aprì sul proprio cuore: non avrebbe mai ceduto ai sentimenti, poco ma sicuro.
«Lo sai che io e Myra eravamo amiche?», gli domandò, avvicinandosi a lui d’un passo. Merlino, forse senza rendersene conto, arretrò.
«Sì, me l’aveva detto».
«Come credi che mi sia sentita, quando hai iniziato a trascorrere ore ed ore nella sua stanza, ignorando tutto il resto? Ero gelosa. Ma stavo con Keith, in un certo senso lo amavo. Non sono mai intervenuta nella tua vita, non mi sono mai messa in mezzo, perché non ne avevo il diritto».
«O forse non ne avevi il fegato», la incalzò Merlino, rivolgendole improvvisamente un’occhiata gelida, che la fece irrigidire sul posto.
Le redini della conversazione le scivolarono di mano e si sentì piccola piccola sotto il suo sguardo serio.
«La predica non dovrebbe venire da me, visto che ho mentito per tutta la vita, ma se fossi stata onesta con te stessa, se avessi rotto con Keith a tempo debito e fossi entrata nella stanza di Myra esprimendo i tuoi sentimenti per me… Non dico che io e te avremmo avuto un lieto fine, questo non posso farlo, ma almeno Keith e Myra non si sarebbero nutriti di false speranze.
«E per quanto riguarda me, io ho preso una decisione quella sera e ci ho convissuto come meglio ho potuto. Ero lì, dall’altra parte della strada, quando Myra è stata investita. Ho visto l’auto avvicinarsi sempre di più, sapevo che cosa sarebbe successo, e avrei potuto usare la magia per impedirlo. Ho scelto di non farlo perché avevo un giuramento da mantenere e come hai detto tu il dolore è inevitabile: milioni di persone ogni giorno hanno degli incidenti, di fronte a me o dall’altra parte del mondo non ha importanza. Come mago è stata una mia scelta lasciare che Myra venisse investita, ma come essere umano l’ho soccorsa e le sono stato accanto come ho potuto».
Fu Merlino quella volta ad avanzare, prima di uno e poi di due passi, fino a trovarsi a pochi centimetri dal viso di Alex. Lei continuò a guardarlo negli occhi, nonostante sentisse il cuore pesante come piombo.
«Sì, sapevo che tu e Myra eravate amiche e che facevate jogging insieme. E non sai quante volte, seduto al suo capezzale, ho ringraziato il cielo che tu quella sera fossi di turno in ospedale. Avrei reagito diversamente, se ci fossi stata tu di fronte a quell’auto».
Sollevò una mano e Alex rimase immobile quando ne posò delicatamente il dorso sulla sua guancia. Chiuse gli occhi a quella carezza e rabbrividì quando sentì il respiro di Merlino sul suo orecchio.
«Il dolore è inevitabile, ma non c’è nulla che non farei per evitarlo a te».
Alex posò la mano sulla sua, scivolata sul suo collo. Forse non si sarebbe più fermata se lasciata a se stessa, ma il rumore secco di un quadro che si staccava dalla parete alle loro spalle e cadeva a terra li riportò bruscamente alla realtà.
Merlino allontanò la mano e si guardò intorno, imbarazzato, fino a quando non si schiarì la gola e mormorò: «Dovrei proprio andare ad avvisare la reception».
Era già alla porta, quando Alex ritrovò la propria voce per chiedergli: «Che cosa dirai?».
«Non ne ho idea», sospirò. «Saremo fortunati se non ci getteranno per strada a calci».

***

«Sei sicura di stare bene?».
Alex sollevò la testa dal piatto di uva a cui stava togliendo con cura i semini e sbuffò, facendo svolazzare la sua frangetta.
«Sarà la decima volta che me lo chiedi. Sì, Artù, sto bene».
«Scusami, è che… nemmeno io ho mai avuto un buon rapporto con la magia e mi terrorizza sapere che tu ce l’abbia».
L’infermiera si sistemò meglio sulla sedia, incrociando le gambe, e si portò alla bocca un chicco d’uva.
«Immagino quante streghe abbiano cercato di propinarti filtri d’amore per diventare regine di Camelot», esclamò, un sorriso sbarazzino sul volto.
Artù la fissò tanto seriamente che Alex si sentì a disagio ed abbassò lo sguardo.
«Non scherzare», l’ammonì. «Certo, è capitato pure quello, ma…».
Respirò profondamente, chiedendosi se fosse il caso di parlarle di Morgana. Soprattutto, lui era pronto ad affrontare l’argomento? Aveva riflettuto molto su ciò che gli aveva detto Merlino l’ultima volta che avevano parlato di lei, di come il suo destino sarebbe potuto cambiare se avesse avuto qualcuno accanto che la guidasse e le mostrasse come la magia potesse essere uno strumento per fare del bene. E aveva immaginato che poteva essere una delle tante ipotesi che non avrebbero mai più avuto la possibilità di verificare.
Con Alex però era diverso, lei era ancora lì con loro ed era loro dovere aiutarla. Artù non avrebbe fatto lo stesso errore una seconda volta: era pronto a stendere una mano – anche entrambe, se necessario – verso di lei e a non lasciarla andare.
«La mia sorellastra… anche lei possedeva il dono della magia», iniziò a raccontare, disegnando con l’indice dei motivi immaginari sul legno lucido del tavolo. «Era troppo spaventata di deludere mio padre, di venire cacciata o addirittura di essere giustiziata, perciò nascose il suo segreto per anni, come Merlino. Nessuno fu lì per lei quando la paura dei propri poteri la bloccava nel letto, nessuno l’aiutò a controllarli… La pressione e l’odio per mio padre, in continua lotta contro la magia, crebbero fino a diventare insostenibili. Venne in contatto col lato malvagio della magia e ciò che imparò lo sfruttò per arrecare danni a Camelot. Al contrario di Merlino, Morgana pensava che la magia potesse aiutarla ad ottenere ciò che era suo di diritto: un posto nel mondo, la felicità… Non importava quanta gente ne soffrisse».
«Morgana, hai detto?». Alex aveva gli occhi sgranati per l’incredulità. «Credevo che fosse… Non è mai stata tua promessa sposa?».
Artù sorrise, ricordando gli anni della propria giovinezza, quando l’idea di avere Morgana per moglie l’aveva sfiorato più e più volte.
«Tutti a corte speravano in una nostra unione, tutti tranne nostro padre. Lui ovviamente sapeva la verità, mentre io e Morgana l’abbiamo scoperto molto tempo dopo, quando ormai le nostre strade si erano separate».
Alex parve rifletterci per un po’, fino a quando non posò di nuovo gli occhi nei suoi, chiedendo: «Beh, dove volevi andare a parare parlandomi di lei?».
«Volevo solo dirti che io e Merlino ci saremo, per te». Allungò una mano verso di lei ed attese che Alex vi posasse sopra la propria, quindi la strinse con forza e delicatezza allo stesso tempo, in modo protettivo. «Devi solo permetterci di aiutarti».
L’infermiera sorrise ed annuì, ma nel farlo non sembrò molto convinta. Infatti la sua espressione mutò rapidamente, divenendo una maschera impenetrabile, mentre i suoi occhi sembravano aver abbandonato la realtà, distratti e lontani.
Artù si chiese che cosa le passasse per la mente, se avesse già iniziato a chiudersi in se stessa. Aveva già perso una sorella, non poteva perdere anche lei a causa della magia.
«A che cosa stai pensando?», le chiese quasi a bassa voce, chinandosi verso di lei con le braccia incrociate sul tavolo.
Alex scrollò le spalle, segno che comunque aveva prestato attenzione. I suoi occhi però continuavano a fissare il vuoto, immersi in un altro tempo e in un altro luogo.
«Una volta Merlino mi ha detto che la magia come la si descrive nelle favole non esiste. Allora non avevo capito fino in fondo che cosa volesse dire, ma lui stesso si è arreso all’evidenza che la magia non è la soluzione ai problemi, che è solo una toppa temporanea che prima o poi si squarcerà di nuovo, peggiorando la situazione. Per quanto ci si sforzi per usarla per fare del bene, ti si ritorcerà sempre contro. È stata la magia a distruggere tutto ciò che amava… e per questo l’ha rinnegata».
Artù chiuse gli occhi, cercando di non pensare che in quel “tutto ciò che amava” erano compresi anche sua moglie e suo figlio.
«Hai perfettamente ragione», mormorò. «Ma non si può semplicemente smettere di lottare, non ci si può arrendere all’evidenza. Sai che cos’ha detto a me, una volta?».
«Che cosa?».
Gli veniva ancora da ridere se ripensava a come Merlino si era agghindato, trasformandosi in Dolma, per non farsi riconoscere da lui e Ginevra.
«Che nella magia non c’è alcuna malvagità, poiché essa dimora nei cuori degli uomini. Può darsi che ora si sia ricreduto, non gliene farei una colpa, ma è stato grazie alla magia se più e più volte ha salvato la mia vita e centinaia di altre vite innocenti. E se davvero il mondo sta morendo perché non c’è abbastanza magia a sostenerlo, allora vuol dire che è qualcosa di importante e di necessario. Sono i metodi dei custodi, le loro trame e i loro inganni, ad essere sbagliati e malvagi, tanto da aver fatto apparire colpevole la magia».
Colpito dal suo prolungato silenzio, alzò lo sguardo e trovò Alex a bocca aperta, con un chicco d’uva tra le dita.
«Che cosa c’è?», le chiese, imbarazzato dal suo sguardo.
Alex si sciolse in un tenero sorriso, il primo della giornata. «Artù Pendragon, ora capisco perché sei diventato il re leggendario che tutti conoscono. E non riesco ad esprimere a parole quanto io sia onorata di essere una tua discendente».
Nonostante quelle parole lusinghiere gli avessero accarezzato l’anima come un balsamo, riuscì a stemperare l’atmosfera alzandosi dal tavolo ed esclamando: «Smettila e sbrigati con quell’uva. Ci aspetta una lunga giornata».
Non fece in tempo ad udire la risposta di Alex però: Merlino entrò nella stanza, facendoli sobbalzare entrambi per la sorpresa.
«Ho pagato un risarcimento record per i danni, ma a quanto pare non ci cacceranno», esclamò, abbozzando un sorriso.
Alex sospirò, invitandolo a proseguire con un movimento circolare del polso. «Non è finita qui, vero?».
«No, infatti. Purtroppo tu sei stata bandita per sempre da questo e da ogni altro hotel della catena. Mi dispiace».
Artù guardò lo stregone con sguardo sgomento. Non gli era mai piaciuta la parola “bandita”, almeno non da quando si era trovato costretto a cacciare Ginevra dopo il suo tradimento con Lancillotto. Merlino dovette leggergli nel pensiero, ma fu Alex a parlare per prima, scrollando le spalle con noncuranza.
«Non credo che ci sarei mai tornata in futuro, comunque. Sarò anche di stirpe regale, ma non ho un forziere pieno di monete d’oro sotto al letto!».
Artù si chiese come facesse lei a sapere dove un tempo teneva i suoi risparmi, mentre Merlino scoppiò a ridere stringendosi l’addome tra le braccia.
Strano ma vero, quella volta fu la risata di Merlino a contagiarli, facendoli sorridere. E Artù provò il forte desiderio di abbracciarlo, per tutto quello che aveva fatto e continuava a fare per lui. Avendo una certa reputazione da mantenere, optò per stringergli il collo con un braccio e sfregargli le nocche di una mano tra i capelli, facendolo strepitare come ai vecchi tempi.
Magari agli occhi di Alex avrebbe fatto la figura dell’irritante bulletto, ma Merlino avrebbe di certo capito.

***

«Artù, a che punto siete?», domandò Merlino alla porta chiusa di fronte a sé, sistemandosi il farfallino nero. «Posso entrare?».
Un mugolio frustrato fu tutto ciò che ottenne e, preoccupato che Artù si sentisse male, non ci pensò su due volte prima di aprire la porta e piombare all’interno della principesca camera da letto.
Artù stava bene, ammesso e concesso che il tentativo di strangolamento con la cravatta fosse involontario.
Merlino lo raggiunse con due brevi falcate e gli liberò il collo, permettendogli di tornare a respirare regolarmente.
«Grazie», tossicchiò il re, paonazzo.
«Guarda qui che disastro che avete fatto», esclamò Merlino a mezza voce, arretrando di un passo per poterlo guardare dalla testa ai piedi. Quindi posò gli occhi nei suoi, scuotendo leggermente il capo: «Capisco che non vogliate dipendere da nessuno, ma non c’è davvero niente di male nel chiedere un po’ d’aiuto quando se ne ha bisogno. Lasciate fare a me».
Lo stregone iniziò a sbottonargli la camicia bianca – aveva saltato un’asola ed era tutto da rifare – e Artù osservò il soffitto, forse immaginando a come l’avrebbe preso in giro Alex se l’avesse visto in quel momento.
Ad un tratto, come se il silenzio lo infastidisse, esordì: «Allora, vogliamo parlare dei tuoi pessimi piani per il futuro?».
«Non c’è nulla di cui parlare», tagliò corto Merlino, ma il re di Camelot non si arrese.
«Oh sì, invece. Credi davvero che ti permetterò di…?».
Il mago alzò di scatto il capo e gli lanciò un’occhiata truce, parlandogli sopra: «Si tratta della mia vita e, credetemi, è durata fin troppo».
«Quindi che cos’hai intenzione di fare? Restituire la magia a questo mondo e morire da eroe? Tempo fa mi hai detto di non esserlo. E non lo diventerai, sacrificandoti per ciò che i guardiani della magia vogliono. Gliela darai vinta e basta!».
«Quali altre alternative abbiamo?!», urlò Merlino, smettendo di abbottonargli la camicia per portarsi un pugno alla bocca, gli occhi lucidi di lacrime. «Non possiamo lasciare che il mondo muoia per ripicca».
«Troveremo un altro modo, insieme».
«No, voi dovete starne fuori».
«Che cosa? Sei per caso impazzito?».
Merlino scosse il capo e prima che Artù potesse afferrarlo per le spalle gli voltò la schiena. Con un fil di voce, confessò: «Non posso vedervi morire un’altra volta. Qualsiasi sia il motivo per cui siete tornato dal mondo degli spiriti, farò in modo che non dobbiate tornarci. Avete una seconda possibilità e giuro che non la sprecherete cercando di combattere il destino al mio fianco».
Artù riuscì finalmente a posargli una mano sulla spalla e lo costrinse a voltarsi. Lo guardò fisso negli occhi per quella che sembrò un’eternità e col suo tono più solenne, sussurrò: «L’ho sempre detto che sei un idiota, ma non credevo fino a questo punto».
Merlino aprì la bocca per ribattere stancamente, ma Artù aggiunse: «Lo faremo insieme, o moriremo provandoci».
«Ma Cathleen…».
«Quando arriverà il momento, Cathleen capirà. Per quanto riguarda Alex, invece…».
«Ne abbiamo già parlato, Artù».
Il re sospirò, leggendo il dolore negli occhi dell’ex servitore. «È una Pendragon, non si arrenderà fino a quando non avrà ottenuto ciò che vuole. È solo una questione di tempo, prima che tu ceda».
«Oh, ora finalmente capisco perché Ginevra…».
Artù lo interruppe colpendolo alla nuca, nonostante le sue labbra si fossero incurvate in un sorriso.
«Ahia!».
«Te la sei andata a cercare. Ora muoviti, o faremo tardi».
Merlino tornò ad occuparsi in silenzio del suo completo elegante, spazzolandogli con cura le spalle della giacca ed annodando con maestria quella specie di cappio che si usava indossare in occasioni così galanti.
Osservandolo con attenzione, non poté fare a meno di notare i segni di stanchezza sul suo viso – la pelle chiara più pallida del solito, quasi trasparente, le borse sotto gli occhi arrossati, i capelli neri spenti e con qualche bagliore argentato di tanto in tanto – e del lieve tremore delle sue mani, nervose e freddissime. Sembrava peggiorare ogni giorno un po’ di più, come se le sue energie avessero già iniziato a consumarsi.
«Merlino».
«Uhm?».
«Anche tu puoi chiedere il mio aiuto, se ne hai bisogno».
Merlino lo fissò come se avesse appena affermato che gli asini erano in grado di volare, fino a quando non mostrò un nuovo sorrisetto.
«Se è come per il giorno libero che non ho mai avuto…».
Artù roteò gli occhi al cielo e sbottò, irritato da come riuscisse sempre a rovinare tutto: «Alla fine ho mantenuto la mia parola: ti ho concesso millequattrocento anni!».
Il volto di Merlino si incupì e Artù capì di aver esagerato.
«Perdonami, non dovevo. Ma dicevo sul serio: puoi contare su di me, se mai dovessi aver bisogno d’aiuto».
Lo stregone annuì, abbozzando un sorriso. «Lo so. Grazie, Artù».
Il re di Camelot strinse le labbra e gli diede un pugnetto sulla spalla, facendolo mugugnare silenziosamente dal dolore.

***

Quando anche il secondo dei due uomini che avevano fatto parte del viaggio con lei uscì dall’ascensore, Alex diede le spalle alla porta scorrevole e guardò di nuovo il proprio riflesso nelle pareti dorate.
Il vestito che Merlino le aveva fatto consegnare dal facchino che il giorno prima li aveva accompagnati nelle loro rispettive suite era firmato Versace e sembrava esserle stato disegnato direttamente sulla pelle, talmente le donava.
Era dello stesso colore degli abiti da sposa tradizionali e allo stesso tempo era diverso da qualsiasi vestito avesse mai visto: due strette fasce le avvolgevano i seni e l’addome, incrociandosi all’altezza dello stomaco per poi separarsi sulla schiena, dov’erano sorrette da una rigida striscia di pelle dorata a forma di otto – o di infinito rovesciato, come le piaceva chiamarlo –  tempestata di grossi rubini dalla forma esagonale.
Anche le gambe erano fasciate come il bozzolo di una farfalla, ma solo fino al ginocchio; da lì in poi partiva un sottile velo di seta color cremisi che le arrivava fino ai piedi, fresco e leggero come le estremità delle fasce che dal fondo dell’infinito rovesciato arrivavano a toccare persino il pavimento, a mo’ di strascico.
Alex non riusciva ancora a credere di star indossando un’opera d’arte del genere, un pezzo unico al mondo che doveva valere milioni di sterline, ed era così felice e allo stesso tempo così arrabbiata con Merlino che avrebbe voluto soffocarlo di baci.
Aveva raccolto i capelli biondi in una specie di treccia che partiva dal punto più alto della testa e proseguiva lungo tutta la curva del cranio, fino alla base del collo, e sperava davvero che non si sfaldasse sul più bello: sarebbe stata una vera catastrofe.
Stava giusto controllando lo stato della propria acconciatura e dell’ombretto dorato che si era messa sulle palpebre, quando le porte dell’ascensore si aprirono di nuovo, mostrando una hall insolitamente affollata e rumorosa, la quale però si acquietò all’improvviso quando mise piede fuori dalle pareti riflettenti.
Decine di occhi si puntarono su di lei e Alex si sentì tanto in imbarazzo quanto lusingata, mentre i suoi tacchi riecheggiavano sul pavimento in marmo. Tenne la testa bassa e l’alzò solo quando si trovò accanto ai divanetti su cui si erano accomodati Artù e Merlino in sua attesa. Persino loro la fissavano a bocca aperta, incapaci di esprimere un qualsiasi giudizio.
Alex si strinse i pugni sui fianchi, rossa come un peperone. «Giuro che se nessuno dice niente, torno in camera a cambiarmi», sibilò.
Artù schizzò in piedi e si chinò leggermente in un baciamano. «Sei così bella che faresti impallidire qualsiasi principessa».
«Troppo gentile», ribatté, rispondendo all'inchino.
Ma Artù, ostinato come un mulo, ci tenette a precisare: «Dico sul serio. Mi ricordi mia madre, sai?».
Alex boccheggiò per qualche secondo, ricordando quando il re di Camelot le aveva confessato di non aver mai conosciuto sua madre perché morta dandolo alla luce. Intercettò lo sguardo di Merlino e ad un suo cenno del capo rimase in silenzio, ringraziando nuovamente il sovrano con un semplice sorriso.
Quando fu il turno dello stregone, la sua gola si seccò all'improvviso e la situazione non fece che peggiorare quando dal nulla esclamò: «Qualsiasi uomo al mondo sarebbe combattuto, vendendoti».
«In che senso?».
Merlino si avvicinò al suo orecchio e sussurrò: «Toglierti il vestito oppure no?».
Alex sentì un forte brivido percorrerle la spina dorsale, dal punto della schiena in cui Merlino posò la mano alla nuca, dove la baciò delicatamente, e qualcosa le morse il basso ventre. Sembrava l’inizio di uno dei suoi sogni ad occhi aperti…
Riuscì faticosamente ad abbozzare un sorriso quando il mago si scostò e la invitò a voltarsi per aiutarla ad indossare il cappotto. Con estrema dedizione le sistemò il colletto e le accarezzò le spalle, poi tornò ad appoggiare la mano sulla sua schiena per accompagnarla verso l’uscita, dove un’auto con autista privato li stava attendendo.
«Che cos’hai in quella valigetta?», gli chiese ad un tratto, mentre la portiera del bagagliaio veniva aperta.
«Una cosa di cui, se tutto andrà per il meglio, non avremo bisogno. Quello che mi preoccupa è che cos’ha lui in quella borsa». Merlino indicò con un cenno del capo la sacca da ginnastica che Artù stava consegnando all’autista e Alex corrugò la fronte, stupita che l’antenato non l’avesse messa al corrente.
Non ebbe però il tempo materiale per preoccuparsi: era troppo concentrata sulla missione che doveva portare a termine, per quanto folle e disperata fosse. Doveva farlo per i bambini dell’ospedale, ma anche per se stessa.
A quel proposito si voltò verso Merlino, seduto di fronte a lei sull’auto di lusso, e lo colse intento a guardare fuori dal finestrino con sguardo assorto.
Ancora una volta l’età dei suoi occhi le colpì il cuore, facendola sentire misera ed insignificante, solo una piccola parentesi all’interno di quell’espressione molto più larga e complessa di quanto potesse anche solo comprendere che era la sua lunghissima vita.
«Ehi, va tutto bene?», le chiese all’improvviso Artù, sfiorandole una mano.
Alex sobbalzò leggermente, rivolgendogli poi un piccolo sorriso. «Sì, sto bene. Pensavo solo ai bambini dell’ospedale. Tu li hai sentiti, Merlino?».
«Mentre ti aspettavamo, Abby mi ha chiamato».
«Oh».
Abigail era la sua confidente, l’unica oltre ad Artù che sapesse quanto amasse Merlino in realtà, e il fatto che lei e lo stregone potessero parlarne alle sue spalle le faceva un strano effetto, ma si costrinse ad ignorare la propria vocina interiore e a sorridere.
«Che cosa ti ha detto?».
Merlino scrollò le spalle, sospirando. «Nulla di nuovo: Mark è un vero osso duro, la fa disperare. Mi ha chiesto se il nostro ritorno è confermato per domani».
«Certo! Ho promesso ai bambini che per Pasqua avremmo fatto la migliore caccia alla uova di sempre».
Artù si chinò verso di loro e gettando un’occhiata all’autista, chiese a bassa voce: «Che cosa sarebbe?».
Ormai aveva capito che era inutile attirare l’attenzione degli altri con le sue domande e aveva imparato a farlo con discrezione.
Merlino aprì la bocca per iniziare con la spiegazione, ma Alex sollevò una mano, intimandogli di non dire niente.
«Lo scoprirai da te», disse ad Artù, emozionata al solo pensiero.
Lo stregone ridacchiò e tornò a guardare la strada scorrere fuori dal finestrino.
Ci impiegarono circa un’ora a raggiungere il Castello di Windsor e quando lo avvistarono, imponente sopra la collina, Artù fu il primo a riprendersi dalla stupore e ad esclamare: «Questa sì che è una degna residenza reale!».
Merlino e Alex si scambiarono un’occhiata e si sorrisero, ma lo stregone distolse lo sguardo quasi subito, lasciando l’infermiera con l’amaro in bocca.
Se solo questo fosse stato in grado di renderlo felice e se solo ne avesse avuto il fegato – come le aveva detto Merlino proprio quella mattina – si sarebbe protesa in avanti e lo avrebbe baciato proprio lì, di fronte ad Artù.
Ma che lei l’avesse fatto o meno, comunque il mago non sarebbe stato felice. Di conseguenza, doveva cercare di limitare i danni per se stessa ed accontentarsi dei sogni.

***

«Non riesco a capire perché Mark si comporta così. Più io mi avvicino, più lui si allontana. Eppure giusto ieri mi ha detto che mi ama! Che cosa vuol dire tutto questo, Merlino?».
«È solo spaventato».
«Spaventato di cosa?».
«Di star male, di vederti star male… della morte».
«Anche io ho paura di morire, puoi giurarci, ma… noi siamo vivi, adesso, e non possiamo buttare via la nostra felicità pensando al dolore. Sono convinta che si debba cogliere l’attimo. C’è pure un proverbio in latino che lo dice!».
«Carpe diem».
«Esatto, quello lì! Tu che ne pensi? Ho ragione oppure no?».

Dire che non le aveva risposto era poco. Le aveva direttamente chiuso il telefono in faccia, con il cuore che gli batteva fortissimo nelle tempie.
Gli erano tornati alla mente tutti i momenti in cui si era inflitto volontariamente le pene più atroci, in particolar modo dopo la sua ultima parentesi felice con Louise. Con lei era stato così in alto ed era caduto così in basso, e così malamente, che aveva giurato a se stesso che non avrebbe più amato nessuna, e se non ci fosse riuscito – perché doveva ammetterlo, era un tipo a cui bastava poco per innamorarsi (e Freya ne era la prova) – almeno avrebbe impedito a quell’amore di sbocciare, accontentandosi di fantasticare.
Era stato il caposaldo a cui aveva sempre fatto riferimento da quando aveva capito che Alex poteva diventare qualcosa di più, eppure le cose erano degenerate fino a quel punto, facendolo stare tanto male quanto una rovinosa caduta.
Le parole di Abigail avevano sfondato una porta che era riuscito a tener chiusa fino a quel momento, anche se con estrema fatica, e tutti i pensieri che vi aveva celato dietro gli erano cascati addosso, cogliendolo impreparato.
Aveva detto ad Alex che avrebbe fatto di tutto per evitarle di provare dolore, eppure farla soffrire era sempre stata la sua specialità. Quella mattina ne aveva avuta la conferma, quando gli aveva sbattuto in faccia che aveva il cuore a pezzi a causa sua.
«Che hai intenzione di fare in merito?», gli aveva chiesto.
Quelle parole continuavano a rimbombargli nella mente, impedendogli di concentrarsi.
Stese una mano verso di lei per aiutarla ad uscire dall’auto e fu quasi doloroso vedere il suo sorriso, sentire la stretta della sua mano e poi lasciarla andare da Artù, il quale le porse il braccio da vero cavaliere.
«Che hai intenzione di fare in merito?».

***

«Siamo dentro. Siamo dentro, è incredibile».
«Mettevi per caso in dubbio le mie abilità?».
Alex si portò una mano sul petto, trasalendo, e si voltò verso Merlino, così vicino al suo corpo da poterne sentire il calore.
«Non ti ho sentito arrivare», disse, prendendo tra le dita il calice che le offrì.
Aveva appena bevuto un sorso, in grado di mandare in estasi le sue papille gustative, quando rischiò di sputarlo.
«Dov’è Artù?».
Merlino sorrise, indicandolo dall’altra parte del salone, che intratteneva un gruppo di giovani e bellissime donne. Sembrava così tranquillo e rilassato nel suo abito blu notte, i capelli biondi dall’aspetto spettinato e gli occhi blu luminosi come non li aveva mai visti. Dava quasi l’impressione di essere il padrone di casa, talmente si muoveva con grazia e disinvoltura.
«Il re che è in lui si sta mostrando», le sussurrò Merlino, leggendole nel pensiero.
«E tu non dovresti essere al suo fianco?».
Sollevò il capo verso di lui e scorse i suoi occhi brillare di orgoglio.
Avrebbe dato di tutto per poter vedere ciò che stava vedendo lui in quel momento: una festa a Camelot, i cavalieri in piedi attorno alle tavole imbandite che innalzavano le coppe d’oro per un brindisi, le dame di corte che applaudivano gentilmente e la regina che guardava amorevolmente il suo re e gli accarezzava un braccio. E Merlino, il Merlino che tutti quanti avevano sempre ritenuto un semplice servitore, che correva da una parte all’altra per riempire quelle coppe d’oro e servire da mangiare, gettando di tanto in tanto un occhio ad Artù per accertarsi che tutto andasse per il meglio, senza mai lamentarsi per la fatica o la poca riconoscenza che gli dimostrava. Vederlo sorridere gli bastava.
«Alex, mi stai ascoltando?».
L’infermiera sbatté rapidamente le palpebre, tornando alla realtà. «Eh?».
Merlino accennò una risata, sistemandole la frangetta come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Ho detto che Artù se la caverà egregiamente anche senza di –».
Non fece nemmeno in tempo a terminare la frase che due agenti di polizia furono scortati all’interno del salone da un ometto basso e tarchiato, con gli occhiali spessi e pochi capelli bianchi sistemati in un riporto di fortuna.
«È lui, sì, il signore col completo blu notte», esclamò abbastanza ad alta voce perché tutti lo sentissero, Artù compreso.
Il re di Camelot si indicò, gettando poi un’occhiata preoccupata a Merlino ed Alex.
«Che cosa diamine sta succedendo?», domandò l’infermiera, guardando terrorizzata i due agenti avvicinarsi ed invitare sì gentilmente Artù a seguirli, ma prendendolo anche per le braccia.
«Temo lo scoprirò presto», rispose Merlino a denti stretti, pronto a raggiungere il proprio re. Alex però gli strinse una mano prima che potesse allontanarsi, in modo da poterlo seguire tra la folla.
«Tu devi rimanere qui, devi cercare di parlare con il Principe», le ricordò severamente.
«Non se ne parla, io vengo con te».
«Non puoi, Alex», ripeté, sospirando. Quindi le prese il volto tra le mani e fissando intensamente gli occhi nei suoi mormorò: «Pensa ai bambini in ospedale. Noi ce la caveremo».
«Controllerò costantemente il cellulare, attendo tue notizie».
Merlino annuì e prima di allontanarsi le posò un fugace bacio sulla guancia, pericolosamente vicino alle labbra.
Si scambiarono un ultimo sguardo prima che le pesanti porte del salone venissero richiuse dai maggiordomi, poi Alex respirò profondamente e buttò giù l’intero bicchiere di champagne che teneva ancora tra le mani tremanti.

***

«Scusate… Ehm, scusatemi, posso sapere che cos’è successo?».
«Lei chi è?», domandò uno degli agenti di polizia, dallo sguardo arcigno.
«Mi chiamo Merlino e quello che state portando chissà dove è il mio migliore amico».
«Il signor Artù Pendragon, a quanto ne so. E tu sei il suo migliore amico, Merlino? Non farmi ridere».
Lo stregone roteò gli occhi e tirò fuori dalla tasca interna della giacca un documento d’identità, mostrandolo all’agente mentre continuavano a camminare lungo un corridoio senza fine.
«E va bene, Merlino», cedette il poliziotto, anche se con una certa irritazione. «Il tuo amico qui è accusato di furto».
«E che cosa avrebbe rubato, di preciso?».
«Un pezzo di grandissimo valore, non solo storico: una corona che si dice risalga al Sesto secolo».
Il sangue gli si gelò nelle vene, ma ebbe comunque la forza di non darlo a vedere, rimandando a più tardi la sfuriata che avrebbe fatto al solo ed unico re.
«L’ho riconosciuta subito!», si intromise l’ometto che aveva condotto da Artù i due agenti di polizia. «Il signore qui presente è stato accompagnato da me da un maggiordomo perché voleva consegnare un pezzo da poter mettere all’asta questa sera. Io gli ho spiegato che tutti gli articoli dovevano essere inviati anticipatamente, in modo da poter essere autenticati e valutati, ma ha insistito così tanto che ho fatto uno strappo. A quanto pare ho fatto bene!». Si mise a ridacchiare in un modo così irritante che Merlino avrebbe voluto strappargli la lingua e fargliela ingoiare.
«Potete immaginare il salto che ho fatto quando ho aperto la borsa e ho visto la corona! Sapevate che era scomparsa da più di cinquant’anni? Faceva parte della collezione privata dello storico d’arte Wojciechowski. Dico faceva perché gli è stata rubata, più di cinquant’anni fa appunto. La sua era una delle collezioni più ricche al mondo e sarebbe diventata di sicuro la più ricca se quel fattaccio non fosse mai accaduto, ma purtroppo... Da allora ha smesso di acquistare, ha iniziato addirittura a vendere, e tutte le fatiche di una vita sono risultate vane».
Merlino avrebbe voluto acidamente ribattere che quell’uomo avaro e privo di scrupoli aveva tutt’altro che faticato per aggiungere pezzi alla propria collezione. Non si era mai sforzato di uscire di casa, rintanato nel suo bunker di massima sicurezza, e i suoi pezzi più pregiati, tra cui proprio la corona di Artù, erano spesso e volentieri macchiati di sangue innocente.
Ingoiò quel boccone amaro e rimase in silenzio, perché lui non poteva di certo saperle tutte quelle cose – insomma, non era nemmeno nato, all’epoca! – e si concentrò sul problema che doveva assolutamente risolvere: scagionare Artù e proteggere se stesso.
«E credete davvero che sarebbe stato così stupido da donarla all’asta, se avesse saputo tutte queste cose? È ridicolo!», urlò.
I due agenti si fermarono e si voltarono verso di lui, fissandolo come se avesse appena risolto il caso dell’anno.
«Intendi forse dire che il qui presente signor Pendragon non aveva idea della storia di quella corona?».
«Guardatelo!». Quasi scoppiò a ridere, indicando l’espressione sconvolta ed spaurita di Artù. «Vi sembra la faccia di un efferato ladro, quella?».
I due agenti si scambiarono un’occhiata incerta, poi quello che sembrava il cattivo della situazione, quello dall’aria arcigna, sbottò: «Sentiamo, Grissom, sai anche come ha fatto ad ottenerla?».
«Io credo proprio di sì».
Artù gli lanciò un’occhiataccia, che Merlino ricambiò con una ancora più severa, aggiungendo: «Mio nonno».
«Tuo… nonno?».
Merlino spiegò della collezione di armi e reliquie medievali di suo nonno, che lui aveva ereditato automaticamente quando era passato a miglior vita. Ciò che non aveva di sicuro ereditato però era la sua stessa passione e quindi aveva disordinatamente ammucchiato tutto in soffitta, lasciando quelle “cianfrusaglie” alla mercé della polvere. Non si era nemmeno dato la briga di catalogare tutto quanto, ma non si sarebbe stupito se quella vecchia volpe di suo nonno avesse ottenuto qualcosa in maniera poco legale.
Difese a spada tratta Artù, affermando che come al solito era andato a ficcanasare nelle sue cose e con l’intenzione di fare colpo su qualche bella ragazza non aveva pensato di documentarsi su ciò che aveva trovato.
«Nemmeno io sapevo la storia di quella corona, l’ho scoperta adesso grazie al signor…».
«Zielinski», si presentò l’ometto, porgendo una mano dalle dita tozze e sudaticce. «Consulente d’arte. Al vostro servizio».
«Com’è che siete tutti polacchi, voi fissati?».
«Come, scusi?».
«Ho detto che i polacchi sono sempre pieni di interessi!».
Il consulente gongolò, tutto contento per la lode, e Merlino concluse: «Perciò potrei esserci benissimo io tra di voi, in questo momento».
I due agenti lasciarono andare Artù per potersi avvicinare allo stregone, il quale sollevò le mani ed arretrò d’un passo.
«Sono più che disponibile a fornirvi qualsiasi tipo di informazione abbiate bisogno, posso anche acconsentirvi una perquisizione a casa mia per restituire al mondo dell’arte tutto ciò che potrebbe esserci in quella soffitta, ma…».
«Non puoi dettare condizioni con noi, Merlino», lo interruppe bruscamente il poliziotto cattivo, prendendolo per un braccio. «Abbiamo bisogno che tu venga in centrale per una deposizione, dopodiché procederemo anche con la perquisizione».
«Ma il galà…!».
«Il Principe William non noterà nemmeno la tua assenza, stai tranquillo».
Merlino si arrese e si lasciò trascinare via, voltando il capo verso Artù, trovandolo con gli occhi sgranati per l’incredulità e la confusione.
«Una cosa soltanto, scusatemi!», esclamò all’improvviso il mago, girandosi nuovamente verso il re.
«E ora che c’è?», mugugnò il poliziotto arcigno, sfinito.
«Artù, dì ad Alex che la tua medicina, nel caso dovesse servirti, è nella valigetta che ho portato con me. Diglielo, mi raccomando, è importante».
Artù annuì, ma Merlino dubitò che avesse intuito veramente a che cosa si stesse riferendo. Sperò almeno che lo dicesse ad Alex: lei era la Pendragon con più cervello e non ci avrebbe messo molto a capire.
«Finito? Abbiamo molto lavoro da sbrigare».
Il poliziotto gli diede uno strattone tutt’altro che gentile e lo incitò a camminare verso l’uscita, dove i lampeggianti blu della volante erano ancora accesi e un piccolo gruppetto di fotografi di gossip stavano per fare un salto di qualità.
«Sarà una lunga notte».
Merlino ancora non sapeva quanto avesse ragione; non l’avrebbe mai nemmeno sognato.

***

«Tu che cosa?!».
Alex non riusciva a credere alle proprie orecchie.
«Mi dispiace, io…».
«Ti dispiace? Ma come hai potuto essere così stupido?!», urlò a bassa voce, fermando un maggiordomo per prendere da un vassoio una tartina e ficcarsela in bocca tutta intera. Fame nervosa.
Artù abbassò il capo e si fissò le scarpe lucide. «Volevo sbarazzarmi di quella corona, lasciare andare ciò che non sono più… Pensavo che questa fosse l’occasione giusta, ma ho sbagliato».
«E pensare che Merlino ti aveva pure raccontato che l’aveva rubata!». Sbuffò sonoramente, stringendo la pochette nella mano e trattenendosi solo per miracolo nello sbattergliela in testa più e più volte.
Artù le prese un polso e cercò il suo sguardo per scusarsi per l’ennesima volta, ma Alex si liberò fin troppo facilmente e sibilò: «È meglio che vada a prendere un po’ d’aria, o sento che potrei dire qualcosa di cui poi mi pentirei».
Detto questo si allontanò e senza sapere bene dove andare per trovare un po’ di solitudine si diresse verso la prima uscita che vide, la quale la portò nell’immenso giardino circondato su tutti e quattro i lati dalle costruzioni. Si trattava del Cortile Superiore, altrimenti chiamato Quadrangolo proprio per la sua forma.
Alex camminò fino alla statua equestre situata in un angolo del giardino e si sedette sul bordo della bassa fontana alla sua sinistra, maledicendo le sue scarpe aperte: un sassolino le si era infilato sotto al piede, facendole vedere le stelle.
Sospirò di sollievo, togliendosi i tacchi e posando i piedi nudi sull’erba curata. Aprì la pochette e controllò ancora il cellulare, sperando disperatamente che Merlino le avesse scritto un SMS per rassicurarla. Ovviamente non era così.
Abbattuta, l’occhio le cadde sul pacchetto di sigarette che aveva infilato nella pochette all’ultimo minuto.
Non aveva proprio ripreso a fumare, ma da quando aveva smezzato quella sigaretta con Merlino molte volte non riusciva più a farne a meno, specialmente quando era agitata o preoccupata.
Quello era proprio uno di quei momenti, ma in giro non vedeva nessun posacenere. Provò a pensare ad altro per cacciare via l’improvvisa voglia di nicotina, ma non ci riuscì. Dicendosi che tanto peggio di così non poteva andare, voltò le spalle alla porta a vetri da cui era uscita e con una gamba sotto l’altra si accese una sigaretta.
Il primo tiro le fece rilassare le spalle e alzare il viso verso la luna che illuminava quella notte scura e senza stelle. Non fece in tempo a fare il secondo però che una voce la fece trasalire dallo spavento, tanto che la sigaretta cadde nell’acqua della fontana.
«Taylor, ti ho cercata ovunque. Non sapevo fumassi».
Alex si voltò e rimase di stucco quando vide il Principe William in persona fermarsi ad un metro dalla statua, colto di sorpresa almeno quanto lei.
«Mi perdoni, da dietro l’ho scambiata per la signorina Swift», spiegò, imbarazzato.
Alex non seppe se ringraziarlo o meno, ma di una cosa era certa: era stata colta in flagrante mentre fumava, scalza per giunta, dal Duca di Cambridge, l’unica persona che avrebbe potuto decidere le sorti del loro ospedale. Doveva trattarsi di un incubo, nient’altro.
Impacciata, si alzò e si coprì i piedi nudi col vestito, torturandosi le mani. «Sono desolata, Vostra Altezza, io…».
«La capisco, questi eventi possono essere molto stressanti».
Si avvicinò tenendo una mano in tasca e sotto la luce della luna stiracchiò un sorriso nervoso, gettando un’occhiata circospetta alle sue spalle, dove un uomo dalle spalle possenti strette nello smoking – una delle sue guardie del corpo, magari? – lo fissava così intensamente da non sbattere nemmeno le palpebre. Quindi le sussurrò: «Non è che me ne offrirebbe una? Se mia moglie dovesse scoprirlo mi ucciderebbe, ma non riesco a resistere».
Alex si sforzò per non guardarlo a bocca aperta e frettolosamente tirò fuori il pacchetto di sigarette, lasciando che ne prendesse una tra le labbra. Poi gliel’accese proteggendo la fiamma dell’accendino con le mani.
«Grazie, le sono debitore, signorina…?».
«Ahm, sì, Greenwood. Mi chiamo Alexandra Greenwood, è un vero onore conoscervi».
Il Principe le strinse la mano con un sorriso e poi si sedette sul bordo della fontana, invitandola a fargli compagnia. Alex si accomodò, rigida come un pezzo di legno e muta come un pesce, nonostante la sua voce interiore le urlasse di sfruttare il momento per parlargli dell’ospedale. Era lì per questo!
Si schiarì la gola e aprì la bocca per dare finalmente voce ai pensieri, ma il Principe William la interruppe sul nascere, chiedendo: «Lei sa per caso cos’è successo poco fa? Ho sentito che è arrivata la polizia – in effetti non si fa che parlare di questo – ma nessuno sa con esattezza perché».
L’infermiera sospirò e si massaggiò la fronte. «Credo di aver capito che uno degli ospiti volesse mettere all’asta una corona che era stata rubata cinquant’anni fa».
«Oh, capisco. Una bella sfortuna».
«Già…».
«Com’è che ho l’impressione che conosca quell’ospite?».
Alex sollevò di scatto il capo ed incrociò lo sguardo del Duca, sorridente e comprensivo allo stesso tempo. Non poté far altro che confessare.
«Perché è così. E ammetto di essere preoccupata per lui. Ho paura che possa finire nei guai, nonostante sia del tutto innocente».
«Se è davvero innocente, allora non ha nulla da temere».
«Grazie», mormorò abbozzando un sorriso.
Nemmeno nel più strano dei sogni il Principe William l’avrebbe consolata, indi per cui doveva per forza trattarsi della realtà. Questo la convinse a raccogliere tutto il proprio coraggio. Peccato che prima che potesse sfoderarlo il Principe spense la sigaretta sotto un piede e poi la raccolse per nasconderla all’interno di un fazzoletto di seta.
Alzandosi in piedi, esclamò: «Beh, signorina Greenwood, la ringrazio infinitamente per questi cinque minuti di relax. E mi raccomando, che resti un segreto tra noi».
Alex sgranò gli occhi, guardandolo allontanarsi. No, non poteva lasciarsi scappare quell’occasione. Aveva una promessa da mantenere.
«Vostra Altezza, aspettate!», urlò senza nemmeno rendersene conto, spinta dalla disperazione.
Il Duca di Cambridge si voltò e la osservò stupito mentre gli correva incontro a piedi nudi sopra la ghiaia, i tacchi e la pochette stretti al petto.
«Forse mi prenderete per pazza, forse è ciò che sono, ma la verità è che io non sono venuta qui per fare beneficenza, ma per parlare con voi. Non pensavo che ne avrei mai avuta la possibilità, ma se il destino ci ha fatto incontrare dev’esserci senz’altro un motivo».
«Vostra Altezza», si intromise la guarda del corpo, affiancando il Principe con aria allarmata. «Forse è il caso che torniate dentro».
«No, voglio sentire cos’ha da dire», rispose il Principe William.
Alex si sentì così felice che non provò nemmeno più dolore alle piante dei piedi.
Gli spiegò di essere un’infermiera e di lavorare nel reparto oncologico più grande ed attrezzato del Galles, al quale però già da tempo mancavano i fondi necessari al mantenimento delle costose macchine e al finanziamento dei laboratori di ricerca. Senza l’aiuto dello Stato decine di bambini rischiavano il trasferimento in altre strutture e per le loro famiglie sarebbe stato davvero insostenibile. Desiderava solo che quei bambini potessero ricevere le cure necessarie, un reparto oncologico in grado di accoglierli e di dare loro speranza.
«Mi appello al vostro buon cuore. Siete la nostra unica speranza ormai».
Il Principe William la guardò con espressione compassionevole, cosa che non la rassicurò per niente. Quando poi le prese una mano tra le sue, racchiudendola in maniera quasi protettiva, fu ancora peggio.
«Sono molto dispiaciuto per la situazione in cui si trova il suo ospedale e ammiro la sua determinazione, ma dubito che io possa concretamente fare qualcosa. Di queste questioni se ne occupa il Ministero della Sanità e…».
«Ho capito, non avete bisogno di aggiungere altro», disse pacatamente, ritirando la mano. «Grazie per avermi ascoltata, Vostra Altezza».
Dopo aver chinato il capo con reverenza, lo superò e rientrò nel lussuoso corridoio, rischiando di andare a sbattere contro uno dei tanti carrelli portavivande.
Sotto gli occhi sbigottiti dei maggiordomi, Alex saltellò prima su un piede e poi sull’altro per rimettersi i tacchi; quindi chiese loro dove fossero tutti quanti.
«Nella St. George’s Hall, signorina».
«Molte grazie».
Raggiunse il salone dov’erano state apparecchiate due lunghissime tavolate e quasi rimase senza fiato di fronte all’altissimo soffitto dalle travi in legno costellato da centinaia di stemmi, ai dipinti appesi alle pareti e ai mezzi busti d’alabastro posti tra le finestre ogivali e i caminetti accesi.
Quando si riscosse, percorse quasi di corsa l’intero corridoio tra le tavolate, scorgendo solo di sfuggita tutte le celebrità del cinema e della moda per i cui autografi, se fosse stata pienamente in sé, avrebbe dato di tutto.
L’unico viso che le interessava al momento era quello di Artù e quando finalmente lo trovò aveva il fiatone.
«Alex, non riuscivo più a trovarti! Vieni, ti ho tenuto il posto», esclamò, alzandosi per scostarle la sedia dal tavolo.
«Ce ne andiamo», disse invece l’infermiera, afferrandolo per il braccio e trascinandoselo dietro con tanta forza da impedirgli di obiettare.
Non fecero in tempo però a raggiungere la porta d’uscita. Il Principe William fece la sua entrata trionfale dall’altro capo della sala e Alex sentì i suoi occhi bruciarle tra le scapole non appena iniziò a parlare al microfono, salutando i presenti e ringraziandoli della loro presenza.
Spiegò che dopo cena si sarebbe svolta l’asta di beneficenza il cui ricavato sarebbe stato donato a vari ospedali oncologici del Paese e li elencò tutti. Alex sperò fino all’ultimo che aggiungesse un nome alla lista, ma non accadde. Allora si voltò, adirata, e come sospettava trovò gli occhi del Duca di Cambridge su di sé.
Facendole un’impercettibile cenno col capo, concluse: «Ovviamente non sono solo queste le strutture che ne avrebbero bisogno, perciò invito ognuno di voi, nel vostro piccolo, a fare del bene ovunque ce ne sia bisogno. Ricordate le vostre origini, tornate nelle cittadine in cui siete nati e cresciuti e partite da lì. Che Dio vi benedica e lunga vita alla Regina».
«Lunga vita alla Regina!», rispose in coro tutta la sala e Alex vide con la coda dell’occhio Artù vacillare al suo fianco, come se fosse sul punto di svenire. Questo la distrasse dalla rabbia cocente che avrebbe di certo riversato in qualche modo poco proficuo, magari urlando che erano tutti degli ipocriti, il Principe compreso, oppure facendo molto di peggio.
«Ti senti bene?», gli chiese preoccupata, posandogli una mano sul braccio.
Artù si portò una mano sul petto e la guardò negli occhi, respirando profondamente più e più volte. Alla fine annuì e con un fil di voce disse: «Andiamocene».
Alex si trovò perfettamente d’accordo con lui e uscirono dal salone mentre uno dopo l’altro i maggiordomi portavano all’interno i loro carrelli portavivande, stracolmi di pietanze degne della famiglia reale.

«Quindi sei riuscita davvero a parlarci», ricapitolò Artù, anche se con una smorfia sul viso, sdraiato sui sedili in pelle della loro auto.
Alex sapeva che non gliela stava raccontando giusta e aveva paura che stesse peggio di quanto affermasse, ma il re di Camelot era testardo almeno quanto lei.
«Sì, ma non è servito a nulla. L’intero viaggio è stato inutile: non abbiamo le donazioni per l’ospedale, tu hai perso per sempre la tua corona e Merlino è stato portato in centrale. Si è rivelato un disastro colossale!».
«Magari il Principe questa sera parlerà con sua moglie, ci penserà su e cambierà idea. Io lo facevo di continuo, sai?».
«Io non ci conterei troppo», bofonchiò.
All’improvviso Artù rovesciò gli occhi ed iniziò ad annaspare alla ricerca d’aria. Alex capì subito quello che stava succedendo e per prima cosa urlò al loro autista di premere quel maledetto acceleratore, poi tirò su il vetro divisorio in modo che non sentisse nulla di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.
L’infermiera si chinò accanto ad Artù e posò le mani sul suo petto, come aveva visto fare da Merlino, concentrandosi per richiamare a sé la magia. Si sforzò e pregò con ogni fibra del suo corpo, ma non accadde nulla. Che avesse esaurito ogni sua risorsa quella notte, mettendo a soqquadro la propria suite?
«E ora che cosa faccio? Che cosa diavolo faccio?!», strepitò, gli occhi colmi di lacrime.
«La valigetta», rantolò Artù.
«Che cosa?».
«Merlino ha detto… la valigetta».
Alex ricordò ciò che Merlino le aveva detto quel pomeriggio, quando gli aveva chiesto che cosa ci fosse nella valigetta che teneva tra le mani: «Una cosa di cui, se tutto andrà per il meglio, non avremo bisogno».
A quanto pare quella sera nulla voleva andare per il meglio.
Alex tirò giù ancora una volta il vetro scuro che li separava dall’autista e gridò di accostare immediatamente.
«Ma, signorina, siamo in autostrada!».
«Per la miseria, alla prima piazzola si fermi! È un’emergenza!».
Furono i due minuti più lunghi della vita di Alex, impotente di fronte ad un Artù che riusciva a malapena a respirare, con un rivolo d’acqua che dalla bocca gli colava lungo la guancia.
Quando finalmente sentì l’auto rallentare e deviare sulla sinistra, Alex aprì la portiera ancor prima che si fermasse del tutto e balzò giù, sollevandosi il vestito per non inciamparvi.
«Apra il bagagliaio, si sbrighi!», urlò all’autista, il quale corse a fare come gli aveva chiesto.
Alex afferrò la valigetta e disse che potevano rimettersi in marcia verso Londra.
«Posso sapere che succede?!», chiese l’autista, asciugandosi con un fazzoletto la fronte imperlata di sudore, nonostante tirasse un vento freddo più invernale che primaverile.
«Il mio amico è diabetico e al galà si è lasciato un po’ andare. Ma ho la situazione sotto controllo, sono un’infermiera. Lei pensi soltanto a portarci all’ospedale più vicino il più velocemente possibile».
Detto questo sì che l’autista si rilassò. Saltò al volante e corse a più non posso, tanto che alla fine fecero la strada che all’andata avevano percorso in un’ora in poco più della metà del tempo.
Alex, intanto, fece per aprire la valigetta, ma non ci riuscì a causa della combinazione numerica.
«Qual è il codice? Artù, il codice!», urlò, dandogli leggeri schiaffetti sulle guance. Ormai era andato, non poteva più contare sul suo aiuto.
Alex cercò di pensare come Merlino e la prima cosa che le venne in mente fu l’anno in cui lui e Artù si erano conosciuti. Inserì la data, mettendoci uno zero all’inizio, ma la serratura non si sbloccò. Decise di provare allora con la data in cui Artù era perito: un altro buco nell’acqua.
«Che tu sia maledetto, Merlino! Tu e il momento in cui ti ho conosciuto!».
Alex si prese la testa tra le mani, lasciando che le lacrime le scivolassero sulle guance mentre Artù aveva smesso del tutto di agitarsi: il suo polso era quasi impercettibile ormai, il suo respiro un soffio d’aria freddissima.
«Aspetta», mormorò ad un tratto, realizzando ciò che aveva appena detto. «Il momento in cui l’ho conosciuto…».
Alex trafficò freneticamente con i numeri, inserendo l’anno del loro primo incontro. Non funzionò nemmeno quello, ma non disperò, dato che ufficialmente loro due si erano incontrati non una ma ben due volte.
«Due-zero-uno-zero», mormorò e socchiuse gli occhi, pregando.
Finalmente sentì la serratura sbloccarsi e scoppiò in una risata di sollievo, che ben presto le morì in gola quando si trovò davanti un cristallo bianco inserito in una specie di anello di metallo.
«E con questo che cosa dovrei farci?», si domandò frustrata.
Le bastò però prenderlo tra le mani perché una scossa la travolgesse da capo a piedi, lasciandola stordita ed indebolita. Sentì le energie venirle meno a poco a poco, mentre le incisioni sul metallo si accendevano una dopo l'altra, emettendo un bagliore caldo, e il cristallo accumulava al suo interno sempre più luce: stava assorbendo dal suo organismo ogni traccia di magia ancora rimastale.
Seguendo il proprio istinto portò il cristallo sopra al petto di Artù ed immediatamente si sentì trascinare verso di esso, come se fosse stato prepotentemente attratto da qualcosa.
Alex ricordò all’improvviso l’idea che Artù aveva avuto e a come lei stessa l’aveva definita: una calamita attira magia negativa. Merlino era riuscito a costruirne un prototipo e stava funzionando!
Il corpo del re di Camelot infatti iniziò a rilassarsi, il suo respiro tornò regolare e poco tempo dopo riaprì gli occhi, fissandola con sguardo spaesato e confuso.
Alex si lasciò andare ad un sospiro di sollievo e si spostò, sedendosi sul sedile di pelle di fronte al suo.
«Come ti senti?», gli chiese, ignorando il cerchio alla testa.
Artù non rispose ed indicò nella direzione del cristallo. «Le tue mani…».
Alex abbassò di scatto lo sguardo e solo allora avvertì l’intenso calore che le stava bruciando i palmi delle mani. Immediatamente mollò la presa e quasi svenne, guardando la propria pelle ustionata. Ciò che le impedì di perdere i sensi fu il lento sollievo che provò dal momento in cui smise di impugnare l’anello: pian piano le ferite si cicatrizzarono, la pelle si rigenerò e i palmi delle sue mani tornarono come nuovi, senza che lei facesse alcunché.
Incredula incrociò lo sguardo di Artù, poi contemporaneamente posarono gli occhi sul cristallo che ora conteneva una specie di macchia scura, una goccia liquida che girava e rigirava all’interno della pietra chiara, cercando forse una via d’uscita.
«È quello che penso che sia?», domandò Alex.
«Il cristallo ha estratto ed intrappolato un po’ della magia nera di cui è impregnato il frammento di spada», disse Artù, esterrefatto.
Come ipnotizzato allungò una mano verso il cristallo, ma Alex lo fermò prima che fosse troppo tardi. Si tolse in fretta la sciarpa dal collo e con essa intorno ad una mano sollevò l’anello per sistemarlo di nuovo nella valigetta, che richiuse con uno scatto secco.
«È meglio che nessuno lo tocchi per un po’, almeno fino a quando non l’avremo fatto vedere a Merlino», affermò ed Artù annuì, tornando a sdraiarsi sui sedili di pelle.
Affaticato com’era, ci mise meno di un minuto ad addormentarsi. Alex lo imitò poco dopo, sfibrata e con il manico della valigetta ancora stretto in pugno.

***

Era da poco passata la mezzanotte, quando Merlino rientrò nella hall dell’albergo col cravattino sciolto e i capelli spettinati.
Alla centrale di polizia l’avevano subissato di domande ed era riuscito a risultare tanto credibile nel dimostrarsi completamente estraneo ai fatti da ritardare di qualche giorno la perquisizione a casa sua, agevolato anche dal cambio di giurisdizione. Avrebbe avuto tutto il tempo necessario per trasferire nel bunker tutte le poche cose che ancora avrebbero potuto comprometterlo o aumentare i sospetti nei suoi confronti. In poche parole, se la sarebbe cavata.
Di certo nulla di tutto ciò sarebbe successo se Artù non si fosse comportato da idiota come suo solito, ma era talmente stanco e ansioso di sapere che cos’era successo al galà durante la sua assenza che non ce la fece proprio ad arrabbiarsi con lui. Quando entrò nella suite, inoltre, lo trovò sdraiato sul divano mezzo addormentato, col volto pallido e sciupato.
Immediatamente gli portò una mano sulla fronte e gli controllò le pulsazioni con due dita sul suo collo, ma i suoi parametri sembravano nella norma.
«Merlino, sei arrivato finalmente».
Il mago si sollevò e lo guardò irritato, incrociando le braccia al petto. «Sì, grazie tante. Vi sentite bene?».
«Sì, grazie ad Alex».
«In che senso?».
Artù indicò la valigetta posata sul tavolo da pranzo e poi gli raccontò per filo e per segno tutto ciò che era successo da quando era stato portato via dai due agenti.
Riportò quello che Alex gli aveva detto a proposito della sua infruttuosa conversazione col Principe William, descrisse le occhiate che i due si erano lanciati proprio prima che se ne andassero e poi gli spiegò come Alex gli aveva salvato la vita utilizzando il cristallo che c’era nella valigetta.
«L’autista ci ha lasciato di fronte all’ospedale, ma abbiamo solo fatto finta di entrare. Quando se n’è andato siamo andati da McDonald’s e Alex ha mangiato tipo il doppio di me. Non sapevo che la magia causasse questi effetti collaterali».
Merlino quell’ultima parte l’aveva ascoltata solo distrattamente, troppo assorto nell’esaminare il cristallo dentro cui si agitava ancora quel concentrato di magia nera.
«Probabilmente posso fare qualche modifiche perché l’anello non si surriscaldi», disse a se stesso. «Ma il fatto che funzioni è… strabiliante».
«Merlino, mi stai ascoltando? Se permettiamo ad Alex di utilizzare la magia dovremo metterla a dieta e farle fare molto allenamento, perché se continua così rischia di prendere peso e…».
«Alex. Devo andare da Alex, scusatemi».
Merlino scorse Artù boccheggiare come un pesce fuor d’acqua, indeciso se dire ciò che stava pensando oppure no. Alla fine non gli diede il tempo di fare una scelta, chiudendosi la porta alle spalle.
Lui la sua decisione l’aveva finalmente presa.

***

Alex si alzò faticosamente dalla chaise-longue e, infastidita dal modo in cui le stavano tempestando la porta di pugni, gridò: «Arrivo, arrivo!».
Si sciolse anche l’ultimo pezzo di treccia, lasciando che i capelli lunghi le scivolassero intorno al viso e sulla schiena, ed aprì la porta, trovandosi di fronte Merlino.
«Oddio, sei tornato!», urlò al settimo cielo, gettandogli le braccia al collo. Stringendolo ancora forte, gli tirò un pugnetto su una spalla. «Aspettavo una tua chiamata, un messaggio, qualsiasi cosa!».
Merlino la scostò da sé prendendole i fianchi tra le mani e la guardò dritta negli occhi, accostando la fronte alla sua.
«Questa mattina mi hai detto che hai il cuore a pezzi», esordì, cogliendola alla sprovvista.
«Lo sai che esagero, non devi prendermi sempre sul serio».
«Mi hai chiesto che ho intenzione di fare in merito», continuò imperterrito e il suo sguardo determinato e il modo in cui le cingeva i fianchi la fecero rabbrividire. Si era per caso addormentata sulla chaise-longue?
Merlino avanzò d’un passo, stringendosi Alex addosso, così da potersi chiudere la porta della suite alle spalle. Le prese il mento tra due dita e concluse: «Ho intenzione di smetterla di farti soffrire, di far soffrire entrambi. Ho intenzione di essere felice, di vivere, senza pensare al dolore o alla morte. Carpe diem».
Alex corrugò la fronte, chiedendosi se fosse impazzito o se la stesse prendendo soltanto in giro. Forse la stanchezza e le ore passate in centrale gli avevano fatto perdere il contatto con la realtà.
«Okay Merlino, forse è meglio se…», iniziò a dire, ma fu bruscamente interrotta dalle labbra del mago che intrappolarono le sue in un bacio mozzafiato, travolgente e passionale.
In qualche modo, nonostante tutte le sue terminazioni nervose stessero andando in cortocircuito, una parte del suo cervello rimase razionalmente lucida, tanto che mentre Merlino la sollevava e continuando a baciarla la trasportava verso la camera da letto, Alex si diede un pizzicotto sul braccio. Lo sentì, lo sentì come sentì le labbra bollenti di Merlino iniziare a tracciare un percorso invisibile sul suo collo, scendendo sulle clavicole e verso lo sterno. Era tutto vero, non si trattava di un sogno, e lei non si era nemmeno lavata i denti.
Ad un passo dal letto, Merlino le fece toccare di nuovo terra solo per sfilarle di dosso il vestito e calciarlo via come se fosse uno straccio qualunque. A quanto pare lui non era affatto combattuto in proposito.
Alex gli tirò via la giacca e poi la camicia, maledicendo i bottoni e i baci sul collo di Merlino, di cui però non avrebbe mai fatto a meno.
Alla fine riuscì a spogliarlo e per non esitare con le dita sulle sue cicatrici corse a sbottonargli i pantaloni. Merlino però la fermò e la gettò sul letto, salendole sopra per dedicarsi al suo corpo con minuzia e dedizione.
Alex avrebbe tanto voluto che la prendesse subito, ma non appena le mani e la bocca di Merlino iniziarono ad esplorarla ci ripensò, invasa da scariche di piacere tanto intense da desiderare che non si interrompesse nemmeno per sfilarsi i pantaloni.
«Dio, perché hai aspettato tanto?», disse ad un tratto, giocando con i suoi capelli mentre le baciava il ventre piatto.
«Pensavo a cosa fosse più giusto per te». Merlino risalì fino a morderle il labbro inferiore, tirandolo delicatamente. Quindi le fece inarcare la schiena perché i loro bacini si scontrassero.
«Come potrebbe non essere giusto?», esalò lei, piantando le unghie tra le sue scapole.
«Non ti fa un po’ ribrezzo, pensare a me come Dragoon?».
Alex aprì gli occhi e lo fissò per qualche secondo prima di ribaltare la situazione con un colpo di reni ed esclamare con tono malizioso: «Ma tu non sei come Dragoon adesso, non mi pare».
«No, ma…».
«Shhh». Alex gli posò un dito sulle labbra e si sistemò meglio a cavalcioni su di lui.
Mentre trafficava per slacciarsi il reggiseno, Merlino le scostò i capelli dal viso con entrambe le mani, fino a sollevarsi per accarezzarli con le labbra.
«Grazie a Dio te li sei sciolti», mormorò. «Quell’acconciatura non si poteva vedere: sembravi un cucciolo di stegosauro».
L’infermiera inarcò le sopracciglia e fece penzolare il reggiseno di fronte al suo viso. «Il cucciolo di stegosauro più sexy che si sia mai visto, mi auguro».
«Assolutamente».
Merlino afferrò il reggiseno e con uno strattone improvviso la fece cadere di nuovo su di sé, così da poter assaporare ancora una volta le sue labbra e godere del calore della sua pelle sulla propria.
«Ti amo, Alexandra Greenwood-Pendragon», sussurrò il mago respirando tra i suoi capelli, mentre lei gli baciava il pomo d’Adamo.
«Io non ho mai saputo il tuo cognome».
«Il mio vero cognome? Non lo sa nessuno, neppure Artù. Tutti mi hanno sempre conosciuto come Merlino, o Emrys».
«Emrys», ripeté assorta, ricordando la lettera firmata da quella Louise. Lei lo chiamava in quel modo…
Merlino le accarezzò il viso con una mano, cercando il suo sguardo. «Ehi».
«Ehi», lo imitò, abbozzando un sorriso. «La verità è che non mi importa se hai più di mille anni, se hai amato altre donne prima di me… Quello che conta è che ora il tuo cuore appartenga a me».
«Fino alla fine dei miei giorni», sussurrò in tono solenne.
Il sorriso di Alex si allargò e si addolcì mentre si lasciava abbracciare e rotolava con lui tra le coperte, liberandosi a vicenda degli ultimi indumenti che indossavano.
Sotto il suo corpo, Alex gli accarezzò il viso e gli scostò i capelli dalla fronte con tenerezza. «Ti amo anche io, Merlino».
Il mago si chinò sul suo orecchio e le sussurrò il proprio cognome.
Alex sentiva il cuore scoppiarle: era l’unica al mondo a conoscere quel dettaglio di lui, lei che fino ad un paio di mesi prima non sapeva quasi nulla sul suo conto. Aveva confidato a lei quel segreto, perché l’amava, e Alex non l’avrebbe mai e poi mai tradito.
Suggellò quella promessa con un bacio e smise ufficialmente di sognare.

***

«No… Il tempo per tutti questi spargimenti di sangue è finito. Mi biasimo per quel che sei diventata, ma… questo deve finire».
«Sono una Grande Sacerdotessa, nessuna lama forgiata dall’uomo può uccidermi».
La trapassò con Excalibur, mozzandole il respiro.
Col suo corpo adagiato contro il proprio, gli occhi implacabili fissi nei suoi colmi di dolore e sulla sua bocca dischiusa, sussurrò: «Questa non è una lama forgiata dall’uomo. Come la tua, è stata forgiata dal fuoco di un drago».
Spinse più a fondo la lama e Morgana trasalì nuovamente, poi serrò gli occhi e si abbandonò alla sua stretta.
Merlino la accompagnò a terra, quasi con dolcezza, e sotto gli occhi di Artù estrasse Excalibur dal suo ventre.
Le labbra della strega si mossero, ma non un suono echeggiò nel silenzio spettrale del bosco. Merlino la guardò impassibile, nonostante una parte di lui stesse morendo con lei, mentre le sue ultime parole gli rimbombarono nella mente grazie alla telepatia.
"C’è stato un tempo in cui ti amavo. Come siamo arrivati a questo?".
Col cuore in frantumi, Merlino cacciò indietro i ricordi e non rispose alla sua domanda. Anche volendo, non avrebbe saputo cosa dire.
«Addio, Morgana».
La strega smise di respirare e i suoi occhi rivolti verso il cielo in tempesta divennero vitrei.
Merlino spostò il capo di lato per evitare di versare lacrime per lei – non di fronte al suo re, – e raggiunse Artù, sorretto dalla pietra contro cui l’aveva fatto sedere perché riposasse. Continuava a fissare la sorellastra, ma c’era qualcosa di diverso nel suo sguardo, qualcosa che Merlino non riuscì a decifrare.
Quando finalmente Artù sollevò il viso verso il suo, lo trovò sfigurato dal dolore, dalla rabbia e dal disprezzo.
«Che cosa hai fatto?», gli chiese una volta, due, tre, sempre più forte, fino a quando non scoppiò a piangere contro la sua spalla, chiamando il nome di Alex.
Con il terrore a gelargli il sangue nelle vene, Merlino si voltò lentamente verso il corpo di Morgana e una chioma bionda e spettinata gli offuscò la vista.
«No», mormorò incredulo, sopraffatto dal dolore. «No, Alex, no…».
Raggiunse il corpo della ragazza gattonando sul terreno ricoperto di foglie secche e rami spezzati, ferendosi i palmi delle mani e stracciandosi i pantaloni.
Si chinò sul suo corpo immobile e più e più volte vi avvicinò le mani, senza mai trovare la forza di afferrarlo. Quando ci riuscì, le pelle gelata del suo viso e i suoi spenti occhi verdi lo fecero urlare dalla disperazione.
La strinse forte a sé, alcune ciocche dei suoi capelli biondi tra le dita, ma nonostante la chiamasse a squarciagola Alex non si risvegliava. E le parole di Morgana continuavano a tormentarlo, ripetendosi ancora e ancora nella sua mente, pronunciate però dalla voce di Alex: "C’è stato un tempo in cui ti amavo. Come siamo arrivati a questo?".

Merlino aprì gli occhi di scatto e fece per mettersi a sedere sul letto, ma un peso sul proprio petto lo fece desistere.
Abbassò gli occhi e scorse un braccio sottile e candido abbandonato all’altezza dei suoi capezzoli. Lo percorse fino a raggiungere una spalla nuda, su cui scivolavano le stesse ciocche di capelli biondi che aveva impugnato nell’incubo da cui era appena uscito. Solo allora riuscì a tornare nel mondo reale, ricordando la nottata appena trascorsa con Alex.
Spostò con delicatezza il suo braccio, posandolo sul cuscino, e si avvicinò al suo corpo, mettendosi sdraiato su un fianco e puntellandosi su un gomito per scostarle i capelli dal viso ed ascoltare il suo respiro contro la propria gabbia toracica. Chiuse gli occhi, iniziando a seguire anche i battiti del suo cuore, e quando si fu calmato del tutto tornò ad appoggiare la testa sul cuscino, la punta delle dita ad accarezzarle lentamente l’avambraccio.
Fare l’amore con Alex era stato un vero sogno ad occhi aperti, il sogno migliore e più appagante che avesse mai fatto. In un certo senso si era sentito rinascere, era tornato a vivere sul serio dopo anni in cui aveva fatto solo finta, recitando una parte con così tanta naturalezza da imbrogliare persino se stesso.
Era felice, felicissimo, eppure la paura per ciò che prima o poi, inevitabilmente sarebbe accaduto era ancora lì, dietro l’angolo, pronta ad assalirlo.
Non aveva paura di morire, non ne aveva mai avuta. Aveva paura di non riuscire a proteggere le persone che amava, aveva paura della sofferenza e del dolore che la propria morte avrebbe portato nei loro cuori. In parole povere, di ciò che avrebbe provato Alex nel dirgli addio.
E da qualche tempo a quella parte aveva anche un’altra paura, forse anche peggiore della precedente: temeva per la sicurezza di Alex, per la sua vita.
Erano giorni ormai che tutte le volte che gli incubi gli facevano rivivere la morte delle persone a lui care, esse venivano all’improvviso sostituite da Alex. Era successo con la morte di Freya, con quella di suo padre, di Artù e ora con quella di Morgana. Ma mai prima d’allora l’incubo aveva subìto tante variazioni: i personaggi non avevano mai cambiato le loro battute, né si erano comportati in maniera differente da come li ricordava.
Morgana non gli aveva mai rivolto quelle parole e dubitava che in punto di morte avrebbe anche solo potuto pensarle: la rabbia e l’odio l’avevano cambiata, rendendola ben diversa dalla principessa di cui un tempo Merlino era stato innamorato. Perciò, da dove provenivano? Perché in ogni incubo Alex si ritrovava morta tra le sue braccia? Che quei dettagli non fossero solo un caso, un riflesso delle sue paure più grandi, ma piccoli indizi che col tempo avrebbero costruito un vero e proprio sogno premonitore?
Avrebbe continuato a tormentarsi all’infinito, ponendosi sempre le stesse domande, se Alex non avesse rivolto il viso verso il suo, sorridendogli con gli occhi verdi socchiusi.
«Buongiorno raggio di sole», sussurrò accarezzandole una guancia con il pollice.
Alex mugugnò, stropicciandosi gli occhi con una mano ed intrecciando le gambe alle sue. «Sto ancora sognando?».
«Non è stato un sogno», rispose Merlino sorridendo, per poi sollevare il capo e posare le labbra sulle sue in un bacio appena accennato. Alex lo afferrò per la nuca e non contenta gliene strappò un altro.
Poi il mago l’avvicinò di più a sé e le avvolse le braccia intorno alla schiena, iniziando ad accarezzarle i capelli, dalle mille sfumature bionde a causa del sole che brillava fuori dalla finestra panoramica.
Alex si schiarì la gola e tracciando con la punta dell’indice delle forme immaginarie sul suo petto – una delle quali gli riportò alla mente il simbolo dei druidi – gli chiese timidamente: «Lo so che non dovrei chiedertelo, ma quand’è stata l’ultima volta che hai… insomma…».
«Il 2 Settembre 1939, il giorno prima che la Gran Bretagna dichiarasse guerra alla Germania».
Alex deglutì sonoramente, ma non gli chiese altro. Merlino si pentì della propria sincerità: probabilmente avrebbe dovuto glissare, o almeno dare quell’informazione con un po’ più di tatto… Così sembrava davvero che avesse contato i giorni dall’ultima volta in cui aveva fatto sesso.
Era comunque troppo tardi per rimangiarsi tutto e fu la stessa Alex a riprendere la parola, anche se in tono ancora più incerto.
«Quindi tu e Myra davvero non avete mai…?».
«Sei proprio gelosa di lei, eh?», esclamò, interrompendola.
Le baciò teneramente la fronte, massaggiandole una spalla, e la rassicurò dicendo: «No, tra me e Myra non è mai successo niente. E d’ora in poi non dovrai più preoccuparti di lei».
«Che intendi dire?».
«L’agente Fisher è venuto a dirmi che ha dato le dimissioni e si è trasferita dai suoi genitori a Swansea».
Alex si sollevò, tirandosi il lenzuolo sul seno. «E per quale motivo avrebbe dovuto farlo?».
«Non ne sono sicuro, ma credo che si sia sentita in colpa per quello che ha fatto insieme a Keith. Mi ha scritto una lettera, ma è stata criptica a riguardo. Però voleva che ti dicessi che le dispiace e che sei fortunata ad avermi accanto».
«Come minimo la seconda parte te la sei inventata», lo prese in giro, sorridendo furbescamente.
Merlino sgranò gli occhi, fingendosi mortalmente offeso. «Che cosa? Non lo farei mai!».
«Allora lo pensa solo perché non ti conosce veramente! Non sa che sei uno stregone complessato, misterioso e con un’ambigua ossessione per un certo Artù».
«Ambigua ossessione per… Ah, questo non dovevi dirlo!».
Alex ridacchiò e saltò giù dal letto portandosi dietro il lenzuolo, sfruttando i secondi che Merlino sprecò nel cercare e nell’infilarsi i boxer. Quando la raggiunse in salotto, Alex inciampò in un lembo del lenzuolo e insieme caddero sul divano, ridendo sommessamente mentre le loro bocche erano impegnate a fare altro.
«Perché volevi sapere quand’è stata la mia ultima volta?», le chiese ad un tratto, sogghignando.
«No, nessun perché… curiosità», rispose evasiva, tanto che Merlino si scostò dal suo viso e con le braccia appoggiate ai lati del suo capo la fissò intensamente.
«Dimmelo. Giuro che non mi offendo, se… Insomma, sono passati settantacinque anni, è normale che io sia un po’ arrugginito».
Alex lo guardò sorridendo e gli prese il viso con una mano fino a fargli venire le labbra da pesce. «Stai zitto, stupido. È stato il miglior sesso della mia vita».
«È la verità? Giuri?».
«Te l’ho detto che sei complessato!».
Merlino rise e si tuffò di nuovo sulle sue labbra, scendendo ad accarezzarle le spalle, i seni, i fianchi sopra e sotto al lenzuolo che l’avvolgeva.
Si staccarono l’uno dall’altra, atterriti, solo quando sentirono dei colpi alla porta e poi una voce inconfondibile.
«Alex? Alex, sei sveglia?».
L’infermiera guardò il mago, chiedendogli silenziosamente che cosa doveva fare. Merlino si alzò in fretta e furia e aiutandola ad alzarsi la spinse verso la camera da letto, dove Alex si infilò il pigiama e urlò, fingendosi assonnata: «Arrivo, un attimo!».
Alex si diresse verso la porta e prima di aprire guardò Merlino nascondersi dietro l’angolo e mostrarle il pollice rivolto verso l’alto. Allora abbassò la maniglia e sorrise ad Artù, dandogli il buongiorno.
«Ciao», la salutò lui, fortunatamente senza dar segno di voler entrare. «Scusami, ti ho svegliata?».
Alex scrollò le spalle. «Come mai qui? È successo qualcosa?».
«In realtà sì: ho perso Merlino».
«Hai perso Merlino?», ripeté, rischiando di scoppiargli a ridere in faccia.
«Ieri notte mi ha detto che sarebbe venuto da te, ma poi non è più tornato. Il suo letto è ancora intatto e, indovina, non mi risponde al cellulare. Hai idea di dove possa essere?».
«Ahm… no, nessuna».
Artù iniziò a guardarla con sospetto. «Ma ieri è venuto qui, giusto?».
«Sì, sì, certo. È venuto a chiedermi come stavo e a ringraziarmi per averti salvato la vita, ma poi se n’è andato. Pensavo fosse tornato da te».
Il re di Camelot la fissò, meditabondo, e Alex si sforzò di mantenere l’espressione più seria del suo repertorio. Alla fine Artù dovette crederle, perché sospirò e disse: «Proverò a chiamarlo ancora. E quando si rifarà vivo giuro che gli farò passare un brutto quarto d’ora».
«Mi sembra giusto. Tienimi aggiornata, mi raccomando».
Artù annuì e si allontanò, già con il cellulare in mano. Alex chiuse la porta alle sue spalle e non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo che Merlino la sollevò per le gambe, facendogliele intrecciare intorno alla propria vita.
«Ti sembra giusto, eh?», le chiese, mordendole il labbro. «Grazie per averlo salvato, comunque».
«Figurati», rispose Alex, offrendogli il collo e stringendo una mano tra i suoi capelli. «Non potremo mentirgli per sempre. Se dovesse scoprire che noi due…».
«C’è solo una cosa che possiamo fare per entrare nelle sue grazie».
«Che cosa?».
Merlino incatenò lo sguardo al suo. «Sposarci».
Alex non riuscì a far altro che guardarlo a bocca aperta per un paio di interi minuti. Quando ritrovò il controllo della propria voce, squittì: «Stai scherzando?».
«Mai stato più serio di così. Sposami, Alexandra Greenwood-Pendragon».

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Capitolo 20
*** 20. The labyrinth of chances ***


Buongiorno cari! :) Come promesso sulla mia pagina facebook, oggi è lunedì e vi pubblico finalmente un capitolo!
Mi dispiace di farvi attendere così ogni volta, ma i capitoli sono lunghi e poi il mio tempo libero è imprevedibile... sfugge via che manco me ne rendo conto D:
Comunque sia, ringrazio di cuore gli affezionati, chi legge e commenta e chi legge soltanto... Tanto ammmore per tutti!
Spero che questo capitolo vi piaccia e vi auguro una buona lettura!
A presto!

Vostra,

_Pulse_

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20. The labyrinth of chances



Il suo cellulare iniziò a vibrare con insistenza sul comodino e Alex allungò faticosamente un braccio addormentato per poter disattivare la sveglia. Quindi si sedette sul bordo del letto, con i piedi nudi sul pavimento freddo, e sbuffando per la stanchezza si grattò la nuca.
All’improvviso una mano le afferrò il lembo della maglia del pigiama, invitandola a tornare tra le coperte.
«Mmm», mugugnò, lottando per non cedere alla tentazione di ricadere tra le braccia di Merlino.
Alla fine riuscì ad alzarsi, trovando a tastoni tutti i suoi vestiti sparsi per la camera. Si stava giusto infilando i jeans, in equilibrio su una gamba sola e con le palpebre pesanti come mattoni, quando scorse il volto di Merlino illuminato dalla luce del display del proprio cellulare.
«Ma è l’alba», farfugliò, coprendosi gli occhi con l’avambraccio.
«Me ne sono accorta», rispose Alex. «Che cosa fai, ti alzi oppure no?».
Sentì il mago sospirare e poi lo vide tirarsi su seduto, scostandosi bruscamente le coperte di dosso. Una volta in piedi, raggiunse le porte finestre che davano sul balcone e le aprì per poter spalancare le persiane e permettere alla luce del sole appena sorto di inondare la stanza.
Alex rimase a guardarlo mentre si stirava le braccia, sbadigliando, e ancora una volta fu impressionata dalla quantità di cicatrici sulla sua pelle. La sua schiena, in particolare, sembrava la mappa della metropolitana londinese.
Merlino si voltò finalmente verso di lei e le sorrise, prendendole il volto tra le mani prima di posarle un bacio a stampo sulle labbra. Quindi si infilò i pantaloni della tuta ed uscì dalla stanza, tornando poco dopo per darle il via libera.
Nel silenzio più assoluto passarono davanti alla camera di Artù, scorgendolo ancora profondamente addormentato – ed invidiandolo moltissimo per questo – e una volta in bagno si lavarono la faccia a turno, ancora troppo addormentati per rivolgersi la parola.
Alex non era una persona mattiniera, o meglio, non era una di quelle persone già pronte e scattanti non appena messo piede fuori dal letto: ogni azione, anche la più semplice, le risultava doppiamente difficile e il suo umore ne risentiva, rendendola acida e scontrosa.
Forse fu quello il motivo per cui, lavandosi i denti, sbottò: «Questa storia deve finire».
Merlino, seduto sull’asse del water alle sue spalle, sollevò il capo solo per mostrarle la propria espressione annoiata, la quale poteva essere benissimo tradotta in un: “Ecco, ci risiamo”.
«È inutile che alzi gli occhi al cielo», lo rimproverò, puntandogli contro lo spazzolino. «Siamo nel dannato Ventunesimo secolo: io e te stiamo insieme e se abbiamo voglia di dormire nello stesso letto Artù deve farsene una ragione».
«Lo sai che c’è una soluzione a tutto questo», disse Merlino, passandosi una mano tra i capelli ormai simili ad un cespuglio: doveva assolutamente tagliarli.
«E ti sembra una soluzione sensata?».
«Sì».
Alex si voltò ed incrociò il suo sguardo serio, incurante dei propri capelli spettinati e della bocca piena di dentifricio.
Senza mai interrompere il contatto visivo, Merlino aggiunse: «Per me ha perfettamente senso. Io ti amo, Alex, e voglio che tu diventi mia moglie».
L’infermiera rilassò le spalle e con uno sforzo disumano riuscì a dargli la schiena per sciacquarsi la bocca nel lavandino. Quindi, con l’asciugamano tra le mani, rispose: «Anche io ti amo, lo sai, ma… sposarci? Ci prenderanno per pazzi».
«Da quando ti importa di quello che pensano gli altri?», le chiese, scrollando le spalle. «Voglio poter dire con orgoglio di essere legato a te per l’eternità, voglio farlo prima che sia troppo tardi».
«Troppo tardi? Oh, ho capito. Vuoi che io sia la tua vedova. Sei incredibile, Merlino».
Scossa dalla rabbia, uscendo dal bagno si dimenticò quasi di dover fare piano per non svegliare Artù. Merlino la raggiunse a metà della scalinata e la superò perché i loro occhi fossero alla stessa altezza.
«Che cos’è che ti impedisce di dirmi quel maledetto sì?», le chiese con delicatezza, cercando di raggiungere le sue mani. Alex però alzò le braccia, quasi in segno di resa, e chiuse gli occhi.
«Io non…», incominciò a dire coi denti serrati, interrompendosi subito per poter prendere un respiro profondo e ripartire con più calma: «Non voglio che tu mi chieda di sposarti per far contento Artù, né perché sei convinto che presto morirai. Voglio che tu mi chieda di sposarti perché mi ami più di qualsiasi altra donna tu abbia mai conosciuto, perché vuoi promettermi che lotterai fino all’ultimo respiro per poter invecchiare con me».
Merlino aprì la bocca per rispondere, ma dopo un attimo di esitazione la richiuse, chinando il capo. Alex sospirò, trattenendo a stento il desiderio di spingerlo giù dalle scale, e lo aggirò dandogli una lieve spallata.
«Ah, buona Pasqua», esclamò in tono lugubre prima di sparire in cucina.

***

«Buongiorno!».
Merlino, seduto al tavolo della cucina con il naso nella propria tazza di caffè, salutò Artù con un semplice cenno del capo, al quale il re del passato e del futuro rispose con una smorfia.
«Hai dormito male anche questa notte?», gli chiese incrociando le braccia al petto. «Altri incubi?».
Il mago si schiarì la gola per prendere tempo, cercando la bugia migliore da propinargli. Quella notte non aveva dormito molto, era vero, ma non a causa degli incubi. Questi tendevano a diminuire, quando sapeva di avere Alex stretta tra le braccia, ma la verità era che era proprio Alex la causa di ogni sua agitazione, perciò… Sì, dormire non era esattamente la cosa che gli riusciva meglio da quando erano tornati da Londra.
Avrebbe voluto parlarne con Artù, ma aveva come il sospetto che dirgli la verità sul loro conto e sul sogno che aveva fatto pochi giorni prima avrebbe peggiorato soltanto la situazione.
"C’è stato un tempo in cui ti amavo. Come siamo arrivati a questo?". La frase pronunciata da Morgana-barra-Alex lo stava letteralmente ossessionando, come ciò che avrebbe potuto comportare: sarebbe davvero arrivato un tempo in cui lui e Alex non si sarebbero più amati, un tempo in cui addirittura si sarebbero trovati l’uno contro l’altro, nemici l’uno dell’altro? E se così fosse, sarebbe toccato proprio a lui il compito di toglierle la vita, esattamente come era successo con l’ultima Grande Sacerdotessa, l’opposto che l’aveva sempre ed inevitabilmente attratto?
Sapeva quanto potessero essere fraintendibili le profezie e quanto fossero difficili da aggirare, ma avrebbe fatto di tutto pur di ottenere un po’ di chiarezza, in modo da poter essere preparato per ciò che il futuro riservava loro. Per questo non appena tornati da Londra si era recato ad Avalon.
Nonostante avesse promesso a se stesso che non avrebbe più avuto nulla a che fare con Freya e quelli come lei, aveva urlato il suo nome fino a quando non si era ritrovato completamente senza voce. La custode del lago non gli aveva risposto e non avrebbe dovuto sorprendersi tanto, né provare delusione nel rendersi conto che i suoi stessi simili l’avevano abbandonato ancora una volta, ma…
«Merlino, mi stai ascoltando?».
Lo stregone alzò di scatto il capo verso Artù e lo trovò con la fronte aggrottata, appoggiato al tavolo con i pugni chiusi.
«Scusatemi, mi sono distratto. Cosa stavate dicendo?».
Artù sospirò, annoiato dal doversi ripetere. «Suggerivo soltanto che dovresti prendere qualcosa, se gli incubi non ti danno tregua. In quest’epoca non c’è qualche pozione che fa dormire meglio? Tipo quelle che preparava Gaius per Morgana. Non hai imparato proprio niente da lui?».
Merlino gli lanciò un’occhiata così cupa che Artù si morse il labbro inferiore, deviando il suo sguardo e servendosi da sé la colazione.
Quella mattina però il re di Camelot doveva essersi alzato col desiderio di infliggergli una qualche punizione, dato che riprese l’argomento mentre si versava un po’ di caffè in una tazza.
«Insomma, adesso ho capito che gli incubi di Morgana non erano incubi normali, ma…».
«Basta», lo interruppe Merlino, alzandosi di scatto dalla sedia. «Perché continuate a parlare di lei?».
Artù inarcò un sopracciglio, fingendosi stupito e confuso. «Non posso?».
«Lo sapete che parlare di lei mi è difficile».
«Lo so, davvero? A me non pare di aver mai affrontato l’argomento».
Merlino respirò profondamente, massaggiandosi gli occhi con due dita. «Bene. Se dovete chiedermi qualcosa fatelo, non girateci intorno».
Artù lo fissò per qualche secondo e dopo averlo indicato – silenzioso ordine di non muoversi – corse su per le scale. Non appena ritornò, con un lieve fiatone, sbatté sul tavolo un largo braccialetto argentato e con fini motivi floreali color oro antico.
Il cuore di Merlino si fermò vedendolo e per un attimo pensò che quella volta ci sarebbe rimasto secco. Così non fu, perché riprese a battergli dolorosamente nella gabbia toracica.
«Quando l’avete trovato?», gli chiese con un fil di voce, allungando una mano per accarezzarlo e ritraendola immediatamente.
«Prima della perquisizione, quando ti ho aiutato a recuperare gli oggetti di valore dalla soffitta».
Lo stregone chiuse gli occhi, abbozzando un sorriso dalle venature tristi. Certo, avrebbe dovuto immaginare che Artù ne avrebbe approfittato per curiosare.
«Che cosa volete sapere?».
I lineamenti del viso di Artù si ammorbidirono e addirittura gli posò una mano sulla spalla, quasi come se volesse consolarlo per la sua perdita.
«C’è mai stato qualcosa tra di voi?».
«Se c’è stato qualcosa?». A Merlino scappò una risatina isterica, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. «Credo di essermi innamorato di lei dal primo momento in cui l’ho vista, quando Gaius mi ha chiesto di portarle proprio uno di quei filtri per gli incubi. C’è sempre stato qualcosa tra noi, perché entrambi possedevamo un dono che non avevamo chiesto, un dono scomodo, ingombrante. La magia ci ha legato, ma poi ci ha irreparabilmente resi la nemesi l’uno dell’altro: Emrys e Morgana, la luce e l’oscurità, l’amore e l’odio. Decine di volte, quando voi pensavate che io fossi alla taverna o chissà dove, io e lei ci siamo fronteggiati. Lei mi ha avvelenato, torturato, ha soggiogato la mia mente perché vi uccidessi, mi ha imprigionato nel fitto della foresta così che gli scorpioni giganti mi mangiassero vivo, mi ha reso privo di poteri proprio prima della battaglia di Camlann… Ma non è stata sempre così, voi ve la ricordate tanto quanto me. E io… io sono rimasto a guardare mentre cambiava e diventava una persona che non era, mentre covava il rancore che l’avrebbe distrutta… E poi l’ho vista morire».
Merlino si sottrasse dalla ormai debole stretta di Artù – complice lo shock per tutti i retroscena che gli aveva appena rivelato – ed incrociò le braccia al petto, in un abbraccio solitario. Quando ebbe il coraggio di rialzare la testa, nonostante le lacrime gli rigassero le guance, trovò gli occhi blu del re ancora fissi su di sé.
«Sono stato io ad ucciderla, Artù. Non esistono pozioni che possono cancellare ciò che ho fatto».
Finalmente riuscì ad afferrare il braccialetto di Morgana – ritrovato per puro caso nella Francia del 1500, su una bancarella carica di oggetti di ogni genere – e con lo stomaco sottosopra si diresse verso l’ingresso.
«Merlino», lo chiamò Artù prima che potesse chiudersi la porta alle spalle, col giubbotto blu infilato solo per metà.
«Mi ricordo cosa le dicesti quella notte: “Mi biasimo per quel che sei diventata”. Voglio che tu sappia che non è stata colpa tua se Morgana ha scelto un’altra strada».
Senza voltarsi, Merlino rispose pacatamente: «Invece è stata tutta colpa mia, perché non ci ho creduto abbastanza: avrei dovuto stare dalla sua parte fin dall’inizio, aiutarla a cambiare il destino che avevano scritto per noi».
«E adesso? Adesso ci credi?».
Merlino rimase in silenzio, il bracciale di Morgana stretto forte tra le dita.
«Stai facendo lo stesso errore», aggiunse Artù, quasi con disprezzo. «Hai fatto intendere ad Alex che il destino non si può cambiare, ma la verità è che, come allora, non vuoi nemmeno provarci».
Lo stregone si passò una mano sul viso per spazzare via le lacrime e come se Artù non avesse detto nulla esclamò: «Muovetevi, o faremo tardi al lavoro».
Detto ciò, si chiuse la porta d’ingresso alle spalle e si infilò il bracciale di Morgana in tasca, tirando su col naso.

***

Alex chiuse gli occhi ed immaginò di star impugnando ancora Excalibur; quando li riaprì, una forza e una sicurezza quasi pericolose la fecero sentire rilassata e a proprio agio persino in quella situazione disperata.
«Libera!».
Keith alzò gli occhi sul monitor coi parametri vitali della paziente ancor prima di sollevare del tutto le piastre del defibrillatore. Ormai erano rimasti solo loro due a lottare per quella vita, testardi e tenaci come muli.
Se fosse stata pienamente in sé l’infermiera avrebbe capito che non c’era più nulla che potessero fare, che quel cuore si era fermato e che non avrebbe ripreso a battere, ma da quando era tornata da Londra, da quando il richiamo della spada magica le era risultato irresistibile, era diversa. E se ne rendeva conto, eccome: Excalibur la faceva sentire potente, le faceva credere di più nelle proprie possibilità e non aveva più paura di mettersi in gioco.
Ovviamente c’erano degli effetti negativi all’esposizione di tutta quella magia: alcuni che aveva già avuto modo di provare sulla sua pelle - scatti d’ira improvvisi, martellanti mal di testa - ed altri del tutto nuovi che più di una volta l’avevano spaventata così tanto da farle quasi confessare tutto ad Artù e Merlino.
Il lato oscuro della sua anima si era fatto più intenso, così potente che il pensiero di ottenere tutto quello che voleva e di porre rimedio alle ingiustizie con la forza, l’inganno e se necessario persino la sofferenza, non le era sembrato poi tanto sbagliato. E poi aveva iniziato a fare quei sogni, confusi e senza né capo né coda, che però le lasciavano addosso un velo di sudore e un terribile senso di inappartenenza.
Spesso e volentieri pensava di aver raggiunto il proprio limite, di essere sul punto di spezzarsi, combattuta tra il bene e il male, ma ogni volta che si convinceva che dire la verità a Merlino fosse la cosa giusta da fare, lo scudo che la magia le stava lentamente costruendo intorno al cuore le faceva cambiare idea. Quel giorno era successo già due volte: quando Merlino aveva riaperto il discorso “matrimonio” e ora, davanti al cadavere di quella signora che le ricordava tremendamente la sua amata nonna. La magia era come un anestetico che allontanava le emozioni, le rendeva meno vivide: la felicità era sì smorzata, ma lo era anche il dolore, e per lei questo contava moltissimo. Era stanca di soffrire, stanca di combattere fino allo stremo delle forze per realizzare i propri sogni. Preferiva vivere così, distante dal mondo reale, in una bolla di apatia, piuttosto che ricoprirsi di lividi invisibili.
«Dannazione!», urlò Keith stringendo i denti, per poi chinare il capo e concedersi un paio di respiri profondi.
Consegnò ad Alex le piastre del defibrillatore e si voltò per guardare l’orologio appeso alla parete.
«Ora del decesso: dieci e cinquantaquattro».
Alex segnò l’ora sulla cartella clinica e senza dire una parola gliela porse perché firmasse.
Keith si tolse con stizza i guanti in lattice e prese la penna per scarabocchiare il proprio nome, anche se i suoi occhi non si allontanarono di un centimetro dal volto dell’infermiera.
«Grazie per essere rimasta, per averci provato fino alla fine», le sussurrò.
«È il mio lavoro».
Il dottore si accigliò, stranito. «Il tuo lavoro è assistere, sì, ma l’Alex che conosco mi avrebbe detto di dichiararla almeno dieci minuti fa».
«Di sicuro non le ha fatto male», commentò scrollando le spalle.
Con la cartella clinica sotto braccio si avviò verso la porta, ricordandogli che il marito e il figlio della donna stavano aspettando nella sala d’aspetto, quando Keith l’afferrò per un braccio ed inchiodò gli occhi grigio-azzurri nei suoi.
«Alex, sei sicura di stare bene?».
«Benissimo, perché?».
«Lo so che non è la prima volta che vedi morire qualcuno, ma è normale non abituarsi; non devi vergognarti di nulla, men che meno con me».
«Non capisco di cosa tu stia parlando», rispose quasi con rabbia l’infermiera, scrollando il braccio perché la lasciasse andare. «Ora ho molte scartoffie da sistemare, se permetti».
Keith aprì la bocca per dire qualcos’altro, qualcosa che Alex non sentì, già lontana lungo il corridoio.
Per raggiungere la reception dovette passare di fronte alla sala d’aspetto, dove con la coda dell’occhio scorse i familiari della donna che non erano riusciti a salvare. Tirò dritto e rendendosi conto di non provare né dolore né sensi di colpa nei loro confronti un sorriso sereno le incurvò le labbra.
«Ehi, è tutto okay?».
Una collega del pronto soccorso, con la cornetta del telefono incastrata tra l’orecchio e la spalla, la stava fissando con un’espressione indecisa, tra il preoccupato e l’inorridito, come quando non si sa bene se far notare un brufolo o far penosamente finta che non ci sia.
«Ce l’hai con me?», le chiese indicandosi.
«Sì. Hai… Stai piangendo».
Alex si passò una mano sulla guancia indicata dalla collega e la trovò rigata da una lacrima silenziosa. Rise nervosamente, dimostrandosi sorpresa.
«Dev’essermi entrato qualcosa nell’occhio, sto bene».
La collega stiracchiò un sorriso e per sua fortuna non poté aggiungere altro, ricevendo finalmente risposta alla sua telefonata. Alex ne approfittò per sgattaiolare via e rifugiarsi nei bagni, dove attraverso lo specchio si osservò piangere fuori, senza avvertire alcunché dentro.

***

Un rombo a lui familiare gli fece voltare di scatto la testa verso la strada sterrata che portava alla facciata in mattoni dell’agriturismo.
Alla guida del carretto su cui facevano salire a turno i bambini delle scolaresche perché sperimentassero il più antico mezzo di trasporto dei contadini, Artù non poté allontanarsi fino a quando non completò il giro. Dopodiché aiutò quelle tre ochette vestite di rosa e lilla a scendere, prendendole in braccio una alla volta ma senza prestare troppa attenzione ai loro ringraziamenti: era impaziente di correre incontro a Cathleen, sperando che si trattasse davvero del paramedico.
«Forza Artù, vai. Per oggi hai fatto abbastanza».
Il re di Camelot raddrizzò la schiena dopo aver lasciato a terra l’ultimo confetto dai capelli neri e si voltò verso Edwin, il quale lo stava guardando con un sorriso di chi la sapeva lunga.
Con una mano stesa verso le redini dello stallone dal manto color cioccolato, il padre di Alex accennò ancora una volta allo stabilimento oltre le stalle. «Non farla aspettare».
Artù sorrise entusiasta e diede una carezza alla criniera del cavallo prima di consegnare le redini all’uomo. «Grazie, Edwin. Ci vediamo domani».
Iniziò ad incamminarsi frettolosamente verso il maniero, ma un improvviso vociare concitato lo fece voltare nuovamente, incuriosito.
«Sono ventitré, ne manca uno! Chi manca? Oh mio Dio, mio Dio».
La giovane insegnante si sistemò nervosamente i capelli dietro le orecchie, rossa in volto e con gli occhi lucidi di preoccupazione, mentre il collega più anziano la rassicurava dandole leggere pacche sulla schiena ed iniziava a fare l’appello.
Artù ed Edwin si scambiarono un’occhiata e il padre di Alex gli fece segno di andare comunque, lasciando sottointeso che ci avrebbe pensato lui. Il re fu tentato, fece persino un passo verso la sua meta, ma alla fine scosse il capo e sbuffando ritornò vicino alla classe: ventiquattro bambini di otto anni, tanto chiassosi ed irritanti da far venire il mal di testa, eppure adorabili e fonti inesauribili di allegria. Ventiquattro meno uno.
«Cody?», chiamò il professore, senza ricevere risposta.
L’insegnante, ora pallida come un cencio, mormorò ripetutamente: «Cody non c’è. Dov’è Cody?».
«Va bene signorina, abbiamo capito che Cody si è allontanato dal gruppo. Vedrà che sarà qui nei paraggi, ne sono sicuro. Lo troveremo», tentò di rassicurarla Edwin, ma la ragazza iniziò ad urlare il nome dell’alunno, vagando quasi senza meta tra i recinti.
Il signor Greenwood si avvicinò ad Artù e gli sussurrò: «Questa è andata. Portala da Wanda e poi torna qui con Abraham, più siamo meglio è».
«Ci penso io».
Artù raggiunse la professoressa ed avvolgendole le spalle con un braccio la condusse fino all’agriturismo. Entrarono in cucina passando dalla porta sul retro e lì trovarono la signora Morris, intenta a sfornare una torta di mele: il suo profumo delizioso si sentiva da chilometri di distanza.
«Che cos’è successo a questa povera creatura?», gli chiese non appena mise piede nel suo regno, affrettandosi per far sedere l’insegnante ormai muta e ben lontana dall’afferrare qualsiasi cosa succedesse intorno a lei.
«Si sono persi un bambino», spiegò brevemente il biondo. Non era la prima volta che capitava, perciò erano abituati a gestire situazioni del genere.
Wanda lo congedò con un cenno del capo, non prima di dirgli che avrebbe potuto trovare Abraham nella cucina del ristorante.
Artù si avviò con passo pesante, pregando che nel frattempo quel bambino fosse già tornato dai compagni. Passando di fronte alla reception, dove Rebecca stava esaminando alcune carte, non riuscì a resistere ed esclamò, facendola sobbalzare per lo spavento: «È per caso passata di qui una ragazza? Capelli rossi, piercing al naso… bella?».
La figlia dei signori Morrison scosse il capo, un po’ delusa che cercasse un’altra e non lei. «È la tua ragazza?», chiese infatti un po’ di risentita.
«Non lo so, forse. Quindi non l’hai proprio vista?».
«L’ultimo a passare di qui è stato Merlino, venti minuti fa», disse scrollando le spalle e con gli occhi di nuovo sulle sue carte.
«Okay, grazie comunque».
Lei non gli rispose né lo salutò e Artù decise che non l’avrebbe mai capita. Passò oltre, facendo lo slalom tra le poltrone in salotto ed accedendo alla sala da pranzo del ristorante. Non gli piaceva entrare in quella cucina, visto che cos’era successo a Merlino l’ultima volta, ma si fece coraggio e spinse le pesanti porte per venir subito assalito da un caldo quasi soffocante.
«Signor Morris?», chiamò boccheggiando alla ricerca d’aria.
«Sì? Chi mi cerca?».
Abraham comparì da dietro i fornelli, con un mestolo in una mano e una padella nell’altra, lo stretto grembiule bianco macchiato e la cuffietta in testa che stonavano terribilmente con la sua corporatura massiccia.
«Artù, che cos’è successo?».
«Si sono persi un bambino. Edwin mi ha mandato a chiamarla».
Il proprietario dell’agriturismo guardò il contenuto della sua padella, quindi sbuffò e la posò sul ripiano della cucina.
«Ragazzi, fate in modo che non si bruci! Torno tra poco!», gridò e dopo essersi spogliato della divisa di aiuto-cuoco seguì Artù all’esterno.
Provò persino a far smuovere dal proprio morbido cantuccio il vecchio Rufus, un bellissimo esemplare di pointer inglese dal pelo fulvo chiazzato di bianco sul muso e sull’addome, ma l'età l'aveva reso stanco e pigro. Adorava sonnecchiare accanto al fuoco e farsi accarezzare dai bambini, e gli unici spostamenti che faceva erano dettati da bisogni fisiologici improrogabili. Perciò rimasero senza parole quando lo videro sollevarsi sulle quattro zampe e seguirli in giardino, dove Edwin e l’insegnante rimasto si erano già spartiti le varie zone da controllare.
«Artù, tu controlla nel pollaio».
«Perché proprio io il pollaio? Odio quelle bestiacce!», si lamentò, ma sotto lo sguardo acceso di furbizia dei compagni di classe del piccolo Cody sospirò ed annuì.
Mentre percorreva il sentiero che l’avrebbe portato al pollaio si chiese se non si fosse soltanto immaginato il rombo della moto di Cathleen, se la sua voglia di vederla fosse talmente grande da tirargli quegli scherzi.
Non era stato facile per lui, ma aveva mantenuto la parola data e una volta ritornato da Londra aveva voluto incontrarla subito, così da levarsi il pensiero. Si erano visti al parco di fronte all’ospedale, un luogo neutrale, e seduti sulle altalene cigolanti Artù aveva parlato per quelle che gli erano sembrate ore, rivelandole tutta la verità sul suo conto. Non aveva tralasciato niente: le aveva raccontato della sua vita a Camelot, le aveva elencato tutto ciò che aveva perso, le aveva spiegato i motivi della sua morte e del suo ritorno, o almeno quelli su cui i custodi della magia avevano puntato tutto.
Cathleen aveva ascoltato in silenzio, senza mai interrompere, poi si era alzata e l’aveva invitato a fare lo stesso per poterlo abbracciare. A bassa voce, col mento posato sulla sua spalla, gli aveva chiesto del tempo per metabolizzare il tutto. Si sarebbe fatta sentire lei quando sarebbe stata pronta e lui aveva rispettato la sua scelta, anche se in certi momenti gli era sembrato di impazzire, controllando ossessivamente il cellulare, scrivendo e cancellando decine di messaggi, urlando ogni volta che sentiva la propria suoneria o anche quella di Merlino.
Lo stregone aveva cercato di stargli accanto, di consigliarlo proprio come ai vecchi tempi, ma né lui né Alex in quel periodo sembravano in ottima forma. Entrambi sembravano distratti, appesantiti da fardelli non condivisibili. In particolare, Alex gli era parsa allo stadio successivo del suo cambiamento, in cui a dominarla non c’era più la rabbia cocente con la quale aveva raso al suolo la propria suite, ma il gelo, il disinteresse e l’indifferenza.
Nonostante la sua preoccupazione, nessuno dei due aveva voluto approfondire l’argomento, liquidandolo con spiegazioni vaghe, scuse e «Non so» che l’avevano costretto ad allontanarsi di propria volontà. Non gli era mai piaciuto rimanere da solo, ma se la sua esperienza come re gli era servita a qualcosa era proprio capire che abbracciare la solitudine era prova di grande coraggio e saggezza.
Pescò da una delle tasche del marsupio legato in vita una piccola torcia elettrica ed entrò con cautela nel pollaio. La maggior parte delle galline si trovavano fuori, a scorrazzare nel recinto, ma alcune sonnecchiavano sopra le uova appena deposte.
Artù si chiuse la cigolante porta alle spalle e nel silenzio gli sembrò di sentire un lieve singhiozzare.
«Cody?», chiamò sottovoce, puntando il fascio di luce negli anfratti della costruzione in legno. «Lo so che sei qui, vieni fuori».
Il re porse l’orecchio per capire da dove provenissero i singhiozzi e continuò ad avanzare fino a quando non si trovò faccia a faccia con una gallina che, spaventata dalla luce della torcia, gli volò addosso chiocciando istericamente. Artù, preso alla sprovvista, fece appena in tempo a coprirsi il volto con le braccia e ad accucciarsi a terra, mordendosi la lingua al pensiero delle risate che Merlino si sarebbe fatto se fosse stato lì con lui. Lui e Alex l’avrebbero preso in giro per settimane.
Aspettò immobile che la gallina si tranquillizzasse ed iniziasse a beccare tra la paglia, poi sollevò il capo e quasi cadde culo a terra incrociando gli occhi lucidi di Cody, rannicchiato proprio di fronte a lui, dietro la grata.
«Eccoti qui, finalmente», esclamò, aprendo la grata perché il bambino abbandonasse il proprio nascondiglio. «Gli insegnanti e i tuoi compagni di classe ti stanno cercando, sai?».
«Non voglio tornare da loro», mugugnò tirando su col naso, le braccia strette intorno alle ginocchia.
«Perché?».
Il bambino cercò di ignorarlo, guardando altrove, ma alla fine cedette agli occhi blu di Artù, così profondi e degni di fiducia.
«Non voglio tornare a casa, non voglio vedere mio papà». Nascose di nuovo il volto tra le braccia e i singhiozzi ripresero, ancora più forti.
Artù sentì il cuore stretto in una morsa e dopo essersi chiesto che cosa avrebbe fatto se quello fosse stato suo figlio, spense la torcia e non senza qualche difficoltà strisciò all’interno del cantuccio per sedersi accanto al bambino. Quindi gli avvolse un braccio intorno alla schiena e con l’altra mano iniziò ad accarezzargli i corti capelli biondi.
«La mia mamma è morta un mese fa», disse ancora, avvicinandosi ad Artù tanto da posare il capo sul suo petto. «E tutte le volte che mi vede piangere mi dice che non devo farlo, che devo essere forte e che nessuno merita le mie lacrime».
Quelle parole furono come una botta in testa per il re di Camelot, che lo riportò al giorno in cui aveva visto Merlino piangere sul cadavere dell’ultimo signore dei draghi. Aveva cercato di tirarlo su di morale e gli aveva detto ciò che diceva a tutti i suoi cavalieri più giovani: «Nessun uomo merita le tue lacrime». Il mago ci aveva scherzato su come sempre e non gli aveva mai confessato che in realtà quello sconosciuto morto tra le sue braccia era il padre che aveva appena ritrovato.
Aveva sbagliato molte volte a giudicare Merlino, e molte volte ancora l’avrebbe fatto, ma una lezione almeno l’aveva imparata.
«Tuo padre si sbaglia», mormorò sollevandogli il viso con due dita sotto il suo mento, così che i loro sguardi si incrociassero. «Ci sono delle persone che meritano le nostre lacrime, persone speciali ed insostituibili. È solo che gli adulti spesso hanno paura di mostrare i propri sentimenti, le proprie debolezze… si sentono vulnerabili. E tuo padre deve sentirsi così, al momento. Vuole che tu sia forte perché lui non lo è abbastanza, perché vederti piangere lo fa star male ancora di più».
«Allora che cosa devo fare per farlo stare meglio, secondo te?».
Artù scrollò le spalle, guardando le tegole di legno sopra la sua testa. «Io e mio padre non parlavamo mai dei nostri sentimenti, ma se potessi tornare indietro gli direi che tenersi tutto dentro fa male e che mostrarsi indifesi non è sempre una cosa di cui vergognarsi. Gli spiegherei perché piango e lo inviterei a farlo con me, se vuole».
Insospettito dall’improvviso silenzio caduto tra di loro, il re di Camelot abbassò gli occhi e trovò quelli di Cody di nuovo luminosi, colmi di gratitudine e determinazione. Somigliavano a quelli di Graalmir nei disegni di Merlino.
«Allora, che cosa stiamo aspettando?», gli chiese con una finta nota impaziente nella voce. «Asciugati gli occhi e andiamocene: questo posto puzza».
Il bambino rise di cuore e si passò le maniche della felpa sulle guance, poi uscì agilmente dall’anfratto ed aspettò che Artù lo raggiungesse. Si lasciò prendere tra le braccia e una volta seduto sulle spalle del re di Camelot alzò le braccia verso il cielo, da dove sperava che la sua mamma lo stesse guardando.
I compagni di classe di Cody corsero loro incontro, entusiasti, non appena li videro arrivare. Artù fece scendere il bambino e fu sorpreso da un suo caloroso abbraccio, le braccia strette intorno al suo collo.
«Grazie, ragazzo della fattoria».
Il re non ebbe nemmeno il tempo di ricordargli il suo nome: Cody e i compagni, urlando e spingendosi a vicenda, corsero verso gli insegnanti che li chiamavano a squarciagola, specialmente la professoressa in stato di shock che sembrava essersi rimessa e accolse la pecorella smarrita tra le sue braccia rachitiche.
Scuotendo il capo con un sorriso divertito sulle labbra, Artù notò Merlino in tenuta da giardinaggio, con i guanti e un marsupio simile al suo pieno di attrezzi per curare le piante, appoggiato al recinto dei cavalli. Al suo fianco c’era Cathleen, i capelli rosso sangue scompigliati dal vento e un sorriso dolcissimo ad incurvarle le labbra.
Il cuore di Artù iniziò a battere all’impazzata, tanto da fargli temere un attacco. Fu solo un attimo però ed incurante dei rischi le corse incontro, travolgendola in un abbraccio euforico per cui la sollevò per la vita e le fece fare un giro di trecentosessanta gradi.
«Sono così felice di vederti», le sussurrò tra i capelli non appena la riportò con i piedi per terra.
«Me ne sono accorta!», rispose ridendo. Più teneramente e togliendogli una piuma bianca dai capelli, aggiunse: «Anche tu mi sei mancato».
«Okay, non voglio vedere altro», si intromise Merlino sollevando le mani. «Ci vediamo più tardi all’ospedale».
Artù corrugò la fronte, esclamando confuso: «Credevo ci andassimo tutti insieme».
«Cambio di programma». Cathleen gli porse un casco arancione decorato da grandi stelle nere e bianche. «Io e te li raggiungeremo più tardi. Voglio portarti in un posto prima».
«Okay, allora… A dopo, Merlino».
Lo stregone lo salutò con un cenno della mano e scambiò un’occhiata con Cathleen, la quale annuì quasi solennemente.
Artù si chiese se mentre lui non c’era avessero parlato di qualcosa in particolare, fu quasi sul punto di domandarlo alla diretta interessata, ma se ne dimenticò non appena salì sulla sua moto e le strinse le braccia intorno alla vita, il petto contro la sua schiena e i suoi capelli che gli accarezzavano il volto.
Adorava andare in moto, adorava andare in moto con Cathleen perché poteva stringerla forte come desiderava senza provare alcun imbarazzo, sentirla vicina senza avvertire alcun senso di colpa infilzargli il cuore.

***

Merlino fermò l’auto vicino ad Avalon e si incamminò a piedi fino alla riva est, dove la vecchia barchetta dondolava pigramente sulla superficie piatta dell’acqua. Vi salì e con calma iniziò a remare verso l’isola avvolta nella nebbia più fitta che avesse mai visto.
Quando intorno a sé non vide altro che barriere lattiginose, tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e chiamò il primo numero della sua rubrica: Alex.
Mentre aspettava che rispondesse, Merlino fu ancora una volta assalito dalle preoccupazioni e non fece altro che peggiorare la situazione ripensare a ciò che gli aveva detto Cathleen poco prima.

Un rombo insolito ruppe il silenzio e la calma della campagna.
Merlino allontanò lo sguardo dai vitigni che stava potando e vide una moto a lui familiare sollevare un gran polverone nel parcheggio dell’agriturismo.
Raggiunse il motociclista e si appoggiò al muro di mattoni con una spalla, togliendosi gli spessi guanti per appenderli alla fibbia del marsupio mentre lo osservava sfilarsi il casco dalla testa. Avrebbe riconosciuto tra mille quella cascata di capelli rosso sangue.
«Ciao».
Cathleen si voltò quasi di scatto e lo fissò cercando di decifrare la sua espressione. Merlino le rese il lavoro molto più facile: sollevò entrambe le mani in segno di resa ed abbozzò un sorriso.
«Vengo in pace», esclamò prima di avvicinarsi ulteriormente.
«Com’è che questo non mi rassicura, anzi, mi mette ancora più in ansia?».
Merlino sospirò e si passò una mano sulla nuca, cercando le parole adatte per scusarsi. Come poteva dirle, possibilmente senza ferire i suoi sentimenti, che tutto quello che desiderava era la felicità di Artù?
«Io e te non viaggiamo sulla stessa lunghezza d'onda, è evidente», esordì Cathleen, risolvendo ogni suo problema. «E forse non andremo mai d’accordo, eppure c’è qualcosa, o meglio, qualcuno che ci lega: Artù. Lui è davvero speciale e… ti prometto che avrò cura di lui. Questo ti basta?».
«È tutto ciò che voglio».
«Allora siamo d’accordo». Sorridendo, stese una mano verso di lui in segno di pace. Merlino l’afferrò a metà dell’avambraccio, guidando la sua mano perché facesse lo stesso.
«Si usava così tra i cavalieri di Camelot», le spiegò teneramente.
Cathleen rinsaldò la stretta, guardandolo dritto negli occhi.
Quando si separarono l’uno dall’altro, Merlino le fece cenno di seguirlo: Artù era impaziente di vederla e non voleva nemmeno immaginare la sua reazione nel caso in cui avesse saputo che non l’aveva immediatamente portata al suo cospetto.
«Sai, sono contenta di questa tregua», disse lei dopo un paio di minuti di silenzio, spesi nell’attraversare i vitigni.
«Anche io. Mi dispiace di essermi intromesso in quel modo nella tua vita, due anni fa; volevo solo dare una mano».
«Un uccellino me l’ha fatto capire».
Merlino e Cathleen si scambiarono un’occhiata e ridacchiarono, ringraziando silenziosamente Artù.
Visto che ormai stavano mettendo tutto sul piatto, Merlino aggiunse: «E mi dispiace anche che tu sia venuta a sapere la verità sul nostro conto in maniera così… brutale. Non ero in me, quel giorno».
«Alla fine credo che sia stato meglio così: non vi avrei mai creduto, se me l’aveste detto seduti ad un tavolo, con delicatezza».
«Può darsi», mormorò sollevando gli occhi verso il cielo terso.
Si chiese se Alex si stesse già organizzando per la caccia alle uova di quel pomeriggio e quale fosse il suo umore al momento.
Cathleen gli diede un pugnetto sul braccio, estrapolandolo dai propri pensieri. «Chissà, magari col tempo e conoscendoci meglio potremmo persino diventare amici, io e te».
«Mai dire mai», rispose stirando un sorriso.
«Pensa, Artù sarebbe così felice se…».
Merlino la lasciò parlare per un po’, senza prestarle attenzione: non riusciva a pensare ad altro che ad Alex in quei giorni, al suo infausto destino che ora gravava pure su di lei.
Da quando erano tornati da Londra l’aveva sentita ridere sempre meno, l’aveva vista meno partecipe e più incline alla solitudine e al silenzio. Si stava allontanando anche da lui, un passo alla volta, e Merlino era certo che c’entrasse la fonte di magia che le aveva conferito quegli straordinari poteri i cui effetti le stavano costando così caro.
Sapeva quanto potesse essere forte il richiamo della magia, perciò sapeva già che chiedere direttamente ad Alex sarebbe stato inutile. Se voleva delle risposte, doveva cercarsele da solo.
Aveva guardato ovunque nei paraggi di casa sua, nei luoghi che di solito frequentava e anche in quelli più impensabili. Aveva chiesto a suo padre, alle sue colleghe e alla signora Begum se recentemente avessero assistito a qualcosa di insolito – fasci di luce dorata, ad esempio – e l’unica stranezza che era riuscito a scovare era l’improvvisa crescita di vegetazione sui campi a metà strada tra il paese e l’agriturismo, campi che tutti nella zona avevano dichiarato sterili da almeno dieci anni. Ma per quella aveva già la spiegazione: sull’odierna radura di erba color smeraldo, margherite e altri colorati fiori di campo, Alex aveva assorbito e rigettato la magia con cui Merlino aveva potuto curare Artù davanti ai suoi occhi increduli.
Quelli che cercava erano segni ed effetti negativi, come quelli che stavano lentamente avvelenando la sua Alex. Doveva trovare in fretta quella fonte e distruggerla, o avrebbe corrotto la sua anima per sempre.
«Ehi». Cathleen lo fermò all’improvviso e lo guardò fisso negli occhi.
«Scusami, mi sono distratto. Stavi dicendo?».
Il paramedico incrociò le braccia al petto. «Ti stavo dicendo che Keith è venuto a cercarmi, stamattina, per chiedermi se Alex stava bene. Ci sei?».
All’improvviso col cuore in gola, scosse il capo. «Ricomincia dall’inizio».
Cathleen gli raccontò che dopo aver perso una paziente per arresto cardiaco, Keith aveva trovato Alex fin troppo calma ed indifferente, come se davvero non le fosse importato nulla della vita di quella donna. La sua reazione l’aveva insospettito tanto da andare a cercare Cathleen, quella che nell’ultimo periodo era diventata una delle persone più vicine ad Alex tra le mura dell’ospedale, per chiederle appunto se aveva un’idea di che cosa potesse esserle successo. Lei gli aveva promesso che avrebbe indagato, perché magari non era così per Alex, ma per Cathleen l’infermiera stava decisamente diventando una sua cara amica.
Così l’aveva cercata in lungo e in largo, chiedendo a chiunque incontrasse sulla propria strada, e alla fine aveva incrociato un’infermiera che aveva affermato di averla vista piangere e sorridere contemporaneamente, un’immagine che le aveva fatto venire la pelle d’oca e che non avrebbe dimenticato tanto facilmente.
«Io dovevo già andare da Alex per avvisarla che io e Artù vi avremmo raggiunti più tardi alla caccia alle uova, quindi quando l’ho trovata ho usato quella scusa. Anche io ho notato che non sembrava pienamente in sé e le ho chiesto se era successo qualcosa che l’avesse turbata, ma mi ha assicurato di star bene. Ma è veramente così?».
Gli occhi color nocciola di Cathleen si inchiodarono in quelli del mago: non aveva scampo. L’unica cosa che poteva fare per il momento era mentire, ammesso e concesso che dopo tutte le confessioni non avesse dimenticato come si facesse.
«Alex ti ha per caso raccontato del nostro viaggio a Londra?», le chiese arricciando il naso.
«No, non personalmente. Ho saputo da Keith però che è stata molto vaga in proposito: da come me l’ha raccontato lui, è come se qualcosa di buono fosse comunque successo, qualcosa in grado di darle speranza».
Quelle parole furono in grado di riscaldargli il cuore, ma non di dargli pace.
«Sei stato tu, vero?».
Merlino gettò un’occhiata confusa a Cathleen, la quale sollevò un angolo della bocca in un sorrisetto malizioso e fece scontrare le loro spalle.
«Dai, lo si vede da lontano un miglio che è successo qualcosa tra voi due. Hai finalmente deciso di lasciarla entrare nella tua vita e siete una coppia adesso. Allora, ci ho preso oppure no?».
Esasperato dalla sua eccitata insistenza confessò, mordendosi un sorriso imbarazzato. «Sì, ci hai preso. Ma abbiamo deciso di non dirlo a nessuno per il momento. Nemmeno Artù lo sa e guai se…».
«Geloso della nipotina?», gli chiese, ridacchiando, e Merlino nascose il collo tra le spalle.
«Una cosa del genere».  
«Non ti preoccupare, con me il vostro segreto è al sicuro».
Merlino ricordò le rare occasioni in cui aveva sentito quella frase e sorrise emozionato, senza però riuscire a ringraziarla. Quella ragazza era una vera chiacchierona, quando si metteva d’impegno.  
«Forse è questo allora che la mette a disagio: non è mai stata brava con i segreti, la sua faccia è un libro aperto».
«Forse», disse ancora il mago, perfettamente a conoscenza del fatto che quello non fosse l’unico segreto che Alex si ostinava a mantenere, mettendo inconsapevolmente in serio pericolo la sua stessa vita.
Cathleen gli diede una pacca sulla schiena, sospirando sollevata. «Allora non abbiamo nulla di cui preoccuparci: dobbiamo solamente attendere il grande annuncio! Avvisami, mi raccomando, non voglio perdermelo».
Il mago sorrise, annuendo mestamente, ma non fece in tempo a rispondere: il paramedico aveva già cambiato argomento, domandandosi se prima o poi avrebbero davvero fatto quell’uscita a quattro.

«Pronto?».    
«Ciao Alex, ti disturbo?».
«Ciao… No, dimmi tutto».
Merlino si sdraiò sul fondo umido della barchetta e guardò il cielo azzurro oltre la foschia. «Avevo solo voglia di sentire la tua voce».
«Sicuro? Mi sembri strano…».
«Alex, non me lo perdonerei mai se ti accadesse qualcosa di male».
L’infermiera ridacchiò. «E cosa potrebbe mai succedermi?».
«Non lo so, scusami se ti annoio con le mie paranoie».
«Merlino, tu non mi annoi. Però ho bisogno di te qui in ospedale, sono in ritardo sulla tabella di marcia».
«Ho paura che arriverò in ritardo», disse lo stregone, chiudendo gli occhi e sporgendo il braccio fuori dall’imbarcazione, le dita della mano a mollo nell’acqua gelida. «Wanda ha bisogno di me ancora per un po’».
«Che cosa? E le hai detto di sì? Lo sapevi benissimo che oggi c’era la caccia alle uova!».
«Credimi, si tratta di una questione importante».
«Più importante anche di me?».
Merlino strinse ancora di più le palpebre mentre tremando si preparava a liberare la magia dalle proprie catene.
«Non c’è nulla che io ritenga più importante di te».
«Evidentemente non è così», mormorò con voce intrisa di delusione l’infermiera.
«Alex. Ti prego non riattaccare, ho bisogno di…».
Ma lei aveva già terminato la chiamata.
Merlino avvertì una lacrima scivolargli lungo la tempia giusto prima che la magia rompesse anche l’ultima sua barriera e lo percorresse con la stessa forza di una scossa elettrica. Inarcò la schiena e sbarrò gli occhi dalle iridi dorate urlando nella lingua dell’Antica Religione, mentre onde di luce si espandevano lunga tutta la superficie di Avalon: l’acqua iniziò a brillare e gli spiriti degli antichi custodi del lago, gli Sidhe, iniziarono a mostrarsi ai suoi occhi, volteggiandogli intorno nelle loro auree bluastre. Sorpresi e meravigliati dalla forza della sua magia, e nonostante essa li avesse risvegliati dal lungo sonno a cui erano stati costretti per preservare le energie e non morire, in coro iniziarono ad avvertirlo che se avesse continuato in quel modo si sarebbe distrutto.
«Ho bisogno di sapere», riuscì a dire tra i denti, il viso grondante di sudore e il corpo che gli doleva in ogni parte. «Devo parlare con Freya».
«Colei che cerchi non riposa più qui», gli rivelò una fata. «Esattamente come tu hai risvegliato noi, ella è stata riportata alla vita da una potente magia. Devi riconsegnarla a noi, stregone, o questo mondo ne perirà».
Stravolto com’era dalla sofferenza non riuscì a dimostrarsi sufficientemente scioccato, né ebbe le energie necessarie per chiedere se Alex fosse in qualche modo coinvolta.
L’ultima cosa che vide prima di perdere conoscenza fu il cerchio iridescente che gli Sidhe formarono sopra il suo capo; l’ultima cosa che sentì fu il loro canto melodioso che alleviò un poco il suo dolore. Poi il buio lo inghiottì.

***

Artù non era mai stato in un cimitero moderno e gli fece parecchia impressione varcare i cancelli di quel grande campo con file e file di lapidi e statue di angeli.
Senza nemmeno rendersene conto cercò la mano di Cathleen per stringerla forte mentre camminando al suo fianco osservava i volti delle persone un tempo sorridenti e ora sepolte sotto tre metri di terra.
«Va tutto bene?», gli chiese il paramedico, scorgendo la sua espressione addolorata.
Il re si morse le labbra, deviando il suo sguardo, per poi confessare: «Non mi trovo a mio agio, sapendo di calpestare le ossa delle persone un tempo amate da qualcuno. Noi li bruciavamo, i nostri defunti. Li posavamo su barche colme di fiori e li spingevamo a largo per guardare le fiamme rendere libere le loro anime».
«Ma così non avevate nessun posto dove andare per onorare la loro memoria», puntualizzò Cathleen, con le sopracciglia inarcate.
«Non c’è bisogno di andare in un posto per onorare la memoria delle persone a noi care», sussurrò e posandosi una mano sul cuore aggiunse: «Sono sempre qui».
Cathleen, nonostante gli occhi lucidi di lacrime, lasciò che un sorriso sbocciasse sulle sue labbra rosse. «Sono punti di vista, immagino».
Lo prese di nuovo per mano e lo invitò a proseguire al suo fianco.
Si fermarono di fronte ad una lapide bianca su cui spiccava la fotografia di un ragazzo dagli occhi blu elettrico e i capelli castani con un ciuffo verde.
Cathleen si inginocchiò di fronte alla tomba e rimpiazzò i fiori vecchi con quelli che aveva comprato al chiosco all’esterno del cimitero. Poi si posò un bacio sulle dita e con esse sfiorò il volto spigoloso del suo ex fidanzato, immortalato per sempre nel bel mezzo di una risata.
Alzò il capo verso Artù e con fare solenne disse: «Tu mi hai raccontato tutto del tuo passato, perciò è giusto che io ti renda partecipe del mio. Questo è Zachary, l’amore della mia vita. Sono passati già sette anni dalla sua morte, ma quel giorno è ancora marchiato a fuoco nella mia mente».
Artù si inginocchiò al suo fianco e le posò una mano sulla schiena, a mo’ di conforto.
«Stavamo andando a Cardiff per assistere ad un concerto e c’è stato un incidente… Per evitare il camion che aveva invaso la nostra corsia – l’autista si era addormentato – la nostra auto si è schiantata contro il guardrail. Zachary ed io sembravamo esserne usciti più o meno illesi: avevamo qualche livido, a lui usciva del sangue dal naso e io pensavo di essermi rotta solo il braccio, perciò ci guardammo negli occhi e scoppiammo a ridere. Lo so, è pazzesco, ma eravamo così felici di essere vivi che…». I singhiozzi la interruppero e Artù fu costretto a sedersi sull’erba per stringerla forte tra le braccia.
«Shh, va tutto bene», le sussurrò baciandole i capelli.
«Degli automobilisti si fermarono per soccorrerci e chiamarono subito l’ambulanza, ma nel frattempo Zachary perse conoscenza. Aveva sbattuto violentemente la testa sul finestrino e il colpo aveva causato un’emorragia interna che in poco tempo l’ha portato alla morte celebrale. In ospedale non poterono fare più nulla per lui, se non decretare che non si sarebbe mai risvegliato. Io impazzii dal dolore e mi accanii contro i paramedici dell’ambulanza, pensavo che ci avessero messo troppo tempo ad arrivare, che era tutta colpa loro se il mio Zach era morto. Solo molto tempo dopo mi sono resa conto che non era così, che quei pochi minuti non sarebbero serviti a salvarlo. Ciò nonostante decisi di diventare io stessa un paramedico, per onorare quelle persone che avevano dato il massimo per noi e per alleviare il dolore della perdita di Zachary salvando altre vite».
«Scommetto che lui sarebbe orgoglioso di te», disse Artù, accarezzandole il viso ed asciugandole le lacrime con il pollice.
«Lo sai che cosa mi fa più rabbia?», continuò Cathleen, guardandolo fisso negli occhi. «Noi non ce lo meritavamo. Zachary ed io abbiamo rischiato la vita centinaia di volte, correndo con le nostre moto».
Artù abbassò lo sguardo sui pupazzi, gli striscioni, le dediche e le fotografie che gli amici del ragazzo avevano lasciato sulla sua tomba, soffermandosi in particolare sulla foto che ritraeva proprio due motociclisti che si tenevano per mano durante una pericolosa acrobazia a mezz’aria, con le loro moto da cross strette tra le gambe.
«Circa un mese prima dell’incidente ci eravamo promessi che non avremmo più gareggiato, che avremmo messo la testa a posto. Ci saremmo trovati un lavoro normale, ci saremmo comprati una casa e ci saremmo sposati… tutto perché avevo scoperto di essere incinta». Si strinse il ventre tra le braccia, nascondendo il viso nell’incavo tra la spalla e il collo di Artù. «Ho perso anche il nostro bambino, quella notte. Aborto spontaneo dovuto allo shock, mi hanno detto. Tutti i nostri sogni si sono infranti quella notte e io mi sono ritrovata sola, a pezzi. Non so nemmeno come sia riuscita a rialzarmi…».
«Lo so io», mormorò Artù, prendendole il mento tra due dita per sollevarle il viso. Immerse gli occhi nei suoi, fronte contro fronte, e le rivolse un sorriso dolce. «Ce l’hai fatta perché sei forte, perché il fuoco della vita brucia dentro di te e niente al mondo potrebbe mai spegnerlo».
«E sei sicuro che sia un bene? A me sembra piuttosto che questo fuoco bruci tutto quanto».
«Solo perché ancora non gli hai trovato uno scopo». Le accarezzò il viso con una mano, scostandole i capelli. «Ti ricordi la nostra promessa? Affronteremo qualsiasi cosa, insieme».
Cathleen annuì e chiuse gli occhi alle ennesime lacrime che le scivolarono sulle guance, perfette come gocce di diamante. Quindi avvolse le braccia intorno al collo di Artù e lo strinse forte, respirando profondamente.
«È buffo», mugugnò ad un tratto.
Artù non smise di accarezzarle la schiena. «Che cosa?».
«Non ho mai creduto alle seconde possibilità».
Il re di Camelot fu grato che Cathleen non potesse vederlo in viso, dove al momento aleggiava un’espressione amareggiata. Solo ora riusciva a comprendere appieno ciò che Merlino aveva voluto dirgli il giorno del galà al Castello di Windsor: «Avete una seconda possibilità e giuro che non la sprecherete cercando di combattere il destino al mio fianco».
Quella era davvero la sua seconda possibilità di essere felice, di avere la vita che nel profondo aveva sempre voluto, lontano da Camelot, libero dalle sue responsabilità di sovrano… Ma sapeva anche che non avrebbe mai lasciato che Merlino affrontasse da solo il proprio destino.
Ricordava bene anche quello che gli aveva risposto: «Quando arriverà il momento, Cathleen capirà».
Con il paramedico ancora stretto tra le braccia, iniziava a pensare che forse non sarebbe stato così facile. Come avrebbe potuto dirle che avrebbe inevitabilmente rovinato anche la sua seconda possibilità? Al momento gli sembrava impossibile. Perciò chiuse gli occhi e si abbandonò alla sua stretta, pregando perché durasse ancora un po’.

***

Abigail fece un respiro profondo e si alzò in piedi, lasciando la sedia a rotelle accanto alla porta. Quindi bussò ed aspettò di sentire la voce di Mark darle il permesso di entrare, invano.
Ad un certo punto si azzardò ad aprire la porta quel tanto che bastava per sbirciare all’interno della stanza: Mark c’era e, sdraiato sul letto con le scarpe ai piedi, stava giocando con la sua PS Vita. Il motivo per cui non l’aveva sentita bussare erano le due grosse cuffie verde acido che gli coprivano le orecchie e che sparavano a tutto volume i ruggiti dei motori delle auto da corsa.
Abby si avvicinò e si sedette sul bordo del letto. La prima volta Mark sollevò gli occhi annoiato, alla seconda li sgranò per lo stupore e si dimenticò completamente della gara, tanto che dalle cuffie si sentì lo schianto dell’auto contro il guardrail.
La ragazzina ridacchiò, riportandolo alla realtà. Mark si tolse velocemente le cuffie dalle orecchie, facendosi cadere persino la bandana rossa dalla testa. Cercò di sistemarsela frettolosamente, paonazzo in volto, ma Abigail gli prese le mani tra le sue e si sporse verso di lui fino a che le loro labbra non si incontrarono.
Con estrema cautela, Abby sollevò una mano e gli accarezzò la guancia, poi scese sul collo e lentamente iniziò a risalire sulla sua nuca rasata. Fu allora che Mark si scostò bruscamente, facendo penzolare le gambe dall’altro lato del letto rispetto a quelle di Abigail. Lasciò la Play Station in mezzo a loro e si legò nuovamente la bandana intorno al capo privo di capelli, poi strinse i pugni sulle ginocchia e serrò la mascella, senza trovare la forza di rompere il silenzio senza urlarle contro. Perché con Mark era così: o era tutto rose e fiori oppure era un completo disastro; nessuna via di mezzo.
«Dì qualcosa, qualsiasi cosa», lo pregò Abigail, cercando ancora una volta di prendergli una mano tra le sue.
«Non ho più nulla da dirti, lo sai».
«Non è vero».
«Perché sei così ostinata?!», gridò e finalmente si voltò a guardarla, trovandola con gli occhi pieni di lacrime. Sentì il cuore pulsargli in gola, dolorosamente, e pieno di vergogna abbassò il capo.
«Io ho bisogno di te, Mark», sussurrò con voce tremante Abigail. «Se tu non vuoi essere più il mio ragazzo è okay, mi sta bene, ma non posso rinunciare completamente a te».
«Il problema è che la tua amicizia non mi basta. Essere il tuo ragazzo è tutto quello che voglio», confessò Mark, prendendole il volto tra le mani. Anche lui aveva gli occhi lucidi, in quel momento. «Lo so che per te è difficile da capire, cercherò di spiegartelo ancora una volta: io non voglio illudermi. Il solo pensiero che uno dei due possa sopravvivere all’altro mi terrorizza: se fossi tu, non mi perdonerei mai che tu pianga per me; se fossi io… non vorrei vivere in un mondo senza Abigail Reed».
Abby lo guardò intensamente negli occhi, fino a quando una risata non le arricciò le labbra.
«C’è qualcosa che ti diverte?», le chiese il ragazzino, con la fronte corrugata.
«L’hai letto, alla fine. Hai appena citato Colpa delle stelle».
«Cosa? No!».
«Sì, invece», insistette e lo punzecchiò all’addome.
Mark, rosso come un peperone, non cedette: «Ti dico di no!».
Continuarono così per un po’, fino a quando non si ritrovarono a ridere, appoggiati l’uno all’altra. Abigail gli avvolse le braccia intorno alla schiena e respirò profondamente il profumo della sua pelle.
«È troppo tardi, ormai», gli sussurrò ad un tratto.
«È troppo tardi per cosa?».
«Per tirarci indietro. Credi che non soffriremo, stando lontani? Sarà peggio… molto peggio. Se mai non dovessi farcela, vorrei andarmene con te al mio fianco».
«Non dire così. Tu non te ne andrai. Non puoi andartene», mugugnò Mark contro la sua spalla. Quindi la strinse più forte a sé e Abby, pur sapendo che il suo corpo fragile ne avrebbe riportato i segni, lo lasciò fare. Anzi, avrebbe voluto che la stringesse ancora più forte, in modo da rendere quei lividi indelebili sulla sua pelle.
«Basandomi puramente sulle percentuali, tu hai molte più possibilità di sopravvivere di me. Il linfoma di Hodgkin è più curabile della leucemia».
«Ma tu sei già guarita», fece notare. «Sei qui solo per la terapia di consolidamento».
Mark aveva ragione, tuttavia… negli ultimi anni Abigail aveva imparato a conoscere il suo corpo e da qualche settimana a quella parte aveva sentito qualcosa cambiare, nonostante i farmaci. Il giorno degli esami di controllo non era lontano e aveva paura, una paura tremenda che mostrassero una recidiva. Per questo e anche perché semplicemente teneva moltissimo a Mark, voleva che tutto tra loro si risolvesse per il meglio.
Dopo un silenzio interminabile, Mark si scostò per guardarla negli occhi ed accarezzarle delicatamente le guance, il collo, le spalle e infine le braccia, fino a raggiungere le sue mani esili e pallide. Se le portò entrambe alle labbra e sussurrò: «Non ti arrenderai mai, vero?».
Abby, con gli occhi luminosi e il cuore pieno di speranza, scosse il capo.
«Allora sarò costretto ad essere il tuo cavaliere».
«Non desideravo altro», rispose prima di gettarsi di nuovo tra le sue braccia e baciarlo sulle labbra.
Fu di nuovo Mark a staccarsi, chiedendo: «Ma tu ti sei vestita in questo modo per la caccia alle uova?».
Abigail si alzò e costrinse il ragazzino a fare lo stesso. Tenendolo per mano, fece un giro su se stessa in modo da mostrargli il suo vestito color rosa perla, con la gonna alta fin sotto al seno e il corpetto tempestato di brillanti. Dato che aveva la schiena completamente scoperta e le sue difese immunitarie non avrebbero gradito molto, sulla carrozzina aveva lasciato un maglioncino chiaro.
«Ti piace? Me l’ha regalato mia nonna».
«Non sapevo fosse così moderna», rispose Mark, non riuscendo a non indugiare con lo sguardo sulle sue gambe snelle avvolte soltanto dal sottilissimo velo delle collant color nude.
Abigail rise, trovandosi col petto contro quello di Mark in una specie di ballo lento di cui solo loro sentivano la musica.
«Che scemo che sei. Mi ha detto che si è fatta consigliare dalla ragazza che l’aiuta a casa».
«Allora dovrò ringraziarla, prima o poi».
Sorridendo sbarazzino, si protese verso il suo viso per baciarla; Abby però gli posò un dito sulle labbra e con gli occhi sorridenti disse: «Dovremmo andare. Siamo in ritardo per la caccia alle uova».
Mark arricciò il naso, non proprio felice, ma alla fine annuì con un cenno del capo e le posò una mano sulla schiena per invitarla a precederlo mentre lui recuperava la propria sedia a rotelle.
Abigail sospirò di sollievo quando tornò a sedersi sulla carrozzina, senza però farsi vedere dal suo ragazzo. Infatti gli sorrise quando lo vide spingersi fuori dalla stanza e chiudersi la porta alle spalle.
Fianco a fianco raggiunsero la sala comune, dove trovarono tutti i bambini che avevano ricevuto l’invito di Alex e che non erano impegnati con le terapie. Peccato che di lei non ci fosse traccia.
«Dov’è andata?», chiese Abigail.
Gabriel, con entrambe le braccia sul tavolo e la testa nascosta tra di esse, mugugnò: «Non si è ancora vista. Probabilmente si è dimenticata».
«È impossibile», esclamò con determinazione Mark, stringendo i pugni sui braccioli della sedia a rotelle. «Sarà solo in ritardo. Arriverà, ne sono sicuro», aggiunse, ma nel profondo temeva il peggio. Gettò un’occhiata nella direzione di Abigail, la quale lo capì al volo e lo sostenne.
Successivamente si spostarono per parlare in privato e, preoccupati che quella giornata si trasformasse in un completo disastro, decisero di andarla a cercare.
«Forse però è meglio se vado solo io», lo interruppe la ragazzina.
«Perché?».
«Perché se davvero dovesse esserle successo qualcosa, tu non avresti la sensibilità adatta».
«Io sono molto sensibile!», ribatté, offeso.
Abigail gli tirò una guancia, per poi sfiorargli appena le labbra con le proprie, incurvate in un sorriso. «Sì, come un cactus. Torno presto».
«Va bene», si arrese con un sospiro Mark, lasciandola andare.
Abigail diede le spalle alla sala comune ed iniziò a cercare Alex, chiedendo sue notizie a tutte le infermiere e ai dottori che incontrava. La cercò nella sala relax del quarto piano, nei bagni e negli spogliatoi, poi prese l’ascensore e una volta nel reparto del Pronto Soccorso si ritrovò un po’ spaesata: non visitava spesso il piano terra e i corridoi le sembravano tutti uguali, infiniti. Ad un certo punto fu costretta a fermarsi a causa della stanchezza.
Chiuse gli occhi, posando la testa contro la parete alle sue spalle, e si concentrò sul proprio respiro. Venne distratta da una voce calda e da una mano che delicatamente le accarezzò la fronte. Sollevando le palpebre pesanti trovò due occhi grigio-azzurri ad attenderla, colmi d’apprensione, subito sostituiti da un fascio di luce accecante.
«Penso che dovresti stenderti un po’», disse un dottor Ellis privo di camice, inginocchiandosi di fronte a lei.
«No, sto bene», mentì, abbozzando un sorriso. «Cercavo proprio lei».
Keith si indicò stupito. «Me? Hai avuto fortuna allora: stavo andando via. Devo comprare altro cibo per gatti. Sai, quando Alex è andata a Londra mi ha chiesto di occuparmi del suo micio, ma quando è tornata mi ha chiesto se volevo tenerlo. È stata molto vaga sul motivo...».
«Ecco, a proposito di Alex... l'ha vista da qualche parte? In oncologia la stiamo aspettando per la caccia alle uova».
«Oh sì, mi ha accennato qualcosa in proposito. Però non ho idea di dove sia, mi dispiace. Hai già provato a chiamarla?».
«Decine di volte», rispose sollevando il cellulare. «È davvero strano. Non è da Alex sparire così».
Keith si strinse nelle spalle. «Probabilmente oggi è la giornata delle stranezze. Dovevi vederla questa mattina: non la riconoscevo neanche».
Abby si morse il labbro inferiore e dopo qualche istante di silenzio sorrise, ringraziando il dottor Ellis per il suo tempo.
Prima di uscire dalle porte scorrevoli del Pronto Soccorso si infilò il maglioncino, ma il freddo le entrò comunque nelle ossa mentre si dirigeva faticosamente verso la piscina chiusa per i lavori di ristrutturazione.
Mark le aveva raccontato che poco prima che Steve li lasciasse si era rifugiato lì, in cerca di silenzio e solitudine, e che Alex l’aveva trovato subito. Sperava che l’infermiera avesse riciclato il suo nascondiglio, o sarebbe dovuta tornare in sala comune per annunciare che la caccia alle uova era stata rimandata a data da definirsi.
«Oh no», mormorò sfinita di fronte alla transenna.
Si fece coraggio, per i bambini e la buona riuscita della caccia alle uova, e lasciò la carrozzina all’esterno per potersi infilare nel cantiere. Reggendosi al muro, si incamminò verso l’entrata e ringraziò il cielo quando, oltre il vetro sporco, scorse Alex seduta a bordo piscina. La raggiunse lentamente e poi si appoggiò con una mano alla sua spalla per sedersi al suo fianco.
«Ti ho cercata ovunque», sospirò Abby, accarezzandole un braccio. «Gli altri ci stanno aspettando».
Alex si massaggiò gli occhi lucidi con una mano, tirando su col naso. «Porgi loro le mie scuse. Al momento non sono in vena di festeggiare».
«Posso sapere che cos’è successo?».
«Io e Merlino abbiamo fatto l’amore, a Londra».
Abby sgranò gli occhi, scioccata. «Puoi ripetere, per favore?».
«Sì, noi… siamo una coppia, adesso».
«Cosa, come…? Perché non ci avete detto nulla?!».
«Abbiamo deciso di aspettare il momento giusto. Il fatto è che… Non lo so, Abby. Io lo amo, non ho mai amato nessuno in questo modo, e sognavo questo momento da anni, eppure ora che ho quello che desideravo… ne sono spaventata. E se rovinassimo tutto? Se tra noi non dovesse funzionare e perdessimo anche la nostra amicizia? Io non voglio vivere senza di lui».
La ragazzina sorrise e le posò una mano sulla schiena per confortarla. Alex si voltò per la prima volta a guardarla e non riuscì più a tenere a freno le lacrime: lasciò che le rigassero il volto, nascondendolo tra le pieghe della gonna di Abigail.
«Ti capisco benissimo», mormorò la ragazzina, accarezzandole i capelli.
«Non voglio smettere di amarlo… Non voglio smettere di sentire il mio cuore accelerare, di sentire le farfalle nello stomaco tutte le volte che i suoi occhi incrociano i miei…».
«Questo non succederà mai. Come potrebbe? Niente è più forte dell’amore».
Alex singhiozzò più forte, stringendo i pugni.
«Anche io avevo paura all’inizio», confessò Abigail. «Avevo paura che io e Mark avremmo perso qualcosa, mettendoci insieme. Ma non è successo. In effetti, non è cambiato proprio niente: i sentimenti che proviamo l’uno per l’altra sono gli stessi che provavamo quando eravamo semplicemente amici. Forse siamo destinati a stare insieme, non ne ho idea. Nulla potrà spezzare il nostro legame, o quello tra te e Merlino».
«Vorrei poter avere la tua stessa sicurezza», mugugnò l’infermiera, sollevandosi lentamente per poterla guardare negli occhi.
Abigail le accarezzò il viso con entrambe le mani, soffermandosi a guardare il colore delle sue iridi. C’era qualcosa di diverso, qualcosa che però non riusciva ad afferrare.
Le sorrise, prima di asciugarle il viso e posarle un leggero bacio sulla fronte. «Basta piangere: non tutti hanno la fortuna di avere accanto la propria anima gemella».
Alex si sforzò di ricambiare il sorriso e si alzò, prendendo Abigail per le mani per aiutarla a fare lo stesso. Quindi, con lei appoggiata ad un fianco, la riportò alla sua sedia a rotelle.
«Non è che potresti spingermi tu?», le chiese la ragazzina, troppo spossata per continuare a fingere.
«Certamente. Va tutto bene?».
«Sì, sono solo un po’ stanca. Ho girato tutto l’ospedale per trovarti!», rispose ridacchiando, socchiudendo gli occhi.
«Mi dispiace, non avrei dovuto reagire in questo modo. Mi farò perdonare, te lo prometto».
«Iniziamo a rendere questa caccia alle uova indimenticabile. Sei d’accordo?».
«Certamente».
Abigail sorrise, cacciando in un angolo della sua mente il pensiero che quella sarebbe potuta essere proprio la sua ultima caccia alle uova.

***

«Ti dico che questo è il momento adatto per andare fino in fondo alla faccenda. Non sappiamo quando la vecchia tornerà a far visita a sua nipote, non possiamo lasciarci scappare quest’occasione!».
La ragazza dai capelli corvini roteò gli occhi al cielo e chiuse l’acqua del rubinetto. Posò il secchio in un angolo della cucina e vi versò dentro un po’ di detersivo per pavimenti, ignorando il fratello che continuava a dire tutte quelle sciocchezze sulla fonte dell’eterna giovinezza e su tutti i soldi che avrebbero fatto, così tanti da riempirci una piscina e poterci fare il bagno.
«Hala, ma l’hai visto bene? È la stessa persona!».
«Spostati».
Il ragazzo si scansò dalla traiettoria dello straccio che la sorella aveva appena lanciato sul pavimento.
«Lo so che non vuoi che vada a cercarlo perché pensi che non avrei dovuto frugare tra le cose che la vecchia aveva detto di buttare, ma…».
«Adesso basta!», gridò Hala, sollevandosi e puntandogli il manico dello spazzolone contro il petto. «Uno, non chiamare la signora Chapman “la vecchia”; due, sì, non mi sta bene che tu te ne vada in giro per il Galles alla ricerca di uno sconosciuto che somiglia all’uomo di quella fotografia».
«Somiglia? Hai detto davvero somiglia?! Dovresti andare da un oculista, ciccia».
Serrando la mascella per non urlargli ancora contro, Hala riprese: «E sentiamo, nel remoto caso in cui tu riesca davvero a rintracciarlo… Che cosa gli dirai? "Mi scusi, nella soffitta della signora Chapman ho trovato una foto risalente agli anni Trenta e mi chiedevo se lei fosse immortale!"».
Il ragazzo strinse i pugni e dopo un attimo di esitazione scrollò le spalle, gli occhi fuori dalle orbite. «Sì, una cosa del genere!».
«Tu sei tutto matto, Baqi», mormorò arrendevolmente, riprendendo a pulire per terra.
«Questa è la tua decisione definitiva? Vuoi restarne fuori per davvero?».
«Non mi imbarcherò nella tua ennesima folle impresa».
«Ottimo!», esclamò il ragazzo, gonfiandosi il petto. «Ma non venire a piangere da me quando diventerò ricco e tu sarai ancora a lavare pavimenti e a cambiare pannoloni!».
Hala socchiuse gli occhi, sospirando. «La signora Chapman non porta il pannolone».
«Oh insomma, ci siamo capiti!».
Baqi gettò il vecchio diario e il giornale locale sul tavolo e se ne andò a passo spedito, borbottando tra sé.
Hala aspettò che il gemello fosse lontano, poi posò lo spazzolone contro lo schienale di una delle sedie e confrontò ancora una volta le due fotografie che qualche giorno prima Baqi le aveva sventolato trionfante sotto al naso.
Alla TV si era parlato molto dell’antichissima corona che era stata ritrovata quasi per caso all’asta di beneficienza svoltasi al Castello di Windsor e della sua nuova collocazione al Great North Museum: Hancock, a Newcastle upon Tyne, ma in pochi servizi era stato fatto vedere il ragazzo che quella sera era stato prelevato dalla polizia per un interrogatorio. La prima volta che Baqi l’aveva visto era stato proprio alla redazione del giornale locale, con cui collaborava saltuariamente come freelance sia per gli articoli che per le fotografie. Subito aveva fatto una copia della foto che lo immortalava mentre veniva infilato nella volante dai lampeggianti blu e una volta a casa gliel’aveva mostrata portandogliene un’altra a confronto, molto più vecchia, in bianco e nero e consumata dal tempo, in cui compariva lo stesso ragazzo, quella volta in camice bianco e circondato da altri dottori ed infermiere, tutti in posa di fronte alla facciata di un ospedale immerso nella campagna gallese. Sul retro, solo una data: 1935.
Hala era sempre stata una ragazza coi piedi per terra: non aveva mai creduto all’impossibile, ai miracoli… eppure il ragazzo in quelle fotografie, nonostante affermasse il contrario di fronte a Baqi, lasciava senza parole anche lei.
Sentì i frettolosi passi di suo fratello scendere le scale e si allontanò rapidamente dalle prove, riprendendo a strofinare con foga lo strofinaccio sul pavimento. Baqi fece un salto all’interno della cucina per recuperare le proprie cose e poi col giubbotto appeso ad un braccio si diresse verso la porta.
«Dove vai?», gli domandò a squarciagola.
«Ad imbarcarmi nella mia folle impresa! Non mi aspettare per cena!».
Sbatté la porta con violenza e Hala chiuse gli occhi, sospirando e chiedendosi perché mai il suo gemello fosse nato con animo così sognatore.

***

Artù voltò il capo quando sfrecciarono accanto ad Avalon e lo trovò sovrastato da una nebbia fitta, come non l’aveva mai vista. Ciò nonostante con la coda dell’occhio gli parve di scorgere un bagliore azzurrognolo, così particolare ed unico da riportare a galla quell’antico ricordo dalla sua memoria.
Urlò a Cathleen di fare inversione ad U e la ragazza non pose domande. Fermò la moto proprio di fronte alla sponda del lago ed entrambi si tolsero il casco, a bocca aperta di fronte alla sfera iridescente che sembrava attenderli.
Artù scese rapidamente dalla moto, pronunciando il nome di Merlino in un rapido crescendo: iniziò mormorando, terminò gridando con tutto il proprio fiato.
La sfera lo guidò fino alla sponda est, dove si rese ben presto conto dell’assenza della piccola barca con cui era riuscito a raggiungere Freya.
«Merlino!», lo chiamò disperato, con entrambe le mani intorno alla bocca.
La palla iridescente si immerse nella nebbia, fino quasi a sparire alla loro vista. Quando si fermò iniziò a brillare più intensamente per guidarli, come un faro.
«Che cos’hai intenzione di fare?», gli domandò Cathleen, guardandolo mentre lanciava il casco tra le felci e si toglieva le scarpe.
«Merlino è là, devo andare a prenderlo».
«Non ci pensare nemmeno, è troppo pericoloso».
Artù la fissò intensamente. «Lui l’avrebbe fatto per me».
Cathleen fece per imporre ancora la propria autorità, ma non un suono le uscì dalla gola; l’unica cosa che riuscì a fare fu afferrarlo per un braccio prima che entrasse in acqua. E gli salvò la vita.
Non appena Artù entrò in contatto con l’acqua del lago, infatti, una fortissima corrente tentò di trascinarlo sul fondale melmoso. Il re di Camelot si aggrappò con entrambe le mani al braccio di Cathleen e il paramedico usò tutte le proprie forze per tirarlo fuori. Alla fine ci riuscì e Artù le cadde addosso sull’erba, ad un soffio dal suo viso.
«Grazie», ansimò il biondo.
«Figurati».
Si rialzarono faticosamente mentre la sfera continuava a brillare con insistenza ad una trentina di metri dalla riva.
Artù aveva appena iniziato a guardarsi intorno alla ricerca di un metodo alternativo per attraversare il lago senza toccarne la superficie, fallendo miseramente, quando si accorse che Cathleen si stava spogliando.
«Che cosa stai facendo?», le domandò strabuzzando gli occhi, osservando la maglietta che le metteva in risalto il seno e le lasciava scoperto il tatuaggio col drago sulla schiena. (Ecco, un drago sarebbe stato d’aiuto in quel momento!).
«Tieni, inizia a chiamare un’ambulanza: ne avremo bisogno».
Artù osservò il cellulare della ragazza, confuso. «Cathleen…».
«Mi pare ovvio che tu non possa entrare in acqua, perciò lo farò io».
«Assolutamente no».
Il paramedico si voltò verso di lui ed incatenò i loro sguardi. «Ho promesso a Merlino che mi sarei presa cura di te e io mantengo sempre le mie promesse. Tu hai bisogno di lui e io ti aiuterò a salvarlo».
Senza dargli il tempo di rispondere gli prese il volto tra le mani per stampargli un bacio sulle labbra e poi gettarsi nell’acqua gelata.
«No, Cathleen!», urlò Artù prendendo la rincorsa, ma ad un passo dalla riva si fermò con le mani protese in avanti, digrignando i denti.

***

L’acqua era tanto fredda da intorpidirle i muscoli, ma Cathleen evitò di pensarci e continuò a nuotare verso il centro del lago, fino a quando non si rese conto di aver perso di vista la sfera luminosa che avrebbe dovuto farle da guida.
Circondata dalla nebbia, si guardò intorno spaesata, mentre un velo di panico iniziava ad avvolgerla. Quando non riuscì più a non pensare al peggio, scorse la sfera di luce volteggiare poco sopra la sua testa. Sospirò sollevata, concedendosi persino una risata, e disse: «Portami da Merlino».
La sfera eseguì i suoi ordini, conducendola fino ad una barchetta malridotta da cui penzolava un braccio inerte. Ne afferrò il polso per controllarne le pulsazioni: c’erano, seppur deboli.
«Merlino. Merlino, svegliati!», provò a chiamarlo, sporgendosi sulla traballante imbarcazione.
Essa non avrebbe mai sorretto il peso di entrambi e di sicuro non sarebbe mai riuscita a spingerla fino a riva. C’era un’unica soluzione ed era sicura che se Merlino fosse stato sveglio non gli sarebbe piaciuta.
Respirò profondamente e si aggrappò al braccio penzolante del mago, i piedi appoggiati al fianco della barchetta.
«Al mio tre. Uno, due… tre!».
Facendo leva con le gambe tirò Merlino verso di sé ed ottenne il risultato sperato: la barca si capovolse e lo stregone le cadde addosso a peso morto, trascinandola sott’acqua.
Le ci volle qualche secondo per reagire a quel freddo penetrante, in grado di assopirla. Riaprì gli occhi di scatto e scorse Merlino galleggiare verso il fondo a qualche metro da lei. Nuotò più velocemente che poté nella sua direzione e quando lo ebbe afferrato per la vita lo trascinò con sé in superficie. Inspirò tant’aria da farle male ai polmoni e poi, con lo stregone ancora tra le braccia, iniziò a nuotare verso riva, mentre sentiva le sirene dell’ambulanza avvicinarsi sempre di più.
Sentì anche la voce di Artù e fu quella a darle l’energia necessaria a percorrere gli ultimi metri, fino a dove il livello dell’acqua era sufficientemente basso da potersi reggere sulle gambe.
La nebbia si diradò e sorrise incrociando lo sguardo colmo di apprensione di Artù, il quale per quanto volesse avvicinarsi per aiutarla non poté farlo. Ci pensarono un paio di suoi colleghi, i quali la raggiunsero e la liberarono del peso di Merlino, subito caricato su una barella ed infilato nel retro dell’ambulanza.
Una volta completamente fuori dall’acqua, Artù la strinse fra le braccia e la baciò appassionatamente sulle labbra, togliendole quel poco di fiato che aveva. Lei si allontanò ridendo e lasciò che le scostasse i capelli bagnati dal viso, rassicurandolo: «Sto bene, è tutto okay».
«Mi hai fatto quasi venire un attacco».
Cathleen si beò del calore del corpo di Artù, ma quando capì che non sarebbe bastato si fece consegnare una coperta da uno dei paramedici.
«Stai bene, Cath?», le domandò il collega. Senza darle il tempo di rispondere, aggiunse: «Sali su, devi farti dare un’occhiata».
Cathleen scosse il capo, indicando la moto abbandonata sul ciglio della strada. «Io mi rivesto e vi seguo, non c’è problema. Fate salire lui, piuttosto».
«Come preferisci. Forza, andiamo!».
Artù la guardò ed esitò a lasciarle andare la mano. Lei annuì e lo spinse sul retro dell’ambulanza, accanto alla barella dove giaceva il corpo immobile di Merlino. Lo salutò con un cenno della mano prima che le porte venissero chiuse di colpo e poi si sedette, sfinita, accanto ai suoi vestiti asciutti, lo sguardo fisso sul lago e sulla nebbia che lentamente si stava diradando.

***

«Ce l’ho, ce l’ho! Il cestino di uova numero sei è alla reception del Pronto Soccorso!», esclamò Danilo puntando il dito sul foglietto con gli indizi e sistemandosi gli occhiali sul naso.
«Che stiamo aspettando? Andiamo!», gridò Mark, affrettandosi a raggiungere per primo l’ascensore.
Premette freneticamente il pulsante mentre i bambini della sua squadra incastravano le loro carrozzine accanto alla sua. Troppo tardi si rese conto che Abigail, caposquadra rivale, si stava dirigendo da sola nella direzione opposta.
Mark sarebbe tornato subito al quarto piano, preoccupato per lei, se non avesse visto dei paramedici affrettarsi nello spostare da una barella all’altra un incosciente Merlino, affiancato da Artù, pallido come un lenzuolo.
Dall’ascensore accanto al suo comparve la seconda squadra, ora guidata da Gabriel. A loro si era unita Alex, contenta che la caccia alle uova stesse riscuotendo un tale successo. Il suo sorriso però scomparve non appena Mark le indicò i paramedici che stavano scortando Merlino lungo il corridoio.

***

«Merlino!». Alex si fece spazio tra le infermiere e prese la mano gelata dello stregone tra le sue. «Merlino, ti prego, rispondimi!».
«I parametri vitali sono stabili, ma non reagisce agli stimoli», disse un paramedico al dottore che si era preso in carico il suo caso.
«Dobbiamo fargli subito una TAC. Potrebbe avere un emorragia interna o dei danni al sistema nervoso».
Alex guardò Artù, terrorizzata. Era già successo prima che Merlino piombasse in quella specie di coma, ma ora sapeva che cosa fare per svegliarlo. Ma per farlo aveva bisogno di stare da sola con lui, bastavano pochi minuti. Artù, proprio come se le avesse letto nel pensiero, le fornì il diversivo perfetto.
«È tutta colpa mia! È tutta colpa mia!», iniziò a gridare disperato, mettendosi le mani tra i capelli e tirando giù uno scaffale colmo di provette ed altri strumenti. Un paio di infermiere si staccarono dalla barella per contenere la sua follia, ma il re di Camelot non ci impiegò molto per liberarsi della loro stretta ed avventarsi sul dottore, che colpì al naso con un pugno ben assestato. A quel punto anche i due paramedici lasciarono la barella, affidandola completamente alle mani di Alex, e placcarono Artù, spingendolo addirittura a terra, in attesa dei ragazzi della sicurezza.
Alex corse più a non posso verso l’ascensore e quando si aprirono le porte gridò a tutti di levarsi di mezzo, ché quella era un’emergenza. Si fiondò all’interno e premette un paio di tasti a caso: tutto ciò di cui aveva bisogno era che le porte si chiudessero lasciandoli soli.
Le sue preghiere vennero ascoltate.
Aspettò che l’ascensore fosse salito di qualche metro e poi premette il pulsante d’arresto, grazie a cui si ritrovarono sospesi e nella semi-oscurità.
«Che cosa ti è successo?», gli chiese teneramente, scostandogli dalla fronte il suo nuovo ciuffo di capelli bianchi. Quindi chiuse gli occhi e concentrandosi al massimo liberò la magia che sentiva incendiarle il petto.
Una scarica elettrica la percorse da capo a piedi e attraverso le mani che aveva stretto sul petto di Merlino si diffuse nel corpo dello stregone, che come dopo una scarica di defibrillatore riaprì gli occhi, mostrando le iridi dorate.
Il mago schizzò seduto sulla barella, chiedendosi dove fosse e perché. Alex non gli rispose: semplicemente gli gettò le braccia al collo e lo baciò, sentendo finalmente il cuore stretto in una morsa dolorosa ma piacevole.

***

«Mi dispiace di aver rovinato la caccia alle uova», ruppe finalmente il silenzio lo stregone, una volta solo con Alex nella sua stanza di ospedale, dove sarebbe rimasto fino al mattino seguente per accertamenti.
«Non che fosse partita nel migliore dei modi…», rispose l’infermiera stringendosi nelle spalle.
Si abbandonò alla sedia che fino a quel momento era stata occupata da Artù e sospirò, massaggiandosi gli occhi.
«Perché mi hai mentito, Merlino? Che ci facevi ad Avalon?».
Il mago rabbrividì sentendo pronunciare da Alex il vero nome del lago, non tanto perché aveva deciso di chiamarlo anche lei in quel modo ma per il pensiero che ne fosse venuta in contatto a sua insaputa. Che fosse venuta in contatto con Freya, ora libera dalle sue catene. Solo il cielo sapeva quello che la custode avrebbe potuto dirle per ammaliarla.
La fissò intensamente e alla fine decise di scoprire le carte in tavola: Alex era in pericolo e, che le piacesse o no, doveva lasciarsi aiutare.
«Sono andato ad Avalon perché avevo bisogno di risposte».
«Risposte?», ripeté Alex, muovendosi nervosamente sulla sedia.
«Sì. Volevo sapere se vi eri stata, se avessi trovato qualcosa».
Il silenzio che seguì le sue parole fu così profondo e pesante che Merlino si sentì morire per la centesima volta.
«Alex, qualsiasi sia il problema… possiamo risolverlo, insieme. Devi solo parlarmene».
L’infermiera era sul punto di cedere, con la bocca già dischiusa, quando Mark aprì di colpo la porta della stanza, gli occhi sgranati per l’incredulità.
«Dovete venire subito a vedere, è pazzesco».
Alex ovviamente non si lasciò scappare quell’occasione d’oro per rimandare il discorso e si alzò per aiutare Merlino ad indossare qualcosa.
Gli recuperò una delle vestaglie in dotazione dell’ospedale e poi a braccetto si incamminarono lentamente verso la sala d’aspetto del Pronto Soccorso, dove si era radunato praticamente l’intero ospedale.
Lì incontrarono Artù e Cathleen, sorridenti mentre li invitavano a farsi avanti.
«Tutto questo non mi piace», mormorò Alex, facendosi largo tra la folla. «Non so tu, ma io ho detto di noi solo a…». La voce le morì in gola non appena lo sguardo del Principe William si posò su di lei.
«Bene, ora che ci siamo tutti», esordì il Duca di Cambridge, senza smettere di sorriderle, «sono davvero onorato di poter fare questa donazione al reparto oncologico del vostro ospedale».
Con un gesto teatrale un uomo panciuto e sorridente entrò dalle porte scorrevoli tenendo tra le mani un grandissimo assegno facsimile. La cifra riportata aveva un sacco di zeri ed era firmato con lo stemma reale.
Alex sollevò il volto esterrefatto verso quello di Merlino e lui non riuscì a non ricambiare il sorriso. Quindi le diede una leggera spinta per farla uscire dal cerchio e il Principe William le porse una mano. Alex la strinse, titubante e rossa come un peperone, poi prese in consegna il largo assegno di cartone e si lasciò scattare delle foto dai colleghi dell’ospedale. Ad un tratto invitò tutti i bambini a raggiungerla e insieme posarono per gli obiettivi dei cellulari, facendo linguacce, segni di vittoria e pugni rock’n’roll.
Merlino si stava beando di quello sprazzo di gioia, dimentico di tutti i loro problemi, poi si accorse di un uomo grande e grosso, vestito in modo elegante e con un auricolare all’orecchio, che stava facendo il giro della sala per raggiungerlo, e tutto tornò alla schifosa normalità di sempre.
Cercò di sgusciare via come se nulla fosse, invisibile; il gorilla però lo afferrò per una spalla prima che potesse nascondersi nei bagni e gli sussurrò all’orecchio delle parole che non solo lo tranquillizzarono, ma che addirittura lo fecero sorridere di nuovo.
Gettò uno sguardo rassicurante ad Artù e Cathleen, i quali lo avevano visto e avevano temuto il peggio, e seguì l’omone fino alla limousine reale. Si chinò per entrare nell’ampio abitacolo e una volta seduto sui morbidi sedili di pelle ridacchiò, eccitato come un bambino.
«Dovevo immaginarlo che dietro tutto questo doveva esserci il tuo zampino, Lilibeth».
La Regina Elisabetta II abbassò il giornale che stava sfogliando e gli sorrise. «Pensavo non ti avrei più rivisto, amico mio».

***

«Che cavolo di giornata», disse Alex non appena si fu chiusa la porta alle spalle. Aveva ancora il sorriso che le andava da un orecchio all’altro.
«Dove sono Artù e Cathleen?».
«Li ho spediti a casa», spiegò Merlino, sistemandosi meglio i cuscini dietro la testa. Fu solo una scusa però, grazie alla quale nascose il braccialetto di Morgana, su cui aveva rimuginato fino ad un’ora prima con il solo ed unico re.

«Aspettate un attimo: che cosa sono questi Sidhe?».
«Sono gli spiriti custodi delle porte di Avalon. Assomigliano a delle fatine blu, piuttosto repellenti…».
Artù si passò una mano sul viso, lanciando un’occhiata torva a Merlino, il quale non capì l’errore che aveva commesso fino a quando non vide Cathleen alzarsi in piedi di scatto ed iniziare ad urlare che le fate erano la sua ossessione e lui non l’aveva avvisata dell’esistenza di quegli esseri magici ad un passo da casa sua.
«In ogni caso non avresti potuto vederli. Sono poche le persone che hanno l’onore di interagire con loro», tentò di spiegarle Merlino ed incredibilmente riuscì a calmarla.
Artù incrociò le braccia al petto ed attirando l’attenzione di entrambi su di sé fece il punto della situazione.
«Sei andato ad Avalon per parlare con Freya, però in qualche modo hai risvegliato gli Sidhe e loro ti hanno detto che lei non dimora più nelle acque del lago, che è stata riportata in vita da una potente magia. E tu credi davvero che sia stata Alex?».
«È l’unica spiegazione possibile», esalò Merlino, prendendosi il setto nasale tra due dita. «Avete visto cosa è stata in grado di fare a Londra…».
«Scusate ancora se vi interrompo, ma io ancora non ho capito da dove la prende, tutta questa magia», disse Cathleen, ferma ai piedi del letto di Merlino.
Lo stregone scosse mestamente il capo. «Purtroppo non l’ho ancora scoperto. Dev’essere qualcosa di estremamente potente, però».
«Ci dev’essere un collegamento», borbottò Artù, prendendosi la testa tra le mani. «Perché mai Alex avrebbe dovuto riportare in vita Freya? Non riesco a capirlo».
«Forse non l’ha fatto apposta. O forse Freya ha ignorato la mia minaccia, l’ha avvicinata e le ha offerto qualcosa in cambio».
«Ma cosa?!», sbottò Artù, irritato da tutti quei punti interrogativi.
Merlino aprì la bocca per sciorinare altre ipotesi, quando un pensiero tanto semplice quando terrificante gli attraversò la mente.
La risposta era sempre stata di fronte ai suoi occhi… Come aveva fatto a non rendersene conto prima?
«Merlino? Ehi, ti è venuto in mente qualcosa?», gli chiese Cathleen, convergendo su di sé lo sguardo apprensivo di Artù.
«No. No, nulla», mentì istintivamente.
Doveva rifletterci ancora un po’, prima di avvertire Artù della possibilità che Alex avesse trovato l’oggetto magico forse più potente che fosse mai stato creato.
«Una cosa è certa però: non possiamo rischiare che Alex assorba ancora più potere. Potrebbe esserle letale, per quanto ne sappiamo».
«Che cosa hai intenzione di fare?».
Merlino sollevò gli occhi su Cathleen. «Passami il giubbotto, per favore».
«Se stai cercando il tuo cellulare, penso che sia kaputt ormai».
«No, non sto cercando il mio cellulare…», mormorò infilando la mano prima in una tasca e poi nell’altra.
Artù trattenne il fiato quando il mago estrasse il bracciale di Morgana, già consapevole di ciò che avrebbe significato: mentire ad Alex, all’unica persona che poteva davvero definire “di famiglia”.
«Nemmeno io mi abbasserei a tanto, ma… è per il suo bene», disse Merlino.
Cathleen osservò prima l’uno e poi l’altro, ripetutamente. Alla fine sospirò, sconsolata: «Grazie per la spiegazione, illuminante».
«Questo braccialetto è incantato», iniziò a raccontare lo stregone. «Morgause l’ha regalato a Morgana perché non avesse più gli incubi che le impedivano di dormire, incubi che altro non erano che visioni. In poche parole è in grado di contenere la magia».
«Quindi se ho capito bene vuoi darlo ad Alex nella speranza che lo indossi in ogni momento», ricapitolò Cathleen e Artù terminò la frase per lei: «Così nel caso in cui dovesse venire in contatto con la fonte magica sconosciuta, essa non possa influenzarla in alcun modo».
Merlino posò il braccialetto sul comodino, combattuto. «L’idea è quella».
«E per quanto riguarda Freya? Che cosa intendevano gli Sidhe dicendo che il mondo ne perirà se non la riportiamo da loro?».
Cathleen deglutì rumorosamente all’ipotesi dell’apocalisse, ma lo stregone, per nulla impressionato, rispose semplicemente: «La mia priorità ora è Alex. Più avanti penseremo a Freya».
«È saggio lasciarla libera di andare dove vuole, di fare ciò che vuole?», insistette Artù.
«Ovviamente non è saggio, ma, come ho detto…».
«Potrei occuparmi io di lei».
Merlino e Artù si voltarono contemporaneamente verso Cathleen, sorridente e nervosa allo stesso tempo.
«Insomma… conosco tutti in paese. Qualcuno deve pur aver visto una ragazza uscire dalle acque del lago. Avrà avuto fame, freddo… deve per forza aver chiesto aiuto a qualcuno».
«Il suo ragionamento non fa una piega», disse Merlino dopo una dozzina di secondi di silenzio.
«Non ti azzardare!», lo rimproverò Artù. Poi, con lo sguardo più severo che gli avesse mai visto negli occhi, le disse: «Tu non ti occuperai proprio di nessuno da sola. Non sappiamo nemmeno se Freya sia ancora maledetta».
«Maledetta? Perché continuano a venire fuori dettagli inquietanti?», domandò Cathleen, dondolandosi sui talloni.
Merlino roteò gli occhi al cielo e chiarì: «Al tempo, Freya era stata vittima di una maledizione a causa della quale ad ogni luna piena si trasformava in un Bastet, una pantera alata. Non abbiamo prove però che la maledizione sia ancora attiva… è diventata la custode di Avalon, dopotutto».
«In ogni caso avrebbe la magia dalla sua parte e tu, indifesa, non andrai da nessuna parte», rincarò la dose Artù, indicandola minacciosamente.
«Se seguissi il tuo ragionamento dovrei chiudermi in casa e non uscirne mai più per paura di essere attaccata all’improvviso!».
«Non sarebbe una brutta idea!».
I due si guardarono negli occhi, senza rendersi subito conto della vicinanza dei loro corpi e dei loro respiri affannati che si univano in uno solo. Quando finalmente si allontanarono l’uno dall’altra, erano già paonazzi.
«Non puoi impedirmi di fare qualche domanda in giro», disse pacatamente Cathleen.
«No, non posso. Ma se vorrai seguire delle piste dovrai avvisarmi e lo faremo insieme».
I loro sguardi si incrociarono di nuovo e quella volta si sorrisero.
«Abbiamo un patto?», chiese Artù, allungando la mano verso di lei.
Cathleen annuì e lo sorprese stringendogli l’avambraccio come le aveva insegnato Merlino.
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta. L’agente Darrell Fisher fece capolino nella stanza e gettò un’occhiata frustrata ad Artù, il motivo per cui lui era lì.
«Ho parlato delle tue condizioni con il dottore a cui hai spaccato il naso e alla fine ha deciso di ritirare la denuncia. Sei molto fortunato, Pendragon».
«Grazie mille, Darrell», disse Merlino, sollevato di avere una rogna in meno a cui pensare.
«Non c’è problema. Tu piuttosto, che ci facevi nel bel mezzo del lago? E che hai fatto ai capelli?».
«Oh, il capello bianco è solo una nuova moda», esclamò sorridendo. «Al lago invece stavo pescando. Lo faccio ogni tanto, per rilassarmi. Questa volta però mi è venuto un malore improvviso e devo essere svenuto».
«È stato davvero un miracolo che tu non sia caduto in acqua. Potevi morire annegato».
Cathleen sorrise, mordicchiandosi un’unghia. «Il Club della Dea Bendata, li chiamo io. Senta un po’, agente… Posso farle una domanda un po’ strana?».
Il poliziotto annuì. «Spara».
«Ha per caso visto qualcosa di sospetto, negli ultimi tempi, intorno al lago?».
Artù e Merlino si scambiarono un’occhiata, increduli che Cathleen avesse già iniziato a giocare al detective.
«Qualcosa di strano, eh? A parte la passeggiata con balestra del signor Pendragon e il quasi annegamento di Merlino, no, non mi pare… Perché?».
«Semplice curiosità. Mio nonno mi raccontava un sacco di storie su quel lago, diceva che era infestato dai fantasmi. Spiegherebbero la nebbia costante e lo strano malore di oggi di Merlino».
L’agente sorrise, dicendo: «Mi dispiace, ma non credo nel soprannaturale». Quindi si diresse verso la porta. «Ora devo andare. Riguardati, Merlino. E non tentate troppo la sorte, voi due!».
«Sarà fatto, agente!», rispose per gli interessati Cathleen, congedandosi col saluto militare.
«Bene, e uno è fatto», esclamò poi, orgogliosa del proprio operato.
Artù e Merlino si guardarono e scossero il capo, iniziando a pentirsi di averla coinvolta in quella storia.

«Strano, non li ho incrociati lungo la strada».
«Uhm?». Merlino sbatté le palpebre e ricordando ciò che aveva detto poco prima precisò con tono malizioso: «Non ho detto a quale casa li ho spediti».
«Oh… Credi che possa davvero funzionare tra loro?».
Merlino scrollò le spalle e le fece spazio sul lettino.
Alex lasciò lo zaino con i vestiti puliti del mago sulla sedia, spense la luce sul comodino e si accucciò al suo fianco, arrotolandosi nella coperta arancione con cui di solito lo copriva quando lo trovava addormentato in una delle stanze dei bambini.
Merlino iniziò ad accarezzarle i capelli, ancora non del tutto convinto del suo piano. Si ripeté le stesse parole che aveva detto ad Artù quel pomeriggio, ovvero che era per il bene di Alex, e prendendo un lungo respiro per farsi coraggio infilò nuovamente la mano tra i cuscini per recuperare il braccialetto.
«Alex», le sussurrò nel buio e nel silenzio della stanza. C’era così tanto silenzio che aveva paura che l’infermiera si accorgesse del tranello grazie ai battiti furiosi del suo cuore.
«Uhm?».
«Ho un regalo per te».
Alex si sollevò su un gomito e fissò a bocca aperta il bracciale che le stava porgendo. «È bellissimo, davvero. Ma… perché adesso? Lo sai che non è il mio compleanno».
«Lo so, stupida».
L’aiutò ad infilarselo al polso e guardò attentamente la sua reazione, cercando di capire se avesse avvertito la magia di cui era impregnato.
«È meraviglioso», sussurrò invece, alzando il polso verso la luce lunare per poterne ammirare meglio le incisioni floreali.
«L’ho trovato poco tempo fa, tra le cianfrusaglie in soffitta, e mi sei venuta in mente tu», le spiegò. «Apparteneva ad una principessa bella e di buon cuore, proprio come te».
«Era più bella di me?».
Merlino fece finta di essere indeciso e si beccò un cuscino in faccia, subito seguito da un bacio.
«Grazie, Merlino. Ti amo», sussurrò Alex, col capo di nuovo posato sul suo petto.
Merlino inspirò piano e chiuse gli occhi al soffitto, riprendendo ad accarezzarle i capelli. «Anche io, Alex. Anche io».

***

Darrell aprì la porta del suo piccolo appartamento e subito se la richiuse alle spalle mettendo il chiavistello. Quindi si liberò della giacca e della fondina e si diresse verso il salotto, dove l’unica fonte di luce era quella azzurrognola della televisione accesa.
Sorrise, sollevato ed intenerito, quando trovò la sua ospite addormentata sul divano.
Le tolse il telecomando di mano e dopo aver recuperato una coperta gliela stese addosso, facendo attenzione a non svegliarla. Avrebbe voluto anche accarezzarle i capelli e posarle un bacio sulla fronte, ma non si azzardò. Non sapeva come avrebbe reagito. In effetti, oltre al suo nome non sapeva proprio nulla di lei.
Circa una settimana prima l’aveva trovata affamata, infreddolita e spaventata nei pressi del suo condominio, nascosta dietro gli alberi al limitar del bosco che circondava il lago. Senza pensarci su due volte l’aveva presa tra le braccia e portata a casa, per poi scoprire che aveva quasi del tutto perso la memoria. O almeno così gli aveva detto.
Il tarlo del dubbio aveva iniziato a mettere radici dentro la sua testa, precisamente da quel pomeriggio, quando l’amica di Merlino e Artù si era dimostrata tanto incuriosita dal lago. Ovviamente aveva mentito per prendere tempo e decidere sul da farsi, ma da allora non aveva fatto altro che rimuginarci sopra. Perché gli aveva fatto quella domanda? Perché tutte le cose più insolite e sospette capitavano proprio nei pressi di quel lago spesso e volentieri immerso nella nebbia?
Darrell si massaggiò le palpebre ed entrò in cucina per mettere qualcosa sotto i denti prima di andare a letto. Si immobilizzò, piacevolmente sorpreso, trovando la tavola apparecchiata, un paio di candele che donavano un’atmosfera romantica, del pane e un piatto di minestra da riscaldare.
Guardò la ragazza addormentata sul divano e sorrise, cacciando in un angolo tutte le domande e le teorie scomode.

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Capitolo 21
*** 21. Love in the time of insecurities ***


Hola! :)
Spero stiate tutti bene e che siate pronti per questo nuovo capitolo! La storia si fa sempre più intricata, ora che anche Freya è uscita da Avalon. E Alex riuscirà finalmente a confessare a Merlino e ad Artù di aver trovato Excalibur? Staremo a vedere.
E per quanto riguarda Hala e Baqi, i due fratelli gemelli introdotti nello scorso capitolo? Che ne pensate? Il ragazzo ha trovato davvero la prova dell'immortalità di Merlino? Sarà una minaccia per il suo segreto?
Ringrazio tutte le belle persone che hanno commentato lo scorso capitolo e chi ha semplicemente letto fino a qui.
Un bacio e una serena Pasqua/Pasquetta a tutti! ;)

Vostra,

_Pulse_


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21. Love in the time of insecurities



«Piano, Artù... Fai piano».
Il biondo corrugò la fronte per la concentrazione e socchiuse gli occhi, spingendo con ancora più delicatezza. Di sfuggita vide gli angoli della bocca di Cathleen arricciarsi in un sorriso e...
ROOM, STUMP, PUF.
«No, no, no!», gridò il paramedico, pestando i piedi. «Stavi andando così bene questa volta! Che cos’è successo?!».
Artù picchiò i palmi delle mani contro il volante e subito dopo si tolse la cintura di sicurezza per poter uscire dalla bestia di metallo e lamiere – più comunemente chiamata automobile – che da più di un’ora lo stava facendo impazzire.
Cathleen sospirò e lo seguì nel bel mezzo della radura ricoperta di fiori.
«Artù! Artù, dove stai andando?».
«Lasciami in pace, Cathleen».
Il paramedico accennò una corsetta e si portò davanti a lui, ma il re di Camelot non accennò a volersi fermare e per non essere travolta fu costretta ad iniziare a camminare all’indietro come un gambero.
«Mi spieghi qual è il problema? Non sei l’unica persona al mondo ad essere incapace a guidare!».
Artù le rivolse uno sguardo carico d’astio. «Questo dovrebbe farmi sentire meglio?».
«Sì! Cioè...». Cathleen si passò una mano tra i capelli, sbuffando. «Quello che intendo dire è che non è un problema. Esistono tanti altri modi per spostarsi, in quest’epoca».
«È vero, ci sono le moto», disse guardandola con occhi eccitati.
Il paramedico gli puntò il dito contro. «No, non ci pensare nemmeno. Nessuno tocca la mia moto».
Il re di Camelot scosse il capo con un sorrisetto amareggiato sul volto, segno che aveva già immaginato la risposta della rossa.
La spostò con un braccio e proseguì attraverso la radura, verso il nulla. Cathleen quella volta non lo seguì: si sedette semplicemente sull’erba, a gambe incrociate e con una mano a sorreggerle il viso. Artù provò ad ignorarla, ma la curiosità fu troppo grande e si voltò, irritato dal suo comportamento.
«E adesso che cosa stai facendo?».
«Non ho più voglia di rincorrerti», rispose lei con una scrollata di spalle. «Mi troverai qui, quando ti sarai sbollito e avrai voglia di parlare».
Cathleen era proprio strana: adorabile ed irritante, imbarazzante ed affascinante, divertente e cupa. A volte Artù non riusciva nemmeno a capire perché gli piacesse così tanto.
Gli ricordava Gwaine e i suoi modi di fare, il suo essere totalmente devoto alla causa, il più leale dei suoi cavalieri, e al contempo il più testa calda, pronto a dirgli in faccia se una cosa non gli stava bene oppure no. E forse – molto probabilmente – era proprio questo il motivo del suo affetto.
Artù alzò gli occhi al cielo e sbuffando tornò sui suoi passi. Cathleen sollevò il viso verso il suo, sorridendo candidamente, e gli indicò tutto lo spazio che aveva a disposizione per sedersi.
«Mi sporcherò i jeans», le disse.
Il paramedico gli rivolse un’occhiata incredula e poi prendendolo per mano lo trascinò giù, urlando: «Non fare la principessa!».
Il re di Camelot provò un senso di déjà-vu e al contempo di orrore sentendo quelle parole. Non appena si trovò di fronte ai suoi occhi gentili però, ogni sorta di tempesta dentro di lui si placò.
«Allora, vuoi spiegarmi che ti prende?», gli chiese. «Oggi è stata la prima volta che ti mettevi al volante, non credo che sia già arrivato il momento di gettare la spugna».
«Non ho intenzione di gettare la spugna, è solo che...». Abbassò il capo, posando lo sguardo sull’anello che aveva iniziato a rigirarsi intorno al dito. Cathleen attese in silenzio, senza mettergli pressioni.
Alla fine confessò: «Mi sento inadeguato, in questa epoca. Io... faccio di tutto per ambientarmi, per sembrare come voi... Ma è così difficile! Io non sono abituato a fallire e qui mi capita molto spesso, fin troppo».
Cathleen gli prese una mano tra le sue. «Da quanto tempo sei... da quanto tempo ti sei risvegliato?».
«Quasi due mesi».
«E tu credi davvero che in due mesi avresti potuto aggiornarti completamente? Non sei una macchina, Artù... Sei un essere umano. E a me pare che tu te la stia cavando egregiamente».
«Lo dici solo per farmi contento», la rimbeccò, deviando il suo sguardo.
«Certo».
Artù si voltò di nuovo, incredulo. «Come, scusa?».
«Ho detto: certo. Io ti voglio bene, Artù, e voglio che tu sia contento. Se poi tu non pensi che io ti stia dicendo quello che penso... beh, sono affari tuoi».
Artù non si sarebbe mai stancato dei suoi intricati metodi per tirarlo su di morale, né di lei in generale. E mai sarebbe riuscito a sdebitarsi completamente.
«Grazie, Cathleen».
Il paramedico sorrise e gli strinse una spalla. «Figurati. Che dici, vuoi riprovarci un’ultima volta?».
Artù annuì e si alzò, porgendole una mano per aiutarla a fare lo stesso. Lei la ignorò, forse non la vide nemmeno perché era abituata a fare da sola, e una volta in piedi iniziò a correre verso l’auto, gettandogli un’occhiata di sfida.
Artù non avrebbe dovuto farlo per via dei suoi “problemi di cuore”, ma quello non fu l’unico motivo per cui si trattenne e la lasciò vincere.

***

«Sinistra, destra, alto, giro…».
Il cozzare delle loro spade interrompeva il cinguettio degli uccelli e sovrastava il gorgoglio del fiume, tanto che ad Alex sembrava che fossero i soli al mondo.
«Che ne dici se improvvisiamo un po’?», gli chiese leggermente in affanno. «Voglio vedere se i miei riflessi sono migliorati».
«Okay», acconsentì Merlino, facendo un passo indietro.
Alex fece un respiro profondo e posizionò il piede destro davanti al sinistro, facendo volteggiare la spada di trecentosessanta gradi con una semplice rotazione del polso. Guardandola, il volto del mago si illuminò grazie ad un sorriso che la spiazzò.
«Che c’è?», gli chiese, venendone contagiata.
«Il movimento che hai fatto… È un’abitudine di Artù. Allora, sei pronta?».
L’infermiera annuì, gettandosi dietro la spalla la coda di cavallo. A causa di quella distrazione quasi non vide il fendente di Merlino, che parò all’ultimo secondo, spostando il corpo verso sinistra.
«Ehi!», si lamentò, o almeno ci provò mentre un Merlino implacabile non le lasciava nemmeno il tempo di respirare, puntando la spada verso ogni suo spazio mal difeso.
Quando finalmente riuscì a contrattaccare, Merlino si accucciò a terra e stendendo una gamba le colpì le caviglie, facendole perdere l’equilibrio. Alex sarebbe di certo caduta all’indietro, ma lo stregone fu più veloce della stessa forza di gravità e l’afferrò per un braccio. Si ritrovarono così petto contro petto, occhi negli occhi.
«I tuoi riflessi sono… okay», ansimò Merlino, sorridendo.
Alex si protese ancora un po’ verso il suo viso, come se volesse baciarlo, ma ad un soffio dalle sue labbra disse: «La prima lezione di Artù è stata quella di non dare mai nulla per scontato durante un combattimento, chiunque sia il tuo avversario».
Merlino sentì la punta di un pugnale pungergli il fianco sotto la maglia di ferro e sollevando gli occhi al cielo scoppiò a ridere, per poi sollevare le mani in segno di resa.
L’infermiera si allontanò soddisfatta, anche se un po’ le bruciava che Merlino le avesse detto che i suoi riflessi erano solamente “okay”. Sapeva che se avesse avuto Excalibur tra le mani l’esito di quell’esercitazione sarebbe stato del tutto diverso, ma aveva deciso di tenergliela nascosta ancora per un po’.
Da una settimana a quella parte infatti la spada magica non sembrava causarle più gli stessi problemi: niente più inibizione delle emozioni, niente più fastidiosi mal di testa e, soprattutto, niente più incubi.
Era così sollevata e felice che Excalibur non le provocasse più effetti collaterali – era come se finalmente il suo organismo si fosse abituato a quel flusso di energia – che aveva pensato che non ci fosse più bisogno di mettere al corrente Merlino o Artù.
Anche il mago dopo l’ultima volta non le aveva più fatto domande, sembrava proprio che se ne fosse dimenticato, ma questo non la rendeva più tranquilla, anzi… La sua attenzione per non destare sospetti doveva mantenersi sempre alta. Però era felice, felice come non lo era da tanto tempo, e non avrebbe cambiato nulla della propria vita.
«Che ne dici, facciamo una pausa?».
Alex smise di sfiorare i manici delle varie armi a disposizione per gli allenamenti e si voltò di tre quarti per sorridergli. «Volentieri. Mi daresti una mano a togliermi di dosso tutta questa ferraglia?».
«Non aspettavo altro», rispose Merlino con sguardo malizioso.
Con delicatezza le slacciò la gorgiera (a protezione del collo), gli spallacci, i bracciali inferiori e poi l'armatura a scaglie che le stringeva la pancia, a partire da sotto il seno.
La fece voltare delicatamente e la guardò negli occhi mentre le sfilava lentamente anche la sottile maglia di ferro, luccicante sotto i raggi del sole del mattino inoltrato.
«Magari ci fossero state delle donne cavaliere come te, a Camelot. Mi sarei offerto di lucidare tutte le loro armature, e senza l’uso della magia», le disse prima di catturare le sue labbra tra le proprie.
Alex sorrise, aggrappandosi alle sue spalle per poi risalire ad accarezzargli il collo e il viso. Si scostò dolcemente, percorrendo con le dita le zampe di gallina che dopo l’incidente al lago si erano accentuate ancora di più agli angoli dei suoi occhi azzurri. Liberando la magia che lo teneva in vita era invecchiato rapidamente, almeno di dieci anni, ma ciò che provava per lui non sarebbe mai cambiato.
«Ti amo, Merlino».
Lo stregone annuì, posando la fronte contro la sua. «Ti amo anch’io».
Improvvisamente sentirono una canzone sparata a tutto volume all’interno della casa e senza esitazioni si scostarono l’uno dall’altro per precipitarsi all’interno.

***

Cathleen e Artù entrarono in casa, trovandola fin troppo silenziosa.
«Merlino!», urlò a squarciagola il re di Camelot. «Siamo tornati!».
Mentre il biondo si toglieva il giubbotto, il paramedico entrò in cucina e attraverso le porte finestre che davano sulla veranda scorse Merlino e Alex in giardino, stretti l’uno nelle braccia dell’altro ed intenti a scambiarsi effusioni, ignari del loro arrivo.
«Ma dove diavolo si è cacciato quell’idiota?», borbottò Artù comparendo sulla soglia della cucina.
«Ehi!», gridò Cathleen, facendolo sobbalzare. «C’è troppo silenzio qui, mettiamo un po’ di musica!».
Accese la radio e alzò il volume al massimo, lasciando che quell’orribile canzone otturasse i timpani di entrambi.
Artù la fissò scioccato, tappandosi le orecchie. «Cosa diavolo stai facendo?!». Le andò incontro per spegnere l’apparecchio, ma Cathleen gli gettò le braccia al collo e lo baciò appassionatamente sulle labbra, sperando che quella bastasse come distrazione e che Alex e Merlino accorressero il più in fretta possibile.
Al contrario delle sue aspettative, Artù non si allontanò da lei tanto presto. Approfondì il bacio, spingendola di nuovo verso il lavello e sollevandola per i fianchi per farla sedere sul ripiano della cucina.
Aveva appena sfiorato la pelle calda sotto la maglietta, quando Alex e Merlino aprirono le porte finestre e li colsero sul fatto, rimanendone a bocca aperta.
«Hai capito il nostro Mr. Casto-fino-al-matrimonio?», esordì Alex, sorridendo furbescamente di fronte al volto paonazzo di Artù.
Cathleen trattenne una risata invece, sporgendosi per spegnere la radio. Poi incrociò lo sguardo di Merlino, il quale la ringraziò silenziosamente.
«Un po’ di rispetto, ragazzina!», la rimproverò il solo ed unico re, puntandole il dito contro. «Piuttosto, voi che cosa stavate facendo?».
Alex e Merlino si scambiarono un’occhiata, quindi scrollarono contemporaneamente le spalle, rispondendo in perfetta sincronia: «Il solito allenamento».
«Com’è andata la prima lezione di guida?», domandò poi Merlino.
Artù deviò il suo sguardo e fu Cathleen a rispondere per lui, accarezzandogli una ciocca di capelli biondi: «Ha ancora molto da imparare, ma confido nelle sue capacità».
Lo stregone sorrise e gli diede una pacca d’incoraggiamento sulla spalla. «Vedrete, ce la farete. Ora, avete qualche richiesta particolare per il pranzo?».
Artù negò con un cenno del capo e si voltò verso Cathleen, esitando un paio di secondi prima di chiederle se volesse fermarsi lì a mangiare. Il paramedico ne fu piacevolmente sorpresa ed accettò, a patto che potesse aiutare.
«La cucina è tutta vostra!», gridò Alex, dileguandosi con Artù al seguito.
Merlino e Cathleen si guardarono con le labbra arricciate, sull’orlo di una risata che non riuscirono a reprimere a lungo.

***

«Allora Crudelia, come va?».
Merlino ghignò, osservandosi il ciuffo di capelli bianchi attraverso la lama del coltello con cui stava tagliando a cubetti la verdura.
«Non c’è male. Grazie per prima».
«Oh, figurati».
«Visto che siamo soli, vorrei ringraziarti anche per… lo sai, per avermi tirato fuori dal lago e aver salvato Artù».
Cathleen gli sorrise, dandogli un leggero colpo d’anca. «Non hai niente di cui ringraziarmi: una promessa è una promessa. Piuttosto, come ti sembra stia reagendo Alex al bracciale?».
«Magnificamente». Merlino sollevò lo sguardo e oltre la finestra guardò Alex e Artù esercitarsi al tiro con l’arco. «È tornata la solita Alex di sempre, il che vuol dire che il bracciale sta facendo il suo lavoro».
«Però?», lo incalzò il paramedico, asciugandosi le mani su uno straccio ed incrociando le braccia al petto.
Lo stregone sospirò. «Però temo che il fatto che stia meglio l’abbia convinta ancora di più a tenere segreta la sua fonte magica».
«Hai un piano?».
«In realtà sì, ce l’ho». Lasciò il coltello sul tagliere e posando entrambe le mani sul bordo del piano da lavoro sorrise amareggiato, guardando Alex alle prese coi festeggiamenti dopo aver scoccato una freccia che aveva centrato perfettamente il proprio bersaglio.
«Da quando siamo diventati una coppia io non sono mai andato a dormire a casa sua», iniziò a spiegare. «All’inizio pensavo fosse solamente perché se Artù avesse scoperto che non c’ero si sarebbe insospettito, ma poi ho cominciato a pensare che forse il vero motivo per cui non mi vuole è perché…».
«Perché è lì che tiene la fonte», concluse Cathleen per lui, accarezzandosi le labbra con il pollice. «Hai intenzione di entrare in casa sua per cercarla».
Merlino annuì, passandosi le mani sul viso stanco. «Alex non mi perdonerebbe facilmente, se dovessi tradire in questo modo la sua fiducia. Più di quanto io non abbia già fatto con il bracciale di Morgana. Se lo facessi davvero… rischierei di rovinare tutto ciò che abbiamo».
Cathleen rimase per qualche secondo in silenzio, meditabonda. Poi sorrise e gli posò una mano sulla spalla, stringendola appena.
Il mago la osservò stupito, rendendosi conto che con lei era stato così facile esternare i dubbi che lo dilaniavano da un’intera settimana, al contrario di tutte le volte in cui ci aveva provato con Artù ed aveva fallito.
«Lo faremo insieme», gli disse in tono rassicurante. «Alex non potrà allontanarci tutti e alla fine capirà che l’abbiamo fatto per il suo bene».
Merlino abbozzò un sorriso e ricambiò il saluto di Alex, la quale approfittando della distrazione di Artù si era voltata per soffiargli un bacio.
«Grazie, Cath», mormorò, gli occhi lucidi di commozione.
«È a questo che servono gli amici, no?».
«Alex è fortunata ad averti».
«Non mi riferivo solo a lei».
Merlino si voltò a fissarla, colpito da un déjà-vu. Decise però di rimanere in silenzio e dopo averle rifilato a sua volta un leggero colpo d’anca tornò a tagliare le sue verdure.

***

Baqi osservò il proprio riflesso sulla teca che proteggeva la preziosa corona ritrovata al galà di beneficienza di Windsor, poi, sbuffando, raddrizzò la schiena.
Uscì dal museo a mani vuote, ma ancora pieno di speranze: niente avrebbe scalfito la sua determinazione e in un modo o nell’altro sarebbe andato fino in fondo alla faccenda, anche a costo di ritrovarsi senza un penny. (E secondo sua sorella sarebbe accaduto presto).
Con la borsa a tracolla che gli sbatteva sul fianco, si fermò ad un Caffè Nero e con il proprio bicchierone d’asporto si diresse nuovamente verso la stazione. Mentre aspettava il treno, chiamò proprio Hala.
«Pronto?».
«Ciao, sono io. A che punto sei con i preparativi?».
«Ho finito adesso. Spero solo di essermi ricordata tutto. Tu hai qualche novità?».
«No, nessuna».
«L’ennesimo buco nell’acqua. Che ti avevo detto, Baqi?».
Il gemello alzò gli occhi al cielo nuvoloso ed iniziò a farle silenziosamente il verso, prevedendo con assoluta precisione tutto ciò che gli avrebbe detto.
All’improvviso Hala si interruppe ed infastidita disse: «Mi stai facendo il verso, non è così? Baqi… Te lo dico per il tuo stesso bene: dimenticatene».
«Non posso, io… Non ce la faccio! Questa cosa potrebbe cambiarmi la vita e fino a quando non le avrò provate tutte non mi fermerò!».
«Senti, perché non vieni con me dalla signora Chapman? Anche solo per un paio di giorni, per cambiare aria».
«Non servirà a niente, Hala. Ora, se non hai nient’altro per cui rimproverarmi…».
«Potresti venire a fare qualche foto all’ospedale in via di ristrutturazione grazie alla donazione del Principe William. Potresti persino intervistare le infermiere che c’erano quel giorno, scrivere un pezzo per il giornale…».
«Ti ho già detto che non sono interessato. Ci vediamo tra poco».
Baqi terminò la telefonata senza nemmeno ascoltare le ultime parole di sua sorella, parole che sarebbero state comunque sovrastate dallo sferragliare del treno in arrivo.

***

Abigail strinse più forte la mano della nonna, inconsapevolmente, mentre si schiariva la gola per chiedere all’infermiera che le stava servendo il pranzo: «Quanto ci vuole ancora per gli esiti degli esami?».
«Lo sai che ci vogliono almeno un paio di giorni, tesoro».
«Sono passati, un paio di giorni».
L’infermiera le sorrise gentilmente, accarezzandole i capelli. «Arriveranno quando arriveranno».
«Grazie», borbottò la ragazzina quando la donna si fu allontanata per servire altri tavoli.
Sua nonna ridacchiò, accarezzandole il dorso della mano. «C’è qualcosa che ti preoccupa, amore mio, ma non ce n’è bisogno».
«Non puoi saperlo, nonna. Se questi esami sono andati male…».
«Se sono andati male, faremo in modo che la prossima volta vadano bene. Ce la caveremo, ne sono sicura».
Abby sorrise, giocando col purè nel proprio piatto. «Grazie, nonna. Anche per essere rimasta, nonostante il tuo agente ti faccia pressioni per il libro. Significa molto per me».
«Il mio agente può anche andare al diavolo, lo sai. E poi sento terribilmente la tua mancanza a casa».
«Pensavo che Hala e Baqi ti tenessero compagnia».
«Oh sì, i gemelli rendono viva quella vecchia catapecchia, ma non sono come te». Le accarezzò una guancia e senza alcun motivo ridacchiò.
«Che c’è?», le chiese Abigail, voltandosi per seguire la direzione del suo sguardo. Non appena i suoi occhi incrociarono quelli di Mark, il ragazzino li abbassò sul proprio piatto, imbarazzato.
«A proposito dei gemelli… Vado a chiamare Hala per sapere a che ora arriverà», esclamò sua nonna, facendole l’occhiolino.
Abby arrossì e la guardò uscire dalla mensa, poi si voltò di nuovo verso Mark e con un cenno del capo lo invitò a raggiungerla. Lui non se lo fece ripetere due volte e con il solo piatto di pasta e la forchetta sulle gambe la raggiunse.
«Dici che tua nonna se n’è accorta?», le domandò subito, vergognosamente.
Abby annuì, trattenendo a stento le risate. Quindi allungò le mani verso di lui e lasciò che gliele stringesse, riscaldandole piacevolmente.
«Mi vuoi dire che cosa ti prende?», le domandò alla fine. «È da Pasqua che ti comporti in modo strano e ogni volta che provo a chiederti qualcosa cambi argomento. Cosa mi nascondi?».
«Niente, Mark. Sul serio».
Il ragazzino scosse il capo, le sopracciglia inarcate. «Non so più come dirtelo, Abby: non me la bevo».
Abigail sospirò e ritirò le mani per unirle in grembo, dove iniziò a torturarsi il bordo della maglietta. «In queste ultime settimane mi sento più stanca del solito e ho… ho paura che gli esami di controllo mi dicano qualcosa che non voglio sentire».
«Esami di controllo? Quando li hai fatti? Perché non ne sapevo niente?».
Mark era furioso e Abby avrebbe voluto essere nel suo letto, con le coperte tirate fin sopra alla testa.
«Non volevo che ti preoccupassi».
«Preoccuparmi? Abby, stai per caso dicendo che potresti…?».
«Non lo so, Mark!», urlò, attirando su di sé l’attenzione di tutta la mensa. «So solo che tu pensi sempre al peggio, è sempre stato così! Sei fatto così! E se ti avessi detto degli esami e delle mie paure, tu non saresti stato in grado di aiutarmi! Anzi, avresti soltanto peggiorato la situazione!».
Aveva i polmoni che le dolevano e la gola che le bruciava a causa del magone. Con la morte nel cuore e la voce tremante, concluse: «Mi dispiace, ma non volevo finire per consolarti. Non questa volta».
Abbassò lo sguardo e nonostante non avesse toccato cibo uscì dalla mensa, diretta verso la propria stanza, dove avrebbe pianto fino a non avere più lacrime.

***

«Grazie per il pranzo, era tutto buonissimo», esclamò Alex, alzandosi per impilare i piatti vuoti da portare in cucina.
Merlino però le strinse il braccio e scosse il capo, dicendo: «Lascia stare, faccio io».
«Dai, tu e Cathleen avete cucinato, ora tocca a me e ad Artù dare una mano».
«Ehi, non mi mettere in mezzo!», si tirò fuori il re di Camelot, alzandosi per dirigersi in salotto, dove si spaparanzò sul divano, col telecomando in mano.
Tutti risero di fronte al suo comportamento regale e così furono Alex e Merlino a sparecchiare. Soli in cucina, lontani dallo sguardo del biondo, distratto anche da Cathleen, riuscirono persino a scambiarsi un bacio.
«Fingi che la tua auto non parta, così sarò costretto ad accompagnarti a casa. Che ne dici?», le chiese il mago, sporgendosi per accarezzarle il collo con le labbra, baciandolo e mordendolo lungo la linea della mandibola.
«Mi stai proponendo una sveltina? Questo non me lo sarei mai aspettata da te, Merlino», rispose con un sorriso incerto, scostandosi. «Ad ogni modo non credo si possa fare. L’allenamento di questa mattina mi ha distrutta ed è meglio che mi faccia una dormita: ho il turno di notte».
«Va bene, sarà per la prossima volta».
«Certamente», mormorò rubandogli un altro bacio.
In quel momento sentirono Artù avvicinarsi e quasi si ignorarono, riprendendo a sciacquare i piatti e ad infilarli nella lavastoviglie.
«Ho ancora un buco…», disse il re del passato e del futuro – più che a se stesso che a loro – aprendo le ante dell’armadietto in cui c’erano tutte quelle cose non proprio salutari che a lui piacevano tanto.
«So io a che cosa dovrò fare un buco, se continua così», sussurrò Merlino ad Alex, ma abbastanza ad alta voce perché Artù lo sentisse e gli tirasse addosso la prima cosa che gli capitò sotto tiro: un portafrutta di legno quasi vuoto.
L’infermiera però agì puramente d’istinto e fu più veloce: le sue iridi si tinsero d’oro e il portafrutta si incenerì prima che potesse colpire Merlino. Un mucchietto di cenere sul pavimento fu tutto ciò che ne rimase.
Ci fu un momento di profondo silenzio, così profondo che Alex si sentì un mostro ed ebbe voglia di scappare via. Ad un tratto però Merlino le prese le mani, cercando qualcosa che lei non scorse, e poi si concentrò sui suoi occhi per esaminarli uno alla volta, come un vero dottore.
«Dimmi come ti senti», le ordinò.
«Io… Bene, credo. Era da tanto che non riuscivo ad usarla».
Non avrebbe dovuto dirlo, Alex se ne rese conto troppo tardi e si morse la lingua di fronte all’espressione furiosa di Artù.
«Stai dicendo che hai provato ad usarla? Per quale stupido motivo avresti dovuto?», le urlò contro, sotto gli occhi sgranati di Cathleen.
«Volevo esercitarmi, volevo riuscire a controllarla per potervi aiutare! Ma da quando l’ho usata per risvegliare Merlino non ci sono più riuscita, non so perché».
Artù aprì la bocca per rimproverarla ancora, ma a quel punto sia Cathleen che Merlino gli fecero segno di stare zitto.
Lo stregone la fece sedere e si inginocchiò di fronte a lei, accarezzandole ancora le mani.
«Quello che voleva dire Artù è che non è saggio usare la magia senza qualcuno che ti guidi. Potresti ferirti seriamente».
«Allora guidami, Merlino. Ti supplico».
Merlino la fissò intensamente, poi posò gli occhi in quelli di Artù, il quale gli rivolse uno sguardo tra il minaccioso e l’impaurito.
Alla fine disse pacatamente: «Ci penserò».
Artù provò ancora una volta a dire la sua – e probabilmente avrebbe detto che Merlino era un pazzo scriteriato – ma di nuovo Cathleen glielo impedì, tappandogli la bocca con una mano e trascinandolo in salotto.
«Avresti dovuto dirmelo», disse Merlino non appena furono soli, alzandosi per darle le spalle.
«Lo so. Lo so, ma sapevo che ti saresti arrabbiato e così…».
«Io non sono arrabbiato, sono deluso. Deluso che tu non mi ritenga degno di sapere che cosa ti succede. Forse è questo il vero motivo per cui non vuoi sposarmi».
«Che cosa stai dicendo?».
«La verità è che non vuoi condividere tutto con me. Ma lo capisco, anche io ho dei segreti, cose che riguardano il mio passato e che probabilmente non saprai mai. Ma qui si tratta del tuo presente… del nostro futuro».
Alex si alzò e lo abbracciò da dietro, affondando il viso tra le sue scapole appuntite. Ogni volta che le guardava le sembravano sempre sul punto di bucare la pelle tesa per lasciar spazio ad un paio di ali d’angelo. E forse era così, forse Merlino era davvero un angelo: il suo, costantemente impegnato a proteggerla.
Non sapeva che cosa dire e non riusciva a dire quello che avrebbe dovuto confessargli, perciò rimase in silenzio. Rimasero così per parecchio tempo, fino a quando Merlino non si voltò e la costrinse a guardarla negli occhi.
«Io ti amo, Alexandra Greenwood-Pendragon. Darei la mia vita per te e tutto quello che faccio è per il tuo bene. Non dimenticarlo mai».
Le posò un bacio sulla fronte e le diede di nuovo le spalle, aggiungendo: «Credo che ora dovresti andare a riposarti per il turno».
Alex annuì con un cenno del capo e senza aprire bocca uscì dalla cucina ed attraversò il salotto, sotto gli sguardi di Cathleen e Artù.
Saltò in auto e sfrecciò verso casa senza nemmeno accendere la radio.
Era alla porta, alla ricerca delle chiavi, quando sentì il proprio cellulare suonare. Se lo portò all’orecchio e rispose distrattamente.
«Ciao Alex, sono Keith».
«Qualsiasi cosa sia, non è un buon momento».
«Scusami, è solo che una collega del ricevimento mi ha detto che è venuta di nuovo quella ragazza che chiede sempre di te».
«Come? Questa è già la terza volta! Secondo me si confonde… Da come me l’hanno descritta, non credo di conoscerla».
«Beh, volevo solo avvisarti».
«Grazie, Keith. Ci vediamo».
Chiuse la chiamata e finalmente riuscì a trovare le chiavi. Un fruscio alle sue spalle le fece rizzare le orecchie e si girò, ma non vide nessuno. Probabilmente si trattava solo di un gatto randagio, o dell’uccellino che aveva fatto il nido tra le sue rose.
Entrò in casa, liberandosi subito del giubbotto e delle scarpe.
Una volta in camera si gettò sul letto, affondando il viso nel cuscino. Quando riaprì gli occhi, al proprio polso vide il braccialetto coi motivi floreali che le aveva regalato Merlino.
«Apparteneva ad una principessa bella e di buon cuore, proprio come te».
Sentendo di non meritarselo, se lo tolse e lo posò sul comodino. Continuò a fissarlo fino a quando il sonno non le fece chiudere gli occhi alle lacrime.

Nel suo giardino, dietro ai cespugli di rose, Freya osservava la finestra della sua camera da letto e sorrideva.

***

«Credo che dovresti andare a parlare con Merlino», gli disse Cathleen, posando la guancia sulla sua spalla.
Artù la guardò con la coda dell’occhio e capì che aveva ragione, come sempre. Raramente le donne con cui aveva a che fare non l’avevano: anche Ginevra era sempre stata la luce sul suo cammino, la guida che con gentilezza lo aveva portato a prendere molte decisioni sensate.
Fu Merlino però ad andare da loro. Con ancora lo straccio umido tra le mani, si lasciò cadere sulla poltrona e sospirò con un braccio a coprirgli gli occhi.
«Lo faremo questa notte», esordì in tono lugubre.
«Che cosa?», chiese Artù, arricciando il naso: sentiva puzza di guai.
«Merlino vuole entrare in casa di Alex mentre lei non c’è per cercare la fonte magica che sta tenendo nascosta a tutti noi», gli spiegò Cathleen.
Per qualche istante Artù non riuscì a formulare una frase di senso compiuto, spiazzato. Poi riuscì a stento a trattenere la rabbia, digrignando: «Che piano è mai questo? E tu come fai a saperlo?».
«Mi ha accennato qualcosa prima, mentre preparavamo il pranzo. Ma non è importante, Artù». Gli prese il mento tra le dita per guardarlo fisso negli occhi. «Dobbiamo farlo per Alex, per la sua sicurezza».
«Non possiamo più aspettare», intervenne il mago, massaggiandosi il viso. «Avete visto che cos’ha fatto al mio portafrutta…».
«A proposito, come ci è riuscita?», chiese Artù. «Indossava il bracciale!».
Merlino sospirò, scuotendo il capo. «Non lo so, forse sta perdendo di efficacia. Oppure, ancora peggio, la magia che sta assorbendo è così potente da riuscire a neutralizzarne gli effetti».
«Però hai sentito che cos’ha detto? Ha detto che nonostante ci provasse, non è riuscita ad utilizzare i suoi poteri prima di oggi», fece notare Cathleen. «Questo che cosa potrebbe significare?».
Merlino rimase in silenzio con le mani unite di fronte al naso, pensieroso, fino a quando non mormorò, con sguardo spiritato: «È stato istintivo, emotivo… Aveva una ragione ben precisa per evocare la magia: proteggere me. E questo l’ha resa così potente da infrangere la barriera creata dal bracciale».
«Tipo una scossa di adrenalina», disse Cathleen. «Sì, ha senso».
Artù si alzò improvvisamente dal divano e si diresse verso la mensola del grande camino, dicendo: «Premettendo che per me niente di tutto questo ha senso, possiamo tornare al pessimo piano di Merlino? Come fai ad essere così sicuro che la fonte magica sia a casa sua?».
Merlino e Cathleen si guardarono e Artù si sentì ancora una volta l’escluso del gruppo, ma non fece in tempo a farlo notare che il paramedico rispose: «È semplicemente l’unico posto in cui Merlino non ha ancora guardato. E poi sarebbe logico: anche io, se trovassi un qualcosa da cui non vorrei mai separarmi, me la terrei sempre a portata di mano».
«Cath ha ragione», l’appoggiò Merlino.
Artù incrociò le braccia al petto, scrutandoli. Non capiva perché all’improvviso quei due andassero d’amore e d’accordo, ma non era il momento adatto per occuparsi della questione: Alex aveva la priorità su tutto.
«Va bene», esclamò arrendevolmente. «Supponiamo che la fonte magica sia a casa di Alex. Come facciamo ad entrare? E che ne facciamo quando la troviamo? Insomma, non sappiamo nemmeno cos’è!».
Il silenzio cadde su di loro. Come aveva sempre sostenuto, i piani di Merlino si rivelavano sempre fallimentari. Per questo se ne occupava lui.
Fu proprio lo stregone però a parlare per primo, dopo essersi schiarito la gola con un colpetto di tosse.
«In realtà io un’idea ce l’avrei».
Artù sgranò gli occhi, incredulo alle proprie orecchie. Spalancò le braccia e con tono sarcastico disse: «Oh, molte grazie per averci messi subito al corrente!».
«Non ne sono sicuro al cento percento, ma...».
«Dillo e basta, Merlino».
«Non vi piacerà… non vi piacerà affatto».
«Merlino!».
«Excalibur!», gridò, alzandosi per guardarlo dritto negli occhi. «Penso che ad Avalon Alex abbia trovato Excalibur!».
Non c’erano parole per descrivere lo stato di shock in cui Artù era piombato. Il fatto che Alex avesse trovato la spada che era stata forgiata per lui la rendeva la sua più importante discendente, ma anche colei che avrebbe dovuto sopportarne il peso quasi insostenibile, un peso che gravava sull’anima piuttosto che sulla mano con cui la si impugnava.
Ancora una volta fu Cathleen a riportarlo alla realtà, rigorosamente a modo suo.
Seduta ancora sul divano, allungò le gambe fino ad incrociare i piedi sul tavolino e si portò le mani dietro la nuca, sogghignando: «Non so nemmeno come riuscivo a non annoiarmi prima di conoscervi».

***

Erano state solo un paio d’ore di viaggio, tuttavia le erano sembrate infinite. Era preoccupata per Baqi, preoccupata che in sua assenza si ficcasse in guai ben più grandi di quelli con cui aveva a che fare di solito.
Non si erano mai divisi per più di mezza giornata, specialmente da quando i loro genitori li avevano cacciati fuori di casa perché si erano ribellati alle regole ferree della loro religione, e forse – al contrario di ciò che pensava – era proprio Hala a non essere pronta a stare lontana da lui.
La ragazza scese dal taxi e dopo essersi guardata un po’ intorno entrò nell’ospedale. All’accettazione chiese indicazioni per il reparto oncologico e una volta ottenute si diresse verso l’ascensore.
Non era una grande fan degli spazi ristretti, così come non lo era degli ospedali, perciò pregò Dio, Allah e tutti i suoi cugini perché non dovesse assistere ad una di quelle scene da film, con tanto di rianimazione od operazione d’emergenza. Ma fu proprio lì che lo incontrò, l’amore della sua vita.
«Aspetta, aspetta!».
Hala si gettò tra le porte dell’ascensore, anche col rischio di farsi male, per far sì che quell’angelo sceso in terra, col camice bianco che gli svolazzava alle spalle, le facesse compagnia in quel box di metallo.
Una volta al suo fianco la ringraziò, rivolgendole il più bel sorriso che avesse mai visto.
«Grazie a te per onorarmi della tua visione», avrebbe voluto rispondergli, ma per fortuna le sue corde vocali si erano attorcigliate l’una con l’altra.
Quando le porte si chiusero, Hala respirò profondamente per annusare il suo profumo: nulla di troppo forte, solo un leggero accenno di dopobarba al pino silvestre. Come piaceva a lei.
«Sei in visita a qualcuno?», le chiese il dottore, indicando il trolley che aveva abbandonato in un angolo.
Hala annuì e si schiarì la gola. «Nipote».
«Non l’avrei mai detto: sei giovane per avere una nipote».
«No, non è mia, la nipote. Beh, quasi. Si tratta di Abigail Reed, la conosce?».
Lui la fissò con i suoi ipnotici occhi grigio-azzurri, messi ancora più in risalto dalla sua carnagione mulatta. «È per caso una ragazzina con i capelli castani e gli occhi scuri?».
«In carne ed ossa», rispose Hala, riuscendo finalmente a ricambiare il sorriso.
«Sì, la conosco di vista. Leucemia, giusto?».
Annuì mestamente, ricordando la conversazione che aveva avuto con la signora Chapman prima che la invitasse a raggiungerla: Abby aveva chiesto alla nonna di prolungare la sua permanenza in ospedale fino a quando non avrebbe ricevuto gli esiti degli esami di controllo, e visto che questo non era mai successo prima d’ora (semmai era stato il contrario), le possibilità che non prevedesse buone notizie erano alte.
«È la prima volta che vieni qui?», le chiese ancora, dopo qualche lungo istante di silenzio.
O quell’ascensore era molto lento, o il tempo lì dentro scorreva in modo diverso.
«A dire la verità sì. Mi hanno detto che devo andare al quarto piano, ma...».
«Io stavo andando giusto da lei; ti accompagno».
Hala sentì il rossore iniziare ad impadronirsi del suo viso e cercò di combatterlo, con ben scarsi risultati. «Grazie, è... è molto gentile da parte sua».
«Dammi pure del tu».
Le porte si aprirono sul quarto piano quando il dottore le porse una mano e, sorridendo, si presentò: «Mi chiamo Keith».
«Hala».
Il dottore sorrise e per la prima volta nella vita di Hala non fece commenti né domande sul suo nome. Uno dei tanti motivi per cui, nonostante tutta la fredda razionalità che aveva sempre sostenuto di avere, iniziò ad innamorarsi perdutamente di lui.

***

Abigail si asciugò le guance con una mano quando sentì la porta della sua camera aprirsi per far entrare i rumori di un lento pomeriggio in ospedale.
«Nonna, davvero... vorrei restare un po’ da sola», mugugnò, tirando su col naso.
Ma la persona che si era seduta sul bordo del suo letto non era sua nonna, e lo capì grazie alla delicata carezza con cui le sistemò le coperte. Si voltò supina e riuscì persino ad abbozzare un sorriso, incrociando gli occhi azzurri di Merlino, dolci e rassicuranti, due fari luminosi nel bel mezzo della semi-oscurità che regnava nella sua stanza a causa del brutto tempo e delle tapparelle abbassate.
«Non c’era bisogno che venissi», gli disse, massaggiandosi ancora una volta gli occhi umidi di lacrime.
«Invece credo proprio di sì. Non sarò bravo a dispensare consigli come Alex, ma ci provo. E se non dovessi riuscire a tirarti su di morale, posso sempre mandarti Artù».
Abby rise di fronte all’espressione ammiccante di Merlino, al quale tirò un pugnetto sulla spalla per farlo smettere.
«Tu e Alex avete litigato? È per questo che è irreperibile?», gli domandò, sperando che si dimenticasse di quello che gli aveva accennato al cellulare.
Merlino sospirò, gettando un’occhiata al soffitto. «Non è stato proprio un litigio... Semplicemente su alcune cose non la vediamo allo stesso modo».
«Già... Conosco la sensazione», mormorò. Poi si sforzò di sorridere, esclamando: «Comunque ero sicura che alla fine vi sareste messi insieme: siete fatti l’uno per l’altra!».
Il moro le rivolse un’occhiata eloquente, prendendole una mano tra le sue. «Credi che non abbia capito che cosa stai facendo? Sono venuto qui per te, non per parlare della mia relazione con Alex».
Abigail sbuffò e il desiderio di piangere la travolse di nuovo, con la forza di un’onda anomala.
«È tutto così difficile... Sto iniziando persino a pensare che Mark aveva ragione, quando diceva che stando insieme avremmo sofferto il doppio se uno dei due...».
«Qual è il problema, Abby?».
«Io ho paura che...». Deglutì il magone che le bloccava la gola, abbassando gli occhi.
Merlino diede una strizzatina alla sua mano, così piccola e fredda, attirando nuovamente la sua attenzione. Il sorriso sul suo viso la colpì, perché era un sorriso che non gli aveva mai visto ma che in qualche modo gli calzava a pennello: consapevole, empatico, quasi saggio.
«Temi una recidiva», le disse, spiazzandola completamente.
Con gli occhi sgranati, Abby non riuscì a trattenersi: «Come fai a saperlo?».
«Ho notato gli stessi cambiamenti che hai notato tu, suppongo», rispose con gentilezza, scrollando le spalle. «Ti stanchi più facilmente, mangi poco perché hai la nausea, controlli sempre che le maniche dei maglioncini ti coprano bene fino al polso...».
Abby gli mostrò le petecchie sulle braccia, tornate all’improvviso nel bel mezzo della terapia. Con gli occhi colmi di lacrime e la voce non proprio ferma, disse: «Io non voglio pensare al peggio».
«E non devi», sussurrò il moro, avvicinandosi a lei per stringerle delicatamente il viso tra le mani. «Ascoltami: non puoi saperlo per certo, è inutile che ti disperi ora. E sarà inutile anche disperarsi dopo, nel caso in cui i tuoi sospetti siano fondati: potrai ancora lottare, Abby, e ce la farai. Ne sono certo».
«Ho trattato malissimo Mark», singhiozzò, posando il capo nell’incavo della sua spalla. «Gli ho detto che non volevo consolarlo questa volta, che lui pensa sempre al peggio e non avrebbe potuto aiutarmi».
«Ehi... Ehi, è tutto okay», cercò di tranquillizzarla, massaggiandole la schiena. «Sistemeremo tutto, te lo prometto. Artù si sta occupando di lui».
Abigail alzò di scatto la testa, atterrita. «Artù cosa?».

***

Al ritmico bussare alla porta, Danilo gettò un’occhiata verso Mark, profondamente immerso nel gioco della PS Vita con cui stava scaricando un po’ di tensione – aveva assistito a ciò che era successo tra lui e Abigail in mensa e poteva immaginare che di tensione da scaricare ne avesse a palate – crivellando di buchi i propri nemici. Era ovvio che non aspettava visite. E anche se fossero state visite a sorpresa, non le avrebbe gradite.
Danilo sospirò stancamente e si spinse giù dal letto per scivolare nella propria sedia a rotelle. Quindi andò alla porta e l’aprì di scatto, facendo spaventare il ragazzo dall’altra parte, proteso per captare i rumori provenienti dall’interno.
«Guarda un po’ chi c’è... Il re di Camelot in persona», esclamò divertito.
Artù lo fissò con cipiglio perplesso, incerto se lo stesse silenziosamente prendendo in giro o facesse sul serio. Alla fine borbottò: «Ex re, a voler essere precisi».
Ma il ragazzino non parve sentirlo e disse ancora: «Il che mi ricorda che non ti ho ancora ringraziato come si deve! Sto mangiando doppia razione di dessert grazie a te!». Protese un pugno in avanti, aspettandosi che il biondo lo colpisse col proprio; tutto ciò che ottenne però fu un’occhiata confusa.
«Ma che problemi hai, bro?», gli domandò stizzito, per poi aggiungere: «Perché sei qui?».
Artù ignorò volontariamente il suo tono sfrontato, nonostante nel giro di due minuti quel ragazzino fosse riuscito a fargli saltare i nervi, e spiegò il motivo della sua presenza: «Volevo chiedere udienza a Mark».
«Tu vuoi...?». Danilo deglutì, scioccato. Quando si riprese, alzò le mani in segno di resa e si voltò per poter urlare in direzione di Mark: «Ehi, lo schizzato è tutto tuo!».
Il ragazzino alzò gli occhi dalla Play Station e si pietrificò quando vide il proprio compagno di stanza dileguarsi, lasciandolo da solo con Artù, il ragazzo che Merlino aveva usato come modello per i suoi disegni; lo stesso ragazzo di cui Abby era una profonda ammiratrice – l’aveva persino definito sexy, una volta! – e che Mark odiava proprio per questo motivo.
Mise in pausa il gioco, sperando che si trattasse di una cosa breve, e si tolse le cuffie dalle orecchie.
«Ciao Mark», lo salutò il biondo, dopo essersi chiuso la porta alle spalle.
«Che cosa vuoi?».
«Se fosse stato per me, non sarei qui ora. Ma Merlino ha insistito perché facessi almeno un tentativo».
«Non ti seguo».
Artù prese la sedia addossata al muro accanto alla porta e la portò vicino al letto del ragazzino; quindi si sedette con le braccia incrociate sullo schienale e le gambe divaricate.
«Abby non è riuscita a contattare Alex e così ha chiamato Merlino. Era piuttosto scossa».
«Sì, beh, non so cosa vi abbia detto, ma io...», iniziò a dire, senza nemmeno sapere dove lui stesso sarebbe andato a parare. Comunque Artù lo interruppe, alzando una mano e guardandolo severamente.
«Merlino è con lei, al momento, e mi ha mandato qui a parlare con te».
Mark lo fissò fino a quando il biondo non abbassò la mano, dandogli il permesso di contribuire alla conversazione. E tutto quello che disse fu: «Tu e Merlino siete pazzi».
Dopo un minuto di pausa, infastidito dal silenzio e dallo sguardo fisso di Artù, aggiunse: «Di che cosa dovremmo parlare, eh? Della ragazza che amo e che probabilmente non metterà più piede fuori da quest’ospedale? Del fatto che la mia teoria era fondata? No, grazie. E se anche ci fosse una remota possibilità che io dica ad alta voce come mi sento in questo momento, nessuno capirebbe».
Artù scrollò le spalle, sogghignando. «Sei un tipo da scommesse, vero? Beh, che ne dici di questa? Se io ti dico come ti senti in questo momento, tu mi dai l’affare a cui sei sempre attaccato», disse indicando con un cenno del mento la PS Vita che aveva in grembo. «Se mi sbaglio… puoi chiedermi tutto quello che vuoi».
Mark era così infuriato che le nocche sui propri pugni divennero bianche. «Ma chi cazzo ti credi di essere, eh? Sei davvero uno schizzato».
«Abbiamo un patto oppure no?».
«Patto sia!».
«Ottimo!». Artù si alzò, con un sorriso già vincente sul viso, e si portò ai piedi del letto di Mark, con le mani strette intorno alle sbarre su cui scorreva il vassoio-tavolino.
«Ti senti inutile, spezzato, devastato, perché la ami più di ogni cosa e non puoi immaginare di passare anche un solo giorno di questa vita senza di lei. Vorresti poter far sbocciare di nuovo il sorriso sul suo volto, vorresti poterla farla ridere, ma hai perso ogni speranza. Pensi di non essere abbastanza forte per te stesso, figuriamoci per entrambi. Faresti di tutto per lei, qualsiasi cosa, ma sei anche convinto che la vita non è una favola e che per voi non ci potrà mai essere il lieto fine».
Il silenzio cadde su di loro, un silenzio così pesante che Mark sentì il proprio cuore battere furiosamente nella cassa toracica. Abbassò gli occhi umidi di lacrime, vergognosamente, e con uno sforzo si allungò verso Artù per porgergli la Play Station. Sapeva riconoscere la sconfitta.
Il biondo più che stringere le mani intorno alla console le strinse intorno a quella di Mark, il quale sollevò gli occhi e fece una smorfia perché non sarebbe riuscito a trattenersi ancora a lungo: alla fine, avrebbe pianto di fronte ad un estraneo.
«Ora capisci perché Merlino mi ha mandato qui? Noi due siamo simili, Mark. So come ti senti perché ci sono passato».
«E com’è andata a finire?», gli domandò, tirando su col naso.
Artù sorrise dolcemente, ricordando gli occhi di Ginevra, luminosi e pieni di amore la prima come la seconda volta in cui le aveva chiesto di diventare sua moglie.
«Che tu ci creda o no, abbiamo avuto il nostro lieto fine», disse, liberandolo dalla propria stretta per potersi sedere al suo fianco sul letto. «Se c’è una cosa che Merlino è stato in grado di insegnarmi è proprio questa: l’amore vero è più forte di qualsiasi cosa, è in grado di mantenere sempre viva la speranza. E anche se fa male non può essere accantonato, ignorato, tantomeno rinnegato. Perciò lotterai fino a quando avrai respiro, e scoprirai che ci riuscirai, che troverai la forza e il coraggio necessari, perché semplicemente non puoi arrenderti».
Mark scrutò quegli occhi blu come il mare, ardenti di vita eppure anche spenti, risucchiati in un passato che sembrava irrecuperabile ormai. Quindi gli porse la mano in segno di gratitudine: avrebbe lottato per Abby, lo avrebbe fatto fino alla fine dei suoi giorni.
Artù gli afferrò l’avambraccio e lo strinse, sorridendo soddisfatto. «Va’ da lei, su».
Mark ricambiò lo sguardo con determinazione e scese dal letto per recuperare la propria sedia a rotelle. Sulla porta della stanza, si voltò un’ultima volta verso Artù, ancora seduto sul suo letto.
«Come si chiamava l’amore della tua vita?».
Artù abbassò il capo, mordendosi un sorriso consapevole. Quando rialzò gli occhi rispose con fierezza, pronunciando il suo nome con tenerezza e devozione: «Ginevra».
Mark scosse il capo, ridacchiando. «Certo, che domanda stupida».
Il re di Camelot lo salutò con un cenno del capo e quando se ne fu andato si alzò per andare alla finestra: il tempo non prometteva nulla di buono, anzi… sembrava che il cielo si stesse preparando per una tempesta coi fiocchi. Eppure eccolo là il suo raggio di sole: seduta sull’altalena nel bel mezzo del parco, Cathleen si fumava una sigaretta con un sorriso sereno sulle labbra, e tutta la malinconia svanì guardandola.

***

Merlino uscì dalla camera di Abby proprio quando Mark fermò la propria sedia a rotelle davanti alla porta. Si fece da parte e guardò i due ragazzini alzarsi in piedi e corrersi incontro sulle proprie gambe: un’immagine da un significato così profondo, quasi sacro, che gli scaldò il cuore.
«Non ti lascerò andare, non lo permetterò», sussurrò Mark, accarezzandole i capelli sulla nuca.
Quando fu in grado di distogliere lo sguardo e scacciare via la malinconia causata dalla semplicità dei loro sentimenti, una semplicità che lui e Alex per varie ragioni non avrebbero mai avuto, trovò sei paia di occhi ad attenderlo: quelli della nonna di Abby, la signora Chapman; quelli di Keith e quelli di una ragazza che non conosceva, dalla pelle olivastra, con dei magnetici occhi ambrati e i capelli neri, lunghi fino alle spalle e un po’ scompigliati.
Quest’ultima lo fissava come se avesse appena visto un fantasma, un misto tra l’incredulo e l’atterrito. Provò ad accennarle un sorriso, ma la sua espressione scioccata non mutò. Così la ignorò e basta, rivolgendosi a Keith: «Dottor Ellis, come mai al quarto piano?».
«A Pasqua ho incrociato Abigail e volevo solo vedere come se la passava. Inoltre in ascensore ho conosciuto Hala, la…».
«La mia figlioccia», specificò la signora Chapman, sorridendo.
«E visto che non era mai stata qui l’ho accompagnata».
«Sì, infatti non mi sembra di averla mai vista da queste parti. O mi sbaglio?», le chiese, ricambiando il suo sguardo ora con durezza, insospettito dal suo comportamento. Il sesto senso non gli stava fornendo sensazioni positive… affatto.
«No, noi… No, non ci siamo mai visti», balbettò, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «È solo che… mi ricorda molto un’altra persona, mi scusi».
«Non c’è problema. Mi chiamo Merlino, dammi pure del tu», si presentò porgendole la mano, anche se con riluttanza.
«Hala, piacere».
«Aureola intorno alla luna. Molto poetico».
La ragazza rimase ancora una volta a bocca aperta e nessun altro fece commenti sulla sua uscita. In ogni caso Merlino non gliene avrebbe dato il tempo, dato che si congedò subito dopo: «Visto che la situazione sembra risolta, io andrei: ho diverse commissioni da sbrigare».
«Ci vediamo domani all’agriturismo, Merlino», lo salutò la nonna di Abigail.
«Certo. Presuppongo che anche Hala si fermerà lì per la notte, giusto?».
«Sì, ho già prenotato una stanza anche per lei».
«Benissimo. Allora a domani, buona serata».
«Ciao Merlino», lo salutò anche Keith, sollevando una  mano.
Merlino si voltò, non dopo aver scambiato un’ultima occhiata con quella ragazza così scioccata dal suo aspetto.
Uno dei suoi peggiori timori si stava facendo strada nella sua mente, ma prima che diventasse un pensiero troppo ingombrante lo accantonò, concentrandosi sul piano che doveva ancora mettere a punto per quella sera: il recupero della fonte magica di Alex.

***

«Sei sicura di stare bene? Mi sembri… strana, ecco».
«Tranquillo Baqi, è tutto okay».
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli e gettò il cartone della pizza nel lavandino, dopodiché si gettò su uno dei tre divani in salotto ed accese la TV per passare un po’ il tempo.
«Allora, come sta la vecchia? E la piccola Abby?». Sentì Hala sospirare dall’altra parte del telefono e si corresse: «Volevo dire la signora Chapman».
«Stanno bene, più o meno. Lo sai che Abby ha un ragazzo, ora? L’ho conosciuto oggi, si chiama Mark».
«È ricoverato anche lui?».
«Sì, linfoma di Hodgkin se non ho capito male».
«Uhm… immagino le scene romantiche e super strappalacrime».
«Te l’ho mai detto che sei insopportabile a volte? Solo perché a te non te ne va mai bene una non devi denigrare la felicità degli altri, hai capito?».
«Ecco che ricomincia… Senti, Hala, se tu stai bene e non hai nient’altro da raccontarmi io me ne andrei a letto».
«Sì, bravo Baqi, dormici sopra. Buona notte».
Il gemello terminò la comunicazione senza nemmeno salutarla, convinto che gli stesse nascondendo qualcosa di grosso. La conosceva da quando erano ancora due feti nell’utero di loro madre, come pensava di potergliela fare sotto il naso?
Spense la TV dopo nemmeno cinque minuti di zapping, innervosito, e salì in camera sua per togliere la corrente anche al suo cervello. Ma il sonno tardò ad arrivare e i pensieri si accumularono l’uno sull’altro, fino a quando non si ricordò di ciò che Hala gli aveva detto quella mattina: «Potresti venire a fare qualche foto all’ospedale in via di ristrutturazione grazie alla donazione del Principe William».
Per quale diavolo di motivo il Principe William ha voluto donare personalmente dei soldi a quell’ospedale? A così poca distanza dal galà di beneficienza, soprattutto…
Il suo istinto di reporter lo fece alzare di scatto dal letto. Recuperò il PC e cercò su Google notizie sull’accaduto, trovandosi poi risucchiato da quel vortice di link, hashtag e foto che altro non era che Twitter. Trovò gli account di alcune delle infermiere dell’ospedale, le quali avevano scattato foto e fatto video per immortalare quel momento più unico che raro.
«Oh, cavolo», mormorò ad un tratto. Avvicinò di più il viso allo schermo del PC, poi ingrandì la foto con lo zoom e si massaggiò gli occhi increduli. In un angolo, diretto verso le porte d’uscita, era stata catturato il profilo del suo ragazzo immortale.
In fretta e furia preparò una valigia e corse alla stazione, per poi scoprire che l’ultimo treno che portava a Newport era appena partito. Il prossimo disponibile era quello delle sei e quarantacinque.
Baqi si sdraiò su una delle panchine della stazione con la custodia del proprio PC tra le braccia. Nonostante la scomodità e il freddo, riuscì ad appisolarsi con un sorrisino vittorioso sulle labbra.

***

All’atteso bip bip del proprio cellulare, Cathleen si affrettò a leggere l’SMS di Merlino e poi lo infilò nuovamente in una delle tasche dei pantaloni, facendo cenno ad Artù che potevano andare.
Per l’intera durata del viaggio tra loro regnò il silenzio, rotto soltanto dal tamburellare insistente delle pioggia e dal rumore delle spazzole dei tergicristalli, probabilmente da cambiare.
Cathleen fermò l’auto proprio di fronte al giardino di Alex e si voltò verso Artù, con gli occhi fissi verso il parabrezza e l’espressione assorta.
«Che cosa c’è?», gli chiese quasi lamentosamente, richiudendo la portiera al vento freddo e alla pioggia.
«Non capisco perché non hai lasciato venire anche Merlino».
Cathleen si soffiò tra le mani unite a coppa di fronte alla bocca, in modo da scaldarle un poco, e gli lanciò un’occhiata saccente: «A certe cose proprio non ci arrivi, eh Artù? Come pensi che si senta Merlino in questo momento?».
Il re di Camelot scrollò le spalle, facendo una pernacchia con le labbra, e diede un colpetto al draghetto di pezza rossa appeso allo specchietto retrovisore. «Non sono mica un veggente, io. Suppongo… non bene».
«Non bene», ripeté il paramedico, fermando il dondolio del suo feticcio. «Si sente schiacciato dai sensi di colpa, crede che tutto questo stia succedendo a causa sua e ha paura che la magia gli porti via anche Alexandra. Non ha bisogno di sgattaiolare in casa sua, come un ladro,  per proteggerla da qualcosa che lei, di sua spontanea volontà, ha scelto di tenergli nascosta».
«Io non credo che lei…», iniziò a dire per difendere la sua erede, ma fu interrotto dal paramedico.
«Shhh», lo azzittì con una mano sulla sua bocca. Quindi indicò la finestra della camera di Alex, al secondo piano, da cui grazie alla luce di un fulmine riuscirono a scorgere per la seconda volta un’ombra.
«Di sicuro non è il suo gatto», sussurrò il re quando si fu liberato.
Cathleen recuperò di nuovo il proprio cellulare, con mani tremanti. «Dobbiamo avvisare Merlino».
«No», glielo impedì Artù, prendendole l’apparecchio dalle mani.
«Sei per caso impazzito?».
Con sguardo orgoglioso e determinato esclamò: «Possiamo farcela anche senza di lui», poi uscì in fretta dall’auto e senza nemmeno curarsi di prendere l’ombrello si incamminò verso la porta di casa.
«Cosa? No, Artù!».
Cathleen lo rincorse, urlandogli a mezza voce di ritornare in sé. Alla fine lo raggiunse e gli strappò di mano la copia della chiave di casa di Alex (recuperata da Merlino senza che spiegasse loro come).
«Si può sapere che ti prende? Non sappiamo con chi abbiamo a che fare, se si tratta di un topo d’appartamento o di qualche creatura magica spuntata da chissà dove! Non so come fosse quindici secoli fa, ma ora finire ammazzato non ti renderà un eroe!».
«Dammi la chiave, Cathleen», disse tra i denti, guardandola severamente nonostante la pioggia battente gli avesse ormai inzuppato i capelli, gocciolanti sul viso.
Il paramedico ricambiò lo sguardo, rimanendo in silenzio per una dozzina di secondi. Poi sollevò un angolo della bocca in un sorriso amareggiato.
«Ho capito», mormorò, avvicinandosi a lui d’un passo. Erano così vicini da poter vedere il riflesso dei propri occhi in quelli dell’altro. «Questa mattina hai detto che ti senti inadeguato, che troppo spesso fallisci in ciò che fai… Vuoi dimostrare il tuo valore, dimostrare che anche in quest’epoca puoi renderti utile. Ma la verità, Artù, è che non devi farlo per forza. Non ne abbiamo bisogno… Io non ne ho bisogno».
«Io invece sì, io ne ho bisogno», rispose, sollevando una mano per scostarle dalla fronte una ciocca di capelli rossi. «Da quando ho scoperto che senza Merlino non avrei mai ottenuto nulla a Camelot, e che mi ha salvato la vita centinaia di volte, io ho… ho giurato a me stesso che questa volta sarei stato io ad aiutarlo. Devo farlo, Cathleen. Mi capisci?».
Il paramedico annuì, con gli occhi bassi, e lentamente gli porse la chiave che gli aveva sottratto. Artù l’afferrò con solennità e poi sotto la debole luce della luna, in gran parte nascosta dalle nubi temporalesche, la infilò nella serratura.
Silenziosamente e senza accendere la luce si avviarono verso le scale. Artù fece segno a Cathleen di rimanere alle sue spalle e mentre si dirigevano verso il piano superiore estrasse dalla cintura dei jeans il proprio pugnale.
Si fermarono improvvisamente quando un'ombra si stagliò su di loro. In cima alla scalinata, nel rettangolo della porta della camera di Alex, c'era una donna. A suggerirglielo era solo la sua corporatura minuta, dato che il cappuccio che portava sulla testa e l’oscurità impedivano loro di scorgerne il volto. Potevano vedere benissimo però la spada che teneva tra le mani, luccicante grazie ai fulmini che continuavano a schiantarsi non molto lontano da lì: Excalibur, in tutta la sua magnificenza.
Tutti quanti rimasero immobili per un paio di secondi, indecisi sul da farsi; poi accadde tutto talmente velocemente che non ebbero nemmeno il tempo di pensare.
La ladra corse di nuovo all’interno della stanza, andandosi a ficcare in un vicolo cieco. O almeno così credevano. Una volta raggiunta, infatti, la donna era già a metà della sua trasformazione e ancora prima di completarla si gettò contro la finestra.
Cathleen gridò per lo spavento, mentre pezzi di vetro e pioggia piombavano nella stanza già messa a soqquadro dalla sconosciuta. Artù invece si affacciò sul giardino e scorse una pantera alata atterrare sulle quattro zampe e poi ritrasformarsi in essere umano sotto i suoi occhi increduli: Freya gli lanciò un’ultima occhiata prima di iniziare a correre verso il bosco, dove sperava di far perdere le proprie tracce e trovare un nascondiglio sicuro.
«Presto, dobbiamo raggiungerla! Ha preso Excalibur!», urlò il solo ed unico re, prendendo Cathleen per mano per trascinarla con sé giù per le scale.
La rincorsero per quelle che sembrarono ore, inoltrandosi nel fitto del bosco che circondava Avalon.
Ad un certo punto Freya si fermò e con un braccio steso verso di loro disse poche parole nella lingua dell’Antica Religione. Non riuscirono ad udirle a causa dei rombi di tuono, così come non sentirono il rumore degli alberi sradicati dal suolo. Per questo non furono in grado di reagire tempestivamente e si salvarono solo grazie alla prontezza di riflessi di Artù, il quale afferrò Cathleen per la vita e si gettò con lei in un basso burrone, giusto un momento prima che gli alberi cadessero loro addosso.
Senza badare ai ringraziamenti ripresero l’inseguimento e corsero, corsero e corsero fino a quando Artù non riuscì più ad ignorare il pezzo di spada intriso di magia nera che gli stava perforando il cuore e cadde a terra.
Cathleen si gettò al suo capezzale, senza più fiato, e sotto il suo sguardo terrorizzato il sovrano iniziò a respirare affannosamente, sputando acqua salmastra. Inarcò la schiena per il dolore e sbatté più volte le palpebre, ma questo non servì a cancellare la sensazione di star sprofondando di nuovo nelle acque di Avalon.
«Artù! Artù, ti prego, resisti!», gridò il paramedico, conscia che il panico la stava per sopraffare. Perciò si costrinse a reagire e ricordò cosa le aveva detto Merlino qualche giorno prima, a proposito del dispositivo che aveva creato per aiutare Artù a superare quel genere di attacchi.
Lo aveva portato con sé, come Merlino le aveva detto di fare, ma il terrore la sovrastò quando, infilando entrambe le mani nella borsa a tracolla aperta, non lo trovò. Doveva esserle caduto quando si erano gettati nel burrone per non rimanere schiacciati da quei tronchi.
Si guardò intorno, alla ricerca di una qualche ispirazione, ma il senso di déjà-vu fu più forte e il panico la travolse definitivamente.
Non avrebbe sopportato di assistere inerme alla morte della persona che amava, non un’altra volta. Il volto di Zachary prese per un attimo il posto di quello di Artù, ma le bastò chiudere gli occhi perché tutto tornasse alla normalità e vedesse il viso del biondo abbandonato contro la terra umida.
«No, no, no… Artù! Artù, rispondimi!», gridò Cathleen con tutto il fiato che aveva nei polmoni, per poi accasciarsi su di lui, scossa dai singhiozzi.
Sentì dei passi alle sue spalle e prima che potesse voltarsi venne scaraventata ad un paio di metri di distanza da una forza invisibile, ma tanto potente da lasciarla disorientata. Quando smise di vedere tutto sfocato, vide la ladra infilzare la spada nel terreno e chinarsi su Artù.
«Non osare avvicinarti!», le urlò nonostante fosse allo stremo delle forze.
La donna non l’ascoltò e premette le mani sul petto del sovrano, da cui si sprigionò quasi subito una luce dorata tanto intensa da farle male agli occhi.
Artù si rianimò all’istante, respirando a pieni polmoni e sputacchiando ancora un po’ d’acqua. Non appena si accorse della presenza di Freya si tirò persino su seduto, puntandole contro il pugnale che teneva ancora stretto in mano. Non fu costretto ad usarlo però, perché la custode di Avalon cadde a terra svenuta non appena la luce irradiata dai suoi palmi si spense.
Il re di Camelot cercò con lo sguardo Cathleen, trovandola seduta contro il tronco di un albero, sporca di terra e con gli occhi sgranati per lo shock. Faticosamente si alzò e la raggiunse per stringerla in un abbraccio. Non la lasciò andare nemmeno quando decise di chiamare Merlino per avvisarlo dell’accaduto ed ammettere che anche quella volta aveva rischiato di finire ammazzato.

***

Merlino era nella sala d’attesa del quarto piano – deserta a quell’ora – in piedi di fronte alle vetrate da dove si poteva avere uno sguardo d’insieme del piccolo parco giochi e del parcheggio di fronte all’ospedale, quando aveva mandato a Cathleen l’SMS di via libera. Poi si era seduto ad aspettare, certo che Alex, essendo arrivata in anticipo, sarebbe passata ad augurare la buonanotte ai bambini prima di iniziare il turno al Pronto Soccorso. E così era stato.
«Ehi», esclamò con voce insicura l’infermiera.
«Ciao».
Dopo aver stritolato per bene la fibbia della propria borsa, Alex si sedette al suo fianco e si sistemò i capelli dietro le orecchie, sospirando. Aprì la bocca per pronunciare il discorso che si era preparata, ma Merlino glielo impedì, mormorando: «Non porti il bracciale».
L’infermiera si accarezzò il polso. «Sì, io… l’ho dimenticato a casa, perdonami».
Lo stregone scrollò le spalle, per poi posare gli occhi sulla copertina del proprio libro di favole.
«Sono già andati tutti a letto?», chiese Alex, schiarendosi la gola.
«Così hanno detto. Ma sono sicuro che Abby e Mark rimarranno alzati, questa notte».
«Ho visto delle chiamate di Abby, ma dormivo. Che cosa mi sono persa?».
«Hanno avuto un momento di crisi, ma l’hanno risolto».
«Bene, sono contenta per loro».
C’era un’insolita tensione tra di loro, così fitta che Alex non riuscì più a reggerla e ruppe il silenzio: «Mi dispiace, Merlino. Mi dispiace di non averti detto dei miei tentativi con la magia, di averti tenuto all’oscuro di alcune cose che mi stavano succedendo». Gli prese le mani tra le sue, ma Merlino deviò ancora il suo sguardo. «Voglio che tu faccia parte del mio presente e del mio futuro, davvero».
Dopo un istante di silenzio, sollevò le sue mani per baciarne una sulle nocche. Solo allora Merlino voltò il capo verso di lei, con gli occhi seri e saggi, stanchi ed antichi come la sua anima.
Alex gli accarezzò dolcemente una guancia, sorridendo emozionata. «Ti ricordi tutte le volte in cui ti ho invitato a fare una colazione decente, alla fine del mio turno?».
«Ti ho sempre detto di no», mormorò Merlino, posando la fronte contro la sua.
«Beh, faresti meglio a dire di sì questa volta, perché devo farti una proposta molto importante».
«Ah sì?».
«Uhm-uhm». Alex avvicinò le labbra alle sue e le sfiorò in un bacio.
Merlino le prese il volto tra le mani e lo approfondì, sentendosi al settimo cielo e allo stesso tempo calpestato da una decina di cavalli.
Non era pronto ad affrontare le conseguenze di ciò che lui, Artù e Cathleen avevano architettato alle sue spalle. Ne era così spaventato che addirittura avrebbe voluto interrompere la missione, fare marcia indietro e dimenticarsi di tutto. Ma l’amava troppo per farlo. Magari l’avrebbe persa per sempre, ma almeno non avrebbe dovuto convivere col peso di aver avuto la possibilità di aiutarla e di non averlo fatto.
«Allora?», lo incalzò Alex, sorridendo sulle sue labbra.
«Ci sarò», promise, strappandole l’ultimo bacio prima che si alzasse.
Merlino continuò a sorriderle mentre richiamava l’ascensore, con gli occhi verdi luminosi come mai, e nonostante i secoli di esperienza ebbe paura di non farcela, di tradirsi e di mostrarle ciò che realtà provava: un dolore immenso, una sofferenza che aveva provato in pochi momenti della sua vita.
Quando Alex scomparve all’interno dell’ascensore, Merlino si lasciò andare e con il viso nascosto tra le mani versò qualche lacrima, pregando perché eventualmente Alex riuscisse a perdonarlo, un giorno. L’avrebbe aspettata, anche più di quanto aveva aspettato Artù, e l’avrebbe amata ancora più forte.
Era ancora seduto lì, a pezzi, quando il solo ed unico re lo chiamò per spiegargli che il loro piano non aveva dato i risultati sperati, ma che in un certo senso era andato ancora meglio: avevano preso due piccioni con una fava.
Ancora non sapevano che gli eventi di quella notte avevano soltanto dato il via al compimento del loro destino.

***

Alex era convinta, quella volta niente e nessuno le avrebbe impedito di essere totalmente onesta con Merlino. Perché lo amava senza riserve e voleva spendere ogni giorno della sua vita con lui, bello o brutto, in gioia o in malattia, magia o normalità. Perciò, se per lui era così importante, era anche pronta a fare il grande passo.
Mancavano ancora diverse ore alla fine del turno, un’attesa quasi insopportabile che però viveva felicemente, immaginandosi come avrebbe reagito il mago a quello che sperava fosse solo il primo dei loro successi insieme.
Il suo umore cambiò radicalmente quando fu chiamata al ricevimento del Pronto Soccorso, dove l’attendeva un agente Fisher dai capelli bagnati, la divisa di riserva e un sacchetto di plastica chiuso ermeticamente, contenente il dispositivo assorbi magia nera che Merlino aveva costruito per Artù.
Alex cercò di dimostrarsi il più calma possibile, nonostante avesse il presentimento che fosse successo qualcosa di grosso, e salutò l’agente chiedendogli il motivo per cui l’aveva fatta chiamare.
«La tua vicina di casa, la signora Levinson, ha chiamato alla Centrale un’ora e mezza fa per denunciare un’effrazione a casa tua», le spiegò con fin troppa calma.
«Che cosa?».
«Ho già effettuato un sopralluogo e confermo che qualcuno ha messo a soqquadro la tua camera da letto, solo ed esclusivamente la camera da letto. La mia ipotesi è che fosse una persona che sapeva dove cercare, una persona che conoscevi, dato che a quanto mi risulta non ci sono segni di scasso sulla porta».
Alex boccheggiò come un pesce fuor d’acqua, incrociando gli sguardi di un paio di colleghe. Darrell si avvicinò e posandole una mano sulla schiena le chiese se ci fosse un posto dove potessero parlare in privato.
L’infermiera lo condusse nella stanza relax e in qualche modo riuscì a superare lo shock e ad offrirgli un caffè. Poi, seduti al tavolo, l’agente continuò a raccontarle ciò che aveva visto sulla scena: la finestra rotta dall’interno, il testimone oculare che aveva visto due persone correre verso il bosco e le orme che confermavano il racconto di quest’ultimo. Quindi spinse verso di lei il prototipo di Merlino – solo ora realizzava che era imbustato in quel modo perché era da considerarsi una prova – e le chiese: «Hai idea di che cosa sia?».
Alex posò lo sguardo sul cristallo, pregando perché non reagisse alla sua vicinanza, e dopo aver deglutito negò col capo. «Mai visto in vita mia».
«Quindi confermi che non è questo che cercavano a casa tua».
«Sì, confermo».
Darrell allora mise il dispositivo da parte e Alex lo seguì con gli occhi, domandandosi che fine avrebbe fatto e perché fosse finito nel bosco. Una possibile risposta iniziò a farsi strada nella sua mente, ma fu bloccata dalla nuova domanda dell’agente.
«So che hai dato alla tua vicina un doppione delle chiavi, per le emergenze. Ce l’ha qualcun altro?».
«Beh, mio padre».
«Capisco. E hai idea di chi avrebbe potuto fare una cosa del genere? Anche una sensazione va bene per iniziare».
«No, io non…».
«È successo qualcosa di strano in questi giorni? Hai visto qualcosa di insolito nel vicinato? Magari persone sconosciute?».
Alex si portò le mani tra i capelli, sospirando. «Al momento non mi viene in mente niente».
Poi però le tornò alla mente la ragazza che aveva chiesto di lei all’ospedale per ben tre volte. Aprì la bocca per metterne a conoscenza l’agente, ma all’ultimo decise di tacere e di indagare prima per conto suo: se avesse avuto a che fare col “magico mondo” di Merlino avrebbe rischiato di esporlo.
«Okay, allora… ti aspetto in Centrale per la denuncia contro ignoti», esclamò Darrell, rivolgendole un sorriso cortese. «Grazie per il caffè».
«Grazie a te», mormorò Alex, già immersa in altri pensieri.
Non si accorse infatti che l’agente era rimasto sulla porta fino a quando non esclamò: «Lo so che questo non è il momento adatto, ma voglio scusarmi per il nostro ultimo scambio di battute. Non avrei dovuto fare quella domanda su Merlino e Myra, non è stato molto professionale».
L’infermiera alzò il capo, colpita dal suo tono dispiaciuto, e inaspettatamente riuscì ad abbozzare un sorriso. «Non c’è problema, è acqua passata».
«Bene», esclamò contento. «Ora sarà meglio che vada a mettere in sicurezza casa tua. Mi raccomando, fai cambiare la serratura».
«Lo farò».
Darrell la salutò con un cenno della mano e quando fu uscito Alex ripescò il proprio cellulare nella tasca dei pantaloni, lo accese e chiamò subito Merlino per informarlo dell’accaduto. Quando non le rispose, il pensiero che aveva interrotto poco prima si fece ancora più insistente e la sensazione di aver commesso un terribile errore le strinse lo stomaco, facendole salire persino le lacrime agli occhi.

Finito il turno in ospedale corse a casa, sicura che Merlino non la stesse aspettando dalla signora Begum.
Come le aveva anticipato, Darrell aveva messo un nastro della polizia sulla porta e chiuso a chiave con il doppione della signora Levinson. Facendo il giro della villetta, Alex poté rendersi conto che aveva fatto lo stesso alla finestra sfondata, che ora aveva la persiana chiusa.
Aprì la porta e passò sotto al nastro, senza toglierlo, per poi correre direttamente al piano di sopra, il cuore che le batteva forte nella cassa toracica. L’agente Fisher le aveva detto che nella sua camera da letto era stato messo tutto a soqquadro, ma fu comunque diverso dal vederlo coi suoi occhi, tanto che si pietrificò sulla soglia.
Quando si riprese, si diresse per prima cosa verso l’armadio sventrato. La cercò furiosamente, lanciando fuori i vestiti rimasti appesi e calciando via i cassetti già aperti, ma di Excalibur nessuna traccia.
Alzò lentamente gli occhi, scioccata, e nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato il pomeriggio prima, sul comodino, vide il bracciale che le aveva regalato Merlino. Lo stesso Merlino che da allora aveva smesso di fare domande sulle sue capacità, di ricordarle che se c’era qualcosa che la turbava poteva parlarne con lui, di voler passare del tempo a casa sua. Lo stesso Merlino che il giorno prima l’aveva allontanata in quel modo, che le era sembrato così strano, quasi mortificato, quando le aveva detto che quella mattina avrebbero fatto colazione insieme.
Ora non aveva più dubbi: lui l’aveva sempre saputo, o almeno immaginato, e aveva atteso pazientemente che Alex facesse il primo passo verso di lui. Quando si era reso conto che non sarebbe successo, aveva deciso di intervenire.
Alex, ora più che mai divorata dai sensi di colpa, gattonò fino al comodino per prendere il bracciale ed avvicinarselo alle labbra, in un bacio di scuse.  
«Merlino», iniziò a mormorare ad occhi chiusi, serrati con forza, e le gambe strette al petto. «Merlino, mi dispiace».

***

Lo stregone fu scosso da un brivido così forte che dovette sedersi sulla poltrona alle sue spalle. Sentì Artù chiamarlo, ma la sua voce era lontanissima, al contrario di quella di Alex, echeggiante nella sua mente.
«Mi dispiace di averti deluso».
La sua sofferenza era così intensa che Merlino riusciva a sentirla come propria, il legame che aveva creato tra loro così potente che faticò a spezzarlo e a tornare alla realtà per rispondere ad Artù e Cathleen, chini su di lui e preoccupati.
«Alex mi ha appena parlato col pensiero, come Mordred», spiegò, stringendosi le gambe al petto e circondandole nel suo stesso abbraccio.
Artù era troppo sconvolto per rispondere, perciò fu Cathleen ad accarezzargli la spalla e a sussurrare: «Va’ da lei. Ha bisogno di te».
Merlino posò gli occhi su Freya, stesa sul divano e con diverse coperte a tenerla al caldo. Era esattamente come se la ricordava, nonostante i secoli.
«Noi ce la caveremo, te l’assicuro», aggiunse il paramedico, dandogli un altro colpetto al braccio.
Il mago annuì, convincendosi che Alex era sempre e comunque la sua priorità.
Durante il viaggio verso casa sua cercò di prepararsi una spiegazione, ma le parole continuavano a sfuggirgli. Così, quando parcheggiò l’auto di fronte al suo vialetto, non aveva la minima idea di che cosa sarebbe successo.
Salì velocemente le scale e la trovò in camera da letto, seduta con la schiena appoggiata al muro e gli occhi sollevati verso il soffitto. Tutto intorno a lei era caos e distruzione e Alex sembrava una fenice, appena rinata dalle sue stesse ceneri e bellissima.
Quando si accorse della sua presenza, si alzò in piedi e gli corse incontro per gettargli le braccia al collo. Merlino si sarebbe aspettato di tutto, tranne quello.
Non appena incrociò quegli occhi splendidi che tanto amava, ebbe la certezza che se anche fosse riuscito a prepararsi in anticipo un discorso, pronunciarlo correttamente sarebbe stato impossibile. Perciò la strinse forte a sé, baciandole i capelli e sussurrandole semplicemente la verità: «Avrei dovuto essere sincero con te, avrei dovuto metterti a conoscenza delle mie paure, ma avevo il terrore che mi allontanassi ancora di più. Non posso perderti, Alex, e mi dispiace di…».
«Smettila, smettila», disse dolcemente l’infermiera, allontanandosi per guardarlo negli occhi. «Non devi scusarti di nulla, tu. Sono io quella che ha sbagliato, quella che si è lasciata corrompere dalla magia e che ha rischiato di perdere non solo la sanità mentale, ma tutto ciò che ha di più caro».
«Ero così spaventato…», disse ancora Merlino, baciandole la fronte, le guance, il mento. «Ma va tutto bene adesso. E ti prometto che d’ora in poi…».
Alex lo interruppe posando le labbra sulle sue, prendendogli delicatamente il volto tra le mani. Poi si inginocchiò su una gamba e sorridendo disse: «Avrei preferito farti questa proposta a colazione, ma non posso più aspettare. Merlino, vuoi ancora sposarmi?».
Lo stregone sgranò gli occhi e scoppiò a ridere, il cuore gonfio di gioia. «Sì. Sì, lo voglio».
«Grazie al cielo», mormorò Alex, stringendogli di nuovo le braccia intorno al collo e lasciandosi sollevare da terra in una giravolta.

***

«Nottata impegnativa?».
L’agente Fisher alzò il capo, abbandonato poco prima tra le braccia incrociate sul bancone, ed accennò un sorriso alla signora Begum e al bicchierone di caffè gli aveva appena messo di fronte al naso.
«Non ne avete idea. Ciambelle?».
«Scherza, vero?».
Si stava servendo dall’espositore, quando un nuovo cliente entrò nella caffetteria accompagnato da uno scampanellio.
«Buongiorno!», lo salutò cordialmente la signora Begum. «Come posso aiutarla?».
«Ahm… un caffè bello forte, grazie, e… mi chiedevo se lei conosce per caso un ragazzo che si fa chiamare Emrys».
«No, mai sentito».
Il ragazzo si appoggiò al bancone, proprio accanto a Darrell, ed iniziò a sfogliare nervosamente un taccuino pieno d’appunti, parlando tra sé.
«Era qui, da qualche parte… Ah, ecco! Un certo Merlino, invece? Le dice qualcosa?».
«Merlino?», ripeté la signora Begum, aprendosi in un sorriso.
L’agente Fisher però la interruppe sul nascere, chiedendo allo sconosciuto: «Chi lo cerca?».
Il ragazzo si voltò verso di lui ed esitò, forse a causa del timore reverenziale della divisa o forse per il suo viso sfatto. Darrell diede un vigoroso morso alla sua ciambella, sporcandosi di zucchero a velo ai lati della bocca, e questo lo rese più innocuo agli occhi del ragazzo, il quale finalmente rispose: «Il mio nome è Baqi. Sto portando avanti un’indagine privata».
L’agente lo fissò, sempre più incuriosito. «Continua».


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Avanti, quanti hanno pensato che all'inizio del capitolo Artù e Cath stessero facendo... altro? xD #supertroll

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Capitolo 22
*** 22. Excalibur (and other stuff) ***


Buonasera!
Finalmente possiamo scoprire le conseguenze del piano di Merlino, le spiegazioni che danno ad Alex, le confessioni... E conoscere un po' meglio anche Darrell! Il quale si è ritrovato una bella "gatta" da pelare! (Spoiler xD). E anche Baqi, col suo arrivo in ospedale, darà molto su cui riflettere alla nostra piccola Abby!
Eh sì, c'è molta carne al fuoco :)
Spero sia una buona lettura e ringrazio chi ha letto/commentato/seguito fino a qui!
Peace&Love

_Pulse_


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22. Excalibur (and other stuff)


«Polizia locale, sono l’agente Fisher. Come posso aiutarla?».
«Buonasera agente, mi chiamo Angela Levinson. Credo che dei ladri si siano introdotti in casa della mia vicina, la signorina Greenwood. Le ripeto sempre di chiudere le persiane prima di uscire…».
«Mi scusi… La signorina Alexandra Greenwood, intende?».
«Proprio lei. La conosce?».
La noia del turno di notte era stata spazzata via così e Darrell all’inizio ne era stato grato, dato che temeva di impazzire, da solo in quel silenzioso ufficio. (Da quando Myra aveva rassegnato le dimissioni e si era trasferita erano rimasti in quattro agenti, il numero minimo per potersi alternare e avere dei giorni di riposo, e lui – che un tempo era il bonus, la spalla d’appoggio dell’agente Chandra – era rimasto come gli altri da solo senza un partner). Ancora però non sapeva che cosa lo aspettava.
Deviò le chiamate alla stazione di polizia più vicina, quella di Caerleon, e si recò immediatamente all’indirizzo che la signora Levinson gli aveva comunicato al telefono. Aveva dato una rapida occhiata a ciò che lo circondava, notando che in molte abitazioni si erano riaccese le luci, e poi con una mano sulla fondina della pistola si era avvicinato alla porta della villetta a due piani di Alexandra. Bussò e si annunciò, ma non ottenne alcuna risposta. Così posò una mano guantata sul pomello, ma gli bastò appoggiarsi con una spalla al legno perché la porta si aprisse su un salotto buio ed immerso nel silenzio, rotto soltanto dai tuoni e dalla pioggia all’esterno.
Con lentezza misurata estrasse la pistola dalla fondina per potersi fare luce con la piccola torcia posta sopra il carrello, quindi si avvicinò alle scale e nonostante fosse quasi certo che ormai chiunque fosse entrato lì se ne fosse anche già andato iniziò a salire i gradini a passo felpato. Una volta al piano superiore, una corrente fredda gli lambì i polpacci, attirando la sua attenzione verso la camera da letto. Rimase sbalordito dal disordine in cui la trovò, ma rimase anche concentrato e si accertò che nessuno si fosse nascosto dietro la porta, nell’armadio o sotto il letto.
Dopo aver controllato anche le altre stanze ed essersi assicurato di essere solo, ripose la pistola nella fondina e camminò in punta di piedi verso la finestra in frantumi, da cui entravano pioggia e vento. Un particolare lo colpì subito: c’erano pochissimi pezzi di vetro sul pavimento, segno che chiunque avesse rotto la finestra l’aveva fatto dall’interno. Si avvicinò dunque al davanzale e si sporse verso il giardino, su cui vide una serie di impronte che si intrecciavano tra loro sul terreno fangoso. A causa di quel temporale presto non ne sarebbe rimasto più nulla, doveva seguirle.
Bussò alla porta dalla signora che aveva chiamato in Centrale, alla quale chiese se avesse visto qualcuno nei paraggi dopo averlo chiamato. La signora Levinson scosse il capo e aprì la bocca per rispondere, ma un uomo in giaccone e pigiama la anticipò, emergendo dalla piccola folla che si era radunata davanti alla villetta per sapere che cosa fosse successo.
«Io ho visto due persone fare il giro della casa e correre verso il bosco», esclamò.
Darrell si scrisse rapidamente il nome del testimone e il suo indirizzo, poi raccomandò a tutti di rientrare in casa e di dormire sonni tranquilli. Quando il vicinato iniziò a disperdersi, l’agente corse alla volante per recuperare una grossa torcia e corse sul retro della casa. Lì osservò da più vicino le orme, anche se la pioggia aveva reso tutto un grande pasticcio di fango. Aveva appena iniziato a seguire ogni traccia di terreno smosso quando sentì un tonfo in grado di far tremare la terra proveniente dal folto del bosco. Senza pensarci su troppo lasciò cadere l’ombrello e corse in quella direzione, cercando di orientarsi tra gli alberi illuminando le orme che si facevano sempre più difficili da individuare sul manto di foglie e rami spezzati.
Capì di essere arrivato quando si trovò di fronte a due alberi completamente sradicati dal terreno e che gli sbarravano la strada. Non aveva mai visto una cosa del genere – lui che prima di trasferirsi in quel paesino di poche anime immerso nella campagna gallese aveva sempre vissuto in città – e per ovvie ragioni non seppe spiegarselo.
Con la torcia percorse tutta la lunghezza dei due tronchi, incrociati a formare una specie di X, fino a quando non notò tra di essi uno stretto burrone e delle tracce piuttosto evidenti di passaggio umano. Si avvicinò, facendo attenzione a non scivolarci dentro, e qualcosa brillò alla luce elettrica. Si aggrappò ad un ramo e si sporse verso l’oggetto, ripescandolo da una pozza d’acqua e fango. Corrugò la fronte, studiando con lo sguardo quel cerchio di metallo al cui centro era stato fissato un cristallo bianco. Solo un fulmine, schiantatosi poco distante, fu in grado di riportarlo alla realtà.
Il temporale continuava a peggiorare e lui, da solo, non aveva alcuna possibilità ormai di raggiungere il o i malviventi che si erano rifugiati a loro rischio e pericolo nel bosco. Così tornò sui suoi passi e con il suo strano ritrovamento tra le mani – non per forza collegato all’effrazione in casa di Alexandra – salì in auto e tornò alla Centrale per cambiarsi.

Darrell sospirò stancamente mentre infilava le chiavi nella toppa, costringendosi a non pensare più al turno movimentato di quella notte.
Entrò nell’appartamento e lo trovò immerso nel silenzio – una rarità da quando Freya era piombata nella sua vita, sconvolgendola. A causa sua aveva persino iniziato ad apprezzare la musica pop.
«Freya?», la chiamò ad alta voce, iniziando a perlustrare l’appartamento alla sua ricerca. «Freya, dove sei finita?».
Si tolse il giubbotto e lo lanciò sul divano, poi si passò una mano tra i capelli: prima l’effrazione a casa di Alexandra Greenwood e la doccia di pioggia che si era fatto avventurandosi nel bosco, poi il ragazzo pakistano che stava portando avanti “un’indagine privata” su Merlino e adesso Freya che usciva di casa dopo due settimane di totale reclusione.
Una volta in bagno il campanello d’allarme dentro la sua scatola cranica iniziò a suonare all’impazzata, lasciandolo stordito e allo stesso tempo pieno di adrenalina.
La finestra che dava sul bosco che circondava Avalon, la stessa finestra da cui aveva visto Freya per la prima volta, era aperta. Dubitava di averla dimenticata così quella mattina, come dubitava che una ragazza fragile come lei potesse arrischiarsi a scendere giù dal palazzo in quella maniera. Perché avrebbe dovuto, poi?
L’analogia con ciò che aveva visto a casa di Alexandra fu troppo evidente per essere ignorata e si affacciò subito per verificare che non ci fossero segni di scasso o eventuali orme sul davanzale esterno. Rimase a bocca aperta quando, sull’erba tagliata di recente e sul terreno ancora fangoso a causa della pioggia di quella notte, vide una scia di grosse impronte, piene di acqua piovana e poco definite, ma decisamente non umane. Per quanto fosse impossibile, gli ricordavano quelle di un felino dalle dimensioni extra-large.
L’agente Fisher diede le spalle alla finestra e si massaggiò il viso stanco.
Come aveva detto a quel paramedico dai capelli rossi, lui non credeva nel soprannaturale; eppure tutto quello che stava succedendo gli stava facendo venire dei ripensamenti e non poteva accettarlo, rischiava seriamente di perdere il lume della ragione.
Aveva bisogno di dormire e di riflettere sulla linea d’azione da intraprendere, specialmente con Freya, a cui si era particolarmente affezionato nel corso di quelle settimane di convivenza.
E fu proprio per questo che per più di mezz’ora si rotolò tra le lenzuola, preoccupato per lei. Alla fine scese dal letto, indossò dei jeans e una felpa e andò a cercarla.

***

«Baqi!».
Il ragazzo aprì gli occhi di scatto, sobbalzando sulla poltroncina. Quando capì che si era addormentato nella sala d’aspetto del quarto piano, stiracchiò un sorriso mentre si massaggiava il viso e si passava le dita tra i capelli neri.
«Ciao Abby», la salutò alla fine, alzandosi per stringerla in un delicato abbraccio. «Allora, come procede la vacanza?».
Tra loro non avevano mai chiamato la degenza in ospedale come avrebbe dovuto essere chiamata – troppo triste. Così avevano optato per quella variante, con tanto di abbronzatura lunare e cocktail da sballo iniettati direttamente in vena.
«Alla grande», mormorò la ragazzina, dandogli dei colpetti sulla schiena. «Ma tu che ci fai qui? Hala mi ha detto che eri rimasto a casa per lavoro».
«Infatti. Il caso però ha preso una piega inaspettata e mi ha portato proprio qui. È vero quando dicono che la vita di un reporter è piena di colpi di scena!».
Abigail ridacchiò, scuotendo mestamente il capo. Quindi disse: «Io stavo andando a fare colazione. Ti unisci a me?».
«Mi sono già fermato strada facendo, ma ti accompagno volentieri». Baqi si spostò dietro la sua carrozzina e sogghignò, chinandosi accanto al suo orecchio per sussurrare: «Potrei anche approfittarne per farti un paio di domande».
«Giuro che sono innocente!», affermò lei, portandosi una mano sul cuore.
Il ragazzo le passò affettuosamente una mano sulla testa. «Lo so, piccola. E come mio informatore, la tua identità rimarrà segreta».
Abby a quel punto capì che non stava più scherzando, ma non aggiunse altro fino a quando non furono in mensa. Una volta con la colazione davanti al naso, lo fissò con entrambe le sopracciglia inarcate.
«Quindi… su che cosa stai indagando, precisamente?».
Baqi si guardò intorno con fare circospetto, dopodiché infilò una mano nella sua inseparabile borsa a tracolla e tirò fuori un sottile PC portatile, quello che usava sia per lavoro che per svago.
«Devi giurarmi che quello che ti dirò rimarrà confidenziale».
«Parola di Giovane Marmotta», promise, mettendo da parte la tazza di latte caldo con i cereali.
«E va bene». Baqi sospirò e girò lo schermo del computer verso di lei, mostrandole la foto di un ragazzo dai capelli neri e gli occhi azzurri in procinto di salire su una volante della polizia. «Il suo nome è Emrys, o Merlino, ancora non ho capito bene. Lo conosci?».
Abby gettò un’occhiata al pakistano, poi tornò a fissare la fotografia: non c’erano dubbi, si trattava al cento percento del loro Merlino, ma perché stava per salire su un’auto della polizia? E, soprattutto, perché Baqi stava indagando su di lui?
«Abigail? Rispondimi», la esortò quest’ultimo, impaziente.
La ragazzina, messa alle strette, prese la decisione che le suggeriva il cuore.
Scrollò le spalle e con le labbra arricciate in una smorfia rispose: «No, non lo conosco».
Il pakistano non sembrò convinto e gettandole uno sguardo quasi derisorio premette la freccetta per passare ad un’altra foto, poco nitida a causa dello zoom ma con lo stesso protagonista: quella volta Merlino si trovava proprio in quello stesso ospedale.
«E non l’hai nemmeno mai visto?».
«Vedere e conoscere sono due cose ben diverse», precisò Abigail. «Tu mi hai chiesto se lo conoscevo, prima».
«E ora ti chiedo se l’hai mai visto da queste parti».
«Sì, è probabile che io l’abbia visto da qualche parte. Quindi?».
A quelle parole Baqi sorrise così tanto da sembrare la versione bollywoodiana di Joker.
«Devo sapere assolutamente se è ancora qui, o in alternativa devo trovare qualcuno che lo conosce. La proprietaria di quella caffetteria sa chi è, ne sono sicuro, ma non ha più voluto dirmi niente dopo che quell’agente di polizia mi ha chiesto chi fossi e perché facessi tutte quelle domande. Devo assolutamente rintracciarlo e parlare con lui. Non so se mi spiego, Abby, ma questa potrebbe essere la grande occasione della mia vita!».
«No, non ti sei per nulla spiegato», borbottò, preoccupata per Merlino e allo stesso tempo felice per l’emozione di Baqi, che aveva sempre considerato una specie di fratello maggiore.
Gli prese le mani tra le sue e le strinse più forte che poté, incrociando il suo sguardo eccitato. «Ti vuoi calmare? Perché questo ragazzo è così importante? Che cos’avrà mai fatto!?».
«Oh, non puoi nemmeno immaginare Abby…». Girò rapidamente lo schermo del computer verso di sé e smanettò un po’, fino a quando non le mostrò l’ennesima fotografia.
«Che cos’è?», chiese la ragazzina, avvicinando di più il viso allo schermo.
«Una foto scattata nel 1935. L’edificio sullo sfondo è un ospedale, all’epoca uno dei più grandi di tutto il Galles. È stato completamente distrutto nella Seconda Guerra Mondiale, a causa dei bombardamenti, e indovina un po’? Era proprio qui».
«Qui… nel senso che camminiamo sopra le sue ceneri?», balbettò Abby, con gli occhi sgranati.
Baqi annuì, nuovamente eccitato come un bambino. «Ho fatto le mie ricerche. Al tempo era l’unico edificio della zona, immerso nella campagna e nel silenzio, perciò nessuno pensava che sarebbe stato colpito. A quanto pare però è successo e ci sono voluti anni, prima che qualcuno decidesse di stabilirsi qui in pianta stabile. I primi furono i cari delle persone morte – dei dottori, delle infermiere, dei pazienti che non avevano avuto scampo. È nato così, questo piccolo paese. Poi con la ripresa economica gran parte della nuova generazione si è trasferita di nuovo nelle città e qui non è rimasto nessuno in grado di testimoniare ciò che è accaduto. Nessuno a parte una persona, se non sono impazzito del tutto».
Baqi cliccò più volte sullo zoom, fino a rendere la foto sgranata, ed indicò con la freccetta un viso che Abigail riconobbe con un tuffo al cuore. Del tutto assorbita da quel racconto, si era quasi dimenticata di Merlino.
In posa assieme a decine di altri dottori ed infermiere c’era proprio lui, con indosso il camice bianco e lo stesso sorriso innamorato che gli aveva visto rivolgere ad Alex tante e tante volte. Aveva le mani posate sopra le spalle di una giovane infermiera, in piedi di fronte a lui, e guardandola in viso Abby scorse qualcosa di familiare in lei, tanto che una strana sensazione le strinse lo stomaco, assieme alla nausea.
«Beh… la somiglianza è notevole», disse con poca voce, tossicchiando.
Baqi aprì la bocca per manifestare tutta la propria indignazione, ma Abigail non gliene diede il tempo, indicando col dito proprio la donna di fronte al gemello di Merlino: «Lei invece chi è? Lo sai?».
Il ragazzo allungò il collo per capire chi stesse indicando, poi sorrise guardandola negli occhi. «Somiglia alla signora Chapman da giovane, non è vero?».
«Sì, ma nonna non era ancora nata nel ’trentacinque».
«Infatti non è lei, ma sua madre. Quella è la tua bisnonna, Louise McTrusty. La fotografia apparteneva a lei».
Abby rimase a fissare lo schermo del laptop con gli occhi spalancati ancora per qualche istante, poi lo chiuse bruscamente, scatenando le ire di Baqi, e si allontanò spingendo velocemente le ruote della propria sedia a rotelle.
«Ehi, ma dove vai?!», urlò il ragazzo, scioccato.
Lei non gli rispose, non si voltò nemmeno. Ignorò persino Mark quando lo incrociò lungo il corridoio, troppo concentrata a sistemare i pezzi del puzzle che al momento possedeva e che le vorticavano furiosamente nella testa.
Louise. Merlino aveva nominato una certa Louise, qualche settimana prima. Che si riferisse proprio alla sua bisnonna?
Si chiuse in camera sua e con la sedia a rotelle si fermò accanto al letto per poter incrociare le braccia sul materasso, nasconderci dentro la testa e riposare ad occhi chiusi, aspettando che le passasse l’affanno e i battiti del suo cuore tornassero regolari. Ma non accadde tanto presto.

***

In quei giorni gli ospiti dell’agriturismo erano più del solito, perciò i signori Morris avevano deciso di aprire la sala ristorante anche per la colazione.
Seduta ad uno dei tanti tavoli rotondi, Hala si guardava intorno mentre aspettava che la signora Chapman tornasse dal bagno.
Si sentiva ancora terribilmente in colpa per non aver detto la verità a suo fratello, ma continuava a ripetersi che in fondo nemmeno lei sapeva quale fosse, la verità. Insomma, aveva visto il ragazzo della fotografia e – diamine – era davvero identico anche a quella scattata nel 1935, ma non aveva niente per dimostrare che fossero la stessa persona.
Se l’avesse detto a Baqi se lo sarebbe trovato tra i piedi quella mattina stessa, pronto a documentare ogni cosa. Almeno così avrebbe avuto un po’ di tempo per fare le sue indagini – discrete, razionali e senza alcuno scopo di lucro.
La nonna di Abigail aveva detto al ragazzo immortale che si sarebbero visti quella mattina e Hala l’aveva cercato con lo sguardo da quando era uscita dalla propria stanza, ma di lui ancora nessuna traccia. Che avesse sentito puzza di guai e se la fosse filata? Ecco, stava iniziando a pensare come Baqi.
Si era appena portata la tazza di tè alle labbra, decisa a non pensarci più, quando Rebecca, la receptionist nonché figlia del proprietario dell’agriturismo, riportò a galla l’argomento.
«Insomma papà, non è possibile che Merlino e Artù vengano a lavorare quando fa più comodo a loro! Adesso come faccio con gli ospiti della 103?».
Hala si sporse un po’ di più verso l’ingresso della sala ristorante e scorse Rebecca e il signor Morris l’uno di fronte all’altra nel salotto. La ragazza sembrava furiosa, col viso paonazzo e le mani che non facevano altro che gesticolare mentre parlava, mentre l’uomo, dall’espressione bonaria, la guardava negli occhi con tranquillità.  
Quando la figlia smise di agitarsi, le posò le mani sulle spalle e le accarezzò teneramente le braccia, sorridendo.
«Tesoro, devi davvero mettere una pietra sopra Artù: ho visto la sua attuale ragazza e fidati, tu non sei il suo tipo».
«Papà!».
«Ad ogni modo, non è vero che vengono quando fa più comodo a loro: questa mattina Merlino mi ha chiamato e mi ha chiesto di poter anticipare ad oggi il loro riposo. Ho risposto che non c’era problema, dato che oggi non abbiamo scolaresche in programma e gli ospiti della 103 non avevano ancora intasato il cesso con Dio solo sa cosa».
Il signor Morris le rivolse un altro sorriso, quella volta soddisfatto, e le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Ci penserò io più tardi, tesoro. Non ti preoccupare».  
Rebecca sbuffò e tornò dietro il bancone della reception. Il signor Morris invece ridacchiò e scuotendo il capo entrò nella sala ristorante, dove Hala chinò di nuovo il capo verso il proprio tè.
In quel momento la signora Chapman tornò a sedersi al suo fianco e sorrise all’uomo, il quale si fermò accanto al loro tavolo.
«Allora, come andiamo? Avete dormito bene questa notte?».
«Certamente Abraham, come sempre!», esclamò la signora Chapman, tutta contenta.
Hala avrebbe voluto dire che quello stupido gallo l’aveva svegliata proprio quando era riuscita a far tacere tutti i pensieri che le affollavano la mente e ad addormentarsi, ma rimase in silenzio, annuendo con un cenno del capo.
«Tra poco vado giù in paese a sbrigare delle commissioni», disse ancora il proprietario dell’agriturismo, «volete che vi accompagni all’ospedale?».
La nonna di Abigail sorrise, prendendogli una mano tra le sue. «Oh, sarebbe gentilissimo da parte tua».
L’uomo ricambiò affettuosamente, piegandosi per un baciamano, ma sua moglie glielo impedì, gridando dall’altra parte della sala: «Per l’amor del cielo, Abraham, lascia in pace la signora Chapman!».
Il signor Morris rise di cuore e gettò un’occhiata a Wanda, per poi sussurrare: «È tanto gelosa, dovete scusarla».
«Ah, lo ero anche io col mio caro marito! Diventavo davvero insopportabile».
Abraham annuì, prima di congedarsi. «A più tardi allora».
Hala ricambiò il saluto con un cenno della mano, poi tornò a spezzettare con la forchetta il proprio waffle.
«C’è qualcosa che non va, cara? Mi sembri pensierosa».
Hala guardò la signora Chapman con la coda dell’occhio, rivolgendole il primo piccolo sorriso della giornata.
Quando sua zia le aveva detto che una signora che conosceva aveva bisogno di una colf e le aveva dato il suo indirizzo, mai e poi mai Hala si sarebbe immaginata che quella stessa signora sarebbe diventata come una madre per lei. Non solo le aveva dato un lavoro, ma aveva accolto lei e suo fratello in casa sua, aveva dato loro del cibo con cui sfamarsi e quando Hala aveva bisogno di sfogarsi o di qualche consiglio lei c’era sempre.
«Vuole la verità?», rispose alla fine. «La verità è che continuo a pensare a quel Merlino».
La signora Chapman gettò un’occhiata verso il soffitto, come se stesse soppesando le sue parole; quindi abbozzò un sorriso. «Beh, devo ammettere che oltre ad avere un cuore d’oro è anche un bel giovanotto».
Hala finse di essersi presa una cotta per lui e con le mani sotto al mento chiese: «Mi parli un po’ di lui. Da quanto lo conosce?».
«Vediamo un po’… Da quando Abby è stata ricoverata in ospedale per la prima volta, sì». Si tolse gli occhiali dal viso e morse la punta di un’astina, cercando le parole adatte per descriverlo. «È un ragazzo sorridente, dolce, che si è sempre preso cura dei bambini ricoverati ad oncologia. Molto spesso legge loro delle favole ambientate a Camelot, con Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda. E ha lavorato per molto tempo alla caffetteria della signora Begum, quella non lontana dall’ospedale».
La ragazza rimase in attesa, ma la signora Chapman scrollò le spalle, dicendo: «È tutto, credo».
«Che cosa? Davvero non sa nient’altro della sua vita privata?».
«Che ti posso dire… è sempre stato un tipo riservato». Sorrise, posando una mano rugosa sulla sua. «Ma se vuoi il consiglio di una povera vecchia, non è bene sapere subito tutto di un uomo: si perde l’interesse».
Hala si sforzò di ricambiare il sorriso, mentre dentro di sé non faceva altro che imprecare, chiedendosi come diavolo facesse Baqi a non perdere mai la speranza.

***

«Quindi... questo bracciale è in grado di contenere il flusso magico», ricapitolò Alex, sfiorandone le incisioni floreali.
Merlino si gettò una rapida occhiata alle spalle, verso le porte vetrate che davano sulla cucina, per accertarsi che Artù non fosse nei paraggi; quindi le prese il polso tra le mani e lo accarezzò con dolcezza prima di baciarne l’interno pallido, da cui si poteva seguire il corso di alcune vene bluastre.
«Proprio così», confermò. «Mi dispiace di aver agito alle tue spalle, dico davvero».
Alex lo guardò severamente, con un sopracciglio inarcato, e se avesse avuto uno specchio a portata di mano avrebbe riso di sé, perché era identica ad Artù.
«Ti ho già detto che non ti devi scusare. Certo, avrei preferito che non mi dicessi che apparteneva ad una principessa bella e buona di cuore, ma...».
«Non me lo sono inventato».
L’infermiera non riuscì a nascondere la delusione, fu più forte di lei. Pensava che glielo avesse detto per rendere quell’oggetto ancora più speciale, per assicurarsi che non se lo togliesse mai... Non avrebbe mai pensato che Merlino lo riciclasse in quel modo, specialmente se la principessa di cui parlava aveva avuto un ruolo importante nella sua vita a Camelot.
«Apparteneva a Morgana, la sorellastra di Artù», aggiunse il mago dopo qualche secondo di silenzio, tenendo gli occhi bassi sui gradini in legno della veranda, dov’erano seduti. «Anche lei aveva il dono».
«Lo so, Artù me ne ha parlato».
Merlino annuì, deglutendo. «Lei… era la persona più gentile e generosa che conoscessi a Camelot, insieme a Ginevra. Pensa che una volta è persino scesa in battaglia al mio fianco, per proteggere il mio villaggio natale. È stata… fenomenale». Abbozzò un sorriso e si strofinò gli occhi improvvisamente umidi di lacrime.
Alex non poté mostrare indifferenza di fronte a quei ricordi e si avvicinò un po’ di più al suo fianco, stringendo più forte la sua mano.
Nonostante le facesse male pensare che Merlino avesse amato altre donne prima di lei, comprendeva di non poter competere col passato: oltre che stupido, era ingiusto nei suoi confronti.
«Quando ho scoperto che Morgana possedeva il mio stesso dono ho pensato di aver trovato la mia anima gemella, qualcuno con cui potevo essere liberamente me stesso… Ma il destino ci ha sempre remato contro. Non ho potuto aiutarla come avrei dovuto, o forse sono io che non l’ho mai voluto davvero. La magia l’ha cambiata, l’ha resa una persona rancorosa, assetata di potere e di vendetta. Ed è per questo che non volevo che tu ne entrassi in contatto. Anche adesso, faccio sempre questi sogni in cui tu…», si interruppe, coprendosi il volto con le mani.
«Io che cosa?», lo incitò a continuare, col cuore che le batteva forte nel petto.
«La mia paura più grande è che la magia ti trasformi in ciò che non sei, Alex. Ho paura che la storia di Morgana si ripeta».
L’infermiera gli passò una mano tra i capelli, avvicinandosi quel tanto che bastava per baciargli lo zigomo e sussurrare: «Non succederà».
«No, non lo permetterò», esclamò Merlino, guardandola negli occhi per la prima volta. «Per questo ti insegnerò a controllarla. Insieme riusciremo a cambiare il destino. Proveremo a salvare il mondo se lo vuoi, ma alle nostre condizioni».
«Conta su di me».
Lo stregone le sorrise e in uno slancio d’emozione le prese il viso tra le mani per baciarla, ma fu interrotto da Artù, il quale aprì di scatto le porte finestre e rimase con la bocca spalancata, le parole che voleva dire incastrate in gola.
«Le stavo controllando un occhio», inventò subito una scusa Merlino, avvicinandosi di nuovo al viso di Alex per fissare da vicino la sua iride destra. «Dev’esserle entrato un moscerino, vedete?».
Artù parve bersela, anche se col naso arricciato, e disse: «Freya si è svegliata e vuole parlare con te».
Merlino e Alex si alzarono contemporaneamente, pronti a rientrare in casa, ma l’infermiera venne bloccata da un’occhiata e dal braccio di Artù, il quale poi tornò a posare gli occhi sul mago.
«Da sola», aggiunse con una smorfia sul viso, quella volta di disappunto.
Merlino sospirò lievemente prima di passargli accanto e sparire in salotto.
L’infermiera, rimasta con Artù e Cathleen, la quale li aveva raggiunti subito dopo aver lasciato soli Freya e Merlino, tornò a sedersi sul gradino più alto, la schiena contro il pilastro di legno e una gamba stretta al petto.
«Che faccia scura che hai. È successo qualcosa?», le domandò Cathleen, sedendosi al fianco di Artù, beato tra le donne.
«Merlino mi ha raccontato di Morgana», confessò dopo un attimo di esitazione, rigirandosi il bracciale intorno al polso.
Artù scrollò le spalle, gli occhi rivolti verso il cielo annuvolato. «È sempre stata fuori dalla sua portata».
«No, invece», ribatté aspramente. «Merlino aveva ogni diritto di essere felice, lo ha tutt’ora. Solo lui si è accorto del dolore di Morgana, del suo sentirsi diversa, rinnegata… e ha provato fino all’ultimo ad aiutarla, ne sono sicura».
«Sì, è così. Ma Morgana si è spinta troppo oltre, era irrecuperabile. E Merlino ha fatto ciò che doveva».
Un brivido freddo la percorse da capo a piedi, sotto gli occhi fieri dell’antenato. Non avrebbe voluto fare quella domanda, sperava che Artù decidesse di tenerla all’oscuro di quella parte del loro passato, ma la verità era che aveva assolutamente bisogno di sapere che cosa Merlino non voleva che si ripetesse.
«Che cos’ha fatto?».
All’improvviso gli occhi di Artù si adombrarono e si fissarono su un punto oltre la sua spalla, la sua espressione si fece stanchissima, disperata e rassegnata. Stava rivivendo quel momento e Alex poteva vedere il riflesso di un Merlino che non conosceva nel suo sguardo.
«L’ha uccisa», mormorò alla fine, come se l’avesse realizzato per la prima volta. «Con Excalibur».
Alex sentì le poche cose che aveva ancora nello stomaco risalirle lungo l’esofago, ma riuscì a trattenersi traendo alcuni respiri profondi.
Merlino aveva paura che cambiasse in modo irrecuperabile, che si trasformasse nello stesso caso disperato che già una volta l’aveva portato ad uccidere la donna che forse, in segreto, non aveva mai smesso di amare. E i sogni a cui aveva accennato… Che gli avessero mostrato la propria morte, magari per mano sua?
«Alex? Ehi, Alex, ti senti bene? Sei pallida come un lenzuolo».
Cathleen, in ginocchio al suo fianco, le stava dando degli schiaffetti sulle guance per riportarla alla realtà.
«Sì, ho… ho solo bisogno di fare due passi», balbettò, sbattendo ripetutamente le palpebre.
Si incamminò verso la tomba di Steve, stringendosi la felpa addosso per proteggersi dal vento freddo residuo del temporale di quella notte. Quindi seguì il percorso del fiumiciattolo, pensando e ripensando a tutto ciò che ancora non sapeva di Merlino e di se stessa: fino a due mesi prima non sapeva nemmeno di avere come antenato il leggendario Artù Pendragon, né che possedesse il dono della magia; chissà che altro ancora le riservava il futuro.
Si imbatté in una piccola pianta che non ricordava di aver mai visto prima e, chinandosi per esaminarne le foglioline, si rese conto che l’arbusto si era sviluppato intorno al pugnale che le aveva regalato Artù, quello che aveva lasciato lì come prova della sfida lanciata ai custodi della magia.
Aveva promesso che avrebbe cambiato il destino di Merlino e Artù, ma ora le cose si erano un tantino complicate: come poteva pensare di cambiare il loro destino, se la prima persona contro cui doveva combattere e da cui doveva difendersi era se stessa?

***

Merlino scambiò un rapido sorriso con Cathleen sulla soglia della cucina e fece per superarla, quando lei lo prese per un braccio e lo guardò dritto negli occhi.
«Senza di lei in questo momento Artù sarebbe morto, perciò... vacci piano».
Lo stregone le diede la propria parola, senza rivelarle che temeva che Freya avesse avuto in mente un qualche secondo fine quando aveva deciso di salvare Artù invece di approfittare della situazione per scappare indisturbata con Excalibur.
Raggiunse la custode del lago, seduta sul divano con una tazza di tè caldo tra le mani, e si sedette sul tavolino basso.
«Ciao», lo salutò dolcemente, soffiando sulla bevanda fumante.
Merlino si sforzò di ricordare l’amore bruciante che provava per lei, per il quale avrebbe persino lasciato Camelot – avrebbe lasciato Artù – per iniziare una nuova vita al suo fianco. Per quanto si impegnasse, in quel momento vederla gli faceva soltanto provare rammarico e delusione: anche lei, esattamente come Morgana, aveva abbracciato delle idee che non erano sue ed era scesa in una battaglia a cui non avrebbe dovuto prendere parte.
«Non sarebbe dovuta finire così», sospirò.
«No davvero», rispose Freya, ignara di ciò a cui lui si riferisse. «Hai commesso così tanti errori, Merlino... Il più grande con le Disir».
«Il passato me lo sono lasciato alle spalle, ormai. Dimmi come hai fatto ad uscire da Avalon».
«Come ho fatto? Ah, questa è bella». Ridacchiò, mettendosi seduta a gambe incrociate. «Perché non lo chiedi all’ultima Pendragon? Tutto quello che so è che stavo risparmiando le energie quando sono stata travolta da un flusso magico potentissimo. Ho aperto gli occhi ed ero di nuovo io, affamata ed infreddolita e con indosso l’abito che avevi rubato a Morgana. Ti ricordi? È stato così stupido...».
«Stai dicendo che non le hai chiesto tu di ritornare?».
«Certo che no! Se avessi creduto che una cosa del genere fosse possibile avrei cercato di tornare libera secoli fa! E poi...», si sporse verso di lui per accarezzargli una mano e Merlino non si mosse, nonostante sapesse che scansarsi sarebbe stata la cosa giusta da fare. «L’ultima volta mi hai minacciata, dicendomi che se avessi provato a contattarla me l’avresti fatta pagare cara. Come avrei potuto sottovalutarti? Dopotutto sei ancora lo stregone più potente di tutti i tempi».
Le sue parole adulatrici non lo impressionavano, come moltissime cose dopo più di millequattrocento anni di vita, perciò non dovette nemmeno fingere di ignorarle.
Con la risolutezza e la precisione di un cecchino continuò con la propria sfilza di domande: «Per quanto riguarda Excalibur? Perché la stavi rubando ad Alex?».
«Non la stavo rubando! La stavo proteggendo!», sbottò e si allontanò rapidamente da lui, offesa dalle sue insinuazioni.
Merlino le rivolse un’occhiata perplessa. «Proteggendo da chi?».
«Da voi!», urlò. «Tu e Artù ormai siete solo un pallido riflesso di ciò che eravate a Camelot, e avete espresso abbastanza bene la vostra posizione riguardo alla salvezza di questo mondo. Excalibur l’ha scelta, ha lasciato che la sua mano la raccogliesse dal fondo del lago: questo vorrà pur dire qualcosa per te!».
Lo stregone deviò il suo sguardo, mordendosi le labbra.
«Alexandra è il futuro, è colei che spezzerà la tua maledizione e riporterà la magia sulla Terra, non importa a quale prezzo», aggiunse in tono suadente. «Lo sai anche tu, Merlino… Non mentire a te stesso».
Scioccato com’era, il mago non sentì nemmeno il campanello. Fu Cathleen, ad un certo punto, a correre verso l’ingresso e a guardare attraverso lo spioncino.
«È l’agente Fisher», esclamò a bassa voce il paramedico, lanciando un’occhiata preoccupata allo stregone.
Quella notte avevano davvero rischiato grosso. Non si erano incrociati per pura fortuna, sia mentre Cathleen e Artù rincorrevano Freya nel bosco sia mentre tornavano verso l’auto, con Excalibur e la custode di Avalon. Poi era arrivato Merlino in loro aiuto: era apparso alle loro spalle, impedendo loro di farsi scoprire da Darrell, e insieme, nascosti dietro la vegetazione, avevano aspettato che il poliziotto si allontanasse sulla propria volante.
Quindi lo stregone aveva preso Freya fra le braccia, dicendo che sarebbe stato più sicuro evitare di passare davanti ai vicini di casa di Alex con una ragazza svenuta tra le braccia, ed era tornato nel fitto del bosco, fino al punto in cui aveva lasciato la sua auto quando aveva capito che non era il caso di farsi vedere nei paraggi ancor prima che Alex fosse informata di ciò che era successo.
Una Freya nervosa lo riportò al presente, affrettandosi ad alzarsi con la coperta ancora avvolta intorno alle spalle. «Devo nascondermi. Darrell non può trovarmi qui, si insospettirebbe».
Merlino sgranò gli occhi. «Lo conosci?».
«Dove credi che sia stata, in queste due settimane?», gli chiese roteando gli occhi al cielo. «Dovevo per forza sperare nell’aiuto di qualcuno e lui è stato il primo che ho incontrato».
«Okay, fare il detective non è il mio mestiere», ammise Cathleen, rassegnata di fronte all’evidenza. All’insistenza del poliziotto, sussurrò ancora: «Cosa faccio, gli apro oppure no?».
La custode di Avalon, dopo un silenzioso cenno di Merlino, annuì e corse su per le scale con le sue scarpe strette al petto.
Una volta lontana, lo stregone raggiunse Cathleen e le fece segno di tornare da Artù ed Alex per avvisarli del loro ospite inatteso.
«Mi raccomando, qualsiasi cosa succeda non fatevi vedere», esclamò e dopo aver ricevuto l’ennesimo cenno d’assenso aprì la porta.
«Darrell, che sorpresa! Scusami per l’attesa, ma ero in bagno».
L’agente abbozzò un sorriso, scrollando le spalle. «Non c’è problema. Come va?».
Merlino si fece da parte per farlo entrare e richiuse la porta dietro di sé. «Bene, tu? Hai fatto il turno di notte?».
«Si nota così tanto?», gli domandò, ridendo lui stesso del proprio pessimo aspetto. «Posso?».
«Accomodati pure».
Darrell si lasciò cadere sulla poltrona più vicina a lui e sospirò, chiudendo gli occhi al soffitto. Merlino, in piedi a qualche metro di distanza, si infilò le mani nelle tasche, a disagio.
«Ho saputo dell’effrazione a casa di Alex», esordì. «Sei venuto qui per questo?».
L’agente Fisher riaprì di scatto gli occhi, per poi strofinarseli con due dita.  «Come? No, non esattamente. Il fatto è che mi sembra di impazzire e speravo che tu potessi rassicurarmi in questo senso, visto che…».
«Che ho a che fare con Artù tutti i giorni?», rise sedendosi sul divano, obliquamente a lui. «Avanti, sputa il rospo».
Darrell si sedette in maniera più composta, con i gomiti posati sulle ginocchia e le mani unite quasi a mo’ di preghiera.
«Okay», sospirò, quasi per farsi coraggio. «Ti ricordi quando quella ragazza dai capelli rossi…».
«Cathleen».
«…mi ha chiesto se avessi visto qualcosa di sospetto nei pressi del lago?».
«Sì, mi ricordo. E dunque?».
«Beh, ho mentito. So che come tutore della legge dovrei dare il buon esempio, ma… stavo proteggendo una persona».
Lo stregone iniziò ad unire i puntini, ma rimase in silenzio e fece finta di non aver capito, corrugando la fronte. Il poliziotto esitò per un paio di istanti prima di riprendere con la propria confessione:
«Due settimane fa, nei pressi del mio condominio ho visto una ragazza: era disorientata, infreddolita, affamata, e addosso aveva un vestito che sembrava essere uscito direttamente dal guardaroba delle principesse Disney. Senza pensarci su due volte le ho offerto la mia ospitalità. Ho provato a chiederle perché si trovasse lì e che cosa le fosse successo, ma mi ha detto che non ricordava nulla a parte il suo nome: Freya».
«Potrebbe essere stata rapita e aver rimosso i ricordi a causa del trauma. L’ho letto su una rivista», provò a ipotizzare Merlino, continuando con la propria facciata. «L’hai portata all’ospedale per un controllo?».
«Ci ho provato. Dio se ci ho provato! Ma ogni volta che provavo a farla uscire di casa iniziava ad urlare e a piangere e non ci sono riuscito. Non ha nemmeno voluto che le scattassi una foto per cercare un confronto nell’elenco delle persone scomparse. Sono riuscito però a raccogliere un campione del suo DNA – dei capelli dalla spazzola – e l’ho inviato ad un mio collega di Newport perché lo analizzasse per me. Mi doveva un favore».
«E?», lo spronò a continuare Merlino, sporgendosi un po’ di più verso di lui.
Darrell si colpì le ginocchia con le mani, sbuffando. «E niente: non è in nessun database».
«Okay, hai una bella gatta da pelare. Come posso aiutarti?».
«Aspetta, non hai sentito ancora la parte migliore!», esclamò l’agente, ridendo nervosamente. «Questa mattina torno dal turno, stanco morto e con un mezzo raffreddore, e indovina? Lei non c’era. L’ho cercata ovunque, ho persino controllato se fosse stata ricoverata in ospedale, ma è stato un enorme buco nell’acqua. È come se fosse scomparsa, Merlino».
Il mago si appoggiò allo schienale del divano, le braccia incrociate al petto. «Avrà finalmente deciso di uscire, di prendere un po’ d’aria fresca».
«Uscendo dalla finestra del bagno e lasciandosi dietro le impronte di un leone geneticamente modificato? E poi è successo quello che è successo a casa di Alexandra e non ho idea di che cosa sia quello strano aggeggio che ho trovato nel bosco… Ho la sensazione che sia tutto collegato, ma non so come».
Merlino si irrigidì e poi sollevò un angolo della bocca in un sorriso sornione. «Aspetta un momento, non credo di aver capito… Che impronte?».
Darrell, serissimo in volto, infilò una mano nella tasca del giubbotto che aveva ancora addosso e gli mostrò le foto che aveva scattato col proprio smartphone: non c’erano dubbi, erano proprio impronte degne di un Bastet.
«Ho detto a Cathleen di non credere nel soprannaturale, ma questo… è da pazzi. Dimmi che non lo sono, ti prego».
Merlino sollevò gli occhi in quelli dell’agente di polizia e cercò di pensare ad una scusa convincente, senza ovviamente trovarne nessuna all’altezza della situazione. Alla fine posò una mano sulla sua spalla e sorrise divertito, esclamando: «Le foto possono essere ingannevoli: la prospettiva, la luce… La tua gatta da pelare non può essere così grossa».
«Stai dicendo che mi sto inventando tutto?», esclamò Darrell, infastidito.
Merlino si alzò e lo invitò a fare lo stesso, dandogli qualche pacca rassicurante sulla schiena. «Sto semplicemente dicendo che forse ti stai lasciando condizionare da quello che ha detto Cath… e che hai bisogno di dormire un po’».
«Ma Freya –?!».
«Sono sicuro che tornerà prima che te ne renda conto», aggiunse, spingendolo verso l’ingresso. «Magari in questo momento è già a casa e si starà chiedendo dove sei finito».
Darrell puntò i piedi sull’uscio e si voltò per fissarlo col suo miglior sguardo inquisitorio. «Come mai tutto d’un tratto vuoi che me ne vada? C’è qualcos’altro che vorresti dirmi, Merlino? Perché se è così sputa il rospo».
«No, assolutamente! È che ho una marea di cose da fare e…». Sospirò, passandosi una mano sulla nuca, e alla fine ammise: «Artù sta avendo una delle sue giornate no e non posso davvero lasciarlo solo troppo a lungo, mi dispiace».
Il viso di Darrell si ammorbidì e agitando una mano come a voler scacciare via qualsiasi altro sospetto gli avesse attraversato la mente, disse: «Scusami tu, non avrei dovuto gettarti addosso tutte le mie paranoie: non gestisci una casa di cura, dopotutto».
«Però potrei prendere l’idea in considerazione, no?».
L’agente Fisher rise, dandogli una pacca sul braccio. «Sarei il tuo primo paziente. Ci vediamo in giro».
Merlino annuì e stava già per rientrare in casa, quando Darrell attirò di nuovo la sua attenzione.
«Ti dice niente il nome Emrys?».
Lo stregone scrollò le spalle, mostrandosi con un grosso punto interrogativo in faccia. «No, dovrebbe?».
«Non so. Questa mattina dalla signora Begum mi sono imbattuto in un tizio che cercava questo Emrys e che poi ha fatto il tuo nome», gli disse, continuando a camminare all’indietro verso l’auto. «Un certo Baqi».
«Non ho idea di chi sia».
«Lo immaginavo. Aveva il tesserino di un piccolo giornale e ha detto che sta conducendo un’indagine privata, ma non ha voluto rivelarmi altro per paura che gli rubassi lo scoop». Scosse il capo, trattenendo a stento una risata. «Penso davvero che qui faresti soldi a palate con quella casa di cura».
Merlino ricambiò il saluto sollevando una mano e finalmente si precipitò all’interno. Trovò Artù, Alex e Cathleen seduti in veranda, in silenzio.
«Allora, che cosa voleva Darrell?», gli chiese subito il paramedico.
«Non c’è tempo per le spiegazioni». Gettò una rapida occhiata ad Alex e sospirando aggiunse: «Devo andare via con Freya, ci impiegherò mezz’ora al massimo».
Il re di Camelot, vagamente preoccupato, si alzò perché i loro occhi fossero allo stesso livello. «Perché? Che cos’è successo?».
«Perché non mi avete avvisato che era ancora in grado di trasformarsi in Bastet?!», urlò in risposta Merlino, adirato.
«Grazie al cielo, pensavo di essermelo immaginato», sospirò di sollievo Cathleen, abbandonando il capo contro il pilastro di legno.
Merlino la ignorò, esattamente come fece con lo sguardo incredulo di Alex, e continuò: «Darrell ha trovato delle orme di felino dietro casa sua – le ha fotografate! – e devo risolvere la situazione prima che esploda tra le nostre mani».
Artù lo afferrò per un braccio prima che gli desse definitivamente le spalle. «Puoi scordartelo che ti lasci andare da solo con lei. È pericolosa!».
«Come Cath mi ha fatto notare, lei vi ha salvato la vita, nonostante quindici secoli fa proprio voi l’abbiate uccisa ingiustamente», rispose Merlino, rivolgendogli un sorriso macchiato dal rammarico. «Le dovete una seconda chance».
Artù, ferito e al contempo offeso dalle sue parole, lo lasciò andare bruscamente. Lo stregone non si voltò indietro e una volta al piano superiore trovò Freya in camera sua, seduta sul suo letto ed immersa nella lettura di un classico della letteratura inglese. Non appena si accorse di lui chiuse il libro e si alzò, inciampando in un lembo della coperta e cadendo dritta  tra le sue braccia.
Merlino sentì un brivido percorrergli la schiena sentendo il suo corpo contro il proprio, un brivido talmente forte da far riaffiorare un po’ di quell’amore quasi adolescenziale che pensava di aver dimenticato e superato.
Si schiarì la gola e l’aiutò a rimettersi in piedi, per poi esclamare perentorio: «Dobbiamo andare».
«Dove? Si tratta di Darrell? Che cosa ti ha detto?».
«Ti spiego strada facendo, non abbiamo molto tempo».
Merlino la prese per mano e ancora una volta provò una stretta allo stomaco – sensi di colpa? – che prontamente ignorò.

***

«Che cosa diavolo intendeva dire Merlino?».
Artù cercò di ignorare Cathleen, lo sguardo fisso sull’anello con lo stemma regale e legato ad una catenina d’argento che Alex si stava nervosamente rigirando tra le dita. Il paramedico però insistette e gli pizzicò il braccio.
«Intendeva dire quello che ha detto», sbottò. «Sono stato io ad uccidere Freya, quando era sotto forma di pantera. Non sapevo che Merlino fosse innamorato di lei, non sapevo che volevano lasciare Camelot per cercare di curare la maledizione e vivere insieme. All’epoca non sapevo niente di lui».
Cathleen sospirò, accarezzandogli la schiena. «Sono sicura che non voleva rinfacciarti nulla; era troppo concentrato sulla missione e non ha pensato a cosa diceva».
«No, sono contento che si sia sfogato. È da quando l’ho saputo che avevo un peso sullo stomaco».
Cathleen abbozzò un sorriso che scomparve non appena lesse l’ora sul proprio orologio da polso. «Sarà meglio che vada a casa a riposare un po’: sono di turno oggi pomeriggio».
«Va bene, ci sentiamo più tardi». Artù si sforzò di sorriderle prima di prenderle il volto tra le mani e posarle un bacio sulla fronte.
«Ciao», la salutò ancora una volta prima che sparisse oltre le porte vetrate, quindi abbassò di nuovo gli occhi su Alex e respirando profondamente si sedette al suo fianco.
La osservò per un po’, in silenzio, fino a rendersi conto che quando era concentrata o immersa nei propri ragionamenti aveva la sua stessa espressione seria e risoluta.
«A che cosa stai pensando?».
«Non sapevo che Merlino e Freya avessero avuto una storia», mormorò.
Artù si passò una mano tra i capelli per poi massaggiarsi il volto. «Come ho detto prima… nemmeno io lo sapevo. Ma da quello che mi ha mostrato Freya, non hanno avuto modo di stare molto tempo insieme. Merlino l’ha aiutata a scappare dall’uomo che l’aveva catturata e poi l’ha nascosta fino a quando… beh, lo sai».
«Dev’essere stato amore a prima vista, se ha fatto tutto questo per lei», disse ancora, sporgendosi per strappare qualche filo d’erba ed iniziare a giocarci.
«Può darsi», ammise Artù, stringendosi nelle spalle. «Ad ogni modo è successo moltissimo tempo fa, quasi un’eternità. E poi perché dovrebbe interessarti?».
«Infatti non mi interessa», ribatté Alex con determinazione, ma non riuscì a celare il rossore che le infiammò il volto.
Il re di Camelot, notandolo, storse il naso, combattuto: ancora una volta non sapeva se rassicurarla sull’amore di Merlino oppure tentare di convincerla del fatto che poteva puntare più in alto. Pensandoci bene però, ora che Freya era tornata nell’equazione, in carne ed ossa per giunta, non era certo al cento percento che Merlino non si sarebbe fatto trascinare dalla nostalgia. Quello che sapeva per certo era che se Alex avesse sofferto a causa sua, lui gli avrebbe fatto patire il doppio.
«Ehi, posso chiederti una cosa?».
Artù tornò a prestarle attenzione, stupito dal suo improvviso cambio d’espressione: sembrava preoccupata, quasi spaventata, e aveva iniziato a spezzettare i fili d’erba in minuscoli pezzetti.
«Anche tu hai paura che io diventi come Morgana?».
Il re fissò il giardino in tutta la sua ampiezza, alla ricerca delle parole giuste da rivolgerle, ma alla fine fu ancora Alex a parlare, affermando: «Non succederà. Alla fine sarò io a dominare la magia, non il contrario. Non vi deluderò, ve lo prometto».
Si avvicinò a lei di qualche altro centimetro, fino a che le loro spalle e le loro gambe non si toccarono, e poi le accarezzò i capelli sulla nuca, sorridendo dolcemente: «No, non ci deluderai; ne sono certo».
Alex lasciò che anche sulle sue labbra fiorisse un sorriso e per la prima volta incrociò il suo sguardo. «Grazie».
Artù le avvolse un braccio intorno alle spalle e rise, appoggiando la testa alla sua tempia. «Se qualcuno mi avesse detto che sarei risorto dopo millequattrocento anni e che avrei dovuto aiutare l’ultima mia discendente a controllare i suoi poteri magici… l’avrei fatto rinchiudere nelle segrete».
«Non ne dubito», rispose l’infermiera, prima di alzarsi in piedi.
Artù la imitò, con un brivido che gli correva sottopelle. «Dove vai?».
«A casa. Ho fatto il turno di notte, sono esausta. Anche se mi sa che dormirò sul divano, dato che Freya ha fatto proprio un bel disastro in camera mia».
Non sapeva esattamente perché, ma Artù aveva il sospetto che non gli stesse dicendo la verità. Ciononostante ignorò quel presentimento per vedere come sarebbe andata a finire e le sorrise esclamando: «Ma certo, vai a riposarti».
«Mi presteresti la bici di Merlino?».
Il re indicò il vecchio fienile con un cenno del capo e Alex gli stampò un bacio sulla guancia prima di iniziare a scendere i gradini della veranda. Una volta con i piedi sull’erba però si fermò, come se avesse all’improvviso cambiato idea, e scosse il capo.
«Dici che sarebbe un problema se dormissi un po’ qui?», gli domandò quindi, con una smorfia di stanchezza sul viso.
Artù non ci vide proprio nulla di male e scrollò le spalle, offrendole la propria stanza.
«Quella di Merlino andrà benissimo», rifiutò però l’infermiera, gettandosi i capelli dietro la spalla destra.
Lui aggrottò le sopracciglia, accigliato. «Che cos’ha la mia camera che non va?».
«Mi mette a disagio», rispose in tono evasivo e senza aggiungere altro corse all’interno, lasciandolo solo con i propri sospetti.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Era da troppo tempo che quei due gliela facevano sotto il naso ed era giunto il momento di porre la parola fine a quella storia una volta per tutte.
Si lasciò cadere sulla poltrona più vicina alla televisione e pensò ad un piano per smascherarli, ma finì per rimanere affascinato dalla replica di una puntata di NCIS.

***

Nonostante quello fosse il suo primo viaggio in auto, Freya sembrava calmissima. Con la schiena addossata al finestrino e un ginocchio stretto al petto lo fissava con curiosità, giocando con una ciocca di capelli neri che ad un tratto si portò persino alla bocca.
«Potresti tirare giù il piede dal sedile? La pelle è molto delicata», esclamò Merlino, rompendo quel silenzio imbarazzante.
La custode di Avalon eseguì senza proferir parola, solo accennando un sorriso. Il mago strinse più forte le mani intorno al volante e ad un certo punto, stanco del suo comportamento, sterzò bruscamente in una via chiusa e frenò per poterla guardare dritta negli occhi.
«Che cosa vuoi da me, Freya?».
Il sorriso sul suo volto si allargò, ma sparì non appena gli accarezzò una guancia e si sporse timidamente verso di lui. Ad un soffio dalle sue labbra infatti Merlino si scostò, dicendo tra i denti: «Io non ti amo più, Freya».
«Lo dici perché hai preso un impegno con la Pendragon o perché lo pensi?», gli chiese con un fil di voce, senza allontanarsi di un millimetro dal suo volto: Merlino riusciva ancora a sentire il suo respiro sulla pelle.
«Saresti dovuta rimanere con me quando te l’ho chiesto, adesso è troppo tardi. Siamo due persone diverse».
«Non hai risposto alla domanda».
Lo stregone tornò a fissare gli occhi nei suoi scuri e l’ennesimo brivido dovuto ai ricordi lo attraversò, facendogli serrare i pugni sulle gambe.
«Io amo Alex, la amo più della mia stessa vita. Lei è il mio presente e il mio futuro. Tu, invece, sei il mio passato; un passato da dimenticare».
Freya alzò le mani in segno di resa e si sedette composta sul sedile del passeggero, lo sguardo rivolto verso il parabrezza. «Se ne sei convinto tu…», mormorò, prima di esclamare: «Darrell sarà già arrivato a casa, di questo passo».
Merlino sospirò, sollevato che finalmente avesse abbandonato l’argomento, e mise di nuovo in moto la Pininfarina.

Darrell aveva appena parcheggiato l’auto di fronte al suo condominio, quando Freya e Merlino raggiunsero il lato del bosco visibile dalla finestra del suo bagno.
«Eccole, sono quelle», sussurrò la custode di Avalon, indicando le orme sull’erba a qualche metro da loro.
Il mago abbassò lo sguardo sul tatuaggio druido sul suo braccio e dopo essersi umettato le labbra mormorò: «Speravo che la maledizione fosse scomparsa nel momento della tua morte».
«Infatti è così», lo sorprese Freya, abbozzando un sorriso. «Ora posso decidere io quando trasformarmi. E non ho nemmeno sete di sangue! Figo, non trovi?».
Merlino rimase a bocca aperta, per quella scoperta ma anche perché si rese conto che la custode si stava ambientando al Ventunesimo secolo senza alcuno sforzo apparente.
«Dovremmo concentrarci, ora», fu la sua risposta, tossicchiando e con la fronte aggrottata. «Pronta?».
Freya gli abbassò il braccio che aveva alzato in direzione delle orme e disse, con tono da non voler ammettere repliche: «Faccio io». Respirò profondamente e ad occhi chiusi iniziò a recitare un incantesimo nella lingua dell’Antica Religione, così a bassa voce che Merlino dovette sforzarsi per sentirlo.
Era vero che non usava la magia da secoli ed era arrugginito, ma sentì la potenza di ogni frase scivolargli sotto la pelle e bruciargli il sangue nelle vene, e quando Freya riaprì gli occhi dalle iridi dorate fu come se Merlino avesse appena ricevuto un pugno contro lo sterno, in grado di rubargli il fiato. Cadde seduto dietro un cespuglio, la schiena contro il tronco di un albero. Freya lo imitò poco dopo, quando la magia abbandonò il suo corpo per trasformare le grosse impronte del Bastet in quelle di un innocuo gattino, e abbandonò persino il capo su una spalla, sfinita.
Da quella posizione Merlino scorse Darrell fare il giro del palazzo e fermarsi ad occhi sgranati di fronte a quelle impronte. Le confrontò con le fotografie scattate col proprio cellulare, piegandosi sulle ginocchia, poi si passò una mano tra i ricci biondi, dandosi sottovoce del pazzo.
Udendolo anche Freya ebbe la forza di riaprire gli occhi e ricambiare il sorriso di Merlino, il quale subito se ne pentì e deviò il suo sguardo.
Aspettarono in silenzio che l’agente Fisher sparisse dietro l’angolo, poi svuotarono i polmoni.
«La magia che Alexandra mi ha trasferito si sta esaurendo…», disse ad un tratto la custode di Avalon. «Come Artù, come qualsiasi cosa che vive grazie ad essa… prima o poi morirò se non ti deciderai a condividere l'immenso potere che si è accumulato in te nel corso dei secoli».
«Mi stai chiedendo di sacrificarmi, ho capito bene?».
«Non c’è altro modo per spezzare la maledizione che tu stesso hai lanciato, Merlino. Non hai solo giurato di non usare più la magia, hai giurato che avresti fatto tutto ciò che era in tuo potere per impedire ad altri di soffrire a causa di essa. Da quel momento ti sei trasformato in una calamita gigante, privando la terra, l'aria e l'acqua della magia necessaria al loro equilibrio».
Lo stregone, inorridito da ciò che aveva fatto, si alzò faticosamente in piedi grazie al sostegno dell’albero alle sue spalle. Se davvero aveva lanciato una maledizione di quella portata... il suo destino era ancora più segnato di quanto credeva.
«E Artù?», gli venne spontaneo chiedere. «Che c'entra Artù in tutto questo? Perché l'hai salvato?».
Freya aggrottò la fronte, guardandolo confusa.
«Oh, fammi il piacere», la rimproverò, leggermente nauseato. «Avevi Excalibur, potevi fuggire indisturbata e invece sei tornata indietro per salvare Artù e sprecare energie. Devi avere un secondo fine, un tornaconto».
La custode di Avalon continuò a fissarlo, sbigottita, fino a quando un sorriso non fece capolino tra le sue labbra. «Devo dire che se questo è davvero ciò che pensi di me… sono molto delusa, sì», esclamò. «Certo, se lo avessi lasciato morire tu mi avresti odiato e saresti rimasto ancor più dell’idea di non voler compiere il tuo destino, ma il vero motivo per cui ho rinunciato alla fuga, a Excalibur, è la tua felicità».
«Prego?», ripeté con un nodo stretto in gola.
«So quanto tieni a lui e non avrei mai potuto convivere col rimorso di non averci almeno provato».
Il silenzio cadde tra di loro, per istanti che sembrarono eterni. Fu ancora Freya a spezzarlo, tenendo però gli occhi bassi.
«Mi aiuti ad alzarmi?».
Merlino esitò, ma alla fine afferrò la mano che aveva steso verso di lui e una volta in piedi le avvolse un braccio intorno alla vita per aiutarla a sostenersi sulle gambe.
«L’ultima Pendragon prima o poi verrà a cercarmi, lo sai vero?», gli domandò ad ormai pochi passi dal portone del condominio.
Il mago chinò il capo, afflitto. «Sì, lo so».
«E non hai nessuna intenzione di impedirglielo?».
«Come potrei?».
La lasciò andare ed indietreggiò di qualche passo. Quindi la guardò negli occhi, incapace di nascondere l’ansia e la frustrazione.
«Se è vero che conto ancora qualcosa per te, allora ti chiedo solo di… di tenerla fuori da tutto questo. Alex merita di essere felice, merita una vita normale».
Freya sorrise nuovamente, in quel modo sornione e derisorio. «Non penso che tu abbia realizzato quanto lei sia speciale. Alexandra non è destinata alla normalità, bensì alla grandezza».
«Anche Morgana la pensava così. Ti devo per caso ricordare com’è andata a finire?».
«Morgana era accecata dall’invidia, dal rancore, dal dolore. Ma Excalibur l’ha liberata, ha assorbito quella negatività e le ha donato la pace».
Merlino la fissò come stordito, mentre le immagini di ciò che Alex era stata in grado di fare sotto l’influenza della spada magica si accavallavano nella sua mente. Lui stesso aveva notato che molti degli incantesimi che aveva involontariamente lanciato erano molto simili a quelli che avevano portato Morgana a realizzare di possedere il dono, ma mai prima d’ora si era spinto a fare quel collegamento.
«Il destino di tutti noi è già scritto», aggiunse quasi dolcemente Freya, prima di recitare le parole che così tante volte il Grande Drago Kilgharrah gli aveva detto: «Nessun uomo, non importa quanto grande egli sia…».
«Può conoscere il proprio destino, sì», concluse per lei lo stregone. «Questa volta però sarà diverso».
La custode si avvicinò di un passo per posargli nuovamente una mano sul viso. «Ti conosco, Merlino. Ti lascerai guidare dal cuore anche questa volta e rovinerai tutto».
«È qui che ti sbagli», ribatté, sorridendole mentre le allontanava la mano dalla propria guancia. «Questa volta non seguirò il mio cuore, ma quello di Alex. Il suo cuore ha abbastanza luce e speranza per entrambi e sceglierà ciò che è meglio per questo mondo».
Freya non trovò le parole per rispondere e si limitò ad annuire, stringendosi nelle spalle. Merlino la guardò sparire dietro il portone e poi tirò fuori il cellulare per scrivere un messaggio ad Alex:

Dove sei? Ti raggiungerei anche in capo al mondo.

Poche, semplici e disperate parole. Aveva bisogno di vederla, di stringerla tra le braccia, di affondare il viso tra i suoi capelli, di respirare sulla sua pelle candida.
Era già in auto, quando ricevette la sua risposta:

Nel tuo letto. Ti aspetto.

Merlino non capì se scherzasse o facesse sul serio, ma non se lo fece ripetere due volte e premette il piede sull’acceleratore.


Entrò in casa e la prima cosa che vide fu Artù, addormentato sulla poltrona in salotto e con il telecomando ancora stretto in mano. Lo stregone provò la forte tentazione di passargli alle spalle e sgattaiolare di sopra, ma alla fine non riuscì ad ignorare il senso del dovere e con delicatezza gli tolse il telecomando di mano prima di coprirlo con una coperta.
Artù girò il viso proprio verso il suo, i loro nasi a pochissimi centimetri di distanza, e Merlino trattenne il respiro per paura di svegliarlo. Quindi si allontanò con cautela e solo quando fu con un piede sul primo gradino della scalinata tornò a respirare regolarmente.
Trovò Alex esattamente dove gli aveva scritto di trovarsi: sdraiata sul suo letto, sotto al piumone candido. Si spogliò in fretta, sparpagliando i propri vestiti sul pavimento, e si stese al suo fianco, avvolgendole le braccia intorno alla vita ed accarezzandole la nuca con la punta del naso.
«Sei freddissimo», sussurrò Alex, scossa da un brivido, ma non si spostò, anzi: si girò, in modo da poterlo guardare negli occhi, e si addossò ancora di più contro il suo petto, intrecciando anche le loro gambe.
«Devo confessarti una cosa», disse invece Merlino, dopo qualche istante trascorso ad ammirare i suoi occhi verdi e ad accarezzarle i capelli color del miele. «Per un momento ho sentito di nuovo qualcosa per Freya. E mentre la accompagnavo da Darrell ho quasi lasciato che mi baciasse».
Lo stregone abbassò le palpebre per sfuggire al suo sguardo immobile e il suo silenzio fu peggio di mille coltellate. Ad un tratto non riuscì più a resistere e si coprì metà del volto con una mano, disperato.
«Ho mandato tutto all’aria, non è vero?».
L’infermiera gli spostò delicatamente la mano dal viso e si sollevò sul gomito per posargli un bacio sulla fronte.
«Artù mi ha raccontato come vi siete conosciuti e che cos’è successo prima che morisse», sussurrò, passandogli una mano tra i capelli bianchi e neri. «E non posso dire che tutto questo non mi renda gelosa – sono stata quasi sul punto di seguirvi – ma non è colpa tua. Non posso nemmeno immaginare come ti sia sentito nel vederla ritornare dalla morte, identica a come quando eravate sul punto di lasciare Camelot. Insomma, tra voi non è mai finita davvero: non vi siete separati perché l’avete deciso voi. È come se il fidanzato di Cathleen questo pomeriggio bussasse alla sua porta: credi che lei non si troverebbe in difficoltà, se dovesse scegliere tra il suo primo amore e Artù?
«Mentre eri via con lei ho pensato ad ogni possibile scenario, sai… Avevo paura che capissi di avere più cose in comune con lei che con me, che decidessi di lasciarmi per fuggire con lei come avresti voluto fare mille anni fa…».
Merlino scosse il capo, accarezzandole il volto con entrambe le mani, ma non poté parlare a causa dell’indice di Alex posato sulle sue labbra.
«Poi ho letto il tuo messaggio e sono tornata in me», riprese, sorridendogli e sfiorandogli il naso con il proprio. «Non avrei mai dovuto dubitare della tua fedeltà, del tuo amore. D’altronde hai chiesto a me di sposarti, a nessun altra. E con me non hai bisogno di fuggire, perché insieme possiamo affrontare qualsiasi cosa».
Merlino sorrise commosso, gli occhi lucidi di lacrime, e l’attirò a sé per baciarla. «Ti amo da impazzire».
«Anche io, Dumbo», ricambiò Alex, prima di cadergli addosso definitivamente e di coprirsi la bocca per trattenere le risate.

***

«Non ti preoccupare, Artù si è addormentato sulla poltrona come un vecchietto», la rassicurò Merlino, tra un bacio e l’altro sul collo.
«Potevi dirmelo subito…».
Alex si sedette a cavalcioni su di lui, lasciando che il piumone le scoprisse la schiena, e si slacciò il reggiseno nero per gettarselo alle spalle.
Artù se lo vide arrivare quasi in faccia, per questo si spostò bruscamente di lato, dietro la parete. Con gli occhi ancora sgranati per lo shock, ci mise un po’ prima di decidersi ad allontanarsi con passo felpato.
Una volta in salotto, si sedette di nuovo sulla poltrona dove aveva finto di dormire e dove aveva appallottolato la coperta quando aveva sentito Merlino salire le scale, e dopo qualche attimo di esitazione scrisse un messaggio a Cathleen.

Sei ancora sveglia?

La rossa ci mise un po’ a rispondere, tanto che era quasi sul punto di rimandare a più tardi lo sfogo, ma alla fine la vibrazione della risposta ricevuta lo fece sobbalzare sulla poltrona.

Sì, ero sotto la doccia. Che c’è?

Si tratta di Alex e Merlino.

Cathleen non replicò, aspettò semplicemente che trovasse le parole adatte per descrivere ciò che aveva visto. Ma ogni suo sforzo sfumò quando si lasciò andare a ciò che sentiva: un misto di gelosia, invidia e nervosismo.

Sono in camera da letto!!!

Nel senso che Alex sta dando una mano a Merlino a riordinare?

No, in QUEL senso!

Oh... l’hai scoperto, alla fine.

Il re di Camelot rimase letteralmente a bocca aperta e guardò il display del cellulare come se Cathleen in quel modo potesse vedere la sua espressione sconvolta. Poi selezionò la voce “chiama” e se lo portò all’orecchio. Quando lei rispose, urlò subito a mezza voce: «Tu lo sapevi? Lo sapevi e non mi hai detto niente? Come hai potuto, Cathleen!».
«Per l’amor del cielo, Artù… Se nessuno te l’ha detto è perché sapevamo che avresti dato di matto».
«Avrei dato di matto? Oh, voi non avete visto ancora nulla!».
«Posso sapere cos’è che ti infastidisce tanto? Non stanno infrangendo nessuna legge!».
«Forse no, ma ai miei tempi un membro della famiglia Pendragon…».
«Mi dispiace ricordartelo ma uno, non siamo più ai tuoi tempi; due, le famiglie con nomi importanti fanno schifo».
Artù rimase in silenzio, colpito duramente dalle sue parole. Anche Cathleen dovette accorgersi di essere andata troppo oltre perché provò a scusarsi, ma l’ex re di Camelot la interruppe sul nascere, dicendo atono: «Io facevo parte di una famiglia con un nome importante e per quanto fosse poco presente, disastrata e piena di drammi, era l’unica che avevo e l’amavo; e tu non hai alcun diritto di dire che faceva schifo».
«Artù, davvero, io…».
Ma Artù terminò la conversazione e successivamente spense il cellulare, per evitare che lo richiamasse. Si massaggiò il viso e poi uscì in veranda, dove si sedette cercando di riportare alla mente alcuni dei bei momenti trascorsi con suo padre o con Morgana, quando ancora non sapeva che era la sua sorellastra. Nonostante il passato gli tornasse alla mente solo in frammenti, riuscì a sorridere prima di venir travolto dalla nostalgia e dal vuoto che provava a causa della loro mancanza.

***

Quando quella mattina il signor Morris le aveva lasciate davanti all’ospedale, Hala aveva sperato con tutte le sue forze di incrociare ancora il dottor Ellis, uno dei pensieri che l’avevano portata ad una notte insonne.
Purtroppo non l’aveva visto, ma in compenso aveva fatto una scoperta che dopotutto, conoscendolo meglio di se stessa, non avrebbe dovuto sorprenderla poi così tanto: Baqi aveva preso il primo treno ed era lì, intento a fermare ogni infermiera lungo la sua strada per porre qualche domanda su Merlino.
Quando la signora Chapman aveva smesso di stritolarlo a sé e di pettinargli i capelli con le mani, Hala si era avvicinata per tirargli un pugno sul petto e guardarlo con espressione truce.
«Che ci fai qui?», gli aveva chiesto a denti serrati.
Ma lui, nonostante gli avesse fatto male, non aveva perso il proprio sorriso eccitato, esclamando: «Non crederai mai a ciò che ho scoperto!».
Così l’aveva aggiornata, spiegandole che il fatto che il Principe William avesse donato di tasca sua una cifra a cinque zeri lo aveva insospettito e lo aveva portato a trovare su Twitter delle fotografie che ritraevano senza alcun’ombra di dubbio il suo ragazzo immortale.
Aveva fatto anche delle ricerche su quel paesino in mezzo al nulla e aveva scoperto che l’ospedale in cui lui lavorava con la bisnonna di Abigail si trovava proprio dove avevano costruito il nuovo ospedale, quello dove la stessa Abigail era ricoverata.
«Ci sono troppe coincidenze, non trovi?», le aveva chiesto e aveva atteso trepidante una sua conferma, ma Hala aveva semplicemente scosso il capo, decisa a mantenere il segreto sul proprio incontro con Merlino.
Ovviamente Baqi non l’aveva lasciata stare fino a quando non aveva avuto almeno una parte di verità, quella in cui si era presa una folle cotta per un dottore con cui aveva scambiato solo poche parole.
Sarebbe stata dura mentire a Baqi, soprattutto se avessero trascorso insieme il giorno intero, ma doveva resistere, tenere duro fino a quando non si fosse assicurata che la persona con cui avevano a che fare non fosse nulla di tutto ciò che Baqi era convinto che fosse.
Avrebbe sofferto a causa dell’ennesima delusione, a causa dell’ennesimo sogno in frantumi, ma si sarebbe rialzato, prima o poi. Lo faceva sempre.

«Ecco qui il pranzo per la nostra Abby!».
«Agatha! Non c’era bisogno che me lo portassi in stanza… Sarei venuta in mensa tra poco», esclamò Abigail, guardando il vassoio che l’infermiera le lasciò sotto il naso.
Agatha si strinse nelle spalle, sollevando forzatamente un angolo della bocca. «Sai com’è… ordini della dottoressa».
«Oh, fantastico…», mormorò, passandosi le dita sulla fronte.
L’infermiera non aggiunse altro ed uscì, lasciando nella stanza un’atmosfera tutt’altro che leggera.
«Mi sono perso qualcosa?», domandò ad un tratto Baqi, rompendo il silenzio.
«Se non sono i pazienti a chiedere di essere serviti in camera, vuol dire che ci sono brutte notizie in arrivo», spiegò mestamente Abby, stringendo le mani intorno al vassoio. Poi aggiunse: «Hanno gli esiti dei miei esami».
Sua nonna posò una mano su un suo pugno serrato e sorrise dolcemente. «Non puoi saperlo con certezza, tesoro…».
«Vivo qui dentro da due anni, ormai ho capito come funziona. È solo questione di tempo, prima che mi facciano il discorso».
A quelle parole la signora Chapman si ritrasse e con gli occhi lucidi di lacrime si alzò e si diresse verso la porta.
«Dove vai, nonna?», domandò la ragazzina, stancamente.
«A prendere un po’ d’aria. Torno subito, tesoro».
Uscì dalla stanza senza voltarsi indietro e Hala, dopo qualche secondo, diede un calcio al gemello, attaccato al suo smartphone, perché la raggiungesse. Non voleva che la signora Chapman rimanesse da sola, certo, ma in realtà voleva anche rimanere qualche secondo da sola con Abby per capire che cosa sapesse su Merlino. Poteva aver mentito a Baqi, ma con lei quell’opzione era fuori discussione: l’aveva visto uscire dalla sua stanza, doveva per forza sapere chi fosse.
Si avvicinò al suo letto con la sedia e le posò una mano sulla gamba, sorridendole. «Ehi… lo sai che tua nonna ci rimane male se pensi al peggio».
«Sì, lo so, mi dispiace». Allontanò da sé il vassoio con una smorfia sul viso. «È che a volte sono così stanca di lottare anche per gli altri… Per questo motivo ho anche litigato con Mark, ieri».
«Ma poi avete fatto pace».
Abby accennò un sorriso. «Sì, tutto merito di Merlino e Artù».
Ad Hala brillarono gli occhi, sentendo i loro nomi. Ora aveva l’appiglio per aprire l’argomento.
«Merlino e Artù? Chi sarebbero?».
Ma la ragazzina passò subito sulla difensiva, accorgendosi dell’errore che aveva fatto nel nominarli. «Due ragazzi che passano di qui ogni tanto, per farci compagnia».
«Credo di aver conosciuto Merlino, ieri».
«Può darsi. A questo proposito, Hala…».
«Sì?».
Abigail sollevò gli occhi nei suoi e li fissò intensamente per tutto il resto del loro dialogo, mettendola spesso in soggezione. Le bugie e le recite in fondo non erano e non sarebbero mai state il suo pane quotidiano.
Abbozzò anche un sorriso, esordendo: «Baqi mi ha detto della sua indagine, a colazione. Assurdo, non trovi?».
«Sì, assolutamente! Gli ho detto più e più volte di lasciar perdere, ma lo conosci… quando si mette in testa qualcosa è inarrestabile».
«Ma questa volta è diverso… Insomma, l’immortalità? È semplicemente impossibile».
Hala si strinse nelle spalle e si sporse un po’ di più verso Abby, con i gomiti posati sulle ginocchia. «Mettiamo che incontri Merlino e gli chieda spiegazioni riguardo alla foto e al diario di Louise. Che cosa potrebbe mai succedergli di male? Farebbe una così brutta figura che gli servirà da lezione per la prossima volta. Dico bene?».
Abby però esitò, immersa nei propri pensieri, e Hala si convinse che sapeva davvero più di ciò che voleva dire. Ma ancora si rifiutava di credere che il ragazzo che aveva incrociato il pomeriggio precedente fosse immortale e avesse avuto una relazione con la madre della signora Chapman. Doveva esserci un’altra spiegazione, una con un briciolo di logica.
«Abby?», richiamò la sua attenzione, a disagio a causa del suo prolungato silenzio.
La ragazzina la guardò, prima con espressione vacua, poi mettendola sempre più a fuoco, fino a quando non ritornò completamente alla realtà. «Hai detto che avete trovato anche il diario della bisnonna?».
«Sì, la foto era tra le sue pagine. Ma…».
«Credi che Baqi me lo farebbe leggere, se glielo chiedessi?».
Hala boccheggiò per qualche istante, come un pesce fuor d’acqua. Alla fine sospirò ed annuì. «Perché no?».
«Perfetto, vado subito», esclamò e fece per togliersi le coperte di dosso, ma la ragazza la fermò e con sguardo ammonitore disse: «Tu non vai da nessuna parte, se prima non metti qualcosa sotto i denti».
Abby deglutì rumorosamente guardando il vassoio, quindi sospirò e si fece forza. Hala rimase al suo fianco per tutto il tempo, ma con la testa altrove.
Quella storia iniziava ad appassionarla, mentre il suo bisogno di risposte si faceva sempre più insistente. Ma questo non voleva dire che le piacesse. O forse non le piaceva la possibilità – improbabile, ma pur sempre da tenere in considerazione – che ciò in cui erano andati a cacciarsi fosse qualcosa di molto più grande di loro e che non ne sarebbero usciti bene.

***

Merlino scese al piano di sotto trotterellando, con indosso i pantaloni di una vecchia tuta e una maglietta viola che aveva trovato sul pavimento e gli andava un po’ stretta.
Sorrideva a trentadue denti, sollevato che Alex, nonostante la gelosia, non avesse reagito d’impulso come avrebbe fatto il suo antenato – come aveva fatto, in realtà.
Ripensare al tradimento di Gwen era sempre doloroso, ma ora che ci faceva caso non era mai riuscito a dire ad Artù quello che pensava fosse veramente successo. Si promise di raccontarglielo, un giorno o l’altro.
Si aggrappò al corrimano e all’ultimo scalino fece una mezza giravolta verso la porta della cucina, ma si bloccò non appena scorse Artù seduto in veranda, con la testa posata contro una delle due colonne portanti di legno.
Nascosto dietro l’angolo, con la schiena al muro, Merlino pensò rapidamente ad una scusa da rifilargli nel caso gli avesse chiesto quando fosse tornato e dove fosse stato fino a quel momento. Non gliene vennero in mente molte, come al solito, perciò si affidò ancora una volta all’improvvisazione.
Si concesse un respiro profondo e poi entrò in cucina come se nulla fosse, diretto verso il frigorifero. Artù lo vide con la coda dell’occhio e dopo qualche istante di esitazione si alzò ed aprì una delle porte finestre per appoggiarsi allo stipite con una spalla e salutarlo con un cenno del capo.
Merlino non lo incitò a fare conversazione, piuttosto cercò di evitarlo, mostrandosi concentrato nel prepararsi due tramezzini.
«C’è bisogno per caso che ti chieda espressamente com’è andata con Freya?», gli domandò alla fine il sovrano, infastidito.
«Come volete che sia andata? Non mi ha fatto piacere riportarla da Darrell, sapendo che lo prenderà in giro e sfrutterà la sua ospitalità fino a che le farà comodo».
Artù inarcò un sopracciglio, scettico. «Ma le hai detto che dobbiamo riportarla ad Avalon, giusto?».
Lo stregone si fermò con il coltello a pochi centimetri dal pomodoro che voleva affettare.
Gli Sidhe erano stati chiari, a riguardo: «Devi riconsegnarla a noi, stregone, o questo mondo ne perirà». Eppure lui non aveva nemmeno considerato l’idea di rispedirla da dov’era venuta. Come avrebbe potuto? Se gli Sidhe avessero decretato che fosse Artù quello che doveva ritornare nelle profondità di Avalon lo avrebbe fatto? No, mille volte no. Per questo motivo e per la propria libertà, Freya si sarebbe opposta con tutte le sue forze, lottando con le unghie e con i denti se necessario.
«Merlino... Freya è morta. Quella che è uscita dal lago è solo il suo fantasma, in cerca di qualcosa che ormai non c'è più».
«Potrei dire lo stesso di voi, o ancor di più di me», esclamò, picchiando con forza il coltello nel tagliere, tanto forte che si incastrò nel legno. Quindi si voltò, il viso accartocciato in una smorfia sofferente, e non si accorse dell’occhiata che Artù gettò poco sotto il suo mento.
«È vero che il tempo cambia le persone e io, ormai, sono solo un pallido riflesso di ciò che ero a Camelot», riportò le parole veritiere di Freya. «E non ho più le forze, non ho più voglia di giustificarmi o di fare ciò che è meglio per gli altri: se la nostra vita sta davvero per finire, allora non voglio sprecarne un solo giorno».
Artù lo fissò intensamente, fino a quando non si appoggiò al tavolo, con le braccia incrociate al petto. «Qualche settimana fa sarei stato d’accordo con te al cento percento», disse. «Adesso però ci sono altre persone in ballo, persone che non possiamo deludere. Se ami Alex come dici di amarla... non puoi abbandonarla al suo, di destino».
«Non è mia intenzione. Infatti io… io le ho detto che salveremo il mondo, se lo vorrà», rispose debolmente, innervosito dal suo sguardo profondo.
Artù annuì e si avvicinò a lui fino al punto da poter vedere riflessi nei suoi occhi chiari i propri blu come il mare.
«Sarà meglio», sussurrò, puntandogli l’indice sul petto.
Solo in quel momento, abbassando lo sguardo, Merlino realizzò perché quella maglietta gli stava così stretta: non era sua. Arrossì da capo a piedi e provò un brivido di terrore quando incrociò nuovamente gli occhi del solo ed unico re. Niente, nemmeno la magia, avrebbe potuto salvarlo dalla sua furia.
«Giuro che se la fai soffrire...», iniziò a dire, con i denti serrati.
«Io e Alex ci sposiamo!», squittì e si rese conto della pazzia che aveva fatto nel momento in cui pronunciò quelle parole. Perché, perché gliel’aveva detto?
Ma Artù non reagì come si aspettava: dopo un attimo di stordimento, infatti, sul suo viso si aprì un sorriso dolcissimo e fiero, come non ne vedeva da tempo.
«Congratulazioni, ve lo meritate», disse, dandogli una pacca sulla spalla.
Lo stregone lo guardò incredulo, mentre gli dava le spalle per tornare in veranda. Alla fine non riuscì a trattenersi e sbottò: «Tutto qui? E io che pensavo...».
Artù si voltò di scatto con un cucchiaio tra le mani e lentamente se lo portò vicino al viso, sibilando: «Ti cavo gli occhi, se la fai soffrire».
Merlino deglutì, atterrito. Poi un pensiero gli balenò alla mente e sogghignò, facendo aggrottare la fronte del biondo.
«Sapete, come futuro marito di Alex, forse siete voi a non dover fare del male a me... In fondo lo sappiamo che è solo questione di tempo prima che vi prenda a calci nel –».
Non ebbe il tempo materiale per concludere la frase, troppo impegnato a correre su per le scale con Artù alle calcagna. Riuscì a sfuggirgli per un pelo, rifugiandosi in camera sua e chiudendosi a chiave la porta alle spalle.
«Apri subito questa maledetta porta, Merlino!», gridò Artù, tempestandola di pugni.
Merlino trattenne a stento una risata, gli occhi rivolti verso il cielo. Li abbassò quando scorse Alex emergere dalle coperte con i capelli scompigliati sulla testa.
«È la mia maglietta quella che hai addosso?», gli chiese, accigliata.
Lo stregone annuì con un semplice cenno del capo e lei scrollò le spalle, aggiungendo: «Dov’è il mio tramezzino? E perché diavolo Artù vuole sfondare la porta?!».
«Non saprei… Gli ho solo detto che ci sposiamo!».
Rimasero a guardarsi in silenzio per un po’, fino a quando non scoppiarono a ridere all’unisono, compreso Artù dall’altra parte della porta.

***

Darrell guardò Freya dall’altra parte del divano: si stava attorcigliando una ciocca di capelli intorno al dito e a volte se la portava alla bocca, inconsciamente, mentre guardava la TV.
Non gli aveva detto molto da quando era tornata e quando le aveva chiesto perché fosse uscita senza lasciargli nemmeno un biglietto, Freya aveva risposto che non pensava che sarebbe stata fuori così a lungo: aveva finalmente trovato il coraggio di uscire e sperava che vedendo le case, i negozi, il lago, qualcosa scattasse nella sua mente, permettendole di ricordare. A quanto pareva non era successo.
Eppure Darrell non era convinto, era sicuro che ci fosse dell’altro, qualcosa che non gli stava dicendo. E poi quelle impronte sul retro del condominio… Era certo che non fossero così piccole, la prima volta che le aveva viste, ma non potevano nemmeno essersi rimpicciolite magicamente! Si sentiva sull’orlo della pazzia e come se non bastasse non era ancora riuscito a chiudere occhio. Forse ci voleva un piccolo aiuto.
Si alzò e subito sentì gli occhi di Freya posarsi su di lui.
«Non guardi come va a finire?», gli chiese indicando la televisione.
«Lo so già come va a finire», rispose con un lieve sorriso sul volto. «Sono stanco, vado a riposare».
L’agente si avviò verso la propria camera, ma si fermò di nuovo quando Freya esclamò: «Sei sicuro che non ci sia dell’altro? Se sei ancora arrabbiato perché non ti ho avvisato mi dispiace, davvero».
«Ehi, non importa».
La ragazza spense la TV e si mise seduta a gambe incrociate, posando una mano accanto a sé per invitarlo a sedersi nuovamente. Darrell sospirò e la raggiunse, confessando: «La verità è che vorrei aiutarti».
«Ma tu mi stai già aiutando… Mi stai ospitando a casa tua, mi stai dando da mangiare e abiti con cui vestirmi…».
«Vorrei aiutarti a recuperare la memoria e a riportarti dalla tua famiglia. Saranno così preoccupati per te…».
Freya abbozzò un sorriso e posò una mano sulle sue, unite su un ginocchio. Lo sguardo del poliziotto cadde ancora una volta sul tatuaggio che aveva all’interno dell’avambraccio, tre semplici spirali nere intrecciate.
«Ti ringrazio, Darrell. Non riuscirò mai a sdebitarmi».
«Lascia che ti accompagni in ospedale per un controllo», le disse ancora, avvicinandosi e sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Starò con te tutto il tempo, te lo prometto».
La ragazza esitò, ma alla fine sorrise ed annuì. «Domani».
«Fantastico!». In uno slancio di entusiasmo le prese il volto tra le mani per baciarla sulla fronte e poi, imbarazzato, si allontanò in fretta.
«Ora è davvero il caso che vada a dormire un po’. A dopo».
La salutò con un cenno della mano e si chiuse in camera, dandosi dello stupido. Quindi si sdraiò sul letto, ma anziché prendere una pastiglia, chiudere gli occhi e lasciare che il torpore lo avvolgesse, accese il PC portatile e fece qualche ricerca sul significato del simbolo che Freya aveva tatuato sul braccio.

***

Alex era pronta per iniziare il turno di notte. Non si sentiva così rilassata e serena da moltissimo tempo ed era tutto merito di Merlino: il suo amore era la luce che scacciava l’oscurità, era il vento che allontanava le nuvole temporalesche. Se solo avesse avuto la forza necessaria per dirgli di Excalibur il momento stesso in cui l’aveva trovata sul fondo di Avalon…
Nello spogliatoio del Pronto Soccorso, Alex si stava cambiando quando sentì la porta aprirsi e richiudersi violentemente.
Cathleen si sedette sulla panchina proprio dietro di lei e Alex si coprì il petto con la maglia, guardandola incerta sul da farsi.
«Va tutto bene?», le chiese alla fine, con un sopracciglio inarcato.
Il paramedico si portò le mani sulla testa, sospirando: «Ho fatto un casino con Artù».
Alex finì di vestirsi e si sedette al suo fianco per massaggiarle la schiena a mo’ di conforto. Senza nemmeno darle il tempo di chiederle se voleva parlarne, il paramedico si appoggiò semplicemente alla sua spalla ed iniziò a sfogarsi: «Stare con Artù è come fare bungee jumping: quando ti tuffi non puoi che provare eccitazione e libertà, poi la paura che la corda si spezzi ti travolge ed inizi a pensare a te stesso spiaccicato al suolo, e infine provi il sollievo per avercela fatta e il desiderio incontrollabile di farlo ancora».
«Parli per esperienza personale?», chiese Alex.
«Sì, l’ho fatto un paio di volte, ma non è questo il punto. Credo che mi stia innamorando di lui».
Alex rimase un po’ spiazzata da quella confessione, ma dopo qualche attimo di silenzio sorrise e riprese ad accarezzarle la schiena.
«E questo ti fa paura? Hai paura che non vada a finire bene, che ti ritroverai spiaccicata da qualche parte?».
Cathleen annuì. «Vedi, era più facile quando andavo a letto con persone per cui non provavo niente: nessuno era interessato ad altro, era solo sesso. Con Artù… Lui sa cose di me che nessun altro conosce. L’ho persino portato alla tomba di Zach».
«Non dev’essere stato facile… Ma l’hai fatto. Che cos’è cambiato da allora?».
Il paramedico si sollevò per guardarla negli occhi e spiegò: «Quando mi ha chiamato per dirmi che aveva beccato te e Merlino a letto insieme, gli ho chiesto perché gli desse così fastidio; lui ha citato la sua famiglia e io… io gli ho fatto capire che non mi piacciono le famiglie con nomi importanti, che si credono superiori e padrone del mondo intero. Lui ovviamente si è offeso e non so come scusarmi».
Alex la osservò per qualche secondo col naso arricciato, e alla fine sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso. «Si tratta della tua famiglia, ho indovinato?».
«Come…?», balbettò Cathleen, per poi scoppiare in una risatina.
«Ascolta», mormorò Alex, posandole le mani sulle spalle. «Artù non è stupido, avrà sicuramente capito che se hai fatto quel commento non l’hai fatto per offenderlo. Perciò prenditi il tempo che ti serve, ma prima o poi dovrai spiegarglielo, esattamente come gli hai raccontato di Zach. Probabilmente sarà il tuffo più spaventoso che farai, ma starai meglio dopo che ti sarai lanciata».
Cathleen le sorrise e dopo averla ringraziata le stampò un bacio sulle labbra, lasciandola sbigottita.
«Ora sarà meglio andare. Ci aspetta una lunga notte!».
Alex la guardò uscire dagli spogliatoi, poi si alzò e sorridendo chiuse il proprio armadietto.

***

Era stata forse la cena più imbarazzante della sua vita, con Artù che non faceva altro che porgergli domande a proposito del suo futuro matrimonio con Alex.
Non era stato meglio quando gli aveva chiesto quando le aveva fatto la proposta, dato che la verità – preferita all’ennesima bugia – aveva messo in luce che lui ed Alex avevano tenuto nascosta la loro relazione per quasi due settimane e che alla fine, perché arrivassero entrambi ad un “sì”, era stata Alex a rivolgergli la domanda fatidica.
Artù non l’aveva presa benissimo, ma Merlino a quel punto si era già rifugiato nel bunker, ad esaminare Excalibur più da vicino.
Irradiava veramente una quantità di magia impressionante – la percepiva come una scossa sottopelle solo avvicinandosi, – un dettaglio che aveva avvalorato ancora di più la teoria che si era fatto intorno alle parole di Freya. Era sicuro che un semplice incantesimo di rivelazione avrebbe messo in luce l’aura negativa intorno alla spada. Si sarebbero spiegati così gli sbalzi d’umore di Alex, la sua aggressività e la forza distruttiva dei suoi poteri. Ma non era nelle condizioni per poter sprecare in quel modo la propria magia, specialmente se aveva intenzione di usarla quella sera stessa per un altro motivo.
Aspettò pazientemente che Artù andasse a letto, poi uscì silenziosamente di casa e a piedi, con Excalibur infilata in una spessa custodia di pelle, si diresse verso il fitto del bosco che circondava Avalon.
Respirava a pieni polmoni l’aria fredda e ricordava le notti trascorse tra quegli stessi alberi secoli prima, con i cavalieri di Camelot oppure da solo con Artù. Nella vegetazione, con la luna che filtrava a tratti tra le fronde, gli sembrava che di essere tornato indietro nel tempo.
Camminava in silenzio, puntando la torcia elettrica sul fogliame e sul terriccio ancora umidi di pioggia per evitare di inciampare nelle radici degli alberi, e fu allora che si accorse di essere seguito, ma fece finta di nulla.
Raggiunse una piccola radura quasi al terminar del bosco e si fermò di fronte ad una piramide di sassi ammucchiati gli uni sugli altri e ormai ricoperti di muschio. Si lasciò cadere in ginocchio e si sfilò Excalibur dalla schiena per stringerla tra le mani, a capo chino.
«Perdonami se non ti ho portato dei fiori, Morgana», sussurrò. «Perdonami se non sono venuto a trovarti, negli ultimi vent’anni. Perché oggi? Beh… Freya ha detto che Excalibur ha assorbito tutto il tuo dolore, tutto il tuo rancore; che ti ha donato la pace. Io non so se sia vero, ma anche se fosse così, questo non mi libererebbe dagli incubi. Non smetterò mai di pensare che avremmo potuto trovare una soluzione diversa, insieme. E voglio assicurarti che non farò lo stesso errore due volte: Alex… lei ti piacerebbe, ne sono sicuro. Ha molto di Artù, mi spaventa quanto si somiglino a volte, ma mi ricorda anche te: la tua gentilezza, la tua forza di lottare per ciò che crede giusto». Abbozzò un sorriso, passandosi una mano sulla guancia per spazzare via il segno di una lacrima. «La proteggerò come avrei dovuto proteggere te, te lo prometto».
Merlino rimase in silenzio, con la luna ad illuminargli il viso, fino a quando non si voltò di tre quarti verso il bosco ed esclamò: «Ora potete uscire, Artù».
Il sovrano si fece avanti quasi vergognosamente e lo raggiunse. In piedi di fronte alla tomba di Morgana, disse: «È qui che…?».
«Dopo avervi lasciato alle acque di Avalon, sono tornato sui miei passi. Non c’era questa radura… l’ho creata io: ero talmente disperato ed arrabbiato che ho sradicando tutti gli alberi intorno a noi. Con essi ho costruito una pira e ho bruciato il suo corpo».
Artù gli posò una mano sulla spalla, porgendogli l’altra perché si alzasse.
«Che hai intenzione di fare con Excalibur?», gli chiese dopo qualche istante di silenzio.
Merlino abbassò gli occhi sulla spada e rispose: «Fino a quando non troveremo il modo di purificarla e Alex non sarà in grado di controllare la magia, c’è solo un posto dove possiamo lasciarla».
Insieme tornarono nei meandri del bosco e in silenzio Artù seguì Merlino fino all’entrata di quella che sembrava proprio una caverna. Dopo aver azionato una serie di meccanismi che se eseguiti in modo errato avrebbero fatto scattare delle trappole, Merlino aprì le pesanti porte ed entrò per primo.
Artù rimase a bocca aperta di fronte alla miriade di cristalli luccicanti che donavano un’atmosfera più che magica a quella caverna altrimenti spoglia ed umida. Il loro bagliore azzurrognolo permetteva di vedere chiaramente, tanto che Merlino spense la torcia elettrica e la ripose nello zaino.
Il re seguì ogni passo del mago, senza azzardarsi a sfiorare nulla, e più e più volte si morse la lingua per non rompere il silenzio surreale che regnava in quella grotta.
«A che cosa state pensando?», sussurrò ad un tratto lo stesso Merlino, senza voltarsi a guardarlo.
«Mi chiedevo… La prima volta che mi hai parlato della caduta di Camelot hai accennato al fatto che non ti servivano più i cristalli per vedere il futuro. Sono questi, i cristalli a cui ti riferivi?».
«Certamente. Ricordate la notte prima della battaglia di Camlann? Voi dormivate, quando vi ho parlato in sogno per avvisarvi dell’imboscata di Morgana».
«Allora eri veramente tu!».
Lo stregone si fermò e si voltò, sorridendo sghembo. «E chi altri? Venite, da questa parte».
Camminarono ancora per un po’, tra gli stretti cunicoli della caverna, fino a quando non raggiunsero una fonte d’acqua scura. I cristalli si riflettevano su di essa come se si trattasse di uno specchio e Merlino porse la spada ad Artù perché la estraesse dal fodero.
«Forse il fatto che mi abbiate seguito risulterà a mio vantaggio», commentò il mago.
Prima che Artù potesse chiedere ulteriori spiegazioni in merito, lo stregone disse ancora: «La vedete quella roccia laggiù? Dovete incastrarvi la spada».
«Che cosa? Non ce la farò mai!», urlò e la sua voce echeggiò cupamente nella caverna. «Insomma, tirarla fuori è un conto…».
Merlino scoppiò a ridere e Artù iniziò a sentire una stretta allo stomaco, che ben presto si trasformò in consapevolezza: era stato Merlino a condurlo alla spada nella roccia, era stato lui a convincerlo ad estrarla in un momento in cui aveva perso ogni speranza. Senza il suo aiuto, senza un pizzico di magia, non ce l’avrebbe mai fatta.
«Il vostro popolo non aveva mai smesso di credere in voi», esclamò il mago, quasi con dolcezza. «Ciò che vi serviva era una bella iniezione di autostima e quella è stata l’unica idea che mi è venuta in mente. Ha funzionato, no?».
Artù borbottò qualcosa in risposta, dopodiché si girò a guardare la roccia che emergeva sulla riva della falda. «Che cosa devo fare?».
«Dovete infilzarla nella roccia, con tutte le vostre forze. Al resto penserò io».
«Tu? Non se ne parla, Merlino! Non userai la magia per…».
«Shhh», sussurrò, socchiudendo gli occhi. Quando li riaprì, brillavano di determinazione. «Fidatevi, è il posto più sicuro. Se anche Alex sentisse il richiamo della spada, non potrà estrarla fino a quando non sarà pronta».
Artù sospirò con arrendevolezza ed impugnò Excalibur. Quindi si avvicinò alla roccia e sollevò la spada fino ad avere l’elsa sopra la testa.
«Dimmi quando sei pronto», disse, guardando con la coda dell’occhio lo stregone mentre respirava profondamente ed allungava entrambe le mani verso la roccia.
«Va bene, al mio tre. Uno… due… tre!».
Artù abbassò la spada con violenza e quando pensò che si sarebbe dislocato entrambe le spalle per il contraccolpo, la spada scivolò all’interno della roccia sferragliando e spruzzando scintille da una fessura dorata. Quando la lasciò andare, non poteva credere ai propri occhi: ci erano riusciti.
Si voltò entusiasta verso Merlino e gridò: «Ce l’abbiamo fatta!».
Lo stregone abbozzò un semplice sorriso prima di perdere i sensi ed accasciarsi al suolo con un rigagnolo di sangue che gli usciva dal naso. Artù si gettò al suo fianco e provò a svegliarlo insultandolo e dandogli degli schiaffetti sul viso, ma non servì a nulla. Allora prese il cellulare per chiamare Alex, ma in quella grotta ovviamente non c’era campo.
«Dannazione, Merlino! Lo sapevo che non dovevo ascoltarti!».
Se lo caricò in spalla e faticosamente uscì dalla grotta dei cristalli, nell’aria fredda della notte. Riprovò a chiamare Alex, ma l’infermiera non rispose.
Mordendosi nervosamente l’interno della guancia, il sovrano si guardò intorno nell’oscurità e non molto lontano vide le luci di una serie di abitazioni. Doveva chiedere aiuto a qualcuno, non importava chi. O forse sì.
Scorse una ragazza uscire dall’androne di un condominio, col cappotto sopra al pigiama e in mano un sacco della spazzatura. Attirò la sua attenzione nei pressi del grosso bidone e rischiò quasi di lasciare la presa su Merlino quando la riconobbe.
«Pendragon?», chiese Freya, stringendo le palpebre per osservarlo meglio nell’oscurità.
Il re sospirò e si fece avanti fino a che un lampione non lo illuminò, mostrando anche il corpo inerme di Merlino tra le sue braccia. Vedendolo, la custode lasciò cadere il sacco e lo raggiunse correndo.
«Per quale motivo ha usato la magia?», gli domandò posandogli una mano sulla fronte.
Artù non le chiese come facesse a saperlo e lei non pretese una risposta alla propria domanda; gli ordinò solo di seguirla all’interno del palazzo e lui, pur sapendo che poteva rivelarsi una pessima idea, la seguì.

***

Alex aveva iniziato il turno nel migliore dei modi, assistendo il chirurgo in sala operatoria per un’appendicite acuta fulminante.
Si era appena tolta i guanti imbrattati di sangue, quando era stata raggiunta da niente meno che da Ellis Senior, il padre di Keith.
«Che cosa ci fa lei qui a quest’ora?», esclamò sorpresa, chinandosi per lavarsi le braccia nei grandi lavandini.
«L'altro giorno sono venuto a trovare mio figlio e sul tabellone ho guardato quand'eri di turno. Devo parlarti, Alexandra».
Alex finì di asciugarsi e poi salutò l’uomo che era stato ad un passo da diventare suo suocero. Un sogno infranto da cui lui non si era ancora del tutto ripreso: aveva sempre provato una forte simpatia per lei, diceva  che avrebbe voluto avere una figlia come lei e che invece aveva avuto solo maschi, ben tre.
«Per quanto mi faccia piacere questa visita a sorpresa, avrebbe dovuto chiamarmi: l'avrei incontrata di giorno», esclamò Alex mentre si incamminavano insieme verso la sala relax del Pronto Soccorso.
«Ah, lo sai come sono i vecchi: brontoloni ed insonni», rispose lui, sistemandosi sul naso gli occhiali dalla montatura d’acciaio.
«Ho assistito all’operazione», aggiunse. «Non ricordavo avessi un così bel tocco. Il modo in cui hai applicato quei punti… Non rimarrà nemmeno la cicatrice, a quella ragazza».
Alex ridacchiò ed aprì la porta, invitandolo ad entrare per primo. La sala relax era deserta – per fortuna – e qualcuno aveva appena preparato il caffè: evidentemente era la sua serata.
«Lo sa che non ha mai ottenuto molto da me con i complimenti», disse Alex, versando un po’ di caffè in due tazze. Quindi le portò al tavolo a cui il dottor Ellis si era già seduto e lo guardò in viso, trovando gli stessi occhi grigio-azzurri di Keith, ridenti ed affettuosi, ad attenderla.
«Lo so, ragazzina. E tu sai che detesto quando mi dai del lei».
L’infermiera si morse il sorriso ed alzò le mani in segno di resa. «Okay, perdonami… David. Ora mi dirai di che si tratta?».
Il membro del Consiglio d’Amministrazione bevve un sorso di caffè e dopo aver lasciato la propria tazza sul tavolo infilò una mano nella tasca interna della giacca, ma la lasciò lì per un altro po’.
«Sai, Keith alla fine mi ha detto tutto quello che è successo tra voi. Gli è sempre piaciuto rendersi la vita un inferno».
Alex rimase in silenzio, senza sapere come replicare: quello che aveva fatto Keith, in fondo, l’aveva fatta stare male per settimane; non tanto perché l’aveva tradita – anche per quello, ovviamente – ma soprattutto perché lei non se n’era mai accorta.
«E ha anche confessato l’ultima sua “trovata geniale”: convincermi a mettere una buona parola per il tuo trasferimento al Pronto Soccorso. Voglio scusarmi nuovamente per ciò che ha fatto e assicurarti che io non ho proposto il tuo nome perché me l’ha consigliato lui, ma semplicemente perché sei una risorsa preziosa per quest’ospedale. Avrei scelto te in ogni caso, lo giuro».
«Non lo metto in dubbio, David. E ti ringrazio per questo».
«D’altra parte…», l’uomo sospirò e finalmente tirò fuori ciò che aveva pescato dalla tasca interna della giacca: una busta, con il sigillo dell’ospedale in un angolo. «So quanto tu tenga al reparto oncologico. Adesso che abbiamo ricevuto i fondi necessari… A proposito, posso sapere come diavolo hai fatto?».
«Credi davvero che sia merito mio?». Alex ridacchiò e posò una mano sul polso dell’uomo: «No, il Principe William deve essersi semplicemente reso conto che negare ciò che spetta di diritto ai nostri bambini era sbagliato».
Il dottor Ellis sogghignò, con un bagliore di malizia negli occhi. «Non cambierai mai, vero Alexandra? Non riconoscerai mai i tuoi meriti».
«Probabile», rispose scrollando le spalle.
«Allora spero di poterlo fare io al tuo posto per molto tempo ancora».
Posò la busta sul tavolo e la spinse verso di lei, picchiettando le dita su di essa prima di alzarsi. Alex lo imitò e si lasciò stringere in un abbraccio, poi lo guardò uscire dalla stanza relax.
L’infermiera finì il proprio caffè prima di prendere la busta ed aprirla con mani tremanti, impazienti ma anche spaventata dalla possibilità di aver pensato ad un’illusione.
Lesse velocemente, col cuore che le batteva forte, e poi si strinse la lettera al petto, guardando il soffitto con espressione entusiasta.

***

Abby si voltò ed abbozzò un sorriso, guardando sua nonna addormentata sulla poltroncina accanto al suo letto, con la testa sulla spalla e le labbra dischiuse.
Solo allora infilò una mano sotto al cuscino ed accarezzò la copertina in pelle del diario di Louise McTrusty, la sua bisnonna.
Alla fine era riuscita a convincere Baqi a prestarglielo per una lettura veloce, ma da quando l’aveva ricevuto non aveva ancora avuto modo di aprirlo. Il motivo era sul suo comodino, in una grande busta color paglierino: gli esiti degli esami di controllo.
La dottoressa era passata nel tardo pomeriggio e aveva fatto il discorso che Abby tanto temeva e al contempo era impaziente di sentire. Le aveva ripetuto le solite cose che si usavano dire in casi come quelli: “Stiamo facendo tutto ciò che è nelle nostre possibilità”, “Non ci arrendiamo”, “Le proveremo tutte”.
Quando sua nonna era scoppiata in lacrime, Abby aveva chiesto di scambiare due parole da sola con la dottoressa. I gemelli avevano portato fuori la signora Chapman e la ragazzina aveva fatto sedere la dottoressa al suo fianco, sul letto. Lei all’inizio aveva rifiutato, poi si era lasciata convincere e quando aveva sentito le mani fredde di Abby sulle proprie la sua espressione era cambiata: gli occhi si erano fatti umidi, le labbra avevano iniziato a tremare per la commozione e le sue spalle si erano curvate sotto un peso quasi insostenibile. Ora la ragazzina non era più parte del lavoro, ma un essere umano in carne ed ossa, con pensieri ed emozioni; non era più una paziente qualunque, ma una figlia che non avrebbe mai sopportato di perdere.
«Shhh, va tutto bene», le aveva sussurrato Abby, sporgendosi un po’ per accarezzarle una ciocca di capelli neri a caschetto. «Avete davvero provato di tutto con me».
«No, possiamo ancora tentare un trattamento».
La ragazzina le aveva passato un fazzoletto perché si soffiasse il naso. «Si riferisce al trapianto, vero?».
La dottoressa aveva annuito. «Se trovassimo un donatore compatibile...».
«Ci sarebbe comunque la lista d’attesa. Quanto tempo ho?».
La dottoressa l’aveva guardata per qualche secondo, prima di scoppiare di nuovo in singhiozzi. Allora aveva capito che non ne aveva abbastanza.
Quando la dottoressa era uscita – dopo essersi asciugata il viso e aver sistemato il trucco – era stato un via vai continuo: la voce si era già sparsa su tutto il piano e non solo. Erano passati infermieri, dottori, paramedici, pazienti, e ovviamente i suoi amici. Ma nessuno aveva detto nulla a Mark, nemmeno Danilo aveva osato tanto. Così era andata lei da lui.
L’aveva raggiunto nella sala della chemioterapia e l’aveva trovato con una brutta cera: il viso pallido ed imperlato di sudore, la bandana rossa abbandonata sulle gambe e un secchio per il vomito a portata di mano.
Non appena l’aveva vista avvicinarsi sulla propria sedia a rotelle le aveva lanciato un’occhiata di rimprovero, ma era troppo debole per esprimere a parole la sua irritazione e contrarietà.
Abby l’aveva preso per mano e con tono di voce pacato, senza mai distogliere lo sguardo dal suo, gli aveva raccontato tutto quanto: della terapia di consolidamento che non stava dando i risultati sperati, della comparsa dei sintomi di una recidiva e del fatto che l’unica opzione che le rimaneva a quel punto era il trapianto di midollo.
Mark l’aveva ascoltata senza mai interromperla, lasciando che le lacrime gli scorressero sul viso indisturbate, e poi aveva lasciato che Abby lo abbracciasse, con il capo abbandonato sul suo esile petto.
Erano rimasti lì, avvinghiati l’uno all’altro e alla vita fino a quando un’infermiera non era passata ad avvertire il ragazzino che la seduta era terminata.

Non pioveva, quella notte, ma nel cielo non c’era nemmeno traccia di stelle.
Vicina alle vetrate della sala d’aspetto, il suo sguardo era stato catturato dalla coppia che era appena uscita dalle porte scorrevoli del Pronto Soccorso: entrambi sorridenti, l’uomo teneva una mano sul ventre gonfio della donna, con gli occhi luminosi e trasudanti d’amore e sollievo, probabilmente per un esame andato a buon fine.
Abigail sorrise amaramente, certa che lei, nonostante ce l’avesse nel sangue – l’ennesimo paradosso – non avrebbe mai conosciuto la gioia di diventare mamma. Forse per questo aveva cercato di prendersi cura dei bambini più piccoli sin dal primo giorno di ricovero.
Tra le mani teneva il diario della sua bisnonna, ma non aveva molta voglia di leggere: ogni volta che ci provava, vedeva e rivedeva i terrificanti paroloni che aveva scorto sugli esiti dei suoi esami. Si limitò quindi a guardare gli alberi del parco, le ambulanze coi lampeggianti accesi che andavano e venivano, i dottori e le infermiere che uscivano per una pausa sigaretta e chiacchieravano tranquillamente tra loro, ridendo e scherzando, ignari di ciò che le stava succedendo. O forse lo sapevano e facevano finta di niente perché confrontarsi con la realtà faceva troppo male.
Ad un tratto sentì il ding dell’ascensore arrivato a destinazione e con la coda dell’occhio vide Alex avvicinarsi in silenzio, con le mani nelle tasche dei pantaloni celesti.
«Cath è riuscita a dirmelo solo adesso», esordì dopo qualche istante.
Anche il suo sguardo era fisso fuori dalle vetrate, non si mosse nemmeno quando le posò gentilmente una mano sulla spalla.
Non le chiese come stava, non le disse che in qualche modo tutto sarebbe andato per il meglio. Continuò a stringere con forza e delicatezza la sua spalla e mormorò: «Lo sai... Mi è stato concesso il trasferimento: torno in oncologia. Volevo che fossi la prima a saperlo, tutto qui. Se vuoi restare sola...».
Abigail scosse il capo, gli occhi ormai annacquati. Non aveva ancora pianto da quando aveva ricevuto la notizia; aveva guardato le lacrime degli altri, ma lei non era riuscita a versarle. Lì, con Alex, capì che era il momento giusto per lasciarsi andare.
Si alzò dalla sedia a rotelle e si aggrappò alle sue spalle infilando le braccia sotto le sue, il viso nascosto nell’incavo del suo collo. I singhiozzi le fecero male come coltellate, ma non smise. E Alex rimase in silenzio, accarezzandole ora i capelli corti ora la schiena, fino a quando non tornò a respirare più o meno regolarmente.
«Sono felice di riaverti accanto», sussurrò, tirando su col naso.
Alex sorrise, posandole un bacio sulla tempia. «Non mi sono mai allontanata».
Quando Abby rientrò nella propria stanza trovò sua nonna come l’aveva lasciata. Le stese addosso una coperta e si coricò, addormentandosi se non con il sorriso sulle labbra almeno serenamente, riconoscente di avere vicine così tante persone speciali. E avrebbe lottato per loro, fino all’ultimo respiro.
Il diario di Louise avrebbe aspettato il sorgere del sole.

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Capitolo 23
*** 23. The mark of Abigail ***


Buongiorno e buon inizio settimana!
Allora... Con profondo rammarico ho notato che gli ultimi due capitoli hanno avuto poche visualizzazioni e nessuna recensione. Io non sono una che scrive per ricevere elogi, lo dico francamente... ritengo che la scrittura sia per me una cura, un modo per staccare dalla vita di tutti i giorni e concedermi di fantasticare. Però non posso negare quanto mi renda triste vedere questo calo di interesse. Spero vivamente che sia per causa mia - della lunghissima pausa e dei miei aggiornamenti irregolari - e non della storia in sé, perché questo farebbe molto male. Ad ogni modo lo accetterei, non si può andare incontro ai gusti di tutti.
Se qualcuno può farmi sapere qualcosa in proposito ve ne sarei eternamente grata.
E con questo direi che vi lascio alla lettura. Grazie per aver letto fino a qui :)

Vostra,

_Pulse_

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23.The mark of Abigail


Freya si fece da parte per farlo entrare nell’appartamento di Darrell ed indicandogli il salotto esordì: «Deduco che non sia necessario che io sappia perché ha usato la magia, no?».
Artù si limitò ad annuire mentre adagiava con delicatezza il corpo inerme di Merlino sul divano. Dopo essersi sollevato la guardò con un sopracciglio inarcato, non capendo perché non fosse al suo fianco per tentare di rianimare il mago; quindi in tono imperioso esclamò: «Beh, hai intenzione di aiutarmi a svegliarlo oppure no?».
«E se io mi rifiutassi?», domandò la custode, incrociando le braccia al petto.
Il sovrano boccheggiò, preso alla sprovvista, e Freya ne approfittò per spiegare, quasi con tono annoiato: «Quando la magia ha iniziato a scomparire per via della maledizione di Merlino, essa per preservarsi si è concentrata in pochi punti del pianeta, luoghi rimasti intatti e lontani dall’insaziabile ed aggressiva espansione dell’uomo. Merlino ovviamente è diventato uno di quei punti, una delle fonti, un custode se vogliamo: il potere che risiede in lui è talmente forte che liberarlo potrebbe essergli fatale. Potrebbe ucciderlo sul colpo, disintegrarlo, oppure, come succede ad ogni creatura magica, la sua morte sarà lenta e progressiva: più libererà la magia che è dentro di lui, più si consumerà, poco alla volta».
Artù strinse i pugni lungo i fianchi, il viso accartocciato dalla rabbia. «Tu menti: Merlino non ha lanciato nessuna maledizione».
Freya sorrise come se si trovasse davanti ad un ingenuo ed innocente bambino. «Non l'ha fatto di proposito ma l'ha fatto, rinnegando la magia».
Il sovrano, a seguito di quella rivelazione, finalmente capì i motivi dei suoi lunghi silenzi, dell'espressione spesso colpevole che assumeva quando pensava che nessuno lo stesse guardando: si sentiva colpevole per essersi lasciato sopraffare dal dolore, proprio come Morgana, e di aver condannato il mondo al suo lento declino.
«Non ho intenzione di indebolirmi perché Merlino torni subito a vostra disposizione», concluse la ragazza druida prima di sparire in cucina, da cui aggiunse: «Si sveglierà quando avrà ricaricato le batterie!».
Il re di Camelot abbassò lo sguardo sul volto privo di espressione dello stregone, trovandolo dolce ed irritante allo stesso tempo – soprattutto perché era tutta colpa sua se si trovavano in quella situazione – e si massaggiò gli occhi stanchi.
La notte precedente non aveva chiuso occhio, non voleva raddoppiare; allo stesso tempo, era troppo stanco per ritornare a casa con Merlino sulla schiena. Avrebbe potuto chiamare Cathleen, perché arrivasse con un’ambulanza e desse loro uno strappo, ma qualcosa glielo impediva.
Non si erano ancora sentiti da quando avevano avuto quel diverbio riguardo alla questione "famiglia" e nonostante avesse intuito che non voleva offendere lui in particolare, non aveva voglia di sentirla. Come aveva fatto lei poco tempo prima, non voleva rincorrerla: si sarebbe seduto e avrebbe aspettato che facesse lei il primo passo.
Sbuffò, arrendendosi all’evidenza che avrebbe dovuto aspettare che Merlino si svegliasse spontaneamente. Si guardò intorno in quell’appartamento sconosciuto e sbuffò di nuovo, rendendosi conto che tutto il divano era occupato dal mago e che l’agente Fisher non era un fan delle poltrone.
Come se gli avesse appena letto nel pensiero, Freya esclamò: «Mettetevi pure comodo! Potrebbe volerci anche tutta la notte, sapete?».
Riconobbe una sfumatura divertita nella sua voce. Che realmente riuscisse a leggergli nella mente?
Così Artù si sedette sul pavimento, con la schiena contro il bordo del divano, e nascose la testa tra le braccia. Chi gliel’aveva fatto fare, di accettare il suo invito? Ma forse non tutto il male doveva per forza nuocergli, dato che aveva uno o forse due fastidiosi pesi sullo stomaco di cui voleva al più presto liberarsi. Magari quella era l’occasione buona.
«Ho fatto del tè».
Artù levò lo sguardo e prese la tazza che Freya, sorridendo, gli stava porgendo. La tenne stretta tra le mani, nonostante il liquido bollente gli bruciasse la pelle attraverso la ceramica, mentre la custode afferrava una coperta e la posava sopra il mago, soffermandosi un attimo di troppo ad accarezzargli il mento con le dita.
Quando si sedette poco lontano da lui e si accorse che il sovrano non aveva ancora osato avvicinare la tazza alla bocca, alzò gli occhi al cielo ridacchiando.
«Non ho intenzione di avvelenarvi, fidatevi».
Artù strinse le labbra in un sorriso amaro e posò la tazza sul tavolino basso di fronte a lui. «Ho imparato a mie spese quanto possa essere pericoloso fidarsi».
Freya bevve un sorso del proprio tè e stese le gambe di fronte a sé, muovendo le dita dei piedi nei calzini di spugna fucsia. Ad Artù diede fastidio il suo atteggiamento rilassato, il fatto che si comportasse come se fosse da sola e non seduta accanto all’amore della sua vita e al cavaliere che le aveva tolto la vita.
Ad un tratto si stancò e le chiese bruscamente: «Perché mi hai aiutato, ieri notte?».
«Siete una delle tessere del puzzle, non era giunta la vostra ora», rispose la custode scrollando le spalle, senza guardarlo in viso.
«Questa è la risposta che dovevi darmi. Quella vera, invece?».
Freya abbozzò un sorriso. «Lo sapete, qual è». Si voltò verso lo stregone e lo guardò per un momento, una mano sollevata a mezz’aria verso il suo viso. Ma non arrivò mai a sfiorarlo, come se ci fosse un campo di forza intorno a lui, e il suo sorriso presto di spense.
«Ho sognato di tornare per secoli ed ora che non lo ritenevo più possibile... il suo cuore appartiene alla vostra erede», sospirò tristemente e gli diede nuovamente le spalle. «Merlino e Freya, costantemente allontanati dai Pendragon», aggiunse a bassa voce.
Artù non avrebbe voluto sentirsi male per lei, ma era più forte di lui. Ciò nonostante non lo diede a vedere e riprese: «Ad ogni modo, grazie. Anche se a dirla tutta è colpa tua, se ho rischiato di morire: se non fossi scappata e non ci avessi gettato addosso quegli alberi...».
«Siete impossibile», commentò Freya ridendo, facendo leva su una mano per alzarsi dal tappeto. Artù però le afferrò il polso ed inchiodò gli occhi nei suoi. Iniziò ad intuire ciò che aveva spinto Merlino ad innamorarsi perdutamente di lei: il viso pulito, gli occhi dolci e l’espressione impaurita che aveva quando il mago l’aveva vista per la prima volta, rinchiusa in quella gabbia.
«Io non lo sapevo», disse alla fine, a bassa voce.
«Che cosa?».
«Non sapevo di te e Merlino».
Freya posò inaspettatamente la mano sulla sua e sorrise teneramente, inginocchiandosi di fronte a lui. «Ne sono consapevole, Pendragon; voltate pagina. Per quanto mi riguarda non sono mai stata in collera con voi: dovevo essere fermata, per la sicurezza di tutti, inclusa quella di Merlino. Soprattutto la sua».
Artù non capì subito ciò che aveva sottinteso con quelle parole. Quando lo fece, Freya era già in cucina con la propria tazza di tè vuota. Posò lo sguardo su quella che gli aveva offerto, ancora sul tavolino, e senza darsi il tempo di avere dei ripensamenti se la portò alle labbra. Il liquido caldo e dolce – forse un po’ troppo per i suoi gusti – gli fece chiudere gli occhi e abbandonare il capo contro il divano. Si sforzò di resistere al sonno, invano.
Sentì un fruscio accanto a sé, ma nel dormiveglia capì che non era nulla di cui preoccuparsi: Freya, china su di lui, lo stava invitando a stendersi, con un morbido cuscino sotto la testa e una coperta a tenerlo al caldo.
Sul momento aveva pensato ad un sogno: mai avrebbe pensato che la custode potesse essere così gentile nei suoi confronti. Si dovette ricredere, quando Merlino lo svegliò bruscamente a poche ore dall’alba.

«Dove diavolo siamo?», urlò a mezza voce Merlino, ancor prima che si svegliasse del tutto.
Artù si sollevò e stropicciandosi gli occhi mugugnò: «Non ti rivolgere a me con quel tono».
«Dove diavolo siamo, vostra altezza?», ripeté, ancora più infuriato. Provò ad alzarsi, ma una fitta alla testa lo fece ricadere seduto sul divano.
Allora il sovrano si tolse di dosso la coperta e si guardò intorno alla ricerca di Freya. Non trovandola, spiegò: «Dopo aver usato la magia per mettere Excalibur nella roccia sei svenuto, così ti ho portato fuori dalla grotta dei cristalli e mi sono diretto verso le abitazioni. Non sapevo che Freya fosse qui, l’ho incontrata per caso».
«State… state dicendo che siamo a casa dell’agente Fisher? Oh, cavolo».
Merlino si passò lentamente le mani sul viso, sospirando, e poi un altro pensiero lo fece sobbalzare e recuperare quasi con frenesia il cellulare nella tasca dei jeans.
«Lo sapevo, lo sapevo. E adesso come spiegheremo ad Alex perché abbiamo chiesto aiuto a Freya?», gli chiese iracondo, mostrandogli le chiamate perse.
«Ehi, vedi di darti una calmata», sbottò Artù, stufo delle sue lagne. «Diremo la verità ad Alex, non avrà motivo di arrabbiarsi. E se lo farà… sei tu il suo fidanzato, non io».
Merlino lo fissò e dopo un attimo di esitazione afferrò il suo braccio per tirarsi in piedi. «Molte grazie», bofonchiò. «Dov’è ora Freya?».
Artù scrollò le spalle e sostenendo lo stregone si incamminò verso la porta.
«Presuppongo non vogliate ringraziarla per l’ospitalità», esclamò Merlino, guardandolo con una lieve traccia di rimprovero nello sguardo.
«Dobbiamo metterci in cammino, se vogliamo arrivare a casa e dormire qualche ora in un vero letto».
Il mago si lasciò condurre fuori e all’aria fredda del mattino ancora buio rabbrividì, tanto che Artù si tolse la sciarpa e gliela legò intorno al collo, rischiando quasi di strozzarlo.
Iniziarono a camminare verso casa, tagliando per il bosco per fare prima, e Merlino non riuscì proprio a tenere la bocca chiusa: volle sapere che cosa si erano detti, in particolare se le avesse riportato ciò che gli Sidhe avevano profetizzato. Artù aveva mentito, dicendogli che sì, le aveva detto che l’avrebbero riportata ad Avalon; perché lo pensava, era sicuro fosse la cosa giusta da fare, e ciò che provava adesso nei suoi confronti era solo compassione, che presto sarebbe passata. Aveva solo bisogno di un altro po’ di tempo e poi avrebbe fatto ciò che doveva.

***

Mancava ormai poco all’alba e i corridoi erano immersi in un silenzio surreale, tanto che Alex si sentì l’unica persona ancora sveglia, sovrana e custode dell’intero ospedale.
Quella fantasia svanì presto, una volta svoltato l’angolo. Salutò la collega al bancone della reception, gettò un’occhiata al collega che stava ponendo le domande di rito all’ultimo paziente in sala d’attesa e poi uscì dalle porte scorrevoli per raggiungere Cathleen, seduta su uno dei panettoni gialli che delimitavano il parcheggio.
Le posò una mano sulla spalla e il paramedico tirò fuori da una delle innumerevoli tasche dei pantaloni un pacchetto di sigarette sgualcito per offrirgliene una ed estrarne un’altra per sé direttamente con le labbra.
«Grazie», mormorò chinandosi verso la fiamma dell’accendino; quindi tirò a lungo e soffiò il fumo verso il cielo che iniziava a tingersi dei colori dell’alba. «Ho ricevuto una chiamata da Artù, verso l’una, ma quando l’ho richiamato non mi ha risposto. Tu sai…?».
Cathleen scosse il capo, portandosi la sigaretta tra le labbra. Ad un tratto si alzò di scatto dal panettone e si voltò a guardarla con gli occhi lucidi: «Perché proprio Abigail? Perché sono sempre le persone migliori a perderci?».
«Non saprei… Ma sto iniziando pensare che siamo davvero legati ad un destino».
«Beh, il destino fa schifo!», urlò e gettò a terra la sigaretta per avventarcisi sopra con un piede.
Alex si avvicinò e l’abbracciò con delicatezza, accarezzandole i capelli. «Lo so. Credimi, lo so».
«Tu pensi che si possa cambiare, il destino?», le domandò piano Cathleen, tranquillizzata dalla sua stretta.
«Lo spero con tutte le mie forze. So però che non smetterò di provarci, puoi starne certa».
Cathleen sciolse l’abbraccio e la guardò con la sua caratteristica ruga d’espressione tra le sopracciglia, segno di preoccupazione. «Che hai intenzione di fare?».
«Tutto ciò che posso per aiutare Abby», rispose Alex con un sorriso appena accennato, il viso rivolto verso l’alto per ammirare le nuvole cambiare colore ai primi raggi del sole.

***

Darrell diede il cambio al collega e come ogni mattina – che facesse il turno di notte o meno – si incamminò verso la caffetteria della signora Begum per il primo caffè della giornata.
Respirava a pieni polmoni l’aria fredda, intrisa del profumo della rugiada sulla natura, e nonostante la quiete del paesaggio la sua mente era ancora turbata da ciò che aveva letto riguardo al tatuaggio di Freya.
Quella notte aveva approfondito la ricerca iniziata il pomeriggio prima, inserendo nel motore di ricerca le parole: “tre spirali intrecciate”. Come risultato principale aveva ottenuto il Triskelion, un simbolo comparso per la prima volta durante il periodo Neolitico a Malta e in varie zone della Grecia, per poi diventare molto popolare nella cultura Celtica e nelle religioni pagane. Tutt’ora il Triskelion, in alcune sue varianti, era raffigurato su diverse bandiere, come quella della Sicilia, in Italia, e quella dell’Isola di Man, nel Mar d’Irlanda.
Il suo significato però era andato perduto, probabilmente a causa dell’abitudine di tramandare le conoscenze oralmente; c’erano solo ipotesi, supposizioni. Alcuni studiosi pensavano che le tre spirali simboleggiassero la Triplice Dea, altri che fossero tre dei quattro elementi naturali (terra, fuoco e acqua), altri ancora che rappresentassero il tempo (passato, presente e futuro) e infine c’era chi pensava che si riferissero ai tre mondi di questa realtà (il mondo degli esseri viventi, dei morti e degli spiriti erranti). Tutte opzioni poco rassicuranti per uno come lui, ben attaccato alla razionalità e alla logica. E, sopratutto, se venivano associati a Freya e alla sua perdita di memoria: cosa avrebbe fatto, nel caso in cui si fosse rivelata membro di una qualche folle setta? Gli sembrava impossibile, per quel poco che l’aveva conosciuta in quelle settimane, ma non poteva escludere nulla al momento.
Le pagine Wikipedia, i blog, le discussioni, i link, gli asterischi e le note che gli erano comparsi sullo schermo del computer erano stati così tanti che a mezz’ora dalla fine del turno aveva dovuto affrettarsi per occuparsi di tutto ciò che avrebbe dovuto fare nel corso dell’intera notte e si sentiva esausto, oltre che suggestionato dal mondo di mitologia, paganesimo, magia ed arti oscure in cui si era ritrovato immerso.
Il campanello all’ingresso della caffetteria fu in grado di riportarlo alla realtà, oltre che alla rassicurante normalità delle abitudini.
«Buongiorno agente Fisher», lo salutò con timidezza il ragazzo dietro il bancone. «Il solito caffè da portar via?».
«Sì, grazie Jake».
Nell’attesa si appoggiò al bancone, con lo sguardo rivolto verso la televisione con l’audio quasi al minimo, su cui stava andando in onda il telegiornale.
«Mattinata tranquilla?», domandò ad un tratto.
«Come sempre a quest’ora».
Dalla cucina si udì il segnale acustico del forno e Jake corse a tirar fuori le brioches e le ciambelle appena cotte. Iniziò a deporle nell’espositore e gettò un’occhiata all’orologio alle sue spalle, aggiungendo: «Anche se tra poco dovrebbero iniziare ad arrivare i dottori e le infermiere del turno di notte».
Jake non fece in tempo a terminare la frase che la porta si aprì con il solito scampanellio, facendo entrare i primi camici bianchi. Darrell allora chiese al ragazzo di tenergli da parte due ciambelle, una con sopra la glassa e gli zuccherini colorati e una col cioccolato.
Pagò sorridendo al ragazzo, raccomandandogli di salutargli la signora Begum, e quando si voltò rischiò quasi di finire addosso ad Alexandra Greenwood e alla sua amica paramedico.
L’infermiera gli lanciò un’occhiata di scuse e superandolo continuò a parlare al cellulare: «Ho capito, sul serio... Artù ha fatto bene, non aveva altra scelta. No, Merlino, non sono arrabbiata. Ma sei sicuro di voler andare al lavoro comunque? Posso chiamare mio padre e...».
A quel punto Darrell smise di ascoltare, distratto da Cathleen.
«Ehi, agente! Come va? Un altro turno di notte?».
Darrell si sforzò di sorridere, rispondendo: «A quanto pare ne avrò ancora per un po’. Spero solo non siano tutti movimentati come gli ultimi». Quindi indicò Alex con un cenno del capo, la fronte aggrottata: «È successo qualcosa a Merlino?».
La rossa gli agitò un dito di fronte al viso, lo sguardo malizioso. «Ah-ah, non è carino origliare».
Darrell guardò ancora una volta l’infermiera, appoggiata con entrambi i gomiti al bancone e una mano tra i capelli biondi sciolti sulla schiena. Sembrava stanca, ma non solo perché aveva appena finito il turno; era una stanchezza profonda, come se avesse avuto un peso a gravarle sull’anima.
«C’è una cosa che devo dirti. No, è una questione un po’ delicata. Facciamo che ti raggiungo lì nel pomeriggio. Okay. Ti amo anch’io».
Cathleen gli schioccò le dita di fronte al naso e quando quella volta incrociò il suo sguardo, lo trovò infastidito.
«Come avrai capito, è già impegnata», sibilò a pochi centimetri dal suo volto.
Il poliziotto indietreggiò di un passo e dopo un attimo di esitazione rispose: «Non sapevo che lei e Merlino fossero una coppia».
«Le farò le tue congratulazioni».
Un sorrisino gli sollevò un angolo della bocca, così all’improvviso che Cathleen ne rimase sbigottita. Darrell le posò una mano sul braccio e la superò per raggiungere l’infermiera, sussurrandole all’orecchio: «Grazie, faccio da me».
Quando Alex vide l’agente sedersi sullo sgabello alto accanto al suo domandò silenziosamente spiegazioni a Cathleen, la quale roteò gli occhi al cielo e alzò le mani. Poi si concentrò su di lui, stringendosi il collo tra le spalle: «Volevi dirmi qualcosa?».
«Innanzitutto, congratulazioni: ora capisco perché la mia domanda su Myra e Merlino ti ha infastidito tanto».
«Pensavo avessimo superato l’argomento», bofonchiò Alex, irritata.
«Infatti, scusami. Prometto che non ne parleremo mai più», si fece una croce sul cuore e poi le disse quello per cui si era avvicinato: «Non sei più passata in Centrale per la denuncia».
«Scusami, ma non ho fatto in tempo. Domani lavori?».
«Sì, faccio il primo turno».
«Perfetto, io sono di riposo domani. Ti prometto che passerò».
«Okay, allora… ti aspetto».
Alexandra annuì e gli rivolse un sorriso nervoso quando lo vide esitare sullo sgabello. Rendendosi conto di non aver altri motivi per rimanere, Darrell si decise ad alzarsi e ad allontanarsi.
Non si voltò più indietro, nemmeno quando sentì Cathleen chiedere all’amica che cosa si fossero detti, e una volta fuori dalla caffetteria attraversò la strada per raggiungere la propria auto.
Si fermò accanto alla portiera e si tastò le tasche dei pantaloni alla ricerca delle chiavi. Fu per caso, quindi, che lo sguardo gli cadde sull’auto parcheggiata dietro alla sua, con un draghetto di pezza rossa appeso allo specchietto retrovisore. Con le chiavi dell’auto in mano si soffermò a guardarlo, chiedendosi dove l’avesse già visto. L’illuminazione gli venne all’improvviso, così prepotentemente che rischiò di far cadere il sacchetto con le ciambelle.
Aprì l’auto per lasciare la sua colazione sul sedile del passeggero, poi prese il proprio taccuino e si segnò targa e modello dell’auto. Non poteva aspettare il giorno seguente per sapere, perciò si mise al volante e tornò alla Centrale, dove il collega che da poco gli aveva dato il cambio gli chiese ridendo se volesse sostituirlo. Darrell non lo sentì nemmeno, troppo concentrato sulla pista che stava seguendo.
Inserì nell’archivio i dettagli che si era segnato ed attese che la pagina si caricasse. Non ci volle molto, ma per un po’ rimase in silenzio, immobile, come se il computer si fosse impallato.
La patente dell’intestatario dell’auto era lì, davanti ai suoi occhi, eppure si rifiutava di crederci. Perché mai l’auto di Cathleen avrebbe dovuto trovarsi di fronte alla villetta di Alexandra, la notte in cui si era verificata quell’insolita effrazione?

***

Merlino si sentiva ancora malissimo, tanto che faticava a dare i contorni alle cose e la testa gli doleva come se qualcuno stesse provando ad aprirgli in due il cranio con un'accetta.
Si massaggiò ancora una volta le palpebre pesanti con due dita e fece un respiro profondo, concentrandosi sulla strada sterrata oltre il parabrezza. Poi si accorse dell’espressione assorta di Artù, del cellulare che teneva tra le mani e che controllava ogni due per tre, e pensò che nonostante tutte le preoccupazioni che gli affollavano la mente al momento – l’agente Fisher che aveva archiviato il suo prototipo come una prova, Freya, il ragazzo che stava conducendo un'indagine su di lui, Hala e Alex – non poteva comunque trascurare il suo re.
«Aspettate una chiamata?», gli domandò, abbozzando un sorriso.
Artù scosse il capo e sospirò. «Tanto so perfettamente che non lo farà».
Si infilò nuovamente lo smartphone in tasca ed abbandonò la testa contro il sedile, affranto. «Non te ne ho parlato perché avevi altro per la testa, ma io e Cathleen abbiamo avuto una specie di diverbio quando ho scoperto di te e Alex».
«Ehi», attirò la sua attenzione. «Voi potete parlarmi di qualsiasi cosa in qualsiasi momento vogliate. Avete capito? Io ci sarò sempre, per voi».
Riuscì a farlo sorridere e Merlino la contò come una vittoria.
«In poche parole», iniziò a raccontare, «ero infuriato perché non me l’avevate detto prima e anche lei me l’aveva tenuto nascosto. Stavo per dirle che ai miei tempi le cose per i membri della famiglia reale, la mia famiglia, erano diverse, ma mi ha interrotto dicendomi che le famiglie “con nomi importanti fanno schifo”. Ha detto proprio così. Da allora non ci siamo più sentiti».
Merlino rimase in silenzio a riflettere, cercando di capire a che cosa si potesse riferire Cathleen con quelle parole taglienti. Gli venne in mente solo un motivo plausibile.
«Che cosa sapete sulla sua famiglia?», gli chiese.
«Assolutamente niente», rispose Artù, come se si fosse aspettato quella domanda. E infatti aggiunse: «Anche io penso che l’abbia detto basandosi sulla sua esperienza personale. Non ha mai accennato ai suoi genitori, a fratelli o sorelle… È come se fosse sempre stata sola al mondo, prima di conoscere Zachary».
«Non so che cosa dire», esclamò Merlino dopo qualche altro istante di silenzio. «I legami familiari sono complicati, voi più di tutti lo sapete: l’amore più profondo può tramutarsi in odio in un battito di ciglia e viceversa. Per quanto mi riguarda mi sono sempre ritenuto fortunato: mia madre mi ha amato oltre ogni misura, ha persino rinunciato a me quando nel mio villaggio i sospetti che fossi uno stregone avevano iniziato a farsi più insistenti, e mio padre… beh, lo conoscevo da appena un giorno quando ha sacrificato la sua vita per la mia».
Sentì lo sguardo di Artù sul suo profilo, profondo e triste, ma Merlino non si girò a guardarlo nemmeno quando disse: «Mi dispiace se l'ho giudicato male, era un brav'uomo».
Merlino annuì, un sorriso mesto sul viso. «Perdonatemi se allora ho mantenuto il segreto anche su questo, ma temevo che vostro padre non avrebbe gradito avere l'ultimo Signore dei Draghi al servizio di suo figlio…».
«Va bene così, Merlino».
Il mago, stupito da tanta calma e gentilezza, si soffermò a guardare il sovrano, di nuovo assorto nei propri pensieri.
Erano quasi arrivati all’agriturismo, quando gli posò una mano sulla spalla, esclamando: «Prima o poi si aprirà con voi, datele un po’ di tempo».
Artù ricambiò il sorriso, anche se si spense non appena si voltò verso il finestrino. Lo stregone avrebbe voluto fare di più per lui, ma si rendeva conto che non poteva; avrebbe pianto con lui e avrebbe gioito con lui, continuando a stargli accanto come aveva sempre fatto.

«Buongiorno Rebecca».
La ragazza sollevò lo sguardo dal computer e gli sorrise, ricambiando il saluto. Quando incrociò gli occhi di Artù la sua espressione cambiò radicalmente ed inspirò a lungo prima di esordire: «Per quanto mi dispiaccia ammetterlo, mio padre ha ragione: io non sono il tuo tipo e forse nemmeno tu sei il mio. Penso che dovremmo smetterla di illuderci».
Merlino guardò Artù, confuso e spaventato come poche volte l’aveva visto, e dovette mordersi le labbra per non scoppiare a ridere sguaiatamente. Per fortuna arrivò la signora Chapman a salvare tutti da quell’imbarazzante situazione, anche se prima di dedicarsi a lei Rebecca concluse a bassa voce: «Sarà difficile dimenticare, ma ci riusciremo, vedrai».
Artù gli afferrò un polso e negò piano con la testa, mimando con le labbra: «Questa è pazza».
Lo stregone aumentò la pressione dei denti, scosso da un altro attacco di ridarella. Poi tutta la sua attenzione fu catturata proprio dalla signora Chapman, la quale, appoggiata al bancone della reception e china verso Rebecca, chiedeva se le potesse chiamare un taxi per andare in ospedale.
«Certamente», affermò Rebecca con un sorriso cordiale. «Ah, già che è qui signora Chapman, ne approfitto… So che ieri sera è arrivato il fratello di Hala e che ha dormito con lei, ma per questa sera mi si è liberata una camera con i letti separati. Si troverebbero meglio?».
«Sei molto gentile, cara. Chiedo subito a Baqi e Hala e ti faccio sapere, va bene?».
Rebecca stava per dirle che non c’erano problemi, ma Merlino le parlò sopra ripetendo: «Baqi?».
Entrambe le donne lo guardarono fino a quando la signora Chapman non spiegò: «Sì, è il fratello gemello di Hala. Non penso vi siate conosciuti, ma ce ne sarà di sicuro l’occasione».
«Senza dubbio», tentò di rimediare Merlino, stirando un sorriso. «Buona giornata e mi saluti Abby».
Nel sentir nominare la nipote, l'anziana impallidì e il suo volto si accartocciò, come se stesse trattenendo uno starnuto o qualcosa di altrettanto irrefrenabile. Quindi annuì con un cenno del capo ed abbassando gli occhi si allontanò, lasciando i due ragazzi piuttosto confusi. Merlino però accantonò presto l'episodio per concentrarsi su quello che aveva appena scoperto: Baqi, il ragazzo che stava indagando su di lui, era il gemello di Hala e dormiva all'agriturismo, dove lui lavorava. Tutto d'un tratto era impaziente di rassettare camere.
Fece il giro della reception e sulla piccola bacheca di sughero trovò i compiti della giornata, scritti nella bella ed ordinata calligrafia della signora Morris.
Staccò il foglietto e dopo aver recuperato anche il planning delle camere in fermata e in partenza tornò da Artù, il quale stava deviando in ogni modo lo sguardo quasi impietosito di Rebecca, dicendo: «Io vado di sopra a fare le camere». Poi, con nonchalance, chiese: «Qual è la camera di Hala e Baqi?».
«Ahm… al momento hanno la 112. Ti chiamo per farsi sapere se rimangono lì o si spostano, così dai loro una mano con i bagagli».
«Perfetto. A dopo».
Artù lo seguì come se fosse la sua ombra, rigido come un manico di scopa, e Merlino, divertito, tornò da Rebecca ridendo sotto i baffi.
«Artù non ha mai pensato che tra voi due potesse nascere qualcosa, ma ti ringrazia comunque per l’incoraggiamento».
Il re gli lanciò un’occhiata incredula e adirata, ma quando vide che la stessa Rebecca scoppiò a ridere si ricredette e riuscì persino a dargli una bonaria pacca sulla spalla, trascinandolo via.

***

Darrell si chiuse la porta di casa alle spalle e, sovrappensiero com’era, si dimenticò di fare piano. Sul momento però non se ne rese conto e si diresse in cucina, dove si spogliò della giacca e della fondina, lasciandole sullo schienale della sedia su cui poi si sedette, con le mani a nascondergli il viso.
Aveva troppe domande e decisamente troppe poche risposte, e questo lo stava facendo ammattire. Come il fatto che tutto era iniziato quando Freya era entrata a far parte della sua vita, un dettaglio che non poteva di certo ignorare.
«Sei tornato».
Darrell sobbalzò, portando involontariamente una mano sulla pistola appesa alla sedia. La lasciò subito, quando scorse un fremito di paura proprio negli occhi dolci di Freya.
«Mi hai spaventato», si giustificò debolmente, per poi rivolgerle un pallido sorriso. «Ti ho svegliata?».
La ragazza scrollò le spalle e si passò una mano tra i capelli ancora un po’ gonfi. «Non ho dormito molto questa notte».
«Come mai?».
«Non lo so… Forse ero agitata per oggi».
«Che succede oggi?».
Freya si avvicinò e passandogli le dita tra i ricci biondi accennò una risata. «Hai insistito così tanto perché mi lasciassi accompagnare all’ospedale e ora non ti ricordi nemmeno che avevamo deciso di andarci oggi».
«Certo, sì, l’ospedale», mugugnò e si alzò, spostandosi dalle gentili carezze che avevano fatto saltare un battito al suo cuore.
La ragazza lo osservò fare il giro del tavolo per andare ad accendere la macchina del caffè e con la fronte aggrottata gli domandò: «C’è qualcosa che non va?».
Darrell non rispose e cambiò argomento, indicando il sacchetto sopra il ripiano del tavolo: «Ti ho preso la ciambella che ti piace».
Freya aprì il sacchetto e tirò fuori il dolce con la glassa e gli zuccherini colorati, sorridendo a trentadue denti. «Oh, grazie mille».
Quindi recuperò un tovagliolo e la lasciò sul tavolo per prendere una tazza dalla credenza e il latte dal frigorifero. Anche Darrell aveva bisogno di una tazza per il caffè, perciò le disse di lasciare pure aperta l’anta.
Mentre Freya andava a sedersi, il poliziotto si spostò davanti alla credenza, dove però non trovò la sua tazza preferita, quella che suo fratello minore gli aveva regalato quando era diventato un agente e su cui era stampato il logo della Police Academy, i cui film erano sempre piaciuti ad entrambi.
Abbassò lo sguardo e nel lavello vide due tazze sporche, una delle quali era proprio quella che stava cercando. Con la coda dell’occhio vide Freya mordere la propria ciambella, ignara di tutti i sospetti che gli stavano facendo gelare il sangue nelle vene.
«Freya? Perché hai usato la mia tazza?».
La ragazza lo guardò con sguardo perso e dopo aver boccheggiato per un istante tornò a sorridergli, rispondendo: «Ti ho detto che ieri sera non riuscivo a dormire; mi sono fatta del tè e non ci ho fatto caso. Mi dispiace».
Darrell non era stupido e il presentimento che Freya gli stesse mentendo tornò a farsi sentire con forza. Il problema era che non aveva prove concrete su cui basarsi e fondare le proprie accuse. E continuando di quel passo non ne avrebbe mai avute.
«Okay, hai finito?», le chiese bruscamente, trovandola con la bocca piena e i baffi di latte. In un altro momento l’avrebbe trovata così buffa e tenera che gli si sarebbe sciolto il cuore, ma tutto quello che stava succedendo gli aveva inaridito l’anima.
Freya deglutì rumorosamente ed annuì subito, come se non volesse vederlo arrabbiato, e senza nemmeno finire il proprio latte corse nella stanza degli ospiti per cambiarsi e prendere la borsa che aveva preparato con alcuni cambi – giusto per ogni evenienza.
Darrell non avrebbe voluto trattarla in quel modo, come la sospettata di un crimine orrendo, ma era più forte di lui.
Approfittò di quei minuti d’attesa per darsi una rapida sciacquata e cambiarsi, infilandosi un paio di semplici jeans e una camicia a quadretti sotto alla giacca a vento color petrolio.
Quando entrambi furono pronti, uscirono di casa e raggiunsero l’ospedale in religioso silenzio. La tensione tra loro era così densa da poterla tagliare a fette.
La situazione non migliorò nemmeno in ospedale, quando la dottoressa che prese in carico il caso di Freya iniziò a fare domande per stabilire un primo quadro clinico e decidere a quali tipi di esami sottoporla. Darrell rispose quasi a monosillabi, troppo distratto e deluso dal suo stesso comportamento.
Come aveva potuto essere così ingenuo? Avere la presunzione di poter fare l’eroe? Ospitare a casa sua una sconosciuta e sottostare alle sue regole, anziché chiamare subito le autorità competenti?
«Beh, direi di iniziare con un esame del sangue e delle urine e poi controlleremo il tuo corpo per appuntarci segni particolari, cicatrici, qualsiasi cosa possa aiutarci a costruire la tua storia clinica. Più tardi faremo anche una TAC per cercare di capire che cosa ha provocato la perdita di memoria, okay?».
Freya annuì alle parole della dottoressa e l’espressione impassibile sul suo volto non lasciò trasparire nessuna delle emozioni che provava, tantomeno la paura, ma Darrell riuscì a percepirla grazie al lieve tremore della mano che aveva cercato il conforto della sua. L’agente aveva socchiuso gli occhi e si era sottratto a quella stretta, portandosi entrambe le mani dietro la schiena, e la ragazza allora – solo allora – lo aveva guardato impaurita mentre la dottoressa e un’infermiera la invitavano a seguirle, prendendola sottobraccio.
Darrell si sentì un mostro ed evitò il suo sguardo chinando il capo. Non lo rialzò nemmeno quando sentì la sua voce mormorare: «Avevi promesso che saresti stato con me per tutto il tempo. L’avevi promesso, Darrell».
Alla fine trovò la forza per rispondere, anche se con poche parole: «Mi dispiace, non ci riesco», ma Freya era già lontana.

***

Merlino abbandonò il proprio carrello e guardò da una parte all’altra del corridoio prima di aprire la porta della stanza 112. Senza infilare la tessera nella slot apposita – non voleva che Rebecca dalla reception lo vedesse e gli facesse domande – entrò ed iniziò a curiosare tra gli oggetti personali dei gemelli. Aprì le valigie addossate alla parete, controllò nell’armadio e frugò nei cassetti dei comodini, poi sollevò i cuscini e tirò via le coperte.
Niente, non c’era niente.
Lo sguardo gli cadde sul blocchetto di appunti posato accanto all’abat-jour. Lo portò accanto alla finestra e si accorse che era stato scritto qualcosa sul foglietto prima – ce n’era ancora l’impronta. Si precipitò al cestino posato ai piedi del letto, lo svuotò sul pavimento ed iniziò a cercare freneticamente l’unico indizio che avrebbe potuto fargli avere una certezza in più sulla pericolosità di quei due ragazzi.
Aprì un foglietto appallottolato ed ebbe solo il tempo di leggere il primo punto prima di essere colto in flagrante proprio da Hala, ferma sulla porta e con gli occhi sgranati, impauriti e al contempo desiderosi di scoprire la verità.
«Mi dispiace infinitamente», disse subito Merlino col tono più mortificato del suo repertorio. «Stavo rifacendo il letto e ci sono inciampato».
Raccolse da terra tutto il contenuto del cestino e poi si alzò, sorridendo innocentemente alla ragazza di fronte a lui.
«Se vuoi posso tornare più tardi», disse.
Hala si schiarì la voce e si gettò un’occhiata alle spalle, come se avesse paura che qualcuno la vedesse parlare con lui, e rispose: «A me e mio fratello è stata assegnata un’altra camera, credo che Rebecca ti stesse cercando per dirtelo».
«Oh… Ma certo, che stupido». Tirò fuori dalla tasca dei jeans il passepartout dei camerieri e glielo indicò, ridacchiando. «Non so dov’ho la testa, oggi».
Dopo qualche secondo di silenzio, Merlino chinò il capo e con un mezzo sorriso sulle labbra uscì dalla stanza passandole accanto. Percepì la sua agitazione e quella fu proprio la conferma che cercava: lei sapeva, chissà come ma sapeva.
«Chiamatemi, se avete bisogno di aiuto con i bagagli», esclamò una volta raggiunto il carrello.
Hala non si voltò nemmeno per rispondergli: «Grazie, non ce ne sarà bisogno».
«Come vuoi».
Merlino si allontanò e si infilò nella prima camera libera che necessitava della pulizia. Inserì la propria tessera magnetica nella slot e subito il telefono squillò. Sospirando sollevò la cornetta e salutò Rebecca, la quale gli chiese subito dove cavolo era finito.
«Scusami, sono andato a recuperare le federe pulite in magazzino, non ne avevo più sul carrello», mentì. «Avevi bisogno di qualcosa?».
«Volevo solo avvisarti che i gemelli…».
«Cambiano stanza, sì. Ho incrociato adesso la ragazza e me l’ha anticipato. Le ho anche chiesto se avesse bisogno con i bagagli, ma ha detto di no».
«Oh, okay, meglio così allora. A più tardi».
Merlino posò la cornetta e si sedette sul letto per esaminare più attentamente il foglietto che si era nascosto all’interno della manica della felpa quando era stato beccato.
La scrittura era decisamente femminile, perciò era stata Hala a segnarsi ciò che aveva scoperto su di lui o le domande che necessitavano ancora di una risposta:

- Non parla quasi mai del suo passato
- Racconta storie ambientate a Camelot, su Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda
- L’ospedale della foto del 1935 è stato distrutto e sulle sue ceneri è stato costruito quello odierno. Coincidenza?
- Relazione con la bisnonna di Abby – lei sa qualcosa?


L’ultimo punto, un tassello fondamentale del puzzle, lo lasciò senza fiato. Se era davvero come pensava, le cose si facevano ancora più complicate.
Sentì il clacson di un’auto e si alzò dal letto, reggendosi a fatica sulle gambe per lo shock. Dalla finestra, riuscì a vedere il taxi fermo nel parcheggio dell’agriturismo e la signora Chapman salire per prima, con Baqi e Hala al seguito. La ragazza alzò per caso il capo e quando incrociò il suo sguardo non si ritrasse, anzi lo ricambiò con fierezza, come a volergli lanciare una sfida.
Merlino strinse con più forza il foglietto nella mano e quando il taxi imboccò la strada sterrata per raggiungere il paese si sedette a terra, con le spalle al muro e la testa abbandonata tra le braccia.

***

Alla fine, per una cosa o per un’altra, non era riuscito a scambiare due parole con Abigail. Quello era il suo giorno libero, come il giorno precedente, ma siccome non aveva altri impegni aveva deciso di farle visita. E forse, inconsciamente, voleva anche incrociare lo sguardo profondo di Hala.
Salì fino al quarto piano con l’ascensore e si diresse verso la camera della ragazzina, ma vi trovò soltanto un’infermiera che stava rifacendo il letto. Allora optò per la mensa e fu proprio lì che la vide, seduta da sola nell’ultimo tavolo della sala, più intenta a leggere che a fare colazione.
La raggiunse e si sedette di fronte a lei. Dovette schiarirsi la gola un paio di volte prima che si accorgesse della sua presenza ed arricciasse il naso chiedendogli in tono sorpreso ma anche scettico che cosa ci facesse lì.
«Sono solo passato a vedere come te la passi».
Abby mise il manico della forchetta di plastica tra le pagine del libro dall’usurata copertina di pelle che stava leggendo ed abbozzò un sorriso, scrollando le spalle. «Sai, ho accettato che non avrò il futuro che ho sempre voluto, che non lascerò un’impronta abbastanza duratura nel mondo… perciò sono a metà dell’opera».
Keith sospirò e negò lentamente il capo. «Non ci credo».
«A che cosa?».
«Al fatto che tu ti stia arrendendo. Tutti quelli che ti conoscono non fanno altro che ammirare il tuo coraggio, la voglia di vivere che trasmetti a chi crede di non avere più speranze… Si sono fatti un’idea sbagliata di te?».
I suoi occhi si fecero all’improvviso duri come l’acciaio, inflessibili, e la sua voce più determinata che mai: «No. Lotterò fino all’ultimo respiro per le persone che amo, ma so anche che c’è un’elevata percentuale che io non ce la faccia prima che venga trovato un donatore compatibile».
«Sei un bel tipo, Abigail», esclamò Keith, sorridendo. «E sono sicuro che la lascerai, un’impronta abbastanza duratura nel mondo».
«Grazie, dottor Ellis».
Si alzò e sistemò la sedia sotto al tavolo, ma prima di andarsene le indicò la tazza di latte e cereali ancora piena che aveva lasciato sul vassoio assieme alla macedonia.
«Devi mantenerti in forze, per quando arriverà il donatore».
«Certo», rispose Abby con un piccolo sorriso, prima di riprendere la lettura da dove l’aveva interrotta.
Stava per andarsene veramente quella volta, ma non riuscì a tenere a freno la lingua ed esclamò: «Che tu sappia Hala si vede con qualcuno?».
Abigail alzò di scatto gli occhi dalle pagine del libro e gli rivolse un sorriso malizioso, non molto rassicurante.

Keith stava trotterellando giù per le scale, felice come una pasqua, e non si accorse del motivo della sua contentezza fino a quando non rischiò di finirle addosso.
«Perdonami», esclamò subito, stringendo lievemente la mani intorno agli avambracci della ragazza perché non cadesse all’indietro. Poi incrociò quegli occhi color ambra in grado di fondergli il cervello e la lasciò subito andare, colpito da un attacco improvviso di vergogna.
«Hala», balbettò. «Ciao, scusa, non ti ho proprio vista».
«Già, le ragazze come me passano inosservate la maggior parte delle volte».
Keith aprì la bocca per dirle che non era assolutamente così, che l’aveva colpito sin dalla prima volta che si erano visti, ma lei non gliene diede il tempo.
«Ci vediamo», lo salutò riprendendo a salire rapidamente le scale.
«No, Hala, aspetta!».
La ragazza si fermò all’improvviso e strinse più forte le dita intorno al corrimano.
«So che ci siamo visti appena due volte, ma mi chiedevo se ti andasse di uscire a bere qualcosa, una di queste sere».
Deglutì rumorosamente, mandando giù tutto il nervosismo che aveva accumulato prima di riuscire a dire quelle parole. Ma Hala non rispose come si aspettava e fece più male del previsto.
«Ci penserò. Ora devo proprio andare».
Keith rimase in silenzio e la guardò salire quasi di corsa gli ultimi gradini e sparire alla sua vista. Quindi sospirò, dandosi un colpo in testa col palmo della mano. Allo stesso tempo però sorrideva, perché prima che le cose andassero in porto con Alex, lei lo aveva fatto stare sulle spine proprio come aveva fatto Hala. Che fosse un segno? In quel caso, non avrebbe mandato tutto a monte una seconda volta.
Speranzoso che prima o poi Hala sarebbe uscita con lui, sarebbe andato dritto per la sua strada se attraversando il corridoio non avesse scorto di sfuggita il volto di una ragazza familiare.
Tornò sui suoi passi e seduta su uno dei lettini del Pronto Soccorso riconobbe la ragazza che a quanto sapeva aveva più volte cercato Alex. Un infermiere le stava stringendo un laccio emostatico sopra all’incavo del braccio per un prelievo e i suoi occhi erano spaesati e assenti, ben lontani dalla realtà che la circondava.
Aveva visto quell’espressione solamente in un altro caso e mai l’avrebbe dimenticata: Artù, l’amico di Merlino, era nello stesso stato psicologico quando l’aveva visitato.
Coi brividi lungo la schiena si avvicinò e senza farsi notare dalla diretta interessata – cosa che non sarebbe comunque successa – aspettò che l’infermiere finisse di prelevarle il campione di sangue da mandare in laboratorio e poi lo placcò, chiedendogli che cos’avesse.
«Dice di aver perso completamente la memoria. L’agente Fisher l’ha trovata mentre vagabondava per il bosco e l’ha ospitata per un po’, fino a quando lei non si è sentita pronta a farsi visitare. È un peccato, perché ogni traccia che avrebbe potuto esserci sul suo corpo è andata da un pezzo».
«Memoria, eh? Tu le credi?», gli chiese Keith, con le braccia incrociate al petto.
L’infermiere scrollò le spalle. «Perché non dovrei? Aspetta… Non è che la conosci?».
«Mai vista prima», mormorò e poi sorrise all’uomo, dandogli una pacca sulla spalla. «Buon lavoro».
Si allontanò e prima di uscire dalle porte scorrevoli gettò un’occhiata all’interno della sala d’aspetto, dove trovò l’agente Fisher con i gomiti puntati sulle ginocchia e le mani in faccia.
C’era qualcosa che non quadrava in tutto ciò, se lo sentiva, ma non era mai stato bravo a far parlare le persone. Conosceva però qualcuno in grado di riuscirci.
Sulla rampa per disabili, si appoggiò alla ringhiera con un fianco e scrisse un SMS ad Alex.

***

Quando Hala aveva raggiunto la signora Chapman e Baqi nella stanza di Abby, lievemente affannata e col cuore che le batteva forte per tutto ciò che era successo, aveva scoperto che in realtà Abigail non c’era.
Aveva chiesto informazioni ad un’infermiera di passaggio e questa le aveva detto che forse, visto l’orario, l’avrebbe trovata in mensa, a fare colazione. Aveva detto al gemello di aspettare nella sua stanza mentre andava a cercarla e l’ipotesi della donna si era rivelata corretta, se non per un particolare: Abby aveva a malapena spiluccato qualcosa, ben più interessata al diario della sua bisnonna Louise.
«Proprio di questo volevo parlarti», esordì bruscamente, sbattendo sul tavolo la propria borsa. «Dimmi tutto quello che sai su Merlino. E non osare mentirmi».
Abigail sollevò lentamente gli occhi dalle pagine del diario e le rivolse un’occhiata infastidita. «Cosa pensi che sappia, esattamente?».
«Più di quanto dici», ribatté e con poca grazia allontanò la sedia da sotto il tavolo per sedersi di fronte alla ragazzina, la quale incrociò le braccia al petto.
«Ci sono stati forse sviluppi di cui io non sono a conoscenza?», le chiese sorridendo beffarda.
«A dire la verità, sì. Questa mattina ho trovato il tuo amico intento a rovistare nel mio cestino, all’agriturismo».
«Sbadato com’è, ci sarà inciampato».
«Non difenderlo, Abby. Lo so che cercava qualcosa».
«Che cosa potrebbe mai volere da te, eh? Siete tu e Baqi quelli che stanno indagando su di lui!», urlò a mezza voce, per non attirare l’attenzione delle infermiere in mensa. Danilo però, seduto a qualche tavolo di distanza, sentì tutto e le gettò un’occhiata perplessa.
Hala sospirò, posando con calma i palmi delle mani, lievemente sudati, sulla superficie del tavolo. «Non farmi sentire in colpa adesso, non sto facendo nulla di male».
«Non spetta a te giudicare se quello che state facendo sia giusto o sbagliato, ma a Merlino. Perciò, a meno che tu non abbia una prova inconfutabile che dimostra che sia immortale, che abbia avuto una relazione con la mia bisnonna o che abbia qualche collegamento con la costruzione di questo ospedale, fareste meglio a smetterla. Dovete lasciarlo stare, tutti e due».
La pakistana aprì la bocca per ribattere, ma lo sguardo gelido di Abby la fece desistere.
«Sono stata chiara?», le domandò ancora, quasi ringhiando.
Hala non rispose, si limitò ad annuire con un cenno del capo e ad alzarsi.
Ovviamente non avrebbe smesso di indagare, avrebbe solamente evitato di coinvolgere ulteriormente la ragazzina.
A quanto pare, questo Merlino riesce ad ottenere l’amicizia e la lealtà di chiunque, pensò mentre le dava le spalle, diretta verso l’uscita. Persino quella di Abigail, che aveva sempre reputato una ragazzina intelligente.
Come poteva non rendersi conto che c’era qualcosa di sbagliato, in lui? Lei l’aveva saputo dalla prima volta che l’aveva visto, una consapevolezza che aveva preso forma nel suo cuore attraverso un brivido sottopelle.
«Hala?».
Sorpresa, esitò prima di girarsi. E lo fu ancora di più quando vide Abby sorriderle dolcemente, come se non le avesse appena voltato le spalle, preferendo Merlino a ciò che di più vicino ad una sorella avesse mai avuto.
«Il dottor Ellis è venuto a trovarmi, poco fa. Mi ha chiesto di te e se fossi già impegnata».
«L’ho incontrato per le scale», rispose con la voce rotta dall’emozione. «Che cosa gli hai detto?».
Abby scrollò le spalle. «Che per quanto ne so, non ti stai vedendo con nessuno. Però gli ho detto di non essere sicura e di chiedere direttamente a te, se era davvero interessato».
Davvero interessato. Quand’era stata l’ultima volta che qualcuno si era davvero interessato a lei, ai suoi sentimenti? A parte suo fratello e la signora Chapman, nessuno negli ultimi quattro anni.
L’ultimo ragazzo che aveva avuto, se così poteva definirsi, era addirittura stato il ragazzino che a undici anni i suoi genitori avevano scelto per lei, convinti che iniziare a frequentarsi da piccoli avrebbe reso più facile lo sbocciare dell’amore (come se fosse davvero importato loro qualcosa). La verità era che volevano solo togliersi un peso dalla coscienza, cercando di rendere meno squallida possibile l’usanza del matrimonio combinato.
Da quando aveva scoperto il loro subdolo piano – e spezzato il cuore di Yasir – ogni volta che un ragazzo le si avvicinava era sempre stata un po’ scettica, sempre alla ricerca del trucco o dell’inganno. Le risultava difficile fidarsi e prendere sul serio le attenzioni maschili, visto soprattutto che in una scala da uno a dieci dava al proprio aspetto fisico un sei scarso.
Perciò come poteva credere che quell’angelo mulatto fosse interessato ad una come lei? Era impossibile ai suoi occhi.
«Allora, l’ha fatto?», le chiese Abby ad un tono di voce decisamente alto, volto a farla tornare coi piedi per terra.
«Fatto cosa?», ripeté, sbattendo le palpebre.
«Ti ha chiesto di uscire?».
Hala annuì e solo allora si rese conto di quanto era stata fredda e disinteressata nel rispondere a Keith, come se avesse avuto decine di quelle proposte ogni giorno. La lista delle colpe di Merlino continuava ad allungarsi.
«E tu che cosa gli hai risposto?».
L’espressione sul viso di Abby era così curiosa ed eccitata che Hala provò un immenso piacere nel darle le spalle e rispondere incurante: «Chissà!».

***

Alex aveva appena aperto la porta di casa a Sebastian – il tuttofare della cittadina che aveva chiamato per la finestra della sua camera da letto – quando le era arrivato il primo messaggio di Keith.
La ragazza che l’aveva cercata più volte all’ospedale si stava sottoponendo ad alcuni test ed affermava di aver perso la memoria. Era stato l’agente Fisher a trovarla e ad ospitarla fino a quando non si era sentita pronta a farsi visitare, ma era evidente che c’era qualcosa che non tornava. Pure Keith l’aveva capito e Alex non poteva più ignorare la presenza di Freya nelle loro vite: che cosa sarebbe successo se il suo ex non si fosse fermato lì e avesse iniziato a fare domande? Automaticamente anche il segreto di Merlino sarebbe stato a rischio e non era disposta ad accettare che accadesse. Era ora di chiudere quella storia una volta per tutte.
Lasciò le chiavi di casa all’operaio e tornò in ospedale, dove – non poté evitarlo – incrociò nuovamente Darrell. Anche quel ragazzo le dava l’impressione di nascondere qualcosa e faticava ad inquadrarlo, coi suoi comportamenti istintivi e a volte imprevedibili.
Camminava avanti e indietro nella sala d’aspetto del Pronto Soccorso, torturandosi le mani o infilandole tra i folti capelli ricci. Ovviamente, Freya era riuscita a farsi voler bene. E parecchio, vista la sua agitazione.
Alex provò a tirare dritto, ma l’agente di polizia la vide e le corse incontro, il viso prima contratto in un’espressione di pura preoccupazione e successivamente, rendendosi conto che non avrebbe dovuto trovarsi lì, sospettosa.
«Pensavo avessi fatto il turno di notte», esordì con la fronte aggrottata.
«Infatti. Ho solo dimenticato una cosa nell’armadietto. Tu invece perché sei qui?», gli domandò, nonostante conoscesse perfettamente la risposta.
«Ho fatto un casino». Sospirò e le diede le spalle per sedersi su una delle poltroncine.
Alex avrebbe potuto ignorarlo e andarsene, ma fu più forte di lei: vederlo così abbattuto le dispiaceva e il minimo che poteva fare era rassicurarlo che aveva visto e fatto lei stessa casini peggiori.
Se ne sarebbe pentita, lo sapeva; ciò nonostante, si sedette al suo fianco e gli chiese: «Che cos’è successo?».
Darrell si appoggiò il mento tra le mani, i gomiti puntati sulle ginocchia. «Mi sono messo in una situazione spiacevole. Ho ospitato in casa mia una sconosciuta, potrei anche essere accusato di aver intralciato la giustizia se per colpa mia si fossero cancellate delle prove, e poi...».
«Poi cosa?».
«Mi sono fidato di lei, mi sono... affezionato. Non dovevo».
«E perché no?».
«Perché bisogna pensare con questa», rispose battendosi due dita sulla tempia. «E non lasciarsi governare dal cuore».
Alex sorrise e Darrell ne fu tanto sorpreso quanto infastidito.
«Ho detto qualcosa di divertente?», la rimbeccò.
«No, mi hai solo ricordato che anche io, per un po’ di tempo, mi costringevo a pensarla così. E alla resa dei conti non è andata a finire bene».
Darrell non disse niente, si limitò a guardarla profondamente coi suoi occhi color nocciola, e Alex aggiunse: «Quelli come noi.. non riescono a non farsi guidare dal cuore. Possiamo provarci, ma non staremo mai bene con noi stessi, perché non è nella nostra natura».
«Quindi secondo te dovrei ignorare ciò che mi dice l’istinto e seguire il cuore?».
«No, aspetta un momento», lo frenò, portando entrambe le mani avanti. «Stavamo parlando di ragione, non di istinto; sono due cose diverse».
Il poliziotto si coprì il volto con le mani e respirò profondamente. «Ho la testa che sta per scoppiarmi».
Alex si guardò intorno nella sala d’aspetto e quando realizzò che non c’era nessuna collega che stesse prestando loro attenzione, gli posò una mano sulla schiena per accarezzarla.
«Lo so che ci conosciamo a malapena, ma... se vuoi parlarne con qualcuno, puoi contare su di me». Specialmente se riguarda Freya e i suoi piani per il futuro, avrebbe voluto aggiungere.
«Grazie, Alexandra», rispose guardandola negli occhi.
Alex accennò un sorriso, che si tramutò in una smorfia di nervosismo quando si rese conto che non riusciva a schiodare gli occhi dai suoi. Erano così belli... Di un’innocenza e di una genuinità a cui non era più abituata, a furia di perdersi in quelli di Merlino, che da tempo avevano perso la gioia e l’ardore della giovinezza.
Fu lui alla fine a distogliere per primo lo sguardo, puntandolo verso il banco dell’accettazione.
«Credi che ci metteranno molto?», le domandò, mordendosi il labbro inferiore.
Alex si alzò frettolosamente e senza nemmeno pensarci rispose: «Vado a controllare a che punto sono, se vuoi».
«Lo faresti davvero?».
Annuì, cercando di ignorare la stretta allo stomaco causata dagli occhi limpidi del biondo.
«Non so davvero come...», iniziò a ringraziarla, ma l’infermiera lo interruppe bruscamente, già girata di tre quarti: «Non devi. Faccio in un lampo».
Veloce proprio come un fulmine, uscì dalla sala d’aspetto e chiese ad una collega dove potesse trovare Freya. Le indicarono uno dei lettini nell’area riservata ai pazienti da visitare o con ferite lievi. Erano tirate solo le tende laterali, quelle che dividevano un letto dall’altro, perciò fu facile individuarla.
«Non ti aspettavo così presto», esordì la custode.
Alex la ignorò e con fare circospetto tirò anche l’ultima tenda, in modo da avere un po’ di privacy.
«Avresti dovuto prestare più attenzione, quando sei venuta qui a cercarmi».
La studiò da lontano per qualche istante, prima di avvicinarsi e posare entrambe le mani sulla sbarra di ferro ai piedi del letto.
«Un mio collega ti ha riconosciuta e mi ha avvisata che eri qui. Che intenzioni hai?».
«Ho solo mantenuto la parola data», rispose Freya, per poi aggiungere sottovoce e a capo chino: «Al contrario di qualcun altro».
«Ti riferisci a Darrell? È qui fuori ed è a pezzi, per colpa tua», indicò oltre le tende, rabbiosa. «Cosa gli hai fatto?».
«Proprio niente. Forse si è solo pentito di avermi aiutata».
«Non lo so. Ma di una cosa sono certa: tu non passerai come vittima della situazione, è chiaro? È colpa tua se Darrell sta male, se Artù e Merlino hanno dovuto patire una vita di sofferenze e io...».
«Lo capisco, sei arrabbiata e hai bisogno di un capro espiatorio», esclamò interrompendola. «Sono d’accordo con te».
«Sei d’accordo? Ah, questo è il colmo!», sbuffò trattenendo a stento una risata amara. Si voltò e con una mano sulla tenda, pronta a scostarla bruscamente, concluse: «Mi chiedo che cosa speravo di ottenere venendo qui».
«Io credo che tu lo sappia fin troppo bene, invece. Volevi conoscere il tuo destino, non è così?».
Alex si pietrificò sul posto, come se una forza invisibile avesse appena inchiodato le suole delle sue scarpe al pavimento. Riuscì però ad affermare a denti stretti: «Io non credo nel destino».
«Oh, sì, ho saputo della tua promessa… La Dea non ha preso bene la tua dichiarazione di guerra».
Alex si ritrovò all'improvviso con lo stomaco annodato e prima che potesse chiederle che cosa volesse dire, oppure chi fosse la Dea di cui parlava, Freya disse con solennità: «È scritto che tu riporterai la magia nel mondo. E nessun uomo, o sarebbe meglio dire donna in questo caso… Nessuna donna, non importa quanto grande ella sia, è in grado di contrastare il proprio destino».
«Proporrei una scommessa, ma so che non possiedi niente…», provò a sdrammatizzare, ma la custode le rivolse un’occhiata gelida.
«E tu possiedi fin troppo, Alexandra. Un padre che ti vuole bene», iniziò ad elencare sulla punta delle dita. «Il tuo antenato più famoso, un lavoro gratificante, degli amici, l’amore di Merlino e… oh», ridacchiò, indicando il bracciale che portava al polso, e concluse: «Dei poteri di cui hai paura».
L’infermiera abbassò gli occhi sul bracciale di Morgana, stretto intorno al suo polso destro, e serrò la mascella. «È vero, ne ho paura», confessò, ma a testa alta. «Però sono stata io a tirarti fuori dal lago e sono certa che in un modo o nell’altro riuscirei a ributtartici se lo volessi».
Freya aprì la bocca per ribattere, arcigna in volto, ma un infermiere tirò la tenda alle spalle di Alex e glielo impedì.
«È arrivato il tuo turno per la TAC! Ehi, Alex… Pensavo fossi andata a casa», esclamò il collega, corrugando la fronte.
«Sì, è vero, ma ho dimenticato una cosa nell’armadietto», Alex ripeté la scusa che aveva già usato con Darrell. Poi, sorridendo, aggiunse: «Questa ragazza mi ha visto passare e mi ha scambiato per una persona che conosceva. È un buon segno, no? Ho letto sulla sua cartella che ha perso la memoria».
«Sì, lo farò sapere al suo dottore», esclamò l’infermiere. «Grazie, Alex».
«Ma figurati. Ti do’ una mano?».
Senza aspettare la sua risposta, raggiunse la parte sinistra del lettino e disabilitò il freno delle ruote, in modo che potesse essere trasportato ovunque si volesse all’interno della struttura.
«Ci si vede», la salutò il collega.
Prima che voltassero l’angolo, Alex e Freya si scambiarono un’occhiata carica di tensione: anche loro si sarebbero riviste presto, poco ma sicuro.
La bionda si diresse a passo spedito verso gli spogliatoi, stringendo forte il bracciale con una mano e ripensando alle parole della custode della magia, e anziché entrare in quello delle donne si intrufolò in quello degli uomini. Aprì l’armadietto di Merlino e recuperò la prima cosa che vi trovò all’interno: un foulard rosso che il mago non portava da tanto, troppo tempo. Se lo legò intorno al collo e vi immerse il naso per respirare il suo profumo, come sempre in grado di calmarla.
Quando uscì, fu costretta a passare di fronte alla sala d’aspetto e a mantenere la parola data a Darrell, il quale aspettava fremente che ritornasse con delle notizie su Freya.
«Allora?», le domandò non appena l’ebbe raggiunta.
«Sta bene, la stanno portando ora a fare la TAC».
«Puoi dirmi dov’è che la fanno? Devo assolutamente parlarle, farle sapere che sarò lì fuori ad aspettarla».
Alex sospirò ed indicò l’ascensore: «Primo piano, sulla destra. Non so farai in tempo però…».
«Grazie, grazie davvero», esclamò posandole una mano sul braccio.
Lei sobbalzò a quel contatto, ma il poliziotto non se ne accorse e corse verso le scale senza voltarsi più indietro.
Uscendo dall’ospedale, Alex scosse il capo, fermamente convinta che fosse tutto dovuto allo stress e alla stanchezza. Il suo cuore apparteneva a Merlino, l’uomo che doveva sposare, e a nessun altro.
Si portò nuovamente il fazzoletto rosso al naso, inspirando avidamente, ma quella volta il profumo dello stregone non bastò.

***

«Ho finito con le camere», esclamò Merlino saltando l’ultimo gradino della scalinata. Quindi si appoggiò al bancone della reception, dietro cui c’era Rebecca intenta a controllare gli arrivi di quella sera, e passandosi il dorso della mano sulla fronte sudata le chiese: «Sai dov’è tua madre?».
«Credo all’orto. Ma Edwin mi ha chiesto di mandarti da lui, non appena avessi finito».
«Okay, alle stalle?».
La mora annuì e Merlino non attese oltre. Uscì dalla porta sul retro e pescò i suoi stivali da lavoro dalla scarpiera comune, poi si diresse verso lo stabile. Passando vide Artù circondato da una ventina di bambini delle scuole elementari, tutti impazienti di poter accarezzare una pecora sul muso, e sorrise abbassando il capo. Sarebbe stato un ottimo padre se ne avesse avuta l’opportunità, ne era certo.
Quando raggiunse le stalle, picchiò le nocche sullo stipite dell’ingresso e si sporse all’interno. «Signor Greenwood, aveva bisogno di me?».
Il padre di Alex scosse il capo, arrendevole, all’ennesimo tentativo fallito di spazzolare la criniera del cavallo dal manto nero, il più irrequieto tra tutti.
«Merlino, sì, devo parlarti. Siediti».
Lo stregone avanzò a passo insicuro, chiedendosi che cosa mai dovesse dirgli. A dire la verità era lui a dover dire qualcosa al padre di Alex, qualcosa che continuava a rimandare per paura della sua reazione. Che l’infermiera gliel’avesse già detto e si fosse dimenticata di avvisarlo?
Si schiarì la gola e si sedette rigidamente sullo sgabello che Edwin gli aveva indicato. Poi, senza riuscire più ad aspettare, esclamò: «Mi dispiace, avrei voluto dirglielo prima, ma non era mai il momento adatto e…».
Il signor Greenwood lo fissò con entrambe le sopracciglia inarcate. «Dirmi che cosa?».
«Quello di cui… di cui deve parlarmi», ripeté evasivo Merlino, guardandolo con la sua stessa confusione dipinta sul viso.
«Io volevo solo chiederti di anticipare ad Alexandra che non ho altre alternative che vendere questo cavallo: è troppo irrequieto e al momento è un costo che non possiamo permetterci. So che si è affezionata e che tu riesci a farla ragionare più di chiunque altro, perciò…», diede una pacca al fianco del cavallo, il quale parve sbuffare irritato, e poi afferrò un altro sgabello per sedersi proprio di fronte al mago, la fronte solcata di rughe d’espressione e gli occhi ben piantati nei suoi. «Tu, invece, che cosa devi dirmi?».
«Io…». Merlino si passò una mano sul collo, nervosamente, ed abbassò gli occhi. Dopo un respiro profondo, confessò: «Ho chiesto ad Alex di sposarmi».
Si sforzò di sollevare il capo quel tanto che bastava per scorgere l’espressione sul volto dell’uomo. Rendendosi conto che l’aveva scioccato tanto da lasciarlo a bocca aperta, si affrettò a scusarsi: «Lo so che avrei dovuto prima chiedere la sua benedizione, ma mi è venuto così, è stata una decisione spontanea… Non sto dicendo che non lo rifarei ancora e ancora, amo sua figlia più della mia stessa vita, però ha ragione ad essere arrabbiato, se lo è… Lo è?».
Edwin gli posò una mano sulla spalla e alla fine abbozzò un sorriso, sussurrando: «È successo a Londra, non è così?».
Merlino annuì con un cenno del capo e aprì la bocca per chiedere come facesse a saperlo, ma il signor Greenwood non gliene diede il tempo e rispose direttamente: «Da quando siete tornati da quel viaggio l’ho vista diversa, cambiata… Ho solo unito i puntini».
«E lei è… insomma, è d’accordo?», gli domandò, col cuore che gli batteva forte nel petto e un velo di sudore sulla schiena.
«Io voglio solo che la mia bambina sia felice. Quindi ricordati che se le farai del male…». Si alzò ed afferrò il rastrello che aveva lasciato appoggiato contro la parete. Lo sollevò un poco e concluse: «Ti scuoierò vivo con questo».
«Oh. Okay, lo terrò a mente», mormorò, deglutendo rumorosamente.
Edwin rise e gli offrì una mano perché si alzasse, esclamando: «Avanti, vieni qui imbranato che non sei altro». E lo attirò in un abbraccio inaspettato, dandogli diverse pacche sulla schiena.
Merlino ne fu così piacevolmente sorpreso che non riuscì a spiccicare parola: sperava che il suo sorriso a trentadue denti parlasse per lui.
Poi Edwin gli avvolse un braccio intorno alle spalle e accompagnandolo fuori dalle stalle notò: «Però non l’ho vista portare anelli nuovi».
Lo stregone si passò nuovamente una mano tra i capelli umidi a contatto con la pelle sudata del collo. «Le ho detto che non avevo programmato nulla quando le ho fatto la proposta… E ultimamente non ho avuto tempo per andare a cercare l’anello giusto, sono mortificato».
«Sai, forse a questo proposito potrei aiutarti io».
«Davvero? Gliene sarei eternamente grato», balbettò, rosso come un peperone per l’imbarazzo, ed Edwin gli diede l’ennesima pacca sulla schiena.
«Vieni con me, coraggio».
Una volta all’esterno, Merlino pensò di aver sentito il suo nome e si gettò un’occhiata alle spalle, dove vide Artù con le mani sui fianchi e un enorme punto interrogativo sul volto. Gli fece segno di aspettare e poi seguì il padre di Alex verso la sua piccola magione.

***

Era stato strano parlare in quel modo con Alexandra, soprattutto dopo i sospetti che gli erano sorti sull’effrazione a casa sua. Si era sentito legato a lei, quasi connesso, ed era stato facile sfogarsi. Fin troppo.
Quel pensiero lo fece esitare una volta arrivato nel corridoio del primo piano, ma non abbastanza da non raggiungere l’infermiere che stava portando Freya a fare la TAC.
«Ehi, aspettate!».
Il ragazzo si voltò e roteò gli occhi al cielo, esclamando con voce un po’ effemminata: «Non c’è bisogno di fare tutte queste scene, non sta andando a fare un’operazione!».
«Lo so, ma ho bisogno di parlarle. Solo due minuti».
«E va bene!», sbuffò e li lasciò soli.
Darrell si portò alla sinistra di Freya e con timore quasi riverenziale le accarezzò una ciocca di capelli corvini che le sfiorava la guancia.
«Risparmiati le scuse, non servono», esclamò freddamente la ragazza, rivolgendo altrove l’attenzione dei propri occhi lucidi.
«Invece sì. Mi dispiace di non aver mantenuto la promessa, sono stato un vero stupido. E anche dubitare di te è stato –».
«Dubitare di me?», lo interruppe, scostandosi dalla carezza della sua mano. Poi abbozzò un sorriso venato d’amarezza, esclamando: «Ora capisco perché eri così distante, a volte. E ti do’ ragione, Darrell».
«Cosa? No, no, non sono io quello da compatire, ma tu: tu hai perso la memoria, tu...».
Freya si sollevò sul lettino e gli posò un dito sulle labbra per azzittirlo. Sorridendo con dolcezza, aggiunse: «Questa situazione non poteva andare avanti all’infinito, lo sai. Forse è giunto il momento che ognuno vada per la propria strada».
«Non dire sciocchezze, Freya», esclamò con determinazione l’agente, afferrandole delicatamente il polso. «Tu non andrai da nessuna parte, non prima di...».
«È meglio per entrambi», lo sovrastò con la voce ancora una volta, gli occhi fissi nei suoi. «Devi fidarti di me».
L’infermiere ritornò dal proprio giro con le mani nelle tasche e quando li raggiunse canticchiò: «Vi siete detti addio, che vi amerete per sempre qualunque cosa accada e blablabla?».
«Sì, possiamo andare», rispose Freya, senza schiodare lo sguardo da quello di Darrell, con la bocca ancora aperta, sul punto di dire un qualcosa che non le avrebbe mai confessato.
Ma forse lei lo lesse nei suoi occhi, perché abbozzò un sorriso e gli baciò il dorso della mano, mimando un «Grazie» con le labbra, prima che l’infermiere riprendesse a spingere il suo lettino lungo il corridoio, allontanandola da lui.
Darrell inghiottì faticosamente le parole che – al diavolo la razionalità – gli erano salite direttamente dal cuore fino alle corde vocali. Quindi si convinse che avrebbe fatto un errore lasciandosi andare in quel modo, che non avrebbe portato a nulla di buono e che su questo, poco ma sicuro, Alexandra aveva torto.

***

Lo scoppiettio del fuoco, il frinire dei grilli nei campi e delle risate che era certa di conoscere.
Si concentrò e oltre ai suoni riuscì finalmente a scorgere delle immagini, prima sfocate e poi sempre più nitide: le fronde degli alberi mosse dalla brezza serale, le fiamme ardenti al centro di un cerchio di pietre, i tronchi su cui Cathleen, Artù, Abby, Mark, Merlino e lei stessa erano seduti, felici e spensierati. Tenevano tra le mani dei bastoncini su cui avevano infilzato dei marshmallows e quello di Mark, troppo vicino alle lingue di fuoco, andò in fiamme. Ecco il perché delle risate.
Ad un tratto gli uomini si alzarono per andare a recuperare altre coperte e lei, Cathleen e Abby rimasero sole. Si scambiarono uno sguardo e poi il paramedico si sedette a terra, con la schiena contro il tronco e le mani unite dietro la nuca, gli occhi rivolti verso il cielo stellato sopra le loro teste.
«Non avrei mai immaginato di poter provare ancora tutto questo».
«Già… Ci voleva, dopo quello che è successo», mormorò Alex, gettando un’occhiata verso Abby, la quale si sporse verso di lei per stringerle una mano tra le sue.
«Hai fatto anche troppo per me, non mi sdebiterò mai».
«Ehi, non è ancora detta l’ultima parola», ricordò Cathleen con gli occhi fiammeggianti, e non perché vi erano riflesse le lingue di fuoco del falò.
Alex annuì, rianimata dalle parole dell’amica. «No, infatti. Insieme ce la faremo, ne sono sicura», affermò stringendo la ragazzina in un abbraccio delicato.
Abigail ridacchiò. «Noi tre, eh?».
«Proprio così, noi tre», ripeté con convinzione il paramedico. Sollevandosi, arricciò il naso e le lanciò un’occhiata circospetta, nonostante il sorrisino che le sollevava un angolo della bocca: «Non credi che potremmo fare grandi cose insieme? Potremmo salvare il mondo, se solo lo volessimo!».
«Non saprei», ammise Abby, stringendosi nelle spalle. «Non riesco a prendermi cura di me, come potrei fare qualcosa di buono per gli altri?».
Cathleen, piena di disappunto, si alzò per andare a sedersi alla sinistra di Abby. Puntandole un dito su un braccio, esclamò: «Se dovessi descriverti con una sola parola, sarebbe “coraggio”. Tu sei la persona più coraggiosa che abbia mai conosciuto, non solo perché non ti sei mai arresa alla malattia ma perché sei in grado di dare speranza a chiunque ti stia vicino, indipendentemente dalla sua condizione. Non ho ragione, Alex?».
«Non avrei saputo dire di meglio», rispose l’infermiera, sorridente.
«E tu, invece? Se dovessi descriverti con una sola parola, quale sarebbe?», le domandò la ragazzina.
Cathleen scrollò le spalle. «Io non ho alcun talento particolare».
«Ah no?», intervenne Alex, con entrambe le sopracciglia inarcate. «Tu non te ne rendi conto Cath, ma hai una forza incredibile; Artù me l’ha detto più volte. Nonostante tutto quello che hai passato, nonostante tu ti sia trovata sul fondo di un baratro, non ti sei mai data per vinta e sei riuscita ad uscirne. Hai lottato per stare a galla e guardati ora… sei di nuovo felice».
«Non ci sarei mai riuscita senza di voi», provò a sminuirsi Cathleen, ma Alex le tirò un pugnetto su un ginocchio, mordendosi un sorriso.
«Invece sì, perché hai un fuoco al posto del cuore. Magari ci avresti messo più tempo, ma ce l’avresti fatta alla fine».
Cathleen strinse il naso e poi si soffermò a fissarla, proprio come Abby, la quale disse: «Manchi solo tu ora. Io so qual è la parola che ti descrive».
«Anche io», si aggiunse il paramedico.
«E quale sarebbe?», domandò allora Alex, incuriosita.
«Magia», esclamarono in perfetta sincronia le due, per poi battersi il cinque.
Offesa, Alex mise il broncio e si strinse le braccia al petto, ribattendo: «Ah, quindi io sarei la ragazza coi poteri magici? Senza non sarei niente, uh?».
«È proprio il contrario!», disse Abby, ricambiando con più forza il suo abbraccio. «Tu sei sempre stata magica, anche quando non sapevi di esserlo. Non sei perfetta, ma sei la persona migliore che conosco».
«Concordo», le diede man forte Cathleen, unendosi all’abbraccio.
«Farò finta di credervi», sussurrò Alex, fingendo ancora di essersela presa, nonostante delle lacrime di commozione le appannassero gli occhi.
«Ci fai vedere qualcosa?», le domandò ad un tratto la ragazzina, eccitata come una bambina a Natale.
«Merlino non vuole che usi la magia se non è strettamente necessario», disse guardandosi le spalle, verso l’agriturismo, da dove i ragazzi sarebbero tornati a momenti.
«Ma Merlino ora non c’è, giusto?», la stuzzicò anche Cathleen, facendole l’occhiolino. «Dai che non vedi l’ora di mettere in mostra i frutti del tuo allenamento».
Ed era vero. Alex si accertò che Merlino non fosse ancora uscito dalla cascina e sospirò, sussurrando: «Okay, mi hai convinta».
Cathleen e Abby le lasciarono un po’ di spazio e Alex si concesse un respiro profondo, prima di stendere una mano verso le fiamme e chiudere gli occhi, bisbigliando: «Upastige draca».
Quando le sue iridi divennero dorate, le ceneri incandescenti si sollevarono sopra il falò e diedero vita ad un drago, il quale sbatté le ali un paio di volte prima di scomparire così com’era venuto, disperdendosi nell’aria.
«Non ci credo!», gridò Cathleen, per poi coprirsi la bocca al cenno di Abby: i ragazzi stavano tornando.
Alex trattenne a stento una risata vedendo l'amica così eccitata, ma ogni traccia di ilarità scomparve dal suo viso quando scorse una donna osservarla oltre le fiamme del falò, al delimitare del bosco.
Era interamente avvolta da un pesante mantello di velluto verde e tutto ciò che riusciva a scorgere del suo viso, nascosto dal cappuccio, erano le guance incavate e le labbra stese in un sorriso enigmatico.
Alex si alzò in piedi, con una mano sull'impugnatura del pugnale che teneva al fianco, ma non appena fece un passo verso di lei Merlino l'afferrò per un braccio e la travolse in un casquet grazie a cui le strappò un bacio. Una volta tornata con entrambi i piedi per terra, la donna era stata inghiottita dal buio penetrante del bosco.

Aprì gli occhi di scatto e si tirò a sedere, respirando affannosamente.
Quindi guardò il braccialetto di Morgana, abbandonato sul comodino prima che si coricasse, e si sporse per poterselo infilare di nuovo al polso. Lei e il suo stupido orgoglio: aveva permesso a Freya di insinuare il dubbio nella sua mente e ora non sapeva che cosa pensare di quel sogno. Innanzitutto, era davvero un sogno? Oppure si trattava di una visione? Comunque non c’era modo che potesse scoprirlo prima del tempo e questo la faceva impazzire.

***

«Ehi, ti ho cercata dappertutto!».
Abby alzò a malapena il viso dal diario di Louise, ormai alle ultime pagine.
«Cosa stai leggendo?».
«Mm-mm».
Mark sospirò e le prese il mento tra le dita per far incrociare i loro sguardi e poi le loro labbra. La baciò così dolcemente che Abigail, nonostante una prima resistenza, fu costretta a cedere e a ricambiare, portandogli una mano sul collo.
«Guarda che cosa devo fare per avere la tua attenzione», mormorò il ragazzino quando si scostò, la fronte ancora appoggiata alla sua.
«Dovresti farlo un po’ più spesso», rispose Abby, rossa sulle guance.
Mark abbassò gli occhi, sorridendo, e poi le prese il diario dalle mani, sfogliandolo velocemente. «Che cos’è?».
«Dài, lascialo! È importante, Mark!», urlò Abby, sporgendosi su di lui per raggiungere con la punta delle dita il diario dalla copertina in pelle.
«Perché è importante? Dimmelo».
«Non posso! Non è mio!».
«E allora di chi è?».
«Di mia madre!».
A quelle parole Mark si adombrò all’istante e Abby, sollevandosi sulla propria sedia a rotelle, riuscì a strappargli l’antico diario dalle mani. Sapeva di aver giocato sporco – la carta dei genitori morti non la usava mai – ma non poteva rischiare che il ragazzo che amava scoprisse ciò che Merlino aveva nascosto per anni. O meglio dire secoli.
«Mi dispiace, io… non lo sapevo».
Abby gli strinse la mano tanto forte quanto i sensi di colpa le stavano stringendo il cuore. «Non fa niente», mormorò, prima di posargli un leggero bacio sulla guancia.
«Che ore sono?», gli chiese poi. «Stando qui, ho perso la cognizione del tempo».
Mark guardò l’orologio che portava al polso. «Quasi le quattro».
«Uhm, un po’ presto per la merenda ma… andresti a prendermi qualcosa?».
«Sicuro. Mi aspetti qui?».
Abby annuì e si lasciò baciare ancora, poi lo guardò sparire dietro l’angolo.
Sospirando, infilò il diario nella sacca che portava appesa allo schienale della sedia a rotelle; poi fece il giro del porticato vicino alla cappella e si portò sotto alla targa commemorativa su cui erano segnati i nomi di tutti i medici, le infermiere e i pazienti, la maggior parte soldati, che erano morti durante il bombardamento che aveva raso al suolo l’ospedale numero uno. Quasi a livello del pavimento era stato scritto in corsivo che la costruzione del secondo ospedale era in loro memoria, un ringraziamento per il sacrificio che avevano compiuto nel tentativo di proteggere ciò che c’era di più importante al mondo: la vita.
Il nome della sua bisnonna non c’era e Abby sapeva perché si era salvata. Sapeva come quell’evento tragico l’avesse portata a conoscere l’uomo che poi avrebbe sposato e da cui avrebbe avuto due figli, Henry e Daisy, sua nonna. Sapeva persino perché Louise aveva deciso di chiamare la sua secondogenita come quel fiore di campo così comune, il vero motivo. Ma c’erano ancora tante cose che non sapeva, cose che Louise aveva preferito custodire nel suo cuore, cose che lei a quel punto non poteva ignorare. E c’era una sola persona che avrebbe potuto illuminare i punti che le erano ancora oscuri di quella storia d’amore tormentata e antica di diversi decenni: Merlino.

***

Stava pensando così intensamente al sogno che aveva fatto, per salvarsi dal tormento che gli occhi di Darrell le stavano causando, che non sentì la voce di Artù chiamarla e nemmeno i suoi passi dietro di lei. Si accorse della sua presenza solo quando l’afferrò per una spalla: Alex si voltò di scatto, in posizione difensiva, e oltre alla temporanea perdita della vista sentì una fitta allo sterno.
«Alex, stai bene?», le chiese Artù, apprensivo solo come lui sapeva esserlo, afferrandola per entrambe le braccia per sostenerla.
L’infermiera si appoggiò allo steccato e dopo un paio di respiri profondi tutto tornò alla normalità, se così poteva definirsi. Ciò che rimase di quella brutta esperienza furono solo la paura, perché senza il bracciale di Morgana avrebbe lanciato sicuramente – anche se involontariamente – un incantesimo contro Artù, rischiando di ferirlo; e la frustrazione, dato che le parole di Freya si rivelavano sempre più veritiere e le bruciavano ancora come braci ardenti sotto i piedi.
«Alexandra?», la chiamò nuovamente Artù.
«Sì, sto bene, tranquillo».
Ben lungi da raggiungere quello stato, il solo ed unico re fece per aprire la bocca e ribattere, ma Alex lo interruppe sul nascere chiedendogli se avesse visto Merlino.
«Sì, non più di un quarto d’ora fa era con tuo padre. Sembravano diretti verso casa sua».
«Uhm, strano», commentò e Artù annuì, affermando che era stato anche il suo primo pensiero.
«Beh, ci vediamo più tardi», lo liquidò poi, in fretta e furia, per dirigersi verso la piccola dependance di suo padre, sul retro dell’agriturismo. Lo sentì borbottare alle sue spalle, ma Alex non se ne curò.
Non arrivò mai a bussare alla porta, dato che passando di fronte alle stalle scorse due gambette secche sparire nella botola del sottotetto, dove erano conservati il fieno e il cibo concentrato per i cavalli.
Alex corse all’interno e salì velocemente i pioli della scala fino a vedere Merlino chino su un sacchetto di fieno. Sentì il cuore mancare un battito nel petto e si chiese cosa mai avesse sentito per Darrell, uno sconosciuto che non le stava nemmeno simpatico. Sì, ciò che aveva creduto di vedere nei suoi occhi l’aveva affascinata, ma quello non era niente in confronto a ciò che provava quando vedeva lo stregone o stava tra le sue braccia. Quello per Merlino era amore, puro ed inossidabile; Darrell poteva essere chiamato appena un’attrazione fisica del momento. Allora perché si sentiva così in colpa nei confronti del mago?
Si chiuse la botola alle spalle e Merlino trasalì a causa del tonfo, ma si ritrovò ben presto a sorridere.
«Ehi, sei arrivata. Hai dormito?».
Alex non rispose, si limitò ad avvicinarsi a lui, sbottonandosi la camicia, sotto cui portava solo un reggiseno a balconcino. Quindi gli diede una spinta, tanto forte da fargli perdere l’equilibrio, e una volta steso su diversi sacchi di fieno si sistemò a cavalcioni su di lui, avventandosi famelica sulla sua bocca.
Il mago, preso del tutto allo sprovvista, ci mise qualche secondo a capire le sue intenzioni – gli furono del tutto chiare quando iniziò ad armeggiare con la sua cintura – e fu completamente inutile provare ad opporsi: nemmeno la paura di essere colti in flagrante da suo padre la spaventava.
Alex si staccò solo per sciogliersi i capelli e liberarsi dei jeans, ordinando: «Prendimi e basta, Merlino».
Però alla fine fu lei a prendere lui, tirandolo su seduto con una mano tra i suoi capelli e facendo l’amore come non aveva mai fatto prima: del tutto priva di dolcezza, quasi rabbiosamente. Merlino non poteva saperlo, ma Alex ne ebbe abbastanza solo quando gli occhi e le mani di Darrell non furono sostituiti da quelli del mago, così come doveva essere.

***

«Ho voglia di una sigaretta», esclamò qualche secondo dopo essersi sdraiata al suo fianco sul cumulo di fieno. «Ne hai?».
Merlino ebbe solo la forza di scuotere il capo, ancora col fiato grosso e i muscoli contratti. Sentì lo sguardo di Alex indugiare sul profilo del suo volto accaldato, ma non lo ricambiò: era troppo imbarazzante, oltre che frustrante.
«Mi dispiace», gli disse poco dopo, posando la testa sul suo torace che sembrava sul punto di esplodere: il cuore gli batteva così forte che già immaginava quando l’avrebbe visto aprirsi un buco nel suo petto e volare via roteando come un mini-elicottero.
«A volte mi dimentico della tua vera età», concluse Alex, sospirando.
E quel sospiro fu ciò che più gli fece male: si sentiva in colpa per essersene dimenticata oppure era semplicemente triste che l’uomo che aveva accettato di sposare fosse in realtà un vecchio decrepito incapace di soddisfare ogni suo bisogno? In ogni caso, Merlino aveva predetto che prima o poi sarebbe successo – e senza l’uso della Vista – e la cosa insopportabile era che la parte peggiore di lui avrebbe voluto canzonarla con un “Te l’avevo detto”.
«Questa mattina, al telefono, hai accennato al fatto che avevi qualcosa da dirmi. Di che si tratta?», le domandò allora il mago, ben deciso a cambiare argomento.
«Oh, sì». L’infermiera si mise sul fianco, con una mano a tenerle la testa e il gomito puntato nel sacco di fieno. «Ho una notizia buona e una cattiva. Quale vuoi sentire prima?».
«La buona».
Il volto di Alex si illuminò di gioia, mentre urlava: «Torno a lavorare in oncologia!».
«Ma è fantastico!». Anche Merlino non poté rimanere impassibile alla notizia e preso dall’entusiasmo si sporse per baciarla. Solo dopo gli tornò alla mente che c’era anche una cattiva notizia. Scostandosi un poco dal suo viso, le chiese: «È tanto cattiva?».
Gli occhi verdi dell’infermiera si adombrarono e senza prepararlo in alcun modo disse: «Gli esiti degli esami di Abby hanno evidenziato una recidiva. L’unica sua speranza ora è trovare in tempo un donatore compatibile e sarà difficilissimo, visto che ha perso i genitori, non ha mai avuto fratelli e sua nonna è troppo anziana anche solo per provarci».
Merlino rimase in silenzio, senza sapere cosa dire, e lasciò che Alex semplicemente si accucciasse nuovamente sul suo petto, la testa proprio sotto il suo mento e i capelli che gli solleticavano lo stomaco.
Mai prima di allora aveva immaginato ad un mondo senza Abigail Reed: la sua voglia di vivere e il suo animo coraggioso non lo avevano mai fatto dubitare del fatto che prima o poi avrebbe sconfitto la malattia e avrebbe vissuto ancora molti anni felici.
Ricordava ancora la prima volta che l’aveva vista e quanto lo avesse profondamente colpito.

Gli bastò varcare la soglia del Pronto Soccorso per rendersi conto del trambusto nei pressi del bancone dell’accettazione. Subito immaginò che qualcuno si fosse sentito male e che i curiosi in sala d’aspetto fossero accorsi per vedere un po’ d’azione, ma tutto ciò che vide fu un’elegante signora dai capelli bianchi circondata dalla maggior parte delle infermiere di turno e da alcuni pazienti, tra cui alcuni anche in vestaglia e con i trespoli della flebo appresso.
Impiegò qualche secondo di troppo a riconoscerla, forse perché era l'ultima persona che si sarebbe immaginato di incrociare di nuovo, ma il suo cuore reagì pompandogli sangue infuocato nelle vene.
Per lui si trattava di una donna che non meritava un briciolo della sua attenzione, ma per la folla che la circondava era una specie di celebrità: Daisy Chapman, autrice di romanzi rosa di successo. Il suo nome doveva aver fatto il giro di tutto il Pronto Soccorso, attirando fans desiderosi di accaparrarsi un autografo personalizzato.
La sua notorietà era passata decisamente in primo piano, tanto che nessuno si era chiesto perché si trovasse all’interno di un Pronto Soccorso di un paesino dimenticato da Dio. Stava male? Si era fermata a chiedere dove fosse l’autofficina più vicina? A quanto pare Merlino era l’unico a porsi quelle domande, ma non se ne curò: se lei per prima preferiva firmare autografi piuttosto che spiegare la sua presenza, meglio così; voleva dire che non si trattava di un’emergenza.
Prese l’ascensore e salì fino al quarto piano, dove si trovava il reparto oncologico. Sapeva che Alex era di turno quel pomeriggio e sperava tanto di incontrarla, di incrociare i suoi occhi verdi mozzafiato anche solo per un istante. Era tutto ciò che poteva sperare, specialmente ora che la sua storia con Keith iniziava a sembrare seria.
«Te lo ripeto ancora una volta, ragazzina: devi essere accompagnata da un adulto per richiedere degli esami».
Merlino, attirato da quella voce, fece una deviazione e passò per la sala d’aspetto, dove trovò proprio Alex e una ragazzina dal corpo esile e la pelle diafana, il volto incorniciato da una cascata di capelli castani, dritti come spaghetti, e in cui erano incastonati due occhi neri e lucenti come onici.
Il cuore di Merlino saltò un battito, guardandola. Le somigliava così tanto…
«E io le ripeto che mia nonna, la mia tutrice legale, è al Pronto Soccorso che firma autografi. Il suo nome è Daisy Chapman, è una scrittrice piuttosto famosa».
«Mai sentita nominare. Comunque, se è davvero come dici, devi chiederle di salire e firmare alcuni moduli», continuò imperterrita Alex e, accorgendosi della sua presenza, gli lanciò un’occhiata con cui implorava aiuto.
«In effetti al Pronto Soccorso c’è una specie di signing session», si intromise il mago, attirando l’attenzione della ragazzina. Ora che la vedeva meglio in volto, gli risultò ancora più bella: doveva avere dodici, al massimo tredici anni, eppure i suoi occhi erano intelligenti, venati di tristezza ma anche pieni di vita e consapevoli del grande dono che possedevano. Proprio come quelli della sua bisnonna.
«Sembra che ne avrà per un bel po’», concluse, ricambiando il grande sorriso che gli aveva rivolto.
Alex sbuffò sonoramente e sorpassò entrambi, diretta verso il bancone d’accettazione del piano. «Non ti ci mettere pure tu, Merlino!», lo rimproverò. «Non posso far eseguire degli esami ad un minore senza il consenso di un genitore o di un tutore, lo sai!».
«Ci sono volute settimane, prima che mia nonna accettasse di portarmi qui», esclamò la ragazzina, correndole dietro, a sua volta seguita da Merlino. «Lei non crede che io stia male. Pensa che mi inventi tutto per farle trascorrere più tempo con me, ma le assicuro che non mi sto inventando niente, infermiera Greenwood!».
Alex si fermò e si voltò per chiederle qualcosa, poi abbassò gli occhi sul proprio badge, appeso alla tasca dell’uniforme, e riprese a camminare fino a raggiungere il retro del bancone.
«Ho segnato qui tutti i miei sintomi», riprese la ragazzina, tenace come poche, picchiettando un dito sulla copertina di un piccolo diario scolastico. «E mi sono anche documentata».
«Non si possono fare le diagnosi su Internet, quand’è che la gente capirà?», chiese Alex, più a se stessa che ad altri, guardando però negli occhi lo stregone, il cui cuore mancò un battito.
«Io penso di avere una malattia al sangue».
A quelle parole, dette con tono grave e una calma del tutto innaturale, sia Alex che Merlino si irrigidirono. L’infermiera porse velocemente una mano e la ragazzina le consegnò il diario. Dopo una veloce sfogliata, Alex sollevò il capo e gli disse: «Porta su sua nonna, dobbiamo farle fare subito gli esami».
La ragazzina sorrise soddisfatta, dimentica per un attimo della gravità della situazione, e guardò Merlino contrarre il volto in un'espressione stizzita. Poi, dopo aver ricambiato a lungo il suo sguardo profondo, i suoi lineamenti si rilassarono tanto da permettere ad un sorriso di sbocciare sul suo volto. Quindi annuì con un semplice cenno del capo e si avviò verso l'ascensore.
Prima che le porte si chiudessero le fece una domanda di cui sapeva già la risposta: «Come ti chiami?».
«Abigail Reed, molto piacere. E tu sei Merlino, giusto? Come l’amico di re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda?».
Lo stregone si lasciò scappare una risata e non fece in tempo a rispondere, preceduto dal chiudersi delle porte dell’ascensore.

«Ho deciso di fare il test di compatibilità», esclamò Alex, riportandolo bruscamente al presente.
Merlino si sollevò sui gomiti e lei fu costretta a sollevare il capo e guardarlo negli occhi.
«Come? Nel senso… sei sicura? Lo sai che le probabilità che tu possa…».
«Lo so».
«Non voglio che tu rimanga delusa», aggiunse, accarezzandole il volto.
L’infermiera abbozzò un sorriso. «Devo provarci comunque. Capisci?».
«Sì, certo». Si sporse per posarle un altro leggero bacio sulle labbra. «Ti amo».
«Anche io», sospirò, tornando ad appoggiare l’orecchio sul suo petto, dove i battiti del suo cuore erano tornati quasi normali.
Merlino infilò una mano nella tasca dei pantaloni per sfiorare il cofanetto di velluto rosso che gli aveva dato il signor Greenwood e sorrise, posandole un bacio tra i capelli.
«Io di più», mormorò e Alex non rispose: si era addormentata.

***

«E adesso dove vai?», domandò un Artù stizzito, guardandolo mentre si alzava in fretta e furia dal tavolo della cucina, ancora con la bocca mezza piena, per recuperare le chiavi dell’auto e la giacca.
Escludendo la conversazione in auto di quella mattina, avevano scambiato sì e no due parole in tutta la giornata. C’erano state delle volte, a Camelot, che avrebbe svuotato il proprio forziere di monete d’oro per un po’ di silenzio e di solitudine, ma da quando si era ritrovato catapultato in quell’epoca non gli era ancora capitato e dubitava sarebbe mai successo: si sentiva un estraneo, lontano da tutto ciò che lo metteva a suo agio, e Merlino era l’unica persona con cui riusciva ad essere pienamente se stesso. Senza di lui, la nostalgia si faceva ancora più dolorosa e non riusciva più a sopportarla, specialmente da quando era iniziata quella guerra fredda con Cathleen.
«All’ospedale», rispose frettolosamente Merlino.
«Bene, vengo anche io».
«No».
Artù si irrigidì, le mani strette in pugni sul tavolo. «Cos’hai detto? Che vorrebbe dire “no”?».
«Ho bisogno di parlare da solo con Abby», provò a dargli una spiegazione, ma il re non se la bevve: c’era qualcosa sotto, poco ma sicuro.
«Non puoi dirmi cosa posso o non posso fare, Merlino».
«No, avete ragione, ma dovrete trovare un metodo alternativo per arrivare all’ospedale». Lo stregone fece tintinnare le chiavi della propria Pininfarina di fronte al viso, sorridendo smagliante.
«Ci vediamo più tardi!», urlò ormai all’ingresso.
Artù rimase in cucina e ascoltò prima il tonfo della porta, poi il motore scoppiettante dell’auto d’epoca e la ghiaia dello sterrato scricchiolare sotto gli pneumatici. Quando tornò a regnare il silenzio, Artù afferrò il bordo della tovaglia e la tirò rabbiosamente, facendo cadere a terra piatti, bicchieri e posate, rendendo il pavimento un campo minato impraticabile. Subito dopo si sentì in colpa, osservando i cocci e i frammenti di vetro, perciò si passò le mani sul volto e respirò profondamente, camminando sulle punte dei piedi per uscire dalla cucina e recuperare la scopa dallo sgabuzzino.
Aveva appena incominciato ad ammucchiare tutto in un angolo, quando il silenzio della sera e della campagna venne interrotto dal rombo di un motore. L’avrebbe riconosciuto tra altri mille.
Col cuore in gola, Artù appoggiò il manico della scopa sul frigorifero e raggiunse l’ingresso, quindi si appoggiò con le spalle alla porta ed aspettò che Cathleen suonasse il campanello.
Ci sarebbe rimasto così male, se non si fosse trattato di lei! Ma le sue aspettative non furono deluse: il paramedico dai capelli rossi era proprio lì, sotto la luce dell’ingresso, bella come se la ricordava e anche di più.
«Disturbo?», gli domandò, accennando un timido sorriso. Ed era così strano, perché lei e la timidezza erano agli antipodi.
«No, io… Entra».
Si fece da parte per farla passare e poi chiuse la porta dietro di lei, pensando a qualcosa di intelligente da dire. Fu allora che lo strano comportamento di Merlino, incluso il perché non lo avesse voluto portare con sé all’ospedale, trovò un senso del tutto nuovo: lui sapeva della visita del paramedico e aveva fatto in modo di lasciarli soli. Gli sarebbe costato il doppio della fatica, ma la strigliata che aveva pianificato di fargli fu sostituita da un discorso di ringraziamento.
«Pensavo fossi di turno questa sera», esclamò Artù, rompendo quell’imbarazzante silenzio.
Cathleen scosse il capo e si lasciò cadere sul divano, rispondendo: «No, sono di riposo. Mi hanno dato tre giorni di fila, questa settimana».
Quindi si voltò a guardarlo e diede qualche pacca accanto a lei, invitandolo silenziosamente a raggiungerla. Artù deglutì e prendendo coraggio si sedette al suo fianco, anche se decise di mantenere una certa distanza.
«Volevo scusarmi per quello che ho detto l’ultima volta», esordì il paramedico, guardandosi le unghie corte. «A volte… La maggior parte delle volte, a dire il vero, non ho alcun filtro e dico cose di cui poi mi pento. Non mi riferivo alla tua famiglia… come avrei potuto? Non ho conosciuto i tuoi genitori, e anche se li avessi conosciuti non starebbe a me giudicare…».
«Ehi», la interruppe, posando una mano sulle sue.
Cathleen sollevò di scatto il capo ed incrociò i suoi occhi blu come il mare, rimanendone come sempre incantata.
Il sovrano accennò un sorriso, dicendo: «La mia famiglia non era perfetta, anzi… mio padre aveva un sacco di difetti e un problema serio con la magia, mia sorella è diventata una strega pazza, rancorosa e senza un briciolo di compassione… però era la mia famiglia e non si può non voler bene alle persone con cui sei cresciuto; sarebbe innaturale».
Cathleen non ribatté a parole, bensì con un sorriso venato di tristezza. Poi strinse la sua mano ed esclamò: «Non capita quasi mai che io abbia un week-end libero, perciò, se non hai altri impegni, mi piacerebbe trascorrerlo con te. Potremmo fare una gita fuori porta con la moto».
Artù non si aspettava una proposta del genere e nonostante avesse sognato di trascorrere del tempo da solo con lei, lontano dalla casa di Merlino o da Alex, ci mise qualche secondo per rispondere che sì, gli sarebbe piaciuto molto.
«Dove andremo?», le chiese subito dopo, divorato dalla curiosità.
«È una sorpresa», sussurrò Cathleen avvicinandosi al suo viso, tanto da sentire il suo respiro alla menta e da scorgere il riflesso dei propri occhi nei suoi.
Il paramedico si accorse di aver invaso un po’ troppo il suo spazio – Artù lo capì da come aveva sgranato gli occhi e socchiuso le labbra – ma nessuno dei due si mosse, come sotto gli effetti di un incantesimo.
Ad un tratto il re parve uscirne, ma solo per posarle una mano sulla guancia ed annullare del tutto la distanza che lo separava dalla sua bocca.

***

Darrell si riempì un bicchiere d’acqua e si appoggiò allo stipite della porta della cucina, guardando Freya seduta in un angolo del divano, con le gambe strette al petto e il mento sulle ginocchia, gli occhi fissi sullo schermo della TV al plasma.
«Freya», la chiamò, sospirando.
Non gli aveva più rivolto la parola da quando l’avevano dimessa dall’ospedale, dopo gli esiti infruttuosi dei test, ed erano tornati a casa. Continuava a pensare a ciò che si erano detti prima della TAC, ma fino ad allora Freya non si era comportata come se avesse voluto mettere in pratica le sue parole: non aveva preparato i bagagli, non aveva fatto ricerche sugli orari dell’autobus, non aveva controllato nessuna mappa per decidere quale sarebbe stata la sua prossima meta. Darrell aveva il presentimento che avrebbe architettato la propria fuga durante la notte, mentre dormiva, e per questo sapeva che non sarebbe mai riuscito a chiudere occhio. Ma non poteva nemmeno costringerla a rimanere – sarebbe stato sequestro di persona – né offrirsi di seguirla ovunque volesse andare – sarebbe stato semplicemente da pazzi.
Ma è così l’amore che riduce le persone, no? Le rende pazze.
«Freya?», tentò di nuovo, alzando un poco la voce.
«Uhm?», mugugnò lei, senza voltarsi.
Darrell si strofinò il viso con una mano, soffermandosi sulla bocca. «Io vado a dormire, domani mattina mi devo svegliare presto. Buonanotte».
Attese il silenzio per una dozzina di secondi, ma Freya non gli rispose. Quindi decise di arrendersi e si chiuse in camera sua, dove bevve il bicchiere d’acqua e si gettò sul letto, programmando di fissare il soffitto per le prossime ore che lo separavano dal suono della sveglia.

***

Merlino sorrise, gli occhi rivolti verso la strada illuminata dai fari dell’auto ma la mente verso Cathleen e Artù, probabilmente sulla via della riappacificazione.
Parcheggiò nel primo posto libero che trovò di fronte all’ospedale e varcò le porte scorrevoli del Pronto Soccorso. Salutò un paio di infermieri e poi chiese se sapevano dove fosse Alex al momento; gli indicarono la sala relax e fu proprio lì che la trovò, intenta a versarsi la prima tazza di caffè della nottata.
Non le aveva ancora detto che il signor Greenwood aveva intenzione di vendere il cavallo nero che tanto le piaceva, ma quella sera, prima di cena, gli era venuta in mente un’idea che forse avrebbe fatto felici tutti quanti.
Si avvicinò di soppiatto e una volta alle sue spalle l’abbracciò, posandole una serie di baci sul collo, a cui lei rispose prima con un sobbalzo e poi una risata.
«Merlino, sei pazzo? Mi hai spaventata!».
«Oh, perdonatemi mia signora… sono desolato».
Alex gli posò una mano sulla testa, afferrandolo per i capelli, e gettò del tutto il capo all’indietro per offrirgli meglio il proprio collo. «Non ti fermare, è un ordine», ansimò.
Merlino alternò i baci a dei piccoli morsi, passando dalla nuca al lobo dell’orecchio destro. Le percorse le braccia con le mani e una volta giunto alle spalle le fece scivolare sul suo seno, per poi scostarsi per grande disappunto di Alex.
«Ehi, non ci si comporta così!», lo rimproverò l’infermiera, lanciandogli un’occhiataccia.
Merlino sogghignò, aprendo la porta della sala relax. «Lo sai che avremo tutto il week-end per noi? Se tutto va per il verso giusto, Cathleen e Artù faranno una gita fuori porta».
«Dici sul serio?».
Il mago annuì e rise quando Alex gli corse incontro per gettargli le braccia al collo e baciarlo sulle labbra.
«Ma è fantastico! Potremo finalmente pianificare un po’ di dettagli del matrimonio senza venire interrotti!», esclamò, eccitata.
«Non è quello che immaginavo io, ma sì, potremo fare anche questo».
Alex gli tirò un pugnetto sul braccio e poi, con aria maliziosa, gli sussurrò all’orecchio: «Potremo dormire insieme una notte intera, senza paura di essere importunati».
Merlino si scostò per guardarla negli occhi e accarezzarle il viso. «Ehi, se sarà come oggi pomeriggio temo che dovrò pagare qualcuno per compilarmi una ricetta».
«Una ricetta per cosa?».
«Pillole blu».
«Stupido!».
L’infermiera quella volta lo picchiò più forte, facendolo scappare fuori dalla stanza relax. Merlino si voltò indietro per farle vedere che stava ridendo e Alex lo imitò, anche se con minor convinzione.

***

Freya rimase in ascolto dietro la porta per qualche secondo, poi posò la mano sul pomello e lo girò lentamente, ma la serratura oppose resistenza.
La custode abbozzò un sorriso, pensando che nonostante ciò che le aveva detto in ospedale, Darrell dubitava ancora delle sue intenzioni. E se l’avesse vista in quel momento, furtiva come una ladra, si sarebbe dato ragione da solo.
«Aliese», bisbigliò e i suoi occhi brillarono d’oro mentre la serratura interna ruotava silenziosamente. Grazie a quel trucco, fu facile entrare nella camera da letto di Darrell. Peccato che il poliziotto era ancora sveglio e sollevò di scatto le palpebre quando avvertì la sua presenza sulla soglia.
«Ehi, mi hai spaventato. È successo qualcosa?».
Freya sorrise timidamente, stringendo più saldamente il manico del pugnale che teneva nascosto dietro la schiena. «Non riesco ad addormentarmi e ho pensato… scusami, è una cosa stupida, non sarei mai dovuta venire a disturbarti».
«No… dimmelo», la fermò Darrell, sollevandosi sui gomiti.
«Mi chiedevo se potessi… insomma, stendermi con te per un po’».
L’agente, colto alla sprovvista, boccheggiò qualche secondo. Poi si guardò intorno e disse: «Non ci vedo nulla di male, in fondo. Forza, vieni».
Freya sospirò di sollievo e lo raggiunse a letto, infilandosi sotto le lenzuola.
Il silenzio regnò sovrano per interi minuti, entrambi troppo spaventati per interromperlo, gli occhi fissi sul soffitto candido.
Alla fine fu Darrell a parlare per primo, quando anche Freya si era ormai decisa a fare la sua mossa.
«Non voglio che tu te ne vada per colpa mia», mormorò, le dita delle mani intrecciate sullo sterno.
Freya si girò sul fianco, così da guardare il profilo del suo viso, e rispose con un leggero sorriso sul volto. «Non me ne andrò».
«Hai… hai cambiato idea?», le chiese l’agente, fissandola a sua volta.
La custode scosse il capo, gli occhi lucidi. «No, voglio dire che sarò sempre con te, qualsiasi cosa accada, e che una parte di te vivrà in me; la custodirò e nessuno potrà farti del male, te lo prometto».
Un sorriso quasi derisorio fece la propria comparsa sulle labbra di Darrell, il quale esclamò, divertito quanto scettico: «Che cosa stai dicendo, Freya? Non ha alcun senso».
Lei però si limitò a sorridere e gli accarezzò una guancia. «Te lo prometto», sussurrò di nuovo e quando i suoi occhi si tinsero nuovamente d’oro Darrell aprì la bocca per urlare, ma il sonno lo catturò prima, facendogli sentire la testa e le palpebre talmente pesanti da crollare inerme sul letto.
Freya si alzò lentamente e fece il giro del letto, osservandolo dall’alto, per poi chinarsi nuovamente su di lui e baciarlo sulla fronte, ringraziandolo per tutto ciò che aveva fatto per lei. E quello che stava per fare ne era la prova.
Impugnò il coltello e lo sollevò a mezz’aria, iniziando a recitare un incantesimo antico e potente, tanto che poco lontano da quell’appartamento, al centro di Avalon, la terra iniziò a tremare impercettibilmente.
Al culmine del rituale, Freya piegò all’indietro la testa ed abbassò il pugnale, ferendosi l’avambraccio. Scossa dai tremiti dovuti alla potente magia utilizzata e al dolore, si tenne il braccio ferito mentre girava intorno al corpo immobile di Darrell, formando una specie di cerchio color cremisi intorno a lui.
Riprese a recitare le intricate formule dell’incantesimo quando completò il cerchio e concluse il tutto facendo cadere alcune gocce di sangue sulle labbra dell’agente. In quell’istante un’accecante luce azzurra circondò sia Darrell che Freya, per poi intrecciarsi ed insinuarsi nei loro corpi, scuotendoli come se fossero in preda alle convulsioni.
Quando finalmente la luce si spense, appena qualche secondo dopo, non c’era più traccia del sangue versato da Freya e anche la ferita sul suo braccio era sparita.
Un fulmine si schiantò sull’isola al centro di Avalon e contemporaneamente la custode cadde a terra priva di sensi.

***

Merlino fu costretto ad addossarsi alla parete del corridoio per non cadere a terra, scosso dai sudori freddi. Con gli occhi sgranati, si chiese cosa diavolo fosse accaduto.
Un’infermiera di passaggio si fermò al suo fianco e gli chiese se stesse bene. Il mago rispose che era tutto okay e la ringraziò, quindi si concentrò sul proprio respiro e lentamente i battiti del suo cuore tornarono regolari, ma la preoccupazione che fosse appena successo qualcosa di grosso rimase.
Quando si fu calmato a sufficienza, raggiunse la stanza di Abigail e sbirciò attraverso le vetrate, ringraziando il cielo che l’avesse trovata sola in camera; quindi bussò alla porta. La ragazzina sollevò il capo da ciò che stava leggendo e gli fece segno di entrare.
Si rese subito conto che qualcosa non andava: i suoi occhi sembravano di pietra e non lo perdevano di vista un secondo; il suo tono di voce era freddo e distaccato, come se stesse parlando con un estraneo.
«È tutto okay?», le domandò, prima di rendersi conto della pessima domanda. «Scusami, non volevo».
«Alex te l’ha detto, eh? Una bella sfortuna».
Lo stregone si sedette al suo fianco e le prese una mano, sorridendo incoraggiante. «Non ti farti abbattere, Abby. Non è tutto perduto».
«Senti, ti ringrazio, ma non ho voglia di parlarne», disse ad occhi chiusi, prima di posare quello che aveva pensato erroneamente fosse un libro sul comodino. Non lo era, non lo era affatto.
Provò ad ignorare la coincidenza, a dirsi che c’erano mille quaderni con la custodia di pelle come quello, ma gli appunti di Hala continuavano a tornargli alla mente, facendo aumentare il battito del suo cuore, e nemmeno stringere il cofanetto di velluto rosso che era andato a mostrarle gli impedì di domandarle tutto d’un fiato: «Dove l’hai preso quello?».
«Me l’ha dato Baqi», rispose con tranquillità Abby, gettando un’occhiata al diario. «Vuoi sapere dove l’ha trovato?».
Merlino non dovette nemmeno annuire per avere la risposta.
«Nella soffitta di mia nonna, tra le cose di cui voleva disfarsi. È il diario della mia bisnonna, Louise McTrusty».
Sentendo di nuovo il suo nome, una ferita profonda si aprì sul cuore di Merlino, che riprese a sanguinare dolorosamente. Ma il mago strinse i denti ed abbozzò un sorriso, alzandosi dalla sedia.
«Te la senti di ascoltare una storia? È da troppo tempo che non ve ne leggo una. Vado a prendere il mio libro e a radunare gli altri, ci metterò poco».
Era già alla porta, pronto a correre via nella notte per rifugiarsi in qualche suo nascondiglio nel bosco, quando sentì Abby esclamare alle sue spalle: «Perché questa volta non te ne fai raccontare una tu? Quella che ha scritto la mia bisnonna è veramente bellissima, anche se un po’ strappalacrime. Chissà, magari potresti anche riconoscerti nel protagonista…».
Merlino inspirò profondamente e si voltò, gli occhi che gli bruciavano a causa delle lacrime.
«Ecco che cosa faremo», esordì, cercando di mantenere un tono di voce fermo. «Tu restituirai quel diario a Baqi senza dirgli una parola, io mi dimenticherò di questa conversazione ed entrambi non ritorneremo mai più sull’argomento. Ci siamo capiti?».
Abby lo fissò a lungo, in silenzio, fino a quando una lacrima non tracciò un solco inaspettato anche sulla sua guancia. Allora si sporse nuovamente per prendere il diario e dopo averne accarezzato la copertina con dita tremanti, se lo portò al petto sussurrando: «Quindi sei davvero tu. Tu sei Emrys».
Il mago non riuscì più a trattenere i singhiozzi e barcollò fino al suo letto, dove si sedette. Abby lo accolse tra le sue esili braccia e lasciò che piangesse contro la sua spalla, liberandosi del dolore che aveva troppo a lungo ignorato.


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Capitolo 24
*** 24. The secret sharer – Part I ***





24. The secret sharer – Part I



«Se non fosse stato per la guerra, non avrei mai conosciuto Louise», iniziò a raccontare Merlino, sdraiato accanto ad Abby sul piccolo lettino.
«Ero stufo di starmene con le mani in mano, così quando è scoppiata la Prima Guerra Mondiale mi sono arruolato e sono partito con la Royal Navy Britannica per proteggere il nostro Paese. Sin dall’inizio ho fatto parte dell’equipaggio di diversi incrociatori da battaglia, fino a quando non sono stato trasferito sulla Queen Mary: classe Lion, in servizio nel Primo Squadrone, armata con otto cannoni da 343 millimetri, con un dislocamento di 27.200 tonnellate e una velocità di ventotto nodi. Tutte cose molto importanti, ma la più importante per me è che fu la nave su cui conobbi James McTrusty».
«Il padre di Louise?», domandò Abby, con gli occhi grandi pieni di curiosità. Merlino si limitò ad annuire, abbassando le palpebre, e riprese il racconto da dove lo aveva interrotto.
«Dormivamo uno accanto all’altro e all’inizio non ci parlavamo nemmeno: entrambi riservati, con troppi pensieri per la testa… Poi ci fu quell’episodio, durante la distribuzione del rancio serale.
«James stava guardando la foto di sua moglie, come faceva durante la maggior parte del poco tempo libero a nostra disposizione, e il cuoco lo saltò. Quando se ne accorse, era ormai troppo tardi e protestare non sarebbe servito a nulla, così io gli diedi la mia porzione. Quando quella sera, prima di spegnere le luci, mi chiese perché l’avessi fatto, gli ho risposto che lui aveva qualcuno da cui tornare alla fine della guerra, al contrario di me, e che non poteva permettersi di morire di fame.
«Ovviamente molti marinai avevano assistito all’episodio e da allora iniziò a circolare la voce che io fossi gay. Gli insulti volavano con le occhiate, tra un tiro e l’altro di sigaretta, a mezza voce durante la cena… A me non importava e nemmeno a James, il quale iniziò a raccontarmi della sua famiglia, della sua casa e della sua vita prima della guerra. Siamo diventati amici, soli in mezzo a quelli che dovevano essere i nostri alleati. Eravamo in guerra su due fronti, invece.
«Un giorno un marinaio con qualche legame con uno degli ufficiali, un certo Brandon, fece una battuta di pessimo gusto senza paura di poter essere sentito. In effetti i pettegolezzi erano giunti persino al comandante, e nonostante essere omosessuale a quei tempi fosse un reato, nessuno era intervenuto: in mare aperto, è consigliato non dare ossigeno a piccoli fuochi perché per quanto innocui possano sembrare, se alimentati possono distruggere ogni cosa.
«Quel giorno feci l’errore di ribellarmi e rispondere a tono alle accuse, dando del frocetto a Brandon, insinuando che quell’ufficiale gli proteggesse il culo perché ne voleva un po’ ogni sera, e quella stessa notte fui trascinato fuori dal mio letto, legato ed imbavagliato e pestato a sangue. Poi mi infilarono in uno sgabuzzino e con una siringa rubata dall’infermeria mi iniettarono dell’aria nel sangue».
Abby rabbrividì al suo fianco e Merlino si domandò se non stesse esagerando con i particolari. In fondo era stata lei a chiedergli che le raccontasse tutto, ogni cosa; stava solo esaudendo il suo desiderio.
«Ero già bello che andato, quando James si svegliò a causa di uno scossone improvviso, temendo che ci stessero attaccando, e si accorse della mia assenza. Ovviamente venne subito a cercarmi e mi trovò, ricoperto di lividi ed escoriazioni, con la siringa ancora nel braccio. Pianse come solo un amico piangerebbe per un altro, poi si alzò per andare a dare l’allarme e fu allora che accadde – fu allora che scoprì il mio segreto.
«I lividi lentamente scomparvero, le ferite si rimarginarono lasciando solo delle cicatrici e le ossa tornarono al loro posto nel mio corpo. Il mio cuore riprese a battere singhiozzando, come un motore difettoso, e un respiro rantolante mi sfuggì dalle labbra quando sollevai la testa per abbandonarla contro il muro alle mie spalle. Quando aprii gli occhi ed incrociai quelli terrorizzati di James, capii che avrei dovuto ucciderlo e poi nascondermi fino a quando non avessi trovato un modo per andarmene dalla Queen Mary.
«Iniziai a chiedermi perché mi avesse trovato lui, perché non qualcun’altro, qualcuno di cui non mi importava un fico secco. Ucciderlo, rubandolo a sua moglie e costringendo sua figlia a vivere senza un padre, mi avrebbe perseguitato per il resto dei miei giorni, ma non ero sicuro che avrebbe potuto mantenere un segreto così grande e non avevo altre alternative».
«Non ci credo che tu l’abbia fatto. Non l’hai fatto davvero, Merlino!», sussurrò inorridita Abigail, il viso paonazzo e gli occhi lucidi.
Lo stregone si girò per la prima volta verso di lei e i loro nasi quasi si sfiorarono, mentre si guardavano intensamente negli occhi. Alla fine abbozzò un sorriso, mormorando: «Non ce n’è stato bisogno».
Abby sospirò di sollievo, tornando a fissare il soffitto, e così fece anche Merlino.
«Al terrore succedette l’incredulità e poi ancora l’euforia. James era così contento che fossi vivo che scoppiò a ridere, rischiando di svegliare l’intero equipaggio, e mi abbracciò stretto. Ne rimasi così sorpreso che abbandonai con sollievo l’idea di ucciderlo, ma gli feci giurare solennemente che non avrebbe detto nulla a nessuno. James giurò e così inizio la nostra amicizia segreta.
«Venni accusato di essere un disertore e tutti sulla nave avevano ricevuto l’ordine di spararmi a vista nel caso fossi stato trovato, incluso Brandon e i suoi scagnozzi, i quali non erano più riusciti a dormire sonni tranquilli da quando il mio corpo era scomparso da quello sgabuzzino. James aveva sapientemente messo in giro la voce che il mio fantasma, dopo aver buttato in mare il corpo, aveva deciso di rimanere a bordo per dare la caccia a coloro che mi avevano ucciso. E in effetti lo feci, sgattaiolando di notte fino ai loro letti per rubare loro vestiti, scarpe, o lasciare dei regalini dall’odore piuttosto indelebile.
«James era il mio compagno di avventure ormai e una volta spente le luci riusciva sempre a raggiungermi nella sala caldaie o ovunque mi nascondessi per portarmi qualcosa da mangiare, abbastanza da non morire di nuovo. Mi raccontava ciò che succedeva ai piani superiori, mi portava dei libri per passare il tempo, mi aggiornava sull’andamento della battaglia, delle rotte che prendevamo e ci facevamo un sacco di risate quando mi descriveva l’aspetto sempre più sconvolto e spaventato di Brandon e degli altri. In cambio, io gli raccontavo di me, del vero me: della mia vita a Camelot, di Artù, della magia e di Morgana; dei posti che avevo visto, delle mie morti più spettacolari… Era l’unica persona a cui avessi detto tanto di me, il primo migliore amico che avessi avuto dalla morte di Artù, e quando lo persi… beh, fu devastante».
Merlino si voltò nuovamente verso Abby e la ragazzina ricambiò il suo sguardo, chiedendogli silenziosamente di proseguire. Il mago però le domandò: «Com’è il livello di istruzione qui in ospedale?».
«Molto scarso direi», rispose, ridendo.
«Quindi presumo tu non sappia nulla della battaglia dello Jutland».
Abby perse il sorriso e scosse gravemente il capo. Merlino si concesse un grande respiro ed iniziò a spiegare: «Fu una delle tante battaglie navali tra la flotta inglese e quella tedesca. Alla fine furono gli Alleati a prevalere, ma le conseguenze furono catastrofiche… Nel giro di due giorni – quanto durò effettivamente lo scontro – morirono più di ottomila uomini, di entrambe le fazioni».
«È tremendo», disse Abby, con un nodo a stringerle la gola. «E… e James…?».
«Sì», le rispose ancor prima che concludesse la domanda. «È morto anche James».

«Emrys! Emrys, sono James!».
Merlino si alzò quel tanto che bastò all’amico per individuarlo nell’immenso locale caldaie e lo raggiunse di corsa, col volto pallido e allo stesso tempo velato di sudore.
«C’è qualcosa che non va? È successo qualcosa?», gli chiese, posandogli una mano sulla spalla.
James annuì e dopo aver respirato profondamente per calmare il proprio cuore impazzito, spiegò: «È appena arrivato l’ordine di puntare verso est alla massima velocità».
«Sì, poco fa ho notato un’improvvisa virata… Ma che vuol dire?».
«Vuol dire che domani a quest’ora potremmo essere morti».
Un silenzio pesante cadde tra di loro, interrotto soltanto dagli sbuffi e dai rumori meccanici dovuti a tutti gli strumenti presenti in quel locale in cui il calore si appiccicava ai vestiti e ai capelli, rubando l’aria ai polmoni.
«Pardon, io potrei essere morto, perché tu ti risveglieresti dopo un po’», si corresse James con una risatina nervosa, togliendosi il cappello per passarsi le mani tra i capelli castani.
Alla fine Merlino lo prese per le spalle e fissò gli occhi nei suoi: «Smettila di dire idiozie e raccontami che cosa mi sono perso».
James gli spiegò allora che alla Stanza 40 – un ufficio di decrittazione inglese – avevano decifrato un messaggio proveniente dall’ammiragliato tedesco, individuando la posizione di una delle flotte sotto il comando di Scheer.
«Stanno navigando nelle acque dello stretto dello Skagerrak e Jellicoe ha ordinato a tre squadre di navi di linea – tra cui anche noi – di inchiodare e affrontare il nemico nello stretto. Potremmo morire in uno scontro del genere, Emrys! Non capisci?».
James si lasciò allora andare alla lacrime, baciando più volte la foto di sua moglie, e Merlino non osò dirgli di smetterla, come non provò a dirgli che era sicuro che sarebbe sopravvissuto. Come poteva promettergli una cosa del genere?
Rimase in silenzio al suo fianco per quelle che gli sembrarono ore, fino a quando la sirena che scoccava la mezzanotte non squarciò l’aria, ordinando a tutti i marinai di raggiungere le proprie brande per la notte.
James si ricompose e gli sorrise, scusandosi per il suo comportamento infantile. Quindi gli augurò la buonanotte e gli promise che si sarebbero rivisti il giorno successivo.
Il suo amico, come gli piaceva ricordare spesso scherzando col proprio cognome, era uno di cui ci si poteva fidare e manteneva sempre le promesse. E Merlino attese con ansia il suo arrivo, tanta che iniziò a provare della delusione quando non lo vide nemmeno durante la pausa pranzo. Ma non avrebbe mai dovuto dubitare di James e se ne convinse quando lo vide entrare di corsa in sala macchine e stringerlo nel loro secondo abbraccio, forte come quello che gli aveva dato dopo averlo visto risorgere ma dovuto quella volta alla paura, anziché alla gioia.
Erano ancora l’uno nelle braccia dell’altro, quando si udì il primo colpo di cannone, in grado di far tremare loro le ossa.
Frettolosamente James infilò le mani sotto la casacca nera dell’uniforme ed estrasse la scatoletta di metallo in cui aveva conservato la foto della moglie e la collanina che lei gli aveva dato come atto di fede, promessa che presto o tardi sarebbe tornato a casa per rimettergliela al collo: una catenina d’oro con un piccolo crocifisso come ciondolo. Quante volte aveva sentito James pregare ad occhi chiusi, tenendola stretta nel pugno vicino al cuore? E ora la stava consegnando a lui.
«Assolutamente no», si rifiutò, allontanandola con una mano.
«Senti, io per primo vorrei rimanere in vita e rivedere la mia famiglia, ma metti caso che non ce la faccia… Chi si prenderà cura di loro?».
«Non io, James! Sai che non posso farlo!».
Il secondo e poi il terzo colpo di cannone vennero sparati, anche se quella volta da più lontano. La battaglia stava per infuriare.
James gli prese una mano e gliela strinse con forza intorno alla scatoletta nera, guardandolo negli occhi con intensità: «Ti supplico, Emrys. Se sei davvero mio amico, promettimi che lo farai».
Merlino respirò profondamente e finalmente annuì con un cenno del capo. «Te lo prometto, James. Ma non ce ne sarà bisogno: tua moglie e tua figlia dovranno sopportare la vista del tuo brutto muso fino a quando non avrai novant’anni».
James, nonostante gli occhi lucidi, sorrise e lo abbracciò di nuovo, proprio mentre l’ennesimo colpo sembrava averli mancati per un soffio.
Si salutarono in silenzio, scambiandosi solo un’occhiata, senza sapere che sarebbe stata l’ultima.

«Un’ora dopo il nostro incontro, la Queen Mary è stata colpita. Mi sono precipitato subito sul ponte, conscio del fatto che nessuno si sarebbe preoccupato di me sotto attacco, e il mio cuore ha smesso per un attimo di battere quando ho visto il fumo salire nero e denso dalla torre Q. Lì c’era James. Dalla mia posizione non riuscivo a capire quale dei due cannoni fosse stato messo fuori uso e comunque poteva anche essere che nell’esplosione entrambi i marinai fossero stati uccisi. Ho avuto qualche speranza quando il cannone di sinistra, il cannone di James, riprese a sparare contro la Seydlitz.
«Iniziai a correre a più non posso verso la torre Q: se quelli dovevano essere i nostri ultimi istanti, volevo trascorrerli con il mio amico. Intanto la nave tedesca continuava a rispondere al fuoco e furono quasi colpite le torri a prua. Ero quasi sotto la torre, quando qualcuno si mise sulla mia strada: Brandon».
«Non ci credo», sussurrò Abby scioccata, proprio come se stesse guardando un film appassionante e pieno d’azione.
«Per colpa sua, dei suoi “Ma io ti ho controllato il polso!”, “Tu eri morto!”, “Com’è possibile?”, la torre Q venne colpita di nuovo e crollò prima che io potessi raggiungere James. Successivamente ci fu un incendio e prima che ne accorgessimo la nave si inclinò ed affondò. A quel punto feci l’unica cosa sensata: presi Brandon per il braccio e lo buttai in mare, per poi seguirlo a ruota.
«Furono pochi i marinai della Queen Mary che si salvarono e io e Brandon fummo tra questi fortunati, anche se venimmo pescati da una nave nemica. Ci catturarono, ci torturarono e, cosa peggiore di tutte, io e lui fummo tenuti rinchiusi nella stessa minuscola cella. Brandon non fece altro che scusarsi e piangere, ammettendo che era davvero lui l’omosessuale, e ad un certo punto rischiai anche di ucciderlo. Ero lì, con le mani intorno al suo collo, e il suo volto era così rosso da sembrare un’aragosta… Ma alla fine ho pensato a James, a quello che avrebbe detto se mi avesse visto, e l’ho lasciato andare».
«E alla fine come sei tornato in Inghilterra? Come hai mantenuto la promessa?», gli chiese Abby, che ormai pendeva dalle sue labbra.
«Ho aspettato e aspettato, ascoltando le conversazioni delle guardie tedesche – ignare che io conoscessi la loro lingua, – fino a quando non ho capito che eravamo abbastanza vicini alla terra ferma da riuscire a scappare con una scialuppa di salvataggio. Ed è quello che ho fatto, alla fine».
«Lo racconti come se fosse stato facile», esclamò Abby, ridendo.
Merlino rise a sua volta. «Ho fatto cose molto più difficili nella mia lunga vita: scappare dai crucchi è stata una passeggiata, in confronto».
Rimasero entrambi in silenzio per un po’, ripensando a quel passato incredibilmente lontano eppure vicinissimo.
Abby si chiese quante altre storie del genere avesse collezionato Merlino in più di millequattrocento anni e quante sarebbero rimaste celate al mondo per sempre. Le dispiaceva che il mago non ne avesse mai parlato con nessuno prima d’ora e soprattutto che lei, a cui avrebbe fatto così piacere, non avesse il tempo necessario ad ascoltarle tutte.
«Quanti anni aveva Louise quando l’hai incontrata per la prima volta?», gli domandò ad un tratto, allontanando la tristezza.
Merlino abbozzò un sorriso e sollevò una mano, col pollice nascosto dietro il palmo ad indicare la sua età.
«Sono tornato in Galles una volta finita la guerra, nel novembre del 1918, ma ci ho messo qualche altro mese per prendere coraggio e trovare la famiglia di James. Sapevo che sua moglie era già stata informata della sua morte, ma non ero sicuro che vedere un suo compagno d’armi le avrebbe fatto bene… Poi, quasi due anni dopo che me l’aveva affidata, ho deciso di aprire la scatola col suo nome inciso sopra: dentro ci trovai la collanina, ma non la foto di sua moglie. Probabilmente aveva deciso di tenerla vicina al cuore, nel caso fosse morto. C’erano anche due lettere: una per sua moglie e l’altra per sua figlia, entrambe scritte lo stesso giorno della sua morte, il 31 maggio 1916. Le lessi e fu come risentire la voce di James, come averlo di nuovo vicino, e capii che non potevo tradire la sua fiducia non mantenendo la promessa. Così sono andato a Cardiff e dopo qualche settimane di ricerche finalmente le ho trovate.
«Louise aveva solo quattro anni, ma di carattere era già identica a suo padre, mentre da sua madre aveva preso la bellezza. Fu strano presentarmi a loro, raccontare alla signora McTrusty del tempo trascorso con suo marito e ciò che avevamo fatto l’uno per l’altro… ma mi sono sentito sollevato, meno in colpa. E decisi che avrei aiutato e protetto Louise in ogni modo. Mi trasferii in una minuscola casa non molto lontana dalla loro ed iniziai a lavorare in una nuova fabbrica, spendendo ogni attimo del mio tempo libero con la famiglia di James.
«Nella lettera diretta alla moglie le aveva spiegato che mi aveva scucito una promessa e che doveva lasciarmi fare, perciò non trovò inappropriato che un uomo della mia età si fosse avvicinato tanto alla figlia piccola. Però la gente sì, lo vedeva come una specie di scandalo, e Edith – si chiamava così la moglie di James – per il bene della figlia, che si era affezionata a me come un padre, mi chiese di sposarla. Allora capii che ero andato troppo oltre e che era giunto il momento di cambiare tattica: avrei sempre tenuto un occhio sulla famiglia McTrusty, ma da lontano.
«Fu difficile separarmi da quella che avevo iniziato a ritenere la mia famiglia, ma mi costrinsi ad abituarmici dicendo che era per il loro bene».
Abby si tirò seduta sul letto ed incrociò le gambe, guardandolo con una mano sotto il mento, impaziente di ascoltare dell’altro. Gli chiese: «E quando hai rivisto Louise? All’ospedale in cui lavoravate?».
«No, quello successe molto tempo dopo. Fu al funerale di Edith. Non pensavo mi avrebbe riconosciuto, aveva solo cinque anni e mezzo quando me ne andai ed incominciai a seguire la sua crescita da lontano, ad inviare soldi a sua madre perché le comprasse i vestiti più belli e la facesse studiare nelle scuole migliori. Quando Edith morì ne aveva sedici ed era ancora più bella. I nostri sguardi si incrociarono per un attimo, uno soltanto, e realizzai che lei ricordava chi fossi. Non a caso mi rincorse, una volta concluso il funerale, prima di andare via con sua zia, e la prima cosa che mi chiese fu come facessi a non essere invecchiato di un giorno da quando mi aveva visto l’ultima volta. Mi ricordava così tanto suo padre che decisi subito di rivelarle il mio segreto e lei mi credette, senza se e senza ma. Sorrise e mi salutò con un bacio sulla guancia, molto impudicamente, poi tornò da sua zia, da cui si trasferì, in una piccola cittadina a qualche chilometro dall’ospedale che sorgeva in aperta campagna».
«Quello che sorgeva proprio qui, prima di questo», disse Abby, sorridendo smagliante.
«Esatto. Cambiai identità e la storia del mio passato – com’era facile, allora – ed ottenni facilmente un posto all’ospedale, mentre Louise terminò gli studi per poi iniziare un corso da infermiera, spinta da sua zia.
«Ci scrivemmo centinaia di lettere in quel periodo, ma ci incontrammo anche molte volte, nel cuore della notte. Guardavamo il cielo, ci raccontavamo le nostre giornate, i nostri sogni e le nostre speranze per il futuro… E il mio affetto per lei cresceva a dismisura: era la figlia che non avrei mai avuto, la mia migliore amica e poi, lentamente, il mio primo grande amore dopo secoli di solitudine. Sapevamo tutto l’uno dell’altro ed era così bello… Parlare con lei, stare al suo fianco era… liberatorio. Ma anche un macigno che sentivo pesarmi sul cuore nei momenti più impensabili: sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui lei non ci sarebbe più stata e io non sarei più riuscito a vivere, eppure non riuscivo mai a lasciarla andare».
«Tanto che è stata lei a lasciarti, alla fine», concluse Abby per lui, riprendendo tra le mani il diario della sua bisnonna.
Merlino annuì e sospirò, portandosi le mani dietro la nuca e chiudendo gli occhi alle lacrime. «All’inizio della Seconda Guerra Mondiale. A causa della guerra l’ho incontrata, a causa della guerra l’ho persa», mormorò con la voce intrisa di malinconia.
«Non è vero, non l’hai mai persa. Lei ti ha sempre amato, Merlino. È vero, amava anche suo marito, ma tu sei stato il suo primo amore, la sua anima gemella… Non avrebbe mai potuto dimenticarti. Altrimenti perché avrebbe ascoltato la tua voce in sogno, quella che l’ha avvertita del bombardamento dell’ospedale? Si è fidata tanto da provare a salvare i colleghi e i pazienti, ma tutti le hanno dato della pazza e lei è corsa via, da sola, nel bosco, giusto un momento prima che le bombe facessero saltare in aria tutto quanto. È stata l’unica sopravvissuta, grazie a te. Tu non hai mai smesso di proteggerla e lei non ha mai smesso di pensare a te».
Abby fece una pausa, sfogliando le pagine ingiallite su cui la sua bisnonna aveva raccolto tutte le memorie di una vita, a partire da quando le loro strade si erano separate. Più che un diario sembrava una lunghissima lettera scritta nel corso di settimane, forse mesi, nella speranza che un giorno Emrys – Louise aveva iniziato proprio con “Caro Emrys” – lo trovasse. Voleva fargli sapere che nonostante tutto aveva vissuto una bella vita e lo doveva totalmente a lui.
«Lo sai che ha chiamato mia nonna Daisy perché quando lavoravate all’ospedale tu ogni mattina le andavi a raccogliere delle margherite e gliele posavi sul comodino?», gli chiese sorridendo, con gli occhi ancora sulle pagine dall’inchiostro in molti punti sbavato, come se fosse stato bagnato.
Merlino sorrise e subito dopo si sollevò, dandole le spalle. Si puntellò sul materasso, ma non si alzò, come se volesse aggiungere dell’altro ma non sapesse se fosse giusto o meno.
«Che cosa c’è?», lo incalzò Abby, chiudendo il diario.
«Non l’hai capito?». Merlino si voltò di tre quarti e posò delicatamente una mano sulla copertina in pelle. Aveva gli occhi più lucidi ed arrossati che mai e le sue labbra tremavano, di nuovo sul punto di scoppiare in singhiozzi. «Secondo te come ho fatto a riconoscerlo?».
Abby aprì la bocca, quando un’idea le attraversò la mente, facendole sgranare gli occhi. Scioccata, ci mise qualche secondo a mettere in fila una parola dietro l’altra per comporre una frase di senso compiuto: «Tu sei andato a trovarla prima che morisse in quell’ospizio».
Merlino annuì soltanto e tirò su col naso. Poi si alzò e si diresse verso la porta, dove si aggrappò allo stipite e le disse: «Non scherzavo, quando ho detto che uccidevo chi scopriva il mio segreto e non era intenzionato a mantenerlo. Vedi di tenere sotto controllo Hala e Baqi, stanno facendo troppe domande».
Abby deglutì e non disse una parola, inorridita dall’immagine di Merlino, il suo dolce ed impacciato Merlino, che uccideva qualcuno a sangue freddo. Rialzò gli occhi e lui non c’era già più, sostituito da Mark sulla propria carrozzina, che le chiedeva se aveva voglia di fare un giro. La ragazzina accettò, desiderosa di un po’ d’aria fresca per tornare alla realtà.

***

Artù era così felice che le cose che tra lui e Cathleen fossero tornate alla normalità che non vedeva l’ora che Merlino tornasse per raccontargli tutto. E poi aveva bisogno di una mano per preparare il bagaglio da portare via la mattina seguente: il paramedico gli aveva detto solo che sarebbero stati via per il week-end, ma non aveva voluto rivelargli dove lo avrebbero trascorso. A conti fatti al sovrano non importava molto: tutto quello che desiderava era stare con Cathleen, conoscerla ancora meglio e vivere un po’ la vita, come se non ci fosse alcun destino da portare a termine, nessuna preoccupazione, nessun ricordo triste.
Seduto nella veranda che dava sul giardino sul retro, guardava il cielo punteggiato di stelle e pensava alla sua vecchia vita, così diversa da quella parentesi, quella seconda chance che forse un giorno, chissà, avrebbe apprezzato ancor di più della prima.
Ad un tratto sentì il motore della Pininfarina in avvicinamento e poco dopo lo scricchiolio degli pneumatici sullo sterrato. I fari illuminarono parte del giardino, allungando le ombre dei manichini mutilati e del rudimentale stendi abiti e poi Merlino parcheggiò proprio di fronte alle porte chiuse del vecchio fienile. Spense il motore e il silenzio tornò a regnare nella campagna, reso ancora più piacevole dai grilli e dai gufi nel bosco, usciti allo scoperto per cacciare.
Artù attese che Merlino scendesse dall’auto e lo raggiungesse, ma non lo fece. Con la fronte corrugata e la curiosità di un bambino, si alzò dalla sedia e con cautela si avvicinò all’auto. Ad un paio di metri dalla portiera iniziò a sentire dei singhiozzi e sforzandosi di vedere in quell’oscurità, aiutato dalla luce della luna, tutto ebbe un senso: Merlino non scendeva dall’auto perché stava piangendo, col viso nascosto tra le braccia posate sul volante, mentre tra le mani stringeva una collanina con una croce che Artù aveva già visto. Avvicinandosi ulteriormente, nonostante il groppo alla gola, il re vide sul suo grembo la scatoletta di metallo che lui stesso aveva tirato fuori dalla soffitta, qualche tempo prima.
Non riusciva a vedere il suo unico e migliore amico in quello stato, così aprì bruscamente la portiera e lo tirò fuori dall’auto prendendolo per la giacca.
«Riprenditi», bofonchiò, sorreggendolo tra il proprio corpo e la fiancata dell’auto. «Fai l’uomo, Merlino!».
Ma lo stregone reagì istintivamente e la magia prese il sopravvento, permettendogli di scaraventarlo a qualche metro di distanza. Artù, dolorante, rimase a terra per una dozzina di secondi, guardando il cielo che ora sembrava girargli intorno come una trottola. Quando quel movimento nauseante si placò, si sollevò sui gomiti e vide Merlino inginocchiato a terra, intento a raccogliere ciò che gli era caduto nell’erba: la scatola di James, l’ultima lettera dell’uomo a sua figlia, la fotografia in bianco e nero di Louise e la sua ultima lettera, indirizzata proprio a lui, a Emrys.
Senza smettere di singhiozzare, anche se meno vistosamente, infilò tutto nella scatola e se la portò al petto. Quindi si risollevò, barcollando e tirando su col naso, e guardò Artù per la prima volta negli occhi, furiosamente.
«Andatelo a dire a qualcun altro, che piangere non è da veri uomini», berciò prima di superarlo, diretto verso la veranda.
«Merlino… Cercavo solo di aiutarti!», gli gridò dietro il sovrano, finalmente seduto sull’erba umida.
«Non ho bisogno del vostro aiuto!», fece in tempo a rispondere, prima che un violento attacco di tosse gli squassasse la schiena e lo facesse ruzzolare sulle scale, il corpo rannicchiato in posizione fetale e in preda a delle terribili convulsioni.
Artù lo raggiunse correndo e provò a sollevarlo, ma Merlino si oppose con tutte le forze che gli rimanevano. L’unica cosa che riuscì a fare fu girarlo e rendersi conto del sangue gli usciva dalle narici e da un angolo della bocca, macchiandogli il maglioncino, e della botta che aveva preso alla fronte.
«Merlino, devo portarti in casa», provò a farlo collaborare, ma lo stregone scosse il capo ed abbozzò un sorriso, gli occhi vacui e patinati dal dolore rivolti verso il cielo.
«Voglio stare qui, voglio guardare il cielo fino al sorgere del sole, come facevo con Louise. La mia Louise…». Riprese a piangere, singhiozzando piano tra le sue braccia, e Artù sospirò con la morte nel cuore, le lacrime che rischiavano di bagnare anche i suoi occhi.
«I suoi figli l’hanno messa in quell’ospizio quando si è ammalata», gli raccontò, incurante che lo ascoltasse o meno. «L’hanno abbandonata come un cane sull’autostrada e raramente passavano a trovarla… Io ho trascorso con lei gli ultimi anni, quando la malattia le impediva di alzarsi dal letto e gli antidolorifici le impedivano di ricordare chiaramente ciò che voleva scrivere sul suo diario. Io l’ho aiutata, perché mi informavo sul suo conto regolarmente e sapevo molte cose.
«Ero con lei quando è morta… Le ho stretto forte la mano, le ho chiuso gli occhi, poi sono rimasto al suo fianco per un’ora, prima di chiamare gli infermieri.
«Al suo funerale ho visto i suoi due figli, i suoi nipoti e anche la piccola Abby, sapete? Aveva due anni, allora. Stava tra le braccia della sua mamma e non capiva cosa stesse succedendo. Credo che i nostri sguardi si siano anche incrociati, per un attimo, perché ricordo di aver pensato che fosse identica a Louise da bambina. Era così bella ed innocente, eppure io l’ho odiata, come ho odiato chiunque fosse lì, a piangere lacrime false. Se l’amavano davvero avrebbero potuto andare a trovarla più spesso, trascorrere un po’ di tempo con lei, farle conoscere i suoi nipoti e bisnipoti… farla sentire un po’ meno sola e un po’ più felice. Non ho ragione? Non ho ragione, Artù?».
«Sì, hai ragione», rispose piano il re di Camelot, passandogli una mano sulla fronte imperlata di sudore. La sua pelle scottava, nonostante il freddo stesse calando su di loro come una coperta. Doveva assolutamente portarlo dentro, prima che si prendesse un accidenti.
Si issò con uno sforzo delle gambe ed afferrò Merlino avvolgendogli un braccio intorno alla schiena e l’altro sotto alle ginocchia piegate. Lo stregone non protestò quella volta, forse era troppo stanco per farlo, e continuò a farfugliare frasi sconnesse fino a quando non lo adagiò sul suo letto.
«Vado a prenderti delle pezze bagnate, torno subito», lo avvisò, ma non fece in tempo ad allontanarsi di un passo che il mago artigliò le dita intorno al suo polso, stringendolo con una forza che non avrebbe mai immaginato.
Con gli occhi gonfi ed arrossati, resi pazzi dal dolore, gli disse con chiarezza: «Perché dovrei sacrificarmi per questo mondo, per queste persone che pensano solo a se stesse? Voglio che muoiano. Devono morire tutti!».
«Stai farneticando, Merlino», rispose Artù con rabbia, liberandosi il polso con uno strattone.
Lasciò il mago nella sua stanza e andò a prendere degli asciugamani e una bacinella d’acqua fredda. Una volta di fronte alla porta socchiusa, riuscì a sentire Merlino ripetere ancora e ancora quelle parole terribili, figlie del delirio e della disperazione. Artù respirò profondamente e poi entrò, si sedette al suo capezzale e gli pulì il sangue dal viso, sforzandosi di non ascoltarlo. In qualche modo ci riuscì e si sorprese quando si accorse che Merlino si era finalmente addormentato, stremato.
Artù si addossò allo schienale della sedia e sospirò, massaggiandosi il volto. Lo stregone aveva parlato di sacrificarsi, ma che cosa voleva dire? In ogni caso non gli piaceva, per niente, e forse partire con Cathleen, il giorno successivo, non era la cosa giusta da fare. Non poteva lasciarlo solo, non in quelle condizioni.
Si appoggiò al bordo del materasso con la testa tra le braccia, giusto un momento per far riposare gli occhi, ma si addormentò non appena li chiuse.
Venne tormentato dalle parole di Merlino persino nei sogni.

***

Il suono della sveglia gli fece male come se ci fosse stato un alveare di api assassine dentro la sua testa.
L’aria che respirava – faticosamente, ma respirava ancora – gli fece male ai polmoni come se questi fossero in fiamme, fiamme che crescevano e bruciavano i suoi organi interni ad ogni boccata di ossigeno.
E infine la luce, quando si azzardò a sollevare un poco le palpebre. La luce gli fece male come se avesse una sfilza di aghi dietro agli occhi.
Con un enorme sforzo, Darrell allungò un braccio verso il comodino, sentendo i muscoli irrigiditi tirare, ed afferrò il cellulare per disattivare la sveglia. Poi lo lasciò ricadere sul petto, sfinito. Un velo di sudore gli imperlava la fronte e allo stesso tempo tremava di freddo, perciò giunse alla ovvia conclusione che doveva essersi ammalato e che in quelle condizioni non poteva andare al lavoro.
Lui che aveva sempre vantato una salute di ferro, lui che non aveva mai saltato un giorno alla scuola d’addestramento così come alla Centrale.
Poi si ricordò della promessa che era riuscito a strappare ad Alexandra: tra poche ore si sarebbe presentata in Centrale a sporgere denuncia contro ignoti per l’effrazione a casa sua e Darrell avrebbe dovuto essere lì, ad aspettarla, dopo aver indagato ancora un po’ sul perché l’auto di Cathleen fosse parcheggiata proprio di fronte alla villetta dell’infermiera. No, non poteva stare a casa.
Peccato che ogni movimento equivalesse ad una pugnalata, che il suo stomaco fosse in preda a spasmi incontrollabili a causa dell’acidità e la sua testa fosse pesante come piombo e svuotata da ogni pensiero.
Non ricordava nulla di ciò che era successo la notte precedente, eppure era certo di non aver toccato nemmeno un goccio d’alcool. La droga non era neppure da prendere in considerazione. Allora che cosa gli era successo?
Riuscì ad arrivare fino al bagno, dove si accasciò sul lavandino, con la faccia sotto il getto d’acqua ghiacciata del rubinetto. Poi si sollevò e si guardò allo specchio, trovandosi così malmesso che lui stesso si sarebbe buttato via: la pelle di uno strano colorito smorto, degli evidenti rigonfiamenti sotto gli occhi arrossati, i capelli arruffati.
Non si diede nemmeno la pena di asciugarsi il viso prima di spogliarsi e di gettarsi sotto la doccia per cercare di levarsi di dosso quell’intorpidimento mentale e fisico. Non fu un completo successo, ma almeno riuscì a pensare più chiaramente e soprattutto a ricordare, come se l’acqua fosse riuscita a lavare via uno strato di sabbie mobili che lo affaticava e gli impediva di fare qualsiasi cosa.
Era ancora nudo, con solo un asciugamano in vita, quando le immagini della sera precedente invasero il suo cervello - una serie di diapositive messe l’una dietro l’altra, tanto veloci da aggravare il suo mal di testa.
Freya in ospedale che gli diceva che voleva andarsene e che una volta a casa non gli rivolgeva più la parola; lui che avrebbe voluto dirle che l’amava ed andava a letto con la paura di non trovarla più il mattino seguente; Freya che nel cuore della notte entrava in camera sua e gli chiedeva il permesso di stendersi un po’ con lui, che gli diceva quelle cose assurde e poi...
Le gambe gli cedettero e dovette aggrapparsi al lavandino per non cadere a terra, con gli occhi sgranati e la testa che gli doleva così tanto che gli sembrava di avere alle spalle qualcuno intento ad aprirgli il cranio con un rompighiaccio. Alla fine fu schiacciato dai suoi stessi ricordi e si rifiutò di combattere: si lasciò cadere in ginocchio di fronte alla tazza del water e vomitò tutto ciò che ancora aveva nello stomaco dalla sera prima.
Il suo ultimo ricordo, quello che lo stava riducendo in quel modo, era così assurdo che doveva per forza essere parte di un sogno; non c’erano altre spiegazioni. Eppure perché lo faceva tremare come un bambino, perché avrebbe voluto gridare e disperarsi? Era solo un sogno.
Deve esserlo, per l’amor di Dio.
I conati finalmente cessarono, lasciandolo svuotato e privo di forze, ancora aggrappato alla tavoletta. Darrell si passò il dorso di una mano sulla bocca e chiuse gli occhi, respirando profondamente per calmarsi, ma non fece altro che vedere ancora una volta le iridi dorate di Freya lampeggiare nel buio, inghiottirlo e cancellargli ogni volontà.
Darrell sollevò di scatto le palpebre, sentendo il cuore scoppiargli nella cassa toracica, e si disse che doveva esserci una spiegazione logica a tutto ciò. Forse era ancora influenzato da ciò che aveva letto a proposito dello strano simbolo tatuato sul braccio di Freya, o forse doveva prendere in considerazione la droga.
Facendo leva sulle braccia, si alzò e tirò lo sciacquone. Poi si lavò i denti e tornò in camera per vestirsi. Seduto sul bordo del letto, trovò il bicchiere che la sera precedente si era portato sul comodino. Lo prese e lo guardò controluce, cercando di scorgere qualche residuo, mentre con la mente ripercorreva quegli istanti. Era solo, quando aveva tirato fuori il bicchiere pulito dalla credenza e vi aveva versato l’acqua, poi lo aveva sempre tenuto in mano durante la conversazione a senso unico con Freya. Lei non si era nemmeno avvicinata, quindi la droga era da escludersi al novantanove percento.
È stato tutto un sogno, si ripeté, cercando di convincersene. Freya non è mai entrata in camera mia, non si è mai sdraiata al mio fianco, non mi ha mai detto quelle cose e, soprattutto, non ha mai avuto gli occhi dorati.
Soddisfatto del proprio discorsetto, c’era comunque da capire perché si sentisse così stanco e malaticcio. Si rifiutò semplicemente di rimuginarci ancora sopra – non era mica Superman – e finì di vestirsi.
Era già in ritardo, perciò abbandonò l’idea di fare colazione. Con lo stomaco ancora sottosopra, poi, non sarebbe stata la cosa più intelligente da fare. Prima di uscire però non riuscì a resistere: che gli piacesse o no, sogno o realtà, doveva scoprire cosa aveva deciso di fare Freya.
Si avvicinò alla stanza degli ospiti e posò l’orecchio contro la porta, poi bussò piano una, due, tre volte, fino a quando non si decise a sbirciare all’interno. Il letto era intatto e non c’era più niente ad indicare che quella stanza era stata abitata da qualcuno per le ultime tre settimane, a parte forse il profumo. Il suo profumo.
Darrell strinse le labbra in una smorfia di tristezza e richiuse subito la porta, come a non voler sprecare l’unica cosa che Freya aveva deciso di lasciargli. Era tutto ciò che gli rimaneva di lei, assieme al proprio cuore infranto.

***

Artù si svegliò all’improvviso, forse per la strana posizione che aveva assunto sulla sedia, e sentì il proprio cuore mancare un battito non vedendo Merlino a letto. Dov’era andato, quel citrullo?
Si alzò, un po’ troppo in fretta a dire il vero, ed iniziò a cercarlo per tutto il piano: in bagno, nella sua camera, nella Stanza dei Ricordi. Quindi scese le scale ed entrò in cucina, dove lo trovò intento a preparargli una colazione coi fiocchi: uova, bacon, salsicce, pane tostato, frutta e caffè.
Stava proprio rompendo l’ennesimo guscio per far scivolare l’uovo nella padella con uno sfrigolio, quando si accorse della sua presenza e lo salutò con un sorriso fin troppo ampio: «Buongiorno, maestà! Sedetevi, forza, non vorrete mica che si freddi!?».
«Merlino», balbettò, scioccato. «Merlino, come ti senti?».
Lo stregone continuò a sorridere, ma per una frazione di secondo ad Artù parve di vedere un tremito sulle sue labbra, come se sotto sforzo.
«Che domande sciocche! Benissimo, come dovrei sentirmi? È una splendida giornata e so che voi e Cathleen vi divertirete un mondo questo week-end, perciò non potrei sentirmi meglio!».
Il re sentì la rabbia salirgli piano, dai pugni delle mani al cervello, fino a quando non riuscì più a contenerla ed avanzò verso di lui a grandi passi, prendendogli la padella di mano e guardandolo con aria truce.
«Smettila di fingere, di pretendere che non sia successo niente. Non mi interessa quello che hai detto, so che deliravi e che non pensi davvero quelle cose, perciò...».
«In vino veritas», mormorò lo stregone, a capo chino.
«Che cosa?».
«È un proverbio latino. Vuol dire che il vino e l’ubriachezza permettono agli uomini di rivelare i loro pensieri più nascosti, quelli che non rivelerebbero mai da sobri». Finalmente Merlino alzò il capo, permettendogli di vedere i suoi occhi lucidi di lacrime. «E se le pensassi davvero, le cose che ho detto? Se davvero, nel profondo, desiderassi vendicarmi sul mondo per la morte di Louise?».
«Non è così», rispose Artù, quasi dolcemente. Si avvicinò e gli posò le mani sulle spalle, guardandolo dritto negli occhi. «Ti conosco, Merlino».
Il mago ricambiò il suo sguardo con intensità, poi sospirò e sorrise veramente, come solo lui era capace. Il sovrano lo imitò inconsapevolmente e gli tirò un colpetto sulla nuca, poi si sedette a tavola. Ma la fame gli passò presto, quando ricordò le parole che più di tutte gli avevano fatto uscire il fumo dalle orecchie, tanto si era sforzato di darvi un senso diverso da quello che aveva intuito.
«Hai detto che ti saresti dovuto sacrificare. Che intendevi?».
Merlino si strinse nelle spalle, cercando di scrostare l’uovo che si era appiccicato alla padella.
«Dimmelo, Merlino».
«Già lo sospettavo, in realtà», esordì a bassa voce, continuando a dargli la schiena. «Freya mi ha confermato che l’unica possibilità per questo mondo è che io distribuisca tutta la magia che si è immagazzinata nel mio corpo. Così facendo, però, io... Non rimarrà nulla di me, solo polvere».
Artù era talmente incredulo e nauseato da quell’idea che allontanò il proprio piatto.
«Ci dev’essere un altro modo», esclamò poi.
«A quanto pare no».
«E io a che servirei a questo proposito, eh? Freya ha detto che io ero l’asso nella manica, ciò che ti avrebbe convinto a fare questa pazzia. Lei e i custodi si aspettano per caso che ti dica che è la cosa giusta da fare?! Sono matti».
«È ancora più semplice, in realtà».
Merlino si voltò: stava sorridendo come se di fronte a sé avesse il cucciolo più dolce e carino del mondo e sapesse che gliel’avrebbero portato via presto. Artù si sentì talmente a disagio e in imbarazzo che avrebbe voluto tirargli un pugno sul naso.
«Beh, che significa?», urlò ad un tratto, innervosito dal suo silenzio.
Il mago però non ebbe il tempo di spiegarsi, interrotto dal trillo del campanello. Presi com’erano dalla loro conversazione, non si erano nemmeno accorti dell’arrivo di Cathleen.
Non aspettò che qualcuno le desse il permesso di entrare: dato che la porta era aperta, si introdusse e si annunciò da sola.
«Mmm, che buon profumino!», esordì una volta in cucina, e i suoi occhi brillarono alla vista di tutto ciò che Merlino aveva cucinato. «Posso favorire?».
Il mago rise e le indicò il tavolo. «Almeno tu potresti darmi delle soddisfazioni».
Il paramedico si accomodò ed iniziò a banchettare, sotto gli occhi esterrefatti e divertiti rispettivamente di Artù e Merlino. Quando Cathleen si accorse dello sguardo del biondo, alzò entrambe le sopracciglia e dopo aver mandato giù il boccone gli chiese: «Che c’è che non va? Perché tu non mangi?».
«Si è svegliato di cattivo umore», lo anticipò Merlino, lanciandogli un’occhiata ammonitrice: probabilmente non voleva che si sapesse di quello che era successo la sera prima.
«È per la gita? Perché se non ti va, o non vuoi, possiamo fare un’altra volta, oppure mai...», tentò disperatamente di salvare la situazione il paramedico, arrossendo sotto il trucco pesante – forse anche più pesante di quanto erano abituati – che quel giorno nascondeva la bellezza e la delicatezza del suo viso.
«Non c’entra niente la gita», la rassicurò Artù, posando una mano sulla sua. «È solo che…».
«È un po’ nervoso perché di solito era lui che organizzava le spedizioni e ne manteneva il riserbo, celando tutto o quasi persino ai propri cavalieri», spiegò Merlino, impedendogli di aprire bocca ancora una volta. «Pensa che una volta mi ha detto che se mi avesse rivelato dov’eravamo diretti, poi avrebbe dovuto uccidermi, “immediatamente e senza esitazioni”».
Cathleen rise e ricambiò la stretta. «Non ti preoccupare Artù, andrà tutto bene. Almeno, lo spero…».
Il sovrano corrugò la fronte alle sue ultime parole e scambiò uno sguardo con lo stregone, ma non riuscì a dar voce ai propri pensieri.
Cathleen si alzò in piedi quasi di scatto e dopo essersi leccata le dita sorrise a trentadue denti, esclamando: «Allora, se tu sei pronto possiamo andare».
«Sì, devo solo…».
Merlino sorrise a sua volta e lo interruppe dicendo: «Vi ho già preparato lo zaino, è di fianco al letto».
Artù aprì la bocca, scioccato, e si costrinse a richiuderla, sospirando dentro di sé. Sapeva che sarebbe stato in pensiero per lui tutto il week-end, ma non voleva nemmeno rinunciare a Cathleen. Si costrinse a rilassarsi e si diresse verso le scale, pregando perché le sorprese future fossero tutte positive.

***

Alex fece una capatina al quarto piano prima di andare via. Riempì il suo vecchio armadietto e poi fece un giro di ronda per i corridoi che da lunedì sarebbero tornati ad essere di nuovo quelli che avrebbe percorso ogni giorno.
Le piaceva entrare nelle camere dei bambini, rimboccare loro le coperte e guardare le loro espressioni serene mentre dormivano nella quiete del primo mattino. Eccetto quando avevano degli incubi o il dolore prevaleva su tutto, quello era il momento in cui le sembravano normali, sani e felici. Riusciva persino ad immaginarseli nelle loro camerette colorate, circondati dai loro giochi e dai libri di scuola, e questo la faceva stare bene.
Entrò nella camera di Mark e Danilo e sorrise, trovandoli entrambi sdraiati scomposti tra le lenzuola. Gli unici rumori che si sentivano erano il cinguettio degli uccellini fuori dalla finestra e il lieve russare di Danilo.
Si avvicinò al letto di quest’ultimo e gli portò delicatamente il braccio sul petto, fino ad allora penzolante oltre il bordo del materasso, poi gli sistemò le coperte, incastrandole contro le basse sponde. Poi passò a Mark, su cui si chinò per accarezzargli il cranio rasato e sfiorargli la fronte con le labbra.
Il ragazzino si girò verso di lei e ancora addormentato mugugnò: «Ancora cinque minuti, mamma».
Alex si morse il labbro per trattenere una risata: avrebbe potuto prenderlo in giro per quell’attimo di debolezza – lui che si dipingeva come il duro dell’ospedale – ma sapeva che non l’avrebbe fatto. Avrebbe conservato gelosamente quel ricordo, con affetto, dato che le possibilità che potesse mai sentirsi chiamare “mamma” al momento le sembravano pari a zero.
Quando Steve li aveva lasciati aveva promesso a se stessa che non avrebbe mai dato alla luce un essere innocente. Inoltre, se le previsioni di Freya erano esatte, non aveva senso mettere al mondo un bambino sapendo che la sua vita sarebbe stata ancora più a rischio del normale. Però le sarebbe piaciuto avere un bambino, le sarebbe piaciuto molto. Quando immaginava la sua vita ideale, c’era almeno un marmocchio tra le sue braccia. Ma Merlino che cosa avrebbe pensato? Soprattutto, sarebbe stato mai in grado di...?
L’infermiera sospirò e si sollevò lentamente, per non svegliare Mark, ed uscì dalla stanza in silenzio, più triste di come era entrata.
Tornò al Pronto Soccorso e ad aspettarla trovò tutti i colleghi, sia del turno di notte sia quelli del mattino, che la riempirono di abbracci e di pacche sulle spalle.
«È stato bello lavorare con te, per quel che è durato», le disse un’infermiera.
«Se hai bisogno di un po’ d’azione, sai dove trovarci!», disse un’altra.
Avrebbe voluto rispondere che erano proprio degli ingenui a credere che in oncologia non ci fosse azione, ma sorpresa com’era da tutto l’affetto dimostratole, si limitò a sorridere e ad annuire ad ogni cosa.
In un angolo scorse Keith, il quale si limitò a rivolgerle un debole sorriso e un cenno del capo, come se le avesse appena letto nel pensiero.
Quando finalmente riuscì ad andare a casa, già in auto iniziò a sentire un vago senso di oppressione e malinconia pesarle sul petto, tanto da farle salire le lacrime agli occhi. Non ci volle molto prima che le lasciasse scivolare sul viso: avendo deciso di non volere figli non aveva mai realizzato che, se avesse cambiato idea, non avrebbe potuto averli comunque. In effetti, con Merlino non avrebbe mai avuto una vita normale. Si stava tirando indietro, dopo tutto quello che aveva fatto e sopportato? Lei l’aveva scelta, l’aveva voluta con ogni fibra del suo corpo, eppure all’improvviso...
Stringendosi il cuscino sotto al viso irritato dalle lacrime, si disse che doveva smetterla di pensare a stronzate del genere: lei amava Merlino, voleva spendere ogni istante della sua vita con lui, nel bene e nel male, ed era certa che la normalità l’avrebbe stufata, presto o tardi. E poi ormai c’era dentro fino al collo e non c’era modo che potesse uscirne: bracciale o meno, i poteri assopiti in lei si erano riaccesi e sentiva il richiamo della magia, un richiamo così forte da non poter essere ignorato.
Fece un respiro profondo e chiuse gli occhi, cercando di tranquillizzarsi. Poi prese il cellulare e mandò un SMS a Merlino: avrebbe dormito fino all’ora di pranzo e sarebbe andata da Darrell per quella stupida denuncia, poi l’avrebbe raggiunto. Non aspettò la sua risposta: spense direttamente il telefono e nascose il viso sotto al cuscino, addormentandosi senza nemmeno accorgersene.

***

«Allora, non mi vuoi proprio dire dove siamo diretti?». Artù dovette urlare per farsi sentire sopra il rombo del motore e i caschi integrali che entrambi indossavano.
Nonostante vedesse solo la sua schiena e una massa di capelli rossi che gli sfioravano il viso, il sovrano immaginò il sorrisetto malizioso che incurvava le labbra di Cathleen mentre gli rispondeva, urlando a sua volta: «Ti ho detto che è una sorpresa!».
Artù si arrese e si godette il viaggio, lasciandosi cullare dalla guida sciolta e sicura del paramedico ed ammirando il paesaggio: verdi colline, campi coltivati e piccoli villaggi che si susseguivano l’uno a pochi chilometri di distanza dall’altro.
Il mondo era così cambiato, rispetto ai suoi tempi... A tratti peggiorato, ma sapeva che era comunque degno di essere salvato. Non a discapito della vita di Merlino però, questo mai.
Decisero di fare una breve pausa sulla riva di un fiumiciattolo stretto e dall’acqua così limpida da riuscire a vederne il letto sassoso, per sgranchirsi le gambe e dissetarsi. Oltre ad una bottiglietta d’acqua, Merlino gli aveva messo nello zaino anche un paio di tramezzini e dei cracker, coi quali fecero una specie di picnic seduti sull’erba, poco lontano da dove avevano lasciato la moto.
Immersi nel verde, circondati dai suoni della natura, gli sembrava di essere tornato a Camelot, alla sua prima uscita ufficiale con Ginevra. Era stato tutto così bello, così normale e semplice, fino a quando suo padre e Morgana non erano comparsi proprio di fronte a loro, sorprendendoli nel bel mezzo di un bacio ed accusando ingiustamente Ginevra di stregoneria. Ripensando a quello spiacevole episodio, che li aveva costretti ad amarsi da lontano e ad aspettarsi in silenzio, Artù si ritrovò a sorridere realizzando che era stato allora che aveva fatto la conoscenza di Dragoon, lo stregone che altri non era che Merlino. Anche quella volta l’aveva aiutato, salvando Gwen da una morte certa, e lui non se n’era mai reso conto, anche se, in effetti, aveva scorto qualcosa di familiare negli occhi di quel vecchio.
La voce di Cathleen lo fece ritornare all’improvviso alla realtà. «Che cos’hai detto?», le chiese sbattendo le palpebre.
«Avevi un’espressione strana, divertita e allo stesso tempo malinconica, e mi chiedevo a che cosa stessi pensando».
Artù si strinse il collo tra le spalle, tornando a fissare la corrente a nemmeno un metro da lui. «Io e Ginevra a volte facevamo dei picnic simili a questo, fuori dalle mura di Camelot. Mi sono ricordato che una volta mio padre ci ha sorpresi e abbiamo trascorso un bel po’ di guai perché... beh, lei era una serva ed io un principe: non potevamo stare insieme».
Le labbra di Cathleen si strinsero in una smorfia di disgusto, ma si sforzò di risultare indifferente chiedendogli: «E poi com’è andata a finire?».
«C’è voluto del tempo e tanti, tanti sacrifici... però alla fine siamo riusciti a farla funzionare: Ginevra è diventata regina e gli anni che abbiamo trascorso insieme – non abbastanza – sono stati i migliori della mia vita».
Si voltò a guardare il paramedico, incuriosito dal suo silenzio, e la tristezza che vide adombrare i suoi occhi nocciola fece male come una fitta al cuore. Dandosi dello stupido, sospirò e disse: «Mi dispiace, non dovrei parlare di lei con te».
Ma Cathleen lo sorprese come solo lei sapeva fare, scoppiando in una risata argentina, una delle più belle che avesse mai sentito, e si gettò all’indietro, atterrando di schiena sul tappeto di erba e muschio. I suoi capelli formavano un’aureola color cremisi intorno alla sua testa e Artù ebbe la forte tentazione di accarezzarli, ma all’ultimo momento ritrasse la mano, come per timore di bruciarsi.
«Puoi parlarmi di Ginevra quanto vuoi, Artù, credimi. È solo che la vostra storia sembra così simile alla nostra...».
Il sovrano ci mise qualche secondo a capire che si stava riferendo a lei e Zachary e, ad essere del tutto onesto con se stesso, provò un po’ di delusione e di insensata gelosia. Come poteva essere invidioso di un ragazzo che non aveva mai conosciuto?
Scrollandosi di dosso quei pensieri malsani, Artù stava per chiederle in che modo le loro storie potessero essere simili, quando Cathleen si tirò a sedere di scatto e con una maschera di determinazione sul viso esclamò: «Abbiamo cazzeggiato fin troppo, andiamo».
Artù la osservò spolverarsi il retro dei pantaloni mentre si dirigeva verso la moto e il suo sguardo indugiò un attimo di troppo sul suo sedere, ma lo distolse non appena se ne rese conto. Quindi si alzò e la raggiunse appena in tempo: Cathleen diede gas che lui non si era ancora allacciato il casco. Sembrava che all’improvviso avesse fretta di arrivare – ovunque stessero andando – e che allo stesso tempo fosse nervosa a riguardo, visto quanto stringeva le mani intorno al manubrio.
Non si azzardò a chiederle cosa le fosse preso, sapeva che non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, perciò rimase in silenzio e le strinse più forte le braccia intorno alla vita, sperando che il suo contatto riuscisse a calmarla.

***

Abigail stava ancora dormendo, quando sua nonna era entrata nella sua camera e aveva iniziato ad accarezzarle i capelli con gentilezza. La ragazzina si era svegliata, ma aveva continuato a fingersi addormentata, cercando di cacciare in fondo al cuore il rancore che aveva iniziato a provare nei suoi confronti quando Merlino se n’era andato: anche in compagnia di Mark, aveva continuato a pensare a quanto fosse stato ingiusto abbandonare Louise, dimenticarsi della sua esistenza ed ignorare la sua malattia.
Quella era stata una notte insonne e Abby prima di riuscire finalmente ad abbandonarsi al sonno, qualche ora prima dell’alba, aveva anche pensato al suo primo incontro con Merlino. Il mago l’aveva riconosciuta, quando i loro sguardi si erano incrociati per la prima volta? Di sicuro non poteva essersi dimenticato di sua nonna, perciò l’ipotesi più probabile a cui era giunta era che sì, aveva fatto due più due e ciò nonostante aveva mantenuto il segreto, fingendo di non averla mai vista in vita sua. Era stato tanto convincente da ingannare persino se stesso, almeno fino a quando non era stato riportato tutto quanto a galla, lasciandolo ad annaspare.
Abigail sospirò e si voltò lentamente verso sua nonna, accennando un sorriso.
«Buongiorno tesoro».
«Buongiorno», mugugnò, strofinandosi gli occhi gonfi di sonno.
Sua nonna si sedette al suo fianco e le accarezzò il viso con una mano, mostrandosi un po' preoccupata. «Hai dormito male? Hai un faccino così sciupato...».
«Sono andata a letto tardi e credo di essermi agitata un po’».
«Brutto sogno?».
Abby sollevò di scatto gli occhi in quelli di sua nonna ed esitò, indecisa se mettere in atto l’idea che le era venuta in mente oppure no. Alla fine la curiosità fu troppo grande e, suo malgrado, usò la scusa dei suoi genitori per la seconda volta in pochi giorni: «Ho sognato mamma e papà».
La signora Chapman chinò il capo, il mento a sfiorarle lo sterno, e le strinse forte una mano tra le sue. Abby però non le diede il tempo di parlare e aggiunse: «Tranquilla, era un bel sogno – forse un ricordo – nulla a che vedere con il loro incidente».
Sua nonna scosse il capo, mordendosi le labbra. «Sono sempre stati due avventurieri, i tuoi genitori».
«Immagino di sì. Non mi ricordo molto di quel giorno, solo che ero rimasta nello chalet a valle con la madre di un’amichetta che mi ero fatta e che ad un certo punto c’è stato un gran trambusto intorno a me. Poi ricordo di aver dormito con quella bambina e, nel cuore della notte, di aver sentito gli elicotteri passare continuamente sopra le nostre teste, diretti verso la montagna. Al mio risveglio, c’eri tu».
«Ricordi più di quanto immaginassi», esclamò sua nonna, abbozzando un sorriso. «Avevi solo sei anni, allora…».
«Perché tu?», le chiese Abby a bruciapelo, sollevandosi un po’ sui gomiti. «Prima dell’incidente non mi ricordo di averti mai vista. Nemmeno nelle fotografie dei miei compleanni, a Natale, o a Pasqua… tu non c’eri mai».
Il sorriso di Daisy si spense lentamente e Abby non riuscì a decifrare la sua espressione, dato che si alzò e si diresse alla finestra, davanti alla quale si fermò per guardare fuori.
«Sapevo che prima o poi mi avresti fatto questa domanda», disse alla fine. «Io e tua madre… non siamo mai andate troppo d’accordo, è la verità. Avevamo quello che si potrebbe chiamare tranquillamente un rapporto conflittuale. Mi accusava spesso di trattarla come una bambina, di disapprovare ogni sua scelta… Lei era la mia unica figlia e volevo solo che fosse felice, ma mi sono resa conto troppo tardi di non averla aiutata in questo senso.
«La situazione è degenerata quando è morta la tua bisnonna. Solo allora Valerie ha scoperto che l’avevamo portata in una struttura specializzata e mi ha urlato contro che le sarebbe piaciuto andarla a trovare, farle conoscere te, ma non ha potuto a causa del mio cuore di pietra. Sai, ho sempre lasciato che fosse mio fratello ad occuparsi di lei e non sono mai andata a trovarla all’ospizio, nemmeno una volta. Non ci sono riuscita. Nonostante nei miei libri le protagoniste siano sempre donne forti, donne come tua madre o la tua bisnonna, io sono sempre stata una codarda: vedere mia madre soffrire, morire… avrebbe fatto troppo male. Ho preferito lasciarla sola, piuttosto che stare al suo fianco a stringerle la mano».
Sua nonna tirò su col naso e si passò una mano sulla guancia, lì dove una lacrima aveva tracciato un solco. Abby si alzò lentamente per raggiungerla e porgerle un fazzoletto, stringendole delicatamente una spalla con l’altra mano. Daisy sobbalzò e sforzandosi di sorridere la rimproverò e la riportò subito a letto, dove tornò a sedersi al suo fianco, senza però incrociare mai i suoi occhi.
«Quando ho sentito della valanga, sapevo che c’erano pochissime possibilità che Valerie e Tom fossero sopravvissuti», riprese pacatamente, asciugandosi ancora gli angoli degli occhi. «Avevo deluso già mia madre e mia figlia, non potevo deludere anche la mia nipotina. Ne ero terrorizzata, certo, ma non appena ti ho vista, da sola in quella camera d’albergo, ho capito che chiedere il tuo affidamento era la cosa giusta da fare».
Le passò teneramente una mano sui capelli e poi le prese il volto tra le mani, facendo finalmente incontrare i loro sguardi. «Sono grata che Valerie non abbia preso nulla da me e che ti abbia dato alla luce. So di non essere stata perfetta, ma credimi… se dovessi perdere anche te, la mia vita non avrebbe più senso».
Abby posò le mani sulle sue e sorrise. «Grazie per aver trovato il coraggio di prendermi con te, nonna. Ti prometto che farò del mio meglio per vincere anche questa battaglia».
«È tutto ciò che chiedo, tesoro».
Si abbracciarono e Abigail sentì il rancore sciogliersi lentamente, lasciando il suo cuore di nuovo libero e leggero. Sorrise, affondando il viso nell’incavo della spalla della nonna ed inspirando il suo profumo, e la strinse ancora più forte ricordando quando, a sei anni, le sue braccia erano state l’unico posto in cui aveva voluto stare dopo aver scoperto che non avrebbe mai più rivisto i suoi genitori.

***

Darrell premette il pulsante di linea sulla base del telefono per terminare la chiamata e, sempre tenendo la cornetta incastrata tra la spalla e l’orecchio, si massaggiò gli occhi stanchi con due dita. Poi raccolse tutte le proprie forze con un respiro profondo e compose l’ultimo numero della sua lista di nominativi e numeri spuntati.
«Pronto?», rispose una donna anziana, dalla voce arrochita ma allegra.
«Buongiorno, parlo con la signora Levinson?».
«Sì, sono io».
«Salve, sono l’agente Darrell Fisher. Mi sono occupato dell’effrazione a casa della sua vicina, la signorina Greenwood. Si ricorda?».
«Ma sì, certo! Fortunatamente la mia memoria è rimasta quella di trent’anni fa. Come posso aiutarla, agente?».
«Volevo sapere se nei giorni successivi all’effrazione ha notato qualcosa di strano, qualcosa di inusuale… qualsiasi cosa».
«Mmm, no, non mi pare proprio, sa?».
«E per quanto riguarda la signorina Greenwood? L’ha vista, come le è sembrata?».
La donna ridacchiò prima di rispondergli. «Giovanotto, crede che me ne stia tutto il giorno davanti alla finestra?».
Beh, a dire la verità sì, avrebbe voluto ammettere, ma evitò.
«Comunque col lavoro che fa, povera stella, la vedo molto poco. Però non mi è sembrata spaventata, se è quello che vuole sapere».
«E – l’ultima domanda, glielo prometto – sa se per caso qualcuno le ha fatto visita, dopo l’effrazione?».
«No, non credo. In effetti, non rimane mai molto a casa da sola».
«Potrei passare a mostrarle un paio di fotografie? Sempre se non reco disturbo, ovviamente».
«Passi pure quando vuole agente, non dico mai di no ad un po’ di compagnia».
«Perfetto. Grazie per la disponibilità, signora Levinson».
Finalmente abbandonò la cornetta sulla base del telefono e si massaggiò l’orecchio, sospirando. Aveva chiamato tutti i vicini di Alexandra, tutti coloro che potevano aver visto o sentito qualcosa la notte dell’effrazione e nei giorni successivi. Non aveva ottenuto molto, eccetto due appuntamenti fuori orario di lavoro. Entusiasmante.
Si sentiva ancora instabile – prima accaldato, subito dopo infreddolito – e la testa gli girava terribilmente, per non parlare dello stomaco, così stretto e disturbato da impedirgli di mettere qualsiasi cosa sotto i denti, con l’unico risultato di renderlo ancora più debole.
Darrell si alzò e andò alla boccia d’acqua per prendersene un bicchiere. Aveva assolutamente bisogno di un’aspirina.
Ritornò alla scrivania e aprì il primo cassetto, ma la sua attenzione fu catturata dallo strano oggetto che aveva trovato nel bosco la notte dell’effrazione a casa di Alexandra. Darrell l’afferrò e se lo rigirò ancora una volta tra le mani, osservandolo pieno di curiosità e con un pizzico di timore attraverso il sacchetto di plastica.
Non riusciva a capire che cosa potesse essere, figuriamoci se poteva immaginare quale fosse il suo utilizzo. Forse era solo un ninnolo, un soprammobile cattura-polvere, ma l’istinto gli diceva il contrario. Si chinò un po’ di più sull’oggetto e strinse gli occhi nel tentativo di decifrare gli incomprensibili segni incisi sull’anello metallico al cui centro era stato fissato quel cristallo bianco, simile ad un quarzo. I simboli si alternavano a delle parole, appartenenti ad una lingua antica e sconosciuta, ed abbandonò ogni tipo di ragionamento dopo il primo tentativo, sentendo il mal di testa trapanargli il cervello.
Sospirando, trovò il flaconcino di aspirine e versò una pastiglia effervescente nel bicchiere d’acqua. Nell’attesa, con la coda dell’occhio continuò ad osservare quella potenziale prova, incapace di tenere a freno il desiderio di risolvere quel mistero.
Spazientito dai suoi stessi ripensamenti, afferrò di nuovo la busta, ne aprì la chiusura ermetica e con estrema cautela estrasse quella potenziale prova. Il metallo risultò freddissimo alla sua presa, come se fosse stato nel freezer. Con le dita sfiorò i simboli, prima uno alla volta, grattandoli con l’unghia dell’indice, poi provò a percorrerli in senso orario ed antiorario, avendo come la sensazione che si riscaldassero. Quando terminò un giro completo essi si illuminarono, prendendo lo stesso colore del metallo messo sul fuoco per essere modellato dal fabbro, mentre all’interno del cristallo iniziò ad intravedersi una materia scura, liquida e vischiosa. Darrell era per ovvi motivi trasalito, alzandosi in piedi ed allontanandosi dalla scrivania con così tanta foga da far cadere il bicchiere con l’aspirina, ma non appena aveva mollato la presa l’aggeggio si era come spento, ritornando alla normalità.
Era ancora sotto shock, con gli occhi sbarrati per il terrore, quando sentì la porta aprirsi e poi dei passi leggeri avvicinarsi all’ingresso del suo ufficio. Non ebbe nemmeno il tempo materiale per ricomporsi prima che Alexandra comparisse sulla soglia, con le nocche che picchiettavano contro lo stipite nell’incerto tentativo di annunciarsi.
«Cavolo, sembra tu abbia appena visto un fantasma», esclamò l’infermiera, senza azzardarsi a fare un passo all’interno dell’ufficio.
L’agente si passò una mano sulla fronte e poi la fece scivolare sugli occhi, concentrandosi sul proprio respiro per tranquillizzarsi. Lentamente la razionalità tornò a prendere il sopravvento, facendogli catalogare tutto quanto come un’allucinazione da stress. Gli studiosi della psiche avrebbero avuto qualcosa da ridire, ma che si trattasse di magia, tecnologia aliena o chissà cos’altro, a lui poco importava; era stato solo un brutto scherzo della sua mente, sintomo che la stanchezza e gli avvenimenti dell’ultima settimana lo avevano davvero provato.
«Buon pomeriggio, Alexandra», la salutò sospirando. «Perdona il disordine».
«Che cos’è successo?», gli chiese e finalmente avanzò, facendo scivolare lo sguardo sul cerchio metallico con il quarzo.
Darrell si chinò per prendere un paio di guanti in lattice dal secondo cassetto della scrivania e dopo averli infilati afferrò l’aggeggio con il pollice e l’indice, il minimo necessario, e lo ripose nuovamente nella busta di plastica. Una volta lontano dai suoi occhi si poté concentrare di nuovo sull’infermiera.
«Niente, sono solo stato sbadato. In effetti, non mi sento tanto bene», rispose, lasciando che Alex gli offrisse un fazzoletto per asciugare il disastro che aveva combinato sulla scrivania. Per terra, vicino al piedino più esterno, si era anche formata una piccola pozza d’acqua effervescente.
«Io sono di riposo», disse l’infermiera, sollevando le mani per tirarsene fuori.
«Non ti ho chiesto di visitarmi, non mi pare».
Alexandra sbuffò facendo anche una piccola pernacchia con le labbra e si lasciò cadere sulla poltrona di fronte alla scrivania di Darrell, la stessa su cui si era seduta quando Artù era stato portato in Centrale da Myra.
«Facciamo questa cosa in fretta, ho altri impegni».
Darrell sollevò il sopracciglio ed approfittò della situazione per scambiare due chiacchiere, nella speranza che venisse smentito a proposito dei suoi sospetti. Voleva aver torto, sarebbe stato più semplice per tutti.
«Sai, ho conosciuto persone che non sono riuscite a chiudere occhio per settimane, dopo un’esperienza come la tua», esordì, continuando a passare il fazzoletto sull’acqua rovesciata. «Ti rendi conto vero che qualcuno è entrato in casa tua? Perché sembra proprio che non te ne importi niente».
L’infermiera scrollò le spalle, annoiata. «Non ero in casa quand’è successo e a mio parere è inutile fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Comunque non credo che ricapiterà».
«Come fai a dirlo?».
«Beh, se non mi è stato portato via niente vuol dire che nulla di ciò che possiedo vale la pena di essere rubato, o sbaglio?».
Il suo tono di voce vagamente saccente gli fece storcere il naso, ma la lasciò finire.
«Scommetto che il ladro ha già fatto passaparola con tutti i suoi colleghi per dire loro di non sprecare tempo».
Darrell si sforzò di non sbattersi una mano sul viso e fece il giro della scrivania per buttare nel cestino il fazzoletto bagnato. Ritornando alla sua poltrona, notò che Alexandra aveva iniziato ad arricciarsi una ciocca di capelli tra le dita tremanti. Che fosse sintomo di nervosismo? Forse era sulla buona strada.
«Sei sicura che non ti manchi niente?», insistette, guardandola dritta negli occhi mentre si sedeva.
«Sì, te l’ho già detto», rispose con le sopracciglia aggrottate e le labbra arricciate in un ghigno aggressivo. «Perché dovrei mentire?».
Darrell scrollò le spalle come aveva fatto lei poco prima. «Non ne ho idea. Era giusto per mettere in chiaro il punto».
«Bene, ora che abbiamo chiarito il punto, potremmo…?».
Il poliziotto però la interruppe, picchiettandosi una penna alle labbra e guardando il ventilatore fermo appeso al soffitto: «Eppure è stato molto selettivo, il nostro ladro… Ha messo a soqquadro solo la camera da letto e nessun’altra stanza. Sapeva dove cercare, forse».
Gettò una rapida occhiata ad Alex, con la coda dell’occhio, e la vide arrossire mentre tratteneva il fiato. Dopo qualche secondo sbottò: «Dimmi a cosa stai pensando e falla finita, Darrell».
«Non è che conoscevi la persona che è entrata in casa tua e, per chissà quale motivo, la stai proteggendo?».
Alexandra lo fissò in silenzio, tanto a lungo che iniziò a temere di averci preso. Poi però un angolo della sua bocca si sollevò in un sorrisino beffardo e alla fine scoppiò a ridergli in faccia, tenendosi la pancia.
«Ma ti ascolti quando parli?», gli domandò, asciugandosi gli angoli degli occhi. «Per quale diavolo di motivo dovrei proteggere una persona che ha ridotto la mia camera ad uno schifo e rotto una finestra?».
Darrell, ferito nell’orgoglio, si imbronciò e si voltò per tirare fuori da un mobile le pratiche per la denuncia. Le sbatté sul tavolo e gliele porse, ma Alexandra smise di ridere di colpo e strinse le mani intorno ai suoi polsi, bloccandoglieli sulla scrivania. Si trovarono così occhi negli occhi, tanto vicini da poter sentire ognuno il fiato dell’altro sul viso.
«Posso sapere perché ti fai così tante domande? Non ci sono prove e dubito le troverai, eppure continui a rimuginarci sopra. La mia sicurezza sembra interessare più a te che a me».
Darrell non distolse gli occhi dai suoi e con un rapido movimento di polsi rovesciò la situazione, così da bloccare le sue di mani al ripiano di legno. La vide digrignare i denti, come se non ne fosse stata contenta, e senza saperne il motivo provò un po’ di soddisfazione.
«È il mio lavoro, fare domande e rimuginare sulle cose. C’è qualcosa che non torna, in tutta questa faccenda, e ti prometto che ne verrò a capo, che ti piaccia o no».
Alexandra gli rivolse l’ennesimo sogghigno, replicando: «Forse dovresti prima preoccuparti dei problemi a casa tua, invece di guardare in quelle degli altri».
«Ti stai riferendo a Freya?», le chiese sentendo il sangue incendiarsi nelle sue vene, come se il suo ricordo avesse innescato una miccia invisibile dentro di lui.
«Ieri non mi sembravi troppo convinto di aver fatto la cosa giusta, ospitandola a casa tua».
«No, infatti. Ma è un problema risolto, ormai».
L’espressione sorpresa sul suo viso lo stupì tanto da lasciare la presa sui suoi polsi. Che cosa aveva detto di tanto incredibile?
«Che intendi dire?», gli domandò, quasi balbettando.
Senza pensarci su due volte, confessò: «Freya se n’è andata, questa notte». Forse perché con Alexandra era facile parlare, forse perché era lui ad avere un disperato bisogno di sfogarsi.
«Andata? E dove? Insomma… Non aveva perso la memoria?».
Darrell annuì e raccontò cos’era successo all’ospedale prima della TAC, quando la ragazza gli aveva detto che era ora che ognuno andasse per la propria strada, che sarebbe stato un bene per entrambi. Le disse anche che era stata tutta colpa sua, visto che si era lasciato sfuggire che aveva dubitato di lei.
Mentre l’agente parlava le dita delle loro mani si erano intrecciate dolcemente e quando se ne resero conto ovviamente le separarono, guardandole esterrefatti ed imbarazzati, chiedendosi come poteva essere successo.
Alex fu la prima a rompere il silenzio, schiarendosi la gola con un colpetto di tosse: «Mi dispiace che lei ti abbia… Cioè, sapevo che ci tenevi».
«Non fa niente», rispose, stringendosi il collo nelle spalle. «Non ho mai creduto nelle favole, in fondo».
Alex sorrise, un sorriso vero quella volta, e Darrell ne fu così piacevolmente sorpreso da ricambiare inconsciamente. Grazie a quel sorriso tutto il risentimento che c’era tra di loro, nato in quei pochi minuti, scivolò via altrettanto velocemente, senza che potessero fare niente a riguardo. Questo però non voleva dire che Darrell avesse abbandonato la sua missione: prima o poi avrebbe scoperto cos’era successo veramente quella notte, lo giurò a se stesso.

***

Cathleen provò una spiacevole stretta al cuore quando si ritrovò a percorrere il ponte in mattoni da cui iniziava ufficialmente la proprietà della sua famiglia.
Una volta guadato il canale, due filari quasi infiniti di alberi li affiancarono, fornendo loro frescura grazie alle loro fronde ombrose, fino a quando non si avvicinarono ad un enorme cancello dipinto di bianco e sormontato ai lati dalle statue di due cervi imponenti, così fieri e maestosi da incutere un timore quasi riverenziale. A Cathleen venne solamente voglia di sparare loro contro, come aveva fatto quella notte, col fucile che il migliore amico di Zac aveva rubato a suo padre. Ripensandoci un sogghigno le incurvò le labbra, per poi scomparire quando si rese conto che i ricordi di lei e Zachary avrebbero continuato ad affiorare, implacabili e dolorosi. Ma faceva parte della prova, no? E se non fosse riuscita a reggere, sapeva che poteva contare su Artù.
«Siamo arrivati?», domandò ad un tratto l’ex-sovrano, confuso.
Cathleen sospirò ed annuì con un cenno del capo, poi diede una leggera mandata di gas per avvicinarsi al grosso citofono con telecamera, tirarsi via la mascherina a protezione degli occhi e premere il pulsante di chiamata.
A rispondere, dopo una manciata di secondi, fu una voce maschile, austera e distaccata: «Residenza Shaw».
Il paramedico non poteva vedere in viso il suo interlocutore, ma sapeva di essere osservata tramite l’occhio elettronico posto sopra l’interfono, perciò gli fece l'occhiolino e sorrise maliziosamente, esclamando: «Ehi Freddie, ti ricordi di me?».
Il maggiordomo rimase in silenzio tanto a lungo che Cathleen ebbe il serio timore che si fosse dimenticato di lei, lui come tutta la sua famiglia. Poi però si sentì un clic e un ronzio – il cancello che si apriva di fronte a loro – e Freddie rispose: «Bentornata a casa, signorina Shaw».
Cathleen guardò il sentiero sterrato, anch’esso immerso nel verde, che portava alla villa da cui più di dieci anni prima era scappata, promettendo che non vi avrebbe più messo piede, ed esitò stringendo forte le dita intorno ai manici del manubrio. Fu Artù a darle la forza necessaria di portare a termine ciò che aveva iniziato, addossandosi ancora di più alla sua schiena per chiederle pieno di stupore: «Tu… La tua famiglia vive qui?».
Il paramedico gli gettò un’occhiata con la coda dell’occhio, sforzandosi di sorridere. «Non te l’aspettavi, vero?».
«No, anche se… tu mi sorprendi sempre, in fondo».
Quelle parole le riscaldarono il cuore.  Da suo padre si era sentita dare dell’anticonformista, dell’anarchica, della ribelle, solo perché voleva vivere una vita diversa rispetto a quella che aveva pianificato per lei e lottava con le unghie e con i denti per fare ciò che riteneva più giusto. Non aveva fatto altro che criticarla negli anni immediatamente precedenti alla sua fuga, dicendole che non avrebbe mai fatto nulla di buono nella vita se avesse continuato a seguire il cuore. Artù invece, proprio come sua madre e come Zachary, pensava che lei fosse sorprendente: i suoi colpi di testa, le sue decisioni prese d’istinto… erano una parte di lei che amavano, e non disprezzavano.
Cathleen avvicinò il viso al suo per baciarlo, ma i loro caschi cozzarono l’uno contro l’altro, facendoli ridere.
«Rimandiamo a dopo», sussurrò il paramedico, ridacchiando a causa del rossore che si impadronì delle guance di Artù. Quindi si voltò e diede gas per oltrepassare il cancello e le sue guardie di pietra.

Fermò di nuovo la moto solo dopo aver disegnato un otto intorno alle due aiuole circolari, di un raggio di una trentina di metri ciascuna, al cui centro si ergevano fontane con l’ennesimo richiamo ai cervi, simboli della casata nobiliare a cui apparteneva suo padre.
Artù scese per primo, lasciando la presa sui suoi fianchi, e Cathleen lo guardò mentre girava su se stesso come un idiota, misurando con gli occhi tutti e ottantacinque gli ettari di proprietà e l’immensa facciata della villa della sua famiglia: un maniero costruito nella seconda metà dell’ottocento, immerso nella campagna e tramandato da generazione in generazione. Una struttura quasi interamente spigolosa, con due sezioni laterali più sporgenti e col tetto a punta, gli infissi candidi e i mattoni a vista negli spazi lasciati liberi dalle numerosissime finestre e i rispettivi balconi. Sul tetto dalle tegole violacee abbondavano i comignoli e diverse torrette, simili a quelle dei castelli, mentre un grande terrazzo divideva già dall’esterno il piano terra dal primo, degna imitazione di quelli che usavano con orgoglio i regnanti per guardare dall’alto in basso i loro sudditi.
Davanti all’ingresso, alla fine di una piccola scalinata semicircolare, li aspettava un maggiordomo in livrea, con dei folti capelli bianchi e la barba curata dello stesso colore, il viso serio e gli occhi azzurro-ghiaccio imperscrutabili.
Cathleen decise di lasciare ad Artù ancora qualche minuto per metabolizzare e con un sorriso tirato si diresse verso il domestico, la cui espressione non cambiò di una virgola nemmeno quando i loro sguardi si incrociarono dopo ben undici anni.
«Cavolo Freddie, mi aspettavo un po’ di entusiasmo», esclamò ridacchiando, tirandogli un pugnetto sul braccio. Il maggiordomo fissò per un attimo il punto dove l’aveva colpito, poi rispose con voce atona: «Sono molto felice di rivederla, signorina Shaw. Sono desolato di non riuscire a dimostrarglielo».
«Non ti preoccupare. Anzi, ad essere sincera mi tranquillizza che tu non sia cambiato affatto».
«Intendete dire che lei e signorino Shaw non dovrete pensare a nuovi soprannomi per il sottoscritto?».
Cathleen impallidì a quella risposta, chiedendosi come facesse a sapere dei vari soprannomi che lei e Ash gli avevano affibbiato quando lei era un’adolescente. Giurò inoltre di aver notato un luccichio di soddisfazione negli occhi di Freddie, ma lo ignorò e si voltò verso Artù, richiamando la sua attenzione: «Allora, hai finito sì o no?».
Il sovrano la guardò con quei suoi grandi occhi blu, ancora più spalancati per la sorpresa, e il cuore di Cathleen fece una capriola nel petto. Poi le sorrise e il paramedico non poté fare diversamente, stendendo una mano verso di lui perché la raggiungesse.
«Scusami, è solo che… wow», ammise, facendo due gradini per volta. Guardò l’uomo di fronte a loro e da perfetto abitante del ventunesimo secolo si presentò, togliendo a Cathleen l’imbarazzo di doverlo introdurre – in effetti, non aveva idea di cos’erano l’uno per l’altra.
Freddie non afferrò la mano che gli aveva porto, ma rispose con gentilezza: «Il piacere è tutto mio, signor Pendragon». Poi si rivolse ad entrambi: «Posso avere i vostri bagagli?».
«Oh, non c’è problema Freddie, li portiamo noi», rispose la rossa, sistemandosi meglio lo zaino sulla spalla.
«Sarò anche vecchio come una mummia – come dite voi signorini Shaw – ma posso ancora occuparmi di certe mansioni», ribatté piccato il maggiordomo, ma non rimase in attesa di scuse: si voltò semplicemente e fece loro strada all’interno del maniero.
Le diede i brividi ritrovarsi di nuovo in quello che lei aveva sempre chiamato “l’ingresso dell’inferno” – d’altronde ne aveva tutto l’aspetto, col basso soffitto a volta decorato da dipinti raffiguranti angeli e demoni duellanti; con l’illuminazione ridotta a delle piccole lampade sorrette da puttini sul punto di cedere sotto il loro peso; e, ciliegina sulla torta, il pavimento di marmo nero su cui ogni passo produceva un’eco spettrale – perciò strinse più forte la mano di Artù. Nonostante la sua presenza rassicurante, rischiò un infarto quando Freddie si voltò all’improvviso verso di loro, esclamando con la sua solita voce monocorde: «Perdonatemi, posso sapere per quanto tempo avete intenzione di fermarvi?».
«Cristo, Freddie!», urlò Cathleen, con una mano sul cuore. «Mi hai spaventata!».
Il maggiordomo aprì la bocca per scusarsi, impassibile come sempre, ma venne interrotto dalla risata cristallina di Artù, il quale avvolse un braccio intorno alle spalle del paramedico e con l’altra mano le massaggiò il braccio.
«Tranquilla, è tutto a posto», le sussurrò tra i capelli, facendola arrossire. Cathleen avrebbe preferito davvero essere all’inferno in quel momento.
Evitò il suo sguardo e si concentrò sulla domanda di Freddie: «Sì, io penso… penso che ci fermeremo fino a domani pomeriggio, se non siamo di troppo disturbo».
«Questo possono dirlo solo i signori Shaw, sa che io non mi permetterei mai», esclamò il maggiordomo, chinando un poco il capo in segno di rispetto. «Avviserò subito Cecilya e Margaret che vi fermerete per la notte. Quante stanze devo farvi preparare?».
Giù di un’altra decina di metri, direttamente tra le braccia di Lucifero.
Artù la tirò fuori dai pasticci ancora una volta, nonostante l’imbarazzo avesse preso il sopravvento anche sul suo viso: «Due, grazie».
Il maggiordomo annuì. «Perfetto».
Si voltò di nuovo e spalancò le pesanti porte di legno intagliato, quelle che davano accesso al salotto di ricevimento: un grande spazio in cui intrattenere gli ospiti, seduti sulle comode poltrone imbottite di fronte al monumentale camino e circondati da tappeti pregiati, dipinti ad olio e scaffali stracolmi di libri. Sulla destra c’era un corridoio porticato, con tanto di colonne di marmo perlaceo, che portava alle cucine e ad altre stanze della servitù, mentre il soffitto era semplicemente un grande lucernario che permetteva di vedere il cielo e che durante le ore del giorno offriva luce in abbondanza. Il primo e il secondo piano, infatti, si estendevano lungo i lati della residenza, girando intorno al perimetro quadrangolare del salotto grazie ad altri porticati sulle cui balconate era stato inciso nella pietra lo stemma della casata Shaw.
A lei ed Ash piaceva stare seduti con le gambe a penzoloni tra le ringhiere di pietra, a sbirciare dall’alto del secondo piano i discorsi dei loro genitori e degli ospiti. Peccato che se Ash reputava tutto un gioco, una recita in cui loro erano gli astuti ed indispensabili colleghi dell’agente 007, per Cathleen origliare era un’occasione come un’altra per accaparrarsi qualche segreto che magari, un giorno, le avrebbe fornito la libertà.
Ripensando a quei giorni e al suo fratellino, non si era accorta che Freddie era nel bel mezzo di un discorso quando lei smise di guardare in alto e chiese frettolosamente: «Ash è in casa?».
Freddie sarebbe risultato infastidito dall’interruzione se solo Dio gli avesse concesso l’espressività facciale, ma visto che il giorno della distribuzione lui si era dimenticato di mettere la sveglia, rispose con la solita voce atona che lo contraddistingueva: «Dovrebbe essere ancora sul campo da tennis con la signora Shaw».
Cathleen annuì distrattamente e si avvicinò al tavolino rotondo posto tra le due poltrone più vicine, su cui aveva adocchiato il retro di un portafoto. Prese la cornice dorata tra le mani e strinse le labbra tanto forte da farle impallidire, realizzando che probabilmente qualcuno si era davvero dimenticato della sua esistenza: suo padre, dal volto sciupato ma pur sempre sorridente, che nella foto compariva accompagnato soltanto da Trisha e Ash.
Artù le posò una mano sulla spalla e il paramedico si voltò, ritrovandosi a pochissima distanza dal suo viso col proprio, il quale subito avvampò.
«Va tutto bene?», le chiese apprensivo.
Cathleen annuì e si tolse lo zaino dalla spalla per lasciarlo su una delle poltrone, quindi si rivolse al maggiordomo: «Freddie, ci chiami tu quando le nostre stanze sono pronte? Io faccio fare un giro ad Artù».
Il domestico si chinò un poco col busto, le mani unite dietro la schiena. «Certamente, signorina S–».
«Cathleen», lo interruppe bruscamente. A bassa voce, già diretta verso il corridoio che li avrebbe portati all’esterno, aggiunse: «Chiamami Cathleen».

***

«Allora?», sbottò all’improvviso Baqi, seduto al suo fianco nella sala d’aspetto del quarto piano, di fianco alle grandi vetrate da cui si potevano vedere le ambulanze in sosta e il parchetto di fronte all’ospedale.
Hala sospirò, riconoscendo quel tono, e chiuse gli occhi appoggiando la nuca sulla parete alle sue spalle. «Allora cosa?».
«Quando hai intenzione di dirmi quello che mi stai nascondendo?».
La ragazza si irrigidì e la gola le divenne arida tutto d’un tratto. Troppe volte si dimenticava che una delle fregature dell’essere gemelli era la capacità di leggere l’uno nella mente dell’altro, che lo volessero oppure no.
Si schiarì la voce con un colpetto di tosse e si sistemò meglio sulla poltroncina, incrociando le braccia al petto e continuando a tenere gli occhi chiusi. Da quando erano lì aveva serie difficoltà a dormire, un po’ perché Baqi russava e un po’ perché pensava troppo: pensava a Merlino, alla bisnonna di Abby, all’ospedale, a Keith… Keith! Un’idea le balzò alla mente e dovette trattenersi dal sorridere.
«Non pensavo semplicemente che tu volessi saperlo», rispose alla fine, sollevando le spalle.
«Probabile, ma mi dà i nervi non sapere. Sputa il rospo».
«Il dottore che mi ha accompagnata da Abby il primo giorno – il suo nome è Keith Ellis – mi ha chiesto di uscire con lui».
Baqi tirò fuori la lingua, fingendo un conato. «Bleah. Tu che gli hai risposto?».
«Che gli avrei fatto sapere».
«Tutto qui?».
«Tutto qui».
«Sicura non ci sia dell’altro?».
Hala aprì gli occhi e voltò il capo verso il suo, sorridendo maliziosamente. «No, a meno che tu non voglia sapere che cosa mi piacerebbe fargli».
Il gemello scosse la testa, ancora più disgustato, e si alzò per andare a fare due passi.
Rimasta sola, Hala sospirò e guardò fuori dalle vetrate, lasciandosi ipnotizzare da un paio di uccellini che volavano l’uno accanto all’altro, intrecciando le loro traiettorie di quando in quando.
Poi un’ambulanza con le luci accese attirò la sua attenzione, frenando bruscamente una volta di fronte alle porte del Pronto Soccorso. Subito un paio di infermiere e un dottore uscirono per correre incontro ai paramedici e sentì il cuore finirle in gola quando realizzò che il dottore in servizio era proprio Keith, il quale distribuiva i compiti mentre esaminava i parametri vitali del paziente.
Deglutì rumorosamente e poi sospirò, dicendosi che doveva ancora dargli una risposta. Decise che più tardi sarebbe andata da lui e avrebbe seguito il proprio istinto, in modo da non avere ripensamenti.
Sarebbe andata come sarebbe andata e quel pensiero la tranquillizzò, rendendole più facile raggiungere la camera di Abigail.

***

Alex uscì dalla Centrale di polizia e si appoggiò con la schiena ad uno dei pilastri del piccolo porticato per trarre una lunga boccata d’ossigeno.
In quell’ufficio si era sentita soffocare ogni minuto di più, almeno fino a quando non aveva toccato le mani di Darrell: era stato come attaccarsi ad una bombola d’ossigeno e allo stesso tempo respirare lava, talmente era bruciante il dolore che aveva sentito al petto pensando a Merlino, il quale l’aspettava a casa per trascorrere insieme il week-end.
Socchiuse gli occhi e respirò nuovamente, strofinandosi la fronte.
Il senso di colpa aveva iniziato a divorarla dall’interno e sapeva che non sarebbe mai stata bene, se non avesse trovato il modo per espiarlo, almeno in parte. E fu così che le venne un’idea: doveva recuperare il prototipo.
Ma come? Di certo non poteva rientrare e chiederlo a Darrell; le avrebbe chiesto cos’era, come aveva fatto a perderlo nel fitto del bosco... Avrebbe fatto domande a cui non avrebbe potuto rispondere. No, aveva bisogno di agire di nascosto, senza che la vedesse.
Fece il giro dell’edificio, passando sotto il profilo delle finestre, agile e veloce come una ladra professionista, e una volta sul retro si sollevò quel tanto che bastava per sbirciare dalla finestra alle spalle delle due scrivanie.
L’agente Fisher era ancora seduto sulla sua poltrona, intento a battere sulla tastiera del computer: sembrava stesse compilando un modulo elettronico, forse quello della sua denuncia. Ad un certo punto si fermò ed aprì Chrome, su cui rimase per una decina di secondi senza scrivere nulla nella barra delle ricerche, come se non sapesse proprio da che parte cominciare. A quel punto cambiò idea e tornò al proprio lavoro, ma non proseguì per molto: due minuti dopo, infatti, ritornò su Google e quella volta scrisse qualcosa.
Alex era troppo lontana per riuscire a leggere l’oggetto del suo interesse, perciò ci rinunciò e si accovacciò per terra, con la schiena addossata alla parete di assi di legno scuro e le ginocchia contro lo sterno. Pensò ad una soluzione, pur sapendo fin dall’inizio che c’era solo una cosa che potesse fare. Tirò fuori dalla borsa il cellulare e chiamò Merlino.
«Alex! Ma dove sei finita? Ti ho preparato il pranzo!».
I sensi di colpa crebbero di colpo al pensiero di Merlino che cucinava per lei e qualcosa le morse lo stomaco, qualcosa di ben diverso dalla fame.
«Scusami, sono andata in Centrale per la denuncia e non pensavo ci fossero così tante scartoffie da compilare. Comunque avrei dovuto avvisarti, è colpa mia».
«Non c’è problema», rispose amorevolmente il mago. «Ora stai tornando?».
«In realtà c’è un’altra cosa di cui vorrei occuparmi... ma ho bisogno del tuo aiuto».
Merlino esitò, forse preoccupato dal tono incerto che aveva usato – e in effetti Alex non aveva idea di come sarebbe andata a finire – e quando alla fine rispose lo fece con fin troppa tranquillità: «Certo, che cosa devo fare?».
L’infermiera respirò profondamente per prendere coraggio, ma non ne trovò a sufficienza per spiegargli il suo piano (anche se definirlo tale era un atto di spavalderia), anzi iniziarono a venirle dei dubbi. Quindi fece retromarcia: «Ho voglia di gelato. A te che gusti piacciono?».
Merlino dovette intuire che quello era un salvataggio in corner, ma lasciò correre.
Quando pose fine a quella fallimentare telefonata, Alex tirò fuori dalla borsa a tracolla il libro di magia che Gaius aveva tramandato a Merlino e si strappò dal polso il bracciale di Morgana.
Era stata un’idea stupida chiamare lo stregone: come aveva potuto anche solo sperare che avrebbe acconsentito a farle usare la magia senza prima averla addestrata a dovere su come controllarla? Inoltre Merlino, abituato com’era a fare a meno dei suoi poteri, avrebbe sicuramente trovato un metodo altrettanto efficace, e forse anche più semplice, per far sparire il dispositivo assorbi magia nera. Lei invece, per quanto stupido, rischioso ed inutile potesse essere, voleva disperatamente mostrargli che poteva farcela, che poteva e doveva fidarsi di lei. Voleva sorprenderlo, renderlo orgoglioso, e non c’era modo migliore di questo.

«Non c’era modo migliore? Ma ti rendi conto di che stupidaggine sia?!», le urlò contro Merlino, paonazzo in volto. Sollevò il dispositivo che con così tanta fatica Alex era riuscita a recuperare dall’ufficio di Darrell e continuò: «Mi stanno venendo in mente almeno una dozzina di modi diversi con cui avremmo potuto recuperarlo! Ma tu hai preferito metterti in mostra, rischiare di farti beccare e passare un sacco di guai, invece di darmi retta! Perché con voi Pendragon è sempre così difficile farsi ascoltare?!».
Alex tentò nuovamente di rispondere per le rime, ma si sentiva così denigrata e demoralizzata che abbassò semplicemente il capo ed evitando il suo sguardo mormorò: «Mi dispiace».
Merlino non si aspettava una resa così rapida, infatti le chiese di ripetere. L’infermiera ripeté, cosa che non avrebbe fatto se non fosse stata davvero mortificata, poi prese la confezione di polistirolo con dentro il gelato e un cucchiaio e se ne andò in salotto, dove si rannicchiò sul divano a guardare la TV.

***

Merlino diede un calcio ad una sedia, facendola rovesciare sul pavimento, e poi si passò le mani sul viso. Appoggiato al bordo del tavolo col fondoschiena, respirò profondamente per calmarsi, ma per sbollirsi del tutto dovette uscire in veranda.
Camminare per il giardino, sotto un sole insolitamente caldo, gli schiarii le idee e gli fece capire che aveva esagerato con Alex. L’aveva aggredita con foga, urlando tanto da farle chiudere forte gli occhi; le aveva riversato addosso tutto il nervosismo e la frustrazione che sentiva da quella mattina, quando si era svegliato e vedendo Artù addormentato al suo capezzale si era ricordato di ciò che aveva detto e fatto la notte prima. Si era sentito così in colpa che gli aveva preparato la colazione migliore della sua vita, ma non era bastato per cancellare la vergogna e riempire il vuoto che aveva iniziato a sentire in mezzo al petto dopo aver riportato a galla il ricordo di Louise con Abby.
Louise… Non riusciva più a togliersela dalla testa ormai e questo non faceva che peggiorare le cose: la voragine si allargava di minuto in minuto, risucchiando come un buco nero qualsiasi cosa sul suo cammino, e il solo pensiero di dover trascorrere con Alex un intero week-end lo tormentava. Ricordava fin troppo bene ciò che gli aveva detto Abby quando per la prima volta l’aveva nominata: Alex non meritava di essere paragonata a Louise, non meritava di dividere il suo cuore con un fantasma. Lei si meritava il meglio, come Artù più e più volte aveva affermato, e Merlino non era più convinto di esserlo. Sapeva fin dall’inizio che non avrebbero dovuto portare la loro relazione a quel livello, ma Alex era riuscita a convincerlo, a fargli credere che il loro amore avrebbe sconfitto ogni cosa… Avevano mentito a loro stessi, preferendo una dolce bugia alla cruda realtà.
Merlino si fermò accanto al salice piangente e si infilò una mano nella tasca dei pantaloni della tuta, dove teneva il cofanetto che il signor Greenwood gli aveva in un certo senso tramandato. Lo strinse forte nella mano e guardò il cielo, chiedendo consiglio.
Amava Alex, ma non l’amava più di quanto avesse amato Louise. Il peso di quella verità gli crollò sul cuore, lasciandolo affannato, e con gli occhi lucidi spostò alcuni rami del salice, i quali poi tornarono al loro posto alle sue spalle, proprio come una tenda in grado di assicurargli una certa privacy.
Si chinò e trovò un punto in cui le radici dell’albero non fossero troppo vicine alla superficie; quindi a mani nude iniziò a scavare una piccola fossa. Quando fu soddisfatto del proprio lavoro, prese di nuovo il cofanetto di velluto rosso tra le mani sporche e se lo portò alle labbra per baciarlo ad occhi chiusi.
Alex meritava di sapere la verità, meritava di trovare qualcuno che l’amasse più di ogni altra cosa o persona al mondo. Se l’avesse sposata davvero, se avesse fatto finta di nulla, se si fosse tenuto quel peso dentro, agendo egoisticamente, era certo che questo lo avrebbe lentamente ucciso.
Mise il cofanetto nella buca e lo ricoprì fino a quando non fu completamente sotterrato. Dopo un po’ si alzò, guardò il segno scuro lasciato dalla terra smossa per quella che gli sembrò un’infinità e ritornò in cucina, dove si lavò con cura le mani, facendo particolare attenzione alle unghie. Una volta cancellate le prove – nonostante continuasse a sentirsi lercio dentro – racimolò tutto il coraggio che ancora possedeva e varcò la soglia del salotto. Lentamente si avvicinò al divano e si sedette accanto ad Alex, mantenendo però una distanza di sicurezza. (Anche se avesse voluto avvicinarsi di più, l’infermiera sembrava come avvolta da un campo di forza così potente che nemmeno la magia sarebbe riuscita a spezzare).
«Perdonami se ho alzato la voce, ho esagerato», esordì con semplicità, guardando il profilo del suo viso rivolto verso la televisione. «Continuo a pensare che tu abbia corso un rischio inutile e sono ancora arrabbiato con te perché mi hai tenuto all’oscuro di tutto, ma questo non significa che io non sia impressionato».
Quel risvolto improvviso catturò l’attenzione di Alex, la quale spense la televisione e si girò verso di lui, infilando una gamba sotto l’altra. Ciò nonostante non fu abbastanza e non aprì bocca, lasciando continuare Merlino.
«Che cosa avrei fatto, se Darrell ti avesse visto utilizzare la magia?», le domandò, sollevando una mano verso il suo viso.
Alex chiuse gli occhi: non più perché in quel modo sperava di non sentire le sue urla, piuttosto per dargli il tacito consenso di toccarla. Il mago le accarezzò la guancia e poi la strinse forte contro il suo petto, immergendo il viso tra i suoi capelli biondi. Respirò profondamente e in quel momento realizzò che non poteva in alcun modo lasciarla andare: poteva sopportare di mentirle, poteva morire lentamente – lo stava già facendo, dopotutto – ma non poteva vederla infelice. Perché lui ci aveva già provato, ad allontanarla, e non ci era riuscito. Anzi, aveva solo fatto del male ad entrambi. Alex non si era mai arresa, aveva lottato con le unghie e con i denti, ed era certo che qualsiasi cosa le avesse detto lei non avrebbe smesso di amarlo. E lui neanche, nonostante il pensiero di Louise avesse infettato una buona parte del suo cuore.
Non le avrebbe detto nulla di lei, ma non le avrebbe nemmeno dato l’anello un tempo appartenuto a sua madre, quello che Edwin le aveva regalato quando si erano fidanzati e che qualche giorno prima aveva consegnato a lui perché facesse la proposta ufficiale a sua figlia. La sua unica possibilità era che il suo destino si compisse il prima possibile.
I suoi stessi pensieri lo nauseavano, eppure riuscì a trovare la forza per allontanarsi quel tanto che bastava per guardarla negli occhi ed esclamare con finta eccitazione: «Ti conviene iniziare a raccontare, perché voglio sapere tutto, ogni particolare, anche il più superfluo».
Il sorriso di Alex si allargò e senza farselo ripetere due volte gli spiegò che all’inizio era stata fortunata, dato che Darrell si era allontanato per andare in bagno. Gli descrisse l’incantesimo che aveva usato per aprire la finestra e quello per aprire a distanza il cassetto della scrivania, da cui poi aveva fatto volteggiare verso di sé il prototipo. Poi aveva ammesso che era stato difficile utilizzare così tanta magia tutta insieme, ma non era stata la parte peggiore. Pronunciare correttamente e con la giusta intonazione le parole nella lingua della Religione Antica infatti, era stato ciò che l’aveva fatta sudare di più, tanto che aveva rischiato di far schiantare il prototipo contro il soffitto quando finalmente aveva avuto successo con la telecinesi.
Merlino l’aveva ascoltata in silenzio, senza interromperla mai e fingendosi incredulo: in verità sapeva già a grandi linee quello che era successo… l’aveva dolorosamente percepito.
Alex aveva iniziato ad accumulare un po’ di potere e a tenerselo da parte nell’organismo, forse assorbendolo inconsciamente da lui con il semplice stargli vicino. E mentre lei era all’opera per cercare di renderlo orgoglioso, Merlino si era ritrovato improvvisamente senza forze ed era quasi svenuto di fronte ai fornelli, col sangue che gli bruciava nelle vene e con la sensazione che ogni organo del suo corpo stesse per collassare.
Merlino continuò ad ascoltarla rapito e a sorridere, conscio che non le avrebbe confessato nemmeno questo.
Diceva sempre che i Pendragon non sarebbero mai cambiati: gliene faceva una colpa, c’erano momenti in cui li odiava per questo, ma non aveva mai capito prima di allora che la verità era che loro non potevano cambiare. All’improvviso aveva realizzato che, al contrario, lui avrebbe potuto, ma non l’avrebbe mai fatto. Per scelta.
Questo lo rendeva una cattiva persona? Era ancora definibile una persona, dopo più di millequattrocento anni di vita? Merlino non lo sapeva. Era solo stanco, tanto stanco, e scegliere ciò che era sempre stato – un bugiardo doppiogiochista – era e sarebbe sempre stata la scelta più facile.

***

Artù seguì Cathleen attraverso l’immenso maniero in silenzio, evitando di farle domande o semplicemente di confessarle che si sentiva perfettamente a suo agio tra quelle mura, quasi come si sarebbe sentito se si fosse ritrovato a passeggiare tra i corridoi e le sale di Camelot. Aveva intuito che per Cathleen non era lo stesso, dal suo passo nervoso e dal suo continuo guardarsi intorno: sembrava che avesse fatto di tutto per dimenticarsi quei luoghi ed era come se, più che considerarla una casa, il paramedico la ritenesse una specie di prigione, una gabbia d’oro in cui aveva sperato ardentemente di non dover più tornare.
Artù capì di aver avuto ragione quando si ritrovarono di nuovo all’aperto e Cathleen trasse un sospiro di sollievo, come se invece all’interno fosse stata in apnea.
«Di qua», gli disse, indicandogli di fare il giro intorno alla piscina olimpionica intorno alla quale c’erano decine di lettini prendisole e diversi ombrelloni da spiaggia.
Poco più in là, in un angolo più appartato del giardino, c’era anche una specie di tinozza di legno simile a quella che usava lui per fare il bagno al castello, solo dalle dimensioni extra-large, e purtroppo non ebbe modo di chiedere a Cathleen quale fosse il suo utilizzo.
Oltre alla piscina c’era un ampio gazebo in ferro circondato da bellissimi cespugli di fiori, sotto cui prendere un tè in tutta tranquillità, e proseguendo per un’altra ventina di metri il giardino sembrava terminare bruscamente, quasi a strapiombo, permettendo di intravedere in lontananza la linea blu del mare che si fondeva con quella più chiara del cielo.
Cathleen proseguì senza paura verso il bordo e quando si accorse che Artù aveva smesso di seguirla si voltò per rivolgergli un sorriso e stendere una mano verso di lui. Allora il biondo la raggiunse e sospirò quando si rese conto che era solo un effetto ottico: non c’era alcuno strapiombo in realtà, solo una scalinata di pietra infinita che portava ai due campi da tennis.
Fu una passeggiata scendere, ma Artù già sudava al pensiero di doverla risalire per tornare al maniero.
Sui campi di terra rossa c’erano solo due persone che stavano giocando: una donna coi capelli e gli occhi castani, che poteva avere dai trenta ai cinquant’anni – per Artù era tremendamente difficile riconoscere l’età delle persone di quell’epoca a causa di tutto ciò che facevano per sembrare più giovani ed attraenti – e un ragazzo che per via della corporatura esile non dimostrava più di diciotto anni.
Quest’ultimo dava loro le spalle e dovette aspettare che la donna dall’altra parte della rete non rispondesse volontariamente al servizio prima che potesse constatare che anche il suo viso, dai lineamenti incredibilmente delicati, quasi androgini, mostrava ancora i segni dell’adolescenza.
«Oh, per favore!», esclamò con voce stridula, quando la donna mollò la presa sulla racchetta e lasciò che la pallina le rimbalzasse accanto senza battere ciglio. Abbassò le braccia, sbuffando sconsolato, e si voltò per seguire la traiettoria dello sguardo della donna, urlando ancora: «Posso sapere che cosa diavolo stai…?». Si interruppe bruscamente però, iniziando a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua, una volta incrociato lo sguardo di Cathleen, la quale, notò Artù, stava esibendo il suo primo sorriso di gioia da quando avevano varcato il cancello della Residenza Shaw.
«Ehi, coglioncello, perché mi guardi con quella faccia da ebete?», gli domandò la rossa, portandosi una mano sul fianco.
Il ragazzo ghignò e la imitò, rispondendo: «Brutta stronza che non sei altro, sei per caso ingrassata?».
Artù non riusciva a capire cosa stesse accadendo e, nonostante fosse sconvolto e ad occhi sgranati, non osò intervenire per difendere il paramedico. Fu la mossa giusta, perché dopo qualche altro insulto i due si corsero incontro e si abbracciarono forte, girando in tondo. Probabilmente era così che si salutavano e si dimostravano affetto reciproco. La gente del ventunesimo secolo gli sembrava sempre più strana.
«Perché non mi hai avvisato che saresti venuta? Mi sarei fatto trovare pulito!», gridò ancora il ragazzo – se avesse continuato così, Artù a fine giornata si sarebbe ritrovato sordo – prendendosi la maglietta del completo bianco tra le dita e tirandosela verso il naso per asciugarsi il sudore sulle guance. Poi bisbigliando aggiunse: «Di sicuro avrei avuto la scusa per non giocare con mia madre. Io odio il tennis».
Cathleen rise e quel suono fu musica celestiale per Artù, il quale dimenticò tutto il resto e sentì soltanto una grande pace interiore.
«È stata una cosa decisa all’ultimo momento. E poi volevo fosse una sorpresa», gli spiegò, arruffandogli i lunghi capelli neri tenuti indietro da una fascia di spugna bianca.
Il ragazzo le allontanò la mano, ma a Cathleen quel gesto non piacque e gli avvolse rapidamente un braccio intorno al collo per strofinargli il pugno sulla testa con più insistenza, quasi come faceva lui con Merlino ogni tanto.
«Piantala!», si lamentò il moro, anche se ridendo, e il paramedico decise di mostrare clemenza liberandolo.
«Sei sempre la solita», bofonchiò, ma risultò più un complimento che un rimprovero. Poi il ragazzo fissò gli occhi in quelli di Artù e questo si sentì quasi intimidito dalla loro particolarità: l’iride era in prevalenza grigia, ma intorno alla pupilla nera c’era un’aureola color rame. Erano semplicemente incantevoli, tanto da togliere il respiro, ma il sovrano evitò di dirlo ad alta voce e distolse lo sguardo per guardarsi alle spalle, fingendo di non aver capito che stesse fissando proprio lui.
Alla fine il ragazzo ruppe il silenzio, esclamando con un sorrisino malizioso dipinto sul volto: «E nemmeno le tue buone maniere sono migliorate. Posso avere l’onore di sapere chi è questo manzo che ti sei portata dietro?».
Artù si sentì arrossire fino alle punte dei capelli e guardò Cathleen, sperando che almeno lei lo salvasse dall’imbarazzo. Purtroppo non fu così, perché lo prese per il braccio e si chinò verso il ragazzo, sussurrando: «Non ci provare, Ash. Lui è mio».
«Te pareva», bofonchiò il moro prima di porgere una mano verso di lui.
«Artù, lui è Ash, mio fratello. Ash, lui è Artù».
«Ed è…?», la incalzò e fu lei quella volta ad essere travolta dall’imbarazzo.
«Ci stiamo lavorando», rispose Artù per lei, anche se avrebbe preferito di gran lunga starne fuori, mentre stringeva la mano di Ash.
«Questa sì che è una sorpresa coi fiocchi!».
Tutti sobbalzarono e si voltarono verso la donna che si era avvicinata a loro.
Artù avrebbe capito che era la madre di Ash semplicemente ascoltandola parlare: aveva lo stesso tono di voce del figlio, inconsapevolmente alto e un po’ stridulo, e anche i tratti del viso erano pressoché identici. Ciò che non riusciva a capire era come quella donna potesse avere un qualche legame di parentela con Cathleen: erano l’una l’opposto dell’altra, eccezion fatta forse per il decolté – incredibile ma vero, quello della madre di Ash sembrava essere ancora più… Si costrinse a cancellarsi dalla testa quell’immagine e si schiarì rumorosamente la gola, beccandosi un’occhiata sia da Cathleen che da Ash.
La donna si sporse verso il paramedico e prima che potesse sottrarsi l’abbracciò forte, accarezzandole i capelli.
«Ci sei mancata tanto, Kitty».
Al contrario di Ash, Artù si trattenne nel fare una smorfia sentendo quel soprannome. Conoscendola, dubitava che Cathleen lo gradisse, eppure non disse niente e quando si scostò abbozzò persino un sorriso, chiedendo: «Come stai, Trisha? In forma come sempre, vedo…». Indicò il suo seno pronunciato, visibile grazie all’ampia scollatura della polo bianca abbinata alla gonna cortissima. «Le hai gonfiate ancora un po’?».
La donna abbassò gli occhi e si strizzò i seni con fare amorevole ed orgoglioso. «Oh sì, l’hai notato? Non sono bellissime?».
Cathleen guardò Artù con la coda dell’occhio e trattenendo una risata rispose: «L’importante è che piacciano a papà».
«Forse non è…», iniziò a dire Ash, allarmato, ma la madre non lo fece finire.
«Tuo padre ed io siamo nel bel mezzo di una crisi, ma sono sicura che col tempo la supereremo».
Cathleen evidentemente non se lo aspettava, perché corrugò la fronte e guardando Ash e Trisha corrugò la fronte. «Una crisi? Perché, che cos’è successo?».
«Tesoro, ci sono così tante cose che non sai…», le disse teneramente, posandole una mano sulla schiena. «Forse dovremmo sederci e parlare un po’, che ne dici?».
«In realtà preferivo far sistemare Artù e farmi una doccia prima di vedere papà».
«No, zuccherino, a meno che non andremo noi da lui, tuo padre non ci sarà».
Cathleen sospirò, afflitta, e al contempo strinse i pugni lungo i fianchi. «Ho capito, papà non mi considera più sua figlia da quando sono scappata e vuole che vada da lui a prostrarmi ai suoi piedi e a scusarmi, ma si sbaglia di grosso se io…», si interruppe notando lo sguardo apprensivo di Trisha. Artù inoltre scorse nello sguardo di Ash un’ansia che non seppe a cosa attribuire ed istintivamente prese la mano di Cathleen, proprio mentre lei sbottava: «Allora, vuoi dirmi perché mi guardi così? Sembra che…». Il paramedico impallidì all’improvviso e balbettò: «Papà sta bene, vero?».
Trisha si precipitò a rassicurarla, massaggiandole la schiena con la mano: «Ma sì, certo tesoro, sta bene».
«Mamma», la rimproverò Ash, lanciandole un’occhiata tagliente. «Non mentirle, non è una bambina».
«Ma…».
«Che cos’ha?», domandò Cathleen, guardando prima l’uno e poi l’altra. Quando ripeté la domanda, strinse così forte la sua mano che Artù dovette serrare i denti per non lamentarsi.
Ash alzò semplicemente gli occhi verso il maniero ed aspettò che Cathleen si voltasse e facesse lo stesso. Artù, travolto dalla curiosità, la imitò.
Dietro ad una delle finestre del piano più alto si scorgeva il volto pallido ed emaciato di un uomo coi capelli bianchi e gli occhi resi folli dalla rabbia. Guardava proprio verso di loro, ma non sembrava per nulla intenzionato ad aprire la finestra per salutarli.
«Quello che intendevo dire, tesoro», iniziò a dire Trisha, il più pacatamente possibile, «è che Roger non può uscire dalle sue stanze».
Artù voleva sapere di più, capire che cosa significassero quelle parole, ma rispettò il silenzio di Cathleen e le rimase accanto lasciando che gli stringesse forte la mano. Quando all’improvviso scostò lo sguardo e si diresse verso delle strane automobili aperte sui lati, il sovrano si lasciò trascinare senza porre domande, seguito anche da un Ash cupo e dal collo infossato tra le spalle.
Il paramedico gli lasciò la mano solo per ordinargli di salire sul posto del passeggero e di reggersi forte. Il fratello aveva appena fatto in tempo a salire sulla piccola vettura prima che la facesse partire in quarta verso una galleria che attraversava l’immenso giardino.
Artù immaginò l’enorme piscina sopra di loro, i litri e litri d’acqua che si sarebbero potuti riversare in quel tunnel in ogni momento, e l’aria iniziò a mancargli dai polmoni, ma nemmeno respirare velocemente lo aiutò a riempire il vuoto che sentiva schiacciarlo da dentro. Stava avendo un attacco di panico che, se sommato ai suoi speciali problemi di cuore, poteva essergli fatale. Merlino gli aveva raccomandato più volte di stare attento e non fare sforzi, visto che non avevano ancora recuperato il dispositivo, ma lui gli aveva dato dello stupido: a che serviva preoccuparsi tanto? A quanto pare, con lui non c’era affatto da stare sereni.
«Ehi, amico, stai bene?», gli domandò ad un tratto Ash, sporgendosi tra lui e Cathleen.
Solo allora il paramedico si accorse delle sue condizioni, ma anziché fare retromarcia premette ancora di più il piede sull’acceleratore e gridò: «Non ti ci mettere anche tu, ora! Ho appena scoperto che l’agorafobia di mio padre è peggiorata e che mio fratello me ne ha tenuto all’oscuro… Non puoi spaventarti per una galleria!».
Artù avrebbe voluto scusarsi e allo stesso tempo gridarle contro che non era colpa sua, che non doveva mancargli di rispetto e avrebbe voluto ricordarle che a Camelot era il più valoroso degli uomini e che non aveva mai sofferto di questi problemi. La verità però era che aveva smesso di respirare del tutto.
Quando la galleria finalmente finì, facendoli sbucare di fronte a diversi cespugli disposti a mo’ di mini-labirinto, Artù trasse un respiro così profondo che sentì male dappertutto.
Cathleen tirò il freno a mano ancor prima che il piccolo veicolo si fosse fermato e si voltò verso di lui per controllargli i parametri vitali. Certa che stesse bene, gli posò un bacio sulle labbra – un po’ migliorando e un po’ aggravando le sue condizioni – e gli accarezzò il viso.
«Scusami, mi sono dimenticata della tua claustrofobia. Ora va meglio?».
Artù annuì, deglutendo più volte, e si sporse per baciarla di nuovo, ma Ash urlò: «Oh, vi prego, mi farete venire il diabete!».
«Non dovevi andare a fare doccia, Ash?», gli ricordò la sorella, a denti stretti. «Puzzi».
«’kay, me ne vado».
Il ragazzo saltò giù dal veicolo e si diresse verso un ingresso secondario senza mai guardarsi le spalle.
Artù aprì la bocca per chiedere a Cathleen la vera natura del loro legame – come Trisha non poteva essere la sua vera madre, Ash non poteva essere suo fratello di sangue – ma fu azzittito direttamente dalle sue labbra. Chiuse gli occhi e si rilassò, godendosi quel momento come se fosse l’ultimo, e per la prima volta riuscì a non sentirsi in colpa nei confronti di Ginevra. Quel pensiero lo fece sorridere e il paramedico fece istintivamente lo stesso, per poi scostarsi, pur rimanendo con la fronte contro la sua, e chiedergliene il perché.
«Non eri costretta a portarmi qui, a farmi conoscere la tua famiglia», le disse, sistemandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Vedo che stare qui ti rende nervosa, sai?».
Cathleen scrollò le spalle, abbassando gli occhi. «Tu mi hai raccontato tutto di te e io… volevo ricambiare. E spiegarti il perché ho detto quelle cose riguardo alle famiglie con nomi importanti».
«E io te ne sono infinitamente grato, Cathleen, ma devi promettimi che se non dovessi più farcela, me lo dirai e ce ne andremo. Siamo d’accordo?».
«Siamo d’accordo».
Artù sorrise e le posò un nuovo bacio sulle labbra, poi scese dalla piccola auto senza portiere e strizzando gli occhi per la luce abbagliante del sole alzò il viso verso il piano più alto del maniero, nella direzione dove supponeva si trovasse la finestra attraverso la quale avevano visto il padre di Cathleen.
«Che cos’ha tuo padre? Perché non può uscire dalle sue stanze?», le chiese e quando si rese conto della poca delicatezza con cui aveva posto quelle domande era ormai già troppo tardi.
Cathleen però non si pose il problema e rispose pacatamente, quasi con distacco, come se si riferisse ad un paziente qualunque e non a suo padre: «Si chiama agorafobia. È una manifestazione ansiosa: chi ne soffre ha paura di stare in posti affollati o in grandi spazi all’aperto… insomma, di uscire dalla propria “zona sicura”».
Artù aveva individuato la finestra, ma il signor Shaw non c’era più. «E da cosa è causata?», chiese ancora.
«Dipende». Cathleen si strinse nelle spalle e cercò il pacchetto delle sigarette per accendersene una. Con il filtro tra le labbra, continuò: «Paura del nuovo, dello sconosciuto, di non riuscire a controllare la situazione intorno a sé, disturbi ossessivi-compulsivi…».
Il re si voltò verso di lei, sempre più incuriosito. Voleva chiederle di più, chiederle perché suo padre si fosse trovato rinchiuso nelle sue stanze, da quanto tempo soffriva di agorafobia e come aveva potuto lei, sapendolo, non preoccuparsi della sua salute per ben undici anni. Non sapeva però da dove cominciare e aveva paura di risultare troppo invadente.
«A che cosa stai pensando?», gli chiese ad un tratto, riportandolo alla realtà. Cathleen sorrideva e Artù si umettò le labbra, incerto.
Fu lei alla fine a parlare, esclamando: «E va bene. Volevo aspettare, ma ti racconterò l’intera storia».
Artù avrebbe voluto dirle che non c’era fretta, che non doveva farlo per forza, ma non ci riuscì, in parte perché avrebbe mentito e in parte perché lei non gli diede il tempo di aprire bocca: lo prese semplicemente per mano e lo portò in casa, al fresco, trascinandoselo per gli infiniti corridoio e di salottino in salottino, ognuno con una diversa carta da parati e diverse tappezzerie per divani.
Poi arrivarono ai piedi di un’ampia scalinata di marmo, quasi a chiocciola, e una volta terminata, al secondo ed ultimo piano, si trovarono di fronte l’ennesimo corridoio. La stanza che cercavano però era proprio davanti alle scale, la porta chiusa e calda a causa del sole che entrava dall’alta finestra lì accanto.
Cathleen posò la mano sul pomello, ma prima di entrare si girò verso di lui e lo guardò profondamente negli occhi, quasi come a cercare un incoraggiamento. Artù le rivolse un pallido sorriso, senza sapere cosa dire. Dovette bastare, perché il paramedico aprì la porta e trasse un lungo sospiro.
La guardò fare qualche timido passo all’interno e guardarsi intorno con aria spaesata, gli occhi lucidi di lacrime. Quando la raggiunse, corrugò la fronte cercando di collegare tutti i pezzi.
La stanza era grande, priva di mobilia ma piena zeppa di vasi colmi di fiori freschi, ed era inondata di luce grazie all’immensa vetrata da cui si riuscivano a scorgere il mare e le scogliere della baia in lontananza. Erano dall’altro lato della casa, perciò la piscina, il gazebo e i campi da tennis non si vedevano. Da lì, la vista era solo verde, verde, verde, cielo e mare. Uno spettacolo.
Dall’altro lato della stanza, sul muro opposto alla vetrata, era stato appeso un quadro gigantesco il cui soggetto era una donna bellissima, col volto spruzzato di efelidi e dai lineamenti fini e delicati e gli occhi color nocciola. Era stata ritratta dal busto in su e probabilmente avrebbe dovuto assumere una postura composta, seriosa, ma anche volendo non ci sarebbe mai riuscita. C’era qualcosa in lei che ti costringeva a volerle bene e a trovarla simpatica: forse la sua chioma pel di carota e naturalmente scompigliata, oppure la scintilla di pura genuinità che brillava nei suoi occhi, o ancora il suo sorriso contagioso.
Artù riusciva ad immaginarsela mentre veniva costretta a star ferma su quello sgabello, e ogni volta che il ritrattista abbassava gli occhi sulla tavola gli faceva le boccacce o assumeva pose provocanti. Quella fantasia lo fece sorridere ed istintivamente posò lo sguardo su Cathleen: una lacrima le era rotolata su una guancia, fino a nascondersi nella tenerissima fossetta che le spuntava tutte le volte che mostrava il suo sorriso più bello e più raro, lo stesso sorriso della donna nel ritratto.
Si avvicinò a lei di qualche passo e senza guardarla fece scivolare le dita della mano destra tra le sue, intrecciandole piano. Cathleen tirò su col naso e finalmente parlò, dicendo ciò che Artù già sapeva: «Lei è mia madre, Helena».
«Siete due gocce d’acqua», disse a bassa voce, come se si trovassero in una vera cappella, un santuario in cui commemorare il ricordo di quella donna tanto amata e che evidentemente se n’era andata troppo presto.
«Sì, è vero. È stata la mia benedizione e la mia rovina».
«Perché?». Come poteva essere una rovina, essere tanto belle e vere allo stesso tempo?
Cathleen si prese una ciocca di capelli tra le dita ed iniziò a tirarla, nervosamente. «Forse è per questo che mio padre ha iniziato a dare di matto. Ma partiamo dall’inizio, okay?».
Si avvicinò in fretta alla specie di altare che era stato innalzato sotto al ritratto di Helena e Artù la seguì.
La rossa indicò una delle tante fotografie posate sul ripiano, accanto ad un lume acceso, e raccontò: «Mia madre morì quando avevo nove anni. Lei era davvero una forza della natura, energica ed iperattiva, ma anche un po’ incosciente. Sottovalutava sempre il pericolo, o questa è l’idea che mi sono fatta di lei quando è morta». Fece una breve pausa, scuotendo il capo mestamente. «Sai che non me la ricordo quasi più? Non mi ricordo la sua voce, il suo profumo… Sono passati vent’anni ormai, però pensavo che… Insomma, è la mia mamma, pensavo non avrei potuto dimenticarmela».
Artù deglutì e prese coraggio per dire: «La mia è morta dandomi alla luce, se questo può farti stare meglio. L’ho vista per la prima volta con Merlino, grazie alla magia. Non so nemmeno se fosse così, da viva. Ma quella riproduzione non aveva nessun profumo».
Cathleen tornò a prendergli la mano, ma non gli disse nulla per tirarlo su di morale, non lo compatì, e Artù lo apprezzò molto.
«Hai visto che tutte le finestre hanno le inferriate?», gli chiese.
«Sì, ho notato».
«Le ha fatte mettere mio padre dopo la sua morte. Prima non c’erano, anche perché… a che scopo? Le finestre dei corridoi le hai viste, non sono a livello del pavimento. Sto divagando.
«Mio padre le ha fatte mettere lì perché mia madre era un’amante della natura e degli animali. Cioè, non proprio per questo, ma capirai.
«Mia madre adorava i canarini, dico davvero. In questa stanza, la più fresca e meno soleggiata del maniero, mamma teneva tutti i suoi canarini: ne avremmo avuti una ventina. Le piaceva svegliarsi sentendoli cantare e stava con loro per ore, a parlare, a curare le loro gabbiette… robe così.
«Un giorno passando per un corridoio di questo piano sentì un cinguettio. Veniva dall’esterno, ma non era un uccellino di passaggio. Incuriosita, ha trovato un binocolo ed è scesa in giardino per scoprire da dove provenisse. Ci riuscì: due uccellini avevano fatto il nido proprio sopra una delle finestre del corridoio, nella grondaia, e non poté resistere alla sua estrema passione per quegli animali. Tornò in casa, rubò un pezzo di pane dalla cucina e corse alla finestra. Si arrampicò sul davanzale, tenendosi aggrappata alla stessa grondaia, e quando gli uccellini scapparono via spaventati, lei perse l’equilibrio. Non si sa se avesse mollato la presa di proposito per acchiapparli o se fu solo una fatalità. Sta di fatto che lei cadde proprio di fronte all’ingresso, con il pezzo di pane ancora in mano.
«Questo è quello che mi ha raccontato di nascosto il giardiniere, che ha visto tutta la scena. Mio padre non ha mai voluto dirmi quello che è successo davvero, forse pensava che fosse un modo troppo stupido per morire, indegno di Helena, o forse se ne vergognava soltanto. Io ricordo che lo trovai poetico, ricordo di aver scritto sul mio diario che la mia mamma era morta da eroina, perché voleva salvare dalla fame un paio di uccellini.
«Quando mio padre è stato avvisato di ciò che era successo, è rimasto sulla soglia dell’ingresso, incapace di raggiungere mamma sul selciato, e quel rifiuto ha dato il via alla sua agorafobia. Non è più uscito di casa da quel momento. Ci abbiamo provato in tutti i modi: io, Freddie, gli psicologi… Non appena provavamo a farlo uscire, anche per fargli fare una semplice passeggiata in giardino, non importava di fronte a quale porta lo portassimo… lui iniziava a gridare e a dire che c’era Helena di fronte a lui, con la testa spaccata e il sangue che scorreva tra le fughe delle piastrelle di mattoni.
«Da allora non è più stato lo stesso, era irriconoscibile. Non riusciva più a stare davanti ad una finestra aperta, soffriva di paranoia, di insonnia, era lunatico… E il fatto che io somigliassi così tanto a mamma non ha aiutato. C’erano momenti in cui mi odiava e non sopportava la mia vista, altri in cui non poteva starmi lontano e mi costringeva a tenerlo per mano ovunque decidesse di andare. Capisci che per una bambina della mia età fu traumatico. L’unico modo per sfuggire alla pazzia di mio padre era stare all’aperto, dove lui non avrebbe mai potuto raggiungermi, e ovviamente camuffare il mio vero aspetto. Iniziai coi capelli, chiedendo ad una delle cameriere di tagliarmeli come quelli di un maschio. Poi passai ai vestiti, sbarazzandomi delle gonne e delle scarpe carine. A tredici anni scoprii i trucchi e da quel momento in avanti iniziai a sperimentare fino a quando non raggiunsi questo risultato», si indicò il volto stiracchiando un sorriso quasi imbarazzato.
Artù avrebbe voluto approfondire l’argomento, ma al momento c’era un’altra questione che lo interessava: «Aspetta un attimo. Quand’è che entrano in scena Ash e Trisha? Soprattutto… com’è successo? Con tuo padre recluso tra queste mura…».
Cathleen sorrise e lo prese per mano per farlo uscire dalla stanza dedicata a sua madre. Camminarono un po’ per i corridoi del secondo piano, fino a quando non raggiunsero un alto parapetto in pietra: si affacciarono e Artù si rese conto con immenso stupore di essere sopra il primo salotto che avevano incontrato entrando nella residenza, scortati da Freddie.
Il paramedico sorrise furbetta e si sedette per terra, infilando le gambe tra le colonne del parapetto, così da avere i piedi penzoloni nel vuoto. Artù non poté fare altro che imitarla.
«Mio padre faceva davvero una vita da recluso, così decise di portare la vita qui dentro. Ogni sera c’era un party diverso e lui intratteneva i suoi ospiti come se nulla fosse successo. Fu proprio qui, in questo salotto, che mio padre e Trisha si incontrarono per la prima volta. Lei al tempo era fidanzata con un altro riccone, vivevano su uno yacht – una barca molto lussuosa».
«Grazie per la spiegazione», le disse, anche se sorridendo.
«Dovere», replicò, ridacchiando. «Ad ogni modo poco tempo dopo Trisha mollò quel tipo e me la ritrovai qui, con un figlio di sei anni al seguito; io ne avevo tredici e Ash non mi piacque subito. Poi capii che eravamo sulla stessa barca e tanto valeva remare insieme».
«Ora siete molto legati?».
«Moltissimo. Non abbiamo lo stesso sangue, ma è come se fosse mio fratello a tutti gli effetti».
«Eppure… tu sei andata via, mentre lui è ancora qui. Da quanto tempo non vi vedevate?».
Cathleen si rabbuiò e Artù si pentì di quella domanda. Avrebbe voluto scusarsi, ma lei liquidò l’argomento, dicendo con tono ferale: «È stata una sua scelta». Quindi riprese da dove aveva lasciato, per poi rendersi conto che non c’era nient’altro da dire, o almeno nulla che volesse confidargli al momento. Una cosa per volta: Artù lo capiva bene e non le avrebbe fatto pressioni.
Il pesante silenzio che era piombato su di loro venne interrotto dal maggiordomo, il quale, passando per il salotto sotto di loro, alzò il capo ed esclamò: «Signorina Cathleen, le vostre stanze sono pronte se volete».
Lei non parlò, ma riuscì a leggerle in faccia ciò che pensava: “Giusto in tempo”. Artù sospirò e si alzò, seguendola giù per l’ennesima scalinata di marmo, solo che questa era spigolosa, più convenzionale e maestosa, e non a chiocciola.
«Facci strada, Freddie».
Seguirono il domestico dall’altro lato della casa e poi salirono al primo piano. Durante il tragitto Cathleen lo aveva anche affiancato e gli aveva stretto il braccio, sussurrandogli qualcosa all’orecchio. Il sovrano aveva afferrato qualche parola, quel che bastava per capire che lo stava ringraziando per aver tenuto in ordine la stanza di sua madre.
«È un piacere, signorina. Ogni mattina raccolgo personalmente i fiori».
A quella risposta ad alta voce, Cathleen guardò Artù con la coda dell’occhio, rossa come un peperone, come se si vergognasse di sentire la mancanza di sua madre. Lui avrebbe voluto dirle che non c’era nulla di male, ma fu solo una delle tante considerazioni che non riuscì a farle.


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Capitolo 25
*** 25. The secret sharer - Part II ***




25. The secret sharer – Part II


«Ah».
Cathleen si bloccò di fronte alla porta che le aveva appena indicato Freddie, con una smorfia sul viso.
«Se desidera una stanza in particolare...», iniziò a dire il domestico, ma il paramedico scosse il capo con finta noncuranza e lo ringraziò prima di entrare.
Sentì Artù seguirla all’interno e per spiegargli che cosa le era preso dovette raccogliere tutto il coraggio che le era rimasto dopo il racconto sull’incidente di sua madre.
Fece un mezzo giro su se stessa con le braccia aperte e si fermò solo quando fu di fronte all’ex re di Camelot; allora mimò un piccolo inchino, piegando appena le ginocchia verso terra, ed esclamò: «Benvenuto nella mia cameretta».
Lui si guardò intorno per una manciata di secondi, soffermandosi sulle bambole di porcellana in posa sulle mensole, sulle grandi vetrate che davano sulla piscina, sul dresser principesco e poi sulla grossa custodia di velluto blu posata accanto a due grossi armadi e un paravento. Quando finalmente tornò a concentrarsi su di lei, Cathleen rabbrividì per l’intensità con cui i suoi occhi blu la fissarono: ogni volta era come se il mare stesso le entrasse dentro, agitandosi e riportando in superficie emozioni che pensava di aver dimenticato.
«In questa stanza c’è così poco della Cathleen che conosco... Da bambina dovevi essere un’altra persona, prima che, insomma...».
«Oh no», lo interruppe, aiutandolo ad uscire dall’intricato groviglio in cui si era infilato. «Non sono cambiata a causa della morte di mia madre. Da bambina facevo quello che mi veniva detto di fare, reprimevo la vera me per non deludere papà. Crescendo, semplicemente, ho capito che non potevo continuare a fingere di essere quella che non ero: ho deciso di vivere la mia vita come volevo, ignorando ciò che era già stato deciso per me e prendendomi la responsabilità delle mie scelte».
Artù annuì con un sorriso mesto sul viso, come se sapesse fin troppo bene quello che aveva passato prima di fare ciò che le diceva il cuore – di essere un po’ di più figlia di sua madre – ma non fece in tempo a dire nulla che Freddie richiamò la loro attenzione, come se fosse di fretta.
«Signor Pendragon, posso mostrarle la sua stanza?».
Artù la guardò chiedendole cosa fare e Cathleen rispose: «Sì, certo, andiamo».
Per il paramedico in realtà fu un sollievo chiudersi fuori da quella stanza ricca di ricordi, quella stanza che l’aveva vista crescere e cambiare, ridere e piangere, amare e odiare. I muri erano stati ridipinti, i poster tolti, le bambole sostituite... Era come se quella camera fosse stata riportata all’origine, a quando lei era una bambina; la sua adolescenza era stata cancellata, come se lei fosse scappata con Zach a quindici anni – l’età in cui era iniziata la sua ribellione – e non a diciannove.
Non capiva perché Freddie aveva voluto prepararle proprio quella stanza. Pensava davvero che ci avrebbe passato la notte? Forse stava perdendo il tocco, se non addirittura qualche rotella.
«Eccoci, questa è la sua stanza», annunciò il maggiordomo una volta raggiunta la fine del corridoio, voltandosi verso la porta alla sua sinistra. Cathleen sapeva che quella sarebbe stata la camera di Artù ancor prima che Freddie togliesse ogni dubbio, dato che quella di fronte apparteneva ad Ash. Il fatto che fossero dirimpettai la fece sorridere in silenzio.
Entrarono in quella che era solo una delle varie stanze degli ospiti disseminate per tutta la residenza, fatte con lo stesso stampino: una zona notte con letto kingsize, un piccolo soggiorno con un paio di poltrone e un tavolino e infine il bagno, grande il triplo di quello del suo appartamento.
Il domestico spiegò sbrigativamente ad Artù che se aveva bisogno di qualcosa lui era a sua completa disposizione e si dileguò. Cathleen gli diede un poco di vantaggio, poi si scusò con il sovrano e gli corse dietro.
«Freddie!», lo chiamò a pieni polmoni.
Questo si fermò ed irrigidì le spalle, per poi rilassarle subito dopo e voltarsi con il solito volto inespressivo. «Sì, signorina?».
«Dov’è che vai così di fretta?», gli domandò.
Incredibile ma vero, a quella domanda il viso del domestico perse un po’ della sua compostezza e i suoi occhi furono attraversati da un lampo di insicurezza.
«Sputa il rospo, Freddie», lo esortò la rossa, incrociando le braccia al petto.
Il maggiordomo non poté far altro che confessare: «Sto andando da suo padre, signorina. È ora che prenda le medicine».
Cathleen incassò il colpo senza fare una piega, nonostante avesse sentito una crepa aprirsi nel suo petto. Quindi annuì con determinazione, esclamando: «Ti accompagno».
«È sicura, signorina?».
«Via il dente, via il dolore», rispose scrollando le spalle, ma la verità non poteva essere più diversa: temeva il momento in cui avrebbe incrociato lo sguardo severo di suo padre, temeva di non reggere alla pressione, e avrebbe voluto Artù al suo fianco, proprio come aveva avuto Zach quando aveva deciso finalmente di scappare dalla gabbia dorata in cui l’aveva rinchiusa. Purtroppo però non sarebbe accaduto: era una cosa che doveva fare da sola, una volta per tutte.
Dopo un profondo respiro, disse: «Vado ad avvisare Artù. Tu aspettami qui».
Freddie annuì e Cathleen tornò nella stanza degli ospiti che era stata preparata per il re di Camelot.
«È tutto okay?», fu la prima cosa che le chiese quando la vide entrare con le mani nelle tasche dei pantaloni stretti, dalla fantasia camouflage, e le spalle sollevate a nascondere il collo, come se si aspettasse da un momento all’altro un colpo alle spalle.
Sorrise teneramente, rendendosi conto di tutto il tempo che era passato da quando qualcuno era riuscito a capire i suoi stati d’animo solo guardandola, a vedere la realtà sotto la maschera che indossava spesso e volentieri.
«Accompagno Freddie da mio padre», affermò, cercando però di convincere se stessa a farlo veramente.
Artù si avvicinò e le posò le mani sulle braccia, facendole scorrere lentamente verso le spalle. Le davano i brividi, le sue carezze e i suoi fottuti occhi blu.
«Vuoi che venga con te?», le domandò con un sorriso.
Le ci volle molta forza di volontà per tener fede al proprio proposito e negare con un cenno del capo.
«Tranquillo, starò bene», lo rassicurò, stirando un pallido sorriso che lui ricambiò, sollevando una mano per accarezzarle la guancia. Il pollice esitò sull’angolo della sua bocca e Cathleen chiuse gli occhi, mormorando: «Hai intenzione di baciarmi oppure no?».
Sentì il respiro di Artù farsi più vicino, ma dopo qualche secondo di attesa aprì un occhio per sbirciare: erano lì, i suoi occhi blu come il mare, probabilmente divertiti dal suo broncio. Anche la sua bocca rideva silenziosa quando le disse: «Non stai andando in battaglia».
Lo vedremo, pensò Cathleen, abbassando gli occhi proprio mentre Artù le concedeva un bacio delicato sulla fronte, aggiungendo: «Ci vediamo dopo».
Cathleen avrebbe voluto mostrarsi più infastidita con lui, invece di dover trattenere una risata intrisa di gratitudine tra i denti. Gli diede le spalle e sulla porta si voltò a guardarlo un’ultima volta, poi accennò una corsetta per raggiungere nuovamente Freddie.

***

Cathleen era andata via da qualche minuto e Artù aveva giusto iniziato a prendere confidenza con la sua stanza, guardando i quadri raffiguranti laghetti abitati da rane e ninfee e tastando il materasso, quando ricevette un SMS da Merlino, un semplice: “Tutto bene?”.
Artù, inconsapevolmente, accennò un sorriso: lo stregone non poteva fare a meno di preoccuparsi per lui, l’aveva fatto sin dal primo giorno, e lui non si sarebbe mai sdebitato abbastanza.
Il sentimento di gratitudine che provava mentre rispondeva però venne affiancato pian piano dall’irritazione: non poteva continuare così per sempre, doveva fargli capire che prima o poi avrebbe dovuto lasciarlo andare, prendersi più cura di se stesso che di lui. Ma come?
Si lasciò cadere supino sul letto, senza vedere realmente lo stucco in stile barocco che ornava il soffitto, col cellulare posato sullo sterno. Si era completamente dimenticato del messaggio ora e per un attimo si dimenticò persino dov’era, tanto che fu Ash a riportarlo alla realtà.
«Ehi, bel manzo».
Artù corrugò la fronte e si sollevò sui gomiti, trovando il fratellastro di Cathleen appoggiato allo stipite della porta con una spalla e i capelli neri ancora un po’ umidi che gli incorniciavano il viso, arrivandogli quasi alle spalle, mentre un ciuffo gli sfiorava le sopracciglia sottili.
Quel ragazzo androgino aveva uno strano fascino, cupo ed intimidatorio. Gli ricordava moltissimo Morgana.
«Posso entrare?», gli domandò ad un tratto, ma non aspettò la sua risposta e lo raggiunse sul letto, gettandosi a pancia in giù al suo fianco, talmente vicino che per Artù, il quale non era mai stato un fan del contatto fisico tra uomini, specialmente se sconosciuti, fu automatico spostarsi di lato di qualche centimetro.
Ash se ne accorse e sogghignò, esclamando: «Cos’è, ti faccio paura?».
«No», rispose.
Da quella distanza, i suoi occhi erano ancora più ipnotici.
«Bene, perché di solito non mordo. Lo faccio solo se qualcuno mi fa arrabbiare o in un altro frangente che, dai, non sto a spiegarti».
Il sovrano si sforzò per non imbarazzarsi a quell’allusione e dopo essersi schiarito la gola chiese: «Hai bisogno di qualcosa?».
«Dritto al punto, eh? Mi piace». Sorrise incrociando ancora una volta il suo sguardo, si sollevò e si sedette a gambe incrociate, battendo i palmi delle mani sulle ginocchia ossute.
«Okay. Sono quasi convinto che Freddie ti abbia sistemato in questa camera per un motivo; riesci ad immaginare quale?».
Artù ci pensò su e prima che potesse giungere ad alcuna conclusione, Ash gli spiegò con aria annoiata: «Devo tenerti d’occhio, ovviamente, e scoprire che intenzioni hai con Cath. Ma perché invece non ci veniamo incontro? Risolviamo la cosa velocemente».
Gli piaceva il modo di fare di quel ragazzo ed era contento che ci fosse ancora qualcuno, della sua famiglia, che si preoccupasse per lei. Ciò nonostante, non voleva dargliela vinta troppo facilmente: che cosa ci avrebbe guadagnato lui, confessandogli tutti i suoi sentimenti per Cathleen? Forse il suo interesse poteva diventargli utile, se non addirittura vantaggioso.
«Va bene, ci sto», esclamò, ricambiando il sorriso sghembo di Ash. «Ad una condizione».
Il ragazzo si imbronciò, somigliando ancora di più ad un bambino, e Artù dovette trattenere una risata genuina, anche se singhiozzante: anche Morgana, da piccola, reagiva in quel modo se non veniva accontentata. Poi aveva capito che il metodo più efficace per ottenere qualcosa era semplicemente andare a prendersela, con le sue sole forze. Mai, mai avrebbe immaginato che quella stessa determinazione l’avrebbe portata un giorno a rivoltarsi contro Camelot, contro suo padre, contro di lui.
«Allora? Vuoi dirmi o no qual è questa condizione?», ripeté scocciato Ash.
Artù si scrollò di dosso tutti i rimpianti e si tirò su seduto perché i loro sguardi si intrecciassero. Con tono serio, quasi inquisitorio, esclamò: «Voglio sapere perché Cathleen è andata via di casa e tu sei rimasto qui».
Gli occhi di Ash si oscurarono, diventando dello stesso colore plumbeo del cielo notturno illuminato all’improvviso da una saetta. Artù temeva di aver osato troppo e che il ragazzo abbandonasse lo scambio, ma non lo fece.
Irrigidendo le spalle, spiegò atono: «Quando Cath è andata via io avevo dodici anni e come minore ero sotto la tutela di mia madre; non poteva di certo portarmi con sé e non penso abbia mai preso in considerazione di farlo, a quell’età. Le è dispiaciuto lasciarmi, ne sono sicuro, ma... aveva Zachary. Voleva passare il resto della sua vita con lui, fuori da queste mura, e costruire qualcosa di loro».
«Lei ha detto che è stata una tua scelta».
Ash si passò le mani sul viso, sospirando frustrato. «Perché diamine vuoi sapere queste cose? Non ha alcuna importanza!».
«Ne ha, per me». Ed era vero. Aveva riscontrato fin troppe somiglianze tra la sua famiglia e quella di Cathleen ed uno dei tanti sassolini che voleva togliersi dalle scarpe era proprio capire che cosa fosse andato storto. E perché no, se se ne fosse presentata l'occasione, avrebbe voluto dare una mano per fare in modo che la famiglia Shaw non si sfaldasse come era successo ai Pendragon.
«Ascolta», aggiunse, continuando a fissare gli occhi ora lucidi del ragazzo. «Anche io avevo una sorellastra e nonostante l’amassi... tra noi non è andata a finire bene. Avrei voluto fare di più per lei, starle più vicino, capire ciò che le passava per la testa, ma non l’ho fatto. È una delle cose che non mi perdonerò mai».
«Non mi interessa», esclamò Ash, quasi ringhiando. «Cathleen ha scelto di andare via, di farsi una nuova vita con la sua anima gemella e non la biasimo per questo, anzi la ammiro. Quando Zach è morto e lei ha perso il bambino le ho chiesto di tornare qui, per non stare da sola, ma lei mi ha risposto che se le volevo bene non avrei mai dovuto chiederle una cosa simile, ma piuttosto offrirmi di raggiungerla. Io non l’ho fatto».
Artù non se lo aspettava. Scioccato, riuscì a pronunciare solo una parola: «Perché?».
«Perché non potevo colmare il vuoto lasciato da Zach, semplicemente! Era anche un mio amico, sai?».
Ormai era sul punto di lasciar scorrere le lacrime, ma il suo orgoglio impediva loro di superare la barriera delle ciglia.
«E poi, quando ho compiuto diciott’anni, l’ho delusa di nuovo, rimanendo qui. Pensava che avrei seguito il suo esempio, che avrei lasciato questo posto per incominciare una nuova vita, ma la verità è che non voglio andarmene. Perché dovrei?». Scoppiò in una risatina isterica, aprendo le braccia ad indicare tutto ciò che li circondava. «Qui ho tutto quello che mi serve, senza alcuna fatica. E da quando il vecchio è intrappolato nelle sue stanze, è tutto ancora più facile: faccio quello che mi pare, quando mi pare».
«Ma in questo modo è come se fossi anche tu intrappolato qui, senza nulla di tuo nel mondo», ribatté Artù, irritato dal tono arrendevole di Ash, come se non ci fosse nulla per cui valeva la pena di lottare.
Anche lui aveva avuto una vita agiata, ma aveva dovuto impegnarsi per migliorare il regno lasciatogli da suo padre e rendersi valido agli occhi del popolo, per diventare il re giusto e tanto amato che ora quasi tutti reputavano una leggenda. Qualcosa di lui era rimasto nei secoli, una specie di lascito, e non poteva credere che Ash non volesse altrettanto.
«Non me ne frega niente!», urlò di nuovo il ragazzo e, confermando la sua ipotesi, indicò fuori dalle grandi finestre per spiegare: «Che senso ha cercare un posto nella società, se poi basta un niente a distruggere tutto quanto e a cancellarti dalla faccia della Terra?».
Di nuovo, il ricordo di Zachary gravava sulle loro spalle, specialmente su quelle strette ed  appuntite di Ash, così fragili. Come quelle di Merlino.
Artù vi posò sopra le mani, stringendole piano ma con decisione. «Non puoi lasciare che la vita ti passi accanto: questo non è vivere, è esistere, e tu meriti di più».
«Che ne sai tu di che cosa merito?», gli domandò Ash con poca voce, senza riuscire più a trattenersi: una lacrima gli scivolò sul viso, soffermandosi poi sotto il suo mento.
Artù gli rivolse un sorriso sincero. «Niente. Però vuoi bene a Cathleen e anche lei te ne vuole, e questo mi basta per essere certo che ti meriti qualcosa di speciale. Se Zachary fosse qui, sarebbe d’accordo con me».
Quell’ultima frase fu in grado di far reagire Ash, il cui volto diventò paonazzo; le lacrime iniziarono a scendere copiose, una dietro l’altra, come un fiume in piena. Alla fine, aveva osato troppo.
«Non parlare di lui come se lo conoscessi!», latrò con la voce graffiata dal dolore. «Tu non hai idea –! Vaffanculo!». Fu persino sul punto di sollevare un pugno per colpirlo sul naso, quando ricalcolò le possibilità di successo e saltò semplicemente giù dal letto per correre fuori dalla sua stanza per chiudersi a chiave dentro la propria.
Artù si alzò sbuffando, dandosi dello stupido per aver nominato ancora una volta l’ex-fidanzato di Cathleen, e raggiunse la porta bianca. Solo quando aveva già bussato una dozzina di volte, realizzò che la reazione di Ash era un tantino esagerata. Insomma... era l’ex-fidanzato di Cathleen, non suo. Anche lui aveva perso moltissimi amici, alcuni al suo fianco sin dall’infanzia, ma non aveva mai reagito così. Solo per due persone aveva pianto: suo padre e il suo amore, Ginevra.
Un sospetto iniziò ad insinuarsi nella sua mente, tanto sconvolgente che rimase col pugno sollevato in aria, a pochi centimetri dalla porta. Ora tutte le allusioni e i commenti che aveva pensato di fraintendere avevano acquistato un senso. Ash era gay ed era sempre stato innamorato – lo era tutt’ora – di Zachary. Lo amava e soffriva della sua mancanza tanto quanto la sua sorellastra.
«Mi dispiace, io non… non lo sapevo», riuscì a mormorare, prima di voltarsi per tornare nella sua stanza.
Era già dentro il rettangolo della porta, quando sentì la serratura di quella di Ash scattare. Il ragazzo uscì e non lo guardò fino a quando non si fu lasciato scivolare sul pavimento del corridoio, con la schiena addossata alla parete.
«Come avresti potuto?», gli domandò, retorico. «Nessuno lo sa, nemmeno Cathleen». Lanciandogli un’occhiata tagliente, inspiegabilmente ancora più efficace a causa delle lacrime, lo minacciò: «E non dovrà mai saperlo, intesi?».
«Hai la mia parola», rispose Artù.
Si sedette di fronte a lui, chiedendosi perché si fosse lasciato scappare un segreto così grande con un perfetto sconosciuto. Forse perché era più facile: non si aveva paura di venire giudicati, di provocare delusione o vergogna.
Ash non dimostrava la sua vera età – se non aveva fatto male i calcoli, aveva ventidue anni – e sembrava ancora di più un ragazzino col volto arrossato e rigato dalle lacrime e le braccia avvolte intorno alle gambe, le ginocchia strette al petto scheletrico. Provò l’istinto di abbracciarlo, di dirgli che tutto sarebbe passato, ma sapeva che non l’avrebbe fatto: non era da lui e, cosa più importante, Ash l’avrebbe preso sul serio a pugni in faccia se solo si fosse avvicinato con quelle intenzioni.
La curiosità però l’ebbe vinta e Artù chiese: «Com’è potuto accadere?».
Ash parve infastidito da quella domanda, eppure rispose con calma e precisione, quasi come se fosse una storia che aveva visto svolgersi di fronte ai suoi occhi, da spettatore, e lui non fosse stato uno dei protagonisti.
«Come saprai, o probabilmente no, Cathleen e Zachary si sono conosciuti  quando erano due ragazzini: lei aveva sedici anni ed era nel pieno della sua ribellione, come ogni bravo adolescente della sua età. Odiava suo padre e faceva di tutto per farlo infuriare: si truccava pesantemente, indossava jeans strappati o gonne cortissime, beveva i suoi alcolici, fumava di fronte a lui, ascoltava sempre la musica a tutto volume, saltava spesso scuola, usciva nel cuore della notte per andare chissà dove… Io l’ammiravo moltissimo, mi sentivo così fortunato ad avere una sorella così bella e forte, rispettosa solo della propria libertà. Io la pregavo di portarmi con lei in ogni sua spedizione alla scoperta del mondo e spesso mi accontentava. Rubava la bicicletta di Freddie – la lasciava sempre senza lucchetto, quasi come se volesse che la prendessimo – e Cath mi faceva sedere sulla canna, tra le sue braccia. Mentre attraversavamo il parco, il ponte e la cittadina, col vento tra i capelli, riuscivo a capire perfettamente perché le piacesse tanto la libertà. Mi sentivo leggero, felice, e non avevo mai la sensazione di essere un peso, un fardello di cui volersi liberare, al contrario di quando stavo in compagnia di mia madre e dei suoi precedenti fidanzati: ero il bambino che non sarebbe dovuto nascere, un errore di una notte, e anche se non l’ha mai detto a voce alta sono certo che ogni tanto lo pensasse, glielo leggevo negli occhi… Con Cath ero l’Ash vivo e amato.
«Un pomeriggio Cathleen disse a suo padre che sarebbe uscita per andare al negozio di musica: era uscito l’ultimo CD di una delle sue band preferite e doveva assolutamente comprarlo. Lui, che amava solo la musica classica, le aveva proibito di uscire e aveva rincarato la dose affermando che avrebbe chiamato il suo docente di violoncello per una lezione extra. Lei odiava le lezioni di violoncello, non scherzo: trovava quasi sempre il modo di saltarle. Però lo strumento in sé non le dispiaceva, anche se non l’ha mai ammesso. Qualche volta mi è capitato di sentirla suonare, da sola nella sua stanza, e aveva talento. Forse era per questo che suo padre si infuriava tanto, perché conosceva il suo potenziale. Ad ogni modo quando non riusciva a scappare si rifiutava di seguire gli spartiti che le mettevano di fronte e suonava ciò che le passava per la testa: motivi dei film, famosi pezzi rock… Lei lo faceva ancor prima dei 2Cellos, pensa un po’».
Artù sorrise, anche se non aveva la più pallida idea di chi o cosa Ash stesse parlando. Aveva solo intuito che la grande custodia affusolata che aveva visto nella stanza di Cathleen conteneva proprio quello strumento, il violoncello.
«Beh, Cath non si curava di ciò che le imponevano e come molte altre volte le era bastato correre più veloce della guardia del corpo che suo padre pagava profumatamente per non farla uscire dalla Residenza. Era una vera frana, il povero Hank, ma era anche vero che Cath ne sapeva una più del diavolo. Era intelligente e testarda quanto suo padre, mentre da sua madre aveva ereditato la bellezza e il desiderio di libertà, ma non solo. Nel suo sangue c’era anche un po’ della sua pazzia, anche se in dosi molto minori». Le labbra di Ash si arricciarono all’improvviso in un sorriso divertito. «Lo sai che una volta per uscire di casa si è buttata giù da una finestra? Quella volta l’aveva fatta grossa, disegnando baffi, occhiali o denti sporgenti a tutti i ritratti degli antenati di suo padre, e Hank, mia madre, persino io e Freddie, le eravamo corsi dietro per evitare che il signor Shaw le facesse del male nel caso in cui fosse riuscito ad acchiapparla. Fino a quel momento non l’aveva mai picchiata sul serio, ma temevamo che un giorno potesse perdere le staffe, visto anche che le elevate dosi di medicine che prendeva per l’agorafobia non lo rendevano tanto lucido. Abbiamo corso per non so quanto, per i corridoi del primo e del secondo piano... Ricordo solo che avevo la gola in fiamme e avevo paura per la mia sorellona, perché alla fine si è ritrovata in un vicolo cieco e suo padre iniziò a ridere, certo che quella volta la vittoria fosse sua. Cath si è voltata verso di noi, lentamente, e sorridendo disse una frase che mi rimarrà sempre in testa, tanto ero eccitato e allo stesso tempo terrorizzato. Disse: “Voi potrete rinchiudere anche il mio corpo tra queste mura, ma non avrete mai la mia anima”. Dopodiché aprì la finestra alle sue spalle, scavalcò rapidamente la ringhiera e si buttò di sotto».
Artù sgranò gli occhi, incredulo. «Si è fatta tanto male?», gli chiese poi, smanioso che continuasse subito con il racconto.
Ash sorrise, come se si fosse aspettato quella domanda e si fosse preparato in anticipo la risposta perfetta. «Nemmeno un graffio», esclamò, entusiasmato dal colpo di scena. «Vedi, mentre correvamo eravamo così concentrati a non perdere di vista Cathleen che non avevamo badato al senso dell’orientamento. Quando l’abbiamo vista tuffarsi nel vuoto abbiamo gridato tutti quanti, disperati che alla fine la pazzia della madre l’avesse contagiata del tutto. Avevamo fatto così tanto frastuono che non avevamo nemmeno sentito lo splash». Rise, con la nuca posata sul muro e la gola candida esposta, per poi gettare uno sguardo verso la finestra. «Cathleen era perfettamente consapevole invece che sotto di lei ci fosse la piscina e ha solo voluto farci spaventare, oltre che mettersi in mostra.
«Quando sono corso alla finestra, l’ho vista nuotare verso la sponda più lontana, coi vestiti fradici e i capelli incollati al viso, e quando mi ha fatto l’occhiolino mi sono sentito sia orgoglioso che invidioso di lei, perché sapevo che io non avrei mai avuto il coraggio di farlo. Poi mia madre le ha tirato dietro una ciabatta e tutta la poesia svanì, proprio come Cathleen. Tornò all’alba e ovviamente non disse a nessuno dove fosse andata, anche se io lo sapevo fin troppo bene: era stata con Zach».
Artù non voleva risultare scortese o troppo impaziente, ma non riuscì proprio a tenere a freno la lingua: «A proposito di Zach, mi stavi raccontando come si sono conosciuti».
«Già», mugugnò Ash, tornando a stringersi le gambe al petto. «Dov’ero arrivato?».
«Al punto in cui voleva andare a comprare il CD e suo padre gliel’aveva proibito».
«Ah, sì. Come al solito, Cath è riuscita ad uscire di casa e io l’ho raggiunta al ponte dopo un po’, dicendo a mia madre che andavo a giocare in giardino. Siamo andati al negozio di musica e quando abbiamo chiesto il CD al commesso, ci disse che aveva ricevuto solo un paio di copie e le aveva già vendute tutte, l’ultima proprio pochi minuti prima, al ragazzo che avevamo incrociato sulla porta e che ora mostrava il proprio trofeo ai suoi amici, in sella ai loro motorini. L’espressione sul volto di Cathleen mi spezzò il cuore e per una volta nella mia vita volli essere tanto coraggioso e pazzo quanto lei: senza farmi vedere da lei sgattaiolai fuori dal negozio e raggiunsi il gruppetto di ragazzi. Mentre spiegavo quello che volevo, sforzandomi di non balbettare, loro mi guardavano con un misto di repulsione e pena, ridendomi in faccia. Tutti tranne uno, il ragazzo che aveva acquistato l’ultima copia del CD: Zachary. Non so se a nove anni sapevo già di essere gay, ma ricordo perfettamente quello che pensai quando si inginocchiò di fronte a me, in modo che i nostri sguardi fossero alla stessa altezza; pensai che fosse il ragazzo più bello del mondo, con quei suoi occhi blu elettrico e i capelli a spazzola con un ciuffo più lungo color rosso fuoco».
«Non era verde?», gli domandò Artù, interrompendo la sua descrizione.
Ash lo guardò aggrottando le sopracciglia, forse chiedendosi dove potesse aver visto una foto di Zachary. Quando ci arrivò, rispose semplicemente: «Si è tinto quel ciuffo di quasi ogni colore, dipendeva dal momento. Quando è morto il verde si stava già scolorendo: aveva deciso di non tingersi più, di fare la persona seria per suo figlio».
Artù ricordava che Cathleen gli aveva detto più o meno la stessa cosa, al cimitero: entrambi avevano deciso di smetterla coi pericoli, di sposarsi e vivere tranquillamente, come la più ordinaria delle famiglie.
«Comunque sia», riprese Ash, schiarendosi la gola. «Per me Zach aveva l’aspetto di un angelo caduto, con quel suo sorriso dolce che poteva trasformarsi in un sogghigno beffardo quando meno te l’aspettavi. In ginocchio di fronte a me, aveva appena aperto la bocca per parlare, con un occhio chiuso come se con l’altro mi stesse mettendo meglio a fuoco, quando Cathleen mi afferrò per le spalle e mi tirò indietro, scusandosi coi ragazzi. Iniziò a trascinarmi verso l’altro lato della strada, col capo chino e le labbra strette tra loro, e io non riuscivo a credere che la mia sorellona fosse capace di sentirsi in imbarazzo. Esterrefatto com’ero, non mi ero nemmeno accorto che Zachary ci aveva inseguito, scatenando le risate di tutti i suoi amici. Si piazzò di fronte a noi e finalmente potei sentire la sua voce, roca come quella di un fumatore incallito e allo stesso tempo carezzevole, avvolgente…».

«Ci siamo già visti da qualche parte?».
Cathleen si fermò di colpo per non andare a sbattere contro il petto del ragazzo, più alto di lei di una spanna, e Ash dovette fare di conseguenza, trovandosi stretto tra loro, come un hamburger in mezzo a due fette di pane.
«Hai un’aria familiare…», aggiunse il ragazzo, stringendo un occhio come aveva fatto poco prima con Ash. «Frequentiamo la stessa scuola?».
Cathleen intercettò per un attimo il suo sguardo, dandogli la conferma che voleva.
Sorridendo, il ragazzo le porse una mano. «Io sono Zachary. Zach per gli amici».
Vedendo la sorella esitare, Ash decise ancora una volta di agire per conto suo ed esclamò con tono orgoglioso: «Lei si chiama Cathleen».
Subito le dita della ragazza si artigliarono sulle sue fragili spalle, facendogli male, e Ash capì di aver commesso un errore non appena si rese conto della reazione di Zach, il quale arricciò il naso in una smorfia di disprezzo e ritirò la mano, chiedendo: «Quella Cathleen? La figlia di Shaw? Lo sai che il mese scorso, e quello prima ancora, stavamo quasi per essere sfrattati per colpa sua? Qualcuno deve spiegargli che alla gente normale i soldi non escono dal culo».
Si voltò un attimo per guardare verso la collina su cui si ergeva il maniero e quando tornò a guardare verso di loro, la rossa era finalmente pronta ad affrontarlo, nonostante le sue guance si fossero abbinate ai capelli.
«Sì, abito lassù», rispose. «Ma non c’è niente che mi accomuni a mio padre. Se vuoi la verità, lo odio quanto tutti voi».
Zachary la fissò con gli occhi sgranati per la sorpresa, ma non fu del tutto convinto della sua confessione. Si allontanò di un passo e senza degnarla più di uno sguardo si inginocchiò di nuovo di fronte ad Ash. Tirò fuori il CD dalla borsetta a tracolla e glielo sventolò sotto al naso.
«Sei stato molto coraggioso a venire da me da solo per questo. Devi volerle molto bene, uh?».
Ash sorrise a trentadue denti ed annuì, portando le mani su quelle di Cathleen. «La mia sorellona è la migliore. È… speciale».
«Ah sì?», le gettò una rapida occhiata di sottecchi e si alzò, scompigliando i capelli al bambino. Sorridendo, aggiunse: «Staremo a vedere».
Quindi si allontanò a grandi falcate, tornando verso la sua compagnia.

«Ehi!», gli gridò dietro Cathleen, preoccupata. «E questo cosa vorrebbe dire?».
Ma Zachary non rispose; si limitò a saltare sul suo motorino truccato e a sparire dietro l’angolo, lanciando loro un’ultima occhiata ridente.

«Cathleen mi raccontò che il lunedì successivo, a scuola, non poté evitare di incrociare lo sguardo di Zach. Sembrava quasi che la stesse aspettando, seduto sulle gradinate all’ingresso. Le diede il CD, dicendole soltanto che lo rivoleva indietro non appena avesse finito di ascoltarlo. Cathleen pensava che avrebbe dovuto restituirglielo a scuola, ma all’interno della custodia trovò un biglietto con un indirizzo. L’aveva invitata a casa sua.
«Io so solo quello che lei mi raccontava, perciò non so dirti se successe dell’altro quella sera. Cathleen uscì poco dopo cena, passando attraverso gli alloggi dei domestici, e andò all’indirizzo segnato sul foglietto. Si trattava di una piccola casa in mattoni, subito prima del ponte che segnava l’inizio e la fine delle proprietà della famiglia Shaw. Cathleen si affacciò ad una delle finestre sulla facciata e vide Zach e sua madre seduti a tavola, intenti a cenare. Stavano guardando un quiz in TV e ridevano. È una cosa che Cathleen continuava a ripetermi, quando me l’ha raccontato. Ridevano. Ridevano anche se ogni mese rischiavano lo sfratto, anche se i piatti che avevano davanti erano sbeccati, anche se il segnale della televisione era disturbato. Ridevano ed erano felici perché erano insieme, ed era l’unica cosa che contava. Qui avevamo tutto, ma non eravamo mai stati così felici. Cathleen mi disse che l’ultima volta che aveva visto suo padre ridere era stato ancor prima che sua mamma morisse.
«Ad ogni modo lei non trovò la forza per bussare alla porta e fu Zachary ad andare da lei. Quando uscì per fumarsi una sigaretta, la trovò seduta sotto la finestra, con il viso nascosto tra le braccia, e le porse semplicemente una mano. Cathleen fece per restituirgli il CD, ma Zach la fece alzare e la condusse all’interno della casa, dove conobbe sua madre, una persona squisita. Era rimasta incinta da ragazza e il padre di Zach non aveva voluto saperne, li aveva abbandonati al loro destino. La donna non fu sorpresa di vedere Cathleen e la invitò ad unirsi a loro per il dolce. Lei provò a rifiutare – si sentiva estremamente a disagio – ma alla fine si ritrovò seduta accanto a Zach, davanti ad una fetta della torta di mele più buona che avesse mai assaggiato. Passò una delle serate più felici e spensierate della sua vita e quando fu l’ora dei saluti avrebbe voluto chiedere se poteva tornare, ma non lo fece, certa che Zach non si sarebbe mai interessato ad una come lei. Ovviamente si sbagliava, ma ci volle del tempo prima che se ne rendesse conto.
«Da quel giorno Cathleen cambiò: celò tutto il rancore che provava per suo padre, facendo buon viso a cattivo gioco. Si interessò alle proprietà, portandolo a credere che fosse rinsavita all’improvviso e volesse dimostrarsi una degna erede del suo piccolo impero. In realtà tutto ciò che le interessava era rendere migliore la vita di tutte le persone che vivevano nelle loro case, quella di Zach in primis. Riuscì a convincere suo padre a farle fare una specie di stage dal contabile che gestiva i loro contratti e più di una volta finse di aver ricevuto l'autorizzazione per far apportare alcune modifiche alle case: sistemò le antenne, gli impianti di riscaldamento, truccò anche le scadenze dei pagamenti. Mantenere quella facciata di brava figlia di papà le costava un’immensa fatica: faceva tutto quello che lui le imponeva – andava regolarmente a scuola, si vestiva in modo sobrio e non si truccava… era persino tornata a suonare il violoncello! – e non lo contraddiceva mai, nemmeno quando la scambiava per Helena.
«I suoi sforzi però la ripagarono, perché Roger le permise di mettere di nuovo mano sul suo conto bancario, quello destinato al suo futuro, e soprattutto la riavvicinarono a Zachary. All’inizio non fu facile: lui si arrabbiò moltissimo, sosteneva che non l’aveva invitata a casa sua per farle compassione e non voleva essere in debito con lei. Cath, quella tonta, non capiva il vero motivo per cui l’aveva fatto e non glielo chiese, rispondendogli a tono che era intervenuta solo perché era la cosa giusta da fare, e aveva atteso anche troppo. Comunque Zach si intestardì e fu così che le chiese di uscire per la prima volta. Non fu nulla di che: le offrì un panino e una birra, ma quando tornò a casa Cathleen aveva il sorriso più bello e felice del mondo».
Ash si fermò, gli occhi fissi su un punto indefinito sulla parete, poco sopra la testa di Artù. I ricordi però continuavano a scorrere dietro i suoi occhi malinconici e il sovrano avrebbe voluto conoscerli tutti, ma sapeva che se lo avesse forzato avrebbe ottenuto l’effetto contrario.
Il moro si portò all’improvviso le mani sul volto, forse per impedirgli di vedere le lacrime che gli avevano inumidito gli occhi.
«Non so come sia successo», mugugnò da dietro la barriera delle dita. «Non c’era coppia più perfetta di loro, erano l’uno la metà dell’altro… E c’erano dei giorni in cui io li odiavo, perché… perché era grazie a me che si erano conosciuti e anche io meritavo qualcosa di così speciale. Ma tutto ciò che ottenni fu un fratello maggiore che non volevo ma di cui avevo un disperato bisogno. Potevo sopportare che mi trattasse come se fossi sangue del suo sangue, che baciasse Cathleen di fronte ai miei occhi, ma non potevo assolutamente allontanarlo da me, anche se, col senno di poi, mi sarei evitato altro male. Allora non capivo ancora quanto e soprattutto in che modo tenessi a Zach, ma di una cosa sono certo: quando la diciottenne Cathleen mi confidò che tramite un legale era riuscita a trasferire in un conto a suo nome, assolutamente intoccabile per suo padre, abbastanza soldi per potersene andare ed iniziare una vita con Zachary, io… io diedi di matto. Chiamai immediatamente Zach e gli chiesi se poteva raggiungermi ai frangiflutti. Lui e Cath si erano appena messi insieme quando mi portò lì per la prima volta, a pescare granchi. Avevo nove anni». Ash si tolse le mani dal viso su cui aleggiava un sorriso umido quanto i suoi occhi. «Eppure me lo ricordo come fosse ieri. Due anni più tardi, in quello stesso posto, capii che cosa voleva dire amare una persona. Quello che provavo per Zachary era un amore puro, ingenuo… nulla a che vedere con la sessualità. L’unica cosa che sapevo perfettamente era che non potevo stare senza di lui, proprio come non potevo stare senza Cathleen. Era il mio migliore amico, il padre che non avevo mai avuto, e qualche anno dopo divenne anche l’ossessione della mia pubertà.
«Alla nostra spiaggia, Zachary mi promise che ci saremmo visti ancora, che quando sarebbero passati a salutare sua madre sarebbero passati anche da me. Mantenne la sua promessa – lo faceva sempre – e ogni volta per me era come morire e rinascere contemporaneamente, ma in qualche modo riuscii a nascondere a tutti il mio amore per lui, almeno fino al giorno del mio quindicesimo compleanno. Quella sera stavo peggio del solito e nonostante sapessi che Cathleen aveva organizzato qualcosa per festeggiare, mi nascosi ai frangiflutti, dove solo Zachary sarebbe venuto a cercarmi».

Ash sentì il rombo di una moto avvicinarsi e sollevò gli occhi verso la strada, dove scorse la figura esile e snella di Zachary scendere dalla sella e togliersi il casco. Come aveva immaginato, era solo.
Scivolò sulla sponda di sabbia ed erba secca e lo raggiunse spolverandosi i jeans strappati. Quando fu ad un passo da lui, in bilico sui frangiflutti, lo prese per i capelli e tirandogli indietro il capo esclamò a denti stretti: «Dammi un valido motivo per cui non dovrei prenderti a calci in culo. Conterò fino a tre: uno…».
Ricacciando indietro le lacrime per il dolore dovuto alla stretta vigorosa di Zachary, Ash rispose con voce atona: «Non c’è nulla da festeggiare».
Il ragazzo strinse un occhio, inquadrandolo meglio nel proprio mirino. «Due…».
«La mia vita fa schifo, vorrei non essere mai nato!».
«Tr-».
«E amo una persona che non potrò mai avere!», urlò interrompendo l’implacabile conteggio di Zachary. Urlò così forte che persino le onde parvero ritirarsi.
L’espressione ferita negli occhi di Ash colpì così tanto il motociclista che allentò la presa sui suoi capelli, una mossa che permise al ragazzino di alzarsi e spintonarlo via da sé, tanto bruscamente da fargli quasi perdere l’equilibrio sulle rocce. All’ultimo momento però Ash gli afferrò la mano e lo salvò da un bel bagno, mentre le sue guance si infiammavano per l’imbarazzo. Cercò di interrompere nel più breve tempo possibile quel contatto, ma non ci riuscì: Zachary tenne stretta la sua mano e con l’altra gli prese il mento e lo costrinse a sollevare gli occhi nei suoi.
«Io amo tua sorella, Ash».
Quelle parole e tutti i loro sottintesi crollarono sulle esili spalle del ragazzino con tanta forza che temette di rimanerne schiacciato, come Atlante sotto il peso del mondo.
Non appena trovò il coraggio per aprire bocca, mormorò: «Tu lo sapevi».
«Ma certo che lo sapevo», replicò Zachary, sorridendo teneramente. «Non sono stupido, sai?».
«Da… da quanto?».
«Abbastanza per assicurarti che io non sarò di certo l’ultima persona di cui ti innamorerai».
Ash gli rivolse uno sguardo carico d’astio. «Come fai a dirlo? Cathleen non ha mai amato nessun altro al di fuori di te».
«Proprio per questo posso dirtelo per certo: io e lei ci apparteniamo l’un l’altro, siamo destinati a stare insieme, e nel mondo c’è qualcuno che è destinato a stare con te».
«Cazzate», sputò, scrollando il capo per liberarsi della sua stretta.
«È così, Ash, te lo posso assicurare. Noi siamo stati fortunati a trovarci».
«Cazzate!», ripeté rabbiosamente. «Non troverò mai una persona migliore di te, non la voglio!».
Nonostante gli desse le spalle, Ash riuscì ad immaginarsi il ragazzo stringersi nelle spalle ed abbassare il capo, senza sapere più che cosa dire per uscire da quella situazione. Alla fine qualcosa disse, la cosa peggiore: «Mi dispiace».
Ash si voltò di scatto e come una belva si avventò contro di lui, con una forza e una determinazione che rese praticamente inutile ogni tentativo di difesa da parte di Zachary. Caddero sulla passerella di cemento e rotolarono per un bel pezzo, graffiandosi e lasciandosi lividi su ogni parte del corpo. In tutto ciò, Ash gridava: «Non dire che ti dispiace! Non compatirmi! Perché sei sempre così giusto? Fottiti! Ti odio!».
Quando Ash ne ebbe abbastanza, sfinito e col viso rigato di lacrime, cadde sdraiato accanto a Zachary.
«Non è vero che ti odio», sussurrò guardando il cielo punteggiato di stelle.
«Lo so», rispose Zach. «Va meglio, ora?».
Ash lo guardò negli occhi e si rese conto che sì, stava davvero meglio, anche se sapeva che presto o tardi il dolore che tanto conosceva sarebbe tornato a tormentarlo. Ciò nonostante abbozzò un sorriso ed annuì.
«Bene. Allora andiamo, tua sorella sarà preoccupata a morte».
Si sollevò e gli porse la mano, che Ash prontamente afferrò per tirarsi su.
Diretti verso la moto di Zach, il ragazzino gli fece promettere che non avrebbe detto nulla di quello che era successo a Cathleen.
Zachary promise.


Artù rimase in silenzio, chiedendosi come certe persone potessero convivere con segreti del genere per mesi, addirittura anni. Persone come Ash, persone come Merlino: tanto fragili se visti dall'esterno eppure tanto forti dento.
Provava pena per lui, avrebbe voluto aiutarlo, ma allo stesso tempo sapeva fin troppo bene che dolori come quelli erano incancellabili.
«Qualche mese dopo, Cathleen mi chiamò per dirmi che aspettava un bambino e che lei e Zach avevano deciso di sposarsi», riprese Ash, con la voce rotta e i pugni strettisulle ginocchia. «Volevo morire. Lo volevo sul serio, ma non bastava: ci voleva anche il coraggio. Ci ho provato, eccome… Sono rimasto per ore di fronte alla finestra, a mollo in piscina, con le forbici fredde posate sul polso, con un barattolo delle medicine di Roger stretto in pugno… Io, che desideravo così ardentemente la morte, non sono mai riuscito ad andare fino in fondo. Zachary, invece, che amava la vita, che aveva ancora così tanto da fare…». Tirò rumorosamente su col naso e inchiodò gli occhi lucidi nei suoi. «Perché?».
Artù rimase in silenzio fino a quando non realizzò che Ash lo stava fissando, quasi implorandolo, perché desiderava una risposta. Allora sgranò gli occhi per la sorpresa: che cosa avrebbe dovuto dirgli? Non era nemmeno sicuro di quale fosse la domanda.
«Io non…», iniziò a balbettare, ma Ash lo interruppe per chiarire.
«Perché la sua assenza mi fa ancora così male? Il suo ricordo… è una tortura».
Non erano mai state pronunciate parole più vere. Anche per lui, a volte, il pensiero di Ginevra, di suo figlio o di qualunque altra persona che si era lasciato alle spalle, era troppo doloroso da sopportare. L’unica sua consolazione era che non li aveva visti morire: non aveva dovuto piangere sulle loro tombe né vedere il sole sorgere come se nulla fosse accaduto. Solo in quel momento realizzò che invece sua moglie e Merlino – soprattutto Merlino, l’ultimo ad averlo tenuto tra le braccia – avevano dovuto convivere con l’atroce dolore della perdita e andare avanti, per Camelot. Nel caso del mago, erano trascorsi secoli prima che il suo cuore potesse trovare un po’ di pace, e Artù non riusciva nemmeno ad immaginare, di nuovo, come avesse fatto a tirare avanti fino a quel momento.
Da giovane era stato tanto stupido da sottovalutarlo, più e più volte, e a quanto pareva non avrebbe mai imparato la lezione. Ad occhi chiusi, promise che una volta a casa si sarebbe fatto perdonare.
Quando incrociò nuovamente lo sguardo di Ash, ancora puntato su di lui, in attesa, disse l’unica cosa che valeva la pena di essere detta: «Io le voglio bene. Non saprei dirti se mi sto innamorando, ma di una cosa sono sicuro: non ho alcuna intenzione di ferirla».
Ash rimase per un attimo interdetto, preso alla sprovvista da quella risposta, poi la sua fronte si distese e riuscì persino ad accennare un sorriso.
«Sei sicuro di quello che dici? Cathleen non ti amerà mai come ha amato Zachary».
«Lo so». Artù scrollò le spalle, stirando le gambe indolenzite per alzarsi dal pavimento. «Lei mi fa stare bene e se anche lei prova lo stesso in mia compagnia, mi basta».
Il sorriso di Ash si allargò e mentre Artù si alzava continuò a guardarlo dal basso, fino a quando il sovrano non gli domandò perché avesse quell’espressione soddisfatta sul viso.
«Perché lo sono: Cath è in buone mani».
«E tu?».
«Io?».
Artù gli porse le mani per aiutarlo a tirarsi su e ripeté: «Sì, tu. Tu ti sei confidato con me, perché? Come fai a sapere che non le dirò tutto alla prima occasione?».
Ash guardò le sue mani aperte e dopo qualche attimo di esitazione le afferrò e si diede la spinta necessaria a mettersi sulle proprie gambe.
«È più facile confidarsi con dei perfetti sconosciuti, non trovi? Non si temono le loro reazioni. Ad ogni modo tu non hai la faccia di uno spione, anzi… ho il sospetto che faresti di tutto, anche tradire i tuoi stessi principi, per una buona causa».
Artù ripensò a tutte le volte in cui era andato contro suo padre, il massimo esponente ed esempio da seguire in materia di principi morali, per aiutare Ginevra, Merlino o la stessa Morgana. Molte scelte l’avevano cacciato nei guai, ma si era sempre addormentato con la coscienza pulita e non ne rimpiangeva nessuna. E gli piaceva pensare – sempre più spesso, ultimamente – che se Merlino gli avesse confidato prima di essere uno stregone gli avrebbe coperto le spalle, aiutandolo a mantenere il segreto tra le mura del castello e fuori.
«Ho indovinato?», gli chiese Ash, gli occhi brillanti anche se ancora un po’ arrossati dalle lacrime.
Artù evitò di rispondere, ma il suo volto doveva essere un libro aperto dato che il fratello di Cathleen annuì ed aprì la porta della sua camera. Prima di chiudersela alle spalle, tornò serio per ringraziarlo. Senza aspettare la sua risposta, sparì dietro il legno massiccio.
Artù chinò il capo e tornò in camera sua, dove trovò il cellulare abbandonato sul letto, col messaggio indirizzato a Merlino scritto a metà. Lo cancellò e lo chiamò direttamente: aveva bisogno di sentire la sua voce e di ringraziarlo per non aver mai perso la speranza.

***

«Posso chiederti una cosa, Freddie?».
«Ho scelta, signorina?».
Cathleen non si sarebbe mai abituata alla stranezza del sarcasmo del maggiordomo accompagnato dalla totale inespressività del suo viso.
«Da quanto tempo mio padre è rintanato nelle sue stanze?», gli domandò.
Freddie sospirò e scosse leggermente il capo, come se non fosse contento di quel quesito. Infatti non rispose e gliene pose un altro: «Perché è tornata qui, signorina? Perché adesso?».
«Non… Non avrei dovuto?», gli chiese ancora, fissando il pavimento ricoperto di morbida moquette.
«Non sto insinuando questo, signorina. La mia è semplice curiosità».
Cathleen esitò, riordinando i pensieri che l’avevano spinta ad attuare quella folle idea: il battibecco con Artù, la nostalgia, il senso di colpa, il desiderio di condividere con lui quell'enorme peso.
«Si tratta del signor Pendragon, vero?».
Cathleen guardò Freddie e, scioccata, trovò un sorriso sulle sue labbra.  Aveva dimenticato come fosse, perché i casi in cui ne mostrava uno erano estremamente rari; ma ne aveva già visto qualcuno nel corso degli anni: quando aveva imparato ad andare in bicicletta grazie al suo aiuto, quando dopo ore di studio con lui aveva preso il voto massimo al compito di matematica, oppure ad uno dei suoi compleanni, quando gli aveva chiesto di aiutarla a soffiare sulle candeline.
Era strano e triste, ma Freddie era stato un padre migliore del suo. Non avrebbe mai avuto la forza di dirglielo e ringraziarlo, perciò gli strinse una mano e decise di essere onesta: «Sì, è per Artù che sono tornata. Volevo che vedesse dove sono cresciuta, fargli capire che i soldi, la nobiltà… non fanno la felicità».
Il domestico diede una pacca leggera al dorso della sua mano e finalmente rispose alla sua domanda iniziale: «Quando ha lasciato questa casa, il signor Shaw ha avuto un crollo nervoso e quando si è ripreso, ha lentamente iniziato a restringere i suoi spazi vitali. La sua agorafobia peggiorava di giorno in giorno: diceva che non poteva controllare ciò che gli stava intorno, se non era riuscito nemmeno a capire che cos’aveva in mente la sua stessa figlia. Alla fine non riuscì più a varcare la soglia della sua stanza e da qualche mese a questa parte ha persino vietato alla signora Shaw di dormire con lui. Vive in totale isolamento ormai, l’unico che può entrare nelle sue camere sono io, ma solo per portargli i pasti e somministrargli le medicine. Non vuole che tocchi nulla, perciò… non si spaventi, se troverà un po’ di confusione».
Cathleen deglutì, sentendo il cuore batterle furiosamente in gola, mentre Freddie apriva la porta dopo aver bussato in codice – l’ennesima prova del disturbo ossessivo di suo padre.
Il maggiordomo era stato gentile, quando aveva detto che ci sarebbe stata “un po’ di confusione”. In realtà, la stanza era un vero disastro: l’aria così viziata che Cathleen dovette sforzarsi per non gridare di aprire una delle numerose finestre, tutte rigorosamente protette dalle inferriate. Il letto era disfatto e le lenzuola stropicciate come carta velina; sui mobili e sulle mensole la polvere era tanto alta da nascondere il colore naturale del legno e del marmo.
In generale, tutto era grigio e spento, proprio come l’uomo seduto sulla poltrona di fronte all’unica finestra non celata dalle pesanti tende di velluto blu: suo padre.
Quasi non riuscì a riconoscerlo, come se la polvere avesse ricoperto anche la sua vera essenza. Un tempo era stato un uomo forte, ambizioso, pieno di carisma. Ora era il fantasma di se stesso, un uomo vecchio e malato, rancoroso e sprezzante. Cathleen realizzò tutto questo non appena si voltò verso di loro e li squadrò con i suoi occhi scuri una volta affamati di vita e ora straripanti di odio.
I folti capelli neri che usava portare pettinati all’indietro ora erano candidi, radi in molti punti e scompigliati sulla testa, del tutto trascurati. Il volto dalla pelle sottile era solcato da un reticolo di rughe e vene bluastre e le sopracciglia importanti erano contratte in un’espressione feroce, come le labbra, spaccate dalla scarsa idratazione, tirate sui denti in un ringhio silenzioso.
«Ciao papà», esordì con voce tremante, incapace di schiodarsi dalla soglia della stanza. «Sono Cathleen, tua figlia».
I suoi occhi opachi furono in grado di passarle attraverso e dopo attimi di straziante silenzio, sibilò: «Mia figlia è morta».
La rossa sbarrò gli occhi, mentre un dolore sordo le schiacciava il cuore. Aveva previsto che non la accogliesse a braccia aperte, ma venire a sapere che la considerava morta... Questo non l’avrebbe mai immaginato.
Freddie le rivolse uno sguardo carico di apprensione – secondo i suoi standard – e riempì d’acqua un bicchiere di vetro, per poi porgerlo al signor Shaw con una manciata delle pillole più disparate. E fu proprio quello sguardo a riscuoterla dal torpore.
Infervorata, rispose con tono fermo: «Ti sbagli, papà. Mamma è morta, Zachary è morto. Io sono viva e vegeta e soprattutto sono qui, nonostante avessi giurato a me stessa che non avrei più messo piede in questa casa».
Il signor Shaw la fissò con ancora più astio e ad un tratto tutta la sua rabbia esplose in un gesto imprevedibile: colpì la mano tesa del maggiordomo e il bicchierino e i piccoli confetti bianchi rotolarono sul pavimento impolverato; quindi si alzò dalla poltrona, le gambe tremanti che quasi non lo sostenevano, e paonazzo in viso urlò: «Nessuno ti ha chiesto di tornare!».
«Signor Shaw, la prego». Freddie tentò inutilmente di calmarlo e farlo risedere, ma l’uomo lo allontanò ancora una volta, minacciandolo col pomo dorato del suo bastone da passeggio, fino ad allora appoggiato contro un bracciolo della poltrona.
«Mi hai ingannato, hai agito alle mie spalle, sei scappata di casa e non mi hai rivolto la parola per anni. Nemmeno per dirmi che sarei diventato nonno hai avuto il fegato di chiamare!». Fece una pausa per riprendere fiato, ma non sembrò aiutarlo in alcun modo: i suoi respiri erano rantoli e la sua voce si spezzava di continuo, come se non fosse più abituato a pronunciare più di qualche parola al giorno.
Freddie ci ritentò, posando una mano sulla sua schiena ingobbita e piegandosi un poco verso il suo volto: «Signor Shaw, credo davvero che dovrebbe stendersi un attimo».
«Lasciaci soli», abbaiò in risposta suo padre. «Subito, Freddie».
Il maggiordomo chinò il capo e con riluttanza lasciò la stanza, anche se prima consegnò delle nuove dosi di pillole a Cathleen. La ragazza osservò il bicchierino pieno e si chiese quante portassero il suo nome sulle ricette dei vari psicologi che avevano in cura suo padre. Non ebbe però il motivo materiale per farsi un’idea, perché Roger si accasciò con un gemito sulla poltrona e riprese da dove si era interrotto.
«Dopo l’incidente in cui hai rischiato la vita, ho pregato tuo fratello perché ti convincesse a tornare qui. Volevo ricominciare, rimediare ai miei sbagli... volevo che la mia famiglia fosse di nuovo felice. Tu però ti sei rifiutata e io ho dovuto fingere che anche tu fossi morta contro quel guardrail. Se non me ne fossi convinto... non sarei mai riuscito a sopportare il peso dei miei fallimenti».
Cathleen finalmente si avvicinò e si chinò per avvolgergli le braccia intorno al collo con delicatezza e massaggiargli la schiena tremante a causa dei singhiozzi.
«Ho dovuto quasi perderti per sempre, per capire che razza di padre sono stato», aggiunse contro la sua spalla. «Terribile, terribile. Ho capito perché mi odi tanto».
«Shhh». Cathleen chiuse gli occhi a loro volta umidi di lacrime e sciolse la presa solo per inginocchiarsi al suo cospetto, le mani strette intorno alle sue. «L’importante è che sono qui, adesso, e ti prometto che mi farò perdonare per tutto il tempo che ho trascorso lontana da questa casa, lontana da te. Mi dispiace tanto, papà».
Le labbra del signor Shaw si spaccarono ulteriormente a causa di un sorriso, il primo dopo chissà quanti anni, e passando le dita, scosse da lievi tremori, sulle guance di Cathleen, iniziò a sussurrare: «La mia bambina. La mia bellissima bambina».
Lei non lo corresse, nonostante fosse certa di aver ben poco ormai della bambina: il suo cuore aveva amato e sofferto troppo, i suoi occhi avevano visto troppe cose e ogni traccia di innocenza era svanita. Una cosa tipica dei bambini però stava rinascendo nella sua anima, una piccola fiamma accesa da Artù e che, col passare dei giorni, stava diventando sempre più forte e alta: la speranza.
«Forza, prendi le tue medicine e lascia che Freddie e Cecilya si occupino di dare una ripulita a questa stanza: ne ha davvero bisogno».
«Solo Freddie», esclamò Roger ansiosamente.
Cathleen esitò, ma capì che non poteva pretendere troppo da suo padre. Ci sarebbe voluto del tempo e tanta buona volontà perché riuscisse a migliorare.
«Va bene, vorrà dire che gli darò una mano io», rispose dolcemente, porgendogli il bicchiere d’acqua.
Osservò suo padre inghiottire un paio di pastiglie alla volta, quasi in maniera meccanica, e il senso di colpa la colpì forte alla bocca dello stomaco, tanto che dovette distogliere lo sguardo.
Suo padre aveva commesso molti sbagli, ma il suo comportamento era stato altrettanto deplorevole. Come aveva potuto essere tanto egoista?
Era talmente immersa nei suoi pensieri che suo padre dovette toccarle il braccio per attirare la sua attenzione.
«Hai detto qualcosa?», gli chiese, prendendogli di mano il bicchiere vuoto.
Il signor Shaw ripeté ciò che le aveva chiesto: «Chi era il ragazzo che ho visto con te ai campi da tennis?».
Cathleen ritrovò il sorriso. «Una persona molto speciale».

***

Hala entrò nella stanza di Abby dopo aver bussato piano alla porta. Guardando la ragazzina e sua nonna, sedute vicine e mani nelle mani, ebbe come la sensazione di aver interrotto qualcosa ed indietreggiò di un passo.
«Scusate, torno tra un po’».
«Hala, entra pure. Stavo giusto andando a prendere la colazione per Abby».
La signora Chapman si alzò dal letto dopo aver posato un bacio sulla fronte della nipote e le accarezzò un braccio uscendo dalla camera.
Rimaste sole, Hala e Abigail si scambiarono un’occhiata da lontano, studiando ognuna la propria mossa.
Fu la ragazzina a parlare per prima, con tono stanco: «Tu e Baqi non avete proprio intenzione di lasciar stare Merlino, vero?».
Hala esitò, mordendosi le labbra, ma non poteva tirarsi indietro proprio ora che era a tanto così dallo scoprire la verità. Negò col capo ed avvicinò una sedia al letto di Abby, chiedendole: «Tu lo faresti?».
«Tu non capisci, Hala. Merlino è la persona più buona e gentile di questo mondo, forse dell’Universo, e tutto ciò che vuole è evitare che il suo segreto venga rivelato. Ti rendi conto di quello che accadrebbe, se si sapesse che è immortale?».
Per qualche secondo, paralizzata dallo shock, la pakistana non riuscì ad aprire bocca. Quando finalmente ritrovò il controllo di sé, l’unica cosa che disse fu: «Allora è vero».
Il volto di Abby si infiammò come se qualcuno avesse appena acceso una candela dentro il suo cranio – un’inquietante zucca di Halloween umana.
«Certo che è vero», esclamò, allungandosi per prendere dal primo cassetto del comodino il diario di Louise. «Credi che la mia bisnonna fosse pazza?».
«Io non...».
«Se tutto ciò che c’è scritto qui non fosse vero, allora il suo nome sarebbe segnato sulla targa commemorativa che c’è vicino alla cappella, non trovi?».
Di nuovo Hala provò a parlare, ma la voce di Abby la sovrastò: sembrava un fiume in piena, incapace di arrestarsi, e l’unica cosa che poteva fare era aspettare che la tempesta passasse da sé.
«Io non riesco nemmeno ad immaginare che cosa abbia voluto dire per lui vivere così a lungo, sopravvivere a tutte le persone che amava, soffrire in silenzio senza mai potersi confidare con qualcuno... Adesso che finalmente sembra aver trovato un equilibrio, che sembra addirittura felice, voi volete rovinare tutto per uno stupido scoop?».  Fece una breve pausa, necessaria solo a riprendere fiato e a rivolgerle lo sguardo più serio e determinato che le avesse mai visto fare, poi aggiunse: «C’è un motivo, se a Merlino è stata donata l’immortalità; non so quale sia, ma sono convinta che si tratti di un ottimo motivo. E ti giuro che non permetterò a nessuno di intromettersi nel suo destino, fosse anche l’ultima cosa che farò».
Hala era impressionata. Non aveva mai sentito Abby parlare così – la sua dolce e fragile Abby – né l’aveva mai vista così convinta riguardo alla sua posizione. Aveva trovato un nuovo obiettivo, qualcosa per cui lottare veramente, e fintanto che il suo cuore avesse continuato a battere non avrebbe smesso.
Ciò nonostante, la sua risposta risultò sterile ed inconcludente come poche: «Ne parlerò con Baqi». Dopotutto era la sua indagine, o come l’aveva definito Abby, il suo “scoop”.
La ragazzina continuò a fissarla, come se si aspettasse dell’altro, ma Hala si alzò e uscì dalla stanza come un automa. Era tanto sconvolta da non riuscire nemmeno a manifestarlo, anche se non per il motivo per cui avrebbe dovuto esserlo. Ciò che la turbava profondamente era la sensazione che aveva provato non appena aveva ottenuto la confessione di Abby, la sensazione che non fosse abbastanza. Sì, Abby era una delle persone più vicine a Merlino, ma le sue parole non pesavano quanto quelle del diretto interessato. E poi, le sole parole non dimostravano un bel niente. Quello di cui avevano bisogno erano prove, ben più concrete ed inconfutabili di una foto sbiadita, il diario di una donna malata e della parola della bisnipote di quest’ultima.
Hala si lasciò cadere seduta su una delle poltroncine della sala di aspetto e si prese il volto tra le mani. Non era nemmeno sicura che lei sola potesse procurarsi delle prove vere e proprie: insomma, come si dimostrava l’immortalità? Forse dovevano davvero lasciar perdere, prima di ficcarsi davvero nei guai. Forse…

***

Darrell parcheggiò proprio di fronte alla villetta di Alexandra e rimase per qualche secondo a fissarla, ricordando la sera in cui si era precipitato lì per cogliere un ladro sul fatto. Ora non solo non era sicuro che si fosse trattato di un reale tentativo di furto, ma dubitava persino sull’onestà dell’infermiera. L’unica certezza che possedeva al momento era che gli stava nascondendo qualcosa, qualcosa di grosso.
Sospirò, massaggiandosi gli occhi stanchi con due dita, e si diresse verso la villetta accanto. Trovò il piccolo cancello aperto, perciò percorse il vialetto e suonò semplicemente il campanello. Poco dopo la signora Levinson lo fece accomodare nel suo salotto, seduto su un morbido divano dalla tappezzeria floreale e con una tazza di tè tra le mani.
Era una bella casa, con morbida moquette rosa sui pavimenti e tante fotografie sulle pareti, quasi esclusivamente di famiglia. Sopra il caminetto c’era una grande cornice d’argento che conteneva un collage il cui soggetto principale era un uomo dai capelli bianchi e il sorriso bonario, probabilmente il marito della donna.
La signora Levinson uscì dalla cucina con un piatto colmo di biscotti appena sfornati, il cui profumo invase tutto il soggiorno, mescolandosi a quello dei fiori freschi colti dal giardino. Si sedette sulla poltrona accanto al tavolino e sorrise dolcemente al barboncino toy bianco che andò subito ad accucciarsi ai suoi piedi. Mentre gli faceva un grattino dietro un orecchio gonfio di pelo, il cane iniziò a scodinzolare di felicità ma non emise un suono. Darrell ne fu particolarmente colpito, perché anche una sua ex ragazza possedeva un toy e ricordava bene quanto fosse rumoroso, specialmente con gli sconosciuti. O il cane della signora Levinson era estremamente quieto, oppure aveva qualcosa che non andava, perché quando era entrato si era limitato a fissarlo, anche se coi denti leggermente sporgenti in un ringhio muto.
«Signora Levinson, perdoni la mia curiosità, ma ho notato che il suo cane non abbaia e mi domandavo…».
L’anziana lo interruppe con un gesto della mano e rivolgendo un altro sorriso all’animale rispose: «Non è sempre stato così. C’era un tempo in cui era molto difficile tenerlo a bada. Circa un mese fa, era con me in giardino, che mi teneva compagnia mentre davo del fertilizzante alle mie piante, quando all’improvviso si è ammutolito. Pensavo avesse visto qualcosa che lo aveva spaventato e mi sono girata per capire, ma vidi solo Alexandra alla finestra, che beveva una tazza di caffè».
Uno sgradevole sospetto gli fece passare l’acquolina per i biscotti della signora Levinson, tanto che lasciò sul proprio piattino quello che aveva preso dal vassoio.
«Vada avanti», la esortò, serissimo.
La donna scrollò le spalle. «Beh, non c’è molto altro da dire. L’ho portato da due diversi veterinari, ma nemmeno loro sono riusciti a capire quale fosse il problema. Hanno ipotizzato che fosse la sua reazione alla scomparsa di mio marito, ma è successo ormai tre anni fa e non si era mai comportato così, prima».
«No, intendevo…». Darrell si sentì infinitamente stupido, ma doveva sapere tutto ciò che poteva su Alexandra. «Riguardo alla signorina Greenwood. L’ha vista alla finestra e poi?».
«In che senso? L’ho salutata e lei ha ricambiato, tutto qui. Avrei voluto dirle che mi dispiaceva se Rolly l’aveva svegliata, ma è andata via prima che potessi farle cenno di aprire la finestra». Angela aveva gli occhi sgranati per la stranezza di quella domanda e infatti volle sapere: «Che cosa c’entra questo con l’effrazione?».
«Niente, niente», tossicchiò, imbarazzato. «Non voglio rubarle troppo tempo, perciò per lei va bene se le mostro alcune fotografie?».
«Certamente. Si tratta dei possibili indiziati?».
«In un certo senso», mugugnò Darrell, tirando fuori dalla borsa a tracolla il proprio tablet. Trovò il file che aveva scaricato poco prima in Centrale e si spostò nell’angolo più esterno del divano, così da poter porgere tranquillamente lo schermo alla signora Levinson. La prima fotografia che le mostrò fu quella della patente di guida di Cathleen Shaw, la sua principale indiziata.
«L’ha mai vista nel quartiere?».
Angela si infilò gli occhiali sulla punta del naso e dopo aver fissato i lineamenti della ragazza per qualche secondo, scosse il capo. «No, non mi pare proprio. Chi è?».
«Un’amica della Greenwood. Lavora con lei all’ospedale, fa il paramedico».
«E per quale motivo una sua amica avrebbe dovuto entrare in casa sua per rubare?».
«Ecco, questa è una delle tante domande a cui voglio trovare una risposta. Ma andiamo avanti».
Fece scorrere un dito sul touch-screen del tablet e le fece vedere la seconda fotografia, ricavata dal passaporto di Artù Pendragon. Perché lo considerava un sospettato? Innanzitutto, il secondo testimone – da cui sarebbe andato più tardi – aveva affermato di aver visto due persone uscire dalla villetta di Alexandra; poi, ricordava fin troppo bene la sera in cui Myra lo aveva portato in centrale, armato di una balestra e altre armi poco convenzionali. Lui e Cathleen si conoscevano e forse il paramedico, qualunque fosse il suo intento, lo aveva persuaso ad aiutarla.
«Questo ragazzo l’ho già visto…», esclamò la signora Levinson, improvvisamente preoccupata.
Darrell rischiò quasi di fare un salto sul divano, smanioso di sapere. «Quando? Dove? Mi racconti tutto».
«È successo quasi due mesi fa. Fuori pioveva a dirotto ed io ero seduta lì dove è lei, a guardare la televisione. Ad un certo punto ho sentito il rumore di una brusca frenata e incuriosita sono andata alla finestra. Fu allora che vidi questo ragazzo: era svenuto e aveva addosso una specie di armatura, ha presente?, quelle dei cavalieri nei film. Alexandra e un uomo di mezz’età l’hanno portato in casa, ma non ho mai saputo che cosa fosse successo. Qualche volta fui ad un passo dal chiederle delle spiegazioni, però ho sempre cambiato idea: Alexandra è una così cara ragazza e non mi andava di farmi gli affari suoi. La mia ipotesi è che quel ragazzo abbia avuto un malore e lei lo abbia portato a casa sua per aiutarlo. Dopotutto è un’infermiera».
«Se fosse davvero come dice lei, perché non l’ha portato in ospedale?», ribatté Darrell, massaggiandosi il mento. «No, c’è qualcosa che non torna».
Angela sgranò gli occhi, agitandosi tanto sulla sua poltrona che persino Rolly alzò la testa per ringhiargli silenziosamente contro.
«Sta per caso insinuando che Alexandra…?».
«Non si preoccupi di quello che penso io. Ha visto altro, quella sera?».
«Io… Non mi piace la piega che ha preso questa conversazione. Mi rifiuto di credere che Alexandra abbia fatto qualcosa di male. Lei e la sua povera madre – che Dio l’abbia in pace – sono sempre state vicine perfette e non dirò più una parola su di lei, non se crede che sia colpevole di qualche cosa».
L’agente Fisher trasse un respiro profondo e posò il tablet sul tavolino per poter porgere le mani all’anziana donna. Titubante, la signora Levinson impiegò qualche secondo per decidere se far incontrare i loro palmi oppure no. Alla fine cedette agli occhi gentili di Darrell e con le mani nelle sue lo ascoltò in silenzio.
«Signora Levinson, tutto ciò che mi interessa al momento è che la signorina Greenwood non corra alcun pericolo. Qualcuno è entrato in casa sua nel cuore della notte e ha cercato qualcosa, qualcosa che a quanto pare non ha trovato. Non posso escludere la possibilità che questa o queste persone ritornino per completare il lavoro: magari la prossima volta non si limiteranno a mettere a soqquadro una stanza, non decideranno di agire con la casa vuota. Capisce che non posso rischiare? L’unico modo perché Alexandra sia completamente al sicuro è arrestare i colpevoli».
La signora Levinson annuì debolmente, abbassando il capo.
«Qualsiasi cosa può essere utile alle indagini, anche il dettaglio più insignificante», aggiunse con voce carezzevole. «Le prometto che non succederà nulla ad Alexandra, non prima che questo caso sarà risolto».
La donna sospirò e si convinse a parlare. Guardandolo dritto negli occhi, continuò a raccontare di quella sera di due mesi prima: «Sono rimasta alla finestra ancora per un po’, ma Alexandra e quell’uomo non sono più usciti. In compenso però è arrivato di gran carriera un ragazzo in bicicletta».
«Me lo descriva», le chiese Darrell.
«Mi faccia pensare… Alto quanto lei, decisamente mingherlino, coi capelli neri, gli occhi azzurri…».
Il poliziotto afferrò di nuovo il tablet e cercò una foto di Merlino, poi la mostrò alla signora Levinson. «È lui?».
«Sì, proprio lui. Era molto scosso e mi ricordo che suonò al campanello come un ossesso; ha smesso soltanto quando l’uomo che era con Alexandra lo ha fatto entrare in casa».
Non poteva dire che avesse le idee più chiare, ma era contento di avere del nuovo materiale su cui pensare, evitando così di arrovellarsi sempre sulle stesse domande. Inoltre, c’era un particolare di quel racconto che lo aveva colpito come un pugno dritto al cervello: Artù indossava un armatura da cavaliere quando Alex l’aveva trovato. Anche Freya, quando lui l’aveva tirata fuori dai cespugli dietro casa sua, indossava degli abiti che erano ben lontani dall’epoca moderna. Una semplice coincidenza? Il suo istinto ne dubitava fortemente. Ma quali erano le alternative? Una setta segreta con usi e costumi medievali? Un portale spazio-temporale? Il suo mal di testa non poteva che peggiorare.
Una decina di minuti dopo lasciava l’accogliente casa della signora Levinson per attraversare la strada ed entrare in quella un po’ trascurata dell’uomo che, la notte dell’incidente, gli aveva detto di aver visto due persone correre verso il bosco.
Si trattava di un quarantenne single e sovrappeso, operaio in una fabbrica ad un’ora di distanza dal loro paesino. Gli raccontò senza troppi giri di parole che quando era rientrato dal turno si era preparato la cena e l’aveva consumata sul divano in salotto, di fronte alla TV, dove era rimasto fino a quando non si era appisolato. L’aveva svegliato l’infrangersi di un vetro e preoccupato che il temporale fosse più forte del previsto, era corso alla finestra per chiudere le imposte. Allora aveva visto le due persone uscire di corsa dalla porta d’ingresso della villetta di fronte alla sua e dirigersi verso il bosco.
«Saprebbe riconoscerli, se le mostrassi delle foto?», gli chiese ad un tratto Darrell, desideroso di uscire da quella casa il più in fretta possibile.
La moquette era sporca in molti punti, gli angoli del soffitto erano anneriti dalla muffa e sul tavolino di fronte alla TV c’erano scatole di piatti pronti, cartoni della pizza vuoti e tazze colme di mozziconi di sigarette. Come se tutto ciò non bastasse, l’uomo di fronte a lui indossava una semplice canotta ingiallita che non era in grado di contenere la villosità del suo petto e il suo alito era davvero pessimo.
«Sa com’è agente, era buio e pioveva…».
«Proviamoci, okay?».
Gli mostrò le stesse foto che aveva fatto vedere alla signora Levinson, ma l’uomo oltre a non averli mai visti in vita sua non seppe dargli alcuna certezza.
«Sì, uno dei due aveva i capelli lunghi come una ragazza, ma al giorno d’oggi non si può mai sapere che cosa ci sia lì sotto! Mi raccomando, agente, non si faccia ingannare».
Dopo quel preziosissimo consiglio, con tanto di strizzata d’occhio, Darrell riuscì a lasciarsi alle spalle quella casa e il suo proprietario. Una volta all’aperto, si rifece i polmoni respirando profondamente, poi raggiunse la propria auto e si mise al volante, indeciso se tornare a casa – dove avrebbe potuto prendere un’altra aspirina e dormire, nonostante la mancanza di Freya – oppure continuare a seguire la sua pista.
Abbandonò il capo contro il poggiatesta e a malincuore decise di tornare a casa: era troppo stanco e forse era meglio riposarsi un po’, prima di fare la prossima mossa.

***

«Un’ultima cosa, Merlino».
«Che cosa?».
«Grazie».
Lo stregone era rimasto per qualche secondo in silenzio, in attesa che Artù  aggiungesse qualcosa. Il re però gli aveva chiuso il telefono in faccia, mettendogli addosso con un vago senso di inadeguatezza.
Non solo era insolito sentire da lui una parola gentile, ma lo era ancora di più in quel momento in particolare: dopo ciò che aveva detto la notte precedente, dopo aver realizzato che la ferita lasciata sul suo cuore da Louise era ancora troppo dolorosa per poter legare per sempre a sé Alex nel sacro vincolo del matrimonio... Tutte le sue certezze stavano venendo meno e non aveva proprio bisogno di ringraziamenti.
Abbattuto, diede le spalle al terrazzo e rientrò in camera da letto, dove trovò Alex stesa di traverso sul letto, lo sguardo fisso sul soffitto e una ciocca di capelli tra le dita.
Dopo aver finito la vaschetta di gelato, stufi di guardare la TV, lei aveva proposto di andare al piano di sopra per godersi un po’ di intimità senza aver paura di essere interrotti sul più bello da Artù. Il sovrano li aveva sì interrotti, ma era stato quasi un sollievo per il mago avere la scusa per allontanarsi. E dovevano rimanere da soli per un intero week-end?
Dentro di sé, Merlino respirò profondamente e sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso quando Alex voltò il capo verso di lui e gli chiese: «Come sta Artù?».
«Bene, credo. Mi ha detto che Cathleen l’ha portato a casa della sua famiglia».
«Ci tiene davvero tanto a lui», esclamò, sollevando le gambe nude per guardarsi le unghie dei piedi.
Merlino le percorse con lo sguardo per poi vergognarsene subito dopo. Si sedette al suo fianco, sollevandosi il colletto della maglia per passarselo sul viso sudato. Non era eccitato, né accaldato; semplicemente i postumi di quella nottata iniziavano a farsi sentire. In più, il fatto che Alex avesse utilizzato così tanta magia per recuperare il suo dispositivo non aiutava.
«Come fai a dirlo?», le chiese.
Alex ridacchiò, tornando a guardare il soffitto. «Non lo sai? Per noi ragazze introdurre un ragazzo alle nostre famiglie equivale ad una dichiarazione d’amore».
Merlino si sdraiò a sua volta, con la testa accanto ai suoi piedi delicati. «Ah sì?», mugugnò. Ogni fibra del suo corpo ululava di dolore, ma voleva resistere e non prendere altri dolorifici. Finivano sempre più in fretta e prima o poi, se non prestava attenzione, Alex e Artù avrebbero finito per accorgersi della sua dipendenza.
Chiuse gli occhi dalle palpebre pesanti e cercò di rilassarsi, ma Alex si sedette a gambe incrociate sul letto e lo osservò in silenzio per qualche istante.
«Stai bene?», gli domandò alla fine, allungando una mano verso il suo viso.
Merlino la intercettò e se la portò sul petto, evitando di rispondere. «Che ne dici se ce ne stiamo un po’ qui sdraiati?».
L’infermiera annuì e si stese al suo fianco, con la testa posata sul suo braccio destro e le gambe intrecciate alle sue. Merlino con uno sforzo prese la coperta ai piedi del letto e se la gettò addosso, dato che ora aveva i brividi. Nel mentre di quell’operazione, Alex approfittò della sua distrazione per liberarsi della sua stretta e portargli una mano sulla fronte, su cui tra l'altro svettava un bel bernoccolo per il colpo che la sera prima aveva dato agli scalini della veranda.
«Ma tu scotti!», esclamò con gli occhi pieni di preoccupazione.
Il mago provò a rassicurarla, ma la bionda era già entrata in modalità infermiera.
Dovette alzare la voce per attirare di nuovo la sua attenzione: «Alex! Rilassati, non è niente. Mi capita, ogni tanto… È l’età». Riuscì persino ad abbozzare un sorriso, il quale non riuscì nell’intento di tranquillizzare Alex.
Le sfiorò il mento con il pollice, inchiodando gli occhi nei suoi, e aggiunse: «Resta qui con me, per favore».
L’infermiera non riuscì a dire di no a quegli occhi e ricambiò con un piccolo sorriso, accoccolandosi contro di lui sotto le coperte. Merlino sospirò e chiuse gli occhi, cadendo quasi subito in un sonno agitato.

***

Menomale che Artù pensava di trascorrere un week-end tranquillo con Cathleen.
Le cose erano degenerate in fretta, in modo del tutto inaspettato, da quando lei aveva bussato alla porta della sua stanza con un sorriso radioso sul volto, per annunciare che forse aveva ancora qualche speranza di recuperare il rapporto con suo padre.
Il sovrano era felice per lei ovviamente, ma non pensava che una cena in famiglia avrebbe scatenato tutto quello scompiglio.
Innanzitutto, per via della malattia del signor Shaw, il personale si era dovuto attrezzare perché venisse allestita una piccola e dignitosa sala da pranzo nelle sue stanze.
Poi era partita la caccia all’abito perfetto, dato che per quell’occasione speciale Trisha aveva ordinato uno specifico dress-code: serata di gala. Artù e Cathleen si erano portati dietro solo lo stretto necessario, perciò la matrigna li aveva portati nella sua stanza guardaroba per agghindarli a dovere.
Solo quando si era stancata di trattarli come bambole in carne ed ossa e aveva permesso loro di andare a rinfrescarsi, si erano resi conto di non aver più visto Ash da quel pomeriggio. Artù le aveva spiegato a grandi linee che avevano parlato un po’ – senza rivelarle di che cosa – e che quando si erano separati ognuno era andato nella propria camera.
Avevano bussato e bussato, chiamandolo da dietro la porta chiusa a chiave, inutilmente. Allora erano subito andati a cercare Freddie per farsi dare un doppione della chiave, ma avevano scoperto che Ash – intransigente quando si trattava della sua privacy – aveva da tempo buttato ogni copia, esclusa la sua. Visto che non potevano passare dall’interno, a Cathleen era venuta una pessima idea e suo malgrado fu anche la loro unica idea.
Il tempo di togliersi il lungo vestito verde smeraldo per infilarsi i suoi amati pantaloni di pelle e aveva già scavalcato la ringhiera della finestra del secondo piano posta proprio sopra il balconcino della camera di Ash. Nonostante Artù avesse cercato in ogni modo di dissuaderla, o almeno di convincerla a far saltare lui, il paramedico non aveva voluto sentire ragioni, affermando che aveva giurato – a Merlino, supponeva – che si sarebbe presa cura di lui: senza il dispositivo assorbi-magia nera i rischi erano ancora più alti e non poteva assolutamente permettere che avesse un altro crollo di fronte ai suoi occhi.
Così Cathleen si era appesa alla ringhiera e dopo qualche dondolio si era lasciata cadere, atterrando con la stessa grazia di un gatto. Gli aveva fatto il pollice verso e dopo aver fatto un giro completo della camera, bagno compreso, era tornata sul balcone per gridargli che Ash non c’era. Artù aveva cercato di trovare una qualche spiegazione, ma ancora una volta la versione dei fatti di Cathleen fu quella con più logica.
Per qualche motivo, dopo la chiacchierata con il sovrano, Ash aveva sentito il bisogno di stare da solo e, sapendo che prima o poi qualcuno sarebbe andato a cercarlo, aveva deciso di tagliare la testa al toro andando via per primo. Ash aveva disseminato indizi per far credere loro di aver usato una delle tecniche di Cathleen, quella di chiudere la porta a chiave per darsi più tempo mentre saltava dal balcone, ma non aveva calcolato due cose: la prima, l’altezza eccessiva dal balcone al terreno ricoperto di ghiaia: Ash non avrebbe mai potuto saltare da lì - non senza evitare di sfondarsi le caviglie - e non c’era traccia né di una corda né dei tipici solchi lasciati sul terreno da una scala aperta; la seconda, la mancanza della chiave nella serratura interna. Questi piccoli dettagli avevano convinto la sorella che in realtà era semplicemente uscito dalla sua camera, portandosi dietro la chiave ovunque avesse deciso di andare.
«E adesso che si fa?», le aveva chiesto Artù quando si era reso conto che mancava solo mezz’ora all’orario che Freddie aveva stabilito per la cena.
Cathleen si era passata il pollice sulle labbra, la fronte aggrottata, pensierosa. Alla fine aveva sospirato, esclamando: «Andiamo a cercarlo».
«Ma tuo padre...? Non voleva conoscermi?».
Gli aveva sorriso con tenerezza, prendendolo per mano. «Ti conoscerà domani», aveva risposto, e Artù aveva sentito un piacevole calore espandersi dentro di lui, come se gli avesse promesso ben più di un altro giorno insieme.

«Credo di sapere dove sia andato il signorino Shaw».
Cathleen aveva appena acceso la propria moto e il potente rombo le aveva quasi impedito di sentire le parole di Freddie, in piedi nel rettangolo della porta d’ingresso. Le luci soffuse provenienti dal corridoio allungavano la sua ombra sulla ghiaia e l’espressione del suo viso era ancora più indecifrabile a causa del buio che era calato all’improvviso.
Il paramedico fece scendere Artù dalla sella per poi fare lo stesso. Si tolse la mascherina dagli occhi e fulminò il maggiordomo: «E quando avevi intenzione di dircelo?».
Freddie sospirò, stringendosi nelle spalle. «Il signorino Shaw mi fece promettere di non dire a nessuno ciò che era successo».
«Cosa? Cos’è successo?».
«Quasi un anno fa suo fratello si è recato in un locale e si è sentito male. Aveva bevuto più del consentito, assunto certe sostanze illegali e subìto delle violenze…».
Artù scorse il volto di Cathleen impallidire sotto il casco e percepì il suo dolore come fosse proprio, solo standole vicino. Le posò una mano sulla schiena per mostrarle la propria vicinanza e rabbrividì, sentendo il suo cuore correre impazzito nella cassa toracica.
«È stato portato all’ospedale e i medici sono riusciti a salvarlo per il rotto della cuffia», riprese Freddie. «Il signorino Ash era stato derubato del portafoglio e del cellulare e senza documenti non poterono avvisare i familiari. Quando riprese conoscenza, la mattina successiva, gli chiesero chi potessero chiamare e il signorino ha fatto il mio nome. Sono immediatamente corso in ospedale ed è stato allora che il signorino Ash mi ha fatto promettere che non avrei dovuto raccontare nulla di tutto questo a sua madre e soprattutto a lei, signorina».
Cathleen strinse forte i pugni lungo i fianchi e non si lasciò impietosire dall’espressione sinceramente addolorata di Freddie. Lo raggiunse con poche lunghe falcate e lo fronteggiò, occhi negli occhi.
«Avresti dovuto comunque», ruggì.
Il domestico chinò il capo, ma rimase in silenzio.
«Quel locale è ancora aperto?», gli chiese poco dopo, con la voce alterata dalla preoccupazione e dalla rabbia.
«Sì. La polizia si recò sul posto, ma il proprietario affermava di essere all’oscuro che nel suo locale girassero delle droghe e infatti non trovarono elementi a sufficienza per aprire una vera e propria indagine. Inoltre fu proprio lui a trovare il signorino Ash nei bagni e a chiamare l’ambulanza. Per quanto riguarda le persone che l’avevano malmenato…».
«Vai avanti», lo esortò bruscamente Cathleen.
Freddie si portò pollice e indice sulle palpebre. «Il signorino Ash non volle sporgere denuncia: diceva che se l’era cercata».
Artù sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene udendo quelle parole ed iniziò a nutrire un terribile sospetto, ricordando anche ciò che gli aveva confessato Ash quello stesso pomeriggio: «Volevo morire. Lo volevo sul serio, ma non bastava: ci voleva anche il coraggio. Ci ho provato, eccome…».
«Dobbiamo andare», esclamò nervosamente, attirando in particolare l’attenzione di Cathleen.
«Artù, ti senti bene?».
Il sovrano annuì. «Sì, ma dobbiamo sbrigarci. Sono preoccupato».
«È mio fratello, lo sono anche io», ribatté il paramedico, per poi rivolgersi al maggiordomo e chiedergli l’indirizzo del locale.
Mezz’ora più tardi, lasciarono la moto nel vicolo accanto al nightclub dalle esplicite insegne al neon ed entrarono.
Cathleen gli aveva anticipato che ne sarebbe uscito sconvolto se quella era la prima volta che entrava in un ambiente del genere, ma Artù era talmente in pensiero per Ash che non ebbe tempo per elaborare ciò che videro i suoi occhi: ragazze e ragazzi seminudi che si muovevano sinuosamente sopra a cubi illuminati, attorcigliandosi intorno a pali conficcati nel soffitto e lasciando che gli spettatori infilassero loro banconote negli striminziti indumenti intimi; chi si agitava a tempo dei bassi sotto le luci intermittenti colorate, strusciandosi contro il proprio vicino e concedendosi effusioni tutt'altro che pudiche; altri clienti, seduti ai tavolini ai lati della grande sala, bevevano da grandi bicchieri colorati e ridevano in maniera innaturale.
Artù, assordato dalla musica e spintonato da tutti quei corpi sudati, dovette faticare per tenere il passo di Cathleen, sicuramente più a suo agio. Si fermarono di fronte ad un lungo bancone illuminato di bianco, dietro il quale due uomini preparavano cocktail facendo le stesse acrobazie di un giullare di corte.
Quando finalmente quello con la barba curata posò gli occhi su di loro, Cathleen gli mostrò il cellulare con una foto abbastanza recente di Ash e gridò: «Hai mai visto questo ragazzo?».
«Certo bellezza, Ash è un nostro habitué. Perché lo cerchi?».
«Questi non sono affari tuoi. È venuto qui anche questa sera?».
L’uomo afferrò una bottiglia squadrata piena di liquido ambrato e se la fece volare dietro la schiena prima di versare un po’ del contenuto in un bicchierino. Quindi scrollò le spalle e lo posò di fronte a Cathleen, rivolgendole un sorriso smagliante. «Forse».
Artù stava per sbottare, quando il paramedico afferrò con decisione il bicchierino e ne bevve il liquido tutto d’un fiato, per poi riposarlo sul bancone insieme ad una banconota da venti sterline.
Il barista annuì soddisfatto e si intascò i soldi, rispondendo: «L’ho visto di sfuggita, è andato direttamente da Inky».
«E chi sarebbe Inky?».
«Lo riconoscerai». Le indicò le tende di velluto porpora dall'altra parte della pista da ballo, presidiate da un uomo calvo, grande e grosso, vestito con giacca e cravatta. «Digli che ti mando io, ti lascerà passare».
Cathleen sbuffò scocciata e diede un colpetto al bancone col bicchierino di vetro, facendogli capire che voleva il secondo giro. «L'ho pagato, dopotutto».
Il barista esitò solo un attimo, prima di sorriderle di nuovo ed esclamare: «Sei una tipa tosta! Questo lo offro io». Poi si avvicinò al suo viso per sussurrarle qualcosa, ma non gli riuscì molto bene perché la musica sembrava essersi fatta ancora più alta. «Nel caso in cui dovessi scaricarlo, fammelo sapere okay?».
Artù, punto di nuovo sul vivo, quella volta non si lasciò fermare dal paramedico e puntò alla sua faccia col pugno chiuso. L’uomo però fece un passo indietro, protetto dal bancone che li divideva, e lo sbeffeggiò ulteriormente con un’espressione vittoriosa.
Cathleen finì di bere e lo afferrò per il gomito, incitandolo a seguirla verso il privè. Raggiunsero il bodyguard e la rossa lo guardò negli occhi senza paura, indicando il bancone col pollice: «Ci manda l’idiota con la barba laggiù. Dobbiamo vedere Inky».
L'uomo guardò in direzione del barista e questo gli fece “okay” con la mano; solo allora scostò la tenda per farli procedere.
Mentre salivano una stretta scalinata, Artù non poté fare a meno di prendere Cathleen per un braccio e rimproverarla: «Hai appena dato dei soldi ad uno sconosciuto per delle informazioni!».
«Sì, hai ragione, l’ho comprato», affermò guardandolo dritto negli occhi, infiammati dalla determinazione. «Tu non l’avresti fatto per tuo fratello?».
Artù rimase in silenzio, certo che lei avesse già capito quale sarebbe stata la sua risposta; dopodiché la seguì su per gli ultimi gradini.
Si ritrovarono in un soppalco disseminato di tanti salottini con tavolini di cristallo e divanetti immacolati e dal pavimento in vetro oscurante, simile a quello che si usavano nelle stanze interrogatori delle centrali di polizia: da lì potevano vedere la pista da ballo sottostante, col vantaggio di non essere visti. Ottimo per sfuggire alle retate.
Iniziarono a camminare lungo lo stretto corridoio, tra ragazze in vestitini succinti e tacchi alti e uomini dai completi eleganti, alla ricerca di Inky. Artù non aveva idea di come avrebbero dovuto capire chi fosse, ma tutto divenne più chiaro quando scorsero un ragazzo dai lunghi capelli rossicci, acconciati in tantissime treccine, e con ogni centimetro di pelle visibile ricoperta di tatuaggi. Dato che indossava una semplice canotta bianca con grandi spacchi sui lati e pantaloncini corti, la visione era piuttosto impressionante.
«È lui», esclamò Cathleen.
Artù l’afferrò per un braccio prima che si avventasse come un falco sul tatuato. «Se hai intenzione di fare ciò che hai fatto con quel barista, scordatelo».
«Hai un’idea migliore?».
«Lascia fare a me».
Cathleen respirò profondamente e nonostante non fosse convinta gli indicò di andare e fare ciò che credeva.
Artù raccolse tutto il proprio coraggio e una volta di fronte al ragazzo si schiarì la gola per attirare la sua attenzione. Non fu abbastanza, evidentemente era più interessato alle due ragazze asiatiche che gli stavano quasi in braccio e a turno gli baciavano le guance e il collo, accarezzandogli il petto tatuato sotto la canottiera.
«Ehi!», urlò spazientito e finalmente il tatuato lo fissò, anche se con aria di sufficienza.
«Che cosa diavolo vuoi?».
«Voglio sapere se questa sera hai visto Ash Shaw».
«Io vedo tanta gente amico, non posso ricordarmi tutti i fottuti nomi».
Artù guardò Cathleen, chiedendole silenziosamente il cellulare con la foto del fratello. Lo mise di fronte al viso lentigginoso del ragazzo, il quale lo fissò per qualche secondo. Artù immaginava che le labbra rosse che aveva disegnate sul mento fossero un ricordo lasciato col rossetto da una delle due ragazze, ma quando se lo strofinò, pensieroso, e rimasero esattamente dov’erano, realizzò che anche quello era un tatuaggio.
«Allora?», lo incalzò ad un tratto, infastidito dal suo atteggiamento noncurante.
«Non lo so, amico… Può darsi», rispose guardando le sue ragazze e scrollando le spalle. Quando incrociò di nuovo il suo sguardo, sorrideva: «Che mi dai in cambio?».
«Non sono qui per fare scambi. Ora dimmi quello che voglio sapere e ti lascerò in pace».
Il ragazzo si fece all’improvviso più attento e tolse le braccia dalle spalle delle sue ragazze, indicando loro di allontanarsi. Poi si alzò ed esclamò divertito: «Sai, non credo che tu sia nella posizione di poter darmi degli ordini».
Ad Artù bastò sbirciare con la coda degli occhi per rendersi conto che Inky non era venuto da solo al club: diversi ragazzi si erano alzati dai loro divanetti e fissavano lui e Cathleen con aria minacciosa.
«Si può sapere chi diavolo credere di essere? Siete degli sbirri?».
Artù sorrise, compiaciuto che Inky si stesse agitando. «Può darsi», gli rispose con la sua stessa moneta.
Sentì Cathleen dargli una gomitata, come ad invitarlo a non giocare col fuoco, ma il re di Camelot aveva la sensazione di avere il coltello dalla parte del manico.
«Tu non sei il proprietario del locale», esclamò poco dopo.
«No, sono suo figlio».
«Tuo padre sa che fai il bulletto nel suo locale? O ti comporti così solo quando lui non c’è, uh?».
Inky, ferito nell’orgoglio, saltò sul tavolino per colpirlo, ma Artù fu più veloce di lui e lo acchiappò avvolgendogli un braccio intorno al collo e puntandogli il suo pugnale vicino all'occhio destro.
Tutti i ragazzi amici di Inky rimasero paralizzati sul posto, scioccati dall’evolversi della situazione, e la stessa Cathleen fece un passo indietro mentre Artù sussurrava all’orecchio del tatuato: «Ora sono nella posizione di darti degli ordini, non trovi?».
Inky annuì e inaspettatamente iniziò a piangere, singhiozzando forte. «Ti dirò tutto quello che vuoi, ma non uccidermi. Non ho fatto nulla di male, te lo giuro».
«Questo lo vedremo».
Lo gettò bruscamente sul divanetto e guardò i suoi amici – un tacito monito a starsene buoni – prima di sedersi al suo fianco col coltello sempre in bella vista. Il paramedico invece rimase in piedi, le braccia incrociate e gli occhi sgranati.
«Forza, inizia a parlare. Hai visto Ash?».
Inky annuì freneticamente. «Sì, è andato via poco più di un’ora fa».
«Cos’è venuto a fare?».
«Il solito: ha comprato un po’ di roba e…».
«Che roba?», lo interruppe Artù.
Cathleen si riprese quel poco che bastò a rispondere al posto suo:  «Della droga». Poi si sedette sul divanetto di fronte e chiese: «Cos’ha comprato?».
«Un po’ di erba, dell’ecstasy… Ash è uno che varia molto».
«Okay e poi?».
«Prima di venire qui, questo pomeriggio, mi ha chiamato perché aveva un ordine speciale. L’ho trovato strano, perché lui non programma mai niente, viene qui quando ne ha voglia e prende ciò che c’è».
Artù fece roteare il pugnale, riprendendolo al volo con maestria. «Non ti interrompere».
«Insomma…», Inky deglutì, gli occhi che seguivano atterriti i movimenti della lama e il sudore che gli colava sulle tempie. «Mi ha chiesto se potevo recuperargli una pistola».
Da come Cathleen si piegò, fu come se un’incudine le fosse appena caduta tra le scapole. «Una pistola? Non capisco».
«Ti giuro bambola, è stata una sorpresa anche per me».
«Ehi, non ti azzardare mai più a chiamarla così», lo minacciò Artù, avvicinando il coltello alla sua gola.
«Scusa, scusa!».
«Allora Ash ti ha chiesto una pistola e tu gliel’hai data senza fare domande?», gli domandò ancora Cathleen.
«Evito di farmi gli affari degli altri, se ci sono in ballo i soldi. Nemmeno i miei agganci si occupano di armi, perciò è stato difficile procurarmela, ma ne è valsa la pena. Posso?».
Artù allontanò il coltello quel tanto che bastava a Inky per piegarsi e recuperare da sotto il divanetto una borsa da ginnastica con dentro molte centinaia di sterline.
Cathleen fissò l’interno della borsa con sguardo spiritato, fino a quando Artù non le chiese a cosa stesse pensando.
«Quando nostro padre ci ha creato dei conti per essere indipendenti, mise per i prelievi un tetto massimo settimanale, quindi non può averli prelevati tutti insieme».
«Cathleen…», Artù provò ad interrompere il rincorrersi dei suoi pensieri, ma ormai era troppo tardi: anche lei stava iniziando a nutrire il suo stesso sospetto.
«Era pianificato. Ash vuole…». Si portò un pugno sulla bocca, mentre i suoi occhi si riempivano velocemente di lacrime. Tutto d’un tratto alzò lo sguardo nel suo e ringhiò: «Di cosa avete parlato? Dimmelo, Artù».
«Non è il momento adatto».
«Non è il mom–?», iniziò ad urlare, ma il solo ed unico re si alzò e le afferrò il volto con la mano sinistra, quella che non impugnava il coltello, per esclamare risoluto: «Dobbiamo trovarlo».
Quelle parole o forse i suoi occhi blu, in grado di restituirle un po’ di lucidità, le fecero capire che era come diceva Artù: Ash era la loro priorità. Si alzò a sua volta e si diresse a passo spedito verso le scale.
Prima di seguirla, Artù puntò nuovamente il coltello verso Inky, il quale sobbalzò, e disse: «Ti consiglio di fare il bravo ragazzo d’ora in poi, se non vuoi che torni a trovarti».
Il tatuato annuì spaventato e Artù se ne andò senza guardarsi più indietro. Fuori dal locale, Cathleen lo aspettava già in sella alla sua moto.
«So dove potrebbe essere andato», le disse Artù mentre si infilava il casco, con le orecchie che gli fischiavano fastidiosamente a causa di quella musica assordante.
«Dove?».
«C’è una spiaggia dove tu e Zachary lo portavate a pescare granchi quando era piccolo».
Cathleen lo fissò da dietro la visiera, ma rimandò le spiegazioni ad un altro momento. Mise in moto con un rombo e sfrecciarono in quella notte fredda e senza stelle.

***

Hala, appoggiata alla ringhiera intorno al piccolo giardino interno, stava leggendo per l’ennesima volta tutti i nomi incisi sulla grande targa di bronzo: i nomi dei dottori, delle infermiere e dei pazienti rimasti uccisi a causa di un bombardamento durante la Seconda Guerra Mondiale. Come aveva detto Abby, Louise non faceva parte di quell’elenco; che si fosse salvata grazie a Merlino, però, era tutto da verificare.
Era così assorta nei suoi pensieri che non si rese nemmeno conto di avere compagnia. Sobbalzò quindi quando Keith la salutò.
«Scusami, non volevo spaventarti».
La pakistana abbassò gli occhi con la scusa di doversi sistemare una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sorridendo in modo impacciato rispose: «Non ti preoccupare».
«Come mai da queste parti?», le chiese allora il dottore, avvicinandosi per guardare a sua volta la targa commemorativa.
«Avevo bisogno di un momento per me».
«Oh, quinti ti ho disturbato. Mi dispiace, non era mia…».
«Ma no, figurati, non disturbi affatto», lo interruppe frettolosamente, posandogli persino una mano sul braccio per non farlo allontanare. Quando se ne rese conto, arrossì da capo a piedi e lasciò di nuovo che i capelli le nascondessero parte del viso.
«Anzi», riuscì ad aggiungere contro ogni aspettativa. «Sarei venuta a cercarti, più tardi».
Hala non si azzardò a guardarlo in viso, ma immaginò che la sua espressione fosse stupita tanto quanto il suo tono di voce.
«Ah sì?».
«Beh, devo ancora darti una risposta. A meno che tu non ti voglia rimangiare l’invito…».
«Assolutamente no».
Hala sollevò il capo di scatto, colpita dalla sua sicurezza, e ad attenderla trovò il sorriso più bello che avesse mai visto in vita sua. Dubitava fortemente che si sarebbe messo l’anima in pace nel caso in cui gli avesse dato una risposta negativa, ma, appunto, non era quello il caso…
Respirò profondamente per prendere coraggio e disse: «Mi piacerebbe molto bere qualcosa con te, Keith».
«Facciamo subito?».
Non se l’aspettava, perciò non riuscì a rispondere tempestivamente e il suo silenzio venne interpretato come tacito assenso.
Keith le afferrò la mano e sorridendo la trascinò all'aria aperta, dove decisero di camminare fino all'unico pub della cittadina, a qualche isolato di distanza.
Si era alzato un vento freddo e Hala si strinse le braccia intorno al petto per cercare di riscaldarsi, ma non appena Keith notò il suo tremore le avvolse un braccio intorno alle spalle, facendole bruciare un fuoco dentro.
«Scusami, ho corso troppo?», le domandò imbarazzato, notando il suo sguardo perso.
Hala non era mai stata una tipa facile, raramente si era lasciata travolgere dalle emozioni e ancor meno dagli ormoni, ma Keith... Dio, Keith era una calamita a cui non poteva opporsi in alcun modo.
Ignorando la sua domanda si alzò in punta di piedi e lo baciò, aggrappandosi alle sue spalle ed abbandonandosi completamente alle sue braccia, le quali non la delusero e la fecero sentire nel posto perfetto per lei.
La pakistana si scostò, oltre che per prendere fiato, per chiedergli: «Abiti lontano?».
«Ecco... Hala, non credo sia...», provò ad articolare un discorso di senso compiuto, ignorando l'eccitazione come avrebbe fatto la persona migliore che si era ripromesso di essere.
L'incantesimo si spezzò all'improvviso e Hala tornò la razionale e pudica ragazza di sempre, arrossendo tanto da giurare di vedere del vapore intorno a lei.
Indietreggiò di qualche passo, con gli occhi pieni di vergogna. «Mi dispiace, io... non so cosa mi sia preso», balbettò. «O meglio, lo so benissimo, però io non sono così. Adesso penserai che sono una poco di buono, ma tu... Tu mi piaci tanto».
Le ultime parole le aveva dette in uno squittio, tanto in imbarazzo da tenere gli occhi bassi e i pugni stretti lungo i fianchi.
«Anche tu mi piaci».
Hala alzò di scatto di capo, incredula alle proprie orecchie. Insomma, aveva intuito che Keith nutrisse qualche tipo di interesse nei suoi confronti quando le aveva chiesto di uscire, ma piacergli... era ben altra cosa.
«È troppo tardi per ricominciare da capo?», gli chiese timidamente.
Il dottor Ellis rise, una risata roca e sensuale che diede un'ultima scossa stordente agli ormoni impazziti della ragazza.
«Ricominciare? Assolutamente no», rispose, tornando ad avvolgerle le spalle con un braccio. «Anche quel bacio mi è piaciuto, non voglio fare finta che non sia accaduto».
Hala ricambiò il sorriso e camminando stretta al suo fianco ebbe la sensazione di essere finalmente tornata alla normalità dopo giorni in cui le era sembrato di impazzire.

***

Alex vide le ceneri del falò sollevarsi per dare vita ad un drago e capì di star rivivendo lo stesso sogno, anche se quella volta c'era qualcosa di diverso; lei era diversa: non era più la protagonista inconsapevole, la spettatrice impotente, incapace di modificare ciò che sarebbe accaduto.
Sfruttando la distrazione di Cathleen e Abigail, Alex sgattaiolò verso il bosco, dove intravide la donna avvolta nel mantello di velluto verde nascondersi alla sua vista con la complicità degli alberi.
L'infermiera cercò di raggiungerla, ma il buio la ostacolava non poco. Inciampò in una radice sporgente, cadendo faccia a terra nel tappeto di aghi di pino e muschio.
"Alexandra", la chiamò una voce morbida, gentile. Le ricordava molto quella di sua madre.
Alex si guardò intorno, cercando di capire da che parte dovesse andare, fino a quando non realizzò che non l'avrebbe mai capito: quella voce era nella sua testa.
"Alexandra, alzati".
«Chi sei?», gridò, spaventando tutti gli animali notturni nelle vicinanze.
"Non ha importanza chi sono io, ma chi sei tu. Tu sei l'ultima Pendragon, sulle tue spalle grava il destino del mondo".
La figura sfuggente della donna riapparve una trentina di metri più avanti per poi scomparire di nuovo, esattamente come un fantasma. Alex però non si diede per vinta e dopo essersi risollevata corse in quella direzione.
"Se solo sapessi che diavolo significa!"
L'aveva solamente pensato, ne era certa, eppure la donna misteriosa l'aveva sentita e le rispose, facendole capire che quella telepatia non era a senso unico.
"La profezia che è stata tramandata di generazione in generazione dai tuoi avi è vera, pronunciata dalla Triplice Dea in persona e rivelata a Graalmir Pendragon, figlio di re Artù".
Alex capì all'istante a quale profezia si stesse riferendo: sua madre gliel'aveva raccontata alla morte di sua nonna ed era certa di essersene dimenticata fino a qualche settimana prima, quando dopo anni aveva risentito il nome "Avalon".
All'epoca era troppo piccola per capirne il significato e probabilmente sua madre aveva ammorbidito i toni per non impressionarla, ma il succo ce l'aveva impresso a fuoco nella mente: insieme ad Artù avrebbe dovuto affrontare un grande male e grazie al loro sacrificio il mondo avrebbe vissuto in pace e in armonia.
Forse era stato un bene che gliel'avesse raccontata allora e non quando aveva quindici, sedici anni: l'avrebbe presa per pazza e se ne sarebbe dimenticata sul serio. Invece grazie all'ingenuità e alla purezza di cuore tipica dei bambini, le parole di sua madre erano sopravvissute.
"Il grande male che dovremo affrontare è Freya, vero? Non mi fido di lei, sta tramando qualcosa".
La donna comparve all'improvviso a pochi metri da lei e Alex frenò la propria corsa, tracciando con le scarpe dei segni sul terreno.
Il cappuccio le copriva gran parte del volto, come negli altri suoi sogni (o qualunque cosa fossero), ma il suo sorriso le sembrò divertito quella volta, come se avesse appena raccontato una barzelletta.
"Freya è una minaccia e va fermata, ma non è nulla in confronto al male che sta divorando questo mondo", affermò senza muovere le labbra piene. "È la magia che ha sempre tenuto il mondo in equilibrio, Alexandra. La magia era nell'acqua, nel cielo, nella terra, ma quando il suo figlio prediletto, il più potente stregone di ogni tempo l'ha rinnegata, è successo qualcosa di terribile".
Ad Alex risultava più difficile parlare col pensiero, soprattutto avendo la donna a pochi metri di distanza. Ad ogni modo le rivolse il suo sguardo più irritato, consapevole che nonostante il cappuccio calato sugli occhi potesse vederla, e si sforzò di trasmetterle le seguenti parole: "Hai intenzione di dirmi di che si tratta o vuoi tenermi sulle spine?"
"Una maledizione", rispose in tono lugubre, sollevando le mani ad indicare tutto ciò che le circondava. "Emrys era così pieno d'odio per via di tutte le perdite subìte da giurare che da quel momento in avanti avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere perché nessun altro soffrisse per via della magia. Senza saperlo, ha condannato anche se stesso. Per secoli ha camminato su queste terre, accumulando dentro di sé la forza della magia ovunque andasse. È per questo che il mondo sta collassando su se stesso: senza la magia a sostenerlo e a proteggerlo, presto morirà ogni cosa".
Alex si sentiva stordita, come se quelle parole fossero entrate a forza nel suo cranio a furia di martellate nelle orecchie.
Era come Merlino le aveva detto a Londra: lui era l'unico che poteva restituire al mondo l'energia magica che aveva "rubato", ma nel farlo si sarebbe ucciso.
«Non posso permetterlo», sussurrò, sentendo le lacrime salirle agli occhi. «Ci dev'essere un altro modo! Non posso guardare Merlino morire!».
Le labbra della donna si incurvarono in un'espressione desolata. "Mia cara, è questo il sacrificio che sarai costretta a compiere. La Dea l'ha predetto".
L'infermiera scosse il capo, coprendosi le orecchie. "Non lo farò, non lo farò mai".
«Alex!».
«Alex, dove sei?!».
L'infermiera si voltò, scorgendo dei fasci di luce ambrata tra gli alberi: Merlino e gli altri si erano accorti della sua scomparsa e la stavano cercando con delle fiaccole. Non aveva molto tempo e, per quante ne dicesse, quella donna le avrebbe dato delle risposte.
Peccato che quando tornò a rivolgerle la propria attenzione, questa si era già dileguata tra gli alberi del bosco.
"Dimmi almeno chi sei!", gridò mentalmente, ricevendo in risposta una risata posata.
I suoi amici l'avevano individuata tra gli alberi e la stavano raggiungendo, quando Alex sentì un rumore familiare, come lo scrosciare di un ruscello. Abbassò gli occhi e li sgranò, osservando l'acqua lambirle le scarpe e salire sempre più, trascinandosi dietro terra, aghi di pino, rami spezzati.
Iniziò ad urlare il nome di Merlino e di Artù, ma non le risposero. Allora provò a raggiungerli, ma la corrente dell'acqua le opponeva resistenza. Ormai vi era immersa fino alla vita e il panico stava iniziando a prendere il sopravvento, tanto era vivida la sensazione del fango dentro i vestiti.
«Basta!», gridò con tutte le sue forze.

«Basta!», ripeté, ritrovandosi seduta sul divano nel salotto di Merlino, con la televisione accesa e sintonizzata su BBC News.
Immagini di strade allagate, abitazioni sommerse dal fango e persone tratte in salvo dai vigili del fuoco le fecero accapponare la pelle, soprattutto perché risalivano appena alla notte precedente, quando le incessanti perturbazioni - stava spiegando la giornalista - avevano causato disagi e danni per milioni di sterline nella contea di Dorset.
Si alzò dal divano cercando di scuotersi di dosso i brividi e il terribile pensiero che non avesse sognato un'inondazione solo perché aveva captato la notizia nel dormiveglia; non dopo la chiacchierata con la donna col mantello.
Anziché darle risposte le aveva dato ancora più interrogativi e questo non le piaceva, come non le piaceva il fatto che fosse stata nominata ancora una volta la Dea. Chi era? Che fosse lei la vera burattinaia che si era accanita contro Merlino e Artù - ma soprattutto Merlino - per tutti quei secoli?
Merlino... Che fosse davvero quello il suo destino? Sacrificarsi perché il mondo riavesse la magia necessaria al suo equilibrio? Purtroppo aveva senso: se era stato davvero lui a scagliare quella maledizione, lui era l'unico che poteva spezzarla. Inoltre,  ad avvalorare quella teoria, c'era la profezia raccontatale da sua madre: lei e Artù avrebbero dovuto affrontare un grande male - il collasso del pianeta - e avrebbero dovuto fare un enorme sacrificio per riportare pace e serenità - assistere alla morte di Merlino.  
Salì lentamente le scale che portavano al piano superiore e raggiunse la camera dello stregone, il quale sollevò appena il capo quando sentì la porta aprirsi.
«Ehi», la salutò, con voce roca e gli occhi ancora gonfi di sonno. «Che ore sono?».
«Le dieci e un quarto. Di sera», gli rispose, raggiungendolo sul letto per rannicchiarsi al suo fianco.
«Ho dormito tutto il giorno? Mi dispiace, Alex...», sbuffò, passandosi le mani sul viso. «Questo doveva essere il nostro week-end».
Già, avrebbe dovuto esserlo. Tuttavia, nessuno dei due sembrava troppo disperato che una giornata se ne fosse andata in quel modo. Di certo Alex non lo era, vista la confusione emotiva che stava vivendo.
L'infermiera si sporse comunque a posargli un bacio sulla guancia ancora un po' accaldata. «Vuoi mangiare qualcosa? Ho preparato della minestra».
«No grazie, non ho fame», rispose, per poi lasciarsi sopraffare da una risatina.
«Che c'è?», gli chiese la bionda, senza riuscire a trattenere a sua volta un sorriso.
«Nulla, mi è soltanto tornato in mente Gaius, il mio mentore. Anche se, a onor del vero, è stato un vero e proprio padre per me».
«Era il curatore di corte, vero? Artù me ne ha parlato, qualche volta».
«Sì. Mi ha preso sotto la sua ala quando nel mio villaggio iniziò a girare la voce che io fossi uno stregone. Mia madre, per proteggermi, mi mandò a Camelot e vissi con lui fino alla fine. È grazie a lui se ho imparato a controllare davvero i miei poteri, ad usarli con saggezza. Senza Gaius... probabilmente avrei fatto la stessa fine di Morgana».
Con un singulto all'altezza del cuore, Alex ripensò alla figura avvolta nel mantello e si chiese se fosse lei, la donna misteriosa. L'istinto le diceva che si trattava proprio della sorellastra di Artù, ma la ragione la metteva in guardia: perché avrebbe dovuto mostrarsi a lei in sogno? E, soprattutto, poteva fidarsi della strega che aveva cercato di distruggere Camelot e aveva provocato la morte di Artù?
«C'è qualcosa che non va?», le chiese Merlino, guardandola col capo sollevato.
Alex si trovò davanti all'ennesimo dilemma: doveva avvertire Merlino dei propri sogni oppure gli avrebbe dato altre gatte da pelare, aggravando così le sue condizioni già precarie? La risposta giusta era: "Sì, deve sapere", ma decise di rimandare tutto ad un altro momento.
«Anche Morgana era una custode della magia?», gli domandò, nonostante conoscesse benissimo la risposta.
Merlino scosse il capo, guardando il soffitto. «No, era una Grande Sacerdotessa della Religione Antica. Era solo un canale, proprio come me».
Aveva detto le ultime parole con titubanza, come se non fosse convinto che fosse ancora così, ma se ne dimenticò poco dopo, quando il suo viso si illuminò grazie ad un sorriso simile al primo raggio di sole dopo un temporale.
«Perché questa domanda?».
«Ho sentito parlare dei custodi della magia, ma non ho ancora capito chi siano. Insomma... Freya è una di loro, giusto?».
«Sì, è diventata la custode di Avalon, uno dei luoghi più sacri della Religione Antica. Loro sono i protettori di ciò che è rimasto della magia, ne sono così ossessionati che sono disposti a tutto, anche a provocare la morte di persone innocenti, pur di raggiungere i loro scopi. Con le loro stupide profezie, manovrano gli uomini perché facciano quello che vogliono».
Alex ebbe un tuffo al cuore, pensando alla sua, di profezia. Anche lei ci sarebbe cascata? Anche lei avrebbe cercato in ogni modo di cambiare il destino, finendo invece per portarlo a compimento?
«E la Triplice Dea? Anche lei è così?».
Merlino si tirò su seduto di scatto, forse provocandosi anche una fitta di dolore. La ignorò però, concentrandosi totalmente su di lei per leggerle l'anima attraverso gli occhi.
«Come fai a sapere della Dea?».
«Io... Credo di averla sentita nominare da te», rispose l'infermiera, fingendo nonchalance per rimediare a quel terribile scivolone.
«No, io non l'ho mai nominata», replicò Merlino, ferale. Il suo sguardo era così duro da incuterle un certo timore. «Alex, è importante che io sappia la verità».
La bionda sospirò e si sedette a sua volta a gambe incrociate, ammettendo a mezza voce: «È stata Freya».
«Che cosa?», sbottò con il giusto mix di inquietudine e rabbia sul viso, oltre che con la voce di qualche ottava in meno. «E quando vi sareste incontrate?».
«Ieri», confessò. «Era già da un po' che Freya cercava di avvicinarmi, venendomi a cercare all'ospedale. Ieri Keith l'ha rivista e mi ha avvisato, così ho deciso di porre fine alla cosa andando da lei».
«Un momento», la interruppe il mago, con due dita sul setto nasale per la concentrazione. «Che ci faceva Freya all'ospedale?».
«Darrell. Voleva a tutti i costi farla visitare per capire il motivo della sua "perdita di memoria"», mimò le virgolette con le dita, «e lei ha acconsentito, non so per quale motivo. Ad ogni modo, quando l'ho affrontata mi ha detto che è scritto che io salverò il mondo riportandovi la magia e che la Dea non ha preso bene la mia dichiarazione di guerra».
Merlino rimase in silenzio per quelle che le sembrarono ore, il volto pallido e al contempo ricoperto da un velo di sudore per la febbre.
Alex allungò un braccio per prendergli la mano, pronta a ripetere che non avrebbe mai permesso che si sacrificasse, ma lo stregone la scansò con un gesto distratto, immerso in mille e più pensieri.
«Pensavo che la Dea fosse scomparsa, ma come Freya deve aver semplicemente conservato le forze», mormorò più a se stesso che ad Alex. «Mi chiedo quante creature siano sopravvissute in realtà...».
L'infermiera deglutì, terrorizzata dalla possibilità di dover affrontare più di una creatura magica. La donna misteriosa aveva detto che Freya era una minaccia che andava fermata e Alex, nonostante a parole avesse affermato il contrario, non era pronta ad affrontarla. Sarebbe stata una catastrofe se la dama del lago avesse trovato e risvegliato dal loro letargo anche solo alcuni dei mostri che Merlino e Artù avevano sconfitto nelle loro avventure.
«Merlino», provò ad interromperlo, ma il suo balbettio lo distrasse appena.
«Uhm? Oh, la Triplice Dea. Sì, è una delle forze primordiali, il centro del culto della Religione Antica. Le Grandi Sacerdotesse si rivolgevano a lei per qualsiasi cosa, ma soprattutto perché si diceva che lei controllasse il ciclo infinito della Ruota d'Argento: il passato, il presente e il futuro; la nascita, la vita e la morte; il destino di ogni creatura vivente, in parole povere. Non posso credere che ci fosse lei dietro tutti i complotti...».
Alex ci riprovò, sforzandosi perché la sua voce smettesse di tremare. «Avrei dovuto dirtelo prima, ma tu stavi male e...».
«Aspetta, che hai detto?», la interruppe lo stregone, cercando i suoi occhi.
«Quando?», gli chiese l'infermiera, confusa dal suo saltare di pane in frasca. Forse la febbre stava salendo di nuovo, impedendogli di concentrarsi.
«Hai detto che la Dea non ha preso bene la tua dichiarazione di guerra. Che cosa intendevi? Quale dichiarazione? Che cos'hai fatto, Alex?».
«Non lo so, non ho capito che cosa volesse dire Freya. Che importanza ha? Devo dirti una cosa che...».
«Può essere molto importante, oltre che pericoloso», ribatté, sottolineando la serietà della questione prendendole le spalle. «Hai rivolto un qualche tipo di sfida ai custodi della magia? Fatto un giuramento?».
L'infermiera raggelò. Ricordò la rabbia e la frustrazione che aveva provato prima di partire per Londra, quando si era rivolta direttamente ai custodi della magia, promettendo che avrebbe cambiato il destino di Artù e Merlino e che avrebbe fatto pentire i responsabili di tutte le loro sofferenze. A sigillare quel giuramento, solo ora se ne rendeva conto, aveva piantato il pugnale regalatole da Artù nel terreno sulla sponda del fiume immissario di Avalon, intorno al quale, guarda caso, una pianta stava crescendo a ritmi innaturali: in pochi giorni era passata da germoglio a pianticella e di quel passo, in meno di tre mesi, Merlino si sarebbe ritrovato con un nuovo giovane albero nel giardino.
Merlino la scosse, esortandola a parlare, e Alex gli raccontò tutto con tono distaccato, tant'era lo shock.
«Non bisogna mai sottovalutare la potenza di un giuramento», mormorò lo stregone dopo interminabili secondi di silenzio.
Alex abbassò gli occhi umidi di lacrime e aprì la bocca per chiedergli se anche lui avesse scagliato un qualche tipo di malezione, ma alla fine optò per una domanda diversa, più diretta: «Che cosa succederà se non cambierò il vostro destino?».
Non solo non sarebbe riuscita a salvare Merlino e Artù, ma avrebbe dovuto pure aspettarsi di essere colpita da un fulmine?
«Ce la farai», le disse dolcemente, sollevandole il capo con due dita sotto il suo mento perché i loro sguardi si incrociassero. La sorprese ancora di più con un sorriso, ma questo non la rincuorò, anzi... la fece stare peggio, dato che non gli aveva ancora presentato il piatto forte.
«Freya se n'è andata», esclamò, esitante. Evitando nuovamente gli occhi limpidi di Merlino, aspettò che la notizia venisse metabolizzata; poi aggiunse: «Me l'ha detto Darrell. A quanto pare, gli ha detto che le loro strade dovevano separarsi, per il bene di entrambi».
Lo stregone si alzò dal letto e in silenzio, con sguardo quasi spiritato, raggiunse le finestre che davano sul balcone. Guardò il cielo privo di stelle, l'espressione assorta. Alex avrebbe dato di tutto per conoscere anche uno solo dei suoi intricati pensieri.
«Mi dispiace, avrei dovuto dirtelo subito», disse pur di spezzare il silenzio, tirando su col naso. «Pensavo ci fossimo sbarazzati di un problema, ma ora sono sicura che ha qualcosa in mente. Devi credermi».
«Oh, ti credo. So che è così, perché la conosco. Ma tu... Come fai ad esserne certa?», le domandò, voltandosi con le braccia incrociate al petto.
«Io ho... ho fatto un sogno», ammise e lo stupore sul volto dello stregone fu più che palese.
«Un sogno premonitore, intendi? Hai visto il futuro?».
«No», affermò, cercando di aggrapparsi a quella convenzione con tutte le sue forze.
Fino ad allora si era limitata a dire che nulla di ciò che aveva visto si era ancora avverato, perciò poteva anche trattarsi di un sogno come tutti gli altri; ricorrente ed estremamente vivido, ma pur sempre un sogno. Si rifiutava di credere che tutto ciò che le aveva detto la donna misteriosa fosse vero, che i risultati del suo esame di compatibilità per la donazione di midollo sarebbero stati negativi...
«Non lo so, forse», singhiozzò alla fine, cedendo sotto il peso dei dubbi.
Merlino lasciò cadere la corazza che si era messo addosso quando aveva scoperto della partenza di Freya e tornò a sedersi sul letto, solo che quella volta le avvolse le braccia intorno al corpo per stringerla a sé e cullarla.
«Shhh. Va tutto bene», sussurrò, sfiorandole i capelli con le labbra. «Il futuro può essere spaventoso, ma non è immutabile».
«Tu sapevi che Artù sarebbe stato ucciso da Mordred, eppure non sei riuscito a cambiare le cose», gli ricordò, rendendosi conto troppo tardi della propria indelicatezza. «Scusami, non volevo...».
«No, hai ragione». Le sollevò il viso per spazzare via le lacrime con i pollici, gli occhi fissi nei suoi. «Io non sono stato in grado di cambiare le cose, ma non posso smettere di sperare, devo credere che tu possa farlo. Ho fede in te, Alex. Come ne avevo in Artù quando dicevo che un giorno sarebbe stato il più grande di tutti i re».
L'infermiera lo seguì sotto alle coperte, dove si accucciò con la testa sopra il suo petto. Si lasciò accarezzare i capelli, mentre con le dita tracciava disegni concentrici sullo sterno leggermente incavato del moro e cercava di regolarizzare il proprio respiro, ancora scosso dai singhiozzi.
«Artù aveva ragione: avrei dovuto riportarla subito ad Avalon, ascoltare il monito degli Sidhe», sussurrò Merlino, passandosi una mano tra i capelli arruffati.
Alex sollevò gli occhi ed osservò il suo profilo, notando la mascella contratta per il rammarico.
«Chi sono gli Sidhe?», decise di chiedergli, fiduciosa che avesse capito male il resto.
«Sono gli altri abitanti di Avalon, un popolo di fate. Li ho risvegliati io a Pasqua, nel tantivo di parlare con Freya. È stato allora che ho scoperto che una magia molto potente era stata in grado di farla uscire dalle acque di Avalon».
Alex venne scossa da un altro tremito quando unì finalmente i puntini. Come aveva fatto a non capirlo prima? Darrell aveva ospitato Freya per circa due settimane, ovvero da quando lei aveva ripescato Excalibur. La linea temporale combaciava perfettamente.
«Sono stata io a liberarla», realizzò, scioccata. «È tutta colpa mia».
«Ho i miei dubbi», esclamò lo stregone, stringendola di più a sé. «Freya aveva avvisato Artù che era sorto una specie di legame tra te e il lago, quando ti tuffasti per salvarlo. È probabile che sia stata la magia di Avalon ad attirarti, oppure la stessa Excalibur. E se così non è stato, ti assicuro che nessuno avrebbe potuto immaginare una cosa simile, nemmeno io».
Il suo sguardo si adombrò e Alex capì immediatamente il motivo: rimpiangeva di non averlo saputo. Un tempo avrebbe voluto riportare indietro Freya, questo era chiaro. E ora? Il sentimento che provava per lei era davvero svanito oppure, come le aveva confidato un paio di giorni prima, ardeva ancora, in qualche angolo remoto del suo cuore?
«Quindi questi Sidhe ti hanno detto di riportare Freya ad Avalon e tu non l'hai fatto», ricapitolò, risultando più nervosa di quanto avrebbe voluto dimostrare.
Lo stregone lo notò e voltò il capo per poterla guardare negli occhi con espressione addolorata, colpevole.
«Continuo a fare lo stesso errore», le spiegò, risultando davvero mortificato. «Morgana, Mordred e adesso Freya... Ho sempre sperato che potessero cambiare, che il buono che c'era in loro potesse tornare a prevalere se avessi dato loro una seconda possibilità. Freya ha salvato Artù, la notte in cui ha cercato di rubarti Excalibur. Ha sacrificato parte della sua magia, che altro non è che la sua forza vitale, per lui. E Artù non me ne ha voluto parlare, ma sono piuttosto sicuro che anche lui abbia avuto dei ripensamenti, quando lei ci ha ospitato a casa di Darrell.
«Ancora una volta ho mal riposto la mia fiducia. Ho esitato e questo, forse, ci porterà alla rovina».
Lo stregone sospirò e chiuse gli occhi, ma quando li riaprì Alex li trovò ancora più tristi e spenti, antichissimi. Ciò nonostante riuscì ad arricciare le labbra in un sorriso, per quanto amareggiato.
«Chi ha più colpe, tra noi due?».
La bionda, per l'ennesima volta, fu divorata dai sensi di colpa: come poteva ingelosirsi in quel modo per via di una donna del suo passato, dopo tutte le dimostrazioni d'amore di Merlino, lei che giusto quella mattina aveva stretto tra le mani quelle di Darrell, sentendo le farfalle nello stomaco?
Alex si puntellò sul gomito e col viso sopra quello di Merlino, lo fissò intensamente negli occhi. «Non so nemmeno perché perdi tempo con una stupida come me».
Il sorriso dello stregone si ampliò e con entrambe le mani le accarezzò il viso, per poi intrecciarne una tra i suoi capelli biondi e tenerglieli sulla nuca. «Perché ho sempre avuto un debole per gli stupidi della famiglia Pendragon. È mio dovere proteggerli, servirli e...».
«Stai zitto, Merlino», sussurrò prima di baciarlo appassionatamente.
Il mago portò le mani sotto la sua maglietta e gliela sfilò, poi invertì le loro posizioni per poterla guardare dall'alto. «Dovresti riposare», le ricordò. «Domani hai l'esame per Abby».
Alex non gli rispose nemmeno, afferrandolo per la nuca per poter far incontrare nuovamente le loro bocche.
Non voleva pensare all'esame, né voleva dormire per paura di avere altre visioni di ciò che li attendeva.

***

Cathleen frenò bruscamente e mentre Artù si affrettava a scendere dalla moto per saltare il guardrail e scivolare giù dalla duna di sabbia per raggiungere la spiaggia, lei si tolse il casco e gridò a squarciagola il nome del fratello acquisito.
Si trovava sui frangiflutti, pericolosamente vicino alle onde ingrossate dal vento; onde che ogni volta che si infrangevano sugli scivolosi massi a tre punte schizzavano spuma fino a diversi metri d'altezza.
Il buio era così fitto per via della luna celata dalle nuvole che il paramedico aveva dovuto lasciare i fari della moto accesi, puntati sui frangiflutti.
«Ash!», gridò il re di Camelot, correndo sulla passerella di cemento.
Il ragazzo si voltò e serrò le labbra, riservandogli uno sguardo fulminante. «Avevi promesso che avresti mantenuto il segreto».
«Ed è così», giurò Artù, contando i massi che li dividevano. «Cathleen non sa nulla».
La sua espressione rabbiosa stonava terribilmente coi brividi che gli scuotevano il corpo. «Perché dovrei crederti?».
«Perché ti ho dato la mia parola!».
Ash rischiò di cadere in avanti, spinto da una folata di vento più forte delle altre. Riuscì comunque a mantenere l'equilibrio, ma per farlo tirò fuori dalla tasca della felpa la mano con cui impugnava la piccola pistola che si era fatto procurare da Inky.
«Ash, ti prego, getta quella cosa!», gridò Cathleen, finalmente giunta al fianco di Artù, coi capelli rosso sangue che le turbinavano intorno al viso e la voce rotta dall'ansia.
Il ghigno che comparve sulle labbra del moro fece accapponare loro la pelle.
«Perché dovrei farlo? Ho aspettato fin troppo!», urlò, osservando l'arma nella propria mano. «Non sono mai stato coraggioso come te, Cath. Né ho mai avuto la tua forza. Guardami, sono una nullità! Ho ventidue anni e non ho ancora dato un senso alla mia vita! Tanto vale che la faccia finita!».
«Fermo!», gridò terrorizzata Cathleen quando il ragazzo si portò la canna lucida della pistola alla tempia. Le lacrime iniziarono a scorrerle inarrestabili sul volto. «Fermo, per l'amor del cielo!».
«Ash, ascoltami bene», intervenne Artù, facendo un passo avanti sui frangiflutti. «Anche io alla tua età mi sentivo una nullità. Nonostante avessi un padre ricco e tutti mi rispettassero per questo, non avevo niente di mio. Non mi ero guadagnato niente, né mi ero posto il problema prima di allora. Un giorno conobbi quello che è tutt'ora il mio migliore amico, un ragazzo dalle mille risorse, altruista e testardo. Mi fece notare che stavo facendo il prepotente e mi sfidò, una cosa che mai nessuno fino ad allora aveva osato fare. Lui mi ha insegnato a vedere con occhi nuovi le persone che mi stavano intorno, a lottare per ciò che desideravo, a meritarmi il rispetto».
«È una storia molto bella», esclamò Ash, sarcastico. «Ora posso premere il grilletto?».
«No! Adesso arriva la parte più bella».
Artù, raccontando il suo incontro con Merlino, aveva guadagnato qualche metro, ma si era già accorto dello sguardo circospetto del moro. Per quanto ancora gli avrebbe permesso di avvicinarsi?
«Qualche tempo dopo, trovai l'amore della mia vita. Era sempre stata lì, ad un passo da me, eppure non l'avevo mai notata prima. Mio padre non voleva che stessi con una ragazza di rango inferiore al nostro, ma io l'amavo... e lei, grazie al cielo, amava me. Mi ha reso un uomo migliore e l'uomo più felice di questo mondo».
Il volto pallido di Ash, illuminato fiocamente dai fari della moto di Cathleen, sembrava quello di un fantasma in lacrime e scosso dai singhiozzi. Il suo dito si posò con più decisione sul grilletto e fu allora che Artù fece il passo di troppo, quello che il moro vide come un'estrema minaccia. L'unico lato positivo era che ora non puntava più la pistola verso la propria testa.
«Non ti avvicinare!», gridò. «A meno che tu non voglia finire agl'inferi con me!».
«Ci sono già stato. Ma anche tu sai cosa si prova, non è vero?», rispose Artù, con un lieve sorriso. «È così che ci si sente, quando si perde la persona amata. Credimi, lo so perfettamente. Anche io ho provato lo stesso dolore eppure guardami, sono qui. Non mi sono puntato una pistola alla testa col desiderio di morire. Ci sono stati giorni duri più di altri, è vero, ma... col tempo anche le peggiori ferite guariscono. Mia moglie era una donna straordinaria e non amerò mai nessuna come ho amato lei, e non smetterò mai di sentire la sua mancanza, però...». Artù si voltò verso Cathleen, alle sue spalle, e le stese una mano perché la stringesse.
In qualche modo la rossa riuscì a scrollarsi di dosso il terrore che fino a quel momento l'aveva resa una statua di sale ed abbozzò persino un sorriso umido, raggiungendo le dita dell'ex re di Camelot.
«Non ho chiesto io di tornare ad amare», aggiunse Artù, guardando di nuovo il ragazzo. «Non credevo nemmeno fosse possibile! Ma è successo. E succederà anche a te prima o poi, ne sono certo».
Ash fissò intensamente Artù, con le lacrime che continuavano a rigargli le guance, e poi spostò gli occhi arrossati sulla sorella, la quale stese la mano libera verso di lui e gli rivolse un sorriso dolcissimo. Non ebbe bisogno di parole per convincerlo a gettarsi la pistola alle spalle, nelle onde del mare, e ad avvicinarsi al raggio d'azione di Artù, il quale non appena poté l'afferrò repentinamente per un braccio e lo condusse con sé sulla passerella in cemento, giusto un momento prima che un'onda anomala si schiantasse sul masso su cui era stato fino a quel momento e bagnasse le loro schiene con la sua spuma.
Cathleen, dal trucco ormai completamente sciolto per via delle lacrime, lo intrappolò in un abbraccio stritolatore, lasciandolo sfogare nell'incavo della sua spalla, e dopo una dozzina di secondi cercò lo sguardo di Artù. Gli fece segno di avvicinarsi con una mano e coinvolse anche lui, strappandogli un bacio da sopra la spalla di Ash.
Erano ancora lì, aggrappati l'uno all'altro come se ne andasse delle loro vite - ed era così, dopotutto - quando degli scoppi nel cielo non li costrinsero a sciogliere l'abbraccio per alzare le teste.
«Che cosa diamine...?», sussurrò Artù, rapito dalle stelle cadenti rosse, gialle e verdi che esplodevano a grappoli, brillando ed illuminando il mare mosso.
«Fuochi d'artificio», gli spiegò a bassa voce Cathleen, senza farsi notare da Ash. «Vengono sparati in aria per festeggiare festività particolari».
Ash tirò su col naso, sorridendo verso il cielo illuminato.
Cinque minuti prima stava per spararsi un colpo in testa, morto dentro; ora guardava i fuochi sparati nel cielo e si sentiva vivo, vivo come non mai. Ed era tutto merito di Artù.
Si voltò verso il biondo e gli porse la mano, esclamando: «Avevo ragione a pensare che Cathleen fosse in buone mani. Grazie, Artù».
Il biondo sorrise e gli strinse l'avambraccio, attirandolo a sé per un abbraccio con cui gli scompigliò i capelli sulla nuca. Quando si allontanarono, Cathleen prese da parte Ash per tirargli un pugno poco sotto la spalla, facendolo gemere dal dolore. Il ragazzo però ammise: «Me lo meritavo».
«Sbrighiamoci, la strada è lunga!», ordinò la rossa, iniziando ad incamminarsi verso la sua moto. «Sei in grado di guidare, Ash?».
Il fratello annuì, ma Cathleen costrinse Artù ad andare con lui. Probabilmente aveva paura che l'istinto suicida potesse tornare e che lo spingesse a gettarsi giù da un dirupo.
Ash aveva rubato una delle auto d'epoca del signor Shaw, una Bentley S2 decappottabile color grigio perla e dagli interni di pelle rossa, e seduto al posto del passeggero, Artù lo guardò accendere il motore e lasciarsi alle spalle gli ultimi fuochi d'artificio, mentre Cathleen faceva loro strada sulla sua enduro.
«Mi dispiace per tua moglie», esordì Ash, guardando il biondo con la coda dell'occhio. «Ma in un certo senso sono felice, perché questo ha permesso a Cath di incontrarti. Erano anni che non la vedevo sorridere così».
«Anche io sono felice di averla conosciuta. È davvero speciale».
«In più, senza di te a quest'ora probabilmente sarei un cadavere sbatacchiato sui frangiflutti dalle onde», aggiunse.
Imbarazzato ed inorridito da quell'immagine, Artù chinò il capo. «Io non mi darei così tanta importanza».
«Dovresti. Sei stato in grado di infondermi speranza, e non è cosa da poco».
Il re di Camelot guardò il mare scorrere oltre il guardrail di quella strada che costeggiava una parete rocciosa e ripensò alle parole che Merlino gli aveva detto poco dopo il suo ritorno da Avalon: anche lui gli aveva confidato di aver rischiato di perdere ogni speranza e che un uomo senza speranza è un uomo morto.
Che fosse quello, il motivo per cui era tornato dal mondo degli spiriti? Il suo compito era quello di dare speranza a Merlino, a chiunque dovesse lottare quella guerra che non avrebbe nemmeno dovuto essere la loro?
Era sempre stato bravo con le parole, a fare discorsi di incitamento prima di andare in battaglia, ma solo se credeva fermamente in ciò che diceva. Si trovavano in un vicolo cieco, dato che al pianeta serviva la magia di Merlino e mai e poi mai lui gli avrebbe permesso di sacrificarsi, nemmeno se fosse stata l'unica possibilità per la salvezza del mondo.
I piatti della bilancia erano in perfetto equilibrio e solo una persona poteva far sì che la situazione cambiasse: Alex, la sua ultima discendente. Assisterla, insegnarle a seguire il cuore e a lottare per ciò che riteneva giusto, infonderle speranza quando le decisioni da prendere sarebbero risultate impossibili, addirittura dolorose... Era quella la ragione per cui era tornato in realtà. E questo, poco ma sicuro, poteva farlo.

***

Cathleen si ravvivò ancora una volta i capelli e respirò profondamente, quindi sollevò il pugno per bussare alla porta di Artù. Si era detta di farlo e basta, senza pensarci su troppo, ma la sua esitazione le era stata fatale.
Abbassò il braccio, dandosi della codarda, e si girò per tornare al capezzale di Ash, a cui aveva dato una dose ridotta dei sonniferi del padre per aiutarlo a dormire. Si fermò però, sentendo la porta alle sue spalle cigolare un poco nell'aprirsi.
«Cathleen», la chiamò sorpreso Artù.
La ragazza ricambiò il suo sguardo, nonostante fosse certa di essere diventata rossa tanto quanto i suoi capelli.
«Che ci fai qui?», le domandò. «Ash sta bene?».
«Sì, sta dormendo. Ero solo venuta a controllare. E tu... tu come mai sei ancora sveglio?».
Artù si strinse nelle spalle, sfuggendo al suo sguardo. «Non riesco ad addormentarmi per i troppi pensieri».
Avrebbe dato qualsiasi cosa, persino tutta la propria collezione di statuette, per sapere quali fossero i suoi pensieri, se anche lei ne faceva parte. Perché lui si era conquistato un posto in prima fila nel suo cervello, specialmente dopo ciò che aveva detto ad Ash per convincerlo a non spararsi.
Aveva detto di essere tornato ad amare... ad amare lei. E dal modo in cui il cuore le era esploso nella gabbia toracica, aveva il forte sospetto che il suo sentimento fosse ricambiato. Ma non aveva il coraggio di dirglielo, forse per paura che avesse ingigantito le cose.
«Mentre tornavamo, Ash mi ha detto che sono stato in grado di infondergli speranza», le disse, strofinandosi la fronte. «È solo una teoria, ma credo che sia questo il mio scopo: convincere chi mi sta accanto che finché saremo in grado di stare in piedi e di lottare perché il bene prevalga, ci sarà speranza».
Cathleen sorrise, sentendo un piacevole calore avvolgerle il cuore e lenirlo come un balsamo. Probabilmente le sciolse anche il grumo di paura che le bloccava la gola, perché ammise: «L'hai fatto anche con me. Anche io ero convinta che non sarei più stata felice, che non avrei più amato nessuno dopo Zachary... tu mi hai smentita, hai riacceso in me quel fuoco che si era affievolito. Sono tornata a vivere, grazie a te, e ti devo tutto».
Non si era nemmeno accorta di essere avanzata tanto da scorgere i propri occhi riflessi in quelli blu del sovrano, profondi e gentili, nei quali si perse. Le sarebbe piaciuto restare lì per sempre, cullata dalle loro mille sfumature, ma Artù girò il capo verso la finestra, lasciandosi illuminare il viso dalla luna che finalmente era riuscita a crearsi un varco tra le nubi.
Cathleen gli posò una mano sulla guancia, apprensiva. «Che cosa c'è?».
«Ho un pezzo di spada incantata a pochi centimetri dal cuore e Avalon mi rivuole indietro... Il mio destino è segnato, Cathleen, e non voglio che tu ne soffra».
«Guardami negli occhi».
Nonostante uno tsunami interno le stesse sballottando gli organi, la voce le uscì abbastanza imperiosa da convincere Artù a rivolgerle ancora lo sguardo.
Dio, con quegli zaffiri non era necessaria una spada per trapassarle il cuore.
«Ti ho promesso che l'avremmo affrontato insieme, ti ricordi?».
«Non posso chiederti...».
«Non mi hai chiesto nulla, Artù. Non è colpa tua se sei tanto sexy da far crollare ogni ragazza ai tuoi piedi, inclusa me».
Il re abbozzò un sorriso divertito e al contempo compiaciuto.
«Io... io sono innamorata di te», confessò finalmente, sentendo l'enorme peso che le schiacciava il cuore sgretolarsi e lasciarla molto più leggera, tanto da farle sbocciare un sorriso beffardo sulle labbra. «E so di non avere poteri magici, né di saper combattere, e che le nostre possibilità di successo oscillano tra poche e nessuna, ma d'altronde... mi sono sempre piaciute le sfide impossibili».
Artù, per una volta, smise di insistere e si lasciò convincere dalle sue parole. Le avvolse le braccia intorno alla schiena e la strinse forte a sé e di nuovo Cathleen non avrebbe mai voluto allontanarsi dal suo petto, contro il quale si sentiva protetta e sicura. Non aveva previsto però quello che sarebbe successo dopo, quando quel desiderio le sarebbe sembrato una bazzecola in confronto.
Le mani di Artù risalirono la sua schiena per raggiungere la sua chioma scompigliata e il paramedico alzò il capo per cercare il suo sguardo, ma ciò che trovò furono le sue labbra, calde e quasi timide sulle sue.
All'inizio fu un bacio dolce, ma ben presto crebbe di intensità e la rossa si ritrovò con le dita di una mano intrecciate ai suoi capelli biondi e le altre artigliate alla sua spalla, mentre Artù si piegava quel tanto che bastava a passarle un braccio sotto alle ginocchia per sollevarla e portarla nella sua camera, dando persino una mandata di chiave alla porta.

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Capitolo 26
*** 26. The nightmare begins ***


26. The nightmare begins


«Avanti Jake, andiamo», ordinò una voce femminile, una voce che Darrell riconobbe all'istante: Freya.
Provò a voltarsi, o anche solo a girare il capo a destra e a sinistra per vederla ancora una volta, almeno in sogno, ma non ci riuscì. Si sentiva il terzo incomodo, come se non fosse lui il creatore di quel sogno.
Il ragazzo si avvicinò, non senza essersi voltato indietro un'ultima volta, e con la fronte corrugata per l'irritazione sbottò proprio di fronte a lui: «Ce ne andiamo così? Quel tipo merita una lezione!».
Indicò un giovane senzatetto, dal volto emaciato e sporco, con un paio di penetranti occhi verdi e i capelli di un biondo pallido, come se avesse provato a lavarseli con la candeggina - anche se l'ultima volta che si era occupato della propria igiene personale doveva essere stata molto, molto tempo prima, considerando l'odore e la condizione dei  suoi abiti, lerci e tappezzati di toppe di fortuna.
Stava seguendo ogni loro movimento con espressione circospetta, sfregandosi le mani dalle unghie incrostate vicino al fuoco che scoppiettava in un barile, e Darrell avrebbe voluto chiedergli chi fosse, che cosa avesse fatto per infastidirlo tanto, ma fu ancora Freya a parlare: «Non abbiamo tempo, né per convincerlo né per costringerlo ad abbracciare la nostra causa. Quanto impiegheremo a raggiungere Glasgow?».
«Sono tre ore e mezza di auto, quindi all'alba dovremo essere lì».
«Bene, perché ho bisogno di riposare».
Facendo il giro dell'anonimo pick-up verde petrolio, Jake chiese: «Sempre per la spartizione della forza vitale?».
«Già. Darrell ora sta dormendo, ma domani mattina si sveglierà e andrà al lavoro. Se uno dei due non si facesse da parte, saremmo entrambi così deboli da essere praticamente inutili».
Freya salì al posto del passeggero e diede un'occhiata ai sedili posteriori, dove due sorelle gemelle di quindici, massimo sedici anni, dormivano l'una addosso all'altra, imbacuccate nei loro bomber dai colori fluo e con i cappellini coordinati che contenevano i loro voluminosi ricci arancioni.
«Sono ancora del parere che siano troppo piccole per venire con noi», mormorò Jake, guardandole a sua volta.
«È stata una loro scelta. Adesso andiamo».
Il ragazzo sospirò e mise in moto, quando lo straccione che all'inizio aveva rifiutato il loro invito bussò ripetutamente al suo finestrino, facendolo sobbalzare. Jake abbassò il vetro e il biondo si spostò dalla fronte una ciocca di capelli scoloriti.
«Ho cambiato idea, vengo con voi», affermò prima di aprirsi in un sorriso tutto denti.
Senza aspettare loro istruzioni saltò sul retro del pick-up, incurante del freddo che avrebbe patito all'aperto. Probabilmente ci era abituato.
Darrell, fino ad allora spettatore silenzioso e terrorizzato, impiegò tutta la propria forza di volontà perché la sua coscienza prendesse brevemente il sopravvento su quella di Freya, permettendogli di allungare una mano verso lo specchietto retrovisore e girarlo verso di sé. Ciò che vide fu la prova definitiva, quella che rese realtà il suo atroce sospetto: era davvero intrappolato nel corpo di Freya.
La ragazza ricambiò il suo sguardo, mostrandosi spaventata tanto quanto lui, ma ebbe comunque la forza necessaria per riprendere il controllo e cacciarlo fuori dalla sua testa.

Darrell sbarrò gli occhi, sudato tra le coperte del suo letto, e per diversi minuti non riuscì a muovere un muscolo, tant'era lo shock. A quel punto dubitava che fosse stato un semplice sogno: c'erano troppe prove che dimostravano la folle ed assurda teoria dell'esistenza della stregoneria.
Con le lacrime che gli rigavano il volto in un pianto liberatorio, il poliziotto si tirò su seduto e si allungò verso il comodino per prendere il block notes su cui, da una settimana a quella parte, aveva iniziato a scrivere tutto ciò che sognava: all'inizio erano state istantanee senza un preciso senso logico, immagini che allo sbattere delle ciglia scomparivano; poi aveva iniziato a captare rumori, parole a casaccio e frasi spezzate a metà, come una radio che non riusciva a beccare la giusta frequenza. Ora questo.
Rilesse tutto ciò che aveva scritto, guardò con più attenzione gli schizzi che aveva disegnato e cercò di dare un senso al tutto. Incredibilmente ci riuscì: Freya stava cercando delle persone, attraversando tutto il Regno Unito con Jake, scomparso misteriosamente il giorno dopo la partenza di Freya. Adesso sapeva che non era una semplice coincidenza e che stava bene, anche se non era certo di quanto potesse stare bene qualcuno in compagnia di una strega.
Accese l'abat-jour e con le spalle contro la testiera del letto scelse una pagina bianca per disegnare i volti dei ragazzi sconosciuti che aveva visto in compagnia di Freya. Il minimo che poteva fare era cercarli nel database della polizia. Sapere chi fossero o se avessero delle famiglie da qualche parte non sarebbe servito a molto, ma forse gli avrebbe evitato la pazzia. E a proposito di pazzi, iniziava a pensare che fosse giunto il momento di scoprire le proprie carte con le persone che riteneva sempre più collegate a tutte le assurdità che gli capitavano: Artù e Merlino.

***

Merlino stava bevendo il suo caffé sulla veranda, sorridendo, quando fu raggiunto dal solo ed unico re.
Entrambi guardarono Alex trottare in cerchio sulla groppa di Flash, il cavallo nero che suo padre sarebbe stato costretto a vendere al primo sconosciuto se lo stregone non avesse deciso di dargli una casa, per la felicità dell'infermiera.
«Sono contento di essere riuscito a farti ragionare», ruppe il silenzio Artù, dopo aver bevuto a sua volta un sorso di caffé.
«Sì, anche io. La felicità di Alex è più importante di una stupida auto».
«Non mi riferivo al fienile convertito a stalla per il cavallo».
Merlino non dovette nemmeno guardarlo in viso per capire che in realtà intendeva dire che era orgoglioso che avesse cambiato idea e che presto avrebbe ufficialmente chiesto ad Alex di sposarlo.
Era iniziato tutto per colpa di Edwin, quando erano andati a prendere il cavallo all'agriturismo. Il padre di Alex l'aveva preso da parte per chiedergli se avesse già programmato il momento, magari dopo una bella cena oppure in un luogo particolare, e Artù aveva assistito al suo patetico arrampicarsi sugli specchi, capendo immediatamente che non c'era in programma un bel tubo.
Dopo qualche pressione lo stregone non aveva potuto far altro che cedere e aveva confessato i dubbi che l'avevano assalito dopo che Abby aveva scoperto la storia della sua bisnonna: Louise McTrusty, il suo ultimo e più importante amore prima di conoscere Alex.
In quella settimana il ricordo bruciante di Louise si era affievolito ed erano bastate poche parole dell'ex re di Camelot perché tornasse sui suoi passi: come essere immortale non avrebbe mai dimenticato le donne che aveva amato nelle sue vite precedenti, ma non per questo doveva rinnegarsi la felicità e l'amore nel presente.
Diede le spalle al giardino e Artù lo imitò per guardare ancora una volta l'anello di fidanzamento che ai tempi Edwin aveva regalato a sua moglie Ellen e che aveva tramandato a lui. L'aveva dissotterrato quella mattina all'alba, spronato da Artù, e quando aveva riavuto il cofanetto tra le mani si era sentito così rincuorato che aveva capito all'istante di aver fatto la scelta giusta.
Merlino alzò gli occhi per incrociare quelli di Artù e aprì la bocca per rispondergli, ma Cathleen comparve in cucina con indosso solo una canottiera dalle spalle fini e gli slip, sbadigliando senza ritegno.
Con più di millequattrocento anni sulle spalle, Merlino aveva smesso di scandalizzarsi, ma Artù divenne rosso porpora per il modo in cui andava in giro la sua donna, specialmente in casa d'altri. Non ebbe però modo di aprir bocca, perché il paramedico li notò e li raggiunse in veranda per esclamare, tutta eccitata: «Non potete immaginare che cos'ho sognato! Stavo mangiando una pizza, una pizza che sapeva di torta al cioccolato! Avete mai fatto un sogno del genere?».
Merlino e Artù si scambiarono un'occhiata, sconvolti. Avrebbero dovuto fare delle ricerche approfondite in merito all'albero genialogico di Cathleen, perché c'erano delle volte in cui era tale e quale a Sir Gwaine.
La rossa si stancò di aspettare la loro risposta e sventolando una mano in aria, affermò: «Non sapete che vi siete persi».
Quindi notò Alex alle loro spalle, la quale era scesa da cavallo per dargli una carota fresca dell'orto dei signori Morris, e alzandosi in punta di piedi sventolò un braccio nel salutarla a gran voce.
L'infermiera sgranò gli occhi vedendola mezza nuda, ma poi si sciolse in un sorriso e ricambiò con un cenno della mano.

***

Baqi, di ritorno dalla caffetteria della signora Begum, le passò accanto senza rivolgerle nemmeno uno sguardo e Hala si sentì morire dentro.
Si scusò con Keith, incrociato per caso quando era uscita per prendere una boccata d'aria ed allontanarsi dalla visione di una Abby addormentata e ciò nonostante sofferente, col volto pallido e lividi violacei intorno agli occhi.
Non ricordava di averla mai vista in quello stato prima di allora: la malattia era tornata all'attacco, aggressiva e spietata, e la lista d'attesa per il trapianto di midollo non sembrava mai accorciarsi.
Raggiunse il gemello con una corsetta e lo afferrò per una spalla, costringendolo ad affrontarla.
Erano diversi giorni che non le rivolgeva la parola, precisamente da quando aveva scoperto che gli aveva tenuto nascosto di aver incontrato il suo uomo immortale e, cosa ancora più grave, di aver avuto conferma della sua teoria da Abby.
Lei aveva provato a giustificarsi, a dirgli che ciò che credeva una ragazzina malata non era necessariamente la verità, ma il fratello, ferito dal tradimento, non aveva voluto sentire ragioni.
«L'ho fatto per te», esordì, rispecchiandosi negli occhi di Baqi e rendendosi conto di quanto suonasse patetica. Per questo aggiunse: «Non voglio che tu finisca nei guai, okay?».
«Non sono un bambino, Hala; so badare a me stesso», replicò atono, scrollandosi la sua mano di dosso.
La pakistana guardò il fratello dirigersi verso le porte scorrevoli e ad un tratto gli gridò dietro: «Non puoi ignorarmi per sempre!».
Baqi non si voltò nemmeno, rispondendo semplicemente: «Devo andare dalla signora Chapman, prima che il caffè si raffreddi».
Quando fu scomparso all'interno del complesso ospedaliero, Keith raggiunse la ragazza e le posò una mano tra le scapole in segno di conforto.
«Fratelli, eh?», sospirò con un lieve sorriso sulle labbra. «Io sono il più piccolo della famiglia ed è sempre stato difficile. Eravamo sempre in competizione».
«Non è il nostro caso», spiegò Hala, sistemandosi dietro le orecchie i lunghi capelli neri. «Di solito è lui che fa arrabbiare me, ma questa volta è colpa mia: sta lavorando ad una storia ed io mi sono messa in mezzo».
«Sono certo che ti farai perdonare», le disse prima di fare l'ultimo tiro alla sigaretta e di spegnerne il mozzicone nell'apposito posacenere.
Il dottor Ellis si sporse per baciarle la guancia e la salutò per tornare al lavoro, ma la pakistana se ne accorse appena, riflettendo sulle sue parole: un modo per farsi perdonare c'era, ma era l'idea più folle che potesse venirle in mente. Ciò nonostante, sapeva di dover tentare.

***

Alex alzò gli occhi e guardò fuori dalla finestra della cucina, avendo come l'impressione di essere stata di nuovo catapultata a scuola.
Nel prato, Artù e Cathleen si stavano allenando al tiro con l'arco e in quel momento avrebbe dato di tutto per raggiungerli e mostrare all'antenato i propri progressi. Perché sui suoi insegnamenti poteva esercitarsi, mentre su quelli di Merlino no. Per carità, era felicissima che avesse finalmente deciso di addestrarla a controllare la forza della magia, ma dubitava fortemente che la teoria sarebbe servita a qualcosa con un'avversaria come Freya.
Doveva rimediare al danno che aveva fatto, rispedire la custode nelle acque di Avalon, e per farlo doveva imparare a lanciare gli incantesimi, ma Merlino si era come fossilizzato sulla pronuncia, sulle buone intenzioni... Era come quando aveva convinto i suoi genitori ad iscriverla ad un corso di chitarra: pensava che avrebbe subito iniziato a suonare, invece il maestro l'aveva costretta ad imparare le basi del solfeggio prima. Una vera delusione.
E a proposito di delusioni, quella simpaticona della donna misteriosa non l'aveva più raggiunta in sogno dall'ultima volta. Alex aveva così tante domande da farle... tra cui la più importante: era davvero lo spirito di Morgana?
Il libro di Merlino - una copia di quello che Gaius gli aveva regalato all'inizio della sua carriera di mago - cadde sul tavolo con un tonfo e l'infermiera si voltò di scatto, trovando lo stregone con le braccia conserte e un'espressione affranta  sul viso.
«Se non trovi interessante ciò che sto dicendo puoi dirlo apertamente», la sfidò.
Alex si addossò allo schienale, arricciando le labbra in una smorfia d'insoddisfazione. «Non è che non è interessante», spiegò. «Il fatto è che è trascorsa una settimana e non mi hai ancora permesso di fare nulla!».
Merlino abbandonò le braccia lungo i fianchi e si sedette di fronte a lei con un sospiro, poi la guardò negli occhi e ammise: «A meno che tu non voglia vedermi in preda alle convulsioni, non puoi usare la magia».
L'infermiera aprì la bocca per chiedere che cosa volesse dire, ma non ce ne fu bisogno: con la sua maledizione, Merlino si era trasformato in una calamita attira magia e tutta quella che un tempo scorreva libera nel mondo - nella terra, nel cielo e nei mari - ora era intrappolata nelle sue vene. Lui era una delle poche fonti rimaste, nonché la più potente, e se avesse davvero provato ad utilizzare la magia... beh, la verità era che l'avrebbe sottratta a lui.
«Quindi... quindi anche quando ho recuperato il tuo prototipo dalla Centrale...», balbettò, capendo finalmente come mai Merlino si era ritrovato con quella febbre da cavallo che l'aveva costretto a letto per tutto il giorno.
«Va tutto bene», la rassicurò con un sorriso, allungando un braccio per poterle stringere una mano.
«Non capisco... Come faremo a battere Freya senza la magia? E lei come fa a non collassare? È pur sempre una creatura magica! Pensi abbia trovato un'altra fonte?».
«Non lo so», fu costretto ad ammettere Merlino. «Può darsi che essendo stata la custode di Avalon per quindici secoli, sia la sua magia a tenerla in vita. Come Artù, dopotutto».
Dopo aver gettato entrambi uno sguardo al re di Camelot, intento a scoccare una freccia che non colpì il centro esatto del bersaglio solo perché Cathleen lo aveva sbilanciato con un colpo d'anca, lo stregone si alzò in piedi ed uscì dalla cucina.
«Torno subito», le aveva detto, e in effetti pochi minuti dopo era tornato con uno zainetto logoro sulla spalla, in cui infilò una bottiglia d'acqua presa dal frigorifero.
«Stiamo andando a fare una scampagnata?», gli chiese allora Alex, incuriosita.
Merlino annuì con un cenno del capo. «Un modo per lottare ad armi pari con Freya c'è: anche se non mi piace granché, è la nostra unica scelta».
Dopo aver preso anche un paio di merendine, il mago posò lo zainetto sul tavolo e la guardò intensamente negli occhi, con la stessa espressione corrucciata di un giudice indeciso su una sentenza. Che per caso non la ritenesse in grado di affrontare quella prova?
Un moto d'orgoglio le indurì il volto, permettendole di ricambiare lo sguardo del moro. «Ce la farò», affermò, convincendosi a sua volta. «L'hai detto anche tu che devo credere in me, no?».
Merlino si sciolse in un sorriso e le disse di prepararsi, mentre lui avvisava Artù e Cathleen e sellava Flash.

Merlino la condusse nel fitto del bosco che delimitava la fine della sua proprietà e seduta in groppa all'ex cavallo da corsa, Alex avvertì una specie di fitta di dolore poco sotto al seno, dove si era allacciata lo spesso corpetto di cuoio che usava come protezione quando tirava di spada con Artù.
Aveva la sensazione di aver già visto quegli alberi, moltissimo tempo prima, e più si avvicinavano alla radura su cui brillava l'alto sole del primo pomeriggio più il dolore aumentava, costringendola a stringere i denti.
Alex si portò una mano sul punto preciso e chiudendo gli occhi ebbe una specie di visione, della durata di un paio di secondi. Erano bastati però per vedere un giovanissimo Merlino dall'espressione determinata e al contempo addolorata torreggiare sopra di lei e trafiggerla con una spada unica nel suo genere: Excalibur.
«Fermo, fermo», esclamò, strappando le redini dalle mani del mago.
«Che cosa c'è?», le domandò sorpreso. Lentamente il suo sguardo si fece più attento, notando la preoccupazione e il pallore mortale sul suo viso.
Alex deglutì, cercando di raccimolare il coraggio. «Ho un brutto presentimento su questo posto. Non mi piace proprio, sento... sento che è morto qualcuno, qui».
Merlino accennò appena un sorriso, abbassando mestamente gli occhi. «È come immaginavo. Vieni, devi sapere».
Lo stregone proseguì verso la radura, certo che l'infermiera l'avrebbe seguito, e una volta scesa da cavallo lo fece. Lo raggiunse davanti ad una piramide di sassi ricoperti di muschio e rimase in silenzio al suo fianco, aspettando che fosse pronto a condividere con lei il ricordo della persona che era morta proprio in quel punto, poco prima che Artù venisse preso in custodia dalle acque di Avalon. Alex aveva già capito di chi si trattava ovviamente, ma non sapeva come né perché si fosse creato quello strano legame tra loro.
«È qui che ho ucciso Morgana con Excalibur», le confessò, cercando di celare l'emozione che gli stava rompendo la voce. «Ho speso anni della mia vita a struggermi e a domandarmi che cosa sarebbe successo se l'avessi risparmiata. Poi, qualche settimana fa, Freya mi ha rivelato che l'unico modo per liberarla da tutto l'odio e il dolore che provava era proprio trafiggerla con Excalibur. La spada ha assorbito la magia nera che aveva corrotto la sua anima e le ha donato la pace».
Merlino si voltò per incrociare i suoi occhi e sorrise di nuovo, nonostante le lacrime minacciassero di bagnargli gli zigomi spigolosi. «Non sapevo se credere o meno alle parole di Freya, ma poi mi sono ricordato del tuo strano comportamento dopo il ritrovamento di Excalibur e ho capito che aveva detto il vero. Il male che aveva afflitto Morgana ha cercato di impadronirsi anche del tuo cuore, dandoti la forza, la risolutezza e il potere a discapito della gentilezza e della bontà».
Alex fissò la tomba della Grande Sacerdotessa e si domandò se fosse proprio quella la ragione per cui aveva iniziato a sentirsi così legata a lei, tanto da riuscire a comunicare con il suo spirito e a rivivere sulla propria pelle i suoi ricordi. E se davvero Excalibur era riuscita a purificare il suo cuore poteva considerarla un'alleata, una guida preziosa nella lotta contro il "grande male" della profezia?
«La nostra unica possibilità contro Freya è Excalibur, come avrai capito», riprese Merlino, lasciandosi scompigliare i capelli dal vento che si era alzato e stava spettinando anche le fronde degli alberi. «La spada è stata forgiata dal fuoco di un drago, perciò è in grado di uccidere gli esseri immortali. Ed è anche una delle ultime fonti da cui puoi assorbire la magia, ma nel farlo assorbirai anche la magia nera di Morgana».
Alex fissò l'orizzonte, profondamente immersa nei propri pensieri. Voleva davvero che Freya tornasse da dove era venuta, ma non sapeva se a quelle condizioni il gioco valesse la candela. Ricordava come si era sentita quando era stata in possesso di Excalibur: potente ed invincibile, ma anche incapace di amare e di provare vera felicità. Era disposta a sacrificare la parte migliore di sé per avere qualche chance in più contro la dama del lago?
«Non c'è modo di purificare la spada? Magari il tuo prototipo funziona anche su Excalibur», esclamò, pur sapendo che se fosse stato così semplice Merlino ci avrebbe già pensato.
Lo stregone scosse il capo, amareggiato. «Excalibur è l'arma più potente mai creata, tanto da avere quasi una coscienza propria. Risponde alle sue regole soltanto ed è lei a scegliere le persone degne di impugnarla».
«Come il martello di Thor», provò a stemperare la tensione Alex, con ben poco successo.
«Kilgharrah mi aveva avvisato, d'altronde... È stata forgiata per Artù e Artù soltanto e se qualcun altro l'avesse usata sarebbero accadute cose terribili. Se fosse stato Artù ad uccidere Morgana, magari...».
«Il passato è passato», lo interruppe Alex, prendendogli una mano e costringendolo a voltarsi, non prima di non aver gettato a sua volta un'ultima occhiata alla tomba di Morgana.
Mentre ritornavano nei meandri del bosco, Merlino esclamò mogio: «Forse la Triplice Dea sarebbe in grado di purificare la spada, ma dubito che ci aiuterà dopo la tua presa di posizione...».
Alex non pensava che avrebbe potuto sentirsi ancora più in colpa, ma le parole di Merlino la smentirono. Non solo aveva liberato Freya, si addirittura era inamicata una Dea!
«Torniamo a casa?», gli domandò, sentendo il peso del mondo sulle spalle.
«No, prima devo mostrarti un'altra cosa».
Merlino la condusse fino all'ingresso di una specie di bunker scavato nella roccia e le mostrò come accedervi. Quindi, con una torcia elettrica pescata dallo zaino in una mano e le dita di Alex strette nell'altra, la invitò a seguirla in quella che chiamò la caverna di cristallo. L'infermiera non capì a cosa si riferisse il nome fino a quando non si ritrovò in una grotta in cui al posto delle stalattiti e delle stalagmiti c'erano enormi cristalli che coi loro bagliori azzurri rendevano inutile la torcia.
«È incredibile», soffiò, incantata. Anche senza poteri, poteva percepire la magia che permeava quella caverna.
Merlino sorrise e la fece avvicinare ad una roccia su cui pullulavano i cristalli.
«Posso toccarli?».
«Sì, però potresti...».
Alex non si fermò ad ascoltare oltre il "Sì" e non appena sfiorò la punta di una pietra la sua testa venne bombardata di immagini e suoni, come se si fosse trovata davanti ad una parete di televisori, tutti sintonizzati su canali diversi. Tra quelle che riuscì ad afferrare, vide i figli addottivi della nonna di Abby - Hala e Baqi - arretrare spaventati nella cappella dell'ospedale; vide Jake ai piedi del letto di una Freya addormentata e un ragazzo dai capelli biondo pallido che li spiava dalla fessura della porta; vide un ciondolo d'argento con incise tre spirali intrecciate in raffinati ghirigori; vide Darrell impugnare Excalibur ed alzarla verso il cielo.
Per fortuna Merlino l'allontanò dai cristalli prima che il suo cervello si liquifacesse e le uscisse dalle orecchie.
«Che cosa...?», riuscì a balbettare, adagiata a peso morto contro il petto di Merlino.
«Stavo cercando di avvisarti che avresti potuto avere delle visioni», la rimproverò, ma senza metterci troppo impegno.
Aspettò che recuperasse il senso dell'equilibrio, anche se il mal di testa le sarebbe rimasto fino a sera, poi la lasciò andare.
«Quindi le sfere di cristallo delle chiromanti...», iniziò a chiedere Alex, per venire bruscamente interrotta.
«Non scherziamo».
«Come siamo suscettibili», bofonchiò, tornando a guardare le pietre ma tenendosi a debita distanza. «Quindi ho visto davvero il futuro?».
«Sì. Ma bisogna fare molta attenzione con queste visioni: se mal interpretate, possono portare a conseguenze disastrose. Credimi, lo so per esperienza».
Le capacità di ragionamento di Alex avevano risentito della quantità di informazioni ricevute, perciò impiegò qualche minuto per metabolizzare il tutto e avvisare lo stregone: «Ho visto Freya. E Jake! Jake era con Freya!».
Merlino sgranò un poco gli occhi, allibito. «Jake... Il ragazzo che lavorava alla caffetteria della signora Begum, quello scomparso? Ne sei sicura?».
L'infermiera annuì con un deciso cenno del capo.
Non c'erano stati servizi al telegiornale, ma nel loro minuscolo paesino, in cui non era mai successo nulla di simile, la notizia aveva lasciato tutti sconvolti.
Nell'ultima settimana Darrell aveva interrogato pressoché tutti e perquisito più volte l'appartamento del ragazzo per ricostruire le sue ultime ventiquatt'ore, ma non aveva scoperto nulla di rilevante: se aveva deciso di andarsene spontaneamente non era stato pianificato, se qualcuno l'aveva rapito non aveva lasciato tracce e se per caso, tornando a casa di sera, al buio, fosse caduto in qualche fosso o addirittura nel lago, il corpo ormai avrebbe dovuto essere stato avvistato. Sembrava semplicemente svanito nel nulla, ma ora sapevano che non era così.
Alex si dimenticò di dirgli il resto, troppo sconvolta dall'improvviso colpo di scena, e Merlino non se ne curò particolarmente.
In silenzio guardò lo stregone spingersi verso un angolo un po' nascosto, arredato alla bell'e meglio con un lenzuolo come tenda, un sacco a pelo per terra, diverse candele, una sedia pieghevole con sopra qualche libro e una vecchia cassapanca. Fu proprio quest'ultima il suo obiettivo: si chinò all'interno e spostò via diverse cianfrusaglie fino a quando non trovò ciò che cercava, ossia un piccone da vero minatore.
«Che vuoi fare con quello?», gli domandò, ora spaventata. Non gli avrebbe permesso di infrangere nemmeno una di quelle meraviglie!
«I sogni sono solitamente più precisi dei cristalli, però non si possono controllare. Non possiamo lasciare che Freya ci colga di sorpresa, perciò...».
«Vuoi portarti a casa un pezzo di grotta», concluse Alex per lui, seguendolo con lo sguardo mentre si avvicinava agli stessi cristalli che aveva sfiorato poco prima.
Sollevò il piccone e le rivolse un sorriso smagliante, rispondendo: «Bingo».

Merlino si stancò in fretta, ma riuscì a portare a termine il lavoro.
Dalla cassapanca tirò fuori un sacco di juta che doveva avere almeno cento anni e lo usò per infilarci il pezzo di roccia che aveva spaccato dal masso principale, su cui spuntavano come funghi almeno una decina di cristalli azzurrognoli.
Sudato e ansante, si caricò il sacco in spalla ed iniziò ad avviarsi verso la scalinata, ma dovette fermarsi quando si accorse che Alex gli dava le spalle, con lo sguardo puntato verso un'altra apertura della caverna, da cui proveniva un bagliore diverso rispetto a quello dei cristalli. Un bagliore dorato.
«Che cosa c'è lì?», gli domandò ad un tratto, con voce quasi spiritata.
Lo stregone sospirò. Aveva temuto quel momento, temuto che tra Alex ed Excalibur si fosse ormai creato un legame e che ancora una volta Freya avesse avuto ragione: la spada l'aveva scelta e l'avrebbe sempre attratta a sé, che lo volesse oppure no.
«Lì c'è Excalibur», le confessò, certo che la sua domanda fosse stata una semplice formalità.
Non voleva che Alex si lasciasse corrompere dal potere e dalla magia nera assorbita da Morgana, ma era anche consapevole che la spada era l'unico modo per rispondere alla magia di Freya e fermarla.
«La scelta è tua», si costrinse a dire, ignorando quella parte di sé che avrebbe voluto proteggerla. Non ci riuscì troppo bene, dato che si affrettò ad aggiungere: «Puoi pensarci su, abbiamo tempo».
In realtà non ne avevano, ma sperava che nel frattempo i cristalli li avrebbero aiutati a scoprire le intenzioni di Freya, in modo da poter escogitare un piano per contrastrarla, preferibilmente che non prevedesse l'utilizzo della magia.
Alex fece un passo verso l'insenatura, spinta da una forza invisibile, ma in qualche modo riuscì a scuotersi di dosso il torpore magico e si voltò per raggiungerlo. Merlino ne fu così colpito che la guardò incredulo: ci voleva una forza non comune per ribellarsi al richiamo di una magia potente come quella dei draghi.
«Andiamo, Flash si starà spazientendo», gli disse prima di chiudergli la bocca con due dita sotto il suo mento e superarlo.
Lo stregone sorrise e la seguì, sollevato.

***

Cathleen aveva iniziato il turno alle tre di pomeriggio, perciò incrociò Merlino e Alex mentre si preparava a tornare a casa da Artù.
Da quando erano tornati dalla Residenza Shaw ed erano diventati una coppia a tutti gli effetti, la rossa aveva trascorso quasi tutte le notti nell'enorme letto a baldacchino dell'ex re di Camelot e aveva iniziato a considerare la villa dello stregone la sua nuova casa e lui e Alex i suoi coinquilini.
Era stato strano all'inizio, ma si era ambientata in fretta. Sicuramente più in fretta di loro, che non si erano ancora abituati del tutto a vederla nella sua formosa bellezza oppure a ritrovarsela in bagno anche nei momenti più privati.
La mamma di Zachary le diceva sempre che non si conosceva veramente una persona fino a quando non si viveva sotto lo stesso tetto e nel corso di quella settimana di convivenza aveva dovuto darle ragione ogniqualvolta si era ritrovata davanti a comportamenti ed abitudini che non aveva mai notato prima né in Merlino né in Alex. Specialmente il mago l'aveva lasciata piacevolmente di stucco in diverse occasioni, tanto che si era chiesta come avesse potuto odiarlo tanto non appena si erano conosciuti. Certo, lui aveva ficcanasato senza ritegno nella sua vita privata tanto da pedinarla, ma allora non aveva la minima idea di chi fosse in realtà. Adesso invece adorava stare in sua compagnia, divertendosi a punzecchiarlo o semplicemente rimanendo in silenzio.
Per questo fu facilissimo per lei leggere nei suoi occhi che doveva essere successo qualcosa mentre lei non c'era. E qualcosa di serio per giunta, dato che Merlino aveva smesso di lasciarsi prendere dal panico da moltissimo tempo ormai.
«Che cosa mi sono persa?», chiese il paramedico, sciogliendosi lo chignon per frizionarsi i lunghi capelli con una mano.
Sentendo la sua voce Merlino parve riaversi e guardò Alex al suo fianco. «Tu vai, l'aggiorno io».
L'infermiera annuì e si sporse per posargli un frettoloso bacio sulle labbra, quindi passò accanto a Cathleen e senza più voltarsi indietro raggiunse l'ascensore che l'avrebbe portata al quarto piano.
Cathleen guardò il volto livido dello stregone ed iniziò a preoccuparsi sul serio. Pensò a decine di possibili catastrofi, ma il suo primo pensiero andò alla persona più importante di tutte.
«Artù sta bene, vero?», gli chiese, facendo sbocciare un sorriso sulle labbra del mago.
«Sì, non ti preoccupare. Si tratta dell'agente Fisher».
Il paramedico trasse un sospiro di sollievo e seguì Merlino fuori dall'ospedale, fino al parco aldilà del parcheggio.
Una volta seduti sulle altalene, si fece offrire una sigaretta e le raccontò della visita di Darrell.

Merlino si alzò per andare ad aprire alla porta e fu sorpreso di vedere l'agente Darrell Fisher dall'altra parte, ma non tanto quanto Alex, la quale sembrò voler sparire sotto il tavolo quando Darrell varcò la soglia della cucina, dove avevano informato Artù della loro visita alla caverna di cristallo.
Non indagò però, colpito dal terribile aspetto del ragazzo: capiva che l'ultima settimana doveva essere stata spossante per via della scomparsa di Jake, ma il Darrell che si trovavano davanti sembrava invecchiato di almeno cinque anni.
«Ho bisogno del vostro aiuto», esordì, anche se con tono scettico.
«Che cosa possiamo fare per te?», gli chiese Merlino, indicandogli di sedersi al tavolo, proprio di fronte ad Alex, ed offrendogli una tazza di té.
«Voglio la verità».
La determinazione con cui disse quelle parole fece scorrere un brivido sotto la pelle di Merlino, ma nel rispondergli si dimostrò tranquillo e anche un po' confuso.
«A che cosa ti riferisci?».
«Alle vostre vere identità», replicò, indicando lui ed Artù, ma in particolare l'ex re di Camelot, a cui si rivolse direttamente: «Sono successe troppe cose strane da quando sei comparso tu, con le tue armi e il tuo abbigliamento da cavaliere medievale».
Un silenzio tombale calò nella stanza, raggelando i tre e facendo capire a Darrell che ci aveva visto giusto.
«Myra ha dato le dimissioni; ho ospitato in casa mia una ragazza che ho trovato bagnata fradicia e con indosso un vestito principesco; a casa tua», e indicò Alex, «c'è stata un'effrazione per cui la mia principale sospettata è Cathleen Shaw, la quale guarda caso è una vostra amica; e ora sono sull'orlo della pazzia perché ho sognato Freya in compagnia di Jake, misteriosamente scomparso una settimana fa».
Quando terminò, Darrell aveva un leggero fiatone e gli occhi fuori dalle orbite. Nessuno si degnò a dargli delle risposte e a quel punto non poté far altro che pregarli, prendendosi i capelli tra le mani: «Se mi sono innamorato di una qualche fottuta strega, ho bisogno di saperlo».
A quelle parole Alex sobbalzò, ma ancora una volta Merlino decise di ignorare il suo strano comportamento per concentrarsi sull'agente Fisher.
«Che cosa ti fa credere che Freya sia una strega?».
E allora Darrell rischiò quasi di scoppiare in lacrime, raccontando ciò che all'inizio aveva ritenuto un semplice incubo e che col passare dei giorni aveva capito essere stato l'incantesimo con cui la ragazza lo aveva legato a sé, cibandosi della sua linfa vitale come un parassita. Poi narrò loro il sogno che aveva fatto quella notte, o meglio di come era riuscito ad entrare nella mente di Freya e a sbirciare quello che stava combinando.
Merlino, Alex e Artù si scambiarono occhiate preoccupate per una dozzina di secondi, fino a quando l'agente non ammise di essere stato onesto con loro, rischiando pure di farsi dare del pazzo, e che ora meritava lo stesso tipo di franchezza.
Alex e Artù a quel punto avevano fissato Merlino, in attesa della sua decisione. Il moro ci pensò su e alla fine fece quello che nessuno si aspettava: si alzò ed uscì dalla cucina. Darrell si prese nuovamente la testa tra le mani, disperato, ma la rialzò di colpo scorgendo Merlino rientrare con un piccolo quaderno dalla copertina di pelle tra le mani.
«Che intenzioni hai?», chiese Artù, riconoscendo il reperto.
Merlino lo posò di fronte all'agente e disse: «Io ti credo, Darrell. Ma prima di dirti la verità sul nostro conto devo essere sicuro che ci creda anche tu. So che ti sembra assurdo e da pazzi, ma voglio aiutarti».
«E come pensi di fare? Facendomi il test di Rorschach?».
Lo stregone abbozzò un sorriso. «Nulla del genere. Devi solo sfogliare questo quaderno e vedere che succede: se le figure reagiranno al tuo tocco, allora avrai la conferma che Freya ti ha lanciato un incantesimo, conferendoti parte della sua magia, e potrai metterti l'anima in pace».
Darrell deglutì a vuoto, allungando una mano tremante verso il quaderno. Lo aprì all'incirca a metà, trovandosi di fronte ad un disegno fatto a carboncino, il cui protagonista era un bambino di circa tre anni seduto su un cavallo a dondolo, con un piccolo elmo calato sulla testa e una spada di legno nella mano destra.
L'agente Fisher stava per chiedere spiegazioni, quando all'improvviso il cavalluccio iniziò a muoversi avanti e indietro e il bambino brandì la spada fingendo di dover tagliuzzare nemici a destra e manca.
Scorgendo il disegno muoversi, sia Alex che Artù smisero di trattenere il respiro. Anche Darrell reagì più o meno nello stesso modo, anche se quello che gli sfuggì dalle labbra fu un singhiozzo. Merlino gli portò una mano sulla spalla e lo lasciò sfogare, realizzando amaramente che le loro possibilità di fermare Freya potevano essere diminuite ancora.

«Abbiamo trascorso le due ore successive a riassumergli chi siamo e qual è il nostro destino, a rispondere alle sue domande e ad ipotizzare quale siano le intenzioni di Freya», concluse Merlino, sospirando stancamente.
«Credi davvero che stia radunando un esercito di maghi?», gli chiese Cathleen, osservando gli identikit che Darrell aveva dato loro: c'erano Jake, due ragazzine pel di carota e un giovane senzatetto con due occhi che avevano già visto troppo. Come immaginava, immettendoli nel database della polizia non aveva ancora ottenuto alcun riscontro, ma avrebbe continuato a provare.
Lo stregone si strinse nelle spalle, insicuro. «Ha sempre detto che in giro per il mondo c'erano maghi e streghe che non avevano idea dei loro poteri perché, in mancanza di fonti magiche, erano sempre stati assopiti. Mettiamo che abbia trovato questi ragazzi e li abbia convinti a seguirla... Come risveglierà la magia che è in loro? Deve avere in mente qualcosa, altrimenti non si sarebbe data tutto questo disturbo».
Il paramedico sbuffò, restituendogli i disegni e cancellando i solchi che aveva lasciato sulla sabbia umida. «E quindi ora che cosa facciamo? Usiamo Darrell come sfera di cristallo?».
«È più complicato di così. Darrell ci ha raccontato che non aveva mai avuto una visione così chiara prima e che Freya ad un certo punto si è resa conto di essere osservata. Di sicuro alzerà le proprie difese e magari proverà anche a fare lo stesso per scoprire se Darrell ci ha detto qualcosa. Se ci dovesse riuscire perderemmo qualsiasi vantaggio».
«E non c'è un modo di spezzare l'incantesimo?», domandò ancora Cathleen, innervosita.
«Una volta ho avuto a che fare con un potente stregone che aveva rinchiuso la propria anima in un gioiello per poter tornare e vendicarsi su Camelot, ma qui parliamo di connessione tra due anime... Non ho idea se si possa annullare e se anche lo sapessi, le mie condizioni non me lo permetterebbero».
Cathleen sbuffò di nuovo e quella volta si alzò in piedi, sbottando: «Beh, c'era da aspettarselo. Quella tizia è rimasta in un lago per quindici secoli, è ovvio che abbia sfruttato la prima occasione per assicurarsi  di non ritornarci tanto presto. Peccato che ad andarci di mezzo sia stato l'agente Fisher. Lui voleva solo aiutarla! Ed ecco il ringraziamento».
«Fa arrabbiare anche me», commentò lo stregone, quasi di riflesso.
Gli dispiaceva sul serio per Darrell - era l'ennesima vittima innocente dei complotti dei custodi della magia - ma al momento era più preoccupato per Alex. Non solo perché a quel punto le possibilità che fossero costretti a tirare fuori Excalibur dalla roccia erano più che concrete, oppure che l'esito negativo del test di compatibilità l'avrebbe distrutta come la perdita del piccolo Steve, ma anche perché aveva capito che c'era qualcosa che non gli stava dicendo a proposito dell'agente di polizia. Non voleva metterle pressione - ne aveva già abbastanza - né farle pensare che non si fidasse di lei, perciò era rimasto in silenzio, in attesa che facesse lei il primo passo. Quando sarebbe successo, non lo sapeva. Odiava non avere risposte e in quel periodo ne aveva pochissime, cosa che peggiorava ulteriormente il suo umore già a terra.
Merlino guardò l'orologio dal vetro scheggiato che aveva al polso e disse a Cathleen che doveva andare. Aveva una questione da risolvere e non poteva più rimandare.
«Okay, allora ci si becca a casa», lo salutò porgendogli il pugno chiuso e lo stregone lo colpì col proprio, sorridendo.
Aveva fatto solo qualche passo quando gli venne un'idea che gli avrebbe evitato un inutile dispendio di energie.
«Ehi, Cath!», richiamò l'attenzione del paramedico. «Ti andrebbe di darmi una mano a spaventare qualcuno?».
Sul volto della rossa si aprì un sorriso pieno di eccitazione e dopo aver inviato un SMS ad Artù per avvisarlo del ritardo lo seguì verso la piscina coperta che presto, grazie alla donazione della Regina Elisabetta in persona, sarebbe tornata agibile per le avanzate sessioni di fisioterapia. Ci passarono solo davanti però, dato che il luogo fissato per l'incontro era la cappella dell'ospedale.
Merlino aveva ricevuto quell'invito mentre Darrell veniva reso partecipe dell'enorme guaio in cui si era trovato coinvolto e aveva capito subito che nonostante arrivasse dal cellulare di Abby non era la ragazzina la mittente: uno, sapeva che le sue condizioni attuali non le permettevano nemmeno di scendere dal letto; due, non aveva senso che volesse incontrarlo a mezzanotte nella cappella.
Sapeva esattamente chi fosse il suo appuntamento e dopo aver informato Cathleen del piano che aveva già architettato, forzò la porta della sagrestia ed entrarono.

***

Alex tirò fuori i capelli dal collo della maglietta azzurra e se li legò rapidamente in una coda di cavallo, quindi uscì dallo spogliatoio e raggiunse subito il ricevimento, dove ritirò le consegne del turno e una busta chiusa con il timbro dell'ospedale sullo spazio riservato al mittente: l'esito dell'esame di compatibilità per la donazione di midollo.
Con la busta tra le mani e la morte nel cuore per via di ciò che aveva visto nel suo sogno premonitore, raggiunse Abigail nella sua camera, dove la trovò addormentata e in compagnia di sua nonna.
L'infermiera esitò sulla porta, ma la signora Chapman le fece segno di entrare.
«Voleva aspettarti sveglia, ma non ce l'ha fatta. Mi ha fatto promettere che l'avrei svegliata se fossi passata».
Alex ricordava com'era quando l'aveva vista per la prima volta, quando Abby si era presentata nel reparto convinta che avesse una malattia del sangue, e nonostante fosse rimasta una donna affascinante, in quegli anni era invecchiata molto velocemente. E in quell'ultima settimana, a causa dell'improvviso peggioramento della nipote, aveva iniziato a mostrare qualche anno di più.
Si alzò dalla sedia con un'esclamazione appena sussurrata e una volta di fronte a lei le posò una mano sulla spalla, sorridendo commossa.
«Non ci sono parole per descrivere quello che hai fatto», le disse, accennando al test. «Qualsiasi sia l'esito... Grazie di cuore».
Alex annuì, abbassando gli occhi, ed aspettò che la donna uscisse dalla stanza prima di prendere posto al capezzale di Abigail. Le lacrime le salirono agli occhi e non poté ricacciarle indietro, ma riuscì a soffocare i singhiozzi mentre le prendeva una mano pallida e fredda tra le sue e se la portava alle labbra.
Aveva già perso Steve e il solo pensiero di dover dire addio anche a Abby le spezzava il cuore. Come se non bastasse, si sentiva tremendamente in colpa nei confronti di Merlino per ciò che aveva creduto di provare per Darrell, il quale si era rivelato essere una persona peggiore di quanto avrebbero mai potuto mostrare le apparenze.
La ragazzina a quel punto si svegliò e voltò il capo verso la bionda, guardandola con quei suoi occhi neri una volta pieni di vita e ora resi opachi dal dolore. Ma Abby era coraggiosa come una leonessa, perciò le sorrise e spostandosi su un lato del letto la invitò a sdraiarsi al suo fianco.
«Hai già aperto la busta?», le domandò, adagiando il capo sul braccio con cui Alex le aveva cinto le spalle.
«No, non ancora».
«E allora perché piangi?».
«Perché so già che cosa leggerò. A quanto pare sono in grado di sognare il futuro».
«Intendi... Veramente? Come Morgana?».
L'infermiera annuì, tirando su col naso. «Nulla di quello che ho visto si è ancora avverato, perciò questa è la prova del nove».
«Deduco che tu abbia predetto un esito negativo, tuttavia... Ti offendi se prego perché tu abbia ragione? Vedere il futuro sarebbe una figata pazzesca!».
Alex aveva iniziato a pensare che si trattasse invece di una maledizione, ma contagiata dall'euforia della ragazzina non poté evitare di sorridere.
Prese la busta tra le mani e l'aprì, quindi tirò fuori il foglio su cui era scritto se il suo midollo fosse compatibile o meno a quello di Abby e lo tenne in modo che anche lei potesse leggere.
«Beh, non avrò il tuo midollo ma potrai sempre avvisarmi quando in mensa daranno la torta di mele», esclamò Abigail con un sorriso sbarazzino sulle labbra, non sufficiente ad impedire ad Alex di scoppiare di nuovo a piangere, col piccolo foro non ancora del tutto cicatrizzato che aveva sulla base della schiena - dove le avevano prelevato un campione di midollo osseo - che le pulsava dolorosamente.
Abigail tentò in ogni modo di confortarla, nonostante non fosse lei quella da compatire, e ad un certo punto l'infermiera smise, forse perché non aveva più lacrime da versare.
«Non è giusto», mormorò, con la voce ancora rotta.
«È destino», la corresse la ragazzina. «Forse non sono destinata a lasciare un segno in questa vita, bensì nella prossima. Credi di poter predire quando morirò? No, scherzavo, non voglio saperlo. Non voglio dover salutare Mark come nei film strappalacrime. Scriverò delle lettere. Nah, è troppo scontato ormai. Vi manderò delle note audio su Whatsapp, da ascoltare solo una volta che sarò andata».
Alex si tirò su seduta, scombussolata da tutto quel flusso di parole, e Abby le rivolse l'ennesimo sorriso.
«Hai fatto tutto quello che potevi, Alex. Sei... No, questo me lo riservo per la tua nota audio».
«Non è ancora detta l'ultima parola», affermò l'infermiera, scendendo dal letto per rimboccarle le coperte e sistemarle i cuscini dietro la testa. «Devi continuare a lottare, okay? Questa stronza di leucemia dovrà patire le pene dell'inferno prima di averti».
«Ci puoi scommettere», rispose socchiudendo gli occhi, vinti dalla stanchezza.
In meno di due minuti Abby si addormentò e Alex si chiuse piano la porta della stanza alle spalle. Si ritrovò appoggiata al muro di fronte, con una mano alla base della schiena e il respiro irregolare, ma si fece forza e dopo aver buttato la busta con l'esito dell'esame iniziò la ronda per controllare che i bambini fossero tutti nei loro letti.
Davanti alla camera di Mark e Danilo esitò prima di aprire la porta. Nonostante le luci fossero spente, il fidanzatino di Abigail era sveglio, sdraiato sul suo letto, con le cuffie sulle orecchie e gli occhi fissi sul soffitto. Quando la vide nel rettangolo della porta spense la musica e si sistemò il cuscino, borbottando mestamente: «Sì, adesso dormo».
«No», lo fermò l'infermiera, nonostante il nodo in gola. Voleva essere lei a dirgli l'esito del test, glielo doveva. «Vieni un attimo fuori, devo parlarti».
Mark la fissò confuso, ma solo per un attimo: sapeva riconoscere ormai gli sguardi da buone notizie e quelli da cattive, perciò pensava di essere preparato a riceverle. Eppure, trattandosi della sua Abby, la sua reazione non fu tanto diversa da quella di Alex, alle cui spalle si aggrappò mentre nascondeva il viso rigato di lacrime nell'incavo del suo collo.
Se il giorno seguente Danilo, svegliato dal suo trafficare con la sedia a rotelle, gli avesse chiesto che cos'era successo, di certo avrebbe mentito per mantenere la sua reputazione di duro, ma ad Alex stava bene così.

***

Darrell si spogliò e si infilò sotto il getto già caldo della doccia.
Passandosi le mani tra i capelli ripensò al pomeriggio trascorso a casa di Merlino lo stregone e di Artù Pendragon il re di Camelot.
Solo il pensiero che la magia esistesse sul serio lo faceva diventare matto, figuriamoci sapere che quei due erano davvero nati quindici secoli prima.
Lui si era sempre impegnato al massimo per raggiungere i suoi scopi, aveva meritato tutto ciò che possedeva... e a loro sarebbe bastato uno schiocco delle dita, o meglio una luce dorata negli occhi, per ottenere lo stesso risultato? No, non poteva accettarlo. Non solo, ma era così arrabbiato che aveva finito per prendersela con Alex, la quale nonostante in passato si fosse dimostrata gentile e piuttosto normale con lui, si era rivelata essere falsa tanto quanto Freya.

«Quindi adesso che cosa dovrei fare?», chiese a Merlino, seduto sulla sedia in rattan al suo fianco, sulla veranda che dava sul giardino sul retro. Da quando aveva un cavallo?
«Nulla di diverso dal solito: Freya non deve accorgersi che ci hai detto quello che hai visto. E se avrai altre visioni... continua a scriverti tutto e a farci rapporto».
Darrell chinò il capo, stringendosi forte le mani sul grembo. Se qualcuno gli avesse detto che sarebbe finito a "fare rapporto" ad uno stregone di millequattrocento anni... beh, non sapeva esattamente cosa avrebbe fatto, ma nulla di buono comunque. Chi si credeva di essere per trattarlo in quel modo?
Merlino si alzò e gli diede un'altra pacca sulla spalla prima di andarsene. Con un piede già all'interno della cucina, aggiunse: «Oh, Darrell... ti conviene mantenere il segreto su tutta questa faccenda: la tua carriera e la tua vita in generale ne risentirebbero».
Il sangue gli ribollì ancora di più nelle vene a quelle parole, ma ingoiò il rospo in silenzio. In fondo aveva ragione: nessuno gli avrebbe permesso di continuare a fare il poliziotto se fosse andato in giro a raccontare di aver conosciuto i Merlino e Artù originali e di essere sotto l'influsso di una druida diventata custode della magia. Sarebbe stato rinchiuso direttamente in un ospedale psichiatrico, ecco cosa.
Stava ancora cercando di sbrogliare la matassa dei suoi pensieri, quando sentì scorrere nuovamente la porta finestra. Si voltò e trovò Alexandra Greenwood sulla soglia, incupita.
«Una fottuta strega, eh?», esordì, guardandosi le sneakers. «Non credi di generalizzare un po' troppo?».
«Che cosa stai cercando di dire?».
Nello stesso momento in cui disse quelle parole però, ogni tassellò andò al suo posto. Si alzò in piedi ed arretrò di un passo, furioso.
«Anche tu lo sei. Sei stata tu a rendere afono il cane della tua vicina, la signora Levinson; sei stata tu a rubare quello strano affare che avevo trovato nella foresta... e hai sempre saputo chi era Freya in realtà».
«Non ho mai avuto cattive intenzioni, te lo giuro», si difese la bionda, dimostrandosi davvero mortificata. Ma a lui non si impietosì, non poteva permettersi di cascarci un'altra volta.
«Non voglio sentire scuse. Non voglio sentire nulla da te».
Alex strinse i pugni lungo i fianchi, infervorandosi. «Solo perché posso controllare la magia? Io non l'ho mai utilizzata per fare del male, Darrell».
«Non importa. Quelli come te non dovrebbero esistere», affermò, perentorio, e la ragazza vacillò per un momento, incredula e addolorata. Quando tornò in sé però, un fuoco diverso ardeva nei suoi occhi, mentre la sua voce si venò di delusione.
«Non hai ascoltato nulla di quello che ha detto Merlino? La magia c'è sempre stata, è il tessuto di questo mondo e la sua scomparsa lo sta danneggiando gravemente. È necessaria perché il pianeta non collassi su se stesso. E le creature magiche, i maghi e le streghe, i druidi e le sacerdotesse sono i canali attraverso cui questa energia di diffonde, come le api che volano di fiore in fiore e nel frattempo ne disperdono i semi».
«Questo è quello che ti racconta lui», rispose in tono sprezzante indicando l'interno della casa. «È una creatura magica, no? È ovvio che tiri acqua al suo mulino! Chi ti dice che sia vero? Quali prove hai?».
Alex gli rivolse un sorriso quasi compiaciuto. «Sai dov'è l'agriturismo dei signori Morris?».
«Sì, perchè? Che cosa c'entra adesso?».
«Poche miglia prima di arrivare c'erano dei campi coltivati che adesso sono sterili, giusto?».
«Sì, così mi sembra».
«Puoi chiedere a chiunque: non ci cresceva più niente da anni, solo erbe infestanti. Se vuoi delle prove sulla bontà della magia, è là che devi andare».
Detto questo si voltò e lo lasciò di nuovo solo in veranda, per nulla propenso a cambiare idea.

Prima di tornare a casa era andato sul serio nel luogo indicatogli dall'infermiera ed era rimasto senza parole.
Sotto un cielo tinto di colori pastello grazie al sole calante, aveva ammirato la strabiliante trasformazione dei campi un tempo aridi ed incolti: un tappeto di erba nuova si estendeva a perdita d'occhio e i fiori dai colori più diversi riempivano l'aria di dolcezza, tanto da coprire quasi del tutto l'olezzo che proveniva dalla fattoria dell'agriturismo.
Forse Alex aveva ragione: non doveva giudicare male la magia solo perché alcuni la utilizzavano per scopi malvagi, tipo incatenare la propria anima ad un'altra. Le avrebbe fatto le sue scuse, ma ciò non voleva dire che si sarebbe fidato automaticamente anche di Artù e Merlino.
Darrell uscì dalla doccia con un asciugamano legato in vita e con un altro si frizionò i capelli biondi fino a che non fu davanti allo specchio. Allora si guardò il volto - prosciugato di ogni vitalità da quando era diventato il caricatore bluetooth di Freya - e decise di farsi la barba, cresciuta un po' troppo rispetto ai suoi standard. Si spalmò la schiuma sulle guance e sul mento ed iniziò a radersi con una lametta nuova e perfettamente affilata. Aveva già fatto metà viso, quando sentì una presenza farsi largo nella sua mente ed intorpidirgli il corpo. Ad un tratto nello specchio non vide più se stesso ma una Freya con un sorriso appena accennato sulla bocca.
«Non avere paura Darrell», disse con la sua solita voce, ma furono le labbra dell'agente a muoversi. «Sto mantenendo la promessa: finché sarò in vita, nessuno potrà farti del male».
Il poliziotto chiuse gli occhi e finse di sbatterle la porta in faccia, un trucco che incredibilmente servì a spezzare la connessione. Non si era accorto però di avere ancora il rasoio posato sullo zigomo, dove si fece un piccolo taglio. Guardò una goccia di sangue scarlatto rotolargli fino alla mandibola, ma presto la sua attenzione fu catturata di nuovo dal taglio che come per magia, anzi, senza come, si stava richiudendo.
Esterrefatto ed atterrito dalle possibili implicazioni delle sue parole, si avvicinò di più allo specchio e si esaminò a lungo, senza trovare nemmeno una piccolissima cicatrice. Che cos'aveva fatto Freya?
Abbassando gli occhi vide la goccia di sangue cadere nell'acqua con cui aveva riempito il lavandino e sparire nella lattiginosa schiuma sciolta.

***

«Io me ne vado».
Hala afferrò il fratello per la manica della giacca a vento e lo costrinse a risedersi sulla panca, rivolto verso l'altare e il Gesù crocifisso appeso sopra di esso.
«Non è ancora mezzanotte. Arriverà».
«Secondo me volevi solo trascorrere del tempo con me perché ti perdonassi, ma la verità è che sei troppo orgogliosa per scusarti!».
«Abbassa la voce, Baqi! Siamo pur sempre in una chiesa!».
«Ma noi non siamo cristiani!».
«Che cosa vuol dire? Bisogna sempre portare rispetto».
Il gemello sbuffò e si lasciò andare contro lo schienale della panca in legno, le braccia conserte.
Aspettarono ancora e i minuti sembrarono ore, ma ad un tratto sentirono un rumore provenire dalla sagrestia ed entrambi si alzarono in piedi per uscire frettolosamente dalla panca.
«C'è qualc-?», provò a dire Baqi prima che la gemella gli tappasse la bocca con una mano.
Il silenzio era così profondo che potevano sentire i loro cuori battere in sincronia perfetta, ma ad un ritmo tutt'altro che normale.
«Che cosa volete?», domandò una voce proveniente dalla porta socchiusa della sagrestia.
«È lui», sussurrò Hala, mentre Baqi ora non sembrava più così sicuro di voler andare fino in fondo. «Tu sei Emrys, vero? Ora ti fai chiamare Merlino, ma sei lo stesso uomo che Louise McTrusty amava. Fatti vedere».
La porta della sagrestia si aprì cigolando e Baqi afferrò il polso di Hala, arretrando mentre sussurrava: «Andiamo via, per favore».
Ma la ragazza aveva i piedi ben piantati a terra e non si mosse di un centimetro, nemmeno quando una figura avvolta nell'ombra si fece avanti fino a raggiungere la prima fila di panche.
«E se lo fossi?».
La sua voce era così calma da far tremare le ginocchia e per la prima volta Hala si ritrovò a deglutire a vuoto, spaventata.
«Questo implicherebbe... implicherebbe che tu sei immortale».
«Immortale?», ripeté la figura, con tono divertito. «Non credete che se fossi veramente immortale molti prima di voi se ne sarebbero accorti?».
«Sì, ma... ma potresti esserti assicurato il loro silenzio», balbettò Hala, sentendo il sudore colarle giù per la spina dorsale.
«E in che modo?», chiese ancora l'uomo, avvicinandosi di un passo lungo la stretta navata.
I due gemelli arretrarono insieme quella volta, tenendosi per mano. Avevano capito perfettamente dove volesse andare a parare e la cosa più saggia che avrebbero potuto fare a quel punto era correre a gambe levate, ma Hala si interstardì ancora di più e nonostante tremasse da capo a piedi tirò fuori il cellulare dalla tasca del giaccone.
«Fermo!», gridò. «Ho registrato tutto e sono pronta ad inviarlo a tutti i contatti della mia rubrica se ci farai del male!».
La figura rimase in silenzio per una decina di secondi, poi sollevò di scatto le braccia e la porta della sagrestia, rimasta aperta, sbatté con un tonfo che fece rizzare i capelli dei due gemelli. Subito dopo, tutte fiammelle delle candele poste alla sinistra dell'altare si spensero per via di una folata di vento improvvisa, non facendo altro che aumentare il loro terrore.
«Come osate voi comuni mortali minacciare me, il grande Emrys il Saggio, figlio del demone Wyllt! Andatevene ora e smettetela di pretendere di svelare misteri più antichi di questa stessa Terra, e forse non vi dilanierò l'anima!».
La sua voce aveva squarciato l'aria come un tuono e questo monito soltanto servì a far scappare i due gemelli. Hala, in preda al panico, aveva persino fatto cadere il cellulare a terra, dicendo addio anche alla sua misera prova.
Corsero a perdifiato fino all'entrata dell'ospedale, dove incredibilmente trovarono un taxi ad attenderli. Senza alcuna esitazione, fregandosene anche di tutto ciò che avevano lasciato all'agriturismo dei signori Morris, saltarono sul mezzo ed esortarono l'autista a partire, a portarli il più lontano possibile per i soldi che al momento avevano nelle tasche.

***

Merlino abbassò le braccia e fece segno a Cathleen di alzarsi dal portaceri dietro cui si era nascosta mentre lui distraeva Hala e Baqi: era uscita dalla sagrestia alle sue spalle e una volta nei pressi dell'altare si era accovacciata per gattonarvi dietro e raggiungere il lato sinistro della cappella. Dal suo nascondiglio strategico aveva atteso il segnale di Merlino - l'alzata di braccia con cui, grazie ad un filo di nylon legato al pomello, aveva anche fatto sbattere la porta della sagrestia - e aveva sventolato la parte superiore della sua divisa per far spegnere le candele.
L'effetto scenico era stato impressionante e aveva funzionato alla perfezione, anche senza l'utilizzo della magia. Certo, riconosceva che veder brillare due occhi dorati sarebbe stato il colpo di grazia, ma non si poteva avere tutto nella vita.
Uscirono da dov'erano entrati e di corsa raggiunsero le cataste di detriti lasciate dagli operai impegnati al restauro della piscina, così da poter vedere il parcheggio dell'ospedale senza essere notati. Hala e Baqi erano già saliti sul taxi che lui aveva preventivamente prenotato per mezzanotte, fornendo una delle sue numerose carte di credito irrintracciabili per addebitare l'importo dovuto nel caso in cui i suoi clienti avessero tardato e richiedendo la massima riservatezza sul proprio conto.
Merlino e Cathleen guardarono il taxi sfrecciare via nella notte, diretto verso le maggiori autostrade, e dopo qualche minuto di silenzio il paramedico chiese: «Non credi di aver esagerato un po'? Se io ho i brividi, non riesco nemmeno ad immaginare che cosa stiano passando quei poveretti!».
Lo stregone abbozzò un sorriso amaro. «Dipende da quanto sono suggestionabili le loro menti». Si alzò in piedi e tornò tranquillo alla cappella, dove recuperò il filo di nylon e raccolse il cellulare dal vetro in frantumi di Hala. Lo aprì e staccò la batteria perché non potesse più essere rintracciato, poi raggiunse Cathleen, la quale lo stava guardando muoversi con la calma e la tranquillità di chi era abituato a nascondere prove.
«Posso sapere quante volte ti sei cimentato in sceneggiate del genere, demone?», riuscì a chiedergli alla fine, perplessa ed ansiosa allo stesso tempo.
Merlino scrollò le spalle. «Un po'. Non che siano stati in molti a scoprire il mio segreto, ma... fino a qualche secolo fa era più facile far sparire nel nulla le persone».  
Cathleen deglutì, scioccata dal lato oscuro di Merlino. «Menomale che sono nata in questo secolo, allora!».
Lo stregone le sorrise, sereno come se non avesse appena terrorizzato due ragazzi, tanto da spingerli alla fuga, fingendosi un demone-dilania-anime.
«C'è ancora una cosa che dovrei fare. Riesci a darmi uno strappo fino all'agriturismo?».
«Certo, mio signore degli inferi», rispose la rossa, fingendo un inchino reverenziale.

Fece gli ultimi due chilometri a piedi - la enduro di Cathleen faceva un rumore proprio degno degli inferi - e per Merlino fu un gioco da ragazzi introdursi nell'agriturismo e raggiungere indisturbato la camera che Hala e Baqi condividevano. Lì cercò qualsiasi prova li collegasse a lui e la distrusse, tranne il diario di Louise e l'unica foto, rigorosamente in bianco e nero, che li ritraeva insieme. Per il resto non toccò nulla, decidendo che avrebbe lasciato quella gatta da pelare a Darrell una volta che la signora Chapman si fosse accorta della loro scomparsa, e tornò dalla sua partner in crime.
«Fatto?», gli domandò Cathleen, infilandosi il casco.
«Sì, per il momento dovremmo essere a posto. Possiamo andare».
«Forte! Dovremmo farlo più spesso, non trovi?».
Merlino avrebbe riso, se non fosse stato costretto ad aggrapparsi a Cathleen per non volare via mentre partiva con un'impennata.

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Capitolo 27
*** 27. The sword in the stone ***


27. The sword in the stone


Cathleen si girò nel letto ed aprì un'occhio, trovandosi di fronte ad un Artù già sveglio, con le spalle contro la testiera del letto e lo sguardo assorto.
«Ehi», lo riportò alla realtà, sventolandogli anche una mano davanti agli occhi.
«Buongiorno», la salutò lui dopo aver sbattuto le palpebre, abbozzando un sorriso.
Scivolò di nuovo sdraiato sul letto e l'abbracciò, per poi posarle dei lievi baci sul collo pallido in confronto ai capelli rosso sangue.
Il paramedico mugugnò deliziata, poi gli chiese: «Da quanto tempo sei sveglio?».
«Mezz'ora, circa. Pensavo a quello che mi hai detto ieri a proposito di Abby... Davvero potrebbe non farcela?».
Ormai tutta la magia era svanita, perciò Cathleen sciolse l'abbraccio e si girò sulla schiena a guardare il baldacchino sopra le loro teste, cupa in viso.
Il suo silenzio fu meglio di una risposta per Artù, il quale riprese: «Una volta Mark mi ha detto di temere che Abby non sarebbe più uscita dall'ospedale e non voglio che accada».  
All'improvviso il suo umore migliorò, tanto che riuscì persino a sorridere. «Che cos'hai in mente?».
Artù ricambiò e si avvicinò al suo orecchio per sussurrarle quello a cui aveva pensato, quindi attese il suo responso.
Cathleen ci rifletté un po' su, ma dopotutto non c'era molto su cui riflettere: l'idea di Artù era buona ed era certa che sarebbe stato il modo giusto per creare un bel ricordo, magari uno degli ultimi.
«Dovremo parlarne con i dottori che hanno in cura i ragazzi e chiedere il permesso alle loro famiglie, ma per quanto mi riguarda il tuo piano è promosso», esclamò alla fine, prima di prendergli il viso tra le mani e baciarlo a stampo sulle labbra.
Artù avrebbe voluto approfondire, ma il paramedico si sottrasse ridacchiando.
«Scusami, ma la natura chiama».

Dopo la capatina in bagno di Cathleen, entrambi scesero al piano inferiore per fare colazione. Merlino era già sveglio, mentre Alex, dopo il turno di notte, era collassata sul divano e non si era più mossa.
«Che cosa stai facendo?», gli domandò Artù entrando in cucina, cogliendolo nel patetico tentativo di vedere qualcosa attraverso i cristalli.
Lo stregone sospirò ed allontanò le mani per strofinarsi gli occhi. «Niente, non ci riesco. È come se mi avessero tagliato fuori».
«Benvenuto tra noi», esclamò Cathleen, battendogli una mano sulla spalla.
Merlino le porse la tazza per il secondo giro di caffé ed aspettò che Artù finisse di mangiare e che si vestisse, poi salutarono il paramedico e andarono al lavoro.
Sulla strada, Artù spiegò a Merlino ciò a cui aveva pensato e lo trovò d'accordo.
«I bambini saranno felici di uscire un po'. Abby in particolare ne ha proprio bisogno».
«È quello che pensavo».
«Prima di chiedere ai signori Morris però è meglio parlarne anche con Alex».
«Va bene. A proposito... che cos'ha deciso di fare?».
Merlino si strinse nelle spalle, gli occhi fissi oltre il parabrezza della Pininfarina. «Questa sera andiamo a prendere Excalibur. Non abbiamo scelta: se Freya riuscirà davvero a risvegliare i poteri dormienti di quei ragazzi, Alex dovrà potersi difendere».
«Sai... Credo anche io sia la nostra unica possibilità», disse Artù, sorprendendo non poco il mago. «E adesso che è a conoscenza della magia nera di Morgana potrà cercare di combatterla».
«Forse», soffiò Merlino, rimanendo comunque preoccupato.
All'agriturismo i due si separarono per svolgere le loro mansioni, ma le loro menti rimasero fisse su Alexandra, la quale da un giorno all'altro si era ritrovata con tutto il peso del mondo sulle spalle.

***

Alex aprì gli occhi e riconobbe immediatamente Avalon, anche senza la nebbia che di solito nascondeva alla vista la sua isoletta centrale con la torre diroccata, un semplice cumulo di pietre.
Quella mattina l'acqua era uno specchio su cui si riflettevano il cielo azzurro e le nuvole bianche e soffici come zucchero filato e Alex trovò tutto così strano che iniziò a sospettare che stesse per accadere qualcosa di grosso.
«Noi siamo pronti», disse una voce gentile alle sue spalle, la voce di Merlino.
Indossava un completo scuro, con tanto di cravatta, e le sorrideva malinconico, gli occhi lucidi di lacrime. Dietro di lui c'erano Artù, Cathleen e persino Mark in sedia a rotelle, a loro volta elegantissimi e dalle espressioni addolorate. Nelle retrovie, ai confini del bosco, c'erano i ragazzi che Darrell aveva visto con Freya, ma al posto di Jake c'era una giovane donna afroamericana, quella che probabilmente era stata reclutata a Glasgow.
Alex abbassò gli occhi e si accorse che anche lei indossava una mise da funerale: un lungo vestito nero con il corpetto stretto e tempestato di brillanti e un velo trasparente che le copriva il decolté e le si intrecciava intorno al collo.
Poi si accorse dell'auto funebre e della bara al suo interno e si sentì tremare da capo a piedi. Probabilmente venne preso come un cenno d'assenso, perché Merlino, Artù, il ragazzo dai capelli scoloriti e Mark stesso la tirarono giù e la portarono fino alla riva del lago, dove una barchetta era stata trasformata in un letto di foglie e fiori freschi.
Mark cadde in ginocchio accanto alla bara, scoppiando a piangere senza ritegno, graffiando la verniciatura del legno e gridando il nome di Abby.
Alex sarebbe scoppiata a piangere a sua volta se lo squillo del campanello non l'avesse sbalzata fuori da quella visione e l'avesse svegliata, tanto improvvisamente da ritrovarsi ad annaspare, seduta sul divano nel salotto di Merlino.
«Ehilà, bella addormentata», la salutò Cathleen, diretta alla porta. Prima di aprire però la guardò con espressione quasi materna: «Sei pallida come un fantasma... Hai avuto una visione?».
Alex sospirò e si passò le mani sul viso, cercando di cancellare ciò che aveva visto, ma non servì a molto. Nel frattempo Cathleen aveva aperto la porta, mostrando un Darrell in divisa e con un sacchetto della Caffetteria Begum in mano.
«Fisher», esclamò stupita. «Che ci fai qui?».
«Alexandra è in casa? Devo parlarle».
Cathleen si fece da parte riservandogli un'occhiata sospettosa e Alex si alzò in piedi, appiattendosi frettolosamente i capelli gonfi sulla testa.
Rimasero a guardarsi da lontano fino a quando Darrell non gettò un'occhiata a Cathleen, facendole capire che voleva parlare con lei in privato.
Il paramedico sollevò le mani in segno di resa: «Okay. Io sarò in cucina, nel caso in cui abbiate bisogno di me».
Lanciò un'eloquente occhiata all'infermiera, la quale si irrigidì sul posto e si schiarì la gola, facendo segno a Darrell di accomodarsi.
«A cosa devo il piacere?», gli chiese quando trovò il coraggio di aprire bocca.
«Io, uhm... ti ho portato un caffé e una fetta di torta ai semi di papavero. La signora Begum ha detto che è la tua preferita».
Alex strabuzzò gli occhi, incredula. «E per quale motivo l'hai fatto?».
Il cuore le era salito fino alle corte vocali, rendendo la sua voce più acuta del solito, ma poi il pensiero di Merlino e delle dure parole dell'agente la convinsero a rispedirlo al suo posto e ad esclamare in tono pungente: «Sei venuto ad arrestarmi per aver mentito ad un pubblico ufficiale? O per intralcio alla giustizia?».
«Potrei, ma non lo farò», rispose Darrell pacatamente, posando il sacchetto sul tavolino. Quindi si sedette sulla poltrona alle sue spalle e senza interrompere il contatto visivo spiegò: «Avevi ragione, a proposito dei campi. E sono venuto a scusarmi: ho sbagliato a dire che quelli come voi non dovrebbero esistere».
Alex abbassò gli occhi, fingendo di interessarsi a ciò che c'era nel sacchetto della caffetteria. «Mi fa piacere sentirtelo dire. Accetto le tue scuse».
«Questo non vuol dire che abbia cambiato idea su tutto il resto», aggiunse l'agente. «Non tutti sono come te, Alexandra. Non tutti utilizzerebbero la magia per fare del bene e Freya ne è l'esempio. Per questo credo che la magia dovrebbe continuare ad essere... bandita. Il mondo sta andando in rovina? Potremmo iniziare a prendercene più cura, a trovare delle soluzioni alternative grazie alla scienza. E se non cambierà nulla pazienza, è il ciclo della vita».
Alex non riuscì a rispondere, troppo spiazzata dal suo ragionamento. Una sgradevole sensazione le strinse lo stomaco e pensò a Uther Pendragon: lei non l'aveva conosciuto, ovviamente, ma Morgana era stata come una figlia per lui fino a quando non aveva scoperto di esserlo davvero. Quello che provò fu forse uno strascico del rancore non ancora del tutto svanito nei confronti del re di Camelot: anche lui aveva combattuto la magia per tutta la vita, ma che cosa sarebbe successo se invece di Nimueh avesse incontrato una strega buona? La sua opinione sarebbe cambiata? O forse, semplicemente, certe persone non potevano tollerare la presenza di individui capaci di fare cose straordinarie? La gelosia, l'invidia e la paura del diverso erano stati d'animo più che moderni e Alex li capiva, ma non le appartenevano. Per questo accettò la sua presa di posizione e prendendo un sorso di caffé gli chiese che cos'avesse intenzione di fare.
Il poliziotto si alzò dalla poltrona col classico cappello bombato tra le mani e sospirò rassegnato. «È mio dovere proteggere e servire, perciò vi aiuterò a fermare Freya. Dopodiché, se mai ne uscirò vivo, mi farò trasferire da qualche altra parte e mi dimenticherò ogni cosa».
Alex annuì, senza nemmeno provare a convincerlo a ripensarci.
L'aveva visto quando era stata alla caverna dei cristalli con Merlino: aveva chiaramente visto Darrell impugnare Excalibur ed alzarla al cielo, perciò in qualche modo avrebbe partecipato alla battaglia. Dopo che Cathleen le aveva raccontato di come Merlino era riuscito a far scappare Hala e Baqi fingendosi un demone, era certa che si sarebbe avverata anche quella visione. E riguardo al trasferimento... era meglio così.
Quindi si alzò per accompagnarlo alla porta e lo ringraziò per la colazione, nonostante fosse passata da un pezzo l'ora di pranzo. Si congedarono in modo molto formale e l'infermiera lo guardò percorrere il vialetto per raggiungere la volante, fino a quando non le venne un sospetto riguardante le sue ultime parole.
«Ehi, Darrell».
L'agente si voltò e la guardò, in attesa.
«Che vuol dire: "Se mai ne uscirò vivo"?».
Darrell aprì la bocca con un sorriso amareggiato sulle labbra, ma il suo cellulare iniziò a squillare e prima di rispondere alla telefonata scosse il capo, facendole segno di dimenticarsene.
Alex rimase sulla porta fino a quando non lo vide salire sull'auto e partire lasciando sullo sterrato dietro di sé una nuvola di polvere. Allora rientrò in casa per trovarsi subito analizzata dallo sguardo intenso di Cathleen.
«Che cos'era quello?», le chiese con le mani sui fianchi e il naso arricciato.
Alex sospirò e tornò sul divano, dove si lasciò cadere a peso morto. Il paramedico però non si perse d'animo e continuò a farle pressione perché parlasse e alla fine l'ebbe vinta: l'infermiera confessò tutto, assicurandole che non provava nulla di serio per Darrell, che era solo attrazione fisica e che lui era stato piuttosto chiaro riguardo a come la pensava su quelli come lei e su cosa avrebbe fatto una volta sventato il piano di Freya.
«Ehi, non voglio giudicarti», la rassicurò Cathleen, scavalcando lo schienale del divano per scivolare al suo fianco. «Penso solo che dovresti parlarne con Merlino, essere onesta con lui».
Alex dovette ammettere che Merlino era stato sincero riguardo a Freya, al sentimento che provava per lei e che in un angolo del suo cuore ancora ardeva. Lei l'aveva accettato ed era certa che anche lo stregone non ne avrebbe fatto un dramma, consapevole che la sua vera età e il destino a cui andava incontro non erano a suo favore. Il vero motivo per cui Alex pensava che dirglielo sarebbe stata una pessima, pessima idea, era perché era sicura che Merlino non l'avrebbe solo perdonata, ma avrebbe addirittura provato a convincerla che Darrell era la scelta migliore per lei, che doveva provarci, che se erano rose sarebbero fiorite... Non poteva permetterlo, in nessun modo. Gli aveva chiesto di sposarlo e l'avrebbe fatto, non poteva rimangiarsi la parola data.

***

«Agente Fisher? Oh, grazie a Dio l'ho trovata. Ascolti, ho appena ricevuto una chiamata da Hala».
Abby guardò la nonna camminare avanti e indietro davanti al suo letto, con una mano a sistemarsi compulsivamente i capelli bianchi.
La ragazzina sapeva per filo e per segno che cos'era successo due giorni prima alla cappella dell'ospedale, perché Hala e Baqi fossero scappati senza nemmeno prendere le loro cose dall'agriturismo, e sapeva anche che Darrell era a conoscenza della verità, e si sentiva uno schifo nel dover mentire a sua nonna, specialmente quando la vedeva agitarsi in quel modo. Avrebbe voluto dirle che i gemelli stavano bene, o che lo sarebbero stati dopo molte sedute di terapia, e che sarebbe potuto accadere loro molto di peggio.
«No, nulla del genere. Mi ha detto che lei e suo fratello stanno ritornando in Pakistan, che vogliono riavvicinarsi alla loro cultura, al loro Dio. Ma è una cosa senza senso! Non hanno mai mostrato questo interesse prima d'ora, anzi hanno sempre fatto di tutto per allontanarsi dalle tradizioni della loro famiglia. Ho paura che ci sia qualcuno con loro, magari un membro di quei gruppi fondamentalisti...».
Abigail sospirò e scorse Mark arrivare di gran carriera sulla sua sedia a rotelle. Quando i loro sguardi si incrociarono, la ragazzina gli fece segno di aspettare fuori per via di sua nonna.
«Che vuol dire che non potete fare niente? Le dico che mi sembrava impaurita! Le tremava la voce, le... Sono certa che non sia un allontanamento volontario, agente. Va bene. Va bene, grazie lo stesso».
Daisy terminò la chiamata con un gesto brusco ed ebbe quasi l'impulso di scagliare il cellulare fuori dalla finestra, ma si calmò e si accorse del ragazzino fuori dalla camera. Si sciolse in un sorriso e si avvicinò alla nipote per posarle un bacio sulla fronte.
«Vado a sbollirmi un po', okay?».
Abby sorrise seguendo la nonna con lo sguardo mentre usciva dalla stanza e passava accanto a Mark, dandogli una gentile pacca sulla spalla. Il ragazzino entrò col viso rosso tanto quanto la bandana da motociclista che portava legata in testa e tirò il freno a mano una volta accanto al letto.
Le sembrava nervoso, come se volesse dirle qualcosa ma fosse bloccato, e Abby stava per chiedergliene il motivo, quando lui l'anticipò.
«Che è successo?», le domandò, indicando col pollice dietro di sé.
Nemmeno a lui poteva dire la verità e questo le faceva più male ancora, se possibile.
«Hala ha chiamato, poco fa, per dire che lei e Baqi stanno bene e che non dobbiamo preoccuparci. Ma mia nonna non si arrenderà facilmente, continuerà a cercarli anche senza l'aiuto della polizia».
«Se hanno detto che stanno bene che senso ha preoccuparsi tanto?».
Abby si strinse nelle spalle. «Non credo lo faccia per loro, infatti. È una scusa per tenersi occupata, per non pensare a...».
«A te», concluse per lei Mark, sporgendosi oltre la sbarra per stringerle la mano.
«Sta soffrendo molto», la difese, abbassando gli occhi.
«Stiamo soffrendo tutti. La vita è un'enorme sofferenza in cui a volte, se siamo fortunati, ci capitano cose belle».
Abigail alzò gli occhi al cielo, ma non riuscì a trattenere una risata. «Sei il solito ottimista, vedo».
«Sai, quando ho scoperto di avere il linfoma di Hodgkin ho pensato: "Ecco, questo è il momento peggiore della mia vita. Da qui in poi farà tutto più schifo del solito". Ma mi sbagliavo. Il cancro mi ha veramente regalato momenti fantastici: ho conosciuto il mio migliore amico, ho conosciuto te... E tu sei la cosa più bella che mi sia mai capitata».
Abby aveva le lacrime agli occhi: non si sarebbe mai aspettata una dichiarazione del genere da parte di Mark, il duro più duro dell'ospedale. Certo, sapeva che non era veramente così, che la sua era solo una facciata, però... Ricordava fin troppo bene com'era stato all'inizio, quando entrambi avevano capito di essere più che amici: lui non aveva voluto saperne, per paura di soffrire, e lei gli aveva detto che era stupido, che non potevano vivere nella paura. Ora che Abby sapeva di essere spacciata, le loro posizioni si erano decisamente invertite.
«Voglio presentarti alla mia famiglia come la mia ragazza», esclamò ancora Mark. «Non che il loro parere mi interessi, ma... voglio che lo sappiano. Voglio che tutti in questo ospedale sappiano quanto sono fortunato».
«È da pazzi». Abby scosse il capo, troppo scioccata per dire qualcosa di più articolato.
«Allora sono felice di essere pazzo», rispose Mark, alzandosi dalla sedia a rotelle per sporgersi su di lei e baciarla sulle labbra.

***

Alex era andata a casa sua per controllare che fosse tutto a posto e per riempire un'altra valigia di vestiti e di oggetti personali da portare da Merlino.
La sua camera ormai era quasi completamente spoglia e tutto le sembrava così vuoto... Tanto da ricordarle il periodo successivo alla morte di sua madre.
La sua mancanza si era sempre fatta sentire, nonostante le avesse provate tutte per colmarla. Aveva raccolto dalla strada il piccolo Artù, cercando di contrastare la solitudine, ma ora anche lui se n'era andato. No, in realtà era stata colpa sua: lei l'aveva lasciato a Keith quando era sotto l'influenza negativa di Excalibur. Certo, avrebbe sempre potuto riprenderselo, ma non le sembrava giusto: anche quel micetto aveva bisogno di qualcuno che lo amasse come meritava e lei, prossima a compiere il proprio destino, non era la persona adatta.
Dopodiché era andata al supermercato per prendere quello che Cathleen le aveva scribacchiato su un foglietto e poi, finalmente, era tornata a casa dello stregone, dove come una brava casalinga aveva riordinato e fatto partire la lavatrice.
Durante quelle operazioni aveva trovato un quadernetto dalla copertina di pelle, una delle prime Moleskine forse, e sfogliandolo velocemente aveva capito che si trattava di una specie di diario, o al massimo di una biografia. Aveva anche letto di sfuggita il nome di Emrys, ma non era lui il narratore di quella storia. Quando si era trovata tra i piedi la fotografia in bianco e nero che ritraeva medici ed infermieri davanti a quello che sembrava proprio la vecchia versione del suo ospedale, allora aveva capito tutto quanto: in quella foto c'erano Louise McTrusty e Merlino, all'epoca dottore, e quel diario era senza alcun dubbio della donna.
L'aveva rimesso dove l'aveva trovato, decisa a non rivangare il passato, e aveva finito di pulire, rifiutando persino l'aiuto del paramedico pur di tenersi impegnata il più a lungo possibile, fino al ritorno di Merlino e Artù.
Alla fine però la curiosità era stata troppo forte e aveva ceduto, leggendo pagina dopo pagina col cuore in gola, tifando per Louise ed Emrys e al contempo tremando di gelosia. Era stato allora che aveva scoperto chi fosse in realtà Louise, una verità così scioccante che si era ritrovata con le lacrime agli occhi, le gambe strette al petto e il diario abbandonato sul letto di Merlino.
Era rimasta lì rannicchiata a lungo, chiedendosi come potesse Merlino essere sopravvissuto ad una cosa del genere, con che forza ogni giorno si recasse all'ospedale e guardasse Abby, così simile alla donna che aveva tanto amato.
Aveva perso la cognizione del tempo e a riportarla alla realtà fu proprio il mago, il quale bussò piano sullo stipite della porta aperta per annunciarsi.
«Ehi... Cath ha detto che sei qui da sola da ore. Che cos'è successo?».
Ma la bionda non dovette rispondere, perché lo sguardo di Merlino cadde sul diario.
«Alex, non...».
«Perché non me l'hai detto?», gli chiese con la voce ancora nasale per via del pianto e lo sguardo invece fiero, coraggioso. «Sapevo che Louise era stata l'ultima tua storia importante, ma... ma questo».
«Era proprio quello che cercavo di evitare», confessò lo stregone, abbassando il capo. «Sai, è facile dire: "Sei immortale, wow, che figata". Ma non è così... Fino ad ora non credo che tu ci abbia mai dato la giusta importanza, non ti eri pienamente resa conto di ciò che sono: un essere che ha vissuto più di millequattrocento anni. Ho visto coi miei occhi cose che gli storici pagherebbero oro per conoscere, ho sentito i primi vagiti e gli ultimi respiri di così tante persone... e ci ho provato a starmene da solo, a non affezionarmi a nessuno, sapendo che prima o poi avrei dovuto dirgli addio, ma è impossibile. Gli esseri umani non sono fatti per stare da soli. E Louise... Louise ha buttato giù ogni mia barriera. Ero così stanco e lei così... viva».
Merlino abbozzò un sorriso e si sedette di traverso ai piedi del letto, prese la fotografia tra le mani e ne accarezzò un angolo.
«Era così intelligente, generosa, forte... Non aveva paura di niente. Abby le assomiglia moltissimo ed è un vero peccato che non si siano mai conosciute».
«Se fosse ancora viva, avrebbe quasi cento anni», fece il conto Alex.
«E invece è morta nel 2002».
«Tu... tu eri con lei?».
Merlino infilò la fotografia nel diario, evitando il suo sguardo, ed annuì con un cenno del capo. «Nessuno della sua famiglia la andava mai a trovare in quell'ospizio, nemmeno i suoi figli».
«La signora Chapman...». Alex sgranò un po' gli occhi ed incrociò le gambe, sporgendosi verso di lui. «È per questo che l'hai sempre evitata. Tu... tu sapevi perfettamente chi era Abby quando l'abbiamo conosciuta. Lei lo sa?».
Il mago annuì di nuovo, in silenzio. Alzò gli occhi per incrociare quelli dell'infermiera e timidamente le chiese: «A che cosa stai pensando?».
«Non lo so, io... Abby poteva essere la tua pronipote». Alex si strinse nelle spalle. «Come fai a convivere con tutto questo?».
Merlino le rivolse un sorriso venato di tristezza. «Non posso fare altrimenti. Ti sembrerà insensibile da parte mia, ma la vita va avanti comunque: puoi decidere di restare fermo oppure cercare di fare ancora qualcosa di buono.  Sono rimasto fermo troppo a lungo, dopo la morte di Louise. Sono rimasto fermo fino a quando non ti sei avvicinata a me, sotto quel diluvio, per darmi il tuo ombrello».
Alex sentì nuove lacrime pungerle gli occhi e fece del suo meglio per ricacciarle indietro.
«Tu hai risvegliato la mia voglia di vivere, di lottare per ciò che abbiamo di più caro. E non ti ho mai raccontato di Louise perché non volevo che tu pensassi che fossi un rimpiazzo: non lo sei, Alex; non lo sei mai stata. Non so dire se l'amore che provo per te è lo stesso che provavo per Louise, ma di una cosa sono certo: ora ci sei tu al mio fianco e ti terrò stretta, finché tu lo vorrai».
A quel punto Alex era così confusa ed emotivamente fragile che non riuscì più a controllarsi: lasciò che le lacrime le scorressero libere sulle guance e si gettò tra le braccia del mago, il quale la strinse forte a sé e la cullò fino a quando non parve calmarsi. Allora le prese il volto tra le mani per asciugarlo e dopo averle sistemato i capelli dietro le orecchie infilò una mano nella tasca della felpa per tirare fuori un cofanetto di velluto rosso. Lo riconobbe all'istante, come riconobbe l'anello all'interno: un semplice cerchio d'oro e un piccolo rubino, un solitario diverso e particolare, proprio come la donna a cui era stato regalato - sua madre.
Alex boccheggiò, sentendo i polmoni andarle in fiamme, e sollevando gli occhi incrociò quelli di Artù e Cathleen, fermi sulla porta. Da quanto tempo erano lì?
«Qualche tempo fa mi dissi che se dovevo chiederti di sposarti dovevo farlo perché avevo tutte le intenzioni di continuare a vivere, di invecchiare ancora con te. Alexandra Greenwood-Pendragon, vuoi combattere il destino al mio fianco, come marito e moglie?».
L'infermiera rischiò di annegare negli occhi azzurri di Merlino, nei propri sensi di colpa e nelle insicurezze. Quella mattina si era detta che avrebbe tenuto fede alla propria promessa di sposarlo, ma in quel momento, dopo la storia di Louise...
Alzò lo sguardo ed incrociò ancora una volta quello di Cathleen, la quale sgranò un poco gli occhi e le fece segno di dire quel maledetto sì. Alex però non ci riuscì, ricordando ciò che le aveva detto dopo che si era confidata: essere marito e moglie comportava essere sinceri l'uno con l'altra, sempre, e lei aveva un paio di segreti che ancora non era riuscita a confessargli.
«Alex, ti senti bene?», le domandò Merlino, apprensivo.
No, non stava affatto bene. Era così disgustata da se stessa che probabilmente fu quella la causa per cui sentì il pranzo risalirle lungo l'esofago e dovette scansare prima Merlino e poi Artù e Cathleen per fiondarsi in bagno e rimettere.

Merlino chiuse il cofanetto con uno schiocco e lo strinse tra le mani, lo sguardo fissò di fronte a sé.
«Io... io vado a vedere come sta Alex», sussurrò Cathleen, dando una pacca sul sedere ad Artù perché raggiungesse il mago e lo confortasse.
Il re di Camelot si avvicinò incerto, con le mani nelle tasche della tuta, e quando fu seduto al suo fianco esclamò: «Sono sicuro che non stia vomitando per la tua proposta».
Merlino gli rivolse un'occhiata tagliente, tanto intimidatoria che per un attimo ebbe paura di venire scagliato dall'altra parte della stanza.

Cathleen bussò e non ricevendo alcuna risposta si azzardò ad entrare in bagno, dove trovò Alex intenta a tirare lo sciacquone.
«Non voglio parlarne», mormorò ancor prima che potesse aprire bocca.
I lineamenti del paramedico si indurino. «Ah no? Molto comodo».
«Non voglio parlarne ora», specificò allora l'infermiera, chinandosi sul lavandino per lavarsi il viso.
Cathleen però non mollò e si avvicinò tanto da comparire nello specchio insieme alla bionda.
«Ascoltami. Ascoltami attentamente, okay? Nella situazione in cui siamo, non puoi sprecare un solo secondo. Voglio dire... domani potrebbe essere tutto finito, per quello che ne sappiamo! Tu ami Merlino, lo so. E lui ama te, alla follia, perciò digli la verità su Darrell, o qualsiasi cosa ti abbia impedito di dire di sì, e poi sposatevi. Te ne pentirai per tutta la vita, altrimenti».
Alex guardò la rossa negli occhi per una dozzina di secondi, in silenzio, poi la superò ed uscì dal bagno. Cathleen alzò gli occhi al cielo e sospirò affranta, seguendola con lo sguardo fino a quando non corse giù per le scale.

***

Merlino non sapeva proprio cosa pensare. Insomma... era stata lei alla fine di chiedergli di sposarlo. Che ci avesse ripensato? Dopo tutto quello che era successo, dopo tutto quello che aveva scoperto, non l'avrebbe biasimata se avesse cambiato idea. Nemmeno lui si sarebbe mai sposato se avesse ragionato con la testa anziché col cuore.
Il sole stava calando e se volevano recuperare Excalibur dovevano farlo prima dell'arrivo del buio, sfruttando il fatto che durante le ore di luce Freya si riposava: essendo stata collegata alla spada per secoli, era certo che da sveglia avrebbe avvertito maggiormente quello che avevano in mente.
«Vado a cercare Alex», esclamò allora, alzandosi da tavola.
Non si era nemmeno presentata a cena.
«Non credi che dovresti... darle un po' di spazio?», gli chiese Artù.
Merlino lo fissò con un sorriso appena accennato sulle labbra. «Apprezzo lo sforzo, ma so come prendere voi Pendragon».
Prima di uscire dalla porta finestra che dava sulla veranda, esclamò:  «Ci vediamo tra venti minuti alla caverna di cristallo».
Merlino si inoltrò nella foresta e non fu difficile seguire le tracce lasciate da Alex. Da giovane era stato una frana a caccia, ma nel corso degli anni e grazie agli insegnamenti di Artù era migliorato. Anzi, era stato proprio grazie ai suoi insegnamenti se più di una volta non era morto di fame.
Scorse Alex addossata contro il tronco di un albero che dava su una leggera pendenza, con una balestra tra le mani, puntata verso un coniglietto ritardatario. Da dietro, con i capelli legati perché non la infastidissero, sembrava la copia femminile di Artù. Ricordava quanto il solo ed unico re si imbestialiva quando a causa della sua imbranataggine faceva scappare tutte le prede, ma decise di correre ugualmente il rischio: pestò di proposito un ramo secco e Alex sobbalzò, per poi voltarsi di scatto e puntargli contro la balestra.
«Sono solo io», disse Merlino, alzando le braccia.
L'infermiera-cacciatrice rilassò le spalle e sospirò, quindi si sistemò la balestra sulla schiena e porse una mano allo stregone, il quale l'afferrò senza esitazione.
«Dove andiamo?», le domandò, lasciandosi guidare giù dalla pendenza.
«Sei venuto a dirmi che dobbiamo andare a prendere Excalibur, giusto?», gli domandò, ma non attese la sua risposta. «Non voglio che la spada influenzi i miei pensieri, perciò è meglio se parliamo ora».
«Alex, non devi giustificarti...», iniziò a dire Merlino, ma la ragazza si voltò di scatto e si ritrovarono a guardarsi negli occhi ad una distanza davvero minima, coi loro nasi che si sfioravano e le labbra ad un soffio da quelle dell'altro.
«Stai zitto, Merlino».
«Lo sai che tutte le volte che me lo dici mi viene in mente Artù, vero?».
L'infermiera abbozzò un sorriso e riprese a camminare, fino a quando non giunsero in una specie di gola, dove su entrambi i lati si ergevano pareti rocciose ricoperte di felci e muschio. Un luogo perfetto per un'imboscata.
Lì Alexandra aveva composto un cerchio con delle pietre e aveva raccolto diversi rami secchi. Quando realizzò che voleva accendere un fuoco, Merlino si sentì tremare le ginocchia: le conversazioni più importanti e profonde della sua vita si erano svolte davanti alle fiamme scoppiettanti di un falò, tra cui la sua confessione ad Artù.
Perso com'era nei ricordi, non aveva nemmeno fatto in tempo a chiederle se aveva bisogno di aiuto. Ma d'altronde aveva anche dimenticato che ora esistevano gli accendini.
Alex gli fece segno di sedersi al suo fianco, su un telo che doveva aver preso dal fienile e che aveva sistemato davanti ad un paio di rocce lisce.
«Mi dispiace per come mi sono comportata oggi pomeriggio», esordì l'infermiera, gli occhi fissi sulle lingue di fuoco e le ginocchia strette al petto. «È solo che la tua storia con Louise...».
«Forse farti la proposta ufficiale in quel momento non è stata un'idea così brillante», commentò Merlino, facendola sorridere.
«E poi l'anello di mia madre... Come l'hai avuto?».
«Tuo padre. Gli ho confessato che avevamo intenzione di sposarci, che volevo la sua benedizione e lui... lui ha fatto molto di più». Tirò fuori il cofanetto, ormai con lui ovunque andasse, e ne accarezzò il velluto rosso. «Ce l'ho da un paio di settimane, ma non sono mai riuscito a dartelo prima perché anche io sono stato sul punto di tirarmi indietro. Il diario di Louise era a casa della signora Chapman e sono stati Hala e Baqi a riportarlo qui, a farlo leggere a Abby. Ho dovuto raccontarle tutta la storia e rivivere quegli anni mi ha sopraffatto. Pensavo di non poterti più sposare, di fare un torto a te oltre che a Louise, ma poi Artù mi ha riportato in carreggiata. Il fatto è che è una tua scelta, Alex. Io sono quello che sono e il mio passato non posso cambiarlo. Posso però... possiamo decidere che cosa fare del nostro futuro».
Alex sorrise commossa, ma quella volta non versò lacrime. Concedendosi un respiro profondo, disse: «Mia madre ha sempre creduto nelle anime gemelle. Io ero scettica  a riguardo. Lo sono stata fino a quando non ho conosciuto te, a quella festa di Capodanno. Quando i nostri sguardi si sono incrociati... non c'era più nessun'altro per me. Tu sei la mia anima gemella, ne sono certa. Ed è per questo che non capisco come possa essere successo...».
Merlino corrugò la fronte, sentendo il proprio vecchio cuore iniziare a battere più forte nel petto. «Che cosa?».
«Io ho... ho provato qualcosa per Darrell», confessò, sentendosi più leggera nel momento stesso in cui diede fiato a quelle parole per troppo tempo trattenute.
Accorgendosi dello sguardo perplesso di Merlino, si affrettò ad aggiungere: «Attrazione fisica, tutto qui».
«Wow. Cioè... Ammetto che è un bel ragazzo», disse alla fine.
«Merlino! Sii serio».
Lo stregone scrollò le spalle, lasciando che un sorriso affiorasse sulle sue labbra. «Potrei fargli bere una pozione che lo faccia diventare calvo, o con le pustole...».
Alex era a dir poco sconcertata. «Stai dicendo che... che saresti disposto a questo pur di toglierlo dall'equazione?».
«Certo», rispose il mago, fissandola di nuovo con la fronte corrugata. «Come pensavi che avrei reagito?».
«Pensavo che tu... che sapendolo mi avresti spinta tra le sue braccia, ritenendo che fosse meglio per entrambi».
Merlino capiva il suo punto di vista: aveva passato così tanto tempo a sminuirsi, a dirsi che la propria felicità non contava, che doveva tenere le persone lontane per la loro di felicità... L'aveva fatto anche con Alex, per anni, ma non era più disposto a vivere una vita di solutidine per colpa dei custodi della magia e dei loro piani.
«Sei stata tu a farmi cambiare idea», le rispose alla fine. «E non ho intenzione di spingerti nelle braccia di nessun altro, solo nelle mie».
Alex venne sopraffatta da Merlino, il quale si era sporto su di lei e l'aveva baciata appassionatamente, prendendola per i fianchi come a sottolinearne il possesso.
Erano stesi pericolosamente vicini al fuoco ma Alex non lo sentiva nemmeno, a causa di quello che le bruciava di nuovo dentro: il fuoco dell'amore.
Ecco cos'era, ecco perché si era infatuata di Darrell: non si sentiva abbastanza desiderata, i fatti e le scoperte dell'ultimo periodo avevano spento la passione che provava per lo stregone, e lei l'aveva cercata altrove fantasticando sull'agente Fisher, tutt'altro che la sua anima gemella.
«Sappi che non vi farò più stare nella stessa stanza», le mormorò Merlino all'orecchio, mentre le sbottonava i jeans. «E che ti punirò, se ti sorprenderò a guardarlo».
Alex rise, sapendo che Merlino non sarebbe mai stato in grado di fare una cosa del genere, proprio come lei non sarebbe mai stata in grado di uccidere un coniglietto con una balestra.
«Se le punizioni saranno così, allora non farò altro che guardarlo», rispose con lo stesso tono, seguendo Merlino con lo sguardo mentre scivolava con la lingua sul suo addome, girava intorno all'imbelico e raggiungeva la sua intimità.
Alex inarcò la schiena e si aggrappò al telo, cercando di non gemere troppo forte per non spaventare tutti gli animali della foresta.
«Comunque voglio diventare tua moglie», riuscì a dire ad un tratto.
Merlino alzò il capo, gli occhi luminosi di felicità. «Davvero?».
Alex rise e puntellandosi su un gomito lo prese per i capelli e lo riportò a fare quello che stava facendo tra le sue gambe, rispondendo: «Sì, stupid- oooh!».

***

«Ma dove sono finiti quei due?», borbottò Cathleen, camminando nervosamente di fronte ad Artù, il quale da una decina di minuti aveva iniziato a guardarla e a pensare ad un modo con cui farle la domanda che gli ronzava in testa da un paio di giorni e che ora più che mai, vista la situazione di Merlino e Alex, gli bussava alle pareti del cranio, desiderosa di uscire.
«Dagli un altro po' di tempo», rispose, stringendosi le mani. «Torna a sederti».
Il paramedico sbuffò e lo raggiunse, ma anziché sedersi al suo fianco sulla roccia piatta che quasi faceva da panchina naturale si accomodò per terra, tra le sue ginocchia, in modo da appoggiare la testa sul suo addome.
Artù divenne rosso come un peperone, ancora destabilizzato da quell'epoca in cui tutto era permesso, niente era considerato fuori luogo o impudico.
«Sei strano. Di solito non sopporti i ritardatari», esclamò ad un tratto Cathleen, cercando di guardarlo negli occhi gettando indietro la testa.
«Sapevamo che la loro conversazione sarebbe potuta durare più del previsto...», tentò di giustificarsi, ma il paramedico colse la bugia e sorrise furbescamente, voltandosi e mettendosi sulle ginocchia, così che i loro volti arrivassero quasi alla stessa altezza.
«Qual è la verità?», gli chiese, con quella malizia negli occhi che in primo luogo gli aveva fatto girare la testa. Come se non bastasse, iniziò anche a giocare col piercing alla lingua, prendendolo tra i denti bianchissimi.
«La verità...», boccheggiò, trovandosi senza saliva da deglutire.
Cathleen gli infilò le mani tra i capelli, avvicinando ancora di più il viso al suo. Le loro labbra si sfiorarono quando gli chiese: «Avanti, non farti pregare».
«Io pensavo... pensavo che potremmo farlo anche noi».
Il paramedico si accigliò e si allontanò di un paio di centimetri. «Fare che cosa?».
Artù deviò il suo sguardo, trovandosi in enorme imbarazzo. Poteva affrontare mostri, eserciti, ma le donne... ah, sarebbero sempre state il suo tallone di Achille.
«Artù, di cosa stai parl-?».
«Potremmo sposarci  anche noi», sputò fuori tutto d'un fiato.
Cathleen non disse nulla per un'eternità e quando si mosse lo fece per alzarsi ed allontanarsi a braccia conserte, dandogli le spalle.
Il silenzio della rossa lo stava ferendo come milioni di piccoli spilli infilzati uno dopo l'altro nel suo cuore già provato e Artù si maledisse per aver aperto bocca. Non avrebbe mai dovuto venirsene fuori con un'idea così stupida: erano appena diventati una coppia e sapeva che nel mondo moderno il matrimonio non era obbligatorio - tanto che avevano già consumato - però... se avesse avuto davvero una seconda chance, allora era con Cathleen che voleva trascorrere il resto di quella sua seconda vita.
Ringraziò il cielo quando sentì dei rumori provenire da dietro delle rocce e poi scorse Merlino e Alex camminare verso di loro, mano nella mano e con due sorrisi stupidi sulla faccia. Sull'anulare sinistro della bionda brillava l'anello di fidanzamento che era stato di sua madre.
Buffo come loro avessero risolto ogni loro problema mentre lui aveva appena rischiato di rovinare il suo fragile rapporto con Cathleen.
«Scusate il ritardo», esclamò Alex, scendendo per prima dalla roccia che aveva usato come scalino.
«Io non mi scuso affatto», replicò Merlino, seguendola subito dopo ed indicando orgogliosamente ai due il rubino che le aveva messo al dito.
Cathleen si congratulò con un applauso poco convinto, poi si avvicinò alla porta blindata della caverna dei cristalli e disse: «Il sole sta tramontando e abbiamo una spada da tirare fuori dalla roccia».
Merlino la fissò confuso fino a quando non si dedicò ad Artù. Quest'ultimo non sapeva come spiegargli il disastro che aveva combinato, neanche se ne avessero avuto il tempo.
Alex raggiunse l'entrata e sbloccò i meccanismi come Merlino le aveva insegnato, mentre i due ancora si lanciavano occhiate silenziose. L'ex re di Camelot avrebbe davvero voluto che il mago cancellasse con la magia quei cinque minuti prima del loro arrivo, ma sapeva fin troppo bene che non sarebbe mai successo.
«Entriamo?», domandò ad un tratto l'infermiera.
Merlino rinunciò a capire i suoi gesti - non era mai stato portato - e dopo avergli dato una pacca d'incoraggiamento sulla spalla raggiunse la sua futura moglie.
Artù chiuse la fila, trovandosi alle spalle di Cathleen; gli sarebbe bastato allungare una mano per accarezzarle le spalle e la sua cascata di bellissimi capelli rossi, eppure la sentiva lontanissima. Rischiò quasi di finirle addosso quando si fermò di colpo, col fiato mozzato per via dei cristalli azzurri che illuminavano la grotta. Si fermò in tempo, con le mani alzate come se intorno a lei ci fosse stato un campo elettromagnetico.
«Questo posto è sempre stato qui?!», sussurrò Cathleen col naso all'insù, incredula.
Merlino sorrise, intenerito forse dal poco senso della sua domanda. «Sì, qui la magia è forte e ha continuato a vivere».
«È incredibile. Posso...?».
Merlino aprì la bocca, ma non riuscì ad articolare una risposta. Così fu Alex ad intervenire, sorridendo gentilmente al paramedico: «Ma certo, fai pure».
Cathleen alzò un braccio per raggiungere un grappolo di cristalli e li sfiorò con la punta delle dita, chiuse gli occhi e dopo qualche secondo li riaprì, con la delusione dipinta sul viso.
«Pensavo ci fosse un po' di magia anche dentro di me», spiegò scrollando le spalle.
Artù non riuscì più a resistere e le posò una mano sulla spalla, sentendo una scossa percorrergli la pelle fino a raggiungergli il cuore. La rossa si voltò per guardarlo negli occhi, sulla difensiva.
«A me non dispiace che tu non abbia la magia».
Il suo sguardo divenne ancora più tagliente. Si sottrasse alla sua presa e bofonchiò: «Grazie tante», prima di allontanarsi e superare Alex e Merlino, i quali scossero leggermente il capo nella sua direzione.
Non era quello che voleva dire. O forse sì. In fondo aveva trascorso metà della sua vita con la paura della magia, alimentata per anni da suo padre, ed era colpa di esseri magici se erano in quel pasticcio, perciò era anche comprensibile il suo sollievo. Quello che però non aveva avuto il tempo di dire era che per lui era già speciale ed unica, che l'amava così com'era.
Artù ci rinunciò e a testa bassa li seguì fino allo stretto cunicolo da cui provenivano i bagliori dorati di Excalibur, risvegliata dalla presenza di colei che l'aveva impugnata dopo più di quindici secoli.
La grotta non era grande come la precedente e Artù sentiva mancargli l'aria ad ogni passo, ma quando fu al cospetto della spada si sentì subito meglio: il potere che irradiava era davvero fortissimo.
Guardò Alex avvicinarsi alla roccia sulla riva della falda come ipnotizzata, con gli occhi sbarrati e il fiato corto.
«Che le prende?», chiese a Merlino, preoccupato.
«Il richiamo della spada», rispose e senza perdere tempo l'afferrò per un braccio perché i loro sguardi si incrociassero. Ci volle un po', e diversi schiocchi di dita, prima che Alex sbattesse le palpebre e tornasse da loro.
«La spada... è così forte».
«Non è più forte di te», esclamò Artù, sorprendendo entrambi.
Prese Alex per le spalle e sorridendo chinò un poco il capo perché i loro sguardi fossero perfettamente allineati. «Non lasciarti piegare dalla volontà di qualcun altro, mai».
L'infermiera ricambiò il sorriso e con rinnovata determinazione tornò a concentrarsi sulla spada. Il bagliore si intensificò, ma Alex strinse forte i pugni lungo i fianchi e rimase lucida.
«Merlino?», lo chiamò, allungando una mano verso l'elsa.
«Sono qui».
«Se dovessi venire sopraffatta...».
«Non succederà, okay? Troveremo un modo per impedirlo».
Alex guardò lo stregone, poi cercò gli occhi di Artù e infine quelli di Cathleen. C'erano anche altre persone che avrebbe voluto accanto in quel momento, per contrastare la forza di Excalibur con l'affetto dei suoi cari, quindi se li immaginò: Abby, Mark, suo padre e... l'ombra della donna misteriosa? Un battito di ciglia ed era scomparsa.
Respirò profondamente ed afferrò l'elsa: un'onda d'energia magica le attraversò il corpo con la potenza di un fulmine e la sua testa scattò all'indietro, ma Alex si batté per dominarla: finalmente avrebbe avuto la possibilità di capire quanto fossero servite le lezioni dello stregone.
Pensò a tutto il bene che avrebbe potuto fare, al suo desiderio di liberare Merlino e Artù da quel destino ingiusto, di avere una famiglia, di essere felice...
"Puoi avere molto di più", le sussurrò la spada con voce melliflua, simile a quella di Morgana ma più metallica.
Alex respinse la magia nera che cercava di corromperla e sussurrò l'incantesimo su cui si era tanto esercitata, quindi piantò un piede sulla roccia per fare leva ed estrasse Excalibur. Per un attimo scorse il suo viso sulla lama riflettente della spada, dalla parte in cui non vi erano quelle strane incisioni, e quasi sobbalzò scorgendo le proprie iridi dorate. L'immagine però cambiò in fretta, mostrandole il volto di Morgana in corrispondenza del proprio.
Alex quella volta rischiò di perdere davvero la presa sull'elsa, ma Artù la raggiunse e l'aiutò a tirare fuori dalla roccia quel che rimaneva di Excalibur. Consapevole che mai l'avrebbe lasciata cadere, si abbandonò al suo corpo, stremata, e lasciò che l'oscurità calasse sui suoi occhi.

Cathleen era risalita verso la superficie mentre Artù e Merlino si occupavano di una Alex ancora incosciente. «Ho bisogno di un po' d'aria», aveva detto prima di lasciarli.
«Si riprenderà?», domandò il re di Camelot, sfiorando il volto della sua sola erede.
«Sì, il suo corpo sta metabolizzando tutta la magia che ha assorbito», spiegò Merlino. «La prima volta Alex non sapeva di dover contrastare qualcosa ed Excalibur non le ha opposto resistenza, si è semplicemente lasciata raccogliere dal fondo di Avalon».
«Quindi che cosa facciamo?».
Il mago sospirò e si appoggiò alla parete alle sue spalle, la testa di Alex sulle gambe e una mano ad accarezzarle teneramente i capelli. «Aspettiamo».
Artù non fu felice di quella risposta, ma anche lui si mise comodo al fianco dello stregone.
«Che cosa fate?», gli domandò però quest'ultimo. «Non andate da Cathleen?».
Il sovrano si massaggiò la fronte. «Non so se è la cosa giusta da fare».
«Ma che cosa è successo?».
Artù gli fece un riassunto dei suoi ultimi scivoloni e si sentì ancora una volta così stupido da voler prendere a testate la parete di roccia dietro di lui. Si rifiutò di guardare Merlino negli occhi, preferendo fissare il dito che stava torturando con uno dei suoi anelli.
«Forse sono stato affrettato, ma... Se avessi potuto, avrei sposato Ginevra ancor prima di diventare re. Ora che non ho niente e nessuno a vietarmelo, ho pensato...».
«Capisco», lo interruppe il mago. «Ma Cathleen ha già ricevuto una proposta di matrimonio e poco dopo ha visto quel sogno andare in frantumi. Presumo che abbia paura che succeda di nuovo».
«Cosa mi consigli di fare, Merlino?».
Lo stregone abbozzò un sorriso, ripensando a tutti i consigli che gli aveva dato a Camelot e che puntualmente non aveva ascoltato. «Beh, credo che ignorare la questione non vi aiuterà in alcun modo: se quello che provate è sincero, allora dovreste affrontare l'argomento».
«Come avete fatto tu e Alex questa sera?».
«Proprio così. Alex mi ha spiegato quello che l'ha frenata e ora siamo a posto. La sincerità è sempre la soluzione».
Artù annuì brevemente e si alzò usando la spalla di Merlino come appoggio. Lo stregone aprì la bocca in un grido muto e il solo ed unico re sorrise, tirandogli anche un calcetto su uno stinco.
«Vedo che trovate ogni volta modi diversi per dimostrare gratitudine», bofonchiò, proprio mentre Alex iniziava a svegliarsi, accartocciando il viso in un'espressione sofferente.
«Merlino?», lo chiamò con la voce impastata, sollevando appena una mano.
Lo stregone fece segno ad Artù di andare e si chinò a baciarle la fronte, sussurrando: «Sono sempre qui».
Artù lo lasciò a spiegarle cos'era successo e risalì nella grotta. Sperava davvero che Cathleen fosse uscita, così da poter respirare un po' d'aria fresca, invece si era semplicemente seduta nell'angolo rozzamente arredato da Merlino.
«Ehi», esclamò avvicinandosi.
La rossa abbassò gli occhi su di lui e ricambiò con un semplice cenno del capo, per poi tornare col naso all'insù, più interessata ai cristalli che a quello che aveva da dirle.
Artù si schiarì la gola con un finto colpo di tosse e senza sedersi disse: «Senti, non sono bravo in queste cose. Esprimere i miei sentimenti... non è proprio il mio forte. Però non voglio che tu pensi che abbia detto quelle cose senza averci pensato. Ci ho pensato tanto, Cathleen. E non dico che dobbiamo farlo ora, o domani, ma se sopravvivremo... io voglio stare con te».
Cathleen si alzò dalla consumata sedia a sdraio, ma Artù non ebbe il coraggio di incrociare il suo sguardo: sapeva che se l'avesse fatto non avrebbe più detto una parola.
«Ti ho già detto che non avrei mai immaginato di innamorarmi di nuovo, e che soprattutto non avevo idea di potermi innamorare di una persona così diversa da Ginevra... Ma tu sei speciale ed è un dato di fatto: ti amo, così come sei. Non hai la magia, ma la verità è che non ti serve: sei la persona più forte e determinata e pazza e...».
Artù era così impegnato a fissarsi le scarpe e a parlare a ruota libera che non si era minimamente accorto che Cathleen si era avvicinata, un passo dopo l'altro. Lo realizzò quando ormai aveva il suo corpo addosso, le sue braccia allacciate al collo e la sua bocca sulla propria. Chiuse gli occhi, espirando profondamente dal naso, e la strinse forte a sé circondandole la vita.
Quando Cathleen si scostò per riprendere fiato, gli accarezzò le guance ed abbozzò un sorriso beffardo. «Scusami, sono una stupida».
«Non dire così».
«Dico solo la verità. È che mi hai ricordato terribilmente Zachary: anche lui ha tirato fuori la proposta così, come se nulla fosse. E ho pensato... ho pensato che se non ho mai portato la fede è perché se n'è andato prima del tempo. Non voglio che succeda un'altra volta, Artù».
Merlino ci aveva preso, ancora una volta. Lui sì che capiva le donne!
Il solo ed unico re non poteva prometterle che tutto sarebbe andato per il meglio, che avrebbero entrambi avuto una seconda chance, perché non lo sapeva. Si limitò allora a stringerla forte.
«Giusto questa mattina ho detto ad Alex che non doveva sprecare neanche un minuto con Merlino e so che risulterò ipocrita, ma non me la sento. Non potrei sopportarlo, se...».
La voce di Cathleen si incrinò e Artù le posò un bacio tra i capelli, annuendo.
Merlino e Alex avevano tutte le intenzioni di sposarsi prima della loro battaglia col destino, o almeno così pensava di aver capito, ma comprendeva anche la scelta di Cathleen: avrebbe combattuto al suo fianco, ma non voleva farsi illusioni nel caso in cui le cose fossero finite male. Non poteva biasimarla.
«Ce la faccio, ce la faccio».
Entrambi sciolsero l'abbraccio e si voltarono sentendo la voce di Alex, la quale comparve per prima nella caverna di cristallo. Alle sue spalle Merlino reggeva Excalibur, al sicuro nel suo fodero.
«Come ti senti?», le chiese il paramedico.
Alex sbuffò, ravvivandosi i capelli sul lato destro della testa. «Come se mi fossi appena fatta una dose. E non di roba leggera».
«Ti passerà presto», la rassicurò il mago, posandole una mano alla base della schiena. Quindi alzò il capo verso Artù, chiedendogli con un solo movimento di sopracciglia come fosse andata con Cathleen.
Il biondo abbozzò un sorriso ed annuì col capo in risposta: avrebbe preferito sentire qualcos'altro dalla rossa, ma non era colpa sua se aveva già sofferto così tanto per via del destino. Come portatore di speranza, doveva essere il primo a credere che insieme sarebbero riusciti a sormontare qualsiasi ostacolo.
Tutti e quattro uscirono dalla grotta e furono costretti a tirare fuori le torce per via del buio che rendeva il bosco impraticabile.
«No, aspettate», esclamò Alex, cercando lo sguardo di Merlino per ottenere la sua approvazione.
«E va bene», rispose questo, intuendo ciò che voleva fare e cacciando via il senso di inquietudine che lo assaliva ogni volta che vedeva Alex, la sua normalissima Alex, praticare la magia. Se era difficile per lui, Artù stava ancora peggio: il timore che quei poteri quasi illimitati inquinassero il suo animo gentile, proprio come era successo a Morgana, era tanto da gelargli il sangue nelle vene.
«Raccogliete dei pezzi di legno», ordinò l'infermiera e quando tutti e tre ne ebbero uno in mano sorrise soddisfatta, facendo in modo che le punte di quelle fiaccole di fortuna si toccassero.
Chiuse gli occhi per trovare la concentrazione e quando li riaprì i suoi occhi dorati fecero correre un brivido lungo le spine dorsali di tutti e tre.
«Leohtbora», sussurrò e le fiamme arsero all'improvviso sulle punte delle loro torce, solo che si ingrossarono e si alzarono per almeno mezzo metro.
«Uoh, uoh, così è troppo!», gridò Artù, ma Alex era già andata in panico.
«Non riesco a fermarle!».
Merlino allungò una mano per prenderle il gomito ed avere la sua attenzione. «Controlla il battito del tuo cuore, respira profondamente».
Artù si ritrovò a guardare lo stregone e la sua erede inspirare ed espirare in sincronia, mentre la torcia che aveva in mano si stava consumando rapidamente. Troppo rapidamente.
«Adesso immagina di contenere le fiamme. Ce la puoi fare: sei tu a controllare la magia, non il contrario».
La bionda chiuse di nuovo gli occhi, la fronte corrugata per la concentrazione, e lentamente le fiamme si abbassarono.
«Bravissima», si congratulò Merlino, sporgendosi per avvolgerle un braccio intorno alle spalle e baciarla sulla guancia.
Alex sorrise, ma il suo viso era provato ed imperlato di sudore. «Non pensavo fosse così difficile controllarla».
«È solo una questione di allenamento. Hai visto gli effetti di una magia incontrollata: è molto pericolosa e poi, cosa più importante, ti consumerebbe».
Artù deglutì a quelle parole, immaginando Alex avvolta dalle fiamme magiche, e desideroso di cambiare argomento esclamò: «Torniamo a casa».
Nessuno ebbe da ridire.

***

Abby aveva i crampi allo stomaco da quanto aveva riso. Non trascorreva una giornata così spensierata da anni e doveva tutto a Mark.
Si accoccolò meglio nell'incavo della sua spalla e gli accarezzò il petto, in corrispondenza del suo cuore scalpitante.
«Grazie», sussurrò, sollevando appena il capo per poterlo guardare negli occhi.
«Oh sì, certo, mia madre ti ha raccontato le cose più imbarazzanti della mia infanzia e ora mi ringrazi», la canzonò, fingendosi offeso.
Abby però lo ignorò completamente: fece scivolare la mano dal suo petto al suo viso e si sporse per baciarlo sulle labbra.
Se qualcuno fosse entrato nella sua stanza in quel momento, trovandoli a scambiarsi effusioni su quel letto troppo piccolo per entrambi, si sarebbero beccati una ramanzina epica. Eppure nessuno dei due ci pensò.
Per la prima volta in assoluto, Mark osò sfiorarle il seno da sopra la maglietta e Abby inarcò la schiena per sentirlo più vicino. Le loro lingue si erano appena sfiorate, timidamente, quando sentirono un lieve bussare contro il vetro accanto alla porta. Sobbalzarono e il ragazzino rischiò di cadere giù dal letto, ma alla fine riuscirono a ricomporsi prima che la porta si aprisse mostrando un dottor Ellis in jeans e dolcevita.
«Scusate, ho interrotto qualcosa?».
«No! No, assolutamente! Che cosa avrebbe dovuto interrompere?», farfugliò Mark, rosso come la sua bandana, mentre scendeva dal letto per sedersi sulla sua sedia a rotelle.
Abby trattenne a stento una risata e sollevò una mano quando il ragazzino le augurò la buonanotte. Una volta uscito, Abigail si abbandonò contro i cuscini e nonostante l'eccitazione sentì la stanchezza piombarle addosso come un'incudine.
«Sai, siete proprio una bella coppia», esordì Keith, trascinando la sedia di plastica al capezzale del suo letto.
«Ma?», chiese Abby, notando il suo tono insicuro.
Il medico si strinse nelle spalle. «Non lo so, non pensi che nelle vostre condizioni...?».
«Abbiamo il cancro e la nostra vita è segnata, ma per il tempo che abbiamo meritiamo di essere felici».
Il suo ragionamento non faceva una piega e Keith annuì con un cenno del capo, abbassando gli occhi.
Si comportava in modo strano, ma Abby non gli mise alcuna fretta. Ne approfittò per chiudere gli occhi e riposare un po'. Quando li riaprì non aveva idea di quanto tempo fosse passato, ma Keith era ancora lì, intento a cercare le parole.
«Si tratta di Hala?», gli domandò a bruciapelo, con voce assonnata.
Gli occhi del dottor Ellis finalmente si mostrarono e quello che vi vide non le piacque: dolore, delusione, rabbia... Aveva fatto centro.
«Questa mattina ho ricevuto una sua telefonata, ma non ho fatto in tempo a rispondere. È da allora che provo a ricontattarla, ma scatta sempre la segreteria».
Abby sospirò e si spimacciò il cuscino sotto la testa. «Ascolta, Keith... Non devi prenderla sul personale, okay? Tu non c'entri nulla».
«Di che cosa stai parlando? Dov'è Hala? Lei non se ne sarebbe mai andata così, di punto in bianco, lasciandosi tutto alle spalle!».
«Non lo so. Davvero», disse la verità. Quella era la parte più facile, dopotutto. «Ha chiamato anche mia nonna questa mattina e le ha detto che lei e Baqi stanno tornando in Pakistan, a riscoprire le loro origini».
«Ma... ma non ha senso!», balbettò, gli occhi di ghiaccio sgranati per lo shock.
«Non lo dire a me».
Keith si alzò e ancora una volta Abby si ritrovò a fissare l'ennesima persona che faceva avanti e indietro davanti al suo letto. Di quel passo avrebbe avuto un fossato tra lei e la finestra.
«Pensavo che lei fosse quella giusta, quella con cui ricominciare dopo Alex...».
«Mi dispiace tanto», rispose Abigail ed era sincera: tutti meritavano una seconda chance, persino Keith.
«C'è qualcosa che proprio non mi torna... Posso parlare con tua nonna? Devo sapere che cosa le ha detto, le esatte parole».
La ragazzina annuì. «L'ultima volta che l'ho vista era in sala comune coi genitori di Mark».
«Grazie. Riposati ora».
Lei l'avrebbe fatto anche prima, se non si fosse trovata nei panni di Dottor Stranamore. Non glielo disse, si limitò a sorridere e a salutarlo con un debole cenno della mano. Quindi chiuse gli occhi e sprofondò tra le braccia di Morfeo, il quale le parve avere le fattezze di Mark.

***

«Quindi ora che si fa?», domandò Cathleen ad un tratto, rompendo il silenzio che si era creato in quella cucina. Seduti ognuno ad un lato del tavolo, fissavano la spada nel suo fodero: Artù con le mani sotto il mento, Alex tra i capelli e Merlino davanti alla bocca, intrecciate a mo' di preghiera.
Lo stregone sospirò e guardò la bionda, seduta al capotavola alla sua sinistra. «Tu come ti senti?».
«Ancora in me», affermò seriamente, senza distogliere lo sguardo da Excalibur. «Non ho manie di potere, né voglio distruggere qualcosa».
Merlino la osservò a lungo, poi decise di fare la prova del nove: «Allora non ti dispiacerà se la tengo io».
Ancora prima che Merlino potesse sfiorare il fodero, Alex sfilò la spada ed alzandosi in piedi gliela puntò contro, gli occhi assottigliati e le labbra arricciate in un ringhio muto.
«Alexandra!», gridò Artù alzandosi a sua volta, con le mani protese in avanti.
L'infermiera sbatté le palpebre e tornò in sé, realizzando ciò stava facendo. Lasciò cadere la spada sul tavolo e si intrecciò le mani dietro alla testa, come a volersi arrendere alle manette.
«Non posso oppormi, è troppo forte», mugugnò e si lasciò cullare dalle protettive braccia di Merlino, il quale si era avvicinato per confortarla nonostante lui stesso avesse bisogno di sentirsi dire che sarebbe andato tutto bene.
Artù afferrò l'elsa ed osservò il piatto della spada nel tentativo di scorgerci la stessa magia nera che permeava il frammento che aveva vicino al cuore. Avrebbe volentieri assorbito anche quella, se fosse servito ad impedirle di influenzare Alex.
«Fino a quando Merlino non troverà un modo per proteggerti, la terrò io», esclamò ponendola nel suo fodero. Era il minimo che poteva fare.
Alex annuì col capo, anche se i suoi occhi mostravano chiaramente quanto fosse contrariata. Vederla così in conflitto era davvero straziante.
«E sei sicuro che non influenzerà te?», gli chiese Cathleen, preoccupata.
«Ne dubito», rispose per lui Merlino. «Excalibur è stata forgiata per lui dal Grande Drago Kilgharrah e non può ribellarsi alla sua volontà».
«Ogni volta che nomini il Grande Drago divento così gelosa che potrei mandarti al Pronto Soccorso, per poi ricordarmi che dovrei portartici io», bofonchiò il paramedico, gettandosi i capelli dietro le spalle. «Sei proprio sicuro che non ci siano più draghi in circolazione?».
Merlino le rivolse un sorriso triste. «Sì, ne sono sicuro. Kilgharrah e Aithusa erano gli ultimi della loro specie, come io sono l'ultimo Signore dei Draghi. Le cose vanno di pari passo».
«Aspetta un momento». Cathleen si portò una mano sulla tempia, fissandolo quasi in cagnesco. «Che vuol dire che sei un Signore dei Draghi? E perché io non ne sapevo niente?».
Merlino si strinse nelle spalle. «Il mio è un titolo che non posso più portare. Come potrei essere un Signore dei Draghi senza draghi?».
«Esattamente come un re senza regno», commentò Artù con amarezza.
Cathleen aprì nuovamente la bocca, ben decisa a non cambiare argomento, ma venne interrotta dall'insistente trillo del campanello.
«Chi può essere a quest'ora?», domandò Alex, mentre andava alla porta.
Sbirciò dallo spioncino e fu molto sorpresa di vedere Keith dall'altra parte. Che cosa ci faceva lì? E perché sembrava così arrabbiato?
«Allora, chi è?», domandò Merlino, sporgendosi oltre la soglia della cucina.
Alex lo guardò con la fronte corrugata per la perplessità. «Keith».
Entrambi rimasero in silenzio, senza sapere che cosa pensare. Alla fine lo stregone la raggiunse ad aprì la porta al suo posto. Il dottor Ellis non gli diede nemmeno il tempo di chiedergli il motivo della sua visita: lo afferrò per la maglietta e gli tirò un pugno sul viso, sbattendolo contro la parete dell'ingresso.
«È tutta colpa tua!», gridò, pronto a colpirlo di nuovo.
Alex però si gettò in mezzo e Keith fu costretto a fermarsi per non farle del male. Non pensava però che la ragazza avrebbe risposto all'attacco, tirandogli un calcio sullo sterno così forte che si ritrovò schiena a terra.
«Che diamine...?», iniziò a domandare Artù, precipitandosi fuori dalla cucina con Cathleen al seguito per via del trambusto. Vedendo Merlino accasciato sul pavimento con una mano sul naso sanguinante, l'ex re di Camelot sentì la rabbia incendiargli le vene ed affiancò Alex per continuare il lavoro, ma Cathleen lo prese per le braccia giusto in tempo.
«Calmiamoci tutti!», gridò il paramedico, tirando indietro anche Alex. «Si può sapere che cosa sta succedendo?».
«È colpa di Merlino se Hala se n'è andata», spiegò allora Keith, il viso ancora accartocciato dall'ira.
«Di cosa stai parlando?», domandò il moro, fissando prima la propria mano sporca di sangue e poi gli occhi gelidi del medico.
«Hala ed io avevamo iniziato a frequentarci, lo sapevi? Tutto andava a meraviglia, pensavo davvero di poter costruire qualcosa con lei, ma ancora una volta tu hai mandato tutto a rotoli!».
«Sei fuori strada, Keith», ringhiò Alex, rischiando di sfuggire alla stretta di Cathleen. Se al suo fianco non ci fosse stato un Artù dai riflessi pronti si sarebbe gettata di nuovo contro il dottore.
«Quando ho saputo che Hala se n'era andata lasciandosi tutto alle spalle ho capito subito che c'era qualcosa che non andava. Ho parlato con la signora Chapman e sai cos'ho scoperto? Hala le aveva detto di essere interessata a Merlino! Questo ovviamente prima che iniziasse ad uscire con me, ma pensaci un attimo... prima Myra, ora Hala... perché tutte le donne che si avvicinano a lui ad un tratto spariscono? C'è qualcosa di sbagliato in lui!», gridò, alzandosi e puntandogli il dito contro. «Ascolta Alex, lo so che tu lo ami ed è difficile, ma credimi: è lui la causa di tutto quello che ci è capitato! Io ho sbagliato, lo ammetto, ma avevo tutte le intenzioni di farmi perdonare e se lui non si fosse messo in mezzo a quest'ora noi due saremmo felicemente sposati! La verità è che Merlino mi odia, l'ha sempre fatto, e ancora adesso me la sta facendo pagare!».
Alex si dimenò ancora, tanto che Artù e Cathleen non riuscirono più a trattenerla. L'infermiera però strinse i pugni, si avvicinò a Keith e guardandolo fisso negli occhi sibilò tra i denti: «Tu mi hai tradita. Per mesi. E se Merlino non si fosse messo in mezzo a quest'ora avrei un divorzio alle spalle, non solo perché l'avrei scoperto ma perché tu non sei mai stato la mia anima gemella. Per quanto riguarda Myra, il motivo per cui se n'è andata lo sai benissimo: il vostro stupido piano di vendetta le si è rivoltato contro e non ha potuto sopportare i sensi di colpa».
«E io non ho mai saputo che Hala era interessata a me. Le avrò parlato sì e no una volta», intervenne Merlino.
Alex avanzò di un altro passo ed intercettando nuovamente lo sguardo di Keith gli indicò la porta ancora aperta: «Mi dispiace che tu sia stato scaricato in questo modo, ma la prossima volta che devi sfogarti con qualcuno, non osare venire a sputare merda sull'uomo che sposerò».
Keith rimase letteralmente a bocca aperta, mentre sul suo viso compariva un'espressione sempre più mortificata. Dopo una dozzina di secondi, abbassò il capo vergognosamente e senza dire una parola voltò loro le spalle per raggiungere la lussuosa Mercedes che aveva lasciato nel vialetto sterrato.
Alex non aspettò nemmeno che salisse sull'auto prima di sbattere la porta e voltarsi verso i suoi amici, i quali la stavano guardando con ammirazione e un pizzico di timore. La verità era che non sapevano se quella che avevano visto fosse la loro Alex o quella influenzata dalla magia nera di Morgana.
Ebbero la loro risposta quando i suoi occhi verdi si riempirono di dispiacere nel vedere del sangue sul volto di Merlino. Con Keith era solamente uscita la forza dei Pendragon.
«Dumbo, stai bene?», gli domandò, infilandosi sotto il suo braccio per scortarlo al piano superiore e aiutarlo a pulirsi.
Merlino rispose affermativamente e gettò il viso sotto l'acqua fredda, mentre Alex si sedeva alle sue spalle, sulla tazza del gabinetto.
«Non è rotto, ma mi uscirà un bel livido», esclamò guardandosi allo specchio ed esaminandosi il setto nasale gonfio.
Alex lo ignorò totalmente, chiedendogli invece: «È vero che non sapevi che Hala era interessata a te?».
Merlino si asciugò il viso e si voltò per ricambiare il suo sguardo con espressione divertita. «Mi stavo giusto domandando quando me l'avresti chiesto. Comunque no, non ne avevo idea. Ma Hala avrebbe potuto inventarselo, solo per mascherare il vero motivo per cui faceva tante domande su di me».
L'infermiera soppesò le sue parole, poi scrollò le spalle e sorrise. «Ah, non importa. Per sua fortuna se n'è andata e non dovrò farla a fettine con Excalibur».
«Alex...», l'ammonì il mago, col capo piegato leggermente a sinistra.
Lei sollevò le mani in segno di resa. «Okay, non è argomento di battute. Capito».
«Alex! Dobbiamo andare!», gridò Cathleen dal piano inferiore.
Merlino gettò uno sguardo all'orologio che aveva al polso per dare ragione al paramedico e si accorse che le lancette si erano fermate poco dopo le venti, ossia quando Alex si era apprestata a tirare fuori la spada dalla roccia. Inutile dire che lo trovò un pessimo segno.
«Devo andare», esclamò Alex, alzandosi per prendergli il viso tra le mani e stampargli un bacio sulle labbra. «Ci vediamo a colazione, okay?».
«Okay. Ti accompagno alla porta, nel caso qualcun altro voglia prendermi a pugni».
«Non ti preoccupare, ti difendo io».
Alex ridacchiò e mano nella mano fecero per tornare di nuovo in salotto, dove trovarono Artù e Cathleen intenti a scambiarsi un bacio appassionato.
«Ehi, andateci piano prima che vi esploda il cuore!», gridò Merlino da metà scalinata. Artù rispose semplicemente alzando il dito medio, un'usanza moderna che gli piaceva ogni giorno di più.
«Sarò lì quando ti sveglierai», lo salutò il paramedico, le guance arrossate per il desiderio.
«A domani», ricambiò furbescamente Merlino.
Prima che uscissero con le loro borse appese alle spalle, Artù si ricordò dell'argomento che non avevano ancora trattato in presenza di Alex.
«Cathleen, puoi parlarle della gita che pensavamo di organizzare?».
«Quale gita?», chiese l'infermiera, gettando uno sguardo in direzione di Merlino.
La rossa le avvolse un braccio intorno alle spalle, costringendola a procedere lungo il vialetto. «Artù ha avuto un'idea geniale! Ti spiego mentre andiamo, altrimenti facciamo tardi».

***

L'ispettore di polizia della Centrale di Newport l'aveva svegliato nel cuore della notte per richiamarlo in servizio: c'era stato un grave incidente sul tratto di autostrada che passava per il loro minuscolo paese, situato tra Caerleon e la stessa Newport, e tutti gli agenti della zona erano stati chiamati sul posto per dare assistenza ai feriti e ai loro parenti, per raccogliere le testimonianze oppure per dirigere il traffico. Ovviamente a lui era toccato l'ultimo incarico.
Faticosamente raggiunse la cucina per prepararsi del caffé con cui tenersi sveglio e poi andò in bagno, il luogo che odiava di più della casa da quando aveva visto l'immagine di Freya nel suo specchio.
Pensava di esserle sfuggito evitando di guardarsi, ma si sbagliava. La sua voce gli rimbombò forte e chiara nella mente, mentre tutto intorno a lui mutava: all'improvviso non si trovava più nel corridoio che collegava la sua camera da letto col soggiorno, bensì in una foresta rischiarata solo dalla luce di alcune fiaccole.
"Tu non dovresti essere sveglio", gli disse, appoggiandosi al tronco di un albero con una mano.
Darrell sentì distintamente la corteccia dura sotto le dita, ma si sforzò di tornare alla sua realtà e si rese conto che ciò che lui stava toccando era una semplice e liscia parete.
«Mi dispiace, cambio di programma», bofonchiò, riprendendo a camminare verso la cucina.
Barcollando raggiunse la credenza e fece per tirare fuori la sua tazza, ma la coscienza di Freya prese ancora il sopravvento e gli fece perdere la presa: la tazza si schiantò sulla terra umida, ricoperta di foglie secche e radici, e nonostante si fosse frantumata in mille pezzi Darrell sentì solo le parole della druida: "Non possiamo stare svegli entrambi: torna a dormire".
L'agente si liberò nuovamente della sua presenza ingombrante, sentendosi sempre più provato, e vide i cocci della tazza sul pavimento della cucina. Era la sua tazza preferita, dannazione!
«Non posso», rispose mentre finalmente riusciva a versarsi del caffé. «Della gente ha bisogno del mio aiuto. Puoi rimandare a domani i tuoi piani malvagi?».
Freya si addossò contro una parete rocciosa e con voce affaticata rispose: "I miei non sono piani malvagi, Darrell. Se nemmeno Alexandra vuole abbracciare il suo destino, allora lo farò io per lei: riporterò la magia nel mondo e tutti mi ringrazieranno, un giorno".
«E come pensi di fare?», le chiese ancora ad alta voce, rendendosi conto all'improvviso di quanto fosse da pazzi. Dio, se la sua vicina l'avesse sentito parlare da solo che cosa avrebbe pensato? «E che cosa c'entrano Jake e gli altri ragazzi?».
Freya guardò nella loro direzione e anche Darrell riuscì a vederli: il ragazzo che tutti credevano scomparso, le due sorelle pel di carota, il senzatetto dai capelli color biondo pallido e l'acquisto più recente, una ragazza afroamericana che doveva essere la più grande del gruppo.
"Loro sono il futuro, Darrell. Presto saprai di che cosa sono capaci".
«E tu scoprirai quello di cui sono capace io», replicò con rabbia. «Adesso fatti da parte, ho del lavoro da sbrigare».
"Ragazzi, c'è stato un cambio di programma: ci accampiamo qui per la notte", Freya si rivolse direttamente al suo piccolo esercito. Quindi tirò fuori un piccolo specchio dalla tasca della giacca e gli mostrò il proprio viso provato, ma sorridente. "A presto, Darrell".
Il poliziotto sentì il collegamento interrompersi come se qualcuno avesse appena staccato una spina dal retro del suo cervello e dopo un breve momento di stordimento sospirò sollevato. Finì il caffé e una volta indossata la giacca si chiuse la porta di casa alle spalle.

***

Alex aveva già fatto il giro di ronda, due volte, e Cathleen non si era ancora fatta viva.
Stava sfogliando una rivista dietro il bancone del ricevimento, in quella serata finalmente tranquilla nel reparto di oncologia ma capitata proprio nel momento sbagliato. Nello stato in cui si trovava, avrebbe dato di tutto per un po' d'azione, per potersi distrarre da tutto quello che le vorticava nella testa: i suoi timori riguardo a Excalibur, la scenata di Keith e soprattutto la gita di cui avevano parlato brevemente in auto.
Come sospettava, Artù aveva pensato di portare i bambini dell'ospedale, in particolare Abby e Mark, all'agriturismo dei signori Morris per poter trascorrere una serata diversa al di fuori delle mura dell'ospedale. Proprio come aveva visto nel suo sogno premonitore. Lo stesso sogno in cui aveva incontrato per la prima volta la donna misteriosa che a quel punto non poteva che essere Morgana.  
Il trillo che segnalava un'emergenza in una delle camere la fece scattare in piedi. Se fosse arrivato da quella di Mark e Danilo non sarebbe stata così preoccupata - loro lo suonavano quasi per gioco - ma la ragazzina non l'avrebbe mai fatto se non fosse stato assolutamente necessario. E nelle sue condizioni attuali, voleva dire che c'erano guai in vista.
Entrò nella stanza insieme ad una collega e trovò Abby nel bel mezzo di una crisi respiratoria, altrimenti chiamata anche dispnea - una delle varie conseguenze dell'anemia provocata dalla leucemia.
«Abby? Abby, siamo qui, sei stata bravissima», la tranquillizzò Alex, accarezzandole la fronte imperlata di sudore ed infilandole al dito il pulsiossimetro mentre la collega correva ad accendere il respiratore.
«Ecco qua», disse ancora Alex, sistemandole sul naso e la bocca la mascherina con l'ossigeno.
Col viso alzato verso il monitor, notò che il battito cardiaco non esitava a scendere. Si voltò verso la collega e le sussurrò: «Vai a chiamare la dottoressa, non possiamo somministrarle nulla senza la sua approvazione».
«Non sussurrare Alex, ti sento», rantolò Abigail, portando una mano su quella che teneva la mascherina.
«L'hanno chiamata poco fa dal Pronto Soccorso per un'emergenza», la informò la collega.
«Per quale motivo? Lei non lavora al Pronto Soccorso!».
La collega si strinse nelle spalle, leggermente intimorita dal suo sguardo carico d'astio. «A quanto pare il dottor Ellis non è venuto al lavoro questa sera».
Alex strinse i denti, giurando che quella volta nessuno l'avrebbe fermata se per colpa sua fosse successo qualcosa ad Abby.
«Tu chiamala lo stesso!», ordinò, cacciandola fuori dalla stanza.
Rimaste sole, Alex cercò di ingannare l'attesa parlando con Abigail: «È proprio una fortuna che questa sera tua nonna non ci sia. Ti immagini? Avremmo dovuto ricoverare anche lei per questa sciocchezza».
Abby avrebbe riso, se solo non fosse stata impegnata ad immagazzinare ogni più piccola particella di ossigeno proveniente dalla mascherina.
«Ehi, ho sentito che oggi hai fatto la conoscenza ufficiale dei genitori di Mark», continuò, cercando di celare il nervosismo: dove diavolo era la dottoressa? Ma soprattutto, chi diavolo pensava di essere Keith? Solo perché aveva ricevuto una delusione amorosa allora si sentiva autorizzato a non presentarsi al lavoro? Quanti anni aveva, quindici?!
«È un passo importante, sai?».
Abby chiuse gli occhi d'ossidiana e una lacrima le sfuggì dall'angolo di quello sinistro, finendole tra i corti capelli scuri. «Non posso andarmene ora... Non ho preparato i vostri messaggi».
«Non te ne andrai ora, non sotto i miei occhi», esclamò Alex, lasciandole la mano solo per correre a prendere una siringa di eritropoietina. Non aveva l'autorizzazione a somministrargliela, ma non le importava: avrebbe affrontato qualsiasi conseguenza a cuor leggero se avesse aiutato Abby a superare quella crisi.
Iniettò il farmaco direttamente nella flebo ed attese che facesse effetto col cuore in gola, gli occhi fissi sul monitor. Passarono interi secondi in cui credette di morire, ma alla fine i parametri si stabilizzarono e Abby tornò a respirare regolarmente, anche se il viso le rimase pallido e stremato.
Fu allora che entrò la dottoressa, ancora con la cuffietta da sala operatoria in testa. Esaminò prima le condizioni di Abby, poi le rivolse un'occhiata e le fece segno di seguirla fuori. Alex sospirò con un sorriso affranto, pronta a ricevere una delle peggiori lavate di testa della sua carriera, ma prima di uscire lasciò una carezza sul volto di Abby, la quale aprì un poco gli occhi e si tolse la mascherina per sussurrarle un «Grazie» che le scaldò il cuore. Sì, non se ne sarebbe mai pentita.
E non le venne nemmeno chiesto di farlo, dato che la dottoressa non si arrabbiò con lei, anzi le fece i complimenti per la sua tempestività: certo, per regolamento avrebbe dovuto aspettarla, ma se lo avesse fatto davvero Abby avrebbe potuto soffrire conseguenze ancora peggiori.
«Hai il fegato giusto per correre i rischi del mestiere, Alexandra. Sarai un'ottima dottoressa un giorno», le disse prima di tornare ad occuparsi della ragazzina.
Alex aveva l'umore così alle stelle che quando finalmente Cathleen la raggiunse la trovò con un stupido sorriso dipinto in faccia. Stupido perché, se ne sarebbe accorta presto, era probabile che non avrebbe mai avuto un futuro come dottoressa.
«Scusa il ritardo. C'è stato un grave incidente sulla M4, due morti e sette feriti e... Cosa c'è da sorridere in quel modo? Sei inquietante».
L'infermiera le fece un breve riassunto di ciò che era successo e Cathleen si congratulò, certo, ma la maggior parte della sua attenzione venne catturata dalle condizioni attuali di Abigail.
«È stabile. Probabilmente oggi si è stancata troppo».
«Dannazione, non ci daranno mai il permesso di portarla fuori da qui», mugugnò il paramedico, scura in volto.
Alex perse finalmente il sorriso, ricordando il proprio sogno. «Come è nata quest'idea?».
«Qualche tempo fa Mark ha confidato ad Artù di temere che Abby non potesse più uscire dall'ospedale e viste le sue condizioni pensavamo di farle questo regalo: un giorno di normalità all'aria aperta. Secondo te abbiamo qualche possibilità?».
Alex sapeva per certo che l'avrebbero fatto, ma decise di non dirle la verità. Si strinse nelle spalle e rispose: «Non lo so, vedremo. Più tardi faccio un tentativo con la dottoressa, okay?».
Cathleen dovette subodorare qualcosa, ma si limitò ad annuire.
Stavano tornando ognuna al proprio lavoro, quando il paramedico esclamò con stizza: «Ah, sai chi non si è presentato al lavoro questa sera, gettando il Pronto Soccorso nel caos?».
«Keith. Ho saputo», rispose stringendo i pugni lungo i fianchi. «E ho tutta l'intenzione di fargli un altro discorsetto».
Cathleen le rivolse un sorriso quasi perfido, chiamando l'ascensore. «Questa volta io non ti fermerò!».

***

«Pendragon... Pendragon!».
Artù aprì di scatto gli occhi e tutto ciò che vide fu una fitta oscurità. Provò a muoversi, ma non ci riuscì. Allora provò a gridare aiuto e fu allora che si rese conto di essere sott'acqua: il freddo l'aveva intorpidito a tal punto da impedirgli di capire che il motivo per cui in realtà non poteva muoversi erano le alghe che gli stringevano i polsi e le caviglie, incatenandolo al fondale melmoso del lago di Avalon.  
Chiuse la bocca per non perdere più bolle d'ossigeno e si guardò intorno, alla ricerca della voce che l'aveva chiamato. Ad un tratto scorse dei puntini luminescenti avvicinarsi e si dimenò con più vigore, smuovendo la sabbia nel tentativo di trovare qualcosa di appuntito con cui tagliare quelle alghe e risalire verso la superficie.
«Vi avevamo avvertiti, Pendragon».
I puntini luminosi smisero di muoversi freneticamente tra le correnti e Artù, nonostante non li avesse mai visti prima, capì che si trattava degli Sidhe, creaturine umanoidi paragonabili alle fate, solo molto più raccapriccianti e potenti.
Artù si chiese se anche loro potessero parlare telepaticamente e dato che non aveva molte altre alternative decise di provare: "Che cosa volete?".
«Qui non si tratta di noi, ma dell'equilibrio del regno di Avalon. Emrys ha iniziato qualcosa, quando ha desiderato che l'anima di Freya non morisse: l'ha resa una custode e i suoi poteri hanno protetto le porte che separano il regno dei vivi da quello degli spiriti. Il nostro popolo non può tenerle chiuse ancora a lungo, siamo troppo vecchi e deboli. Dovete riportare qui Freya al più presto!».
"E una volta restituita Freya che cosa succederà? Che ne sarà di me?!"
L'anziano Sidhe iniziò a svanire, avviluppato nella sua sfera di luce azzurra.
"Rispondimi!"
«Il tuo destino non mi compete, Artù Pendragon. Noi abbiamo fatto solo quello che ci è stato chiesto di fare, impedendo al tuo spirito di attraversare le porte di Avalon perché un giorno potesse tornare a camminare nel regno dei vivi».
"Chi ve l'ha chiesto?", domandò ancora Artù, sentendo improvvisamente i suoi polmoni raggrinzirsi per la mancanza d'aria e i battiti del suo cuore rallentare. Lottò per rimanere sveglio, per liberarsi da quella sua prigionia, mentre si ostinava a chiedere chi ci fosse in realtà dietro tutta la storia del suo ritorno.
Il nugolo di Sidhe rispose quasi in coro, allontanandosi e lasciandosi dietro solo oscurità: «Colei che vede il passato, il presente e il futuro; colei che tutti noi serviamo: la Triplice Dea».
Artù avrebbe voluto rispondere che lui non serviva proprio nessuno, ma perse i sensi.

«Artù! Artù, svegliatevi!».
Il re prese un'enorme boccata d'ossigeno ancor prima di aprire gli occhi.
«Artù, state bene?», gli domandò Merlino, inginocchiandosi al suo fianco con le mani posate sulla bocca e gli occhi umidi di lacrime. «C'è mancato così poco...».
Artù fece per mettersi seduto, ma le forze lo abbandonarono e lasciò ricadere il capo sul cuscino bagnato.
«Che cosa è successo? Ero sul fondo del lago, gli Sidhe...».
Merlino si alzò per esaminarlo da più vicino, apprensivo come una madre. «Di che parlate? Avete avuto un attacco, esattamente come le altre volte. Ho sentito dei lamenti e sono corso subito, vedete?». Recuperò il prototipo, dentro il cui cristallo si agitava un agglomerato di magia nera.
Artù si portò le mani sul volto, trovandolo sudato e freddo tanto quanto le acque di Avalon. «No, io... Non so se era un sogno o qualcos'altro, ma ero legato sul fondo del lago e ho parlato con gli Sidhe».
«E che cosa vi hanno detto?».
«Che Avalon ha bisogno di una custode che tenga chiuse le porte del regno degli spiriti».
Lo stregone si sedette al suo fianco, sospirando stancamente. Si massaggiò il viso e dopo qualche secondo di silenzio si gettò rassegnato le mani sulle ginocchia. «Okay, quindi non solo dobbiamo sventare il piano di Freya, ma dobbiamo costringerla a tornare ad Avalon per evitare un'invasione di fantasmi. Come se non avessimo abbastanza problemi...».
«C'è dell'altro», fu costretto a dire Artù, nonostante non gli facesse piacere infierire. «Ho provato a chiedere che cosa mi succederà, ma... l'unica che potrebbe rispondermi è la Triplice Dea. C'è lei dietro tutto questo, Merlino».
Il mago non sembrò sorpreso e Artù in altre circostanze si sarebbe arrabbiato, ma era troppo stanco. Il sole non era ancora sorto fuori dalla finestra, per questo decise di rimandare.
Come se gli avesse appena letto nel pensiero, Merlino si alzò e gli rimboccò le coperte dicendo: «Tornate a dormire. Sono qui accanto, se avete bisogno».
Artù annuì debolmente e si riaddormentò ancor prima che il moro si fosse socchiuso la porta alle spalle.

***

«Ciao».
Alex si portò il cellulare all'orecchio destro e si tolse frettolosamente la sigaretta di bocca per rispondere: «Ehi, che velocità! Eri già sveglio?».
«Sì, Artù ha avuto un attacco questa notte e non sono più riuscito a prendere sonno».
«Artù ha avuto un attacco questa notte», ripeté l'infermiera, toccando il braccio di Cathleen.
Il paramedico gettò via la sigaretta, nonostante anche lei l'avesse appena accesa, e le fece segno di avviarsi verso l'auto. Alex però tirò fuori le chiavi e gliele lanciò, dicendo: «Inizia ad andare, vi raggiungo tra un po'».
«Cosa, perché?», domandarono all'unisono Merlino e Cathleen.
«Artù è già in buone mani. Io devo occuparmi di una questione in sospeso».
La rossa rinunciò a capire e si allontanò, ma lo stregone, dall'altro capo del telefono, insistette: «Di che stai parlando?».
Alex si ravvivò i capelli e scese dalla rampa per allontanarsi dai colleghi che avrebbero potuto sentire la sua conversazione.
«Keith... Questa notte era di turno, eppure non si è presentato. Ho provato a chiamarlo, ma mi ignora».
«Forse dovresti fare altrettanto, non credi?».
«Mi conosci, sai che non posso farlo».
«Già... Sempre a cercare rogne, voi Pendragon! Stai attenta, okay?».
Alex abbozzò un sorriso. «Certo. Ah, Merlino!».
«Dimmi».
«Ho accennato la questione "gita" alla mia caporeparto: riferirà ai dottori e ci farà sapere. Non sembrava molto ottimista, visto quello che è successo...».
«Che cos'è successo?».
«A casa ti racconto, okay?».
«Okay...».
«Ti amo», esclamò Alex e non aspettò nemmeno la risposta del mago prima di chiudere la telefonata e, borsa in spalla, incamminarsi verso il quartiere residenziale della loro minuscola cittadina.

Keith Ellis viveva in una villetta a pochi chilometri dell'ospedale, dalla facciata bianca e col tetto spiovente dalle tegole blu scuro. Annesso c'era anche il garage, davanti a cui era parcheggiata la Mercedes su cui l'aveva visto salire la sera prima.
Sollevata che l'auto fosse ancora lì, aprì il cancello in legno infilando una mano tra i pali della staccionata ed iniziò a percorrere il vialetto in ciottolato, quando Keith in persona uscì dalla porta con una sacca da ginnastica sulla spalla.
«Alex», esclamò con la fronte aggrottata per lo stupore. «Che cosa ci fai qui?».
«Non ti sei presentato al lavoro questa notte».
Sul volto di Keith fece la sua comparsa un piccolo e confuso sorriso. «Ed eri... preoccupata per me?».
«Preoccupata? Piuttosto infuriata!».
L'infermiera si portò le mani sui fianchi e sostenne il suo sguardo mettendocela tutta per dimostrarsi arrabbiata, ma la verità era che le sue intenzioni di prenderlo nuovamente a calci si erano affievolite nel corso delle ultime ore, sostituite invece dall'apprensione: si era messa nei suoi panni e aveva realizzato che al suo posto avrebbe probabilmente reagito alla stessa maniera.
«Ascolta... Mi dispiace per ieri sera», esordì il dottore, raggiungendola a metà vialetto. «Non ero in me».
«Già, l'avevo notato. Hai intenzione di andare in palestra a sfogarti ancora un po'?».
Keith posò gli occhi sulla borsa che Alex stava indicando con un sorriso sbarazzino sul volto e scosse il capo. «Sto partendo».
La sorpresa si palesò sul volto dell'infermiera. «Partendo? E dove vai?».
«A cercare Hala». Il medico le posò entrambe le mani sulle spalle e ancor prima che potesse replicare aggiunse: «Lo so che è assurdo, ma devo farlo. Forse non la troverò, ma almeno farò chiarezza su di me, su come voglio che sia la mia vita».
Le rivolse un tiepido sorriso, quindi la invitò ad abbracciarlo. Alex ricambiò la stretta, troppo sconvolta per fare altro.
«Sarei passato da te tra poco per lasciarti Mr. Palla di pelo», esclamò mentre la conduceva con sé verso la porta.
Artù era già nel suo trasportino, che miagolava triste, e quando l'infermiera ne afferrò il manico riuscì a chiedere: «Sei sicuro che sia la cosa giusta? Lasciare tutto?».
«La verità? No, non ne sono sicuro», rispose con sincerità. «Ma ci ho pensato molto e... sai, forse è questo posto ad allontanare le persone. Ho sempre avuto l'impressione che ci fosse qualcosa di diverso qui... Forse non è per tutti».
Keith non poteva sapere quanto avesse ragione e Alex preferì non rivelarglielo. Lo guardò chiudere la porta di casa e poi consegnarle le chiavi, chiedendole di darle a suo padre quando si sarebbe precipitato a mettere a ferro e fuoco tutta la città per dare un senso alle azioni di suo figlio.
Era già seduto dietro il volante, quando Keith le rivolse un tenero sorriso ed accennando all'anello di fidanzamento le disse: «Ti auguro tutta la felicità di questo mondo, Alex; te la meriti».
L'infermiera sollevò la mano libera per salutarlo e quando fu lontano sollevò il trasportino per guardare negli occhi il piccolo Artù. Si erano finalmente ritrovati, ma a che prezzo? La storia con Keith era stata la più intensa che avesse mai avuto prima di incontrare Merlino e nonostante tutti gli sbagli, tutto il dolore, ne avrebbe sentito la mancanza. Era stata una stupida a non dirglielo, soprattutto ora che il loro tempo era agli sgoccioli e la battaglia contro Freya imminente. Chissà, forse aveva perso la sua unica occasione per dirgli addio.
Rimuginando su tutto questo, Alex si incamminò verso la villa di Merlino. Scelse di passare lungo la pista ciclabile che portava ad Avalon e una volta di fronte alla distesa d'acqua sormontata dalla solita nebbia, un brivido le corse sotto la pelle.
C'era qualcosa che non andava, in ciò che stava vedendo: la torre al centro dell'isola era in piedi, a differenza di ciò che le aveva visto nel suo ultimo sogno. Perché ne aveva viste solo le rovine e quali sarebbero state le conseguenze?
Ansiosa di scoprirlo, riprese a camminare.


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Ciao a tutti! :)
Mi scuso per il ritardo con cui ho postato questo capitolo, perdonatemi!
Grazie a chi ha letto fino a questo punto e a chi riuscirà a seguire la storia fino alla fine, dato che ormai non manca moltissimo alla battaglia finale con Freya.
Grazie per il supporto e la pazienza, davvero. Alla prossima!

P.S. I termini e le azioni mediche citate sono il frutto di informazioni trovate su Wikipedia, perciò mi scuso con tutti i lavoratori del settore se ho fatto qualche strafalcione.

Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 28
*** 28. The darkest hour ***


28. The darkest hour


Cathleen si accarezzò le labbra imbronciate con il pollice ascoltando ciò che stava avvenendo all'interno del bagno. Nell'ultima settimana non era la prima volta che lo faceva e infatti nemmeno Alex fu sorpresa di trovarla con una spalla addossata contro la parete divisoria tra un WC e l'altro, pronta a riservarle la più apprensiva delle occhiate.
«Non riesco proprio a capirti», esordì quella volta, raggiungendola al lavandino a cui si stava lavando le mani. «Lavori in un fottuto ospedale, perché non ti fai fare una visita e la facciamo finita?».
«Per quanto mi piacerebbe che tu la smettessi di farti gli affari miei, la risposta é sempre quella: no, grazie».
La rossa alzò gli occhi al cielo. «Perché? Perché, Gesù?!».
«Ascolta», sbottò Alex, strappando con rabbia un paio di fazzoletti di carta per asciugarsi le mani. «Io non sono incinta, okay? Sono un'infermiera, so riconoscere i sintomi di una gravidanza!».
«Beh, cara la mia infermiera, lasciati dire che li stai ignorando! E non riesco a capirne il motivo!».
«Ne abbiamo discusso fin troppo», concluse Alex in tono ferale, tirando a sé la porta per uscire dal bagno.
Cathleen la seguì fuori e fece per dirigersi dalla parte opposta, ma alla fine ci ripensò e con le mani intorno alla bocca gridò: «Così non mi lasci altra scelta!».
La bionda si fermò all'improvviso in mezzo al corridoio e quando si voltò aveva gli occhi venati di rabbia. L'amica non si lasciò intimorire - anche se avrebbe dovuto, visto l'allenamento intensivo a cui si era costretta per arrivare preparata alla battaglia con Freya - e con determinazione continuò: «Lo dirò a Merlino. Magari lui saprà farti ragionare».
Alex la fissò per la dozzina di secondi successivi, poi abbassò il capo e quando lo rialzò Cathleen scorse un sorriso mellifluo sulle sue labbra. Questo avrebbe dovuto farle davvero paura, ma ancora una volta sostenne il suo sguardo e rimase ferma, attendendo che l'infermiera la raggiungesse.
«Vuoi sapere perché sto ignorando i sintomi? E va bene», esclamò scrollando le spalle. «La morte di Steve mi ha distrutta, tanto da farmi giurare che non avrei mai messo al mondo un figlio. Lo stesso mondo che sta rischiando la distruzione perché lo stregone immortale che devo sposare ha lanciato una maledizione che l'ha reso un attira-magia, oltre che una bomba pronta ad esplodere da un momento all'altro. Ma il bambino non avrà solo un mago di millequattrocento anni come padre, avrà anche una strega che discende dalla dinastia Pendragon come madre, perciò non crescerà come il più normale dei bambini. Presto dovrò affrontare Freya e non sarei mai in grado di scendere sul campo di battaglia sapendo di dover difendere non solo me, ma anche mio figlio. E se mai sopravviveremo, dovrò affrontare il mio destino e compiere un sacrificio di cui non ho la più pallida idea solo per via di una profezia». Alex respirò profondamente per riprendere fiato e le rivolse un altro sorriso. «Ti vanno bene come motivazioni?».
Cathleen non riuscì ad articolare una frase di senso compiuto per via del peso che le era caduto tra capo e collo, un peso che non doveva essere nemmeno un decimo di quello che doveva sopportare Alex.
L'infermiera si ritenne comunque soddisfatta e si allontanò nuovamente lungo il corridoio, senza più guardarsi indietro.

***

«Ciao, volevo solo avvisarti che io e Merlino passiamo a salutare Abigail prima di tornare a casa».
Artù si fermò in mezzo al parcheggio dell'ospedale, come se da fermo potesse sentire meglio ciò che Cathleen, dall'altro capo del telefono, gli stava dicendo.
Merlino aggrottò le sopracciglia per chiedergli silenziosamente di cosa si trattasse, ma il re si limitò a ricambiare lo sguardo, serio come poche volte lo era stato in vita sua.
«Cathleen, sei sicura di stare bene? Mi sembri agitata. Okay, se lo dici tu... A dopo».
«Che succede?», gli chiese il mago non appena terminò la chiamata.
«Forse mi preoccupo un po' troppo. Siamo tutti stressati e...», Artù si interruppe e gli rivolse un sorriso, sventolando una mano come a voler cancellare una lavagna. «Andiamo da Abby, dai».
Anche lo stregone stava arrivando a livelli di paranoia mai raggiunti prima di allora, con Alex così esposta alla magia nera di Morgana.
Come era già successo prima, l'infermiera stava cambiando sotto i suoi occhi e non c'era nulla di concreto che potesse fare per impedirlo. Aveva provato a farsi venire in mente un'idea per contrastarla, ma sommata alla magia di Excalibur era troppo potente per le sue condizioni attuali. Perciò aveva cercato di stare il più vicino possibile ad Alex, aiutandola ad incanalare quella rabbia e quella forza distruttiva in attività meno dannose in giro per i boschi e la campagna gallesi. L'aveva anche allenata a lanciare incantesimi di difesa e di attacco, ma c'era sempre il rischio che ci mettesse troppa energia e saltassero entrambi in aria.
Era arrivato addirittura a desiderare che Freya si facesse viva il prima possibile, così da affrontarla una volta per tutte e successivamente disintossicare Alex. Sempre se fossero riusciti a batterla, ovviamente.
Merlino si fermò ai piedi delle scale e disse ad Artù: «Io non ce la faccio, prendo l'ascensore. Ci vediamo di sopra».
Il re si costrinse a tenere la bocca chiusa ed annuì, iniziando a salire i gradini mentre il mago attendeva l'apertura delle porte. Quando finalmente pigiò il tasto per il quarto piano e l'ascensore stava per muoversi fu costretto ad infilare un piede fuori per far sì che la signora Chapman potesse salire con lui. Avrebbe potuto non farlo - si sarebbe risparmiato ulteriore dolore - ma il cavaliere che era in lui aveva preso il sopravvento.
«Grazie Merlino, sei un tesoro», esordì l'anziana con un leggero fiatone, sorridendogli.
Il suo viso era sciupato e stanco, completamente diverso da quello che compariva stampato sul retro delle copertine dei suoi romanzi, e nonostante il rancore che nutriva nei suoi confronti per non essere stata accanto a Louise almeno nei suoi ultimi mesi di vita, provò pena per tutto ciò che stava affrontando.
«Ho sentito dell'uscita che volete organizzare per i bambini», ruppe il silenzio la donna, stringendo tra le mani i manici della sua borsa firmata. «Nonostante quello che dicono i medici, io penso sia una bella idea».
«Davvero?», domandò Merlino, scettico.
«Sì. Sai... Mia madre amava molto gli spazi aperti. Ricordo che ogni domenica portava me e mio fratello in bicicletta e facevamo dei bellissimi pick-nick. Quando non è più stata in grado di badare a se stessa e abbiamo deciso di affidarla alle cure di una struttura specializzata, ho insistito perché fosse immersa nel verde. Pensavo che questo l'avrebbe fatta felice, anche se col senno di poi... avrebbe preferito vedere i suoi figli. Non ho mai trovato il coraggio di andarla a trovare, di passeggiare con lei tra i sentieri di quel parco che avevo visto nelle brochures».
Merlino strinse i pugni lungo i fianchi, chiedendosi perché quel dannato ascensore ci stesse mettendo tutto quel tempo. A saperlo, avrebbe rischiato di svenire sulle scale.
Lui conosceva a menadito il parco di cui Daisy parlava: ci aveva speso le ore, pomeriggi interi a volte. Da solo o in compagnia della sua Louise dai capelli bianchi, il sorriso dolce e lo sguardo un po' perso, come la sua memoria inaffidabile. Il suo luogo preferito era il laghetto con le ninfee.
«Una volta ce l'ho quasi fatta», continuò, sistemandosi dietro l'orecchio una ciocca di capelli che le era sfuggita dallo chignon. «Sono arrivata alla reception, ho chiesto quale fosse la sua stanza e ho scoperto che un uomo l'aveva portata a fare una passeggiata. Ho chiesto chi fosse, ma nessuno ne sapeva molto. Visto che era l'unica persona che andasse a farle visita avevano sempre chiuso un'occhio a riguardo. All'inizio mi arrabbiai, dissi che se si fosse trattato di un poco di buono li avrei denunciati, e andai a cercarla. La trovai davanti ad un laghetto con le ninfee, seduta sulla sua carrozzina ed avvolta in uno scialle di lana. Sulla panchina al suo fianco c'era l'uomo misterioso, un vecchio con dei lunghi capelli bianchi raccolti in una coda e gli occhi gentili. Sono rimasta alle loro spalle, senza annunciarmi, e li ho guardati parlare e ridere per non so quanto tempo. Mi sono sentita così in colpa nei suoi confronti e ancora una volta non sono riuscita ad andare fino in fondo. Questo è uno dei miei più grandi rimpianti, insieme a quello di non aver mai scoperto chi fosse l'uomo che le ha tenuto compagnia».
L'anziana abbassò il capo, ridacchiando. «Scusami, non so nemmeno perché ti ho raccontato tutto questo. Quello che volevo dire é che se Abby vuole trascorrere una giornata all'aperto, come una bambina normale, non sarò di certo io ad impedirglielo».
Alla fine Merlino aveva smesso di pregare di arrivare al quarto piano. In effetti, nemmeno quando le porte si aprirono accennò a volersi muovere da lì.
Forse non aveva analizzato a fondo la situazione, guardandola solo dal proprio punto di vista. Aveva giudicato Daisy senza conoscere tutta la storia, senza domandarsi davvero quale fosse il motivo per cui non era mai andata a far visita a sua madre, usandola come capro espiatorio per sfogare tutto il proprio dolore.
«Tu non vieni?», gli domandò la nonna di Abby, guardandolo con cipiglio perplesso.
Lo stregone uscì dall'ascensore e scorse Artù poco più avanti, in compagnia di Mark. I due gli fecero segno di raggiungerli, ma Merlino posò di nuovo gli occhi su Daisy e le chiese: «Se avesse la possibilità di parlare con quell'uomo, che cosa gli direbbe?».
La signora Chapman fu colta di sorpresa da quella domanda, ma solo per un attimo. Gli rivolse un sorriso venato di malinconia e unendo le mani rispose: «Lo ringrazierei per aver fatto quello che io non sono riuscita a fare: starle accanto fino alla fine».
Merlino si infilò le mani nelle tasche ed annuì con un breve cenno del capo. «Nonostante tutto... sua madre non ha mai smesso di volerle bene e l'ha perdonata».
Daisy spalancò la bocca, scioccata dalla sicurezza con cui aveva pronunciato quella frase. Come poteva saperlo?
Il mago però non le diede il tempo di fargli quella domanda. Le sorrise e concluse: «È così che fanno i bravi genitori, no?». Quindi si allontanò e raggiunse Artù e Mark, sentendosi finalmente libero da una tenaglia che gli aveva fatto sanguinare il cuore per troppo tempo.
«Salve signora Chapman», la salutò il ragazzino.
«Ciao tesoro. Stavo giusto dicendo a Merlino che io darò l'autorizzazione per la gita».
«Ecco, a questo proposito... questa mattina c'è stata una riunione dei dottori del reparto e da quello che è trapelato solo Abby non ha avuto il via libera», spiegò con espressione demoralizzata.
Daisy gli posò una mano sulla spalla e guardando prima lui e poi Merlino esclamò con fermezza: «Vado a verificare questa voce di corridoio. Ci vediamo tra poco nella sua stanza, va bene?».
I tre fecero come era stato detto loro e andarono da Abigail, la quale dopo l'ultima crisi aveva bisogno di ossigeno supplementare, inniettato direttamente nelle sue narici grazie a delle canule trasparenti.
«Ehi, ragazzi», li salutò debolmente, mettendo da parte il bloc-notes su cui stava scrivendo prima del loro arrivo. «Non fatevi ingannare da tutti questi macchinari, sto bene».
Merlino sorrise e portò una sedia accanto al suo letto per sedersi e prenderle una mano tra le sue. «Non ho mai pensato il contrario».
«Già... Vallo a dire ai miei dottori. A quanto pare sarò l'unica ad avere negata l'autorizzazione ad uscire».
«E chi te l'ha detto?», le chiese Mark, strabuzzando gli occhi.
Abby prese il cellulare che aveva abbandonato accanto alle gambe, inarcando entrambe le sopracciglia. «Danilo l'ha scritto sul gruppo Whatsapp in cui ci sono anche io».
«Se il cancro non lo ammazzerà, lo farò io prima o poi», sibilò il ragazzino stringendo i pugni sulle gambe, facendo ridere Abigail.
La risata però si trasformò presto in un violento attacco di tosse e Artù e Merlino si precipitarono a sollevarla un po' per aiutarla a respirare meglio. Quando lo superò, Abby appoggiò il capo contro il petto dello stregone e sussurrò: «Ho bisogno di una storia, una col lieto fine».
Merlino alzò gli occhi in quelli di Artù e silenziosamente entrambi convennero che era una buona idea per ingannare l'attesa. Lo stregone volle regalare una storia nuova ad Abigail, una che le infondesse speranza e che le restituisse un po' di fiducia nel genere umano. Decise di raccontarle la storia di Daegal e, nonostante fossero passati secoli, il ricordo di quel giovane ragazzo che credeva di non valere nulla e che in realtà aveva salvato lui, Artù e tutta Camelot dai complotti di Morgana e di una Ginevra controllata da quest'ultima, gli fece salire le lacrime agli occhi.
Stava quasi rischiando di farsi scoprire da Mark, quando la signora Chapman aprì la porta ed entrò nella stanza, seguita dalla dottoressa che si occupava di Abby.
«Voglio andare anche io all'agriturismo», disse subito la ragazzina, guardando la dottoressa con sguardo implorante.
«Mi dispiace tesoro, ma le tue condizioni non sono abbastanza stabili. Hai bisogno di riposo, di stare qui nel caso in cui dovessi avere un'altra crisi».
Abby gettò uno sguardo a Merlino, al momento in piedi al suo fianco, e in labiale gli rivolse delle scuse che lui non riuscì a contestualizzare fino a quando non la sentì esclamare: «Merlino e Alex si sposeranno questo week-end e non posso perdermi il loro matrimonio, per nessuna ragione al mondo!».
Tutti rimasero senza parole per una dozzina secondi, Merlino compreso.
«Questo... questo non ce l'avevate comunicato», disse la dottoressa, riprendendosi per prima. «Potremmo fare un'eccezione, in questo caso».
Abby strinse forte la mano di Merlino, facendolo rinvenire.
«Sì, noi... non volevamo che lo venisse a sapere tutto l'ospedale», si giustificò, passandosi una mano sulla nuca. «Però teniamo tantissimo che Abby sia presente, visto che sarà la damigella d'onore di Alex».
Quella volta fu Abigail a rimanere ad occhi sgranati, scioccata. «Davvero?! Oh mio Dio! Sarò damigella d'onore!».
Persino la dottoressa sorrise, emozionata dalla sua reazione, e si avvicinò per farle le sue congratulazioni. «Riproporrò la tua situazione ai miei colleghi, ma a questo punto penso proprio che nessuno ti impedirà di partecipare se è quello che vuoi».
Abby scoppiò in lacrime di gioia e Merlino per primo si chinò ad abbracciarla.
«Grazie, grazie», gli sussurrò nell'orecchio, stringendolo forte.
«Te lo meriti».
Quel pomeriggio avevano affrontato già abbastanza emozioni, perciò Artù e Merlino decisero di lasciarla riposare. La signora Chapman li seguì fuori dalla stanza per ringraziare ulteriormente il moro, per ciò che aveva fatto per sua nipote e per le sue parole a proposito di sua madre.
«Avrei dovuto farlo da tempo», le confessò, lasciandola ancora una volta senza parole con cui replicare.
Una volta lontani Artù gli avvolse un braccio tra le spalle e sospirò. «Non finirò mai di sorprendermi per quante volte mi hai salvato la vita senza che io me ne accorgessi», esclamò riferendosi alla storia di Daegal.
Merlino abbozzò un sorriso. «Eppure non facevo altro che ripetervelo».
«Pensavo che lo dicessi solo per infastidirmi!», replicò, sfregandogli le nocche della mano sul capo.
Lo stregone si dimenò fino a quando non riuscì a liberarsi, sorridendo felice. Presto però sul suo volto calò un velo di preoccupazione e il re se ne accorse.
«Che c'è?».
«Pensavo che Alex ed io avremmo deciso insieme la data del nostro matrimonio e che saremmo stati felici, invece... Perché nulla va mai come immaginiamo?».
Artù scrollò le spalle. «Sono l'ultima persona a cui puoi fare questa domanda. Però di una cosa sono certo: siamo sempre stati bravi ad improvvisare».
Merlino ci pensò su e preferì non portare avanti quella discussione, dato che persino con tutto l'aiuto della Vista fino ad allora non era mai riuscito a cambiare il destino. Sperava soltanto che almeno il giorno del loro matrimonio potessero tutti rilassarsi e dimenticare la spada di Damocle che pendeva sulle loro teste.

***

Alex chiuse di nuovo gli occhi e si concentrò respirando profondamente. Quindi fissò la bottiglia di vetro che aveva posato su un ceppo di legno a cinquanta metri da lei e protese la mano destra: il suo unico obiettivo era quello di far esplodere la bottiglia, eppure la potenza dell'incantesimo fece volare via il ceppo e intere zolle di terra.
Per l'ennesima volta andò a recuperare il ceppo e a sostituire la bottiglia per ripetere l'esercizio da capo. Peccato che avesse l'impressione che ogni tentativo finisse peggio, tante'ra la rabbia che accumulava insuccesso dopo insuccesso.
Lei ci provava a seguire i consigli di Merlino, ad allontanare i pensieri negativi, ma iniziava seriamente a dubitare che con la magia nera che le circolava nelle vene potesse fare quelcosa di buono. Non era abbastanza forte per convertirla in magia bianca e continuare a provare era da pazzi.
La voce di Excalibur tornò a stuzzicarle quella parte di mente infetta, quella che la faceva scattare per ogni piccolo torto od ingiustizia subita, quella che le impediva di gioire o provare emozioni in generale, quella che l'aveva costretta a rinfacciare a Cathleen tutto ciò che stava sopportando in silenzio per il bene comune. Ormai erano passate ore e nonostante fosse ben consapevole di doverle delle scuse non riusciva a riprendere il controllo di sé. Ogni giorno era sempre più difficile e avere come coinquilina quella spada non l'aiutava.
"Perché trattieni il tuo potere, Alexandra? Potresti fare così tanto, se solo ti lasciassi andare!"
Di solito, quando iniziava a sentire la voce, si infilava le cuffie nelle orecchie, impostava il genere rock ed alzava il volume al massimo. Il trucco funzionava per un po', fino a quando non le veniva un mal di testa così doloroso da doversi stordire con i sedativi che aveva trovato insieme alle scorte di antidolorifici di Merlino: morfina, ossicodone, fentanyl... un vero e proprio assortimento che aveva scoperto per caso, mentre cercava di resistere al potente richiamo di Excalibur.
Adesso che Cathleen l'aveva costretta a dire ad alta voce le parole "gravidanza" e "bambino" sapeva che non avrebbe mai più avuto la forza di inghiottire una pillola che avrebbe potuto nuocere al feto.
Si sedette per terra e guardò verso la cucina, dove colse Cathleen intenta a spiarla attraverso la finestra. Quando i loro sguardi si incrociarono la rossa tornò a spignattare come una forsennata e Alex sospirò nuovamente.
Si sentiva prigioniera del suo stesso corpo, incapace di esprimere ciò che sentiva veramente, come se la magia nera avesse costruito una corazza intorno a lei e come una burattinaia malvagia la costringesse a dire e a fare cose che normalmente non avrebbe mai detto o fatto. Chissà se anche Morgana si era mai sentita così, se si fosse trasformata nella psicopatica che tutti ricordavano perché aveva smesso di lottare, trovando più facile la resa.
Io non lo farò, disse chiaro e forte alla voce nella sua testa. Non mi arrenderò.
Fu come se delle catene invisibili fossero appena state allentate, abbastanza da farla tornare a respirare regolarmente. Alex non se ne chiese il motivo, colse soltanto l'opportunità e dopo essersi alzata corse velocemente verso la veranda.
Vedendola arrivare Cathleen si allontanò dai fornelli e la fissò guardinga, domandandosi che cosa le stesse passando per la testa. Da come sollevò le braccia a proteggersi la testa, Alex intuì che mai si sarebbe aspettata di ricevere un abbraccio.
«Non so per quanto durerà questa tregua, ma voglio che tu sappia che mi dispiace. Quando faccio la stronza non sono io, è la magia nera».
Cathleen sospirò sollevata e ricambiò l'abbraccio, affondando il viso tra i suoi capelli biondi. «Non sai quanto sono felice di sentirtelo dire».
«È un inferno anche per me, credimi. È come... come avere un disturbo della personalità».
«E per quanto riguarda la gravidanza?», sussurrò, prendendola per le spalle per guardarla negli occhi.
Alex sentì le catene tornare a stringerle il busto, impedendo alle parole di uscire dalla sua bocca. Si concentrò al massimo e tutto ciò che riuscì a dire con voce strozzata fu: «Su questo sono d'accordo con la me malvagia. Non posso fare il test, se risultasse positivo...». E fu di nuovo confinata nella sua testa.
Si allontanò bruscamente da Cathleen, così che smettesse di toccarla, e fissandola con astio disse: «Fatti gli affari tuoi, okay?».
Cathleen abbandonò tristemente le braccia lungo i fianchi ed abbassò il capo, realizzando che la magia nera aveva di nuovo preso il sopravvento.
Alex - la Alex buona - avrebbe voluto gridarle ancora che le dispiaceva, ma le parole le rimbalzarono soltanto nella scatola cranica, incapaci di uscire. Uscì invece dalla cucina per tornare in giardino, dove tornò a far esplodere bottiglie.

***

Cathleen adorava Alex - quella buona - e soffriva terribilmente quando doveva avere a che fare con la sua gemella cattiva, perciò non riusciva nemmeno ad immaginare ciò che stava passando Merlino. Si era all'improvviso ritrovato fidanzato con una donna diversa e doveva pure parlarle del loro matrimonio! Abby aveva anticipato tutto a quel week-end e c'erano un sacco di preparativi da fare, un mucchio di dettagli da definire, e la Alex priva di sentimenti era difficile da guardare negli occhi, figuriamoci parlarle di fiori e torte nuziali.
La cena si era svolta nel più imbarazzante dei silenzi e anche se in un paio di occasioni Merlino aveva fatto cenno a voler aprire l'argomento alla fine aveva rinunciato, tornando a fissare il piatto di pollo, carotine e piselli che aveva davanti.
Una volta finito, Alex si alzò e senza dire nulla uscì in veranda per fumarsi una sigaretta. Merlino si coprì il volto con le mani e ne approfittò per mugugnare: «Non ce la faccio, non ci riesco».
«Ehi», esclamò Cathleen, accarezzandogli un braccio. «Non puoi rinunciare così, okay? Lei è lì dentro, ti sente e ti vede. Come la prenderebbe, se capisse che ti stai arrendendo senza nemmeno lottare?».
«Diventerebbe peggio della Alex cattiva, ecco cosa», rispose Artù per lui, portandosi alla bocca uno spicchio di mela.
Merlino li fissò entrambi, con un'espressione talmente sperduta da fare persino tenerezza. Il paramedico gli diede un altro buffetto sul braccio e gli sorrise incoraggiante.
«Vai a parlarle, avanti. Convincila a ribellarsi».
Il mago si fece coraggio e si alzò da tavola per raggiungerla in veranda.
Cathleen invece impilò i piatti per portarli al lavello, ma prima che potesse allontanarsi Artù l'afferrò per un polso e la costrinse a tornare seduta. Quindi fissò gli occhi blu in quelli castani di lei e pronunciò una sola parola, ma con enfasi e serietà: «Dimmi».
«Dirti che cosa?», replicò, a disagio. Non le piaceva mentire, specialmente non le piaceva mentire ad Artù, l'unico uomo con cui fosse riuscita ad essere sincera su tutto: Zachary, la sua famiglia, le sue paure.
«Prima, quando ti ho chiamata dall'ospedale, mi sei sembrata strana. Penso che sia successo qualcosa con Alex e voglio sapere di cosa si tratta».
La rossa aprì e richiuse la bocca più volte, come un pesce fuor d'acqua, incredula dalla sua perspicacia. Dimenticava sempre che era stato il re che aveva unito la Gran Bretagna, anche se spesso e volentieri non era stato in grado di vedere i complotti e i traditori che aveva sotto il naso. Artù era semplicemente troppo buono, tanto da riporre la propria fiducia nelle persone sbagliate, persone che si erano approfittate di lui per i loro scopi. Cathleen non voleva far parte di quella lista, ma si trattava di Alex e non voleva nemmeno tradire la sua di fiducia, perciò...
Si portò le mani tra i capelli, lasciando che le cadessero sul viso come una tenda. «Mi dispiace, io... non posso parlartene».
Artù si avvicinò ancora un po' di più con la sedia, tanto da toccarle le ginocchia con le proprie, e le spostò i capelli per raggiungere il suo mento e sollevarle il viso.
«Guardami negli occhi, Cathleen».
Il paramedico obbedì, sentendosi così in colpa da mordersi le labbra.
«Devo preoccuparmi?», le domandò.
«No. No, è tutto sotto controllo. Il fatto è che non spetta a me dirtelo».
L'ex sovrano guardò Alex, in quel momento intenta a ricambiare lo sguardo di Merlino senza alcuna espressione sul viso, e sospirando le rivolse un tenue sorriso.
«Va bene. Mi fido di te».
Gli strinse forte le braccia intorno al collo, accarezzandogli i capelli biondi con una mano, e chiudendo forte gli occhi sussurrò: «Grazie. Grazie di cuore».
Artù sciolse per primo l'abbraccio per prenderle il volto tra le mani e, posando la fronte contro la sua, mormorare: «Ti amo, Cathleen».
«Anche io. Anche io ti amo, sei la prova che i miracoli esistono e sai... ho pensato e ripensato alla tua proposta...».
«Shhh, non c'è bisogno di ritirare fuori quella storia adesso».
«Non fare shhh a me, Artù», lo ammonì, posando l'indice sulla punta del suo naso. Per un attimo gli occhi del re si incrociarono, facendola sorridere, ma la serietà del discorso la riportò presto in carreggiata. «So che per te il matrimonio è il vincolo più sacro che esista, ma sappi che per me è come se fossimo già un po' sposati». Intrecciò le dita delle loro mani e le guardò teneramente, portandosele poi ai lati del viso. «È con te che voglio la mia seconda chance, okay? Te e nessun altro. E farò di tutto perché il destino non ci strappi anche questo sogno».
Artù ricambiò il sorriso e le posò un lieve bacio sulle labbra, lasciandola poi libera di andare a mettere i piatti a bagno.

***

Alex avrebbe voluto piangere ogni sua lacrima, ma sapeva fin troppo bene che non sarebbe mai successo. Era tutto il giorno che lottava per resistere al richiamo di Excalibur ed era esausta, ma sapeva che proprio come per la maggior parte delle assefuazioni le prime ventiquattr'ore di astinenza erano le peggiori. Aveva assorbito molto potere nell'ultima settimana e per espellerlo tutto ci sarebbero voluti giorni, ma sperava lo stesso che lasciando la spada chiusa a chiave nell'armadio di Artù lei potesse riappropriarsi del suo corpo e delle sue emozioni, belle o brutte che fossero.
Durante l'intera cena non era riuscita a spiccicare parola, schiacciata dall'influenza della magia nera, e una volta sola in veranda aveva cercato di ribellarsi come aveva fatto quel pomeriggio, senza successo. Ecco perché avrebbe voluto piangere, ecco perché sarebbe volentieri tornata indietro nel tempo e rischiare di affrontare Freya senza magia e con una qualsiasi altra spada pur di rimanere se stessa.
Merlino fece scorrere la porta finestra ed uscì in veranda, abbozzando un sorriso impacciato nella sua direzione. Se fosse stata al suo posto - se si fosse trovata davanti alla versione cattiva di Merlino - probabilmente non avrebbe osato tanto.
«Posso?», le chiese, indicando il posto libero sulla piccola panca.
Alex non rispose, anche se avrebbe voluto dirgli che doveva sedersi e stringerla forte tra le braccia, tanto forte da soffocarla o almeno farle perdere i sensi.
Lo stregone si sedette e coi gomiti puntati sulle cosce unì le mani sotto il mento, lo sguardo fisso verso la stalla di Flash.
Avrebbe pagato milioni per sapere quello a cui stava pensando e probabilmente li avrebbe gettati via, perché la tristezza nei suoi occhi era eloquente: era lei il problema, ciò che lo faceva soffrire tanto. Sapevano a che cosa sarebbero andati incontro quando avevano deciso di estrarre Excalibur da quella roccia, ma se avessero anche lontanamente immaginato che si sarebbero sentiti così lontani l'uno dall'altra...
«Okay, non ci girerò troppo intorno», esordì finalmente Merlino, sospirando. «So che puoi sentirmi, Alex, e voglio che tu sappia che sono terribilmente dispiaciuto per quello che stai passando. È colpa mia, tutta colpa mia. Vorrei... vorrei poterti aiutare, ma non so come».
L'infermiera urlò forte, ma l'eco della sua voce rimase dentro la sua scatola cranica. Merlino non doveva sentirsi in colpa, aveva deciso lei di andare fino in fondo!
«Ed è un pessimo momento per discuterne, ma non abbiamo scelta: oggi in ospedale Abby potrebbe aver leggermente anticipato le nostre nozze. Era l'unica a non aver ricevuto il permesso per andare all'agriturismo e ha detto alla dottoressa che non poteva mancare al nostro matrimonio. Quindi... si farà questo week-end».
Il silenzio che Merlino ricevette sarebbe stato lo stesso anche senza la magia nera, tant'era lo shock. Era giovedì, il che voleva dire che al massimo avevano due giorni per organizzare tutto. E lei al momento era impegnata nel cercare di non finire come Morgana!
«Lo so che non era così che te lo immaginavi, nemmeno io a dire il vero, ma ormai non possiamo farci molto. Volevo solo avvisarti e assicurarti che troveremo una soluzione, okay? Voglio sposare la mia Alex, nessun altro».
Merlino posò timidamente una mano sulla sua, abbandonata in grembo, e Alex sentì di nuovo l'impellente desiderio di piangere dal dolore. La sua mano era così vicina al loro possibile bambino...
«Ehi. Alex, sei tu?».
La bionda sbatté rapidamente le palpebre e sentendole muoversi ai suoi comandi, sentendo una lacrima scorrerle sul viso, si voltò di scatto verso Merlino e lo abbracciò stretto, posando il viso contro il suo petto.
«Sono io», singhiozzò, sollevata e con così tante cose da dire da non sapere da dove iniziare. «Non ho molto tempo, perciò non mi interrompere. Non è colpa tua se mi trovo in questa situazione, non voglio più sentirtelo dire. Mi dispiace di non essere abbastanza forte per prendere il controllo, ma ho deciso di stare lontana da Excalibur per un po'. Dì ad Artù di cambiare posto alla chiave dell'armadio, mi raccomando».
Merlino sorrise e tirò su col naso, anche lui con gli occhi lucidi.
«Abby ha fatto bene, sai? Prima di affrontare Freya avremmo dovuto sposarci comunque e in fondo non importa nemmeno quando o come, quello che conta è che saremo io e te: è il nostro matrimonio, dopotutto. E per quel giorno sarò in me, costi quel che costi».
«Non avrei potuto essere più d'accordo», sussurrò lo stregone, posandole un bacio sul capo. «Ti amo, Alexandra».
Anche io, rispose, ma le parole le tornarono indietro come un pacco inviato all'indirizzo sbagliato. Provò e riprovò a trovare il meccanismo in grado di farle riguadagnare il controllo, ma non ci riuscì. Fu costretta ad assistere impotente mentre si liberava dall'abbraccio di Merlino e si alzava per rientrare in casa, lasciandolo di nuovo sopraffatto dalla tristezza.

***

Sabato

«Sono così emozionata! Insomma, damigella d'onore!».
«Non me lo ricordare», esclamò Cathleen, porgendo ad Abby entrambe le mani per aiutarla a salire sul Van che avevano noleggiato per il trasporto dei bambini all'agriturismo.
«Quel posto era mio prima che Merlino decidesse di darlo a te. Non spettava nemmeno a lui decidere!».
La ragazzina sorrise furbescamente e salì sul mezzo, portandosi appresso il carrellino dell'ossigeno. In quei giorni era notevolmente migliorata, ma pur di evitarsi problemi il giorno del matrimonio era disposta a tutte le precauzioni possibili.
«Okay, ci siamo tutti?», chiese il paramedico, capitolando all'interno per contare i bambini e scambiare un sorriso con la signora Chapman, seduta accanto alla nipote. «Benissimo, si parte!».
Il viaggio non durò molto, nonostante Cathleen non avesse mai superato i quaranta chilometri orari per non causare problemi ai piccoli pazienti.
Ad attenderli alla reception trovarono praticamente tutti: Abraham, Wanda e Rebecca Morris, Edwin Greenwood, Merlino e Artù. L'unica grande assente era Alex, la quale era andata a Newport a ritirare il Versace che Merlino le aveva regalato per il galà al castello di Windsor e che lei aveva deciso di trasformare nel suo abito da sposa. Lei lo aveva deciso, proprio così. A quanto pareva, la distanza che aveva messo tra se stessa ed Excalibur l'aveva aiutata a liberarsi dalla presa ferrea della magia nera e ora, ad appena un giorno dal suo matrimonio, aveva quasi il pieno controllo di sé. Non era stato affatto facile e Artù ne aveva sofferto più di tutti, ma alla fine ce l'aveva fatta.
«Benvenuti, è un vero piacere avervi tutti qui», esclamò la signora Morris, sorridendo entusiasta. «Vogliamo che vi sentiate come a casa vostra, quindi...».
«Che diavolo ti è successo all'occhio?!», la interruppe Mark, per poi scoppiare a ridere indicando il livido sul volto di Artù, il quale alzò lo sguardo e sbuffò irritato.
«È una lunga storia», tagliò corto Merlino. In realtà, oltre che lunga si trattava anche di una storia impossibile da raccontare, in quanto nessuno avrebbe mai creduto che a fargli quell'occhio nero fosse stata Alex nel tentativo di impossessarsi di Excalibur.
Dopo la loro breve chiacchierata in veranda Merlino aveva avvisato il sovrano della sua decisione e quando quest'ultimo l'aveva beccata nella sua stanza mentre tentava di scassinare la serratura del suo armadio aveva subito capito che c'era qualcosa che non andava e doveva fermarla. La situazione era ben presto degenerata in una colluttazione in cui Artù non aveva dato tutto se stesso per paura di farle del male e invece l'Alex cattiva non si era fatta tanti scrupoli. Alla fine la vera Alex era riuscita a riprendere il controllo e si era scusata un'infinità di volte, confessando loro che l'ultima cosa che ricordava era che aveva deciso di andare a riposarsi un po' prima dell'inizio del turno in ospedale. La scoperta che la magia nera potesse controllare il suo corpo durante il sonno li aveva spaventati così tanto che da allora non erano più riusciti a dormire serenamente.
«Wanda, Abraham, vi ringraziamo ancora per aver permesso tutto questo», disse Cathleen, togliendo Merlino e Artù dall'impaccio.
«Come ho già detto, è un piacere. Ora Rebecca, tesoro, ci daresti la lista con le camere dei nostri ospiti?», le chiese la madre, per poi rivolgersi di nuovo ai ragazzini e aggiungere: «I nostri ragazzi qui vi accompagneranno di sopra, così che possiate sistemarvi e riposarvi un po'».
«Sono stufo di riposare», esclamò Mark, trovando d'accordo anche Danilo, Gabriel e persino la piccola Jessica.
Abby scosse il capo, con un sorriso dolce sul viso. Il solito fomentatore.
La signora Morris, presa in contropiede, si voltò verso il marito, il quale scrollò le spalle col suo solito aspetto bonario.
«E va bene, inizieremo subito con le attività che abbiamo preparato per voi». L'uomo si avvicinò a Mark e gli prese l'orecchio destro tra le dita, torcendolo un poco. «Ma non voglio sentire nessuno lamentarsi, è chiaro?».
«Sissignore!», si concesse un gridolino acuto, per poi massaggiarsi l'orecchio torturato ed arrossire di fronte allo sguardo divertito di Abigail.
Cathleen e Merlino spinsero le carrozzine dei più piccoli fino al montacarichi solitamente usato dal personale di servizio, mentre Artù si spostò in salotto con la signora Chapman, Mark, Danilo e Abby, in attesa del loro turno.
Rufus lasciò il suo tranquillo posticino accanto al camino per avvicinarsi ai ragazzini ed annusare loro le mani. Ci volle poco perché tornasse a sdraiarsi pancia all'aria sul pavimento in legno per ricevere le loro carezze.
Artù si chinò dietro la sedia a rotelle di Abby, in modo da far quasi sfiorare le loro guance, e le sussurrò: «Sei stranamente silenziosa. Va tutto bene?».
Abby annuì brevemente e quando si voltò verso di lui si limitò a posargli un lieve bacio sulla guancia. L'ex sovrano si assicurò che Mark non avesse visto nulla, poi le rivolse di nuovo la propria attenzione con un sopracciglio inarcato; quindi aprì la bocca per chiederle il motivo di quel bacio, ma non ne ebbe il tempo.
«Ehi, il montacarichi è libero», esclamò Cathleen, tanto all'improvviso che Artù sobbalzò un poco, tirandosi su di scatto.
«Ci stanno solo due carrozzine per volta però, quindi dovremo fare un terzo...», stava spiegando Merlino, ma quella volta fu lui ad essere interrotto.
«Non c'è problema: la porto io Abby, alla vecchia maniera».
«Che coooosa?», squittì Mark, diventando rosso come un peperone mentre guardava il biondo passare un braccio sotto le ginocchia della sua ragazza e avvolgerle l'altro intorno alla schiena per sollevarla.
«Su, non devi essere geloso», gli disse Daisy, ma il modo in cui Abby avvolse il braccio intorno al collo di Artù (con l'altro teneva la bombola d'ossigeno portatile) e soprattutto il modo in cui gli sorrise guardandolo negli occhi, rese nulla ogni tipo di rassicurazione.
Mark si precipitò sul montacarichi e quasi lasciò fuori Danilo, tanta era stata la furia con cui aveva premuto il tasto del primo piano.
Nel frattempo una piccola processione seguì Artù e Abby su per le scale: Merlino con la sedia a rotelle piegata sotto il braccio, Cathleen con le chiavi delle stanze e Daisy Chapman. Abby sarebbe stata nella stanza della nonna ovviamente, perciò una volta in corridoio Cathleen si diresse verso il montacarichi e Merlino riaprì la carozzina per permettere ad Artù di lasciarla andare.
«Grazie mille, da qui ci penso io», disse la nonna sorridendo, ma Abby si voltò più che poté per guardarla negli occhi.
«Posso stare un momento con Artù, per favore?».
L'anziana fu così sorpresa dalla sua richiesta che rimase per qualche secondo in silenzio, a bocca aperta.
«Per favore», insistette Abby e la nonna non poté far altro che acconsentire con un sorriso incerto. Aprì la porta della stanza e la tenne aperta per farla entrare, poi fece cenno ad Artù di seguirla all'interno.
Rimasti soli il re di Camelot ebbe finalmente l'opportunità di chiederle il perché del suo strano comportamento.
«Che significava quel bacio?».
La ragazzina sorrise e gli fece segno di sedersi sul letto, quindi con lo sguardo rivolto verso la finestra rispose: «Ti ho baciato perché ti voglio bene e fino ad oggi eri l'unica persona a cui non l'avessi dimostrato. Conoscerti è stato... confortante. Ho sempre avuto paura che dopo la morte non ci fosse nulla, che il Paradiso fosse solo una bugia per farci sentire meglio, ma tu... tu sei davvero tornato, dopo secoli, e questo mi ha ridato speranza».
«È questo il mio scopo, a quanto pare».
Finalmente Abby lo guardò negli occhi: la sua ossidiana si immerse nel proprio oceano ma non ne venne inghiottita, piuttosto il contrario. Artù sentì un brivido corrergli sulla pelle, una specie di presentimento, e ne capì il perché quando lei gli chiese: «Com'è morire?».
Istintivamente Artù si portò una mano sulla ferita inflittagli da Mordred, ora più che mai pulsante. Abby seguì quel movimento e con uno sforzo voltò la direzione della sua sedia a rotelle per stendere un braccio e sollevargli gentilmente il maglioncino dal collo a V che indossava. Timidamente, senza incrociare i suoi occhi, con le dita sfiorò la spessa cicatrice e rabbrividì un poco.
«Avevo paura», rispose alla fine Artù, prendendo la mano di Abby per stringerla forte tra le sue. «Ero spaventato e il dolore era insopportabile. Volevo che finisse e ho pregato perché la morte mi prendesse».
Abigail abbassò il capo, ma il sovrano le portò un dito sotto il mento perché i loro occhi si fondessero nuovamente. Li trovò arrossati ed umidi di lacrime, ma comunque bellissimi.
«Però c'era Merlino al mio fianco e sai com'è fatto... ha lottato anche per me, mi ha infuso coraggio e alla fine, quando la morte è veramente calata su di me, grazie a lui non avevo più paura. Il dolore è scomparso e sapevo che i miei cari avrebbero sofferto, ma sapevo anche che si sarebbero rimessi in piedi. Il mio corpo è diventato leggero, leggerissimo, ma la stretta di Merlino... è come se fosse arrivata fino al mio spirito. A volte la sento ancora, prima di addormentarmi, pronta a cacciare via gli incubi».
La ragazzina si tolse le canule dalle narici per tirare su col naso e si asciugò le lacrime che le avevano bagnato le guance, ricomponendosi. Addossata contro lo schienale della carrozzina respirò profondamente e gli rivolse un breve sorriso.
«Grazie per avermene parlato, non dev'essere stato facile».
Artù ricambiò il sorriso e si sporse per posarle una mano sulla nuca ed avvicinarle la fronte alle sue labbra, dove le lasciò un bacio delicato. «Quando vuoi», sussurrò.
Quindi si alzò dal letto e la superò per uscire e trovarsi di fronte ad un Mark rosso di gelosia, il quale aveva cercato invano di origliare la loro conversazione.
Artù si chiuse la porta alle spalle e ancor prima che Mark potesse lamentarsene disse piano: «Dalle un paio di minuti».
Quando fu sicuro che il ragazzino avesse recepito la serietà della situazione, si chinò su di lui e posandogli una mano sulla spalla aggiunse: «Stringila forte, okay? Tutte le volte che puoi. Anche quando non vorrà, tu fallo».
Mark annuì, come ipnotizzato dal blu dei suoi occhi, e quando Artù se ne fu andato fece davvero quello che gli aveva detto: aspettò per quella che gli sembrò un'eternità e poi bussò, sorprendendo Abby mentre tentava di sollevarsi dalla sedia a rotelle per sdraiarsi sul letto. Era troppo debole per farcela da sola, perciò il ragazzino non ci pensò su due volte: abbandonò la propria carrozzina e la raggiunse sulle sue gambe, la prese per le braccia e lasciò che si affidasse completamente a lui, artigliando le dita sulle sue spalle. Mark la sostenne e poi l'adagiò con cautela sul letto, raggiungendola di conseguenza. E fece l'altra cosa che Artù gli aveva detto di fare: la strinse forte, incurante che la porta della stanza fosse rimasta aperta o che la signora Chapman potesse beccarli. La strinse forte e pregò perché non dovesse lasciarla mai.

***

«Pronto?».
«Alex, dove sei? Ti sento malissimo!».
«Ti ho messo in vivavoce perché sto guidando. Che cosa c'è?».
«Ti fermeresti a casa? Ho dimenticato il caricabatterie e ne ho bisogno».
Alex sbuffò, stringendo un po' più forte le mani intorno al volante. «È proprio necessario, Artù? Non puoi usare quello di Merlino?».
«Lo sai benissimo che i nostri cellulari sono di marche diverse! Di che cosa si tratta? Oh...».
Finalmente c'era arrivato. Era vero che in quei due giorni era riuscita a contenere la magia nera e che ora la voce dentro la sua testa era lontana e debole, ma non si fidava ancora a stare nei paraggi di Excalibur, specialmente da sola. E se avesse ceduto al suo richiamo? Tutti i suoi sforzi sarebbero andati in fumo e il suo matrimonio sarebbe stato da rimandare, tutto per colpa di un maledetto caricabatterie.
«Vedila come la prova definitiva: se la superi, allora non hai più di che temere».
«Vuoi davvero farmelo fare?! Giuro che se non dovessi farcela questa volta non mi limiterò ad un occhio nero!».
Detto ciò Alex mise bruscamente fine alla telefonata e cambiò itinerario.
Fino ad allora non le era mai capitato di trovarsi da sola a casa di Merlino e il silenzio che l’accolse non appena varcò la soglia le fece uno strano effetto. Come se non bastasse, il richiamo di Excalibur, così facile da raggiungere in quel momento, era più forte e suadente che mai. Dovette continuare a ripetersi il motivo per cui si trovava lì – maledetto Artù – e camminare spedita e con gli occhi puntati sulle proprie scarpe per resistergli. Raggiunta la camera da letto del sovrano però le fu impossibile ignorare la voce metallica che le rimbombò tra le pareti del cranio: “Dovresti portarmi con te, lo sai”.
«Non se ne parla», rispose, aprendo il primo cassetto del comodino. Ovviamente il caricatore non era dove Artù era sicuro di averlo visto l’ultima volta.
“E se Freya decidesse di attaccare proprio quando meno te lo aspetti? Saresti indifesa”.
Excalibur non aveva tutti i torti, ma se non fosse stata abbastanza forte e l’avesse impugnata prima del previsto, mandando a monte il suo matrimonio?
“È più importante il tuo matrimonio o distruggere Freya?”, le chiese ancora, con tono stizzito.
«Distruggere? Mi sembra eccessivo, come termine».
“O lei o Merlino, scegli tu”.
Il cuore le finì in gola a quelle parole e non poté fare a meno di girarsi verso l’armadio, dalle cui fessure proveniva un bagliore dorato inequivocabile.  La spada la conosceva alla perfezione ormai, le era entrata nella testa, e sapeva benissimo che il suo punto debole erano le persone che amava.
A piccoli passi fece il giro del grande letto a baldacchino, fino a ritrovarsi davanti alle ante chiuse.
“Devi fare chiarezza sulle tue priorità, Alexandra”.
L’infermiera strinse i pugni lungo i fianchi e dopo qualche secondo di immobilità in cui le era sembrato di sentire dei battiti provenire dall’interno dell’armadio – un secondo cuore perfettamente sincronizzato col suo – si voltò di scatto e urlando scese in cucina. Aprì un paio di cassetti e mentre cercava le pinze da barbecue notò nella presa sotto la finestra il caricabatterie bianco di Artù.
Imprecando sottovoce contro l’antenato, salì nuovamente al piano di sopra e stendendo una mano verso le ante dell’armadio sussurrò: «Aliese». La serratura scattò e Alex sospirò, trovandosi di fronte un’Excalibur luminescente che, quasi dolcemente, le disse: “Hai fatto la scelta giusta”.
Alex la ignorò e con estrema attenzione afferrò la fibbia del fodero con le pinze, quindi uscì dalla camera da letto reale tenendo il braccio steso davanti a sé, la spada a distanza di sicurezza.
Stava per uscire quando il suo sguardo intercettò una specie di bagliore provenire dalla libreria sopra la televisione a schermo piatto.
Sconsolata lasciò la spada nel portaombrelli - ricevendo in ricambio un paio di epiteti coloriti - e fece il giro del divano. Fu facile individuare la fonte del bagliore misterioso: l'unico oggetto magico presente su quella libreria era l'agglomerato di cristalli che Merlino si era portato a casa per non dover andare ogni volta alla caverna. Peccato che fino a quel momento fosse stato completamente inutile, come se lontano dalla fonte magica avesse perso ogni potere di divinazione.
«Okay, sono qui», esordì, sentendosi una stupida ed una pazza nel rivolgersi a delle stalattiti. Ma in fondo di che si sorprendeva? Pochi minuti prima aveva avuto una conversazione con una spada!
I cristalli si illuminarono nuovamente prima di trasmettere la replica della visione che aveva monopolizzato i suoi sogni per diverso tempo, la visione che teoricamente avrebbe dovuto realizzarsi quella sera stessa.
«Il falò all'agriturismo, i marshmellows, Abby, Cath e me... Sono cose che ho già visto, perché...?». Ma non ebbe il tempo di terminare la domanda perché scorse qualcosa di diverso nella visione, diverso e terribile.

«Ci fai vedere qualcosa?», le domandò ad un tratto la ragazzina, eccitata come una bambina a Natale.
«Merlino non vuole che usi la magia se non è strettamente necessario», disse guardandosi le spalle, verso l’agriturismo, da dove i ragazzi sarebbero tornati a momenti.
«Ma Merlino ora non c’è, giusto?», la stuzzicò anche Cathleen, facendole l’occhiolino. «Dai che non vedi l’ora di mettere in mostra i frutti del tuo allenamento».
Ed era vero. Alex si accertò che Merlino non fosse ancora uscito dalla cascina e sospirò, sussurrando: «Okay, mi hai convinta».
Cathleen e Abby le lasciarono un po’ di spazio e Alex si concesse un respiro profondo prima di stendere una mano verso le fiamme e chiudere gli occhi, bisbigliando: «Upastige draca».
Le sue iridi ebbero qualche difficoltà a diventare dorate, ma quando l'energia parve stabilizzarsi le ceneri incandescenti si sollevarono sopra il falò e diedero vita ad un drago, il quale però si accartocciò quasi subito su se stesso e svanì in una nuvola di scintille e polvere.
«Che... che cos'è successo?», domandò Cathleen preoccupata, ma Alex, rimasta altrettanto a bocca aperta, non riuscì a risponderle. Non solo non avrebbe saputo cosa dirle, ma i ragazzi stavano tornando.  

"Alexandra. Alexandra!"
L'infermiera smise di guardare all'interno dei cristalli e si voltò di scatto, trovandosi a pochi centimetri di distanza dalla donna col viso nascosto dal cappuccio che aveva pregato di rivedere così tante volte. Eccola, finalmente. Aveva così tante cose da chiederle!
"Alexandra, svegliati!", le gridò ancora, stendendo le mani verso le sue braccia per afferrarle, ma esse la trapassarono bruciandole la pelle, le vene e le ossa tant'erano fredde.
«Svegliarmi? Non capisco!», balbettò.
"Fallo, Alexandra! ORA!"
Il suono assordante di un clacson la fece trasalire e nello stesso momento si ritrovò nella sua auto, prossima ad uno scontro frontale con un camion. L'adrenalina prese il sopravvento e questo, oltre all'intervento della donna misteriosa, le salvò la vita: sterzò bruscamente e tornò nella propria corsia giusto in tempo.
Alex strinse forte il volante, gli occhi sbarrati fissi sulla strada oltre il parabrezza, e non appena poté accostò. Solo allora riuscì a respirare profondamente e a rendersi conto di quanto stesse tremando: il respiro, le mani, le lacrime che le velavano gli occhi, i denti. Si slacciò la cintura di sicurezza ed uscì dall'auto, inspirando quanta più aria i suoi polmoni potessero contenere mentre con le mani si tirava indietro i capelli.
Non le era mai capitato di avere una visione ad occhi aperti e non era pronta, affatto. Per quanto tempo aveva guidato senza saperlo? Era un miracolo che fosse ancora viva. Per non parlare poi di ciò che aveva visto! Era troppo da metabolizzare, troppo.
Il cellulare iniziò a suonare e Alex lo tirò fuori dalla tasca dei jeans per sentire di nuovo i sudori freddi: era Artù che la stava chiamando.
Appoggiandosi al cofano caldo dell'auto, rispose con tono incerto: «Pronto?».
«Alex, dove sei?».
Le stesse parole che le aveva rivolto nella visione...
«Ahm, per strada. Ti... ti serve qualcosa?».
«In effetti sì! Ti fermeresti a casa? Ho dimenticato...».
«Il caricabatterie», concluse per lui, passandosi una mano sul viso.
«Esattamente! Come facevi a saperlo?».
Prima regola delle visioni: attenzione agli spoiler.
«Io, ahm... mi sembrava di averlo visto in cucina questa mattina, prima di uscire di casa».
«In cucina? E io che pensavo fosse in camera da letto... Comunque, andresti a prenderlo? Ne ho bisogno».
Alex ripensò a ciò che l'aspettava a casa e decise di tentare la sorte: aveva visto attraverso i cristalli che quella sera sarebbe rimasta a corto di magia, perciò aveva ragione di credere che non avrebbe ceduto ad Excalibur. Tolto questo fardello, poteva sfruttare l'occasione per verificare per la prima volta cosa volesse dire avere un vantaggio sugli eventi non ancora accaduti: cosa poteva accadere cambiando il futuro? Era davvero possibile cambiarlo?
«Va bene, vado», rispose alla fine, ricordandosi di Artù.
«Ah, è stato facile! Avevo come il presentimento che ti saresti opposta per via di Exc-».
Alex pose bruscamente fine alla telefonata e tornò dietro al volante.

***

Merlino si appoggiò allo steccato che definiva lo spazio per i cavalli, dove al momento Artù stava conducendo il cocchio per i due piccioncini del gruppo, Mark e Abigail.
Provò di nuovo a chiamare Alex, ma continuò a non rispondergli. Sospirò e si stropicciò il viso con le mani, fino a quando con la coda dell'occhio non vide Cathleen raggiungerlo.
Il paramedico diede le spalle alle travi di legno per issarsi su quella più alta e sedersi incastrando gli anfibi tra quelle più in basso.
Prima che potesse chiedergli qualsiasi cosa, Merlino le domandò: «Dove sono Danilo, Gabriel e Jessica?».
«Stanno aiutando Wanda a preparare una torta di mele. Tu invece, tu dove sei?».
Merlino le rivolse un sorriso dubbioso. «Sono qui, mi vedi».
«Nah, la tua testa è da un'altra parte e sono pronta a scommetterci le chiappe che stai pensando ad Alex. Non doveva essere già tornata, a quest'ora?».
A che scopo fingere che non fosse come diceva?
«Ho un brutto presentimento, Cath», confessò.
La rossa si sporse verso di lui per massaggiargli la schiena ossuta, in segno di conforto. «Sei solo nervoso per domani, è normale».
«Domani...», ripeté Merlino, sospirando nuovamente. «Inizio a pensare che sia una pessima idea sposarsi con Freya là fuori, pronta ad attaccarci in qualsiasi momento».
«Ehi, se fosse davvero pronta ad attaccare Darrell ci avviserebbe, no?».
«Suppongo di sì», mormorò, alzando gli occhi nei suoi. «Mi sto facendo prendere dal panico, uh?».
Cathleen sorrise a trentadue denti e saltò giù dalla staccionata per gettargli le braccia intorno al collo. «Andrà tutto bene, ne sono certa».
«Ragazzi!».
I due sciolsero l'abbraccio per voltarsi verso Artù, il quale aveva appena tirato le briglie del proprio cavallo per fissare quello nero che era appena comparso dal fitto della foresta. A guidarlo, una ragazza dai lunghi capelli biondi scompigliati dal vento.
«Ma quella è Alexandra!», esclamò Mark, strabuzzando gli occhi.
Vederla cavalcare in quel modo era sempre sconvolgente, tanto era bella e naturale in ogni sua mossa: sembrava nata per stare in sella.
Nei pressi della staccionata l'infermiera disse a Flash di rallentare e lo stallone nitrì, fermandosi poco dopo per annusare il muso del cavallo da traino.
«Ciao a tutti», esordì con un pallido sorriso, mettendo i piedi per terra. «E scusate il ritardo. Mi sono persa qualcosa?».
«No, nulla di particolare», rispose Cathleen, raggiungendola per prenderle dalle braccia la custodia scura in cui c'era il suo vestito da sposa.
«Ho provato a chiamarti», la rimproverò invece Merlino, per poi accarezzarle il viso con apprensione.
Alex deviò il suo sguardo, sorridendo nervosamente. «Scusami, non l'ho sentito».
«Va tutto bene? Mi sembri... strana», le disse, ma non le diede il tempo per dargli spiegazioni: appesa alla sella di Flash vide niente meno che Excalibur. «Alex... Perché l'hai portata qui? Come...?».
«Per favore Merlino, possiamo rimandare? Sto morendo di fame».
Detto questo lasciò Flash alle cure di Artù e superò Merlino per entrare nella cascina, dove sperava di trovare qualche dolce appena sfornato.
Lo stregone, sempre più preoccupato, fissò Cathleen in una silenziosa richiesta d'aiuto. Lei corrucciò le labbra ed abbassando vergognosamente lo sguardo gli diede le spalle per seguire i passi di Alexandra.
«Donne», sbuffò Artù mentre apriva il recinto per farvi entrare il destriero nero. «Chi le capisce è bravo».
Per una volta Merlino dovette dargli ragione.

***

«Che diavolo!», esclamò Cathleen, raggiungendola sulle scale che portavano alle camere. Rischiò anche di cadere, inciampando sulla custodia del vestito.
«Lo diventerò io, se mi rovini l'abito!», gridò Alex, prendendoglielo dalle braccia con fare protettivo.
«Così non va, okay? Non puoi continuare a mentire a Merlino! Adesso la spada non ti possiede più, non hai scuse!».
Alex si voltò di scatto e la guardò dall'alto, con quel suo sguardo intimidatorio che la faceva somigliare moltissimo ad Artù.
«Credi che sia tutto qui? Che sia così semplice? Tu non hai idea del peso che grava sulle mie spalle!».
«No, non lo so e non lo saprò mai», sussurrò Cath, salendo un paio di gradini per guardarla negli occhi da più vicino. «Ma non sei sola, Alex. Possiamo aiutarti, se solo ti aprissi con noi».
La bionda alzò gli occhi al cielo, ma dopo qualche istante tornò a fissare quelli dell'amica con un'espressione totalmente diversa: triste, stanca, sull'orlo di una crisi di nervi.
Le porse una mano e Cathleen l'afferrò e la strinse forte, seguendola fino alla stanza che avevano assegnato loro. Ovviamente lei e Merlino non avrebbero dormito insieme quella notte, come voleva la tradizione.
Una volta chiusa la porta, Alex si sedette sul bordo del letto e si prese il viso tra le mani, iniziando a farfugliare imprecazioni.
«Ehi... ehi, è tutto okay», cercò di tranquillizzarla la rossa, accarezzandole la schiena. «Dimmi che cos'è successo».
«Okay», rispose quando si calmò, concedendosi un respiro profondo. «Ahm, da dove comincio?».
«Dall'inizio sarebbe l'ideale».
Alex le lanciò un'occhiata arrendevole. «Se solo fosse facile, capire quando tutto è iniziato».
In un modo o nell'altro le raccontò della visione e del suo risveglio in auto, dell'incidente sfiorato e di come gli eventi che aveva già vissuto avessero iniziato a ripetersi. Dopo la conversazione con Artù per il suo caricabatterie - di cui lei già sapeva tutto - era andata a casa con l'unico scopo di capire se gli eventi potessero davvero cambiare, se potesse sfruttare le visioni a suo vantaggio oppure dovesse attenercisi per non scatenare conseguenze catastrofiche nella linea temporale.
La realtà dei fatti era che non era successo niente di quello che aveva visto. Forse proprio perché l'aveva visto, o forse perché stava soltanto diventando pazza e si era sognata tutto. Certo, la chiamata di Artù era successa veramente, ma poteva trattarsi di una coincidenza. Una coincidenza molto bizzarra, ma pur sempre una coincidenza.
Excalibur non le aveva parlato, incitandola a portarla con sé all'agriturismo, né i cristalli avevano attirato la sua attenzione per mostrarle la visione in cui realizzava di aver consumato tutta la sua riserva di poteri.
«Aspetta, quale visione?», le chiese Cathleen, scioccata. «Non ce ne hai mai parlato!».
«Non è saggio condividere le visioni».
«Chi te l'ha detto, Merlino?».
«No, l'ho provato sulla mia pelle. Le persone si lasciano condizionare e... insomma, è complicato».
«Ecco, ci risiamo: i segreti di Alex. Suona bene, dovrebbero farci un film».
L'infermiera si tirò indietro i capelli e smise di raccontare, decidendo di non rivelarle l'apparizione della donna miseriosa, nè della sua cavalcata fino alla tomba di Morgana, colei che pensava si celasse sotto quel cappuccio. Aveva gridato il suo nome, pregandola di farsi vedere, ma non aveva ricevuto risposta. Forse l'avrebbe vista quella sera, come nelle sue precedenti sbirciatine al futuro.
Cathleen, ancora al suo fianco, sospirò e le prese una mano tra le sue. «Ascolta, Alex: le persone normali riescono a sopravvivere senza sapere in anticipo cosa succederà, quindi non vedo perché non dovremmo riuscirci anche noi».
«Forse perché Freya può attaccarci in qualsiasi momento col suo esercito di maghi e chissà cos'altro?», le domandò con tono sarcastico.
«Come ho detto a Merlino: per quanto riguarda Freya abbiamo Darrell a coprirci le spalle».
L'infermiera non pensava che affidarsi a lui fosse la cosa giusta da fare, soprattutto perché ciò che gli permetteva di avere informazioni su Freya era un'incantesimo pronunciato dalla stessa Dama del Lago e che perciò dava a lei gli stessi privilegi del poliziotto. Ma non avevano altra scelta, no?
«Lo so che non ne vuoi parlare, però... in quella visione non è che hai visto...?».
Alex seguì il suo sguardo ammiccante e si ritrovò a guardarsi il ventre. Si abbracciò in modo protettivo e fissò il pavimento, serrando le labbra. Qualcuno bussò con decisione alla porta e non dovette essere scortese.
«Avanti!», esclamò frettolosamente, alzandosi addirittura per andare ad aprire.
«Scusate se vi disturbo», esordì Artù, sbirciando all'interno. «Mentre aspettiamo che la cena sia pronta i bambini hanno chiesto di poter guardare un film tutti insieme, volete venire?».
«Certo, ottima idea! Fammi solo... rinfrescare un attimo, va bene?».
Cathleen sospirò e si alzò dal letto per lasciarla sola. Mentre usciva chiese ad Artù: «Che film si guarda?».
«La spada nella roccia. Merlino l'ha portato dall'ospedale, così che potessi finalmente vederlo».
«Ottimo, abbiamo tutti bisogno di ritornare spensierati e sinceri come i bambini».
Cathleen gettò un'ultima occhiata ad Alex, la quale ignorò la frecciatina e chiuse la porta. Ci si appoggiò con la schiena e chiudendo gli occhi si portò le mani sul ventre. Se lo accarezzò con tenerezza e le venne quasi da sorridere, mentre lacrime di incertezza e paura le rigavano il volto.

***

Erano stati gli ottanta minuti più strani della sua vita.
Quel cartone animato non rappresentava affatto ciò che era successo a Camelot, come lui fosse diventato re e quale ruolo avesse avuto la magica spada nella roccia, eppure aveva notato dei dolorosi parallelismi.
Mago Merlino era stato rappresentato come un vecchio potente e di buon cuore, imbranato, facilmente irritabile e a cui stava molto a cuore il destino di Artù - per tutti Semola - per il quale avrebbe anche barato con la magia se necessario.
Il padre adottivo del giovane somigliava terribilmente al suo, Uther Pendragon, con la sua severità e il suo odio per la magia. Ma Semola, al contrario di ciò che aveva fatto lui, aveva difeso il mago, ribellandosi per la prima volta per affermare: «Solo perché non capite qualcosa, non vuol dire che sia sbagliata!». Avrebbe dato di tutto per tornare indietro nel tempo e dire le stesse parole a suo padre, per impedire che molte persone innocenti morissero ingiustamente.
E che dire di Caio, il fratellastro? Si era profondamente vergognato quando si era reso conto che spesso e volentieri anche lui aveva trattato Merlino alla stessa maniera, disprezzandolo come scudiero e rifilandogli i lavori più umilianti.
Quel cartone animato avrebbe dovuto farlo sorridere, invece gli aveva lasciato più amaro in bocca di quanto si sarebbe mai aspettato. Aveva fatto così tanti errori, da giovane... E a molti di questi non avrebbe mai potuto rimediare.
Le luci del salotto si riaccesero grazie a Cathleen, la quale si era alzata non appena erano partiti i titoli di coda, e solo allora Artù si rese conto che Alex e Merlino erano spariti. Cercò lo sguardo del paramedico e lo trovò tanto confuso quanto il proprio. Quando si erano allontanati?
Il sovrano si alzò a sua volta, sentendo le ginocchia gemere per la posizione scomoda a cui le aveva costrette per troppo tempo, e raggiunse il paramedico.
«Vado a cercarli, tu resta qui con i bambini».
«Artù...», lo trattenne Cathleen, afferrandolo per il polso.
Non era la prima volta che vedeva quell'espressione sul suo volto: sembrava in conflitto, addolorata per qualcosa.
«Forse dovremmo lasciare loro un po' di spazio. Hanno tante cose da dirsi».
«Che cosa? Che significa?».
Cathleen sobbalzò, lasciandolo andare. «Niente. Sai com'è... cose da... da matrimonio».
Non gliela raccontava giusta. Forse, dopo anni trascorsi a non accorgersi delle menzogne delle persone che gli stavano accanto, stava iniziando ad imparare.
«Cathleen... Si tratta di quello che non puoi dirmi? Perché chiaramente è un peso che non riesci a sopportare e io non voglio più vederti in questo stato».
Il paramedico si torturò le labbra con i denti, gli occhi pieni di dubbi. Alla fine lo afferrò di nuovo per il polso e lo trascinò nel disimpegno dove c'era il bancone della piccola reception. Dopo essersi accertata che nessuno avesse notato il loro allontanamento - grazie alla perfetta imitazione di Anacleto di Mark - la rossa prese il volto di Artù tra le mani e lo fissò intensamente negli occhi.
«Okay, hai ragione: non ce la faccio più a tenermelo per me», esordì a bassa voce. «Ma devi promettermi che non ne farai parola con nessuno».
«Cathleen...».
«Promettimelo, Artù».
L'ex re di Camelot fu costretto a cedere. «Prometto».
«Okay, allora...». Intrecciò forte le mani e respirò profondamente per farsi coraggio, dondolando anche sui talloni tanto era il nervosismo. «Si tratta di Alex».
«E fino a qui mi era piuttosto chiaro», sbottò il biondo, iniziando a perdere la pazienza. «Avanti, dimmelo! Quanto potrà essere...?».
«Alex potrebbe essere incinta», farfugliò Cathleen, così piano e così veloce che nessuno avrebbe potuto capire il senso delle sue parole. Incredibilmente però Artù ci riuscì e ne fu così sconvolto che rimase a bocca aperta, col cuore sul punto di cedere prima del tempo.
Notando le sue condizioni Cathleen si prodigò nel farlo sedere sulla piccola panchina imbottita posta proprio di fronte al bancone e poi si chinò tra le sue gambe, stringendogli forte le mani tra le sue.
«Potrebbe, ho detto potrebbe!», tentò di rassicurarlo. «Sono solo sospetti. Alex... si rifiuta di fare il test».
«Test?», ripeté Artù con sguardo stordito, quasi spiritato.
«Oh... Nel Medioevo non avevate i Clearblue, eh? Come facevate a sapere se una donna aspettava un bambino?».
Artù fissò il pavimento e parve sul punto di volersi scavare una fossa, ma Cathleen abbozzò un sorriso e sedendosi al suo fianco disse: «Non voglio saperlo davvero. Ti basti sapere che adesso le cose sono molto semplici. Ciò nonostante, Alex sostiene di non volerlo sapere fino a quando non avrà sconfitto Freya. Dice che se fosse davvero incinta avrebbe troppa paura di scendere in battaglia».
Il silenzio in cui era piombato Artù continuò per i due minuti successivi, nei quali Cathleen aveva provato di tutto per ottenere una reazione. Quando finalmente si voltò a guardarla aveva gli occhi lucidi di lacrime.
«Non dovevi dirmelo, Cathleen», sussurrò addolorato. Aveva perso la sua famiglia, i suoi amici, sua moglie e il figlio che non aveva mai conosciuto. Ora aveva ritrovato Merlino, la sua ultima discendente, un amore... Non voleva perdere tutto una seconda volta, non poteva.
«Adesso come farò a...? Non posso rischiare la vita del mio bis-bis-bis-bis...».
«Me l'hai promesso», lo minacciò con ben poca cattiveria, finendo poi per abbracciarlo. «Ehi, adesso siamo in due: possiamo tenerci d'occhio a vicenda».
Artù annuì piano col capo e sciolse l'abbraccio per accarezzarle una guancia. Cathleen sorrise dolcemente e gli posò un leggerissimo bacio sull'angolo della bocca, quindi si alzò e gli porse entrambe le mani per aiutarlo a fare lo stesso.
«Ah, eccovi qui ragazzi!», esclamò Wanda. «Scusatemi, ho interrotto qualcosa?».
«No, nulla», rispose Artù con gentilezza.
«Bene. La cena è pronta. Sapete dove sono Alex e Merlino?».
I due si scambiarono un'occhiata e sospirando dissero all'unisono: «Andiamo a cercarli».

***

Merlino non ce l'aveva più fatta. Vedersi in quel cartone animato non avrebbe causato alcun problema se lo avessero guardato un mese prima, quando la vita di tutti era incasinata ma semplice, specialmente per lui ed Alex.
La sua controparte di fantasia aveva detto tante cose sagge e giuste, ma una citazione in particolare lo aveva costretto ad alzarsi dal pavimento e ad allontanarsi. Protetto dall'oscurità simile a quella di un cinema, nessuno tranne la persona al suo fianco l'aveva notato, la stessa persona per cui stava soffrendo così tanto e senza saperne il perché.
«Vedi, giovanotto, questa faccenda dell'amore... è una cosa potentissima!».
«Più forte della gravità?», aveva chiesto il piccolo Artù al suo tutor.
«Beh, sì figliolo, in un certo senso... Io direi che è la forza più grande sulla Terra!».
Mai parole più vere erano state pronunciate. E odiava ammettere che non fossero sue.
Alex l'aveva evitato tutto il pomeriggio e ormai gli era chiaro che c'era qualcosa che la turbava e di cui non voleva metterlo a conoscenza. Ora finalmente capiva come doveva sentirsi Gaius quando lui si comportava allo stesso modo. Peccato che nel suo caso finiva sempre per cedere e confessare tutto al medico di corte, mentre con Alex, molto più simile all'antenato, insistere e promettere del pudding non era sufficiente. Anzi, farle pressione non avrebbe che peggiorato la situazione e dato che sentirla così lontana - per di più nei giorni in cui avrebbero dovuto essere una cosa sola - gli faceva così male da non riuscire quasi a respirare, aveva deciso di lasciare il salotto e rifugiarsi nelle stalle, il posto che più gli ricordava casa.
Aveva perso la cognizione del tempo, pensando e ripensando ad una soluzione, e quando sentì dei passi avvicinarsi ai box dei cavalli Merlino voltò semplicemente il capo verso l'ingresso. Mai si sarebbe aspettato di vedere proprio l'infermiera.
«Sapevo di trovarti qui», esordì appoggiandosi con una spalla allo stipite dalla vernice verde scrostata, le mani nelle tasche dei pantaloni color verde militare e una gamba incrociata davanti all'altra.
Era così simile ad Artù... Quante volte il re di Camelot l'aveva guardato allo stesso modo, con il dolore negli occhi e le labbra sorridenti per cercare di compensarlo, troppo orgoglioso per ammettere che c'era qualcosa che non andava? I Pendragon erano sempre stati in conflitto con i propri sentimenti: li ritenevano una debolezza, una cosa da femminucce. Ma non Alex. No, fino a poco tempo prima era sempre stata aperta e sincera, pretendendo lo stesso anche da lui, e riconoscere quanto fosse cambiata, come i ruoli si fossero invertiti nella loro relazione... fu l'ennesima coltellata al cuore.
Fu allora che vide il foulard rosso che portava al collo. Alex chinò il capo fino a sfiorare la stoffa con il naso e traendo un respiro profondo lo accarezzò con le dita. Forse non era troppo tardi, forse c'era ancora speranza.
«Spero non ti dispiaccia», gli disse ancora, evitando il suo sguardo.
«No, affatto», rispose Merlino con un lieve sorriso. «Il rosso è il tuo colore».
A quel punto il silenzio calò di nuovo tra loro e lo stregone continuò a fissare l'ibrido che aveva di fronte - metà Pendragon e metà strega - fino a quando non ricordò di aver detto pressoché le stesse parole ad Artù in merito a suo figlio Graalmir. Come sua discendente, Alex combinava entrambe le qualità e forse era per questo che era stata scelta per portare sulle spalle il gravoso fardello del destino.
Finalmente la bionda si staccò dallo stipite e sospirando afferrò un secchio di latta vuoto, lo capovolse e vi si sedette in modo da trovarsi davanti a lui, dall'altra parte del corridoio.
Con le braccia incrociate sopra le ginocchia disse semplicemente: «Mi dispiace».
«Per che cosa?», chiese Merlino, fingendo di non capire proprio come faceva con Artù per spronarlo ad articolare un discorso.
E allo stesso modo Alex alzò gli occhi al cielo prima di rispondere: «Ti ho a malapena rivolto la parola oggi. Devi scusarmi, non era mia intenzione. Io... sono solo stanca e stressata».
Merlino le rivolse uno sguardo di sufficienza, nonostante gli facesse malissimo mantenere le distanze: doveva farlo però, se voleva tutta la verità.
L'infermiera non si aspettava quella reazione, ma anziché lanciargli contro qualcosa come avrebbe fatto l'antenato si sollevò un poco e trascinandosi dietro il secchio si avvicinò allo sgabello di Merlino per stringergli le mani e portarsele alla bocca a mo' di preghiera.
«Parlami, ti prego».
«Ti ricordi quando tu mi feci promettere di non mentirti?», le chiese alla fine, guardandola intensamente negli occhi. «Io usai una scappatoia: non potevo mentirti su ciò che non sapevi, perciò continuai a mantenere il mio segreto».
Alex allentò la presa, la fronte corrugata e un velo di preoccupazione nella voce. «Dove vuoi arrivare?».
«So che mi stai nascondendo qualcosa, Alex. E ho provato a far finta di niente, a credere che prima o poi avresti aperto tu l'argomento, quando saresti stata pronta».
«Merlino...».
«Fammi finire, per favore», sussurrò chiudendo gli occhi traboccanti di vera sofferenza. «Domani dovremmo sposarci e mi dispiace, mi dispiace davvero, ma non posso farlo se non mi dici che cosa ti sta succedendo».
Alex rimase in silenzio, con le labbra socchiuse e gli occhi sgranati, e Merlino non poté far altro che alzarsi e dirigersi verso l'uscita. Era ormai fuori quando l'infermiera gli domandò: «Mi stai davvero dando un ultimatum?».
Lo stregone strinse gli occhi, ricacciando indietro le lacrime, e nel voltarsi si appoggiò allo stipite con una mano. «Mi dispiace. Non vedo cos'altro potrei fare, a questo punto».
Si scambiarono uno sguardo sofferto, consapevole di avere entrambi la propria dose di colpa. Merlino fu sul punto di crollare, di rimangiarsi tutto di fronte a quegli occhi verdi di solito pieni di vita e allegria di cui ora era rimasto solo il ricordo, ma Artù e Cathleen li interruppero giusto in tempo.
«La cena è pronta», esclamò Artù con tono incerto.
«Sì, arriviamo», mormorò il mago mentre Alex si alzava e con le braccia strette al petto, come a volersi confortare da sola, li raggiungeva a piccoli passi. Era come se volesse tenersi a distanza di sicurezza dal moro e così fu, dato che questo si avviò verso l'agriturismo senza aspettarli né guardarsi più indietro.


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Ehilà, eccomi tornata con questo capitolo che è un grumo di dolore, ammettiamolo. Ormai non manca molto alla fine e i nodi stanno venendo tutti al pettine.
Merlino e Alex si sposeranno? Lei gli dirà di essere incinta (se lo è)? E Freya quando attaccherà?
Grazie per essere arrivati fino a qui e per la pazienza!
Alla prossima :)

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Capitolo 29
*** The coming of Alex ***


Buongiorno bella gente :) Mi scuso come sempre per il ritardo, ma ne sono successe parecchie. Anyway, ci stiamo avvicinando sempre di più alla fine e nel capitolo che state per leggere vedremo finalmente Alex alle prese con la sua famosa visione! Come andrà a finire? E il matrimonio, alla fine si farà oppure no? Beh, lo scoprirete solo leggendo...
Perciò grazie a chi ancora sta seguendo questa storia, non sapete quanto conti per me!
Ne approfitto anche per farvi gli auguri di Natale e di un felice Anno Nuovo :)
Buona lettura e alla prossima!

Vostra,

_Pulse_

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29. The coming of Alex


«Vorrei proporre un brindisi», esclamò Edwin alzandosi da capotavola col proprio calice di vino in mano.
Alex sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, ma dopo la sua ultima chiacchierata con Merlino era così devastata che non ne era più spaventata. I sensi di colpa erano spariti, schiacciati sotto il peso della paura di perderlo per sempre, e tutto il resto la lasciava indifferente.
«Ho sempre voluto il meglio per te, bambina mia. E ammetto di non aver esattamente fatto i salti di gioia scoprendo che il tuo cuore aveva scelto Merlino, ma ora... ora capisco che siete due anime affini, destinate a stare insieme. Tua madre sarebbe così orgogliosa di voi...».
Merlino, seduto al fianco sinistro di Edwin, si alzò a sua volta e gli strinse una spalla per spazzare via le lacrime che gli avevano improvvisamente inumidito gli occhi.
Il signor Greenwood sorrise imbarazzato, scuotendo il capo. «Scusatemi».
«Se ti emozioni adesso, chissà domani!», lo prese in giro Abraham dall'altro lato del tavolo, beccandosi uno scappellotto amorevole da parte di sua moglie Wanda.
Già, Alex non voleva immaginare che cosa sarebbe successo se alla fine il matrimonio fosse andato a monte. Era tutto nelle sue mani, ancora una volta Merlino aveva dato a lei la responsabilità di scegliere come sarebbe stato il loro futuro.
Edwin ridacchiò. «Dov'ero rimasto? Ah, giusto. Brindiamo. A Merlino e a mia figlia, alla loro felicità».
I bicchieri dell'intera tavolata si alzarono e Alex non poté che fare lo stesso, pretendendo di essere felice e scambiando persino uno sguardo con Merlino, il quale, abituato da secoli a nascondere la sua vera natura, sembrava davvero a suo agio. Gli unici che non era in grado di imbrogliare erano Artù e Cathleen, seduti proprio di fronte a loro, i quali durante tutta la cena non avevano fatto altro che guardarli di sottecchi e poi scambiarsi occhiate, come se sapessero esattamente che quella che avevano davanti era una recita messa in piedi in fretta e furia per evitare scandali riguardanti quella complicata situazione che forse, con un po' di fortuna, poteva ancora essere risolta.
Alex buttò giù tutto il vino che c'era nel suo bicchiere (era già al terzo) e quasi rischiò di strozzarsi quando Mark iniziò ad incorare: «Bacio! Bacio! Bacio!», finendo per essere seguito da tutti i bambini e persino da Abraham e Wanda.
Sarebbe sicuramente scappata via in lacrime, se Merlino non avesse intrecciato le dita delle loro mani e cercato il suo sguardo. I suoi occhi azzurri come il cielo...
Lo stregone abbozzò un sorriso e sollevò l'altra mano per posargliela sul profilo del viso, l'avvicinò a se e la baciò delicatamente sulle labbra.
Come faceva a mentire in quel modo? Come poteva baciarla ancora, dopo aver ricevuto conferma dei suoi sospetti?
Una lacrima le scivolò sulla guancia, non poté fare nulla per impedirlo, e quando Merlino si scostò gliel'asciugò col pollice, ma Edwin notò quel gesto e per fortuna lo interpretò male, esclamando: «Vedete? Non sono l'unico ad emozionarsi!».
Alex però quasi non lo sentì, come non sentì le risate e i commenti su quanto quella scena fosse sdolcinata. Merlino l'aveva stretta a sé e con la bocca premuta contro il suo orecchio, nascosto dagli occhi di tutti, le sussurrò: «Mi dispiace, Alex. Non avevo alcun diritto di dirti quelle cose, alle stalle. Io ho mentito alle persone che amavo per anni e avevo le mie ragioni. Mi fido di te e ti amo, ti amerò sempre. Spero solo che... che mi renderai parte di tutto, un giorno».
L'infermiera rischiò ancora una volta di scoppiare in singhiozzi, perciò si aggrappò alle sue spalle ed affondò il viso nell'incavo del suo collo, stringendolo più forte che poté nel tentativo di fargli capire che odiava la situazione in cui si era cacciata e che avrebbe cercato di risolverla nel minor tempo possibile, così che potessero sposarsi serenamente e senza segreti a dividerli.
Quando si scostarono l'uno dall'altra, tra gli applausi e gli auguri della tavolata, Alex si sentì più leggera, ma fu una sensazione breve: infatti bastò incrociare lo sguardo di Artù - deluso e rattristato - perché tutto tornasse come prima, se non cento volte peggio. Il modo in cui Cathleen abbassò il capo confermò il suo più grande timore: Artù sapeva della sua possibile gravidanza. Temeva la sua reazione, forse anche più di quella di Merlino, ma da un lato sapere che non avrebbe dovuto parlargliene in prima persona la rincuorò.
Si erano appena riseduti a tavola, eccetto Wanda, Rebecca e Merlino, il quale aveva insistito per aiutare a sparecchiare nonostante fosse anche la sua festa, quando Abby attirò l'attenzione di tutti dicendo: «So che prima delle nozze si dovrebbero celebrare gli addii al nubilato e al celibato, i maschi con i maschi e le femmine con le femmine, ma che ne dite se invece facciamo una festa collettiva?».
«Che cos'hai in mente?», le domandò Cathleen, felice di potersi concentrare su qualcosa che non fosse il segreto della sua migliore amica.
«Pensavo ad un falò», rispose sorridendo a trentadue denti. «Sotto le stelle, con i marshmallow... L'ultima volta che l'ho fatto avevo sei anni».
La signora Chapman impallidì all'improvviso, ma si sforzò di sorridere e accarezzò la testa della nipote. Più o meno lo stesso accadde ad Alex, la quale stava assistendo in diretta all'avverarsi della sua visione.
La rossa si alzò in piedi, eccitata. «Idea fantastica! Io e Alex finiamo qui e ci occupiamo dei marshmellow, mentre Artù e Merlino andranno a cercare il posto adatto. Su su, andate!».
Il sovrano avrebbe ribattuto, se solo la sua ragazza non gli avesse lanciato un'occhiata truce, abbastanza eloquente, che lo convinse a seguire Merlino fuori dalla sala vuota.
«Voi bambini andate pure in salotto a giocare con Rufus, non ci metteremo molto», disse ancora.
Alex non aveva molta voglia di parlare e scoprì che, al contrario di ciò che aveva pensato, nemmeno Cathleen era dell'umore. Di solito faceva in modo di rimanere sola con lei quando voleva spronarla a fare qualcosa a cui lei si sarebbe opposta, ma quella volta doveva essere stato un caso. Il paramedico infatti non la guardò nemmeno, concentrandosi sui piatti sporchi da portare in cucina, e questo anziché tranquillizzarla la fece ancora più insospettire. Ecco di cosa si trattava! Psicologia inversa.
Sospirando, si posizionò nel lavello di fianco a quello in cui Cathleen stava sciacquando la sua parte di piatti e a bassa voce sussurrò: «So cosa stai facendo».
«Ci credo, lo stai facendo anche tu».
«Non intendo... lavare i piatti. Stai tenendo per te tutto quello che pensi nella speranza che sia io ad iniziare il discorso. Non funzionerà, Cath».
«Ah no? E come mai?».
«Beh, ho intenzione di sistemare le cose con Merlino questa sera stessa, dopo...».
Cathleen si fermò per voltarsi a guardarla, incuriosita dalla sua improvvisa interruzione. «Dopo che cosa?», la incalzò.
«Dopo il falò», concluse frettolosamente.
Ovviamente ciò che intendeva era dopo il suo incontro con quella che ormai era convinta fosse Morgana, ma non poteva dirglielo. Cathleen conosceva già un suo segreto e metterla al corrente di un altro non sarebbe stato d'aiuto. A tal proposito...
«L'hai detto ad Artù, non è vero?».
A quell'accusa il paramedico si lasciò quasi scappare dalle mani il piatto che stava sistemando nella lavastoviglie. Si risollevò in fretta e furia e la fronteggiò, o almeno aprì la bocca per farlo. Il suo volto era dello stesso colore dei suoi capelli e Alex provò addirittura tenerezza nei suoi confronti.
«Non ce l'ho con te», le disse alla fine, sorridendo.
«D-Davvero?».
«Davvero. Mi sorprende che tu abbia resistito così tanto».
«Che cosa...?».
«È la verità: sei terribile a mantenere i segreti. Prega che Artù non lo sia altrettanto, perché se si dovesse lasciare scappare qualcosa con Merlino...».
Cathleen scorse il proprio riflesso nella superficie del coltello che le aveva puntato contro e deglutì, senza capire se stesse scherzando o meno.

***

Artù guardò Merlino con la coda dell'occhio mentre si chinava a prendere un bastone abbastanza resistente per usarlo come appoggio, poi tornò ad ispezionare il terreno alla ricerca di un buon punto dove accendere un fuoco.
Si erano lasciati l'agriturismo e le stalle alle spalle, dirigendosi verso il limitare del bosco da dove quel pomeriggio avevano visto Alexandra arrivare in groppa al suo destriero nero.
Più ci pensava, meno si raccapezzava: da quando era entrata in contatto con la magia aveva iniziato a mentire, a prendere decisioni incomprensibili e ad allontanare i suoi amici; ora che sembrava sul punto di disintossicarsene perché aveva deciso di portare con sé Excalibur? E alla vigilia del proprio matrimonio per giunta! Cos'altro stava nascondendo loro?
«Artù».
L'ex-re si voltò di scatto, allarmato dal tono sofferente dell'amico, ed infatti trovò Merlino acquattato a terra, con il capo posato contro il bastone a cui era aggrappato con entrambe le mani.
«Ehi! Ehi, Merlino, stai male?». Si inginocchiò di fronte a lui e gli portò una mano sulla schiena. «Parlami».
Lo stregone respirò profondamente e quando aprì gli occhi per incrociare i suoi, Artù venne colto di sorpresa da delle iridi dorate. Fu solo un attimo però: quella stessa luce magica gli attraversò il corpo e poi il bastone che teneva tra le mani, annerendolo; infine si riversò nella terra sotto di loro, disperdendosi in un reticolo di vene sempre più sottili.
«Che cosa diavolo...?», mormorò Artù, spaventato.
«Freya», rispose debolmente Merlino, mentre un'altra ciocca dei suoi capelli si colorava di bianco. «Ha appena formulato un potente incantesimo».
«Quale incantesimo? Che intenzioni ha?».
Il mago si afflosciò, ma Artù fu abbastanza pronto di riflessi da prenderlo al volo. Si sistemò il suo capo in grembo e gli diede qualche schiaffetto in viso, esclamando: «Avanti, riprenditi. Merlino, ti ordino di riprenderti! Ti prego...».
Non poteva perderlo, aveva giurato che l'avrebbe protetto! Ma come poteva contrastare la magia? Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse stato sfrontato ed arrogante nel fare quella promessa.
Sbatté più volte le palpebre per asciugare le lacrime che minacciavano di rigargli il viso e guardò il cielo scuro ricoperto di stelle, affranto. «Ti supplico Merlino, non mi lasciare. Lo sai che sarei perso senza di te...».
«Potreste sempre trovarvi un altro George», esalò alla fine lo stregone.
Artù non riuscì a trattenere un sorriso, replicando: «Di certo mi darebbe meno noie. Tu... buffone che non sei altro!».
Con delicatezza fece per spostare il capo di Merlino per alzarsi e andare a chiamare aiuto, ma il moro gli afferrò un polso e aprendo gli occhi gli disse: «Rimanete qui, per favore. Ho solo bisogno di un momento».
Artù valutò i pro e i contro e decise che forse era meglio non coinvolgere Alex, non dopo ciò che aveva appreso da Cathleen. Aveva faticato a guardarla negli occhi a cena, come poteva rivolgerle la parola sapendo che sarebbe scesa in battaglia rischiando di mettere a rischio la vita di suo nipote?
«Va bene», rispose, posando con incertezza una mano sulla fronte di Merlino per scostargli i capelli.
Rimasero in silenzio per quella che gli sembrò un'eternità, ma una volta tanto godette di quella pace: ascoltò il vento frusciare tra le fronde degli alberi e il frinire dei grilli, seguì i movimenti di alcune lucciole e il tragitto di un aereo che per un attimo confuse per una stella cadente.
«Sembra Camelot, non è vero?», gli chiese piano Merlino ad un tratto.
Artù non incrociò il suo sguardo. «Sì, ma non lo è».
«Manca anche a me, ora più che mai. Era tutto così semplice...».
«Davvero? Mentire a tutti, mentire a me a tempo pieno lo trovavi semplice?».
Merlino abbozzò un sorriso e con uno sforzo si puntellò sui gomiti per sollevarsi e guardarlo dritto negli occhi. «Alla fine della giornata ne valeva la pena, ve l'assicuro».
«Continuo a chiedermi che cos'avrei fatto se avessi saputo prima che tu eri uno stregone, o che mi avevi visto morire per mano di Mordred».
«Mi sono torturato con questi quesiti per più di mille anni, Artù», rispose il mago, posandogli una mano sulla spalla. «Non fate il mio stesso errore».
«Ma che senso ha conoscere il futuro se non lo si può cambiare?».
«Posi esattamente la stessa domanda a Gaius quando faceste arrestare Mordred. Volete sapere che cosa mi disse?».
Artù annuì con un cenno del capo.
«Alcune trame sono così intrecciate nelle fibre del mondo che non si può fare nulla per cambiarle».
«Mi stai dicendo che quindi tutti i nostri sforzi sono inutili? Non importa quanto coraggiosamente combatteremo, quello che succederà è già scritto?».
Merlino sospirò, rispondendo: «Probabilmente». Quindi usò la spalla di Artù come sostegno e con l'ennesimo sforzo si alzò. Si spolverò i vestiti e gettò via il bastone ormai carbonizzato, avviandosi lentamente verso il limitare del bosco, dove aveva visto dei tronchi che avrebbero potuto usare come panchine naturali.
«Se è davvero così... sono grato che tu non mi abbia mai detto nulla riguardo alla mia morte. Forse avrei potuto salvarmi, ma a quale costo?».
Merlino si girò e lo sguardo che gli rivolse, pieno di dolore e rimorso, lo ferì più di mille spade.
«Il peso che hai portato sulle tue spalle... Non oso nemmeno immaginarlo».
«Il passato è passato», liquidò in fretta la questione Merlino. «Ciò che mi preoccupa è che ora quello stesso peso sia ricaduto sulle spalle di Alex».
Artù impiegò qualche secondo di troppo per rispondere a quell'insinuazione, scioccato e col cuore in gola. «Credi che abbia avuto delle visioni?».
«Oh, ne sono certo. Glielo leggo negli occhi: il conflitto che si prova sapendo più di ciò che si dovrebbe è inconfondibile».
Il sovrano pensò che probabilmente i suoi segreti non riguardavano solo il futuro, ma anche la possibile gravidanza. Non poteva dirlo a Merlino però, vero? L'aveva promesso a Cathleen. Aveva fatto un sacco di promesse senza avere l'assoluta certezza di poterle mantenere e non era da lui.
«Va tutto bene?».
La domanda del moro lo riportò bruscamente alla realtà e disse la prima cosa che gli venne in mente: «L'incantesimo di Freya. Non dovremmo...?».
«Non possiamo andare a cercarla ora, rischieremmo di mettere tutti in pericolo», rispose saggiamente Merlino, indicando l'agriturismo. «Ci penseremo domani, dopo il matrimonio».
Artù stesso volse lo sguardo verso la cascina e si accarezzò la nuca, mordendosi  l'interno della guancia. Non era un fan dei segreti o delle cospirazioni, non lo era mai stato dato che solitamente era lui quello all'oscuro di tutto, tuttavia quel matrimonio sarebbe potuta essere l'ultima occasione che avevano per stare tutti insieme, per essere felici. Ma sarebbe stata vera felicità, in fondo?
«Artù? A che cosa state pensando?».
Fu colto nuovamente di sorpresa, tanto che quasi sobbalzò. «Cosa? A niente».
Merlino si sciolse in un sorriso. «Già, perché ve l'ho chiesto?».
«Ah-ah, molto divertente!», esclamò sarcastico, dando le spalle a tutte le sue preoccupazioni nella vana speranza che sparissero magicamente.

***

«La prima volta che l'ho visto pensavo fosse un po' ritardato, lo ammetto».
«Non fatico a crederti, Mark: mio padre ne era assolutamente certo».
Artù si beccò una fiacca spallata da parte di Merlino, ma il sorriso carico di tenerezza che gli rivolse subito dopo gli fece dimenticare l'offesa. Anche se Alex avesse saputo che cosa significava avere una sorella, non avrebbe potuto comunque quantificare l'amore fraterno che c'era tra l'ex-re di Camelot e il suo ex-servitore: un amore così grande e così forte da durare nei secoli; una luce che non si era mai affievolita, nemmeno nei periodi più bui.
«Insomma, si è presentato nella sala comune con il suo libro di favole e quelle orecchie a sventola...».
«Non è colpa mia se sono così!», provò a difendersi lo stregone, coprendosi gli organi uditivi che gli avevano fatto guadagnare il soprannome di Dumbo.
Abby si accucciò un po' di più tra le braccia di Mark, sollevando gli occhi per guardarlo in viso. «Io le trovo tenere».
«Ah davvero? Per te niente più marshmallows», la castigò il ragazzino, sporgendosi per prendere tra i denti la caramella che la fidanzatina stava facendo raffreddare. Lui ovviamente non se n'era curato e per questo si ustionò la lingua, scatenando le risate di tutti, eccetto Alex.
Cathleen, seduta proprio al suo fianco, notò la sua serietà e il modo in cui si stava rigirando tra le mani l'impugnatura del suo nuovo pugnale, recuperato da ciò che era rimasto dell'armeria di Merlino dopo la perquisizione fatta da Scotland Yard.
Si schiarì un poco la gola e si chinò in avanti, con le braccia incrociate sulle ginocchia, per sussurrarle: «Va tutto bene?».
Alex le rivolse a malapena un'occhiata ed annuì con un cenno del capo per tornare a concentrarsi ed evitare di perdersi dei dettagli.
Il desiderio di Abby era stato accontentato e una volta trovato il luogo giusto per accendere il falò, gli adulti vi avevano accompagnato i bambini per dare il via a quell'insolito addio al celibato/nubilato. A turno, tutti avevano raccontato come avevano conosciuto lei e Merlino e che cosa amavano di loro, singolarmente e come coppia. Separati dalle lingue di fuoco, i due futuri sposi avevano incrociato gli sguardi più di una volta, ricordando con sorrisi velati di amarezza i giorni in cui tutto era infinitamente più semplice.
Il tempo era volato e un po' per il freddo e un po' per la stanchezza, Abraham, Edwin e Wanda erano stati costretti a portare nelle loro camere gli addormentati Gabriel e Jessica, mentre Danilo si era ritirato di sua spontanea volontà usando come scusa le smancerie di Abby e Mark.
Così erano rimasti solo i protagonisti della sua visione: Cathleen, Artù, Abby, Mark, Merlino e lei stessa.
Lo scoppiettio delle fiamme ardenti al centro di un cerchio di pietre, il frinire dei grilli nei campi e le risate; le fronde degli alberi mosse dalla brezza serale, i tronchi come panchine e i bastoncini coi marshmallows. Ogni cosa era esattamente come nella sua visione, eppure non era ancora arrivato il momento che lei aveva visto e rivisto nei suoi sogni.
Continuava a pensare a quello che le era successo quel pomeriggio, quando aveva deciso di usare ciò che aveva visto per agire di conseguenza. Il risultato? Tutto era cambiato. Si era trattato di un semplice sogno o comportarsi diversamente era bastato a cambiare il futuro? L'unico modo per avere chiarezza era sperimentare un altro approccio. Aveva dunque deciso di non modificare nulla, di recitare la sua parte e sperare che alla fine la donna misteriosa si sarebbe fatta viva.
«Tocca a te Artù», esclamò Mark dopo aver fatto prendere aria alla sua lingua scottata. «Raccontaci come hai conosciuto Merlino».
«Come...? Oh, è... è una lunga storia», balbettò a disagio, abbassando il volto arrossato. Nessuno vi fece troppo caso però, grazie ai bagliori delle fiamme.
«Abbiamo tempo», insistette il ragazzino prima che Abby potesse convincerlo a desistere.
Artù guardò Merlino e ad un suo cenno d'assenso tornò a voltarsi verso il fuoco. «Uhm... okay. Avevamo qualche anno più di voi, all'epoca. Merlino... Merlino si trasferì nel mio paese e non sapeva minimamente chi fossi, o quali fossero le regole».
«Aspetta, mi sto già perdendo. Quali regole? Perché avrebbe dovuto conoscerti?».
«Hai ragione, Artù è pessimo a raccontare storie», intervenne Merlino. «Posso continuare io?». E senza aspettare una risposta affermativa ricominciò il racconto: «Il padre di Artù possedeva diverse fabbriche a nord di Carleon, le quali davano praticamente lavoro a tutti gli abitanti dei paesi vicini. Mio zio sapeva che avevo bisogno di un lavoro e grazie alle sue conoscenze di medico riuscì a trovarmi un posto in una delle fabbriche del signor Pendragon, così mi trasferii da lui.
«Il giorno dopo il mio arrivo, mio zio mi mandò a fare alcune commissioni perché ne approfittassi per guardarmi intorno e fu allora che incrociai Artù. Come stava dicendo, io ero nuovo della zona e non sapevo che fosse il figlio del mio datore di lavoro. L'importanza delle fabbriche Pendragon era tale che Artù si comportava come se fosse il figlio del re, facendo il bullo con gli altri ragazzi della nostra età e rimanendo impunito».
«Mi stai dipingendo come un mostro», disse tra i denti Artù, sempre più imbarazzato.
«No, solo come un asino», replicò lo stregone dandogli una pacca sulla schiena. «Ma non preoccuparti, grazie a me sei diventato una persona migliore!».
Cathleen si coprì la fronte con entrambe le mani, trattenendo le risate, e persino Alex si concesse un sorriso, nonostante la capacità di Merlino di rigirarsi come voleva le storie del suo passato la lasciasse sempre esterrefatta.
«Vai avanti!», lo pregò impaziente Mark, infilando l'ennesimo marshmallow nel proprio spiedino.
«Passai davanti ad un parco giochi e vidi Artù lanciare delle pigne contro un ragazzo con un coperchio dell'immondizia tra le mani. Credo lo stesse usando come bersaglio mobile per migliorare la propria mira, non è così Artù?».
«E lasciami indovinare: tu hai preso le difese del ragazzo», esclamò Abby, sorridendo orgogliosa.
«Ma certo! L'avrebbe fatto chiunque!».
«Io non ne sarei tanto sicura, ma continua».
«Artù non prese bene la mia intromissione e dopo avermi umiliato per bene, mi disse chi era e che cosa mi sarebbe successo al lavoro il giorno dopo. Mantenne la parola e venni messo a pulire i bagni e la mensa».
«Che schifo!».
«Già. Però l'avrei rifatto comunque. E infatti, la seconda volta che lo incrociai sul mio cammino non mi tirai indietro».
«Non sapevo fossi un tipo così coraggioso», commentò Mark, davvero colpito. «Sapevi in partenza che Artù ti avrebbe sconfitto e l'hai comunque fronteggiato?».
«Oh, ha fatto molto di più», furono le prime parole di Alex, la quale non era più riuscita a resistere. Rivolgendo un sorriso ai due ragazzi, concluse: «In effetti, nonostante Artù non avesse fatto altro che trattarlo come una pezza da piedi, gli ha salvato la vita».
«Che cosa?! Aspetta un momento... ho capito». Mark sogghignò, scuotendo il capo. «Questa storia è identica al primo capitolo del tuo libro di favole, Merlino».
«Perché è alla storia della loro amicizia a cui si è ispirato», gli disse Abby, togliendo tutti quanti dai guai. Abbassando la voce, aggiunse: «Te ne avevo parlato, non ti ricordi? Artù, disturbi della personalità...?».
Mark deglutì forzatamente, quindi sorrise nella direzione del biondo. «Oh. Oh, sì. Scusa, vai avanti Merlino».
«Beh, la versione breve è che durante la mia terza giornata di lavoro si è presentata alla fabbrica una signora che poco tempo prima aveva perso suo figlio mentre lavorava ad una delle fornaci. È stato un incidente, ma quella donna era così distrutta dal dolore che non riusciva a capirlo. Voleva far provare al signor Pendragon quello che stava provando lei... così ha estratto una pistola e BAM!».
Mark sobbalzò e rimase a fissarlo a bocca aperta, gli occhi sgranati per lo shock.
Merlino si sciolse in un sorriso, posando la mano sulla spalla di Artù, e concluse: «Il proiettile l'ha mancato perché sono riuscito a gettarmi su di lui. Come segno di gratitudine, sono diventato il segretario di Artù: praticamente facevo tutto quello che lui non aveva voglia di fare. Ma col passare degli anni siamo diventati ottimi amici».
«Migliori amici», lo corresse Artù porgendogli la mano. Merlino, scacciando la sorpresa, lo afferrò all'altezza dell'avambraccio come era usanza tra i cavalieri di Camelot. «Grazie per avermi salvato, Merlino».
Quella frase ebbe l'effetto di far inumidire gli occhi dello stregone, il quale abbassò il capo per sfuggire agli occhi blu del sovrano. Alex sapeva fin troppo bene il motivo della sua improvvisa tristezza, ma non ebbe il tempo per curarsene.
«Mark!», gridò Abby, e tutti si voltarono verso il ragazzino per vedere il suo marshmallow andare a fuoco.
Ecco l'inizio della sua visione. Alex era così scioccata che si pietrificò sul posto mentre Artù, Merlino e Cathleen si alzavano per assistere Mark mentre tentava di spegnere il mini-incendio sventolando lo spiedino. Tutti avevano iniziato a ridere per la comicità della scena e alla fine Merlino decise di porvi fine gettando direttamente tutto nel fuoco.
«Caspita, c'è mancato poco!», esclamò Mark in tono sollevato.
Artù alzò gli occhi verso il cielo scuro e gettò un'occhiata al mago: «È tardi, non dovremmo...?».
«Oh no, vi prego, restiamo qui un altro po'!», fece gli occhi dolci Abby, convincendo Artù seduta stante.
«Okay, allora noi uomini andiamo a prendere altre coperte», disse Merlino. «Non vogliamo nessuno col raffreddore domani!».
Alex ricambiò lo sguardo dello stregone, ma distrattamente: di fatto, non era ancora riuscita a superare lo shock di essere davvero nel bel mezzo della sua visione.
Quando lei, Abby e Cathleen rimasero sole, quest'ultima fece proprio quello che si aspettava da lei: si sedette a terra, con la schiena contro il tronco e le mani unite dietro la nuca, gli occhi rivolti verso il cielo stellato sopra le loro teste.
«Non avrei mai immaginato di poter provare ancora tutto questo».
Il silenzio che calò fu tanto profondo, tanto strano, come se mancasse qualcosa. Quando Alex ricordò di dover recitare la sua parte, non riuscì a risultare naturale.
«Già… Ci voleva, dopo quello che è successo», disse meccanicamente, gettando un’occhiata verso Abby in attesa che si sporgesse verso di lei per stringerle una mano tra le sue.
E così fece, dicendo: «Hai fatto anche troppo per me, non mi sdebiterò mai».
«Ehi, non è ancora detta l’ultima parola», ricordò Cathleen con gli occhi fiammeggianti, e non perché vi erano riflesse le lingue di fuoco del falò.
Alex annuì, ma non fu in grado di fingersi sincera quando ripeté a memoria: «No, infatti. Insieme ce la faremo, ne sono sicura», né quando si sporse per stringere la ragazzina in un abbraccio delicato. E questa volta la causa era l'altra visione, quella in cui aveva visto Abby in una bara.
Sia Abigail che Cathleen la fissarono stranite, cosa che non sarebbe dovuta succedere. Presa dal panico, rubò la battuta della ragazzina: «Noi tre».
Il paramedico inarcò le sopracciglia e la guardò con circospezione, mordendosi il piercing sulla lingua per il nervosismo prima di parlare.
«Alex, è da quando Abby ha proposto il falò che ti comporti in modo strano».
«No, no ti sbagli», rispose frettolosamente. «Che stavamo dicendo? Ah sì. Non credete che noi tre potremmo fare grandi cose insieme? Potremmo salvare il mondo, se solo lo volessimo!».
«Che cosa...?», balbettò Cathleen, ma per qualche strana ragione Abby le fece segno di darle corda e la realtà tornò in linea con la visione.
«Non saprei», ammise la ragazzina, stringendosi nelle spalle. «Non riesco a prendermi cura di me, come potrei fare qualcosa di buono per gli altri?».
Alex fissò Cathleen, col cuore in gola, ma la rossa non si mosse dal suo posto. Al diavolo, stava mandando a monte tutto il suo duro lavoro!
Trattenendo la rabbia, le disse: «Dovresti dirle qualcosa. Tipo... Se dovessi descriverti con una sola parola, sarebbe "coraggio". No? Nulla?».
«Alex, tu... tu hai già visto tutto questo», esclamò Cathleen ad occhi sgranati, alzandosi in piedi. Alla fine ci era arrivata. «È la visione di cui non volevi parlarmi! Dimmi, è perché ci sono anche io? Avevi paura che potessi cambiare le cose sapendolo?».
«Che importanza ha ora?!», gridò piantando il pugnale nel tronco cavo ed alzandosi a sua volta. «Hai già rovinato tutto!».
«Cosa? Alex, come potevo...?».
«Lascia perdere, okay? Ho bisogno che voi... facciate quello che vi dico. Ne ho bisogno. Ho bisogno che questa cosa vada nel verso giusto».
Cathleen e Abby si guardarono e nonostante le rimostranze della prima, acconsentirono con un cenno del capo. Rigidamente, Alex tornò a sedersi ed indicò alla rossa di mettersi alla sinistra di Abby.
«A questo punto le avresti detto che lei è la persona più coraggiosa che conosci, non solo perché non si è mai arresa alla malattia ma perché è in grado di dare speranza a chiunque le stia vicino, indipendentemente dalla sua condizione. E io ti avrei detto che non avrei saputo dire di meglio». Si sentiva una stupida nel spiegare come sarebbero dovute andare le cose e non sapeva se questo avrebbe modificato o meno il futuro, ma doveva provarci: aveva bisogno di vedere la donna misteriosa, ad ogni costo.
«E poi?», chiese Abby.
«Poi tu avresti chiesto a Cathleen quale parola avrebbe usato per descriversi».
Il paramedico scrollò le spalle. «Io non ho alcun talento particolare».
«È esattamente quello che hai detto nella mia visione! Oh Dio, sta funzionando!», gridò entusiasta Alex, ricominciando a sperare. Incrociò lo sguardo sperduto di Cathleen e inarcando le sopracciglia disse: «Ah no? Tu non te ne rendi conto Cath, ma hai una forza incredibile; Artù me l’ha detto più volte. Nonostante tutto quello che hai passato, nonostante tu ti sia trovata sul fondo di un baratro, non ti sei mai data per vinta e sei riuscita ad uscirne. Hai lottato per stare a galla e guardati ora… sei di nuovo felice».
«Non ci sarei mai riuscita senza di voi», provò a sminuirsi Cathleen, ma Alex le tirò un pugnetto su un ginocchio, mordendosi un sorriso.
«Invece sì, perché hai un fuoco al posto del cuore. Magari ci avresti messo più tempo, ma ce l’avresti fatta alla fine».
Cathleen si strinse il naso e poi si soffermò a fissarla, proprio come Abby, la quale disse: «Manchi solo tu ora. Io so qual è la parola che ti descrive».
«Anche io», aggiunse il paramedico.
«Anche io lo so, ma farò finta di no», sussurrò con un sorriso divertito sul volto. «Quale sarebbe?».
«Magia», esclamarono in perfetta sincronia le due, per poi battersi il cinque.
Alex mise su un finto broncio e si strinse le braccia al petto, ribattendo: «Ah, quindi io sarei la ragazza coi poteri magici? Senza non sarei niente, uh?».
«È proprio il contrario!», disse Abby, ricambiando con più forza il suo abbraccio. «Tu sei sempre stata magica, anche quando non sapevi di esserlo. Non sei perfetta, ma sei la persona migliore che conosco».
«Concordo», le diede man forte Cathleen, unendosi all’abbraccio.
«Farò finta di credervi», sussurrò Alex, e - visione o meno - le lacrime di commozione le appannarono veramente gli occhi.
«Come... come siamo andate?», le chiese dopo qualche secondo di silenzio la rossa, stringendosi le mani tra le gambe.
Alex annuì, ricomponendosi. «Bene, bene. Grazie. Ora c'è un'ultima cosa che dovreste chiedermi».
«Che cosa?».
«Abby, dovresti chiedermi di farti vedere qualcosa. Una magia».
«Oh. Okay». Respirò profondamente e la pregò: «Per favore, ci fai vedere qualcosa?».
«Merlino non vuole che usi la magia se non è strettamente necessario», disse Alex come da copione, guardando pure verso l’agriturismo, nonostante sapesse che i ragazzi non sarebbero tornati per almeno un altro paio di minuti.
«Ma Merlino ora non c’è, giusto?», la stuzzicò Cathleen, senza bisogno che le suggerisse nulla. Probabilmente aveva capito che Alex doveva usare la magia. «Dai che non vedi l’ora di mettere in mostra i frutti del tuo allenamento».
L'infermiera aveva visto quel momento in due versioni diverse e nonostante ne fosse spaventata, doveva sapere quale fosse la verità in merito ai suoi poteri.  
«Okay, mi hai convinta», sussurrò.
Sopraffatte dall'emozione, Cathleen e Abby le lasciarono un po’ di spazio e Alex si concesse un respiro profondo prima di stendere una mano verso le fiamme e chiudere gli occhi, bisbigliando: «Upastige draca».
La forza della magia non le incendiò le vene come al solito, ma dopo un attimo le sue iridi diventarono dorate e Alex si ritrovò addirittura a sospirare di sollievo. Le ceneri incandescenti si sollevarono sopra il falò e diedero vita al solito drago, il quale però non fece in tempo a mostrare interamente la propria apertura alare: come nella visione gentilmente offertale dai cristalli, l'essere si accartocciò su se stesso con un grido di dolore e svanì in una nuvola di scintille e polvere.
Alex conosceva la magia da poco, eppure si ritrovò a pensare che c'era del vero in ciò che aveva detto prima a Cathleen: lei era la ragazza con i poteri, che cos'era senza?
Il dolore le inumidì gli occhi, mentre Cathleen, preoccupata, domandava che cosa fosse successo.
La bionda non le rispose: si alzò in piedi e senza preoccuparsi delle voci di Merlino, Artù e Mark, di ritorno dall'agriturismo con le coperte, si voltò verso il delimitare del bosco. Oltre le fiamme del falò, la donna misteriosa le stava rivolgendo il suo sorriso enigmatico.
Scossa dalla rabbia, Alex si chinò per estrarre il pugnale dal tronco e quando si risollevò scorse solamente un lembo del suo pesante mantello di velluto verde prima che venisse inghiottito insieme al resto della sua figura nell'oscurità del bosco.

Ormai aveva corso tra quegli alberi così tante volte nei suoi sogni che sapeva perfettamente dove fossero le radici sporgenti e gli avallamenti naturali del terreno che l'avevano fatta cadere faccia a terra notte dopo notte. Ciò nonostante, la donna misteriosa manteneva sempre un certo vantaggio e non importava quante volte la pregasse di fermarsi, lei si limitava a rivolgerle un'occhiata da sotto il cappuccio e a sparire per poi ricomparire qualche metro più avanti.
Al massimo della frustrazione, Alex smise di correre e a causa del fiato grosso si ricordò di poter gridare anche mentalmente.
"Morgana!"
La donna si fermò a sua volta, come pietrificata, e un brivido le corse sotto pelle pensando che allora aveva ragione, allora era davvero la nemesi di Merlino, la sorella di Artù, la sua lontana... prozia?
«Fatti vedere», sussurrò con la bocca impastata, l'impugnatura in cuoio del pugnale umida di sudore. Abbassò gli occhi e dandosi della stupida per la propria ingenuità sollevò entrambe le mani e poi con cautela lasciò il pugnale a terra. Colpendolo con la punta di una scarpa per farlo rotolare nella sua direzione, aggiunse: «Non ho cattive intenzioni».
"E conosci anche le mie, di intenzioni?"
L'infermiera deglutì nuovamente, ma cercò di mantenere un tono di voce fermo e deciso. «No, non le conosco. Ma se avessi voluto farmi del male avresti potuto lasciare che mi schiantassi semplicemente contro quel tir».
La donna finalmente si girò verso di lei e sollevò le mani lentamente, fino a prendersi i lembi del cappuccio. Con un movimento altrettanto calcolato, se lo lasciò cadere sulle spalle e lasciò che i loro sguardi si incrociassero per la prima volta.
Era così bella, così regale... La pelle diafana in contrasto con i lunghi capelli neri, gli zigomi alti e affilati, le labbra piene e gli occhi di un verde così chiaro da sembrare trasparenti, fieri e determinati. Ora capiva perché Artù - prima di scoprire il loro grado di parentela - fosse stato attratto da lei, perché Merlino l'aveva sempre considerata il suo amore proibito, perché tutti a Camelot avrebbero dato qualsiasi cosa per un suo sorriso. Poi qualcosa era cambiato, il suo cuore si era spezzato e tutta la sua bontà, la sua compassione e il suo senso di giustizia erano stati avvelenati dalla magia nera.
«Sei così simile al mio fratellino», furono le prime parole che le rivolse muovendo le labbra tremanti.
«Artù e Merlino sono là», esclamò, indicando le luci arancioni del falò. «Perché non...?».
«Loro non possono vedermi, Alexandra. Solo tu puoi».
«Non capisco».
«Excalibur. La spada mi ha liberata, ma una parte della mia anima vi è rimasta imprigionata, costringendomi a vagare per queste terre per secoli, nella più completa solitudine. È la mia punizione, ciò che mi merito per aver causato così tanta morte e sofferenza. Ma forse ora posso rimediare ai miei sbagli, posso aiutarti. Alexandra, tu sei l'ultima Pendragon, su di te grava il destino del mondo».
«Sì, lo so, lo so», la interruppe portando le mani avanti. «Abbiamo già avuto questa conversazione nella mia testa: la profezia della Triplice Dea, la maledizione di Merlino, il mondo che sta collassando su se stesso... so tutto».
«Il dono della Vista va usato con saggezza, Alexandra».
«Ah, inizio a dubitare fortemente che sia un dono. Comunque sia, hai detto di volermi aiutare, giusto? Beh, ho un paio di domande: come posso fermare Freya senza la magia? I poteri che ho assorbito da Excalibur si stanno esaurendo e in tutta onestà non voglio tornare ad essere una psicopatica per riottenerli. Non che tu fossi una... forse un pochino, ma...».
Le labbra di Morgana si incurvarono in un sorriso fino a che non furono costrette ad aprirsi a causa di una risata argentina. Ancora una volta, Alex fu colpita dolorosamente dal ricordo di sua madre. Le somigliava così tanto...
«Credo di avere la soluzione al tuo problema», le disse alla fine. «Seguimi, presto».
La bionda si guardò alle spalle, chiedendosi perché Merlino e Artù non la stessero già cercando, quindi trasse un respiro profondo per farsi coraggio e seguì lo spirito della prozia tra gli alberi. Non le chiese dove stessero andando, anche perché non ce ne fu bisogno: ormai conosceva bene quella strada.
Alex uscì dall'ombra degli alberi e guardò come la luce della luna facesse brillare i capelli corvini della strega, rendendola simile ad una vera e propria Dea.
Morgana, in piedi accanto alla sua stessa tomba, le sorrise dolcemente e poi si portò una mano sul ciondolo che portava al collo, il ciondolo con lo stemma druido che Alex aveva visto nei brevi flash di visioni che aveva avuto quando era stata nella caverna di cristallo. Se lo tolse e tenendolo tra le mani a coppa disse qualche parola nella lingua della Religione Antica: i suoi occhi brillarono d'oro e successivamente anche le incisioni sul ciondolo.
Quando sulla radura tornò ad essere illuminata esclusivamente dalla luce lunare, Morgana gemette e il suo spirito parve affievolirsi, in agonia proprio come il drago che poco prima aveva cercato di creare con la cenere del falò. Istintivamente Alex fece un passo verso di lei per sostenerla, ma come quel pomeriggio non appena la sfiorò sentì un gelo bruciante avvilupparle le dita, così doloroso che dovette rinunciare.
«Sì, hai proprio il cuore di mio fratello», mormorò la sacerdotessa stirando un sorriso come ringraziamento per il tentativo.
Morgana posò il ciondolo sulla pietra più alta della sua tomba ed incredibilmente le parve di vederlo diventare reale, concreto contro la roccia.
«Indossalo. Quando impugnerai Excalibur ne assorbirà la magia nera».
Alex fissò il simbolo druido, poi rivolse lo sguardo verso Morgana e nonostante le incertezze fece un ulteriore passo in avanti per allungare una mano verso il ciondolo d'argento. Lo trovò freddo al tatto, ma non tanto quanto lo spirito della strega.
Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma il pensiero di fallire, di non essere abbastanza, le tolse la voce. Alla fine fu Morgana a parlare, dopo essersi concessa un sospiro mesto.
«Il nostro tempo è esaurito, Alexandra. Dì a Merlino e ad Artù che mi dispiace tanto, per tutto».
Il suo spirito era quasi svanito, quando l'infermiera alzò il capo e trovò la forza di gridare: «Aspetta!». Le fu quasi doloroso ricambiare il suo sguardo, mostrarsi a lei tanto debole e fragile, sull'orlo del pianto. «Dev'esserci un altro modo. Dev'esserci! Merlino non può...».
L'espressione desolata di Morgana fu fin troppo eloquente e Alex non riuscì più a contenere la sofferenza: si acquattò a terra e con le unghie conficcate nei palmi lasciò che le lacrime le rigassero le guance e che i singhiozzi le mozzassero il respiro, sconquassandole la schiena.
«Oh, mia cara...», mormorò la strega inginocchiandosi al suo fianco, una mano stesa sopra la sua nuca. Anche da quella distanza, sentiva il freddo pungente penetrarle la pelle.
«Non lo guarderò morire», sussurrò. «Non lo permetterò, hai capito? Morgana?». Alex alzò il capo e non vide nessuno al suo fianco. In compenso, sentì dei rumori alle sue spalle e facendosi forza si ricompose, alzandosi ed asciugandosi il viso.
«Alex! Alex, che diavolo...?». Artù comparve nella radura, subito seguito da un Merlino rigido come un manico di scopa, e si ammutolì ed impallidì quando si rese conto di essere al cospetto della tomba della sorella.
«Scusate, io... pensavo di aver visto qualcuno nel bosco e mi sono ritrovata qui», disse con una mano sulla fronte, fingendosi veramente desolata di averli fatti preoccupare.
Il mago fece in modo che lo guardasse dritto negli occhi e Alex si sentì nuda, completamente esposta, ma allo stesso tempo riuscì a capire che Merlino sapeva più di quanto volesse far credere. E la prova definitiva la ebbe quando non pose domande, bensì si limitò ad esclamare in tono grave: «Torniamo all'agriturismo, è tardi».
L'infermiera annuì con un cenno del capo e dopo essersi infilata il ciondolo di Morgana nella tasca della giacca li raggiunse. Artù sospirò, lanciando un'occhiata triste verso l'insieme di pietre, dopodiché l'afferrò per un gomito e la tenne stretta al suo fianco come avrebbe fatto un genitore in un luogo affollato.
Alex si voltò solo una volta, quando ormai si erano già inoltrati nel bosco buio e silenzioso, e le parve di vedere la figura di Morgana in piedi accanto alla sua tomba, col volto sorridente ma rigato di lacrime. Fu solo un attimo però: un battito di ciglia ed era già scomparsa.

***

Artù non riusciva a dormire. Si sentiva preoccupato, inquieto come lo era stato nelle ore che precedevano la Battaglia di Camlann.
Sdraiato nella tenda reale, solo la vicinanza di Ginevra era stata in grado di farlo addormentare, mentre la voce di Merlino, apparsogli in sogno per avvertirlo delle intenzioni di Morgana, l'aveva svegliato.
Tenendo una mano sotto il capo, voltò il viso verso il letto dello stregone, il quale gli dava le spalle. Per quanto lui si sforzasse, i ricordi della sua vita a Camelot si affievolivano giorno dopo giorno, portandolo sull'orlo della pazzia, eppure la sua memoria non lo abbandonò quella volta: sembrava ieri, quando lui e Merlino erano partiti alla ricerca dell'ultimo Signore dei Draghi e si erano fermati in quella squallida locanda per la notte. Pur di farsi dire che cosa lo turbasse, aveva detto a Merlino che se non fosse stato un principe avrebbero potuto essere amici, quando in realtà il suo orgoglio gli impediva di confessargli che lo riteneva già tale da tempo. Contava sul fatto che il servitore tenesse conto delle sue azioni - più volte aveva già rischiato la vita per la sua - più che delle sue parole.
Se il suo istinto non lo traeva in inganno ed erano davvero alla vigilia della battaglia con Freya, allora avevano bisogno di riposare. Con questa convinzione nel cuore, chiuse gli occhi e si sforzò di cadere nel mondo dei sogni, ma fu allora che lo stregone sobbalzò spaventato e si tirò su seduto, le mani sopra il viso e le ginocchia strette al petto.
«Merlino, ti senti bene?», gli domandò sollevando la testa dal cuscino.
Il mago si voltò di scatto verso di lui e dopo un attimo di esitazione gli rivolse un sorriso forzato. «Sì, tutto okay. Era solo un incubo».
Artù sospirò e tornando a guardare il soffitto mormorò: «Dovrei crederti?».
«Perché siete sveglio?», cambiò argomento il moro, infilandosi nuovamente sotto le coperte, quella volta rivolto verso di lui.
«Domani Freya farà la sua mossa, ne sono sicuro. Per quale motivo avrebbe fatto quell'incantesimo, altrimenti?».
«Avete paura?».
L'ex sovrano lo guardò in viso e non vi trovò alcun segno di ironia. «Non temo per me, bensì per Alex, per Cathleen... per te».
«Per me?», ripeté Merlino, lasciandosi sfuggire un sorriso divertito mentre nei suoi occhi calavano le tenebre. Cosa diavolo aveva sognato?
«Mi hai salvato la vita innumerevoli volte e non hai mai chiesto nulla: niente denaro, niente riconoscimenti, nemmeno un grazie. Hai dedicato la tua intera vita a me e non posso permettere che tu ti metta ancora in secondo piano. Sarà un onore morire per il più grande stregone di tutti i tempi».
«Voi non morirete, non una seconda volta».
«Pensa ad Alex! Non puoi lasciarla sola, non ora che...!». Si interruppe, ricordando della promessa fatta a Cathleen. Si schiarì la gola e concluse brevemente: «Hai ancora tanto da insegnarle».
Merlino si passò le mani sopra il viso e sospirò, per poi bofonchiare: «Alex se la caverà».
«Perché sei così testardo? Giuro sul mio nome che non ti sacrificherai, Merlino».
Lo stregone a quel giuramento ridacchiò, intrecciando le mani sullo sterno. «Avete ragione. Quando arriverà il momento, non sarò tanto coraggioso».
«E questo che cosa vorrebbe dire?», domandò con la fronte aggrottata per l'irritazione. Forse non sarebbe arrivato a vedere il sole sorgere, forse l'avrebbe ucciso lui con le sue mani tant'era l'odio che provava nei suoi confronti in quel momento. Ma odio e amore erano due facce della stessa medaglia, proprio come lui e Merlino: non erano nulla senza l'altro e una metà non poteva veramente odiare ciò che la rendeva completa.
«Niente. È inutile fasciarci la testa prima di essercela rotta», rispose alla fine lo stregone, deviando il suo sguardo. E prima che Artù potesse replicare, aggiunse: «Sforzatevi di dormire ora».
«Non puoi dirmi che cosa fare, Merlino», bofonchiò e subito dopo gli arrivò un cuscino in faccia, proprio come aveva fatto lui quella notte di tanti secoli prima per convincerlo a parlare con lui.
«Quest'epoca inizia a piacermi», disse ancora, nell'ultimo, disperato tentativo di fargli cambiare idea. «Ma non voglio viverci senza il mio migliore amico. Vivremo entrambi, o non vivremo affatto».
Merlino aprì gli occhi per incrociare i suoi e si sciolse in un sorriso commosso. «Anche io vi voglio bene, asino».
«Io non... non intendevo nulla del genere!», balbettò preso in contropiede, ma venne interrotto dal bip bip del cellulare di Merlino, il quale si sporse verso il comodino per leggere l'SMS che gli era appena arrivato.
Artù lo guardò mentre si alzava e si vestiva, serio in volto.
«Che succede?», gli domandò ad un tratto, allarmato dal fatto che l'amico avesse tirato giù Excalibur dall'armadio.
«Niente. Al mio ritorno voglio vedervi addormentato, ci siamo intesi?».
Il re si scostò bruscamente le coperte di dosso e alzò a sua volta, avanzando minaccioso verso il moro.
«Ah-ah, hai capito male se pensi di potermi lasciare qui mentre tu te ne vai in giro nel cuore della notte con...!».
«Mi dispiace», sussurrò Merlino e Artù non riuscì a capire a che cosa si riferisse. Aprì la bocca per chiedere spiegazioni, ma non un suono uscì dalle sue labbra quando vide le iridi del mago tingersi d'oro. Dopodiché un sonno improvviso ed incontrastabile gli fece chiudere gli occhi mentre ricadeva storto sul letto.
Maledetto Merlino!

***

Lo stregone dovette addossarsi alla parete per non svenire e fu costretto ad aspettare qualche minuto prima di muoversi, scosso dalle convulsioni. Quando si stabilizzò, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto di stoffa e si tamponò il naso sanguinante, quindi inghiottì le ultime pillole della sua scorta di antidolorifici ed uscì dalla stanza chiudendosi dolcemente la porta alle spalle.
Stava percorrendo il corridoio col cuore pesante come piombo, le parole di Artù ancora nelle orecchie e ciò che aveva visto nel suo così detto incubo di fronte agli occhi, quando un rumore alle sue spalle lo fece voltare.
«Mark?», lo chiamò sorpreso.
Il ragazzino arrossì incrociando il suo sguardo, ciò nonostante mise su la sua solita aria spavalda e lo salutò con un cenno del capo.
«Ehi, Merlino. Come mai sveglio?».
«Potrei chiederti la stessa cosa».
«Ahm, io...».
Merlino arricciò le labbra in un sorriso. «Si tratta di Abby, non è vero?».
«Forse», mormorò portandosi una mano sulla nuca. «E tu stai andando da Alex, nonostante non dovreste vedervi fino a domani?».
«Che ci vuoi fare: le donne chiamano e noi corriamo». Gli strizzò l'occhio e senza aggiungere altro si allontanò, col cuore ancora più pesante nel petto ed Excalibur stretta nella mano destra.
Aveva notato lo sguardo di Mark posarsi sul fodero, ma non gli aveva dato il tempo di formulare la domanda di cui lui per primo non sapeva la risposta: perché impugnava quella spada. Era stata Alex a chiedergliela, come post scriptum del messaggio con cui lo aveva pregato di raggiungerla al falò. Aveva avuto qualche dubbio? Certo, ma dopo gli squarci di futuro che aveva visto non aveva potuto fare altrimenti.
Merlino si strinse nel giubbotto e con la spada inguainata appesa sulla spalla camminò a testa bassa verso il fuoco che Alex stava ravvivando aggiungendoci dei ceppi da camino. Quando lo vide si portò le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni color verde militare e respirò profondamente, facendogli poi segno di accomodarsi accanto alle fiamme.
Il cuore gli rimbombava nelle orecchie tant'era l'ansia di scoprire cosa voleva dirgli. Aveva così tanti interrogativi... e non era sicuro di voler sapere tutte le risposte.
La guardò girarsi e rigirarsi nel dito l'anello di fidanzamento, proprio come faceva Artù quand'era immerso nei propri pensieri, e alla fine non poté più aspettare: posò una mano sulle sue e Alex sbatté le palpebre, tornando nel mondo reale.
«Scusami, io... non so da dove cominciare», confessò gettandosi i capelli dietro le spalle.
Merlino abbozzò un sorriso. «Sono qui, non me ne vado».
In qualche modo le sue parole, pronunciate con l'intenzione di rassicurarla, ebbero l'effetto contrario: l'infermiera si strinse le braccia intorno alle ginocchia, il volto accartocciato in una smorfia di dolore.
«Mi dispiace, mi dispiace tanto...».
«Ehi», sussurrò stringendola a sè, baciandole la tempia e cullandola nel suo abbraccio. «Va tutto bene. Qualsiasi cosa sia... la supereremo. Insieme. Okay?».
Alex rimase in silenzio, aggrappata alle sue spalle, per quella che gli sembrò un'eternità. Magari avesse potuto trascorrere davvero un'eternità del genere: ci avrebbe messo la firma senza pensarci su due volte.
Quando alla fine la stretta della bionda si allentò, Merlino la lasciò andare a malincuore e la guardò negli occhi con tutto l'amore che riusciva a dimostrare, sfiorandole anche la guancia con il dorso delle dita.
Lei respirò profondamente e tornò a torturare il rubino che aveva al dito, decidendosi a parlare.
«Mi è sempre piaciuto giocare con i Lego. Mi ha sempre dato pace... rovesciare tutti i pezzi sul pavimento, seguire passo passo le istruzioni e vederli trasformarsi nell'immagine stampata sulla scatola. Dare un senso al caos, capisci?». Alex accennò un sorriso guardando verso l'alto e Merlino rimase in silenzio, scioccato: dire che non si aspettava un prologo del genere era poco.
«È da quando mia madre è morta che ho la sensazione che la mia vita si sia frantumata in mille pezzi. Penso spesso a lei, ultimamente. Penso a quello che ancora avevamo da dirci, a quello che ancora avrebbe potuto insegnarmi. Sento... so che se quella notte avesse saputo che una volta addormentata non avrebbe più riaperto gli occhi mi avrebbe detto che cosa fare. Ma non è successo e mi ritrovo alle prese con qualcosa che non so gestire, un destino che a stento riesco a comprendere, figuriamoci...».
A quel punto, scorgendo le lacrime intrappolate tra le sue ciglia e il tremore delle sue mani, Merlino non poté più stare in silenzio.
«Alex, capisco fin troppo bene come ti senti». Le posò una mano sul ginocchio e con l'altra la costrinse a guardarlo negli occhi, prendendole il mento tra le dita. «Nemmeno io avevo idea di quale fosse il mio destino prima di mettere piede a Camelot. Credimi, se l'avessi saputo sarei corso nella direzione opposta».
«Davvero? Davvero l'avresti fatto?», gli chiese, riservandogli un'occhiata piena di scetticismo. «Perché per quanto io cerchi di volgere lo sguardo dall'altra parte, non ci riesco mai fino in fondo. È qualcosa di profondo, viscerale... semplicemente non posso ignorarlo».
Tutti gli anni trascorsi al fianco di Artù gli passarono davanti agli occhi: quante volte si era chiesto, nel buio della sua stanzetta, perché continuasse a subire gli insulti e le umiliazioni, a servire un re che se avesse saputo la sua vera natura lo avrebbe messo al rogo, a correre pericoli per un principe con cui non poteva essere se stesso, a lottare per la salvezza di un regno che forse non avrebbe mai visto nascere? Centinaia, forse addirittura migliaia. Avrebbe potuto fare i bagagli e andarsene in qualsiasi momento, eppure... era come diceva Alex: qualcosa gliel'aveva impedito, tutte le volte. Non l'amicizia di Artù, di Ginevra e dei cavalieri. Non l'affetto che nutriva per Gaius. La responsabilità, la consapevolezza di essere stato scelto per quel compito e del fatto che se si fosse tirato indietro avrebbe avuto tutte le persone a lui care sulla coscienza. Ecco perché era riuscito a spezzare il legame con la magia solamente quando ormai non gli era rimasto più nessuno per cui lottare.
«So che avrei dovuto essere sincera con te fin dall'inizio, che probabilmente avresti saputo guidarmi, ma se ho scelto di tenerlo segreto è perché io per prima volevo vederci chiaro. Avevo paura di aver interpretato male i segni, non volevo farti preoccupare ulteriormente... o farti soffrire», concluse, abbassando gli occhi sulla mano ancora sul suo ginocchio. Intrecciò le loro dita e sospirò, scuotendo piano il capo. «Non voglio perderti, Merlino».
Lo stregone socchiuse gli occhi, ma fu costretto a riaprirli a causa del sogno premonitore che l'aveva svegliato col cuore sul punto di scoppiare.
«Come ho detto prima... qualsiasi cosa sia, ne verremo a capo», trovò la forza di dire, riservandole persino un sorriso rassicurante.
L'infermiera annuì con un cenno del capo, con la stessa attitudine di un galeotto che aveva appena accettato la propria condanna, e si infilò una mano nella tasca della giacca. Merlino osservò ogni suo movimento e trovò tutto di una lentezza esasperante: la suspance l'avrebbe ucciso ben prima della propria visione.
Alex aprì il pugno e nel suo palmo vide qualcosa di impossibile, qualcosa che pensava di aver sepolto millequattrocento anni prima, figurativamente e letteralmente: il ciondolo con il simbolo druido di Morgana. 

«No», affermò scuotendo il capo. «No, no, no».
«Merlino...».
Alex allungò l'altra mano per afferrargli il braccio, ma Merlino arretrò e cadde persino dal tronco su cui erano seduti, continuando a fissare il ciondolo con occhi sbarrati e ciò nonostante a negare che fosse ciò che stava vedendo.
«Ti prego, calmati», lo supplicò l'infermiera, senza rendersi conto dello sforzo assurdo che stava già facendo per non perdere definitivamente il senno.
Aveva impiegato anni, secoli per contenere il dolore che la morte di Morgana gli aveva causato. Non aveva mai smesso di rivivere in sogno il momento in cui l'aveva uccisa a sangue freddo e più di una volta gli era sembrato di avvertire la sua presenza nel bosco dove si trovavano sia Avalon che la caverna di cristallo, oltre che ovviamente la sua tomba. Ad osservarlo da dietro i tronchi, a sussurrargli parole di perdono tramite i fruscii delle fronde, a piangergli addosso lacrime di rugiada o a porgergli i frutti più belli avvicinandogli i rami. E se non fosse stata opera della sua immaginazione? Se Morgana fosse sempre stata lì, ad un passo da lui, e non se ne fosse mai accorto?
Alex si alzò dal tronco e con cautela si chinò su di lui, le mani avanti come se avesse a che fare con un animale feroce che necessitava di cure.
«Ora capisci che cosa intendevo quando ho detto che non volevo farti soffrire?», gli disse dolcemente, inginocchiandosi perché i loro sguardi fossero allineati.
Merlino aveva così tante domande in testa da temere che gli sarebbe scoppiata, ma mantenne il controllo e dopo aver deglutito chiese: «Come l'hai avuto?».
«Me l'ha dato lei», confessò con un sospiro, rigirandosi il ciondolo tra le dita come una moneta. Morgana lo indossava su una collana di argento rigido, ma Alex l'aveva infilato in una di quelle semplicissime catenine a pallini.
Ogni suo sospetto si stava avverando, peggiorando le sue condizioni di minuto in minuto.
Si portò una mano alla fronte bollente e al contempo si avvicinò al fuoco, scosso dai tremori di freddo. Alex lo seguì, riuscendo finalmente a toccarlo: gli accarezzò i capelli e fece in modo che le loro dita si intrecciassero nuovamente prima di infilare la testa nell'incavo della sua spalla.
«Lo so che è scioccante Merlino, o almeno posso immaginarlo», disse piano, con sensibilità. «Perciò prenditi tutto il tempo che ti serve, non me ne vado nemmeno io».
Con Alex stretta tra le braccia, Merlino respirò profondamente tra i suoi capelli e paradossalmente riuscì a calmarsi solo quando si concentrò sulle visioni avute poco meno di un'ora prima.

Merlino aprì la pesante porta del fienile, lasciando entrare i primi raggi di sole di quel nuovo giorno, e Flash lo accolse con un nitrito. Gli accarezzò il muso passandogli accanto, poi proseguì fino alle scalette che portavano al soppalco in cui aveva spostato tutto ciò che non apparteneva ad una stalla: attrezzi da giardinaggio, vecchie sedie, pezzi di ricambio della Pininfarina, una ruota di bicicletta arrugginita. Fu lì che trovò Alex, rannicchiata in un angolo. Aveva i capelli scompigliati, gli occhi gonfi ed arrossati per il pianto, la ferita alla fronte che aveva ripreso a sanguinare sotto il grosso cerotto.
Non appena lo vide sul suo volto si accese una scintilla di speranza, ma bastò un cenno del capo per farla ripiombare nello sconforto.
«È tutta colpa mia», farfugliò nascondendo di nuovo il capo tra le ginocchia.
Merlino la raggiunse e si lasciò scivolare seduto al suo fianco sulla segatura, quindi le avvolse un braccio intorno alle spalle e la invitò ad appoggiare il capo contro la sua spalla.
«No che non lo è. Sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato».
Rimasero in silenzio per un po', ognuno immerso nei propri pensieri, confortati dalla presenza l'uno dell'altro. C'era una pace quasi surreale dopo tutto ciò che era accaduto in poco più di quarantotto ore. Fino ad allora la loro luna di miele era stata un disastro.
«Non posso sopportarlo», mormorò Alex ad un tratto, stringendogli forte le mani. «Ci dev'essere qualcosa che possiamo fare!».
«Una cosa c'è, lo sai».
Alex alzò gli occhi per incrociare i suoi e nonostante l'impegno non poté evitare di tremare rispondendo: «No. Non se ne parla, Merlino».
«È la nostra unica possibilità».
«La Triplice Dea non ci aiuterà senza pretendere nulla in cambio e sai perfettamente che cosa chiederà! Aspetta da secoli un'occasione del genere e non se la lascerà sfuggire, soprattutto se siamo noi a servirgliela su un piatto d'argento!».
Merlino sorrise teneramente mentre si interessava alla sua ferita: le tolse il cerotto e controllò che i punti che aveva applicato non fossero saltati e che non ci fossero infezioni.
«Io ho vissuto il mio tempo, Alex. Ho vissuto anche troppo, ad essere onesti. Sono pronto ad andarmene, se servirà a...».
«No, no, no», lo interruppe posandogli le dita sulla bocca ed affondando il viso nel suo petto, scossa dai singulti.
«Io sto morendo in ogni caso», le disse ancora, accarezzandole la schiena e baciandole i capelli. «Vai dalla Triplice Dea e strappa il miglior accordo che puoi. Credo in te, Alex».

«Quindi è giunta l'ora?», domandò Merlino, lo sguardo fisso in direzione di Avalon. Il sole nascente tingeva di rosso le cime degli alberi e le montagne ancora innevate sembravano ad un passo di distanza.
Si voltò solo quando sentì l'inconfondibile rumore che faceva Excalibur quando veniva estratta dal fodero.
Alex lo fissò con espressione determinata, nonostante le lacrime le stessero rigando il volto. «Mi dispiace», mormorò con un fil di voce.

Un'auto sporca e scolorita dalle intemperie si fermò sulla strada sterrata e la portiera del passeggero si aprì ancor prima che la polvere potesse essere spazzata via dal vento primaverile.
Una bambina con indosso una maglietta azzurra a maniche corte, una salopette di jeans che le lasciava scoperte le ginocchia sbucciate, delle scarpe da tennis che sembravano aver percorso chilometri e chilometri e un fazzoletto rosso legato al collo scese dall'auto e ne fece il giro per potersi fermare di fronte al vialetto di quella grande casa rovinata dal tempo, con le imposte sverniciate se non addirittura scardinate e persino un grande buco tra le tegole della torre di destra. Non c'era traccia però di vandalismi: nessun graffito, nessuna pubblicità abusiva.
«Tu e papà vivevate qui?», domandò con semplicità, continuando ad osservare quel piccolo castello col naso all'insù e la bocca dischiusa per lo stupore.
«Sì tesoro», rispose una voce morbida, piena d'amore e al contempo di malinconia.
«Che cosa facciamo adesso?», chiese ancora la bambina, voltandosi per guardare la madre, la quale le accarezzò il volto da folletto, con tanto di orecchie un po' a sventola, e poi le tirò indietro la frangetta nera che spesso e volentieri le copriva gli occhi azzurri come il cielo, gli occhi di suo padre.
«Zio Artù e zia Cathleen saranno qui presto, perciò...».
«Vado in esplorazione!», esclamò prima di allontanarle le mani e correre verso la casa abbandonata.
«Enid!», gridò Alex, per poi scuotere il capo con un sorriso sulle labbra e le mani sui fianchi.
Dio, non era invecchiata di un giorno. Solo i suoi occhi mostravano i segni del tempo, sfacciato ed implacabile.
"Stai attenta, okay?", le disse col pensiero quando la perse di vista.
"Sono la figlia del mago più potente che questa Terra abbia mai visto, posso cavarmela", rispose la bambina.
 
Merlino, le labbra incurvate in un sorriso quasi impercettibile, aprì gli occhi e guardò il ventre ancora piatto di Alex. Sapeva già di essere incinta? Lo sospettava, almeno? Conoscendola, era sicuro che avrebbe fatto il test solo una volta sconfitta Freya: come sarebbe scesa sul campo di battaglia se l'esito fosse stato positivo?
«Va un po' meglio?», gli domandò dolcemente, guardandolo profondamente negli occhi e prendendogli le orecchie tra le mani proprio come aveva fatto con la loro Enid.
Lo stregone annuì con un cenno del capo, poi disse: «Raccontami tutto. Devo sapere».
E così Alex gli raccontò della prima visione in cui era comparsa la donna misteriosa, dei ricordi e delle sensazioni che aveva provato da quando era entrata in contatto con Excalibur, della connessione che aveva capito essersi creata tra lei e Morgana, del modo in cui solo quella mattina l'aveva salvata e del loro ultimo e a conti fatti primo incontro.
«Mi ha detto di dire a te e ad Artù che le dispiace, per tutto», concluse la bionda, accarezzandogli una spalla.
Merlino scrollò il capo, sentendo il peso che aveva sul cuore ingigantirsi sempre di più. «È tutta colpa mia. L'ho condannata io a questo».
«Lei non è d'accordo, te lo posso assicurare. E vuole davvero aiutarci, per quel che può. Mi fido di lei».
Il mago incrociò il suo sguardo. Ma certo che si fidava, era una Pendragon.
Il suo istinto gli gridava di metterla in guardia, di impedirle di fare l'errore che Artù aveva fatto più e più volte, ma pensava davvero ciò che le avrebbe detto nel futuro.
Abbozzò un sorriso, prendendole le mani tra le sue. «Credo in te».
Alex si concesse un respiro profondo, rincuorata, e persino un sorriso. Si allacciò al collo il ciondolo appartenuto a Morgana e poi chiese a Merlino di passarle Excalibur. Lo stregone fu percorso da un brivido quando sguainò la spada e gliela porse, realizzando che presto Alex l'avrebbe impugnata per compiere il suo destino.
«Sei mai rimasto senza poteri, Merlino?», gli chiese all'improvviso, ritraendo di scatto la mano, come a voler prendere tempo. Che non fosse poi così sicura delle buone intenzioni di Morgana?
«Perché me lo chiedi? Sai che non ho usato la magia per gli ultimi quattordici secoli».
«No, questa è stata una tua scelta. C'è stato un momento, prima di allora, in cui hai avuto la sensazione di aver perso... tutto ciò che eri?».
Merlino si accigliò, ma ben presto capì il motivo di quelle domande. «Alex, è proprio questo il motivo per cui ho abbandonato la magia. Non capisci? Ne basta un assaggio e anche le persone più forti si sentono perse senza di essa. Il mio stesso padre pensava che io fossi la magia stessa, che fossi parte del cielo, del mare e della terra, e forse è davvero così, non lo so, ma la cosa importante è che io gli ho creduto. E dove mi ha portato questo? Mi sono affidato totalmente ai miei poteri, senza mai chiedermi quale fosse il costo da pagare. La verità è che la magia non ci rende ciò che siamo, voglio che tu lo capisca bene. L'Alex di cui mi sono innamorato... se qualcuno le avesse detto che un giorno si sarebbe trovata alle prese con Excalibur si sarebbe fatta una grassa risata, non pensi?».
L'infermiera annuì, convincendosi che sì, Abby aveva ragione a dire che lei era sempre stata speciale, magia o meno.
«Se non vuoi, non sei obbligata a farlo», le disse ancora lo stregone, tirando la spada verso di sé, ma ancor prima che potesse finire la frase Alex si era alzata su un ginocchio e si era sporta in avanti per afferrare l'elsa.
La magia le percorse le vene della mano, del braccio, del collo e il suo viaggio terminò nei suoi occhi, rendendoli dorati. Alex, sopraffatta da tutto quel potere, perse i sensi e Merlino, già pronto a quell'eventualità, fece in modo che gli cadesse addosso.
Guardò il suo volto privo d'espressione, le accarezzò i capelli e le posò un bacio sulla fronte, mentre la propria mano si muoveva quasi per riflesso incondizionato. Si posò sul suo ventre e le lacrime gli velarono gli occhi, pensando che da lì a nove mesi sarebbe nata una bellissima bambina che molto probabilmente non avrebbe mai conosciuto. Quel pensiero lo addolorò tanto, in modo così inaspettato, che lasciò il capo di Alex accanto alle fiamme ormai morenti del falò per alzarsi e correre in mezzo agli alberi, dove gridò tutta la propria sofferenza. 

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Capitolo 30
*** The gates of Avalon ***


Ciao Merlinians! I'm back! :)
Ormai ci avviciniamo alla fine di questa storia che è stata peggio di un parto per me, la quale però ne è valsa ogni attimo: sono orgogliosa di questa storia e sono grata a chiunque l'abbia seguita, nel bene e nel male.
Perciò bando alle ciance e vi auguro una buona lettura. Sono disponibile a rispondere a qualsiasi domanda e curiosità, sia qui sia sulla mia pagina facebook ;)
A presto (spero)! Un bacio.

Vostra,

_Pulse_



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30. The gates of Avalon



«Mi stai ascoltando? Alex?».
L'infermiera alzò gli occhi e attraverso il grande specchio da terra che Wanda aveva procurato loro vide Cathleen alle sue spalle, che la fissava con sguardo apprensivo e diverse forcine tra le labbra.
«Scusami, stavi dicendo qualcosa?».
La rossa sospirò e sputò con ben poca grazia i fermacapelli sul letto, poi spalancò la finestra e si sedette sul davanzale per accendersi una sigaretta. Prese una lunga boccata di fumo prima di esclamare: «Mi vuoi dire che cos'è successo? Se è così che tu e Merlino avete sistemato le cose, ci sarà da divertirsi».
Alex scosse il capo, torturando l'anello di sua madre.
Pensava che fosse andata piuttosto bene con Merlino, almeno fino a quando non aveva messo alla prova il ciondolo di Morgana con la potente magia contenuta in Excalibur. Com'era già successo aveva perso i sensi, ma quella volta al suo risveglio lo stregone non era al suo fianco. L'aveva cercato nei dintorni e all'agriturismo, sentendo una voragine in mezzo al petto risucchiare tutto quanto, persino l'aria che respirava, ma di lui nessuna traccia. Non aveva detto una parola in merito, sperando che si fosse allontanato volontariamente per riflettere su tutto ciò che gli aveva confessato, e sinceramente era sorpresa che Artù non avesse già organizzato le squadre di ricerca.
Sapeva di aver sbagliato, più e più volte, ma sperava con tutto il cuore che Merlino fosse in grado di perdonarla. Non sapeva cos'avrebbe fatto se l'avesse perso per colpa dei suoi segreti, di certo qualche follia. Aveva bisogno di lui, ora più che mai.
Cathleen gettò il mozzicone e una volta chiusa la finestra tornò a concentrarsi sulla sua acconciatura senza più aprire bocca.

***

Artù si fermò all'inizio del tappeto rosso che era stato steso sull'erba tagliata di recente e coi pugni stretti lungo i fianchi trattenne un'imprecazione.
Di tutte le volte in cui aveva voluto stragolare a morte lo stregone, quella era la peggiore. Non solo l'aveva addormentato con la magia perché non lo seguisse - già abbastanza imperdonabile di per sé, - ora si era persino dato alla macchia!
L'aveva cercato ovunque e aveva provato a chiamarlo al cellulare almeno un centinaio di volte, ma non era riuscito a rintracciarlo. Dove poteva essersi cacciato? E poi, perché sparire in quel modo? Temeva fosse successo qualcosa con Alex, ma non aveva avuto ancora il coraggio di andare da lei per avvisarla. Inoltre, cercando indizi, aveva notato che il suo completo da sposo era scomparso. Questo lo aveva in parte rassicurato che in un modo o nell'altro si sarebbe presentato al matrimonio.
Ormai mancava davvero poco ed era quasi tutto pronto: l'arco di gardenie bianche, le sedie foderate per gli invitati, il gazebo sotto il quale si sarebbe svolto il taglio della torta, i bracieri che sarebbero stati accesi al calar della sera per allontanare gli insetti e creare un'atmosfera romantica.
Nonostante il poco preavviso, il padre di Alex e i signori Morris si erano impegnati al massimo per curare ogni più piccolo dettaglio e Merlino, comportandosi in quel modo, stava mancando loro di rispetto.
«Ciao Artù!».
L'ex sovrano si voltò e rimase quasi a bocca aperta di fronte a quella versione di Abigail: il trucco aveva restituito al suo viso un colorito sano che non le aveva mai visto, i suoi occhi risplendevano di gioia e il vestito da damigella d'onore, bianco come quello della sposa, la rendeva simile ad una Dea. Per un attimo si dimenticò persino la sua verà età e gli si annodò lo stomaco quando la truce verità lo colpì in faccia come un pugno: era troppo piccola per andarsene.
«Sei... sei bellissima, Abby», riuscì a dirle, inghiottendo il magone.
La ragazzina sorrise timidamente, abbassando gli occhi sulla gonna candida che le arrivava fino alle caviglie. «Grazie».
Artù si avvicinò d'un passo e mandò al diavolo i protocolli e il proprio rigore: le avvolse le braccia intorno alla vita e respirò profondamente il suo profumo, cercando di mettersi il cuore in pace: per quanto facesse male, non poteva aiutarla.
Abby ricambiò l'abbraccio picchiettandogli una mano sulla schiena, presa alla sprovvista. «Va tutto bene?».
«Sì, io... volevo far ingelosire un po' Mark, tutto qui», scherzò indicando il ragazzino, seduto sulla sua sedia a rotelle e con gli occhi ridotti a due fessure per la rabbia.
«Beh, ci sei riuscito», replicò la ragazzina, ridacchiando. All'improvviso però si accigliò, notando l'assenza di uno degli ospiti fondamentali: «Dov'è Merlino?».
Come temeva, Artù fu costretto a mentire per non rivelare che in realtà non ne aveva la più pallida idea. «In bagno. L'ansia gli fa quest'effetto».
Abby arricciò il naso e non riuscì a capire se per il disgusto o perché aveva sentito puzza di bugia. Ad ogni modo si risedette sulla propria carrozzina e raggiunse gli amici, lasciandogli spazio per pensare.
Alzando gli occhi al cielo in una muta richiesta di consiglio scorse una delle finestre dell'agriturismo aprirsi e un fondoschiena che avrebbe riconosciuto tra milioni posarsi sul davanzale: quello di Cathleen. Eccola la sua risposta.
Quasi corse fino alla stanza delle ragazze e si rese conto che non era stato tanto coinvolto nemmeno nel proprio matrimonio. Bussò freneticamente alla porta e fu proprio Cathleen ad aprire, o almeno a sporgere fuori il naso.
«Sei da solo?», gli chiese. «Non so come fosse ai tuoi tempi, ma ora porta sfortuna che lo sposo veda la sposa col vestito prima delle nozze».
«Tranquilla, Merlino non c'è», rispose con un grande sospiro: dubitava che sarebbe riuscito a ripeterlo senza scatenare il panico. «Puoi uscire un attimo? Devo parlarti».
«È urgente?».
«Molto».
«'kay». Si rivolse verso Alex e le disse: «Sono qui fuori con Artù, torno subito», ma l'infermiera non rispose.
In effetti, da come Cath sollevò le sopracciglia, ebbe la netta impressione che il suo atteggiamento non l'avesse sorpresa. Non un buon segno.
Il tempo di chiudere la porta e il paramedico partì subito in quarta dicendo quanto la urtasse il silenzio di Alexandra, mentre lui esordì con la scomparsa di Merlino. Si parlarono l'uno sopra l'altro, eppure capirono perfettamente che le loro esperienze avevano la stessa spiegazione.
«È successo qualcosa ieri notte», dedussero come due perfetti detective, picchiandosi i pugni sulle mani. Peccato che detto questo rimasero in silenzio a fissarsi per diversi secondi, preoccupati.
Ad un tratto però Artù fu colpito dall'aspetto della  sua ragazza, tanto che si dimenticò quasi completamente di Merlino. Indossava un elegante vestito verde smeraldo, un colore che le donava moltissimo per via dei capelli rosso sangue e la pelle diafana. L'abito aveva una sola spallina, in stile vagamente romanico, ed era tempestata di gemme brillanti.
«Sei... wow. Sembri una vera principessa», mormorò incantato.
Cathleen tuttavia gli rivolse un'occhiata sconcertata, esclamando: «E questo come dovrebbe aiutarci? Dobbiamo fare qualcosa!».
Artù aprì la bocca per scusarsi e probabilmente ammettere ancora una volta di essere a corto di idee, quando la porta della stanza si aprì rivelando una Alex per il cui viso stanco e triste non sarebbero bastati chili di trucco né un make-up artist professionista.
«Non potete fare niente», rispose con voce flebile ed arrochita, come se avesse gridato per tutta la notte. «È una questione tra me e Merlino, nessun altro».
La rossa le prese una mano tra le sue e le massaggiò le dita. «Puoi almeno raccontarci cos'è successo?».
«A questo punto, tanto vale che sia onesta anche con voi».
Alex aveva usato il plurale, ma aveva guardato intensamente Artù dicendo quelle parole. Entrando nella stanza, il re di Camelot percepì che ne sarebbe uscito di umore radicalmente diverso. Cercò di prepararsi al peggio, ma la verità era che non avrebbe mai immaginato la gravità della situazione.

«Stai dicendo che Morgana, la stessa che ha dichiarato guerra a Camelot e ha desiderato con ogni fibra del suo corpo la morte di Artù per il suo trono, quella Morgana, è tra noi?», chiese Cathleen non appena Alex finì di aggiornarli.
L'infermiera si portò una mano tra i capelli, ricordandosi troppo tardi dell'acconciatura su cui l'amica aveva lavorato per due ore, e dopo essersi scusata precisò: «Si tratta del suo spirito. E ora non è più cattiva: Excalibur l'ha liberata. Vuole aiutarci, sul serio».
«Non me la bevo», rimase sulle sue il paramedico, scuotendo il capo.
«Ieri mi ha dato questo». Alex si alzò e recuperò da sotto il cuscino il ciondolo con sopra incise tre spirali intrecciate.
«Ho già visto questo simbolo. Freya ce l'aveva tatuato sul braccio».
«Il simbolo dei druidi».
Il paramedico arricciò il naso e le allontanò la mano, come se ne fosse inorridita. «Okay, stai ancora cercando di convincermi che Morgana è dalla nostra parte, vero? Perché questo non aiuta».
«Ascoltami, Cath. Ha fatto un incantesimo a questo ciondolo e ora se lo indosso posso impugnare Excalibur senza diventare una fredda macchina da guerra».
Cathleen si alzò dal letto ed iniziò a passeggiare su e giù per la stanza, gesticolando come una forsennata.
«Come fai a sapere che funziona? Magari l'ha incantato perché la collana ti mozzi via la testa!».
«Perché l'ha già provato», disse Artù a bassa voce, ciononostante fu come se avesse appena urlato quelle parole a squarciagola.
«Che cosa?», sbottò la rossa con entrambe le mani sui fianchi. «E tu come fai a saperlo?».
«Ieri notte Merlino è uscito senza dirmi dove fosse diretto. Con Excalibur».
Il «Che cosa?» di Cathleen quella volta fu più debole, tant'era lo shock. Alex chiuse gli occhi di fronte allo sguardo severo dell'antenato, consapevole che se l'avesse fronteggiato non sarebbe riuscita a frenare le lacrime.
«È per questo che Merlino è scomparso, non è vero? Gli hai detto tutto. O quasi».
Era stato più forte di lui. La rabbia che provava in quel momento rischiava di fargli venire un attacco, perciò decise di uscire a prendere una boccata d'aria prima che fosse troppo tardi. Avrebbe dovuto limitarsi ad andarsene sbattendosi la porta alle spalle, ma non ci riuscì.
«Come sai, uno dei miei compiti da re era addestrare e nominare i cavalieri di Camelot. Ho compiuto scelte difficili, in tempi difficili, per le quali mio padre, se fosse stato ancora in vita, non mi avrebbe mai perdonato. Ho scelto uomini dalle umili origini, ma coraggiosi e leali, e non me ne pentirò mai.
«Quando ho scoperto della nostra lontana parentela e del tuo desiderio di allenarti non mi aspettavo molto, sono sincero. Eppure sei riuscita a sorprendermi, a farmi cambiare idea, persino a... a rendermi orgoglioso di te. E di tutti i cavalieri che ho addestrato, tu sei uno dei migliori.
«Non succedeva spesso, ma anche i migliori sbagliavano. E in quelle occasioni mi sentivo responsabile, non potevo fare a meno di chiedermi dove avessi sbagliato. Ma mai, mai in tutta la mia vita, ho provato una tale delusione. Mi hai spezzato il cuore, Alexandra, e non so se meriti di essere una Pendragon».
Quell'ultima frase vibrò nell'aria a lungo, come una triste nota di violino, e Artù sentì le proprie corde vocali rispondere con lo stesso tremore. Perciò chiuse finalmente la porta e tornò in giardino, dove aiutò Edwin a montare le lanterne sopra la pista da ballo in legno.

***

Merlino si svegliò al gracchiare di un corvo.
Col capo posato contro il tronco dell'albero sotto le cui fronde si era fermato a riflettere e poi ad ubriacarsi, alzò lo sguardo verso il ramo più basso e vide l'uccello, dal piumaggio lucente, che lo fissava con i suoi occhietti scuri.
«Che cosa vuoi?», biascicò con espressione arcigna. «Vattene!».
Il corvo non si mosse e Merlino prese la lattina di birra vuota più vicina a sé e gliela lanciò contro, urlando di rabbia. Ovviamente non lo colpì.
«Dannazione. Dannazione!».
Si coprì il volto con le mani e respirò profondamente, più e più volte.
Non aveva avuto il coraggio di rimanere accanto ad Alex e di aspettare il suo risveglio: aveva troppa paura che Morgana li avesse ingannati di nuovo, sfruttando l'ingenuità e l'innocenza dell'infermiera per fare loro altro male.
Si era rifugiato nel bosco e aveva pregato tutti gli dei che conosceva, pagani e non, mentre ciò che aveva visto del proprio futuro continuava a ripetersi in loop nella sua mente.
Alex aspettava una bambina, una bellissima bambina che avrebbe ereditato i suoi poteri, e forse anche per questo lui sarebbe morto prima di poterla conoscere. I custodi della magia si sarebbero accaniti contro di loro con ogni mezzo, perciò non c'erano alternative: era la sua vita per quella di sua figlia ormai.
Per secoli aveva atteso il ritorno di Artù, certo che alla fine si sarebbe sacrificato perché il re del passato e del futuro potesse vivere la vita che meritava. Quello che avevano sempre voluto i custodi, in fin dei conti. L'arrivo di Alex aveva cambiato tutto, ma come in una partita a scacchi sbilanciata, per qualunque loro mossa ce n'era già una pronta in grado di vanificarla. Non avrebbero mai vinto, era scritto.
Il corvo gracchiò nuovamente, attirando la sua attenzione, e Merlino decise di alzarsi per guardarlo da più vicino. Doveva comunque tenere il capo rivolto verso l'alto, ma l'animale sembrava interessato allo stregone quanto quest'ultimo di lui.
«Sei tu, Morgana?», gli domandò con la bocca improvvisamente asciutta. In compenso, le lacrime tornarono a bagnargli gli occhi. «Che cosa stai cercando di dirmi? Che sono un codardo? Sì, probabilmente lo sono. Ero pronto ad accettare il mio destino, ma Alex... A causa sua ora ho paura di morire, è questa la verità. Non posso lasciarla, non voglio. Non voglio che sia costretta ad uccidermi, perché so che se lo farà, questo la perseguiterà per tutta la vita. Rivivrà quel momento tutte le notti, proprio come ho fatto io per più di millequattrocento anni. Non volevo ucciderti, Morgana, ma dovevi essere fermata. Mi dispiace... Mi dispiace così tanto».
Il corvo quella volta rimase in silenzio, per poi volare via dal ramo.
Il mago allora crollò a terra, in ginocchio, senza preoccuparsi che il completo che stava indossando fosse quello del matrimonio. Un look quasi total black, ravvivato un poco dalla cravatta e dal fazzoletto nel taschino, entrambi viola acceso.  
L'aveva preso quella mattina all'alba, quando era tornato all'agriturismo ancora immerso nel più totale silenzio. Artù era ancora profondamente addormentato per via del suo incantesimo e Alex... beh, aveva preferito non svegliarla. Ancora una volta, non aveva trovato il coraggio di affrontarla. Aveva aperto la porta della stanza che condivideva con Cathleen e si era avvicinato al suo letto. Si era inginocchiato al suo fianco e le aveva accarezzato il viso con lo sguardo, poi le aveva rimboccato le coperte ed era uscito così com'era entrato, senza fare il minimo rumore.
Perse di nuovo la cognizione del tempo o forse si riaddormentò, lì steso su quel letto di muschio ed aghi di pino. Quando riaprì gli occhi, non solo il corvo era tornato con una gardenia bianca nel becco, ma c'era qualcuno sdraiato al suo fianco.
«Tu non dovresti essere qui. Io non dovrei vederti così», mormorò Merlino, guardando il profilo perfetto del naso di Alex sotto il velo.
«Non vuoi più sposarmi?», gli chiese lei dopo una dozzina di secondi.
«Che cosa te lo fa pensare?».
«Io non sposerei una persona che mi ha tenuto all'oscuro di una cosa così importante. L'ho detto ad Artù, sai? Ha detto che non è mai stato così deluso da un cavaliere, che gli ho spezzato il cuore e che non merito di essere una Pendragon».
«Artù esagera, lo conosci. Per quanto mi riguarda... Ti ricordi quando abbiamo fatto l'amore per la prima volta?».
Alex si voltò finalmente a guardarlo, alzandosi persino il velo e rivelando la sottile corona d'oro che le cingeva la fronte. Era così fottutamente bella!
«È una domanda a trabocchetto?», gli chiese con l'accenno di un sorriso. «Certo che mi ricordo!».
«Tu mi dissi che l'unica cosa importante era che il mio cuore appartenesse a te».
«E tu mi risposi... "Fino alla fine dei miei giorni"», concluse per lui Alex, sbattendo rapidamente le palpebre per cacciare via le lacrime. Gli portò una mano sul volto, avvicinandosi tanto da far toccare le loro fronti.
Merlino respirò profondamente e chiuse gli occhi, le avvolse un braccio intorno alla vita e finalmente si sentì in pace col mondo.
«Non so se sarà per un giorno, per un anno o altri cinquanta. So solo che non smetterò mai di amarti, Alex. Qualsiasi cosa succederà, hai capito?».
«Mi stai facendo spaventare. Hai visto qualcosa?».
Lo stregone scosse il capo e le impedì di insistere posando le labbra contro le sue.
Quando si scostarono l'uno dall'altro erano consapevoli che avrebbero riaperto il discorso, prima o poi. Ora però c'era un matrimonio da celebrare.
Si alzarono e si spolverarono vincendevolmente i vestiti. In quel frangente Merlino ebbe l'opportunità di ammirare le modifiche apportate al Versace che le aveva regalato per il galà al Castello di Windsor: erano state aggiunte delle maniche di pizzo bianco, con motivi floreali e piccoli brillanti rossi qua e là, che richiamavano il colore del lungo strascico aggiunto a mo' di mantello - si allacciava infatti intorno al suo collo candido - e su cui era stato cucito lo stemma d'oro dei Pendragon.
«Sei bellissima, una vera regina», non poté evitare di commentare, facendo sbocciare uno stupendo sorriso sul suo volto.
L'aiutò a montare sul cavallo con cui l'aveva raggiunto e solo in quel momento, chiedendosi come avesse fatto a trovarlo nei meandri del bosco, si ricordò del corvo. Era stato lui a guidarla, dopo aver attirato la sua attenzione rubando un fiore dall'allestimento.
Prima di sedersi alle spalle di Alexandra, Merlino si avvicinò al ramo su cui era appollaiato e si alzò in punta di piedi per farsi cosegnare il fiore.
«Grazie, Morgana», sussurrò appuntandosi la gardenia all'occhiello della giacca.

***

Partì la musica e Merlino le rivolse un mezzo inchino porgendole la mano. Alex sorrise, il cuore straripante di gioia per quello che si stava davvero rivelando il più bel giorno della sua vita, e lo seguì sulla pista da ballo.
«Artù mi ha insegnato qualche passo, ma...», provò ad avvertirlo una volta stretta a lui. Lo stregone però la interruppe, sussurrando: «Lascia fare a me».
Così si abbandonò totalmente, lasciandosi guidare nei passi e nei movimenti. Per avere più di millequattrocento anni, si muoveva con la stessa grazia e delicatezza di una farfalla. Alex si sentiva un elefante in confronto, eppure riuscì ad arrivare alla fine di quel primo ballo.
Merlino le fece fare un'ultima giravolta, poi si allontanò di un passo per cederle la mano a suo padre, il quale era entrato in pista insieme al resto degli invitati. Persino i bambini avevano lasciato le loro sedie a rotelle e Abigail e Mark, tenerissimi nei loro passi imbarazzati, erano uno spettacolo meraviglioso: la perfetta  rappresentazione dell'amore più puro e genuino.
«Oh, tesoro», mormorò suo padre, coi lucciconi agli occhi. «Sei bellissima. Vorrei che tua madre fosse qui per... lo sai».
«Lo so», sussurrò Alex avvolgendogli le braccia intorno al collo in un lento.
«Ci avete fatto prendere un bello spavento, lo sai?».
«Credimi, non era nostra intenzione».
Alex rise, scorgendo Merlino alle prese con la signora Morris: stava cercando di guidarla come aveva fatto con lei, ma finiva sempre con i piedi pestati e una malcelata espressione di dolore sul volto.
«Ovviamente io ed Artù non abbiamo detto agli altri che eravate scomparsi, solo che volevate fare un'entrata ad effetto. E che effetto! Vederti a cavallo mi fa ancora drizzare i peli delle braccia».
Non avrebbe mai dimenticato le facce di Mark e Rebecca quando li avevano visti arrivare al galoppo: a bocca aperta e con gli occhi sbarrati, come se stessero scendendo da un arcobaleno su un unicorno. Forse erano state le loro espressioni felici, forse i loro capelli scompigliati dal vento o forse il lungo strascico rosso che turbinava intorno a loro quasi come sotto incantesimo.
Artù, invece...
«Tesoro, che succede?», le domandò il padre, notando l'ombra che le era calata sul viso.
Alex si sforzò di sorridere, passando sotto il suo braccio alzato e guardando il cielo venato d'arancione oltre le lanterne già illuminate. «Niente, papà. Niente».
«Non mi mentire, Alexandra».
«No. Hai ragione, niente più bugie». Lo guardò negli occhi ed aprì la bocca per chiedergli consiglio, quando qualcuno le picchiettò un dito sulla spalla per chiederle un ballo. Dal modo in cui suo padre sorrise, Alex capì di chi si trattava ancor prima di girarsi.
Sospirò internamente con le labbra strette in una linea sottile e si voltò, trovandosi di fronte ad un Artù serio, quasi contrariato. Ciononostante le porse una mano per chiederle di ballare e il signor Greenwood gliela cedette volentieri.
Iniziando a volteggiare, Alex notò Merlino muoversi con Abigail, i piedi nudi puntati sulle sue scarpe, e Cathleen ondeggiare con un Mark violaceo per via del prorompente decolté del paramedico, così pericolosamente vicino al suo volto. Quindi si schiarì la gola e avvicinandosi al suo orecchio disse: «Non sei obbligato, se non vuoi».
«Di che cosa stai parlando?».
«Se non vuoi ballare con me...».
«Fai silenzio», le ordinò stancamente, volteggiando. «Non volevo dire quello che ti ho detto».
«Ma l'hai fatto. Vuol dire che un fondo di verità c'è».
«Sapere di Morgana mi ha scosso, ero arrabbiato e ferito. Tu hai fatto quello che ritenevi più giusto e non posso giudicarti per questo. Se lo facessi, sarei proprio come mio padre. Tu sei una degna Pendragon, Alexandra; non permettere a nessuno di affermare il contrario, nemmeno a me».
«Grazie Artù, lo apprezzo molto», sussurrò con la guancia posata contro la sua spalla, sentendo il ghiaccio intorno al suo cuore sciogliersi. Tuttavia c'era un'altra questione da affrontare prima che potesse liberarsi del tutto.
«Cathleen ti ha detto della mia possibile gravidanza», esordì ancora più piano, per paura che qualcuno li potesse sentire.
«Mi aveva fatto promettere di non fartene parola. Non mi devi alcuna spiegazione, okay? So che la cosa più importante al momento è Freya».
L'erede scosse il capo, stringendo un po' più forte la presa sulla sua mano. «La cosa più importante è la famiglia. E questa notte non riuscivo a dormire, così... ho fatto il test».
«Tu...? Questo vuol dire che sai se...?».
«Sì, lo so», Alex annuì, trovando adorabile l'espressione smarrita sul volto di Artù. E non era nemmeno lui il padre del bambino! «Saresti il primo a saperlo, ma se fossi davvero incinta... allora dovresti comunque mantenere il segreto con Merlino. Non voglio che si preoccupi per me in battaglia. Vuoi che te lo dica?».
Dopo un attimo di riflessione, Artù le sorrise e negò con un cenno del capo. «Ti ringrazio, ma per ora preferisco vivere nell'ignoranza».
Alex sollevò le spalle con fare sbarazzino. «Uhm, nulla di nuovo allora».
Il solo ed unico re fu tentato di rispondere per le rime alla frecciatina, ma un imbucato aveva attirato non solo la sua attenzione, ma anche quella di Merlino e Cathleen, i quali si erano avvicinati al bordo della pista.
«Mi dispiace fare il guastafeste, ma ho bisogno di parlarvi», esclamò l'agente Darrell Fisher, nella sua divisa d'ordinanza.
Scambiarsi uno sguardo fu sufficiente perché capissero che era giunta l'ora: la battaglia con Freya li attendeva.

***

«Darrell. Darrell, svegliati».
Il poliziotto aprì gli occhi e oltre le cime degli alberi vide un milione di stelle brillare nel cielo notturno. Non ne aveva mai viste così tante in vita sua, nemmeno quando suo padre lo aveva portato in campeggio. Suo padre... avrebbe dovuto chiamarlo più spesso, dirgli che gli voleva bene.
Cacciò via quel pensiero prima che Freya potesse metterci sopra le mani e la sua coscienza fluttuò all'interno di quel corpo che non gli apparteneva, leggera ma priva di qualsiasi controllo.
La ragazza druida si alzò dal proprio giaciglio per prendere dallo zaino alle sue spalle una coppa d'oro, lucidata di recente, con dei piccoli draghi dalle ali spiegate come piedini d'appoggio. Non appena la sfiorò sentì una scarica di magia incendiare le loro vene in simbiosi, e sul riflesso della coppa scorse il sorriso compiaciuto di Freya.
"Che cos'è?", le chiese, ma non sentì la propria voce. Solo lei poteva sentirla, essendo nella sua mente.
«Bellissima, non è vero? È stata chiamata in molti modi, nel corso dei secoli. Il più famoso è sicuramente Sacro Graal, ma è anche il più sbagliato. Graalmir Pendragon non c'entra nulla, probabilmente non ne ha nemmeno mai sentito parlare. Questa è la Coppa della Vita, un artefatto della Religione Antica così potente che non può essere distrutto in alcun modo».
Darrell rimase in silenzio, mentre Freya cercava qualcos'altro nello zaino. Con la coda dell'occhio, tra le coperte su cui erano seduti, vide una lunga spada dalla lama a doppio filo, con la guardia e il pomolo dorati. Ma c'era qualcosa di più... qualcosa di minaccioso ed inquietante. Più la guardava, più gli sembrava di sentire un'altra voce nella testa, sibilante e maligna.
«Qualcosa ha catturato il tuo interesse?», gli domandò Freya, quasi con tono divertito. «La spada di Mordred. È a causa sua se ho ritardato tanto: ho dovuto perlustrare tutta la foresta per trovarla. Morgana l'aveva nascosta proprio bene. Impossessarmi della Coppa della Vita in confronto è stato un gioco da ragazzi».
"Mordred, hai detto? Il tizio che ha ucciso Artù?".
«Oh, qualcuno ha fatto delle ricerche! Bravo, Darrell. Forgiata nel fuoco di un drago, nessuno sopravvive ad una sua ferita. È così letale che solo Excalibur può eguagliarla».
"Mio Dio, Freya, che cos'hai in mente?".
Finalmente la dama del lago trovò ciò che cercava: una boccetta di plastica contenente un liquido trasparente.
«Bene, basta chiacchierare. Rimani per lo spettacolo?».
Una domanda retorica, ovviamente: sapeva che Darrell non se ne sarebbe mai andato, non prima di scoprire le sue intenzioni. Questo la fece ridacchiare.
Raggiunse il suo ristretto esercito di maghi e streghe, riunito intorno al fuoco. Chiuse gli occhi e dopo un profondo respiro iniziò a recitare una complessa formula, in un linguaggio antico e cerimonioso. Le fiamme parvero ingrossarsi all'improvviso e a quel punto Freya versò nella Coppa il contenuto della bottiglia. Sembrava semplicissima acqua, ma il suo odore era strano: somigliava tanto a quello che sentiva passando coi finestrini aperti accanto alle rive del lago. A meno che non si trattasse proprio della stessa acqua del lago!
"Proprio così", confermò Freya mentalmente, mentre passava teatralmente la Coppa a Jack e ordinava di fare il giro, proprio come se si trattasse della grolla dell'amicizia.
"Perché gliela fai bere? Che cosa gli stai facendo?".
"Davvero, Darrell? Ti facevo più sveglio. Questi ragazzi sono portati alla magia, è dentro di loro, assopita. Avalon invece è una delle fonti magiche ancora attive. Ti va bene come aiuto?".
"Vuoi risvegliare la magia che è in loro", mormorò scioccato. "Vuoi mandarli in battaglia al posto tuo!".
"Oh, ma io ci sarò! Diciamo che sto prendendo delle precauzioni. Ma non ti preoccupare, conosco Merlino e i suoi amici: non ucciderebbero mai dei ragazzini innocenti".
"Sei pazza, Freya".
"Faccio quello che deve essere fatto per il bene del mondo in cui viviamo. Alexandra, anche se per caso, mi ha dato una seconda possibilità e voglio sfruttarla al massimo. Potremmo essere così felici, Darrell...".
Non aveva mai considerato il fatto che anche lei, proprio come tutti, voleva vivere. Era così disperatamente attaccata alla vita che non riusciva a vedere il confine tra giusto e sbagliato. Tutto ciò che contava era lottare, lottare e lottare per la sopravvivenza. E se poi si era convinti che riportare la magia nel mondo fosse l'unico modo per salvarlo... beh, non poteva stupirsi che stesse assistendo ad un rito d'iniziazione da setta.
L'ultimo a bere dalla Coppa fu il senzatetto dai capelli biondi ossigenati, gli occhi verdi vigili e scattanti. Si passò il dorso di una mano guantata sulla bocca e poi sorrise con tutti i denti, esclamando: «L'acqua delle fontane pubbliche è più buona di questa, sapete? O almeno non sa di pesce marcio».
«Silenzio!», lo rimproverò Freya, riprendendo tra le mani la Coppa della Vita e chiudendo gli occhi.
"Ti prego, fermati! Torna a casa, possiamo essere felici anche così", fu l'ultimo tentativo di Darrell, il quale nonostante tutto continuava a provare qualcosa per lei. Poteva perdonarla e potevano ricominciare da capo, ne era certo.
Le mani di Freya tremarono, ma fu solo un attimo. La sua presa si rinsaldò e in qualche modo riuscì a bloccarlo in un angolo della sua mente: poteva assistere, ma non poteva parlarle né ascoltare i suoi pensieri.
La druida sollevò la Coppa verso il cielo stellato e concluse il rituale, urlando le ultime parole dell'incantesimo per via della scia di potere dorato che dal terreno penetrò nel suo corpo per poi confluire in parti uguali anche nei giovani maghi.
Darrell fu in grado di sentire il flusso magico, ma non ne fu affetto come i diretti interessati: Freya crollò in ginocchio, le due sorelle pel di carota svennero e i ragazzi più grandi - Jack e l'ultima arrivata dalle origini africane - si ritrovarono col fiato grosso e il volto imperlato di sudore, febbricitanti. Il vagabondo, invece, impiegò qualche secondo di troppo per soffrire degli stessi effetti collaterali. Stava recitando! Ma come? L'unico motivo plausibile era che non avesse bevuto dalla Coppa come tutti gli altri.
Prima che potesse cogliere il vantaggio di trovarsi in una Freya quasi incosciente, dalle difese abbassate, il collegamento si interruppe.

«Cavolo, tutto quel tempo nell'acqua del lago deve averle arruginito delle rotelle», esclamò Cathleen, toccandosi la tempia con due dita.
«Tutto questo è successo ieri notte?», urlò invece Artù, per poi rivolgere a Merlino uno sguardo pieno di significati a loro nascosti, come se all'improvviso tutto avesse un senso.  
«Perché non ci hai avvisati? Contavamo su questo, agente Fisher!», aggiunse.
«Non ho potuto!», si giustificò. «Fisicamente! L'incantesimo di Freya deve avere messo K.O. anche me, perché mi ricordo di essermi svegliato e di aver provato a chiamare Alexandra, ma il cellulare mi è caduto dalle mani e io sono ripiombato nell'oscurità più assoluta. Mi sono svegliato un'ora fa».
Merlino strinse Alex a sé, la quale lo guardò con un misto di apprensione e rammarico negli occhi. Poi tornò a concentrarsi sul poliziotto e gli chiese: «Perché sei venuto qui di persona? Potevi chiamare».
Darrell respirò profondamente, socchiudendo gli occhi. «È stata Freya a svegliarmi. Mi ha chiesto di condurvi da lei».
«Si tratta di una trappola», affermò Artù, dicendo ad alta voce ciò che tutti pensavano. Un invito al loro stesso funerale.
«Ma potrebbe anche essere la nostra unica occasione per fermarla. Dobbiamo tentare», disse Alex, cercando l'approvazione del suo taciturno marito.
«E se non ci presentassimo?», domandò timidamente il paramedico.
Darrell si concesse il secondo respiro profondo di fila. «Ha detto anche che se non sarete lì entro l'alba inizierà ad uccidere i ragazzini».
A quel punto nessuno osò più fiatare. Gli sguardi di tutti si posarono su un Merlino ad occhi chiusi, quasi in meditazione. Dovettero passare diversi minuti prima che li riaprisse e allora Darrell sentì il cuore salirgli in gola, scorgendovi tutta la tristezza accumulata in secoli e secoli di solitudine, dolore e odio per se stesso.
«Non abbiamo scelta», ruppe finalmente il silenzio. «Prepariamoci, partiamo fra un'ora».

***

«Non capisco. Perché dovete andarvene? E che cosa c'entra quell'agente... come hai detto che si chiama?».
Alex accarezzò le braccia del padre e gli rivolse il sorriso più rassicurante del proprio repertorio. «Fisher. Agente Darrell Fisher. Ascolta papà, non c'è tempo per i dettagli. Ho bisogno che tu dia un occhio ai bambini questa notte e che domani mattina li riporti in ospedale nel caso in cui noi non fossimo ancora tornati».
Forse quell'ultima frase non avrebbe dovuto dirla.
«Che significa? Alexandra, devo sapere che cosa...!».
L'infermiera lo abbracciò forte, così forte da togliergli il fiato, e con gli occhi chiusi sussurrò: «Grazie per oggi, è stato il giorno più bello della mia vita. Ti voglio bene papà».
Il signor Greenwood non poté che arrendersi all'evidenza: non avrebbe ottenuto nulla di più da sua figlia. Perciò ricambiò l'abbraccio e le accarezzò i capelli che si era sciolta quando si era tolta il vestito da sposa per indossare qualcosa di più comodo: pantaloni verde militare, una lunga camicia di flanella a quadretti blu e rossi e la giacca di pelle marrone.
«Sei tale e quale a tua madre», mormorò in un sospiro.
Alex si scostò per guardarlo in viso con un sorriso dolce. Però non riuscì a dire nulla, le corde vocali all'improvviso ingarbugliate per via della busta bianca che suo padre aveva appena tirato fuori dalla tasca interna della giacca dello smoking. Quella calligrafia...
«Tua madre me la diede qualche giorno prima di...». Edwin abbassò gli occhi e deglutì rumorosamente. «Mi fece promettere di dartela al momento giusto. Disse proprio così, senza darmi ulteriori spiegazioni, ma penso che quel momento sia arrivato».
Con mani tremanti Alex afferrò la busta e fissò il proprio nome scritto in un corsivo elegante, quasi d'altri tempi.
Il padre le accarezzò la testa ancora una volta, poi le posò un leggero bacio sulla fronte e si diresse verso il salotto, dove batté le mani per attirare l'attenzione dei ragazzini. Le parole le giunsero alle orecchie come suoni ovattati, lontanissimi, ma riuscì a captare Mark mentre si lamentava. «Nemmeno all'ospedale ci fanno andare a letto così presto!», stava dicendo.
Ciononostante il salotto fu ben presto vuoto, fatta eccezione per Rufus, la signora Chapman e Abigail. Alex decise di rimandare l'apertura della lettera di sua madre per salutare la propria damigella d'onore.
Daisy si alzò dalla poltrona non appena la vide arrivare e come se le avesse letto nel pensiero disse che sarebbe andata a prepararsi una tazza di tè, lasciando loro un po' di privacy. Quindi Alex prese il suo posto e allungò un braccio per far sì che la ragazzina le stringesse una mano.
«Il destino vi chiama?», le chiese Abby, continuando a fissare le danzanti lingue di fuoco nel camino.
«Già».
«Qualche idea su come andrà a finire?».
Alex si passò la lingua tra le labbra, chinando il capo. Sapeva troppo e troppo poco allo stesso tempo.
Sapeva che Darrell sarebbe intervenuto nella battaglia brandendo Excalibur, che in qualche modo sarebbero riusciti a portare i giovani adepti di Freya dalla loro parte, e sapeva anche che avrebbero spinto il corpo senza vita di Abby sulle acque di Avalon.
I riferimenti temporali, i come e i perché mancanti, rendevano quel quadro ancora più spaventoso.
«Lo prendo come un sì», mormorò la ragazzina, chiudendo gli occhi per abbandonarsi contro lo schienale della propria sedia a rotelle.
«Ho visto anche il tuo futuro», rivelò alla fine, sentendo un macigno caderle sul petto. «E non so quando accadrà né come fare a fermarlo. Io...».
«Certe cose non si possono cambiare», la interruppe Abby, guardandola in viso per la prima volta. Rinsaldò la presa sulla sua mano e le rivolse persino un mezzo sorriso, aggiungendo: «Non si può sfuggire per sempre alla morte. A meno che tu non ti chiami Merlino, ovviamente. Lo sai che mi ha detto di aver imparato a ballare alla corte di Pietro I di Russia?».
Alex, nonostante le lacrime, fu contagiata dalla sua risata. Si appoggiò alla sua spalla e si lasciò accarezzare i capelli mentre pian piano il proprio respiro tornava regolare.
«Che cos'hai lì?», le domandò ad un tratto Abigail, indicando la busta che stringeva in una mano.
«Oh, è... è una lettera di mia madre».
«Tua madre?».
«Sì, a quanto pare l'ha consegnata a mio padre, perché la custodisse per me, pochi giorni prima di morire».
«Ma un aneurisma non è prevedibile. Come...?».
Le due si scambiarono un'occhiata, realizzando che invece era stato previsto grazie alla magia.
«Tua madre sapeva che sarebbe morta, eppure non ha fatto niente», disse piano Abigail, accarezzandole la mano. «Sapeva che la sua storia doveva finire perché la tua potesse iniziare».
Alex abbassò il capo verso la lettera e non riuscì più a rimandare: doveva sapere ciò che sua madre le aveva lasciato.

Bocciolo mio,
se stai leggendo questa lettera vuol dire che io non ci sono più. Non so quanto tempo sia passato, se pochi giorni o anni. Tuo padre è un uomo buono e spero abbia scelto il momento giusto per consegnartela, come spero che tu sia riuscita a perdonarlo per i suoi errori.
Ti chiederai perché ho organizzato tutto questo: ciò che stai per leggere ti cambierà la vita e ora, nel tempo in cui sto scrivendo queste parole, non sei pronta. Spero che ora tu lo sia, perché in ogni caso non potrai più guardare il mondo allo stesso modo.
La magia esiste, amore mio. È la linfa vitale del mondo e scorre in ogni cosa: la terra, l'acqua, il cielo. È ciò che mantiene in equilibrio gli elementi, l'ingrediente segreto della formula che nessuno scienzato potrà mai scoprire o comprendere appieno.
Riesci ad immaginare che cosa accadrebbe se all'improvviso venisse a mancare? Il contrario dell'equilibrio è il caos, della vita è la morte. Il pianeta collasserebbe su se stesso. Ed è quello che sta accadendo, purtroppo.
È da tempo che la nostra famiglia - mia madre, suo padre prima di lei e così via - si impegna per riparare i danni creati dall'assenza della magia in ogni parte del mondo. Non ti ho mai raccontato nulla del mio passato e nemmeno tuo padre ne sa molto. La maggior parte delle persone non è in grado di capire il compito che ci è stato affidato secoli orsono, quando il mago Merlino ha rinnegato la propria natura, dando così inizio alla catena di eventi che ci ha portati fino a qui.
Ho fatto più volte il giro del mondo con mia madre, tentando di prevenire quanti più disastri possibili e quando era troppo tardi limitandoci a rattoppare gli squarci, ma ho smesso quando ho conosciuto l'amore, la mia anima gemella: tuo padre. La nonna si oppose in ogni modo, diceva che sposarmi non faceva parte del mio destino. Come puoi immaginare, la ignorai. E quando tu venni alla luce ebbi la certezza che eri tu il membro della nostra famiglia che avrebbe incontrato il nostro antenato più famoso: Artù Pendragon.
Ti ricordi della leggenda che ti raccontai quando tua nonna stava morendo? Eri solo una bambina e scoppiasti a piangere, spaventata. Non devi esserlo, amore mio.
La nostra famiglia discende proprio da Artù, il primo cavaliere della Tavola Rotonda, il solo ed unico re, nato dalla magia e morto per via della stessa.
È stato profetizzato che un giorno, quando Albione avrà più bisogno, i cancelli di Avalon si apriranno e lui ritornerà. Insieme a lui dovremo combattere perché la magia torni nel mondo nel modo giusto, evitando che persone malvagie la utilizzino per i propri scopi. La magia non è cattiva Alexandra, lo è solo se chi la utilizza non è puro di cuore.

È stato anche detto che sarà grazie ad un nostro sacrificio che il mondo vivrà in pace e in armonia.
Le profezie non sono mai complete, né dettagliate. Mi dispiace non poterti dire di più, mi dispiace non essere lì con te in questo momento. Ma so che la profezia riguarda te, che il tuo destino è quello di riportare la magia nel mondo, che il sacrificio che dovrai compiere ti sembrerà insostenibile.
Non mi pento del mio amore per Edwin, non mi pento di averti dato alla luce. Mi dispiace solo che sia tu a dover affrontare tutto questo. Ti ho sempre detto di seguire il cuore, di lottare per realizzare i tuoi sogni, ed è quello che voglio che tu faccia anche ora: il peso che ti grava sulle spalle è inimmaginabile, ma sentiti libera di fare quello che credi sia più giusto, bocciolo mio. Sei il mio orgoglio e so che riuscirai a piegare il destino al tuo volere.
Ti voglio bene, te ne vorrò sempre. E quando il giorno verrà, ci ricongiungeremo nel regno di Avalon.

La tua mamma,
Ellen

 
Alex chiuse gli occhi alle lacrime e si piegò in avanti per contenere il dolore che sentiva nel petto, la lettera di sua madre accartocciata tra le mani.
Sua madre... Una persona conosciuta a metà, i cui segreti le avevano permesso di vivere un'infanzia e un'adolescenza normali e che, al contempo, le avevano impedito di conoscerla veramente. Non riusciva nemmeno ad immaginarsela alle prese con la magia.
La sera precedente suo padre aveva detto che Ellen sarebbe stata orgogliosa di lei se l'avesse vista in quel momento, ad un passo dallo sposarsi con Merlino. E lei stessa si era detta più volte che se l'avesse conosciuto l'avrebbe adorato. Ora aveva i suoi dubbi in merito. Nella sua lettera l'aveva menzionato solo una volta, definendolo colui che aveva rinnegato la propria natura, causando la serie di eventi che le aveva portate fino a lì.
Lui era il motivo per cui la sua famiglia, generazione dopo generazione, si era impegnata per proteggere il precario equilibrio del mondo; il motivo per cui sua madre era stata costretta a viaggiare per il mondo senza mai sentirsi a casa; il motivo per cui si era dovuta scontrare con la nonna per avere un briciolo di normalità; il motivo per cui il suo bocciolo si ritrovava con un peso inimmaginabile sulle spalle.
Conoscendo tutto questo, davvero l'avrebbe adorato? Alex non lo sapeva, non l'avrebbe mai saputo. Quello che sapeva era che il destino le aveva portate in quel paesino dimenticato da dio - uno dei fulcri della magia, - che sua madre era morta senza aver mai incrociato lo stregone e che lei si era ritrovata ad innamorarsene, a sposarlo e a portare in grembo suo figlio. E ora, com'era stato predetto e voluto dai custodi della magia, Alex avrebbe dovuto compiere il sacrificio supremo per salvare il mondo e tutte le persone che vi abitavano, compresi suo padre, i suoi amici e il suo bambino: uccidere Merlino perché la sua maledizione si rompesse e la magia ristorasse l'equilibrio del mondo.
Un ruggito di dolore le sfuggì dalle labbra e Abby si sporse immediatamente su di lei, circondandola con le braccia e posando la guancia sulla sua schiena.
«Andrà tutto bene», le sussurrò, cercando di rassicurarla.
In quel momento arrivò anche Cathleen, la quale si avvicinò con cautela e si inginocchiò proprio davanti ad Alex, dando le spalle al camino.
Le posò una mano sul ginocchio, accarezzandolo piano. «Ehi».
Anche lei si era cambiata per lo scontro: anfibi, pantaloni di pelle nera, felpa di una band metal sconosciuta e trench con le borchie.
«Non sei sola, okay? Ci siamo noi».
«Proprio così. Noi tre possiamo salvare il mondo».
«Coraggio, Forza e Magia».
Alex alzò finalmente il capo e rivolse un tiepido sorriso alle amiche per far credere loro che stesse meglio. Non avevano bisogno dei suoi drammi in quel momento. Si alzò dalla poltrona e con la magia fece volare la lettera appallottolata di sua madre nel camino, poi si chinò nuovamente su Abby e la strinse in un abbraccio.
«Non puoi proteggermi per sempre», sussurrò la ragazzina. «Ma puoi essere l'eroina che sei destinata a diventare».
«Eroina? Ti stai sbagliando, Abby».
«Un vero eroe non si misura dalla grandezza della sua forza, ma dalla forza del suo cuore».
«E questo chi l'avrebbe detto?».
«Hercules, nel cartone della Disney».
Alex si sollevò, ridacchiando, e Cathleen si avvicinò a lei per avvolgerle un braccio intorno alle spalle.
«Continua a lottare, okay? Promettimelo».
La ragazzina sorrise ed annuì. «Fino alla fine».
«Bene. Allora andiamo».
Alex e Cathleen si diressero verso l'ingresso e prima di chiudersi la porta alle spalle sentirono Abigail gridare: «Non voglio mettervi pressione, ma il mondo intero conta su di voi!».

***

Merlino scese dalla Pininfarina e raggiunse Darrell davanti al cofano della volante, dove aveva aperto una grossa mappa con una X segnata in rosso sul posto che Freya gli aveva mostrato l'ultima volta che erano stati in contatto.
«Dove siamo?», domandò Cathleen piegando le braccia dietro il collo per farsi un massaggio. Ben presto anche Artù e Alex li raggiunsero per dare un'occhiata alla mappa.
Dall'agriturismo avevano guidato in direzione della città di Caerleon, l'avevano superata senza rispondere alle domande dell'ex sovrano in merito al sito archeologico - non era il momento adatto per rivelargli che quello era tutto ciò che era rimasto del castello di Camelot - e poi si erano diretti a nord. Dopo quarantacinque minuti di nervosi silenzi si erano finalmente fermati di fronte alla...
«...Mynydd Du Forest. Da qui dobbiamo proseguire a piedi per raggiungere il luogo d'incontro», spiegò Darrell.
Merlino fissò gli alberi oltre la barriera di metallo, l'espressione vacua, persa nei ricordi. Erano passati quasi millecinquecento anni, eppure ricordava quel giorno come se fosse stato ieri. Ogni dettaglio, ogni odore, ogni rumore... impressi a fuoco nella sua memoria. Si era promesso che non sarebbe mai tornato nel luogo in cui non era riuscito a salvare Artù e a cambiare la profezia, ma erano proprio lì che erano diretti.
Freya... A che gioco stai giocando?
«Merlino? C'è qualcosa che non va?».
Lo stregone si voltò e guardò sua moglie, poi si rivolse all'agente Fisher: «Sei sicuro che sia questa la strada?».
«Al cento percento», rispose con stizza, infastidito che non si fidasse di lui. «Freya si trovava in una foresta durante il rituale e sono certo che sia questa».
«La stessa foresta dove ha trovato la spada di Mordred?», chiese Artù, portandosi istintivamente una mano sul costato.
«Così pare».
«Mi chiedo per quale motivo ne abbia bisogno», intervenne Cathleen. «Ha la magia dalla sua parte, a che cosa le serve una spada?».
Merlino si girò nuovamente verso la foresta e con voce lontana spiegò: «Quella non è una spada qualunque: prima della battaglia di Camlann, Morgana l'ha immersa nel fuoco di Aithusa perché potesse contrastare Excalibur. Si tratta di una spada magica, nessuno può sopravvivervi: né mortali né immortali».
«Stai dicendo che vuole usarla su di te?».
Lo stregone abbozzò un sorriso, alzando lo sguardo verso il cielo. «Non c'è altro modo per uccidermi».
Alex lo placcò da dietro, stringendogli le braccia intorno al busto ed immergendo il viso tra le sue scapole.
«Non lo permetteremo», sussurrò, e Merlino si domandò se stesse parlando al plurale per Artù e Cathleen o per la bambina che portava in grembo. Forse per tutti.
Fece in modo di ritrovarsi davanti a lei e le sorrise prima di prenderle il volto tra le mani e baciarla sulla fronte. Poi si rivolse al resto del gruppo: «Dobbiamo muoverci se vogliamo arrivare al punto d'incontro prima dell'alba».
Il mago aprì il bagagliaio della propria auto e tirò fuori un paio di zaini che aveva preparato all'agriturismo, contenenti acqua e cibo e dei kit di sopravvivenza che avrebbero fatto loro comodo durante il viaggio che li attendeva. In una terza borsa c'erano invece dei pezzi di armatura essenziali che aveva iniziato a portare sempre con sé per ogni evenienza: gorgiere, spallacci, maglie di ferro, bracciali.
«Mi dispiace di non aver preso il tuo bustino di ferro», si scusò Merlino, ma Alex gli rivolse un sorriso quasi compiaciuto e lo tirò fuori dalla propria borsa.
Mentre Artù, Cathleen e Alex indossavano le armature, Darrell per non sentirsi inadeguato controllò le proprie armi: la pistola d'ordinanza col caricatore pieno, il teaser, il manganello. Alzò il capo quando sentì Merlino ridacchiare, appoggiato sul bordo del bagagliaio.
«Quelle armi non ti serviranno contro la magia».
Darrell strinse i denti. «Almeno io non me ne vado in giro con un cappello a punta sulla testa, stregone».
Avrebbe potuto rispondergli non ne aveva mai posseduto uno, ma preferì evitare: stavano per scendere sul campo di battaglia e crearsi un nemico interno non era una mossa saggia.
Alla fine, Merlino tirò fuori Excalibur per Alex, un'altra spada per Artù e un arco con faretra per Cathleen. L'ex re aprì la bocca per chiedergli come lui si sarebbe difeso ad un eventuale attacco, quando Merlino si chinò un'ultima volta nel bagagliaio e tirò fuori un lungo bastone un po' ricurvo e dal manico intagliato in una spirale. Si vedeva che era stato fatto da una mano non troppo esperta, vista l'imprecisione e la scarsità di dettagli. Ciò nonostante, non appena Merlino ne fece toccare l'estremità sul suolo, Artù provò lo stesso tuffo al cuore che aveva provato quando aveva visto la sua versione più anziana scagliare fulmini contro i Sassoni, proprio quando l'esito della battaglia sembrava ormai scritto. La speranza e il timore reverenziale si mescolarono in un grumo che gli impedì di parlare, mentre le sue ginocchia tremanti fecero quello che a causa dell'orgoglio e dei pregiudizi non era riuscito a fare allora: si piegarono in un inchino per lo stregone più potente di tutti i tempi.
«Che diavolo...?», domandò allibito Darrell, fissando la scena ad occhi sgranati.
Merlino abbassò solennemente il proprio bastone sopra il capo di Artù, ma all'ultimo momento sogghignò e gli diede un colpo in testa.
«Ahia! Merlino, ma sei impazzito?!», urlò il solo ed unico re, portandosi una mano sul punto dolorante.
«Ah, suvvia! Con la testa dura che vi ritrovate non l'avrete nemmeno sentito».
Lo stregone gli porse una mano e Artù la fissò, imbronciato e sospettoso, fino a quando non gli disse: «Andiamo, ci aspetta un'ultima battaglia. Finalmente fianco a fianco, senza doverci nascondere».
Artù sorrise e l'afferrò per alzarsi.

***

La foresta era fitta, così fitta che la luce della luna non riusciva a penetrare tra le fronde degli alberi. Alex si era offerta di fare un po' di luce, ma Merlino l'aveva convinta a risparmiare le energie per il confronto con Freya. Artù ne era stato sia grato che innervosito: per quanto volesse che la sua erede non usasse la magia, gli avrebbe fatto più piacere trovare un modo per impedirle di combattere in prima linea.
Quando finalmente uscirono dalla Mynydd Du Forest, la luna mostrò loro i fianchi infiniti della vallata e le cime delle altre alture. Artù sentì un brivido percorrergli la spina dorsale a quella vista: aveva come la sensazione di esserci già stato, ma non poteva fare affidamento sulla propria memoria.
«Okay, da qui dovremmo proseguire in... quella direzione», esclamò Darrell, il volto nascosto dietro la mappa e il dito puntato verso un sentiero per le pecore.
«Metti via la mappa, Darrell», rispose stancamente Merlino, guardando l'orizzonte col bastone stretto in mano e i capelli bicolore mossi dal vento. «So perfettamente dove Freya vuole incontrarci».
Artù a quel punto non poté più ignorare la propria intuizione: se Merlino e Freya conosceva il posto, doveva conoscerlo per forza anche lui. Si avvicinò a Darrell di gran carriera e gli strappò la mappa di mano per osservarla alla luce della luna. Una scritta lo colpì più delle altre: Black Mountains. Quindi guardò con più attenzione la morfologia del terreno e nonostante fossero passati secoli, riconobbe senza ombra di dubbio il posto in cui si stavano dirigendo.
«La pianura di Camlann. È lì che stiamo andando, non è vero? Un tempo queste si chiamavano "White Mountains", ma per qualche motivo...».
«Il nome è cambiato dopo la vostra morte, per il lutto», spiegò Merlino in tono lugubre. Quindi senza accertarsi che lo stessero seguendo, lo stregone riprese il cammino.
Le montagne erano molto cambiate da quando le aveva attraversate per l'ultima volta, ma non era una sorpresa: il tempo, l'erosione, i cambiamenti climatici avevano reso docili quelle terre ostili, con panorami bellissimi per gli appassionati di trekking.
Nessuno di loro era propriamente attrezzato per una camminata del genere e nonostante Cathleen non avesse aperto bocca era lei che stava soffrendo di più: il suo respiro affaticato e l'espressione contratta del viso aveva più volte costretto Artù a rallentare per starle accanto.
Avevano percorso due delle quattro miglia che li separavano dalla pianura, quando un gruppo di cavalli allo stato brado attraversò loro la strada. In quella zona non c'era molto da brucare e dal modo in cui li guardavano sembrava quasi che li stessero aspettando.
«Sono cinque, proprio come noi. Un regalo da parte di Freya?», domandò Alex, sospettosa.
«Io posso continuare a piedi», esclamò Cathleen prima di sedersi su una roccia sporgente, il volto paonazzo e il fiato grosso.
Merlino si avvicinò al cavallo più vicino, una femmina dal manto candido come la neve e la criniera che le copriva gli occhi. Stese una mano e la puledra nitrì: lei e i suoi compagni fecero dietro front e si allontanarono al galoppo, nella speranza di allontanarsi il più possibile dagli umani che avevano interrotto il loro spuntino.
«Okay, solo una coincidenza», scrollò le spalle Alexandra.
Artù aspettò di rimanere da solo con Cathleen e le posò una mano sulla spalla, facendo in modo che alzasse il viso: le sue guance infiammate gli ricordarono la prima volta che avevano fatto l'amore e dovette sforzarsi per non eccitarsi. Non era proprio il momento.
«Forse faresti meglio a rimanere qui», disse piano, sorridendole.
Le sue sopracciglia si aggrottarono. «Assolutamente no! Ti ho promesso che avrei lottato al tuo fianco e lo farò, anche a costo di perdere un polmone».
Cathleen si alzò in piedi e Artù l'afferrò per la vita e la baciò: poteva essere l'ultima volta, dopotutto.
«Qualsiasi cosa succeda a Camlann», mormorò, sistemandole delle ciocche di capelli rossi dietro le orecchie. «Voglio che tu sappia che trascorrere tutti quegli anni ad Avalon è valsa la pena: ho potuto conoscere te».
Il paramedico sorrise, sfiorandogli il naso con un dito. «Ho anche promesso che ti proteggerò, perciò stai tranquillo: non fallirò».
«Sei tale e quale a Gwaine», ridacchiò. «Andiamo, prima che ci distanzino troppo».
Mano nella mano si avviarono verso la pendenza dietro cui erano spariti i loro amici.
«Aspetta, chi è Gwaine?», domandò ad un tratto Cathleen, facendolo ridere nuovamente.

***

Alex poteva percepire la tensione che aleggiava tra Merlino e Darrell, perciò tentò di concentrarsi il più possibile sulla strada e sul panorama, pensando che non le sarebbe dispiaciuto trascorrere la luna di miele viaggiando in quel modo, con uno zaino sulle spalle. Non ne avevano mai parlato, visto che avevano questioni più urgenti di cui occuparsi, ma se tutto si fosse risolto nel migliore dei modi con Freya, allora, magari...
Sospirò, scuotendo il capo. Come poteva essere così ingenua? Come poteva, dopo tutto quello che i custodi della magia avevano architettato? Come poteva, dopo aver letto la lettera lasciatale da sua madre?
«Merlino?».
Lo stregone la guardò, e così fece Darrell alla sua destra. Alex lo ignorò, accarezzandosi la fede.
«Tu hai mai conosciuto mia madre?».
«Tua madre? No, te l'avrei detto altrimenti».
«Sì, scusami, è stata una domanda stupida», rispose con un lieve sorriso.
«Se me l'hai fatta non la ritenevi tale. Di che si tratta?».
L'infermiera si chiese se fosse il caso di rivelargli la seconda vita di sua madre, l'obiettivo della sua famiglia: in un certo senso, era stata incaricata di porre rimedio al pasticcio di Merlino, e questo li rendeva all'improvviso di due fazioni opposte. Ma prima di tutto, lei e Merlino erano moglie e marito.
Lo prese per mano e ad aggrappandosi al suo braccio gli raccontò tutto ciò che aveva appreso quando suo padre le aveva consegnato la lettera di Ellen.
Il mago fu sorpreso dall'ennesimo colpo di scena, ma nemmeno troppo.
«Ma certo, avrei dovuto capirlo», mormorò, guardando il terreno di fronte a sé. «Sapevo che c'era qualcuno che stava cercando di ristorare le fonti magiche nel mondo, ma non mi sono mai interessato più di tanto: conoscevano la teoria, tuttavia nessuno possedeva un potere simile al tuo».
«Pensavo fosse ereditario», esclamò Alex, confusa.
«Oh sì, lo è. La magia è qualcosa con cui si nasce. Essere uno strumento per cui possa manifestarsi, però, è tutto un altro paio di maniche. Ci vogliono persone forti, capaci di mantenere il controllo, consapevoli delle proprie capacità».
«Nel bene e nel male?».
«Nel bene e nel male. Come ho detto secoli orsono: la magia non è cattiva, lo è solo se chi la utilizza non è puro di cuore».
Alex sentì un dolore improvviso nell'esofago, come se la propria saliva si fosse trasformata in acido corrosivo. «Sono le stesse parole che ha usato mia madre nella lettera», gracchiò.
Merlino sorrise e le posò una mano sulla base del collo per avvicinarla a sé e poterle baciare la fronte. «Ti giuro di non aver mai conosciuto tua madre».
Questo non voleva dire che durante i secoli non avesse conosciuto un suo avo, ma come avrebbe potuto saperlo? Avrebbe dovuto mostrargli tutto il proprio albero genealogico, ma costruirne uno a partire da Graalmir Pendragon era a dir poco impossibile. Inoltre, avrebbe sempre potuto dirle di non ricordarsi di tutte le persone che aveva incontrato nella sua lunghissima vita e lei sarebbe rimasta con un pugno di mosche. Non poteva fare altro che fidarsi, come una brava moglie.
Aprì la bocca per dirgli che gli credeva, ma Darrell si era allontanato - per dare loro un po' di privacy forse - e incuriosito si era messo ad osservare un cairn, senza però resistere alla tentazione di toccare una delle pietre impilate.
«Dannazione, Darrell! Non è un jenga gigante!», lo rimproverò Merlino, spingendolo via con una manata e contemplando il disastro: la parte esposta a nord si era completamente sfaldata e una valanga di pietre giaceva a terra.
«Mi dispiace, io...», balbettò il poliziotto, provando ad avvicinarsi per rimediare all'errore, ma Merlino lo fulminò con lo sguardo, per poi guardare Alex con espressione allibita. La domanda che avrebbe voluto porgerle era fin troppo chiara: «Davvero ti piaceva questo qui?».
«Ehi, perché ci siamo fermati?», chiese Artù, raggiungendoli insieme a Cathleen. Gli bastò dare un'occhiata al cairn però per azzittirsi ed assumere un'aria preoccupata. «Chi è stato?».
Sia Alex che Merlino indicarono Darrell, il quale iniziò a ridacchiare dicendo: «Ehi, ma è così grave? Sono solo delle pietre impilate!».
«No, invece», intervenne Alex. «Si tratta di un'antica lapide: qualcuno l'ha costruita per piangere la morte di qualcuno. E tu... tu l'hai dissacrata».
«Ah, se una mano scheletrica uscisse dal terreno per afferrarlo io scappo, sappiatelo», sussurrò Cathleen, stringendosi le braccia al petto come se avesse freddo.
«Non succederà nulla del genere», sospirò lo stregone, alzandosi con l'aiuto del proprio bastone. «Però...».
«Se stai per dirmi che avrò sette anni di sfiga o cose del genere lascia perdere», sbottò l'agente Fisher. «Data la situazione in cui mi trovo, non credo che possa andarmi peggio. E ora muoviamoci, non manca molto all'alba».
Dopo l'incidente del cairn sepolcrale nessuno era in vena di chiacchierare, perciò percorsero le ultime due miglia in direzione sud-est in perfetto silenzio. Alex era parecchio inquieta - la battaglia con Freya non era ancora iniziata e uno di loro si era già beccato una maledizione - ma cercò di nascondere le proprie paure, come un bravo cavaliere di Camelot.
Il cielo esitava ancora a rischiararsi, quando raggiunsero la sommità di Waun Fach - a 2660 piedi d'altitudine - e Freya li accolse aprendo le braccia, come una vecchia amica.
Quella montagna era diversa dai soliti stereotipi: non aveva una punta vera e propria, ma un grande cratere ricoperto di torba, a cui centro si stagliava un masso che contraddiceva ogni legge della fisica stando in equilibrio su una sporgenza. Se avesse potuto sorvolare l'area avrebbe avuto ancora di pù la percezione che qualcosa fosse atterrato su quella cima e che l'impatto avesse formato il cratere, ma poteva anche sentire una specie di elettricità solleticarle le piante dei piedi, perciò... che fosse stata la magia a crearlo?
«Panorama stupendo per la battaglia finale, non trovate?».
Alex aveva visto fin troppe vallate, fin troppe foreste, perciò si concentrò su Freya e sui ragazzi alle sue spalle, quelli che Darrell aveva visto nei suoi "sogni": Jake, coi suoi capelli castani arruffati e il viso sciupato per la mancanza di sonno; le sorelle gemelle dai voluminosi capelli arancioni e i bomber fluorescenti; l'allampanato senzatetto coi capelli biondo pallido, praticamente bianchi sotto la luce lunare, gli abiti sporchi e consunti, il trench nero pieno di toppe; infine, la ragazza di origini africane, alta, snella e dallo sguardo quasi felino.
«Lo sappiamo che non ci hai portato qui per il panorama», digrignò i denti Merlino, avanzando di un passo.
«Mi hai scoperto». Freya alzò le mani con un ghigno beffardo sul volto. «Avevo pensato ai resti di Camelot, dove sono morta io, ma poi ho pensato che sarebbe stato più divertente farti tornare qui, dove hai dato tutto te stesso per vincere la battaglia e ciononostante hai perso la guerra. Non sei riuscito ad impedire a Mordred di infilzare il tuo migliore amico... tu, il più grande mago di tutti i tempi, hai fallito. Cosa ti fa pensare che questa volta sarà diverso?».
Merlino abbassò il capo e strinse forte la mano di Alex, per poi sollevala e urlare, pieno d'orgoglio: «Perché questa non è la mia storia! Alex riuscirà dove io ho fallito, ne sono certo».
Il peso che aveva sulle spalle triplicò, ma l'infermiera lo sostenne e riuscì persino a sorridere a Freya, la quale si era incupita. Al contrario di ciò che pensava però, il motivo non era lei, bensì Darrell.
«Ti avevo detto di dare a Merlino le indicazioni per raggiungermi, non di accompagnarlo qui», disse piano, un'espressione indecifrabile sul volto: un mix di rabbia, paura, ansia e amore.
L'agente Fisher avanzò, superando addirittura Merlino, e con tono gentile disse: «Pensavo davvero quello che ti ho detto l'altra sera: possiamo ancora essere felici insieme. Andremo via da qui, dove nessuno ci conosce, ci prenderemo una casa...».
«Mi dispiace Darrell, ma ho già sentito queste parole. E visto com'è andata l'altra volta, non credo sia il caso». Si girò verso la ragazza di colore e disse: «Hanna, ti dispiace immobilizzarlo? Non voglio essere costretta a fargli del male».
La ragazza si acquattò, con le mani posate sulla terra, e con gli occhi che risplendevano della caratterisca sfumatura dorata sussurrò: «Gehaeftan».
Alex sguainò Excalibur e provò a correre da Darrell per difenderlo dalle radici che all'improvviso gli erano comparse intorno alle caviglie e lentamente si inerpicavano sul suo corpo per avvolgerlo in un bozzolo, ma venne intercettata da un'onda di energia che la spinse a qualche metro di distanza, con Excalibur abbandonata al suo fianco.
«Alex! Alex, stai bene?», esclamò Merlino, gettandosi al suo fianco e scostandole i capelli dalla fronte.
L'infermiera mugulò dal dolore, sollevando il capo quel tanto che bastava per vedere Jake abbassare le mani e cercare l'approvazione di Freya.
«Ottimo lavoro», gli disse quest'ultima, sorridendo. Quindi si rivolse di nuovo a Merlino, indicando i ragazzi alle sue spalle: «Allora, che te ne pare? Li ho addestrati bene, non trovi?».
Lo stregone digrignò i denti ed aiutò Alex ad alzarsi, mentre Artù e Cathleen si facevano avanti per proteggerli.
«Ti ho fermata una volta, lo farò di nuovo!», gridò l'ex sovrano prima di lanciarsi all'attacco con la spada sollevata sopra la spalla.
Freya sorrise tranquilla, forse sapendo che i suoi adepti l'avrebbero protetta, e così accadde. Le due ragazzine stesero le mani avanti e in perfetta sincronia gridarono: «Forbearnan!». Immediatamente una striscia di fuoco impedì ad Artù di avvicinarsi oltre, anzi lo costrinse ad arretrare.
Cathleen incoccò una freccia, ma Merlino le impedì di scoccarla abbassandole l'arco.
«Non possiamo fare loro del male, sono sotto l'incantesimo di Freya», spiegò.
La dama del lago scoppiò a ridere, eccitata. Si interruppe però quando una voce intrisa di rabbia la sovrastò, lanciando un incantesimo che spense il fuoco.
Alex respirò profondamente e strizzò gli occhi, cercando di recuperare le energie. La battaglia non era nemmeno iniziata e lei era già affaticata - non un buon segno.
«E va bene, basta scherzare», esclamò la ragazza druida. Alzò una mano con sufficienza e diede loro spalle, aggiungendo: «Fate del vostro meglio, rendetemi orgogliosa».
«Hai intenzione di rimanere a guardare?», gridò Artù, oltraggiato. «Non sapevo fossi una tale codarda, Freya!».
Lei si limitò a sorridere e sedendosi ai piedi del masso guardò i propri maghi cimentarsi nei loro migliori attacchi.
Il primo arrivò dalle gemelle, le quali scagliarono delle palle di fuoco nella loro direzione. Alex si parò di fronte agli amici e gridò: «Shieldan!». Le sfere si infransero contro lo scudo magico eretto da Alexandra, ma non riuscì a tenerlo attivo per molto tempo. Quando l'effetto si esaurì, l'unica cosa che poterono fare fu quella di correre via per non venir abbrustoliti. Nel contempo, Hanna decise di metterci del suo: radici simili a quelle che avevano intrappolato Darrell uscirono dalla terra e provarono a raggiungere le loro gambe come serpenti, ma Artù riuscì a renderne inerte la maggior parte, tagliandole di netto con la sua spada.
«Non so che cosa vi abbia detto Freya, ma sappiate che state sbagliando a mettervi contro di noi!», gridò Merlino nel tentativo di riportare quei ragazzi alla ragione. «Noi siamo i buoni!».
«Ah sì?», domandò Jake, sistemandosi gli occhiali sul setto nasale. «E perché "i buoni" dovrebbero impedire il ritorno della magia, impedire a noi di essere ciò che siamo? Tu, Merlino, tu più di tutti dovresti capire com'è vivere a metà».
«Ma allearsi a Freya è sbagliato!», tentò di difenderlo Alex, col fiatone, ma Merlino le portò un braccio davanti al petto come a volerla nascondere dietro la propria ala.
«Hai ragione, Jake. So perfettamente come ci si sente. Ma so anche che fidarsi delle persone sbagliate può essere disastroso. Noi non abbiamo nulla contro di voi, dovete credermi. Stiamo cercando di impedire a Freya di riportare la magia nel mondo perché il suo metodo non funzionerebbe: se un potere del genere finisse nelle mani sbagliate, i danni sarebbero enormi».
«Stai dicendo che se ti consegnassimo Freya ti sacrificheresti di tua spontanea volontà?».
La dama del lago alzò di scatto il capo, gli occhi saettanti per la piega che stava prendendo quella conversazione.
Alex sentì la fiamma della speranza tornare ad ardere dentro di lei: Freya temeva che i maghi che aveva addestrato la tradissero, perciò se fossero davvero riusciti a portarli dalla loro parte avrebbero avuto qualche chance di fermarla. D'altro canto, però...
«Merlino, no», sussurrò, stringendogli la mano. «Hai promesso di invecchiare al mio fianco, ricordi?».
Lo stregone strinse le labbra, guardando Jake e gli altri ragazzi.
«Merlino non farà mai una cosa del genere», si intromise Freya, di nuovo sorridente. «Ama troppo la sua mogliettina per lasciarla. Sta solo cercando di mettervi contro di me, come un bravo stratega. Alla fine hai davvero imparato qualcosa da Artù Pendragon».
«Artù... Pendragon», ripeté con voce spiritata il clochard, i suoi grandi occhi verdi fissi sull'ex re di Camelot. Anche gli altri ragazzi manifestarono la loro sorpresa con mormorii ed occhiate, ma la reazione del biondo fu quella più strana: strinse i pugni lungo i fianchi e piegò il capo verso sinistra, le labbra che tremavano leggermente.
Freya serrò la mascella e guardandolo con la coda dell'occhio gli chiese: «Qualcosa da condividere, Elijah?».
Il ragazzo urlò di dolore e cadde sulle ginocchia, le dita sulle tempie. «No, nulla», gracchiò e poi sospirò di sollievo, quando la presa di Freya sulla sua mente si sciolse. Senza fare movimenti bruschi, alzò di nuovo gli occhi su Artù e i due si scambiarono un'altra serie di sguardi che Alex non riuscì a decifrare per via della maschera di impassibilità sul volto dell'antenato.
«Jake?», lo incalzò Freya, invitandolo a riprendere da dove aveva interrotto.
L'ex cameriere della Caffetteria Begum stese le braccia e gridò con rabbia: «Svelt!».
Uno dei pugnali che portava in vita si sguainò da solo, come animato, e sfrecciò verso Merlino, così velocemente che Alex non ebbe nemmeno il tempo per formulare un incantesimo di difesa. Per fortuna Merlino aveva dei riflessi eccezionali e riuscì a sollevare il bastone in modo che il pugnale trafiggesse quello anziché la sua fronte.
Prima che Jake potesse ripetere l'incantesimo con altre armi, Alex lo stese con un «Astrice». Peccato però che in quel modo attirò su di sé gli attacchi delle tre ragazze. Per qualche assurdo motivo, Elijah non aveva ancora fatto nulla, tenendosi in disparte. Che Freya gli avesse impedito di mostrare il suo potenziale per potersene servire in caso di emergenza?
Le due sorelle prepararono le loro palle di fuoco, mentre Hanna si concentrò tanto per controllare la terra che avevano sotto i piedi che le si ingrossò una vena sulla fronte. La situazione stava davvero per degenerare, quando un'improvvisa nebbia li avvolse, impedendo a tutti di vedere aldilà del proprio naso.
Alex trovò facilmente la mano di Merlino e lo seguì fino a ritrovarsi inginocchiata al fianco di Artù e Cathleen.
«Io non sono esperta di montagne, ma non credo sia normale», esordì a bassa voce Cathleen.
«Si tratta di un diversivo», spiegò Artù.
«Come fai a saperlo?».
«Me l'ha detto Elijah».
Alex corrugò la fronte e finalmente capì il motivo di quelle occhiate. «Ma certo, ti ha parlato col pensiero! È un druido!».
Artù annuì, ma non fece in tempo ad aprire bocca che Cathleen domandò: «E perché ci starebbe offrendo un diversivo?».
«Perché non vuole che Freya si impossessi del potere di Merlino. Ricordate che cos'ha detto Darrell, che ha trovato la spada di Mordred? Beh, la magia nera di quella spada ha alimentato la sua sete di riscatto: vuole ancora costruire un mondo pieno di magia, ma vuole tenere una parte di potere per sé per regnare sugli altri maghi, e farà fuori chiunque provi a contrastarla».
«Di male in peggio, di male in peggio», farfugliò Cathleen.
«Che cosa facciamo? Excalibur mi è d'aiuto, ma io sto già esaurendo le forze», confessò Alex, anche se non avrebbe voluto dare altre cattive notizie.
Artù si chinò ancora un po' di più verso il centro. «Okay, dobbiamo neutralizzare i maghi, però... noi non possiamo combatterli e tu non puoi farlo da sola. Non ho idea di come fare».
«Io però sì», esclamò Merlino.

***

Darrell odiava profondamente la magia, ma in quel momento iniziava a piacergli un po' di più: grazie a quella fitta nebbia poteva contorcersi indisturbato per raggiungere la propria pistola e sparare alle radici che lo stavano imprigionando senza preoccuparsi di dare nell'occhio. Una volta libero avrebbe fatto un bel discorsetto ai suoi compagni di battaglia: quando Alex era stata gettata a terra erano corsi tutti al suo capezzale, ma nessuno si era degnato di verificare le sue condizioni!
«Avanti, avanti», mormorò, sfiorando il calcio della pistola con la punta delle dita.
Era così preso che non si accorse del giovane senzatetto fino a quando non se lo ritrovò accanto. Elijah gli tappò la bocca per non farlo gridare di sorpresa e si avvicinò fin troppo al suo viso per guardarlo coi suoi enormi occhi verdi, nei quali la pupilla era così piccola da sembrare inesistente.
«Ciao Darrell», sussurrò con un largo sorriso. «Tranquillo, sono dalla tua parte».
Il poliziotto aspettò che il ragazzo allontanasse la mano ricoperta dal solito guanto senza dita per rispondere: «Lo so».
«Interessante», commentò, poi tirò fuori un coltellino svizzero piuttosto rovinato ed iniziò a tagliare le radici.
«Ci metterai un'eternità con quello! Non puoi... usare la magia?». Non credeva l'avrebbe mai detto, ma era il modo più veloce per liberarlo.
«Oh no, sto usando tutto il mio potere per mantenere la nebbia al più a lungo possibile».
«La nebbia? Stai dicendo che... che è opera tua?».
«Uhm-uhm».
«Ma come...? Tu non hai bevuto dalla Coppa, hai fatto solo finta!».
Elijah alzò di scatto il capo e i capelli scoloriti gli coprirono gli occhi, rendendo ancora più spettrale il suo sorriso. «Fantastico».
«Perché? I tuoi poteri sarebbero aumentati».
«Certo, ma sarei stato legato a Freya più di quanto lo sia già».
«Legato? Che significa?».
Darrell sentì il cuore schizzargli in gola quando il senzatetto si sollevò il maglione bucato per mostrargli il tatuaggio che aveva vicino all'ombelico: tre spirali intrecciate, il simbolo dei druidi. Era identico a quello di Freya, fatta eccezione per una linea gialla che si arrotolava sinuosa intorno alle spirali.
Voleva chiedergli se questa differenza li rendesse due tipi di druidi distinti, ma Elijah finì di tagliare una delle radici e la presa sul suo corpo si attenuò tanto da farlo sospirare di sollievo. Si era dimenticato che cosa volesse dire respirare veramente.
«Perché mi stai aiutando?», gli domandò alla fine.
Il senzatetto si scostò i capelli dagli occhi e lo fissò intensamente, quella volta senza nemmeno l'ombra di un sorriso sul volto. Darrell si ritrovò a deglutire rumorosamente, divorato dall'ansia.
«Perché tu sei l'unico che può fermare Freya, lo sai perfettamente. È per questo che sei venuto fino a qui, non è vero?».
Il cuore gli batteva furiosamente nel petto, tanto non riuscire a sentire con chiarezza quello che disse. Qualcosa sul non essere sicuro di farcela.
«Quando verrà il momento, troverai la forza. L'ho visto».
Darrell sbarrò gli occhi. «L'hai...?». Non ebbe il tempo di finire la frase a causa della forte onda di magia che spazzò via la nebbia, rivelando Elijah nel tentativo di liberarlo.
«Tu, razza di traditore!», gridò Jake, lanciandogli contro un altro dei suoi pugnali.
«Culter, ic pe hate!», rispose in fretta Elijah, bloccando la lama a pochi centimetri dal proprio occhio destro. Quindi lo afferrò per il manico e lo usò per tranciare di netto l'ultimo pezzo di radice. Darrell si liberò e tornò in piedi, estraendo subito la pistola per sparare contro Freya, incurante delle urla di Merlino. Ora non voleva nemmeno che desse una mano?!
La druida non se lo aspettava, per questo riuscì a deviare il colpo solo in parte. Il proiettile le lasciò una ferita superficiale sul braccio destro e quando alzò il capo per incrociare il suo sguardo non sembrava soffrire molto, piuttosto sembrava... impietosita.
«Darrell, fai sul serio? Le armi comuni non possono uccidermi. E poi, dovresti già sapere che ciò che ferisce me, ferisce anche te...».
Il poliziotto iniziò ad avvertire un intenso bruciore sul proprio braccio destro e in preda ad un attacco isterico si sfilò il giubbotto per vedere coi propri occhi la chiazza di sangue che si stava lentamente allargando sulla camicia che indossava.
«Che tu sia maledetta!», gridò un'Alexandra dal viso stanco e madido di sudore. Ciononostante corse al fianco del poliziotto, mentre sia Cathleen che Artù erano rimasti scioccati dalla scoperta. Probabilmente erano già arrivati alla stessa conclusione di Elijah: solo lui poteva sconfiggere Freya e per farlo doveva sacrificare se stesso.
«Non ti preoccupare cara, nemmeno io voglio veder soffrire Darrell». Freya si passò una mano sul braccio e la ferita si rimarginò, poco dopo la stessa cosa successe a quella dell'agente. «Ma non ti azzardare a farlo un'altra volta», aggiunse a denti stretti, gli occhi fiammeggianti. «Hanna, per sicurezza...».
Alex non le lasciò nemmeno terminare la frase. «Adesso!».
Cathleen, che aveva avuto tutto il tempo per incoccare una freccia dalla punta baluginante, quasi sicuramente incantata, mirò e colpì un punto del terreno davanti a loro. Freya e i ragazzini erano già pronti a deriderla, quando la freccia brillò e fu colpita da un fulmine, accecando tutti gli impreparati, Darrell compreso.

***

Elijah si era esposto perché loro avessero l'opportunità di organizzare un piano d'azione, quindi doveva funzionare ad ogni costo.
Quello che gli aveva detto mentalmente, però, continuava a deconcentrarlo.
"Non dovrei rivelartelo, ma a questo punto penso che non farà molta differenza. Verrai trafitto di nuovo dalla spada di Mordred. Mi chiedo se sia questo posto maledetto oppure se sia tu quello perseguitato dalla sfortuna".
La freccia di Cathleen attirò il fulmine e quando tutti si coprirono gli occhi, momentaneamente accecati, Artù corse in direzione di Jake e lo colpì in testa con il pomolo della spada.
E il primo è andato.
Alle sue spalle sentì il rumore di una spada che veniva sguainata e si voltò giusto in tempo per parare il colpo di Freya.
«Sei ancora in tempo per cambiare idea», le disse, guardandola dall'altra parte della V creata dalle due spade in attrito tra loro. «Nemmeno io voglio tornare nelle acque di Avalon, troveremo un modo».
«Conosco già un modo: usare il potere di Merlino!».
Mentre le loro spade cozzavano tra loro in uno scontro impari - la spada di Mordred, forgiata dall'alito di un drago, era infinitamente più forte - Alex e Cathleen si occuparono delle gemelle e della ragazza di colore.
Merlino aveva notato che ognuno dei ragazzi si era concentrato ad imparare gli incantesimi riguardanti un solo elemento, forse per problemi di tempo, perciò tutto ciò che dovevano fare per disarmarli era rendere loro impossibile sfruttarlo.
Jake controllava l'energia cinetica e si dilettava con la telecinesi, Hanna aveva indubbiamente un talento per gli incantesimi di terra e le due sorelle amavano pazzamente il fuoco. L'ex cameriere era il più pericoloso, dato che poteva lanciare loro contro qualsiasi cosa oppure respingerli con una sola parola, ed era stato ovvio per tutti che doveva essere fermato per primo.
Cathleen attirò l'attenzione delle due sorelle lanciando frecce infuocate, dicendo loro che a giocare col fuoco rischiavano di scottarsi, e Alex ne approfittò per evocare un tornado che inglobò Hanna, lasciandola con i piedi ad una spanna da terra. Senza toccarla, infatti, i suoi incantesimi non avevano presa.
«La tua discendente si sta mostrando piena di risorse», commentò Freya, sorridendo beffarda.
«Frutto di un severo allenamento».
«Già... Mi chiedo però se non stia raggiungendo il limite».
Artù gettò un'occhiata ad Alex e la trovò ancora più stravolta, coi capelli scarmigliati e profonde ombre sotto gli occhi.
«La magia di Excalibur non è infinita, sai? E lei sta continuando a prendere e prendere, senza rendersi conto che la spada si sta alimentando con la sua stessa linfa vitale. Un altro attacco, un solo, e...».
«Alexandra, no!», urlò Artù, riuscendo a respingere Freya con tanta forza da farla cadere a terra. Provò a raggiungerla, ma era troppo lontana e a causa del tornado non l'aveva nemmeno sentito.
La sua unica erede pronunciò l'incantesimo che creò due potenti geiser proprio sotto le due ragazzine, inzuppandole e rendendo inefficaci le loro magie di fuoco.
Finalmente Alex lo vide e sorrise, alzando un pollice per confermargli che il loro piano aveva avuto successo, ma lentamente il suo viso assunse un pallore mortale, le sue palpebre si abbassarono e le sue ginocchia cedettero.
Artù scivolò sulla torba e raccolse l'infermiera prima che potesse battere la testa, quindi se la strinse al petto e cercò di rianimarla, gridando il suo nome. Non c'era nessun altro rumore intorno a loro, nessuno: il tornado e i geiser erano svaniti quando Alex aveva perso i sensi, lasciando le ragazze intontite ma libere.
«Alex! Alex, ti prego apri gli occhi!».
Cathleen, Darrell e persino Elijah raggiunsero i due Pendragon. Artù non nascose nemmeno le lacrime, gridando tutto il proprio dolore per la lontana nipote e il bambino che portava in grembo.
Alzò lo sguardo verso Merlino, immobile alle loro spalle e con lo sguardo fisso verso Freya, la quale invece sorrideva maligna. Era come se lei sapesse esattamente cosa stava per succedere, come se quello fosse sempre stato il suo intento, e non vedesse l'ora.
«Merlino?».
«Sono stato uno stupido», mormorò, lasciando cadere a terra il bastone. «Avrei dovuto prevedere tutto questo. E ora non mi resta che fare il suo gioco».
«Che cosa...? Non riesco a capire», balbettò Darrell, chiedendo silenziosamente spiegazioni a Elijah, il quale scosse il capo con gli occhi sbarrati.
Prima che potesse intimargli di rinunciare però, Merlino aveva già preso Alex tra le braccia e quando iniziò a sussurrare una lunga e complicata formula entrambi brillarono di energia dorata. Ad un certo punto fu così accecante che tutti dovettero scostare lo sguardo, fino a quando non vennero addirittura sbalzati via dall'onda d'urto creata dalla dirompente magia custodita nel corpo di Merlino, parte della quale ormai era stata assorbita da Alex, ma non solo: tutti coloro che erano canali della magia ne avevano beneficiato, inclusa Freya.
Artù riaprì gli occhi sentendo la risata sguaiata della dama di Avalon, tuttavia la prima persona che cercò fu Alex: la individuò a qualche metro di distanza, sveglia e confusa, ma soprattutto sana come un pesce.
«Ah, siano ringraziati gli dei!», gridò abbracciandola.
«Che cos'è successo? Ero così stanca...».
«Hai usato troppa magia ed Excalibur stava assorbendo la tua energia vitale, ma Merlino... Merlino!».
Entrambi sobbalzarono scorgendo Merlino steso a poca distanza da loro, i capelli ormai completamente bianchi e il volto privo di espressione.
«Merlino! Mio Dio, Merlino, che cos'hai fatto?», si disperò Alex, porgendo l'orecchio sulle sue labbra per sentire se respirava, mentre controllava il polso con due dita. «È ancora vivo», sospirò di sollievo.
Elijah comparve all'improvviso davanti a loro e si tolse il trench per coprire lo stregone. «Andate, rimango io con lui», disse, per poi aggiungere accennando a Freya: «Credo che la situazione sia un tantino peggiorata».
I maghi al soldo della druida erano tutti in piedi e pieni di energia, pronti a riprendere il combattimento, e la follia negli occhi della stessa druida non presagiva nulla di buono.
«Idee?», sussurrò Cathleen, cercando di togliersi della terra dalla guancia senza alcun risultato.
Nessuno parlò, entrambi troppo orgogliosi per ammettere che si trovavano nei guai fino al collo, e fu Freya ad interrompere il silenzio.
«Bene ragazzi, siete stati bravi», esordì con un sorriso radioso, il quale ben presto prese una sfumatura diabolica. «Ma non abbastanza».
I giovani maghi la guardarono confusi, poi si accasciarono a terra svenuti mentre tutta la magia che avevano involontariamente assorbito da Merlino venne accumulata dalla dama del lago, la cui pelle iniziò persino a brillare d'oro.
Se prima avevano ben poche possibilità di batterla, ora era praticamente impossibile. E non finì lì: stese le mani davanti a sé, coi palmi rivolti verso il terreno, e la montagna intera tremò fino a che non si spaccò, permettendo a due scorpioni giganti di zampettare fuori coi loro aculei avvelenati tremanti, desiderosi di pungere qualcuno.
«Dite ciao ai miei due nuovi amici: Serket Uno e Serket Due! Non c'è bisogno che impariate i loro nomi, dopotutto morirete presto».
Cathleen arretrò insieme ad Artù e Alex, le spade pronte tra le mani.
«Ripeto la domanda: idee?».

***

Il gesto di Merlino era stato sconsiderato, folle, dettato dalla disperazione e dalla rabbia. Nel donarle parte della propria magia aveva involontariamente ricaricato anche i loro avversari e Freya, la quale doveva aver immaginato uno scenario del genere e aveva prosciugato i suoi stessi adepti, ingorda di potere. Per rendere le cose più divertenti, poi, aveva evocato due serket, scorpioni giganti che brulicavano nelle foreste intorno a Camelot.
«Era questo che intendevi per "legato"?», chiese Darrell ad Elijah, entrambi chini su Merlino.
Il senzatetto annuì con un cenno del capo. «Freya ha usato l'acqua di Avalon nel suo rito e lei ne è la custode, perciò...».
Alex smise di ascoltare, cercando di trovare una soluzione. Non sapeva nulla dei mostri dell'Antica Religione, come poteva pretendere di combatterli?
«Artù?».
«Uhm?».
«Non so cosa fare».
L'ex re abbozzò un sorriso e si spostò dalla fronte umida di sudore delle ciocche di capelli. «E credi che io lo sappia? A quanto pare era Merlino ad occuparsi dei mostri quando io svenivo!».
«Qualcosa dobbiamo provare!», gridò Cathleen, incoccando una freccia infuocata e lanciandola contro gli scorpioni. Questi la deviarono e furono ben attenti a non avvicinarsi troppo.
«Okay, il fuoco non gli piace», commentò Alex, per poi stendere le mani avanti e creare un cerchio di fiamme intorno a loro.
Freya scoppiò a ridere. «Non potrai scappare per sempre, Alexandra».
Questo lo sapeva, lo sapeva fin troppo bene. Non poteva nemmeno gettarsi contro un serket però: non era certa di essere più veloce dei loro aculei e morire in quel modo sarebbe stato da stupidi.
"Sono creature dell'Antica Religione, solo Excalibur può ucciderle".
Alex sgranò gli occhi e si portò una mano sul ciondolo che portava sotto la maglia di ferro. Improvvisamente era diventato freddissimo contro la sua pelle, tanto da bruciare.
"Morgana", sussurrò mentalmente. "Ti prego, aiutami!".
"Fidati di Artù. Questo è l'unico consiglio che posso darti".
L'infermiera guardò l'antenato al suo fianco, l'espressione fiera e attenta, piegato sulle ginocchia in posizione di difesa. Excalibur era stata forgiata per lui e solo lui poteva sfruttarne il cento percento del potenziale. Inoltre, lei non avrebbe potuto utilizzare la magia mentre menava fendenti a destra e manca.
Respirò profondamente e si girò verso Artù, porgendogli Excalibur con fare quasi solenne.
«Che cosa fai?», le domandò il biondo, confuso.
«Solo Excalibur può uccidere quei cosi e tu sei uno spadaccino migliore di me. Vai, io ti coprirò le spalle con la magia, come faceva Merlino».
«E io che faccio?», domandò Cathleen.
Alex le sorrise. «Tu coprirai le mie, di spalle».
Il paramedico la fissò interdetta, poi ricambiò il sorriso e le strinse l'avambraccio.
«Okay, al mio tre. Uno, due... tre!».
Il cerchio di fuoco si spense, lasciando la terra bruciata e fumante, e Artù gridò «Per Camelot!» mentre si lanciava contro gli scorpioni giganti con Excalibur in pugno, lucente più che mai. Alex allontanò uno dei serket con colpi stordenti, in modo che Artù potesse concentrarsi su un nemico per volta.

***

Deviò diversi colpi di pungiglione e al momento apportuno riuscì persino a mozzargli la coda. Sfruttando poi i lamenti di dolore dell'animale fece un balzo e lo infilzò nella testa, uccidendolo.
Artù si girò verso l'altro scorpione per occuparsene, ma scorse Freya raccogliere da terra la spada di Mordred ed avanzare furente verso Cathleen. Gridò il suo nome, ma sapeva che non avrebbe mai fatto in tempo a raggiungerle. Per fortuna c'era Elijah vicino a lei, il quale notò la minaccia e sfruttando i poteri assorbiti da Merlino lanciò un incantesimo che fece volare via la spada dalle mani della druida.
«Ti prego, fermati! Noi siamo gente pacifica!», le gridò, rivolgendole un'occhiata intrisa di pietà.
«Vallo a dire ai druidi che volevano uccidermi per via della mia maledizione!».
«Maledizione? Di che stai parlando?».
Il ghigno di Freya lo fece rabbrividire, ma fu distratto dall'urlo di Alex: in qualche modo il serket era riuscito ad avvicinarsi e l'infermiera aveva eretto uno scudo per difendersi dai colpi dell'aculeo, ma si stava già incrinando.
Artù corse a più non posso e con una scivolata si ritrovò sotto l'addome dello scorpione, che trafisse spingendovi la lama fino alla sua base. La bestia si contorse fischiando e poi scrollò a terra. L'avrebbe schiacciato, se Alex non l'avesse tirato via per i piedi giusto in tempo.
«Grazie», sospirò guardando il cielo rosso sangue, segno che il sole stava sorgendo da qualche parte oltre le montagne.
«Siamo pari», rispose Alexandra, per poi alzarsi e porgergli la mano.
«È finita Freya, abbiamo ucciso i tuoi animaletti!», gridò l'infermiera, prima di sussultare alla vista di Cathleen in ginocchio, con gli occhi fuori dalle orbite, il volto paonazzo e le unghie con cui si stava graffiando la gola. Freya sorrideva con una mano stesa verso di lei, come se si stesse divertendo un mondo.
«Credete davvero che sia finita? Illusi. Voi non potete fermarmi in alcun modo, la vostra amica qui ne è la prova».
«Smettila!», gridò Alex, ma l'altra mano di Freya si sollevò nella sua direzione e anche lei crollò a terra, la bocca aperta alla ricerca di aria che non sarebbe mai riuscita a respirare.
Prima ancora che Artù potesse correre da lei per tranciarle di netto le mani con Excalibur, un boato fece volare via uno stormo di uccelli dalla foresta a valle.
«Aaah!», urlò Darrell, stringendosi una mano intorno alla coscia destra, da cui iniziò a sgorgare copioso sangue rosso cremisi. Pur sapendo di condividere anima e corpo con Freya, le aveva sparato comunque.
La druida, colta di sorpresa, aveva lasciato la presa sulle due ragazze, le quali avevano iniziato a respirare con foga, tossendo e mugugnando di dolore.
«Ti diverti, Darrell? Fai l'eroe perché sai che tanto ti guarirò?».
Artù aiutò Alex ad alzarsi e con lei appesa al collo raggiunse Cathleen, Darrell ed Elijah, schierati davanti al corpo di Merlino per proteggerlo.
Alex si inginocchiò accanto alla gamba di Darrell e fu facile per lei capire che se Freya avesse aspettato ancora un po' sarebbe morto dissanguato, dato che aveva colpito l'arteria femorale.
«Stupido», gracchiò macchiandosi le mani di sangue.
«Non potevo stare a guardare mentre ti strangolava».
Artù corrugò la fronte e si voltò a guardarli, trovandoli occhi negli occhi e con le mani che si sfioravano sopra la ferita del poliziotto. Provò una sgradevole sensazione, ma fece del proprio meglio per ignorarla e dedicò a Freya tutta la propria frustrazione.
«Sai, inizio a pensare che tu non abbia mai voluto essere aiutata da Merlino. Tu ti spacciavi per la povera ragazza maledetta, ma in realtà ti piaceva: ti piaceva il timore che incutevi nelle persone, il potere... Perché avresti dovuto rinunciarvi?».
«Ti stai sbagliando», ringhiò la dama del lago, mostrando i denti.
«Davvero? Allora lascia perdere e vattene: avrai la tua seconda possibilità, potrai vivere come vuoi, e noi non ti cercheremo più».
Freya assottigliò gli occhi. «E perchè dovrei fidarmi, Pendragon?».
«Perché è quello che voglio anche io! Sono stato nelle acque di Avalon tanto quanto te, so come ci si sente».
«C'è solo un piccolo problema», esclamò sorridendo. «Questo mondo collasserà, se Merlino non restituirà tutto il potere che ha sottratto nel corso dei secoli. È chiaro ormai che lui non lo farà di sua spontanea volontà, perciò siamo punto e a capo: deve morire. Spetta a me l'onore, non credi? In fondo... è stato lui a rendermi la dama del lago!».
«Adesso basta, mi hai stancato!», intervenne Alex, piazzandosi davanti Artù.
«Alex, che cos'hai in mente?», sussurrò preoccupato.
«È ora di finirla. Vuoi uccidere Merlino? Bene, dovrai passare sul mio cadavere!».
Il sorriso di Freya si allargò fino a trasformarsi in una vera e propria risata. «Ah, Alexandra! Hai fegato, lo sai? Quasi mi dispiace ucciderti. Tutte le profezie sul tuo conto, sulla tua eredità... Dimostrerò che sono tutte fandonie, che questa volta la Triplice Dea ha sbagliato!».
La spada di Mordred si sollevò alle spalle di Freya e con un sibilo sfrecciò in direzione di Alex. Artù fece appena in tempo a rendersi conto che la profezia di Elijah si stava avverando, prima che la punta della spada squarciasse la maglia di ferro e gli trafiggesse il ventre. Cadde a terra accanto ad Alex, sgomenta ed inorridita, e le sorrise prima di chiudere gli occhi, certo che se proprio era destinato a morire era così che voleva che accadesse: proteggendo la propria famiglia.

***

«No. No, non è possibile», farfugliò Alex, guardando incredula l'antenato riverso al suolo, con la spada di Mordred conficcata nella pancia.
Si era sacrificato per lei, spingendola via all'ultimo momento, consapevole che né lei né il bambino che portava in grembo sarebbero sopravvissuti ad una ferita inferta da una spada magica. Tuttavia non aveva alcun senso: Artù non poteva morire! Nella visione del funerale di Abby c'era anche lui, vivo e vegeto!
«Artù? Artù, ti prego, rispondimi».
Una Cathleen in lacrime si portò gentilmente la testa di Artù sulle ginocchia e gli accarezzò i capelli, per poi posare le labbra sulla sua fronte.
«Avevo promesso di proteggerti... ma ho fallito. Non sono abbastanza forte», singhiozzò.
Artù sollevò una mano e con uno sforzo la posò sul collo di Cathleen, invitandola ad accostare l'orecchio alle sue labbra bluastre. «No, sei stata brava. Hai lottato con onore. Mi dispiace non essere stato alla tua altezza».
«No. No, non puoi arrenderti!», gridò col volto stravolto dal dolore.
Si girò verso Alex, la quale stava lentamente cedendo, schiacciata sotto i sensi di colpa, e con voce implorante urlò: «Fai qualcosa! Curalo!».
«Io... io non...». Era così sicura che non sarebbe successo nulla di male ai suoi amici che durante gli allenamenti con Merlino non le era nemmeno venuto in mente di chiedergli di insegnarle le basi della magia curatrice.
«Alexandra sa benissimo che non si può curare una ferita come quella», esclamò Freya divertita, per poi estrarre la spada dal ventre di Artù e riportarla nella sua mano. Cathleen mise subito una mano sulla ferita, imbrattandosela di sangue, nel vano tentativo di fermare l'emorragia.
«Merlino non ci è riuscito la prima volta, non vale nemmeno la pena provarci».
Merlino. Alex si voltò verso lo stregone, chiedendosi  che cosa avrebbe detto quando avrebbe scoperto che per colpa sua Artù era morto, di nuovo.
Scosse il capo, convincendosi che non sarebbe morto, non sotto il suo sguardo. Doveva dimostrare ad Artù che il suo gesto non era stato vano, che era una degna Pendragon e non si sarebbe arresa finché aveva ancora la forza per respirare.
Si alzò in piedi col corpo squassato da tremori di rabbia e sentì la magia ribollirle nelle vene, gli occhi già dorati ancor prima che potesse formulare un qualunque incantesimo.
Freya vacillò di fronte a tutta quella potenza e non fece in tempo a difendersi.
«Forp fleoge!», recitò Alex e un'onda di energia colpì la dama del lago, facendola rotolare fino al bordo del cratere.
Darrell gemette e si portò una mano sporca di sangue sul costato. Il volo doveva aver incrinato le costole della druida, cosa che si era riflessa su di lui. Alex non se ne curò, raccolse Excalibur e si diresse a passo di marcia verso la nemica.
Freya si sdraiò supina per fronteggiarla e riderle in faccia. «Vuoi davvero uccidermi, Alexandra? Se lo farai, sarà il primo passo per diventare come Morgana. Era questo di cui aveva tanta paura Merlino, non è vero? Beh, a questo punto credo non abbia più importanza... Quando si risveglierà e vedrà il caro Artù morente ti odierà comunque».
Alex non ci vide più. Il ciondolo di Morgana bruciava sul suo sterno, eppure si sentiva come se non lo stesse più indossando: il dolore le stava consumando l'anima, impedendole di comprendere cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Non ci pensò due volte quindi prima di alzare Excalibur e di calarla su Freya con tutta la propria forza, mentre alle sue spalle Cathleen si sgolava nel tentativo di fermarla. Prima che Excalibur potesse infilzarle il cuore, la druida rotolò via e cadde giù dalla montagna.
Alex si voltò verso Cathleen per chiedere spiegazioni e solo in quel momento tornò in sé quel tanto che bastò a farle comprendere che se avesse colpito Freya con Excalibur, trattandosi di una spada magica dalle cui ferite nemmeno lei poteva guarire, avrebbe inevitabilmente condannato a morte anche Darrell.
Sconvolta, aprì la bocca per chiedere scusa, ma le espressioni di terrore sui volti dei suoi amici la fecero desistere. Inoltre, una strana ombra aveva riportato la notte su di lei. Un ruggito le fece accapponare la pelle e ancor prima che Cathleen potesse dirle di abbassarsi lei ci aveva già pensato.
Picchiò la testa contro un masso nascosto dalla torba, ma poteva andarle peggio: per esempio poteva essere dilaniata dagli artigli della bestia che le era appena atterrata davanti, una gigantesca pantera alata con gli occhi gialli e dei canini da tigre dai denti a sciabola.
Alex cercò Excalibur con una mano, senza schiodare lo sguardo dal Bastet, ma non la trovò: doveva essere finita da qualche parte quando si era gettata a terra.
«Era questo che intendevi per "maledizione"?», domandò Elijah, gli occhi verdi sgranati. «Ora capisco perché volevano ucciderti!».
Freya gli ringhiò contro, poi tornò a rivolgere la propria attenzione verso Alex. Si avvicinò mostrando i denti aguzzi e l'infermiera arretrò, arretrò tanto che finì sullo stesso orlo del precipizio da cui la druida si era gettata, consapevole di potersi trasformare in una bestia alata.
Una volta in trappola scorse un ghigno sul volto della pantera e poi la voce di Freya le rimbombò nel cranio: "Dov'è finito tutto il tuo ardore, Alexandra?".
«Astrice!», gridò Alex nel tentativo di farla arretrare, ma il colpo la spostò di un paio di centimetri appena.
La sua risata le fece salire le lacrime agli occhi, realizzando che in fin dei conti Artù aveva ragione: non era una degna Pendragon, né una degna apprendista strega.
Freya le disse di recitare le sue ultime preghiere e Alex chiuse gli occhi nell'attesa di ricevere il colpo di grazia, la zampa del Bastet già alzata sopra di lei, ma i minuti trascorsero interminabili e non successe nulla.
Quando finalmente si decise ad aprire gli occhi per capire cosa stesse succedendo, trovò gli occhi della pantera spalancati, attraversati dal dolore e dalla paura. Quindi spostò lo sguardo dietro di lei e ciò che vide le spezzò il cuore: Darrell si era trafitto con Excalibur per salvarla. La profezia dei cristalli si era avverata alla fine.
Il Bastet crollò a terra e Alex trovò la forza per alzarsi e correre dal poliziotto.
«Ehi. Ehi, Darrell», sussurrò portandogli una mano sulla fronte.
L'agente Fisher la guardò negli occhi con i propri già vagamente annebbiati ed abbozzò un sorriso. «Ehi, Alex».
«Che cos'hai fatto?».
«L'unica cosa che si poteva fare». Darrell tossì e un rivolo di sangue gli uscì dall'angolo della bocca.
«Non scherzare, te la caverai. Ti porteremo in ospedale e ti salveremo, okay?».
Le lacrime avevano ripreso a scorrere sul suo viso, il cuore in frantumi per chissà quale motivo. Che ciò che provava per lui alla fine non fosse solo attrazione fisica?
«No, non potete. Se mi salverete, salverete anche lei», mormorò, guardando oltre Alex per incrociare lo sguardo quasi spento di Freya, tornata umana e con una grossa chiazza di sangue sul ventre. «Ero la sua... assicurazione sulla vita».
Lui lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Ecco che cosa intendeva, quando le aveva detto che non sapeva se sarebbe uscito vivo da quella storia.
«E hai deciso di ucciderti per fermarla?!».
Darrell gettò un'occhiata ad Elijah, sussurrando: «Era l'unico modo e nessuno l'avrebbe fatto, tranne me».
Il senzatetto annuì con un debole sorriso sulle labbra.
«Ma... ma non è giusto», farfugliò Alex.
Il poliziotto le prese una mano e ne accarezzò il dorso con il pollice. «Posso... posso chiederti un ultimo favore?».
L'infermiera annuì col capo, tirando su col naso. «Qualunque cosa».
«Voglio parlarle. Potete... avvicinarla?».
«Che cosa?». Alex fissò Freya, stravolta. Alla fine l'amore per lei, per la ragazza che aveva ospitato a casa sua senza sapere chi fosse veramente, avrebbe prevalso su ogni cosa, persino sulla morte. Sospirò e guardò Elijah. «Va bene».
Il ragazzo druido si avvicinò alla vecchia insegnante ed ebbe qualche remora a prenderla tra le braccia, ma questa gli rivolse un sorriso stanco e mormorò: «Non mordo più».
Elijah si fece coraggio e la sollevò con attenzione, non riuscendo però a non farla gemere dal dolore, e una volta accanto a Darrell la stese al suo fianco.
C'era qualcosa di diverso sul suo viso, qualcosa di dolce che Alex non aveva mai visto. Che la morte le stesse conferendo una lucidità tale da permetterle di tornare ad essere la Freya di millequattrocento anni prima, quella di cui Merlino si era innamorato?
Darrell sollevò una mano e le sfiorò la guancia col dorso delle dita. «C'è stato un tempo in cui ti amavo. Come siamo arrivati a questo?».
«Mi dispiace», singhiozzò silenziosamente la druida, lasciando che una lacrima le attraversasse il setto nasale. «Non avresti mai dovuto avvicinarti a me, Darrell. Anche io ti amavo, ti amo tutt'ora, e nella mia follia ti ho trascinato in questa storia, senza comprendere che tu avresti fatto ciò che ritenevi giusto, anche a costo di sacrificare te stesso».
«Ti perdono», soffiò, quindi chiuse gli occhi e la sua mano cadde a terra, inerte.
Freya ululò di dolore rivolgendo il volto verso il cielo e quando smise i suoi occhi divennero vitrei, la mano ancora stretta sul cuore.
Alex si portò entrambe le mani sul viso, chiedendosi quanto di ciò che era successo fosse colpa sua, ma fu costretta ad abbandonare quel pensiero quando la terra sotto il corpo di Freya si spaccò per inglobarla e lo stesso fece con Darrell, nonostante lei si fosse aggrappata alla sua mano con tutte le sue forze.
Cathleen la tirò via prima che potesse essere risucchiata anche lei in quel buco e Alex le cadde addosso. Per un attimo fu convinta che fosse solo lei a tremare, ma in realtà stavano percependo un lieve terremoto. Durò solo una decina di secondi, abbastanza da svegliare Merlino e i ragazzi a cui Freya aveva assorbito ogni briciolo di magia.
«Alex», fu la prima parola dello stregone quando riaprì gli occhi e l'infermiera sentì il sapore della terra in bocca, come se alla fine fosse stata risucchiata comunque nelle profondità della montagna.
«Sono qui», rispose piano, prendendogli la mano.
Lui l'attirò in un abbraccio e sospirò di sollievo. «Stai bene, grazie al cielo!».
«Sì... sì, sto bene».
Merlino si scostò per guardarla in viso, non convinto. Alex allora indicò Artù, abbandonato tra le braccia di Cathleen, e il volto dello stregone impallidì tanto quanto i suoi capelli.
«Che cos'è successo?», domandò con foga, precipitandosi al suo capezzale.
«La spada di Mordred», rispose Cathleen con gli occhi arrossati, quindi voltò il capo verso l'ultima Pendragon e aggiunse: «Ha protetto Alex».
Il mago strinse i pugni, combattuto. Lei e Artù erano le due persone che amava di più al mondo, dopotutto.
«Andiamo, non c'è un momento da perdere», esclamò ad un tratto, ferale.
Si avvolse un braccio di Artù intorno al collo e Cathleen fece lo stesso con l'altro. Solo allora si accorse che doveva essere successo dell'altro, mentre era svenuto.
«Dove sono Freya e Darrell?».
Alex abbassò il capo ancora una volta, ma non fu costretta a rispondere. Lo stregone infatti liquidò la questione, dicendo che avevano altro a cui pensare.

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Capitolo 31
*** Diamond of the day ***


31. Diamond of the day


Merlino non poteva permettere che Artù morisse, non una seconda volta. In quel momento avrebbe tanto voluto poter chiamare Kilgharrah per chiedergli un passaggio fino ad Avalon, dove quella volta avrebbe preteso l'aiuto degli Sidhe, ma poteva contare solo sulle proprie forze e quelle di Cathleen, la quale non si era fermata un attimo né aveva mai aperto bocca da quando avevano iniziato a camminare. Sembrava distrutta tanto quanto lui, ma il dolore le impediva di arrendersi.
Non poteva dire lo stesso per Alex, la quale aveva iniziato ad inciampare sempre più spesso alle loro spalle, il taglio sulla fronte che sembrava peggiorare di minuto in minuto. Elijah l'aveva convinta ad appoggiarsi a lui, ma prima o poi avrebbero dovuto fermarsi. Anche gli altri ragazzi non avevano una bella cera: li seguivano come zombie, scossi dal tradimento e spaventati per ciò che li attendeva in futuro.
Mancava meno di un miglio alle auto quando Merlino sentì il gorgoglio di un fiume. Ne scorse le rive tra gli alberi e fece segno a Cathleen di dirigersi verso quella direzione. Il paramedico non obiettò, eseguì semplicemente gli ordini.
«Che ci facciamo qui?», chiese Elijah una volta fatta sedere Alex sotto un piccolo albero contorto, le cui fronde si sporgevano sopra l'acqua del ruscello.
«Ci prendiamo una pausa», rispose Merlino. Con cautela appoggiò Artù sul manto erboso in prossimità di una piccola cascata, quindi si girò verso i giovani maghi e lanciò loro lo zaino che aveva sulle spalle. «Sedetevi tutti e riposate! Lì dentro ci sono anche delle provviste. Elijah, vieni qui».
Il druido guardò Alex, poi si spostò i capelli dagli occhi e si inginocchiò accanto a Merlino.
«Conosci incantesimi curativi?», gli domandò schietto, spogliando Artù affinché potessero osservare il profondo taglio.
«Qualcuno, ma dubito che avrebbero effetto su una ferita inflitta da una spada magica».
«Devi provare».
Elijah esitò, ma bastò il suo sguardo intenso a convincerlo. Respirò profondamente ed intrecciò le dita sopra la ferita, senza toccarla. Chiuse gli occhi e le sue mani brillarono d'oro, ma la situazione non cambiò.
«Riprova, Elijah».
Il senzatetto corrugò la fronte per la concentrazione e ritentò, invano. Aprì la bocca per dirgli che era tutto uno spreco di forze, ma Merlino lo precedette gridando: «Riprova! E credici magari!».
Elijah non si lasciò intimorire e si alzò, ricambiando il suo sguardo venato di rabbia con uno mesto e pacifico. «È oltre le mie capacità. Tanto vale che sfrutti il potere che mi rimane per qualcuno che posso curare».
Detto questo, tornò da Alex e le prese il mento tra le dita per esaminare la sua fronte. Merlino sapeva che il ragionamento di Elijah non faceva una piega, ma odiava profondamente ritrovarsi impotente di fronte al suo migliore amico morente, di nuovo.
«Perché?!», gridò a squarciagola, alzandosi in piedi col volto rivolto verso il cielo. «Perché ancora?!».

***

Alex guardò Merlino urlare contro il cielo, ignorando il ragazzo druido che le stava disinfettando la ferita sulla fronte con la magia.
Lo stregone non ottenne alcuna risposta, se non quella di uno stormo di uccellini spaventati, perciò tornò a sedersi accanto a Cathleen e le posò una mano sulla spalla. Lei deviò il suo sguardo, nascondendosi dietro i suoi capelli rossi, e riprese a piangere silenziosamente.
«È tutta colpa mia», mormorò l'infermiera, sentendosi scivolare sempre più in basso nella fossa che si stava scavando da sola.
«Non lo pensare nemmeno», la rimproverò Elijah, voltandole il viso per rimirare il proprio operato. «Ecco, ora non rischia di infettarsi. Servono comunque dei punti, ma...».
«Tu non capisci. Io... io ho avuto una visione, qualche tempo fa, e c'era anche Artù, e lui stava bene, nemmeno un graffio! Ho dato per scontato che non gli sarebbe successo nulla ed è per questo che sta morendo, perché mi credevo più furba di tutti». Si portò le mani sul viso, a celare le lacrime che stavano per rigarle le guance. «Come lo dirò a Cathleen? Lei... lei non mi perdonerà mai».
Il senzatetto le prese i polsi e delicatamente le allontanò le mani dal viso per poterla guardare negli occhi. Le sue iridi erano così grandi e così verdi da non sembrare reali. In effetti, più che una persona Elijah sembrava un personaggio uscito da un manga. O forse stava solo delirando per la stanchezza.
«Ascoltami. Le visioni sono in grado di ingannare chiunque. Il futuro è soggetto a cambiamenti, la gente fa cose stupide senza sapere neanche il perché continuamente...». Elijah si interruppe per umettarsi le labbra, ma quando riaprì la bocca per continuare esitò, come se fosse indeciso se vuotare il sacco o meno.
«Ma Darrell sapeva cosa stava facendo, era perfettamente consapevole che se ci avesse accompagnato da Freya sarebbe morto. Se avesse fatto quello che lei gli aveva chiesto, ovvero di indicarci soltanto il luogo... a quest'ora sarebbe ancora vivo».
Elijah abbassò il capo, mormorando: «Come ho detto, la gente fa cose stupide».
«No, non stupide... coraggiose»,  lo corresse Alex, tornando a guardare il corpo esanime dell'antenato. «Anche se l'avesse saputo, sono certa che Artù mi avrebbe protetta comunque».
Si accarezzò il ventre e il ragazzo lo notò, ma deviò subito lo sguardo, bloccato ancora una volta dall'incertezza. Alla fine esclamò: «La tua bambina darà inizio ad una delle dinastie più potenti che il mondo abbia mai conosciuto, il connubio perfetto tra la forza dei Pendragon e la magia dell'Antica Religione. Non poteva permettere che morisse».
Alex sentì il cuore salirle in gola, mentre un calore indescrivibile le incendiava il volto: dopo essere caduta così in profondità, finalmente rivedeva la luce del sole.
«Una bambina, hai detto?». Tirò su col naso, sentendo persino un sorriso incurvarle le labbra. «Come... come fai a sapere tutte queste cose?».
Elijah sospirò e per la seconda volta in poche ore si sollevò il maglione per mostrarle il suo tatuaggio.
«Non sono un druido qualunque, ma un veggente. Ho visto molte cose, persino che Freya sarebbe venuta a cercarmi. All'inizio mi sono detto di non immischiarmi, che la vita che conducevo non era poi così male, ma alla fine ho deciso di seguirla per tenerla d'occhio».
Alex aprì la bocca, ma lui le posò un dito sulle labbra, azzittendola.
«Non voglio che si sappia in giro, okay? Mi verrebbero a chiedere i numeri della lotteria e non funziona così. Non sempre, almeno».
Riuscì a strapparle un altro sorriso e il ragazzo la imitò con tutti i denti, risultando ancora più strampalato di quanto non fosse già.
«Che cosa diavolo succede ora?», esclamò Jake, scioccato, con gli occhi sgranati rivolti verso la riva del ruscello.
Alex e Elijah seguirono il suo sguardo e rimasero senza fiato quando tra i riflessi dorati videro delle bolle sollevarsi dalla superficie. Una in particolare spiccò tra le altre per grandezza, brillantezza e soprattutto per il volto di donna che vi si intravedeva all'interno, come scoprirono quando si avvicinarono a Cathleen, colei che aveva attirato la loro attenzione.
«Le tue lacrime ci hanno svegliati da un lungo sonno, fanciulla. Che cosa c'è che non va?».
Il paramedico si asciugò il volto e come se non fosse per nulla impressionata disse semplicemente: «L'uomo che amo sta morendo. Voi potete curarlo?».
La donna nella bolla si avvicinò per esaminare la ferita e poi risalì fino al volto di Artù. Riconoscendolo, la bolla tremò tanto da far temere loro che stesse per scoppiare.
«Mi dispiace, mia cara. Artù Pendragon è destinato a tornare nel mondo degli spiriti, come noi».
«Chi siete?», domandò Elijah, accucciato sulla riva, mentre protendeva il dito indice verso una delle bolle per toccarla. Questa però si spostò fulminea, facendogli persino una pernacchia.
«Noi siamo i Vilia, spiriti dei fiumi e dei ruscelli. Gli umani di solito non riescono a vederci, ma la custode di Avalon è morta e ora le porte del mondo degli spiriti stanno cedendo. Gli Sidhe hanno attuato il piano d'emergenza, per questo Artù non è ancora scomparso».
«Intendi risucchiato nella terra come è successo a Freya e Darrell?», domandò Alex con rabbia, facendo voltare Merlino.
«Beh, noi non vogliamo che succeda, perciò meglio così», rispose Cathleen.
«Non avete molto tempo... Presto o tardi gli Sidhe non saranno più in grado di tenere chiuse le porte e allora sarà il caos: tutti gli spiriti, buoni o cattivi, torneranno liberi».
«Cosa dobbiamo fare per impedirlo?».
Lo spirito si avvicinò al volto serio e determinato di Merlino e sorrise quasi con dolcezza, come una madre orgogliosa del proprio bambino.
«Non sei cambiato, Emrys».
Lo stregone non rispose, nonostante tutti avrebbero voluto sapere quando e come i due si erano conosciuti, e il Vilia disse ciò che Alex più di tutti sospettava e temeva: «Dovete trovare una nuova Dama del lago».

***

«È proprio una bella casa la tua, Merlino», esclamò Elijah, vedendolo scendere dalle scale.
Avevano appena sistemato Artù nella sua camera e Cathleen, nonostante gli sforzi che avevano fatto lui e Alex per convincerla a riposarsi un po', non aveva voluto lasciare il suo capezzale. Il mago aveva bisogno di allontanarsi invece, di pensare ad altro per almeno dieci minuti, e andare a preparare del té gli era sembrata una buona soluzione. Peccato si fosse completamente dimenticato dei loro ospiti.
Dopo l'incontro con i Vilia avevano finalmente raggiunto le auto e vedendo la volante dell'agente Fisher erano venuti alla luce una serie di problemi legati alla sua scomparsa che prima o poi avrebbero dovuto affrontare. In un paese piccolo come il loro, avevano al massimo un giorno per prepararsi ad affrontare le domande dei suoi colleghi senza tradirsi l'un l'altro. Per fortuna non era la prima volta di Merlino.
Ad ogni modo, usare l'auto di un poliziotto senza di lui sarebbe risultato sospetto, quindi avevano recuperato anche il pick-up verde petrolio di Jake, nascosto dietro una vecchia base della guardia forestale, e tutti insieme erano tornati a casa.
La priorità rimaneva Artù, perciò avevano lasciato i ragazzi nel salotto e per un'ora buona Merlino aveva provato a rianimare l'amico con ogni mezzo a disposizione, senza però riuscirci. Si rifiutava di credere che Artù fosse già morto, che il suo spirito si trovasse in un limbo e che non appena avessero trovato una nuova Dama del lago il suo corpo sarebbe scomparso sotto i loro occhi. Potevano provare a lasciare Avalon incustodito fino a quando non avessero trovato un modo per riportarlo indietro, ma il gioco valeva la candela? Se avessero aspettato troppo avrebbero rischiato davvero di riversare orde di spiriti nel mondo dei vivi.
In qualsiasi caso, le chance di Artù di riaprire gli occhi erano vicine allo zero.
«Davvero possiamo stare qui?».
Merlino sbatté le palpebre e guardò uno per uno i ragazzi che Freya aveva trovato ed assoldato per combattere la sua battaglia. Nascosto in ognuno di loro c'era sempre stato il potenziale per diventare maghi e ora che era stato risvegliato non avrebbero più guardato il mondo con gli stessi occhi, soprattutto se la persona che li aveva introdotti a tutto questo si era rivelata una persona corrotta dal potere, dall'orgoglio e dalla vendetta.
Sorrise dolcemente - o almeno fece del suo meglio - e portandosi dietro la poltrona per appoggiarsi allo schienale con entrambe le mani rispose: «Certo, questa casa ha diverse stanze vuote. Potete rimanere per tutto il tempo che volete». Cercò lo sguardo dei ragazzi più grandi, Jake e Hanna, e aggiunse: «O potete andarvene, se preferite. Nessuno vi fermerà».
Il ragazzo abbassò il capo ed incrociò le braccia, per poi mugugnare: «Ho bisogno d'aria» ed uscire dalla porta d'ingresso.
Hanna invece rimase in silenzio, accarezzando i capelli delle due gemelle sedute sul divano davanti a lei.
«Io credo che resterò», affermò Elijah con un ampio sorriso, lasciandosi sprofondare nella poltrona opposta a quella di Merlino. «Insomma, quando mi ricapiterà di avere gratis un tetto sulla testa, acqua calda e cibo che non venga dai cassonetti?».
Merlino ridacchiò guardandolo mentre si tirava via gli stivaletti consunti per stendendere le lunghe gambe e posare i piedi sul bordo del tavolino, un paio di dita che spuntavano dai calzini bucati. Elijah si portò anche le mani dietro la nuca ed espirò rilassato, fingendo soltanto di chiudere gli occhi per poter osservare le reazioni di Hanna e delle gemelle. Queste ultime si scambiarono un'occhiata e un cenno di assenso prima di guardare la più grande.
«Perché lo stai facendo?», gli chiese Hanna. «Abbiamo cercato di farvi del male. Perché ci stai aiutando?».
«Voi non avete colpe», spiegò Merlino. «Scommetto che non sapevate nemmeno il motivo per cui stavate combattendo. Freya... ha approfittato di voi e mi dispiace. Per questo vi sto aiutando».
«Okay, a me basta come risposta». Sorrise alle ragazzine pel di carota. «Rimaniamo».
Lo stregone picchiò le mani sullo schienale della poltrona. «Ottimo! Preparo il té».
Aveva appena messo l'acqua sul fuoco, quando Elijah lo raggiunse in cucina.
«Merlino?».
«Se sei venuto qui a scusarti per il nostro scambio al ruscello risparmiati, non ce n'è bisogno. Anzi, ti ringrazio per esserti preso cura di Alex. Ero sconvolto per Artù e...».
«No», lo interruppe, avvicinandosi e al contempo sfuggendo al suo sguardo, come se si vergognasse di qualcosa.
Ora che si era tolto la sciarpa, i guanti mangiucchiati e il trench, la sua magrezza era ancora più evidente. Il maglione che indossava era di almeno due taglie più grande e le sue braccia, così come le lunghe gambe, erano sottili; eppure aveva dimostrato più volte di possedere una forza non comune in quelle ore. La forza di chi è abituato a lottare per la propria vita e per le poche cose care che possiede, anche più volte al giorno. Darrell aveva detto loro che Freya l'aveva prelevato dalla strada, che era un senzatetto, perciò Merlino non era affatto sorpreso del suo carattere forte. La fragilità che aveva negli occhi in quel momento, però...
«Di che cosa si tratta, Elijah?».
«Tu... tu ci stai ospitando qui senza chiedere nulla in cambio e voglio essere onesto con te. Prima ho recitato un po' per convincere Hanna e le gemelle, ma devo dirti una cosa che forse ti spingerà a spedirmi fuori a calci. Non mi stupirei, dato che è quello che ha fatto mio padre non appena ho compiuto diciott'anni».
Merlino posò una mano sulla sua spalla, scuotendolo un poco con un sorriso comprensivo sulle labbra. «Non ti spedirò fuori a calci per via di ciò che sei».
«E... e che cosa sarei?», chiese Elijah, stringendo gli occhi.
«Un Vate».
Da come il ragazzo sobbalzò, Merlino capì di averci preso. Fino ad allora era solo una teoria, un sospetto che gli era sorto quando per la prima volta aveva sentito Darrell parlare di lui. Il tutto si era concretizzato in battaglia, quando l'aveva visto tenersi in disparte ad osservare e poi aveva scambiato due chiacchiere con Artù. Aveva immediatamente capito che si erano detti più di quanto il sovrano avesse rivelato loro e ora ne aveva la certezza, dato che solo una previsione avveratasi avrebbe potuto farlo sentire così in colpa da non poter accettare a cuor leggero la sua ospitalità.
«Ascoltami, qualsiasi cosa tu avessi visto...».
«Patrick mi ha sempre detto di non rivelare le mie visioni, specialmente se riguardano qualcosa di brutto, ma io non ce la faccio. A che cosa servirebbero, se me ne stessi zitto? Però non posso fare a meno di pensare che forse, se non avessi detto ad Artù che sarebbe stato trafitto da quella spada per la seconda volta, forse lui...».
«Sarebbe comunque successo, Elijah. Alcuni eventi sono immutabili, purtroppo. Più si evitano, più si finisce per sbatterci contro. Credimi, lo so per esperienza personale».
Elijah rilassò le spalle e sorrise. «Grazie, Merlino».
«Grazie a te. Senza il tuo aiuto non ce l'avremmo mai fatta».
«Una tazza di té e siamo pari, allora».
«Affare fatto».
Merlino tornò a dedicarsi all'acqua, come se guardandola potesse bollire prima, e Elijah fece per tornare in salotto, ma si arrestò sulla soglia per esclamare sorpreso: «Ti ho detto che mio padre mi ha cacciato non appena ho compiuto diciott'anni e non hai fatto domande. Sei il primo, lo sai?».
Lo stregone abbozzò un altro sorriso, senza guardarlo. «Quando vorrai parlarmene ti ascolterò».
«Dubito che succederà».
Merlino impiegò qualche secondo di troppo a comprendere il senso di quelle parole. Quando si voltò per chiedere conferma ad Elijah, non c'era già più.

***

Cathleen sbatté le palpebre, così come aveva fatto inconsciamente per tutto il tempo trascorso accanto ad Artù. Quella volta però fu diverso e non riuscì a capirne il motivo: aveva sbattuto le palpebre e i suoi pensieri erano tornati lucidi, chiari. La tempesta era finalmente finita.
Artù era ancora sdraiato immobile sotto le coperte, il volto privo di espressione, preda di un sonno da cui probabilmente non si sarebbe più svegliato. Ma se c'era anche la più piccola possibilità, loro dovevano tentare. Non poteva stare a guardare mentre il secondo amore della sua vita moriva, senza nemmeno provare a salvarlo. Arrendersi non era un'opzione da contemplare, dato che aveva promesso di proteggerlo.
Si alzò dalla sedia, trovando le gambe intorpidite, e col cuore che batteva fortissimo per il timore di uscire da quella stanza, tornare e non trovarvi più Artù, lo fissò dalla soglia per diversi minuti. Quando decise di agire, si voltò e senza guardarsi più indietro corse al piano di sotto, immerso nel buio e nel silenzio.
Nel salotto vide Elijah, che dormiva sul divano con le gambe strette al petto e la coperta stretta tra le mani, come se temesse che qualcuno gliela rubasse.
Cath ebbe quasi voglia di avvicinarsi per fargli una carezza sul viso, tanto la inteneriva quel ragazzo, ma seguì la debole luce che proveniva dalla cucina e oltre la finestra vide Merlino e Alex seduti in veranda, anche loro avvolti in una coperta per ripararsi dal vento freddo che si era alzato.
Non le sembrava stessero parlando, piuttosto che stessero fissando il cielo punteggiato di stelle. Ciò nonostante bussò per avvisarli del suo arrivo.
«Cathleen», esclamò Merlino, scattando subito in piedi. «È successo qualcosa?».
«Se ti riferisci ad Artù, la risposta è no. Per quanto mi riguarda, invece... non riesco più a starmene con le mani in mano. Voglio sfruttare questo dolore, questa rabbia, per qualcosa di utile. Ditemi che abbiamo un piano».
Alex alzò gli occhi in quelli del marito, una ruga di preoccupazione tra le sopracciglia. Prima che potesse risponderle però, uno dopo l'altro ricevettero un messaggio sul cellulare. Come coincidenza era veramente assurda, ma il solo pensiero che non lo fosse era ancora più spaventoso.
«Al matrimonio Abby mi ha detto di aver finito con i messaggi», disse Cathleen. «Ha trovato un'app con cui le bastava cambiare la data prima di andare a dormire per ritardare l'invio automatico di un giorno. Se non l'avesse fatto, allora avrebbe voluto dire che...».
«Magari si è dimenticata», la interruppe Merlino, stirando persino un sorriso per cercare di tranquillizzarle. Una risatina nervosa gli sfuggì dalle labbra mentre si passava una mano tra i capelli. «Avanti, non può essere... Ieri stava bene!».
«Dobbiamo andare in ospedale», affermò Alex in tono ferale.
Nessuno obiettò.
Mentre Merlino e Alex si cambiavano, Cathleen accese al minimo la lampada da lettura accanto al divano e si inginocchiò accanto ad Elijah. Gli posò una mano sul braccio e lo scosse un poco per svegliarlo il più gentilmente possibile, ma questi trasalì e le puntò contro il proprio coltellino svizzero, facendola cadere col fondoschiena per terra per lo spavento.
«Scusami, è l'abitudine», mormorò il senzatetto, mortificato.
«Non c'è problema».
«Che ora è?».
«Mezzanotte. Ascolta, abbiamo ricevuto un messaggio da una nostra carissima amica e dobbiamo andare da lei in ospedale».
Elijah si tirò su seduto e si appiattì i capelli scoloriti sulla testa. «Volete che dia un'occhiata ad Artù?».
«Sì, te ne prego».
«Va bene. Sono abituato anche ai turni di guardia».
«Grazie, non so davvero come ringraziarti», sussurrò, prendendogli il volto tra le mani per stampargli un bacio sulla fronte.
Il ragazzo divenne rosso come un peperone, ma in quel momento Alex e Merlino li raggiunsero e consegnarono al ragazzo lo smartphone di Artù, raccomandandogli di chiamare per qualsiasi cosa.
Elijah li rassicurò e rimase sulla soglia di casa a guardarli fino a quando le luci posteriori dell'auto di Alex non vennero inghiottite dall'oscurità.

***

"Ciao, Alex. Se stai ascoltando questo messaggio, allora è probabile che io sia morta o quasi. C'è anche la possibilità che mi sia dimenticata di posticipare l'invio automatico, ma spero proprio non sia questo il caso... Pensa a come mi sentirei se vi avessi fatto credere di essere in punto di morte per una dimenticanza! - ride piano - silenzio - sospira triste - Perdonami, ho qui davanti il messaggio che ho scritto per te, ma non ci riesco. Tu sei troppo importante per me e non posso lasciarti con un messaggio scritto e letto ad alta voce. Ci vuole sentimento, capisci? Ce l'ho sempre messo, per le cose importanti. Che fossero risate o che fossero lacrime... non mi pento di nulla. - tira su col naso - Voglio che anche tu faccia lo stesso, che non ci siano rimpianti nella tua vita. Vivi al massimo, prova tutto e, ti prego, diventa mamma. Fallo per me, per favore. Steve ed io ci siamo ammalati, ma siamo stati felici di essere nati. E tu non puoi rinunciare ad una cosa così bella per paura di patire la stessa sorte delle persone che ci vogliono bene. Saresti una mamma fantastica, sai? Ne sono certa, perché in un certo senso sei stata la mia. Avevo sei anni quando i miei genitori sono morti e mia nonna è una brava donna dopotutto, ma è sempre stata frenata dalla paura di rovinare tutto anche con me, perciò non si è mai avvicinata più del necessario. Si rifugiava dentro i suoi libri che raccontavano di donne forti per non dover ammettere di non esserlo. Tu, invece... tu mi sei sempre stata accanto, sin dai primi esami. Mi hai fatta sentire a casa nel luogo più triste che ci sia, mi hai confortata, mi hai dato speranza, mi hai abbracciata e mi hai fatto ridere esattamente quando ne avevo bisogno. In sostanza ti sei presa cura di me come una vera mamma farebbe, e non ti ringrazierò mai abbastanza per questo. - silenzio - si soffia il naso - si schiarisce la gola - Non so quanto tempo sia passato dal matrimonio, ma se anche ne fosse passato poco, troppo poco, non voglio che tu e Merlino vi sentiate in colpa. Non è stato il vostro matrimonio a farmi ammalare; anzi, partecipare alla vostra felicità è stato un vero toccasana. È stato uno dei giorni più belli della mia vita ed è stato un onore farti da damigella. Grazie di cuore. Ti voglio bene, tanto."

***

Merlino si girò sul fianco e cercò Alex allungando il braccio nella sua parte di letto, trovandola fredda e vuota. Allora aprì gli occhi e confermò ciò che aveva intuito: sua moglie era già sveglia, oppure non aveva proprio chiuso occhio.
Si alzò e si infilò un paio di jeans e una felpa, poi passò a controllare Artù nella sua camera. Cathleen era sdraiata al suo fianco e finalmente si concedeva qualche ora di riposo, una mano sul suo petto immobile.
Sicuro che non fosse cambiato nulla, scese al piano inferiore: a parte il lieve russare di Elijah, raggomitolato sul divano, il silenzio regnava sovrano. In cucina trovò la caraffa del caffé quasi piena, ma doveva essere stato preparato almeno un'ora prima, dato che toccandola la trovò tiepida. Se ne versò comunque una tazza e si sedette al tavolo: solo allora si accorse del foglietto che spuntava tra le mele nel suo portafrutta di riserva.
"Mi dispiace, ma non posso stare qui. Ero così accecato dalla rabbia, dal desiderio di diventare qualcuno, che ho rischiato di fare del male a delle persone innocenti. Non posso nemmeno tornare alla mia vecchia vita, perciò viaggerò e mi documenterò sulla magia. Forse un giorno tornerò e mi farò perdonare. Addio. Jake".
Merlino si passò una mano sul viso e sospirò, dicendosi che d'altronde non avrebbe potuto costringerlo a restare. Anzi era stato lui a dire che erano liberi di andarsene in qualsiasi momento. Sperava soltanto che Jake non si cacciasse nei guai.
Finito il caffè si alzò per mettere la tazza nel lavandino, guardò fuori dalla finestra ed avvertì un brivido lungo la spina dorsale nel vedere il cielo tinto dei colori dell'alba. Stringendosi nella felpa, uscì in veranda e poi mise i piedi nudi sull'erba bagnata di rugiada. Chiuse gli occhi e nonostante conoscesse benissimo il processo chimico, non poté fare a meno di chiedersi se quella notte anche la terra, come loro, avesse pianto la scomparsa di Abigail Reed.
Avanzò lentamente verso il vecchio fienile trasformato a stalla e solo quando aprì la pesante porta, lasciando entrare i primi raggi di sole di quel nuovo giorno, si rese conto che la prima delle sue più recenti visioni si stava avverando.
Flash lo accolse con un nitrito e Merlino gli accarezzò il muso passandogli accanto, poi proseguì fino alle scalette che portavano al soppalco in cui aveva spostato tutto ciò che non apparteneva ad una stalla: attrezzi da giardinaggio, vecchie sedie, pezzi di ricambio della Pininfarina, una ruota di bicicletta arrugginita.
Fu lì che trovò Alex, rannicchiata in un angolo, proprio dove doveva essere. Aveva i capelli scompigliati, gli occhi gonfi ed arrossati per il pianto, la ferita alla fronte che aveva ripreso a sanguinare sotto il grosso cerotto che le avevano applicato in ospedale, dopo che una collega preoccupata l'aveva convinta a farsi mettere dei punti, dicendole che non poteva entrare nella stanza di Abby in quelle condizioni. Ovviamente non erano mancate le domande su come si era procurata quel brutto taglio, ma Alex era stata abbastanza pronta da rispondere che aveva picchiato la fronte contro il comodino cadendo giù dal letto.
Non appena lo vide, sul suo volto si accese una scintilla di speranza, ma bastò un cenno del capo per farla ripiombare nello sconforto.
«È tutta colpa mia», farfugliò nascondendo di nuovo il capo tra le ginocchia.
Merlino non sapeva se si riferisse ad Artù o ad Abby. Probabilmente ad entrambi, conoscendola. La raggiunse e si lasciò scivolare seduto al suo fianco sulla segatura, quindi le avvolse un braccio intorno alle spalle e la invitò ad appoggiare il capo contro la sua spalla.
«No che non lo è. Sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato».
Alla fine la profezia dei custodi della magia si sarebbe avverata in ogni sua parte: Merlino si sarebbe sacrificato, oltre che per la sua nuova famiglia, anche per Artù.
Rimasero in silenzio per un po', ognuno immerso nei propri pensieri, confortati dalla presenza l'uno dell'altra. C'era una quiete, una pace, quasi surreale dopo tutto ciò che era accaduto in poco più di quarantotto ore. Fino ad allora la loro luna di miele era stata un disastro.
«Non posso sopportarlo», mormorò Alex ad un tratto, stringendogli forte le mani. «Ci dev'essere qualcosa che possiamo fare!».
«Una cosa c'è, lo sai».
Alex alzò gli occhi per incrociare i suoi e, nonostante l'impegno, non poté evitare di tremare rispondendo: «No. Non se ne parla, Merlino».
«È la nostra unica possibilità».
«La Triplice Dea non ci aiuterà senza pretendere qualcosa in cambio e sai perfettamente che cosa chiederà! Aspetta da secoli un'occasione del genere e non se la lascerà sfuggire, soprattutto se siamo noi a servirgliela su un piatto d'argento!».
Merlino sorrise teneramente mentre si interessava alla sua ferita: le tolse il cerotto e controllò che i punti non fossero saltati e che non ci fossero infezioni.
«Io ho vissuto il mio tempo, Alex. Ho vissuto anche troppo, ad essere onesti. Sono pronto ad andarmene, se servirà a...».
«No, no, no», lo interruppe posandogli le dita sulla bocca ed affondando il viso nel suo petto, scossa dai singulti.
«Io sto morendo in ogni caso», le disse ancora, accarezzandole la schiena e baciandole i capelli. «Vai dalla Triplice Dea e strappa il miglior accordo possibile. Credo in te, Alex».
L'infermiera si asciugò il viso e prese le loro mani per rimirare le loro fedi. Abbozzò persino un sorriso, mormorando: «Nessuna profezia aveva predetto questo, eh?».
Merlino ricambiò, sollevandole il mento per baciarle le labbra. «Ne sono grato».
Alex chiuse gli occhi per intrappolarvi le ennesime lacrime e gli strinse le braccia intorno al collo, baciandolo con più passione quella volta. Gentilmente, Merlino la fece sdraiare su un sacco di fieno e le accarezzò il ventre sotto la maglietta, sentendola tremare a quel tocco. Si fermò, pensando che forse non era saggio fare l'amore ora che Alex portava in grembo una creatura, ma l'infermiera aprì gli occhi e lo guardò con le guance arrossate di desiderio.
«Perché ti sei fermato?», gli domandò, esitante.
«Io...». Doveva dirle che sapeva della gravidanza? C'era sicuramente un motivo se continuava a mantenere il segreto, per questo decise di fidarsi e di rispettarlo.
Sorrise, accarezzandole i capelli. «Mi chiedevo se fosse il luogo giusto per la nostra prima volta da marito e moglie». O per l'ultima volta prima che io muoia.
«Ha davvero importanza?».
Merlino scrollò le spalle. «Non so, forse».
«Ti amo, Merlino. Per me un posto vale l'altro; anche l'inferno andrebbe bene, purché tu sia con me».
A quelle parole, non poté far altro che cedere. La riempì di baci, concentrandosi più del dovuto sul ventre senza spiegarle il motivo, e fecero l'amore con dolcezza, godendosi ogni battito del cuore, ogni brivido sulla pelle, ogni loro respiro, ogni piccola sfumatura delle loro voci, fino a giungere ad un piacere non solo del corpo, ma anche dell'anima. Poi, finalmente, Alex riuscì ad addormentarsi tra le braccia di Merlino.

***

«Artù è morto, non è vero?».
Cathleen sussultò e la forchetta che si stava portando alla bocca le cadde nel piatto. Tremando si portò entrambe le mani sul viso e Alex l'avvicinò a sé per massaggiarle un braccio con dolcezza.
«Non è ancora detta l'ultima parola», la rassicurò, per poi lanciare un'occhiata ammonitrice alla gemella che aveva fatto quella domanda. Dire se si fosse trattato di Doreen o Maureen era troppo presto, dato che da quando erano loro ospiti avevano parlato a malapena un paio di volte.
«Mi dispiace, Maureen non voleva essere indelicata», si scusò la gemella che a quel punto non poteva che essere Doreen: aveva i capelli legati e un maglione blu che metteva ancora più in risalto le efelidi che le tempestavano la pelle pallida.
Maureen si girò verso la sorella e a bassa voce, ma non abbastanza, sbottò: «Non si è mosso per due giorni e non sembra nemmeno respirare, perciò è piuttosto ovvio che...».
«Ma che ti prende?! Smettila!».
«Sto solo dicendo che è inquietante avere un morto in casa!».
«Adesso basta, tutte e due!», gridò Hanna, alzandosi in piedi per fulminarle con lo sguardo. Quindi si rivolse a Merlino, porgendo le proprie scuse chinando mestamente il capo.
Lo stregone sventolò una mano. «Grazie Hanna, ma capisco la confusione di Maureen». Allontanò anche lui il piatto e posò entrambi i gomiti sul tavolo, osservando la ragazzina coi riccioli sciolti e il pollice dalle cuticole martoriate alla bocca. «Lo spirito di Artù al momento non si trova nel suo corpo, ma non è nemmeno dall'altra parte, siccome le porte di Avalon sono state messe in sicurezza dagli Sidhe. È in una specie di limbo, da cui speriamo di riuscire a farlo tornare».
«Come?», chiese Elijah, intento a spolpare all'osso la propria coscia di pollo.
Merlino e Alex si scambiarono un'occhiata e Cathleen, insospettita dal loro silenzio, si tolse le mani dal viso e se ne accorse.
«Che cosa c'è? Sapete come salvare Artù e non mi avete detto nulla? Che razza di...!».
«Questa mattina ho proposto ad Alex di andare dalla Triplice Dea», la interruppe Merlino, incupendosi.
Il paramedico capì ciò che questo avrebbe comportato e si voltò verso Alex, la quale aveva smesso di accarezzarle il braccio per stringere forte i pugni in grembo, il capo abbassato. Dire che era mortificata era un eufemismo.
«Lo sai che non ti chiederei mai una cosa del genere», provò a scusarsi.
«Ma non c'è altro modo», insistette Merlino.
A quel punto intervenne Elijah, dopo essersi pulito le dita unte sul tovagliolo.
«Gli spiriti del ruscello che abbiamo incontrato... hanno detto che gli Sidhe non riusciranno a tenere chiuse le porte del mondo degli spiriti ancora per molto, che serve una nuova custode. E se questa custode fosse in grado di rispedire lo spirito di Artù nel suo corpo?».
«Non so se la custode di Avalon possa fare una cosa del genere. E prima dovremmo comunque trovare una custode».
«La vostra amica che è appena morta potrebbe...».
Maureen venne bruscamente interrotta dalla sorella, paonazza in volto per la sua sfrontatezza. Per essere gemelle, avevano caratteri ben diversi.
Merlino notò Alex alzare di scatto il capo e guardare la rossa con gli occhi sgranati, ma diede la colpa allo shock. Quindi riportò la propria attenzione su Elijah e concluse: «Se anche riuscissimo per miracolo a riportare lo spirito di Artù nel suo corpo, per quanto durerebbe con quel frammento di spada nel suo petto? Solo la Triplice Dea è in grado di purificarlo».
«Ma quello che vorrà in cambio...», Cathleen scosse il capo e si sporse per stringergli una mano. «Amo Artù, con tutto il mio cuore, ma non voglio perdere te».
Merlino sorrise dolcemente, ricambiando la stretta. Forse Cathleen aveva davvero qualcosa di Ginevra, in fondo.
Alex si alzò di scatto, facendo stridere i piedi della sedia sul pavimento in ceramica, e senza dire una parola uscì dalle porte scorrevoli che davano sulla veranda. Si passò le mani tra i capelli, la schiena che si alzava e si abbassava al ritmo dei suoi respiri concitati. Quindi corse al centro del giardino, prese la prima arma che trovò sull'espositore - una mazza ferrata - e urlando iniziò a fare strage dei manichini che erano rimasti in piedi dal suo ultimo allenamento con Artù.
«Hai visto cos'hai fatto? Spero tu sia contenta», disse tra i denti Doreen, schiaffeggiando il braccio della gemella.
«Oh, scusami tanto se tra le due io sono la più realista», rispose a tono, ricambiando lo schiaffo.
Le due si lanciarono un'occhiata astiosa prima di ritornare a fissare i loro piatti mezzi pieni. L'unico che non aveva mai smesso di rimpinzarsi era stato Elijah, a cui l'appetito non mancava nemmeno in una situazione del genere.
«Mi dispiace molto, ma sono d'accordo con Maureen», esordì quest'ultimo con tono rassegnato, portandosi alla bocca il proprio bicchiere di Coca-Cola. «Le possibilità di riavere indietro Artù sono... poche. Ma se posso aiutarvi in qualche modo lo farò».
«Grazie, Elijah», disse Merlino alzandosi a sua volta. «Che ne dici di sparecchiare e mettere i piatti in lavastoviglie?».
Il druido non ne fu felice, ma serrò le labbra ed annuì con un cenno del capo.
Cathleen seguì il mago in veranda e guardò in silenzio Alex, la quale non aveva più le energie per sollevare la mazza ferrata e si era seduta a terra, la faccia nelle mani e una sfilza di manichini distrutti intorno a lei.
«Ho una tremenda voglia di fumare», mormorò il paramedico, strofinandosi le mani tra loro.
«Fai pure».
«No, ho deciso di smettere».
Lo stregone la fissò incuriosito. «Perché?».
Cathleen ricambiò lo sguardo, il volto arrossato per l'imbarazzo. Non poteva dirgli che lo stava facendo per solidarietà, per tenere Alex lontana dalla tentazione.
«Ho capito, è per la camminata sulle Black Mountains? Hai visto che non riuscivi a starci dietro», la tolse Merlino dall'impaccio, sorridendo in modo fin troppo accondiscendente.
«Sì, proprio così», mormorò, chiedendosi se in realtà Merlino non avesse scoperto la verità e stesse solo aspettando il momento in cui Alex gli avrebbe finalmente confessato di essere incinta.
«Bene, sono contento. Avrai bisogno di essere al top della forma per prenderti cura di Alex quando io non ci sarò più».
Il paramedico sentì il cuore sprofondarle nel petto ed impiegò qualche secondo per reagire. «Non posso permetterlo, Merlino».
Il mago si girò verso di lei e le rivolse lo sguardo più minaccioso che avesse mai visto. Nei suoi occhi c'era di tutto: rabbia, dolore e tanta, tanta tristezza.
«Mi hai fatto una promessa, Cathleen. Mi hai promesso che ti saresti presa cura di Artù, ricordi?».
«Sì, ma non a discapito della tua vita!», replicò a mezza voce, picchiandogli un pugno sul petto mentre le lacrime minacciavano di rigarle il volto. «Non posso scegliere tra te e lui! Non potrei più guardare in faccia Alex, se tu...».
Merlino l'attirò in un abbraccio e si chinò per sfiorarle l'orecchio con le labbra e sussurrare: «Io non morirò, Cath. Io sono la magia in persona e quando tornerà, tornerò anche io».
Cathleen si scostò e cercò i suoi occhi. Lasciò che Merlino le spazzasse via le lacrime dal viso con i pollici, il resto delle dita a tenerle alto il capo, e guardò il suo sorriso mesto e sincero.
«Adesso non c'è bisogno di tirarsela in questo modo», lo prese in giro alla fine, scostandosi.
Merlino ridacchiò e la lasciò sotto il portico per raggiungere Alex e lasciarsi stringere forte.

***

«Lo faremo, sapete?».
Merlino e Cathleen osservarono Alex, seduta allo scrittoio dell'antenato, accanto al fuoco acceso nel camino. Le fiamme sembravano danzare su di lei, rendendo i suoi occhi ancora più lucidi e i suoi capelli arancioni come il sole al tramonto.
«Che cosa?», domandò Merlino, alzandosi dalla sedia accanto al letto per avvicinarsi. Si fermò accanto al pilastro intagliato del baldacchino e vi si appoggiò con una spalla, scosso dalle parole della moglie.
«Ho avuto una visione in cui mettavamo Abby su una barca e la spingevamo sul lago di Avalon. Maureen ha ragione: la renderemo la nuova Dama.
«No», esclamò Cathleen, seduta a gambe incrociate sul materasso, una mano fredda di Artù tra le sue. «Non possiamo farle questo. Avete visto in che cosa si è trasformata Freya!».
«Ma Avalon ha bisogno di una custode e più tempo aspettiamo, più rischiamo che tutti gli spiriti malvagli si riversino su di noi», intervenne Merlino.
Alex annuì e con voce monocorde disse: «Esatto».
«È una follia», insistette Cathleen.
A quel punto l'infermiera si girò e con gli occhi stretti in due fessure, la voce controllata a stento, spiegò: «Pensaci, Cathleen. Qualcuno deve prendere il posto di Freya, su questo non ci piove. Preferiresti una persona qualunque, oppure un'amica di cui ti fidi e che ha sempre sperato di poter fare qualcosa di importante nella sua vita? Quante volte ha detto di voler lasciare il segno, di sperare che ci fosse qualcosa dopo la morte? Questo potrebbe essere il suo destino».
«E se lei non volesse? A Freya non è stato chiesto e guarda che fine ha fatto!».
«C'è anche da dire che io non avevo idea che l'avrei resa la custode di Avalon», mormorò Merlino, lo sguardo rivolto verso il pavimento di legno.
«Lo chiederemo a Mark», esclamò Alex e si girò, come se la discussione per lei fosse terminata.
«A Mark?», ripeté lo stregone. «Questo comporterebbe che noi...».
«Gli diremo tutto, sì. Merita di sapere che c'è di più di quanto crede in questo mondo».
Merlino sospirò, massaggiandosi gli occhi stanchi. «Alex...».
«Basta, è deciso. Non abbiamo più tempo per pensare ad altro».
Si alzò in piedi e respirando profondamente aprì una grande mappa del Galles meridionale, quindi iniziò a confrontarla con quella che Merlino aveva disegnato su uno dei suoi diari.
«Che cosa stai cercando?», le chiese quest'ultimo, arrendendosi al fatto che non sarebbe riuscito a farle cambiare idea.
«Il Calderone di Arianrhod. È lì che si trova la Triplice Dea, giusto?».
Merlino e Cathleen si scambiarono una nuova occhiata sconcertata e Alex dovette trattenersi per non urlare loro di smetterla. Era tutto il giorno che si parlavano con gli occhi quando lei sembrava non vederli e iniziava seriamente a pensare che le stessero dando corda solo per farla stare buona, come se fosse una pazza da assecondare. O forse, cosa ancora più probabile, avevano parlato e avevano in mente un piano loro, di cui non volevano renderla partecipe.
Non riuscì più a reggere la pressione e picchiò entrambi i pugni sullo scrittoio, facendosi male ai polsi già doloranti per via della battaglia e degli sforzi che aveva fatto quel pomeriggio con la mazza ferrata.
Merlino la fermò intrappolandola nel suo abbraccio e all'inizio provò a dimenarsi, ma alla fine crollò e si accasciò contro di lui, sfinita.
«Se avete delle idee migliori ditemelo, perché... perché sto impazzendo», mormorò. «Non voglio avere un'altra morte sulla coscienza, non posso perdere Artù e di certo non posso perdere te, Merlino...».
Lo stregone posò le labbra sul suo capo, accarezzandole le spalle. Senza ripeterle ciò che le aveva detto nel fienile, la fece sedere nuovamente sulla sedia che aveva intagliato con le proprie mani per Artù e con un cenno della mano invitò anche Cathleen a raggiungerli. Quindi esaminò le due mappe e dopo qualche secondo indicò un punto oltre le Black Mountains, non lontano da un piccolo centro abitato.
Alex prese subito il cellulare e digitò la località sul motore di ricerca, scoprendo che gli abitanti andavano orgogliosi di una e una cosa soltanto: il vastissimo golf club che sorgeva tra le colline e i boschi di querce e betulle. Al suo interno - precisamente vicino alla buca diciotto - c'era anche un magnifico lago, in un'area scavata tra le rocce e quindi particolarmente difficile per gli appassionati.
«Mi stai prendendo in giro?», domandò Alex stancamente, una mano sulla fronte.
«Purtroppo no».
«Quindi... La potente Triplice Dea abita in un golf club», esclamò esasperata Cathleen, prima di alzare gli occhi al cielo e aggiungere: «Perché ancora mi stupisco di come vanno le cose con voi?».
Merlino abbozzò un sorriso e le strinse una spalla, facendo lo stesso con Alex poco dopo, chinandosi anche per posarle un bacio sulla tempia.

***

«Merlino, siamo pronte quando lo sei tu», sussurrò Alex all'auricolare collegato allo smartphone.
Era notte fonda - l'unico momento in cui il campo da golf sarebbe stato deserto - e come due perfette ladre Alex e Cathleen stavano aspettando che Merlino, al "quartier generale", facesse la sua magia con le telecamere di sicurezza prima che loro potessero tagliare la recinzione ed intrufolarsi nel percorso.
Avevano lasciato l'auto a quasi un miglio di distanza, ma erano abbastanza vicine alla diciottesima buca. In meno di un quarto d'ora avrebbero affrontato la Triplice Dea e Alex era così nervosa che avrebbe voluto prendere Cathleen per mano.
Cathleen... la guardò e sorrise, pensando a quando l'aveva avvicinata la prima volta per chiederle una sigaretta. Sembravano passati secoli da allora.
«Che cosa c'è?», le chiese proprio il paramedico, con la fronte corrugata.
«Niente».
«Stavi sorridendo».
«Pensavo al nostro primo incontro», le confessò, tornando a fissare il campo oltre la recinzione. Si era persino dimenticata di avere ancora Merlino in linea, il quale poteva ascoltare tutto ciò che si stavano dicendo.
«Se me l'avessero detto allora, che saresti diventata la mia migliore amica e che ci saremmo trovate qui oggi, non ci avrei mai creduto».
«Sono... sono la tua migliore amica?».
Dalla sua espressione allibita e al contempo imbarazzata, Alex capì che non se lo aspettava davvero.
«Ma certo. Pensavo fosse ovvio».
Cathleen le si gettò addosso, stritolandola in uno dei suoi abbracci. Con la bocca vicino all'orecchio destro, quello privo dell'auricolare, sussurrò: «Non sei costretta ad accettare le condizioni di questa stupida Dea. Non devi sacrificare Merlino. E se... se Artù morirà... non te ne farò una colpa. Voglio che tu lo sappia».
Il paramedico sciolse l'abbraccio per guardarla negli occhi, l'ombra di un sorriso sul volto illuminato dalla luna, e Alex ricambiò, sinceramente grata per quelle parole.
Vennero interrotte da Merlino, il quale parlò nell'orecchio dell'infermiera: «Andate pure».
Alex trovò strano che ci avesse messo così tanto - con le sue capacità da hacker - e si domandò se in realtà non avesse atteso proprio che si scambiassero quelle ultime confidenze a cuore aperto prima di affrontare la Triplice Dea.
«Grazie», sussurrò portandosi il microfono vicino alla bocca, sperando che capisse il sottinteso. Quindi prese le cesoie ed iniziò a tagliare la recinzione.

«Wow», soffiò Cathleen, alzando gli occhi sulla parete di roccia che sembrava toccare il cielo scuro e punteggiato di stelle.
Alex, in piedi al suo fianco, non riusciva a distogliere gli occhi dalla superficie dell'acqua, talmente piatta e riflettente da sembrare uno specchio. Attratta dalla potente magia, si lasciò trascinare fino alla riva ciottolosa e fu solo grazie a Cathleen che non finì zuppa.
«Devi evocare la Dea, non farci una nuotata».
L'infermiera rinvenne ed arretrò di un paio di passi, cercando di capire che cosa le fosse successo. Se Excalibur l'aveva tormentata ogni volta che vi stava lontana, la vista di quel lago e il non poter entrarci dentro le provocava del vero dolore fisico. Alex respirò profondamente e tirò fuori dalla tasca della giacca di pelle un foglietto su cui Merlino aveva scritto l'incantesimo di evocazione. Lo recitò come si era esercitata e sentì un'ondata di magia travolgerla da capo a piedi e poi attraversare la terra per raggiungere il lago, ma non accadde nulla.
«Che cosa significa?», domandò Cathleen.
«Non lo so, io...».
"Non capisco, avrebbe dovuto funzionare", le disse Merlino attraverso l'auricolare. Almeno non era colpa della sua pronuncia.
Rimasero in silenzio, in trepidante attesa, per minuti che sembrarono ore. Alla fine Cath si portò le mani tra i capelli e si accucciò a terra.
«Maledizione», mormorò. Poi alzò il capo e posò le ginocchia a terra, prese un sasso e lo lanciò verso il lago, gridando ancora: «Maledizione!».
Lo specchio d'acqua si increspò in cerchi ripetitivi, facendo tremolare il riflesso della luna, per poi tornare alla perfetta immobilità.
Alex non poteva credere di aver fatto tutta quella strada per nulla, non poteva accettarlo. Strinse nel pugno il ciondolo di Morgana, chiedendole consiglio, ma anche lei sembrava averla abbandonata.
"Alex, parlami", le disse all'orecchio Merlino.
«E va bene», esclamò con determinazione. «Io entro».
«Che cosa? Non ci pensare nemmeno!», si oppose il paramedico, sollevandosi per afferrarla per un gomito. Nei suoi occhi c'era un terrore che non aveva mai visto prima di allora.
«Ti ho raccontato cos'è successo ad Artù quando ha provato ad entrare ad Avalon. E se venissi risucchiata pure tu?».
«Credimi, non lo farei se non fosse necessario. Ma qualsiasi cosa ci sia là dentro mi sta chiamando, lo sento», replicò Alex, stringendo le mani dell'amica. Abbozzò un pallido sorriso, aggiungendo: «E poi tutto è iniziato quando mi sono tuffata dentro Avalon per ripescare Artù, è giusto che finisca così».
"Non finirà così. Tu ne uscirai, Alex. Devi uscirne", disse Merlino tramite l'auricolare.
L'infermiera sorrise, nonostante sapesse benissimo che lui non poteva vederla. Ritrasse lentamente le mani da quelle di Cathleen e le diede le spalle per parlare in privato con suo marito.
«Qualsiasi cosa succeda...», iniziò a dire, chiedendosi se fosse un buon momento per dirgli di essere incinta. Non le avrebbe permesso di tuffarsi, poco ma sicuro, e sapeva che era ciò che doveva fare.
"Lo so", la interruppe Merlino, con tono infinitamente dolce.
Alex ridacchiò e si tolse l'auricolare, quindi senza chiudere la comunicazione passò il cellulare a Cathleen.
Si tolse le scarpe e si spogliò fino a rimanere in intimo, lasciò tutto sull'acciottolato e si avvicinò alla riva, sentendo la magia attirarla come il canto di una sirena. Ad ogni passo si sentiva più leggera, come se ogni sua preoccupazione svanisse, e Alex avrebbe tanto voluto che quella pace fosse vera. Purtroppo non era così, lo sapeva fin troppo bene.
Si aggrappò quindi a tutto ciò che amava, alle persone per cui avrebbe combattuto fino all'ultimo respiro, al ricordo di ogni singola lacrima che aveva versato, e ad occhi chiusi entrò nell'acqua. Il freddo le intorpidì le dita dei piedi e presto le avviluppò i polpacci, ma Alex continuò ad avanzare. Quando fu immersa fino alla vita e i brividi erano così intensi da farle battere i denti, solo allora riaprì gli occhi e si rese conto che l'acqua intorno a lei stava brillando. Era come se sotto di lei ci fosse stato un faro che la seguiva ovunque andasse, racchiudendola in un cilindro di luce bianca, tanto intensa da ferirle gli occhi.
Si voltò verso Cathleen, vedendola sbracciarsi e chiamarla oltre la parete di luce, ma prima che potesse ricambiare in qualche modo delle mani l'afferrarono per le caviglie e la trascinarono sott'acqua.

Alex riaprì gli occhi di scatto, inspirando tutta l'aria che poté e tastandosi la gola bruciante. Quando si rese conto che non era annegata come pensava sarebbe successo, vista tutta l'acqua salmastra che aveva ingerito, si tirò su a sedere e si guardò intorno per capire dove fosse.
Il cuore le schizzò in gola riconoscendo quel salotto dalle pareti di legno, col caminetto acceso e il divano dalla fantasia a quadrettoni su cui si trovava. C'era stata solo un paio di volte, quand'era piccola, ma non l'avrebbe mai dimenticato.
Sulla poltrona accanto all'ampia finestra incassata in una cornice di mattoni a vista, era seduta sua nonna, in carne ed ossa, intenta a sfogliare un grosso libro con un'usurata copertina di pelle.
Alex cercò di controllare le pulsazioni e di convincersi che doveva trattarsi di una magia, un trucco della Triplice Dea per estorcerle chissà cosa o semplicemente divertirsi a sue spese. O forse stava davvero morendo e quella era solo una delle fermate obbligatorie prima di poter raggiungere l'aldilà. Che cosa le aveva detto sua madre? Che lei e tutti i loro antenati si sarebbero riuniti ad Avalon.
«Ciao, Alexandra», disse sua nonna, con lo stesso tono di voce che usava quand'era una bambina e rivolgendole persino lo stesso sorriso. Chiuse il libro e tenendolo sulle gambe, coperte da uno scialle di lana, si tolse gli occhiali dal viso per poterla guardare con più attenzione.
«Cosa c'è che non va? Stai tremando. Vieni, avvicinati al camino».
L'infermiera, rigida come un tronco, si alzò e solo allora si rese conto di indossare gli stessi vestiti che si era tolta prima di entrare nel lago: erano asciutti contro la pelle, eppure avvertiva ugualmente un freddo incredibile. Si accucciò accanto alle fiamme, ma nemmeno quelle riuscirono a riscaldarla. Che fosse davvero la fine? No, non l'avrebbe permesso. Cathleen la stava aspettando in quel campo da golf, come Merlino e Artù e suo padre e tutti gli altri.
«Devo andarmene da qui», esclamò, sollevandosi nuovamente. Ogni movimento le costava una tremenda fatica, ma non si sarebbe arresa.
«Ma come, sei stata tu ad invocarmi e già te ne vuoi andare?».
Alex posò gli occhi su quella vecchia che aveva l'aspetto di sua nonna, incredula. «Tu sei... Tu sei la Triplice Dea?».
«È uno dei miei nomi, sì», rispose sorridendo. «E ammetto di essere molto colpita, Alexandra. Non pensavo avrei mai avuto l'onore di incontrarti, non dopo il tuo giuramento... Ma d'altronde gli esseri umani sono volubili, la loro fedeltà cambia in base a ciò che più gli conviene».
L'infermiera strinse i pugni lungo i fianchi, il volto contratto dall'ira. «Se non sbaglio, ho giurato che avrei cambiato il destino di Artù e Merlino e che vi avrei fatto pentire di tutte le vostre macchinazioni».
«Eppure eccoti qui, con la precisa intenzione di ricavare da me la soluzione. Io vincerò, Alexandra. Lo sai anche tu».
«Come fai ad esserne tanto sicura?».
La Dea, nelle sembianze di sua nonna, si alzò dalla poltrona e sollevò davanti al petto il libro che stava sfogliando prima che si svegliasse. Sulla copertina c'era un simbolo argentato: due mezzelune a formare un cerchio e altre due ai rispettivi lati, come parentesi tonde al contrario.
«Perché stai parlando con la rappresentazione della Saggezza. Merlino non te l'ha spiegato perché vengo chiamata Triplice Dea?».
Sì, l'aveva fatto, ma il quel momento Alex non riusciva a mettere insieme i pezzi. Si sentiva intontita, come se il freddo le avesse congelato il cervello.
Quanto tempo aveva prima di morire assiderata, o annegata, nelle acque del Calderone di Arianrhod?
Si avviò verso la finestra che dava sul giardino dalle aiuole fiorite, ma la Dea le si parò davanti e Alex, nel tentativo di scostarla, finì tra le sue braccia.
«Non posso rinunciare a Merlino, non posso», disse con voce flebile, ma ferma.
«Lo so, bocciolo mio».
Alex trasalì e come se le avessero appena iniettato una fiala di adrenalina nel cuore arretrò, trovandosi nello studio da pittrice di sua madre. E al suo cospetto c'era proprio lei, Ellen, col suo sorriso amorevole. Crudele, persino per una Dea che si era vista arrivare nel suo tempio decine di palline da golf.
«Mamma...», mormorò, sentendo le lacrime inondarle gli occhi e rigarle il viso.
La donna si avvicinò e con cautela le accarezzò una guancia. «Sei così cresciuta...».
L'infermiera chiuse gli occhi, continuando a ripetersi che era solo un'illusione. Non riuscì però a trattenersi e portò una mano su quella della madre, premendola con più forza contro la sua pelle irritata.
«E ti sei anche sposata», commentò Ellen. «Con l'unica persona in grado di infrangerti il cuore».
Alex riaprì gli occhi, trovando in quelli della mamma una compassione degni della Vergine Maria. La Madre, un'altra rappresentazione della Triplice Dea.
«Lo dicevi sempre anche tu: l'anima gemella è una benedizione tanto quanto una maledizione», rispose l'infermiera.
«Oh, amore mio... Lo sai che succederà, non puoi evitarlo. La nostra famiglia è abituata ai sacrifici, siamo forti».
Alex scosse il capo, allontanandosi dal tocco di sua madre col cuore infranto. «Non posso farlo, mi dispiace».
Lo schiaffo arrivò forte ed inaspettato, tanto che si ritrovò ad occhi chiusi e con un sapore metallico in bocca. Sua madre non l'aveva mai picchiata, nemmeno durante le loro peggiori litigate. Quella fu la scossa in grado di farle capire che per quanto fosse stato bello rivederla, era stato tutto finto.
Respirò profondamente, sentendo i polmoni bruciarle nella cassa toracica, e riaprì gli occhi per ritrovarsi nella sua vecchia camera, nella casa di Cardiff. L'unica luce accesa era quella della scrivania, sommersa di libri di medicina. Il silenzio era interrotto da deboli singhiozzi e Alex, girandosi verso il letto alle sue spalle, riuscì appena in tempo ad abbassarsi per evitare il caschetto da equitazione nero che la sua doppelgänger più giovane le aveva lanciato contro.
«E così sei davvero disposta a rinunciare a tutto per Merlino? Il lavoro in ospedale, la carriera per cui ti sei impegnata così tanto, i tuoi sogni? Lascerai che il mondo diventi un ammasso di cenere, per lui?».
L'Alex più giovane si alzò e la fronteggiò con la ferocia degli adolescenti.
Vedersi in quello stato la turbò, specialmente perché sapeva che c'era stato un tempo in cui era stata davvero così arrabbiata. All'epoca, quando suo padre aveva tradito la sua fiducia, aveva pensato che il mondo non meritasse nulla. E ora la rimproverava perché preferiva Merlino al mondo intero? La Dea stava finendo gli assi nella manica. O almeno così credeva.
«Negherai un futuro persino alla nostra bambina?», le gridò in faccia, afferrandola per le spalle e scuotendola con espressione disperata. Dopodiché le strinse le braccia intorno al collo, singhiozzando contro la sua spalla.
Alex si abbracciò, sentendo il cuore sgretolarsi nel petto. La sua bambina...
«Io voglio salvare tutti, Merlino compreso», sussurrò. «Se è la sua magia che vuoi puoi prendertela, lui stesso l'ha rinnegata... Ma permettigli di vivere. Ti prego, Dea. Farò qualsiasi cosa in cambio, lo giuro».
Il pavimento tremò e la giovane Alexandra Greenwood sfrigolò tra le sue braccia, trasformandosi nella stessa luce bianca che l'aveva avvolta una volta immersa nell'acqua del lago. Tuttavia era ancora consistente tra le sue braccia e l'infermiera sentì il suo respiro caldo sull'orecchio quando le sussurrò con voce suadente, ben diversa da quella di sua nonna, di sua madre o dalla propria: «Lo giuri?».
Alex non avrebbe dovuto giurare senza prima conoscere le condizioni del patto, Merlino l'aveva già avvertita una volta, ma era talmente stanca e desiderosa di tornare alla realtà che diede la sua parola.

***

«Alex! Alex, ti prego!».
Con mani tremanti, Cathleen si riportò il cellulare all'orecchio e disse: «Merlino, da quanto tempo è là sotto?».
"Quattro minuti e cinquantasette secondi", rispose in tono lugubre.
«E va bene, entro anch'io».
"Non dire idiozie, Cathleen".
«Sono piuttosto sicura che senza ossigeno si muoia. E a meno che Alex non si sia fatta crescere le branchie...».
"Lo so benissimo, ma devi renderti conto che c'è la Triplice Dea con lei. Che motivo avrebbe di lasciarla morire? È me che vuole".
«Quindi pretendi che io me ne stia con le mani in mano mentre la mia migliore amica è lì dentro? Non se ne parla!».
"Cathleen, no!".
Il paramedico gettò il cellulare nell'erba e a passo deciso si diresse verso la riva. Stava perdendo Artù, non poteva permettersi di perdere anche Alexandra.
Si era appena calciata via le scarpe, quando lo stesso fascio di luce bianca in cui aveva visto sparire l'infermiera la risputò fuori. Cathleen a quel punto non ebbe più esitazioni e si gettò nel lago per raggiungerla, chiamandola a squarciagola. La bionda sembrava priva di sensi e se quella luce non l'avesse tenuta a galla nell'acqua sarebbe di certo annegata. Forse Merlino aveva avuto ragione a dire che la Triplice Dea non la voleva morta.
«Da qua ci penso io, grazie», esclamò il paramedico afferrando l'amica e passandole un braccio sotto l'ascella in modo da tenerle il volto fuori dall'acqua. Nello stesso istante la luce si spense e Cathleen iniziò a nuotare a dorso verso la riva, battendo i denti per il freddo.
Ringraziò il cielo quando sentì il terreno sotto i piedi e poté sollevarsi per trascinare il più delicatamente possibile Alex sul pietrisco.
«Ehi! Alex, apri gli occhi!», la chiamò, dandole degli schiaffettini sul volto. Non funzionò. «Ah, maledizione!».
Si tirò indietro i capelli e si inghinocchiò al suo fianco per iniziare il massaggio cardiaco. Con le mani sul suo sterno, la chiamava ad ogni spinta. Poi si chinò sul suo volto, le chiuse il naso tra due dita e soffiò nella sua bocca. Ripeté l'operazione un'altra volta e finalmente Alex riaprì gli occhi, si voltò di lato e sputò parte dell'acqua ingerita.
«Grazie a Dio», mormorò Cathleen, passandosi un polso sulla fronte.
Quando Alex finì di rimettere tornò sdraiata, ansimante, e guardò Cathleen con occhi spenti.
«Che cosa diamine stavi facendo?», le chiese, per poi aprirsi in un debole sorriso e aggiungere: «Sono una donna sposata, adesso».
Cath scoppiò a ridere, mandandola a quel paese con tutte le espressioni verbali del suo repertorio.

***

Merlino le stava aspettando seduto sui gradini del porticato e quando vide l'auto di Alex, con Cathleen alla guida, si concesse un enorme sospiro di sollievo.
Le aveva sentite al cellulare e sapeva che erano entrambe uscite vive da Arianrhod, ma non era riuscito a liberarsi dal macigno che gli pesava sul petto. Solo quando poté aprire la portiera dal lato del passeggero e tirare fuori Alex per stringerla forte al petto, con una mano tra i suoi capelli ancora bagnati, fu in grado di disfarsene.
Dall'espressione grave sul volto di Cathleen, la quale si liquidò subito con la scusa di voler controllare le immutate condizioni di Artù, Merlino capì che Alex doveva aver preso l'unica decisione possibile e ne aveva reso partecipe il paramedico.
La guardò negli occhi limitandosi a rivolgerle un sorriso carico di comprensione e poi tornò a stringerle un braccio intorno alle spalle mentre l'accompagnava in casa. La fece sedere sulla poltrona in salotto (il divano era occupato da Elijah), davanti al camino acceso, e le avvolse intorno una coperta, poi andò a versarle una tazza di té, preparato sempre mentre attendeva il loro ritorno.
Quando tornò dalla cucina però trovò l'infermiera rannicchiata sul tappeto, scossa da singhiozzi silenziosi. Merlino lasciò la tazza sul tavolino e si sdraiò al suo fianco, stringendola a sé come aveva fatto la prima volta che avevano trascorso la notte insieme. Da allora sembravano passati anni e non pochi mesi.
Non ci fu nemmeno bisogno di parlare.
Alex pianse tutte le sue lacrime contro il suo petto, stringendo la sua maglietta tra i pugni, poi si addormentò.
Merlino rimase a fissare il fuoco che pian piano si affievoliva e si spegneva, lasciando solo dei carboni ardenti e poi nemmeno più quelli, certo che il sole sarebbe sorto ancora, con o senza di lui.

***

Tre giorni dopo

Mark aveva preso incredibilmente bene tutta la questione della magia. O forse, più probabilmente, aveva perso interesse per qualsiasi cosa ora che non c'era più un'Abigail Reed con cui condividerla.
Aveva ascoltato in silenzio ciò che Alex e Merlino gli avevano raccontato, nella privacy della sua stanza d'ospedale, e l'unico momento in cui aveva avuto una reazione era stato quando gli avevano messo davanti la possibilità di dare ad Abby una seconda vita, permettendole di lasciare il famoso segno nel mondo di cui tanto aveva sognato.
«Potrò parlarle ancora?», aveva chiesto, gli occhi illuminati da una piccola scintilla di speranza.
Merlino e Alex si erano guardati ed avevano annuito, dicendogli che Abby sarebbe diventata la custode di Avalon e sarebbe stata immortale.
«Allora fatelo».
Peccato che mettere in pratica la loro idea non era stato altrettanto semplice.
Tantissime persone avrebbero partecipato al funerale, molte più di quelle che pensavano, e scambiare le bare sulla strada del cimitero sarebbe stato impossibile, così Merlino, il quale si era incaricato di organizzare il tutto al posto di una distrutta signora Chapman, aveva allestito una camera ardente all'interno dell'ospedale in modo che gli amici potessero salutare Abby prima del funerale, quando ormai la bara sarebbe rimasta  chiusa e vuota.
L'impresario delle pompe funebri non aveva fatto troppe domande quando Merlino aveva commissionato due bare identiche, però aveva iniziato ad insospettirsi quando gli era stata chiesta a noleggio anche un'auto funebre. Era bastato un assegno per comprare il suo silenzio.
 
L'alba li colse di sorpresa, nel grande salotto di Merlino. Nessuno se l'era sentita di andare a dormire e avevano parlato per tutta la notte, ricordando i bei momenti trascorsi con Abby. All'ora stabilita svegliarono i giovani maghi assoldati da Freya e si diressero verso Avalon, mentre Cathleen li avrebbe raggiunti più tardi con Mark, dopo averlo aiutato a sgattaiolare fuori dall'ospedale.
Alex scese dall'auto e seguita da Hanna e dalle gemelle dovette percorrere solo una ventina di metri per emergere dal folto della vegetazione e trovarsi davanti ad Avalon, la cui superficie piatta rifletteva come uno specchio il cielo azzurro, le nuvole bianche e soffici come zucchero filato e i primi raggi del mattino. Come nella sua visione, non c'era traccia della solita nebbia e l'isoletta al centro del lago era ben visibile, così come la torre diroccata che, solo ora se ne rendeva conto, doveva essere andata in macerie quando Freya era morta, rendendo così privo di difese il cancello del regno degli spiriti.
Immersa com'era nei suoi pensieri, Alex non si era nemmeno resa conto dell'arrivo di Cathleen e Mark. Fu Merlino a riportarla alla realtà, con voce gentile: «Noi siamo pronti».
Alex si voltò e percorse con lo sguardo la sua intera figura, rapita dalla sua bellezza nonostante l'occasione e i lividi riportati nella battaglia con l'ex-custode di Avalon: indossava lo stesso completo scuro del funerale, i capelli ormai completamente bianchi erano pettinati alla bell'e meglio sulla testa e i suoi occhi azzurri, lucidi di lacrime, brillavano come pietre preziose. Dietro di lui c'erano Cathleen e Mark in sedia a rotelle, a loro volta elegantissimi e dalle espressioni addolorate. Nelle retrovie, ai confini del bosco, c'erano Elijah, Hanna, Maureen e Doreen.
L'assenza di Artù era così dolorosa che Alex dovette abbassare gli occhi sul proprio vestito, quello che vedendolo nell'armadio non aveva potuto fare a meno di indossare, stanca di combattere contro l'inevitabile. La gonna a pieghe era lunga fino ai piedi e il corpetto tempestato di brillanti le stringeva i fianchi e il seno, per poi trasformarsi in un velo sottile che le copriva le spalle e il collo.
«Facciamolo», mormorò sollevando di nuovo il capo verso il sole nascente.
Merlino ed Elijah si caricarono la bara sulle spalle e Mark li volle aiutare ad ogni costo, ignorando il tremore delle sue gambe. Insieme la portarono fino alla riva del lago, dove lei e le ragazze avevano ricoperto con foglie e fiori profumati la barchetta che tante ne aveva viste e che, imperterrita, continuava a ricomparire ogni volta che ne avessero bisogno.
Il ragazzino cadde in ginocchio accanto alla bara, senza più riuscire a trattenere le lacrime e i singhiozzi. Graffiò la verniciatura del legno con le unghie e mentre piangeva chiamava il nome di Abby in una nenia spaccacuore.
Alla fine fu Merlino ad allontanarlo e ad aprire la bara per sollevare il corpo senza vita della ragazzina, bellissima nel vestito che aveva scelto per la sepoltura: sembrava quasi una sposa, grazie alla seta e al pizzo che le fasciava la pelle diafana delle braccia. La adagiò con delicatezza tra i fiori e poi Mark poté chinarsi su di lei per un ultimo bacio.
Merlino aspettò che il ragazzino si spostasse prima di spingere la barca sull'acqua con l'aiuto di Elijah. Quindi infilò la mano in quella di Alex e le sussurrò: «Sei pronta?».  
«No», confessò, ma con la mano destra estrasse comunque Excalibur dal fodero che Cathleen le stava porgendo e lasciò che la sua magia le fluisse lungo il braccio fino a raggiungerle il cuore. Il ciondolo di Morgana si riscaldò contro il suo petto, assorbendone l'oscurità.
«Westiray. Wecce on saebat baelfyra maest», pronunciò l'incantesimo come le aveva insegnato lo stregone.
La barchetta si spinse a largo, guidata da una forza invisibile, e successivamente prese fuoco. Mark trasalì, inginocchiato sull'erba, ma non distolse mai lo sguardo. Con la coda dell'occhio, Alex vide alle sue spalle Elijah farsi un rapido segno della croce e poi chinarsi su un ginocchio.
Ci vollero una decina di minuti prima che la barchetta affondasse, trascinando con sé il corpo di Abby. Quando il fuoco si spense e il fumo fu solo una striatura nel cielo azzurro, Alex alzò lo sguardo su Merlino.
«Ha funzionato?», gli chiese.
«C'è solo un modo per scoprirlo».
Le sfilò l'elsa di Excalibur dalle dita e fece un passo indietro, poi alzò il braccio come un battitore di baseball e lanciò la spada verso l'acqua con tutta la forza che aveva. La lama roteò parecchie volte, lanciando fasci di luce ogni volta che il sole la colpiva, ma non arrivò mai a toccare la superficie di Avalon: una mano esile e pallida, inconfondibile, l'aveva afferrata al volo.
«Abby!», gridò Mark, incredulo e, per la prima volta dopo giorni, sorridente.
«Ciao, Mark», lo salutò la nuova Dama del lago.
«Stai bene? Che cosa... che cosa provi?».
«Non ti preoccupare per me, sono in pace».
«Però io...».
«Non posso rimanere ora. Ho così tanto da fare... Ma sarò sempre qui, quando avrai bisogno di me».
Mark annuì, asciugandosi le lacrime, e guardò la mano di Abby sparire sott'acqua insieme ad Excalibur.
Merlino lo raggiunse e gli porse una mano per aiutarlo a rialzarsi, poi gli strinse un braccio intorno alle spalle e lo condusse di nuovo alla sua sedia a rotelle. Cathleen e i giovani maghi diedero le spalle ad Avalon per tornare alle auto, mentre Alex si attardò sulla riva del lago con le mani unite in grembo, il peso grave dei propri doveri sulle spalle. Alla fine, al richiamo di Merlino, anche lei fece per allontanarsi, ma la voce di Abigail la fermò.Si voltò di tre quarti, trovando la superficie piatta e lucente. Merlino la chiamò di nuovo. Possibile che l'avesse sentita solo lei?
"Mi dispiace molto per la scelta che sei stata costretta a fare. Era impossibile uscirne vincitori".
Sì, era proprio la sua Abby. Sorrise flebilmente, ringraziandola col pensiero. L'avrebbe sentita.

***

Cathleen bussò piano alla porta della camera da letto di Merlino, ma fu Alex ad aprirle e a spostarsi per lasciarla entrare.
«Lo stai facendo sul serio?», le chiese col cuore dilaniato, gli occhi posati sullo zaino che stava preparando per il viaggio lungo una vita che si preparava a compiere. Aveva fatto una promessa a Merlino: aveva promesso di proteggerla e di prendersi cura di lei quando lui non ci sarebbe più stato, ma come avrebbe potuto se se ne fosse andata?
«Non ho scelta», rispose piano l'infermiera.
«Sì invece, ce l'hai. Non te ne farei mai una colpa, se decidessi di...».
«È colpa mia se Artù è in quelle condizioni!», gridò, indicando la stanza accanto. Il suo volto era diventato paonazzo e gli occhi stanchi e circondati da ombre violacee erano pieni di lacrime, ma non ne versò nemmeno una.
Cathleen corrugò la fronte, confusa. «Che cosa stai dicendo?».
«Il rituale per rendere Abby la custode di Avalon. L'avevo visto in una visione, ti ricordi? Beh, quando la feci c'era anche Artù. Mai, mai avrei pensato che potesse non esserci. Mi sono affidata alla magia e Artù ne ha pagato le conseguenze».
Alex si sedette sul letto, abbandonando il volto tra le mani. Cathleen la seguì poco dopo, sotto shock. Rimase in silenzio per un po', fino a quando non posò una mano sul suo ginocchio. L'infermiera lo fissò strabuzzando gli occhi.
«Non sono arrabbiata», le disse la rossa, pacatamente. «E non voglio che tu ti senta in colpa. Se Artù non avesse fatto ciò che ha fatto, tu e il tuo bambino sareste morti e a questo punto saremmo nei guai fino al collo, con gli spiriti e tutto il resto. Sono orgogliosa di lui».
Alex batté le ciglia e due grosse lacrime le rotolarono sulle guance, raggiungendo le labbra tremanti. Saggiandone la sapidità, la bionda si riscosse e si asciugò il volto. Pur di non incrociare ancora il suo sguardo si alzò e prese dall'armadio un paio di felpe che cacciò a forza nello zaino.
«Ad ogni modo non cambierò idea», affermò tirando su col naso. «Artù è un membro della famiglia, proprio come Merlino. E questo è l'unico modo per averli entrambi».
«Ma a quale prezzo?», le domandò il paramedico. «Vuoi fare la stessa vita di tua nonna, in giro per il mondo a rattoppare i danni causati dall'assenza della magia, sotto la dipendenza di una Dea ricattatrice? Vuoi costringere tuo figlio a vivere la vita di tua madre, sapendo tutto ciò a cui ha rinunciato?».
«Mia figlia», la corresse sottovoce, pentendosene subito dopo. Putroppo però Cathleen aveva sentito e fu solo per cortesia che le chiese di ripetere.
«È una bambina».
«Come... Come fai a saperlo? È troppo presto per...».
«Elijah è un Vate, un druido con la Vista. E anche la Dea me l'ha confermato».
La rossa si alzò e le tolse i vestiti dalle mani per travolgerla in un abbraccio soffocante.
«Quando lo dirai a Merlino?», le chiese a bassa voce.
«Forse è meglio che non lo sappia».
Cathleen si scostò per guardarla negli occhi, serissima. «Stai scherzando, vero?».
«Tu forse non ti rendi conto... Come dovrei dirglielo?». L'allontanò bruscamente da sé e chiuse finalmente lo zainetto. «"Merlino mi dispiace ma devo sacrificarti. E, a proposito, aspetto una bambina!"».
Si spostò di nuovo verso l'armadio e dal fondo estrasse una serie di buste. Gliele consegnò senza dire una parola e Cathleen le scorse velocemente: una lettera di licenziamento, alcuni messaggi indirizzati ai bambini dell'ospedale e a suo padre e l'ultima, la più corposa, era per Artù.
«Ho cercato di scrivere il perché delle mie azioni, ma conoscendolo la getterà nel camino», esclamò Alex tristemente. «Avrà tutte le ragioni di questo mondo per odiarmi».
«No, non è vero», negò Cathleen.
«Chissà, magari tu riuscirai a convincerlo. Per sua nipote, più che altro. Vorrei che si conoscessero, un giorno».
Cathleen la travolse in un altro abbraccio, quella volta stringendole le braccia intorno al ventre e premendo il viso contro la sua nuca. Era sull'orlo delle lacrime, ma voleva essere forte per lei.
«Cathleen...».
Alex non riuscì mai a finire la frase. Qualcuno bussò alla porta ed entrò senza aspettare il permesso: Merlino.
Le fissò con un sopracciglio inarcato, per poi sbottare: «Prima la respirazione bocca a bocca, ora questo... Mi state nascondendo qualcosa?».
L'infermiera stirò un sorriso mentre Cathleen si allontanava ad occhi bassi, dando solo l'impressione di essere imbarazzata.
«Non è un segreto che Cathleen mi venisse dietro. Artù è solo il Pendragon di ripiego», scherzò Alex, ma nessuno era dell'umore giusto per le battute.
Infatti lo stregone si incupì e spiegò il motivo per cui era lì: «Io ed Elijah abbiamo caricato Artù in auto, possiamo andare quando siete pronte».
«Scendiamo subito», replicò la bionda, calciando lo zaino sotto il letto e prendendo la mano di Cathleen perché questa la seguisse fuori dalla stanza.

***

Merlino pensava di essersi salvato, di aver trovato una scappatoia quando aveva lanciato Excalibur - l'unica arma in grado di ucciderlo - sul fondo di Avalon. Era una mera illusione, lo sapeva, ma per un attimo aveva davvero sperato di aver battuto il destino.
Dopo essere stati al Calderone di Arianrhod, nelle cui acque magiche avevano immerso il corpo di Artù, erano tornati a casa senza dire nemmeno una parola. L'aria era così carica di tensione da risultare elettrica, tanto che si erano separati per rimanere coi propri pensieri: Elijah era tornato a sonnecchiare sul divano, Cathleen era rimasta al capezzale del solo ed unico re, Merlino si era rifugiato nel giardino sul retro e Alex... Alex aveva recuperato lo zaino che le aveva visto nascondere sotto il loro letto ed era uscita, probabilmente per recarsi ad Avalon, dove avrebbe recuperato Excalibur.
Era quasi l'alba e, secondo ciò che aveva detto l'infermiera, Artù si sarebbe svegliato quando i primi raggi del sole gli avrebbero accarezzato il volto. Sembrava una poesia, tant'era bella quell'immagine, e Merlino sapeva perfettamente che c'era un'altra strofa prima di quella, molto più dolorosa.
Si alzò dalla panca e lasciò la veranda per avvicinarsi a quella che un tempo era stata una semplice piantina, cresciuta intorno al pugnale che Alex aveva conficcato nel terreno quando aveva dichiarato guerra ai custodi della magia.
Quella piantina era cresciuta in fretta, inglobando dentro di sé il simbolo di quel giuramento, e nelle ultime ore si era trasformata in un pino sempreverde alto diversi metri e dalla corteccia robusta.
Merlino vi posò sopra la mano e chiuse gli occhi, percependo la magia scorrere insieme alla linfa nelle venature del largo tronco.
Poi sentì la porta scorrevole aprirsi sulla veranda alle sue spalle ed abbozzò un sorriso malinconico, mentre le lacrime gli riempivano gli occhi. Non era mai stato così spaventato della morte prima di allora. In realtà la morte in sé non lo spaventava; erano le conseguenze sulle persone a lui care, in particolare su colei che si era presa il compito di porre fine alla sua vita per spezzare la maledizione che lui stesso, inconsapevolmente, aveva gettato secoli e secoli prima, a fargli paura.
Lui e Alex non erano diventati nemici, come spesso aveva temuto durante i suoi sogni premonitori, ma come lui aveva ucciso Morgana per il bene comune, ora Alex avrebbe ucciso lui. Se lo meritava.
Merlino, sempre tenendo una mano sul tronco del pino, si voltò in direzione di Avalon e guardò il sole nascente tingere di rosso le cime degli alberi. Le montagne ancora innevate sembravano ad un passo di distanza.
«Quindi è giunta l'ora?», domandò piano.
Si voltò solo quando sentì l'inconfondibile rumore metallico che faceva Excalibur quando veniva estratta dal fodero.
Alex lo stava guardando proprio come nella sua visione: la sua espressione era determinata, nonostante le lacrime le stessero rigando il volto.
«Mi dispiace», mormorò con un fil di voce.
Lo stregone sorrise, scuotendo il capo. «Non devi. È quello che volevo, ricordi? E poi è solo colpa mia se siamo qui».
L'infermiera tremava così tanto che dovette abbassare Excalibur fino a farle toccare il terreno. Coi capelli davanti al volto, scoppiò in singhiozzi più forti e Merlino non poté far altro che raggiungerla e stringerla delicatamente tra le braccia.
«Ti amo, Alexandra Greenwood-Pendragon. Sei così bella e forte... Mi sento onorato per aver ricevuto il tuo amore e per essere diventato tuo marito». Le prese il mento tra le dita per costringerla a guardarla negli occhi e posando la fronte contro la sua aggiunse: «L'unica cosa che voglio è che la mia famiglia stia bene. E se devo sacrificarmi per voi, così sia. Lo farei ancora e ancora, senza pensarci su due volte».
Quindi abbassò una mano per posargliela sul ventre e sorrise, lasciandole intendere che sapeva. Alex lasciò cadere del tutto Excalibur e gli gettò le braccia al collo, riprendendo a piangere contro la sua spalla.
Rimasero stretti in quel modo per tanto tempo, e Merlino avrebbe voluto rimanere così per sempre. Arrivò però l'alba e Alex si scostò, tirando rumorosamente su col naso. Gli posò entrambe le mani sulle orecchie e lo baciò, per poi sussurrare sulle sue labbra: «Ti aspetterò».
«Che cosa?».
Alex abbozzò un sorriso, accarezzandogli una guancia. «Il miglior accordo possibile, ricordi? Avvicinati all'albero».
Merlino indietreggiò, senza porre ulteriori domande. Credeva in Alexandra, l'aveva sempre fatto.
Quando sentì la corteccia ruvida contro le spalle, lo stregone guardò la moglie raccogliere la spada ed avanzare verso di lui. Non tremava più, ora.
«Enid», esclamò ad un tratto Merlino, ricordandosene all'improvviso. Alex lo fissò confusa. «Nostra figlia si chiamerà Enid. Vuol dire "anima", in gallese».
I capelli biondi turbinarono intorno al volto dell'infermiera a causa di una folata di vento improvvisa, finendole tra le labbra socchiuse e sugli occhi. Lei fece per scostarli, ma quell'attimo di distrazione permise a Merlino di sottrarle Excalibur ed infilzarsi la lama fredda nella pancia, con tanta forza che la punta si incastrò nel tronco del pino.
«No», mormorò Alex ad occhi sgranati, devastata. «No, no, no!».
Merlino invece sorrise, accasciandosi sulla spada su cui ora scorreva il suo sangue.
Alla fine aveva trovato il coraggio per farlo, il coraggio per salvare Alex dagli stessi rimorsi che l'avevano perseguitato per tutta la vita.
L'infermiera gli corse incontro e con la schiena squassata dai singhiozzi estrasse Excalibur dal suo ventre, per poi sostenere il mago con tutto il corpo.
«Merlino... Merlino, no...».
«Shhh, va tutto bene», esalò, sentendo un piacevole calore avvolgerlo. Era l'albero, scintillante di magia, che lo stava inglobando dentro di sé: le sue gambe e le sue braccia si ricoprirono di radici e corteccia, come una seconda pelle.
«Ti amo, ti amo e un giorno staremo di nuovo insieme. È una promessa», affermò Alex, accarezzandogli freneticamente il viso e posandogli una serie di baci a stampo sulle labbra. Poi si sfilò il ciondolo datole da Morgana e glielo mise al collo, pregando lo spirito della Sacerdotessa di tenerlo al sicuro.
Merlino avrebbe voluto dirle qualcosa, ripeterle ancora una volta che amava lei e la loro bambina non ancora nata, ma non ne ebbe il tempo: le sue labbra si trasformarono in legno e anche i suoi occhi si chiusero, facendolo piombare in una piacevole oscurità. Sentiva ancora il vento tra i capelli grazie ai rami, sentiva ancora il sangue scorrergli nelle vene grazie alla linfa e sentiva la magia che lentamente lo abbandonava e ritornava alla terra, all'aria e all'acqua a cui apparteneva, mentre il suo cuore smetteva di battere.



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Ci vediamo prossimamente per l'epilogo.
Grazie di cuore a chi è arrivato fino a qui. ♥

Vostra,

_Pulse_

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Capitolo 32
*** 32. Epilogue ***


Ed eccoci qua, alla fine di questa storia che ha avuto i suoi alti e bassi ma che mi rimarrà sempre nel cuore. Non scherzo quando dico che è una delle più belle che mi siano mai uscite e ringrazio il dio Apollo e tutte le Muse per l'ispirazione. Ringrazio la BBC per aver dato vita ad una serie così bella. Ma soprattutto ringrazio voi, che l'avete seguita nonostante la pausa e i ritardi. Mi scuso infinitamente per le mie mancanze e spero di aver scritto un finale dignitoso.
Per chi volesse contattarmi per qualsiasi motivo o seguire i vari aggiornamenti ricordo la mia pagina Facebook ;)
A presto!

Vostra,
_Pulse_


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32. Epilogue


Tante cose erano cambiate, nel corso di quei dieci lunghi anni. Anni difficili, anni in cui il peso delle sue scelte le era sembrato insostenibile; ma anni anche ricchi di gioia e significati.
La sua vita era stata stravolta quello stesso giorno di dieci anni prima, quando aveva ripescato il leggendario re Artù dal lago di Avalon, eppure se ne avesse avuto la possibilità non avrebbe fatto nulla di diverso.
«Alex?».
La donna dai corti capelli biondi si voltò verso quella voce familiare e provò una piacevole stretta al petto nel realizzare che no, non si era sbagliata. Un ragazzo allampanato sui venticinque anni, con una zazzera di ricci scuri e un paio di occhi castani incastonati in un viso un po' spigoloso ma bello, la stava fissando con un misto di incredulità e divertimento. Fu quel sorriso sbilenco, infatti, a farle capire che era proprio lui, dedito e leale come il primo giorno.
«Sì Mark, sono io».
Il ragazzo, conosciuto una vita fa tra i corridoi del reparto di oncologia infantile, abbassò il mazzo di fiori che aveva tra le mani e le corse incontro per stringerla in un abbraccio soffocante. Mettendosi sulle punte dei piedi Alexandra riusciva a malapena a vedere oltre la sua spalla.
«Sei diventato un gigante», gli disse, sfregandogli una mano sulla schiena.
«Lo prendo come un complimento».
Si guardarono negli occhi e l'ex-infermiera gli sorrise teneramente. «Lo è».
Mark ricambiò, ma ben presto l'euforia di averla rivista dopo così tanto tempo scemò per fare spazio ad un altro sentimento: la preoccupazione.
«Ma che cosa ti è successo?», gli chiese. «Perché sei sparita così all'improvviso?».
«Cathleen non ti ha dato la tua lettera?».
«Sì, l'ha fatto. L'ho letta e riletta centinaia di volte e non sono mai riuscito a capire. Dove sei stata per tutti questi anni?».
Alex sospirò e tornò a guardare i raggi del sole del mattino che brillavano sulla superficie di Avalon: l'isola al centro del lago non era mai stata così nitida, la sua torre era tornata allo splendore originale e la magia che percepiva sulla pelle e nelle ossa, sotto forma di lievi scosse elettriche, era come un balsamo per la sua anima tormentata. Le sue rinunce non erano state vane.
«Sei sicuro di volerlo sapere?», gli domandò alla fine. «Il tuo appuntamento con Abby...».
Mark sorrise mestamente, abbassando gli occhi sul mazzo di fiori. «Abby non va da nessuna parte, lo sai».
Alexandra diede un'occhiata alle sue spalle, verso i sedili posteriori della propria auto, e trovando sua figlia ancora addormentata cedette: infilò il braccio sotto quello che il ragazzo le aveva offerto e andarono a sedersi sulla panchina più vicina.

***

«E così è arrivato il grande giorno».
Artù non si voltò, ma abbozzò un sorriso quando Cathleen gli avvolse le braccia intorno al torace e posò il capo contro la sua spalla. Riusciva a vedere il loro riflesso sul vetro della finestra davanti alla quale era rimasto per ore, ad osservare il mare e a pensare a quei dieci lunghi anni.
Quant'erano cresciuti e cambiati... insieme.
Se qualcuno gli avesse mai detto che sarebbe andata a finire così, che avrebbe avuto una seconda possibilità, una seconda vita, non ci avrebbe mai creduto. Nonostante le difficoltà, i rimpianti e i dolori che inevitabilmente ogni tanto tornavano a galla, il tempo trascorso al fianco di Cathleen e della famiglia che si erano costruiti era stato il più bello e felice di tutta la sua esistenza.
«Dove sono i bambini?».
«In piscina con le gemelle».
Artù si voltò, senza sciogliere l'abbraccio della moglie, e posò le mani sui suoi fianchi mentre accostava la fronte alla sua e le sussurrava dolcemente: «Ti amo, lo sai?».
«Certo che lo so. E tu lo sai che se c'è qualcosa che ti preoccupa puoi parlarmene, vero?».
L'ex-sovrano di Camelot abbozzò un sorriso intriso di malinconia. «Merlino», rispose semplicemente.
Cathleen sospirò e si allontanò per fare qualche passo in quella che un tempo era stata la biblioteca di suo padre e che col passare degli anni era stata trasformata in un'aula: decine di tavoli rotondi erano disseminati per l'ampia stanza e sulle pareti non occupate dai libri erano appese mappe geografiche, tavole periodiche, schemi di anatomia e poster che spiegavano la forza degli elementi. Sul lato nord, come in ogni aula che si rispettasse, c'era una grande lavagna nera su cui c'era ancora il brainstorming dell'ultima lezione, scritto nella grafia striminzita e frettolosa di Elijah.
Tra quelle quattro pareti erano cresciuti tantissimi maghi e streghe provenienti da tutti gli angoli del globo, condotti lì dallo stesso druido - capace di individuarli con i suoi poteri di Vate - oppure con una lettera di raccomandazione di Alexandra.
Ogni volta che ci pensava, l'ex-paramedico non poteva fare a meno di paragonare la Residenza Shaw ad un misto tra Hogwarts e la scuola per giovani dotati degli X-Men. Lì i ragazzi che dopo il ritorno della magia si erano scoperti possessori del dono potevano vivere in pace, in un ambiente protetto, e cosa più importante imparavano a controllare i loro poteri, così da non esserne spaventati.
La maggior parte di loro poi tornava a casa e riprendeva in mano la propria vita, o almeno ci provava, ma c'era anche chi decideva di rimanere, come avevano fatto Maureen e Doreen, Hanna e il già citato Elijah, diventato professore e custode della Residenza.
«E se non dovesse tornare?», aggiunse Artù. «Se... se la Triplice Dea ci avesse ingannati, divertendosi alle nostre spalle per tutti questi anni?».
«No, non può essere», rispose finalmente Cathleen, stringendo forte i pugni lungo i fianchi. «Elijah...».
«Elijah ha solo visto che Alexandra sarà là. Non ha mai predetto nulla sulle sorti di Merlino».
La rossa si voltò e lo guardò col cuore spezzato: da quando era tornato indietro dal limbo, risvegliandosi dal coma, e aveva scoperto del patto stretto tra la Triplice Dea e Alex, non era più stato lo stesso nei confronti dell'infermiera; era come se il legame che avevano sempre avuto si fosse spezzato. Da allora raramente aveva pronunciato il suo nome e nonostante Cath avesse provato più e più volte a farlo ragionare, a spiegargli che non aveva avuto alternative, Artù non aveva mai cambiato atteggiamento.
Cathleen incrociò le braccia al petto, più per confortarsi che come atteggiamento di chiusura, ed esclamò: «Suppongo che tu non verrai, allora».
«Che cosa?».
«Se ce l'hai tanto a morte con Alex perché ha cercato di salvarvi entrambi, allora non venire. Lei soffre già abbastanza, non ha bisogno che tu la faccia sentire peggio».
Artù ricambiò il suo sguardo con una nuova determinazione, i pugni tanto stretti lungo i fianchi da farsi sbiancare le nocche.
«Pensi che per me non sia stato doloroso far finta che non esistesse?», gridò. «Sono stato arrabbiato con lei per un paio di giorni, per ciò che aveva fatto. Ma allontanarsi, andarsene lasciandomi una semplice lettera... è questo che mi ha fatto più male. E lo so che non poteva fare altrimenti, ma avrei preferito che mi affrontasse, che mi dicesse addio».
«Addio? Era proprio quello che Alex sperava di non dover fare! Noi ci siamo sempre tenute in contatto, e lo sai! Le cartoline che mi ha inviato da ogni parte del mondo, le foto sue e di Enid... ho provato a fartele vedere centinaia di volte, ma non hai mai voluto! E anche quando riusciva a chiamarmi non hai mai voluto parlarle!».
Ormai la rabbia la scuoteva come una foglia autunnale, pronta a staccarsi dal suo ramo, ma il sorriso umido di lacrime di Artù la colpì come un pugno dritto nello stomaco, così forte e così inaspettato che fu costretta a sedersi.
«Le ho viste tutte, Cathleen», confessò con voce pacata. «Mentre dormivi, o ti occupavi dei bambini. Le ho guardate e riguardate. E le ho anche parlato, una volta. Il giorno del suo compleanno, nove anni fa».
Cathleen era talmente scioccata da non riuscire ad articolare una frase di senso compiuto. Perché si era comportato in quel modo? Perché fingere che Alex fosse morta, quando in realtà...? All'improvviso le tornò alla mente suo padre, il quale per venire a patti col dolore della sua assenza aveva preferito raccontarsi la stessa bugia. Possibile che anche Artù...?
Il marito le si avvicinò e prese una delle sedie intorno al tavolo per sedercisi a cavalcioni, le braccia incrociate sullo schienale e gli occhi fissi nei suoi.
«Ti sei mai chiesta perché ti chiamasse così di rado?», le domandò gentilmente.
«Io... Pensavo fosse per via dei suoi spostamenti, o del suo piano telefonico...».
Artù apprezzò la sua battuta con un altro sorriso. «La verità è che sentire la tua voce le ha sempre ricordato ciò che ha fatto, la vita a cui ha rinunciato e quella che è stata costretta a fare per colpa della magia. Se si è sforzata di portare avanti quelle conversazioni è stato solo per te, perché sapeva che tu ne avevi bisogno».
La verità le fece contrarre lo stomaco e Cathleen dovette sforzarsi per non rimettere la colazione. Il solo ed unico re le posò una mano sulla schiena e la invitò a posare il capo sulla sua spalla.
«In quell'unica telefonata, nove anni fa, le ho detto che non la odiavo per quello che aveva fatto e che, se mai avesse avuto bisogno di me, io ci sarei stato», concluse Artù. «Dopodiché abbiamo giurato di non sentirci più, per non farci altro male».
Cathleen non aveva mai capito nulla, per questo si ritrovò a singhiozzare senza ritegno, le mani strette sulle sue spalle. Artù non disse niente, la consolò e basta, baciandole i capelli.
Alla fine fu Elijah ad interromperli, bussando alla porta e sporgendosi all'interno della biblioteca con metà del corpo. Indossava un completo grigio elegante - pantaloni con la piega, camicia bianca e panciotto - e i lunghi capelli color biondo slavato erano raccolti in una coda sulla nuca. La barba ben curata, della stessa tonalità dei capelli, lo faceva sembrare più vecchio e saggio di ciò che era; bastava però guardarlo negli occhi, vitali e sorridenti anche quando era serissimo, per rendersi conto della sua vera età.
«È ora di andare», esclamò.
Artù lo ringraziò con un cenno del capo. «Arriviamo».
Il druido socchiuse di nuovo la porta e quando si fu allontanato Artù si alzò in piedi per prendere le mani della moglie ed aiutarla a fare lo stesso.
Cathleen gli portò le mani sul viso, accarezzandogli le guance ispide per via della barba che si era lasciato crescere negli ultimi giorni, e raccogliendo la voce mormorò: «Mi dispiace tanto. Ho sempre pensato di aver fallito...».
Artù le spazzò via le lacrime e le posò un bacio sulla fronte. «Mai, amore mio».

Trovarono Elijah vicino all'ingresso principale, accanto a Freddie, l'immortale domestico a servizio della famiglia Shaw, a cui stava dicendo che aveva affidato la sicurezza della Residenza ad Hanna.
Era vero che la vasta proprietà della famiglia di Cathleen era abbastanza isolata - da una parte c'erano ettari di bosco, dall'altro una scogliera a picco sul mare - ma non potevano rischiare che qualcuno scoprisse la vera natura dei ragazzi molto speciali che le numerose stanze ospitavano. Per questo in concomitanza con le mura e i confini naturali era stata innalzata una barriera con le stesse proprietà di un glamour, in grado cioè di illudere ed allontanare chiunque non possedesse i requisiti necessari a vedere la realtà. Inoltre il ritorno della magia nel mondo non aveva solo risvegliato i poteri dormienti dei maghi e delle streghe, ma anche tutta una serie di creature date per estinte che avrebbero potuto creare il panico nel mondo degli esseri umani. Non a caso avevano costruito, vicino al bosco, una grande dépandance in cui nel corso degli ultimi anni avevano ospitato un esemplare di grifone, un paio di goblin e delle pixie.
Esseri magici e oggetti ritenuti tali erano la specialità di Jake, il primo e più convinto soldato di Freya, il quale poi aveva deciso di dedicare la propria vita allo studio e, dopo solo un paio di anni dalla seconda battaglia di Camlann, si era presentato alla loro porta con tantissime storie da raccontare. Da quel momento, ogni sei mesi o giù di lì, tornava alla Residenza per riposarsi e condividere le sue scoperte. Non era una sorpresa che le sue "lezioni" fossero le più seguite dai giovani maghi.
Freddie doveva essere stato fermato mentre portava un paio di cocktail ai signori Shaw, sotto il gazebo di ferro in giardino.
Non era stato facile introdurre Trisha e Roger, soprattutto, nel mondo magico, ma tutto il via vai di ragazzi aveva ridato vita a quella vecchia casa e incredibilmente aveva giovato anche all'agorafobia di suo padre, il quale ormai riusciva ad avvicinarsi persino al cancello d'ingresso senza avere attacchi di panico.
Il vassoio d'argento in mano al maggiordomo rischiò di rovesciarsi sul pavimento al passaggio irruento di uno dei ragazzi più piccoli, il quale aveva appena imparato l'arte dell'animazione e si divertiva un mondo a dare vita agli oggetti più improbabili, poggiapiedi imbottiti inclusi.
Cathleen chiuse gli occhi, prevedendo il disastro, ma non udendo il rumore di vetri infranti li riaprì giusto in tempo per vedere un Elijah con le iridi dorate che con un movimento fluido della mano faceva tornare nei bicchieri il liquido arancione, il ghiaccio e le rispettive cannucce.
Non avrebbe mai smesso di meravigliarsi di fronte alla magia.
Poi il druido alzò gli occhi verso di loro e la sua bocca si piegò in un sorriso. «Possiamo andare?». Senza aspettare una vera risposta aprì la porta d'ingresso e scese i gradini fino a fare il giro della jeep che aveva già tirato fuori dal garage per portarsi avanti. Una voce alle sue spalle però lo fermò prima che potesse mettersi al volante.
«Ehi, dove pensavi di andare senza salutarmi?», esclamò il ragazzo davanti alla porta.
Ash, il fratello adottivo di Cathleen, si passò una mano tra i capelli neri, lucenti e scompigliati dal vento, e sorridendo in direzione di Elijah scese i gradini.
«Quando sei tornato?», domandò il druido, confuso.
Ash, il quale era stato tanto colpito dall'improvvisa morte di Zachary da aver iniziato a pensare che non valesse la pena di cercare il proprio posto nel mondo, sembrava che alla fine lo avesse davvero trovato: da un giorno all'altro aveva informato la famiglia che si sarebbe iscritto al Britannia Royal Naval College per diventare un soldato della Marina Militare Inglese e non aveva dato troppe spiegazioni in merito. Al momento era un ufficiale assegnato ad una delle portaerei della flotta di superficie e sembrava soddisfatto della sua vita, felice. E questo era tutto ciò che importava.
«Questa notte, ma non ho voluto svegliarti», gli chiese divertito, posando le mani sul suo panciotto. «Sono riuscito a sorprenderti?».
«Sì, direi di sì».
Ash alzò gli occhi in quelli verdi di Elijah e corrugò la fronte, scostandosi un poco. «Che accoglienza! Se vuoi che ritorni in mare basta che tu me lo dica e...».
Il druido lo interruppe prendendolo per la nuca e posando le labbra sulle sue, in un bacio dapprima casto che ben presto si trasformò in qualcosa di più urgente e passionale. Erano mesi, dopotutto, che non si sfioravano.
Artù distolse lo sguardo, imbarazzato, e aprì la portiera per far salire Cathleen, poi si accomodò sul sedile del passeggero e diede un colpetto al clacson. Né Ash né Elijah parvero sentirlo, esplorandosi a vicenda con mani impazienti, tanto da chiedersi quante braccia avessero.
Alla fine fu Cathleen a sporgersi e ad attaccarsi al clacson, gridando: «Mi dispiace piccioncini, ma dobbiamo andare!».
A quel punto Elijah non poté più ignorarli e si scostò dolcemente dal fidanzato per sussurrargli qualcosa all'orecchio. Dal sorriso malizioso di Ash e dalla pacca che gli diede sul sedere quando si voltò, Artù e Cathleen non ebbero difficoltà ad immaginare ciò che avevano in programma per la serata.
Elijah si sedette dietro il volante e sospirando mise in moto, dopodiché guidò la jeep fuori dalla residenza Shaw, in direzione della vecchia casa di Merlino.

***

«Mamma, chi era il ragazzo con cui stavi parlando prima?».
Alex guardò la figlia con la coda dell'occhio: si era spostata sul sedile del passeggero e stava mangiando un pacchetto di biscotti con le gocce di cioccolato, anche se la maggior parte finivano in briciole sul fazzoletto rosso che portava legato al collo e sulle sue gambe.
«Pensavo dormissi».
La bambina le rivolse un sorriso malandrino che era tale e quale a quello che aveva lei alla sua età - parole di suo padre.
Nonno Greenwood... sarebbero dovute andare a trovare anche lui, una volta portata a termine quella faccenda.
Alex strinse forte le dita intorno al volante, infastidita dal suo stesso comportamento. Da quando aveva smesso di sperare? Sia lei che Enid - così piccola eppure molto più potente di lei - avevano avuto lo stesso sogno premonitore riguardo al risveglio di Merlino, ma non riusciva a crederci. O meglio, non voleva crederci per non soffrire nel caso in cui...
«Mamma?».
Alex si riscosse e senza distogliere lo sguardo dalla strada allungò una mano per scompigliarle la frangetta di capelli neri che spesso e volentieri le copriva gli occhi azzurri come il cielo, gli stessi occhi di suo padre. 
«Si chiama Mark, è un ragazzo che ho conosciuto quando lavoravo in ospedale», rispose.
Enid si scostò infastidita e si portò alla bocca la cannuccia del succo di frutta che teneva tra le ginocchia. Bevve avidamente fino a finirlo e Alex non la rimproverò quando si sentì il risucchio delle ultime gocce.
«Era un tuo paziente, vero?», le chiese poi, appiattendo il cartone del succo.
«Sì, esatto. Ma come fai a...?».
«La sua aura era di un colore strano, come quello delle persone che hanno subìto dei trattamenti medici invasivi. Ti conosce ed è giovane, perciò ho ipotizzato che fosse stata la chemioterapia a renderla di quel colore».
Nove anni ancora da compiere, era questa l'età di sua figlia. Tutti però, sua madre compresa, non se ne capacitavano: la sua intelligenza era fuori dal comune e nonostante ne andasse orgogliosa, in certi momenti ne aveva anche paura. Quanto era dovuto dai geni e quanto dalla magia? E come sarebbe diventata da grande a causa del suo quoziente intellettivo superiore alla media?
«Ottima deduzione», esclamò Alex, dimostrandosi orgogliosa di lei.
La bambina ricambiò il sorriso e spostò lo sguardo fuori dal finestrino. Rimase in silenzio per un po' e la madre avrebbe pagato oro per sapere che cosa le stesse passando per la testa in quel momento. Si stavano dirigendo verso il luogo di cui aveva tanto sentito parlare, il luogo in cui suo padre si era sacrificato per il bene del mondo intero. La visione che avevano avuto aveva mostrato loro solo che si sarebbero ritrovate davanti a quell'albero, in compagnia anche di Artù, Cathleen ed Elijah, ma non che cosa sarebbe effettivamente successo. Possibile che il futuro di Merlino non fosse stato ancora deciso?
Spostò la mano dal cambio e la posò sul ginocchio della bambina, stringendolo con delicatezza.
«Qualsiasi cosa accada, voglio che tu sappia che io...».
«Lo so, mamma», la interruppe Enid, posando una manina sulla sua. «Ti voglio bene anche io».
Alex sorrise commossa e sospirò, tornando a concentrarsi interamente sulla strada davanti a loro. Non poteva fare di più.  

Alex fermò l'auto sulla strada sterrata davanti all'ingresso della villetta e Enid aprì la portiera del passeggero ancor prima che la polvere potesse essere spazzata via dal vento primaverile. Fece il giro del veicolo sgangherato e si fermò di fronte al vialetto nascosto dalle erbacce di quella grande casa sporca di graffiti, con le imposte sverniciate se non addirittura scardinate e persino un grande buco tra le tegole della torre di destra.
«Tu e papà vivevate qui?», domandò con semplicità, continuando ad osservare quel piccolo castello col naso all'insù e la bocca dischiusa per lo stupore.
«Sì, tesoro», rispose piano, ripercorrendo i ricordi legati a quelle mura ed avvertendo degli spilli pungolarle il cuore.
Era passato davvero tanto tempo, non poteva pretendere che tutto rimanesse come se lo ricordava.
«Che cosa facciamo adesso?», chiese ancora la bambina, voltandosi per guardare la madre.
Alex le accarezzò il volto da folletto, le orecchie un po' a sventola e poi le tirò indietro la frangetta nera. «Zio Artù e zia Cathleen saranno qui presto, perciò...».
«Vado in esplorazione!», esclamò prima di allontanarle le mani e correre verso la casa abbandonata.
«Enid!», gridò la madre, per poi scuotere il capo con un sorriso sulle labbra e le mani sui fianchi. "Stai attenta, okay?", le disse col pensiero.
"Sono la figlia del mago più potente che questa Terra abbia mai visto, posso cavarmela", rispose la bambina.
Alex la guardò sparire sul retro della villetta e solo allora si lasciò sfuggire un sospiro tremante, permettendo persino alle lacrime di accarezzarle le ciglia. Non ne versò nemmeno una, consapevole che se si fosse abbandonata al pianto non si sarebbe fermata presto. Quindi si fece forza, come d'altronde aveva fatto negli ultimi dieci anni, e percorse il vialetto per raggiungere la porta d'ingresso. Ripescò le chiavi dalla borsa, ma non ce ne fu bisogno: la serratura era stata fatta saltare via e i cardini cigolarono quando Alex posò la mano sul legno per sbirciare all'interno.
Artù e Cathleen non avevano potuto vendere la casa, credendo fortemente che un giorno Merlino sarebbe tornato, ma le loro visite col passare degli anni dovevano essere diminuite fino a terminare del tutto. Per questo la casa era stata vandalizzata in quel modo da ragazzini di passaggio, usata come rifugio dai vagabondi e come tana dai gatti selvatici. C'era un odore tremendo - un misto di muffa, polvere e urina - e Alex si costrinse a raggiungere i bovindi per aprire le finestre e lasciar entrare dell'aria fresca.
Alla luce del sole del mattino, la visione del salotto fu ancora più desolante: era stato portato via tutto, fatta eccezione per il divano e le poltrone, una volta ricoperti dal cellophane e ora macchiati, graffiati e con le molle che spuntavano dai cuscini insieme alle imbottiture rigurgitate. Sul pavimento sporco c'erano stracci, immondizia e candele sciolte.
Alex procedette verso la cucina e trovò anch'essa in condizioni rivoltanti, perciò non si soffermò ed aprì la porta finestra che conduceva alla veranda del giardino sul retro. Rimase senza parole quando lo trovò esattamente come se lo ricordava. Si guardò alle spalle, chiedendosi se non fosse tutto un sogno o se magari fosse passata dentro un varco temporale - non si sarebbe sorpresa - ma era tutto vero: quel luogo era rimasto immutato; nessuno aveva osato profanarne la sacralità, protetto proprio come il lago di Avalon, dalla magia oppure da...
Alex mise i piedi nell'erba - curata come quella di un giardino reale - e sorrise in direzione dell'albero. «Grazie per averlo protetto, Morgana».
Per un attimo, uno solo, l'ex-infermiera scorse la Sacerdotessa seduta tra le radici del pino, col capo posato contro il possente tronco, gli occhi chiusi e un sorriso sereno tra le labbra. 

***

«Eccoci qua», esclamò Elijah fermando la jeep dietro una monovolume sporca e con diverse ammaccature qua e là.
«Sono già qui», disse invece Artù, indeciso se esserne contento o spaventato. Rivedere Alex dopo tutti quegli anni non sarebbe stato facile e anche se ormai non aveva più nulla da temere, si chiese come avrebbe reagito il suo cuore.
I tre scesero dal mezzo e Cathleen si mise subito in testa al loro piccolo gruppo: attraversò il vialetto invaso d'erbacce, sentendosi in colpa per non essere più riuscita a curare quella casa come un tempo, e raggiunse la porta, trovandola aperta.
Non indugiò molto nel salotto, preferendo andare dritta alla meta: il giardino sul retro. Anche la portafinestra che dava sulla veranda era aperta e le bastò avvicinarsi alla soglia per scorgere la figura di Alex in piedi a pochi metri dal maestoso albero in cui riposava Merlino.
Aprì la bocca per chiamarla, ma non un suono le uscì dalla gola. Il cuore le batteva nei timpani e dei brividi le correvano su per le braccia, nonostante il sole primaverile donasse un piacevole tepore.
I sentimenti provati dieci anni prima, in particolare i sensi di colpa per come fossero andate le cose, le avevano tolto la voce e la sicurezza. Quel giorno avrebbe dovuto essere una festa in cui la sua famiglia sarebbe tornata al completo, eppure non riusciva a scrollarsi di dosso il peso della terribile scelta che Alex era stata costretta a prendere anche per colpa sua e del suo egoismo.
Artù le strinse forte la mano destra, trovandola fredda e tremante, e si chinò su di lei per posarle la labbra tra i capelli e sussurrare: «Nulla di ciò che è successo è colpa tua».
Provò a convincersene, come faceva da ormai dieci anni nelle notti in cui proprio non riusciva ad addormentarsi, ma una lacrime le cadde comunque sulla guancia. Nello stesso momento Alex si voltò ed incrociò il suo sguardo.
Cathleen trattenne il respiro e si aggrappò anche con l'altra mano al braccio di Artù, sentendo le gambe cederle. L'ex-infermiera però le sorrise dolcemente mentre si portava dietro l'orecchio una ciocca dei corti capelli biondi che una folata di vento le aveva scompigliato. Quindi si diresse verso di loro ed Elijah le andò incontro, scendendo i tre gradini che portavano al giardino.
«È bello porterti finalmente abbracciare», esclamò il druido, circondandola con le lunghe braccia.
Alex sorrise contro la sua spalla e gli diede delle pacche sulla schiena. «L'abbiamo fatto molte volte nel mondo onirico».
«Lo sai che non è lo stesso».
«Sì, lo so», sospirò lasciandosi cullare.
Quando la lasciò andare, Elijah si spostò per lasciare il giusto spazio ad Artù e Cathleen. Alex respirò profondamente e con i pugni stretti nervosamente lungo i fianchi salì quei pochi gradini che li separavano, poi si piegò su un ginocchio per un inchino reverenziale.
Artù la fissò per diversi secondi, cercando di risultare impassibile. Presto però le forze gli vennero meno e cadde in ginocchio a sua volta, le braccia strette intorno alla schiena della sua discendente.
Alex, sconvolta, rimase a bocca aperta fino a quando non sentì il sapore salato delle lacrime. Solo allora ricambiò la stretta, stringendo i pugni tra le sue scapole e singhiozzando contro la sua spalla.
Di fronte a quella scena anche Cathleen crollò a terra e si unì all'abbraccio, baciando i capelli dei Pendragon senza dire una parola. Non ce n'era bisogno. 

Ci volle un po' prima che si ricomponessero.
Una volta asciugate le lacrime si avvicinarono insieme al grande pino e rimasero coi volti alzati a guardare le fronde sussurrare nel vento. All'interno del tronco, cresciuto tanto che nemmeno se si fossero messi in cerchio tenendosi per mano sarebbero riusciti a circondarlo del tutto, c'erano il corpo e l'anima di Merlino.
Il mago più famoso e potente del mondo si era sacrificato per ridistribuire nel mondo tutta la magia in suo possesso, diventando una specie di batteria d'emergenza, a seguito del patto che l'ultima discendente della dinastia Pendragon aveva stretto con la Triplice Dea, la quale le aveva promesso che un giorno sarebbe tornato in vita. I sogni che sia Alex che Elijah avevano avuto nelle ultime settimane sembravano profetizzare finalmente il suo ritorno, ma nessuno aveva idea di come sarebbe successo. Era la clausola nascosta nel contratto a cui Alex, a corto di tempo ed alternative, non aveva prestato attenzione. 
«Allora, Elijah?».
Il veggente scosse il capo mentre staccava la mano dal tronco e faceva qualche passo indietro. «Non vedo nulla».
«Che cosa facciamo adesso?», chiese Cathleen, gli angoli degli occhi ancora arrossati per il pianto.
«Aspettiamo», rispose Alex, sedendosi sul prato.
Artù la guardò attentamente, realizzando che era cambiata ben poco in quei dieci anni. I suoi capelli erano ancora biondi e lucenti, anche se più corti; il suo viso, nonostante fosse maturato, era rimasto bello e giovanile. Forse solo il suo sguardo, quegli incredibili occhi verdi che avevano fatto innamorare Merlino, si era un po' incupito, succube della tristezza.
All'improvviso si rese conto dell'assenza di una persona che aspettava di incontrare da ben nove anni.
«Dov'è Enid?», le chiese senza giri di parole.
Cathleen trasalì. «Caspita, mi ero completamente scordata di lei!».
Alex sorrise e il suo volto si illuminò, occhi compresi. Artù sospirò sollevato nel constatare che l'oscurità che vi aveva notato non fosse permanente.
«Ha detto che sarebbe andata in esplorazione qui nei dintorni».
«Che cosa? E tu l'hai lasciata andare? Da sola?».
Alex scrollò le spalle, quasi divertita dalla reazione di Cathleen. «Capisco la tua preoccupazione. Anche io, che sono sua madre e so di cosa è capace, sono sempre in pensiero per lei quando la vedo allontanarsi. La verità però è che Enid è una bambina in cui convivono la forza dei Pendragon e la magia di Merlino; è forse l'essere più potente che questo mondo abbia mai visto». Alex guardò in direzione di Avalon, seguendo il corso del ruscello, e concluse: «Non le succederà nulla di male». 

***

La magia in quella foresta era forte, tanto forte che poteva sentirla scorrere nel terreno, tra le fronde degli alberi e nel vento che le avrebbe scompigliato i capelli se non li avesse legati in un codino sulla nuca. Ovviamente la chiamava, attirandola e spingendola nelle sue profondità.
Enid aveva il cuore che le batteva veloce nel petto, ma non era spaventata. Lei stessa era parte di quella magia, perché avrebbe dovuto temerla?
Aveva camminato a lungo e quando finalmente sentì di essere arrivata a destinazione realizzò che il sole stava quasi per tramontare. Sua madre le avrebbe fatto una bella ramanzina, nonostante non si fosse persa un bel niente. Sarebbe stata infatti la prima ad avvertirlo se suo padre fosse tornato.
Si avvicinò ad una parete rocciosa coperta di piante rampicanti, le strappò ed osservò la pesante porta in ferro battuto, arrugginita dal tempo e dalle intemperie. Bisognava risolvere una specie di puzzle ad incastri per aprirla, ma Enid non aveva tempo da perdere e decise di usare una scorciatoia: vi posò sopra il palmo e i suoi occhi si illuminarono d'oro mentre la magia faceva per lei tutto il lavoro.
La porta si aprì cigolando ed Enid sbirciò all'interno, ma il buio era totale. Cercò quindi tra i rami spezzati un bastone abbastanza spesso per farne una torcia e sussurrò: «Leohtbora». L'estremità si incendiò all'istante e la bambina si decise ad entrare nella grotta, scoprendo che c'era una seconda porta, questa volta nel terreno, come una specie di tombino. La sollevò con un altro incantesimo e scese nelle profondità della caverna.
Non aveva mai visto nulla di così bello in vita sua e rimase per diversi secondi a bocca aperta a guardare la miriade di cristalli che riflettevano la luce della sua torcia e al contempo emettevano un freddo bagliore azzurro. Era semplicemente incantevole e sentiva la magia sfrigolarle nella punta delle dita. 
«C'è nessuno?», si azzardò a chiedere ad un tratto, ricordando le parole di sua madre: bisognava sempre annunciarsi prima di entrare nella casa di qualcuno. Perché sì, lì ci abitava qualcuno, un'entità molto antica e allo stesso tempo nuova. Enid non aveva mai avvertito un'aura del genere, in nessuno delle centinaia di paesi che aveva visitato.
Non ottenendo alcuna risposta, Enid scese i gradini di pietra che la condussero in uno spiazzo in cui qualcuno, diversi anni prima, aveva cercato di costruirsi un rifugio. Passò oltre, chiamata da quella forza misteriosa.
Raggiunse l'entrata di una grotta secondaria, piccola eppure altrettanto sconvolgente. I cristalli sul soffitto brillavano ancora più intensamente e sarebbe stato uno spettacolo unico vederli riflessi sull'acqua che un tempo doveva aver riempito la falda al centro della caverna.
Enid si avvicinò alla roccia vicino al bordo del cratere e sfiorò con le dita la fessura annerita dove suo padre e zio Artù avevano incastonato Excalibur. Non molto tempo dopo era stata sua madre ad estrarla, dimostrandosi una degna Pendragon, e insieme l'avevano usata per combattere contro Freya. Conosceva quella storia a memoria, tante erano state le volte in cui aveva chiesto a sua madre di raccontargliela. Certo, lei aveva fatto di più sbirciando nella sua mentre per avere delle immagini in accompagnamento alle parole, ma questo Alex non lo sapeva.
Enid si inginocchiò sulla roccia e guardò giù nella falda, trovando finalmente ciò che irradiava quel potere e l'aveva chiamata a sé. Sorrise a trentadue denti e con cautela iniziò a scendere nella fossa. 

***

Il sole era ormai scomparso dietro le montagne, ma il cielo del tramonto aveva ancora quella sfumatura rossastra che rendeva più romantica ogni cosa.
«Tieni», disse Artù, porgendole un piatto con sopra una tazza di té e un tramezzino. «Elijah è riuscito a prendere solo questo in un alimentari che stava per chiudere. Non è molto, ma è meglio di niente».
«Grazie». Alex lo accettò con entrambe le mani e lo posò alla sua sinistra sulla panca, mentre Artù prese posto alla sua destra.
Si era avvolta una coperta intorno alle spalle, come una specie di mantello, ed era rimasta seduta in veranda per tutto il pomeriggio, lo sguardo rivolto verso il pino. L'ex-re la osservò, pensando a quanto fosse simile all'Alexandra della vigilia della battaglia contro Freya, e solo quando vide la sua bocca muoversi ritornò alla realtà.
«Cos'hai detto?».
Alex abbozzò un sorriso, bevendo un sorso di té. «Ho detto che mi dispiace che mia figlia ti stia facendo aspettare».
La preoccupazione tornò a gravare sulle spalle di Artù come se si trattasse di uno dei suoi figli. «Non credi sia il caso di chiamarla per sapere se sta bene?».
«Non ha un cellulare. O meglio, ce l'ha, ma non lo usa mai. L'ha lasciato in auto».
In quell'epoca in cui la tecnologia era diventata ormai essenziale per gli uomini, sapere che c'erano ancora bambini che non possedevano un cellulare era da non crederci. La sua primogenita l'aveva voluto che aveva appena quattro anni.
«Stai pensando che sia strana, vero?», disse Alex, appoggiando il mento alle braccia incrociate sulle ginocchia. «Il fatto è che non ne ha proprio bisogno. Se le succedesse qualcosa, potrebbe semplicemente chiamarmi col pensiero. Quando aveva cinque anni è uscita dalla stanza d'albergo in cui le avevo detto di rimanere, ha sbagliato a prendere la metropolitana ed è finita dall'altra parte di Londra. Ciò nonostante siamo riuscite a comunicare e ho potuto raggiungerla».
«Incredibile».
«Già. A volte però... mi spaventa, lo sai? Ho paura che diventi troppo potente, che la magia la cambi».
Artù le posò una mano sulla spalla, attirando il suo sguardo. Sorrise, esclamando: «Non succederà. È la figlia di Merlino dopotutto».
A quelle parole Alex ritrovò il sorriso, ma durò poco. La terra tremò sotto i loro piedi e la tazza che aveva lasciato sul bordo della panca cadde a terra, infrangendosi sulla veranda.
Cathleen e Elijah li raggiunsero non appena la scossa si arrestò.
«Che cosa diavolo è stato?», chiese la rossa, una mano posata sul petto.
«Credo che sia giunta l'ora», disse Elijah con voce pacata. «Guardate».
Alex si alzò lentamente in piedi, gli occhi fissi sul bagliore dorato che dal lago di Avalon attraversò il ruscello e penetrò nelle radici dell'albero, infondendo nel tronco, nei rami e in ogni singola foglia una quantità tale di magia da farlo brillare contro il cielo di una tonalità sempre più vicina al violetto.
Lentamente la corteccia del pino iniziò a fumare e Alex lasciò cadere la coperta per corrervi vicino, seguita da Artù, Cathleen ed Elijah.
Il legno si spaccò piano, assottigliandosi sempre di più, e l'attesa fu snervante. Quando però un grosso pezzo rivelò parte del volto di Merlino, rimasto immutato in quei dieci anni, Alex non riuscì più a resistere ed iniziò a strappare il resto a mani nude nonostante il calore fosse tale da ustionarle i palmi.
Anche Artù, dopo un attimo di esitazione, l'aiutò ed insieme estrassero il mago dal tronco dell'albero per adagiarlo sull'erba fresca.
«Merlino. Amore mio, svegliati. Merlino», lo chiamò più e più volte la donna, accarezzandogli il volto e i capelli mentre le lacrime le scorrevano inarrestabili sulle guance. Le sembrava di sognare e aveva il terrore di risvegliarsi.
Strinse forte la sua mano e baciò la fede che aveva ancora al dito, pregando come non aveva mai fatto. Aprì gli occhi solo per guardare Elijah che si chinava al suo fianco e posava una mano sul petto dello stregone. Una calda luce bianca fuoriuscì dal suo palmo e Merlino aprì di colpo gli occhi, tirandosi su a sedere con così tanta foga che avrebbe dato una testata ad Alex se lei non avesse avuto i riflessi pronti.
«Merlino... Merlino, sei tornato. È tutto vero», singhiozzò e lo abbracciò, stringendolo forte a sé.
«Che cosa...? Dove mi trovo? E dov'è la regina? Io...».
Il mago allontanò Alexandra e si esaminò il ventre, trovandolo attraversato da un reticolo di cicatrici.
Artù, rimasto alle spalle del mago per dare il giusto spazio a sua moglie, sentì il cuore stringersi non solo per quelle parole e il loro significato ma anche e soprattutto per l'espressione disperata sul volto di Alex.
Aveva atteso per dieci anni quel momento, dieci lunghi anni per potersi ricongiungere con l'amore della sua vita e lui... lui aveva dimenticato tutto?
Respirò profondamente per farsi coraggio e decise di intervenire per appurare quella teoria.
«Merlino», lo chiamò con tono di voce estremamente serio.
Vide la schiena dello stregone irrigidirsi e poi il suo capo voltarsi lentamente, come se temesse di vedere un fantasma. Quando i loro sguardi si incrociarono però il corvino si alzò frettolosamente e lo strinse, si aggrappò a lui come se fosse uno scoglio in mare aperto e piangendo scivolò in ginocchio, il volto nascosto nel suo maglione.
«Artù... Artù, siete tornato! Io... Mi dispiace, non so cosa sia successo... Ero a Camelot, Ginevra è stata... Non sono riuscito a... Ma non c'è tempo da perdere, vostro figlio... Avete un erede, un maschio, proprio così! Si chiama Graalmir! A quest'ora sarà sicuramente nel regno della regina Mithian con Percival, dobbiamo sbrigarci!».
«Papà, smettila!».
Tutti quanti si voltarono verso quella voce sottile ma potente, incrociando lo sguardo fiero ed addolorato di Enid. Aveva il fiatone, il volto arrossato e sporco di terra come del resto i suoi vestiti - maglietta azzurra e salopette di jeans - e le ginocchia sbucciate. Era bellissima.
Nessuno osò dire una parola mentre posava a terra il grosso uovo che aveva tra le braccia ed avanzava in direzione di Merlino. Lo stesso stregone rimase a fissarla a bocca spalancata, confuso ed incredulo. L'aveva appena chiamato "papà"?
Enid si chinò perché i loro volti fossero a pochi centimetri di distanza, dopodiché lo colpì in fronte con un dito sussurrando un incantesimo che lo fece crollare addormentato all'istante. Poi, come se nulla fosse, corse da sua madre per gettarle le braccia al collo.
«Mamma! Mi dispiace di essere arrivata tardi, mi dispiace».
«Tu lo sapevi?», le domandò Elijah, le braccia incrociate al petto.
La bambina si girò a guardarlo senza smettere di accarezzare i capelli di Alex. Chi fosse la madre e chi la figlia, in quella situazione, era difficile dirlo.
«Tu devi essere il Vate. Molto piacere. No, non lo sapevo, ma quando è iniziata ho sentito che c'era qualcosa di diverso nel mio papà».
«Assolutamente», fu d'accordo il druido, inginocchiandosi nuovamente.
«Volete rendere partecipi anche noi?», domandò Cathleen, innervosita.
«Merlino è tornato al momento successivo alla sua prima resurrezione, quando Camelot è caduta», le disse Artù, cercando la sua mano più per sé che per lei. «Tutti i secoli successivi, le sue altre vite, ciò che abbiamo vissuto insieme... sono stati cancellati dalla sua mente».
«Non solo», aggiunse Elijah. «Non c'è più traccia di magia in lui. È un... un umano comune, adesso».
Nell'udire quelle parole Alex uscì dal mutismo in cui era piombata per lo shock, ma lo fece per gridare e scoppiare in un pianto disperato. 

***

Artù, con un pugno davanti alla bocca, sedeva sull'unica sedia rimasta intorno al tavolo della cucina, ricoperto di polvere e sporcizia. Con occhi quasi spiritati fissava quella bambina che aveva preso tanto da Alexandra quanto da Merlino: i capelli neri e gli occhi azzurri come il cielo erano quelli dello stregone, mentre i lineamenti del viso e il sorriso erano decisamente della sua discendente.
Stava spiegando a Cathleen, come lei a gambe incrociate sul pavimento, le difficoltà che aveva superato per poter recuperare il primo uovo di drago di una nuova era. Il guscio era di una tonalità verdastra e liscio come un confetto e Enid non lo mollava un secondo, tenendolo stretto tra le braccia per trasmettergli il proprio calore.
Artù avrebbe voluto unirsi a loro, raccontarle come lui e Merlino - principalmente Merlino - aveva salvato e fatto nascere Aithusa, ma provava una fastidiosa sensazione di inadeguatezza ogni qualvolta quegli occhi si posavano su di lui, curiosi ed intelligenti. Si sentiva esposto, mentre Enid era per lui un'enigma indecifrabile.
«Dovresti parlarle», esordì con voce calma Elijah.
Artù lo trovò appoggiato al vecchio frigorifero, a braccia incrociate e la bocca incurvata in un ghigno divertito.
«Da quanto sei lì?».
«Un po'».
«Sei inquietante».
«Non tanto quanto te. Credi che non se ne sia accorta? Sinceramente non so più che cosa dirle».
Artù lo fissò confuso e il druido si colpì la tempia con due dita.
«Parlate col pensiero alle mie spalle? Fantastico».
«Mi dispiace, non volevo mancarti di rispetto».
L'ex-sovrano sobbalzò e in men che non si dica si ritrovò in piedi, gli occhi sgranati di fronte alla diverse volte pro-nipote. Elijah si staccò dal frigorifero e passandole accanto per dare loro un po' di privacy le posò la mano sul capo, ma Enid non distolse mai gli occhi da quelli di Artù.
Rimasti finalmente soli la bambina si avvicinò al lontano antenato e con un semplice gesto della mano fece volare via tutte le cianfrusaglie che c'erano sul tavolo, gli occhi iridescenti. Quindi si sedette sul bordo, con le gambe penzoloni, e chiese: «Ti faccio paura?».
Artù boccheggiò per un paio di secondi. «Paura? No, non si tratta di questo».
«Allora che cos'è che ti preoccupa? Mamma mi ha parlato tantissimo di te ed io ero così ansiosa di incontrarti!».
Il solo ed unico re gettò al vento ogni remora e la strinse tra le braccia facendole affondare il volto nel proprio petto. Col mento posato sulla sua testa sussurrò: «Anche io ho atteso questo giorno con ansia. Non vedevo l'ora di conoscerti, ma allo stesso tempo... È colpa mia se hai vissuto senza un padre, se hai dovuto...».
Le manine di Enid lo allontanarono perché potesse tornare a guardarlo negli occhi che erano davvero la copia di quelli di Merlino. Quanto gli erano mancati...
«Non ho mai pensato che fosse colpa tua. E non è vero che ho vissuto senza un padre». Il suo sorriso si allargò. «Papà è in tutto ciò che ci circonda e... oh, si è svegliato».
Entrambi si voltarono verso la finestra che dava sulla veranda e videro Merlino mettersi seduto sulla panca, una mano sulla testa.
Dandogli un pizzicotto sul braccio, Enid esclamò: «Meglio che tu vada a dirgli che cos'è successo».
Artù serrò le labbra, ricordando quando era stato lui in quella situazione e lo stregone aveva dovuto raccontargli ciò che si era perso e prepararlo alla realtà in cui si trovava. Era giunto il momento di ricambiare.
«Avremo tempo per conoscerci meglio», aggiunse la bambina, saltando giù dal tavolo e facendogli l'occhiolino.
Artù riuscì a sorridere e la seguì con lo sguardo mentre tornava in salotto per recuperare l'uovo che aveva momentaneamente affidato ad una Cathleen in brodo di giuggiole. Seduta accanto a lei c'era Alex, le ginocchia strette al petto e gli occhi fissi sul camino che era diventato un cestino ed un orinatoio per i vandali.
Artù strinse i pugni lungo i fianchi. Doveva farlo anche per lei, per ripagarla del suo sacrificio.

***

Merlino aprì di nuovo gli occhi e lentamente, per via della fronte che gli doleva, si mise seduto sulla panca di legno su cui qualcuno l'aveva adagiato, coprendolo persino con una coperta.
Aveva una grande confusione in testa e troppe domande, tante che non sapeva da dove cominciare a chiedere, né a chi.
Il suo sguardo fu catturato dal grande pino nel giardino: aveva un grande buco nel tronco, della dimensione giusta per un corpo umano, e gli aghi erano passati dal verde scuro al marrone chiaro. Stava morendo, mentre lui...
Si guardò le mani, ricordandole insanguinate per aver stretto una Ginevra in punto di morte. Lui stesso poi era perito, lo ricordava fin troppo bene.
«Ti stai chiedendo perché sei vivo?».
Merlino alzò di scatto gli occhi e trovò quelli di Artù ad attenderlo, due iridi blu come il mare in cui brillava una scintilla di scherno.
«Benvenuto nel club», aggiunse, sedendosi al suo fianco.
«Che cosa vorrebbe dire? Io... non riesco a capire».
Il solo ed unico re gli posò una mano sulla spalla, sospirando. «Promettimi di ascoltarmi senza mai interrompermi. Quando avrò finito potrai farmi tutte le domande che vorrai, okay?».
Lo stregone,a corto di alternative, promise.

Con gli occhi rossi per il pianto, Merlino si avvicinò al carro di metallo che Artù gli aveva indicato quando gli aveva chiesto dove fosse Alexandra e sbirciò all'interno, trovando Enid - sua figlia - addormentata sui sedili posteriori.
Il fazzoletto rosso che le aveva visto portare al collo ora era annodato intorno al suo uovo, il simbolo del ritorno della magia e del passaggio di testimone generazionale. Avendo perso tutti i propri poteri, la sua interà identità, non poteva più essere chiamato Signore dei Draghi.
Gli sembrava incredibile che tutto ciò che Artù gli aveva raccontato fosse successo veramente, ma non avrebbe avuto motivo di mentirgli.
Alexandra invece si trovava dietro il volante, a sua volta addormentata. Non voleva svegliarla, era ancora incerto su cosa le avrebbe detto, perciò aprì con cautela la portiera e si sedette al suo fianco. La osservò e capì subito che nemmeno il sonno era in grado di darle pace. Si sforzò di ricordare, di riportare a galla quell'amore così forte di cui Artù gli aveva parlato, ma la Triplice Dea aveva fatto un ottimo lavoro nel cancellargli la memoria.
«Mi dispiace. Mi dispiace tanto», sussurrò, accarezzandosi la fede che portava al dito. Non riusciva nemmeno ad immaginare il dolore che doveva averle causato, eppure le lacrime gli velarono di nuovo gli occhi.
Una terza mano si posò sulle sue, accarezzandogliele delicatamente, e Merlino alzò di scatto il capo. Gli occhi verdi di Alexandra lo guardarono con una dolcezza infinita e il suo cuore saltò un battito.
«Non è colpa tua», replicò piano, per non svegliare Enid.
«Temo di sì, invece. Se non fosse stato per il mio egoismo, fin dall'inizio...».
«Non mi pento di nulla, Merlino. Ogni momento trascorso insieme, io lo ricordo e lo custodisco gelosamente nel cuore».
Lo stregone abbassò gli occhi, arrossendo. «Tu... tu mi ami ancora?».
«Certo. Finché morte non ci separi».
«E io... io ti amo?».
Alexandra ridacchiò, allontanando la mano per portarsela davanti alla bocca. «Come posso saperlo, Dumbo?».
Sentirsi chiamare con quel nomignolo accese una specie di miccia nel suo petto e Merlino non pensò affatto quando le portò una mano sulla nuca e fece incontrare le loro labbra a metà strada. La baciò e non si sentì a disagio, affatto. Fu naturale, fu giusto. Doveva averlo fatto centinaia di volte.
Quando si allontanò la tenne comunque vicina a sé, le fronti che si toccavano.
«Credo che non ci vorrà molto per innamorarmi nuovamente di te», le disse sorridendo.
Alex ricambiò, puntandogli il dito contro il petto. «Attento a quello che dici. L'ultima volta hai impiegato quattro anni per deciderti».
«Non sarò tanto stupido».
Stavano per baciarsi un'altra volta quando vennero interrotti da Enid, la quale tirò loro contro il piccolo cuscino da viaggio e mugugnò: «Sono contenta per voi, ma potreste andare da un'altra parte a recuperare i dieci anni perduti? Vorrei dormire».
Merlino inarcò un sopracciglio e guardando una Alex più che imbarazzata disse: «Somiglia in modo inquietante ad Artù».
A quel punto Enid aprì gli occhi, le iridi come due cerchi d'oro, e con la magia si riportò sotto la testa il cuscino.
«E ora somiglia a te», sussurrò Alex all'orecchio del mago, facendogli correre mille brividi sulla pelle.
Enid sogghignò e tornò a riposare come se nulla fosse mentre i genitori uscivano dall'auto per sedersi fianco a fianco sul cofano.
«No, io non sono più così», ruppe il silenzio Merlino, guardandosi le mani. «Non ho più il dono».
«L'hai odiato per secoli, dopo la morte di tutti i tuoi cari. Non lo ritenevi nemmeno più un dono, ma una maledizione».
«Capisco».
«Ti manca?».
Merlino si strinse nelle spalle. «Non lo so. Forse devo solo abituarmi, capire chi sono».
«Capire chi sei? Che stupidaggine è mai questa? Tu sei Merlino, magia o meno. Sei l'amore della mia vita, mio marito e il padre di mia figlia. Tutto questo non ti basta?».
Guardando il volto illuminato dalla luna di Alex, bella come una dea, sorrise.
Oh sì, gli sarebbe bastato eccome. Lei era l'unica cosa che nessuna profezia aveva mai predetto e non doveva ringraziare nessuno per averla messa sulla sua strada, se non lei stessa: aveva lottato per lui, l'aveva amato come mago e l'avrebbe amato da umano, fino alla fine dei giorni. Era lei il vero dono, la vera magia. 

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