Kings and Queens of promise

di Alex Wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - Ballando nel buio ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - Yunan. ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Dungeon ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - Ballando nel buio ***


Capitolo I
 

Ballando nel buio.
 

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Abbiamo più punti interrogativi che punti di riferimento.”
 
— Fedez.

 

3 anni prima.

Non era solito far alloggiare gli stranieri nel suo palazzo. Gli trovava una sistemazione adeguata, gli forniva tutto quello di cui avevano bisogno, ma non gli permetteva di entrare nella parte del castello adibita a se stesso e i suoi generali. Mai. Era più forte di lui; lo faceva sentire come se così facendo potesse custodire come una parte di loro tutta per se. Un ricordo, una certezza a cui solo lui e quelle otto persone potevano accedere. Tutta via, non si era fatto scrupoli ad ospitare un gruppo di fuggitivi dall’Impero di Kou –sebbene questo lui ancora non lo sapesse. Quegli uomini e quelle donne gli avevano solo detto di essere dei mercanti –falso- naufragati sulle coste di Sindria successivamente a un turbinoso temporale –vero-, e di non essere riusciti a trovare rifugio in nessuna locanda in quanto nessuno dei cittadini di quell’isola se la sentiva di ospitare una ferita grave. Lui, ascoltata quella storia, non aveva potuto dire di “no”. Dopo tutto, come ne avrebbe risentito la sua immagine se avesse chiuso fuori dalle porte della pacifica Sindria della gente bisognosa d’aiuto? Perciò, fece portare sette di quelle persone negli alloggi liberi della servitù, procurò loro bagni caldi, vestiti puliti e cibo, mentre depositò la ragazza ferita in una delle stanze antecedenti a quelle di Yamuraiha,  in modo che la maga potesse tenerla d’occhio.
La fece depositare sul letto, con molta calma, e aspettò con calma che l’amica dai capelli turchini  si facesse viva. Per quanto ricordava, quel giorno gli aveva detto che sarebbe stata al porto per provare un nuovo, semplice incantesimo. Li avrebbe raggiunti in poco tempo, se il messaggero avesse corso veloce. Così, mentre attendeva, il giovane Re Sinbad si sedette su uno sgabello e rimase a osservare la giovane donna. Non le avrebbe dato più di ventitré anni, sebbene sul viso, contornato da lunghi capelli talmente chiari da sembrare bianchi, riportava alcuni segni di vecchie ferite che mascheravano alcuni tratti. Forse si sbagliava, magari era una sua impressione, ma gli parve di distinguere fra le tumefazioni una cicatrice che le attraversava il ponticello del naso. Chissà che le era accaduto? Non poteva vederle gli occhi in quanto le palpebre nivee erano abbassate, e questo significava che era chiuso fuori da una specie di mondo interiore che quelli aprivano, da un passato e da delle emozioni che si sarebbero potute leggere solo li, perciò per passare il tempo iniziò a immaginarseli. Pensò che sarebbero potuti essere dello stesso colore del cielo quel giorno, azzurro terso e brillante, e vispi; di un verde più intenso di quelli di Sharrkan, e magari più seri; oppure, potevano essere neri e lucenti, come le ciglia che le sfioravano a malapena le guance, e intensi. Magari… Proprio mentre si apprestava a poggiare una guancia sul pugno chiuso, la diretta interessata tremò un poco nel sonno. Che avesse freddo? Mosso dall’altruismo, che quel giorno sembrava più enfatizzato che mai, il ventiseienne si alzò e con molta delicatezza prese a tirare verso l’alto i lembi della coperta. Poi fu un attimo. Come sotto comando, le mani della giovane scattarono verso l’alto e andarono ad arpionare i polsi dell’uomo. Un movimento veloce –e praticamente invisibile- di gambe e, puf!, il Re si ritrovò steso sul materasso con la sua stessa spada puntata alla gola.  Il peso della ragazza che gravava su di lui, era la prova consistente che non si era addormentato aspettando il suo Generale. Anzi, era bello sveglio. E, per di più, con le mani imprigionate da una stretta di ferro che pensava la ragazza non avesse, visto che pareva fragile come lo stelo di un fiore. Arricciò le labbra, corrugò le sopracciglia e rimase in silenzio. Non che non volesse, eh, ma come ci si poteva aspettare che alzasse gli occhi verso quelli di lei quando il suo seno era così vicino? Era pur sempre un uomo.
Come se gli avesse letto nel pensiero, la ragazza gli diede un piccolo calcio contro la gamba con la propria, attirando la sua attenzione.
Lui alzò lo sguardo, e per un attimo gli sembrò che il sole stesse inondando il volto di lei. Poi si accorse che il sole non c’entrava nulla, erano i suoi occhi a illuminare quei tratti nascosti dai lividi. Aveva uno sguardo serio, spaventato persino –ma questo era logico, dopo tutto si era svegliata in un posto sconosciuto con un estraneo-, e tanto diverso da come lui si era immaginato. Non aveva nulla del cielo, ne tanto meno del nero delle ciglia o del verde del suo amico. Aveva uno sguardo da cui colava oro, tanto denso e intenso da far venire i brividi e sorgere il sorriso al tempo stesso. Uno sguardo che, lui lo sapeva, si poteva incontrare una sola volta nella vita. Ipnotico come la danza che le ballerine sindriane facevano le sere di festa.
Qualche ciocca pallida le ricadde oltre le spalle, andando a mischiarsi con quelle viola di lui, creando un contrasto quasi fastidioso agli occhi. «Dove siamo? Chi sei? Perché sono qui?» Aveva anche una bella voce, constatò il reggente, graffiante quasi.
«Buon giorno anche a te» sorrise lui, con la sua solita calma garbata. Lei sborbottò una risposta spiccia spostando lo sguardo verso il suo petto, quasi si sentisse in obbligo. «Mi chiamo Sinbad, e sei qui perché siete naufragati l’altra notte», la sentì irrigidirsi un poco, mentre con voce pacata gli domandava dove fosse esattamene questo “qui”. «Sindria. Sei a Sindria, e io sono Re Sinbad.» La vide sospirare prima di rilassarsi del tutto e abbandonare la presa sui suoi polsi, e la spada da un lato.
Chiuse gli occhi per un momento, la ragazza, quasi si stesse assaporando quelle parole con gusto. Non le sembrava vero, finalmente era libera. La sua vita sarebbe finalmente cambiata. Avrebbe voltato pagina. Ma che stesse pensando questo Sinbad non lo sapeva. Si limitò a osservarla per bene, ad analizzare le sue curve non troppo marcate e a farsi domande sulla sua forza fisica. Chissà da dove aveva attinto per riuscire a bloccarlo? Poi, per la prima volta, i suoi occhi castani andarono a concentrarsi sua bocca: fine, non troppo piena, col il labbro superiore leggermente più piccolo. Un’attrattiva niente male, in generale. Forse… Ma che andava a pensare? Lui e la sua mania per le belle donne, che veniva fuori nei momenti meno opportuni. Però, non è che la loro posizione fosse così casta da potersi permettere chissà quale pensiero puro. Insomma, forse lei non se ne rendeva conto, ma gli era praticamente seduta sopra e la cosa era alquanto equivoca.
Sinbad socchiuse le labbra, pronto a domandarle qualsiasi cosa pur di non pensare alla posizione, ma prima che potesse parlare, la porta d’entrata si spalancò e la maga entrò senza troppi complimenti. Il sorriso che le adornava le labbra scomparve quando si posò su di lui e, al contrario, si accese nei suoi occhi una scintilla di malevolenza. Oh, il Re sapeva cosa Yamuraiha stava pensando e le avrebbe volentieri spiegato che era tutto un equivoco, che era stata la ragazza a metterlo alle strette, ma prima che riuscisse anche solo a spiccicare un parola lei lo prese e lo fece volare oltre il portone, letteralmente, accompagnato da un «VERGOGNATI!» di sottofondo. Così, il giovane Re si ritrovò esiliato da una delle stanze della sua stessa casa, a causa di un malinteso davvero stupido. Si accarezzò la parte destra del viso contro la quale era caduto, mentre si avviava ai giardini. Prima o poi avrebbe spiegato alla turchina che era stato tutto un malinteso.
 

  ҉                           


 
«Il mio nome è Yamuraiha, tu come ti chiami?» Era davvero bella, constatò la giovane mentre osservava la maga tutta intenta a scansionarle il viso con lo sguardo. Quegli occhi chiari, tendenti al verde acqua, avevano una luce naturale che li rendeva, almeno per quanto pensava lei, simpatici e dolci. Tutto il contrario rispetto a quelli del sovrano che aveva conosciuto prima. Già. Quelli dell’uomo gli erano parsi più adatti a custodire segreti dietro una falsa maschera di fierezza e felicità. Non riusciva ancora a convincersi che poteva fidarsi di lui, anche se l’aveva accolta e aveva risposto a ogni sua domanda le faceva strano; mentre la ragazza, Yamuraiha, sembrava una figura semplice di cui fidarsi. Sarà stato il sorriso che le rivolgeva, sarà stata la luce che aveva scorto nei suoi occhi, sarà stata la tranquillità che riponeva nella voce, la giovane bionda decise di rivelarle il proprio nome.
«Tennah» sussurrò, osservando le mani pallide e curate della donna intente a fasciarle il braccio ferito. «Il mio nome è Tennah.»
La giovane maga lasciò per un attimo il proprio lavoro, rivolgendole un’occhiata sorridente. «Piacere di conoscerti, Tennah.», fece una piccola pausa, «Ti andrebbe di raccontarmi come ti sei procurata questi?» chiese con naturalezza, indicando alcuni lividi.
La bionda si irrigidì, scostando lo sguardo in direzione della finestra. Non voleva parlarne, non adesso almeno, perciò si limitò a ignorare la domanda e osservare il panorama. Dalla stretta e alta finestra entrava una luce pallida che si rifletteva sui tappeti colorati sostanti sul pavimento, segno che il cielo fuori doveva essere terso e senza nubi –poteva vederlo, nonostante i forti raggi solari-; sentiva i gabbiani stridere, e poteva scorgere con semplicità le onde del mare che s’increspavano al largo e creavano molteplici, abbaglianti giochi di luce. Tanto simili alle squame di un serpente variopinto.
«Dov’è la mia gente?» sussurrò più per dovere che per interesse, rapita da quel mondo nuovo che si apriva appena fuori dalla finestra. Gli odori erano tanto diversi da quelli che aveva conosciuto durante la sua vita, così freschi e speziati; persino le voci della gente, che arrivavano sin a quell’altezza, parevano diverse da quelle che aveva sempre udito: più vive, allegre. Si ritrovò a sorridere, trepidante all’idea che avrebbe potuto visitare la città, l’intera Sindria uno di quei giorni.
Così, immersa nei suoi pensieri rivolti alla libertà, non fece minimamente caso alle parole che le stava rivolgendo la maga. Udì solo che stavano tutti bene, che avevano ricevuto delle cure e nulla di più.
Quando Yamuraiha smise di parlare e ebbe finito le medicazioni, s’issò in piedi appoggiandosi ad uno strano bastone, e rimase ad osservare la nuova venuta. Le sembrava impossibile che fosse sopravvissuta a un naufragio, ridotta praticamente in fin di vita da quei colpi che le avevano lasciato lividi vecchi e nuovi sulla pelle pallida. Tennah aveva di certo una pelle dura, e sue questo la maga non aveva dubbi. Sospirò, senza accorgersene neppure. «Sai, potresti rivederli già domani, i tuoi amici» le rivelò segretamente, mettendosi persino una mano a lato della bocca per paura che qualcuno li sentisse. Che poi non c’era motivo di nascondere quell’informazione a nessuno, solo che le era sembrato carino fare quel gesto, quasi fosse una cosa di cui solo loro due erano a conoscenza.
Tennah l’osservò, sorridendo distrattamente. Ora che aveva visto una misera parte di quella nuova terra non vedeva l’ora di esplorarla del tutto, anche da sola. Non ci pensava nemmeno più a quelle persone con cui, certamente, aveva vissuto, ma che alla fine di tutto non erano così importanti come i suoi desideri. Era gente con cui aveva passato tanti brutti momenti, ma che non l’aveva mai aiutata seriamente perché troppo paurosi delle conseguenze. L’avevano caricata sulla barca con loro per caso, dopo che era venuta a sapere del loro piano di fuga da quel luogo e li aveva pregati di non lasciarla indietro. Alla fine, non era neppure vero che gli importava di loro. Non così tanto.
«Sono felice di questo, davvero, ma quando potrò visitare la città?» La maga caracollò per un attimo, sorpresa da quella richiesta inaspettata. Insomma, aveva pensato che la giovane avrebbe preferito rivedere la sue gente invece che la città.
Sbatté le palpebre intontita, per poi ricomporsi. «Domani» asserì, annuendo con il capo. Sul viso della straniera si aprì un largo sorriso.
«Non vedo l’ora di esplorare Sindria» ammise la forestiera, alzandosi dal materasso. Poggiò i piedi su un morbido tappeto finemente ricamato e vi rimase ferma sopra per molto tempo. Non aveva mai sentito nulla di più morbido; la sensazione che emanava era splendida, come una carezza delicata. «Sembra così… magica.» Piegò lievemente il capo a sinistra mentre stiracchiava gli arti indolenziti, poi zampettò verso la finestra dove la luce del sole la inondò con una doccia pallida e calda, illuminando i suoi capelli di sfumature bianche e lucenti. Persino gli occhi, dentro i quali la giovane maga aveva scorto un’anima trepidante, sembrarono brillare più di prima. L’oro che li adornava si colorò di sfumature d’ambra, che pareva sul punto di liquefarsi.
«Ah, questo paese è così bello. Non avevo mai visto un luogo così incantevole, prima di adesso.»
La turchina strinse un poco il bastone fra le lunghe dita, poggiandovi un po’ del peso. «Già, Sindria è meravigliosa.» Poi, cambiando argomento, disse: «Quanti anni hai, Tennah?»
«Ventitré» si affrettò a rispondere l’interessata, senza però degnarla di uno sguardo. Era troppo concentrata sul panorama, come un’infante che riceve un gioco nuovo. Yamuraiha ridacchiò un poco, attirando su di se uno sguardo curioso. «C-che c’è? Ho fatto qualcosa di sbagliato? Avrei dovuto dire che ne avevo di meno?» si allarmò subito l’altra, dando un motivo in più alla maga per ridacchiare.
Ripreso il contegno, la donna fece qualche passo in avanti e raggiunse la bionda. Come lei, si perse a studiare quel paesaggio che ormai aveva imparato a conoscere. «Non hai fatto nulla di sbagliato. Ho solo pensato che sei davvero buffa mentre guardi il panorama con quell’espressione da bambina, come se fosse la prima volta che ne vedi uno simile.»
Silenzio. Un silenzio che si prolungò per qualche minuto, finché Tennah non lasciò andare il davanzale dalle presa ferrea e le sorrise, chiudendo le palpebre come a voler nascondere qualcosa. «Già, a volte esagero un po’ con l’euforia. Scusami.» Si accarezzò i capelli con imbarazzo, piegando nuovamente il viso verso sinistra. La turchina sorrise a sua volta, prima di darle le spalle e dirigersi verso l’uscita. Quella giovane la incuriosiva: chissà cosa nascondeva?
«Tennah-san, ti andrebbe di fare un bagno rilassante? Il viaggio deve essere stato davvero stancante, per non contare le tue condizioni fisiche attuali. Penso che un po’ di relax possa farti bene, che ne dici?»
La bionda tentennò un poco, prima di annuire. La ringraziò e poi si volse nuovamente verso l’orizzonte, mentre Yamuraiha la lasciava sola. Quando la porta si richiuse alle spalle della maga, Tennah non perse il sorriso ma si ritrovò a chiedersi quando sarebbe dovuta partire. Immaginava già se stessa su una nave diretta nelle terre lontane, più lontane possibili da quel luogo che lei aveva denominato “inferno”. Una cosa era certa, abbandonare Sindria sarebbe stato faticoso. Se n’era già innamorata. Era bastato un breve sguardo a quel luogo per sentire il cuore venire perforato da una freccia di cupido. Ma non poteva neppure privarsi della scoperta del mondo che ancora non aveva visto. Ah! Che brutta situazione era quella! Così, prima di prendere una decisione, Tennah decise che avrebbe fatto il bagno. Magari un po’ di acqua calda la avrebbe schiarito le idee, oppure sarebbero state offuscate a causa del vapore.
 
҉
 
«Non che mi dispiaccia, eh, ma perché c’è una ragazza seminuda affacciata dal balcone della tua camera, strega?» Sharrkan indicò, con tanto d’occhi, la figura di una giovane donna contro sole fasciata da un’unica coperta.
Aveva subito intuito che non si trattava di Yamuraiha, le forme di quel corpo non erano così prosperose come invece erano quelle della maga, e i capelli alla luce parevano bianchi mentre quelli del Generale sembravano fili di acqua limpida. Perciò, la domanda gli era sorta spontaneamente. Non aveva nulla in contrario, come aveva già fatto notare, solo che gli pareva strano. Non si ricordava che Yamu avesse delle amiche, o roba del genere.
«Strega a chi, spadaccino del mio barbecue?» Sibilò allora la diretta interessata lasciando cadere nel piatto la forchetta, alzando lo sguardo nella stessa direzione del compagno. Gli altri li seguirono a ruota. Qualcuno s’irrigidì, qualcun altro ingoiò troppo velocemente il boccone colto alla sprovvista, altri ancora –come Ja’far- sbarrarono gli occhi e poi si apprestarono a farlo a Sinbad, più per abitudine che per necessità.
«Non sarà quella ragazza di cui ci hai parlato prima, vero? Quella che ha tre anni più di te?» S’incuriosì Pisti, animando la sua domanda con movimento della forchetta munita di carne. Qualche goccia di sugo ricadde sulla tovaglia macchiandola, ma lei non ci fece caso.
«Si, è lei» annuì ancora sotto shock la donna, piegando lievemente la testa a destra, come se quel gesto l’avesse aiutata a capire cosa stava pensando Tennah. Assottigliò lo sguardo e le inquadrò il viso raggiante, perso ad osservare l’orizzonte. Si stava godendo quegli attimi di pace, ignara che qualcuno la stava osservando da sotto un gazebo. Sembrava felice, leggera come i capelli che le accarezzavano le spalle e volavano nel vento.
«Ma, non avevi detto a Sinbad che il tuo terrazzo era ancora pericolante? Non è che sarà pericolos-» un urlo squarciò la domanda di Drakon, lasciandola a metà. La maga non ebbe neppure il tempo di gridare a sua volta, che uno degli otto generali stavano correndo verso la figura che precipitava. Senza pensarci, scostò malamente la sedia e si alzò. Le labbra socchiuse dallo stupore.
Un tonfo. Una nube di polvere. Silenzio.
Tennah si ritrovò dolorante, ovunque, mentre apriva le palpebre protette dalle mani. Cercò di non respirare finché la maggior parte della polvere non si fu diradata, poi tossì leggermente. Poggiò la mano alle sue spalle convinta di trovare la terra e l’erba, quando invece si andò a scontrare con freddo metallo. Irrigidì i muscoli e voltò lentamente il busto, mentre uno strano senso di comprensione andava a inondarle il cervello. Incontrò due occhi castani, più meravigliati dei suoi se possibile così vicini da potervi scorgere tutti i riflessi che il sole vi creava. Ingoiò un fiotto di saliva, stringendosi quel lenzuolo al petto –perché non si era vestita subito appena uscita dalla vasca?! Ah, già, le ancelle erano andate a cercarle abiti che potessero entrarle- e restò muta. Sentiva il viso diventare gradualmente più caldo, più rosso, più imbarazzato.
«Od---. Mi dis----. I-io s-scus---» ma le lettere le morivano in bocca, incapaci di fuoriuscire come si deve. Non si era mai trovata in una situazione simile, non di sua volontà almeno. Non avrebbe mai voluto trovarcisi.
«N-no, figurati.» Anche il ragazzo sembrava imbarazzato, tanto che distolse lo sguardo dal suo con velocità. Era carino, con dei tratti del tutto nuovi ai suoi occhi. Lineamenti che lei non aveva mai visto prima di allora. Un fascino diverso da quello del Re di Sindria e di Yamuraiha, che a loro volta ne possedevano due altrettanto attraenti.
«Tennah! Tennah, cielo, stai bene?» Come se l’avesse chiamata, eccola che arrivava. Con una mano a reggere il capello nero, la giovane maga si precipitò verso di lei e l’aiutò ad alzarsi, coprendola accuratamente con il lenzuolo e le braccia.
«Si» affermò la giovane, sempre molto imbarazzata. Poi, rivolgendosi al ragazzo con l’armatura aggiunse: «Io… grazie. Mi spiace se ti ho fatto male cadendoti addosso.» Ancora una volta lui arrossì e diresse lo sguardo altrove. Doveva essere molto timido.
«Hai capito che presa! Sei migliorato in velocità, Spartos!» Un ragazzo  rifilò al giovane uomo una pacca sulla spalla coperta dall’armatura, sorridendogli con fraternità. Aveva i capelli bianchi, letteralmente, e una pelle color nocciola che faceva invidia a Tennah. Oh, quanto le sarebbe piaciuto abbronzarsi fino a raggiungere quello splendido colore caramellato, per liberarsi del pallore che l’opprimeva.
Tuttavia, non era importante pensare all’abbronzatura. Adesso c’erano altre questioni da risolvere, prima fra tutte: doveva vestirsi. Con la consapevolezza di indossare solo un lenzuolo come abito, la bionda sussurrò nell’orecchio della maga: «Scusami tanto, Yamuraiha, ma vorrei andare a cambiarmi. Non mi sento a mio agio indossando questo lenz-»
«Hai ragione! Hai ragione! Hai. PERFETTAMENTE. Ragione.» squittì la turchina, come risvegliatasi da uno strano stato di limbo. «Pisti, ti andrebbe di aiutarmi a scegliere qualcosa da far indossare alla nostra ospite?»
«Con piacere!» e udita quell’affermazione, la maga iniziò a spingere con delicatezza la bionda verso l’interno del palazzo. Avrebbe volentieri usato la magia per arrivare direttamente in camera sua, ma non le sembrava il caso visto l’abbigliamento di Tennah e gli occhi di Sharrakan nei paraggi.
Dopo una buona mezz’ora passata a scusarmi per l’accaduto, finalmente Tennah decise di tacere. Yamuraiha le aveva ripetuto che non doveva preoccuparsi perché non era stata colpa sua; che non poteva sapere che quel terrazzino era un attentato alla vita, oppure che qualcuno la stava osservando. Eppure, la giovane non poteva fare a meno di sentirsi in colpa. Era arrivata a Sindria da nemmeno un giorno e già aveva assalito il regnante, ed era bruscamente atterrata su uno dei suoi otto generali –per di più praticamente nuda. Evidentemente persino pensare ai progetti per il futuro faceva male. Una se ne stava tranquillamente poggiata alla balconata a rimuginare sulle scelte da prendere –convinta di essere sola- e, puff!, si ritrovava a precipitare letteralmente nel vuoto.
Sospirò, Tennah, abbracciando le gambe e portandole al petto per poi poggiarci sopra il mento. Rimase ad osservare le due ragazze, entrambe più piccole di lei, esaminare gli abiti che avrebbero dovuto prestarle. Quelli di Yamuraiha non le sarebbero andati bene, in quanto il suo seno e la sua statura erano decisamente diverse; quelli della piccola Pisti… beh, era piccola e troppo piatta. Non che lei abbondasse di seno, però aveva almeno una forma che i vestiti lasciavano intravedere a contrario dell’altra. Quando la ragazzina se ne rese conto un’ombra le calò sul viso, offuscando quei grandi e graziosi occhi neri che si ritrovava. Si accarezzò poi i capelli biondicci, più scuri di quelli di Tennah, e uscì dalla camera con la pretesa di andarle a comprare abiti adeguati in città. Non ci mise molto, ma nel tempo che fu via la giovane naufraga ripartì alla carica con le scuse. Le dispiaceva aver fatto fare quella fine al balconcino della maga.
«Non ti preoccupare, davvero» la turchina potò le mani in avanti, muovendole velocemente, «tanto avrebbe fatto quella fine in ogni modo. Mi spiace solo che tu abbia dovuto affrontare quel volo. Già con i tuoi ammaccamenti non si può dire che sei in forma, e posso solo immaginare come dopo la botta di oggi ti senta meglio.»

  ◊

 
La notte prima non aveva avuto incubi, cosa che l’aveva lasciata felicemente sorpresa, e aveva potuto dormire come un pascià. Si era svegliata di buon umore, che aveva visto riflettersi sul paradiso esterno che la circondava. Aveva indossato gli abiti procuratele da Pisti –una semplice gonna rosa confetto, decorata con una striscia d’oro a delimitarne il bordo - molto corta, certo, ma alquanto comoda- e un top con l’ennesimo motivo, sormontato da uno scialle perlato.
Tennah si riconciliò con gli uomini e le donne con cui era fuggita. Li salutò tutto, sorridendo ogni qual volta loro iniziavano a elencarle i servigi con cui i domestici di Re Sinbad li avevano accolti. Nessuno sembrava interessato più del dovuto al suo stato di salute, ma questo non le importava. Dopo tutto non era nei suoi progetti continuare a viaggiare con loro, figurarsi sapere cosa gli premeva e cosa no. Perciò, dopo che ebbe mangiato e li salutati tutti si avviò silenziosamente fuori dalle mura del palazzo, con unico accompagnatore il sole. Sorrideva come non aveva mai fatto. Ai piedi aveva sandali sindriani leggeri e splendidi nell’oro con cui erano ricamati, ma avrebbe voluto tanto toglierli per sentire sotto la pelle il caldo della terra. Tuttavia non sarebbe stato molto educato, pensò. Così, si limitò a osservare estasiata tutte le novità che quella terra le offriva, finché non si ritrovò al porto.
Il mare era una distesa di cobalto perlaceo. Il sole, come il giorno precedente, giocava fra le onde colorandole dell’arcobaleno e le barche dei pescatori ravvivavano il tutto facendo assomigliare il paesaggio a un quadro vivente. Le urla e le risate dei pescatori si confondevano con quelle dei bambini e delle donne, tutte indaffarate a comprare il cibo per la cena, o per i mariti che si preparavano a salpare. Era così diverso dal mondo in cui aveva vissuto prima della partenza. Sembrava finto. E se lo fosse stato?  E se, in realtà, lei stava solamente sognando? Per eliminare ogni dubbio si tirò un pizzicotto sul braccio: ci mise poco e nulla il dolore a venir fuori, affermandogli che era tutto vero. Sorrise ancora, come se quella fosse l’unica cosa che le riuscisse di fare quel giorno. Forse avrebbe potuto domandare loro…
«Oh, vedo che qualcuno è fel-» Spaventata da quella voce improvvisa, Tennah girò su se stessa e afferrò con entrambe le mani il collo dell’interlocutore prima di colpirlo al ventre e farlo voltare, costringendolo così con il busto verso terra. Affondò un braccio contro la schiena, spingendolo contro l’asfalto con le ginocchia.
Il ragazzo gracchiò, attirando su di se gli sguardi sorpresi dei passanti. Solo allora, dopo aver passato gli occhi sul vestiario del giovane ed essere arrivata ai suoi capelli capì di chi si trattava. Sbiancò, anche se più bianca di così non credeva fosse possibile esserla, e lasciò andare la preda. Ingoiò a vuoto, grattandosi la guancia imbarazzata.
«Mi scusi. Di nuovo.» Abbassò lo sguardo soleggiato per non incontrare quello castano miele di lui. Si massaggiò una spalla. Che brutta figura aveva fatto.
«Colto di sorpresa due volte, in due giorni. Non penso che ci fosse mai riuscito nessuno prima di adesso» rise Sinbad. Dietro di lui, visibilmente contrariato da quell’atteggiamento sornione, un giovane albino scosse il capo. I corti capelli pallidi rifletterono i raggi del sole.
«Già, lo immagino» sussurrò quella, non del tutto sicura delle sue parole. Non pensava fosse vera quell’affermazione di prima, però non poteva contraddirlo dopo tutto era il regnante. «Cosa ci fate al porto, mio signore?» Ah, che domanda idiota! La città la governa, lui, è logico che la visiti. Si sarebbe volentieri data uno schiaffo da sola per la stupidità di quella frase.
«Ho sentito dai vostri compagni che eravate uscita a visitare Sindria, così ho pensato di venire a farvi compagnia. Che stavate pensando di fare?» Quella schiettezza la lasciò spiazzata. Annaspò silenziosamente, sperando che gli occhi del sovrano non se ne accorgessero visto che adesso stavano fissi all’orizzonte. Alla fine, raccapezzate le idee, disse: «Pensavo di andare a domandare se ci fosse una nave che salpi entro sera, così da poter partire.»
«Oh. Volete già andare via? Pensavo che Sindria allietasse i vostri sensi» curiosò l’uomo, sorridendole a metà.
Allora lei, corrucciando le sopracciglia rispose immediatamente. «Certamente, Sindria allieta ognuno dei miei cinque sensi. E’ davvero un luogo magico. Ma, prima di fermarmi in un posto solo mi piacerebbe esplorare questo vasto, vasto mondo.» Si rivolse nuovamente al maro, congiungendo le braccia dietro la schiena spensieratamente. «Sa, sono sempre stata curiosa di conoscere i segreti che custodisce» e arricciò le labbra.
Sinbad la osservò segretamente, soppesando le parole che gli stava riferendo. Sebbene l’avesse messo alle strette due volte, con una forza sovraumana per una donna di quella corporatura così magra, si ritrovò a pensare che alla luce del sole pareva come una farfalla. Fragile. Bella. Sfuggente. Non aveva nemmeno passato un giorno nel suo regno e già prospettava di partire. Magari, poteva riuscire a convincerla a restare. Sinceramente, quella donna lo incuriosiva e voleva sapere di più su di lei e sulla gente che aveva salvato. La sua sete di sapere era incolmabile, così come quella per le belle donne. E, lui poteva giurarlo, scomparsi quei lividi e messo su un po’ lei sarebbe diventata di sicuro molto, molto bella.
«Tutta via, visto che ne ho l’occasione Re Sinbad, vorrei chiedervi una cosa» Tennah alzò il viso a guardarlo. Aveva uno sguardo serio, senza nessuna traccia di vergogna o altro sentimento. Nei suoi occhi aleggiava una scintilla di autorità celata.
«Dimmi pure» affermò l’uomo, girandosi nella sua direzione.
«Una volta che la mia scoperta del mondo sarà conclusa, potrò tornare a Sindria per visitarla come si deve? Vorrei che fosse questa l’ultima meta del mio viaggio.» La sua mascella s’irrigidì mentre aspettava una risposta. Cosa le avrebbe detto il sovrano? Avrebbe accettato quella sua richiesta tanto egoistica oppure no? Incrociò segretamente le dita.
«Sicuramente» affermò lui, rivolgendole un leggero sorriso compiaciuto. Era bello quando sorrideva, constatò la bionda. E per la prima volta in sua presenza si ritrovò ad arrossire lievemente, stupita da quel pensiero improvviso. «Allora vado a cercare un trasporto. A più tardi, Re Sinbad.» Si voltò, avviandosi verso il molo dove stavano ormeggiate le barche.
Il vento le accarezzò i capelli e cullò il suo profumo fino ai due uomini ancora fermi sulla banchina. Ja’far fece un passo avanti, accostandosi all’amico. «Almeno lei è scappata dalle tue grinfie» borbottò, nascondendo una vena di ilarità.
«Io non ho “le grinfie”» rispose prontamente il più alto, incrociando le braccia muscolose al petto. Con gli occhi ancora fissi sulla figura pallida, sorrise. «Ad ogni modo, non vedo l’ora di sapere come sarà andato il suo viaggio.»
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo II - Yunan. ***


Capitolo II
 



Yunan.
 

Non saliva su un’imbarcazione da settimane ormai. Le assi di legno che scricchiolarono quando mise piede sul ponte la indussero a sorridere, prima che ispirasse a pieni polmoni. L’odore di salsedine le riempì il naso, la portò ad assottigliare le palpebre e a godersi lo stridio dei gabbiani che, volando a destra e a manca vicino alla vedetta, attendevano qualche sfortunato pescatore a cui rubare il pesce. Un leggero venticello le accarezzò il corpo, come a volerla salutare. Darle il benvenuto.
Si sarebbe rimessa in viaggio prima, sfortunatamente una brutta tempesta si era abbattuta sulle coste e aveva bloccato spedizioni e partenze, costringendo tutti a rintanarsi nelle locande della zona. Tennah ne aveva approfittato per studiarsi le nuove mape navali. A quanto pareva erano in continua espansione, e si spingevano sempre più in la ogni volta che metteva le mani su qualche carta nuova. Nuovi luoghi da esplorare, nuove specie e culture da conoscere e apprendere. Per questo ci stava mettendo tanto a mantenere quella parola data tre anni prima. Più si convinceva che era arrivata l’ora di tornare, più il mondo la poneva davanti a nuove avventura. E lei di certo non era una che si tirava indietro. Le piaceva rischiare, l’aveva fatto anche poco tempo prima quando durante il suo percorso si era imbattuta in un personaggio alquanto bizzarro che l’aveva, praticamente, calciata dentro quello che lei sapeva essere un dungeon. Se ci ripensava, però, le veniva da sorridere inconsciamente.
 
Era un giornata tranquilla. Beh, a dire la verità mica tanto: la strada che si era ritrovata a percorrere si era rivelata più accidentata del previsto e meno affollata, con poche macchie di vegetazione sotto cui riposarsi di tanto in tanto. Il sole splendeva alto nel cielo, luminoso come la stella del mattino che era però, c’era da ammetterlo, a Tennah sembrava fin troppo luminoso. E caldo. Sebbene indossasse abiti leggeri e chiari sudava costantemente. “E’ un bene,” le aveva detto un uomo incontrato per caso a cui aveva chiesto un passaggio, “sudare ti ricorda che devi bere. E la voglia di dissetarsi ti rammenta che sei viva.” Lei aveva sorriso e annuito, poi era saltata giù dal carretto al momento dei saluti. E adesso eccola li, diretta verso una città nuova con tanta, tanta voglia di riposarsi.
Si passò una mano sulla fronte, coprendosi gli occhi dai forti raggi solari. Davanti a lei, qualche metro più avanti, la strada veniva accerchiata da un piccolo boschetto che, Tennah lo sapeva bene visto che aveva studiato le carte del luogo, scendeva verso valle e si apriva in un meraviglioso ventaglio di verde e ombr, e ruscelli in cui rinfrescarsi.
«L’entrata della valle. Dio esiste» sospirò a voce alta, aumentando la velocità. Poteva già sentire la calura che l’abbandonava mentre entrava nel bosco. Ascoltava i canti degli uccelli e sentiva i profumi dei fiori.
Con le ultime falcate s’inabissò nella coltre armoniosa e vivace, dimenticandosi del dolore ai piedi per il troppo camminare, e quello alle gambe sbucciate a causa di una recente caduta. Scordò il prurito che le conferiva l’ustione causatale dai raggi solari. Semplicemente, appena trovò il primo ruscello vi si buttò dentro di corsa. Si sentiva sporca e puzzolente, e  quando l’acqua sembrò sfrigolare a contatto con la sua pelle, mentre s’immergeva finché l’unica cosa salva dalla dolce carezza del freddo fu il naso, si lasciò sfuggire un sospiro. Rimase in quella posizione da coccodrillo a lungo, osservando ogni cosa con interesse mentre i capelli le danzavano attorno come serpenti fatti d’oro bianco.
Stilettate di luce gialla s’insidiavano radamente dalle fronde degli alberi. Guardando bene quel posto, si era ritrovata a pensare, sembrava di stare in un luogo a metà tra il vero e il falso. Era talmente reale che sembrava finto. Forse lo era. Forse era svenuta e stava sognando. Per accertarsi della cosa, prese fra l’indice e il pollice un pezzo di pelle e lo contorse girandolo su se stesso. Il dolore ci mise poco ad arrivare e immediatamente lei lasciò la presa. Non era una che sopportava molto, a dirla tutta. Comunque fu felice di sapere che non stava immaginando tutto. S’immerse completamente, nuotando contro corrente finché il fiato glielo concesse. Continuò così ancora per un po’, finché non decise che era ora di mangiare. Nuotando a cagnolino, o facendosi portare dalla corrente, si ritrovò ben presto dove aveva lasciato le bisacce. L’unico problema ora era che c’era qualcuno a rovistare li in mezzo.
Un giovane uomo, all’apparenza un viaggiatore come lei, con una lunga treccia bionda e i vestiti verdi. Si mordeva la lingua di tanto in tanto, e faceva sguardi sorpresi quando estraeva qualcosa di strano da una delle sacche. Fu quando raccolse dal fondo dell’ennesima un piccolo pendente che lei sembrò ridestarsi da un qualche sogno. Scattò in piedi, smuovendo le acque ce andarono a creare increspature, e puntò un dito contro lo sconosciuto.
«Che diavolo credi di fare, furfante!?» L’uomo si voltò a guardarla. «Metti subito giù la mia roba e pussa via. Schò schò!» Lui arrossì all’improvviso, voltandosi come un turbine dalla parte opposta. Un velo di sudore che, improvvisamente, era andato a brillare sulla sua fronte.
Incuriosita da una simile reazione Tennah fece qualche passo in avanti, finché non lo raggiunse. Forse non stava rubando, forse tentava di trovare una risposta alla domanda: “di chi saranno questi oggetti?”. Allungò un braccio a sfiorargli la spalle e questo tremò. Si coprì gli occhi con entrambe le mani. «GIUROCHENONHOVISTONULLAAAAAA» affermò tutto d’un fiato. Un lampo, un’immagine baluginarono nella mente della giovane donna che accortasi del suo stato attuale arrossì a sua volta e si adoperò con velocità per vestirsi. Ordinò più volte al biondo di non voltarsi, cercando fra le sue cose per trovare le bende con cui si sarebbe fasciata il seno, i vestiti puliti. E intanto si immaginava come potesse essere la scena vista da fuori, da un passante che era li per caso e si ritrovò a ridacchiare. Sicuramente era un bel siparietto comico.
Quando fu pronta, aggirò l’uomo che ancora si ostentava a tenere gli occhi chiusi e vi si sedette davanti. «Sono vestita. Puoi guardarmi, se ti va.» I suoi grandi occhi azzurri si mostrarono.
Sbatté le palpebre, prima di stropicciarsi gli occhi ormai abituati al buio. Vedendoli da vicino poteva ammettere che erano davvero limpidi, infantili. Belli.
«B-b-buon pom-me-meriggio» balbettò, accarezzandosi i lunghi capelli biondi. Il volto rosso.
«Buon pomeriggio a te» sorrise la giovane donna, tentando di metterlo a proprio agio. Non le piaceva che le persone si trovassero in imbarazzo di fronte a lei, in quanto conosceva bene quella sensazione. L’aveva provata più volte all’inizio del suo viaggio, arrivando alla conclusione che imbarazzarsi non sarebbe servito a nulla. Solo a farti stare sull’attenti per ogni minima questione.
«Come ti chiami?» Silenzio. Quiete interrotta solo dal cinguettio costante dei fringuelli, il fruscio delle foglie e lo scorrere tranquillo e monotono del piccolo fiumiciattolo. Ma nessuna frase. Vedendo che l’uomo non le rivolgeva ancora la parola, Tennah incrociò le gambe e vi poggiò sopra i gomiti. Le guance schiacciate contro i palmi aperti, che le tiravano le labbra verso l’alto. Doveva essere buffa, o almeno era quello il suo intento. Tentò con qualcos’altro: «Beh, vuoi dirmi perché frugavi fra la mia roba?»
«I-io» parlava veloce, inciampando sulle lettere, «michiamoYunanestavocercandoqualcosadamangiarequandohovistoletueprovviste!» La bionda rizzò la schiena, strabuzzando gli occhi. Che strana lingua era mai quella?
Vedendola in difficoltà il giovane prese un bel respiro, si fece forza e ingoiò un fiotto di saliva. Era difficile parlare con qualcuno che non aveva inibizioni (non fino a un momento prima almeno). E ancor più difficile ammettere che si vergognava delle sue azioni. Ma doveva una risposta alla donna, perciò tanto valeva parlare senza troppe complicazioni. «Io… mi chiamo Yunan e sono un viaggiatore. Ho sentito odore di cibo ed essendo affamato ne ho seguito la scia, che mi ha portato fino al tuo saccone. Ho pensato che qualche viandante l’avesse scordato, così…» abbassò lo sguardo e prese battere le punte degli indici fra loro, nuovamente rosso in viso. 
Si aspettava che da un momento all’altro la donna gli tirasse uno schiaffo, oppure gli gridasse contro. Invece, rimase piacevolmente sorpreso quando quella, dopo essersi diretta verso lo zaino, tornò con le braccia colme di cibo. Qualche frutta fresca, del pane che sembrava ancora buono, pezzi di formaggio secco e una bisaccia con dell’acqua. Gli porse qualcosa, appoggiando il resto a terra davanti alle loro gambe. Poi, in un gesto teatrale contornato da un sorriso docile, gli indicò il cibo abbracciandolo con le braccia. «Se avevi fame bastava dirlo subito! Buon appetito, Yunan.» E giù un morso a una succosa mela verde.
Era strano, Tennah doveva ammetterlo, ma quegli occhi da cerbiatto le avevano come stregato il cuore. Non era amore quello che sentiva, solo tenerezza. Già. La voglia di prendersi cura di qualcuno che sembrava indifeso si era ridestata in lei dopo tempo. Certo, durante il viaggio le era capitato più volte di occuparsi di bambini affamati e cose così, ma questo momento le sembrava diverso. Quei bambini, seppure piccoli, avevano già negli occhi uno sguardo indagatore e nella mente gli insegnamenti dei genitori. Lei sapeva che potevano cavarsela da soli, ne era certa. Come loro anche lei era cresciuta in simili condizioni, poi era stata venduta ma questa è un’altra storia. Mentre Yunan, quell’uomo pallido che aveva chiesto in prestito al cielo il colore degli occhi, sembrava così innocente. Spensierato. Le faceva sorridere il cuore, ecco.
Rimase a osservarlo, mentre un rivolo di succo acerbo le colava sulla mascella e lei l’asciugava distrattamente. Lui mangiava da prima a piccoli bocconi, per poi addentare sempre più polpa. Era così infantile che Tennah si ritrovò a sghignazzare, nascondendo il viso dietro la mela mangiucchiata.
«Che fe?» Sembrava un coniglio.
«Mh? No, niente.» La ventiseienne socchiuse le palpebre, poi lanciò il torsolo della mela alle spalle e si asciugò le mani alla gonna leggera che indossava. Successivamente, tornò a osservare il biondo dalla lunga treccia che s’ingozzava. Le guance nuovamente poggiate sui palmi aperti, che le spingevano in alto. «Comunque, io sono Tennah. Molto piacere.»
S’incamminarono assieme, da li in avanti. Era stata un’idea d’entrambi, ed entrambi avevano convenuto che sarebbe stata una buona cosa. Dopo tutto, viaggiare in coppia era sempre più divertente e quella volta non fece eccezione. Con l’aiuto di Yunan, che si dimostrò un esperto in varie cose, Tennah imparò i nomi di varie piante e le loro qualità. Scoprì che esisteva una pianta che cresceva solo in quel luogo e che poteva curare molto bene l’avvelenamento di qualsiasi genere. Ne colse un bel po’, assieme ad altre, giusto per precauzione. Non si poteva mai sapere. In cambio, la giovane insegnò al viandante i luoghi migliori per ripararsi e per accendere fuochi con qualsiasi oggetto, e a cucinare. Purtroppo l’amico si rivelò un po’ negato con quest’ultima qualità, nulla che non si potesse migliorare col tempo lo rassicurò lei con qualche pacca sulla spalla.
«Ehi, afolfa» le disse una sera lui, mentre si gettava a capo fitto sulla coscia di un coniglio che, sfortunatamente, gli era capitato davanti durante il tragitto. Il grasso che gli colava sulle dita, ma lui non sembrava farci caso. «Lo sai che dofe ti fai dirifenfo fu fe un dungeon?»
Tennah smise di cucire il pelo del povero animale e si voltò a guardare l’uomo. La corteccia contro cui era appoggiata era liscia e calda, però nascondeva delle insidie. Perciò, quando spostò le spalle nella direzione di lui un piccolo rigonfiamento le graffiò la pelle. Ci fece poco caso, comunque. «Ti ho già detto che con la bocca piena non si parla. Anche perché, non capisco nulla di quello che dici.»
Yunan ingoiò velocemente, poggiando nella sua ciotola il cibo. «Lo sai che dove stai andando tu c’è un dungeon?»
Dungeon. Che strana parola. Non era la prima volta che le capitava di sentire una cosa simile, molte volte mentre stava facendo rifornimenti le era capitato di udirla. Ma cos’è quel “dungeon” proprio non se lo ricordava. Eppure, avrebbe dovuto. Sembrava un cosa così importante.
Perciò, si limitò a inarcare le sopracciglia e riprendere a cucire.
Il Magi osservò la compagna di viaggio, intenta nel suo lavoro e incurante del suo sguardo. Il fuoco le danzava sulla parte sinistra del viso, illuminando uno spicchio di cicatrice che le risedeva sul ponticello del naso. Si era chiesto più volte come se la fosse procurata, ma non l’aveva mai domandato direttamente. Però, adesso non era quella la sua priorità. Ora doveva scoprire il perché di tale disinteresse verso i dungeon. Non gli era mai capitato durante il suo girovagare di trovare qualcuno a cui non importasse niente della torre apparsa dal nulla. Insomma, bene o male tutti erano incuriositi dai segreti che si celavano all’interno delle torri. Yunan s’imbronciò.
«Smettila di fissarmi così, è imbarazzante» borbottò a un tratto lei. Odiava essere osservata, la faceva sentire scoperta. Indifesa. Era come se tutti i suoi difetti venissero analizzati e poi stilati uno a uno; e lei ne aveva tanti, di difetti. Per questo non sopportava essere guardata.
Yunan abbassò velocemente lo sguardo, giocando con i suoi stivali. «Non ti interessa nulla dei dungeon?» domandò.
Tennah scosse il capo. «Dovrebbe?»
«Mhhh. Sinceramente? Non ne ho idea. Però, non ho mai incontrato nessuno a cui non importasse di diventare ricchissimo affrontando il “grande mistero” celato dietro le mura delle torri, sebbene il costo in palio è la propria vita.» la guardò di sfuggita, e gli parve di vedere una scintilla brillarle nell’unico occhio a lui visibile.
«Ahhhh, quello è un dungeon.»
«Che hai detto?» lui sbatté le palpebre sorpreso, tentando di capire le parole che poco prima lei aveva sussurrato.
«Nulla. Niente.» La ragazza si mosse, sdraiandosi a pancia in giù rivolta verso di lui. Continuava a cucire quella che sarebbe diventata una sacca di pelo grigio e bianco, morbido e impermeabile. Si sentiva fortunata: Yunan non aveva appreso la frase che poco prima aveva soffiato dalle labbra.
«Ad ogni modo, non mi interessano le ricchezze» affermò di punto in bianco. «Non ho mai vissuto nel lusso, e non saprei che farmene di tutto quell’oro che dicono venga donato ai conquistatori. Io sto bene nel mio piccolo.» Ed era vero. L’oro e i gioielli, certo gli avrebbe fatto piacere indossarne qualcuno di tanto in tanto, non avevano mai fatto realmente per lei. Le piacevano i vestiti che indossavano le dame, così colorati e leggeri, e con le monete ne si potevano comprare a borsate ma non le servivano. Aveva i suoi abiti, e si procurava i soldi con il sudore. Era sempre stata la sua regola principale: o si suda, o non si merita nulla.
Perciò, perché crogiolarsi in un oro guadagnato con facilità, fra servitori e leccapiedi, in un materasso morbidissimo piuttosto che in un piccolo letto –comprato con gli sforzi- sotto le stelle?
Senza accorgersene, aveva fatto sorridere Yunan. «Mi piace il tuo modo di pensare, Tennah.» Si pulì le mani con un fazzolettino che poi gettò nel fuoco. I loro occhi s’incontrarono per un secondo, e lei si ritrovò a pensare che lo sguardo dell’amico sembrava quello di una guardia: indagatore. Non sapeva se era il fuoco che li divideva a dargli quell’aspetto, comunque Yunan incuteva una certo senso d’inquietudine.
Tennah abbassò prontamente lo sguardo, tornando al suo lavoro con ago e filo. Lui continuò, poggiando le mani alle sue spalle sull’erba fresca. «Però, se non ti dispiace, visto che le nostre strade presto si divideranno: che ne dici di dare un’occhiata al dungeon che risiede nella prossima città?»
Lei sembrò pensarci –in realtà lo stava facendo- ma poi lo guardò e la sua forza di volontà vacillò. Non avrebbe voluto avvicinarsi a quel luogo avido ma Yunan aveva quel sorriso tanto innocente… Se avesse saputo allora quello che sarebbe successo, probabilmente, non avrebbe accetto.
Ma non poteva viaggiare avanti nel tempo, perciò si ritrovò a sospirare annuendo. «D’accordo. Credo che un’occhiata non potrà fare male a nessuno.» Ah, quanto si sbagliava.
 
Il giorno dopo si alzò con le primi luci dell’alba. Il sole filtrava con più naturalezza fra le fronde verdi colorando il prato di luce gialla, ed illuminando la rugiada di tanti minuscoli arcobaleni. In lontananza si poteva sentire qualche carovana di passaggio, diretta dalla parte opposta alla loro. La città a cui si stavano dirigendo era famosa per il suo porto, da cui attraccavano persone di tutte le nazionalità in cerca di nuove scoperte e –ora che se l’era ricordato- fortuna.
«Dai, svegliati bell’addormentato. Se continui a dormire con la bocca aperta finirai per fare da latrina agli scoiattoli.» Diede qualche calcetto al ventre del compagno esortandolo ad aprire gli occhi, ma l’unica risposta che ottenne fu un mugolio e la vista delle sue spalle.
Tennah sospirò, grattandosi distrattamente il capo. I capelli erano più lunghi di quanto si ricordasse e mossi. Le dita fini s’impigliarono nei nodi formatisi la sera prima, quando, distrattamente, le passò fra quelle corde d’oro. Si chiese se anche quelli di Yunan fossero così, sebbene a guardarli si sarebbe detto di no. Non volle indagare. Il confronto con l’uomo era ben evidente, meglio se non si girava il dito nella piaga.
Lui era ben tenuto, lei non era a quel livello. Camminavano e si sporcava, mentre il biondo sembrava riuscire a restare lindo; si sedevano e, casualmente, prendeva sempre la parte bagnata del prato; mangiavano e si ungeva le guance e il collo e i vestiti, mentre lui combinava era sempre pronto con un fazzolettino. Così, senza volerlo, persa nei suoi pensieri e con gli occhi alzati al cielo che si scorgeva fra le fronde, Tennah rifilò a Yunan un calcio. Doveva aver usato più forza del previsto perché l’uomo soffocò un grido, coprendosi la parte dolorante della schiena con le mani. «TENNAAAAAH!» ululò.
«AH, finalmente sei sveglio!» Non ricevette mai occhiata più tagliente.
Il percorso verso la città fu più tranquillo del risveglio. Usciti dall’immensa foresta i due viaggiatori vennero accolti dal sole caldo, e il rumore dei gabbiani e delle onde. In lontananza si poteva vedere il porto, delimitato dalla battigia bruna. Alla donna sfuggì un sospiro d’estasi quando, all’improvviso, affiorò dalla discesa un carro trainato da enormi buoi. Grandi animali, la cui spalla sorpassava quella di Yunan che era più alto di lei, con lunghe corna appuntite bianche e brillanti; anelli d’oro al naso e zampe possenti. I muscoli guizzanti per lo sforzo.
«Ricordami di comprarne uno» chiese all’amico, mentre questo la prendeva per il manico della sacca e la portava verso destinazione.
Le strade del villaggio li accolsero in un misto di colori e profumi, e risate. Viaggiatori e marinai si confondevano con i commercianti, parlando fra loro come vecchi amici. Qualche bambino correva a destra e a manca, chi rincorrendo un cane chi rubacchiando in giro. Qualcuno, dopo essersi fermato a osservare Tennah e Yunan si fermò persino per tirare la lunga treccia di quest’ultimo prima di scappare via gridando divertito. Dopo l’ennesima volta, il magi decise di nascondere la treccia nel largo cappello verde che poggiava sul suo capo.
«Allora, Yunan, dov’è questo dungeon che tanto volevi vedere?» domandò la bionda, mentre pagava un anziano per della frutta. Aveva deciso che sarebbe stato meglio accontentare l’amico al più presto, in modo da potersi mettere in viaggio il prima possibile. Già sentiva il piacevole dondolio delle onde che la cullava la notte; l’odore di salsedine e i versi giocosi dei delfini che l’accoglievano la mattina presto, quando si avventurava su ponte per vedere l’alba.
Come risvegliatosi da un sonno apparente, il vecchietto ingobbito che stava mordicchiando le monete si ridestò. Alzò i lucidi occhi neri in quelli dei due e disimpastò la bocca quasi completamente sdentata. «Ah, eccone altri due» sospirò. Prese le mani di Tennah e vi ripoggiò le monete sbavate, richiudendovi le dita della ragazza attorno. Lei sbatté le palpebre, sorpresa. «Siete i settimi questo mese. Vi auguro buona fortuna.» E li lasciò soli, dedicandosi ad altra gente.
Questa poi, pensò la giovane. Prese l’amico per la manica e lo trascinò verso un’altra bancarella, mentre Yunan spiegava la posizione esatta del monumento.
La città sembrava diradarsi man mano che l’uomo la conduceva verso la meta. Le case di pietra lasciavano spazio a carovane e accampamenti, per la maggior parte abbandonati. Qualche donna cucinava innanzi a un fuoco, ogni tanto la bionda ne vedeva qualcuna piangere. E poi, c’erano infinità di bambini e capre.
«Dove sono gli uomini di queste famiglie?» pensò a voce alta la giovane. Con gli occhi ambrati seguiva ogni increspatura che il vento creava sulla sabbia. Sembrava di essere affondati in un altro mondo, del tutto diverso da quello allegro della città. Era incredibile come a distanza di pochi metri qualcosa potesse trasformarsi.
«In città, a prepararsi per entrare nel dungeon oppure morti.» Nella voce di Yunan c’era una certa sfumatura che Tennah non riuscì a identificare a cui, però, decise di conferire una semplice emozione: sconforto.
Insomma, non doveva essere che quello. Vedere tutte quelle donne che piangevano per via della scomparsa dei mariti, per la consapevolezza di dover crescere dei figli senza nessuno accanto. Ti portava allo sconforto, no?
Lei voleva andarsene da quel luogo, al più presto. Così, ravvivandosi i capelli spettinati si voltò verso il compagno e disse: «Quanto manca ancora?»
«Siamo arrivati, a dire la verità», e puntò un indice contro l’orizzonte.




Era simile a un grosso serpente. S’arrampicava verso il cielo attorcigliandosi attorno ad uno scoglio bello alto collegato alla terra da una scalinata di roccia; più si andava verso l’alto più il dungeon diventava imponente, e si perdeva fra le nuvole. Sui suoi fianchi si alternavano anelli neri attraversati da preziose decorazioni d’argento e madreperla, che rilucevano al sole creando giochi di luce cangianti; si rincorrevano, poi, preziosi intarsi di quelli che sembravano diamanti e acqua marina. E lassù, sopra l’immenso portone che concedeva l’accesso, stava una pietra ovale nera e lucida, ben visibile persino dalla distanza a cui si trovava Tennah.
La giovane socchiuse le labbra, meravigliata da tanta  inaspettata e guardò i grandi cerchi d’argento che circondavano il serpente. Seguì Yunan su per la scalinata di pietra, in un silenzio rotto solo dal rumore delle onde che s’infrangevano contro il basso della scogliera. Quando arrivarono vicini all’entrata, però, la bionda si fermò. Non aveva alcuna intenzione di avvicinarsi più di così, in quanto aveva paura di finirci dentro. Maldestra com’era di certo non ci sarebbe stato da meravigliarsi se fosse inciampata e caracollata dentro quella cosa.
Rabbrividì al solo pensiero, abbracciandosi da sola. Ingoiò un fiotto di saliva a vuoto, lanciò un’occhiata veloce alle spalle di Yunan e fece qualche passo indietro. Da adesso le loro strade si sarebbero divise: l’uomo sarebbe salpato per una destinazione differente dalla sua. Tennah sarebbe nuovamente rimasta sola nel suo viaggio. Un po’ le dispiaceva, dopo tutto Yunan si era rivelato una buona compagnia. Si era abituata a lui, chissà come sarebbe stato ora che non l’avrebbe più avuto al suo fianco. Era difficile da immaginare. Però, quella era la verità: il loro viaggio assieme era finito, da adesso si tornava alle origini.
«Bene», batté le mani fra loro, per poi sfregarle, «avevi ragione: questa… cosa è davvero bella. Ma, ehm, ora devo andare. La mia nave salperà fra qualche ora e devo ancora fare i preparativi e…» gli occhi di Yunan erano davvero azzurri quel giorno, pensò, quando l’uomo si voltò a guardarla. Si sentì improvvisamente una fuggitiva e la cosa la mise a disagio. Aveva così tanta voglia di abbandonarlo?
«E’ stato un piacere viaggiare con te.» Si tolse il capello, piegando leggermente la testa a destra. La lunga treccia chiara gli ricadde sulle spalle, sfiorando il suolo. Sembrava che attorno a lui si fosse creata come un’aura d’orata. Tennah si sentì in dovere di andargli incontro, dirgli “grazie” per tutte le cose che le aveva insegnato.
Perciò fu una sorpresa quando, mosso qualche passo nella sua direzione, si ritrovò catapultata verso la porta. Sbarrò gli occhi, gracchiando infastidita quando il calcio le colpì il sedere. Dopo di che, ricordò solo di aver urlato il nome dell’amico ed essersi ritrovata in un lungo tubo del color dell’oro. Se ne stava beata fra le stelle, cosa che l’affascinava tantissimo, mentre una forza maggiore le conferiva sempre più velocità.
«Dio» mormorò estasiata, dimenticandosi di essere capitata nella situazione che voleva evitare. «E’ meraviglioso.» La velocità aumentò e, senza rendersene conto, Tennah si ritrovò avvolta dalla luce.
 
Continua…
 

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Capitolo 3
*** Capitolo III - Dungeon ***


҉   Capitolo III   ҉
 

Dungeon.
 



Quando la luce si dissolse, Tennah si ritrovò completamente fradicia. Era atterrata in una grossa pozzanghera fangosa, che le aveva sporcato i capelli e i vestiti. Sentiva male alle ginocchia, e sapeva di essere sudicia. Si passò una mano sul volto sentendo la melma scivolarle contro la pelle, rinfrescarla e al contempo inorridirla. Detestava la sporcizia. Si alzò, muovendo convulsamente le braccia per liberarsi da quella cosa marrone che la opprimeva.
Ora che si era calmata, e non era più accecata dalla luce, poteva ammirare il mondo che le si apriva davanti. Una distesa dal diametro abbastanza grande e rotonda abbellita con alberi giganteschi che si allungavano verso il soffitto aperto, dal quale si poteva distinguere un cielo azzurro come l’acqua del mare. Fra le folte chiome ombrose passavano liane, sulle quali sostavano piccoli volatili variopinti. Le loro voci si diffondevano nell’aria fresca veloci e acute, fischi simili a canzoni di un mondo ormai estinto. La giovane riusciva a  scorgere, inoltre, qualche occhio curioso spiarla dall’alto dei rami e dal fondo di un torrente poco lontano. Scimmie e pesci la scrutavano silenziosi, simili a giudici muti. Era tutto così bello, così verde e armonioso da sembrare finto. E SE LO FOSSE STATO?
Con due dita snelle la giovane arpionò un pezzetto di pelle e la rigirò strizzandola con forza. Il dolore le pervase il braccio immediatamente, portandola ad abbandonare il movimento. Gemette, mentre si accarezzava la zona divenuta rossa. Sbatté curiosamente le palpebre, uscendo dalla pozza marrone. Sentiva ancora quella cosa molliccia sulle scarpe, la affaticava e la infastidiva. Con due poderosi calci la scacciò via, pulendo le suole sull’erba ancora bagnata di rugiada.
«Tennaaaah» piagnucolò qualcuno alle sue spalle. La bionda si voltò, trovando uno Yunan alquanto fradicio di fango al limitare della pozza. I lunghi capelli pallidi erano diventati castani, gli abiti avevano assunto lo stesso medesimo colore e il viso, prima pallido come la neve, ora sembrava sormontato da una maschera di bellezza.
«Yunan?» La donna piegò leggermente la testa di lato. Il cuore le batteva forte per la felicità: non era sola, in quel luogo dove tutto era troppo bello. Dove ogni cosa sembrava finta.
Fece qualche passo verso di lui. «Mi sono tutto sporcatooooo.» Aveva una voce così infantile che Tennah si ritrovò a spazzare via il fango dal suo viso in un battito di ciglia. Sorridendogli, passò al collo.
 Si sa, dopo che il primo impatto con un luogo nuovo è passato si viene travolti da un’ondata di incertezze, inquietudine e –molto spesso- rabbia. Quindi, dissoltosi l’alone di tenerezza che gravava attorno a Yunan la donna si sentì pervadere da un sentimento che iniziò a corroderle l’anima. Strinse con forza le dita attorno alla laringe dell’uomo e iniziò a sbatacchiarlo avanti e indietro.
«Mi hai gettato in un dannato dungeon, razza di idiota!» Yunan tentò di fendere l’aria con le mani, come per liberarsi, ma non ci riuscì. «CHE TI PASSAVA PER LA TESTA, SOTTO SPECIE DI BAMBINO TROPPO CRESCIUTO?! MA SEI IMPAZZITO!?» Lo strattonava come fosse stato un semplice sacco vuoto, mentre la sua faccia diventava rossa e poi viola, e ancora rossa.
 L’uomo tentava di dire qualcosa, farfugliava cercando di non mordersi la lingua quando finalmente Tennah si decise a lasciarlo andare. Allora, si allontanò velocemente da lei ‘carezzandosi il collo con delicatezza. Di sicuro sarebbero rimasti i segni per un po’.
«Sei sempre così aggressiva!» si lamentò, dopo essersi messo al riparo.
La bionda lo fece impallidire con un’occhiata fulminea, lanciandogli contro una pietra trovata per caso a terra. Poi, presa dallo sconforto, si gettò a terra e racchiuse il viso fra le mani. Scomparve la meraviglia di quel luogo fatato e tutti i suoi canti, i rumori. Rimasero solo lei e il silenzio che desiderava. Com’era potuta succedere una cosa simile? Perché aveva permesso a Yunan di avvicinarla così tanto a quel luogo? Perché aveva avvicinato Yunan?! Maledetta lei e il suo buon cuore. E anche la sua voglia di non restare sola!
«Tennah» sussurrò l’uomo, poggiandole una mano tremante sulla spalla.
Lei si voltò, stringendogli il polso fra le lunghe dita con cattiveria. «Mi dici come usciamo da QUI’?! Io non ci voglio morire in ‘sto posto, è chiaro?!» Sembrava più un cane degli inferi, un rukh nero divenuto donna.
Forse, si ritrovò a pensare il magi, era maglio non spingercela contro la propria volontà qui dentro. Perché non ci aveva pensato prima? Si maledisse lentamente, deglutendo un fiotto di saliva.
«D-dobbiamo af-af-affrontare le p-prove del dungeon, p-per f-forza» spiegò balbettando, guadagnandosi un’altra occhiata.
«Dio» sospirò allora lei, coprendosi nuovamente il volto con le mani. Sembrava davvero distrutta. «Beh, se non ci rimane altro da fare, tanto vale darci una mossa.» Si alzò, legandosi i capelli con un laccio. Indossava lo sguardo più sicuro che lui gli avesse mai visto addosso. «Beh, allora vieni o no, scansafatiche?» gli gridò contro, quando era ormai già lontana.
Passarono diversi minuti a battibeccare, come una di quelle vecchie coppie che sono solite trovarsi a gestire una locanda. Tennah borbottava tutta intenta a scalare un albero, più che altro ignorando l’uomo, mentre Yunan tentava di farle capire il perché si trovassero li dentro. Alla fine, quando anche l’ultima goccia dell’ennesima frase andò a sperdersi nel vento, il biondo sbatté il bastone a terra e sbuffò. «Un magi, ecco cosa sono in realtà. Non c’entra niente con “gli idioti”, o come preferisci chiamarmi adesso, sono un MAGI. M-A-G-I.»
Tennah lo fissò di traverso. «Credi che questo ti salvi dall’essere un idiota? Tzk, allora sbagli di grosso. Comunque, che diamine è un magi?» Testò la solidità di un ramo, mentre con una delle gambe faceva leva. Sentiva ancora quella moltitudine di occhi che la osservavano seguire ogni suo movimento, non lasciarla mai andare ma non le importava. Pur di uscire da quel luogo avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Yunan dietro di lei sembrava faticare parecchio. Per l’ennesima volta districò la lunga treccia dalle fronde degli alberi. «E’ un po’ difficile da spiegare, Tennah. Io… diciamo che io assieme ad altri due siamo i portatori della luce, in un certo senso. Noi scegliamo i re e le regine che a nostro parere dovrebbero regnare in questo mondo e…»
«Woo, raggio di sole fermati un attimo.» Gli occhi d’oro della bionda lo incatenarono in una stretta mortale. «Re e regine? Portatori di luce? Magi? Si può sapere perché queste cose me le dici solo ora?» abbaiò, visibilmente alterata.
Il magi sorrise, più innocente di un bambino. «Se te le avessi dette prima mi avresti accompagnato fino all’entrata del dungeon?»
«No» rispose secca Tennah, ricominciando a salire. Di tanto in tanto i capelli le restavano impigliati nel fogliame ma non se ne preoccupava, strappava via le foglie e non si curava di toglierle dalla capigliatura. Probabilmente adesso somigliava più a una siepe con le gambe che a una donna.
«Esattamente» annuì il biondo, muovendosi con goffaggine. Sembrava la brutta copia di un qualche camaleonte. «Però, io volevo che lo facessi. Desideravo avere te come conquistatrice di dungeon e regina, sebbene sappia che tu non ne hai alcuna intenzione.»   
«Puoi dirlo forte» borbottò dall’alto la giovane. Sentiva la testa pulsante e pesante.
Apprendere tutte quelle informazioni in così poco tempo era stato un po’ come ricevere una martellata secca sulle tempie: dolorosa. Si sentiva stordita, non poteva crederci. Insomma, conosceva i magi per aver sentito dire: grandi esseri con poteri sovrannaturali. Talmente lucenti e pieni di vita da riuscire a vedere le anime delle persone, da essere in grado di far sbocciare fiori in inverno. Ne aveva incontrato uno una volta, quando il suo penultimo padrone l’aveva portata in viaggio. Solo che quello non le era sembrato proprio “pieno di luce”. Ma forse ognuno di loro era diverso. Comunque, non avrebbe mai pensato di poter venir scelta da uno di loro per diventare “regina”. In più, era alquanto strano pensare che Yunan faceva parte di quella cerchia di esseri. Lui, che sembrava così… normale.
«Io regina, pff, ma non scherziamo» continuava intanto a borbottare fra se e se la giovane, mentre saliva sempre di più. «Un magi che mi sceglie per diventare conquistatrice, tzk.» Chi l’avrebbe mai detto che proprio lei ne avrebbe incontrato uno? Che sarebbe stata scelta per conquistare un dungeon? «Come può una come me, una schiava, diventare regina mh?» Però, stranamente, non poteva trattenersi dal sorridere di tanto in tanto.
 
«Che diamine sono quelli?!» le urla di Tennah vibrarono nel rifugio di fortuna in cui si erano praticamente tuffati, mentre da fuori arrivavano delle grida acute, che squarciavano l’aria. Urla di bestie feroci che combattevano un’armata di uomini appena atterrati nel dungeon, la cui furia non era riuscita a scorgere i due compagni che si erano prontamente riparati nella cavità –enorme- di uno dei grossi alberi.  
Con un nodo in gola Ten si fece forza e avanzò a carponi verso l’uscita del cunicolo. Si affacciò in tempo per vedere una di quelle strane scimmie alate alzarsi in volo con un corpo umano fra le mani. Gli occhi della creatura brillavano di colori cangianti contro i raggi chiari del sole, sembravano felici e soddisfatti. Fieri delle azioni appena compiute. Assomigliavano agli occhi di un essere umano divenuto pazzo.
Tennah deglutì a vuoto, affacciandosi ancora un poco fuori dal buco. Una lama di luce di si depositò fra i suoi capelli trasformandoli in fili di neve, contro il suo volto accecandola lievemente ma non le evitò di vedere l’animale poggiarsi su un ramo poco più in basso di loro e sbattere ripetutamente la faccia della preda contro la dura corteccia. Riusciva a vedere l’agonia negli occhi di quel guerriero malcapitato. Quell’uomo che aveva, probabilmente, una famiglia e che stava tentando di vivere scalciando e graffiando l’attentatore. Tennah avrebbe voluto aiutarlo, muoversi e correre in suo soccorso ma qualcosa la stava trattenendo. Qualcosa di primitivo: l’istinto di sopravvivenza, che le diceva di restare ferma dov’era e di non provare a muoversi.
Poi d’un tratto, senza che se né accorgesse le sembrò di aver preso un pugno in pancia. Secco. Duro. Dato con cattiveria, con l’intento di rompere delle costole. La donna si portò una mano alle labbra, cercando di trattenere i conati di vomito che le salivano nell’osservare quella scena. L’uomo gridava, la scimmia rideva con quei suoi strani versi e continuava imperturbabile. Ten avrebbe voluto staccare gli occhi da li, lo desiderava ma non ci riusciva.
Si piegò leggermente in avanti, trattenne un gemito, pronta a vomitare quando ormai riusciva a vedere la testa dell’uomo spappolarsi. Il sangue schizzava ovunque, ormai era morto ma l’animale non sembrava soddisfatto. Continuava a sbattere e ringhiare, e sbattere e ringhiare divertito.
Il magi, che le era rimasto alle spalle per tutto il tempo a osservare i suoi movimenti, sobbalzò e si gettò verso di lei. Aveva capito cosa stava succedendo.
«NON GUARDARE!» Yunan fu veloce: le circondò il bacino con le braccia e la tirò indietro, dentro il buio del nascondiglio, nascondendole il viso contro il proprio petto. La tenne stretta, poggiando persino la propria fronte contro la sua testa.
Non tremava, Tennah, semplicemente gemeva di tanto in tanto cercando di dire qualcosa, ma non riusciva che a sussurrare e continuava a tenere le mani davanti alle labbra. Probabilmente cercava di non vomitare.
Alla fine, la giovane si decise ad alzare lo sguardo e incontrò gli occhi di Yunan. All’interno di quelle iridi d’oro c’era qualcosa che fece deglutire il magi; che gli fece indebolire la presa su quel corpo all’apparenza fragile.
«E’ una cosa ripugnante» mormorò lei, stringendo un poco la casacca di lui. Yunan annuì, sempre leggermente scosso alla vista di quella scintilla dormiente. «Quella povera gente» la voce di Tennah tentennò un poco all’inizio per poi indurirsi alla fine. «Ora vado giù e le ammazzo, quelle bestiacce.»
 
Seguire quella ragazza, anche solo con lo sguardo, si era rivelato più difficile del previsto. Scattava, si muoveva più fluentemente di un felino e non faceva rumore. Riusciva a evitare di essere vista dalle scimmie, troppo concentrate sui corpi morti di quegli uomini brutalmente uccisi. Yunan sapeva che riusciva a fare tutte quelle cose grazie al suo passato, che l’aveva plasmata e fatta divenire quella che era adesso. Quel passato duro e difficile per cui l’aveva scelta, e che sapeva l’avrebbe resa forte e praticamente indistruttibile. Per un momento si ritrovò a chiedersi se in un prossimo futuro alcuni ricordi della sua vita  l’avrebbero potuta portare sulla via dell’oscurità, poi, però, scosse la testa tentando di non pensare a cose del genere. Tennah era forte e determinata, buona. Si, era buona e il suo spirito non poteva essere corrotto.
Deglutendo, Yunan sbatté forte le palpebre per tornare ad osservarla.
Il magi affilò lo sguardo, in tempo per vedere la mano di lei che rubava da un corpo un’alabarda. La strinse forte, poteva chiaramente vedere le sue nocche semi-abbronzate divenire bianche.  Le dita sottili arpionarono il corpo pallido dell’arma come fossero state create per tenerla nella loro presa; le due lunghe e larghe lame – quella in testa ricurva, quella in fondo dritta- brillarono alla luce del sole. Letali.
Yunan poggiò una guancia contro la mano e socchiuse le palpebre, curioso. Cosa sarebbe successo adesso?
 
Con un colpo secco la gola della scimmia saltò lontano dal collo peloso. Il corpo dell’animale cadde a terra. Era il quinto animale che sopprimeva, e ancora non smetteva di stupirsi quanto morbide fossero le loro gole. Il cadavere sfrigolò, riducendosi a una poltiglia simile al fango che venne riassorbita dalla terra. Tennah non represse la smorfia di disgusto che le salì sulle labbra, mentre si voltava a guardarsi attorno. Stranamente sembrava che nessuna delle altre scimmie l’avesse vista, per fortuna. Aveva deciso che uccidere tutte quelle bestiacce sarebbe stata un’impresa troppo grande. Doveva ridursi a portare via Yunan da li. Doveva salvare loro due, perché per gli altri ormai non c’era più speranza. Approfittò della situazione e sgattaiolò dietro il busto di una grossa pianta. Poteva sentire i versi grotteschi prodotti dalle creature che azzannavano i corpi morti. Le facevano venire la pelle d’oca.
Ora che sono qui, cosa faccio?
Stringeva l’alabarda fresca al tatto. Aveva riconosciuto immediatamente i materiali con cui era stata costruita e abbellita l’arma: madre perla e due diversi tipi di onice (una nera striata di bianco usata per il busto, e l’altra verde acqua e d’orata usata per il collo e l’inizio della lama). Non era la prima volta che aveva a che fare con pietre simili, e sapeva che se qualcosa andava storto poteva essere colpa loro. Riflettevano la luce con facilità, e anche un minimo raggio di sole avrebbe attirato quelle scimmiacce. Doveva stare attenta.
Si guardò attorno, mentre attorcigliava con attenzione una striscia di stoffa strappata dalla maglia attorno al manico. Finì, e in quell’esatto momento con lo sguardo trovò un’intercapedine all’interno del grande albero sotto cui sostava. Brillava, attirando la sua attenzione. Lassù c’era qualcosa. Qualcosa che sarebbe stato suo, molto presto.
Provò a sbirciare le scimmie. Litigavano fra di loro per pezzi di carcassa, si mordevano con ferocia e strillavano. Tennah scosse il capo, colta dal ribrezzo, e si agganciò l’arma sulla schiena come meglio poteva. Per fortuna che fra le proprie scorte aveva vestiti di ricambio, e che quelli che indossava ormai erano rovinati a tal punto che poteva strapparli come se niente fosse.
Iniziò ad arrampicarsi, stringendo fra le mani le liane che andavano a diramarsi per la corteccia. Alcune foglie le impedivano il completo aderimento dei piedi, e l’alabarda la spingeva verso terra a causa del forte peso. Sentiva le lame sfiorarle i capelli e i polpacci.
Poteva farcela. Credeva in se stessa. Ma un solo passo falso e sarebbe caduta preda di quegli esseri.
Ancora un altro passo. Riusciva a vedere la rientranza del tronco. Vi poggiò dentro una mano e s’issò. All’inizio fu difficile, le sembrò che tutta la stanchezza di quella scalata le fosse finita sulle spalle e pensò di non riuscire a farcela ma, quando poggiò le ginocchia sul tronco ruvido tirò un sospiro di sollievo.
Si concentrò per qualche secondo sul respiro. Doveva calmare il proprio cuore.
Che gli Dei siano benedetti, alzò il volto al cielo e assaporò il fresco vento che le accarezzava la pelle. Poi si ritrovò a pensare che all’interno di un albero non ci sarebbe dovuto essere vento.
Spalancò le palpebre sorpresa e socchiuse le labbra. Il cielo si stendeva infinito davanti ai suoi occhi; azzurro e immenso, solcato da nubi pallide e simili a batuffoli di cotone. Il sole splendeva silenzioso riscaldandole la pelle.
Si alzò, camminando silenziosamente. Lo stridio dei gabbiani le arrivava alle orecchie come un canto di vittoria, forse era riuscita a trovare un’uscita, ma c’era ancora qualcosa che non la convinceva. Era stato troppo facile arrivare lassù. Il Dungeon doveva mettere lo sfidante davanti a delle prove, allora perché lei sembrava non averne affrontata nessuna? Certo, aveva ucciso qualche strana scimmia alata, le aveva aggirate, era riuscita a procurarsi un’arma e scalare un albero ma non poteva essere tutto li.
Si accigliò. Non andava bene quella cosa.
E proprio mentre muoveva un altro passo qualcosa la colpì da dietro e lei svenne.
 
Yunan si morse il labbro. Era arrivato lassù con facilità, come ci si aspetterebbe da un Magi, ma nonostante la splendida vista del Dungeon numero ventidue non riusciva a farselo piacere. Forse perché la sua protetta stava per affrontare l’ultima prova dei quell’intricato labirinto.
La guardò, stando ben nascosto dietro i batuffoli di quelle finte nuvole, mentre una grossa gabbia andava a chiudersi sopra la sua testa. La cascata di capelli biondi di Tennah venne oscurata da una grossa grata. Yunan smise di tormentarsi il labbro e prese a torturarsi la maglia.
L’aveva portata in quel Dungeon perché conosceva i suoi trascorsi. Quel luogo era predestinato a lei. Sembrava costruito solo per la giovane. Ma quell’ultima prova, aveva paura che la distruggesse. Perché non ci aveva pensato prima? Sperava solo che lei fosse più forte di quell’illusione, che dimostrasse la sua forza.
Pregò che lei riuscisse a superare la sua paura più grande, e in fretta.
Sospirò. «Avanti Tennah, devi riuscirci» la spronò silenziosamente.
Il corpo di lei fremette, poi urlò. Un grido acuto di dolore, che la portò a inarcare la schiena e coprirsi il viso con le mani.
Yunan distolse lo sguardo, cercando di non ascoltare.
 
 
La frusta continuava a colpirla. Sentiva il sibilo che produceva contro la sua pelle; provava il dolore che pensava di aver ormai dimenticato. Se l’era lasciato alle spalle, ma allora perché era li? Forse quel viaggio era stato tutto un sogno, un lunghissimo sogno. Perché adesso, se si guardava attorno, vedeva solamente schiavi, lavori forzati, fruste, catene. Ne aveva un paio anche lei: le stringevano i polsi e lasciavano segni rossi e brucianti; azzannavano le sue caviglie come mascelle di lupi affamati.
«Alzati, lerciume!» l’ordine della guardia le passò da un orecchio all’altro. Voleva alzarsi, doveva farlo ma era troppo debole.
Perché non moriva?, continuava a domandarselo. Se lo chiedeva sempre, ogni giorno, ogni minuto.
«Ho detto alzati!» L’ennesimo colpo di frusta le arrivò dritto sul viso, colpendole il naso e facendola sanguinare.
Tennah gridò. Poi venne fatta alzare e spinta in avanti. Le catene ai suoi piedi tintinnarono. Voleva morire. Voleva lasciare quel mondo pieno di dolore che la circondava. Ma non poteva, non gliel’avrebbero permesso. Era troppo importante per quel posto, era una delle preferite del suo nuovo signore. Tutta via questo non le impediva di essere toccata da altri, martoriata di colpi.
Si strinse le braccia al petto, o almeno ci provò, quando le strapparono di dosso i vestiti e iniziarono a pulirle la pelle a spatolate. Raschiavano e lei si mordeva le labbra. Raschiavano e lei tentava di non gridare. Raschiavano, finché Tennah non riuscì più a non sentire nulla.
Si perse nei meandri dei suoi ricordi. Le parve di sentire lo stridio dei gabbiani, l’aroma salmastro che tanto le piaceva. Sperò di ricadere in quel sogno da cui si era svegliata. Non accadde.
La giovane si lasciò trasportare fino a una stanza, con le catene che strusciavano a terra appesantendole la camminata. Le avevano buttato addosso uno straccio, forse di qualche sacco di patate che le irritava la pelle.
Guardò il cielo. Osservò gli altri schiavi. Deglutì capendo dove la stavano portando. Era giovane, fresca di commercio (l’avevano pagata fior di quattrini), ed era appena arrivata in quel mercato dopo settimane di traversata: era arrivato il momento di marchiarla. Era l’unico motivo per cui l’avevano pulita, per non far infettare la ferita che presto le avrebbero aperto.
«E datti una mossa» ringhiò una guardia spingendola con forza. Tennah inciampò, cadde, fu colpita più volte al viso, venne rialzata e spinta nuovamente.
Le faceva male ovunque, ma nulla sarebbe stato comparabile al bruciore sfrigolante. Quando incontrò gli occhi del fabbro, più grigi del cielo d’inverno, le si bloccò il respiro. Provò a dimenarsi, scuotendo il capo e puntando i piedi. Non voleva essere marchiata. Non di nuovo. Non se lo meritava. Non aveva fatto niente di male, allora perché questo mondo l’aveva posta davanti a un destino tanto inverso?
«Mettetela li», il fabbro indicò una sedia di vimini distrutta.
Lei lo seguì mentre eseguiva tutti i processi: indossava i guanti, prendeva il marchio, lo abbandonava tra i tizzoni ardenti, sputava e passava la lingua sui denti marroni. Sentì lo stomaco contorcersi dalla paura.
Non voleva essere marchiata come un’animale. Non voleva. Non voleva. Non voleva. Non di nuovo.
Ma successe tutto talmente in fretta che nemmeno ci fece caso. Era stata troppo presa a pensare di non volere quella cosa che quando arrivò non le parve vero. Gridò, la voce le raschiava la gola con forza, e chiuse gli occhi inarcando la schiena. Si coprì il viso con le mani per nascondere la smorfia di dolore alle guardie. Non voleva che si beassero delle sue sofferenze.
La alzarono, sentiva bruciare. Strinsero la presa sulle sue spalle, sentiva bruciare. La spinsero, sentiva bruciare. Bruciare. Bruciare. Bruciare.
Perché era li?, si chiese  per l’ennesima volta. Lei non era più una schiava da tre anni. Era fuggita quella sera, tanto tempo fa. Era libera, adesso. Libera come il vento, le onde del mare e i loro abitanti. Libera di viaggiare e conoscere, senza marchi a fuoco o catene che la trattenessero, senza uomini che la maltrattassero. Allora COSA CI FACEVA IN QUEL POSTO?
Senza pensarci, accecata da una rabbia sopita dentro di lei da molto tempo, troppo, Tennah si fermò all’entrata dell’acciaieria. Lei li non ci doveva essere. Non c’entrava nulla in quel luogo. Si voltò, con gli occhi d’oro vuoti come due buchi neri. Una delle guardie le intimò di muoversi, ma lei non lo ascoltò. Si stava concentrando solo sulla sua prossima mossa, che le brillava davanti come un diamante. Vedeva solo il filo di una lama brillare. Proprio alla sua destra stava un’arma affilata, non troppo lunga, facile da raggiungere. Si mosse e straordinariamente spezzò le catene al primo colpo.
«IO NON SONO UNA SCHIAVA!» urlò con tutta la forza che aveva in corpo. «NON PIU’! IO SONO UNA PERSONA E SONO LIBERA!» e la lama della spada trapassò la corazza della prima guardia.
 
Yunan corse, l’aiutò a sollevarsi e le sorrise accarezzandole i capelli, come aveva visto fare a delle mamme con i propri figli. Non sapeva se sarebbe stato d’aiuto, ma almeno lui si sentiva più a suo agio. Sentiva il sudore di lei scendergli fra le dita, inzupparle i capelli che iniziavano ad arricciarsi a causa del caldo.
«Tennah» sussurrò, con un sorriso dolce sulle labbra.
«Non entrerò in un Dungeon mai più» la sentì sussurrare, mentre incontrava i suoi occhi d’ambra. Avevano la pupilla dilatata, impaurita ma con dentro una coscienza enorme: lei aveva capito che quella era una prova.
 Yunan rise un poco, allentando la tensione che gli attorcigliava i muscoli, aiutandola ad alzarsi.
Non voleva sapere cosa lei avesse sognato, a quali atrocità fosse stata sottoposta durante la prova perché aveva ancora le sue urla che gli rimbombavano nelle orecchie. Acute, graffianti. Sotto le palpebre vedeva ancora il suo corpo che si contorceva.
Non voleva ricordarselo. Al contempo, non poteva dimenticarselo.
«Si, beh, non ne dubito.»
 
Si accarezzò i mossi capelli biondi, arricciati dal calore e dal sudore. Si sentiva stordita, ma non voleva darlo a vedere. Se restava in silenzio poteva sentire ancora il rumore delle fruste e lo sfrigolio del marchio, che andavano a inciderle la pelle. Perciò tentò di non rimanere mai in silenzio, o almeno di concentrarsi sulla voce dell’amico che le stava affianco.
«Come diavolo ci sei arrivato quassù?» Lo incastrò in uno sguardo di ferro, avanzando fra sbuffi di nuvole e raggi di sole.
«Mi sono arrampicato», e per dar conto alle sue parole le mostrò i palmi rossi e pieni di taglietti. Tennah scosse il capo.
Forse, dopo tutto, Yunan non era il pappamolle che aveva creduto all’inizio di quell’avventura. Se era riuscito a scalare fino a quell’altezza la sua forza doveva superare di molto le aspettative che lei aveva su di lui.
Si pulì il dorso delle mani contro le gambe graffiate.  «Come usciamo da qui?»
Tutto attorno a loro era azzurro, bianco e marrone ma di vie di fuga non c’era traccia. Sembrava di essere stati trasportati nel bel mezzo della strada che conduceva al paradiso. Ma se anche così fosse stato, dov’era l’entrata per accedervi completamente? Era forse destinata a restare in quel luogo per l’eternità?
Yunan si grattò una guancia. «Dobbiamo cercare», gli occhi di Tennah si fissarono su un punto fisso all’orizzonte, brillante, «una porta. Una grande por-»
«Trovata.» Lo superò assicurandosi l’arma sulle spalle.
«Co- Ah! Aspettami!» Lui tentò di starle dietro.
Quando lei si trovò di fronte all’enorme uscio non poté fare a meno di fischiare sorpresa. Quella porta era enorme, completamente placcata in oro e intarsiata con gemme preziose che brillavano fino a farle male agli occhi. C’era un’aura potente che la circondava, quasi volesse avvertire chi la raggiungeva che oltre quel confine stava qualcosa di mistico e antico più della storia stessa. Tennah si sentiva messa in soggezione. Quella porta sembrava parlarle di un racconto che presto sarebbe cambiato a causa sua. La bionda guardò le grandi mani destre incise su quelle ante e arricciò il naso.
Con gli occhi d’oro persi in quell’immensità, la donna non si accorse dello sguardo del compagno finché non lo sentì sospirare. «Viva la semplicità» affermò ironica, riprendendosi.
«Tennah» la riprese benevolo Yunan. Lei alzò le spalle, passando una mano fra i suoi capelli disastrati.
Ci fu silenzio, che durò un attimo, e poi il ragazzo disse: «Cosa vuoi fare ora, Tennah?»
«Uscire di qui. Il prima possibile.» Gettò la mano destra  contro l’anta più vicina a se, e poi lanciò uno sguardo al compagno.
La luce lo colpiva in viso facendolo sembrare eterno, ma non era questo che la portava a non togliergli gli occhi di dosso. Più che altro, era il fatto che non capisse che anche lui doveva spingere quell’enorme porta. Però, sembrava che lui non lo capisse.
«Yunan» lo chiamò. Lui la guardò, sorridendo. Sembra non essersi accorto di quello che lei volesse fargli intendere. «Yunan» ripeté allora Tennah, più seria questa volta, «metti la tua mano destra su quella parte di porta. Adesso.»
«Mh? Oh. Si certo.»
 
Quando entrarono all’interno dell’enorme stanza antecedente la porta, Tennah si fermò sorpresa. Alte colonne di onice e marmo si alzavano a reggere un soffitto a cupola, dove i vetri riflettevano la luce del sole e la gettavano a terra, sulle pareti cariche di oggetti impolverati e dimenticati. In quel luogo il tempo sembrava essersi fermato da molto ormai.
Camminando fra gli scaffali, con l’alabarda che le sfiorava i capelli, Tennah osservava ogni singolo oggetto nel dettaglio. Ne era come rapita. Da ognuno di loro. Sembravano tutti così antichi: lo capiva dal modo in cui erano decorati, dalla vernice ora scrostata con cui erano stati dipinti.
Continuò a camminare fino a che, superata un piccola scalinata laterale, non si ritrovò innanzi a un piccolo altare, o almeno le sembrava tale. Sul ripiano di marmo bianco, nascosto da uno strato di spessa polvere grigia sostava un’incisione strana. Sembrava una stella, intrappolata dentro un cerchio.
«Che meraviglia.» Tennah non aveva più pensato a come uscire da quel luogo, ne a come uccidere Yunan per avercela portata perché adesso non riusciva più a distogliere gli occhi da quel simbolo.
Si sentiva attratta da lui, come se una forza maggiore la stesse chiamando a se. Mise un dito su una delle punte e lo fece passare per tutto il disegno finché non venne alla luce. Spazzò via la polvere, velocemente e con foga. E la stella le brillò davanti agli occhi, bella e in un certo senso letale.
«Splendida.» La donna poggiò l’alabarda sul tavolo e impresse le proprie mani sulla stella.
Una profonda luce gialla esplose in tutta la stanza, illuminandola a giorno. L’impatto iniziale fu talmente forte che Tennah si trovò catapultata contro la ringhiera che divideva l’altare dal piano sottostante. Se non avesse avuto la prontezza di aggrapparsi con le mani alle colonne alle sue spalle sarebbe stata spinta oltre, sarebbe caduta. 
Il vento durò ancora per qualche minuto, facendole schioccare i capelli come le fruste delle amazzoni. Poi cessò e, quando Tennah alzò gli occhi davanti a se vide quello che mai si sarebbe aspettata.
Una gigantesca figura blu la osservava con i penetranti occhi. Sembrava vederla e al contempo non farlo, studiarla e cercare di comprenderne l’essenza. Tennah si sentiva improvvisamente piccola e indifesa.
La creatura aveva la pelle blu, quasi nera. Sulla fronte aveva incastonate lunghe gocce d’oro, e nascoste da quella che sembrava una sciarpa pallida affioravano delle iridi di un brillante grigio, senza pupilla, in contrasto col nero che lo contornava interamente. Le polsiere che indossava dovevano essere d’oro e molto pesanti a giudicare dal modo in cui brillavano e facevano silenzio, ma lei –perché di una lei si trattava- non sembrava farci caso. La corta gonna dell’ennesimo materiale delle gocce copriva una lunga coda che finiva in una nube di fumo, saliva verso l’alto e andava a creare un’aura mistica.
Era estremamente bella. Antica. Regale.
«Io sono Feronia», la sua voce si espanse per l’intera sala inondandola di vita, «protettrice dei boschi, degli schiavi e della forza.»
Tennah tenne gli occhi ben aperti, scoprendosi spaventata dalla vicinanza che aveva con l’essere. «Yunan» sussurrò. Il suo sguardo non si spostò dall’enorme genio nemmeno un attimo.
Feronia era bellissima, Tennah non poteva fare a meno di pensarlo. Meravigliosa in quei suoi movimenti lenti, intimidatori.
«Yunan» tentò nuovamente la giovane, ma l’uomo non rispose.
«Il tuo giovane Magi è già andato via» la informò il genio, abbassando il proprio corpo verso di lei.
Ora poteva sentire il suo respiro muovere l’aria che le stava attorno. L’ombra enorme della creatura oscurò il sole, immergendo la luce nelle tenebre. Qualcosa si mosse nello stomaco della donna: paura e incomprensione. Perché Yunan non l’aveva portata con se? Non le aveva mai detto che era un Magi?
Forse, aveva potuto vedere nel suo passato e aveva capito che non l’avrebbe mai avvicinato se fosse stata a conoscenza di quel suo piccolo segreto.
Chiuse gli occhi, la bionda, scuotendo il capo. «Che imbroglione» sussurrò a se stessa.
«E’ stato bravo», rispose invece Feronia, «mi ha finalmente portato un contendente al trono.»
Tutto le tornò in mente: le intere storie che aveva sentito raccontare sui prescelti dai magi, i dungeon, i loro tesori, la forza immensa che gli oggetti sacri donavano ai proprietari.si chiese perché non le fossero tornate alla mente tutte quelle cose prima. Perché?
Ora si trovava immersa in quella melma fino al collo, senza volerci davvero stare.
«Ragazza» la richiamò il genio, «qual è il tuo nome?»
«Tennah.»
Feronia alzò il busto, incrociando le braccia al petto nudo coperto dalla grande sciarpa. «Tennah» lo ripeté come se fosse qualcosa di prezioso, di un valore così intenso da emanare luce senza essere visto. Allungò una mano verso l’alabarda e l’impugnatura brillò. «Hai superato tutte le mie prove, hai dimostrato la tua forza. Io, Feronia, ti dono il miei servigi.» un forte vento si alzò, e al suo passaggio ogni cosa presente all’interno della stanza divenne d’oro tornando al suo antico splendore. «Il potere del vento è tuo, mia padrona.»
 
«Tutti ai propri posti! Salpiamo!»
Gli stridii dei gabbiani tornarono nelle sue orecchie, portandola a scuotere il capo. D’istinto toccò l’alabarda legata alle sue spalle e sorrise, voltandosi verso la scogliera in cui tutto era iniziato.
Ora, dove prima si ergeva il meraviglioso dungeon di Feronia ora stava il vuoto. Rimaneva ad assicurarne l’esistenza solo un grosso buco cavo, la forma arrotondata di un pezzo della parete rocciosa e alcuni pezzi d’oro donati ai cittadini da Tennah. Si chiese cosa ne avrebbero fatto adesso che lei se ne sarebbe andata, cosa avrebbero raccontato ai viaggiatori che venivano per conquistare il famigerato dungeon. Ma poi si disse che non era più affar suo. Lei, adesso, aveva solo una cosa a cui pensare.
Terre da esplorare.
Un posto in cui tornare.
Magari, un luogo che finalmente avrebbe potuto chiamare casa.

 
 

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