Come la notte nera di Lady Ligeia (/viewuser.php?uid=39553)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Su si laurea ***
Capitolo 2: *** Pulita ***
Capitolo 1 *** Su si laurea ***
Come la notte nera - prologo
Fare
thee well - little broken heart
downcast
eyes - lifetime loneliness
whatever walks in my heart
will walk alone...
(Nightwish, Forever yours)
Oggi pomeriggio si laurea Su.
Finalmente,
mi viene da pensare, mentre scelgo la cravatta giusta da abbinare alla
camicia che ho scelto di indossare.
Non mancherei alla discussione della sua tesi per niente al mondo.
Su è l'ultima dei miei vecchi amici - quasi mia coetanea - a
concludere gli studi.
La sua laurea è la fine di un'epoca, in un certo senso.
Un'epoca che, per me, dovrebbe essere chiusa da anni.
So che i miei pensieri si stanno spingendo in una direzione che non
dovrebbero imboccare, eppure non intervengo. Il controllo ferreo che su di essi
esercito da anni mi snerva. Provo a lasciarli andare. A lasciarli
correre lungo il più nero dei tunnel. Tanto, so che cosa
troverò là in fondo.
Ci saremo tutti, credo.
Tutti quelli dei vecchi tempi.
Daniela. Genny e Paolo. Silvio e sua moglie Mary. Tiziano.
Alex - c'è sempre un Alex, no? E anche noi avevamo il
nostro.
Paoletta, che mi guarderà negli occhi e scoppieremo a ridere
come bambini, come sempre, com'è sempre stato.
E poi Chris e Vince, inseparabili come sempre, con le relative
fidanzate.
E Clara, la donna in carriera, chissà con quale principe
consorte al fianco, stavolta.
Forse non ne avrà, invece: gli uomini per lei vanno e
vengono, come le onde del mare.
Algida e sola, meravigliosa Clara, prigioniera di un fascino che non sa
di possedere e di un'insicurezza di cui, invece, è fin
troppo cosciente.
Tutti gli altri, insomma.
E Sara.
Forse.
Figuriamoci se Su non l'ha avvertita.
Magari, però, le ha detto anche che ci sarò io, e
lei preferirà non farsi vedere. Una donna farebbe
così.
Sara.
Com'è banale, vero? Ce ne saranno milioni, in Italia.
Nel mondo.
Quando una donna si impossessa della tua anima, la cosa peggiore che
può capitarti è che abbia un nome così
comune.
Un nome così comune che ad ogni passo ti imbatti in
altre donne che lo portano, cosicché, ad ogni passo, ti sembra di incontrarla di
nuovo.
E ogni volta è come se il cuore ti si fermasse nel petto.
Ogni volta vorresti urlare, perché non ammetti che altri
possiedano qualcosa che appartiene a lei.
Il suo nome, per fare un esempio.
O la tua anima, per farne un altro.
"Sara" non ha vezzeggiativi di sorta, affettuose varianti con cui
distorcerne il suono, diminutivi che ne addolciscano l'impatto sui
nervi.
Sara è così, pulito, nudo, tagliente.
Sempre.
Il cognome di Sara, di questa
Sara, dell'unica
Sara, è Pigna.
Come le cartiere.
C'era qualcuno che, per prenderla in giro, la chiamava Quablock, ai tempi.
Una battuta idiota, ma un po' idioti eravamo tutti.
Sono da sempre un frequentatore accanito di cartolerie, sempre alla
ricerca dei roller dalla punta più fine, delle carte
più belle.
E' ridicolo, disperatamente ridicolo, ma quando acquisto un quaderno di
quella marca non riesco ad usarlo.
Gli appunti delle lezioni si aggrovigliano.
Comincio ad annotare ai margini pensieri cupi, maledizioni scagliate,
inni al suicidio.
La mente mi si riempie di nuovo di lei, e non posso, non posso
permetterglielo.
Su si laurea oggi pomeriggio,
dicevo.
Ci saranno scherzi, ci saranno applausi. Ci saranno risate.
Su ha dedicato la tesi al padre, scomparso.
E poi c'è una seconda dedica. A me e a Sara, "i due punti
fermi" della sua vita.
Spero che nessuno tiri fuori le fotografie.
Quelle vecchie, intendo.
Ad ogni occasione, qualcuno lo fa.
Credo sia Dani, che vive nei ricordi dell'epoca più felice
della sua vita. Delle nostre
vite, di tutti noi intendo.
Ha una raccolta enorme di immagini, poesie, disegni.
Biglietti del cinema, delle mostre, dei treni.
Programmi degli spettacoli del nostro coro, perché noi siamo
un coro. O meglio, lo eravamo. Ci siamo conosciuti così.
Noi e molti altri, ma noi siamo rimasti.
Ad ogni occasione, dicevo, compare quel dannato quaderno. Pigna,
suppongo.
Quel dannato quaderno pieno di lei.
Non ho bisogno delle fotografie di Dani - o forse sono di Chris, non
ricordo.
Ne ho una anch'io.
Una sola, le altre non ci sono più.
Come non c'è più il vecchio poster di De
André.
Come non ci sono più i libri.
Sono rimasti solo i gemelli d'argento che mi regalò il
giorno della discussione della mia
tesi di laurea.
Una sola, dicevo, e ogni tanto la riguardo. E' nell'ultimo cassetto della mia scrivania, dove Chiara non arriva mai.
L'abbiamo scattata in un bar del centro, è un compleanno di Su. Il ventiseiesimo, credo.
Siamo intorno a un tavolino carico di tartine, su cui è stesa una ricca tovaglia color crema che sfiora il pavimento.
Abbiamo levato alti i bicchieri per brindare.
Da sinistra: Su ride di gusto, florida e dorata, come se la gioia di
vivere si fosse fatta carne e fosse giunta ad abitare in mezzo a noi.
Poi c'è Sara, esile e composta, come la notte nera, l'unica dei
tre che indossi abiti eleganti - ci aveva raggiunto dopo il lavoro, se
non ricordo male, ma ricordo benissimo. Un tubino scuro, corto al
ginocchio, la cui giacca giace informe su una sedia accanto a Su.
Io sono dall'altro lato. Non sto guardando verso l'obbiettivo, ma verso di lei. Com'è giusto che sia.
Alzo il calice con la sinistra, la destra è perduta sotto il
tavolo. Come la sinistra di Sara, che alza, invece, il calice con la
destra.
Un particolare insignificante, nessuno l'ha notato.
Ricordo la mano di Sara che era venuta a cercare la mia, protetta dalla tovaglia troppo lunga.
Ricordo la stretta delle sue dita sotto il tavolo.
Ricordo anche il contatto serico con i suoi collant, perché si era portata la mia mano sulle cosce.
Un gioco antico, tra di noi.
Nasconderci per sfiorare il fuoco che ci avrebbe arsi vivi.
Camminare spensierati lungo il ciglio dell'abisso.
Bambini a maneggiare una lama più tagliente di quanto potessimo immaginare.
Negarci l'uno all'altra e offrirci, offrirci e poi negarci, finché non ci siamo fatti a pezzi.
Ecco perché non ho bisogno di vedere le mille altre fotografie.
Lei è in tutte.
In costume di carnevale, a casa di Chris.
In calzoncini e canottiera, in vacanza, con gli occhiali da sole firmati che le aveva regalato suo padre.
Sciarpa e piumino, in stazione un pomeriggio, non ne ricordo la ragione.
Con la gonna nera e la camicetta bianca della divisa del coro.
In varie scene di gruppo, difficili da identificare.
Nella maggior parte, è con me.
In una immergiamo un cucchiaio ciascuno in un enorme barattolo di
Nutella, con in faccia un'identica espressione da bambini estasiati
assunta senza ombra di posa o di accordo previo, in assoluta
spontaneità.
In un'altra, assonnata, mi posa la testa sulla spalla e ha gli occhi
chiusi, come se si fosse addormentata. Era una festa di compleanno.
In una terza facciamo fotocopie, siamo in università. E' stata
Su a scattarla. Sara, furiosa, prende a calci la fotocopiatrice
recalcitrante, che le ha inghiottito la tessera a scalare e non ha
alcuna intenzione di restituirgliela. Io la osservo perplesso.
Ammaliato. Folgorato. La comicità di quella scena è
impossibile da descrivere.
Non ho bisogno di vederle per sapere, insomma.
Che nessuno mi mostri quelle foto un'altra volta, oggi. Per favore.
Annodo la cravatta. Raccolgo le chiavi della macchina, il portafoglio, il cellulare. Esco.
Ho indossato una camicia con i gemelli.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Pulita ***
Come la notte nera - 1
Ciao a
tutti, voi che mi
leggete!!
Scusatemi
per l'attesa... faccio un po' fatica a trovare il tempo di aggiornare,
purtroppo, e spesso sono anche troppo stanca per scrivere.
Spero sempre che
questa storia vi piaccia.
Grazie
anticipato a chi leggerà!
_______________________________________________
Le ho conosciute dieci anni fa, Sara e Su.
Per prima, Sara.
Avrei dovuto dedicarmi anima e corpo alla tesi di laurea, allora, ma
non ero riuscito a superare al primo tentativo l'ultimo esame e questo
mi avrebbe ritardato, perlomeno di qualche mese.
Mio padre aveva subito un ictus, quella primavera, e andava
rimettendosi molto lentamente.
Faticavo a far capire a mia madre, che mi avrebbe voluto sempre a casa
a darle una mano, che dovevo stare a Milano, per avere tempo e modo di
studiare, di cercare i testi che mi servivano per la tesi, di mantenere
i contatti con la docente che avevo scelto come relatrice. Niente.
Sconvolta da quello che era capitato a papà, diceva che ero
un egoista e un ingrato, che se non avevo superato quell'esame era
esclusivamente colpa mia e via di questo passo.
So da tempo che non avrebbe voluto dire questo, che le cose non stavano
davvero così e tutto il resto della storia.
Così, tuttavia, le sentivo io e provavo un senso di
inadeguatezza difficile da immaginare.
Non ho fratelli, né
sorelle.
Siamo di Agordo, noi. Provincia di Belluno.
Un piccolo condominio e intorno le montagne.
Quando da ragazzino dubitavo che ci fosse un cielo sopra di noi, e
capitava spesso perché ero introverso e molto portato a
pormi domande cui nessuno sapeva rispondere, alzavo gli occhi verso di
loro e i miei dubbi smettevano di avere significato.
Le mie montagne. Un inno di pietra al buon Dio. L'inno più
bello che mai sarà scritto.
Ho cercato la pace anche adesso - contemplandole, toccandole, portando
la mia corda e le mie scarpette nell'intimità delle loro
rocce -, ma non funziona più.
Forse perché non sono più un ragazzino. Forse
perché non è più dell'esistenza di Dio
che dubito, ma del senso della mia.
Capii presto che, se fossi rimasto ad Agordo quell'autunno, non me ne
sarei più potuto allontanare.
Forse mio padre non si sarebbe ripreso mai del tutto e, a quel punto,
non avrei avuto più modo di ritagliarmi un'esistenza da
individuo, perso nel groviglio di visite mediche, scadenze e incombenze
varie in cui la mia famiglia era precipitata.
Trovai la scusa adatta per tornare a Milano, toccando mia madre in una
delle sue - scarse - corde ancora sensibili.
Il mio vecchio amico Silvio, compagno di corso, romagnolo, era in tesi
come me. Anche a lui mancava un solo esame. A mia madre era simpatico,
tanto che l'aveva invitato spesso a venire a trascorrere l'estate da
noi. Non che lui avesse mai accettato: preferiva il mare alla montagna,
Bellaria ad Agordo.
Silvio aveva trovato, nei pressi dell'università, una
chiesetta nel cui oratorio il parroco aveva organizzato un coro. Silvio
ne conosceva la direttrice, suor Maria, perché era stata sua
maestra alle elementari. A Bellaria, benché fosse lombarda.
Sia Silvio, sia io, abbiamo sempre amato cantare. Silvio ha una
splendida voce tenorile, probabilmente la migliore che abbia mai
sentito. Io sono un più che discreto basso: da bambino,
cantavo nella chiesa nel mio paese; mia madre era fiera di me.
Dissi a mia madre che tornavo a Milano soprattutto per poter cantare di
nuovo, sotto la guida di quella suora, che aveva fama di essere
un'ottima insegnante. A mia madre fece piacere, si decise a smettere di
tentare di ricattarmi.
Così, mi ritrovai nuovamente a Milano, nello stesso
squallido appartamento che condividevo con altri due ragazzi - sempre
diversi: quasi ogni mese, i miei coinquilini cambiavano, senza che
riuscissi a legare con nessuno di loro.
Squallido, sicuro, ma per me rappresentava la libertà. Il
distacco. Il respiro.
Andai davvero a parlare con suor Maria, per dare credibilità
alla storia che avevo raccontato a mia madre.
Silvio mi aveva detto che suor Maria aveva un ufficio, nell'oratorio di
quella piccola chiesa, e che anche il coro aveva una sede. Due
stanzette contigue, minuscole e ingombre.
Mi aveva detto anche, ma io l'avevo dimenticato, che in quei giorni
"stavano imbiancando".
Mi feci spiegare da qualcuno dove fosse la sede del coro e mi trovai
presto davanti alla porta indicata. Era aperta.
La stanza era del tutto vuota, di modo che la mia prima
impressione fu che fosse molto ampia.
La finestra era spalancata sul
cortile, nonostante il clima fosse ormai decisamente autunnale. C'erano
fogli di giornale sparsi sul pavimento, fissati con lo scotch,
e un forte odore di
vernice impregnava l'ambiente, nonostante la corrente d'aria fredda.
Misi dentro la testa, imbarazzato. Non sapevo se avrei trovato
qualcuno. I soffitti alti e i lunghi corridoi mi intimidivano.
C'era una scala a pioli, in un angolo della stanza, e considerai
divertito la creatura che vi stava in cima, intenta a rifinire con il
pennello sottile lo spigolo tra la parete e il soffitto. Era
un'apparizione esile, infagottata in una vecchia tuta, una bandana
annodata in testa per proteggersi dagli schizzi di vernice e, alle
mani, guanti di gomma di svariate misure più grandi del
necessario. Canticchiava qualcosa, a mezza voce. Un mezzosoprano leggero.
- Ehi - l'apostrofai, titubante. - Tu sei quelli del coro? -
Una domanda stupida, me ne resi subito conto. Volevo chiederle se lei
fosse del coro e se sapesse dove fossero finiti gli altri, ma le due
frasi si erano fuse nella mia mente, dando origine a
quell'interrogativo semiabortito.
- Ehi - rilanciò la giovane imbianchina, senza voltarsi, ma
con il riso nella voce. - Io sono soltanto Sara, spero che
t'andrà bene lo stèsso. -
Milanese, senza ombra di dubbio.
Scese dalla scala, rapida ma goffa per via della tuta, e mi venne
incontro, rivelandomi in tal modo un particolare che non avevo ancora
notato: il suo viso rotondo era del nero più profondo che
avessi mai visto. Vivido vi risaltava, per contrasto, il bianco dei
piccoli denti - regolari come un filo di perle - e degli occhi, intorno
alle iridi brune.
I nostri sguardi si incontrarono.
Com'è pulita, fu il mio primo pensiero.
Schietta, diretta, senza tortuosità, intendevo.
Un sorriso così aperto, un brio così risplendente.
Luce e quiete, come se fosse stata un prato assolato su cui riposare.
All'istante capii di piacerle.
Furono dieci secondi lunghissimi, durante i quali - è
probabile - il mondo stesso trattenne il respiro.
Per la prima volta in vita mia, mi sentii uomo.
Fui il cavaliere senza macchia e senza paura.
Fui il principe azzurro dei libri di fiabe.
Fui il maschio da sedurre, com'è scritto dal principio dei
tempi.
Tutto questo e molto altro, ardeva negli occhi di Sara che percorrevano
ammirati ogni centimetro del mio corpo.
Non c'era lascivia, in quell'esame, e nemmeno esibizione. Soltanto
desiderio, senza schermi, senza stratagemmi, senza finzioni.
Desiderio, e innocenza allo stato puro.
O così mi sembrò.
Non sono mai stato capace di stabilire se Sara Pigna sia bella nel
senso classico del termine.
Credo di no.
Forse è una bellezza africana, incomprensibile per gli
europei, troppo pura, troppo esotica.
Quando la conobbi, inoltre, aveva appena vent'anni e, fisicamente, era
quasi una bambina: le braccia legnose, le gambe troppo lunghe, niente
curve in nessun posto. Alta e longilinea, tuttavia, in un modo che
ricordava le liane.
Com'è pulita,
pensai, tuttavia, e
com'è bella.
Scambiammo qualche parola insignificante, mentre mi lusingava in quel
modo.
Mi piaceva piacerle, ecco tutto.
Per il resto, non aveva nulla di ciò che normalmente si
cerca in una donna... dal punto di vista fisico, voglio dire.
E poi, in ogni caso, io ero già innamorato di un'altra. Da
anni.
Se ricordo Sara adesso, se - dopo averlo sfuggito per anni - cerco di
riportare alla mente il suo volto, quasi non ne sono capace.
Il mio sforzo per dimenticarne i lineamenti, per me lancinanti, forse
è andato a buon fine.
E' per questo che non voglio vederne le fotografie.
Ricordo solo il tono della sua pelle. La racchiude, la identifica
tutta. Sara la Nera.
Ho sempre trovato attraenti le ragazze di colore, di qualunque
sfumatura siano: dalla lieve sfumatura cannella di alcune, all'ebano
lucidato di altre. Sara è la più scura. "Nera
sono, ma bella, o figlie di Gerusalemme"...Cantico dei Cantici.
Volete che un bravo bambino come me
non lo conosca?
Senegal? Camerun? Zaire?
Sara aveva confessato di non saperlo: non le
era mai importato, perché del suo Paese d’origine,
quale che fosse, non aveva alcuna memoria. Era stata adottata appena
nata e si considerava italiana a tutti gli effetti.
Sissignore, un'italiana nera come l'absolute
space, quale problema c'era? Anche una Miss Italia era
stata nera, no, pochi anni prima?
Lei era milanese,
per la precisione, e quando rivendicava la propria
milanesità il suo accento diventava più pesante,
soprattutto alle mie orecchie di veneto. Era sconcertante ascoltarlo,
quell'accento, mentre scivolava fuori da quelle labbra tumide e scure e
faceva capolino nelle biciclètte
e nei mè e
nei ciumbia.
Andiamo, idiota,
pensai, ti aspettavi
forse che parlasse mandinka, come la mamma di Kunta Kinte!?
Mentre parlavamo - e lei africana si rivelava
più a mio agio di me nella nebbia di Milano, dove le
montagne non erano altro che un pizzo azzurrato
sull'orizzonte occidentale, da ammirare soltanto in certe mattine
particolarmente serene, e non erano nemmeno le mie montagne -
qualcun altro entrò nella
stanza. Un
biondino sottile e pallido, che indossava una tuta molto simile a
quella di lei. Dall'occhiata indispettita che mi lanciò,
intuii
che la mia nuova conoscenza dalla
pelle color cioccolato non doveva essere single.
- Oh, ecco il mio fidanzato... - cinguettò infatti, del
tutto
pleonasticamente. - Armin. -
La stretta di mano che ci scambiammo sembrò una prova di
forza,
ma le ostilità terminarono prima ancora di cominciare,
perché, in realtà, lo slavato compagno
dell'incantevole
Sara non aveva assolutamente nulla da temere.
Per quanto lei fosse carina e piena di brio, infatti, ripeto, io ero
già innamorato di un'altra.
Armin intuì che non avrei mai tentato di soffiargli la
ragazza
e, nelle settimane che seguirono, stringemmo persino, nella misura in
cui ci era possibile, una sorta di intesa molto ruvida. In effetti,
lo invidiavo, non tanto perché stava con Sara, ma
perché la loro storia sembrava tanto... serena, ecco. Tanto
solare, tanto naturale.
Erano insieme da un anno e mezzo, mi spiegarono.
Ogni venerdì e sabato sera uscivano insieme.
Ogni domenica Sara era a pranzo da Armin, o viceversa.
Qualche volta vestivano uguali, o quantomeno secondo il medesimo stile.
Avevano una compagnia in comune, frequentavano gli stessi corsi
all'università e, da qualche mese, il coro.
Sara dipingeva, per hobby. Olio, tempera, acquerello.
Guarda un po', una
giurista
pittrice, ricordo che pensai. Buffa combinazione.
Me lo confidò la
sera in cui partecipai alle prove del coro per la prima volta e io
notai gli sguardi sornioni che si scambiavano altri dei presenti, ma
non li compresi.
Le chiesi di mostrarmi qualcuno dei suoi dipinti e il suo viso si
illuminò di un'aria
d'importanza, nel rivelarmi che alcuni di essi, debitamente
scannerizzati, erano stati pubblicati da due o tre siti amatoriali. Mi
avrebbe fornito i link, aggiunse.
Mi ripromisi di guardarli, ma non lo feci. Me ne dimenticai. Studio
filosofia, io, e ho sempre guardato gli artisti un po' dall'alto in
basso, da bravo amante di Platone. Nel mio appartamento, inoltre, non
disponevo di una connessione Internet.
Ricordai solo l'espressione che Sara aveva assunto nel parlarmene:
quella di una bambina che si aspetta una lode.
Provai tenerezza per quell'autocompiacimento così ingenuo,
così palese. Voleva fare colpo, era chiaro come il sole.
Me la raffigurai bambina davvero, come doveva essere stata: con le
trecce e la gonna a pieghe e le scarpine di vernice con il cinturino,
un foglio da disegno davanti, un pastello a cera fra le dita e la
lingua fra i denti, intensamente concentrata a disegnare.
Mesi dopo, vidi una sua fotografia infantile, incorniciata
nell'ingresso dell'enorme appartamento dove viveva con i suoi, e rimasi
sconvolto per la somiglianza tra il quadretto che mi ero immaginato e
la realtà di quel ritratto.
Io ero innamorato di una ragazza di Belluno che avevo conosciuto
durante il vibrante mese di agosto di qualche anno prima.
Veniva a trascorrere le vacanze ad Agordo. Avevo avuto più
di una storia con lei, ma ogni volta sembrava non funzionare e lei mi
piantava; poi tornava a cercarmi ed io c'ero sempre. Non sarebbe esatto
affermare che le cadessi ai piedi: l'aspettavo, più
precisamente. Sapevo,
senza ombra di dubbio, che sarebbe tornata. Che mi amava. Che ero
l'uomo giusto per lei.
Tutti i miei amici di casa mi ripetevano di non fidarmi, che per lei
non ero altro che un flirt estivo, da riporre in cantina insieme con
l'attrezzatura da via ferrata appena si rientra in città,
eppure io non volevo crederlo.
Amavo Chiara, dicevo, e avevo il cuore spezzato, e invidiavo
disperatamente i miei due nuovi amici che si tenevano romanticamente
per mano nel cortile dell'oratorio dove provavamo per il coro. Mi ero
confidato con Armin, un giorno - Sara non c'era - e Armin era stato
così comprensivo... mi aveva offerto una birra e detto che
non valeva la pena di prendersela, fratello.
Nel frattempo avevo conosciuto anche altri coristi, alle prove, e mi
ero trovato bene in loro compagnia.
Mi spiego: io sono un solitario, da sempre.
Anche in montagna, vado da solo, o andavo con mio padre quando stava
bene.
Non ho mai avuto una compagnia vera e propria, da frequentare la sera.
Parecchie ragazze hanno lodato il mio aspetto o la mia presunta
intelligenza e hanno riso alle mie battute, ma Chiara è
stata il mio primo vero amore. Le altre mie storie sono
sempre state senza importanza.
Lontano da casa, a Milano, angustiato dalla malattia di mio padre,
preoccupato per la tesi di laurea che non riuscivo ad iniziare a
scrivere, tormentato dalle telefonate continue di mia madre,
frequentando uno scalcinato coro amatoriale, ebbi l'improvvisa e
inedita sensazione di aver trovato il mio posto nel mondo. Cantare mi
piaceva, gli esercizi per la voce che consigliava suor Maria erano
miracolosi, ma, soprattutto, erano splendide le persone con cui
cantavo. La loro amicizia mi avvolse senza pormi domande, con
semplicità: fin dalla prima sera, fui uno di loro. Il mio
vecchio conoscente Silvio ne fu molto soddisfatto.
Eravamo in parte studenti, in parte dottorandi, in parte lavoratori.
Diversi le origini, gli accenti, i cammini percorsi fin lì;
comune la voglia di stare insieme per
fare qualcosa. Era un incredibile crocevia di vite, quel
coro: vite giovani e meno giovani, facili e meno facili, ricche e
gioiose o aride.
Ricordo i due tenori, ad esempio, Tiziano e Christian: due pugliesi
sulla trentina, estroversi e dalla risata pronta, amici per la pelle,
rigoroso e intellettuale il primo, più scanzonato
e in perenne ritardo il secondo. Il primo tenore era, invece,
un ex-seminarista materese, di nome Vincenzo, etereo e taciturno, molto
amico di Tizzi e Chris.
Il primo soprano era Genovina, una siciliana
solare, bruna e ricciuta, che si faceva chiamare Genny pur non
vergognandosi affatto del suo desueto nome di battesimo. La sua
migliore amica era un altro soprano, Daniela, naso all'insù
e mani da fata, una pessimista cosmica dall'ironia tagliente; dal
momento che entrambe studiavano filosofia e condividevano un minuscolo
appartamento nella periferia nord della città, le prendevamo
in giro rivolgendoci a loro come a una consolidata coppia di sposi, le
cui affinità e le cui differenze si combinavano in un
insieme quanto mai armonico, esattamente come le loro voci, purissime e
splendidamente educate. Ascoltarle discutere era divertente come
assistere a una serata di cabaret...
Alessandra era già oltre il giro di boa della quarantina e
ci faceva un po' da mamma; suonava l'organo, ci teneva in ordine le
divise che sfoggiavamo nelle serate di spettacolo e ci raccontava
spesso dell'ex-marito e del loro bambino. Era bravissima ad imitare
Rosy Bindi, aiutata in questo anche da una certa naturale somiglianza
fisica.
Paoletta era contralto e insegnava ballo latinoamericano: milanese,
molto rotonda,
tutt'altro che bella nonostante gli stupendi occhi azzurri,
bisognava vederla muoversi a tempo di musica, o ascoltarla ridere, per
rimanerne completamente conquistati. Era innamorata di Chris, proprio
come l'elegante Clara, il primo mezzosoprano, ma Chris non propendeva
per nessuna delle due,
pur uscendo spesso con entrambe.
Non ho mai avuto una grande simpatia
per Chris, a essere sincero, perché sono diventato subito
molto amico delle sue maltrattate corteggiatrici e mi sono sempre
chiesto come un tizio così insignificante potesse aver preso
il cuore di due ragazze tanto incantevoli.
A mio avviso, Paoletta
sarebbe
stata perfetta, per lui... Clara era - è - troppo al di
sopra. Di lui e di tutti noi.
Poi, tra gli altri, c'era Enzo, baritono, single,
oltre la trentina e loquace ai limiti della logorrea, tanto che
dicevamo tacesse solo mentre cantava; oltre la trentina erano anche
altre due amiche siciliane che lavoravano in un McDonald's del centro e
abitavano insieme in un monolocale sui Navigli - anche queste erano
l'una l'opposto dell'altra e come facessero ad andare d'accordo era un
vero mistero: Piera sembrava un tipo cupo e aveva fama di mangiauomini,
mentre Edda era, viceversa, simpaticissima e fidanzata fedele da anni.
Suor Maria dirigeva le prove e ci teneva uniti; era, senza tante
parole, il centro d'attrazione di tutto il gruppo.
E' una donna piccola, sulla sessantina, sempre sorridente.
Intelligente, sensibile e coltissima.
Il genere di interlocutrice che ispira fiducia.
Il mio primo incontro con lei, tuttavia, non mi colpì poi
molto:
volevo entrare in quel coro, sapevo già che era una brava
maestra, e forse fu questa la ragione per cui non le prestai molta
attenzione.
Se qualcuno mi avesse chiesto perché fossi così
attratto
da quell'ambiente, avrei avuto almeno una dozzina di valide risposte da
offrire.
Volevo coltivare un interesse insolito, che mi tenesse legato a Milano
e mi impedisse di pensare troppo a Chiara che mi sfuggiva, o a mio
padre che non guariva.
Volevo riguadagnare la confidenza di Silvio, che si era allentata con
gli anni.
Volevo approfondire il rapporto con quelle persone così
vivaci e stimolanti.
In particolare, l'avrei confessato senza la minima remora, volevo
conoscere meglio Armin e Sara.
Saremmo potuti diventare davvero ottimi amici, noi tre...
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=285520
|