Dryagan - La forza del Drago

di ame tsuki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Due anime separate ***
Capitolo 2: *** Elmouth ***



Capitolo 1
*** Due anime separate ***


 
Dryagan - La forza del Drago
 
- Due anime separate -
 
 
 
«No!»
Il grido riecheggiò fra i tronchi degli alberi, disperdendosi vibrando per tutto l’accampamento.
La giovane Korel avrebbe di sicuro svegliato l’intera Tribù, se non fossero già stati tutti in piedi dall’alba. Per lei.
La cosa la irritava più di quanto fosse consono per le regole che si era auto imposta di rispettare, ma quello era veramente troppo! Come potevano pretendere che lei si vendesse in quel modo a uno stupido, arrogante principe che nemmeno conosceva o aveva mai avuto il disonore di incontrare?
«Non fare la bambina, Korel!» la rimproverò suo padre, con un cipiglio severo e indispettito sul volto.
La ragazza si morse il labbro, trattenendosi a stento dal rispondere che, in fondo, era ancora una bambina. Diciassette anni erano troppo pochi per sposarsi, gliel’avevano sempre detto.
In effetti, quel matrimonio andava proprio contro tutti i principi che avevano cercato di insegnarle nei suoi anni di vita. Che fine avevano fatto tutti i discorsi sul trovare qualcuno per cui provasse dei sentimenti veri, aspettare di essere veramente pronta e, soprattutto, innamorarsi di qualcuno del suo Popolo?
Tutto andato in fumo, come se fosse stato aria fritta, davanti all’evidentemente impellente necessità di stringere alleanza con il Clan Sovrano.
Le cose a Orendyl non erano migliorate da quando la precedente regina era stata rapita dal Popolo del Mare. In realtà, girava voce che fosse proprio scappata ed era solo per questo motivo che non era ancora scoppiata una guerra. Ma, ora più che mai, occorreva la collaborazione tra i Popoli e il Clan. Il primo e più importante ostacolo da superare era proprio l’enorme diversità tra il Popolo della Foresta, quello al quale apparteneva Korel, e il Clan che regnava su tutta la terra di Orendyl.
E quale miglior modo di creare un legame se non attraverso il matrimonio tra la figlia del capo delle Tribù e il principe, unico ereditario del Clan?
Peccato che Korel proprio non volesse sposarlo.
«Non ho intenzione di farlo!» urlò la ragazza per l’ennesima volta, con le sopracciglia scure talmente ravvicinate da sembrare unite. Indossava ancora i suoi abiti di pelle, quelli di sempre, e non li avrebbe abbandonati per nessun motivo al mondo. Così come il pugnale che stringeva spasmodicamente nella mano sinistra.
«Korel, cerca di ragionare» continuò il padre esasperato, tentando per l’ennesima volta di riprendersi l’arma alla quale la figlia si aggrappava con così tanta insistenza. Non che temesse per la sua incolumità – Korel non avrebbe mai osato ferirlo in nessun modo – ma vederla gesticolare furiosamente con una lama tagliente in mano lo costringeva a sobbalzare ogni tre secondi, facendogli perdere il filo del discorso.
«Non si tratta di ragionare, padre. Si tratta della mia vita!» continuò la giovane, questa volta con un tono molto più calmo ma molto più allarmante. Khur poteva leggere una tristezza mai provata prima negli occhi viola della figlia ma, anche se desiderava con tutto il cuore alleviare quella sofferenza, non aveva il potere di farlo. Quell’alleanza era molto più importante della felicità – e libertà – della figlia.
Perciò, con un groppo alla gola, si costrinse a indurire il cuore e i lineamenti del volto.
«Prepara la tua roba, non voglio fare tardi» ordinò perentorio, prima di uscire dalla tenda, ignorando totalmente le ulteriori proteste della sua bambina.
 
Tutto era pronto. Korel non immaginava che quel giorno sarebbe arrivato davvero, né che sarebbe arrivato così presto. Eppure eccola lì, con gli occhi rossi e gonfi di quelle lacrime che si era appena asciugata e il cuore ridotto a un guscio vuoto, in attesa di polverizzarsi quando suo padre avrebbe dato il via alla spedizione.
Lei lo attendeva quasi spossata, sul cavallo che il Clan Sovrano aveva inviato loro assieme a una decina di guardie per scortare la futura principessa. Al solo pensiero di cosa sarebbe diventata da lì a pochi giorni, Korel sentiva salire un conato di vomito.
Si mosse sulla sella incredibilmente scomoda – era abituata a cavalcare senza, lei! – per evitare di tradurre in pratica quella che era solo un’eventualità. Certo, aveva il colorito pallido tipico di una persona in procinto di svenire, ma non era il caso di fare figuracce davanti a quei soldati impettiti che la scrutavano da capo a piedi. E non voleva far vergognare suo padre.
Ma poi il cavallo si mosse inaspettatamente e lei non fu più in grado di trattenere le emozioni. Le esplosero in petto tutte in un colpo, irradiandosi per il resto del corpo come per farsi sentire meglio, come se volessero urlare tutto il dolore assieme a lei. Voltò la testa all’indietro, facendo ricadere una ciocca di capelli lunghi e neri come la notte oltre la sua spalla destra. Voltò la testa all’indietro per osservare per l’ultima volta la sua Tribù. Voltò la testa all’indietro, cercando di marchiare a fuoco nella sua mente l’ultima immagine di tutto quello che era stata.
Osservò la sua tenda, coperta di pelli come quelle degli altri. La stessa tenda che l’aveva vista nascere fra il sudore e le urla di sua madre e l’ansia di suo padre. La stessa tenda che l’aveva accolta nelle notti dei gelidi inverni, riscaldandole il cuore persino quando aveva perso sua mamma. La stessa tenda che l’aveva vista giocare, correre, crescere, parlare, ridere, piangere, arrabbiarsi, dormire, diventare quella che era adesso.
Il fuoco, come al solito, scoppiettava davanti al suo ingresso, producendo un fumo leggero che si alzava verso il cielo. Libero come lo era lei prima di quel giorno.
Dei bambini giocavano con figure di legno intagliate, ignari di ciò che stava succedendo a lei o al loro Popolo. Ignari dell’importanza e della tragedia di quel giorno.
Alcuni dei suoi fratelli la guardavano a distanza, ricambiando la sua attenzione con sguardi commossi e riconoscenti. Nessuno di loro la conosceva bene ma tutti erano riusciti a capire quanto le stesse costando questo sacrificio, anche senza sapere cosa nascondesse veramente nel cuore.
A ogni passo del cavallo, sentiva l’aria farsi più pesante, come se l’impatto tra lo zoccolo e il terreno la rendesse gradualmente meno facile da respirare. A ogni passo sentiva scivolare via una parte di sé, a ogni passo scappava un ricordo per non tornare più, a ogni passo il suo passato diventava sempre più lontano e inafferrabile.
Si chiese quando avrebbe mai rivisto quei volti, quando sarebbe tornata a distendersi su un letto di pelliccia calda dopo una giornata passata a cacciare, quando sarebbe riuscita ad essere di nuovo se stessa.
Fu nel darsi un inesorabile “Mai” come risposta e nel rendersi conto di stare vedendo tutto sfocato che si accorse che stava piangendo. Di nuovo.

 
 
 
———————
 
N.d.A.
Ok, io non so come sia, né perché abbia deciso di pubblicare qui questa storia. Forse è solo un esperimento (mal riuscito) per l'inizio di qualcosa o, forse, questo racconto rimarrà qui a impolverarsi dimenticato persino da me. So, però, che per ora sono ispirata e, quindi, ho deciso di provare a mettermi in gioco, per vedere se le mie idee possono essere apprezzate da qualcuno che sia esterno e che veda le cose in modo oggettivo. Sono propensa alle critiche, quindi, basta che non siano troppo nude e crude XD Sono una fanciulla sensibile, io u.u
Detto ciò, contavo anche di allungare questo capitolo ma, come introduzione, alla fine mi sono accorta che va bene così. Probabilmente il prossimo sarà di qualche riga in più, anche se non so quando avrò il tempo di metterlo giù.
Detto questo, spero che la storia vi abbia se non altro incuriositi e vi ringrazio in anticipo per un eventuale commento u.u
A presto, spero.

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Capitolo 2
*** Elmouth ***


Dryagan – La forza del Drago
 
- Elmouth -
 
 


 
Nel cuore di Orendyl, intanto, il giovane principe di appena vent’anni osservava la città di Teawa riprendere il suo ritmo frenetico. Era da poco passata l’alba e già il Popolino che viveva vicino al Castello era impegnato nelle attività di tutti i giorni. Michael, il futuro sovrano di tutta la terra di Orendyl, fissava affascinato dall’alto della sua finestra la loro vita semplice, priva di responsabilità e decisamente felice. Pensava di invidiarli veramente. Non con quell’invidia che corrode l’animo e spinge a compiere azioni deplorevoli ma con l’invidia che spinge il cuore a sospirare, a desiderare la vita di qualcun altro senza rovinargliela.
Il giovane principe non era mai stato contento di essere un principe. Era cresciuto con tutto quello che volesse, abituato all’idea di vedere ogni desiderio esaudito nel minor tempo possibile e con la migliore delle qualità. Ma non bastava. Michael non voleva nient’altro se non essere un mugnaio qualunque o una lavandaia o un giocattolaio o un contadino o un servo. Persino lo scemo del villaggio gli suscitava quel desiderio di scambiare vita, di poter esistere semplicemente, senza dover compiere grandi azioni, senza dover decidere delle sorti di Orendyl.
O, almeno, questo era quello che doveva far credere agli altri. Come principe ereditario ci si aspettava da lui un tale comportamento: un odio profondo per lo sfarzo, una voglia di semplicità, un desiderio di assomigliare al resto del proprio Popolo. In realtà, a lui andava benissimo essere di famiglia reale. L’unica nota negativa era sicuramente l’immane mole di responsabilità – essendo Orendyl un regno vasto – ma ne valeva la pena, se significava ottenere una qualità di vita praticamente pari a quella degli Stregoni. Certo, senza magia, ma con tutta la possibilità di ottenerla. Le vite del Popolino erano affascinanti; Michael si divertiva ad osservarli trafficare nella loro vita di tutti i giorni. Ammirava affascinato le donne che, con i secchi in testa, trasportavano l’acqua dal pozzo per portarla nelle proprie case ma preferiva averla direttamente nel proprio bagno. Guardava curioso i contadini che sotto il sole si asciugavano la fronte con un fazzoletto, soddisfatti del proprio lavoro, ma preferiva sudare tirando di spada. Esaminava attento il lavoro minuzioso del falegname ma preferiva mantenere la concentrazione su un bel libro, piuttosto che riempirsi le mani di schegge.
 
Con un sorriso sulle labbra, Michael spostò lo sguardo sul terreno circostante, abbandonando le vite degli altri e tornando alla sua.
Dalla finestra della sua stanza poteva vedere le case del Popolino protette dalle mura del Castello e quelle fuori, in mezzo ai pochi campi di riso di Teawa. Il fiume che passava sfiorando il perimetro del Castello e – di fatto – proteggendone il lato Porpora* – lì dove sorgeva il sole, al di là delle scogliere di Skogur – era nascosto ai suoi occhi ma ne poteva comunque sentire il canto melodioso, lo scorrere lento del suo corso giù, verso Bianco, fino al mare di Bahari.
Due colpi secchi alla porta di legno della sua camera lo distolsero dal pensiero che, un giorno, tutto quello sarebbe stato suo, facendogli svanire temporaneamente il sorriso che quell’elucubrazione gli aveva provocato.
«Chi è?» chiese con voce annoiata, conoscendo già la risposta che sarebbe arrivata.
«Una sorpresa!» rispose convinta la voce femminile dall’altro lato del muro.
“Appunto”, pensò Michael andando a passo spedito verso la porta, per aprire a sua madre. Qiral si divertiva sempre a pensare di poter essere una bambina che andava in giro a sorprendere le persone ogni volta che ci parlava, anche se ormai era diventata una routine per chiunque venire acciuffati di soppiatto da una mano spuntata fuori da un arazzo in mezzo a un corridoio. Michael ci aveva fatto così tanto l’abitudine che non sussultava più nemmeno quando la madre spuntava da sotto un tavolo mentre il figlio era assorto nella lettura di uno dei tanti libri contenuti nella biblioteca del Castello.
In fondo, bussare forte alla porta mentre il principe guardava fuori da una finestra era il livello zero di “sorpresa”.
«Gli Stregoni ti vogliono vedere» annunciò la madre battendo le mani e facendo scontrare i numerosi anelli tra di loro. Michael era convinto che Qiral ne tenesse così tanti solo per fare più rumore possibile.
Annuendo, il principe si congedò dalla regina, non prima di aver ricevuto la sorpresa del momento – un abbraccio stritolante –, per recarsi nell’ala del Castello dove vivevano Eldur e Brann, i due Stregoni.
A Orendyl vivevano cinque Popoli: quello controllato direttamente dal Clan Sovrano, il Popolino, quello del Mare, quello della Foresta, quello della Roccia e quello della Montagna – il Popolo dei reietti e degli anziani, gli unici che non erano più sotto il controllo e la legge del Clan Sovrano. Ogni Popolo possedeva, come salvatori e protettori, due Stregoni – tranne quello della Montagna, che ne aveva solo uno – in grado, uno, di controllare un elemento, l’altro di supportarlo con poteri ad esso legati.
Gli Stregoni che vivevano a Teawa controllavano il fuoco. Eldur era la stregona in grado di dominare l’elemento, Brann forgiava grazie ad esso armi in grado di fare praticamente qualunque cosa: armi magiche.
Michael aveva sempre pensato che, fra tutti e nove gli Stregoni, i suoi fossero i migliori.
O, sicuramente, i più pazzi.
 
«Abbiamo una cosa per voi, maestà» esordì Eldur ancora prima che Michael potesse bussare alla porta, aprendola lei stessa. Il principe abbassò sconsolato la mano già chiusa a pugno, pronta a colpire il legno per farsi annunciare, ed entrò nella stanza con un sospiro. Quell’ala era l’unica che si discordava dall’arredamento austero del resto del Castello. Era sorprendentemente semplice, con letti senza baldacchino, mobili in legno non levigato e tende piene di buchi e bruciature. Ma ovunque regnava la presenza di libri: polverosi, mangiucchiati, ruvidi, nuovi, incomprensibili, sparpagliati, rotti, riparati, con copertine di stoffa o senza, poggiati senza un ordine preciso sul pavimento o impilati in enormi scaffali che salivano fino all’alto soffitto decorato da fiamme. Erano dappertutto, persino su entrambi i letti della camera dove era entrato Michael. Di quell’ala, l’unica stanza che si salvava dall’invasione selvaggia della cultura magica era la fucina di Brann ma anche lì regnava il caos. L’unica differenza era che era creato da armi e non da libri.
Il principe scavalcò varie pile – di cui alcune persino cadute e mai raccolte – di pesanti tomi impolverati per avvicinarsi alla poltrona dove, apparentemente, sonnecchiava lo stregone, indicato precedentemente dalla sua “amica” Eldur.
«In realtà lui ha una cosa per voi – disse la stregona – Io ho solo dato un’occhiata».
Brann sollevò una palpebra, rivelando il verde scuro dell’iride. Era molto diverso da Eldur, sia per l’aspetto fisico sia per il carattere. Entrambi avevano una folta criniera di capelli rosso fuoco, intricati e ribelli, ma Eldur vantava occhi color nocciola e un fisico paffuto ma con le curve al posto giusto, mentre Brann aveva un fisico esile e dinoccolato, totalmente diverso da quello dei normali fabbri. Caratterialmente, la prima era irascibile e scoppiettante come il fuoco, il secondo, invece, calmo e pacato con tutti tranne che con lei. I due, in verità, non erano mai andati d’accordo e non facevano altro che battibeccare tutto il giorno, esasperando qualunque mortale li stesse a sentire. Michael si chiedeva sempre come facessero a non avere voglia di trovare un modo per suicidarsi, anche se non avrebbero potuto farlo. Tutti gli Stregoni erano praticamente immortali, a meno che non avessero un figlio.
Ma, evidentemente, ai due andava bene così.
«Un’occhiata senza permesso» puntualizzò Brann con una smorfia, guardando male Eldur. La stregona, per tutta risposta, incrociò le braccia al petto sotto il seno prosperoso e sollevò un sopracciglio, sbattendo la punta del piede sulle assi in legno del pavimento.
«Ero curiosa» si giustificò con un cipiglio.
«Lo sei sempre troppo – rispose l’altro, imitandone la posa – Non ti fai mai gli affari tuoi, maledetta stregaccia».
La bocca della “stregaccia” si spalancò in una perfetta “O” contrariata, sottolineata dal rumore di aria inspirata velocemente e con prepotenza, come se le servisse più ossigeno per assimilare l’offesa.
«Questa è nuova, foggia-armi della malora» strillò lei, alzando una mano in fiamme – letteralmente –, pronta a scagliarle verso l’uomo.
«Ora basta!» tuonò il principe, riportando all’ordine i due Stregoni evidentemente fuori controllo.
«Scusate, maestà, ma Eldur è impetuosa come l’elemento che controlla» commentò spazientito Brann, lanciando un’ultima occhiataccia alla donna, prima di concentrarsi su Michael. Eldur non poté fare altro che mordersi forte il labbro e tacere per non mancare di rispetto. Nonostante gli Stregoni godessero di un potere come la magia, era il re – il padre di Michael – a governare il regno di Orendyl.
Il giovane principe liquidò le scuse con un veloce gesto della mano, come a voler scacciare una mosca fastidiosa, e si rivolse allo stregone.
«Cosa dovete mostrarmi?» chiese nascondendo male una certa curiosità crescente.
Brann si alzò dalla poltrona, sorridendo, e si diresse verso un tavolo poggiato contro al muro di fronte alla porta, anch’esso zeppo di libri. Da quel groviglio di pagine, tirò fuori un oggetto lungo, avvolto in un panno di tessuto bordeaux.
«Questa, mio signore» annunciò, srotolando la custodia per rivelare una spada a doppio filo dalla manica in bronzo, decorata ai lati da rubini rosso fuoco. La guardia era semplice e non troppo sviluppata, sempre in bronzo, mentre il pomolo era grande e modellato come lo stemma del Clan Sovrano: due ali di drago unite tra di loro. Un tempo, in un passato oscuro che nemmeno gli Stregoni ricordavano più, la famiglia di Michael era stata in grado di controllare gli enormi draghi che si stagliavano sul cielo di Orendyl. Ma ormai erano diverse centinaia di anni che non si vedeva più un esemplare del genere, tanto che si credeva appartenessero solamente alla leggenda. Lo stemma, però, non era cambiato.
Michael si avvicinò cauto, rapito da una tale meraviglia. L’acciaio che lo stregone stesso creava e modellava a suo piacimento aveva un filo perfetto, capace di tagliare in due un capello lasciato cadere. La scanalatura al centro della lama recava il suo nome, sancendo la sua esclusiva proprietà.
«È bellissima» mormorò il principe con voce roca, allungando la mano per sfiorare la superficie liscia della sua nuova arma, come per paura che, toccandola solo un po’ di più, potesse svanire da un momento all’altro.
«Su, maestà, non piangete» lo canzonò Eldur, ripresasi dalla precedente sconfitta.
Michael si lasciò sfuggire una smorfia che assomigliava a un sorriso e, finalmente, ebbe il coraggio di prendere la spada dall’elsa, per saggiarne il peso e il bilanciamento. La lama splendeva talmente tanto che, dentro, vide il riflesso di se stesso: un biondo principe estasiato, con le labbra carnose leggermente socchiuse per la sorpresa e gli occhi verde smeraldo pieni di stupore e riconoscenza.
Che questo fosse il giorno più bello della sua vita? Certo, di armi ne aveva tante e, ogni giorno, ne arrivavano altre dal Popolo della Roccia, di ottima fattura.
Ma quella! Quella non era una spada d’armi qualsiasi. Quella era una delle armi di Brann. Una delle poche armi magiche che solo alcuni si potevano permettere, dopo enormi sacrifici. Quel tipo di arma bisognava guadagnarsela. E non bastavano i soldi. Chiunque, volendo, poteva permettersela. Persino lo scemo del villaggio. Il punto era riuscire a superare una prova che Brann proponeva a qualsiasi persona gli chiedesse un’arma: una prova di coraggio, lealtà, intelligenza e prontezza di spirito che solo in pochissimi avevano superato nel corso degli anni. Nemmeno suo padre, Re Kanungur, l’aveva superata.
«Perché mi fate un regalo del genere?» chiese il ragazzo, con gli occhi ancora fissi sulla sua nuova migliore amica.
«Perché vi siete dimostrato un degno futuro sovrano. Avete superato la prova, anche senza sapere di esserci dentro» rispose Brann, scrollando le spalle e sorridendogli.
Michael rimase senza parole, troppo sconvolto per potersi sciogliere la lingua. In questo caso, il silenzio prese il posto del miglior “Grazie”.
«Consideratelo un regalo di nozze anticipato» continuò lo stregone con un occhiolino.
Con queste parole, finalmente, il principe riprese il controllo di sé. Riappoggiò la spada sul tavolo, afferrando il fodero per custodirla al suo interno e per legarsi il tutto alla cintura. Sorrise soddisfatto una volta finito il lavoro. Ora si sentiva completo.
«Non mi hai ancora detto che poteri ha, però» fece notare il giovane, smettendo di rimirarsi il fianco sinistro come in estasi.
«È una spada normale finché vorrete che sia normale – iniziò Brann – Ma quando attiverete la sua magia, esprimendo il vostro volere col pensiero, potrete bruciare vivo chiunque sia mai stato ferito da questa lama, anche a distanza di anni, anche se la ferita non c’è più. Vi basterà attivare la spada e pronunciare il nome di chi volete eliminare e delle fiamme inestinguibili faranno il resto».
Lo stregone aspettò che la nuova ondata di stupore invadesse i bei lineamenti del principe per aggiungere, poi, ancora un dettaglio.
«Le manca un nome».
Michael tirò fuori la spada dal fodero ancora una volta, osservandola come sotto un incantesimo. Il potere che sprigionava si poteva persino respirare: Michael se ne sentiva i polmoni e il cervello inebriati. Persino il cuore pareva battesse per lei, per quell’arma che aveva il potere di fargli vincere qualunque battaglia con una sola, semplice ferita.
«Elmouth – sospirò – La chiamerò Elmouth, come la Dea Morte».


 
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N.d.A.
*Porpora sarebbe l'Est. Mi sono ispirata all'usanza dei Celti di indicare i punti cardinali con dei colori al posto dei comuni Nord, Est, Sud e Ovest. Per maggiore chiarezza, vi allego una bussola che ho fatto io stessa con paint (quindi scusate la scarsa qualità XD).



E, quindi, eccoci con un nuovo capitolo! Se questa storia dovesse essere un libro, avrei unito il primo e il secondo capitolo in uno unico... Ma siccome non lo è (almeno, non ancora XD), ho deciso di lasciare così. Se c'è qualcosa di poco chiaro, un errore, una svista, una cosa schifosa, fatemelo notare u.u
A presto!

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