Leon alternative ediction

di clif
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** extra ***



Capitolo 1
*** prologo ***


Ricordo nuovamente che io non ne sono a tutti gli effetti l'autore: ho solo chiesto il permesso al vero scrittore (Leonhard) di poter rideare la storia da un'altro punto di vista; detto questo buona lettura.


Salve a tutti. Mi chiamo Leon Kauffman, ho nove anni e vado alle elementari. Vivo da poco in una piccola cittadina di nome Silent Hill, mi sono trasferito non più di tre mesi fa dalla città accanto: Brahams. Un po’ mi è dispiaciuto partire, avevo molti amici lì, alcuni dei quali conoscevo da sempre; quando lo dissi a mio padre, lui mi rispose che gli dispiaceva ma non mi sarei dovuto preoccupare perché un bambino con il cuore d’oro come me ne avrebbe trovati molti altri.

Un'altra cosa che non vi ho detto di me è che sono Albino; inizialmente lo vedevo come una sorta di differenza negativa rispetto agli altri: tutti i miei compagni erano castani con gli occhi scuri, le uniche eccezioni erano qualche occhio azzurro o qualche biondino ma nulla di più.

Nei primi anni di scuola venni denigrato, o forse fui io stesso a denigrarmi per paura delle reazioni degli altri bambini nel vedermi. Anche quella volta ci pensò mio padre a salvarmi da quell’inquietudine: quando mi vide per l’ennesima volta giù di morale nella mia cameretta mi chiese cosa avessi e io gli risposi

Lui, cercò prima di convincermi che non avevo nulla di diverso dagli altri bambini ma senza risultati; così fece una cosa che non aveva mai fatto prima d’ora, andò nel suo studio e prese una foto che non avevo mai visto prima di allora, vi era ritratta una bellissima donna albina come me

Disse che era mia madre

Non avevo mai visto una sua foto, lei era morta quando io ero molto piccolo e mio padre, per il dolore aveva buttato tutte le sue foto: non sapevo ne conservasse ancora una. Mi rivelò che il suo ultimo desiderio prima di morire fosse vedermi crescere forte e sano: ma soprattutto felice e con amici sinceri. Quelle rivelazioni cominciarono a farmi vedere l’albinismo come un dono che mi differenziava dagli altri e non più come una cosa che mi rendeva inferiore.

Da quel giorno il mio carattere cambiò e anche il mio comportamento con i compagni

Scoprii che loro non mi trovavano affatto strano, ero stato io ed il mio comportamento a non dare loro la possibilità di conoscermi. Da quel momento non passò giorno in cui io non mi trovavo in compagnia; Questo rese felice mio padre soprattutto perché non poteva starmi sempre accanto, vista la sua professione di medico.

Un giorno gli chiesi se potevo tenere la foto di mamma

Comprese il mio bisogno, così accettò. Ogni tanto quando ne sentivo la mancanza tiravo fuori la foto e mi mettevo a guardarla, anche per delle ore. Era bellissima e anche molto giovane, non avrà avuto neanche trent’anni; aveva dei bellissimi occhi chiarissimi e uno splendido sorriso

Forse era per via di questa loro somiglianza che mi affezionai subito a Lei

avrete capito che fu molto difficile per me lasciare tutto, ma devo dirvi che non mi sono affatto pentito delle mie scelte anche se Silent Hill è un po’ più spettrale di Brahams e la gente che vi abita è una massa di ottusi: termine usato da mio padre; un motivo con il vestito viola e gli occhi blu mi sta convincendo a restare. L’unico problema è che nessuno convince mio padre

la settimana scorsa mi ha avvertito che in breve ci trasferiremo a Portland

Ho fatto di tutto per convincerlo a cambiare idea, ma quando tirò in ballo il suo lavoro capii che era tempo perso. La cosa che mi faceva star più male era il fatto che non ne avevo parlato neanche parlato con Lei…Alessa

Ognuno aveva soltanto l’altro in quel posto e non avrei mai avuto il coraggio di guardarla negli occhi e dirglielo. Probabilmente mio padre si preoccupò per la mia inquietudine tanto che decise di accettare la mia seconda richiesta: avrebbe proposto alla signora Gillespie di trasferirsi con noi a Portland; avevo incontrato la mamma di Alessa solo poche volte ma aveva visto che era una donna giudiziosa e per il bene della figlia avrebbe fatto di tutto.

Giungemmo così alla conclusione di parlare con entrambe il giorno dopo sperando in una risposta positiva; papà mi aveva però avvertito che in ogni caso saremmo partiti fra una settimana. Intendevo parlarne con Alessa oggi stesso ma mi aveva spiegato che doveva andare con la madre e con la zia ad una specie di rito: non avevo capito molto bene a cosa si riferisse ma mi aveva spiegato che con quello avrebbe avuto molti amici, quando lo disse ero tentato di convincerla a rifiutare perché mi sembrava una cosa sospetta ma sarei stato un egoista che la voleva tenere solo per se, così decisi di assecondarla

Dopotutto cosa poteva succedere di tanto grave?

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Capitolo 2
*** capitolo 2 ***


2.
La macchina sfrecciava sulle strade della cupa cittadina, mentre Leon guardava fuori dal finestrino; a detta sua stavano andando troppo veloci, in fondo lo avevano informato che si doveva presentare un’ora dopo l’orario di lezione, cioè alle nove.

Avrebbe ricominciato tutto d’accapo

Ne aveva già parlato con il padre il quale credeva di averlo convinto che quella era la cosa più giusta da fare: da un po’ di tempo il padre era stato trasferito dalla clinica di Brahams alla clinica Alchemilla, aveva tentato di non influenzare la vita del figlio, ma la fatica del viaggio era diventata insostenibile, così a malincuore aveva deciso di trasferirsi insieme a Leon direttamente a Silent Hill.

Anche in quel momento il padre era al lavoro, stava guidando il suo assistente: Stanley Coleman

Per Leon non era facile avere un padre così assente, ma capiva che aveva delle responsabilità molto serie, perciò non glie ne aveva mai fatto menzione: per non farlo sentire in colpa.
Come pensava, arrivarono con un anticipo di mezz’ora

Il padre diceva sempre: meglio aspettare che far aspettare. Coleman e Leon andarono nell’ufficio della preside: era una donna strana, con folti capelli castani, dei profondi occhi azzurri e un sorriso glaciale; sembrava quasi emanare un energia  mistica. “Tu sei il figlio del dottore, il nuovo arrivato…” Fu colto impreparato, era stato tanto ipnotizzato da quella donna che non aveva sentito neanche una parola di ciò che aveva detto.

“Si! Esattamente… siamo qui per ritirare i moduli” Fortunatamente Coleman aveva risposto al posto suo. La donna non fece una piega, prese un foglio e una penna dal cassetto e li consegno all’uomo mentre a Leon rivolse un sorriso calcolato “Vai pure: seconda stanza a sinistra del primo piano”. Leon salutò Coleman e la donna e si diresse verso la sua nuova classe

Non era mai successo che una persona gli mettesse tanta soggezione: senza contare che quello era il primo abitante della città che aveva incontrato. Senza rendersene conto aveva raggiunto l’aula; senza indugio bussò alla porta, a rispondere fu la voce calma della donna, ma a differenza di quella della preside questa fu… come dire? calda
Appena entrato in aula si ritrovò gli occhi di una ventina di bambini puntati addosso

“Bambini, questo è Leon” lo presentò la professoressa. “Si è trasferito qui da Brahams l'altroieri. Mi raccomando, cercate di andare d'accordo. (oh Cielo! Sicuramente stanno notando che sono strano, devo riderci sopra). A quel punto rivolse un sorriso alla classe.
 
“Sono solo albino” disse. “Non preoccupatevi, non mi tingo i capelli”. Un coro di risate aleggiò per l’aula, Leon tirò un sospiro di sollievo
 
“Bene, Leon” disse la maestra. “Cercati pure un posto”. Il bambino fece vagare lo sguardo per l'aula, finché non vide un posto vuoto accanto ad una bambina minuta.
 
“Mi siedo là” disse, indicandola. La classe diversamente da prima, piombò in un rigido silenzio. Lui non ci fece caso e si sedette accanto alla bambina

Leon si volse verso di lei, la guardò per qualche secondo, poi le sorrise; la bambina in risposta al suo saluto agitò la mano e tornò a rivolgere l'attenzione alla professoressa. Leon rimase a guardarla ancora per qualche secondo: gli ricordava per qualche strano motivo sua madre, non era l’aspetto ma qualcos’altro… Notò che la sua nuova compagna sembrava a disagio così si girò davanti e iniziò a seguire la lezione.

Fu molto difficile per lui capire la spiegazione della professoressa; era troppo incuriosito da quella piccola bambina. Si accorse che voleva prendere qualcosa nel sotto banco, alzò così le braccia per permetterle di farlo; quando lo richiuse notò che aveva preso un astuccio tutto strappato e una penna: una delle poche rimaste integre da quello che aveva potuto notare.

La guardò un attimo in faccia e vide che aveva lo sguardo spento, quasi si dovesse mettere a piangere; pensò che fosse per via dell’astuccio (forse ci teneva molto), alzò anche lui il sotto banco per poter prendere qualche pezzo di carta e le scrisse un messaggio
-Non sei molto socievole o sbaglio?-
Cercando di non farsi vedere da nessuno, ripiegò il foglio e lo lanciò nella direzione della bambina. Dapprima sembrò non capire ma quando lo aprì fece una faccia stranissima, prese la penna e si mise a scrivere la risposta

-Sono solo un po’ timida. Scusami- Conosceva fin troppo bene quella sensazione, forse fu per quello che la prese subito in simpatia, in effetti pensò che non sapeva ancora il suo nome
-Tranquilla: non è un male essere timidi. Allora, come ti chiami?-

Guardò nuovamente in direzione della professoressa, per controllare che fosse distratta e passò il biglietto alla sua timida compagna; lei si mise a guardare un attimo il biglietto: a Leon sembrò titubante ma poi scrisse la risposta

-Alessa Gillespie- gli sembrò un nome un po’ buffo, ma non sarebbe stato educato farlo notare, pensò quindi di rispondere soltanto con le presentazioni -Piacere di conoscerti, Alessa Gillespie. Leon Kauffman-.

La bambina ricominciò a scrivere sul foglietto ma si interruppe e lo andò a buttare: Immediatamente, fu bombardata da cartacce, penne e gomme finché non si sedette nuovamente al suo posto. Si chinò nuovamente sul quaderno e, fingendo di non sentire i rumorosi sussurri di scherno dei suoi compagni, si mise a disegnare. Leon non riuscì a capire il comportamento dei suoi compagni
(perché lo avevano fatto?)

Era rimasto un po’ irritato dal comportamento dei compagni ma era rimasto anche incuriosito da quello che Alessa aveva scritto sul foglio; chiese il permesso di andare in bagno e mentre passava accanto al secchio, senza farsi notare, raccolse il biglietto e si diresse nel corridoio. Raggiunse il bagno per poterlo leggere in pace ma vi trovò un uomo dallo sguardo truce: doveva essere il bidello. Lo guardò per una frazione di secondo con due occhi di ghiaccio poi uscì (certo che sono strani qui), prese il biglietto dalla tasca e lo aprì

-Senti, posso chiederti di diventare mio amico?-

Appena letto sul volto del bambino comparve un piccolo sorriso: neanche lui sapeva precisamente perché, ma sapeva per certo quale era la sua risposta. Dopo essere ritornato in classe tornò al suo posto e fissò un attimo la sua compagna; non aprirono bocca fino alla campanella.

Quando l’intervallo finì, Alessa fece per alzarsi. Il bambino, tuttavia, fu più veloce: si mise davanti a lei, impedendole di muoversi. Le sorrise.
 
“Volentieri” disse. Lei lo guardò con un espressione smarrita ma poi annuì
“Amici” disse. “Grazie”: la prima cosa buona della giornata (pensò)
 

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Capitolo 3
*** capitolo 3 ***


3.

Leon sapeva che il primo giorno di scuola è sempre quello più duro, ma non immaginava fino a quel punto; dopo essere salito in macchina tirò un sospiro di sollievo, posò la cartellina nel posto accanto e si mise a guardare fuori dal finestrino.

Coleman sembrò notarlo

“Tutto bene?” Leon non rispose; era tutto concentrato a cercare la sua nuova amica tra la folla, anche se sapeva benissimo che non l’avrebbe trovata: appena finita la scuola si era letteralmente precipitata fuori dalla classe per poter uscire.

Diede un ultima occhiata fuori prima di chiedere a Coleman di partire

Era ancora confuso dal comportamento dei suoi compagni, pensò che probabilmente Alessa era corsa fuori per evitare altre palline di carta e colpi di cerbottana; non riusciva proprio a darsi pace: voleva scoprire il motivo di quel gesto. Inizialmente aveva pensato a qualche bravata senza senso che di solito fanno i bambini della loro età, ma subito dopo aveva visto gli sguardi di quei bambini; avevano un espressione strana, sembravano carichi d’odio, quasi ci godessero dal profondo nel farla soffrire.

Coleman distolse un secondo gli occhi dalla strada e guardò nuovamente Leon
“Prima che mi dimentichi! Ho qualcosa per te!” Disse mentre gli porse un blocchetto di fogli, presi dal portaoggetti. Appena li vide, sul volto di leon comparve un sorriso.
“finalmente sono arrivate!” Disse mentre guardava sorridente le cartoline: ne faceva collezione e ogni volta che poteva, Coleman, gliene portava qualcuna. Collezionava cartoline di luoghi in cui non era mai stato: posti strani e fantastici; in particolar modo amava le cartoline raffiguranti il mare, non vi era mai stato e proprio per questo lo affascinavano molto.

Poco dopo erano finalmente arrivati: l’uomo informò Leon che il padre era a casa per poi andare a parcheggiare la macchina. La casa non era molto grande, ma era la più vicina all’ospedale e poi a Leon piaceva.
“Ciao papà! Sono a casa!” Disse il bambino appena posata la cartella all’ingresso. Il padre era appena tornato dopo un lungo turno alla clinica, in quel momento stava riposando sulla poltrona del salotto, ma pensò bene di concedere al figlio il suo tempo: a causa del lavoro non aveva molto tempo da dedicargli, perciò quando poteva ne approfittava

“com’è andata a scuola?” Disse alzandosi e avvicinandosi al figlio. A Leon  scappò uno sbadiglio, prima di rispondere. “Benino… i miei compagni non sono molto socievoli ma una di loro è simpatica”
Al dottor Kauffman parve di notare un leggero arrossamento delle guance del figlio ma pensò di esserselo immaginato “Ah si?! Come si chiama?”. Leon non rispose subito, sembrava assorto nei suoi pensieri
“Alessa Gillespie! Siamo diventati subito amici” Rispose con un sincero sorriso: un sorriso che non sfuggì al padre. “Che tipo di bambina è? È simpatica?” Chiese il dottore mentre prendeva una tazza di caffè appena fatto “è simpatica ma un po’ timida… forse è dovuto al fatto che gli altri la prendono in giro” aggiunse con un espressione seria; il dottore finì di sorseggiare la tazza bollente attento a non scottarsi ma senza togliere lo sguardo dal figlio
“Come mai?” Chiese dopo aver finito il caffè ed essersi accomodato di nuovo sulla poltrona. “Non lo so sembrava intimorita, vorrei sapere cosa ha ma non so come aiutarla” al padre scappò un leggero sorriso “questa situazione mi riporta alla mente i vecchi ricordi” Leon lo guardò visibilmente incuriosito da questa sua ultima affermazione. “Hai già dimenticato i tuoi primi anni di scuola?” no che non li aveva dimenticati, aveva passato due anni in solitudine per paura di ciò che gli altri bambini avrebbero pensato di lui

Lui, più di tutti doveva capire come Alessa si sentiva

Doveva spingerla ad aprirsi con lui e poi aiutarla con il suo problema: data la sua esperienza se ne sentiva in dovere. Dopo aver salutato il padre si diresse in camera sua per fare i compiti; prima però posò nel suo cassetto le cartoline che aveva ricevuto quel giorno da Coleman: guardandole si ricordò la prima volta che aveva visto il mare, era stato l’anno prima, in una vecchia foto trovata in soffitta, erano raffigurati il padre e la madre (una delle due uniche foto rimaste, raffiguranti la madre), entrambi giovanissimi; il viso di lei, non ancora rovinato dalla malattia, sembrava più luminoso del sole stesso.

La mattina dopo,  Leon si svegliò presto: non abbastanza da poter incontrare il padre, però.

Era abituato ai suoi tempi lavorativi, dopotutto doveva solo lavarsi e preparare la colazione; Coleman era andato alla clinica insieme al dottore, d’ora in poi Leon sarebbe andato a scuola con il bus. Da un lato a Leon l’idea di quel mezzo così lento e scomodo non piaceva molto, ma in quel modo avrebbe potuto passare più tempo con Alessa. Dopo aver finito la colazione prese la cartella e uscì di casa; corse verso l’ospedale dove lavorava il padre: dato che la fermata più vicina si trovava lì; giusto il tempo di riprendere fiato che il bus era arrivato davanti al bambino. Appena entrato si mise alla ricerca della sua nuova amica, la vide accanto all’unico posto vuoto mentre guardava fuori dal finestrino; notò lo stupore silenzioso, ma generale, dei compagni quando si accorsero che si era seduto accanto a lei, Alessa sembrò l’unica a non averlo notato.

Aspettò qualche secondo che la bambina si voltasse, ma non sembrava intenzionata a farlo, pensò così a un modo per costringerla a girarsi. Un attimo dopo gli occhi della bambina erano stati coperti dalle mani decise ma delicate di Leon.

“Indovina chi è?” disse la voce del ragazzino. Lei si scrollò di dosso le sue mani e lo guardò con occhi incuriositi. Leon rideva. “È uno scherzo, dai. Te la sei presa?”.
 
“No...” rispose lei, arrossendo. Il primo approccio non era andato a buon fine, ma lui non era il tipo che si arrendeva al primo tentativo: avrebbe scoperto il suo problema e l’avrebbe aiutata.
 

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Capitolo 4
*** capitolo 4 ***


4.
Anche quel secondo giorno, Leon fu gentile e sorridente con lei. Quando vide che sotto il suo banco non vi era altro che cartacce, le prestò il suo quaderno e la sua matita e, quando i suoi compagni le lanciarono una pallina di carta,Alessa poté chiaramente vederlo lanciare ai banchi dietro di loro un’occhiataccia. Ora era sicuro che l’avvenimento del giorno prima non era un caso: gli altri compagni ce l’avevano con lei, ma non riusciva ancora a spiegarsi perchè! Nell’intervallo, i due mangiarono assieme.

“Senti, perché ti prendono tutti in giro?”chiese. Non sapeva in che altro modo chiederglielo, notò subito un cambio d’umore in Alessa. Non riuscì, però, a sentire la risposta in tempo perché i loro compagni li avevano raggiunti

“Leon, possiamo parlarti un istante?” chiese un bambino. Lui li guardò con occhi incuriositi, poi si volse verso Alessa.

“Scusami, arrivo subito” disse. Le sorrise e si avvicinò al gruppetto, guardandola con la coda nell’occhio notò che Alessa non era a suo agio.
“Devi stare attento a lei” disse un bambino, senza preoccuparsi di abbassare la voce. “La mia mamma e il mio papà dicono che è cattiva. Ti farà del male”.

“Perché sarebbe cattiva?” chiese Leon, incuriosito. “Cos’ha fatto?”.

“Lei non ha il papà” disse una bambina. “Potrebbe essere chiunque, anche il demonio. È una strega e le streghe fanno solo del male a noi persone normali. Me lo ha detto la mia mamma”.

“Così Alessa è una strega?” chiese Leon. I bambini annuirono. “È una strega e quindi è cattiva. E tutto questo perché, visto che non si sa chi è suo padre, potrebbe essere anche il demonio”. I bambini annuirono nuovamente.
Il mistero era finalmente svelato, e senza che Loen avesse chiesto nulla ad Alessa: dopo un attimo di distrazione per aver avuto quella notizia, pensò a ciò che avevano detto i suoi compagni. Stupendo tutti, il bambino si mise a ridere. “Quante scemenze!” disse. “Ed io che sono senza mamma cosa dovrei essere, un angelo?”. I bambini lo guardavano a bocca aperta. “A me, mio padre non ha mai detto nulla del genere e quando gli ho detto che avevo conosciuto Alessa Gillespie mi ha chiesto che tipo di bambina era, non mi ha detto di starle lontano.

“Facciamo così: voi fate pure come volete. Trattatela come una strega, evitatela, prendetela in giro, fare cosa volete; io voglio essere suo amico. Punto. Al limite, il dannato sarò io e non voi”. Il padre lo aveva avvertito che la mente degli abitanti di Silent Hill era rimasto all’altica, ma qui non si parlava di qualche decennio bensì di una vera e propria mentalità medievale
“te l’abbiamo detto perché anche noi vogliamo essere tuoi amici” protesto uno di loro. Leon scosse la testa. Essere loro amico e continuare ad ignorare una bambina che viene maltrattata per un motivo idiota? Non avrebbe mai permesso una cosa del genere, soprattutto dopo ciò che gli era successo.

“Se volete essere miei amici nulla in contrario” rispose. “Ma accetterete il fatto che anche lei è mia amica e che non è diversa da me e da voi in nessun modo”.
Il padre gli aveva sempre insegnato a non tenere conto delle apparenze e dei pregiudizi, ma a quanto pare non tutti i genitori erano dello stesso avviso: proprio loro che dovrebbero far desistere quei bambini invece li istigavano a continuare.
In quel momento il bambino tornò a sedersi accanto a lei. Si mise dritto sullo schienale e sospirò.

“Mi hanno detto che tu sei una strega” disse. Lei si volse e rimase sorpresa nel vedere che stava sorridendo. “Assurdo, eh?”. I bambini uscirono dall’aula, borbottando qualcosa di incomprensibile. Non gli importava cosa avevano appena detto di lui (perché era chiaro che parlassero di lui) ne cosa avrebbero pensato di lui, non avrebbe lasciato mai e poi mai una sua amica da sola

“Guarda che è vero” mormorò Alessa. Leon la guardò con occhi sorpresi. “Io sono una strega, sono cattiva: per questo non ho nessun amico, per questo mi fanno tutti quei dispetti…non hai paura che ti lanci il malocchio o che ti faccia fare cose cattive?”.

“Tu non sei una strega” replicò categorico lui. “Non puoi esserlo; le streghe sono persone cattive, ma tu mi sembri solo timida: essere timidi è normale, quasi divertente”. Alessa lo guardava con occhi stupiti. “E poi, non è vero che non hai nessun amico…”.

“Scusami…” mormorò Alessa. Leon sospirò, poi sorrise.

“Non c’è nulla da perdonare” rispose. “Stavo scherzando. Comunque, credo che tu abbia bisogno di distrarti: cosa fai quando vai a casa?” Quando lui passava una mattinata in solitudine durante il pomeriggio si svagava chiacchierando con il padre o facendo una passeggiata nel parco sotto casa. Lei sembrò pensarci un attimo su
“Faccio i compiti…” rispose infine.

“Sì, ok. E quando non ne hai?”Ovviamente non poteva farla svagare in quel modo, serviva qualcosa di più –allegro-
“Faccio i compiti”.

“Come fai i compiti?” rise Leon, non riusciva ad evitarlo, la piccola era troppo divertente anche quando diceva qualcosa di un po’ triste, con quel suo piccolo faccino riusciva a fargli scappare un risolino.
“Cioè, non fai altro?”. Alessa scosse la testa.

“Chiacchiero con mia madre, disegno…”.

“Disegni?!?”. Il volto del bambino s’illuminò. “Davvero? Li hai qui?”. Lei annuì. “Posso vederli?”.

Leon aveva sempre amato i disegni: il padre teneva nel suo ufficio dei quadri molto belli, una volta aveva provato a farne un anche lui, ma non era venuto molto bene; il padre lo aveva appeso dietro la sua scrivania e gli aveva detto che era molto bello, ma leon non era così tonto, aveva capito che lo aveva detto solo per fargli piacere, così dal quel giorno si convinse che disegnare non era per lui. Alessa intanto aveva preso un album dalla cartellina, sembrava titubante: forse si era bloccata un’altra volta per un attacco di timidezza, così pensò ch era meglio prenderlo da solo. Leon le prese l’album e lo aprì. Sfogliò qualche disegno, poi sorrise.
“Alessa, disegni benissimo!” esclamò. “Sei bravissima! Guarda che paesaggio! E questa? Questa sei tu? Ma guarda che carina! Senti, devi assolutamente fare un disegno anche per me!”.

“Non so…” rispose lei, spostandosi imbarazzata una ciocca di capelli dalla fronte. “Cosa vuoi che ti disegni?”. Leon richiuse l’album e glielo porse.

“Quello che vuoi!” rispose. “Tanto non farebbe differenza: sei talmente brava che qualunque tuo disegno, sono sicuro, mi piacerà da matti”.
Non scherzava affatto quando diceva che disegnava benissimo: era molto brava per essere una bambina di 9 anni e gli avrebbe fatto piacere possedere un disegno fatto da lei. Alessa divenne rossa prima di annuire e riprendere l’album
“D’accordo” rispose. Leon le porse il mignolo. Lei sussultò.

“Promesso?” chiese, sorridente. Lei guardò la mano del bambino, poi la sua. Vedendola in difficoltà, Leon acciuffò il mignolo e lo incrociò con il suo. “Si fa così” non avendo mai avuto un amico non era strano che non lo sapesse. Annuì nuovamente.

“Promesso…” sussurrò.

ecco il quarto capitolo. scusate il ritardo: vi assicuro che sarò più puntuale la prossima volta Bye-Bye

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Capitolo 5
*** capitolo 5 ***


Anche al ritorno Leon usò il bus: Coleman era insieme al dottor Kauffman per assisterlo in un operazione molto seria. Si sedette nuovamente vicino ad Alessa; la bambina sembrava più allegra che all’andata, sicuramente era per via della scelta di leon. La sua fermata era prima di quella della bambina, e questo preoccupava non poco Leon: l’idea di lasciarla sola con gli altri compagni non gli piaceva molto.
Dopo essere sceso, aver salutato la sua amica e aver pregato che gli altri bambini l’avrebbero lasciata stare, si diresse verso casa. Passò accanto alla clinica Alchemilla notando la macchina del padre parcheggiata acanto al marciapiede  (strano: solitamente la mette nel parcheggio sotterraneo) per poi raggiungere la propria casa. Appena entrato posò la cartella e gli stivale di gomma (quel giorno aveva piovuto) all’ingresso per dirigersi, subito dopo, in cucina dove il padre gli aveva lasciato il pranzo. Dopo aver mangiato si diresse in camera sua per fare i compiti, prima, però, pensò a come sarebbe stato il disegno di Alessa.

Anche quella mattina ne il padre ne Coleman lo avevano potuto accompagnare, ma Leon preferiva così, in questo modo avrebbe potuto passare più tempo con Alessa. La mattinata passò normalmente: tranne per il fatto che Alessa si girava di continuo verso di lui con il viso tutto rosso, come se volesse dirgli qualcosa ma non riusciva a trovare il coraggio.
 
“Cosa mi piace?” chiese Leon, vagamente incuriosito, mordendo il suo snack. Finalmente durante l’intervallo, Alessa aveva trovato il coraggio di parlare e gli aveva chiesto cosa gli piacesse.

“È per il disegno che mi hai chiesto” spiegò. “Mi hai detto che qualunque cosa io abbia disegnato, ti sarebbe piaciuta…però non mi è venuto in mente nulla e allora ho pensato…ecco…di chiederti cosa ti piacerebbe”. Il giovane rise.

“Beh, grazie per la premura” disse. Rimase un attimo in silenzio a pensare, poi si volse verso Alessa. “A me piacerebbe il mare”.
“Il mare?” chiese la bambina incuriosita. Lui annuì.
“Sai, io non sono mai andato al mare: sempre montagna. Quindi, vorrei il disegno del mare”. Il disegno che il bambino aveva fatto per il padre, era proprio il panorama del mare ed era più che convinto che se lo avesse disegnato Alessa sarebbe venuto più che bene: a differenza del suo. La bambina però abbassò lo sguardo.
“Neanche io…sono mai andata al mare” mormorò dispiaciuta.

“Ah…” commentò Leon, abbassando lo sguardo. “Scusami” aveva fatto una terribile gaf. Lei scosse la testa.
“No, scusami tu: non posso farti il disegno…”. “Aspetta!” esclamò, gli venne in mente un idea fantastica e si colpì la fronte per non averlo pensato prima. “Però ho qualche cartolina del mare! Oggi pomeriggio, finiti i compiti, passa all’ospedale e te le mostro, se non hai nulla da fare”.
Così oltre a farsi fare il disegno avrebbe avuto una scusa per farla conoscere al padre e lui ne avrebbe avuta una per conoscere la signora Gillespie. Notò gli sguardi scandalizzati che i compagni volsero nella loro direzione, ma non ci fece caso, più di tanto (alla faccia vostra) pensò: non era cattiveria ma se lo meritavano un pensiero cattivo. Alessa sembrò pensarci su un attimo per poi rispondere che avrebbe chiesto alla mamma.
In effetti questo era un particolare che Leon aveva trascurato: il padre era sempre molto impegnato e non vi era alcuna sicurezza che senza alcun preavviso avrebbe avuto il tempo di accogliere le due. Ma ormai l’aveva invitata… anzi le aveva invitate: sia lei che la madre; perciò non poteva certamente rimangiarsi la parola, specialmente con Alessa.
Non riusciva a capire come mai si era affezionato così tanto a lei in così poco tempo: forse era per via del suo carattere, del suo sorriso o chissà cosa; ciò che era certo e che si sentiva felice di starle accanto, di vederla sorridente. Aveva avuto anche altri amici e non solo maschi: ma con Alessa sentiva una sensazione nuova, diversa da ciò che sentiva con le sue compagne di Brahams.
 Il suono della campanella lo distolse dai suoi pensieri: la benedì mentalmente, perché era sicuro che da solo non si sarebbe mai fermato. Assicurò un ultima volta ad Alessa, dicendole che lei e sua madre potevano venire a trovarlo all’ospedale più tardi: l’orario non era un problema.
Dopo essersi chiarito ingoiò l’ultimo boccone dello snack e si diresse verso la classe: per un attimo gli sembrò che Alessa lo stesse chiamando ma quando si voltò verso di lei la vide in silenzio con lo sguardo perso nel vuoto, pensò così di esserselo immaginato.
Questa volta Leon, dopo essere sceso dal bus, non si diresse verso casa: si fermò prima, più precisamente davanti all’ospedale Alchemilla. Nella clinica era conosciuto da tutti, perciò alla reception non fecero storie
“Ciao Lisa!” Fece lui alla ragazza seduta alla reception: era una ragazza giovane, sui vent’anni, con i capelli biondi e gli occhi azzurri. “Ciao tesoro! Scusa, non ti avevo visto, ma oggi siamo impegnati, pensa che oltre al mio lavoro devo stare anche qua alla reception”; i due si erano incontrati molte volte quando il padre lo portava a vedere dove lavorava e la considerava quasi una sorella maggiore. “Sai dov’è papà?” Chiese lui guardandosi intorno, sperando di vederlo passare; “Credo che sia nel suo ufficio: vuoi che lo chiami?”. Leon sorrise “no tranquilla: vado da solo”.
Salutò Lisa e si diresse verso l’ufficio del padre, ricordava a memoria la strada anche perché non era difficile. Percorse un lungo corridoio, superò alcune stanze e raggiunse una stanza con una targa incisa sopra
Dottor Michael Kauffman
 “Ciao papà!”
Il dottore rimase sorpreso vedendolo sulla soglia della porta. Posò sulla scrivania dei fogli che stava esaminando e fissò il figlio “come mai sei qui?” gli chiese. “Sei impegnato?” gli chiese Leon osservando lo stato dell’ufficio: era, come sempre, ordinato e pulito. “Questa mattina è stata molto faticosa… ma in questo momento non ho niente da fare…” rispose, diffidente: come se si aspettasse una contro risposta dal figlio. Infatti, dopo un attimo di silenzio, Leon, con un sorriso, aggiunse “Avrei invitato qui quella mia compagna di cui ti ho parlato, insieme alla madre: è un problema?”
“Accidenti Leon! Eppure non sei così precipitoso!” il padre era un po’ seccato, ma non più di tanto; sospirò e guardò il figlio con un sorriso. “Quando dovrebbero venire?” chiese il padre: aveva già ceduto. “Gli ho detto che poteva venire quando voleva: non so di preciso quando”.
“La prossima volta avvertimi prima” Disse severo, anche se in realtà era contento per il figlio: aveva trovato in poco tempo un amica; temeva che ci avrebbe messo tanto, come quando andava a scuola a Brahams.
Passarono poco più di un ora ad aspettare il loro arrivo: Il dottor Kauffman stava dando un ultima occhiata ad alcune cartelle seduto davanti la scrivania, mentre Leon aspettava pazientemente sul divano posto in fondo all’ufficio. Passò tutto il tempo a pensare cosa avrebbero fatto lui ed Alessa: non voleva che gli facesse solo un disegno, l’avrebbe portata nel suo rifugio segreto, la sua stanza privata dove teneva tutti i suoi tesori; piccole cose che per altri potevano sembrare stupide ma per lui erano importanti, si era ripromesso che ci avrebbe portato solo qualcuno a cui teneva molto.
Era così assorto nei suoi pensieri che non si accorse dell’aprirsi della porta, il padre invece alzò lo sguardo severo, per poi aprirlo in un sorriso. “Ah, ecco!” esclamò. “Scusi, ma il nome di Alessa non mi era nuovo: non pensavo che fossi proprio tu. Entrate, accomodatevi”. A quelle parole Leon alzò lo sguardo sorpreso: da quella posizione non poteva vederla ma sapeva che dietro di lui vi era quel piccolo e dolce angioletto viola.

come promesso, ho aggiornato questo capitolo praticamente subito: ditemi un po' cosa ne pensate e a presto Bye-Bye

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Capitolo 6
*** capitolo 6 ***


6.
Leon non si era ancora mosso dalla sua posizione: non riusciva a vedere nulla in quel modo ma poteva sentire due voci fuori dalla porta. Erano le voci di due adulti: la prima era chiaramente del padre, mentre la seconda era di una donna; non aveva mai sentito quella voce, probabilmente era della madre di Alessa. Sarebbe volentieri andato incontro ad Alessa, ma qualcosa gli impediva di farlo: era da tempo che non gli veniva un attacco di timidezza come quello. Poco dopo sentì la porta chiudersi e un piccolo rumore di passi venire verso di lui si girò e due piccole iridi blu incontrarono le sue iridi grigie: sul volto di Leon comparve un sorriso.
“Ciao Alessa!” saluto, visibilmente felice di vederla. “Ce l’hai fatta! Vieni, facciamoci un giro”. Lei sembrò guardare prima il dottore poi sua madre, in cerca di un cenno di consenso.

“Vai pure” disse Kaufmann benevolo. “Leon sa dove andare per non disturbare i pazienti”. Prima che lei potesse fare qualunque cosa,  Leon la prese per il polso e la accompagnò fuori dalla stanza.
“Vieni: ti faccio vedere la mia camera preferita” disse il ragazzo. Quando stava per uscire passò accanto alla madre di Alessa. Era una giovane donna, molto bella, con dei capelli rossi e gli occhi blu; probabilmente Alessa aveva preso gli occhi della madre ma i capelli non le assomigliavano; avrebbe chiesto se li aveva presi dal padre, ma dato la situazione preferì tacere.

Scesero nei sotterranei dell’ospedale. Leon le prese la mano. “Qui sotto è facile perdersi” disse, sorridendo. “Seguimi”. Aveva lasciato le cartoline nella sua stanza (alias rifugio segreto) apposta, per avere una scusa per portarci Alessa. L’accompagnò per i corridoi freddamente illuminati dell’ospedale, incrociando qualche barella ed un paio di sostegni per flebo. Tutto aveva un’aria sinistra e le ombre proiettate contro i muri erano a dir poco sinistre. Il piccolo sentì la mano, della sua amica, tremare: forse aveva paura, pensò così di accelerare il passo. Arrivarono in fondo ad un corridoio, davanti ad una porta. Accanto una targhetta di ferro che indicava il numero della stanza.
“In questa stanza ci sono morte cinque persone per malfunzionamento delle macchine” disse il bambino, entrando. “Così nessuno vuole più essere messo qui, ma a me piace: è grande, pulita e ci sono tantissime cose strane”.
 
“Ci sono morte…delle persone?” commentò Alessa, timidamente. Lui sorrise e la spinse delicatamente dentro.
 
“Sì, ma non ci sono fantasmi: ho controllato” replicò. La prese sul comico per cercare di farla sciogliere un po’: lei tirò fuori un sorriso divertito (sembra che abbia funzionato); Leon mise sul pavimento il tappeto, che poco prima era arrotolato e poggiato al muro, e invitò Alessa a sedersi. La stanza d’ospedale era piena di libri e fumetti ed il lettino, anziché le solite candide lenzuola d’ospedale, aveva una coperta blu.
 
“Io dormo qui quando papà ha le emergenze” disse. “Non mi lascia a casa da solo”. Si sedettero sul tappeto rosso.
 
“Ehm…” cominciò Alessa. “Se mi fai vedere quelle cartoline ti faccio il disegno…”.
 
“Ma di già?” chiese lui. “Il disegno dopo, con calma. Le cartoline te le posso anche prestare, non c’è problema. Dimmi piuttosto perché i nostri compagni ti trattano così”.
L’ultima volta non aveva avuto modo di sentire, accuratamente, la sua versione: aveva sentito solo le sciocchezze dei compagni, che l’accusavano di stregoneria o roba simile; le uniche parole che Alessa aveva detto erano di autoaccusa. Guardò la bambina e vide che stava scuotendo la testa.

“Io non ho il papà” rispose. “E per questo, credono che io sia figlia del demonio. Mamma mi ha raccontato che lui se n’è andato lei è rimasta incinta e non si è più fatto vedere né sentire”.
 
“Non hai altri parenti?”.
 
“Ho una zia: è una dei purificatori. Ho chiesto a mia madre perché non le chiedeva di purificare anche me, ma lei ha scosso la testa e mi ha detto che quando sarò più grande ce ne andremo di qui e non sarò più trattata così. Prima di andarmene, però, voglio finire le elementari”.

“Ah…”: Leon fece una faccia strana. Non voleva che Alessa partisse proprio ora che l’aveva conosciuta.  “E dove vi trasferirete?”.
“Non lo sappiamo ancora” replicò lei. “Forse a Brahams, vedremo”.

Oltre il danno anche la beffa: Proprio ora che si era trasferito a Silent Hill, Alessa, sarebbe andata a vivere nella sua città natale. Era rimasto molto amareggiato a causa di questa scoperta, ma non voleva far preoccupare Alessa ne farla sentire in colpa: così fece finta di niente. Parlarono tantissimo. Non di cose importanti: di sciocchezze, stupidaggini; però al’improvviso suonò una campanella. Leon si alzò.

“Ops, mi sa che dovete andare” disse, alzandosi. Sperava che quel momento non sarebbe mai arrivato. Il   bambino prese delle cartoline da un cassetto e gliele porse. Ritraevano tutte delle foto di un immensa spiaggia assolata. E il mare. Erano le foto che Leon aveva collezionato in tutti quegli anni: raffiguranti il mare. “Ecco, queste sono tutte le cartoline del mare che ho” disse. “Se ti va, puoi prenderle come spunto, ma vorrei qualcosa di tuo”. I due uscirono dalla sala senza più parlare.

Riaccompagnò l’amica all’ufficio del padre; quando vi entrò noto suo padre e la madre di Alessa mentre si scambiavano una stretta di mano. “Alessa dobbiamo andare: ti sei divertita?” le chiese la donna dopo averle carezzato una guancia; Alessa guardò per un attimo Leon negli occhi e annuì timidamente. Dopo che i quattro finirono di salutarsi entrò Lisa che accompagnò fuori la signora Gillespie e Alessa.

Leon rimase a guardare fuori dalla finestra fino a che la macchina di Alessa non era lontana. “Donna molto simpatica!” disse il padre al bambino; il dottor Kauffman non aveva avuto altre donne all’infuori della madre di Leon e difficilmente faceva commenti su di esse. Leon non voleva che tenesse rapporti solo con lui. “Proprio poco fa ho saputo di un imprevisto al Central hospital* e mi hanno chiamato per un operazione e alcune faccende burocratiche…” Leon ascoltava il padre, ma non riusciva a capire cosa centrasse con lui: la risposta arrivò subito “…siccome dovrò stare via per alcuni giorni e Coleman non potrà badare a te dovrai venire con me”. Il bambino rimase molto colpito dalla notizia (dovrei lasciare Alessa da sola?); sapeva di non poter ribattere, dato che la situazione non dipendeva dal padre.

“Quando partiremo?” Chiese lui. “tra tre giorni! Partiremo verso l’alba e torneremo dopo una settimana” dopotutto non era tanto tempo: il vero problema era dirlo ad Alessa.

*l’ospedale di Brahams

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Capitolo 7
*** capitolo 7 ***


7.
 
 
Era strana l’intesa che si venne a creare tra Leon e Alessa dopo quel pomeriggio all’ospedale. Per sapere le cose, i due non dovevano neanche parlare: bastava che si guardassero. Un’ammiccata, un sorrisetto, anche solo uno sguardo bastava per comunicare con una precisione tale che neanche le parola avrebbero potuto avere. Quella mattina, sotto il banco, Leon trovò una matita spezzata e degli scarabocchi sul quaderno.

Appena li vide alzò lo sguardo e notò gli occhi di alcuni suoi compagni fissarlo: erano gli stessi sguardi con cui guardavano Alessa mentre le tiravano i libri o la schernivano. Tentò di riporre velocemente il quaderno e la matita, ma ormai era tardi: Alessa se n’era accorta. Non gli importava che lo trattassero male, ma non poteva sopportare che la sua amica si sentisse in colpa.

Ma se Leon era stato preso di mira, su Alessa si riversò tutta la cattiveria che non veniva scagliata contro il bambino. Gli accerchiamenti si fecero più frequenti ed i libri che le scagliavano addosso molto più pesanti e numerosi. Lei non se la prendeva e faceva l’indifferente, ma Leon sapeva che dentro ne soffriva molto. Ora anche lui era bersagliato dalle angherie dei compagni, ma non come lei: riceveva solo insulti e prese in giro. Non si lamentava mai e continuava a sorriderle, incurante di ciò che dicevano o pensavano gli altri.

“è colpa mia se ora ti trattano male!” Disse Alessa a Leon durante l’intervallo. Questo era ciò che Leon temeva di più: era sicuro che Alessa si sarebbe sentita ingiustamente in colpa. Leon in tutta risposta sorrise “Suvvia Alessa non dire queste cose! Non mi hai mica costretto tu a diventare tuo amico: sono stato io ad accettare… anzi! Sono stato io a chiedertelo, quindi tu non centri in nessun modo!” Sembrò funzionare: Alessa sorrise e abbracciò Leon. Questo gesto rese Leon felice e triste allo stesso tempo: Alessa aveva imparato ad aprirsi con lui dicendogli ciò che pensava, ma lui non le aveva ancora parlato della sua partenza, in quel momento non poteva certo farlo, però alla partenza mancavano solo due giorni, certamente non poteva partire senza dirle niente, in conclusione il giorno dopo era l’ultima occasione per parlarle.

Quella mattina si svegliò più tardi del solito. Aveva passato tutta la notte pensando a come dire ad Alessa la notizia, per quello si era addormentato tardi. Riuscì ad arrivare comunque in tempo alla fermata del bus; appena salito sentì gli scherni silenziosi dei compagni, ma lui non ci fece caso e raggiunse la bambina che lo guardava con un espressione felice. “Ciao Alessa” salutò. Lei, come ogni giorno, arrossì e ricambiò il saluto con una vocetta timida.

Anche quel giorno faticò a darle la notizia. Passò tutta la lezione senza accennarle niente. La campanella per l’intervallo suonò e lei e Leon, come ogni giorni, andarono in cortile, sedendosi sulla panchina sotto l’acero, la stessa di sempre. A quel punto, finalmente, Il bambino riuscì a prendere parola.

“Senti, se ti dico che mi assenterò per qualche giorno, mi prometti che quando tornerò ti troverò ancora intera?” chiese. Buttò fuori tutto in una volta, come se si fosse tolto un masso dallo stomaco.
“Vai via?” chiese affannata. Lui annuì.
 
“Papà ha un’operazione urgente da fare a Brahams” spiegò. “E non mi lascia qui da solo. Alla fine sarà per cinque giorni, una settimana al massimo”.
 
“Ed io come faccio?” chiese Alessa, cercando disperatamente una soluzione.
 
“In che senso?”.
 
“Io…cioè…ecco…”. Alessa era entrata nel panico e Leon se ne accorse. Non voleva vederla così ma non poteva fare altrimenti: comunque aveva avuto un idea per poterle alleviare la tristezza per la solitudine, distraendola con qualcos’altro.

“Facciamo così” disse lui. Si frugò nella tasca ed estrasse un rotolo di spago. “Per ogni giorno in cui non parleremo, farai un nodo al filo e per ogni giorno in cui ci parleremo ne scioglierai uno”. La bambina guardò prima il filo poi lui.
 
“E perché?” chiese. Lui sorrise.
 
“Per ogni nodo che farai, ci attaccheremo qualcosa e per le vacanze estive la metteremo dentro una cassetta e la seppelliremo: non hai mai pensato di fare un tesoro?” chiese.
 
“Un tesoro?”.
 
“Sai, no?”. Si alzò. “Qualcosa da tenere caro. Un segreto che solo tu custodisci e che sei libera di dividere con chi vuoi, senza che nessuno ti venga a prendere in giro”. In questo modo avrebbe aiutato Alessa a non sentirsi sola in quella settimana e l’avrebbe anche aiutata a non sentirsi sola in generale.

Entrambi avevano l’altro accanto: e quel tesoro ne sarebbe stato l’emblema. Aveva pensato anche altre volte di fare un tesoro, ma non aveva mai trovato qualcuno abbastanza importante con cui condividerlo. Alessa rimase sovrappensiero ma poco dopo sorrise e annuì
“Ok: quando torni, vedremo cosa fare e ne faremo il nostro tesoro” disse, sorridendo.
 
“Adesso rientriamo” disse lui. “È suonata la campanella”.
Il resto della giornata, però, non passò in modo tranquillo: come invece, si aspettava Leon. Alessa rimase triste per tutto il tempo, guardava verso la lavagna, ma si capiva lontano un miglio che in realtà non stava sentendo una parola della lezione.

L’unico momento in cui cambiò umore fu durante la lezione di storia: non seguiva ugualmente la lezione ma era concentrata a scrivere un biglietto; quando Leon provò a vedere cosa vi era scritto, Alessa impercettibilmente si ritrasse (chissà cosa c’è scritto?). Appena finito di scrivere, però, torno con la sua aria mogia; poco prima del suono della campanella stava per scoppiare a piangere: Leon pensò, così, di consolarla.
“Dai, non essere triste” disse, fuori dalla scuola. “Te l’ho detto: sarà per pochi giorni”. Lei annuì e provò a sorridere. Sembrò funzionare: il viso del bambino si distese e non parlò più. Alessa si mise la mani in tasca e toccò il foglietto che aveva fatto durante la lezione di storia.

Leon tornò di corsa a casa: il padre lo stava già aspettando a casa, aveva finito il turno prima. Passò il pomeriggio a fare le valigie mentre pensava a come avrebbe passato quella settimana senza Alessa e soprattutto a pensare come l’avrebbe passata Alessa. Era certo che i loro compagni ne avrebbero approfittato e avrebbero aumentato la dose di libri e di insulti. Quella notte non riuscì a dormire a causa dell’ansia per la partenza e per la preoccupazione verso Alessa.

Appena sorto il sole i due erano già pronti per la partenza: il dottor Kauffman caricò le valigie nel portabagagli e fece cenno a Leon di salire. Il bambino stava pensando a Lei; la sarebbe andata volentieri a salutare, ma era molto presto e probabilmente in quel momento stava dormendo profondamente. Si affrettò ad arrivare alla macchina e salì al posto del passeggero; il padre accese il motore e si avviò verso Brahams.

“hai avvertito la tua amica?” chiese il dottore: guardando la strada. “si! Glielo detto ieri, durante l’intervallo: non è stato affatto facile”. Il resto del viaggio fu piuttosto silenzioso: il dottor Kauffman era concentrato sulla guida mentre il figlio pensava ad Alessa. Le aveva chiesto di farsi ritrovare tutta intera quando sarebbe tornato: lo aveva detto in modo ironico, ma dentro di lui aveva paura. (devi resistere solo per una settimana…) pensò Leon (…perché appena tornerò ci penserò io a proteggerti: giuro che non permetterò che ti capiti nulla) a quei pensieri al bambino scappò un sorriso.


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Capitolo 8
*** capitolo 8 ***


8.
 
Il viaggio durò poco più di mezz’ora, ma Leon ebbe tutto il tempo per riaddormentarsi: sognò lui insieme ad Alessa, intenti a nascondere il loro tesoro segreto. “Leon… Leon! Sveglia!” la voce del padre lo destò dal mondo dei sogni. Quando uscì dalla macchina vide davanti a se la sua vecchia casa: credeva che non l’avrebbe più vista e averla davanti a se lo rese veramente contento. L’interno non era cambiato, polvere a parte; “non farci troppo l’abitudine: rimarremo qui solo una settimana” disse allegro il padre, mentre posava le valigie all’ingresso: aiutato da Leon.

Appena il padre si diresse al lavoro, Leon si mise subito a pensare cosa mettere nel tesoro suo e di Alessa; aveva lasciato alla bambina il compito di scegliere il posto; trovandosi, lei, a Silent Hill. Voleva usare qualcosa che per lui era molto importante, in modo da poterlo condividere con Alessa e rafforzare il loro legame ancora di più.

Ma non gli venne in mente nulla: decise così di uscire un po’. Era ormai pomeriggio inoltrato e a quell’ora molti negozi erano chiusi, tra cui il negozio di dolci o quello di giocattoli. (ma certo! Posso passare dai ragazzi!) pensò dopo aver notato che a quell’ora la scuola di Brahams chiudeva: avrebbe avuto l’occasione di rivedere i suoi vecchi amici.

Aspettò qualche minuto davanti al cancello della scuola, finchè non sentì il suono della campanella e vide riversarsi davanti a se un nugolo di ragazzi correre verso la sua direzione. Rimase in disparte a guardare finchè non passarono cinque bambini (tre maschi e due femmine); “hei ragazzi!” urlò correndo nella loro direzione; i ragazzi si fermarono, ma non capirono subito da dove proveniva e di chi era quella voce

“Leon!” fece quello più alto, vedendo l’amico. I ragazzi si abbracciarono, come se non si vedessero da anni e accompagnarono l’amico al loro rifugio. Era un parco grande ma pieno di erbaccia, dove non veniva più nessuno: a parte loro sei. I cinque amici di Leon erano tutti di media statura. Una delle due bambine aveva i capelli biondi e gli occhi color smeraldo: si chiamava Dorothy Halen; l’altra aveva i capelli castani, gli occhi azzurri e aveva una lieve tintarella: lei si chiamava Annette Nelson; il primo dei tre ragazzi era pallido di carnagione con gli occhi e i capelli castani: si chiamava Jack Evans; il secondo dei ragazzi era il più alto di tutti (non di tanto), con gli occhi azzurri e i capelli neri: si chiamava Edward Brown; l’ultimo era un ragazzo di statura normale con i capelli neri e gli occhi azzurri, si era trasferito a Brahams solo da un anno, dopo che il padre era stato spostato dalla prefettura di Portland alla loro: si chiamava Tom Gucci.

“Allora, Leon! Parlaci di come hai passato gli ultimi mesi!” fece Edward, tutto allegro per aver incontrato nuovamente l’amico. “beh! La città è un po’ più cupa di Brahams, ma è piuttosto tranquilla…” i cinque risero all’unisono, lasciando Leon perplesso. “non ti abbiamo chiesto un parere sulla geografia…” disse, ridendo, Dorothy “…volevamo sapere della tua nuova scuola e dei compagni!”. A quelle parole, il bambino, non seppe cosa rispondere: non aveva un grande rapporto con i compagni, tutt’altro; a parte Alessa, ovviamente. Gli altri bambini notarono questo suo indugiare “beh… con gli altri compagni non vado particolarmente d’accordo, ma sono diventato amico di una bambina di nome Alessa” mentre pronunciava l’ultima parola, a Leon scappò un leggero sorriso.

Passarono il resto del pomeriggio a giocare e a chiedere di Alessa: Leon rispondeva sempre, ma più evasivo che poteva; aveva sempre avuto una certa confidenza con i suoi amici, tranne quella volta. Parlare di Alessa con qualcuno, lo imbarazzava terribilmente: non che si vergognasse di lei, assolutamente no! Però ogni volta che parlava di lei (o che solo la pensava) diventava tutto rosso e non riusciva più a dire una sola parola, neanche lui riusciva a capire il motivo di questo suo stupido comportamento. “Ti piace! Vero?” gli chiese Dorothy, senza preavviso, mentre gli altri erano impegnati in una partita di calcio. Il ragazzo non capì a chi si riferiva, o semplicemente, faceva finta di non capire.

“chi?” chiese Leon all’amica: Dorothy sorridendo rispose con una finta aria di superiorità “mi riferisco a questa ragazza di nome Alessa! Prima, quando ti abbiamo chiesto di lei, balbettavi e non riuscivi a guardarci negli occhi…” Leon stava per smentire, ma fu interrotto da Tom, il quale stava andando in panchina per darsi il cambio con Dorothy “è inutile che cerchi giustificazioni: ti conosco da troppo tempo per potermi far ingannare” si sedette accanto a Leon, mentre la ragazza si alzava per lasciarli soli

Leon sapeva di non poter tenere nascosto qualcosa a Tom: era il suo migliore amico quando viveva a Brahams; il padre di Tom era un agente di polizia e, proprio come il dottor Kauffman, non riusciva a dedicare molto tempo al figlio, fu proprio per questo motivo che i due  entrarono subito in confidenza. “Allora? Ho ragione?” chiese Tom, nonostante sapesse già la risposta “credo proprio di si…” rispose imbarazzato Leon; “potremmo andare al negozio della madre di Annette e comprare qualcosa per la tua amica Alessa” disse Tom. La madre di Annette possedeva un negozietto vicino al parco dove vendeva piccoli oggetti di vario genere; mancava ancora un quarto d’ora prima del prossimo cambiò, così Leon accettò la proposta dell’amico.

“Salve signora Nelson!”salutarono i due all’unisono, appena entrati nel negozio; la donna li accolse cordialmente, conoscendoli entrambi da molti anni. I due iniziarono a cercare tra gli scaffali qualcosa di carino che potesse piacere alla bambina; vi erano vari oggetti molto costosi, ma dato i pochi dollari che il bambino possedeva, decise di cercare qualcosa di carino ma economico. Alla fine trovò un fermaglio a forma di farfalla: era piccolo e all’apparenza banale, ma guardandolo da vicino si poteva notare che invece era molto grazioso (non so perché ma mi fa ricordare Alessa), il bambino andò alla cassa e comprò il piccolo oggetto, sicuro che l’amica lo avrebbe apprezzato.

Dopo aver comprato il fermaglio, i due tornarono al parco per terminare la partita. I ragazzi tornarono a casa solo dopo il tramonto del sole: fortunatamente il dottor Kauffman non era ancora tornato, perciò non si era accorto dell’assenza prolungata del figlio. Dopo aver salutato gli amici, Leon, si chiuse in camera sua e cominciò a prendere varie cose dai suoi cassetti: voleva terminare il lavoro che aveva cominciato quella mattina cioè scegliere cosa mettere nel tesoro; prese alcuni dei suoi vecchi fumetti, la foto di sua madre e poi avrebbe messo le cartoline del mare che aveva prestato ad Alessa. Dopo aver deciso, Leon si fermò un momento a pensare: quelle erano tutte cose che riguardavano lui, decise così di dedicare qualcosa per entrambi, prese un foglio, una penna e si mise a scrivere una lettera per la bambina. Dopo aver finito di scriverla posò la penna e si mise a guardarla (sarebbe troppo imbarazzante se Alessa la leggesse),pensò che sarebbe stato meglio metterla nella custodia del tesoro senza dirle niente: così, forse, se l’avesse letta tra qualche anno sarebbe stato meno imbarazzante.

Ripose la lettera nel suo cassetto appena prima di sentire la porta d’entrata aprirsi. (papà è tornato finalmente!) Leon si affrettò per andare a salutare il padre, ma lo vide con uno sguardo serio: aveva sempre uno sguardo serio, ma questa volta sembrava anche triste
“Leon: devo dirti una cosa…”

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Capitolo 9
*** capitolo 9 ***


9.
 
Il padre aveva fatto accomodare Leon sul divano, mentre lui si era seduto su una delle sedie poste davanti al tavolo. Poche volte, Leon, aveva visto suo padre con un espressione del genere ed era più che sicuro che la notizia che gli stava per dare non era delle più piacevoli. “Leon… sai che tra una settimana finirò quel lavoro urgente che sto svolgendo a Brahams e che torneremo a Silent Hill…” fino a quelle parole, tutto sembrava filare liscio, ma Leon sapeva che la vera questione era un’altra e che il padre stava cercando di girarci intorno per guadagnare tempo e permettergli di attutire il colpo.

“…però anche a Silent Hill non rimarremo per molto: sono stato trasferito all’improvviso in una clinica a Portland…” Leon non rispose: rimase con lo sguardo perso nel vuoto. “… l’ho appena saputo anchio, mi dispiace, so che è una notizia piuttosto improvvisa; ti assicuro che se avessi potuto te lo avrei detto prima”.

Leon rimase con un espressione neutra, ma dentro di se era distrutto. Aveva faticato per dire ad Alessa che sarebbe stato via per una settimana, figurarsi dirgli addio; non ne avrebbe mai avuto il coraggio, senza contare Alessa: si era finta indifferente ma Leon aveva notato che stava per mettersi a piangere quando aveva saputo la precedente notizia se gli avesse detto che non si sarebbero più visti, non riusciva ad immaginarsi la sua reazione.
Passò i giorni seguenti chiuso in camera: usciva solo per mangiare e andare in bagno; gli amici lo venivano a trovare ma il padre gli aveva mentito dicendo che stava male ed era meglio non avvicinarsi perché li avrebbe contagiati. Nei primi giorni il dottor Kauffman aveva provato a parlare con il figlio spiegandogli che era meglio così per tutti, ma neanche lui credeva a quelle parole: aveva saputo, dal discorso con Dahlia Gillespie, la situazione in cui si trovava Alessa; inizialmente credeva che fosse solo un esagerazione di una madre troppo preoccupata, ma sentendo i discorsi degli altri abitanti della città e del figlio aveva appurato che non sbagliava affatto. Quindi sapeva cosa avrebbe passato quella povera bambina appena Leon avrebbe cambiato scuola.

Neanche lui sapeva come affrontare la situazione: non poteva rinunciare al trasferimento, ma in questo modo Leon non glielo avrebbe mai perdonato. Il figlio non si era mai opposto alle sue decisioni ne aveva fatto storie perché sapeva che erano decisioni che andavano contro il suo volere: anche in questo caso Leon non si opponeva, almeno verbalmente, ma Michael preferiva vederlo arrabbiato piuttosto che depresso. Arrivati al quinto giorno a Brahams, Leon aveva passato metà delle giornate a deprimersi pensando a quando avrebbe dato ad Alessa la brutta notizia e l’altra metà a cercare una soluzione per il loro problema.

“Leon posso parlarti?” Chiese il padre: appena entrato nella stanza. Leon lo guardò, senza particolare interesse, si alzò dal letto e gli fece spazio. “Vedi Leon: non riesco più a vederti in questo stato” il ragazzo continuava a guardarlo con uno sguardo assente; “cercherò di trovare una soluzione, ma fino ad allora, per favore, sii allegro…” Leon annuì ma non disse altro. Appena il padre uscì, chiudendo la porta, una foto sul comodino cadde.
Molto lentamente il ragazzo si alzò per andare a riporla al suo posto, ma quando la alzò rivide il viso sorridente della madre (papà ha ragione: non posso continuare a comportarmi così, verrei meno sia alla promessa che ho fatto con la mamma che con quella che ho fatto con Alessa. Alla mamma ho promesso che sarei sempre stato ottimista con tutti e ho promesso ad Alessa che l’avrei sempre protetta, dovevo essere positivo e farmi forza anche per Alessa).

Nei giorni seguenti Leon tornò il bambino sorridente di sempre, conscio del fatto che rimanere depresso non avrebbe risolto il problema. Il dottor Kauffman era felice di rivedere il figlio così allegro e si ripromise di trovare una soluzione per il suo problema.

Il suo ultimo giorno a Brahams, Leon, lo passò con i compagni: lo erano andati a trovare a casa e si erano messi a giocare in camera sua. “mi dispiace veramente che dovrai andare via: spero che tornerai presto” disse dispiaciuto Edward; “già dovresti venirci a trovare più spesso, dovresti portare anche la tua amica: come hai detto che si chiama?” disse Jake; “Alessa… Alessa Gillespie!” rispose Leon; sapeva che l’amico fingeva di non ricordarsi il nome per provocarlo: non lo faceva per cattiveria, ma ogni tanto diventava insopportabile.

Poco dopo l’ora del pranzo, il dottore tornò a casa per prendere il figlio e ritornare a Silent Hill. “Ciao Leon torna presto… e salutaci Alessa!” fecero in coro i cinque ragazzi mentre la macchina del padre di Leon sfrecciava via.
Leon non riusciva a contenere la sua gioia: dopo una settimana, che sembrava un secolo, finalmente avrebbe rincontrato Alessa; rimaneva il problema del trasferimento a Portland ma avrebbe sicuramente trovato una soluzione in tempo.

Appena arrivato in città il dottor Kauffman portò Leon a casa: avevano portato via solo lo stretto indispensabile perciò i vari mobili vi erano ancora. Appena entrato Leon andò in camera sua a riporre gli oggetti presi apposta per il tesoro nel cassetto della scrivania e a posare sul comodino il fermagli a forma di farfalla: lo avrebbe regalato alla bambina il giorno dopo, durante l’intervallo.

Tornato in salotto vide il padre intento a rispondere al telefono: aveva la voce agitata e potè chiaramente sentirgli pronunciare il nome di Alessa; Kauffman riattaccò e si diresse verso la porta, ma venne bloccato dal figlio. “Leon devo andare!” disse il dottore con una mal celata agitazione “riguarda Alessa vero? Voglio venire anchio!”. Provare a dissuaderlo sarebbe stato inutile, decise così di accontentarlo e di portarlo con se, aspettò un attimo, che il figlio andasse a prendere il souvenir in camera sua e si diressero verso l’ospedale.

Appena arrivati trovò all’ingresso la madre di Alessa, Dahlia Gillespie, seduta su una sedia; Leon pensò bene di chiedere a lei cosa era successo ad Alessa, dato che il padre gli aveva risposto solo che  qualcuno gli aveva fatto una brutta cosa. “Signora!” gridò Leon appena fu davanti la donna: il padre si era intanto allontanato insieme a Coleman; Dahlia lo guardò sorpresa, era talmente presa dai suoi pensieri che non si era minimamente accorta del bambino. “Leon!” disse dopo averlo riconosciuto “signora! Cosa è successo ad Alessa?!” la donna lo guardò con una sguardo seria e gli rispose: Alessa era stata violentata nel bagno della scuola dal bidello. Anche se era piccolo, Leon sapeva benissimo cosa significava, aveva capito che quel bidello era un poco di buono dal primo momento in cui l’aveva visto.

Salutò Dahlia e si affrettò a raggiungere l’amica, non riusciva neanche a immaginare cosa stava provando in quel momento Alessa, l’aveva lasciata sola e si sentiva in parte responsabile per quello che le era successo. Corse verso la stanza che gli aveva indicato Dahlia ed entrò.

“Alessa!” esclamò Leon. Ansimava, aveva corso a perdifiato per venire da lei. Alessa lo guardò con occhi spenti. “Che diavolo è successo?”. Lei non rispose. Abbassò la testa e lasciò che i capelli le nascondessero la faccia. Non riusciva a guardarlo per la vergogna. Lui riprese fiato, poi si avvicinò a lei. Le sfiorò i suoi lisci e lunghi capelli neri. Provava verso il bidello qualcosa che non aveva mai provato per nessun altro: dell’odio profondo. Pensò a un modo per distrarla: a quel punto si ricordò del regalo. 

“Souvenir” disse il bambino, con un tiratissimo sorriso. “Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere. Se non ti piace, dillo pure apertamente, non mi offendo mica!”.
 
“…è bello…” mormorò lei, onesta. “Grazie…”. Lui si sedette sul letto, attento a non toccarla. Normalmente, le avrebbe chiesto come stava, ma sua madre gli aveva detto tutto. Poteva intuire come si sentisse.
 
“Leon…” chiamò lei. “Questa sera…mia zia mi purificherà. Mia madre ha deciso di darle retta: così tutto finirà ed io potrò vivere tranquilla”. Lui sorrise.
 
“Beh, meglio no?” commentò. “Potrai farti altri amici”; in questo modo avrebbe potuto evitare di dirgli la verità, dopo questa purificazione anche gli altri bambini avrebbero potuto fare amicizia con lei e se lui fosse partito avrebbe avuto qualcuno accanto: eppure Leon non si sentiva felice. Preso dai suoi pensieri non si accorse neanche che Alessa non aveva risposto.

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Capitolo 10
*** capitolo 10 ***


10.
 
Si sentì un terribile egoista, ma quella situazione gli piaceva quasi; essere l’uno il protettore dell’altro, in questo modo lei era indispensabile per lui e lui era indispensabile per lei, ma così lui non sarebbe stato più necessario per lei e quando sarebbe partito lei non avrebbe sentito la sua mancanza: senza contare che lo avrebbe dimenticato.

Forse non erano destinati a essere vicini, pensò,  avrebbe dovuto capirlo già da quando aveva detto che si sarebbe trasferita a Brahams: invece ora si metteva di mezzo anche il suo trasferimento a Portland e questo rito della purificazione. Alessa meritava di essere felice: soprattutto dopo ciò che aveva passato. Pensò così che era meglio non informarla delle sue angosce.

La giornata a scuola passò lenta e silenziosa: i ragazzi lo ignorarono per tutta la lezione, in compenso non gli arrivò nessun insulto (forse è per via dell’assenza di Alessa). L’unica cosa rilevante che accadde durante la lezione fu all’arrivo di Leon in classe, prima di sedersi notò il banco, dal lato di Alessa, completamente rovinato: sicuramente lo avevano scheggiato subito dopo che Alessa era finita all’ospedale a causa del bidello.

Aspettò con impazienza il suono della campanella: il padre lo aveva informato che quel giorno Alessa sarebbe stata dimessa e gli aveva promesso che poteva accompagnare l’amica a casa; prese con attenzione gli appunti della lezione, in modo da darli ad Alessa.

Appena suonata la campanella, il bambino si diresse verso l’uscita: questa volta ad aspettarlo, vicino al marciapiede, vi era Coleman, tranne i primi giorni non era più venuto a prenderlo. Arrivarono in poco tempo davanti l’ospedale “grazie Coleman!” disse il bambino scendendo dalla macchina, mentre questi era intento a parcheggiare.

“Ciao papà!” gridò Leon appena entrato nella reception: il padre era intento a parlare con Lisa*; “Ciao tesoro!” disse , lei, battendo sul tempo il dottore: Kauffman indicò al figlio un corridoio dove stavano uscendo una bambina in barella e una donna dietro di lei che la portava.

Al bambino si illuminò il volto “Alessa!” anche la bambina, che in quel momento si accorse di lui, rimase piacevolmente colpita della visita dell’amico: il padre gli aveva promesso che non le avrebbe detto nulla, per farle una sorpresa. Alessa indossava un pigiama lilla con delle pantofole celesti, in seguito a quello che le era successo il dottor Kauffman le aveva consigliato di riposare e di non muovere troppo le gambe: almeno per tornare a casa sarebbe stata aiutata dalla madre.

Tutti e tre (Dahlia, Alessa e Leon) salirono sulla macchina di Dahlia: lei era al posto di guida mentre i due bambini erano seduti nei posti dietro. “Sei stato molto gentile a venire a trovare mia figlia” disse la signora Gillespie: anche se l’aveva visto poche volte, adorava quel bambino, dato che era l’unico, oltre lei, a voler bene ad Alessa; aveva sempre temuto di vedere la figlia sola e abbandonata da tutti ma negli ultimi mesi aveva visto una speranza in quel buffo bambino con i capelli bianchi.

“di nulla, signora: per me è stato un piacere!” disse notando che le gote di Alessa avevano raggiunto una tonalità rossastra. “comunque credo che da domani non sarò più indispensabile per Alessa” disse con un pizzico di tristezza nella voce: Dahlia sembrò capire a cosa il bambino si riferisse, e guardò per un attimo la figlia con uno strano sguardo (forse era qualcosa di segreto, che io non dovevo sapere). “a proposito! Lo sai che ho ritrovato il tuo banco tutto rovinato e scheggiato?” cercò di cambiare argomento; “Grazie per avermi avvertito, ma sono abituata a queste cose” rispose Alessa con una voce tra l’imbarazzata e rassegnata: Leon si fece serio “non devi dire così Alessa: potrebbero entrarti delle schegge di legno nelle mani e ferirti” a quelle parole Alessa divenne completamente rossa mentre a Dahlia scappò un sorrisetto.

Poco dopo i tre arrivarono a casa Gillespie: Leon non vi era mai stato, era una casa confortevole situata ai confini della città. Leon portò Alessa fino alle scale: a quel punto si fece aiutare dalla madre della bambina. “questa è la mia stanza!” disse Alessa sorridente: era una piccola stanza piena di disegni (fatti da lei) sulla sinistra vi era un piccolo lettino mentre sulla destra era stata messa una scrivania dove, probabilmente, Alessa disegnava e studiava.

Rimase a farle compagnia fino al tardo pomeriggio, Leon sapeva che lei e sua madre dovevano uscire per preparasi a quello strano rito. “la ringrazio signora per avermi riaccompagnato a casa” disse Leon alla donna prima di scendere dalla macchina; “figurati…anzi… sono io a doverti ringraziare per tutto quello che stai facendo per Alessa” a Leon non servivano ringraziamenti, per lui, stare accanto ad Alessa, era un piacere; proprio per questo non voleva essere egoista e voleva pensare al bene di Alessa… ma non avrebbe sopportato di perderla: avrebbe trovato una soluzione che avrebbe reso felici entrambi.
Appena entrato in casa cercò lo sguardo del padre; “papà ci sei?” chiese dopo averlo cercato nel salotto senza successo; “eccomi Leon cosa c’è?” rispose il padre, mentre scendeva trafelato le scale: aveva fatto il turno di notte e in più era rimasto in ospedale fino all’ora di pranzo, perciò, probabilmente, stava riposando. “scusami: ti ho svegliato?” il padre disse di no: anche se negava l’evidenza dato che tratteneva a stento uno sbadiglio. “papà tu dici sempre che quando c’è un problema, bisogna affrontarlo” il dottore annuì; “il problema è che noi tra una settimana partiremo e tra poco Alessa verrà accettata da tutti e non avrà più bisogno di me, in questo modo lei sarà finalmente felice ma…” a concludere la frase fu il padre “…non sarai felice tu” il ragazzo si incupì un attimo, ma poi ricominciò a parlare “ti prego chiedi a sua madre di trasferirsi a Portland con noi” in un primo momento il padre sorrise pensando che il figlio stesse scherzando, ma dopo averlo visto negli occhi capì che era serio “se sei arrivato addirittura arrivato a parlarmene faccia a faccia, vuol dire che sei determinato… domani ne parlerò con Dahlia Gillespie”

Leon andò a letto felice, convinto che la situazione si sarebbe risolta nel migliore dei modi; lui ed Alessa sarebbero partiti per Portland e sarebbero stati felici per sempre: è buffo il fatto che a smontare tutti questi sogni basti una semplice telefonata. La telefonata in questione avvenne durante la notte, il dottor Kauffman andò a rispondere (deve essere sicuramente un emergenza in ospedale) Leon si alzò: conscio del fatto che il padre lo avrebbe portato con lui. Appena finito di vestirsi, il ragazzo raggiunse il genitore “Papà dobbiamo andare in ospedale?” ma il padre non rispose, aveva lo sguardo perso nel vuoto e un’espressione che Leon non aveva mai visto; era sbiancato di colpo e  deglutiva a fatica. “Leon dobbiamo sbrigarci: ti spiegherò dopo”.

Detto questo il dottore corse verso la macchina, seguito a ruota dal figlio. Appena arrivati all’ospedale, il dottor Kauffman intimò Leon di aspettarlo per poi dirigersi di corsa verso il corridoio che portava alla sala operatoria: lungo la strada incontrò Coleman “Dottore la situazione è veramente critica…” disse l’assistente, anch’esso sconvolto “…ha riportato delle ustioni di terzo grado su tutto il corpo: non so come ha fatto a salvarsi” i due mentre parlavano iniziarono a correre verso la sala operatoria “è stata portata qui dall’agente Gucci…”
 
Quella fu l’ultima frase che Leon riuscì a sentire (il papà di Tom è qui!) da quello che aveva capito, era successo qualcosa di veramente brutto: non sapeva ancora che cosa, ma non aveva mai visto ne suo padre ne Coleman in quelle condizioni. Si diresse alla ricerca dell’agente di polizia; lo trovò all’ingresso con entrambe le mani fasciate, stava parlando con un altro agente di polizia e con Lisa: non si erano accorti di lui. “dovevo fare più in fretta; se avessi corso di più forse…” iniziò a dire l’uomo, mentre era intento a guardarsi le mani. “la colpa non è assolutamente tua, ma di quelle persone…” rispose l’altro poliziotto “…non oso pensare le condizioni della madre: temo che quella povera donna non uscirà più dal Cedar Grove” nel discorso si intromise anche Lisa “Non oso pensare quando lo verrà a sapere Leon: sono rimasta sconvolta persino io che ho visto quella bambina una volta sola” Dire che Leon rimase sconvolto da quell’affermazione sarebbe un eufemismo.

Passò il resto della nottata seduto sulla sedia, posta vicino alla sala operatoria: non riusciva in nessun modo a trattenere le lacrime. (chi può essere stato? Perché?) queste erano le domande che attanagliavano il ragazzo da ore; forse non avrebbe mai avuto una risposta alla seconda domanda, ma una cosa era certa: avrebbe trovato l’artefice di tutto questo e gliel’avrebbe fatta pagare molto cara.

*l’infermiera dei capitoli precedenti

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Capitolo 11
*** capitolo 11 ***


 
11.
 
Ustioni di terzo grado? Quello non descriveva neanche lontanamente le condizioni di Alessa. Perfino Leon, quando l’aveva vista, aveva dovuto controllare la cartella clinica per convincersi che era proprio lei. Lì per lì rimase sconvolto (addirittura più di prima), poi tentò di parlare con lei. La bambina poteva solo guardarlo, con quegli occhi rossi e spalancati, tentando di descrivergli la sua situazione. Lui stava accanto a lei, le parlava e le sorrideva, cercando costantemente di frenare le lacrime e di sopprimere l’odio che provava per quelle persone.

Aveva scoperto che a ridurla in quel modo erano state proprio le persone che le avevano promesso aiuto: tra cui sua zia. Alessa era del tutto irriconoscibile: il suo corpo era annerito, tranne alcune chiazze di rosa dove fuoriusciva sangue e pus; nonostante l’intervento l’avesse salvata dalla morte immediata, le aveva allungato la vita solo di un altro po’.

Dahlia era in cura da uno psichiatra, anche se si vedeva lontano un miglio che c’era ben poco da fare: lo shock le aveva dato il colpo di grazia e lei ormai diceva frasi che avevano un che di mistico, di trascendentale. La sua voce si era arrochita e raffreddata. I primi giorni non fece che chiedere di Alessa, delle sue condizioni e se si sarebbe salvata.

 
Ma sapeva perfettamente che non si poteva fare nulla se non imbottirla di antidolorifici per evitarle un inferno. Il giorno dopo Leon andò a trovarla (dopo essere passato da Alessa), ma fu costretto a parlare con lei da una certa distanza: aveva già aggredito due persone, pensando che fossero i colpevoli della sorte di Alessa. Quando il ragazzo provò a parlarle lei non reagì minimamente; probabilmente non lo aveva neanche riconosciuto, al secondo richiamo del giovane, la donna lo guardò intensamente negli occhi e gli consegnò un foglio che teneva in una delle sue tasche “me lo ha affidato Alessa: tieni!” il ragazzo vagamente incuriosito e impaurito prese il foglio e rimase stupito del contenuto.


Vuoi essere il mio fidanzato?
[_] SI
[_] NO



(allora era questo che Alessa stava scrivendo quel giorno) probabilmente era l’unica buona notizia degli ultimi giorni. Dopo essere uscito dalla Casa di cura “Cedar Grove” salì in macchina e si rifece accompagnare da Coleman all’ospedale: seduto sul sedile posteriore, Leon era intento a guardare il foglietto consegnatogli da Dahlia; non era sicuro che contasse qualcosa per lei, ormai, ma in ogni caso per lui contava e lei meritava una risposta.
“Ciao Alessa: scusa il ritardo” la bambina non rispondeva, ma Leon lo sapeva benissimo, il padre gli aveva riferito che aveva perso l’uso della parola, come molte altre cose. Leon iniziò a parlarle del più e del meno cercando di distrarla dalla sua situazione.

“A proposito, ho una cosa da darti” disse improvvisamente. “Avrei dovuto dartelo prima, ma a quanto sembra, l’importante è che ti arrivi, no? E non te la prendere se ci ho messo tanto: ci ho messo parecchio anche a riceverlo”. Leon si alzò e fece una cosa che mai nessuno aveva mai osato fare: scostò la tendina e si affacciò. Alessa lo guardò: non c’era nessuna barriera tra i due. Dalla piccola fessura aperta dal corpo di Leon entrò una sottile aria fresca, che accarezzò le piaghe della bambina. A Leon parve di notare che l’amica era sollevata da questa sua azione, lo guardava con uno sguardo pieno di gratitudine (o almeno così sembrava).

Quando Leon si ritrasse e la richiuse, lo sguardo della bambina tornò serio e spento come se a darle quel piccolo di gioia fosse stata la fessura che aveva aperto Leon, e richiudendola l’avesse riportata con se. Alzò lo sguardo e notò che Leon aveva messo qualcosa sulla tenda alta. Strizzò gli occhi e riuscì a metterlo a fuoco.

 
 
 
Vuoi essere il mio fidanzato?
[√] SI
[_] NO
 
 

Alla vista di quel bigliettino sembrò rimanere colpita. Probabilmente si sarebbe volentieri voltata verso di lui, ma non poteva muoversi.
 
“Certo che ce ne hai messo di tempo” borbottò la voce di Leon da fuori. Era terribilmente imbarazzato, anche lui aveva pensato di chiederglielo, ma non aveva mai trovato ne il modo ne il coraggio di farlo. “Comunque nessun problema; se ti servisse qualcosa…qualunque cosa…conta pure su di me” sapeva che di li a pochi giorni sarebbe partito per Portland, e non glielo aveva neanche detto, ma sarebbe rimasto fino alla fine accanto a lei: almeno questo se lo meritava.

Il giorno dopo leon si diresse a casa Gillespie: voleva prendere qualche disegno e portarlo ad Alessa per distrarla un po’; il giorno prima “dell’incidente” di Alessa, aveva visto sua madre prendere le chiavi di casa da sotto lo zerbino. La casa era rimasta uguale alla prima volta che l’aveva vista; dato che non era entrato più nessuno, a Leon parve normale. Si diresse in camera di Alessa e aprì il cassetto (spero che non ti arrabbierai: prendo solo un disegno e poi vado via) il primo intento però scomparve subito. Nel cassetto vi erano alcuni disegni che il bambino non aveva mai visto.

Il primo era il disegno che Alessa gli aveva promesso. A Leon parve stupendo, gli sembrava che il mare fosse veramente da lui, e vedere lui ed Alessa tenersi per mano vicino alle onde lo pervase di innumerevoli emozioni.
Il secondo era di un paesaggio, vi era un prato verde con al centro Alessa, in alto a sinistra il piccolo notò una scritta

Incompleto

A Leon parve strano: Alessa non lasciava mai dei disegni a metà. Appena vide il terzo, al piccolo scappò una lacrima: il disegno raffigurava i due seduti sul tappeto nella stanza B151, la stanza dove i due avevano giocato insieme per la prima volta, la stessa stanza dove adesso Alessa stava passando l’inferno.
Non fare vedere a Leon: morirei di vergogna

Leggendo quelle scritte al pianto del bambino si mischiò una piccola risata. Ripose i piccoli capolavori dell’amica e prese un disegno strano: non aveva mai visto neanche questo; solitamente Alessa disegnava paesaggi ma questo sembrava rappresentasse un mostro con un enorme elmo in testa. Prima di uscire, Leon pensò che sarebbe stato carino lasciare qualcosa di suo, in cambio del disegno preso: guardò nel marsupio e prese la lettera che aveva scritto a Brahams; in seguito a ciò che le era successo gli parve come deriderla se gliel’avesse consegnata.

La poggiò nel cassetto, nel punto esatto dove prima stava il disegno e poi uscì.
Arrivò l’ultimo giorno per Leon: quella sera lui e il padre, sarebbero partiti per Portland.  Il comportamento di Alessa era sempre più strano, i suoi occhi avevano uno sguardo che il piccolo non le aveva mai visto: uno sguardo carico d’odio; un’altra cosa strana era stato il comportamento di Lisa, Leon l’aveva vista uscire quasi spaventata dalla stanza.


Il biglietto e il disegno erano stati riposti sul comodino: Probabilmente da Lisa; mentre Leon parlava sentì come dell’aria fredda soffiargli sul collo, si voltò e vide la porta leggermente aperta, era strano, ricordava benissimo di averla chiusa. Non fece in tempo a dire niente che lo sgabello su cui poggiava scomparve da sotto i suoi piedi; per evitare di cadere provò a reggersi al comodino, con l’unico risultato di far cadere anche quello, riversando per terra tutto ciò che c’era appoggiato.


Cercò di rialzarsi, nonostante gli facesse male la testa, e guardò nella direzione dello sgabello per scoprire la causa della sua caduta: davanti a lui c’era una bambina, era stata lei a prendergli lo sgabello e ora vi si trovava in piedi. A sorprendere Leon, però, fu l’aspetto della bambina: aveva un vestito viola come il grembiule della Midwich school con un paio di stivali di gomma, abbinati; i suoi capelli neri e leggermente mossi le ricadevano fin dietro la schiena, mentre due profondi occhi blu scrutavano oltre la tenda bianca che divideva il lettino dal resto della stanza; insomma, a parte la cenere che le ricopriva il viso e quelle inquietanti vene viola che le partivano dagli occhi, era la copia identica di Alessa

“Povera bambina…” cominciò. Aveva la sua voce, solo molto più fredda. “Sei messa veramente male. Chi ti ha fatto una cosa simile?”. Alessa rantolò. “Non c’è bisogno che ti sforzi di rispondermi: so tutto. La mia era solo una domanda retorica. La vera domanda è: adesso cosa vuoi fare?
 
“So che è frustrante dover stare tutto il tempo sdraiata dentro un affare del genere. Ti viene da pensare. E se pensi le cose giuste, finisce che scopri delle verità che prima avresti negato, ad esempio il fatto che tu sei in grado di odiare qualcuno. Sono qui per vedere fino a che punto odi tua zia”. Non era chiaro chi o cosa fosse, però doveva assolutamente intervenire, ma sentì dentro la sua testa come un messaggio telepatico (pensi davvero di avere il diritto di dirle qualcosa, dopo che non hai mantenuto la tua promessa?) Leon rimase paralizzato (le avevi promesso che l’avresti protetta da qualunque cosa ed ora ti senti in diritto di suggerirle cosa scegliere?) Leon non riusciva più a dire niente.

“Mettiamola così: ti sto proponendo una scelta” continuò la bambina. “Preferisci restare qui inerme a vegetare per i pochi giorni che ti restano, pensando e odiando il mondo esterno? In questo caso, io qui non ho nulla da fare: così come sono venuto me ne vado.
 
“Ma puoi rendere loro pan per focaccia; con il mio aiuto, possiamo far capire loro cos’hanno fatto e farli pentire. Tu hai sofferto abbastanza: adesso tocca a loro, non credi?”. Appoggiò una mano sulla tenda. “Ti prometto che tutti sprofonderanno nel tuo incubo”.

“Alessa” esclamò Leon. La bambina si riscosse e lo guardò. Anche l’altra bambina si volse verso di lui.
 
“Volevi dirle qualcosa?” chiese, gelida, conscia del fatto che il piccolo non si sarebbe intromesso in nessun modo. Lui annuì.
 
“Non ho ben capito da dove sei sbucata fuori, ma se puoi farla star meglio ti lascio carta bianca. Alessa, ricordati cosa ti ho detto: per qualunque cosa, conta pure su di me”.
“Non aspettavo altro” disse l’altra bambina, con un espressione da gelare il sangue nelle vene. Guardò verso le cose cadute dal comodino ed esclamò “credo che possa andare” dalla sua gola uscì uno strano verso come un conato di vomito, lo strano verso ne seguì altri, finchè dalla bocca della bambina uscì uno strano liquido nero insieme ad un oggetto d’orato.

Sembrava un talismano, vi era un triangolo incastonato in un cerchio e, per quanto sembrasse assurdo, emanava un energia malvagia “con le tue attuali sembianze non puoi esserci di aiuto, ma se vuoi veramente renderti utile, prendi questo.” Leon allungò la mano per prendere l’oggetto ma appena lo toccò, intorno a lui si fece il buio.

30 anni dopo

Sharon Da Silva si guardò intorno un po’ spaesata, si trovava in quella stanza da ormai qualche ora, eppure non aveva avuto il coraggio di toccare nulla; quella donna strana ed anziana l’aveva trovata a vagare per le strade di Silent Hill, poco dopo l’incidente, forse avrebbe fatto meglio ad aspettare che la mamma si svegliasse. La donna le aveva detto, prima di uscire, di fare come se fosse a casa sua; pensò, così, di curiosare nei cassetti della stanza.

All’interno vi erano dei disegni; quello che colpì di più la piccola Sharon era il disegno con la scritta
Incompleto

“Certo che manca qualcosa mia cara Alessa (il nome era scritto sull’album)” prese uno dei pastelli sulla scrivania e aggiunse un particolare al disegno, aveva disegnato un bambino con i capelli bianchi che teneva la mano ad Alessa (nessuna cosa può essere completa se non hai qualcuno con cui condividerla) pensò. Stava per riporre il foglio nel cassetto, quando ne vide un altro ricoperto dalla polvere. A prima vista gli parve un altro disegno, ma prendendolo in mano notò che era una lettera: la madre le aveva insegnato che non era educato curiosare tra le cose altrui, ma non riuscì a trattenersi
 
Ciao Alessa, non so perché ti sto scrivendo questa lettera
Ne so se la leggerai, ma non mi importa io voglio scrivertela lo stesso.
Proprio oggi ho parlato con il mio amico Tom (è un bravo ragazzo,
gli ho promesso che un giorno vi presenterò) e ho saputo che i suoi
hanno divorziato, ciò mi ha fatto pensare a ciò che è successo ai nostri
genitori e mi ha fatto riflettere su noi due; non ho mai preso
in considerazione l’eventualità di una nostra divisione e spero di non doverlo
mai fare: proprio per questo spero che non leggerai mai questa lettera. Ma
potrebbe succedere, forse non ora, ma tra dieci anni o tra venti, chissà…
ciò che mi preme di dirti è che, anche se ci perderemo di vista per molti anni
e il nostro aspetto sarà del tutto diverso, non sarà affatto un problema: perché
quando ti rivedrò, riuscirò a vedere nel profondo della tua anima, la bambina dolce
e timida che eri e che sarai per sempre, la stessa cui ho voluto bene e che
continuerò ad averne fino alla fine. Sto cominciando ad allungarmi troppo,
ricordati solo questo: qualunque scelta seguirai, qualunque cosa farai, qualunque
cosa diventerai… io ci starò sempre , in un modo o nell’altro.

Senza un apparente motivo, alla piccola cadde una calda lacrima lungo il viso, non credeva di commuoversi a tal punto, dato che questa Alessa non la conosceva neanche, lei era una bambina molto sensibile però…
A interrompere questi suoi pensieri fu un lontano stridio metallico, come se qualcuno stesse trascinando un pesante oggetto di ferro sul pavimento; Sharon guardò fuori dalla finestra e vide nuovamente quello strano essere: la stava seguendo da quando era giunta in città, sembrava non sapere con precisione dove fosse, ma continuava a vagare per la strada come se fosse l’istinto a guidarlo; si muoveva con fatica a causa dell’enorme arma e del pesante elmo che portava, mentre strani versi uscivano dalla sua bocca, alla piccola sembrò, per un attimo, di sentire un nome in mezzo a quei suoni distorti, sembrava assurdo ma aveva pronunciato il nome di quella bambina… Alessa.


eccoci giunti alla fine della storia: scusate se ci ho messo così tanto ad aggiornare. ringrazio tutti coloro che hanno seguito la mia storia, in particolar modo ringrazio Leonhard, teschietta e Memi_Payne. il primo per avermi dato l'autorizzazione a scrivere questa storia, mentre le altre per le frequenti recensioni. Vi saluto. Bye-Bye

 

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Capitolo 12
*** extra ***


Extra.

30 anni prima (il capitolo precedente era terminato con un balzo temporale di 30 anni, quindi adesso si ritorna alla storia di Leon)

Era come essere in un incubo. Doveva essere per forza un incubo. Il mio corpo non rispondeva più ai miei comandi, potevo vedere quello che succedeva intorno a me ma non potevo reagire in nessun modo.
Non saprei dire da quanto tempo ero in quella posizione: nello stesso momento in cui quella bambina identica ad Alessa mi aveva consegnato quella specie di talismano ero caduto a terra immobile, senza possibilità di muovermi. Non ne avevo perso la sensibilità, anzi sentivo tutto il mio corpo dolorante, se avessi potuto mi sarei messo a gridare dal dolore: le ossa sembrava quasi che spingessero per farsi spazio tra i muscoli e la pelle si squarciasse a causa della mia massa muscolare, per quanto impossibile fosse, stavo crescendo in modo incredibile.

Ogni tanto buttavo l’occhio, l’unica cosa che potevo muovere, verso Alessa: non si era mossa, non che potesse farlo nelle sue condizioni, ma da quando aveva poggiato la sua mano su quella “dell’altra Alessa” sembrava ancora più immobile ed inquieta. Forse avrei dovuto fermarla, impedirle di affidarsi a lei… ormai era tardi, in ogni caso io le avrei dato il mio appoggio e le sarei rimasto per sempre a fianco.
Eravamo rimasti da soli in quella stanza, appena “l’altra lei” aveva toccato la mano di Alessa la stanza era diventata buia e i muri si erano sgretolati, lasciando spazio a un mondo di sangue e ruggine. Subito dopo finito il “lavoro”, senza scomporsi minimamente, si era incamminata verso la porta sussurrando “devo andare a cambiare anche il resto del set”.

Era uscita fuori da qui, voleva fare del male alle persone qui fuori, pensai. Qui fuori vi erano tanti innocenti: come ad esempio mio padre, Coleman, la dolce Lisa, l’agente Gucci, Dorothy, Annette, Jack, Edward, Tom o la signora Gillespie… ma c’erano anche delle persone che non meritavano alcuna pietà come ad esempio i miei compagni di scuola, la zia di Alessa o il bidello Colin.

I minuti passarono e con essi anche le ore, ma io continuavo a rimanere immobile disteso sul pavimento, avevo anche provato più volte a comunicare con Alessa ma la voce mi era del tutto scomparsa: non so se fosse a  causa di mancanze di forze o per altro.

Ad un certo punto sentii il rumore della porta che si apriva: “lei” doveva essere tornata. E infatti vedo la sua figura muoversi veloce e silenziosa, quasi fosse un ombra, mentre si apprestava ad avvicinarsi ad Alessa. Le sussurrò qualcosa che non riuscii a sentire e poi fece due passi verso di me.

I nostri sguardi sono puntati uno sull’altro: il mio carico di disprezzo e rabbia (rabbia per non poter fare nulla) e il suo freddo ma con un pizzico di soddisfazione (probabilmente nel vedermi riverso inerme a terra).
“sembra che la trasformazione sia completa” Disse soddisfatta guardando minuziosamente il mio corpo. Trasformazione? Era questo che mi era successo? Il dolore che sentivo nel corpo fino a pochi minuti fa era dovuto a quello? Senza alcuno sforzo mi afferrò per il collo, che trall’altro sentivo più muscolo e robusto, e mi trascinò fuori dalla camera.

Guardai con la coda dell’occhio Alessa: sentivo che non l’avrei più rivista per molto tempo. “bene” Sibilò la bambina davanti a me, con un ghigno. “oramai la trasformazione è avvenuta… manca solo il tocco finale per completare l’opera” detto questo raccolse da terra un oggetto che, a causa del buio, non riuscii subito ad identificare.

Era di una forma triangolare: una piramide? Era grande tanto quanto lei, nonostante ciò riusciva a tenerlo senza sforzo. Appena mi fu vicina riuscii a vedere meglio il misterioso oggetto: era una specie di casco di ferro nero a forma di piramide. “da oggi in poi sarai Pyramid Head: il guardiano dell’otherworld” Sorrise nuovamente in modo cattivo mentre mi infilava quel pesante e duro casco di ferro.
E quella fu l’ultima volta che il mio viso vide la luce del sole o il buio della notte.

 
10 anni dopo

Avevo appena compiuto il mio “lavoro quotidiano” e come al solito, dopo la scomparsa delle tenebre, andai a riposare dentro una delle case della città. Ormai non importava più, ogni abitazione era completamente disabitata, gli abitanti della città non giravano più per le strade: ognuno per un motivo diverso. Erano ormai trascorsi diversi anni dalla notte del grande incendio. Molte persone erano morte in quella terribile disgrazia, altre erano riuscite ad andarsene , ma altre avevano avuto una sorte ancora peggiore.

Tutti coloro che erano coinvolti nel maltrattamento di… ma non solo loro, erano stati rinchiusi in questa dimensione demoniaca. Tutti i nostri vecchi compagni erano stati trasformati in orribili e grotteschi mostri privi di ragione.
Anche il bidello Colin era stato trasformato, ma non prima di essere ucciso. Io lo sapevo benissimo… ero stato proprio io ad ucciderlo: doveva pagare per ciò che le aveva fatto. Ma ci sono state anche delle vittime innocenti, tra cui Coleman e Lisa. Il primo è stato ucciso dall’altra lei, quella bambina che si spaccia per la mia… mentre Lisa era diventata cieca ma almeno era viva.

Si trova nella stanza dell’ospedale insieme a… ma io non vi ero mai entrato, non la vedevo da anni. Stavo cominciando a dimenticare, non ricordavo più ne mio padre e neanche mia madre. Ma la cosa che mi addolorava di più era il fatto che avessi dimenticato anche il “suo” nome. Il nome di lei…

 
29 anni dopo (ambientato durante Silent Hill Revelation)

-Non sei molto socievole o sbaglio?-

-Sono solo un po’ timida. Scusami-

-Tranquilla: non è un male essere timidi. Allora, come ti chiami?-

-…-

Ormai solo queste poche parole albergavano nella mia mente. Doveva essere una parte molto importante della mia vita: peccato che ormai per me non contava più nulla. Non ricordavo neanche più chi fossi, avevo perso la mia vecchia identità e avevo acquisito quella di Pyramid Head: il guardiano dell’Otherworld.

Fu proprio “lei” a darmi quel titolo, ma neanche questo ormai contava più nulla per me. Lei era appena scomparsa, era stata cancellata dal “frammento” venuto da fuori. Quella ragazza bionda per me così famigliare.
 
Adesso che “lei” era scomparsa, per noi “creature” era finita, non mi dovrebbe interessare più nulla di ciò che ora succederà. Eppure io sentivo dentro di me come il bisogno di aiutare il frammento. Dovevo riuscire a capire cosa fosse per me quel bisogno così impellente: forse quella era l’ultima speranza che mi rimaneva di ritrovare me stesso.

Percorsi velocemente i corridoi nascosti sotto il luna park. Sopra di me sentivo i versi degli altri mostri e i lamenti dei dannati: ora che la loro guida non c’era più, erano tutti in preda al panico. Tutto sarebbe finito quel giorno, in un modo o nell’altro.

Raggiunsi la cattedrale dove i peccatori si nascondevano ormai da anni. il Missionary, la creatura che la sacerdotessa aveva assunto, si trovava al centro della sala, mentre i fanatici correvano ovunque in preda al panico. Il Missionary si avvicinò ad una ragazza in ginocchio, d’avanti a lei.

Era la stessa ragazza bionda che avevo seguito prima

-mi chiamo…-

-… piacere, io sono…-

Di nuovo quei ricordi entrarono prepotenti nella mia mente. Vidi il mostro brandire la sua lama contro di lei e subito, senza sapere neanche io il perché, la fermai con la mia mannaia.
Subito iniziammo a combattere ma, seppur ero più forte, lei era più veloce di me e schivava, per poi colpirmi a tradimento. Stavo perdendo. Sarei sicuramente morto… e non sapevo neanche perché ero lì.
-Puoi farcela Leon!- Gridò la ragazza all’improvviso.

Tutto mi fu di colpo più chiaro.

-Non sei molto socievole o sbaglio?-

-Sono solo un po’ timida. Scusami-

-Tranquilla: non è un male essere timidi. Allora, come ti chiami?-

-mi chiamo “Alessa Gillespie”-

-Ciao Alessa, piacere, io sono “Leon Kauffman”-

Alessa. Come avevo potuto dimenticarmi di lei. come avevo potuto dimenticare la metà perfetta della mia anima? Con un rapido movimento della mano agitai la mia arma e decapitai finalmente il Missionary.
Era finita.

Ero uscito dai sotterranei e mi ero avvicinato alla giostra del carosello. Luogo dove, fino a poco fa, giaceva lei. adesso invece era davvero la fine per me? Nonostante ciò, però mi ritenevo soddisfatto perché…
-Perché lo hai fatto?- una voce mi fece voltare… era lei. era la ragazza bionda. Mi aveva seguito. Si era avvicinata a me come se niente fosse. Come fosse stata sicura che io non le avrei mai fatto del male. E in effetti era così.

-Perché sei intervenuto? Perché mi hai salvata?...Leon?- Lei si ricordava di me… da qualche parte, nella sua anima, c’era ancora posto per me… per noi. Ed io, a quel punto, feci una cosa che da ormai 40 anni non facevo più: parlai.

-volevo… speravo di riprovare, di nuovo quelle sensazioni, almeno un’ultima volta. Volevo riprovare le stesse emozioni che provavo quando vedevo, incantato, lei, mentre disegnava. Volevo rivedere almeno per l’ultima volta Alessa-

Lei sembrò rimanere senza parole e continuò a guardarmi in silenzio. –Ma ormai non importa più: lei adesso vive dentro di te ed io, tra poco, non esisterò più… vuoi sapere una cosa però?...- Le chiesi voltandomi verso di lei.
Sollevai il braccio grosso e ferito e sfilai il casco da Pyramid Head: le mie ultime parole dedicate a “lei” le volevo dire come Leon, non come il custode di Silent Hill.

-… Io mi sento soddisfatto lo stesso. Mi sento in pace con me stesso. Perché so che un noi esiste ancora, esisterà finchè tu vivrai. Perché dentro di te rimarranno i ricordi di noi due insieme, dentro di te rimarrà sopita Alessa e con essa rimarrà la metà dell’anima che le ho donato. Una parte importante della mia vita che avrei tanto voluto condividere con lei- Le dissi, senza riuscire a fermare una piccola lacrima. L’ultima lacrima che versai.

Rimisi il caso e mi allontanai da lei. senza darle il tempo di dire niente. Era finita ormai. Leon Kauffman non esisteva più in me. Era andato via insieme a lei. ormai io ero a tutti gli effetti una creatura dell’Otherworld di Silent Hill: avrei passato il resto della mia vita come giudice delle anime dannate di questo mondo.

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