A journey of a thousand miles begins with a single step.

di _Wild_Heart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo.
 
   Non c’era brezza, luce romantica o sogno premonitore che disturbasse il sonno di Connor, ma una fastidiosa sveglia impostata poche ore prima sul suo iPhone per tenere fede ad una promessa molto più grande di lui. La vibrazione insistente faceva tremare il cuscino sotto il quale aveva nascosto il suo telefono sperando che a nessun altro potesse giungere quel richiamo all’avventura. Sì, avventura, perché era di questo che si trattava infondo. Nessuna certezza e nessuna raccomandazione. Solo una promessa che sembrava provenire da un’altra vita.
Dopo quasi un minuto di quel martellante rumore, Connor riuscì a svegliarsi del tutto. Si passò una mano sul volto segnato dal sonno e dopo un sospiro recuperò il telefono e pose fine al suo tormento. Si alzò dal letto avvertendo il fastidio che soltanto un letto troppo caldo poteva procurare. La calda estate romana non lasciava a Connor la possibilità di poter dormire al fresco come a casa sua. Una bella doccia sarebbe stata la sua priorità, ma magari il rumore dell’acqua scrosciante avrebbe potuto svegliare i suoi genitori che dormivano nella stanza affianco. Perfetto, sarebbe andato via ancora con quella sensazione di caldo soffocante addosso. Cercando di fare meno rumore possibile si avvicinò al suo armadio, dove la sera prima aveva riposto il suo zaino già pronto. Lo prese insieme a dei vestiti abbastanza comodi da indossare. Mise, poi, lo zaino vicino alla porta, quasi per paura di poterlo dimenticare. Con la mente ancora annebbiata e i movimenti rallentati dal sonno iniziò a vestirsi, guidato soltanto dalla fioca luce del lampione che illuminava la strada sottostante. Per un attimo si perdette a ragionare su quante probabilità avesse di riuscire nella sua missione completamente da solo e in una città straniera. Certamente non sarebbe stato facile, ma se tutto sarebbe andato secondo i suoi piani probabilmente sarebbe riuscito nel suo intento.
Adesso che aveva sostituito i pantaloncini con cui era solito dormire con un paio di jeans e una t-shirt, credeva sarebbe morto bruciato appena avesse messo piede fuori dalla porta. Infilò le vecchie vans consumate e dopo una breve sosta in bagno si inginocchiò accanto al consumato e pieno zaino per controllarne ancora una volta il contenuto. Proprio sopra ai vestiti ed altri beni di prima necessità trovò con sollievo l’oggetto più importante di tutti senza il quale nulla di tutto ciò che lo aspettava sarebbe potuto accadere: una lettera indirizzata “al mio caro amico, Connor Ball”.

Note delle autrici:
salve a tuttiiiii!!!!! Siamo tornate alla riscossa! Ecco la nuova fanfiction che stiamo scrivendo. Sicuramente è un tantino diversa dalla precedente, ma speriamo vi piaccia lo stesso. Naturalmente dal prologo non si capisce più di molto, ma già dal prossimo capitolo riuscirete a capire qualcosa in più. Fateci sapere cosa ne pensate!
A presto :)

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo uno.
“There’s your name on it”
 
   James aveva chiuso la telefonata con uno dei suoi migliori amici esattamente trentatré minuti prima ed in quel momento il ragazzo in questione si trovava al suo fianco. Brad sospirò e si strofinò gli occhi con i palmi delle mani, come a voler eliminare con quel gesto il sonno residuo che minacciava di schiacciarlo da un momento all’altro; i capelli ricci tenuti indietro da una bandana rossa trovata all’ultimo minuto e posizionata casualmente sopra la fronte. James si allontanò taciturno verso un’assistente dal bell’aspetto e che sembrava essere lì esclusivamente per suo interesse; si appoggiò al bancone nel togliersi gli occhiali da sole, sebbene di sole lì dentro ce ne fosse ben poco. James rivolse gli occhi vitrei e circondati da delle profonde occhiaie viola verso la donna dai capelli ramati che gli stava di fronte; un sorriso bianco ad illuminarle il volto giovane.
«Il prossimo volo per Roma, per favore» chiese affranto passandosi una mano fra i capelli ancora disordinati.
La donna sorrise cortesemente, iniziando a digitare sui tasti del computer più velocemente di quanto James riuscisse a realizzare in quel momento, mentre il ragazzo cominciava a chiedersi come potesse essere possibile per una donna essere così reattiva in quel preciso momento della giornata. Gli parve di dover aspettare più del dovuto per quell’informazione, ma forse era soltanto l’agitazione e l’incomodità della situazione a fargli percepire il tempo in malo modo.
La donna tornò a guardarlo e «parte tra mezz’ora!» esclamò allegra portandosi un ciuffo di capelli fuoriuscito dall’acconciatura dietro un orecchio.
James sorrise a sua volta, per quanto ciò gli fosse possibile e racchiuse in quel gesto tutto l’autocontrollo che riusciva ad esprimere in una tale situazione.
«Ne prenoti tre, grazie» disse infine, allontanandosi dal bancone e dirigendosi verso gli amici, poco più indietro.
Trovò Tristan, uno dei due, intento a concentrare tutte le proprie attenzioni sullo schermo del telefonino che gli illuminava il volto in modo alquanto spettrale, mentre Brad – seduto sulla valigia, accanto a lui – sembrava non vedesse l’ombra di un riposo da settimane. James gli si avvicinò con le carte organizzative per il volo fra le mani; la tensione a regolare ogni suo movimento.
James McVey non era mai stato il ragazzo più semplice che fosse mai esistito; in realtà di semplice in lui c’era ben poco e gli amici lo avevano imparato a loro spese, quando per tutti quegli anni avevano dovuto sopportare ogni sua piccola stranezza. Era risaputo, però, quanto il ragazzo in questione non sopportasse la disorganizzazione e quella situazione di organizzato non aveva assolutamente nulla.
Quando Brad gli rivolse uno sguardo confuso alla ricerca di attenzione, James sembrò risvegliarsi da uno stato di torpore che sembrava avergli avvolto le viscere fino a quel momento, ragion per cui all’istante porse all’amico il foglio che portava il suo nome. Osservò quegli occhi scuri posarsi sul testo e scrutarlo a dovere, per poi posarsi nuovamente sui suoi.
«Cosa ti aspetti che facciamo, in mezz’ora?» chiese quest’ultimo, come se ciò che avrebbero fatto nei futuri trenta minuti potesse dipendere dalla persona che gli stava davanti.
James, appunto, si strinse nelle spalle con fare innocente appurando che era già abbastanza se era riuscito a tenere a bada quei due, a farli essere sul posto in tempo e a prenotare un volo all’ultimo minuto. Tristan alzò, finalmente, gli occhi dal cellulare e guardò prima James e poi Brad come se si fosse trovato lì solo in quel momento e per puro caso. La sonnolenza ad offuscare lo sguardo di tutti e tre. Tristan ripose il suo telefono nella tasca anteriore dei jeans scuri, mentre le sue dita facevano fatica ad infilarsi fra la stoffa stretta e «devo pisciare» ammise senza mezzi termini.
James si guardò intorno spaesato per una manciata di secondi e poi tornò a guardare l’amico che ormai si teneva la stoffa dei pantaloni all’altezza del cavallo. Il suo sguardo sofferente era una prova tangibile del fatto che la sua vescica non potesse reggere ancora per molto, quindi James si occupò anche di avvistare l’insegna del bagno a qualche metro di distanza. Quando Tris si fu allontanato, Brad sbuffò e si accartocciò contro se stesso, mentre il trolley cominciava a cedere sotto il suo peso.
«Sarà meglio sedersi – convenne, poi, James – manca ancora parecchio» così si diresse verso le poltrone della sala d’attesa.
Brad scese dalla valigia, la trascinò di malavoglia verso il posto in cui l’amico era seduto e si posizionò accanto a lui, posando la testa piena di ricci sulla spalla di James nell’attesa di recuperare un po’ di sonno perduto. Quest’ultimo estrasse il cellulare dalla tasca della felpa e lesse la scritta che campeggiava sullo schermo illuminato: era un messaggio di sua madre che lo invitava a stare attento in quel viaggio inaspettato e improvvisato. James chiuse la casella e digitò un numero, portandosi il cellulare all’orecchio; la voce della segreteria telefonica rispose all’istante.
« James, caro, sono Victoria. Bisogna che veniate a Roma subito, Connor è sparito. »
James chiuse gli occhi e riagganciò la chiamata con la sua segreteria telefonica tenendo ancora quel messaggio poiché si rifiutava di cancellarlo sperando che ogni volta gli ricordasse perché stesse facendo tutto questo. Un sospiro lasciò le sue labbra carnose e si dissolse nell’aria, attirando l’attenzione dell’amico che sollevò il capo con uno sguardo confuso. Brad era solito aiutare i suoi amici quando intuiva che qualcosa in loro non andava, per questo colpì scherzosamente le costole di James con una gomitata.
«Andrà bene, vedrai» commentò per cercare di risollevargli il morale.
James annuì e si passò una mano ad accarezzargli il collo, mentre con gli occhi scrutava la grande vetrata davanti a se’ che cominciava a mostrare di già i primi accenni dell’alba. Il cielo tinto di mille sfumature sembrò innescare in lui uno strano senso di tranquillità, tanto che posò cautamente la testa sullo schienale della poltrona e tornò ad aspettare per dei minuti che gli parvero ore. Poco prima che i loro nomi venissero annunciati dall’altoparlante, Tristan comparve nuovamente nell’asciugarsi le mani umide addosso ai jeans.
«Hanno chiamato il nostro volo» annunciò con un sorriso, mentre gli amici si sollevavano stancamente dalle sedie con il nervosismo a ribollirgli nelle vene.

Il volo era stato il tragitto più noioso che avessero mai percorso: Brad si era addormentato esattamente sette minuti dopo il decollo e James e Tristan avevano passato le due ore a sfogliare riviste o ad ascoltare musica con gli iPod. Tutto ciò era stato accompagnato da delle deboli turbolenze perché in alcuni punti il vento soffiava troppo forte.  Erano arrivati, però, sani e salvi a Roma dove i genitori di Connor li avrebbero aspettati e avrebbero dato loro qualche informazione in più. James, particolarmente, sperava che fosse così perché non poteva più sopportare di non avere la situazione sotto controllo.
In quel momento, però, per merito di una qualche grazia divina che li aveva accompagnati – perché il GPS sul cellulare di Tris aveva deciso di funzionare una volta sì e tre no – si ritrovavano in piedi di fronte all’insegna di un hotel di lusso al centro di Roma, sebbene nessuno di loro fosse stato in quel posto, prima. Per lo stupore, la bocca di Brad prese la forma di una “o”, mentre scrutava le grandi lettere ferree che componevano il nome dell’albergo e le quattro stelline che vi erano accanto. Non capiva proprio perché Con avesse voluto scappare da quel posto così meraviglioso. Nel frattempo, la tensione di James sembrava essersi dissolta solo in parte nel momento in cui aveva messo piede fuori dell’aeroporto. Faceva così caldo e Roma era così bella perché lui potesse preoccuparsi di altro. Tristan vide, allora, la madre di Connor avanzare verso di lui con un andamento nervoso e frenetico, il viso distorto in un’espressione impassibile e la bocca piegata in una linea dura. Doveva essere rimasta sveglia per tutta la notte e doveva aver pianto molto perché i suoi occhi erano esageratamente rossi e gonfi. Quando la donna fu davanti a lui, Brad la avvolse in un abbraccio consolatorio, mentre si chinava verso di lei per strofinarle una mano sulla schiena.
«Risolveremo la cosa, vedrà» sussurrò, quindi, prima di sciogliersi dall’abbraccio.
Victoria annuì pensierosa con una mano a coprirsi la bocca, mentre le lacrime minacciavano ancora di scorrerle sulle guance. Quando fu il turno di James, il ragazzo ebbe il timore anche solo di abbracciarla per paura di fare qualcosa di sbagliato, quindi le sorrise per darle conforto e tornò immediatamente serio come se con quel gesto si fosse sentito in colpa.
«Victoria, cos’è successo?» domandò cautamente.
La donna, allora, tirò su col naso e cacciò dentro le lacrime sospirando come per trovare le parole giuste per evitare di scoppiare a piangere di nuovo davanti ai ragazzi. Quella era, di sicuro, l’ultima cosa che voleva. Si accarezzò le braccia con una mano e «se n’è andato – disse – stanotte ci siamo svegliati per un rumore e, quando siamo entrati nella sua stanza, era vuota».
Tristan le accarezzò un braccio nel tentativo di consolarla, sebbene le relazioni interpersonali non fossero la cosa che lo eccitava di più. Voleva che per una sola volta qualcuno si sentisse meglio soltanto grazie ad un suo gesto, ma quello evidentemente non era il momento adatto poiché Victoria non sembrava aver mutato il suo umore.
«Lo abbiamo chiamato, ma ha il telefono staccato». Quest’ultima frase uscì come un sussurro straziante, mentre la donna ripercorreva mentalmente gli eventi della notte passata.
Per un attimo l’idea che il suo migliore amico potesse essere un folle di prima categoria accarezzò la mente di James, ma il ragazzo scacciò subito il pensiero scuotendo la testa per concentrarsi meglio sulla situazione. Si affacciò, successivamente, oltre le spalle di Victoria per scrutare la hall dell’albergo dove Oscar rimaneva in silenzio con il capo basso e le mani incrociate in mezzo alle ginocchia. Doveva aver patito molto. Victoria si risvegliò dallo stato di trance nel quale era immersa e si rivolse ai ragazzi con un sorriso che stonava a gran misura con il suo umore in quel preciso istante.
«Entrate, vi prego» disse poi.                                                              
I ragazzi si fecero carico delle valigie ed avanzarono nella hall dell’albergo, dove gli altri ospiti sembravano non aver nemmeno notato la loro presenza e proseguivano con i loro soggiorni lussuosi come se nulla fosse accaduto. In quel posto, Con, non sembrava nemmeno averci messo piede. Il padre di Connor non disse una parola: guardò i ragazzi uno per uno e tornò a fissare il pavimento. Era Victoria che si occupava di risolvere la situazione. Ragion per cui la donna li prese in disparte e li accompagnò in un angolo remoto della stanza, dove nessuno poteva udire le loro parole.
«Non chiamate la polizia – consigliò tristemente – dobbiamo risolvere questa cosa fra di noi».
James, Brad e Tristan aggrottarono le sopracciglia nello stesso momento, mentre quell’idea non gli era neanche minimamente passata per la testa. Come avevano fatto, a non pensarci prima? Nonostante Victoria si fosse appena raccomandata, l’idea di rivolgersi alle autorità era piuttosto allettante, soprattutto perché i ragazzi non sapevano in quale altro modo avrebbero potuto risolvere quel problema. Nonostante ciò, però, annuirono in contemporanea come se fossero appena stati ipnotizzati dallo sguardo privo di espressione di Victoria. Era, forse, che non volevano causarle altro dolore.
Qualche secondo dopo furono accompagnati in una stanza al secondo piano che aveva tre letti singoli. I ragazzi si chiusero la porta alle spalle e sospirarono silenziosamente, incapaci di porsi dei quesiti gli uni con gli altri. La stanza d’albergo era più bella e maestosa di quanto tutti loro si fossero aspettati: nonostante non fosse eccessivamente grande era arredata in modo tale da apparire come una suite di lusso, forse grazie anche agli enormi lampadari a muro e alle decorazioni dorate che la circondavano. Tristan si sedette lentamente su un letto morbido con la valigia che gli stava di fianco nel tentativo di dare inizio ad una probabile conversazione.
«Cosa facciamo?» domandò, quindi, guardando prima Brad e poi James.
Si soffermò particolarmente sullo sguardo di quest’ultimo come a cercare una risposta, visto che James era sempre quello che, in un modo o nell’altro, risolveva qualunque situazione. Quando anche lui si strinse nelle spalle e scosse la testa, a Tristan sembrò crollare il mondo addosso.
«Se neanche tu hai una soluzione, la vedo dura» borbottò preoccupato buttandosi, poi, all’indietro sul letto.
Nonostante la tensione del momento, James e Brad si liberarono in una risata divertita mentre Tristan si considerava fiero di se stesso perché anche nelle situazioni di tale pericolo riusciva a far sorridere i suoi amici. Era felice, in quel momento, di essere lì con loro. Nonostante avrebbe voluto condividere quel momento con i suoi amici durante una rilassante vacanza, era comunque consolato dal fatto che potessero affrontare quel problema insieme. Fu proprio questo pensiero che lo spronò ad agire, ragion per cui si sollevò improvvisamente dal letto, tenendo il suo peso con i gomiti sul materasso e guardando gli amici che, nel frattempo, sistemavano le valigie negli angoli più remoti della stanza. A dire il vero non era una vera e propria illuminazione, quella che aveva avuto, bensì un’idea che avrebbe potuto aiutarli o che avrebbe potuto confondergli le idee ancora di più. Si era stupito, inoltre, che non ci avessero pensato gli altri prima di lui.
«Ci conviene controllare nella sua stanza» esordì con una tale tranquillità nella voce che sembrò risvegliare i sensi di Brad e James. Entrambi si voltarono verso l’amico sorridendo e «sei un genio!» esclamarono all’unisono.
Uscirono di fretta dalla stanza sbattendo la porta, consapevoli del fatto che quella adiacente fosse la camera nella quale Connor aveva riposato la sera precedente. La porta era stata ovviamente chiusa a chiave, ma James non ci mise molto a capire che la chiave poteva essere stata nascosta solo in un posto: si avvicinò al quadro che affiancava la porta e ne tastò il bordo, recuperando la chiave che – ne era sicuro – avrebbe aperto la porta.
«Con lo fa sempre» si giustificò facendo scattare la serratura.
La porta si aprì e la stanza era esattamente una copia di quella in cui si trovavano qualche minuto prima, fatta eccezione per il letto che era uno solo e per di più anche sfatto. “Ordine” non era di certo la parola che poteva descrivere quell’ambiente: sulle sedie c’erano dei vestiti che Connor aveva lasciato lì per una ragione sconosciuta e due paia di scarpe erano posizionate sotto la finestra ancora aperta. Nell’accendere la luce, Tristan dovette evitare di calpestare una vecchia copia di un romanzo francese per non inciampare. Sembrava assurdo che Connor se ne fosse andato lasciando tutto in un tale disordine. I ragazzi entrarono e James ebbe un sussulto per tutto quel disordine che non avrebbe mai potuto sopportare in camera sua.
«Da dove si comincia?» chiese Brad accarezzandosi la nuca.
James si guardò intorno e raccolse i vestiti di Con da una sedia.
«Innanzitutto sistemiamo questo disordine» esclamò piccato e alquanto schifato da tutta quella sporcizia.
Molto probabilmente i genitori di Connor avevano proibito alla domestica di riordinare quel disastro nella speranza di trovarci qualcosa in mezzo. Quello che i ragazzi non sapevano, era che Victoria aveva già frugato fra le sue cose, ma non aveva trovato nulla ed era uscita dalla stanza rassegnata. Ora toccava a loro seguire i propri metodi e tentare di risolvere qualcosa.
James piegò accuratamente le magliette di Connor e le ripose sulla scrivania, Tris raccolse tutto ciò che c’era a terra e Brad risistemò il letto, sebbene impiegò più del dovuto per quella azione. Stava sistemando la federa del cuscino, quando da essa fuoriuscì un’agenda dalla copertina rossa - «è una moleskine!» precisò James.
Brad vi tolse, di fretta, l’elastico che la teneva chiusa e la sfogliò alla rinfusa mentre Tristan consigliava ai due di richiuderla perché non voleva che si invadesse la privacy del suo amico. James scosse la testa e strappò l’agenda dalle mani di Brad, iniziando a leggere dalla prima pagina.
“21 novembre 2013”
James sbuffò e voltò nervosamente parecchie pagine tutte insieme.
“22 luglio 2014”
«Ancora no!» esclamò Brad mentre si sporgeva verso di lui per leggere.
«Forse non dovremmo farlo» borbottò Tristan, soltanto per guadagnarsi due occhiatacce dai suoi amici.
James sfogliò ancora e ancora mentre Brad e Tris bisticciavano silenziosamente su quell’argomento.
«Eccolo! – esclamò d’un tratto – ventidue agosto duemilaquattordici»
Brad e Tristan gli si avvicinarono e fissarono la pagina dell’agenda che era stata gettata in malo modo sul letto. Sulla pagina erano scarabocchiate delle parole illeggibili da Con, la sua scrittura forse un po’ troppo frettolosa e disordinata per essere capita. Non si preoccuparono, infatti, di decifrare quel testo che era un po’ troppo lungo e complicato per interessarli, bensì del biglietto accartocciato che era stato infilato tra una pagina e l’altra come se dovesse fungere da segnalibro. Sul foglietto, con una scrittura molto più aggraziata, elegante e probabilmente di una donna c’era un’informazione che lasciò perplessi i ragazzi per parecchi secondi durante i quali tutti si fissarono in silenzio.
Da Carlo. 23 agosto 2014. 12.15
 
Non c’era neanche una cosa, a Roma, che non piacesse a James, Tristan e Brad. Ogni strada, ogni edificio e persino ogni persona; tutto era esattamente come si erano divertiti ad immaginarlo nel momento in cui avevano saputo di doverci andare. Era per questo che nell’avvicinarsi al luogo dell’incontro avevano deciso di allungare di un po’ la strada che il GPS di Tris – ora magicamente funzionante – gli consigliava di fare soltanto per godersi qualche monumento in santa pace. Quello che non avevano calcolato, però, era il fatto che così facendo sarebbero arrivati in ritardo all’appuntamento di almeno mezz’ora.
Ora erano in piedi tutti e tre e in fila. Davanti a loro si ergeva l’insegna di un ristorante molto piccolo e ospitale che presentava una veranda in ferro battuto all’esterno decorata con fiori rossi. L’insegna grande e marrone presentava delle lettere scritte in un corsivo tondeggiante di un colore turchese che componevano la frase “Da Carlo”.
«Ci siamo» bisbigliò Brad passandosi le mani sui jeans chiari, mentre James si ripassava fra le dita il foglio trovato nella moleskine di Connor come per accertarsi che quello fosse il posto giusto.
Era stato Tristan, alla fine, a convincere gli altri due ad andare sostenendo che visto che avevano frugato nella sua agenda per ricavare quell’informazione potevano anche andarci, a quell’appuntamento. Magari lì ci avrebbero trovato Connor; forse era stato proprio lui a voler lasciare quel biglietto  in modo che gli altri lo trovassero.
James sospirò ed inforcò gli occhiali da sole che aveva tolto soltanto per leggere l’insegna; entrò nel locale che erano esattamente le tredici meno un minuto. Dire che il locale fosse affollato era dire poco; semplicemente, Tristan, Brad e James dovevano sottoporsi a delle specie di acrobazie per riuscire a farsi spazio tra un tavolo e l’altro. A quel punto Brad si chiese perché mai Con li avesse spinti in un posto del genere e si ricordò improvvisamente che l’amico non si sarebbe mai esposto così in mezzo a tutte quelle persone, specie se non aveva voluto farsi trovare per un giorno intero. Decisero, quindi, di inoltrarsi in una zona del locale che assomigliava molto ad un privé, ma che era semplicemente una stanza distaccata dalle altre con due tavoli a debita distanza. Sfortunatamente i ragazzi non riconobbero Connor, ma prima che potessero andarsene, mentre James ancora scrutava i visi delle uniche tre persone presenti in quella sala, si rese conto che la ragazza che stava loro di fronte non poteva non essere coinvolta in quella storia. Aveva in mano una copia di 1984, ma James era sicuro che quella fosse proprio la copia di Con. L’aveva capito perché la copertina era di quel marrone smunto, aveva l’angolo in basso spiegazzato e consumato e sul dorso aveva incollato un adesivo a forma di “C”. Non poteva essere un caso. James si avvicinò a quel tavolo spedito e, prima che la ragazza che gli stava di fronte potesse alzare lo sguardo dalle pagine del libro, lui si sedette ad una delle tre sedie che la fronteggiavano. Brad e Tristan si chiesero cosa l’amico stesse facendo, ma decisero di seguirlo in religioso silenzio poiché James sapeva sempre cosa fare.
Quando si sedettero, finalmente, Echo alzò gli occhi dal libro che leggeva e li posò lentamente in quelli vitrei di James.
«Cominciavo a credere che non sareste arrivati» squittì con una risata che sembrava celare tutto il nervosismo che invece traspariva dai gesti. James aggrottò le sopracciglia.
Il tempo per scrutarla fu breve, James fissò a mente soltanto i tratti più elementari del suo viso: due occhi verdi, un paio di labbra carnose e rosa e dei capelli lunghi e scuri. Brad sorrise e si sporse sul tavolo. Per un attimo, in quel momento, tutta la pazienza che aveva accumulato in quei giorni era sparita in un batter d’occhio; cominciava seriamente a credere che si trattasse di uno scherzo. Fu necessario l’intervento di Tristan per riportarlo alla realtà; l’amico, infatti, gli strinse una mano intorno al braccio imprimendo una leggera forza. Brad si appoggiò nuovamente allo schienale della sedia.
«Puoi spiegarci cosa succede?» domandò, dunque, Tristan. In quel momento sembrava essere l’unico calmo, in tutta quella situazione. La realtà era che dentro di lui si stava scatenando un miscuglio di sensazioni diverse, tra le quali vi era il timore. Tristan non temeva mai.
Passarono pochi secondi, prima che Echo chiudesse il libro e lo posasse sul tavolo a separare definitivamente le sue mani appoggiate sulla tovaglia da quelle di James. Frugò nella borsa di stoffa che era appesa alla sua sedia e le ricadeva accanto alle gambe, ma non riusciva a trovarla. Il panico l’assalì quando pensò di aver dimenticato a casa l’unica cosa che veramente aveva importanza, ma si ricredette quando le sue dita magre e bianche incontrarono la busta di carta. La appoggiò sul tavolo, prima che i ragazzi potessero iniziare a scrutarla: era una semplice busta delle lettere color crema. Allora perché nessuno di loro aveva il coraggio di toccarla? Brad guardò Echo e questa lo spinse a farsi avanti con una semplice occhiata. Prese la busta e la voltò.
«C’è il tuo nome sopra» disse con un sospiro, dando la busta a James. Era quasi sollevato che quella faccenda non lo riguardasse in quel preciso istante. Non sapeva con certezza se avrebbe retto a tal punto.
James prese con timore la lettera, mentre Tristan lo fissava in silenzio incapace di agire. Le mani di James tremavano per lo stupore e la paura e trafficarono per molto tempo con l’apertura della busta a causa della difficoltà dei suoi movimenti. La lettera all’interno era scritta su un foglio dalle righe bordeaux e con una calligrafia estremamente elegante, ma leggermente tremante. Non era, di sicuro, di Con. James lesse in silenzio.
 
“Caro James,
spero vivamente di non aver turbato il tuo equilibrio, con gli avvenimenti degli ultimi giorni. Sono consapevole di quanto tu detesti la disorganizzazione e il disordine, ma era necessario rendere tutto com’è stato. Volevo soltanto dirti che tutto ciò che farò nei prossimi giorni sarà solo per voi; prima o poi capirete. Allegati ci sono tre biglietti per un treno che porta a Parigi: ti chiedo solo di affidarti all’istinto e farne buon uso.
Con la speranza di rivederti presto.”

 
James piegò la lettera e se la infilò in tasca, mentre Brad e Tristan cercavano di spiare dalle spalle dell’amico cosa ci fosse scritto sopra. Dalla busta vennero estratti i tre biglietti del treno e James se li rigirò fra le mani, mentre delle gocce di sudore iniziavano ad imperlargli la fronte.
«Che diceva?» chiese Tris, ma James non rispose.
Guardò solo Echo alzarsi ed andare via. In silenzio.


Note delle autrici:
salve di nuovo! ecco il primo capitolo, come promesso! speriamo che continuando con questa parte vi abbiamo incuriosito un po', visto che succedono un po' di cosette. volevamo sottolineare che i capitoli di questa FF saranno molto più lunghi rispetto agli altri, ma saranno di un numero inferiore. Detto questo, godetevi la presentazione di tutti i ragazzi e della nuova protagonista che - secondo la nostra fervida immaginazione - è interpretata da Margaret Qualley (cliccate sul nome per la foto).
Speriamo di riuscire a sentirvi presto per sapere cosa ne pensate! :)

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo due.
“May I see your tickets?”

   «Ragazzi credo che non torneremo subito a casa»
James mostrò i biglietti e mentre i suoi amici li osservavano cercando di capire qualcosa, James fece cenno ad una cameriera che si avvicinò al loro tavolo porgendo dei menù. James la osservò e cercò di individuare i tratti tipici delle ragazze mediterranee. Era magra ma allo stesso tempo atletica e sotto il grembiule rosso indossava un paio di shorts e una canottiera verde che metteva in risalto i suoi occhi scuri, quasi neri. Il suo viso tondo e abbronzato era incorniciato da alcuni ciocche di capelli neri che le erano sfuggite dall'acconciatura. Consegnando il menù a James le sue labbra carnose si aprirono in un sorriso smagliante. James senza neanche rendersene conto cercava delle somiglianze con la ragazza che gli aveva consegnato la lettera. Si era reso conto di non averle dato abbastanza importanza. Non le aveva chiesto neanche il suo nome nonostante avesse deciso di partire con i biglietti che lei gli aveva portato. Cogliendo l'occasione al volo James decise di chiedere informazioni alla cameriera, cercando di parlare il più lentamente sperando che lei capisse la sua lingua.
«Scusami, posso chiederti una cosa? »
Vedendo che la ragazza gli aveva risposto affermativamente e con una splendida pronuncia si sentì rincuorato.
«Sai per caso dirmi qualcosa sulla ragazza che era seduta qui con noi? »
Intanto Brad e Tristan sentendosi chiamare in causa avevano smesso di parlottare.
«Echo? Scusate come potete non conoscerla se è stata lì a parlare con voi? »
«E' una storia lunga. Sai dirci altro su...Echo? »
«La conosco da quando è iniziata l'estate. È qui per studiare arte, è una pittrice favolosa. Viene spesso qui. Mi è simpatica. Guarda questo lo ha fatto lei»
La ragazza avvicinò il polso alla faccia di James che vide un disegno molto complicato. Rappresentava una rosa incastrata in una rete sottile e argentata.
«Ovviamente lei ha fatto solo il disegno, poi il tatuaggio è stato fatto da un mio amico»
«Grazie delle informazioni... »
«Rosa, mi chiamo Rosa»
«Beh grazie Rosa, diamo un'occhiata ai menù»
«Certo appena siete pronti per ordinare chiamatemi»
Rosa si allontanò dal loro tavolo con passo veloce e corse verso la cucina. James, adesso che sapeva almeno qualcosa sulla sconosciuta, si sentiva meglio.
«Adesso che si fa? » chiese Brad rivolgendosi ai ragazzi, ma principalmente a James.
Quest'ultimo rispose con una scrollata di spalle aggiungendo che prima di tutto aveva bisogno di mettere qualcosa sotto i denti. Ma notando la mal celata preoccupazione dei suoi compagni, disse che avrebbero usato quei biglietti. Il treno sarebbe partito la mattina seguente, perciò avevano ancora tempo per decidere bene le loro mosse. Sia Brad che Tristan sembrarono sollevati nel constatare che James si fosse calmato ed era tornato a ragionare. Subito dopo si gettarono alla ricerca di qualcosa da ordinare. Al cenno di James, Rosa sgusciò attraverso i tavoli dalla sala più grande per arrivare da loro. Accolse le loro ordinazioni sorridendo e complimentandosi per le ottime scelte. Brad notò che nei suoi atteggiamenti c'era qualcosa di studiato, come se quello di cameriera premurosa fosse un ruolo.
Brad amava soffermarsi a guardare le persone per scoprire qualcosa su di loro. Riusciva sempre a leggere gli altri come un libro aperto. Chiunque fosse diverso da quelli che conosceva lo incuriosiva. Fin da bambino aveva avuto l'occasione di conoscere persone di qualsiasi cultura. I suoi genitori erano imprenditori e molto spesso organizzavano eventi a casa loro in cui si riversavano i soggetti più disparati. Brad aveva sempre adorato questo aspetto della sua vita, ma se da una parte il lavoro dei suoi genitori per lui era un'opportunità per incontrare gente nuova, dall'altra parte li teneva via da casa molto spesso. Brad , ricordò con una fitta allo stomaco, aveva passato soltanto due volte il Natale con i suoi genitori. Una volta a sette anni e una volta a dieci. Il resto delle volte passava la vigilia a casa con la tata di turno e il giorno dopo l'autista di suo padre passava a prenderlo per portarlo a casa dei suoi nonni. Si potrebbe dire che se non fosse stato per i suoi amici la sua infanzia non sarebbe stata un granché. Brad aveva sempre invidiato il rapporto di Connor con la sua famiglia. Quando aveva visto l'angoscia sul volto della signora Ball, si era immediatamente chiesto se sua madre avrebbe mai reagito così se fosse stato lui quello a scomparire. Posando sul piatto ricolmo di lasagne la sua forchetta, ingoiò in fretta un boccone ustionante di pasta.
«Non credete che dovremmo dire ai genitori di Con che abbiamo delle novità?»
Tris annuì pensieroso e senza aspettare una risposta da James estrasse il suo telefono dalla tasca. Trafficò con la rubrica e fece partire la chiamata. La signora Ball rispose al primo squillo.
«Si, sono Tris. Allora crediamo di sapere dove sia andato Connor. Andremo lì domattina. Non è molto lontano da qui. Non si preoccupi è meglio se ce ne occupiamo noi. Le daremo notizie il prima possibile. Certo, a presto.»
«Non è molto lontano da qui?!» esclamò Brad non appena Tristan ebbe riattaccato.
«Non potevo dirle la verità! Le sarebbe venuto un infarto! Almeno così avremo tutto il tempo di indagare per conto nostro. Si fida di noi.»
«Certo e noi le stiamo spudoratamente mentendo»
«Brad, secondo me Tris ha fatto bene a non dirle dei biglietti e di Echo. Se lo sapesse non ci darebbe il permesso di andare»
«Va bene. Sbrighiamoci a finire e torniamo in albergo per decidere cosa fare»
Brad si era arreso e tornò a tuffarsi nel suo piatto di lasagne.
La mattina dopo fu un'impresa sgattaiolare fuori dalla loro stanza senza farsi sentire dai signori Ball. Se li avessero visti uscire con i bagagli si sarebbero certo insospettiti e i ragazzi non avevano bisogno di bastoni tra le ruote. Una volta in strada, con i loro zaini sulle spalle e lontani dall'albergo i tre tirarono un sospiro di sollievo. Visti da fuori, in marcia verso la stazione, potevano sembrare dei normali turisti. Ma invece si ritrovavano ad essere in missione segreta alla caccia del loro migliore amico. Mentre James e Tristan non erano particolarmente felici di camminare in mezzo alle strade affollate, Brad si guardava intorno come un bambino. Si divertiva a cogliere le differenze nei volti e a cercare di riconoscere le miriadi di accenti che gli passavano accanto. Seguendo le indicazioni di un gentile e paffuto ristoratore munito di folti baffi neri, i ragazzi avevano preso un autobus stracolmo per arrivare alla stazione da cui sarebbe partito il loro treno. Tristan rimase colpito da come viaggiassero abitualmente le persone in quella città. A casa non capitava mai di vedere una persona in piedi per mancanza di posti su un autobus, mentre a Roma viaggiare in piedi e appiccicati l'uno all'altro sembrava le regola. Tristan era schiacciato da una famiglia di turisti tedeschi e sembrava quasi uno di loro con i suoi capelli biondi e la pelle diafana. Brad e James ridevano a crepapelle vedendo il disagio dell'amico e James con dei movimenti veloci aveva anche immortalato con il telefono il suo amico schiacciato dall'omone alle sue spalle. Quando le porte si aprirono e finalmente scesero davanti all'ingresso della stazione, Tristan lanciò un grido di gioia causando l'ilarità di alcuni passanti. Dopodiché si lasciarono trascinare dalla folla all'interno. Quel luogo era immenso e non si scorgeva neanche una porzione di pavimento che non fosse occupata da viaggiatori in attesa. Sui corridoi si affacciavano i negozi più disparati. Dagli altoparlanti venivano annunciati i treni in partenza in diverse lingue, ma tutti con lo stesso tono strascicato e annoiato, come se la persona che faceva gli annunci si fosse appena svegliata. I ragazzi cercavano di individuare un monitor che indicasse le partenze e i rispettivi binari. Lo trovarono soltanto seguendo la famiglia di tedeschi che aveva “adottato” Tristan durante il tragitto. Alla partenza del treno mancavano venti minuti, ma decisero comunque di iniziare ad andare verso il binario, per sicurezza. Scoprirono di dover arrivare dall'altra parte della stazione. Le indicazioni non erano molto chiare. Spesso i cartelli si interrompevano per ricomparire poi in percorsi del tutto impossibili da seguire. Fatto sta che arrivarono al loro binario con il fiatone e con le braccia doloranti a forza di trascinare i loro bagagli. Consegnarono i loro biglietti al capotreno che gli indicò una carrozza in coda. Molti passeggeri erano già ai loro posti e loro controllarono i numeri sui loro biglietti. Tristan e James ne avevano due vicini, mentre Brad si sedette alle loro spalle accanto ad un posto vuoto. James si chiese se la disposizione dei posti fosse casuale. Tristan si lasciò cadere sul sedile imbottito sbuffando. Lui odiava viaggiare in treno, preferiva di gran lunga i rapidi e indolore viaggi in aereo. James sorrise e si sedette accanto a lui scompigliandogli i capelli. Brad d'altro canto adorava i lunghi viaggi. Gli davano l'idea dell'avventura e in qualche modo si sentiva come un viaggiatore del passato che pregustava le meraviglie che avrebbe scoperto in un lento e rilassante viaggio. Si accomodò sul sedile accanto al finestrino e allungò le gambe cercando una posizione confortevole. Dopo neanche un istante si mise a cercare il suo I-pod all'interno del suo zaino. Con le cuffie ben assicurate nelle orecchie poggiò la testa al vetro e chiuse gli occhi. Sentiva lontanamente James e Tristan che discutevano sull'efficienza delle ferrovie italiane quando scivolò tra le braccia di Morfeo. Nell'ultimo paio di giorni non aveva riposato molto e solo allora si rese conto di quanto fosse stanco. Il suo sonno non fu affatto tranquillo, una serie di incubi si susseguirono senza pietà alcuna. Alla fine si svegliò di soprassalto spalancando gli occhi. Avvertiva un peso sulla sua spalla sinistra e scostò il capo dal finestrino voltandosi. Quel peso si rivelò essere una persona. Una ragazza si era addormentata letteralmente su di lui. Delle cascate di capelli color cioccolato incorniciavano un volto tondo e dalla carnagione chiara. Le ciglia lunghe creavano lunghe onde sugli zigomi e le labbra rosee erano appena dischiuse. Brad sentiva su di sé il profumo dei capelli della ragazza, un qualcosa di fruttato, probabilmente agrumi. Le sue mani, sottili e bianche, erano appoggiate in grembo sopra un'enorme borsa di tela multicolore. Brad adesso ascoltava il respiro regolare di quella sconosciuta e come se ricatturato da un'improvvisa sonnolenza poggiò il capo su quello di lei e chiuse di nuovo gli occhi. Facendo ciò sentì il fastidio dell'auricolare sinistro e con un gesto secco staccò il cavo dall'I-pod mettendo fine al sottofondo musicale che era diventato un fastidio. Un sobbalzo lo riportò a svegliarsi. La sua vicina si era svegliata colpendo con la testa la guancia di Brad. Entrambi scattarono allontanandosi. Ancora insonnoliti si squadrarono. Brad ora poteva dare un colore a quegli occhi che vedeva per la prima volta spalancati: erano di un azzurro chiaro, quasi grigio. Non sembrava sorpresa di vederlo, ne tanto meno imbarazzata di essersi addormentata su di lui. Spostò i lunghi capelli mossi su una spalla e sorrise. Nonostante avesse visto Brad in fotografia molte volte si soffermò su ogni particolare del suo viso come se dovesse riconoscerli tutti. Dai capelli ricci e disordinati fino al mento arrotondato. Sì, era veramente lui.
«Sei Brad non è vero?»
Brad sentì un tuffo al cuore quando quella sconosciuta lo chiamò per nome. Non credeva di essersi presentato mentre era addormentato. Poi una consapevolezza iniziò a farsi strada nel suo cervello. Non era possibile che quella fosse una casualità. Prima Echo, poi i biglietti e ora una ragazza che finiva seduta vicino a lui e che conosceva il suo nome. Quello doveva essere parte del piano che qualcuno aveva ideato affinché partissero tutti insieme. La stessa persona che aveva scritto la lettera e aveva messo Echo sul loro cammino aveva fatto in modo che Brad si trovasse lì accanto a lei.
«Sì. Tu chi sei? E come mi conosci?»
«Sono Lucinda. Lucinda Darwin»
Lucinda tese una mano verso Brad aspettando che lui la stringesse. Quando vide il ragazzo esitare la ritrasse e iniziò a cercare qualcosa nella sua borsa.
Brad notò che le mani di Lucinda tremavano e si sentì in colpa per non averle stretto la mano. Evidentemente lei era a disagio quanto lui. Si portò una mano alla nuca cercando di sorridere per nascondere il suo imbarazzo. Stava per dirle qualcosa quando Lucinda estrasse dalla sua borsa una lettera. La lettera era identica a quella che aveva ricevuto James. Stessa carta e stessa calligrafia Ma questa volta c'era il suo nome sopra.
«Lucinda chi ti ha dato quella lettera?»
Lucinda rigirò la busta tra le mani porgendogliela.
«Non posso dirtelo. Per favore leggila»
Brad allungò la mano e prese la busta sfiorando le dita di Lucinda. All'improvviso pensò che i suoi amici non erano molto distanti da lui e si voltò per cercarli, ma i loro sedili erano vuoti. Avrebbe dovuto aprirla da solo. Questa volta nella busta non vi era nessun biglietto, ma un singolo foglio di carta ripiegato. Lesse la lettera sotto gli occhi attenti di Lucinda. Il suo cuore batteva all'impazzata ed avrebbe giurato di sentire anche quello di Lucinda, se la cosa non fosse stata scientificamente possibile.
 
Caro Brad,
adesso ti starai chiedendo a che gioco sto giocando. Se hai ricevuto questa lettera vuol dire che James ha accettato la sua. Questa volta però la cosa più importante non è la lettera, ma colei che te l'ha consegnata. Ti chiedo solamente di starle vicino e di provare a conoscerla. Imparerai moltissimo da lei ed è questo quello che voglio che tu faccia. Perciò ti prego di non abbandonarla e di portarla con voi alla vostra destinazione. So che crederai che io sia un pazzo ma a suo tempo capirete tutte le mie scelte. Vi prego ancora di ricordare che lo sto facendo per voi. Pian piano ti accorgerai che tu hai bisogno di Lucinda almeno quanto lei ha bisogno di te. Lei ha molto da insegnarti.
Sperando di vederti presto insieme ai tuoi amici,
Con affetto,
un tuo caro amico
 
Brad finì di leggere e alzò lo sguardo verso Lucinda. Che cosa avrebbe dovuto imparare da lei? Gli sembrava una ragazza del tutto ordinaria. Lei lo guardò sorridendo e Brad si rese conto che ogni volta che lo faceva, quel sorriso non raggiungeva mai i suoi occhi. In quegli occhi così freddi c'era come un persistente velo di tristezza e Brad non fece altro che sentirsi ancora peggio per come l'aveva trattata. Ripiegò la lettera e la mise nella tasca dei suoi jeans. Poi si rivolse a lei.
«Piacere di conoscerti, Lucinda. Io sono Brad, Brad Simpson»

James aveva perso di vista Tristan quando si era allontanato per andare in bagno. Una mezz'ora prima lui e Tristan si erano alzati dai loro posti per andare a fare colazione nella carrozza ristorante. Avevano visto Brad e la ragazza addormentati, e davanti ad una scena simile non avevano avuto il coraggio di svegliare il loro amico. Una volta giunti a destinazione si erano seduti ad un tavolo vicino ad uno dei finestrini e avevano ordinato dei pancakes e del caffè. Dopo aver finito il loro pasto, James aveva annunciato di dover andare in bagno al suo amico, il quale aveva risposto con qualcosa simile a: “vai, non ho nessuna intenzione di venire con te”. James allora si era alzato ridendo ed era partito alla ricerca della sua meta. Adesso vagava per la carrozza ristorante, ma di Tristan non c'era nessuna traccia. Probabilmente era tornato al suo posto. James decise di prendere un altro caffè visto che si sentiva assonnato come non mai. Si sedette al tavolo dove era prima e attese che qualcuno andasse a prendere il suo ordine. Tirò fuori dalla tasca la lettera per l'ennesima volta. Aveva i bordi consumati ormai e la rilesse un paio di volte. Chissà dove si trovava Connor e chissà per quale scherzo del destino li aveva messi in quella situazione. Qualcosa dentro di sé gli diceva che Con stava bene, ma finché non lo avesse visto con i suoi occhi non ne sarebbe stato certo. Connor non era mai stato un tipo amante dell'avventura. Certo non programmava tutto come lui però non era neanche il tipo che sparisce nel cuore della notte in una città straniera. Più volte aveva cercato di pensare ad un motivo che avesse potuto spingere Connor a fare quello che aveva fatto, ma non era ancora riuscito a trovare una teoria soddisfacente. Lui, Brad e Tristan erano i suoi migliori amici e non si capacitava del fatto che Connor non li avesse messi al corrente dei suoi piani. Una vocina nella sua testa però gli disse che invece l'aveva fatto. In effetti c'era stata la storia dell'indirizzo per l'appuntamento con Echo. Echo. James era convinto che Connor non avesse mai nominato quella ragazza. Voleva scoprire che rapporto c'era tra quei due. Lei aveva il libro di Connor. Il suo amico era sempre stato geloso delle sue cose, ma quella ragazza leggeva la sua copia di 1984. Era sicuro che ci fosse un enorme mistero dietro la scomparsa del suo amico ed era determinato ad andare fino in fondo. Trangugiò il caffè che intanto gli era stato portato e si alzò per andare a pagare al bancone. L' unica cosa da fare era tornare dai suoi amici perciò iniziò a percorrere tutte le carrozze in senso contrario. Nel vagone prima del suo una cosa catturò la sua attenzione. Su una poltrona era poggiata una borsa e accanto ad essa vi era un libro. Un libro con un adesivo a forma di C. Quello era il libro che aveva visto leggere da Echo, ma la ragazza non era lì. Senza pensarci due volte si sedette nella poltrona accanto a quella e attese. Ora nella sua mente si affollavano innumerevoli domande. Cosa ci faceva Echo su quel treno? Li stava seguendo? James si coprì la testa con il cappuccio della sua felpa e poggiò il capo sul poggiatesta rivolto verso il finestrino, così da nascondere il volto a chiunque si fosse seduto al posto di Echo. Poco dopo sentì il rumore di qualcosa che veniva buttato a terra, probabilmente una borsa. Con un movimento lento si voltò e tirò giù il cappuccio. Si trovò davanti al volto sorpreso di Echo. Evidentemente l'aveva spaventata. Lei sussultò e cercò di dire qualcosa balbettando.
«Mi hai spaventata. Cosa ci fai qui?»
«La domanda è cosa ci fai tu qui. Non sapevo avessi un biglietto anche tu»
Prima che Echo potesse ribattere un uomo corpulento e in divisa azzurra li interruppe.
«Posso vedere i vostri biglietti?»


Note delle autrici:
salve di nuovo a tutti, cari amici!!! Scusate l'immenso ritardo, ma volevamo scusarci per bene visto che questo periodo siamo impegnate con la scuola a tempo pieno (ultimo anno e poi stop, maturità arriviamo!!). Comunque, quello che volevamo sottolineare è che, come vedete, anche questa storia si incentra su tutti i ragazzi e non solo su uno di loro (abbiate pazienza, è difficile scegliere). Quanto ai personaggi: dunque, Brad è un Brad un po' diverso dall'altra volta - o forse neanche molto - e piano piano scoprirete lati della sua personalità a nostro parere molto interessanti (speriamo); per quanto riguarda Lucinda, beh lei è un personaggio un po' particolare, poi capirete... Ad ogni modo, secondo la nostra mente contorta dovrebbe somigliare in tutto e per tutto a Birdy (cliccate sempre sul nome, per la foto).
Ok, dopo queste note lunghe quanto una quaresima, ci sentiamo al prossimo capitolo.
PER FAVORE, non scordatevi di lasciare qualche recensione, almeno per farci sapere se la storia vi piace.
A presto :)

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo tre.
“I got lost”
 
   Dalla prima volta in cui Echo aveva guardato “L’attimo fuggente” con Simon, il suo migliore amico, sei anni prima, si era immediatamente e follemente innamorata di Neil Perry. Aveva sempre pensato, dall’età di tredici anni, che quando sarebbe cresciuta avrebbe avuto un ragazzo come Neil: un poeta barra attore barra futuro medico. Non importava che le sue fantasie fossero rimaste incatenate ai suoi sogni da tredicenne – e ora aveva da poco compiuto i diciannove anni - le piaceva sempre pensare che prima o poi il mondo le avrebbe regalato un Neil. Lo sapeva, dentro di se’; se lo sentiva. Ciò che non riusciva ancora a sapere o a sentire era perché in quella situazione, di fronte a James, lo guardava come si guarda per la prima volta un Neil Perry in tivù. E non capiva, piuttosto, perché James – che non c’entrava assolutamente nulla con il ragazzo ambizioso e pieno di voglia di fare che era Neil – la stesse fissando in quel modo. Nel momento in cui l’aveva visto accomodato su quella poltrona era sussultata per lo spavento e aveva lasciato cadere il libro di Edgar Lee Masters che aveva stretto fra le mani fino a poco prima. Si chinò per raccogliere i mille fogli che ne erano usciti, rinfilandoli alla svelta tra le pagine senza un preciso senso logico; quando tornò ad alzarsi, capì finalmente perché James la fissava: l’uomo che le aveva chiesto i biglietti poco prima stava ancora aspettando una sua risposta. Echo frugò nella borsa alla ricerca del pezzo di carta che avrebbe dato all’uomo corpulento e paffuto, mentre James si impegnava per cercare di capire l’intricato ghirigoro che aveva fatto l’uomo con l’obliteratore. Per una qualche strana ragione gli ricordava quello del Polar Express. Scosse la testa e guardò Echo – che improvvisamente, con la luce che entrava dal finestrino di emergenza grande e splendete, sembrava più bella del solito – e vide che ancora frugava invano nella borsa di stoffa senza tirarne fuori nulla di veramente utile, a parte una matita mangiucchiata, qualche foglio di carta, un pacchetto di fazzoletti e altri oggetti vari. James scosse la testa e la appoggiò al finestrino. Echo sussultò trovandosi fra le mani una foto scattata al suo gatto Fëdor pochi mesi prima, la rinfilò in una tasca della borsa e continuò a cercare fino a che, qualche secondo dopo, non si accorse che il biglietto non c’era. Non lo aveva perso, – come succedeva di solito – era soltanto sparito nel nulla. Intanto l’uomo, che portava una targhetta con scritto Joseph in stampatello sul petto, sbuffò spazientito e tirò fuori dal taschino un blocchetto blu. Echo sbarrò gli occhi e lasciò cadere la borsa sul sedile.
«Il biglietto c’era. Glielo giuro!» si affrettò a spiegare lei, spazientita.
«E io sono Babbo Natale»
In effetti, pensò James, le sembianze non erano poi così diverse. Scosse nuovamente la testa – cosa che aveva imparato a fare quando semplicemente non voleva ascoltare Brad o Tristan o Connor – e la sollevò dal finestrino; gli occhiali da sole a coprirgli le profonde borse sotto gli occhi.
«Fanno trentacinque euro» disse Joseph fiero di se’.
«Oh beh…» la voce di Echo era titubante, mentre la ragazza si infilava le mani nelle tasche per trovarle vuote.
La mano di James, che per qualche strano motivo sembrò muoversi da sola, come se fosse completamente scollegata al cervello, giunse fino alla tasca posteriore dei jeans e ne estrasse il portafogli di marca che i suoi genitori gli avevano regalato per i suoi vent’anni, estraendone due banconote da venti sterline. Non sapeva esattamente se la somma in sterline corrispondesse a quella in euro, ma non poteva fare altrimenti. Prima che potesse accorgersene, perciò, le stava già porgendo all’uomo che con sguardo incredulo – almeno tanto quanto lo era quello di Echo – fissava prima la mano e poi il viso del ragazzo. James scosse la mano guardando l’uomo.
«Avanti, li prenda!» disse sicuro.
«Non può pagare con quelli» balbettò Joseph.
James si strinse nelle spalle. «Beh è tutto ciò che ho»
Ed era vero: non aveva altro che qualche sterlina, nel portafogli. Le banconote ancora sventolavano fra le sue mani, quando Echo scosse la testa e si voltò verso l’uomo. Egli stava già accettando i soldi e li riponeva in uno strano marsupio che teneva bellamente stretto sotto la pancia trasbordante, creando così una strana arricciatura sulla camicia bianca. Quando si allontanò – accompagnando la sua uscita di scena portandosi l’indice e il medio alla fronte – Echo si rovesciò letteralmente sulla poltroncina con la schiena ricurva e le gambe distese, come se tutta quell’attività l’avesse sfiancata. James la guardò perplesso aggiustarsi i lunghi capelli bruni in uno chignon improvvisato e disordinato che le lasciava alcune ciocche ribelli ad incorniciarle il volto. Poi lei si rivolse a guardare il ragazzo con quegli occhi verdi e vitrei che non lasciavano trasparire altra emozione se non un velato rimprovero.
«Non avevo affatto bisogno che tu pagassi la multa per me!» gridò, quindi. Fortunatamente nella carrozza erano soli.
James si tolse gli occhiali da sole per guardarla negli occhi.
«A me sembrava di sì. E comunque tu hai pagato i nostri biglietti, quindi direi che siamo pari»
«Cosa? – strillò Echo – Davvero pensi che sia stata io a pagare i vostri biglietti?»
«Non è così?» balbettò James esitante.
Echo si lasciò scappare una risata, come se ciò che stava per dire fosse ovvio, e «certo che no!» esclamò.
James, quindi, si passò una mano fra i capelli già arruffati, sbuffò e si sporse in avanti incrociando le mani fra le ginocchia fino quasi a sfiorare quelle di lei coperte soltanto da un paio di calze nere. In quel momento in testa gli stavano rimbalzando talmente tante domande che faceva fatica persino a metterle in ordine logico. Si guardò intorno smarrito e tornò a fissare Echo che – come se avesse avuto un lampo di genio – si sporse verso di lui e recuperò la copia di 1984 che James teneva in grembo. Gli si era avvicinata così pericolosamente e velocemente che James non se ne era nemmeno reso conto per davvero. La ragazza vi infilò dentro un foglio scarabocchiato con quello che sembrava un ritratto; James non riuscì a capire bene di chi fosse, ma ricordava che la cameriera di Roma gli aveva detto che Echo era un’artista. Scosse la testa scacciando i pensieri e socchiuse gli occhi per evitare che il sole gli desse fastidio.
«Allora com’è che sei su questo treno con noi?» domandò in un sussurro.
Per un attimo Echo lo fissò con sguardo serio, poi sorrise e guardò fuori dal finestrino.
«È una storia troppo lunga, James. E non sono io che devo raccontartela»
C’era qualcosa, in quella voce, che spingeva una piccola parte di James a non fare più alcuna domanda. Ma l’altra parte di lui – quella più razionale e che moriva dalla voglia di capirci qualcosa – cercava disperatamente di aggrapparsi a qualunque informazione potesse ricondurlo ad un nome o ad un posto ben preciso; perché, nel profondo, James sapeva che Connor a Parigi non ce lo avrebbero trovato. Connor odiava la Francia.
«James – lo chiamò Echo – ma almeno mi stai ascoltando?»
Il ragazzo rimase a fissarle gli occhi per qualche secondo, poi le guardò le labbra che erano così carnose e rosa e leggermente screpolate per una ragione che in realtà non gli importava. Pensò a quanto avrebbe voluto sfiorarle con le sue in quel preciso istante, ma scosse nuovamente la testa. Era troppo presto. Ed Echo era anche più bella e fragile di quello che si era ritrovato a pensare.
Lei lo guardò sbuffando ed appoggiò stancamente le gambe sul davanzale del finestrino, stendendole per bene ed accavallandole.
«Dicevo – cominciò – che per una volta dovresti semplicemente fidarti di chi sa cosa sta facendo»
James aggrottò le sopracciglia; più passava il tempo e meno riusciva a capire di tutta quell’enorme faccenda.
«Che si fa una volta arrivati a Parigi?» domandò.
Echo scosse la testa e si strinse nelle spalle, un’abitudine che a James era molto nota. Avrebbe imparato a fare i conti con l’irritazione che deriva da quel minimo gesto. Si appoggiò nuovamente allo schienale del sedile e si rilassò, quando il suo telefono iniziò a squillare. Lo estrasse dalla tasca e se lo portò all’orecchio, mentre Echo lo fissava con occhi incuriositi. In realtà tutto ciò che riuscì a sentire fu: “Sì, mamma. Sto bene. Ci sentiamo presto. Sì. Ho capito. Ti voglio bene.”
Sorrise. Era molto tempo che non sentiva un ragazzo dire “ti voglio bene” a sua madre. In realtà era molto tempo che lei non diceva quella parola a sua madre. Per un attimo ripensò a Simon e a quanto avrebbe voluto averlo lì con lei. Era l’unica persona con la quale riuscisse a parlare di qualunque cosa e il fatto di non avergli detto dove sarebbe andata le faceva venir voglia di prendere il telefono e dirglielo. James ripose il cellulare nella tasca anteriore dei jeans.
«Perché leggi quella roba?» chiese, dunque.
Ed Echo vide che con il capo stava indicando il libro di poesie che aveva quando era arrivata.
«Mi piace la poesia americana del novecento. Ti crea qualche problema?»
«Cosa? Problemi? No!» James strinse le mani a pugno. Cosa diavolo c’era che non andava con lui? Perché riusciva sempre ad essere un cretino? Scosse la testa. Avrebbe dovuto dire qualcosa di intelligente, ma proprio non gli veniva in mente nulla. Tutte le lezioni extra-scolastiche di letteratura non erano servite assolutamente a nulla.
«Allora?» la voce di Echo non era alterata, ne’ lasciava trasparire alcuna irritazione. Era solo curiosa.
«Forse dovresti provare a leggere Frost» disse James timidamente, come se quella fosse la cosa più brillante alla quale la sua mente potesse avvicinarsi. Si schiaffeggiò mentalmente da solo. Non era così che avrebbe dovuto consigliare ad una bella ragazza di leggere il suo autore preferito.
Echo sorrise e per un attimo spostò il suo sguardo su quello di James. I suoi occhi erano attraenti come delle calamite e per un secondo Echo vi si sentì incatenata. Ancora una volta le era impossibile non confrontare James con tutti gli altri ragazzi con i quali aveva avuto a che fare; lui era così diverso. Ci pensò un attimo e si stupì di quanto James McVey fosse Neil Perry.
 
Brad era immobile sul sedile del treno da circa dieci minuti. Le parole della lettera ancora gli frullavano nella testa come se ce le avesse impresse a fuoco e Lucinda lo fissava con uno sguardo che lasciava trasparire irritazione. Lei volse lo sguardo dall’altra parte e fissò un bambino che beveva un succo di frutta. Sorrise; era così carino. Ripensò a casa, alla voglia che aveva di starsene da sola per un po’, lontana da tutta quella storia. Poi scosse la testa e tornò a guardare Brad, domandandosi per un momento perché la stesse fissando con quello sguardo assorto. In realtà Brad stava soltanto fissandosi in testa ogni minimo dettaglio del viso di Lucinda; non che ne fosse particolarmente attratto, in un primo momento. Solo che gli piaceva catturare i particolari di ogni volto per poi ricollegarli insieme in caso lo avesse rivisto. Per qualche strano motivo, però, Brad aveva la strana sensazione che avrebbe rivisto Lucinda per molto tempo; e non sapeva se essere felice o spaventato per questo.
Tirò su con il naso e si grattò una guancia, abitudine con la quale aveva imparato a fare i conti circa all’età di sette anni.
«Perché sei qui?» domandò incerto.
Lucinda sembrò risvegliarsi da uno stato di trance e scosse la testa, spaventata persino da se stessa perché era rimasta a fissarlo per troppo tempo.
«Mi è stato detto di farlo» ribatté lei secca.
«E di solito fai tutto ciò che ti viene detto?»
Lucinda spalancò gli occhi. Poteva essere provocatoria e presuntuosa quanto voleva, ma Brad lo era più di lei, in un modo o nell’altro. Alzò il mento e socchiuse gli occhi, incrociando le braccia sotto al seno. Ora i due stavano sedendo uno di fronte all’altra e la luce del sole del tardo pomeriggio che entrava dal finestrino illuminava la testa di Brad come se fosse un’aureola, facendo sembrare il suo cespuglio di capelli un semplice groviglio di fili neri.
Lucinda stava per ribattere quando il loro scontro silenzioso fu interrotto da un colpo di tosse proveniente da Tristan. Lucinda squadrò il ragazzo da capo a piedi e osservò la sua reazione. Sembrava  sorpreso, ma aveva un sorriso ebete stampato in faccia che le dava sui nervi. Doveva essere uno degli amici di Brad. Infatti la avevano avvisata che insieme con lui ci sarebbero stati altri due ragazzi. Doveva soltanto cercare di capire chi dei due fosse. Aveva visto anche delle loro foto, ma non riusciva  proprio a ricordare  se quel viso squadrato appartenesse a Tristan o a James. Brad, d’altro canto, si era tirato indietro sul suo sedile fino a schiacciarsi completamente sullo schienale. Sembrava come se tra lui e il nuovo arrivato ci fosse stato uno scambio di battute telepatiche perché Brad rispose con uno scuotimento del capo all’amico che aveva alzato il sopracciglio destro come per porgere una domanda silenziosa.
«Brad, chi è la tua amica?»
Brad tornò di nuovo a grattarsi la guancia e guardò Lucinda senza proferire parola.
«Sono Lucinda, ma non sono sua amica. Gli ho solamente portato la lettera»
Tanto valeva mettere subito le cose in chiaro. Lucinda sapeva perfettamente che tutti loro avevano già ricevuto una lettera, perciò sperava che una volta appresa la sua identità il ragazzo l’avrebbe in qualche modo congedata. Invece lui si accomodò con un balzo sulle ginocchia di Brad con tutta l’intenzione di voler fare conversazione.
«Quindi tu sei un'altra messaggera! Io sono Tristan, piacere!»
Tristan porse la mano a Lucinda che la strinse un po' titubante. Brad voleva scrollarsi di dosso Tristan e inoltre non riusciva a capire come egli potesse prendere così alla leggera tutti gli avvenimenti. In fondo il loro migliore amico era scomparso e delle ragazze con delle lettere continuavano a spuntare come funghi. Tristan invece sorrideva come un bambino, ma almeno stava cercando di estorcere delle informazioni a Lucinda. Forse estorcere non è il termine adatto. Subito dopo essersi presentato Tristan aveva iniziato a tempestare di domande la ragazza e ormai la cosa andava avanti da almeno cinque minuti. Lucinda rispondeva sempre con dei mormorii e aveva iniziato a balbettare. Brad pensò che evidentemente non era abituata ad essere al centro dell'attenzione in quel modo, e probabilmente non poteva o non voleva rivelare quello che sapeva. Brad provò un'improvvisa compassione per lei. Mentre Tristan continuava a parlare, Brad lo spintonò con forza facendolo alzare. Allora si era messo in piedi a sua volta e davanti allo sguardo confuso e scocciato dell'amico aveva preso per mano Lucinda e l'aveva trascinata verso l'ingresso dell'altra carrozza. Lucinda si era lasciata guidare senza dire una sola parola. Proseguirono quasi correndo fino alla carrozza ristornate. Una volta fermi Lucinda aveva staccato la sua mano da quella di Brad con rabbia.
«Mi spieghi cosa ti è preso?!»
«Non c'è bisogno di agitarsi! Volevo soltanto evitare ad entrambi una situazione imbarazzante. Non mi sembrava ti piacesse molto essere sottoposta ad un interrogatorio»
«Me la cavavo benissimo da sola. Non mi serve il tuo aiuto»
Brad la osservò con attenzione soffermandosi sulle sue labbra serrate in una smorfia nonostante il labbro inferiore le tremasse un po'. Brad credette anche di vedere i suoi occhi farsi lucidi quando lei si voltò per tornare indietro.
“Invece qualcuno crede che ti serva e, a quanto pare, quel qualcuno ha ragione.” Brad pensò tra sé tornando sui suoi passi tenendosi comunque a distanza da Lucinda.
 
Tristan si era perso. Aveva lasciato l’albergo circa venti minuti prima per tornare in stazione e recuperare l’iPhone che aveva perso pensando che gli fosse scivolato dalla tasca dei jeans mentre camminava in mezzo alla folla di persone. Purtroppo per lui, però, del suo telefono non vi era più traccia alcuna; avrebbe dovuto aspettarselo. Quindi, nel viaggio di ritorno a L'hôtel Particulier, aveva già passeggiato per venti lunghi e noiosi minuti intorno ad un insieme di palazzi dall’aria molto antica, senza sapere esattamente dove stesse andando. Era a Parigi, questo era sicuro. Era anche sicuro, però, che non si trovasse neanche lontanamente vicino alla via del suo albergo: lì gli edifici erano molto più particolari ed appariscenti di quelli, con colori sgargianti e finestre enormi. Tristan si fermò a riflettere su cosa stesse facendo e si appoggiò al muro di un palazzo di mattoni. Fortunatamente le temperature erano nettamente più basse di quelle italiane e Tristan in quel momento – con una felpa addosso – non soffriva il caldo neanche un po’. Per un attimo gli venne in mente l’idea di affidarsi al GPS del telefono, ma poi si rese conto che era proprio perché aveva perso il cellulare che si ritrovava in quella spiacevole situazione. Scosse la testa e si passò una mano fra i capelli disordinati e un po’ troppo lunghi; li avrebbe tagliati a breve, si decise. Non aveva portato un orologio da polso, ma poteva dedurre che fossero più o meno le quattro del pomeriggio e, considerando che l’hotel non era particolarmente distante dalla stazione, se si fosse incamminato in quel momento sarebbe arrivato alla stanza entro mezz’ora. Il problema era capire in che direzione andare. Per un attimo pensò anche di chiedere a qualche passante, ma innanzitutto non ricordava la via dell’albergo e poi non sapeva spiccicare nemmeno una parola in francese e dubitava che gli anziani parigini capissero l’inglese alla perfezione. Sospirò e calciò un sassolino davanti a lui. Poi gli venne in mente l’unica idea che forse era quella buona: entrare una cabina telefonica e chiamare da lì. Dato che nei dintorni non sembravano essercene, girovagò per qualche minuti nella via adiacente, fino a trovarsi davanti ad una cabina dall’aspetto molto antico ma molto curato. Tristan entrò; all’interno faceva molto più caldo di quanto ne facesse fuori, ragion per cui si tirò su le maniche della felpa fin sopra i gomiti.
Inserì qualche moneta che aveva in tasca – fortunatamente il cameriere sul treno gli aveva dato il resto della sua consumazione in euro – e compose alla svelta il numero del cellulare di James perché sapeva che era di gran lunga più affidabile di Brad e che avrebbe sicuramente risposto.
«Pronto?» chiese la voce dell’amico dopo qualche secondo.
«James, sono Tris»
L’amico controllò alla svelta il display del telefono per assicurarsi di chi fosse il numero, poi se lo portò nuovamente all’orecchio e con voce confusa domandò: «da dove stai chiamando, scusa?»
Tristan sospirò e si passò il dorso della mano sulla fronte.
«È una lunga storia. Mi sono perso. Venite a prendermi»
James sentiva la palpabile tensione nella voce dell’amico, ma nonostante ciò non perse la calma. Si limitò a pensare che da quando erano partiti non gliene era andata bene nemmeno una. Chiuse per un secondo gli occhi ed espirò.
«Va bene, dove sei?»
«Qui c’è scritto Rue Emile Gilbert» pronunciò Tristan con una pessima pronuncia francese. James sorrise.
«Ok, non ti muovere»
Tristan chiuse la chiamata appena in tempo prima che il traffico dato dal denaro che aveva inserito si esaurisse. Per un attimo si tranquillizzò; i suoi amici sarebbero andati a prenderlo da un momento all’altro. Tristan non era mai stato uno che si faceva prendere dal panico, – come invece lo era James – ma ritrovarsi in un posto sconosciuto, con persone sconosciute e per una ragione sconosciuta non era di certo una situazione che lo rassicurasse. Prima di uscire dalla cabina si appoggiò contro lo sportello di vetro e chinò la testa all’indietro. Vide, allora, un foglio di carta incastrato tra un pezzo di metallo e l’altro; prima che potesse accorgersene, l’aveva già preso e le sue mani lo stavano spiegando per leggerne il contenuto. Sapeva che non era una cosa da fare, molto probabilmente chi aveva lasciato quel biglietto voleva che il destinatario lo leggesse; ma la curiosità aveva avuto la meglio sulla sua parte razionale. Sul foglio a righe c’era scritto, con una calligrafia ordinata e corsiva:
A Tristan. Port de la Conférence. Ore 21.00
Tristan sbiancò.


Note delle autrici:
saaaaaalve!!!!! Scusate l'attesa per questo capitolo, ma abbiamo avuto un sacco da fare con la scuola e bla, bla, bla... come al solito. DUNQUE: per ora non ci sono altri nuovi personaggi, ma da quello che avrete intuito (speriamo) si capisce che nel prossimo capitolo succederà qualcos'altro di misterioso (DAN DAN DAN). Ovviamente non vi diciamo nulla perché no spoilers etc etc. Comunque speriamo che vi sia piaciuta questa parte anche se è un po' un capitolo di transizione. Speriamo anche di sentirvi presto, magari in qualche recensione.. A presto :)

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo quattro.
"What happened to Connor?"

   Brad non aveva fatto altro che pensare alla reazione di Lucinda sul treno. Per tutto il pomeriggio aveva provato una strana sensazione alla bocca dello stomaco. La cosa che lo turbava di più era che non era riuscito a chiarirsi con Lucinda. Per tutto il resto del viaggio non si erano visti e una volta arrivati a Parigi lei si era chiusa nella sua stanza senza parlare con nessuno dei ragazzi. Brad aveva cercato per ore di trovare una scusa per poter andare da lei e parlarle, ma nessuna era abbastanza valida. Quando ormai aveva scartato tutte le sue possibilità gli venne in mente la semplice cosa di andare da lei e invitarla ad uscire quella sera. In fondo era lecito che lui cercasse di conoscerla meglio visto che lei gli era stata in qualche modo “affidata”. Uscì dalla sua stanza e lungo il tragitto pensò a cosa dirle. Sarebbero potuti andare a cena da qualche parte nel quartiere o magari trovare qualcosa da visitare di sera. Avrebbero potuto chiedere alla reception. Per Brad la cosa più importante era passare del tempo con lei a tutti i costi. Arrivò davanti alla sua porta e la sua mente si svuotò completamente di tutti i piani che aveva fatto. Dovette bussare a lungo prima di veder comparire Lucinda sulla porta. Indossava un paio di pantaloni del pigiama a righe e una canotta larga verde pistacchio. Il tutto era accompagnato da un asciugamano rosa che portava sulla testa come un turbante. Brad pensò che evidentemente era sotto la doccia e per questo aveva impiegato tanto per aprire la porta. Perfetto. Adesso sarebbe stata ancora più scocciata nel vederlo. Infatti Lucinda non appena lo vide sospirò rumorosamente.
«Cosa ci fai qui?»
Brad credette che da un momento all'altro Lucinda lo avrebbe fulminato. Magari sotto l'asciugamano si celavano i serpenti di Medusa. Avrebbe fatto meglio a scusarsi, ma non riusciva proprio a trovare le parole.
«Brad hai bisogno di qualcosa? Sarei molto stanca e vorrei andare a dormire»
«Veramente volevo chiederti se ti andava di uscire, ma suppongo che tu preferisca metterti a dormire»
Lucinda sembrò sorpresa. Non si sarebbe aspettata che, dopo il modo in cui l'aveva trattato, Brad sarebbe tornato all'attacco così in fretta.
«Si infatti. È stata una lunga giornata. Ci vediamo domani, Brad»
«Buonanotte, Lucinda»
Lucinda aveva colto la tristezza nel saluto di Brad? Lui non poteva saperlo e tornò nella sua stanza. Constatò che la strana sensazione allo stomaco c'era ancora.
 
Judith continuava a passeggiare avanti e indietro sulla banchina in attesa di Tristan. Lui era in ritardo. Judith era arrivata all'appuntamento con un quarto d'ora di anticipo, separandosi a malincuore dalle stradine di Parigi. Fin da quando era molto piccola aveva sognato di andarci. Poi con il passare degli anni il suo desiderio era cresciuto talmente tanto che aveva deciso che quella sarebbe stata la meta del suo viaggio di nozze. Invece ora eccola lì da sola in attesa di quel ragazzo di cui aveva solo sentito parlare. Il suo telefono iniziò a diffondere nell'aria “La vie en rose” e lei lo estrasse in fretta dalla tasca dei suoi jeans larghi.
«Pronto?»
«Pronto Jude? Finalmente! Tutto bene?»
«Certo mamma. Sto aspettando che la mia compagna di stanza scenda per andare a cena»
«Tesoro, i vostri insegnanti non vi lasciano uscire da sole la sera vero?»
«Mamma non preoccuparti siamo tallonate ventiquattro ore su ventiquattro. Sta andando tutto a meraviglia e i francesi non usano le baguettes come armi. Non ti agitare»
«Va bene, ma fatti sentire, altrimenti sarò costretta a chiamare la tua professoressa»
«Mamma non ce n'è bisogno. Ci sentiamo domani»
«Ok. Buon divertimento!»
Judith riagganciò tirando un profondo sospiro. Aveva rischiato di far saltare la sua copertura soltanto perché nel pomeriggio aveva rifiutato quattro chiamate di sua madre poiché troppo occupata a gironzolare. Quella situazione l'avrebbe esaurita. Lo sapeva. Sua madre la credeva in Francia per uno stage con la scuola. Se soltanto avesse saputo che sua figlia si trovava a Parigi tutta sola, sulla tracce di un gruppo di ragazzi, avrebbe dato di matto. Judith era sempre stata una che si gettava a capofitto in tutte le cose e che si lasciava guidare sempre dall'istinto e dai sentimenti del momento. Il suo istinto ora le diceva che qualcosa dovesse essere successa a quel ragazzo. Si strinse ancora di più nella sua giacca e guardò il suo riflesso nella vetrina della panetteria lì di fronte. Pensare che si era data tanto da fare per essere il più carina possibile. In fondo l'aspettava un giro in battello con un ragazzo, ma guardando il suo riflesso esso non faceva altro che ricordarle un pulcino spennacchiato. Negli ultimi minuti il cielo si era incupito e un vento fastidioso si era alzato. Nonostante i suoi capelli fossero corti aveva comunque finito col raccoglierli un uno chignon, ma alcune ciocche ovviamente sfuggite all'elastico continuavano a finirle negli occhi. Mentre controllava per l'ennesima volta l'ora sul suo cellulare, il primo tuono si sentì in lontananza. Ci mancava solo la pioggia. Ormai Tristan era in ritardo di quaranta minuti, ma Judith non voleva arrendersi. Si tolse lo zaino dalle spalle e lo aprì per controllare di nuovo di non aver dimenticato la fatidica lettera. Essa fortunatamente era proprio dove avrebbe dovuto. La ragazza cominciava a sentire la stanchezza di un'intera giornata passata in giro e senza pensarci due volte si sedette sul bordo del marciapiede. I passanti cominciavano ad affrettarsi a rientrare nelle loro case o quantomeno a mettersi al coperto. Il cielo di Parigi era una copia esatta di quello sempre nuvoloso di casa sua. Guardando esclusivamente i tetti dei palazzi e la coltre di nubi Judith aveva la sensazione di essere ancora a Londra. Reclinò la testa all'indietro e poco dopo sentì la prima goccia d'acqua colpirle la fronte. Con una velocità inaudita ne arrivarono altre fino a formare un perfetto acquazzone estivo. Judith saltò immediatamente in piedi e andò a ripararsi sotto l'arco di un portone.
Tristan nel frattempo si era perso almeno un migliaio di volte. Se aggiungiamo il fatto che non sapesse mettere insieme neanche una semplice frase in francese e che tutti erano restii nel dare indicazioni precise, credeva che ormai chiunque gli avesse dato l'appuntamento se ne fosse andato via. Inoltre la pioggia lo aveva sorpreso poco prima di arrivare al luogo prestabilito, ma si era detto che valeva la pena fare un tentativo. Arrivato alla banchina zuppo fradicio non vide nessuno, ma realizzò soltanto in quel momento che non aveva idea di chi dovesse cercare. Nello stesso istante attraccò un battello turistico. Tristan allora lesse l'insegna sopra il chiosco poco più avanti che diceva “Bateaux”. Assistette alla discesa affrettata di una folla di almeno venti persone che una volta toccata terra iniziarono a correre verso la fermata della metro. Nessuno di loro aveva mostrato interesse per lui.
Judith intanto si disperava poiché il chiosco aveva chiuso annunciando che a causa del maltempo i battelli non sarebbero più usciti. Il suo piano era andato completamente in fumo, ma d'altronde Tristan non si era fatto vivo. Avvilita e dispiaciuta uscì dal suo riparo decisa a correre in albergo. Ma a pochi metri di distanza da lei vide un ragazzo immobile sotto l'acqua.
 
Echo era sdraiata sul letto matrimoniale della suite d’albergo, a testa in giù e con le gambe addossate al muro. Contro l’orecchio aveva premuto il suo telefono cellulare di bassa fattura, mentre dall’altro capo il suo migliore amico le raccontava gli avvenimenti verificatisi a Londra nell’ultima settimana.
Echo era arrivata a Parigi circa un paio d’ore prima: giusto il tempo di sgomberare le sue valigie, spargere qualche vestito in giro per la stanza, farsi una doccia ed indossare una grossa maglietta dell’università di suo fratello. Ora sembrava che in quella stanza – dove il pavimento che in precedenza era di un lussuoso tipo di moquette bordeaux, ora era tappezzato di vestiti, coperte e scarpe – fosse passato un tornado che aveva sconvolto tutto. Dall’altra parte della suite, separata dalla zona-letto da un semplice arco, il televisore era stato acceso e sul divano era appallottolato un asciugamano umido rosa in mezzo ai cuscini; lo stereo, nel frattempo, riproduceva una canzone del cd che il suo amico le aveva regalato quando aveva compiuto quindici anni e che Echo portava sempre con se’. Il volume era talmente alto che persino Simon stesso se ne era lamentato dall’altro capo del telefono.
Fuori dalla finestra il sole stava ormai calando, ma continuava a diffondere i suoi raggi contro il cielo privo di nuvole, che Echo sapeva non sarebbe durato per molto; l’avevano avvertita che a Parigi la concentrazione di piogge era molto simile a quella londinese.
«E quindi Lisa ed Alex si sono lasciati!» esclamò l’amico.
Echo sbuffò e si arrotolò una ciocca di capelli fra le dita.
«Vorrei che fossi qui» farfugliò malinconica senza preoccuparsi del fatto che le sue parole potessero essere fraintese: ormai tra lei e Simon c’era quel rapporto di fratellanza tale che persino i loro genitori si erano abituati a vederli dormire e passare la maggior parte della loro vita insieme.
«Potresti spiegarmi dov’è esattamente questo “qui”?»
Echo non poté evitare di sorridere.
«Te lo direi, se potessi»
«Lo so» rispose Simon.
E lo sapeva davvero; nella sua voce non c’era il minimo risentimento, si sentiva quella nota calda che l’aveva sempre caratterizzata ed Echo per un attimo si sentì come se Simon fosse stato lì con lei in carne ed ossa.
«Fammi un favore: – cominciò – se mia madre ti chiama dille che sto bene»
«Da quanto tempo non rispondi alle sue chiamate?» domandò lui sospirando.
Prima che Echo potesse ribattere, però, qualcuno bussò alla porta della sua stanza. Nonostante il volume troppo alto della musica era riuscita a capire che quel qualcuno era stato lì a bussare per parecchio tempo prima che lei potesse accorgersene, poteva riconoscerlo dalla potenza con la quale i pugni si scagliavano sul legno.
«Ti devo lasciare» Echo sbuffò irritata e, dopo aver salutato Simon, chiuse la telefonata.
Solo allora si accorse che molto probabilmente era stata al telefono molto più tempo di quello che pensasse, dato che il sole ora si era nettamente abbassato dietro alla collina rispetto a quando aveva risposto alla chiamata. Una nuova scarica di pugni la fece risvegliare dai suoi pensieri; si avviò a passo stanco verso la porta e guardò nello spioncino per trovare oltre il vetro un improbabile James con un paio di pantaloni di una tuta grigi. Echo non poté fare a meno di spalancare gli occhi, si diresse a ritroso verso il letto e si infilò alla svelta un paio di eccentrici pantaloncini color ciclamino nonostante la maglietta gli arrivasse a metà coscia. James bussò di nuovo ed Echo si ritrovò a pensare che fosse il ragazzo più ostinato che avesse mai incontrato.
Quando aprì la porta, sul volto del ragazzo apparve un’espressione che le fece pensare al fatto che molto probabilmente lui non si aspettava di trovarla lì; o più semplicemente Echo aveva qualcosa di strano sul viso di cui ignorava l’esistenza. Accantonò alla svelta questa ipotesi. Dato che James la fissava ancora così insistentemente – come le era successo in precedenza, lo stesso giorno, sul treno – roteò gli occhi e disse: «ti serve qualcosa?»
James scosse la testa e tornò per un attimo nel mondo dei vivi, rendendosi conto che era rimasto a fissarla per troppo tempo. In realtà in quei secondi si erano scatenate dentro di lui numerose sensazioni diverse: stupore (perché non pensava di trovare Echo nella stanza adiacente alla sua), senso di colpa (perché fino ad un secondo prima l’aveva mentalmente insultata per il volume troppo alto della musica) e piacere (perché aveva in qualche modo percepito che non poteva essere un caso se anche quella sera avrebbe potuto passarla in sua compagnia).
James si schiarì la voce.
«Ehm… Ero solo venuto a chiederti di abbassare il volume della musica. Non sapevo che fossi la mia vicina di stanza»
Echo alzò un sopracciglio. In realtà poco tempo prima aveva visto uno dei suoi amici uscire da quella suite un tantino indaffarato, quindi aveva potuto immaginare che quei tre alloggiassero accanto a lei.
«Ho potuto constatare tutto ciò poco fa. Comunque scusami, a volte non mi accorgo del volume troppo alto»
Per la prima volta James vide affiorare sulle sue labbra un sorriso che non voleva accompagnare nessun tipo di presunzione, bensì quelle che sembravano… delle scuse? James era piuttosto sorpreso. Non ebbe neanche il tempo di pensare a quello che stesse facendo che, nel momento in cui Echo stava chiudendo la porta davanti al suo naso, egli vi aveva già infilato un piede per evitare che questa si chiudesse. Echo sembrava un po’ riluttante a continuare quella conversazione.
«Ti serve altro?» domandò, quindi, confusa.
James si grattò una guancia, «veramente mi chiedevo se ti andasse di stare un po’ con me… Brad è di cattivo umore e Tristan ha quello strano incontro al porto». Disse tutto d’un fiato per evitare che le inibizioni potessero fargli rimangiare tutto. Un leggero rossore gli aveva subito colorato le guance.
Echo titubò per un secondo; aveva capito che mettere davanti alla faccia una maschera da dura non era bastato con James. Lui aveva capito che tipo di ragazza fosse e ormai per tutto ciò non poteva fare nulla. In realtà le piaceva che per una volta qualcuno si interessasse a lei; che poi si trattasse di un ragazzo estremamente carino e che ad Echo piaceva era tutta un’altra storia. James le piaceva, sì. Non come le era piaciuto il suo primo ragazzo e nemmeno come le piaceva Simon; James le piaceva in un modo del tutto diverso e nuovo. Scosse la testa perché aveva deciso che era rimasta a pensarci per troppo tempo. Aprì ulteriormente la porta con gesto plateale delle braccia e tornò a sedersi a gambe incrociate sul letto. Anche se non aveva propriamente dato il permesso a James di entrare, lui aveva comunque varcato la soglia di quella stanza ed era rimasto a guardare inorridito lo spettacolo che aveva davanti.
«Beh – esordì Echo – non so a chi tu ti stia riferendo, ma spero ti piacciano i film strappalacrime»
James chiuse la porta dietro di se’ e sorrise.
 
Aveva i capelli biondi attaccati alla fronte e Judith notò che le sue sottilissime gambe stavano tremando strette nel tessuto poco protettivo dei suoi jeans scuri. La ragazza gli sorrise ma si rese conto che probabilmente lui non poteva notarlo così gli fece cenno di avvicinarsi con la mano e tornò sotto l'arco del portone.
Tristan rimase impalato a guardare la ragazza che si allontanava verso il palazzo. Sembrava che lei lo avesse riconosciuto subito mentre lui era certo di non averla mai vista in vita sua. Tristan non sopportava più l'acqua che gli scorreva lungo il collo e la schiena e sperò con tutto se stesso che la ragazza conoscesse un punto in cui ripararsi. La raggiunse correndo ed entrambi si fermarono sotto l'arco guardandosi impacciati. Adesso che lo aveva a pochi centimetri Judith doveva ammettere che le foto che aveva visto non rendevano affatto giustizia a Tristan. La cosa fantastica era che Judith era alta quanto lui e quindi per osservarlo attentamente non aveva bisogno di alzare gli occhi. Essere molto alti non è sempre vantaggioso. Certo è utile ai concerti o quando devi prendere da mangiare dal ripiano più alto del frigo, ma quando il tuo ragazzo ti arriva a malapena al naso la scena non è molto romantica.
Judith si soffermò sulle linee squadrate del volto di Tristan e sui suoi tratti spigolosi. Judith non poteva sapere che intanto l'altro la stava squadrando proprio come lei. Tristan solitamente in una ragazza non notava mai i tratti o il colore degli occhi. Diciamo che in fatto di donne si limitava ad apprezzare un fisico prestante e un carattere poco autoritario. In Judith non ritrovò le solite caratteristiche che gli piacevano. Ecco, se le fosse passata davanti a scuola neanche l'avrebbe notata. Non che non fosse carina, ma era abbastanza anonima. Nessuna particolarità, capelli corti, alta e senza troppe curve. Insomma una ragazza qualunque. Nella media, anche se forse più alta della media. Inoltre Tristan non capiva proprio perché non si decidesse a parlare. Non poté fare a meno di notare che lei fosse rimasta imbambolata a fissarlo e deciso a mettere fine alla faccenda al più presto si schiarì la gola.
«Ehm...ciao. Sei stata tu a lasciarmi questo biglietto?»
Tristan le mostrò il foglietto che aveva trovato nella cabina telefonica. Judith da parte sua era troppo impegnata a pensare a quanto la sua voce fosse proprio come se l'era immaginata per rispondere immediatamente.
«Eh sì. Ciao, sono Judith»
Le loro presentazioni furono interrotte da un'anziana signora che aprì il portone e inveì contro di loro spingendoli sotto la pioggia. Evidentemente in Francia ripararsi davanti al portone di qualcuno era violazione di proprietà privata. I due ragazzi si guardavano intorno in cerca di un altro riparo, ma nulla sembrava fare al caso loro. Poi Tristan notò il casotto accanto al chiosco ormai chiuso. Senza pensarci due volte corse verso di esso seguito da un'infreddolita Judith. Il ragazzo osservò la porta che non presentava nessun lucchetto o catenaccio. Evidentemente non vi conservavano nulla di valore. Sotto lo sguardo sbalordito di Judith, Tristan colpì la porta con una spallata. Essa cedette al primo colpo lasciandogli libero accesso all'interno. Tristan si fiondò a riparo e Judith lo seguì a ruota scivolando sul pavimento bagnato e finendo proprio contro il ragazzo. I due si separarono immediatamente imbarazzati. Il casotto non conteneva altro che qualche scopa e della fune gettata in terra a formare come dei cumuli. Judith si sedette su uno di essi aspettando che Tristan facesse lo stesso. Era sempre stata una ragazza tremendamente curiosa e il fatto che Tristan stesse perdendo tempo la stava innervosendo da morire. Probabilmente lei e lui avevano lo stesso numero di informazioni su tutto quello che stava succedendo, ma magari leggendo la lettera lui avrebbe scoperto qualcosa e lei avrebbe potuto fare un po' di luce sulla questione. Nervosa, cercò la lettera nello zaino mentre Tristan si era ormai seduto. Stava per porgergliela quando “La vie en Rose” sparata a tutto volume fece sobbalzare entrambi. Judith recuperò il telefono e quando lesse sul display PAPA' fu tentata di non rispondere. Anche Tristan lo aveva letto e pensò che lei non volesse rispondere per non interrompere la loro conversazione, che tra l'altro non era ancora iniziata.
«Secondo me dovresti rispondere. I genitori sanno essere molto apprensivi e si preoccupano se rifiutiamo le loro chiamate»
«Non immagini neanche quanto»
Judith fece un respiro profondo e accettò la chiamata preparandosi al discorso di suo padre.
Tristan non avrebbe voluto origliare, ma l'uomo dall'altra parte della cornetta stava gridando, quindi sarebbe stato impossibile non ascoltare le sue parole. Judith da parte sua sembrava indifferente. Nonostante suo padre le stesse dicendo che al suo ritorno l'avrebbe messa in punizione a vita e che un altro passo falso l'avrebbe portata direttamente all'accademia militare, Judith sembrava addirittura annoiata. Se fino a poco prima il ragazzo non aspettava altro che la lettera per potersene andare via, adesso voleva sapere a tutti i costi cosa avesse combinato Judith.
«Va bene papà. Ci sentiamo domani. E comunque la mamma aveva chiamato poco fa. Anche se non vivete più insieme potreste almeno organizzarvi in orari diversi per farmi la ramanzina»
Judith lanciò il suo telefono nello zaino chiudendo la zip e si sistemò meglio incrociando le gambe. Fece un respiro profondo e senza dire nulla porse la lettera a Tristan. Il ragazzo la prese, ma invece di aprirla la infilò nella tasca laterale dei jeans. Poi si ricordò di essere zuppo e la tolse tenendola semplicemente tra le mani per paura che si rovinasse.
«Allora cosa hai combinato per aver fatto arrabbiare tuo padre in quel modo?»
«Scusami?»
«Hai capito benissimo. Cosa hai fatto?»
Judith era interdetta. Da quando in qua uno sconosciuto si intrometteva negli affari di una completa sconosciuta? Poi avevano ben altro da fare piuttosto che conversare. Non le importava che fosse un ragazzo bellissimo, con una splendida voce e delle mani perfette. Ok, aveva iniziato a delirare.
«Perché dovrei dirtelo? Non sono affari tuoi»
Tristan le rivolse un sorriso beffardo e si sporse pericolosamente verso di lei.
«Perché mi hai incuriosito e io ottengo sempre quello che voglio»
Judith stava iperventilando. Doveva calmarsi.
«Non dovresti leggere la lettera? Non muori dalla voglia di sapere cosa sta succedendo?»
«Si, ma prima vorrei capire se sto avendo a che fare con una criminale ricercata»
«Non sono una ricercata, è solo che i miei si preoccupano troppo e mi credono in viaggio con la scuola»
Judith non avrebbe dovuto rivelare quel particolare a Tristan, perché ora che aveva un indizio in più non si sarebbe fermato davanti a nulla.
«Ah allora stai ingannando i tuoi! Perché? Cosa c'entri tu con la storia di Connor e le lettere?»
Judith temeva che se lui avesse continuato a farle domande, lei avrebbe spiattellato tutta la verità. Ormai la lettera era stata consegnata. Doveva andarsene da lì. Si alzò in piedi e fece per uscire, ma Tristan le sbarrò la strada.
«Dove credi di andare? Ho bisogno di risposte. Chi sono le altre ragazze delle lettere e perché ci state seguendo? Cosa è successo a Connor?»
Tristan non era consapevole del fatto che stesse perdendo il controllo. Senza neanche accorgersene aveva stretto i polsi di Judith. Soltanto ora aveva cominciato a rendersi conto di quanto quella situazione lo avesse stressato. Non aveva mai avuto il tempo di fermarsi a ragionare su tutta la faccenda. Anche se non voleva ammetterlo era spaventato, forse per la prima volta in vita sua. Nessuno di loro sapeva dove l'avrebbe portati quella faccenda e soprattutto non sapevano quando sarebbero tornati a casa e se avrebbero mai trovato Connor. Ciò che lo infastidiva di più era che per quelle ragazze il tutto sembrasse un maledetto gioco. Stava inconsciamente scaricando tutta la sua rabbia su quella ragazza.
Anche Judith era spaventata. Non avrebbe mai immaginato che la serata avrebbe preso una simile piega. Negli occhi di Tristan vedeva rabbia, frustrazione, ma peggio di tutto, paura. Non sapeva come affrontare la situazione e inoltre la stretta di Tristan le stava facendo male.
«Tristan lasciami. Mi stai stringendo»
Tristan allora si accorse delle sue mani strette saldamente attorno ai polsi di Judith. Si staccò immediatamente come se si fosse scottato. Judith allora aprì la porta e si gettò di corsa in strada sotto la pioggia che aveva continuato a cadere imperterrita rendendo l'ormai notturno cielo parigino una cappa di grigio.
 
James fissava insistentemente il vetro della grande finestra della stanza con sguardo vacuo e piuttosto perso. Era iniziato a piovere circa mezz’ora prima ed ora le gocce che vagavano nel buio battevano sul vetro con tanta violenza che sembravano rispecchiare l’inquietudine di James. Dal momento in cui aveva lasciato Londra, quella preoccupazione per il fatto di non sapere dove stesse andando e perché non lo aveva abbandonato nemmeno per un minuto. Si passò stancamente una mano sul viso e poi la strofinò contro il vetro per rimuovere da esso il sottile strano di condensa che si andava formando. Oltre esso, erano poche le luci che facevano capolino nel buio della metropoli. Sebbene fosse piena estate, le temperature avevano avuto un picco tremendo dal pomeriggio alla sera ed ora – sebbene James fosse al chiuso e al riparo dalla pioggia – non poteva evitare di rabbrividire leggermente per il freddo nonostante avesse una felpa addosso. Non riusciva, inoltre, a capire come il clima fosse passato da una calda giornata estiva a quello che sembrava un vero e proprio temporale. Un rumore sordo proveniente dalle sue spalle lo fece risvegliare dai suoi pensieri; per un attimo aveva quasi dimenticato che la camera d’albergo nella quale si trovava non era la sua, ma quella di qualcun altro. Osservò Echo riemergere dalla penombra con un paio di candele nella mano sinistra ed un mucchio di coperte sotto l’altro braccio. La corrente elettrica era ormai fuori uso da una dozzina di minuti e quell’albergo sembrava non avere un generatore di emergenza. I nervi di James erano tesi come una corda di violino: non era preparato ad affrontare una situazione del genere; perché, poi, un albergo così importante non poteva provvedere a tutto ciò? Doveva essere la sua giornata sbagliata.
Echo, d’altro canto, sembrava che non avesse aspettato altro che quel blackout per sfoggiare il suo indomabile istinto di sopravvivenza. Teneva le candele con tanta foga che James temeva gli si sarebbero spezzate in mano.
«Fortuna che c’erano queste!» esclamò lei agitando gli oggetti.
Le aveva trovate nel cassetto del comodino ed aveva tirato un sospiro di sollievo nel vederle; sebbene non ci teneva ad essere particolarmente preparata per quella situazione, il buio l’aveva sempre intimorita un po’.
James la guardò attentamente per un secondo: al buio i suoi occhi erano di un colore che tendeva più al grigio che al verde e i capelli che erano legati in una coda di cavallo ne erano usciti fuori a grandi ciuffi ed ora le incorniciavano il viso pallido dalle guance arrossate. James si ritrovò a pensare, ancora una volta, che fosse davvero bella in ogni suo modo. Sospirò lasciando che la tensione lo abbandonasse insieme a quel respiro. Echo si stava già impegnando per riporre le candele in un candelabro annerito di stampo barocco, mentre la cera nera cominciava a colare sul tavolinetto basso tra il televisore e il divano. Su di esso ormai campeggiavano dei cartoni fumanti di cibo d’asporto cinese. James aveva lo stomaco troppo in subbuglio per metterci qualcosa dentro.
Raggiunse Echo che era seduta sul divano con le gambe incrociate. Quando notò che un brivido le aveva causato la pelle d’oca provò un’irrefrenabile voglia di abbracciarla e stringerla forte. Batté gli occhi: si era sempre attaccato troppo alle persone e troppo presto. Si sedette al suo fianco e cercò di ingerire un po’ di cibo, ma lo stomaco gli brontolava troppo forte. Echo sembrò notare questo suo cambiamento improvviso e gli si avvicinò pericolosamente.
«Va tutto bene?» domandò titubante posandogli una mano sul braccio.
Non ricordava quando fosse diventata così premurosa nei confronti di qualunque altra persona. Nel momento in cui le loro pelli si sfiorarono, James sentì una scintilla partire dal punto in cui la mano di Echo era poggiata su di se’ e senti un brivido percorrergli la schiena. Non avrebbe dovuto sentirsi in quel modo davanti ad una ragazza che conosceva appena. Nonostante avesse voglia di raccontarle quanto fosse nervoso e quanta voglia avesse di rivedere Connor e tornare a casa, James si strinse nelle spalle. Ma se Echo aveva imparato in quegli unici due giorni che James era il ragazzo più ostinato che avesse mai conosciuto, lei lo sarebbe stata ancora di più. Era decisa ad andare in fondo a quella storia.
«A me sembra che ci sia qualcosa che non va. Vorresti parlarne?»
James, come se fosse travolto da un fiume in piena iniziò a tirare fuori tutto ciò che gli passava per la mente in quel momento.
«Non passa minuto in cui non vorrei gridare. Cosa è successo a Connor? Cosa succede a noi? Cosa ci faccio a Parigi in questo momento con una sconosciuta? Non pensavo che l’avrei mai detto, ma mi manca mia madre più di qualunque altro momento. Vorrei tanto capirci qualcosa!»
Echo lo osservò in silenzio mentre si passava le mani fra i capelli. Sembrava così affranto che Echo non ebbe il coraggio di fare o di dire nulla per qualche secondo. Poi, come se stesse agendo secondo il volere di qualcun altro, si avvicinò lentamente a James e gli scostò le mani dal viso; i suoi occhi erano di un blu talmente profondo che Echo si ritrovò a pensare che non fossero reali. Non era sicura di ciò che volesse o non volesse fare in quel momento, ma prima che potesse collegare cervello e muscoli, le sue labbra erano già poggiate su quelle di James.
Neanche lui se ne era accorto; Echo non aveva smesso di stupirlo nemmeno per un secondo, dal momento in cui se l’era trovata sul treno fino ad allora. Le sue labbra erano esattamente come se le era immaginate: morbide calde e che sapevano di fragola. Si domandò come fosse possibile. Forse era solo frutto della sua immaginazione. Sentì che lentamente una mano di Echo gli stava accarezzando la nuca sull’attaccatura dei capelli e, nonostante non gli piacesse la sensazione di freddo che la pelle di lei emanava, la lasciò fare.
Quando si separarono, sembrò che quel bacio gli avesse portato via metà del peso che gli aleggiava sullo stomaco, ma al tempo stesso era come se questo peso fosse stato rimpiazzato da un vuoto. Forse non era durato, poi, così tanto.
La luce si accese qualche secondo dopo e James notò che ora gli occhi verdi di Echo erano intarsiati di piccole pagliuzze color oro. Si chiese se la lucentezza che riflettevano fosse dovuta al bacio di qualche secondo prima. Nonostante ciò, vide che le guance gli si erano maggiormente colorate di rosso e sorrise dolcemente senza, però, dire nulla. Echo fece lo stesso: non era mai stata così intraprendente con un ragazzo e l’imbarazzo dovuto al momento le aveva impedito di dire qualunque cosa. Forse era meglio così. Prese il telecomando del televisore e si sistemò sul divano affianco a James porgendogli una coperta e stendendosene una sulle gambe nude. Ora stargli così vicina le faceva tutto un altro effetto. Si schiarì la voce per ritrovare le parole.
«C’è qualcosa in particolare che ti va di guardare?»
James si voltò verso di lei e vide che aveva lo sguardo rivolto oltre il vetro della finestra: aveva compreso il suo imbarazzo e non era intenzionato a sottolinearlo.
«Qualunque cosa andrà benissimo»
Echo si voltò verso di lui e sorrise. Un sorriso raggiante, vero. Non sorrideva così da tempo, si ritrovò a pensare lei stessa. In un momento tutto l’imbarazzo era sparito ed Echo si sentiva come se conoscesse James da anni. Scelse un dvd che portava sempre con se’ e lo inserì nello strumento del televisore, poi si sedette nuovamente, appoggiò la propria testa sulla spalla di James e premette “play”.


Note delle autrici:
Salve mondo! Allora siamo felici di annunciare che siamo finalmente riuscite a scrivere un capitolo. Ci dispiace farvi attendere sempre così tanto, ma secondo i nostri professori alla maturità manca poco quindi ci stanno torturando. Comunque, in questo capitolo succedono molte cose e soprattutto molto in fretta. Finalmente compare anche la nostra cara Judith (secondo il nostro cervello Emily Browning) (conoscete la procedura) che avrete modo di conoscere meglio. Per qualsiasi chiarimento non esitate a contattarci e fateci sapere cosa ne pensate. Ci siamo dilungate anche troppo perciò buona lettura e un ringraziamento speciale a tutti coloro che ci seguono.
Buona serata e buon fine settimana! xoxo

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo cinque.
"Where did he go wrong?"

Judith aveva sperato che il secondo incontro con Tristan sarebbe avvenuto in circostanze migliori e sicuramente non dopo una specie di litigio. Era certa che rivederla avrebbe ferito ancora di più il ragazzo in quanto doveva crederla una persona senza cuore pronta a giocare con le vite degli altri visto quello che stava facendo a Connor. Ma Tristan non sapeva e non avrebbe dovuto scoprire perché lei fosse coinvolta. Judith aveva intuito perfettamente i ragionamenti del ragazzo, che però sperava di rivederla presto per sistemare il disastro che aveva combinato. Non gli era mai capitato di perdere il controllo con una ragazza. Non era mai stato un tipo calmo e non si era mai tirato indietro quando si trattava di litigi, ma mai avrebbe immaginato che si sarebbe comportato in quel modo con una sconosciuta. Non la riteneva veramente responsabile di quello che gli stava capitando, ma lei si era trovata nel posto sbagliato e al momento sbagliato, proprio quando lui aveva lasciato che tutte le sensazioni sgradevoli che stava provando gli crollassero addosso. Perciò quando Tristan vide la porta del casotto aprirsi di nuovo non si aspettava minimamente il ritorno della ragazza. Judith entrò timidamente togliendosi lo zaino dalle spalle e aprendolo in cerca di qualcosa. Sotto lo sguardo sbalordito e imbarazzato di Tristan prese un'altra busta.
«Ho dimenticato di darti la busta con i soldi. In fondo non è possibile che continuiate a pagarvi tutto da soli»
Tristan si avvicinò a lei e quando si trovarono faccia a faccia gli occhi arrossati di Judith lo colpirono come un pugno nello stomaco. Non poteva credere di averla spaventata a tal punto.
«Ti prego, dimmi che non hai pianto»
Judith lasciò cadere la busta e si girò per andarsene. Tristan deciso a non lasciala andare in un attimo l'afferrò per un braccio tirandola verso di sé.
«Hai intenzione di aggredirmi di nuovo? Lasciami subito»
La ragazza provò a staccarsi ancora, ma questa volta Tristan la tirò più forte fino a stringerla in un abbraccio. Una volta tra le braccia del ragazzo Judith non cercò più di liberarsi e come poco prima pianse. Pianse perché si sentiva stupida ad ammettere di essersi spaventata di fronte alla reazione di Tristan. Pianse perché le dispiaceva far parte di quella storia e pianse sopratutto perché sentiva che i suoi genitori avevano ragione nel considerarla una persona superficiale e avventata. Tristan ascoltava i singhiozzi di Judith senza sapere cosa fare. Per lui era una situazione completamente nuova. Non si era mai trovato a dover consolare qualcuno, tanto meno qualcuno che piangesse per colpa sua. Continuava a stringerla sperando che la sua stretta le facesse capire quanto si sentisse male al pensiero delle sue lacrime.
«Judith, va tutto bene?»
Judith mormorò qualcosa dall'incavo del collo di Tristan. Lui allora l'allontanò appena in modo da vedere il suo viso. Lei sostenne il suo sguardo cercando di riprendersi, ma le lacrime non smettevano proprio di inondarle gli occhi. Tristan, tenendole il volto, passò i pollici lì dove il trucco aveva lasciato delle striature nere sulle guance. Sarà stata la dolcezza di quel gesto o il fatto che entrambi fossero emotivamente instabili a fare in modo che i due annullassero lentamente la distanza tra di loro. Quando le labbra di Tristan si posarono su quelle di Judith, lei non si oppose. Ricambiare il bacio le era venuto spontaneo, così come incrociare le sue mani dietro la nuca di lui. Tristan sentì il sapore salato di lacrime e giurò a se stesso che non lo avrebbe più sentito sulle labbra di lei. La sua mente andò immediatamente all'ultima volta che aveva baciato una ragazza e il ricordo fu doloroso quasi quanto le lacrime di Judith. Cercò di non pensarci e di concentrarsi esclusivamente su quel momento, ma ormai era troppo tardi: l'immagine di Carol cercava di prendere il posto di Judith. Quel suo attimo di confusione fu interrotto dallo squillare del telefono della ragazza. Lei si staccò bruscamente per rispondere.
«Dimmi papà, cosa c'è ancora? Adesso ho un coprifuoco anche in vacanza?! Tranquillo sono già in camera»
Tristan per non origliare di nuovo aveva fatto un passo indietro, ma il suo piede si era impigliato in una matassa di fune. Prima di cadere si sorresse al muro imprecando, ricordandosi troppo tardi che l'uomo al di là della cornetta poteva sentirlo. Judith gli lanciò un'occhiata di disperazione portandosi una mano alla fronte.
«No papà era solo la mia compagna di stanza. Qui non c'è nessun ragazzo. Smettila di gridare! Adam non è neanche nella mia scuola! Come potrebbe essere qui con me?!»
Tristan capì di aver combinato un guaio e il padre di Judith continuava a dire che se avesse scoperto che era lì con un certo Adam l'avrebbe pagata cara.
«Papà devo andare adesso. Buonanotte»
Senza dare tempo a suo padre di controbattere Judith gettò il telefono nello zaino e si sedette in terra nascondendo il volto tra le mani. Tristan con una coraggio a lui sconosciuto le si sedette davanti e aspettò che lei parlasse ascoltando il rumore della pioggia . Passarono almeno due minuti, ma Judith sembrava essere in uno stato di meditazione. In realtà la ragazza stava cercando di trovare un nesso tra quello che era successo con Adam e il suo bacio con Tristan. Inoltre l'ennesima telefonata di suo padre l'aveva incupita ancora di più. Perché non poteva lasciare che fosse lei a biasimarsi per il suo errore? Era sicura che quel bacio fosse stato diverso da qualsiasi contatto avesse mai avuto con Adam, ma non riusciva a capire se fosse tutto semplicemente uno scherzo della sua mente romantica. Ormai avrebbe dovuto capire che gettarsi a capofitto in qualcosa non portava a nulla di buono.
«Judith hai freddo?»
La ragazza si accorse solo il quel momento di tremare e annuì quasi impercettibilmente. Allora Tristan si spostò sul pavimento mettendosi al suo fianco e poggiandole un braccio attorno alle spalle. Sperava soltanto che lei non fraintendesse quel gesto. Il fatto che si fossero baciati non equivaleva ad una dichiarazione d'amore, almeno per lui. A dir la verità ormai Tristan agiva d'impulso. Non gli era mai capitato in vita sua di essere così dolce con qualcuno e la cosa lo spaventava. Non poteva ricadere così presto nello stesso tranello. Sapeva che la cicatrice di Carol era ancora troppo fresca, ma per il momento non voleva pensare alla conseguenze dei suoi gesti.
«Vuoi raccontarmi quello che sta succedendo con tuo padre? Tanto abbiamo ancora un sacco di tempo, sta ancora piovendo»
Judith si scoprì il volto e sorrise. Magari sentire il parere di una persona esterna alla faccenda l'avrebbe aiutata a ragionare.
«Da dove devo cominciare?» disse ridendo nervosamente.
«Direi dall'inizio. Perché i tuoi ti trattano così male?»
«Ormai credo che ne abbiano tutto il diritto, anche se vorrei che smettessero»
«Cosa è successo?»
«Allora premettendo che sei la prima persona cui lo racconto e che spero che non mi considererai una pazza, sappi che ora ho imparato la lezione. Dunque, quattro anni fa conobbi un amico di mio fratello ad una festa a casa nostra. Diciamo che stavo già facendo una cosa vietata perché i miei non volevano che stessi in compagnia di ragazzi più grandi tutta la sera. Va bene, comunque quel ragazzo, Adam, era gentile e sembrava proprio uscito da una favola. Inutile dire che mi innamorai prima ancora che la serata finisse. Nel periodo successivo a quella serata cominciammo a frequentarci e in men che non si dica diventammo una coppia. Mi accorgo solo ora che lui non era innamorato come diceva di essere, ma nonostante tutto io ero pazza di lui. All'inizio dell'anno scorso lui cominciò ad essere distante, ma io attribuivo il suo comportamento a un miliardo di cause, insomma a tutto tranne al fatto che lui potesse essersi stancato di me. Un paio di mesi fa aveva deciso che sarebbe andato a stare per un po' da alcuni suoi parenti in un paesino vicino Londra. Dopo le prime due settimane lui smise di chiamarmi e di rispondere ai miei messaggi. Così decisi di andare a vedere quello che stava succedendo. Ecco, quello fu il mio errore più grande perché fui tanto stupida da non cogliere i segnali che mi stava mandando. Una mattina senza dire nulla ai miei presi un autobus e lo raggiunsi. Una volta mio fratello mi aveva raccontato delle vacanze passate dagli zii di Adam, quindi non fu difficile reperire l'indirizzo di casa loro. Arrivai a destinazione nel primo pomeriggio e andai immediatamente all'indirizzo che avevo trovato. Venne ad aprirmi una signora, sua zia, che mi disse che Adam sarebbe tornato da lì a breve. Io dissi di essere una sua amica e che lo avrei aspettato fuori. La cosa che mi lasciò sorpresa era che il mio nome non le fosse affatto familiare. Comunque, ancora cieca davanti all'evidenza, aspettai seduta alla panchina dall'altro lato della strada»
Judith aveva cominciato a raccontare con più esitazione e Tristan se ne rese conto.
«Non devi dirmelo per forza se non vuoi, ma credo di aver intuito qualcosa»
Judith si schiarì la gola e annuendo continuò a parlare.
«No, devo dirlo a qualcuno. Neanche mio fratello sa di questa storia. Allora poco dopo vidi Adam avvicinarsi alla casa, ma stringeva la mano di una ragazza. Avrà avuto più o meno la mia età ma attraverso la giacca aperta era ben visibile il pancione. Finalmente avevo capito perché Adam era così distante. Stava per diventare padre. Senza farmi vedere scappai verso la stazione dell'autobus per tornare a casa. Inutile dire che mi diedi della stupida e piansi per tutto il viaggio. Quella sera al rientro a casa trovai i miei genitori furibondi, che avevano impiegato pochissimo a capire che in tutta quella storia ci fosse di mezzo Adam. Dalla fuga di quel giorno mi trattano come una bambina, e in parte hanno anche ragione. Non avevo mai voluto dare retta ai miei che mi ritenevano avventata o a mio fratello che più volte aveva detto di non fidarsi di Adam. Quindi ecco come si è conclusa la mia patetica avventura»
Tristan stava cercando di metabolizzare tutto quello che aveva ascoltato, ma l'unica cosa che sentiva era la voglia infinita di picchiare quell'Adam, che chissà per quanto tempo aveva preso in giro Judith. Sapeva che parte della colpa era da attribuire alla ragazza che ora gli era accanto, ma non riusciva proprio a biasimarla vedendola lì stretta a lui. Evidentemente si era lasciata affascinare da quel ragazzo ed era cresciuta nell'errore senza mai accorgersene.
«Allora non hai nulla da dirmi?»
«Cosa ti aspetti che ti dica? Non avrei mai immaginato che potessi avere un rapporto così con i tuoi né tanto meno che avessi dovuto affrontare una cosa del genere»
«Lo so sono stata una stupida, ma per me l'importante era avere qualcuno vicino. Negli ultimi anni mio fratello si trasferito al college e i miei genitori si sono separati due anni fa. Devi capire che ritenessi Adam l'unico punto fermo della mia vita. Ma mi sbagliavo»
«Non sarò certo io a giudicarti visto i casini che ho combinato. L'unica cosa che posso dirti è che mi dispiace»
«Grazie. Dispiace anche a me, e mi dispiace anche che tu abbia dovuto ascoltare tutta questa storia»
«Non ti preoccupare, mi ha aiutato a capirti un po' meglio»
«Tranquillo avrai tutto il tempo per scoprire chi sono»
Tristan accolse quelle parole con un guizzo di gioia. L'elettrizzava l'idea di scoprire tutto su quella ragazza che poche ore prima non avrebbe degnato neanche di uno sguardo. Curioso di scoprire cosa li attendesse si ricordò finalmente della lettera che gli era stata consegnata. Si guardò intorno e la trovò appoggiata poco distante da lui.
«Judith credo che dovrei leggere la lettera»
«Lo credo anche io. Io non posso farlo. Mi è stato vietato»
«Va bene»
Tristan aprì la busta ormai rovinata dall'acqua e lesse utilizzando il cellulare per fare luce, visto che il casotto era illuminato solo dalla luce proveniente dalla porta aperta che dava sulla strada.


“Caro Tristan,
so che molto probabilmente ti starai chiedendo cosa succede, ma non preoccuparti. Sappi soltanto che la ragione non ti sarà affatto utile in questo viaggio. Come i tuoi amici, stai per arrivare ad un punto di svolta e il mio unico obiettivo è che voi non commettiate più gli stessi errori. So che non ti fidi di me, e che anzi ormai non ti fidi più di nessuno, ma credo che dovresti cominciare a farlo. Smettila di chiuderti in te stesso per paura di farti male. Al mondo non esistono soltanto persone come Carol. Ti prego di trasmettere un po' della tua diffidenza a chi ne ha bisogno e di imparare dagli altri il significato della cieca fiducia. Io e Connor vi stiamo aspettando con impazienza.
Con affetto,
B.P.”

Tristan ripiegò il foglio scioccato. Chiunque fosse quel B.P. sapeva di Carol. Lo aveva detto soltanto ai suoi amici e B.P. avrebbe potuto scoprirlo soltanto parlando con uno di loro o con Carol stessa. Judith lo osservava torcendosi le mani che aveva poggiate in grembo. Tristan si chiedeva se fosse lei la persona cui doveva insegnare ad essere diffidente e se lui dovesse imparare da lei a fidarsi del prossimo. Almeno il suo intuito lo aveva portato a quelle conclusioni. Inoltre aveva scoperto che Connor era a conoscenza di tutto quello che stava succedendo e quello gli bastava, anche se sapeva che la necessità di scoprire chi fosse B.P: lo avrebbe torturato da lì in poi. Doveva avvisare i suoi amici il prima possibile. Però forse sarebbe stato meglio aspettare direttamente il mattino successivo e lasciarli dormire, visto che dovevano essere stanchi quanto lui. Brad sembrava abbastanza tranquillo, ma era certo che i problemi di insonnia di James si fossero amplificati in quei giorni. Meritavano tutti un po' di riposo e inoltre dovette ammettere che voleva passare ancora un po' di tempo con Judith.
«Judith, posso accompagnarti dovunque tu stia alloggiando?»
«Quanto conosci Parigi?»
«Diciamo poco e niente»
«Allora facciamo così, potremmo usare il mio telefono. Ho un fantastico GPS»
Judith digitò il nome dell'albergo e della via e Tristan realizzò in un attimo che si trattava dello stesso posto dove lui e i suoi amici stavano alloggiando.
«Non posso crederci,avremmo potuto incontrarci nel corridoio dell'albergo invece di arrivare fino a qui!»
«Tris però devi ammettere che non sarebbe stato così romantico!»
Tristan rise e si avviarono fuori felici del fatto che avesse ormai smesso di piovere. Per tutta la strada di ritorno Tristan, nonostante cercassero di fare conversazione, non fece altro che pensare che amava il fatto che Judith lo avesse chiamato Tris. Si complimentò con se stesso constatando che il suo lato razionale stava piano piano eclissandosi. B.P. ne sarebbe stato felice.

James si svegliò di soprassalto e con i capelli appiccicati sulla fronte e sul collo per il sudore. Le candele erano consumate e il televisore era blu. Nella stanza aleggiava un forte odore di carta bruciata e di pelle accaldata e James si sentì quasi svenire per l'aria viziata. Cercò di tirarsi su a sedere, ma il collo gli faceva troppo male e la testa gli girava troppo; quando si passò una mano sulla nuca per asciugarsi le gocce di sudore, sentì le vertebre scricchiolare e una fitta di dolore trapassargli i muscoli. Strizzò gli occhi e mugolò qualcosa, quando si accorse del peso che gli bloccava le gambe. Abbassando lo sguardo si rese conto che sulle sue cosce era appoggiata la testa di Echo; i suoi capelli scuri erano sparsi sulla tuta di James, i suoi occhi erano chiusi e la sua bocca era leggermente dischiusa e da essa uscivano dei piccoli sbuffi caldi. James sorrise teneramente e accarezzò una ciocca di capelli. Guardò l'orologio appeso al muro e si rese conto che erano appena passate le tre del mattino e, stando ai suoi calcoli, era riuscito a dormire sì e no quattro ore. Era uno dei suoi record migliori. James non ricordava quando aveva iniziato a soffrire d'insonnia, ma sapeva di sicuro che da quando era partito quel problema era notevolmente peggiorato. Come tutte le volte si rese conto che aveva bisogno di trovare qualcosa da fare se avesse voluto che il tempo passasse in fretta. Sollevò lentamente la testa di Echo e la appoggiò su un cuscino; la ragazza farfugliò qualcosa di incomprensibile e incastrò una mano sotto la guancia, riempiendosi il viso di capelli scurissimi. La luce blu del televisore proiettava sul suo viso delle ombre spettrali, ma a James piaceva lo stesso.
Forse vederla in quel modo, indifesa e inconsapevole che lui la stesse fissando, gliela fece vedere sotto una luce diversa. James provò all'improvviso un senso di tenerezza nei suoi confronti, poi si ricordò immediatamente del bacio che si erano scambiati la sera precedente e della mano di Echo che gli accarezzava la nuca. Un brivido gli percorse la spina dorsale e lo costrinse a risvegliarsi dai suoi stessi pensieri. Era rimasto a pensarci su decisamente troppo. Si liberò della coperta che gli si era attorcigliata intorno ai piedi e si alzò dal divano che emise un fastidioso scricchiolio.
Sul pavimento era appallottolato l’asciugamano rosa di Echo che in precedenza le aveva asciugato i capelli.
Dopo averlo erroneamente calpestato, James lo raccolse e lo piegò con cura sistemandolo sulla poltrona ai piedi del letto. Prima che potesse cambiare idea, si ritrovò a sistemare tutto ciò che era in giro nella stanza. Non riusciva a capacitarsi di come quella ragazza avesse fatto a creare così tanto disordine in così poco tempo. Neanche Brad, Tristan e Connor ci sarebbero riusciti in un mese di convivenza. O forse sì. Scosse la testa e piegò anche l'ultima maglietta riponendola sulla poltrona, quando tra le mani gli capitò un vecchio taccuino rilegato in pelle marrone. Il taccuino di Echo. James deglutì rumorosamente e ricontrollò che la ragazza fosse ancora addormentata prima di sedersi sul bordo del letto ed appoggiare il quaderno sulle ginocchia. Piccole gocce di sudore gli imperlavano la fronte scoperta. Accese la lampada sul comodino, aprì la prima pagina e lesse con attenzione; fu felice di riconoscere che la calligrafia era la stessa della lettera che aveva letto qualche giorno prima. Improvvisamente gli sembrò che fossero passati secoli da quel momento. La prima pagina era stata scritta il 17 febbraio dell'anno prima: in quella giornata Echo aveva conosciuto per la prima volta l'attuale ragazza del suo amico Simon, ma non le era piaciuta dal primo momento perché la considerava troppo... stupida. Ammetteva anche che forse quel giudizio affrettato era dettato dalla gelosia. Qualche giorno dopo la sua giornata scolastica era andata a meraviglia e i suoi genitori promettevano di regalarle un viaggio in Italia dopo il diploma. Quando James arrivò al 13 di qualche mese prima, rimase a leggere attentamente quella pagina piena di odio e frustrazione, in cui Echo raccontava di come avesse scoperto che sua madre aveva un altro uomo, ma che suo padre non ne era a conoscenza; di come fosse stata tentata di confessare tutto, ma di come sua madre glielo avesse impedito; ed infine di come avesse deciso di lasciare casa con la scusa degli studi. James si sentì ancora più confuso di prima soprattutto perché non sospettava affatto che Echo potesse avere quel genere di problemi. Pensò che molto probabilmente era solo troppo brava a nascondere le emozioni. In quelle pagine si parlava molto di Simon e di suo padre. Il primo era un ragazzo sveglio e dolce e conosceva Echo da quando i due erano bambini. La ragazza sembrava volergli molto bene. Suo padre sembrava quel genere di persona che conta di più sulle ambizioni dei propri figli che sulle proprie; James pensò che non aveva mai avuto un genitore del genere. James trovò il ritratto di un ragazzo riccio ed occhialuto e pensò che molto probabilmente si trattasse del disegno che aveva intravisto sul treno e che quello potesse essere il migliore amico di Echo. In ogni modo nulla, in quel taccuino, sembrava fare riferimento ad un certo Connor. Con estremo rammarico, James girò nuovamente pagina e lesse la data in alto a destra: si trattava di qualche giorno precedente alla loro partenza. Sapeva che in qualche modo si era spinto abbastanza oltre e che probabilmente avrebbe dovuto chiudere il diario in quell'esatto istante, ma qualcosa lo spinse a leggere ancora. La pagina parlava di un certo Benjamin e di come quel giorno le avesse parlato di un'interessante avventura in giro per l'Europa. James capì che si trattava del viaggio nel quale anche lui si era ritrovato, ma aveva iniziato a chiedersi fin dove si sarebbero spinti. Sapeva che in qualche modo avrebbe saputo qualcosa di più su Connor e su questo Benjamin, ma prima che potesse leggere una parola di più, il suo cellulare prese a diffondere una suoneria tanto orribile quanto rumorosa, facendogli scivolare il taccuino di mano per lo spavento. Ma chi aveva avuto l'idea di scegliere quella canzone? Di sicuro non lui. Prese il telefono e lesse il nome di Brad sullo schermo. Guardò di nuovo il divano e vide che Echo stava ancora dormendo, quindi si tranquillizzò. Era sicuro che Brad gli avrebbe fatto una ramanzina lunga delle ore, ragion per cui nel momento esatto in cui la chiamata partì e l'amico gridò il suo nome, James rispose con un deciso «sto arrivando!» e chiuse la chiamata.

Brad sorpassò la porta dell'ascensore senza neanche degnarla di uno sguardo. Aveva sempre odiato quegli aggeggi e il fatto di non avere i piedi poggiati su qualcosa di saldo e immobile. Forse dipendeva anche dalla sua paura delle altezze. Comunque si era alzato di buon mattino e gli ospiti dell'albergo dovevano essere ancora tutti profondamente addormentati. Il pavimento del corridoio era coperto da una moquette grigia e poco spessa e l'abbinamento con le pareti giallo limone faceva l'effetto di un cazzotto in un occhio. La porta che dava sulla tromba delle scale era pesante e nel momento in cui Brad la aprì, essa cigolò emettendo un fischio inquietante. Un brivido gli corse lungo la spina dorsale e Brad infilò le mani nella felpa fresca di bucato che indossava. Quella mattina aveva trovato l'indumento piegato e poggiato sopra il portasciugamani. Su di esso vi era un post it di James che ricordava a Brad di indossare la felpa perché nonostante fosse estate non si poteva paragonare il clima di Parigi a quello di Roma. Brad sorrise tra sé e scese di corsa le tre rampe di scale che lo separavano dal piano terra e quindi dal meraviglioso ristorante in cui non vedeva l'ora di fare colazione. Brad adorava fare colazione. Gli piaceva talmente tanto sedersi davanti ad una tazza di latte o di caffè e mangiare cereali, biscotti o brioches che molto spesso si trovava a fare colazione ben due volte. Tristan diceva che quell'abitudine dell'amico fosse la conferma del suo essere uno hobbit. Conoscevano il film del Signore degli Anelli a memoria e da quando lo avevano visto la prima volta Tristan aveva associato Brad ad uno di quei piccoli personaggi. Lo stomaco di Brad riusciva a brontolare anche di prima mattina. La hall dell'albergo era deserta tranne per il gentile ragazzo francese che si occupava di distribuire le chiavi agli ospiti. Quest'ultimo da dietro la sua frangia di capelli neri gli rivolse un sorriso che arrivava fino agli occhi azzurri e tondi. Nonostante la sua avversione per la Francia, condivisa anche da Connor, quel tipo gli andava veramente a genio. Brad sfilò la mano destra dalla tasca e lo salutò. Ora che tutti i convenevoli erano stati fatti poté entrare nel ristorante. Andò immediatamente verso il fondo dove si trovavano i vari tavoli del buffet. Con un attimo calcolò quanto cibo potesse prendere visto che avrebbe dovuto portarlo agilmente fino ad un tavolo qualsiasi. Mentre ragionava si era già riempito le mani con un bicchiere di succo e un'omelette al formaggio. Spostava lo sguardo nella sala per trovare un tavolo di suo gradimento quando notò che nell'angolo più remoto della stanza dietro una colonna era seduta una ragazza. Impiegò meno di un istante per riconoscerla. Con passo furtivo pronto a farle prendere uno spavento si avvicinò al tavolo dove era seduta Lucinda. Brad pensò che si fosse scelta proprio il tavolo più nascosto possibile. Il suo avvicinamento furtivo fu però rovinato quando colpì con il piede una sedia quasi inciampando. Allora Lucinda alzò gli occhi dalla sua tazza di cereali, ma appena si accorse di Brad tornò a mangiare cercando di finire in fretta, evidentemente per poter scappare. Brad però non avrebbe ceduto molto facilmente. Si sedette davanti a lei senza neanche chiedere il permesso.
«Buongiorno! Dormito bene?»
Lucinda sbuffò e non rispose portando alla bocca un altro cucchiaio colmo di cereali al cioccolato. «Va bene non hai voglia di parlare con me. Vedo che stai facendo una classica colazione, invece io morivo dalla voglia di mangiare qualcosa di particolare, ma non spiccicando una parola di francese non sono riuscito a capire le targhette attaccate vicino alle pietanze, così mi sono accontentato di un'omelette al formaggio, che tra l'altro mangio molto spesso anche a casa. Ti avviso più eviterai di parlare con me e più io diventerò logorroico. Potrei parlare per ore senza mai stancarmi. Da bambino quando rimanevo da solo in casa cominciavo a parlare perfino con in mobili. Perciò adesso dovrai sorbirti il racconto della mia fantastica serata, a meno che tu non mi dica almeno come stai»
Lucinda non rispose neanche questa volta, ma era troppo occupata a reprimere un sentimento indesiderato. Doveva ammettere che sentire le chiacchiere senza senso di quel ragazzo la metteva di buon umore. Era la prima volta che le capitava di apprezzare completamente la compagnia di qualcuno. Invece di lasciarsi andare al suo buonumore si limitò a scuotere il capo. Non poteva permettere che Brad sapesse che lo trovava divertente, altrimenti non l'avrebbe più lasciata in pace. Brad d'altro canto aveva capito di aver iniziato a fare breccia nella facciata di perenne tristezza di Lucinda, e perciò continuò imperterrito.
«Va bene. Allora ieri sera dopo una giornata segnata da eventi da matti, come del resto le giornate precedenti, avevo voglia di fare qualcosa per distrarmi e non pensare di essere a Parigi per una caccia all'uomo. Di solito quello che si preoccupa è James, ma visto che stiamo parlando del piccolo Connor, anche uno scoiattolo capirebbe che c'è bisogno di essere in ansia. Comunque lasciando da parte ciò, avrei voluto, non so, andare a fare un giro per il quartiere, o magari andare a cena fuori. Insomma qualsiasi cosa. Ma la questione è che avevo bisogno di qualcuno che venisse all'avventura con me. Tralasciamo anche che James fosse sparito e che Tris si stesse occupando del messaggio misterioso, volevo conoscere meglio una certa ragazza che tra l'altro aveva dormito sulla mia spalla senza neanche prima presentarsi. Insomma converrai con me che questa ragazza fosse in debito con me, giusto? Invece no. Lei mi liquida con una semplice scusa dicendo di essere stanca. Certo come se la notte non fosse abbastanza lunga per fare entrambe le cose. Allora cosa ha da dire questa ragazza a sua discolpa?»
Lucinda ormai non riusciva più a trattenersi e si abbandonò ad una risata. Brad sentì un tuffo al cuore quando sentì quel suono così buffo. Oltretutto non l'aveva mai sentita ridere. “Tu hai bisogno di Lucinda almeno quanto lei ha bisogno di te. Lei ha molto da insegnarti.” Quelle parole continuavano a risuonargli nella mente. In qualche modo lui aveva capito che Lucinda aveva bisogno del suo aiuto. Nonostante volesse apparire forte e intaccabile, Lucinda doveva nascondere qualcosa. Ma Brad continuava a non capire quale sarebbe stato il ruolo di quella ragazza nella sua vita. Aveva appurato che innanzitutto avrebbe dovuto cercare di conoscerla.
«Temevo che mi avresti lasciato a farneticare tutta la mattina»
«A tutto c'è un limite, e poi avresti finito con lo svegliare tutto l'albergo, e a me piace la tranquillità»
«Io la trovo così noiosa, non c'è nessuno da osservare o con cui parlare, ma fortunatamente ho trovato qualcuno che è veramente di compagnia. Parlare con te è come parlare con un albero»
«Scusami, ma non sono un tipo molto loquace»
«Me ne sono reso conto, ma ti perdono. In fondo parlare con gli sconosciuti non è raccomandato»
«E allora perché tu lo fai?»
«Perché io non ho bisogno di raccomandazioni. Poi dal momento che si conosce il nome di una persona quest'ultima assume un'identità precisa e perciò non la si può considerare più una sconosciuta. Poi ti ripeto che ormai io te non siamo semplicemente due estranei seduti ad un tavolo. Io so molte cose di te»
«Per esempio?»
Brad si portò un mano al mento e solo in quel momento notò che il suo piatto era ancora pieno. Incredibile. Parlare con Lucinda gli aveva fatto dimenticare della sua colazione.
«Allora prima di tutto ho bisogno di zuccheri, tu intanto crogiolati nel attesa di ascoltare le mie grandi scoperte sulla vera identità di Lucinda...»
«Darwin»
«Sulla vera identità della misteriosa Lucinda Darwin»

Erano passati esattamente quarantaquattro minuti da quando Lucinda aveva messo piede nella doccia, quando decise che era stata a mollo per troppo tempo e che le dita le si erano raggrinzite abbastanza. Uscì dalla vasca e si avvolse in un asciugamano pulito; la cosa che amava più di qualunque altra era avvolgersi in un asciugamano fresco e pulito e profumare di agrumi. Sfortunatamente, però, la stoffa le lasciava scoperta troppa pelle per i suoi gusti. Si diresse allo specchio e si frizionò per qualche minuto i capelli con un nuovo asciugamano. Ora i capelli lunghi e scuri le ricadevano sulle spalle e si incollavano a grosse ciocche sulla pelle umida. Lucinda odiava quella sensazione. Osservava il proprio riflesso allo specchio, quando sentì un rumore sinistro provenire dalla stanza da letto. In un primo momento l'abitudine la portò a credere che si trattasse del suo cane Nig, ma subito dopo fu costretta a ricredersi appena si accorse che non si trovava a casa sua. Quindi deglutì. Sua madre l'aveva sempre rimproverata perché guardava troppi film dell'orrore, infatti Lucinda non poté evitare di credere che si trattasse di un aggressore. Si rese conto che in ogni caso non avrebbe potuto difendersi con nulla. Decise, allora, che avrebbe preso coraggio e sarebbe andata alla scoperta di cosa si celava nella sua stanza da letto. Magari era solo il vento che faceva sbattere un ramo contro la finestra. Aprì lentamente la porta che divideva il bagno dalla stanza da letto e una nube di vapore si allargò intorno a lei tanto da farla sembrare una scena da film. Lucinda oltrepassò quella nube ed entrò nella stanza, dove un silenzio tombale la fece rabbrividire. Il sole era quasi interamente coperto dalle nube, ragion per cui la stanza era illuminata da una luce spettrale. Lucinda avanzò prendendo la lampada sul comò che affiancava la porta: in quel modo avrebbe almeno potuto lanciarla in testa all'ipotetico aggressore. Deglutì appena e fece un altro passo quando sentì un rumore provenire dalla parte opposta del letto; le gambe le tremavano mentre avanzava in quella direzione. Si voltò oltre la sponda appena in tempo per vedere la figura di un ragazzo accovacciata sotto al letto. D'istinto, Lucinda scagliò la lampada che aveva in mano contro la figura sconosciuta nell'esatto momento in cui una testa riccioluta riaffiorava dal letto. Brad evitò per un pelo il soprammobile che andò a finire contro il muro con un tonfo ed infine rotolò sul pavimento.
«Ma sei impazzita?!» gridò Brad guardando la lampada rotolare sulla moquette.
Lucinda - che nel frattempo ansimava per il terrore con una mano sul petto - si tirò i capelli indietro ed espirò.
«Scusa, io... pensavo che fossi un criminale o che so io!»
Brad si lasciò sfuggire una risata. Il fatto era che avere Lucinda lì davanti con un asciugamano addosso, i capelli sgocciolanti d'acqua e uno sguardo terrorizzato lo divertiva alquanto. Ma Brad si fece subito serio osservando lo strano cipiglio di rimprovero sulla fronte.
«Un momento! Come sei entrato qui dentro?» gridò indignata incrociando le braccia al petto.
Improvvisamente si sentì estremamente nuda e di certo Lucinda non era abituata a mostrarsi in quello stato davanti a degli sconosciuti. Insomma, quasi. Brad deglutì rumorosamente; si sentiva la gola avvolta da uno strato di carta vetrata. Lucinda era di certo la ragazza più difficile con la quale avesse mai trattato.
«Beh, in realtà la storia è molto semplice... niente di clandestino - iniziò; Lucinda roteò gli occhi infastidita da tutta quella parlantina - la cameriera usciva e io sono entrato»
In effetti Lucinda notò che sul tavolinetto lì accanto campeggiava un vassoio di vivande e che il suo letto era stato ricoperto accuratamente. Strano, ma non si era accorta di nulla. Istintivamente si rilassò e andò a sedersi sul bordo del letto. Brad la seguì.
«C'è un motivo per cui sei qui? - domandò Lucinda - ti serve qualcosa?»
Brad strofinò le mani sui jeans per asciugarle dal sudore. Era così nervoso che piccole goccioline iniziavano a fargli incollare i capelli al collo. Lucinda sorrise per la tenerezza, ma tornò immediatamente seria. Brad non si accorse di nulla.
«Volevo parlarti di una cosa» sputò infine.
Lucinda fu percorsa da un brivido: quando la gente usava quel tono con lei non c'era mai nulla di buono. Con un gesto del capo lo spronò a continuare, ma Brad sembrava non trovare le parole per farlo; poi inspirò e continuò: «senti, io non so perché sei qui né se tu lo voglia o meno, ma dev'esserci un motivo se ti ho incontrata su quel treno e se ti sto sempre tra i piedi»
Lucinda aggrottò le sopracciglia.
«Cosa cerchi di dirmi, Brad?»
«Quello che cerco di dirti, Lucinda, è che ignorarci in questo modo non ci servirà a nulla»
Nel momento in cui Brad disse l'ultima parola, entrambi sospirarono e distolsero lo sguardo l'uno dall'altra. Lucina guardava i suoi piedi; Brad guardava fuori dalla finestra. Poi Lucinda, per la prima volta da quando aveva conosciuto Brad, reagì.
«Cosa pensi di fare, allora?» domandò.
Brad la guardò in faccia, ma non notò nessun velo di irritazione a differenza da come invece traspariva dalla sua voce. Gli occhi vitrei di Lucinda erano sempre seri e fissi su di lui. Deglutì di nuovo.
«Perché pensi che si tratti sempre e solo di me?» sbraitò Brad. Non sapeva esattamente cosa stesse dicendo e perché lo stesse facendo, ma in quel momento la sua voce aveva notevolmente alzato il tono. Lucinda indietreggiò, mentre Brad si alzava dal letto.
«Scusa tanto se cerco di trovare una soluzione!» gridò in risposta. Quando si alzò era poco più bassa di Brad e riusciva a guardarlo bene negli occhi con tanta intensità che avrebbe voluto schiaffeggiarlo con la mente.
«Lo vedi?! Fai sempre così!» Brad non voleva assolutamente essere scortese, ma non riuscire ad ottenere un contatto reale con Lucinda lo faceva imbestialire. In tutta quella storia c'era dentro quanto lei. Aveva anche lui diritto ad essere arrabbiato.
«Si può sapere cosa vuoi da me? Entri nella mia stanza come se fosse la tua e per di più mi fai anche la morale? Mi spieghi cosa...» Lucinda non fece in tempo a finire la frase perché Brad le si era avvicinato tanto velocemente da averla intrappolata contro il muro. Sentiva la carta da parati ruvida contro le spalle nude ed odiava quella sensazione. Ma non ci fece nemmeno caso perché Brad la guardava negli occhi come si guarda qualcosa che si ha paura di rompere. Lucinda era estremamente confusa. Riusciva soltanto a pensare che da quella distanza sentiva il suo respiro e il suo profumo; e Brad aveva un profumo buonissimo. Tutti quei pensieri si formularono nella sua mente in pochi secondi, giusto il tempo che servì a Brad per accostare le proprie labbra alle sue. Lucinda si perse in quel bacio. Sapeva di estate e di Brad. Per qualche strano motivo era proprio così che si era immaginata quel sapore. Chiuse gli occhi e dischiuse le labbra; quelle di Brad erano così calde e morbide che Lucinda si sentì confortata. Infilò una mano dalle dita affusolate nei suoi capelli e gli accarezzò i ricci. Era proprio come se li era immaginati. Tutto era come se l'era immaginato. Brad, dal canto suo, sembrava non essere più se stesso in quel momento. Quell'atmosfera l'aveva talmente catturato che non si rese conto che la stesse effettivamente baciando, né di come fosse riuscito a farlo. La sua mano scivolò dietro la nuca di Lucinda per attirarla maggiormente a sé, ma quando lo fece qualcosa sembrò spezzarsi in lei. Si allontanò bruscamente da Brad spingendolo via con le braccia esili. I suoi occhi erano un misto di desiderio, paura, pentimento e felicità. Brad li osservò a lungo senza trovare una risposta valida. Lucinda si accarezzava le labbra umide dove fino a qualche momento prima era appoggiate quelle di Brad. La fine di quel bacio le aveva lasciato una sensazione di fastidio all'altezza dello stomaco; si sentiva le viscere aggrovigliate in uno stretto nodo. Guardò fuori dalla finestra le nuvole muoversi nel cielo e rifletté un attimo.
«Brad» sussurrò subito dopo. E il suo nome pronunciato da lei aveva tutto un altro suono, per Brad. Lucinda gli sembrava così diversa che anche quando la guardava negli occhi non vedeva più quella scintilla.
«Va' via»
Il ragazzo indietreggiò. Aspettava di sentire qualsiasi cosa; tutto, ma non quello. Aveva forse sbagliato qualcosa? Forse era un pessimo baciatore. Eppure la sua ex fidanzata delle scuole medie gli aveva più volte fatto i complimenti. Scosse la testa e decise di non pensarci.
«Lucinda, cosa...»
«Brad, per favore, va' via», la sua voce era inevitabilmente più cupa e severa di prima. Brad indietreggiò ancora; aveva capito che quell'espressione e quel tono di voce dovevano trasmettere tutta l'intransigenza di Lucinda in quel momento: non avrebbe accettato obbiezioni. Il ragazzo sospirò e si passò una mano tra i capelli, poi si voltò e camminò verso la porta. Si fermò un attimo sul ciglio e si voltò a guardare Lucinda che se ne stava appoggiata al muro con sguardo perso. Brad la osservò per qualche secondo e poi si chiuse la porta alle spalle.

Note delle autrici:
oh mio Dio, scusateci tanto per la colossale attesaa!!!!! Una di noi (una a caso) ha impiegato anni per scrivere l'ultima parte e.... Ok, comunque... Questo penso che sia uno dei capitoli più smielati che abbiamo mai scritto e so che magari potrà farvi venire il diabete, ma era necessario.
Speriamo comunque che vi piaccia!
A presto :)

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