Peggy Carter's diary: memories from 1943

di Kristah
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. 12th April ***
Capitolo 2: *** II. 13th April ***
Capitolo 3: *** III. 14th April ***
Capitolo 4: *** IV. 17th April ***
Capitolo 5: *** V. 18th April ***
Capitolo 6: *** VI. 19th April ***
Capitolo 7: *** VII. 20th April ***
Capitolo 8: *** VII. Epilogue ***



Capitolo 1
*** I. 12th April ***


Dal diario dell'agente Margaret A. Carter 
 
12 aprile
 
Non ho mai pensato di scrivere un diario; non pensavo ne avrei mai avuto il bisogno. E invece eccomi qui, seduta sul mio letto nell'appartamento che ho affittato anni fa; mi sembra sia passata una vita. 
 
Le persone dicono che la guerra cambia profondamente l'anima di chi l'ha vissuta sulla sua pelle: quelle stesse persone non immaginano di certo quanto questa affermazione si applichi a me. 
Sarebbe molto poetico scrivere che non sono stata io a scegliere di addestrare le truppe che, nei primi anni '40, sarebbero poi state spedite al fronte. Sarebbe bello poter scrivere che mio padre era un soldato e così suo padre prima di lui e che io fossi destinata a quel lavoro: la verità è molto diversa. 
Lo ricordo ancora come se fosse ieri... 
 
New York, 1942
 
"Sei una donna, Margaret! Una ragazzina! Come pensi di farti prendere sul serio da dei soldati?" La voce di Henry Carter era più adirata del solito: Peggy gli aveva appena rivelato che di lì a poco si sarebbe trasferita nella più vicina base militare per l'addestramento delle reclute di soldati da mandare al fronte in Europa a combattere contro i nazisti. 
"So farmi rispettare, papà. Tu più di tutti dovresti saperlo, ormai" 
Se c'era una cosa che Peggy Carter non faceva era proprio quella di perdersi d'animo: era fermamente convinta di essere nata in un'epoca sciagurata. Non per la guerra, ma perché le donne venivano considerate buone solo come segretarie. 
"Peggy, non comportarti come una bambina, ora! Non ti permetto di andare" 
La ragazza arcuò un sopracciglio: "Come, scusa?" 
"Mi hai sentito più che bene. Non ti permetto di andare"
"Si tratta di lavoro, papà. Non è una cosa che puoi scegliere tu, non più"
E se c'era una cosa che Henry Carter non riusciva a fare era quella di resistere alla tempra della figlia. 
 
E così mi sono imbarcata in quella che sarebbe stata l'esperienza più importante della mia vita: e pensare che avevo soltanto 22 anni, la prima volta che lo incontrai.
Il Dottor Erskine mi era sempre sembrato un uomo distinto, ma con idee fantasiose, poco applicabili alle leggi della realtà: creare dei super soldati imbattibili, degli déi sulla terra che avrebbero portato la pace oltreoceano. 
 
Campo addestramento di Oakland, 1943
 
"Mi creda, Tenente Carter. Funzionerà. Devo solo trovare l'uomo giusto..." 
Peggy Carter guardò l'uomo con sospetto: "Dottor Erskine, abbiamo avuto l'onore di essere presentati quasi un anno fa. Da allora le abbiamo mandato i soldati migliori e lei li ha sempre rifiutati" 
Dalle labbra dell'uomo uscì una risata di scherno: "Tenente Carter, mi avete mandato dei pompati senza cervello. Io ho bisogno di uomini veri. Di veri americani!" Il dottore non aveva ancora del tutto perduto il suo accento tedesco, cosa che, in qualsiasi altra situazione avrebbe fatto sorridere la ragazza. Non in quella. 
Aveva selezionato personalmente quasi la metà degli ultimi soldati sottoposti all'esame del tedesco: nessuno di loro era stato "quello giusto" dal suo punto di vista. Dal punto di vista dell'esercito americano, dei capi di Peggy in particolar modo, il dottore stava cercando di prendere tempo per poter migliorare il suo siero per supersoldati. 
 
L'uomo si alzò dalla sedia sulla quale si era accomodato dalla'altro lato della scrivania del Tenente: "Con il suo permesso, Tenente Carter. Ho delle visite a cui presiedere giù in città..."
La donna si alzò, inclinando leggermente il capo; puntò gli occhi in quelli del dottore: "Farebbe meglio a tornare qui con il suo vero americano, Erskine. Il tempo stringe" 
"Ho il sentore che questa potrebbe essere la volta giusta, Tenente" 
 
Per le prime dieci volte gli avevo creduto, dopodiché iniziai a perdere le speranze. 





 
Angolino autrice:
Eccoci qui! (:
Se siete arrivati a questo punto, vi meritate una medaglia a froma di Scudo di Cap...
Tralasciando le sciocchezze;
so che l'inizio/prologo è un po' cortino, ma avendo già finito di scrivere la storia, non ci metterò molto a pubblicare il seguito (Promise)
Finito di dire questo... Niente di che!
As usual, spero che vi sia piaciuta e... niente, se vi va un commentino lì sotto è sempre ben accetto!

A presto!
XX,
Kristah

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Capitolo 2
*** II. 13th April ***


13 aprile 

Si sa come sono fatti i giovani: vogliono tutto e subito senza rendersi conto che il tempo che hanno a loro disposizione sta già scivolando tra le loro dita come numerosi granelli di sabbia. 
Ero giovane anche io, il mio paese era in guerra e il mio lavoro era quello di addestrare ragazzi miei coetanei e mandare la maggior parte di loro a morire lontana dalle loro famiglie, dai loro affetti. Non biasimarmi, perciò, se la prima volta che posai lo sguardo su di lui, per poco non scoppiai a ridere. 

Campo addestramento di Oakland, 1943 

"Quello lì? Ne è proprio sicuro? È lui quello che sta cercando?" 
Il Colonnello Philips le aveva letto nel pensiero: quando Erskine le aveva rivelato che l'uomo che avrebbe rappresentato il primo di una lunga lista di supersoldati era quel ragazzino fragile che sarebbe stato spazzato via da una folata di vento, Peggy Carter dovette mordersi la guancia per non scoppiare a ridere. 
Iniziava a dubitare della lucidità del dottore; forse dai piani alti gli avevano fatto pressione e l'uomo aveva preso l'unico ragazzo di New York che non sarebbe stato in grado di sopravvivere all'iniezione del siero. 
Il Colonnello e il Dottore avevano terminato la loro fitta conversazione all'interno della quale Peggy Carter aveva distinto almeno un paio di interiezioni in tedesco.
"Tenente Carter" 
"Colonnello?" La donna si avvicinò al suo superiore, in attesa di ordini. 
"Inizi con l'addestramento" 
Non poté fare a meno di strabuzzare gli occhi: sapevano entrambi che uno tra la dozzina di ragazzi che erano arrivati al campo quel giorno non sarebbe riuscito ad arrivare alla fine della giornata. 
"Colonnello, lei è sicuro che..." 
"È un ordine, Tenente Carter. Mi aspetto che tu lo rispetti"
Decise di non discutere oltre: se il futuro supersoldato non ce l'avesse fatta, la colpa sarebbe ricaduta sul Colonnello Philips; se lui era pronto ad assumersi quel rischio, così era anche lei. 

Era l'ultimo a cui avrei dato un soldo bucato; avevano tutti scommesso sul tempo che avrebbe impiegato a ritirarsi dal campo per ritornare in città. 
Dopo pochi giorni di addestramento capivo perché il dottor Erskine ci avesse messo tanto a trovarlo: non gli importava se arrivava per ultimo, ci metteva tutto l'impegno che il suo fisico all'epoca poco adatto gli permetteva. Si spingeva al limite, e spesso anche oltre per stare dietro ai suoi compagni e ai miei ordini urlati sul campo. 
Sono stata la prima, dopo Erskine, a capire il suo potenziale; prima della prova pratica del Colonnello Philips. 

Campo addestramento di Oakland, 1943 

Peggy Carter aveva i piedi appoggiati sulla sua scrivania: quando passi il tempo con solo uomini, non puoi fare a meno che iniziare a comportarti anche solo lontanamente come loro. 
Un leggero bussare alla porta la fece tornare con i piedi per terra: "È aperto" 
La chioma da scienziato del Dottor Erskine fece capolino prima dei suoi occhiali tondi: "Tenente Carter, il Colonnello Philips ha detto che voleva parlarmi..." 
La donna annuì, lasciandosi sfuggire un sorriso gioviale: un avvenimento assai raro da quando era entrata al Campo di Oakland.
"Si, Dottore. Riguardo Il soldato Rogers..." 
Sul viso dell'uomo l'espressione mutò in un istante: "Si fidi, Tenente Carter, le prometto su ciò che vuole che non se ne pentirà"
"Dottor Erskine, volevo complimentarmi con lei, in realtà. So che Rogers non è ancora il supersoldato che sarà dopo il siero, ma ho finalmente capito che cosa cercava; pensavo che il suo fosse un semplice capriccio, inizialmente. Le voci dall'altro giungevano anche qui forti e chiare..." 
"Sapevo che valeva la pena aspettare. Tenente Carter, sia io che lei sappiamo benissimo che ognuno dei ragazzi che ha sottoposto ai miei esami in precedenza avrebbero reagito al siero in modo positivo... A quest'ora se non avessi io tra le mani il siero, avreste potuto avere una dozzina di supersoldato pronti da mandare al fronte e vincere la guerra senza dispendio di uomini. Ma cosa se ne fa l'America di dodici ragazzi fisicamente indistruttibili ma dal cervello come quello di una gallina?" 
Le duoleva ammetterlo, ma il Dottore aveva più che ragione: "Il soldato Rogers è un'ottima scelta, sul campo intellettivo e comportamentale, Dottore..." 
Non erano necessarie parole: lei, Erskine e il Colonnello Philips si domandavano tutti la stessa cosa. 
"La risposta alla sua domanda è non lo so, Tenente Carter. Forse sì o forse no. Sfortunatamente la forza di volontà non sempre è abbastanza" 
Si morse il labbro e annuì; già sapeva che avrebbero ricevuto la risposta solo nel momento della verità. 
"Devo ancora convincere il suo superiore, Tenente" continuò il tedesco, dopo un lungo attimo di silenzio: "Non posso dare inizio al programma se non c'è la firma del Colonnello sui fogli burocratici" 
La donna non staccò gli occhi dalla nervatura della sua scrivania di legno: "Il soldato Rogers è un ragazzo coraggioso, Dottore. Faccia in modo che sfoggi il suo coraggio davanti al Colonello" 
"Lei sa bene quanto me che Steve non darebbe mai spettacolo di sé" 
"Lo costringeremo, se sarà necessario. St... Il soldato Rogers deve essere il primo supersoldato

All'epoca non immaginavo di certo che rendere Steve il primo supersoldato significava che sarebbe stato anche l'unico. Faceva tutto parte di un progetto più grande: i supersoldati non sarebbero dovuti apparire negli show radiofonici né tantomeno nei teatri gremiti di gente accompagnati da ballerine di cancan. 
Ma poiché è rimasto l'unico, il Presidente lo considerava troppo prezioso per essere spedito al fronte. 

Campo addestramento di Oakland, 1943 

"Tenente Carter, ne è proprio sicura?" 
Il tono di voce del Dottore la fece sorridere: "Molto più che sicura, Dottor Erskine. E se questo piano va a buon fine, può anche iniziare a chiamarmi Peggy" 
Guardò l'uomo negli occhi prima di continuare, questa volta completamente seria: "Deve solo circuirlo con le parole, dottore... Dio solo sa quanta voglia ha il Colonnello di dimostrare che sia lei che io abbiamo torto" 
"Mi fido del suo giudizio, Tenente Carter" 
Peggy Carter non dubitava del suo piano: lo aveva ideato nei minimi dettagli nel corso della settimana precedente; e lei era un asso ad organizzare piani. 
Quella volta non fece eccezione; tutto andò come sperato: il Colonnello Philips lanciò la granata e il soldato Steve Rogers ci si buttò addosso per proteggere gli altri che erano corsi a nascondersi. 
Gli occhi chiari della recluta incontrarono per un breve momento i suoi, prima di soffermarsi su quelli del Dottore, che stava accanto al Colonnello. 
Il dottor Erskine si tolse il cappello e fece un breve inchino alla donna, che si stava trattenendo per non gongolare di fronte al suo superiore che si era incamminato a grandi passi verso il suo ufficio borbottando scontento

Molti designano quel momento come la nascita di Capitan America: forse è un'affermazione vera soltanto per metà; quello è stato il momento in cui Steve ha capito che poteva farcela, che poteva riuscirci. 
Capitan America è nato insieme a Steve Rogers. 



 
Angolino autrice: 
Buonasera bellissimi/e! 
Non ho saputo resistere e ho già pubblicato il secondo capito...
Spero vivamente che lasciate anche un commentino piccino picciò, per farmi sapere se la storia vi piace oppure no!

XX,
Kristah
 

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Capitolo 3
*** III. 14th April ***


14 aprile

Pensavo di averne viste di tutti i colori, dopo aver incontrato il Dottor Erskine. Questo prima di incontrare Howard Stark. 
Stark non era semplicemente un miliardario, playboy e filantropo. La città di New York lo conosceva perché si dichiarava un inventore, un genio… Peccato che la maggior parte dei suoi progetti non andassero a buon fine. 

Campo addestramento di Oakland, 1943 

Il Tenente Carter strabuzzò gli occhi alla notizia: “No"
“Ho bisogno del suo aiuto!” 
La donna scosse la testa risoluta: “Dottor Erskine, l’ho aiutata a convincere il Colonnello Philips a firmare quei dannatissimi fogli. La sto aiutando con il soldato Rogers molto più di quanto sia mio dovere in realtà. Sto rompendo delle regole per portare avanti questo suo progetto… Non può chiedermi di andare a cena con Howard Stark per… Per cosa, poi?” 
“Convincerlo ad aiutarci. Il signor Stark è l’unico inventore abbastanza ricco e pazzo da voler essere coinvolto nella creazione dei supersoldati. Gli serve solo una spintarella nella giusta direzione, Tenente Carter” il dottore le fece lo stesso sguardo che le rivolgeva il suo cagnolino dopo aver rotto qualcosa in casa: “Prometto che questo è l’ultimo favore che le chiederò"
Peggy Carter sbuffò: c’era una serie di favori che l’uomo aveva giurato sarebbero stati gli ultimi. 

E fu così che, più tardi quel giorno, mi trovavo in macchina verso New York con un’insana voglia di strozzare il Dottore con le mie stesse mani alla fine di quella che, già sapevo, sarebbe stata la serata peggiore della mia vita. 
Devi sapere che Howard Stark non è un uomo malvagio, una volta che hai capito che tipo di persona è: il problema principale è che per capire che tipo di persona fosse il signor Stark ci ho impiegato due anni e molta forza di volontà. 

New York, 1943 

“E’ un favore che sto facendo ad un amico comune, questo, Stark. Voglio che lei se lo ficchi in testa” 
“Certo, Peggy, come desidera” 
Non era il tipo di donna che cadeva ai piedi di Howard Stark come lui era abituato; lo fulminò con lo sguardo: “Non siamo amici, Stark. La nostra è una relazione puramente lavorativa” 
Lui alzò le sopracciglia: “Lei di solito va a cena con i suoi colleghi per portare avanti una relazione lavorativa?” 
Touché. 
Cambiare argomento le sembrava la tattica migliore: “Tornando all’argomento principale della serata… Il dottor Erskine ed io ci domandavamo se lei potesse aiutarci con un progetto…” 
“Supersoldati, certo” 
Incredula, la donna guardò il suo interlocutore immerso in un’attenta lettura del menù del ristorante: “Come fa a saperlo? E’ un progetto segreto delle forze militari statunitensi…”
“Non mi offenda in questo modo, Peggy. Io ed Erskine siamo diventati buoni amici negli ultimi tempi… Ma, per toglierci il peso della risposta, vi aiuterò. Metterò a disposizione uno dei miei laboratori più nascosti in centro per farvi iniziare questa moda dei supersoldati. Ora, vogliamo per piacere concentrarci sul menù ed ordinare? Ho un certo languorino e un’insana voglia di sapere qualcosa in più sul Tenente Carter” 
Peggy afferrò il menù davanti a sé e ci si nascose dietro. 

A distanza di anni posso ammettere che quella non è stata la serata peggiore della mia vita. Non sono certa che rientrasse tra le prime dieci peggiori serate, ad essere sincera. 
La cosa più mi infastidiva e mi inorgogliva allo stesso tempo era la leggerezza con cui Stark mi parlava: per lui non ero il Tenente Carter, la ragazza che urlava ordini sul campo di addestramento. Per lui ero semplicemente una ragazza. 
Non venivo trattata come tale da molto tempo: avevo 22 anni, ormai quasi 23, una carriera ben avviata nelle forze militari ed addestravo miei coetanei per guadagnarmi il pane, vivendo nel campo di addestramento dove ero una delle poche donne presenti, eccezion fatta per due cuoche e un’infermiera. Avevo passato così tanto tempo a farmi rispettare dagli uomini che avevo iniziato a comportarmi come loro; l’unica differenza che intercorreva tra me e il Colonnello Philips era il codice di abbigliamento: la mia divisa comprendeva una gonna e non un paio di pantaloni. 




 
Angolino Autrice:
Me misera, me tapina... Ho impiegato un mucchio di tempo per aggiornare il capitolo più corto dell'intera storia!
Pardon-moi, per piacere.
Ooookay, detto questo-- niente, spero che vi sia piaciuto, prometto che aggiornerò prima la prossima volta!
E... Niente! Se volete farmi sapere come vi sembra la storia c'è smepre il riquadrino piccino lì sotto per le recensioni! ;)

XX, 
Kristah.
 

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Capitolo 4
*** IV. 17th April ***


17 aprile
 
Pensavo anche che il peggio fosse passato quando avevo convinto il Colonnello Philips: mi sbagliavo di grosso. La firma del Colonnello portò molti più problemi di quanti potessi sopportarne: avevo iniziato ad allenare più duramente una piccola parte dei soldati, tra cui ovviamente anche Steve; il Colonnello mi aveva affidato il compito di rispondere personalmente ai nostri superiori spiegando loro nei minimi dettagli il progetto dei supersoldati. 
Fortunatamente avevo il Dottor Erskine sempre pronto a darmi una mano; immagino si sentisse un po’ in colpa per avermi involontariamente trascinato in quella situazione, e sono più che certa che il suo senso di colpa fosse aumentato dopo la mia cena con Howard Stark.
 
Campo addestramento di Oakland, 1943
 
“Ho bisogno di dormire, dottore… Non penso di poter sopportare questo ritmo ancora per un giorno” 
Peggy Carter difficilmente si lamentava; a dire la verità aveva smesso di lamentarsi da quando aveva 8 anni e doveva prendersi cura del suo fratellino minore dopo la morte della loro madre. 
L’ultimo mese, però, era stato un continuo viaggio dal campo di addestramento al quartier generale a New York per degli incontri con i suoi superiori. 
“Presto sarà tutto finito, Peggy…” 
L’uomo l’aveva presa in parola quando gli aveva detto che se tutto fosse andato liscio, lui avrebbe potuto iniziare a chiamarla Peggy. 
“Presto quando? Non posso più prendere tempo, Dottor Erskine… I capi non sono felici del fatto che il progetto supersoldati ci stia impiegando così tanto ad essere avviato"
“Dovrei ricevere una telefonata da Howard Stark tra pochi giorni. Quando sarà tutto pronto potremo cominciare…” 
La donna assottigliò gli occhi: sapeva che c’era qualcosa che il Dottore non aveva ancora fatto. 
“Glielo ha detto? A cosa serve tutto questo?” 
Il silenzio dell’uomo fu più che eloquente come risposta; Peggy lo fissò sconsolata: “Non sarò io a farlo, Erskine"
“Se lo facesse lei, sarebbe tutto molto più semplice…” 
“Perché mai?” 
Il tedesco tentennò a lungo, prima di rispondere alla sua domanda: “Perché è una ragazza… Qualsiasi notizia, per quanto orribile possa essere, se viene data dalla persona giusta…"
“No. E questa volta resterà no, Dottore. Ho finito di fare favori per lei"
Le spalle del Dottor Erskine si abbassarono: “Domani glielo dirò…"
 
Suppongo che, in realtà, glielo disse poco più tardi quella notte: la telefonata di Stark era arrivata prima del previsto, il che era un’ottima cosa per i miei superiori. 
Per il Dottor Erskine era un passo molto importante: quell’esperimento avrebbe potuto essere il suo più grande traguardo come il suo più grande fallimento. 
Io, invece, ne ero spaventata a morte: inutile negare il fatto che in quei mesi di addestramento Steve Rogers avesse iniziato a piacermi. Non era da me provare dei sentimenti di quel genere per uno dei ragazzi che addestravo: in quasi due anni di lavoro, non mi era mai capitato. Quindi avevo preso quei sentimenti scomodi e li avevo repressi in un angolo della mia mente. 
 
La notte prima del grande giorno non riuscii a prendere sonno: continuavo a pensare al primo momento in cui lo avevo visto, a come si fosse comportato in tutti quei mesi estenuanti; non avevo nessun dubbio sul fatto che lui mi odiasse, proprio come tutti i suoi compagni. 
Per loro ero soltanto la stronza che, chissà come, era arrivata ad un grado sopra di loro: una donna che addestra degli uomini; mai vista una cosa simile. 
Mi giravo continuamente nel mio letto, pensando e ripensando alla domanda che avevo posto molto tempo prima al Dottore: nemmeno lui sapeva se Steve sarebbe sopravvissuto all’iniezione del giorno seguente oppure no. Nessuno lo sapeva per certo, ma tutti lo speravamo.
                                                                                                                                                                                                                                       
Ricorderò per sempre la sensazione che mi attanagliava lo stomaco il giorno dell’iniezione: il Colonnello Philips mi aveva incaricato di scortare Rogers al laboratorio di Stark; inutile dire che lui non approvasse il coinvolgimento di “quel ricco e spocchioso idiota che potrebbe ammazzarci tutti”.
Arrivammo alla vecchia libreria dopo un viaggio in macchina che può essere definito solo come “estremamente imbarazzante”: Stark dopo avermi lanciato una breve occhiata, si astenne da qualsiasi battuta che vedevo brillare nei suoi occhi; immagino abbia realizzato tutto in quel momento. 
 
Laboratorio segreto di Howard Stark, 1943
 
Howard Stark prese il Tenente Carter per un braccio, mentre tutti erano impegnati nei numerosi preparativi e la guidò nell’angolo più appartato del laboratorio: “Lei sa bene quanto me che questa cosa ha un cinquanta percento di possibilità di finire male, Peggy… Il mio consiglio da amico è quello di dirglielo adesso"
Peggy Carter non era una ragazza che arrossiva facilmente, ma quella volta sentì il calore sulle guance ed ebbe la voglia di seppellirsi senza tornare mai più in superficie. Davanti ad Howard Stark, però, fece finta di non capire: “Non so a che cosa si riferisce, Stark” 
L’uomo sfoderò il suo sorriso storto, quello che lo aveva reso così celebre con le donne: “Mi riferisco al fatto che le piace il ragazzo che sta per entrare in quella trappola di metallo per scrivere un nuovo capitolo in questa orribile guerra” 
Se c’era una qualità che Peggy apprezzava in Howard Stark era proprio la sua sfacciataggine: qualsiasi altra persona avrebbe lasciato perdere; Stark lo aveva detto ad alta voce perché sapeva come infilare la cimice nell’orecchio delle persone. 
“Tra me e il soldato Rogers intercorre solo un rapporto lavorativo” 
“Immagino sia lo stesso rapporto lavorativo che l’ha fatta uscire a cena con me, Peggy…"
Stava per rispondergli per le rime, quando un suo collaboratore lo chiamò ai comandi. 
 
Quando lo vidi uscire dalla “trappola di metallo” come l’aveva definita Stark trattenni involontariamente il fiato: pochi secondi per festeggiare, prima che il mio mondo venisse distrutto da un agente dell’Hydra. 
Vidi il professor Erskine spirare tra le braccia di Steve, sopravvissuto al siero del supersoldato; la seconda fiala cadde a terra. Non realizzai seduta stante che cosa significasse; ero semplicemente shoccata. 
 
I due giorni successivi all’accaduto furono i peggiori: tutti gli individui presenti al momento della nascita di Capitan America (così venne ribattezzato Steve) furono sottoposti ad interminabili interrogatori. Quello messo peggio era Stark: lo avevano torchiato più di tutti noi messi assieme. 
Howard Stark era un uomo dall’intelletto sopraffino e i miei capi erano certi che il dottor Erskine gli avesse rivelato la formula per ricreare il siero; Erskine non si fidava di nessuno fino a quel punto. Il segreto contenuto in quella fiala morì con lui, tra le braccia di Steve Rogers. 
Arrivò una lettera firmata dal capo dell’esercito per me al campo di addestramento. 
 
Campo addestramento di Oakland, 1943 
 
“E quindi… Finisce qui?” 
Il Colonnello Philips osservò il suo sottoposto, il Tenente Margaret Carter, con la valigia accanto a sé; una macchina dell’esercito l’avrebbe riportata in città e il giorno dopo sarebbe partita per la Francia, in prima linea al fronte. 
Peggy annuì: “Dato il mio fantastico lavoro nel campo di addestramento…” 
“Sono tutte balle” 
La ragazza sorrise; il Colonnello Philips non era il tipo di persona che avrebbe solitamente insultato i suoi diretti superiori. 
“Sappiamo entrambi che spediranno anche me in Europa” continuò il Colonnello, sempre più irritato: “Vogliono essere certi di fare il lavaggio del cervello a quel povero ragazzo"
“Sono abbastanza sicura che Steve se la caverà, signore” 
Notò un lampo negli occhi del suo superiore; probabilmente le avrebbe fatto notare di aver chiamato il Soldato Rogers per nome, ma l’autista suonò il clacson e Peggy tese la mano al Colonnello: “E’ stato un piacere lavorare con lei, signore” 
L’uomo la attirò a sé e la strinse in un abbraccio paterno: “Ci vediamo dall’altra parte dell’oceano, Carter” 

 



Angolino autrice:
Dopo una pausa di due settimane (me ne scuso, davvero tanto! Mea culpa!) ecco qui il nuovo capitolo!
Mh-- Steve diventato ufficialmente Capitan America (finalmente!)
E... E Peggy che se ne va in Europa.
Ma non preoccupatevi, torneranno presto insieme! ;)

La fine è sempre la stessa-- se volete lasciare un commentino lì sotto sarei felicissima di leggerlo!
XX,
Kristah.

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Capitolo 5
*** V. 18th April ***


18 aprile 
 
Ero in Francia da un paio di settimane ed ero già stanca di ascoltare la radio: trasmetteva soltanto gli show registrati di Capitan America. Ricordavo il dottor Erskine e riuscivo ad immaginarmelo seduto accanto a me a brontolare con il forte accento tedesco che acquisiva quando era stizzito: si sarebbe lamentato dicendo che non aveva creato il supersoldato perché il Presidente lo buttasse in mezzo alle ballerine di can can mezze svestite. 
Per i commilitoni, Capitan America era una barzelletta vivente che stava dall’altra parte dell’oceano: non aveva valori, non conosceva gli orrori della guerra, non sapeva in che condizioni si viveva in Europa. 
Steve Rogers suonava sempre più come un burattino nelle mani del governo, allontanandosi dall’eroe leader che sarebbe dovuto essere. 
 
Arrivò un’altra lettera, un mese dopo il mio arrivo in Francia: mi avrebbero spostato in Italia. 
Feci le valigie, salii a bordo dell’aereo e feci come mi era stato ordinato; iniziavo a pensare che anche io stavo diventando un burattino. Non sapevo esattamente chi stesse muovendo i miei fili, però. 
Al mio arrivo al campo fui costretta a mordermi il labbro per trattenermi dalla sorpresa di vederlo. 
 
Italia, 1943 
 
“Carter!” 
“Colonnello Philips…” 
Peggy Carter provava gioia nel vedere una vecchia faccia amica: aveva sperato che almeno qualcuno dei soldati da lei addestrati si trovasse in Francia, ma le sue speranze furono disattese. 
Lì, invece, aveva ritrovato il suo vecchio capo e non poteva esserne più felice: “Ti stavo aspettando da giorni. Dove sei stata?” 
“In viaggio, signore” 
“Forza, ho del lavoro da farti fare!” 
Seguì il Colonnello con il sorriso sulle labbra; tutto sommato, le sembrava di essere tornata di nuovo ad Oakland. 
 
Il giorno del suo arrivo il Tenente Carter firmò tante di quelle carte per il governo che alla fine della giornata le faceva male la mano; questo non la fece desistere dal passare del tempo con il Colonnello prima di ritirarsi. 
“Quel ragazzo è diventato la barzelletta degli Stati Uniti"
Peggy sorrise, annuendo debolmente: “In Francia non lo sopportava nessuno…” mormorò. 
L’uomo la guardò negli occhi, stringendo le labbra: “Mi hanno detto che a breve verrà qui"
“Per girare uno dei suoi film da mandare in onda nel cinema?” 
Il Colonnello Philips scosse la testa: “Per portare…” aprì un cassetto della sua scrivania ed estrasse una lettera spiegazzata; la posò sul tavolo e lesse ad alta voce: “Il soldato Rogers, ora conosciuto come Capitan America, visiterà a breve il vostro campo; pensiamo che potrebbe portare speranza e un senso di casa dopo la terribile perdita dell’unità 107” 
 
Continuai a ripetermi di non sperare troppo nel suo arrivo: la situazione era pericolosa, il governo lo considerava troppo prezioso per fare di lui un vero supersoldato. Ultimo, ma non per questo meno importante, era circondato giorno e notte da avvenenti ragazze in minigonna pronte a sgambettare ovunque per lui: non avevo nemmeno una chance e lo sapevo bene. Continuavo a ripetermelo prima di cadere addormentata per fare in modo che mi entrasse in testa. 
 
Italia, 1943 
 
"È in viaggio" 
Il Colonnello Philips aveva un cipiglio arrabbiato più del solito: Peggy impiegò qualche secondo prima di capire di chi stesse parlando. 
Il superiore la guardò e la donna scorse un lampo paterno in quello sguardo: "Il fatto che venga qui non significa che lo abbiano lasciato libero di fare ciò che vuole. Mangiafuoco è oltreoceano, ma non si è dimenticato del suo burattino più famoso"  
Peggy annuì semplicemente, senza proferire parola per il resto della mattinata. 
A pranzo, il Colonnello le si sedette vicino; non era un tipo loquace, lo si capiva alla prima occhiata. Eppure qual giorno aveva una gran voglia di chiacchierare, a quanto pare: "Carter, io e te ne abbiamo passate tante nell'ultimo anno... Se vuoi posso continuare a fingere di non saperlo"
Il Tenente Carter non disse nulla, continuò a fissare il piatto come se nulla fosse. Il Colonnello insistette ancora: "Se fosse stato qualsiasi altra persona, qualsiasi altro ragazzo che hai addestrato in quel campo, ti avrei fatto una lavata di capo su quanto sia sbagliato avere una relazione con il proprio sottoposto... Rifletti sul fatto che sono qui a darti consigli come un amico e non a sgridarti come tuo superiore. Voglio solo che tu non ti faccia male" 
"So quando una cosa è sbagliata, Colonello. So bene dove fermarmi" 
La ragazza sentì una mano sulla sua spalla: "Mi fido di te, Carter" 
 
Pensavo che lo avrei trovato diverso, radicalmente cambiato dal lavaggio del cervello che il governo si era impegnato tanto per fargli. Mi sbagliavo: dove tutti vedevano Capitan America, una barzelletta inutile, più una bambola di pezza che un supersoldato, io vedevo ancora il ragazzo magrolino che avevo addestrato quasi un anno prima. 
Era circondato da ragazze da mattina a sera e riusciva comunque ad essere imbarazzato dalla loro presenza; mio malgrado mi ritrovai a sorridere. Almeno finché uno dei ragazzi non fece qualcosa di increscioso che nessuno può dimenticare: calarsi i pantaloni davanti a quello che oggi è considerato l'eroe nazionale non è una cosa che si dimentica. 
 
Scorsi, alla fine dello spettacolo, la sua inconfondibile ombra dietro al palco e presi coraggio per andargli a parlare: pensavo che la conversazione avrebbe preso una piega completamente diversa da come finì in realtà. 
Immaginavo, speravo più che altro, che sarei riuscita a togliermi quell'orribile peso sullo stomaco: il soldato semplice Steve Rogers mi piaceva. Confessarglielo non avrebbe cambiato niente.  
 
Non sono mai stata il tipo di persona che dispensa complimenti né discorsi di incoraggiamento, ma quello di cui Steve aveva bisogno in quel momento era una spinta verso la giusta direzione: mi faceva male vederlo esibirsi come una scimmietta ammaestrata nel circo migliore della città.
Fui io a spronarlo ad andare in quella missione suicida: entrare da solo in una tra le più grandi basi tedesche di stanza in Italia era l’idea più stupida che potesse avere. Io avevo fiducia in lui, però; e questo mi spinse, ancora una volta, a mandare al diavolo le regole per aiutare quel ragazzo. 
 
Howard Stark è l’uomo più inopportuno che io abbia mai avuto il dispiacere di conoscere; se non fosse stato l’unico disposto a prendere un aereo e accompagnare Steve, non lo avrei mai chiamato per chiedere il suo aiuto. 
Stark era un uomo inopportuno e pieno di sarcasmo fino alla punta dei capelli, ma di certo non mi aspettavo che la sua semplice battuta sulla fonduta avrebbe scatenato l’imbarazzo misto alla gelosia di Steve: in una situazione completamente diversa, gli avrei riso in faccia spiegandogli che io e Howard eravamo semplici amici; in quella situazione, però, con lui pronto a saltare giù dall’aereo per entrare nel cuore della base nemica, pensavo che lui non avesse nessun diritto di fare così: si stava imbarcando in un suicidio ben pianificato, ma che pur sempre un suicidio restava. 
Steve saltò e io mi lasciai cadere sul sedile accanto ad Howard: non gli serviva un copilota, ma a me serviva un amico. 
 
Italia, 1943
 
“Se la caverà, Peggy” 
Peggy Carter allentò il nodo alla sua cravatta, scuotendo piano la testa: “Questa volta non si tratta di uno show in una città americana, Stark” 
L’inventore virò lentamente, uscendo dalla rotta che i due avevano concordato per tornare alla base; sul volto di Peggy si dipinse uno sguardo incuriosito: “Dove vai?” 
“Fonduta” 
Peggy alzò gli occhi al cielo: “No, Stark… Davvero, non sono dell’umore” 
“D’accordo. Allora fragole e champagne. O fragole e cioccolato fuso” 
Lei lo guardò, con una mano posata sul viso: “Non mi riporterai alla base, vero, Stark?” 
Stark sorrise in quel modo irresistibile: un sorriso che, Peggy aveva imparato, portava più guai che altro: “Se ti riporto indietro passerai la notte insonne a pensare a Capitan America. Questo io non posso accettarlo. Hai la faccia di una che ha bisogno di cioccolata” 



 
Angolino autrice:
Eccomi qui, di nuovo! (E questa volta sono riuscita a rispettare la mia stessa scadenza! Yay!)
Okaaaayy-- dicevo.
Oh, sì; come promesso Peggy e Steve non ci hanno messo molto tempo per ritrovarsi, dall'altra parte dell'Oceano! ;)
E... Ah. La scena tra Howard, Peggy e Steve sull'aereo è stata una delle mie preferite, lo devo proprio ammettere; così ho pensato di inserirla anche qui, sotto una luce diversa!
Okay, ho finito!

Sapete che, as usual, le recensioni sono più che bene accette!
XX,
Kristah.

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Capitolo 6
*** VI. 19th April ***


19 aprile 
 
I giorni passarono e alla base nessuno aveva più notizie di Capitan America; nonostante Howard avesse cercato di tirarmi su il morale con una tazza di bollente cioccolata svizzera, avevo passato le restanti ore della notte a guardare il soffitto. Così era stato per i due giorni seguenti, finché il Colonnello Philips non mi fece una lavata di capo: mi rimproverò il fatto che, secondo lui, avevo lasciato imbarcare Steve in quella missione solo perché avevo una cotta per lui. Gli risposi che lo avevo fatto perché avevo fiducia in lui: era vero. Mi fidavo ormai ciecamente di Steve, come mesi prima mi ero fidata del giudizio del Dottor Erskine a riguardo di quel ragazzo. 
E poi, gli schiamazzi che non dimenticherò mai nella mia vita: Steve era tornato, con gli uomini della 107 e avevano rimediato anche un carro armato dalla grandezza non invidiabile. 
Se ci fossimo stati solo noi due, lo avrei schiaffeggiato per avermi fatto stare così in pensiero. Poi però lo avrei baciato, perché ne avevo una voglia terribile. E invece eravamo nel bel mezzo dell’accampamento; così mi limitai a dirgli che era in ritardo. Mi mostrò l’apparecchio che avrebbe chiamato Stark per andare a recuperarlo incredibilmente danneggiato. 
 
Italia, 1943 
“E’ tornato sano e salvo al suo nido, allora?” 
Nemmeno Peggy Carter sapeva come mai era finita a telefonare ad Howard Stark per rivelargli tutto quello che era successo quel pomeriggio; la ragazza si morse il labbro inferiore per resistere alla tentazione di urlare di gioia: “Peggy… Glielo devi dire” 
“Non… Non…” iniziò lei, senza sapere nemmeno che cosa dire. 
Fu Howard a venirle incontro: “Facciamo che io ti do un consiglio e se ti sembra una buona idea lo segui, altrimenti mi mandi al diavolo e amici come prima” 
Howard Stark usava da mesi la parola “amico” con il Tenente Carter: lei non si era resa conto che, alla fine, amici lo erano diventati davvero. 
“Non mi sembrerà mai una buona idea, Stark” 
Amici sì, ma passare a chiamarlo per nome no. 
Dall’altro capo del telefono si sentì una fragorosa risata: “La so lunga su come gli uomini vorrebbero che le donne si comportassero…” 
Peggy non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto: fortunatamente Howard non poteva vederla. 
“… E nonostante quel bel faccino da copertina satinata, Capitan America è un uomo” Peggy sentì un cigolio e si immaginò Stark mettere i piedi sulla scrivania senza ritegno alcuno: “Ti metti in ghingheri, ti vesti bene e ti presenti al bar dove escono tutti i militari. Fidati di me quando ti dico che resteranno tutti a bocca aperta, supersoldato in primis. Passi così tanto tempo tra di loro che hanno scordato che sei una donna. E forse lo hai scordato anche tu, un’altra volta” 
Odiava ammetterlo, ma Howard Stark non aveva tutti i torti. 
 
In un momento di pura follia, e dopo aver esagerato con il vino a cena, decisi, qualche giorno più tardi, di seguire il prezioso consiglio di Howard. 
La musica era allegra nel bar, gli schiamazzi dei soldati la coprivano quasi completamente; schiamazzi che cessarono lentamente non appena feci la mia comparsa: fui costretta a trattenere un sorriso orgoglioso; ero pur sempre una ventitreenne in una stanza piena di ragazzi. 
Mi diressi a testa alta verso il punto dove scorgevo l’inconfondibile capigliatura di Steve, perfettamente ordinata. 
Dio, ricordo distintamente che in quel momento ebbi la necessità di chiamare tutto il mio autocontrollo per evitare che le ginocchia mi cedessero quando Steve, quasi con la bocca spalancata dallo stupore, mi osservò attentamente con quei suoi dannati occhi blu. 
Ho rivissuto quella conversazione così tante volte nella mia testa… l’unico modo in cui avrei potuto essere più esplicita sarebbe stato se lo avessi baciato lì, davanti a tutti, di fronte al suo migliore amico che si era dato tanta pena per salvare. 
 
A quanto pare, però, avrei dovuto essere più esplicita dato il fatto che due giorni dopo il nostro trasferimento nella capitale britannica lo trovai appartato dietro alcuni scaffali con un soldato che aveva mandato la sua lingua in missione esplorativa nella bocca di Capitan America. 
Se quella sera al bar avevo dovuto trattenere l’istinto di baciarlo, quel giorno fui costretta a trattenere il mio istinto omicida; senza un grande successo. Ma del resto ero più che certa che lo scudo di Howard avrebbe funzionato. 
 
Laboratorio di Howard Stark a Londra, 1943 
 
L’ufficiosamente, ma non ufficialmente, Capitano Steve Rogers alzò lo scudo in Vibranio e si voltò verso il Tenente Peggy Carter. 
Mossa molto avventata. 
La donna lo fissò con uno sguardo truce, carico d’odio: accanto a sé aveva un tavolo di metallo pieno zeppo di pistole. Ne afferrò una. Tolse la sicura e sparò quattro colpi contro lo scudo. 
“Sì, penso che funzioni” si limitò a dire, prima di girarsi e andarsene. Sentiva due paia d’occhi stupiti che la guardavano. 
Una piccola parte del suo cervello ringraziò Stark per i suoi numerosi successi nel creare armi di difesa e di attacco; non sapeva se lo scudo avrebbe retto a tutti quei colpi. E solo Dio sapeva come sarebbe finita se avesse sparato all’eroe d’America. 
 
Poche ore dopo quell’increscioso incidente, che aveva fatto il giro della base, mi ritrovai Howard Stark alla porta: certo, si era lentamente guadagnato un posto nella mia vita ed era l’unico amico che avessi lì al fronte, ma questo non significava che fossi pronta a ricevere i suoi infiniti consigli d’amore ad ogni ora del giorno e della notte. 
 
Base militare americana a Londra, 1943
 
Il Tenente Peggy Carter aprì la porta nonostante indossasse solo la camicia da notte e la vestaglia; sbuffò nel vedere il ghigno di Stark: “Buonasera, Peggy. Come stai?” 
L’uomo sventolò davanti al suo naso una bottiglia di Whisky: “Ti ho portato un regalo. Mi fai entrare?” 
Peggy afferrò la bottiglia e chiuse con violenza la porta in faccia all’inventore: non aveva voglia di sentirlo blaterare inutilmente sul suo argomento preferito; Stark era diventato in breve tempo una bisbetica. 
Sentì bussare alla porta e l’inconfondibile voce di Stark seguì i colpi: “Peggy, aprimi! Non sono andato alla ricerca del miglior whisky per non assaggiarne nemmeno una goccia” 
“Vorrà dire che aprirò la finestra e ti passerò da lì il bicchiere” rispose con il marcato accento inglese, prendendo un bicchiere. 
“Peggy, o mi fai entrare tu o butto giù la porta” 
Si morse le labbra, trattenendo a stento una risata: Howard Stark non aveva la mole adatta per rendere quella minaccia reale. Peggy Carter si guardò bene dal dirglielo: Stark era una persona abbastanza suscettibile. 
Aprì la porta non senza maledirsi mentalmente. 
 
“Non sapevi se lo scudo avrebbe funzionato… Non lo sapevo nemmeno io” la ammonì Stark dopo essersi messo comodo con i piedi sulla scrivania della donna: Peggy non gli disse nulla, per quieto vivere. 
“Ho molta fiducia nelle tue capacità, Stark” 
Lui le rivolse uno sguardo severo, facendo roteare il liquido contenuto nel suo bicchiere. 
La frase che seguì era diventata il mantra dell’inventore: “Devi dirglielo” 
Peggy alzò gli occhi al cielo: “Ogni volta che ti sento, me lo dici Stark. Ma non ti stanchi mai?” 
“Peggy devi farlo prima che sia troppo tardi” 
“Intendi prima che qualcun’altra gli finisca tra le lenzuola” 
In una situazione che non fosse quella, Peggy Carter non si sarebbe mai e poi mai azzardata a parlare in quel modo: in primis, era una donna. E le donne non parlavano di sesso. Non così apertamente. E poi, motivo non meno importante, era un Tenente dell’esercito americano. 
Stark scosse la testa; l’ombra di un sorriso aleggiava sulle lue labbra: “Intendo prima che sia troppo tardi” ripeté, accentuando le ultime parole e facendo in modo che la donna capisse il sottotesto. 
Peggy non aprì bocca; fu Stark a rompere il silenzio: “Steve è un supersoldato, ma non è immortale, Peggy, lo sai anche tu…” 
Si alzò, chiuse la bottiglia e la spise in modo poco delicato tra le mani di Stark: “Penso sia ora che tu vada, Stark” 
Lui non disse nulla: si alzò con calma, si mise la giacca che aveva abbandonato sul letto e si avviò verso la porta seguito dalla ragazza. Quando lei la aprì per lui, si voltò e le diede un bacio sulla guancia: “Buonanotte, Peggy” 



 
Angolino autrice:
Me misera, me tapina! Sono stata così presa dallo studio che non ho avuto nemmeno cinque minuti per aggiornare la mia Fic! T.T
Ma non importa! Adesso sono qui (o almeno, ho trovato i cinque minuti!)
Ci stiamo lentamente ed inesorabilmente avvicinando alla fine (cosa che mi dispiace tantissssssimo!)
E... Niente, tutto qui!
Come al solito sarei felicissima di sapere cosa ne pensate della mia storiella!
Recensioni sempre ben accette, perciò!

XX,
Kristah.
 

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Capitolo 7
*** VII. 20th April ***


20 aprile 
 
Vorrei poter scrivere che glielo dissi apertamente. Che glielo urlai in faccia. Che glielo sussurrai nell’orecchio. Che tutti lo avevano sentito. Che a me importava soltanto che lui lo avesse sentito. 
Vorrei poter scrivere che Steve Rogers tornò a terra dopo aver trovato un modo per spedire quelle bombe in mezzo al ghiaccio del Polo. 
Vorrei, ma non posso. 
Non posso perché le vita è piena di sorprese non sempre piacevoli, come quella che mi è stata riservata quel dannato giorno. 
Non posso perché il Capitano Rogers non trovò un altro modo se non quello di sacrificarsi. 
Ricordo ancora il sapore di quel bacio come se fosse ieri; ricordo lo sguardo del Colonnello Philips, a metà tra l’esasperato e il divertito per quella mia mossa decisamente inaspettata; ricordo l’ultima volta che lo sentii via radio. 
Ricordo ogni parola di quella conversazione. Ogni. Dannatissima. Parola.
 
Pensavo che il cuore umano potesse rompersi soltanto una volta: mi sbagliavo, ovviamente.
Avevo nove anni quando mio padre entrò nella vecchia camera che condividevo con il mio fratellino di appena quattro anni, dicendomi che mia madre non c’era più.
Giuro di aver sentito il mio cuore all’epoca innocente spezzarsi a metà; con il tempo, lentamente, la ferita aveva cominciato a rimarginarsi.
Avevo appena imparato ad apprezzare la vita, nonostante il mondo fosse in guerra e ogni giorno poteva essere l’ultimo. 
Non ho mai applicato l’idea dell’ultimo giorno a Steve Rogers. Non ce n’era bisogno. 
 
Stork Club, 1943 
 
Margaret Carter indossava un vestito nuovo, dello stesso rosso del suo rossetto: amava quel colore. Erano le sette e cinquantotto e lei se ne stava in piedi accanto all’entrata dello Stork Club. 
Sapeva che non sarebbe venuto. Lo sapeva perché era una persona razionale, perché sapeva che quella conversazione era stata l’ultima per il Capitano. Ma una piccola, irrazionale parte del suo cervello pensava, speranzosa, che lui era un Supereroe, con la lettera maiuscola; un Supereroe di quelli veri. 
Guardò il suo orologio da polso. 
20:00 
Un sospiro le sfuggì dalle labbra scarlatte. La razionalità vinceva sempre. Rivolse lo sguardo al cemento, osservando attentamente come stesse diventando sfuocato. Sentiva le lacrime premere prepotentemente per poter uscire dai suoi occhi scuri. Trattenne il respiro. 
Non poteva piangere. 
Non voleva piangere. 
Lui non sarebbe mai venuto. 
 
Rimase lì per interminabili minuti. O forse per ore. Non aveva il coraggio di guardare di nuovo l’orologio. Sentiva distintamente la pelle d’oca sulle braccia lasciate scoperte. 
“Peggy"
Una voce maschile. 
Peggy alzò gli occhi, ancora una volta con la speranza nel cuore. Lo sentì spezzarsi per la seconda volta. 
Howard Stark era in piedi davanti a lei; stringeva due tazze di plastica fumanti tra le mani. Gliene offrì una e lei la accettò senza aprire bocca. 
“Hai la faccia di una che ha bisogno di una cioccolata"
Non aveva più la forza per fermare le lacrime. Si abbandonò con la schiena contro il muro, sentendo l’umidità filtrare attraverso il tessuto del vestito. 
Chiuse gli occhi stringendo la tazza come se fosse un salvagente durante una mareggiata particolarmente violenta. Un singhiozzo le sfuggì dalle labbra. 
Sentì le braccia dell’uomo attorno a lei. Lasciò cadere a terra il bicchiere e si aggrappò al giubbotto di pelle nera dell’inventore. 




 
Angolino Autrice:
Sono in uno spaventoso ritardo, me ne rendo amaramente conto...
So che lo studio non è una buona scusa per aver lasciato la FF così sospesa ma vi prego, comprendetemi!

Detto questo-- Siamo arrivati alla tanto agognata fine!
Volevo soltanto ringraziarvi se siete passati e avete letto questa storia anche senza recensirla.
Ci aggiorniamo domenica, con l'epilogo! 

XX,
Kristah
 

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Capitolo 8
*** VII. Epilogue ***


New York, 2013 
 
“Ehm… Capitano Rogers?” 
L’uomo si voltò incuriosito: si era trasferito da poco più di un mese in quell’appartamento, caldamente consigliatogli dal Direttore Fury. 
“Sì?” 
La ragazza dai lunghi capelli biondi stringeva tra le mani un quaderno dall’aria consunta; si avvicinò a lui e gli tese la mano: “Mi chiamo Sharon. Sharon Carter” 
Al suono di quel nome, Steve dimenticò come respirare per interminabili secondi.
La ragazza continuò: “Sono la nipote di Peggy… Peggy Carter?” 
Trattenne un sorriso: la ragazza non era certa che lui si ricordasse di Peggy. Come avrebbe mai potuto dimenticarsi di lei? 
Annuì semplicemente, stringendole la mano. 
Sharon allungò il quaderno verso la sua direzione: aveva la copertina nera, ormai sbiadita dal tempo; le pagine erano ingiallite. 
“L’altro giorno stavo mettendo in ordine tra i vecchi scatoloni di mio padre e ho trovato questo… Apparteneva a mia zia. Ho pensato che le sarebbe piaciuto averlo” 
La bocca di Steve si aprì per lo stupore; se ne rimase lì a boccheggiare incerto sul da farsi, finché Sharon non gli mise il diario tra le mani: “Lei vuole che lo legga. Ci tiene molto” 
La mano di Capitan America si strinse attorno al diario come se fosse la cosa più preziosa e fragile che esistesse al mondo; dal suo punto di vista, in effetti, lo era. 
Non aveva mai avuto la possibilità di parlare apertamente con Peggy Carter, la donna che settant'anni prima gli aveva rubato il cuore. 
“Grazie” mormorò semplicemente, prima di guardare la ragazza sparire dietro la porta del suo appartamento. 



 
Angolino Autrice:
Sigh, sigh. Mettere la parola "fine" a questa fan-fiction mi dispiace moltissimo.
Mi è piaciuto davvero, davvero un sacco scrivere dal punto di vista di Peggy-- Io penso che esistano dei personaggi con i quali ti senti semplicemente connesso...
Ecco, Peggy è uno di quei personaggi, per me.
Spero quindi di poter scrivere altro e spero ancor di più che voi sarete qui a leggere, anche silenziosamente!

Un enooorme grazie a Ragdoll_Cat che si è presa la briga di recensire tutti i capitoli ;)

Un bacione a tutti e, chissà, magari incapperete in qualche altra delle mie storie!
xx,
Kristah.

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