Supereroi Falliti

di Non ti scordar di me
(/viewuser.php?uid=493762)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno. ***


E un cigno nero resta tale anche se gli strappano le piume, 
il vero supereroe è quello sotto il costume, 
toglimi ‘sta maschera, fallo con le tue mani, 
poi guardami dentro agli occhi e dimmi se te lo aspettavi 
Che ero io, ero io. 
Supereroi Falliti, Mostro e LowLow.


Capitolo uno.
 

Ogni ragazzo aveva una sua vita, ognuno la affrontava in modo diverso. Ognuno decideva di vivere la propria vita nel modo in cui preferiva e nessuno poteva sindacare su come una persona trattasse la propria vita.
Nessuno aveva il diritto di dire a qualcun altro cosa farne della propria vita, così come nessuno poteva dire a qualcuno di mettere la parola fine a quel miracolo che gli era stato donato.
Ormai molti immagino l’adolescente come uno dei periodi migliori della propria vita, perché basta viverla al massimo. E c’era chi immagina una di quelle adolescenze dei film, una di quelle con tanti problemi e ostacoli che la rende memorabile.
Peccato che il mondo delle favole e dei film non esista. Nessuno potrà mai essere protagonista della storia che si era immaginato, anche se le storia quasi sempre erano uguali.
In particolare le ragazze amavano perdere tempo su questi futili pensieri. Tutte volevano il ragazzo bello e dannato, il solito puttaniere pronto a cambiare vita per l’innocente ragazzina appena arrivata nella nuova scuola. E come sempre, in queste storie c’era bisogno di un cattivo. E quel cattivo era rappresentato sempre dalla ragazza troia.
Mhm. I soliti clichè. Clichè stupidi ed infantili, con una possibilità di realizzarsi di circa lo 0,9 % possibile.
Questi erano i pensieri della diciassettenne, Elena Gilbert, che stava svogliatamente leggendo un libro che le aveva consigliato la commessa della grande libreria.
Ho sprecato diciannove dollari. Pensò la giovane arricciando il naso e chiudendo quel libro che a breve avrebbe cestinato. Non aveva mai letto un libro così irreale e stereotipato. Le avevano rifilato uno di quei romanzi adatti alle ragazzine con gli ormoni a palla, ma a lei non servivano quei libri.
Non aveva bisogno di illudersi, sapeva che per lei non c’era speranza di migliorare quello che aveva rovinato con le sue mani.
Il libro aveva come protagonista una giovane e stupida ragazzina dai capelli lisci e biondi come il grano, gli occhi color lapislazzulo con una condotta irreprensibile e un innocenza quasi affascinante. Come sempre, arrivata da poco nella nuova scuola, veniva presa di mira dalla solita ragazza gambe aperte che le raccomandava di stare lontana dal ragazzo – a detta sua – più bello e pericoloso della scuola.
Clichè scontati, pochi colpi di scena, storia ripetitiva e noiosa. Grammaticalmente penosa, con frasi troppo scialbe e sentite troppe volte. Costatò la ragazza, segnando su un fogliettino tutti i difetti che aveva trovato dopo aver letto solo cinque capitoli di quel coso.
Lo sguardo della mora si posò sulla sveglia accanto al suo letto, segnava le nove meno venti. Aveva, ancora, venti minuti abbondanti per arrivare a scuola.
Solo a pensare al nome scuola le venne la pelle d’oca. Fosse per lei avrebbe solamente cambiato nome e città, iniziando una nuova vita altrove.
Perché la vita che aveva ora non le piaceva affatto.
Scese dal letto e sistemò sopra i cuscini che la sera precedente aveva poggiato sul pavimento. Si specchiò e si sistemò i lunghi capelli lisci scuri che le ricadevano morbidi fino al seno.
Si sistemò la maglietta grigia e rimase pochi istanti ferma davanti allo specchio, pensando se fosse meglio togliersi o no quella maglia per sostituirla con qualcos’altro.
Era molto semplice con uno scollo a V non troppo esagerato. Ormai, però, doveva sempre stare attenta a cosa faceva, a cosa diceva e a come si comportava.
Perché non c’era persona che non sapeva chi fosse Elena Gilbert. E quella fama la infastidiva e non soltanto perché era una fama finta e costruita, la odiava nel profondo. La odiava visto che oggi, in quella minuscola cittadina, non aveva uno straccio di amico che non le avesse voltato le spalle. Non poteva avere un solo ragazzo che non la guardava dall’alto in basso senza soffocare commenti poco carini su di le.
Non poteva avere la libertà di mettersi qualcosa addosso di diverso, altrimenti tutti quanti l’avrebbero attaccata ancora di più.
Alla fine aprì l’armadio e ne estrasse una felpa nera che abbottonò fino sopra. Per scoprire il viso si legò i capelli in una coda di cavallo alto e infilò nel suo zaino di jeans il suo solito lipgloss.
Così va meglio. Pensò prima di chiudersi definitivamente alle spalle la porta di camera sua. Scese frettolosamente le scale e vide già sua madre alle prese con i fornelli.
Forse è meglio saltare la colazione. Per quanto sua madre provasse a fare da diciassette anni i pancake, non avrebbe mai capito che non erano il suo forte.
«Mamma, prenderò solo una mela.» Le comunicò con una scrollata di spalle, già prendendo la mela tra le mani e sciacquandola sotto al lavabo, mentre la madre alzò un sopraciglio dubbiosa.
«Questo significa che non gradisci i miei pancake?» Scherzò. Elena trattenne a stento una risata. Entrambe sapevano il motivo per cui continuava a cucinarli nonostante non fosse il suo forte, ma la mora non aveva mai trovato il coraggio per dirle di non cucinarli più.
«Ovvio che no. Li mangerò più tardi…magari dopo una sessione di studio.» Le sorrise e addentò la mela.
La madre osservava la figlia mangiare la mela e notò – con una punta di dispiacere – che non abbandonava questo look così scuro e cupo per la sua età.
Aveva sempre pensato che sua figlia stesse bene con i colori sgargiante, come il rosso, il rosa, il cobalto…Ma ora era da troppo tempo che non ne vedeva uno su di lei, ora era solo un’alternanza di colori smorti e scuri – grigio, rosso carminio, blu, nero –.
Elena finì la mela e buttò nella pattumiera il torsolo.
«Perché mi stai fissando?» Le chiese divertita. La madre scosse leggermente la testa, allontanando dalla mente quei pensieri a cui decise di dar voce.
«Notavo come il tuo guardaroba sia sempre così scuro.» Le disse con un mezzo sorriso. Avevano già affrontato quell’argomento una volta e non era finita bene.
Elena si sentì quasi chiamata in causa e si strinse nella sua felpa. A lei piacevano quei colori e non perché fosse entrata in uno dei periodi da adolescente punk o emo, semplicemente voleva passare inosservata.
Voleva non dare troppo nell’occhio e con dei colori così era più facile portare a termine il suo intento.
«Ci vediamo più tardi, mamma.» La liquidò la figlia, provando ad evitare quell’argomento da lei tanto odiato. Ancora non capiva come la madre si ostentasse a riportarlo a galla, tanto la verità – o almeno quella che si vociferava lì a Mystic Falls – la conoscevano tutti e la sapeva anche lei.
Sbatté la porta di casa ed estrasse dalla tasca del suo jeans il cellulare con le sue inseparabili cuffiette. A riproduzione casuale partì una delle tante canzoni che la rispecchiava.
Numb, dei Linkin Park. Le si illuminarono gli occhi quando le sue orecchie furono investite da quelle note e parole.
Lei si sentiva come quelle parole, ma lei non era bloccata in quella vita per via di qualcuno. Lei non doveva essere una determinata persona per qualcuno…Lei semplicemente aveva quella reputazione e nessuno l’avrebbe mai aiutata in qualche modo.
Qui non siamo in quello stupido libro. Pensò con rammarico superando il parcheggio. Era quasi arrivata a scuola, storse il naso e prese una boccata d’aria.
In quello stupido libro, tutta la scuola venerava la ragazza facile, la ragazza dai lunghi capelli e dal bel sorriso che per quanto potesse essere stronza alla fine un cuore lo aveva.
La realtà era un’altra.
Una volta che ti etichettavano come una facile, eri spacciata. Potevi segnarti la tua condanna a morte. Essendo Mystic Falls una cittadina piccola le voci giravano e tutti associavano un aggettivo ad un volto.
E lei per tutti era Elena la facile o Elena la troia. Quei nomi che le affibbiavano le facevano venire ancora i brividi e tante volte si era chiesta perché quello stesse capitando proprio a lei, perché gli anni di liceo le fossero stati rovinati tutti da un verme.
Perché Elena non era la più popolare della scuola. Non era la più bella, quella che tutte le matricole invidiavano. Non era la più desiderata, quella che faceva strage di cuori.
No, era solo una troia per l’intero corpo studentesco della sua scuola.
Io so la verità, in cuor mio. Pensò la mora facendosi coraggio. Ogni giorno si ripeteva quelle parole prima di varcare l’entrata verso la scuola, solo pensando a come la gente potesse sbagliarsi sul suo conto poteva sentirsi meglio.
Stare apposto con sé stesse era l’unica cosa che stava salvando Elena da tutte le brutte parole e i brutti comportamenti. Ormai non andava sul suo profilo di face book da una vita – consapevole di trovarlo intasato di insulti. –
Come sempre gran parte del corpo studentesco si girò per osservarla. Nessuno perdeva tempo per attaccarla, era diventato un gioco per tutti…ma a volte si esagerava. E ormai quello che stava vivendo Elena non era più un gioco, era una vera e propria forma di bullismo.
Il punto era che nessuno se ne rendeva conto, perché tutti sapevano quanto la faccia di bronzo di Elena Gilbert era forte. E pensavano che non si sarebbe spezzata facilmente, peccato che non avevano idea di come quella ragazza sia già spezzata.
Gli occhi della mora si posarono in lontananza sul gruppo delle sue amiche.
Amiche? Ex amiche. Si corresse mentalmente assottigliando gli occhi in due piccole fessure non appena vide come la bionda – conosciuta anche come Caroline Forbes – stava venendo verso di lei, seguita da Bonnie Bennett.
Caroline si fermò davanti alla ragazza e si scambiarono per pochi istanti occhiate di fuoco.
«Elena, cara!» Trillò la bionda con voce acuta. Quel tono fece accapponare la pelle alla mora e non perché le incutesse timore, no, tuttavia quel tono così squillante era fastidioso.
«Cosa vuoi?» Fu diretta Elena. Caroline era una grande stronza. L’aveva sempre saputo. Fin da quando erano amiche dai tempi delle scuole elementari aveva capito che era meglio non avercela contro visto che era una tipa tosta.
In tutti i casi Elena non aveva paura. Le due si erano sopportate per anni, c’era qualcosa che le accumunava no? L’essere stronze e forti. Due fuochi che bruciavano potevano avere come finale un’esplosione e proprio quella si aspettava l’intero cortile della Robert Lee High School.
«Volevo chiederti il piacere di non urlare troppo la sera, sai c’è gente che cerca di studiare.» Caroline se vivesse in un libro sarebbe stata etichettata come la tipica Mary Sue: l’essere perfetto, bravo, forte e sicuro di sé. L’aspetto da tipica ragazza romanzata: capelli biondi, occhi azzurri, pelle chiara e un sorriso smagliante.
Sempre caritatevole e presidentessa di una decina di club in tutta la scuola.
Brutta stronza. Perché deve essere mia vicina? Pensò Elena. Quelle battutine acide e a doppio senso l’accompagnavano dal momento in cui metteva piede a scuola fino a quando non ne usciva completamente.
Era diventata quasi routine, se non fosse per le sensazioni che Elena avvertiva ogni giorno. Quelle emozioni, quel sentirsi costantemente sotto esame, la facevano sentire uno schifo.
«Vorrei ricordati come fino a pochi anni fa cantavi con me la stessa canzone che intonavo ieri sera?» Replicò apatica. Notò i lineamenti della bionda irrigidirsi. Pensava che non si ricordasse cosa stesse veramente facendo ieri sera?
Se lo ricordava perfettamente. Cantava una delle tante canzoni che da piccola cantava con lei e Bonnie.
Bonnie, invece, era una ragazza dai tratti sudafricani. I capelli erano neri – così come gli occhi – e ricadevano dietro la schiena in un ordinata massa di ricci lavorati.
«Rimarrai sempre una troia, Gilbert.» Le ricordò Care con gli occhi furenti.
«Rimarrai sempre la stronza ex amica della troia, Forbes.» Sapeva di aver vinto quel confronto e non poteva esserne più contenta. A volta avere quelle piccole rivincite la facevano sentire molto meglio, ma dopo un po’ quel sentimenti di appagamento spariva e lasciava posto alla continua tristezza e solitudine che la circondava.
Caroline girò i tacchi – non prima di averle scrocchiato un’occhiataccia –, Bonnie era  pochi passi dietro di lei. Alzò lo sguardo e le sorrise leggermente mimando un mi dispiace.
Sì. Bonnie rimarrà sempre quella che posso definire un’amica qua in mezzo. Costatò la ragazza. La mora non si era mai espressa. Non le aveva mai rivolto una parola negativa, a pensarci bene quasi l’evitava…Ovvio non era bello sapere che una persona provava ad evitarti, ma Elena lo trovò quasi un gesto carino.
Meglio essere evitata che essere presa in giro. Così interpretò quel modo di fare di Bonnie che si girò, anch’ella di spalle, avviandosi verso la squadra delle cheerleader capitanata – ovviamente – da Miss Caroline Gentilezza Forbes.
Elena alzò gli occhi al cielo e sbuffò. Gli occhi puntati costantemente su di lei e tanti ridolini. Li ignorò e si avviò verso uno dei pochi posti che amava lì, a Mystic Falls.
Le piaceva sedersi a terra sotto l’albero che si trovava vicino l’edificio. Andava lì quasi sempre, sin da quando arrivava a scuola e aspettava la campanella suonare. Passava lì anche il pranzo, visto che non poteva passarlo con amici. E a volte quando non voleva fare educazione fisica si rifugiava sotto quell’albero.
Si sedette sulle radici e premette invio nuovamente alla musica dal suo cellulare. Chiuse gli occhi e si beò di quelle note che le fecero spuntare un sorriso in volto e la fecero rilassare momentaneamente.
Per un secondo pensò che forse era meglio non entrare a scuola oggi, però scartò immediatamente quell’idea. Anche perché non aveva nessuna scusa da dare alla madre per farle firmare la giustifica.
Elena si ritrovò a tossire più volte quando del fumo raggiunse le sue narici. Tossì velocemente e si tolse una cuffietta dall’orecchio spontaneamente.
Aperti gli occhi si scontrò con una seconda figura.
Un momento…Chi è lui? Si ritrovò a pensare Elena. Perché qualcuno vorrebbe rivolgerle la parola? Gli occhi color cioccolato della ragazza scrutarono attentamente il ragazzo.
Era poco lontano da lei, appoggiato sui piedi a terra con una sigaretta in bocca e un’espressione indecifrabile in volto.
Dire che lo trovò inquietante era poco, la ragazza sentì una scossa di brividi pervaderle la schiena. Quello sconosciuto – completamente vestito in nero – la guardava con aria imperscrutabile e i suoi occhi cercavano quelli della giovane. Una volta trovati quelle due tonalità così differenti si fusero.
Gli occhi della ragazza si persero in quelle due piccole pozze d’oceano che sembravano brillare. Quei due lapislazzuli risaltavano su quel ragazzo, vestito di nero da capo a piedi.
Era incantata da come un paio di occhi potessero farle venire in menti pensieri così belli.
Lo stesso valeva per lui. Quegli occhi cioccolato con piccole pagliuzze dorate le donavano perfettamente, così come quel visino era adatto ad uno smagliante sorriso – che non aveva ancora avuto il privilegio di vedere sul volto della ragazza –.
«Perché sei qui?» Chiese scontrosa Elena mettendosi a sedere. Erano rimasti in silenzio per pochi attimi, ma lei si era sentita subito in tremendo disagio vedendo come quello sconosciuto la stava squadrando minuziosamente nei dettagli e le dava, anche, il voltastomaco.
«E’ un luogo pubblico, piccola.» Le fece notare sedendosi completamente a terra e togliendosi dai pantaloni quelle poche erbacce che erano finite.
«Rettifico: perché mi stai fissando?» Continuò. Il corvino così si chiese se quella ragazza riuscisse ad avere una normale conversazione con qualche persona normale.
«Non ti sto fissando. Sto solo fumando.» Dichiarò con un’alzata di spalle, per poi aspirare un po’ di nicotina dalla sigaretta e intossicarsi ancora di più.
Elena alzò gli occhi al cielo e s’inumidì le labbra…Perché questo ragazzo le stava parlando e non sembrava schifato? Anzi, sembrava che non sapesse neanche chi fosse e che merda di reputazione le avessero affibbiato.
«Fuma da un’altra parte.» Gli ordinò. Il fumo la infastidiva. Era fastidioso e le faceva quasi lacrimare gli occhi. Non amava le sigarette in generale, il solo vederle le mettevano nausea e un senso di vero e proprio schifo addosso.
Quella puzza di fumo, poi, era qualcosa che detestava.
«Come ho detto: questo è un luogo pubblico, posso fumare qui anche senza il tuo permesso.» Le sorrise divertito. Provocarla era quasi comico.
«Nessuno viene mai qui.» Ringhiò Elena quasi infastidita da quei comportamenti. Anche se si mostrava indifferente agli occhi di quel ragazzo, lo squadrava dall’alto in basso e cercava di capire dove avesse già incontrato quel volto e quegli occhi.
«Ci vengo solo io.» Continuò in tono più calmo, rendendosi conto di essere partita in quarta contro lo sconosciuto.
«E con ciò?» Ispirò ancora ed indirizzò il fumo verso la ragazza. Era un soggetto interessante, la conosceva di vista e aveva sentito più volte il suo nome forse per la sua nomina.
«Se ti dico che qui non si fuma, allora non si fuma.» Gli spiegò chiaramente, sfilandogli di bocca la sigaretta e buttandola poco più lontano da loro.
«Sei una stronzetta.» Commentò il ragazzo divertito. Quella fu la prima volta che qualcuno le rivolse quella parola con un tono ironico, quasi ad alleggerire la portata di ciò che diceva.
Come se fosse una parola detta per gioco, come se fossero amici.
«Cosa ascolti?» Attaccò, ancora, bottone. Lei arricciò le sopraciglia. Nessuno voleva parlarle per più di dieci minuti…E ora, giusto quel giorno, c’era qualcuno che stranamente le stava parlando senza insultarla. Dov’era l’inganno?
«Numb, dei Linkin Park.» Fu una risposta secca, come se volesse chiudere quell’argomento scomodo. Non le piaceva parlare di quello che faceva, né di quello che ascoltava…Figurati intavolare una vera e propria conversazione con una persona. Si sistemò meglio le cuffie e pensò a com’era cambiata.
L’Elena che tutti odiavano non sarebbe mai riuscita a parlare senza problemi con una persona. L’Elena di ora non riusciva a non essere offensiva e a non chiudersi in sé stessa come un riccio.
Tutti amavano la vecchia Elena. Quella ragazzina di quattro anni fa che sorrideva sempre e che insieme alla sua migliore amica partecipava a tutte le attività che la scuola proponeva.
Però ora non erano più nel 2011, ora erano nel 2015, l’Elena di prima non c’era e non sarebbe più ritornata indietro. Era seppellita dalle cattiverie, dalle dicerie e dalle merdate che la gente le rivolgeva.
«Cosa fai?» La voce della ragazza suonò stridula quando il corvino prese posto accanto a lei e le sfilò la cuffia per portarla all’orecchio sinistro.
«Non posso ascoltare anch’io la musica?» Sul suo volto comparve un sorriso da vero bastardo e la ragazza sbuffò vistosamente.
«Non so il tuo nome.» Continuò ad infastidirlo con la speranza che se ne andasse.
«Ma io so il tuo.» Replicò con un’alzate di spalle. E fu così che tutti i castelli di carte di Elena furono distrutti…Si considerò una sciocca, come poteva per un solo istante aver pensato che quel ragazzo fosse diverso dalla massa di ignorante che le venivano contro?
Lui – come tutti gli altri – volevano solo sfotterla, umiliarla, prenderla in giro.
«Allora saprai la mia fama.» Il corvino notò come l’ultimo nome uscì fuori con un accento strano, stretto e rimarcato di puro odio. Fin’ora non le aveva mai parlato, ma non sembrava così terribile come aveva sentito dire in questi tempi.
Perché odia la fama che si è creata da sola? Pensò con un mezzo sorriso ad illuminargli il volto.
«Certo che la conosco.» Le confermò il giovane appoggiando la schiena al tronco dell’albero.
Perché è ancora qui? Non le aveva ancora rifilato una battuta cattiva, si segnò mentalmente.
«E perché sei ancora qui?» Decise di dar voce ai suoi pensieri, cercando di sembrare insensibile. Ma agli occhi del ragazzo le fece solo compassione. Si vedeva che quella reputazione le stava stretta e lui la stava aiutando, voleva solo farla sentire più leggera.
«Che domanda è?» Ridacchiò leggermente di puro gusto.
La sua risata era la libertà, come una rondine che volava ovunque anche la risata del ragazzo sembrava allontanarsi ovunque tanto che per un momento si guardò attorno come per assicurarsi che nessuno la stesse vedendo parlare con qualcuno.
«E’ una domanda come un’altra.» Scrollò le spalle.
Il ragazzo s’inumidì le labbra ed estrasse dalla tasca un pacchetto di sigarette e se ne accese un’altra. Quella di prima non era arrivata neanche a metà, ma Elena gliel’aveva ingiustamente buttata tra le erbacce.
«Perché non dovrei essere qui?» La mora si accorse di quel modo di rigirare la domanda con degli stupidi giochi di parole, ma con lei non funzionavano…Anche perché era la prima ad usarli quando le facevano comodo.
Uhm, c’è qualcosa che ci accomuna. Era quasi entusiasta a quel pensiero.
«Perché non c’è nessuno, non resta nessuno per me.» Scandì quelle parole e le vennero fuori dalla bocca in maniera cruda e dura.
Pensò quasi di aver traumatizzato il ragazzo, ma lui si limitava ad osservare le labbra della ragazza muoversi e divagò con la sua fantasia a come potesse essere bello toccarle con le sue.
«Non c’è nessuno, non resta nessuno per nessuno.» Disse in tono sommesso.
«Ti sbagli.» Replicò atona. «Se succedesse qualcosa a Caroline Forbes, l’intera scuola si allagherebbe di lacrime.» Non voleva sembrare invidiosa – non lo era – ma non capiva perché non c’era una persona in quella scuola che si preoccupava per lei.
«Tutti ci sono per barbie perfettamente fasulla e bella. Nessuno ci sarà mai per la vera Caroline Forbes.» Elena alzò la testa dal basso e rimase momentaneamente senza parole. Le aveva tolto le parole di bocca.
Lui sorrideva divertito e prese il suo accendino. Subito alla sua vista Elena si rabbuiò.
«Non fumare qui, in mia presenza.» Gli ripeté infastidita sfilandogli di mano l’accendino e tenendolo stretto nella sua esile mano.
«Sei fottutamente fastidiosa, Elena.» Sentire il suo nome da quelle labbra le fece accapponare la pelle. Non l’aveva detto con disprezzo, né con una punta di ironia. L’aveva pronunciato e basta, quel ragazzo si stava rivelando una continua sorpresa.
«Qual è il tuo nome?» Gli chiese a quel punto, non sapendo più cosa ribattere. Non aveva la più pallida idea di chi fosse, ma il viso era familiare.
«Non ha importanza.» Alzò le spalle e prese una boccata d’aria concentrandosi su quella canzone che ormai stava giungendo al termine. Ne stava partendo un’altra.
Un motivetto niente male dopo tutto.
«Qual è il titolo di questa canzone?» Le chiese rilassato con i capelli all’aria e il viso calmo rivolto verso uno spiraglio di sole che s’intravedeva da un paio di nuvole grigie.
«Take me to the Church, Hozier.»
«Hai solo pensieri positivi per la mente, eh?» La sfottò con un mezzo sorriso. Quella ragazza si stava rivelando più complicata e chiusa di quanto pensasse.
«Disse colui che ha l’aria da becchino.» Rise Elena e il corvino rise ancora di più se possibile. Aveva il senso dell’humor.
Finalmente una qualità! Si ritrovò a pensare. Fino a quel momento la ragazza era stata solamente fredda e chiuso, ora invece sforzava una mezza risata.
La mora notò come la risata di quello sconosciuto fosse diversa dalla sua. Perché la sua risata era forzata e fasulla, senza una vera emozione.
«Non hai amici?» Lo punzecchiò lei. All’inizio si chiedeva cosa quel magnifico ragazzo volesse da lei, ma non sembrava avere queste intenzioni…L’unica ipotesi che rimase era una. Che fosse un nerd con una faccia adorabile?
«Mhm. Di amici no. Non sono un tipo loquaceUn’asociale. Pensò la ragazza, seppur non convinta al massimo. Le risultava difficile credere che un ragazzo fisicamente messo bene – più che bene, si corresse mentalmente – non avesse amici o una ragazza al suo seguito.
«Sei strano.» Commentò Elena sbuffando.
Notò come gli altri ragazzi si stessero muovendo verso l’interno. Perfetto, iniziava un’altra magnifica giornata di scuola.
Velocemente raccattò le sue cose e sfilò la cuffia dall’orecchio del corvino stoppando la riproduzione casuale e infilando il cellulare nella felpa.
L’accendino l’aveva nella tasca e non ci aveva neanche fatto caso o pensato a restituirlo al proprietario.
Si era già alzata e non salutò neanche – lei era fatta così – ma sentì una forte presa sul braccio. Incontrò gli occhi ghiaccio del ragazzo che la fissavano fiammeggianti.
«Il mio accendino.» Le ricordò con sguardo quasi malizioso. Elena gli pestò con forza il piede e portò il viso pericolosamente vicino a quello suo.
«Togli quella mano
Perché è così aggressiva?
«Prima il mio accendino, piccola.» La provocò. La ragazza sollevò la mano, ma l’impatto con la guancia del corvino non arrivò mai. Damon lasciò immediatamente la presa sul gomito per bloccare l’altra mano.
«Piccola stronza, voglio solo l’accendino. Non è difficile, sai?» Il tono era ironico e per quanto cercasse di non mostrare il nervosismo e la rabbia che erano in lui, Elena aveva perfettamente notato come la vena del collo pulsasse più velocemente e come gli occhi chiari fossero velati da rabbia istantanea.
Come questo costatò la ragazza, anche Damon poté notare come lei avesse capito perfettamente il suo stato d’animo e di come perfettamente non ne fosse spaventata.
«Lascia la presa e hai il tuo accendino, bastardo.» Sussurrò tra i denti guardandolo negli occhi. Il corvino lasciò lentamente la presa sul gomito – non era neanche tanto forte, non voleva spezzare quella povera ragazza –.
«Ecco a te.» Grugnì lei lanciandoglielo. Damon lo prese tra le mani e se lo infilò in tasca, quasi ne fosse geloso. Dopotutto era un semplice accendino, cosa poteva avere di tanto speciale?
Elena si girò di spalle e si sistemò la felpa.
«Damon.» Fu quasi un sibilo. Per un momento pensò di aver capito male, rimase ferma lì e osservò per pochi istanti come i ragazzi sembrassero una massa di pecore pronte a pascolare.
«Come, scusa?» Fece finta di non capire girando solo metà busto. Il corvino sorrise, era una tipa sveglia.
«Il mio nome, dolcezza.» Si portò una mano al petto e ammiccò divertito. Le si avvicinò e si schiarì la voce. «Il mio nome è Damon.» Le lasciò un bacio sulla guancia – anzi, era pericolosamente vicino all’angolo della bocca – e la sorpassò con una dura spallata.
«A mai più.» Grugnì infastidita.
Non sapeva che quel ragazzo l’avrebbe rivisto ancora e ancora.
Non sapeva che Damon Salvatore sarebbe diventato il suo supereroe.
Ma non uno qualsiasi, non uno forte, non uno bello, sarebbe solo stato il suo supereroe fallito.

 
 
 
 
 
 
Per chi mi conosce…Scusatemi per esser ritornata con questo esperimento.
Per chi non mi conosce…Mi scuso anche per voi per avervi fatto leggere questa cosa. Sono Non ti scordar di me e ho una mente complessa, irreale e distorta per quanto riguarda le mie storie.
Ho sempre in mente cose nuove e questa idea mi è balzata sentendo la canzone Supereroi falliti di Mostro e LowLow (domandina a random: qualcuna/o li ascolta qui?).
Abbiamo un’Elena piuttosto insolita per le mie storie. Per chi ha già letto Amore Proibito, sa che amo i personaggi intriganti e complicati…E vi assicuro che anche se per ora sembra banale, questa ragazza è uno dei personaggi che reputo più completi. Quest’Elena è completa, perché ha una storia ben fatta, non è – spero non sarà mai – una tipica Mery Sue e non ricade nello stereotipo di ‘gatta morta’ che ha un po’ caratterizzato l’Elena del telefilm.
C’è un piccolo dettagliuccio che forse avrete notato…Parto alla lontana. Ho letto molte fan fiction e ho visto che nella maggior parte c’è sempre una ragazza alla quale viene affibbiata la parte della ‘troia’ e lei è contenta di questo ruolo, se ne vanta come se fosse qualcosa di bello…Così ho invertito le situazioni, o meglio ho semplicemente mischiato un po’ le carte.
Non sempre chi è chiamata ‘troia’ lo è. Per Elena, voglio che teniate in mente questo per ora. Anche perché spesso si parla solo di avere tanti ragazzi, ma le voci soprattutto nei paesini – come in questo caso Mystic Falls – si amplificano.
Ho fatto questo cambiamento perché tratterò di bullismo/cyber bullismo accennato e mi è sembrato bello – per quanto possa valere bello come aggettivo eh – avere una protagonista così.
Sorpassata Elena, veniamo a Damon.
Damon è quasi sempre il personaggio su cui lavoro di più. E’ quello che ha sempre la storyline – sia per il telefilm che per le mie storie – migliore, non c’è mai un motivo…Forse perché con lui è più semplice esprimersi, perché ti immedesimi facilmente in lui.
Visto che questa storia – l’ho già accennato – è un esperimento ho pensato di creare due storyline piuttosto eque e che interessino soprattutto la parte psicologica della persona, anche se in Supereroi Falliti – per me, forse però sono di parte – Elena ha una storyline più interessante, ovvio non pensiate che Damon sia un santo. Semplicemente se volete immedesimarvi in qualcuno in Elena sarà più semplice (stranamente non è stato difficile esprimermi per lei, cosa rara).
Ho scelto la narrazione in terza persona, soprattutto, per sfidare me stessa. E per scrivere qualcosa di più reale. Qualcosa che dopo aver finito, non mi vincoli ai nomi o ai legami di parentela. I caratteri sono IC, ma è tutto in un AU. Probabilmente dopo averla conclusa su questo fandom la pubblicherò in una sezione originale, chi lo sa.
Mhm, ho finito con questi piccoli appunti che si sono tramutati in un angolo note più lungo del capitolo.
Spero solo che questa storia possa interessarvi in tanti e che vi piaccia. Potete lasciarmi una recensione, anche, solo per farmi sapere che non vi piace e il motivo per il quale non vi ha particolarmente intrigato :)
Se non interesserà, credo di cancellarla…Ho già in mente la trama e so che sarà complicata da stilare, ho già una storia in corso e sottrarle tempo per qualcosa che magari non piacerà credo sia un po’ uno spreco di tempo ed energie.
Ci sentiamo alle recensioni,
un forte abbraccio
Non ti scordar di me.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo due. ***


Non sono ancora abbastanza brava?
Non valgo ancora così tanto?
Sono dispiaciuta per la piega che ha preso la mia vita
Scusa per il sorriso che ora porto
Sembra che non sia ancora abbastanza brava.

Good Enough, Little Mix.
 
 
Capitolo due.
 
Damon era seduto sul muretto della scuola e sorrideva compiaciuto. Ancora ricordava la conversazione avuta diverse ore fa con quella ragazza, Elena.
Gli si illuminavano gli occhi solo al pensare a quella ragazzina minuta che gli aveva risposto con antipatia e audacia. Quella ragazza non era mai passata inosservata, non solo per la fama che si era costruita, lui l’aveva sempre vista.
Fin dai quattordici anni. Pensò con un ghigno a colorargli il volto. La prima volta che l’aveva vista non era nessuno, era solo Damon. Era un volto anonimo, un inutile ragazzino che veniva preso in giro dai più grandi. E lei, quella ragazzina dai capelli scuri e gli occhi vivaci, gli era sembrata una ventata di freschezza. Qualcosa di nuovo.
Mhm, è passato tanto tempo da allora. Continuò i suoi pensieri il corvino che osservava il portone della scuola con lo sguardo accigliato sperando che si aprisse da un momento all’altro rivelando il volto di quella minuta ragazza.
Sono passati tre anni e più. Trattenne una risata. Era, veramente, patetico. Perdere così tanto tempo dietro quella sconosciuta era da pazzi. Lui era completamente pazzo, questo era chiaro.
Non poteva essere normale una persona, che non perde tempo per osservarne un’altra. Non poteva essere normale una persona che passava i giorni a spiare una testa mora.
Non poteva essere normale una persona che minacciava tutti di lasciare in pace altre persone.
«Amico, ne vuoi una?» Gli chiese Enzo porgendogli una canna rollata da poco. Il corvino scosse la testa e si stiracchiò leggermente sull’erba.
Lui ed Enzo erano amici da tanto tempo, forse troppo. Non c’era nessun altro che lo conoscesse così bene…Non c’era nessun altro che non fosse scappato da lui.
Se un giorno non fossimo più amici, dovrei ucciderlo. Costatò Damon con sguardo perso. Sa troppe cose. Scacciò quei pensieri via dalla testa e scrollò le spalle, l’amico non l’avrebbe mai tradito. Enzo non ne era capace. Così come lui non era capace di tradirlo.
Erano fratelli. E un fratello non tradirebbe mai l’altro.
«Cos’hai? Ti vedo con la testa altrove.» Lo spronò ancora l’altro curioso di quell’atteggiamento inusuale.
Damon si spostò alcune ciocche di capelli che gli erano cadute davanti gli occhi.
«Mhm, cosa sai di Barbie?» Gli chiese con un pizzico di curiosità. Enzo arricciò il naso e fece mente locale. Subito capì a chi si riferiva. Ancora non capiva quell’odio insensato che Damon aveva…aveva un po’ per tutti. O meglio, sapeva a cos’era dovuto ma non poteva comprenderlo.
«Porta almeno una terza per me.» Commentò Enzo ricordando quella volta che si era soffermato agli allenamenti delle cheerleader. Forse avrebbe dovuto farci una capatina una seconda volta, nessuno gli toglieva l’opportunità di osservare quel gioiellino.
«Non intendevo questi dettagli, amico.» Il corvino risultò stranamente rilassato e divertito. «Intendo…E’ vero quello che ha detto, oggi, la Gilbert?» Damon si era imposto di chiamarla per cognome davanti agli altri, anche davanti al suo migliore amico.
Pronunciare il suo nome gli suonava strano, Elena gli suonava troppo dolce. O forse era il suo tono ad essere troppo dolce quando pensava a lei?
«Non ne ho idea…Prima le vedevo insieme, io non mi fiderei delle parole di una troia.» Alzò le spalle l’amico. Damon irrigidì le spalle e si sedette meglio sull’erba.
«Ha un nome e cognome quella ragazza.» Lo riprese inacidito. «Usali.» Replicò glaciale, stringendo tra le dita alcuni pezzetti d’erba che aveva staccato da terra infastidito.
Enzo alzò gli occhi al cielo ed espirò un po’ dalla canna.
«Ancora questa ossessione…» Lo canzonò. Sì, forse più volte gli era uscito spontaneo replicare in modo inacidito ai commenti troppo spinti dell’amico. Detestava quell’accanimento verso quella ragazza. Gli sembrava spropositato.
«Non è un’ossessione.» Rispose Damon sbuffando e togliendo dalle mani dell’amico la canna per aspirare. Finiva sempre così, diceva di non voler più a che fare con quelle cose e ci ritornava sempre. Prima però era peggio, molto peggio, ora si limitava alle sue sigarette. Quelle non le avrebbe mai lasciate.
«Come non lo è?» Lo prese in giro Enzo. Damon non si era reso conto di quanto risultasse insopportabile quando difendeva quella ragazza. «Ogni volta che senti la parola troia associata a quella ragazza, esplodi.» Ridacchiò sotto i baffi.
«Si può sapere il motivo di tale accanimento?» Continuò alzando un sopraciglio. C’erano tante cose che Enzo non capiva di quel ragazzo. Non capiva perché si ostentasse a dire di non voler più fumare, se alla fine lo ritrovava in bocca sempre con una sigaretta.
Non capiva perché si ostentasse a nascondergli aspetti della sua vita che lui voleva sapere. Non capiva perché fosse ritornato a scuola, visto che non ci metteva piede da circa tre anni.
«Non c’è nessuno motivo, Enzo.» Replicò e stanco di quella conversazione si alzò da terra per andare verso scuola. Aveva saltato l’ultima ora, non gli era mai piaciuta la biologia. Non gli piaceva quando aveva sedici anni, non capiva perché dovesse piacergli ora che ne aveva venti.
Entrò a scuola e i corridoi erano deserti. Mhm, ligi alle regole. Pensò. Certe cose non erano cambiate, Mystic Falls era sempre la stessa città – quello lo sapeva ormai – e quella scuola era sempre la stessa. Forse di quello era sorpreso, più che sorpreso.
Pensava che qualcosa fosse cambiato. Che qualcuno cercasse di fare qualcosa. Ma niente, così come aveva lasciato quella scuola così tutto era rimasto.
Storse il naso quando vide un ragazzo uscire dal bagno. Lo squadrò per bene, non gli piaceva affatto – non solo perché sembrava un tipo che se la tirava da morire -. Semplicemente non gli ispirava il volto.
«Non dovresti essere a lezione?» Gli chiese il ragazzo che lo osservò scettico. Damon sbuffò vistosamente, non pensava che qualcuno gli rivolgesse la parola. Non era successo i primi mesi, quando era ritornato a scuola, perché doveva succedere ora?
«Non dovresti essere tu a lezione?» Sputò Damon già indisposto nei confronti del ragazzo che alzò un sopraciglio curioso. Pallone gonfiato. Pensò.
«Io, infatti, stavo andando a lezione.» Commentò con un’alzata di spalle. «Tu ti sei perso?» Questo ragazzo già mi sta annoiando. Pensò il corvino.
«Conosco meglio di te questa scuola, sai.» Il sorriso di Damon si allargò leggermente e un lampo di curiosità balenò nei suoi occhi quando notò che il bagno da cui il bastardino era uscito era quello delle donno.
«E so per certo che quel bagno non è per uomini.» Grugnì infastidito. Notò un cambiamento veloce nei modi di fare del ragazzo, si era leggermente irrigidito e aveva ridotto gli occhi in due piccole fessure.
Già questo vuol dire qualcosa. Costatò il corvino, che da sempre era stato un grande osservatore.
«Credo non siano fatto tuoi quello che faccio in un bagno, no?» Replicò inacidito l’altro. Il corvino era così tentato a sganciargli un pugno in faccia.
«Non ti ho mai visto in giro.» Continuò poco dopo.
«Non mi hai mai notato. Sono Damon.» Si presentò scrocchiando la mascella e osservando il ragazzo davanti a lui porgergli una mano.
«Sono Kai.» Lo sguardo del corvino passò dal volto del ragazzo alla mano che gli stava offrendo almeno quattro volte, poi alla quinta volta il ragazzo capì che quella mano Damon non l’avrebbe mai stretta.
«Attento a dove vai, la prossima volta.» Continuò Damon, invitandolo con lo sguardo ad andarsene via da lì al più presto. Aspettò che Kai se ne andasse e sparisse dal suo raggio visivo.
Fece un paio di passi avanti – intento ad andare verso il suo armadietto – ma decise di ritornare sui suoi passi.
Qualcosa non quadra. Pensò trovandosi faccia a faccia con la porta del bagno delle ragazze. Rifletté, però, prima di entrare lì.
Oh, andiamo, cosa può farci un ragazzo in un bagno per le ragazze? Stupido di tutti quei problemi, aprì la porta e perse il respiro a quella scena.
La mascella rischiava di cadergli a terra, mentre le gambe erano pesanti così pesanti che non sarebbe riuscito a fare neanche un passo. Gli occhi fuori dalle orbite e dalla sua bocca non era uscita neanche una parola. No. In quel momento se avesse parlato avrebbe solamente imprecato a gran voce contro quel grande coglione.
«Lo. Ammazzo.» Solo quelle due parole gli uscirono dalla bocca. Osservò quella scena e deglutì, dopo di che uscì fuori di là e a grandi falcate uscì completamente fuori da quell’edificio.
Sarebbe andata a finire male. Aveva la tentazione di ritornare lì dentro e cercare quel bastardo. Oh, l’avrebbe fatto.
Ormai era partito in quarta. Il suo istinto gli suggeriva persino di picchiarlo a sangue nella classe in cui si trovava. E sì, lui avrebbe aperto ogni singola porta di quell’istituto se ne avesse avuto il tempo.
«Già di ritorno?» Lo prese in giro l’amico che sedeva sempre su quel muretto. Damon non rispose, aveva il respiro accelerato e la vena sul collo pulsava forte.
Mancavano pochi minuti e la campanella sarebbe suonata. E avrebbe segnato la fine di quello.
Non era rimasto lì solamente perché aveva letto nel suo sguardo tanto umiliazione. Solo quello.
Quando sentì quel drin, fu come se le porte del paradiso si fossero aperte a lui. Il che era un miracolo, visto che per lui non c’era posto lì. E forse con quello che stava per fare si stava solamente condannando ancora da solo, assicurandosi un posto con il diavolo.
«Amico, vieni da me?» La voce di Enzo gli arrivò chiara alle orecchie, ma fece finta di ignorarlo. Lui poggiava la schiena sul tronco dell’albero e aspettava pazientemente. Una volta aver messo fuori da lì, era assicurato. Nessuno avrebbe potuto fare niente.
«Damon, cosa cerchi?» Enzo non era infastidito, no, lui era solamente incazzato. Detestava quando il corvino si chiudeva in sé stesso e metteva su quell’espressione indecifrabile.
Che ormai tanto indecifrabile non era più, perché Enzo non sapeva da cosa fosse causata ma sapeva a cosa portava: NULLA DI BUONO.
Non con un Damon arrabbiato. Non con quel ragazzo che era un concentrato di rabbia.
«Ora mi diverto.» Fu il sussurro di Damon, lo disse in modo così lieve che quasi poté udirlo solo lui ma l’amico accanto a pochi passi da lui capì. Capì che l’amico stava per fare una delle sue sparate.
Damon puntò bene Kai. Il ragazzo era circondato da diverse cheerleader, probabilmente era il capitano di chissà quale progetto di cui blondie faceva, ovviamente, parte.
Camminò a passo spedito verso di lui e quella insulsa combriccola.
Caroline aveva già notato il corvino venire verso di loro a passo spedito e non riuscì a non pensare a quanto fosse sexy e irresistibile con quella camminata.
«Cerchi qualcosa?» Pigolò la bionda sbattendo quegli occhi cerulei che funzionavano sempre, o quasi.
Ridicola. Damon guardò fisso il ragazzo e per un momento gli parve quasi che Kai avesse capito cosa volesse fare. Se quella suggestione fosse stata vera, allora sarebbe stato un peccato. Forse avrebbe perso il gusto.
Mhm, no. Quello mai. Costatò pochi istanti dopo aver formulato quel pensiero. Picchiarlo sarebbe stato sempre magnifico.
«Cerco Kai.» Grugnì fissando gli occhi verdi del ragazzo.
«Mhm, cosa vorresti?» La buttò lì l’interessato ignaro delle vere intenzioni di Damon.
«Vorrei togliermi uno sfizio.» Il ghigno di Damon si allargò in un sorriso genuino e la sua mano chiusa a pugno andò in collisione col naso del ragazzo pochi secondi dopo.
Il ragazzo si portò la mano al naso e Damon si ritrovò la mano imbrattata di sangue. Sangue di quel bastardo. Pensò schifato.
Seguì un altro pugno – questa volta il ragazzo lo scansò per fortuna – ma il corvino ancora più infuriato per quel debole e insulso tentativo di rivolta gli scagliò un secondo pugno.
E mentre una vocina, quella di sua madre, gli ricordava di quanto potesse essere sbagliato usare la violenza…Un’altra, la voce più forte, più potente, più dura lo incoraggiava a continuare fino a quando quel pezzente non avrebbe chiesto pietà in ginocchio.
«Sei impazzito!» Le voci stridule delle ragazze gli stavano dando al cervello. Strano ma vero, non accadde come in quegli stupidi film di bassa lega. I ragazzi amici del ragazzo picchiato non accorrevano per aiutarlo, né formavano una cerchia intorno ai due e incitavano sempre più.
Semplicemente nessuno – ad eccezione di blondie e l’altra ragazza scura di carnagione di cui non si sarebbe mai ricordato il nome – si era soffermato su di lui.
Se prima solo poche gocce di sangue erano sgorgate dal naso del ragazzo, ora usciva a fiocchi. E il sangue imbrattava non solo la mano di Damon, ma anche gran parte della giacca e della maglia di Kai.
Damon lo afferrò rudemente per la maglia e lo avvicinò a sé, facendo toccare le loro fronti. Pochi centimetri lo separavano da quell’individuo.
«Come ci si sente ad essere dall’altra parte?» Lo disse in voce così bassa e minacciosa che il ragazzo di fronte a lui non riuscì a non sbiancare. 
«Pensa di essere fortunato.» Se lo levò da dosso e gli lanciò uno sguardo infuocato. «Spera che non abbia niente di grave. Speralo.» Ogni parola detta con la giusta dose di rabbia uscì fuori dalla sua bocca con così tanta naturalezza da mettere i brividi.
«Perché? Perché l’hai fatto?» La voce di Barbie gli arrivò acuta alle orecchie. La mora dai tratti stranieri non aveva battuto ciglio, stringeva la sua tracolla e lo fissava con sguardo neutro. No. Decisamente no. Lei non è scandalizzata. Un punto a favore di quella ragazza.
«Lui sa perché l’ho fatto.» Sputò nervoso. Si girò di spalle e incontrò lo sguardo di Enzo, quasi era deluso. Sì, era deluso. Deluso perché, in fondo, sperava che Damon non ricadesse in quell’errore, non diventasse burattino della sua stessa rabbia cieca.
Damon scrollò le spalle e a grandi passi entrò, nuovamente, a scuola. Non c’era nessuno, o meglio quei pochi che erano rimasti erano troppo occupati a parlare e a fare i lecchini con i professori per notarlo.
Si ritrovò faccia a faccia con la porta di quel bagno ed entrò senza esitazione.
Era ancora lì.
«Co-cosa…hai fatto?» Sussurrò con voce spezzata, mentre spostava il suo sguardo dalla mano incrostata di sangue alla giacca.
Damon non rispose, si avvicinò e si chinò alla sua altezza sospirando. Non poteva credere che fosse lei a chiedere a lui cosa gli fosse successo.
Ancora  non credeva che quel bastardo l’avesse toccata. La rabbia gli saliva alle stelle. Forse non avrebbe mai dimenticato gli occhi spaventati di Elena una volta entrato nel bagno, completamente inanimati…Anzi, l’unica emozioni a colorarli era la paura.
Perché quando lui era entrato, la ragazza ebbe paura che Kai fosse ritornato.
Damon le sfiorò i capelli e si soffermò al labbro, vi era un piccolo taglio.
Si alzò da terra e si guardò attorno. Prese i fazzoletti che erano lì e li impregnò di acqua fredda. La seconda mossa fu quella di avvicinarsi alla ragazza e porgerle una mano.
Mai stato così galante in vita mia. Si prese in giro da solo. Non aveva mai fatto queste sciocchezze, non le aveva mai fatte per un appuntamento – lui non aveva mai avuto un vero appuntamento -, non lo faceva per rimorchiare le ragazze…Perché farlo con lei?
Ho paura di romperla. Quella era l’unica risposta plausibile. Aveva una paura matta di romperla. Romperla più di quanto già non lo fosse.
Perché lui non conosceva quella ragazza, ma era intenzionato a conoscerla. E aveva già visto troppo e non gli piaceva affatto.
«Faccio da sola.» Grugnì Elena che respirava lentamente, cercando di non dar a notare il modo strano e cadenzato in cui respirava. Aveva una mano sul fianco, per alzarsi da terra appoggiò l’altra sul lavabo e con la forza che le era rimasta cercò di alzarsi.
«Non puoi fare da sola.» La riprese Damon, avvicinandosi ancor di più e stringendo a sé il corpo della ragazza. La aiutò a tirarsi su e rimasero pochi istanti lì immobili ad osservarsi e a studiarsi incerti su cosa fare.
«Riesci a stare in piedi?» Le chiese cauto. Elena annuì e una volta che Damon lasciò la presa su di lei, sentì le gambe quasi venir meno.
«Potevi dirmi la verità.» Le fece notare Damon che le prese un braccio e lo appoggiò alla sua spalla. Elena scrollò le spalle e tenne stretto il suo zaino su una spalla.
«Non serve fare l’eroe, Damon.» Disse lei tutt’un fiato.
Damon prese l’impacco di fazzoletti freddi e lentamente lo passò sul piccolo taglio sul labbro della ragazza. Lentamente il sangue sparì dal labbro.
«Potevo farcela.» Grugnì lei caricandosi tutto il peso dello zaino sulle spalle e liberandosi dalla prese del corvino. Elena  sentiva solo il senso della vergogna e dell’umiliazione addosso, voleva solo ritornare a casa e chiudere gli occhi. Niente di più facile.
Uscì a piccoli passi dal bagno e sospirò. Perché quello sconosciuto la voleva aiutare? La trovava una causa così persa da poter aiutare? Lei non aveva bisogno di un eroe, lei bastava a sé stessa. Fin’ora ce l’aveva fatta, avrebbe continuato così.
La sto lasciando andare da sola? Si chiese il corvino. Si guardò allo specchio e capì lo sgomento iniziale della ragazza. Il sangue del ragazzo era schizzato ovunque, anche sul mento e sulle scarpe.
Una visione raccapricciante. Si sciacquò velocemente le mani e portò un po’ d’acqua sulla faccia togliendo quel poco di sangue che si era raggrumato.
A passi veloci uscì dal bagno e non ci impiegò molto ad individuare Elena che a piccoli passi camminava verso l’uscita.
Quanto si maledì Damon quel giorno. La prima volta quando aveva fumato da quella canna, la seconda volta quando era entrato in quello stupido bagno…E poi…Poi da quel momento era stato un continuo di imprecazioni e maledizioni una dopo l’altra.
«Ancora sicura di non aver bisogno di una mano?» La provocò Damon incrociando lo sguardo della ragazza che si era appena girata per squadrarlo meglio.
«Più che sicura.» Rispose lei dandogli le spalle. Aveva ricevuto un rifiuto. Pensò quasi inorridito. Era la prima volta. Nessuna ragazza fin’ora si era comportata così.
Perché non voleva ammettere di aver bisogno di aiuto?
Così Damon sapendo quello che stava per fare – si maledì anche per quell’idiozia – le si avvicinò e le circondò con una mano il fianco. La mora automaticamente appoggiò il suo braccio sul collo del corvino e poté silenziosamente ammirare quegli occhi celesti.
Perché fa così? Perché proprio oggi si è interessato a me? Si chiedeva Elena che non riusciva ancora a credere che quel ragazzo la stesse aiutando solo perché voleva.
Uscirono dalla scuola così, ma nessuno fece caso a loro. Nessuno fece caso a lei. Ormai ci aveva fatto l’abitudine. Dopo un po’ inizi a capire che lì nessuno ti voleva aiutare, preferiva girare la testa e far finta di aver visto male.
Camuffare un occhi nero con del trucco esagerato, o giustificare la camminata trascinata come un incidente avuto ad educazione fisica.
Lo sguardo di Elena ricadde automaticamente su Kai, seduto a terra in un angolo con una Bonnie che lo stava aiutando.
Non ci mise molto a fare due più due, a Kai usciva il sangue dal naso e Damon aveva casualmente la mano e i vestiti imbrattati di sangue.
«Ti aiuto io.» Sussurrò il corvino che l’aveva praticamente trascinata fuori dalla scuola. Non gli era sfuggito lo sguardo della ragazza su quel bastardo, così come non gli era sfuggito lo sguardo che poi gli aveva rivolto.
Quasi inorridita. Costatò aprendo la portiera dell’auto.
Elena si accigliò, i suoi occhi vagavano dalla magnifica Camaro blu al corvino che la osservava con un cipiglio sul volto.
«Vado a piedi.» Esalò Elena estraendo dallo zaino il cellulare con le cuffie attaccate. Non riuscì neanche a far partire la playlist: Damon le aveva sfilato di mano quell’aggeggio infernale e le rivolse un’occhiata provocatoria.
«Te ne andrai senza il tuo cellulare?» La provocò con un mezzo sorriso. Lasciò la portiera aperta e poi si sedette al posto del guidatore.
Non mi ha ancora ridato il cellulare. Pensò fiacca Elena che trovava estremamente patetici quei modi infatili per farla entrare in una stupida macchina con uno sconosciuto di cui si fidava ancora meno.
«Posso rimanere qui tutto il tempo del mondo.» Le disse lui con un’alzata di spalle. La mora entrò a fatica nell’auto e chiuse debolmente la portiera.
«Il tuo stupido cellulare.» Glielo restituì per poi ingranare la marcia e lasciare il parcheggio. Elena sedeva rigida e con espressione tesa, ogni muscolo era contratto e Damon poteva sentire il disagio che c’era in quella macchina.
«Come siamo a disagio, mhm.» Ruppe il silenzio Damon che si stava avviando verso una meta ben precisa.
«Sono in macchina con uno sconosciuto con le mani sporche di sangue. Come potrei non essere a disagio?» Gli chiese stizzita tenendo lo sguardo inchiodato sulla strada.
«Sporche di sangue del bastardo che ti aveva picchiato poco prima.» Precisò il corvino fermandosi al semaforo rosso. Elena perse il respiro e ci impiegò diversi minuti per formulare una frase di senso compiuto.
«Ora che l’hai picchiato ti senti migliore di lui? Wow, hai picchiato un ragazzo che aveva già picchiato una ragazza.» La buttò sull’ironia, ma la voce era tagliente. «Non sei meglio di quel ragazzo.» Commentò subito dopo abbandonando il tono poco confidenziale.
«So perfettamente di non essere migliore di lui.» Elena finalmente distolse lo sguardo dalla strada per rivolgere un’occhiatina confusa al guidatore. «Io sono peggio di lui. Ma la soddisfazione di fargli capire com’è stare dall’altra parte non me la toglie nessuno.»
Non mi conosce, non sapeva di me fino a un paio di ore fa. Perché fa così? Non riusciva a trovare una spiegazione sensata, le sembrava tutto troppo irreale.
«Allora perché l’hai fatto? Salvando ragazze che conosci poche ore prima, hai successo?» Pensa che l’abbia fatto per fare colpo su di lei? Oh, era fuoristrada. Damon non aveva bisogno di far colpo su di lei, perché lei era già incuriosita.
Far colpo significava incuriosire una ragazza a tal punto da spingerla verso di te.
Con Elena non aveva ricorso a quei trucchetti, ci aveva provato quella mattina…E dopo un paio di ore aveva assistito ad una scena che gli aveva tolto le parole di bocca.
Aiutarla l’aveva incuriosita. Per quanto Damon non doveva reagire in quel modo, per quanto non doveva imporre la violenza e i suoi modi di fare a Kai l’aveva fatto anche se non ce n’era bisogno. Proprio quello faceva sì che l’interesse della ragazza aumentasse nei suoi confronti.
«Le donne non si toccano.» Proruppe Damon glaciale. «Questa spiegazione ti basta?» Continuò ripartendo non appena il semaforo diventò verde.
«Casa mia è pochi isolati più avanti.» Gli comunicò la mora aspettando che il corvino rallentasse. Sorprendendo Elena, Damon superò la casa della ragazza e continuò ad andare dritto.
«L’hai superata.» Gli fece notare. La voce era colorata da una vena di paura ma non voleva darlo a vedere.
«Non ho detto che ti avrei portato a casa tua.» Commentò a bassa voce girando a destra. Alla ragazza venne il batticuore a quelle parole e un solo pensiero le veniva in mente: dove mi sta portando?
Si fermò pochi istanti dopo e parcheggiò la magnifica Camaro blu davanti un’enorme casa. Elena rimase in macchina ad osservarla senza parola per svariati minuti.
Ci era passata più volte lì davanti, apparteneva ad una delle famiglie fondatrici. E’ un Salvatore. Costatò la ragazza, rimanendo ancorata al sedile.
Damon, invece, sorrise nel vedere lo stupore tingere il volto della giovane. Scese dall’auto e le aprì la portiera.
«Ti riporterò a casa.» Le disse con un mezzo ghigno stampato in volto. «Ma non ora.» La ragazza scese da quel gioiellino e trascinò stancamente i piedi verso la casa del corvino.
«Mio padre non è in città, al momento.» Dov’è la madre? Pensò subito Elena. In tutti i casi decise saggiamente di non porgergli quella domanda così personale.
«Perché non mi accompagni subito a casa?» Chiese lei guardinga, osservando minuziosamente i particolari che riusciva a scorgere dell’ingresso di quella casa vecchio stile.
«Vuoi ritornare a casa tua ammaccata?» La provocò ridendo. Subito pensò alla madre, oggi era venerdì, era già ritornata a casa…Se l’avesse vista così, si sarebbe preoccupata. E in quel momento farla preoccupare per qualcosa che lei giudicava futile non era nei suoi programmi.
Senza aspettare un invito scritto entrò in quella casa. Era tutto in legno e lo sguardo della ragazza cadde sulle numerose fotografie che decoravano l’entrata.
Damon da piccolo. Damon col padre. Damon con un altro bambino.
«Chi è?» La voce era ridotta ad un piccolo e flebile sussurro, troppo intimorita dallo sguardo del corvino – sguardo che aveva assunto non appena entrato in casa –. Damon fece finta di ignorarla e le fece segno di seguirlo.
«Wow…» Sussurrò nuovamente, vedendo il salotto di quella casa. Aveva una libreria enorme, un bel camino e dei bellissimi divani di pelle – probabilmente – molto pregiata.
«Credo che del ghiaccio vada bene, no?» Le chiese il corvino circondandole i fianchi. Elena perse quasi un battito e annuì semplicemente, troppo incantata da quella casa che sembrava appena uscita da un’epoca quasi vittoria.
Quasi le sembrava di essere ritornata indietro nel tempo. Quell’atmosfera che si respirava le ricordava tanto quella dei film sul passato.
«Non hai mai pensato di chiedere aiuto?» Elena alzò lo sguardo e spostò il ghiaccio dal suo labbro al suo gomito. Aveva sollevato la felpa poco più su del gomito e Damon poté squadrare attentamente il suo piccolo e candido braccio.
«Non ho bisogno di aiuto.» Replicò calma e pacata.
Damon aggrottò le sopraciglia.
«Non sembra da quello che ho visto oggi.» Tentò di controllare la rabbia che covava. Non lo fece perché voleva calmarla, no, se in quel momento fosse stato solo in casa avrebbe scagliato qualcosa contro il camino…Non si fece prendere dall’ira solo per non spaventarla.
«Nessuno si è mai accorto di questi atti di bullismo. Non capisco perché proprio uno come te, si sia accorto della mia esistenza.» Uno come me? Damon non capì se quello dovesse essere per lui un complimento o un insulto.
Senza ombra di dubbio la seconda opzione. Scartò la prima sin dall’inizio, anzi si reputò ridicolo per aver pensato che quella ragazza così chiusa potesse fargli un complimento.
«Che intendi?» Chiese rilassandosi e prendendo dal tavolino di liquori un po’ del suo amato Bourbon. Quel liquore era un vero toccasana, uno dei suoi preferiti.
«Perché Damon Salvatore mi rivolge la parola? Non rischierai di perdere il cognome con accanto una troia?» Sputò acida alzandosi da quel comodo divano e poggiando sul tavolino il ghiaccio che le aveva allietato il dolore.
Damon assottigliò gli occhi e analizzò i più piccoli dettagli di quella frase. L’aveva insultato e poi si era auto insultata.
«Solo perché mio padre è Giuseppe Salvatore pensi che non possa parlare con te?» Le chiese con tono basso e sommesso.
«Penso che non dovresti parlare con me a prescindere dal tuo cognome.» Dio, quant’è pessimista. La maledì mentalmente.
«Penso che non dovresti essere così dura con te stessa.»
«Devo esserlo. Ho bisogno di essere dura con me stessa.» La voce s’inclinò a metà frase, ma lei proseguì. «Tu non hai bisogno di essere duro con te stesso. Hai tutto
Elena in realtà non sapeva niente di Damon. Erano due perfetti sconosciuti, erano due corpi che vagavano nel vuoto e oggi si erano scontrati.
Non capiva neanche il motivo di tanta acidità, anzi forse lo capiva. Lei stavo solo cercando di proteggersi, in modo strano e complesso.
Quando aveva visto sul campanello di casa del ragazzo la scritta Salvatore perse un battito. Se prima aveva la costante paura di essere giudicata, ora era tutto amplificato. Aveva paura di essere giudicata da una delle famiglia fondatrici…Perché sono così, maledizione? Ormai non usciva più, si rifiutava di stare all’area aperta, ogni volta che camminava per Mystic Falls sentiva tante voci parlare da dietro ed era insopportabile.
Perché quelle voci sembravano seguirla ovunque, le occupavano la testa per la maggior parte della giornata e non ne poteva più.
Stare in casa con un libro le era sembrata, sin dall’inizio, la cosa migliore.
«E invece non ho un cazzo, Elena. Non ho uno stupido scopo in questa futile vita. Non ho niente per cui valga la pena proteggersi.» Le prese il braccio e l’avvicinò a sé. L’equilibrio di Elena – già precario – venne messo a grande rischio, si sbilanciò in avanti e dovette fronteggiare gli occhi azzurri di quel ragazzo.
Non ho uno stupido scopo in questa futile vita. Quella frase era un disco rotto nella sua mente, non riusciva ad ignorarla. Non lo poteva fare, perché l’aveva detto con tale spontaneità e tristezza che era impossibile non credergli.
«Neanche io ho un valido motivo per vivere, eppure sono ancora qui.» Damon schiuse la labbra ed esplose. Non poteva dire una cosa del genere a lui, non a lui.
«Credo di impazzire, sai?» Le disse con un mezzo sorriso. «Non c’è niente che rende le mie giornate diverse. Ogni giorno lo stesso schifo.» Ed Elena non sapeva cosa racchiudesse lo schifo di Damon. Lei sapeva solo cosa racchiudesse il suo di schifo. E Damon? Perché le sue giornate erano così? Cosa c’era che quel ragazzo nascondeva gelosamente?
«Credevi che salvarmi ti avrebbe aiutato a sentirti meno inutile?» Deglutì a disagio. Quella era una delle cose che più la infastidivano: detestava quelle persone che si avvicinavano solo per provare ad aiutarla o per ritirare su la sua odiosa nomea.
Damon è un altro da aggiungere alla lista? Tutti i ragazzi che si erano avvicinati a lei avevano un secondo fine. Anche Kai aveva un secondo fine. Anche Matt, il suo ex migliore amico, aveva un suo secondo fine.
Elena trattenne il fiato, aspettando una risposta.
«Ti avverto: il tuo misero piano è fallito.» Grugnì infine lei. Il silenzio del corvino le era risultato chiaro e limpido. Lei era una sfida per lui, dire di aver salvato la troia del paesino faceva scalpore no? In una cittadina come Mystic Falls tutte le notizie giravano troppo velocemente.
O almeno questo era il pensiero di Elena.
«E perché sarebbe fallito?» Damon non le aveva assicurato niente. Non le aveva detto né si né no, non le aveva risposto solo perché neanche lui aveva una risposta sensata per quella domanda.
Damon poteva risponderle in tanti modi: poteva dirle di essere la sua ossessione fin da quando l’aveva vista in quella scuola, poteva dirle di aver sviluppato un senso di protezione anormale per lei anche se non la conosceva…Poteva rifilarle tutte le scuse di questo mondo – Damon era bravo a mentire – ma non se l’era sentita.
Perché illudere una persona illusa? Sì. Damon aveva compreso appieno quella ragazza, per quanto le avesse parlato per poco tempo.
Aveva capito che in fondo credeva di poter ribellarsi a quelle catene che la relegavano al ruolo di troia. Altrimenti non avrebbe accettato il suo aiuto, non sarebbe entrata in casa sua…Lei voleva una ventata di aria fresca, quell’aria poteva essere solo lui.
Solo una persona, come lei, poteva capirla. E Damon era quella persona.
«Perché non sei l’unico a vivere nello schifo…Con me incontrerai solo più schifo, più cattiveria e più tristezza.» Voleva scoraggiarlo. Era diventato il suo intento. Elena aveva colto tutto – o la gran parte – delle emozioni che avevano corrucciato il viso del corvino.
Damon voleva uno scopo. E lei non voleva, assolutamente, essere quello scopo.
«Non hai trovato quello che cercavi. Trovatene un’altra capace di farti vivere la tua vita perfetta.» Sputò acida dandogli le spalle e camminando lentamente verso la porta.
Ecco cosa succede quando provi a parlare con qualcuno. Si disse, mentre gli occhi le si inumidivano. Sperava con tutto il cuore, però, che quello che avesse detto non avesse influito troppo sul ragazzo. Perché Elena sentiva che in due quello schifo sarebbe stato meno agonizzante.
«Pensi che non riesca a sostenerti?» La voce di Damon la fece fermare. Poggiò la mano sulla maniglia e si girò a metà busto. Il ragazzo era a diversi metri dietro di lei e teneva stretto tra le mani il bicchiere di liquore.
Elena annuì in risposta.
Ora c’è il discorso stereotipato sul ‘io posso farcela, posso salvarti’. Ancora non capiva da cosa volessero salvarla, nessuno la conosceva abbastanza per poterla aiutare. Allora perché c’era sempre qualcuno che credeva di conoscerla?
«Ne sono certa.»
Damon sorrise.
«Hai ragione.» Il sorriso che fino a pochi istanti fa dipingeva il volto della ragazza scomparse, lasciando posto ad un espressione esterrefatta. «Non credo di poterti salvare, non sono un eroe, non lo sarò mai. Sono un fallito in realtà.» Le disse alzando le spalle.
Cosa sta dicendo? Pensò Elena con gli occhi che le uscivano quasi fuori dalle orbite.
«Non posso prometterti che ti salverò, ma posso prometterti che condividerò questo con te.» Damon aveva colpito nel punto giusto, ne era consapevole.
Vuole qualcuno che le faccia compagnia nel suo tunnel degli orrori.
«Te ne pentirai.» Nessuno resisteva. Nessuno riusciva a scoprire solamente uno quarto dei suoi segreti senza scappare. Lui era tra quelli.
«Non mi conosci.» Già, lei non lo conosceva. Forse Damon non era bastardo e insopportabile, non era il solito ragazzo con i soliti pregiudizi…Forse era diverso.
«Non sai chi sono. Potrei essere un mostro.» Continuò e questa volta sul suo volto non c’era nessun sorriso.
«E io potrei essere la figlia del diavolo…Come ho detto, nessuno dei due sa chi è l’altro.» Elena pensava di essere la figlia del diavolo. Solo lei poteva avere tutti quei difetti, solo lei poteva essere un ammasso di errori.
«Io sono il figlio del diavolo, Elena.» Lo disse con convinzione, forse con troppa. Anzi, sicuramente lo disse con troppa convinzione. Perché ne era così convinto? Nasconde qualcosa di grosso. Pensò immediatamente.
«Io voglio conoscere te, ma non voglio obbligarti a conoscere me.» Le chiarì. «La decisione è tua.»
Ed Elena aveva deciso.
A mio rischio e pericolo.
 
 
 
  












A/n: Salve popolo! Wow, un’accoglienza del genere non me la sarei mai aspettata. Tantomeno per una storia come questa.
Pertanto ho deciso di continuare questo esperimento, incrociando le dita che vi possa piacere.
Intanto ringrazio le nove persone che mi hanno fatto sapere la loro opinione (non vi nomino, ma vi amo tutti lol). E ringrazio le visite e tutti coloro che hanno inserito la storia tra preferite/ricordate/seguito.
Il capitolo è dedicato a tutti voi.
Okay, all’inizio doveva essere breve. Però una volta che ho iniziato a scrivere mi sono immedesimata troppo – veramente troppo – nella parte di quei due che non ho potuto fare a meno di continuare a scrivere sempre di più.
Spero che la situazione vi sia un po’ più chiara? Ho sempre problema con questo punto, perché creo un po’ troppo mistero (?) o troppa suspense. Chi ha letto l’altra mia storia, sa che amo i colpi di scena…Perciò aspettatevi veramente di tutto.
Credo che vi sia moooooolto più chiaro il personaggio di Damon. E’ un Damon strano, un po’ sociopatico, con manie di ossessione e incline alla violenza. Sottolineo che io non condivido i comportamenti di questi personaggi, ma mi piace scrivere sui comportamenti un po’ sbagliati e maniacali delle persone.
Mi piace immedesimarmi nella psiche dei miei personaggi, e diciamo che è come immedesimarsi in me visto che li ho creati io. (?)
Ora lasciando da parte i miei momenti di psicologa fallita, vado avanti…Cosa nascondono questi due? Ho già anticipato che reputo la storyline di Elena più interessante di quella di Damon, però forse mi sbaglio. Voi cosa pensate? Già in mente qualcosa?
Conta tanto sapere le vostre opinione, sapete?
Poi, chiarisco l’ultima cosa che forse vi sembrerà strana. La frase di Damon. ‘io voglio conoscere te, ma non voglio obbligarti a conoscere me’ è una frase che mi è venuta di getto, magari vi sembrerà insensata. Come fa una persona a conoscere un’altra, senza farsi conoscere?
E’ molto semplice. E’ come se io andassi da un’altra persona, mi presentassi a lei e diventassi la sua migliore amica/confidente. E’ automatico che inizi a conoscerla, ma non è detto che io mi faccia conoscere. Non è detto che faccia calare la mia maschera, ovvero i miei reali modi di fare.
Questo intendeva Damon – o meglio questo intendevo – quando ho scritto quella frase.
Non ho altro da dire, se non quella di chiedervi il favore di farvi risentire con la stessa affluenza e lo stesso amore!
Un abbraccio,
Non ti scordar di me.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3003462