Esprimi un desiderio

di _joy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** XVII ***
Capitolo 18: *** XVIII ***
Capitolo 19: *** XIX ***
Capitolo 20: *** XX ***
Capitolo 21: *** XXI ***
Capitolo 22: *** XXII ***
Capitolo 23: *** XXIII ***
Capitolo 24: *** XXIV ***
Capitolo 25: *** XXV ***
Capitolo 26: *** XXVI ***
Capitolo 27: *** XXVII ***
Capitolo 28: *** XXVIII ***
Capitolo 29: *** XXIX ***
Capitolo 30: *** XXX ***
Capitolo 31: *** XXXI ***



Capitolo 1
*** I ***


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Ci sono due modi per vivere la vita: il primo è pensare che niente è un miracolo.

Il secondo è pensare che tutto è un miracolo.
Ciò di cui sono sicuro è che Dio esiste.

Albert Einstein 






È assurdo il pensiero che una vita possa cambiare in modo così drastico e repentino nel giro di un paio di mesi.
 
È assurdo, ma talvolta capita.
Raramente, forse.
Dipende dalla persona, dalla fortuna, dalle circostanze?
Esiste chi nella vita ha un’occasione…
Ma perché?
Se la merita? È migliore di altri? È più fortunato?
Ma la fortuna esiste… Oppure è la sorte, il caso, un Disegno?
 
 
Non lo so, ma questa è la mia storia.
 
*
 
Sono seduta su una poltrona di pelle e sto sudando.
 
Fastidiosamente.
È caldo e, oltretutto, una finestra enorme fa passare i raggi infuocati del sole che mi centrano in pieno, giusto per aumentare il mio disagio.
Cambio posizione, cercando di non dare troppo nell’occhio, e mi passo velocemente una mano sulla fronte.
Spero che i miei capelli non siano diventati un completo disastro.
Getto un’occhiata discreta all’orologio.
Sono le 11 di mattina.
Sono a Los Angeles, in un’agenzia specializzata nella gestione di attori e attrici.
Come ci sono finita?
 
Ah, che bella domanda!
 
*
 
Mi chiamo Micol e ho ventinove anni.
 
Mi sembra di non essere una persona con caratteristiche particolari.
Voglio dire, sono… Normale.
Sono simpatica, sono gentile, sono affidabile.
Sono studiosa, non do grattacapi particolari ai miei genitori, sono una buona amica.
Non maltratto gli animali, non professo le mie idee in modo estremo e credo mi si possa definire razionale.
Non ho mai fatto grosse pazzie.
Sì, quella volta della vacanza in Grecia in cui mi sono tagliata un piede e presa un’infezione è stata un po’ un casino, anche perché avevo allegramente già speso tutti i miei soldi e quindi non sono riuscita a prenotarmi un nuovo volo di ritorno anticipato… Ma diciamocelo: poteva capitare a chiunque!
Non sono una da sport estremi o da divertimenti sfrenati.
Sono una brava ragazza, insomma.
 
 
A diciannove anni mi sono trasferita a Roma con la mia migliore amica, Luna.
Ecco, forse la cosa un po’ più strana che ci riguarda sono i nomi.
Io mi chiamo Micol perché mia madre adora il libro.
Sapete, Il giardino dei Finzi-Contini.
Mamma lo ha letto qualcosa come cinque o sei volte e dice che Micol, oltre ad essere bellissima, è vitale, entusiasta, empatica e tanto altro… e, quindi, quando è rimasta incinta di me ha subito deciso di affibbiarmi questo nome, sperando che io divenissi altrettanto speciale.
Però, se volete saperlo, a me Il giardino dei Finzi-Contini mette una gran tristezza.
 
E poi, quando ero piccola avere un nome del genere era una tragedia.
Per prima cosa, io stessa non lo sapevo pronunciare (e, ancora oggi, tantissime persone mi chiamano Mícol) e a scuola alcuni dei miei compagni sono stati convinti per tantissimo tempo che mi chiamassi Nicola.
Quindi, ovviamente, mi dicevano che ero un maschio, malgrado le trecce lunghe.
Vi risparmio i commenti peggiori.
 
Crescendo, il mio nome destava poca ammirazione e molti commenti negativi: perché era strano, perché era pretenzioso, perché era difficile.
E se i bambini non lo notavano, ci pensavano puntualmente le loro madri.
Non sapete quante volte mi sono sentita chiedere:
«Oh, che bello… Hai un nome straniero?»
«No, è italiano»
«Sei sicura? Perché a me non sembra proprio…»
«Sì. È il nome di un personaggio del libro Il giardino dei Finzi-Contini»
E lì era anche peggio, se la signora non conosceva la letteratura: se ne andava sdegnata, come se l’avessi offesa.
 
Poi mi sono iscritta a Lettere Classiche e lì, invece, il mio nome destava sorrisi di approvazione.
Meno male.
L’ho sempre saputo che Lettere era la mia strada.
 
*
 
Questo, naturalmente, fino alla Laurea.
 
Poi è seguito un periodo di sgomento assoluto, dovuto alle inesistenti prospettive che mi si aprivano davanti.
Una, in particolare, sembrava assorbire tutto, come un gigantesco buco nero: la disoccupazione.
 
La mia migliore amica, Luna, mi è corsa in aiuto anche in quell’occasione.
E questo è un ottimo momento per dirvi che lei non si è mai sentita imbarazzata per via del suo nome.
Certo, Luna è un nome atipico, ma mai quanto Micol.
Eppure, se qualcuno le diceva cose tipo “Che nome particolare” o “Come mai tua mamma ti ha chiamata così”, lei si limitava a fissare l’interlocutore come se fosse idiota e a scandire:
«Come la Luna, no? La conosci, la Luna?! È quella palla bianca che sta in cielo, di notte!»
 
E questa è lei: diretta, meravigliosa, incurante degli altri tanto quanto legata a me.
In più è bellissima, è un architetto con del talento e non solo si è già laureata, ma è riuscita a superare l’esame per iscriversi all’Ordine degli Architetti al primo tentativo.
Ma, forse, il talento che più le invidio è quello della simpatia e della disinvoltura: è sempre a suo agio, sa sempre qual è la cosa giusta da dire, è simpatica senza essere mai volgare.
I ragazzi, nemmeno a dirlo, si innamorano di lei in continuazione.
E sebbene Luna sostenga che io sia la più bella tra noi due, a me sembra di essere un pulcino rispetto a lei.
Non che questo abbia mai costituito un problema.
Nessun ragazzo, nessun amore si è mai interposto tra noi.
Siamo sincere l’una con l’altra in ogni circostanza, talvolta rasentando la brutalità.
Insomma, per farla breve: è la mia migliore amica, è una parte di me.
 
 
Vi ho fatto tutto questo preambolo per spiegarvi come mai sono qui e non ci sono ancora arrivata.
Ma, capite, era necessario: solo dicendovi quanto amo Luna potrete poi spiegarvi come mai io non l’abbia ammazzata.
Il fatto è che, dopo l’Università, mi sono iscritta a un master in editoria e, dopo quello, ho fatto uno stage in una piccola casa editrice.
Ero al settimo cielo, mi sembrava di essere un’eletta per essere stata selezionata.
Ci ho messo un po’ a capire che schifo è il sistema dello stage in Italia.
Dopo uno stage non pagato in cui ho lavorato come una pazza ho continuato solo a trovare altri stage non pagati in cui lavorare come una pazza.
E non è nemmeno facile trovarne!
Voglio dire… Ti fanno lavorare gratis, dovrebbero essere felici di prenderti.
E invece no!
Oltretutto, ti fanno sentire una tra tante: inutile, incapace, non qualificata.
Ma come faccio a diventare qualificata se nessuno mi riconosce nulla?
Ah, è inutile: l’editoria è in piena crisi e io, nemmeno a dirlo, ci sono capitata dentro in pieno.
 
Ed eccomi al punto cruciale: dopo il quinto colloquio che prometteva solo inesistenti vantaggi sono tornata a casa demoralizzata e mi sono concessa uno sfogo rabbioso quanto inutile.
Dopo aver strepitato per mezz’ora mi sono accasciata sul divano e Luna, serenamente, mi ha preparato un thè con molto zucchero.
Quindi, con molta nonchalance, mi ha annunciato che aveva lei in mano tutto: aveva pensato a lungo alla cosa e aveva trovato una soluzione geniale, per cui io avrei dovuto solo mettere il cappotto e seguirla.
Ho chiesto spiegazioni e mi sono impuntata, ma è stato inutile: se Luna non vuole dirti una cosa, semplicemente non lo fa.
Quindi, sbuffando, mi sono rimessa il cappotto e siamo uscite di casa.
E dove mi ha portata?
In un posto che mai, mai nella vita avrei pensato di vedere.
 
Siamo andata in un’agenzia per modelle.
 
 

***
Ed eccomi qui, pronta a una nuova avventura!
Devo dire che, dopo le storie su Gin e Ben, non ero (non sono?) molto fiduciosa in merito alle mie capacità di scrivere qualcosa di altrettanto partecipato...
Eppure, questa storia continua a svilupparsi nella mia mente e, alla fine, ho sentito la pressione di provare a metterla nero si bianco.
Vediamo che succede...
Vaneggiamenti autoriali a parte, veniamo alle cose serie.

Ogni capitolo avrà una citazione (da libri, autori o personaggi) iniziale, idea che mi piace molto e che ho tratto dalla meravigliosa nefastia... che è talmente brava che riesce persino a costruire i titoli in questo modo (e io sono assolutamente negata sui titoli, quindi la ammiro anche di più!), per tacere il fatto che è dannatamente brava in generale!

Poi: sto aggiornando una fanfic che è un crossover tra Harry Potter e Ben Barnes (strano, neh?!), che si chiama "Ragione e sentimento" e che trovate qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2908749&i=1
Inoltre, il terzo capitolo della saga "Le Cronache della grande magia" (http://www.efpfanfic.net/viewseries.php?ssid=10980&i=1) è in lavorazione!

Il banner è opera mia, ormai ci ho preso gusto...
L'unico viso femminile che riesco ad avvicinare a Ben (a parte Blake Lively/Mika, che però è felicemente sposata!) è quello di Serena...
Lo avevo usato per Gin e resta lei il viso per eccellenza!

Che altro?
Per domande, richieste, perplessità e cose del genere mi trovate su Facebook:  https://www.facebook.com/Joy10Efp    e    https://www.facebook.com/profile.php?id=100007339248477

Buona lettura e buon viaggio insieme!
Joy
 
 

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Capitolo 2
*** II ***


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Ben fatto è meglio che ben detto!

Benjamin Franklin






Il fatto è, capite, che io sono una donna dalle forme morbide.
 
Ho una 44… Ma a volte (più spesso, in realtà) anche una 46.
E sì, come dico sempre ora moltissimi brand risparmiano sulle stoffe e di conseguenza tu ti strizzi in abiti risicati… Comunque il fatto resta.
46.
Insomma.
 
Questo è il motivo per il quale sul momento neppure ho protestato troppo.
Credevo che Luna pensasse a lavoretti tipo quelli di modella per le acconciature… Ho dei bei capelli, me lo dicono tutti.
Ma mai, mai e poi mai, avrei creduto che quella fuori-di-testa stesse pensando a me come a una potenziale modella.
L’ho capito solo quando ci siamo sedute di fronte a due virago che mi squadravano come se fossi un cavallo al mercato.
Per tutta risposta, ho affondato il mento nel cappotto e ho risposto lanciando occhiate truci.
«Ecco, sì, care… capite» ha detto una «So che fare la modella è un grande, meraviglioso sogno…»
«Affatto» l’ho interrotta io «Io voglio fare l’editor, non la modella»
«L’editor?!» è inorridita lei, nemmeno avessi detto “l’astronauta” o “la kamikaze” «E che cosa sarebbe mai?! Ora, dicevo… Fare la modella è un vero lavoro. Con la L maiuscola. È sacrificio, impegno e sudore…»
«Mai quanto dodici ore di fila dietro a un libro di mille pagine da riscrivere per prima di subito, credo» ho risposto, sgarbata «E comunque c’è un errore. La mia amica ha capito male: io non voglio per nulla al mondo fare la modella»
Ho lanciato un’occhiataccia a Luna, che per tutta risposta ha sorriso serafica.
«Io penso» ha detto «Che Micol abbia l’altezza e la bellezza giuste e quindi…»
«E la taglia, soprattutto» sono intervenuta, seccatissima.
Insomma, me l’avrebbe pagata cara.
«Esistono le modelle curvy, tesoro» ha ribattuto lei, trionfante «E ho visto molte sfilate e foto varie e non è che ne siano di così belle, eh! Mentre questo è un trend in crescita!»
Per la prima volta, le due donne sono sembrate vagamente dubbiose.
«Bè…sì» ha detto una «Però non so…»
«Quanti anni hai?» mi ha chiesto l’altra, secca.
«Ventinove»
«Ventinove?!»
Sembrava inorridita, nemmeno avessi detto “settantacinque”.
«Ma sei pazza, noi lavoriamo con ragazze diciottenni, anche sedicenni…»
«Molto male» ribatte Luna, serafica «Sono troppo, troppo piccole per rappresentare delle donne. E oggi si moltiplicano i marchi di abbigliamento curvy, che però sono in generale costosi. Non sono marchi che vestono le sedicenni. Per non dire che a sedici anni non sei donna e non sai come diventerai da grande»
C’è un momento di silenzio.
Le due donne si guardano, perplesse.
«Bè, è una policy che adottiamo e quindi…»
«Senta» Luna pare seccata «Lo vede da sola che Micol non dimostra ventinove anni, ma molti meno. Se poi a voi non sta bene, troveremo qualche altra agenzia più flessibile… Meno cieca, voglio dire!»
«Nessuna agenzia è migliore della nostra!» insorge, oltraggiata, una delle virago «E proprio per questo noi non prendiamo chiunque!»
«Però è una bella ragazza» interviene la sua collega, a sorpresa.
Mi sta fissando concentrata e anche l’altra si mette a guardarmi.
Aiuto.
«Immagino di sì» concorda poi, svogliata «Ma c’è da fare qualcosa per il portamento. Che taglia hai?»
Oh, ammazzerò Luna.
«La 46» borbotto.
Loro si guardano ancora, in silenzio.
 
Ma come ci sono finita, qui?!
 
*
 
Finisce che, tra l’entusiasmo di Luna e l’atteggiamento condiscendente delle due, sono costretta a sfilare davanti a loro e a posare per delle foto e un video.
 
E, all’inizio, è un disastro.
Io sono seccata, detesto tutto e tutti e si vede.
Poi, una delle due virago ha l’idea di farmi indossare un abito di prova e io mi irrigidisco ulteriormente.
Devo ammettere, però, che l’abito non è male.
Non è nulla di volgare, o troppo corto, o troppo aderente.
È bello e femminile e il colore mi valorizza.
Mi raccolgono velocemente i capelli, mi truccano con due pennellate e…
Wow.
Sembro un’altra.
Quasi quasi dimentico di essere scocciata.
E penso si veda, perché ad un tratto le due signore sono molto meno seccate e Luna batte le mani dalla gioia.
«Sei bellissima!» continua a ripetere, trionfante.
«Bè, dai, sì… forse può andare…» commenta generosamente una delle tizie.
Ma la sera stessa, via mail, mi arriva un contratto da firmare che mi lega all’agenzia.
 
 
Alla fine, l’unica cosa che mi convince a firmarlo (a parte l’insistenza martellante di Luna, voglio dire) è la consapevolezza che si tratta di un contratto a chiamata.
L’agenzia mi rappresenta, ma io non ho doveri fissi.
Loro mi chiamano, io valuto la proposta.
Se non mi sta bene non accetto e non accade nulla.
Ok.
Devo convincermi che non è un’idea del tutto stupida.
Ce la posso fare.
 
Sono arrabbiata con Luna, ma non riesco a tenerle il muso per troppo tempo, perché le voglio bene e perché ha ragione: ho bisogno di soldi.
Inizio un nuovo stage in una casa editrice più grande, ma capisco dopo due giorni che cosa accadrà: un disastro.
Niente retribuzione, orari da galera e responsabilità come se fossi una lavoratrice contrattualizzata.
Però tengo duro e lavoro a testa bassa per un paio di mesi.
Rifiuto quattro casting dall’agenzia senza nemmeno guardare per cosa sono.
Luna si arrabbia, io fingo di non sentirla.
Poi, un giorno, non so come – forse lo stress, o la delusione, o la rabbia – ricevo una nuova mail e, stavolta, la leggo.
È la convocazione per un casting pubblicitario: sarebbero fotografie di moda.
Chiudo gli occhi per un attimo, poi, prima di perdere il coraggio, scrivo una veloce risposta affermativa.
L’ho fatto davvero.
Non posso crederci.
 
*
 
Per presenziare al provino devo fingere di essere malata con la casa editrice perché, pur essendo solo una stagista, mi fanno storie a non finire.
E questo mi fa infuriare ancora di più e mi rende più determinata.
Per fortuna, perché non è che io sia molto disinvolta in questa storia dei provini.
Mi sembra un po’ tutto un mercato delle vacche, se mi passate il termine.
Stanno a squadrarti da capo a piedi, a chiederti di vedere il profilo e ti guardano come se fossi… bè, un pezzo di carne.
Ma come fanno a dire che fare la modella è una cosa divertente?!
Insomma, dopo ore di attesa sto dentro tre minuti e vengo congedata con la simpatia di un Rottweiler.
Uscita di lì, chiamo l’agenzia e mi sfogo riversando loro addosso tutto quello che penso di questo lavoro e del sistema in generale.
Così, giusto per andare sul sicuro… Così se prima pensavano che sono antipatica, ora avranno la certezza che sono anche matta.
 
Ma, imprevedibilmente e assurdamente, io vinco quel provino.
Mi arriva una telefonata settimane dopo, quando nemmeno ci penso più.
E mi sembra folle.
Una parte di me vorrebbe tirarsi indietro: che c’entro io con modelle, casting e cose del genere?
L’altra parte è più realistica: devo pagare un affitto. Devo pagare le bollette. Devo mangiare.
Il lavoro in casa editrice (se poi mai arriverò nella mia vita a fare l’editor) di sicuro non può aiutarmi.
Quindi mi tappo il naso e accetto.
 
La notte prima non dormo: mi giro e rigiro nel letto chiedendomi se non sono per caso del tutto impazzita.
Oh, ma perché non mi sono iscritta a Medicina, accidenti a me?!
Ah, giusto: è perché mi fa schifo il sangue.
Bene, sono troppo schizzinosa: mi merito di essere nei guai e senza alternative.
 
Per fortuna Luna mi accompagna e, con lei accanto, non è così tremendo.
C’è tanto da aspettare, ma ci offrono la colazione, quindi mi truccano, pettinano e vestono.
Gli abiti che devo indossare sono bellissimi: la stylist si accorge che lo guardo bramosa e ridendo si offre di regalarmene uno a fine servizio.
Quando sono pronta sorge il primo problema: mi portano sul set, tutto bianco e pieno di gente indaffarata, e mi presentano al fotografo.
E io tremo.
«Scusa» mormoro «Ma mi sono dimenticata di avvisare che io vengo uno schifo, in fotografia»
E lui, che mi ha a malapena stretto la mano con aria seccata, all’improvviso fissa su di me due occhi increduli e poi scoppia in una risata tonante.
«Ah, questa è bella!» strilla «Piccola, nessuna viene uno schifo con me: vedrai!»
Mi strizza l’occhio e mi accompagna sul set, improvvisamente gentile.
 
 
E, in effetti, ha ragione.
Non so come possa essere possibile, ma va tutto bene.
Faccio quello che mi dice, sentendomi una perfetta idiota (e se pensate che io mi lamenti troppo state voi in piedi per ore di fronte a un tizio che vi dice cose idiote tipo “Fai una faccia sensuale”… Come si fa a fare le cose a comando?!).
Mi mettono abiti su abiti, mi cambiano trucco e pettinatura.
E il risultato – e ancora non ci credo – è incredibile.
Nel senso di incredibilmente favoloso.
Quando mi mostrano le anteprime delle foto devo sedermi: sono senza parole e mi sento svuotata.
Quella… quella ragazza sono io?!
Ma io non sono così… così bella, slanciata e favolosa.
 
Oh, cielo…. Cosa ho fatto?!



***
Buongiorno!
Allora, siccome sono una nostalgica, opto per l'aggiornamento di lunedì.
"Ragione e sentimento" (che trovate qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2908749&i=1) resta invece fissa al venerdì.
Per qualunque domanda, chiacchiera o scambio sapete dove trovarmi: https://www.facebook.com/Joy10Efp e  https://www.facebook.com/profile.php?id=100007339248477
Buona lettura e buon inizio settimana!
Joy

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Capitolo 3
*** III ***


 

Abbiamo quaranta milioni di ragioni per fallire, ma non una sola scusa

Rudyard Kipling




Quel primo lavoro lo ricordo ancora come uno dei migliori.

Mi è valso soldi, un bellissimo abito da cocktail firmato che io mai e poi mai mi sarei potuta permettere e – lo ammetto – una bella iniezione di fiducia in me stessa.
Sì, lo so che le foto delle modelle sono ritoccate.
Eppure… quando mi mandano i promo resto incantata a guardarli e quando esce il servizio compro dieci copie della rivista.
Le signore dell’agenzia, tutto a un tratto, non mi sembrano più due mostri inumani.

Ma, naturalmente, non ammetterò mai tutto questo, nemmeno sotto tortura.

*

Nei mesi seguenti continuo a lavorare in casa editrice e ad accettare lavori del genere.

Vengo scelta anche per una pubblicità in video.
È incredibile quanto guadagno.
Incontro varie ragazze ai casting che si lamentano delle paghe basse, ma mi verrebbe da chiedere loro se sanno quanto è pagato un impiegato rispetto alle ore di lavoro che fa.

Ed è divertente.
Lo ammetto, è divertente.
È facile e frivolo e un po’ mi mette ancora in imbarazzo, ma risolve molti dei miei problemi.

*

Dall’agenzia – dove adesso tutti mi adorano - mi consigliano di specializzarmi nella moda.

Dicono che garantisce entrate più regolari, se riesci ad entrare nel settore.
E devo dire che io sono molto fortunata – oppure Luna ci vede davvero lungo – perchè vengo presto scelta per una pubblicità di una casa di moda per taglie conformate e, dopo quella, mi offrono un contratto per l’intera campagna pubblicitaria.
Quando vedo la cifra pattuita quasi svengo per l’emozione.


Dico quasi solo perché lo svenimento vero sopraggiunge tre secondi dopo, quando scopro dove si scatta il servizio.

Los Angeles.

«Ehm…» chiedo, titubante «In che senso Los Angeles?»
Anna, una delle due responsabili dell’agenzia, mi guarda perplessa.
«Los Angeles in California, Michi» mi dice, gentile «Sai, la città degli attori famosi…»
«Lo so qual è Los Angeles, grazie» mi impunto.
Ma insomma… Ho capito che molte delle modelle in generale non sono così colte… Ma chi è che non conosce Los Angeles?!
«Volevo dire» insisto «Come faccio a venire a Los Angeles? Io lavoro!»
Lei pare scandalizzata.
«Micol! È un ingaggio importante!»
«Lo so» borbotto «Ehm… per quanto devo fingermi malata?»
«Due settimane»
«Due settimane?!» tuono «Non posso! Mi licenzieranno!»
«Come fanno a licenziarti, se non ti pagano nemmeno?» obietta lei, perplessa.
«Possono comunque mandarmi via!»
Di fronte alla mia ansia, lei sorride.
«Cara… sicura che ne vale la pena? A me questa sembra un’occasione molto più promettente… Se firmi, vedrai che arriveranno presto altri lavori importanti! È un primo passo davvero consistente!»

Torno a casa con quelle parole che mi risuonano nelle orecchie e il contratto (ancora in bianco) in tasca.
Appena arrivata, mi butto sul letto e rifletto.
Quando Luna torna ne parliamo insieme, a lungo.
Ho paura, non ho problemi ad ammetterlo.
Finora è stato un gioco, un gioco divertente… Ma se ci rimetto il lavoro allora non sarà più un gioco e basta.
Sarà un lavoro vero, il mio lavoro… E questo mi mette una fifa incredibile.
Io non ho mai voluto fare questo.
Non c’entro niente con questo mondo.
Il mio sogno, da sempre, è un altro.

Eppure alla fine, dopo una notte insonne, firmo.
Firmo perché il lavoro che faccio ora – e che amo, ma questo lo rende solo peggiore – non mi valorizza né mi tutela.
Né mi rispetta.
Merito di meglio, dice Luna.
Forse è vero.
O, forse, mi lascio solo trasportare da questa follia.
O sono più prosaica e meno devota alla causa di quello che pensavo.


Fatto sta che divento ufficialmente una modella per Gravity.
E, dopo aver avvisato l’ufficio che sono malata, riempio una sacca e volo a Los Angeles.
Per davvero.

*

Va bene, c’è anche un’altra ragione.

Ma, seriamente… è minoritaria rispetto a quelle che ho fin qui elencato.
Davvero.
È talmente folle che non si può nemmeno elencare tra le vere motivazioni.
Non l’ho nemmeno presa in considerazione.
Ci ho solo… Solo pensato.
Un attimo.
E basta.

In volo, mi tormento le mani e poi mi volto verso Anna, che sta compilando i documenti per il soggiorno americano per entrambe.
«Ehm… Anna?» la chiamo.
Lei alza gli occhi.
«Sì, tesoro?»
«Voi avete agganci… Agganci nel cinema? Come agenzia intendo»
Lei aggrotta le sopracciglia.
«Qualcosa. Prevalentemente però trattiamo pubblicità, come sai. Perché?»
«Eh…» balbetto «No, niente!»
Lei torna a compilare le sue scartoffie e, dopo cinque minuti, io dico:
«Ma se, per ipotesi…»
Anna mi guarda e poi posa la penna.
«Avanti, Micol: dimmi»
«Uhm, dunque…» mi impappino subito «Ti sembrerà una cosa molto molto sciocca ma… C’è questo attore che si chiama Ben Barnes e…»
«Chi?» mi interrompe.
«Ben Barnes»
«Mai sentito» dice, perplessa.
«Ma come!» insorgo, come faccio sempre «Ha fatto film importanti! Le Cronache di Narnia, Dorian Gray…»
«Ma secondo te io ho l’età per guardare le Cronache di Narnia?!»
Anna si mette a ridere, divertita.
«Comunque, ok» riprende poi «C’è questo attore… e quindi?»
«Non è che tu potresti…»
Arrossisco come un’idiota, senza riuscire a continuare.
«Cosa?» mi esorta.
«Ehm… Non è che tu potresti… Scoprire per che agenzia lavora, o se sta facendo casting, o…»
Anna aggrotta la fronte.
«Vuoi rintracciarlo? Ma, Micol… ti è ben chiaro che tu vai a Los Angeles per lavorare?»
«Certo!» rispondo, piccata «Per chi mi prendi?»

Insomma.
Io non ci ho quasi nemmeno pensato davvero, a Ben Barnes.

«Era un’idea» dico, scrollando le spalle «Tutto qui»
«Allora ok» ribatte lei, riprendendo in mano i suoi fogli.
Io mi sistemo meglio sul sedile, di malumore.
Lo sapevo che dovevo starmene zitta.
Lo sapevo.
Non ho osato nemmeno farne parola con Luna, perché sebbene lei sappia quanto io veneri Ben, considera la situazione un momento di follia temporaneamente estesa, ma non potenzialmente pericolosa.
Ecco… Non so se lo penserebbe lo stesso, sapendo che tutto quello che riesco a pensare ora che sono davvero su questo aereo, ora che la decisione l’ho presa davvero, è: ma anche Ben vive a Los Angeles!

 


***
Buongiorno!
I raffreddori di stagione vi stanno risparmiando?
Io purtroppo ne ho preso uno gigante e, in aggiunta, Efp mi fa dannare: niente formattazione oggi e niente immagini, ci ho provato quattordicimila volte ma non me la prende.
Spero si legga comunque!
Un bacione (senza germi!),
Joy

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Capitolo 4
*** IV ***


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Chi non ha mai commesso un errore non ha mai provato nulla di nuovo
Albert Einstein






Piccolo dettaglio: Los Angeles è enorme.
 
Smisurata, sarebbe meglio dire.
E io non ho visto quasi nulla… ma le distanze sono assurde, l’aeroporto è un vero delirio, le strade sono immense.
Aiuto.
E io pensavo di trovare una persona qui?
Così, inciampandoci per caso?
Davvero geniale, Micol: come se tu non fossi quella che mai nella vita ha vinto un sorteggio, un’estrazione o qualsiasi situazione che coinvolgesse la fortuna.
 
Tant’è… Ve l’ho detto.
Era un’idea così.
 
 
Cerco di non pensarci e vivo i primi quattro giorni in un turbine: le prove sartoriali, il trucco, i capelli.
Il servizio comprende l’intero catalogo e sarà scattato in una super villa a Bel Air.
Sono sopraffatta da questo lusso eccessivo e irreale: sembra tutto un film, di quelli costosissimi.
Mi aggiro con reverenza per i saloni.
Il giardino è talmente immenso che potrei tranquillamente perdermi.
Se lo facessi Anna morirebbe d’infarto, già me la vedo.
Mentre indosso il primo outfit, mi informano che questa villa è di una produttrice televisiva.
Non capisco come mai dovrebbe metterla a disposizione… Ma forse qui è una cosa normale.
È davvero un mondo a sé… spero di essere capace di descriverlo adeguatamente a Luna, quando tornerò a casa.
 
La prima giornata di scatti procede abbastanza bene.
È molto più lento di un servizio singolo, ma io adoro la collezione e il fotografo è abbastanza gentile.
 
Ci fermiamo per pranzo nel primo pomeriggio.
Viene allestito un buffet, che mi delude parecchio.
Qui sono tutti molto salutisti e seguaci del sushi e del tofu.
Orrore.
Mentre cerco con gli occhi qualcosa di commestibile Anna mi si avvicina.
«Micol» dice «Come va, cara? Volevo presentarti Lizzie, che ha messo a disposizione la sua bellissima casa per la realizzazione di questo catalogo»
Mi volto e vedo una signora bionda, alta e magrissima che mi sorride.
Saluto e le stringo la mano, pensando che per fortuna ho fatto un anno di Erasmus durante l’Università, o adesso non capirei nulla con la lingua.
Parliamo un po’ del più e del meno, finché Anna non dice a bruciapelo:
«Com’è che si chiama quell’attore, Micol? Quello di cui mi parlavi? Bennet?»
Io divento rossa come un peperone.
Ci mancava la figura dell’adolescente in preda alla crisi ormonale.
«Ben» borbotto «Ben Barnes»
Lizzie aggrotta le sopracciglia (poco: deve essere tutta rifatta).
«Mmmm…» dice «Lo conosco? Forse sì…»
Io sento una stretta allo stomaco.
Insomma, Micol, controllati.
«Ah, sì» aggiunge la bionda «Devo averlo visto per quel film… Come si chiamava… Bè, comunque ho capito. Dovrebbero averlo preso per quella nuova, grossa produzione… “Seventh Son” mi pare. Bah, io avrei scelto Sam Claflin, poco ma sicuro. Sì…. Dicevamo?»
 
Dicevamo? Dicevamo?
Oddio, questa conosce Ben.
Sono a corto di parole e Anna viene in mio soccorso:
«Ma chi è? Cosa fa?»
«Mah… Ha fatto una buona partenza e poi sostanzialmente si è fermato lì… Vedremo ora, ma dubito. Comunque, cara, se vuoi basta un fischio»
Mi sorride e io non riesco nemmeno a parlare per lo shock.
Annuisco vigorosamente e intanto penso che se davvero sta capitando a me, questo mi ripaga di ogni colpo di fortuna che ho mancato nella vita.
 
 
I due giorni seguenti passano come in un sogno.
Io veleggio in giro; vengo vestita, truccata e pettinata come una bambola; mi muovo, cammino e mi siedo come il fotografo mi ordina di fare.
E per tutto il tempo penso solo che domani avrò un appuntamento con Ben Barnes.
Io.
Oh, ma come ho fatto a essere così fortunata?!
 
*
 
Ecco, lo sapevo.
 
Sapevo che c’era la fregatura.
Ho sottratto un abito dal guardaroba, mi sono pettinata e truccata con attenzione maniacale e tutto per cosa?
Sono arrivata nel luogo indicato da Lizzie oggi, che siamo di riposo.
E subito mi è parso strano: non è una casa, è un grattacielo pieno di uffici.
Consulto le indicazioni e salgo al quindicesimo piano, dove vengo accolta da una ragazza magrissima, orientale.
«Salve» mi dice «Desidera?»
«Ehm…» balbetto.
Non posso mica dirle che desidero Ben Barnes.
«Sono qui per… ehm… voglio dire…» annaspo «… Per Ben Barnes»
Dopo quest’ammissione fatta con un filo di voce vorrei sprofondare, ma la ragazza si limita a consultare un’agenda e ad annuire.
«Il suo nome?»
«Micol Ferrari»
«Sì. “Seventh Son”. Con Jeff Bridges, Julianne Moore e Ben Barnes. Mi segua»
 
Cosa?
C’è qualcosa che non mi torna.
 
*
 
E, infatti, nell’ufficio in cui mi ha condotta non c’è Ben Barnes in carne e ossa, ma un non so quale impiegato che mi parla per dieci minuti di questo nuovo progetto cinematografico che va sotto il nome di “Seventh Son”.
Ed è qui che mi avete trovata, sudata e nervosa.
Tutto molto interessante, per carità, ma…
«Scusi» lo interrompo a un certo punto «Ma perché mi dice questo? Io che c’entro?»
Mi guarda storto, come se avessi fatto una battuta.
«Sei Micol Ferrari, vero?» chiede sospettoso, consultando una scheda.
«Sì» rispondo.
«E allora… Tra poco hai il provino. Vieni con me?»
A me cade la mascella.
«Quale… quale provino?»
 
 
Non ci credo.
Quella stordita di Lizzie mi ha iscritta a un provino per questo fantomatico film!
Ma come le è venuto in mente?!
Io non sono capace di recitare!
E nemmeno me ne frega nulla, per giunta!
Oh, che casino…
E il bello è che se ammetto una cosa del genere molto probabilmente mi cacceranno a calci da qui.
 
Sono ancora scioccata quando mi accompagnano in una stanza piena di ragazze in attesa.
Sono tutte magre, belle, americane.
Mi lasciano lì e io, dopo un attimo, mi lascio scivolare contro il muro, fino a sedere per terra.
Ok.
Ora scappo.
Mi alzo e scappo: è la soluzione migliore.
Sto cercando di ricordare la strada per l’uscita, quando mi cadono gli occhi su un libro che una delle ragazze ha in mano.
Lei si accorge che lo guardo e me lo tende.
«Vuoi?» chiede «Io non ho proprio avuto tempo di leggerlo… troppi provini questa settimana… Ma magari tu ne hai voglia?»
«Serve per il provino?» chiedo, perplessa.
Lei scrolla le spalle.
«Il film è basato su questo libro»
Lo prendo e me lo rigiro tra le mani.
The spook apprentice, di Joseph Delaney.
Il nome dell’autore mi dice qualcosa.
Delaney, Delaney… Ma certo! Ne ho letto uno!
Me lo ricordo con un sussulto: c’era quella scena macabra della strega che mangiava un topo…
Non ci ho dormito, quasi.
Sfoglio il libro, quasi sovrappensiero, e mi metto a leggere qua e là.
«Scusa» chiedo alla ragazza «Ma il provino… Per che parte è?»
«Alice» risponde lei, come se non trovasse affatto strana la mia domanda.
 
Alice.
Oh, wow.
È come ritrovare una vecchia amica.
 
*
 
Alla fine non sono scappata.
 
E forse è un male.
Almeno, lo penso ora che sono in piedi su un palco e cinque persone mi osservano, sedute dietro un tavolo.
Non sembrano amichevoli né gentili.
«Bene» mi dice uno, seccato «Facci vedere la scena a pagina 20»
Prendo il copione che mi indicano e me lo rigiro tra le mani.
«Scusate…» inizio «Ma… Non dovrei leggerlo, prima? Voglio dire… Come fa a venire una cosa credibile se non so che devo fare?»
Gli uomini si scambiano occhiate sconcertate.
«È questo lo scopo» abbaia uno «L’improvvisazione! Non devi conoscere nulla! Se ora ti vuoi degnare…»
«Veramente io la storia la conosco perché ho letto il libro» obietto «E questo non è mica il Teatro dell’Arte!»
 
Ok, sto esagerando.
Me ne rendo conto dalle occhiate omicide che ricevo.
Afferro il copione e sfoglio velocemente le pagine.
Oh, ok, Alice e Tom si incontrano per la prima volta.
Ma… un attimo!
«È diverso!» esclamo, gettando alle ortiche il buon senso «Nel libro è diverso… Loro non si incontrano mica così! Non c’è Mastro Gregory e poi…»
«Basta!» un tizio sbatte il pugno sul tavolo così forte che mi fa sobbalzare.
«Ma…» inizio.
«Noi non abbiamo tempo da perdere!» urla quello «Fuori!»
 
Sono così scioccata che resto impietrita al mio posto e, all’improvviso, sento una voce provenire dal fondo della sala.
Non vedo bene di chi si tratta, a causa del buio che avvolge la platea, ma qualcuno dice:
«Lasciala parlare. A volte accade che il film sia modificato rispetto al libro, ma apprezzo che tu conosca la storia. Non ti piace la scelta che abbiamo fatto?»
È una voce marcatamente straniera, ma se non altro è gentile.
«Bè…» rispondo «Qui Tom si accorge che Alice è una strega perché quando si toccano lei sprigiona energia… Ma non succede così nel libro!»
«E come succede?»
«Alice ha le scarpe a punta!» dico, come se fosse ovvio.
 
Alcuni degli uomini mi guardano come se fossi pazza, ma dal fondo della sala sento una grande risata.
«Molto bene!» esclama la voce «E ora pensi di farci vedere qualcosa?»
 
 
 

***
Buongiorno, cari lettori!
Mi spiace se a qualche fan di "Seventh Son" ho fornito qualche piccolissimo spoiler... Non tanto per il film, quanto per il libro!
Comunque giovedì esce nelle sale... Dai, non vi rovino nulla! Soprattutto con il seguito della storia, dovrei dire.
Qualche idea, ora, di come Micol conoscerà Ben?! ;)
Ah, vi ho fregati, eh?! Pensavate che fosse semplice...!
Ma smettiamola con le fesserie... Vi ricordo che sto aggiornando, di venerdì, la mia storia crossover Harry Potter/Ben Barnes (eccola: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2908749&i=1) e che per qualunque domanda o per due chiacchiere mi trovate su Facebook!
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Buona lettura... e buon Seventh Son!!
Joy

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Capitolo 5
*** V ***


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Se cerchi una mano che ti aiuti nel momento del bisogno, la trovi alla fine del tuo braccio.
Confucio





Alla fine, ho davvero fatto il provino.
 
Non che io abbia la minima idea di come si faccia un provino, ma ormai è tardi.
Ho fatto quello che immagino avrebbe fatto Alice… Meglio di così non avrei saputo cosa inventare.
Quando sono uscita dalla sala, sono stata raggiunta da un signore che si è presentato come Sergei Bodrov, regista del film.
E indovinate chi è?
Giusto, la voce amica dal fondo della sala.
 
Mi sono scusata, imbarazzatissima, ma lui è stato molto gentile e abbiamo chiacchierato persino per una ventina di minuti sui contenuti del libro.
È parso abbastanza sorpreso che lo conoscessi così bene, ma gli ho spiegato che, per via del lavoro che faccio, l’approccio che ho ai libri è fondamentale.
Quando li leggo, memorizzo delle caratteristiche… Mi viene ormai spontaneo e mi serve a districarmi in quella selva di cose da leggere che ho per il lavoro.
«Ma che lavoro fai?» mi ha chiesto Bodrov, meditabondo.
«Lavoro in una casa editrice» ho risposto senza pensarci.
Poi sono arrossita: forse la risposta corretta era “faccio la modella”?
Ma è che proprio non mi capacito di questa cosa, per cui non aggiungo nulla: ci salutiamo e io torno in albergo.
Il giorno dopo riprendo lo shooting.
 
Quando rivedo Lizzie, le chiedo spiegazioni sul provino.
«Ma come?» mi chiede «Non volevi fare un provino per quel film?»
«No» rispondo «Io volevo incontrare l’attore che reciterà in quel film»
«Ah» è chiaramente spiazzata «Per chiedergli una mano? Guarda che, se è furbo, non si immischierà con le scelte del regista»
«Ma no, no!» ribatto «Figuriamoci! Io nemmeno volevo farlo, quel provino!»
«Ma come? Qui tutti vogliono solo fare provini e provini e provini ancora… Come facevo a saperlo?»
 
Basta, ci rinuncio.
Tanto, ormai…
 
E invece, contro ogni ragionevole possibilità, il giorno della nostra partenza per l’Italia ricevo un biglietto.
Stiamo lasciando l’albergo e, nel trambusto tra valigie, taxi e biglietti aerei, riesco ad aprirlo solo quando io e Anna siamo in corsa verso l’aeroporto.
Rompo la busta, chiedendomi perplessa chi possa mai scrivermi qui a Los Angeles.
E quello che trovo mi fa urlare come un’aquila:
 
 
Cara Micol,
io non so se le streghe abbiano o meno le scarpe a punta, ma quello che so è che ti voglio nel mio film.
Vuoi essere la mia Alice?
Un caro saluto,
Sergei Bodrov
 
 
*
 
È tutto folle.
 
Ma seriamente.
Mi sembra di vivere in un mondo parallelo.
Nella vita vera queste cose non capitano.
Ma proprio no.
Non si è mai visto che una capiti per caso a un provino hollywoodiano e lo vinca!
Tantomeno se quest’una sono io!
 
Eppure, sembra vero.
L’agenzia ha un contatto formale con la produzione del film.
Anna è attonita: continua a chiedermi quando mai ho fatto un provino e perché lei non ne sapeva nulla.
Io vado in giro sentendomi avvolta in una bolla impermeabile di… Felicità? Irrealtà? Tripudio? Ansia?
Tutto questo insieme?
Non ne ho idea, ma come faccio sempre in caso di dubbio ne parlo con Luna.
Ammetto che mi aspettavo una benedizione immediata, ma lei resta per prima cosa sbalordita per la mia rocambolesca ricerca di un contatto con Ben Barnes.
«Mic» mi dice «Ma tu lo sai, vero, che c’è differenza tra l’andare a cercarlo su Google e, invece, buttarsi a capofitto in una ricerca a Los Angeles?»
Io annuisco, mortificata.
Ecco, ora mi sento cretina il doppio.
«Allora rinuncio… che dici?» domando, ansiosa «Lo sapevo che era una follia e non dovrei…»
«Cosa?» mi interrompe lei «Ma sei matta? Sei uscita di testa? Riesci a fare una cosa del genere e adesso vuoi lasciar perdere?! Ma cosa ti dice la testa?»
«Ma… Ma Luna, io non sono capace di recitare!»
«Ma se hai convinto un regista vero!»
«Ma non so come ho fatto! Magari gli ho fatto pena!»
Lei scuote la testa.
«Micol, un film è una questione di soldi. Secondo te un regista di Hollywood va in giro ad offrire parti a ragazzine inesperte che gli fanno pena?»
Mi stringo nelle spalle.
«Ma che ne so io? Oh, Luna, non so come ho fatto… Se ci ripenso… Non ho mai fatto qualcosa di più stupido in vita mia!»
«Ma se sei stata geniale!»
«No, no!» mi copro gli occhi con le mani «È una cosa più grande di me! Vorrebbe dire passare tre mesi in America… e per cosa poi? Cosa dico ai miei? Come facciamo con la casa qui? E…»
«Ehi, calma, calma!» mi interrompe Luna «Allora… è una cosa più grande di te? Non credo. So che non sai recitare, ma sono certa che saprai dare vita a un personaggio per come lo hai conosciuto in un libro. Tre mesi in America mi sembrano una gran figata… Per la casa qui possiamo organizzarci… Immagino ti pagherebbero bene»
Io taccio.
Mi pagherebbero mostruosamente bene, altroché.
Ed è un ruolo minore… Non oso pensare ai ruoli maggiori!
Poi scuoto il capo.
«È comunque una cosa più grande di me»
«Mic» Luna mi prende le mani «Se nel giro di un paio d’ore hai combinato questo… Ma ti rendi conto di cosa puoi fare?»
«Di cosa potrei fare, in caso… E no: penso sia una pazzia unica, che non si ripeterà più»
Lei sbuffa.
«Sottigliezze verbali. Bene, allora… rinuncia. Sii vigliacca e non scoprire come sarebbe potuto essere se fossi stata coraggiosa»
 
Luna si appoggia allo schienale della sedia e mi lancia un’occhiata trionfante.
Sa sempre cosa dire, dannazione.
Io mi mordo le labbra.
«Luna… è una pazzia!»
«Anche fare la modella ti sembrava una pazzia… e guardati!»
«Ma sono sempre io!» mi impunto «Solo che arrotondo facendo un altro lavoro»
«E questo non è un altro lavoro?» domanda lei, innocente.
Io sbuffo.
Se la mette su questo piano è ovvio che vince lei.
«Ascoltami» insiste «Di stage gratuiti ne trovi quanti ne vuoi. Hai un po’ di soldi da parte grazie al catalogo di moda, per cui puoi permettertelo. Regalati questi tre mesi, Micol. Vai in America, fai una pazzia! Ne avrai di tempo per essere noiosa e posata!»
Le sue parole risvegliano in me un fremito pericoloso, di aspettativa, che subito mi forzo a reprimere.
Non devo.
Non oso.
Eppure… una parte di me è tentata, molto tentata.
 
Anna, dall’agenzia, dopo un primo momento di sconcerto mi fa pressioni perché io accetti.
Luna fa lo stesso.
E io – e ammetto che la colpa non è solo loro – alla fine dico di sì.
 


***
Buongiorno!
Grazie per le vostre rassicurazioni sulla storia, sono davvero apprezzate e incoraggianti!
E grazie a Fede, che ha fatto salire la mia autostima a livelli inimmaginabili! <3
Vi ricordo che, per qualsiasi domanda o per fare due chiacchiere, mi trovate su Facebook.
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Buona lettura e buon inizio settimana!
Joy

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Capitolo 6
*** VI ***


 

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Devi sapere cosa vuoi altrimenti devi prendere cosa viene
Proverbio cinese






La verità è che realizzo appieno l'enormità di quello che ho fatto solo quando ormai sono in viaggio per l’America.

 
Durante le lunghe, estenuanti ore di volo ho modo di riflettere a lungo.
Cosa ho fatto?
Sarò sola: niente Luna, niente famiglia, niente amici.
Niente casa, niente vita di tutti i giorni, così noiosa ma rassicurante.
Solo io e... l'ignoto.
Un cast di gente sconosciuta, che deve realizzare un film.
E che si troverà per le mani me, che non so fare assolutamente nulla.
 
Accanto a me, Anna russa beata, mentre io continuo a pensare che deve essere tutto un gigantesco, enorme scherzo malriuscito.
Oh, mio Dio.
Ma cosa ho fatto?!
 
*
 
Quando sbarchiamo all'aeroporto di New York, in attesa della coincidenza per Vancouver, non riesco però a dar voce ai miei pensieri.
 
Come posso dire ad Anna, che è stata così gentile da venire con me, che non me la sento?
Oltretutto, ho firmato un contratto... Potrebbero farmi causa, a questo punto.
Lo so perché ho dovuto parlarne con i miei genitori, ovviamente, e mia madre è avvocato.
Mio padre non c'è: è partito per uno dei suoi viaggi avventurosi, sull'Himalaya questa volta.
Gli ho scritto una mail paracula che, quando leggerà, lo farà infuriare... Ma io sarò già sul set.
Con mia madre, invece, si è trattato di un altro paio di maniche.
Non è che abbiamo un brutto rapporto, ma lei è assolutamente fredda e fiscale con me come lo è sul lavoro.
Devo dire che questo mi fa sentire in generale molto libera... Ma diciamocelo: telefonare a tua madre per annunciarle (oltretutto mentre è nel mezzo di una riunione con i soci anziani dello studio) che stai preparando le valigie per andare all'altro capo del mondo non è esattamente facile.
 
«Cosa?!» ha chiesto, attonita.
Le ho spiegato della "fantastica occasione" e dell'"irripetibile possibilità" che mi si è presentata ma lei, ben lungi dal mostrarsi impressionata, mi ha detto bruscamente di inviarle per mail il contratto da leggere e ha aggiunto che lo sapeva che tutte quelle "velleità artistiche" mi avrebbero portata alla perdizione.
Io - comunque - non faccio l'artista, mamma.
Faccio l'editor... Bè, se non altro vorrei farlo.
Ma niente.
Discutere con lei è inutile.
Sono seguite telefonate infuocate, durante le quali lei gridava e io piegavo le maglie da portarmi via, consultavo il meteo e sceglievo le scarpe.
Mia madre non è il tipo che ti piomba in casa per impedirti di fare una pazzia, per cui mi sentivo relativamente tranquilla.
In effetti, quando ha visto che la tattica minacciosa non produceva effetti, ha smesso semplicemente di perdere tempo e ha sibilato:
«Se sei così testarda da voler comunque fare questa pazzia, allora va bene: me ne lavo le mani. Ti dico solo questo: te ne pentirai, Micol»
Su queste liete note chiudiamo la telefonata.
 
Come?
Vi chiedete se è la stessa madre romantica che mi ha dato il nome di un personaggio letterario?
Bè, sì.
È lei.
E io non penso che sia stronza o altro… Solo che le viene molto facile riprodurre il modello dell’avvocato duro e senza scrupoli.
Magari così è più facile: meno interazione, meno rischi.
Lei sa cosa è bene per tutti e basta. Stop. Finisce così.
Devo riconoscere che è molto assennata e perspicace, ma resta il fatto che mio padre parte sempre più spesso per solitari viaggi avventurosi e io… Bè, fin da piccola ho sempre trovato casa di Luna straordinariamente accogliente.
Insomma, nulla di grave.
Non è che mi manchi niente.
Solo che… A volte sarebbe bello se mia madre mi vedesse come qualcuno che non potrà mai deluderla.
O anche solo che mi appoggiasse, persino nelle pazzie.
 
Bè… alla fine ho abbandonato le speranze irrisolte e scelto due paia di stivali.
 
*
 
Vancouver è molto grande, molto ricca e molto verde.
 
In realtà vediamo pochissimo della città, perché la nostra meta è meno centrale.
Il viaggio mi sembra infinito: inizio ad accusare la stanchezza e le ore insonni passate sugli aerei.
Una macchina è venuta a prenderci e, seduta dietro, mi appoggio pesantemente al sedile e osservo pigramente il paesaggio che scorre.
Anna è al telefono; io non credo di dormire ma improvvisamente apro gli occhi e… siamo arrivate.
E allora sì che scatto a sedere, allarmata.
Ci siamo già?!
Ma io non sono pronta!
Non so che fare… Cosa dire!
Oh, no, per favore…
No no no!
Sono nel panico più totale, non so neppure bene cosa mi aspetto…
Ma, alla fine, davanti a noi c’è una giovane ragazza che ci accoglie e ci accompagna in un piccolo albergo e ci assiste mentre ci registriamo.
Sale con noi fino alle camere e mi dice gentilmente di riposare, perché il giorno dopo ho la prima prova abiti.
Io annuisco, nervosa.
Anna le chiede ancora qualcosa, ma io sono davvero troppo stanca.
Mormoro una scusa ed entro nella mia stanza.
Non è troppo grande o sfarzosa, ma va benissimo.
Lascio la borsa, mi sfilo la giacca e mi lascio cadere sul letto.
Chiudo gli occhi, ma faccio fatica a rilassarmi: sono troppo tesa all’idea di quanto mi aspetta.
Mi sento come qualcuno che ha spacciato un talento unico e, alla prova dei fatti, fallisce miseramente.
Sospirando, vado a fare una doccia calda.
Quando esco dal bagno infilo velocemente una comoda tuta e mi sdraio tra le coperte.
E, alla fine, la stanchezza prevale e io sprofondo nell’oblio.
 
*
 
Sono completamente sballata dal fuso orario.
 
Sono stata svegliata da Betty, una delle assistenti del set, che gentilmente si è offerta di accompagnarmi a fare colazione.
Per fortuna la responsabilissima Anna ha puntato la sveglia ed è scesa con noi.
Anche io ho la stessa espressione tirata e sofferente che sfoggia lei?
Come leggendomi nel pensiero mi sorride:
«Sei bellissima, Michi» dice, accarezzandomi una mano.
Le sorrido in risposta, tesa, e mi sforzo di inghiottire qualcosa.
Betty ci chiede qualcosa sul viaggio, poi passa a parlare del programma della giornata, che prevede prove abiti e trucco.
Poso subito la tazza fumante.
«Quando… Quando si comincia?» azzardo.
«Oggi» risponde lei, come se fosse ovvio.
«Ah…» mi viene meno la voce «Anche… Anche a recitare?»
«Oh, no, no!» fa lei «Prima devi studiare il copione e poi ci sono le prove!»
Oh… c’è ancora un po’ di tempo.
Meno male.
 
*
 
Le prove occupano buona parte del giorno e del primo pomeriggio.
 
Io sono completamente stordita dal susseguirsi di voci, persone, visi e troppo rintronata dalla stanchezza per prestare troppa attenzione al tutto.
Non è che sia una modella navigata, ma ormai ho capito che durante le prove è meglio agitarsi poco, per cui indosso obbediente quello che mi propongono e mi lascio pettinare.
Una parrucchiera molto paziente loda i miei ricci e poi si mette d’impegno per cercare di lisciarli e acconciarli in una treccia laterale.
Nel mentre mi portano dei panini, scusandosi perché non posso andare a pranzo in mensa con il resto del cast presente.
Io sbocconcello il pane e cerco di venire a patti con l’idea di una me terrorizzata che entra in una mensa piena di gente con la quale dovrà vivere a stretto contatto per i prossimi tre mesi… Gente estranea, competente e capace.
E poi… Ben Barnes.
Ogni volta che qualcuno entra io faccio un salto sulla sedia all’idea che possa essere lui.
Rischio almeno dodici infarti, ma alle quattro di pomeriggio (e io mi sento spossata come se fossero le due di notte) di lui non c’è ancora traccia.
A questo punto penso sia un bene.
Non credo reggerei…  ed è ironico pensarlo, visto che se mi trovo qui è, in senso lato, colpa sua.
 
Va bene, lo so.
È colpa mia e basta.


***
Buongiorno cari lettori!
L'attesa è quasi terminata... Nel prossimo capitolo apparirà Ben :)
Cosa ne pensate dei capitoli corti? Sono troppo brevi?
Vi ricordo che per qualsiasi domanda o per fare due chiacchiere mi trovate su Facebook.
Pagina: https://www.facebook.com/Joy10Efp
Profilo (ma è vera la storia che Fb elimina i fake? Nel dubbio ho modificato il nome...): https://www.facebook.com/profile.php?id=100007339248477&fref=ts
Buona lettura e buon inizio settimana,
Joy

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Capitolo 7
*** VII ***


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Ieri è storia, domani è un mistero, ma oggi è un dono; per questo si chiama presente
“Kung fu Panda”

 


Sergei Bodrov viene a cercarmi nel tardo pomeriggio.
 
Quando lo vedo entrare mi alzo, allarmata, ma lui sorride gentilmente e viene a stringermi la mano.
Poi mi guarda attentamente e io adotto la mia migliore espressione da niente-affatto-navigata modella, quella che dice “nemmeno ti vedo”.
Alla fine annuisce e io trattengo un sospiro di sollievo.
«Sarai una perfetta Alice» sorride.
Io serro le mani.
Aiuto.
«Hai delle scarpe a punta?» scherza.
Riesco a sorridere.
«Ho dei comodi stivali… Immagino significhi che l’approfondimento del libro oggi non è previsto?»
Lui ride e mi prende per il braccio.
«Vieni» dice «Ti porto a conoscere gli altri»
 
Per fortuna mi regge, perché potrei tranquillamente inciampare e stramazzare a terra.
 
*
 
Gli “altri” si rivelano essere degli assistenti di scena e Julianne Moore, che interpreta Mamma Malkin, la cattiva del film.
 
Il rapporto di parentela con Alice è ben più complesso di quello che il film inscena, ma pazienza.
Julienne è molto gentile con me.
Io sono imbarazzata, mi sento a disagio: come farò a interagire con queste persone?
Prendo il mio copione e mi siedo in un angolo per studiarlo.
Ammetto di essere distratta, visto che ogni due secondi alzo gli occhi per vedere chi passa.
E, per quanto mi senta stupida anche solo a pensarlo, so che sto cercando Ben.
Sussulto ogni volta che sento un passo diverso.
Eppure, di lui non c’è traccia.
Tra un’occhiata e l’altra, riesco anche a leggere bene il copione.
Do una prima scorsa, poi chiedo matite e penne: per la sera, l’ho riletto due volte e mi sono segnata le parti che mi sembrano più importanti e quelle che invece a parere mio sono un po’ deboli.
E, come sempre, la lettura mi risucchia in un mondo diverso da quello ordinario.
 
Quando Sergei torna e mi rivolge la parola ridiscendo bruscamente sulla terra.
Lo guardo battendo le palpebre e ci metto un attimo a riconnettermi con il mondo.
Lui, intanto, sbircia perplesso il mio copione, pieno di segni e scritte.
«Tutto bene con il copione?» chiede poi, gentile.
«Hai due minuti?» gli chiedo «Vorrei farti alcune domande»
Lui annuisce e, insieme, andiamo a sederci al bar dell’albergo.
Quando iniziamo a parlare si mostra subito perplesso.
«Come hai fatto a memorizzare queste cose?» chiede, più volte «Hai letto il copione solo oggi!»
«Te l’ho detto» rispondo «Sono una editor. Io so leggere solo così… Soprattutto se devo memorizzare delle cose. Perché, tu come fai?»
Mi lancia un’occhiata indecifrabile.
«Provando?» chiede.
 
Ah.
In effetti, per un’attrice, potrebbe avere senso.
Giusto per ribadire, una volta di più, che non è il mio campo.
Scrollo le spalle e ci mettiamo a parlare dei punti che mi sembrano critici.
 
Non so quanto tempo passa, perché discutere con Sergei è davvero interessante: è un uomo colto e aperto a idee diverse dalle sue.
La conversazione spazia anche su temi più generali, su riferimenti non cinematografici.
E mi sembra che ci stiamo divertendo, insieme.
Ovvio, non è che lui stia qui a ridere e gozzovigliare, ma una luce calda gli illumina lo sguardo e mi sembra che mi scruti con… approvazione?
È molto bello, comunque.
Sono talmente a mio agio che dimentico l’ansia.
 
Sto sfogliando velocemente le pagine, alla ricerca di un rimando che avevo annotato, quando gli sento dire:
«No, vieni, vieni! Devi proprio vederla, questa cosa: questa ragazza legge i copioni in modo più maniacale di te, Ben!»
 
Ben?!
 
Mi cade il copione di mano.
Mi precipito a raccoglierlo e, quando mi rialzo, mi sento scottare il viso.
Alzo guardinga gli occhi e…
Porco mondo.
È lui!
 
Ben si è avvicinato in silenzio a noi.
Indossa dei jeans e un maglione e sorride educatamente.
Sergei gli batte una mano sulla spalla e gli fa cenno di venire avanti.
E Ben mi sta guardando, con un sorriso cortese sulle labbra.
È qui, davanti a me, ed è alto e affascinante e bello e…
 
Mi rendo conto con un attimo di ritardo che forse dovrei dire qualcosa.
E, magari, potrei appoggiare il copione, che sto stritolando tra le mani.
Mi affretto a posarlo su un tavolino e tendo esitante la mano.
Ben mi sorride di nuovo, dicendo:
«Ciao, Alice»
Sembra talmente gentile e alla mano che mi rilasso appena e sorrido anche io.
«Ciao, Tom» rispondo, stringendogli la mano.
«Come stai? Hai fatto buon viaggio?» chiede.
«Sì, grazie. Tutto bene… E qui mi sembra tutto bellissimo»
«Vi lascio, così potete conoscervi meglio» dice a quel punto Sergei «Alice è l’ultimo personaggio che abbiamo scelto, non c’è stato nemmeno modo di parlare di te al cast. Ma voi due dovete fare conoscenza, rompere il ghiaccio… Direi che avrete molte cose da dirvi! Ben, guarda come Micol ha ridotto il copione!»
Lui lancia un’occhiata alle pagine imbrattate e io arrossisco.
«Mi stava quasi convincendo a riscriverlo…» aggiunge Sergei, ridacchiando «Meno male che sei arrivato!»
«Io…» inizio, senza sapere bene cosa dire «Io volevo solo…»
Sergei ride e mi fa una carezza sui capelli.
«Stavo scherzando! Ora vi saluto, divertitevi! E, Ben… La accompagni tu a cena?»
«Certo» risponde lui «Ciao Sergei»
Io mormoro un saluto e mi siedo, nervosa.
Siamo rimasti solo noi due.
 
La hall è ampia, ma questo angolo è abbastanza tranquillo.
Ben sfoglia un paio di pagine del mio copione, quindi mi guarda e chiede, sorridendo:
«Vuoi bere qualcosa?»
«Oh… Sì, grazie. Un thè, per favore»
Lui annuisce e chiama con un cenno un cameriere.
Ordina il thè e una birra chiara, poi si volta di nuovo verso di me.
«Allora» dice «Raccontami di te. Per prima cosa… Immagino tu non ti chiami Alice»
Io sorrido.
«No, mi chiamo Micol»
Lui aggrotta le sopracciglia e lo ripete, ma detto da lui suona più come un Mikl.
«Lo so, non è facile per voi inglesi» commento «Non è facile nemmeno per gli italiani, per cui…»
«È un nome italiano? E tu sei italiana?»
«Sì a entrambe le domande»
«Parli molto bene l’inglese»
«Grazie» rispondo «Sono stata in Erasmus a Londra»
«Davvero? Io sono di Londra! Dove hai studiato?»
«Alla UEL, University of East London»
«La conosco di nome. Ti sei trovata bene?»
«Sì!» mi illumino «Io adoro Londra! Quando sono dovuta tornare a Roma ero disperata!»
Ben sorride di nuovo e si accomoda meglio nella poltrona.
«Ma anche Roma è stupenda!»
«Indubbiamente… Ma meno organizzata ed efficiente di Londra. E le mancano gli spazi immensi. A Londra mi bastava andare in un parco e subito dimenticavo di trovarmi in una città!»
«Conosco la sensazione» risponde, divertito «Dove abitavi?»
Chiacchieriamo per un po’ e io sono stupita della facilità con cui riesco a parlargli e del fatto che mi ha messa subito a mio agio.
Io non sono comunque il tipo svenevole che si sarebbe buttato ai suoi piedi miagolando, ma ammetto che lo stomaco mi si è annodato per l’emozione.
E lui, invece, è così simpatico, diretto e assolutamente modesto che mi fa ridere e dimenticare il tempo che passa con una facilità inimmaginabile.
 
Mi sembrano passati solo cinque minuti quando Ben consulta l’orologio e poi scatta in piedi, all’improvviso.
«Che succede?» chiedo, allarmata.
«È tardissimo!» fa lui, e sembra stupito «Mi dispiace… Magari sei stanca, o volevi passare in camera…»
«No, no» mi alzo anche io «Mi ha fatto davvero piacere parlare un po’… è tutto così nuovo e strano per me! E non conosco nessuno, a parte Anna che è venuta con me, ma che non era sul set oggi…»
«Andiamo a cena?» domanda lui, facendomi educatamente segno di precederlo «Anna è la tua agente?»
«Bè… Non proprio» tentenno «È una della mia agenzia»
Lui annuisce.
«Che altre esperienze hai fatto?»
Io mi agito subito.
«Ehm… Nessuna» balbetto.
Ben mi lancia un’occhiata.
«Nel senso di nessuna grande produzione?»
«No, nel senso di… Proprio nessuna»
«Oh» commenta lui «Bè, come prima esperienza allora sarà fantastico: le grandi produzioni sono sempre un ottimo trampolino! Hai frequentato una scuola in America?»
«Una scuola?»
«Sì, di recitazione… Scusa, non voglio essere invadente… Stavo solo cercando di capire come sei arrivata qui!»
Sorride, ma probabilmente io lo fisso con aria preoccupata perché all’improvviso chiede:
«Tutto ok? Non volevo essere indiscreto…»
«No, no…» rispondo «Ehm, ecco… Dunque, non ho frequentato nessuna scuola di recitazione… Mai»
Ben si ferma di botto.
«Non hai mai recitato… E non hai mai studiato recitazione?» chiede.
Sembra attonito.
Io annuisco, sentendo una fitta di puro panico nel petto.
E se ora mi dice qualcosa tipo “E allora che cavolo ci fai qui?”
Invece lui si limita a scuotere il capo e a sorridere.
«Certo che Sergei è davvero imprevedibile» commenta.
«In che senso?» chiedo, sulle spine.
«Mah, sai… Per questo film sono stati fatti moltissimi casting. Io non ero la prima scelta del regista. La produzione l’ha tirata molto in lungo, ci sono state delle rinunce… E per il ruolo di Alice hanno continuato a fare casting fino a poco prima dell’inizio delle riprese! Vero che non è un ruolo principale, ma…»
All’improvviso si interrompe, ma io sorrido.
«Meno male» commento, serena «O sareste stati veramente nei guai, con me»
«Scusami» dice invece Ben, serio «Non volevo sminuirti»
«Più di quanto io non mi sminuisca da sola?» ribatto «Ben, dico davvero… Non ho idea del perché abbia scelto me»
«Sai, quando io e Bodrov ci siamo incontrati, dopo che avevo mandato il primo provino in video, abbiamo parlato a lungo e ci siamo trovati molto bene. Eppure lui mi ha detto: “Non ti capisco, sai? E per questo voglio farti un nuovo provino”»
Sorrido.
Me lo vedo benissimo, Sergei, a fare affermazioni del genere.
«E poi andò bene?» chiedo.
«Per niente, ho fatto un disastro… ero molto nervoso. Eppure, mi ha richiamato ancora*»
Scrollo le spalle.
Ben è comunque un attore: vuoi mettere come può essere stato il suo “disastro” rispetto a un mio “disastro”?
«L’unica cosa che posso dire a mia difesa è che conosco il libro» affermo «Malgrado questo, che credo sia l’unico dettaglio che possa averlo impressionato, non ho idea di cosa abbia pensato… Gli altri che erano al provino non mi avrebbero dato mezza chance, lo so»
Ben annuisce.
«I provini sono tremendi. Ma Sergei ha una visione sua ed è lui il regista: quello che conta è come lui vede i personaggi. Poi sta a noi realizzare la sua visione»
 
Mi passo una mano tra i capelli, preoccupata.
Non è che questo migliori le cose, ecco.
«Posso chiederti un’altra cosa?» domanda ancora Ben.
«Certo»
«Se non sei un’attrice allora che lavoro fai?»
«L’editor» dico, senza pensare «Voglio dire… la modella!»
Ben si ferma di botto e mi guarda come se fossi matta.
Intanto, io arrossisco come un’idiota.
La modella?
Ancora questa idea mi imbarazza.
La Micol che sono io è pragmatica e tiene i piedi ben piantati per terra… Nulla a che fare con le modelle.
«L’editor… Vuoi dire la modella» scandisce intanto Ben, attonito.
«Ehm…sì» balbetto «Voglio dire… Non sono un editor, ma vorrei esserlo. La modella è una cosa che faccio per pagarmi l’affitto… Ti prego, non pensare che io sia una di quelle ragazze vanesie che vanno in giro a dire che sono modelle con aria compiaciuta! Non volevo… è solo che se rispondo “l’editor” mi guardano tutti come se fossi matta!»
Dopo un attimo, Ben scoppia in una fragorosa risata, che mi lascia senza parole.
Ride e ride, mentre io vorrei sprofondare per l’imbarazzo.
Ma come si fa, a trent’anni, a essere così goffe e indelicate?
Eppure, quando Ben riesce a smettere di ridere, dice una cosa che mi lascia senza parole:
«Ecco perché Sergei ti ha scelta»
«Scusa?»
Lui sorride.
«Perché sei così diversa dalle altre attrici che conosco»
«Ah, mi sembra ovvio» ribatto «Non essendo un’attrice…»
«Giusto»
Mi strizza l’occhio e mi conduce nel ristorante dell’albergo, verso una tavola affollata di persone.
Mi sento improvvisamente timida.
«Ma… e come farò, sul set?»
Ricevo un altro sorriso smagliante, che mi lascia senza fiato.
«Se Sergei ti ha scelta» risponde «Allora ce la farai»
 

*Sono vere entrambe le cose: quello che Bodrov ha detto a Ben e i suoi due provini!

***
Buongiorno cari lettori!
Finalmente è arrivato Ben...era ora!
Ma da adesso lo vedrete molto, per cui...
Vi segnalo che ho completato la prima parte della mia storia-crossover Harry Potter/Ben Barnes (Ragione e sentimento, che leggete qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2908749&i=1) e che venerdì inizierò a postare la nuova parte!
Per il resto, se volete farmi domande o fare semplicemente due chiacchiere mi trocate su Facebook!
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Buona lettura e buon inizio settimana!
Joy

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Capitolo 8
*** VIII ***


 

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Gli ostacoli sono quelle cose spaventose che vediamo ogni qualvolta distogliamo lo sguardo dalla nostra meta.
Henry Ford





La cena passa in un turbinio di volti, voci e impressioni troppo rapide perché io possa fissarle.
 
Quando siamo arrivati erano già tutti seduti e mi sono sembrati tantissimi.
Eppure, mi hanno spiegato che la troupe non mangia insieme agli artisti e che molti attori avevano già cenato.
Non c’erano sedie libere vicine, quindi Ben mi ha fatta accomodare e poi si è seduto a tre sedie di distanza dalla mia.
Ho represso coraggiosamente una fitta di disappunto.
Ma è stato talmente bello parlare con lui che io avrei volentieri saltato la cena per continuare.
 
Julianne Moore e Jeff Bridges non si sono uniti alla cena.
Ben ne sembra dispiaciuto e tutti, in generale, parlano con reverenza di entrambi.
Per il cast stesso, che comunque è composto di persone avvezze al mestiere, è un nuovo inizio: non si conoscono, quindi si studiano e si scambiano chiacchiere generiche.
Io sono molto sulle spine, ma in generale sembrano tutti accontentarsi di sapere che sarò Alice.
Nessuno mi chiede di tirare fuori il curriculum, per fortuna.
Insomma, lo so che ho già fatto una figuraccia con Ben… ma almeno eravamo da soli.
Qui ci sono almeno trenta persone sedute a tavola!
 
L’unico che arriva a tavola più tardi di me e Ben è Kit Harington e, a vederlo, mi cade la mascella.
Luna farebbe follie se lo sapesse!
Lui e Ben sembrano già amici, sono molto in confidenza.
Scherzano con più spigliatezza rispetto agli altri e, presto, trascinano gran parte della tavolata con le loro risate.
Io resto in silenzio, ma li ascolto volentieri.
Non intervengo ma non posso impedirmi di ridere spesso, perché sono davvero due pazzi.
Verso la fine della cena mi accorgo, quasi all’improvviso, di essere stanchissima.
Forse è la tensione che si scioglie, o il fuso orario che si fa sentire.
Non lo so, ma al terzo sbadiglio razionalizzo che ho un’alta probabilità di crollare addormentata sulla tavola, se non vado a letto.
Mormoro una scusa - che quasi nessuno sente perché Kit sta raccontando una barzelletta - e mi alzo.
E, sorprendentemente, si alza anche Ben, dopo avermi lanciato un’occhiata.
«Tutto bene?» domanda, premuroso.
«Sì, grazie… Ho solo sonno»
Lui annuisce.
«Allora non ti invito a restare un po’ con noi dopo cena… Penso che andremo al pub, ma ci saranno altre occasioni per uscire. Vai, è meglio se smaltisci il fuso dormendo»
Lo ringrazio e lui mi saluta con un:
«Ci vediamo sul set domani!»
 
Sono troppo stanca per considerare le implicazioni della cosa.
 
*
 
Il giorno dopo vengo svegliata da un fastidioso rumore ritmico.
 
Quando apro gli occhi ci metto un po’ a razionalizzare che si tratta della porta.
Qualcuno sta bussando.
Mi trascino fino all’uscio e trovo Anna perfettamente vestita e truccata.
Gemo, ma lei non sembra disposta a lasciarsi impietosire.
«Be’» dice «Non hai messo la sveglia?»
Io gemo di nuovo.
Ieri sera sono crollata, ma durante la notte mi sono svegliata più volte.
Mi succede sempre quando cambio letto e, inoltre, credo che il mio corpo stesse protestando, in quanto convinto che io gli stia giocando qualche brutto scherzo con gli orari.
Mi sembra di aver dormito cinque minuti in tutto.
«Che ore sono?» bofonchio.
«Le sette» risponde «Oggi per fortuna hai una sveglia umana»
«Le sette?» guaisco «Umana? Ma cavolo… come fai ad essere già pronta?»
«Ho riposato ieri. Tu no?»
Mi legge la risposta in faccia e scuote il capo in segno di disapprovazione.
 
Insomma.
Stavo parlando con Ben Barnes… cosa avrei dovuto fare, secondo lei?
Abbandonarlo per andare a fare un riposino?
Non siamo assurdi, suvvia.
 
Arranco verso il letto e mi lascio cadere, ma Anna mi strappa le coperte di dosso.
«Hai cinque minuti» annuncia, categorica «Poi usciamo»
«Non ce la posso fare» borbotto, nascondendo gli occhi con un braccio mentre lei, sadica spalanca le finestre.
«Lo sai che ci metto una vita, la mattina» aggiungo «Soprattutto se ho sonno»
«Stavolta no. Ti truccano e vestono loro, dopotutto»
All’improvviso salto a sedere.
«Devo uscire senza trucco?! Ma sono un mostro!»
 
Cosa faccio se per caso incrocio Ben?
 
*
 
Per fortuna l’inquietante prospettiva non si è realizzata.
 
Siamo schizzate alla postazione dei costumi e, dopo quella, è stata la volta del trucco e dei capelli.
Ben è comparso molto dopo, Julianne era qui prima di me: ha delle extension impressionanti.
Per quanto riguarda me, trovo comico che mi abbiano lisciato i capelli per poi farmi dei boccoli morbidi.
Comunque, quando sono pronta mi rimiro ansiosa in uno specchio.
Questi costumi di scena hanno tre sottogonne… sembrerò un fagotto!
 
Dunque, se ho ben capito devo studiare ancora il copione e poi iniziare a provare delle scene insieme a Julianne.
Mi nascondo dietro il copione e sogno di sparire nel nulla.
In realtà, però, Julianne è molto gentile e piena di tatto: sembra intuire che sono decisamente a disagio, quindi mi parla prima in generale di come vorrebbe impostare il rapporto Mamma Malkin/Alice e poi mi chiede cosa ne penso.
Le spiego il mio punto di vista, che è quel del libro.
Lei ci riflette su e cerchiamo insieme un modo per coniugare le due cose.
Poi, leggiamo qualche battuta delle scene che avremo insieme.
Fatto così, non è nemmeno troppo brutto.
È una scena semplice e, oltre al fatto che sono seduta e non devo andarmene in giro mimando chissà cosa, non ci sono picchi di toni qui.
È tutto abbastanza calmo.
Non faccio in tempo a rilassarmi, però, che Julianne scatta in piedi con un gran sorriso.
«Jeff!» esclama, dirigendosi verso un uomo alto e barbuto che le sorride di rimando.
Improvvisamente, alle mie spalle compare Anna.
«Oh, Jeff Bridges!» mormora, estasiata «Ti prego, Micol, presentamelo!»
«Io?» ribatto «Ma mica lo conosco!»
«Ma che dici!» sbuffa lei «Siete colleghi ora, no? Su, su: in piedi!»
Mi alzo e proprio in quel momento compare anche Ben.
Stringe la mano a Julianne e le dice qualcosa, così iniziano a parlare.
Jeff Bridges guarda me, squadrandomi.
«Buongiorno» dico, tendendo una mano «Sono Micol. E questa è Anna»
La spingo in avanti e lei arrossisce, ma Jeff Bridges continua a guardare me con un fiero cipiglio.
«Michol?» domanda poi.
«Oh, no!» interviene Anna «No, no, è Micol… Sa, è un nome che viene dalla letteratura!»
Dietro la sua testa alzo gli occhi al cielo.
Ben ride e Julianne sorride.
«Io lo trovo molto bello» dice, gentile «Molto musicale»
«È un nome che viene dalla letteratura?» chiede invece Ben «Allora è per questo che è così difficile!»
Mi strizza l’occhio e io ridacchio.
«Ehi!» dico «Non mi chiamo mica Ofelia!»
Jeff Bridges fa un grugnito – che potrebbe forse passare per un segno di divertimento? – poi, con un cenno del capo, si allontana.
Immediatamente, Ben saluta e lo segue.
Anna resta lì, impalata, a sospirare.
«Jeff Bridges è davvero affascinante, non trovi Michi?»
«No» rispondo «Non vado pazza per le grosse barbe»
Julianne scoppia a ridere e poi scambia un’occhiata esasperata con Anna.
«Ah, questi giovani!» dice, complice «Comunque, grazie per il suggerimento signora: se la chiamo Miki riesco a pronunciare il suo nome senza fare figuracce!»
 
Se non altro, Julianne sembra fantastica.
 
*
 
Nei giorni seguenti, questa prima impressione è confermata.
 
Julianne è molto gentile e disponibile con me.
E io ne sono quanto mai felice, perché dopo una settimana Anna deve rientrare in Italia.
So che lei è necessaria in agenzia e che non è il mio manager, ma quando arriva il momento della partenza mi sento persa.
L’idea di restare qui, sola, mi terrorizza.
Lei ci scherza su:
«Ma se tu non mi sopporti, Michi!» dice, stemperando il tono burbero con un abbraccio.
«Non è vero!» la stringo forte «Voglio dire… era vero all’inizio, ma adesso…»
Lei ride, poi mi fa una carezza sui capelli.
«Sapevi che sarei dovuta ripartire… E comunque questa è solo una cosa provvisoria, vero? Voglio dire: poi torni a Roma, no?»
Annuisco, perché non vedo cos’altro potrei fare.
«Non so come ho fatto a cacciarmi in questa situazione» borbotto.
Lei scuote il capo.
«È comunque una bella esperienza… Prendila come tale. E poi torna alla vita normale!»
«Fare la modella sarebbe una vita normale?»
«Certo!» ribatte, convinta «Stai andando molto bene, mia cara… A parte la tua testardaggine di fondo»
Prende la borsa e io la abbraccio di nuovo.
«Anna, non lasciarmi qui!» esclamo «Io non so cosa devo fare!»
«Michi» ribatte lei, paziente «A me sembra semplice»
«Semplice?!»
«Sì. Adori i libri, no? Bene. Pensa a cosa farebbe Alice e tu fai lo stesso… E non dirmi che non puoi: so benissimo che sei una che ha in testa solo personaggi di carta!»
Io grugnisco.
Non mi sembra esattamente un consiglio per la sopravvivenza degno dell’Oscar.



***
Buongiorno!
Avete passato un bel weekend? Spero che l'inizio di questa settimana non sia troppo traumatico...
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Venerdì, come sempre, aggiornerò l'altra mia storia aperta, Ragione e sentimentohttp://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3056200
Buona lettura e grazie di essere qui con me,
Joy

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Capitolo 9
*** IX ***


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Fate ciò che potete, con ciò che avete, dove siete
Theodore Roosevelt





Però, alla fine, non è nemmeno un consiglio così stupido.

 
Voglio dire, mi salva abbastanza.
Per fortuna Alice non compare troppo spesso e non ha dialoghi molto lunghi.
La sostanza del personaggio – qui nel film – è l’ambiguità.
Dopo le prime prove con Julienne, Sergei è venuto a dare un’occhiata.
Temevo molto il suo giudizio, ma si è limitato a darci dei consigli sulla sua visione delle cose: erano molto pratici, tanto che persino io non ho avuto difficoltà.
L’unica cosa è che sono sempre in tensione… E dire che questo è un ruolo minore!
Ma come fanno, gli attori?
 
Quando iniziamo davvero le riprese (il che mi causa un paio di notti insonni) scopro un altro paio di cose che non sopporto: l’avere intorno una ventina di persone che tu devi fingere di non vedere ma che ti stanno praticamente con il fiato sul collo e il dover ripetere ogni scena un’infinità di volte.
Voglio dire… se va bene, una scena la si ripete quattro o cinque volte.
Io, alla quinta, sono talmente stufa che non sembrerei credibile nemmeno sotto tortura.
E il bello è che nessun altro sembra risentirne.
La logica, anzi, è: più si ripete, più si migliora.
La logica di Micol, invece, risponde a: più si ripete, meno sono credibile.
Quando ne parlo a Julianne lei mi guarda incredula.
«Miki» obietta «È così che si lavora. È così che i suggerimenti di regia si innestano nell’opera degli attori»
«Ma tu come fai a migliorare in ogni scena? Non ti sembra che, ripetendoti, perdi di convinzione? A me succede… Mi innervosisco e basta!»
 
Ma niente: è chiaro che succede solo a me.
Quel pomeriggio sto ripassando il copione (cosa che faccio per la maggior parte del tempo, cercandomi di convincere che sono Alice) quando Kit viene a sedersi accanto a me.
In questi giorni stanno girando senza sosta le scene di Kit con Jeff Bridges: Kit interpreta Billy Bradley, l’ultimo assistente di Mastro Gregory, che viene ucciso da Mamma Malkin.
Dopo di lui, Gregory troverà Tom Ward, cioè Ben.
Un’altra cosa stranissima della vita sul set?
Pur essendo tutti qui, se non giro delle scene con qualcuno praticamente non lo vedi mai, nemmeno per sbaglio.
 
Un casuale riferimento a Ben?
Ma perché lo pensate?
 
 
Sì, certo: ovvio che mi riferisco a Ben.
Dopo quel primo giorno, l’avrò visto di sfuggita due volte al massimo e tutto quello che ci siamo detti è “ciao”.
Per il resto, Ben passa il suo tempo in tuta, seduto, a veder recitare Jeff e Kit.
Io, invece, mi arrabatto con i problemi di Alice.
Che mondo, gente!
 
 
Torno bruscamente in me quando Kit si lascia cadere, sporco e sudato, accanto a me e sbuffa sonoramente.
«Ehi» gli dico «Non ne puoi più, eh?»
Lui annuisce.
«Questa scena è massacrante…» dice «E le catene di scena, pur se finte, pesano parecchio! Tu che fai?»
«Cerco di venire a patti con il fatto che girare più volte una scena migliora il prodotto-film e non serve solo a logorare i miei nervi!»
Kit scoppia a ridere fragorosamente.
«La vita dell’editor è diversa, eh?» chiede poi, strizzandomi l’occhio.
Io aggrotto le sopracciglia.
«Me lo ha detto Ben» spiega lui «Non mi era mai capitata una collega così!»
Gli sorrido: è talmente simpatico che non riesco a prendermela.
«Bè, direi che la vita dell’editor non prevede che tu finisca incatenato…»
«… O affogato in una vasca?» chiede lui.
Annuisco.
«Devono affogarti?» chiedo poi.
«No, no!» risponde «Quello, per fortuna, tocca a Ben!»
In quel momento, Sergei richiama gli attori, per cui Kit si alza dicendomi:
«Stasera vieni a bere una birra con noi?»
Annuisco.
 
Oh, finalmente si ragiona!
 
*
 
Nell’ultima parte del pomeriggio, Julianne ha una prova per il CGI (visto che deve evocare ogni genere di creature magiche oscure) e io sgattaiolo a vedere le riprese di Sergei.
 
Kit e Jeff Bridges si stanno ancora dando da fare con le catene, a quanto pare.
Pensavo che il mestiere dell’attore fosse più avvincente, detto tra noi.
Mi siedo in un angolo e osservo.
Cerco di capire come fanno, entrambi, a immedesimarsi così completamente nella scena.
Voglio dire: io immagino di essere Alice e faccio quello che penso Alice farebbe.
Ma loro sembrano davvero annullarsi, per diventare poi qualcuno di completamente diverso.
Non che io faccia testo, per carità.
 
Sono ancora lì, concentrata, che li studio, quando lo vedo.
Ben si guarda attorno, quindi si alza dalla sua sedia (una di quelle sedie che si vedono nei film, quelle degli attori sui set!) e viene verso di me.
Si lascia cadere per terra, al mio fianco, e domanda:
«Cosa fai, così concentrata?»
«Vengo a patti con l’idea che sono nata senza il gene dell’attrice»
Lui scoppia a ridere, ma si affretta a soffocare il suono dietro una mano.
Quindi si alza e mi fa cenno di seguirlo.
«Non farmi più ridere così mentre girano, o Sergei mi ammazzerà!» bisbiglia «Vuoi un caffè?»
Annuisco e ci dirigiamo insieme in mensa.
Mi siedo su una panca mentre Ben va a riempire due bicchieri di plastica.
Al primo sorso faccio una smorfia.
«Mi dimentico sempre che dovrei dire no a questo caffè» borbotto.
«Ho bevuto il caffè italiano e devo dire che, al posto tuo, eviterei di prenderne» concorda lui.
«Immagino che per te sia lo stesso con il thè» commento.
Lui annuisce, stupito.
«Sì! Nessuno ci pensa mai, ma per un inglese quasi ogni thè bevuto fuori dall’Inghilterra è acqua sporca»
«Come per noi il caffè» dico, prima di ingoiare coraggiosamente un altro sorso.
Poi lancio un’occhiata a Ben, che ha gli occhi abbassati sul bicchiere di plastica.
Forse mi soffermo un attimo di troppo, perché improvvisamente lui alza il capo e i suoi occhi imprigionano i miei.
Spero di non essere sobbalzata.
«Allora, come va?» mi chiede.
«Bene…» dico «Almeno spero!»
Lui sorride.
«Sergei dice che vai benissimo»
Di fronte alla mia occhiata scettica sorride ancora di più.
 
Quel sorriso smagliante mi fa uno strano effetto… è come se mi rilassassi e, al contempo, mi si annodasse lo stomaco.
Bho.
 
«Lo giuro» ribatte «Lo ha detto ieri sera»
«E tu?» domando «Come va?»
Lui scrolla le spalle.
«Abbastanza tranquillamente per ora… Le scene di Kit sono state concentrate perché poi lui deve tornare sul set di Game of Thrones»
«Pensa che io immaginavo un set come un grande posto in cui stare tutti insieme…»
Altro sorriso da infarto.
«No, anzi. Capita che ci siano attori nel tuo stesso film che nemmeno incontrerai… Le produzioni costano molto e vanno ottimizzate: non possiamo restare tutti per tutta la durata del film»
«Tu però resti» obietto «Anche se ora non reciti»
«Sì, ma quello di Tom è il ruolo principale. Anche Jeff resta»
«A me hanno chiesto tre mesi di disponibilità» spiego.
«Perché hai scene con tutti noi, alla fine: con Julianne, con Jeff e me… Mi sa che ti tocca avere pazienza!»
«Oh, figurati, io sto benissimo qui!»
Ansia a parte, ma non è il caso di dirglielo.
«Davvero?» chiede «Cosa faresti a casa?»
«La stagista non pagata»
Ben aggrotta la fronte.
«Ma tu sei laureata?»
«Sì. E ho anche un po’ di esperienza, oltre che un master»
«Ma è scandaloso!» obietta lui «Mio fratello, con le stesse competenze, ha un ottimo lavoro in Inghilterra!»
Io scrollo le spalle.
«È l’Italia»
«L’Italia non è mica il Terzo Mondo!»
«Lo credi solo perché non sei un giovane italiano che cerca lavoro»
«Bè, ma… e la tua carriera di modella?»
«Carriera?» sgrano gli occhi «Ti prego… qualche foto e basta, tutto qui!»
Ben sembra sempre più perplesso.
«Ma…»
«Te l’ho detto: mi serve per pagare l’affitto. A causa, tra parentesi, dello stage non pagato. E quindi vedi: trentenne italiana sfigata e senza lavoro»
Ben scuote il capo.
«Non ho mai conosciuto qualcuna come te» dice, all’improvviso «Qualcuna che faccia la modella e ne parli come se si vergognasse… O qualcuna che viene scritturata per un grosso film e vorrebbe scappare via!»
Sono indecisa su come prendere questa affermazione e immagino che la confusione trapeli dal mio viso, perché Ben precisa:
«È un complimento»
Gli sorrido.
«Allora grazie. Ma devo ammettere che la mia eterna incapacità di trovare un punto stabile nella mia vita non mi sembra una caratteristica molto positiva»
«In che senso?»
Faccio scorrere la punta del dito sul bordo del bicchiere di plastica.
«Nel senso che non trovo mai un momento, una sistemazione, un punto fermo. Tendo sempre a cercare altro, a non focalizzarmi sui lati positivi di quello che invece ho. Lo faccio sempre con il lavoro da modella… E so che faccio la stronza in agenzia. Non so come facciano a non odiarmi»
«Perché le fai guadagnare»
«Sì, ma… Solo per guadagnare devono sopportare una come me, che non ha le competenze per fare altro e che, comunque, le tratta dall’alto in basso perché fanno un lavoro tutto sommato superficiale e inutile?»
Ben aggrotta la fronte.
«Ma quella donna che era con te… Sembra esserti affezionata»
«All’inizio mi detestava. Ci detestavamo, per la verità. Ora… Non so, ho scoperto che è meno dura di quello che sembra»
«Bè, è venuta fin qui con te e non è la tua agente. Poteva non farlo»
Annuisco.
«Ti manca?» chiede lui.
«No… è che mi sento un po’ persa, senza di lei»
Ben sorride.
«Allora esci con coi stasera!»
Gli sorrido in risposta.
«Sì, grazie. Me lo aveva detto anche Kit»
«Oh, allora io faccio la figura del cafone in ritardo?»
«Ma no!» rido «Davvero! Grazie, vengo volentieri»
Lui mi lancia un’occhiata furba da sotto quelle ciglia lunghe e scure.
«E non penserai male di noi perché siamo solo due poveri attori con un lavoro un po’ superficiale?»
Fingo di pensarci su.
«Questo non posso prometterlo» dico poi.
Ben scoppia a ridere e, osservandolo, mi sento improvvisamente speranzosa.
 
Non è poi così male, qui.
 

***
Buongiorno, carissimi lettori!
Come state?
Io inizio a essere un po' sotto pressione con il lavoro... Ma pazienza, teniamo duro!
Se avete voglia di fare due chiacchiere, come sempre mi trovate su Facebook.
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Venerdì, come da programma, aggiornerò Ragione e sentimento, crossover Harry Potter/Ben Barnes:  http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3063978
Buona lettura,
Joy

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Capitolo 10
*** X ***


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Il vostro rivale più accanito è la vostra stessa visione del futuro.
Watts Wacker & Tim Taylor

 


 
Sono forse stata contagiata dall’informalità del luogo, ma non mi pongo particolari problemi su cosa indossare per uscire con Ben e Kit.
 
Se fossi stata a casa sarebbe stato ben diverso e avrei rivoltato l’armadio prima di uscire a fare shopping selvaggio, causa nulla di portabile recuperato dai miei cassetti.
Qui non ha senso farlo.
Per prima cosa sono stanca morta.
Per seconda cosa il set è un luogo molto informale e, per quello che ho visto, anche a cena o in altre occasioni non lavorative nessuno si veste in modo ricercato.
Quindi opto semplicemente per dei jeans, stivali di pelle nera al ginocchio, un maglioncino rosso e la giacca di pelle nera sopra.
Lego i capelli, ancora ondulati dal set, in una treccia laterale; prendo la borsa ed esco.
Nell’atrio dell’hotel trovo Ben; Kit non è ancora sceso.
«Ehi!» mi saluta lui «Una donna che non si fa aspettare per due ore? Sorprendente!»
Gli sorrido.
Certo che potrei abituarmici, a questi complimenti.
Chiacchieriamo tranquillamente finché Kit non arriva.
E, di nuovo, sono stupita dalla facilità con cui riesco a parlare con lui.
 
Usciamo e ci incamminiamo per strada.
L’aria è decisamente più fresca adesso.
Parliamo un po’ delle riprese di Kit e dopo qualche minuto raggiungiamo un pub che sembra molto tranquillo e accogliente.
Entriamo, prendiamo un tavolo e ordiniamo.
Quando arrivano le birre io bevo un generoso sorso della mia e poi mi avvento sulle patatine fritte.
Kit mi sta raccontando dei dettagli divertenti di alcuni inconvenienti capitati sul set di Game of Thrones, quando noto che Ben mi sta fissando.
Gli lancio un’occhiata agghiacciata.
«Cosa c’è?» chiedo «Cosa ho fatto?»
A lui scappa da ridere.
«Niente!»
«Ma come, niente? Perché mi guardi così? Kit?»
Cerco l’altro con gli occhi, ma lo vedo scuotere il capo e alzarsi.
«Ordino un’altra birra, ok?» dice, andandosene.
Prima, strizza vistosamente l’occhio a Ben, che all’improvviso arrossisce.
«Ben?» faccio io, perplessa.
«Oh, ma che cretino!» fa invece lui, a bassa voce «Scusa, non volevo metterti in imbarazzo»
«Non sono in imbarazzo…»
Ben scuote il capo.
«A costo di sembrare un cretino, stavo solo pensando che non sembra dispiacerti che non ti abbiamo portata in un locale più lussuoso o altro. Mi dicevo che sei davvero spontanea come sembri… Poi Kit ha fatto questa uscita di scena e io ho fatto la figura dell’idiota!»
«Ma smettila, sei paranoico!» dico, sorseggiando dal mio bicchiere «Piuttosto, credevo di essermi impiastricciata la faccia con qualcosa!»
Quando Kit torna a sedere, gli comunico:
«Ben ti odia, giusto perché tu lo sappia»
«Ah, non è mica colpa mia se non è bravo a provarci!» risponde lui, impenitente.
Io rido, mentre Ben gli molla un pugno scherzoso.
 
Alla fine, è una serata davvero divertente.
Mi rilasso e rido come non mi succedeva da tempo.
Quando torniamo in albergo sono un po’ dispiaciuta, ma Kit domani inizia a girare presto.
E, da questo momento, quando vado a cercare Ben o Kit sul set sono meno in imbarazzo: è come se fossero due fratelli maggiori con me.
Siamo molto complici tra noi e, grazie a loro, passo delle bellissime serate, dopo le ore intense sul set.
In realtà, io ora faccio molto poco.
Julianne è via per un impegno, tornerà tra qualche giorno.
Sergei è completamente concentrato su Jeff e Kit.
Ben presenzia a tutte le riprese e io anche (per interesse accademico, ovvio).
Ieri pomeriggio ero seduta sull’erba a guardare Jeff Bridges che affrontava una creatura del male, all’improvviso, ha iniziato a piovere.
Nella troupe sembravano tutti contenti, perché la pioggia inseriva drammaticità nell’azione.
Io, per parte mia, in due minuti ero fradicia e infreddolita.
Me ne sarei andata volentieri, ma nessuno si è mosso e io non volevo fare la figura di quella che non sopporta due gocce d’acqua.
All’improvviso, però, Ben è apparso accanto a me, tenendo tra le mani un telo impermeabile con il quale ha coperto entrambi.
Mi sono rannicchiata al suo fianco, stringendomi le braccia attorno al corpo.
«Hai freddo?» ha mormorato lui «Vuoi rientrare?»
Io ho scosso il capo, ma mezzo secondo dopo sono esplosa in un mega starnuto.
Un cameraman mi ha guardata con riprovazione.
E mi è andata bene che non fosse partito il ciack.
Volevo comunque sprofondare, almeno finché non ho sentito il braccio di Ben circondarmi le spalle.
«Ehi, vieni qui» ha mormorato «E cerca di fare in modo di non fermare le riprese»
Praticamente incredula, sono finita con la testa poggiata sulla sua spalla e le sue braccia che mi coprivano accuratamente con la cerata.
Una sua mano ha esitato per un attimo tra i miei capelli, quindi Ben si è voltato verso il set, lasciando però un braccio attorno alle mie spalle.
Il che sarebbe meravigliosamente romantico, se dopo fosse successo qualcosa.
Ma lui è rimasto a guardare la scena, concentratissimo.
Malgrado il diluvio sempre più violento, Sergei ha insistito con le riprese.
Bridges non ha battuto ciglio.
Io, per parte mia, mi godevo il calore di Ben e il peso del suo braccio attorno a me.
Non mi sono mai sentita più dispiaciuta quando ho sentito gridare “Stop”!
 
*
 
In un paio di settimane Kit termina il suo lavoro sul set.
 
Lui, Ben e io andiamo insieme al cinema, un pomeriggio, e usciamo a bere qualche altra birra.
Il tempo è sempre più freddo, però, e scoraggia le passeggiate.
Sia io che Ben ne risentiamo: camminare piace a entrambi.
La sera prima che Kit parta, gli organizziamo una cena.
Io sono quella più triste, probabilmente perché non sono abituata al clima di grande cambiamento che – continuano a ripetermi – vige sui set cinematografici.
Kit saluta tutti, felice.
È il beniamino del set.
Persino Bridges, sempre così sulle sue, con lui scherza disinvolto e dice a tutti che, sebbene lui abbia vinto un Oscar, è Kit la vera star del set*.
Mi rendo conto che è così: tutti gli assistenti di scena, tutti gli operatori, i tecnici e gli assistenti stravedono per Kit, per la sua risata allegra e i suoi modi gioviali.
Questa sera viene subissato di richieste di foto e autografi e lui, generosamente, accontenta tutti.
Quando viene da me però mi dice:
«Mi raccomando, bada tu a Ben!»
Io rido.
«Ma non sarà il contrario?»
«No… Impediscigli di lavorare troppo e di farsi venire il fegato amaro se Jeff Bridges non lo considera»
«Perché?» domando, perplessa.
«Perché sta impazzendo con questa storia di Jeff che fa il duro… Sì, è vero, lui è molto rigido, ma Ben non può farne un dramma!»
Aggrotto la fronte.
«Non me ne sono mai accorta»
Kit sospira e si passa una mano tra i capelli, spettinandoli ancora di più.
«Sai, Ben voleva a tutti i costi la parte in questo film per recitare con Jeff Bridges e, ora, lui nemmeno gli parla!** Capisco sia frustrante, ma…»
«Ma con te è gentilissimo!» esclamo, ripensando all’abbraccio che si sono scambiati oggi sul set.
«Sì, è stato molto gentile ed è un fantastico privilegio lavorare con lui… Arriverà anche il turno di Ben. Faglielo capire tu, ok?»
 
Potrebbe essere un compito sopra le mie forze?
Eppure, i giorni successivi studio con molta più attenzione le dinamiche sul set e devo dire che le parole di Kit sono servite ad aprirmi gli occhi.
È vero che Ben segue molto Bridges, che a parer mio sembra un orco immusonito e, in effetti, sembra rifiutare qualsiasi forma di contatto umano.
È solitario: lavora moltissimo, ma poi si chiude in se stesso.
Studia, ripassa, scrive o se ne va con la sua famiglia, che lo ha accompagnato qui in Canada.
Ben sembra parecchio frustrato.
E io non so come avvicinarlo.
Nel senso che, senza Kit, la dinamica del gruppo è un po’ scemata.
Non vorrei sembrargli patetica o invadente: dopotutto lui non è il mio babysitter, giusto?
E, se volesse, sarebbe venuto a fare quattro chiacchiere di sua spontanea volontà.
Accidenti, quanto vorrei avere la capacità di Luna di risolvere qualsiasi situazione in un secondo!
Anzi, no, diciamocelo: se ci fosse stata Luna, lei semplicemente non sarebbe mai stata ignorata.
Le avrebbero organizzato feste ogni sera. E basta.
 
Qualche giorno dopo il freddo inizia a farsi pungente e nella scaletta del giorno compare la mia prima scena con Ben.
 
*
 
Prima di perdere il coraggio, lo avvicino al termine di una giornata di riprese.
 
Al momento, Ben ha girato le scene con la famiglia Ward, il distacco da loro ed è ufficialmente passato nelle mani di Mastro Gregory.
Povero lui.
Il copione prevede che carreggi bagagli, cammini per ore e faccia il servitore di Gregory,
È così anche nel libro e, devo ammetterlo, è piuttosto divertente osservare Ben in questa veste.
Va detto che l’aria da orco di Gregory sembra autentica e questo mette chiaramente Ben in soggezione: è teso e sotto pressione come non mai.
Così, con qualche esitazione da parte mia, gli propongo di andare a bere una birra.
Lui sospira, chiude un attimo gli occhi e, quando li riapre, sembra focalizzarsi sul momento.
«Certo» risponde «Volentieri… Scusa se non ci ho pensato io, ma sono stati giorni un po’ intensi»
Annuisco, rassicurata.
Pensate quello che volete, ma non è facile chiedere a Ben Barnes di uscire.
 
*
 
Ovvio, intendo un’uscita fra amici.
 
Nient’altro.
E – mentre una malefica vocina nella mia testa mi informa che non era affatto difficile invitare Kit a uscire – salto la cena perché ho lo stomaco annodato e mi preparo senza particolari vezzi, come le scorse volte.
Ma, alla fine, è facile come sempre stare con Ben.
Andiamo a prendere una birra e parliamo a volontà.
Lui è molto simpatico, dolce e divertente e riesce a mettermi a mio agio in un attimo.
Tutta l’ansia che ho quando non sono con lui sparisce come per magia.
Mi parla di questo ruolo e delle paure che ha al riguardo.
«Sai» dice a un certo punto «Non sono stato la prima scelta del regista… E, inutile negarlo: è una cosa che mette pressione»
Annuisco.
È vero: Bodrov aveva selezionato vari altri attori per il ruolo di Tom***.
Penso sia molto umiliante sapere di essere una quarta scelta, comunque gli dico:
«Stiamo parlando di una selezione avvenuta in una rosa di talenti, non dell’ultimo arrivato che gli è passato davanti… Ricordatelo sempre!»
Lui sorride.
«Grazie» risponde.
«Ben, dico davvero! Non si sceglie il protagonista di un film così grosso se non si è molto convinti di quello che si è visto!»
All’improvviso, il suo sorriso diventa più caldo.
«Io… Grazie. Davvero. Sei una motivatrice, Miki»
«No. È che io sono stata veramente scelta per caso e quindi so la differenza!»
Lui ride.
«Ma non è in netta contraddizione con quello che hai appena detto?»
«No, perché so che Sergei mi voleva… Ma solo perché penso di averlo colpito più di altre ragazze. E penso dipenda dal fatto che mi sono battuta per la mia posizione… Per il resto, immagino desse per scontato di avere davanti qualcuna che sapesse recitare e quindi…»
«Ma tu hai recitato, no? Al provino, intendo»
«Ehm… Ho fatto qualcosa, ecco… Non so se si possa proprio definire “recitare”»
Lui sembra all’improvviso molto allegro.
«Non vedo l’ora di vederti domani, sul set!»
Io probabilmente sbianco, perché lui scoppia a ridere di cuore.
Ha una risata davvero contagiosa… Non fosse che al momento non ho veramente voglia di ridere.
Ben sembra intuirlo, perché all’improvviso mi prende una mano e sorride, incoraggiante:
«Non preoccuparti: ci sarò io ad aiutarti, domani!»
«Nel senso che mi dirai cosa fare per filo e per segno?»
Sembra sorpreso.
«No» risponde «Nel senso che se volessi un consiglio o magari preferiresti parlare di qualche tua scelta di stile…»
Scelta di stile?
Ma è matto?
 
«Preferirei che mi dicessi per filo e per segno cosa devo fare» borbotto, finendo la mia birra in un sorso.
Lui ride, di nuovo, e si limita a dire:
«Ne vuoi un’altra, mia timida Alice?»
Annuisco, scoraggiata, e resto a guardarlo mentre si dirige al bancone.
 
 
 
* È vero: lo ha raccontato Jeff Bridges in un’intervista.

** Anche questo è vero: all’inizio il rapporto tra Ben e Jeff Bridges, sul set, non è andato benissimo.
 
 
*** Per citarne due, Alex Pettyfer e Sam Claflin.



***
Buongiorno!
Come state, cari lettori? Dormire un'ora di meno vi ha creato disturbi?
Come al solito, vi ricordo che ho un'altra storia aperta, che aggiorno di venerdì: si chiama Ragione e sentimento e la trovate qui  http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2908749&i=1
Per ogni domanda, curiosità o per due chiacchiere mi trovate su Facebook: 
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Buona lettura,
Joy

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Capitolo 11
*** XI ***


 

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C’è una crepa in ogni cosa, è da lì che entra la luce
Leonard Cohen

 



Questa mattina sono davvero nervosa.
 
Mentre mi pettinano e indosso il costume di scena continuo a tormentarmi le mani.
Sul set, Ben e Jeff sono già pronti: il primo mi sorride, il secondo quasi non mi degna di un’occhiata.
«Buongiorno» bisbiglio io, timida.
 
Sergei ci fa una veloce lezione su quello che dobbiamo fare.
È la scena in cui Tom e Alice si incontrano per la prima volta e, nel film, avviene in un mercato.
Lei è stata catturata e viene trascinata via, Tom interviene e la salva perché, di fatto, non può credere che quella ragazza così innocente sia una strega.
Ovviamente, Gregory si infurierà ma questo non riguarda me per fortuna, perché il cipiglio che Bridges inalbera al momento sembra di vero sdegno.
Quasi quasi mi aspetto che mi chieda se sono davvero una strega.
«Mi raccomando, Ben e Miki» dice il regista «Questa scena è la chiave per il rapporto tra Tom e Alice. La scintilla tra voi scocca immediatamente: deve essere evidente per Tom ma non per Alice, che è sempre la più misteriosa e sfuggente. Ma che ci sia chimica, ok?»
Ben annuisce, serio.
Io deglutisco.
Non penso ci siano particolari problemi nel fingere di essere cotta di lui, ecco.
Certo, davanti a trenta persone che ci guardano, dietro gli schermi e le telecamere, potrebbe risultarmi un po’ più complicato.
Ben mi stringe brevissimamente la mano, poi Bodrov mi fa cenno di avvicinarmi a un assistente del set, che mi imprigiona i polsi in dei lacci fasulli.
Una delle parrucchiere viene a scompigliarmi meglio i capelli, per simulare una colluttazione o qualcosa del genere.
E, troppo presto per i miei gusti, siamo pronti per girare.
 
«Azione!» urla Bodrov.
E, in un attimo, vengo spinta in avanti dalle comparse che mi avrebbero catturata.
Incespico e mi lascio strattonare, cercando di ricordare quello che Anna considera il consiglio per eccellenza: “Stai dritta, così non sembri un sacco di patate!”
Ma cosa mi viene in mente?
Comunque, in un attimo, arriva Tom.
Ci ferma, discute con uno degli uomini che mi stanno portando via.
Una telecamera è a due centimetri dalla sua faccia; fingo stoicamente di non vederla.
E poi Tom mi trascina via, in un vicolo.
 
Ok, calma.
Ce la posso fare.
 
Mi spinge contro un muro e fissa gli occhi nei miei.
E, cavolo, a me manca quasi il fiato.
Praticamente non mi accorgo che taglia i lacci che mi imprigionano i polsi.
«E così sei una strega?» mormora, sempre con gli occhi fissi nei miei.
Io ci metto un attimo a ricordare la mia battuta.
«Cosa ne farai di me?» chiedo, cercando di mantenere la voce ferma e indifferente.
Ci fissiamo di nuovo, poi sguscio via dalla sua presa.
Ben mi insegue e quando gli dico di chiudere gli occhi…
 
«Stop!» fa Bodrov.
Mi fermo e mi passo una mano tra i capelli, imbarazzata che queste persone abbiano visto quegli sguardi tra me e Ben.
Voglio dire, so benissimo che per loro (e per Ben) facevano solo parte di una scena, ma io mi sono sentita estremamente vulnerabile e, al momento, avrei solo voglia di andarmene di qui per stare un po’ sola e calmarmi.
Nemmeno a dirlo, non posso.
Sergei ci fa ripetere la scena quattro volte, quindi praticamente è un successo.
Alla quarta, forse riesco a sembrare un’Alice meno allocca e più misteriosa… Almeno lo spero!
 
*
 
Devo dire, però, che girare una scena con Ben mi ha messo addosso una frenesia che ci mette un po’ a calmarsi.
 
Quando siamo sul set insieme posso guardarlo e toccarlo e comportarmi come se fossimo soli… E, seppure è solo finzione, non è affatto male, una volta che ti rilassi.
Ma, ovviamente, Bodrov riprende a girare le scene tra Jeff e Ben.
Bridges è sempre più scostante e musone, Ben è chiaramente spiazzato.
E, temo, ne soffre anche un po’.
Un giorno, in particolare, girano una scena sotto un diluvio torrenziale, in cui Gregory ha un mantello con cappuccio che lo protegge e Tom, invece, sta sotto la pioggia come un pulcino spaventato.
Il senso della scena è gerarchico: Tom non è ancora un mago, non ha quindi i segni distintivi che appartengono invece al suo maestro.
Eppure, alla fine, Ben è talmente fradicio, talmente depresso che mi si stringe il cuore.
Quando le riprese terminano salto in piedi e arrivo da lui prima dell’assistente di turno.
Gli tendo la mia sciarpa, ma lui scuote il capo.
«Te la bagno tutta» dice.
Un assistente gli porta un asciugamano e Ben inizia a frizionarsi i capelli.
Io sono sempre lì, sulle spine.
«Tutto bene, Miki?» mi chiede ad un certo punto, visto che non mi sposto.
«Ti va un thè caldo?» chiedo, di getto.
Lui sorride.
«Direi proprio di sì!»
 
*
 
Ben va a cambiarsi e io mi dirigo in hotel e salgo in camera.
 
Accendo il bollitore e preparo tazze, zucchero, tovaglioli.
Cerco nell’armadietto un vassoio senza trovarlo e poi scorro velocemente gli infusi.
Non c’è molta scelta, ma afferro quello che trovo, metto tutto in equilibrio su un librone rilegato ed esco in corridoio.
Conosco il numero della stanza di Ben perché ho visto le sue chiavi quando siamo usciti la prima volta: siamo tutti sullo stesso piano, tra me e lui ci sono due porte.
Prima di perdere il coraggio busso.
Non mi apre subito, tanto che penso sia ancora sul set… Magari si è cambiato lì.
Ma, all’improvviso, la porta si spalanca e appare Ben, assolutamente meravigliato.
È scalzo, indossa una t-shirt a maniche corte e ha i capelli bagnati.
«Miki» dice, sorpreso, osservando il mio armamentario «Oh… credevo intendessi un thè al bar»
«Ma è quasi ora di cena! Chi beve un thè caldo a cena?» rispondo.
Ben sorride, quindi si fa da parte per farmi passare.
«Giusto… Accomodati, prego» dice «Mi concedi solo cinque minuti?»
«Certo» rispondo «Che thè vuoi?»
«Earl Grey» dice subito.
Gli lancio un’occhiatina da sotto le ciglia.
«Ti piacerebbe, eh?»
Lui sbuffa.
«Hai ragione, sono un ottimista… cosa offre la scelta?»
«Thè verde, thè al limone e thè alla pesca»
Lui arriccia il naso e io rido, facendo traballare le tazze.
Ben si affretta a prendermi il libro di mano e lo posa su un tavolino.
«Dove hai preso tutte queste cose?»
«Nello stipo che sta nell’anticamera della mia camera» ribatto.
Lui lancia un’occhiata al mobiletto, identico al mio, che compare dietro la porta.
«Pensi che io possa essere così fortunato da avere dell’Earl Grey?» domanda, speranzoso.
«Non ne ho idea ma, se vuoi, controllo mentre tu finisci di prepararti»
«Grazie!» sorride e sparisce in bagno.
Io apro lo stipo, ma ha la mia stessa selezione di thè, un bollitore, due tazze, zucchero e tovaglioli.
«Niente da fare!» dico ad alta voce.
«Allora… Limone per me, grazie!» risponde, la voce che supera lo scroscio dell’acqua.
Metto in infusione due bustine e mi guardo attorno.
La sua camera è ordinatissima: nessun vestito in giro, scarpe allineate sotto la finestra e un libro sul comodino.
Mi sento subito una disordinata di prima categoria.
Muovo un paio di passi in giro, quindi vado a sedermi su una delle due poltroncine della stanza, ripiegando una gamba sotto di me e stringendo la mia tazza tra le mani.
Qualche minuto dopo Ben esce dal bagno, vestito ma ancora a piedi nudi e con i capelli umidi.
Mi sorride e viene a sedersi davanti a me, pendendo l’altra tazza.
«Cos’hai scelto?» mi chiede.
«Thè verde»
«Ugh!» geme «Che orrore!»
Io rido.
«Ha proprietà drenanti» lo informo «Se fai la modella a tempo perso devi tenerne conto»
Lui ridacchia, quindi beve un sorso.
«Zucchero?» gli chiedo.
«No, grazie» risponde «E… Grazie per avermi portato il thè. Sei stata davvero dolce»
 
Non arrossire, Micol.
 
«È che mi sembravi congelare, laggiù sul set…» dico, esitante.
Lui annuisce.
«Sì, ho fatto un’altra doccia bollente perché stavo ancora gelando… all’improvviso è diventato davvero freddo!»
Beve un sorso, mentre io soffio sulla mia tazza.
Quando alzo gli occhi lo vedo guardarmi.
Mi sorride.
«Che tenera» ridacchia «Sembri una bimba alle prese con una tazza bollente!»
Gli sorrido e mi siedo più comodamente.
«I tuoi programmi?» chiede poi.
«Domani ho una scena con Julianne e Antje Traue… è fondamentale: io devo stare zitta e in piedi. Sono molto nervosa» scherzo.
Ben ride di nuovo e a me scappa un sorriso.
Adoro la sua risata.
«Hai sentito che presto ci sposteremo all’interno?» chiede «Non vedo l’ora di vedere meglio la British Columbia, dicono sia stupenda»
Annuisco.
«Ho visto che le scene tue e di Jeff Bridges saranno parecchio fisiche»
Lui fa un cenno con il capo.
«Ho fatto parecchio training prima di venire qui… Anche se i mostri li montano in CGI, noi attori dobbiamo fare la nostra parte»
«Ma non è strano recitare fingendo di avere qualcuno davanti… Se non c’è nessuno? Soprattutto in un duello…»
Ben annuisce.
«Sì, è la cosa più difficile. Ma nei fantasy è normale… Ci sono gli assistenti ad aiutarci»
«Kit mi aveva detto che ti affogheranno»
Ben alza gli occhi.
«Il solito esaltato…» commenta «Non mi affogheranno, ma ho una scena nel lago, in immersione…»
La sua voce sfuma e, anche se non aggiunge nulla, i suoi occhi cercano per un attimo i miei.
Io arrossisco e bevo un sorso.
C’è una scena in copione nel lago anche per Alice e Tom.
Con Alice senza vestiti, per l’esattezza.
 
Dopo un attimo di silenzio, Ben cambia argomento:
«Direi che in British Columbia avremo poche occasioni di andare per locali… Ma, se vuoi, possiamo guardarci un po’ di film, la sera»
«Piumone e latte caldo?» scherzo «Ideale per due vecchietti come noi»
Lui mi fa una linguaccia.
«Parli per te, spero!» dice, fingendosi oltraggiato «Io sono un baldo giovane… E sono abbastanza esperto di film!»
«Io per niente, ma mi faccio volentieri una cultura» rispondo, felice.
Ci sorridiamo, terminando di bere il thè.
 
*
 
Dopo un paio di giorni ci spostiamo nell’interno della British Columbia.
 
E… wow.
Non ho mai visto dei posti così belli e verdi.
Non abbiamo più un hotel, ma dei mini bungalow nella foresta.
È davvero suggestivo.
E fa un freddo cane.
 
Giriamo tutti avvolti in giacconi pesanti e informi, in sciarpone che ci camuffano il viso e con cappelli calati in testa per ripararci dal vento gelido.
Piove spessissimo.
Ben è sempre fradicio, in un modo o nell’altro.
Secondo me da quel suo costume di scena spunteranno presto dei funghi.
Lo faranno ammalare.
Ma lui tiene duro e, a parte un raffreddore, si destreggia bene tra mostri, mostri, streghe e altri mostri.
Jeff è sempre algido, tranne che con Julianne.
Hanno già lavorato insieme e chiaramente si stimano molto.
Un pomeriggio, sto chiacchierando con Julianne quando lui arriva e, senza salutare, le dice qualcosa.
È più forte di me.
Non dovrei, lo so, perché lui è Jeff Bridges, un mostro sacro, eccetera eccetera.
Eppure… Non è che questo lo esime dall’essere educato, no?
Per me no, non lo esime affatto.
Quindi, garbatamente, dico:
«Oh, buongiorno. Prego, stavo giusto andando via»
Lui si volta a fissarmi, quasi incredulo.
Julianne scoppia a ridere.
«Jeff, sei un vero orso!» esclama «Ma direi che su questa ragazza il suo sex appeal non fa effetto!»
«Infatti» sorrido, soave «Non fa effetto per niente. Arrivederci»
Me ne vado, con il naso in aria.
E a pranzo, incredibilmente, Bridges si siede accanto a me.
Mi rivolge la parola, io lo ignoro.
Ben, seduto dall’altra parte del tavolo, sembra incredulo.
Io gli strizzo l’occhio, mangio due piatti di zuppa e mi alzo, interrompendo Bridges a metà di una frase.
«Umpf!» fa lui, quasi divertito «Sei una testona, eh?»
«Prego?» ribatto io, altezzosa.
E me ne vado senza attendere una risposta.
 
Da quel giorno, Jeff e io diventiamo amici.
 
*
 
A volte Bridges viene sul set con la chitarra e, nelle pause, si mette a suonare.
 
Ben lo ascolta in silenzio, ma chiaramente muore dalla voglia di partecipare.
Io e Julianne non abbiamo i suoi scrupoli.
Lei canticchia con lui e, una volta, hanno coinvolto anche me.
«Hai una bella voce» mi ha detto poi Ben.
Io ho scosso le spalle.
«Nulla di che, ma grazie»
 
Un’altra sorpresa Bridges me la fa qualche giorno dopo.
Ha iniziato a girare per il set con una macchina fotografica e scatta foto e destra e a sinistra.
Mai di gente in posa: preferisce sempre scatti casuali, di vita vissuta.
Un pomeriggio, io e Ben stiamo leggendo il copione per la nostra prossima scena insieme (quella del lago!) e Jeff all’improvviso dice:
«Però… Non sei affatto male, sai, Micol?»
Io alzo gli occhi, stupita, e lui mi scatta una foto a tradimento.
«Sei matto?» inorridisco «Non mostrarla in giro, per favore!»
Lui ride, una risata cavernosa.
«Be’, sei fortunato!» dice poi all’improvviso a Ben «A girare con lei… Avessi vent’anni di meno, io la scena del lago me la godrei davvero!»
Ben sembra quasi stupito che Bridges gli abbia rivolto la parola; io gemo.
«Col cavolo che io entro nel lago senza vestiti!» esclamo «Nemmeno se Sergei mi ci spinge dentro!»
Julianne e Jeff ridono, Ben mi lancia un’occhiata che non so decifrare.
 
A fine giornata, però, mi risolleva decisamente il morale venendo a chiedermi se mi va di guardare un film, dopo cena.
Io ne sono entusiasta: dopo la cena, che consumiamo in mensa, Ben mi chiede se va bene andare da lui, che ha il portatile e i dvd.
Annuisco e ci incamminiamo insieme.
La notte è rigida e il tepore della casetta è davvero benvenuto.
Con le luci soffuse e la notte chiusa fuori la situazione è molto intima.
Mi stringo tra le braccia e muovo qualche passo per nascondere l’imbarazzo.
«Hai freddo?» domanda Ben, mentre scorre tra le mani alcuni dvd «Vuoi una felpa?»
«Grazie» annuisco.
Mi passa una sua felpa e io la indosso sopra la mia, quindi ci sediamo entrambi sul suo letto, con il pc appoggiato su un tavolinetto davanti a noi.
Non posso dire che ci sia tensione fra noi, ma nessuno dei due si sistema in modo più rilassato.
E vorrei ben vedere: è il suo letto.
Comunque, Ben ha scelto una commedia divertente, per cui ridiamo molto e il tempo passa velocemente.
Quando mi alzo per dargli la buonanotte sono quasi dispiaciuta, anche se è assurdo: lo vedrò domani, che diamine!
Mi sfilo la felpa e scuoto i capelli per togliermeli da davanti agli occhi e Ben, con un sorriso, protende una mano per aiutarmi.
Mi sistema una ciocca scura dietro l’orecchio, quindi mormora:
«Hai dei bei capelli, sai?»
«Grazie» bisbiglio io, senza fiato.
Ci guardiamo, in silenzio, poi lui si protende, esitante, e mi dà un bacio sulla guancia.
È un bacio innocente, lo so, ma io arrossisco comunque.
«Buonanotte» mormoro.
«Buonanotte» risponde.
Esco e mi volto, ci guardiamo ancora prima che lui chiuda la porta dietro di me.
 
Raggiungo il mio bungalow con un enorme sorriso stampato in faccia.
Devo assolutamente raccontarlo a Luna.



***
Buongiorno, mie adorati lettori!
Lo so, non vi aspettavate di trovarmi qui oggi, ma dato che per qualche giorno sarò via, non volevo rischiare di tardare con gli aggiornamenti!
Ho aggiornato oggi anche Ragione e sentimento (
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3078584) e, se lunedì riuscirò a connettermi, avrete il capitolo 12, promesso :)
Prima di lasciarvi, un grazie alle fantastiche Angelika, Skyler, Clairy e Fedra per il sostegno, l'incoraggiamento, l'affetto (e la vostra rabbia) che mi avete dato in questo momento di ira funesta!
Auguro a tutti una Pasqua felice, serena e piena di promesse!
Un abbraccio,
Joy

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Capitolo 12
*** XII ***


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Ciò a cui resistiamo persiste
Carl Jung





Questa di guardare insieme un film diventa presto una consuetudine.
 
Dopo le prime sere neppure sentiamo più il bisogno di darci un appuntamento: semplicemente, sappiamo che l’uno o l’altra arriverà a bussare alla porta.
La terza volta che abbiamo visto un film ho preparato la cioccolata calda e poi gli ho mandato un messaggio per chiedergli se voleva guardare qualcosa o era troppo stanco.
È arrivato in due minuti: la cioccolata è finita quasi prima che scegliessimo il film.
Ben è molto appassionato e mi propone i suoi film preferiti; io lo lascio di stucco e lo faccio ridere rilanciando con titoli come Shrek o Nemo.
Eppure, ben presto iniziamo a vederci tutte le sere, anche se le riprese sono pesanti.
 
 
Ieri sera Ben è arrivato mentre ero al telefono con Luna: mentre io la salutavo lui è entrato e si è steso sul letto.
Anche questo è molto bello: siamo meno formali e, sebbene i bungalow siano piccoli e sprovvisti di divani, non siamo più imbarazzati al punto di non essere a nostro agio.
Tanto che - mentre cercavo di contenere l’euforia di Luna e le sue lamentele per il fatto che non ci sentiamo abbastanza - mi sono voltata e ho visto che Ben si era addormentato.
È stanchissimo in questi giorni.
Ho chiuso la telefonata e sono rimasta a guardarlo dormire.
Così, semplicemente.
Imbarazzata, mi sono seduta sul letto e sono rimasta a fissarlo come una perfetta scema.
Ma non sapevo cosa fare, sapete.
Svegliarlo non mi sembrava gentile.
Mettermi a guardare da sola un film… Mah.
Mi interessava molto meno rispetto a quello che avevo la possibilità di osservare in quel momento.
 
E non so come ma… è stata una consapevolezza che è maturata in me nel corso di queste settimane ed è esplosa in quel momento.
Ben mi piaceva.
E non nel senso che davo all’inizio alla cosa.
In un primo momento, ero frastornata dai cambiamenti improvvisi avvenuti nella mia vita, dalle nuove prospettive, dalle occasioni che mi si presentavano, così nuove e inaspettate.
Cercarlo era stato quasi un gioco, trovarmelo davanti in quel modo – essere coinvolta in un suo progetto – uno shock. Bellissimo, ma comunque uno shock.
E ci ho messo un po’ a capire che l’attrazione adolescenziale per un attore sconosciuto ha avuto l’occasione per diventare invece qualcosa di diverso.
Ben - il vero Ben, intendo, quello che è qui con me ora – è dolce, affascinante, simpatico.
E bellissimo.
E io, forse, dovrei stare molto, molto attenta al tipo di sensazione che suscita in me la sua vicinanza.
 
*
 
La sveglia, questa mattina, è stata un trauma.
 
Suona sempre presto, alle 5.30.
Ma il trauma, veramente, è derivato dal fatto che, per spegnerla, ho sbattuto contro qualcosa e che questo qualcosa ha urlato all’improvviso.
Sono saltata a sedere in preda al panico.
 
E poi ho capito.
 
Mi sono addormentata, credo.
Ad un certo punto, ieri sera, devo essere crollata… Ma non ero sola.
C’era Ben che dormiva nel mio letto.
Allungo la mano per accendere la luce e, nel chiarore freddo della luce alogena, lo vedo fissarmi con gli occhi sgranati.
Si alza a sedere lentamente e mi lancia un’occhiata imbarazzata.
Ci fissiamo, in silenzio, e lui diventa rosso come un peperone.
«Io…» inizia «Scusa… Oddio, scusa!»
«No… niente, niente, figurati» rispondo «È solo che ti sei addormentato e non volevo svegliarti… E poi credo di essermi addormentata anche io quindi…»
 
Perfetto.
Balbettiamo come due idioti.
 
Lui annuisce e si alza, ancora rosso in viso.
«Bè…» dice «Io… vado. Ciao»
«Ciao» mormoro, mentre lui imbocca la porta a gran velocità.
Ci metto un attimo a razionalizzare che, nella fretta, ha dimenticato il giaccone.
Sospiro e crollo all’indietro, sulle coperte.
 
*
 
Più tardi, sul set, cerco Ben e lo trovo al trucco.
 
Mi avvicino e sorrido timidamente, porgendogli la sua giacca a vento.
Lui ricambia il sorriso.
Sembra molto più tranquillo di prima.
«Ciao» mi dice «Sono quello che è scappato stamattina dal tuo letto»
Mi siedo accanto a lui.
«Davvero?» rispondo «Ti ricordavo più bello… E dire che non pensavo di essere sbronza ieri sera!»
Lui scoppia a ridere.
«Touché. Sei una che non le manda a dire, eh?»
«Te lo meritavi!» gli sorrido «Fai sempre quello che scappa?»
Lui arriccia il naso e mi fa la linguaccia.
«Se non sono costretto, normalmente no» ribatte «Tu invece tiri sempre un pugno sul naso, la mattina dopo?»
«No… Se non sono costretta» ridacchio «Ma stamattina non volevo, solo che mi sono dimenticata che c’eri e quindi mi sono allungata a casaccio e…»
«Ti sei dimenticata che c’ero?» fa la faccia offesa «E mi hai anche tirato un pugno!»
«Era un delicato buffetto… E comunque speravi di essere più memorabile, eh?»
Ben assottiglia gli occhi e fa per alzarsi, ma Tally, la truccatrice, lo spinge a sedere.
«Bene bene» dice, divertita «Non hai fatto colpo su Miki, eh?»
Ben ci guarda male entrambe mentre io rido, poi lui si lascia scappare un sorriso.
«Miki mi adora…» le dice, con fare confidenziale.
«Non è affatto vero!» ribatto subito io.
«Invece sì!»
«Invece no!»
«Basta, basta!» fa Tally, ridendo «Smettetela di beccarvi, piccioncini, ho capito!»
All’improvviso, sia io che Ben ci zittiamo.
Ci scambiano un’occhiata imbarazzata, quindi lui prende il cellulare e inizia a giocherellarci, mentre io mi raddrizzo sulla sedia e mi attorciglio una ciocca di capelli attorno a un dito.
Dopo qualche secondo gli lancio un’occhiata di sottecchi: ha lo sguardo abbassato sul telefono, ma è arrossito.
La sola idea fa arrossire anche me.
Non sono mai stata così felice di veder arrivare la truccatrice.
 
Un’ora dopo ci siamo ricomposti e siamo seri e posati, sul set.
Oggi non siamo insieme: io giro una scena con Julianne.
Tutto quello che devo fare, per tutto il film, è essere ambigua: con Mamma Malkin sembro fedele e poi, con Tom, dovrò sembrare altrettanto convincente.
Qualcosa mi dice che sembrare dalla parte di Ben non sarà un problema.
Alla fine della giornata scopro, con stupore, che Julianne sta per lasciare il set.
Le manca solo una scena, con Ben, in programma domani mattina.
«Oh, no!» esclamo, abbracciandola «E io come farò, adesso?»
Lei sembra stupita.
«Miki, ma tu non hai bisogno di me» dice, abbracciandomi affettuosamente.
«Sì, invece!» gemo «A te posso chiedere tutto e sei così paziente e gentile che io…»
Lei ride e mi accarezza i capelli.
Poi, lasciandomi di stucco, commenta con nonchalance:
«Puoi sempre chiedere a Ben. Mi sembra che abbiate un legame speciale, no?»
Mi detesto con ogni fibra del mio essere, ma sento il sangue incendiarmi le guance.
Dannata carnagione: anche se la mia pelle è olivastra si vede il rossore come se fossi pallida quanto Biancaneve.
A Julianne viene da ridere ancora di più.
«Ecco, mi sembrava!» dice «Bè… è un bel ragazzo! Affidati a lui!»
Io quasi mi strozzo.
«Ma...ma…» balbetto.
«Oh, Miki» sospira lei «Un film è così: ci si incontra per brevi, intensi e bellissimi periodi… E poi si va per la propria strada. Spesso attori che recitano nello stesso film non si incontrano neppure!»
«Sì, me l’ha detto anche… ehm… Ben» bofonchio.
Lei sorride.
«Magari ci vedremo ancora!» esclama «Intanto… spalle dritte, piccola Alice!»
 
Come se fosse facile.
 
*
 
Il giorno dopo sono doppiamente triste.
 
Perché devo salutare Julianne – con la quale ho legato molto più che con Antje, per esempio… e dire che lei impersona mia madre, nel film!  ̶  e perché ieri sera Ben non si è visto.
E io ero troppo imbarazzata per andare da lui, malgrado le battute che ci siamo scambiati la mattina.
Dopo colazione, vado a sedermi sul set e osservo Jeff, Julianne e Ben che indossano la maschera dei loro personaggi e si immergono nella recitazione.
Julianne fa abbastanza paura, vista così.
«Con gli effetti speciali sarà ancora più spaventosa!» gongola Sergei, soddisfatto.
Ma il sorriso di lei è così gentile che è difficile immaginarla come un demone malvagio.
Ci abbraccia tutti, ci ringrazia tutti.
Mi stringe forte e poi dice:
«Mi raccomando, tenete d’occhio la mia bambina qui… Ben, dico a te!»
Io mi irrigidisco, ma lei lo chiama con un cenno.
«Mi raccomando» gli ripete «Ti affido Miki»
Vorrei sprofondare, ma Ben annuisce e la abbraccia.
Dopo i saluti, Julianne va a togliersi il costume di scena per l’ultima volta.
 
*
 
La sera resto sola, in camera.
 
Nel mio bungalow mi connetto a Skype, aspettando che anche Luna possa collegarsi e, intanto, prendo un libro.
Dopo due pagine lo faccio scivolare sul pavimento, annoiata.
Metto della musica, controllo il cellulare.
Non so perché sono così irrequieta.
Forse, ad un certo punto, mi addormento, perché quando sento bussare alla porta scatto a sedere bruscamente e mi guardo attorno stranita.
Dove sono?
Ah sì…
 
Scendo dal letto e barcollo verso la porta.
La apro e trovo Ben che regge due bottiglie di birra tra le mani.
Mi guarda e scoppia a ridere.
Io lo fisso, senza parole.
«E quindi?» chiedo, sgarbata «Ridi sempre in faccia a chi ti apre la porta?»
«Scusa!» ansima lui «È che sei…»
«Cosa? Sono cosa?»
Lui si morde un labbro, palesemente divertito, e fa un passo in avanti.
Mi scosto per lasciarlo passare e lui entra e posa le birre, quindi viene verso di me.
Mi prende per il braccio e gentilmente mi fa voltare verso il piccolo specchio appeso al muro.
«Guardati» mormora «Sembri un leoncino inferocito»
E, gentilmente, passa una mano tra i miei capelli, che effettivamente si sono aggrovigliati in modo terribile.
Imbarazzata, sostituisco le mie mani alla sua e cerco di appiattirmi la chioma ribelle.
Ben va a stapparsi una birra, quindi si siede sul letto.
«Sei triste per Julianne, vero?»
Annuisco, un po’ vergognosa, ma lui non sembra stupito.
«Lo capisco» dice «A volte, su un set, si creano dei legami davvero forti»
«Bè, se ci pensi è quasi ridicolo» commento «Non l’avevo mai vista prima e con tutta probabilità non la vedrò mai più… Se mi faccio seriamente prendere dalla malinconia allora sono davvero una persona infantile»
«No, no» lui scuote il capo «Invece è una cosa molto normale perle persone sensibili. E poi per te è tutto nuovo e strano, immagino»
Annuisco.
«È ancora tutto un po’ irreale, in effetti»
Lui sorride.
«Immaginavo» commenta «Per questo sono qui»
Io aggrotto la fronte.
«Non devi» gli dico «Non prendere sul serio Julianne, perché io non ho bisogno di una balia. Non voglio costringerti a occuparti di me: non ho due anni!»
«Ehi!» lui sembra stupito «Veramente sono venuto perché… sì, immaginavo ti sentissi un po’ sperduta, ma non perché lo ha chiesto Julianne. Volevo venire e vederti. E basta, è un’idea solo mia»
 
Batto le palpebre.
Non me lo aspettavo.
Ma magari lo dice solo per gentilezza.
Lui sorride all’improvviso.
«Non mi credi, eh?» chiede.
«No, io…» esito «Ti sono molto grata per il pensiero… E bè… in parte mi vergogno un po’…»
In risposta ricevo un sorriso da infarto e poi Ben mi tende la sua birra.
«Bevici su, dai» mi esorta.
Bevo un sorso e poi vado a sedermi accanto a lui.
C’è un momento di silenzio, quindi dico:
«Ieri non sei venuto a vedere un film»
«Nemmeno tu» risponde.
Mi volto per poterlo osservare meglio.
Lui ricambia la mia occhiata.
Ha degli occhi scurissimi. Mi stupiscono ancora, come la prima volta che li ho visti.
Sembrano davvero neri.
«È per… per l’altra notte?» chiedo precipitosamente.
Lui fa un sorriso stanco.
«Detta così sembra che sia stata un’esperienza a due terribilmente disastrosa»
Io arrossisco, ma mi viene da ridere.
Lui scrolla il capo e poi dice:
«Bè… sì. So che è stata colpa mia, ma…»
«Ma che dici!» lo interrompo «Ti sei solo addormentato!»
«Lo so… Sono uno sfigato»
«Ma smettila!»
Sorrido e gli prendo la birra di mano per bere un altro sorso.
«Volevo comunque scusarmi» fa lui, prima di rivolgermi un’occhiata furba «Prima di baciarti sul set, ecco»
 
Scoppia di nuovo a ridere solo osservandomi, quindi immagino di aver fatto una faccia da idiota totale.
«Scemo!» dico, seccata, tirandogli un cuscino.
Lui rovescia metà della birra, quindi si lancia sul letto per afferrare l’altro guanciale.
«Ben!» salto giù dal letto, ridendo «Non osare! Non stavi parlando di baci?»
«Vuoi fare una prova?» scherza lui, brandendo il cuscino e avvicinandosi con aria furba «Dai, vieni qui!»
«Scordatelo!»
Cerco di scappare verso la porta ma lui mi prende per il braccio.
Ridiamo e ci spingiamo, finché non piombiamo sul letto, avvinghiati.
E, all’improvviso, scende il silenzio.
I nostri visi sono vicinissimi, i nasi quasi si sfiorano.
I suoi occhi catturano i miei ed è un bene, perché altrimenti osserverei quelle labbra morbide e perfette… e non mi sembra il caso.
Dopo un attimo – che mi sembra durare un anno – Ben si solleva appena sul gomito, restando comunque vicinissimo.
«Bastava dirlo, che volevi baciarmi» scherza, per sdrammatizzare.
Ma anche lui, per la verità, sembra abbastanza scosso.
Ci fissiamo ancora, in silenzio.
Il suo corpo pesa sul mio e io sono incastrata sotto di lui.
Non ci penso nemmeno, a spostarmi.
 
E poi, quando il silenzio si protrae ancora, un trillo ci riporta bruscamente alla realtà.
Ci guardiamo entrambi attorno, disorientati.
È il mio pc: Luna mi sta chiamando su Skype.
«Oh» fa Ben, spostandosi per permettermi di alzarmi.
Ma, per la prima volta nella mia vita, non corro a prendere una chiamata della mia migliore amica.
Mi passo invece una mano tra i capelli e dico, esitante:
«Vuoi… Ti va se vediamo un film?»
Lui annuisce.
«Ma Skype?» chiede «Ti lascio parlare, se vuoi»
«No, no» mi affretto a rispondere «È la mia amica… ma posso richiamarla domani»
«Allora ok» fa Ben «Cosa vuoi vedere?»
«Mmmm…» ho la testa completamente vuota «Shrek 2»
Lui mi guarda attonito, poi, incredibilmente, annuisce.
«Va bene» dice «Vediamo questo Shrek»
 
Facciamo partire il film ed entrambi ci sediamo sul letto.
Io mi appoggio ai cuscini, Ben si solleva sui gomiti.
Siamo vicinissimi, le nostre spalle quasi si sfiorano.
E siamo entrambi molto silenziosi.
Persino di fronte ai momenti più divertenti del film ci limitiamo a qualche sorriso, ma non diciamo nulla.
Io lotto contro la tentazione continua di voltarmi e fissarlo, perché non so cosa succederebbe.
E continuo a pensare a quello che è accaduto poco fa.
Quando il film finisce, Ben si alza in silenzio e io lo imito.
Reprimo l’assurda tentazione di chiedergli di rimanere con me.
Sulla porta, lui si volta e si protende a baciarmi una guancia.
 
È un’impressione mia, o le sue labbra indugiano un po’ troppo?
 
 

***
Sorpresa!
So che avevo promesso un capitolo eventualmente lunedì, ma non ce l'ho fatta.
Però volevo farvi un regalino per ringraziarvi dell'affetto e del sostegno che mi date sempre: vi adoro! <3
E oggi la mia carissima amica Angelika ha chiesto un nuovo capitolo... Ed eccoci qui!
Vi ricordo che venerdì aggiornerò Ragione e sentimento, crossover Harry Potter/Ben Barnes
(http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3078584) e che per qualsiasi cosa mi trovate su Facebook!
Pagina:
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Buona lettura e grazie di tutto,
Joy

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Capitolo 13
*** XIII ***


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Il cielo non è mai stato il limite. Siamo solo noi i nostri limiti.
Anonimo





Quando Ben posa le labbra sulle mie io sussulto.

 
Calde ed esigenti, le sue mi stuzzicano senza pietà e io mi sento illanguidire.
Non mi accorgo nemmeno di passargli le braccia attorno al collo, né di affondargli le mani tra i capelli.
In compenso, sento benissimo le sue mani che stringono la mia vita e risalgono sulla mia schiena.
Quando si stacca dolcemente da me io chino il capo e, per fortuna, i miei capelli cadono in avanti nascondendomi il viso, perché non so se sarei capace di nascondere il mio turbamento.
Le mani di Ben indugiano su di me, come per sostenermi.
 
E poi sentiamo urlare “STOOOOOP”!
 
 
Alzo gli occhi e Ben mi rivolge un sorrisetto da schiaffi.
«Andava meglio, secondo te?» mi chiede con tono fintamente preoccupato.
Io lo incenerisco con un’occhiata e mi alzo senza rispondere.
Lui mi imita, trattenendo una risata.
Sergei si avvicina, annuendo.
«Bravi» dice «Andava molto bene»
Mi impongo di non sbuffare.
Ben, invece, con una faccia da schiaffi invidiabile chiede:
«Forse si può migliorare qualcosa… Possiamo girarla un’altra volta?»
 
Giuro che lo ammazzo.
 
Stamattina abbiamo provato la scena e, al momento del bacio, Ben mi ha stampato le labbra praticamente sul mento.
Ammetto che io, invece, pensavo ad altro.
E non sono riuscita a trattenermi dal dire:
«Ah… Tutto qui?»
Ben è scoppiato a ridere.
«Come sarebbe a dire “tutto qui”?»
Io ho tergiversato, lui ha insistito.
«No, è che…» ho detto alla fine «Pensavo sarebbe stato… meno… meno falso, ecco»
Uno scintillio si è acceso nei suoi occhi.
«Meno falso?» ha domandato, soave «Be’… di solito si fa così»
«Ma quando vedi una scena così in un film è… ridicola, dai»
Lui ha sorriso.
«Quindi vuoi qualcosa di più realistico?»
Di fronte alla sua espressione ho fatto subito marcia indietro.
«No… dicevo per dire…»
«Ma no, dai, se preferisci che io…»
«No, no!» ho balbettato «Dicevo solo che…»
Ma non ho finito la frase, perché, oggettivamente, avevo proprio detto quello e adesso…
Be’, ero fregata.
 
E Ben, puntualmente, me l’ha fatta pagare.
 
Abbiamo girato tre volte la scena e tutte e tre le volte il suo bacio non è stato finto.
Anzi.
Ha usato labbra, lingua, mani e io…
Io, semplicemente, vorrei morire e insieme sprofondare.
Perché lui ha capito benissimo che effetto mi fa e io, maledizione, non sono capace di dissimularlo!
È solo che il mio cervello si è scollegato e io ho paura di fare o dire qualcosa di molto, molto stupido.
 
E lui se la sta ridendo!
Questa cosa è inammissibile: lo detesto.
 
Torniamo a sedere e io evito il suo sguardo.
Lui, dispettoso, strattona una ciocca dei miei capelli e poi la stoffa del mio costume di scena.
«Tutto bene?» chiede.
«Benissimo» ribatto a denti stretti.
«Sicura?» mi incalza «Hai una faccia…»
Io alzo il capo di scatto.
«Ben» mormoro «Questa me la paghi»
Lui fa un sorriso divertito poi però, quando un colpo di vento mi scompiglia i capelli, me li sistema con delicatezza.
«Sono pronto alla sfida, se vuoi!» ribatte, allegro.
 
 
Il quarto ciack è quello definitivo e io ricevo un bacio ancora più mozzafiato dei precedenti.
Quando finalmente ci alziamo da questo finto vicolo cittadino marcio verso la roulotte dei costumi ma, con me stessa, devo ammettere di essere quasi dispiaciuta.
A mensa ignoro Ben, ma nel pomeriggio si presenta un altro problema.
Quella maledetta scena del lago.
 
Torniamo sul set di sera, dopo cena.
Io ho saltato il pasto: fa troppo freddo e devo buttarmi in acqua.
Sono parecchio nervosa.
Ferma sulla riva del lago, rabbrividisco stringendomi nel piumino.
Ben arriva dopo qualche minuto.
Mi saluta, io rispondo con un cenno del capo.
Gli assistenti di scena si muovono tutti attorno a noi per sistemare i dettagli.
Il punto è che l’unica che deve farsi un bagno gelido qui sono io.
«Sei… arrabbiata con me?» domanda Ben dopo che il silenzio si è protratto a lungo.
«Sono seccata all’idea del bagno non gradito» ribatto io, senza guardarlo.
Dopo un attimo, la sua mano circonda la mia e lui mi tira dolcemente verso di sé.
Lo lascio fare, ma fisso il suolo.
«Ehi» mormora lui, talmente vicino che sento il suo alito caldo sulla guancia «Saremo velocissimi, prometto… E poi ti porto una cioccolata calda, ok?»
Annuisco e lui, sorprendendomi, mi stringe tra le sue braccia.
È un abbraccio dolce, lo sento accarezzarmi la schiena prima di lasciarmi andare.
Alzo gli occhi, confusa, ma in quel momento arriva Bodrov.
«Siete pronti?» chiede «Allora… Alice, tu stai provocando Tom, ok? Lui non si aspetta di vederti e tu lo sorprendi facendoti trovare in acqua, nuda. Stai facendo un bagno e hai l’aria di divertirti un mondo! Tu, Tom, sei imbarazzato e, insieme, parecchio intrigato. Tutto chiaro? Ok, pronti che giriamo»
Tutto chiaro un corno.
È chiaro, ma comunque io sono nervosissima.
 
Ad un cenno di un assistente mi sfilo velocemente il piumino di dosso e avanzo verso l’acqua.
Cazzo!
È gelata.
Stringo i denti e avanzo fino ad averla a metà coscia.
Ben, dalla riva, mi guarda preoccupato.
Uno degli assistenti, a un mio cenno, mi annaffia generosamente di acqua calda: i capelli mi si appiccicano al viso e al collo, una parrucchiera corre a sistemarmeli.
Io indosso un top senza maniche e dei pantaloni, ma immersa in acqua si vedranno solo le spalle nude e il viso.
Prendo fiato e mi immergo in acqua.
La parrucchiera si affanna intorno a me, anche lei fradicia poveretta.
Il ciack parte subito.
Mi sforzo di dire la mia battuta senza battere i denti dal freddo.
Sergei, generosamente, ci fa ripetere la scena solo un’altra volta.
Quando ci ferma io salto su e Ben tende una mano per tirarmi fuori dall’acqua.
Un assistente mi avvolge in una coperta e lui mi prende tra le braccia.
Non so se a qualcuno pare strano e sinceramente me ne frego: mi godo il calore delle sue braccia e la sensazione di pace che mi deriva dallo stare con lui.
Anche se non ci diciamo niente, anche se non succede nulla e francamente non capisco cosa stia accadendo… semplicemente, Ben mi fa stare bene.
 
Troppo presto per i miei gusti due ragazze della squadra vengono a prendermi e mi accompagnano ad asciugarmi e rivestirmi.
La scena prosegue con Alice in costume, sulla riva del lago, ma prima Sergei ci dà una pausa, che serve a me per essere nuovamente pettinata e vestita.
Quasi un’ora dopo sono pronta.
Mentre danno gli ultimi tocchi ai capelli (è una gran rottura questa storia dello stirarli per poi arricciarli di nuovo), entra Ben con una tazza fumante in mano.
Si siede accanto a me e me la porge mormorando:
«Cioccolata, come promesso»
Io sorrido e tendo le mani.
Il calore della tazza è il benvenuto: la tengo tra le mani e sorseggio lentamente.
Ben mi tiene gli occhi puntati addosso, come se mi studiasse.
Lo vedo riflesso nello specchio: è una sensazione stranissima.
Lui guarda me, io guardo lui attraverso il suo riflesso.
Dopo qualche minuto, la parrucchiera ci lascia soli e io mi volto a guardarlo.
«Tutto bene?» domanda lui «Come stai?»
Io sorrido.
«Non ti facevo così apprensivo, sai?» dico.
Ben sembra preso in contropiede.
«Ecco…io…»
Con naturalezza, allungo una mano e sfioro la sua.
«Sto bene comunque, grazie. Faceva solo un gran freddo»
Lui annuisce, poi la sua mano libera copre la mia e, con il pollice, ne accarezza il dorso.
Nessuno dei due si muove.
 
«Per quanto riguarda stamattina…» dico a un certo punto, titubante.
Lui mi lancia un’occhiata indecifrabile.
«Sei arrabbiata?» chiede a bruciapelo.
«Arrabbiata?» rispondo «No… non direi»
«Bene» mi sorride.
«Ma» dico, lentamente «Non mi piace l’idea che tu giochi con me»
«Non gioco con te!» ribatte subito lui.
Ci studiamo per un po’ in silenzio.
Ben fa per dire qualcosa, ma la porta si apre e ci richiamano sul set.
 
La scena successiva è abbastanza veloce da girare e, presto, possiamo tornarcene ai nostri bungalow.
Ben mi accompagna.
Siamo entrambi silenziosi, io sbadiglio spesso.
«Dormi bene» mi dice, quando arriviamo alla mia porta.
Sembra indeciso, ma io mi protendo verso di lui.
Con un sorriso, mi bacia sulla guancia.
«Buonanotte, Alice» mormora, prima di allontanarsi.
Ma, quando entro, pur lanciando un’occhiata di desiderio al letto ho ben altro in mente.
Devo assolutamente parlare con Luna.
 
 
Riusciamo a sentirci dopo qualche mia ripetuta e insistente chiamata via Skype, che costringe la mia amica a trovare una scusa per uscire dallo studio di fretta.
E, dopo che nervosamente e sconclusionatamente l’ho aggiornata su questi ultimi giorni, lei sembra faticare a trovare le parole.
Cosa che a lei non capita mai.
Mai.
«Luna?» la chiamo, attraverso la linea un po’ disturbata «Mi dici qualcosa?»
«Io non so davvero…» inizia lei.
«Cosa?» chiedo io.
Silenzio.
«Luna?» insisto «Cosa?»
«MA PERCHÉ LO VENGO A SAPERE SOLO ADESSO?!» urla lei.
Io sobbalzo.
«Perché gridi?» ribatto, allontanando la cuffia dall’orecchio «Sei matta? Mi hai assordata!»
«Tu…tu…» sembra non trovare le parole «Ma ti rendi conto di quello che mi hai appena detto?»
«Che non capisco perchè Ben si comporta così?» chiedo.
«Mic, ma come?!» sta urlando di nuovo «Ma è ovvio no?»
«Non mi pare, o non ti avrei disturbata con urgenza mentre lavori, no?»
«Micol! Ma è chiaro che è attratto da te, no?»
 
Silenzio.
 
«Io…» balbetto dopo un po’ «Io non lo so…»
«Ma come non lo sai?» mi incalza «Se fosse qualunque altro ragazzo e non Ben Barnes mi diresti la stessa cosa?»
«Ecco…» tergiverso «Forse no…»
«Appunto. No. Ed è no perché è chiaro che siete entrambi attratti e state flirtando!»
«Ma… oggi, sul set… è lavoro per lui!»
«Anche per te!»
«Va bene, anche per me. Ma comunque mi ha stuzzicata perché è un ragazzino e…»
«Come tutti i ragazzi» commenta lei, per niente colpita «Michi, lui è umano. È un ragazzo di quanto? Trent’anni?»
«Quasi trentuno» ribatto.
«Bene, miss Precisini» ribatte «Quasi trentuno. E, da quanto mi dici, è un ragazzo simpatico, socievole e divertente. Un normale trentenne che ha incontrato una ragazza che gli piace»
«Ma io… voglio dire… Lui è lui!»
«Prima, Mic» ribatte lei, filosofa «Prima era un attore inglese famoso e irraggiungibile… Ma ora? È tuo amico. Siete sempre insieme. Vi piacete. Mi sembra una cosa bella, altroché!»
«Ma…ma…»
Non so trovare le parole, ma con Luna non serve.
«Vai a parlargli» mi esorta.
«Sei matta?» inorridisco «Non posso!»
«Certo che puoi! Sei una che sa cosa vuole, lo sei sempre stata. Vai da lui, forza!»
«No, Luna, non ce la faccio, davvero!»
«Invece sì»
La sento sorridere attraverso la linea e poi mi dice quello che sa potermi convincere, sempre:
«Sono lì che ti tengo la mano, lo sai»
È una frase che usiamo spesso tra noi, quando dobbiamo farci coraggio.
Gliel’ho detta io la prima volta, quando lei doveva operarsi di appendicite e moriva di paura all’idea.
 
«E va bene» dico, con tono da martire «Ma ti odio quando fai così!»
«Così come?» ride lei.
«Quando fai la saggia ma poi non sei qui con me per incoraggiarmi!» sbuffo.
 
Tant’è… ha ragione.
E io lo so benissimo.
 
 

***
Buongiorno!
Come state, carissimi lettori?
Vi aspettavate un primo bacio del genere? :)
Devo dire che, pur essendo molto diversa da Gin, Micol ha preso una strada tutta sua che non mi dispiace...
Temevo che qualsiasi cosa facesse non sarebbe riuscita a staccarsi da Gin, invece è ben diversa da lei. Che ne pensate?
Vi ricordo l'altra mia storia aperta, Ragione e sentimento (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3088326) e vi chiedo, visto che Caspian e Hermione mi mancano molto... Vorreste un'anticipazione anche di quella storia?
Fatemi sapere, qui o su Facebook!
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Buon inizio settimana e mi raccomando: leggete tanto!
Vostra,
Joy

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Capitolo 14
*** XIV ***


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Nessun problema può essere risolto congelandolo
Winston Churchill





Vado immediatamente a cercare Ben, prima di perdere il coraggio.
 
Busso alla sua porta e lui apre subito.
Appena mi vede mi rivolge un sorriso stanco.
«Lo sapevo» dice.
«Cosa?» chiedo, aggrottando la fronte.
«Che saresti venuta»
Io faccio una smorfia.
«Non sei Sibilla Cooman, eh!» dico «Ci vediamo praticamente tutte le sere»
«Sì, ma stasera è diverso. Sbaglio?» domanda.
Mi fa cenno di entrare e io vado a sedermi sul letto, per abitudine più che altro.
Non so bene dove mettere le mani, all’improvviso, per cui le serro in grembo.
Ben resta in piedi.
Dopo un attimo, mormoro:
«No, non sbagli»
Lui annuisce, poi si passa una mano tra i capelli.
 
«Senti…»
«Senti…»
Iniziamo a parlare nello stesso secondo e ci interrompiamo subito, imbarazzati.
«Prima tu» dico.
Lui sospira, ma va dritto al punto.
«Volevo scusarmi per oggi» si morde un labbro, indeciso «Stavo giocando, ma mi spiace se ti ho messa in imbarazzo»
Io lo guardo, calma.
«Stavi giocando?» ripeto «E basta?»
C’è un momento di silenzio teso.
«Miki» fa poi lui «Cosa vuoi che ti dica?»
«Dimmi la verità» ribatto, scrollando le spalle «La verità su quello che sta… Insomma. Tu mi hai baciata… Per davvero. E anche io ho baciato te»
La verità di quelle parole resta sospesa tra noi.
Ben mi guarda negli occhi e io sostengo il suo sguardo.
Dopo un attimo aggiungo:
«Ben, io… Non so bene cosa sta succedendo, ma… Mi confonde. E molto»
Trattengo il fiato in attesa della sua risposta.
Lui sospira e poi dice:
«Confonde anche me. E non sai quanto… Non mi era mai successo»
 
Mi rendo conto ora, improvvisamente, di quanto fossi agitata, perché di colpo è come se riuscissi a respirare di nuovo.
Tutta la tensione si scioglie almeno un po’ e riesco a dire:
«Io non ho esperienza di vita sul set… Ma posso dire la stessa cosa? Anche a me non era mai successo prima»
Ben viene a sedere accanto a me.
Mi sorride e mi prende delicatamente la mano.
«Non dovresti dirlo» mormora «Perché, per quanto possa sembrarti strano, su un set è tutto amplificato: viviamo a stretto contatto quindici ore al giorno, siamo qui soli. Siamo lontani dalle nostre case, dalle nostre famiglie, dai fidanzati…»
La sua voce sfuma e mi prende un colpo.
Non ci avevo pensato.
Non ci avevo proprio pensato!
«Tu… Che sciocca sono. Hai una fidanzata, vero?» chiedo.
«No» risponde lui, lasciandomi di stucco.
«Oh» ribatto «Credevo… Hai appena detto…»
Ben fa un sorriso un po’ tirato.
«Veramente» spiega «Non so se tu hai un fidanzato»
Inorridisco.
«Certo che no!» esclamo.
«Perché lo dici come se fosse una cosa brutta?» domanda, curioso.
«Perché, se avessi un fidanzato, non sarei certo qui a fare certi discorsi con te!»
Ben sorride e mi stringe dolcemente la mano.
«Ecco, vedi? Tu sei così…»
«Così?» chiedo, perplessa.
«Così innocente. Così dolce. Mi porti un thè perché pensi che stia congelando, vieni a cercarmi per chiarire le cose… Non te la tiri, non ti atteggi a diva, non affoghi nelle paranoie. Sei così diversa dalle persone che girano in questo ambiente. E io…»
Esita, sembra non sapere bene come concludere la frase.
Io ricambio la stretta della sua mano.
«Non è poi questo granché» dico, per sdrammatizzare.
Lui scuote il capo.
«Scherzi, vero? Sei… Sei così diversa, così unica…»
Io arrossisco.
Ha detto proprio “unica”?
 
Lui ridacchia.
«E sei adorabile quando arrossisci»
«Smettila!» gli faccio la linguaccia per nascondere la confusione «Lo fai apposta allora! Mi stai mandando di nuovo in confusione!»
«Ti mando in confusione, quindi?» domanda lui, sornione.
Accidenti.
Quanto a flirtare, evidentemente Ben ha una Laurea Honoris Causa.
Alzo il naso in aria.
«Smettila di dire cose al posto mio, grazie» dico, secca, ma davanti alla sua aria contrita mi scappa da ridere.
«Ben, sei tremendo!» dico, scuotendo il capo «Davvero, tu…»
Lui sembra in attesa e io non so bene cosa dire.
«Forse sono troppo ingenua per un ambiente come questo» dico, dopo un po’ «A me sembrate tutti così… Umani. Tutti gentili, spontanei. Non vedo divismi qui… Siamo tutti uguali. O no?»
Lui sospira.
«Su questo set si sta molto bene, ho fatto esperienze molto peggiori. Ma sono tutte persone che sanno che si tratta di qualche mese e poi ci si saluta. Magari non ci si incontra più. E questo incide sul tipo di rapporti che si creano, capisci? Se sai che, per lavoro, incontrerai sempre delle fantastiche persone che però dopo un paio di mesi dovrai salutare e che, per quanto tu ti sia trovato bene, magari non ti capiterà più di sentire… Bè, diventi più freddo. Impari a controllare i sentimenti. Io sono vissuto per qualche mese così a stretto contatto con dei colleghi che mi sembrava quasi di sentirli come fratelli… Poi, semplicemente, spariscono. E resti solo»
Io inorridisco.
«Ma che orrore!» esclamo «Vorresti dire che, in questo ambiente, non esiste l’amicizia? Non esiste l’amore?»
Alla parola “amore” i suoi occhi si incupiscono, lui però dice:
«L’amicizia vera è rara. E, in questo ambiente, lo è ancora di più. Molti sono falsi, opportunisti. Altri ancora, semplicemente, hanno imparato che fa parte del gioco»
«E quindi cos’è?» chiedo «Un meccanismo di difesa?»
«Sì, esatto»
«Io non potrei mai vivere così» commento «E non potrei mai intendere la vita in questo modo!»
«Lo so» lui sospira «L’ho capito subito. Sei così trasparente… Ti si legge dentro con facilità. E, per questo, devi stare molto attenta, Miki»
Lo scruto con attenzione.
«A te?» bisbiglio poi.
Lui si morde un labbro.
«No…» inizia «O meglio: no, nel senso che io non voglio farti del male. Ma se resterai nel mondo del cinema dovrai imparare questa regola, prima di farti davvero male»
«Non parliamo del mondo del cinema» ribatto «Parliamo di te. E di me»
«Non ti arrendi, eh?» dice, scherzoso.
Io, invece, sono serissima.
«Tu vuoi evitare l’argomento, mi pare di capire»
Di nuovo lo vedo esitare.
«Non, è che non… Non so dove ci porterà e quindi…»
«Quindi, secondo te, è meglio far finta di niente, in attesa di non vederci più?» domando, in tono leggero.
Dal suo silenzio capisco che lo pensa.
«Bene» dico.
Libero la mano dalla sua presa e mi alzo.
«Non sei la persona che credevo fossi» esordisco, decisa «Da questo momento, per favore, evita di fingere di essere mio amico. Buonanotte»
 
Non faccio in tempo a muovere un passo che lui è già saltato in piedi.
«Miki!» esclama, agitato «Ma cosa dici?»
«Dico che manca quanto: un mese? Di meno? Non è così tanto tempo: puoi tranquillamente già fare finta che io non esista più»
«Ma io non voglio!» fa, alzando la voce «Non voglio rovinare il nostro rapporto e non…»
«Non vuoi rovinare quale rapporto?» lo interrompo «Quello lavorativo? Stai tranquillo, non ci sono problemi: è tutto falso, no? I baci, gli scherzi. Che problema c’è? Facciamo ancora finta, sul set. Ci pagano per questo, vero?»
A giudicare dalla sua espressione, questo mio discorso da dura sembra aver fatto effetto.
«Miki, io non volevo!» dice, afferrandomi il braccio.
«Voglio andare via» dico, gelida «Lasciami il braccio, per favore»
Ma lui, per tutta risposta, mi afferra per entrambe le braccia.
«Aspetta» dice, concitato «Aspetta un attimo… Non andare via. Parliamo, ti prego»
«Perché, finora cosa abbiamo fatto?» domando, secca.
Lui sospira, poi si avvicina di un passo.
Distolgo gli occhi dai suoi: siamo troppo vicini per i miei gusti, al momento.
Ma Ben mi prende il mento con due dita e, dolcemente, mi fa alzare il capo.
«Guardami» mormora.
E non è valido: lo sa che fa girare la testa a una donna, se fa così.
Lo sa per forza.
Cerco di restare impassibile mentre lui dice:
«Sai, vorrei davvero che tu non fossi capace di mettermi in questa situazione»
«Quale situazione?» chiedo, fregandomene di sembrare polemica.
«Una situazione incasinata come questa. Tu…» esita, poi dice «Tu mi piaci davvero, Miki»
 
In una condizione normale farei i salti di gioia a sentire una frase del genere.
Ma questa non mi sembra una condizione normale, ecco.
So che Ben ha notato che sono ancora rigida e scostante, ma prosegue con calma:
«Mi piaci e io… quasi vorrei che non fosse così. Perché stiamo lavorando insieme, perché questa cosa potrebbe fare del male a entrambi e perché non ho idea di come venirne fuori»
«Questa cosa?» ripeto «Venirne fuori? Ma tu parli sempre così di sentimenti?»
Sono infuriata, ma lui sembra ponderare seriamente la domanda.
«Non sono molto bravo, con i sentimenti» dice alla fine «È molto tempo che io non… Non ho una storia con qualcuno»
Sono talmente sorpresa che mi dimentico persino di essere arrabbiata.
«Tu?»
Lui ridacchia.
«Perché, cosa pensavi?» chiede «Che essere un attore faciliti avere delle relazioni? Guarda che è il contrario. È molto difficile creare dei rapporti stabili e farli poi durare nel tempo»
«È difficile per tutti» obietto «Non solo per gli attori»
Lui scuote il capo.
«Non voglio fare del vittimismo, ma per gli attori è peggio. Essere sempre sotto pressione, essere sempre in giro per il mondo… è deleterio nel costruire una relazione. Facciamo un lavoro per il quale è molto facile scoprirsi folgorati da qualcuno. Si sta a stretto contatto per dei mesi, lontani dal mondo reale… Poi, però, si torna alla vita normale e allora quelle folli passioni devono fare i conti con la lontananza, la quotidianità, i viaggi, gli altri lavori e i conseguenti altri incontri…»
«Ben» lo interrompo «Va bene, ho capito, ma preferirei evitare i grandi discorsi generici e concentrarci su noi due»
«Grandi discorsi?!» lui sembra indeciso se essere scioccato o arrabbiato «Ma io sto parlando di noi due!»
«Per niente!» ribatto «Scusa ma non c’è una cosa, nella mia vita, che coincida con quanto hai appena detto. E, prima che tu aggiunga qualcosa, sappi che non c’è nulla, nella prospettiva che hai dipinto, che potrebbe farmi desiderare una vita del genere!»
Lui fa un sorriso storto.
«Sono scelte di vita, Miki. È un lavoro che ti toglie alcune cose, ma ti dà anche tantissimo»
«Io odierei penalizzare la mia vita personale a favore di quella lavorativa, ma è una mia idea. Ora… Mi spieghi come si fa a coniugare questo tuo discorso con… Be’, con noi due?»
Lui sospira.
«Miki, ascolta, io… Io non penso di volere una relazione, in questo momento»
Mi scruta, preoccupato, e io sospiro.
«Tu non pensi di volere una relazione» ripeto, con voce atona.
Lui annuisce, mordendosi il labbro.
Mi passo una mano tra i capelli.
«Ben, se c’è una cosa che veramente non tollero sono quelli del “non penso di volere una relazione”. Che vuol dire? Una relazione dipende dalla persona che hai davanti, dalla situazione, dalle implicazioni. Non puoi sapere a priori se ne varrà la pena o come andrà a finire… Se non vuoi provarci è perché una persona non ti interessa abbastanza»
«No!» fa lui «Davvero, io…»
«No, ascoltami!» lo interrompo «Davvero, è facile. Ci sono le persone che ti piacciono e quelle che invece non ti piacciono. Basta riconoscerlo e tutta questa storia del non volere relazioni assume un contorno più chiaro»
«Miki, no, ti sbagli!»
Ben sembra agitato, muove un paio di passi nervosi per la stanza, poi torna accanto a me.
«Siediti, ti va?» chiede «Voglio parlarne… Non mi va che pensi che ho giocato con te e ora voglio tirarmi indietro da perfetto stronzo»
Mi siedo sul suo materasso e lui mi imita.
«È tanto tempo che non ho una relazione» ricomincia lui «E questo perché ho sperimentato come questo tipo di vita renda molto difficile dedicarsi all’altra persona al cento per cento. Posso sembrarti egoista, Miki, ma in questo momento io voglio dedicarmi alla mia carriera. Ho trent’anni, è il mio momento… Devo farlo ora. E, per farlo, mi serve ogni energia. È una scelta che ho fatto con consapevolezza e non me ne pento. Eppure…»
Esita un attimo, poi prosegue.
«Eppure tu… Tu a tratti riesci a farmi desiderare… Altro. È che sei così… è che con te è tutto così… sembra tutto possibile, ecco. Ma non sarebbe giusto, capisci? Tu sei una ragazza che merita tutto»
Fa per prendermi una mano, ma io incrocio le braccia sul petto.
«Sai» ribatto «Sono sempre stata contraria ai discorsi “tu sei fantastica ma io bla bla bla”… Perché c’è sempre un “ma”, in quei discorsi. E, allora, secondo me è meglio dire le cose con chiarezza. In fondo, torniamo sempre alla stessa questione: quando qualcuno ti piace davvero non stai a chiederti se avrai tempo o no. Il tempo lo trovi, se lo vuoi davvero»
Lui sospira.
«Lo fai sembrare facile…»
«È facile» dico, convinta.
«Miki, non ti rendi conto di che vita faccio» insiste lui «Sempre con la valigia pronta, sempre in preda di incertezze… Ti scritturano per un film e tu prendi e corri. Non esistono feste, compleanni, anniversari. Come pensi che potremmo fare?»
«Non lo penso» rispondo, secca «Non sono certo qui ad elemosinare la tua attenzione o il tuo tempo. Hai già messo in chiaro che per te non è una cosa fattibile. Benissimo. Ora lascia mettere in chiaro a me che preferisco non si verifichino altri momenti come quelli di oggi»
«Miki, ti prego» Ben si protende verso di me «Ti prego, non odiarmi. Non fare così. Davvero, se potessi… Ma tu non sei una ragazza da una notte, l’ho capito subito»
«Ci puoi scommettere!» ribatto «Non è una proposta che prenderei in considerazione!»
«Lo so, non mi permetterei mai di… Davvero, lo si capisce solo guardandoti che tipo di ragazza sei»
 
Però non sono abbastanza per farti desiderare di stare con me.
 
Dopo un attimo di silenzio mi alzo.
Lui mi imita subito.
«Resti ancora un po’?» chiede, precipitosamente.
«No, grazie» ribatto, atona «Sono stanca»
Annuisce.
«Ti accompagno» propone.
«No, so la strada. Buonanotte»
Sulla porta, Ben mi si avvicina ma io fingo di non vederlo.
 
Con passi misurati mi avvio nella notte.



***
Alla buon'ora!
E dire che pensavo di riuscire ad aggiornare venerdì...
Seeeee Joy, non fare piani malefici che poi non riesci a mantenere!
Mi spiace molto per il ritardo, ma sono stati giorni frenetici, culminati in una scena inconcepibile oggi in Rai...
Ma passiamo oltre.
Dunque, dunque... Vi ricordo le altre mie due storie aperte:
Ragione e sentimento:
 http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3095839
L'Erede di Narnia: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3092907&i=1
E, se volete fare due chiacchiere, mi trovate su Facebook:
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Buona lettura!
Joy 

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Capitolo 15
*** XV ***


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Il vero viaggio non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi
M. Proust




La mattina dopo, sul set, sia io che Ben abbiamo delle occhiaie scure e ben visibili.
 
Non so lui, ma io non sono quasi riuscita a chiudere occhio.
E lo so, sono una cretina, ma…
Ammetto che un po’ ci speravo.
Lui è così… spontaneo. Divertente. Premuroso. Affascinante.
Pensavo che… Bè, pensavo di piacergli anche io, almeno un po’.
Evidentemente non è così, per cui è inutile arrovellarsi sull’impossibile.
Questa esperienza è stata un regalo imprevisto… forse chiedevo troppo.
Forse dovrei farmi bastare quello che ho: è comunque molto.
Non avrei mai, mai pensato che potesse capitarmi una cosa del genere… Perché desiderare anche qualcosa che non posso avere e che, per di più, potrebbe rovinarmi tutto il bello avuto finora?
 

Forte di queste considerazioni, oggi mi sono presentata sul set con un sorriso.
Ben sembrava teso: quando sono arrivata mi ha scrutata circospetto, io l’ho salutato normalmente ed è finita lì.

In programma ci sono ora una serie di riprese molto fisiche, che inscenano le battaglie.
Saranno poi completate nelle case di produzione degli effetti cinematografici, perché prevendono confronti con mostri di varie dimensioni e potenza.
E anche se non si vedono ancora i mostri, noi attori dobbiamo recitare la nostra parte e, per farlo, abbiamo degli aiuti.
E per fortuna, perché solo cercare di essere credibile mentre fissi il vuoto dove in CGI costruiranno qualche spaventosa creatura è abbastanza complicato.
Per dirne una, non hai nemmeno il senso delle proporzioni. Ok, la creatura è grossa… Ma grossa quanto? Alta quanto? Come un secondo piano di una casa? Come la Tour Eiffel?
Insomma, stai lì, con il naso per aria, sentendoti una vera idiota*.
 
Dicevamo… aiuti. Sì.
Primi fra tutti le controfigure.
Mi hanno scioccata: non hanno nulla in comune con me, Ben o Jeff, a parte la corporatura e il colore dei capelli.
Lo stuntman che sostituirà Ben deve avere una decina d’anni più di lui; di schiena potrebbero passare per gemelli, ma quando l’ho visto in faccia mi è preso un colpo.
Lo stavo fissando, affascinata, finché lui non se ne è accorto e si è messo a ridere.
«Non preoccuparti» mi ha detto «Non mi inquadreranno mai il viso!»
 E, in effetti, le controfigure servono per le scene più rischiose e per quelle dove servono requisiti atletici notevoli.
Ci chiedono se e quanto vogliamo farci aiutare da loro: io accetto immediatamente tutta la copertura possibile e anche Jeff delega molto, sostenendo di non avere più l’età, ma Ben chiede di fare il più possibile da solo.
Lui e Sergei parlottano a lungo, quindi il regista annuisce.
«Proviamo» gli dice «Se non ce la fai dillo senza problemi, ok?»
Ben annuisce, poi mi lancia l’ennesima occhiata.
Io faccio finta di nulla e prendo posto sulla mia sedia.
 
*
 
La giornata trascorre osservando Ben e Jeff che rotolano a terra e quindi giù da una collina, fino a finire in una macchia di vegetazione.
Ben ha già preso un paio di botte consistenti, che mi hanno fatta sussultare di nascosto, terrorizzata, ma non vuole farsi da parte.
«Ce la faccio!» continua a ripetere.
Soffoco l’impulso di andare a prenderlo a calci e bevo la quindicesima tazza di thè della giornata.
Jeff viene presto a sedersi accanto a me: giustamente ha una controfigura e la sfrutta… Mica come quel pezzo di cretino laggiù, che sta cercando di farmi venire un colpo!
«Ehi» mi saluta Bridges «Giornata noiosa?»
«Affatto!» ribatto, convinta «Molto meglio stare seduta qui che rotolarmi per terra con voi»
Lui ride, divertito, poi si mette ad osservare Ben, che sta ripetendo la scena in cui viene sbalzato da un carro.
Lo vediamo fare un volo e piombare su un materasso.
Sembra comunque un colpo mica da ridere…
Mi mordo le labbra ma inalbero un’aria indifferente (che spero sia anche convincente).
«Chissà perché lo fa» dice Bridges, dopo un po’ «Potrebbe lasciar lavorare la sua controfigura»
«Oh, lui ci tiene tantissimo» rispondo, senza pensare «Si è preparato molto per questo film, per recitare con te capisci…»
«Hum?» fa Jeff, osservando Ben rialzarsi per l’ennesima volta.
Se continua così si rompe qualcosa, me lo sento.
«Insomma…» aggiungo «Tu sei un po’ un eroe, per lui… Non dovresti trattarlo come se fosse uno scarafaggio brutto e fastidioso, sai?»
 
Ops.
Forse questa potevo evitarmela.
 
Jeff si volta a fissarmi.
«Ma io non lo faccio!» dice.
Io sospiro.
«Certo che lo fai… e lo sai benissimo. Perché lo tieni a distanza?»
Lui sembra rifletterci su.
«Ma, sai…» dice alla fine «A volte la devozione dei giovani è quasi pesante… E dei legami troppo stretti distraggono, sul lavoro…»
«E poi ti diverti, eh?» lo punzecchio io.
Lui scoppia a ridere.
«Sei proprio una piccola strega, Miki» dice, prendendo da bere.
 
*
 
Qualche giorno dopo una nuova sedia fa la sua comparsa**.
 
È una di quelle sedie da attori: Jeff – sorpresa, sorpresa!  ̶  l’ha comprata per Ben.
Lui sembra senza parole.
È così felice e grato che mi si stringe il cuore.
Jeff sembra volersi redimere: no so bene cosa si dicano, ma il loro rapporto inizia ad evolvere e ben presto diventa normale vederli cantare insieme sul set, oppure suonare la chitarra.
Jeff ha preso a chiamarlo Jamin e Ben ne sembra felicissimo***.
E io sono felice per lui, anche se so che non dovrebbe importarmi.
 
Il nostro rapporto è congelato: ci parliamo se siamo in mezzo agli altri e basta.
A onor del vero, lui ha tentato in un paio di occasioni di propormi di vederci ma io ho fermamente declinato.
E ora Ben è felice con il suo nuovo amico… E a me va bene così.
«A chi vuoi darla a bere?» mi ha chiesto ieri Luna, arrabbiata.
«A nessuno» ho risposto io, altrettanto nervosa «A me va bene così per davvero»
 
Ma la sera dopo, quando trovo Ben sulla porta del mio bungalow, non riesco a reprimere un’inopportuna stretta al cuore.
 
*
 
«Io così esco di testa» mi informa lui, prima che io possa anche solo aprire bocca.
 
Ci fissiamo, in silenzio, poi io scuoto il capo.
«Cosa vuoi che ti dica?» chiedo.
Lui sospira.
«Posso entrare?» domanda «Ho bisogno di parlarti»
Non dovrei, lo so bene.
Ma non ce la faccio a chiudergli la porta in faccia.
E poi io non sono forse quella che è padrona della situazione?
Appunto.
 
È solo che  ̶  non so come né per quale motivo – la sua presenza mi agita.
Sono nervosa, irascibile, polemica e, peggio, sono furiosa perché al solo vederlo mi scoppia il cuore.
 
È meglio se mi do una calmata.
Cos’ho, quindici anni?
Ed è colpa sua, che mi guarda con quegli occhioni scuri!
 
Questo è il motivo per il quale sbotto con troppa acredine in un:
«Beh, cosa c’è?»
Ben sembra preso in contropiede e io mi mordo la lingua.
Potrei anche evitare di sembrare una zitella inacidita, no?
«Scusa» borbotto «È che sono stanca oggi e questo mi rende di malumore»
Lui fa un sorriso tirato.
«Un modo garbato per suggerirmi di andare dritto al punto e non portarti via tempo?»
Pur non volendo, rispondo al sorriso.
«A tua discrezione»
Lui fa un altro sorriso, poi, esitante, dice:
«È che… mi manchi. E questa situazione mi pesa molto»
Non so cosa rispondere, lo ammetto.
Resto in silenzio e lui prosegue, con una certa fatica:
«Mi manca non parlare con te e non passare del tempo insieme. Tu… Mi fai stare bene»
Ci fissiamo a lungo, quindi lui mormora:
«Dimmi qualcosa, dai, ti prego…»
Io sospiro.
«Ben… per me è lo stesso» ammetto «Ma io lo sapevo già. Lo sapevo l’altra sera, quando sono venuta da te, e sapevo che è una cosa che non sarebbe cambiata»
«È solo che…» lui fa un sorriso impacciato «Che questi giorni senza di te sono stati inspiegabilmente pesanti»
Annuisco.
Per me è lo stesso, ovviamente.
E aggiungiamoci la consapevolezza affatto bella di essere stata rifiutata, per cui…
 
In compenso, Ben sembra davvero in difficoltà ed è per questo che mi viene spontaneo dirgli:
«Ben… Non pensavo, sai, di vederti così impacciato in una questione sentimentale»
Lui fa un sorriso di scuse e si passa una mano tra i capelli.
«Te l’ho detto… è tantissimo che non ho una relazione»
«Ma è come nuotare» obietto io «O come andare in bicicletta: non te lo dimentichi più, quando hai imparato»
«Allora io non ho mai imparato bene come si fa, credo»
Tentenno.
Sono curiosa, è ovvio.
Ma non voglio dargli la soddisfazione di domandare nulla, per cui scrollo le spalle con aria indifferente.
«Non esistono scuole per imparare»
Lui fa un gesto di impotenza con le mani.
«Lo so, ma… Non posso farci niente»
«Ben» sospiro «È come se tu dicessi che vuoi imparare a nuotare senza però entrare in acqua e bagnarti. È impossibile. Se tieni lontane le donne che possono attrarti cosa pretendi? Che un fulmine ti colpisca all’improvviso?»
Lui arriccia il naso, quindi fa un sorriso imbarazzato.
«Sono un idiota?»
«Sì» annuisco immediatamente.
Fa un passo verso di me, esitante.
«E… pensi ci siano speranze che tu mi aiuti a rimediare?»
 
 

*Ho messo in bocca a Micol un concetto espresso da Ben in una delle interviste promozionali per Seventh Son.
**Vero: Ben ha ancora quella sedia, nel suo giardino. Superfluo dire che ci tiene parecchio!
***Vero anche questo

 

***

Buonasera, diletti lettori!
Vista la difficoltà della scorsa settimana con gli aggiornamenti, per evitare ogni rischio posto oggi il nuovo capitolo.
Ho aggiornato (in ritardo) anche Ragione e sentimento, che potete leggere qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3105195
Questa sarà invece la settimana del secondo capitolo de L'Erede di Narnia (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3092907&i=1).
Vi auguro un buon inizio settimana!
Buona lettura,
Joy

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Capitolo 16
*** XVI ***


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Il pericolo non viene da quello che non conosciamo ma da quello che crediamo vero e invece vero non è
Marc Twain



La mattina dopo c’è il sole e mi sembra quasi incredibile.

 
Questa notte c’è stato un temporale fortissimo: il vento mi ha tenuta sveglia per ore e devo ammettere che i tuoni mi terrorizzano.
Mi trascino in mensa per bere un caffè e poi sul set, struccata e con i capelli sistemati in un nodo disordinato in cima alla testa.
Oggi non ho scene, ma voglio vedere quella di Ben.
È in programma una ripresa parecchio difficile, in acqua.
In teoria Ben dovrebbe lottare contro un Boggart; in pratica sarà agganciato a qualche macchina che gli permetterà di essere sballottato per bene mentre sarà in immersione*.
Io, ovviamente, me ne starò seduta lì e farò finta di non essere affatto spaventata.
 
Arrivo sul set e vado alla ricerca di una sedia.
Mark, uno degli assistenti di scena, mi rivolge un saluto scherzoso:
«Ehi, Miki!» grida «Che faccia! Ti preferiamo in costume di scena!»
«Spiritoso» borbotto «Vorrei vedere te, se non avessi chiuso occhio tutta la notte»
«Lo sai come si dice?» chiede una voce nota alle mie spalle.
Volto il capo e vedo Ben sorridermi.
Aggrotto la fronte.
«Cosa?» chiedo «In che senso?»
Lui si avvicina e mi posa una mano sulla spalla.
Si china verso di me e il suo fiato caldo mi sfiora la guancia e mi provoca un brivido.
«Se resti sveglia di notte, allora vuol dire che eri nei sogni di qualcuno»
Sento un sorriso allargarsi sul mio volto.
«Nei tuoi, magari?» chiedo.
Lui mi strizza l’occhio.
«Mmm…» bisbiglia «Forse sì»
 
*
 
Ok, lo so che volete sapere come è finita ieri sera.
In effetti, io continuo a pensarci.
Ancora e ancora.
 
Siamo rimasti a parlare per oltre due ore e la cosa che più mi ha spiazzata è il senso di insicurezza che ho scoperto in Ben.
Ammetto che io, di solito, credo poco a queste incertezze: secondo me è impossibile non sapere se qualcuno ti interessa o no.
Semplicemente ci sono molti immaturi che preferiscono la strada facile, quella per cui non devi affrontare una persona ma trincerarti dietro una non meglio classificata paura o difficoltà di amare.
Come se non si rendessero ridicoli da soli, tra parentesi.
Non ho mai capito come possano non vedere quanto appaiono idioti, ma soprassediamo.
 
Dicevo, io di solito non sono tollerante di fronte a quelle che mi sembrano banali scuse.
Ammetto però che adesso faccio fatica a non credere a Ben.
O meglio: non credo alla storia del non volere a priori una relazione, però credo che Ben sia sincero.
È rimasto con me a cercare di parlarmi malgrado io sia stata dura e sprezzante, all’inizio, e si è comportato in modo molto umile.
Gli ho detto a muso duro che non gli credevo e lui sembrava essere completamente in panico.
Se uno non vuole uscire con te non vede l’ora di scappare, giusto?
Non resta a prendersi insulti, dico bene?
Ben, invece, ha sopportato in silenzio una mia sfuriata sul suo essere infantile e molto, molto vuoto e sciocco e, tanto per aumentare il mio sconcerto, mi ha dato ragione.
«Miki, è così tanto che non ho una storia che… Non so, con te sono completamente in confusione» mi ha detto.
Poi ha aggiunto:
«Solo che… Mi fai desiderare che sia diverso, ecco. Che sia possibile»
«Io continuo a non vedere cosa ci sia di impossibile» ho ribattuto, decisa «Cos’è che ti spaventa tanto? Prenderti un impegno? L’idea che io ti leghi mani e piedi e non ti permetta più di muovere un passo?»
Lui ha fatto un sorriso storto.
«L’idea di essere legato da te non mi dispiacerebbe…» ha scherzato.
«Te lo sogni» è stata la mia secca risposta.
Dopo un attimo di silenzio ho chiesto:
«Ben, ma tu davvero sei uno di quelli che credono che avere una relazione significhi avere un cappio al collo?»
Dalla sua espressione è risultato chiaro che lo pensava, tuttavia ha risposto:
«Io… è stato così, per me, in passato. Non sto dicendo che sarebbe così anche con te… Sei così dolce e gentile che non mi sembri proprio…»
«Una gelosa cronica?» gli sono venuta in aiuto «Una con la mania del controllo? Ma con chi sei stato, si può sapere?»
Lui ha sorriso stancamente.
«Con una ragazza che mi ha reso molto difficile coniugare il lavoro e la nostra storia. E io ci ho provato, davvero, ci ho provato tanto… Ma non ci sono riuscito»
«Non ci siete riusciti» l’ho corretto, scettica «Le cose si fanno in due, no? Non è mica solo colpa di uno»
Lui ha sospirato.
«Lei non è mai stata d’accordo»
«Lei si sbagliava» ho detto, pacata «E, soprattutto, lei non è me»
Ben mi ha fissata intensamente, prima di annuire.
«Non ti stavo paragonando a lei… Sei tutt’altra persona»
«Quanti anni avevi?» ho chiesto.
«È finita quasi due anni fa»
«E pensi di punirti ancora a lungo?» ho chiesto, scherzando solo in parte.
Lui ha sorriso e ha preso tra le dita una ciocca dei miei capelli.
«Non so» ha mormorato «Quando avrò una storia voglio essere sicuro di potermi dedicare alla mia ragazza con ogni energia. Ora, come ti ho detto, sono focalizzato sulla carriera… Non sarebbe giusto, ti pare?»
«Non riesco a essere d’accordo» ho obiettato «L’intenzione è un cento per cento. L’impegno, la voglia di far funzionare le cose. Il tuo tempo, per forza di cose, non può esserlo. In qualunque relazione le persone hanno una vita propria ed è giusto che la mantengano, a meno che tu non sia uno di quei fidanzati appiccicosi e pedanti che stanno sempre a seguire la propria ragazza reggendole la borsetta. Se questo fosse il tuo caso, allora devo informarti che purtroppo non mi interessi»
Lui è scoppiato a ridere.
«No, non potrei mai essere così»
«È un sollievo saperlo» ho commentato, fingendo di non notare la sua mano tra i miei capelli.
«Resta il fatto che questo lavoro non permette di fare una vita normale»
«Ben, è la tua vita» dico, decisa «Tu sei questo. E a me va bene così»
«Lo dici ora» ha risposto, dubbioso «Ma poi…»
«Non ci sarà mai un poi se ci limitiamo a filosofeggiare. E io non sono mai stata una che ha preferito la codardia al rischio»
Ben ha scosso il capo.
«Tu… Cosa devo fare, con te?» ha mormorato.
Poi il suo sguardo è scivolato sulle mie labbra e io ho trattenuto il fiato.
«Chi è il fortunato che ti ha reso così saggia?» ha bisbigliato, avvicinandosi piano.
«Si chiama Filippo» ho risposto, distratta dal gioco di luce che si è creato tra i suoi capelli alla luce del neon.
Quasi senza accorgermene ho posato una mano sul suo petto e lui l’ha stretta.
«Ci siamo messi insieme l’ultimo anno di liceo» ho proseguito «E siamo stati insieme fino all’ultimo anno di università»
I suoi occhi neri erano cupi e brillanti.
«È tanto tempo» ha bisbigliato, con le labbra a un soffio dalle mie.
«Giuro che non gli sono mai stata troppo addosso e non gli ho mai, mai impedito di avere i suoi amici e i suoi interessi» ho detto.
Ben ha sorriso, dicendo:
«Mi fa piacere saperlo»
Poi mi ha baciata e, da lì, non c’è stato bisogno di altre parole.
 
*
 
Il fatto è che Ben bacia in un modo indescrivibile.
 
Non avevo assolutamente nessuna voglia di separarmi da lui, ma quando alla fine ci siamo allontanati (per poco) per riprendere fiato ho pensato che c’era un’altra questione di cui parlare.
Cosa non facile, lo ammetto, visto che intanto eravamo finiti distesi sul letto e Ben aveva preso a baciarmi lievemente il collo.
Ho chiuso gli occhi, persa in uno stato di vera beatitudine, e ho infilato le mani tra i suoi capelli, per stringerlo a me.
Che noia dover stare a puntualizzare le cose – ho pensato – Io penso che dovrebbero avvenire naturalmente, spontaneamente.
Appena formulato questo pensiero, mi sono lasciata distrarre dalla mano di Ben che mi accarezzava lievemente le spalle, le braccia e poi il ventre.
Sono rabbrividita, ma dopo un attimo lui si è tirato indietro.
«Meglio se ci fermiamo qui, credo» ha detto, esitante «Perché non so se tra poco sarò in grado e quindi…»
Mi sono sollevata sul gomito e gli ho sfiorato i capelli.
«Stavo proprio pensando…» ho iniziato, titubante «Non so cosa ne pensi, ma… Non credi che qui sul set dovremmo essere…discreti, ecco?»
Lui annuisce.
«Assolutamente» ribatte «Non vorrei davvero che si sapesse… Non per te, ovvio, ma perché non voglio che pensino che non siamo concentrati sul lavoro o altro. Ho visto staff mobilitarsi per tenere lontani con discrezione due attori su un set e colleghi che fingono di essere ciechi e sordi… E non vorrei proprio capitasse a noi»
Ho sorriso di fronte a quel “noi”.
Forse, tutto sommato, le cose non andranno poi così male.
«Giusto» ho annuito «Allora, per il momento… amici?»
Ben ha sospirato, ma poi ha annuito con il capo.
«Sì, amici» ha detto.
Ci siamo guardati per un attimo, in silenzio, poi lui si è improvvisamente chinato a baciarmi di nuovo.
E – wow  ̶  è stato un bacio anche migliore del precedente.
Quando ci siamo separati io avevo il fiato corto.
«Questo era per dirmi che devo aspettarti?» ho scherzato.
Lui ha riso.
«Sì, ti prego» ha risposto «Fino alla fine delle riprese, va bene?»
«E poi?» ho chiesto.
«E poi…» ha esitato «Puoi fermarti un po’ a Los Angeles?»
«Non so… Immagino di sì. Sono una libera cittadina senza lavoro, dopotutto»
Ben ha ridacchiato.
«Allora… sono un po’ arrugginito sui primi appuntamenti, ma potrei invitarti a cena… Che ne dici?»
Mi sono protesa per sfiorargli le labbra con le mie.
«Sembra meraviglioso» ho mormorato.
 
 
* È una ripresa che è stata fatta davvero e le immagini sono bellissime. Se volete vederle, le trovate qui: https://www.youtube.com/watch?v=Sz7YL2wP4Bc 
 

***
Buongiorno, miei diletti lettori!
Avete fatto ponte per il 1 maggio? Vi siete divertiti?
Io ho scritto molto meno di quanto previsto, ma mi sono riposata per cui non mi lamento!
Come sempre, ecco i link alle storie che sto scrivendo:
Ragione e sentimentohttp://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3112810
L'Erede di Narniahttp://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3108611
E, se volete fare due chiacchiere, mi trovate su Facebook!
Paginahttps://www.facebook.com/Joy10Efp?ref=bookmarks
Profilo:  https://www.facebook.com/profile.php?id=100007339248477
Approfitto per dirvi che gestisco anche una pagina su Ben, quindi se volete informazioni sempre aggiornate su di lui mettete 'mi piace'!
Eccola:
Buon inizio settimana,
Joy
 

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Capitolo 17
*** XVII ***


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Il nostro compito nella vita non è superare gli altri, ma superare noi stessi
Steward B. Johnson




 

La scena di Ben in acqua, quella in cui dovrebbe affrontare e sconfiggere il Boggart, occupa tre giornate di riprese.
 
Io sono assolutamente atterrita nel vederlo legato con un anello metallico al braccio di una sorta di macchina che lo fa ruotare come se fosse un pupazzo.
Invece, attorno a me, tutti continuano a lanciare esclamazioni tipo “figo!”, “grandissimo!”, “spettacolare!” e a darsi di gomito.
Prima di scendere in acqua, Ben si volta verso di me e mi strizza l’occhio.
Io tento di sorridergli, quindi passo le ore seguenti a fissarlo ipnotizzata.
Devo dire che è veramente bravo, io avrei vomitato dopo un secondo se fossi stata capovolta e sballottata in quel modo.
E non bastano le capriole: la ripresa è sott’acqua, quindi c’è un sub che lo segue e Ben ha dovuto fare un corso per imparare a usare un respiratore.
 
Se non fossi terrorizzata, ammetto che sarebbe effettivamente una gran figata.
Ma quando finalmente il secondo regista dà lo stop della prima giornata, io salto in piedi e mi avvicino all’acqua.
Ben, che è stato prontamente avvolto in una coperta, mi fa un discreto cenno con il capo e io annuisco subito.
Mi dirigo verso il limitare del set, raggiungo velocemente i bungalow ed entro nel mio.
Dopo oltre un quarto d’ora, sento bussare lievemente alla porta e corro ad aprire.
Ben, ancora fradicio, mormora solo:
«Verresti da me?»
Annuisco e chiudo la porta.
Camminiamo vicini, senza toccarci, e io provo una sensazione strana a stare accanto a lui alla luce del giorno, adesso.
Mi sembra che tutti ci fissino, che tutti possano leggermi in faccia quanto sono attratta da lui e quanto sta diventando importante per me.
Spero sia una mia paranoia: Ben sembra tranquillissimo.
Tuttavia, prima di entrare, mi guardo attorno.
«Qualche spia in vista?» scherza Ben, chiudendo la porta.
«Pare di no» sorrido, muovendo un paio di passi nella stanza.
«Mi aspetti dieci minuti?» domanda lui.
Annuisco e lui va a chiudersi in bagno.
Mi siedo sul suo letto e sfoglio un paio di pagine del libro che è sul suo comodino, poi mi guardo attorno.
Ora che so che io e Ben abbiamo un qualche legame mi sembra tutto ancora più intimo, più intenso.
Mi alzo e gironzolo per la stanza, ammirandone l’ordine militaresco.
Poco dopo Ben esce dal bagno, vestito con dei jeans e una felpa, ma con i capelli bagnati e un asciugamano attorno al collo.
Mi sorride e io mi avvicino.
Quando gli sono davanti, delicatamente sollevo un angolo dell’asciugamano e glielo passo sul viso, asciugando l’acqua che gocciola dai suoi capelli.
Lui socchiude gli occhi e mi posa le mani sui fianchi, attirandomi a sé.
«Grazie» bisbiglia.
«Sei stanco?» domando.
Annuisce.
«Sono distrutto. Non pensavo sarebbe stato così massacrante»
«Non so come tu abbia fatto… sei stato bravissimo!»
«Ti sei spaventata?» chiede dolcemente «Avevi una faccia…»
«Ehm…» farfuglio «No…»
Lui sorride.
«Che bugiarda!»
«Va bene, allora sì, ma solo perché quel braccio meccanico mi agitava!»
«Pensa quanto agitava me!»
«Sembravi divertirti!»
«Mmm…» sospira «Era come… essere su una giostra. Non è il mio passatempo preferito, ecco!»
 Sorrido anche io e friziono dolcemente i suoi capelli scuri con l’asciugamano.
La sua mano copre la mia.
Osservo i suoi occhi, quasi neri, incupirsi ulteriormente…
Ma poi Ben sospira e scuote il capo.
«Non è una buona idea averti qui»
Io sorrido.
«Ah no?» faccio «E come mai?»
Lui si protende ad abbracciarmi e io poso il capo sul suo petto.
Sospiro, felice, mentre sento le sue labbra sfiorarmi i capelli.
Restiamo stretti l’uno all’altra, in silenzio, finché lui non fa scivolare le braccia e si allontana di un passo.
«Non farmi dimenticare le mie buone intenzioni» dice, scherzando solo in parte.
Io arriccio il naso.
«Andiamo a mangiare?» domando.
Ben fa un cenno negativo con il capo.
«Scusa, ma non ce la faccio proprio. Tu vai, io mi riposo un po’ in vista di oggi pomeriggio»
 Va a sedersi sul letto e in viso gli leggo tutta la fatica della giornata.
Quasi nemmeno me ne accorgo e gli sono già accanto: lui alza gli occhi su di me e io mi chino a sfiorargli le labbra con le mie.
«Vado a prenderti qualcosa da mangiare» mormoro «Torno subito»
 
Tra andare e tornare impiego una decina di minuti, ma trovo Ben già addormentato.
Esito un attimo, indecisa, poi avanzo in silenzio nel bungalow.
Ho sempre pensato che ci sia qualcosa di meraviglioso nell’osservare una persona speciale mentre dorme.
È un momento di vulnerabilità assoluta, di dolcezza infinita.
E io non voglio rinunciarvi, lo ammetto.
Mi siedo piano sul bordo del letto, cercando di non svegliarlo, e osservo il suo viso rilassato nel sonno, i capelli bruni e scompigliati, ancora umidi dopo la doccia, e le ciglia scure contro la pelle candida.
Quasi senza accorgermene gli sfioro i capelli con la mano e lui sospira e si volta sul fianco, verso di me.
Dopo un paio di minuti mi alzo e scivolo verso la porta, con il cuore in tumulto, combattendo contro la tentazione di restare, di sdraiarmi accanto a lui e abbracciarlo.
 
Quand’è che, esattamente, Ben è diventato così importante per me?
 
*
 
Le riprese proseguono fino a metà pomeriggio, quando le condizioni della luce cambiano talmente che risulterebbe poi evidente in fase di montaggio.
 
Ben è – nemmeno a dirlo – fradicio e provato.
Il regista ci dà appuntamento a domani mattina.
Jeff ha scattato parecchie foto durante le riprese e anche a cena si complimenta più volte con Ben per la ripresa subacquea.
Ben, modesto come sempre, si schermisce sostenendo che non ha fatto nulla di particolare e che, se ci riesce lui, potrebbe farlo chiunque.
Jeff ride di fronte alla mia occhiata scettica, poi all’improvviso dice:
«Jamin, dovremmo portare fuori le ragazze una sera! È chiaro che qui si annoiano a morte!»
Fa un gesto verso di me e verso le sue tre figlie, che sono intente a parlare tra loro.
Magari loro sono abituate a vivere sui set cinematografici, per via del padre… Io posso solo dire che sono tutto tranne che annoiata.
Ma Ben annuisce subito.
«Certo, volentieri!» dice.
«Ma non siamo un po’… In mezzo al nulla?» domando io.
Jeff sorride, come qualcuno che sa bene che non gli verrebbe mai negato nulla.
«Possiamo spostarci, che diamine!» ridacchia «Non siamo mica in galera!»
 E, con voce tonante, si rivolge alla sua famiglia, che in un attimo balza in piedi, felice all’idea di un nuovo svago.
 «Due macchine, direi!» aggiunge Jeff, allegro, e un assistente si precipita fuori dalla mensa per organizzarle.
Ecco, ora mi sento in colpa per il lavoro in più che diamo a queste persone.
Quando ci alziamo da tavola Ben viene accanto a me.
«Sei contenta di uscire?» chiede.
Io osservo le occhiaie sul suo viso pallido e l’espressione tirata e mi rimangio quello che sto per dire, cioè che preferirei vederlo andare a letto presto.
E magari dormire con lui.
No, cancellate quest’ultima frase.
Non l’ho pensata davvero.
In teoria noi dovremmo tenere le distanze…
 
Mi riscuoto con una scrollata di spalle: non sono mica sua madre!
È grande abbastanza per andare a dormire, se è stanco.
 «Sì, certo» dico «Anche se immagino che il resto dello staff ci manderebbe volentieri a quel paese!»
Lui ridacchia.
«Ma no, adorano Jeff!» commenta «E la sua parola è legge!»
 Io arriccio il naso.
«Anche per noi?» domando, polemica.
Ben sembra stupito.
«Io veramente sono felice di stare un po’ con te» precisa.
All’improvviso mi sento euforica e devo trattenermi dal saltellare.
«Davvero?» chiedo, impacciata come una tredicenne.
«Certo» sorride lui, sfiorandomi delicatamente la mano «Se non fosse stato per te me ne sarei andato volentieri a letto… Sono stanco morto!»
 
Con molta fatica reprimo un grido selvaggio di gioia.
 
*
 
La cittadina più vicina al set, tra queste montagne, è minuscola e ha un unico bar, piccolo, semideserto e dal forte odore di sidro e muffa.
 
Tuttavia è un cambiamento piacevole rispetto a quell’accampamento mastodontico che il nostro set.
Potersi sedere a un tavolo sconosciuto, incrociare lo sguardo di volti nuovi: è quasi magico.
Mi rendo conto solo ora di quanto la vita degli ultimi mesi sia stata chiusa e protetta, quasi irreale.
Siedo allegramente su una vecchia panca di legno e sfoglio con entusiasmo il menù.
Jeff si è portato dietro la sua macchina fotografica e osserva il mondo dall’obiettivo, concentrato.
Le sue figlie ridono, allegre, e Ben mi fissa.
«Che c’è?» chiedo.
Lui scuote il capo.
«Mi sembri felice» osserva.
«Lo sono!» annuisco «Non pensavo mi sarebbe sembrato così bello allontanarmi dal set!»
«Guardate, c’è il biliardo!» strilla in quel momento Jessica, una delle figlie di Jeff «Facciamo una partita!»
Jeff sbatte il menù sul tavolo e si alza, contento.
«Su, voi due!» esclama «In piedi!»
 Sua moglie e suo nipote lo seguono, a quanto pare contenti di giocare.
Io, invece, prendo la mano che Ben mi porge ma lo avviso:
«Ho giocato una sola volta, anni fa, e faccio decisamente schifo!»
Jeff, già accanto al tavolo verde, grida:
«Jamin, tu sai giocare?»
Ben annuisce e lui prosegue:
«Bene, allora tu, Jessica e mio nipote siete assieme: mia figlia è un diavolo a biliardo, vedrai!»
Jessica ridacchia, mentre sfila una stecca dalla rastrelliera e la soppesa con mano esperta.
«Ci accontentiamo di queste vecchie stecche» dice poi «Papà, spacca tu!»
Bridges annuisce e in fretta sistemano le palle colorate nel triangolo, quindi con un colpo preciso Jeff dà inizio al gioco.
Dopo le prime giocate il barista viene a prendere le ordinazioni, quindi torna con un vassoio di birre mentre Ben fissa, concentrato, il tavolo.
Un colpo secco manda in buca una palla arancione.
Lui mi sorride e mi porge la stecca.
«Le piene» mi dice.
Io scuoto il capo e gli faccio cenno di colpire ancora, poi prendo una bottiglia.
La partita procede veloce: sono tutti bravi.
Dopo qualche turno Ben mi chiama ancora con un gesto della mano.
«Dai, vieni a provare!» mi dice.
Io mi avvicino titubante.
«Ben, faccio davvero pena» lo avverto «È una mano sprecata, con me»
 Lui scrolla le spalle.
«Non siamo mica alle Olimpiadi!» ride «Dai, vieni qui!»
 Mi porge la sua stecca e mi indica una palla blu.
«Prova con quella» suggerisce «Se colpisci bene la palla bianca, sul lato sinistro, spingerà la blu in buca»
Lo guardo, scettica, ma lui mi fa cenno di provare.
Mi chino per cercare di immaginare le traiettorie, ma mi sembra un colpo superiore alle mie capacità.
Finché si tratta di colpire dritto posso anche provare, ma così…
 
Tuttavia i miei pregiudizi sul gioco si annullano tre secondi dopo, quando Ben si sposta alle mie spalle e mi posa una mano sul fianco.
«Aspetta» mormora, chinandosi in avanti «Non così»
Le sue braccia mi circondano e io mi sento arrossire.
Non alzo lo sguardo per evitare che tutti vedano la confusione sul mio viso, mentre il braccio di Ben sposta con delicatezza il mio e la sua mano mi guida nel colpo.
E, incredibilmente, la palla descrive l’esatta traiettoria che aveva previsto lui.
Ben si scosta dolcemente mentre Jessica applaude, cortese.
Io le sorrido, poi mi volto e abbraccio Ben di slancio.
Lui ride, poi ammicca.
«Allora… Non è così male, vero?» domanda.
Io gli faccio una linguaccia.
 
Ovvio: non è male per niente.
 
 
Non è male per niente, visto che ogni scusa per toccare Ben è buona e qui ci si tocca un sacco.
Almeno: ci si tocca se uno dei giocatori è impedito quanto me.
Non che la cosa mi crei imbarazzo, sia chiaro.
Potrei starmene qui tra le sue braccia a colpire palline per settimane.
Ora sono seduta su un bordo del tavolo da biliardo.
Ben mi passa la sua birra, io bevo un sorso e gliela restituisco.
Lui mi lancia un’occhiata da sotto le ciglia.
E nessuno pare trovarlo strano.
Voglio dire: mi sembra che stiamo flirtando in modo abbastanza esplicito…
O lo penso perché io so cosa c’è dietro e agli occhi degli altri siamo due amici che scherzano e null’altro?
Non lo so… E francamente nemmeno mi interessa, al momento.
Quando il gioco torna a Ben lui mi si avvicina.
«Aspetta» dice «Puoi giocare seduta, purché almeno una gamba tocchi terra»
 Annuisco e lui, di nuovo, si china su di me.
Adoro il suo profumo… Ecco, sì, il gioco.
 
Appunto.
Ero concentrata, dico davvero.
 
La mano di Ben scivola dolcemente sul mio fianco mentre io mi protendo verso il piano di gioco.
Il suo peso, alle mie spalle, mi distrae completamente: fortuna che è lui a guidare la mia mano.
Il colpo che abbiamo tentato era comunque azzardato e non otteniamo risultati, se non di avvicinare la penultima palla a una delle buche centrali.
Ma è inutile perché Jeff chiude la partita la mano seguente.
«Uhm!» commenta «Dobbiamo giocare io e te la prossima volta, Jamin! Una bella sfida tra uomini… senza quel drago di mia moglie che mi fa vergognare ogni volta!»
Ridiamo tutti, quindi torniamo a sedere mentre Jessica e Isabelle improvvisano una seconda partita a due.
Ben scivola sulla panca accanto a me, le nostre gambe si sfiorano sotto il tavolo.
Io non riesco a reprimere il sorriso idiota che ho sicuramente stampato in faccia.
 
*
 
Torniamo molto tardi, a notte fonda.
 
Nel buio della zona alloggi ci salutiamo tutti a bassa voce e ci dividiamo.
Senza bisogno di dire nulla, Ben mi accompagna fino al mio bungalow.
C’è solo la luce della luna ad illuminare la zona, ma essendo lontani dalla città l’atmosfera è irreale, vista la mancanza di luci artificiali.
«È come la luna del film» mormoro io «Sembra gigante… Solo che non è rossa!»
«Allora non siamo in pericolo» bisbiglia lui, divertito «Mi sembra una buona notizia»
Giunti al mio alloggio io lo guardo esitante e lui, dopo un attimo, mi prende delicatamente il viso tra le sue mani.
Io rabbrividisco e lo vedo sorridere, pur nella luce fioca.
«Non dovremmo…» bisbiglia «Avevamo detto…»
Io lo guardo in silenzio, perché non saprei cosa dire.
Lo so cosa ci siamo detti, ma…
 
Ben sospira, poi si china verso di me e poggia le labbra sulle mie.
È un bacio dolce, ma brevissimo.
Si allontana quasi subito e io batto le palpebre, confusa.
«Non tentarmi» dice, accennando un sorriso «Dopo il film, ok?»
Annuisco e lui fa un paio di passi all’indietro, continuando a guardarmi negli occhi, poi si volta e si dirige rapido verso il suo bungalow.
Sospiro, frustrata.
So che ha ragione, lo so…
 
Ma, al momento, ogni pensiero razionale è lontano dalla mia mente, mentre lo osservo sparire nella notte.



***
Buongiorno, miei carissimi lettori!
Avendo giocato per la prima volta a biliardo qualche mese fa, avevo evidentemente deciso che poteva costituire uno spunto piacevole :)
E' incredibile quante cose filtrano nella scrittura, vero?
Comunque, veniamo a noi: sonos ettimane deliranti per me, ma dovrei riuscire ad aggiornare tutte le mie storie; in caso contrario vi avviso su Facebook, qui:
pagina: https://www.facebook.com/Joy10Efp
profilo: https://www.facebook.com/profile.php?id=100007339248477&fref=ts
E, sempre parlando di storie, vi ricordo cosa sto scrivendo ora:
Ragione e sentimento (crossover Harry Potter/Ben Barnes): http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3118022&i=1
L'Erede di Narniahttp://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3092907&i=1
Buona lettura e buon inizio settimana,
Joy

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Capitolo 18
*** XVIII ***


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Alle mie amiche, quelle vere



Si dice che quando una persona guarda le stelle
è come se volesse ritrovare la propria dimensione

dispersa nell’universo
Salvador Dalì


Guardo Ben con un cipiglio minaccioso.
 
«Avevo capito» dico, polemica «Che gli uomini hanno determinate qualità in questo settore»
Lui sbuffa e si lascia cadere sulla poltrona.
«Chi ti ha raccontato questa sciocchezza?» chiede.
«È sapienza popolare!»
Lui mi fa un sorriso angelico.
«Ma non sei troppo cresciuta per credere alla favole?»
 
Gli lancio una sciarpa, la prima cosa che mi capita sotto mano.
Lui l’afferra al volo, ride e se la sistema attorno al collo.
«Oh, grazie» mi fa una linguaccia «Ci voleva, vista la notte gelida che ti aspetta»
 
 
Oggi, tornando dalla riprese, ho scoperto che il mio sogno di una doccia bollente e di una nottata di sano riposo era destinato a infrangersi miseramente contro la dura realtà.
La caldaia non funziona.
E non c’è stato verso di farla ripartire.
Non sapendo cosa fare, sono andata a bussare alla porta di Ben, che è venuto da me a vedere.
In realtà, il suo apporto è consistito nel grattarsi perplesso la testa e poi suggerirmi di chiamare qualcuno.
«Ben, è mezzanotte passata!» ho esclamato, scandalizzata «Non oserei mai disturbare qualcuno a quest’ora… Sono persone che lavorano!»
«Sì, ma… Il loro lavoro è occuparsi di noi»
L’ho fissato, truce.
«Il loro lavoro li fa sgobbare quattordici ore al giorno. E se credi che io sia così viziata e primadonna da imporre a qualcuno un lavoro extra… Bè, ti sbagli»
Lui non pare impressionato dalla mia tirata.
«Quindi?» si limita a chiedere.
Ecco, questa è la parte più nebulosa del mio piano.
«Quindi…» tentenno «Credevo che tu potessi…»
Ben ghigna.
«Ah, quindi io non sono un poveretto che lavora quattordici ore al giorno?»
Sbuffo.
«Dai, hai capito cosa intendo!»
Lui annuisce, tornando serio.
«Sì che ho capito» ribatte «E, per la cronaca, ammiro molto il tuo modo di fare. Sarebbe facile lasciarsi andare a scene di protagonismo e pretese. Invece tu sei davvero corretta»
Mi stringo nelle spalle.
«Non lo farei mai» dico, semplicemente.
«E quando vincerai l’Oscar?» scherza lui.
Io arriccio il naso.
«Tantomeno. Mi comprerò una capra e vivrò di pastorizia»
Il caldo sorriso di Ben è una ricompensa immeritata per una battuta così debole.
All’improvviso lui si alza e mi tende la mano.
«Vieni» dice.
«Dove? A cercare degli attrezzi?» chiedo io, perplessa.
«Non sono capace di aggiustarti la caldaia» risponde lui, serio «Però posso farti vedere un’altra cosa!»
 
 
Usciamo nella notte limpida e fredda e Ben mi conduce con sicurezza attraverso il set addormentato, poi si inoltra fra gli alberi.
«Dove stiamo andando?» chiedo.
Quasi faccio fatica a vederlo, tra l’oscurità e la vegetazione fitta.
Lui rafforza la stretta sulla mia mano e quel calore mi tranquillizza.
Non che io abbia paura, se lui è con me.
Camminiamo per qualche minuto, inciampando nelle tenebre.
Poi, all’improvviso, la vegetazione dirada, creando uno spiazzo erboso che ha un qualcosa di magico così bagnato dalla luce argentea della luna.
Avanzo di un paio di passi, stringendomi le braccia attorno al corpo.
«Hai freddo?» chiede la voce di Ben, dietro di me.
«Un po’» rispondo «È bellissimo qui!»
«Sì… ho fatto una passeggiata qualche giorno fa e immaginavo che di notte fosse suggestivo… E volevo mostrartelo»
«Grazie»
Sorrido, ma nel buio non credo si veda.
Ben va a sedersi sotto un grande albero e io lo raggiungo.
L’erba è fredda sotto i jeans.
Lui si lascia cadere sulla schiena e io lo imito.
In silenzio, contempliamo il cielo immenso e luminoso sopra di noi.
«Wow» dico, dopo un po’.
«Già»
Dopo qualche minuto, esitante, allungo la mano verso quella di Ben e la poso sulla sua.
Lui non si sottrae e, anzi, volta il viso verso di me.
Per un po’ il silenzio si protrae e l’unico rumore che si avverte è quello dei nostri respiri.
Il gelo che sento sotto la schiena è assolutamente irrilevante, se paragonato alla sensazione di bruciore che mi provocano gli occhi di Ben fissi su di me.
Quando non riesco più a fingere di ignorarlo volto anche io la testa.
Pur nella scarsa luce vedo i suoi occhi scurissimi brillare.
 
Restiamo immobili, a guardarci, ma quando si alza un refolo di vento e io rabbrividisco, Ben si sposta più vicino a me.
«Vuoi che torniamo?» mormora.
«No» rispondo subito.
Ben si muove e mi passa il braccio sotto la testa.
Rifugiarmi sul suo fianco mi sembra la cosa più naturale del mondo: lui mi sostiene e io poso la guancia sulla sua spalla.
Sento il suo pollice tracciarmi pigramente dei segni sul braccio.
«Miki» bisbiglia Ben a un certo punto.
«Sì?»
«Sei felice di essere qui?»
«Qui sul set a fare questa vita folle… O qui ora?»
Lui esita palesemente prima di dire:
«Sul set»
Reprimo un sorriso.
«È di sicuro la cosa più folle che io abbia mai fatto… Ma sì, ne sono felice»
Ben tace per un po’, poi commenta:
«Bene. Ne sono felice anche io»
Mi sistemo meglio contro di lui, giusto per tormentarlo un po’, ma Ben resta in silenzio.
Sono io ad aggiungere:
«Sono felice anche di essere qui, adesso»
La sua mano si posa tra i miei capelli, dolcemente.
Siamo talmente vicini che non so se…
 
In quel momento, con la coda dell’occhio, la vedo.
Scatto a sedere e subito Ben mi imita.
«L’hai vista?» chiede, meravigliato «Era una stella cadente!»
«Sì!» esclamo «Non ne avevo mai vista una!»
«Davvero? Allora dai: esprimi un desiderio!»
Io mi mordo un labbro, poi scuoto il capo.
«Ma non bisogna esprimerlo mentre la vedi cadere?»
«Come fai a sapere quando cadrà una stella? No, dai, adesso!»
«E tu?» gli chiedo «Non hai un desiderio da esprimere?»
Ben ci pensa su.
«Sì» dice poi «Vorrei del roastbeef domani a mensa… E una sedia più comoda!»
Io scoppio a ridere.
«Sono serio!» fa lui, ridacchiando.
«Secondo me vuoi anche lavorare sempre con Jeff» aggiungo.
«Sì» annuisce, poi mi sorprende aggiungendo:
«E con te»
Arrossisco, ma penso che nel buio non si veda.
Giocherello con un filo d’erba, ma Ben si alza e mi tende una mano.
«Vieni» dice «Fa troppo freddo, rientriamo»
«Non posso nemmeno farmi una doccia calda…» mi lamento, prendendo la sua mano e alzandomi.
«Ehi, ecco il desiderio giusto!» esclama «Micol desidera una nuova caldaia!»
Gli do un colpetto scherzoso sulla spalla.
«Non desidero affatto una nuova caldaia, è troppo facile! Me la monteranno comunque domani!»
«E allora cosa?» chiede lui, incamminandosi.
«Non lo so…» tergiverso «La pace nel mondo? Una torta alla crema?»
Ben scoppia a ridere e, di nuovo, la sua mano stringe la mia.
 
*
 
Quando arriviamo davanti al mio bungalow non si ferma e io non chiedo nulla.
 
Mi conduce poco più avanti, alla sua porta.
Quando inarco un sopracciglio si limita a dire:
«Non hai riscaldamento né acqua calda: pensi che ti lasci lì?»
Entriamo e lui accende la luce.
La sua sistemazione è ormai familiare per me, così ordinata e con il suo odore che pervade tutto.
E, malgrado io sia già stata qui, all’improvviso sono imbarazzata.
Forse è per via di quei momenti nella radura.
O del casino che ho in testa, magari.
 
Muovo un paio di passi con aria noncurante, mentre Ben alza il riscaldamento e poi va a prendermi degli asciugamani puliti.
«Doccia?» chiede, disinvolto.
E io mi chiedo se è davvero tranquillo, o se invece finge molto bene.
Annuisco e vado in bagno.
Mi lego i capelli in un nodo pesante in cima alla testa e faccio correre l’acqua calda.
Ah.
Ci voleva proprio.
Quando ho finito guardo i miei vestiti ammonticchiati in un angolo e poi, animata da un’improvvisa risolutezza, esco dal bagno stringendo la cintura dell’accappatoio.
Ben mi lancia un’occhiata, ma subito si volta.
«Vuoi una felpa?» chiede, indifferente.
«Grazie» rispondo.
Me ne porge una, insieme ai pantaloni di una tuta, e va a chiudersi in bagno.
Io ne approfitto per rivestirmi e, quando Ben esce, sono seduta sulla poltrona e sfoglio un libro.
A differenza mia, è uscito vestito ma ha i capelli bagnati ed è a piedi scalzi.
 
Tutt’a un tratto questa casetta diventa decisamente troppo piccola.
Ben sembra ancora indifferente quando si dirige verso il letto.
Scosta appena le coperte, poi mi lancia un’occhiata interrogativa.
Io annuisco, non arrischiandomi a parlare.
Stavolta siamo un po’ impacciati nel metterci a letto.
C’è qualcosa di nuovo, una scintilla che prima non c’era e che rende il fatto di dormire insieme una cosa molto meno candida.
Comunque, nessuno di noi due affronta il discorso.
Cerchiamo solo, molto accuratamente, di non toccarci.
«Vuoi… Spengo la luce?» dice Ben all’improvviso.
«Sì» bisbiglio io.
Ma, al buio, forse è paradossalmente peggio.
Sento più forte la sua presenza, il suo respiro, il suo calore accanto a me.
E, dalla sua rigidezza, immagino che per lui sia lo stesso.
«Buonanotte» mormoro qualche istante dopo.
«Buonanotte» mi risponde lui, girandosi sul fianco e dandomi le spalle.
 
 
Io fatico a prendere sonno – come sempre quando cambio letto – e dormo a tratti.
Sono sempre più consapevole del corpo lungo e snello accanto al mio.
E, nel mezzo della notte, quando apro gli occhi per l’ennesima volta, me lo trovo accanto: nel sonno si è voltato e adesso un suo braccio mi circonda la vita, mentre il suo viso è a pochi centimetri dal mio.
Sorrido e penso che quella stella cadente mi ha davvero ascoltata.
 
 
Io desidero solo stare con te.


***

Buongiorno, miei carissimi lettori!
Visto che questa sarà una settimana ancora più frenetica della precedente anticipo l'aggiornamento a oggi, per non correre rischi...
Questo capitolo è quello che ha deciso il nome della storia: dopo la sua stesura ho iniziato a pubblicarla, soprattutto grazie agli incoraggiamenti delle mie fedelissime e meravigliose amiche.
Questo capitolo e questa storia sono per voi, che siete la mia forza!
Ora passo ad aggiornare anche L'Erede di Narnia (
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3092907&i=1), dopo aver recuperato Ragione e sentimento (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3126893).
Non temete se non mi sentite, sarò in quel di Pistoia per metà settimana, weekend compreso!
Come sempre, però, potete trovarmi su Facebook!
Pagina: 
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Profilo: https://www.facebook.com/profile.php?id=100007339248477&fref=ts
Buona domenica e buon inizio settimana,
Joy

PS: ... Ma non avevo dimenticato le citazioni all'inizio degli ultimi due capitoli?! Scusate la storditaggine, ho sistemato tutto!

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Capitolo 19
*** XIX ***


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C’è un solo tipo di successo: quello di fare della propria vita ciò che si desidera
Henry D. Thoreau





Ho tantissime difficoltà con le riprese della battaglia finale.
 
A parte qualche scena di combattimento in cui abbiamo davanti degli assistenti di scena in carne e ossa, dobbiamo fingere di vedere mostri che non ci sono.
Secondo me io sembro deficiente.
Ci provo a fare una faccia atterrita fissando il vuoto, ma dopo tre minuti mi cade la mascella.
 
Jeff sembra non farci nemmeno caso, Ben condivide invece la mia stessa frustrazione* ma, almeno, riesce a non darlo a vedere.
Abbiamo le controfigure ad aiutarci e i coreografi che ci insegnano le mosse da mimare per i combattimenti.
Per sequenze brevissime lavoriamo giorni.
E siamo sporchi, stanchi, sudati e imbrattati di terra e cenere.
Io inizio a innervosirmi seriamente.
 
A metà di un pomeriggio di riprese mi siedo pesantemente su una finta colonna caduta e sorseggio una tisana.
Ben mi passa accanto poco dopo e mi tira una ciocca di capelli.
«Ehi» esclama, sorridente «Si batte la fiacca?»
Gli faccio una linguaccia.
«Odio tutto questo!» gemo.
Lui fa un gran sorriso.
«Mi pare evidente dal tuo muso lungo»
 La mia aria da martire non sembra impietosirlo.
«Voglio rifare le scene con te» mi lamento «Quelle dei baci»
All’improvviso mi zittisco.
Come cavolo mi è venuto in mente?!
Accidenti alla mia lingua lunga.
Ben, però, sorride.
«Anche io avrei preferito che quelle fossero durate di più»
Mi strizza l’occhio con aria complice e si allontana.
 
E io, una volta di più, mi scopro ad agognare la fine delle riprese.
Ho chiesto alla mia agenzia di trovarmi un lavoro a Los Angeles.
Qualsiasi cosa, pur di non tornare subito a casa.
Qui in America serve per forza una motivazione per il visto di lavoro, ma per fortuna è venuto fuori quasi subito un servizio fotografico.
L’agenzia sta sbrigando le pratiche e io mi crogiolo nella consapevolezza che, finito qui, avrò del tempo da passare a Los Angeles, con Ben.
 
E poi… vedremo cosa succederà.
 
*
 
Quando finalmente terminiamo le riprese della battaglia finale io sono stremata.
 
Per fortuna mi resta la scena del commiato di Alice e Ben, ma facciamo così in fretta a girarla che nemmeno me ne accorgo.
«C’è davvero chimica tra voi due» ci dice Bodrov al termine della ripresa «C’era anche all’inizio, ma adesso… Wow!»
Nessuno di noi due commenta ed evitiamo accuratamente di guardarci.
Poi Ben si prepara per l’ultima ripresa, che vede protagonisti lui e Antje Traue: è uno scontro sulle rive di un fiume, in mezzo ai boschi.
Lei interpreta mia madre, nel film, ma è un tipo abbastanza solitario e non abbiamo quasi legato.
È gentile, ma sta sulle sue.
 
Sergei vuole rifare la scena e quando l’ha annunciato ho creduto che mezza troupe si suicidasse, perché significa tornare in una valle impervia e lontana.
La giornata è grigia ma la pioggia ha risparmiato la nostra ripresa.
Invece, adesso, il cielo inizia a incupirsi davvero e il regista sorride deliziato.
«Ah, che bello!» esclama «Speriamo piova molto: è il tempo ideale per girare la scena!»
Ben alza gli occhi al cielo: penso non ne possa più di scene in cui è bagnato fradicio.
Io sorrido.
«Be’, allora buon lavoro…» dico «Vado a togliermi il costume»
 
Non avrei mai pensato di dirlo, ma mi fa davvero strano.
Sono stata Alice per tre mesi… Ora mi sento spaesata, come se avessi perso il senso delle cose.
Nella roulotte dei costumi mi sfilo l’abito e indosso i jeans mentre penso:
non lo indosserò più.
Non sarò più Alice.
Sono Micol, non Alice.
 
E provo un’inspiegabile stretta al cuore.
 
*
 
Quando Ben e gli altri tornano, è notte fonda.
 
Io sono su Skype con Luna e quando vedo un gruppetto di persone dirigersi verso i bungalow lancio un’esclamazione di gioia.
«È tornato, deduco» fa Luna, con un sorriso.
Io arrossisco.
«Ti piace proprio, eh, Mic?» chiede lei.
Esito un attimo prima di annuire, ma so che non ce n’è bisogno.
Luna mi conosce come nessun altro al mondo.
«Lo sapevo» sospira lei «Promettimi solo due cose, ok? La prima che starai attenta… La seconda che tornerai a casa!»
«Sai che sto sempre attenta» ribatto «Ed è ovvio che tornerò a casa!»
«Be’…» fa lei «Non è mica tanto ovvio, visto che lui sta in America. Mi raccomando, Mic… Pensaci bene!»
La rassicuro e la saluto, ma lei interviene ancora:
«Vai da lui, adesso?»
Io sorrido.
«Be’… sì!»
Dopo un secondo di esitazione, la mia amica dice:
«Mic, ricordati che non tutti apprezzano fin da subito i caratteri irruenti come il tuo»
«Cosa?» chiedo.
«Tu sei solare, affettuosa e molto presente, ma ricorda che agli occhi di una persona che non ti conosce ancora potresti sembrare opprimente» risponde Luna, diretta come sempre.
Io ammutolisco e lei continua.
«Tesoro, non lo sei, ovvio… Ma Ben, a quanto mi hai detto, sembra il classico tipo spaventato dai legami… Pensaci su»
 
Sospiro e volto il capo verso la finestra: vedo il gruppetto di persone che si sta disperdendo.
Ben indossa ancora il costume di scena e sembra intirizzito.
Ci credo, fa un freddo incredibile.
Cammina nel buio, diretto verso il suo bungalow.
Di fronte al mio non esita neppure.
Sento una fitta di dispiace e mi volto di nuovo verso il computer, con un sospiro.
Luna mi sorride, incoraggiante.
«Niente musi!» fa, allegra «Avete la festa di fine di fine riprese, giusto?»
 Annuisco.
«Bene: spalle dritte, ragazza! E, se avessi problemi… Be’, semplicemente salterò su un aereo e verrò a dargli una bastonata in testa!»
 
*
 
Con efficienza e rapidità arriva la fine di questa avventura.
 
I bagagli sono chiusi, i biglietti aerei fatti.
Il mio è posato sul comodino e recita la nuova tratta di questa avventura folle e inimmaginabile: Vancouver-Los Angeles.
Trattengo un sospiro di puro panico e mi guardo allo specchio.
Indosso un abito, per la prima volta da tre mesi a questa parte eccetto che per le riprese.
Questo, però, non ha nulla a che vedere con i complicati vestiti di Alice: è lungo e dritto, nero, con le maniche in pizzo.
L’ho sdrammatizzato indossando stivali bassi, ma comunque la mia immagine riflessa mi sembra irreale.
 
È tutto così…strano.
Quasi assurdo.
È come se non riuscissi a liberarmi di Alice.
È come se non sapessi cosa fare della mia vita, ora che l’ho riavuta indietro.
Dopo tutta la frenesia, la paura, gli orari assurdi, le alzatacce in piena notte e le ore tarde sul set…
La mia vita è stranamente vuota.
E piatta.
 
Non so cosa mi stia succedendo, davvero.
Sono sempre stanca e assonnata, ma soprattutto sono apatica e mi guardo attorno senza uno scopo.
È come se non riuscissi a riabituarmi alla normalità, perché, in fondo, non mi sembra più così normale.
 
Sono passati due giorni dalla fine delle riprese e gli addetti alla produzione, con efficienza, hanno smantellato il set.
Le apparecchiature sono state riposte, ogni traccia della nostra permanenza cancellata.
Il mio armadio è vuoto, la valigia chiusa.
Pochissime le tracce della mia presenza: lo spazzolino in bagno, un asciugamani e una rivista buttata sul letto.
E, in più, ci sono io che mi aggiro per la stanza sentendomi fuori posto e inquieta.
Non ho cercato Ben, in questi giorni.
Ci siamo tutti occupati di questioni pratiche: il rientro, il lavoro, le chiamate a casa.
Mi sono resa conto, con un forte senso di shock, che non sentivo la mia famiglia da quasi due mesi.
Quando sono riuscita a parlare con mia madre ho faticato ad arginare le sue proteste furiose.
Insomma, so che ha ragione: sua figlia se ne è andata dall’altra parte del mondo a tentare di recitare (orrore!), senza dare notizie di sé o senza spiegazioni valide (doppio orrore!) e adesso annuncia con nonchalance che pensa di fermarsi a Los Angeles per un tempo indefinito (assolutamente inconcepibile!).
Ma è proprio quello che ho fatto.
 
E non me ne pento minimamente.
 
*
 
Alla fine una delle assistenti del set viene a chiamarmi e io salgo in una macchina piena di gente allegra.
 
Il trasferimento a Vancouver è rapido e condotto con efficienza; da lì abbiamo giusto una mezz’ora per prendere possesso delle nostre stanze in albergo, prenotate per la notte, e poi veniamo tutti accompagnati nel locale dove si svolge la festa d’addio di Seventh Son.
Stavolta in macchina con me c’è Antje Traue, che mi chiede come sto e se sono felice di tornare a casa.
Chiacchieriamo brevemente: il locale non è lontano.
Entrate, ci separiamo e lei si dirige al bar.
Io gironzolo per la sala, scambiando qualche sorriso con gli addetti ai lavori che conosco.
Sono tantissimi e con alcuni non sono mai riuscita a parlare, magari perché seguivano altri attori, o lavoravano in orari diversi dai miei e per altre scene.
Anche loro sono felici e soddisfatti e ne hanno ben motivo: il loro lavoro è durissimo.
Bodrov, che sta parlando con uno dei produttori, mi rivolge un cenno con il capo.
 
Incrocio Jessica, una delle figlie di Bridges, che mi abbraccia e mi dice che la sua famiglia è in partenza.
«Adesso?» chiedo, stupita «Ma la festa?»
 Lei scrolla le spalle, come se non fosse particolarmente importante.
E magari per lei è così: ne avrà viste mille, di queste feste, viaggiando con il padre.
È a me che invece sembra così irreale, come se un pezzo della mia vita mi stesse scivolando via di mano.
Jessica mi prende per mano e mi conduce sulla porta, dove un Jeff in giaccone sta salutando tutti quelli che gli capitano a tiro.
Posa per delle foto, firma autografi.
All’improvviso, alle sue spalle compare Ben e Jeff si sporge per abbracciarlo.
Gli dice qualcosa che lo fa ridere, poi gli dà un’amichevole pacca sulla spalla.
Ben sembra felice e, insieme, un po’ triste.
Lo capisco bene.
Resto in silenzio ad osservarli da lontano, finché Jeff si guarda attorno e mi fa un cenno con la mano.
Quando mi avvicino mi stritola in un abbraccio da orso.
«In bocca al lupo, ragazzina» mi dice «Farai una bella carriera, ne sono certo!»
«Io?» sono perplessa «Non so nemmeno se è una cosa che mi piace… Voglio dire, è stata un’esperienza sicuramente affascinante, ma emotivamente mi ha svuotata!»
Lui sghignazza.
«È così per tutti, piccola! E ricorda: se sai fare senza saperlo, tanto meglio!»
Mi stringe ancora una volta, velocemente, quindi batte sulla spalla di Ben, prende sottobraccio la moglie e infila la porta.
 
Io e Ben restiamo per un attimo in silenzio, quasi frastornati.
Mi fa uno strano effetto il pensiero di aver appena salutato una persona con la quale ho condiviso mesi di vita e che, molto probabilmente, non vedrò mai più.
È come se rifiutassi di rientrare nello schema della mia vecchia vita: mi dibatto in questo stato di incertezza e precarietà senza sapere se…
 
Mi riscuoto quando una mano gentile si posa sulla mia spalla.
Alzo gli occhi su Ben, che mi sorride.
«Un drink?» chiede.
Annuisco, ancora spaesata.
Come farò se dovessi salutare lui?
Se mi fa questo effetto Jeff, allora cosa farò con Ben?
E ricordo che sono rimasta ferita anche dalla partenza di Julianne, sebbene – ed è triste da dire – dopo una settimana circa non sentivo nemmeno più la sua mancanza.
Succede così perché vivevo in un vortice, oppure Ben ha ragione quando dice che i rapporti che si costruiscono in questo ambiente sono assolutamente transitori?
 
È un’idea che mi spaventa.
 
Seguo Ben in silenzio e prendo il bicchiere che mi offre.
Lui mi studia un secondo, quindi mi indica un divanetto in penombra.
Mi siedo, meccanicamente, e bevo un sorso dal mio bicchiere.
Arriccio il naso senza volerlo e Ben lo nota subito.
«Troppo forte?» chiede.
Annuisco.
«Cos’è?»
«Whiskey»
Tende la mano e io gli cedo volentieri il bicchiere.
Lui beve un sorso con gli occhi socchiusi.
«Sei spaesata» dice, poi.
E non è una domanda.
«Succede anche a te?» domando.
Ben fa un cenno affermativo con il capo.
«Sempre. Ma con il tempo impari a conviverci»
«Mi sento come se non sapessi più cosa devo fare… Come se stessi per lasciare persone importantissime, anche se so che tre mesi fa non le conoscevo neppure. Sono angosciata!»
«Lo so Miki, lo capisco. Eppure, anche se ti sembrerà impossibile, tutti qui ci sentiamo così… Ma fra qualche settimana tornerà tutto alla normalità, vedrai, e questa sarà solo una bella esperienza passata»
 
Mi mordo un labbro.
So che lo pensa davvero, me lo aveva già detto.
«Come fai a conviverci?» chiedo.
Lui scrolla le spalle.
«Mi sono abituato. Le prime volte, quando tornavo a casa dopo mesi, non riuscivo nemmeno a liberarmi degli accenti dei miei personaggi. Quando ero a Dublino, poi, continuavo a parlare come un imbecille**! E poi… niente. Basta. Resta il ricordo, però»
Mi lascio andare contro lo schienale del divano.
«Al momento mi sembra un investimento emotivo troppo grande» affermo, decisa.
Ben si limita a sorridere, sorseggiando il liquore.
 
Il silenzio si dilata tra noi, ma è un silenzio riposante.
Non mi sento in dovere di trovare qualcosa da dire o di intrattenere Ben in qualche modo.
«Senti…» inizia lui, dopo qualche minuto.
Ma viene interrotto da un paio di ragazze che si avvicinano e gli chiedono una foto.
Ben accetta e scambia qualche parola; io resto a osservarlo in silenzio.
«Tutto bene?» mi chiede quando restiamo di nuovo soli.
Annuisco e lui viene a sedersi accanto a me.
Si schiarisce la voce e chiede, esitante:
«Quindi… Verrai a Los Angeles?»
«Sì. Ho un piccolo lavoro per delle foto di moda»
Ben china gli occhi sul bicchiere.
«Bene…» mormora «Mi fa piacere»
«E tu?» chiedo «Che progetti hai?»
«Devo parlarne con il mio agente. Ho qualche copione da leggere… Vedremo»
Scende di nuovo il silenzio.
«Ti…» Ben inizia a parlare, quindi si ferma.
Poi riprende:
«Ti fa piacere venire a Los Angeles?»
«Sì e no» rifletto ad alta voce «No perché al momento mi sembra che farei meglio a concentrarmi per capire cosa sto facendo della mia vita. Ma sì perché non ho mai visto Los Angeles, perché è una nuova avventura e…»
«E?» domanda lui.
«E basta» sorrido, serafica.
 
Dopotutto, potrebbe essere più presente.
E più chiaro.
So che ha detto di non volere una storia, ma subito dopo ha dichiarato che ci avremmo provato.
Non capisco la sua lontananza di questi giorni…
Non capisco se dipende da me o se, semplicemente, anche lui è scosso per via del film che finisce.
Eppure…
Forse Luna ha ragione: non sono caratterialmente tagliata per le situazioni poco definite e chiare.
Ma io voglio farcela.
Ne vale la pena, per Ben.
La persona che ho visto in questi mesi, così dolce e profonda, non può essere anche tanto immatura.
Forse ha davvero solo bisogno di tempo.
 
E spero sia una conferma di questa speranza il sorriso che mi rivolge, così caldo e rassicurante.
La sua mano copre la mia, mentre Ben dice:
«Per quanto riguarda quel discorso di un invito a cena…»
 
 
 
* Ben ne ha parlato in molte interviste fatte per la promozione di Seventh Son
** Anche qui, lo ha detto Ben in un’intervista, aggiungendo che sua madre era molto preoccupata al riguardo!


***
Miei carissimi lettori, mi sembra di non scrivere da una vita!
Sono indietro con tutto e mi scuso con voi, ma sono stata via per lavoro e non ho avuto un attimo per me!
Purtroppo le trasferte sono totalmente imprevedibili: turni da 12 ore, emergenze su emergenze...
Anche se poi la soddisfazione c'è stata, indubbiamente *e che gran figo Lilian Thuram, scusate*
Bene, torniamo a noi!
Vi ricordo le altre due mie storie aperte:
Ragione e sentimento:  http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3126893
L'Erede di Narnia:  http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3127098
e i miei contatti Facebook:
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Buona lettura!
Joy

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Capitolo 20
*** XX ***


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Non importa quanto vai piano, l’importante è che non ti fermi
Confucio






«Sai, non la stai affatto prendendo bene»

 
Quelle parole mi riportano bruscamente alla realtà.
Mi riscuoto, accorgendomi solo ora che sto fissando con aria assente un punto fuori dalla finestra e mi sto tormentando le mani.
Mi impongo di smetterla.
Guardo lo schermo del computer e tento un sorriso.
«Scusa» dico a Luna, collegata su Skype «Sono ancora un po’ sottosopra per via di tutta questa storia…»
L’immagine della mia amica, non perfettamente sincronizzata, aggrotta le sopracciglia a rallentatore.
«Forse vuoi dire che sei sottosopra per via di Ben?» dice, diretta come sempre.
«No» nego subito io «Solo che… Non so, mi sembra ancora incredibile essere qui, a Los Angeles. Ho deciso io di venirci, lo so bene, ma a tratti mi sembra una decisione folle. Cosa sto facendo, Luna? Non dovrei semplicemente tornarmene a casa e ricominciare con la mia vita?»
Senza esitare, Luna risponde:
«No, assolutamente!»
«Cosa? E perché?»
«Perché dovresti tornare, scusa?»
Batto le palpebre, presa in contropiede.
«Perché è casa mia?» domando, pratica.
«Sì, certo, ma a parte questo… Per come la vedo io hai un’occasione unica: sfruttala finché ne hai modo! Se torni ora, saranno stati dei mesi folli. Ma se riuscissi a farli diventare qualcosa di più concreto…»
«Mi sembra che di concreto e stabile, in questo mondo, non ci sia nulla» la interrompo «E, davvero, non so se sono fatta per questo»
«D’accordo, allora» ribatte lei «Ma comunque cerca di esaurire questa opportunità! Fai tutto quello che puoi e poi torna senza rimpianti. Se invece scappi via, perché magari sei spaventata, ho paura che potresti pentirtene»
Tamburello con le dita sul piano del tavolo.
«Non sono spaventata… Almeno, non credo di avere paura di questa vita. Sembra tutto così facile. Così inconsistente. Piuttosto, ho paura di non riuscire a rientrare nei binari della mia vita…»
«Mic, sei via da tre mesi, non da tre anni!»
«Lo so, lo so… Ma io ho sempre condotto una vita normalissima. A tratti mi fermo a pensare  a questi ultimi mesi e… Non so. Non sembro io, questa»
«Ma certo che sei tu!» dice Luna, indignata «Sei perfettamente tu! Perché ti sottovaluti sempre? Sei benissimo in grado di mescolare le carte e cogliere delle nuove opportunità!»
«Sì, ma…»
«Ascolta, testona. Hai passato tre mesi meravigliosi e, oltre ad aver guadagnato qualche soldino (cosa che certamente non fa schifo) ti sei aperta nuove opportunità. Deciderai poi di non coglierle? Benissimo: sei padrona della tua vita e delle tue scelte. Ma tieni presente che qui, in Italia, questi tre mesi non hanno cambiato nulla. Non c’è stata una riforma del lavoro e non sono spuntate per magia nuove opportunità. È sempre la solita vita, sempre la solita storia. Non ti sei bruciata nessun ponte, stai tranquilla»
 
Quelle parole mi calmano un po’.
Ora che non lavoro più tredici o quattordici ore al giorno sul set mi capita di ripensare al lavoro che facevo prima: a tratti mi sembra lontano mille galassie; a tratti, invece, mi coglie l’ansia di tornare.
So fare solo quello.
Ho sempre voluto fare solo quello.
Però ora ci sono altre questioni in ballo di cui tenere conto.
Come se mi avesse letto nel pensiero Luna chiede:
«E Ben? Che mi dici di lui?»
Mi mordo il labbro per non sospirare.
«Nessuna novità» rispondo, laconica.
Ed è vero: dopo essere volati a Los Angeles non si è praticamente fatto sentire, ad eccezione di un paio di banali messaggini per sapere se ero arrivata in hotel e mi ero sistemata bene.
Che cosa avevo immaginato?
Sinceramente, non questo.
È lui che mi ha chiesto di venire a Los Angeles.
È lui che ha detto che “avremmo provato a vedere cosa succedeva”.
E, invece, sono passati sei giorni (SEI! Non che li stia contando, chiaramente!) e io ho avuto da lui solo due messaggini inutili!
 
Ho incontrato il fotografo e la stylist del servizio che devo scattare, ho visto la location.
Ho fatto le prove di trucco e acconciatura.
Ho fatto qualche passeggiata.
E basta.
Quasi me ne vergogno: io non sono così apatica, normalmente.
Non è da me starmene seduta ad aspettare che qualcuno si degni di scrivermi e di chiedermi di uscire.
Però, normalmente, sono a casa mia, con i miei amici e la mia vita: non da sola, dall’altra parte del mondo.
Ripenso agli occhi scuri di Ben, ai suoi baci, e mi sento una perfetta idiota.
Mi ha chiesto di stare in America per lui.
Come ho fatto ad accettare, come se fossi una persona disposta ad attendere un suo cenno?
 
È una situazione che mi brucia tantissimo.
E non mi fa pensare lucidamente.
Infatti, quando Luna mi suggerisce di non farmi troppe paranoie e di chiamarlo io, salto su come se mi avesse punta un riccio di mare:
«Io? E perché mai, scusa?! È stato lui a dire che voleva invitarmi a uscire, a Los Angeles! È stato lui a chiedermi di venire qui!»
Luna sospira.
«Mic, stai calma! Non c’è proprio nulla di male a chiamarlo! Non devi idealizzarlo in questo modo: è un ragazzo carino, che conosci e con il quale è nata una simpatia. E basta»
«No, invece» ribatto a denti stretti «Non si sta comportando bene!»
«Mic, è un maschio! Quanti ce ne sono, sinceramente, che sanno comportarsi in modo perfetto?»
«Lo dici solo perché a te non succede mai che non ti chiamino!» piagnucolo.
Lo so, sono odiosa.
Ma è più forte di me: non voglio cedere.
Non sarò io ad abbassare la testa.
«Guarda che sbagli a viverla così» risponde Luna «Tu ne fai una questione di principio, mentre dovresti vivertela con calma. Non è una gara a chi cede prima, è un venirsi incontro!»
 Naturalmente: ma dopo che avrà fatto lui il primo passo.
 
Vedo Luna sbadigliare e colgo la palla al balzo per troncare la conversazione.
Non fraintendetemi, io la adoro.
Ma lei mi conosce meglio di chiunque altro e sa mettere impietosamente in luce i miei difetti.
«Vai a dormire, tesoro» le dico «Sarai stanchissima e devi ancora lavorare su quel progetto»
 Lei annuisce e si stropiccia gli occhi.
La guardo con affetto: mi manca davvero tantissimo.
«Tu lo chiami?» chiede, prima di sbadigliare ancora.
«Ci penso» rispondo.
Non posso mentire a Luna, almeno non del tutto.
«Ci sentiamo dopodomani?» aggiungo.
«Perché non domani?» chiede lei, perplessa.
«Ho i primi scatti di quel servizio fotografico. Farò tardi e tu devi lavorare»
«Ma se hai bisogno…» tentenna.
«Vai tranquilla: ce la posso fare per un giorno, da sola!»
 Lei annuisce poi si raccomanda:
«Senti, se non vuoi chiamarlo, almeno esci! Fai qualcosa! Sei a Los Angeles, insomma! Non startene da sola in hotel, come una mummia brontolona!»
Sorrido.
«Va bene, prometto!» rispondo.
 
La saluto, spengo il pc e mi butto sul letto.
È facile da dire.
Certo, sono a Los Angeles, ma sono da sola.
E non è così divertente andarsene in giro senza poter condividere nulla.
Io sono sempre stata una persona che trova nella compagnia la metà della gioia: mi piace parlare di quello che vedo, assaggiare del cibo diverso, camminare per ore in esplorazione.
Se però sono sola è meno divertente.
Questa mattina ho fatto una passeggiata in Rodeo Drive: caldo, sole, gente ovunque, negozi.
Bello, assolutamente…
Ma dopo un po’ mi sembrava di girare a vuoto per cui sono tornata in hotel.
(E no, non c’entra nulla il fatto che il cellulare avesse la batteria quasi scarica. Davvero)
Però,  siccome so che Luna ha ragione, mi sforzo di scuotermi.
Allungo la mano verso il comodino, dove ho posato i volantini che la receptionist mi ha lasciato, appena ha saputo che ero al mio primo soggiorno in città.
Ce n’è uno che propone un tour agli Studios e io, prima di perdere la determinazione, lo prenoto per dopodomani.
 
Fatto.
E sono ancora le cinque di pomeriggio.
In Italia è mezzanotte.
Cosa dovrei fare, adesso?
Non posso chiamare nessuno di quelli che conosco e non ho nessuno da sentire neppure qui.
Respingo l’idea di Ben con forza e vado a farmi una doccia.
Appena finito mi vesto, mi trucco e prendo la borsa.
Esco, scendo nella hall e, da lì, e mi dirigo senza fretta per la strada.
Passeggio con calma, osservando il cielo azzurrissimo, le ragazze sui rollerblade e tutte le persone che camminano, ridono, vanno in bici.
Ci sono le palme per cui questa città è famosa.
È caldo, l’aria è tersa.
Rilassati, Micol – mi impongo – Luna ha ragione: quando ti ricapiterà di poter passare del tempo a Los Angeles?
Animata da un’improvvisa risoluzione entro in un negozietto per turisti e ne esco con una guida della città.
Vado a sedermi ai tavolini di un bar e inizio a studiarla.
Tre mesi fa nemmeno lo conoscevo, Ben.
E non gli permetterò di condizionarmi la vita e l’umore in questo modo.
 
 
Leggo la guida, seleziono degli itinerari che mi sembrano interessanti e, intanto, sorseggio una bibita ghiacciata.
Una volta finito riprendo a passeggiare e mangio un hot dog in piedi, fuori da un locale.
Non voglio allontanarmi troppo, da sola, e così riprendo la strada che mi porta in hotel.
Io rientro mentre la città sembra invece prepararsi per una notte di feste e follie.
Pazienza.
È passato un altro giorno.
 
*
 
La mattina dopo devo lavorare e ne sono felice.
 
Malgrado tutte le mie remore sul fatto che questo sembra un gioco più che un lavoro, sono felice di non dovermi preoccupare di occupare del tempo.
Passo un paio d’ore al trucco e poi indosso l’abito per il servizio.
A differenza della mia precedente esperienza a Los Angeles non scattiamo in una villa ma in spiaggia, a Venice Beach.
Non è così vicina alla città come avevo immaginato e ammetto che mi delude un po’: è molto turistica e commerciale, come località.
Però sono euforica all’idea di vedere il mare.
E questo non è il mare: è l’oceano.
È gelido e, sulla superficie, affiorano alghe enormi.
Darei qualsiasi cosa per tuffarmi ma temo che alla mia truccatrice prenderebbe un colpo.
Viene allestito una sorta di piccolo set, con gli specchi per riflettere la luce del sole e i ventilatori per muovere capelli e abito e vengo colpita dall’indifferenza generale.
In Italia, se qualcuno per strada vede una telecamera stai pur certo che si mette a seguirla, a fare facce idiote per essere ripreso o a fingere indifferenza mentre si piazza proprio davanti all’obiettivo.
Qui devono essere talmente abituati a vedere fotografi e registi che nessuno ci fa più caso.
Meglio per me: non sono ancora così a mio agio da sentirmi disinvolta di fronte agli occhi di gente che mi fissa con insistenza.
Gli addetti ai lavori, invece, non sono invadenti.
E devo dire che la vita sul set mi ha molto aiutata: se riuscivo a baciare Ben mentre una ventina di persone ci fissava, allora…
Ah, no!
L’ho fatto di nuovo!
Accidenti a lui!
 
*
 
Lavoriamo bene.
Fa molto caldo, ma per fortuna i ventilatori muovono l’aria e me la rendono respirabile.
È tutto talmente azzurro, bianco ed accecante che mi sembra di muovermi in un sogno.
Mi diverto quasi.
Quando il fotografo chiede una pausa sono stupita di constatare che sono passate ore dal primo scatto.
Vado a sedermi nella roulotte e una ragazza si dà da fare con il trucco.
Prendo la borsa, più per abitudine che per altro, e tiro fuori il cellulare.
E il mio cuore perde un colpo.
Una chiamata persa.
 
*
 
Ti pareva!
 
Lascio il cellulare per la prima volta da giorni e, guarda caso, Ben sceglie questo momento per chiamarmi!
Chiedo qualche minuto e schizzo fuori dalla roulotte.
Sono senza scarpe e con i capelli al vento e capisco subito che non è stata una grande idea: la sabbia è rovente e il sole picchia impietoso.
Ma ho altro per la testa, al momento.
Arranco faticosamente, notando come la distesa di sabbia non offra ombra o ristoro, e intanto premo il tasto della richiamata, prima di perdere il coraggio.
Ben risponde al terzo squillo.
«Miki!» esclama.
Sembra contento di sentirmi.
Il mio cuore fa un’inopportuna capriola.
«Ciao, Ben» dico, serrando le labbra perché ogni passo mi ustiona i piedi.
«Ehm… Tutto bene?» chiede lui, perplesso «Ti ho disturbata?»
 «No!» esclamo «Ahi! Accidenti, aspetta!»
 Mi volto e marco indietro, stringendo i denti.
«Ehm… Come stai?» chiedo.
«Bene, grazie. E tu? Ti stai abituando alla vita normale?»
«Veramente sono al lavoro» dico, per evitare di ricordargli che la mia vita normale non si svolge certo a Los Angeles.
«Di già?» fa lui, sorpreso.
«Sì, ho un servizio fotografico»
«Che ragazza impegnata!» mi prende in giro lui.
«Mi serve per il permesso di soggiorno, no?» ribatto, in tono neutro.
Ben tace, il che mi sembra preoccupante.
Insomma… Ma lo sa o no che qui non si lavora senza permesso, né si fanno vacanze senza visti?
«Giusto» dice, dopo un attimo «Ecco… Se non sei impegnatissima, pensavo che magari…»
Resto in silenzio, mentre guadagno la roulotte del trucco e mi lascio cadere sui gradini.
Ah.
Meno male, che sollievo.
«Magari?» ripeto, soffocando un sospiro di beatitudine ora che non mi sento più sui carboni ardenti.
«Uffa, non mettere in luce il mio essere una frana» ride lui «Ci vediamo? Ti va?»
 Sorrido, anche se non può vedermi, perché è proprio come diceva Luna: è facile e ovvio e mi rende felice.
«Certo che mi va!» rispondo.
«Allora… Come sei organizzata? Lavori anche domani?» chiede.
«No! Dopodomani ho la seconda parte del servizio… Ah, cavolo! Domani ho prenotato la visita agli Studios…»
«Ah, no, allora devi andare!» dice lui.
«Ma…» mi fermo prima di dirgli che posso cancellarla.
O che può venire con me.
«Tranquilla» insiste «Se ti va bene, ci vediamo dopodomani. O finisci tardi?»
«Finisco alle sette, in teoria» rispondo «Ma sono a Venice»
 «Venice Beach?» chiede Ben «La conosco. Vengo a prenderti lì?»
«Va bene»
«Perfetto! Mandami qualche indicazione sul luogo preciso, ok? E non lavorare troppo!»
 
Ci salutiamo e io reprimo un vago senso di insoddisfazione.
Stupidi Studios.
Ma dovevo proprio prenotare per domani?!
 
 
 

***
Buongiorno, carissimi lettori!
Perdono, perdono! Ero via per il ponte (finalmente al mare!) e non avevo il pc con me.
Spero abbiate visto l'avviso sulla mia pagina Facebook, che vi ricordo di consultare sempre: https://www.facebook.com/Joy10Efp
Questo, invece, il mio profilo:  https://www.facebook.com/profile.php?id=100007339248477&fref=ts
Mi spiace davvero non rispettare le scadenze che mi propongo e lasciarvi ad attendere, prometto che mi impegnerò di più!
Vi ricordo che sto scrivendo altre due storie, per la precisione:
Ragione e sentimento (crossover Harry Potter/Ben Barnes):  http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3138610
L'Erede di Narnia (Hermione e Caspian!):  http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3127098
A tal proposito, scappo ad aggiornare quest'ultima!
Buona lettura,
Joy

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Capitolo 21
*** XXI ***


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Salite il primo gradino con fiducia. Non occorre vedere tutta la scala, salite il primo gradino
Martin Luther King

 






Alla fine, la visita agli Studios è divertente.

 
Luna mi ordina di andare e, in effetti, anche io so che è la cosa giusta.
Ben mi ha fatta aspettare una settimana; può aspettare lui per un giorno, adesso.
Quindi vado, mi diverto e mi faccio irretire da mille souvenir da riportare a casa.
Ceno di nuovo da sola e vado a letto presto.
Un po’ per il caldo e un po’ per l’emozione fatico a prendere sonno.
Il giorno dopo torniamo a Venice e mi sembra che faccia ancora più caldo.
Mi risulta più difficile concentrarmi e consulto impaziente l’orario appena posso.
Cambio vari abiti e, nel complesso, non mi rilasso mai veramente.
 
Inizia ad andare un po’ meglio verso le sei del pomeriggio, quando l’afa e il caldo si fanno meno opprimenti.
All’ultimo cambio di abito indosso un vestito verde, arioso e lungo fino ai piedi, con una fascia nera in vita.
Mi ritoccano il trucco e i capelli e io mi guardo nello specchio.
«Wow» dico «Il vestito è stupendo!»
 La stylist mi osserva con occhio critico.
«Per fortuna è anche più fresco dei precedenti, oggi si muore di caldo… Comunque sì, è un bel modello. Tienilo, se vuoi»
«Davvero?» sorrido, ripensando ai tre abitini che mi sono portata dietro stamattina.
Diventano inutili, a questo punto.
 
Faccio una piroetta davanti allo specchio.
Così mi sento perfetta.
 
Scattiamo ancora, sulla riva del mare.
La luce è cambiata, il sole è più basso nel cielo e le ombre si stagliano affusolate e infinite sulla sabbia bianca.
Mi limito a fare quello che il fotografo mi dice e resto immobile, nell’aria prodotta dalle pale meccaniche.
Sono probabilmente l’unica che sta al fresco, se escludiamo i bagnanti che schiamazzano allegramente in acqua.
Quando il fotografo si mette a osservarli reprimo una fitta d’ansia: non vorrà farmi buttare in acqua?
Mi serve questo vestito per l’appuntamento di stasera!
Ma, per fortuna, sembra ripensarci e io riprendo a respirare.
Quando finiamo mi mostra alcuni degli scatti.
Sono bellissimi.
Sono sempre sorpresa quando mi rivedo nelle foto: non sembro io, decisamente.
Nel 90% delle foto amatoriali che faccio io vengo uno schifo.
Mentre questa ragazza… Non sembro io, ma una vera modella.
Osservo varie pose e una sensazione di calore si diffonde in me.
Non è propriamente orgoglio… forse è soddisfazione.
In fondo, ammettiamolo: quale ragazza non desidera vedersi bella, ogni tanto?
 
Ci stiamo salutando con gli addetti ai lavori quando alzo gli occhi e lo vedo.
Sta un po’ indietro rispetto agli addetti ai lavori e osserva la scena da lontano.
Indossa jeans scuri, una t-shirt bianca e ha i capelli pettinati all’indietro.
Tiene le mani in tasca ed è bello da mozzare il fiato.
Restiamo in silenzio a fissarci e poi io prendo tra le mani i lembi dell’abito e muovo qualche passo verso di lui.
Mi sorride e inizia a camminare.
In un attimo siamo l’uno di fronte all’altra e mi sembra che non sia passata neppure mezz’ora dall’ultima volta che l’ho visto.
«Ciao» mormora.
«Ciao»
«Sei bellissima»
 Sento il mio sorriso dilagare sul volto, mentre lui allunga la mano per sistemarmi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Andiamo?» chiede poi.
Annuisco.
 
Muoviamo qualche passo sulla sabbia, ormai piacevolmente tiepida.
Ben mi chiede del lavoro, io del rientro e di Los Angeles e in un attimo la conversazione tra noi torna a essere facile e spontanea come è sempre stata.
Facciamo una passeggiata in riva al mare e ci metto un po’ a rendermi conto che il sole sta tramontando.
Faccio un giro su me stessa e osservo i colori cangianti del sole che inizia a inabissarsi lentamente nell’acqua.
«Che meraviglia!» esclamo «Possiamo restare qui?»
Ben sorride e d’impulso mi prende la mano, le nostre dita si intrecciano dolcemente.
«Possiamo fare quello che vuoi» risponde.
«Tu a cosa pensavi?»
«Veramente stavo per chiederlo a te…»
Mi fermo di botto e lo guardo con aria scaltra.
«Non sarai uno di quelli che al primo appuntamento ti chiedono “Dove vuoi andare? Cosa vuoi fare?”» domando, soave.
Lui mi fa una linguaccia.
«Perché, tu sei una di quelle che “Non lo so. Quello che vuoi tu”*
Gli do uno schiaffetto sul braccio.
«Ma certo che no! Però apprezzo molto lo spirito di iniziativa e di intraprendenza, in un uomo»
Ben sospira in modo teatrale.
«Allora mi sa che sto per sembrarti un idiota… Io davvero volevo chiederti cosa vuoi fare!»
Batto le ciglia, scherzosamente.
«Non infierirò ricordandoti che non sono di qui, non conosco affatto questa città e quindi non saprei cosa proporre» rispondo, con un sorriso angelico.
Lui geme.
«Sono un idiota!»
«Sì» rido «Ma, in via del tutto eccezionale… Questa volta ti vengo incontro, ok?»
«Ok» sembra sollevato «Dove ti porto? A cena?»
«A mangiare un pezzo di pizza su una panchina del parco» ribatto.
 
Mi guarda come se fossi matta e io trattengo una risata.
«Scherzi, vero?» domanda poi, circospetto.
«No» rispondo «Non mi importa del posto, dell’eleganza o tantomeno della pretenziosità. Mi va bene che mi porti al parco, a mangiare su una panchina un pezzo di pizza, purché ci sia una buona conversazione etu mi faccia passare una piacevole serata»
 Ben batte le palpebre e resta in silenzio.
Probabilmente aspetta che io trilli “scherzoooo!”.
Ma io non scherzo affatto, quindi resto in attesa.
Dopo un po’ lui sospira e si passa una mano tra i capelli.
«L’avevo dimenticato» dice.
«Cosa?»
 «Che sai sempre lasciarmi senza parole»
«Ah» ribatto «Quindi mi avevi già dimenticata?»
 Lui mi afferra per il braccio e mi tira vicina a sé.
«Smettila» borbotta «Vedi che ho ragione io: detesto i primi appuntamenti!»
 
*
 
In realtà, Ben se la cava benissimo.
 
Alla fine restiamo sulla spiaggia e lui va a comprare due hamburger in un chioschetto.
Io mi siedo sulla sabbia, senza remore per il vestito, e osservo il mare al tramonto.
Una sensazione di benessere e di pace si impossessa di me.
È questa la beatitudine: il mare, il sole, una brezza leggera.
Lui che sta per arrivare.
 
E, infatti, lui è qui.
Tiene tra le mani due panini e due lattine di birra, è sorridente, divertente, spigliato.
Sembra l’ambiente ideale per lui: Ben non ha bisogno di ristoranti raffinati o macchine costose.
È brillante, simpatico e acuto.
Mangiamo, ridiamo, parliamo.
È una serata perfetta.
«Capisco cosa volevi dire» esclama lui più tardi.
Abbiamo mangiato, bevuto e ora siamo seduti vicini.
Il suo braccio circonda le mie spalle e io ho posato il capo accanto al suo.
Il suo odore, il suo calore mi sono mancati tantissimo.
Socchiudo gli occhi, accoccolandomi meglio al suo fianco.
«Cosa?» chiedo «Quando?»
«Quando hai detto che volevi cenare al parco. Pensavo mi prendessi in giro»
«Affatto. Non sono una che si fa impressionare dalla carta di credito»
«Non l’ho mai pensato. Ma credevo che saresti stata colpita da una serata ben organizzata»
Volto appena il capo per ammirare il suo profilo.
«Naturalmente» rispondo «Non fraintendermi, so apprezzare una bella serata. Ma, all’inizio, per me conta solo vedere se c’è sintonia. E lo si nota meglio quando non c’è nient’altro a distrarti»
«Proprio nulla?» mormora lui, avvicinando le labbra alle mie.
Trattengo un sospiro, ma non faccio in tempo a chiudere gli occhi che un pallone colorato atterra vicinissimo a noi.
Ci guardiamo intorno e vedo un bambinetto sgambettare con le braccia tese.
Ben si alza e, delicatamente, calcia la palla verso il piccolo, quindi mi tende la mano.
«Andiamo?» chiede.
 
Ci avviamo nella sera, percorrendo con calma la strada a ritroso.
È sceso un silenzio piacevole, dolce.
Non ci tocchiamo, ma io lo vorrei disperatamente.
Prendiamo la sua auto e ci immettiamo nel traffico: ce n’è parecchio, ma il viaggio è piacevole.
Parliamo ancora e ancora e devo dire che Ben mi sembra più scherzoso e più audace, rispetto a com’era in Canada, ma un po’ meno aperto a discorsi intimi.
Certo, la conversazione resta leggera, ma in generale mi pare che flirti di più e si apra invece meno.
Ma va bene, mi sta bene.
Dopotutto, la prima cosa che ho bisogno di capire è se (e quanto) gli piaccio.
 
Quando arriviamo al mio hotel lui parcheggia e poi mi accompagna fino all’ingresso della hall.
Sulla soglia esistiamo entrambi, quindi lui fa un sorriso e mogio e un passo indietro.
«Me la ricordo, qualche regola base del primo appuntamento» scherza «Niente baci alle ragazze speciali»
Io sorrido e ci fissiamo negli occhi, quindi lui si allontana di un paio di passi.
«Buonanotte» mormora.
«Ben!» lo chiamo prima ancora di pensarci su e gli tendo la mano.
Lui scuote la testa.
«No, Miki, io…»
 Non gli lascio terminare la frase.
Gli vado incontro e lo abbraccio stretto, seppellendo il viso nella sua maglietta.
Lo sento sospirare e poi le sue braccia mi stringono.
«Non mi aiuti, così»mormora tra i miei capelli.
Ma non mi lascia andare.
Ci stringiamo finché non decido, a malincuore, che anche per me diventerà difficile lasciarlo, quindi dolcemente abbasso le braccia.
Le sue mani percorrono un’ultima volta la mia schiena, quindi mi sfiora la fronte con un bacio.
«Posso potarti a cena fuori?» chiede «Davvero, stavolta?»
 Rido.
«Certamente»
«Bene. Ora vai, prima che ci ripensi e dimentichi le maniere cavalleresche!»
Rido ancora e soffio un bacio sulla punta delle dita mentre mi incammino.
 
Non potrei giurarci ma mi sembra che il guardaportone stesse ridendo sotto i baffi.
 
 
* Ben lo detesta, lo ha dichiarato qui: https://www.youtube.com/watch?v=I2IXqwo7BqM



***
Buonasera, miei carissimi!
Temevate un altro ritardo? Invece no, tranquilli: solo tanto lavoro, per cui ho aspettato di essere a casa per aggiornare.
Vi ricordo, come sempre, le altre due mie storie:
L'Erede di Narnia:  http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3145660
Ragione e sentimentohttp://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3145676
Se volete fare due chiacchiere, mi trovate su Facebook:
pagina  https://www.facebook.com/Joy10Efp
profilo  https://www.facebook.com/profile.php?id=100007339248477&fref=ts
Buona serata!
Joy

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Capitolo 22
*** XXII ***


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Quando non puoi cambiare la direzione del vento regola le vele
H. Jackson Brown





Ben mantiene la parola.
 
Stavolta non ci sono pause di silenzio o incertezze: si fa sentire puntualmente il giorno dopo l’appuntamento e quello dopo ancora; il terzo giorno mi invita a cena.
Io ho terminato il lavoro e provo una certa ansia per quello che riguarda le mie prospettive immediate.
Tornare a casa sembra la soluzione più sensata, ma…
Sarà poi la fine di tutto?
È stato un bel sogno e nulla di più?
 
Cerco di non pensarci e di godermi il presente il più possibile.
E Ben mi aiuta molto.
Quando viene a prendermi per il nostro secondo appuntamento sono molto curiosa: non ha voluto darmi indizi sulla serata, neppure quando gli ho fatto notare che per le donne è una situazione tragica non sapere in anticipo come vestirsi.
Lui è scoppiato a ridere e ha detto:
«Il vestito verde dell’altra sera era carino»
«Non fingere di non sapere che nessuna donna si vestirebbe allo stesso modo per l’appuntamento successivo!» ho ribattuto, tra il divertito e lo scandalizzato.
«Giusto. Siete consapevoli, vero, che noi non ce ne accorgiamo neppure?»
«Questo perché, se fosse per voi, potremmo venire direttamente senza vestiti, eliminando così un problema»
Altra risata da parte sua.
«Mi sembra un’ottima, ottima idea!» ha detto «Io non mi formalizzo, giusto perché tu lo sappia…»
«Buono a sapersi» ho commentato «Ora vado a comprare un burqa»
La telefonata è finita tra le risate.
 
Ora, mentre aspetto che l’ascensore arrivi al piano terra, mi passo nervosamente una mano tra i capelli.
Siccome l’unico consiglio che sono riuscita a estorcere a Ben, alla fine, è stato “mettiti comoda”, ho optato per un paio di jeans, una canotta nera scollata e decolleté con tacco medio.
Ho i capelli sciolti e una borsa ampia.
 
E non credo di essere mai stata così agitata.
Voglio dire… ho i crampi allo stomaco.
Non è normale, questa cosa.
Luna dice che finalmente mi emoziono per qualcuno e che è una cosa meravigliosa.
Forse ha ragione…
Ma non sono abituata a questi crampi, mi fanno sentire strana.
Eppure, la cosa ancora più strana è che quando sono con lui mi dimentico di ogni altra cosa.
 
Quando mi soffermo ad analizzare queste emozioni la mia parte razionale mi urla a gran voce che farei meglio a tornarci di gran fretta, a casa.
 
*
 
Ben è splendido, come sempre.
 
Veste sportivamente ma in un modo molto ricercato, che incontra perfettamente il mio gusto.
Mi aspetta nella hall e, da lì, mi conduce alla sua auto.
Saliamo e mette in moto, scivolando dolcemente nel traffico frenetico di questa città.
«Carino, il tuo burqa» commenta, sbirciando spudoratamente la mia scollatura.
Io rido.
«Ti è andata bene che fa troppo caldo!» esclamo.
Lui sorride, guardando la strada, ma la sua mano si sposta brevemente sul mio ginocchio per una carezza.
«La prossima volta!» scherza.
 
Come sempre, parlare con lui è facilissimo, tanto che impiego molto tempo a rendermi conto che non ci stiamo affatto fermando.
Siamo in macchina da oltre mezz’ora e stiamo procedendo su uno stradone immenso, a cinque corsie.
«Dove andiamo?» chiedo.
«Preoccupata?» sorride lui, sempre con gli occhi fissi sulla strada.
«No… Ma questa città è immensa, mi fa sentire… Non so, piccola e sperduta»
Altro sorriso.
«Sì, conosco la sensazione. In effetti, Londra a confronto sembra una cittadina. Comunque mettiti comoda: non siamo ancora arrivati»
Mi stiracchio sul sedile riflettendo su come non mi importa assolutamente la meta, finché sono con lui.
Per me possiamo anche restare in macchina.
Ma non posso non rendermi conto del tempo che passa perché è chiaro – dopo svariati e svariati chilometri – che ci stiamo allontanando dal centro città.
Oltretutto, il sole sta tramontando.
Quando prende una strada che si arrampica sulla collina gli chiedo:
«È vero che non sei un pazzo maniaco assetato di sangue… vero?!»
Lui scoppia a ridere.
«E se dicessi di sì?» domanda.
Arriccio il naso.
«Immagino che dovrei inventarmi qualcosa»
«Inventarti qualcosa» ripete lui, divertito «Che ne dici, invece, di prendere il cesto che ho posato sul sedile posteriore?»
Mi allungo e, con qualche manovra complicata dovuta al fatto che è davvero grande, me lo metto sulle gambe.
Sbircio all’interno ed esclamo, entusiasta:
«Facciamo un pic-nic?»
Lui annuisce.
«Contenta? Non riuscivo a decidere dove portarti a cena… Mi sembrava tutto molto banale»
«È perfetto!» esclamo «Ma Los Angeles non è tutta di cemento, palme a parte?»
«No, anzi. Ma stasera facciamo una cosa diversa. Dopotutto, il mare lo hai già visto»
 
Occorre un’altra mezz’ora, ma quando arriviamo sono senza parole.
Scendiamo dall’auto e io muovo un paio di passi incerti, con il naso in aria.
È stupendo.
Siamo nel momento che precede la fine del tramonto, quando la notte incombe ma nell’aria c’è ancora un gioco rosato di luce del sole.
Ben mi prende la mano.
«Benvenuta sul Monte Lee!» esclama.
Camminiamo in silenzio finché non la vedo davvero: la scritta enorme che sovrasta l’omonimo quartiere di Los Angeles, quello più famoso: Hollywood.
Siamo sul monte sui cui spicca, gigantesca e bianchissima, la scritta leggendaria.
«Wow!» dico io, che al momento ho perso la parola.
Rivolgo un’occhiata in basso: Los Angeles è immensa ed è un reticolo di luci pulsanti.
Mi appoggio al fianco di Ben, sempre muta, e alzo il capo verso le lettere enormi che ci sovrastano.
La H, veramente… Il resto praticamente nemmeno lo vedo.
Lui si limita a circondarmi le spalle con un braccio, lasciandomi il tempo di contemplare il posto.
Il silenzio tra noi è ricco, pieno.
Assaporo ogni istante: gli odori, l’aria calda, la sua mano che mi sfiora.
Chiudo gli occhi e sospiro, felice, quindi muovo qualche passo e sfioro la gigantesca lettera.
Quando mi volto a guardare Ben vedo che sta sorridendo.
Gli sorrido in risposta.
«Grazie di avermi regalato una serata così… turistica» dico «So che tu qui ci vivi… Ti sarai stancato di vedere tutto questo!»
«Non mi stanca mai» risponde, avvicinandosi a me «Non mi sono ancora abituato a questa vista… Amo Londra, ma Los Angeles a volte mi stupisce»
Sorrido, completamente e totalmente felice.
 
E, un attimo dopo, sono tra le sue braccia e ci stiamo baciando come due che non desiderano altro, da sempre.
Mi stringo a lui, gli passo le mani tra i capelli e poi stringo le sue spalle.
Lui ha già infilato le mani sotto la mia maglietta e mi sta accarezzando la schiena.
Quando Ben si stacca appena da me gli passo le braccia attorno al collo per trattenerlo.
Le sue mani stringono appena i miei fianchi mentre lui si guarda attorno.
Ci sono altre auto, altre persone.
Non è che sta pensando che possiamo farlo… qui?
Mmm… Non sarebbe poi una brutta idea, intendiamoci.
La location è a dir poco eccezionale e lui è…
be’, non ho più tanta voglia di aspettare.
Gli nascondo il viso contro il collo e lui mi stringe.
Sento però delle voci di bambini che si avvicinano, per cui sospiro.
In risposta, Ben mormora:
«Forse… forse potremmo mangiare, che ne dici?»
Cosa devo dirgli?
Che mi è passata la fame?
Non posso, quindi annuisco.
 
Stendiamo a terra la coperta e Ben mi passa qualche panino avvolto in tovaglioli colorati.
«Pensavo che mi avresti stupita con qualche pietanza esotica!» lo prendo in giro.
Lui sorride, ma i suoi occhi sono ancora cupi per la passione.
«Faccio schifo in cucina» mi informa, dando un morso al suo panino.
«Sempre cibo da asporto, quindi?» lo punzecchio.
Lui scrolla le spalle.
«In generale, si mangia molto meglio qui che a Londra. È un cibo molto più sano e…»
«Per favore!» lo interrompo «Stai cenando con un’italiana!»
«Allora perché non mi inviti tu a cena?»
«Perché sono tradizionalista e mi piace che sia l’uomo a fare il primo passo»
«Quindi mi farai morire di fame?» mi implora, con occhioni enormi che si fissano nei miei.
Io ridacchio.
«Va bene» dico poi «A patto che anche tu cucini qualcosa per me»
«Mmmm… ok!» risponde, dopo averci pensato un attimo «Io faccio un ottimo pane alla banana*!»
«Scusa?»
«Pane alla banana» risponde, paziente «Si fa con banane, farina, bicarbonato…»
Sgrano gli occhi.
«Ehm…» lo interrompo «Se facessi un tiramisù?»
«Non mi lamenterei di certo» esclama, strizzandomi l’occhio.
Gli do un colpetto scherzoso sul braccio.
«Lo hai detto solo per spaventarmi!» lo accuso.
«Nemmeno per sogno! So cucinarlo davvero! È buonissimo!»
Arriccio il naso.
«Ti crederò sulla parola»
«Allora… Cucineresti per me?»
«Certamente! Solo che non ho una cucina, al momento»
«Be’… Per quello potresti venire da me» dice, sbirciandomi da sotto le palpebre.
All’improvviso ho il fiato corto.
«Ehm… sì, perché no?» dico, fintamente disinvolta.
Lui risponde con un sorriso e restiamo a fissarci nella notte sempre più scura.
 
*
 
«MA COME CI SEI GIÀ ANDATA A LETTO?!»
 
Sono le prime parole che Luna mi urla due giorni dopo.
Visti gli ultimi… ehm, sviluppi... non la sento da un po’ e quando finalmente riusciamo a metterci in contatto abbiamo entrambe delle grosse novità.
Lo studio in cui lei lavora ha vinto una gara importante e tutta la sua fatica e il suo impegno di questi mesi vengono finalmente premiati.
Sono così felice per la mia amica, lo merita davvero!
Sono un po’ più preoccupata, invece, del fatto che la gioia per questo successo l’ha fatta riavvicinare a Francesco, il suo ex storico.
Io gli voglio bene, ma credo che lei sia decisamente troppo forte, a livello caratteriale, per lui.
Francesco non riesce proprio a non sembrarmi un cagnolino scodinzolante, quando c’è Luna, e questo mi impedisce di approvarlo: lei ha troppo polso, troppa vitalità per uno così.
Però si vogliono bene, sono stati insieme a lungo e lui sa smussare i lati più spigolosi di Luna, che nelle relazioni a due è un generale in armatura e spada sguainata.
E, quando due si vogliono così bene, a volte anche per la migliore amica del mondo – quella che ti ama come se fosse tua sorella – è difficile dire qualcosa.
 
Luna non ha, chiaramente, lo stesso tipo di remore.
«Micol! Ma ti pare una mossa intelligente?» mi riprende, secca.
Io sbuffo.
«Ma non avevi detto che non si trattava di “mosse” ma di spontaneità?»
«Sì, ma anche di cervello. Non è mai una buona idea cedere subito, lo sai!»
«Ma lo conosco ormai da mesi!»
«Vero, ma quei mesi sul set mi sembrano un po’… irreali. La vita vera è un’altra cosa»
«Oh, Luna» sospiro «Cosa posso dire? È stato così… bello. Così spontaneo. Non mi era mai successo di provare tanta sintonia con qualcuno!»
«Questo è perché il tuo termine di paragone è Filippo e con lui c’era tanto affetto, tanta tranquillità, che la sintonia dipendeva da quella»
«Cioè?» i ragionamenti psicologici di Luna mi fregano sempre «Vuoi dire che con Filippo non c’era passione?»
«No, voglio dire che era come una macchina stra-collaudata. Di quelle che vanno sempre sul sicuro… Non so se mi spiego!»
«Sì, ho capito… Ma che c’entra adesso Filippo?» borbotto.
«L’ho incontrato l’altro giorno e gli ho detto che sei in America. Ti manderà una mail, vedrai. Era stupito di questa…»
«LUNA!!» strillo «Ma ti pare il momento? Può mandarmi anche duecento mail… ma che c’entra?!»
«Ah, sì, scusa» dice lei «Ok, allora… Come è andata dopo? Era tranquillo o ti è parso che volesse defilarsi?»
«Ma no!» ribatto «Sono rimasta da lui quasi due giorni interi! Abbiamo cucinato insieme e…»
«… E scopato…» fa lei, impenitente.
«Smettila!» scoppio a ridere «E fatto il bagno in piscina, stavo per dire!»
«Mmmm… quindi lui non è uno di quelli che “be’ dormo da me, grazie e ciao!”?»
«No!»
«E adesso, cosa succede?» mi incalza.
Esito per la prima volta.
«Non lo so» rispondo dopo un po’ «Non so quanto potrò restare qui… a vuoto»
Luna ci pensa su.
«Vogliamo considerarla una vacanza?» chiede poi, strizzandomi l’occhio dal pc.
Sospiro.
«Ma poi? Che succede dopo la vacanza?»
Lei arriccia il naso.
L’effetto – per via delle immagini che si compongono a scatti – è comico.
«Devi parlarne con lui, Mic. Non puoi aspettare oltre, direi»
 
 

***
Buon pomeriggio, miei diletti!
Perdonate il ritardo, ma ieri non sono riuscita ad aggiornare dall'ufficio e la sera ero fuori...
Per farmi perdonare, vi svelo che la ricetta del pane alla banana è davvero adorata da Ben e, in caso foste colti dalla folle idea di tentare di cucinarlo, ecco la ricetta:


Ingredients

  • 1¾ cups flour

  • 1 teaspoon baking soda

  • ½ teaspoon table salt

  • 6 large very ripe bananas, peeled

  • 8 tablespoons unsalted butter, melted and cooled slightly

  • 2 large eggs

  • ¾ cup light brown sugar

  • 1 teaspoon vanilla extract

  • ½ cup walnuts, toasted and coarsely chopped (optional)

  • 2 teaspoons granulated sugar

Method
 

  1. Adjust oven rack to middle position and heat oven to 350 degrees.

  2. Spray loaf pan with nonstick cooking spray.

  3. Whisk flour, baking soda, and salt together in large bowl.

  4. Place 5 bananas in microwave-safe bowl; cover with plastic wrap and cut several steam vents in plastic with paring knife. Microwave on high power until bananas are soft and have released liquid, about 5 minutes. Transfer bananas to fine-mesh strainer placed over medium bowl and allow to drain, stirring occasionally, 15 minutes (you should have ½ to ¾ cup liquid).

  5. Transfer liquid to medium saucepan and cook over medium-high heat until reduced to ¼ cup, about 5 minutes. Remove pan from heat, stir reduced liquid into bananas, and mash with potato masher until fairly smooth.

  6. Whisk in butter, eggs, brown sugar, and vanilla. Pour banana mixture into flour mixture and stir until just combined with some streaks of flour remaining. Gently fold in walnuts, if using. Scrape batter into prepared pan.

  7. Slice remaining banana diagonally into ¼-inch-thick slices. Shingle banana slices on top of either side of loaf, leaving 1½-inch-wide space down center to ensure even rise. Sprinkle granulated sugar evenly over loaf.

  8. Bake in oven for about an hour.

  9. Allow bread to cool... unless you're really, really hungry and don't mind having a burnt tongue!

Eccovi anche il link: http://www.make-a-wish.org.uk/support-us/fundraise/bake-a-wish/ben-barnes-banana-bread 


 *Io davvero non so come possa sopravvivere, a Los Angeles, ma passiamo oltre*

Vi ricordo che sono su Facebook e che se volete fare due chiacchiere mi trovate qui:

pagina https://www.facebook.com/Joy10Efp
profilo https://www.facebook.com/profile.php?id=100007339248477&fref=ts
Buona lettura!
Joy

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Capitolo 23
*** XXIII ***


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Chi ama davvero, ama anche se stesso. Chi ama solamente gli altri, ha qualcosa che non va
Erich Fromm




Va tutto bene… Ma non va mica così bene, a pensarci.
 
Lo so che sembra paradossale, ma non so cosa altro dire.
Mi spiego: per certe cose non ho di che lamentarmi.
Io e Ben ci vediamo regolarmente, lui è stupendamente affascinante e il sesso tra noi è fantastico.
Ovviamente non esiste solo quello, ma è normale all’inizio di un rapporto che questo fissi una costante.
Ci si conosce anche così… e al diavolo: è bellissimo!
C’è molta sintonia fra noi e per me è una scoperta davvero bella.
Luna ha ragione: avendo io avuto una sola storia lunga e importante, nel mio passato, ho un termine di paragone fisso e costante.
Certo, come tutti ho avuto qualche avventura di poco conto, ma erano situazioni che sapevo sarebbero state transitorie.
E Filippo era il mio migliore amico, prima che il mio ragazzo.
 
Ben è completamente diverso.
Ho come la sensazione di non riuscire a conoscerlo davvero.
Voglio dire: parliamo un sacco e tra noi c’è una forte intesa anche mentale, ma lui sembra sfuggire a una completa, totale e sincera apertura.
Siamo capaci di discutere per ore di letteratura, di film, di filosofia…
Ma c’è come un muro, alla fine, che io a volte percepisco ma al quale non riesco ad avvicinarmi.
E so che è lui che non me lo permette.
Ben è intelligente, garbato, colto.
Non somiglia affatto al prototipo che si potrebbe applicare a un attore qualsiasi: affascinante, magari carismatico, ma di poca sostanza.
Anzi.
È colto, si vede che ha studiato e che proviene da un ottimo ambiente.
Ha una gestualità, un’educazione e una consapevolezza che emergono chiaramente, in svariate occasioni.
E questo me lo fa piacere ancora di più.
 
Per me l’attrazione va oltre il piano fisico.
E di molto.
Se non sono attratta dalla mente di chi ho di fronte non riesco a lasciarmi andare davvero.
Invece qui il problema è che mi sono lasciata andare, eccome.
Ben mi prende completamente, a livello mentale e fisico.
Ed è meraviglioso: non ho mai provato nulla del genere.
Però, quando avverto la presenza di quel muro, non riesco a sentirmi tranquilla.
Non mi estromette da nulla, non all’apparenza.
Eppure…
 
Non mi ha mai presentato i suoi amici e non mi porta mai dove sono loro.
Sta ben attento a mantenere i due piani separati.
So che li vede spesso, che molti di loro sono anche suoi colleghi.
E appartengono a un mondo che lui non divide con me, almeno adesso.
Io so che il mio modo di intendere un rapporto è totalizzante e so bene che non per tutti è così, per forza.
Per me è naturale, per altri no.
Non sono però preoccupata che sia una questione lavorativa.
Mi spiego: non penso che Ben mi tenga lontana dal suo lavoro; penso che abbia deciso di tenere ben lontani i binari più personali della sua vita.
Il fatto è che io sono su uno, ma ci sono da sola.
Ci siamo io e lui.
E, per quanto questo possa sembrare bello e romantico, so che non è così: c’è tantissimo di lui sull’altro binario.
Ci sono i rapporti quotidiani, il divertimento, gli appoggi che ha qui a Los Angeles.
 
Luna dice che è normale che non si apra totalmente con me: lei farebbe lo stesso.
E non è un modo di dire.
Luna è una grande sostenitrice dei mondi paralleli che non si incontrano mai.
Fa molta fatica a introdurre i suoi fidanzati nella cerchia stretta degli amici e io so perché: lo ha fatto con Francesco; poi, quando è finita, si è trovata a dover ricucire i pezzi di due mondi in collisione.
Amici che conoscevano entrambe le versioni.
Che avevano idee su entrambe le versioni, che parlavano ad altri amici di entrambe le versioni.
Che, peggio, dovevano organizzarsi per vedere separatamente lei o lui.
Questo non è accaduto con me, ovviamente, ma con gli altri amici sì e Luna ha giurato che da quel momento mai più avrebbe introdotto un uomo nella sua cerchia di amici più stretta.
 
Questa è una delle pochissime cose sulle quali non ci troviamo d’accordo, perché io sono esattamente l’opposto.
Avere una relazione per me significa mostrare disponibilità all’altra persona: disponibilità nell’introdurlo nella tua vita, nel condividere con lui amici, idee e passioni.
Di più: se non lo faccio mi sembra di non riuscire a conoscere interamente l’altro.
E questo mi trasmette insicurezza.
È come se un piano della sua vita procedesse lontano da me.
Un conto è mantenere i propri interessi e i propri amici, cosa che trovo giustissima… Un conto è sbarrare una porta.
Non posso farci nulla: mi rende insicura.
Ogni volta che Ben mi dice che ha degli impegni io sento questo muro che si alza prepotentemente tra noi.
 
 
Forse sono particolarmente sensibile a causa del mio imminente rientro a casa.
Ne ho parlato con Ben, ma lui si è irrigidito immediatamente.
Oh, è stato gentile, certo; ma il succo del discorso è stato, in fondo, “lo hai sempre saputo. E anche io”.
 
Il fatto è che, quando siamo insieme, stiamo benissimo.
Io lo so, lui lo sa.
E lui mi cerca, mi desidera, vedo che si sfoga come me e spesso mi dice che raramente gli è capito di incontrare una persona con la quale può parlare così liberamente e approfonditamente.
E cosa potrebbe esserci di meglio?
Eppure… lo vedo trattenersi, ritirarsi.
È come se il fatto che stiamo così bene insieme lo renda ansioso invece che tranquillo.
 
Vedo nubi nere all’orizzonte.
 
*
 
Alla fine non c’è scampo: devo tornare in Italia.
 
Non sto lavorando, non ho nuovi contratti, non mi sono ancora rassegnata all’idea di fare questa vita.
Ho una certa disponibilità economica, al momento, ma sto sprecando tempo e soldi e questa cosa non mi piace.
Finché non capisco cosa farò della mia vita non posso essere così irresponsabile: non è da me, è una situazione che mi rende inquieta e nervosa.
Ben mi ha spinta a fare dei provini per altri film.
Ha interessato la sua agenzia e con me sono stati tutti molto gentili, ma questa catena di provini-carneficina, così impersonali e massacranti, non fa per me.
Ben è rimasto deluso, l’ho capito.
Del resto, cosa posso farci?
Non riesco a rilassarmi, a pensare e a parlare a comando come un’altra persona.
E, in più, si aggiunge l’ansia di non riuscire a raggiungere un mondo che per lui è tutto.
 
Sto passeggiando per le strade del super centro commerciale The Grove, aspettando Ben, e rimugino ancora una volta sulla questione.
Ieri sera lui era a una festa ma a me non è pesato.
Mi sono presa del tempo per me, ne avevo bisogno: sono andata al centro estetico, sono tornata in albergo e mi sono seduta con una birra fredda sul terrazzo.
Osservando la città estendersi ai miei piedi, smisurata, ho permesso a me stessa di venire a patti con una realtà che non posso più ignorare.
 
La mia vita non è qui, ma qui c’è Ben.
E io farei di tutto per non perderlo.
 
Ma quanto è, esattamente, “di tutto”?
Affannarmi a cercare un lavoro che mi mette ansia?
Che non mi piace nemmeno, forse?
Lasciare la mia città, i miei amici?
Forse potrei farlo… Se ne valesse la pena.
Il punto è – ammettiamolo – uno solo: Ben farebbe lo stesso per me, a parti inverse?
 
*
 
Quando lo vedo arrivare, bello come il sole e sorridente, provo la consueta fitta allo stomaco con cui ormai ho imparato a convivere.
 
Mi saluta con un abbraccio; in pubblico non mi bacia mai.
E se a me a volte viene spontaneo, lui risponde sempre che da buon inglese ha un senso della riservatezza molto sviluppato.
Che palle però.
 
Eppure, le sue braccia sono forti e le sue mani delicate mentre mi stringe e mi accarezza brevemente i capelli.
Quando ci separiamo sto sorridendo come una cretina.
Lui ridacchia, poi mi abbassa gli occhiali sulla punta del naso e fa uno dei suoi sorrisi sghembi che mi tolgono il fiato.
Senza nemmeno accorgermene alzo le mani e le poso sulla sua maglietta, stringendola.
«Vuoi già togliermi i vestiti?» ride lui «Sei insaziabile!»
«Senti chi parla!» ribatto, storcendo il naso.
Insomma, concentrati Micol: sei venuta qui per parlargli, giusto?
 
«Posso offrirti il pranzo, prima?» domanda Ben, facendomi cenno di precederlo in una via sulla destra.
Iniziamo a camminare e io dico:
«Puoi anche accompagnarmi a fare shopping»
Lui ribatte subito:
«E se ti portassi a fare un bagno in piscina?»
«Potrebbe essere una bella idea… dopo lo shopping» faccio, inflessibile «Dovresti esaudire ogni mio desiderio, visto che sto per partire!»
Ben si fa subito serio e mi stringe velocemente la mano.
«Certo» risponde «Quello che vuoi»
Entriamo in un locale tranquillo e lui chiede un tavolo defilato e lontano dalle grandi vetrine che danno sulla strada.
Quando ci sediamo mi sorride.
Io lo guardo negli occhi, respiro e dico:
«Allora chiedimi di restare»
«Cosa?» fa lui.
«Voglio che mi chiedi di restare. Qui. Con te»
 
Ben sembra senza parole.
Batte un paio di volte le palpebre, poi si passa una mano tra i capelli.
«Miki, io… ma perché?» dice, alla fine.
«Perché voglio capire che senso hanno queste settimane e cosa devo scegliere di fare. Non dico che la responsabilità delle mie scelte sarà tua, perché questo non potrei mai dirlo, ma sto cercando di capire se ha senso che io torni qui, o almeno che ci provi… O se a te non importa nulla e farei invece meglio a cercare di capire qual è la mia strada in Italia»
Ho parlato con calma, cercando di non trasmettergli messaggi di insoddisfazione o, peggio, di condanna (tipo: perché non chiarisci questa situazione? Perché non mi parli del nostro futuro? Perché? Perché?), ma Ben si irrigidisce immediatamente.
«Non puoi attribuire a me una decisione del genere, Miki. Io non posso prenderla per te»
«Non lo voglio e non te lo sto chiedendo» ribatto, tendendo una mano e posandola sopra la sua.
Lui non reagisce, non la stringe, e io proseguo:
«Sto solo chiedendo: ha senso per te che io torni in America?»
Lui sfugge il mio sguardo.
«Certo» mormora «Ne sarò contento»
Reprimo un sospiro.
«Ma se non tornassi andrebbe bene comunque… è questo che stai dicendo?»
Lui non risponde.
Si morde un labbro, sposta la saliera che è sul tavolo.
«Senti» dice, dopo un po’ «Sai cosa penso a proposito dei legami sentimentali… sono difficili da mantenere. Sarebbe impossibile, sarebbe un calvario. Insomma, cosa dovremmo fare? Io qui e tu in Italia? O tu qui e io in giro per l’Europa o l’America per lavorare? Non sarebbe giusto per nessuno di noi due»
Pausa.
«Stai dicendo che non vuoi questo peso» dico poi io, atona.
«Sto dicendo» si impunta lui «Che non sarebbe giusto né per te né per me. Rovineremmo il nostro rapporto, perché non ce la faremmo a tenerlo in piedi. Non può funzionare con questa distanza. E lo sai anche tu»
Sospiro.
«Ben» mormoro «Ti dico cosa vorrei io, sinceramente: vorrei che mi chiedessi di stare qui, che mi aiutassi a guardarmi attorno e a cercare di capire cosa devo o cosa posso fare. Vorrei che funzionasse, tra noi. E vorrei, soprattutto vorrei, che me lo dicessi anche tu»
Ben si morde il labbro inferiore.
«Miki… io sto bene con te, ma…»
Aspetto, in silenzio.
 
Mi sembra che il tempo scorra pianissimo.
Ho come la sensazione di essere quasi distaccata da tutto questo.
Eppure, l’uomo che amo è seduto davanti a me e sta balbettando scuse penose per cercare di tirarsi fuori da una situazione che chiaramente gli va stretta.
E la situazione sono io.
Come mai non gli ho ancora rovesciato il tavolo addosso?
Mi sento così apatica.
Lo guardo e noto tutti i particolari che di lui mi fanno impazzire: le ciglia lunghe, gli zigomi delicati, i capelli scuri e setosi.
 
Mi passo una mano sugli occhi.
Concentrati, Micol.
«Ascolta» riprende lui «Io sto davvero bene con te. Ma non sono pronto a dirti che rinuncerò alla carriera… Perché non posso farlo»
«Non vuoi farlo» lo correggo.
Non ribatte.
«Non posso permettermelo, adesso» dice «Posso lavorare molto… Voglio lavorare molto. Miki, non ti ho mai nascosto che questo è il mio desiderio, al momento»
«No» sospiro «Non lo hai mai fatto. Ma continuo a non capire perché questo dovrebbe escludere una nostra relazione. Io non voglio essere un peso, per te»
«Non lo sei, ma… Ma come potrebbe essere giusto non darti mai certezze? Non metterti al primo posto?»
«Potresti farlo, se tu lo volessi davvero» obietto «Se tu volessi, potremmo farcela. So che il tuo lavoro ti porterà a viaggiare molto, ma si tratta di qualche mese. Prendi il nostro film: tre mesi. Tre mesi rispetto a… a quello che potremmo avere insieme»
 
Mi mordo la lingua.
Non voglio sembrare patetica, accidenti.
Lui sta già scuotendo il capo.
«Non ce la faccio» dice, secco «Miki, davvero, io ci sono già passato e lo so che non funziona. Non è colpa tua, ma…»
«Ah, siamo arrivati al “non sei tu, sono io?”» esclamo, polemica.
Lui si passa una mano sugli occhi.
«Ti prego, non fare così. Lo sapevamo che…»
«No» lo interrompo «Io sapevo che ci avremmo provato. E io, da parte mia, ci ho provato davvero. Tu no, invece»
«Non è vero, io…»
«Senti, Ben, non prendiamoci in giro: pensi che io sia stupida? Lo vedo benissimo che non vuoi lasciarti coinvolgere, è evidente»
Lui tentenna.
«Forse è perché so già come finirà… e voglio evitare di soffrire» dice «Non lo voglio neppure per te»
«Io so che chi si mette in gioco rischia di starci male» ribatto «Basta solo chiedersi se ne vale la pena»
 
Segue un attimo di silenzio, in cui lui mi guarda con occhi supplichevoli.
«Non possiamo… restare così?» domanda poi, a bassa voce.
Ma così come?!
Mi verrebbe voglia di urlargli dietro, ma mi controllo.
«”Così” non è nulla, Ben» rispondo, stanca «”Così” non siamo amici, né ci rispettiamo. Almeno, per me non è sufficiente e non mi mortificherò elemosinando il poco che sei disposto a darmi»
Lui arrossisce.
Segue un silenzio pesante, quindi Ben chiede:
«Vuoi andare via?»
Tamburello con le dita sul piano del tavolo.
Non riuscirei a mangiare nulla, adesso, nemmeno a forza.
«No» dico di getto «Andiamo da te»
Lui sembra spiazzato; io mi alzo e prendo la borsa.
«Se è la nostra ultima notte insieme… Allora voglio che sia memorabile»
 


***
Miei adorati lettori!
Meglio tardi che mai, giusto? :)
Eccomi qui di nuovo, in ritardo su tutto... Ma sempre e comunque presente!
Vi ricordo che, per qualsiasi domanda o informazione mi trovate su Facebook:
pagina  https://www.facebook.com/Joy10Efp
profilo  https://www.facebook.com/profile.php?id=100007339248477&ref=ts&fref=ts
E approfitto anche per dirvi che ho aggiornato sia L'Erede di Narnia (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3173454) che Ragione e sentimento (http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3173404).
Buona lettura!
Joy

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Capitolo 24
*** XXIV ***


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A mia mamma, per non essere come la madre di Micol
e alla mia Luna, perchè anche se al momento è dall'altra parte del mondo
sa essere sempre con me 


 

La gravità non è responsabile se gli uomini si innamorano
Albert Einstein




Non ce la faccio più.
 
Sono in Italia da più di un mese e ogni giorno è un’agonia.
Ogni singolo, maledetto giorno.
Ogni. Singolo. Maledetto. Giorno.
 
La casa editrice mi ha rimpiazzata con un’altra stagista.
L’altra stagista se ne è andata dopo qualche settimana e ora ce n’è una terza.
So che è un meccanismo normale, so che funziona così…
Ma che squallore.
Dev’essere stata l’America.
Forse, dopo aver visto un’altra parte del mondo e di conseguenza nuovi stili di vita e di comportamento, ora la mia città mi va stretta.
 
Oppure, semplicemente, non ci sto più con la testa.
Questa è la versione di mia madre e anche di Luna.
La prima è piombata a Roma due giorni dopo il mio rientro per il piacere di dire in faccia alla sua irresponsabile figlia cosa pensa di lei.
Ne è seguita una scenata condita di recriminazioni, rinfacci, imprecazioni e urla, ma la cosa che credo mia madre non abbia tollerato è stata la mia reazione assolutamente tiepida.
«Non torno a casa con te» ho risposto, categorica.
«Io e tuo padre non ti daremo più un centesimo, signorina!» ha tuonato lei «Voglio vedere come farai!»
«Mi pare semplice» ho detto «Hai letto il mio compenso per il film?»
Me ne hanno già pagate due tranche e… be’.
Fortuna che dicevano che era una parte minore.
Lei è rimasta un attimo interdetta, probabilmente per la consapevolezza di aver perso un certo potere su di me, quindi ha ribattuto:
«Ah! Pensi di essere indipendente?»
Io ho sospirato.
«Non lo ero economicamente, prima, ma lo sono sempre stata emotivamente. Quando mai ti sei preoccupata di come sto?»
«Ecco, lo sapevo! Batti sempre su questo tasto, Micol, ma tutto dipende dalla tua testardaggine! Io sono tua madre e…»
«E non ti preoccupavi dei miei stage non pagati e della fatica che facevo prima perché secondo te non erano all’altezza dello standard familiare. E ora non ti preoccupi di come sto, di cosa ho fatto in questi mesi e di cosa penso di fare, ma solo del fatto che il mio attuale “mestiere” ti imbarazza di fronte ai tuoi colleghi perché lo consideri la strada per la perdizione!»
«Perché lo è!» ha tuonato lei.
Io sono scoppiata a ridere.
Non volevo e sapevo che la avrei fatta infuriare anche di più, ma è stato più forte di me.
«Mamma, per tre mesi abbiamo dormito in bungalow in mezzo al niente! Non c’erano casinò, droghe o chissà cosa ti stai immaginando… Faceva freddo, lavoravamo quattordici ore al giorno ed è stato molto bello… Grazie per avermelo chiesto»
«Io… io…» ha detto lei «Se non so nulla di tutto ciò e ho immaginato scenari peggiori è colpa tua! Nemmeno una chiamata o…»
«Mamma, mi dispiace» ho risposto «Davvero, non sai quanto vorrei poterti raccontare tutto… Ma…»
Ho esitato: come fare a dirle che lei per me non c’è mai?
Che prima viene il lavoro, poi ancora il lavoro, poi le sue sparate negative su tutto e tutti?
Lei ha colto la palla al balzo:
«Ma tanto hai Luna… eh, lo so bene, cosa conta tua madre? Sono inutile e non fai che tentare di dimostrarlo!»
 
Su queste liete note se ne è andata: il ritratto della dignità offesa.
Non è neppure rimasta per cena.
E sì, per fortuna ho Luna.
 
È stata lei a venire in aeroporto a prendermi.
È lei quella a cui è bastata un’occhiata per capire come stavo ed è sempre lei l’unica con cui sono riuscita a piangere e a raccontare tutto di questi bellissimi, estenuanti mesi che mi hanno cambiato la vita.
È lei quella che si preoccupa se mangio e dormo e sempre lei quella che voleva bruciare tutti i miei dvd dei film di Ben.
Non gliel’ho permesso, mi sembrava un sacrilegio.
 
E il pensiero di Ben, comunque, non mi abbandona mai.
Ci siamo scritti qualche sms, poi qualche mail.
Lui è stato gentile, poi amichevole, quindi affettuoso.
So di non essere una semplice amica, lo so… Eppure siamo incastrati in una sorta di limbo.
È stato bello vedere che non mi ha ignorata o dimenticata, ma, contemporaneamente, mi fa infuriare l’idea che non voglia nemmeno provare a vedere cosa può succedere tra noi.
Ho passato le prime due settimane a controllare ossessivamente il cellulare.
Poi ho ricominciato a guardare svogliatamente gli annunci di lavoro, ad andare pigramente in agenzia, a vedere gli amici.
Solo con Luna, però, mi sento completamente a mio agio.
Per gli altri andare in America è stata una meravigliosa avventura, ma non ho condiviso con loro quello che è davvero stato meraviglioso, per me.
I miei amici fanno ancora fatica a credere che io abbia recitato in un film (anche io, a dirla tutta), ci hanno scherzato su milioni di volte, ma alla fine io sono sempre io, sono sempre Micol.
Sono tornata a casa, vado con loro a fare aperitivi, a mangiare la pizza, al cinema.
All’apparenza sono sempre io.
Ma dentro…
 
Ho una frenesia addosso che non mi permette di stare tranquilla, di rilassarmi, di trovare pace.
Non dormo bene, sembro un’anima in pena.
Voglio stare sola, ma poi la solitudine mi pesa.
E c’è stata solo una persona, oltre a Luna, che lo ha notato subito.
E no, non è mia madre.
 
Filippo, il mio ex ragazzo, vive ancora a Roma, come me.
Non capita spesso di incontrarci, abbiamo ormai amici diversi e vite diverse.
È stato lui a cercarmi: mi ha chiamata, siamo usciti insieme a mangiare la pizza.
La cosa che ho provato io è stato un senso di sorpresa per la mia totale indifferenza.
Gli voglio molto bene, con lui ho passato cinque anni splendidi.
È stata la mia prima storia importante, ma tra noi è finita perché era chiaro già da un po’ che volevamo andare in direzioni differenti.
Eppure, anche se ci siamo lasciati di comune accordo e senza grandi drammi, Filippo per me era sempre stato la pietra di paragone.
Adesso, lo guardo e provo affetto per lui e tenerezza per la me che ero, ma non provo quella passione e quel sentimento prepotente che Ben invece sa scatenare in me.
Da parte sua, va detto che lo ha capito immediatamente.
Appena sono uscita di casa lui è sceso dall’auto per aprirmi la portiera.
Mi sono avvicinata e gli ho teso la mano, ma prima di abbracciarmi lui mi ha fissata a lungo.
Poi mi ha stretta e ha chiesto:
«Cos’è successo, gattina?»
Mi ha sempre chiamata così, ma ormai questo nomignolo affettuoso non suscita altro che ricordi.
«Niente» ho risposto io (ovviamente).
«Come se non ti conoscessi» ha bofonchiato.
Però ha evitato l’argomento per gran parte della cena.
Mi ha chiesto dell’America, del film, dei miei progetti.
Ne abbiamo parlato con tranquillità.
Quando gli ho chiesto di lui, mi ha raccontato che lavora per una nuova compagnia, che produce pannelli solari, e che sta frequentando una persona.
«E tu?» ha chiesto.
Io ho tergiversato.
«C’è qualcuno, vero?» ha insistito «Ti si legge in faccia»
«C’è qualcuno» ho sospirato «Ma non è qui. E forse… Forse è troppo complicato»
Filippo mi ha fissata per un paio di secondi, poi ha scosso il capo.
«Peggio per lui, allora. Non ti ho mai vista così bella»
Ho sorriso, sincera.
«Grazie, Filo»
 
*
 
Penso dipenda dal lavoro di modella.
 
Mi ha dato una certa fiducia in me stessa che penso si noti molto.
Non è che prima non mi piacessi, ma non pensavo di essere poi così speciale.
Ora ho un portamento diverso, scelgo gli abiti in modo diverso, mi valorizzo di più.
L’ha notato persino mamma, anche se poi ha bofonchiato che fa tutto parte di un mondo che lei disapprova e che mi ha fatto perdere la testa.
Eppure a questo mondo devo molto… ecco perché non riesco a rifiutare i lavori che l’agenzia mi propone.
Del resto, non è che nell’editoria io trovi molto.
Ho fatto un paio di colloqui, ma per posizioni di correttore di bozze non pagato.
Per questo, quando mi hanno chiesto quale fosse la mia ultima esperienza lavorativa, ho risposto consapevolmente e giusto per vedere la loro mascella cadere per lo stupore:
«Ho girato un film in America con Jeff Bridges»
 
Del cast non ho sentito nessuno.
Aveva ragione Ben: sono rapporti che svaniscono.
Ma sembrava tutto così vero…
 
E poi, un giorno, ricevo una mail di Sergei.
Mi dice che le riprese sono state buone, ma ci sono ancora dei dettagli da rivedere e che gli dispiace molto, ma deve richiamarmi sul set per un paio di scene.
Gli dispiace?
Io quasi muoio per un infarto!
 
*
 
Luna è furiosa.
 
Ha paura che rivedere Ben mi faccia stare di nuovo male e lo so che ha ragione, ma io conto i secondi.
Le ho spiegato che per contratto devo essere presente e chi me li dà i soldi per pagare la penale, in caso?
Servirebbe vendere una casa e né io né lei ne possediamo una.
Lei comunque impreca per giorni, mentre a me sembra di vivere in una bolla fluttuante.
Lo rivedrò. Lo rivedrò. Lo rivedrò.
 
È lui a chiamarmi.
Un pomeriggio, mentre sono stesa sul divano a leggere, il mio cellulare suona e all’improvviso non conta più nulla se non quella voce garbata e sexy che si rivolge a me, dapprima con tono esitante e poi con sempre maggiore scioltezza.
Restiamo al telefono ore.
Ogni volta che gli dico di riattaccare, prima che gli arrivi una bolletta telefonica da infarto, lui ride e dice che no, ancora cinque minuti.
Parliamo delle riprese, di lui e di me.
Mi dice che ha fatto qualche casting e mi chiede come va in Italia.
A un certo punto domanda:
«Ce l’hai con me?»
«No, Ben» rispondo, sospirando «Penso che tu sia un grande coglione, ma non riesco ad avercela con te. Troppo, cioè»
Lui ride.
«Quando arrivi a Los Angeles?»
«Non arrivo a Los Angeles» rispondo, esultante «Vado a Vancouver, ma con scalo a New York»
«Oh» sembra deluso e io gongolo «Allora… Ci vediamo direttamente sul set?»
«Certo» rispondo «Ciao!»
 
Improvvisamente, il mio cielo sembra meno grigio.
 
*
 
Luna è sempre furiosa, io sempre felice.
Questi mesi cupi e tristi sembrano un brutto ricordo.
«Ti farà del male di nuovo, Mic» dice lei, funerea, mentre mi accompagna in aeroporto «Lo ha già fatto e lo rifarà, se glielo permetti»
«Non essere catastrofica» le rispondo «Secondo me il problema di Ben è che non vuole ammettere che tra noi c’è qualcosa. Perché c’è, Luna»
«Magari è vero» fa lei, con gli occhi fissi sulla strada «Ma se non lo volete entrambi allora è inutile»
Quando arriviamo scende con me e, prima che io mi diriga ai controlli, mi stringe forte.
«Non permettergli di farti del male» bisbiglia «Dipende solo da te»
Ci rifletto su per tutto il volo, che trascorro in gran parte insonne a causa dell’adrenalina.
So che Luna ha ragione.
Ma non posso contenere la gioia e l’ansia all’idea di rivederlo.
Ogni battito mi avvicina a lui, ogni secondo.
 
Quando faccio scalo a New York l’insonnia inizia a pesarmi e sul volo per Vancouver dormo a tratti.
Finalmente scendo, ma mi sento la testa pesante e la schiena a pezzi.
E poi lo vedo: Ben mi aspetta all’uscita e in mano tiene un grande mazzo di fiori.
Non esito nemmeno un secondo e mi lancio verso di lui.
 
*
 
«Com’è possibile che tu sembri uscito da una SPA e io da una centrifuga?» gli chiedo in macchina.
 
Abbiamo un autista mandato dalla produzione e ho appena scoperto che Ben ha insistito per venire a prendermi.
Mi raggomitolo al suo fianco, felice.
Ogni segnale di allarme o pericolo è ormai ovattato.
Chiudo la porta della mia mente che mi rimprovera con la voce di Luna e mi godo la sensazione delle sue braccia attorno a me.
Mi sfrega piano la spalla, mi sistema i capelli.
Io ho un braccio di traverso sul suo stomaco e ascolto la sua voce che mi culla e mi parla di quello che troverò sul set…
 
 
Mi sono addormentata, cavoli.
Ben mi sveglia delicatamente quando dobbiamo scendere dall’auto e prendere un elicottero.
«Torniamo sui monti?» biascico.
Lui mi fissa, perplesso, e ci metto un po’ a rendermi conto che ho parlato in italiano.
Gemo.
«Ho troppo sonno per parlare inglese!»
Lui ridacchia e mi fa cenno di precederlo.
Mi arrampico a bordo con la grazia di un bradipo zoppo ed è Ben a legarmi la cintura che mi assicura al sedile.
«Dormi» mormora «Ci sono io»



***
Miei diletti lettori, perdonate il ritardo!
Mi spiace avervi fatti aspettare, soprattutto in questo cao perchè il capitolo è di raccordo...
Ma mi serviva per descrivervi lo stato d'animo di Micol.
Oggi, stranamente, mi capita di chiamarla Gin...
Per qualsiasi cosa mi trovate su Facebook, alla mia pagina https://www.facebook.com/Joy10Efp e al profilo https://www.facebook.com/profile.php?id=100007339248477&fref=ts
Questa settimana ho invertito Micol e Mika, ma spero di tornare alla normalità!
Baci e buon inizio settimana,
Joy

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Capitolo 25
*** XXV ***


 

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Il migliore riconoscimento per la fatica fatta non è ciò che se ne ricava, ma ciò che si diventa grazie ad essa
John Ruskin






Stavolta le riprese sono brevi e molto frammentarie*.

 
Siamo presenti in pochi e anche la squadra di addetti ai lavori è decimata.
Si tratta di rifiniture, mi spiega Sergei: piccole cose che deve aggiustare nella post-produzione e per le quali ha bisogno di ulteriori materiali.
Principalmente sono scene d’azione e di battaglie.
 
Io e Ben non abbiamo scene romantiche, ma non è un problema perché stavolta la vita sul set per noi due è molto diversa.
Durante il giorno lavoriamo molto, perché il budget a disposizione del regista è basso e dobbiamo quindi concentrare il lavoro in poco tempo.
Le notti, però, sono solo nostre.
Ero un po’ preoccupata che Ben volesse tenere le distanze, come la scorsa volta sul set, invece lui non ha esitato un secondo.
È venuto da me la prima notte, sorprendendomi, ed è venuto poi anche nelle notti successive.
Non importa quanto finisca tardi, o quanto io debba restare sul set.
A fine giornata, a qualsiasi ora, dopo aver mangiato con gli altri ci vediamo e restiamo insieme.
Dorme sempre con me, anche se la sua sveglia suona prestissimo o se io ho una chiamata al trucco all’alba.
In un paio di occasioni il discorso è scivolato su noi due, ma senza esiti degni di nota.
La sostanza è che stiamo bene insieme, che entrambi abbiamo sentito la mancanza dell’altro mentre eravamo lontani, che vogliamo frequentarci.
Ma mentre tutto questo a me fa dire come conseguenza ovvia che voglio stare con lui perché per lui provo qualcosa, per Ben il problema è sempre il solito: si blocca prima di trarre conclusioni.
Non vuole chiedersi cosa significa voler stare con me e si limita a viverla giorno per giorno.
 
È una divergenza caratteriale non di poco conto.
Però ammetto che, al momento, non sopporterei di perderlo, per cui accetto.
Accetto quello che mi dà, anche se per me accontentarmi delle briciole, di questi momenti rubati, è inammissibile.
Accetto anche se so che è troppo poco e che me ne pentirò quando mi lascerà di nuovo.
Accetto sperando che qualcosa per lui cambi.
 
Insomma, offro a me stessa una grande varietà di scuse e giustificazioni, ma accetto pur di averlo vicino, pur di averlo con me.
 
*
 
Lavoriamo così tanto che persino Ben, di solito rilassato e gentilissimo, diventa nervoso.
Siamo tutti stanchi e intrattabili.
Fortuna che io godo di – ehm – premi extra-lavorativi.
Solo di una cosa ho paura: la fine di queste tre settimane.
Non so cosa succederà dopo e, francamente, al momento non voglio neppure saperlo.
 
È a questo che sto pensando questa notte, abbracciata a Ben e con il capo poggiato sulla sua spalla.
Lui ha una mano tra i miei capelli e so che non dorme per via delle sue lievi carezze.
Sono rilassata, appagata e oserei dire felice, se non avessi questa nuvola nera che mi sembra incombere su di me.
Faccio correre una mano sul petto di Ben, come per esorcizzare i cattivi pensieri e ancorarmi al presente.
L’altra sua mano, quella libera, copre la mia.
«Ehi» mormora «A cosa pensi?»
Mi scosto appena per baciargli la spalla.
«A nulla» mento «E tu?»
Le sue dita scendono lievi, impalpabili, sulla mia schiena e io vengo percorsa da un brivido delizioso.
Un attimo dopo lui mormora:
«Stavo pensando che mi piacerebbe se tu tornassi a Los Angeles»
C’è un attimo di silenzio, quindi mi alzo sul gomito per guardarlo in volto.
I suoi occhi scuri incontrano i miei e lui accenna un sorriso.
«Se ti va, ovvio» aggiunge, scostandomi una ciocca di capelli dalla fronte.
Esito un po’, giusto per non dargliela vinta facilmente.
«Non ho lavori a Los Angeles, al momento…» dico poi.
Lui arriccia il naso.
«Faresti un nuovo tentativo con la mia agenzia?»
«Oh, Ben» sospiro «Non credo che la recitazione sia la mia strada…»
«Ma perché?» si alza a sedere di scatto «Sei bravissima! Ti guardavo oggi, sul set… Sarebbe uno spreco non provarci nemmeno!»
Evito il suo sguardo.
«Non lo so» mormoro.
«Vuoi tornare in Italia?»
Scrollo le spalle, ma lui insiste:
«È un sì?»
«Non lo so» ripeto «Mi sento un po’ divisa a metà, al momento. L’America mi tenta moltissimo, ma casa mia non è qui…»
«Nemmeno la mia» mi interrompe «Ma questo non lo rende meno bello»
Sospiro.
«Non lo so, davvero»
Lui mi prende la mano.
«E se te lo chiedessi io?» tenta.
Scelgo la via della schiettezza:
«Mi manderesti in confusione» replico.
«Benissimo» fa un sorriso divertito e poi mi tende la mano.
«Vieni» dice «Ho voglia di una doccia… e di vedere se riesco a convincerti a dire di sì!»
 
*
 
Alla fine, ovviamente, cedo.
 
E la fine delle riprese mi sembra improvvisamente lontana.
È paradossale, ma ora che so cosa avrò dopo la prospettiva si è completamente capovolta.
 
Il mio secondo soggiorno a Los Angeles è splendido.
Ben è molto presente: non ha altri lavori, al momento, e rispetto a qualche mese fa riusciamo a ritagliarci molto più tempo insieme.
Mi porta a visitare Los Angeles e mi mostra i luoghi che preferisce.
Mi racconta che si dice che l’abbiano scelta per la luce. Che alla fine dell’Ottocento Hollywood era un piccolo villaggio defilato sulle colline attorno a Los Angeles. Poi, negli anni Venti, il destino della città si intreccia con quello del cinema, fino a diventarne il motore.
Passiamo pomeriggi interi ammirando la città dall’alto delle sue colline, con lo sguardo perso nell’orizzonte acceso da questo sole sempre sfavillante.
Andiamo a vedere l’oceano, di nuovo, stavolta a Santa Monica e poi a Malibù; è un bel contrasto con il clima secco e proibitivo della zona desertica che si estende appena dietro le colline: le rocce sbiancano e solo qualche ora di macchina separa la città dalla Valle della Morte.
La Hollywood Walk of Fame, la passeggiata delle celebrità, è divertente. Io e Ben la percorriamo, indicandoci a vicenda i nomi degli attori e delle attrici famosi, ridendo, scegliendo la posizione che vorremmo avere noi in futuro. Sulla strada, Ben mi mostra il Dolby Theatre, dove si svolge la Notte degli Oscar: da qui la scritta Hollywood sul monte Lee è pressoché insignificante.
«Ci sei mai stato?» gli chiedo.
«Sì» risponde «Per l’Oscar di Colin Firth»
«Ed è magico?»
«Imponente» ride «E impressionante. Dopotutto, sei seduto accanto ai grandi mostri del cinema!»
La tappa successiva è il Chinese Theatre, dove io passo ore a osservare le impronte di mani famose. Non mi staccherei più da quelle del cast di Harry Potter e Ben deve portarmi via quasi di peso.
Camminiamo in Rodeo Drive e lungo la Sunset Boulevard, ma anche in Olvera Street, nella zona più antica del centro cittadino, dove gironzoliamo tra le bancarelle di un mercato messicano e ascoltiamo musica tipica. Non ho bisogno di chiedere a Ben quale delle due passeggiate preferisce.
L’Urban Light di Chris Burden, di fronte al grande museo di Los Angeles County of Art, mi incanta; il panorama che ammiriamo dall’osservatorio Griffith mi riempie il cuore: la vista del cielo notturno, immense e luminoso, è qualcosa che non so descrivere.
Lo skyline di Los Angeles è immenso: i grattacieli di Downtown, che è il centro amministrativo della città; il Getty Center con i suoi dipinti preziosi; la Cattedrale di Nostra Signora degli Angeli a Bunker Hill; le Watts Towers, nella periferia della città, tutte fatte di materiali di scarto e recupero.
 
Passano due settimane paradisiache prima che Ben prenda la macchina e mi porti a Morro Bay, nella contea di San Luis Obispo. La costa qui è rocciosa e le baie e spiagge sono più caratteristiche, rispetto alle distese di sabbia candida che ho visto finora.
Sembra incredibile, ma quando arriviamo c’è nebbia: praticamente un’assurdità rispetto al clima di Los Angeles. Ben mi spiega che è normale ed è proprio questo strano meteo a rendere il paesaggio così sofferto e malinconico.
Ma noi siamo spensierati e felici ed è proprio qui che vinco il mio timore e chiedo a Ben di tornare a Roma insieme a me.
«Tocca a te, stavolta» dico.
Lui è sorpreso e io terrorizzata all’idea che mi risponda di no, che mi dica che è divertente stare con me ma che non possiamo fare pazzie, o progetti, o altro che lo allontani dalla sua strada.
Invece, dopo qualche minuto al cardiopalma, lui sorride, si scosta i capelli bagnati dagli occhi e annuisce.
«Hai ragione» dice «Tocca a me. Quando partiamo?»
Mi lancio addosso a lui dalla gioia e lo travolgo: cadiamo scomposti in acqua, sollevando spruzzi ovunque.
Ridiamo, ci rincorriamo e poi, quando Ben mi sfila il costume, mi abbandono tra le sue braccia con un trasporto nuovo.
Siamo insieme, siamo ancora insieme e malgrado tutto sto per portarlo con me, a casa.
 
*
 
Roma ci accoglie con un autunno mite, per fortuna.
 
È bellissima, maestosa, eterna.
Ben, che ci è stato una volta ma solo per una notte, è senza parole.
Lo porto ovunque: Colosseo; San Pietro; Piazza di Spagna; Piazza Navona; Musei Vaticani; Fori Imperiali; Fontana di Trevi.
E ancora Villa Borghese, Pantheon, Trastevere.
Mangiamo nelle trattorie più tipiche, andiamo al mare.
E Ben la adora, si vede.
Stiamo a casa mia e anche se l’appartamento mio e di Luna non ha nulla a che fare con le esagerate ville hollywoodiane, nessuno di noi due lo rimpiange.
Anzi.
Ben mi sembra più a suo agio in un appartamentino minuscolo, incasinato e caotico.
 
Luna, suo malgrado, lo apprezza.
Non c’è bisogno che me lo dica perché io la conosco benissimo e so interpretare ogni suo sguardo.
Quando siamo arrivati è venuta a prenderci in aeroporto e le ho letto negli occhi la volontà di disprezzare Ben a priori.
Penso che anche lui ci abbia messo poco a rendersene conto.
Eppure i suoi modi gentili e la sua simpatia hanno fatto breccia in Luna, ne sono certa.
È sempre scostante con lui – tanto quanto è affettuosa con me – ma in un modo meno freddo, meno ostile, quasi come se lo facesse più per presa di posizione che per convinzione.
Ho provato a scusarmi con Ben per lei, ma lui ha scosso il capo e si è limitato a osservare che sono molto, molto fortunata ad avere un’amica come lei.
E Luna è stata parte di questa meravigliosa, inaspettata vacanza romana con Ben.
Ha proposto serate pazze, feste e cene, è stata al mio fianco quando una sera, per caso, abbiamo incrociato Filippo e io ho letto nei suoi occhi la delusione per la mia aria raggiante e chiaramente dovuta all’uomo al mio fianco.
E quando io ho proposto una fuga in Liguria ci ha prestato generosamente la sua preziosissima e scassata auto.
 
 
Se c’è una cosa che mi ha definitivamente fatta innamorare di Ben è stato il vederlo così a suo agio nel mio ambiente, tra i miei amici.
Ho potuto scoprire cose nuove di lui, del suo carattere.
Ho visto la sua modestia, la sua gentilezza, la sua semplicità.
Hollywood è un territorio insidioso, fatto per gran parte di luce abbacinante e di facciate invitanti.
Ma qui, a casa, tra i miei amici, lo vedo per com’è realmente e sì, altro non so dire se non che io lo amo.
Lo amo davvero.
 
*
 
La Liguria è sempre bellissima, anche in autunno.
 
Le giornate sono grigie, ma il mare esercita su di me un fascino misterioso in questa stagione.
Le Cinque Terre sono uno dei luoghi più belli d’Italia e, francamente, è tutto dire.
Quando lo dico a Ben lui annuisce, serio.
«Non ho mai visto un posto così» mormora.
 
Passiamo giorni bellissimi.
Ci regaliamo lunghe passeggiate in riva al mare, escursioni sulle colline, pomeriggi in cui semplicemente ci stendiamo sulle sdraio e leggiamo per ore.
Il silenzio, tra noi, non è mai pesante.
Parliamo per ore, oppure stiamo in silenzio e ci godiamo la reciproca compagnia.
Non sono mai stata più felice.
Siamo chiusi in una bolla impermeabile che resiste al mondo esterno.
 
*
 
Il ritorno alla realtà arriva, alla fine, sotto forma di una telefonata di Sergei Bodrov a Ben.
 
Lui risponde ancora sdraiato a letto e io lo bacio in silenzio sulla fronte prima di chiudermi in bagno per una doccia.
Quando esco, dopo essermi lavata anche i capelli, lo trovo ancora intento a parlare al telefono, con stampata in faccia un’espressione che non gli ho mai visto prima.
«Ben» mi allarmo «Cosa succede?»
Lui mi tende la mano e sento che dice a Sergei che è con me.
Mi avvicino a lui e le nostre dita si intrecciano.
«Miki, è incredibile» mormora «Seventh Son… pare che otterrà delle candidature all’Oscar!»
 

 

*Seventh Son ha davvero avuto un re-shoot... Confermo quello e, dalle parole di un addetto del set, anche il nervosismo di Ben :)


 
***
Miei carissimi lettori,
ormai ho perso il conto delle volte in cui l'ho detto, ma... scusatemi ancora per il ritardo!
Purtroppo i mesi estivi, sul lavoro, per me sono micidiali e non trovo mai nemmeno cinque minuti per scrivere, con mio grande dispiacere!
Aggiungiamoci la rete dell'ufficio che fa i capricci...
Tra l'altro, ho riscritto il capitolo perchè alla rilettura non mi convinceva più molto.
Spero siate pronti per la seconda parte di questa folle avventura... 
Sottolineo il "folle": ve l'avevo detto, all'inizio, che questa storia sarebbe stata imprevedibile!
Sappiamo tutti che, purtroppo, Seventh Son non ha avuto una buona parabola... Ma è per questo che esiste Efp, no? 
Per quanto riguarda Los Angeles, tutti quelli che la conoscono (e che io conosco) mi dicono che non è affatto bella, ma io volevo raccontarla attraverso gli occhi di Micol e per questo le mie fonti, stavolta, sono... internet!
Vi ricordo che, per ogni domanda o per fare due chiacchiere mi trovate su Facebook!
Pagina:
 https://www.facebook.com/Joy10Efp
Profilo (sono sempre io ma con un altro nome grazie alle regole del cavolo di Fb!): https://www.facebook.com/profile.php?id=100007339248477&fref=ts
Inoltre, vi segnalo che Rebecca e Ben (Nothing Else Matters) sono su Wattpad: https://www.wattpad.com/150567232-nothing-else-matters-viii-rivedersi-che-cosa
Detto ciò, mi ritiro a scrivere di Mika!
Buona lettura,
Joy

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Capitolo 26
*** XXVI ***


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Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni.
Eleanor Roosevelt






Il rientro in America è stato rapidissimo e, per me, un po’ doloroso.
 
È un po’ come quando finisce l’estate e tu assisti, malinconica, all’accorciarsi delle giornate, ai tramonti meno vividi, alla ricomparsa delle scarpe chiuse e dei golfini.
Ecco, io mi sono sentita così, solo che non ho avuto settimane per abituarmi all’idea, ma una manciata di minuti.
 
Ben è diventato agitato, euforico e impaziente.
Lo capisco, per carità.
È il suo lavoro.
La sua vita.
Io continuo ad assomigliare a una che è inciampata in un biglietto della lotteria per puro caso, ma lui…
Lui ha la mano vincente, e vuole godersela.
E fa bene.
 
 
Naturalmente, la mia coscienza ha parlato sotto forma di Luna.
Abbiamo interrotto la nostra fuga romantica e siamo tornati a Roma, per ripartire subito alla volta dell’America.
«Ma tu lo vuoi?» ha chiesto la mia amica, con la solita acutezza che la contraddistingue.
Io mi sono limitata a scrollare le spalle.
«Chi non lo vorrebbe?» ho risposto.
Ma ho capito benissimo cosa intendeva dire in realtà e la risposta è semplice.
 
Io voglio essere dove è lui.
E se lui vuole essere in America, allora anche io voglio essere lì.
 
*
 
Non fraintendetemi: non è che non mi importi di quello che sta succedendo, anzi.
Mi importa, eccome.
Solo che l’idea è talmente enorme, talmente smisurata, da farmi paura.
Non so bene come gestire la situazione e rivolgermi ai miei usuali punti fermi, stavolta, non dà i soliti risultati.
Luna è attonita: felicissima ma anche molto preoccupata.
Chi l’avrebbe mai detto che la mia avventura folle potesse trasformarsi in una cosa del genere?
Ormai non ho scuse per tirarmi indietro, né, oggettivamente, potrei farlo.
Dove poi questa corrente mi trascinerà è un altro paio di maniche.
 
Luna crede in me in un modo che trovo persino commovente: è come se, per lei, fosse scontato che io sia la migliore in tutto.
La più brava, la più speciale, la più bella.
Io vedo lei nello stesso modo e, affetto a parte, è meraviglioso sapere di avere un tale appoggio nella vita.
Però, stavolta, mi sembra una situazione talmente fuori controllo, talmente enorme che ho paura di esserne risucchiata.
Mi sento esattamente come quella volta in cui eravamo in vacanza a Mykonos: Luna nuotava e io ero seduta sulla riva del mare e mi godevo il sole, quando all’improvviso un’onda gigantesca mi ha travolta e sbattuta contro la scogliera.
Ne ho ricavato un’escoriazione rossa e orrenda lungo tutta la parte sinistra del corpo, braccio e gamba compresi.
 
Mi farò meno male, stavolta?
 
*
 
Mia madre, saputa la novità, è rimasta senza parole.
Questa sì che è stata una soddisfazione.
La mia agenzia, invece, è al settimo cielo.
L’unico problema è che Anna mi ha consigliato caldamente di trovarmi un agente, perché loro non sono attrezzate per seguire lo star system.
Eppure continuano a mandarmi richieste di lavoro.
Casting e pubblicità mi piovono addosso da tutte le parti e i miei periodi di scoraggiata ricerca di un lavoro sembrano solo un ricordo.
Ho un unico tarlo: io non volevo fare questo.
Ma, diciamocelo, ci ho guadagnato ben più di una vagonata di soldi.
 
 
La questione dell’agente, una volta arrivata a Los Angeles, diventa di primo piano.
Ben me lo ripete dieci volte al giorno e a lui si uniscono Sergei, Julianne e Jeff, che abbiamo incontrato per varie riunioni strategiche.
A proposito, quella della strategia è davvero una cosa enorme.
Enorme.
Io credevo che gli attori si limitassero a girare un film, ottenere la nomination e aspettare la cerimonia di premiazione.
E invece…
«Quello verso l’Oscar» ha spiegato Sergei con grande serietà «È un vero e proprio Cammino»
E, vi giuro, si capiva che la parola “cammino” aveva l’iniziale maiuscola.
 
Ancora una volta, la mia ignoranza a proposito di questo mondo si è dimostrata grande.
Io credevo che al centro di tutto il meccanismo ci fossero gli attori… E ci sono, naturalmente.
Ma come persone fisiche si incontrano poco: è tutto un turbine di agenti, agenzie, manager, produttori, giornalisti.
Gente che non ti conosce ma che improvvisamente vuole esserti amica, perché puoi rivelarti utile.
Gente che – come mi ha spiegato Ben – ti ha ignorato per anni, anche quando ti incrociava tutti i giorni, e che ora ti invita a pranzo.
Giornalisti che vogliono conoscere ogni dettaglio di te, soprattutto quelli più intimi e privati; che ti trattano oggi come se fossi il re dell’universo e che domani ti hanno già dimenticato.
Stilisti che vogliono vestirti, che ti donano abiti e accessori eccezionali.
Lavori e richieste di lavoro che piovono da tutte le parti.
La gente ti riconosce per strada, ti insegue, ti vuole toccare, fotografare, parlare.
Ho visto una ragazza tremare avvicinandosi a Ben per strada.
Tremava letteralmente, come una foglia.
Ecco cosa sono gli Oscar: un enorme, folle carrozzone.
Che speranza ho di districarmi da sola in questo delirio?
 
 
È per questo che – quando Ben mi trascina a forza alla sua agenzia, una settimana dopo il nostro arrivo in America – alla fine non protesto nemmeno troppo.
Lui e il suo agente mi presentano Ashanti, una stupenda ragazza africana, longilinea e con una chioma scurissima raccolta in treccine ordinatissime e serrate.
Quando mi dice di aver superato i quarant’anni resto senza parole: potrebbe essere una mia coetanea.
Potrebbe tranquillamente fare la modella, bella com’è.
Lei ride della mia espressione sorpresa e mi dice che a Hollywood non importa come sei, ma importa come appari al mondo.
E, mentre avrei storto il naso di fronte a chiunque mi avesse detto una cosa tanto superficiale, devo ammettere che lei mi conquista.
È sincera e diretta, non usa fronzoli e centra subito il punto.
Parliamo per un’ora buona e io metto subito in chiaro la cosa che più mi sta a cuore: non voglio essere comandata a bacchetta come un cagnolino ammaestrato.
Ammetto la mia totale ignoranza in ambito cinematografico e di PR, ma rifiuto categoricamente di fare la bambola prestaviso per operazioni di marketing.
Lei annuisce, seria, e promette di spiegarmi sempre ogni sua singola idea e richiesta, ma mi avverte che devo fidarmi di lei.
«Se avessi tempo» dice «Faremmo tutto con calma, avremmo già avuto mesi per conoscerci. Noi due non li abbiamo, ma ti prometto una cosa: ti aiuterò in ogni modo perché questi mesi siano un successo»
«Nel senso che secondo te possiamo vincere?» domando.
«Nel senso che sulla giuria non posso avere effetto, ma su tutto il resto sì»
La guardo intensamente.
Dietro le sue spalle, Ben annuisce vigorosamente con il capo.
«Va bene» dico, alla fine «Buttiamoci!»
 
*
 
E ci buttiamo davvero.
 
Ashanti diventa la mia ombra.
Mi segue ogni attimo, corregge e indirizza ogni mio gesto, sceglie i miei abiti e decide dove devo apparire e quando.
All’inizio è intollerabile per me: mi oppongo, faccio resistenza, divento odiosa.
Ma niente, è tutto inutile.
Lei è un muro di gomma: si limita ad ascoltare le mie tirate senza battere ciglio e, quando alla fine taccio, ricomincia a parlare da dove si era interrotta.
Più io mi irrigidisco, più lei resta calma.
Ammiro la sua costanza, lo ammetto.
 
Detesto fare la figura della ragazzina imbambolata, quindi mi sto impegnando con tutta me stessa.
Ma le regole di questo mondo non le conosco e ciò mi rende estremamente diffidente verso qualsiasi manifestazione d’affetto o stima che non ritengo sincera (cioè tutte quelle che ricevo, perché qui chi mi conosce? Non ho mai fatto film prima di adesso!) ed estremamente prudente verso nuovi “amici” e possibili contratti.
È per questo che inizio ad accettare Ashanti con più facilità e a chiederle consiglio sempre più spesso.
Lei è una spalla eccezionale: risponde senza la minima esitazione a qualsiasi domanda; può prenotare un aereo mentre dirige un servizio fotografico e intanto scrive cinque mail insieme; conosce tutto di etichetta, società, benessere, cinema, teatro…
Mi sento un po’ persa in questo mondo, lo ammetto.
È tutto luccicante, sembra tutto bellissimo… Ma in realtà è un mondo di squali.
Improvvisamente sono subissata di inviti, di incontri, di gente che si professa mia ammiratrice, estimatrice, amica.
Gente che non ho mai visto in vita mia.
Il mio cellulare suona in continuazione.
E come diavolo fanno ad avere il mio numero?!
Non posso fare due passi per strada senza essere avvicinata e importunata da gente che vuole intervistarmi, o reclutarmi per non so quale progetto.
All’inizio mi infurio, ma sono quasi spaventata.
Persino il semplice desiderio di passare mezza giornata seduta a leggere o di uscire a prendere una boccata d’aria sembra surreale.
Il mio tempo non è più mio.
E non basta mai.
Ci sono cose da fare, milioni di cose da fare: copioni da leggere, briefing strategici, prove di moda, estetisti, parrucchieri, personal trainer, registi, attori, stilisti, pr…
 
Quando finalmente riesco a sentire Ben, dopo due settimane di questa vita, scoppio a piangere al telefono per la tensione e la frustrazione.
E – meno male – lui molla su due piedi il suo agente e si precipita da me.
 
*
 
Siamo sdraiati entrambi sul mio letto, a pancia in giù, e ci fissiamo in silenzio nella penombra della mia stanza d’albergo.
 
Il sole sta tramontando e la sua luce aranciata crea delle ombre leggere sulla parete alle spalle di Ben.
Io abbraccio il cuscino mentre lui, con lentezza, percorre con l’indice la linea della mia schiena, sfiorandomi appena.
Rabbrividisco di piacere e chiudo gli occhi.
Le sue dita risalgono il braccio e poi Ben si arrotola una ciocca di capelli attorno a un dito, sfregandola dolcemente.
Gli sorrido e ottengo uno sguardo dolce in risposta.
«Meglio?» domanda, con voce pigra.
«Mmm…» gli strizzo l’occhio «Non tanto»
Lui ridacchia.
«Accidenti, donna insaziabile! Dammi cinque minuti, ok?»
Sorrido – perché, semplicemente, adoro vedere quella luce calda nei suoi occhi – e lui si volta sulla schiena e si passa una mano tra i capelli spettinati.
Il lenzuolo si sposta, rivelando il suo corpo snello e i muscoli appena accennati.
Mi accoccolo contro il cuscino e sospiro, soddisfatta.
Dopo qualche minuto di sonnacchioso silenzio Ben si volta sul fianco e mi prende tra le braccia.
Mi affretto a lasciare il cuscino e a stringermi a lui.
La sensazione della pelle che si sfiora è semplicemente meravigliosa.
«Seriamente, Miki» dice «Stai bene?»
Annuisco, seria.
«Mi dispiace» rispondo «Non volevo passare per un’isterica. È solo che è tutto così…»
«Immenso?» suggerisce lui.
«Soffocante» ribatto, decisa «Non posso più nemmeno decidere che jeans mettere la mattina. Ashanti…»
«Non ti piace?» Ben sembra ansioso.
«Mi piace» borbotto «Credo, almeno. Mi fa un po’ paura, in realtà. È così autoritaria… così onnisciente»
Ben mi accarezza i capelli.
«Deve esserlo. Deve farti da guida»
«Sì, ma verso dove? E per quanto?»
Lui fa un sorriso sghembo.
«Quante domande esistenziali»
Rotola sopra di me e mi imprigiona con il suo peso; le gambe che stringono già i miei fianchi.
«Che ne pensi di buttarti e provarci?» chiede.
«Ci sto provando» obietto.
«Sicura? Ci provi davvero?» mi incalza.
Annuisco, circospetta.
«Mi faccio comandare a bacchetta, no?» sospiro, con aria da martire.
Lui ride dei miei sforzi.
«Povera Ashanti! Non la invidio»
Gli faccio la linguaccia e lui ride ancora.
«Scherzo, Miki. La invidiano tutti: sta lavorando con una potenziale nuova stella del cinema, no?»
Vado subito in panico.
«Non dirlo!» strillo.
Ben scoppia a ridere e vederlo così divertito mi rabbonisce.
Intreccia le dita alle mie e mi alza le braccia sopra la testa, quindi si china a sfiorarmi il collo con le labbra.
«So che non la volevi con te» mormora contro la mia pelle «È così terribile?»
Sospiro.
«Non volevo qualcuno della tua agenzia» confesso, d’un fiato.
 
Mi sembra ancora una situazione conflittuale.
E se poi finisse male?
Ho esitato a parlarne a Ben èerchè tra noi è un momento felice e non voglio caricarlo di mie ansie inutili.
Lui, d’altronde, ha chiaro il problema.
«È il tuo momento, Miki» mi risponde, dopo un attimo «E la mia agenzia è una delle migliori qui a Los Angeles. Devi avere qualcuno che ti aiuta… Ma puoi avere chi vuoi. Se non è Ashanti, troviamo qualcun altro»
Dopo un attimo scuoto il capo.
«No» dico «No, lei mi va bene. Davvero. Non volevo il tuo agente, tutto qui»
Lui annuisce.
«Non te lo avrei mai proposto» risponde, serio «Ricorda una cosa, però: sei tu che hai il potere. E Ashanti lo sa benissimo. Se non va bene a te, semplicemente la puoi licenziare. È frequentissimo, in questo ambiente, cambiare agente. Non si stupirebbe nessuno»
«Io mi stupirei» commento, sincera «Sono una che si affeziona facilmente»
Un’ombra passa nei suoi occhi scuri.
«Miki, qui stiamo parlando di lavoro, non di affetti»
«Ma non può capitarti, lavorando, di costruire dei legami?»
Sembra perplesso.
«Sarebbe meglio di no» mormora poi.
 
Spero non stia parlando di noi due.
Mi muovo contro di lui, sorridendogli.
«Vuoi parlare di lavoro, adesso?» lo stuzzico.
Lui risponde con un sorriso abbagliante e si protende per baciarmi.
«Direi proprio di no» mormora «Anche se parlare di lavoro con te è insospettabilmente divertente»
 
Per forza: devo sembrare una tigre bianca.
L’unica scema che ha partecipato a un film che forse sarà candidato agli Oscar e che ancora non sa a cosa diavolo serve un agente.
 
 

***
Miei carissimi lettori,
eccomi tornata!
Questo mostruoso ritardo è dovuto a due fattori. Il primo è fisiologico, vista la stagione: il mio lavoro. Ho una trasferta dietro l'altra e non ho mezzo secondo libero.
Devo dire che è anche un periodo di grosse soddisfazioni, ma è micidiale. A breve parto di nuovo, quindi immaginate come sto... Il beneficio delle ferie è già annullato!
il secondo fattore è la sfortuna: ho perso la pendrive con dentro TUTTO ciò che ho scritto, quindi immaginate come stavo, tra lavoro e questo colpo...
Ma poi, ieri... Miracolo!!! Qualcuno ha messo nella mia cassetta della posta la chiavetta! Chiunque tu sia, hai la mia eterna gratitudine!!!
Solo che questo capitolo lo avevo già riscritto, quindi stamattina ho confrontato i due, non sono riuscita a decidermi e ho creato una terza cosa... Che è quella che leggete.
Spero vi piaccia e spero di essere di nuovo molto presente. Se non lo sarò, salvo altri imprevisti, significa che sono sepolta di lavoro, ma potete verificarlo su Facebook:
qui https://www.facebook.com/Joy10Efp  e qui   https://www.facebook.com/profile.php?id=100007339248477&fref=ts
Aggiungo anche che sono ripartita con il mio blog, che potete leggere qui: http://dreamerjoy.blogspot.it/
In ultimo, oggi aggiornerò la mia storia su Wattpad, che trovate a questo link: https://www.wattpad.com/152618921-nothing-else-matters-ix-era-inutile-cercare-di
Grazie di cuore alle mie amiche che mi hanno incoraggiata con affetto incredibile e aspettata con tanta pazienza: vi voglio bene!
E grazie a voi che siete con me.
Sono tornata!
Joy

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Capitolo 27
*** XXVII ***


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Se vuoi cambiare il tuo destino, cambia il tuo atteggiamento

Amy Tan





Sono sotto shock.

 
Ok.
In effetti era una possibilità.
Se dicono che un film è candidato all’Oscar, vuol dire che quel film concorre in una o più categorie per il massimo premio cinematografico mondiale.
Il massimo premio cinematografico mondiale.
 
Oh no.
Oh no.
Mi alzo e ricomincio a percorre a grandi passi l’ufficio di Ashanti.
Da quando l’ho saputo ho lo stomaco sottosopra per l’ansia.
Non riesco a mangiare, non riesco a dormire.
Ho come l’impressione che sia un enorme, grottesco scherzo che sta per esplodermi in faccia.
Non sono lucida, non riesco a concentrarmi su niente.
 
Ashanti mi fissa in silenzio, ma ho come l’impressione che debba trattenersi per non gridarmi addosso.
Ora che le nomination sono pubbliche fuori dal suo ufficio c’è una fila di gente che smania per incontrarmi.
Giornalisti, produttori, registi, stilisti.
Io sono nel panico e le ho proibito di organizzare qualsiasi cosa.
Lei morde il freno, ma sono certa che lo fa solo perché teme che la cacci.
Ha già capito che sono talmente strana, secondo i suoi canoni, che potrei farlo.
Al momento la contengo e lei si limita a lanciarmi occhiate stanche, a lanciarsi in predicozzi sulle occasioni sprecate e a enunciare le nomination ogni due ore.
E ogni singola, dannata volta, io vorrei strangolarla.
 
L’altra cosa che mi angoscia è proprio questa: Ben non ha preso nessuna nomination.
Jeff ne ha una per miglior attore protagonista; Julianne una per migliore attrice protagonista*; Sergei una nomination per la migliore regia e...
E io (io! Io! IO!!!!) una per migliore attrice non protagonista.
Inoltre il film enumera anche due bazzecole come le nomination per la colonna sonora e per la scenografia.
Appena Ashanti mi ha comunicato le nomination ufficiali ho chiamato Ben lui si è dimostrato felice e mi ha riempita di lodi e complimenti, ma quando gli ho chiesto di vederci ha risposto in modo vago.
E, nel mio stato di totale smarrimento, ci ho messo un po’ a razionalizzare i fatti.
 
Ora, io reputo Ben una persona assolutamente generosa e di spirito nobile.
Ma poniamo che il sogno della vostra vita sia sempre stato quello di fare l’attore, che abbiate fatto migliaia di sacrifici per riuscire e che poi arrivi una tizia qualunque, senza particolari doti né entusiasmo per la faccenda, e… BAM!
Ottenga una candidatura all’Oscar, così, senza colpo ferire.
Senza nemmeno volerla, né crederci fino in fondo.
Diciamocelo… a voi non brucerebbe un po’?
 
*
 
Ma forse sto correndo troppo.
 
E voi penserete che io sia matta: lo sapevo che il film era candidato all’Oscar, giusto?
Certo che sì. Lo sapevo.
Però non conoscevo tutta la trafila che conduce a questo premio e che, come giustamente aveva anticipato Sergei, è un vero e proprio cammino (anzi, Cammino), alla fine del quale io mi trovo completamente e totalmente stremata.
È come se avessi scalato un’enorme parete di roccia e, senza più forze, osservassi ora la cima ancora lontanissima.
 
La parete scalata fino a oggi è fatta dai premi che si tengono con scadenza puntuale prima degli Oscar.
Seventh Son ne ha fatto incetta, ma io non ho vinto nulla.
Jeff è stato premiato ai BAFTA e agli Empire Awards; Ben è stato candidato ai Critic’s Chioce Awards (anticipazione dei Brit Awards e conferiti dai critici inglesi a quella che secondo loro sarà la massima promessa cinematografica dell’anno successivo) e Julianne ha trionfato ai Golden Globe, l’anticamera degli Oscar, mettendo una seria ipoteca sul massimo premio.
Sergei era euforico.
E io anche.
Non voglio fingere ipocrisia: a me andava benissimo così.
Io non so cosa ci faccio, in mezzo ad artisti di questo calibro.
Ed è stato un sogno meraviglioso e perfetto poter partecipare con loro a serate meravigliose, indossando abiti stupendi e accompagnandoli a party scintillanti.
Davvero, a me andava benissimo così.
Sono addirittura stata segnalata da Vanity Fair tra le attrici meglio vestite sui red carpet!
Era tutto meraviglioso.
La gioia del cast e la felicità di Ben sono stati la carica e l’entusiasmo che mi hanno accompagnata in questo mese e mezzo.
Ho amato Los Angeles, ho fatto la spola con l’Europa, ho incontrato stilisti e fatto servizi fotografici e mi sono divertita come una pazza.
Ashanti ha selezionato attentamente ogni richiesta, ogni apparizione, e non mi ha lasciata sola un secondo.
Con la sua guida basta davvero poco: a me tocca solo la parte finale del lavoro.
E, con mia sorpresa, ho scoperto di trovarmi benissimo.
In occasione delle prime interviste ero molto nervosa, ma Ashanti me le ha sempre organizzate con Julianne o con Ben ed entrambi hanno fatto di tutto per mettermi a mio agio.
Con loro accanto riuscivo senza problemi a essere disinvolta e scherzosa, tanto che persino la severa Ashanti ha annuito con tono di approvazione definendomi “fresca e piacevole”.
Mi sono sentita come quando hai affrontato la commissione di laurea e ti alzi dalla sedia sapendo di aver vinto: ecco, è fatta.
Sapevo tutto. Ho risposto a tutto.
Ho vinto io.
 
E io avevo vinto: con i media, con la moda, con Ben.
Abbiamo passato delle settimane magiche promuovendo il film insieme, apparendo in tv, andando in radio per rilasciare interviste in diretta e posando insieme per la maggior parte dei servizi fotografici.
Jeff è molto schivo per quanto riguarda la stampa; Julianne lavora su vari altri progetti e ha poco tempo, non si sottrae ma delega volentieri a noi.
E la comunicazione del film ha molto puntato su Ben e me, come sulla coppia giovane della pellicola.
Ho ringraziato ogni giorno per la breve esperienza fatta prima del film sui set fotografici, che mi ha impedito di perdermi ora.
E con Ben è tutto immensamente più divertente.
Siamo affiatati, spontanei, felici.
Non so come altro descrivere questo periodo.
Io sono felice.
Con lui mi sento protetta; mi sento completa.
Abbiamo sviluppato un ottimo feeling e sempre più spesso ci accorgiamo che basta un cenno per intenderci, un sorriso per incoraggiarci a vicenda.
Sì, non sono mai stata più euforica in vita mia.
 
Ovviamente doveva arrivare il brusco risveglio.
Ed è arrivato sotto forma di questa mia nomination, un vero e proprio fulmine a ciel sereno.
Sergei, Jeff e Julianne si complimentano con me fino allo sfinimento; io invece mi ritraggo in me stessa.
Ma come cavolo è potuto succedere?
E, soprattutto, cosa accadrà ora?
 
*
 
Ovviamente è su Luna che riverso tutte le mie paure.
 
Le parlo dei miei dubbi, del mio senso di inadeguatezza, ma in risposta ottengo una secca esortazione a godermi il momento e a pensare al futuro.
«Mic, ormai questo non è più uno scherzo» mi dice, seria «Adesso da te dipendono i sogni e le speranze di una squadra che si è fatta un gran mazzo per arrivare dove siete. Adesso non puoi dire semplicemente “Oh, ma io stavo scherzando”»
«Lo so, lo so!» sbotto, angosciata «Però lo sai che all’inizio…»
«L’inizio era mesi fa» mi interrompe lei «Adesso è tutto diverso… E tu devi farci i conti. Oltretutto, lamentarsi di avere una possibilità del genere è da pazzi, cara mia!»
«Uffa» borbotto «Non ne posso più di sentirmi dire che non devo lamentarmi ma benedire la sorte!»
«Allora lascia che ti ricordi che le uniche due persone capaci di lamentarsi di un dono del genere siete tu e… tieniti forte… TUA MADRE!»
Inorridisco.
«E Ben?» gemo, dopo qualche secondo di terrorizzato silenzio «Ben ce l’avrà con me?»
«Se ce l’ha con te è un cretino» risponde lei, convinta «E comunque ti basta schioccare le dita per sostituirlo… In quanti vogliono uscire con te?»
Trattengo una rispostaccia.
Luna si diverte follemente quando le racconto degli attori e cantanti famosi che sto incontrando e il suo passatempo preferito è diventato spettegolare sulle loro vite.
Oltretutto, effettivamente, molti di loro mi hanno invitata a uscire, ma io ho sempre rifiutato.
Ufficialmente sono single e continuo a ripetere ai giornalisti ficcanaso che voglio concentrarmi sulla carriera.
La mia risposta standard è: «Oh, è tutto così magico e nuovo… Non potrei davvero concentrarmi su una storia, adesso! Mi sono appena affacciata nel mondo del cinema e davvero non riesco a pensare ad altro, per il momento!»
La risposta standard di Ben, per inciso, è una variante sul tema: «Ah, sono talmente concentrato sulla mia carriera che non ho tempo per una relazione… Una storia richiede dedizione e attenzioni e, al momento, io sono proiettato su questo lavoro, che mi assorbe completamente. Con Seventh Son le opportunità… bla bla bla…»
Di solito, a questo punto, i giornalisti ci chiedono se non stiamo insieme segretamente oppure ci dicono che abbiamo una grande complicità sullo schermo.
Risponde sempre Ben, che sorride, ringrazia e li svia con qualche banalità, mentre io sono solitamente soffocata da un’enorme, smisurata, gigantesca bolla di felicità che si gonfia nel mio petto e ogni volta minaccia di stordirmi.
Evito persino di guardare Ben e arrossisco e temo che mi si legga la verità in viso…
 
Secondo Ashanti il mio comportamento è un tocco di genio.
«Sembri così intimidita e dolcemente confusa!» ha gioito «Sei adorabile!»
«Ehm» ho risposto io.
Non so se ha capito qualcosa; forse sì.
È sempre con me, in ogni momento.
Ed è una donna davvero perspicace: sono certa che si è accorta del modo in cui guardo Ben.
Però non ha mai detto una parola, come del resto lui o il suo agente.
E io mi adeguo: va benissimo così.
 
 
Quando inizio a fare interviste da sola sono più esposta, ma in qualche modo mi piace.
Le domande sono quasi sempre delle gigantesche banalità e la cosa peggiore che può succedermi è quella di annoiarmi dopo aver ripetuto duecento volte che il mio colore preferito è il blu (a volte però dico il rosso, o il bianco, giusto per vedere se qualcuno si accorge che sparo cose a casaccio. Insomma… ma a chi può fregare di sapere qual è il mio colore preferito?!).
Quando parlo del cast sono entusiasta e grata (esattamente come mi sento, quindi) e spero che i miei sentimenti per Ben si confondano nelle parole di adorazione che spendo per tutti.
Se non si confondono non mi importa: io so chiaramente cosa provo e, sebbene siano fatti miei, non ho la lucidità di nasconderlo al mondo.
 
Ne ho parlato con Ben, una sera.
Eravamo a casa sua, a letto, e lui stava giocherellando con una ciocca dei miei capelli, mentre io gli raccontavo di una divertente ospitata in televisione in cui mi hanno fatta cucinare.
«La mia torta era pessima!»
Ben ha riso, accoccolandosi più vicino.
«Non ti hanno detto che una donna così bella non può saper fare tutto?» ha motteggiato, baciandomi una spalla «Che se sapessi anche cucinare bene saresti esageratamente brava?»
Ho fatto il broncio.
«Io SO cucinare, bello mio… Solo che quella torta è venuta uno schifo perché non sono pratica di quella cosa che in America chiamano “burro”, ma che non somiglia affatto al vero burro!»
Lui ha scosso il capo, sorridendo.
«Va bene, allora sei ufficialmente una donna che sa mettere in difficoltà un uomo»
Mi sono girata sulla schiena e ho intrecciato le dita alle sue.
«Indovina chi pensano sia il mio fidanzato segreto?» l’ho provocato.
«Mmmm…» Ben ha finto di pensarci su «Non saprei… Jeff, forse?»
Sono scoppiata a ridere e lui mi ha baciato la guancia.
«Hai detto loro che non stiamo insieme?» ha chiesto.
«Ho detto loro di farsi i fatti propri!»
Ben ha riso, divertito.
«Che peperina! Mi spiace, piccola… Queste intrusioni nella sfera personale sono davvero odiose»
Arriccio il naso.
«In parte sono divertenti» bisbiglio, mentre fisso i suoi occhi scuri e quasi mi perdo.
Ma la passione finisce?
Arriva il momento in cui si riprende a respirare… O è sempre così?
Forse non voglio saperlo… Vivo in un mondo dorato, adrenalinico, e non lo cambierei con nient’altro.
«Lo dici perché per te è ancora tutto nuovo»
Ben sorride e mi bacia la punta del naso, quindi continua:
«A me dà molto fastidio, questa continua smania di sapere cose personali degli altri, con la scusa che i personaggi famosi devono accettare questa intrusione violenta nella loro privacy. Alla lunga mi stanco anche di dare risposte cortesi»
Mi lancia un’occhiata per vedere che effetto mi fanno le sue parole, quindi prosegue:
«Non sono tutti così, è ovvio. Ma alcuni ti danno l’impressione di essere interessati esclusivamente ai pettegolezzi e questo mi infastidisce molto»
«Capisco» borbotto «Vorrà dire che sguinzaglierò Ashanti»
Lui ride.
«Ecco, questa è una buona soluzione. Un agente serve anche a questo… Per esempio, io dico sempre al mio agente che non voglio domande personali, così lui può avvisare i giornalisti»
Ci rifletto su.
«Ma non te lo chiedono poi comunque?» chiedo «Voglio dire… Mi sembra l’ovvietà per eccellenza che puoi leggere su un qualsiasi giornaletto mediocre: “Ben Barnes, bello e single. Fatevi sotto donne!”»
Ben geme.
«Guarda, una volta ho fatto una battuta durante un’intervista e il giornalista l’ha distorta e ha scritto un pezzo in cui sembravo davvero incitare le donne a farsi avanti con me… Non farmelo ricordare! Mi brucia ancora!»
Rifletto su come mi sentirei se uscisse adesso un pezzo del genere su di lui.
Ci riderei su, perché so come stanno le cose… Ma perché la stampa dovrebbe presentarlo come un poveraccio che deve elemosinare una donna?
«Capisco quello che intendi» dico, decisa «Questa fame di dettagli privati è davvero inopportuna e invadente!»
Ben sembra curiosamente sollevato.
Giocherella ancora con i miei capelli, quindi mormora:
«Non… Non parlerai di me, allora?»
«Tu lo vorresti?» chiedo.
«No, no» si affretta a negare «Anche a me dà fastidio esporre i miei fatti personali. Non vivremmo più un momento di pace, non avremmo privacy. L’idea mi fa inorridire. Ma… sei una donna adulta, Miki, e non sono certo io a poterti impedire di parlare di qualcosa»
«Tengo molto alla nostra privacy» gli rispondo «E se per te va bene non voglio che si venga a sapere nulla»
«Per me va più che bene» sorride, sfiorandomi il fianco con dita delicate «Mi seccherebbe moltissimo dover ascoltare illazioni e gossip su noi due. E se per te va bene non vorrei dirlo neppure ai colleghi»
Mi mordo l’interno della guancia, riflettendo.
«Va bene… Ma penso che Sergei lo abbia capito»
«Sì, forse hai ragione… Ma Sergei è una persona discreta. Possiamo fidarci di lui»
Forse anche Julianne ha capito tutto…
Ma non mi soffermo a rifletterci perché in quel momento Ben rotola sopra di me e qualsiasi pensiero svanisce in una nuvola di beatitudine.
 
 
 
* Facciamo tutti finta che Julianne Moore non abbia – giustappunto – appena vinto un Oscar per un altro film!


***
Miei diletti lettori, come scusarmi?!
Non ci sono parole adatte, quindi non starò a farvi perdere tempo.
Grazie alle mie fantastiche amiche e sostenitrici fedeli, a chi mi incoraggia sempre, a chi mi attende paziente e chi ha la costanza di seguirmi.
Vi voglio bene!
Joy

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Capitolo 28
*** XXVIII ***


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Ah, che bella cosa è saper qualcosa
Molière 

 




«E quindi, cara… Come ci si sente ad essere candidata a un Oscar, dopo solo la prima esperienza al cinema?!»
 
Faccio un sorriso meccanico.
Non ne posso più di sentirmi chiedere sempre le solite tre cose.
Ashanti ha intensificato il ritmo delle interviste e mi sembra di assomigliare a una bambola di pezza sbattuta di qua e di là.
Ore 7.30 – ospitata del mattino in un programma tv.
Ore 9 – intervista in diretta in radio.
Ore 10.30 – servizio fotografico.
Ore 12.15 – ospitata del pranzo in un programma tv.
Continuo a venir prelevata da una parte e scaricata da un’altra; passo dal truccatore, al parrucchiere, al vestierista, al fotografo o giornalista di turno.
Il primo di solito mi chiede di fare facce sexy o imbronciate; il secondo mi chiede (nell’ordine) di raccontare come sono stata scelta per Seventh Son, come mi sento all’idea di essere candidata all’Oscar, come mi vestirò per l’Oscar.
 
Più andiamo avanti, più perdo energia e interesse per l’intera faccenda.
Ashanti, invece, è un vulcano.
Più si infittisce l’agenda, più lei si carica.
Più facciamo tardi e abbiamo impegni, più è felice.
«Ma non ce l’hai una vita?» le ho chiesto ieri mattina, dopo che mi ha buttata giù dal letto alle 6.30 per un servizio fotografico antelucano.
«No» ha risposto impassibile «Non è il momento di avere una vita privata»
Aiuto.
 
Finisco l’intervista rispondendo a caso, mentre una piccola parte di me si chiede se sembro una stronza patentata.
Pazienza.
All’inizio sentivo molto la responsabilità di rappresentare un intero cast e volevo brillare per rendere merito a ciascuna persona che ha lavorato con noi e per noi in questi mesi.
Ogni tanto questo spirito fa capolino, ma per la maggior parte del tempo mi limito a farmi trascinare dalla corrente.
 
Ben è a Londra.
È tornato a casa all’improvviso, senza avvisare nessuno.
Senza avvisare me.
Un paio di giorni fa l’ho chiamato e non mi ha risposto, ma non ho dato peso alla cosa; immaginavo stesse facendo qualche intervista.
Poi, dopo qualche tempo, ho sentito Ashanti imprecare e dirmi che doveva riorganizzare un’intervista doppia visto che Ben aveva avuto la geniale idea di andarsene senza avvertirla.
«Andarsene?» ho ripetuto «In che senso “andarsene”?»
«Il suo agente mi ha chiamata due minuti fa per dirmi che se ne è andato a Londra! Lo ha chiamato dall’aereo! Quel ragazzo non sfonderà mai se fa così»
Ha scosso il capo, furiosa, e io ho sussultato.
«A Londra?» ho esclamato con voce stridula «Ma non è possibile… L’ho visto l’altra sera e non mi ha detto niente!»
Ashanti mi ha fissata, implacabile.
«Ben è a Londra. Per l’intervista però puoi andare da sola… Ormai te la cavi bene. Te la senti? È un programma abbastanza importante e quindi…»
Ho perso la fine della frase perché stavo già digitando il numero di Ben sul cellulare.
Non ha risposto.
L’ho richiamato in continuazione, ma ha risposto solo a tarda sera.
«Pronto» ha detto.
«Ma sei a Londra?» ho strillato io «Ashanti dice che…»
«Sono a Londra» ha confermato, laconico.
È seguito un momento di silenzio, poi ho detto:
«Non ne sapevo niente»
Silenzio da lui, per cui ho proseguito tentennante:
«Voglio dire… Non immaginavo che…»
«Senti» ha sospirato «Volevo staccare un po’. Troppa pressione, ecco tutto»
«Ma…»
«E comunque… è solo per qualche giorno, poi torno. Ma magari… Ecco… Non chiamarmi, ecco. Mi faccio sentire io, ok?»
Sono rimasta agghiacciata.
Dopo qualche secondo di silenzio, Ben ha aggiunto:
«Voglio solo staccare un po’, davvero. Ti chiamo presto»
Sono rimasta in silenzio finché non l’ho sentito riattaccare.
 
*
 
È passata una settimana e io sono sempre qui.
 
Mi adatto alle interviste, alle prove di trucco e abiti, alla vita di Los Angeles.
Ricevo tantissime offerte di lavoro per campagne pubblicitarie e moltissimi copioni da leggere.
E faccio una prima, importante scoperta: le prime non mi dispiacciono, ma i secondi non mi attraggono per niente.
Secondo Ashanti è perché la quasi totalità dei copioni che girano a Hollywood sono spazzatura. Detto questo, mi invita a considerarne seriamente tre.
Io li rileggo, obbediente, ma proprio non mi ci vedo a interpretare questi personaggi.
Come sempre, chiedo consiglio a Luna.
La mia amica è sempre partecipe e al momento credo sia anche molto preoccupata dal mio evidente stato di angoscia emotiva.
Ha imprecato contro Ben per tre giorni, poi ha smesso perché ha visto che mi faceva stare solo peggio.
 
Inutile dire che lui non mi ha chiamata.
Non che me lo aspettassi, sinceramente.
Il tono di quella telefonata diceva chiaramente che non vuole pressioni e io non sono certo il tipo di donna che si espone all’umiliazione di inseguire chicchessia.
Anche se la persona in questione è lui.
Non vuole che lo chiami?
Benissimo.
Non lo chiamerò.
Può cercarmi lui e, se non dovesse farlo, può andare diretto all’inferno per quello che mi riguarda.
Luna sostiene che sono troppo categorica, ma non posso farci nulla.
Sono fatta così.
Non riesco a implorare per una telefonata, perché sono sempre stata convinta che chi vuole sentirti ti chiama.
Ergo, se non mi chiama non ha piacere di sentirmi.
 
Benissimo.
 
Se ne stia da solo, a casa sua.
 
 
Sbatto con forza un copione sul divano.
«No, non mi piace» dico ad Ashanti «È una trama stupida e debole»
«Ha un bel cast» mi contraddice lei.
«Detesto le storie tragiche» ribatto, secca «Mi deprimono»
Lei inarca un sopracciglio.
«Non puoi usare i tuoi gusti personali come metro di giudizio per un copione, Miki. Sbaglieresti. A me sembra un buon film e Emma Watson ha appena firmato»
«E ti pare che io potrei lavorare con Emma Watson?!»
Lei mi guarda in modo strano.
«Tu puoi lavorare con chiunque. Sei candidata a un Oscar… Fanno tutti la fila per averti!»
Sospiro.
«Non lo so»
Lei crolla il capo.
«Va bene, non devi decidere ora… E se vinci sarai la preda più ambita, vedrai!»
Arriccio il naso.
«Mi sento come la preda di un safari»
Ashanti mi fissa in silenzio per un po’, quindi dice:
«Il servizio per Vogue va bene?»
Annuisco.
«Certo»
La moda continua a piacermi, come sempre.
Riesco a divertirmi quando faccio servizi del genere. Mi sento a mio agio.
«D’accordo» risponde la mia agente «Lo fisso. Ricordati una cosa però: in America, per fortuna, una eventuale carriera da modella non ti danneggerà… Almeno, non come invece accadrebbe in Inghilterra… Ma la tua occasione, adesso, è nel cinema e voglio che tu lo tenga bene a mente»
«Cosa vuol dire?» chiedo.
«Che in Inghilterra chi fa il modello non riesce praticamente mai a sfondare come attore: è come se ti fossi tagliato le gambe da solo in partenza. In America invece non ci sono pregiudizi del genere. Comunque pensaci… Adesso ogni tua mossa è sotto i riflettori, ricordalo»
Dopo un attimo, aggiunge:
«Ben torna domani, comunque»
Fingo di non averla sentita mentre sfoglio distrattamente un copione e cerco di ignorare lo spasmo improvviso allo stomaco.
Stupide, stupide farfalle.
«Avete un’intervista insieme fra tre giorni» dice ancora Ashanti.
Alzo gli occhi.
«Cancellala»
Mi sembra che lei trattenga un sorriso.
«Molto bene» si limita a rispondere, prima di allontanarsi.
 
*
 
«E adesso perché lo eviti?» geme Luna su skype «Non potete fare così: devi parlargli. Chiarite questa situazione prima che diventi insostenibile e vi faccia allontanare!»
«Io non devo chiarire proprio niente!» sbotto «Lui è scappato! Lui mi ha detto di non chiamarlo. Mi sembra il minimo pretendere che mi contatti lui!»
La mia amica sospira.
«Si vergognerà. Non saprà cosa dirti e quindi, essendo un uomo, cercherà di evitare il confronto. Per questo dovresti chiamarlo tu»
«Ah, quindi io devo fare la parte di entrambi noi? Ci mancherebbe altro!»
«Tu hai paura» mi dice Luna dopo una pausa.
Cavolo.
Certo che ho paura.
Vorrei ben vedere.
«Sì» ammetto a denti stretti «Non credo nelle pause di riflessione»
Luna giocherella con una ciocca di capelli, mentre i suoi occhi azzurri sembrano bucare lo schermo del pc.
«Nemmeno io» commenta alla fine «Ma… Magari mi sbaglio. Ci sbagliamo»
«Oppure no e sta per lasciarmi»
Segue un silenzio pesante, quindi Luna scrolla le spalle.
«A maggior ragione devi chiarire questa situazione. Non puoi stare a logorarti e basta»
«È colpa mia» bisbiglio.
«Cosa? No!»
«Sì invece… Tutta quella titubanza, tutte quelle paranoie di Ben. Le ho sempre sottovalutate. Ho sempre creduto che tutto si fosse sistemato magicamente…»
«Mic!» fa Luna, agitata «Le cose tra voi stanno andando bene…»
«Solo perché non si è più parlato di situazione sentimentale o prospettive future» ribatto «Solo perché il sesso va alla grande e qui è come stare perennemente in vacanza da scuola. Sai… come se fosse sempre estate. Nessuno si fa domande sul futuro o sulla vita, ci si limita a vivere alla giornata. Oggi sei famoso e domani chissà. Oggi ci siamo… e domani magari no»
 
Segue un altro silenzio, ancora più pesante.
Spero con tutte le mie forze che Luna mi dica che mi sbaglio, che sono io a essere paranoica, che oggi vedo tutto nero.
Anche se so che le parole che ho detto sono vere.
È come se lo avessi sempre saputo, temuto…
E ora questo pensiero ha preso forma e si è trasformato nella mia scomoda realtà.
Aspetto e prego che Luna – Luna che ha sempre ragione, che riesce a far sembrare facile anche l’impresa più disperata – mi dica che Ben chiamerà e sarà tutto come prima.
Invece, lei sospira pesantemente e alla fine mormora:
«Mic… chiamalo»


*

Propositi per il nuovo anno:

- non essere in ritardo
- non promettere di non essere in ritardo quando invece lo si è
- combattere contro i mille impedimenti che mi fanno essere perennemente in ritardo

Come vedete, avrò da combattere contro il tempo, in questo 2016! :)
Auguro a voi e a me di avere tanto tempo per voi, per leggere, per amare; di avere persone meravigliose a riempire ogni giornata; di affrontare ogni mattina con il sorriso.
Tantissimi auguri di buon anno in ritardo, a tutti voi!
Joy


 
 
 
 
 

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Capitolo 29
*** XXIX ***


 

Non è mai troppo tardi per essere quello che saresti potuto essere
George Eliot




Non lo faccio.
 
Non ci riesco.
Sono vigliacca, lo so, ma non posso farci niente.
Non riesco a fare quella maledetta telefonata.
Così, semplicemente, lascio passare il tempo nascondendo la testa sotto la sabbia.
Lo so, è stupido. E vigliacco.
Soprattutto stupido, visto che Ben non si fa sentire e quindi…
Quindi?
Cosa può significare questo?
Chiaro, a mio parere.
Non vuole sentirmi. Né vedermi. Quindi vuole rompere.
E io?
Cerco di allontanare il momento in cui me lo sentirò dire in faccia?
 
Non dovrei renderglielo facile, almeno per orgoglio.
Lo so bene.
Anche perché non vorrei ritrovarmi a essere scaricata senza sapere di essere stata scaricata, non so se mi spiego.
Ben potrebbe tranquillamente aver archiviato questa relazione, aver archiviato me, per quello che ne so.
Non sarebbe legittimo pensarlo?
Dopotutto, se gliene fregasse qualcosa mi avrebbe chiamata.
E torniamo sempre al solito punto.
Quanto ci vuole a prendere in mano il telefono e a cercare una persona.
 
Molto.
Troppo, a quanto pare.
 
*
 
Ciò mi rovina il Natale e tutte le Feste.
 
Ci siamo visti qualche volta, per motivi di lavoro.
Lui mi è parso esitante, tormentato.
Io sono stata glaciale.
Non voglio aiutarlo a spiegarsi, giustificarlo o psicoanalizzarlo.
Che se la cavi da solo, accidenti.
Ha trent’anni: che tiri fuori le palle, se le ha.
E questa è una cosa di cui oltretutto, al momento, dubito seriamente.
 
L’altro giorno, da Sergei, ho scoperto che Ben rientrerà a Los Angeles subito dopo Capodanno.
Io, che all’idea di tornare a casa provo i contrastanti sentimenti di gioia immensa, nostalgia e oppressione soffocante, ho immediatamente deciso di fermarmi il più possibile.
«Tu quando rientri, cara?» mi ha chiesto il regista «Voglio che tu ti goda la famiglia, ma purtroppo gli impegni per l’Oscar…»
«Il più tardi possibile» ho risposto, atona.
«Oh, certo. Va bene se ci vediamo verso il…ehm… il 10 gennaio?»
Povero Sergei, lo so che non è colpa sua, ma al momento ce l’ho con tutti.
 
*
Prima della partenza, ho partecipato a un cocktail con il cast ma mi sono trattenuta il meno possibile.
 
Non sono in vena di feste… e dire che il Natale è il periodo dell’anno che amo di più.
Forse, semplicemente, tutti questi party mi hanno stancata.
Anche il dolce più buono, una volta che ne mangi troppo e per troppo tempo, perde il suo sapore inconfondibile.
Per me è un po’ così: l’allure glamour di queste feste e festicciole varie mi è venuto a noia.
O, magari, semplicemente in questo momento odio il mondo.
 
Mi sono comunque presentata, da brava soldatina: ben vestita, ben pettinata, ben truccata.
Mi sono portata Ashanti come scudo umano e lei non ha fatto una piega.
Ho sorriso e scambiato auguri con tutti.
Ben è venuto a cercarmi quando già puntavo bramosa la porta, meditando la fuga.
Si è avvicinato esitante e mi ha offerto un calice di champagne, che io ho rifiutato.
Mentre ci guardavamo, in silenzio, sono rimasta colpita dal fatto che Ben sembrasse a disagio.
Lui non sembra mai a disagio: è allegro, sicuro di sé, affascinante.
Avrà la coda di paglia, ne deduco.
 
«Allora…» si è schiarito la voce «Sei pronta a partire?»
Ho annuito.
«Sei felice di andare a casa?»
Altro cenno con il capo.
«Miki» ha sospirato, dopo un attimo «Pensi di non parlarmi più?»
«Al momento, veramente, non ho molto da dire» ho risposto «Tu, invece?»
Lui si è mordicchiato il labbro, nervoso.
«Non mi piace vederti così» ha detto, dopo un po’.
Io l’ho fulminato con lo sguardo.
«Così come, scusa?»
Lui ha fatto un gesto vago con la mano.
«È solo che…» ha iniziato, senza però poi finire la frase.
«Mi sembra che anche tu abbia qualche problema con le parole, al momento» l’ho informato, altezzosa «Ti auguro buon Natale»
Detto questo, ho voltato le spalle e me ne sono andata.
E questi sono stati i nostri auguri per le Feste.
 
No, anzi, non è andata esattamente così.
Ben mi ha anche mandato un anonimo SMS la notte della Vigilia.
Di bene in meglio.
 
*
 
E dire che, di solito, amo il Natale.
Adoro il Natale.
 
Invece, quest’anno, passo le Feste imbronciata, seccata e apatica.
Litigo con mia madre innumerevoli volte, per ogni sciocchezza: il centrotavola, il regalo allo zio lontano, le saponette per la vicina, le decorazioni dell’albero, la farcitura del pandoro.
So benissimo che ciò che la fa infuriare non sono queste cose, ma la mia attuale occupazione lavorativa.
La frase che le sento dire più spesso è: “Non sei più tu”.
Sarà.
A me sembra di essere sempre la stessa.
 
 
In realtà, anche mia zia Corinna, sorella di papà, afferma la stessa cosa.
Ma lo fa con un tono positivo e incoraggiante e che mi sorprende quanto mai.
«Ti trovo così bene, tesoro!» mi dice «Tua madre continua ad affannarsi e mi parla di perdizione e sventura, ma sei più bella che mai… E mi sembri anche più consapevole e matura, sai?»
«Non so, zia» giocherello con le frange del maglione mentre rifletto sulle sue parole «Forse, in parte, lo sono. Amavo l’idea di lavorare in una casa editrice… E la amo ancora. Lo vorrei tantissimo, ma vorrei che fosse un lavoro vero, degno di questo nome. Non voglio accontentarmi di una situazione irregolare e degradante perché al momento, per me, non c’è di meglio. Alla mamma Hollywood sembra un fuoco di paglia, e probabilmente ha ragione, ma lì almeno non mi fanno contratti da stagista per mansioni da professionista; mi pagano e mi trattano come una persona. O almeno… A volte mi sento un po’ un oggetto, ma per via di quello che rappresento, non per la posizione contrattuale inesistente»
Mia zia, che si occupa del controllo qualità di una grande azienda, annuisce comprensiva.
«La situazione in Italia, per voi giovani, è davvero nera. Ti dirò: io non ci vedo nulla di male, in quello che stai facendo. Non mi sembra che tu sia cambiata o – peggio – traviata, come teme tua madre. Prendila come una vacanza… E divertiti, finché puoi!»
Le sorrido.
«Me lo dice anche Luna, in continuazione»
«Ecco, vedi? Noi siamo felici per te, cara, davvero… Lo è anche quella testona di tua madre, in fondo in fondo. Ne sono certa. Luna come sta?»
«Benissimo. Passiamo Capodanno insieme»
Non vedo l’ora di scappare da qui, tra parentesi.
«Ah, che bello! Avere ancora l’età in cui il Capodanno è divertente… ah! Ma piuttosto dimmi… Non c’è qualche ragazzo carino, a Los Angeles?»
Mi strizza l’occhio, ma io mi irrigidisco all’istante.
«Assolutamente nessuno» rispondo, gelida.
 
*
 
A me il Capodanno non piace particolarmente, come festa.
 
Quando ero più piccola mi divertivo immensamente anche alla festa più insignificante: potevo fare davvero tardi, per una notte, e mi sentivo adulta e libera.
Ormai ha poco senso, in termini di feste, soprattutto dopo questi mesi a Los Angeles.
Ma il Capodanno ha ancora la componente per me vitale della fuga.
Io e Luna lo passiamo sempre insieme e anche quest’anno, come da tradizione, andiamo a sciare.
Per cinque giorni neve, piste ed esercizio fisico sono quello che riempie le mie giornate.
E mi va benissimo.
Finalmente inizio a sentirmi più serena: è l’effetto che la montagna ha su di me.
Più salgo in quota, più respiro aria gelida e mi concentro solo sulle curve e sul percorso, più mi rilasso.
È bello avere qualcosa in mente che non sia Ben, per un po’.
 
La sera del 31 trascorre tranquilla, in casa con degli amici.
Cuciniamo insieme, mangiamo seduti sui cuscini davanti al camino.
È una serata informale e io mi diverto, mi sento a casa.
Alle 23.15 mi arriva un messaggino di Ben.
Nei giorni dopo Natale mi ha scritto qualche SMS per chiedere come stavo e se mi stavo divertendo, senza dire nulla di più.
Ora mi scrive:
Auguri per un anno speciale… spero davvero che inizi con l’Oscar!
XXX
B
 
Con l’Oscar?
Io spero che inizi con lui ancora accanto a me.
 
Spengo il cellulare e torno a sedermi davanti al fuoco.
 
*
 
Le vacanze volano.
 
Parto per Los Angeles dall’aeroporto di Roma, infagottata nel piumino, carica di bagagli e con l’umore nero come il cielo di oggi, dopo l’ennesima litigata furibonda con mia madre a proposito di quello che lei pensa del mondo del cinema e del fatto che sto sprecando la mia vita.
Vorrei davvero capire quale ritiene che sia la mia alternativa, al momento.
Non è che ho rifiutato un contratto milionario in Italia, eh, mamma!
 
Sospiro e bevo un sorso del mio caffè.
Luna si volta a guardarmi:
«Sei pronta?» chiede.
Annuisco, ma leggo nei suoi occhi azzurri che vorrebbe chiedermi altro.
Se ho paura, magari.
Conosciamo entrambe la risposta, infatti Luna non aggiunge altro.
Dopo un po’, però, dice:
«Ci vediamo prestissimo a Los Angeles… Non c’è da essere tristi per questa partenza!»
La abbraccio di slancio.
Ogni volta che ci salutiamo mi sembra di perdere un pezzetto di me, anche se è assurdo.
Anche se so che la ritroverò sempre, non importa quanto lontane saremo e quante volte dovremo salutarci.
Luna però sarà con me a Los Angeles per gli Oscar: non potrei mai affrontarli senza di lei.
Mentre mi avvio ai controlli per l’imbarco la saluto agitando la mano e inizio a pensare che, con il nuovo anno, il traguardo dell’Oscar sembra sempre più vicino.
Luna, ormai lontana, sorride sbracciandosi e mi manda dei baci.
 
Buffo.
Non fa così paura, dopotutto.
 
*
 
Rientrare in America significa immergersi immediatamente nella consolidata routine delle apparizioni.
 
Il lavoro è più frenetico che mai.
Inizio a sospettare che Ashanti voglia punirmi per via delle mie vacanze prolungate, dato che mi ripete più e più volte che tutti, tutti, sono già rientrati da almeno una settimana.
«Io invece sono stata a sciare» la informo, gelida «Se non ti va bene, puoi sempre andartene»
Per un attimo, entrambe restiamo a fissarci in silenzio.
Io sono attonita.
Da dove mi è uscita, questa?
Poi lei china il capo.
«Scusami» dice, sbrigativa «Vuoi che ripassiamo il programma di oggi?»
Annuisco, ancora un po’ sotto shock.
Forse mia madre ha ragione.
Mi sto trasformando in qualcuno che non sono io.
Una strega, forse.
 
*
 
Incontro Ben dopo un paio di giorni, in un atelier.
 
Entrambi siamo qui per provare gli abiti che indosseremo agli Oscar.
Il mio è un sogno, devo ammetterlo.
Sono stata corteggiata da moltissimi stilisti e mi sono stati proposti outfit mozzafiato.
Scegliere è stato davvero difficile, anche perché Ashanti mi ha spiegato che la mia scelta sarebbe probabilmente coincisa con una collaborazione con il brand produttore.
Da far girare la testa: chi avrebbe mai immaginato, solo un anno fa, che mi sarebbe capitata una cosa del genere?
Che stilisti di fama mondiale mi avrebbero riempita di fiori, regali, inviti?
Che mi avrebbero pregata di indossare creazioni ideate appositamente per me?
Insomma, la mia esperienza con loro, fino ad oggi, si limitava a sguardi bramosi alle vetrine inarrivabili di via Condotti.
 
Comunque, la questione si è risolta da sola quando ho visto il bozzetto propostomi da Dior (Dior! DIOR!!).
Qualsiasi altro abito, al confronto, mi è parso pallido e insignificante.
E così, oggi, ho in programma la terza prova dell’abito, che finalmente ha preso forma sulla mia figura.
Avvolta in una seta pesante e luminosa, mi osservo allo specchio senza parole.
Mancano ancora le rifiniture e l’orlo definitivo, ma una volte prese le debite misure so che la prossima volta lo vedrò pronto.
Mi sembra incredibile.
Mi scatto una foto con il cellulare per mandarla a Luna e questo fa quasi venire un infarto alle sarte, che mi supplicano di non diffondere particolari sull’abito.
Ashanti interviene con un predicozzo memorabile sulla necessità di riservatezza e con un velato riferimento al contratto firmato, che ci impone una totale discrezione sul brand e sull’outfit: sarà Dior stesso a comunicare che mi vestirà per gli Oscar, il giorno stesso della premiazione.
Glielo dobbiamo, considerando quando costa questo abito.
Fidatevi: una cifra che non mi ha fatta dormire per una settimana, al pensiero che su questo vestito io devo sedermi*.
 
Mi defilo con discrezione prima che Ashanti riesca a farmi venire i sensi di colpa.
Gironzolo per l’atelier, sbirciando curiosa, tra gli abiti importanti che vedo sui manichini, quando mi imbatto in Ben che se ne va in giro con una giacca piena di spilli.
Lui mi guarda battendo le palpebre, in silenzio.
«Wow» dice, dopo qualche secondo che mi toglie il fiato «Sei… sei…»
«Piena di spilli?» butto lì, per smorzare la tensione.
Lui scuote il capo.
«Stupenda» mormora poi, a fior di labbra.
Sento una fitta al petto, a tradimento.
Per mascherare la confusione scrollo le spalle e ribatto:
«Probabilmente vedere i vestiti degli altri candidati porta sfortuna… Sai, come ai matrimoni»
Lui abbozza un sorriso, con gli occhi che ancora mi divorano.
«Vale la pena di giocarsi ogni possibilità, per vederti così»
Non so come rispondere e, imbarazzata, muovo un paio di passi all’indietro.
Vorrei dire qualcosa e, contemporaneamente, mi auguro che questo silenzio duri in eterno.
I suoi occhi sembrano promettere mille cose, sembrano darmi acceso ai suoi pensieri, ai suoi desideri…
 
E poi arriva Ashanti, che deve riportarmi alla prova.
 
È come una secchiata gelida in testa.
Anche Ben sembra accusare il colpo: riesce a salutarla con appena un cenno del capo, mentre lei mi prende per il braccio e mi trascina via.
Non riesco a resistere alla tentazione di voltarmi e guardare indietro: Ben è ancora lì, che mi fissa.
 
*
 
Non lo dico ad alta voce, ma questo incontro mi dà nuove speranze.
 
Oggettivamente, l’ultima cosa che dovrei fare è cedere a illusioni infantili.
Eppure, mi crogiolo nel ricordo dello sguardo di Ben, nella sua ammirazione.
So che l’attrazione tra noi è forte, come so che per me non è sufficiente.
Ma mi sembra di avere ancora una base, ancora una certezza che mi leghi a lui.
 
Resto in silenzio e vado avanti.
E, tra parentesi… avanti.
Andiamo avanti molto velocemente.
È come una corsa che, sul finale dello sprint, ti fa aumentare il ritmo.
Sempre più interviste.
Sempre più apparizioni.
Sempre più riunioni strategiche, prove, consigli e ammonimenti.
Fino al giorno in cui Ashanti cancella ogni impegno dalla mia agenda e si limita a dire:
«Riposati, domani è il grande giorno!»
 
Dovrei essere esaltata.
O spaventata.
O entrambe le cose.
 
Invece mi aggiro nella mia stanza d’hotel in preda allo smarrimento.
Sollevo e ripongo oggetti.
Mi alzo.
Mi siedo.
Prendo un libro e lo poso.
Accendo la tv.
Quando arriva il momento di andare a prendere all’aeroporto mia madre e Luna sono felice: almeno esco di qui.
Mi sembra di essere un animale in gabbia…
E dire che io detesto gli zoo.
 
 
Luna è tanto entusiasta quanto mia madre furiosa.
Nel tempo impiegato per uscire dall’aeroporto si è lamentata del volo, del cibo, della compagnia aerea, dell’aria secca, del clima innaturalmente caldo.
Ashanti la classifica immediatamente come elemento delicato e le si affianca con decisione.
Noto, con il passare delle ore, che fa in modo di non lasciarmi mai da sola con mia madre, probabilmente per non caricarmi di ulteriore tensione.
Non è che io sia proprio nervosa…
Sono abulica.
Mi sembra di osservare le azioni di qualcun altro dall’esterno, come se fossi al cinema.
Sono io questa ragazza seduta sul divano che ascolta la sua migliore amica chiacchierare allegramente?
Sono io che mostro i nuovi vestiti scintillanti appesi nell’armadio?
Io che, obbediente, rispondo, annuisco, commento temi senza importanza?
 
La cena è un’agonia, sembra procedere al rallentatore.
Chiedo a Luna di dormire con me, perché nelle ultime notti non ho chiuso occhio.
Lei accetta subito; mamma sembra aver ricevuto l’offesa del secolo.
Non le dico nulla: non ho forze per assorbire il suo malumore.
Luna, invece, sembra capire che non ho voglia di parlare.
Ci mettiamo i pigiami e ci infiliamo sotto le coperte.
Lei mi accarezza i capelli e mormora:
«Dormi: ci sono io»
 
Resto sveglia per ore a fissare lo schermo del cellulare: nemmeno un SMS da Ben.
 
*
 
La mattina dopo è la tempesta dopo la quiete.
 
Ashanti è fuori dalla mia porta a un orario disumano.
Mi trascina in un centro estetico come non ne avevo mai visti prima…
E dire che Hollywood mi ha abituata a vederne, di cose eccezionali.
Anche mamma e Luna sono con me, ma presto veniamo separate.
Io ho diritto a ogni tipo di trattamento e non interessa a nessuno sentire la mia opinione in merito.
Ceretta, massaggi, scrub, trattamenti… è una serie infinita.
A un certo punto smetto persino di chiedermi quando finiranno.
Il tempo mi sembra dilatato: so che stasera c’è il punto d’arrivo, ma sembra così lontano, così lontano…
La pausa pranzo arriva e passa senza che io abbia fame.
Una lezione di Ashanti sui tempi della serata, le cose da dire e quelle da non fare assolutamente dura un’infinità.
O solo pochi minuti, invece?
Il parrucchiere e la MUA arrivano seguiti da due squadre al completo.
Tutto questo per una persona sola?
Ma è inutile che io me lo chieda ancora: quando si tratta di Oscar, nulla è troppo.
 
Quando mi guardo nello specchio vedo un’acconciatura intricata ed elegante, con qualche ciocca che scende a incorniciare un viso truccato per un tempo infinito giusto per farlo sembrare naturale.
Poi il mio vestito viene cerimoniosamente portato nella stanza e Ashanti assieme a due sarte mi aiuta a indossarlo.
Calzo le scarpe – con tacchi vertiginosi – e allora, all’improvviso, diventa tutto vero.
Mi guardo allo specchio e ho paura di questa ragazza altissima, statuaria, che mi lancia nel riflesso uno sguardo implorante.
Quella… sarei io?
 
Sono senza parole.
Ashanti mi conduce fuori.
Due ragazze reggono lo strascico del mio abito mentre camminiamo in silenzio.
Quasi inciampo su un gradino e tre mani si precipitano a sostenermi.
Nell’atrio incrocio Luna e mia madre, entrambe vestite e truccate per l’occasione.
Mi guardano senza parole.
Io non riesco a dire nulla, ho il cervello completamente vuoto.
Ashanti ci fa passare da una porta laterale, molto discreta, per evitare che qualcuno veda il mio abito.
La limousine parte, efficiente, e si infila nel traffico.
Una mano calda stringe la mia.
Distolgo gli occhi dal finestrino oscurato per guardare Luna, che mi sorride incoraggiante.
Mamma mi sta ancora fissando a bocca aperta.
«Sei bellissima» mormora la mia amica e io annuisco, senza riuscire a risponderle.
Vorrei spiegarle che sì, effettivamente non mi sono mai vista bella come oggi, eppure non mi sento me stessa.
La voce non esce, per cui mi limito a stringerle la mano anch’io.
In un attimo – presto, troppo presto – siamo arrivate.
Ashanti mi dà istruzioni sul red carpet; non ci capisco una parola.
Annuisco obbediente.
Luna ora sembra più spaventata di me, all’idea di lasciarmi.
Ashanti, inflessibile come un generale con le sue truppe, le sta dicendo qualcosa sulla necessità di rispettare dei tempi serratissimi, quando mia madre si schiarisce bruscamente la voce e riesce a imporre un silenzio istantaneo.
La guardo e, per un folle attimo, penso che stia per trascinarmi fuori dall’auto per un braccio, strillando che queste cialtronerie americane la hanno stancata a morte.
Gliene sarei quasi grata, penso.
Invece, lei mi fissa in silenzio per qualche attimo e poi, improvvisamente, batte le palpebre un paio di volte.
«Sei… sei così bella» dice, all’improvviso.
 
Cala un silenzio attonito.
Nemmeno me la ricordo più, l’ultima volta in cui mia madre mi ha detto che sono bella.
«Sei…sono…» balbetta, poi si riprende «Sono così fiera della donna che sei diventata, Micol… Stavo pensando oggi che non te lo dico mai… Ma io lo penso. Sempre»
Scoppio a piangere.
Ashanti geme, mentre io mi catapulto in avanti, dritta tra le braccia di mia madre.
Ci stringiamo, mentre io singhiozzo e lei mi accarezza le spalle, rigida.
«Mamma, cosa sto facendo?» le chiedo, tirando su con il naso.
«Questo, tesoro, speravo lo sapessi» dice, con un’ombra della solita severità nella voce «Ma, francamente… solo tu potevi riuscire in un’impresa tanto folle… e sei così giovane! Voglio dire, non è certo la strada che avevo sperato tu intraprendessi, ma… Al diavolo, potrai anche divertirti un po’! Non devi essere come me, sai»
Mi prende per le spalle, per guardarmi negli occhi.
Mia madre, che mi rimprovera di non essere come lei da quando avevo dodici anni.
«Ma…» balbetto.
«Niente ma!» mi interrompe «Tu sei tu, e questo lo so bene. Ne sono orgogliosa. E anche se non ti dico mai che sono fiera di te, io… Io lo sono. Davvero»
Mi asciuga le lacrime con dita gentili e poi schiocca la lingua.
«Ho fatto un pasticcio, Ashanti» dice, ridiventando subito la donna inflessibile di sempre «Hai per caso la truccatrice a portata di mano?»
Ashanti sta già parlando al cellulare.
Con una mano stretta a quella di mia madre guardo Luna, che ha le lacrime agli occhi ma mi sorride.
A fatica, vista la gonna ingombrante che indossa, viene a sedersi accanto a me e mi prende l’altra mano.
Attendiamo in silenzio fino a quando una portiera si apre e una ragazza si infila veloce nella limousine e tira subito fuori un astuccio del trucco.
Mentre mi sistema il viso, Ashanti mi guarda preoccupata.
Le sorrido.
«Ce la faccio, non preoccuparti» le dico «Non farò disastri lì fuori»
«Certo che non li farai!» esclama mia madre, secca, come se l’idea che sua figlia potesse essere meno che perfetta la offendesse a morte.
Quando la ragazza ripone i pennelli, mamma e Luna mi salutano e sgusciano fuori dalla portiera sinistra, dopo la truccatrice.
Mamma mi bacia velocemente la fronte, Luna mi abbraccia.
E resto sola.
Ashanti mi fa un cenno e poi apre la portiera di destra.
Vedo flash accecanti e pressanti come mitragliatrici bombardare l’auto.
Cerco di nascondere un tremito mentre mi avvicino alla portiera, pronta a scendere.
 
 
 
* 4 milioni di dollari è la cifra dell’abito fiore indossato da Jennifer Lawrence agli Oscar 2013. Sì, è quello del capitombolo. 4 milioni, Jen!
Eccolo qui (indossato da una modella che è decisamente più brutta di JLaw):

Dior


***
Non riuscivo a decidermi a smettere di scrivere.
Poteva diventare un capitolo infinito... Ma, alla fine, questo mi sembrava il momento migliore per interrompermi.
Cercherò di non lasciarvi aspettare troppo per scoprire cosa succede ora.
Siccome mi pare inutile scusarmi dei miei ormai consueti ritardi, lasciatemi ricordare Umberto Eco, che ci ha lasciati una settimana fa, il suo lavoro, la sua sete di conoscenza.
Ho lavorato con lui e lo ammiravo sconfinatamente per la passione che lo animava e per essere la dimostrazione vivente di quella che la cultura umanistica produce: l'amore per le lettere, il mondo, la vita.
Ciao Umberto, ti siano lievi le stelle.

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Capitolo 30
*** XXX ***


Quando la necessità ci porta a usare parole sincere, cade la maschera e si vede l'uomo.
Lucrezio





Una mano forte stringe la mia e mi aiuta a uscire dall’auto.
 
Alzo gli occhi e resto accecata dai flash.
Batto le palpebre e, mentre Ashanti mi sistema lo strascico dell’abito, metto a fuoco il sorriso scanzonato di Ben.
La mia mano è ancora stretta nella sua e lui si china a baciarmi sulla guancia.
«Pronta?» chiede, come se fosse normale trovarci qui, adesso.
Insieme.
 
Annuisco.
Ashanti si rialza, mi dà un’ultima occhiata e annuisce.
«In bocca al lupo» dice soltanto «Ricordati di citare i produttori nel discorso di ringraziamento se…»
«Se vincerò» la interrompo «Regista, produttori, sceneggiatore, troupe. Ma tanto non vincerò»
Lei sorride, serafica.
«Lo vedremo» dice, prima di sparire nella folla.
 
 
Muovo i primi passi sul tappeto rosso stretta al braccio di Ben.
Lui sorride con naturalezza, ma è attento a ogni mia espressione.
Sembra così rilassato che non posso fare a meno di dirgli:
«Sembra che tu ti stia divertendo un sacco»
Scoppia a ridere.
I flash ci bombardano.
«Tu non ti diverti?» chiede.
«Non lo so» rispondo con sincerità «Non l’ho ancora capito»
La sua mano copre brevemente la mia.
«Abbiamo tante ore per scoprirlo… Questa notte è ancora lunga»
Ci fermiamo ogni pochi passi per farci fotografare.
Attorno a noi è un delirio.
Fotografi che gridano, giornalisti che balzano in avanti brandendo i microfoni; telecamere che zoomano.
«Non ho mai pensato che il red carpet degli Oscar somigliasse al mercato del pesce» commento a un certo punto.
Ben ride di nuovo.
«Spero che lo dirai anche sul palco, quando ringrazierai l’Academy per il tuo Oscar!»
Arriccio il naso, consapevole che se Ashanti fosse qui me ne direbbe quattro.
«Vedremo» rispondo «Tu hai il discorso pronto?»
Lui fa un sorriso enigmatico.
«Forse. Non dico nulla… scaramanzia, sai»
«Non pensavo fossi scaramantico!»
«Tesoro, sono un attore» sorride Ben «Certo che sono scaramantico»
«Io non sono pronta, ma non dirlo ad Ashanti. Ho fatto finta di studiare e di accettare tutti i suoi suggerimenti»
Ben mi sorride dolcemente.
«E invece?» chiede «Non ti piacevano?»
«No, è che non posso impararmi le cose a memoria: si capisce appena apro bocca che sto ripetendo. Mi affiderò all’ispirazione… Se mai servirà. Ma non servirà»
Ben sorride ancora e mi stringe brevemente la mano.
«Sei pessimista di natura o è scaramanzia?» domanda, divertito.
«Sono razionale di natura» dico, convinta «Dovresti saperlo»
«Lo so, infatti. Ma questa serata è diversa… Dovresti concederti di essere folle, imprudente e irrazionale»
«Perché mai? Posso godermela lo stesso… Anzi, me la sto godendo lo stesso! Che diamine, sto sfilando sul tappeto rosso degli Oscar! Posso godermelo da donna razionale. Essere qui è già il mio traguardo»
Ben scuote il capo.
«Dovresti volere di più, Miki. Per te, per la tua famiglia… Puoi toccare il cielo: perché fermarti a questo tappeto rosso?»
«Non è che non voglio volare, anzi… Ma penso sia importante anche riconoscere i traguardi intermedi. Sai, a volare si rischia comunque di schiantarsi»
Altro sorriso mozzafiato.
«Fino a ora pensavo fossi tu quella coraggiosa, tra noi due»
Gli lancio un’occhiatina di sottecchi, prima di ribattere:
«Per certe cose lo sono certamente»
 
Ci fermiamo davanti a una giornalista seguita da un cameraman.
Sorridiamo automaticamente, ma vedo che Ben ha colto la mia allusione.
La giornalista ci intervista velocemente, attorno rimbombano voci, risate e saluti.
Mi chiede del mio abito, se sono emozionata.
Le solite domande banali.
Ci liberiamo velocemente e veniamo agguantati da un altro giornalista.
La trafila delle interviste procede per un po’, finché non artiglio il braccio di Ben in un attimo di panico.
«Che succede?» fa subito lui, preoccupato.
«Non voltarti!» gli bisbiglio «Dietro di noi c’è Leonardo di Caprio!»
Ben scoppia in una fragorosa risata.
Mi trattengo appena in tempo da sbottare in modo poco elegante.
Le persone vicine a noi ci guardano con curiosità.
«Cosa ridi?» bisbiglio, furiosa.
Lui si morde un labbro.
«Attenta, bisbetica. Stai spaventando Cate Blanchett»
Mi giro a bocca aperta e lui ride di nuovo.
«Oh, Miki» scuote il capo «Ma davvero non te ne rendi conto? Sei a Hollywood, piccola»
«Lo so, lo so» borbotto.
Insomma… Lo so, me lo dicono tutti…
Ma essere qui, ora, è un altro paio di maniche.
 
 
Quando raggiungiamo l’ingresso del teatro sono sfinita da tutti questi sorrisi.
Che ansia doversi mostrare sempre raggianti e impeccabili.
Qui sembrano tutti sereni, mentre io ho i crampi a forza di tenere la schiena ben dritta, ho fame e vorrei togliermi le scarpe.
Incontriamo Sergei, che ci abbraccia velocemente.
«Pronti per vincere, ragazzi?» domanda, contento.
Non aspetta risposta e anzi ci spinge in direzione di Julianne e Jeff, che ci salutano velocemente e si mettono in posa con noi per altre foto.
«La cosa più bella che ti è successa oggi?» mi chiede a un certo punto Jeff, sistemandosi la cravatta.
Sospetto che questo continuo posare per le foto lo annoi a morte.
Gli sorrido.
«Mia madre che mi ha detto che sono bellissima»
Bridges sembra stupito, poi scuote il capo.
«Allora meriterà un ringraziamento speciale, dal palco degli Oscar!»
Scuoto il capo.
«Non capisco se siete scaramantici o lo fate appositamente per farmi innervosire»
Sergei ridacchia.
«Stai veramente chiedendo a un attore se è scaramantico?»
Ben gli fa subito eco:
«Gliel’ho detto anche io»
Si guardano scuotendo il capo, mentre Julianne si china verso di me e bisbiglia:
«Non ascoltarli… Sei stupenda stasera tesoro! Goditi la festa e non permettere a nessuno di rovinartela»
Le sorrido, grata, e lei aggiunge:
«E, giusto nel caso poi succeda davvero… ricordati di ringraziare solo me e non questi due orsi, dal palco!»
Ridiamo tutti, quindi una pr ci fa garbatamente cenno di entrare in teatro.
Ben mi si affianca e mi offre il braccio.
«Non mi ringrazierai, allora?» mi punzecchia.
Lo guardo di sottecchi.
«Non credo lo vorresti» ribatto, leggera «Pensavo che la tua privacy vincesse su tutto, anche sui ringraziamenti della notte degli Oscar»
Lui finge di pensarci su.
Almeno, credo che finga.
«Be’… stanotte è diverso» dice poi «Tutto è permesso»
«Vuoi un ringraziamento speciale?» lo sfido «Davanti a tutti?»
Lui sorride.
«Stai pensando di vincere, quindi»
«Assolutamente no» rispondo.
 
Ma, ovviamente, di fronte alla sua sfida mi sono subito infiammata.
La mia mente sta già componendo parole per lui.
Parole pericolose, che espongono il mio animo e che temo Ben non sia pronto a sentire.
Mi do una scrollata mentale: a che serve, dopotutto?
La mia regola non era forse quella di rilassarmi e godermi il momento.
Ecco: è pericoloso indulgere in fantasie inutili.
Ormai dovrei averlo imparato.
 
*
 
Il fatto è che ci credevo davvero.
Ci credevo con tutta me stessa.
 
Quindi, quando chiamano il mio nome dal palco, sul momento non reagisco.
Resto seduta, a fissare lo schermo gigantesco del teatro che mi rimanda l’immagine enorme del mio viso, attonito, in diretta mondiale.
 
È Ben che mi tira in piedi e mi abbraccia per primo.
Mi dice qualcosa, sorride, ma io non capisco.
Passo dalle sue braccia a quelle di Julianne, di Bodrov, di Jeff.
Poi arriva Luna, che piange, e poi mia madre, che sembra più spaventata di me.
Mi aggrappo forte a lei, contro ogni logica, ma dopo un attimo mamma si scosta dolcemente e mi dice:
«Vai tesoro, vai»
Con una carezza fa un passo indietro e io guardo ancora il festoso gruppo che mi circonda.
Stanno tutti gioendo, gioendo per me, ma io all’improvviso mi sento sola.
Devo salirci da sola, su quel palco.
Non può andare nessuno al mio posto.
 
Raddrizzo le spalle, mi volto e muovo qualche passo esitante.
Sento la gonna che fruscia, la seta che mi accarezza le gambe.
Un passo.
Un altro ancora.
Salgo timidamente i gradini del palco.
Vengo accolta da sorrisi gentili e mi viene messo tra le mani l’Oscar.
Abbasso gli occhi sulla statuetta: è pesante e fredda tra le mie mani.
Quando alzo lo sguardo e vedo una platea enorme che applaude improvvisamente è come se tornasse il sonoro: sento le voci, le grida festose.
C’è un gran fracasso… ed è per me.
Tutto per me.
Ho la testa completamente vuota. Potrei restare qui, imbambolata, per sempre.
Poi, all’improvviso, un pensiero mi balena in mente.
Buffo. Non avrei mai creduto che potesse essere questa la molla.
Non posso deludere mia madre, non adesso.
Stringo forte la statuetta e avanzo verso il microfono.
Ok. Ce la posso fare.
«Grazie… Grazie a tutti» esordisco, incerta.
 
Oddio, perché sono tutti in silenzio e mi ascoltano?
Come si fa a tenere un discorso qui sopra?
Davanti a Leonardo Di Caprio, per di più?!
 
E poi, per fortuna, come mi succede sempre nei momenti di maggiore stress, il mio cervello si scollega dalle labbra e quelle vanno avanti da sole.
«Grazie per questo incredibile momento che mi state regalando» proseguo, con voce che si fa più sicura e forte «Non avrei mai immaginato potesse succedere a me. Giuro che non è una frase di circostanza. Un anno fa ero una stagista senza prospettive… E guardatemi ora!»
Percorro con lo sguardo la platea, finché non trovo il viso sorridente che stavo cercando.
«Quindi il mio primo ringraziamento è per te, Sergei Bodrov: grazie per avermi convinta che non era un’idea stupida accettare di fare questo film»
Il pubblico scoppia a ridere e io riprendo fiato.
«Grazie per la pazienza con cui mi hai seguita, capita e accettata. Grazie a Jeff, Julianne, Kit e tutti quelli che hanno lavorato con me sul set: ora non riesco a ricordare tutti – e so che la mia pr mi ucciderà per questo – ma voglio ringraziarvi di cuore per avermi fatta sentire, dal primo giorno, una di voi»
Riesco a infilare nel mio discorso almeno i produttori e spero che questo plachi Ashanti, ma probabilmente commetto una dozzina di errori di bon ton cinematografico.
Pazienza: c’è qualcosa che mi preme ben di più.
«Grazie a Luna, mia sorella: non c’è momento nella vita in cui non mi sei stata accanto e so che ora mi dirai che te lo aspettavi, che per te era scontato che vincessi io, perché tu credi sempre in me… Ma io no, non sono brava a credere in me stessa, e avere te al mio fianco mi rende la persona più fortunata della terra»
Luna è in piedi e sta battendo le mani forsennatamente.
«Grazie mamma per essere qui stasera» la mia voce si incrina un po’ «So che non è questo che volevi per me… E francamente nemmeno io so bene cosa sto facendo, ma averti qui, adesso, significa tutto. Io… io cerco sempre di somigliarti, anche se non mi riesce ancora bene: guardo alla tua forza, alla tua determinazione e ai tuoi successi e spero di riuscire a replicarne almeno una parte. Non so se ne sarò capace... Ma ci provo. Ogni giorno»
Vedo mia madre nascondere il viso tra le mani: non capisco se sta piangendo oppure no.
Da parte mia, sento le lacrime che corrono liberamente sulle guance e con una mano cerco di limitare il disastro.
Spero che il mascara che mi hanno messo sia waterproof… Oppure ormai somiglierò a un panda.
«In ultimo, ma non meno importante… Grazie Ben, per ogni singolo giorno, per le risate, i consigli… per tutto. Se penso a quanto sia bello questo momento per me, non è l’Oscar che mi viene in mente»
Ormai piango, sorrido e singhiozzo insieme, per cui mi sembra una buona idea quella di lasciare il campo, prima di rovinare tutto balbettando istericamente.
Sollevo la statuetta e accenno a un inchino.
C’è tantissima gente in piedi che batte le mani, ci sono flash e voci…
Non capisco più bene cosa succede: mi accompagnano a lato del palco e mi fanno scendere.
Ci sono persone sconosciute che mi stringono la mano, che mi abbracciano, che mi rivolgono complimenti e domande.
Io sono ammutolita.
All’improvviso, per fortuna, un braccio forte mi circonda la vita e mi accorgo che Jeff è accanto a me, alto, forte e protettivo.
Gentilmente, mi sospinge verso i posti del nostro gruppo.
A fatica riguadagno la mia poltrona: mi lascio sprofondare e vengo subito circondata da mia madre e da Luna. Julianne cambia persino poltrona per lasciare loro spazio.
Non parliamo (io probabilmente nemmeno ci riuscirei) ma stringo forte le loro mani e cerco di fingere di ascoltare la cerimonia che prosegue.
In realtà sono scombussolata, tesa e sussulto ogni volta che vedo qualcuno guardarmi, indicarmi o farmi una foto.
 
Si susseguono altri premi; io sono totalmente disinteressata.
Il tempo sembra passare in blocchi disomogenei.
Un attimo vedo Kate Winslet, quello dopo Mattew mcConaughey.
E all’improvviso siamo di nuovo tutti in piedi: Seventh Son vince l’Oscar per la sceneggiatura.
È un omaggio dovuto al grandissimo Dante Ferretti e il cast gli tributa un applauso infinito.
Il suo discorso è garbato e pieno di stile ed è così carino da dedicarmi due parole, rallegrandosi della vittoria di entrambi per il film.
Prima che la serata sia finita, Ashanti mi si avvicina discretamente e mi fa cenno di seguirla.
Mi alzo e mamma e Luna mi imitano subito.
Passando lancio un’occhiata a Ben, che mi sorride e strizza l’occhio.
 
Ashanti mi conduce in un camerino, perché mi venga risistemato il trucco.
E, finalmente, mi sembra di tornare a respirare.
Abbasso lo sguardo sulle mie mani, che stringono la statuetta.
«Oh, wow» dico «Wow! Ma… Ma come è possibile tutto questo?»
Luna mi stringe in un abbraccio.
«Mic, sei stata incredibile! Stupenda! Voglio dire: ero sicura che avresti vinto, non avevo dubbi, ma poi… Non so, eri lì sopra, in piedi sul palco… ed eri così bella! Io… Io non ci ho capito più nulla!»
«Già» annuisce mia madre.
Anche lei sembra sottosopra, esattamente come me.
Forse ci assomigliamo più del previsto.
«E hai fatto un discorso bellissimo!» aggiunge Luna, impetuosamente «Così spontaneo! Non riuscivo a smettere di piangere!»
Incrocio lo sguardo di mamma e sento le lacrime riempirmi nuovamente gli occhi.
«Su, su!» fa lei, brusca, ma con gli occhi rossi «Ti cola tutto il trucco se piangi!»
«Sta arrivando la MUA» dice Ashanti «E il discorso non andava bene per niente: ti sei dimenticata metà dei ringraziamenti che dovevi fare»
Ma sorride: si vede che è felice anche lei.
Le tendo la mano.
«Non ti ho ringraziata» dico «Ma avrei dovuto: mi hai portata tu qui. Non sarei durata due giorni, senza di te»
Ashanti sembra imbarazzata.
«Ho fatto solo il mio lavoro…» ribatte.
Salto in piedi e la stringo in un abbraccio.
«Grazie» mormoro «Davvero»
Mi abbraccia anche lei, quindi mi risiedo per farmi truccare di nuovo.
Dopo qualche minuto di silenzio inizio a rilassarmi, almeno finché Ashanti non dice:
«Bello il ringraziamento a Ben, alla fine»
Mia madre assottiglia subito lo sguardo.
«Infatti» dice «L’ho notato anche io!»
Divento cremisi, ma per fortuna Luna corre in mio soccorso:
«Milena, ma se stavi singhiozzando come una pazza!» dice alla mamma «Non è possibile che tu abbia sentito nulla!»
Ashanti ridacchia, mia madre sbuffa.
«Io ci sento benissimo» ribatte «E comunque, chi è questo Ben?»
«E che lavoro fanno i suoi genitori?» chiede Luna, imitando il suo tono altero.
 
Io mi tormento le mani.
In effetti… cosa ho detto?
Avrò mica esagerato?
Sul momento ho proferito le parole che mi sono venute dal cuore, ma…
A conti fatti non so se Ben possa averle apprezzate.
A prescindere dagli scherzi sul red carpet non so se ci credeva davvero, fino in fondo.
Io, di sicuro, no. Assolutamente no.
 
Non ho molto tempo per commiserarmi, tuttavia.
Battibecco con Ashanti perché non voglio cambiarmi d’abito.
Lei insiste che tutti si cambiano per l’after party; io me ne frego.
Questo vestito è un sogno e voglio tenerlo addosso il più a lungo possibile.
 
Devo posare per le fotografie per un tempo infinito, quindi vado a farmi incidere sulla targhetta dell’Oscar il nome.
È il momento forse più emozionante e lo condivido con mamma e Luna.
Tutte e tre fissiamo in silenzio la ragazza che delicatamente prepara la mia targhetta, mentre tutto attorno scattano i flash.
Quando mi ricongiungo con il cast è notte fonda.
Vengo accolta da un applauso fragoroso e io, miseramente, scoppio in lacrime.
Ashanti geme per il trucco, Julianne corre ad abbracciarmi e Jeff scoppia a ridere fragorosamente.
Io, a dirla tutta, non ne posso più; eppure la notte è ancora lunga.
Mia madre rifiuta di venire al celebre party di Vanity Fair; Luna, dopo aver studiato Ben con aria assorta, scuote il capo e dice che andrà a dormire.
Io mi oppongo, ma lei non cede.
«Vai a divertirti con lui» mi bisbiglia nell’orecchio «Noi ci vediamo domani»
 
Senza Luna mi sento persa.
Non posso affrontare tutta questa gente che mi guarda come se fossi l’attrazione principale allo zoo.
Insomma, so che le spose si agitano nel giorno del matrimonio perché sono sotto la lente di tutti; ma almeno quelli sono parenti e amici.
Questi sono estranei.
Estranei abituati a ben altre dive, per di più.
 
Automaticamente cerco Ben, ma lui sembra schermirsi.
«Ecco…» dice «Forse non… forse dovresti andare da sola, Miki… dopotutto sei quella che vogliono vedere tutti…»
Non faccio quasi in tempo a restarci male che uno dei produttori piomba su di noi come un falco.
«Ben, accompagnala!» esclama, perentorio «Siamo tutti un cast e stasera festeggiamo insieme! E poi da quando si delude una signora così bella?»
Ben arrossisce, borbotta una scusa, poi mi porge il braccio.
Lo prendo, ma sono ancora perplessa.
Il punto è che non abbiamo modo di parlarne: in macchina non siamo soli; al party entriamo in massa e ci dividiamo solo per le foto.
 
Ed è un vero delirio.
Gente che mi chiama, che viene a presentarsi, che mi coinvolge in lunghe chiacchierate nemmeno fossimo amici di vecchia data.
Giornalisti che mi subissano di domande, pr e registi che mi offrono lavori su due piedi.
Presto sono terrorizzata.
Ben non si muove dal mio fianco – e sospetto che in parte dipenda dagli sguardi omicidi che i produttori ci rivolgono dal bordo della pista da ballo – ma non sembra a suo agio.
Ci chiedono mille volte se stiamo insieme.
 
Ok, lo so: è colpa mia.
Del mio discorso, almeno.
Devo rimediare, prima che Ben mi uccida.
Quindi sorrido e rispondo a tutti che no, siamo solo amici. Solo colleghi.
Dubito ci creda qualcuno, ma io tengo il punto.
 
Verso le quattro del mattino sono spossata.
Mi appoggio al fianco di Ben e mormoro:
«Non ce la faccio più. Scappiamo?»
Lui si guarda attorno, indeciso.
«Ci uccideranno» osserva.
«Non importa, me ne assumo la responsabilità. Se resto ancora cinque minuti non rispondo di me»
Lui fa un sorriso, poi mi prende la mano e si dirige deciso verso la porta.
«Dovrai abituarti, party girl» mi stuzzica.
«Per carità!» borbotto «Mi sento soffocare… Non c’è proprio nulla di divertente!»
«Non sei felice di essere la reginetta della festa?» chiede lui, evitando abilmente un tizio che ci fissa da mezz’ora, aspettando l’occasione di braccarci.
«Non sembra tanto una festa… O almeno, io non conosco nessuno»
«E cosa sembra?»
«Un carrozzone» rispondo, convinta.
Lui ride.
«Non hai tutti i torti»
 
In macchina, mi appoggio contro lo schienale.
Restiamo in silenzio, Ben guarda fuori dal finestrino.
Allungo la mano e cerco la sua.
Le nostre dita si intrecciano, ma non ci diciamo una parola.
All’improvviso, Ben si china in avanti e dà all’autista l’indirizzo di casa sua.
Io non dico nulla, lui non mi chiede niente.
Quando arriviamo, scende e mi tende la mano.
«Troppo stanca per un ultimo ballo?» chiede a bassa voce.
Scuoto il capo, mentre raccolgo nella mano libera lo strascico dell’abito.
 
Appena tocco il marciapiede mi stringe tra le braccia e io, finalmente, mi sento al sicuro.
 
 
***
Carissimi lettori, eccomi qui!
Non sono sparita, lo giuro. Solo che lavoro tantissimo e questo purtroppo rallenta enormemente la scrittura e persino la lettura. Volevo solo rassicurarvi che ci sono, che non vi abbandono!
Vi ricordo anche che mi trovate su Facebook: al momento sono perseguitata da una stalker (internet è uno strano ritrovo di pazzi, a quanto pare), per cui se mi vedete sparire non temete, è colpa sua, ma io torno sempre!
Sono qui: 
https://www.facebook.com/Joy10Efp/
e qui:
https://www.facebook.com/profile.php?id=100011928871523&fref=ts
Grazie per il supporto che mi dimostrate continuamente, vi adoro!
Vostra, 
Joy




 

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Capitolo 31
*** XXXI ***


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Alea iacta est
Svetonio* 



Rientro in hotel quando il sole è già alto, con i capelli sciolti e i tacchi alti in mano.
 
Mi volto prima di varcare le porte a vetri e vedo Ben che mi saluta con la mano prima di immettersi con l’auto nel traffico, già vivace e caotico.
Che notte incredibile.
Al momento non riesco ad analizzare tutto: sono stanchissima.
Mi appoggio con la schiena a una parete dell’ascensore e rivedo nella mente dei flash delle ultime ore.
Il red carpet. Il palco. L’Oscar. I flash accecanti.
E Ben.
Ben che mi resta accanto. Ben che mi porta a casa sua, che fa il bagno con me nella sua enorme Jacuzzi.
Che mi scioglie dolcemente i capelli dalle forcine e che li osserva aprirsi a corolla nell’acqua.
Che fa l’amore con me per quello che rimane di questa notte unica, dolcemente e a lungo.
 
Mi sento una ragazzina che si intrufola di nascosto a casa dopo una notte di bagordi, mentre salgo alla suite nel lussuoso ascensore.
L’addetto dell’hotel finge di non vedermi mentre mi sistemo nervosamente i capelli.
Quando arriviamo al piano mormoro un ringraziamento frettoloso e mi fiondo alla porta.
Cammino in silenzio, sperando che mia madre non sia sveglia.
Ma non si vede nessuno in giro.
Mi chiudo in camera e mi osservo allo specchio: sono un disastro.
Capelli mossi e fermati con un elastico, il mio abito meraviglioso completamente stropicciato.
 
Sono radiosa.
 
In che guaio mi sono cacciata?
 
*
 
Dormo fino al pomeriggio, ma quando mi sveglio sono comunque esausta.
Faccio una doccia, mi vesto con una tuta da ginnastica e non mi trucco.
Quando compaio nella sala da pranzo della suite mia madre mi guarda e fa un cenno d’approvazione.
«Sembri una bambina» dice, mentre la abbraccio.
Ne sembra contenta: probabilmente anche lei sta cercando di appigliarsi a ogni traccia di normalità residua.
Luna mi stringe in un abbraccio soffocante e poi mi passa una tazza di yogurt e frutta fresca.
«Allora» dice, tutta allegra «Quali sono i piani della nuova star di Hollywood?»
Alzo gli occhi, all’improvviso terrorizzata.
«Ehm…» dico «Non ne ho idea?»
 
Ovviamente, invece, Ashanti ha idee ben precise.
Un appartamento in affitto.
Tutto mio. 
Io, che non ho mai avuto una casa mia, all’improvviso avrò una villa a Los Angeles!
Saltello euforica sul divano e Luna continua a lanciare ululati di gioia.
E poi… Contratti di lavoro.
Shooting fotografici.
«La fama va coltivata» dice Ashanti con aria saggia.
Mia madre, con mia enorme sorpresa, annuisce, anche se non sembra felice.
La guardo perplessa e lei sembra capire le mie domande inespresse.
«Ora non puoi tirarti indietro, Micol» mormora «È troppo tardi»
«Sì, però mica è una cosa brutta!» esclama Luna «Cioè… a meno che tu non impazzisca, Mic, e non diventi una di quelle star fuori di testa che entrano ed escono dal rehab…»
Gli occhi di mia madre lampeggiano minacciosi.
«Ci mancherebbe solo questo!» esclama, con l’aria che usa per terrorizzare i clienti indisciplinati.
Ashanti interviene prontamente e ci chiede se vogliamo già vedere oggi qualche casa da affittare, salvandoci da una bella litigata sul mio futuro prossimo.
 
*
 
E così passiamo qualche giornata a vedere appartamenti.
 
È tutto talmente faraonico che dubito potrei scegliere male.
I prezzi sono vertiginosi: sentiti i primi mia madre si indigna e Luna ha un mezzo collasso.
Io sono terrorizzata: come posso pagare cifre del genere?
Ma Ashanti, serafica, afferma che devo abituarmi a quelli che definisce “i miei nuovi standard”.
Sospetto che mia madre stia per ucciderla.
Luna e io ci divertiamo come due pazze e la mia amica inizia a sostenere che non dovrei accontentarmi di nulla di meno che due piscine (fronte e retro della casa) e una Jacuzzi in ogni stanza.
E il bello è che ad alcuni agenti immobiliari non sembra neppure una pretesa folle.
Annuiscono e mi dicono che posso fare ciò che voglio, quando e come voglio.
«Mamma» dico, al termine di un ennesimo giro per ville «Ti prego, sceglimi una casa!»
Lei – inaspettatamente – si illumina e, mentre recluta Ashanti per valutare i contratti che le sembrano più interessanti, io e Luna ci diamo alla pazza gioia.
La porto a qualche party e a fare una valanga di shopping, il tutto secondo i miei nuovi metodi.
Inviti esclusivi, quindi, e stilisti che ti invitano nei loro atelier a vedere capi che non vendono nei negozi, ma che restano riservati.
Con Luna tutto questo non mi spaventa più: anzi, si tratta di un enorme, gigantesco scherzo.
Con Luna mi sento sempre al sicuro.
 
Ovviamente, alla fine, lei e Ben si incrociano.
Non so a che punto ormai si collochi il nostro rapporto, ma so per certo che amo averlo accanto a me.
Luna è gentile, ma non posso non notare che il suo saluto e la sua conversazione mancano di calore.
Sa essere affabile ma contemporaneamente gelida, quando vuole.
Ben lo percepisce subito e si adatta al suo tono: parlano, sembrano amichevoli, ma nessuno dei due manifesta il desiderio di passare più tempo insieme.
Io me ne frego: ho bisogno di entrambi.
Loro lo sanno e non obiettano mai quando organizzo appuntamenti in cui sono presenti entrambi.
Mi aspetto che Luna mi dica qualcosa, se non altro, ma lei tace.
Anche Ben non dice neppure una parola che possa far pensare che non le sia affezionato.
Eppure… è così strano quando le due persone più importanti della tua vita sembrano, semplicemente, lontane e incompatibili.
 
*
 
Come uno struzzo, metto la testa sotto la sabbia.
 
Sono decisa a godermi la mia meravigliosa amica e il mio meraviglioso ragazzo.
Punto e basta.
Il guaio è che, nella mia vita, sembra non esserci più nulla di “facile”.
Se esco a mangiare un gelato sono inseguita dai paparazzi.
Se mi presento a una festa finisco su tutti i giornali.
Viene analizzato qualsiasi dettaglio che mi appartenga, per quanto piccolo e irrilevante.
Come mi vesto.
Che borsa indosso.
Che braccialetti sfoggio.
Come mai ho scelto delle scarpe a punta tonda.
Quanto sono alti i miei tacchi.
A nessuno sembra minimamente passare per l’anticamera del cervello che se scelgo una cosa lo faccio perché piace a me.
A me e basta.
Invece no: dietro ogni particolare sembra nascondersi una legge del marketing.
Le mie acconciature sono passate ai raggi X.
Il mio colore di capelli fa tendenza.
La marca del mio blush color pesca diventa trend topic su Twitter.
Se mi faccio la piastra, escono copertine di giornali sulla notizia.
 
Tempo una settimana e sono già terrorizzata.
E non mi sento capita, perché più io mi spavento, più Ashanti gongola.
Quando mia madre e Luna fanno le valigie per tornare a casa mi viene una crisi d’ansia e in cinque minuti decido che voglio tornare a casa anche io.
Ashanti non batte ciglio, si limita solo a dire:
«Ottima idea sparire quando tutti ti cercano!»
«Ma io non lo sto facendo per strategia!»
Mi strizza l’occhio.
«Anche meglio» esclama.
Chiamo Ben per dirgli che che trascorrerò una decina di giorni in Italia e lui non sembra sorpreso.
«Troppa roba, eh?» si limita a chiedere.
«Sì» rispondo, funesta «Ho paura a uscire dall’albergo»
«E pensa a quando ti troverai fotografi appostati fuori dalla tua nuova, principesca dimora!»
Inorridisco.
«Ma non possono! O… o sì, invece?»
Scoppia a ridere.
«Tranquilla» mi rassicura «Ashanti può sempre fare loro causa»
Sospiro.
«Non so se tutto questo mi piace»
«Non dirlo. Fa parte del pacchetto: è tutto compreso. Oscar, gloria, maniaci che ti osannano»
Arriccio il naso.
«Ma si stancheranno presto… vero?»
«Miki, per la tua carriera è meglio che non si stanchino, veramente»
«Ma io non voglio mica vivere così!»
«Troppo tardi, piccola» mormora «il dado è tratto»


*Se qualcuno di voi sta pensando "Ma questa frase è di Cesare!!!!" la vostra filologa preferita vi informa invece che ci è stata tramandata da Svetonio nel "De vita Caesarum" - pronunciata sì Cesare nell'atto di varcare il Rubicone.
Latino, ti amo!
 


***

Miei diletti lettori, era ora, vero?
Colpevolmente, ammetto che questa estate non ho scritto una riga... nemmeno una.
Sono scandalosa, lo so, ma a mia discolpa posso dire solo che ero (lavorativamente) esausta e volevo stare alla larga dal pc il più a lungo possibile!
Il lavoro in questo periodo è micidiale, ma sono reduce da due trasferte molto positive (assassine, ma positive!), di cui una senza Umberto Eco, per la prima volta.
Si è molto parlato del vero significato del suo celebre attacco agli imbecilli che su internet hanno trovato nuova voce, tra parentesi, e devo dire che - purtroppo - secondo me aveva, come sempre, ragione da vendere.
Ma non divaghiamo...
Ho scritto un capitolo breve, giusto per "riscaldare i motori".
Vento in poppa, sempre!
Vostra,
Joy

P.S.: come sempre, mi trovate qui:

https://www.facebook.com/Joy10Efp/

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