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di Roof_s
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Tragedia ***
Capitolo 2: *** 2. Fantasma ***



Capitolo 1
*** 1. Tragedia ***


Tragedia
 

27 gennaio 2015, 08:15 a.m.


Il sonoro rumore di un clacson proprio alle mie spalle mi strappò un sussulto e per poco non caddi dal sellino della bicicletta.
"Adesso mi sposto!" esclamai, come se i nervosi conducenti che mi seguivano lungo la strada affollata avessero potuto udire quelle parole.
Mi affrettai ad abbandonare il punto in cui avevo fermato la bicicletta, di fronte all'incrocio semaforico dove mi ero distratta qualche secondo di troppo. Se c'era una lezione che avevo appreso durante la mia permanenza a Londra, era proprio che non bisognava mai esitare, soprattutto per strada: la gente era sempre così frettolosa e indaffarata che anche una minima perdita di tempo avrebbe potuto far arrabbiare il più calmo dei cittadini.
Pedalai con decisione alzandomi leggermente dal sellino nero e sterzando leggermente a destra della strada. M'immisi in una via decisamente meno trafficata e a senso unico: finalmente avrei potuto occupare il centro della strada senza sentirmi troppo d'intralcio. Sapevo che i ciclisti non erano mai ben accetti dagli automobilisti che alle prime ore del mattino finivano imbottigliati nel traffico cittadino.
Rallentai la mia corsa non appena fui nei pressi del familiare edificio basso e dai muri imbrattati che frequentavo ogni mattina da circa tre mesi a questa parte. Scesi dalla bicicletta e tirai fuori dalla borsa il catenaccio col quale fissarla al palo davanti alle porte del bar alle mie spalle. Mentre mi dilettavo alle prese con lucchetti e chiavi, lanciai un'occhiata sfuggente al quadrante del mio orologio da polso: erano già le otto e un quarto, ciò significava che io ero in ritardo. Ed essere in ritardo non andava mai bene se si aveva a che fare con un datore di lavoro come Chris.
Mi assicurai che il lucchetto fosse ben chiuso e lasciai la bicicletta. Salii sulla pedana di un grigio metallico che Chris aveva posizionato davanti alla porta del suo bar ed entrai.
"Ciao!" salutai con fare disinvolto, sperando vivamente che il mio capo fosse di buon umore quel giorno.
Intercettai l'occhiata divertita di Katya, dietro il bancone con due tazzine bianche già pronte tra le mani. Le lanciai un sos visivo, augurandomi che potesse intercedere in mio favore nel caso in cui suo marito avesse deciso di sfogare la propria rabbia su di me.
"Margaret!" tuonò una voce maschile.
Strinsi i denti, impaurita. Raggiunsi il bancone e mi chinai per afferrare il mio grembiule a quadretti bianchi e rossi. Quando tornai in piedi, mi ritrovai il faccione severo di Chris davanti agli occhi.
"Ciao, Chris! Tutto bene?" cercai di sdrammatizzare.
Lui sbuffò. "Sei di nuovo in ritardo."
Annuii. "Questa volta ti giuro che non è stata colpa mia! Avresti dovuto vedere che traffico infernale ho..."
"Margaret, sappiamo tutti che partendo per tempo da casa tua si possono evitare questi ritardi. Non abiti dall'altra parte della città" m'interruppe Chris.
Deglutii e sospirai, rassegnata a lasciare che le mie bugie venissero scoperte un'altra volta. Con Chris era impossibile mentire e in fin dei conti io non ero nemmeno troppo brava nel farlo.
"Sì, forse hai ragione..." replicai.
Il mio capo rimase in silenzio e ci guardammo per qualche secondo, in attesa di decidere che fare: continuare a discutere oppure metterci al lavoro?
Dopo poco, però, il mio datore mi sorprese concedendosi una debola risatina, che crebbe d'intensità. Anch'io ridacchiai, presa alla sprovvista.
"Sei proprio sfacciata, Margaret!" constatò lui, scuotendo il capo e allontanandosi dalla pedana dietro il bancone del bar.
"Torna al tuo posto, tra poco il bar sarà pieno di clienti" s'intromise Katya, rivolta al marito.
"Dillo a lei, piuttosto" replicò Chris, strizzando l'occhio al mio indirizzo. "Margaret, riuscirò a farti perdere questo maledetto vizio del ritardo?"
Legai in fretta il grembiule in vita e risi, questa volta senza temere di poter suonare troppo arrogante.
"Temo di no. Che cosa ve ne fareste di una cameriera sempre in orario e precisissima?" risposi, avviandomi verso la cassa e cercando un blocchetto di carta ancora utilizzabile. "Voi avete bisogno di una sbadata come me!"
Katya poggiò le due tazzine sul bancone di marmo e i signori che stavano aspettando con le bustine di zucchero tra le mani ringraziarono debolmente. Dopo la vidi voltarsi e osservarmi in silenzio. Quando la guardai, notai che stava di nuovo sorridendo divertita.
"Non è così?" domandai.
Lei rise. "Di sicuro trasmetti più allegria del tuo predecessore."
Annuii soddisfatta e sganciai uno dei tre portafiltro della macchina del caffè. "E ora lasciatemi lavorare. Sono una persona seria, io!" scherzai, adocchiando le due clienti che avevano appena varcato la soglia del locale.



26 gennaio 2015, 11:30 p.m.


Schiacciai quel che restava del mozzicone sotto la suola spessa della scarpa e sbuffai nell'aria fredda di quell'inverno così rigido. Nonostante la musica nel locale fosse piuttosto alta, sul balcone si poteva godere di una relativa pace e io non avevo davvero voglia di rientrare. Guardai lo schermo illuminato del mio iPhone e alzai gli occhi al cielo.
Tredici fottute chiamate perse. Avrò una crisi di nervi prima o poi.
Scorsi il dito sullo schermo e lo sbloccai, in placida attesa del momento che avevo provato ad evitare per tutta la serata. Mi appoggiai con la schiena alla balaustra e spiai attraverso le ampie finestre del locale dal quale ero appena uscito. Harry m'intravide e alzò un braccio per incitarmi a raggiungerlo all'interno. Sorrisi e annuii, impaziente di mettere fine alla guerra che stava per scatenarsi su quello stretto balconcino.
Il cellulare prese a vibrare violentemente nella mia mano e la fotografia di Eleanor comparve riempiendo l'intero schermo. Mi sentii immediatamente nauseato da quella vista e per un secondo fui tentato d'ignorarla come avevo fatto fino a quel momento. Alla fine, comunque, decisi di affrontare il problema una volta per tutte.
"Pronto" sbottai, senza nascondere la mia irritazione.
"Che cazzo stai facendo?!" furono le dolci parole che la mia fidanzata mi urlò dall'altro capo della cornetta. "Credi che questa sia la maniera giusta di risolvere i problemi, Louis?"
Sbuffai e produssi una nuvoletta di vapore nell'aria. Ecco che succedeva di nuovo. Mi pentii di non aver seguito il mio istinto e ignorato le chiamate perse di Eleanor.
"Sono a una festa" risposi, stanco. "Non controllo il telefono ogni cinque secondi come fai tu..."
"Certo! Tu devi divertirti, vero? Non pensi che magari possa esserci qualcuno in attesa di tue notizie da più di tre giorni... No, tu non ci pensi affatto!" urlò Eleanor, furiosa come mai prima d'ora.
Socchiusi gli occhi e provai a immaginare una frase che avesse il potere di calmarla. Ma che cos'avrei potuto inventarmi questa volta per giustificare me stesso? E non solo, perché avevo bisogno di un alibi convincente anche per la mia frustrazione, le mie assenze prolungate, la mia irritazione generale verso tutto e tutti, i miei comportamenti scorretti nei confronti di quella che era a tutti gli effetti la mia fidanzata... Avevo bisogno di una scusante per la mia intera vita, perché la pressione era diventata troppa e ingestibile e i miei muscoli non avevano retto quel peso.
"Mi dispiace, ma non ho intenzione di discutere a proposito di queste cose adesso" la liquidai brevemente.
"Tu non hai mai intenzione di parlarmi, Louis! Sono mesi che sopporto le tue stronzate senza dire una sola parola!" strillò Eleanor.
Tornai a dare le spalle alle finestre e lasciai scorrere lo sguardo sul profilo scuro della città.
"Che cosa vuoi che ti dica? Scusami, hai ragione tu. Sono io lo stronzo e avrei dovuto risponderti. Stai meglio ora?" sbottai.
"Non sto bene!" urlò lei. "Non te ne accorgi? Sto male e vorrei che aprissi quei tuoi maledetti occhi una volta per tutte! Dove sei finito? Perché ti stai allontanando da me?"
"Non si tratta solo di te, Eleanor" borbottai, stroncato da quelle parole così terribili e così vere. "Sto passando un periodo difficile tra la preparazione del tour, la promozione del nuovo album... Non ho tempo per questi litigi."
"Eppure hai tempo per le feste... e per le tue puttane!" gridò di nuovo la mia fidanzata.
"Che cosa vuoi dire?" sbuffai, improvvisamente più nervoso.
"Mi credi davvero così stupida?" fece lei. "Ho fatto finta di nulla per tutto questo tempo, ho chiuso gli occhi davanti alle fotografie che trovavo su Internet, ma adesso sono davvero stufa."
"Di quali fotografie stai parlando?" indagai.
"Vaffanculo, Louis!" esclamò lei, e in quel momento la sentii chiaramente scoppiare in lacrime.
"Eleanor, ti ho fatto una domanda!" alzai la voce per incuterle timore.
"Anch'io ti ho fatto tante domande in questi mesi, Louis. Ti ho chiesto di salvare la nostra relazione, ti ho chiesto di starmi vicino, ti ho chiesto di non lasciarti distruggere da questa fama. Non mi hai ascoltata e ora stai affogando... Non m'importa della tua domanda del cazzo! Io ti ho aspettato per mesi e tu non solo mi hai tradita, ma hai anche lasciato che venissi a scoprire la verità da altri. Io non posso andare avanti così."
La voce di Eleanor tradiva tutto il suo sgomento e la sua disperazione. Aveva messo da parte le urla stridule e si era abbandonata a una resa che di dolce aveva ben poco: mi stava lasciando per davvero. Quella volta non era come le precedenti: Eleanor era davvero stanca, spossata, stremata, e io ero il motivo di tanta delusione.
"El, lasciami parlare adesso..." ritornai all'attacco.
"No..." la sentii mormorare, mentre tirava su col naso. "Basta. Torna alla tua festa."
"No, adesso tu mi ascolti!" m'imposi. "Io non voglio che... che questa situazione degeneri e..."
"È già degenerata, Louis. Sei l'unico che ancora non se n'è accorto" m'interruppe. "Io non voglio più essere la tua stupida bambolina da mostrare ai fotografi e ai giornalisti. Questa storia si sta prendendo la mia parte migliore."
Ammutolii e mi sentii trasportare indietro nel tempo, come se quel Louis inedito e inebriato dal troppo successo fosse stato cancellato di colpo dalle semplici parole di una ragazza in lacrime. Mi sentii nuovamente il ventenne entusiasta e intraprendente che stava per dare inizio a una sfavillante carriera come cantante nella boy band più osannata al mondo.
"Eleanor, non puoi parlare sul serio..." mormorai, tutto a un tratto inorridito all'idea che lei stesse mettendo la parola fine alla nostra relazione.
La sentii singhiozzare disperatamente. "Torna alla festa."
"Eleanor! Non puoi essere seria!" sbottai, la frustrazione che saliva a livelli mai toccati prima d'ora. "Che cazzo dici? Tu mi ami!"
"Louis, sparisci dalla mia vita. Ti prego!" terminò lei tra le lacrime che la stavano consumando.
Sentii riattaccare e nelle orecchie mi rimase solo l'insistente beep della chiamata terminata. Guardai il telefono e rimasi fermo per qualche secondo, giusto per provare a metabolizzare l'accaduto.
Questa storia si sta prendendo la mia parte migliore.
Quelle parole facevano male. Eleanor era riuscita chissà come a risvegliare una zona del mio cervello in cui avevo accantonato ricordi e buonsenso. E anche il mio cuore ebbe un tuffo, mi sentii invadere dallo sconforto e dall'ansia. Io amavo Eleanor. Ed ero certo che Eleanor amasse me. Perché due persone innamorate erano costrette a salutarsi in maniera così definitiva e sofferente?
Digitai velocemente il numero della mia ragazza e rimasi in attesa di risentire la sua voce spezzata dal pianto. Le avrei confessato la verità, lo giurai in quel momento su ciò che avevo di più caro. Le avrei urlato tutte quelle parole che da mesi restavano impigliate in gola senza trovare un modo di uscirne. L'avrei rassicurata, perché ero sicuro dell'amore che provavo e perché in fin dei conti le mie scappatelle erano state solo capricci dettati dalla noia. Le avrei chiesto di raggiungermi immediatamente, aggiungendo che avevo bisogno di lei tanto quanto lei aveva bisogno di me.
"Eleanor, rispondi!" sussurrai, disperato.
Ma la mia fidanzata non sembrava voler ascoltare il fiume di parole che sentivo di doverle riversare addosso. Il cellulare squillava a vuoto, lasciandomi solo con un soffocante senso d'angoscia.
"Ehi, Lou, che cosa aspetti a...?"
Mi voltai di scatto, sorpreso: Liam stava in piedi per metà affacciato sul balcone, uno sguardo perplesso dipinto in volto.
"Non ho tempo!" esclamai, staccando la chiamata e infilando il telefono nella tasca dei pantaloni neri indossati per quella serata.
Mi fiondai verso le finestre e scostai il mio amico con una spinta fin troppo vigorosa. Attraversai di corsa il salone, spingendo la gente che intralciava il cammino verso l'uscita.



27 gennaio 2015, 10:23 a.m.


Strofinai la spugna viola in parte sbrindellata sul bancone e portai via le briciole che vi si erano depositate. Scorsi con la coda dell'occhio un elegante signore che sbirciava l'ora sul proprio orologio.
"Margaret, fai pagare il cliente. Io torno subito" borbottò Katya, una pesante cassetta dell'acqua naturale tra le braccia.
Mi avvicinai alla cassa e attesi che il signore si accorgesse di me.
"Una brioche alla marmellata e un caffè ristretto, giusto?" ripetei, controllando il foglietto lasciato di fianco alla cassa.
Questo annuì e mi porse un banconota, io frugai nello scompartimento delle monete per trovare il resto.
"... La notizia, arrivata poco fa in redazione, avrebbe sconvolto il mondo dello spettacolo. E non solo: infatti sono migliaia le fan che in questo momento starebbero affollando l'ingresso dell'ospedale in attesa di..."
"Grazie mille, arrivederci" salutai, consegnando scontrino e resto all'uomo davanti a me.
Lui mi sorrise distrattamente e infilò le monete nel portafogli. Lo guardai lasciare il bar senza ulteriori parole e tornai ad asciugare i bicchieri appena estratti dalla piccola lavastoviglie alle mie spalle.
"... Questo è tutto per il momento. Si attendono aggiornamenti."
Guardai il televisore: il volto corrucciato della giornalista occupava buona parte dello schermo; adesso stava annunciando una notizia a proposito di una visita del Primo ministro in Germania. Distolsi lo sguardo e controllai che il bicchiere appena asciugato fosse perfettamente pulito. Poi lo poggiai sulla credenza che stava di fianco alla macchina del caffè e mi rigirai verso il resto della sala. Cinque tavolini erano occupati e presto il bancone dietro il quale stavo io sarebbe stato ripreso d'assalto dai pendolari che si recavano in zona per lavoro. Di certo durante le lunghe mattinate al bar non mi annoiavo.
Sempre meglio che stare a casa a fare niente, riflettei tra me e me, tornando indietro con la mente ai mesi passati quando ancora mi trovavo in Italia senza un lavoro e senza motivazioni abbastanza forti da spingermi a prendere in mano le redini della mia vita.
Finii di asciugare un altro bicchiere, lo poggiai sul ripiano di fianco al cestello della lavastoviglie e afferrai una manciata di cucchiaini da caffè.
Proprio in quel momento due ragazzine fecero il loro ingresso nel bar, chiacchierando a voce abbastanza alta da farsi udire perfettamente da chiunque si trovasse nei paraggi. Posai lo straccio e le tazzine e rivolsi loro un ampio sorriso.
"Ciao, ragazze!" salutai.
La più alta delle due mi rispose con un sorriso veloce e disse: "Ciao! Ci porti due cappuccini?"
Annuii e mi voltai per preparare il caffè. Le due ripresero a chiacchierare e mentre si allontanavano da me le sentii chiaramente discutere a proposito di una tragedia riguardante qualcuno a loro molto caro.
"... Ti giuro che non riesco ancora a crederci" mormorò in tono sommesso una.
"Io non oso immaginare come debbano sentirsi gli altri. È stato davvero un fulmine a ciel sereno."
"Secondo te che cosa ne sarà della band adesso?"
"E chi lo sa? Di certo il tour salterà, non possono partire dopo quello che è successo."
Versai del latte nel bollilatte in acciaio e dopo aver posizionato la lancia del vapore sulla superficie bianca, girai la valvola e sovrastai il resto delle parole con l'inconfondibile rombo della macchina che lavorava per creare una schiuma di latte perfetta. Terminai di preparare i cappuccini e li portai alle due ragazze, che adesso si trovavano abbastanza lontane dal bancone.



26 gennaio 2015, 11:40 p.m.


Scesi in strada seguito dalle proteste dei miei amici. Avevo dovuto correre lungo le scale saltando gli scalini due a due: era un miracolo il fatto che non mi fossi spezzato l'osso del collo. Piombai sul marciapiede con il fiatone e tanta voglia di urlare. Faceva terribilmente freddo e per giunta io ero a piedi: quella sera era toccato a Liam il ruolo di autista, così la mia automobile era rimasta al sicuro tra le mura di casa.
Afferrai il telefono, anche se a dire il vero non ricordavo il numero da chiamare per prenotare una corsa in taxi: non ne avevo più avuto bisogno da quando ero diventato talmente famoso da potermi permettere ogni auto di lusso in vendita sul mercato.
"Va' al diavolo!" sbottai rivolto al cellulare; lo rimisi al suo posto in tasca e cominciai a camminare a passo spedito verso la fermata del bus più vicina. Purtroppo era quasi mezzanotte, le linee dei tram urbani non sarebbero state attive ancora a lungo. Ciò significava una sola cosa: dovevo fare in fretta.
Attraversai la strada e accelerai il passo. Infilai le mani nelle tasche della mia giacca scura e provai a non pensare al freddo tagliente che graffiava la mia pelle con rabbia. Sentii gli occhi lacrimare e sbattei le palpebre più e più volte.
Che cosa sto facendo? Perché non le sono stato vicino?
Eleanor con il suo pianto disperato tornava a tormentarmi. Sapevo di essere stato scorretto nei suoi confronti: lei era sempre stata una bravissima fidanzata, disposta ad aiutarmi nei momenti di crisi in cui il successo assomigliava più a un flagello che a una benedizione. E io l'avevo ripagata con tradimenti, bugie, arroganza e una buona dose d'indifferenza.
"... ti ho chiesto di non lasciarti distruggere da questa fama."
E io c'ero riuscito: mi ero davvero lasciato distruggere da quella stessa musica, da quegli stessi fan, da quegli stessi soldi, da quella stessa girandola di emozioni spinte al limite. Tutto e subito erano state le parole chiave della mia discesa negli inferi. Viaggi a non finire, notti insonni, ragazze, sorrisi forzati, telecamere puntate, copioni da recitare sempre uguali, flash accecanti negli occhi, microfoni costantemente addosso. Non mi ricordavo nemmeno quale fosse l'ultima volta che ero stato libero e spensierato.
Svoltai all'angolo di una via che non conoscevo, percorsi qualche metro a passo spedito e poi presi una via a sinistra. E infine lo vidi: il tram che si stava avvicinando alla fermata, ancora parecchio lontana da dove mi trovavo io.
"Louis, sparisci dalla mia vita. Ti prego!"
"Non posso farti questo, Eleanor. Non è la nostra fine" mormorai, mentre le mie gambe prendevano l'iniziativa e io cominciavo a correre come un fulmine.
Mi affrettai sul marciapiede, sbattendo contro i pochi passanti e ignorando l'aria fredda che filtrava attraverso i vestiti scomposti. Il tram si avvicinava sempre più, rischiavo di perderlo. Accelerai ancora il passo, non mancava molto prima delle strisce pedonali.



27 gennaio 2015, 12:06 a.m.


"Margaret, adesso puoi anche andare. Qui ci penso io."
Mi tirai su dalla pedana e guardai verso Katya, che reggeva tre bottiglie di acqua frizzante. Mi alzai in piedi e richiusi lo sportello del frigorifero che avevo appena riempito.
"È già mezzogiorno?" domandai, sorpresa.
Katya annuì e mi regalò uno dei suoi dolci sorrisi. Era una persona splendida, calma e pacifica: lavorare con lei non poteva che essere rilassante, oltre che estremamente piacevole.
"Vai pure a casa, ci vediamo più tardi" mi congedò, posando le bottiglie sul ripiano davanti a noi. "E se vedi tua zia, salutamela."
Slegai il nodo del mio grembiule e lo piegai ordinatamente. "Penso proprio di andare a trovarla in negozio."
Katya mise a posto le bottiglie e mi aggirò per tornare sul retro a prenderne altre. Mi salutò con un ultimo sorriso, dopodiché sparì dietro la porta della bottega dove tenevamo scorte, casse dell'acqua, lattine.
Infilai il mio grembiule in un cesto sotto la cassa e mi rimpossessai della borsa.
"Ciao, Chris! Ci vediamo oggi pomeriggio" salutai il mio capo.
Raggiunsi la porta del bar e tornai a respirare la fresca aria di quella gelida giornata londinese. Fortunatamente il negozio di mia zia non era troppo lontano da quella zona, così come non lo era il piccolo appartamento che condividevamo da circa quattro mesi, momento in cui io ero atterrata a Londra per la prima volta.
Montai sulla mia bicicletta e mi assicurai che la borsa a tracolla non scivolasse dalla spalla. Scesi dal marciapiede e m'immisi in strada superando le poche automobili parcheggiate di fronte al bar dove lavoravo.
Nonostante fossi una ritardataria nata con la testa tra le nuvole, nonostante avessi avuto ambizioni di ben altro genere, nonostante nelle mie vene non scorresse sangue britannico, nonostante avessi ancora pochi amici, io adoravo lavorare come cameriera in un anonimo bar di Londra. Quando ero partita da Torino, quattro mesi prima, non avevo avuto alcuna esitazione: tutto ciò che desideravo era mettere il maggior numero di chilometri di distanza tra me e i miei genitori. Ero stanca di sentirli sempre ripetere quali fossero i miei doveri, quanto fosse importante iscriversi all'università, come non potessi ignorare il mio futuro. La loro presenza si era fatta talmente invadente da spingermi a una decisione piuttosto drastica: partire per Londra e trasferirmi da zia Carola, donna bizzarra dalla passione per l'antiquariato e il vintage.
Superai un incrocio e segnalai la mia direzione allungando il braccio destro.
In verità io e mia zia Carola non avevamo mai avuto grandi rapporti. I miei genitori erano sempre stati contrari alle sue incursioni nella mia vita: zia Carola rappresentava tutto ciò che loro avevano tagliato fuori dalla nostra esistenza. Loro due erano così rigidi e interamente sacrificati al lavoro e al successo; lei era una sognatrice incallita. Lei collezionava strambi oggetti senza una reale utilità, li ammucchiava nelle strette stanze del suo appartamento e fabbricava berretti, sciarpe e ogni altro genere di prodotto da regalare ai senzatetto che affollavano le vie di Londra; loro, al contrario, diffidavano di chiunque non avesse un'ottima nomea in società. Per questo motivo, quando avevo annunciato la mia scelta di andare a stare da zia Carola, tutti si erano opposti con fermezza: l'ultima cosa che i miei genitori avrebbero desiderato era che io mi trasformassi nella copia di mia zia. Alla fine, però, io avevo vinto la disputa ed era stato con un gran sorriso dipinto in volto che avevo spiegato le mie intenzioni a zia Carola, la quale naturalmente si era felicitata della novità.
Intuile dire che la vita a Londra in compagnia di quella bizzarra donna dai gusti discutibili si era dimostrata decisamente migliore della precedente. Mi mancava Torino, mi mancavano gli amici lasciati per chissà quanto tempo e mi mancavano anche i miei genitori certe volte, ma zia Carola era una vera forza della natura: amava uscire la sera, trascorreva ore in giro per i parchi della città, si premurava di non farmi mancare nulla, mi accompagnava volentieri nei musei che sceglievo di visitare le domeniche pomeriggio. Con lei stavo bene e mi divertivo, sembravamo quasi sorelle.
Rallentai e svoltai a destra. Alzai gli occhi sull'insegna in legno del negozio di antiquariato che costituiva il singolare rifugio di zia Carola. Parcheggiai la bicicletta chiudendo il lucchetto e controllando come sempre che fosse ben assicurata al palo. Entrai nello stretto locale oscuro che mia zia aveva adibito a negozio: uno scampanellio acuto accompagnò il mio ingresso e vidi la proprietaria affacciarsi da dietro un paravento mezzo consumato, posto proprio dietro il bancone.
"Aspettavo proprio te, Margherita!" la sentii esclamare, mentre tornava a ripararsi da sguardi indiscreti dietro il pannello scuro.
Abbandonai la mia borsa su uno sgabello in vendita, intagliato in un legno particolarmente pregiato.
"Ciao, zia! Sei libera per pranzo?" domandai.
La vidi sbucare da dietro il paravento dopo pochi istanti. Si avvicinò al bancone e poggiò il palmo della mano destra sulla superficie marrone; nella sinistra reggeva stretto un libro piuttosto spesso dalla copertina tagliata, come se qualcuno avesse provato a scalfirlo con violenza.
"Ho trovato un libro molto interessante" mi annunciò, ignorando la mia domanda.
Con la testa indicai il tomo che teneva in mano. "Intendi quello?"
Lei lo guardò di sfuggita e annuì. "È un manuale di stregoneria risalente al Settecento. Questa mattina l'avevo portato in negozio per controllarne lo stato prima di metterlo in vendita, ma mi sono lasciata distrarre dalle sue formule."
Ridacchiai e scossi il capo: era tipico di mia zia credere a certe cose. "E che cosa avresti scoperto che già non sai?" la stuzzicai.
Zia Carola, però, sembrava più seria del solito: mi puntò i suoi grandi occhi azzurri addosso e non mutò l'espressione riflessiva che aveva assunto da quando ero entrata.
"Ho percepito una strana sensazione mentre leggevo."
Annuii un'altra volta e mi accomodai su di una grossa sedia a dondolo dallo schienale intarsiato di filamenti dorati.
"Che tipo di sensazione?" indagai; in fondo mi piaceva ascoltare zia Carola quando raccontava delle sue visioni, dei suoi presentimenti o più semplicemente delle sue misteriose scoperte.
Lei poggiò il libro sul bancone e ne fissò a lungo la copertina rovinata. "Ho sentito come se ci fosse qualcosa in agguato... Era una sensazione così confusa e vaga!"
"E questo qualcosa avrebbe a che fare con te?" volli sapere.
Lei tirò su il capo e mi scrutò con aria assorta. "No, con te, Margherita."
Spalancai gli occhi, colpita. "Con me? Ne sei sicura?"
Mia zia annuì ripetutamente e accarezzò con una mano la copertina del misterioso libro che avrebbe dovuto mettere in vendita.
"Ho letto alcune pagine riguardanti il percorso delle anime tormentate nel limbo che separa il nostro mondo da quello dei morti" ricominciò a parlare. "E a un certo punto mi sono sentita pervadere da un sentimento di empatia, quasi come se uno spirito fosse stato davvero lì vicino a me durante la lettura."
"Mmh..." mormorai, incuriosita.
"Poi però ho continuato a leggere e quando ho alzato gli occhi dalle pagine, la prima cosa che ho visto è stata una tua fotografia."
"Una mia fotografia?" ripetei, sempre più perplessa.
"Sì, una tua fotografia che normalmente tengo su quello scaffale lassù", e zia Carola allungò un braccio indicando con l'indice una credenza abbastanza in alto che si affacciava sul piccolo corridoio diretto verso il retro del negozio. "E quando ho alzato la testa, la tua fotografia era davanti a me quaggiù", e questa volta puntò una mensola all'altezza dei suoi fianchi, di fronte all'apertura del paravento dietro il quale si era rifugiata poco prima.
"Zia, forse hai semplicemente bisogno di mettere qualcosa sotto i denti, non credi?" ironizzai, convinta che dovesse esserci una spiegazione logica alla questione della foto; forse era stata opera sua ma l'aveva dimenticato, o magari l'immagine era scivolata più in basso per via del continuo spostamento d'aria nel corridoio.
Zia Carola sbuffò e lanciò un'ultima occhiata enigmatica al nuovo libro. Lo prese e lo nascose in uno dei ripiani sotto il bancone, poi tornò a guardare nella mia direzione e sorrise, dissimulando la tensione di poco prima.
"Dove hai intenzione di portarmi oggi?" domandò.



26 gennaio 2015, 11:47 p.m.


Accadde tutto in un flash poco nitido. Accelerai il passo fino a raggiungere il limite: non avrei potuto correre più veloce di così. Socchiusi le palpebre per un istante e mi lanciai in avanti sulle strisce pedonali, ma qualcosa s'intromise in quel quadretto: un impatto, tutto si fece scuro all'improvviso e l'aria fredda smise di schiaffeggiarmi con foga. Non sentii nulla al di fuori di una superficie dura e gelida contro cui sbattei violentemente. Il dolore arrivò in seguito, quando fui finalmente fermo: lo sentii partire da più zone del mio corpo per poi diramarsi ovunque, in ogni singola particella di quello che ne restava di Louis Tomlinson.
Eleanor..., pensai con rammarico.
Cercai di restare sveglio, di aggrapparmi alle ultime percezioni lontane che mi rimanevano: il vento freddo, il dolore lancinante all'altezza dello stomaco e del ginocchio destro, la disperazione stretta nel mio cuore come un dono a lungo agognato.
Ma a poco servirono tutti quegli sforzi: mentre sentivo l'eco di voci lontane arrivare a me e alle mie orecchie, gli occhi si chiusero lentamente quasi come se avessero preso quella decisione da soli. Boccheggiai, cercando di continuare a respirare, ma il risultato fu solo un debole tossire e sputare quello che aveva tutto il sapore di sangue.





Buona sera, lettrice capitata - per caso o meno - su questa storia! :)
Non so perché l'abbia fatto, ma ho deciso di gettarmi su ben DUE fanfiction, quindi in contemporanea alla pubblicazione di Along Came Summer, mi diletterò con questa nuova storia dal gusto molto noir, viste le premesse.
Okay, dalla trama si capisce più o meno il finale di questo primo capitolo, e spero che una morte non vi sconvolga troppo nel profondo. Questa storia era in cantiere già anni fa, quando avevo appena fatto l'iscrizione al sito, ma poi per motivi che ora non ricordo, non ci ho mai combinato niente. E adesso è rispuntata dai meandri del mio pc per portare un po' di iella al caro Louis Tomlinson, personaggio che oltretutto io non ho mai usato come protagonista assoluto di una fanfiction (dopo aver speso fiumi di parole per Harry e Zayn, ora tocca anche a lui...). Quindi, benvenuta novità!
Ora saluto tutti e chiudo questo imbarazzante, primo angolo autrice. Grazie a chiunque leggerà e vorrà farmi sapere la propria opinione,



Martina

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Capitolo 2
*** 2. Fantasma ***


Fantasma
 

28 gennaio 2015, 02:45 a.m.


Mi risvegliai a fatica e attesi qualche istante prima di riaprire gli occhi. Tirai su una mano e andai subito alla ricerca del punto del mio petto in cui avevo sentito quelle fitte insopportabili prima di svenire. Tastai a lungo, ma i vestiti erano completamente integri e la mia pelle non sembrava essersi fatta un solo graffio. Davanti ai miei occhi una serie di luci bianchissime incorniciò lo spettacolo di una stanza pulita e profumata, rischiarata a giorno.
Che cos'è successo?, mi domandai, sempre più confuso.
Mi misi a sedere con un grande sforzo, perché mi sentivo strano. Mi sentivo leggero e non riuscivo a rimettere insieme i pezzi di quei ricordi confusi che galleggiavano nella mia mente: Oxford Street, la fermata del tram, la mia corsa folle, l'urto contro qualcosa e il dolore accecante.
Mi guardai le mani, il petto e le gambe: tutto era perfettamente a posto, io ero vestito come quando avevo lasciato il locale per correre da Eleanor e non c'era alcuna traccia di sangue sulla mia giacca.
Allora perché mi trovavo in quella che mi parve subito una stanza d'ospedale?!
Mi voltai sul letto e poggiai i piedi sul pavimento. Mi alzai e camminai fino alle grandi vetrate che davano sul cortile interno dell'ospedale: il cielo era nero come la pece e non c'era traccia delle stelle in quella notte oscura. Guardai alla mia sinistra verso il comodino di fianco al letto che avevo appena abbandonato: un grosso macchinario di un bianco sporco stava cominciando a emettere un fischio continuo e assordante, un beep che avrei voluto eliminare dalle mie orecchie ma che ora sembrava eterno.
Solo in un secondo momento mi accorsi del corpo disteso supino sul letto. Lo stesso letto da cui io ero sceso un attimo prima...
E quel corpo non era un corpo qualunque: era il mio!
"Oh, cazzo!" mi lasciai sfuggire, terrorizzato.
Louis Tomlinson giaceva privo di sensi in un letto d'ospedale, il volto incrostato dal sangue e quasi irriconoscibile per via delle tumefazioni violacee presenti su fronte e guance. I miei vestiti erano strappati in più punti, e ovunque le bende che fasciavano busto e braccia erano macchiate di un rosso vivo e terrificante.
"No, non può essere vero..." mormorai, correndo verso il letto e il mio corpo. Poggiai le mani sul mio braccio destro, provai a scuoterlo ma non ottenni alcun risultato.
La porta della stanza si spalancò con un colpo secco e tre dottori varcarono la soglia a passo spedito. Alle loro spalle intravidi molti volti familiari: Harry, Eleanor, Zayn con gli occhi visibilmente arrossati dal pianto, Liam e Niall stretti in un abbraccio rassegnato. Poi Eleanor si fece avanti e dopo appena due passi crollò a terra e lanciò un urlo terribile, agghiacciante e disperato. Sobbalzai, sentendo una sensazione di gelo alla bocca dello stomaco. Mi scostai dal letto e raggiunsi la mia fidanzata.
"Eleanor! Eleanor, non piangere!" le urlai, cercando invano di abbracciarla.
Lei si coprì il volto con entrambe le mani e continuò a ululare dalla disperazione, proprio come un animale ferito. Harry si piegò esattamente come me e la strinse tra le braccia, piangendo silenziosamente lacrime di puro dolore.
"No, ragazzi! C'è stato un errore!" esclamai nel panico totale. "Io non sono morto, ragazzi!"
Mi tirai su in piedi e affiancai uno dei tre medici che provava a rianimarmi con uno strano aggeggio piantato sul mio petto scoperto.
"Io sono vivo! Sono qui!" esclamai, agitando le braccia in alto affinché mi vedessero.
Nessuno in quella stanza spostò gli occhi verso di me. Harry continuava a stringere Eleanor e a soffocare le proprie lacrime, Zayn si era allontanato in direzione della porta e non compiva alcuno sforzo per nascondere il pianto disperato che lo scuoteva. Liam stava ai piedi del letto, una mano appoggiata alla struttura in acciaio e gli occhi gonfi di lacrime a stento represse.
Non può essere reale. Non può essere reale. Non può...
"Harry!" esclamai, tornando sui miei passi verso il mio migliore amico ancora piegato sul pavimento bianco della stanza di quell'odioso ospedale. "Harry, sono qua! Avanti, facciamola finita con questi scherzi! Io sono qua, guardami!"
Ma Harry Styles non si scompose, le sue braccia stringevano una Eleanor che sembrava aver perso ogni contatto col mondo reale. Esattamente com'era successo a me.
Alzai il capo e cacciai un urlo stridulo. Come diavolo era possibile? Come potevo essere un... fantasma? Perché era successo? Perché nessuno poteva vedermi?
"Zayn, ti prego, guardami!" urlai, raggiungendo la porta e il mio amico, appoggiato al controtelaio con il volto nascosto dietro l'avambraccio. "Ragazzi, io non sono andato da nessuna parte, io sono ancora..."
Le mie parole furono sovrastate dal nuovo urlo che Eleanor lanciò. Mi voltai di scatto e vidi i tre medici ritrarsi dal letto con sguardi funerei.
"Non potete farmi questo..." mormorai, prossimo al crollo. "Aprite quei dannati occhi!"
Nessuno poteva vedermi perché probabilmente io non esistevo più. Era inutile continuare a sostenere il contrario: io ero morto. Io ero morto e lì dentro lo sapevano tutti. Guardai ancora Eleanor, soffocata dal suo stesso pianto a dirotto: teneva gli occhi semichiusi e sembrava non volersi rialzare dal pavimento sul quale era crollata. Non guardava il mio corpo, non badava a Harry e ai suoi tentativi di calmarla, non ascoltava le parole dei dottori che stavano annunciando il mio effettivo decesso.
"... ti ho chiesto di non lasciarti distruggere da questa fama."
Ero stato una delusione fino in fondo. Fino al mio ultimo minuto di vita, fino al mio ultimo respiro. Non avevo corso abbastanza, non ero stato così veloce da riparare al mio danno, e ora giacevo immobile sul letto di un ospedale londinese, circondato dalle persone più importanti della mia vita, le stesse che non avrei mai smesso di amare. Che cosa mi attendeva adesso? Che cos'ero? Un fantasma di me stesso? Un reietto di una società a cui non sarei più potuto appartenere? Fino a quando sarei stato in grado di vedere i miei amici e la mia fidanzata soffrire?
"Io non dovrei essere qui" constatai, spezzato dal dolore.
Retrocedetti fino alla porta, oltre il punto in cui Zayn si asciugava gli occhi e tirava su col naso. Mi ritrovai nel corridoio chiaro, accerchiato da gente vestita di scuro e con espressioni serie stampate su quei visi stanchi.
"Io non dovrei essere qui" ripetei, spaventato.
Corsi lungo il corridoio, superai un numero infinito di stanze tutte uguali. Raggiunsi il primo ascensore di quel piano, lo chiamai premendo il bottoncino rosso ma ricordai solo in un secondo istante che non avevo modo di interagire con gli oggetti attorno a me. Provai ad allungare un braccio, leggermente esitante. Osservai con crescente stupore le mie dita oltrepassare le porte chiuse dell'ascensore senza percepire il minimo dolore.
"Sono davvero morto, allora!" esclamai. "Che cazzo vuol dire tutto questo?!"
Le porte dell'ascensore scivolarono di lato rivelando cinque volti tirati tanto quanto quelli dei personaggi ammassati vicino all'entrata della stanza dove avevo abbandonato il mio corpo per sempre. Saltai dentro e attesi che qualcuno seguisse il mio esempio. Avevo bisogno di andarmene, non volevo continuare a guardare le persone a cui volevo bene struggersi per la mia perdita.
Alzai gli occhi verso l'alto e mi lasciai scappare un sospiro allarmato.
Che cosa sta succedendo?



28 gennaio 2015, 04:55 p.m.


Tirai su il capo e con lo sguardo seguii una coppia di anziani che lentamente attraversava il selciato davanti a me: lui teneva lei per mano e con infinita pazienza aspettava che compisse ogni piccolo passo.
Sbuffai, innervosito dalla vista di quei due sconosciuti. In realtà ero innervosito da quasi tutto ciò che mi capitava sotto gli occhi quel giorno. Fin da quando avevo lasciato l'ospedale, avevo avuto modo di capire che qualcosa non andava per il verso giusto: le fan urlanti appostate davanti all'ingresso dell'edificio, per esempio, erano state un buon indizio. E poi le copertine dei giornali nelle vetrine delle edicole, i televisori nei bar, costantemente accesi su telegiornali che trasmettevano la tragica notizia della scomparsa di Louis Tomlinson, cantante dei One Direction.
Il mondo non girava nel verso che avrei voluto.
Sospirai e distolsi lo sguardo dai due anziani. Accavallai le gambe, seduto su quella panchina del Cavendish Square Garden. La gente passava davanti a me, a meno di un metro dalla mia panchina, ma nessuno mi vedeva. Ero veramente invisibile e questa sensazione mi dava alla testa. Per molti mesi avevo desiderato sparire, non essere me stesso anche solo un istante; ora che però avevo raggiunto l'obiettivo, mi sentivo svuotato di ogni forza vitale. Non avevo idea di quale fosse il mio posto nel mondo - sempre che un posto ancora ce l'avessi - e non sapevo dove andare. La grande e attraente Londra tutto a un tratto era diventata piccola e asfissiante: le sue strade mi riportavano alla mente ricordi meravigliosi e dolorosi. Io ero evaporato in una gelida notte invernale, a chi interessava il fatto che il mio primo bacio con Eleanor fosse ben impresso nella mia testa e ritornasse a torturarmi su quella panchina nel Cavedish Square Garden?
"Datti una mossa, idiota!" esclamai rivolto alla vecchia accompagnata dal marito, che ancora stentava a camminare con le sue sole forze. Di certo non mi dispiaceva poter dire tutto ciò che pensavo senza temere ripercussioni: avevo passato l'intera mattinata a insultare chiunque avesse intralciato il mio cammino. Ora che ero diventato invisibile e la mia importanza era scesa sotto lo zero, potevo almeno togliermi la soddisfazione di accanirmi contro tutto e tutti: la mia vita non esisteva più, ero imprigionato in forma di spirito e nessuno poteva sentirmi o vedermi, che cos'altro mi rimaneva?
Mi alzai dalla panchina e mi stiracchiai, annoiato da quella specie d'immortalità che mi era stata destinata. Il pensiero di poter trascorrere il mio tempo in quella prigione infinita mi aveva più volte toccato: che cosa ne sarebbe stato di me se fossi stato costretto a errare in eterno senza contatti col mondo che avevo appena lasciato?
Scalciai un sassolino sul selciato, furioso, ma quello non si mosse di un solo millimetro. Dimenticavo di essere un fantasma.



28 gennaio 2015, 05:26 p.m.


La parte della giornata che meno mi piaceva era proprio il pomeriggio: restare tra le mura del bar fino a quando il sole iniziava il suo lento tramonto dietro le sagome imponenti dei palazzi in lontananza mi metteva una strana sensazione di desolazione e malinconia addosso, e tutto ciò che desideravo era tornare in fretta a casa e seppellire i pensieri dentro un buon libro o un film impegnativo. Normalmente a quell'ora del pomeriggio i clienti si facevano radi e silenziosi, perciò non avevo nemmeno la soddisfazione di scambiare due parole con gente interessante e divertente. Spesso ci facevano visita madri accompagnate da bambini appena usciti da scuola e quindi desiderosi di fare merenda; in alternativa ci restavano gli anziani, quei signori che, ormai in pensione, avevano poco o niente da fare nel loro tempo libero e che per questo preferivano soffermarsi anche un'ora e mezza tra i tavolini del bar piuttosto che restare a casa soli e immersi nel silenzio.
Per questo fu con mio grande stupore che osservai un ragazzo piuttosto giovane e dall'aria imbronciata prendere posto all'ultimo tavolino al fondo del locale. Non l'avevo sentito entrare e a quanto pareva nemmeno Katya si era accorta del nuovo arrivato, intenta com'era alla pulizia della piccola vetrina nella quale ogni mattina chiudevamo le brioches calde. Mi armai di bloc-notes e cercai la biro che avevo perso. Quando l'ebbi ritrovata, scesi dalla pedana e percorsi lo spazio quasi del tutto vuoto della sala principale. Vidi il ragazzo alzare gli occhi su di me, l'aria esterrefatta come se fossi una visione divina.
"Ciao!" lo salutai, fingendomi allegra sebbene non avessi alcuna voglia di continuare a lavorare; sfogliai il blocchetto fino alla prima pagina bianca e segnai il numero del tavolino a cui era seduto il cliente. Poi lo guardai, in attesa che rispondesse, ma questo teneva i suoi occhi chiarissimi fissi sul mio volto in un'espressione di puro sconvolgimento. Alzai le sopracciglia, imbarazzata: che cos'avevo fatto di sbagliato? Avevo dello sporco in faccia per caso?
"Ciao... Vuoi già ordinare?" insistetti, a disagio.
"T... tu... riesci...?" balbettò il ragazzo, incredulo.
Strabuzzai gli occhi. "Non ho capito che cos'hai detto, scusa."
Lui sbatté le palpebre senza levarsi quell'aria sorpresa di dosso. "Tu riesci a vedermi?!" esclamò lui a voce piuttosto alta.
Mi guardai attorno, allarmata dal suo tono di voce: intorno a noi, però, nessuno si era voltato. Intravidi solo Katya rivolgermi un'occhiata obliqua da dietro il bancone.
"Ti prego, rispondimi!" insistette il ragazzo.
Tornai a guardare nella sua direzione ed annuii. "Sì, certo che ti vedo! Perché me lo chiedi?" risposi.
Adesso ti allontani con calma e chiami la polizia..., pensai.
Il ragazzo batté con forza un pugno sul tavolino e lanciò un urlo di gioia. "Lo sapevo! Ero certo che non fosse tutto finito!" gridò, vittorioso.
"Per favore, calmati! Stai disturbando il resto della..."
"Margaret, si può sapere con chi stai parlando?!"
Mi voltai di scatto verso il punto da cui quella voce era arrivata: Katya era appoggiata al tavolino di fianco a quello dello strano ragazzo impazzito. La moglie del mio capo sembrava perplessa e i suoi occhi non mi mollarono un solo secondo.
"Co... come, scusa?" domandai, confusa dalla sua domanda.
Katya indicò il tavolino davanti a me con lo straccio che ancora teneva in mano. "Con chi stai parlando?" ripeté.
Anch'io guardai il tavolino e il ragazzo che vi stava dietro: adesso sembrava essersi improvvisamente calmato e scrutava la mia collega con aria incuriosita.
"Allora tu sei l'unica che può vedermi!" bisbigliò, sorpreso.
"Ma che cosa stai dicendo?" gli domandai, irritata da quelle stranezze.
Il ragazzo scosse il capo e mi fece segno di no con le mani. "Non devi rivolgerti a me. Fai finta che io non sia qui o lei ti prenderà per pazza."
"Lei...?" ripresi a chiedergli, ma il ragazzo mi zittì di nuovo.
"Margaret, è tutto a posto?" s'intromise Katya.
La guardai, atterrita. Che cosa diavolo mi stava succedendo?
"Io... credo di sì. Ma tu non... tu non riesci a..." balbettai, timorosa della risposta che lei avrebbe potuto dare se io fossi riuscita a formulare la mia domanda.
Katya corrugò la fronte, preoccupata per le mie condizioni mentali. "Con chi parlavi? Non c'è nessuno al tavolino, lo sai... vero?" m'informò.
Mi voltai di scatto verso il ragazzo seduto davanti a me. Lo vidi sfoderare un sorriso innocente e non potei fare a meno di sentirmi mancare. Mi ressi al bordo del tavolino e chiusi un attimo le palpebre.
Dev'esserci un errore, Margherita.
"Ma come...? Tu... dici sul... serio?" chiesi a Katya, frastornata.
Questa aprì bocca ma fu incapace di parlare. Poi sospirò e disse: "Margaret, mi prendi in giro? Con chi stavi parlando?"
D'istinto volli risponderle che stavo parlando con il bel ragazzo dall'aria arrabbiata che sedeva a meno di un metro di distanza da me. Ma a quanto pareva Katya non poteva vederlo. E forse nessun altro in quel locale ci riusciva, eccetto io.
Annuii e sorrisi, cercando di mantenere la calma. "Sì, io stavo solo... Ho sbagliato" risposi alla moglie di Chris.
Questa fece cenno di sì col capo ma non si mosse da dov'era. "Ti vedo pallida, Margaret. Sei sicura di sentirti bene?"
"Dille di no!" bisbigliò di nuovo il ragazzo.
Lui non esiste. Ignoralo!
"Sì, sì, io sto bene" mentii, sorridendo a stento.
"Dille che devi uscire a prendere una boccata d'aria fresca, ti prego!" m'implorò lo sconosciuto, che comunque ero certa di aver visto. "Noi due dobbiamo parlare!"
"Se per oggi vuoi smettere, a me sta bene..." riprovò Katya, titubante.
Scossi il capo. "No, io..."
"Per caso sono tornato ad essere invisibile? Perché adesso non mi ascolti?" sbottò il ragazzo, irritato.
Lo fulminai con un'occhiata terrorizzata: lui era ancora lì, seduto al suo posto e con le mani che cercavano di aggrapparsi affannosamente al tavolino.
"Alleluia, allora sei tu ad essere sorda!" ironizzò.
Mi morsi la lingua per non rischiare di tornare a rispondergli. Katya non lo vedeva e io dovevo fare finta che lui non esistesse. Perché lui non esisteva.
"Ti scongiuro, ragazza sconosciuta che lavori in questo misero bar: chiedi al tuo capo di lasciarti uscire con me" tornò all'attacco il ragazzo.
"Allora che cosa fai? Torniamo a lavorare?" propose Katya.
"Tu tornaci pure, lei viene con me!" esclamò il ragazzo, sprezzante.
Ma perché non sta zitto?!
"Sì, d'accordo..." dissi, titubante.
"Ma perché devi complicare le cose? Ti assicuro che sono il fantasma più simpatico in circolazione, perché non ti va di fare due parole?"
"Katya, ascoltami..." dissi, stanca di quelle blatere che non facevano altro che confondermi; mi slacciai il nodo del grembiule e glielo porsi. "Forse hai ragione e per oggi è meglio che finisca."
"Brava, così mi piaci!" esclamò la propria approvazione quel ragazzo invisibile che non voleva saperne di lasciarmi in pace.
Katya non sembrò indispettita dalla decisione: afferrò il mio grembiule e sorrise con la sua solita aria gentile.
"Ti aspetto domani mattina" disse. "Va' a casa e riposati, mi raccomando."
"Certamente!" convenni, avviandomi verso l'uscita.
"Margaret, non dimenticare la tua borsa" mi ricordò la moglie di Chris, mentre tornava al bancone.
"Potresti fare in fretta? Non voglio sprecare tutta l'eternità che mi rimane in questo tugurio" fece il ragazzo, ironico.
Lo ignorai e afferrai la borsa che Katya mi stava porgendo sopra il bancone. Salutai sia lei sia il marito e presi la porta del locale. Non appena fui fuori, scoppiai in un urlo nervoso.
"Chi sei? Che cosa vuoi?" sbottai, spaventata.
Il ragazzo mi raggiunse con passo molle e infilò le mani nelle tasche della giacca scura. "Non ho tempo per i convenevoli, passiamo alla parte pratica."
Mi allontanai dalla vetrina del bar, accompagnata da quello strano tipo. "Convenevoli? Ma di che cosa stai parlando?! Io voglio sapere perché Katya non riusciva a vederti!" insistetti, attraversando la strada e allontanandomi il più possibile dal bar dove lavoravo.
Presi a camminare a passo spedito, sperando quasi che quelle allucinazioni sparissero con l'aria fredda che schiaffeggiava il mio volto. Doveva esserci un errore. Sì, sicuramente avevo fatto qualcosa di sbagliato. Forse avevo ingerito qualche sostanza dannosa al cervello. O forse avevo dormito troppo poco la notte precedente.
Devo smettere di leggere fino alle due di notte.
"Io sono Louis. Ora che sai il mio nome, puoi ascoltarmi?" rispose quell'individuo, del quale volevo liberarmi il prima possibile.
Imboccai l'entrata di un parco piuttosto piccolo e tranquillo: a quell'ora del pomeriggio erano in pochi ad avventurarsi lungo le strette stradine sterrate che s'intrecciavano in quell'isolata oasi di verde.
"Si può sapere perché stai correndo? Tanto sono capace di rintracciarti ovunque tu vada" protestò ancora Louis.
Mi fermai di botto e mi voltai bruscamente verso di lui. Il ragazzo frenò a poca distanza dal mio corpo e tirò un sospiro di sollievo.
"Chi diavolo sei?" esclamai, terrorizzata.
Lui allargò le braccia e mise su un'espressione d'incredulità. "Louis Tomlinson non ti dice nulla? Sono uno dei ragazzi più famosi al mondo, ragazzina."
Alzai gli occhi al cielo. "Azzardati a chiamarmi ancora una volta 'ragazzina' e non mi vedrai mai più."
Louis si fece più scuro in volto. "Come siamo permalosi! D'accordo, posso sapere con chi sto parlando?"
Lo guardai negli occhi e rimasi zitta: quel tizio era un bel ragazzo e i suoi vestiti sembravano parecchio costosi. Gli occhi azzurri erano molto sottili, portava una barba leggermente incolta, come se stesse da poco provando a farla crescere, e i capelli di un normale castano chiaro erano modellati in una pettinatura che ricordava certi celebri attori degli anni Ottanta.
"Chi mi garantisce che questo non sia un... gioco o uno scherzo?!" esclamai, piuttosto diffidente.
Il ragazzo sbuffò e si guardò attorno, alla ricerca della migliore maniera di convincermi. "Ascoltami, capisco che tu non abbia voglia di passare il tuo tempo a fare cose più interessanti che servire caffè e brioches tutto il giorno, ma qui davanti hai Louis Tomlinson nei panni di fantasma solitario e ti sarei grato se volessi darmi una mano a risolvere la situazione."
Lo fulminai con un'occhiataccia. "Data la tua simpatia, non mi sorprende il fatto che tu sia solo."
Lui sembrò stizzito dalla mia osservazione. Finalmente avevo fatto centro.
"Ragazzina, non usare quel tono con me!" ribatté.
"E tu smetti di chiamarmi 'ragazzina'! Tra i due non sono io quella che ha bisogno d'aiuto!" replicai, sempre più infastidita.
Lui strinse gli occhi e sbuffò. "Non vuoi proprio capire la fortuna che hai, eh? Sai quante altre ucciderebbero per potermi anche solo baciare le suole delle scarpe?"
Alzai gli occhi al cielo: quel ragazzo non mi piaceva per niente, sembrava vedere solo se stesso al centro dell'universo.
"Okay, signor egocentrismo, io me ne vado" chiusi la discussione; tornai a dargli le spalle e ripresi a camminare lungo la stradina del parco.
"No, no, no!" lo sentii esclamare.
Dopo appena qualche secondo Louis rispuntò davanti a me e si mise a camminare all'indietro pur di tenermi d'occhio.
"Avanti, dimmi il tuo nome!" m'incitò, questa volta con tono più moderato.
"Che cosa vuoi da me? E non raccontarmi stupide storielle su fantasmi e personaggi famosi" borbottai.
"Ma io sono davvero un fantasma! E sono anche famoso!" s'impuntò lui, frustrato.
Risi, nervosa. "Come puoi pensare che io ti creda?!" esclamai.
Louis fece spallucce. "Non ho altri mezzi a disposizione. Nessuno riesce a vedermi o a sentirmi, sono morto e tu sei l'unica che può stabilire un contatto con me. Se non mi aiuterai, resterò solo e confinato per sempre."
Rallentai la mia camminata fino a fermarmi del tutto. Lo guardai negli occhi e lui sospirò, sconsolato. In quel momento non riconobbi il ragazzo presuntuoso ed egocentrico che poco prima mi aveva apostrofata con ironia.
"È la verità?" domandai, sospettosa.
Lui annuì; sembrava frastornato quasi quanto me. "Te lo posso giurare."
Sospirai, indecisa. Mi sentivo una tale idiota nel dare retta a qualcuno che poteva benissimo rivelarsi un truffatore. E se Louis in verità fosse stato un bugiardo come tanti altri? Eppure nei suoi occhi c'era traccia di smarrimento, come se davvero lui fosse solo.
"Io mi chiamo Margherita" risposi infine.
Lui strabuzzò gli occhi con fare perplesso. Quando aprì bocca per parlare, io lo precedetti dicendo: "Sono italiana. Qua tutti mi chiamano Margaret."
Louis annuì e tirò fuori un timido sorriso. "Molto piacere. Ti stringerei la mano, ma... sai, quando si è un fantasma le presentazioni diventano più sbrigative..."
Mi lasciai scappare un sorrisetto. "D'accordo, vuoi dirmi che cos'è successo?"
Louis annuì una seconda volta e si scostò. Lo vidi indicare una panchina a qualche metro di distanza da dove ci trovavamo noi due.
"Ti va di spostarci? Se qualcuno ti vedesse parlare da sola, saresti subito internata in un ospedale psichiatrico..."



28 gennaio 2015, 05:23 p.m.


Stavo camminando a vuoto da ore ormai. Non sentivo il peso della stanchezza o dello sforzo compiuto: non provavo nulla di tutto ciò. Ogni sensazione fisica era scomparsa, mi restavano solo più la noia e la paura come compagne d'avventura. Il fatto di trovarmi solo e senza mezzi di comunicazione mi stava procurando non poche domande: che cosa ne sarebbe stato di me? Se avessi continuato a girovagare in eterno senza mai incontrare un mio simile, che cosa sarei diventato? Un'anima in pena di cui presto il mondo intero si sarebbe dimenticato?
Ero riuscito a evitare le zone più pericolose della città, ma in quel momento fui preso dalla disperazione. Girare Londra a piedi senza una meta o un obiettivo non aveva alcun senso, sarebbe stato meglio tornare a casa mia e osservare il dolore e il lutto di amici e famiglia.
Lasciai scivolare lo sguardo sulle vetrine alla mia destra: un negozio di elettronica, un veterinario e infine un bar. Scrutai all'interno del locale, abbastanza ampio ma quasi del tutto vuoto a quell'ora del pomeriggio. Le cameriere erano dietro un alto bancone scuro e stavano pulendo senza badare alla poca clientela rimasta. Feci per andare oltre e lasciarmi alle spalle l'ennesimo bar, quando fui attratto dallo schermo illuminato del televisore all'interno del locale: una giornalista parlava e una mia fotografia si stagliava sullo sfondo, seguita da un'insegna in basso che recitava: Cordoglio del mondo dello spettacolo per la prematura scomparsa del celebre cantante.
Sbuffai e varcai la soglia del locale senza più alcuna esitazione. Mi diressi al tavolino più vicino al televisore, posto in alto sopra la sala. Mi accomodai, incredulo di fronte alla notizia della mia morte.
"E ora passiamo alle notizie sportive..."
Alzai gli occhi al cielo e distolsi lo sguardo dal televisore. Proprio quando io varcavo la soglia del bar, la presentatrice televisiva decideva di privarmi dell'ennesimo servizio commovente sulla mia morte.
Mi state privando anche dell'ultimo legame con la mia vita. Perfetto!
Proprio in quell'istante mi accorsi di una delle due cameriere, la più giovane, che si avvicinava a me con passo rilassato. Rimasi a fissarla, inevitabilmente stupito. Ero solo in quell'angolo della saletta, non c'erano dubbi sul fatto che la ragazza si stesse dirigendo proprio verso di me.
"Ciao!" mi salutò con un tono vivace e spensierato.
Non posso crederci. No, non è possibile.
La guardai ancora a lungo. Doveva esserci qualcosa che non andava. Io ero invisibile, io ero un fantasma. Io ero morto!
"Ciao... Vuoi già ordinare?" ripeté la ragazza, perplessa.
"T... tu... riesci...?" provai a chiederle.
Lei sembrava sempre più confusa dai miei comportamenti. "Non ho capito che cos'hai detto, scusa."
Presi coraggio ed esclamai: "Tu riesci a vedermi?!"



28 gennaio 2015, 05:54 p.m.


"Io faccio parte di una band molto famosa" spiegai come prima cosa.
Margaret annuì e non esitò nel correggermi: "Facevi."
Le scoccai un'occhiata stizzita. "Partiamo già col piede sbagliato, rag..."
"Zitto!" esclamò lei. "Ti ho detto il mio nome, smetti di..."
"Va bene!" mi arresi. "Ti prego, Margaret, di non interrompermi più."
Lei alzò gli occhi al cielo ma non ribatté. Eravamo seduti uno di fronte all'altro su una panchina isolata dal resto del mondo: non avremmo potuto trovare posto migliore per le confessioni che stavano per arrivare.
"Mi chiamo Louis Tomlinson e fino a due giorni fa ero uno dei ragazzi in carne ed ossa più celebri e ricchi al mondo" ricominciai a parlare. "Conducevo una vita perfetta e non mi mancava nulla, ma per colpa di un maledetto incidente stradale sono..."
"... morto" completò Margaret in un soffio appena percettibile.
Annuii, colpito da quella constatazione: non avevo ancora accettato del tutto la mia nuova condizione.
"Non sono molto ferrato in materia di esoterico e... morti misteriose, ma credo che siamo tutti d'accordo sul fatto che una persona che muore debba finire in qualche luogo paradisiaco..."
"... o infernale" m'interruppe nuovamente Margaret.
"... o infernale, certo, ma non qui. Non è naturale e tantomeno giusto che io sia ancora qui sotto forma di fantasma, non trovi?" proseguii.
Margaret annuì e sospirò, gli occhi abbassati sulle mie mani intrecciate. "Non capisco come questo possa essere successo, Louis."
"Io voglio tornare indietro!" esclamai, interrompendo le sue riflessioni.
Margaret mi guardò, scettica. "Tornare indietro?"
"Sì, tornare indietro. Indietro al momento in cui mi sono gettato in strada e sono stato investito. Voglio rifare tutto e cancellare questa specie di maledizione" le spiegai, eccitato all'idea di ritornare a vivere la mia vita come un comune essere umano.
Margaret sorrise e mi parve farsi subito più impietosita. La cosa m'irritò: non avevo bisogno di sentirla parlare per capire che cos'avrebbe detto.
"Non credi sia possibile, vero?" domandai.
"Louis, non lo è. Lo sai anche tu" rispose.
"Non è vero! Anche essere un fantasma mi sarebbe parsa una sciocchezza, se me l'avessero detto qualche giorno fa, eppure guardami adesso!" mi ostinai. "Ci dev'essere un modo di riavvolgere la pellicola, io devo tornare a vivere!"
Margaret non fece una piega; sembrava una statua e io non osai riaprire bocca per paura di poter suonare ancora più sciocco.
"Louis, non c'è modo di resuscitare" replicò lei, la voce bassa. "Non so perché tu sia ancora intrappolato quaggiù, ma non esiste alcuna magia che possa riportarti alla notte in cui sei stato investito."
Ci fissammo dritto negli occhi e io mi sentii crollare. Le sue parole colpivano dritto al cuore, perché lei era la prima e forse l'unica in grado di creare un contatto con me in quella condizione e sapere che nemmeno la mia ultima sostenitrice credeva in quella possibilità equivaleva a una resa.
"E allora perché sono ancora qui? Di sicuro c'è un motivo!" insistetti, sempre meno spavaldo.
Margaret annuì. "Lo credo anch'io, ma non penso che tu possa tornare umano."
"Vivere come un fantasma non ha alcun senso, Margaret!" sputai con disprezzo. "Le possibilità sono due: o questo è uno stato temporaneo prima della mia morte definitiva, oppure esiste una maniera di cancellare la scorsa notte."
La ragazza sospirò, confusa. "Io non... capisco. Tutta questa faccenda ha..."
La sentii interrompersi bruscamente e non potei fare a meno di voltarmi nella sua direzione. Adesso Margaret mi stava fissando con tanto d'occhi, come se fosse appena stata pugnalata al cuore.
"Louis, ho capito!" esclamò, folgorata.
"Che cosa?" chiesi, improvvisamente più attento. "Che cos'hai capito?"
Margaret si alzò di scatto dalla panchina. "Devi seguirmi. Ho capito chi può aiutarci a fare luce su questa storia."
Seguii il suo esempio e presi a seguirla lungo la stradina che conduceva verso i cancelli del parco.
"Mi spieghi di chi stai parlando?" insistetti, divorato dalla curiosità.
Lei annuì, ma rimase in silenzio. Io resistetti per qualche secondo, dopodiché tornai all'attacco: "Margaret, voglio sapere da chi stiamo andando."
"Da mia zia" rispose infine lei, voltandosi brevemente verso di me. "È lei che mi ospita qui a Londra e si dà il caso che sia anche un'appassionata di stregoneria, magia e tarocchi."
Aggrottai la fronte, mentre io e Margaret imboccavamo l'uscita del parco e attraversavamo il marciapiede per raggiungere le strisce pedonali.
"Dev'essere un tipo bizzarro" ipotizzai.
Margaret, sorprendentemente, annuì e si lasciò scappare una risatina. "Lo è. Però sono sicura che saprà aiutarti meglio di quanto non lo stia facendo io."
"Pensi che lei possa vedermi?" domandai, acceso di una nuova fiammeggiante speranza.
Margaret infilò le mani nelle tasche del giubbotto e proseguì per una stradina che sembrava disabitata. "Non possiamo averne la certezza, ma proprio ieri zia Carola mi ha fatto una strana predizione a proposito di qualcosa in agguato che avrebbe avuto a che fare con me."
Annuii, affascinato dalle nuove rivelazioni: così qualcuno aveva come 'previsto' quella mia fine? E se la zia di Margaret fosse davvero stata in grado di trovarmi una maniera di uscire da quella condizione di fantasma?
"Io non avevo dato peso alle sue parole, ma adesso inizio a ricredermi..." ammise Margaret, il tono di voce appena udibile mentre incrociavamo il passaggio di due ragazzi mano nella mano. Poi la sentii ridere con fare incredulo ed esclamare: "Ancora stento a credere di essere finita in questa faccenda! Sto camminando fianco a fianco con il fantasma di quello che, con ogni probabilità, è stato uno dei cantanti più famosi degli ultimi anni! È incredibile, non trovi?"
"A chi lo dici!" concordai. "Fino a due giorni fa avrei riso di gusto se mi avessero detto che sarei arrivato a implorare l'aiuto di una come te in un anonimo bar di una delle zone più squallide della città."
Margaret si voltò di scatto e il suo sguardo ebbe tutta l'aria di volermi incenerire. Sussultai, dimentico del fatto che forse il mio sarcasmo sarebbe stato dannoso in quel frangente.
"Faccio ancora in tempo a tornare indietro a lavorare, Louis..." mi mise in guardia, scocciata.
Ridacchiai e cercai di darle un colpetto alla spalla per dimostrare che in fondo non ero così acido come potevo sembrare, ma fu tutto invano. Lei si accorse della mia mossa e spalancò la bocca dalla sorpresa, fermandosi in mezzo al marciapiede per scrutarmi coi suoi grandi occhi chiari.
"Non ho sentito nulla..." constatò, incredula. "Quando mi hai toccata, non ho percepito nulla! Allora questa storia non è una montatura..."
Alzai gli occhi al cielo. "Ancora credi che stia mentendo? Margaret, che cosa guadagnerei raccontando simili bugie?"
Lei però ancora mi fissava come se non riuscisse a credermi. Iniziavo a sentirmi a disagio di fronte a tanto stupore: nemmeno io ero ancora abituato a quel nuovo stato, ma non potevo pensare che Margaret mi credesse un impostore. Quante altre dimostrazioni le avrei dovuto dare per convincerla ad aiutarmi?
"Dobbiamo parlare con zia Carola. E dobbiamo farlo subito" affermò la ragazza con tono deciso.




Visti i miei soliti standard, questi capitoli mi sembrano perfino CORTI! Hahahaha
Ciaooo!
Bentornate su questa fanfiction, come ve la passate? Spero bene e spero che il periodaccio d'esami o di chiusura del quadrimestre sia andato al meglio per tutte voi, perché questo mio periodo sta andando un po' così (sono alle prese con questioni lavorative abbastanza delicate che vanno risolte il prima possibile e ho gli esami, un colloquio per l'Erasmus... insomma, ansia!)
Comunque, ricapitolando: sì, Louis è morto e ci fa ciao con la manina da lassù... ah, no, aspettate... LOUIS E' UN FANTASMA!
Non l'ho fatto scomparire perché sarebbe stato troppo semplice e in più mi piace l'idea di un personaggio famoso tormentato dalla sua stessa fama, che quindi gli presenta il conto con tanto d'interessi. La sostanza della storia è questa, e per "riscattarsi" Louis avrà bisogno di una persona che è il suo opposto: una ragazza che conduce una vita semplice e che è felice di ciò che è e che fa.
Insomma, spero di avervi incuriosite abbastanza da seguirmi e in caso voleste commentare queste mie strambe idee, sapete come fare! :) Vi saluto perché domani ho un odioso esame di informatica e se non finisco di studiare (mi mancano un botto di slide, va be' :D) sono nella cosiddetta MERDA.
Un bacio e un abbraccio,



Martina
Ps. Ultimo ringraziamento di cuore: a tutte quelle carissime lettrici che mi hanno supportata con recensioni, "preferite", "seguite" o "ricordate". Grazie mille, questo capitolo è per voi. :)

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