Falene sugl'occhi

di Sottopelle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***



Capitolo 1
*** I ***


C’è qualcosa di affascinante nel moto di caduta – quasi – libera descritto dalla neve che cade. E non è tanto il fatto della leggerezza con cui traccia le sue traiettorie nel cielo, ma al silenzio prodotto quand’esse quando si concludono sull’asfalto. La resistenza del suolo che si annulla di fronte al bianco, che è, di per sé, l’annullamento dei colori.
La città si muove sotto ai miei piedi, sopra la mia testa, tra le dita delle mani, striscia come un serpente e sibila, canta, urla, piange, si contorce di dolore al tocco della neve fredda. Non sono mai stata il genere di persona di città: ho sempre preferito il fumo delle sigarette a quello dello scarico delle auto, per assicurarmi di avere i polmoni malandati, ho sempre odiato la frenesia caotica delle strade, eppure la calma mi rende ansiosa. Che poi tutto questo non importa assolutamente nulla, dei passanti che spintonano come giocatori di rugby, dei tram che sono sul punto di investirti un giorno sì e l'altro pure, delle strade puntualmente chiuse proprio il giorno in cui hai ceduto alla sveglia e ti sei detto: "Ancora cinque minuti" ma che si sono trasformati in una mezz'ora abbondante, non ha importanza se si è solo di passaggio, se io qui sono solo di passaggio, la mia è una vita transitoria che mi condurrà ad una morte transitoria e in molte altre dimensioni in avvenire fino a quando la mia anima deciderà di smetterla di traslarsi in altri spazi custoditi nell'inconscio dell'umanità e dell'esistenza stessa. O forse il concetto è più simile a quello del traffico cittadino: vivi, muori, resusciti, muori di nuovo e così via fino a quando non finisci il carburante. Che sembra eterna, l'esistenza, così come il tempo passato in coda davanti al semaforo.
Non dovrebbe importarti nulla di ciò che avviene dopo la morte proprio perché tutti noi entriamo nella condizione di non-vita, dice Anna.
Sorride con quei suoi due denti di plastica e i capelli di nylon.
Pensa a vivere la tua vita, dice.
Il rossetto marrone-merda che disegna cerchi perfetti sulla sua pelle giallastra.
Anche Gesù era in condizione di non-vita, dico.
Ma mica era morto veramente, dico. Mica si faceva beccare in giro tre giorni dopo, sennò.
Anna ride. La risata resa roca da una combinazione di smog, fumo e da tre giorni antecedenti a questo di raffreddore.
Nonostante non lo ammetta, anche lei è di passaggio, qui. Le strade piene di prostitute e altrettanti uomini che spogliano i loro corpi con la mente [i più temerari anche col denaro, ma sono in pochi], i parchi che hanno subito un'occupazione di massa da parte di senzatetto, bambini urlanti e genitori dall'aria più disperata de "L'urlo" di Edvard Munch, i vicoli ciechi che sono punto ormai diventati il punto di ritrovo di tossici, topi e qualche preservativo usato, sono solo gli elementi che contraddistinguono una realtà che tutto sommato non ci appartiene pienamente e che rappresenta solo la nostra cultura ed educazione, ma non il nostro modello di pensiero vero e proprio. Io non vivo di queste cose. Sono qui solo per imparare come gira questo mondo per poi andare a conoscere e capire il senso di rotazione di un'altro. Non si può definire come l'incapacità di legarsi ad un determinato luogo, né il desiderio di esplorarne altri: la mia è solo pura consapevolezza che ogni giuramento fatto oggi, domani o in futuro, non durerà mai in eterno come lo si vuol far credere, e che è inutile illudersi di tale durata.
Anna ride. Tossisce e ride.
Il sorriso che ormai è più una smorfia che altro.
Sta arrivando Johan, dice.
Tossisce ancora, le nubi tossiche che ancora faticano a scollarsi dalla sua gola infetta di aria inquinata.
E in tutto questo, ride. Lei e il suo squallore, il suo degrado. Lei e i suoi vestiti da pseudo-indie.
Johan è il tipo di ragazzo che non lascia mai far intendere agli altri ciò che pensa. Sempre se lui abbia ancora la capacità di pensare lucidamente. Anzi, mi correggo: se abbia ancora la capacità di pensare e basta, che io lui l'ho conosciuto in uno stato di evidente ebrezza e ancora non ho mai avuto l'onore [se tale si può definire] di parlargli da sobrio. Forse non lo è mai. Un'auto di cui l'unico carburante corrisponde all'alcol. Ecco, lui è l'esempio di persona che non vede la vita ma bensì l'ubriachezza come una fase transitoria della vita, una fase che, per lui, deve essere prolungata il più possibile con l'ausilio di bottiglie su bottiglie e denaro da spendere. Una vita distorta dalla non-lucidità della mente e che andrà a concludersi con la morte. Cosa ci sia dopo la morte, per lui, rimane un mistero: è lo stesso concetto di quando bevi troppo e il giorno dopo non ricordi più nulla. La morte non va ricordata, va vissuta nel suo essere poi dimenticata inevitabilmente.
Il saluto che Johan ci rivolge è un'ondata di odore di alcol, occhi lucidi e sorriso forzato dalla lucidità ormai perduta.
Il saluto che Johan ci rivolge è dato dalla bottiglia di vodka-colluttorio [economica sottomarca tedesca, perché si preferisce alla quantità invece che la qualità, secondo la sua filosofia di vita-sbronza] stretta nella sua mano come se fosse la reliquia più preziosa di questo mondo.
C'è qualcosa di speciale nella neve, che conserva il suo candore nonostante la sua caduta tra mille e più metri di aria sporca e tossica. La capacità di essere puri anche in mezzo alla merda più totale.
Anna rivolge a Johan il più falso dei sorrisi che io, nella mia umile vita effimera, abbia mai visto.
C'è qualcosa di assurdo nel come l'essere umano riesca a mascherare i propri sentimenti e fingere di provarne altri. Qualcosa di grottesco e di corrotto, che abbandona l'umanità intesa come essere pensante ed intelligente per arrivarne ad una subdola e finta. Fottutamente finta.
Le labbra di Anna si incurvano in un sorriso da fare invidia alle pubblicità per dentifrici.
Ti vedo bene, dice.
Abbraccia l'uomo-bottiglia. Appiccicosa come una gomma da masticare fresca attaccata sotto la scarpa.
Johan mugugna qualcosa. Diciamo che ha un vocabolario tutto suo, che varia in base alla quantità di alcol in circolo nel suo corpo.
Stasera si va a ballare, dice Anna.
Ride come un'ossessa. Forse prima di uscire si fa qualche canna. O forse ha inalato del protossido di azoto.
Ci divertiremo, dice.
La vita è fatta di attimi. La vita stessa è un semplice attimo tra i tanti che costellano la nostra esistenza. Ed è proprio in un fottuto attimo che dalla periferia sudicia di Oslo con il portafogli abbastanza pieno finiamo per trovarci all’ingresso del Dixie con decisamente meno soldi di prima e con qualche senso di colpa per averli spesi inutilmente.
Anna ride con la sua faccia da cavalla, il corpo sedotto dalla musica assordante e la mente incenerita dal desiderio di passare la notte a fingersi più accattivante ed attraente di ciò che è in realtà.
Per quanto riguarda me, io non sono il genere di persona da discoteca: ballare è transitare in uno stato di euforia troppo a lungo per i miei standard. E dopotutto io non ho mai avuto il senso del ritmo.
Johan ormai è dato per disperso, ma gli unici due posti in cui può essersi andato a rifugiare è o il bancone del bar a prendere qualcosa da bere o al bagno a rimettere l’anima. La terza opzione è trovarlo collassato in pista da ballo ma ho sempre confidato nella sua capacità di reggere l’alcol meglio di quanto possa farlo con l’acqua naturale.
Tutto transita e nulla si ferma: il sudore sulla pelle di chi balla transita sui loro corpi, cola, gocciola, i piedi si muovono in cerchio, secondo un ritmo fatto anch’esso di attimi, il respiro pesante contro l’aria più viziata dei figli di papà che si trovano qui dentro a bruciare calorie su calorie dimenandosi e che subito dopo recuperano a forza di bere come se non ci fosse un domani. Una vita nuova.
Anna si guarda intorno con uno sguardo seducente non ben riuscito: potrebbe essere descritta come un esemplare di Anna-troia nel suo habitat naturale, se questo fosse un documentario scientifico sulla biodiversità presente in un ecosistema chiamato “locale notturno”.
Ho voglia di una sigaretta. Ho voglia di uscire da qui. Mi correggo: ho bisogno di uscire da qui.
L’aria notturna mi saluta con uno schiaffo in piena faccia, punge e pizzica con violenza la mia pelle nuda. La neve ancor cade, e ancora si ostina a non fare rumore. C’è il mondo sotto a fare rumore anche per lei.
Il mio respiro è una nuvola contro il buio, contro il freddo, contro il mondo, la vita, la morte, l’esistere e il conoscere. Le mie labbra sono spiraglio di calore e fumo, di veleno che corrode lentamente nel più dolce dei modi.
Questa è solo una delle tante notti di passaggio.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

È la prima volta che cerco di scrivere una storia a più capitoli, dunque mi ritengo piuttosto inesperta, a riguardo. Accetterò di buon grado i vostri consigli e critiche, qualora me ne lasciaste. Ho cambiato radicalmente stile, anche se non è la prima volta che lo utilizzo. Forse per questo scopo sì, lo è. Il che lo rende una cosa totalmente nuova, per me.
Che dire, forse devo spiegare un po' il senso di tutto questo: diciamo che si tratta della mia visione del mondo, di ciò che mi circonda. Parlerò di diverse tematiche, tra cui prostituzione, abuso di sostanze stupefacenti, violenza, perché questo è tutto ciò che ha caratterizzato e caratterizza tuttora la mia vita. Questi sono fatti in gran parte reali, e che io ho "vissuto" attraverso le esperienze dei miei coetanei, ma che sono posti in un contesto diverso. Lo scopo principale per cui scrivo è sia per piacere mio personale che per far riflettere su cosa siamo diventati oggi, su cosa rappresenti adesso il genere umano. 
Ah, mi scuso per la pessima impostazione del testo, ma la mia ignoranza nel campo informatico mi impedisce di strutturare il testo in modo più gradevole alla lettura. Chiedo venia.

 

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Capitolo 2
*** II ***


Ogni storia, sostanzialmente, inizia da un: “rottura dell’equilibrio”. C’è bisogno del caos per avere qualcosa da raccontare: è il male che parla, scrive libri, canzoni, poesie muove le bocche, i cuori, le menti. Una persona felice non scriverebbe mai un libro intero sulla sua schifosa felicità.
In tutto ciò, nella mia stupida storia, in questa notte fredda, l’unica cosa di cui posso assicurarvi l’effettiva rottura sono le mie palle, qualora ne avessi.  Anche se mi ritengo abbastanza donna da esser convinta di non possedere testicoli. Che poi, nel corpo umano, non sono le uniche coppie di organi di forma all’incirca-sferica. Una donna ha le ovaie, le tette, i globi oculari, ad esempio, dunque quando si allude a “palle” il pensiero non dovrebbe rivolgersi subito ed immediatamente ai genitali maschili. Alla forse sì, le palle me le sono rotta veramente, stasera. Che però rimane pur sempre un modo di dire, dopotutto non rinuncerei mai al mio lato A, seppur sempre troppo scarso.
Finita la mia contemplazione dei disegni informi tracciati dal fumo, faccio nuovamente ingresso in quel buco di culo noto a tutti come “Dixie”. Non ci metto molto ad individuare i due fanciulli che mi hanno condotta e scaricata qui, bisogna ammettere che sono entrambi fin troppo facili da riconoscere, uno nel suo stato catatonico permanente e l’altra in preda a delle pseudo-convulsioni che la spingono a dimenarsi come se stesse bruciando lì sul posto. È gratificante potersi considerare come l’unico essere pensante tra bestie da ballo.
Osservazione numero uno: l’esemplare di Johan-uomo-vodka transita nelle remote zone dei bagni attorniato da altri suoi simili uomini-vodka. Potrei seriamente prendere in considerazione l’idea di andare a fare la presentatrice di documentari scientifici su qualche canale che non si fila mai nessuno nemmeno di striscio. O magari lavorare in uno zoo. E parlandoci chiaro, a volte vivere qui sembra veramente di stare allo zoo, solo che non esistono i movimenti di ambientalisti né tantomeno ecoterroristi armati di astrolite e nitroglicerina a difendere le “povere bestie” che alla fine è il genere umano.
A circa cinque metri di distanza invece c’è Anna, vittima della frenesia del posto e di qualche bicchiere di tequila di troppo, tra altri esseri alterati da sostanze più o meno illegali. Pare che qui si divertano tutti più di me.
Torno fuori: fuori ancora nevica, fuori ancora c’è qualche stralcio di silenzio, fuori ancora il mondo sembra avere un senso che non sia il raggiungimento di uno stadio mentale dove tutto perde ogni suo significato, fuori ancora il mondo sembra avere mente propria, le persone con capacità di pensiero che vanno al di fuori della squallidissima routine: “Alcol, droga, discoteca, sesso”. Dove ancora dimostrano di avere un qualcosa di umano.
C’è qualcosa di divertente nel come la mente umana possa elaborare alcune idee in tempi minimi che subito ci appaiono le più giuste, ma che una volta prese, con il lungo andare, si dimostrano non essere le migliori. Ed è proprio in questo esatto momento, quello in cui ci sono io che fisso il nulla e il mio cervello che si muove con i suoi ingranaggi offuscati dalla nicotina, che mi decido a lasciare il degrado sotto forma di night club per cercare un habitat migliore.
L’aria notturna è una frustata in pieno viso e io non sento dolore, non sento più nulla e mi va bene così: tra il dolore e l’insensibilità, quest’ultima prevale senza ombra di dubbio. La strada sembra una scia di vomito nero, umida, marcia come la gente che ci cammina sopra.  Marcia come la sottoscritta che ci cammina sopra.
Dieci metri, semaforo, gira a destra, avanti una trentina di metri e poi svolta a sinistra; la mia meta? Una panchina. Un po’ pericolante, forse, ma le mie orecchie sembrano apprezzare comunque il tentativo di allontanamento dal presunto caos a cui sono appena sopravvissuta.
A tre metri di fronte a me c’è un parapetto: oltre il parapetto dell’acqua, oltre l’acqua semplicemente dell’altra acqua, per poi essere sostituita da altra acqua e poi non riesco più a distinguere nulla. Acqua nera come l’aria che respiro ora che con indice e medio giocherello con una sigaretta accesa e nell’altra mano cerco di scaldarmi con l’accendino in perfetto stile senzatetto. Non mi considero un’asociale, non fuggo dalle discoteche perché temo il numero di suoi frequentatori e i contatti umani: è il loro scarso quoziente intellettivo [perché offuscato dall’alcol, si spera] a farmi desistere. Non è che io mi consideri una persona chissà quanto intelligente, ma vorrei avere a che fare con gente che sappia dire altro oltre che: “Che figa che è quella/che pezzo di sesso che è quello/me la farei subito/gli farei un pompino”. Sono abbastanza pretenziosa quando si tratta di relazionarmi con qualcuno al di fuori di me.
A giudicare dall’altezza della luna, del livello del mare, della frequenza con cui passano le auto rilasciando monossido di carbonio che si depositerà come un cancro nel mio respiro già pesante, a giudicare dal freddo che sento e il calore rilasciato dal mio corpo sulla panchina, non saprei fare una stima precisa dell’ora attuale. So solo che è tardi e le stelle stanotte non si vedono, e in tutto ciò sento la necessità di accendere un’altra sigaretta.
C’è qualcosa di estremamente piacevole nel ripetere continuamente gesti che risultano per noi essere familiari, la sensazione che ci sono cose che non cambieranno e che non saranno mai fonte di incertezze e liti, disagi e rabbia a meno che essi non verranno a mancare, uno delle tante tessere che compongono la nostra routine e del quale non sapremmo fare a meno. Ed è il fumo mischiato al gelo, adesso, ad essere l’abitudine che sto cercando, a farmi sentire un po’ meno sola e un po’ meno triste. Una consolazione tra le delusioni.
Dopo un tempo indefinito fatto di furgoni e automobili transitanti, mi accorgo di non essere più sola come lo ero prima. A spezzare la “quiete” di una città che non sa tacere né di giorno né di notte c’è un rumore di passi strascicati e qualche sbuffo nel mezzo.
È da un po’ che non ci si vede, dice Ingrid.
Come te la passi?, dice.
Prima mi stava per prende sotto un camion, dice.
Ridacchia, sbuffa, trascina i piedi ancora per qualche metro, si siede sullo schienale della panchina e io posso sentirne le viti cigolare come se si lamentassero del peso piuma che è Ingrid che si è appoggiato sopra. Un cumulo di ossa incastrate tra di loro, capelli, occhi e tanta capacità di urtare i nervi di qualsiasi essere che viva o respiri nel raggio di tre chilometri. Ecco cos’è Ingrid.
Dondola un po’ il piede giusto per assicurarsi che la panchina sia ancora più instabile di prima, si gratta il mento, si riallaccia una scarpa, si guarda intorno, inizia a mordicchiarsi il mignolo. Poi si gira a guardarmi.
Ma ti vesti sempre di nero?, dice. Rumori in sottofondo di lei che litiga con le pellicine dell’indice e denti che addentano il nulla.
La guardo. Lei e la sua giacca verde-cimice, i pantaloni del medesimo colore, la felpa consumata rosa, le Timberland giallo-schifo.
La guardo. Matita viola e rossetto rosso.
La guardo.
Però ho le mutande rosa.
 
 
 
 
 
 
  
 
 


Salve a tutti!
So bene che, ora come ora, la storia non ha una pressoché di piega malinconica come quella che ci si potrebbe aspettare in questa determinata sezione di racconti, ma per ora questi sono capitoli di passaggio per iniziare a inquadrare principalmente la voce narrante e i personaggi esterni; a tempo debito la storia inizierà ad assumere una piega sempre più drammatica man mano che cominceranno ad aggiungersi gli altri personaggi e a muoversi insieme. Altri verranno messi da parte per un certo periodo, ma si ripresenteranno nei capitoli sucessivi, dunque, almeno nei miei progetti, non ci dovrebbe essere un chissà quale caos nella stesura dei capitoli e l'articolazione della trama. Spero che anche nella realtà dei fatti sia così, ahah.
Che dire altro, io spero che la storia sia di vostro gradimento e rinnovo il suggerimento a coloro che hanno critiche/consigli da pormi di farmeli presenti, qualunque cosa abbiano da dire, perché mi farebbe davvero piacere ricevere qualche parere esterno. Alla prossima, fanciulli!

 

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Capitolo 3
*** III ***


Ingrid mi parla del cane del vicino che ha un tumore ai testicoli ed a me non interessa. Le sue parole entrano dal mio orecchio destro ed escono da quello sinistro, così velocemente che non riesco ad afferrare il senso logico delle sue parole, soggetti, verbi, complementi, ma da quel che riesco ad afferrare giungo alla conclusione che Ingrid ha la erre moscia. La mia soglia di attenzione, stasera, è pari a zero.
Cerco vie di fuga con lo sguardo, ma sono ben poche: potrei saltare dal parapetto e sfracellarmi al di sotto, fingere un violento attacco di gastroenterite e fuggire, tornare al Dixie improvvisando delle pseudo-convulsioni per confondermi con la massa, rimanere su quella panchina ed aspettare che Ingrid si stufi di parlare credendo che le sue storie mi interessino. Anche se quest’ultima non è propriamente una fuga. In tutto ciò, con Ingrid che blatera e la mia tachicardia che comincia a farsi più insistente, alzo lo sguardo di nuovo e guardo la neve. Ha un qualcosa di troppo puro, per poter cadere proprio qui. Per finire tra le pieghe dei vestiti di Ingrid. Per incastrarsi tra i miei capelli. È un contrasto che fa quasi ridere, la neve con il suo bianco puro comparata allo sporco cupo delle strade, le case, le persone. Come se, nel suo cadere, la neve cercasse di redimere i peccati dell’uomo e le sue creazioni. O se non altro, nasconderle col suo manto. Per un momento, mi sento in pace con l’universo, come se quegli spruzzi bianchi sui vestiti e in testa potessero rendermi parte attiva di un’ipotetica salvezza del mondo, come se potessi diventare pura, così all’improvviso. Mi viene quasi da ridere, al pensare alle stronzate che penso sempre. Mi viene quasi da ridere, nel vedere una cosa così candida come la neve cadere in questi luoghi di degrado, su queste facce devastate da vite folli e malate. L’uomo non si merita certe meraviglie della natura. Quindi chiudo gli occhi, ed inspiro, stasera mi sento fortunata ad essere partecipe a questa scena ma allo stesso tempo indegna, per cui decido di terminare la mia contemplazione del mondo e le sue regole  e di porre fine alla mia elevazione ad uno stadio più elevato di spiritualità.
Quando la mia mente decide di tornare al presente e i miei occhi iniziano a visualizzare i capelli sporchi di Ingrid, la sento la sua voce acuta parlarmi della sua nuova ricetta per preparare la salsa greca. Mi lascio sfuggire un sospiro quasi esasperato, che però non viene colto dalla mia interlocutrice. Mi tremano le gambe per il freddo, per l’ansia, per il mio bisogno di accendermi un’altra sigaretta e di perdermi ancora una volta nei miei pensieri.
Hai freddo?, chiede Ingrid.
Uno spiraglio di luce mi illumina la mia via di fuga più sicura.
Un po’, dico. La voce tremolante.
Ed è così che mi alzo e, senza nemmeno salutare la donna-cimice, torno a farmi sanguinare le tempie a ritmo di musica.
Una folata di aria calda mi investe e si fa sentire la mia voglia di scappare veramente. Ma nonostante la mia mente mi inciti ad andarmene, le mie gambe si muovono verso quel forno chiamato “Dixie” ed io mi addentro in quella che sembra una giungla di corpi bollenti. E poi, vedo lei.
Anna balla. Gira su se stessa tra l’orda di corpi sudati ed appiccicosi. Anna balla e io la guardo. Sembra quasi un’allucinazione girata in una qualche telenovela spagnola degli anni ’90. Anna balla, una bambolina di porcellana che ruota su stessa, prima veloce, poi sempre più lenta. Quando si ferma, cade a terra in frantumi. Così, mentre prima vedo i suoi capelli giallo-paglia tracciare cerchi nell’aria pesante tra le luci degne di attacco epilettico, ora vedo quello stesso cespuglio finire a terra, inerme. Anna si spezza, ma io non sento il cozzare della porcellana ormai infranta, non sento l’incrinarsi delle sue ginocchia che cedono, non sento niente oltre la musica martellante, non sento niente mentre la guardo caduta a terra, non sento l’istinto di correre da lei, non sento l’istinto di chiamare aiuto, non sento niente. Io sono di passaggio, come anche lei lo è, solamente io e lei abbiamo tempi di staticità diversi e si è trattenuta in questo posto meno di me.
Fuori ha ripreso nevicare e l’aria notturna sembra prendermi a schiaffi. Sento la pelle del viso tirare, ormai secca per il trucco vecchio di due o tre nottate altrettanto frenetiche e per il vento che tira. La neve non ha più quel suo candore malaticcio ma ora è blu. Ora bianca. Ora blu. Ora bianca. Ora blu. Non c’è più musica di sottofondo, solo voci.  Voci di chi “che è successo?”, voci di chi “cazzo c’è la polizia, mi sono fatto una canna/una striscia/ho trenta grammi di eroina nascosta nelle mutande”, voci di chi “ora la serata è rovinata”, voci di chi “fuori fa freddo, fateci rientrare nel locale”.
Johan si fa spazio a suon di spinte e appoggia una mano sulla mia spalla con gli occhi annebbiati, che è successo?, dice.
Ogni parola inizia a essere di troppo e a me gira la testa. Sento pulsare le vene sul collo, i polsi, ovunque. Anche la mia ansia è transitoria.
Che cazzo è successo?, dice ancora Johan e a me ancora le parole sembrano sfuggire.
È a terra, dico. I miei occhi si perdono nella folla, il respiro nei polmoni che sembrano incapaci di contrarsi.
È stata la prima a crollare, dico.
Johan ride.
Credevo di essere io quello messo peggio, dice.
Anna ha perso la scommessa, dice.
C’è da fare una piccola parentesi a riguardo: si debba sapere che noi siamo soliti fare una scommessa, quando usciamo ad annientarci i neuroni. Il primo che cede, e dunque collassa, che sia per alcol o droga, è costretto ad offrire agli altri da bere il giorno dopo. È un nostro rito.
Ora tocca a lei offrire da bere, dice.
Un telo bianco fa a pugni con la pelle gialla e malsana di Anna. Un telo bianco che non può coprire gli occhi aperti ed ormai secchi di Anna, circondati dal trucco mezzo colato per via del sudore. Un telo bianco che sancisce la fine della transizione di Anna in questa dimensione.
Johan, dico.
Mi viene da ridere e non so il perché. Mi viene da piangere e non so il perché. Non ho né tempo né spazio per i legami se tutti, qui, sono solo di passaggio.  Nella mia mente si fronteggiano queste due necessità opposte ma il mio volto è una maschera di ferro impassibile.
Anna non offrirà da bere domani, dico.
Johan mi guarda con la sua espressione da ebete ubriaco fradicio.
Anna non tornerà.






Aggiorno con molto, molto ritardo e me ne rendo conto. Purtroppo questo periodo non me lo sono passata assai bene: ho avuto una serie di esaurimenti nervosi, fasi depresse, attacchi d'ansia che praticamente mi hanno devastata. E la mia ispirazione è andata a barsi benedire maledire. Tuttavia, per ora le cose sono più o meno stabili, cerco di riprendere in mano la mia vita anche se questi crolli ancora avvengono. Cerco comunque di fare del mio meglio. 
Parlando della storia, questa è la prima svolta drammatica, ovvero la morte di Anna. Da qui, si inizierà a delineare la psicologia del personaggio protagonista in maniera più approfondita. Infatti, il fatto che il personaggio si cerchi di convincere, ripetendosi spesso, il concetto di transitorietà della vita stessa, è un modo per dare un senso all'apatia ed indifferenza che gli appartiene. L'apatia è uno dei, per così dire, sintomi della depressione; ho cercato di identificare me in quella che è la protagonista, ma calcando la mano su alcune reazioni (posso assicurarvi che non sarei indifferente di fronte al collasso di una persona a me cara!) È infatti caratteristica mia anche il perdermi coi pensieri in una maniera pressoché assoluta, e l'ho voluta rendere anche caratteristica del personaggio. Ribadisco, però, che questi tratti sono in gran parte esagerati, chi più, chi meno.
Rinnovo ancora una volta, a chi legge, di lasciarmi una recensione. Magari anche solo per parlare dei temi trattati, vorrei stabilire un qualche dialogo, insomma, non necessariamente per parlare della mia storia. Mi piacerebbe avere un confronto con voi, le vostre esperienze, magari, i vostri punti di vista. Mi farebbe piacere. 
Ecco, quello che dovevo dire, l'ho detto, ma comunque non obbligo nessuno a fare niente che non voglia. Auguro a tutti una buona giornata, alla prossima!

 

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Capitolo 4
*** IV ***


Il tragitto fino a casa non sembra mai così fottutamente lungo quando si ha fretta di chiudersi in casa. È tutto ciò che riesco a pensare mente, stivali affondati nella neve, cerco di allontanarmi il più possibile da ogni qualsiasi locale che inizi per “d”, dal sentore di alcol misto a sudore, dai poliziotti che mi chiedono informazioni su Anna (passato d’alcolista, tossicodipendente, malattie), da Johan e i suoi occhi strabici. Non sono nemmeno certa che questa sia la strada giusta, ma nel vedere i marciapiedi vuoti, le auto parcheggiate e la neve che inizia ad attaccare al suolo, la situazione sembra già farsi più sopportabile. Mi appoggio ad un lampione, col cuore che sembra sul punto di scoppiare, le gambe che tremano. Mi ci abbandono spalla contro metallo, quasi fosse l’unico riparo a me concesso, con le scene appena vissute impresse nella mente in maniera pressoché indelebile. Con le mani tremanti cerco l’accendino nella tasca, ho bisogno di quiete, mi dico, senza nemmeno accorgermi che, man mano, mi sono accasciata a terra, nella neve. Non sento niente, ed allo stesso tempo tutto mi sta soffocando: il cielo nero, l’aria fredda, la neve, il ricordo di Johan, di Anna e dei suoi capelli finti, dei paramedici che scuotono la testa e stendono quel telo bianco sula corpo di Anna, la sensazione claustrofobica della gente addosso, il respiro mozzato, l’ansia dell’essere in mezzo a sconosciuti, l’ansia di sapere di star per avere un attacco d’ansia e di conseguenza l’ansia di mettere a tacere in fretta  i meccanismi più oscuri del mio cervello che mi fanno salire l’ansia. E la lista è ancora lunga. Con gli occhi offuscati guardo il bagliore rossastro della cenere accesa, tremolante perché le mie mani stesse lo sono. Respiro ed inspiro. Sento che mi sta venendo l’emicrania. Respiro ed inspiro. Ho gli occhi lucidi, ma piangere è l’unica cosa che voglio fare. Respiro ed inspiro. Cerco di concentrare la mia attenzione su quelle poche macchine che passano per strada. Madri, padri che tornano nelle loro case, dai loro figli. Si sentiranno dire: “Mi sei mancato!” dal proprio coniuge, con allegato un bacio sulle labbra, che ormai ha perso ogni significato ma è solo abitudine. L’amore è transitorio. Per i primi anni ti sconvolge ogni giorno, ti fa sentire felice, soddisfatto, riempe ogni vuoto che ti sei portano nell’animo fino a quel momento. E senti di poter vivere così per sempre. Ci credi veramente. Ma l’amore è fuoco, e come ogni incendio, dopo essere divampato ovunque, dopo aver bruciato ogni qualsiasi superficie infiammabile, dopo aver ridotto in cenere tutto, si estingue. Rimani cenere, consumato e poi dimenticato, ma l’ammettere che ciò sia successo veramente equivarrebbe al rinnegare tutti i sentimenti felici provati in passato, e nessuno sa rinunciare alla propria felicità. L’essere umano vive per credere nelle proprie illusioni: le crea, le venera, e cerca di distruggere le illusioni degli altri. Questo è il vero ciclo della vita. Si cerca così di trovare pretesti per fingere di amare ancora, nonostante la consapevolezza di non provare più nulla si faccia ancora più grande, ti ripeti che sai amare, che stai amando, e ti sembra di tornare in quei momenti in cui eri veramente in grado di farlo. Credi che nulla sia cambiato da allora, ti imponi che sia veramente così. Dici di farlo per te, perché senz’amore non saresti nulla, di farlo per la tua presunta anima gemella, perché la potresti ferire, dici di farlo per i tuoi figli, perché altrimenti soffrirebbero, perché devono imparare fin da subito che la vita non può essere felice, ma le illusioni possono renderla tale. È triste, il destino degli uomini.
Una signora, la cui testa sbuca da un immenso cappotto di pelliccia che sembra quasi ingoiarla, mi guarda con sguardo compassionevole.
Tutto bene, cara?, dice.
I suoi occhi parlano di una compassione finta, irreale. Quando tornerà a casa, appenderà il cappotto all’attaccapanni, andrà da suo marito seduto sulla poltrona del salotto e parlerà della ragazza seduta sotto il lampione a piangere. Povera creatura!, dirà al marito. E lui annuirà senza nemmeno ascoltare pienamente alle parole di lei. Lei parlerà delle lacrime ormai secche sulle mie guance, e si sentirà più felice perché ha visto qualcuno che è messo peggio di lei. Si sentirà fortunata, e dunque più felice, mettendo così a tacere la tristezza universale che affligge costantemente ogni persona di questo mondo.
Sto bene, dico.
Cerco di sorridere quando tutto, di me, sembra dire il contrario. Dalla mia voce tremante ai miei occhi rossi di pianto, dall’odore di fumo che ha impregnato ogni cosa che mi appartenga ai capelli scompigliati, come se non avessi casa in cui tornare.
Mi rivolge ancora uno sguardo carico di pietà e, senza dire nulla, si allontana. Di passaggio anche lei, su questa terra.
Non so quanto tempo ho passato a terra, a mente vuota, ma so che, quando finalmente decido di alzarmi, s’intravedono all’orizzonte le sfumature di un sole non ancora sorto. Nonostante il mal di testa che, ferocemente, divora ogni parte del mio cervello, mi sembra che la situazione sia già migliorata: niente tremori, respiro quanto meno stabile, il solito ritmo cardiaco accelerato. Tornare a casa, ora, sembra una cosa molto più facile.
Il vento accoglie i miei movimenti lenti con fitte improvvise di gelo, rendendo insensibili le mie mani, ormai viola per i geloni, e la mia faccia insonne. Il ritmo dei miei passi stanchi scandisce il tempo, interrotto dalle auto che passano e il suono dei clacson, i colpi di tosse della gente che incrocia la mia strada, gli squilli di cellulare, le loro voci che dicono cose che per me non hanno senso; persiste, come un germe, quella sensazione di essere circondata da troppe, troppe persone, nonostante non vi sia poi tanta gente in giro a quest’ora. Ed è proprio per questo che, nel vedere quelle mura biancastre ormai a me familiari e che si identificano ormai come “casa”, mi spunta quasi un sorriso di sollievo, e la morsa al petto s’allenta.
Chiudendomi la porta alle spalle, mi accorgo di come questi muri bianchi con tanto di intonaco cadente non mi sono mai parse così rassicuranti. Questo è un posto mio, e nessun altro può accedervi, più o meno. Mi sfugge un sospiro liberatorio, e sento di dover festeggiare il mio arrivo a casa quasi incolume, accendendomi una sigaretta.
Il computer è acceso, con aperto il video di Ewa Chodakowska che mi insegna in polacco come fare gli addominali. E io il polacco nemmeno lo capisco. La tazza di caffè è lì affianco, coi residui di caffè di qualche settimana prima sul fondo. Sono di passaggio anche in questa casa, mi dico. E tuttavia, nonostante io non abbia intenzione di permanere qui più a lungo di quanto non debba fare, ho comunque voluto rendere “mio” questo posto, ad esempio appendendovi i quadri (imitazioni malriuscite di Van Gogh, per lo più) che più mi piacevano, scegliendo i vasi che più mi piacevano, i fiori, le piante, i mobili che più mi piacevano. E che, a guardarli ora, non mi fanno più né caldo, né freddo.
Sul tavolino del salotto c’è una scatola di Xanax e la mia mano sembra impaziente di prenderla, di illudermi di stare bene almeno per un po’. Soffocare temporaneamente i miei pensieri nei fumi di farmaci. A questi pensieri mi viene da ridere, perché io stessa ho bisogno di illudermi quando ho sempre cercato di vedere la verità in ogni cosa. Ed è così che prendo consapevolezza, ancora più di prima, di quanto sia veramente triste il destino degli uomini.








Ho poche cose da dire, su questo capitolo: penso parli da sé, dunque ve lo lascio smaltire autonomamente, che possiate esser d'accordo o meno con quanto scritto. Rinnovo ancora una volta l'invito a recensire, forse invano, ma ci provo comunque. Non mi resta che augurarvi una buona serata, ragazzuoli!

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