quella giostra chiamata mondo

di ansaldobreda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** la vita è una materia complicata ***
Capitolo 2: *** scuola, banchi e mostri dietro alla cattedra ***
Capitolo 3: *** mostrami quello che sai fare ***
Capitolo 4: *** fughe ***
Capitolo 5: *** se la vita fosse un film? ***
Capitolo 6: *** scariche elettriche ***
Capitolo 7: *** ognuno ha i suoi vizi ***
Capitolo 8: *** discorsi tra fratelli ***
Capitolo 9: *** una via di fuga ***
Capitolo 10: *** cyborg ***
Capitolo 11: *** gli umani sono gente strana ***
Capitolo 12: *** vendetta ***
Capitolo 13: *** voglio sapere ***
Capitolo 14: *** la partita è appena cominciata ***
Capitolo 15: *** divertimento ***
Capitolo 16: *** buio ***



Capitolo 1
*** la vita è una materia complicata ***


Corriamo. Siamo già in ritardo, il treno dovrebbe partire adesso.
«Avanti Al, muoviti! » Afferro mia sorella per un braccio mentre lei tenta di trascinarsi dietro un sacchetto pieno di vestiti «se non avessi comprato tutta quella roba avremmo fatto prima!»
«Lo sai che domani riparto, avevo bisogno di rinnovare il guardaroba!»
Sbuffo, sempre la stessa storia. “Nashy mi accompagni in città?”. E per città non può intendere certo Orange Star, no, sarebbe troppo semplice poter andare a fare compere in pullman, lei deve trascinarmi su un treno!
Arriviamo ai binari troppo tardi, le porte del treno ci si chiudono in faccia.
«Merda!» Lei ride. Si diverte a vedermi arrabbiato. Un ciuffo di capelli mi cade davanti agli occhi, sbuffo sollevandolo in aria.
«Dai, il prossimo parte fra venti minuti» Sbuffo di nuovo, poi mi siedo su una panchina e lei fa lo stesso. Sono sempre di cattivo umore quando deve ripartire, come vorrei che non l’avessero mai presa in quella cavolo di accademia. So che è egoismo, ma io proprio non ce la faccio a rimanere da solo con quei due… per fortuna che è l’ultimo anno, poi la maturità e poi libero! Me ne andrò da questo schifo di città, forse anche da questo schifo di paese. Vedo un vecchio e un uomo correre verso il binario, poi si accorgono di aver perso il treno. Li osservo da una certa distanza, ma anche da qui mi sembra una coppia molto strana. Il vecchio ha la barba e i capelli lunghi, bianchissimi, e l’uomo è rotondo con dei capelli neri e la pelle stranamente pallida. Indossa… un camice da laboratorio? No, è una giacca, una giacca lunga e bianca. Anche il vecchio è vestito in modo strano… io la gente non la capirò mai. Indico i due a mia sorella, lei quasi scoppia a ridere. Poi mi accorgo che anche l’uomo ci sta indicando al vecchio. Vengono verso di noi… se dessi ascolto a me stesso, mi sarei già alzato per allontanarmi, ma da molto tempo non do più ascolto a me stesso.
«Il treno che ferma a Orange Star City è già partito?» L’uomo ha una voce strana, quasi irritante. Lascio che sia mia sorella a rispondere.
«Sì, ma ne passa un altro fra venti minuti» Il vecchio ci fissa, come se non avesse mai visto due ragazzi. Ci percorre il corpo con lo sguardo, forse per una volta avrei fatto bene ad ascoltarmi.
«Siete di queste parti?»
“Non sono affari tuoi!” «Sì»
«Conoscete la Orange Star High School?» Sospiro. Certo che lo conosco, quell’inferno… Mi rovina la vita da quattro anni, e presto saranno cinque. Alison mi lancia un’occhiata comprensiva.
«Capisco. Come ci arrivo dalla stazione?» Mi viene subito un sospetto.
«È un professore?»
«Da poco» Certo, con quella faccia non poteva che essere un professore della Orange, o un professore o uno scienziato pazzo. E in questo momento avrei preferito la seconda.
«Allora spero che lei non sia uno stronzo come gli altri» Mia sorella mi tira una botta in testa. Per questo lei piace e io no, io dico quello che penso.
«Non sgridare tuo fratello, è importante esprimere il proprio punto di vista. Magari ci rivedremo» Se ne vanno! Finalmente! Odio quando la gente si ferma a parlare, ma chi ti conosce! Si è accorto che l’ho guardato male per tutto il tempo? Meglio così, se sarà un mio professore saprà già con chi ha a che fare. Un momento… come fa a sapere che siamo fratello e sorella? Ci assomigliamo, ma spesso la gente ci prende per una coppietta. Io e lei ci guardiamo negli occhi. Poi finalmente il treno arriva.

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Capitolo 2
*** scuola, banchi e mostri dietro alla cattedra ***


Percorro il corridoio della scuola. Sento delle voci provenire dalla mia classe, tutto è stranamente agitato oggi, anche per essere il primo giorno. O forse sono io a essere agitato. Entro in classe, non c’è traccia di un professore. Eppure sono in ritardo, sono sicuro di essere in ritardo. Tony mi si avvicina, vederlo è un sollievo, perché la maggior parte della gente in quella classe non la sopporto. Ma viene verso di me con un sorriso troppo… troppo! Può volermi bene e tutto ma così lo prenderei a sberle. E l’avrei fatto per davvero se lui prima di darmene il tempo non avesse urlato «Il prof di matematica se n’è andato! » Per la prima volta, gli voglio bene per davvero.
«Sei serio?»
«Sì, sì, è in ospedale!» Un sorriso cattivo si dipinge sul mio volto. Il mostro se n’è andato, potrei togliermi la maglietta e mettermi a urlare correndo per la classe. Da quando ho messo piede in questa scuola, ho sempre avuto il debito in matematica, mai recuperato. Dovevo aspettare così tanto prima che gli venisse un infarto?
«Ma quindi chi avremo?»
«Non lo so, è uno nuovo credo. Si capisce perché è in ritardo il primo giorno» Un professore che arriva in ritardo lo potrei detestare e adorare allo stesso tempo. Se arriva in ritardo mi da il tempo di copiare i compiti e tutto, ma contemporaneamente mi ruba la scena. Sono io quello che arriva in ritardo!
Saluto qualche mio compagno, o meglio, loro salutano me e qualche volta rispondo. Quasi a metà dell’ora entra in classe (impossibile!) il vecchio del treno. Avrei voglia di svenire, così mi porterebbero all’ospedale e mi balzerei la lezione. Non deve essere difficile fare finta, basta che ti lasci cadere… e se all’ospedale incontro l’altro prof di matematica? Meglio non rischiare. Con lo sguardo, il vecchio ci fa sedere ai nostri posti, io mi metto in ultima fila, vicino a una ragazza fissata con la biologia, però ci si può parlare, e a volte mi allunga il suo compito di scienze.
«Buongiorno a tutti» Ci fissa come se si aspettasse un coro di benvenuto. «Sarete felici, o no, di sapere che sarò il vostro nuovo professore di matematica e fisica. Mi chiamo Gelo, voi mi chiamerete professore»
«Ma non è quello scienziato famoso?» Chi è quella che si interessa agli scienziati famosi?
«Può darsi. Ho accettato questo lavoro perché volevo studiare il comportamento dei giovani, quindi esigo che vi comportiate bene perché fate parte di un esperimento importante» Per un attimo me lo immagino a osservare dei ragazzi nudi da dietro un vetro e annotare ogni loro mossa. Che cosa farei se venissi rinchiuso nudo dietro un vetro? Mi metterei a urlare, forse. e se ci fossero delle belle ragazze insieme a me? Però non so se riuscirei a farlo davanti a uno scienziato, potrei ucciderlo. Ma come faccio a ucciderlo da dietro un vetro? Potrei spaccare il vetro…
«… quindi cominciamo» Cominciamo cosa? Vedo quelli seduti in prima fila che a turno rispondono a delle domande del professore. Come ti chiami? Sei di queste parti? Ti trovi bene? Vai d’accordo con i tuoi genitori? Hai fratelli e sorelle? Perché hai scelto di frequentare un liceo scientifico? A tutti le stesse domande. Alla terza persona mi accascio sul banco. Probabilmente finirà l’ora prima che arrivi a me. E invece mi tocca. «Tu sei?»
«Nicholas» Non mi piace dire il mio cognome. Chiamatela fissa, ma non lo sopporto. Forse perché mio padre è morto. Comunque riesce a trovare il mio nome nell’elenco, sono l’unico Nicholas nella mia classe.
«E anche il terzo debito non saldato lo abbiamo trovato.» Sbuffo, sperando che abbia sentito. «Sei di queste parti, Nicholas?»
«Sì.»
«E ti trovi bene?» Posso dire di no?
«Mi annoio.» Annuisce on un mezzo sorriso.
«Vai d’accordo con i tuoi genitori?» Non sono i miei genitori! Cazzo! C’è anche scritto sul registro, sono in affidamento! Impreco non troppo sottovoce. «Qualche volta.» Anche adesso annuisce. “Ma cosa vuoi? Chi sei?"
«Hai fratelli o sorelle?» “Lo sai, l’hai vista l’altro giorno mia sorella”.
«Sì, una sorella. Ha la mia età.»
«E con lei vai d’accordo?»
«Sì.»
«Perché hai scelto di frequentare un liceo scientifico?» Dovrebbe essersi accorto dalla mia media che non ho scelto io. Non mi ricordo di avere una materia sopra, forse informatica, o ginnastica. Questo è il momento di uscire dalla classe. «Perché il mio sogno è sempre stato quello…» chiudo il pugno davanti a me e pronuncio con troppa enfasi il resto della frase « di diventare un fisico nucleare.» Tutta la classe si mette a ridere, io rimango a metà dal farlo. Tony si gira dicendo che questa non l’aveva ancora sentita. Sembra che sorrida anche il vecchio. Rimango con gli occhi sbarrati, se fosse stato con un professore normale, mi avrebbe già interrogato per la risposta "inopportuna", e probabilmente avrei già avuto la prima insufficienza dell’anno. Ma quello non è un professore normale.
«Spero che riuscirai a realizzare il tuo sogno.» risponde tranquillo. Come se non avessi cercato di prenderlo per il culo. Continua con le sue domande, mi ha ignorato! Mi mordo un’unghia, devo rimanere indifferente. Alla fine del giro, ricorda a tutti quelli che non hanno saldato il debito che oggi pomeriggio ci sono le lezioni di riparazione. Ancora! Odio questo posto! Ma forse questa volta ci andrò…

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Capitolo 3
*** mostrami quello che sai fare ***





La classe è vuota, il professore è seduto dietro alla cattedra, davanti ad Alicia. Anche lei non ha saldato il debito. Dopo qualche minuto lei si alza e lo saluta, poi viene verso di me.
«Ciao bellissimo!» Poi mi sussurra all’orecchio «È completamente pazzo!» Esce continuando a gesticolare e a fare facce strane. Deglutisco e entro. Mi sbatto sulla sedia che prima era occupata da Alicia, lui mi saluta, si ricorda il mio nome. «Il nostro fisico nucleare. La tua situazione è la peggiore di tutte.» Alo gli occhi al cielo, come se non lo sapessi! Sono quattro anni, con questo cinque, che i prof mi ripetono la stessa cosa, a volte aggiungendo “se non ti metti in riga verrai bocciato”, solo che non mi bocciano mai.
«Chi è che ha scelto questo liceo per te?»
«Come?»
«Hai sentito.»
«Nella mia famiglia o sei un genio della danza classica o vai alla Orange Star High School. »
«Volevi diventare un ballerino, Nicholas?»
«No!» Questo vecchio comincia a irritarmi con le sue domande. Ma so che finché non saprà tutto continuerà a farmele. «Mia sorella è stata presa in una accademia di danza. È via tutto l’anno.» Annuisce, come se potesse minimamente capire quello che provo. Ride. Perché ride?
«Sembra quasi che ti impegni per andare male.» sospira con un mezzo sorriso mentre sfoglia il registro come se avesse paura a toccarlo «E non sei stato mai bocciato?»
«No, vuole farlo lei?» Ride ancora. la disperazione è tale che comincio a guardarmi intorno in cerca di un oggetto appuntito. Magari potrei usare la sua penna…
«C’è qualcosa che sei bravo a fare?» Prima di darmi il tempo di pensarci, mi porge in block notes e la penna. Lo guardo male mentre mi dice «Prova a disegnare un labirinto che io non sia in grado di risolvere.» Quando realizzo che fa sul serio, lo guardo peggio. Questo tizio non è una specie di scienziato famoso? E allora come faccio a disegnare un labirinto che non può risolvere? Lui mi porge di più i fogli, io li afferro incerto. Il vecchio mi incita, io inizio a tracciare linee a caso, un rettangolo con due aperture e qualche roba dentro. Glielo porgo, lui non si degna neanche di tracciare il percorso con la matita. Lo guarda appena e mi dice «No.» Riprovo e ottengo la stessa reazione, alla terza volta scatto. «Ma non dovrebbe farmi fare matematica?»
«Lo so io quello che devo farti fare. Riprova.» Riprovo e non cambia nulla. «Devi impegnarti!» Non ce la faccio più! Lui e i suoi labirinti posso andare a farsi fottere! Comincio a prendere seriamente in considerazione l’idea di ficcargli la penna nel collo. Invece gli strappo il block notes dalle mani e ci traccio sopra una linea calcando con tutta la mia rabbia. Quasi straccio il foglio. Poi glielo porgo. Ho la prova che è veramente pazzo, quando vedo il suo sguardo illuminarsi. Annuisce con movimenti impercettibili. «Come me lo spieghi?»
Mi stupisco di me stesso quando gli rispondo «Lei provi a risolverlo.» Ma sì, chi l’ha detto che un labirinto deve essere un insieme di linee?
«Bene, Nicholas, puoi andare.» “Questo è veramente pazzo”. Ma una volta che un professore mi dice di andare non me lo faccio ripetere due volte. Mi alzo continuando a fissarlo con gli occhi sbarrati. Mentre esco incontro Tony. «Allora, com’è andata?»
«Una linea può essere un labirinto?»
«Cosa?»
«Niente! Niente, lascia stare.»
«Ma stai bene? Mi aspetti che torniamo assieme? Tanto per quanto sei stato dentro tu fra mezz’ora sono fuori.»
«Okay.» Mentre esco sento il prof dire «Allora, Tony, comincia a risolvermi queste centodue espressioni.» Sorrido. Qualcosa mi dice che non lo aspetterò.
 

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Capitolo 4
*** fughe ***


«Dove sei stato?» Hector continua a chiedermelo da quando sono arrivato a casa. E ogni volta gli ho risposto «A scuola! Avevo il recupero di matematica!»
«Credo a quello che vuoi, ma non che sei stato a scuola tutto il pomeriggio!»
«Sono cinque anni che ho il recupero il primo giorno!» Sto urlando. Perché deve essere un incubo tornare a casa?
«Pensi che sia nato ieri? Io ti rovino, ragazzino! Adesso dimmi dove sei stato.»
«Una volta che ti dico la verità prova a credermi!» Io non riesco a continuare così! Quando parlo con lui è come se mi stesse aspirando l’ossigeno dai polmoni. Voglio andarmene da qui, sparire, cambiare identità, città, faccia, qualunque cosa mi permetta di non vederlo mai più!
«Te lo chiedo un’ultima volta, poi sarà peggio per te. Dove sei stato?» Mi fissa con i muscoli tesi, potrei sentirgli pulsare le vene nelle orecchie. Mi detesta. Gli dico quello che vuole sentire. «Te l’ho già detto, e poi sono maggiorenne, non devo dire a te dove vado!»
«Tu invece devi! Finché starai qui comando io!» “Ti prego Nicholas, stai zitto! Zitto!”
«Tranquillo che non ci starò ancora per molto. Appena prendo la maturità mene vado, e con me se ne vanno anche i soldi del mio mantenimento!» Il primo schiaffo arriva veloce, poco doloroso. Il suo schiocco rimbomba nella stanza. È un segno, devo stare zitto. Ma non ci riesco, è più forte di me. Lo guardo negli occhi e la mia lingua si muove da sola. «Sai perché non mi hanno ancora bocciato in quella merda di scuola? Perché ho tua sorella come insegnante!» Eccolo il secondo. Molto più forte, la sua mano mi prende tutto un lato della faccia, dall’orecchio al naso. Sento sfrigolare la pelle, me la copro con una mano. Avrei voglia di urlare, di piangere e di scappare via. Vorrei che sparisse, vorrei… vorrei ucciderlo! Lui mi guarda, non sembra soddisfatto, sono andato troppo oltre. «Mi devi rispettare, hai capito? Mi devi rispettare come se fossi tuo padre!» mi giro verso la cucina, Annabel sta guardando la scena con un asciugamano e un piatto in mano. Mi accorgo che ha le occhiaie e un aspetto più distrutto del solito. Intravedo una linea di lacrime lungo la palpebra. La guardo, so che vorrebbe fare qualcosa, lei lo sa che è vero che avevo quella dannata lezione! “Ti prego, digli qualcosa”. Ma è inutile. Lei non interverrà, ha troppa paura di suo marito, rimarrà a guardare. Tutti abbiamo paura di lui, ma io sono l’unico che gli risponde. Con me si può sfogare. Mi giro verso di lui. Mi mordo la lingua fino a sentire il sapore del sangue, faccio scricchiolare le ossa stringendo i pugni, ma rimango zitto. So cosa sarebbe in grado di fare a questo punto. Hector si accorge che non parlo più. «Bene.» Salgo in camera mia quasi correndo e sbatto la porta. Non ce la faccio più, non ce la faccio più! Vorrei chiamare Alison, ma a quest’ora non può rispondere. Comoda la vita per lei, che se ne sta via quasi tutto l’anno! Non sopporto di essere da solo, bloccato qui. Mi passo le mani fra i capelli, mi mordo le unghie. All’improvviso tutto sembra così opprimente, le pareti della stanza mi si stringono addosso. Scendo, di Hector non c’è traccia, esco in cortile. Respiro profondamente l’aria orribile di questa città. “Diventerò presidente e la farò radere al suolo!”. Sarebbe un sogno. Mi appoggio al cancelletto che separa il metro quadrato di giardino dalla strada, nella casa di fronte qualcuno sta coltivando rose. Mi aggrappo al ferro quando mi accorgo chi è. Non è possibile! La stessa orribile giacca a camice da laboratorio, che ripensandoci sembra proprio un camice, la stessa faccia da criceto, la stessa pelle pallida. Quello è l’uomo che era insieme al mio nuovo professore di matematica alla stazione! Ne ho la conferma quando lui sembra riconoscermi, e rimane a fissarmi. È un incubo, sono sicuro che è un incubo… Perché non è un incubo? Devo stare calmo, se ci fosse anche lui, Gelo, non credo che riuscirei a sopravvivere. Potrebbe bussare alla mia porta e chiedermi di tappezzargli le pareti di labirinti… o magari di fare una partita a scacchi aritmetici? “Nicholas, devi calmarti. Neanche esistono gli scacchi aritmetici!” Potrebbe averli inventati lui… per me. O, merda! Sento qualcuno che chiama il mio nome. Mi volto e si volta anche l’uomo. È Tony. Grazie dio. «Alla fine non mi hai aspettato, eh? Cos’è quella faccia?»
«Niente, lascia stare.»
«Di nuovo quello stronzo?» Annuisco. “Chi, se no?”
«Per fortuna so come tirarti su. Sai, quello di matematica mi ha fatto fare centodue espressioni! E mi ha dato sei e mezzo! Sei e mezzo, io! I miei genitori mi hanno riempito le tasche di soldi, sta sera andiamo a sballarci! » Vedo il cofano della sua splendida auto sbucare da dietro la casa di fronte. Come vorrei essere anch’io ricco così, con dei genitori che mi riempiono di soldi per un sei e mezzo, con dei genitori veri.
«Non lo so… è che, magari, dovrei provare a seguire le sue regole.» Mi stupisco più di Tony per quello che ho detto. Poi guardo in casa, nessuno bada a noi. «Ma non credo che comincerò oggi.» L’uomo col camice da laboratorio mi osserva scavalcare il cancelletto e correre verso l’auto di Tony.
 

                                                            Quella di ieri è stata una serata fantastica, ma il bello è arrivato stamattina. Hector sta urlando come un pazzo, come se io lo stessi ascoltando. Ignorandolo, afferro la mia giacca, lo zaino e vado verso l'uscita. Lui continua a rincorrermi per tutta la casa, e quando esco si ferma sulla porta a strillare. Mentre cammino verso la fermata dell’autobus, sento le sue urla. «E se ci riprovi ti gonfio di botte! Hai capito? Sto parlando con te! Mi hai sentito?» Mi fermo, respiro, mi giro, urlo. «Sì, ho capito, mi gonfi di botte!» Accelero il passo. Aspetto qualche minuto appoggiato al palo della fermata, mi passa davanti una decappottabile rossa con su alcuni ragazzi che credo di conoscere, forse li ho incontrati in un locale. Quando mi passa davanti, si ferma. «Ehi Nick!» mi urla una ragazza agitando la mano. Io sorrido da snob, va sempre bene in queste occasioni, anche se mi verrebbe voglia di prendermi a pugni in faccia. Sull’auto hanno la musica a palla, una ragazza agita le braccia, gli altri ridono. «Salta su! C’è posto per un altro! Emily era preoccupata di rimanere sola!» Ridono più forte, sono decisamente fuori controllo. «Abbiamo della roba da sballo!» Un ragazzo mi mostra una bottiglia di vodka, anche se credo che abbiano con loro qualcosa di più pesante dell' alcool. Guardo verso il pullman che sta per arrivare e salgo in macchina, infilandomi fra una ragazza, che mi circonda il collo con il braccio, e la portiera. Credo che Hector dovrà gonfiarmi di botte.

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Capitolo 5
*** se la vita fosse un film? ***


"L'adolescienza è l'epoca in cui l'esperienza la si conquista a morsi." Jack London

Non riesco a credere che sia già passato quasi un mese di scuola. Forse mi sono finalmente abituato allo schifo della mia vita... Mi sdraio sul banco mentre ragiono (certi ragionamenti si possono fare solo a scuola) su quanto la mia vita sia piatta. Le sfuriate del mio patrigno sono la cosa più interessante che mi capita ormai, i locali sono sempre gli stessi, le serate sempre le stesse. Per questo aumento sempre di più il numero di bicchieri e canne? Per questo ormai vado con qualsiasi ragazza me la sventoli in faccia? Ormai è un obbiettivo irraggiungibile, lo sballo… La droga e l’alcool fanno sempre meno effetto, e con droghe intendo anche il sesso. Sono stato con molte ragazze, molte di più di Tony e della maggior parte dei ragazzi che conosco. Quando succede è straordinario, più inebriante di qualunque pastiglia, lo sballo più perfetto che possa esistere, quello naturale. Ma quando finisce tutto la vita ritorna la stessa, non cambia niente, anzi, sembra ancora più piatta di prima. Questo mi spinge a farlo ancora, e ancora, fino a quando non significa più niente. Non credo di essermi mai innamorato, solo qualche cotta, niente di serio. “Ha una bella faccia, mi piacerebbe portarmela a letto”. E molto spesso ci riesco. La realtà è che non posso innamorarmi, perché alla persona i cui sei innamorato, se ci stai insieme, non puoi nascondere niente. E io ho così tante cose da nascondere… “Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi”. È questo che scrivo sul banco, mi riconosco molto in questa frase. Forse non sono umano, forse sono anch’io un replicante. Se fossi un replicante ne avrei uccise di persone, di sicuro la scuola non ci sarebbe più, e neanche Hector. E neanche quella troia che sta parlando di Shakespeare. Le sue parole sono interrotte dal suono della campana dell’intervallo. Odio l’intervallo. Durante le lezioni posso dormire o farmi i fatti miei, ma nell’intervallo non si può. Durante questi dannatissimi minuti gli altri ti esaminano, spiano ogni tuo movimento cercano di capire se sei degno di loro. Se stai da solo sei un asociale, se stai seduto sei uno sfigato, se fai il cretino sei un poveretto, se fai qualunque cosa non facciano loro sei una merda, e la tua vita è rovinata per cinque anni. Io non sono mai stato normale, e siccome non hanno trovato altre scuse dicono che mi do delle arie. È un po’ vero, è così un problema se penso di non essere un ragazzetto stupido e omologato? Non mi sono ancora alzato dal banco. Tony mi trascina fuori dalla classe, ci fermiamo a parlare con dei suoi amici (cioè loro parlano, io ascolto, è dannatamente imbarazzante). Mi si avvicina una ragazza che mi sembra che era sulla decapottabile rossa quel giorno, non sapevo che studiasse qui, mi sembra che si chiami Emily. Ha una faccia molto preoccupata e viene proprio verso di me. Oggi sembra una di quelle ragazzette timide e impacciate, se non mi stesse guardando non l’avrei riconosciuta. Alla fine mi arriva di fronte e dice con un filo di voce «Posso parlarti per favore?» Gli amici di Tony si girano e ridono. Perché la gente è così stupida?
«Certo, dimmi.»
«Ehm, in privato.» Mi trascina via per un braccio, cerco di ignorare le risate alle nostre spalle. Troviamo un angolo dove nessuno sembra badare a noi.
«Allora?» Lei respira affannosamente.
«Sono incinta.» Mi obbligo a ridere. Se vuole mettersi con me ha scelto la strada sbagliata, insomma, non può essere incinta!
«Su, avanti, cosa c’è?» Lei mi fissa con uno sguardo che non mi piace. L’impressione che non stia scherzando mi colpisce in faccia come uno schiaffo gelido. È impossibile! Mi guardo intorno per vedere se c’è qualche sua amichetta che sghignazza, potrebbe essere una penitenza, oppure si divertono a prendere in giro la gente. Ma non ci sta guardando nessuno. «Sei seria? Se è una di quelle cazzate tipo obbligo o verità…»
«Ho fatto dodici test, certo che sono seria!» Sta quasi urlando, è seria. Rimango un attimo bloccato, come se la mia mente fosse uno schermo nero. Impreco, bestemmio, ma non mi aiuta.
«Qualcuno lo sa?»
«No, prima volevo dirlo a te.»
«Hai fatto bene. Non dirlo a nessuno, soprattutto ai tuoi genitori, non devono saperlo, neanche i miei…» Sono morto se Hector lo scopre. Morto.
«E io cosa faccio? Non voglio avere un bambino!»
«No, no, devi… abortire.»
«E come se non devo dirlo a nessuno?» La afferro per le braccia, mi abbasso leggermente per guardarla negli occhi. Ha le guance rosse, delle leggere occhiaie e i capelli corti tutti spettinati. Non deve avere dormito stanotte. «Senti, i tuoi genitori non devono saperlo, okay? Devi trovare un dottore, qualcuno, che ti faccia abortire.»
«Non è così facile! Non sono neanche maggiorenne, cazzo!» Mi passo le mani fra i capelli. È assurdo che stia accadendo davvero. Lei sembra sul punto di mettersi a piangere. Abbassa lo sguardo e si nasconde con le mani. Non ce la faccio a vederla così, forse perché mi sento responsabile, è colpa mia in un certo senso. La abbraccio, lei si rifugia nel mio petto e la sento singhiozzare. «Come faccio?»
«Andrà tutto bene, okay? Troveremo una soluzione.» non ci credo nemmeno io. È proprio una situazione di merda. Una dannata situazione di merda. Certe cose possono capitare solo a me, a me o in un film.

 

Angolo autrice: Ciao a tutti!! Okay, questo capitolo è un disastro… Però finalmente mi sono imposta di tirare fuori qualcosa di decente da vedere e di scrivere questo spazio. Prima di tutto penso che abbiate capito che il nostro Nicholas è il futuro C-17 e Alison C-18 (lo so, lasciamo perdere i nomi) e hanno una vita bella incasinata, perché se fossero stati due ragazzi normali, secondo me, il dottor Gelo non li avrebbe mai scelti. Ringrazio tutti quelli che hanno commentato la mia storia e inserita fra le seguite, e per tutti quelli che la leggeranno potete lasciarmi un commento anche piccolo piccolo? Grazie :)
 

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Capitolo 6
*** scariche elettriche ***


Sento squillare il telefono, poi la voce di Annabel che mi dice di rispondere. Cerco di uscire dallo stato letargo e di scendere dal divano. Okay, prima una gamba, poi l’altra… Avanzo lentamente verso il telefono, sperando che chiunque sia ci ripensi e metta giù. Purtroppo non succede. Afferro la cornetta. «Sì?»
Mi risponde la voce rauca di un uomo «Buongiorno. Parlo col padre di Nicholas?» Che sia un professore? Che mi abbiano beccato di nuovo a fumare in bagno? Decido di scoprirlo.
«Sì, sono io.» dico cercando di imitare penosamente la voce di Hector.
«Buongiorno, io solo il padre di una ragazza di nome Emily, non so se suo figlio le ha parlato di lei.» Inizia a salirmi l’angoscia.
«N- no, mai.» La mia voce trema. Emily? Ha detto qualcosa ai suoi? Oddio. Forse dovrei attaccare. 
«Ha un minuto? Devo parlarle di una cosa importante che riguarda suo figlio» Calmo! Devi stare calmo!
«M- ma certo.» La mia voce suona stranamente acuta. “Cazzo!” Non riesco a pensare altro.
«Senta, sarò diretto, non so in quale circostanza, ma suo figlio ha messo incinta mia figlia. E volevo parlare con lei per…» Metto giù il telefono. Ricomincio a respirare. Ora sono veramente fottuto, quello richiamerà, era incazzato, richiamerà mentre io sono fuori e risponderà Hector… Devo parlare con Emily, dirle di pregare suo padre di non richiamare. Non disposto a pagare, a frustarmi, quello che vogliono! Parlerò io con suo padre. E se questo vuole che ci sposiamo?  O mio dio…
«Nicholas, chi era al telefono?»
«Nessuno, pubblicità.» Devo cominciare a pregare?
 
Entro in casa. Oggi Emily non era a scuola. Certo, i suoi l’avranno fatta stare a casa per non farmela vedere! Vogliono distruggermi perché ho sverginato la loro piccolina! Ma che dico? Emily non era neanche vergine. Loro pensano di sì? Probabile, dannatamente probabile. Butto lo zaino sul divano e noto la spia della segreteria che lampeggia. Ascolto il messaggio. “Buongiorno, sono il padre di Emily. Non so cosa sia succ…” Cancello il messaggio e mi guardo intorno per vedere se qualcuno ha sentito. Non c’è nessuno. Afferro il cellulare e compongo il numero di Emily. “Segreteria telefonica del numero…” Cazzo! Pure il cellulare spento! Mi chiudo in camera. Non voglio vedere nessuno.
 
Mentre scendo dall’autobus sento una sensazione strana. Come un avvertimento. Avrei voglia di girarmi e correre via, invece proseguo verso casa. Entro, sento uno schiaffo molto forte che mi costringe a guardare per terra. Quando alzo lo sguardo vedo Hector davanti a me, che mi fissa con uno sguardo che conosco troppo bene. Terrore. Sento il terrore. Annabel è dietro di lui, con lo sguardo mi dice “corri”.
«Una ragazzina. Hai messo incinta una ragazzina.» Scatto. Corro verso la porta, riesco ad aprirla ma lui mi afferra per i capelli e mi scaglia verso sua moglie. La porta rimane spalancata. Corro verso la cucina, lui mi insegue, giriamo intorno al tavolo.
«Hector, ti prego, calmati!» Annabel ha le lacrime agli occhi. È la prima volta che interviene. Anch’io ho le lacrime agli occhi. Vedo tutto sfuocato, tutto a parte gli occhi infuocati di Hector. Urlo la prima cosa che mi viene in mente. «Vaffanculo! Mica puoi uccidermi!» Può invece. Riesco a tenerlo a distanza girando intorno al tavolo, la vena che ha sulla fronte si gonfia e pulsa. Appena posso, corro fuori dalla porta. Riesco ad arrivare in strada ma lui mi afferra per un braccio e poi mi tiene stretto per i polsi. Le mie ossa scricchiolano, mi stringe così forte che non sento più le mani. Sferro un calcio sotto il suo ginocchio con tutta la forza che riesco a trovare, ma non è abbastanza da fargli mollare la presa sui miei polsi. Non sarò mai più forte di lui. Riesce a tenermi bloccate le mani con una mano sola e con l’altra mi tira lo schiaffo più forte che abbia mai ricevuto. La mia guancia è bollente e gelida insieme, non riesco a tenere aperto un occhio. Comincio a urlare «Lasciami! Lasciami!» Urlo forte nella speranza che qualcuno senta e lo faccia smettere. Per la prima volta ho veramente paura di lui.
«Lo lasci stare.» Impossibile! Il nuovo prof di matematica esce dal cortile della casa di fronte alla mia. Per un attimo mi dimentico il dolore alla guancia.
«Senta vecchio, si faccia gli affari suoi.» La sua presa sui miei polsi si stringe ancora, sento le dita che formicolano.
«Sono un professore di suo figlio. È meglio se lo lascia stare.»
«Senta, non me ne frega un cazzo di chi è, okay? Sparisca!» La sua presa si allenta un attimo. Mi ripiglio e gli tirò un calcio in mezzo alle gambe urlando, colpendolo con tutto il mio odio. Questa volta è costretto a piegarsi per il dolore, mollando i miei polsi. Dovrei correre, invece rimango lì, a fissarlo. «Piccolo stronzetto! Adesso ti ammazzo!» Fa per rialzarsi, ma subito dopo si blocca con un’espressione strana sul volto, come se fosse stato colpito da una scarica elettrica. Stramazza con la faccia a terra, e vedo dietro di lui il professor Gelo con una mano protesa in avanti. Rimaniamo a fissarci, io con gli occhi sgranati e la bocca aperta. Il mio respiro comincia a tranquillizzarsi, per un momento credo di svenire.
«Stai bene?» Annuisco a scatti, mi tolgo un ciuffo da davanti alla faccia. Dovrei ringraziarlo, ma mi fa paura. Dovrei scappare, andarmene e non tornare, perché quando Hector si sveglierà potrebbe ammazzarmi sul serio. E invece sono bloccato qui, non riesco a fare altro che fissare il mio professore, poi Hector a terra, e di nuovo il prof di matematica che lo ha steso con… una mano? Sì, mi fa paura. Mi accorgo adesso che siamo in mezzo alla strada, Annabel esce dal cortile e rimane quasi impassibile quando vede suo marito disteso a terra. Annuisce e mi dice solo «Aiutami a portarlo dentro.» Possibile che l’unico che trova strano che un vecchio stenda un uomo enorme con una mano sono io? Decido di aiutare Annabel, tanto anche se scappo prima o poi i conti con lui li dovrò fare. Se devo morire, meglio morire subito. Afferro Hector per un braccio, cercando di sollevarlo e ignorando qualunque cosa mi stia dicendo il vecchio.

 
 
Angolo autore: Ciao a tutti! Eccomi qui, questa volta ho pensato ‘ci sarà mai stato un momento in cui C-17 è stato felice di vedere il caro dottor Gelo?’. Naturalmente questo sarà il primo e l’unico ;) Da qui in poi la storia prenderà una piega un po’ drammatica, anche se non credo che supererà i dieci capitoli. Spero che la storia vi piaccia :D mi raccomando fatemelo sapere!! Commentate please, recensioni positive e negative, cosi mi aiutate a migliorare <3  

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Capitolo 7
*** ognuno ha i suoi vizi ***




Cominciamo dalla figura in basso a sinistra, che tiene in mano delle pillole, rappresenta il suicidio. Poi c'è quella in basso a destra, che sussurra all'orecchio della ragazza e rappresenta l'autolesionismo. La figura inalto a destra, con la bocca enorme, è la bulimia, mentre lo scheletro rappresenta l'anoressia. Poi c'è la depressione, in alto a sinistra, che sorride. E infine c'è lei, al centro, che rappresenta tutti gli adolescenti, ragazzi e ragazze, che non sanno a chi dare ascolto e convivono con i loro demoni. Perchè ho inserito questa immagine? Ve ne accorgerete, per ora vi dico che i nostri due cyborg, prima di diventare macchine, erano ragazzi come noi, con le loro paure e ansie, circondati anche loro dai loro demoni. C'è chi è forte e riesce a sconfiggerli, e c'è chi alla fine cede. 


Mi guardo allo specchio. Vedo una faccia orribile, distrutta dalla notte insonne e decorata con due profonde occhiaie e un bellissimo ematoma proprio sotto l’occhio sinistro. Ripensare a quello che è successo ieri mi fa venire i brividi. Quando Hector si è risvegliato sembrava pazzo, credo di non averle mai prese così forte. La verità è che l’ho lasciato fare, non ho reagito, sono stufo di reagire. Per fortuna non mi ha beccato l’occhio o il naso, se no sarei stato ancora più ridicolo. Non ce la faccio più a sopportare la mia immagine, mi sciacquo la faccia con l’acqua gelida e esco. Cammino velocemente, a testa bassa. Non prendo l’autobus, arrivo a piedi fino a scuola. All’ingresso incontro Tony, che mi vede arrivare e mi aspetta. Ho paura ad alzare lo sguardo, ma lo faccio lo stesso, e quando lui mi vede in faccia mi accorgo di avere un aspetto peggiore di quello che pensavo.
«Cosa hai fatto all’occhio?» mi dice, con un angolo della bocca sollevato.
«Niente.»
«Come niente? È stato tuo padre vero? Devi denunciarlo!»
«Ho detto che non è niente, entriamo.» In corridoio chi mi guarda fa una faccia strana. Non mi sono mai sentito così esposto, come se fossi nudo. Viene verso di noi un ragazzo che odio. È ripetente e stupido, ce l’ha con me per qualche motivo e io non lo sopporto. Quando mi arriva davanti mi dice «Te le ha suonate il paparino, eh?» Tony mi afferra per le spalle per impedirmi di reagire. Ma smetto di camminare perche lui continua. «Quella poveretta è rimasta fregata, vero? D'altronde se l’è cercata ad andare con uno bucato come i suoi preservativi.» Battuta penosa. Ma non abbastanza da non farci caso. Come fa a sapere di Emily? Ha raccontato qualcosa, ne sono sicuro. Lui mi si avvicina ancora per sbattermi in faccia un’altra battuta penosa, ma il mio pugno si muove prima delle sue labbra e lo colpisce in un punto a caso della sua orribile faccia. Devo averlo colpito forte, perché si allontana tastandosi il naso, e quando abbassa la mano è sporca di sangue. «Sei un dannato pazzo!» Intorno a noi incomincia a formarsi una folla, Tony mi trascina via. Mentre cammino verso l’aula sento quell’idiota gridare «Tuo figlio sarà un bastardo, e suo padre è un bastardo ancora più grosso!» Mi mordo il labbro così forte che sento il sapore del sangue. Potrei scoppiare in lacrime, perchè mi accorgo che l’ultima non era stata una battuta da strapazzo. È vero, sono un bastardo, un idiota, uno stronzetto come dice Hector, che non sarà mai in grado di combinare nulla di buono. Sento caldo, affondo ancora i denti nel mio labbro. Prima di entrare in classe mi ritrovo davanti lei. Quando mi vede sembra sul punto di mettersi a piangere, anche lei. Non faccio nulla per consolarla, le avevo pregato di non dire niente a nessuno, quello che è successo è anche colpa sua. Quando entriamo sono già tutti seduti, anche il professore. Come poteva andare peggio di così questa giornata? Avendo matematica alla prima ora. Lo sguardo del vecchio va subito al mio ematoma, sento le gambe molli, non deve vedermi piangere. Corro fino al mio posto, sento Alicia chiamare il mio nome. «Nicky, che è successo?» Mi butto sul banco e nascondo la faccia fra le braccia. A quel punto lascio scorrere le lacrime, cercando di non singhiozzare. «Siediti Alicia, Tony vai al posto. Cominciamo la lezione.» Non alzo la testa per tutta l’ora, non voglio vedere niente, solo il buio, voglio morire.
 
Quando torno a casa corro di sopra e mi chiudo in camera. So cosa sto per fare, e ho paura. Paura di poter ricominciare da capo, paura di non riuscire più a smettere questa volta. Ma ormai è troppo tardi, non voglio più piangere. Piangono solo gli stupidi, sono stupido, e oggi se ne sono accorti tutti. Non deve più succedere. Mi guardo allo specchio. Mi odio. Odio questa stupida faccia, odio questa stupida testa. Sento di nuovo le lacrime lungo la mia guancia, non si sono mai fermate. Basta! Non ce la faccio più! Non ce la faccio più! Apro un’antina, la lametta luccica esattamente nel punto in cui l’avevo lasciata l’ultima volta. Avevo giurato a me stesso che non l’avrei più toccata, ma non posso continuare così! Sto male, e solo questo mi farà stare meglio. La afferro, è così sottile che mi sembra di non avere in mano niente. Sollevo la manica e passo un dito lungo il mio braccio ancora liscio. Forse questa sarà l’ultima volta che potrò farlo. Avvicino la lametta alla pelle, premo e traccio una linea. La pelle si arrossa, poi inizia a formarsi una scia di sangue che si colora sempre di più. È solo un graffio ma mi fa rabbrividire. È così familiare questa sensazione. Osservo il braccio che si decora di rosso, mi viene in mente il labirinto che ho disegnato il giorno del recupero. Eccolo lì, il mio labirinto personale, che nessuno mai sarà in grado di risolvere. Poi mi ricordo anche di un altro giorno…
 
… Pioveva. Quando succede qualcosa di brutto piove sempre nei film, e quel giorno ho capito perché. Ero a letto e sentivo i tuoni da sotto le coperte. Mi ricordo tutto così bene, le lenzuola gelide, il respiro di mia sorella nel letto di fianco. Viveva ancora qui, era uno degli ultimi anni prima che se ne andasse. Eravamo in prima media. Mi sono alzato e ho camminato fino al suo letto. Lei singhiozzava, ma quando mi sono avvicinato ha fatto finta di dormire. «Al, ti posso parlare?»
«Che cosa c’è?» Aveva alzato la testa, i suoi lunghissimi capelli biondi ricoprivano il cuscino.
«Ti devo parlare di una cosa importante.» Di cosa non lo sapevo nemmeno io, ma avevo bisogno di parlare lo stesso.
«Torna a dormire, parliamo domani.»
«Ma è importante!»
«Non ho voglia di parlare, torna a letto.» Stava male, voleva rimanere sola. Mi sono chiuso in bagno e avevo cominciato a piangere anch’io. Per la prima volta mi sono odiato guardandomi allo specchio, e poi mi sono messo a frugare nei cassetti, non mi ricordo cosa cercavo, forse nulla. Ho trovato le lamette da barba. Ne ho presa una, luccicava. Avevo iniziato a passarmela sul braccio come avevo visto fare chissà dove, o magari per istinto…
 
Le prime volte i miei tagli erano simili a quello che ho sul braccio adesso. Nessuno se n’è mai accorto, magari se fosse successo non avrei continuato. Ripasso la lametta sulla pelle e traccio un altro labirinto. E poi un altro. E un altro. Trasformo le lacrime in un dolore concreto, ne scendono sempre di meno mentre aumentano i tagli. Sempre più rossi, sempre più irrisolvibili. Perché lo sto facendo? Perché non riesco a smettere, ecco perché. Mi graffio ancora e ancora, poi mi fermo. Sul mio braccio non si distinguono più le linee dei tagli. Lavo via il sangue sotto il rubinetto per evitare di sporcare troppo la manica, poi la abbasso, lavo la lametta e la rimetto al suo posto. Quando esco dal bagno non piango più.


Angolo autore: Ciao a tutti! Questo è stato un capitolo impegnativo ma molto importante. Magari alcuni non capiranno il perché della mia scelta, comunque credo che l’immagine e la didascalia che ho scritto lo spieghino bene. Comunque se avete qualche domanda o osservazione sono felice di rispondere se me lo fate sapere in un commento :) Come al solito, commentate!! Tutti quelli che leggono in silenzio mi facciano sapere cosa ne pensano, e magari ditemi anche se pensate che aggiorno troppo presto. Grazie a tutti <3

 
 

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Capitolo 8
*** discorsi tra fratelli ***


“Sapete che cos'è l'amicizia? Sì, essere fratello e sorella, due anime che si toccano senza confondersi, le due dita della mano.” Victor Hugo
 
Sono sdraiato. Alle elementari ci hanno insegnato ad assegnare a ogni aspetto negativo di una situazione uno positivo. Di aspetti negativi ce ne sono troppi, non mi va di ricordarli. Però mi sforzo lo stesso di trovarne almeno uno positivo, il primo che mi viene in mente è: sono sdraiato. Per terra, ma sono comunque comodo, supino, distendo le braccia e le gambe. Era da tanto che non mi sdraiavo così, neanche di notte, penso che sia un bel modo di cominciare le vacanze di natale. Altro aspetto positivo: fra poco torna mia sorella. È partita stamattina molto presto, e ormai fra poco sarà qui. Un altro? L’ematoma sotto l’occhio è quasi completamente sparito. Il quasi completamente mi fa preoccupare, perché ormai è passato qualche mese. Ma non è nulla in confronto alle mie braccia. La mia “malattia”, mi piace chiamarla così, è peggiorata, mi sa che quest’estate sarò costretto a rimanere con le braccia coperte, perché i polsini che usavo per nascondere i tagli non bastano. No, così non va bene! Devo trovare gli aspetti positivi! Allora…
Sento suonare il citofono. Corro verso la porta prima di rendermene conto, quando arrivo in salotto sono ancora convinto di essere sdraiato. Apro la porta, e mi getto verso una figura snella che incontro a metà del cortile. Stringo Alison più forte che posso e lei ricambia. Non l’ho ancora vista in faccia, ma in pochi attimi è come se non fosse mai stata via. Non ho mai amato gli abbracci, non ho mai fatto questa sceneggiata quando ritorna, ma in questo periodo tutto è così strano, io sono strano, cioè, più strano del solito. Restiamo abbracciati molto se ho il tempo di pensare tutte queste cose, quando me ne accorgo mi stacco per consentirci di respirare. La guardo negli occhi, diventa più bella ogni volta, ma mi accorgo che c’è qualcosa che non va.
«Hai tagliato i capelli!» Ora i capelli biondi le arrivano sopra le spalle, sono quasi più lunghi i miei, mentre prima le ricoprivano tutta la schiena. Non posso fare a meno di notare che così il suo sguardo è ancora più tagliente di prima.
«Dovresti farlo anche tu!» Mi passa una mano fra i capelli e si blocca quando incontra un nodo bello grosso «E dovresti anche pettinarti.» “Mi dispiace, ma in questo periodo i capelli sono l’ultima preoccupazione”.
«I miei capelli vanno benissimo, sono i tuoi che non vanno.»
«Non ti piacciono?»
«Sì, però così fai paura. Sembri perfida.» Lei ride, poi cerca di sollevare la valigia per portarla dentro, ma sono più veloce di lei. Quando entriamo lei e Annabel si salutano in modo quasi formale, mentre Hector non ci prova neanche. Annuisce e le dice di portare la valigia in camera. Ormai Hector non ha più potere su di lei, appena troverà un lavoro prenderà una casa, e non tornerà mai più. Lui se n’è accorto, per questo ha iniziato a sfogarsi su di me. Anche perché gli servono i soldi del mio mantenimento, una volta che Alison se ne sarà andata, per me sarà la fine. Lei dice che mi  porterà insieme a lei, sono bravo con i computer, potrei trovare un lavoro, ma lui non mi farà mai andare via. E dopo quello che è successo, non ho più voglia di lottare. Appena siamo da soli in camera, Alison mi sfiora la guancia con la mano. «Non si vede quasi niente.» Sospiro. «Com’è andato il colloquio con lo psicologo?»
«Uno schifo. Emily si è fatta convincere a tenere il bambino.» Già…
«Come? Quindi avrai un figlio?»
«Ormai non può più abortire.»
«E cosa pensa di fare? Di sposarsi con te e vivere per sempre felici e contenti?»
«No, vuole dei soldi. E io cosa ci faccio con un bambino?» Mi siedo sul mio letto reggendo la testa fra le mani. «Andiamo via.» Alison ride, ma io sono serio. «Andiamo via! Ovunque, andiamo a vivere nel deserto.» Okay, forse non troppo serio. «Viviamo da nomadi, ci sposiamo e inventiamo una religione. Sai quanti soldi?»
«Che religione vuoi inventare?»
«Una basata.. sullo sballo. Niente cazzate tipo messe o preghiere.»
«Inventiamo il dio della marijuana.»
«Quello è Bob Marley.»
«Allora il dio del sesso?»
«Quello sono io.» Lei ride forte e si appoggia sulla mia spalla. «Sai che è una bella idea? Possiamo proclamarci dèi.»
«E come si fa?»
«Basta che dici ‘da oggi io sono un dio’.»
«Allora da oggi io sono un dio.»
«Una dea!»
«Stai calmo! Adesso devi adorarmi.» Forse non è stata una buona idea…
«Cosa devo fare?»
«Disfarmi la valigia. E poi mi accompagni a fare shopping?» Adoro mia sorella.

 
 
Angolo autore: Ciao a tutti! Scusate se ho aggiornato tardi e se questo capitolo è corto e una vera schifezza :\ ma volevo fare intervenire anche C-18. Grazie a tutti quelli che leggono e che continueranno a leggere <3 e grazzissimo a quelli che lasceranno un commento <3

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Capitolo 9
*** una via di fuga ***


È sempre così. Alla fine dell’anno mi tocca recuperare, e fare i compiti, e studiare. Credo che non esista una tortura peggiore. Sto ripassando con la penna le scritte su una scheda di matematica da consegnare domani quasi da un’ora, senza essere riuscito a rispondere a sette delle dieci domande. Il prof che avevo prima continuava a ripetere che la matematica rispecchia la vita, forse è per questo che non ci capisco niente. Poi è arrivato questo pazzo, che nella matematica ci vede i messaggi divini o i segreti dell’universo. Per esempio questa domanda: “Molti matematici usavano i loro calcoli per sfuggire alla vita reale, e così molti di quelli che sono diventati 'grandi' hanno visto nella loro attività una via di fuga dal mondo. Parla del tuo modo per fuggire alla realtà, e del perché, secondo te, gli uomini hanno bisogno di rifugiarsi in un’attività per potere stare bene con sé stessi”. Ora ditemi se questa è una domanda di matematica. Quello dice che vuole studiarci, ma io dico che è solo uno di quegli insegnanti che vogliono fare gli alternativi e finiscono per starti ancora più sul cazzo degli altri. Oppure è completamente pazzo. Una via di fuga… Infilo una mano sotto la felpa e percorro il mio braccio ruvido. Poi afferro la penna, calco così forte che potrei bucare il foglio. “Non esiste una via di fuga”.
 
Mi sono pure impegnato per capirci qualcosa in quella cavolo di scheda e oggi lui non c’era. Che stronzo. In compenso c'è una mosca bastarda che mi gironzola intorno da tutto il giorno, insieme alla sensazione di essere osservato. Ormai sto andando in paranoia, io sono sicuro che qualcuno mi stia seguendo. Quando il pullman si ferma alla mia fermata non scendo subito. Aspetto che le porte si stiano quasi per chiudere, rischiando quasi di rimanere incastrato, ma quando sono sceso la sensazione è sparita, e anche la mosca. Entro nel cortile di casa mia, quando sto per aprire la porta mi blocco. Sento delle voci all’interno. Quella di Hector, inconfondibile, e poi un’altra ancora più inconfondibile, quella di quel vecchio rauco del mio prof di matematica. Che cazzo ci fa a casa mia? Se non è venuto a scuola per parlare con Hector è messo male. Non riesco a sentire quello che dicono, perché stranamente Hector non sta urlando, anzi, parla in un tono quasi normale. Mi accuccio sotto una finestra aperta per poter sentire. «E in cosa consisterebbe questo esperimento?» Questo è Hector, che non si è mai interessato a esperimenti, credo, in tutta la sua vita.
«È molto semplice, attraverso dei supporti meccanici io riesco ad aumentare le potenzialità di un individuo. In base hai miei studi ho ragione di credere che con dei soggetti giovani il risultato sarà migliore.»
«E lei crede che i miei… figli saranno adatti?» Ma che cazzo…
«Io ho studiato molto i loro comportamenti, e devo dire che finora sono risultati i più idonei. E non ho più tempo da perdere, mi spiego?»
«Certamente, ma lei parlava di soldi.» Ecco.
«Certo, sono a conoscenza delle difficoltà economiche in cui vi trovate, e vorrei venirvi incontro.» Porge a Hector un foglietto, credo un assegno, facendogli illuminare lo sguardo. «Voglio che sappia che io non avrei nessun problema a prelevare i ragazzi senza il suo consenso. Ci pensi, fra qualche anno se ne andranno di casa e lei non potrà impedirlo, e perderà l’assegno di mantenimento. La cifra che le ho proposto mi sembra ragionevole.»
«Più che ragionevole.» Che cosa sta succedendo? Vedo Annabel sbucare dall’angolo in cui era stata in tutti questo tempo.
«Ora basta!» La sua voce è alterata, deve essere una cosa seria se si è intromessa. «Lei ci sta dicendo che sarebbe disposto a pagarci per trasformare quei ragazzi in…»
«In cyborg, signora. Esattamente.» Mi scappa un gemito. Corro dall’altro lato della casa, in tempo per non farmi vedere da Hector che si affaccia alla finestra per controllare. Cyborg, ha detto cyborg… Sto sognando, sto sognando per forza. Ritorno sotto la finestra e sento Annabel riprendere a parlare. «No, io non lo permetterò. Anche se non sembra io sono affezionata a quei ragazzi. Lei non li trasformerà in mostri.»
«Signora, non si è opposta a suo marito per tutto questo tempo e non si opporrà a me. Poi le ripeto che ha tutto da guadagnarci.» Schifoso bastardo!
«Bene, ormai è deciso» continua Hector. «Nicholas sarà qui a momenti, mentre Alison…»
«Se ne stanno occupando i miei collaboratori.» Senza pensarci tiro fuori il cellulare e compongo il numero di mia sorella, mentre quelli continuano a parlare. Mentre il telefono squilla mi accorgo di trattenere il respiro.
«Pronto?»
«Al, ascoltami sei in pericolo, vattene da dove sei!» le grido sussurrando.
«Ma che cosa stai dicendo?»
«Delle persone ti verranno a prendere, devi ascoltarmi, vattene!»
«Nick, lo sai che mi da fastidio che mi chiami quando sei fatto.»
«Alison, ti prego ascoltami!»
«Ciao.» Ha messo giù. Che stupida. Mi accorgo che in casa nessuno sta più parlando, ma prima di capire che devo correre una mano mi afferra il braccio destro. So che è quella di Hector senza neanche guardarlo in faccia.
«Beccato, Nicholas. Professore, forse le converrà anticipare i tempi.»
«Non mi toccare bastardo!» Gli afferro la mano e gliela mordo con tutta la mia forza, facendo schioccare le mascelle. Appena allenta la presa, scatto. Scavalco il cancelletto con un salto e mi precipito in strada. Con la coda dell’occhio vedo il vecchio che esce dalla finestra, sembra quasi che voli. Giro in una vietta fra due case e poi subito in un’altra. Mi fermo un attimo per vedere se è dietro di me, ma non c’è nessuno. "Queste vie sono troppo piccole perché possa conoscerle" cerco di ripetere a me stesso. Le gambe mi tremano, ma non mi fermo. Non so dove stia andando fino a quando non mi ritrovo davanti alla scuola. Mi volto, credo di averlo intravisto, corro verso il portone. “Pensa, Nicholas. Un posto che i professori non conoscono”. Mi viene subito in mente il tetto, non ci ho mai visto un insegnante. Salgo le scale, so che è dietro di me, fino a una porta antipanico. Cerco qualcosa per bloccarla, vedo in un angolo una cattedra mezza rotta che è lì da non so quanti anni. La spingo fino a davanti alla porta e mi rendo conto di aver fatto una cazzata. Come me ne vado da qui? Devo chiamare qualcuno. Cerco il cellulare nella tasca dei jeans, e mi accorgo che non c’è. Mi sono messo in trappola da solo. Mi guardo in torno, vicino a dove c’era la cattedra c’è un pezzo di metallo che prima doveva essere la gamba di un banco o di una sedia. Lo afferro. Sento bussare alla porta, qualcuno dice il mio nome. È lui. Stringo forte la gamba della sedia tra le mani. «Nicholas, aprimi.» Che cosa faccio? «È tutto inutile, non puoi scappare, non puoi andare da nessuna parte.» Mi mordo la lingua. Ha ragione. «Aprimi o sarò costretto a entrare. Possiamo affrontare questa cosa insieme, oppure mi costringi a usare la forza.» No, no, no! Io non voglio! «Non hai scelta.» Mi guardo intorno. Invece sì. “Non esiste una via di fuga”. A meno che… Sì, posso farcela. È sempre esistita una via di fuga, solo una. L'unico modo per scappare dalla vita reale, perchè tutto finisca. Il mio corpo è percorso da enormi brividi, non riesco a sentire quello che sta dicendo il vecchio dietro la porta. Io non appartengo a nessuno, decido io, non farà niente su di me, costi quel che costi. Lascio cadere la gamba della sedia, cammino verso il bordo del tetto con gli occhi sbarrati, ci salgo sopra. Non posso scappare, non posso. Mi troverebbe, lui mi troverebbe comunque. Io ho una sola scelta. Mi lascio cadere. Ho solo il tempo di pensare hai miei genitori, di vedere le loro facce nella mia mente. L'impatto non fa neanche male. Sento caldo alla testa, l’asfalto ruvido sotto le mie mani. Poi il mondo viene spento lentamente.
 
 

Angolo autore: Ciao a tutti! Scusatemi se ho aggiornato tardissimo ma la scuola mi ha uccisa! Eccoci arrivati al capitolo clou (ormai penserete che abbia una mentalità molto perversa). Scrivere questo capitolo non è stato facile, ho cercato di pensare al personaggio indipendente e ribelle di C-17 (*-*) e a come avrebbe reagito sapendo di essere stato condannato a diventare una mezza macchina al servizio di uno scienziato. Forse la mia decisione è stata un po’ drastica, ma questo (il fatto che C-17 è morto) spiegherebbe alcune cose, per esempio perché lui può rimanere sottacqua senza respirare e C-18 no (anche se questo aspetto c’è solo nell’anime). Ditemi assolutamente cosa ne pensate. Baci <3   

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Capitolo 10
*** cyborg ***


Mi fa male la schiena. Il mio corpo è percorso da enormi brividi, non riesco a fare altro che muovere la punta delle dita. Solo questo è una sensazione stranissima, mi provoca una fitta alla testa e un attacco di tosse. Qualcuno si muove vicino a me, lo sento. Il movimento delle mie dita diventa sempre più fluido, apro e chiudo la mano. Poi provo a sollevare le palpebre, sono così pesanti, sento una goccia di sudore freddo percorrermi la fronte, la luce sembra perforarmi le cornee. Quando il mondo comincia a prendere una forma definita, mi accorgo di essere un una specie di ospedale, anche se la mia mente lo identifica come laboratorio. Alzo lo sguardo, vicino a me c’è un uomo, un uomo molto brutto. Non mi piace come mi guarda, mi sento dannatamente scoperto, forse perché sono nudo. Sollevo la schiena, deve essermi uscita una strana smorfia. Mi sento così strano, è come se il mondo fosse ovattato. Ci osserviamo, non dico niente, deve essere lui a parlare. Prima di farlo mi porge una coperta, io mi ci rifugio dentro, cercando di guardarlo con lo sguardo più neutro possibile. «Benvenuto» mi dice poi «io sono il dottor Gelo, il tuo creatore.» Creatore. La mia mente elabora questa parola, scopro che è un sinonimo di padre. Dunque è così. «Sai qual è il tuo compito?»
Ancora una volta la mia mente lavora da sola, è come se tutte queste cose le avessi già dentro. «Obbedirti.» Appena mi rendo conto di quello che ho detto mi viene la nausea. Perché dovrei obbedirgli? Solo perché è mio padre, o meglio, creatore? Non ha senso.
«Bene.» Mi fissa con uno sguardo soddisfatto. «Il tuo nome?»
«Diciassette.»
«Bene, bene.»
«Ho sete.» il suo sguardo compiaciuto se ne va, e al suo posto appare una smorfia stupita.
«Come?» Sorrido dentro di me, ho detto qualcosa che non si aspettava.
«Ho sete.» Si gira verso un lavello e subito dopo mi porge un bicchiere di metallo. Lo afferro con una mano, stringendo la coperta con l’altra. Mentre bevo, metà del liquido mi scende lungo le guance. Poi lui si volta di nuovo, e io sono colto dall’impulso di scendere da questo lettino maledetto, mi spingo con le braccia ma le mie gambe tremano, non reggono il mio peso, e crollo ai suoi piedi con un tonfo. “Ti prego, non mi aiutare, non abbassarti”. Non lo fa. Mi sollevo con le braccia e mi ritrovo in piedi davanti a lui. Mi stupisco nel vedere che è molto più basso di me. «Come ti senti?» mi chiede.
Vuoto. «Strano.»  Sposto dietro l’orecchio una ciocca di capelli che mi è rimasta davanti agli occhi, le mie mani toccano qualcosa di freddo. Orecchino. Noto che il vecchio ha in mano una pillola, poi raccoglie il bicchiere e lo riempie di nuovo. «Che cos’è?» Non ricevo risposta. Prendo la pillola fra le dita, la ingoio e poi bevo.
«Io starò fuori per qualche minuto, poi potrai lavarti e vestirti. Non toccare niente.» Esce dal laboratorio senza voltarsi mai indietro, deve fidarsi molto di me, o di sé stesso. Io mi precipito subito verso il lavello, e senza pensarci mi caccio due dita in gola, ma l’unico risultato sono qualche colpo di tosse e un po’ di saliva. Provo ancora, spingendo le dita più in fondo, questa volta riesco a vomitare. Qualunque cosa mi abbia fatto ingoiare, ora non c’è più. Pulisco in fretta, mi rimane del tempo per guardarmi intorno. Ci sono macchinari di ogni genere e un manichino di metallo. Il mio sguardo si sofferma sull’unica finestra, molto piccola e molto alta, che fa entrare un quadrato di luce nella stanza, tagliato dall’ombra delle sbarre. Perché faccio questo? Ho vomitato quello che mi ha fatto ingoiare, ho già trovato una via di fuga. Perché? In fondo, è lui che mi ha creato. Continuo a guardarmi intorno, quando mi giro vedo una ragazza, distesa su un lettino molto simile a quello dove stavo io, e con un tubo in gola. Mi avvicino a lei, le sfioro la guancia. Non ho idea del come, tanto meno del perché, ma io, insomma, è come se l’avessi già vista. Qualcosa mi dice che le assomiglio, anche se non mi ricordo minimamente il mio aspetto. Ricordo? Sono nato oggi, come faccio a ricordare?
 
Quando il vecchio ritorna mi trova vicino a lei. «Hai conosciuto la tua futura compagna di squadra, vedo.» mi dice.
«La conosco?» Lui abbassa lo sguardo e sospira.
«È tua sorella.» mi dice con la stessa velocità di un colpo di tosse. Sorella. Cosa significa? Impossibile. «Meglio che te lo dica io prima che tu lo scopra da solo.» Scoprire cosa? « Tu sei un cyborg. Sai cosa significa?» Sono scosso da un tremito.
«Che sono umano.» Cioè che non mi hai creato, bastardo, e che io non ti devo niente. Vuol dire che c’è stato un prima.
«Già.»
«Come mi chiamavo?» Si volta. «Dove abitavo?»
«Non ha importanza.»
«Sì invece. Io non mi ricordo niente.»
«Meglio così.»
«Perché?»
«Stai zitto! Non dimenticare il tuo posto.» Non provo minimamente a staccare il mio sguardo dal suo, so che gli dà fastidio che lo guardo negli occhi. «Tanto perché tu lo sappia, io vi ho salvati. Non ce l’avreste fatta senza di me. Dovresti essermi grato e portarmi rispetto. Ora seguimi.» Apre una porta e ci ritroviamo in un ambiente molto più accogliente, è così che mi immaginavo una casa. Spero tanto che sia casa sua. Se così fosse, è stato un grave errore mostrarmi la strada. Mi guardo intorno alla ricerca di un qualche indizio. Per cosa? Non ne ho idea. Mi porta fino a una stanza da letto. «Lì c’è il bagno, puoi lavarti, qua c’è l’armadio, prendi quello che vuoi. Hai un’ora, e ricordati che una volta che sarai uscito da qui dovrà essere come se tu non ci fossi mai stato. D’accordo?»
«È casa sua, professore?» La mia voce esce con una certa arroganza, lui mi squadra ed esce. Sorrido. Sì, è casa sua.


Ritorno al laboratorio con addosso qualche straccio, il vecchio sta digitando freneticamente su una tastiera. Noto che vicino a lui c'è un altro uomo, grasso e con la pelle pallida e olivastra. perchè gli scienziati pazzi devono essere per forza orribili? Mi siedo sul lettino e comincio a giocherellare con un bisturi che trovo vicino a me. Rimango per molti minuti ad annoiarmi facendolo passare da una mano all'altra, seduto sul lettino, facendo dondolare le gambe. Ogni tanto il grassone alza lo sguardo verso di me. "No, non mi fai paura, è inutile". Prendo il bisturi fra due dita, cercando un modo per farlo saltare, invece l'oggetto viene piegato in due senta il inimo sfozo. Mi esce un misto fra un grido e un'espressione di stupore, il vecchio sente e si gira. «Quella non è che una piccola parte dei tuoi poteri.» mi dice. Sorrido guardando l’oggetto piegato fra le mie mani.
«Che cosa sono in grado di fare?»
«Ti allenerò personalmente, imparerai a controllare la tua forza, a volare» Volare? «e a controllare il ki.»
«Che cos’è il ki?»
«Ogni cosa a suo tempo.» L’idea mi piace molto. Forse mi conviene restare per un po’.
«Cominciamo subito?»
«No, il tuo organismo non si è ancora abituato hai nuovi circuiti, meglio aspettare.»
«Ma io sto benissimo!»
«Sei pallido, e stai tremando.» Stendo una mano davanti a me, e noto che le mie dita tremano anche se non me ne accorgo. Abbasso la mano e riprendo a giocare col bisturi piegato a metà. Mi toccherà aspettare.




Angolo autore: ciao a tutti! Eccomi qui, mi dispiace di avere aggiornato così tardi, ma prometto che il prossimo capitolo arriverà molto prima. eccoci arrivati alla seconda parte della mia storia, e sono già arrivata al capitolo dieci anche se ne manca ancora qualcuno. Lasciatemi una recensione anche piccola piccola, perchè se no non so per chi scrivo, a parte la mia bellissima supermafri <3 A presto.

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Capitolo 11
*** gli umani sono gente strana ***


“Cosa c’era prima? Cosa c’era prima?” Sbatto la testa contro il muro e continuo a farfugliare con me stesso. Non ho idea da quant’è che vado avanti, ogni volta che sono sul punto di ricordarmi qualcosa, ogni volta che sento di essere sul punto di scoprire qualcosa di importante, ecco che la mia mente si resetta e devo ricominciare da capo. Forse è colpa di quel bastardo, il dottor Gelo. Anzi, sicuramente è colpa sua. È come se nella mia mente ci fosse un vuoto, mi manca qualcosa, mi sento incompleto. Come se la mia vita fosse un’immagine sfuocata. Mi giro verso la ragazza distesa sul lettino, forse lei si ricorda qualcosa. Ha avuto una crisi respiratoria, per questo il vecchio ha interrotto il suo lavoro su di lei, ma presto finirà e lei potrà svegliarsi, e mi racconterà tutto. È così bella, ma non mi sento attratto da lei, sento invece che devo proteggerla. Sento di provare… affetto? Sì, è così che si chiama. Affetto.
Fra qualche giorno comincia l’allenamento, anche se il vecchio sembra preoccupato. Il mio pallore non è diminuito, lui è sicuro che il suo lavoro su di me è stato perfetto, quindi comincia ad avere dei sospetti. Continuo a vomitare le pastiglie che mi dà, non mi fido, è da giorni che vado avanti senza aver mangiato niente, e posso stare sicuro che quelle dannate pillole sono l’unico nutrimento che riceverò da lui. Ho deciso, oggi starà via per molto insieme al suo assistente con la faccia da criceto, devo uscire a cercare del cibo, e magari anche dei vestiti decenti, anche se lui continua a insistere che si deve vedere lo stemma della sua organizzazione del cazzo. Stronzo. Non posso neanche vestirmi bene. Osservo la mia immagine riflessa in una parete lucida. Sussulto. La mia immagine è… morta, non mi viene in mente un altro termine per descriverla. Vedo me stesso con due profonde occhiaie, dei vestiti che non sono i miei, le maniche tirate in su per mostrare dei graffi lungo tutto l’avambraccio. E soprattutto la testa spaccata da un lato, i capelli incrostati di sangue. Mi viene la nausea. Faccio un passo indietro, chiudo gli occhi e quando li riapro vedo solo un me stesso impaurito e con lo sguardo stravolto, con l’aspetto di sempre e i soliti, orribili vestiti. Deve essere stato un calo di zuccheri, non c’è altra spiegazione. Respiro profondamente, con la coda dell’occhio vedo il vecchio uscire seguito dal suo assistente, e senza degnarmi di un sguardo chiudermi dentro il laboratorio. È meglio se mi do una mossa. Mi arrampico fino a raggiungere la piccola finestra, sfilo la grata senza la minima difficoltà. Guardo fuori, il mondo è così luminoso e verde, poi guardo in basso e mi rendo conto di stare per fare una grande, enorme cazzata. La finestra è ad almeno venti metri da terra e io non ho ancora imparato a volare. Forse è per questo che il vecchio non si preoccupa più di tanto. Che si fotta, io me ne vado lo stesso. Chiudo gli occhi e mi butto, li riapro e mi ritrovo per perfettamente in piedi, con le ginocchia leggermente piegate. Fantastico.
Cammino molto e non avverto la stanchezza, la prima casa che incontro è immersa nel bosco e piuttosto piccola. C’è una finestra aperta, entro e mi trovo in cucina, ma rubare dalla cucina darebbe troppo nell’occhio, meglio cercare una dispensa se c’è. Infatti, la stanza accanto è minuscola ma ricoperta da mensole piene di roba da mangiare. Senza il minimo rumore prendo tutto quello che posso trasportare, mi rimane libera solo una mano. Esco dalla casa, in silenzio come sono venuto, e accelero il passo per tornare al laboratorio. Ecco, come faccio a risalire? Mi arrampico su un albero con un braccio solo, e quando arrivo in cima non mi sento per niente stanco. Prego perché quei due non siano ancora tornati, poi lancio la roba che ho in mano attraverso la finestra. Per fortuna sono abbastanza intelligente da aver messo la roba più fragile nei pantaloni. Aspetto che quello che ho lanciato cada a terra con un tonfo leggero, e aspetto ancora per vedere se c’è qualcuno dentro. Poi salto e riesco ad afferrare il bordo della finestra con le mani, rimanendo sospeso a contare solo sulla mia forza. E per quello che ne so è una buona forza, infatti riesco a tirarmi su e a entrare nel laboratorio. Quando atterro non ho neanche il fiatone. Raccolgo il cibo da terra e lo nascondo dietro vari macchinari. Ne ho preso abbastanza perché mi duri qualche giorno, oggi mi limiterò a mangiare del pane.
 
È passato qualche giorno di allenamento, il vecchio mi sta facendo combattere contro una specie di androide molto limitato, ma anche molto veloce. Non abbastanza però. Dopo qualche minuto gli ho tranciato la testa metallica via dal corpo con un calcio, poi gliene tiro un altro in mezzo al torace, lasciando un buco da cui spuntano vari cavi. È divertente osservarlo mentre si tasta il corpo e cerca la testa sopra al collo, preso dal panico. «Va bene così.» dice il vecchio, io invece mi sto divertendo un mondo. Con un altro calcio gli trancio metà delle gambette, lui si ritrova scaraventato a terra e inizia a contorcersi e a strisciare. «Basta così!» Non è abbastanza. Fra le mani formo una sfera di energia e la lancio contro l’androide, dando vita a una bella esplosione. L’unico braccio rimasto integro si muove ancora. Il vecchio mi raggiunge e osserva con lo sguardo grave la mia opera d’arte. «Perché?» mi chiede.
«Mi sembrava divertente.» gli rispondo con lo sguardo più innocente del mondo. Lui se ne va, io lo seguo.
Il cibo sta per finire, appena posso devo ritornare a prenderlo. «Io e il mio assistente staremo via per due ore e venticinque minuti. Non devo trovare niente fuori posto al mio ritorno.» Perfetto. Non potevo sperare di meglio. Saluto la ragazza anche se so che non può sentirmi. Il dottore ha ripreso il suo lavoro su di lei, ormai manca poco. Esco. Anche questa volta cado i piedi, cammino velocemente perché ormai so dove andare. Questa volta in casa c’è qualcuno, faccio il minimo rumore, e riesco comunque a portarmi via il bottino.
 
Ho deciso che voglio imparare a volare, questa storia dell’arrampicarmi sull’albero sta diventando noiosa. Ormai potrebbe benissimo insegnarmelo, anche se dice di aspettare. Sto guardando in basso, sono sull’orlo di uno strapiombo. Il vecchio mi sta parlando ma non ho voglia di ascoltare. Penso che se voglio imparare a volare in fretta dovrò fare da solo, quanto può essere difficile? E poi, se mi spiaccico a terra, tanto meglio. Mi spiaccico a terra… Un attimo di stordimento, poi mi giro verso il vecchio e sorrido. Osservo la sua faccia quando mi lascio cadere all’indietro. Precipito velocemente, quando sto davvero per toccare la terra una forza invisibile mi dà una spinta, e io risalgo verso il cielo, prendo velocità e urlo come uno scemo. Quando sono molto più in alto del laboratorio mi fermo un attimo, riesco a vedere la bocca spalancata di Gelo, gli occhi sgranati del suo assistente, poi riprendo velocità, mi immergo nelle nuvole, corro insieme al vento. Appena tocco terra ho già voglia di rifarlo.
Solo mentre sento il mio stomaco produrre il rumore di una porta cigolante mi rendo conto di avere fame. Non mangio da due giorni e quei due non mi scollano gli occhi di dosso. Forse non dovevo esagerare con quel dannato androide… Ormai ho deciso, andrò questa notte o mai più. Dovrò stare più attento, ma ormai ho imparato a volare. Aspetto che tutto diventi silenzioso, poi faccio sollevare i miei piedi da terra fino all’altezza della piccola finestra. Sfilo la grata sperando che il vecchio e il grassone siano già nel mondo dei sogni, poi esco e atterro davanti alla casetta nel bosco. È buia, le finestre sono chiuse. Proverò a non svegliare nessuno, ma devo essere pronto a tutto. Irrigidisco i muscoli, se uccidessi qualcuno e il vecchio lo venisse a sapere sarei fottuto. Dovrei toglierlo di mezzo, e poi chi mi insegnerebbe? Il grassone? Inoltre deve finire il lavoro sulla ragazza, quindi meglio non combinare cazzate. Basta una leggera pressione per aprire la persiana e un’altra per il vetro della finestra che dà sulla cucina. Entro nella dispensa, è completamente buio ma i miei occhi vedono lo stesso. Mi accorgo che la luce viene accesa solo per il rumore dell’interruttore. Mi giro di scatto, rimango con gli occhi spalancati a fissare un uomo piuttosto alto, con dei baffi folti e un cappello in testa con scritto “guardia forestale”. Eppure sono sicuro di non aver fatto rumore… Rimaniamo a fissarci, cerco di fargli capire con lo sguardo che sono disposto a ucciderlo, ma lui sorride. Non conosco gli umani, ma riesco a capire che non è da tutti girare per casa in mutande, canottiera e cappello. Comincio a chiedermi se gliel’abbiamo incollato. Perché ride? Che stupito, dovrei averlo già ucciso. Lui sorride ancora di più, e comincia a scuotere la testa. «Ah, topolino, topolino…» Che razza di sostanze ha preso?
«Ti conviene stare indietro.» gli dico con la voce più minacciosa che riesco a fare.
«Come ti chiami? Sei di queste parti?» Ma che cazzo gliene frega? Sta cercando di prendere tempo per aspettare la polizia? «Tranquillo, non ho chiamato nessuno.»
«Come faccio a esserne sicuro?»
«Beh, non puoi.» Basta, uccidilo! Cosa aspetti? «Allora, hai voglia di parlare?» Continuo a fissarlo negli occhi. «Pare di no. allora ti conviene sbrigarti prima che si svegli mia moglie. Puoi prendere il cibo, anche dei vestiti se vuoi. No devi rubare, prendi quello che vuoi, coperte, medicine, tutto.» Sta cercando... di fare il compassionevole con me? Come se fossi una povera pastorella orfana che si è persa nel bosco. Non so se ridere di lui o avere voglia di spaccargli il cranio.
«Perché?» Perchè stai cercando di aiutarmi?
«Beh, perché i tuoi occhi mi dicono che ti è successo qualcosa di molto brutto. Voglio aiutarti, mi sembra normale, no?» No. Non è normale, per niente, come non è normale il fatto che sei ancora vivo. Raccolgo tutto quello che avevo tirato giù dagli scaffali senza staccare i miei occhi dai suoi, non prendo nient’altro. Continuo a guardarlo mentre vado in cucina, non gli volto mai le spalle. Poi esco, volando più veloce che posso. Perché mi sono fatto aiutare? Perché? Lui è umano, è inferiore a me, non ho bisogno del suo aiuto, non ho bisogno dell’aiuto di nessuno. “Di nessuno” ripeto a me stesso. Quello che è successo non deve succedere mai più.

 
 
Angolo autore: ciao a tutti!! Questo capitolo è abbastanza lungo e abbastanza un disastro… Ma io ho sempre la remota speranza che a qualcuno possa piacere ;) A presto <3

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Capitolo 12
*** vendetta ***


Devo tornare alla casa dell’umano. Non ho altra scelta se voglio mangiare. E poi manca poco al risveglio di mia sorella, voglio che possa mangiare subito. Deve rimettersi velocemente, così potremmo andarcene prima da questo dannato laboratorio. Allora, l’umano ha detto di avere una moglie, quindi devo stare attento perché da quello che ho capito non esiterebbe a chiamare la polizia. Prima di forzare la finestra, ascolto: non si sente niente a parte la televisione. Apro il vetro e mi ritrovo in cucina. Mentre mi dirigo verso la dispensa, noto che sul tavolo della cucina c’è appoggiato qualcosa. Lattine, buste, cibo insomma. E una coperta. La sfioro, è molto morbida, sembra nuova. Non come lo straccio che mi ha dato Gelo. Qualcosa mi dice che tutto questo è qui per me. Deve averlo lasciato lui, che stupido. C’è esattamente quello che mi serve, quindi lo prendo. Prima di uscire controllo se qualcuno si è accorto di me. Vedo solo dei piedi spuntare da dietro un divano, la donna non sembra essersi accorta di niente. Non so perché, ma mi fermo un attimo a osservare lo schermo della tv. Vedo una donna dietro una scrivania, telegiornale. «E ora la nostra inviata da Orange Star City.» dice la donna. Le immagini che seguono mi tolgono il respiro. Non riesco più a muovermi e ancora una volta non ne so il motivo. Si vede una città, delle vetrine, gente che passeggia, tutto perfettamente normale. Allora perché mi sento così strano? Poi si vede una scuola, “Orange Star High School”, e io devo mordermi il labbro per rimanere immobile e non fare rumore. Nella mia mente ritorna la domanda che mi perseguita da quando mi sono svegliato: “Che cosa c’era prima?”. Orange Star City… Se voglio trovare una risposta, sento che dovrò cominciare da lì. Volo fuori dalla finestra e in qualche secondo sono al laboratorio. Via libera. In poco tempo nascondo tutto quello che ho preso ed esco di nuovo con una destinazione precisa.
 
Atterro sul tetto di una casa, non ho idea di dove andare, né tantomeno del perché sono venuto qui. Mi guardo intorno, sembra una normalissima città, per niente familiare. Forse ho sbagliato posto, o forse non sono nel quartiere giusto. Magari potrei provare a fare un giro. Scendo per le scale del condominio, quando esco mi ritrovo in una stradina affollata. Mi danno fastidio tutti questi umani, che ridono e saltellano intorno a me come caprioli. Decido di seguire la massa, e presto arrivo in quella che sembra la via principale. È piena di negozi e vetrine. Visto che non ho nessuna fretta potrei anche dare un’occhiata, e magari trovare qualcosa di decente da mettermi. Entro nei negozi più affollati, è come uno scherzo. Prendo un paio di jeans, delle scarpe e una maglietta da mettere sotto a quella che ho già, così il vecchio sarà contento che si vede il suo stemma. Prendo anche una bandana da annodare intorno al collo. Quando mi guardo allo specchio mi sento molto più a mio agio.
Continuo a camminare, forse per ore. Una ragazza quando mi vede passare tira fuori la lingua e sorride, perché gli umani sono così stupidi? Se non avessi altro da fare mi sarei divertito un po’. Mi accorgo che mentre cammino mi sento sempre più nervoso, inizio a passarmi le mani fra i capelli, a tormentare una ciocca, a giocherellare con un filo della maglietta e ad accelerare il passo. Ci siamo, lo sento. La via che sto percorrendo ne incontra un’altra, mi giro e mi trovo davanti la scuola che ho visto in televisione. Stringo i pugni, e impongo a me stesso di non farla saltare. Ricomincio a camminare, quando un’auto della polizia si ferma davanti a me. Merda, che cosa vogliono? Ne esce un ometto basso e baffuto. «Nicholas?» Ce l’ha con me? «Nicholas! Io pensavo che tu fossi…» Che fossi... cosa? L’uomo strabuzza gli occhi e sbuffa. «Che cosa ci fai in giro? Hai l’aria di chi ha combinato qualcosa.» Può essere che prima mi chiamassi Nicholas? Lui sembra molto sicuro. «Sai che non posso più coprirti, dopo quella volta che tu e i tuoi amici teppisti avete dato fuoco all’auto del sindaco.» Non so perché ma scoppio a ridere. Comunque, questo Nicholas deve essere stato parecchio messo male, per avere bisogno di essere coperto da un poliziotto. «Io ero un grande amico dei tuoi, sai che non voglio che tu finisca in prigione.» continua lui. Genitori! Quindi il mio vero padre, e mia madre! Aspetta… ha detto ero?
«Dove sono?» gli chiedo.
«Chi?»
«I miei genitori.» Lui mi guarda male. Allora ho sentito bene, sono morti.
«Ragazzo, ti senti bene? Sei pallido, meglio che tu vada a casa.» Casa. Forse lui sa dove abitavo.
«Sì, non mi sento bene, mi puoi dare un passaggio?» Pessima recitazione, ma lui sembra berla. Mi fa cenno di salire, e mi porta fino a davanti a una casetta grigia con un misero cortile intorno. Mi viene una fitta allo stomaco e un forte senso di nausea. Questa è casa mia? Mi sento deluso, la trovo abbastanza orribile. Ringrazio il poliziotto e aspetto che si allontani con la sua auto, poi un fascio di luce esce dal palmo della mia mano e si sente un forte botto. Cammino verso la casa, quando sono quasi arrivato all’ingresso vedo una donna bionda con un aspetto distrutto aprire la porta. Appena i suoi occhi si fermano sui miei le spunta sul volto un’espressione indecifrabile. Rimaniamo bloccati, a osservarci. Non mi ricordo di lei, non ho idea di chi sia, ma cosa importa? So solo che mi dà fastidio il modo in cui mi guarda. Poi la donna si gira e chiama qualcuno di nome Hector. I miei muscoli si contraggono, un uomo molto grosso prende il posto della donna. Appena lo guardo, so già che fine farà. «Tu?» mi dice, io mi avvicino. «Piccolo stronzetto… chi ti ha dato il permesso di ripresentarti qui?» Sì, mi sono già stufato di lui. «Non osare fissarmi in quel modo! Guarda che io ti…» Lo colpisco in faccia prima di dargli il tempo di finire la frase. Il bastardo sfonda la porta e viene scaraventato contro il muro. Fisso la mia mano, fantastico. Mi sento molto meglio adesso, è come se avessi desiderato farlo da sempre. Sfortunatamente, lui si rialza. Tenta di colpirmi, ma schivo il suo pugno con facilità. Poi lo sollevo e lo scaravento a terra, la sua testa si spacca contro un angolo del tavolo. La donna urla, io rido. L’uomo non si muove più. Peccato, mi stavo divertendo. Mentre sto per uscire dalla casa, la donna mi afferra un braccio. Mi giro, sta piangendo ma mi sorride. Perché? Mi libero dalla sua presa ed esco. Però, quando sono in strada mi fermo, sento che manca qualcosa. “Cosa hai intenzione di fare? Risparmiarla?”. Le mie labbra si piegano in un sorriso. Certo che no. Mi giro di nuovo verso la casa, la donna mi sta guardando. Alzo la mano verso di lei, al centro del mio palmo comincia ad accumularsi energia. «No! No ti prego!» la sento urlare. La casa salta in aria, con la donna all’interno. Schegge di legno e mattoni volano dappertutto.  
Sento in lontananza un rumore di applausi. Sbuffo. Proprio ora che mi stavo divertendo. Quando mi giro vedo la figura del vecchio pazzo prendere forma fra la polvere. «Sorprendente, davvero. Come hai fatto a trovare questo posto?» Non rispondo. «Beh, adesso sarà meglio che vieni con me.»
«Perché?» Sembra irritato da questa domanda, mi piace. È così facile farlo arrabbiare, e molto divertente.
Stranamente decide di risparmiarmi il solito discorso “devi obbedirmi, ti ho creato io”. «Pensavo volessi assistere al risveglio di C-18.» dice. Quindi ha finito, si sta per svegliare! I miei piedi si sollevano da terra, e volo più veloce che posso verso il laboratorio, seguito da quel vecchio clisterato.
 
Quando arrivo vicino a lei  c’è l’assistente grasso. Non voglio che la prima faccia che veda sia la sua, o quella di Gelo, potrebbe rimanere traumatizzata. Mi avvicino, sta aprendo gli occhi. Ce li ha azzurri, come i miei. Sorrido. «Nashy...» la sento sussurrare.
«Come?» Mi ha chiamato Nashy, cosa vuol dire? “Solo lei mi chiama così” mi viene in mente, ma cosa vuol dire? Perché so questa cosa? Vuol dire che lei si ricorda, si ricorda tutto! «Come?» ripeto, voglio sentirglielo ridire. Lei mi sorride. Poi Gelo mi fa spostare, e lui e il suo assistente cominciano a farle il lavaggio del cervello “tu sei un cyborg, la tua vita mi appartiene”, e la sua espressione cambia completamente.
 

 
Angolo autore: Hey there! Eccomi qui, è da tanto che volevo scrivere questo capitolo. Da quando ho creato il personaggio di Hector non vedevo l’ora di toglierlo di mezzo (muahahah) ;) E non vedevo l’ora di fare rincontrare i due fratellini, il prossimo capitolo parlerà più che altro di loro. C-18 si ricorderà o no? Beh, leggete e saprete. Come al solito grazie a tutti i lettori e a presto!!!

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Capitolo 13
*** voglio sapere ***


Se ne sono andati. Siamo rimasti solo noi. Lei sta guardando un punto fisso e invisibile, i suoi occhi sono così lucidi che ci potrei vedere riflesso il mondo. Si sfiora le braccia con le dita, il vecchio si è dimenticato di darle la coperta, o che l’abbia fatto apposta? Questo pensiero mi fa stringere i pugni fino a bloccare la circolazione del sangue. Non mi piaceva come quei due la guardassero, e non mi piace l’espressione che le hanno creato sul volto. Prima mi aveva sorriso, adesso è fredda, sembra distante, quasi un fantasma. “Certo che sei stupido, aiutala, che cazzo rimani a fissarla?”. Tiro fuori la coperta nuova da dietro una scrivania, non l’ho mai usata. La spiego e gliela appoggio incerto sulle spalle, quasi avendo paura di farle male. Lei la stringe, fa scorrere le sue dita sul tessuto, e poi mi guarda. Mi siedo accanto a lei, e l’abbraccio senza pensarci, con un gesto spontaneo, non imposto, come se fossi abituato a farlo da anni. Questo sarebbe il momento per piangere, se non lo faccio adesso sento che non lo farò mai più. Ma rimango immobile, non mi sento triste, non sento niente. Che sia colpa di quel bastardo? No, non credo.
«C-18, seguimi.» La voce del vecchio mi gratta i timpani. Velocemente, tolgo la coperta dalle spalle di mia sorella, per nascondermela dietro la schiena. Lei ritorna nuda e fredda come l’aveva lasciata. Le pupille di Gelo passano da me a lei e poi ancora a me. Gli dà sempre fastidio che io non abbassi gli occhi quando mi guarda, e non intendo cominciare adesso. Lei si alza, e per un attimo mi stringe la mano. Poi sparisce dietro di lui, e io rimango solo, di nuovo solo. Cazzo, che cosa le faranno adesso? Se osa sfiorarla giuro che lo ammazzo! Devo stare calmo, la porterà a lavarsi, è sempre una delle sue arme micidiali, non la toccherà. Ma se solo ci prova… Lei si fida di me, le dirò di dirmi qualunque cosa le accada, e appena sarà pronta ce ne andremo per sempre.
 
La vedo rientrare nel laboratorio solo dopo che ho avuto il tempo di mordermi la mano fino a farla sanguinare. Sono decisamente fuori controllo. Lei invece sembra stare molto meglio, è come se si fosse svegliata solo adesso. Viene verso di me con un’espressione tagliente, che qualcuno troverebbe arrogante, mentre io trovo molto familiare. Rimaniamo a fissarci negli occhi, siamo di nuovo soli. Che cosa si dice ha una sorella che non ti ricordavi di avere, resuscitata da un coma e che ha appena scoperto di essere una cazzo di macchina mutante sotto il controllo di un vecchio che non si taglia la barba da quando hanno scoperto l’America? «Hai fame?» è il meglio che riesco a dire.
«Sì.» mi risponde sorridendo. Comincio a tirare fuori cibo da ogni angolo del laboratorio. «Dove hai preso tutta questa roba?» mi chiede mentre il lettino viene riempito di ogni genere di lattine. Come risposta mi limito ad alzare lo sguardo verso la finestra, a lei scappa da ridere. Pensandoci, ne ho tirato fuori troppo, di cibo.
La guardo mangiare mentre spilucco una fetta di pane. Ho notato che più passa il tempo più la fame diminuisce, mentre il sonno ormai è solo un lontano ricordo. Le mie parti meccaniche, lentamente, mi impediranno di mangiare e sarò costretto a rimanere sveglio fino a quando questo cazzo di mondo non salterà in aria, oppure finché non incontrerò qualcuno di più forte di me. Impossibile. Ma sarà anche impossibile continuare a vivere senza poter dormire, o essendo preso dalla nausea ogni volta che provo a mangiare. Il vero problema è che sono un cyborg, non un robot, il mio corpo ha bisogno di fermarsi, ma la mia mente glielo impedisce. Ormai sento la stanchezza penetrarmi sempre di più fino alle ossa, e io non posso fare niente. Che merda. Ammazzerò quel bastardo per questo. «Non mangi niente?»
«Non ho fame.»
«È perché siamo cyborg, vero? Prima o poi non mangerò più neanche io?» mi chiede, e rimango stupito, perchè all'inizio io non c’ero arrivato, neanche quando Gelo ha cercato di farmelo capire con una delle sue frasi sottintese. È molto intelligente.
«Sì.»
«Perché?»
«Perché cosa?»
«Perché siamo cyborg?»
«Beh, perché il vecchio aveva bisogno di qualcuno che gli parasse il culo.» Lei si lascia scappare un sorriso, anche se i suoi occhi non sono per niente divertiti.
«Com’è lui?»
«Gelo?» sbuffo «È solo un vecchio stitico, ma non provocarlo troppo, se no comincia a tenerti sempre gli occhi addosso. Cercherà di riempirti la testa di cazzate, ma non ascoltarlo. Dopo che avrai imparato a combattere ce ne andremo.»
«Quanto siamo diventati forti?»
«Tanto.» Lei abbassa lo sguardo, la sua espressione diventa triste, buia, come quando l’ho abbracciata. Sa qualcosa che io non so, questo pensiero mi martella la testa da quando si è svegliata, no, da ancora prima. Io devo sapere, ho già ucciso due, no, tre persone in nome di un passato di cui non mi ricordo niente. Se lei sa, deve parlare. Mi avvicino, le faccio alzare la testa per guardarla negli occhi. Vorrei non averlo mai fatto. Il suo sguardo è come una doccia gelata e pesante, tutti gli anni passati mi ricadono sulle spalle, e ho il terribile sospetto che non siano stati piacevoli. Devo mordermi le labbra prima di iniziare a parlare. «Tu mi conosci?»
«Certo, sei mio fratello.»
«Io non te l’ho mai detto. Te l’ha detto Gelo?» Lei comincia a respirare a scatti.
«No…» Mi passo la lingua sulle labbra, che sono diventate secche come carta vetrata.
«Tu ti ricordi di me?» La sua espressione cambia, pensava che anche io mi ricordassi? «Ti ricordi di me?»
«Io non mi ricordo niente!»
«Tu sapevi che sono tuo fratello! A me l’ha dovuto dire Gelo!»
«Ti ho detto di no!»
«Smettila!» La mia presa sulle sue braccia si fa più forte, lei cerca in ogni modo di abbassare lo sguardo. Perché non me lo vuole dire? «Smettila di dire così, tu sai qualcosa!»
«Basta!» Il mondo si ferma all’improvviso. Che cosa sto facendo? Lei ha quasi le lacrime agli occhi, per colpa mia. Ma che cazzo mi prende? «Basta, ti prego.» La stringo, il suo viso scompare  contro il mio petto. Sta tremando. Passano secondi interminabili prima che la allontani per guardarla di nuovo negli occhi.
«Dobbiamo andarcene da qui.» le dico.
«Io sarò pronta presto, te lo prometto.»
«Lo so.» Cerco di farle un sorriso troppo forzato, lei ricambia lo stesso.
«E Gelo?» Conosciamo tutti e due la risposta a questa domanda, sorellina.

 
 
Angolo autore: Ciao a todos! Bene, fratello e sorella sono di nuovo insieme, a questo punto le cose si metteranno molto meglio… o no? La strada è ancora lunga, dovrete sopportarmi ancora per un po’ ;) Come sempre grazie a tutti i lettori <3 P.s: perdonatemi gli errori di calligrafia e grammatica perchè da genio che sono mi sono messa a scrivere all'una e mezza di notte (questo non giustifica il fatto che questo capitolo sia abbastanza un disastro...) A presto <3

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Capitolo 14
*** la partita è appena cominciata ***


Guardo per terra. Una pozza grigia riflette la mia immagine, continuamente deformata dalle gocce di pioggia. Ho i piedi fradici, sento l’acqua insinuarsi tra la stoffa fino a raggiungere la mia pelle. Le gocce si accumulano sulla punta del mio naso e dei capelli, precipitando a ritmi irregolari quando diventano troppo pesanti. Mi scivolano lungo le guance come lacrime, mi pesano sulle spalle e sulla testa. Quando cerco di alzare lo sguardo verso il cielo, l’acqua precipita appannandomi gli occhi, non posso fare altro che guardare il terreno. Può sembrare strano, ma mi sento molto più a mio agio adesso, sotto la pioggia, bagnato fradicio, piuttosto che all’asciutto, circondato dalle mura del laboratorio. Mi accorgo di stare camminando, non vedo più la pozza davanti a me. La mia figura si confonde fra gli alberi senza il minimo rumore. Mi immagino come un fantasma, triste, solitario e completamente inutile. Guardo il mondo e sento che non mi appartiene, o che io non appartengo a lui, è lo stesso. Questa sensazione è nuova e familiare allo stesso tempo. Non mi piace, mi sento scoperto, debole, sprovveduto… in poche parole, umano. I miei piedi si fermano appena prima di uno strapiombo. Sono sul bordo, non so se riuscirei a salvarmi precipitando da qui. Ma che cosa mi viene in mente? Mi sento dilaniato, una parte di me vorrebbe scappare, potrei farlo, abbandonare tutto. Ma non posso lasciarla adesso. E poi c’è l’altra parte di me, quella che vuole aspettare per poi colpire, quella che ha una sete di vendetta che mi corrode la gola. È la parte che preferisco, la parte che è stata me da quando mi sono svegliato, ma adesso, sotto la pioggia, è tutto diverso. Forse la lotta fra queste due parti mi spinge a fare un passo avanti, così che mi ritrovo in bilico, con la punta dei piedi sospesa nel vuoto, mentre i talloni, molto lentamente, lasciano sempre di più la loro presa sul terreno. Una fitta alla testa, divento cieco per meno di un secondo, ma poi mi ritrovo accucciato a terra, ansimante e lontano dallo strapiombo. Dèjà vu. Non mi fa bene stare qui, le mie gambe traballano mentre mi alzo e torno verso il laboratorio. 
Quando entro trovo C18 seduta sul lettino e l’assistente grasso vicino a lei. Troppo vicino a lei. Appena faccio un passo i due si voltano verso di me, l’assistente mi guarda ma non dice niente. Deve essersi accorto per forza che sono uscito senza permesso, sono bagnato fradicio, in pochi secondi ho lasciato una pozza sotto i miei piedi. Ma non parla. Non mi ricordo che mi abbia mai rivolto la parola. Un bisturi brilla vicino a me, sono tentato di piantarglielo in mezzo agli occhi, ma per fortuna se ne va. «Ci provava con te?» chiedo a mia sorella,  lei si mette a ridere.
«Ma va, quello al massimo ci proverebbe con te!» Rido anche se non dovrei ridere per niente.
«Dov’è il vecchio?»
«È a casa sua, è andato via più o meno da quando sei uscito. Ma sei fradicio!»
«Tanto mica posso ammalarmi.»
«Secondo me sì, invece.»
«Dici?» Mi passa la coperta, è l’unica cosa con cui posso asciugarmi. Il mio sguardo va inevitabilmente all’ingresso alla casa di Gelo. È tutto il giorno che non si vede, è tornato al laboratorio solo un attimo prima che uscissi, e a quanto pare se n’è andato subito. Sicuramente sta succedendo qualcosa di interessante in quella casa, potrebbe essere ora di sfruttare il più grande errore del vecchio a mio vantaggio, l’avermi mostrato l’ingresso alla sua vita privata.
«Vuoi dare un’occhiata?» Lei mi fissa con aria complice, certe volte penso che sia in grado di leggermi nel pensiero.
«Potrebbe essere divertente.»
«Allora andiamo!» Sorride e comincia ad andare verso la porta, ma io le taglio la strada.
«Vado solo io.»
«Perché?»
«Perché non ha senso che tu ti metta il vecchio contro da subito, devi finire l’allenamento.»
«Ma anch’io voglio divertirmi! E poi anche tu rischi di mettertelo contro.»
«Io ce l’ho già contro.» Apro l’ingresso con una leggera pressione. «Non ho niente da perdere.» Chiudo la porta dietro di me, e la figura di mia sorella scompare. Mi dispiace, ma è da quando mi sono svegliato che Gelo è contro di me, non voglio che anche lei abbia i suoi occhi sempre addosso.
Cammino calcolando ogni mio passo, sento il peso del mio corpo appoggiarsi sul mio piede e prendere possesso del pavimento, sono sicuro di non fare rumore. Passo davanti alla porta del bagno, da qui la casa è tutta nuova per me. Sento delle voci, una è di Gelo, sicuramente, l’altra non la conosco, potrebbe essere quella dell’assistente, e ce n’è una terza, ma non credo a quello che sento perché è una voce femminile. E anche giovane, mi sembra. Nella mia mente si formano scene che mi fanno rivoltare lo stomaco, Gelo che sussurra frasi lascive a una bella ragazza, che le passa una bella mazzetta di banconote, e che si fa cavalcare nudo mentre questa lo sprona con un frustino. Vedo le sue mani nodose e rattrappite palpare un corpo bianco e nudo. I miei pensieri mi fanno venire la nausea, ma mi viene ancora più voglia di vedere la faccia di questa escort. Sbuco da dietro un muro, nessuno sembra accorgersi di me. Vedo il vecchio seduto su un divano con accanto l’assistente, e dall’altro lato una ragazza. Sgrano gli occhi, è molto giovane, ed è vestita come una ragazzina. Quando mi guardo mi attribuisco vent’anni circa, lei non sembra averne di più, forse addirittura di meno. Di sicuro non è una squillo, e allora cosa? Una ragazzina raccolta per la strada? Non credo, da come sembra sentirsi a suo agio in questa casa sembra che ci sia venuta altre volte. Allora rimane una sola alternativa… 
«Papà come va il lavoro?» le sento dire. Non ci posso credere, avevo ragione, è comparsa la figlia! Chissà perché sul mio volto si forma il solco di un sorriso. Come fa un vecchio come lui ad avere una figlia così giovane? Come fa ad avere una figlia? La moglie l’ha mollato? Può essere, io l’avrei fatto, chissà quanti soldi le darà al mese per il mantenimento, non c’è altra spiegazione.
«Bene cara, sto lavorando a un nuovo… progetto.»
«Ah sì?»
«Sì…» Ha intenzione di dirle qualcosa? «E per farlo ho… assunto degli stagisti.» Non sa mentire, quasi mi viene da ridere.
«Davvero?»
«Dei ragazzi giovani, che promettono bene. Insegno loro il mestiere e mi sono di grande aiuto.»
«È grandioso!» L’unica cosa grandiosa, qui, è l’ingenuità di questa ragazza. Il suo profilo sembra quello di una bambola, un’ingenua verginella che potrebbe tornare molto utile… per cosa? Che cosa mi viene in mente? Non lo so, ma qualunque cosa sia a Gelo non farà piacere. «Potresti invitare anche loro alla festa di domani.» Festa?
«No credo che sia il caso, cara, non so se si sentirebbero a loro agio.» Sicuramente no, ma non mancherei per niente al mondo a una festa organizzata dal caro Gelo.
«Beh, prova a chiederglielo lo stesso, magari farebbe piacere. E poi non c’è mai nessuno di giovane a queste feste.»
«Cara, sono sicura che anche se chiedessi qualcosa, mi direbbero sicuramente…»
«…di sì.» completo io la frase. Il vecchio si blocca, non sento più il suo respiro, poi lentamente si gira verso di me con gli occhi spalancati, come il suo assistente. «Ma forse il dottore preferirebbe godersi la sua festa senza avere noi da tenere a bada.» Sorrido e mi avvicino di più al divano. Gelo apre e chiude la bocca, senza riuscire a parlare. Sua figlia ride.
«Ma figurati! E poi farebbe piacere a me se veniste. Vero papà? Non ci sono problemi, no?»
«Ma… certo.»
«Bene.» rispondo, guardandolo negli occhi. La sua espressione cambia lentamente, fino a diventare quasi minacciosa.
«Fantastico!» La ragazza si alza e viene verso di me, porgendomi la mano. «Io sono Samantha, sono la figlia del dottore.» Osservo la sua mano protesa verso di me, adesso devo presentarmi. Come mi potrei chiamare? L’unico nome che mi viene in mente, Nicholas, è troppo rischioso. Muovo la mano verso di lei più lentamente possibile, cercando di sembrare abituato a questo genere di cose. Il mio sguardo cade sul tavolino vicino al divano, sopra c’è un pacchetto di patatine con scritto “Harry’s snacks”. Può andare.
«Harry.» mi presento, e le stringo la mano. «Sei arrivata oggi?»
«Sì, per qualche giorno mi avrete fra i piedi.» Forse è una mia impressione, ma sembra particolarmente entusiasta di conoscermi.
«Io credo che tu debba andare, adesso.» interviene il vecchio. Certo che devo andarmene, perchè io, inutile cyborg, non sono degno di parlare con tua figlia, giusto? O forse hai paura di me? Interessante.
«Certo, ho del lavoro da fare.» rispondo guardandolo negli occhi. Credo che tra noi sia nata una specie di sfida. Poi risposto lo sguardo sulla figlia. «Ci vediamo alla festa, Samantha.»
Torno verso la porticina a grandi passi, quando rientro nel laboratorio mia sorella è ancora nella stessa posizione in cui l’ho lasciata. «Allora?» mi chiede. Sorrido.
«Ho rimediato un invito.»
«Per cosa?»
«Una festa.»
 
 
 
Angolo autore: ciao a tutti! Prima di tutto faccio le mie condoglianze a tutti gli studenti per l’inizio della scuola, purtroppo ho pregato tanto ma il tempo di ricominciare è arrivato lo stesso… Mi dispiace, ma non credo che potrò aggiornare tanto frequentemente, perché dal primo giorno hanno iniziato a caricarmi di compiti -.- ma spero comunque di non far passare i secoli fra un aggiornamento e l’altro, e spero anche di essere riuscita a fare un buon lavoro col capitolo quassù ;) Come sempre, grazie a tutti i lettori <3

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Capitolo 15
*** divertimento ***


Non avrei mai immaginato che uno come Gelo potesse organizzare una festa, infatti avevo ragione. Siamo in giardino, sembra il giardino di una casa di bambole. Non tanto per le donne, i loro vestiti sono anche accettabili, a parte quello della vecchia in fondo a destra, che indossa un tappeto. Ma per quanto riguarda gli uomini sembra un raduno di Ken, forse perché sono tutti in smoking, oppure perché camminano come se avessero le gambe di plastica e la schiena rigida. Magari soffocano per il papillon. L’unico che non potrebbe mai sembrare un Ken è Gelo, non trovo le parole per descriverlo, vorrei tanto potergli fare una foto. Naturalmente io non sono in smoking, e mia sorella è vestita con la solita gonna di jeans. È circondata dagli invitati, la fissano praticamente sbavando con la lingua floscia, riesco a vedere da qui il rigonfiamento dei pantaloni. Che schifo. Sento la rabbia pulsarmi nelle orecchie, li avrei già sistemati se non dovessi occuparmi di Samantha. Con un vestito addosso la trovo quasi carina, non so ancora cosa farmene, anche se comincia a venirmi un’idea. L’unico problema è Gelo, i suoi occhi sono solo per me e ogni tanto per C18, ed è sempre rimasto incollato alla figlia. Deve andarsene. So che non lo farà. Dovrei trovare il modo di farlo allontanare, di distrarlo. Potrei entrare nel laboratorio, far scoppiare qualcosa, allagare i bagni, uccidere un inviato, dare fuoco alla casa, causare l’apocalisse, qualunque cosa. Potrei allontanarmi, così mi verrebbe a cercare, anche se potrebbe mandare l’assistente al suo posto. Ma è l’unica idea fattibile che mi viene in mente, e avrei comunque bisogno di allontanarmi da questa gente. Mi nascondo dietro la prima porta che vedo, mi ritrovo in uno sgabuzzino. Lascio uno spiraglio per poter vedere fuori, ci vorrà un po’.
Dopo minuti che sembrano ore, mi inizio a stancare. Sono inquieto, non so bene perché. Le mie dita sbattono le une contro le altre, e a furia di passarmi le mani tra i capelli ho paura che quando uscirò da qui mi accorgerò di essere pelato. E poi questa penombra è irritante, ma anche rilassante, abbastanza da permettermi di finire in uno stato molto simile al coma. È da giorni che non dormo, non mi addormenterò certo adesso. È odioso non poter dormire, nella mia testa cominciano a formarsi i sogni, e se dovessi parlare in questo momento saprei usare solo bestemmie. Però è bello stare qui, senza gente a fissarmi, senza…
 
Uno strapiombo, l’odore del mare, non sento la terra sotto i piedi. Poi rosso, tanto rosso, mi soffoca, si insinua nel naso e nella bocca. Sto morendo, sto per morire. Poi Gelo, ha un bisturi in mano, è sporco di sangue e ride…
 
La luce mi ferisce gli occhi a un tratto. Ho la bocca spalancata e il mio urlo riecheggia ancora per la stanza. Ce l’ho fatta, mi sono addormentato alla fine. Bel lavoro. In bocca ho il sapore della saliva pastosa, e sento in corpo un fremito, come se mi fosse successo qualcosa di bello e terribile allo stesso tempo. Cazzate, è stato solo un incubo, un maledetto incubo. I miei occhi si sono appena abituati alla penombra dello sgabuzzino, quando la porta viene spalancata e la luce invade la stanza, costringendomi a ripararmi con una mano. Dopo qualche secondo riconosco la sagoma del grasso assistente di Gelo.
«Che cosa stai facendo?» Che voce orrenda. Rimango a fissarlo tranquillamente, sdraiato per terra. Poi quando comincia a diventare troppo disgustoso per i miei occhi (ci mette molto poco) mi decido ad alzarmi.
«Che cosa stavi facendo?»
«Una sega.» gli rispondo, poi esco. Non credo che sia rimasto scandalizzato, ha la faccia di uno che si è slogato il polso almeno tre volte a furia di seghe.
Fuori c’è una grande agitazione, troppa, mi innervosisce. Ma soprattutto non c’è traccia di Gelo, e questo mi piace molto. Mi guardo intorno, cercando mia sorella. La vedo in mezzo a un gruppo di invitati che si sono ammassati davanti a una porta.
«Cosa succede?» le chiedo. Lei alza le spalle.
«Non lo so, ma con tutto questo casino potrebbero benissimo aver trovato un cadavere.» Poi si blocca e rimane a fissarmi. «Tu… non hai ucciso nessuno?»
«No, e tu?» Scuote la testa, sembra abbastanza delusa. Decido che qualunque cosa ci sia dietro quella porta non mi interessa, e poi tutti questi umani ammassati mi danno fastidio. Mi allontano dal gruppo e, questa è fortuna, trovo Samantha seduta su un tavolo, sola.
«Ehi.» Mi avvicino, guardandomi le spalle. «Cos’è successo?» Ha un’espressione spenta, forse potrebbe centrare con qualunque cosa ci sia dietro quella porta.
«Hanno ucciso mio zio.» mi risponde, senza neanche guardarmi in faccia.
«Ah…» Dì che ti dispiace, no? «Mi dispiace.»
«A me no, lo odiavo.» Chissà perché dopo questa frase inizia quasi a starmi simpatica. È un momento perfetto, ho davanti a me una verginella depressa, figlia di un padre iperprotettivo che è la persona che voglio distruggere. Come potrebbe andare a finire? Mi siedo di fianco a lei, che finalmente alza lo sguardo. «Che festa noiosa, eh? Mi dispiace di averti trascinato qui, con gli occhi di mio padre sempre addosso.»
«Come?»
«Mi sono accorda che mio padre continuava a fissarti, hai combinato qualcosa?»
«No, ma… diciamo che non mi è facile seguire le regole, ecco.» Ride. Perché ride?
«Non deve essere facile con lui, allora.»
«Già… mi sembra molto protettivo, no?»
«Beh, ci tiene molto a me… sì, forse è un po’ troppo protettivo.»
E da qui inizia a raccontarmi tutta la sua vita, come se i suoi problemi fossero i più grandi del mondo. Devo farla smettere. Mi avvicino abbastanza perché si blocchi, iniziando ad ansimare e cercando di nasconderlo. È così facile, mi avvicino ancora e lei fa lo stesso, avvicinandosi molto più di quanto abbia fatto io, praticamente le nostre labbra si sfiorano.
«Stai cercando di baciarmi, Samantha?» Non so perché l’ho detto. Lei arrossisce in un lampo e si ritrae subito, iniziando a balbettare. Mi faccio avanti io, la afferro e la bacio. Mi viene naturale, come se l’avessi fatto miliardi di volte. Lei risponde subito. Sposto i miei baci lungo il suo collo. Non so cosa spero di ottenere con questo, magari solo divertimento. Ma, infondo, cos’è che un padre ama di più al mondo?
Il gruppo davanti alla porta si sta sciogliendo, porto Samantha lontano e riprendiamo. È schiacciata contro un muro, faccio tutto io, è come una bambola. Le sfioro le braccia, i fianchi, fino a scendere lungo le gambe.
«Harry… io… non so se…» continua a ripetere, ma se provo ad allontanarmi la sento cercare il mio corpo, così finisce che oso. Le mie mani si insinuano sotto la gonna, e i suoi respiri si fanno corti. Non ancora, non è il momento, deve essere lei a venirmi a cercare. «Che cosa c’è?»
«Senti… mi sono lasciato trasportare, ma non me la sento di fare niente se tu non sei sicura. Sarebbe la tua prima volta, devi pensarci bene.» Certo che sono proprio bravo.
«Sì…» Le do un buffetto sulla guancia,e questo nel tempo di un battito di ciglia mi trasporta in un altro posto, in un altro tempo, con un’altra ragazza davanti, di cui non faccio in tempo a vedere il volto. Poi passa, davanti ai miei occhi c’è ancora Samantha. Sorrido e me ne vado, Gelo mi starà cercando.

 
 
Angolo autore: Ehi!!! Eccomi qua, a chiedere umilmente perdono per questo ritardo vergognoso, e per essermi presentata dopo secoli con un capitolo che non è neanche un granché (sì, lo so, lo dico tutte le volte, ma questo è stato particolarmente complicato da scrivere). Chiedo ancora perdono, un bacio a tutti i lettori <3

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Capitolo 16
*** buio ***


Eravamo in un bar. Un locale molto luminoso, il bancone bianco rifletteva la luce e me la sparava negli occhi. Ero già agitato di mio, questo è vero, forse è successo tutto perché ero agitato. Il vecchio aveva voluto portarci fuori, gli serviva una scorta o che cazzo ne so. Forse voleva vedere come ci saremmo comportati. Mi sa che abbiamo fallito la prova.
 
«Harry.» Mi fissa come un cucciolo spaventato, le sue labbra tremano.
«Vieni.» Le afferro le mani, la faccio sedere sopra le mie gambe. Le sfioro i fianchi, le spalle, il viso. Ogni volta è scossa da un fremito, non riesco a sentire il suo respiro. Le sue guance vanno a fuoco, le passo il pollice sulle labbra, mi sembra che possa svenire. Sento le sue ginocchia che tremano, il suo fiato che si avvicina. E io? Che cosa provo io?
 
Non ne potevo più di stare seduto su quel dannato sgabello. Mia sorella aveva ottenuto di ordinare un muffin, lo piluccava da quasi un’ora, mangiando poche briciole per volta. E a me dava fastidio, mi viene la nausea ogni volta che vedo del cibo, ma era proprio bello, quel muffin.
«Non lo mangi?»
«Lo vuoi tu?»
«No.» Poi sarei stato io a mettermi a piluccare.

 
«Io ti amo.»
«Lo so.» È il meglio che riesco a dire. Mi sento una merda a fare questo, sono cattivo?
 
È che ci sono quelle giornate in cui non si può accumulare più niente, in cui si deve per forza scoppiare. E proprio quel giorno Gelo ha deciso di portarci fuori. Peggio per lui se l’ha fatto apposta. Avevo deciso che mi dovevo alzare, mi sono alzato, e un bastardo se ne stava lì davanti, per sbaglio gli ho rovesciato il caffè sulla maglietta. S’è messo a bestemmiare insieme al suo compagno, sembravano due grossi trichechi, non volevo starli a sentire, sono andato verso la porta.
 

Le passo una mano sul collo, i suoi capelli sono morbidi. La bacio, ancora, e ancora. Si sfila la maglietta. Ha un bel corpo, magro, fine. Mi concentro su quel corpo per non guardarla in viso. A volte non resisto, alzo lo guardo, e mi accorgo che i suoi occhi mi osservano come se fossi una persona meravigliosa, come se fossi la più bella cosa che le potesse capitare. Al diavolo, al diavolo. Facciamolo, in fretta, senza preliminari o cazzate simili. Oppure se non vuoi farlo lasciamo perdere, che cosa ti cambia a te? Sarebbe meglio per te, sarebbe meglio se io sparissi. Dopo quello che ho fatto non me la sento di fare questo.
 
«Ehi brutto stronzo! Guarda che hai combinato!» Mi aveva afferrato per un braccio, non so perché gliel’ho permesso. Avrei dovuto scaraventarlo contro il bancone e uscire. Invece no. «Io te la faccio ingoiare la maglietta, hai capito?» Stupido umano, che cosa pensi di fare? «Poi non tornare a piangere dalla tua mamma puttana quando ti avrò gonfiato di botte.» La barista dietro il bancone aveva iniziato a starnazzare, un uomo si era alzato, credo che volesse aiutarmi, mia sorella sorrideva. L’unico a rimanere impassibile è stato Gelo. Mi accorgevo sempre di più di provare una strana sensazione, partita dalla pancia, che mi provocava una strana eccitazione. Come se mi stessi sforzando di non fare qualcosa di molto divertente.
«Lascialo stare, è un ragazzino.» gli aveva detto il suo compagno, e io ne avevo approfittato per andare verso l’uscita.
«Ehi sputo! Non ho finito con te!» Mi sono bloccato, neanche io avevo finito con lui. «Ecco bravo, sta fermo lì. Anzi, andiamo fuori che ti faccio sparire quello stupido ghigno dalla faccia.» Mi ha afferrato di nuovo il braccio. «Avanti, hai paura di giocare con me?» Gli ho tirato un calcio nello stomaco, ci sono state delle urla, lui si è accasciato e ha iniziato a sputare, imprecando. Mi sono messo a ridere, poi gli ho tirato un altro calcio sotto il mento.
«Va bene, piccolo.» Si è alzato stringendo i pugni, senza accorgersi che era ridicolo. Si è lanciato contro di me, mi ha mancato, ed è andato a scaraventarsi contro un tavolo. È ritornato alla carica, gli ho afferrato i pugni e tirato un altro calcio in pancia. Poi l’ho scaraventato contro il bancone, gli ho afferrato la faccia e l’ho sbattuto contro le vetrine. Intanto io ridevo, ero completamente pazzo. Non riuscivo ad accorgermi di nulla di ciò che mi circondava, esisteva solo quello stronzo che stavo massacrando di botte. E siccome nessuno mi impediva di farlo, io continuavo.

 
Eri vergine, eri vergine e adesso non lo sei più. Il tuo paparino ci doveva tenere tanto, eri la figlia perfetta di un uomo perfetto. Adesso sei solo la figlia sciocca di un bastardo. E io che cosa ci ottengo? Che non sei più innocente, che ti ho reso almeno un po’ più simile a me. Infondo non siamo così diversi, Gelo non può farci niente.
 
«Eh brutto stronzo, vuoi ancora giocare? Rispondi, bastardo! Ti va ancora di giocare con me?»
«Basta! Non lo vedi che è morto?» Stavo prendendo a calci un cadavere, chissà da quanto andavo avanti. Il bar era un delirio, tavoli ribaltati, vetrine rotte e qualche uomo a terra. Non sembrava più neanche così luminoso. «Dobbiamo andarcene, ha fatto in tempo a chiamare la polizia.» C18 indicava la barista, accasciata sul bancone con una cornetta in mano. Mi accorgo adesso che non mi è dispiaciuto per niente, anche se lei non c’entrava.
«Sei stata tu?»
«No, io ero occupata con l’altro tizio.» L’altro tizio era sdraiato per terra con un foro nell’addome. «Ho fatto una cosa svelta, non è che mi diverta così tanto, tu invece facevi paura mentre massacravi quell'uomo.»
«Era uno stronzo. Dov’è Gelo?»
«Ci aspetta fuori. È strano, ti ha lasciato fare come se niente fosse, ha lasciato che mi occupassi degli altri, e ha ucciso quella donna. Ma a un certo punto è uscito, sembrava preoccupato…»
«Dai, andiamo.» Cosa me ne fregava di Gelo?

 
«È stato bellissimo.»
«Samantha, tu pensi che sia giusto quello che abbiamo fatto?»
«In che senso?» Perché sorridi? Te lo dico io che non è giusto, tu non sai neanche io mio nome, neanche io lo so, per questo non è giusto. Non è giusto perché sei innamorata, non è giusto perché sei servita solo a prendermi una piccola vendetta, e non è giusto perché adesso mi dispiace. Mi dispiace per te, capisci? «Tu mi vuoi bene vero?» Sbuffo, mi alzo. È tutto sbagliato, non doveva andare così, ma che cazzo mi succede? «Cos’è successo? Che cosa ho fatto? Harry!» Piantala di chiamarmi così, piantala! «Ci rivedremo, vero?» Sta piangendo. Le do un buffetto sulla guancia, cercando di sorridere. La verità è che ho sbagliato tutto, non siamo simili per niente. Sei troppo ingenua, non ti meriti questo. Esco. 
 
Nel laboratorio trovo mia sorella. La vorrei abbracciare, invece non lo faccio.
«Dove sei stato?» Non rispondo. Vado verso il lavello, ho una cosa da fare. Quella dannata immagine, il ragazzo con la testa spaccata e le braccia graffiate mi perseguita. Mi somiglia molto, ma non posso essere io per un semplice motivo: ha i capelli mossi. Leggermente arricciati, soprattutto i ciuffi davanti, non molto ma abbastanza per poterlo notare. Mentre i miei sono lisci, liscissimi. Ero sicuro di questo fino a poco fa, mi è venuto un dubbio. Apro il rubinetto e mi caccio la testa sotto l’acqua.
«Che stai facendo?» Non faccio caso alla mia immagine, la evito, ma ho notato che mia sorella dopo aver fatto la doccia aveva i capelli mossi, le sono rimasti mossi per qualche giorno. Da bagnati un po’ si arricciano, è normale, devo aspettare che si asciughino.
«Mi passi la coperta?»
«Facevi prima a farti la doccia, no?» Sfrego il tessuto sulla testa, sono ancora ricci. È perché non sono asciutti, devo aspettare. Mi siedo sul lettino. Le braccia di mia sorella mi circondano, appoggio la testa sulla sua spalla e chiudo gli occhi.
Quando li riapro i miei capelli sono ancora mossi, e asciutti. Rimango a fissare il mio riflesso. Poi afferro un oggetto che non ho il tempo di guardare e lo scaravento contro la parete.
«Che cosa è successo?» Mi accascio sul pavimento. non è possibile, non è possibile che sia io. Cos’è che vedo? Il passato, il futuro? Io non ce la faccio, io… ti odio! È Nicholas, è colpa sua! È stato lui, è colpa sua se ho fatto esplodere quella casa, io non lo volevo fare, perché avrei dovuto? Io non volevo, io non volevo… Io non volevo premere il grilletto, non volevo! Avevo chiuso gli occhi, non è stata colpa mia! È morto, è morto! Io non volevo!
Sento dei passi alle mie spalle. Mi giro. È Gelo.
«Mi dispiace.» Per cosa? Dov’è C18? Che cosa ha in mano?
«No! Aspetta!»
 
Click
 
Buio.
 

 
Angolo autore: Ehilà! Eccomi qui con un nuovo capitolo (yeee)! I nostri cyborg sono stati disattivati, fra poco arriveremo alla parte clou (eh già la strada è ancora lunga…) quindi dovrete sopportarmi ancora un bel po’ ;) chiedo scusa per il ritardo e mando un bacio a tutti i lettori <3
A presto!!
 

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