In Fondo All'abisso Nero Dei Miei Occhi

di Kyuri_Zaoldyeck
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PREFAZIONE ***
Capitolo 2: *** Perché togliere al mondo un essere tanto gentile? ***
Capitolo 3: *** L'Impurità che ci pervade, eppure ci protegge ***
Capitolo 4: *** WONHAN ***



Capitolo 1
*** PREFAZIONE ***


Ho fame … Ho tanta fame …

Striscio per terra … le mie gambe non funzionano, e mi domando se sono ancora attaccate al mio corpo …

Striscio per terra usando le braccia, e posso sentire crearsi le abrasioni, l’asfalto rovinato si sta portando via la mia pelle piano piano …

Le lacrime mi stanno rigando il viso continuamente … chiunque mi avrebbe chiesto chi mi da la forza … forse la fame …

Ho davvero tanta fame … nel distretto non c’è più nessuno, sono andati tutti via … alcuni però sono ancora qui … i loro esili corpi sono ancora qui … perchè ci fanno questo? Abbiamo soltanto fame … se avessi la possibilità mangerei volentieri altri alimenti … ,a mi danno il voltastomaco …

Striscio fuori da quel vicoletto buio, ce ne sono altri … c’è tanto sangue, fresco e secco … perchè ci fanno questo? Perché siamo diversi? Ma forse di emozioni ne abbiamo, e più di loro …

Il sole spunta da uno dei palazzi … mi fa male agli occhi tutta questa luce … occhi che ancora non hanno ripreso la loro sembianza normale.

Tutto è grigio, scolorito, senza tempo, come noi del resto, e in quel momento, mentre striscio, il tempo si è fermato.

Striscio in questo distretto raso al suolo, non so bene cosa io stia cercando … salvezza? Cibo? Compagnia?

Non riesco a muovere le gambe, striscio verso il cancello metallico che si intravede in lontananza, quell’uscita del distretto, ben attrezzata e difesa, come se dovessero proteggerla da dei feroci mostri … è questo che siamo davvero?

Striscio verso quell’uscita, che tanto non apriranno mai.

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Capitolo 2
*** Perché togliere al mondo un essere tanto gentile? ***


Mentre il tempo non accennava a riprendere il suo corso, io mi ero accasciata al muro, ormai stanca, con le braccia corrose dall’asfalto.
Massaggio le mie gambe cercando di far riprendere la circolazione.
In quel momento, in quella frazione di tempo, un’echeggiante rumore di passi ruppe quell’equilibrio tanto perfetto.

Intorno a me, il vento diffonde il suo fischiante suono tra i palazzi, fa svolazzare fogli, sassi, calcinacci … ma quei passi non hanno immagine.
Ciò che non ha immagine ci spaventa, funziona così per tutti.

Mi alzo, saltellando su un piede, l’altra gamba ancora non funziona. Mi nascondo dietro ad un palazzo, mentre sento i passi senza immagine sempre più vicini.

Lo vedo adesso … è uno di loro … probabilmente un giovane inesperto, non sta neppure impugnando l’arma.

Ho tanta fame e ora come ora anche il corpo di un’esile colomba mi aggraderebbe.

Mi brillano gli occhi … lo sento … sento la fame logorarmi mentre guardo il lento insicuro volare di quella colomba, così innocente ...

Salto fuori dall’angolo, l’istinto predatore mi è padrone, gli piombo davanti con la furia di un leone … lui è spaventato, cerca il fucile a tentoni senza staccarmi gli occhi di dosso … lo impugna tutto tremolante.
Benchè la fame sia forte, non sono un mostro come loro credono, e lui non è quella colomba macchiata di nero che mi aspettavo, era bianca, pura come quelle che ho visto volare in molti matrimoni.
Lui ripone il fucile, ha capito che non gli farò del male, mi chiede perchè non sono fuggita o peggio morta. Io indico con lo sguardo la mia gamba in cancrena, e prima lo erano entrambe.

Lui avanza verso di me, lo prego di non farlo, in fondo la fame mi fa perdere il controllo spesso e volentieri. Lui non mi ascolta, mi prende in braccio, e mi chiede di fingermi morta.

Io continuo a guardare il mondo, che ora si muove su e giù seguendo il volare di questa colomba bianca, guardo fuori per resistere alla fame. Perché togliere al mondo un essere tanto gentile?

Lui mi poggia per terra, si volta ed estrae un coltellino dalla tasca. Inizia a tagliarsi, curandosi di non farmi vedere tale scena truce, come se non ne fossi abituata. Urla di dolore, urla sotto i miei occhi.
Il risultato è un lembo di pelle sui sette centimetri che, con le lacrime agli occhi, mi porge delicatamente. Sorride, poi si fascia con maestria l’enorme squarcio.
Guardo quel lembo di pelle … non oso immaginare quanto gli possa aver fatto male. Prendo a piccoli morsi quella delizia, ne godo ogni sfumatura di sapore, come se non mangiassi da anni. È squisito … mi sento un mostro … ma mi piace tanto la carne umana.

Lui mi riprende in braccio, mi sorride, forzando il dolore, e anche io trovo la forza di inarcare la bocca in un sorriso.

Perché togliere al mondo un essere tanto gentile?

Giungemmo al cancello, alla grande uscita. Urla e chiede di aprire, si identifica rapidamente. Lee, si chiama Lee.

Tengo gli occhi chiusi … mi fingo morta … riesco a sentire il cancello aprirsi, e i passi di Lee avanzare … e immagino di attraversare la soglia, immagino di andare a vedere il mondo fuori dal mio vecchio e inutile ghetto … in quel mondo dove umani e “mostri” vivono insieme le insidie della società.

È un sogno, un bellissimo sogno … il mio fingermi morta mi ha spinto nel sonno profondo … cullata dal dolce sbattere delle ali della colomba bianca.
 
 
Mi sveglio una volta terminato il mio sogno, in un luogo mai visto, talmente insolito da lasciarmi in soggezione.

Sono stesa su qualcosa di morbido … molto morbido, e mi trovo in una stanza pulita e curata, piena di oggetti insoliti. Riconosco solo un armadio, ne avevo uno anche io nel ghetto, ma era metallico, grigio e mezzo rotto, come il resto del luogo … questo è bianco, grande e moderno.

Scendo dal morbido giaciglio dove avevo riposato, il pavimento non è freddo e polveroso, bensì caldo e … peloso. Le gambe funzionano di nuovo, menomale.

Strani quadrati contenenti figure strane sono appesi alla parete, per la precisione tre. Apro l’armadio … il mio era vuoto … questo straripa di vestiti diversi, per ogni occasione, vestiti maschili.

C’è una porta dietro di me … c’è un luogo che conosco molto bene, lo avevo anche io nel ghetto, il bagno, solo che questo è ampio e luminoso, ornato e pulito!

C’è uno specchio, non incontravo la mia immagine da anni. Corro davanti e mi vedo.
Ho la pelle bianca, ma sporca di polvere e sangue, le braccia abrase, gli occhi verde scuro, i miei occhi normali. I capelli sono sempre i solito, bianchi, leggermente arrossati dal sangue sulle punte. Indosso il solito vestito bianco, che il tempo ha ingrigito e gli eventi recenti hanno colorato di rosso. Sono magra, bianca e denutrita. Smetto di guardarmi, sono un pessimo spettacolo.

Esco e mi accorgo di una seconda porta. La apro silenziosamente e una potente luce mi acceca. Il sole penetra dalle ampie vetrate della nuova stanza, grande almeno il doppio della precedente. Lui è seduto su un comodo divano, la stanza è piena di altri oggetti insoliti, ma non ho il tempo di esaminarli.

Si sveglia, mi ha sentita. Mi sorride, non ha paura di me, forse ha solo compassione verso un essere come me.
Mi chiede se voglio farmi un bagno. Perché dovrei usufruire così di una colomba tanto gentile?
Lui si alza, non mi metto sulla difensiva, mi fido di lui.

Mi guida al bagno che avevo esplorato qualche minuto prima. Di nuovo passo davanti alla mia immagine nello specchio, rivoltante.

Lui riempie la vasca di acqua calda, poggia una maglia sul lavandino lì accanto, e infine esce sorridendomi.

Lascio scivolare il vestito per terra, sono dimagrita e mi sta un po’ grande. Lo metto nel lavandino e apro l’acqua nel tentativo di sciacquarlo un po’, come ero abituata nel ghetto.

Copro il mio corpo denutrito per il freddo, e mi immergo piano piano nell’acqua calda.

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Capitolo 3
*** L'Impurità che ci pervade, eppure ci protegge ***


Il bagno caldo mi rilassa … l’acqua mi arriva fino al naso, respiro, immersa nel fumo che esce dall’acqua.
Quindi queste stanze colme di oggetti fanno parte di quel mondo al di fuori del distretto? Questo è il mondo che ho tanto sognato.

Immergo la testa completamente, adesso non vedo niente, se non la condensa dell’acqua e lo scorrere dei miei pensieri. Non ho mai fatto bagni come questo nel ghetto … c’era soltanto una povera doccia chiusa da una tenda ormai a brandelli, ed usciva esclusivamente acqua fredda, come il ghiaccio. Certe docce fredde erano insostenibili in inverno.
L’inverno nel ghetto era duro per tutti noi, in tutti i sensi.
Immerso nell’acqua si materializza il ricordo delle persone che tornavano con grandi pellicce calde dopo una battuta di caccia, e i loro vestiti erano “trofei di caccia”, e ricordo mia mamma che avrebbe voluto andare a caccia per noi, ma la malattia la aveva fermata. Ricordo bene quelle malattie che, sebbene fossero letali, non ci uccidevano. Ricordo noi bambini, gelanti in mezzo ai vicoli, abbracciati per condividere quel poco calore umano, e i “cacciatori” che mostravano a tutti pantaloni, maglioni e spesso anche cappotti.
Avevo degli amici … saranno morti. Perdo il fiato e riemergo.

Strizzo i capelli e mi asciugo. Ora il mio corpo è decisamente più pulito, e anche più bianco. Prendo la maglia grigia che Lee mi ha lasciato lì. È lunga, lunga fino alle ginocchia.

Torno nella sala più grande, intimidita dai possibili avvenimenti. Ma non riesco a proferire parola, chissà com’è la mia voce? … attualmente non la ricordo.
“Non hai asciugato i capelli?” asciugarli? Che domande, non si possono asciugare … almeno credo.
Mi propone di asciugarmeli lui stesso, io annuisco, anche se non ho idea di come possa fare. Ma come immaginavo, tira fuori un altro strano strumento dal mondo, un grosso aggeggio che faceva un baccano osceno, dal quale però usciva aria calda.

Perché una Colomba è così premurosa con il mostro che dovrebbe cibarsene?

Scorro le dita tra i ciuffi di capelli bianchi, son setosi e incredibilmente lisci. Ogni volta asciugavo i capelli all’aria, e non ottenevo mai un risultato del genere. Infine li lega con una coda alta, per far sì che non mi diano noia.

Forse dovrei parlare … è stato così gentile … :

-Ciao- dico, anche solo per provare che abbia ancora la voce, funziona e la mia vocina risuona nella stanza silenziosa: lui si volta sorridendomi:

-Ciao! Hai proprio una bella voce, sai? Come ti chiami?- La mia voce è acuta, come si rispetti per la mia età.

-Haru- dico timidamente, lui sorride. Haru è il mio nome, amo la primavera, ma il mio nome non ha in sé niente di giapponese, bensì coreano, e significa “giorno”.

Lo ringrazio, lui tira fuori dal forno quella che sembra essere una lasagna, chissà quanto deve essere buona, eppure il mio stomaco la ripudia. Mi porge un piatto e mi chiede se esiste qualcosa che posso mangiare. Scuoto la testa, avvilita … vorrei tanto mangiare altri alimenti …

Mi chiede cosa desidero,e  io rispondo la cosa più ovvia che mi viene in mente, caffè.
Se non altro amavo il caffè, ma più ne bevevo e più aumentavano le ore di veglia.
E quando ero nel ghetto divenne un giochetto divertente: passare il giorno a bere caffè, così da poter restare sveglia la notte, e girovagare per il ghetto, vuoto e silenzioso. Amo la notte, da quando sono nata, poiché venni al mondo per la strada, nella notte più fonda.

Lui mi prepara il caffè, io gli sorrido, lui mi sorride: da questo momento ha inizio la mia nuova vita, il mio ingresso nel mondo.

 
I molteplici aghi perforavano la pelle con quel solito, lieve e ripetitivo rumore.
Stavo eseguendo l’ennesimo esperimento sul corpo del mio cliente preferito. L’unico che si fidasse e apprezzasse ogni mio schizzo.

Lui era un ghoul, un “mostro” come me, che viveva nella società, ben nascosto ma ci viveva, mentre forse io mi mettevo troppo in mostra. Ormai, Uta poteva sembrare un ghoul in pensione.

Stavo lavorando ad un cuore, l’organo del cuore, avvolto da ombre dall’aspetto tribale.
Trattai quel disegno che feci nel pieno della notte come un simbolo dell’impurità che avvolge il nostro cuore, e ci rende dei mostri affamati, ma anche come una potente ombra che protegge il nostro cuore dalle rigide leggi della società, e da quelle fecce che ci vogliono morti.
Quel tatuaggio rappresentava per me la metafora della nostra vota, per questo motivo, il giorno dopo lo chiamai per mostrarglielo, e lui lo volle subito, poco sotto la sua clavicola destra. Sarebbe stato bello farlo in corrispondenza del cuore, ma lì c’era già un altro dei miei esperimenti.

Ricordai di avergli detto una volta di non essere nata lì, nel mondo, ma di averlo scoperto dopo. Gli raccontai che ero nata in un ghetto, e di come fossero disagevoli le condizioni di vita.

Facevamo lunghe chiacchierate di ogni genere, sotto quella forte luce e accompagnati dal rumore della mia preziosa macchinetta.
Ma non capitò mai che mi chiedesse come ero arrivata fino a qui, nel mondo … in realtà non avrei più voluto raccontare di nuovo la lunga storia di Lee … l’avevo già raccontata due volte davanti al giudice, in processo e in corte d’appello.

Fu un succedersi di ricordi, belli e brutti, stupendi e drammatici. Oggi non avrei questo carattere se tutto quello che è successo non fosse successo.

Non ero sicura di volerlo raccontare, così finsi di dover cambiare l’inchiostro.

Mi guardai nello specchio eroso dal tempo. Mi abbassai a risvoltare l’orlo dei pantaloni neri, era caldo e anche solo la canottiera nera mi opprimeva. La tirai su fino a poco sopra l’ombelico. Sciolsi i capelli bianchi, lunghi fino al fondoschiena e li rilegai ancora più stretti, in modo che mi dessero meno noia, in una coda alta. Girai la lunga coda attorno all’elastico e fermai il tutto con una penna.

Sospirai, specchiandomi ancora per quel che ero, la mia mente tornò inevitabilmente alla mia infanzia frastagliata, ero molto simile ad allora, tranne che per il viso più adulto e le forme più sviluppate, e ovviamente l’altezza.

Sospirai ancora, cercando di scacciare il mio passato, come se già non fosse abbastanza ricorrente durante il sonno.

Tornai a lavorare sul grande cuore malato e protetto, come lo chiamavo io.
Pensai che in fondo, la presenza di Uta era spesso come una seduta da uno psicologo per me, e che forse, se avessi condiviso con qualcuno il mio passato, sarei stata compresa, e non più compatita, così presi a raccontare.

Raccontai tutto dall’inizio … il primo rastrellamento con la morte di mia madre, quando avevo 9 anni … il secondo e il terzo rastrellamento … e infine quello più importante, dove uccisero molti ghoul, anche se molti fuggirono.

Raccontai di Lee, del lembo di carne con cui aveva placato la mia fame, della nuova vita nel mondo.

Raccontai ogni gioia passata con lui, di come avevo iniziato a chiamarlo Papà, non avevo mai avuto un papà … raccontai di come la felicità riempì ogni nostra giornata, i miei 4 compleanni con lui, i giochi, le passeggiate, e anche i suoi continui sacrifici di carne umana per sfamarmi.

Poi decisi di iniziare a raccontare anche come questa gioia, piombata all’improvviso nella mia vita, mi fu portata via …

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Capitolo 4
*** WONHAN ***


-Papà, non andare!- lo imploro gettandomi ai suoi piedi.

Lui è già vestito, con quella minacciosa divisa anti sommossa, pareva una colomba nera pronta a mischiarsi tra le altre.

-Haru, ci sono delle cose che purtroppo dobbiamo fare, è il lavoro- sono cresciuta accanto a lui, e so bene che il suo non è un semplice lavoro, è molto di più.

-Ma papà, loro non sono cattivi, tu lo sai, noi non siamo cattivi, NON SIAMO MOSTRI- gli urlo in faccia mentre mi trascina per terra, non mollerò la presa sui suoi piedi.

È un altro rastrellamento, quello che sta andando a fare, in chissà quale altro distretto. Lui sospira, sa quello che dico, ne è consapevole, o non mi avrebbe salvata.

-Tesoro, è il lavoro, ci permette di comprare tanto caffè, e anche tanto cibo- mi domando d’un tratto, se ciò che mi preoccupa è che lui uccida quelli della mia stessa razza, o che lui venga ucciso da uno di loro, esistono entrambe le probabilità.

Pervasa da questo orribile pensiero, mi stringo alle sue gambe, mentre lui, con un fare scocciato che non aveva mai usato, strattona la gamba fino a farmi mollare la presa.

-Papà, non mi lasciare- piango, urlo più forte, voglio superare la barriera del suono per farlo restare. Riesco a farlo voltare, mi pulisce le lacrime, poi mi saluta. Tutto inutile.

Esce di casa, chiude la porta, e mi lascia sola in quella grande casa. Immensamente preoccupata, mi preparo un bicchiere di caffè, mi siedo al tavolo e inizio a berlo, decido di aspettarlo lì, seduta al tavolo, “sì, lo aspetterò sveglia”, penso fissando la porta.
 
 
I poliziotti entrano in casa … trattengo la fame che ormai mi sta invadendo.
Non mangio carne umana da 3 giorni, sono sveglia da 3 giorni, Lee non è in casa da 3 giorni.
Troppi umani insieme, mi fa male lo stomaco.

Mi prendono con loro e mi trascinano nell’aula di un tribunale, mi trattano come una profuga albina … papà è morto … dei Ghoul lo hanno preso, e lo hanno squartato, si dice in giro che non si nutrissero da 13 giorni, e alcuni erano morti di fame … non so da che parte stare … ma perchè proprio lui?

Era tanta la fame da togliere loro il giudizio. Una malefica ombra ha oscurato i loro cuori, e contemporaneamente li ha protetti dalla morte … non so da che parte stare … so solo che papà è morto.

Troppi discorsi difficili per il mio cervello, quello che devo dire è che sono sua figlia adottiva, solo questo, e trattenere la fame nel vedere tanti umani insieme … la verità, nient’altro che la verità.

D’improvviso poi, il funerale, un piccolo santuario con al centro una piccola foto di lui, allegro e sorridente … piango, tutti mi guardano male, per loro sono una bambina disadattata e affetta da albinismo che Lee ha “raccattato” dalla strada per una malata voglia di diventare padre.

Lui voleva solo dare amore a qualcuno, forse si sentiva solo … ha dato il suo amore a me, anche se solo per 4 anni … è morta, l’unica persona che mi voleva bene, è morta.

Non riesco a sentirli ancora parlottare male del mio Lee, quelle dannate dicerie svegliano la mia fame. Li uccido, tutti i presenti, che erano all’incirca 10.
Mi sazio mangiando la carne della più pettegola di loro, e mangiando, con le lacrime agli occhi, fisso la foto di Lee.
Ho fatto un orribile pasticcio davanti alla sua tomba, ora c’è sangue sparso ovunque, ho sporcato il tuo piccolo santuario … perdonami papà, perdona me, e tutti quei mostri che ti hanno ucciso.

Nel più profondo dei silenzi me ne vado, scappo lontano, nella foresta, e nei bassifondi della città, portando con me nel borsone di una vittima, della carne da conservare per i giorni avvenire.
E come trofei di caccia, indosso una lunga canottiera nera di una ragazza.

Le strette al cuore mi pervadono … sono di nuovo sola, ho perso la mamma, poi il papà, e non sono più nel ghetto, sono in mezzo a tante colombe nere.

Non so ancora da che parte stare. Quelle fecce hanno lasciato i miei simili senza cibo, noi che siamo e rimarremo esseri sensibili e pensanti, noi che abbiamo soltanto fame come loro. Ho voluto un gran bene a Lee, ma quel giorno, quando se n’è andato per non tornare, lui era già vestito e pronto per uccidere i miei simili, come si butta via un inutile oggetto.

Loro non capiscono, gli umani non capiscono l’importanza di una vita, solo loro possono avere famiglia, amore e amicizia, solo loro possono avere sentimenti, e solo loro devono esistere, i diversi vanno uccisi, vanno eliminati. Questo non posso sopportarlo! Ogni giorno in Giappone vengono condannati a morte un sacco di criminali, potrebbero darli a noi come cibo, e vivere in armonia, perchè sono convinta che umani e ghoul possono capirsi, ma solo se uno è disposto a rinunciare per un attimo alla sua natura cannibale, e se l’altro è disposto ad accettare le diversità … anche se è risaputo che è una causa persa …

Risentimento, è ciò che provo verso gli umani, e anche un po’ verso Lee, anche se non arrivo a giustificarli per averlo ucciso, perchè lui era diverso, era quello che si distingueva dalla massa, tutto sommato anche lui stesso era un diverso …

Risentimento, era il sentimento che portavo sempre dentro … eppure fu troppo forte l’istinto di mischiarmi e cambiare la società, anche con la forza, se ce ne fosse stato bisogno.

Guardo il cielo oltre i rami folti degli alberi, Haru, questo nome proprio non mi si addice più, ora che mi appresto a vivere la strada, con forza, coraggio e ribellione.



Fu così che qualche giorno dopo, fui inquadrata dal CCG con il nome di Wonhan, risentimento. E Wonhan rimasi, fino ad oggi.

-Piaciuta la storia?- dissi sarcasticamente.

-Quindi ti chiami Haru? Che nome carino-

-Cosa? Dannazione, sai solo dire questo?- il mio cliente preferito, Uta, vive sulle nuvole. In ogni caso mi aveva fatto bene parlarne con lui.

-Capisco il perchè di questo cuore- disse guardandosi il capolavoro che avevo creato, anche se mi comportavo da modesta.

-è il mio conflitto interiore- dissi lui in maniera calma. Fissò il mio braccio destro, affascinato dal fascio di tatuaggi che lo riempiva, proprio come entrambi i suoi.

-Se hai fame, devi mangiare, altrimenti muori- disse tranquillamente. –Vale per tutti, non solo per loro, là fuori.-

Si alzò e rimise la larga canottiera grigia.
-In fondo, noi siamo il gradino più alto della piramide animale-

-Come non darti ragione … - dissi lavando le mani dal disinfettante e dall’inchiostro. Lui mi venne dietro cingendomi i fianchi.

-Non esiste un essere perfetto, non è semplice trovare un ghoul docile, come non è facile trovare una colomba bianca- mi sussurrò all’orecchio. Accennai un sorriso, al pensiero del suo corpo così vicino al mio.

-Non è facile, ma neanche impossibile- dissi io.

-Questo non l’ho detto, infatti- disse staccandosi e prendendo la camicetta dall’attaccapanni. Salutò con un veloce cenno con la mano e uscì.

Eccomi di nuovo da sola, in quel grande studio, che una volta era un garage.
Mi lasciai cadere sul lettino dei clienti, scostai la luce, guardai il vuoto, in mezzo a quelle 4 mura cosparse di piccole e grandi cornici, delle mie più belle creazioni.
Non avevo proprio voglia di uscire quel giorno, quel tatuaggio mi risultò molto bello, ma anche molto impegnativo. Finii per addormentarmi come tante altre volte, su quel lettino.

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