Annika

di Atarassia_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** 3. Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 
*per questo banner devo ringraziare Peluches
 
"La vita è ciò che ti succede
mentre sei impegnato a fare altri progetti."
(John Lennon)
 
Annika è una.
Annika è tanti.
È tua sorella, la vicina di casa che ti spia dalla finestra, la ragazza che vende hot dog all’angolo della strada.
È la commessa del tuo negozio preferito, la donna che ti saluta dal terrazzo, l’anziana signora sull’auto alla quale cedi il posto.
È quella giovane mamma che spinge il passeggino, quella bambina a cui è caduto il primo dentino. Ha gli occhi verdi, marroni, grigi. I capelli lunghi, corti, rossi, neri, castani, bianchi.
È quella tizia che non ride mai, quella che osserva tutto in silenzio, quella con la battuta sempre pronta.
È la maestra d’asilo, la ragazza immagine, la cantante, la sognatrice, il clown del circo.
È quell’amica che ti pugnala alle spalle, quella persona sempre pronta a darti una mano, quella che non sa mantenere i segreti, quella che morirebbe per te.
Annika è chiunque tu voglia che sia.
Annika esiste e non è certo frutto della fantasia.
Annika ora non sorride più.
Annika sono io, Annika sei tu.
 

 
********
 

Annika se ne sta seduta sul letto, le ginocchia piegate che le sfiorano il petto. L’espressione concentrata e la punta della lingua stretta tra i denti mentre cerca di distribuire in modo uniforme lo smalto bordeaux sulle unghie.
Bordeaux. Il suo colore preferito. Un colore che non è il rosso ma gli somiglia, un colore che esiste ma non tutti lo conoscono. Un colore che c’è ma non c’è.
Non è né il bianco né il nero, né l’azzurro chiaro né tantomeno quello più scuro. Di sicuro non assomiglia nemmeno al verde e lo stesso vale per il rosa o il marrone. È un colore che le sembra caldo ma allo stesso tempo le ricorda l’autunno. Un colore triste, felice, indifferente.
Anche le sue scarpe sono bordeaux. L’ultimo paio di Vans rimasto in vetrina per il quale aveva dato via tutti i risparmi dell’estate senza nemmeno indugiare una volta. Appena era uscita dal negozio, si era lasciata cadere sul marciapiede e, incurante dei passanti, le aveva da subito indossate scartando le vecchie  Converse dalla suola consumata.
Sussulta quando la vecchia radio di suo padre, ormai giunta al capolinea, fa degli scatti emettendo dei rumori assordanti che le graffiano le orecchie. Si ricompone imprecando perché, a causa dello spavento, è uscita fuori dall’unghia con il pennellino.
Prontamente cerca di risolvere il problema con un batuffolo di cotone mentre tiene il tempo della musica con la testa. Ad una vecchia stazione londinese stanno passando alcune delle sue canzoni preferite ed ora è il turno di Paolo Nutini con New Shoes.
Canticchia anche lei sotto voce in modo aggraziato come se temesse che qualcuno la senta. Quando anche l’ultima unghia è finalmente bordeaux, richiude in fretta il flaconcino e, camminando sui talloni, si avvicina alla finestra della sua camera.
Passando davanti allo stereo alza il volume al massimo e la voce di Nutini riempie la stanza.
Incurante del fastidio che potrebbe procurare ai vicini, si siede sul davanzale della finestra con la schiena contro il muro e getta indietro la testa chiudendo gli occhi.
Ha un esame da dare ma poca voglia di studiare. Lo ha già rimandato una volta e sa di non poterlo fare nuovamente o sua madre le starebbe col fiato sul collo.
Solitamente le piace studiare, ma ora non ne può più. È stanca, ha bisogno si staccare la spina e di non doversi preoccupare di qualcosa per un po’. È consapevole, però, che quello è un lusso che lei non può permettersi.
Due colpi contro una parete la fanno sussultare e subito si volta immaginando il volto del vicino che, dall’altra parte del muro, le sbraita contro di “smetterla con tutta quella confusione”. Lo ignora finché può e, sfacciata e menefreghista, chiude gli occhi perdendosi nuovamente nei suoi pensieri.
Riesce a recuperare un po’ di quella tranquillità tanto agognata e sorride ricordando una vecchia battuta di un suo amico che l’aveva fatta sganasciare dalle risate qualche sera prima. Alla radio passano la pubblicità del nuovo cd di una cantante australiana e poi mettono gli Oasis. Le sue labbra di distendono in un sorriso e, tamburellando le dita sulle gambe cerca di tenere il tempo della canzone.
Una folata di vento le sferza i capelli e la fa voltare nuovamente così da ritrovarsi sulla porta spalancata la madre che, con una mano ancora sulla maniglia, guarda la figlia sconsolata e rassegnata per quel teatrino che ormai da anni si ripete inesorabile.
Con passo deciso quella attraversa la stanza e, muovendo la manovella, riporta il volume della musica ad un livello accettabile fulminando con lo sguardo Annika che assiste in silenzio, divertita da quella scena che oramai è divenuta un buffo déjà vu.
Nello stesso modo in cui è entrata nella stanza, la donna se ne va chiudendosi la porta alle spalle.
Quando anche gli ultimi echi dei passi della madre nel corridoio non sono più udibili, aprendo la finestra, Annika si solleva dal davanzale posando nuovamente i piedi a terra. Spalanca le ante permettendo all’aria fresca di inizio ottobre di invadere l’ambiente e si avvia verso il letto riordinando le coperte alla bell’e meglio.
Si sfila la maglia che le fa da pigiama e, senza nemmeno darle una piegata, la getta sotto al cuscino. Indossando la sola biancheria intima, incurante del fatto che da fuori può essere vista, si sposta da un punto all’altro della stanza raccogliendo qua e là tutto ciò che le potrebbe servire nel caso in cui uscisse.
Raduna tutte le cose sul letto per poi gettarle alla rinfusa in una borsa tutta colorata acquistata al mercato in una bancarella indiana. Un borbottio proveniente dal suo stomaco irrompe nell’aria e, interrompendo tutti i vaghi tentativi di riordinare, afferra una felpa bordeaux e dei jeans neri, scoloriti in alcuni tratti, per poi precipitarsi quasi di corsa in cucina.
Passa davanti al divano sopra al quale, distesa e con i piedi sul bracciolo, sta la sorella diciassettenne con una mano impegnata a usare il telefono mentre con l’altra tiene il telecomando cambiando in continuazione canale.
Non c’è nessun accenno di saluto tra le due che, se non fosse per il sangue che scorre nelle loro vene, non avrebbero proprio nulla in comune. La piccola è bionda e maleducata, una di quelle figlie che danno molte preoccupazioni ai genitori.
Selene ha ancora la bocca che le puzza di latte e già si sente una donna vissuta, ancora non ha scoperto tutte le sfaccettature del mondo e già crede di aver visto ogni cosa.
Indisciplinata e senza cuore. Viziata e nullafacente. Sempre in prima linea quando si tratta di far compere, lo zaino pieno di riviste piuttosto che di libri e una certa malata passione per i furti di piccole cose nei centri commerciali.
Annika sa, lei ha visto. Un lucidalabbra, la matita argentata per gli occhi, un pacchetto di gomme e anche uno di sigarette. Tante altre sono le piccole cose che costituiscono il bottino di sua sorella e le sue amiche depravate.
La prima volta che la vide rubare, fu quando fuggì da una boutique assieme ad una compagna di bravate mentre lei se ne stava seduta in una panchina con il libro di Brontë sulle gambe e un sacchetto di Haribo tra le mani.
Aveva riconosciuto la sua risata sguainata e aveva sollevato il capo dalla pagina giallastra del libro appartenuto un tempo a suo nonno. Selene passò davanti alla sorella senza nemmeno degnarla di uno sguardo, il cappuccio della felpa tirato fin sopra la testa, i capelli nascosti sotto di questo e un paio di occhiali scuri giusto per non farsi riconoscere.
Passò dritta senza salutarla perché troppo occupata a gioire per la buona riuscita del suo piano.
Nemmeno due secondi dopo, dalla stessa boutique era uscita l’anziana signora che furiosa, agitava le braccia in aria inveendo contro qualcuno e gridando come una forsennata: “Ladre! Ladre!”.
E ad Annika erano bastati una manciata di secondi per fare due più due e scoprire la bravata di quella scellerata di Selene. Scioccata e vergognandosi di essere imparentata con quell’essere, si era alzata accantonando per qualche istante la lettura e aveva cercato di tranquillizzare l’anziana signora offrendole una tazza di tea.
Era rimasta in silenzio per quasi un’ora, ascoltando pazientemente le lamentele di quella povera donna vittima di quelle azioni già da qualche mese.
Si era limitata ad annuire ogni tanto e a darle dei colpi sulla schiena a mo’ di consolazione. Ma, non appena quella si fu distratta per servire una nuova cliente, cercando di non farsi scoprire, aveva lasciato scivolare una banconota di venti dollari dietro al bancone sperando che bastassero a coprire il danno fatto dalla sorella.
Poi, senza aggiungere altro, si era alzata e, assicurandosi che la vecchietta fosse ancora di spalle, aveva lasciato il negozio per fare ritorno a casa.
Sarebbe inutile raccontare la discussione che ne seguì dopo con Selene, certamente sarebbe stata più fruttuosa una discussione con i muri piuttosto che con lei.
Nemmeno le minacce come “lo dico a mamma e papà!” le avevano messo paura e non ci si poteva aspettare altro dalla cocca di papà. Annika quindi, si era rassegnata e aveva dovuto riconoscere che quella non era altro che una causa persa.
Così, ignorandosi e fingendo di non averne mai discusso le due erano andate avanti e Selene, che aveva continuato a frequentare la sua comitiva, era più che sicura che dalla bocca della sorella non sarebbe uscita nemmeno una parola riguardante quei fatti.
D’altronde era la parola della sorella contro la sua e volendo, come faceva sempre, fingendo un sorriso e intenerendo suo padre, l’avrebbe scampata.
Feste, bravate di ogni genere e ragazzi. Questa era la giornata tipo di Selene; tutto tempo sottratto alla famiglia e alla scuola. Infatti la casa per lei era oramai un albergo: tornava a dormire verso la mattina, mangiava e poi usciva di nuovo.
Era tutto un circolo vizioso. Durante la settimana, erano più le giornate che bigiava la scuola che quelle in cui la frequentava. E il prezzo per tutto questo, era stata la bocciatura dell’anno precedente ma, nemmeno quello aveva fatto intervenire i genitori.
È solo una fase, ci siamo passati tutti.”, così il padre la giustificava senza rendersi conto che stava aiutando la figlia a scavarsi la fossa da sola.  
Il padre era diventato un guscio vuoto, un vegetale animato. Si alzava per andare a lavorare la mattina presto e faceva ritorno solo verso sera. Una chiamata ogni tanto durante la pausa pranzo e nient’altro.
Nessun abbraccio, nessun sorriso, nessun segno d’affetto. Solo Selene riusciva a smuovere qualcosa in lui perché alla fine erano simili e lei lo aveva sempre detto.
Ad Annika non importava tutto ciò. Lei sarebbe andata benissimo avanti anche senza loro due ma, quello che le faceva più male, era la reazione della madre dinanzi a questi atteggiamenti.
Una donna dalla corporatura esile e dalla carnagione olivastra ereditata dal padre originario dell’India. Negli ultimi tempi la vecchiaia mostrava su di lei il corso del tempo e le rughe erano sempre più evidenti.
Era stata sempre una bella donna, sempre curata e attenta ai dettagli. Solitamente non usciva mai di casa senza un filo di trucco o una nuova collana da sfoggiare. Una donna all’apparenza così sicura di sé e pronta ad affrontare qualsiasi problema.
Ma l’apparenza inganna, Annika lo sa. E negli ultimi tempi lo avevano scoperto anche i loro vicini e le persone che la famiglia era solita frequentare.
Una depressione reattiva.(1) Questo il commento del medico che impassibile aveva fatto un resoconto delle analisi portate dalla mamma. Nessun “mi dispiace” o “stia tranquilla signora”. No, freddo e schietto aveva pronunciato la sentenza.
E quella depressione effettivamente c’era. Annika la vedeva nell’umore a terra di sua madre, nei suoi attacchi di ansia. L’avvertiva nei suoi ragionamenti totalmente scoraggiati e privi di autostima. La sentiva nei sui singhiozzi  disperati e ininterrotti da dietro la porta del bagno.
E quelle spalle che una volta la madre esibiva possenti e dritte si erano curvate come lei sotto il peso di quella disgrazia.
Ma Annika non aveva il tempo né la possibilità di starle dietro. Lei aveva altro a cui pensare. Doveva portare avanti la sua vita, armandosi di ago e filo per cercare di rattopparne tutti i buchi o di saldarne nuovamente i lembi sfilacciati.
Doveva provare a mantenere una vita sociale e tenersi in contatto con gli amici così da avere, di tanto in tanto, un modo per evadere da quella situazione.
Ma soprattutto doveva sopravvivere a tutta quella desolazione per prendersi cura del suo scricciolo. Un piccolo tesoro di cinque anni e sei dita. Questo il modo buffo con il quale Gabriel indicava la sua età. Ma non aveva tutti i torti. Per fare un anno ci vogliono dodici mesi che corrispondono a dodici dita. La metà di un anno sono sei mesi e quindi sei dita. 
Era un bambino diverso da tutti gli altri anche se ad Annika la parola “diverso” non piace, lei lo aveva da sempre definito speciale.

 


(1) La depressione reattiva è un disturbo frequente “scatenato” da un avvenimento specifico o in seguito all’accumulo di una tensione psichica. 
 
 

SPAZIO AUTRICE
Salve gente!

Forse pubblicare questa storia non è la cosa giusta insomma, ho diverse storie in corso e con questa rallenterei ancora di più i miei ritmi lavorativi.
Però, credetemi, sentivo il bisogno di scriverla e pubblicarla!
Annika è una storia nata così, di getto. L'ispirazione alle stelle durante una notte insonne di agosto. Una storia che mi ha permesso di sfogarmi, che mi rappresenta. Una storia in cui ho messo una parte della mia anima e che spero riesca a colpirvi, a rapirvi. 
Annika è ciò a cui ho lavorato di più, è ciò in cui più credo.
Senza perdermi in ulteriori chiacchiere senza né capo né coda, vi ringrazio per essere arrivati a leggere fino a qui e spero che il prologo vi sia piaciuto.
Sperando di trovare il tempo per scrivere, mi auguro di sentirvi presto.
Con affetto,
Little liar_ 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***



"Tre cose ci sono rimaste del Paradiso:
le stelle, i fiori e i bambini." 
(Anonimo)


 
 
Le unghie laccate di nero e la sciarpa di lana. I lacci delle Dr Martens tutti sfilacciati e la borsa borchiata a tracolla. La giacca olivastra aperta e una treccia disfatta. Un sorriso sincero sulle labbra e uno strano luccichio negli occhi. Questa è Annika.
Una tranquillità apparente e la confusione in testa. La mano sinistra stretta in quella piccolina di Gabriel che arranca dietro lei e l’altra in tasca. E Annika non può non abbozzare un sorriso sentendolo parlare convulsamente con la vecchia scimmia di pezza che tiene stretta sotto il braccio. Si morde il labbro per trattenere una risata e scuote la testa rassegnata.
-Fa freddo, Mr. Puzzolo. Ti avevo detto di coprirti.- borbotta Gabriel con la bocca mezza coperta dalla sciarpa blu. Il peluche viene sbatacchiato a destra e a sinistra ed Annika teme per il suo corpo tenuto insieme da un vecchio filo consumato.
-Dopo ti viene il raffreddore. Vero Anni?- continua il bambino rivolgendosi alla sorella. È buffo conciato così: tutto imbacuccato nella giacca e con il cappello a forma di panda in testa.
Ha le guance rosse per l’aria fredda e il naso a patata irritato per il raffreddore. E lei sorride stando al gioco, sorride perché deve farlo, perché a lui non rimane altro che quel sorriso.
È un bambino Gabriel. È ancora piccolo ma già grande. Ha appena perso il suo primo dentino ma già conosce cose che non avrebbe nemmeno dovuto immaginare.
È innocente ma si sente colpevole, sbagliato.
E Annika ha promesso che gli sarebbe stata sempre vicino, che non lo avrebbe lasciato per nessun motivo al mondo. Nemmeno se avesse finito di nascosto tutte le caramelle alla frutta, né se per fare il bagnetto a Mr Puzzolo avesse allagato l’intero bagno, né se si fosse addormentato sul tappeto lasciando riversi in terra tutti i giocattoli.
Scatta il verde al semaforo e i due attraversano la strada correndo. Gabriel ride spensierato ed Annika finge che ciò stia a significare che vada tutto bene.
Si illude, lei ha bisogno di illudersi. Per un attimo, per un misero secondo fuggitivo, la sola sensazione che tutti i problemi siano svaniti è un lenitivo per la sua anima malata.
Raggiungono la fermata dei trasporti pubblici e Annika si siede sulla vecchia panchina piena di scritte mettendo Gabriel sulle sue ginocchia. Manca ancora qualche minuto prima dell’arrivo dell’auto e perdono tempo giocando a “Indovina chi sono”. Annika ride e si finge prima un coniglio, poi un gattino ed infine una scimmia. Improvvisa anche una faccia indispettita quando Gabriel indovina tutte e tre  le sue identità e scatena l’ilarità di quest’ultimo.
-Ridi di me? Ma che bravo!- esclama Annika prendendo a solleticargli il pancino da sopra un soffice strato di maglioni. Il bambino si contorce tutto rannicchiandosi contro il petto della sorella.
-Basta, basta, basta.- la implora Gabriel con le lacrime agli occhi per le risate.
-Riderai ancora di me?- chiede Annika guardandolo divertita e fingendosi minacciosa.
Lui scuote la testa con un sorriso furbo e per convincerla si allunga stampandole un lungo bacio sulla guancia per poi abbracciarla e nascondere il viso tra i suoi capelli. Lei ricambia la stretta e con fare materno gli accarezza la testa cullandolo appena.
Il rumore dell’auto che si avvicina li distoglie dal loro abbraccio e Annika alza un braccio per segnalare la fermata al conducente.
Quando gli sportelli si richiudono alle loro spalle, cercando di non perdere l’equilibrio, avanzano verso il fondo del mezzo in cerca di due posti isolati.
Gabriel insiste per sedersi dalla parte del finestrino e appoggiandosi con le mani al vetro si incanta a guardare il paesaggio. Una volta  ha confessato alla sorella che gli piace guardare di fuori mentre è su un mezzo in movimento perché “tutto passa veloce, tutto finisce subito. Sembra che non sia nemmeno esistito.”. Ad Annika venne un groppo alla gola sentendo quelle parole e per il tremolio delle mani quasi non riuscì a finire di rimboccargli le coperte. Mordendosi un labbro per evitare di piangere e facendosi forza, aveva resistito ancora cinque minuti, giusto il tempo per augurargli la buona notte e cantargli la prima parte  della sua ninna nanna. Poi era dovuta uscire di corsa da quella stanza perché gli mancava l’aria e la testa aveva preso a girarle convulsamente. Si era infilata nel letto senza nemmeno spogliarsi e aveva soffocato le lacrime nel cuscino, afferrando, tirando e mordendo il lenzuolo per trattenere la sua rabbia.
Mentre il fratello è concentrato ad ammirare le abitazioni e i vari veicoli, Annika si infila una cuffietta lasciando che l’altra ricada sul suo petto. Batte il piede ritmicamente e segue la voce di Ed Sheeran sussurrando a tratti le parole della canzone. Chiude gli occhi e si abbandona con la testa contro il sedile passando un braccio intorno alla vita di Gabriel che sta raccontando a Mr. Puzzolo del parco che hanno appena superato. L’auto effettua un paio di fermate e, quando in lontananza si intravedono le mura di una struttura vittoriana, Annika riavvolge le cuffie e prepara il fratello rimettendogli la giacca.
Prenotano la fermata e salutano frettolosamente l’autista saltando giù dal mezzo. Gabriel si è fatto improvvisamente silenzioso e ha un cipiglio serio in volto che poco si addice ai suoi cinque anni e mezzo.
Annika scuote la testa desolata e afferra con una mano quella del fratello mentre con l’altra suona il campanello. Deve attendere qualche secondo prima che una voce meccanica fuoriesca dall’apparecchio per chiedere chi sia a suonare.
In modo molto spicciolo scandisce il suo nome e quello del fratello per poi rilasciare il loro codice di accesso. Una volta verificata la loro identità, ricevono il permesso per passare e il cancello automatico viene aperto. I due si incamminano lungo il viale costeggiato da alberi secolari lasciandosi alle spalle l’ingresso e l’iscrizione “Land of Angels”(1) su di esso.
Annika lancia occhiate fugaci a Gabriel che si è distratto a guardare dei bambini con il loro mentore mentre giocano nella serra.
Salgono in fretta le scale dell’ingresso in pietra approdando nel portico e Annika scambia degli sguardi complici con delle madri che sono sedute lì in attesa. Un giovane infermiere apre loro la porta e saluta Gabriel cautamente ma il piccolo si ritrae quando quello tenta con la mano di scompigliargli i capelli e si rifugia a metà dietro le gambe della sorella.
Annika si stringe nelle spalle perché non può fare altro, se non ribollire dalla rabbia e stingere i pugni in tasca. Scusandosi con un sorriso timido, serra la presa intorno alla mano del fratello e lo guida nei corridoi del primo piano. Questo è per tutti il piano dei “dannati“. Quando sulla cartellina medica leggono il codice che rimanda a questo posto, tutti ti rivolgono un sorriso compassionevole e si fanno all’improvviso impacciati perché, chi c’è passato sa cosa vuol dire e parlare gli provocherebbe dolore, chi invece non c’è passato non sa cosa dire e teme di sbagliare. I più fortunati, per i quali le terapie fanno effetto più rapidamente, vengono indirizzati verso il secondo piano, quello dei “purificati”. Lì si impara ad identificare il problema mettendolo in relazione con sé stessi e ad eliminare gli ultimi complessi. Se la tua cartellina riporta questo codice, tutti ti guardano con speranza perché ci stai riuscendo, stai guarendo dai demoni che ti squassano l’anima.
Infine, se sei davvero bravo, raggiungi il terzo e ultimo piano, quello dei “salvati”. Qui devi imparare a relazionarti con gli altri, a tornare a sentirti parte del mondo. In questo caso non c’è più alcun codice ma solo nomi e vuol dire che ce l’hai fatta.
La disposizione dei tre reparti in questo modo, è una sorta di monito a fare sempre di più, a spingerti oltre, ad usare al massimo le tue capacità anelando verso l’ultimo piano dove tutti dicono che si trova il Paradiso. I bambini fremono per arrivare lassù. Un medico ha detto loro che ci troveranno tanti giocattoli, una torta di felicità e le caramelle che sanno di allegria. L’infermiera invece ha spifferato loro un altro piccolo segreto: in primavera ti portano nelle serre per allevare fiorellini colorati, in estate si organizzano corsi in piscina, in autunno si imparano delle belle filastrocche, in inverno si ritagliano le decorazioni da appendere al grande albero. Il clown(2), invece, ha promesso loro che insieme realizzeranno delle recite dove ognuno potrà essere quello che più desidera. Oppure, potranno fare dei disegni da appendere in camera o sul frigorifero, fare delle collane con la pasta e adottare un cagnolino.
Annika bussa delicatamente alla porta dello studio medico e una voce rassicurante la invita ad entrare. Apre la porta e fa per avvicinarsi alla scrivania della dottoressa Margot ma un contraccolpo la fa bloccare. Pazientemente guarda verso Gabriel che è restio ad entrare e scuote la testa senza mai alzare lo sguardo dal pavimento grigio. Scambiandosi un’occhiata con la dottoressa, che con un cenno del capo la invita a proseguire e a fare come meglio crede, si inginocchia davanti al fratello e con delicatezza lo stringe tra le braccia.
Lui si aggrappa al suo maglione e nasconde la testa nell’incavo del suo collo.
-Non  voglio Anni, non mi lasciare solo!- dice con voce flebile.
-Non sto andando da nessuna parte, Gabriel. Ti aspetto qui davanti e poi andiamo a prenderci un bel gelato.- dice Annika per rassicurarlo e costringerlo a guardarla negli occhi.
-Con la fragola?- ribatte quello più calmo asciugandosi le lacrime con la manica della giacca.
-E anche con il cioccolato. Adesso, da bravo, fai quello che ti dice la dottoressa Margot.- sussurra Annika mettendolo sdraiato sul divano dello studio dove la dottoressa attende con pazienza e la rassicura mentre esce dalla stanza.
Ha quasi messo la mano sulla maniglia quando la voce di Gabriel, questa volta più sicura e chiara, la fa bloccare.
-Ti voglio bene Anni.- grida sotto lo sguardo fiducioso del medico facendole venire le lacrime agli occhi.
-Ti voglio tanto bene, Gab.- ribatte sincera facendo sorridere il fratello che subito si rilassa lasciandosi andare contro il tessuto in pelle del divano.
Chiude la porta della stanza per permettere alla dottoressa di svolgere il suo lavoro e fa giusto in tempo a sentirla dire a Gabriel di parlarle di lui e della sua famiglia. E il bambino inizia a parlare con voce insicura ma poi le sue parole diventano solo sussurri spezzati che dall’altra parte del muro lei non può cogliere. Si rannicchia su un divanetto posto al limitare del corridoio. Da lì può vedere il cortile e seguire il volo di due aquiloni che sono rimasti intrecciati scatenando le risate dei bambini del terzo piano. Si lascia sfuggire anche lei un sorriso e poi distoglie lo sguardo dalla finestra. Saluta distratta gli infermieri e le varie persone che vagano per i corridoi indaffarate. Le saluta svogliatamente non perché è scocciata o non abbia la voglia di farlo, ma perché ha la testa che le scoppia e il pensiero costantemente da un’altra parte.
-Tesoro.- sussulta al suono di una voce familiare e, senza che abbia nemmeno il tempo per accorgersene, si ritrova stretta in un abbraccio caloroso di Becky, un’infermiera quarantenne che, da qualche mese a quella parte, sembra averla presa in simpatia.
-Come stai?- chiede quella con fare materno e Annika non ha bisogno di fingere o innalzare un nuovo muro perché Becky già ha capito tutto e tenta di confortarla con una carezza.
-Prima o poi anche l’inferno è destinato a finire. Ricordatelo.- sussurra lasciandole un bacio caldo sulla fronte prima di raggiungere il medico e riprendere le visite. Annika la segue con lo sguardo mentre si allontana con quel suo passo pesante e buffo che la contraddistingue.
I minuti passano e lei si porta la gambe al petto raggomitolandosi come un gatto. Assiste allo sfogo di una bambina che, terrorizzata, ha iniziato a strillare e a dimenarsi tra le braccia della madre mentre i demoni si impossessavano della sua mente e dei suoi ricordi. Vede un papà correre in bagno tenendo tra le braccia il suo bambino che si è urinato nei pantaloni. Ha giustamente distolto lo sguardo quando una mamma è uscita in lacrime dallo studio del medico rifugiandosi tra le braccia del marito perché non è riuscita a reggere tutto lo stress della situazione.
Un chiacchierio sommesso la distrae dallo stato di trance in cui è caduta e voltandosi verso l’ingresso di quell’ala della clinica vede avanzare verso di lei un gruppo di volontari e infermieri. Ne saluta alcuni e si attarda con lo sguardo soprattutto su una figura. Abbozza un sorriso timido, impacciato, insicuro e con le dita tremanti giocherella con i fili del maglione.
Harry ricambia il suo sorriso ma sobbalza quando un suo collega lo colpisce sul braccio perché non gli ha dato una risposta. Lo guarda strizzare gli occhi e boccheggiare perché, è anche pronta a scommetterlo, non ha seguito il discorso.
Sbuffa e lo guarda divertita, quasi con superiorità, mentre si passa una mano tra i capelli e tenta di darsi un contegno. Dalla prima volta che Annika è entrata nella clinica, Harry ha sempre dato dimostrazione di essere un tipo distratto, maldestro e scoordinato. Se non inciampa sui suoi stessi passi, fa cadere tutte le cose dal carrello delle pulizie; se non va a sbattere contro qualcuno, si rovescia tutto il tè sul camice. Però quando lavora non gli si può dire nulla, è come se si trasformasse in un’altra persona. Se lo osservi mentre discute con i colleghi su una questione importante o mentre si prende cura dei pazienti, puoi benissimo notare l’espressione seria che aleggia sul suo volto e i suoi modi di fare più sicuri e coordinati. In molti lo ritengono essere uno dei medici migliori sebbene sia solo un ventiseienne con la laurea in mano da un anno. Harry è un concentrato di sicurezza e fiducia; con quel suo modo di fare un po’ ingenuo e una praticità in ambito medico invidiabile, puoi star sicura di essere in buone mani. Annika ha sentito il primario parlare orgoglioso al suo arrivo “un ragazzo nato per questo lavoro. Un tipo a cui questa professione scorre da sempre nel sangue.”.
E lei ci ha preso gusto a punzecchiarlo con le sue occhiate e i sorrisi enigmatici perché è divertente starlo a guardare mentre si imbarazza o è confuso. Ma forse a lei piace guardarlo e basta perché, in un certo senso, è rilassante e appagante.
In quei mesi in cui, di sottecchi, ha seguito ogni sua mossa, ha imparato che Harry ha una passione sfrenata per le caramelle alla menta, che il verde e il grigio sono i colori che indossa meglio, che quando è sovrappensiero si tortura il labbro inferiore con il pollice e l’indice. Ha anche capito che sa parlare fluentemente il tedesco e infatti molte volte è lui ha dover far da tramite tra alcuni pazienti e i suoi colleghi. Sa che porta sempre due collane al collo e che tifa il Manchester United, che è capace di bere tre bicchieri di tè in meno di un’ora e che l’infermiera bionda del secondo piano stravede per lui. Ha imparato a riconoscere ogni sfumatura del suo volto: il modo in cui strizza gli occhi quando non gli vengono le parole, il colorito  livido che assumono le sue guance quando deve dare una cattiva notizia, l’inarcarsi del sopracciglio sinistro quando non riesce ad inquadrare bene la situazione. Harry è un libro aperto, con quel suo sorriso genuino e la camminata strascicata, le labbra costantemente screpolate e la fossetta che si crea sulla sua guancia quando sorride con sincerità. Annika ultimamente ha scoperto anche che è un buon ascoltatore e che quando ti abbraccia tende sempre ad accarezzarti con moti circolari la schiena. Sa che se nascondi il volto nell’incavo del suo collo rimani inebriata dal suo odore che non sa di nulla in particolare ma semplicemente di lui, di casa e di protezione. Sa che i suoi occhi visti da vicino sono verdi ed hanno delle sfumature grigiastre, che la sua voce a tratti roca le fa venire la pelle d’oca, che tra le sue braccia trovi un rifugio sicuro. Sa che Harry è in grado di starsene in silenzio per tutto il tempo per lasciarti sfogare e che non si arrabbia se stropicci la sua camicia o gliela rovini con il mascara colato a causa delle lacrime. E lei apprezza questo lato del carattere di Harry, apprezza il fatto che lui è realmente così buono e non deve fingere per sembrarlo.
Un unico grido sconvolge la momentanea calma calata nel corridoio e lei sobbalza riconoscendo la voce straziata dal dolore e dalla paura di Gabriel. Il cuore le batte forte e la testa sembra volerle scoppiare. Si porta le mani alle orecchie premendo forte per non sentire perché tutto quello le fa male e le lacrime rompono gli argini.
I singhiozzi le squassano il petto e lei piange disperata crollando sotto il peso di tutta quella situazione perché le sue spalle sono troppo fragili per poterlo sorreggere da sole.
Poi due braccia possenti la tirano a sé facendola cozzare contro un petto e la stringono in una stretta sicura, una stretta che sa di casa.
 
 
(1)La clinica “Land of Angels” e la sua struttura interna sono interamente frutto della mia fantasia. Nel caso in cui esistesse un’organizzazione avente questo nome, non era mia intenzione offendere o plagiare nessuno.
(2)Con Clown intendevo identificare i volontari. Non so se mi spiego bene ma, per essere sintetici, i clown sono delle persone che, come volontari, si mettono al servizio di questa clinica e cercano di collaborare per far tornare il sorriso sul volto di questi bambini e aiutano le loro famiglie ad affrontare il dramma.
 
 

SPAZIO AUTRICE
Anche se in ritardo: Buon Natale gente! ^_^
Come avete passato le feste? Vi siete ritrovati in famiglia o avete organizzato dei viaggi?
Comunque tornando alla storia, ecco a voi il primo capitolo. 
Come avete avuto modo di vedere, è stato introdotto il personaggio maschile e c'è una panoramica molto ampia riguardo il fratellino di Annika, Gabriel. 
Forse non sono ancora chiare tutte le cose e il problema principale che sconvolge la vita della protagonista, qualcuno potrebbe esserci arrivato ma, in ogni caso, grazie al prossimo capitolo vi farete un'idea più chiara di tutta la questione.
Premetto già da ora che è un tema molto delicato per il quale io vorrei lottare in tutta la mia vita e che cercherò di trattare in modo adeguato, documentandomi il più possibile.
Detto questo, fatemi sapere cosa ne pensate.
Vi lascio il mio contatto facebook dove potete contattarmi per qualunque cosa (Parlare della storia, ulteriori chiarimenti ma anche per delle semplici chiacchiere sulle cose di tutti i giorni!): 
Atarassia Efp.
A presto!
Con affetto,
Atarassia_

 

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Capitolo 3
*** 3. Capitolo 2 ***


Importante: leggete lo spazio autore alla fine del capitolo!


 


Trailer

 
Il rumore del silenzio è la cosa più fastidiosa che esista.
Ogni suono si propaga all’infinito, i pensieri premono nella testa per uscire fuori e disperdersi negli echi. Annika nei silenzi si perde perché si sente privata di ogni sicurezza, di ogni certezza. Ci sono dei momenti in cui si ritrova ad essere come all’interno di una bolla di sapone: si solleva leggera e vaga nell’infinito, annaspa per un filo di aria in più e fa attenzione a tutto, perché ogni movimento, anche il più piccolo e insignificante, potrebbe farla scoppiare, precipitare, annullare.
Annika ha così tanta voglia di evadere, di strillare e far sentire la sua voce, forte e chiara, ma da troppo tempo è costretta a tacere. Un grande fracasso e la voce stridula della madre le fanno abbandonare la vecchia copia della Divine Comedy sul letto e esce di corsa dalla stanza.
Non ci vuole molto prima che le schegge dell’ennesimo piatto in frantumi feriscano il palmo del suo piede destro, sospira stanca e si appoggia con la schiena allo stipite della porta. La madre si muove a scatti, la rabbia è ben evidente e la tensione palpabile. Le tremano violentemente le mani e la cenere della sigaretta oramai consumata è dispersa sul pavimento. Annika alza un sopracciglio nel sentire le imprecazioni mal trattenute e le maledizioni che sembrano colpire tutto quello che le capita a tiro. Maledice la vita, il mondo, la gente, la famiglia e se stessa; maledice tutto quello che non riesce a capire e getta i piatti nel lavabo con gesti stizziti, violenti e i cocci aumentano inesorabilmente.




-Come le è sembrato durante l’ultima visita?- chiede Annika aggrappandosi con le dita affusolate al tessuto ruvido dei jeans che le solletica dolcemente i polpastrelli.
Cerca di rimanere composta, di non far trasparire la preoccupazione e l’ansia, ma la dottoressa riesce a cogliere lo strano luccichio nei suoi occhi e il labbro, continuamente morso, è un ulteriore testimone di quello sconvolgimento interiore che si ritrova a vivere.
-Non ci sono evidenti segni di miglioramento ma, piuttosto, in alcuni casi ho riscontrato anche un lieve peggioramento- spiega la dottoressa Margot e Annika trattiene bruscamente il fiato – Gabriel presenta una memoria frammentaria e la sua realtà appare ancora distorta. Per tale motivo credo che dovremmo cambiare terapia perché, in questo modo, ancora non è riuscito a rielaborare il tutto. E tu sai meglio di me che continua tuttora a sentirsi sbagliato, diverso, a vedere in sé la personificazione del male- conclude appoggiandosi alla scrivania e inarcando leggermente la schiena in avanti. Annika batte nervosamente il piede contro il pavimento e distoglie lo sguardo perché non ne può più. Sa che il suo autocontrollo sta per venire meno, che da un momento all’altro potrebbe esplodere. Lei tutto ciò non lo trova giusto, perché Gabriel non si meritava niente di tutto quello che è accaduto e, se proprio doveva succedere, avrebbe voluto egoisticamente che la vittima fosse stata un’altra persona. La prima lacrima solca la sua guancia e il labbro inferiore, seppur stretto nella morsa dei denti, trema leggermente.
La dottoressa rimane in silenzio, rispettosa nei confronti del dolore della ragazza e, sotto certi aspetti, distante da tutto il problema. E è distante non perché non gli importa per niente del suo paziente, ma proprio perché ha a cuore la situazione deve restarne leggermente indifferente o rischierebbe di impazzire. Il suo lavoro è come un’arma a doppio taglio e lei, come tutti i suoi colleghi, ne è consapevole, deve esserne consapevole. E in casi come questo, non le resta che allungare il braccio al di sopra della scrivania, fino a sfiorare le mani congiunte di Annika che oramai è scossa dai singhiozzi.
-È solo questione di tempo e poi vedrai che, con la giusta terapia, anche tuo fratello imparerà a venirne fuori- sussurra queste parole semplici, ma efficaci. La dottoressa Margot fa anche uno strappo alla regola stringendo delicatamente con la sua mano quella della ragazza, forse perché sa che ora ha bisogno di una forza che da sola non può trovare, o forse perché in Annika rivede, per certi aspetti, sua figlia.
 


 
La macchinetta gli ha dato il tè caldo, ma il resto se lo è tenuto. Harry sbuffa rassegnato perché oramai ci ha fatto il callo. Saluta con un cenno del capo la vecchia infermiera seduta al banco informazioni e appunta bene la penna nel taschino del camice. Fuori piove e i rami degli alberi, dominati dalla forza del vento, sbattono costantemente contro i vetri delle finestre più basse. Nei corridoi della clinica c’è una calma innaturale, come se un velo invisibile fosse stato calato su ogni cosa congelandolo in quel preciso istante. I suoi passi sembrano quasi risuonare e lo stridere del bastoncino contro la plastica del bicchiere gli fa venire i nervi, tant’è che decide di lasciar perdere e bere il tè anche se amaro. Passando davanti alle scale che portano al piano superiore, riesce a sentire i bambini che ridono e il clown di turno che fa le imitazioni di un personaggio dei cartoni animati. Sono delle risate innaturali in quel contesto, risate che contrastano nettamente con l’aria tetra e soffocante del primo piano. Ma sono anche risate che ti permettono, per un attimo, di estraniarti dal tuo dolore e sorridere, sperare.
Sua madre, ogni volta che lo va a trovare nell’appartamento sopra ad un locale di Tesco, non fa altro che chiedergli perché non si fa spostare in nuovo reparto dato che, anche da parte del primario, gli era stato proposto di lavorare negli ultimi due piani della clinica. Sia chiaro che lei è sempre e comunque  fiera di lui, ma teme che per il ragazzo affrontare tutta quella situazione, in un’età così giovane, sia troppo difficile. Ma Harry è caparbio e di cambiare reparto non ne vuole sapere. Insomma, lui si trova bene così anche se sa che è difficile, ma si è preparato al peggio dal momento in cui ha accettato questo lavoro e, cercare di dare ogni volta il suo contributo nel curare i pazienti, è l’unica cosa che gli resta. Gli piace tornare a casa e riflettere sulle possibili strade da percorrere, essere felice perché qualcuno di quei piccoli angioletti sta facendo dei progressi e allo stesso tempo avere l’umore a terra perché dopo le ultime analisi qualcuno non dimostra di stare reagendo bene alla terapia.
Ha speso anima e corpo per diventare medico, ha sacrificato, senza rimpianti, la maggior parte del suo tempo per lo studio e, con determinazione e una buona capacità di apprendimento, ha concluso l’apprendistato in pochi anni e con il massimo dei voti. Il giorno della laurea sua madre gli aveva regalato una ventiquattrore in pelle dove avrebbe potuto conservare tutti i suoi documenti, il padre aveva acquistato un set di penne eleganti perché queste ti serviranno di sicuro, mentre la sorella si era limitata ad un semplice non mi farei mai curare da uno come te, per poi saltargli al collo e riempirlo di abbracci e complimenti. E così, con il sostegno della famiglia e con tutta l’attrezzatura nella piccola ventiquattrore, aveva varcato la soglia di quell’edificio vittoriano presentandosi al primario come un futuro medico e uscendone vittorioso con il suo nuovo orario di lavoro.
-Vola, vola, vola- una voce flebile lo distrae dai suoi pensieri e curioso allunga il passo affacciandosi dietro lo stipite di una porta che conduce in una stanza azzurra. Le pareti sono in gran parte ricoperte da disegni di pesci variopinti e alghe ondulate, la finestra si affaccia su una piccola parte di giardino ricoperta di fiori. La luce proietta riflessi colorati sui mobili e sui piccoli tavolini circondati dalle sedie rosse dei bambini. Accatastati in un angolo della stanza, vi sono giocattoli di ogni tipo, fogli, pennarelli e pastelli.
Al centro della sala, ben saldo sulle proprie ginocchia e con i gomiti puntati sulla superficie verdastra del tavolo, c’è Gabriel che agita tra le mani i pupazzi di due supereroi. Harry sorride e si avvicina lentamente seguendo con attenzione le parole del bambino impegnato nella discussione tra i due personaggi.
-Non mi avrai mai, io sono più veloce- aggiunge allungando in aria un braccio e stringendo nel piccolo pugno l’esile struttura del giocattolo.
-Io ti prenderò e sarò io a dominare il mondo- riprese simulando uno scontro tra i due, enfatizzato dalla riproduzione di suoni e versi. Il duello si conclude nel giro di pochi secondi e Gabriel si diverte a rappresentare le acclamazioni di un pubblico invisibile rivolte al vincitore dall’armatura rossa.
-Ciao Gabriel!- interviene Harry rimanendo a debita distanza, così da permettere al bambino di riaversi dopo l’iniziale sussulto e di rielaborare la sua presenza a pochi metri da lui.
-Posso stare qui con te?- continua il giovane medico per far sentire il bambino a proprio agio -Prometto che me ne starò buono e non ti disturberò- termina incrociando le dita della mano davanti alla bocca in forma di giuramento.
Gli occhi vigili di Gabriel lo scrutano indagatori e piega la testa di lato arricciando un poco il naso, come se fosse infastidito da quella interruzione. Lo osserva e tace, soppesando la situazione e cercando di capire se la presenza di Harry lì sia o meno un bene. Il giovane medico attende paziente,  conta i suoi respiri che scandiscono i secondi e tamburella con le dita sulla coscia sinistra.
Poi, senza fare un fiato, Gabriel si sposta cauto sulle ginocchia lasciando un po’ di spazio al suo fianco. Harry sorride consapevole di aver guadagnato in quell’istante la sua fiducia e si inginocchia al fianco del bambino afferrando il robot che quello gli ha lasciato per giocare con lui.
Gabriel lo guarda di sottecchi, con le mani che tremano leggermente e l’evidente impulso di dire qualcosa. -Li conosci i Transformer?- chiede poi con voce timida, vincendo la paura rassicurato dal ricordo di Annika che gli spiega che di Harry non bisogna aver paura.
-I Transformer? Si, quando ero piccolo come te guardavo il cartone in televisione- ribatte quello grattandosi il naso e sorridendo –ricordo che la mia mamma mi sgridava sempre perché passavo tantissime ore davanti al televisore e non ne volevo sapere di studiare!- continua sorridendo perso nei suoi ricordi e cercando di strappare al bambino una risata. Ma Gabriel non è un bambino comune e il tentativo di Harry di farlo sorridere è totalmente vano. Infatti lui lo scruta con un cipiglio serio, fin troppo serio per uno della sua età, e con voce chiara e sicura, a dimostrazione che quanto sta per dire è per lui  una cosa normale, dichiara una parte di quello che è costretto a vivere quotidianamente lasciando il giovane medico di stucco. –La mia mamma mi sgrida sempre, dice che sono un disastro!- E afferma ciò senza remore, senza batter ciglio ma in assoluta tranquillità perché lui non conosce realtà diverse dalla sua. Come se niente fosse distoglie lo sguardo e ritorna a giocare con il robot giallo che si piega sotto le sue piccole mani.
Harry avverte il sangue congelarsi nelle sue vene e per un attimo rabbrividisce perché sente freddo intorno a lui, perché quella frase, sebbene lui fosse già a conoscenza di tutta la situazione, gli ha tolto il fiato come un pugno ben assestato sullo stomaco. Ammutolisce e rimane immobile a fissare il bambino che sta costruendo un rifugio per il suo giocattolo. Prova a dire qualcosa, ma le parole non gli escono e il suo battito si fa accelerato. Gli prudono le mani e cerca di calmarsi stringendo tra i pugni la plastica fragile del robot. Prova a soffocare la rabbia per non spaventare ulteriormente Gabriel, ma la voglia di fare del male a quel miserabile non scema. Anzi, si trasmette in ogni cellula del suo corpo, avvolgendolo tutto e nascondendosi dietro una calma apparente, pronta a venir fuori in un momento più opportuno. Harry ha sempre pensato che commettere violenza su dei bambini fosse una cosa spregevole, o meglio disumana, ma, da quando ha intrapreso la carriera di medico lavorando per la clinica “Land of Angels”, il suo rifiuto verso questi mostri che commettono tali oscenità si è trasformato in odio allo stato puro. Ogni giorno lavora a stretto contatto con innocenti creature che si sentono sporche, violate nell’anima, che hanno una distorta visione della realtà. Perché si, quell’atto disumano che porta al piacere dei mostri, provoca un trauma insuperabile. La violenza è un trauma che determina una ferita inguaribile, che resta sempre lì, indelebile, palpabile e ricorda puntualmente quanto si è vissuto. Harry ha potuto constatare da sé che il processo di guarigione è lungo e difficile e che, alla fine, chi guarisce davvero è una rarità. La maggior parte delle vittime impara a convivere con la cosa, restando in un stato di precarietà, in bilico tra l’essere guarito e l’essere ancora sopraffatto dai ricordi. Infine, una buona parte dei bambini non supera il trauma, ma quest’ultimo diventa un bagaglio pesante che   quelli sono costretti a trascinarsi dietro per tutta la vita e che non permette loro di avere una vita normale. E questa è la cosa che gli fa più rabbia. Deglutisce sperando di riuscire a trovare la forza e il coraggio di dire qualcosa ma qualcuno lo precede.
-Gab, metti via i giochi che devi andare con la dottoressa Margot- sia il bambino che il medico sobbalzano al suono della voce di Annika. Contemporaneamente  si voltano verso la ragazza ma, mentre Gabriel poco dopo sposta lo sguardo fissando la dottoressa che si trova al fianco della sorella, gli occhi di Harry non abbandonano nemmeno per un secondo Annika. La scruta intensamente perché non riesce a fingere di non essersi accorto degli occhi gonfi e rossi, del leggero tremolio della mano e dell’agitazione e del dolore che ogni parte di lei sembra voler gridare. Per un attimo i loro sguardi si incrociano e Annika si sente messa a nudo, privata di ogni barriera e protezione. E in quello stesso attimo Harry cerca di farle capire che lui sa, che vuole aiutarla e che può contare su di lui.
-Ti va di venire a vedere una cosa nel mio studio?- domanda la dottoressa Margot a Gabriel che, dopo aver ricevuto un cenno del capo dalla sorella, si alza seguendola fuori dalla stanza dei giochi e lasciando soli i due ragazzi.
Rimasti solo loro due, dapprima Annika si appoggia allo stipite della porta, poi con passo lento si avvicina alla postazione del ragazzo che non smette nemmeno per un secondo di guardarla. Lei si siede accanto a lui, con le gambe incrociate sotto il tavolino e le mani ben salde sul pavimento accanto ai suoi fianchi. Restano in silenzio dicendosi molte cose, esplorando l’uno i pensieri dell’altro e cercando di cogliere ogni possibile segnale. Harry la guarda di sottecchi, consapevole di dover dire qualcosa e conscio di dover rimanere allo stesso tempo muto, giusto per lasciarle il tempo di abituarsi, di elaborare un pensiero e di trovare la forza per esplodere e sfogarsi.
-Vuoi giocare?- domanda agitando appena il giocattolo nella sua direzione, per poi mordersi internamente la guancia perché non avrebbe potuto trovare una cosa più stupida da dire. Annika lo guarda sorpresa con gli occhi sgranati e poi, reclinando leggermente il capo all’indietro, scoppia a ridere di gusto. Una risata, la sua, che si fa via via più strana, quasi isterica, e che lascia Harry spiazzato. Non sa se ridere con lei, darsi dello stupido o fare altro. Lui non sa come ci si deve comportare in quei momenti. Si, è bravo nel suo lavoro e sa relazionarsi bene con i propri pazienti, ma se viene privato del ruolo di medico diviene impacciato. E ora Harry teme di aver esagerato perché Annika non smette più di ridere e si è coperta il volto con le mani. Le spalle sussultano violentemente e lui ha paura di vedere quel riso trasformarsi in un pianto.
-Possiamo fare a cambio? Preferisco quello rosso!- chiede Annika quando riesce a darsi un contegno, la voce limpida e calda, lo sguardo divertito. Ed è grata a quel ragazzo perché, pur non ricevendo nulla in cambio, riesce ogni volta a consolarla o a farla distogliere dai suoi pensieri, poco conta il modo in cui lo fa. Harry boccheggia annaspando per un filo di aria in più e cerca di capire se lei lo stia prendendo in giro o se voglia veramente giocare. Poi, scrollando le spalle, annuisce e con un sorriso timido allunga il braccio acconsentendo allo scambio. Annika lo ringrazia dolcemente e raddrizza la schiena mettendosi comoda e spostando tutto il peso sulle ginocchia. Harry la scruta per un attimo, affascinato e incuriosito, poi, improvvisando una voce infantile e buffa si allunga sul tavolo e simula una camminata con il suo robot.
-Ciao signorina Annika, come sta oggi?- esclama senza mai perdere il sorriso e incoraggiando con lo sguardo la ragazza a seguirlo in quella scenetta assurda e imbarazzante per un ragazzo della sua età. Lei ride e, usando lo stesso tono, lo imita entusiasta. –Dottore, è un vero piacere incontrarla!- ribatte e con un dito solleva il braccio di plastica del robot inscenando un semplice saluto –Io sto bene, lei cosa mi racconta di nuovo?- continua divertita. Harry la fissa di rimando e le parole gli escono di bocca automaticamente, arrivando dritte al punto e senza girare intorno al nocciolo della situazione. 
-Se stai bene, perché hai pianto?- esclama abbandonando il gioco, con una voce calma e seria che stona con tutta l’atmosfera che si era creata poco prima. E bastano quelle poche parole a far tremare Annika, a farle assumere un cipiglio confuso e a far raggelare il suo sorriso. Il tempo di accorgersi che dal lei sono passati a darsi del tu, che i toni non sono più quelli giocosi, che Harry a catapultato entrambi fuori dal gioco per metterli davanti ad una scomoda realtà. La mano le trema leggermente e le viene la pelle d’oca, schiude la bocca e fa per parlare ma le parole le muoiono in gola, le unghie stridono contro la plastica del robot e un’espressione affranta fa capolino sul suo volto. Harry deglutisce, nasconde un braccio sotto al tavolo e si pizzica la gamba in un gesto disperato; osserva le sue spalle curvarsi, i suoi occhi scomparire dietro le ciocche spettinate dei capelli e si sente denudato quando lei, al limite della sopportazione, riporta lo sguardo lucido su di lui. In silenzio, aspetta che sia lei a fargli capire come si deve muovere, non tenta nessun approccio diverso perché non sa, non vuole compiere passi falsi. Annika sposta lo sguardo sulla superficie liscia del tavolo che li divide, si concentra prima sulle mani di Harry, ne traccia ogni centimetro con gli occhi, ripercorre ogni callo e le dita affusolate e, avida, fissa nella mente l’immagine della croce che si è tatuato tra il pollice e l’indice. Poi studia le sue di mani e le vede così sottili, fragili, dimentiche. Le sente fredde, intorpidite, sole e gli spazi tra le dita le sembrano così vuoti, profondi e ben definiti. Cerca gli occhi di Harry e li trova puntati su di lei, attenti e vigili, discreti ma invadenti.
-Abbracciami- ordina in un sussurro spezzato, la mano che agita debolmente il pupazzo davanti ad Harry in un patetico tentativo di riprendere il via con il gioco. La sua voce si infrange nell’aria provocando nel ragazzo emozioni contrastanti e avverte il sangue nelle vene scorrerle più velocemente: glielo ha chiesto, lo ha detto. Harry sussulta avvertendo quella richiesta e con movimenti goffi, impacciati, si muove sulle propria ginocchia fino a portarsi al fianco di Annika e mettendole una mano dietro la schiena, la spinge tra le sue braccia. Lei si aggrappa alle sue spalle, il viso nascosto nell’incavo del collo di lui e gli occhi socchiusi. Harry si sistema per quanto possibile fino a mettersi a sedere sul pavimento e porta Annika a spostarsi sulle sue gambe, un braccio dietro la sua schiena e il respiro di lei ad infrangersi contro la pelle delicata del suo collo. Le accarezza i capelli con la mano libera, li scosta dal volto e lascia che le solletichino piacevolmente i polpastrelli. Harry studia il suo volto, le curve delle labbra imbronciate, il neo vicino al labbro superiore, lo sguardo perso, le ombre che i capelli, arruffati e intrecciati alle sue dita, creano sulla sua pelle. Le accarezza delicatamente la guancia e segue attentamente le palpebre di lei che si socchiudono lentamente a quel contatto. Il robot, ancora stritolato tra le mani di Annika, punge l’addome di Harry da sopra il maglione che sa troppo di lui; il camice, bianco e stropicciato, diviene una via di fuga accessibile per la mano di Annika che, impaziente, si infila sotto di esso fino ad ancorarsi ad un fianco magro di lui. E così, con il tessuto del suo maglione stretto tra le dita, con il calore quasi palpabile che quel corpo emana e il ritmo, lieve e rassicurante, del petto di lui che si alza e si abbassa sotto il suo peso, Annika si sente così piena e al sicuro.
Restano in silenzio e si dicono molte cose, spiegano e illustrano, si proiettano l’uno con l’altro in una realtà diversa. Harry le accarezza nuovamente la guancia e le sposta una ciocca di capelli dietro all’orecchio. Annika alza lo sguardo e si ritrova a fissarlo dal basso. I tratti del viso ben definiti e marcati, le labbra strette in una linea sottile, la fronte aggrottata e i muscoli tesi. Ha un’espressione che la rassicura e che allo stesso tempo non le piace perché lo fa apparire troppo maturo per i suoi gusti e perché stona con alcuni tratti che fanno di lui ancora un ragazzino. Chiude gli occhi evitando il contatto visivo che Harry sta cercando di instaurare e, con le braccia strette al petto, si accoccola ancora di più contro il suo petto, ben salda tra la stretta delle sue braccia. Strofina la guancia contro il suo maglione e il suo respiro si infrange contro la pelle del ragazzo lasciata scoperta dal tessuto morbido.
-Sono stanca- sussurra piano, con il fiato corto e la sensazione di bruciore che le pervade la gola per tutte le lacrime trattenute. Harry trema sotto di lei e aumenta l’intensità della sua stretta perché non vuole lasciarla andar via.
China il volto su di lei e –Annika- sussurra tra i suoi capelli prima di lasciarvi un bacio.

 


1 anno, 1 mese, 1 settimana
Dopo tutto questo tempo ho finalmente avuto la decenza di aggiornare di nuovo. Se, nei mesi passati, alcuni tra di voi avevano letto il terzo capitolo, avranno sicuramente notato che la prima parte di questo capitolo corrisponde al “vecchio” terzo capitolo. Infatti, rileggendo la storia, mi ero accorta che con l’ultimo aggiornamento ero caduta nel banale quindi ho corretto le parti che non mi piacevano e operato varie modifiche.
Ci tenevo a ringraziare a tutte le persone che, nonostante tutto, sono rimaste e spero di non essere stata gettata nel dimenticatoio. Tengo molto a questa storia e, costi quel che costi, voglio portarla avanti fino ad arrivare ad una degna conclusione.
In questo capitolo vengono trattate diverse cose:
-la situazione in famiglia: è una scena molto breve ma, a mio avviso, davvero profonda. Annika che deve affrontare costantemente situazioni difficili come quella a cui la madre, in questo capitolo, la sottopone. Ci terrei a precisare che questi problemi tra la protagonista e la famiglia non verranno trattati superficialmente e non sono nemmeno nati da piccoli capricci, né tantomeno sono frutto di una trama in cui la piccola e indifesa protagonista è trascurata dalla famiglia che non la comprende. No, quella che voglio analizzare io è una famiglia che vive in tutte le sue sfaccettature un dolore dovuto ad un evento davvero spiacevole.
-Annika/Dottoressa/Gabriel: in questo capitolo veniamo finalmente a sapere qualcosa di più sull’evento spiacevole che ha sconvolto la vita di Annika e della sua famiglia. Naturalmente, è un tema delicato che tratterò in modo adeguato e con il dovuto rispetto. Si tratta di un tema delicato e prima di iniziare mi sono documentata tramite alcune ricerche.
-Annika/Harry: scrivere su di loro è così complicato. Vorrei riuscire a mettere in risalto la parte introspettiva e a non banalizzare tutto. In questa scena avete potuto vedere alcuni aspetti del loro carattere e una parte del legame che li unisce.
Detto questo, che ve ne pare? Mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto e che la storia, per quanto se ne possa capire dopo solo tre capitoli pubblicati, vi stia piacendo. Fatemi sapere tutto quello che vi passa per la testa, critiche, consigli e aspetti positivi che ne avete colto.
Vi ringrazio calorosamente per aver letto il capitolo.
Spero di ricevere vostre notizie.                          
Con affetto,
Mel
 
PS: Ho già impostato il prossimo capitolo, verso la fine del mese (passati gli esami di questa cavolo di sessione invernale) aggiornerò nuovamente la storia! Questa volta lo prometto, sul serio.

 


 

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