Feathers fell like snow that day..

di Mythologia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le memorie di Ravien Alombrosa ***
Capitolo 2: *** Le memorie di Marcus Dagata ***
Capitolo 3: *** Le memorie di Irvin Lupe ***
Capitolo 4: *** Le Memorie di Agnis German ***



Capitolo 1
*** Le memorie di Ravien Alombrosa ***


Le Memorie di Ravien Alombrosa

La criniera del sole, un’altra volta ancora, baciò la fredda neve portata, insieme al profumo di zolfo e carbone, dai venti del nord; come per opporsi, una criniera color del crepuscolo danzava furiosa per poi ricadere su minute spalle, la bianca pelle tela di numerose cicatrici quasi rifletteva la luce della stella dono del Dio Vaat rifiutando il tepore che essa donava al mondo. Presto però la soffice porcellana fu celata da nero metallo gelido al contatto, gli occhi rossi tipici dei Berserkers umani furono schermati e coperti da un elmo sviluppato dal bacinetto a visiera eliminando il camaglio, allungando il coppo e fornendo il copricapo di una barbozza fissa o girevole sulle bande, sul capo erano fissate diverse piume nere per decorazione e pezzi di metallo per farlo sembrare squamato. I pensieri della ragazza furono catturati da una voce familiare eppure atona, fredda ma dolce allo stesso tempo come miele amaro.

“L’accampamento è stato smontato, siamo pronti a spostarci”

La giovane scudiera, vedendo avvicinarsi un altro Berserker molto più alto di un normale umano e molto più robusto della propria signora, si allontanò dopo un veloce inchino . Ora soli i due guerrieri temuti per tutto il continente di Dokein si studiarono a vicenda per un attimo, ma entrambi già conoscevano ogni curva del corpo dell’altro, ogni cicatrice che a vicenda si erano curati; lui era sempre preciso e mai le dava informazioni superflue quando faceva rapporto, lei in risposta annui rompendo il momentaneo silenzio che si era creato con suoni metallici.
L’arehal  nero scuoteva la terra coi suoi zoccoli, creature equine dal manto che variava dal blu scuro a un verde giada che riflettevano la luce come i cristalli artificiali di bismuto che venivano creati nella capitale della cenere, gli arehal color della pece eran esseri rari e ancor più rari eran quelli bianchi; l’esercito avanzava silenzioso attraverso le praterie, dove un tempo immense foreste purificavano l’aria mentre ora gli alberi bruciavano nelle fornaci e nei camini.

“Fra due giorni saremo sull’altra sponda dell’Isanda, dopodiché raggiungeremo l’accampamento principale in una settimana..”

Cose che lei già sapeva e che quindi non ascoltò, preferì invece sedare il dolore dovuto da nove giorni passati in sella ascoltando i melodiosi suoni che il fiume giallo le offriva; fosse per lei avrebbe volentieri camminato insieme alle chimere che, poco dietro ai cavalieri umani, marciavano. Ma la giovane Teresa di Trevathan, appoggiata dalle parole del gussaxes Aurelio di Cabrales, azzurre piume e occhi di identico colore ma che risplendevan di luce propria, l’avrebbe letteralmente trascinata alla propria cavalcatura in nome dell’onore di Ravien di Alombrosa.

Ormai il cielo era territorio della luna e più lontane stelle, da est il vento portava il profumo di un mare distante almeno dieci giorni al galoppo con un buon arehal, Alons di Truman, il giovane Aerin grifone al quale gli dei hanno donato piume di nocciola dai riflessi di smeraldo, proveniente dalle fredde terre di Avelien, affermava che in volo si impiegava solo la metà dei giorni e ogni volta Ravien rispondeva con un sospiro, era ovvio dal momento che i volanti non perdevano tre giorni a lottare contro le tempeste che affliggevano dall’alba dei tempi le montagne fra il Sygen e il Sahri. I soldati ridevano intorno ai fuochi mentre le sentinelle ogni quattro ore si davano il cambio, Teresa correva insieme ad altri scudieri con in mano ciotole piene di cibo destinato ai guerrieri che, come statue, fissavano un mondo lentamente inghiottito dalle tenebre.

Era osservata con curiosità da Morgan, lo stesso elfo che con lei condivideva il destino di Berserker, lui già si era spogliato della nera armatura e lei presto avrebbe fatto altrettanto, mostrava con poco orgoglio i tatuaggi dorati che testimoniavano la sua appartenenza alla casata dei Lupe la quale stemma altro non faceva che contorcersi sotto le fruste del vento, ricamato con fili dorati su bandiere grigio ardesia scuro, lo stesso colore della loro pelle, appese per tutta la capitale di Neavra; Morgan di Lupe era alto due metri e una ventina di centimetri, la pelle era liscia e sembrava seta, le cicatrici sul suo corpo erano poche e la maggior parte di esse se le era procurate durante gli anni di addestramento all’Accademia di Kramea. Gli occhi gialli dell’elfo seguirono ogni movimento compiuto dalla ragazza, come se spinti da un’ossessione primitiva, finchè non furono obbligati a spostarsi sulla figura del gemello la cui presenza fu annunciata dal solo rumore di stoffa.

Agli occhi di molti, gli elfi gemelli quando indossavano l’armatura, sono irriconoscibili e anche il loro modo di combattere e muoversi era identico, la loro voce era della stessa tonalità e entrambi utilizzavano lo stesso tono freddo e privo di sentimenti, poco o niente si sapeva dei due fratelli Lupe; ma Ravien conosceva bene gli elfi suoi compagni, si erano conosciuti tredici anni prima e il loro primo incontro non fu nemmeno uno dei migliori, aveva imparato, col tempo, a distinguerli anche col volto celato in mezzo alla battaglia. Irvin di Lupe era poco più amichevole del fratello ma comunque silenzioso, teneva i lunghi capelli bianchi legati in una coda di cavallo leggermente disordinata e li decorava con gioielli d’oro, Morgan invece li tagliava corti ogni due mesi e, se non poteva farseli aggiustare da un barbiere, non esitava a recidere le ciocche d’argento con la lama della propria spada.
Ora però, senza più nessun metallo ad ostacolare, le calde mani di Irvin accarezzarono la candida e piena di cicatrici pelle della compagna di avventure e battaglie, nessuna parola veniva pronunciata durante quel quasi sacro rituale, lei con dolorosa lentezza si stendeva sulle pellicce che venivano posizionate per terra fra morbidi cuscini, Irvin cercava calore nel meraviglioso corpo color del latte mentre Morgan era sempre l’ultimo a sdraiarsi e, una volta messo comodo, stringeva la giovane fra le sue forti braccia condividendo, più che volentieri, il tepore col fratello.
Ravien dormiva tranquilla così e nessun incubo disturbava il suo sonno.

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Capitolo 2
*** Le memorie di Marcus Dagata ***


Le memorie di Marcus Dagata

Dieci maer. Dieci maer per una bestia. Questa era l’offerta che il signore Aerin del villaggio gli aveva fatto, un vecchio nano aristocratico dalla folta barba rossa che altro non aveva per la testa il cibo e le chimere che lo servivano e scaldavano le sue notti.

“Stai attento uomo, quella bestia antropomorfa ha il corpo di felino, ha rapito il nostro futuro e ucciso i nostri soldati .. Ha artigli al posto delle dita e occhi che divorano l’anima, si muove agilmente ma con la forza di un fiume in piena..Elimina quest’incubo per noi”

Ogni singolo maer era benvenuto ormai, la vita del mercenario si basava su incarichi simili e al momento Marcus non aveva nemmeno i soldi per comprarsi del cibo. Con un sospiro annuì e, dopo aver preso il proprio spadone avvolto in bianche bende, si avviò verso l’uscita del villaggio accompagnato dagli applausi e incoraggiamenti degli abitanti, una bambina si era persino scomodata a portargli fiori come per augurargli il ritorno.

I suoni metallici rivelavano la sua posizione in quel bosco silenzioso ma a lui poco importava, pochi dotati di sanità mentale avrebbero osato attaccare chi indossava il bianco dei paladini di Treph, soprattutto se il sacro stemma dell’Ordine era assente; fortunatamente il luogo dove era stata avvistata la bestia non era molto lontano dal villaggio, ma il buio della notte impedì al paladino decaduto di proseguire il cammino. Una volta raccolta la legna, necessaria per un fuoco che potesse riscaldarlo per tutte le ore notturne, Marcus riposò appoggiando la schiena al tronco di un albero e osservando la lenta danza delle fiamme che divoravano il legno; anche l’essere che lo aveva seguito dal momento che aveva messo piede nella foresta si era fermato, era tremendamente silenzioso quando si muoveva ma non sfuggiva ai sensi acuti dell’uomo.

L’alba arrivò bruscamente, il sole si affrettava a riconquistare il cielo sottraendolo alla sorella e a osservare per un altro giorno la miserabile vita delle creature di Dokein, impassibile e non curante dei loro problemi. Marcus però sfuggì allo sguardo del sole, già da un pezzo stava camminando osservato dalla poca fauna curiosa di quell’uomo troppo rumoroso per appartenere al loro mondo, la presenza silenziosa ancora lì sui suoi passi. A pochi metri. Presto si sarebbero incontrati. Lui e il mostro.

“Mostrati abitante delle foreste e battiti con quest’uomo che è venuto per ucciderti! Mostrati se sei tu il mostro che ha rapito i bambini del villaggio! Mostrati se sei tu il mostro che terrorizza le donne e uccide gli uomini! E se non sei tu allora vattene!”

Tuonò la voce di Marcus di Dagata. E le zampe della bestia ruppero la quiete, una figura femminile, molto più piccola di quella che il paladino aspettava si presentasse, si rivelò; la creatura che seminava il seme della paura nel cuore degli abitanti del villaggio altro non era che una ragazza..no, una giovane chimera dalla lunga coda e orecchie bianche maculate.

Una ferita al ventre e un braccio sanguinate gli erano costati tre lunghe righe sulla guancia, gli artigli dell’avversaria tremavano leggermente e lui trovò naturale il suo aver paura; l’aveva attaccata senza pietà e senza ripensamenti poco dopo che si era mostrata, ammirava la sua agilità nello schivare che le permise di sopravvivere ai fendenti della sua enorme spada. Mentre si avvicinava con passo lento alla giovane ferita e lei, nel frattempo, cercava di scappare strisciando aiutandosi col gomito del braccio non ferito, Marcus studiava la chimera.

Come potevano definirla orribile quando nemmeno le più belle Aerin potevano surclassarla in splendore, come il nome di “bestia” poteva appartenerle? Oh, ora capiva i commenti del vecchio nano sui suoi occhi, rapivano l’anima il cuore e ogni pensiero. Eppure doveva ucciderla, e se non lui allora un altro avrebbe firmato la sua fine, questo infiammava un sentimento di gelosia nel cuore del paladino. Nessuno oltre lui avrebbe avuto l’onore di distruggere una creatura così bella.
La lama di bianco materiale, decorata con rune antiche incise in oro, si conficcò nella terra a pochi centimetri dal pallido viso contorto in un’espressione terrorizzata, e una forte mano afferrò quella sporca di sangue della giovane per tirarla su. La trasportò fino al villaggio tenendola fra le braccia come un uomo portava la sua donna, ma Marcus era motivato da un sentimento primordiale ed egoista, non da un amore puro come quello fra due sposi; durante il viaggio lei non disse niente e il paladino le chiese se potesse parlare, come risposta ebbe un solo cenno del capo che interpretò come un si.

“Come ti chiami? Penso che anche esseri sporchi come voi hanno un nome..”

Senza dubbi capiva il Kaesk dal momento che gli ringhiò contro, sicuramente per il commento sul suo sangue pensò; per un gesto simile avrebbe rischiato una fustigazione pubblica e la rimozione della lingua se fosse stata alla Capitale dell’Oro, ma punirla ora non avrebbe avuto alcun senso. Con gentilezza che il paladino a stento riconobbe propria, la posò su un letto di foglie che sotto il suo peso scricchiolarono.

“Chimera, da oggi sarai sotto il mio comando. Probabilmente avresti preferito morire che essere la schiava di un umano come me, ma io ti ho privato di questa scelta. Qualunque cosa io ti chiederò tu dovrai ubbidire, e se non farai ciò che ho richiesto allora sarai punita”

Gli occhi dorati di Marcus incontrarono il più profondo dei mari, il più dolce e fiero dei cieli, si soffermarono sui tratti gentili del viso della giovane e troppo sulle sue labbra rosee, allungò la mano verso il suo collo che mai aveva assaggiato e che presto avrebbe fatto.
Sheail” Come inchiostro caduto su un foglio, rosse linee si intrecciarono sulla bianca pelle formando il tatuaggio color amaranto degli schiavi, una catena.

Marcus non aveva ne tempo ne voglia di ascoltare le lamentele degli abitanti, eppure loro urlavano così forte che era impossibile non prestar loro attenzione, anche il vecchio nano sputava parole furibondo.

“Quella bestia ha ucciso mio marito!”

“Ridammi mio figlio mostro!”

“Mi avete ordinato di eliminare la bestia, non di ucciderla. Ora lei verrà con me e non avrete più niente da temere! E ora lasciatemi passare!”

Il nano scosse la testa, Marcus sapeva bene cosa volevano e sicuramente non avrebbe lasciato la sua chimera fra le loro grinfie assetate di vendetta , volevano la sua carne e il suo sangue, cose che ora appartenevano a lui. La bambina dei fiori, spinta da chissà quale folle idea, prese un sasso da terra e con dipinta in volto un’espressione di puro sadismo lo scagliò verso la giovane che si nascondeva spaventata dietro il paladino. La pietra non andò lontano e non raggiunse mai il suo obiettivo, ma incitò la folla di disperati ad attaccare.

“Se non mi lasciate passare vi ucciderò tutti uno ad uno!”

La voce di Marcus fece tremare la terra, circondata da bende bianche lo spadone si levò alta nel cielo per poi ricadere e prendere fuoco risultando più minacciosa, le rune iniziarono a brillare di scarlatto e ricoprirono tutta la lama e il braccio destro del proprietario. Furono circondati da urla, lo eran già prima ma queste eran diverse, era il terrore e la paura ora. 

La notte inghiottì le due figure che camminavano per la strada principale verso la Capitale delle Foreste, fortunatamente i villici ebbero il buon senso di zittirsi e farli proseguire coi soldi in tasca, bendata e curata la ragazza barcollava poco dietro lui esausta e ancora dolorante per lo scontro. Si accamparono sotto un enorme albero dal quale rubarono qualche frutto, ancora Marcus non sapeva il nome della chimera e chiamarla tale lo infastidiva non poco, si sedettero l’uno di fronte all’altro, lei col volto coperto dal cappuccio della cappa.

“Allora, come ti chiami? Ti ordino di dirmelo chimera..”

“Non ho un nome..”

Il volto del paladino decaduto mutò in una maschera sorpresa, quanto poteva essere dolce la voce di un vivente? Innocente e pura, calmava lo spirito e allontanava ogni ombra malvagia, la luna niente poteva per sovrastare la luce di quella piccola stella dinanzi a lui, le stelle si spegnevano impotenti contro la scintilla nei suoi occhi di zaffiro.
Si coricarono senza più pronunciar parola anche se Marcus altro non voleva che sentire ancora la voce afrodisiaca, la coda della chimera senza nome frustò l’aria irrequieta per qualche minuto prima di quietarsi addormentata.

“Astrae.. sarà il tuo nome da oggi”

Marcus di Dagata, il paladino decaduto ricercato per tutto lo stato di Kaeshan, incolpato di omicidio del proprio maestro e di furto di una delle dodici armi sacre, sussurrò alla notte così che anche l’oscurità potesse sapere. 

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Capitolo 3
*** Le memorie di Irvin Lupe ***


Le memorie di Irvin Lupe
 
Il cielo era tinto di rosso dalle fiamme che lentamente divoravano ogni cosa, il suo quadro dipinto con abile mano e affilata spada, rosso vermiglio e grigio cenere, era perfetto. Morgan danzava poco lontano, uno dopo uno i nemici cadevano ai suoi piedi mentre l’anima lentamente lasciava il corpo, oramai camminavano su un campo di cadaveri appartenenti ad entrambe le fazioni, come se niente fosse successo e tutto fosse normale. Difatti lo era per i tre Berserker. Erano stati addestrati in modo che rimanessero impassibili dinanzi alla morte, avevano sviluppato l’apatia in battaglia e non avrebbero esitato ad uccidere, mai.

L’amore indescrivibile per la giovane ragazza, eppure, non riusciva a spiegarselo, era un tremendo scherzo degli dei impostogli forse come punizione, ma Irvin non aveva peccati il giorno nel quale si infatuò della piccola umana che timidamente si nascondeva da lui e suo fratello. Ora invece quella stessa bambina, oramai cresciuta, trafiggeva i propri avversari con una lunga spada dalla nera lama curva a taglio singolo, la impugnava a due mani e rivolgeva la punta acuminata verso la direzione nella quale poi avrebbe travolto, come un fiume in piena, il nemico. Era un’abile guerriera capace di rendere i propri sentimenti la più grande forza, le proprie debolezze un’armatura.

La fortezza di Bain, entro il tramonto, sarebbe crollata, Ravien ne era sicura. L’esercito nero continuava l’assedio spinto dal desiderio di tornare agli accampamenti vittoriosi, le bianche truppe resistevano come potevano incoraggiate dalle parole dei Templari di Treph che dall’estremo sud erano giunti. Una voce disperata catturò l’attenzione di Irvin, alzò lo sguardo dalla sua ultima vittima e incontrò quello terrorizzato di un altro elfo, i capelli biondi slegati ricadevano sul pallido metallo dell’armatura e il sacro stemma brillava alla luce di un sole calante. Se ne stava lì, fiero, e lo guardava come se fosse stato il signore di tutti i presenti, eppure i suoi occhi parlavano chiaro.. aveva paura e faceva bene ad averne. Il paladino spostò gli occhi di smeraldo sulla figura di Ravien e si schiarì la voce.

“Il mio nome è Dionna di Luckner, chiedo al vostro generale di battersi per l’esito della battaglia che da sei giorni miete vittime. Il perdente lascerà queste terre..”

Tutto si fermò, il nero e il bianco si divisero per un attimo e si voltarono per guardare cosa stava succedendo.

Irvin trovava divertente come la mano del giovane Aerin tremava, da un momento all’altro avrebbe potuto perdere l’alabarda, e se fosse successo difficilmente sarebbe riuscito a trattenere una risata. Morgan invece sembrava impassibile mentre sfilava la propria spada dal corpo femminile di una chimera in preda agli spasmi. Era un bell’invito formale, più precisamente rivolto alla giovane Berserker che ascoltava le sue effimere parole sull’onore e sulle regole del duello che aveva intenzione di svolgere, era uno stupido paladino dal momento che non aveva notato le labbra del suo avversario incurvarsi in un sadico sorriso.

“Dionna di Luckner, il tuo maestro non ti ha insegnato niente su noi Berserker?” La voce di Ravien sovrastò qualunque altro suono e tutti gli sguardi, di nemici o compagni, si posarono su di lei.

Come un branco di lupi affamati, i tre in nera armatura circondarono l’agnello bianco mantenendosi a tre metri di distanza, Irvin e Morgan si piegarono leggermente sulle ginocchia pronti a scattare, la spada in mano per colpire il metallo e lacerare la carne. Qualcosa si accese nello sguardo del paladino, forse disprezzo ma soprattutto terrore per un futuro che non avrebbe avuto.

“I-Il vostro gesto verrà ricordato con immensa vergogna!”

“Onore? Che se ne fa un morto dell’onore?”

Disse Morgan prima di trafiggere il paladino, la lama non ebbe nessun problema a trapassare l’armatura all’altezza della prima vertebra dorsale. Il tutto avvenne davanti agli occhi dei sottoposti di Dionna i quali subito impugnarono le armi per vendicare il proprio generale, loro erano spinti dall’onore, non i Berserker, i Paladini di Treph celavano ogni loro gesto dietro belle parole che ammaliavano la maggior parte delle menti.

“Non sarà l’onore a salvarci..” Aggiunse Irvin con lo stesso gelido tono del fratello prima.

I Berserk perdevano tutto e ricevevano nuova vita, l’onore non aveva spazio in questa.

Ancora una volta la vittoria era loro e le urla gioiose alle spalle di Irvin erano solo un’altra dolce conferma oltre agli innumerevoli cadaveri che testimoniavano gli orrori avvenuti, il sole era ormai morto ad ovest e le fiamme iniziavano a spegnersi, il cielo riversava il suo dolore sui vincitori piangendo lacrime amare che lavavano via il sangue dalla sua armatura. Le risate si fecero lontane col passare dei minuti e lentamente la quiete lo cinse in un freddo abbraccio, ma la melodiosa canzone che Ravien intonò lo rapì ai gelidi baci del silenzio.

Morgan, come una guardia fedele, rimaneva immobile dietro di lei, dalla nera spada con la quale aveva privato molti della vita ancora colava del sangue, in silenzio ascoltava la meravigliosa voce che cantava per i morti di quel giorno. Presto un'altra battaglia si sarebbe svolta, sopra le loro teste, nell’aere pregnante di morte, i Cryptodemoni e gli Acroangeli si sarebbero scontrati per le anime dei caduti per poi portarle al fiume di stelle che conduceva al Core dei propri creatori. Era un mondo crudele il loro.

Quella notte la fece sua con dolcezza, come la prima volta che fecero l’amore, le mani accarezzavano la sua morbida pelle disegnando le curve del meraviglioso corpo, fra un bacio e un tenero morso si sussurravano i propri nomi come per farli propri, si scambiavano parole d’amore e si promettevano eternità già promesse da tempo. Erano passati dieci anni.. e per dieci anni l’aveva amata, e lei aveva amato loro. 

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Capitolo 4
*** Le Memorie di Agnis German ***


Le Memorie di Agnis German
Una voce arrabbiata, piena d’ira e pregnante d’odio, riempiva l’aria privando il silenzio del proprio regno. Ma questa era nella sua testa e chiamava il suo nome, era assordante e la confondeva, annebbiava i sensi e le impediva di pensare.
Gocce di bollente sangue colavano dalla mano, le pallide dita tremavano eccitate. Altro non aspettavano che l’elsa di una spada da stringere.
Il vapore rendeva difficile delineare le curve del suo corpo, il becco della sua maschera; le lunghe ciocche scarlatte si confondevano col color rame del corridoio che stava percorrendo, la stoffa del vestito ondeggiava ad ogni passo.
Il pubblico voleva una bambola col quale divertirsi e saziare il suo sadismo, lei li avrebbe accontentati.
 
Agnis, nata dalla più fredda fiamma, camminò con passo lento ed annoiato fino ad una porta che poco dopo il suo arrivo si aprì. Gli occhi argentei della ragazza vennero colpiti dalla luce di una stella lontana ed impassibile, l’arena di pietra bianca era pronta per ospitare una condanna a morte mascherata come scontro nobile e glorioso. Il cuore cantava irrequieto, i polmoni soffriva in silenzio, i muscoli iniziarono ad avere leggeri spasmi.
Un vecchio sacerdote, riconoscibile dalle vesti color porpora decorate con intricati ricami in rosso ed oro, iniziò ad elencare crimini mai compiuti. Non lo ascoltò e nemmeno provò a difendersi, aspettò solo che il suo avversario fosse annunciato.
Un uomo avanzò rispondendo al suo nome, onorato con bianca armatura e lancia di puro metallo, alto poco più della media e sicuramente più robusto di lei. Sarà difficile uscirne vivi, pensò il giovane dottore, la folla lo acclamava e lo incitava a punire l’eretica.
 
“Ma quale grande onore potermi battere con un cavaliere del vostro livello” La voce grave e metallica del medico ammutolì qualunque suono, persino gli uccelli che cantavano le loro canzoni appassionate si quietarono. Gli occhi verdi di Sir Lancelot brillarono per un attimo irritati, l’uomo strinse la sua pallida arma e si mise in posizione. Nessuna posa fu invece assunta da Agnis, ne di difesa ne per attaccare, la sua tecnica era più un delizioso gioco psicologico.
 
Il cielo iniziò a piangere lacrime insapori, fredde si mischiarono col sangue e scurirono la stoffa marrone. Chi Sir Lancelot aveva dinanzi era solo una ragazzina, una scienziata poi, appariva ingenua ed inesperta. Ma impugnò la pesante spada come se fosse un tagliacarte e non come un bastone, errore che molti giovani scudieri istruiti facevano, invece la sua era una presa sicura e non contratta. Forse era più capace di quel che voleva sembrare. Il pollice si distese sul ricasso in corrispondenza del filo falso della spada, opposti ad esso il medio e l’indice che si avvolsero in corrispondenza del filo dritto, anulare e mignolo sull’impugnatura.
 
Perle incontrarono smeraldi, una manica rovinata fu portata al petto e così il medico si inchinò dinanzi al cavaliere prima che lo scontro iniziasse. Sir Lancelot tollerava poco simili affronti al loro credo e al loro onore, con grazia disumana fece un inchino che sollevò un urlo dal pubblico che scosse la terra.
 
Il tempo si dilatò e iniziò a scorrere più lento, la caduta di un granello sembrava eterna, il fazzoletto raggiunse il gelido pavimento.
 
L’arte della lancia era riservata a pochi guerrieri, propria dell'individuo spietato, giacché spesso le ferite inferte da questa arma producevano un'agonia lenta e crudele. Bisognava essere tremendamente abili, non si possono più avere incertezze e lacune tecniche di alcun tipo. Agnis sapeva che i bersagli preferiti dal lancere sono gli occhi, le spalle, la gola, le cosce e l'addome.
 
L’invito più pericoloso, il quinto, quello che lascia palesemente scoperto l'addome e la parte inferiore del corpo.
 
Di due spanne indietro rispetto al destro portò il sinistro arto inferiore, lasciando poi che lo stesso piede si angolasse verso l'esterno di circa sessanta gradi, ora aveva il giusto equilibrio bilanciando il peso fra la gamba destra e sinistra.
I talloni si divaricarono appena, ora non trovandosi sulla stessa linea, per poi puntellarsi al suolo. Il busto profilato e lievemente inclinato in avanti, col capo alto e diritto, il tutto in posizione naturale e rilassata.
Gli arti inferiori si piegarono leggermente.
Il braccio destro rilassato al fianco della ragazza, la punta della spada sfiorava la pietra bianca, il braccio sinistro invece dietro la schiena piegato. Pronta a difendere o contrattaccare.
 
Il cavaliere scattò in avanti e sfruttò la lunghezza della propria arma per provare un affondo nell’area scoperta, ma il suo colpo fu parato con un movimento che stupì tutti i presenti. Agnis aveva incrociato due lame di nero materiale, le aveva portate in alto per deviare la traiettoria della lancia e poi si spostò di lato. Sembrava danzasse. Prima che una delle due spade potesse anche solo sfiorarlo, il cavaliere era già uscito dalla sua portata e aveva iniziato a fare innumerevoli finte difficili da controllare, Agnis non aveva scudo, non era mai stata brava ad utilizzarlo, quindi  non possedeva nulla con cui difendersi. Continuava a muoversi fluida, scattante, cercava di non farsi colpire come poteva ma presto si sarebbe stancata e i suoi passi sarebbero stati sempre più scoordinati.
 
Avere a disposizione due lame lunghe in entrambe le mani le dava il vantaggio, rispetto ad un qualsiasi avversario, solo ed esclusivamente per il numero armi offensive in possesso e nulla più. Era in una terribile situazione. Un avversario in possesso di una picca o di una alabarda ha il vantaggio di poter sferrare attacchi alle guardie complicate dello stile con due spade rimanendo nella più totale distanza di sicurezza.
 
Riuscì a parare alcuni affondi e altri ad evitarli ma nel giro di pochi minuti la sua pelle era divenuta la tela di quel cavaliere, dipingeva con spaventosa maestria ed era spietato nei suoi attacchi. Le procurò una tremenda ferita sul fianco destro e se non si fosse spostata l’avrebbe colpita in pieno stomaco. Il cavaliere ringhiò ansioso di finire quello stupido gioco. Ammirava segretamente il fatto che la ragazza era riuscita ad avvicinarsi abbastanza per scalfire la sua armatura, ma era esausta e presto tutto sarebbe finito per lei.
 
Il medico vide la punta della lancia mirare ai suoi occhi.
 
Agnis si ritrovò a terra, la maschera le era stata privata e già da subito sentì l’aria bruciarle il petto, la testa della lancia bianca era immobile a pochi metri da loro. Sir Lancelot guardava incredulo la leva della propria arma, le spade di quella ragazza erano riuscite a tagliare il metallo lavorato dal più bravo fabbro e ora puntavano alla sua gola.
 
Silenzio.
 
“C-Come hai..?” Lei non rispose.
 
Smeraldi divennero perle e gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime di dolore, i polmoni in fiamme, le labbra schiuse desiderose di pronunciar parole che dalla nascita le erano state private. 

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