Cuore di Gazza

di Blu_Polaris
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** So cosa provi ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 - dove vai? ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3- Il filo che punge ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4- voglio andare via ***
Capitolo 5: *** capitolo 5- voglio farti volare! ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6- come petali di soffioni ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - come un uccellino ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - HO bisogno di te ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Al torrente ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10- Vola in alto ***



Capitolo 1
*** So cosa provi ***


~~Capitolo 1 – so cosa provi


Il pino.
Grande e grosso, con il vento a scompigliarne la chioma; l’odore dolce di linfa e l’incredibile potenza del suo tronco.
Da quanto tempo era lì? Oh, molto. Sicuramente prima che gli uomini costruissero i casolari, ora abbandonati; prima ancora che il bosco fosse recintato; prima del torrente, della valle o del Gufo. Era vecchio, forse antico, eppure lui sapeva e scrutava silenzioso. Era bello, magnifico e lui lo sognava, ogni sera, di continuo …
 
 Il sole filtrava tra gli alberi creando isole di luce che rendevano i fili d’ erba più luminosi del solito. La Sentinella si levò sulle piccole zampette, guardò a destra, a sinistra e poi annusò l’aria: fresca di pioggia, limpida, che portava con se mille odori lontani. La Sentinella squittì e molti topolini iniziarono a correre di qua e di la; nell’erba alta.
Tito era proprio un piccolo topolino, lungo meno di un dito, con due occhietti luminosi e vispi che spiccavano nel pelo marroncino. Non era forte, non era neanche molto veloce ma lui e suo fratello Ezio erano affamati più del solito. Così, quel bel mattino, uscirono veloci e corsero a cercare un po’ di cibo.
Ezio era un topo grande, grosso e grigio; abituato a correre nelle praterie e già molto abituato a sfuggire al Gufo.
I due fratelli percorsero il boschetto fino a un piccolo cespuglio di mirtilli e mangiarono.
Tito non era proprio nessuno all’ interno della colonia ma, al contrario di tutti coloro che vi vivevano, Tito era speciale.
«Che noia» disse con il musino baffuto rivolto al cielo.
«Noia? Cosa c’è di meglio che poter mangiare a sazietà?» chiese il fratello ma Tito non gli rispose, incantato a guardare un bellissimo Uccello di Metallo che divideva il cielo in due con la sua scia.
«Ci sono tante cose più belle di mangiare, sai! Guarda, Ezio!» e indicò nel cielo il grosso oggetto «Gli uomini sanno divertirsi! Vedi, hanno imparato pure a volare! Quanto vorrei saperlo fare!».
Ezio iniziò a ridere di gusto, mai un topo avrebbe fatto una cosa tale con il Gufo nei dintorni ma Ezio era sprezzante del pericolo più di chiunque altro. «Volare? TU!?Con quel corpicino così esile e quelle zampette così minuscole? Precipiteresti anche solo a pensarci!».
«Sei sempre così simpatico?».
Ezio e Tito erano inseparabili, le loro vite erano legate più di chiunque altra nel bosco intero. Se il piccolo ed innocente Tito finiva nei guai c’era Ezio e se lui aveva bisogno di un consiglio o un suggerimento appariva, quasi magicamente, Tito.
Stettero lì a mangiare per tutta la giornata, preoccupandosi di osservare intorno a loro (più volte si nascosero o si spostarono per evitare dei serpenti e una volpe). Quando il sole toccò la cima della collina Ezio iniziò ad agitarsi.
«Dobbiamo andare, Tito! Sta per calare la notte e il Gufo si sveglierà».
Il Gufo era enorme, dalle ali scure e dagl’ occhi arancioni; tutti temevano i suoi artigli e chiunque finiva nelle sue grinfie non faceva più ritorno. Tito aveva sognato molte volte di poter esplorare il bosco senza paura di essere braccato ma le poche volte che era riuscito ad uscire dalla tana con Ezio era sempre costretto a rimanere attento e all’ erta. Così, da quando era nato, tutto era precisamente organizzato e pieno di divieti.
Riuscirono a correre fino al piccolo buco nel terreno, poco più sopra del torrente e molto lontano dalla grande recinsione.
«Tutto bene?» chiese la loro madre, vedendoli rientrare di tutta fretta.
«Diciamo che Tito corre molto più piano di quanto immaginassi!» spiegò Ezio ma la madre aveva già iniziato a pulire il più piccolo dei due dalla polvere.
«L’ importante è che adesso siete qui, miei piccoli esploratori. Forza, a dormire!».
I due fratelli si sistemarono nel buco più piccolo che trovarono, uno stretto all’ altro, con un po’ di paura dell’incombente ululato del vento.
«Ezio?».
«Sì, Tito»
«Domani voglio salire in cima al grande pino, voglio farlo!» disse sistemandosi affianco del fratello, grande almeno due volte lui.
«COSA!? E perché?».
«Voglio vedere quant’è grande il bosco, voglio sapere dove sono i grandi alberi e cosa c’è oltre la recinsione!».
«Non credo che sia il caso che tu …»
«TI prego! Voglio vedere!»
«Tito, curiosare e esplorare non credo sia una cosa così positiva, sai? Di giorno il Gufo non è poi così pericoloso ma ci sono le volpi, i serpenti, le donnole, le frane accidentali, le piante carnivore, uomini, vicini rompiscatole…» disse elencandole sulle dita delle zampette.
«TI prego! PORTAMI!» i piccoli occhietti di Tito si posarono sul fratello, la poca luce che proveniva dalla tana gli permetteva di vederne lo sguardo supplichevole e adorabile.
«OH! Va bene! Ma dovremmo chiedere prima a Mamma. Adesso, dormi!».
«Sì! CHE BELLO!» esclamò portando il piccolo corpicino a stare attaccato al ventre del fratello.
«Guarda che non è un sì, Tito!».

«NO! ASSOLUTAMENTE NO!» disse la madre dei due topolini sentendo la proposta di andare vicino al pino.
«Mamma, Tito starà con me, lo guarderò io! Promesso!!»
«Non mi preoccupo solo per Tito ma anche per te! Ezio salire lì su è pericoloso, è come mettersi in bocca a un predatore. A questo punto fai come le volpi! Dipingiti di rosso così vedremo se un cacciatore non ti spara!».
«Mamma, nessun cacciatore sparerebbe a un topo!».
«Non è questo il punto! Ho detto di NO!».
I due parlarono così per molto tempo, fino a quando all’ improvviso Ezio non entrò nella piccola buca dove dormivano e con un sorriso enorme, che faceva notare il dente sinistro scheggiato, fece di sì con il capo.
Il grande pino sorgeva gigante, maestoso come pochi alberi sapevano essere, i suoi aghi e il suo maestoso odore erano riconoscibili da tutto il bosco, chi si perdeva utilizzava l’odore e la presenza del mastodontico albero per orientarsi. Il pino risiedeva sopra la collina, bello ritto a godersi il sole.
Tito corse velocemente, felice di poter vedere il meraviglioso mondo che lo circondava. Appena arrivò all’ albero rimase sbalordito: gigantesco, più di quanto immaginasse nei suoi sogni più strani.
«Com’ è grande!» disse con il naso all’ insù e gli occhi luminosi.
«Non l’avevi mai visto?» chiese Ezio, arrivando pian piano.
«NO! Non da così vicino … Ma quant’è alto?».
«Abbastanza»
«Abbastanza per cosa?»
«Per essere visto dall’ intero bosco …sai, si dice che sia molto antico, che superi i duecento anni; ha visto le guerre degli uomini e degli animali».
«Davvero?» il fratello annuì.
Con molta calma iniziarono ad arrampicarsi, il tronco fu la parte più difficile per Tito, la corteccia e la linfa rendevano il tutto come una parete di roccia scoscesa, ma a grandezza di topolino. Arrivarono in cima con non poca fatica, sotto gli occhi attoniti di passeri e tortore che avevano il nido nei rami più alti.
Ezio aveva superato il fratello di molto, tanto che il povero piccolo Tito fu costretto a salire quasi del tutto da solo ma era talmente abituato a tutto ciò che non vi fece neanche caso.
«TITO! VIENI!>> esclamò Ezio da un paio di rami più in alto, il piccolo saltellò fino a vedere la schiena del fratello maggiore e lì, incredibilmente bello, c’era il bosco.
Per la loro prima volta, i due fratelli videro qualcosa dall’ alto in basso; videro centinai di conifere, abeti, betulle, ulivi, mimose e persino enormi querce e giganteschi cipressi. Oltre gli alberi, poco lontano, il torrente scorreva solcando la valle in due e costeggiando l’esterno del bosco; ancora più lontano vi era la grande recinsione. I piccoli occhi di Tito videro anche un vecchio casolare e tante, tante altre enormi piante oltre i confini assegnati al bosco.
«Tito?»
«Sì?»
«Ricordi quando dicevi di voler volare?»
«Certo!»
«Adesso capisco cosa volevi dire!».
Attesero e osservarono quell’ enorme mondo verde sino a quando il sole non toccò la collina.

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Capitolo 2
*** capitolo 2 - dove vai? ***


~~~Capitolo 2- Dove vai?

I giorni iniziarono a diventare gradualmente più lunghi ma le piogge non sembravano placarsi, al contrario, divennero sempre più forti.
I tuoni e i fulmini riempirono l’aria per giorni e giorni; le piogge scroscianti e fredde fece ingrossare il torrente talmente tanto che metà della colonia dei topi era corsa via, nel bosco, nel bel mezzo dei pericoli.
Quando finalmente il sole decise di tornare era ormai arrivato settembre. Tito e Ezio erano all’ interno del piccolo buco dove dormivano sereni. Loro, come pochi altri, erano rimasti nelle tane.
«Andare fuori significa metterci in pericolo» aveva detto loro la mamma e quindi avevano rischiato il tutto per tutto ed erano rimasti lì, a osservare parti della tana cedere sotto il peso dell’acqua. Per loro fortuna però nella loro piccola buca non era successo niente.
Un odore aleggiò nell’ aria e subito Ezio si alzò di scatto.
«Tito! TITO! Alzati, su!» disse scuotendolo con forza ma il fratellino dormiva sereno tra la calda paglietta. «Tito! La pioggia, la pioggia è finalmente finita!».
«Sicuro?» chiese il piccolo ancora con gli occhietti chiusi «come fai a dirlo? Dovresti andare fuori a vedere … io ti aspetto qui» e si rimise a dormire.
«Oh! Basta che annusi l’aria. Senti? Non c’è odore di pioggia. È odore di …».
Non fece finire la frase al fratello che, dopo aver annusato silenziosamente, si lanciò lungo i piccoli cunicoli. Fu più veloce che mai ma, poco prima di poter saltare fuori ad assaporare il calore del sole, si trovò d’avanti sua madre.
«DOVE CREDI DI ANDARE?» ruggì ferocemente. Tito frenò di colpo, quasi inciampò e la osservò con due occhi sorpresi e spaventati. Poco più di una decina di secondi dopo arrivò Ezio saltellando.
«Mamma, hai visto la pioggia è finita! Possiamo uscire!» esclamò superando la madre con un balzo, Tito fece per seguirlo ma sua madre gli bloccò nuovamente la strada. 
«Tito, non credo che sia il caso che tu vada con tuo fratello, adesso che la pioggia è finita molti predatori sono in giro».
«Ma …Ma… Mamma! Ezio esce!».
«Lui è più forte, più veloce e più abituato a correre via dai pericoli. Tu rimarrai qui, con me».
Ezio fece un’espressione dispiaciuta, poggiò la zampa sulla testa del fratellino per salutarlo.
«Ti porterò dei bei semi saporiti, ok?» il piccolo topolino fece di sì con il capo e lo vide andare via, lentamente e con infinita attenzione uscì dalla tana.
Nelle poche ore successive tutti i topi che erano stati costretti a scappare via per paura del torrente, tornarono correndo. Arrivarono i topolini più piccoli ed esili, ancora bagnati; i grandi topi che erano riusciti a trovare riparo salendo sugli alberi o nelle buche; le mamme con i cuccioli più piccoli e persino topi che Tito non aveva mai visto ma di suo fratello e della cena non c’era traccia.
Il topolino rimaneva sulla soglia della tana, metà al sole e metà nell’ombra, in attesa. Sua madre zampettò verso di lui, annusando l’aria.
«Tito, vieni. Manca poco al tramonto» disse la madre, con la voce di chi è preoccupato ma non vuole darlo a vedere. 
«Ma mamma, Ezio? Lo lasciamo lì fuori?» chiese il topolino, la madre lo guardò e, con le zampe, gli sistemò il ciuffetto di peli che aveva sulla testa.
«Tito, credo che…» fece un respiro profondo, cercando di fermare un singhiozzo «Credo che tuo fratello non tornerà più».
Fu una coltellata, come se un ago gli avesse perforato il cuore. Le piccole orecchie si abbassarono di colpo, gli occhi si sgranarono e le zampe si staccarono dalla presa della madre.
«NO!» urlò, piangendo.
«Tito, quando un topo non rientra alla tana…» non riuscì a finire la frase.
«IO, IO! Lo troverò!» e per la prima volta in vita sua, con uno scatto, corse via nella foresta completamente da solo.
«TITO! TITO!» sua madre provò a corrergli dietro ma era troppo lenta, Tito la seminò poco prima di varcare la foresta.
Non smise di piangere neanche mentre correva, cercando di localizzare il fratello con l’olfatto. L’ odore di Ezio era un misto di erba secca e muschio e, nella foresta, fu più difficile del solito da localizzare.
Un tuono potente ruppe l’aria e Tito saltò in aria per il panico, sbattendo la testa contro il fusto di un albero.
«AH!» urlò massaggiandosi la testolina ma quella botta gli fece venire un’idea. Con un po’ di difficoltà e sotto una pioggia fredda e obliqua, Tito si arrampicò e cercò di scrutare intorno a sé.
L’ odore riconoscibile di Ezio gli arrivò al naso in un attimo e una volta che seppe dove guardare vide il fratello, non molto lontano da lui, con la coda incastrata sotto un masso. Fu così felice che, senza neanche pensarci, ne urlò il nome. Ezio si rizzò sulle zampe posteriori e lo fissò.
«TITO! Che ci fai qui fuori?» urlò.
«Sono venuto a salvarti! Aspetta lì!»
«Beh, non credo di avere molte alternative, sai?».
Tito, per la fretta, ruzzolò giù dall’ albero con talmente tanta foga che, con un paio di capriole e cadute, si ritrovò davanti al fratello.
Iniziarono entrambi a tirare la coda per un tempo che sembrava infinito ma né la coda né il masso sembravano volersi muovere. 
«Tito, c’è solo una cosa da fare …» disse il fratello, con uno sguardo preoccupato, il sole stava per toccare la collina e, a breve, sarebbe calata la notte.
«Cosa?»
«Devi tagliarmi la coda …».
Tito avrebbe preferito non farlo ma ormai il crepuscolo era alle porte e le prime stelle iniziavano a sbocciare, così afferrò la coda del fratello e, con un morso preciso e forte tolse un pezzo, quel tanto che bastava per liberarlo.
«Che schifo! Mi dispiace, Ezio…».
«Era l’unico modo; adesso pensiamo a tornare a casa …».

Ezio camminava a fatica, la coda gli doleva e con essa tutto il corpo. Tito non si era pentito di aver salvato il fratello ma, adesso che il sole stava calando, la paura sembrava volergli giocare un brutto scherzo. Vedeva, ad ogni ombra, serpenti e gufi; ad ogni fruscio le sue piccole orecchie si rizzavano e ad ogni minimo rumore le sue zampine scattavano veloci. Quando ormai tutto fu buio i due iniziarono a camminare sempre più lentamente e sempre più silenziosi.
«Tito, non so come ringraziarti; se non fosse stato per te, io adesso sarei morto …».
Tito evitò il suo sguardo, per una volta era il fratello a ringraziare lui e non l’inverso.
«Non volevo perderti, non volevo soffrire come quando è morto papà».
I due fratelli erano infatti cresciuti solo con la loro madre. Tito non ricordava come tutto fosse accaduto ma conosceva la storia bene: suo padre, insieme a Ezio, era uscito a mangiare ma era tornato solo Ezio. Non sapeva se era stato mangiato, se fosse scomparso nel nulla o se era scappato lui. Ezio non l’aveva mai detto.
«Papà, già …».
Un tuono ruppe l’aria ma Ezio comunque si mise su due zampe, con le orecchie ritte pronte a captare tutti i suoni. I baffi vibrarono ad entrambi e un lievissimo, minimo movimento venne dalla loro destra. Tito si sentì afferrare dal fratello e venne lanciato all’interno di un grosso cespuglio di bacche.
«Ma che diavolo…» iniziò ma venne zittito dal fratello con un dito sulle labbra pelose. Ezio indicò un punto davanti a lui.
Lì, proprio sotto un piccolo triangolo di luce lunare, c’era un topo nero e grasso che mangiava delle bacche. Tito non riusciva a capire il perché Ezio l’avesse lanciato nel cespuglio.
«Ma è solo un topo, come noi!» e fece per andare ma Ezio lo bloccò.
«Devi stare zitto, c’è qualcosa lì, tra gli alberi» e fissò i rami contorti e neri sopra la testa del topo sconosciuto.
Un altro frusciò, questa volta più forte. Il topo nero e grasso si mise sull’ attenti ma, appena diede cenno di spostarsi, il Gufo gli piombò addosso con talmente tanta furia da alzare una marea di polvere e terra. Per un attimo si vide solo una quantità immane di piume scure che si dibattevano e gli squittii del topo.
Tito si nascose dietro al fratello, inorridito. «È successo questo a papà?» chiese ma Ezio gli ripeté di stare zitto.
Fu inutile, in pochi secondi la testa del gufo si girò di 360 gradi e, con gli occhi spiritati di arancio e il becco sporco di sangue, osservò il cespuglio. Un verso, le ali si spiegarono con un rumore secco; era pronto ad uccidere di nuovo.
«Scappa …» sussurrò Ezio ma Tito rimase immobile, tremante. «SCAPPA! SCAPPA! Corri alla tana!» ripeté dandogli una spinta forte. Tito si lanciò fuori dal cespuglio, seguito a ruota dal fratello.
Il Gufo aveva preso quota, la sua ombra oscurava il minuscolo corpicino di Tito minacciosamente. Il topolino si girò a fissare il fratello.
«CORRI! Non voltarti!» urlò Ezio «FORZA!».
Il Gufo si lanciò con gli artigli verso Ezio ma lui fu più veloce e lo schivò con un salto. Il grosso topo iniziò a correre a zig zag e, vedendolo, anche Tito fece lo stesso.
Ci furono una, due o tre picchiate da parte del Gufo, tanto potenti da fare solchi nella terra. I due fratelli si guardarono intorno sentendo una strana quiete.
All’ improvviso il Gufo sparì nel nulla, com’era arrivato e Tito rallentò, fino a fermarsi.
«TITO! Continua a correre!» urlò Ezio.
«Non serve, è andato via!».
«NO!». Il piccolo si girò e vide le enormi zampe artigliate dritte davanti a lui. Un verso stridulo e una botta sorda.
Un enorme battito d’ali e un attimo dopo degl’artigli neri lo stringevano, quasi lo strozzavano. In alto, in alto, sempre di più. L’ aveva ghermito, il Gufo; era morto?
Era almeno a venti metri d’ altezza e Ezio era diventato un pallino grigio che urlava il suo nome.
Oltrepassarono il torrente e la recinzione e Tito sentiva ancora quella stretta soffocante.
«EZIO!»
«Tito! Sta tranquillo! Verrò a prenderti! TITO!!». Il Gufo, visto da vicino, era ancora più spaventoso: grigio, enorme, forte, mortale. Le piume color piombo erano accarezzate dal vento, dondolando proprio davanti a Tito.
«Lasciami! Lasciami! Stupido piccione troppo cresciuto!» e di nuovo le piume gli sventolarono davanti al muso. A quel punto Tito capì cosa fare.
Afferrò la piuma più vicina a lui e, con tutta la forza che aveva in corpo, la tirò via.
Il grosso Gufo urlò dal dolore e mollò la presa. Tito precipitò.
Giù. Giù. Giù.
Il Gufo virò in aria, dirigendosi verso la sua preda in una caduta libera mozzafiato. Tito gli vide gl’occhi spiritati; l’animale allungò le zampe, gli artigli erano nuovamente pronti ad afferrare il topino. Chiuse gli occhi.
Pluf. Con un rumore e la sensazione di essere avvolto dall’ acqua fredda si rese conto di trovarsi in una cisterna. Riemerse a mala pena, con fatica dopo tutto quel trambusto; si guardò intorno e si aggrappò a un rametto galleggiante. Il Gufo volteggiava sulla testa di Tito, in attesa, disegnando cerchi in aria.
«Mi dispiace, oggi ti è andata male!» urlò il topino. Rimase vigile tutta la notte.
L’ acqua, anche se fredda, lo rendeva tranquillo almeno fino a quando dei rumori lievi lievi, di acqua che zampillava, non lo destarono.
Una piccola rana, di un bel verde smeraldo, estrasse i grandi occhi gialli dall’ acqua. Gracidando saltò sul rametto.
«Oh, guarda! Un topino; dimmi piccino, non sei un po’ troppo lontano da casa?! Da dove vieni?» chiese mentre trasportava il piccolo ramoscello sul bordo della cisterna.
«Vengo dalla colonia oltre il torrente» la rana sgranò gli occhi per la sorpresa.
«Cavolini! Sei a più di un miglio da casa! Ma come hai fatto?».
Tito la guardò e, scrollandosi l’acqua dal pelo, disse due parole che fecero sobbalzare l’anfibio «Il Gufo».
«Senti, piccolo…»
«Mi chiamo Tito» precisò il topolino.
«Ok! Senti Tito, lì dietro c’è un bel mucchio di foglie. Sistemati lì; io cercherò qualcuno che possa aiutarti. Ok?». E con un paio di salti sparì com’ era arrivato. Il topo trovò riparo dove gli aveva indicato la rana, vi si immerse e, una volta scaldato per bene, dormì sereno.

Il sole stava scaldando il mucchio di foglie e il tepore svegliò il topino. Tito emerse controvoglia da quel gradevole giaciglio e si rese conto di non essere più fuori né vicino alla cisterna! Era circondato da quattro mura di pietra calcarea, di un grigio freddo, sopra di se distinse il rosso mattone delle tegole di un tetto. Qui e là vi erano grossi buchi e sul pavimento crescevano, dalle crepe, erbe e edera.
«OH! Ti sei svegliato! Bravo!>> disse una vocina chiara dall’alto delle travi di legno che percorrevano da una parte all’ altra il tetto muffito. Una topolina bianca, dal musetto rosato, si avvicinò a lui con un’eleganza e un’agilità che non aveva nulla da invidiare ad Ezio.   
«Ciao, io sono Ella».

 

 

 

 






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Allora! Salve gente! Questa è la mia prima ff e sinceramente credo che stia uscendo benino ma è ovvio che voglio leggere i consigli e le recensioni!
 Per quanta riguarda la storia beh… è scritta principalmente per mio diletto e per l’amore che ho per gli animali (sono molto, molto convinta). Qui scriverò anche piccole curiosità quindi preparatevi a sentirle delle belle. Vediamo… ah! Ecco!
CURIOSITA’: Il nostro piccolo protagonista si chiama Tito ma perché? 
Serviva un nome importante come quello di un imperatore ma anche che non suonasse troppo duro per un topolino piccolo e gracile. Ho pensato e pensato e poi … L’ imperatore Tito è comparso in un trafiletto di un libro. Ho deciso così di chiamarlo così; per quanto riguarda Ezio … non ho la più pallida idea di come mi sia uscito! Forse perché suonava bene il collegamento Tito & Ezio o Ezio & Tito! Lo ripeto, ho una mente strana io!Per domande e curiosità … beh sono disponibilissima! (Mi sento importante)!

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Capitolo 3
*** Capitolo 3- Il filo che punge ***


~~~Capitolo 3-  Il filo che punge

Ella era una topolina veramente strana: non aveva paura del Gufo; non possedeva regole sulla colonia e nessun timore di esplorare ma tuttavia si comportava in modo strano.
 Ella viveva in un vecchio casolare abbandonato, insieme a una colonia di topi tutti simili a lei.
Per Tito fu una novità poter uscire e esplorare di qua e di là senza alcuna paura del Gufo.

«EI! TITO! Come va?» chiese la rana che lo aveva salvato, la seconda mattina in cui Ella lo portava in giro.
«Sto bene, signora rana. Grazie, grazie veramente molto per avermi tirato fuori dalla cisterna!». Disse con tutta la gratitudine che riusciva a dimostrare.
L’anfibio uscì dall’acqua tiepida con un balzo elegante «Oh, chiamami Saltabuche. Non preoccuparti, sei un topino così carino!» gracidò ridendo.
Come per caso un tuono fece tremare l’aria e tutti e tre osservarono e annusarono l’aria.
 «C’è odore di pioggia …» disse Saltabuche «Se continua così il torrente si ingrosserà ancora di più …».
«Il torrente si sta ingrossando?» chiese Ella, i suoi occhietti azzurri sembravano bramare informazioni.
«Sì, sarebbe meglio iniziare a mettere da parte un po’ di cibo. Tra domani e dopodomani potrebbe esserci un temporale da brividi!» e come era uscita dall’acqua, Saltabuche vi tornò.
Tito a quelle parole si spaventò molto, doveva avvisare la colonia! Se le piogge fossero aumentate tutti rischiavano grosso. Rimase bloccato, intontito e con mille preoccupazioni a ronzargli nella testa.
«T.. Tutto bene?» gli chiese Ella con una vocina preoccupata.
«NO! Non va bene niente! DEVO ANDARE!» esordì all’ improvviso e con due balzi superò l’amica. Iniziò a correre nel bosco, rapido più che poteva. Ella, che si era accorta della sua rocambolesca corsa, lo seguiva chiamandolo.
«TITO! Fermati un attimo!».
Destra. Sinistra. Destra. Destra. Salta. Schiva. Striscia.
Bum! Buca e caduta.
«Ma che ti è venuto in mente?» urlò Ella dall’ alto del buco. La pioggia cadeva fitta e si bagnarono talmente tanto che, una volta tornati alla colonia del casolare diroccato, tutti pensarono che fossero caduti nella cisterna.
«Odio la pioggia…potrebbe uccidere tutta la mia colonia …» spiegò Tito una volta asciugato e pronto a dormire nel piccolo ammasso di paglietta all’interno del casolare (il suo cantuccio era all’interno di una strana scatola di cuoio che Ella aveva chiamato valigia).
 La topina bianca fece un respiro profondo.
«Credimi, se tu correrai da loro rischierai di morire a tua volta. Io lo so».
«IO DEVO TORNARE A CASA! Vorrei sapere come sta mio fratello, mia madre! Tutti!» e il suo piccolo corpicino saltò giù dalla paglietta.
«Mi dispiace…dovresti saper volare per arrivare lì giù senza essere mangiato».

Tito osservava la luna, le nuvole si erano diradate e adesso il cielo sembrava più sereno. Le parole di Ella avevano risvegliato nel piccolo topolino il suo desiderio. Quanto gli sarebbe piaciuto volare oltre gli alberi, lì, fino alla luna.
In quel momento però il suo pensiero andava ad Ezio, a come, a dove fosse …
«Non riesci a dormire?» chiese Ella, la luce della luna faceva sembrare il suo bel pelo bianco luminoso come non mai.
«No …» Tito sentì le zampette di Ella sistemargli il ciuffetto sulla testa come faceva sua madre.
«Senti, se vuoi, quando la stagione delle piogge sarà finita ti accompagnerò a casa».
«La stagione è troppo lunga! Io …».
Tito sentì un vento fresco, di nuovo le nuvole erano tornate ad oscurare il cielo.
«Dai, andiamo a dormire … domani dovremmo portare tutto il cibo che abbiamo alla colonia».

Quella mattina si svegliarono all’alba, poco prima che il sole iniziasse a pennellare l’erba di calore, i due topolini erano già corsi nel sottobosco a raccogliere tutto il cibo che potevano.
La caccia alle bacche e ai semi fu fruttuosa come Ella si immaginava.
Avevano passato tutto il tempo a raccogliere more da un povero cespuglio, pinoli e gelsi. Tito fu entusiasta quando vide un numero spregiudicato di fragoline tutte da cogliere.
«Wow! ci vorranno ore per portare tutto questo alla colonia!» esclamò Ella, stanca ma felice.
Mentre portavano lentamente tutto al casolare diroccato Tito sentì un rumore di battito d’ali seguito da un suono rimuginante, quasi di dolore.
Si fermò di colpo, ritto sulle zampe posteriori e con le orecchie pronte a captare tutti i suoni.
«Che succede, Tito?» chiese preoccupata Ella, iniziando anche lei ad annusare l’aria.
«Credo di aver sentito un lamento…» Ella sorrise divertita «Cosa c’è da ridere?».
«Sono convinta che tu abbia sentito il mio stomaco, poverino, si lamenta da ore!» scherzò Ella continuando a camminare.
Tito non ne fu convinto, quello non era un rumore di stomaco vuoto.
Di nuovo, le sue piccole orecchie tonde avvertirono un suono lieve ma penetrante allo stesso tempo.  Mollò i semi e le fragoline che stava trasportando e, rapido, corse nel bosco nella direzione del verso.
Girò e saltò alberi fino a quando, sotto l’ombra di una quercia maestosa, non vide qualcosa: una gazza ladra, bianca e nera.
Il topino rimase a bocca aperta, a tratti il sole ne illuminava il piumaggio facendo notare le sfumature verdi e blu delle ali e della coda. Quel meraviglioso uccello aveva il corpo e le ali aggrovigliate in un ammasso di filo spinato. Respirava a fatica e, a tratti, si dibatteva nel tentativo di liberarsi. Quella povera gazza stava soffrendo terribilmente.
«Tito! TITO!» la povera Ella l’aveva raggiunto «Ma che ti è preso?». Il topolino marrone indicò le radici della quercia e Ella, vedendo, rimase ad osservare la scena.
«Il filo che punge …» commentò con un minimo di voce.
«Filo che punge?» Tito non l’aveva mai sentito nominare.
«È la causa di morte di molti animali. Circonda quasi tutte le case degli umani qui intorno. Gli animali si poggiano e rimangono incastrati… Tito, è meglio che andiamo …».
«COSA?! Vuoi … vuoi lasciarla lì?» rimase allibito, sapeva che Ella era un topolino particolare ma non che fosse così insensibile.
L’ occhio blu della gazza osservava i due pur stando molto lontano. Tito sentì quello sguardo forargli la pelle e toccargli il cuore. Soffriva, glielo leggeva in faccia.
«Non c’è più nulla da fare... fattene una ragione …» Ella era rimasta colpita dalla scena talmente tanto da non riuscire neanche ad osservare la gazza. Tito pensò che forse la topina era molto più sensibile di lui.
«Non possiamo proprio aiutarla?» riprovò.
«Nel tentativo di salvare lei potremmo rimanere noi incastrati. Mi dispiace Tito, non tutto va come si vuole … Adesso torniamo al casolare, la colonia ci aspetta» e Tito seguì l’amica con un grosso peso nel petto.
La gazza aveva ricominciato a lamentarsi.
La pioggia bagnava l’erba e gli alberi ma anche se non vi erano tuoni a far rumore Tito rimaneva all’erta. Cercava in tutti i modi di dormire ma nella sua testa ronzava ancora il lamento di quella povera gazza e così, silenzioso, corse via dal suo giaciglio.
Sulla parete del vecchio casolare diroccato c’erano centinaia di arnesi arrugginiti ma quello che interessava di più a Tito era una tenaglia poggiata sul pavimento. La prese e con una fatica immane cercò di farla uscire da sotto la porticina di legno.
Tirò da solo fino alla cisterna, aiutandosi facendola rotolare giù dalle discese e evitando i grossi massi sul sentiero.
Quando la coda gli finì sotto l’oggetto il topino inciampò sgraziatamente, una volta finita la caduta, si ritrovò Saltabuche davanti. Gracidava dal ridere e lo fissava divertita.
La pioggia aveva rallentato e adesso Tito era più zuppo che mai. Come gli era venuto in mente di trasportare una tenaglia gigantesca? Sotto la pioggia? Da solo?
Saltabuche gracidò di nuovo «Tito! Che ci fai qui? Dovresti essere al riparo nel casolare. Quella non è un’oggetto degli umani?».
«Sto cercando di rompere del filo che punge … vorresti aiutarmi?». Chiese il topo cercando di togliersi l’acqua di troppo sul ciuffetto. Saltabuche aveva un’espressione incuriosita.
«Volentieri! Ma da soli non ci riusciremo mai! Fammi chiamare i miei amici!» detto questo gracidò forte, talmente tanto da riecheggiare tutt’intorno. Dai cespugli e dalla cisterna comparvero tre grosse rane.
«Ti presento Saltafosso …» e indicò un grosso rospo verde smeraldo con gli occhi gialli «Gransalto …» stavolta indicò una rana grande e grossa di un color fango. Infine, con un balzo presentò una ranocchia piccola e verde maculata «Lui invece è Pablo …».
«Hola! Soy pablo».
Tito non fece domande, le rane si caricarono in spalle la grossa tenaglia per i bracci e Tito zampettò via mantenendo le pinze.
Il topolino e le rane marciarono, come soldatini, fino al bosco. Tito vide la grossa quercia e, zuppa d’ acqua e ferita, riconobbe la gazza ladra.
«Oh!» esclamarono le rane in coro «Povera bestia …» disse Gransalto.
«Per questo abbiamo preso … cos’è quest’affare?» chiese Saltafosso.
«Vamonos!» disse Pablo.
Il quintetto corse velocemente vicino alla gazza e Tito si specchiò nel suo occhio tondo e bluastro.
«Tranquilla ... devi stare ferma. Io e ...» il topolino fissò le rane che si azzuffavano per iniziare a togliere il filo spinato «..Loro.... AH! ti daremo una mano!».
La gazza si fermò, cercò di chiudere le ali e attese. Tito, Saltafosso, Gransalto e Pablo reggevano in alto la tenaglia mentre Saltabuche, sull’ altro braccio, rompeva il filo.
Una volta rotti tutti Tito iniziò ad allargarne i grossi spuntoni. Quando l’ ultimo filo saltò
via la bellissima gazza si alzò in piedi tremante. Osservò Tito e le rane e, veloce, corse via nel bosco senza dire neanche grazie.
« Una urraca que no vuela?... es muy extraño» disse Pablo.
«Cos’ ha detto?» chiese il topino.
«Ha detto “Una gazza che non vola? È molto strano!”» spiegò Gransalto.
In quel momento un tuono ruppe il silenzio, l’ennesimo temporale era vicino...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 








Oh! Da qui in poi inizia la vera avventura del piccolo Tito! Il suo unico desiderio è ritornare a casa ma proprio mentre sta cercando un modo … eccola! Una gazza nel filo spinato! Chi sarà? Cosa farà?   Aspetto con ansia i vostri commenti e, perché no, anche qualche idea di come continuerà secondo voi la sua avventura.
Cosa ne pensate dei miei piccoli scarabocchi?
Curiosità: Prima di decidere quale uccello inserire nella storia ho immaginato molti finali e molte alternative. All’inizio avevo pensato a un passero, poi a una tortora, a un corvo e persino all’ idea di un falco! Ma proprio non mi sembrava il caso. Il corvo era l’idea più plausibile ma è, nell’ immaginario collettivo, un animale molto negativo così ho iniziato a pensare e pensare ad altri Corvidi (diciamo la famiglia di appartenenza) e poi, come un lampo, ho pensato alle gazze ladre! Belle, eleganti, intelligenti, dalle movenze gentili e poco conosciute dalle persone! Ed eccola la mia meravigliosa coprotagonista!
Beh, detto ciò … fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo e del resto.
GRAZIE A LEZEL PER LE CORREZIONI!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4- voglio andare via ***


~~
~~~~Capitolo 4 -  voglio andare via

Quell’inverno si rivelò essere particolarmente rigido. Le giornate passavano tra piogge e schiarite, le temperature si erano abbassate di molto e la luce sembrava voler scappare anche lei dal freddo. Era un novembre molto piovoso, costantemente flagellato da grandine e, a volte, dalla neve.
Tito rimaneva al calduccio nel casolare, ad attendere che le nuvole si diradassero.
La sua maggiore attività in questi casi era quella di disegnare rocamboleschi piani per tornare a casa con un bastoncino sul terriccio o sulla cenere che ricopriva il pavimento del casolare diroccato. Ella lo guardava con uno sguardo tra il curioso e il rassegnato.
«Che combini adesso?» Chiese. Tito aveva disegnato una slitta fatta con un pezzo di corteccia e trainata dalle povere rane.
«Sono sicuro che questo piano funzionerà! È molto meglio di quello della settimana scorsa!» esclamò il topolino marrone continuando a scarabocchiare.
«Migliore di quale? Quello dove ti lanciavi con una fionda o quello di cavalcare un coniglio? Ah, dimenticavo! C’è anche quello di scavare gallerie che arrivassero fino alla tua colonia. Te lo ripeto, Tito: dovresti saper volare per superare la recinzione e il torrente».
«Le rane secondo me sono perfette!» disse ignorando l’amica e indicando gli anfibi.
Dall’altra parte del casolare Saltabuche, Gransalto, Saltafosso e Pablo avevano i loro corpicini viscidi stanziati in un vecchio cappello rovesciato.
«Fatti più in là, Gransalto! Io sto stretta!»
«Se hai il sedere grosso non è colpa mia!» Gransalto si rivolse a Saltabuche con accanimento.
«Che hai detto?».
Da sotto i due anfibi emergeva la zampa di Pablo «sálvame!» disse rivolto a Saltafosso.
«Io non ci vengo neanche morto a salvarti, Pablo! Potrei rimetterci le zampe!».
Pablo disse qualcosa in spagnolo ma così velocemente che nessuno capì niente.
«TI ho voluto bene, amico!» il ranocchio spagnolo allungò la zampa e afferrò Saltafosso che, scivolando, finì anch’esso nella mischia.
«TI metti in ottime zampe, Tito» lo punzecchiò Ella mentre Tito osservava la scena.
Da quando il freddo era arrivato così di fretta molti animali avevano chiesto ospitalità nel casolare e adesso un numero considerevole di topini, qualche rana e altri abitanti del bosco.
Il topino marroncino però quasi non si era accorto di tanta folla e tendeva a scarabocchiare idee strambe e pensare a quella gazza.
Solo quando, una mattina di metà novembre, un piccolo topino entrò correndo e urlando dalla gioia per il ritorno del sole Tito sembrò dimenticarsi di tutti quei pensieri.
«Ella, ti va una passeggiatina?!» chiese all’ amica che accettò con felicità.
«È tornato il sole! Dai! Andiamo a divertirci un po’» urlarono le rane correndo via, fuori dal casolare lanciando Ella in una pozza d’acqua.
«Ma le rane non vanno in letargo?» chiese pulendosi il pelo che, da bianco, era diventato marrone e sporco.
«Quelle rane non sono normali, ecco perché la mia slitta funzionerà!».
I due topi cercavano e raccoglievano paglietta per riscaldarsi il giaciglio. Tito stava molto comodo utilizzando stoffe e cotone e invece Ella adorava dormire tra le foglie e i petali. Così pian piano si avviarono verso il campo di fiori e, nel tragitto, raccolsero un gran numero di foglie.
«ECCOCI!» esclamò la topolina correndo veloce a raccogliere i petali che erano in terra. Quel piccolo fazzoletto di prato era ormai tutto secco e rovinato, un tappeto di petali caduti riempiva gli spazi vuoti ma Ella sembrava felice come non mai.
Tito afferrò un gran numero di foglie e grossi pezzi di cotone, talmente tanti che non riusciva neanche a vedere davanti a se.
Ella, seppur ben carica, riusciva a vedere quel poco di stradina che aveva davanti «Seguimi» disse ridacchiando.
Neanche finì di dirlo che il topolino non vide un sasso davanti a se e vi incespicò.
Precipitò per una piccola discesa e poi giù, da una sporgenza. Ella lo vide sparire dietro i massi. «TITO!».
Il topolino ricadeva, tutte le foglie che aveva nelle zampe volarono via e, proprio mentre stava per sbattere sulla fredda pietra, si sentì afferrare per la codina.
«STO PER MORIRE!!».
«NO, per questa volta no!» Tito venne sollevato in alto e vide davanti a se, rivolto a testa in giù, la meravigliosa gazza ladra che aveva liberato dal filo spinato. L’uccello lo portò sulla terra ferma e, guardandolo, gli offrì l’unica foglia che era sopravvissuta al salto. 
«Hai perso questa!» disse e gliela lasciò cadere sul muso.
«IO TI CONOSCO! Sei la gazza che ho salvato!» esclamò, a guardare la gazza Tito rimase sorpreso.
Era bella grande, la coda nera emanava meravigliosi riflessi verdi mentre metà delle ali (le lunghe penne finali erano bianche), di un bel nero intenso, nascondevano sfumature di un meraviglioso azzurro metallico.
«Puoi chiamarmi Diana e tu, piccolo roditore, come ti chiami?» chiese, con una simpatica vocetta.
«Oh, sì. Io… Io sono Tito!» e gli porse la zampetta, Diana allungò la penna più lunga dell’ala a mo’ di mano.
«TITO!» urlò Ella affacciandosi dalla piccola sporgenza. La topina sembrava spaventata a morte.
Tito alzò lo sguardo e vide che, dietro di lei, oltre gli alberi c’erano nuvole nere.
«Sto bene!» gli rispose «Arrivo subito!». 
Il topolino cercò di saltare sulla parete scoscesa e di raggiungere l’amica ad almeno due metri da terra. Ovviamente ricadde pesantemente a terra, squittendo dal dolore.
«Non sei molto bravo ad arrampicarti, vero?» chiese sarcastica la bella gazza guardandola dall’ alto.
«Da cosa l’hai capito?» si rialzò piano e poi osservò Diana. Era un uccello! Poteva dargli un passaggio!
«Ehm … Diana, giusto?» la gazza annuì «Potresti darmi un passaggio? Fin lassù?».
Diana lo guardò stupita «Chi? Io? Mi piacerebbe ma …» aprì le ali e le agitò forte ma il suo corpo non si schiodò da terra «…Non so volare!».
«UNA GAZZA CHE NON VOLA?» urlarono sorpresi sia Ella che Tito.
«Ma… ma …» bofonchiò il topino.
«Neanche tu voli! Ma nessuno ti dice niente!» esclamò la gazza.
Un ruggito di tuono zittì i due e la pioggia iniziò a cadere lieve ma ghiacciata.
«Ella! Torna al casolare! Ti raggiungerò tra poco!» disse Tito ma Ella rimase ferma immobile, affacciata alla sporgenza. «VAI!».
«Non posso lasciarti da solo! Non sai nemmeno camminare senza inciampare!» l’ennesimo tuono spaccò in due l’aria facendola quasi tremare.
«Vai, tornerò al casolare! Ci vediamo lì».
 Ella tremò di freddo e paura «O … Ok …» e con un salto veloce ma titubante, corse via.
Tito iniziò a camminare lungo la parete della sporgenza, il più veloce possibile e quasi scivolò di nuovo. Diana lo vide e, di nuovo, con il becco, afferrò il topino e se lo caricò sulla schiena.
«Che stai facendo?» chiese Tito.
«Facile! Ti riporto a casa, dalla tua fidanzata!» esclamò mentre la pioggia diventava sempre più fitta e fredda.
Ci volle mezz’ora di cammino prima di riuscire a vedere il casolare diroccato e ci volle quasi un’ora per raggiungerlo. Entrambi arrivarono davanti alla porta di legno bagnati fradici e infreddoliti più del solito ma Ella gli aprì immediatamente la porticina appena in tempo. Pochi minuti dopo una potente scarica di grandine e vento rese invalicabile l’intero bosco.
Tito si sentì avvolgere da quello che restava di un fazzolettino di lana ma Diana rimase nel bel mezzo del casolare, a tremare di freddo.
«Ella, puoi aiutarla?» chiese Tito ma la topolina bianca non sembrava molto propensa, fece una smorfia e si andò ad acciambellare nel suo piccolo cantuccio di paglia e petali. «Che c’è?».
«Qui tutti sono accolti ma non posso badare a tutto. Deve vedersela da sola per crearsi il nido».
«Ah! Come sei cattiva! Diana! Vieni!» disse Tito offrendole il suo cumulo di paglia e cotone, avvolto in una piccola valigia. La gazza zampettò fino lì e, una volta dentro la valigia si sistemò per bene, al calduccio, con la lunga coda che toccava terra.
Dall’ altra parte della stanza le rane gracidavano tra loro e il povero Gransalto sembrava decisamente agitato. Tutti gli anfibi erano stretti nel cappello rovesciato.
«Que frío! No me gusta esta lluvia» disse Pablo.
«Neanche a me, amico!» gli rispose Saltafosso.
Diana, dal calduccio del suo giaciglio, osservò le buffe rane; si chiese come mai una di esse parlasse spagnolo.
«Cos’ha detto?».
«Ha detto... “Che freddo! Non mi piace questa pioggia”. Le piogge hanno gonfiato il torrente dopo la recinzione così tanto che potrebbe straripare e allagare tutto... molte nostre amiche rane sono dovute correre via, chissà se li rivedremo ...». disse Saltabuche.
«Cavolo, la rana spagnola ha detto tutto questo? Sei proprio veloce a parlare!» disse scherzando Diana. Gli anfibi la guardarono in malo modo, quasi offesi.
«Sono simpatici, i tuoi amici!» ma, affianco a lei, non c’ era nessuno.

«Non capisci, Ella?» chiese Tito. I due topolini erano fuori al casolare, sul piccolo muretto che circondava la casa.
«No, mi dispiace ...».
«Se insegno a quella gazza a volare potrà attraversare il bosco e riportarmi a casa!» esclamò Tito già pronto a riabbracciare il fratello Ezio e la madre.
«Ma qui non stai bene? Non ti piace? È da quando sei arrivato che vuoi andartene...» Ella aveva gli occhietti umidi e lucidi.
«Voglio andare via, sì. Prometto che tornerò a trovarti!» Tito sorrise ma non venne ricambiato.
«L’ ultimo topo che mi ha promesso una cosa del genere è sparito e non è più tornato » disse Ella, scese rapida dal muretto di pietra e tornò a dormire nel casolare diroccato.
Nel cielo di fine novembre comparve finalmente una luna tonda e Tito la osservò speranzoso.
Diana, la gazza, avrebbe imparato a volare.
Tornò all’ interno e trovò l’ uccello a dormire, si mise proprio sotto la sua ala a godersi il calduccio.


 


Bene, finalmente sapete che la nostra gazza si chiama Diana e che Tito ha un paio di idee per tornare a casa. Ella non è molto contenta di dover salutare già il suo nuovo amico e presto avrete delle news sul suo passato, presente e futuro. Fatemi sapere se avete notato errori (Lezel, conto su di te).
Curiosità: il nome della nostra gazza è Diana ma in precedenza il suo nome era Gemma. Ho preferito il primo poiché il nome suona più incisivo rispetto al secondo.  Per quanto riguarda il suo carattere, in precedenza doveva essere una timidissima e piccola uccellina, l’idea di farla più matura è stata, secondo me, migliore visto che tra i due è Tito il più piccino e tenero (credo).
Detto ciò mi dileguo!
Alla prossima!

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Capitolo 5
*** capitolo 5- voglio farti volare! ***


~~~~~~Capitolo 5- voglio farti volare!

 

Arrivò dicembre e il freddo sembrò aumentare ancora di più. Tutti gli animali che erano all’ interno del casolare diroccato si stringevano l’ un l’altro per riscaldarsi. Tito era però uno dei più fortunati, la sua valigia era piena di calda paglia, di cotone e di una vecchia sciarpa che aveva trovato in un piccolo cespuglio poco dopo una tempesta!
In realtà la cosa migliore che gli potesse capitare era un caldo corpo piumato che lo nascondeva completamente dal freddo.
Proprio la bella Diana sembrava essersi integrata perfettamente; giocava con i piccoli topolini e correva fuori al sole quando non c’ erano nuvole ad oscurarlo.
Ma non voleva proprio solcare i cieli come le altre gazze.
«Diana? Ti piacerebbe imparare a volare?» chiese un giorno Tito mentre lui, Ella e Diana avevano preso di mira un cespuglio rachitico e secco in cerca di qualche bacca.
«Beh, di certo non mi dispiacerebbe. Ma non per deluderti … credo che non ci sia nessuno capace di aiutarmi! Almeno che non sia il Pollo della Morte» disse Diana, sopra di loro ricominciò a piovere e dovettero correre di nuovo nel casolare. 
Ella e il suo modo freddo di relazionarsi con gli altri non vedevano Diana positivamente come Tito.

«Benvenuta, Diana! Benvenuta alla tua prima lezione di volo!» esclamò Tito. Adesso che il freddo era diminuito lievemente e il cielo si era preso una pausa dalle piogge aveva convinto Diana a prendere lezioni.
«Ok, allora grande volatile, dimmi cosa devo fare!» lo prese in giro l’uccello. Ottima domanda. In effetti come sapeva un topolino lungo 11 centimetri di come si volava? Si mise un po’ a pensare.
Le rane ed Ella si erano posizionati su un mattone a osservare i “lavori in corso” più desiderosi di ridere e scherzare che vedere Diana spiccare il volo.
«Credo che dovremmo prima… ehm … imparare a battere le ali?» Diana lo guardò corrucciata.
«Sono un uccello …»
«Sì, lo so!»
«Batto le ali da sempre …»
«Se dovessimo seguire questa teoria tu dovresti saper volare da sempre!» esclamò.
«Va bene!» disse Diana. Da appollaiata si alzò, mostrando le zampe da corvo lunghe, nere e nodose; si stiracchiò; aprì le ali e iniziò a sbatterle forte. Erano ali possenti, che alzarono una marea di polvere e terra.
«Bene! Adesso salta fino a quando non ti senti sicura e continua a battere le ali!» suggerì il topolino coprendosi il musetto per proteggersi dalla polvere. Diana fece un lieve salto, alzandosi di forse mezzo metro. Rimase lì per un massimo di cinque secondi poi ricadde pesantemente a terra.
Le rane ed Ella ridevano di gusto più di quanto avrebbero dovuto fare.
«Senti Tito, non voglio sembrare una gazza pigra ma, se rimanessi con le zampe sul terreno? A me piace!».
«No! Continuiamo! Dai, rifallo…» e Diana lo ripete tre, quattro, cinque volte e tutte, nessuna esclusa, terminò con una caduta goffa.
Tito pensò ad un altro modo più facile, afferrò un bastoncino. Iniziò così a disegnare una gazza stilizzata, prima con le ali chiuse, poi aperte e infine in volo. La disegnò più e più volte fino a quando …
«HO TROVATO! Devi correre! Devi correre, sbattere le ali e poi saltare!» esclamò euforico lanciando il bastoncino-penna dritto in testa a Pablo («Que dolor!»).
 «Adesso ci serve un posto bello largo. Ella! Dov’è la radura dove siamo andati a cogliere i tuoi petali?».
Ella era impegnata a ridere di gusto con Saltabuche e saltò sull’ attenti alle parole del topolino.
«Ecco, vediamo … dovrebbe essere a sud, a una cinquantina di metri dopo il casolare».
«Bene! Dai, Diana! Andiamo!» disse Tito salendole sulla schiena.
«Ei! Io non sono un carro!»
«Un carro? Cos’è un carro?» chiese il topo. Diana rimase interdetta.
Le gazze, quelle che vivono sugli alberi, vedono tante cose e ne sanno altrettante. Lei stessa chiedeva spesso a sua madre cosa fossero le strane cose che passano vicino al nido o sotto l’albero dov’era situato.
«Un carro è un aggeggio degli umani, gli serve per trasportare le loro cose. È un pezzo di legno molto grande, con quattro o due grandi cerchi sotto e un asino o un cavallo a trainarlo…» spiegò in breve. Tito sembrò illuminarsi.
«TU l’hai visto?» chiese Ella, avvicinandosi «Tu hai visto un carro?».
«Sì. Passava spesso sotto il mio nido …».
«Wow!». Alla fine Diana accolse sia Ella che Tito sulla sua groppa e, seguita dalle rane e guidata da Ella, arrivarono fino alla radura.
«Sei pronta?» chiese Tito.
«Sì! Certo!».

Diana aprì le ali, iniziò a sbatterle rapidamente e poi iniziò a correre. Era molto veloce e Tito, che si era seduto su un masso posto leggermente più in alto, le urlava istruzioni. La gazza aveva attraversato più di metà radura e, con un salto, cercò di spiccare il volo. Non riuscì neanche a superare il metro da terra: ricadde in mezzo al fango freddo e all’ erbaccia.
«Oi! Todo bien?» urlò Pablo. Tutti allungarono il collo per vedere oltre la coltre d’erba.
«STO BENE!» esclamò l’uccello rialzandosi dolorante. «Oh, che male!» e si massaggiò la coda cercando di sistemarsi le piume più lunghe. Riprovarono all’ infinito fino a quando Tito non le saltò sulla schiena.
«Che vuoi fare?» chiese, cercando di farlo scendere.
«Voglio farti volare! Quindi…».
Tito le afferrò le piume del collo e le tirò forte «AO! MI FAI MALE!» il topino diminuì la forza della presa.
«Scusa… Dai! riprova!» disse. Diana riaprì le ali «Non batterle fino a che non te lo dico io, ok?» la gazza annuì «Alza anche la coda, potresti inciamparci!» e, di nuovo, Diana ubbidì. Le ali si spiegarono al massimo della loro lunghezza, erano leggermente rivolte verso l’alto. Tito si stese sulla schiena della gazza. Diana partì di corsa, veloce, veloce… sempre più veloce.
«ORA!» e Diana saltò. Uno, due, tre metri; era fatta! Tito vide che la gazza stava sbattendo le ali in modo sconnesso. Non fece niente e poi …
Bum! A terra! Tutto era stato inutile.
«Mi dispiace …» sussurrò Diana mentre si alzava. «AI!».
Sia le rane che Ella si precipitarono a vedere.
Saltafosso e Saltabuche corsero da Diana mentre gli altri da Tito. Le due rane guardarono l’ala destra di Diana: era slogata. Tito, invece, si era solo preso una bella botta.
«Mi dispiace, Tito … credo che per oggi e per almeno un mese tu e Diana dovrete dire addio alle prove di volo …» disse Saltabuche.
«Che ne sai?» chiese Ella.
«Saltabuche è stata portata dagli uomini in un laboratorio … ha visto tante cose … Io invece vengo da un ristorante francese…» Spiegò Saltafosso.
«Io sono originario dei laghi, non ho mai visto un solo umano qui …Pablo invece! Lui viene dalla Spagna. Un bambino lo teneva in una scatola e l’ha portato qui e lo ha liberato … non si è mai ripreso! Gli voleva bene, a quel bambino …» disse Gransalto silenziosamente.

Tornati al casolare Saltabuche creò, con un pezzo di legno e un po’ di spago, una piccola medicazione alla povera Diana.
«L’ala starà a posto in un paio di settimane ma dovrai riposare un po’ di più. Perciò …»
«Niente prove di volo, corsette ribelli, cadute sconnesse, nuotate nella cisterna … niente! Niente di niente! Il nulla più assoluto. Chiaro?» e la piccola gazza annuì.
Il vento e la pioggia avevano ripreso il loro lavoro. Tito rimaneva sempre alla finestra, con Ella e Diana a tenergli compagnia.
«Cosa guardi lì fuori?» chiese Diana.
«In realtà non guardo niente, sto solo pensando» gli rispose il topino.
Diana saltò giù dalla piccola finestra del casolare e si mise dentro la valigia piena di paglia e cotone.
«Vieni qui e dimmi a cosa pensi!».
Tito fece lo stesso, saltò giù e si sistemò proprio sotto il caldo ventre di Diana, Ella invece rimase a guardare fuori.
«Non sto pensando a una cosa ma … a un chi…».
«OH! Anch’ io penso spesso ai miei fratelli; lo sguardo che hai fa capire che ti manca …».
«Ezio! Mio fratello maggiore e mia madre …».
Diana sorrise, per quanto potesse farlo una gazza ladra, e osservò Tito scarabocchiare con il suo bastoncino-penna.
«Io avevo tre fratelli, stavamo sempre a combinare guai!».
Ella e Tito si guardarono negli occhi e quasi si lessero nel pensiero.
«E poi?» chiese il topolino «Poi cos’è successo?» Diana alzò lo sguardo, non sorrideva più. I suoi occhi guizzarono ad osservare il vetro nero e coperto a metà dall’ edera. Si alzò e, con un fil di voce disse:
«C’è stato un incidente e ci siamo separati …».
Tito e Ella si osservarono l’un l’altro di nuovo. Adesso anche le rane si erano interessate alla conversazione.
«Che tipo di incidente?» chiese Ella, Tito cercò di zittirla pestandole un piedino ma non ebbe         l’effetto sperato «Un incendio? Un temporale? Cosa?».
«UN INCIDENTE! TUTTO QUI!» urlò la gazza.
«Diana! Calmati, scusa … non dovevo».
«Non fa niente! È tardi, io vado a dormire» Diana non entrò nella valigia ma si sistemò in un angolino piccolo e freddo, pieno di spifferi e privo di paglia.
«Ma cos’è successo?» chiese Saltafosso.
«Credo che non voglia parlare della sua famiglia» spiegò Tito e osservò la topolina bianca al suo fianco «Capito, Ella?».
«Io volevo …»
«Beh, adesso non puoi più … credo che per lei sia ancora una ferita aperta».
Nel silenzio del casolare diroccato si udiva solo il soffio del vento e il tremendo rumore, muto e assordante, del temporale.
Diana rimaneva nel suo angolino, addormentata e con le piume nere arruffate, la testa nascosta sotto l’ala buona. La luce della luna ne illuminava le piume e Tito poté vederne le sfumature verdi e azzurre che rilucevano come l’inchiostro.
In quel silenzio non muto si lasciò cullare dall’idea che, in un modo o nell’ altro, sarebbe tornato a casa.  

«Tito! Tito… ti vuoi alzare o no?» e il topino aprì gli occhi.
Davanti a lui non c’era nessun casolare, nessuna finestra né topoline bianche, gazze o rane spagnole.
 NO! C’era Ezio con il suo corpo robusto e il sua buffa coda a cui mancava un pezzo.
«EZIO! Ezio! S…sei tu?». La figura del fratellone sembrò contrariata.
«Chi dovrei essere?».
«Non lo so, una topolina bianca? Una rana! No! Quattro rane! E una gazza! Sì! Una topolina bianca, quattro rane e una gazza! Una gazza che non sa volare!» esclamò.
«Una Gazza? Tito che cavolo dici? Mica hai di nuovo mangiato quei funghetti della felicità? Ti ricordi che fine ha fatto Claudio il riccio, vero?».
Tito annuì, euforico all’ idea di essere di nuovo a casa, o meglio, di non essersi mai allontanato!
«Sto ben…» non fece in tempo a dirlo che il Gufo piombò su di loro, come un proiettile. La galleria e la tana crollò su se stessa e in un attimo vide Ezio sparire sotto la terra. «EZIO!». Il Gufo riprese quota e tra le zampe c’era proprio Ezio!
«NO! NO!! EZIO!».

«TITO! Stai bene?» chiese Ella, con una faccetta preoccupata; intorno a lui c’erano Gransalto, Saltafosso, Saltabuche, Pablo e Diana.
«Fammelo dire, tu hai bisogno di una bella dormita serena … hai urlato per quasi dieci minuti!» disse Ella. Quando Tito si alzò si rese conto che intorno a se aveva un numero incredibile di occhi puntati addosso.
«Sei stato un portento, hai fatto uno spettacolo unico!» disse divertita Diana. Almeno lei si era ripresa dalla sera prima. Tito in quel momento però aveva una sola domanda: La mamma ed Ezio stavano bene?



 

 

Diana non sembra molto propensa a volare, proprio per niente!
Comunque la storia continua lentamente ma ormai è a metà! E finalmente posso dire che riesco a vederla in modo un po’ diverso. Prima non mi sarei mai messa in discussione così e far leggere le mie cavolate a persone che non conoscevo. Ringrazio Efp per questo! Bene, fatemi sapere come al solito errori e idee personali e passiamo alla rubrica curiosità! * musichetta trendy*
Curiosità: il passato delle rane, in precedenza, era racchiuso in un capitolo solo, cioè il 6 ma visto che rallentava la storia mi è sembrato opportuno tagliarlo. Vi darò qualche accenno in più:
Saltabuche: lei viene da un laboratorio dove venivano testati i cosmetici. È scappata dopo l’arrivo degli animalisti.
Saltafosso: il nostro povero amico viene da un ristorante francese alle porte di Ostia, quando stava per essere messo in pentola è riuscito a scappare grazie a un buco nella sua cassa ma da allora ha perso le tracce dei suoi amici. 
Gransalto: L’ unico che non è mai stato a contatto con gli umani, almeno direttamente. I grandi laghi che vengono citati sono quelli dei laghi costieri del Circeo. È arrivato dove si trova ora dopo un simpatico viaggetto nel camioncino di un pescatore.
Pablo: la sua storia era quella che mi ha preso di più (all’inizio lui e Diana avevano lo stesso destino!). Pablo è nato in Spagna e un ragazzino l’ha trovato quando era poco più di un girino. Quando però il piccolo è stato costretto a trasferirsi dal padre in Italia lui è stato lasciato sul ciglio della strada dal genitore del piccolo. Ha cercato quindi di tornare, passando grossi guai. Viene salvato da Saltabuche mentre cerca di attraversare la strada trafficata, da lì inizierà la sua nuova vita nella cisterna, perdonando anche il padre del suo padroncino.
Sì, lo so … ho qualcosa che non va ma queste mille idee mi portano a pensare di scrivere altre storie sulle avventure del bosco. Anche collegate a Cuore di gazza. Una specie di spin-off! Che ne pensate?
* si dilegua*  

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Capitolo 6
*** Capitolo 6- come petali di soffioni ***


~~~~~~Capitolo 6- Come petali di soffioni


Il sole tornò a splendere un po’ e con lui Tito e Ella decisero di uscire nuovamente. Diana si avviò con loro.
«Dove credi di andare tu?» chiese Saltabuche bloccandole la strada, i suoi ordini non potevano essere ignorati.
«TI prego, Saltaqualcosa… fammi andare. Non mi allenerò!».
La rana gracidò per il nervoso.
«Saltaqualcosa? Io sono Saltabuche... SALTABUCHE!».
«TI PREGO, SALTABUCHE!» chiese implorante all’ anfibio. La rana, che era di cuore tenero, le fece un cenno con la zampa palmata e viscida.
«Vai e divertiti!».
Diana fu così felice che afferrò Tito per il collo e se lo lanciò sulla schiena; stava per afferrare anche Ella ma questa, con un balzo, evitò la sua presa.
«Seguitemi!» esclamò iniziando a correre per il bosco. Diana riusciva a stargli dietro per miracolo ma corsero e corsero, saltarono grandi rami e superarono persino la quercia dove Diana era stata trovata la prima volta.
Oltrepassarono una roccia a forma di lupo che Tito non aveva mai visto.
Arrivarono di fronte a un bel salice piangente dal tronco nodoso e sghembo, i suoi lunghi rami ricadevano penduli su un prato stranamente verde. Dietro di esso, profondo come un abisso, c’era un gigantesco strapiombo. Diana ebbe un brivido osservando i cervi che brucavano quel po’ d’erba, da dove si trovava sembravano grosse formiche marroni.
«Qui c’è molto cibo! L’anno scorso ho trovato una bacca grande quanto la testa di Tito!» esclamò Ella immergendosi nel bel prato alto, poco lontano dal salice.
«Aspetta Ella! Che vuoi dire che era grande come la mia testa?» chiese Tito saltando giù da Diana e correndo verso l’amica.
«CHE HAI UNA TESTA ENORME, ecco cosa voglio dire!».
Diana zampettò allegra nell’erba mangiando semi e bacche secche, felice di poter mangiare qualcosa che non era razionata.
Tito ed Ella arrivarono alle pendici del bellissimo salice, la sua corteccia bianca sembrava voler luccicare.
«Wow, quant’è alto?» chiese Tito.
«Abbastanza»
«Abbastanza per cosa?»
«Per essere visto dall’ intero bosco…» Tito sentì quelle parole riecheggiargli nella testa e poi, con un brivido, gli toccarono il cuore: Erano le stesse identiche parole che, quasi tre mesi prima, gli aveva detto suo fratello alla base del grande e meraviglioso pino.
Il topino osservò l’amica.
«Scommetto che arrivo prima io in cima!».
Nella sua mente di topolino Tito pensava a suo fratello Ezio, tutto ciò che si erano detti adesso sembrava un vero e proprio percorso da seguire e lui l’avrebbe fatto!
Nella sua immaginazione Ezio era lì, in cima a quell’ albero pronto a dargli una risposta.
Tito si arrampicò con meno difficoltà del solito, forse quel correre e giocare per il bosco era servito a qualcosa? Ella correva veloce e leggiadra, sicura di dove mettere le zampe e, tra capriole e salti, riuscì a superare l’amico.
Quando fu a un paio di rami di distanza gli fece una linguaccia e saltò oltre le foglie e i rami più sottili, dove lo sguardo di Tito non arrivava.
«TITO! Vieni a vedere!» lo richiamò la topina bianca.
Il topo saltò con un po’ di difficoltà sui rami alti, con la coda riuscì a mantenere l’equilibrio e, con un piccolo passo verso l’alto, superò il muro di foglie che lo separava da Ella.
«Che succede?» chiese ma la topina non gli rispose, il suo sguardo era perso verso l’orizzonte oltre il crepaccio.
Tito osservò nella stessa direzione e rimase a bocca aperta.
C’era un mare di verde, giallo e marrone, mischiato in una miscela meravigliosa. Un cielo azzurro e con poche nuvole cotonate si dipingeva dolcemente nell’aria e, in quella stessa atmosfera, Tito vedeva meravigliosi uccelli colorati e sentiva il rumore di passi e cinguettii.
In quel momento si rese conto di essere ancora più piccolo di quanto già non era. Da lontano, piccolo piccolo, ad accogliere i raggi e il vento c’era un albero enorme: il pino!
Adesso che lo guardava bene si rese conto di quanto fosse verde e rigoglioso ma, soprattutto, di quanto fosse lontano.
«Wow … ma il pino è lontanissimo! È molto di più di un miglio! Riesco a malapena a vederlo!».
«Saltabuche Avrà sbagliato i conti, Tito… ho paura che se Diana non impara a fare il bravo pennuto tu non potrai mai tornare a casa … mi dispiace!». La solita voce di Ella, quella che diceva di non poter rischiare, riemerse dopo molto tempo.
«Diana imparerà. Vedrai!».
Da sotto le radici dell’albero la giovane gazza si stava cibando di grossi vermi viscidi. Da molto tempo non vedeva tanto verde e tanto cibo, simbolo che, in un modo o nell’ altro, tutto era ancora lì ma sopito, ad attendere la primavera.
Trovò un grosso masso e la coda piccola e sottile di un enorme verme. Un verme così grosso non l’aveva mai visto!
Con il suo becco l’afferrò e tirò con tutta la sua forza. Il grosso verme si girò e mostrò le sue vere sembianze: era una grossa biscia sopita per il freddo. I lunghi denti si allungarono, la brutta bocca violacea si spalancò e si avvicinò spaventosamente a Diana che, con un salto e una potente beccata tra gli occhi del serpente, l’allontanò.
La biscia salì velocemente sul salice.
«TITO! ELLA! SCENDETE! SCENDETE ORA!» gracchiò sbattendo forte l’unica ala buona ma, dall’alto del grosso albero, i topini non la sentivano. «RAGAZZI! SERPENTE!» continuò ma niente.
A quel punto il grosso rettile era a pochi centimetri dai due topini.
Ella si girò appena in tempo, con un urlo e un balzo corse via alla base del salice, afferrata al volo dalla gazza. «Dov’è Tito?» chiese.
«Lì su! Diana andiamo via!».
«NO!» e con un salto enorme arrivò su un ramo. Afferrò la coda del serpente e lo tirò via ma l’animale non cedette, aveva intrappolato Tito contro il tronco bianco del salice. Diana si mise tra i due, afferrò Tito e se lo mise sulla schiena.
Il serpente attaccò rapido ma la gazza gli saltò sul muso.
Il rettile si dimenò e riuscì a girarsi velocemente. Diana e Tito si ritrovarono su un ramo gracile, sotto di loro c’era il vuoto del precipizio. Tito poté vedere i cervi piccoli come formiche.
Il serpente si lanciò di nuovo all’ attacco ma Diana fu più veloce: saltò in alto facendo cadere il serpente nel precipizio.
 La sua inesorabile caduta fu una gioia per i due amici.
«AH! Ti ho fregato!» disse Diana atterrando sul ramo che, appena ricevette il peso, si spezzò.
Caddero.
«NON POTEVI STARTI ZITTA, VERO?» le urlò Tito stringendosi alle piume del collo.
Caddero in un turbinio di giravolte sconnesse e capriole mal ferme.
«TOGLIMI LA BENDA!» ordinò la gazza e Tito, con i piccoli denti appuntiti si allungò e morse forte la fasciatura improvvisata. Diana la vide volare verso l’alto in mille piccoli pezzi, come i petali dei soffioni.
«FATTO!».
La gazza inarcò la schiena e si mise dritta, parallela alla parete scoscesa. Quando vide che ormai i cervi che pascolavano erano diventati grandi e grossi, aprì le ali che si gonfiarono d’aria. 
Quelle ali che avevano appena imparato a destreggiarsi nel volo sembravano solcare i cieli da sempre.
Le piume nere e bianche si spiegavano e si adattavano al vento e la coda, lunga e nera, adesso sembrava emanare riflessi verdi e blu ad ogni raggio di sole che ne colpiva la superficie. Il volo continuò soave, le ali aperte accoglievano il vento e, a intervalli regolari, battevano con un fruscio lieve.
Tito non poteva credere a ciò che vedeva. Stava volando su, nel cielo, oltre le fronde degl’alberi. Sotto di lui correvano via erba e pozzanghere ma anche i suoi pensieri.
Essere un uccello doveva essere magnifico!
Tito pensò a quando lui e Ezio erano stati sui rami più alti del pino e avevano immaginato di volare. Questo però era differente, era lasciare tutto, persino la gravità stessa, e seguire il cuore.
Diana volò per tutta la parete del precipizio poi, dopo aver volato sopra al grande salice e oltre la quercia, scese di quota e, quando fu vicino al terreno, allungò le zampe e atterrò con grazia.
Tito non scese, con il fiatone per l’emozione.
  «Rifacciamolo!».
«EI! Io non sono un aereo! Sbottò Diana, le piume si erano arruffate tutte.
«Cos’è un aereo?» chiese Tito.
Diana rimase sorpresa e per una manciata di secondi pensò a come spiegare all’ amico cosa fosse effettivamente.
«Un aereo è un grosso uccello di metallo, lo usano gli umani per volare. Lontano; oltre le nuvole e le terre».
«Sì! Li ho visti! Migrano lontano e volano in alto molto più di qualunque altro uccello».
«Beh, forse per questa volta, potrei fare un eccezione. Dai, è troppo bello! Sali!».
Dall’ alto, oltre il casolare, c’era un mondo da vedere.
Tito osservò da lì il pino gigantesco. Potrà aspettare, pensò. E volò, oltre, nelle grandi, gigantesche valli.

 


Allora, capitolo 6! Mai e poi mai avrei creduto di riuscire ad avere tutte queste visite. Ovviamente il nostro piccolo Tito è ormai pronto a spiccare il volo nel grande cielo. Riuscirà a tornare a casa? Si arrenderà? … ok, sembra una trovata pubblicitaria! Grazie dell’appoggio e delle meravigliose recensioni!
Curiosità: la storia è ambientata verso la fine degl’anni 50 quando le piccole zone boscose non erano ancora state bonificate del tutto. Può non avere senso ma prima che iniziassi a scrivere mi pareva un idea valida XD

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - come un uccellino ***


~~~~~Capitolo 7- come un uccellino

 


Tito era veramente felice, a parte che non rivolgeva neanche una parola ad Ella da quando era stato salvato da Diana (Infatti la topolina era all’ oscuro che la gazza volava).
Il topo mangiava una di quelle bacche grosse grosse e di un rosso vivo.
«Wow! Quella bacca è gigantesca!» esclamò Saltabuche stretta stretta alle altre rane. In quei giorni il cielo era sereno ma il freddo non era diminuito, al contrario, sembrava gradire la luce e il bel tempo.
Il topino era seduto sul muretto di pietra che circondava il casolare diroccato e immergeva il musino nella sua bellissima bacca. Purtroppo il roditore non era a conoscenza di cosa aveva imparato Diana da quando volava.
Faceva incredibili giri della morte, schivava veloce i rami e giocava a fare lo slalom tra i tronchi fitti del bosco. Si divertiva a provare tutte le maniere e tutte le posizioni delle ali per perdere quota e riprenderla repentinamente, adorava anche toccare l’acqua con le zampe o la coda e poi, volando in alto, creare nastri cristallini nel cielo.
Diana stava sorvolando il casolare ma si annoiava terribilmente, volare era bello ma lo era ancor di più se con lei c’era Tito! Così decise di andare a recuperarlo.
Portò le ali a metà della loro lunghezza, si piegò in avanti, portò la coda in alto, come un fulmine, scese di quota repentinamente. La coda, che fungeva da timore, si piegò verso destra solo quando Diana localizzò il suo amico.

«Sì, questa bacca è enorme! Ed è tutta MIA!» stava dicendo il topino all’ amica rana.
Tito stava per aprire la bocca e dare il primo morso al suo amato pasto quando, come un tornado piumato, Diana non lo afferrò per la collottola.
La gazza salì velocemente di quota mentre Tito vedeva il suo pranzo cadere giù e Saltabuche che lo ingurgitava con un sol morso.
«DIANA! Il mio pranzo!».
«Su, dai vedrai che ti divertirai!»

Dal volo lungo e tranquillo Diana poté vedere il mondo che la circondava e mostrarlo a Tito. Passarono un piccolo campo pieno di piantine rachitiche e sorvolarono un grosso recinto con dei cavalli.
Diana scese di quota e volò in mezzo al branco al galoppo, Tito ne vide la forza e le fasce muscolari che si muovevano sotto la pelle per quanto si trovassero vicini. Infine virò dolcemente verso le colline, oltrepassò un alto muro sormontato dal filo spinato, con un albero enorme al suo esterno.  Il muro, inoltre, era affiancato da una stradina tutta curve e, ancora più oltre, con sorpresa, videro delle casette dai piccoli tetti spioventi e rossi.
«Oh! Sono molto simili al casolare diroccato!»
«Più o meno, queste sono abitate da umani!» Diana, sapendo che Tito non aveva mai visto gli uomini, atterrò su un tetto piccolo e dalle tegole di un bel bordeaux scuro. Il topino scese, incuriosito dai mille volti e piedi che oltrepassavano le grandi strade acciottolate.
«Sono quelli?» chiese e Diana annuì «Ma sono … proprio brutti!». Ogni tanto apparivano persone a cavallo, con cagnolini piccoli e bizzarri o con carrozze e carri.
«Quello è un carro! Vedi, Tito?» e il piccolo fece di sì, scrutando incuriosito.
Il suo sguardo si spostò sull’ orizzonte dorato dove ciminiere scure sputavano nastri di fumo nero.
«Cosa sono quegli alberi scuri?» chiese Tito ma Diana non gli diede alcuna risposta, anzi, afferrò il topino e prese il volo.
«Diana! CHE SUCCEDE?» il topino rivide in breve il muro e i meravigliosi cavalli (un puledrino gli corse persino incontro), il prato di piccole piante rachitiche e il casolare.
Atterrarono ma non molto delicatamente.
«Diana? Tutto bene?» l’orizzonte da dorato era diventato viola e infine un bel manto blu trapuntato di stelle meravigliosamente brillanti. Quella notte probabilmente non avrebbe piovuto.
«Quelle sono ciminiere. Entrare in quel fumo nero … è uguale alla morte …»
«La tua famiglia?» Diana non gli mostrò la risposta, neanche un secondo e prese il volo, superando nuovamente il casolare diroccato.
Ella uscì dalla piccola fessura della porta e raggiunse l’amico. Rimase a bocca aperta vedendo il volo veloce e agile di Diana.
«Lei vola!».
«Sì, come un uccellino …». Il topino osservò Ella, solo allora si ricordò che era arrabbiato con lei.
«Come al solito te la sei filata, eh? Grazie!» squittì con sarcasmo.
«HO AVUTO PAURA!»
«… E volevi salvarti la pelle!».  Ella divenne più bianca di quanto già non fosse.
Nervosamente la topolina si girò e andò via; poco prima di varcare la soglia urlò:
«ADESSO CHE IL TUO PICCIONE BICROMATO SA VOLARE PUOI ANCHE ANDARTENE!».

Il tempo passò, le settimane trascorrevano veloci ed ormai febbraio era alle porte.
 Erano passati mesi da quando Tito era stato portato via dal gufo e, ormai, aveva perso ogni speranza di rivedere Ezio e l’intera colonia. Diana, non osava farsi vedere e il piccolo topolino si chiese cosa avesse sbagliato. Ella era diventata schiva, rispondeva solo con monosillabi.
Tito rimaneva tutto il giorno, tutti i giorni, sul muretto che circondava il casolare diroccato e aspettava che una certa gazza sorvolasse il luogo.
Il freddo era leggermente diminuito e le piogge, seppur abbondanti, adesso si erano placate.
Saltafosso, Gransalto e Pablo saltarono sul muretto e osservarono il piccolo, povero e infreddolito topino.
«Todo bien?» chiese Pablo.
«Sì, più o meno …» Pablo stava per rispondere ma Gransalto lo precedette.
«Più o meno non è mai un’ottima risposta. Adesso dimmi, cosa c’è che non va?» chiese. 
«Ella e Diana mi odiano, una è arrabbiata perché dico la verità e l’altra è arrabbiata perché… oh! Non lo so neanche perché!». Saltafosso sorrise a Gransalto mentre Pablo ascoltava con molto interesse.
«Oh, non tutto va sempre come si vuole. Devi solo aspettare e provare …e tutto si aggiusterà. Sei giovane, è normale!».
Tito annuì anche se non capiva completamente le parole della rana poi, guardandosi intorno, vide che Saltabuche non era nel gruppo.
«Che fine ha fatto Saltabuche?» chiese, le rane si guardarono negl’ occhi e poi, rammaricate, guardarono il terreno.
«Che succede?».
«L’ha presa il gufo … è riuscita a liberarsi ma … ecco, diciamo che …» Tito si allarmò molto, osservò la rana che gli parlava.
«Il Gufo non caccia mai da queste parti…Dov’è adesso Saltabuche?». Pablo indicò il casolare e Tito, dopo giorni e giorni che non si muoveva dalla sua piccola postazione d’ osservazione, corse all’ interno.
Ella era raggomitolata in un piccolo cantuccio, con poca sterpaglia intorno, gli dava le spalle, la valigia-nido era vuota e solo qualche piuma o penna faceva intuire che Diana era stata lì.
«Di qua …» disse Saltafosso precedendo il topino.
Tito vide il vecchio cappello rovesciato, sul suo fondo, nascosta tra paglia e foglie secche, c’era Saltabuche. Non era più di quel bel verde smeraldo ma di un colore quasi smorto; i suoi occhi si alzarono leggermente e gracidò un “ciao” lieve lieve.
Sporgendosi ancora un po’ Tito vide che la zampa anteriore sinistra non c’era più, al suo posto giaceva un moncherino e ciò che restava di quel po’ di carne.
L’altra zampa, quella anteriore destra aveva un dito in meno e, sulla pancia (e sulla schiena) aveva il segno di un morso ancora non del tutto cicatrizzato.
«Tutto bene?» chiese il topino timidamente.
«Avresti dovuto farmi un’altra domanda mio piccolo amico roditore …».
«Non so che dire … io … io stavo facendo gli affari miei invece di pensare ai miei amici … mi dispiace Saltabuche …» il topino si sentì triste come poche volte era stato nella sua vita.
«Non preoccuparti!» esclamò la rana «non è stata colpa tua … senti piccolo; saresti così gentile da dire ad Ella di portarmi di nuovo quei moscerini?» chiese gentilmente, Tito osservò che, all’ interno del cappello c’erano grossi pezzi di stoffa e cotone; tutti appartenenti a Ella.
«Sì, vado».
Così la topina tutta bianca si alzò, spostò una piccola pietra e, con una zampetta, afferrò qualche moscerino morente e stecchito dal freddo. Al suo ritorno nel cantuccio la topina si scavò una conca e si raggomitolò. Tito arrossì un poco ma poi, dolcemente, si accoccolò accanto a lei.
«Mi dispiace …» sussurrò
«No, scusami tu …».
Fuori dalla finestra, di nuovo, imperversava il maltempo.

I temporali di quel periodo furono tremendi, la pioggia sembrava essere fatta di aghi di ghiaccio, il vento era così forte da far sradicare le piante più esili e il freddo aveva iniziato a insinuarsi nelle ossa.
Tutto ciò non preoccupò Tito che, ogni mattina, saliva con un balzo sul muretto e attendeva il ritorno di Diana. Il topolino si stringeva in un po’ di lanetta se il freddo era insopportabile.
 I giorni passavano e della gazza non vi era l’ombra. Sotto una pioggia ghiacciata, quasi grandine, Ella si avvicinò con un quadrifoglio come ombrello.
«Tito, vieni dentro … tra poco nevicherà!» esclamò la topina bianca, leggiadramente la neve iniziò a scendere sul terreno. «Sai Tito, tu hai una mamma e un fratello. Io e Diana non credo siamo così fortunate. Darle tempo, vedrai che tornerà…» disse e si avviò verso il casolare diroccato.
«ASPETTA ELLA!» squittì Tito «Ti andrebbe di aspettare con me?» e il piccolo roditore bianco si avvicinò, si strinse a Tito e si riparò sotto la sua foglia.
«Hai sempre quel ciuffo in disordine!» ed Ella glielo sistemò.
«Mi racconterai mai cosa ti è successo?» chiese Tito ma lei, con un sorrisino, abbassò gli occhi.
Mentre la pioggia batteva a terra e sulla foglia con forza e senza ritmo, le loro piccole code si strinsero a vicenda con dolcezza.
Il cuore di Tito prese il volo proprio come un uccellino.   

 

 

 

 

 

 


___________________________________________________________________________
Per eventuali errori che avete visto nel testo e piccoli consigli sono tutta orecchi.
Vi prego di aspettare un po’, il prossimo capitolo uscirà a breve!
CURIOSITA’: il gioco di parole nei nomi delle rane è liberamente ispirato a Dragon trainer e ai nomi dei personaggi. Pablo invece l’ho inventato vedendo Toy story 3 proprio perché Buzz inizia a parlare spagnolo.
Sì, sono una disadattata!

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - HO bisogno di te ***


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~~~~Capitolo 8- Ho bisogno di te

Diana era tornata in un giorno di sole, il suo piumaggio era lucido e le zampe lunghe non sembravano neanche più le stesse. Era cresciuta in così poco tempo?
Tito non parlò, non disse nulla, rimaneva bello rigido sul muretto e osservava la gazza sui rami più alti dei cespugli. Saltellava da un rametto all’ altro con eleganza, bilanciandosi con la lunga coda o aprendo le ali per mantenere l’equilibrio. Con il becco lungo e sottile coglieva le bacche e i semi con una destrezza quasi inverosimile.
Una sera, sul tardi e con un vento freddo e gelido, Tito si addormentò sotto la sua foglia mentre aspettava Diana.

«Tito? TITO!» urlò Ezio, oltre il torrente immenso e turbinante c’era il grosso topo grigio che lo chiamava, le zampette sventolate in alto per farsi notare che si agitavano come banderuole al vento.
«EZIO! Sei tu?» Urlò il topolino ma sotto le sue zampe il torrente tuonava e ruggiva, gorgogliava e ribolliva di rabbia.
Tito non riuscì a vedere più niente, adesso il torrente sembrava un mare e il piccolo topolino si perse nel nulla.
Osservò sopra di se e vide la recinzione di un nero pece, coronato da un lunghissimo e tortuoso filo di ferro. Su di esso, come impalati e crocefissi c’erano topolini e uccellini.
La recinzione si piegò su se stessa e come una frana si buttò su Tito.
Lui cercava di liberarsi da quella morsa ma inutilmente, si dibatteva, veloce, veloce.
La recinzione era come un serpente, lo stringeva, lo strangolava… Di fronte a lui Ezio era inerme, anch’esso avvolto dal filo. I loro occhi si osservavano l’un l’altro.
Nero.

Il piccolo roditore si svegliò terrorizzato, osservò giù e si rese conto di essere ad una ventina di centimetri da terra, sentiva una lieve pressione sul collo e girandosi vide Diana che lo stringeva forte per la collottola.
«Sei tornata …» disse tra gli sbadigli. La gazza lo posò dolcemente davanti la porta del casolare diroccato e si abbassò per ascoltarlo e parlargli.
«Non sono mai andata via … avevo solo bisogno di stare un po’ da sola. Ho capito anche alcune cose …» disse mentre il topo l’ammirava. Da vicino Diana sembrava molto più robusta ed elegante di quanto già non fosse e il suo meraviglioso ed elegante piumaggio sembrava un lunghissimo abito di seta, di quelli che si indossano per le più importanti occasioni.
«Cos’hai capito?» chiese Tito.
«Beh … Ho capito che le cose accadono, sempre e comunque …» sorrise e, con un’espressione molto furba disse: «E che un certo topolino voleva e vuole tornare a casa grazie a una certa gazza …».
Tito arrossì molto, per quanto potesse farlo un topo, e abbassò lo sguardo.
«Non preoccuparti, Tito. Tu vuoi la tua famiglia e lo capisco … lo voglio anch’io».
Diana spiegò che le sue ali gli avevano insegnato molto, che quel volo («Quel meraviglioso sentimento, Tito! È bellissimo, vedere le cose piccole così, non avere barriere …») poteva essere anche eterno perché adesso era libera. Poi, da sola, avvicinò il lungo becco vicino a Tito e lo strinse a se.
«Vuoi tornare a casa?» chiese, osservò il piccolo amico ma si sorprese nel vederlo piangere «Non piangere Tito …».
«Mi piacerebbe tornare a casa … mi piacerebbe andarci con te …».

Tito si era reso conto che il casolare distava diverse miglia dal torrente e dal meraviglioso pino e che, senza allenamento, Diana non sarebbe mai riuscita a raggiungere.
La paura del Gufo cresceva gradualmente visto che Saltabuche era stata una sola delle numerose vittime. Diana e Ella avevano legato ancora di più ma la topolina era così terrorizzata dall’ altezza che non osava salire sulla schiena della gazza.
Era arrivato marzo, con il suo buon odore di primavera appena sbocciata e di vento tiepido. Con lui anche il sole aveva deciso di essere più caldo (le piogge no, sembravano voler restare fino all’ estate). Erano passati sei mesi o giù di lì da quando il Gufo l’aveva fatto cadere nella cisterna.

«TITO!» lo chiamò la gazza passandoci la lunga coda sul muso per svegliarlo. Quella sera, dopo molto tempo, non aveva piovuto durante la notte e un sole caldo filtrava dalla finestrella del casolare illuminando la polvere ballerina al suo interno. 
«Cosa c’è?» chiese Tito ancora tutto intontito. Diana lo prese nel becco per farlo alzare.
«TI va di volare un po’?» gli chiese, lasciandolo andare proprio affianco ad una Ella ancora profondamente addormentata.
«SI! Certo!»
«E che ne dici di invitare Ella?».
I tre così si introdussero nel bosco che, con il sole, emanava un aura di luce verde e di calore.
Secondo la gazza quella era stata un’idea simpatica, almeno fino a quando non aveva iniziato a volare nel piccolo fazzoletto di prato dove aveva iniziato a fare pratica, furono costretti a lasciare Ella a terra visto che era letteralmente terrorizzata solo dall’ idea dell’osservare i due volare.
«Che ne dici di divertirci?» chiese Diana a Tito, bello ritto sulla sua schiena mentre compiva un giro largo e tranquillo proprio al centro della radura, a poco più di sei metri da terra.
«Divertirci in che modo?».
«OH! Così!».
Diana iniziò a salire di quota, repentina e Tito non riusciva proprio a trattenere l’euforia. Le ali sbattevano regolarmente ma ad intervalli incalzanti. Quando furono ad un’altezza di circa venticinque metri, talmente in alto da non vedere più Ella né i fiori sbocciati da poco, il ritmo diminuì.
Un battito, un altro ed un altro ancora, poi Diana chiuse le ali, portandosele ai fianchi.
«EI! Che combini?» chiese Tito impaurito ma l’uccello non gli rispose. Rimasero uno o due secondi sospesi nel vuoto senza neanche muoversi. Tito sentì il corpo della gazza precipitare solo in seguito.
«DIANA!» urlò disperato.
Lei si mise in posizione, roteò su se stessa e mirò dritta dritta al terreno ma non aprì le ali, si lasciò attrarre dalla gravità.
Ella iniziava a delinearsi man mano che i due scendevano di quota; adesso era un pallino candido posto nel bel mezzo del verde. «APRI LE ALI!» pregò il topino nascondendo il musetto nelle piume bicromate di Diana. Lei, invece, rideva.
Ora anche i fiori erano ben visibili. «MORIREMO!».
Tito si specchiò negl’ occhi di Ella per quanto fossero vicini a quest’ ultima. «Apri! Apri queste stramaledette ali!>>. Diana non lo ascoltava, manteneva la sua posizione.
Quando furono al punto di schiantarsi le sue ali si dischiusero leggermente ma non si aprirono. Velocemente virò fino a trovarsi parallela all’erba, solo allora le sue ali si spiegarono e presero quota in una piroetta leggiadra.
«DIANA! Mi hai quasi fatto morire di paura!» le urlò Tito, la gazza rise ma non rispose.
«È stato fortissimo! MA NON RIFACCIAMOLO!» squittì eccitata Ella. Diana la teneva per la coda, l’aveva afferrata poco prima di virare. La gazza girò la testa e se la pose sulla schiena. La topina era così terrorizzata che si era messa le zampette sugl’occhi.
«Ella, sei qui sopra per vedere il panorama, no? Non coprirti gli occhi…» Tito le scostò le zampe e Ella vide il tappeto verde, giallo e marrone puntellato di macchiette variopinte. Il vento gli scompigliava i ciuffetti e le orecchie tonde erano come stendardi.
«Quant’è bello da quassù! Sei fortunata a poter volare, Diana!».
«Anche voi state volando, giusto?»
«TITO! Potrai tornare a casa!» esclamò Ella. Tito, per la prima volta da quando era arrivato lì, pensò a quanto quel posto gli avesse insegnato. Nella colonia vicino al torrente non era mai stato molto considerato e così sarebbe stato per sempre ma, nella sua nuova casa, con Ella, si era integrato perfettamente.
Osservò Diana, a cosa era diventata grazie a lui e come lui stesso fosse migliorato grazie a lei e ad Ella.
«Sì, è vero… credo però di poter aspettare un altro po’». Ella si sporse verso Diana, specchiandosi nel suo occhio tondo e azzurro, si guardarono speranzose del futuro.

 

Il tempo passò e ormai Tito si era completamente scordato della famiglia che viveva oltre il torrente. Aveva pensato anche di mandargli, tramite Diana, un messaggio per dirgli tutto quello che serviva.

Cara mamma, caro Ezio. Io sto bene, no, di più! Sto benissimo. Ho molti amici, anche stranieri! Ho una carissima amica, forse anche qualcosa in più di un a semplice amica … comunque io ho deciso di vivere qui. Un giorno tornerò e vi racconterò tutto, fino ad allora vivete tranquilli, io tornerò da voi.

 Aveva pensato mille volte a fare una cosa del genere ma poi, com’era arrivata l’idea, questa se ne andava.
Quel pomeriggio il sole scaldava debolmente il casolare e gli animi dei suoi abitanti.
Le rane e gli altri animali uscirono dal casolare e si diressero nel bosco promettendosi di rincontrarsi l’inverno successivo.
Tito e Diana volavano continuamente e il loro legame era più forte e fermo. Il tempo però non sembrava voler migliorare e le piogge, seppur non fredde come le precedenti, erano comunque frequenti.
La gazza e il topolino volavano sopra la grande cisterna accompagnati da Ella, ancora terrorizzata da quell’altezza. Diana fu costretta a scendere ulteriormente di quota per calmare la topolina e fu allora che videro, sul bordo della grossa cisterna, le rane che si stavano godendo un sole tiepido e pallido. Nella notte, un classico temporale primaverile aveva riempito l’aria di pioggia e fulmini. Saltabuche rimaneva in disparte su una roccia grossa e alta che permetteva di sentire il chiacchiericcio post inverno.
Da quando il Gufo aveva quasi ucciso la povera rana tutto in lei era cambiato. Il suo modo di fare si era ribaltato completamente e ogni cosa era studiata nei minimi dettagli, anche il solo saltellare.
Era divenuta taciturna, ascoltatrice di consigli, poco vispa e prudente a tal punto da non uscire più dal casolare. Ultimamente i suoi amici l’avevano convinta a stare un po’ nell’acqua tiepida della cisterna ma lei si era sistemata su quel sasso e non si era più mossa.
Tito e Ella erano molto preoccupati per lei e Diana, più volte, le offrì un voletto sopra il casolare ma nulla l’aveva riportata alla normalità.
«Tito, che ne dici di andare a fare due chiacchiere con Saltabuche?» chiese Ella, Diana non attese neanche una risposta, con una manovra veloce ma aggraziata percorse tutto il tratto che li divideva dalla cisterna, toccò l’acqua con la punta delle ali e risalì lievemente per atterrare con perfetto equilibrio su un ramo, sopra la testa della rana. Le sue ali adesso erano cosparse di perle traslucide.
«Signora! Allora cosa c’è di nuov …» cercò di dire la gazza ma le sue parole furono immediatamente zittite dalla rana.
«SHHH! Sto ascoltando» gracidò.
«Cosa? Ancora con il gossip? Guarda che lo sanno tutti che le apre ha avuto una storia con …» Ella guardò la gazza con un’espressione impressionata e curiosa mentre Tito, con un’espressione seria fece intuire che doveva star zitta. Diana osservò di nuovo la topina «Te lo dico dopo…».
«Che cosa dicono?» chiese Tito rivolto alla rana.
«Pare ci sia stato un incidente …» gracidò «…al torrente …ieri notte …».
Diana e Ella osservarono Tito. Il suo musetto era lungo e distorto dall’espressione di terrore che l’aveva prevalso; le orecchie erano basse e gli occhi sgranati e lucidi.
«Che tipo di incidente?» chiese il piccolo roditore con voce tremante. Saltabuche gracidò qualcosa e subito gli risposero.
«Il torrente … ha straripato … molti danni …» Tito rimase immobile.
«Lì c’è la mia famiglia …» sussurrò cercando di non pensare al peggio. Diana respirò profondamente e nella sua mente ripercorse i suoi più oscuri tormenti.
Lei aveva patito cose che non avrebbe augurato a nessuno.
«Scusatemi …» sussurrò il topino correndo via, come aveva potuto dimenticarsi di loro? La mamma aveva già sofferto tanto! Ed Ezio? No, doveva tornare.
L’ idea di chiedere a Diana un passaggio gli sembrò una vera cattiveria in quel momento e in più correre gli sembrava un ottimo modo per diminuire la tensione e il nervoso.
Osservò il casolare, poi corse via nel bel mezzo del bosco. Superò di gran velocità le pozze d’acqua e la quercia, quella dove aveva incontrato Diana, la piccola radura e poi … si ricordò di non aver mai esplorato oltre quella distanza. Salì velocemente su un piccolo arbusto contorto e scrutò in alto. Niente, non riusciva a vedere oltre le fronde degli alberi a nord. Maledizione! Pensò tra se.
Iniziò a scendere ma appena si diede lo slancio per saltare giù si sentì afferrare forte: Diana l’aveva afferrato di nuovo per la coda, e per non permettergli di darsela a gambe, era salita di quota.
«Dove credi di andare?» chiese la gazza ancora con lui nel becco.
«Dalla mia famiglia!»
«OTTIMA IDEA! Eh, dimmi, come credi di arrivarci da solo? In mezzo ai pericoli? Con serpenti grandi come vacche? EH? Dai! Sorprendimi!» la gazza gli rispose in modo divertito ma con una punta di aleggiante ramanzina nelle sue parole.
«Oh! Sembri mia madre! “Dove credi di andare” … “hai intenzione di farti ammazzare, Tito?”»
«Bene, almeno andremo d’accordo!» Diana stava volutamente sballottando Tito da una parte all’ altra.
«TU non verrai con me, Diana!» disse il topolino ma la gazza non sembrò molto felice della sua scelta. Il suoi occhi bluastri lo fissarono, poi, con una virata mozzafiato, si diresse dritta verso l’alto. Roteò su se stessa per far girare la testa al topino, arrivarono a più di cinquanta metri d’altezza.
«Puoi ripetermi le tue parole?» Diana si era fermata, adesso rimaneva in posizione nel bel mezzo del cielo. Allungò il collo e costrinse il roditore a guardare dritto sotto di lui. Tito deglutì terrorizzato, il sudore freddo gli faceva venire i brividi. Erano in alto, molto in alto.
«…Non …non … non verrai … D…DIANA! Perciò lasciami andare!» squittì.
«Ok, me l’hai detto tu!» e lo lasciò cadere, mollando la presa dalla coda. Tito precipitò roteando sgraziatamente. Si sentiva un proiettile piccolo, marrone e peloso.
Diana stava scendendo con lui, alla stessa velocità. Il topo la vide affacciarsi alla sua sinistra, continuando a cadere.
«Io ho le ali, Tito. Posso fermare questa caduta. Devi solo dire: “Sì, Diana! Accetto il tuo aiuto!”» disse imitando la sua voce perfettamente.
«No!»
«Tu hai aiutato me, Tito e io aiuterò te! Ma lasciamelo fare!».
Il topo sapeva bene che Diana non l’avrebbe mai lasciato spiaccicare sul freddo terreno ma conosceva bene la testardaggine di una gazza; la osservò. Volava, grazie a lui e proprio per quello erano diventati amici. Che strano, proprio adesso capiva che i loro destini si erano intrecciati indissolubilmente. Diana e Tito; Tito e Diana.
«Sì, Diana!»
«“Sì, Diana”, cosa?»
«Sì, DIANA! HO BISOGNO DEL TUO AIUTO! Adesso però salvami!».
La gazza sbatté le ali, virò un po’ e si pose proprio sotto il topolino. Tito atterrò perfettamente sulla sua schiena. Diana spiegò le ali, sfruttando il vento a suo favore. In un attimo erano di nuovo su nel cielo, a volare in alto.
Il paesaggio scorreva sotto le ali come un fiume verde, il volo fu sereno e lento. Tito sentiva il cuoricino battere forte. La sua famiglia era vicinissima!
«Dov’è Ella?» chiese il topolino che, solo in quel momento, si rese conto della mancanza dell’amica.
«Al casolare, le ho promesso che sarei tornata a prenderla dopo averti recuperato …» spiegò in breve. Adesso stavano sorvolando un bellissimo prato ghermito di cervi e fiori.
«Ma noi non lo faremo, vero?»
«WOW! Come hai fatto a capirlo?».

 
Ok, anche questo capitolo volge al termine e come al solito mi arrabatto per dire qualcosa di dubbia importanza; molto bene, vero??
Tito si è riscoperto, se prima il suo desiderio era quello di tornare a casa adesso vuole continuare a volare ma la famiglia chiama! Come andrà avanti? Qualche idea? (Io non ve lo dico).
Come al solito segnalatemi errori, idee e datemi consigli!
Curiosità: prima di decidere i nomi tutti i personaggi hanno avuto mille versioni, in più me li sognavo pure di notte! PSICOPATIA ALLE STELLE! Evviva!
Un esempio è Ella, questa topolina all’inizio doveva essere un maschio di nome Chicco. Il nome poi è cambiato in Elmo (come il personaggio rosso dei muppet) e infine si è trasformato in una femmina. Ella e Chicco (o Elmo) hanno una sola cosa che è rimasta uguale in entrambe le versioni: il colore!
  Bene, dopo questa rivelazione io vado a finire il nono e decimo e ultimo capitolo! Avverto che sarà un po’ più lungo! Ciao! 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Al torrente ***


~~~~~~~~Capitolo 9- Al torrente

Arrivarono al torrente quando la luna già riluceva nel cielo. Tito rimase sconvolto nel vedere il piccolo nastro d’acqua cristallina che aveva fagocitato tutto.
Adesso la sua grandezza era quadruplicata.
L’acqua era diventata nera e sembrava ribollire creando creste schiumose e scure, il topolino cercò con lo sguardo l’entrata della tana ma si rese ben presto conto che anche quella era stata inghiottita.
All’ improvviso Diana si lanciò a mille verso il muro d’acqua e quasi vi si immerse. Tito non sapeva cosa stava succedendo fino a quando non vide che la gazza manteneva nel becco un topolino piccolo piccolo. Diana l’osservò.
«Tutto bene?» chiese Tito al cucciolo che si lasciò prendere tra le zampe e poggiare sulla schiena di Diana.
«Sì, grazie! Ma … ma dov’è la mia mamma?» guardò giù e vide un ammasso di puntini grigi, marroni e bianchi tutti ammassati in un angolino «OH! È lì!».
«Diana, hai sentito?» la gazza annuì e scese giù piano.
Tito poggiò il topolino sul terreno, poco più giù del torrente nero.
«Vai!» esclamò incitando il piccolo a correre dalla madre. In quel momento, mentre seguiva con lo sguardo il cucciolo.
Gli occhi di Tito furono attratti come calamite, si alzarono e inquadrarono, tra più di cento topi, quelli bruni e brillanti di sua madre.
«Mamma…» sussurrò. Lei si fece largo tra una marea di corpicini pelosi. Emerse piangendo come non mai, tra i singhiozzi abbracciò il cucciolo che credeva avesse perso.
«Tito! Credevo fossi morto!» lo stringeva così forte da non riuscire a respirare. Quell’amore, trasformato in calore e lacrime, commossero anche il topino. Era lì! La sua mamma, la sua dolce, dolcissima mamma. Nella mente di Tito passarono veloci i ricordi di una vita: lei che lo coccolava, lo stringeva, gli sistemava il ciuffetto e lo sbaciucchiava affettuosamente.
Oh mamma, quanto mi sei mancata! Pensò il piccolo ma piangeva troppo forte per dirlo a parole.
Diana osservava la scena con un po’ di malincuore e commovendosi a sua volta.
Quando Tito riuscì a riprendersi notò una cosa sola: dov’era suo fratello?
«Mamma, dov’è Ezio?» chiese e la madre ricominciò a singhiozzare.
«L’ho perso tra la folla …credo sia finito nel torrente…» Diana non attese un attimo, afferrò il topolino e lo pose sulla sua schiena. La gazza piegò le zampe e con due bei battiti d’ali spiccò il volo, erano diretti al torrente.
«Com’è tuo fratello?» chiese Diana.
«È un grosso topo grigio, con il dente sinistro scheggiato e con un pezzo di coda in meno …» spiegò Tito in modo grossolano.
«Cavoli … ma che diamine ha passato?»
«È mio fratello …»
«OTTIMA RISPOSTA! Adesso però voliamo, tuo fratello potrebbe essere ovunque!».
Tito pensò al peggio, Ezio era stato sempre vicino a lui, a tirarlo fuori dai guai talmente tante volte da averne perso il conto. L’ aveva sempre protetto e adesso toccava a lui salvargli la pellaccia.
Il sole era completamente calato e adesso una luce lunare, pallida e eterea, illuminava la superficie dell’acqua ancora tutta gorgogliante.
Percorsero, risalendo il torrente, almeno cinquecento metri ma di Ezio non c’erano tracce.
«Dove sarà?» si chiese la gazza. Tito continuò a osservare quel tremendo turbine di detriti scuri e vorticanti trascinati e sballottati da un torrente rabbioso e schiumante.
Poi, come un veliero che solca il mare in tempesta, emerse un tronco.
Tito riconobbe immediatamente un piccolo ammasso di pelo grigiastro: Ezio, bagnato fradicio.
Il topolino non disse niente, indicò soltanto il fratello.
Diana scese fino ad arrivare a poco meno di venti centimetri dal tronco ma le acque agitate non riuscivano a mantenerlo stabile. Ezio era costantemente bersagliato dalle onde schiumose e nere. Quando si rese conto che in sella alla gazza che gli si era avvicinata c’era Tito quasi cadde per la sorpresa.
«TITO! Sei tu?»
«Sì! Sono vivo! È bello vederti!»
«Credevo fossi morto!» squittì, un masso fece roteare il tronco su se stesso.
«Ehm … non per mettervi fretta ma credo, credo solo, che dovreste darvi una mossa!» Tito le diede ragione.
La gazza stava per afferrare Ezio quando un’ombra inconfondibile venne tatuata sull’acqua. Tito alzò lo sguardo di colpo.
«IL GUFO!» esclamò con tutto il fiato che aveva in gola. Diana fu meravigliosamente agile, con una giravolta schivò il grosso rapace ma non fu altrettanto svelta nell’impedirgli di ghermire Ezio.
Com’era piombato sul topo così risalì, sembrava un tornado di piume scure.
«EZIO!»
«Reggiti forte, Tito!» disse la gazza e, con un solo colpo d’ali, partì all’ inseguimento.      
Diana puntò dritto dritto alla cassa toracica del Gufo e, con un avvitamento ben controllato si scagliò sul suo stomaco. La botta fu tale che Tito perse la presa su Diana e, contemporaneamente a Ezio, precipitò. I due topi si strinsero uno con l’altro mentre la gazza, ancora scombussolata dall’urto, volava sgraziatamente verso di loro.
«Diana! Sei Stata grande!» esclamò Tito, la gazza stava ricominciando a riprendersi.
«Basta complimenti, cercate di avvicinarvi…» spiegò ma proprio mentre la gazza stava per afferrarli con le zampe il Gufo ricomparve. Colpì Diana sulla parte destra del corpo.
I due roditori videro l’uccello rotolare a terra come un peso morto.
Tito e Ezio ricaddero tra le fronde di un albero. Non attesero un secondo, scesero un po’ zoppicanti e cercarono di raggiungere l’amica.
Tito la vide poco distante dal sottobosco, con il corpo ripiegato verso sinistra e la ferita provocata dal Gufo ben in vista: un lungo taglio sanguinava sulla destra ma non le aveva impedito di muovere l’ala.
«DIANA! DIANA, VIENI!» urlò il topo marroncino cercando di non uscire dai confini del bosco. La gazza si alzò, cercando di non zoppicare e costatando che le sue ali erano ancora in grado di volare.  
«TI sei fatta male?» chiese Ezio osservando la ferita.
«Tu devi essere un genio dell’ovvio! Ezio, giusto?» chiese. Tito sapeva che la sua amica scherzava ma Ezio sembrò irritato.
«Simpatica la tua amica…» commentò sarcastico mentre Diana cercava il Gufo nel cielo puntinato di stelle argentee.
«Tito, vai con tuo fratello, ci vediamo al pino, ok?».
«Cosa? Che vuoi fare? Sei matta!?».
Diana osservò il piccolo roditore, grazie a lui lei volava, rideva, esplorava ed era diventata una vera gazza. Era libera, come l’aria, come quel semplice venticello che le permetteva di staccarsi da terra e di vivere!
Un topolino così piccolo era stato capace di liberarla dal filo spinato e di donarle speranza, quella speranza che aveva perso quel giorno. Il vento le aveva portato via i genitori, il cuore.
Il vento e un topolino glielo avevano ridato.
La gazza si abbassò all’altezza dell’amico, l’osservo con gli occhi blu pieni di dolce affetto.
«Sai cosa si dice di noi gazze, Tito?» il topolino fece un’espressione corrucciata «Che siamo attratte da ciò che luccica …» Tito sembrò ancora più confuso «…Ma a me non è mai successo…».
«Diana! Che cavolo stai dicendo?».
«Dico, Tito che tu hai visto un po’ di luce in me … un luccichio, è vero, ma l’hai visto! Lascia che adesso ti permetta di dimostrarti che non ti sei sbagliato …».
Tito le si avvicinò di colpo «Che vuol dire?» chiese, era decisamente agitato, si stava preoccupando.
«Vuol dire che tu hai il cuore di una gazza! Voglio dimostrarti di avere il coraggio che hai tu!».
Le sue ali si erano spiegate ed era volata via con un paio di battiti, Tito si sentì cadere il mondo addosso.
«DIANA! Ti rendi conto, vero? IO SONO UN TOPO!»
«Il più grande di tutti!» e proseguì il suo volo con estrema attenzione.
 
Tito vide l’enorme figura del Gufo uscire nuovamente dagli alberi.
Il rapace volava guardingo, gli occhi come fari puntati sul terreno. Vide qualcosa e, proprio mentre si preparava ad attaccare, Diana gli piombò addosso con un Crack assordante, facendolo cadere pesantemente tra la boscaglia.
Silenzio. Solo pioggia e tuoni.
Ezio sembrava già pronto ad esultare ma Tito rimase con il naso all’ insù ed eretto sulle zampe posteriori.
Wrum! Come una scheggia il Gufo uscì dalla boscaglia come un proiettile, era pronto a ghermire Diana. Aveva il becco storto e le piume della coda accartocciate e malaticce.
La gazza, molto più leggere e agile di lui, iniziò a salire, salire e salire. Tito ed Ezio dovettero strizzare gli occhi per vederla.
Poi successe qualcosa di inaspettato. Proprio come aveva già fatto con Tito, Diana chiuse le ali e si lanciò nel vuoto, questa volta non puntò a terra ma al Gufo.
Questi non sembrava intimorito, anzi, portò le zampe tozze e forti verso la gazza, ritte davanti al muso.
Diana riaprì le ali a pochi centimetri dal rapace e gli conficcò una zampa nell’ occhio.
Tito vide del sangue schizzare via e brillare di un bel color cremisi sotto i raggi lunari.
Un tuono solenne e un lampo fortissimo.
Dopo vi fu solo un mischiarsi di penne scure e chiare.
Lentamente i due combattenti caddero a terra. Tito capì che entrambi gli uccelli erano finiti nel torrente, ormai in piena.
«DIANA!» urlò.
Dall’acqua nera e vorticante uscì il Gufo. Non aveva più un occhio, una delle zampe era penzoloni. Fece pochi metri e poi ricadde sul terreno, la lotta gli aveva rotto un ala.
Tito attese e attese di vedere Diana volargli incontro ma ciò non accadde, con un paio di balzi superò la boscaglia e corse verso l’argine straripato del torrente, ancora impetuoso.
Non vi era traccia di Diana, le piume che galleggiavano sull’acqua sembravano silenziosi petali, Tito ne colse una.
«Tutto bene?» chiese Ezio affacciandosi, dietro di lui c’era l’intera colonia.
  Si diresse al pino, come concordato e attese ancora e ancora. Fino all’alba.
Il sole stava spuntando da dietro le montagne illuminando di luce gialla e calda tutto ciò che le capitava a tiro. Le ombre lunghe e dinoccolate, il verde del bosco e la stessa aria erano diventati membri del bosco in un tutt’uno che sembra eterno.
Il tutto era etereo e gli uccellini iniziarono a cinguettare. Diana non si vide.
«Tito … io …» Ezio provò a parlargli ma il fratello lasciò la piuma alle radici del pino e corse via. 


 

Ok, lo so che non dovevo pubblicare così presto ma ho già finito di scrivere tutto e voglio finalmente vedere questa mia storia conclusa.
Siamo quasi alla fine! Sì, avete capito bene!
Capitolo difficile, devo ammetterlo. Io stessa sono molto affezionata ai miei personaggi ma qui si spiega il perché ho voluto inserire la voce “triste” e soprattutto perché il rating è giallo.
Allora, io sono praticamente sconvolta più di voi ma voglio comunque dirvi che tutto era già ben delineato e la scelta è stata fatta per rendere il tutto più maturo. Proprio perché il capitolo è così non metterò la rubrica curiosità. Perdonatemi, vado a piagnucolare sulle mie idee malsane. Ritornando a noi, avete riscontrato errori?
Fatemi sapere! Il prossimo capitolo avrà molti disegni XD

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Capitolo 10
*** Capitolo 10- Vola in alto ***


~~~~~Capitolo 10- vola in alto

Il torrente non tornò normale per giorni e giorni e in quel tempo Tito raccontò di come lui, un topolino inerme, avesse preso il volo e di come Diana avesse offerto il suo cuore ai cieli.
Parlando di ciò si rese conto, da solo, di che cosa era realmente accaduto.
Con sorpresa di Ezio, Tito non rimase a cercare Diana dopo che il torrente aveva ripreso a scorrere tranquillo.
«Devo andare …».
«Ma sei appena tornato!» gli disse il fratello ma Tito si era ben preparato a compiere un lungo viaggio. Dall’alto, quando volava con Diana, aveva visto il torrente che attraversava il bosco e poi, a un certo punto, virava e lo costeggiava.
Sapeva che avrebbe dovuto galleggiare fino a metà percorso, poi camminare lungo un sentiero e infine superare la collina. Da lì avrebbe visto la cisterna e il casolare.
«Lo so, ma ti prometto che tornerò. Io devo andare da Ella …»
«Chi è Ella?»
«È una topolina bianca, mi piace molto…» Ezio lo guardò.
«Capisco … e la gazza? Non vuoi cercarla?»
«Diana? Lei è tornata dalla sua famiglia …» e li su, nel cielo azzurro e bianco, le rondini e le gazze volavano alte. Il vento portava aria calda e profumo di fiori. La terra stava rinascendo e le colline ritornavano a essere gremite di piante e insetti colorati.

 Tito sapeva che la vita, come la primavera, ha un inizio e una fine e che tutti, un giorno, si sarebbero rincontrati.
Anche Ella lo credeva e soffrì terribilmente per la scomparsa dell’unica amica a cui avesse mai raccontato il suo passato. Di come avesse perso i genitori quando era poco più piccola di una ghianda. Le avevano promesso che sarebbero tornati, per portarle il cibo, ma non successe.
Odiava l’idea che non avrebbe più volato con Diana. 
Il tempo passò e la vita continuò a scorrere come sempre.
Saltabuche tornò ad essere la solita rana spensierata, con qualche acciacco ma sempre sorridente.
«OI! È belo vederte felice!» disse Pablo che, da quel momento, non parlò più spagnolo.
Ezio, lui e sua madre, rimasero lontani ma con il cuore rivolto sempre a quel piccolo topolino marroncino e combina guai con la voglia di volare.
Tito crebbe e con lui anche il suo cuore e il suo spirito.
 Il topolino si fermava di tanto in tanto alla quercia e altrettanto spesso alla piccola radura.
Rimaneva in silenzio e ascoltava il vento.
Alla sera, ogni giorno, fino alla fine dei suoi giorni, saliva sul tetto del casolare e osservava gli uccelli, soprattutto le gazze.
Più di una volta fu convinto di vedere uno di quei pennuti salutarlo.
La notte, con dei buffi disegni sulla terra, raccontava di come e cosa gli era accaduto ai più piccolini che lo ascoltavano ammaliati.
Il legame con Ella portò Tito a diventare padre, poi nonno e bisnonno.
Il topolino raccontò la sua storia ai suoi figli e nipoti e loro fecero lo stesso con i loro discendenti.
Quando anche per Tito arrivò il momento di andare nel mondo delle nuvole la sua storia non lo seguì. Quella favola, che sembrava un’assurdità, venne raccontata e ascoltata per molto, molto tempo …

 

Diana volava, in alto, in un mare di nuvole bianche. Dritto di fronte a lei c’era una luce, un sole! La gazza non riusciva a capire se fosse l’alba o il tramonto ma si sentiva bene, benissimo!
La ferita sotto l’ala, quella sul fianco destro, non gli doleva e il calore di quella luce le riscaldava l’animo.
Intorno a lei tutto era luce, tutto era calore, tutto era insolitamente bello. Un mondo delle nuvole!
Un bel color arancio pitturava, come in un acquerello, tutte le soffici nubi.
 I raggi irradiavano un mondo tutto luccicante.
Nella mente dell’uccello comparve un collage di ricordi.
La memoria fece riaffiorare i momenti più oscuri della sua vita.

«Mamma! Ho fame!» disse Diana agitando le piccole alucce, nel nido c’erano anche i suoi fratelli: Chicco, Leo e Tommy. Li amava, erano tre grandi rompiscatole ma li amava.
La bella figura della Mamma, lunga e longilinea si contrapponeva a quella del Papà, alto ma robusto come un rapace.
«Lo so, tesoro … ma devi essere paziente, dobbiamo aspettare che il vento cambi. Non possiamo volare con il vento così forte». Disse la Mamma mentre anche lei, come il Papà, si era girata ad osservare il villaggio umano. Da qualche giorno le enormi colonne grigie che gli uomini avevano costruito si erano risvegliate e adesso emettevano del fumo denso e scuro.
I quattro piccoli non mangiavano da giorni e entrambi i genitori si stavano preoccupando.
«Ma Mamma, anche io ho fame!» specificò Chicco.
«Anch’io» disse Leo, seguito a ruota da Tommy e Diana. I due genitori si osservarono nuovamente. I loro cuccioli rischiavano molto.
«Va bene, vostro padre andrà a cercare qualche bel grosso bruco, ok?» chiese e i piccoli cinguettarono per la felicità.
«Mamma, possiamo andare con Papà?» chiesero tutt’insieme i pulcini, ad eccezione di Diana.
«Cosa? NO!»
«Cara, ormai sono grandi, devono iniziare a cavarsela da soli…».
La Mamma non sembrava molto propensa all’ idea ma dopotutto i suoi cuccioli stavano crescendo e dovevano pur capire cosa li aspettasse oltre il piccolo muro che li separava dal bosco.
Il loro albero era sul ciglio di una piccola stradina acciottolata, a ridosso di un muretto alto solo un paio di metri ma pericolosamente sormontato da un bel po’ di filo spinato e poco distante da un boschetto fitto fitto. Era un posticino ben messo per cacciare e mangiare ma comunque la Mamma si preoccupava per un non nulla.
«Va bene, ma verrò anch’ io … voglio che rimaniate vicino a me … volate sempre in linea retta e niente acrobazie, chiaro?».
«Sì!» pigolarono i pulcini e ad uno ad uno iniziarono ad uscire dal nido e lanciarsi giù dall’albero.
Prima si buttò Leo, il più temerario dei tre, poi Chicco e infine Tommy. Il Papà volteggiava in aria e li controllava durante le piccole manovre ancora un po’ rozze.
«Diana, tocca a te!» la piccola gazza, con la codina ancora non del tutto formata, guardò in basso. Le vennero le vertigini ma non lo disse. Cercò di aprire le ali ma tremava troppo. Le richiuse e si lanciò di nuovo nel suo piccolo nido. «TESORO? Tutto bene?» chiese la madre.
«NO, Mamma io non so volare, andate voi! Io vi aspetto qui!»
«Oh, Diana! È normale, io e te resteremo qui mentre papà e i ragazzi vanno a prendere un po’ di cibo» la Mamma la coccolò pulendola con il becco.
«Mamma vai anche tu con loro! Io aspetterò qui. Promesso!».
«Sei sicura, Diana?» e la piccola annuì, incurante di quello che le sarebbe accaduto di lì a pochi giorni.
I suoi genitori non tornarono più, tantomeno i suoi fratelli. Attese per giorni e dormì sola per molte notti. Le gazze che vivevano sui rami sopra di lei parlavano del fumo nero come un assassino silenzioso che aveva ucciso molti animali.
Diana, all’ alba del terzo giorno sentì la gazza più grande farfugliare agl’altri suoi simili.
«Argo è morto, con la sua compagna e tutti i suoi cuccioli …» Diana trasalì, Argo era il nome del suo Papà.
Era così che era rimasta sola, così tanto che un giorno, ormai sull’ orlo della pazzia per la fame, scese dall’albero. Mangiava ciò che trovava, cercava di volare, con una vaga speranza che, proprio volando, avrebbe rivisto i suoi genitori.
Tommy e Leo le avevano raccontato che nel bosco c’erano tanti animali e tanti amici da conoscere e che, un giorno, sarebbero andati lì. Chicco invece era incuriosito dalla città ed era stato tradito proprio da lei.
Per ricordare i fratelli, quando ormai la sua coda era diventata lunga e bella, Diana provò a saltare il muro e il vento la incastonò nel filo spinato. Il temporale di quella notte infine la trascinò nel bosco, come una pianta di erba mobile nel deserto. Il resto, lo sapevano tutti.

Adesso però, tutto quel dolore che le avvolgeva il cuore, il cuore di una gazza, non la corrodeva più. Volava in un paradiso fatto di sola luce e pace.
Dal piccolo sole all’orizzonte emersero strane figure, prima ombre, poi meravigliosi corpi longilinei, eleganti sotto quella luce così calda.
Diana distinse i becchi grigi, le piume nere che risplendevano di sfumature di blu e verde. Non ci credeva… fu allora che capì.
Vide la Mamma, la sua Mamma. Così bella, così luminosa in quel momento. Le nuvole adesso risplendevano di un color rosa pallido, intorno a lei però c’era un aura bellissima. Anche lei era felice.
Vide suo padre, anche lui luminoso, con la lunga coda e le ali ad accogliere un vento leggiadro.
Entrambi i genitori le volavano intorno, come a volerla cingere e poi arrivarono i suoi fratelli.
Tommy, Leo e Chicco le volarono incontro e, una volta vicino, la coccolarono sfregandosi vicino a lei, toccandosi testa contro testa e sfiorandosi le piume delle ali.
«TU VOLI!» esclamò Tommy.
«Sì! Voi, voi …oh! Che bello vedervi!» la Mamma e il Papà la guardavano con orgoglio.
«Sei diventata così bella …» disse suo padre.
« E sei diventata veramente una brava gazza, sei stata un ‘ottima amica per quel topolino …» sua madre aveva gli occhi lucidi.
«Come sapete di Tito?»
«Noi da qui vediamo tutto!» esclamò Tommy.
«Sentiamo tutto!» aggiunse Leo.
«E sappiamo tutto ciò che provi!» specificò Chicco.
Diana non aveva più dubbi, quella sensazione, quel bel calore che sentiva intorno al cuore e quella pace, quel silenzio, quella meravigliosa sensazione di pura e vera felicità … era qualcosa di molto brutto eppure così stranamente pacifico.
«Sono morta, vero?».
Tutti si guardarono l’ uno negl’occhi degl’altri.
«Diana, ti ricordi quella canzoncina che cantavamo?»
«Sì, certo!».
Non ci vollero parole, Diana vide la sua famiglia volare verso il sole, che non era un sole, ma una splendente luce eterna. Lì seguì. Era pace, pura e semplice.

Vola in alto,
oltre le cime delle montagne,
lungo la strada e oltre la vita.
Ti sto aspettando anch’io!
Chiudi gli occhi
Dimmi cosa vedi.
O giovane cuore …
Corri e vola
E io vivrò oltre le ere
e vedrò con te il mondo.
Anche se non sai volare
Chiudi gli occhi e sognalo per me,
o giovane cuore tu puoi vivere di speranze.
Il tuo sogno sarà volare,
il tuo incubo sarà atterrare.
Segui il sole,
segui l’amore,
segui solo ciò che ti indica il cuore.

E da giù, oltre le nuvole, Diana poté vedere un topolino, piccolo, marrone, con un gran sorriso. In quel momento la gazza capì che lei avrebbe vissuto con lui, grazie al suo amore e ai suoi racconti.







 


Bene, il capitolo è finito e con esso anche la mia storia.
Adesso che avete un quadro completo spero che possiate trarne le conclusioni. Ho amato tanto scrivere quest’idea, l’ho vista crescere!
Grazie a Lezel, che recensisce in modo perfetto! E scrive benissimo!
Grazie anche a Disorder_Alice, lei mi ha seguito sempre, dall’ inizio di questo racconto.
Grazie a Alessandroago_94 che ha letto ogni capitolo, proprio quando usciva!
Grazie ad Honey e Lua, le mie tartarughe, maledettamente utili nei momenti di stress.
Grazie!
Qui sopra ho voluto chiudere con una copertina semplice semplice. Spero che la storia vi sia piaciuta!

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