La lunga strada verso casa {inverno} di EffieSamadhi (/viewuser.php?uid=98042)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 | Ma chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo. ***
Capitolo 2: *** 2 | Siamo sotto lo stesso cielo, e la notte è vuota per me tanto quanto lo è per te. ***
Capitolo 3: *** 3 | Mio nonno diceva sempre: una bugia a fin di bene vale più di cinquecento verità. ***
Capitolo 4: *** 4 | C'è qualcosa che hai dimenticato di dirmi? ***
Capitolo 5: *** 5 | Un uomo non deve morire per andare all'inferno. ***
Capitolo 6: *** 6 | Dimentica l'amore, e forse anche il dolore passerà. Dimentica le cose belle, e tutto il male, sai, di colpo sparirà. ***
Capitolo 7: *** 7 | 'Bella mattinata. Poseidone benedice il nostro viaggio.' 'A volte gli dei ti benedicono la mattina e ti maledicono nel pomeriggio.' ***
Capitolo 8: *** 8 | Non ricordo niente di quello che è stato, ricordo solo che ero innamorato. ***
Capitolo 9: *** 9 | Rimpianti e rimorsi sono la stessa cosa. ***
Capitolo 10: *** 10 | Questi eravamo noi una volta. Stava piovendo, e i miei erano usciti in macchina. Ai tuoi cos'è successo? La notte ti sento piangere. Sogni i tuoi genitori? E' per questo che distruggi tutto, e mi ***
Capitolo 11: *** 11 | Se nessuno ti vede, allora nessuno sa. ***
Capitolo 12: *** 12 | Dove siamo? Che cosa diavolo sta succedendo? ***
Capitolo 13: *** 13 | Il mio cuore dice una cosa, il cervello ne dice un'altra. Non è facile, no, mettere d'accordo cuore e cervello, per me. I miei non si danno neanche del tu. ***
Capitolo 14: *** 14 | Giorno uno, giorno uno, ricominciare da capo. ***
Capitolo 15: *** 15 | La carne è debole. Solo l'anima è immortale, e la tua appartiene a me. ***
Capitolo 16: *** 16 | Immagino che adesso dipenda da me: devo correre il rischio, o soltanto sorridere? ***
Capitolo 17: *** 17 | L'inferno è vuoto, e tutti i demoni sono qui. ***
Capitolo 18: *** 18 | Sono l'elefante, che posso fare, inchiodato al suolo e a questo amore. ***
Capitolo 19: *** 19 | Eravamo un famiglia. Come ha potuto rompersi e dividersi e ora siamo uno contro l'altro, ognuno fa ombra all'altro? Come abbiamo fatto a perdere il bene che ci era stato dato, lasciarlo scivolare ***
Capitolo 1 *** 1 | Ma chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo. ***
La lunga strada verso casa - 1
Carissimi
lettori di “Portagioie
di tristezza”,
immagino
di dovervi una confessione. Nello scrivere quel fatidico 'capitolo
21', era mia precisa intenzione ferire ogni vostra speranza e
mutilare ogni vostro sogno di lieto fine – non perché
improvvisamente sia venuto meno in me lo spirito romantico, ma
semplicemente perché cercavo disperatamente una ragione per scrivere
ancora di Shannon e Daria – perché sicuramente quella storia non
sarebbe potuta andare avanti all'infinito, benché la sottoscritta
continui ad avere una folle voglia di scrivere di loro.
Confesso
di aver scritto di proposito quel finale, confesso di aver
intenzionalmente spezzato il cuore di Shannon, confesso di
aver volontariamente esposto Daria alla gogna, facendovela a
volte odiare, a volte compatire, e a volte (poche) comprendere. Forse
non vi consolerà sapere che tutto ciò che è stato fatto è stato
fatto in funzione di una nuova storia, ma in un certo senso consola
me, che posso tornare a scrivere per persone che mi hanno fatta
sentire veramente apprezzata.
Perciò,
prima di iniziare, vorrei prendermi un minuto per ringraziare
ciascuna delle persone che ha inserito “Portagioie di tristezza”
in una delle tre liste – storie preferite, storie da ricordare,
storie seguite.
Grazie
7taras, Aandyy, after rain, Aine Walsh,
alessandra black, alice 26, Amyvitamia,
Arichan4334, arula92, BabyIWillLoveYouForever,
Bdb, BlumeinderNacht, Butterfly Dream, Capino,
carly cec, Ciambellina, cice ska, Cimma,
Closer to the edge, cris leto, CutePoison83,
Cuup, DadaOttantotto, dama galadriel, Echelon26,
EchelonHR, echelonisfaith, Faith h2o, fede
lea90, FediPan, Floki97, Francesx, Fra_BVB
Echelon Punk, Fuckthishit, GB Echelon, GiuEchelon3,
gradina99, Green Arrow, guardacomemidiverto,
hillarysuellen, INGLION, JessyJoy, Kamira,
kari87, katherineheat, katvil, LexieEchelonMF,
LightCross, LittleDevil98, Love_in_London_night,
LysergicAcid, MarsAlbe, MartyRudolf, melany987,
meryj, MichelleEarth, Mikal095, miky 483,
Mimmi Windsor, miriam504, miss nothing,
MissGiorgi, Miyul1976, MolokoVellocet,
MoulinRouge89, Muty, Mwoshi, nikkei,
Ninriel, nuria elena, opticalspring,
piratessa93, Pirilla, Romancer9, saraechelon81,
Scarlett La Spring, Shanimalrules, Silvia e Aurora,
sleepingwithghosts, so far away, stefaniapisani,
strangeronmars, SunshinePol, Tandla,
TheBlackStar, Titta91, vahu, vale96, vale
mars, Venice93, vittoriabp, Xia1101,
zetavengeance, _giumuddafuggaz, _Loki,
echelon_.
E poi,
naturalmente, un ringraziamento va anche a Kath Redford, che è
diventata una dei miei trailermaker preferiti e sarà da me torturata
nei secoli dei secoli, amen. I suoi (stupendi) lavori sono ammirabili
sul gruppo Facebook Trailer
su richiesta :D, dove potete trovare anche il trailer di
“Portagioie di tristezza”.
E un
ultimo, enorme ringraziamento va anche a Kashmir, che
quattro anni fa, passandomi il link di questo sito, sicuramente non
immaginava di aver appena creato un mostro.
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo primo
Ma chi ha iniziato a
morire non smette mai di farlo.1
Los Angeles, 2 gennaio
2014
«Che cosa sta succedendo, Jay?»
Jared mentirebbe, se
dicesse che quella domanda lo coglie impreparato: lui e Shannon sono
tornati a casa da poco più di dieci giorni e, forse incapaci di
restare soli dopo la frenesia del tour e il casino di cui si sono
circondati negli ultimi mesi, hanno piantato le tende a casa della
madre, raccontandole di non aver voglia di lasciarla sola durante le
feste. Ma se sono due uomini intelligenti e con la testa ben piantata
sulle spalle, è ovvio che da qualcuno devono aver preso: Constance
si è presa tempo, li ha osservati di nascosto, riuscendo a non
scoprire mai le sue carte, e alla fine ha capito che quei due
nascondono qualcosa. Tuttavia, per qualche strana ragione che riesce
ad identificare solo come innata testardaggine, l'uomo tenta la
strada dell'indifferenza. «Sto lavando i piatti, mamma» risponde
facendo spallucce. Non si volta a guardarla, consapevole che gli
occhi lo tradirebbero.
«Sei un ottimo attore, ma
io resto tua madre.» Si appoggia con la schiena al mobile,
incrociando le braccia davanti al petto. «Che cosa sta succedendo,
Jay?» ripete, abbassando ancora la voce. «C'è qualcosa che non mi
dite, e tra noi non ci sono mai stati segreti.»
Jared
sciacqua il bicchiere che tiene tra le mani, indugia su un paio di
forchette e poi decide di lasciar perdere. Appoggia le mani sul bordo
del lavandino, sostenendo per un istante il peso del proprio corpo
con le braccia. Attraverso la finestra sbircia in giardino, dove
Shannon sta giocando con il proprio cane2:
per ovvie ragioni non può portarlo con sé quando sono in tour,
perciò ad ogni ritorno passa ore
a recuperare il tempo perduto. «Che cosa vuoi sapere?»
«Tutto
quello che puoi dirmi. Perché tuo fratello è così giù di morale,
per esempio. E di conseguenza, perché lo tieni d'occhio come se
avessi paura di vederlo sprofondare nel pavimento ad ogni minuto che
passa.» Jared trova finalmente il coraggio di voltarsi per guardarla
negli occhi, e nel suo sguardo legge la sincera preoccupazione di una
madre che non vuole più veder soffrire i propri figli, per quanto
cresciuti e pronti a fare le loro esperienze. «So che c'è qualcosa
che non va, ma non posso aiutarvi se non mi dici nulla.»
«Io non ho bisogno di
aiuto, mamma. Io sto bene.» Guarda di nuovo in giardino: Shannon sta
controllando il cellulare, gesto che ormai ripete ad intervalli
regolari di trenta minuti. «Ma lui...» inizia, interrompendosi
subito dopo. La voce gli si è incrinata come mai è successo prima,
e prima di continuare deve trarre un respiro molto profondo. «Lui
non sta bene. Sono preoccupato per lui.»
«Cos'è successo?»
«Ha conosciuto una
ragazza.»
«Tutto qui? E da quando
conoscere una ragazza vi spaventa?» replica lei con un sorriso. «Chi
è? La conosco?»
Jared scuote la testa.
«L'ha conosciuta in Italia, all'inizio di novembre. Si sono sentiti
per un po', circa un mese, e poi lei è sparita.»
«Sparita...
in che senso?»
«Lo ha lasciato e gli ha
chiesto di non cercarla più.»
«Lo
ha... lasciato?
Stavano insieme?»
«Mamma, è una storia un
po' complicata da raccontare...»
«Beh, io ho tempo.»
Un po' riluttante a
ricordare tutta la storia che Shannon ha deciso di seppellire e che
gli ha chiesto di dimenticare, Jared guarda ancora una volta fuori,
per assicurarsi che il fratello sia impegnato e non lo possa così
soprendere nell'atto di fare la spia. Torna ad immergere le mani
nell'acqua saponata, iniziando a raccontare le cose così come le
conosce lui, certo che alla fine del racconto Constance saprà fargli
dono di un ottimo consiglio.
*
Torino, 2 gennaio 2014
Danilo bussa alla porta
della camera della figlia, aspettando il suo permesso prima di
entrare. «Si può? Volevo chiederti... vuoi che ti accompagni?
Sembra che voglia mettersi a nevicare, e la strada fino a casa di
Stefano è lunga.»
«Non ti preoccupare, mi
viene a prendere qui» risponde Francesca, finendo di chiudere la zip
dello stivale. «Sono contenta che tu non abbia dato di matto quando
l'ho portato qui, sai? Pensavo che la cosa ti avrebbe dato fastidio.»
«Mi ha solo sorpreso un
po', ma... no, infastidirmi mai. È la vostra vita, in fondo. Basta
che tu faccia attenzione e che ti ricordi che per ogni cosa siamo
qui, e a me andrà bene.» Indugia per un istante sulla porta, poi si
fa avanti. «Posso... posso sedermi un attimo? Ti vorrei parlare di
una cosa.»
Francesca
si sposta un po' per fargli spazio sul letto, infilandosi l'altro
stivale. «Se vuoi farmi un discorso di tipo intimo,
non ti preoccupare. Ho già parlato con Daria, mi ha fatto una
paternale migliore di quella che mi potresti fare tu.» Per ovvie
ragioni non ha raccontato al padre proprio tutto
di Stefano, ma sa che tirando in ballo la sorella eviterà ad
entrambi un profondo imbarazzo.
«No, no, io... sì,
insomma, tua sorella mi aveva detto che ti ha spiegato tutto lei,
quindi... sono... sono abbastanza tranquillo. In realtà io... io
volevo parlare proprio di Daria.»
«Ah» è il commento di
Francesca, che per non essere costretta a mantenere il contatto
visivo si alza e va alla scrivania, iniziando a frugare nel
portagioie alla ricerca degli orecchini giusti da indossare. «Perché
vuoi parlare di Daria? È successo qualcosa?»
«Beh, in verità speravo
che questo me lo potessi dire tu. Ultimamente è... non lo so, la
vedo strana. Non so, forse è soltanto una mia impressione, ma...
ogni tanto mi sembra triste, come se qualcosa stesse... la stesse
divorando dentro. E allora sai, mi chiedevo se... beh, se magari con
te avesse parlato di qualcosa. In fondo siete sorelle, ha sempre
avuto più confidenza con te che con me.»
Francesca si volta,
indossando uno degli orecchini scelti. «No, a me non ha detto
niente. Insomma, non è successo nulla di preoccupante, che io
sappia. Non la vedo neanche così giù di morale, se devo dire il
vero. Lei è... lei è Daria, ecco.» Indossa anche l'altro
orecchino. «Forse pensi che sia giù di morale perché sono le feste
di Natale, e lei nelle feste è sempre stata qui. Sai, tipo... non
so, pensi che sia triste perché non è qui.»
Danilo scuote la testa,
tenendo lo sguardo basso e aggrappandosi al bordo del materasso con
entrambe le mani. «No, è... è da molto più tempo che la vedo
così. Da quando è tornata da Parigi. È diversa, è... non so
nemmeno come spiegarmi, accidenti. Non mi sembra la solita, tutto
qui. Magari è successo qualcosa in quel periodo. Nemmeno allora ti
ha detto niente?»
«No, non che mi ricordi. E
se fosse successo qualcosa di importante me lo ricorderei. Magari è
soltanto un po' stressata, no? Sai, tra il trasloco, il lavoro...
capita a tutti di essere un po' stanchi, no?»
«Ma sì, certo... ma sì,
probabilmente mi sono sbagliato. Forse è soltanto un po' sotto
pressione.» Si alza e posa un bacio sulla fronte della figlia
minore, sorridendole. «Scusa se ti ho disturbato, è solo che... io
mi preoccupo per voi, lo sai.»
«E noi siamo felici che tu
lo faccia» sorride lei. Segue la sua ritirata e gli chiude la porta
alle spalle, e immediatamente il sorriso la abbandona. È passato un
mese da quando Daria si è costretta a rinunciare a Shannon, e anche
se non ne hanno mai parlato apertamente, sa che la decisione la fa
ancora soffrire come un cane. Lei ha saputo il necessario da Alice, e
per un mese si è trattenuta a stento dall'urlare in faccia alla
sorella che essere la maggiore non la rende la più saggia, perché
soltanto una stolta avrebbe dato un calcio alla felicità come ha
fatto lei. Si è costretta a tacere, sperando che il segreto potesse
essere annegato dall'indifferenza, ma l'incursione del padre le
dimostra che i segreti non muoiono mai.
Il campanello di casa
suona, distraendola dai suoi pensieri, e suo malgrado si costringe ad
uscire con il sorriso stampato in volto, mentre il cuore somiglia
sempre più ad un oceano in tempesta.
*
Los Angeles, 2 gennaio
2014
«E
non l'ha cercata? Non ha fatto il diavolo a quattro pur di riaverla
con sé?» domanda Constance, sgranando gli occhi per la sorpresa, ma
tenendo sempre la voce bassa. Dov'è
finito il mio bambino, quello che combatteva per ciò che desiderava
fino allo stremo delle forze?
«Sono
preoccupato per lui» sussurra Jared. «Non si è mai comportato
così. Lui... lui è Shannon, ecco. Lui è uno schiacciasassi, è uno
che non si ferma mai davanti a niente. Lui non è così, lui non è
un...» Si blocca prima di dire la parola che stava pensando. Non può
sopportare di ridurre il fratello ad una simile descrizione.
«Stavi
per dire debole?»
«Lo
so che i concetti di forza e debolezza sono relativi, ma è
innegabile che lui sia sempre stato uno forte.
Niente è mai riuscito ad abbatterlo.»
«Proprio
niente
non direi» lo corregge Constance, abbassando lo sguardo. Jared la
imita, ricordando quel periodo buio e nero di molti anni prima,
quell'abisso in cui anche loro sono precipitati, quel lunghissimo
anno in cui nessuno dei tre sentiva di poter tornare a vedere la
luce. «Forse ha solo trovato una persona più forte di lui. C'è
sempre qualcuno più forte di noi, là fuori.»
«Non
Daria» ribatte lui, voltandosi a guardarla. «Insomma, lei non...
lei non sembrava affatto una persona forte. Lei sembrava... sembrava
sempre così fragile. Personalmente, la prima volta che l'ho
incontrata ho creduto che si sarebbe dissolta se solo l'avessi
guardata.»
«Ci sono persone che sono
molto brave a dissimulare il loro vero io. Tu sei un attore, questo
dovresti saperlo.»
«Lo
so, però... non lo so, forse non riesco ad accettare che qualcosa
possa sconfiggerlo. È il mio fratello maggiore, no? L'ho sempre
visto come un'icona, un modello, un eroe! È come se Lex Luthor
riuscisse finalmente ad uccidere Superman. È impossibile da credere,
e la sola idea fa male da
morire.»
«Che cosa ne dice lui?
Insomma, come sta affrontando la situazione?»
«Non dice nulla. E non fa
nulla. Tranne controllare il cellulare ogni mezz'ora per vedere se
lei lo ha cercato. So che lo fa, ma lui non lo ammetterebbe nemmeno
sotto tortura.»
«Chi è che non farebbe
cosa sotto tortura?» Presi dalla conversazione, entrambi si sono
dimenticati di controllare il giardino, e Shannon li sorprende
insieme proprio sul finire dell'ultima frase.
Per fortuna Constance ha
sempre coltivato l'arte dell'improvvisazione, e con un sorriso riesce
a salvare la situazione. «Tuo fratello è sempre il solito. Dice che
non inizierà ad usare la lavastoviglie nemmeno sotto tortura, ma
quando avrà l'artrite correrà da me a cercare conforto e io mi
divertirò da morire a dire 'Te l'avevo detto'. Com'è il tempo
fuori?»
«Non così male. Si è
alzato un po' di vento, ma siamo ancora nella media. Mi mancava
l'inverno californiano» aggiunge Shannon con un sorriso,
accarezzando la testa del cane, che si è drizzato sulle zampe posteriori
e continua ad annusargli le mani alla ricerca della pallina con cui
stavano giocando poco fa.
«Sapete, mi è proprio
venuta voglia di un gelato» esclama lei all'improvviso, guardando
entrambi i figli.
«Mamma, Natale è passato
da una settimana» le fa notare Jared. «Va bene che siamo nella
terra dell'eterna estate, ma non ti sembra di esagerare?»
«Oh, se non sarà un
gelato sarà un frappé. Comunque ho voglia di andare a fare un giro.
Venite con me? Scommetto che anche Bruce ha voglia di uscire»
aggiunge, accarezzando a sua volta il cane. È stato Shannon ad
andare al canile per sceglierlo, ma è stata lei a decidere il nome,
pretendendo che si chiamasse come quello che secondo lei è uno dei
più grandi musicisti statunitensi. «Quando non ci siete andiamo a
fare un giro in spiaggia quasi tutti i giorni, scommetto che gli
manca da morire. È quasi una settimana che non ci andiamo. Che ne
dite?»
«Se è per fare contento
Bruce...» sorride Shannon, facendo spallucce.
«Jared?»
Jared
intercetta lo sguardo della madre, e quello, unitamente al fatto che
abbia usato il suo nome di battesimo, gli fa capire le vere
intenzioni di Constance: lo ha invitato, ma vuole che rinunci,
dandole così l'opportunità di passare un po' di tempo sola con
Shannon, per tentare di tirargli fuori quelle parole che il fratello
non sarebbe mai tentato di pronunciare in sua presenza. «No, andate
pure senza di me. Io devo chiamare Emma, abbiamo un po' di lavoro da
sbrigare.»
«Poveraccia, non la lasci
in pace nemmeno durante le feste» lo prende in giro Shannon,
spostandosi nell'ingresso per cercare il guinzaglio di Bruce. «L'hai
chiamata anche a Natale?»
«Certo, per farle gli
auguri!» replica Jared, asciugandosi le mani e rivolgendo uno
sguardo d'intesa alla madre, che segue Shannon per infilarsi la
giacca e le scarpe. «Copritevi bene, che gira un sacco d'influenza.
Non voglio convivere con i vostri microbi.»
*
Torino, 2 gennaio 2014
«Daria,
ti devo parlare. Quando hai finito puoi venire un attimo di là?»
Marco scompare nel retro, e io resto come pietrificata. Ti
devo parlare
è una frase pericolosa e carica di significati negativi: quando mai
al Ti
devo parlare
segue qualcosa di buono? Ho visto abbastanza film e letto abbastanza
libri da parlare con cognizione di causa, e sono così certa della
mia teoria che le gambe hanno iniziato a tremare non appena ho
sentito Marco pronunciare quelle tre fatidiche parole. Cerco di
svolgere i miei doveri con la solita calma e concentrazione, ma non è
affatto facile: allo scoccare delle sette spengo le luci, chiudo i
conti, scollego la cassa e volto il cartello da 'Aperto' a 'Chiuso'.
Dopodiché cammino fino al retro, restando ferma sulla porta in
silenzio per qualche minuto con lo sguardo fisso su Marco, quasi come
se non mi andasse di stargli troppo vicina.
Marco è, come Jared, uno
di quegli uomini per cui il tempo sembra scorrere in modo diverso,
più lentamente rispetto al resto del mondo: lo conosco da cinque
anni, e se non fosse stato lui a rivelarmi la sua vera età, nemmeno
in un milione di anni avrei creduto che fosse così vicino alla
soglia dei quaranta. Negli ultimi mesi, però, le preoccupazioni
legate al lavoro – la crisi economica, in generale, e la pigrizia
di Carlotta, in particolare – sembrano averlo allontanato dalla
linea della trentina, quella su cui era assestato ormai da tempo, per
avvicinarlo finalmente alla maturità. «Marco, io ho finito» dico,
consapevole che il mio è praticamente un sussurro strozzato, più
che una frase vera e propria.
Nel sentire la mia voce si
toglie gli occhiali e appoggia i libri che stava esaminando sulla
scrivania, per poi venire verso di me a passo lento. Il primo
pensiero, per quanto lo ritenga impossibile, è che stia per farmi
delle avances. «Daria, io ti devo parlare di una cosa importante. So
che sei una ragazza intelligente, dunque sarà molto più facile
farti capire quello che sto per dire.» Dal tono con cui mi parla,
serio e grave, capisco che posso scartare l'ipotesi che ci stia
provando – ma questo non fa diminuire la mia paura. «Immagino ti
sia accorta che in questo ultimo periodo le cose non sono andate bene
come un tempo.»
«Sì, un lieve calo nelle
vendite c'è stato» rispondo. Non sono un'ingenua, so bene che, un
po' per la crisi e un po' per i nuovi modi di leggere, sempre meno
gente si concede il lusso di un buon libro. «Mi sono accorta che non
vendiamo bene quanto cinque anni fa, ma non mi sembra nemmeno che
siamo sull'orlo del tracollo.» O forse sì?
«Ecco, quello che volevo
dirti è che io ho dovuto prendere una decisione importante. Insomma,
con i guadagni minori e il giro d'affari che cala, io... io non mi
posso più permettere di pagare due stipendi.»
Improvvisamente
mi sento come se mi avessero appena colpito in pieno stomaco con una
palla da demolizione, e non sono sicura di conoscere la legge fisica
che mi permette di stare con i piedi ancorati al terreno nonostante
tutto – né, soprattutto, quella che mi permette di stare ancora in
piedi in
generale.
Non ho bisogno di sentire altro: Marco mi sta licenziando. Mi sta
licenziando, e non posso accettarlo. Non dopo aver lavorato per lui
per cinque anni interi, non dopo aver svolto ogni compito che mi
assegnava, non dopo essermi dimostrata, per sua stessa ammissione,
'la miglior commessa che abbia mai avuto'. Ma soprattutto, mi rode il
fatto che stia licenziando me
invece di Carlotta, la donna più pigra, sciatta e ignorante che
abbia mai conosciuto. «Tu non puoi licenziarmi, Marco» riesco a
dire infine, tenendo il tono basso. «Tu non puoi licenziarmi!»
esplodo subito dopo, incapace di tenermi dentro la rabbia e la
frustrazione. «In
questi ultimi cinque anni non ho fatto che vivere e respirare per
questo posto, ho fatto tutto quello che mi chiedevi, ho fatto un
mucchio di straordinari senza mai chiederti nulla, ho coperto i turni
più assurdi, ti ho sostituito alle fiere, ti tengo in ordine
l'archivio, ci manca solo che ti lavi le mutande! E mi licenzi per
tenerti Carlotta? Quella non sa nemmeno scrivere il suo nome, per la
miseria!» Adesso sto deliberatamente urlando, ma non mi importa: ho
passato tutta la vita a lasciarmi scivolare addosso dolori e
ingiustizie, e ne sono stufa. E poi ho sempre considerato Marco come
un amico, oltre che un capo, e non posso credere di aver riposto
tanto male la mia fiducia... proprio io, che impiego così tanto a
concederla. «No, sai cosa ti dico? Tu non mi licenzi. Me ne...»
Non faccio in tempo a
finire la frase che mi afferra le spalle, trattenendomi davanti a
lui. «Ma che hai capito? Dio, volevo farti stare un po' sulle spine,
ma tu ci sei cascata con tutte le scarpe... è Carlotta quella che ho
licenziato. Carlotta, capito?»
«C-carlotta?» balbetto,
senza capire.
«Ho licenziato Carlotta»
ripete, a voce più bassa. «Scusa, volevo prenderti in giro, ma non
credevo che la prendessi così...»
«Scemo!»
esclamo, spingendolo via. «Ti sembrano scherzi da fare?» aggiungo,
dandogli un altro spintone. E lui che fa? Lui ride.
Ride, e il suo volto torna ad essere quello del Marco che cinque anni
fa mi ha assunto, quello del Marco spensierato e allegro che mi ha
sempre trattata da pari. «Mi sono spaventata, sai?»
«Scusa, ma la tentazione
di prenderti un po' in giro era troppo forte. E poi avevo bisogno di
ridere un po'» aggiunge. «E se posso dire la mia, anche tu sembri
avere bisogno di divertirti, quindi ti darò un motivo per ridere. O
per sorridere, almeno. Ti ho dato un aumento.»
«Cosa?»
«Niente di speciale, sono
solo cento euro. Però ho pensato che potessero farti comodo.»
«Certo
che mi fanno comodo. Mi fanno molto
comodo.
Comunque non credere di cavartela così a buon mercato. Resti un
cretino.»
«Lo prenderò per un
complimento. Senti, hai da fare stasera? Pensavo che potremmo andare
a mangiarci qualcosa. Così, per festeggiare. Che ne pensi?»
Fingo di rifletterci su per
qualche secondo, mentre in realtà ho già deciso. «Ci sto. Ma solo
se mi offri la cena. Con la sincope che mi hai causato, direi che è
il minimo.»
«Cosa? Ma se ti ho dato
l'aumento contando sul fatto che avresti offerto tu...» mi prende in
giro. «Dai, prendi le tue cose. Cinese?»
«Cinese, va bene.»
*
Los Angeles, 2 gennaio
2014
Bruce
mi restituisce il bastoncino e mi strofina il naso umido contro i
jeans, facendomi capire che vuole continuare a giocare – so che è
soltanto un animale, e che secondo molte persone gli animali non
hanno sentimenti umani,
ma da quello che ho visto in questi giorni proprio non si direbbe che
quel cane non abbia un che di umano. Dal modo in cui mi sta sempre
appiccicato, senza mollarmi mai, nemmeno quando dormo, si direbbe che
abbia davvero sofferto per la mia lontananza, nonostante sia certo
che mia madre non gli abbia mai fatto mancare nulla. Ma d'altra
parte, anche a me è mancato lui, nonostante la vita piena e i mille
impegni. Torno a lanciare via il legnetto e lo guardo partire
all'inseguimento con uno scatto che nemmeno Usain Bolt saprebbe fare.
«Sai, credo che tu gli sia
mancato» sorride mia madre, guardandolo allontanarsi. «Quando non
ci sei, a volte la sera si intristisce. Se ne sta tutto solo in un
angolo come un cucciolo abbandonato. All'inizio non sapevo che fare
quando gli succedeva.»
«E poi l'hai scoperto?»
«Mi sono dovuta ingegnare,
ma sono riuscita a trovare il modo di farlo sentire meglio.»
«Ah, sì? E come?»
«Gli
facevo ascoltare Convergence.
Non so, era come se sapesse
che l'avevi scritta tu. La ascoltava e... non lo so, stava meglio.
Certo, i primi tempi dovevo fargliela ascoltare a ripetizione, anche
dieci o quindici volte. Per fortuna i vicini sono lontani.»
Continuiamo a camminare, mentre Bruce annusa la sabbia e si guarda
intorno, come esplorando l'ambiente. «A volte sembra quasi umano,
sai? Insomma, forse è solo la fantasia di una vecchia e sciocca
signora sola, ma... a volte mi sembra di avere un altro figlio.
Bisogna dargli da mangiare, fargli il bagno, mandarlo a dormire,
coccolarlo, consolarlo quando è triste...»
«Non sei una vecchia e
sciocca signora sola» replico, stringendole le spalle in un
abbraccio. «E poi sei stata un'ottima madre. Perché non dovresti
essere anche una brava dogsitter?» aggiungo, schioccandole un bacio
sulla tempia.
«Sai, essere un genitore è
un lavoro che non finisce mai. Essere una madre, poi, è ancora più
difficile. Inizia quando scopri di essere incinta e finisce solo
quando muori. O forse non finisce nemmeno lì, non lo so.» Alza la
mano libera per stringere quella che le tengo sulla spalla, e in quel
semplice contatto leggo – io, che non sono mai stato un asso a
capire le persone – che c'è qualcosa di cui mi vuole parlare.
«Insomma, non importa che tu e Jared abbiate quarant'anni suonati e
stiate andando per la vostra strada, io... io continuo a preoccuparmi
per voi.»
«Ma tu non devi
preoccuparti per noi, mamma. Siamo perfettamente in grado di badare a
noi stessi» tento di tranquillizzarla, pur sapendo che il mio tono
manca di convinzione – e se anche la convinzione ci fosse, non
posso dimenticare che lei è mia madre, e riuscirebbe a smascherare
le mie bugie anche bendata.
«Mi
piace pensare che siate forti e imbattibili e che il mondo non vi
possa ferire. Mi piace pensarlo, davvero, però... però lo vedo che
c'è qualcosa che ti sta mangiando dentro, Shannon. Lo vedo da quando
siete tornati. Ce l'hai scritto in faccia che qualcosa non va. Non so
che cosa sia, ma è chiaro che qualcosa... qualcosa ti sta mangiando
dentro»
ripete, voltando il viso verso di me.
Le mie dita scivolano via
dalla sua stretta e il braccio le lascia le spalle. Prendo il
bastoncino che Bruce mi sta di nuovo porgendo e lo lancio ancora,
sapendo di farlo senza troppa energia. «Hai parlato con Jared, vero?
Che cosa ti ha detto?»
«Non
prendertela con lui. Ho dovuto pregarlo
per farlo parlare, e tu sai quanto detesti le suppliche.» Sento che
un breve sorriso mi muove le labbra, perché se ci sono due cose che
mia madre non sopporta sono le suppliche e le falsità – e se mio
fratello l'ha costretta alle prime, per tutto questo tempo io l'ho
sottoposta alle seconde. «Mi ha raccontato della ragazza che hai
conosciuto in Italia. Mi ha detto della vostra... della vostra
storia,
se vogliamo definirla così.»
«Non
è che possiamo proprio definirla relazione.
Non abbiamo mai parlato concretamente della possibilità di stare
insieme. Insomma, non... non abbiamo mai dato definizioni. Non era la
mia ragazza.»
«Forse non ufficialmente,
ma tu l'hai amata. Lo so, Shannon, so che l'hai fatto. Ti conosco, so
che non concedi facilmente il tuo cuore, ma se davvero le cose stanno
come dice tuo fratello, io... io credo che tu l'abbia amata
profondamente. E credo che tu la ami ancora, nonostante tutto»
aggiunge, abbassando la voce.
«Credevo di amarla, ma ho
soltanto preso un abbaglio. Può succedere di sbagliare.»
«Non
a te, però. Né a te né a Jared. Se c'è una cosa che sono felice
di avervi insegnato, è il valore di concedere il proprio cuore con
giudizio.» Tace, forse aspettando una risposta che non sono in grado
di fornirle. «Io ho sbagliato molte volte, ti assicuro che so di che
cosa sto parlando. Ho sempre creduto di non aver avuto abbastanza
amore, e così l'ho sempre cercato nei posti sbagliati, finendo
spesso ferita. Se potessi mostrarti il mio cuore, perderesti il conto
delle cicatrici. Questa è una cosa che a te e a tuo fratello non può
succedere. Voi sapete che cosa state cercando, e sapete anche dove
cercarlo. Questo è il vostro vero talento.»
Bruce
si avvicina per l'ennesima volta, e dopo essere stato per l'ennesima
volta al suo gioco mi fermo, i piedi ben piantati nella sabbia umida.
«Se potessi mostrarti il mio
cuore,
ti stupiresti nel vedere quanto è profonda la mia
cicatrice» sussurro, sapendo che se non serrassi forte le labbra
potrei ricominciare a piangere, esattamente come a Parigi.
«Se brucia ancora così
tanto, significa che a lei tenevi. E se a lei tenevi così tanto,
forse significa che non dovresti rinunciare. Non dovresti gettare la
spugna senza lottare.»
«Lottare...»
ripeto in tono sarcastico. «Io avrei lottato, mamma. Avrei lottato,
credimi. L'hai detto tu, mi conosci, sai che l'avrai fatto. Ma è
stata lei a... mi ha chiesto di non cercarla. Mi ha chiesto di
dimenticarla.
Mi ha chiesto di fingere di non
averla mai incontrata.
Mi ha chiesto di non
lottare.»
«E tu le hai dato retta?
Da bambino faticavi ad obbedire a me che sono tua madre e
improvvisamente cedi alle richieste di una ragazza che conosci da un
mese?» Il suo tono è decisamente incredulo, ma la cosa non mi
stupisce: so che non riesce a credere che io – io, un uomo noto per
non essere mai sceso a compromessi – abbia accettato di buon grado
una simile situazione. Non riesce a credere che sia rimasto zitto e
buono in un angolo ad accettare di passare il resto della vita a
leccarmi le ferite – sinceramente, a volte non riesco a crederci
nemmeno io.
«Era
l'unica soluzione possibile» rispondo, citando senza volerlo la
lettera di Daria. Qualunque altro uomo probabilmente l'avrebbe
distrutta e dimenticata, ma io non ci sono riuscito: l'ho conservata,
e la rileggo un giorno sì e l'altro no, tanto per non dimenticare il
dolore – so che è da masochisti indugiare in una simile pratica,
ma ho paura che se mi liberassi di quei due pezzi di carta finirei
per dimenticare, e io non
voglio dimenticare.
Per quanto sia stato doloroso, per quanto il cuore continui a
bruciare come stretto da una morsa rovente, io non
voglio dimenticare.
«So che sembra crudele da parte sua, ma... l'ha fatto per il nostro
bene. Sarebbe comunque finita, e lei non ha voluto prolungare
l'agonia.»
«Smettila
di parlare come un manuale d'istruzioni, per favore!» esclama,
alzando gli occhi al cielo. «Non esistono due relazioni uguali, e
sicuramente non si può conoscere in anticipo il destino di una
storia. Va bene, forse sarebbe finita, ma chi può dirlo con
certezza? Non ci avete nemmeno provato! Avreste potuto avere un
futuro felice. Il punto... il punto è questo: avreste potuto avere
un
futuro,
in barba a tutti quelli non ce l'hanno fatta. E se fosse finita... va
bene, forse è vero, forse avreste sofferto come cani, ma vi
sarebbero comunque rimasti i ricordi. I ricordi sono... i bei
ricordi sono una delle cose più importanti che abbia l'uomo, sono...
sono una delle poche cose che ti impediscono di non affondare nei
momenti bui, sono una delle poche cose che ti impediscono di non
crollare quando tutto il mondo sembra esserti contro. Così tu...
tu... che cosa avrai, quando arriverà un momento in cui ti sentirai
con le spalle al muro? Ti aggrapperai a quei pochi ricordi che hai di
lei? Avresti potuto avere molto di più, e lo sai. Potresti
avere di più.» Impiego qualche secondo per riprendermi da quella
che è una vera e propria aggressione, ma quando apro la bocca per
ribattere lei mi interrompe: «Va bene, adesso mi calmo. Non sono
affari miei, in fondo. È vero, sono tua madre, ma tu sei un uomo
adulto. Sei adulto e puoi gestire la tua vita senza il mio
intervento. Sarò sempre pronta ad ascoltarti e ci sarò se mai
dovessi avere bisogno di aiuto. E perdonami per quello che sto per
dire, ma... in questo momento mi sembra davvero di aver cresciuto un
idiota.»
Ricaccio in gola le poche parole che avevo pensato di dire e resto
fermo a fissarla con la bocca spalancata. «Adesso è meglio che
ritorni a casa. Sta iniziando a fare freddo.» Si allontana lungo la
spiaggia con le braccia conserte, stringendo ancora il suo bicchiere
colmo di té.
La
guardo andare via senza dire una parola, e senza riuscire a muovere
un muscolo. Bruce, che sentendoci discutere ha rizzato le orecchie,
guarda entrambi con aria confusa, apparentemente senza capire chi dei
due sia più conveniente seguire. Mi siedo sulla sabbia, guardando
fisso verso l'oceano, e in quel momento sceglie di raggiungere me.
Lascia cadere il legnetto accanto ai miei piedi, ma comprendendo che
il tempo dei giochi è finito si stende senza un fiato, appoggiando
il muso sulle zampe con un fare che definirei a dir poco sconsolato.
Lo fisso per un istante, poi torno a guardare davanti a me; mi porto
il bicchiere alle labbra e bevo un sorso di caffè, senza riuscire a
gustarlo appieno. Mi ferisce aver discusso con mia madre, ma non mi
ferisce il suo ultimo commento: so che ha ragione, so che sono
davvero un idiota, perché solo un idiota smidollato si comporterebbe
come mi sono comportato io – o meglio, solo un idiota smidollato
non
farebbe nulla,
come ho fatto io. Solo un idiota rimarrebbe seduto a sperare
che il dolore svanisca, e soltanto un idiota continuerebbe ad
alimentare quello stesso dolore con piccoli gesti come rileggere una
lettera di addio o riguardare le fotografie che lo ritraggono insieme
a quello che capisce essere l'amore più grande della sua vita. Solo
un idiota farebbe questo – e siccome questo è tutto quello che
riesco a fare, significa che mia madre ha ragione, e io sono un
idiota di proporzioni elefantiache.
*
Torino, 2 gennaio 2014
«Dimmi che stai scherzando
di nuovo, ti prego» è l'unico commento che riesco a fare quando la
cameriera appoggia davanti a Marco il riso alla cantonese che ha
ordinato. «Siamo al cinese, niente posate.» Gli sfilo la forchetta
dalle mani, gli requisisco il coltello e consegno tutto alla ragazza.
Poi, per sicurezza, le restituisco anche le mie. «Non ci serviranno,
grazie» le spiego, consapevole del fatto che mi stia guardando come
se fosse certa di avere davanti agli occhi una pazza scriteriata.
«Ma io non le so usare le
bacchette!» protesta lui, agitandomi i legnetti davanti agli occhi.
«Beh, c'è sempre una
prima volta, no? E comunque sei stato tu a proporre il cinese, quindi
puoi prendertela soltanto con te stesso» aggiungo, pinzando un
raviolo al vapore e soffiandoci sopra per evitare di ustionarmi la
lingua. «Su, datti da fare.»
«Ma
è riso!»
protesta ancora, guardandomi con una vera e propria espressione da
cucciolo bastonato.
«Problema tuo.»
«Sei crudele, lo sai?
Forse dovrei revocarti l'aumento, così non rideresti più così
tanto.»
«Dai,
vieni qui» lo incalzo, rimettendo nel piatto il mio raviolo e
prendendogli la mano. «Ecco, devi mettere le dita così» gli
spiego, guidandolo passo passo nell'impresa. «Tieni ferma la
bacchetta inferiore e muovi soltanto quella superiore. Apri la
forbice, pinzi, chiudi la forbice e tiri su.» Mentre lo guardo fare
un primo, goffo tentativo, alla mia mente si affaccia un chiarissimo
– e, inutile dirlo, dolorosissimo
– déjà-vu: in un istante mi rivedo seduta su uno sgabello al
bancone della cucina di casa mia, davanti ad un piatto di spaghetti
al pomodoro e al sorriso di Shannon, che mi prega in tutti i modi per
avere un coltello con cui sminuzzare la pasta. Cerco di non pensarci,
di concentrarmi su altro e di proseguire la cena, ma quell'immagine
sembra non avere intenzione di abbandonarmi. Abbasso la testa e fingo
di grattarmi la fronte, tentando di celare gli occhi, che so essere
tristi e quasi colmi di lacrime, ma non riesco ad ottenere nemmeno un
barlume della naturalezza che bramavo.
«Ehi, che succede? Ho
detto qualcosa che non va?»
«No, no, non ti
preoccupare, è solo che...» Incerta su come proseguire, decido di
affidarmi alle bugie, che mai come in questo periodo mi sono
risultate utili. «Durante le feste sono sempre un po' triste. Sai,
mi viene da pensare che le feste si passano in famiglia, e... ripenso
sempre a mia madre.» Durante tutti questi anni in cui ho lavorato
per lui, mi è successo di raccontargli dettagli della mia vita, tra
cui l'abbandono di mia madre, perciò non ho bisogno di spiegargli
nulla di più. Mi sento malissimo all'idea di mentirgli a questo
modo, ma d'altra parte non è vero che non penso a mia madre, di
tanto in tanto, e a quanto sarebbe stata diversa la mia vita se lei
non avesse deciso di arrendersi.
«Posso
capire. O meglio, posso... provare
a immaginare.
Però secondo me non dovresti lasciare che questo ricordo ti avveleni
così il sangue. Insomma, lei se n'è andata, e ormai sono passati
tanti anni... tu hai comunque una famiglia, anche se lei non ne fa
parte. Non hai motivo di intristirti. Hai qualcosa di speciale,
qualcosa che è solo tuo e che nessuno ti può portare via.»
Conclude con un sorriso, ed è qui che capisco che non sarà mai
soltanto un capo, per me: mi vuole bene, in fondo, e come ogni amico
è sempre pronto a dire una parola gentile, a dare un consiglio, e a
sostenermi quando sto per cadere.
«Ma sì, hai ragione»
decreto, alzando gli occhi con un sorriso. «Non roviniamoci la
serata, dai. Forza, muoviti con quelle bacchette. Non voglio
invecchiare qui dentro!»
*
Los Angeles, 2 gennaio
2014
Sono
rimasto seduto sulla spiaggia per ore, senza rendermi conto del tempo
che passava – e, per la prima volta da quando sono tornato a casa,
senza controllare il telefono ogni mezz'ora. Ho passato ore guardando
l'oceano, cercando di riflettere su quale sia la cosa giusta da fare,
senza trovare una risposta. Mi risveglio dal mio torpore soltanto
quando Bruce mi sfiora la coscia con il naso, chiedendomi attenzione.
«Ehi, bello... che c'è? Vuoi tornare a casa?» In risposta, lui
abbaia e indica il cielo con il muso. Guardo in su, e mi accorgo dei
nuvoloni che hanno coperto il celeste. «Sì, direi che sta per
piovere. Meglio se torniamo a casa, vero? Su, andiamo.» Mi alzo e mi
incammino, tallonato da lui – che però torna indietro dopo pochi
passi. Mi volto per controllare che diavolo stia facendo, e mi rendo
conto che è tornato sui suoi passi soltanto per riprendersi il
bastone. «Ma da chi diavolo sei posseduto, me lo spieghi?» gli
domando, abbassandomi per agganciargli il guinzaglio al collare. Gli
accarezzo la testa, forse aspettando che mi risponda, e poi riprendo
a camminare.
La pioggia ci sorprende per
strada, ma nessuno dei due fa in modo di accelerare il passo:
continuiamo a camminare lentamente, senza fretta, come se sapessimo
che nessuno si preoccuperà per la nostra assenza – anche se questo
non è del tutto esatto. O forse, inconsciamente spero che la pioggia
lavi via tutte le mie pene, tutto il mio dolore, tutto questo senso
di vuoto che sento dentro, e del quale credo non riuscirò mai a
liberarmi. In uno slancio di estremo sentimentalismo – o di estrema
idiozia, non riesco a capirlo – mi chiedo se si possa morire per un
cuore spezzato: perché se fosse possibile, probabilmente io sto già
morendo – e così lentamente da non riuscire nemmeno ad
accorgermene.
1Ma
chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad una frase contenuta nel romanzo
Emmaus,
di Alessandro
Baricco.
2Shannon
sta giocando con il proprio cane.
| Mi pare che un tempo Shannon avesse un cane, uno splendido husky di
cui mi sfugge il nome, purtroppo poi venuto a mancare (se qualcuno
avesse notizie al riguardo, non si faccia problemi a farsi avanti ed
illuminarmi). Non so se abbia avuto altri animali domestici, ma al
fine della storia ho voluto inserire un nuovo cane, un Border
Collie Australian Red
(praticamente il cugino rosso del cane Infostrada =D).
|
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Capitolo 2 *** 2 | Siamo sotto lo stesso cielo, e la notte è vuota per me tanto quanto lo è per te. ***
La lunga strada verso casa - 1
Nove
recensioni, dieci inserimenti tra le storie preferite, uno tra le
storie da ricordare, dieci tra le storie seguite... e tutto questo in
soli quattro giorni! Le parole sono sempre state tutto, nella mia
vita, eppure questa volta non riesco a trovare quelle più adatte per
descrivere quello che provo. Nell'ultima settimana il contatore delle
recensioni a “Portagioie di tristezza” è salito
vertiginosamente, portando alla luce un sacco di ottimi pareri su
quanto la mia mente (malata) ha partorito, e io davvero... non so,
sarà mainstream dire così, ma io vi amo tutte. Veramente, vi voglio
un bene dell'anima. Volevo aspettare un paio di giorni prima di
regalarvi il secondo capitolo della storia, ma vi voglio così bene
che ho deciso di anticipare, sperando di fare cosa gradita. Mi
raccomando, continuate a farmi sentire il vostro appoggio... e se non
volete appoggiare me, almeno appoggiate Daria e Shannon!
Spero
che il trailer della storia, di cui ho lasciato il link
dell'introduzione, vi sia piaciuto: a questo proposito, mi sono resa
conto che il trailer non presenta uno dei personaggi più importanti
della storia, ovvero Alice,
migliore amica e voce della coscienza di Daria – ma ora conoscete
anche lei.
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo secondo
Siamo sotto lo stesso
cielo, e la notte è vuota per me
tanto quanto lo è per
te.1
Torino, 3 gennaio 2014
Torno a casa, gentilmente accompagnata da Marco, e non appena mi
ritrovo sola mi assale la solita sensazione di vuoto e solitudine che
fa da colonna sonora ad ogni serata che passo sola. Eppure non dovrei
sentirmi così, lo so: ho appena passato alcune delle ore più
divertenti dell'ultimo periodo, ho scherzato e riso fino alle lacrime
con una persona amica, ho avuto la bellissima notizia di un aumento e
ho la certezza di non essere sola... eppure non riesco a rilassarmi.
So di non essere più la stessa, da quando sono tornata – scappata
– da Parigi, e nonostante sia ancora più che convinta di aver
agito nell'interesse di tutti, mi sento come se in fondo sapessi di
aver fatto un'enorme cazzata. Il guaio è che non si può tornare
indietro.
Seguo
la routine di ogni sera: bagno, denti, pigiama, letto, impostare
sveglia, libro... quando chiudo gli occhi non è ancora mezzanotte, e
come ogni sera mi illudo che riuscirò a dormire fino al suono della
sveglia, aprendo gli occhi sentendomi finalmente riposata. E invece,
come ogni notte, alle due spalanco le palpebre e resto immobile a
fissare il soffitto. Guardo verso la mia destra, ma è soltanto un
attimo – un attimo che però vale quanto una vita. È il freddo a
tenermi sveglia, a punzecchiarmi i fianchi fino a farmi svegliare –
non il freddo fisico, ma il freddo di quello spazio vuoto accanto a
me. Eppure quello spazio è stato occupato da qualcuno soltanto per
due notti, come possono due sole notti tormentarmi così tanto?
Eppure lo so, so che è quello spazio vuoto a tenermi sveglia,
ricordandomi ancora una volta che potrei
aver commesso un errore, che potrei
aver
fatto una stupidaggine, e che la decisione presa in un pugno di
secondi potrebbe
condizionare il resto della mia vita.
Sono
ormai quasi le tre quando mi convinco ad alzarmi e a scendere nella
stanza degli ospiti, portando con me sveglia e cellulare. Mi sistemo
tra le lenzuola, e mentre aspetto che il sonno torni a prendermi mi
chiedo perché ogni notte debba ripetersi la stessa storia – perché
non mi metto subito in questo letto, risparmiandomi l'incombenza di
traslocare a metà della notte? Forse,
mi rispondo mentre sento le palpebre chiudersi di nuovo, forse
ogni notte mi illudo di essere diventata un po' più forte della
notte precedente.
*
Los Angeles, 3 gennaio
2014
Sto
finendo di mettere le mie cose in valigia, quando sento bussare alla
porta. Mi volto e mia madre è sulla soglia, con la stessa
espressione che ha Jared quando si rende conto di aver esagerato con
le sue paranoie. «Hai quasi finito, vedo» commenta, e la sua voce
non è più di un sussurro.
«Sì, ho quasi finito»
rispondo, cercando di non dare alla frase alcuna sfumatura in
particolare.
«Shannon, se te ne stai
andando per quello che ho detto ieri, io non...»
«Mamma,
non me ne sto andando soltanto perché hai detto che sono un idiota.
Sono stato tuo ospite per qualche giorno, e adesso è ora che torni a
casa mia. Ho delle cose da sistemare, e non posso più rimandare. La
prossima settimana ripartiremo, e se non colgo la palla al balzo
adesso...» Lascio la frase in sospeso, riponendo le ultime
magliette. «E comunque ho pensato molto a quello che hai detto, e la
conclusione cui sono giunto è che sono davvero
un
idiota. Non che la cosa mi stupisca particolarmente, in fondo lo
dicono tutti che la mamma ha sempre ragione, no?» Tento un sorriso,
ma tutto ciò che riesco a produrre è una smorfia.
«Mi sono pentita subito di
averlo detto, sai?» sorride lei, avvicinandosi per sedersi sul
letto. «Appena me ne sono andata ho pensato di tornare, e ad un
certo punto l'ho fatto sul serio. Sono tornata indietro.»
«Davvero?»
«Sì, davvero. Stavo per
avvicinarmi, ma poi ti ho visto così concentrato che non ho avuto il
coraggio di disturbarti. Credo di non averti mai visto così serio.»
«Credo
di non essere mai stato
così serio. Ma forse ero ipnotizzato, più che concentrato. Lo sai
che effetto mi fa l'oceano, no?»
«Ti è sempre piaciuta da
morire l'acqua. Anche quando abitavamo ancora in Louisiana, tu
cercavi sempre il modo di convincermi a portarvi in riva al fiume.
L'acqua ti ha sempre affascinato» ripete, accarezzando il bordo
della valigia ancora aperta. «Sai cosa ho sempre pensato in
proposito?» Scuoto la testa, senza riuscire a staccare gli occhi dal
suo sguardo, fisso sui vestiti piegati. «Ho sempre pensato che fossi
affascinato dall'acqua perché è la tua perfetta controparte. Tu sei
fuoco, Shannon» aggiunge, tornando a guardarmi. «Sei sempre
stato fuoco, fin da bambino, con tutto quello che ne consegue: amico
finché ti si tratta con rispetto, ma pronto a diventare incendio non
appena ti senti in pericolo. Non lo so, ho sempre creduto che fossi
tanto attratto dall'acqua perché l'acqua è la sola cosa che possa
dominare il fuoco. In fondo, non siamo spesso attratti da quello che
ci è opposto?»
Annuisco,
pensando che forse era proprio questo ad attrarmi di Daria – il
fatto che lei mi fosse opposta, diametralmente
opposta.
Mi attraeva la sua insicurezza, mi attraeva la sua continua sorpresa
nei confronti del mondo, mi attraeva la sua normalità
–
vedevo in lei tutto ciò che non ero mai stato, vedevo in lei tutto
ciò che mi ero sempre negato, vedevo in lei l'occasione di avere
finalmente tutto ciò che qualunque uomo avrebbe potuto desiderare.
Ma forse doveva davvero andare così, forse non sono mai stato
destinato ad avere quel tipo di felicità – forse il nostro amore
sarebbe stato impossibile come quello tra un pesce e un'aquila.
«A che pensi? Se si può
sapere, naturalmente.»
Scuoto la testa,
sorridendo. «Niente di importante. Solo... credo che tu abbia
ragione. L'acqua mi ha sempre trasmesso come... non lo so, un senso
di pace. L'oceano, in particolare. L'oceano trasmette stabilità, non
credi? Insomma, l'acqua è in continuo movimento, ma alla fine è
sempre sulla spiaggia che si infrangono le onde.»
«Non ci avevo mai pensato,
sai?» Mi sorride ancora una volta, forse felice di vedermi meno cupo
di ieri. «Ti preparo qualcosa per colazione? Alla fine ieri sera non
hai cenato.»
«No, non ti preoccupare.
Tanto passo da casa e poi mi vedo con Wayne. Mangerò con lui.»
«Va bene. Mi raccomando,
non ti trascurare. Dalla prossima settimana tuo fratello tornerà a
torturarti con i suoi ritmi, e dovrai essere in forze.» Si alza,
tendendo le braccia verso di me. «Avanti, adesso dammi un
bell'abbraccio. Non sei troppo cresciuto per abbracciare tua madre,
vero?»
«Nemmeno
a novant'anni» rispondo, restituendole la stretta. Respiro forte tra
i suoi capelli, cercando di trattenere con me il suo profumo – il
misto di sole, mare e pulito che ho sempre considerato casa,
e che lo sarà sempre, anche tra un secolo. Ci separiamo e mi dà un
buffetto sulla guancia, proprio come quando ero bambino, e poi se ne
va, lasciandomi di nuovo solo. Chiudo la valigia, e nel sentire il
rumore della zip che scorre Bruce arriva di corsa dall'altra stanza,
portando in bocca il guinzaglio, quasi a ricordarmi di portarlo con
lui.
*
Los Angeles, 3 gennaio
2014
Jared è in studio, con i
gomiti appoggiati sulla scrivania e le mani che vagano continuamente
tra i capelli scompigliati, come se qualcosa stesse mangiando vivo
anche lui. Più di una volta, nel volgere dell'ultima ora, lo ha
attraversato l'idea di fare qualcosa per aiutare Shannon – la sera
prima Constance gli ha raccontato del loro litigio sulla spiaggia, e
da quel momento lo perseguita la convinzione che l'indifferenza non
sia l'arma giusta per combattere quel mostro che non si vede, ma la
cui presenza si percepisce chiaramente. Più di una volta ha pensato
di fare qualcosa di eclatante come prendere il primo volo per
l'Italia, prelevare Daria e portarla negli Stati Uniti, salvo poi
pensare che non saprebbe dove andarla a pescare, e che il suo gesto
potrebbe avere qualche piccola, trascurabile conseguenza legale.
Così, tutto quello che può fare è limitarsi a starsene seduto
davanti a fogli che nemmeno vede, seduto accanto ad una chitarra che
nemmeno tocca, chiedendosi che cosa farà suo fratello quando si
ricorderà che tra poco più di cinque mesi torneranno in Italia, e
che, più precisamente, suoneranno nella città della donna che gli
ha rubato il cuore.
*
Los Angeles, 3 gennaio
2014
«Ehi!» mi saluta Wayne,
venendomi incontro al centro del parco con il solito sorriso stampato
sul volto, tenendo in braccio suo figlio, Ryder, che ha poco più di
un anno ed è il bambino più buffo che abbia mai visto. Ci salutiamo
con una breve stretta e poi restiamo a fissarci in silenzio per
qualche secondo, come studiando le differenze rispetto all'ultima
volta in cui ci siamo visti. «Scusa per Ryder, ma oggi tocca a me
tenerlo.»
«Ma figurati, nessun
problema. Anch'io ho il mio daffare» replico, mostrando il
guinzaglio. «Ti avevo parlato di Bruce, vero?» Guardo giù,
scoprendo che l'interessato si è messo a sedere e sta guardando in
alto, in direzione di Ryder, che ricambia lo sguardo con aria
curiosa.
«Oh,
sembra sia nata una nuova storia d'amore» commenta Wayne. «Hai
visto il cagnolino di Shannon? Ti piace? Si chiama Bruce. Prova a
dirlo, amore. Bru-u-ce.
Provaci, dai.»
«Come fai a pretendere che
dica Bruce? Ancora non ha iniziato a parlare.»
«Beh, questo dimostra che
è veramente troppo tempo che non ci vediamo.»
«Vuoi dire che ha iniziato
a parlare?» replico, sgranando gli occhi per la sorpresa.
«Per
il momento solo papà,
mamma
e cacca.
Più che altro cacca,
in effetti. Non è molto, ma è già qualcosa. Ha iniziato sei
settimane fa, è un vero pigrone. E per fortuna ha detto qualcosa. Se
avesse tardato ancora, probabilmente Ashley2
l'avrebbe portato da un esorcista. A volte è una madre davvero...»
Ryder
lo interrompe, piazzandogli le manine paffute sulle guance e
costringendolo a guardare verso di lui. «Bu-u-ss»
sillaba, estremamente convinto. Lo guardiamo entrambi con tanto
d'occhi, senza capire, e a quel punto lui, resosi probabilmente conto
di avere di fronte due enormi idioti, punta un indice grassoccio
contro il mio cane, dicendo di nuovo «Bu-u-ss».
«Cristo santo» è il
commento di Wayne, trasformato in un colpo di tosse non appena gli do
una leggera manata sul braccio, ricordandogli che è suo figlio
quello che tiene in braccio, e che sarebbe meglio controllare il
linguaggio, soprattutto visto il ritmo con cui sembra apprendere quel
ragazzino. «Accidenti, Ryder, se tua madre scopre che hai imparato
il nome di un cane prima di imparare a dire il tuo andrà su tutte le
furie, lo sai?» Si accovaccia e lo mette a terra, sostenendolo per
la vita. «Vuoi accarezzarlo? Non morde, vero?» mi domanda poi,
alzando la testa verso di me.
«Non è mai successo. È
un cane molto tranquillo.»
«Bu-u-ss»
ripete all'infinito Ryder, puntando il dito contro il cane, forse
cercando il coraggio di toccarlo. Quando finamente si decide,
l'indice tocca il naso di Bruce, che si ritrae con un piccolo
starnuto. Allo stesso tempo, sentendo una strana sensazione di umido
sulla pelle, il bambino ritrae il dito, portandoselo davanti al viso
con aria interessata. I cinque secondi che seguono sono i più lunghi
della nostra vita: io sono pronto a tirare via Bruce in caso di
attacco, e Wayne è pronto a schizzare di nuovo in piedi per portare
Ryder in salvo. E invece succede una cosa strana, qualcosa che non mi
sarei mai aspettato: Bruce si stende a terra, agitando la coda in
maniera festosa, e punta il naso contro lo stomaco di Ryder,
facendogli il solletico. «Bu-u-ss»
ripete per l'ennesima volta Ryder, lanciando in avanti entrambe le
mani per accarezzargli la testa pelosa.
«Sì, direi proprio che è
nato un nuovo amore» commento, sganciando il guinzaglio dal collare
per poi piegarlo e infilarmelo in tasca.
«A proposito di nuovi
amori» replica Wayne, continuando a sostenere Ryder, impegnato
nell'esplorazione dell'interno dell'orecchio destro di Bruce, «ho
visto un video del concerto di Parigi. Sai, quello di novembre.»
«Sì,
e quindi?» domando, sedendomi sull'erba. Ho capito benissimo dove
vuole andare a parare, ma non sono sicuro di essere pronto a ripetere
per l'ennesima volta tutta la storia – per quanto Wayne sia un mio
amico da
anni,
e abbia tutto il diritto di conoscere i dettagli della mia vita
sentimentale.
«E
quindi mi stavo chiedendo chi sia questa persona
speciale
che è entrata nella vita della persona
speciale
di Jared, tutto qui. Se può consolarti, non è soltanto una mia
curiosità. Se ti facessi un bel giro sul web, ti renderesti conto
che c'è un sacco di gente che continua a chiedersi di chi si stesse
parlando.»
«Sono passati due mesi! La
gente ancora ne parla?»
«La
gente ancora ne parla appunto
perché sono passati due mesi. In due mesi ce n'è di tempo per
formulare delle teorie, non credi?»
«E la tua teoria quale
sarebbe?»
«Beh, la mia teoria è che
tu abbia incontrato una ragazza bellissima, intelligente e
incredibilmente sexy, e che la suddetta splendida creatura ti abbia
colpito tanto da chiederti se non sia il caso di mettere la testa a
posto, sposarti e mettere in cantiere una mezza dozzina di bambini.»
Distolgo lo sguardo, fingendo di scansare un raggio di sole: la
verità è che sapevo che con Wayne sarebbe finita così, perché è
sempre così che finisce, con lui. A volte sembra conoscermi meglio
di quanto io non conosca me stesso, al pari di mia madre – e forse
è proprio per questo che spero di non trovarmi mai in una stanza
alla presenza di entrambi, perché so che non ne uscirei vivo. «Direi
che ho fatto centro» sorride, cogliendo il mio goffo tentativo di
simulare indifferenza. «Se è così, io dico che dovresti sbrigarti
a catturarla, perché tra non molto quella parte di te di cui vai
tanto fiero inizierà a perdere colpi, e dovrai faticare il doppio
per realizzare il tuo stupendo ideale di felicità.»
«Stai parlando del mio
splendido cervello, naturalmente» lo prendo in giro.
«Naturalmente. Il cervello
lo teniamo tutti nelle mutande, no?» replica con una risata.
«Allora, chi è? Parlamene un po', dai.»
«Scusa,
ma chi ti dice che Jared si stesse riferendo proprio a me? Conosce un
sacco di persone, ha un sacco di amici, non poteva trattarsi di...
beh, di chiunque
altro?»
«Non
prendermi per fesso, dai. Sai che non lo sono. Tuo fratello conoscerà
anche un mucchio di persone, ma lo sanno anche i sassi che tu sei
l'unica persona che davvero conta nella sua vita. Esclusa forse
vostra madre. E Tomo, probabilmente. Non si sarebbe mai scomodato per
un pinco pallino qualunque. Parlava di te, punto e basta. Ergo, tu
hai incontrato una ragazza che ti ha fatto innamorare alla follia, e
io pretendo
di
conoscere tutti i dettagli più sordidi.»
«Con tuo figlio a dieci
centimetri? Sei veramente un porco, sai?» lo prendo ancora in giro.
«Sono
sposato da cinque anni» replica, come se questo dovesse spiegare
tutto. «Prova tu
a fare sesso per cinque anni sempre alla stessa maniera, nella stessa
posizione, sempre con la stessa donna... ho bisogno che gli amici
scapoli mi raccontino qualche bella porcata.»
«Poo-tata?»
tenta Ryder, lasciando stare Bruce per una frazione di secondo.
«No,
tesoro, questa non la devi ripetere. No.»
Mi lascio andare di schiena sull'erba, chiudendo gli occhi per godere
della sensazione del sole che mi batte sulla faccia. Per la prima
volta dopo tanto tempo mi sento tranquillo, rilassato, come se non
avessi una sola preoccupazione al mondo, e quando finalmente sto per
trovare la pace... «Avanti, racconta, racconta. Descrivi quello che
vedi. Ti prego, ne ho un bisogno disperato.»
«Wayne,
sei un porco» rispondo, senza aprire gli occhi.
«Poo-coo?»
ripete Ryder, quasi in tono interrogativo.
«Bravo,
Ryder. Questo lo puoi ripetere.»
«Shannon, ti proibisco di
insegnare a mio figlio questo linguaggio scurrile» mi rimprovera
Wayne, fingendosi offeso.
«Non
è una parolaccia. Porco
è sinonimo di maiale,
e maiale
descrive esattamente quello che sei.»
«Ma-a-lee.
Poo-coo»
ripete il bambino sorridendo, quasi felice di aver imparato due nuove
parole. Ma è solo un attimo, poi ritorna alla sua cantilena
preferita. «Bu-u-ss.»
«Avanti,
Wayne, che vuoi sapere?»
«Tutto,
naturalmente. Dal colore degli occhi alla taglia di reggiseno.»
Sorrido,
riaprendo gli occhi. «Azzurri. No, verdi» mi correggo subito dopo.
«Non sono mai riuscito a capirlo, in realtà. Hai presente quegli
occhi che sembrano cambiare colore a seconda della luce?»
«Come
i tuoi, vuoi dire?»
«Sì,
una cosa del genere. Non ho mai visto due occhi più belli.»
«Mi
stai dicendo che ti ha fregato con gli occhi e non con il culo? Di
solito è quella la prima cosa che guardi» ribatte lui, sistemandosi
meglio sul prato.
«Beh,
i suoi occhi sono la prima cosa che ho visto. L'ho incontrata alla
signing session dopo il concerto di Milano, all'inizio di novembre.
Un attimo prima stavo firmando autografi, un attimo dopo ho alzato la
testa e l'ho vista davanti a me.»
«Quindi
è stato un vero e proprio colpo di fulmine.»
«Una
specie. Non è che mi sia subito innamorato di lei, solo... mi ha
colpito, ecco tutto. Aveva qualcosa che nessun'altra sembrava avere.»
«Un
culo da favola? Scusa» si corregge subito, cogliendo la mia
occhiataccia. «Però... non avrei mai detto che saresti caduto nel
cliché della star della musica che si fa abbindolare da una fan. È
così... banale.»
«Forse
vista da fuori, ma credimi... non c'è stato nulla di banale tra di
noi.»
«Dai,
parlami di lei. Che cosa fa nella vita, che tipo è... sono proprio
curioso di sapere come sia riuscita a metterti al tappeto.»
«Si
chiama Daria, è italiana. Vive a Torino, ha ventitré anni e...»
«Ventitré anni? È una
bambina!»
«Ha
ventitré anni» ripeto, riservandogli un'altra occhiataccia, «e fa
la commessa in una libreria. Ha un fratello e una sorella più
piccoli. Quando aveva otto anni sua madre se n'è andata di casa, e
da allora non l'ha più vista. Ha l'hobby della scrittura. Le
piacciono i vecchi film, specialmente quelli con Gene Kelly e
Humphrey Bogart. Ha un tatuaggio sulla scapola sinistra.»
«Non
un tribale, spero. E non quelle stupide stelline che si fanno tatuare
tutti.»
«Niente
tribali e niente stelle, tranquillo. Sono i glyphics.
Quelli che io ho sull'avambraccio» aggiungo, anche se sono sicuro
che sappia a che cosa mi sto riferendo. «Parlare con lei mi piaceva.
Mi faceva sentire normale.
Sai, non aveva alcuna soggezione, nessun timore... le piacevo in
quanto Shannon,
non perché sono famoso. Mi guardava negli occhi e... vedeva il mio
cuore.»
«Perché
improvvisamente parli al passato?»
«Perché
è finita. Chiusa. È stato un piacere ma ora dobbiamo separarci,
ciao, addio» rispondo, sperando che l'indifferenza lo convinca a
lasciar perdere – o che almeno convinca me
a
lasciar perdere, e a rendermi conto che è arrivato il momento di
andare avanti.
«No,
no, no, tu non te la cavi così. Adesso torni indietro e mi racconti
tutto per filo e per segno.»
«Wayne,
è una bella giornata. Non ce la roviniamo parlando di una cosa morta
e sepolta.»
«Se
fosse una cosa morta e sepolta lascerei perdere volentieri, ma non lo
è. Te lo leggo in faccia che non lo è. Quindi ora riavvolgi, parti
dal principio e mi spieghi tutto per filo e per segno. Altrimenti non
ti posso aiutare.»
«Chi
dice che ho bisogno di essere aiutato?» Mi rivolge l'occhiata più
eloquente del suo repertorio, uno di quegli sguardi che riescono a
trapassarti pelle e vestiti e ti studiano l'anima meglio di quanto
potrebbe fare una radiografia. Comprendendo di non poter sfuggire
alla morsa della sua curiosità, prendo fiato e cerco di esporre gli
eventi nel modo più chiaro e semplice possibile – per quanto tra
me e Daria
niente
sia mai stato veramente chiaro, né tantomeno semplice.
Quando finisco di parlare,
lo sguardo di Wayne è spoglio di tutta l'allegria che di solito lo
caratterizza. «Bella mazzata» è il suo unico commento. Contraggo
la mascella, senza riuscire a rispondere. «Di certo non ci è andata
leggera, la ragazza. E nonostante questo non stai facendo niente per
dimenticarla?»
«Credimi,
ci sto provando. Ci sto provando con tutte le mie forze.»
«Continuando
a rileggere le sue lettere e a guardare le sue fotografie?» osserva,
alzando un sopracciglio. «A proposito, fai un po' vedere una sua
foto. Voglio vedere se è bella come dici o se come al solito esageri
per farmi invidia.» Controvoglia, tiro fuori il cellulare dalla
tasca e cerco la nostra prima foto insieme, quella scattata a Torino
dai turisti giapponesi. Gli passo il telefono e lo sento fischiare.
«Però, carina davvero. Guarda, Ryder, ti piace? È bella?»
«Be...
bella!»
esclama Ryder, senza saltare nemmeno una lettera. «Bella!
Bella!
Bella!»
ripete, battendo le manine grassocce ogni volta che lo dice.
«Beh,
lui è uno che di donne se ne intende» ride Wayne, restituendomi il
cellulare. «Il buon gusto l'ha preso tutto da suo padre.»
«Non
da sua madre, poco ma sicuro» lo prendo in giro, trovando la forza
di sorridere, anche se solo per un momento. Guardo ancora una volta
la foto, chiedendomi perché non mi sia stato concesso di rimanere in
quello stato di grazia – con tanta gente al mondo che riesce a
superare le difficoltà, ad amarsi e ad essere felice per sempre...
perché io no? Perché noi
no?
«Papà»
interviene a quel punto Ryder, «cacca.»
«Come
volevasi dimostrare, sempre sul più bello. Mi dai una mano?»
«Neanche
morto. Il figlio è tuo, optional compresi.»
«Gli
amici si vedono nelle necessità, vero? Va beh... ho tutto in
macchina. Vado, neutralizzo e torno» aggiunge, rimettendosi in piedi
e prendendo in braccio il bambino, tenendolo però ad una certa
distanza.
Vedendoli
andare via, Bruce si rizza sulle zampe, abbaiando un paio di volte.
«Tranquillo, tornano subito» lo rassicuro, sollevandomi sui gomiti
per accarezzargli la testa. «Credimi, ti sta soltanto facendo un
favore.» Seguo per un po' la ritirata di Wayne e Ryder, poi mi
rimetto giù, incrociando le braccia dietro la testa. La pioggia
della notte non ha portato il freddo che temevo, e la sensazione del
sole che mi picchia sulla faccia è piacevole – e deve piacere
anche a Bruce, considerando che si stende accanto a me con
un'espressione a dir poco beata.
Un po' di tempo dopo –
non so quantificarlo, ma di certo non più di dieci minuti –
qualcosa mi colpisce al polpaccio, facendomi aprire gli occhi. Mi
metto a sedere e mi rendo conto che si tratta di un frisbee. Lo
prendo e mi alzo, guardandomi intorno per cercare di capire da quale
direzione arrivi. «Ehi!» mi sento apostrofare. «Ehi, scusa, non
era mia intenzione...» Mi volto, e la voce si blocca. «Mio Dio...
Shannon? Shannon Leto? Sei veramente tu?»
«Ci... ci conosciamo?»
rispondo, dubbioso, guardando la donna che mi sta di fronte. Deve
avere circa la mia età, lo capisco dalle piccole rughe attorno agli
occhi e agli angoli della bocca. Ha un bel sorriso, e l'aria di una
che è sicura di quello che sta dicendo.
«Ma
certo che ci conosciamo. Sono Christine.»
Studio
meglio quegli occhi scuri, quasi neri, analizzo la loro espressione,
e in un attimo mi è tutto chiaro. «Oh, santo cielo... Christine?»
Christine. Christine Sandoval. La mia prima ragazza, il mio primo
amore, la prima donna che mi abbia mai spezzato il cuore. «Dio, io
non... non ti avevo riconosciuta. Sei... sei diversa.»
«Vorrai
dire che sono vecchia»
risponde con un sorriso. «Non mi stupisce che tu non mi abbia
riconosciuta. Da quanto tempo non ci vediamo? Vent'anni, più o
meno?»
«Sì, credo che più o
meno siano vent'anni. Sei... sei diversa» ripeto, come se la cosa mi
stupisse. Come se in fondo non fossi cambiato anche io.
«Sì,
l'hai già detto» sorride ancora.
«Hai...
hai qualcosa di molto
diverso» osservo ancora, senza capire che cosa sia.
«Oh, forse è il naso. Me
lo sono fatto mettere a posto una decina d'anni fa. Mi dava dei
problemi. Apnee notturne» aggiunge, toccandosi la parte interessata.
«Ammetto che il mio profilo è molto migliorato, ma non lo avrei mai
fatto soltanto per bellezza. Lo sai, non ci ho mai tenuto.»
«No...
cioè, sì, lo so.» Non riesco a dire altro, sono come pietrificato:
di certo non mi sarei mai aspettato che il mio passato tornasse a
mordermi il didietro in questo modo. Non in questo momento.
Accidenti, non me lo sarei aspettato in nessun
momento della mia vita.
In
quel momento arriva di corsa una ragazzina – avrà undici anni, più
o meno – che si accosta a Christine e mi guarda di sottecchi, come
se avesse paura di venire morsa. «Oh, ti presento Eleanor, mia
nipote. Ellie, per gli amici.»
«Tua
nipote?»
«Sì,
è la figlia di Rachel, mia sorella. Ti ricordi di mia sorella,
vero?»
«Rachel?
La piccola
Rachel,
intendi? Si è sposata?»
«Beh,
ha soltanto tre anni meno di me, non direi che è tanto piccola.
Ha tre figli, Ellie è la maggiore. Poi ci sono due maschietti, Alan
e Samuel. Due autentici terremoti. Ellie, ti presento Shannon, un mio
vecchio... compagno di scuola.»
«Piacere
di conoscerti» risponde lei, tendendomi la mano.
«Il
piacere è tutto mio. Ah, questo dev'essere tuo» aggiungo,
porgendole il frisbee.
«Grazie.
Zia, io ti aspetto laggiù, ok?»
«Va
bene, arrivo subito. Beh, che dire?» sospira, tornando a rivolgersi
a me. «Una bella sorpresa trovarti qui. Non qui
a Los Angeles, intendo. So che ci vivi. Voglio dire, vederti... al
parco, come...»
«Come
una persona normale?»
«Suona
male, eh?»
«Solo
se fossi la prima persona che me lo dice.» Non riesco a fare a meno
di sorridere: non posso fingere che questo incontro mi faccia un
certo effetto. Non posso fingere che Christine
non mi faccia un certo effetto, anche a tanti anni di distanza
dall'ultima volta che ci siamo visti. «Spero... spero che le cose ti
vadano bene.»
«Non
mi lamento» risponde, facendo spallucce. «Non sono diventata una
rockstar di fama internazionale, ma non c'è male.» Si volta per
controllare che la nipote sia ancora a portata di sguardo, poi torna
a guardare me. «Beh, adesso devo andare, ma... è stato un piacere
rivederti.»
«Aspetta!»
la fermo. «Potremmo... potremmo vederci per un caffè, uno di questi
giorni. Per... parlare un po'. Immagino che ne abbiamo, di cose da
raccontarci.»
«Beh,
credo... credo di sì. Potremmo. Aspetta, ti lascio il mio numero»
risponde, frugandosi le tasche alla ricerca del portafogli. Ne estrae
un biglietto da visita, che mi porge con un sorriso. «Allora... ci
sentiamo.»
«Ci
sentiamo.» Rimango in piedi mentre lei si allontana, e quando a metà
percorso si volta per guardarmi, mi chiedo perché non abbia fatto lo
stesso ventiquattro anni fa, quando mi ha frantumato il cuore in un
milione di piccoli pezzi e ci ha ballato sopra il tip tap.
«Ah,
allora mentivi quando dicevi di essere ancora a terra per quella
ragazzina.» Mi volto di scatto, scoprendo che Wayne ha seguito tutta
la scena, restando a debita distanza. «Se ti sei già messo a
rimorchiare sconosciute nei parchi, forse tanto male non stai.»
«Non
è una sconosciuta. Frequentava il mio stesso liceo. È una lunga
storia» aggiungo con un sospiro. «Era l'ultima persona che mi sarei
aspettato di incontrare, ad essere sincero. Allora, come te la sei
cavato con la nostra piccola arma di distruzione di massa?» gli
domando, alzando un braccio per solleticare il pancino di Ryder,
appollaiato sulle spalle del padre come una piccola vedetta.
«Non
lo vuoi sapere davvero.
Credimi, non
lo vuoi.
Allora, andiamo a mangiarci quel famoso boccone? Anche se non credevo
avrei più avuto fame, dopo quello che ho visto.»
*
Torino, 3 gennaio 2014
«Hai di nuovo avuto
problemi a dormire, vero?» Anche se non la sto guardando, sento che
lo sguardo di Alice è fisso su di me, pronto a cogliere ogni minima
défaillance.
«No, per niente. Ho
dormito benissimo» rispondo, continuando a sistemare libri sullo
scaffale.
«Strano, mi sembra che tu
non abbia mai avuto un'aria tanto stanca.»
«Durante le feste c'è
sempre più lavoro, forse sono solo un po' sotto stress per questo
motivo.»
«Daria...»
«Che c'è?» ribatto,
voltandomi a guardarla.
«Non mentire. Lo sai che
con me i tuoi giochetti non attaccano.» Prende un libro dallo
scatolone più vicino e finge di essere interessata alla copertina,
ma so che sta soltanto cercando un modo per esprimere quello che le
passa per la testa. «Non ti vedevo così giù di morale da quando
hai rotto con Andrea. Sono passati due anni, però me lo ricordo bene
come stavi in quel periodo.»
«Alice, lasciamo perdere.
Per favore.»
«E va bene, lasciamo
perdere. Però lo sai anche tu che nascondere la polvere sotto il
tappeto non la fa sparire.»
«E va bene, allora
parliamo. Di che cosa vuoi parlare?» sbotto, pentendomi all'istante
del mio tono. Alice è la mia migliore amica, e non merita di essere
trattata così duramente.
«Non lo so. Potremmo
iniziare dal fatto che non riesci a dormire.»
«Ma sì che riesco a
dormire. Sono solo un po' sotto stress per il lavoro. Forse qualche
volta fatico a prendere sonno, ma è soltanto perché sono troppo
stanca. Sai che a volte mi succede.»
«Va bene, visto che non
vuoi toccare questo argomento passiamo ad altro. Parliamo di quella
scatola che sta sotto il mio letto da due mesi?»
«Se ti dà fastidio te ne
puoi liberare, non mi importa.»
«Non mi dà alcun
fastidio, sciocchina. Sai che sotto il letto ci terrei anche un
cadavere, per te. È solo che... il passato non lo puoi cancellare
solo togliendotelo da davanti agli occhi, lo sai.»
«Alice, due mesi fa io ho
preso una decisione. E sai meglio di me che quando si prende una
decisione bisogna avere il fegato di seguirla.»
«Sì, ma si può anche
cambiare idea! Se hai dei dubbi, puoi sempre tornare indietro. Può
capitare di commettere degli sbagli. Puoi tornare indietro in
qualunque momento, e sono sicura che nessuno ti giudicherà per
questo.»
«Se avessi dei dubbi, ti
assicuro che sarei la prima a riesaminare le mie posizioni. Però non
ho alcun dubbio. Sono più che sicura di aver fatto la cosa giusta.»
«E io sono la figlia
illegittima di Schopenhauer.»
«Non è cronologicamente
possibile, lo sai» la prendo in giro, tornando alla mia occupazione.
«Ho sempre saputo che
avevi la testa dura, ma non credevo fino a questo punto» sospira,
rimettendosi il cappotto. «Beh, io adesso devo andare, altrimenti
faccio tardi dal dentista. Spero solo che sarai più convincente di
me, se mai ti dovessi trovare al mio posto.»
Esce senza dire altro, e
seguo la sua ritirata con una punta di tristezza, consapevole che sto
ferendo a morte quella che è una delle poche persone che mi sia
sempre stata accanto senza chiedere nulla in cambio, tranne la
sincerità. C'è una sola promessa che ci siamo fatte, anni fa:
quella di essere sempre sincere l'una con l'altra, a qualunque costo
– e in questo momento io sto venendo meno alla mia parte
dell'accordo. Saremo sempre sincere e ci racconteremo sempre
tutto, ci siamo dette tanti anni fa, in un pomeriggio simile a
questo – ma quel sempre è finito il mese scorso, quando le
ho taciuto un ritardo di tre settimane. È stato allora che ho
iniziato ad avere difficoltà a dormire, è allora che ho iniziato a
starmene sdraiata sulla schiena sul bordo di un letto enorme e
gelido, tenendomi le mani sul ventre e chiedendomi se la
decisione presa quell'ultima sera a Parigi non fosse stato lo sbaglio
più grande della mia vita – o meglio, il secondo più
grande sbaglio. Il primo, senza dubbio, è stato abbassare le
difese e lasciare che Shannon mi facesse innamorare di sé.
Non riesco a non pensare
che qualcosa si sia rotto nella nostra amicizia, da quando le ho
taciuto quel segreto, e se tento in tutti i modi di farle credere che
vada tutto bene è soltanto perché voglio illudermi che tutto possa
tornare come prima – com'era prima che tornassi a credere alle
favole, anche se soltanto per un mese.
1Siamo
sotto lo stesso cielo, e la notte è vuota per me tanto quanto lo è
per te. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Kiss
the rain
di Billie Myers,
contenuto nell'album di debutto della cantante, Growing
Pains
(1997).
2Ashley
| Non so se la moglie di Wayne, amico di Shannon che abbiamo
conosciuto proprio attraverso quest'ultimo, si chiami veramente
Ashley. In mancanza di notizie di prima mano, mi attengo al nome
usato da Love_in_London_night
nella sua stupenda Beautiful
disaster
(che dovete assolutamente leggere, se ancora non lo avete fatto).
|
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Capitolo 3 *** 3 | Mio nonno diceva sempre: una bugia a fin di bene vale più di cinquecento verità. ***
La lunga strada verso casa - 1
Poco
più di una settimana, e "La lunga strada verso casa" sembra
già essere entrata nel cuore di molti lettori - a rischio di
sembrare ripetitiva, un immenso grazie a chi ha inserito la storia in
una delle tre liste, ma anche e soprattutto a chi spende qualche minuto
del proprio tempo per farmi conoscere la sua opinione in merito,
esponendo teorie, ponendo domande e, perché no?, esprimendo
critiche.
Ne approfitto per ricordarvi il mio gruppo Facebook, "Portagioie di
tristezza", una piccola comunità in cui è possibile
trovare spoiler, ma soprattutto esprimere la vostra opinione, anche
attraverso periodici sondaggi!
Il vostro sostegno è davvero molto prezioso, e spero non manchi mai.
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo terzo
Mio nonno diceva
sempre:
una bugia a fin di
bene vale più di cinquecento verità.1
Torino, 3 gennaio 2014
Danilo approfitta dell'assenza della figlia per entrare
nell'appartamento di via Maria Vittoria; giorni prima lei gli ha
accennato ad un difetto alla porta scorrevole della cabina armadio,
che a volte sembra incepparsi. Certo del suo mestiere, pensa che non
sia necessario nulla di più invasivo di una limatura, un lavoro di
cinque minuti che potrebbe svolgere in qualunque momento – se
sceglie di farlo quando lei non è in casa è soltanto perché
immagina di riuscire a farle una sorpresa, e per come la vede lui,
una piccola sorpresa è proprio quello che le occorre per tornare a
sorridere, anche se soltanto per un momento. Il tentativo di
Francesca era buono, ma non è stato sufficiente: è pur vero che lui
non è mai stato un uomo particolarmente sensibile, ma se ventitré
anni da padre gli hanno insegnato qualcosa, quel qualcosa è
riconoscere i sintomi dell'infelicità nei suoi figli – e per
quanto non pretenda di arrivare a scoprirne la causa, vuole almeno
tentare di fare qualcosa per arginarne gli effetti.
Finito
il lavoro, pulisce dove ha sporcato e raccoglie i ferri del mestiere;
mentre se ne va, però, con la cassetta degli attrezzi sfiora un
plico di carte e documenti in bilico sul bordo della scrivania,
facendoli cadere; imprecando contro la propria maldestria si china
per riparare al danno. Mentre si fa scorrere i fogli tra le mani,
cercando di ricomporli in un insieme più o meno ordinato, si trova
tra le mani un biglietto ferroviario: gli dà una rapida occhiata e
lo mette via, poi lo riprende, curioso di sfidare se stesso nella
comprensione del contenuto – è in francese, dunque non capisce la
maggior parte delle parole, ma una cosa è chiarissima: la data del
viaggio. «Ventotto
novembre»
legge, soppesando le parole. «Ventotto novembre» ripete. «Ma lei è
partita il venticinque, ed è tornata il trenta» sussurra, più che
sicuro di quello che sta dicendo. A meno che... legge ancora la data
per assicurarsi di non aver sbagliato, poi finisce di raccogliere le
carte e le mette a posto – più tardi chiamerà e spiegherà il
motivo del disordine, tanto per non farla preoccupare. «Ventotto
novembre» continua a ripetere a bassa voce, chiedendosi che cosa
significhi, che cosa si nasconda dietro quella discrepanza tra la
verità che conosce e la verità fornita dalle prove. «Ma no, non
può avermi raccontato una bugia» tenta di convincersi mentre lascia
l'appartamento e il palazzo, diretto verso il proprio laboratorio.
Eppure sembra proprio che
sia così.
*
Los Angeles, 5 gennaio
2014
Sono trascorsi due giorni
da quando ho visto Christine al parco, e da allora il suo biglietto
da visita giace inutilizzato sul tavolo della cucina. Per
precauzione, ho evitato di tornare nel luogo in cui ci siamo
rincontrati, forse pensando che rivederla non fosse una buona idea.
Eppure sono stato io a lanciare l'idea del caffè e delle due
chiacchiere, e se continuerò a negarmi probabilmente potrebbe
pensare che sono davvero lo stronzo snob che tutti si aspettano sia
in quanto rockstar. Dal divano su cui sono semidisteso, impegnato a
strimpellare qualche accordo con la chitarra, guardo in direzione
della cucina. «Tu dici che la dovrei chiamare?» domando a Bruce,
intento a giocare con la sua pallina preferita. Sentendomi parlare
lascia perdere il gioco e abbaia, guardandomi con la testa
leggermente inclinata verso destra. «Non so se ho voglia di vederla»
riprendo. «Insomma, è passato così tanto tempo... non è detto che
ci siano tante cose di cui parlare. Magari... magari ci sediamo uno
di fronte all'altra e scopriamo che non abbiamo nulla da dirci.»
Abbaia ancora, continuando a guardarmi. «Tu dici che comunque
potrebbe essere una buona idea? Beh, sì, sarebbe un buon diversivo.
Sempre meglio che starmene chiuso in casa a rimuginare, questo è
vero.»
Mi alzo, metto da parte la
chitarra e vado in cucina a piedi nudi, esitando ancora prima di
comporre il numero. Bruce, che mi ha seguito e si è seduto
aspettando la mia mossa, abbaia una terza volta. «E va bene, e va
bene, ora la chiamo. Ma cosa sei, un cane poliziotto?» Compongo il
numero e inoltro la chiamata, portandomi poi il cellulare
all'orecchio. Mi sento nervoso come un ragazzino al primo
appuntamento, nemmeno stessi per parlare con il Presidente. Squilla a
lungo, ma nessuno risponde.
Sto per riattaccare, quando
finalmente sento la sua voce: «Christine Sandoval, chi parla?»
«Pronto, Christine? Sono
Shannon.»
«Shannon! Ciao, che
piacere sentirti» risponde dopo un attimo di silenzio. «Iniziavo a
credere che avessi perso il biglietto.»
«Sono stato un po'
impegnato. Sai, la prossima settimana ripartiamo, e avevo un po' di
cose da sistemare...» mento. «Però adesso mi è proprio venuta
voglia di un caffè. Ti uniresti a me?»
«Beh, in questo momento
sono al lavoro, ma... ma sì, dai. Le scartoffie possono aspettare.
Facciamo tra mezz'ora davanti allo Starbucks sulla settima?»
«Ci vediamo lì.» Non è
molto distante da casa mia, e posso arrivarci in dieci minuti senza
bisogno di prendere l'auto. Non faccio in tempo a mettere giù e
alzarmi che subito Bruce mi è accanto, con la coda che si agita
festosa e il guinzaglio stretto tra i denti. «Tu mi fai paura,
davvero. Vado a cambiarmi.»
Mezz'ora più tardi
Christine è già ferma davanti a Starbucks, vestita di un elegante
tailleur nero che sottolinea un fisico ancora tonico, nonostante
abbia passato i quaranta. Le temperature gradevoli l'hanno convinta a
togliersi il cappotto, che giace appeso al suo braccio, ed entrambe
le mani sono occupate a reggere due bicchieri fumanti. «Caffè
doppio senza zucchero, ricordo bene?»
«Perfettamente» sorrido,
prendendo quello che mi porge. È inevitabile che ci si saluti con un
abbraccio e due baci sulle guance: così facendo riesco a sentire il
suo profumo, delicato e leggero come vent'anni fa. «Com'è che
ancora te lo ricordi?»
«Ho sempre avuto buona
memoria. Ehi, lui chi è?» domanda, vedendo Bruce fare capolino da
dietro le mie gambe.
«Oh, lui è Bruce. L'ho
preso con me l'anno scorso.»
«Ti sono sempre piaciuti i
cani.»
«Sì» rispondo, senza
riuscire ad impedirmi di sorridere ancora. «In realtà pensavo di
non volerne un altro, dopo la morte di Jade2. Jade era il
mio husky» spiego. «Però non ce la facevo più a vivere in una
casa vuota. Così sono andato al canile più vicino e mi sono portato
a casa questo campione» aggiungo, e quasi avessi compreso le mie
parole lui si alza sulle zampe posteriori, puntandomi le anteriori
contro i jeans e strofinandomi il naso contro il maglione. «Diciamo
che è stato amore a prima vista.»
«Si vede che vi adorate.
Ho provato a cercare posto, ma dentro è tutto pieno» aggiunge,
accennando con la mano al locale. «Ti va di fare due passi?»
«Volentieri.»
Attraversiamo la strada e iniziamo a camminare costeggiando la
spiaggia. L'imbarazzo è palpabile: in fondo siamo due persone che
hanno condiviso molti momenti importanti e che non si vedono da anni
– nonostante un tempo siamo stati una cosa sola, adesso siamo due
persone molto diverse. «Allora... sei un avvocato. Congratulazioni,
era quello che volevi diventare. L'ho letto sul tuo biglietto»
aggiungo.
«Dovrebbe essere illegale
decidere del proprio futuro a diciotto anni» risponde. «Fare
l'avvocato è una professione assolutamente noiosa,
specialmente quando lavori per un'azienda. Forse avrei dovuto fare il
penalista: sai, occuparmi di omicidi, aggressioni, quel genere di
cose... sarebbe stato immensamente più eccitante.»
«Mi stai dicendo che non
ti piace quello che fai?»
«No, non è questo... è
solo che ho sempre voluto fare l'avvocato per salvare il mondo, e
invece mi occupo principalmente di burocrazia. Non riesco a
sentirmi... utile, ecco. Non so se riesco a spiegarmi.»
«Stai parlando con una
persona che fa il mestiere più inutile del mondo. Insomma, si
potrebbe vivere benissimo anche senza musica.»
«Credo che agli occhi del
mondo la tua professione risulti molto più utile della mia. La
musica può aiutare molto. Più di un avvocato aziendale, poco ma
sicuro. Scommetto che al mondo esistono un sacco di persone che con
la vostra musica si sentono meglio.» Abbasso gli occhi e non
rispondo: sicuramente la nostra musica fa stare meglio un sacco di
persone, ma quanto può valere questo se sei tu il primo a
sentirti uno schifo? «Allora, raccontami com'è andare in giro per
il mondo a far impazzire le ragazzine.»
«Stancante» è la mia
prima risposta. Getto una rapida occhiata verso l'oceano, passandomi
la lingua sulle labbra mentre penso ad altri aggettivi.
«Gratificante. Redditizio» aggiungo con un sorriso, strappandole
una risata. «Utile.»
«Utile?»
«Utile» ripeto convinto.
«A volte ti capita di conoscere un sacco di persone nuove, persone
che altrimenti non avresti occasione di incontrare, e a volte... a
volte riesci anche ad imparare qualcosa di nuovo.»
«Per esempio?»
«Per esempio, puoi
imparare molto sul mondo, su come ci si comporta in Paesi diversi dal
tuo. E certe volte può anche capitare di imparare nuove cose su se
stessi. Insomma, a volte riesci a capire cos'è che vuoi, cos'è che
ti serve. Può capitare di imparare a conoscersi.» Bevo un sorso di
caffè, aspettando una sua risposta – oppure una nuova domanda.
«Il tempo ti ha veramente
cambiato» sussurra dopo un lunghissimo istante di silenzio.
«Vent'anni fa non avresti mai fatto un discorso così profondo.»
«Suppongo sia il prezzo da
pagare quando si cresce. Non si resta se stessi.»
«Forse sei più te stesso
ora di quanto non lo fossi un tempo.» Mi volto a guardarla, ma il
suo sguardo è rivolto altrove. «E per il resto che mi dici? Le
riviste non parlano mai di te, dunque sospetto che tu sia ancora lo
scapolo d'oro del quartiere.»
Non posso fingere di essere
sorpreso, perché qualcosa del genere me lo aspettavo. Solo, mi
aspettavo di arrivarci più gradualmente, non così di botto. «Che
ti devo dire? Noi Leto non siamo tipi che si sistemano con una brava
ragazza e sfornano una mezza dozzina di bambini.» Questa è
probabilmente la più grossa bugia che abbia mai raccontato: è vero,
per tutta la vita non ho mai avuto il desiderio di mettere su
famiglia, ma per un mese – un unico, intensissimo mese – l'idea
mi ha sfiorato più di una volta. Travolto, in realtà. Certo,
è stato prima che Daria investisse i miei sentimenti con la potenza
distruttrice di un carro armato sovietico. Ma in fondo quella
convinzione non si è placata nemmeno con l'abbandono, perché ci ho
pensato molto anche in questi ultimi due mesi, anche standole a
miglia e miglia di distanza: ho perso il conto delle volte in cui mi
sono svegliato all'improvviso nel cuore della notte, in un bagno di
sudore, dopo aver sognato di aprire la porta di casa e trovarmela di
fronte pentita, in lacrime, e incinta. In fondo, quell'ultima sera a
Parigi non abbiamo usato protezioni, e non sarebbe inverosimile
pensare che... «E di te che mi dici, invece?» le domando, pronto a
dire di tutto pur di abbandonare certi pensieri. «Sei sposata?»
«Sono divorziata»
risponde. «Subito dopo la laurea mi sono sposata con un compagno di
studi. Ci siamo incontrati il primo anno di college, ci siamo
innamorati, così il matrimonio ci è sembrato la soluzione ideale.
Sai, il... il naturale proseguimento di un rapporto. Solo che invece
di essere un inizio, si è rivelato la fine di tutto.»
«Mi dispiace» dico, e so
di essere sincero.
«Oh, è finita da un sacco
di tempo. Sono quasi otto anni, ormai. Per fortuna non abbiamo avuto
figli. I figli sono quelli che soffrono di più quando ci si separa.»
«Questo lo posso
confermare.» Non ho ricordi chiari di mio padre, ma il suo abbandono
è ancora ben scolpito nella mia anima: se per tutta la vita mi sono
sentito vuoto e senza scopo, un po' è anche colpa sua. E poi è
inevitabile pensare a Daria e alla mancanza di coraggio di sua madre,
che non ha nemmeno avuto il cuore di voltarsi a guardare lo splendore
che si stava lasciando alle spalle. Era anche questo a farmi stare
così bene accanto a lei, era questo che mi faceva sentire affine a
lei: il fatto di condividere lo stesso passato, il fatto di essere
entrambi figli di una persona debole.
«Dove sei, Shannon?» mi
sento domandare all'improvviso.
«Sono qui» rispondo in
maniera quasi automatica, senza capire dove intenda arrivare.
«No, non ci sei» replica,
scuotendo lievemente il capo. «Perdona il gioco di parole, ma...
sembra davvero che tu sia su Marte.»
«Scusa. Credo di non
essermi ancora ripreso del tutto dal fuso orario.»
«Forse saresti dovuto
restare a casa a riposare. Se la prossima settimana dovete
ripartire...»
«Ma no, figurati. E poi
sono io che ti ho proposto di vederci. Non hai niente di cui
scusarti. È solo colpa mia. Dai, raccontami ancora qualcosa di te.
Come sta la tua famiglia?»
«I miei abitano ancora in
Virginia3, e non credo esista qualcosa in grado di farli
spostare di lì. Però Rachel non ce la faceva a restare là senza di
me, quindi appena si è laureata mi è corsa dietro. Io ho studiato a
Stanford» aggiunge, spiegando così il motivo della sua presenza a
Los Angeles. «Mi sono trasferita qui subito dopo essermi laureata, e
credo non me andrò mai. Adoro questa città.»
«Siamo in due.»
«In tre, se conti anche
Rachel.» Beve un sorso del suo caffè, poi mi domanda di Jared.
«Vive qui anche lui?»
«Viviamo tutti qui, anche
mia madre. Alla fine sembra aver trovato un posto fatto su misura per
lei. Almeno riesce a starci vicino, quelle poche volte che ci
fermiamo a casa.»
«Sarà dura per lei starvi
lontana così a lungo. Chiamo mia madre un giorno sì e l'altro no, e
ogni volta mi sembra che stia per scoppiare in lacrime.»
«Beh,
preoccuparsi è il dovere di un genitore, no?»
«Immagino di sì.»
Abbassa lo sguardo sul bicchiere, e quando lo rialza i suoi occhi
sono più tristi che mai. «Questo
un po' mi manca, in fondo. Non avere dei figli. Insomma, quando da
ragazzina pensavo al futuro... mi sono sempre vista con una famiglia
mia. Non esserci riuscita mi ferisce, in un certo senso.»
«Potresti
ancora avere una famiglia» suggerisco.
«Alla
mia età? Credo non sarei più in grado di gestire un neonato. I
figli vanno fatti da giovani. Con il passare degli anni si perde la
flessibilità necessaria. Avere un figlio significa stravolgerti la
vita, cambiare totalmente le tue abitudini... non so tu, ma io non
penso che avrei le energie necessarie per stare dietro ad un
bambino.»
Ci
penso su per qualche istante, poi rispondo: «No, credo che nemmeno
io ce la farei.» La seconda più grande bugia della giornata –
perché ne sarei capace, ne sono certo. Se prendessi la decisione di
mettere su famiglia riuscirei a portarla avanti fino in fondo,
nonostante non sia esattamente 'giovane'. Forse dovrei esprimere la
mia reale opinione, ma so già che dovrei motivarla, e non sento di
avere le energie necessarie per espormi così tanto. Non davanti a
lei. Non dopo così tanto tempo.
Ho
completamente perso la cognizione del tempo, camminando a lei su
questo marciapiede stranamente deserto. Quasi mi avesse letto nel
pensiero, Christine guarda l'orologio. «Adesso temo proprio di
doverti lasciare. Devo tornare in ufficio, c'è del lavoro che devo
finire. Parlare con te è stato... è stato bello.»
«Lo
dici come se la cosa ti sorprendesse.»
«Beh,
dopo tutto questo tempo non ero sicura che saremmo riusciti a trovare
qualcosa da dirci» sorride. «Mi ha fatto molto piacere rivederti,
Shannon.»
«Anche
a me ha fatto piacedere rivedere te, Christine.»
Ci salutiamo con una
stretta, come quando ci siamo incontrati, ma invece di sfiorare la
mia guancia le sue labbra premono forte contro le mie, cogliendomi di
sorpresa. Rimango fermo, immobile, pietrificato come non mi era mai
successo: di solito sono io a cercare il bacio, ma anche quando vengo
colto di sorpresa riesco a reagire, mentre adesso... adesso non
riesco a fare altro che stare immobile, le sue labbra premute contro
le mie e la sua mano sulla mia spalla, tanto confuso da non riuscire
nemmeno ad inquadrare i miei stessi pensieri. «Ci vediamo in giro»
sussurra quando ci separiamo, iniziando ad allontanarsi con passo
sicuro. Per la seconda volta nella vita la guardo andare via senza
voltarsi, e sento che pagherei qualunque cifra pur di sapere che
diavolo stia accadendo nella mia vita.
*
Torino, 7 gennaio 2014
Da quando ho avuto la
conferma di essere rimasta l'unica dipendente del negozio, mi sento
diversa – più leggera, in un certo senso, come se l'idea di
essermi liberata per sempre di Carlotta e del suo pessimo carattere
mi avesse migliorato la vita. È stata una bella prova di fiducia da
parte di Marco, ed è mia ferma intenzione non farlo pentire della
sua scelta.
È
martedì, e come ogni martedì sto rinnovando la vetrina,
rivoluzionandola completamente – è un compito che svolgo con
regolarità sin dai primi tempi della mia assunzione, e in un certo
senso è diventato un rito, una piccola cerimonia che mi dà
l'illusione di essere in grado di controllare, se non la mia intera
vita, almeno una minuscola parte di essa. Sono sprofondata fino al
collo tra i libri, quando Marco mi raggiunge e mi sfiora una spalla.
«Daria, puoi venire un istante? C'è una persona che vuole parlare
con te» sussurra, evidentemente per non farsi sentire dalla persona
in questione.
«C'è
una persona che mi vuole parlare?» Per un attimo mi attraversa la
mente l'idea che Shannon possa essere venuto a cercarmi, nonostante
le mie richieste e i due mesi di silenzio – ma è soltanto un
attimo, perché quando il mio sguardo incontra quello della persona
che mi è venuta a cercare, Shannon diventa l'ultimo dei miei
pensieri.
*
Los Angeles, 7 gennaio
2014
«Shannon,
ci sei?» A svegliarmi è il rumore della chiave che gira nella toppa
e della porta che si apre: chiunque si sarebbe alzato di scatto, in
preda al panico, ma dopo tanti anni riconoscerei la voce di Emma
anche in mezzo al fragore di uno dei nostri concerti.
«Sto
dormendo» rispondo, la bocca ancora impastata, infilando la testa
sotto il cuscino.
«Tu
e Jared siete proprio fratelli» sbuffa, entrando in camera con un
passo tanto deciso da spaventare Bruce, che sento spostarsi sotto il
letto. «Non oso immaginare quanta fatica facesse vostra madre per
convincervi ad andare a scuola» aggiunge prima di strapparmi via di
dosso le lenzuola.
«Ehi,
potevo essere nudo!» protesto, scostandomi appena il cuscino dalla
faccia.
«Come se fosse la prima
volta che vedo uno di voi senza vestiti» replica. Quell'affermazione
mi incuriosisce non poco, ma non appena intercetta il mio sguardo si
affretta a correggersi. «Non nel senso che credi tu, maniaco!»
esclama, strappandomi via dalle mani il cuscino per colpirmi in
testa. Prima di calare il braccio, però, si blocca. «Ma che diavolo
hai combinato?»
«Cosa?»
«I
tuoi... i tuoi capelli.»
«Ah,
ti riferisci a quello...» Mi metto a sedere e mi accarezzo la nuca,
dopo tanto tempo di nuovo libera. «Li ho tagliati.»
«Questo
lo vedo. Perché? Ti stavano bene. E iniziavi ad amarli quasi più di
quanto tuo fratello ami i suoi.» Mi restituisce il cuscino, senza
riuscire a smettere di fissare il mio nuovo taglio.
«Non
li sopportavo più, mi costavano troppa fatica. E poi avevo voglia di
cambiare. Che ci fai a casa mia a quest'ora, comunque? È l'alba!»
«Non
è esattamente l'alba,
sono le dieci del mattino» puntualizza. «Sono venuta a farti le
valigie.»
«Le
avrei fatte io nel pomeriggio. Partiamo soltanto domani.»
«Cambiamento
di programma. Partite stasera. Avete un volo alle otto.»
«Dammi
il tempo di trovare il telefono. Ho proprio voglia di dirne quattro,
a quel...»
«Non ti serve il telefono.
Ti vuole in studio, dice che ti deve parlare. Fossi in te, farei una
doccia e lo raggiungerei al volo. Le valigie le tieni sempre al
solito posto?» Mentre prendo un paio di jeans e pesco un paio di
mutande da un cassetto, mugugno un monosillabo che io stesso non sono
in grado di definire.
*
Torino, 7 gennaio 2014
«Ciao,
Daria.» La donna in piedi di fronte a me ha il mio stesso naso, il
mio stesso colore di capelli, lo stesso taglio degli occhi, persino
le stesse labbra, eppure è come se il mio cervello non avesse
intenzione di riconoscerla: d'altra parte sono quindici anni che ha
deciso di scomparire dalla mia vita. «Forse non mi riconosci, ma
io...»
«So
chi sei» taglio corto, continuando a guardarla dritta negli occhi.
«So chi sei.»
«Sei
così cresciuta...» le sento dire, gli occhi lucidi per la
commozione di starmi davanti.
«Ai
bambini succede» ribatto, sapendo di non essermi mai rivolta tanto
duramente ad un essere umano. «Il tempo non si ferma soltanto perché
uno decide di andarsene» aggiungo. Il negozio è vuoto, Marco si è
rintanato nel retro per lasciarci sole, e noi stiamo in piedi una di
fronte all'altra come soldati pronti a combattersi fino allo stremo
delle forze.
«Daria,
io vorrei spiegarti perché...»
«Ma
io non voglio sentire» la interrompo. «Hai avuto quindici anni per
tornare indietro a spiegarmi
perché»
aggiungo, la voce incrinata per le lacrime. «Nulla di quello che
potresti dire cambierà le cose.» Finalmente mia
madre
abbassa lo sguardo, punta sul vivo. Sa che ho ragione, e che nemmeno
il miglior oratore del mondo potrebbe contraddirmi. «Adesso voglio
che tu esca da questo negozio. E voglio che... voglio che non torni
indietro. Voglio che non torni più indietro. Non cercarmi più. Non
cercarci più.»
Senza
protestare, senza rialzare la testa, senza dire una parola, la donna
che mi ha dato la vita – e che ha successivamente distrutto ogni
mia certezza – si volta e se ne va, ma soltanto dopo aver
appoggiato qualcosa sul bancone. Prima di avvicinarmi alla postazione
mi assicuro che sia lontana, perché di qualunque cosa si tratti non
voglio darle false speranze: ha distrutto la mia vita e quella di
altre tre persone, e non può sperare che tornare indietro a chiedere
scusa dopo quindici anni valga il perdono. Non posso perdonarla. Non
possiamo
perdonarla.
«Tutto
bene?» domanda Marco, che nel sentire la porta aprirsi e chiudersi
si è affacciato dal retro.
«Un
biglietto da visita» sussurro, guardando il pezzo di carta
appoggiato sul legno lucido. «Mi ha lasciato un fottuto biglietto da
visita.» Lo prendo, e dopo averlo fissato per qualche secondo lo
strappo in tanti piccoli pezzi. «Posso prendermi una pausa?» gli
domando, dopo aver lasciato cadere i coriandoli bianchi sul ripiano
scuro.
«Puoi
anche prenderti la giornata, se vuoi» mi sussurra, comprendendo il
mio stato d'animo.
«Vado
solo a fare un giro. Ho bisogno d'aria fresca» rispondo, andando a
prendere il cappotto. «Lo butti via tu, per favore?» gli domando
passandogli accanto.
«Non
ti preoccupare, faccio io.»
«Grazie.
Ci vediamo tra poco.»
«A
tra poco.»
*
Los Angeles, 7 gennaio
2014
Emma
non riesce a trattenere un sorriso, mentre piega le magliette di
Shannon e le infila ordinatamente nel trolley – non riesce a non
pensare che quello di cambiare look per superare un momento
particolarmente complicato sia un comportamento prettamente
femminile, e di Shannon tutto
si può dire, tranne che abbia un lato femminile. Sorride ancora,
pensando che adesso sui social network impazzeranno i sondaggi:
qualcuno difenderà i capelli lunghi, qualcuno starà dalla parte dei
corti, e qualcuno nel mezzo continuerà a domandare il perché di
quella scelta. Per quanto la riguarda, Shannon sta bene con qualunque
taglio, e per quanto riguarda il motivo... beh, sarebbe da sciocchi
non pensare che abbia a che fare con Daria e con la fine della loro
relazione. Da quel dannato primo fine settimana di novembre, tutto
sembra avere a che fare con Daria, come se quella ragazza fosse la
dannata luna che regola le dannate maree. Ne ha visti di uomini
totalmente rimbecilliti
dall'attrazione per una donna, ma non credeva che sarebbe mai
successo a Shannon – così come probabilmente non succederà mai a
Jared. Ma forse quello che è successo dimostra che tutto può essere
messo in discussione, che tutto può essere confutato, che tutto può
cambiare – in fondo, cambiare è compito della vita.
Mentre Shannon esce dal
bagno e apre l'armadio, cercando una maglietta, Emma lo studia di
sottecchi, trovandolo molto dimagrito – tra i due, è sempre stato
Jared quello a cui si potevano contare le costole, e non è abituata
ad associare l'idea di magrezza all'altro fratello. Certo, sa che
Shannon tende sempre a dimagrire durante i tour – il contrario
sarebbe impossibile, con tutto il lavoro che fa dietro i suoi tamburi
–, ma questa volta le sembra che la perdita di peso sia eccessiva –
non tanto da allarmare, non ancora, ma sicuramente maggiore del
normale. Mentre sceglie un buon numero di paia di mutande, si chiede
se non sia il caso di far presenti a Jared i propri dubbi – in
fondo, si tratta sempre di suo fratello e del suo stato di salute, ed
è una di quelle cose di cui Jared vorrebbe essere informato.
*
Torino,
7 gennaio 2014
Appena
rimasto solo, Marco ha raccolto i frammenti di carta sparsi sul
bancone e si è diretto verso il cestino della carta straccia, salvo
poi fermarsi con la mano chiusa a pugno, tesa sopra la pattumiera. Si
volta verso la vetrina, senza vedere Daria né la donna che è venuta
a cercarla, e si chiede che cosa farebbe lui in un simile frangente –
anche lui ha ormai perso i propri genitori, ma nessuno dei due potrà
più venire a cercarlo. Lui li ha persi per
sempre,
mentre Daria ha l'occasione di recuperare ciò che ha perso – se
fosse in lei, lui non vorrebbe sprecarla. È pur vero che le persone
non sono tutte uguali, e che ognuna di loro ha i propri motivi per
fare quello che fa, però... però non se la sente di buttare via
quei pezzi di carta, che sono l'unico modo che Daria abbia per
ritrovare sua madre – per ritrovarla almeno fisicamente,
perché sa che il rapporto tra loro non sarà mai più lo stesso.
Tira indietro la mano.
Alzando
gli occhi dal cellulare, Alice ha un déjà-vu – solo che due mesi
fa c'era Francesca ad aspettarla ai piedi della scalinata con gli
occhi gonfi di lacrime, non Daria. Non aspetta nemmeno di sentire che
cosa sia successo: si congeda subito dalle compagne e circonda le
spalle dell'amica con un braccio, premendole le labbra contro la
tempia per farle sentire la sua vicinanza. «Andiamo a prenderci una
cioccolata calda, che è proprio il caso.»
*
Los Angeles, 7 gennaio
2014
Tomo
e Vicki escono dallo studio del dottore congedandosi con un sorriso e
una stretta di mano, felici come le coppie delle favole. «Vorrei che
fosse già agosto» sospira lei, accarezzandosi con entrambe le mani
il ventre ancora piatto – l'unico indicatore del suo stato è lo
sguardo, lucido e sognante come quello di una bambina la mattina di
Natale. «Non vedi anche tu l'ora che nasca?» aggiunge, appendendosi
al braccio del marito.
«Io
sono terrorizzato»
risponde lui, passandole un braccio dietro la schiena per tenersela
stretta. «Tu non sai quanta paura abbia di sbagliare. Non so niente
di bambini!»
«Beh,
nemmeno io. Ma non è questo il bello? Abbiamo tutta una vita per
imparare.»
«E
se combiniamo qualche disastro?»
«Non
combineremo alcun disastro. L'istinto sarà dalla nostra parte.»
«Sarà
come dici, ma io non mi fido. Sicura che ti posso lasciare da sola
per queste tre settimane?»
«Stai
tranquillo, non sono sola. Ci sono i miei
genitori e i tuoi
genitori a prendersi cura di me. Specialmente tua madre. Credo che un
giorno mi metterà in una teca di cristallo e non ti permetterà
nemmeno di toccarmi» scherza Vicki, alzando una mano per dargli un
buffetto sulla guancia. «Piuttosto, è di Shannon che dovreste
prendervi cura» aggiunge, facendosi seria.
«In
che senso?»
«Nel
senso che non sta bene per niente. Insomma, io lo trovo molto giù di
morale. Da quando è successo il fattaccio di Parigi non è più
stato lo stesso.»
«Beh,
vorrei vedere come ti sentiresti tu al suo posto.»
«Avete
provato a parlargli? Che cosa dice?»
Tomo
scuote la testa, continuando a camminare. «Jared dice che ha provato
più volte a toccare l'argomento, ma che ogni volta Shannon si chiude
a riccio.»
«E
Jared non è certo uno che molla al primo tentativo fallito»
aggiunge lei in tono sconsolato. «Vorrei poter fare qualcosa,
davvero. Vederlo così giù mi ferisce da morire e mi fa sentire in
colpa, perché io al contrario sono fin
troppo felice.»
«Si
può essere troppo felici?»
«Di
certo si può esserlo più di Shannon.»
«Tu
hai qualche proposta? Cosa potremmo fare per tirarlo su di morale?»
Vicki
ci pensa su per qualche istante, indecisa sulla risposta. «Andate in
Italia, rapite quella ragazza e portatela qui» decreta alla fine,
annuendo convinta.
*
Torino, 7 gennaio 2014
«Dopo tutto questo
tempo... dopo tutto questo tempo ha avuto la faccia tosta di tornare,
come se niente fosse. Come... come se fossero passati quindici
giorni, e non quindici anni. Io non... io non so come
ho fatto a non svenire, quando l'ho vista. Insomma, quando Marco ha
detto che c'era una persona che mi cercava, io ho pensato subito
a...» Mi interrompo, incapace di pronunciare quel nome ad alta voce.
«A Shannon?» completa
Alice, sapendo quanto mi costi dirlo.
Annuisco, tenendo lo
sguardo basso. «Non ero pronta per un simile colpo. Mi sarei
aspettata chiunque, forse persino il Papa, ma lei... lei no.
Penso di non aver mai guardato qualcuno con tanto disprezzo.»
«Beh, da un lato ti
capisco. Credo che se mia madre fosse ricomparsa dal nulla dopo
quindici anni, forse anch'io avrei avuto qualche difficoltà a
trattare con lei in maniera civile.»
«Però?»
«Però cosa?»
«Alice, con te c'è sempre
un però. Sei una filosofa, confutare fa parte della tua natura.»
La guardo abbassare gli
occhi per un istante e accennare un timido sorriso, poi rialzare lo
sguardo e schiarirsi la voce. «Da un lato credo che la tua reazione
sia comprensibile, però... credo anche che dovresti...
valutare l'idea di sentire ciò che ha da dirti. Per quel che
ne sai potrebbe essere venuta a cercarti perché sta per morire e
vuole il tuo perdono. Insomma, non è detto che sia tornata soltanto
per ferirti, no?»
«Forse no, ma... non lo
so, sento che potrebbe succedere di nuovo, e non so se questa volta
riuscirei a superare l'abbandono.»
«Daria, lo scopo
principale delle persone non è ferire il prossimo.»
«Forse non
intenzionalmente, ma quante volte succede anche quando non è stato
programmato?» Sto parlando con cognizione di causa, adesso, perché
anch'io a mia volta ho ferito qualcuno: ho ferito Shannon,
abbandonandolo in quella stanza d'albergo; ho tacitamente ferito
Alice, nascondendole la verità; ho ferito me stessa, illudendomi di
poter vivere finalmente un'esistenza serena e arrendendomi a pochi
metri dal traguardo. Ma forse a qualcosa posso rimediare. «Alice, io
ti devo confessare una cosa.»
«Che cosa?»
Alzo la testa e la guardo
negli occhi, prendendo un lungo respiro. «Sono quasi rimasta
incinta.»
Forse avrei dovuto
aspettare che deglutisse, perché la mia affermazione le fa sputare
sulla tovaglia pulita il sorso di cioccolata che ha appena bevuto.
Ringraziando il cielo, almeno la sala è vuota. «Tu cosa?»
«Io... ho rischiato di
rimanere incinta.»
«Ma cos'è, un rituale
delle donne della tua famiglia?» scherza, cercando di tamponare le
macchie con un tovagliolino. «Parliamo di Shannon?»
«Beh, è lui l'unico uomo
con cui sia stata.»
«C'è stato anche Andrea.»
«Due anni fa, Alice.»
«Potrebbe avere gli
spermatozoi lenti» ribatte, facendo spallucce e lasciando perdere le
macchie. «Credevo che tu e Shannon usaste precauzioni. Non hai detto
che si è addirittura dimenticato una manciata di preservativi a casa
tua e tuo padre li ha visti?»
«Sì, ma... quando eravamo
a Parigi, due volte è capitato di... dimenticarli.»
«Per la serie "Quando
la passione chiama"...»
«Non so che cosa mi sia
passato per la testa in quei momenti. So solo che... non pensavo,
ecco tutto.»
«E chi riuscirebbe a
pensare, con un uomo del genere stretto tra le cosce?»
«Alice!» Ancora una volta
ringrazio il cielo che siamo sole. «La prima volta non ci sono stati
problemi, ma la seconda lui... non... non si è spostato, ecco.»
«Beh, dicono che l'unica
volta che non usi il preservativo è la volta che ti frega, però le
statistiche suggeriscono che...»
«Ho avuto un ritardo di
tre settimane» sputo fuori, interrompendola. «Teoricamente mi
sarebbero dovute arrivare pochi giorni dopo il mio ritorno ufficiale,
e invece... invece mi sono arrivate la settimana prima di Natale.»
«E non mi hai detto
niente?» Non riesco a guardarla negli occhi, consapevole che vi
leggerei la profonda delusione per essere stata tenuta all'oscuro dei
miei dubbi. «Daria, avresti dovuto dirmelo... accidenti, era appena
successa la stessa cosa con tua sorella...» Tace per un istante, poi
riprende. «Adesso capisco perché eri così giù, prima di Natale.
Insomma, finora avevo sempre collegato il tuo malumore con Parigi,
ma... adesso si spiegano molte più cose.»
«Non so perché non te
l'ho detto» confesso, senza osare alzare la voce. «Forse... forse
mi sentivo in colpa perché abuso sempre dei tuoi consigli. Per una
volta volevo riuscire a cavarmela da sola.»
«Certo che sei proprio
scema» mi prende in giro. Alzo lo sguardo, e nei suoi occhi leggo
soltanto tutto il bene che mi vuole. «Lo sai, io sono la signora
Wolf, risolvo problemi.» La citazione tarantiniana fa ridere
entrambe, ed è in questo momento che capisco: potremmo farci
qualunque genere di torto, e probabilmente torneremmo amiche come
prima nel volgere di poche ore. Quello che abbiamo Alice ed io è
qualcosa che non può essere spiegato, ma che è semplicemente
grandioso.
1Mio
nonno diceva sempre: una bugia a fin di bene vale più di cinquecento
verità. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da Aldo
(interpretato da Aldo
Baglio)
nel film Chiedimi
se sono felice (2000, diretto da Aldo,
Giovanni & Giacomo
e Massimo Venier).
La scelta del film non è casuale: infatti, se ben ricordate, è uno
dei film che Daria fa vedere a Shannon durante il fine settimana che
passano insieme a Torino.
2Jade
| Nome inventato di sana pianta, poiché non riesco proprio a
ricordarmi come si chiamasse il cane di Shannon.
3Virginia
|
Ho tentato diverse ricerche, ma non sono riuscita a ricostruire tutti
gli spostamenti della famiglia Leto, di conseguenza non so di preciso
in quale Stato vivesse Shannon all'epoca dell'ultimo anno di liceo.
Siccome Wikipedia riporta che Jared ha seguito dei corsi presso una
scuola in Virginia, ho scelto questo Stato come sfondo della sua
storia con Christine.
|
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Capitolo 4 *** 4 | C'è qualcosa che hai dimenticato di dirmi? ***
La lunga strada verso casa - 1
All'atto
della pubblicazione non ho fatto promesse, ma dentro di me speravo di
potervi regalare un aggiornamento a settimana - e per adesso il mio
proposito sembra reggere. =) Come sempre, grazie mille a tutti coloro
che mi fanno sentire la loro presenza, sia aggiungendo la storia ad una
delle liste, sia 'sprecando' parte del loro tempo lasciando una
recensione. Mi fate sentire importante, e soprattutto mi illudete che
ciò che scrivo abbia un minimo di valore.
Come sempre, vi ricordo il mio gruppo Facebook, "Portagioie di
tristezza", attraverso il quale potrete ricevere spoiler o
informazioni, o anche soltanto interagire con me o con altri fan di
Shannon e Daria.
Con l'augurio che il capitolo non vi dispiaccia, arrivederci,
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo quarto
C'è qualcosa che hai
dimenticato di dirmi?.1
Los Angeles, 7 gennaio
2014
«Jared? Ci sei?» Entro in studio a passo deciso, affacciandomi in
ogni stanza alla ricerca di mio fratello. «C'è nessuno?»
«Sono qui!» sento
rispondere da qualche parte alla mia sinistra. Entro nella stanza
dov'è riposta la mia batteria, e qui trovo Jared, seduto per terra
in mezzo ad un mare di fogli. «Sei arrivato, finalmente! Non credevo
che Emma sarebbe riuscita a svegliarti.»
«Cos'è questa novità che
partiamo stasera invece di domani mattina?» gli domando, ignorando
le sue affermazioni e andando a sedermi sul mio seggiolino. «Se
l'avessi saputo mi sarei alzato presto e avrei fatto le valigie da
me. Non ci sarebbe stato il caso di mandare Emma a frugare tra le mie
mutande.»
«Cos'è, improvvisamente
ti dà fastidio che una donna frughi tra le tue mutande?» mi domanda
con un sorriso, alzando appena la testa dalle carte. «Ma che diavolo
hai fatto ai capelli?»
«Li ho tagliati» rispondo
con sufficienza, passandomi una mano sulla nuca.
«Questo lo vedo benissimo
da me, grazie» mugugna, tornando a concentrarsi sui fogli. «Comunque
è necessario partire prima. Il posto dove suoneremo dopodomani ha
un'acustica diversa, quindi ci sarà bisogno di prove supplementari,
e tu sai che a me non piace fare le cose di corsa.»
«Dannato maniaco»
sospiro, picchiettando con le dita su uno dei tamburi. «E perché mi
hai fatto venire qui? Da come ne parlava Emma, sembrava che dovessi
rivelarmi il terzo segreto di Fatima.»
A quel punto, il sorriso
scivola via dal suo volto, lo sguardo si fa cupo. «Beh, io stavo...
ricontrollando le tabelle di marcia del tour, e... sembra che a
giugno saremo di nuovo in Italia.»
«E allora?» domando,
tentando di risultare naturale e indifferente – per quanto il
pensiero di trovarmi di nuovo in quel particolare paese non mi renda
affatto tranquillo.
«E
allora, il diciannove giugno saremo a Torino.» Aspetta una mia
risposta, ma sono arrivato a quel punto del discorso in cui ogni
parola sembra superflua. «Shannon, non venirmi a dire che la cosa
non ti tocca, perché sono più che certo che non sia così. Deve
importarti per forza.»
«Cosa
vuoi che ti dica? Che stare in quella città non mi farà alcun
effetto? Non ti devi preoccupare per me, Jared. Tanto ci staremo una
notte e poi ripartiremo subito per Roma, no?»
«Sì,
ma... siamo ancora in tempo per rimandare, o per...» Si blocca, come
se l'idea di pronunciare la parola annullare
gli provocasse un forte dolore interiore. «Insomma, se per caso
dovessi accorgerti che l'idea ti fa troppo male.»
«Non è il caso di
rimandare niente, né tantomeno di annullare. A giugno andremo in
Italia e faremo il nostro show, come facciamo sempre.»
«Va bene» risponde lui.
«Volevo solo essere sicuro che... che fosse tutto ok, ecco.»
«Tranquillo, lo è. È
tutto a posto.»
«Bene.» Anche se non lo
sto guardando, sento che il suo sguardo è fisso su di me, teso a
catturare ogni movimento, pronto a cogliere ogni cambiamento del mio
viso. «Shannon, c'è qualcosa che non mi dici?»
«In che senso?»
«Nel senso che... beh,
sembra che ci sia qualcosa che non mi vuoi dire.»
Mi mordo appena un labbro,
rendendomi conto che fin dall'inizio sapevo che questo momento
sarebbe arrivato: Jared mi conosce meglio di chiunque altro, e la sua
natura fin troppo analitica gli consentirebbe di scovare ogni mio più
piccolo segreto. «Qualche giorno fa ho incontrato Christine»
confesso, sapendo di non poterlo tenere nascosto a lungo.
«Christine?
La tua
Christine?»
«La
mia
Christine, esatto. Ero al parco con Wayne e Ryder, e ad un certo
punto... boom, me la sono trovata di fronte. È stata lei a
riconoscermi, io non ce l'avrei mai fatta.»
«Perché, è cambiata
molto?»
«Sono trascorsi più di
vent'anni, Jared. È ovvio che nessuno dei due è più lo stesso.»
«Lei però ti ha
riconosciuto.»
«Mi avrà visto in tv,
oppure su una rivista. È una possibilità che io non ho avuto.»
«Com'è, adesso? Ha
passato la quarantina anche lei.»
«Beh, è... carina.
Insomma, per avere più di quarant'anni è ancora molto bella. Però
si è rifatta il naso, dice che aveva dei problemi respiratori.»
«Che fa nella vita?»
«L'avvocato. È il legale
di una società. Vive qui da quando si è laureata. E vive qui anche
sua sorella. Ti ricordi di Rachel?»
«Rachel, cioè quel
ranocchietto che la seguiva sempre ovunque? Certo che me la ricordo!
Vive qui?»
Annuisco. «È sposata e ha
tre figli.»
Jared ribatte con un
fischio. «E Christine, invece? È sposata oppure ha passato gli
ultimi due decenni a struggersi per te?»
«Divorziata. Da otto anni.
Niente figli.»
«Ti ha raccontato tutto
questo in un solo incontro?»
«No, veramente ci siamo
visti un paio di giorni fa per un caffè. È allora che mi ha
raccontato quello che ha combinato in questo periodo.»
«E di te che le hai
raccontato?»
«Che
avrei dovuto raccontarle? Le ho detto che sono felice, che non ho
troppe preoccupazioni, che mi piace quello che faccio...» E
che non è più l'unica donna ad avermi spezzato il cuore,
aggiungo nella mia mente. «Conduciamo una vita invidiabile, lo sai.»
«Almeno in apparenza»
sospira lui. «In fondo non facciamo che sbattere di qua e di là
come dei pazzi, prendendo aerei sempre di corsa e vivendo negli
hotel... che vita è la nostra?»
«E questa negatività da
dove salta fuori? Credevo che tu adorassi la nostra vita.»
«Adoro
il nostro mestiere, questo sì» risponde, riordinando un plico.
«Però non puoi negare che vivere secondo i nostri ritmi non è
veramente vivere.»
Lo fisso a lungo, senza comprendere dove voglia arrivare. «Ah,
lascia stare. Da quando Vicki è rimasta incinta sono diventato
sentimentale» prosegue, scuotendo la testa.
«Ti è venuta voglia di
fare dei figli?» lo prendo in giro.
«No,
ma che figli... so a malapena badare a me stesso. Ho solo pensato
che... non so, che se solo lo volessimo potremmo avere una vita
diversa, e forse... beh, che forse potremmo avere molto
di più.
Tu non hai mai pensato di sistemarti? Sai, trovare una brava ragazza,
sposarti, avere dei figli?» Mi è impossibile non chiedermi se mi
abbia letto nel pensiero.
«Ti stupirebbe sentirmi
dire che ci ho pensato, e ben più di una volta?»
«Ti stupirebbe sentirmi
dire che la cosa non mi stupisce affatto? Daria?» aggiunge.
Annuisco, senza riuscire a sollevare lo sguardo. «Di' pure che sono
cazzate, ma da quando l'ho conosciuta non ho fatto altro che pensare
che sembrava proprio la ragazza giusta per te.»
«Anche ai migliori capita
di sbagliare.»
«Già, pare proprio di sì.
Davvero hai pensato di sposarla e di farci dei figli?» mi chiede
dopo un istante, quasi sconvolto da tale eventualità.
«Mi sono chiesto come
sarebbe stato. Ma suppongo che ora non sia più un problema che
dobbiamo affrontare. Mi hai chiamato soltanto per dirmi dell'Italia?»
Questa volta è lui ad annuire e basta, senza dire una parola. «Bene,
allora me ne vado. Devo chiamare mamma e sentire se può tenermi
Bruce già da stasera, altrimenti chiederò a Wayne se posso portarlo
da lui.» Mi alzo, lo saluto e lo lascio solo con i suoi pensieri e i
suoi fogli. Di nuovo solo e all'aria aperta, infilo le mani in tasca,
chiudo gli occhi e inspiro profondamente l'aria fresca, sperando che
gli occhi smettano presto di bruciare. Non posso continuare a
soffrire per qualcosa che so non tornerà mai.
*
Torino, 7 gennaio 2014
«Sono quasi le otto. Che
dici, andiamo a mangiare qualcosa?»
Nel volgere di una
settimana, questa è la seconda volta che Marco mi invita a mangiare
con lui: forse non è il massimo dal punto di vista dell'etica
professionale, ma pur di non rimanere sola a casa sarei disposta
anche a saltare tra le fiamme dell'inferno. «Va bene, ma niente
cinese. Non potrei sopportare di vederti torturare quelle povere
bacchette un'altra volta. »
«Non mangerò mai più
cinese insieme a te. Sei una maestra crudele» risponde, infilandosi
il cappotto. «Che ne dici di una pizza? Hanno aperto un nuovo locale
qui dietro l'angolo. Alcuni miei amici ci sono stati, dicono che non
è male.»
«E va bene, fidiamoci»
replico, vestendomi a mia volta. Usciamo dal negozio, chiudendoci la
porta alle spalle, e mentre camminiamo sotto un cielo che promette
neve parliamo e scherziamo come una coppia di ragazzini: abbiamo
sempre avuto un ottimo rapporto, ma è come se gli ultimi eventi ci
avessero avvicinati, rendendoci due amici nel vero senso della
parola – e se da un lato questo mi piace, dall'altro mi spaventa
terribilmente, perché non ho mai avuto un amico maschio, e in verità
non ho mai creduto all'amicizia tra due persone di sesso diverso.
Tuttavia smetto di farmi
domande, e mi lascio guidare verso la cena.
*
Los Angeles, 7 gennaio
2014
«Grazie
per essere venuta con così poco preavviso, mamma. Jared ha
anticipato la partenza di dodici ore senza dirmi niente, e...»
«Non
aggiungere altro, conosciamo tutti e due Jared e le sue manie di
controllo» mi interrompe mia madre, chiudendosi la porta alle
spalle. «Bruce, tesoro, dove sei?»
«Si
sta deprimendo sotto il mio letto» rispondo, facendole strada verso
la mia camera. «Sta così da quando Emma è venuta a farmi le
valigie, stamattina.»
«Perché
Emma è venuta a farti le valigie?»
«Perché
l'ha mandata Jared.»
«L'ha
mandata Jared? E perché?»
«Perché così io sono
potuto andare in studio a parlare con lui.»
«E
che cosa doveva dirti?»
«Voleva
sapere se a giugno me la sentirò di andare in Italia oppure no.
Abbiamo due date lì.»
«E
perché non dovresti... oh» si corregge subito, abbassando lo
sguardo. «Beh, nessuno ti biasimerebbe, se preferissi non andare.
Suonerete in una città vicina a...»
«Suoneremo
nella sua città» la
interrompo. «Ma non è detto che lei ci sia, e anche se ci fosse ci
sarebbero comunque altre decine di migliaia di persone. Sarebbe un
po' difficile notarla.»
Ho parlato con il mio tono più leggero e indifferente, ma noto che
c'è qualcosa che mia madre vuole dire. «Avanti, spara.»
«Cosa?»
«So
che muori dalla voglia di dire qualcosa, quindi spara.»
«Non
è assolutamente...»
«Invece
sì. Sei una madre, ribattere è nella tua natura.»
Ci
pensa su per un istante, poi sbotta: «Sarebbe difficile notarla,
forse, ma tu la cercheresti comunque. Non intenzionalmente, ma... con
gli occhi del cuore la cercheresti. Sicuramente
la cercheresti.»
«Quindi
secondo te non ci dovremmo andare?» ribatto, prendendo un paio di
scarponi dalla cabina armadio. «Insomma, dovremmo annullare almeno
la data di Torino?»
«Non
dico che non ci dovreste andare, Shannon» risponde, mentre io mi
siedo sul letto e mi infilo le scarpe. «Dico solo che non ti
dovresti illudere che sarà semplice, perché... beh, non lo sarà.
Sei stato lasciato. Sei stato abbandonato
in una maniera drastica e dolorosa, e questo genere di dolore non
svanisce in poco tempo. Non è un braccio rotto che si rinsalda ed è
come nuovo, è... è un cuore, ecco. E un cuore può anche impiegare
una vita per guarire.»
Per
tutto il tempo del suo discorso ho tenuto gli occhi bassi, fissi sui
lacci che stringo tra le dita, ma la verità è che mia madre ha
ragione – ha ragione su tutta la dannata linea. Sono stato lasciato
brutalmente e senza motivo, quasi per capriccio, e forse questa
ferita non si rimarginerà mai, nemmeno in un milione di anni.
Tuttavia, qualcosa dentro mi spinge a continuare a fingermi forte,
indistruttibile, coriaceo, e rialzando la testa sorrido. «Il mio
cuore è già guarito, mamma. Sto bene. E a giugno starò ancora
meglio, ragion per cui nessun concerto verrà annullato. Non sarebbe
giusto nei confronti degli Echelon, non trovi?» Controllo ancora una
volta la valigia e la richiudo. «Jared ed Emma saranno qui tra
cinque minuti. Pensi che riuscirai a tirare fuori Bruce di lì?» le
domando, accennando al letto.
«Se
riuscivo a farti mangiare le verdure, perché non dovrei tirar fuori
un cane da sotto un letto?»
*
Torino, 7 gennaio 2014
«...e
così sono rimasto chiuso dentro. Sono uscito soltanto il pomeriggio
successivo, quando hanno riaperto. Credo sia stato il momento più
imbarazzante della mia vita» sorride Marco, concludendo il racconto
di quando, a vent'anni, si è addormentato al cinema durante una
rassegna di film diretti da Ingmar Bergman. «Ovviamente appena sono
tornato a casa ho scoperto che mia madre aveva già chiamato polizia,
carabinieri e tutti gli ospedali della zona, e che mia nonna aveva
iniziato a pregare ogni santo conosciuto. E ovviamente mi sono
beccato una lavata di capo da Oscar, nonostante fossi già
praticamente un adulto.»
«D'altra
parte può succedere di addormentarsi durante una proiezione de Il
settimo sigillo, no?» ribatto,
fermandomi. Tra una battuta e una risata, siamo arrivati davanti al
mio portone.
«Che
non mi si venga a dire che non è legittimo
appisolarsi durante quel film!» replica con un altro sorriso,
fermandosi accanto a me. «Ma che ci vuoi fare, nonostante l'età ero
un ragazzino. A quell'epoca al cinema ci si andava per fare soltanto
una cosa.»
«E
cioè?» domando, senza sapere dove voglia arrivare.
Lo vedo abbassare lo
sguardo per un istante, poi rialzarlo di scatto. Prima di poter dire
qualunque cosa, le sue mani circondano il mio viso e le sue labbra
sono sulle mie. È inaspettato e improvviso, come il primo bacio con
Shannon, ma a differenza di quel pomeriggio sul lungo Po non riesco a
fare nulla: resto immobile, le labbra di Marco premute contro le mie,
e tutto ciò che riesco a fare è chiudere gli occhi, aspettando la
sua prossima mossa. Al contrario di Shannon, lui non cerca di
approfondire il contatto: dopo qualche secondo ci separiamo, e la sua
improvvisa lontananza mi ferisce, facendomi percepire tutto il freddo
di questo inverno. Riapro gli occhi lentamente, temendo l'istante in
cui incontrerò il suo sguardo, mentre le sue mani continuano a
racchiudere il mio viso. «Scusa» sussurra, ancora troppo vicino.
«Scusa, non avrei dovuto» aggiunge, mentre le sue dita si staccano
dalle mie guance e si nascondono nelle tasche del cappotto. «Non
avrei dovuto. È solo che... era qualcosa come cinque anni che
volevo farlo.» La mia bocca è ancora socchiusa e muta, incapace di
esprimere un pensiero di senso compiuto – forse perché il mio
cervello è il primo ad essere incapace di formulare tale pensiero.
«Forse non dovrei dire una cosa del genere, ma... tu mi sei sempre
piaciuta, Daria. All'inizio ho provato a combattere contro questa...
cosa, perché pensavo che fosse decisamente sbagliato.
Insomma, io sono il tuo capo, e tu hai qualcosa come quindici anni
meno di me, però... non ci sono riuscito. Forse questo mi qualifica
come uomo debole, ma... io te lo devo dire. Credo di essere
innamorato di te.»
La mia bocca si apre di
più, si lascia sfuggire un sospiro e poi si richiude. Ripeto
l'operazione un altro paio di volte, mentre il silenzio si fa così
pesante da spezzare le ossa. «Dio mio, Alice aveva ragione» è
tutto ciò che riesco a sussurrare.
«Alice? Perché, che cosa
diceva Alice?»
«Beh, lei diceva... diceva
che le sembravi troppo gentile, per essere soltanto un principale.
Diceva... diceva che doveva esserci qualcosa sotto. E direi... beh,
direi che ci ha preso in pieno.» Mi porto una mano davanti al viso,
coprendomi la bocca – non so bene se per nascondere i miei veri
sentimenti o se per trattenere il più a lungo possibile il calore di
quel bacio. «Perché hai aspettato tanto a dirmelo?»
«Perché mi sembrava
completamente folle. Folle, insensato, lontano da ogni logica,
poco professionale... mi sono costruito un migliaio di ragioni per
cui smettere di amarti, ma... niente di ciò che ho tentato ha
sortito l'effetto desiderato.»
«E... perché me lo stai
dicendo adesso?»
Marco fa spallucce,
continuando a guardarmi. «Non lo so. Mi sembrava il momento
perfetto: tu, io, il portone di casa, il bacio della buonanotte... di
solito funziona bene.»
«Di solito poi c'è la
dissolvenza. Ci si risparmiano i silenzi imbarazzanti e le
spiegazioni» ribatto, tornando a sorridere.
«L'ennesima dimostrazione
che la vita non è un film, né tantomeno un libro.» Abbassa gli
occhi, poi guarda verso la sua sinistra, fissando un punto lontano.
«So che non ti posso chiedere di fingere che non sia successo, però
vorrei... vorrei che non ci pensassi. È stato un errore, e gli
errori vanno dimenticati.»
«Credevo che gli errori
dovessero servire da monito per il futuro.»
«Alcuni... ma non questo
genere di errore.»
Vorrei ribattere che
nessuna persona sana di mente potrebbe domandare ad un altro essere
umano di dimenticare un gesto tanto intimo quanto un bacio, ma
qualcosa mi frena – Fingi di non avermi mai conosciuto,
ricordo all'improvviso. Fingi che non ci siamo mai innamorati.
Mi indispettisco all'idea che Marco mi chieda di dimenticare un
bacio, ma in fondo io che cosa ho chiesto a Shannon? Gli ho
domandato di dimenticare un intero mese – un mese di baci,
di sorrisi, di risate, di sguardi carichi di significato e di corpi
che la notte si cercano senza sosta nell'isola di un letto. Chiedermi
di dimenticare un bacio non è così crudele, rispetto alla tortura
cui ho sottoposto Shannon. «Allora va bene. Ti prometto che non ci
penserò. Che proverò a non pensarci.» Mi fisso per un
attimo le punte degli stivali, poi rialzo lo sguardo, sapendo che
mantenere la parola data sarà maledettamente difficile. «Dai, vieni
su, che ti offro un caffè. E poi non hai ancora visto la casa.»
*
Los Angeles, 7 gennaio
2014
Sono quasi le nove di sera,
e Constance sta per arrendersi. Le ha provate veramente tutte per
convincere Bruce ad uscire dal proprio nascondiglio, ma nulla sembra
funzionare: ha stappato una scatoletta, fatto rotolare sul pavimento
una pallina, consumato il fischietto dell'osso di gomma, fatto
suonare a ripetizione Convergence per mezz'ora... ma niente.
Alla fine, stremata e senza idee, fa la cosa più strana, ma forse
più semplice, del mondo: si sdraia sul pavimento, il mento
appoggiato sulle mani, e fissa il cane negli occhi senza batter
ciglio. «Non dico che tu non abbia il pieno diritto di sentirti
depresso, di tanto in tanto» esordisce dopo parecchi minuti di
silenzio, «però abbiamo già il nostro disperato, in famiglia.
Dovreste stabilire dei turni, credo. Non posso badare ad entrambi
nello stesso momento. Ci mancherebbe soltanto che anche Jared cadesse
in depressione. Mi toccherebbe un bell'esaurimento nervoso, a quel
punto.» Si prende una pausa, durante la quale il cane continua a
guardarla, senza abbassare lo sguardo. «Io ti voglio bene, sai? Sul
serio, tengo molto a te. E vederti così mi ferisce moltissimo.
Potessi almeno saperne i motivi...» Quasi che comprendesse le parole
di Constance, Bruce esce dal nascondiglio e va a grattare con
entrambe le zampe uno dei cassetti del comodino di Shannon, lanciando
un paio di brevi guaiti. «Devo guardare nel cassetto? Ma non posso,
sono cose di... e va bene, e va bene, guardo» si arrende, quando
capisce che il cane non ha intenzione di mollare. «Che cos'è,
una... una fotografia?» Si mette seduta e fissa a lungo il pezzetto
di pellicola che tiene stretto tra le dita. «Mi stai dicendo che
questa è Daria?» Bruce abbaia un altro paio di volte,
strofinandole il naso umido contro la mano. «Beh, non si può certo
dire che non sia carina» è il commento di Constance. «Insomma, se
anche fosse completamente priva di cervello comprenderei il malumore
di Shannon. È molto più bella di metà delle ragazze che ha
frequentato. Ma che fai?» aggiunge, vedendo Bruce infilare il naso
del cassetto e strofinarlo avanti e indietro come cercando qualcosa.
«Aspetta, aspetta...» mormora lei, infilando la mano nello stipetto
e prendendo la busta che il cane stava tentando di farle trovare.
«Che cos'è? Una lettera? Sai che leggere la posta altrui è reato
federale?» lo redarguisce. Passa un istante, e sul suo volto torna
il sorriso. «D'altro canto, la busta è aperta, quindi...» Dispiega
i fogli e si appoggia al letto con la schiena, involontariamente
replicando una mattina di un mese e mezzo prima.
Dieci minuti più tardi,
dopo tre letture e una buona dose di lacrime, Constance alza davanti
al viso la fotografia, scuotendo appena la testa: «Come può una
ragazza con un viso del genere essere tanto crudele?» sussurra,
senza comprendere i motivi che hanno spinto Daria a dare un calcio
alla felicità, sprofondando Shannon in un abisso di dolore senza
fine.
*
Città del Messico, 8
gennaio 2014
Atteriamo a Città del
Messico quando mancano pochi minuti a mezzanotte; sbrighiamo le
formalità necessarie, ritiriamo i bagagli, saltiamo sulle auto che
ci condurranno in albergo e arriviamo a destinazione quasi all'una
del mattino. In aereo, contrariamente al solito, non sono riuscito a
chiudere occhio: sono sempre stato un tipo che si adatta a dormire in
qualsiasi luogo e in qualunque situazione, ma per qualche strana
ragione questa volta non ce l'ho fatta. Per tutto il tempo mi sono
sentito strano, come se mi fischiassero le orecchie – probabilmente
però era soltanto una sensazione dovuta all'alta quota.
Entrato in camera,
abbandono la valigia in un angolo e cammino verso il letto,
sfilandomi le scarpe mentre sto avanzando. Mi lascio cadere sul letto
di schiena, sospirando. Il materasso è un po' troppo duro per i miei
gusti, ma suppongo di potermici abituare. Guardo il soffitto e non
riesco a non pensare ad un luogo simile, ad un mese e mezzo fa,
all'altra valigia che occupava la stanza, alle scarpe allineate
dietro la porta, al cellulare appoggiato sull'altro comodino, alla
pelle bianca e calda che non avrei dovuto far altro che baciare
per il resto della vita.
Non so per quanto tempo
resto fermo a fissare il vuoto, chiedendomi che altro dovrei
fare per dimenticare, che altro dovrei fare per andare avanti
e non ripensare più a quell'occasione, forse l'unica e la più vera,
di essere vergognosamente felice.
Il silenzio non risponde, e
con il passare dei minuti diventa ogni volta più assordante. Il
ricordo di Daria viene sostituito da quello di Christine, dalle sue
labbra che deviano dalla rotta prestabilita per raggiungere la mia
bocca – un'immagine di cui non riesco più a liberarmi. In questi
due giorni ho finto di non pensarci, ma il silenzio fisico non è
riuscito a soffocare i dubbi e le domande.
Mi metto a sedere, in testa
una sola convinzione: devo sapere perché. Afferro il
cellulare e inoltro la chiamata, fregandomene di essere in un paese
straniero, fregandomene del fatto che sia notte – sera tardi a Los
Angeles –, fregandomene del fatto di non avere parole.
«Pronto? Shannon, sei tu?»
«Perché mi hai baciato?»
*
Torino, 8 gennaio 2014
«Però,
come posto è molto carino. E dici che era già arredato?»
«Completamente
arredato. I miei padroni di casa hanno molto buon gusto, non mi
stupisce che qui fosse tutto così perfetto. Mi dispiace di non avere
un terrazzo per stendere i panni, ma non avrei potuto trovare un
posto migliore nemmeno in cent'anni di ricerche.» Preparo la
caffettiera e la metto sul fuoco, poi inizio a sistemare tutto il
necessario su un piccolo vassoio. «Forse però dovrei ammettere che
mi sarei adattata a vivere ovunque. La mia priorità era andarmene di
casa.»
«Non
mi risultava che ti trovassi tanto male» sorride Marco, prendendo
posto su uno sgabello.
«Mi
trovavo bene, ma non è questo il punto. Avevo... avevo bisogno
di andarmene. Dovevo iniziare a vivere per conto mio. E poi... beh,
penserai che sia un motivo stupido, ma... iniziavo a somigliare
troppo a mia madre.»
«A
somigliarle in che senso, scusa?»
«In
senso fisico» replico. «Se ti facessi vedere una sua foto di quando
aveva la mia età e ti chiedessi di compararla con una mia,
faticheresti a distinguerle. Certo, adesso è più facile: io ho
vent'anni e lei quasi cinquanta, la differenza c'è.»
«Dirai
che sono tardo, ma non capisco come questo abbia pregiudicato la tua
permanenza in casa di tuo padre.»
«Guardarmi
lo ferisce» rispondo semplicemente. «Insomma, vedermi tutti i
giorni in casa sua gli ricorda i primi tempi del matrimonio, quando
erano ancora... beh, quando erano felici.
Quando lei è andata via lui ha fatto sparire tutte le sue
fotografie, perché evidentemente soffre troppo nel vederla in giro
per casa. Il suo gesto non ha valore, se ci sono io a ricordargli di
quel periodo.»
Marco
non riesce a trattenere un sorriso. «Ho sempre pensato che fossi una
persona molto sensibile. Direi che questa ne è la prova tangibile.»
«Non
mi sembra di aver compiuto chissà quale gesto eroico» rispondo,
mentre alzo il coperchio della caffettiera per controllare lo stato
del caffè. «Me ne sono semplicemente andata di casa.»
«A
proposito della tua famiglia... dirai che non sono affari miei, ma...
che cosa hai in mente di fare riguardo a tua madre?» Sono voltata
dall'altra parte, ma sono quasi certa che l'improvvisa rigidità
delle mie spalle sia molto evidente. «Scusa, non mi sarei dovuto
impicciare, però tengo molto a te, e... non voglio che tu debba
soffrire, ecco.»
«Apprezzo
il bel gesto, ma purtroppo il dolore l'ha già fatta da padrone.
Avresti dovuto entrare nella mia vita quindici anni fa e impedirle di
andarsene. Non ho mai nemmeno saputo perché»
aggiungo dopo un istante. «Non so se sia stato per un altro uomo, o
per un attacco tardivo di femminismo... tutto ciò che so è che la
sera le sue scarpe erano dietro la porta, e la mattina l'armadio era
vuoto. Non sono nemmeno arrabbiata per me,
quanto per mio padre, e per Emanuele, e per Francesca. Certo, mi ha
ferita, ma sono più arrabbiata per il fatto che abbia ferito le
persone che amo.»
«Non
sarebbe difficile scoprire perché»
è il suo commento. «Basterebbe chiederglielo.»
Tento
un sorriso, ma tutti i miei sforzi si tramutano in una smorfia
sarcastica. «Se avesse voluto giustificarsi, all'epoca avrebbe
potuto lasciare un biglietto» osservo. «Per qualunque ragione se ne
sia andata, sono passati quindici anni. Per quanto mi riguarda, non
ha più importanza.» Lo vedo abbassare lo sguardo e mordicchiarsi un
labbro, come se stesse lottando contro l'impulso di ribattere alla
mia affermazione. «Avanti, non trattenerti. Lo vedo che hai qualcosa
da dire.»
Rialza
la testa con aria vagamente colpevole, mostrando un breve sorriso.
«So che non sono affari miei, che è la tua vita e la tua famiglia e
io dovrei stare zitto e lasciarti prendere le tue decisioni, però...
io non riesco a capire come tu riesca ad escluderla così dalla tua
vita. Resta sempre tua madre, no?»
«Certo,
è mia madre. E per lei non è stato un problema abbandonarmi.»
«Non
sai nemmeno perché se ne sia andata, Daria. Non puoi condannarla
senza conoscere le sue motivazioni.»
«Marco,
ma da che parte stai?» La conversazione ha assunto i toni aspri di
un litigio, e non riesco a credere che siamo arrivati a questo punto
– noi due, che in cinque anni non abbiamo mai avuto nemmeno un
battibecco.
«Beh,
mi sembra ovvio che sto dalla tua
parte, però... resta tua madre, nonostante tutto il male che può
averti fatto. Mi rendo conto che sia difficile pensare di darle
fiducia, o anche solo di darle retta, però... almeno tu hai
l'opportunità di ricucire il rapporto con lei. Io darei qualunque
cosa per riavere qui i miei, anche solo per cinque minuti.» A quel
punto mi rendo conto di essere stata crudele: il padre di Marco è
rimasto vittima di un incidente stradale quando lui aveva soltanto
dodici anni, e sua madre è mancata quattro anni fa in seguito ad una
rapida malattia – lui non ha più nessuno, e io che potrei riavere
entrambi i miei genitori faccio la preziosa e disdegno un'occasione
che forse non si ripeterà mai più nella vita.
«Scusa»
sussurro, così piano che sembra quasi un pigolio. «Devo sembrarti
una persona orribile. E dire che mi sono sempre vantata di essere una
persona sensibile...» All'improvviso taccio, sentendo che le lacrime
stanno per incrinarmi la voce – non voglio piangere davanti a
nessuno, specialmente davanti a Marco. Mi volto di nuovo verso i
fornelli, ignorando la caffettiera che borbotta – gli occhi
pizzicano e bruciano, e tutto ciò che vorrei è essere sola, così
da potermi dedicare al mio nuovo passatempo preferito.
«Non
ti devi scusare» sussurra lui a sua volta, alzandosi per
raggiungermi e spegnere la fiamma. «Ehi, mi hai capito?» domanda
con un sorriso, sfiorandomi il mento con due dita per convincermi ad
alzare lo sguardo. «Piuttosto, credo di essere io a doverti delle
scuse. Non mi sono comportato bene. Non sono stato corretto, con te.»
«Solo
perché non mi hai detto di provare qualcosa per me? Non è così
grave.»
«No,
forse no, ma io...» Le sue parole si perdono in un sussurro, mentre
la mano sale ad accarezzarmi la guancia, gli occhi fissi nei miei,
lucidi e quasi trasparenti. «Dio, perché sei così bella?»
mormora. «Sarebbe tutto più semplice, se non fossi così bella.»
«Marco...»
«Cosa?»
Siamo
vicini, forse troppo – o forse non abbastanza. «Baciami»
sussurro. «Baciami ancora.»
1C'è
qualcosa che hai dimenticato di dirmi?. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone St.
Teresa della cantautrice statunitense Joan
Osborne,
contenuta nell'album Relish
(1995). La Osborne è conosciuta al grande pubblico soprattutto per
la hit One
of us,
rilasciata lo stesso anno e contenuta nello stesso album, famosa per
essere diventata la colonna sonora della serie tv Joan
Of Arcadia.
|
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Capitolo 5 *** 5 | Un uomo non deve morire per andare all'inferno. ***
La lunga strada verso casa - 1
Questo è
probabilmente il capitolo più difficile che mi sia mai capitato di
scrivere, e non mi riferisco soltanto a questa storia, ma a
tutte le storie che mi sia mai venuto in mente di scrivere. È stato
complicato e difficile e spezzacuore, e il guaio è che temo di non
aver mantenuto fede alla mia promessa di regalarvi sempre dei
capitoli decenti.
Spero
comunque che lo apprezzerete, o che non lo odierete tanto.
Alla
prossima,
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo quinto
Un uomo non deve
morire per andare all'inferno.1
Città del Messico, 8
gennaio 2014
«Hai
una vaga idea di che ore siano?» La voce di Christine sembra
vagamente impastata, come se si fosse appena svegliata e stesse
ancora cercando di orientarsi nello spazio e nel tempo.
«Sì, più o meno. Sono
quasi le due, quindi lì devono essere... mezzanotte, forse.»
«Ma dove sei?»
«Città del Messico»
rispondo. «Siamo arrivati un paio d'ore fa.»
All'altro capo del filo c'è
soltanto silenzio, e poi qualcosa che somiglia ad un sospiro.
«Shannon, perché mi stai chiamando da Città del Messico a
quest'ora?»
«Te l'ho detto. Voglio
sapere perché mi hai baciato. Negli ultimi due giorni non ho fatto
altro che pensarci, e sono giunto alla conclusione che ci deve essere
un motivo. Devi averlo fatto per una ragione.» La possibilità che
possa anche non esserci un motivo, che sia stato soltanto un
impulso momentaneo, non mi ha nemmeno sfiorato – o forse lo ha
fatto, ma soltanto per un istante: la prospettiva che per lei si sia
trattato soltanto di un gesto senza valore mi ferirebbe a morte, e mi
getterebbe in un caos più totale di quello che sto vivendo adesso.
«Shannon...»
«Christine, non ci
provare. Sei sempre stata bravissima con le parole, ma non ho più
diciotto anni. Non cercare di mettermi nel sacco.»
«Cosa
vuoi che ti dica?» ribatte, la voce improvvisamente dura. «Vuoi che
ti dica che rivederti dopo tutto questo tempo non mi ha toccato
affatto, che... che... che non mi sciolgo più come una ragazzina
davanti ad ogni tuo sorriso? Per me sei stato molto importante,
Shannon, e lo sai. Credevo di averti cancellato dalla mia vita,
finché non ti ho rivisto. La verità è che ho quarantadue anni e
mezzo e... credo ancora nelle favole.» Si prende una pausa, durante
la quale non riesco a far altro che fissarmi i piedi. «Dicono che il
primo amore non si scordi mai, e credo... credo proprio che abbiano
ragione. Mi sento una sciocca a dirti questo, a... scoprirmi
in questo modo davanti a te, ma... è così. Ti ho baciato perché mi
sono illusa di avere ancora diciotto anni e di essere ancora l'unica
ragazza che guardavi.» Si prende un'altra pausa, e come prima non
riesco a dire nulla. «Shannon, ci sei ancora?»
«Sono qui.»
«Perché non dici nulla?»
«Perché non so che dire.
Praticamente tu stai dicendo che sei ancora innamorata di me, e...
che cosa si risponde in questi casi?»
«Immagino che in questo
momento vorresti non avermi chiamata, eh?» scherza.
«Niente affatto» la
correggo. Non posso negare che ciò che ho sentito mandi
letteralmente in frantumi il mio già precario equilibrio, ma in
fondo mi fa piacere trovarmi di fronte ad una persona sincera, una
che non ha paura di sputarmi in faccia ciò che sente dentro.
«Insomma, resto sempre confuso, ma... sono contento che qualcuno sia
finalmente sincero con me.»
«Finalmente?»
ripete, confusa. «Perché, di solito la gente ti mente?»
«No, ma...» Mi
interrompo, consapevole di essermi infilato in un vicolo cieco: non
posso spiegarle ciò che intendevo dire con quella frase senza
rivelarle tutta la storia di Daria, ma non credo sia una mossa saggia
parlare del secondo grande amore della tua vita al primo
grande amore della tua vita, senza contare che quest'ultimo ha appena
confessato di essere ancora legato a te. «Lascia perdere, è una
storia lunga e complicata.»
«Lo sai che mi sono sempre
piaciute le storie lunghe e complicate...»
«Non credo sarebbe
opportuno, Christine.»
«Perché, ha a che fare
con una ragazza?» L'esitazione che mi coglie è una risposta più
che sufficiente. «Sì, ha a che fare con una ragazza» riprende lei,
apparentemente senza scomporsi. «Ne vuoi parlare?»
«Non so se sia il caso.
Insomma, visto che tu...»
«Visto che ho detto che
credo di essere ancora innamorata di te? Ah, dimentica quella parte.
Fingi che non l'abbia detto. Fingi di parlare con il tuo migliore
amico, o con tuo fratello. Sfogati, se ti va.» Ci penso su per
qualche istante, e per quanto la cosa mi sembri bizzarra e senza
senso, mi chiedo se non sia un'ottima occasione per provare ad
esorcizzare il dolore, ancora.
*
Torino, 8 gennaio 2014
«Baciami
ancora» ho
sussurrato, e Marco ha obbedito senza fare domande: le sue mani sono
salite di nuovo a racchiudere il mio viso, i suoi occhi celesti si
sono avvicinati, e io ho serrato le palpebre un attimo prima che le
sue labbra sfiorassero le mie. Marco è innamorato di me, e mi chiedo
perché tutto questo non sia successo prima – perché non due mesi
fa, un anno fa, cinque
anni fa? Sarebbe stato tutto più semplice, sarebbe stato tutto
migliore, se già
prima avessi potuto avere queste mani, e questi occhi, e questa bocca
sulla mia. Se l'avessi saputo prima non avrei sprecato tempo, non
avrei sprecato i miei sentimenti – sarei stata felice,
semplicemente.
Quasi
senza accorgermene arretro fino ad appoggiarmi al bancone,
trattenendo Marco per la vita – anche se non ci sarebbe alcun
bisogno di usare la forza per farlo restare qui. Il bacio si
approfondisce: non è più un semplice contatto di labbra, ma un
rodato gioco di labbra, lingua, denti, sospiri – e mentre il suo
respiro caldo si confonde con il mio e il suo naso sfiora la mia
guancia, le sue mani scendono sul mio collo, esitando appena prima di
avanzare.
Ci
separiamo per un istante, e in quell'istante ci scambiano una
lunghissima occhiata. Accenna un sorriso, mentre mi sistema una
ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Forse non è la cosa più
romantica da dire in un momento come questo»
sussurra, abbassando gli occhi per un istante, «però io ti
voglio» conclude, tornando a
guardarmi. «Ti voglio come non ho mai voluto nessun'altra.» La sua
fronte si appoggia alla mia, le mani mi accarezzano pigramente le
spalle, e l'improvviso silenzio tra di noi ferisce quanto una lama.
«Forse me ne dovrei andare» sussurra, sollevando appena la testa.
«Non
te ne andare» replico di corsa, sfruttando la posizione delle mie
mani per trattenerlo ancora. «Non voglio che tu te ne vada»
aggiungo, in un sussurro a malapena udibile.
«Daria...
se restassi, non so come potrebbe finire.» Sono consapevole di
guardarlo con un'espressione molto confusa, come se non avessi idea
di ciò di cui si sta parlando. Con tutta la pazienza del mondo, come
se di fronte a sé avesse una bambina di tre anni, e non una donna di
ventitré, Marco alza una mano e mi accarezza ancora il viso. «Siamo
entrambi adulti, sappiamo come funzionano certe cose. È meglio che
me ne vada, prima che entrambi facciamo qualcosa di cui potremmo
pentirci.»
«E
allora vai» sussurro, lasciando la presa sulla sua camicia. «Vai,
prima che sia tardi.»
Ci
guardiamo per un altro lunghissimo istante, senza dire una parola,
poi lo guardo scuotere la testa, gli occhi fissi nei miei: «Non ce
la faccio» sussurra un istante prima di baciarmi ancora. Questa
volta è diverso: saltiamo la parte dell'incertezza e della
timidezza, e lasciamo che sia la passione a farla da padrona. Le sue
mani scendono rapide lungo la mia schiena, le mie braccia si
incrociano dietro il suo collo, ed è come se entrambi fossimo
improvvisamente animati da una fame che non riusciamo a controllare.
Le mani scendono ancora e mi sfiorano il sedere, più incerte di
quelle di Shannon, ma altrettanto delicate. Basta qualche istante per
prendere coraggio, e subito la presa si fa più salda – porto in
avanti il bacino, facendolo incontrare con il suo, e il sospiro che
sfugge alle mia labbra socchiuse si perde sulle sue.
«Vieni
con me» sussurro, prendendolo per mano. Mentre lo guido attraverso
la cucina e su per le scale che conducono alla mia stanza, mi torna
un mente un verso di una vecchia canzone di Bruce Springsteen: Voglio
portarti dall'altra parte della città, dove il paradiso non è
troppo affollato2.
È strano come a volte la mia mente si trasformi in una sorta di
jukebox, trovando il pezzo perfetto per il particolare momento che
sto vivendo – chissà poi perché questa canzone, chissà poi
perché Springsteen. Accenno un sorriso, pensando che forse non ne
scoprirò mai la ragione, e in silenzio continuo a salire le scale.
*
Città del Messico, 8
gennaio 2014
«Immagino
che in questo momento vorresti non avermi chiesto di raccontarti
tutto, vero?» le domando, parafrasando la sua battuta di poco fa.
«Di
certo non posso fingere di essere rimasta indifferente» risponde
dopo un attimo di silenzio. «Non si è comportata bene nei tuoi
riguardi. Avrebbe almeno dovuto avere la decenza di lasciarti di
persona. Certo, mi rendo conto di non essere la persona più adatta
per giudicare il suo comportamento, ma non posso fare a meno di
pensare che...»
«Perché
non dovresti essere adatta a giudicare il suo comportamento, scusa?»
«Andiamo,
Shannon, non essere ingenuo. Meno di dieci minuti fa ho praticamente
confessato di essere ancora innamorata di te. Qualunque uomo
penserebbe che parlo per gelosia.»
«Continui
a dimenticare che io non sono qualunque uomo.»
«Questo
non me lo posso dimenticare.» Segue un lungo istante di silenzio,
durante il quale immagino che entrambi stiamo cercando le parole
giuste. «Comunque non mi sento nemmeno di condannarla. Deve aver
avuto paura, e Dio solo sa se la capisco. Insomma, probabilmente tu
le sei apparso troppo sicuro, troppo certo
che sarebbe andato tutto bene, e lei si è sentita sopraffatta. Credo
che un sacco di donne avrebbero paura già in condizioni normali,
figuriamoci in un contesto del genere.»
«Pensi
che si sia spaventata per quello che rappresento? Insomma, per la
band, e per tutto il resto?»
«Secondo
me è possibile. Me l'hai descritta come una ragazza così semplice
e normale che... beh,
sono portata a credere che nemmeno nei suoi sogni più audaci abbia
mai creduto di poter avere un simile futuro. Forse ha creduto che si
trattasse di un sogno, che stesse accadendo tutto nella sua testa»
aggiunge con una lieve risata.
«Tu credi che abbia
commesso uno sbaglio, accettando di non cercarla più? Insomma, pensi
che sarei dovuto partire subito al suo inseguimento? O forse sono
ancora in tempo per... per fare qualcosa?»
*
Los Angeles, 8 gennaio
2014
Christine deve reggere il
telefono con entrambe le mani per impedirgli di cadere, e per
impedirsi di cadere deve serrare forte le palpebre e
trattenere il respiro, ricacciando in gola le lacrime che da troppo
tempo si costringe a non versare. Sono trascorsi ventiquattro anni, e
lei si illudeva di aver dimenticato tutto ciò che riguardava Shannon
– tutto, dal colore indefinito dei suoi occhi alla linea
diritta e un po' severa delle sue sopracciglia alla sua voce roca e
sensuale. Ricorda di aver sentito dire, chissà quando e chissà
dove, che per dimenticare qualcuno ci vuole almeno la metà del tempo
che si è stati insieme3, ma la verità è che nemmeno
dieci vite le sarebbero sufficienti per dimenticare i tre dolcissimi
mesi trascorsi insieme, perché quando una persona è speciale è
capace di entrarti sotto la pelle e di radicarsi così in profondità
nel tuo cuore da non poter essere strappata via in alcun modo. La
verità è che può fingere di essergli amica, ma non riuscirà mai
ad accettare con serenità il fatto che lui abbia amato un'altra
donna – che lui la ami ancora, nonostante il cuore spezzato
–, e soprattutto non potrà mai consigliarlo in merito ad un
argomento tanto delicato. «Io...» inizia in tono incerto, «io
credo di non poter rispondere a questa domanda, Shannon. Insomma, non
posso certo dirti cosa fare, giusto?»
«No, certo... scusa, non
avrei dovuto rovesciarti addosso i miei problemi a questo modo.»
«Non importa, è tutto a
posto. Immagino che a tutti serva qualcuno con cui confidarsi, no?»
«Sì, ma questo non mi dà
comunque il diritto di abusare così della tua disponibilità. Sei
sempre stata troppo indulgente con me.»
Christine non riesce ad
impedirsi di sorridere, rendendosi conto che in fondo ventiquattro
anni non hanno cambiato un bel niente, e che lei resta ancora la
ragazzina innamorata che ha donato il proprio cuore ad un ragazzo che
non ha mai saputo che farsene. «Mi fa piacere rendermi utile»
risponde, gettando una rapida occhiata alla sveglia. «Forse adesso
dovresti andare a dormire, Shannon. Si sta facendo tardi.»
«Non smetti mai di
preoccuparti per me, eh?»
«Qualcuno deve farlo, non
ti pare?»
«Sì, ma non è una tua
responsabilità.»
Questione di punti di
vista, pensa Christine, trattenendosi a stento dal dirlo ad alta
voce. «Buonanotte, Shannon. Riposa bene, e in bocca al lupo per i
vostri impegni.»
«Crepi. Buonanotte anche a
te.»
Dopo aver riagganciato e
riposto il cellulare sul comodino, Christine torna a sdraiarsi,
puntando gli occhi spalancati sul soffitto, sapendo che impiegherà
molto più tempo del solito per prendere sonno – ha quarantadue
anni, è finalmente riuscita ad esprimere i propri sentimenti, e
nonostante questo non è riuscita ad ottenere ciò che desiderava,
perché nonostante tutti i propri sforzi l'uomo che ama da tutta una
vita è ancora legato ad una ragazza che gli ha spezzato il cuore e
lo ha abbandonato in frantumi in un angolo del mondo.
*
Torino, 8 gennaio 2014
Marco
torna a riempirsi le mani della pelle di Daria e la bocca dei suoi
baci, senza riuscire a credere che sia finalmente il suo turno, che
finalmente tocchi a lui essere felice – e che, finalmente, gli sia
capitata l'opportunità di provare a rendere felice lei.
Sono cinque anni che spera, cinque anni che si chiede se avrà mai
l'occasione di mostrarle quanto valga, quanto meriti, quanto possa
ottenere dalla vita, ed ecco che finalmente il momento è arrivato.
Si è costretto a rimanere in silenzio in un angolo mentre lei
sprecava tempo correndo dietro ad un ragazzino che non aveva idea del
tesoro che aveva per le mani, e ora finalmente quel tesoro può
essere suo, finalmente
possono essere le sue mani
a tenerla al sicuro, possono essere i suoi occhi
a cogliere i sorrisi che credeva dimenticati.
Senza perdere tempo in
parole, le mani seguono alla cieca percorsi mai compiuti ma già noti
al cuore, e non sembrano trascorrere più di pochi minuti prima che
entrambi si ritrovino nudi, stretti l'uno all'altra come se fosse la
fine del mondo quella che stanno aspettando, come se quell'abbraccio
fosse l'unica speranza di salvezza in un mondo pieno di infelicità.
Quando finalmente la rende sua, Marco trattiene per un secondo il
respiro, tenendo lo sguardo fisso sul viso che sta sotto di lui, a
pochi centimetri dalla sua bocca, rendendosi conto che non avranno
mai un momento più perfetto di così.
*
Città del Messico, 8
gennaio 2014
La conversazione con
Christine ha placato la mia sete di verità, ma non mi ha restituito
la serenità necessaria per abbandonarmi ad un lungo sonno
ristoratore – ora so che mi ha baciato perché è ancora attratta
da me, ma ancora non ho trovato un modo per lasciar andare Daria.
Ancora non mi sono spogliato, non parliamo poi di infilarmi tra le
lenzuola: tutto ciò che riesco a fare è rigirarmi sopra le coperte
come un animale in gabbia, aspettando una tranquillità che di questo
passo non arriverà mai.
Provo una strana sensazione
alla bocca dello stomaco, qualcosa difficile da spiegare – è come
una morsa, una mano che mi stringe forte fino a togliermi il fiato,
simile alla rabbia che ti monta dentro quando sei costretto a tacere
mentre qualcuno ti porta via ciò che più ami. E più quella
sensazione aumenta, più diventa inevitabile domandarsi dove sia
Daria, con chi sia, che cosa stia facendo, e se almeno un poco pensi
ancora a me e a ciò che siamo stati.
*
Torino, 8 gennaio 2014
D'istinto, mi aggrappo con
più forza alle spalle di Marco, e quando sento arrivare l'orgasmo
nascondo la testa nell'incavo del suo collo, soffocando così i miei
gemiti. Resto immobile e in silenzio mentre anche per lui arriva il
momento di fermarsi, il fiato corto per lo sforzo e il cuore che
batte così forte che anche a questa distanza riesco a sentirlo. I
nostri occhi si incrociano per un istante, e un bacio ci cava
dall'imbarazzo di dover trovare per forza qualcosa da dire, anche
perché non saprei proprio da che parte cominciare – mi brucia da
morire doverlo ammettere, ma tutto questo ha il sapore del déjà-vu.
Probabilmente è patetico e ipocrita da parte mia, ma non riesco a
non far paragoni con una notte di due mesi fa, quando l'uomo nudo
steso sopra di me aveva i capelli più lunghi dei miei e le guance
ispide di barba, quando le mani che mi stringevano i fianchi erano
piene di calli e la pelle che accarezzavo sapeva di caffè. Se mi
fermassi a riflettere seriamente sulla mia condizione, probabilmente
tutto ciò che riuscirei a pensare di me stessa è che sono una
persona orrenda, che ho compiuto tutte le scelte sbagliate che era
possibile compiere, e che l'ultima cosa che merito è l'amore di una
persona buona come Marco.
Lentamente esce da me, e
d'istinto serro forte le cosce e mi metto a sedere, incrociando le
braccia davanti al petto per nascondermi – improvvisamente mi
sembra di essere regredita ai tempi della relazione con Andrea,
quando farmi vedere nuda era la mia paura più tremenda. Seduto sul
bordo del letto, Marco mi dà le spalle e si tiene la testa fra le
mani, come se non sapesse cosa dire. «Marco? Va tutto bene?» tento,
sapendo che la mia voce non è più forte di un sussurro.
«Va tutto bene» risponde,
rialzando la testa e voltandosi verso di me. «Solo... non so bene
che cosa dire.»
«Siamo in due» sorrido
appena, riabbassando lo sguardo. «Quello che è successo è stato
decisamente... inaspettato.»
«Inaspettato... sì,
direi proprio di sì» ribatte con un sorriso. Alza una mano e mi
scosta una ciocca di capelli dagli occhi, senza smettere di
guardarmi. «Inaspettato, ma bellissimo» aggiunge a voce più
bassa. «Vorrei trovare un aggettivo meno stupido, ma non ci riesco.»
Le sue dita scendono a sfiorare la mia guancia, e d'istinto spingo il
mio viso verso la sua pelle, come farebbe un gatto alla ricerca di
attenzioni. «Daria, adesso che cosa facciamo? Insomma, io sono il
tuo capo, e... per me non è stato soltanto un capriccio. Non è
stato un attimo di pazzia, una follia momentanea, per me... per me è
sempre stata una cosa importante.»
«Lo è anche per me»
replico, sentendo la gola stringersi a quelle parole. «Quello che è
successo... è importante anche per me. Non è stato un capriccio.»
Ho appena raccontato una delle più grandi menzogne mai partorite
dalla mente umana, e il peggio è che so di mentire. Dentro di me so
che andare a letto con Marco è stato uno sbaglio, un ignobile
tentativo di convincermi che posso rialzarmi e andare avanti con la
mia vita come se Shannon non ne avesse mai fatto parte, ma la realtà
dei fatti è ben diversa: la verità è che Shannon mi ha segnata nel
profondo, tracciando una grossa X sul mio cuore, e per quanto sia
sempre stata consapevole che sarebbe stato impossibile vivere con
lui, ora ciò che più mi ferisce è la consapevolezza che forse
non saprò mai vivere senza di lui. Dopo un lunghissimo attimo
di silenzio, una breve risata mi spinge ad alzare di nuovo lo
sguardo: «Perché ridi?»
«Niente, è solo che...
hai un'espressione decisamente sconvolta. Sono stato tanto
terribile?» scherza, riuscendo a farmi tornare il sorriso.
Scuoto la testa, abbassando
un'altra volta gli occhi. «No, è solo che... ancora non riesco a
capire se sia successo davvero o no. Sono un po'... sono un po'
confusa, credo.»
Anche l'altra mano
raggiunge il mio viso, e subito dopo la sua fronte si appoggia alla
mia. «È tutto reale» sussurra. «È successo davvero» aggiunge
poco prima di baciarmi la punta del naso. «Personalmente, non ne
sono affatto pentito» aggiunge ancora, staccandosi da me quel tanto
che basta per guardarmi negli occhi. Incapace di guardarlo senza
sentire una tremenda fitta al cuore, colmo la distanza tra di noi e
appoggio le mie labbra sulle sue, illudendomi che questo basterà a
cancellare tutto il dolore.
*
Città del Messico, 8
gennaio 2014
«Hai
una faccia veramente tremenda, lo sai?» Alzando lo sguardo dalla
propria colazione per salutare l'amico, Tomo non si sarebbe mai
aspettato di trovarsi davanti quello che sembra un cadavere
ambulante: le occhiaie di Shannon indicano che il batterista non ha
chiuso occhio, o che ha comunque dormito poco, e per quanto desideri
conoscerne la causa, ha quasi il terrore di chiedere perché.
«Lo
so, sembro uno zombie» risponde l'altro, servendosi una generosa
dose di caffè. «Il letto nuovo» aggiunge, come se questo bastasse
a spiegare tutto. «Non riuscivo a prendere sonno.»
«Dovresti
chiedere se ti possono cambiare il materasso. O chissà, magari
possono cambiarti direttamente di stanza.»
«Ah,
non è il caso. Mi ci devo soltanto abituare. La prima notte mi fa
sempre questo effetto.»
Tomo,
che si è portato la tazza alle labbra ma si è bloccato un attimo
prima di bere, studia a lungo il compagno, cercando di capire che
cosa si nasconda sotto la sua maschera di normalità. «No, siamo
Jared e io quelli che impiegano un paio di notti per abituarsi al
letto nuovo. Tu sei quello che dormirebbe anche sulla nuda roccia.»
Sentendosi
smascherato, Shannon si gratta distrattamente la nuca e beve un lungo
sorso, sperando così di smorzare la curiosità dell'amico. «Jared?»
«Già
sul posto. Credo sia là dall'alba. Ha detto di raggiungerlo appena
siamo pronti.»
«Maniaco»
sussurra Shannon. «Non ti dà sui nervi la sua mania di controllare
sempre tutto e tutti?»
Tomo
fa spallucce. «Un
po' sì, ma d'altra parte è rassicurante sapere che tra di noi c'è
almeno una persona addestrata a pensare ad ogni possibile evenienza.
Ammetto che a volte è frustrante, ma non puoi negare che senza di
lui sarebbe tutto maledettamente più difficile.»
*
Torino, 8 gennaio 2014
Siamo
rimasti abbracciati a lungo, ancora entrambi nudi, senza fare altro
che baciarci come una coppia di adolescenti, senza particolare
malizia, senza più tentare di andare oltre.
Dopo non so quanto tempo, Marco si separa da me con un sorriso.
«Adesso credo proprio di dover andare.»
«Potresti...
puoi rimanere qui stanotte, se ti va.»
«Credo
sia meglio... procedere
per gradi.
È meglio se stanotte torno a casa mia.» Le sue mani lasciano il mio
corpo e frugano tra il mucchio di vestiti sparsi sul pavimento, alla
ricerca prima delle mutande, poi dei jeans e infine della camicia.
Per vestirsi si alza in piedi, e in quel momento distolgo lo sguardo,
come se stessi invadendo la sua privacy o chissà che altro. «Potrei
solo usare il bagno?»
«E
devi anche chiedere?» lo prendo in giro. «In fondo alle scale, a
sinistra» aggiungo, restando a guardarlo mentre mi lascia sola.
Sospiro e recupero anche i miei vestiti, poi scendo al piano di
sotto. Quando Marco lascia libero il bagno, lo sto aspettando in
salotto, appoggiata allo schienale del divano. «A questo punto,
immagino di doverti augurare una buona notte» sorrido, mentre lui si
avvicina e mi accarezza ancora il viso.
Guarda
l'orologio e scuote la testa, sorridendo. «Non che resti molto della
notte, sono quasi le tre del mattino» replica. «Domani hai la
giornata libera, a proposito.»
«Non
è il caso di darmi una giornata di riposo solo perché...»
«Non
ti sto dando una giornata di riposo soltanto perché siamo stati a
letto insieme» mi interrompe. «Però credo che tu abbia bisogno di
un giorno di pausa, per... per staccare
un
po', diciamo.»
«Staccare
un po',
dici? Marco, è appena finito il weekend. Ho lavorato un solo giorno,
come posso aver già bisogno di staccare?»
«Beh,
ammetterai che quello che è successo oggi non è qualcosa che
succede tutti i giorni.»
Abbasso
gli occhi, comprendendo finalmente dove voglia andare a parare con
questo discorso. «Stai parlando di mia madre? Marco, è un capitolo
chiuso. Con lei non voglio avere niente a che fare.»
«Daria,
per favore, pensaci bene» insiste. «Abbiamo già stabilito che non
sono affari miei, però io credo che dovresti almeno sentire
quello che ha da dirti. Non sai che cosa potresti scoprire.»
«Marco,
io non ce la faccio» sussurro. «Come faccio a guardarla negli occhi
e a chiederle perché se n'è andata? E poi non saprei nemmeno dove
andare a cercarla. Ho fatto a pezzi il suo biglietto da visita.» A
quella frase è lui a distogliere lo sguardo, e qualcosa mi dice che
le cose non stanno proprio come pensavo. «Marco, perché quella
faccia?» Lui fruga nelle tasche dei jeans, e senza dire una parola
tira fuori un agglomerato di carta e scotch che riconosco come il
bigliettino che aveva promesso di buttare via. «Tu l'hai rimesso
insieme?» sussurro incredula, prendendo tra le mani il reperto e
faticando a riconoscerlo come il biglietto consegnatomi da mia madre.
«Ho
solo pensato di conservarlo per un po', nel caso ti fossi pentita
della tua scelta e avessi voluto... tornare sui tuoi passi.»
«Marco...»
«Non
dire niente, lo so. Non sono affari miei, non mi sarei dovuto
impicciare, avrei dovuto lasciare che gli eventi seguissero il loro
corso. È solo che... te l'ho detto, io a te ci tengo, e non volevo
rischiare che un giorno rimpiangessi di non aver... tentato.»
«Tu
dici che la dovrei chiamare?»
«Dico
solo che dovresti ascoltare
quello che ha da dirti. Ascoltare non costa nulla.»
*
Città del Messico, 8
gennaio 2014
«Shannon,
ma oggi ci sei o no?» Jared non teme di usare un tono troppo duro,
perché il suo scopo è quello di rimproverarmi, e Dio solo sa se non
ha tutte le ragioni di questo mondo: la notte insonne mi ha lasciato
stanco, sfibrato, senza energie, e tutto ciò si riflette sul lavoro,
rendendomi lento e poco concentrato. «E non raccontarmi che è colpa
del fuso orario, perché hai sopportato di peggio.»
«Scusa,
Jared, ho dormito poco e male. Non riuscivo ad abituarmi al letto.»
So che non è una scusa plausibile, ma sarebbe sospetto se non
provassi a difendermi in qualche modo.
«Pensi
di essere in grado di riprenderti per domani sera? Abbiamo quattro
concerti in una settimana, non mi servi se non riesci ad essere al
tuo meglio.»
«Sarò
al meglio, Jared, te lo prometto. Parola di scout» ribatto, alzando
un pollice per sottolineare il concetto. Sono consapevole di mentire,
perché il dolore che sento dentro non può essere cancellato con una
buona dormita, né con un materasso nuovo. Nonostante la
chiacchierata con Christine non mi sento meglio, e questo è
dimostrato dal fatto che sono rimasto con gli occhi spalancati fino
alle cinque del mattino, guardando il soffitto e chiedendomi che cosa
abbia fatto di così brutto nella mia vita passata per meritare una
simile punizione.
*
Torino, 8 gennaio 2014
Rimasta
sola, Daria guarda a lungo il biglietto, poi lo appoggia sul bancone
della cucina e torna di sopra, in camera. Fissa per molto tempo anche
il letto stropicciato e mezzo sfatto, poi d'improvviso inizia a
strappare via le lenzuola dal materasso, nel tentativo di ripulirsi
la coscienza dalle bugie appena raccontate. Nello stesso letto in cui
un'ora fa ha fatto sesso
con Marco, a novembre ha fatto l'amore
con Shannon, e questa è una differenza che non può fingere di non
considerare.
Trascina
il grumo di coperte al piano di sotto, lo ficca di forza nella
lavatrice, dosa il detersivo e seleziona il programma, fregandosene
del fatto che siano le tre del mattino e che la gente normale stia
dormendo. Subito dopo si spoglia e si infila nella doccia, perché
non è soltanto dalle lenzuola che va lavato via l'odore di ciò che
è successo. Sotto il getto caldo, Daria si insapona quasi con
rabbia, sfregandosi le braccia fino ad arrossare la pelle – non può
negare che stare con Marco le sia piaciuto, ma questo non le
impedisce di sentirsi in colpa, perché per tutto il tempo lei ha
avuto la testa altrove, spesso focalizzata sui ricordi che ha di
Shannon, e di quel letto, e di quel finesettimana di novembre.
Un'ora
più tardi, stretta in un accappatoio e raggomitolata sul divano in
compagnia di una tazza di tè, si chiede se sia questo il suo
destino, d'ora in poi – se ogni volta che anche solo bacerà
un
altro uomo si sentirà crollare il mondo addosso, o se il dolore sia
una prerogativa della prima volta.
1Un
uomo non deve morire per andare all'inferno. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone A
man don't have to die di Brad
Paisley,
contenuta nell'album This
Is Country Music
(2011).
2Voglio
portarti dall'altra parte della città, dove il paradiso non è
troppo affollato.
| Il verso appartiene alla canzone Incident
on 57th Street
di Bruce
Springsteen,
contenuta nell'album The
Wild, The Innocent & The E Street Shuffle
(1973).
3Per
dimenticare qualcuno ci vuole almeno la metà del tempo che si è
stati insieme.
| Ogni tanto ricomincio con le citazioni rubate. Questa, in
particolare, è una frase pronunciata da Charlotte
York
(interpretata da Kristin
Davis)
in un episodio della serie Sex
And The City.
|
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Capitolo 6 *** 6 | Dimentica l'amore, e forse anche il dolore passerà. Dimentica le cose belle, e tutto il male, sai, di colpo sparirà. ***
La lunga strada verso casa - 1
Come in
tutti i capitoli precedenti, questo non aggiunge nulla di nuovo alla
situazione... se non che entrambi i nostri eroi prendono finalmente
una decisione, per 'muoversi' finalmente in qualche direzione. Giuste
o sbagliate, condivise o meno, ma finalmente entrambi trovano il
coraggio di dire qualcosa.
Spero
leggerete con piacere, e che soprattutto continuerete a seguire la
storia!
EffieSamadhi
P.S. :
Se siete iscritti a Facebook e ancora non lo conoscete, il gruppo
Portagioie
di tristezza aspetta di essere visitato! Potete trovare spoiler,
comunicare direttamente con l'autrice (anche per lanci di pomodori
marci, non mi formalizzo), visitare la galleria
dei prestavolto e conoscere più dettagli su ogni personaggio.
Inoltre, se siete in cerca di nuova musica, su YouTube potete trovare
la colonna
sonora ufficiale di “Portagioie di tristezza”.
La lunga strada verso casa
Capitolo sesto
Dimentica l'amore, e
forse anche il dolore passerà.
Dimentica le cose
belle, e tutto il male, sai, di colpo sparirà.1
Torino, 8 gennaio 2014
Non appena legge il
messaggio di Daria – Ti devo parlare –, Alice comprende
che tutti i suoi impegni quotidiani andranno rimandati, perché
quando la tua migliore amica ti manda un sms alle cinque e trenta del
mattino deve per forza esserci sotto qualcosa di molto grave –
anche se non riesce a capire che cosa potrebbe essere successo, visto
che sono rimaste separate poco più di mezza giornata. Sono appena
passate le nove quando bussa alla porta di un appartamento che
conosce ormai bene, aspettandosi che si spalanchi su chissà quale
scenario apocalittico. «Ehi, hai fatto
presto» la saluta Daria, arrivando ad aprire dopo pochi secondi.
«Ho immaginato fosse
qualcosa di importante, per scrivermi alle cinque del mattino»
risponde lei, facendosi avanti nell'ingresso. «Non lavori, oggi?»
«Marco mi ha dato una
giornata libera. Dice che ho bisogno di riprendermi.»
«Riprenderti da cosa?»
«Dall'incontro
con mia madre» replica Daria,
usando le dita per mimare nell'aria un paio di virgolette
immaginarie. «Caffè?»
«Assolutamente sì»
replica Alice, appoggiando cappotto e borsa sul divano e prendendo
posto su uno sgabello. «Mi consenti di essere sorpresa da questo
improvviso istinto di protezione nei tuoi confronti? Insomma, sai che
ho sempre pensato che Marco avesse una cotta per te, però non...»
«A questo proposito» la
interrompe Daria, voltandosi verso i fornelli per nascondere il viso,
«ieri sera siamo andati a cena insieme e poi mi ha riaccompagnata a
casa.»
«Beh,
ma non è certo la prima volta che...»
«Mi ha baciata.»
«Ah. E tu?»
«E io niente, che dovevo
fare? Sono rimasta lì ferma e l'ho lasciato fare.»
«E poi?»
«E poi ha detto che gli
piaccio.»
«Lo sapevo!» esclama
Alice, alzando un pugno al cielo in segno di vittoria.
«Sì, in pratica ha
confessato di essere attratto da me da quando ho iniziato a lavorare
per lui, ma di essersi sempre fatto un sacco di scrupoli per il fatto
di essere il mio capo e di essere molto più grande di me.»
«Dimostra
una certa correttezza di fondo, questo bisogna riconoscerlo. Aspetta,
non mi starai dicendo che è per un
bacio che
sei stata sveglia tutta la notte e mi hai implorato di correre qui?»
«No, non è solo per un
bacio.»
«E allora che cosa...»
«Ci sono stata a letto.»
Alice solleva lo sguardo confusa: apre la bocca per ribattere, ma non
un singolo suono riesce a risalire la gola. «Lo so, so cosa stai
pensando. Stai pensando che siamo andati troppo di corsa, ma...»
«Troppo di corsa?»
replica finalmente l'altra ragazza, forse a voce un po' troppo alta.
«Quanto è passato dal bacio sul portone al letto? Mezz'ora? Io
non... non... tu sei una che non si mette in mutande nemmeno davanti
a sua sorella! Quando... quando andavamo a scuola, ti ricordi cosa
succedeva nell'ora di ginnastica? Andavi a cambiarti in bagno per non
doverti spogliare davanti alle altre ragazze!» Rendendosi conto di
essersi scaldata troppo, prende un respiro profondo e si massaggia
brevemente le tempie con le mani, nel disperato tentativo di
calmarsi. «A volte non riesco a capirti, Daria... spogliarti per un
ragazzo è sempre stata la parte più complicata, e ora...»
«Con Shannon è successo
dopo una settimana.»
«Sì, e dopo continuavi a
chiederti se fosse stata la scelta giusta. Senti, non ti voglio
criticare, sai che non lo farei mai. E so anche che non si può
tornare indietro, però... ma tu sei sicura di aver fatto la cosa
giusta?» Per non essere costretta a guardare l'amica negli occhi,
Daria si volta con la scusa di controllare i fornelli. In questo
momento vorrebbe non averla chiamata, perché avrebbe dovuto sapere
che all'amica sarebbe bastata un'occhiata per comprendere la sua
condizione – perché è questo che succede, quando chiedi un
consiglio ad una persona che ti conosce meglio di quanto tu conosca
te stessa. «Daria, della mia opinione te ne puoi anche fregare,
tanto alla fne sono affari tuoi, e solo tu puoi decidere, però...
non pensi che in questo modo potresti aver complicato ancora di più
le cose?» Segue un lunghissimo silenzio, un silenzio che Daria non
sa proprio come riempire, perché Alice ha ragione, ha capito tutto
anche senza ricevere indizi, anche senza sapere che a tenerla sveglia
è stata proprio la consapevolezza di aver combinato un grande,
immenso, enorme casino. «Daria? Daria, stai bene?»
Finalmente Daria si volta, tentando un sorriso nonostante il groppo
in gola e le lacrime che lottano per sfuggire alla prigione delle
ciglia, e anche senza sentirla parlare Alice capisce. «Vieni
qui» sussurra, alzandosi per raggiungerla. Com'è successo spesso
nell'ultimo periodo, se la tiene stretta, accarezzandole i capelli
mentre le lacrime le inzuppano la manica, continuando a chiedersi
perché le cose più tremende succedano sempre alle persone più
buone. Sa che non dovrebbe essere così accondiscendente, sa che
dovrebbe prendere Daria per le spalle e scrollarla fino a farle
entrare in quella testa dura che Shannon è la cosa migliore che le
sia mai capitata e che solo tornando indietro a riprenderselo farà
tornare tutto a posto, ma non ci riesce: quando quegli occhi azzurri
la guardano a quel modo, così pieni di lacrime e
disperazione, ogni rimprovero e arrabbiatura si dissolvono come neve
al sole – come si fa a prendersela con qualcuno che riesce a
punirsi benissimo da sé?
*
Città del Messico, 9
gennaio 2014
Contrariamente a quanto ho
promesso a Jared, non mi sento affatto in forma, né pronto ad
affrontare un concerto – però non mi posso tirare indietro a
questo punto, poiché manca poco più di un'ora all'inizio dello
spettacolo, e sostituirmi sarebbe piuttosto complicato. Senza contare
che probabilmente incapperei nell'ira di mio fratello, che mi
negherebbe la parola fino alla fine dei miei giorni.
Quando Emma, impegnata nel
suo rituale giro di controllo, bussa alla mia porta, me ne sto seduto
sul divanetto con le bacchette pigramente strette tra le mani e lo
sguardo fisso a terra, quasi non sapessi cosa farmene di quei due
bastoncini. «Ahia, qui le cose si mettono male» sussurra,
chiudendosi la porta alle spalle. «Che cosa succede? Cos'è quella
faccia?»
«Quale faccia?»
«Quella faccia»
ripete, indicando il mio volto. «Sembri un cane bastonato.»
«Mi sento un cane
bastonato» rispondo, sfregandomi gli occhi con le mani. «Hai mai
avuto un momento... un momento no? Come se ti sentissi scarica
di ogni energia?»
«Altroché. Credo che
chiunque abbia dei momenti di sconforto. Certo, forse prima di un
concerto non è l'ideale, ma... è successo qualcosa di particolare?»
«No, no, che dovrebbe
essere successo? È solo che... non lo so, forse il periodo di pausa
non è bastato a riprendermi. O forse sto soltanto covando un po' di
influenza, chi lo sa.»
«O forse pensi ancora
a...»
«No. Assolutamente no» la
interrompo. «Non sto pensando ad altro che al lavoro, in questo
momento. Non mi posso permettere distrazioni.»
«Va bene, se lo dici
tu...» replica lei, guardandomi come se sapesse cose che io ignoro.
«Perché mi guardi così?»
le domando mentre sta per aprire la porta e lasciarmi di nuovo solo.
«Così come?»
«Come se... come se non mi
credessi.»
Sorride brevemente, poi
torna a farsi seria. «Perché io non ti credo, Shannon. Forse
puoi mentire a te stesso, ma non puoi mentire a me. Né a Tomo, né a
tua madre, lasciamo perdere tuo fratello. Che la cosa ti piaccia o
meno, noi ti conosciamo bene, e nemmeno se fossi un ottimo attore
potresti ingannarci. Non sei tranquillo, né sereno, né rilassato,
né libero dai cattivi pensieri. C'è qualcosa su cui continui a
rimuginare, e si vede. Sei padrone di tenerlo per te e non
condividerlo con noi, però non fingere che vada tutto bene, perché
non è così.» Terminata la sua breve arringa, si guarda per un
attimo le scarpe e poi rialza la testa. «Se non hai bisogno di
nulla, adesso io andrei. Devo fare ancora un po' di cose prima che lo
spettacolo inizi.»
«Sono a posto, grazie.»
«Va bene, allora me ne
vado. A più tardi.»
«A più tardi.»
Seguo con attenzione la sua
ritirata, e non appena la porta si richiude chiudo gli occhi e
riabbasso la testa, liberando un sospiro. Serro le palpebre e mi
passo le mani tra i capelli, cercando di trovare la giusta
concentrazione per affrontare la serata. Devo chiudere i miei
problemi in un angolo del cervello e portare alla luce soltanto ciò
che mi servirà per concedere agli Echelon ciò che stanno
aspettando, ovvero uno spettacolo indimenticabile.
Tutto ciò che devo fare è
dimenticare Daria.
*
Torino, 8 gennaio 2014
«Che cosa hai intenzione
di fare, adesso?»
«A che proposito?»
«A proposito di Marco, a
proposito di tua madre... a proposito di tutto.»
Faccio spallucce,
inzuppando un biscotto nel caffè. «Non ne ho idea.»
«Non per fare la
rompiballe, ma io credo che dopo stanotte Marco si aspetti...
qualcosa. Insomma, lui ti ha aperto il suo cuore, e tu...» Si
interrompe all'improvviso, come chiedendosi se sia il caso di
continuare.
«So cosa stai per dire,
Alice. Non ti fare problemi.»
«Non stavo per dire quello
che pensavi volessi dire!»
«Oh, invece sì. Stavi per
dire "...e tu hai aperto le gambe".»
«Forse l'ho pensato per
qualche secondo, ma non avrei mai detto una cosa tanto volgare.»
«Come se fossi il tipo di
persona che si offende per queste cose.»
«Comunque, che hai
intenzione di fare? Insomma, io al suo posto qualcosa me lo
aspetterei. Non che vi dobbiate sposare, certo, però vi siete visti
nudi. La cosa dovrebbe avere una certa importanza, no?»
«Tu dici che dovrei dargli
una chance?» domando, temendo la sua risposta.
«Beh, se ci sei stata a
letto immagino che tra voi ci fosse una certa... attrazione.
Insomma, non l'hai fatto soltanto perché ti annoiavi e avevi voglia
di passare una serata diversa...» Segue una lunga pausa, durante la
quale mi sento studiata quanto una cavia da laboratorio. «Perché tu
non lo hai usato come scacciapensieri, vero?»
«Certo che no. Come ti
viene in mente?» mi affretto a rispondere, pur sapendo che la mia
solerzia non farà altro che accrescere i suoi sospetti.
«Santo cielo, lo hai
fatto» sospira, coprendosi gli occhi con una mano.
«Ti assicuro che non è
così, Alice.»
«E allora guardami negli
occhi e giurami che andare a letto con lui ti ha reso la donna più
felice e soddisfatta del mondo. Giurami questo e io non solleverò
mai più la questione.» Prendo fiato e tento un paio di volte di
prendere la parola, senza riuscire a dire nulla. «Sai che non
funziona mai, vero?» riprende lei. «La tecnica
chiodo-scaccia-chiodo. Può funzionare soltanto se sei un
essere completamente senza cuore, ma in quel caso di solito non hai
un chiodo da scacciare.» La persistente assenza di una mia risposta
la fa sentire in dovere di continuare. «Capisco che la tua priorità
sia dimenticare Shannon e andare avanti con la tua vita, ma illudere
Marco non mi sembra una buona strategia.»
«Non sto illudendo
Marco» protesto. «Non c'è stata nessuna promessa, nessun
progetto...»
«Però lui ha confessato
di essere attratto da te e tu ti sei spogliata. Direi che il
messaggio è piuttosto chiaro.»
«Non c'è assolutamente
nessun messaggio da recepire. Non è stato niente, solo che il
momento era...»
«No, no, no, questa mi
rifiuto di sentirla. Non cercare di imbonirmi con il solito discorso
sulla magia del momento, sul fatto che si è trattato di condizioni
particolari e che è stato un caso isolato, perché non ti credi
nemmeno tu.»
«Mi stai facendo la
morale?»
«Non faccio la morale a
nessuno, sai che non sono il tipo. Sto solo dicendo che io ti
conosco, e so quanto tempo impieghi per arrivare a fidarti delle
persone. Di solito ti servono mesi per lasciar entrare una
persona nel tuo cuore, figurarsi quanto ce ne vuole per
lasciartela entrare nelle mutande.»
«Beh, nella vita è
importante essere flessibili, no? Forse mi sto evolvendo, sai,
tipo... diventando una persona migliore.»
«Mi permetti di essere
scettica al riguardo?»
«Pensi che andare a letto
con Marco sia stato un errore?»
«Penso che dovresti
comportarti onestamente nei suoi riguardi. E soprattutto nei tuoi.
Penso che dovresti chiederti che cosa vuoi davvero, e soprattutto che
cosa ti serve. Insomma, devi mettere a fuoco le tue necessità
e seguirle. E dovresti iniziare a pensare seriamente alle conseguenze
delle tue azioni e delle tue scelte, perché ci sono sempre
delle conseguenze.» Di nuovo non rispondo, e di nuovo sento il suo
sguardo fisso su di me. «Mi chiedo se tu sappia quello che vuoi, in
fondo.»
«Chi è davvero sicuro di
sapere quello che vuole?» ribatto.
«Nessuno» risponde. «Ma
almeno un indizio lo dovresti avere, non credi?»
«Voglio essere onesta»
sussurro dopo un silenzio quasi infinito. «Voglio essere onesta,
soprattutto con me stessa.»
«Bene. Mi sembra un'ottima
decisione. E come pensi che dovrebbe... svolgersi la cosa?»
«Beh, immagino che dovrei
capire ciò che è meglio per me e... fare tutto ciò che è in mio
potere per raggiungere quella meta.»
«Ragionevole. E... cosa
credi sia meglio per te, in questo momento?»
Rifletto per qualche
secondo, prima di sputare fuori una risposta. «Dimenticare Shannon»
sentenzio infine. «Dimenticare tutto ciò che lo riguarda,
dimenticare Parigi, dimenticare tutto ciò che ho provato quando
eravamo insieme. Non dico dimenticarlo per sempre, solo...
solo finché non avrò imparato ad essere felice senza di lui.»
«Se pensi sia la scelta
più opportuna... e con Marco come la metti?»
«Ci uscirò. Se mi
chiederà di farlo, naturalmente.» Ci fissiamo per qualche istante,
e dal suo sguardo capisco che non è convinta di quanto sto dicendo –
è sempre stata dichiaratamente pro-Shannon, fin dal principio, fin
da quando non riuscivo nemmeno a credere di essere coinvolta
in qualcosa con lui, e so che la mia dichiarazione ferisce la piccola
cheerleader nascosta dentro di lei, che già ci vedeva riuniti
davanti all'altare per scambiarci promesse di amore eterno.
Rinunciare a lui ferisce anche me, in un certo senso, ma al contrario
di lei mi rendo conto che separarci è stato necessario, per
quanto doloroso, perché so che non saremmo mai riusciti ad andare da
nessuna parte.
«Ok. Se pensi che sia la
cosa giusta, io ti appoggerò. E con tua madre, invece? Pensi di
chiamarla?»
Fisso i resti del biglietto
da visita, frapposti tra di noi come una barricata. «Qualcosa
inventerò.»
*
Città del Messico, 10
gennaio 2014
Quando
Emma sente bussare alla porta della propria stanza è quasi l'una del
mattino, e il primo pensiero è che sia successo qualcosa di
catastrofico – magari Stevie è scivolato nella doccia, è caduto e
si è rotto un braccio, o magari è solo Jared che non trova i
bigodini –, ma quando, in pigiama e con gli occhi che domandano
soltanto di chiudersi, apre e si trova di fronte Shannon, capisce che
è molto peggio. «Ehi,
ciao» la saluta lui, impacciato come mai. «Ce li hai cinque minuti?
Penso... penso di aver bisogno di parlare con qualcuno. O meglio,
forse ho soltanto bisogno di un consiglio... sai, da parte di una
donna.»
In
circostanze normali Emma lo manderebbe all'inferno e sbatterebbe
forte la porta contro quel profilo praticamente perfetto, ma il modo
in cui lo vede tormentarsi le mani, come se dal loro colloquio
dipendesse il destino del mondo, muove la sua parte più sensibile.
Si scosta e gli fa cenno di entrare. «Vieni avanti, forza» gli
sorride, sperando di essere in grado di alleviare quel dolore che
c'è, e spicca come un cactus nel deserto. Si accoccola sul proprio
letto e fissa l'uomo fermo al centro della stanza, lasciandosi
sfuggire un altro sorriso. «So che è una situazione nuova per te,
stare in una stanza con una donna e avere ancora tutti i vestiti
addosso, ma vedrai da te che non c'è nulla di cui aver paura. Su,
vieni a sederti qui vicino a me» lo incita, battendo il palmo aperto
della mano sul copriletto.
Mentre
si appoggia al materasso, Shannon si lascia scappare una breve
risata. «Anni che ti conosco, e non sapevo che potessi essere così
simpatica.»
«Forse
non sono esattamente al primo posto, nella lista delle cose che ti
interessano. Avanti, di che vuoi parlare? Su che cosa dovrei
consigliarti?»
«Beh,
io... io credo di aver fatto un casino con una ragazza. Niente che
richieda un comunicato stampa, o una smentita, o un'azione legale,
tranquilla» aggiunge subito, notando l'espressione sconvolta
dell'assistente. «Solo che... ho paura di aver ferito una persona.
Insomma, di aver detto qualcosa che... tu come la prenderesti, se
confessassi ad un uomo di essere innamorata di lui e lui dopo trenta
secondi ti confessasse di essere innamorato di un'altra?»
Emma
distoglie lo sguardo per qualche istante, riflettendo sulla risposta.
«Beh, immagino che una poderosa ginocchiata all'altezza dei genitali
sarebbe una reazione abbastanza equilibrata.»
«Allora
ringrazio il cielo che fossimo al telefono» sussurra Shannon,
grattandosi il mento non rasato.
«Non
stiamo parlando in modo teorico, vero? Insomma, tu hai... lo hai
fatto davvero?»
«Qualche
giorno fa ho incontrato una mia ex ragazza. La mia prima
ex ragazza, in realtà, e... beh, per fartela breve, ci siamo visti
per un caffè. Non ci vedevamo da qualcosa come vent'anni, o forse
più, e... prima di separarci lei mi ha baciato. Lì per lì non ci
ho dato importanza, ma ieri sera ho... io l'ho chiamata. Volevo una
spiegazione. Avevo bisogno di
una spiegazione.»
«E
a quel punto lei ha detto di essere innamorata di te.»
«Qualcosa
del genere.»
«E
tu le hai detto che sei ancora innamorato di Daria.»
«Qualcosa
del genere. Non ho detto esattamente quelle
parole, ma... ecco, lei mi ha chiesto di sfogarmi, ed è quello che
ho fatto. Le ho parlato di Daria, e del modo in cui mi ha abbandonato
a Parigi, e... stavo... stavo riflettendo ad alta voce, e le ho
chiesto se secondo lei era giusto accettare
la sua decisione o se avrei dovuto correrle dietro,
e...»
«E
lei che cosa ti ha consigliato?»
«Lei
è stata corretta. Più che corretta. Ha detto che non era una
domanda cui potesse rispondere. E io, scemo, l'ho capito soltanto
dopo. E... e soltanto dopo ho capito che probabilmente l'ho ferita,
parlando a quel modo
di Daria, ma... santo Dio, sono settimane
che penso a Daria. Non riesco a togliermela dalla testa.»
«Poco
più di sei ore fa eri pronto a giurare di essertela levata dalla
testa.»
«Ho
mentito.» Emma e Shannon si fissano per un istante, e subito dopo
Shannon fa una cosa che lei non gli ha mai visto fare – non davanti
ad una donna, almeno: abbassa lo sguardo, china il capo e si prende
la testa fra le mani, come disperato. «Pensavo di poter andare
avanti come se nulla fosse successo, ma a questo punto mi sembra
chiaro che non ne sono in grado. O forse non voglio
andare avanti, non lo so. Il fatto è che... con lei era tutto più
semplice, sembrava tutto così... così semplice.
Certo, alla lunga avremmo dovuto affrontare tutti i problemi che le
coppie normali devono affrontare, ma io so che... so che accanto a
lei nessun ostacolo mi sarebbe sembrato insormontabile, perché
lei... lei mi conosceva.
Le ho raccontato alcuni dei miei segreti più grandi, e... e le
andavo bene comunque.»
«Sei
ancora in tempo per riavere quei momenti, Shannon. Devi solo mettere
da parte l'orgoglio e fare il primo passo.»
«Non
è una questione di orgoglio, Emma.» Shannon alza gli occhi, e per
la prima volta lei li vede arrossati e lucidi di lacrime. «Se solo
potessi, ti giuro che salterei sul primo aereo per l'Italia.»
«Puoi
farlo, Shannon. Jared non ti ucciderà, se gli dirai che...»
«Non
posso, Emma. Non
posso, perché lei mi ha chiesto di non farlo.» Emma apre la bocca
per rispondere, ma lui la batte sul tempo. «A volte ho pensato
che... ho pensato che la sua richiesta fosse un test, tipo... non so,
un trabocchetto. Sai, se me ne fossi fregato e fossi andato da lei
avrebbe significato che l'amavo da morire. E se non l'avessi
seguita...» Si interrompe e guarda di nuovo in basso, in direzione
dei propri piedi, che soltanto adesso Emma si accorge essere nudi.
«Se fosse stato un test, adesso sarebbe troppo tardi per riaverla
indietro. Due mesi...
sono passati quasi due mesi. Tornare da lei adesso non... non sarebbe
accettabile.»
«Personalmente,
io lo troverei accettabilissimo. Anche dopo, non so, due secoli.
Il fatto stesso di veder tornare indietro l'uomo che amo mi
renderebbe felice.»
«Apprezzo
i tuoi sforzi, Emma, ma non riuscirai a convincermi ad andare da
lei.»
«Non
sto cercando di convincerti a fare un bel niente, Shannon. La sola
cosa che voglio è che tu sia in pace con te stesso, che tu stia...
bene. E perdona la mia
brutalità, ma in questo momento tu non stai affatto bene.»
«Amo
la tua brutalità.»
Emma
sorride appena, giocherellando con il bordo di un calzino. «Io credo
che a questo punto tu debba prendere una decisione, Shannon. Prendere
una decisione e seguirla fino in fondo, non importa che cosa accadrà»
aggiunge. «Per come la vedo io, ci sono tre possibili soluzioni.
Numero uno: metti da parte l'orgoglio, metti da parte i test e i
trabocchetti e tutte le altre stronzate, prendi un aereo, bussi alla
sua porta e le dici che non puoi vivere senza di lei. Numero due:
continui a crogiolarti nel tuo dolore e ti rinchiudi a riccio
soffocandoti nelle tue emozioni, diventando un vecchio scapolo arido
e solo.»
«E...
numero tre?»
«Ti dimentichi di averla
conosciuta. Dimentichi Milano, dimentichi il fine settimana che hai
trascorso con lei a Torino, dimentichi Parigi, dimentichi il discorso
che Jared vi ha dedicato, dimentichi il dolore. Dimentichi tutto, le
cose belle e le cose brutte. La cancelli dalla tua mente, fingi di
non averla mai incontrata, fingi che non sia mai esistita. Passi
oltre, vai avanti. Vai avanti, come fa la gente comune.»
«Non
so se posso farlo. Insomma, non so se... non so se mi posso
dimenticare tutto quello che abbiamo vissuto insieme.»
«Non
è l'unica soluzione possibile» replica Emma, facendo spallucce.
«Adesso tocca a te prendere una decisione. Soltanto a te.»
Shannon
sospira e rialza lo sguardo, puntandolo per qualche istante verso il
soffitto. «Ti è mai capitato di sapere
quale sia la cosa giusta da fare, ma di non avere il coraggio di
farla?»
«Credo
sia la storia di chiunque.»
«Cosa
faresti, se fossi al mio posto?»
«Credo...
penso che sarei confusa, esattamente come te.»
«Consolante.
Almeno so di non essere solo.» Guarda di nuovo la ragazza, poi
abbassa la testa e si fissa i piedi per qualche secondo. «Grazie per
la chiacchierata, Emma. Avevo proprio bisogno di confrontarmi con
qualcuno.»
«Non
credo di essere stata molto utile, comunque... quando vuoi.
Psicanalizzare te è più semplice che psicanalizzare tuo fratello.»
Solo
per un istante, sul volto di Shannon compare un sorriso – o almeno,
così potrebbe sembrare ad un occhio poco allenato. Il problema, con
Emma, è che tanti anni di lavoro a stretto contatto le hanno
insegnato a leggere lo stato d'animo di quei tre bambinoni anche da
una minuscola ruga – e quel movimento delle labbra non è un vero
sorriso, lei lo sa. «Grazie per tutto, Emma. Adesso ti lascio
dormire. Buonanotte.»
«Buonanotte.
Vai a dormire?» gli domanda subito dopo, alzandosi per accompagnarlo
alla porta.
«Non
lo so. Forse potrei uscire un'oretta con Stevie e i ragazzi. Si
stavano mettendo d'accordo per una birra. Potrebbe farmi bene.»
«Fa'
attenzione. Niente eccessi. Non voglio passare tutta la giornata di
domani a difenderti da tuo fratello. Lo sai che quando ci si
mette...»
«...diventa
più noioso di un chihuahua. Sì, lo so. Ti prometto che non farò
sciocchezze.»
*
Torino, 8 gennaio 2014
Piuttosto mite fino a
qualche settimana fa, l'inverno di Torino sembra essere
improvvisamente diventato uno dei più freddi degli ultimi anni, e
mentre spingo più a fondo le mani nelle tasche del cappotto non
posso fare a meno di chiedermi se quella che sto mettendo in pratica
non sia una delle idee più stupide mai partorite da un essere umano.
Sospiro, e il fiato si condensa in una nuvoletta bianca che sale
lenta verso l'alto, in direzione di un cielo che non promette altro
che neve. Sento il mio intero corpo tremare, e non riesco a capire se
la colpa sia del freddo oppure della paura – perché avere paura
sarebbe plausibile, vista la prova che sto per affrontare. Quindici
anni. Sono passati quindici anni dall'ultima volta che ci siamo
parlate, e questa è una cosa che non posso dimenticare. Non posso
cancellare quindici anni come se non fossero mai esistiti, come se in
tutto questo tempo io, i miei fratelli e soprattutto mio padre non
avessimo costruito nulla, come se non avessimo tentato di
ricostruirci lontano dalle macerie del passato. L'istinto mi dice che
dovrei voltare i tacchi e allontanarmi, ma nonostante tutto c'è
ancora una piccola parte di me che vuole sapere, e che
attraverserà la strada e aprirà quella porta.
*
Città del Messico, 10
gennaio 2014
«Ecco
che cosa mi mancava del Messico»
sospira Stevie, precedendo tutti gli altri. «Bere margaritas e
scopare señoritas2»
aggiunge, strappando un sorriso a tutta la compagnia. A divertirli
non è la volgarità, quanto la consapevolezza che, nonostante la
chiara dichiarazione d'intenti, il musicista riuscirà bene soltanto
in una delle due cose – è un caro ragazzo, Stevie, ma rimorchiare
nei locali non fa proprio per lui.
I
ragazzi si spostano tutti verso il bancone del bar, punto di partenza
obbligato di ogni serata, e mentre aspettano di ottenere i rispettivi
ordini si voltano verso la pista da ballo – qualcuno alla ricerca
di una preda, qualcuno soltanto per curiosità. Nonostante il
desiderio di dimenticare, Shannon è l'unico a non guardare verso il
centro del locale, dov'è concentrata la maggior parte delle ragazze
presenti. Sente tutti i commenti degli amici, ma si volta soltanto
quando può nascondersi dietro una birra, come se guardare un'altra
donna lo facesse sentire a disagio,
quasi sporco. Osserva
i goffi tentativi di approccio di Stevie con una bella ragazza con le
gambe troppo lunghe, e poco a poco vede il gruppo disperdersi, ognuno
concentrato sul proprio sentiero.
Sa
di non essere molto di compagnia, ma non gli importa: non è uscito
con l'intenzione di essere l'anima della festa – tutto ciò che
vuole è dimostrare a se stesso di poter ancora vivere
senza di lei.
*
Torino, 8 gennaio 2014
Spingo
la porta con mano tremante, ed entro mettendo cautamente un piede
davanti all'altro, quasi mi aspettassi di essere improvvisamente
attaccata da un animale feroce. È soltanto tua madre,
accidenti!, mi dico, rendendomi
conto che è proprio questo a terrorizzarmi – se fosse una completa
estranea quella che devo incontrare, forse non sarei tanto nervosa.
Il
biglietto da visita diceva 'Elisa Maresca, arredatrice d'interni', e
ciò che vedo intorno a me sembra confermarlo – la tinteggiatura
delle pareti, i tendaggi, le poltrone... sembra tutto perfetto.
Mentre sto accarezzando il bracciolo di una poltroncina mi si
avvicina una ragazza che deve avere più o meno la mia età, che
intuisco essere una segretaria. «Buongiorno. Posso esserle utile?»
mi sorride.
«Buongiorno.
Sì, io... ehm, dovrei... vorrei parlare con la signora Maresca, se è
possibile.»
«Ha
un appuntamento?»
Distolgo
per un istante lo sguardo, trattenendomi dal fare qualcosa di
estremamente stupido come ridere
– ci mancherebbe soltanto che per parlare con mia madre dovessi
prendere un appuntamento. «No, non ho un appuntamento, ma... ecco,
pensavo... speravo che
potesse trovare un paio di minuti per me.»
«Beh,
in questo momento è in riunione con un cliente, e...»
si blocca, forse intuendo dall'espressione dei miei occhi che si
tratta di qualcosa di davvero importante. «Vado
ad informarmi e torno subito. In fondo non è una riunione così
importante.»
Muove un passo nella direzione da cui è arrivata, poi si volta di
nuovo verso di me. «Chi devo annunciare?»
«Le
dica che... le dica...»
Le parole mi muoiono in gola. Non posso dire figlia,
e troverei estremamente riduttivo farmi indicare come una ragazza
qualunque. «Le dica che c'è qui la figlia di Danilo»
riprendo dopo un istante di smarrimento. «Sono certa che capirà.»
«La
figlia di Danilo, va bene. Torno subito.»
La
ragazza scompare dietro un angolo, e circa trenta secondi più tardi
il silenzio viene interrotto dal ritmo di un paio di tacchi che si
avvicinano, alternandosi rapidamente sul pavimento di graniglia. Alzo
la testa giusto in tempo per offrire il mio volto allo sguardo di mia
madre, che si blocca all'improvviso, seguita a poca distanza dalla
segretaria. «Ciao»
sussurra, quasi non si fosse aspettata di vedere me.
«Ciao»
rispondo, sorprendendomi di quanto indifferente appaia il mio tono.
«Sono...
sono impegnata in una riunione, ma posso liberarmi, se... se puoi
aspettare qualche minuto.»
Vorrei
rispondere che sono quindici anni che aspetto, e che un paio di
minuti non mi faranno certo dare di matto, ma sapendo che sarebbe
maleducato e fuori luogo, trattengo il sarcasmo e faccio spallucce.
«Certo, posso aspettare un paio di minuti.»
«Anna,
finisco con il signor Galleani e poi esco»
dice alla segretaria. «Fammi il piacere di spostare tutti gli
appuntamenti della mattinata. Non ci sono per nessuno.»
*
Città del Messico, 10
gennaio 2014
Shannon
è già alla seconda birra, quando Stevie gli si avvicina – o
meglio, quando gli si schianta contro come un sacco di patate. «Sai,
Shannon, io di te mi ricordavo che fossi un tipo divertente»
biascica, già evidentemente alticcio. «Ti ricordi quella volta a
Hong Kong, quando cercavo di rimorchiarmi quella bella interprete e
invece te la sei portata a letto tu?»
«Ho
un vago ricordo»
ammette il batterista, «ma eravamo ad Oslo, non a Hong Kong.»
«Oslo,
Hong Kong, cosa vuoi che cambi? Da qualche parte c'è sempre una O.»
Shannon aggrotta le sopracciglia, chiedendosi quanto alcol occorra
avere in corpo per arrivare a partorire un simile ragionamento.
«Comunque, tu hai
qualcosa che non va»
aggiunge l'altro, strappandolo alle sue riflessioni. «Non è da te
stare in un locale così pieno di belle ragazze e non muovere un
dito. Hai la febbre?»
«No,
Stevie, non ho la febbre.»
«E
allora hai dei problemi... come dire, tecnici?
Perché sai, ad una certa età può anche capitare che un uomo non
riesca più a... sai, no? Avere reazioni
adeguate.»
«Stevie,
ti assicuro che ho reazioni più che adeguate»
replica in tono abbastanza secco. «Non sono in vena, tutto qui.»
«Allora
è vero quello che dicono!»
«Eh?»
«Dicono
tutti che hai il cuore spezzato»
ridacchia. «Dicono che quella ragazzina che ti sbaciucchiavi dietro
le quinte a Parigi ti ha mollato.
Io non ci volevo proprio credere, perché andiamo,
quando mai ti sei innamorato di qualcuno, tu?»
Shannon abbassa lo
sguardo con aria colpevole: dunque, è così che lo vedono. Lo
considerano una macchina senza sentimenti il cui unico scopo è
andare in giro a strappar via le mutande di tutte le ragazze carine
che incontra? Va bene, Stevie è ubriaco e dunque il suo giudizio
potrebbe anche risultare un pochino sfalsato, ma... è davvero così
che lo vedono? Come un uomo adulto che non si è mai innamorato? «E
io, sai, non ci credevo, ma adesso penso proprio che...»
«Ma
no, che vai dicendo? Innamorato, io? Ma quando mai? Era soltanto una
che cercavo di portarmi a letto, ma è stata una missione davvero
impossibile»
minimizza, sperando così di mettere a tacere le voci. È consapevole
di mentire, e ad ogni parola avverte una chiara fitta al petto, come
se qualcosa dentro si stesse strappando. Non è giusto ridurre ciò
che lui e Daria hanno avuto ad una semplice storia di letto, ma è il
solo modo che conosca per non cadere a pezzi.
1Dimentica
l'amore, e forse anche il dolore passerà. Dimentica le cose belle, e
tutto il male, sai, di colpo sparirà. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone
Dimentica di
Raf,
contenuta nell'album Passeggeri
Distratti
(2006).
2Bere
margaritas e scopare señoritas.
|
La battuta non è di mia invenzione, ma è pronunciata da Archie
Moses
(interpretato da Adam
Sandler)
nella commmedia Bulletproof
(1996).
|
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Capitolo 7 *** 7 | 'Bella mattinata. Poseidone benedice il nostro viaggio.' 'A volte gli dei ti benedicono la mattina e ti maledicono nel pomeriggio.' ***
La lunga strada verso casa - 1
Io vi
chiedo immensamente scusa per avervi fatto attendere tanto, ma è
stata una settimana complicata: tra le chiamate d'urgenza al lavoro,
l'imbianchino al lavoro in ogni angolo della casa e mie conseguenti
indecenti sbavature, Fratello Piccolo che ha avuto l'influenza e
Fratello Un Po' Meno Piccolo che doveva iniziare il primo anno di
università e aveva bisogno di una guida non ho davvero avuto tempo
per sedermi al computer e mettere giù le mille idee che avevo in
testa.
Come
sempre, grazie per la vicinanza, il supporto, i like su Facebook, i
commenti e le recensioni... siete il miglior gruppo di fan che abbia
mai conosciuto, e vi voglio sinceramente bene.
Fatemi
sapere che ne pensate, e come ricompensa cercherò di scrivere
rapidamente il prossimo capitolo!
Provehito
in altum, sempre.
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo settimo
“Bella mattinata.
Poseidone benedice il nostro viaggio.”
“A volte gli dei ti
benedicono la mattina e ti maledicono nel pomeriggio”.1
Torino, 8 gennaio 2014
«Non
avrei mai pensato di rivederti così presto. Non avrei pensato di
rivederti in generale.»
«Neanch'io
avrei pensato di rivederti in
generale. Non dopo tutto
questo tempo.»
«Sei
così bella»
sorride, continuando a girare il caffè come se non avesse sentito le
mie parole. «Eri già la bambina più bella che avessi mai visto, ma
adesso sei così...»
«Adulta?»
completo io, sapendo di usare un tono decisamente seccato. «Senti,
non mi va di farla troppo lunga» aggiungo, giocherellando con il
cucchiaino appoggiato accanto alla tazzina. «Per come la vedo io,
una persona non torna dopo quindici anni senza volere qualcosa in
cambio. Che cosa c'è sotto?»
«Pensi
che stia cercando di ottenere qualcosa?» ribatte, evidentemente
sorpresa dalle mie parole. «Si vede proprio che non mi...» Si
interrompe, rendendosi conto che ciò che sta per dire andrebbe
inevitabilmente a suo sfavore.
Non
posso lasciarmi sfuggire quest'occasione, sebbene non sia mai stata
una persona che ama girare il dito nelle piaghe altrui. «Che non ti
conosco? Direi che non è così strano, visto che è dall'età di
otto anni che non ti vedo.»
La
guardo coprirsi gli occhi con una mano, e in cuor mio spero che non
inizi a piangere, perché a quel punto tutta la mia baldanza andrebbe
a quel paese, e probabilmente mi scioglierei in lacrime anch'io. «Hai
tutto il diritto di essere arrabbiata con me, Daria. Non saresti una
persona normale, se non provassi rabbia nei miei confronti. Però io
avevo delle ragioni, avevo... avevo dei motivi. Non me ne sono andata
soltanto perché quel mattino non avevo altro da fare.»
«Non
mi importa dei tuoi motivi. Ormai non hanno più importanza.
Avrebbero potuto avere un senso se fossi tornata dopo quindici
giorni, ma dopo quindici anni...»
«Daria,
io voglio spiegarti
perché...»
«E
se io non volessi ascoltarti?» ribatto in tono di sfida. Subito
dopo, notando il suo sguardo implorante, mi pento di essere stata
tanto dura e mi rinchiudo nel mio silenzio, sperando che lo
interpreti come un invito a parlare – in fondo è per questo che
sono partita alla sua ricerca. In fondo, conoscere
la verità è il mio più
grande desiderio.
«So di essere stata tutto
tranne una buona madre, ma una possibilità di spiegare dovresti
concedermela» riprende, riuscendo non so come a mantenere la calma.
«E se quando avrò finito avrai ancora voglia di cacciarmi dalla tua
vita a calci nel sedere, lo accetterò senza lamentarmi.» I nostri
sguardi si incrociano, ma è soltanto per un attimo: non riesco a
sostenere il peso di quegli occhi, simili ai miei per forma e
intensità. Non sono ancora le undici di mattina, e già so che
questa sarà una di quelle giornate che possono cambiare la tua vita
per sempre.
*
Città del Messico, 10
gennaio 2014
Ordinato un altro giro di
tequila, Stevie si è di nuovo allontanato, lasciandomi solo – ma
la calma, già lo so, non è destinata a durare. Passano quelli che
forse non sono nemmeno cinque minuti e lo vedo tornare, non più solo
ma in compagnia di due ragazze decisamente carine. «Shannon, ti
presento le mie due nuove amiche, Camila e Rafaela. Sono messicane»
aggiunge con una risatina, come se questo particolare rendesse la
cosa particolarmente divertente. «Chicas, esto
es mi amigo Shannon»
biascica, e in realtà sono molto stupito dal fatto che riesca a
parlare così bene una lingua straniera nonostante l'evidente stato
di alterazione. «Shannon
es un poco timido, pero le gustaria mucho bailar con una chica
hermosa.2»
«Stevie...»
tento di protestare, senza successo.
«Taci
e ascolta, Shannon. Non puoi sempre fare le cose a modo tuo» mi
redarguisce, mentre una delle due ragazze, probabilmente ubriaca
quanto lui, esplode in una risatina sciocca e gli si accoccola contro
la spalla. Detto questo i due si allontanano, lasciando indietro
l'altra ragazza, che per mia fortuna sembra meno su di giri
dell'amica.
Mi
spremo a lungo le meningi, cercando di ricordare le poche nozioni di
spagnolo apprese al liceo. «Yo...
yo no hablo mucho...»
borbotto, senza capire se il balbettare sia causato dall'alcol,
dall'imbarazzo o dall'ignoranza.
«Parlo
un po' di inglese» mi interrompe lei con un sorriso, avvicinandosi
al bancone per ordinare da bere. «Ma hai un bell'accento» aggiunge.
«Grazie.
Tu sei Camila o... scusa, mi sfugge l'altro nome.»
«Era
Rafaela. Comunque io sono Camila» aggiunge, porgendomi la mano in
segno di saluto.
«Shannon»
rispondo, ricambiando la stretta.
«So
chi sei. Anche se forse sarai stufo di sentirtelo ripetere.»
Mi
stringo nelle spalle ed evito di rispondere, anche perché non saprei
bene quali parole usare. «Scusa per il mio amico. Quando esagera a
volte può diventare... ingombrante.»
Guardo verso la pista da ballo, dove uno Stevie dall'equilibrio
decisamente compromesso sta tentando di dimostrare le sue inesistenti
doti di ballerino. «Comunque la tua amica può stare tranquilla, non
è pericoloso.»
Anche
lei si volta per guardare la strana coppia, e nel farlo sorride
ancora. «Non ero preoccupata. Rafaela è una che si sa difendere,
anche quando non è esattamente in sé.» Torna a guardare verso di
me, portandosi alle labbra la birra che ha ordinato. «Il tuo amico
ha detto che sei timido, ma a me non sembri un tipo timido.»
«E
che tipo ti sembro, allora?»
Questa
volta tocca a lei rispondere con un'alzata di spalle. «Non lo so.
Non ti conosco, in fondo.»
Abbasso
per un istante gli occhi, sentendo montarmi dentro un coraggio di cui
non riesco a capire l'origine. «Balleresti con me, anche se non mi
conosci?»
Mi
studia con attenzione per qualche istante, puntandomi addosso due
occhi scuri e molto intensi. «Penso di poter correre il rischio»
sussurra poi, sporgendosi appena verso di me per sottolineare il
concetto.
*
Torino, 8 gennaio 2014
«Io
tuo padre l'ho amato tantissimo, sai? So che sembra strano, pensando
a com'è finita tra di noi, ma... io l'ho amato davvero molto.» Mi
guarda e tenta un sorriso, ma è soltanto un istante: subito
riabbassa lo sguardo e torna a giocare con il cucchiaino, forse
cercando di raccogliere le idee. «Quando l'ho conosciuto ho pensato
di essere la ragazza più fortunata del mondo, e quando l'ho sposato
ho creduto che sarebbe durata per sempre. Solo che la vita non va
sempre come tu l'hai progettata» sospira. «Insieme stavamo bene. Mi
piaceva davvero
stare con lui, solo... solo che non era quello che volevo. Non ho mai
voluto essere come mia madre» riprende dopo un attimo di pausa. «Non
avrei mai sopportato di diventare una di quelle casalinghe frustrate
il cui unico svago è riunirsi con altre casalinghe frustrate a
spettegolare sul mondo, io non... io non ero fatta per quel tipo di
vita. Ho sempre saputo di essere destinata a qualcos'altro.»
«Perché
non glielo hai mai detto? Siete stati fidanzati per quanto, quasi
dieci anni? E in tutto quel tempo non ti è mai venuto in mente di
dirgli che non volevi il tipo di vita che stavate progettando?»
«Daria,
non è così semplice... a quell'epoca io volevo
quel tipo di vita. Insomma, stare... stare con tuo padre mi piaceva
così tanto che... credo che avrebbe potuto portarmi a vivere sulla
punta dell'Everest, e a me sarebbe stato bene.»
«Stai
dicendo che è colpa sua? Che... che... che ti ha circuita
e ti ha fatto credere di volere cose che in realtà non volevi?»
Lei apre la bocca per
ribattere e la richiude subito dopo, come se avesse cambiato idea.
«Daria, quando c'è di mezzo una persona che ami, nessuna decisione
è semplice da prendere. Non parliamo poi di quello che succede
quando le persone che ami sono quattro» aggiunge in un sussurro.
«Come
sei riuscita a farlo?
»
sbotto all'improvviso, senza preoccuparmi di risultare troppo dura o
sgradevole. «Non sarebbe così assurdo se avessi lasciato soltanto
papà, ma... come si fa a lasciare tre bambini? Come si fa a lasciare
i tuoi
bambini? Francesca non si ricorda per niente di te, e credo che
Emanuele non abbia questi grandi ricordi, ma io...
io mi ricordo com'era quando eri ancora con noi. Mi ricordo tutto. Mi
ricordo i pranzi di famiglia, mi ricordo Natale, mi ricordo la
canzone che mi cantavi quando avevo la febbre e non riuscivo a
prendere sonno, mi ricordo il profumo che aveva il bucato quando lo
facevi tu... tu non sai quante cose ti sei lasciata alle spalle.»
«Se
la cosa può consolarti, in qualche modo, ogni giorno mi sono pentita
di essermene andata.»
«E
perché hai aspettato quindici anni, prima di tornare?»
*
Città del Messico, 10
gennaio 2014
Nel
caos della pista, trovo più facile liberare la mente – troppi
rumori, troppo movimento, troppa folla – trovo più facile non
pensare.
Mi lascio andare, seguendo la musica – in fondo è la mia natura,
seguire il ritmo. Resto ad occhi chiusi per un po', lasciandomi
scivolare addosso ogni pensiero cattivo e ogni preoccupazione, finché
non sento qualcosa sfiorarmi il fianco. Riapro gli occhi e mi accorgo
che le distanze tra me e Camila si sono ridotte, come se la mia
vicinanza le fosse necessaria. Nelle luci intermittenti che alternano
buio e chiarezza tento di studiare i suoi lineamenti: dire che non è
carina sarebbe un crimine, per non parlare del suo fisico, così
perfetto da sembrare scolpito nell'argilla. I nostri sguardi si
sostengono a vicenda, senza temere che le reciproche difese vengano
colpite, eppure qualcosa dentro di me vacilla, come scalfito –
forse perché ricordo ancora chiaramente un paio di occhi azzurri che
con un solo sguardo riuscivano a trafiggermi l'anima. A questo punto,
sapendo già che un giorno avrò a pentirmente, prendo il suo viso
tra le mani e la bacio sulle labbra.
*
Torino, 8 gennaio 2014
«Daria, è complicato.»
Distolgo
lo sguardo, senza curarmi di nascondere una risatina sarcastica.
«Dite sempre tutti così. Quando siamo piccoli dite che sono cose da
grandi, e quando finalmente cresciamo dite che è
complicato...
io sono cresciuta, e adesso posso
capire. Adesso voglio
capire. Sono stanca di sentirmi dire che è complicato. Forse per te
è più comodo, perché così non devi sprecarti ad inventare una
scusa dietro la quale nasconderti, ma io sono stufa di aspettare i
comodi degli altri. Io voglio
sapere perché non sei tornata.»
«Vuoi
saperlo davvero?»
«Sì.»
«Non
ti piacerà saperlo.»
«Non
mi importa. Qualunque cosa sarà meglio dell'ignoranza totale.»
Inspira
a fondo un paio di volte, come se stesse per rivelarmi il terzo
segreto di Fatima, poi mi guarda dritta negli occhi: «Hai un
fratello.» Lì per lì non recepisco il concetto, e sto per
rispondere che so
di avere un fratello, perché fino a due mesi fa dormivamo in due
stanze attigue, ma poi comprendo che non è di Emanuele che sta
parlando. «Non avrei voluto dirtelo così, ma... hai un fratello.»
«C-come...
come sarebbe a dire che ho
un fratello?»
«Due
anni dopo il divorzio ho conosciuto un altro uomo, e... siamo andati
a vivere insieme, e poi ci siamo sposati. Abbiamo avuto un bambino.
Si chiama Luca.»
La
notizia mi colpisce in pieno stomaco come una bomba, facendomi
vacillare anche se sono seduta. Sono certa che se fossi in piedi,
niente mi impedirebbe di afflosciarmi al suolo come un foglio di
carta. «Quanti anni ha?»
«Ne
ha compiuti undici a dicembre. Daria, so che per te sarà una
sorpresa, ma...»
«Una
sorpresa? Una sorpresa, dici? Una sorpresa è quando sotto l'albero
di Natale trovi quello che hai sempre desiderato, ma che pensavi non
avresti mai ottenuto. Scoprire che hai un fratello di cui non
sospettavi nemmeno l'esistenza lo definirei uno shock,
se permetti.» All'improvviso, l'angolo del bar in cui ci siamo
relegate per avere un minimo di intimità mi sembra troppo piccolo e
soffocante, e tutto ciò che voglio è respirare un po' di aria pura,
quel tanto che possa bastare a diluire l'aria satura di misteri e
bugie che mi circonda. Mi alzo e guadagno l'esterno in poche falcate,
senza preoccuparmi di quello che potrebbero pensare gli altri
avventori – per una volta, forse la prima in tutta la mia vita,
sono totalmente immune al giudizio degli altri.
«Daria!
Daria, torna qui!» mi sento chiamare. Non mi volto, ma dal solo tono
della voce capisco che mia madre si è alzata e mi sta letteralmente
inseguendo
sotto i portici di via Po. «Daria, non puoi andartene così. Resto
sempre tua madre!»
Questa
è la goccia che fa traboccare il vaso: mi volto di scatto,
sfoderando l'espressione più truce del mio repertorio. «Io non ce
l'ho più, una madre» sibilo prima di proseguire il mio cammino. Non
ho mai detto qualcosa di più crudele, anzi: ho sempre odiato questo
tipo di malvagità, e più di tutto ho sempre odiato le persone in
grado di dire cose del genere. Eppure, mai in questo momento mi è
sembrata la cosa più giusta da dire. Ormai è inutile negare che sto
cambiando,
che sto diventando una persona totalmente diversa
– ma è ancora presto per capire se questo cambiamento mi piaccia
oppure no.
*
Città del Messico, 10
gennaio 2014
Non
presto molta attenzione al percorso compiuto dal taxi per arrivare
all'albergo, e nemmeno saprei dire se nella hall ci siano testimoni
del nostro passaggio. L'unica cosa che so per certo è che non mi
sembrano passati nemmeno cinque minuti dal momento in cui ho baciato
Camila sulla pista da ballo all'istante in cui la porta della mia
stanza si è chiusa alle nostre spalle. Senza troppo garbo, la
intrappolo tra il mio corpo e il pannello, avventandomi contro il suo
collo con foga. Un istante più tardi, le mie mani si infilano sotto
la sua gonna e fanno scivolare via le mutandine. Inizio a toccarla, e
nel momento in cui le mie dita entrano in lei il respiro le si
blocca, immediatamente seguito da un gemito di piacere. Non so come
ci riesca, ma in un attimo mi sfila la maglietta, che lancia lontano
con malgrazia. Non sono mai stato un ammiratore della fretta, in
certi frangenti, ma per qualche strana ragione sento l'urgenza
di proseguire. Con la mano libera cerco di abbassarle le spalline del
vestito e di liberarla anche del reggiseno, ma all'improvviso lei mi
spinge via. Segue un istante di totale confusione, poi lei riprende a
spingermi, guidandomi verso il letto. Mi ci fa cadere sopra quasi di
prepotenza, e mentre rialzo la testa per seguire i suoi movimenti lei
si inginocchia tra le mie gambe, slacciandomi la cintura e i jeans.
La aiuto a spogliarmi, ma non ho nemmeno il tempo di ritrovarmi nudo
che già la sua bocca inizia ad occuparsi della mia erezione, facendo
inevitabilmente affluire tutto il sangue verso un unico punto del mio
corpo. Smetto definitivamente di pensare, e lascio che a farla da
padrone sia il mio sistema nervoso.
*
Torino, 8 gennaio 2014
Letteralmente
in fuga
da mia madre, non ho prestato attenzione al percorso, ma quando
finalmente mi decido ad alzare gli occhi mi accorgo di essere
nell'unico posto dove potrei trovare un po' di aiuto – escludendo
la casa di Alice. Sentendo qualcuno entrare in anticamera, Loredana
alza gli occhi dall'agenda e mi sorride. «Buongiorno» mi saluta.
Mentre sto cercando di mettere insieme qualche parola per rispondere
al saluto e spiegare il motivo della mia presenza, lei accenna con la
testa alla porta dello studio. «Hai bisogno di parlare con il dottor
Martini?» mi domanda. Devo avere un'aria davvero sconvolta, se è
riuscita a comprendere le mie esigenze soltanto guardandomi.
Annuisco, e lei sorride ancora. «Siediti un attimo, vado a vedere
che si può fare.» Obbedisco, mentre lei si alza dalla sedia
girevole e va a bussare. Prima di entrare nello studio mi rivolge
ancora un sorriso, che riesco finalmente a ricambiare, e una volta
rimasta sola mi sorprendo a pensare che tipo di persona sia al di
fuori del lavoro – da quando frequento il dottor Martini l'ho
sempre vista sorridente e serena, ma sarebbe veramente fuori da
qualunque logica credere che la sua vita sia sempre perfetta e priva
di intoppi – perché se c'è una cosa di cui sono certa, è che
nessuna esistenza sia priva di difetti. Per fortuna torna dopo
qualche istante, strappandomi alle mie elucubrazioni. «Il dottore è
impegnato con un paziente, ma tra cinque minuti avrà finito. Dopo
toccherà a te.»
«Grazie,
Loredana.»
«Dovere.»
Mi sorride ancora, e la sua espressione è quanto di più amichevole
e dolce abbia mai visto – è lo stesso modo in cui anche io ho
sempre sognato di poter sorridere, e un po' provo invidia per lei,
che riesce sempre a mostrare il lato migliore di sé. Subito dopo
alza il telefono e torna al suo lavoro, e allora smetto di guardarla,
aspettando il momento in cui potrò, come sempre, usare il dottore
per scaricarmi la coscienza da tutto ciò che mi affligge e mi
confonde.
*
Città del Messico, 10
gennaio 2014
Apro
gli occhi, mi accorgo che il sole è già alto, li richiudo e li
strofino con forza, chiedendomi che ore siano. Un fruscio alle mie
spalle mi informa che non sono solo, quindi mi volto, e vedo che
Camila sta finendo di sistemarsi il vestito. «Scusa, non ti volevo
svegliare» si giustifica, tirando su la zip con un gesto preciso.
«Non
mi hai svegliato, tranquilla» borbotto, mettendomi a sedere. È
struccata e ha i capelli ravviati alla bell'e meglio, ma resta la
stessa splendida ragazza di ieri sera. «Te ne stai andando?»
«Che
occhio, Sherlock» mi prende in giro. «Volevo andarmene prima che ti
svegliassi, ma sembra che il mio piano sia fallito.»
«Camila,
io...»
«Tranquillo,
non è necessario che usi il repertorio» mi sorride. «Sappiamo
entrambi che è stata una magica notte destinata a non ripetersi.»
«Non
è quello che volevo dire.»
«Ma
io sì» replica. «Mi rendo conto che non è una cosa carina da
dire, ma so come funzionano le cose con i... tipi
come te.
È già successo, e non me ne faccio un problema.» Appoggia una mano
sul materasso, mentre con l'altra si infila prima una scarpa e poi
l'altra.
«Io...
mi dispiace. Non era mia intenzione ferirti.»
«Non
mi hai ferita. Se avessi temuto di finire con il cuore spezzato, non
ti avrei seguito fin qui.» Si sistema ancora una volta la gonna, poi
si lascia sfuggire una risatina. «A dire il vero, c'è una cosa che
potrebbe ferirmi,
se fossi sentimentalmente coinvolta.» La guardo senza capire a che
cosa si riferisca. «Non te ne sei nemmeno reso conto, dico bene?»
Distoglie per un attimo lo sguardo, poi lo rivolge di nuovo verso di
me. «Quando sei venuto, hai... beh, hai detto il nome di un'altra.
Sul momento ho pensato che ti fossi dimenticato come mi chiamo, ma
adesso mi rendo conto che lo sai, quindi...» Non ho bisogno di
domandarle chi sia la donna che ho invocato, perché so che esiste
unicamente una possibilità. Mi copro gli occhi con una mano,
vergognandomi profondamente di me stesso. «Spero non sia una
fidanzata da cui dovrò difendermi, perché non saprei davvero come
comportarmi in un caso simile.»
«No,
nessuna fidanzata, lei... è una persona con cui uscivo. Ci siamo
lasciati. Mi ha
lasciato, in realtà» ammetto. «Non credo di averla ancora superata
del tutto.»
«Mi
dispiace» sussurra. «Spero che sia una ragazza molto stupida.» Le
rivolgo un'altra occhiata molto confusa. «Sì, perché se fosse
molto stupida, la sua decisione di lasciare uno come te potrebbe
essere giustificabile. Non si può dire che io ti conosca, ma... dai
l'idea di essere un uomo speciale. E una donna intelligente non
lascia un uomo speciale.»
*
Torino, 8 gennaio 2014
«Buongiorno,
Daria» mi accoglie il dottore quando finalmente arriva il mio turno
di abusare della sua pazienza. «Posso immaginare che sia successo
qualcosa di estremamente tragico? Non è mia abitudine usare dei
cliché, ma si può dire che tu abbia un'aria decisamente sconvolta.»
Senza
attendere istruzioni, mi siedo sul lettino, aggrappandomi al bordo
con entrambe le mani. «Un paio di mesi fa sono venuta da lei perché
avevo bisogno di sentirmi dire che amare una persona che ti ama non è
un crimine, e che possono succedere cose molto peggiori.»
«Sì,
ricordo la nostra conversazione» afferma, sedendosi accanto a me sul
lettino. Uno dei motivi per cui amo parlare con lui è che non pone
alcuna gerarchia tra di noi, ma mi tratta da pari, come se fossimo
due amici che si scambiano confidenze davanti ad un caffè. «Posso
supporre che ti sia trovata faccia a faccia con il peggio?»
«Assolutamente»
annuisco. «Mia madre è tornata.»
«Ah.»
«La
prego, non mi dica che questo è il suo unico commento» pigolo.
«Assolutamente
no, è solo che... è un colpo piuttosto forte persino per me, quindi
non voglio nemmeno immaginare quanto abbia sconvolto te.»
«Ma
non è tutto. Lei mi ha spiegato numerose volte che la vita si
diverte a metterci di fronte a prove sempre più complicate, e
credo... credo che nel mio caso la vita provi un piacere quasi sadico
nel complicare le situazioni. Ho un fratello» aggiungo subito dopo.
«Un fratello di undici anni di cui fino a mezz'ora fa non sapevo
nulla.»
«Questa
è davvero una prova degna di questo nome» osserva. «Aspetta un
attimo qui, per favore. Credo che il mio appuntamento dal dentista
debba essere definitivamente posticipato» aggiunge, alzandosi.
*
Città del Messico, 10
gennaio 2014
Bussano
alla porta, ma in questo momento non mi scomoderei nemmeno per il
Papa. Sono certo che non sia qualcuno del personale, perché subito
dopo l'uscita di scena di Camila ho appeso alla porta il cartello
'non disturbare', perciò può trattarsi soltanto di qualcuno del
gruppo, o peggio di mio fratello, e in tutta sincerità non ho
propria voglia di parlare con lui. «Shannon, sei vivo?»
Riconoscendo
la voce di Emma, però, decido di arrischiarmi a rivelare la mia
presenza. «Non ci sono per nessuno» dico ad alta voce, sperando di
mandarla via. Ma la conosco, e so che non si fermerebbe davanti
nulla. Usando il passepartout, ignora la mia affermazione e apre la
porta. «Ho detto che non...»
«Non
fare il prepotente con me, signorino, che non te lo puoi proprio
permettere» mi interrompe. Va decisa verso la finestra, che
spalanca. «Scusa, ma qui dentro serve ossigeno.» Subito dopo si
avvicina al letto e annusa l'aria che mi circonda. «Non puzzi»
commenta subito dopo, quasi stupita.
«Certo
che non puzzo. Di solito mi lavo.»
«Hai
bevuto?» replica, severa come nemmeno mia madre saprebbe essere.
«Un
paio di birre, niente di più. Cos'è, adesso Jared ci vieta persino
di bere?»
«Sono
appena uscita dalla camera di Stevie. L'ho costretto a fare due
docce, ma puzza ancora come una distilleria clandestina. E credo sia
ancora vagamente sbronzo.»
«Sì,
ieri sera ha esagerato un pochino.»
«Ha
biascicato qualcosa circa una ragazza che dovrebbe essere nel suo
letto ma che non riesce più a trovare. Tu ne sai niente?»
«So
che ieri sera stava ballando con una ragazza, ma poi li ho... persi
di vista,
per così dire. Probabilmente lo ha messo su un taxi ed è tornata a
casa.»
«Può
darsi. Poi ha biascicato qualcosa a proposito di un'altra ragazza che
teoricamente dovrebbe essere nel tuo
letto. Anche lei ti ha messo su un taxi?» mi prende in giro.
«Se
devo essere sincero, ci siamo messi su un taxi insieme»
rispondo. «Ma non ho fatto cazzate, tranquilla. Ero sobrio. Te l'ho
detto, soltanto un paio di birre.»
«Mi
fido. In realtà non sapevo se credergli, visto il suo stato. Però
poi ho visto il cartello sulla porta.» Si siede sul bordo del letto
e mi fissa, socchiudendo appena le palpebre. «Per essere uno che ha
passato una notte di fuoco, non mi sembri molto soddisfatto.»
«Oh,
la notte è stata molto
soddisfacente.
Il risveglio lo è stato un po' meno, però.»
«Cos'è,
le hai detto di levare le tende e lei si è messa a piangere perché
pensava di averti conquistato con un po' di sesso?»
«Non
era quel genere di ragazza. Mi sono svegliato mentre si stava
rivestendo, lei mi ha ringraziato e mi ha detto che non ha mai
pensato che ci sarebbero state complicazioni.»
«Quindi
sei infastidito perché non ne ha voluto ancora?» ride,
evidentemente divertita da tale idea.
«Mi
ha confessato che l'ho chiamata con il nome sbagliato.»
«Pessimo
errore. Ho chiuso una storia per una cosa del genere. Come si
chiamava lei?»
«Camila.»
«E
tu come l'hai... oh»
si interrompe, conoscendo già la risposta. «Ti ha chiesto
spiegazioni?»
«No,
ma ho voluto dargliele comunque. E lei ha detto che spera sia una
ragazza molto stupida, perché soltanto una ragazza molto stupida
avrebbe potuto lasciarmi.»
«Questo
è un pensiero che condivido.»
«Emma,
così non mi aiuti.»
«Mai
detto di volerti aiutare.»
«Che
stronza!» esclamo, sfilandomi il cuscino da sotto la testa per
colpirla sulla spalla.
«Sono
l'assistente di Jared, non la tua psicanalista» si difende, usando
le mani per ammortizzare il colpo e confiscarmi l'arma. «Se il lapsus ti ha gettato in
uno stato di prostrazione tale da costringerti a letto, devo dedurre
che la tua decisione sia...»
«Dimenticarla»
completo. «Devo dimenticarla. Non c'è altra soluzione.»
«Anche
se la cosa ti fa soffrire?»
«Il
dolore non è una cosa tremenda come pensa la maggior parte della
gente. Può aiutarti a distinguere ciò che è reale da ciò che non
lo è» replico. «E poi non sarebbe una novità, per me. Forse sono
una di quelle persone che non
possono
essere felici, o quantomeno serene.»
«Di
certo non potrai mai essere una di quelle persone, se non ci provi.»
«Non
provare a farmi cambiare idea, Emma. Ho preso la mia decisione.»
«Va
bene, ma ciò non toglie che io la ritenga una decisione stupida.»
«Può
darsi, però è una mia
decisione, e ci tengo a portarla avanti.»
«Va
bene, ho capito l'antifona. Non interferirò. Dimmi solo se la tua
decisione comprende lo starsene a letto a poltrire o se pensi di
poterti alzare e trascinare quel tuo fondoschiena tanto attraente
alle interviste a cui tu e tuo fratello dovreste partecipare tra
un'ora.»
«La
mia presenza è necessaria?»
«Si
parlerà soprattutto della carriera cinematografica di Jared e della
sua nomination all'Oscar, quindi no... però credo che conti molto
sul tuo supporto.»
«Preferirei
evitare, se è possibile. Domani abbiamo un altro spettacolo, e
vorrei riposare un po'.»
«Vedrò
che posso fare. Non sarà facile convincerlo, ma ci proverò»
risponde, restituendomi il cuscino e alzandosi.
«Raccontagli
che ho mangiato qualcosa che mi ha fatto male. Sarà troppo
spaventato all'idea di beccarsi qualche virus per venire a
controllare se è vero.»
«Credi
che si berrà la scusa dell'intossicazione alimentare?»
«Siamo
in Messico, no?»
«Fidati,
ci sono più possibilità di morire avvelenati in certi ristoranti
di Las Vegas» ribatte con un sorriso, enfatizzando in modo
particolare la parola 'ristoranti'. «E va bene, per questa volta ti
coprirò. Ma ricordati che è la prima, e sarà anche l'ultima.»
*
Torino, 8 gennaio 2014
«Qualcun
altro della tua famiglia sa del suo ritorno? Ne hai parlato con
qualcuno?» mi domanda il dottor Martini quando finalmente finisco di
raccontargli le circostanze dell'incontro con mia madre, e
soprattutto la conversazione avuta questa mattina.
Scuoto
la testa, aggrappandomi più forte al bordo del lettino. «Non lo sa
nessuno. Beh, naturalmente Alice sì. E il mio capo. Era presente
quando lei si è rifatta viva. Ed è stato lui a consigliarmi di
andarla a cercare per parlarle. Ha addotto delle ottimi motivazioni.»
Dopo una breve pausa, alzo lo sguardo su di lui. «Pensa che dovrei
dirlo a mio padre? Parlarne con Emanuele e Francesca è fuori
discussione, naturalmente. Sarebbe un colpo troppo grande per loro.»
«Perché
credi che non sarebbero in grado di gestire la situazione?» mi
interroga, mantenendo un tono estremamente pacato.
«Beh,
perché è così. Come si fa a gestire una madre che ti abbandona
quando sei troppo piccolo per conservare un ricordo di lei e poi
ritorna come se nulla fosse?»
«Dimentichi
che nessuna persona è uguale alle altre. Emanuele e Francesca
potrebbero essere molto più forti di quanto credi.»
A
quella frase mi alzo in piedi e inizio a fare su e giù per la
stanza, inquieta come un animale in gabbia. «Mi sta dicendo che
dovrei lasciarla fare? Che dovrei, che ne so, invitarla ad aspettare
Francesca all'uscita da scuola e a dirle 'Ciao, sono tua madre, non
mi è mai importato di te ma adesso sono tornata perché mi manchi e
non voglio farti crescere piena di traumi'? Pensa che dovrei fare
questo?»
«Penso
che adesso tu sia troppo severa con lei. Non puoi sapere che non le
sia mancata la vostra famiglia, in tutti questi anni. Se non è
tornata prima, forse è perché non ha avuto il coraggio di farlo.
Forse il senso di colpa si è rivelato più forte del desiderio di
ottenere il vostro perdono, ma questo non significa per forza che non
vi abbia amati con tutto il suo cuore. Ci sono persone che
semplicemente non sanno come dimostrare il proprio amore. Forse tua
madre è una di queste.»
«No»
protesto. «No, mi rifiuto di credere che possa trincerarsi dietro ad
una scusa così... così... vuota.
Quella donna ha
rovinato la mia vita.
Lei non ha idea di come... di come sia stato, in tutti questi anni,
crescere con la consapevolezza che mia madre non sarebbe tornata. Lei
non ha idea di come sia stato, a scuola, essere l'unica bambina senza
madre.
Nessuna madre degna di questo nome abbandona i figli come ha fatto la
mia. Nessuna donna lo farebbe. Lei... lei non ha idea di cosa
significhi crescere senza una madre!» Mi accorgo troppo tardi di
aver alzato troppo la voce, e me ne dispiaccio. Il dottor Martini è
una delle poche persone che mi sia sempre stata accanto e che mi
abbia sempre ascoltata, e non merita la mia furia.
Ma
lui, stranamente, non perde la propria compostezza. «Hai ragione,
non so cosa significhi crescere senza una madre. Ma so cosa significa
vivere senza tuo figlio.»
Colpita
dalla sua rivelazione, mi lascio cadere sulla sedia che di solito
occupa durante le sedute con gli altri pazienti. «Lei ha perso un
figlio?»
«Più
o meno.»
«Non
sapevo nemmeno che ne avesse uno. Scusi la brutalità.»
«Si
chiama Adriano. È un po' più grande di te. Ha compiuto trentadue
anni proprio l'altro giorno.» Adesso è lui ad alzarsi. Si avvicina
lentamente alla finestra, forse per non essere costretto a guardarmi
negli occhi. «Mia moglie è morta molti anni fa, lui era in seconda
elementare. Pressappoco la stessa età che avevi tu quando tua madre
si è allontanata. Un brutto male» aggiunge, voltando per un istante
il viso verso di me. «Perdonami, ma anche se è passato tanto tempo
ancora non ne parlo volentieri.» Non rispondo, incapace di trovare
le parole giuste, e lui torna a guardare fuori. «Ero distrutto dal
dolore, e totalmente incapace di prendermi cura di un bambino. Andò
a stare da mia sorella e suo cognato, che avevano un figlio più o
meno della stessa età, e più istinto genitoriale di quanto pensassi
di averne io stesso. Abitavamo a cento metri di distanza, potevo
vederlo tutte le volte che ne avevo voglia, ma... per qualche motivo
non riuscivo a tenerlo accanto a me. Con il passare del tempo il
dolore per la morte di Marta si attenuò, pur senza scomparire del
tutto, e finalmente io mi sentii pronto a prendermi cura di mio
figlio. Ma era troppo tardi.» Si prende un istante, durante il quale
si sfila gli occhiali. Immagino che si prema una mano sugli occhi per
impedirsi di piangere, e vorrei tanto avere il coraggio di alzarmi in
piedi per abbracciarlo, come fa Alice con me ogni volta che cado a
pezzi. «Sapeva di essere mio figlio e che la natura gli imponeva di
stare con me, ma non riusciva più ad accettarmi come padre.
E lo capisco, accidenti. Al suo posto mi sarei comportato allo stesso
modo.»
«Adesso
lui dov'è?»
«In
Iraq. Pur di impedirmi di tornare all'assalto per riprendermi il suo
affetto, ha preferito mettere tra di noi un continente intero. In un
certo senso, rifiuta le mie offerte di pace come tu rifiuti quelle di
tua madre.»
«Beh,
se mi permette un commento, direi che la mia situazione è un po'
diversa dalla sua.»
«Vedi,
Daria, l'errore comune a tutta l'umanità è quello di ritenere che
la propria situazione sia unica
e differente da tutte le altre» mi corregge, voltandosi per
rivolgermi uno dei suoi mezzi enigmatici sorrisi.
«Non
mi dica che non c'è differenza, dottore. Mia madre si è allontanata
per inseguire degli obiettivi personali. Lei si è allontanato per non
contagiare suo figlio con il suo dolore. C'è
una
differenza.»
Ci
riflette su per qualche istante, poi annuisce. «Mai pensato di
studiare Psicologia? O Filosofia, magari? Hai delle buone
intuizioni.»
«Come
potrei risolvere i problemi di altre persone, o addirittura quelli
del mondo, se non sono nemmeno in grado di capire quali siano i
miei?»
«Stai
parlando con un uomo altrettanto incasinato,
se vogliamo usare un'espressione tanto amata da voi giovani.»
«Anche
lei ha delle ottimi intuizioni, dottore. Studiare Psicologia è stata
un'ottima idea.»
Alla
mia affermazione ride, e il suo volto torna quello disteso e sereno
che conoscevo, e che tante volte ha alleviato il mio dolore soltanto
con un sorriso. «Quello che hai bisogno di imparare, Daria, è che
tutti abbiamo dei problemi, e che ognuno di noi li affronta in un
modo che è solo suo. Suo, e di nessun altro. E devi capire che il
modo in cui affrontiamo il problema non definisce la persona che
siamo. Mai, in nessun caso. A volte ci affidiamo ad una determinata
soluzione soltanto perché ci sentiamo persi e non troviamo la strada
di casa, ma ciò non fa di noi persone cattive o individui di cui
bisogna diffidare. Prendiamo tutti una decisione sbagliata, prima o
poi. Ciò che conta è capirlo, e fare un tentativo per correggere
l'errore. Anche quando ci sembra troppo tardi, ma anche, e forse
dovrei dire soprattutto,
quando è davvero
troppo tardi.»
1“Bella
mattinata. Poseidone benedice il nostro viaggio.” “A volte gli
dei ti benedicono la mattina e ti maledicono nel pomeriggio.” |
Il titolo del capitolo è ispirato ad uno scambio di battute tra
Paride
(interpretato da Orlando
Bloom)
e Ettore
(interpretato da Eric
Bana)
nel kolossal Troy
(2004).
2«Chicas,
esto es mi amigo Shannon» [...] «Shannon es un poco timido, pero le
gustaria mucho bailar con una chica hermosa.2»
| Traduzione:
«Ragazze, questo è il mio amico Shannon» [...] «Shannon è un po'
timido, però gli piacerebbe tanto ballare con una bella ragazza.»
Un sincero grazie a DadaOttantotto,
la mia socia, per la traduzione dall'italiano allo spagnolo!
|
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Capitolo 8 *** 8 | Non ricordo niente di quello che è stato, ricordo solo che ero innamorato. ***
La lunga strada verso casa - 1
Sono
passati soltanto sei giorni dalla pubblicazione del settimo capitolo,
e immagino che un po' vi stupisca questa mia celerità nel
consegnarvi il prossimo passo della storia – in effetti, sorprende
un po' anche me, ma ho deciso di non farci caso e di limitarmi a
postare l'aggiornamento, sperando che possa piacervi.
Colgo
l'occasione per abbracciare forte katvil, Love_in_London_night
e Sayuri_remenissions, le irriducibili che non fanno mai
mancare il loro appoggio, e che con le mille domande e i mille dubbi
che espongono durante le loro recensioni spesso mi forniscono nuovi
spunti per i capitoli successivi.
Ma, più
in generale, grazie a tutti quelli che leggono i miei scleri e si
sforzano di farseli andare bene.
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo ottavo
Non ricordo niente di
quello che è stato,
ricordo solo che ero
innamorato.1
Torino, 17 gennaio 2014
Oggi è il diciassette
gennaio, dunque sono passati esattamente nove giorni dallo sfortunato
confronto con mia madre – o meglio, dal mio tremendo attacco nei
suoi confronti. Nonostante i puntuali consigli del dottor Martini,
non sono riuscita a parlare con mio padre, e nemmeno per un istante
mi ha sfiorato l'idea di coinvolgere Emanuele o Francesca. Non esiste
che io sottoponga i miei fratelli al rischio di soffrire tanto quanto
ho sofferto io – forse sono iperprotettiva, ma quale sorella
maggiore non lo sarebbe? Ho circoscritto le mie confidenze ad Alice,
l'unica persona in grado di capirmi davvero oltre al dottor
Martini, e ho negato ogni dettaglio persino a Marco – nonostante mi
abbia dato buoni consigli, ci sono cose di cui proprio non mi va di
metterlo a parte. Contrariamente a quanto mi sarei attesa dato il suo
coinvolgimento emotivo nei miei confronti, ha accettato la situazione
e non ha ficcanasato, conoscendo il mio ricorrente bisogno di
chiudermi in me stessa e riflettere in santa pace sul da farsi.
Confermando la sua maturità e la sua natura di gentiluomo, non mi ha
fatto pressioni nemmeno riguardo al nostro rapporto: siamo usciti a
cena due volte, abbiamo parlato di lavoro, di arte, di cultura, mi ha
consigliato una mostra di Gaugin a cui vorrebbe accompagnarmi, mi ha
accompagnata a casa tenendomi stretta sotto il suo ombrello per
ripararmi dalla neve e si è congedato baciandomi teneramente come in
un film, per poi andarsene una volta sicuro che fossi al riparo. Si è
comportato come un vero principe azzurro, e forse ogni ragazza
normale ne sarebbe felice. Ma io – ormai l'ho accettato – non
sono una ragazza normale. In più, oggi è il diciassette
gennaio, ed è un venerdì – e soltanto una mente malata o
particolarmente ingenua non starebbe all'erta, in una giornata come
questa.
Siamo entrambi in negozio,
completamente deserto fatta eccezione per un cliente abituale che sta
dando un'occhiata alla sezione dei gialli, e nella serenità di
questa mattina di gennaio sgancio quella che potrebbe essere una
potenziale bomba. «Ho visto mia madre,
l'altra settimana. Mercoledì. Sai, il giorno che mi avevi dato
libero.»
«Davvero?» commenta,
raggiungendomi dietro il bancone. «E com'è andata?»
«Uno schifo. Un completo
disastro.»
«Davvero è andata così
male?»
«Le ho detto che non la
considero più mia madre» confesso, vergognandomi profondamente per
il mio comportamento. «In realtà l'ho tipo... sai, ringhiato.»
Per evitare di guardarlo negli occhi fingo di riordinare il
portamatite. «Non credo si aspettasse una simile reazione. Un po' mi
dispiace di averla trattata così male, ma lei... oh, ero così
arrabbiata.»
«Non credo di averti mai
vista arrabbiata. Forse soltanto quella volta che Carlotta
impallò il registratore di cassa.»
«Era la terza volta in un
solo pomeriggio, Marco. Persino Giobbe si sarebbe inquietato un
pochino» gli faccio notare. «Tuttavia, credo di aver avuto i miei
buoni motivi per scattare così. Mi ha detto che ho un fratello. Un
fratello di undici anni.»
«Accidenti... sicuramente
è un colpo difficile da incassare.»
«Già. Sono passati nove
giorni e continuo a chiedermi se non sia stato tutto un sogno. Non
riesco ancora a crederci.» Del tutto inaspettato, un pensiero che da
tempo non mi sfiorava più torna a stuzzicare la mia memoria,
facendomi sorridere. «Si chiama Luca. Ed è buffo che si chiami
così, in un certo senso.»
«Che c'è di strano nel
nome Luca?»
«Luca avrebbe dovuto
essere il nome di Emanuele» spiego, lasciando stare il portamatite.
Mi volto, appoggiandomi di schiena contro il bancone e incrociando le
braccia davanti al petto. «Quando rimase incinta, mi chiese di
scegliere un nome per il nuovo fratellino. O la nuova sorellina, non
voleva conoscere il sesso. Scelsi Francesca, se fosse stata una
femmina. E per un maschio, invece...»
«Avevi scelto Luca.»
Annuisco. «Un paio di mesi
prima che mia madre partorisse, una sua vecchia amica morì in un
incidente d'auto. Si chiamava Emanuela. Erano molto legate, perciò
decise di dare il suo nome al bambino. Però mi promise che un giorno
avrei avuto un fratellino di nome Luca.» Non riesco a fare a meno di
sorridere ancora. «In un certo senso, è stata di parola. Certo,
forse non nel modo che avrei immaginato, però...»
«Dimostra di essersi
ricordata di te. Se ha usato quel nome, significa che in fondo non ha
mai smesso di pensare a te.»
Annuisco ancora, respirando
lentamente. «La cosa dovrebbe farmi sentire meglio, eppure non è
così. Mi sento ancora incredibilmente...» Mi blocco, annaspando
alla ricerca del termine più corretto per definire il mio stato.
«Arrabbiata?»
suggerisce lui.
«Credo sia più corretto
dire ferita» replico. «Se ha usato quel nome significa che
ha pensato a me, ma allora perché ha aspettato tanto prima di
tornare? E perché ha scelto proprio me come prima persona da
incontrare?»
«Sei sicura che non abbia
parlato con nessun altro?»
«Lo avrei saputo. Se
avesse incontrato mio padre, o Emanuele, o Francesca, in un batter
d'occhio la notizia sarebbe saltata fuori. E invece ha scelto me, e
io non riesco a capire perché.» Alzo lo sguardo su di lui, contando
sul suo aiuto. «Pensi che ci sia una ragione dietro la sua scelta, o
forse è soltanto un caso e come al solito sto vagando troppo con la
fantasia?»
«Può darsi che non ci sia
una spiegazione, e che la domanda esista soltanto nella tua testa»
risponde, riordinando alcune carte, «ma ti conosco abbastanza da
sapere che sei una persona estremamente razionale, e che di solito
non permetti alle emozioni di prendere il sopravvento. Per cui la mia
risposta è sì, è probabile che dietro la sua decisione di
incontrarti per prima ci sia una ragione precisa.»
«E sarebbe?»
«Beh, in questa situazione
tu sei la vittima principale, la persona che ha sofferto di più. Sei
stata tu stessa a dire che Emanuele e Francesca non hanno ricordi di
lei, e presumo che il divorzio sia stato consensuale, dunque questo
esclude che ci siano cose da risolvere con tuo padre. Dunque, resti
tu. Diciamo che... non lo so, forse sei la sua questione in
sospeso.»
«Sbaglio, o stai citando
Casper?»
«Mi hai beccato» risponde
con una risata. «Quello che intendevo dire è che probabilmente sa
di averti ferita a morte, andandosene. Eri abbastanza grande da
soffrire, ma ancora troppo piccola per capire, e di sicuro la sua
assenza ha condizionato pesantemente la tua vita. Credo... credo che
lei lo sappia, in fondo. Che sappia di averti condannata. Forse ha
pensato che il tuo perdono fosse il più difficile da ottenere. Il
più difficile, ma anche il più importante. Insomma, forse ha
pensato che se tu l'avessi perdonata forse avrebbero potuto farlo
anche gli altri, mentre in caso contrario...»
«Se fosse così,
probabilmente l'altro giorno ho distrutto tutte le sue speranze»
sospiro. «Al mio posto, tu che
cosa avresti fatto?»
Apre
la bocca per rispondere, ma la richiude subito, evidentemente privo
di idee da esprimere. «Credo di non avere una risposta, Daria. Credo
che nessuno potrebbe rispondere a questa domanda.»
*
San Paolo, 17 gennaio
2014
Dopo il Messico, tocca al
Brasile. Qui il clima è simile a quello californiano, e fa così
caldo che davvero non sembra sia passato soltanto un mese da Natale.
È trascorsa una settimana da quando ho dato buca a Jared per
l'intervista, eppure non ci sono ancora state ritorsioni, né
scenate, né inquietanti occhiate oblique – il che mi fa supporre
che Emma abbia esercitato il suo carisma e lo abbia convinto a
lasciar correre. O questo, oppure mio fratello è stato rapito dagli
alieni, che è un'ipotesi altrettanto plausibile.
Un'altra
cosa che suscita il mio stupore è la mia ritrovata energia: credevo
che cambiare continente e fuso orario mi avrebbe stressato non poco,
invece mi sento incredibilmente meglio,
come se fossi improvvisamente ringiovanito di dieci anni. Mi sono
buttato nel lavoro con un entusiasmo che non provavo da mesi,
aumentando di molto la qualità delle mie esibizioni – e, di
conseguenza, contribuendo a rendere gli spettacoli migliori. Gli
unici momenti in cui permetto al passato di tornare a punzecchiarmi
sono le notti. Succede quasi ogni volta: appena la testa sfiora il
cuscino, punto gli occhi sul soffitto e penso.
Penso a Daria, naturalmente, e a tutto ciò che abbiamo avuto e
perso,
ma non solo: penso a tutte le occasioni che ho avuto in passato di
essere felice, a tutti i momenti belli che ho deciso di non vivere
pensando che ci sarebbe stato tempo in futuro, e inevitabilmente
finisco con l'arenarmi sulla convinzione che ormai ho quasi
quarantaquattro anni, e che non so quante altre occasioni avrò per
arrivare a sentirmi davvero completo.
E poi, come
sempre,
la mia mente torna al mio ultimo giorno a Torino, al corpo di Daria
raggomitolato tra le lenzuola, ai suoi capelli che profumavano di
camomilla e alla sua pelle che sapeva di noi,
alla sua
casa accogliente che mi sarebbe tanto piaciuto poter chiamare nostra,
e mi trovo a dover attingere a tutte le mie forze per non lasciarmi
andare alle lacrime.
La
verità è che mi sono sempre vantato di essere un uomo forte che non
si lascia piegare da niente, e così facendo non ho mai dato peso
alle mie emozioni, evitando sempre di domandarmi come mi sarei
comportato se mai mi fosse accaduto di innamorarmi. Perché è questo
che è successo, non ha senso girare attorno alla questione senza
toccare il punto: io mi sono innamorato,
così profondamente da non riuscire a sradicare il suo pensiero dalla
mia mente. E voglio dimenticarla, lo desidero con tutto me stesso e
ci sto provando con tutte le mie forze, ma tutto ciò su cui riesco a
focalizzarmi è quanto stavo bene quando ero insieme a lei. È come
se non ricordassi altro, solo che l'amavo.
*
Torino, 17 gennaio 2014
«Credo
che dovremmo andarcene. Sono quasi le undici» dice Marco,
controllando l'orologio. «Forse hanno voglia di chiudere e andarsene
a dormire.»
Mi
guardo intorno, e scopro che il locale è praticamente vuoto, fatta
eccezione per una coppia in piedi accanto alla cassa. «Forse hai
ragione. Non pensavo fosse così tardi.»
«Dicono
che il tempo vola, quando si è buona compagnia» aggiunge lui, e io
mi sento arrossire come una ragazzina.
«Già,
dicono così.» Ci alziamo, indossiamo i cappotti e andiamo verso la
cassa. Come sempre, Marco insiste per offrirmi la cena – intuisco
che la sua cavalleria è un gesto raro quando la ragazza dietro il
bancone mi rivolge un sorriso, quasi volesse avvertirmi di tenermelo
stretto. Usciamo; l'aria è fredda, perciò mi stringo bene la
sciarpa attorno al collo. Cerco i guanti nella borsa, ma devo averli
dimenticati a casa. «Non dovresti sempre pagare tu» dico
all'improvviso, sistemando meglio la tracolla della borsa.
«Perché
no, scusa?»
«Perché
non mi sembra appropriato.»
«Non
ti sembra appropriato?»
ripete, e subito dopo scoppia a ridere. «Forse sarà un duro colpo
per te, ma non porterò mai una ragazza fuori a cena senza pagare per
lei.»
«E
con la parità dei sessi come la metti?»
«Oh,
io credo nella parità dei sessi. Davvero, ci credo. Però ogni tanto
mi piace concedermi un sano gesto tipicamente maschilista come
offrire la cena ad una ragazza.» Ci guardiamo per un istante, e mi
sorride. «Non si può dire che mio padre mi abbia insegnato molto,
ma insisteva molto su questo punto. Diceva che le donne vanno
trattate come regine, e io mi sono sempre comportato di conseguenza.»
«Che
tipo era? Insomma, so che è morto quando eri piccolo, ma... che tipo
era?»
«Era
un tipo simpatico. Mia madre diceva sempre che si era innamorata di
lui perché riusciva a farla ridere fino alle lacrime. E credimi, non
era un'impresa facile. Lei era una donna molto seria.» Sospira e
abbassa per un istante lo sguardo, poi torna a guardare davanti a sé.
«Però anche lui sapeva essere serio, all'occorrenza. Riusciva a
capire in un attimo come comportarsi in una determinata situazione.»
«Ti
manca molto?»
«Ogni
giorno, da quando non c'è più» ribatte, voltandosi per un istante
verso di me. «So che detta così sembra proprio una stronzata
sentimentale, ma la verità è che... la verità è che convivo da
sempre con la paura di non essere venuto su come avrebbe voluto.»
Nella sua voce sento così tanta malinconia che non so proprio che
cosa lo trattenga dal piangere. Vorrei essere in grado di dire
qualcosa che possa risollevargli il morale, ma non ho la benché
minima idea di che cosa occorra dire in questi casi: tutto ciò che
riesco a concepire sono stupide frasi fatte che quasi certamente lo
farebbero sentire peggio, e proprio non mi va di complicare
ulteriormente la sua situazione. Allora faccio un'altra cosa, una
cosa che Alice fa sempre con me, e che di solito funziona: tolgo la
mano dalla tasca e la muovo verso di lui. Gli sfioro appena la manica
del cappotto, sperando che riesca a sentire la mia vicinanza. Appena
si accorge del mio tocco anche lui sfila la mano dalla sua tasca, e
dopo qualche esitazione stringe le mie dita tra le sue. «Credo sia
per questo che offro sempre la cena alla ragazza con cui esco. Mi fa
sentire più simile a lui.»
«Mi
piacerebbe averlo conosciuto.»
«Ti
sarebbe piaciuto. Di più, credo si sarebbe innamorato di te.»
«Esagerato...»
«Per
niente. Aveva un ottimo gusto in fatto di donne. E... non prenderla
nel verso sbagliato, ma credo sia una cosa che ho ereditato da lui.»
Mi sento arrossire ancora,
mentre continuiamo a camminare lentamente nella notte.
*
San Paolo, 17 gennaio
2014
Jared
è seduto a terra, al centro di un mucchio di fogli sparpagliati e
fitti di parole e note. All'improvviso lancia via la matita con gesto
stizzito e si passa una mano tra i capelli, sospirando. «Ho finito»
sussurra, fissando il foglio più vicino a sé. «L'ho finita»
sussurra ancora, quasi senza riuscire a credere alle proprie parole.
Ha appena terminato di scrivere quella che potrebbe essere una delle
sue migliori canzoni, uno dei cavalli di battaglia della band...
eppure la cosa non lo rende felice. Ha impiegato quasi due mesi per
dare sfogo ai suoi sentimenti, per riversarli su carta e imbrigliarli
nella giusta melodia, eppure non riesce a provare la solita gioia che
lo coglie nel preciso istante in cui sa di aver realizzato qualcosa
di importante. Ha scritto una delle sue migliori canzoni, ne è
consapevole, ma sa anche che non potrà rivelarla alla persona a lui
più cara senza provocarle un immenso dolore. È una canzone che
parla di vita, di amore, di sogni comuni e di speranze infrante, è
una canzone che parla di un uomo precipitato all'inferno dopo aver
osato toccare il paradiso. È una canzone che parla di Daria, come
suggerisce il tratto leggero del titolo, e sentendola Shannon ne
potrebbe soltanto soffrire.
*
Torino, 17 gennaio 2014
Siamo
davanti al portone, ma nessuno dei due ha voglia di separarsi
dall'altro. Abbiamo continuato a parlare per tutto il tempo del
ritorno, tenendoci per mano come una giovane coppia, e nessuno dei
due ha ancora fatto un tentativo per ridurre le distanze. «Adesso
credo di doverti lasciar andare. È tardi» sussurra lui ad un certo
punto, senza però lasciare la presa.
«Domani
siamo chiusi» gli faccio notare. «Non rischio di far tardi al
lavoro.»
«Dimenticavo
che domani è sabato. Comunque credo sia meglio che vada. Devi essere
stanca.»
«Sto
bene, tranquillo. Perché non sali? Ti offro un caffè.»
«Credi
che sarebbe appropriato?»
mi prende in giro.
«Sei
già stato a casa mia. Cos'è, pensi che tuo padre non approverebbe?»
lo prendo in giro a mia volta.
«Penso
che l'ultima volta abbiamo perso
il controllo,
e non vorrei... rischiare di ripetere l'errore.»
«Pensi
che l'altra volta sia stato un errore?» lo interrogo.
«Per
niente» ribatte. «Penso di essere stato molto chiaro circa i miei
sentimenti, e per quanto sia felice
per quello che c'è stato, non credo che...»
«...che
sia opportuno ricascarci» completo, abbassando lo sguardo.
«Non
voglio che pensi che mi stia approfittando di te, perché nulla è
più lontano dalla realtà.»
«Non
ho pensato nemmeno per un istante che ti stessi approfittando di me.
Perché tu sì?»
«Beh,
perché tu eri molto scossa per il fatto di aver rivisto tua madre, e
ho pensato... ho pensato che in quel momento forse non... ho pensato
che forse non avevi avuto il tempo di riflettere bene sulla
questione. Ho pensato che forse non avresti voluto che succedesse.»
«Se
non avessi voluto farlo, non sarebbe successo. Fidati, non sarebbe
successo.»
«Ne
sei certa?»
«Ammetto
di essere una persona incasinata, ma sei stato tu a dire, non più
tardi di stamattina, che sono una delle persone più razionali con
cui tu abbia mai avuto a che fare. Non sarebbe successo.» Segue una
breve pausa, durante la quale Marco sembra pronto a fissare qualunque
cosa,
tranne il mio viso. «Però sento di dover essere sincera con te.»
«Devo
preoccuparmi? In genere, questi discorsi non sono mai positivi.»
«C'è
stato un ragazzo, una volta, che ripeteva continuamente di amarmi e
che alla fine mi ha spezzato il cuore. Eravamo due ragazzini, in
fondo, ma per tanto tempo non ho fatto che pensare che non sarei più
stata capace di innamorarmi di qualcuno.» Mi fermo per un istante,
pensando che potrebbe aver qualcosa da dire, ma il suo silenzio mi
convince a continuare. «Poi è arrivato un altro ragazzo, tanto
tempo dopo il primo, e all'improvviso io... all'improvviso mi sono
innamorata di nuovo, e mi sono innamorata più di quanto credevo
fosse possibile.»
«Però?
Di solito in queste storie non c'è sempre un però?»
«Nessun
però, stavolta, anzi. Io lo amavo e anche lui mi amava, e la cosa mi
andava bene. Per un po' ho addirittura pensato di poter passare con
lui il resto della mia vita.»
«E
poi che è successo?»
«E
poi gli ho spezzato il cuore. Di più, l'ho frantumato in un milione
di pezzi e ci ho ballato sopra il tip tap. L'ho ferito, e anche se da
allora non l'ho più visto non riesco a fare a meno di pensare che
forse lui è ancora nascosto da qualche parte a leccarsi le ferite.»
Lo
vedo sospirare, guardarsi intorno e poi rivolgersi di nuovo verso di
me. «Forse sono un uomo un po' ottuso, ma... perché mi stai dicendo
questo?»
«Beh,
perché... perché voglio farti capire che sono stata da entrambe le
parti della barricata. Sono stata la vittima e sono anche stata il
carnefice, e so che in entrambi i casi si può soffrire come cani.
Perciò quello che sto cercando di farti capire è che... beh, che la
prenderei sul serio. Insomma, qualunque cosa
succedesse tra noi, io la prenderei sul serio.»
«Mi
stai dicendo che vorresti avere una relazione con me?»
«No!
Sì, insomma... sto cercando di dire che se tu volessi... ecco, non
penserei che ti stai prendendo gioco di me. E farei il possibile per
non prendermi gioco di te.»
«Lo
apprezzo veramente moltissimo» sussurra, sorridendomi e stringendo
un po' più forte la mia mano. «Ma il fatto è che non sono sicuro
di essere pronto a non
farmi prendere in giro da te.
Non sto dicendo di non
volerlo,
ma credo che mi serva un po' di tempo. Credo che un po' di tempo
serva ad entrambi. Ti conosco, so che non sei una che fa le cose di
fretta, e di certo io non voglio costringerti a cambiare il tuo modo
di essere.» Adesso sono io a non riuscire a guardarlo negli occhi.
«Io direi di andare con calma e vedere come vanno le cose. Tanto non
ci corre dietro nessuno, no?» Mi sfiora il mento con una mano,
costringendomi ad alzare gli occhi. «Adesso ti bacerò e poi me ne
andrò a casa, mentre tu filerai di corsa di sopra e ti metterai a
dormire» aggiunge, avvicinandosi lentamente.
Cinque
minuti più tardi, al sicuro nel mio appartamento, mi lascio cadere
sul divano e scoppio a piangere come non mi succedeva da almeno due
settimane. Marco ha ragione, non ci corre dietro nessuno. Nessuno,
tranne la mia
coscienza.
*
San Paolo, 17 gennaio
2014
Lo
spettacolo è terminato da poco, e mentre i ragazzi stanno decidendo
in quale locale festeggiare il buon esito della serata, uno Shannon a
dir poco su di giri bussa al camerino del fratello, intenzionato a
congratularsi con lui per l'ottima esibizione, perché persino un
sordo si sarebbe accorto che Jared era davvero in forma, come se
provenisse da due mesi di totale riposo in una Spa, anziché da un
lunghissimo e sfiancante tour in giro per il mondo. Convinto di
trovarlo sorridente ed esaltato, si stupisce di vederlo invece spento
e quasi immusonito, come se la prospettiva di essere stato eccellente
lo infastidisse. «Ehi, che succede? Cos'è quel muso lungo? È stato
uno spettacolo straordinario!»
«Ciao,
Shannon» risponde l'altro in tono quasi malinconico. «Sì, è stata
un'ottima serata.»
«E
allora perché sembra che qualcuno ti abbia rubato il pranzo?»
«Sto
bene, non ti preoccupare. Ho soltanto qualche pensiero.»
«Ne
vuoi parlare?» replica Shannon, prendendo una sedia sulla quale si
accomoda con la stessa raffinata eleganza di un mandriano del Texas.
«So di non essere esattamente il massimo come confidente, ma non mi
dispiace stare dall'altra parte, una volta tanto.»
«Niente
di importante, non ti preoccupare. È solo che sto lavorando ad una
canzone, ma non sono sicuro di essere soddisfatto del risultato.»
«Fammi
capire: hai appena concluso uno dei tuoi concerti migliori e ti fai
rovinare l'umore da una canzone?»
«Si
tratta di una canzone molto importante, Shannon. E sono felice per il
concerto, davvero, è solo che... non riesco a togliermela dalla
mente.»
«Posso
sentirla?»
«Non
credo sia il caso, Shannon. Lo sai che non mi va di mostrare i miei
lavori se non sono più che soddisfatto del risultato.»
«Almeno
lo spartito, dai! Sono tuo fratello, non c'è il caso di essere tanto
riservati.»
«Non
credo sia il caso» ripete Jared, rimanendo disteso sul divanetto con
gli occhi coperti da un asciugamano bianco.
«Come
credi» risponde l'altro, alzandosi lentamente e rimettendo la sedia
a posto. Mentre lo fa si guarda attorno con attenzione, cercando con
lo sguardo il quaderno di Jared, che sicuramente non può essere
molto lontano dal padrone. «I ragazzi si stanno mettendo d'accordo
per andare a finire la serata in qualche locale. Ti unisci a noi?»
aggiunge, individuando finalmente la cartellina, appoggiata su un
tavolino poco distante. Senza far rumore si avvicina e la apre,
facendo scorrere lentamente i fogli in cerca della tanto discussa
canzone.
«No,
non credo. Penso che tornerò in albergo e andrò a dormire.
Ricordati che domani abbiamo un'intervista in radio. Non fare troppo
tardi. Shannon?» aggiunge dopo qualche istante, non ricevendo
risposta. «Shannon?» Si toglie l'asciugamano da sopra il viso e si
mette a sedere, incontrando lo sguardo a dir poco furente
del fratello maggiore.
«Jared,
questo
che cos'è?» gli domanda l'altro, un foglio stretto nella mano
destra.
«Shannon,
posso spiegare...»
«Lascia
perdere le puttanate, Jared. Questo
che cos'è?»
ripete, calcando il tono.
Jared
sospira e punta le mani sui fianchi, sospirando nel tentativo di
raccogliere le idee. «Quella è la canzone che ho scritto, Shannon.
Quella che non era il caso sentissi.»
«Hai
scritto una canzone per Daria?»
«Non
è una canzone per
Daria.
È una canzone su
Daria.»
«E
quale sarebbe la differenza?»
«La
differenza sarebbe che se l'avessi scritta per
lei,
questo implicherebbe un mio coinvolgimento nei suoi confronti, cosa
che invece non è.» Fa una breve pausa, durante la quale Shannon lo
guarda come se avesse appena scoperto di avere un fratello alieno.
«Ho iniziato a scriverla a Parigi, quando lei si è unita al gruppo»
confessa Jared. «E quando lei è andata via l'ho continuata. È il
progetto su cui ho lavorato in questi ultimi due mesi, e ora è...
beh, è finita.»
«Perché
hai scritto una canzone che parla di lei?» domanda ancora il
batterista, leggendo ancora una volta il titolo scritto a matita.
«Non
parla soltanto di lei, Shannon. Parla di
voi.
Parla della vostra storia, e di quello che c'è stato tra voi. Parla
di amore, di due persone che condividono un progetto, di sogni... è
soltanto una canzone, Shannon» conclude, allargando le braccia come
se non fosse necessaria alcuna ulteriore spiegazione.
«Non
è soltanto una
canzone, Jared. Tu hai scritto una canzone su
di me!»
Jared
coglie alla perfezione la rabbia latente nelle parole di Shannon, ma
nonostante questo non si esime dal tirare fuori tutta la propria
faccia tosta. «Anche tu hai scritto una canzone per me, Shannon, e
non mi sembra di essermi lamentato.»
«Io
non ho scritto una canzone su una stronza che ti ha spezzato il
cuore!»
«Non
pensi quello che hai detto, Shannon.»
«E
invece sì, è esattamente
quello che penso. Daria mi ha spezzato il cuore e mi sta mandando al
manicomio anche se si trova all'altro capo del mondo, e tu vorresti
usare tutto questo per fare soldi?»
Anche
Jared, come il fratello, sente la rabbia montargli dentro – anche
se la prima impressione di Emma, due mesi fa, gli ha suggerito che
quel testo potrebbe valere milioni, non ha mai pensato, nemmeno per
un istante, di arricchirsi con il dolore di una persona a lui tanto
cara. Non senza prima chiedere il suo consenso, comunque. «Non
l'avrei mai usata senza chiederti il permesso, tu lo sai. Ora mi stai
trattando ingiustamente.»
«Ah,
sarei io
quello ingiusto, adesso?»
«Non
dirmi che credi di essere dalla parte della ragione.»
«Non
dirmi che tu
credi di essere dalla parte della ragione.»
«Shannon,
non hai nulla da temere. Resterà nel mio quaderno per sempre, se lo
vuoi. Basta che tu dica che...»
«Non
starà in nessun quaderno» ribatte svelto l'altro, strappando il
foglio in due metà, e strappando ancora le due parti fino a ridurle
a coriandoli. Jared lo osserva inerme, gli occhi sbarrati come quelli
di un cervo davanto ai fanali di un'auto. «Tutto ciò che voglio è
dimenticare
questa storia, ed è quello che farai anche tu.» Lasciati cadere i
frammenti di carta sul pavimento, esce dal camerino come una furia.
Jared
resta immobile, in piedi al centro del camerino, fissando i resti di
due mesi di lavoro completamente gettato al vento. Richiamata dai
toni acuti del loro confronto, Emma arriva di corsa, senza fiato.
«Che è successo? Perché Shannon è scappato?» Fissa anche lei il
foglio fatto a pezzi, e ripete la domanda. «Jared, che cosa è
successo?»
Il
cantante alza gli occhi sull'assistente, e quasi senza credere alle
proprie parole sussurra: «Ho ferito mio fratello.»
*
Torino, 17 gennaio 2014
Mentre
cammina a passo lento verso casa, stringendo le spalle nel cappotto
per combattere il gelo, Marco non riesce a fare a meno di pensare che
le sue parole, per quanto oneste e sincere, potrebbero aver ferito
Daria. Non riesce a fare a meno di pensare che la sua richiesta di
tempo potrebbe essere vissuta come un rifiuto, e lui sa
quanto Daria abbia bisogno di sentirsi sempre accettata. Che poi,
salire a casa sua e passare ancora un po' di tempo con lei, a
prescindere da tutto quello che sarebbe potuto succedere, era la cosa
che voleva anche lui. Lo voleva fortemente, e lo vuole ancora, perché
ogni istante in cui può godere del suo sorriso lo fa sentire una
persona migliore. Ogni volta che la vede sorridere e può pensare di
essere l'artefice della sua serenità si sente un uomo migliore, ed
essere un uomo migliore è il suo più grande desiderio.
All'improvviso si ferma,
guardando la strada davanti a sé. Poi si volta, getta un'occhiata
alla strada già percorsa, e si rende conto che non si è mai troppo
lontani per tornare indietro.
*
San Paolo, 17 gennaio
2014
Fuori
dall'arena, sono saltato sul primo taxi e ho chiesto all'autista di
accompagnarmi in una zona dove ci si possa divertire. Appena uscito
mi sono pentito del mio gesto, ma per qualche ragione non ho sentito
il bisogno di tornare indietro e chiedere scusa a Jared per il mio
comportamento. Nonostante la mia parte razionale mi confermi che sono
uno stronzo che pensa soltanto a se stesso, in questo momento riesco
a dare ascolto soltanto alla mia parte istintiva, quella che ho
ascoltato per tutta la mia vita, e che in un certo senso la vita me
l'ha rovinata. Non avrebbe dovuto fare quello che ha fatto, non
avrebbe dovuto ridurre la mia storia con Daria ad una canzone. Non
avrebbe dovuto pretendere di trasferire su carta il mio dolore e i
miei sentimenti, perché nessuno può capire come mi sento – a
volte nemmeno io riesco a capire come mi sento.
Scelgo
un locale ed entro senza difficoltà, immediatamente riconosciuto dal
buttafuori e da una buona parte delle ragazze che sono in fila e
aspettano di entrare. Appena varcata la soglia, torno indietro e le
guardo bene, una per una, notando che sono tutte splendide, e che
ognuna di loro sarebbe pronta a fare di tutto pur di superare il
cordone di velluto. Faccio scivolare un biglietto da cinquanta nella
mano del buttafuori, avvicinandomi per parlargli. «La bruna con il
vestito verde, pensi di poterle far saltare la fila?»
«La
bruna con il vestito verde, falla passare» risponde quello, facendo
un cenno al collega.
La
ragazza si fa avanti, sorpresa, e si avvicina quasi timidamente.
«Come ti chiami?»
«M-maria»
balbetta.
«Maria,
ti prometto che questa serata non te la scorderai» le sussurro
all'orecchio, stringendole un braccio attorno alla vita.
1Non
ricordo niente di quello che è stato, ricordo solo che ero
innamorato. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone
Boccadasse,
splendido duetto della coppia Gino
Paoli & Ornella Vanoni,
contenuto nell'album Ti
Ricordi? No Non Mi Ricordo
(2004).
|
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Capitolo 9 *** 9 | Rimpianti e rimorsi sono la stessa cosa. ***
La lunga strada verso casa - 1
Ringrazio
ancora una volta tutti coloro che hanno sacrificato un briciolo del
loro tempo per leggere, recensire, preferire, ricordare, seguire –
siete voi il vero motore di Direzioni Ostinate E Contrarie, e siete
anche il motore della mia creatività.
Spero
che anche questo capitolo vi soddisfi,
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo nono
Rimpianti e rimorsi
sono la stessa cosa.1
Torino, 17 gennaio 2014
Quando
sento suonare il campanello, sto per salire in camera e mettermi a
letto. Il primo pensiero che mi attraversa la mente è che siano i
signori Lorenzoli e che sia successo qualcosa, perché non riesco a
capire chi altri potrebbe attaccarsi al campanello di casa alle
undici e mezzo di sera. Prima di aprire, comunque, controllo lo
spioncino, e quando mi accorgo che si tratta di Marco il mio cuore
per un istante si ferma. Spalanco la porta, e non faccio nemmeno in
tempo a chiedergli come sia riuscito a salire fin qui che lui scatta
avanti e mi bacia, prendendomi il viso tra le mani per impedirmi di
allontanarmi. Dopo un istante di incertezza inizio a restituire il
bacio, ringraziando il cielo di essermi lavata i denti, ma rendendomi
comunque conto che sono in pigiama, e che certamente non sono il non
plus ultra del
fascino.
È
lui a chiudere la porta, mentre con l'altra mano mi afferra il fianco
per tenermi più vicina. Senza attendere oltre inizio a slacciargli
il cappotto, senza alcun indugio. «Non voglio perdere altro tempo«
sussurra tra un bacio e l'altro, sfilandosi la sciarpa per lasciarla
cadere a terra senza troppa grazia. «Sono quarant'anni che aspetto
una donna come te.»
«Quindi sono quarant'anni
che aspetti una donna in pigiama?» lo prendo in giro.
«In pigiama, in minigonna,
in tuta da palombaro... rimani comunque meravigliosa» risponde. Le
sue braccia si incrociano dietro la mia schiena, e ogni ulteriore
parola si perde tra i nostri baci, che si fanno più famelici che
mai. Quasi senza accorgermene inizio ad arretrare, arenandomi contro
il divano: è a questo punto che le mani di Marco scendono a
sfiorarmi il sedere, per poi far forza per sollevarmi e farmi sedere
sullo schienale. Sento le sue dita risalire lungo la mia schiena, e
non posso impedirmi di trattenere ancora una volta il respiro. Faccio
scivolare le sue dita tra di noi e inizio a separare ogni bottone
della sua camicia dalla rispettiva asola, continuando a ricambiare i
suoi baci.
Alzo le braccia per
aiutarlo a sfilarmi la maglietta, e subito dopo tocca a me spogliarlo
della camicia, per poi consegnarmi di nuovo al tocco delicato e
insieme passionale delle sue labbra. «Credo... credo che dovremmo
spostarci » sussurro quando la sua bocca si sposta sul mio collo,
iniziando una tortura tutt'altro che spiacevole.
«Di sopra?» domanda,
senza quasi staccarsi dalla mia pelle. Mi limito ad annuire, incapace
di formulare una frase decente. «Allora andiamo» sussurra,
sollevandomi tra le braccia come se non avessi peso.
*
San Paolo, 17 gennaio
2014
«Ma
che cos'è successo?» continua a ripetere Emma da due minuti,
aiutando Jared a raccogliere i frammenti di carta sparsi sul
pavimento. «Perché avete litigato?»
«Ti
ricordi la canzone che ho iniziato a scrivere a Parigi?» risponde
infine il cantante, facendo attenzione a non stropicciare i pezzetti
che sta raccogliendo.
«Se
me la ricordo?» gli fa eco lei, guardandolo con tanto d'occhi. «Se
non ricordo male, ti dissi che era una delle canzoni più belle a cui
avessi mai lavorato.»
«Sì,
beh, l'ho finita. Ed è ancora meglio di quanto non fosse allora.»
Emma
guarda i brandelli di carta, e improvvisamente capisce. «Shannon ha
scoperto della canzone e si è arrabbiato?»
«Esattamente.
Ha detto che lui vuole dimenticare tutto ciò che riguarda Daria, e
che di conseguenza lo devo fare anch'io. Credo di non averlo mai
visto tanto fuori di sé. Non sono nemmeno riuscito a reagire, mi
faceva quasi paura.»
La
ragazza si mordicchia un labbro, sentendosi in colpa. Ancora in
ginocchio sul pavimento, lascia cadere a terra i pezzi già raccolti
e si siede sui talloni. «Jared, credo che sia anche colpa mia.
Qualche sera fa Shannon è venuto da me e... beh, diciamo che si è
confidato.»
Jared
alza di scatto gli occhi su di lei, stupendosi per quanto le ha
sentito dire: è già incredibile pensare che Shannon abbia esposto i
suoi problemi a qualcuno, ma rendersi conto che ha scelto Emma per le
sue confidenze è, in un certo senso, ancor più disturbante. «Che
ti ha detto? Stava bene?»
«Non
troppo. Voleva un consiglio.»
«A
che proposito?»
«Tu
che pensi, genio?»
«Daria?»
Emma annuisce, abbassando lo sguardo. «Che cosa ti ha detto?»
«Non
lo ha detto in maniera esplicita, ma il succo del discorso era che
Daria gli manca da morire, e che sarebbe pronto a partire in
qualunque momento per andarsela a riprendere, se non fosse per il
piccolo e poco affatto trascurabile dettaglio che lei gli ha chiesto
di non farlo.»
«Mi
chiedo perché si faccia tutti questi scrupoli...» sospira Jared.
«Non è mai stato il tipo d'uomo che si fa comandare a bacchetta da
nessuno, tranne forse da nostra madre. Ti ha detto altro?»
«Voleva
un consiglio, un... suggerimento, per capire come comportarsi.»
«E
tu che gli hai risposto?»
«Gli
ho detto che secondo me c'erano soltanto tre possibili soluzioni:
mettere da parte le paranoie e andare da lei, chiudersi a riccio e
continuare a soffire come un cane, oppure... dimenticare.
Mi sembra piuttosto chiaro che è questa la strada che ha scelto.»
Jared
scuote la testa, sospirando ancora. «Non ci riuscirà. È un uomo in
gamba, ci sono un sacco di cose che può fare, ma non può...
dimenticare. Hai visto
com'era quando stava con lei, no? Hai visto com'era... felice.»
«Lo
conosco, Jared. E ho visto come si comportava quando erano insieme.
So bene quanto te che non ci riuscirà. Solo che... so che dovrei
stare tranquilla e non pensarci, ma ho paura che possa commettere
qualche cazzata. So che sono soltanto una vostra dipendente e questo
non fa parte dei miei doveri, ma io... io sono preoccupata. Sono
sinceramente
preoccupata.»
Siamo
in due, pensa Jared, finendo di
raccogliere i pezzi di carta.
*
Torino, 17 gennaio 2014
Dopo
avermi sfilato i pantaloni, le mani di Marco risalgono lentamente
lungo le mie gambe, mentre le sue labbra si posano per un istante sul
mio ombelico. Con la punta del naso mi sfiora appena, seguendo il
profilo dei miei seni e tornando a prendere possesso della mia bocca.
Approfittando dell'instabilità della sua posizione lo spingo via,
prendendo il comando della situazione. Slaccio lentamente i suoi
jeans e inizio a farli scivolare via, mentre lui si mette a sedere e
inizia a sollevare la mia canottiera, baciandomi languidamente il
seno come per convincermi ad assecondarlo. Ci fermiamo per qualche
istante, restando stretti con lo sguardo fisso negli occhi
dell'altro, senza osare dire una parola. Alza una mano e mi sfiora il
viso, sorridendo dolcemente. «Te lo ha mai detto nessuno che sei una
ragazza bellissima?»
Dovrei rispondere di sì,
ma lo ferirei a morte; potrei rispondere di no, ma in questo caso
tradirei la mia memoria; incapace di rispondere senza ferire uno dei
due, mi limito a prendere il suo viso tra le mani e baciarlo ancora,
come se un bacio potessere essere la risposta ad ogni problema. Il
mio gesto riesce, in qualche modo, a sbloccare la situazione, ed è
quanto di meglio avrei mai potuto chiedere. Le sue mani stringono un
po' più forte i miei fianchi, facendomi scivolare più avanti. Sento
la sua erezione premere contro il mio bacino, chiudo gli occhi e mi
lascio andare. Non voglio pensare in maniera razionale, non più.
Ho passato tutta la vita ad analizzare ogni situazione, e ora sento
che è giunto il momento di lasciarsi andare.
*
San Paolo, 18 gennaio
2014
A
svegliarmi è la suoneria del cellulare, che mai come in questo
momento mi è sembrata tanto alta e invadente. Apro gli occhi ma li
richiudo all'istante, accecato dalla luce che entra dalla finestra.
Sento la bocca arida e impastata, avverto un vago senso di fame e
nello stesso momento mi sento come se avessi inghiottito un macigno.
Mi sforzo di riaprire le palpebre, alzando una mano per evitare di
bruciarmi di nuovo le retine, e guardo verso destra, sperando di
trovare una bottiglia d'acqua. Con la vista ancora compromessa, muovo
una mano alla cieca sul ripiano, trovando di tutto – pacchetti di
sigarette, un accendino, una confezione di preservativi, brandelli di
plastica –, ma nemmeno una goccia d'acqua. A fatica mi metto a
sedere e mi guardo attorno, trovandomi completamente nudo nel mio
letto, senza avere la benché minima idea di come ci sia arrivato.
Tuttavia, non ho tempo di riflettere su quanto successo durante la
notte, perché al solo pensiero di uno sforzo di qualunque tipo il
mio stomaco si ribella, stringendosi ancora di più. È a questo
punto che i miei riflessi mi sorprendono, più rapidi di quanto
avessi mai immaginato.
*
Torino, 18 gennaio 2014
Apro
gli occhi, e per la prima volta dopo tanto tempo il posto accanto al
mio non è vuoto e freddo. «Buongiorno» sussurra Marco, salutandomi
con un sorriso.
«Da
quanto tempo mi guardi?»
«Cinque
minuti, non di più.» La sensazione che mi stia rifilando una balla
è grande, ma decido di non darle peso e di credergli. «Hai fame?
Scendo a prepararti qualcosa.»
«Non
troveresti nulla. Ho un modo tutto mio di organizzare la cucina.»
«Piccola,
vivo solo da quando ho ventidue anni. Ti stupiresti di scoprire
quante abilità si possono sviluppare in tanti anni.»
«Non
ho fame, in realtà» ribatto.
«Sicura?
Non vuoi niente? Un caffè? Un po' d'acqua?»
Scuoto
la testa, sorridendogli a mia volta. «Sto benissimo così»
sussurro, accoccolandomi contro il suo petto nudo. Senza aggiungere
altro mi passa un braccio dietro le spalle, tenendomi stretta a sé.
Questa volta sono sincera: tutto ciò che mi serve per stare bene è
qualcuno da stringere forte a me.
*
San Paolo, 18 gennaio
2014
Per la seconda volta nel
volgere di pochi giorni, Emma usa il proprio passepartout per entrare
nella camera d'albergo di Shannon, e questa volta ha ancor più
ragioni della precedente per farlo – non soltanto ha litigato con
Jared, ma ha mancato l'appuntamento per l'intervista in radio, non si
fa vedere in giro da dodici ore e non risponde nemmeno al cellulare.
Se non sono ottime motivazioni queste...
Non
appena i suoi occhi si rendono conto delle tragiche condizioni in cui
versano la stanza, la donna si mette le mani tra i capelli,
chiedendosi che razza di scusa potrà mai inventare per giustificare
un simile sfacelo nei confronti della direzione e delle
sfortunatissime cameriere che dovranno occuparsi di ripulire. Conta
due bottiglie di champagne presumibilmente vuote, scansa i cocci di
un bicchiere abbandonato ai piedi del letto, guarda con una punta di
disgusto le lenzuola aggrovigliate, in alcuni punti macchiate e in
altri quasi strappate via dal materasso, poi vede il comodino. Sta
per avvicinarsi e dare un'occhiata, quando dal bagno sente arrivare
il chiaro suono di qualcuno che sta vomitando l'anima. «Shannon?»
domanda con voce tremante. Dà una leggera sprintarella alla porta, e
ciò che vede la lascia pietrificata per qualche secondo: Shannon è
completamente nudo,
letteralmente abbracciato alla
tazza, e ha tutta l'aria di aver passato tempi migliori.
Soffocando
in gola ogni rimprovero e improperio preparato per l'occasione, Emma
fa tutto ciò che farebbe una vera amica: bagna un asciugamano e si
mette in ginocchio accanto a lui, tamponandogli la fronte come
farebbe sua madre – o forse no, non ne ha idea, perché Constance
sembra più il tipo di madre che ti prende a calci nel sedere per far
penetrare la lezione a
fondo.
Accorgendosi
soltanto in quel momento della presenza estranea, Shannon alza su
Emma gli occhi, rossi e gonfi come possono essere soltanto gli occhi
di una persona che la sera ha cercato di soffocare il dolore, e che
la mattina si rende conto di aver miseramente fallito. «Sono una
persona orribile» balbetta, riabbassando lo sguardo. «Jared non
vorrà più parlarmi, mai più.
Questa volta l'ho combinata troppo grossa.»
«Non
pensare a Jared» sussurra lei, sforzandosi di mantenere lo sguardo
fisso sulla sua fronte, e su nessun'altra parte
del suo corpo. «Non pensare a Jared» ripete. «Adesso devi solo
pensare a rimetterti in sesto. Ti fai passare la sbornia, ti fai una
doccia, poi vai da lui e ne parlate in maniera civile.»
«Non
so se questa volta riuscirà a perdonarmi» sussurra ancora Shannon,
sempre più depresso. «Nemmeno io so se riuscirò a perdonarmi.»
«Non
ci pensare, Shannon» ripete ancora lei, continuando ad inumidirgli
la fronte e i capelli. «Si sistemerà tutto, alla fine.» Gli passa
un braccio sulla schiena nuda, stringendogli le spalle in una sorta
di abbraccio. È strano starsene abbracciata ad un uomo – uno come
Shannon, poi! – senza che vi sia di mezzo qualcosa di sessuale,
eppure, per quanto strano possa sembrare, Emma non ha mai sentito di
essere al posto giusto nel momento giusto tanto quanto lo sente ora.
*
Torino, 18 gennaio 2014
«A
che pensi?»
«A
niente in particolare» mi affretto a rispondere, sperando di
sembrare naturale e sincera. La verità è che ho la testa affollata
da milioni di
pensieri, tanto che non so su quale concentrarmi per primo.
«Mi
prendi in giro? Guarda che ti conosco, e si vede
che hai la testa da un'altra parte. Ma se non ne vuoi parlare con me,
va bene.» Mi volto per guardarlo, e capisco che i suoi occhi
celesti, grandi e limpidi come quelli di un bambino, potrebbero
convincermi a fare qualunque stupidaggine – ragion per cui decido
di scegliere una delle mille cose che mi vorticano in testa e di
condividerla con lui.
«Stavo
pensando che dovrei parlare con mio padre. Sai, dirgli di mia madre e
del fatto che sia venuta a cercarmi. Forse lui un consiglio me lo
potrebbe dare.»
«Come
pensi che potrebbe prenderla?»
«Non
ne ho idea. Però mi sembra una buona soluzione. È l'unica soluzione
che mi sia venuta in mente, in realtà.»
«Cosa
credi che ti consiglierà di fare?»
«Non
lo so» ammetto. «Quando scoprirà che l'ho mandata al diavolo mi
sgriderà, poco ma sicuro. Ci ha sempre insegnato che si deve avere
rispetto per gli altri, anche quando qualcuno non dimostra di
meritarselo.» Mi metto a sedere, reggendomi il lenzuolo davanti al
petto con entrambe le mani. «Se lo conosco almeno un po', mi
consiglierà di tornare indietro e darle una possibilità.»
«Chissà
perché, non mi sembra che la prospettiva ti riempia di gioia.»
«E
come potrebbe? Mi ha lasciata – ha lasciato tutti noi
– per seguire i suoi sogni, e alla fine si scopre che si è fatta
un'altra famiglia. Mi sento... mi sento tradita,
Marco. Credo che chiunque si sentirebbe tradito. Mi sento come... mi
sento come... insomma, viene da pensare che non ci ritenesse
abbastanza, che non...
che non ci amasse
abbastanza. Ci ha lasciati e dopo quattro anni ha avuto un altro
figlio. Non dieci, non quindici... soltanto quattro anni.»
«In
quattro anni le cose possono cambiare.»
Lo
guardo di nuovo, ma dopo un istante abbasso lo sguardo. «Quattro
anni non sono abbastanza, Marco.»
*
San Paolo, 18 gennaio
2014
Una
volta finito di vomitare, Shannon si è alzato e si è infilato sotto
la doccia, mentre Emma si è fabbricata un guanto di carta igienica e
ha iniziato a rassettare un po' la stanza – giusto il minimo, per
evitare di incappare in una denuncia per atti vandalici. Mentre
raccatta preserativi usati, cocci di vetro e bottiglie vuote e li
destina al cestino dei rifiuti, pensa che non le farà male fare
un'antitetanica – così, giusto per sicurezza. Si tiene lontana dal
letto, e quando Shannon esce finalmente dal bagno, per fortuna
indossando almeno le mutande, lei si sposta in bagno per vuotare il
posacenere nella tazza. Lo lascia solo per quelli che saranno venti
secondi, ma al suo ritorno lo trova già vestito e intento a pigiare
l'essenziale nel borsone. «Che diavolo stai facendo?»
«Me
ne vado. Devo tornare a casa.»
«Sei
ancora ubriaco?»
«Me
ne devo andare. Ho combinato un casino.»
«Hai
commesso un errore, può capitare. L'importante è capirlo, e...»
«No,
Emma, stavolta non mi lascio convincere» la interrompe lui, alzando
di scatto la testa. «Questa volta ho superato ogni limite, me lo
dico da solo.»
«Non
dico che Jared fosse al settimo cielo quando non ti sei presentato
all'intervista, ma di sicuro potrà perdonarti se...»
«Emma,
soltanto un idiota potrebbe perdonarmi, questa volta. Ho davvero
esagerato.»
«Se
ti riferisci allo spartito che hai strappato, so tutto.» Aspetta una
risposta, ma la reazione di Shannon è concentrata in una contrazione
della mascella, che rende il suo profilo duro e severo come non è
mai stato. «Ieri sera, dopo la tua chiassosa
uscita di scena, l'ho aiutato a raccogliere i pezzi. Letteralmente.»
Aspetta ancora che Shannon dica qualcosa, ma quando si rende conto
che non l'aspetta altro che il silenzio decide di continuare. «Credo
che nessuno sappia come ti senti davvero, e capisco
la tua rabbia quando hai scoperto che Jared ha scritto una canzone a
proposito di quei sentimenti che nemmeno tu riesci a decifrare. E ti
assicuro che lo capisce anche lui. E non è arrabbiato, te lo...»
«Emma»
la interrompe, «è di mio fratello che parliamo. Non dirmi che non è
incazzato nero, perché non me la bevo.»
«Va
bene, forse ha accarezzato l'idea di strozzarti, però non è che ti
odia a morte o cose del genere. Avete superato di peggio, non vedo
perché questa volta dovreste...»
«Emma»
la interrompe ancora, guardandola dritta negli occhi. «Tu non sai in
che abisso sono precipitato, l'ultima volta che mi è successa una
cosa del genere. Dire che ho toccato il fondo non rende l'idea. Io
non posso... non voglio
cadere di nuovo così in basso. Non so se questa volta riuscirei ad
uscirne.»
«E
quindi che fai? Scappi? Scappare non ha mai risolto niente, lo sai.
Scappare non è mai la soluzione.»
«Non
sto scappando, Emma. Sto cercando di risolvere le cose, e sto
cercando di farlo a modo mio. Il fatto che tu non lo capisca non
significa che sto sbagliando.»
«Non
volevo dire questo, Shannon. Quello che volevo dire è che...»
«Non
dire altro, per favore. Non ho bisogno di consigli, né di morali, né
di ramanzine. So punirmi benissimo da me.»
Emma
tace e lo guarda, cercando di capire come
le cose potranno mai sistemarsi, se tutto ciò che Shannon fa è
negare l'evidenza, e cioè che le cose potranno tornare a posto
soltanto quando lui e Daria saranno di nuovo insieme. «Di che cosa
hai bisogno, allora?»
«Un
biglietto aereo. Per Los Angeles» specifica, quasi leggendole nella
testa la destinazione cui lei stava pensando in realtà. «Puoi
aiutarmi oppure no, comunque partirò.»
«Non
puoi mollare il tour a metà, Shannon. Fra tre giorni dovete essere a
Rio. Pensa a tutti gli Echelon che...» Si interrompe, rendendosi
conto che probabilmente a questo Shannon ha già pensato, senza però
lasciarsi convincere a cambiare idea. Decide di lasciar perdere,
pensando che in fondo lei non ha alcun diritto di mettere il naso in
questa situazione, e che se Shannon ha deciso di partire e tornare a
casa, forse bisogna lasciarlo fare. In fondo, a furia di prendere la
decisione sbagliata prima o poi, forse,
arriverà a prendere quella giusta. «Sai che ti dico? Io non ho il
diritto di dirti cosa devi fare. Perciò, se senti che partire è la
soluzione, fallo.»
«Emma,
credimi, non è niente di personale, ma...»
«Non
mi devi alcuna spiegazione, Shannon. Ora scusa, ma devo andare. Vedrò
che si può fare per il biglietto.» Senza aggiungere altro Emma
esce, lasciando il batterista solo con i suoi pensieri e le sue
convinzioni. Se c'è una cosa che ha imparato, in tanti anni passati
ad inseguire quel manipolo di squinternati in giro per il mondo, è
che a volte bisogna mettere da parte l'empatia, e lasciarli liberi di
rovinarsi la vita da sé.
*
Torino, 18 gennaio 2014
Quando
finalmente ci convinciamo ad alzarci e a rivestirci è passato da un
pezzo mezzogiorno. «Non so nemmeno se posso offrirti un pranzo
decente» dico, scendendo in cucina. «Teoricamente dovrei andare a
fare la spesa.»
«Posso
sempre portarti a pranzo fuori» risponde lui, scendendo subito dopo
di me.
«E
scroccare di nuovo? No, grazie. Una volta tanto, vorrei ricambiare i
tuoi sani gesti maschilisti»
lo prendo in giro. «Oh, aspetta. C'è ancora dell'arrosto»
aggiungo, scavando nel frigorifero alla ricerca di qualcosa di
commestibile. «Mia nonna ha paura che muoia di fame, perciò
continua a mandarmi casse di cibo. Non che mi lamenti, certo.»
«Aspetta,
ti aiuto.»
«Niente
affatto. Sei mio ospite, non devi muovere un dito» ribatto,
disponendo la carne in una padella.
«Non
esiste che faccia faticare una donna. Almeno lasciami apparecchiare,
no?» protesta, iniziando ad aprire ogni stipetto alla ricerca di
piatti, bicchieri e posate. Passandomi accanto, mi fa scivolare una
mano sul fianco e mi bacia dolcemente una guancia, per poi lasciarmi
andare e continuare la sua ricerca. Seguo i movimenti con lo sguardo,
e mi rendo conto che questo è esattamente quello che vorrei, per il
resto della vita: avere accanto qualcuno con cui condividere la
quotidianità, quei piccoli gesti che ognuno ripete ogni giorno,
quelle piccole cose cui nessuno fa caso, ma di cui sente
terribilmente la mancanza. Questo renderebbe Marco perfetto
per me, senza tener conto del fatto che mi adora,
e che probabilmente per me sarebbe pronto a saltare nel fuoco. E poi,
all'improvviso, mi sento in colpa, perché in un certo senso è come
se lo stessi usando, e
io non sono mai stata il tipo di persona che si comporta in questo
modo. Per fortuna è soltanto un attimo – scuoto la testa e torno
ad occuparmi dell'arrosto, pensando che ormai è tardi per
abbandonarsi ai rimorsi di coscienza: con Shannon è finita, perché
se in due mesi non ha ancora fatto nemmeno un tentativo di
riprendermi con sé, significa che di me non gli importa poi molto.
Devo solo convincermi che sia finita. Che sia finita per
sempre.
*
San Paolo, 18 gennaio
2014
Sono
passati venti minuti da quando Shannon è uscito dall'albergo ed è
saltato su un taxi per l'aeroporto. Emma ha aspettato il ritorno di
Jared davanti alla porta della sua stanza, camminando avanti e
indietro come un leone in gabbia, cercando di mettere insieme le
parole giuste per informarlo della decisione di Shannon – ci ha
provato, ci ha provato davvero a fregarsene e a lasciarli andare per
la loro strada, ma quando tieni a qualcuno quanto lei tiene a quei
due enormi idioti,
fregarsene diventa difficile, se non addirittura impossibile.
«Ehi,
Emma» la saluta Jared, strisciando la chiave magnetica contro il
lettore a fibre ottiche. «L'intervista è andata bene, ma voglio che
quei due speaker finiscano sulla lista nera. Sono dei ficcanaso.»
«Ficcanaso?»
«Continuavano
ad insistere nel chiedere il motivo per cui non ci fosse Shannon. Sia
io che Tomo abbiamo continuato a ripetere che era in studio a
lavorare su un progetto importante, ma quelli non demordevano.
Figurati che ad un certo punto uno dei due ha tirato fuori che ieri
sera l'avrebbero visto darsi da fare con una ragazza in un locale
piuttosto in vista. Ma figurati se...» Vede lo sguardo di Emma
abbassarsi con aria colpevole, e allora tace. «Aveva ragione, vero?
L'hai visto? Che cosa ha combinato?»
«Credo
si sia ubriacato e che abbia portato quella ragazza in albergo. O
almeno, questo era quello che suggerivano le condizioni della
stanza.»
«L'hai
visto? Sta bene?» L'espressione di Jared rispecchia alla perfezione
il suo tono, sconvolto e preoccupato come può diventare soltanto
quando si parla di Shannon o di Constance – e, occasionalmente, di
Tomo o di Vicki. «Devo andare da lui» aggiunge subito dopo,
richiudendo la porta della propria camera e muovendo due passi in
direzione della stanza di Shannon.
«Non
è in camera» lo blocca lei, afferrandolo per un braccio. «Ti
aspettavo per dirti questo» aggiunge, lasciandolo andare. «Quando
sono entrata lui era in bagno, a... beh, a vomitare l'anima. Appena è
stato meglio si è fatto una doccia e poi ha... ha preparato un
borsone. E mi ha chiesto di trovargli un biglietto aereo.»
«Un
biglietto aereo per dove?»
Jared non può negare che, nonostante lo smarrimento dettato
dall'affermazione di Emma, il suo cuore speri che Shannon abbia
finalmente preso la decisione più giusta. «Sta andando da lei?»
Emma
scuote la testa, abbassando di nuovo lo sguardo. «Torna a casa, a
Los Angeles. Ho cercato di convincerlo a rimanere, ma lui ha detto...
ha detto che non vuole finire come l'ultima volta, che... che ha
bisogno di tornare a casa. Io ci
ho provato, te lo assicuro, ma lui non...» Sente la voce farsi
tremula e la gola chiudersi, e per questo si odia, perché sa che sta
per mettersi a piangere, e lei non è proprio il tipo di donna che si
mette a piangere davanti agli altri.
«Non
è colpa tua, Emma» la tranquillizza Jared, stringendole una spalla
con fare affettuoso. «Da quanto è partito?»
«Saranno
venti minuti, più o meno. Gli ho trovato il biglietto, ma l'aereo
non partirà prima di un paio d'ore.»
«Va
bene, va bene... pensa, Jared, pensa... pensi di poter fare una cosa
per me?» All'istante, Emma sente gli occhi asciugarsi e lo sguardo
farsi affilato – sono più o meno dieci anni che consacra ogni sua
giornata a fare cose per
lui, perché ora dovrebbe essere diverso?
*
Torino, 18 gennaio 2014
«Daria,
ti posso fare una domanda? Però non vorrei che la prendessi nel
verso sbagliato...» Smetto di masticare, mi blocco con la forchetta
a mezz'aria e lo squadro più o meno come se stessi guardando un
alieno. «Lo so che le premesse non fanno ben sperare, però... c'è
una cosa che ti vorrei chiedere, e sento che se non lo facessi ora
non troverei più l'occasione giusta. Sempre che questa lo sia.»
Mando
giù il boccone e abbasso il braccio, continuando a guardarlo. «Beh,
allora chiedi. Prometto che non ti giudicherò male.»
«Va
bene. Naturalmente sei più che libera di non rispondere, se non ti
va.»
«Prometto
che risponderò il più sinceramente possibile. Avanti, spara.»
«Va
bene...» Giocherella con un pezzo di carne, cercando di mettere
insieme le parole giuste. «Ieri sera hai detto... hai detto che
proprio quando pensavi che non ti saresti mai più innamorata hai
incontrato un ragazzo che ti ha fatto perdere la testa, e che poi
tu...»
«...gli
ho spezzato il cuore?» completo, ponendo fine alla sua incertezza.
«Già.
Ecco, io mi stavo chiedendo... perché? Insomma, se con lui stavi
così bene perché lo hai lasciato?»
Abbasso
lo sguardo e prendo fiato. La domanda di Marco non dovrebbe stupirmi,
perché sarebbe stato da idioti pensare che un dubbio del genere non
avrebbe fatto capolino, prima o poi – anche se, devo confessarlo,
ero una fervida sostenitrice del poi.
«Ok» sospiro infine, pronta a tentare di spiegare le mie
motivazioni. «Insieme stavamo bene. Stavamo molto
bene. Io stavo bene, e lui diceva di stare bene. Non ho mai
conosciuto una persona in grado di mettermi così a mio agio, e
credevo... credevo che questo mi sarebbe bastato.»
«E
invece?»
«Eravamo
diversi. Profondamente diversi.
E so che forse è uno dei cliché più abusati al mondo, e tu sai
quanto io detesti i cliché, però... è questo il motivo che mi ha
spinto ad allontanarlo. Questo, e nient'altro. Quando stavo con lui
ero felice, ma allo stesso tempo... allo stesso tempo sapevo che non
sarebbe durata per sempre. Ci amavamo, ma ci sono volte in cui
l'amore non basta. Io... con lui io sono sempre stata molto chiara
circa i miei obiettivi, circa quello che volevo, e... e per quanto
lui dicesse di essere d'accordo, per quanto forse volesse le stesse
cose che volevo io, io... io sapevo che non saremmo mai riusciti a
far combaciare le nostre strade. Così ho preferito...»
«...spezzargli
il cuore» completa lui. Annuisco, abbassando lo sguardo. «Provi mai
rimorso per questo? Insomma, per averlo lasciato così?»
«Ho
sempre pensato che fosse meglio per entrambi. Meglio soffrire subito
e non pensarci più che costringersi magari per anni
a stare insieme senza possibilità di farla andare bene. Insomma,
magari... magari mi sarei svegliata, una mattina, fra, che ne so,
magari dieci anni, e mi sarei accorta di non vivere la vita che
volevo. Che avrei fatto, allora? Avrei fatto come mia madre? Avrei
preso le mie cose e me ne sarei andata senza guardarmi indietro? Mi
conosci, Marco. Sai
che non potrei...» Mi fermo per un istante, rendendomi conto che
questo io l'ho già fatto.
Ma è stato per il bene di tutti, mi dico subito dopo. Non è stato
un gesto egoista come lo è stato per mia madre.
«Sì,
ti conosco, e so che preferiresti ferire te stessa mille volte, pur
di non fare del male agli altri» risponde, approfittando del mio
silenzio. «Solo che... ti capita mai di provare del rimpianto? Per
quel che ne sai, alla lunga vi sarebbe anche potuta andare bene.
Forse ci sarebbe voluto del tempo, ma magari...»
«Forse,
ma chi lo sa? Nessuno di noi ha una palla di cristallo, e nessuno di
noi può conoscere il futuro in anticipo. Ma che fai, poi? Tifi per
un tuo rivale? Se con lui non fosse finita, adesso non saresti qui»
aggiungo con un sorriso, sforzandomi di sembrare allegra e naturale.
«Giusta
obiezione» replica, sorridendo a sua volta. «Dovrei ringraziare
quel poveraccio per essersi fatto lasciare.»
*
San Paolo, 18 gennaio
2014
Appena
entrato nell'area delle partenze, Jared inizia a scutare ogni angolo
alla ricerca di Shannon, voltando la testa di qua e di là con la
stessa rapidità di un cane antidroga. Sa che sono passati soltanto
venti minuti da quando Emma l'ha informato dei piani di suo fratello,
quindi sa che Shannon
deve essere ancora lì, da qualche parte, a piangere sulla propria
condizione, rinchiudendosi sempre di più in se stesso. Beh, forse
non sta proprio piangendo.
Quando
finalmente lo trova, per un istante pensa che non ha un discorso
pronto, che non ha pensato nemmeno per un istante a come affrontare
la situazione, e per un maniaco del controllo quale è lui non avere
un piano è decisamente impossibile.
Tuttavia, sa che quando si siederà accanto a lui le parole verranno
fuori da sole, e saranno quelle giuste – o almeno lo spera. E poi,
pensa ancora, è di suo fratello che si parla, e sa che per capirsi
basterebbe loro anche un semplice abbraccio.
«Ciao»
lo saluta, quasi senza fiato, lasciandosi cadere sul seggiolino
accanto al suo.
«Che
ci fai tu qui?»
«No,
tranquillo, è tutto a posto. Sto solo per sputare un polmone, ma
presto starò bene.»
«Hai
parlato con Emma?»
«Va
bene, visto che hai deciso di saltare i convenevoli e di non curarti
della mia salute... sì. Ma ti proibisco di arrabbiarti con lei. Lo
ha fatto soltanto perché vuole il tuo bene, ed è preoccupata per
te. A proposito, è riuscita a trovarti un posto?»
«Sì,
ho appena ritirato il... senti, Jared, facciamola breve. Sei venuto
qui per impedirmi di partire?»
«Affatto.
Se credi che tornare a Los Angeles sia la soluzione ai tuoi problemi,
allora torna a Los Angeles. In questo momento stare bene con te
stesso è la tua priorità, dunque lo è anche per me. Sono tuo
fratello e ti voglio bene. Non accettare le tue decisioni sarebbe da
egoisti, e per quanto riconosca di essere un inguaribile essere
altezzoso, non posso negarti la tua libertà.»
«Non
hai intenzione di fermarmi?» Shannon è semplicemente incredulo:
nell'istante in cui ha visto Jared sedersi accanto a lui ha
immaginato di doversi preparare ad una ramanzina, e invece – come
spesso accade – suo fratello lo sta sorprendendo.
«Te
l'ho già detto, no.
Se tu credi che questo possa risolvere le cose, va bene. E non
credere che sia così accondiscendente perché ho un subdolo piano,
perché non è così. Voglio solo farti capire che io sono
con te, qualunque cosa accada.»
«Mi
dispiace, Jared. Mi dispiace, ma... io non posso restare ancora. So
che sono soltanto altri cinque giorni e poi torniamo a casa, ma io...
io credo di aver paura di me stesso» conclude Shannon con un
sussurro.
«Di
che cosa hai paura, Shannon?» domanda l'altro, abbassando la voce
per portarla al suo livello. «Che cosa ti spaventa tanto?»
Shannon
si prende la testa tra le mani e resta in silenzio per quasi un
minuto, poi finalmente rialza lo sguardo. «Ieri sera, dopo il nostro
litigio, sono uscito e
ho preso un taxi. Mi sono fatto portare in una zona piena di locali.
C'era una fila di ragazze stupende
che aspettavano di entrare, e io ho dato una mazzetta ad un
buttafuori perché ne facesse passare una. Poi... non lo so, abbiamo
bevuto, e ballato, e ad un certo punto mi sono trovato in albergo con
lei, e tutto ciò che ricordo è che ci stavamo spogliando, e... non
mi ubriacavo così da tempo, Jay. E adesso ho paura.
Ho una paura tremenda che la prossima volta potrei non fermarmi a
questo. Ho paura che la prossima volta potrei trovare qualcuno che mi
offre una sniffata di coca, o addirittura che potrei trovare qualcuno
che me ne vende una bustina, e... e per quanto detesti quella merda,
non credo che riuscirei a rifiutarla.»
Jared,
che per tutto il tempo della confessione di suo fratello si è
guardato le mani, ne alza una per massaggiarsi le tempie, come
stordito da quel fiume di parole – nessuno dei due è mai stato il
tipo di uomo che si apre così tanto, nemmeno davanti ad una persona
importante. «Mi dispiace di non averti parlato di quella canzone. Di
non averlo fatto prima
di scriverla, almeno. Ma non posso dire che mi dispiaccia di averla
scritta, perché... beh, scriverla mi ha fatto bene. Lo sai, io non
sono il tipo di persona che parla volentieri dei propri sentimenti, e
d'altro canto non lo sei nemmeno tu.» Sospira, togliendosi una
ciocca di capelli dagli occhi. «Però non sono nemmeno il tipo di
persona che si tiene tutto dentro, perché in quel caso scoppierei.
Io... io avevo bisogno
di fermare da qualche parte i miei pensieri, e siccome non ero certo
di poterlo fare con te senza rischiare di ferirti, ho... ho pensato
di scrivere una canzone. È stato egoista da parte mia pensare di
potertelo tenere nascosto. Ma comunque non l'avrei usata per fare
soldi. Sarebbe stato come usare te,
e io non sono il tipo di persona che usa le altre persone per i
propri scopi.»
«Questo
l'ho sempre saputo, e... mi dispiace di aver strappato il tuo
spartito. Me ne sono pentito cinque minuti più tardi, ma... ormai
l'avevo fatto. E più ci penso, più mi rendo conto che lo farei
altre mille volte, se mi trovassi in una simile situazione. Ho
provato una rabbia tale da non riuscire a controllarmi. È anche per
questo che voglio tornare a casa. Io non sono come te, Jay. Tu riesci
sempre a mantenere il controllo, io invece no. Ho paura che potrei di
nuovo perdermi, e...
io non voglio più perdermi, Jay.»
«Questo
denota giudizio. Comunque, se anche dovesse succederti di nuovo,
sappi che io verrei a cercarti. Anche a costo di lasciar perdere
tutto il resto, io verrei a cercarti.»
Shannon
alza lo sguardo sul fratello e si lascia andare ad un mezzo sorriso,
sapendo che non si tratta di una bugia. «Lo so» sussurra, la voce
improvvisamente roca. «Adesso devo andare, devo ancora fare il check
in.»
«Va
bene, ti lascio andare» risponde l'altro, alzandosi insieme a lui.
«Ci vediamo tra cinque giorni.»
«Ci
vediamo tra cinque giorni.» Senza aggiungere altro, si stringono in
un fugace abbraccio e poi si lasciano andare. Shannon non si volta
mentre cammina verso il gate, e Jared resta immobile fin quando non
lo vede scomparire, inghiottito dalla folla che si muove da una parte
all'altra dell'aeroporto. Si passa una mano sul viso e torna sui
propri passi, sperando che Emma sia riuscita ad eseguire tutte le
istruzioni che le ha lasciato.
1Rimpianti
e rimorsi sono la stessa cosa. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone
T'insegnerò
di Povia,
contenuta nell'album I
Bambini Fanno Ooh... La Storia Continua
(2006).
|
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Capitolo 10 *** 10 | Questi eravamo noi una volta. Stava piovendo, e i miei erano usciti in macchina. Ai tuoi cos'è successo? La notte ti sento piangere. Sogni i tuoi genitori? E' per questo che distruggi tutto, e mi ***
La lunga strada verso casa - 1
Confesso:
questo capitolo era pronto già una settimana fa, ma ho preferito
'covarlo' ancora per qualche giorno per essere certa che fosse
passabile - e anche per far sudare un po' i vostri poveri ormoni ^^
Come
sempre, grazie mille per il vostro tempo e i vostri commenti, a volte
scrivete cose che mi fanno davvero commuovere, e sono davvero felice di
avere un 'fanclub' così affezionato alle tragedie che faccio
vivere ai miei personaggi, e anche ai nostri amatissimi Mars!
Godetevi la lettura,
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo decimo
Questi eravamo noi una
volta. Stava piovendo,
e i miei erano usciti
in macchina.
Ai tuoi cos'è
successo?
La notte ti sento
piangere.
Sogni i tuoi genitori?
È per questo che
distruggi tutto,
e mi spingi?1
Torino, 18 gennaio 2014
Dopo
pranzo Marco si è congedato, promettendomi che ci saremmo sentiti
più tardi. Dopo aver fatto una doccia e aver riordinato, mi rendo
conto che non è più il momento di rimandare: devo parlare a mio
padre del ritorno della mamma, e devo farlo ora, prima che questa
cosa finisca con il mangiarmi viva. Mi cambio e lo raggiungo in
laboratorio, luogo in cui da bambina ho passato gran parte dei miei
pomeriggi. Lo trovo alle prese con un bellissimo tavolo in noce, e
capisco che la mia visita lo sconvolge quando, vedendomi entrare,
solleva lo sguardo dal proprio lavoro con aria preoccupata. «Ciao.
Che cosa è successo?»
«Deve per forza essere
successo qualcosa perché tua figlia passi a trovarti al lavoro?»
«No, certo che no. Solo
che mi sembra strano, tutto qui. Non vieni in laboratorio da un sacco
di tempo. Forse ti ci ho portata troppe volte quando eri bambina...
attenta a non toccare quel comodino, l'ho appena verniciato. Se ti
macchi con quella roba, puoi buttare via il cappotto.»
«Mi è sempre piaciuto
venire qui» sussurro, accarezzando il ripiano lucido del tavolo con
la punta delle dita. «Dopo aver fatto i compiti mi permettevi sempre
di aiutarti.»
«Ti
chiamavo piccola
assistente...»
sussurra, sorridendomi. «Ti piaceva da morire aiutarmi, non ho mai
capito perché.»
«Mi
faceva sentire importante» rispondo. «La mamma era appena andata
via, e io avevo... non lo so, sentivo il bisogno
di essere utile a qualcuno. O forse avevo solo paura di perdere anche
te. Pensavo che se avessi passato molto tempo con te, non ti sarebbe
mai passato per la mente di lasciarmi.»
«Questo non me lo avevi
mai detto. Perché lo fai adesso?»
«Non lo so» mormoro,
stringendomi nelle spalle. «Forse perché adesso sono cresciuta, e
mi sembra meno importante di quanto non lo sembrasse allora.» Mi
sfilo il cappotto e lo appoggio su una vecchia sedia da restaurare,
insieme alla borsa. «Papà, ti posso parlare di una cosa?»
«Allora avevo ragione, è
davvero successo qualcosa.»
«Più o meno.»
«Mi devo sedere, per caso?
Perché hai l'aria di una che mi sta per dire che sta per rendermi
nonno. Non sei incinta, vero?»
«No, papà, non sono
incinta» rido, pur sapendo che un mese fa si è davvero profilata
all'orizzonte la possibilità di dargli una simile notizia. Mi faccio
di nuovo seria, e come quando ero bambina inizio a giocherellare con
una scatola piena di bulloni. «Papà, ho rivisto la mamma.» Capisco
che la notizia non lo sconvolge quando continua a lavorare come
prima, senza interrompersi. «Un paio di settimane fa è venuta a
cercarmi in negozio, e io l'ho mandata al diavolo. Mi ha lasciato il
suo indirizzo, e appena mi sono calmata sono andata a trovarla io. Fa
l'arredatrice d'interni, ha uno studio in centro. Ci siamo prese un
caffè, e abbiamo parlato. E... beh, credo che dovresti sederti,
adesso, perché mi ha detto...»
«...che hai un fratello»
conclude lui, lasciando perdere il lavoro e alzandosi in piedi.
«Tu come lo sai?»
«Me l'ha detto lei. Poco
dopo Capodanno è passata di qui. Anche noi siamo andati a prendere
un caffè e abbiamo parlato. E tra le cose che mi ha detto... beh, ha
detto di essersi risposata e di aver avuto un altro bambino.»
«Perché
non mi hai detto niente?» Se questa confessione provenisse da
qualunque altra persona avrei già girato i tacchi e me ne sarei
andata sbattendo la porta, ma trattandosi di mio padre so
che la sua omissione nasconde una ragione ben precisa. O almeno, deve
essere così, altrimenti anche la mia ultima certezza rischia di
dissolversi come neve al sole. «Sono impazzita per due settimane
perché non sapevo con chi confidarmi, e ora... perché non me lo hai
detto?» In qualunque altro caso sarei già furente, ma so che lui mi
darà una spiegazione, perciò mantengo la calma e aspetto.
Si pulisce le mani con uno
straccio, evitando di guardarmi negli occhi. «Perché mi ha chiesto
di non farlo, e io... a lei non sono mai riuscito a negare nulla. Non
sono riuscito a negarle nemmeno il divorzio, figuriamoci.»
«Perché è venuta da te?»
«Perché voleva chiedermi
un consiglio. Voleva sapere se tornando nella tua vita ti avrebbe
sconvolta, e se... se saresti riuscita a perdonarle quello che ti ha
fatto. Il senso più o meno era quello.»
«E tu che cosa le hai
risposto?»
«Le ho detto che ormai la
vita te l'aveva già sconvolta, quindi non avrebbe fatto tutta questa
differenza tornare o meno. Ma dalla tua espressione, deduco di aver
avuto torto.»
«Non
si può negare che mi abbia sorpreso, certo. Una passa quindici anni
pensando che sua madre l'abbia dimenticata, e poi all'improvviso la
vede tornare e sente... certe
cose.
Non dirmi che non avrebbe sconvolto la persona più stabile del
mondo.» Mi passo la lingua sulle labbra, guardandomi attorno. «Per
un po' l'ho ascoltata, e per un istante ho anche pensato di poter
riallacciare i ponti con lei... però poi mi ha detto del bambino, e
io l'ho mandata al diavolo. Non partire in quarta con la predica,
perché so di aver esagerato. Mi hai sempre insegnato che non si
devono giudicare le persone per quello che hanno fatto, o per gli
errori che hanno commesso, però... non lo so, ho sentito montarmi
dentro una gran rabbia, e... ho dovuto
farlo. Dovevo sfogarmi, in qualche modo.»
Si mette di nuovo in
ginocchio, ricominciando a lavorare. «Non ho intenzione di farti una
predica, Daria. Sei cresciuta per sorbirti una ramanzina dal tuo
vecchio. La vita è tua, quindi sono tue anche le decisioni. E
comunque non mi sento in grado di giudicarti. Ti ho insegnato a
rispettare gli altri e le loro scelte, ma ti ho insegnato anche a
pensare con la tua testa e ad esternare le tue emozioni, quindi...»
«Quindi mi stai dicendo
che ho fatto bene a mandarla al diavolo?»
«No, non sto dicendo che
hai fatto bene a mandarla al diavolo. Resta comunque tua madre.»
«Non mi sembra fosse
accanto a me mentre crescevo e affrontavo le dure prove della vita»
rispondo in tono sarcastico. «Non mi sembra che fosse lei quella che
mi curava quando stavo male, o quella che mi spiegava da dove
arrivano i bambini. Una madre non dovrebbe essere quella che ti sta
accanto e ti aiuta a crescere?»
«Va bene, diciamo che da
questo punto di vista è stata un po' carente, ma non puoi negare di
doverle molto. Non saresti al mondo, se non fosse per lei.» Non c'è
traccia di acredine nelle sue parole, eppure le sento colpirmi con la
stessa forza di una palla da demolizione. «Non ti sto sgridando,
Daria» ripete, mentre mi sposto lungo la parete del laboratorio,
fingendo di osservare alcuni mobili, ma in realtà desiderando di
farmi piccola piccola ed essere inghiottita dal pavimento.
«Mi sento uno schifo»
sussurro infine, fermandomi davanti ad un vecchio specchio da parete,
contornato da una splendida cornice resa opaca dal tempo. «Continuo
a ripetermi che chiunque avrebbe reagito come me, ma allo stesso
tempo mi sento... non lo so, in colpa. Come se in fondo non lo
meritasse.»
«Benvenuta nel mondo degli
adulti» sorride lui. «Sai, quando avevo l'età di tua sorella non
vedevo l'ora di crescere, perché credevo che gli adulti non
sbagliassero mai. Poi sono cresciuto, e ho capito che gli adulti
sbagliano esattamente come tutti gli altri. La sola differenza è che
quando sei adulto sei praticamente obbligato ad assumerti le
tue responsabilità e affrontare le conseguenze dei tuoi
comportamenti e delle tue scelte. Il fatto che tu ti senta in colpa
per come ti sei comportata con tua madre mi fa piacere, in un certo
senso, perché significa che sei una persona matura che si rende
conto dei propri errori. E questo, nella mia non modesta
opinione, significa che come padre non sono stato un totale
disastro.»
Fisso ancora per qualche
secondo il mio riflesso nello specchio, rendendomi conto che somiglio
davvero moltissimo a mia madre, ma che anche da mio padre ho preso
qualcosa – qualcosa che però mi dimentico sempre di notare, presa
come sono a riconoscermi sempre e comunque in lei. «Che cosa
hai provato quando se n'è andata? Come te l'ha detto?»
Alza per un istante lo
sguardo, poi lo riabbassa sulla gamba del tavolo che sta levigando.
«Sapevo che non era soddisfatta di quello che avevamo. Non so
spiegarti il perché, solo... quando la persona che ami non è felice
lo senti, tutto qui. La conoscevo abbastanza da sapere che non
sarebbe bastato darle il mondo per cambiare quella condizione. Così,
quando mi disse che sentiva il bisogno di andare per la sua strada,
io non opposi resistenza. Non ho combattuto per tenerla con me,
perché sapevo che andare via l'avrebbe fatta stare meglio. E io
volevo soltanto il suo bene.» Si alza, appoggia le mani sul ripiano
del tavolo e alza di nuovo lo sguardo su di me. «In realtà, credevo
che sarebbe tornata. Non era la prima volta che ci lasciavamo, e...
beh, prima era sempre tornata.» Notando la mia espressione confusa,
si sposta verso il bancone dove tiene tutti i suoi attrezzi, fingendo
di cercarne uno per avere la possibilità di voltarmi le spalle.
«Poche settimane prima del matrimonio, sparì per cinque giorni.
Quando si rifece viva, disse che si era fatta prendere dal panico, e
che aveva dovuto starsene sola per qualche giorno per capire
se aveva preso la decisione giusta o meno. Lì per lì la sua
affermazione mi sorprese, perché stavamo insieme già da un po', e
avevo sempre avuto l'impressione che fosse sicura di quello che
avevamo.»
«Beh, per quel che ne so
sono molte le donne che si fanno prendere dal panico poco prima del
matrimonio. Credo sia naturale. In fondo si tratta sempre di
scegliere definitivamente la persona con cui passare il resto della
tua vita. Insomma, di solito dovrebbe funzionare così.»
«Già... ma non è quella
l'unica volta che se n'è andata» sospira, voltandosi di nuovo verso
di me. «Successe di nuovo, un paio di settimane dopo la tua nascita.
Un mattino mi svegliai, e lei non c'era. La tua culla era accanto al
letto, e c'era un biglietto appoggiato sulla copertina. Diceva di
aver bisogno di tempo per riflettere. Tornò dopo quattro giorni,
scusandosi per essere fuggita a quel modo. Disse che gli eventi
l'avevano travolta, che temeva di non essere adatta a fare la madre,
che temeva di commettere degli sbagli... e io la perdonai. Te l'ho
detto, non sono mai riuscito a negarle nulla.»
«Perché non me lo hai mai
detto?» sussurro, rendendomi conto che è la seconda volta che gli
pongo questa domanda nel volgere di poco più di mezz'ora. «Avresti
dovuto dirmelo.»
«Cos'avrei dovuto dirti? E
quando avrei dovuto dirtelo? Quando mi chiese il divorzio? Avrei
dovuto prendere da parte una bambina di otto anni e dirle "Non
ti preoccupare, tua madre è emozionalmente instabile, ti ha già
abbandonata una volta, ma forse tornerà?"»
«No, ma...» inizio a
protestare, intimandomi il silenzio dopo un attimo. Mio padre ha
ragione: come avrebbe mai potuto darmi una simile notizia, a
qualunque età, senza causarmi un enorme trauma emozionale? La sua
rivelazione riesce a destabilizzarmi anche adesso che ho più di
ventitré anni e, si suppone, una psiche stabile – di sicuro non
avrei potuto prenderla meglio, in passato. «Ora capisco perché sono
sempre stata sentimentalmente incasinata. Deve essere genetico.»
«Non sei sentimentalmente
incasinata, Daria. Tu non hai mai voltato le spalle alle persone che
amavi.» Abbasso lo sguardo, sentendomi ancora peggio – se solo
sapesse che anch'io, come mia madre, ho ferito una persona
importante, forse non sarebbe altrettanto gentile con me.
*
Los Angeles, 18 gennaio
2014
Entro
in casa poco dopo le dieci di sera, e la prima cosa che faccio è
prendere un respiro profondo, lasciando che l'odore di casa
penetri fino in fondo ai miei polmoni, donandomi quella tranquillità
che non avrei mai potuto provare in giro per il mondo. Appoggio il
borsone a terra, di fianco al divano, e non appena mi richiudo la
porta alle spalle sento abbaiare. Dalla stanza accanto arriva di
corsa Bruce, la lingua penzoloni e la cosa scodinzolante. Cado subito
in ginocchio per rispondere alle sue manifestazioni d'affetto, e nel
frattempo mia madre esce dalla cucina, pulendosi le mani con uno
strofinaccio. «Finalmente! Non vedevo l'ora che arrivassi. Non
riuscivo più a tenerlo calmo.»
Mi
alzo, vincendo le resistenze di Bruce, che mi vorrebbe tutto per sé,
e abbraccio mia madre come se non la vedessi da un paio di secoli, e
non soltanto da un paio di settimane. «Ciao, mamma. Ma che ci fai
qui?»
«Cosa
credevi, che Jared non mi avrebbe avvertito? Mi ha chiamata nel primo
pomeriggio, così ho avuto il tempo di farti un po' di spesa e
cucinarti qualcosa. Chissà come mangiate, con i ritmi che avete...»
Mi allontana un po', scrutandomi come se stesse cercando di appendere
un quadro alla parete. «Comunque non è ancora pronto, hai il tempo
di farti una doccia e metterti comodo.»
«Veramente
non ho molto appetito. Pensavo di fare una doccia e mettermi a
letto.»
«E
lasceresti cenare tua madre sola come un cane? Anzi, con
un cane?» Mi rivolge una delle espressioni più severe del suo
repertorio, e comprendo di non avere scelta. «Forza, sistemati e poi
torna qui. Così mi racconti qualcosa del Messico e del Brasile.»
*
Torino, 18 gennaio 2014
Tornato
a casa, dopo una lunga doccia calda che lo aiuta a distendere i
muscoli e a cancellare un po' di stanchezza, Marco si relega in un
angolo del trilocale che sovrasta la libreria, e che affitta da
quando ha deciso di aprire quel tipo di attività. Riordina una parte
delle carte che occupano la scrivania, divide le bollette in base
alla scadenza, aggiorna i registri contabili e ricontrolla gli ordini
per i fornitori, poi si dedica alle buste paga – non che portino
molto lavoro, visto che ormai c'è da preparare soltanto quella di
Daria. Sa che dovrebbe concentrarsi sul lavoro, perché con le
questioni di soldi non si è mai abbastanza tranquilli, ma quando
legge il suo nome in cima al foglio gli è inevitabile perdersi nel
ricordo della notte appena trascorsa – le mani che si sfiorano, i
respiri affannosi, i battiti accelerati, i baci appassionati, la
pelle bianca di Daria arrossata dal contatto con la sua barba, quel
tatuaggio di cui non ha osato chiedere il significato, ma che ha
intuito essere importante, impresso come un marchio su un corpo che
ha desiderato per anni,
e che ora finalmente può essere suo.
Eppure,
questo Marco lo sente,
c'è qualcosa che Daria non gli ha detto – qualcosa che le brucia
ancora dentro, qualcosa che arde come un fuoco e le impedisce di
lasciarsi andare completamente.
Avrebbe voluto chiederle quanto tempo sia passato da quando ha
spezzato il cuore a quel ragazzo con cui diceva di stare così bene,
ma non se l'è sentita di turbare oltre la sua serenità. Avrebbe
voluto chiederle quanto tempo sia passato da quello strappo, e se non
sia rimasta ferita anche lei nell'andarsene, e soprattutto se la
ferita abbia avuto il tempo di cicatrizzare. Per quanto gli piaccia
cullarsi nell'idea di essere l'unico,
ha vissuto abbastanza a lungo da sapere che certi amori te li puoi
togliere dalla vista, puoi strapparli via dalle cornici, ma non puoi
sradicarli dal cuore.
*
Los Angeles, 18 gennaio
2014
Constance
mangia lentamente, tenendo un occhio sul piatto e l'altro sul figlio
maggiore, che muove il cucchiaio alla sua stessa velocità, come se
l'idea di nutrirsi fosse una costrizione, e non un atto naturale. Ha
pensato per tutto il pomeriggio alle parole che avrebbe detto una
volta rimasta sola con lui, aiutata da ciò che Jared ha ritenuto
necessario farle sapere, eppure ora che si trovano insieme tutte le
parole sembrano superflue, inutili, a tratti quasi banali.
«Allora» dice infine, sperando di risollevare un po' l'umore della
cena, «questi ultimi concerti sono andati bene, mi sembra. Ho
curiosato un po' sul profilo Instagram di tuo fratello» ammette,
riuscendo a strappargli un breve sorriso.
«Sì,
da quel punto di vista è molto più attivo di me. A volte non so
davvero dove trovi le energie per fare tutto quello che fa. Una
persona normale scoppierebbe, raggiunto un certo livello.»
«Jay
ha sempre avuto una dose spropositata di energie, fin da bambino»
commenta lei. «A volte mi sorprendo a chiedermi se sia davvero
uscito da me» scherza.
«Credo
sia un dubbio solo tuo. Chiunque vi vedesse insieme non potrebbe
pensare che non siate parenti, siete praticamente identici. Anche se
tu sei molto più carina di lui» aggiunge dopo un attimo di
silenzio.
«Grazie
per il complimento. Ad una vecchia signora fa bene sentire questo
genere di cose, di tanto in tanto.» Distoglie per un attimo lo
sguardo da Shannon e lo dirige verso Bruce, che sta mangiando con
molto più gusto del suo padrone. «Lo sai, non mi è mai piaciuto
fare la mamma invadente, ma... c'è qualcosa di cui mi vorresti
parlare?»
Shannon
appoggia la forchetta, spinge un po' in avanti il piatto e incrocia
le braccia sul tavolo, senza riuscire a guardarla negli occhi. «Jay
non si è limitato a dirti che stavo per tornare a casa, vero?»
«No»
ammette lei, sapendo che mentire sarebbe inutile. In quella famiglia
si conoscono bene, forse persino troppo,
e ognuno dei tre riuscirebbe a smascherare le bugie degli altri anche
al buio, bendato e con le mani legate dietro la schiena. «Mi ha
detto che sei piuttosto giù di morale, e che ieri sera...»
«...mi
sono ubriacato, ho fatto baldoria con una brasiliana sconosciuta e
oggi non mi ricordo niente.»
«Non
con gli stessi termini, ma l'idea era quella. Mi ha anche parlato di
una canzone che ha scritto e che tu avresti strappato.»
«Risparmiati
il condizionale, perché l'ho fatto. È vero. Lui ha scritto una
canzone e io ho strappato lo spartito. Ero arrabbiato, non sono
riuscito a controllarmi. So che non è una scusante, ma... ho perso
il controllo, tutto qui. Me ne sono pentito subito dopo, ma non sono
riuscito a tornare indietro a chiedere scusa. Perciò ho preso un
taxi, sono andato in un locale, e il resto lo sai. Comunque gli ho
chiesto scusa, poco prima di partire. E lui ha detto di avermi
perdonato, perciò credo che la questione sia chiusa.»
«Shannon,
probabilmente risponderai che non sono affari miei, però... io non
credo che la questione sia chiusa. Va bene, hai sbagliato e ti sei
scusato, però non hai risolto i problemi che stanno alla radice del
tuo comportamento. Non era la prima volta che tuo fratello scriveva
una canzone, dunque non è l'atto in sé ad averti sconvolto. Che
cosa ti ha fatto perdere il
controllo al punto di distruggere lo spartito?»
Shannon
vorrebbe rispondere che no, non sono affari suoi, né suoi né di
nessun altro, ma d'altra parte è sua madre quella seduta all'altro
capo del tavolo, e con lei ha sempre potuto parlare di ogni cosa. «Ha
scritto una canzone su di me. Su Daria
e me, per essere precisi. Ha scritto una canzone che parla della
nostra storia, dal momento in cui ci siamo conosciuti fino a... fino
a oltre la fine della
nostra storia. Quello che più mi ha fatto incazzare è il fatto che
l'abbia scritta nonostante io stia cercando di dimenticare.
Insomma, lui... lui sapeva
che io non volevo più pensare a quella storia, eppure ha deciso
ugualmente di scriverla, e... ora conosco le sue ragioni, e capisco
che non lo ha fatto per farmi del male. Ferirmi è l'ultimo dei suoi
obiettivi.»
«Shannon»
sussurra Constance, guardandolo con aria confusa, «ma perché vuoi
dimenticare?»
«Dimenticare
non fa male» risponde lui, restituendo lo sguardo. «Almeno finché
non ti ricordi quello che stai cercando di dimenticare.»
*
Torino, 18 gennaio 2014
Daria
non è serena, anche un cieco lo capirebbe. Danilo sa di non essere
mai stato un asso nel capire le persone – con le donne, poi, non ne
parliamo –, ma ci sono segnali che nessun padre riuscirebbe ad
ignorare. Daria nasconde qualcosa, un tarlo che la divora
dall'interno e cancella dal suo volto ogni traccia della ragazzina
serena che è stata – e no, Danilo sa che non è soltanto la storia
di Elisa che si è rifatta viva dopo quindici anni. C'è qualcosa di
più, ci deve essere per forza – qualcosa di cui non ha intenzione
di parlare con lui, forse pensando che lui non capirebbe. È quasi
automatico pensare che si tratti di questioni di cuore, perché
quelle rappresentano l'unico argomento cui non hanno mai osato
avvicinarsi – di quelle ha sempre e solo parlato con la zia, o con
la nonna, oppure con Alice. Perché lei e Alice si raccontano tutto,
lo sa. Il ricordo di certe lunghissime telefonate – e delle
conseguenti lunghissime
bollette – è ancora ben scolpito nella sua memoria, e sa che se
volesse sapere qualcosa è verso Alice che dovrebbe rivolgere le sue
attenzioni. Certo, non è sicuro che Alice vuoterebbe il sacco,
perché sa quanto sono leali l'una verso l'altra, come due vere
sorelle.
Mentre la guarda indossare
il cappotto, prendere la borsa e uscire, lasciandolo di nuovo solo,
Danilo ripensa a quel biglietto ferroviario con la data sbagliata, e
si chiede se quel mistero non abbia a che fare con l'umore di sua
figlia, che da quando è tornata da Parigi ha sempre l'aria un po'
distratta di chi abbia dimenticato da qualche parte un pezzo del
proprio cuore. Lascia perdere per un istante il proprio lavoro, e si
domanda se sarebbe opportuno bussare alla porta di Alice per capire
che cosa sia successo alla ragazza che conosceva.
*
Los Angeles, 18 gennaio
2014
«A
proposito, un paio d'ore prima che arrivassi è passato un fattorino»
mi informa mia madre, caricando la lavastoviglie. «Ha lasciato una
busta per te. La ricevuta l'ho firmata io. L'ho lasciata sul tavolino
nell'ingresso, dovrebbe essere ancora lì.»
«Strano,
non aspettavo posta» rispondo. Faccio spostare Bruce, che sonnecchia
sul mio ventre come se temesse di vedermi di nuovo scappare via, e mi
alzo dal divano, raggiungendo l'ingresso. Prendo la busta e me la
rigiro tra le mani un paio di volte, chiedendomi che cosa possa
contenere. Reca un timbro postale del Brasile e la scritta 'urgente',
e a dirla proprio tutta mi confonde non poco. Mi chiedo chi possa
avermi spedito qualcosa dal Brasile, soprattutto considerando che
sono stato lì fino all'ora di pranzo. Eppure il destinatario e
l'indirizzo sono chiari, e scritti con una grafia che mi ricorda
parecchio quella di Emma, il che è decisamente... «No, è
impossibile» sussurro, accantonando l'idea che mio fratello possa
avermi spedito qualcosa dal Brasile. No, è impossibile. Non può
aver avuto il tempo materiale di farlo, senza contare che dovrebbe
essergli costato una fortuna. Strappo la carta e ne tiro fuori tre
pezzi di carta, due dei quali somigliano moltissimo a biglietti
aerei. Leggo la destinazione, e per poco non mi viene un infarto. Poi
guardo il terzo foglietto, e riconosco immediatamente la grafia
spigolosa e affrettata di mio fratello.
Lentamente,
senza dire niente – mi domando se esistano parole per descrivere
quello che provo –, torno in cucina e mi lascio cadere su una
sedia, continuando a stringere la busta e il suo contenuto con
entrambe le mani. «Che cos'è? Brutte notizie?» mi domanda mia
madre, sciacquandosi le mani. «Shannon, che succede? Hai una faccia
più che sconvolta» aggiunge, voltandosi verso di me.
«Jared»
rispondo, ed è la sola cosa che riesca a dire.
Le
porgo il plico, che lei prende con mano sicura, evidentemente curiosa
di scoprire che cosa mi sconvolga tanto. «Non pensavo che
la posta aerea fosse tanto cara, ma per questa volta posso fare uno
strappo alla mia tirchieria. In fondo, si tratta di te. È un
biglietto aperto, puoi usarlo quando vuoi. Solo, ti prego, non fargli
fare la fine del mio spartito»
legge, sorridendo al pensiero di Jared che si dissangua per far sì
che la busta mi arrivi il prima possibile. Poi guarda i biglietti
aerei, legge la destinazione e si copre la bocca con la mano libera,
reprimendo appena in tempo un gridolino. «Quel ragazzo è
completamente fuori di testa» commenta. «Ti ha preso un biglietto
per l'Italia?»
«Non
per l'Italia»
rispondo, ritrovando improvvisamente un po' di voce. «Un biglietto
per Torino.»
*
Torino, 18 gennaio 2014
Dal
marciapiede opposto fisso le vetrine dello studio di mia madre,
respirando lentamente nell'aria fredda di un sabato pomeriggio
stranamente affollato di gente a spasso per la città. Respiro a
fondo, cercando il coraggio di attraversare la strada ed affrontare
di nuovo mia madre, sapendo che questa volta non potrò mandarla al
diavolo e andarmene di nuovo. Non posso fare avanti e indietro nella
sua vita, darle speranza e poi ricacciarla nell'oblio, perché
nessuno merita di essere preso e lasciato a questo modo. Questa volta
dovrò andare fino in fondo, ascoltare le sue ragioni, se possibile
comprenderle, e
soprattutto dovrò riuscire a farle capire quali siano i miei
sentimenti. Ma è difficile, terribilmente difficile.
Finalmente,
dopo quelli che forse sono dieci minuti, o forse quasi una
vita, attraverso la strada e mi
fiondo subito verso la porta, aprendola con una spinta decisa. Ho
appena il tempo di pulirmi gli stivali sullo zerbino, che subito il
mio respiro si blocca e il mio cervello si convince di essere preda
di una visione, perché mi sembra di vedere, nascosto dietro un libro
grande quasi il doppio di lui, la versione undicenne di Emanuele. Ma
sono più che sicura di non chiamarmi Marty McFly, di non possedere
una DeLorean e di non essere in grado di compiere viaggi nel tempo,
perciò il ragazzino occhialuto seduto in poltrona, raggomitolato
dietro un classico di Dickens, deve essere per forza Luca.
Il figlio di mia madre. Mio fratello.
«Buon
pomeriggio» esordisce, alzando la testa. «Ha bisogno di aiuto?»
«I-io...
io sto cercando Elisa Maresca, la... la...» Non so bene come
definirla: architetto? Arredatrice? Il capo? Di sicuro non posso
chiamarla mamma.
«Sì,
è mia mamma. È di là in ufficio, vado a chiamarla.» Detto fatto,
si alza e se ne va, lasciandomi sola con un cuore che va a mille
all'ora e il respiro ancora più corto della prima volta che mi sono
trovata davanti lei.
«Daria!»
esclama lei, raggiungendo l'ingresso, tallonata da lui, che la supera
e torna a sedersi in poltrona con il suo libro, come faceva spesso
Emanuele alla sua età. «Non... non mi aspettavo di vederti qui.»
«Sì,
è stata una... decisione improvvisa. Diciamo così» mormoro, senza
riuscire a staccare gli occhi da Luca, profondamente immerso nella
lettura. «Io... io speravo di poterti parlare. Ma se è un brutto
momento io... posso ripassare.»
«No,
assolutamente, devi rimanere» ribatte lei. «Possiamo andare di là,
nel mio studio. Luca, se hai bisogno di me sono nel mio studio con
Daria.»
«Va
bene. È stato un piacere conoscerti, Daria» risponde lui, puntando
su di me due occhi dannatamente identici
a quelli di mio fratello e di mia madre.
«A-anche
per me» replico, anche se non sono ancora sicura che lo sia stato.
Non era certo nei piani venire qui e trovarmi di fronte ad un clone
del ragazzino che ho visto crescere, e che dormiva nella stanza
accanto.
Mia
madre mi fa strada verso il studio, e la prima cosa che faccio una
volta chiusa la porta è appoggiare entrambe le mani allo schienale
di una poltroncina, respirando a fondo per impedirmi di svenire.
Chiudo gli occhi e conto fino a dieci, poi li riapro e mi rialzo, un
po' più calma di prima. «Posso offrirti qualcosa? Un caffè, un tè,
un po' d'acqua?» mi domanda mia madre, raggiungendo un angolo
attrezzato quanto il bar che di solito frequentiamo io e Alice.
«No,
sono a posto... o forse... magari un po' di tè?» Sono così confusa
da non capire nemmeno se abbia voglia di bere qualcosa oppure no. Mi
sfilo il cappotto e me lo ripiego tra le braccia, mentre lei inizia a
preparare la bevanda.
«Siediti,
non restare in piedi.» Obbedisco, conscia che in questo momento
potrebbero anche ordinarmi di lanciarmi giù dalla Mole, e io lo
farei senza lamentarmi. Appoggio il cappotto sul bracciolo e mi tengo
la borsa in grembo, sapendo di aver bisogno di stringere qualcosa tra
le mani per evitare di torturarmi le unghie, come faccio sempre
quando sono nervosa – e chi non sarebbe nervoso in un momento del
genere? «Sarò sincera: non mi aspettavo di rivederti, dopo quello
che è successo la scorsa settimana.»
«Nemmeno
io pensavo che mi sarei rifatta viva» rispondo. «Ma dovevo... non
potevo lasciare le cose come stavamo. Dovevo chiederti scusa per
quello che ti ho detto. Non meritavi che ti trattassi così male.»
«Me
lo meritavo, invece. Me lo meritavo eccome» replica, voltandosi per
un istante a guardarmi. «Ho passato così tanto tempo a pensare a
quello che ti avrei detto che... credo di aver dimenticato di pensare
a come ti saresti potuta sentire tu. Ho completamente ignorato quelle
che avrebbero potuto essere le tue reazioni.»
«Non
posso negare che sia stata una... sorpresa. Ero già abbastanza
sconvolta dal fatto di aver rivisto te, e quando mi hai parlato di
lui...»
«Non
sono mai stata brava con le parole» ammette. «Era tuo padre quello
diplomatico. In realtà è sempre stato un tipo piuttosto taciturno,
ma le rare volte in cui apriva bocca... beh, ha sempre saputo che
cosa dire e quando dirlo. È una dote da non sottovalutare.»
«Sì,
è una qualità importante. È stato un ottimo padre» aggiungo un
istante più tardi, senza comprenderne bene le ragioni. Forse non
avrei dovuto sottolineare il fatto che lui sia stato un genitore
presente, ma ormai
l'ho detto.
«Non
avevo dubbi che lo sarebbe stato. Non ho mai temuto per voi, sapevo
che sareste stati bene. Ha sempre avuto... non so, l'istinto?
Sapevo che non vi avrebbe mai fatto mancare nulla. Credo... credo di
aver sempre pensato che sarebbe stato un genitore migliore di me.
Insomma, credo di aver sempre pensato che...»
«...che
non ci fosse bisogno di te?» Vorrei mordermi la lingua all'istante.
Oppure avere una DeLorean in grado di viaggiare nel tempo. Sembra che
la presenza di mia madre tiri fuori il peggio di me, e la cosa non mi
piace per niente. «Scusa. Non volevo essere così stronza.»
«Mi
fa piacere, invece. In fondo, anch'io sono stata una stronza, ed
essere trattata come tale è quello che merito. Che ne pensi di
Luca?» mi domanda dopo un momento di silenzio, appoggiando sulla
scrivania di fronte a me una tazza fumante.
Mi
stringo nelle spalle, mentre aggiungo una bustina di zucchero al tè
e mescolo. «Penso che mi è sembrato di tornare indietro nel tempo
di dieci anni» sussurro. «Lui è... mi è sembrato di vedere
Emanuele. Si somigliano moltissimo, solo... solo i capelli sono
diversi. Luca li ha lisci, Emanuele invece è riccio. Però non gli
piacciono, li tiene sempre cortissimi. Dice che i ricci gli danno
l'aria da intellettuale.»
«So
che ha iniziato l'università» commenta, sedendosi sulla poltroncina
accanto. «Ho visto tuo padre, un paio di settimane fa. Mi ha parlato
moltissimo di tutti voi, di quello che fate, di come siete...»
Giocherella un po' con la bustina che galleggia nella sua tazza,
senza dire niente. «Mi ha detto che Francesca studia al liceo
artistico, e che ha un ragazzo. È un tipo a posto?»
«Sì,
è un bravo ragazzo. Stanno insieme da quasi un anno, ma lei non ci
ha detto niente fino a novembre. Comunque non la distoglie dallo
studio. L'arte è tutta la sua vita, è bravissima nel disegno.»
«Mi
ha detto che tu invece non hai voluto andare all'università, che hai
preferito iniziare a lavorare. È così che ho scoperto della
libreria. Non avevo idea di come trovarti, a meno di appostarmi sotto
casa vostra.»
«Non
mi avresti trovata. Mi sono trasferita all'inizio di novembre. Era
ora di andare a vivere da sola.»
«Continuo
a dimenticare che non hai più otto anni.»
«No,
infatti. Non ho più otto anni, Emanuele non ne ha più quattro e
Francesca non è più una neonata. Siamo cresciuti. Siamo cambiati.»
«Sarebbe
stupido pensare che non lo siate» osserva. «So quanti anni sono
passati. Ti sembrerà strano sentirmelo dire, ma ho contato ogni
singolo giorno da quando me ne sono andata.»
«Papà
mi ha raccontato tutto»
replico. «Di quando sei scappata, qualche giorno prima del
matrimonio. E di quando te ne sei andata, poco dopo la mia nascita.
Perché l'ultima volta non sei tornata?»
«Non
ho una spiegazione decente, purtroppo. Potrei usare milioni di frasi,
ma temo che nessuna ti basterebbe. A volte è difficile chiedere
scusa senza ricorrere ad un cliché. E se somigli anche solo un po' a
tuo padre, scommetto che i cliché li detesti.»
«Detesto
chi li usa per evitarsi la fatica di esprimere un pensiero un po' più
complesso» specifico. «Ma so che a volte non esiste davvero un
altro modo per esprimere quello che si ha dentro.»
«Non
ero felice» confessa infine. «Oh, tuo padre era un marito stupendo,
e adoravo tutti voi,
però... non lo so, non riuscivo a sentirmi completa.
Ti è mai successo di avere tutto ciò che desideri, ma di non
riuscire a gioirne?» Non rispondo, ma capisco perfettamente ciò che
sta cercando di comunicarmi. «Avere una famiglia è sempre stato uno
dei miei più grandi desideri, però non riuscivo ad arrendermi
all'idea di non aver mai tentato altre strade. C'erano delle cose che
avrei voluto fare, dei posti che avrei voluto vedere, e... e sentivo
che se non avessi ceduto a quei desideri non avrei mai potuto
sentirmi in pace con me stessa. Mi sono svegliata, una mattina, e
avevo trentadue anni. Facevo la casalinga e avevo tre bambini. Facevo
la spesa, tenevo in ordine la casa, preparavo la cena e vi portavo a
scuola, ma non riuscivo a credere che la vita fosse tutta lì. Credo
di essere sempre stata una persona molto egoista.»
«Credo
che tutti siamo un po' egoisti, in fondo.»
«Non
c'è nulla di male nell'essere egoisti, se la cosa non ferisce le
persone che hai intorno. Ma io vi ho feriti, lo so. Ho ferito tuo
padre, ho ferito tuo fratello e tua sorella, e soprattutto ho ferito
te. Mi rendo conto che probabilmente Emanuele e Francesca hanno
pochissimi ricordi di me, ma tu... non posso credere di non averti
rovinato l'infanzia, lasciandoti.»
Vorrei
rispondere che non è solo l'infanzia che mi ha frantumato, ma decido
di tenere per me questa ennesima cattiveria. «Dove sei stata in
tutti questi anni?»
«Mi
sono iscritta all'università, subito dopo essermene andata»
risponde. «Ho ripreso da dove mi ero interrotta, e poi sono stata
negli Stati Uniti per seguire dei corsi di architettura. Ho lavorato
per alcuni studi di arredamento a New York e Boston, e quando sono
tornata qui ho aperto il mio studio. All'inizio è stato difficile,
ma ora le cose si sono sistemate. Ho un buon giro d'affari, e non me
la passo male.»
«E...
quando ti sei sposata?»
«Alla
fine del 2002, quattro anni dopo aver lasciato tuo padre. Lui era un
mio ex docente, aveva dieci anni più di me. Un uomo brillante,
intelligente, che credeva nelle mie possibilità e non faceva che
spingermi a realizzare i miei progetti.»
«Il
contrario di papà, suppongo.»
«Anche
tuo padre mi ha sempre supportata in tutti i miei progetti» mi
corregge. «Il fatto che io mi sia creata una carriera soltanto dopo
il divorzio non significa che lui mi tarpasse le ali. Anzi, tutto il
contrario. Ancora oggi non riesco a capire perché sia riuscita a
seguire il mio cuore soltanto quando sono rimasta sola.»
«E...
tuo marito sa di noi?»
«No.
Non gli ho mai detto nulla. Gli ho detto che ero divorziata, ma non
gli ho mai detto di avere già tre figli. Avrebbe pensato che ero un
mostro, e io non volevo perderlo. Tenevo moltissimo a lui.»
Improvvisamente,
mi accorgo che ha sempre parlato di lui al passato, e mi viene voglia
di sapere il perché. «Perché parli di lui al passato?»
«Perché...
lui è morto. Sarà un anno alla fine di febbraio. Un incidente
d'auto, non ha avuto scampo. Non aveva ancora compiuto sessant'anni.»
D'istinto mi volto verso la porta, pensando al ragazzino seduto
nell'ingresso a leggere Oliver Twist,
e non posso impedirmi di provare per lui una profonda pena – perché
è vero, anch'io ho perso un genitore, ma ho ancora la possibilità
di tentare un riavvicinamento, mentre lui non potrà mai. «L'ha
superata abbastanza bene, tutto considerato. Luca adorava Giovanni,
lo prendeva a modello per ogni singola cosa» osserva, notando la
direzione del mio sguardo, mentre i suoi occhi si fanno lucidi di
lacrime. «La sua è un'età molto critica, ma lui... beh, è un
bambino molto intelligente, per la sua età. A scuola non ha vita
facile, spesso i compagni lo prendono in giro perché gli piace
studiare e... beh, lo vedi. Sfrutta ogni momento libero per leggere.»
«Come
Emanuele» sussurro.
«Come
te» aggiunge lei, sorridendo di nuovo. «Sono mesi che penso ad un
modo per contattarti, ma... non riuscivo a decidermi. Mi sembrava
assurdo ricomparire dopo tanto tempo e avanzare la pretesa di essere
riaccolta nella vostra vita, o addirittura la pretesa di... farvi
accogliere lui.» Si
interrompe di nuovo, ma comprendendo che ha altro da dire decido di
tacere. «Giovanni aveva perso i suoi genitori già da molto tempo, e
anche i miei sono morti.»
«I
nonni sono morti?» ripeto, senza riuscire a credere alle mie
orecchie.
«Il
nonno è morto nel 2000. Ha avuto un infarto. La nonna è mancata tre
anni dopo. Un tumore al pancreas, se n'è andata in fretta. Mio
fratello ormai vive in Francia, si è sposato e ha tre bambini. Viene
a trovarci una volta l'anno. Ormai la sua vita è laggiù, con Torino
non ha più legami. Siamo rimasti soltanto io e Luca, e... a volte
credo che questo non gli basti. Io posso sopportare la solitudine, in
un certo senso me la merito, ma lui... non posso sopportare l'idea
che possa succedermi qualcosa e...» Nasconde il viso tra le mani, e
capisco che la sua disperazione è sincera. È una paura che io non
ho mai provato, perché sono certa che se succedesse qualcosa ad uno
qualunque di noi, ci sarebbero sempre almeno tre persone pronte a
correre in soccorso. «Mi rendo conto che forse è tardi, ma io
vorrei... vorrei che lo conosceste. Che tutti
lo conosceste. Non voglio essere perdonata, non voglio che
ricominciate a chiamarmi mamma,
o che mi invitiate alle feste di famiglia... ma vorrei almeno che
provaste a conoscere lui. A volergli bene, se ci riuscite. Voglio
disperatamente che abbia qualcuno su cui contare.»
Apro e richiudo la bocca un
paio di volte, senza emettere suono. La risposta più logica sarebbe
mandarla di nuovo al diavolo, uscire, tornare a casa e dimenticare di
averle parlato, ma non posso mettere a tacere il cuore di madre che
ho sviluppato in mancanza di una madre vera – non posso negare a
quel bambino, più simile a me di quanto avrei mai potuto immaginare,
la certezza di avere una persona pronta a tendergli la mano.
1Questi
eravamo noi una volta. Stava piovendo, e i miei erano usciti in
macchina. Ai tuoi cos'è successo? La notte ti sento piangere. Sogni
i tuoi genitori? È per questo che distruggi tutto, e mi spingi? |
Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da Lilo
nel film d'animazione Lilo
& Stitch
(2002).
|
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Capitolo 11 *** 11 | Se nessuno ti vede, allora nessuno sa. ***
La lunga strada verso casa - 1
Ho
pensato a lungo ad un'introduzione degna di questo nome, ma la
verità è che questa volta non credo di avere le parole
giuste per introdurre ciò che state per leggere. Dunque, vi
auguro una buona lettura e mi eclisso.
A presto,
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo undicesimo
Se nessuno ti vede,
allora nessuno sa.1
Torino, 24 gennaio 2014
Sono
passati sei giorni da quando mi sono rinchiusa con mia madre nel suo
studio – sei giorni da quando mi ha chiesto di far entrare nella
mia vita Luca, un fratello di undici anni di cui fino ad un paio di
settimane fa non sospettavo nemmeno l'esistenza. Sono stati i sei
giorni più lunghi della mia vita – una settimana durante la quale
ho visitato lo studio del dottor Martini per quattro volte,
stordendolo più del normale con i miei dubbi e le mie continue
richieste di consigli. Non ho parlato con nessun altro – né con
mio padre, né con Alice, né con Marco –, pensando di poter
risolvere questa cosa da sola. In fondo, è a me che mia madre si è
rivolta, e anche se non lo ha detto chiaramente so che il mio
parere è quello che conta di più, e che non parlerà mai più della
questione, a meno di non avere il mio benestare.
Ci sono momenti in cui
vorrei tornare da lei e dirle che non può farmi questo, che non può
farsi viva dopo quindici anni e mettermi sulle spalle il peso di una
decisione così importante, ma d'altro canto sento di non potermi
tirare indietro: sono adulta e mi sono sempre vantata di essere una
persona matura, e rifiutare questa responsabilità andrebbe contro
quello che ho sempre pensato di me stessa – e se c'è una cosa che
non sono pronta a fare, è rinnegare ciò che sono.
Perciò
declino l'offerta di Marco di passare il venerdì sera con lui, e
appena uscita dal lavoro vado dritta allo studio di mia madre, sicura
che sia ancora lì. Mi trovo di fronte Anna, la sua assistente, che
evidentemente si sta preparando per uscire. «Buonasera»
mi saluta con aria sorpresa, forse pensando di aver dimenticato un
appuntamento.
«Buonasera. Ho chiamato
prima la signora Maresca, mi sta aspettando» rispondo, togliendomi
il cappello.
Per
fortuna arriva mia madre a salvarmi dall'imbarazzo di spiegare la mia
presenza. «Daria! Ciao, come stai? Anna, puoi andare. Qui me la
sbrigo io.» Vorrei rispondere a quel 'me la sbrigo' con una bella
imprecazione, ma mi trattengo in tempo. Salutiamo entrambe Anna, e
finché non siamo certe di essere sole non diciamo un'altra parola.
«Sei pronta? Possiamo andare?» Annuisco, rimettendomi il cappello.
Aspetto che infili il cappotto e spenga le luci, e la precedo fuori
dallo studio.
La vera ragione per cui ho
rifiutato di uscire con Marco è che stasera ho accettato un invito a
cena a casa di mia madre – cena durante la quale diremo a Luca la
verità.
*
Los Angeles, 24 gennaio
2014
I
miei primi sei giorni a Los Angeles sono passati in maniera piuttosto
monotona: ho dormito molto, mi sono alzato tardi, ho portato Bruce a
fare lunghe corse in spiaggia, mi sono chiuso nel mio studio a
picchiare sui tamburi come un ossesso, ho ignorato le e-mail di mio
fratello e ho risposto alle telefonate di mia madre soltanto per
evitare che piombasse qui ringhiandomi contro di essere un figlio
degenere. I biglietti aerei sono sempre rimasti sul tavolo della
cucina, in piena vista, eppure stranamente lontani,
come se non li sentissi veramente miei, come se in un certo senso
percepissi la loro presenza, ma rifiutassi categoricamente la loro
esistenza.
Sei
giorni dopo il mio ritorno, una scampanellata interrompe le mie
sessioni di prova. Dapprima penso sia mia madre, ma quando apro la
porta mi ritrovo davanti la faccia decisamente arrabbiata
di Wayne. «Brutto stronzo, me lo potevi anche dire che sei tornato!
Sparisci per quasi un mese e devo saperlo dall'account Instagram di
Jared che avete interrotto il tour» mi aggredisce, entrando senza
aspettare un mio cenno di permesso. «Così che faccio? Chiamo tuo
fratello per sapere perché non rispondi ai messaggi, e lui mi dice
che sei qui da una
settimana! Una
settimana,
capisci? Uno pensa di avere un migliore amico, si confida con lui a
proposito di qualunque cosa, gli chiede di fare da padrino al figlio,
e quello nemmeno si degna di rispondergli al telefono!»
«Scusa,
Wayne, riconosco di essere stato uno stronzo» replico, chiudendo la
porta. «Sono tornato la sera del diciotto, ma non ero esattamente in
vena di
vedere gente. Avevo bisogno di starmene un po' da solo.»
«Sì, tuo fratello mi ha
detto tutto.»
«Cosa?» Ho sempre saputo
che mio fratello ha la lingua lunga, quando si tratta degli affari
altrui, ma mi auguravo che almeno nei confronti di suo fratello
riuscisse a mantenere un minimo di decenza.
«Mi ha detto che non ti
sei sentito bene, mentre eri in Brasile, e che hai preferito saltare
l'ultimo concerto e gli ultimi impegni. Cavolo, quando ho visto che
non rispondevi al telefono ho pensato fossi morto! Oh, ciao, bello»
aggiunge, salutando Bruce, che gli si è avvicinato e ha iniziato ad
annusarlo. «No, oggi niente Ryder. Oggi Ashley è a casa, tocca a
lei badare al terremoto» spiega, e in tutta sincerità non riesco a
capire se stia parlando con me oppure con il mio cane. «Allora, mi
spieghi che è successo? L'unica volta che ti ho visto saltare un
concerto è stato quando ti sei preso l'influenza. Avevi la febbre a
quaranta e non riuscivi a stare seduto sul seggiolino.»
«Ti va un caffè?» gli
domando, spostandomi verso la cucina.
«Se mi offri un caffè,
vuol dire che la cosa andrà per le lunghe» osserva. «Devo chiedere
ad Ashley di non aspettarmi per cena?» Mi segue, e subito nota i
biglietti. «Vai da qualche... oh, Italia! No, aspetta: Italia? Vai
in Italia?»
«Mio
fratello
vuole che vada in Italia» specifico, riempiendo due tazze. Gliene
porgo una. «Credo sia convinto che li userò.»
«E tu non hai intenzione
di farlo?»
«Tu lo faresti?»
«Beh, se a destinazione mi
aspettasse una bella ragazzina di cui sono pazzamente innamorato,
forse ci farei un pensierino.»
«Non
sono pazzamente
innamorato di
nessuna bella ragazzina. Ho deciso di dimenticarla.»
«Questo perché sei un
idiota.»
«Perché
non vi entra in testa che è stata lei
a chiedermi di starle lontano?» ribatto, iniziando ad alterarmi.
Sembra che intorno a me tutti siano convinti di possedere il
consiglio giusto, senza preoccuparsi minimamente di quali potrebbero
essere le mie idee al riguardo.
«Forse perché tu non hai
mai fatto ciò che gli altri ti imponevano di fare?» replica. «A
parte tua madre. Lei potrebbe ordinarti di gettarti nel Grand Canyon,
e non proveresti nemmeno a protestare. Senti, Shannon» riprende,
facendosi serio, «so che sei un uomo adulto e che non sopporti che
la gente venga a dirti come devi vivere la tua vita. È nella natura
di ogni uomo lottare per conservare la propria indipendenza, e se tu
fossi una di quelle persone che si fanno comandare a bacchetta dagli
altri ti direi di darti una svegliata, però...»
«Però?» lo incalzo,
rimanendo ancorato al bancone della cucina, mentre lui si siede a
tavola e tiene lo sguardo fisso sulla busta con i biglietti.
«Però
le persone che ti vogliono bene si accorgono che non stai bene, che
non sei... in
pace.
Ed è nella natura di ogni uomo tentare il tutto per tutto per far
stare meglio le persone che si amano. Se Jared ti ha dato questi
biglietti, forse è perché crede che andare in Italia e affrontare
la questione faccia a faccia ti farebbe stare meglio. Insomma, se lei
ti sbatte la porta in faccia non hai scelta, la chiudi fuori dalla
tua vita e basta. Ma se esiste anche una piccolissima possibilità
che lei ti riprenda...»
«Non
sono stato io a lasciarla sola in una stanza d'albergo con una
lettera e un libro. Non sono io quello che deve implorare di essere
ripreso.»
«Ma nemmeno lei dovrebbe
implorare, dico bene?» mi domanda con un sorriso che conosco bene.
«Va bene, va bene, riformuliamo la frase. Lei ti ha lasciato solo,
spezzandoti il cuore. Ma sono passati due mesi. Chi ti dice che in
tutto questo tempo lei non abbia cambiato idea? Forse anche tu le
manchi quanto lei manca a te.»
«Chi dice che mi manca?»
«Shannon, la tua intera
persona urla 'Mi manca la mia bella ragazzina italiana'. Altrimenti
non conserveresti ancora la sua lettera d'addio, e staresti già
occupando il tuo tempo libero saltando da un letto all'altro in giro
per la città.»
Mi brucia doverlo
ammettere, ma Wayne ha ragione: se Daria non mi mancasse, nel
cassetto del mio comodino non conserverei ancora la sua collana, quel
semplice bullone legato ad un cordoncino di cuoio. E non ci sarebbe
ancora la sua foto nella memoria del mio telefono. E non me starei
buttato sul divano, la sera, strimpellando la chitarra e ripassando
ogni singola parola del suo addio. «Certo che mi manca» cedo
infine. «Soltanto un po'. Abbiamo passato dei momenti speciali,
insieme» aggiungo, ripensando ai film visti insieme nel suo
appartamento, e al mattino in cui le ho portato la colazione a letto,
e alla cena sul battello. «Certi momenti non li puoi cancellare con
un colpo di spugna, loro ti... ti restano per sempre, in un certo
senso.»
«Nessun
uomo potrebbe dimenticare gli istanti in cui è stato davvero felice.
Nessuno, nemmeno il più insensibile del mondo. Nemmeno io riesco a
dimenticare i momenti speciali che ho passato con Ashley. E lo sai,
io non sono un campione di sensibilità.» Taccio, sorseggiando il
mio caffè, e lui si sente in dovere di rincarare la dose, come se
già non mi sentissi confuso. «Se sono passati due mesi e ancora non
riesci a togliertela dalla testa, significa che ormai è finita un
po' più in basso. E non parlo delle tue mutande» aggiunge. Tipico
di Wayne, rovinare una frase potenzialmente poetica con una battuta
di dubbio gusto. Ma nonostante la caduta di stile, mi rendo conto che
ha ragione: il fatto che due mesi non siano bastati a dimenticare gli
angoli di felicità rubati alla frenesia delle nostre vite forse
significa che quei momenti non
possono
essere messi in soffita ad ammuffire come vecchi quaderni. Forse
dovrei davvero fare un tentativo: forse dovrei mettere un cambio
nella borsa, afferrare quei biglietti e chiamare un taxi per
l'aeroporto. O forse dovrei smettere di pensare che le idee degli
altri siano sempre migliori delle mie.
*
Torino, 24 gennaio 2014
Entriamo in un elegante
palazzo del centro, e non appena supero la soglia dell'appartamento
capisco che mio fratello è cresciuto in un ambiente completamente
diverso dal mio – vedo montagne di libri, tutto ciò che io ho
sempre desiderato, ma la mancanza di calore umano si percepisce senza
difficoltà. «Ciao, mamma!» saluta Luca, facendo capolino dalla
cucina.
«Ciao, Luca. Questa è
Daria. Te la ricordi, vero? Ti avevo detto che sarebbe venuta a cena
da noi. Dammi il cappotto, lo appendo all'ingresso» aggiunge,
rivolgendosi a me.
Le porgo il cappotto e la
borsa, e resto ferma al centro del salotto, senza sapere bene dove
fissare lo sguardo – vorrei studiare meglio la fisionomia di Luca,
ma so che sarebbe impossibile farlo senza convincerlo che sono una
maniaca. «Ciao, Luca» lo saluto infine. «Bella casa. Molto più
ordinata della mia.»
«Sì, è merito della
signora Corelli, che viene a fare le pulizie. Mamma è molto
disordinata.»
«Sono una donna che
lavora, piccolo impertinente» lo sgrida lei, mantenendo il sorriso
sul volto. «La signora Corelli è già andata via?»
«Saranno dieci minuti. Ha
fatto le lasagne, ti ha lasciato un biglietto sul forno. La signora
Corelli è una specie di governante» mi spiega poi. «Fa le pulizie,
cucina e viene a prendermi a scuola. E mi controlla quando non vado
da mamma allo studio. Ma non è una babysitter, potrei stare
benissimo da solo.»
«Ne sono sicura» rispondo
con un sorriso, ricordando le analoghe proteste di Emanuele, quando
mia nonna ci piantonava come un efficientissimo carabiniere anche
quando non ce n'era bisogno. «Passavo le stesse cose con mia nonna»
aggiungo.
«Io purtroppo i nonni non
ce li ho più, sono morti quando ero piccolo. Non so se mamma te l'ha
detto, ma non ho più nemmeno il papà. È morto l'anno scorso, ha
avuto un incidente d'auto.»
«Sì, me ne ha parlato, e
mi dispiace davvero molto. A me non è successo, ma so cosa si prova
quando devi separarti da una persona a cui tenevi molto.»
Annuisce, senza dire altro,
mentre nostra madre ci richiama in cucina e ci ordina di
metterci a tavola.
Danilo
consulta la propria agendina per essere certo di essere nel posto
giusto, prima di suonare il campanello – tempo fa Daria gli ha
fornito tutti i contatti di Alice, per qualche motivo che ancora non
riesce a decifrare. Per quanto lo ritenga impossibile, non può
negare che lo abbia sfiorato l'idea che Daria gli abbia fornito tali
strumenti in previsione di una simile situazione, che gli abbia dato
il numero e l'indirizzo di Alice perché sapeva che un giorno avrebbe
avuto un motivo per cercarla.
Per fortuna è lei ad
aprire, anche perché non avrebbe proprio saputo come affrontare una
studentessa universitaria. «Signor Giordano?» lo accoglie,
spalancando gli occhi e la porta. «Non è successo niente, vero?
Daria sta bene?»
«No, Daria sta benissimo,
e... per te sono Danilo, lo sai.» Si conoscono da anni, ma lei
continua a trattarlo come se fosse un estraneo, e non è mai riuscito
a capire perché. «Posso... posso parlare un attimo con te?»
«Ma
certo, venga... vieni
dentro» si corregge, scostandosi per lasciarlo passare.
Si lascia guidare fino alla
sua camera, mentre dalla cucina sente arrivare le occhiate curiose
delle due coinquiline, che sicuramente si stanno chiedendo che cosa
ci faccia un uomo della sua età in un posto del genere. «Sai, c'è
una cosa che non ho mai capito» esordisce, entrando in una stanza
molto simile a quella di Francesca, con le pareti coperte di poster
di cantanti e vestiti appesi ovunque. «Sei di Torino, allora perché
da quando studi ti sei trasferita in un appartamento con altre
ragazze? Insomma, perché pagare l'affitto se...»
«Oh,
non pago l'affitto» lo interrompe. «L'appartamento è dei miei
nonni, e volevano essere sicuri che in casa ci fossero persone
affidabili. Perciò mi sono trasferita qui per controllare che non ci
siano problemi. Dà loro sicurezza, e allora mi adeguo. Naturalmente
ogni tanto torno a casa, altrimenti mia madre morirebbe» conclude
con un sorriso. «Prego» aggiunge, indicandogli una sedia. «Di che
cosa mi doveva... dovevi
parlare?»
«Voglio parlare di Daria.
So che a te racconta anche quante volte va in bagno, e ci sono delle
cose che ho bisogno di sapere.»
«Va bene» sospira lei,
sedendosi a gambe incrociate sul letto. «Naturalmente ci sono
domande a cui non risponderò nemmeno sotto tortura.»
Danilo si lascia sfuggire
un sorriso, pensando che è proprio questo il genere di persone che
gli piace: quelle che mettono subito le cose in chiaro, senza inutili
giri di parole. Lui stesso è un uomo di poche parole, ed è felice
di trovare, di quando in quando, un'anima affine. «Quando è tornata
da Parigi?»
«Il trenta novembre»
risponde pronta lei, come se stesse ripetendo una lezioncina imparata
a memoria per l'occasione.
«Va
bene. Quando è tornata davvero
da Parigi?» A quel punto Alice arrossisce fino alla punta dei
capelli, e Danilo sa di aver fatto centro. «Sono stato nel suo
appartamento per una riparazione, e ho visto un biglietto ferroviario
con la data del ventotto. Ora, ammetto di non sapere il francese, ma
sono abbastanza sicuro di aver capito cosa significava quella data.»
«Il ventotto» sussurra
lei. «Daria è tornata il ventotto.»
«Va bene. E perché si è
data tanta pena per nascondere la vera data del suo ritorno?»
«Non voleva far
preoccupare nessuno. Vedendola tornare in anticipo avreste potuto
pensare che ci fosse qualcosa che non andava, e lei non voleva creare
confusione.»
«Beh, ha finito con il
crearne comunque. Che cosa è andata a fare a Parigi?» Sapendo di
non poter mentire oltre, Alice si trova combattuta tra due fronti:
tradire la propria migliore amica, oppure, forse, aiutarla a
risolvere i suoi problemi? «Non mi arrabbierò, lo prometto. Voglio
solo sapere se è andata a Parigi per lavoro oppure no.» Alice
scuote la testa, sentendosi colta in fallo. «Va bene. Che cosa è
andata a fare a Parigi?»
«Beh, lei è... forse è
meglio se ti mostro una cosa» si corregge, alzandosi per recuperare
una vecchia scatola malconcia da sotto il letto.
*
Los Angeles, 24 gennaio
2014
Wayne
è uscito da più di un'ora, ma ancora non sono uscito dalla cucina.
Sono ancora appoggiato al bancone, e il rimasuglio di caffè nella
mia tazza è ormai freddo e imbevibile. Ho continuato a fissare i
biglietti appoggiati sul tavolo, accorgendomi soltanto adesso,
dopo una settimana, che sono il mio passaporto per la felicità. Se
prendessi quell'aereo, potrei finalmente andare a riprendermi l'unica
donna che abbia mai fatto nascere in me il desiderio di avere una
famiglia tutta mia,
potrei riprendermi la mia occasione di costruire qualcosa di buono
unicamente con le mie
mani, potrei riavere la mia serenità senza sforzo, senza rincorrerla
nelle sigarette, nell'alcol e nelle avventure di una notte. Se
prendessi quell'aereo, potrei essere di nuovo felice,
e so che questa sarebbe la soluzione migliore per tutti – per
tutti, ma soprattutto per me.
Sono
immobile da un'ora, e da un'ora il mio cane se ne sta seduto immobile
davanti a me, fissandomi con la testa leggermente inclinata verso
sinistra. «Tu che ne dici, vecchio mio?» gli domando. La risposta
si traduce in un guaito e in leggero movimento delle orecchie. «Ma
certo, tu sei d'accordo con tutti gli altri, dico bene?» Ormai ho
accettato il fatto che il mio cane sia praticamente un essere umano,
dunque non dovrebbe stupirmi che anche lui, come tutte le persone che
tengono al mio bene, abbia da esprimere un'opinione. «Dici che
dovrei usare quel biglietto e andare da lei?» Bruce abbaia,
rizzandosi sulle zampe. «Questo vorrebbe dire separarci di nuovo, lo
sai?» Si avvicina e mi strofina il naso contro la coscia, quasi a
volermi perdonare, come se volesse dire che non gli importerebbe
essere abbandonato di nuovo,
se l'abbandono coincidesse con il ritorno del sorriso sul mio volto.
Comprendendo quanto gli stia a cuore la mia serenità, gli accarezzo
le orecchie e poso la tazza nel lavandino. «E allora andiamo. Devo
preparare una valigia.»
*
Torino, 24 gennaio 2014
«Luca,
noi dobbiamo parlare di una questione molto importante» esordisce
mia madre, una volta finito di rassettare la cucina. Per fortuna è
stata lei ad iniziare, perché nonostante mi stia fingendo pronta
a quanto sta per accadere, non so proprio come avrei potuto
affrontare l'argomento. «Si tratta di un argomento molto delicato e
so che ti sentirai confuso, o arrabbiato, ma vorrei comunque che
mantenessi la calma e ascoltassi con molta attenzione.» In qualunque
altro caso contesterei il piglio decisamente adulto
con il quale sta affrontando il discorso, ma il poco tempo passato
con mio fratello mi ha
fatto capire che si tratta di un ragazzino molto diverso dalla media.
Forse Luca riuscirà a capire. «Vedi, Luca, molti anni prima di
conoscere tuo padre, io... ho avuto un altro marito. È stato molti
anni prima che conoscessi tuo padre, ma... adesso è giusto che tu lo
sappia.»
A
questo punto, Luca mi stupisce – più di quanto già non abbia
fatto finora. Alza lo sguardo su di lei, poi guarda me, e infine si
guarda le mani. «So che cosa vuoi dirmi» sussurra dopo un istante
di silenzio. «Stai per dirmi che Daria è mia sorella, vero?»
Guardo mia madre senza sapere come rispondere, e dall'espressione dei
suoi occhi capisco che lei è confusa quanto me, se non di più.
«Qualche giorno prima del tuo compleanno ho preso il tuo portafogli
perché volevo comprarti un regalo ma avevo finito i soldi delle mie
paghette, e ho visto una tua foto. C'era un uomo che non era papà, e
c'erano tre bambini» confessa, senza mai alzare lo sguardo. «Daria
è mia sorella, e ho altri due fratelli, vero?» A questo punto alza
di nuovo gli occhi, rivolgendosi però soltanto a lei. «Scusate,
voglio restare un po' da solo.» Si alza e va in camera propria,
lasciandoci sole a guardarci negli occhi come possono fare soltanto
due persone che non hanno un piano b.
«Fammi
capire» sussurra Danilo, passandosi una mano sui capelli già
scarmigliati. «Mia figlia, la mia bambina,
ha... usciva con un
musicista di fama internazionale? Con uno... con uno di quelli che di
solito vedi sulle riviste scandalistiche? Con un tipo del
genere?»
«Più
o meno... sì»
risponde Alice, sapendo che non esiste una definizione migliore per
Shannon, a meno di non voler turbare ancora di più il padre della
sua migliore amica. «Ma lui non è un... un pazzo maniaco che si
droga e fa festini. Ecco, non è che andassero in giro a stordirsi o
fare cose del genere. Lui è... lui è un uomo come tanti, a dispetto
della sua reputazione.»
«Grazie,
mi fa piacere sapere che mia figlia non è andata a letto con una
rockstar amante delle orge» replica lui, piuttosto seccato. «Ma con
tutte le ragazze che esistono al mondo, perché proprio mia figlia?
Tu ci hai mai parlato? Gli hai mai chiesto che cosa ci trovasse in
lei? Insomma, non dico che non sia una ragazza straordinaria, ma...
perché lei?»
«Non
ci ho mai parlato, a dire il vero, ma... te l'ho detto, lui l'ha
incontrata per caso e... ne è rimasto affascinato. L'hai detto anche
tu, Daria è una ragazza speciale. È impossibile non amarla. A mio
avviso, lui ha dimostrato di avere molto giudizio e decisamente un
ottimo gusto in fatto
di donne.»
«Sembra
più grande di lei» osserva Danilo, ignorando l'ultima affermazione
di Alice. «Quanti anni ha? E non mentirmi.»
Eccolo,
il tasto dolente – Alice sapeva che sarebbe arrivato il momento di
questa confessione, lo ha sempre saputo, e ora sa di non potersi
esimere dal dire la verità, perché Danilo potrebbe facilmente
scoprirla da sé. «Ha vent'anni più di lei. E questo è uno dei
motivi per cui Daria era titubante, all'inizio. Ed è anche uno dei
motivi per cui non voleva parlarne in casa. Temeva che la cosa ti
avrebbe... disturbato.»
«Disturbato?
Alice, quello potrebbe essere suo padre.»
«Ma
non lo è» risponde candidamente lei, senza sapere bene da dove le
arrivi il coraggio di mostrarsi tanto sicura di sé. «Non è suo
padre. È un uomo che l'ha incontrata per caso, che l'ha conosciuta e
che si è innamorato di lei. Sapevi che sarebbe successo. Succede a
tutti. Capisco che Daria sia ancora la tua bambina,
e che probabilmente lo sarà per il resto della vita, ma... succede.
I figli crescono, e bisogna lasciarli andare per la loro strada. So
che suonerà strano e arrogante detto da una che ha vent'anni meno di
te e non sa cosa vuol dire essere genitore, ma non posso non credere
che vada così.» Non ricevendo risposta, Alice si sente autorizzata
a continuare. «Shannon si è innamorato di lei, e Daria si è
innamorata di lui. Non ha potuto farci niente, è successo e basta.
Ha avuto molti dubbi in proposito, e so che è anche andata a parlare
con il suo analista per capire come comportarsi. La differenza d'età
non era il suo unico dubbio» specifica. «La preoccupava il fatto
che avesse più di quarant'anni, ma la preoccupava anche la
differenza delle loro vite, il fatto che lui sia un uomo abituato a
girare il mondo. Era preoccupata perché lei ha sempre voluto una
famiglia, avere stabilità,
e temeva che con lui non sarebbe mai riuscita a realizzare il suo
sogno. Temeva che non sarebbero riusciti a costruirsi una vita
insieme, e ti giuro che questo la spaventava più di tutto il resto.
Ci ha impiegato molto, prima di decidersi a... dargli una
possibilità.»
«E
lui faceva sul serio? So che non gli hai mai parlato, ma... lui
faceva sul serio o la stava soltanto prendendo in giro? Perché lo
avrebbe lasciato, se fosse stata una storia seria?»
«Lui
l'ha invitata ad andare a Parigi. Era lì per dei concerti, e voleva
averla vicina, per mostrarle... beh, il suo mondo.
Lei ci ha pensato su molto, prima di decidersi ad andare. L'ho
sentita parecchie volte durante il suo soggiorno, ed era felice come
non l'ho mai vista. Se lui si fosse rivelato un idiota, o se avesse
pensato che non stava facendo sul serio, lei... lei non sarebbe stata
così felice, ne sono sicura.»
«Potrebbe
averti mentito. Sembra che sia piuttosto brava nel nascondere la
verità.»
«Non
avrebbe mentito a me.
O comunque l'avrei capito. Noi due riusciamo sempre a capirci, a...
parlarci anche senza
guardarci in faccia. Lo sai bene quanto me, oppure non saresti qui.»
«Ma
allora perché è tornata prima? Perché lo ha lasciato, se era
felice?»
Alice
riflette per qualche secondo sulla questione, cercando le parole
giuste. «Perché Daria crede di non meritare la felicità» sussurra
infine. «Le è stato fatto del male troppo spesso, e alla fine si è
convinta di non essere fatta per vivere felice e contenta. Nemmeno
quando l'occasione di vivere una favola le è servita su un piatto
d'argento, lei... lei non riesce a credere che sia reale. Non mi
sento di giudicarla per questo. Non sono uno psicologo, ma credo che
sia normale, per una ragazza nelle sue condizioni. Per una donna
che ha passato quello che ha passato lei.»
«Quindi
mi stai dicendo che lo ha lasciato perché ama farsi del male?»
«Lo
ha lasciato perché non crede più alle favole» precisa lei. «Ha
smesso di credere alle favole a otto anni, da quando sua madre è
uscita dalla sua vita. Da quel momento, niente è più stato lo
stesso. Nonostante lei si ostini a mentire al mondo intero, non crede
più al lieto fine. Si ostina a nascondere il dolore, forse pensando
che nasconderlo significhi cancellarlo, o forse anche dimenticarlo.
Ma lei non sa dimenticare. Sa fingere bene, sa fingere in una maniera
straordinaria, ma chi la conosce... lo sa.»
Danilo
rimette la fotografia nella scatola, passandosi un'altra volta la
mano tra i capelli. «Da quando è tornata... è da quando è tornata
da Parigi che ho la sensazione che qualcosa non vada per il verso
giusto. Ma non ho mai detto nulla, perché pensavo... è vero, sono
suo padre, ma pensavo di non avere il diritto di ficcanasare nella
sua vita privata. Non è mai stata mia abitudine, e non volevo certo
cominciare ora che è adulta e sa compire le sue scelte.»
«Su
questo non posso essere d'accordo, mi dispiace. Lasciare Shannon è
stata la decisione peggiore che abbia mai preso.»
«Stavano
così bene insieme?»
«Non
li ho mai visti insieme
nel vero senso della parola, ma ho visto com'era lei quando gli
parlava al telefono, o quando parlava di lui. Aveva l'aria serena,
e... Dio, la felicità le donava proprio.»
Segue
una lunghissima pausa, durante la quale Danilo continua a rovistare
nella scatola, facendosi passare tra le mani i cd della band. «Se
lui fosse stato davvero innamorato di lei, sarebbe tornato indietro a
cercarla. Non credi? Insomma, so di darmi la zappa sui piedi, visto
che io stesso non sono stato in grado di riprendermi la moglie, ma...
se è davvero un uomo speciale quanto vuoi farmi credere, avrebbe
ribaltato l'universo pur di riprendersi mia figlia.»
«Se
lei non gli avesse chiesto di non farlo, forse sì. Nella lettera che
gli ha lasciato lo ha pregato di non cercarla. Di lasciarla andare
per la sua strada, in sostanza. Sapeva che lui non si sarebbe arreso
tanto facilmente, e ha pensato di mettere le mani avanti.»
«E
lui ha obbedito?» esclama Danilo, sconvolto da quella rivelazione.
«Lui
ha dimostrato di tenere a lei come nessuno ha fatto prima» replica
lei. «Mi piace immaginare che lui l'amasse davvero moltissimo, e il
fatto che abbia accettato di uccidere la propria felicità pur di
assecondare i desideri di lei... beh, mi fa pensare che sia la più
grande prova d'amore che un uomo possa fornire. Non sto dicendo che
lei non abbia sbagliato alla grande,
lasciandolo, ma... in un certo senso, ha avuto la prova che lui era
davvero coinvolto.» Improvvisamente, Danilo si lascia andare ad una
risata – gesto che Alice non riesce ad interpretare. «Cosa ho
detto di tanto divertente?»
«Niente,
non... è solo che oggi pomeriggio ho parlato con lei, e... si è
comportata come sua madre. Adesso capisco molte delle cose che ha
detto, e... si è comportata esattamente
come sua madre» ripete. «Ha voltato le spalle alla persona che più
amava, e... e si è fatta del male. Forse si è comportata anche
peggio di sua madre.»
Mia
madre ha bussato diverse volte alla porta della stanza di Luca,
ricevendo soltanto un secco «Vai via!» Al quinto tentativo fallito,
è tornata in cucina e mi ha rivolto un'occhiata disperata. Nel suo
sguardo ho letto tutta la delusione di una donna consapevole di aver
perso ogni cosa, e di
averla persa per sua volontà. È a questo punto che capisco di
essere io a dover prendere in mano la situazione.
Busso
alla porta di Luca, chiarendo subito che si tratta di me, e ottengo
il permesso di entrare. Nella luce fioca di una lampada da tavolo,
mio fratello è seduto per terra, con la schiena appoggiata al lato
del letto e le ginocchia piegate contro il petto. Senza dire una
parola mi lascio scivolare accanto a lui, assumendo una posizione
simile. Passano cinque minuti, prima che decida di aprire la bocca.
«Tu da quanto tempo lo sapevi?»
«Un
paio di settimane. Lei è venuta da me e mi ha detto di te. Subito
l'ho mandata al diavolo. Non la vedevo da quindici anni» specifico.
«Tu
mi odi?» mi domanda dopo un altro lunghissimo silenzio.
«Perché
dovrei odiarti?»
«Perché
tutti mi odiano. Insomma, non è che tutti mi odino» precisa.
«Solo... non sto simpatico a molta gente, ecco tutto. A scuola mi
prendono in giro perché mi piace studiare, e perché non mi piace il
calcio e tutte le cose che piacciono agli altri. Non ho molti amici.»
«Questo
non spiega perché dovrei odiarti. Nemmeno a me piace molto il
calcio.»
«Beh,
tua madre ti ha lasciato e ha sposato mio padre. Non sono un bambino,
so che questo farebbe arrabbiare molta gente.»
«Beh,
mi farebbe arrabbiare se mia madre se ne fosse andata per sposare tuo
padre, ma non è così. Sono passati molti anni da quando ha lasciato
mio padre a quando ha sposato il tuo. Certo, forse non penserò mai
che ne siano passati abbastanza,
ma le due cose non sono correlate. Non posso avercela con te. Non ha
lasciato la mia famiglia per la tua.» Annuisce, e anche senza
chiedergli conferma so
che capisce. «Sai, tu mi ricordi tanto Emanuele» aggiungo dopo un
po'.
«Tuo
fratello?» mi domanda in tono incerto.
«Proprio
lui.» Mi frugo in tasca, cercando il cellulare per mostrargli una
sua foto. «La prima volta che ti ho incontrato ho creduto di essere
tornata indietro nel tempo, perché eri veramente identico a lui.
Sai, seduto in poltrona con quel libro... gli somigliavi davvero
molto. Anche a lui piaceva moltissimo studiare e leggere, proprio
come a te. E anche lui non aveva molti amici.»
«Quanti
anni ha?»
«Ha
quasi vent'anni. Studia Ingegneria Informatica, è uno dei ragazzi
più intelligenti che conosca.»
«E
tu quanti anni hai?»
«Ho
ventitré anni, sono la più grande. Lavoro in una libreria. Dovresti
venirmi a trovare, qualche volta. Ho uno sconto dipendenti.»
Sorride,
ma è soltanto un attimo. «Nella fotografia che ho visto c'era anche
un altro bambino.»
«Una
bambina» lo correggo. «Si chiama Francesca, ha quasi diciassette
anni. È sempre stata la piccolina di casa. Studia al liceo
artistico, è bravissima nel disegno.»
«E
tu in cosa sei brava?»
«A
complicarmi la vita sono imbattibile» scherzo. «Non credo di essere
veramente brava in
qualcosa. Ci sono delle cose che mi piace fare, ma non credo di
essere brava.»
«Delle
cose tipo?»
«Mi
piace scrivere. Sai, racconti, e cose del genere. È una passione che
ho sempre coltivato, ma non ho mai creduto abbastanza in me stessa,
quindi non ho mai pensato di poterci cavare qualcosa. E tu in cosa
sei bravo, invece? Che cosa ti piace fare?»
«Suono
il pianoforte. Prendo lezioni da quando ho sette anni. Ma non penso
di essere bravo.»
«Oh,
un musicista! Mi piacerebbe sentirti suonare, qualche volta.
Suoneresti per me?»
«Penso
che potrei.»
«Bene.
Allora un pomeriggio verrò a trovarti e suonerai qualcosa per me.»
Restiamo
in silenzio per un altro lunghissimo minuto, poi sento il suo sguardo
su di me, e mi volto per intercettarlo. «Pensi che la mamma sia
arrabbiata con me? Sai, perché non le ho aperto la porta.»
«No,
non credo che sia arrabbiata con te.»
«Non
sono arrabbiato con lei. Non credo di essere arrabbiato con lei. Non
sono mai stato arrabbiato, tranne quando è morto papà. Sono solo...
sono molto confuso.»
«Sono
certa che lei lo sappia. Essere confusi è normale, con quello che
hai appena scoperto.»
«Non
mi piace essere confuso.»
«Non
piace a nessuno, credimi. Essere confusi è peggio di qualunque altra
cosa. È più facile essere arrabbiati, o tristi, o delusi, perché
almeno sai che cosa devi affrontare. Ma la confusione è la cosa
peggiore che possa capitare ad una persona.»
«Tu
sei mai stata confusa?»
Ogni
singolo giorno della mia vita,
vorrei rispondere. Ma tutto ciò che supera le mie labbra è: «Mi è
capitato. E fa schifo.»
*
Los Angeles, 24 gennaio
2014
Constance
va ad aprire la porta in pigiama, chiedendosi se a bussare sia stato
un maniaco, un ladro oppure un assassino, ma quello che si trova di
fronte supera di gran lunga la sua immaginazione. «Shannon, è quasi
mezzanotte! Che cosa ci fai qui?»
«Ho
bisogno che tu mi tenga Bruce, se puoi» risponde lui di corsa. «Devo
assentarmi per un paio di giorni. Grazie mille, ti voglio bene» si
congeda, dopo averle messo in mano il guinzaglio e averle stampato un
bacio sulla guancia.
Constance
resta immobile di fronte alla porta aperta, poi guarda il cane, per
la prima volta sereno
nonostante l'abbandono di Shannon. «Ho messo al mondo due pazzi
incoscienti, vero? Beh, vieni dentro. C'è la replica di Grey's
Anatomy, e non me la voglio
perdere.»
Seduto
nella sala d'attesa dell'aeroporto, Shannon continua a guardare
nervosamente l'orologio, sperando che la mezz'ora che lo separa
dall'imbarco si riduca drasticamente a zero,
perché sente che ogni minuto d'attesa potrebbe convincerlo a
cambiare idea, e cambiare idea è l'ultima cosa che debba succedere.
Ci sono voluti due mesi, ma ha finalmente capito che Daria è
importante, e che da lei dipende la sua felicità. Ha provato a
nascondere il dolore, a seppellirlo sotto strati di dura e
impenetrabile corazza, pensando che nascondendolo alla vista lo
avrebbe nascosto al cuore, ma il vecchio detto "Se nessuno vede,
nessuno sa" con lui non sembra funzionare. Ha bisogno di
guardare ancora una volta quegli incredibili occhi azzurri contornati
di verde, ha bisogno di toccare ancora una volta quei capelli corti e
spettinati, e se possibile, vorrebbe stringere ancora tra le braccia
quel corpo morbido e caldo che già una volta lo ha portato in
paradiso. Ha bisogno di Daria, e sente che nessun momento sarà mai
più giusto di questo.
1Se
nessuno vede, allora nessuno sa. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Hidden
away di Josh Groban,
contenuta nell'album Illuminations
(2010).
|
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Capitolo 12 *** 12 | Dove siamo? Che cosa diavolo sta succedendo? ***
La lunga strada verso casa - 1
Innanzitutto,
vi chiedo scusa per l'immenso ritardo con cui posto questo capitolo.
Secondo i miei calcoli, avrei dovuto farlo uscire due giorni fa, ma ho
avuto una breve lite con il wi-fi, che non mi lasciava connettere
abbastanza a lungo per compiere tutto il processo. Stupido, piccolo,
crudele wi-fi del cavolo.
Comunque
ora sono qui (che fortuna, penserete!), e vi offro quello che con tutta
probabilità sarà il peggior capitolo che abbiate mai
letto.
Se potete, non linciatemi. Ma se non riuscite a trattenervi, vi prego, risparmiate le mie mani, che con quelle ci lavoro =D
Buona lettura,
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo dodicesimo
Dove siamo?
Che cosa diavolo sta
succedendo?1
Oceano Atlantico, 25
gennaio 2014
Da qualche parte sopra
l'oceano Atlantico, circondato da persone che dormono nella speranza
di ammortizzare gli effetti del fuso orario, Shannon resta vigile e
attento. Incassato nello scomodo sedile della seconda classe –
perché Jared doveva risparmiare, naturalmente – guarda fuori dal
finestrino, aspettando il momento in cui vedrà finalmente la
terraferma. Non sarà l'Italia, lo sa bene, perché dovrà prima fare
scalo a Madrid, ma vedere il continente gli darà la certezza di
essere un passo più vicino al proprio obiettivo. D'istinto si porta
una mano al petto, avvertendo, sotto la stoffa pesante del maglione,
la forma familiare del ciondolo di Daria, quello che ha portato per
tutto il tempo della loro storia, e che è riuscito a togliere
soltanto prima di ripartire con il tour. Si chiede se sua madre abbia
già chiamato Jared per avvertirlo della buona riuscita del piano, e
subito dopo si immagina suo fratello saltare di gioia.
«Andrà
tutto bene» sussurra nel silenzio dell'aereo, chiedendosi come
reagirà Daria nel rivederlo dopo tutto questo tempo.
*
Torino, 25 gennaio 2014
«Sono contento che sia
andata bene» sorride Marco. «Ma perché non mi hai detto che
saresti andata a cena da loro? Per un attimo ho pensato che stessi
cercando di scaricarmi.»
«Volevo
provare a cavarmela da sola, una volta tanto» rispondo. «Quando ho
un problema ne parlo sempre con un mucchio di persone, e ho
pensato... beh, che fosse il momento di camminare da sola. E ci sono
riuscita, dannazione. Il modo in cui quel ragazzino si è aperto con
me è stato... credo di non aver mai provato una simile
soddisfazione. Rifiutava di vedere persino sua madre, e invece con me
è stato così... non credo di avere le parole giuste per descrivere
quello che ho provato.»
«Sì, beh... tu sai tirare
fuori il meglio dalle persone. È una dote rara. Non era difficile da
prevedere che sareste andati d'accordo.»
«Parlare con lui era la
parte meno complicata, me ne rendo conto soltanto adesso. Insomma,
adesso devo trovare un modo per introdurre l'argomento in casa. E se
Emanuele e Francesca non ne volessero sapere?»
«Direi che non sarebbero
da biasimare. Nemmeno tu l'hai presa troppo bene, all'inizio.»
«Sì, lo so, ma era prima
che Luca sapesse di avere dei fratelli. Se io avessi rifiutato di
conoscerlo, lui non lo avrebbe mai saputo. Ma se adesso loro si
rifiutassero di incontrarlo, credo che ne soffrirebbe moltissimo. Si
sentirebbe rifiutato, lo so. E lui... io non posso proprio permettere
che si senta così. Già si sente una nullità nei confronti dei
compagni di scuola, sentirsi una nullità anche nei confronti della
sua famiglia sarebbe troppo. Non credo che potrebbe sopportarlo.» Mi
porto una mano alla tempia, iniziando a tormentarmi i capelli, e a
quel punto Marco allunga la sua per stringere le mie dita. «Dici che
mi sto preoccupando troppo?»
«Dico che non ho mai visto
qualcuno prendere a cuore qualcosa come stai facendo tu con questa
situazione» sorride, e improvvisamente mi sento meglio. «Tu non
faresti mai del male a qualcuno. Non di proposito, almeno. Sai come
ci si sente quando si perdono le proprie certezze, e questo è
positivo. Sei geneticamente programmata per fare del bene, anche
quando sembra che sia impossibile.»
«Da come parli, sembra che
tu sia uscito con Madre Teresa di Calcutta» scherzo.
La
presa sulle mie dita si fa più salda, mentre il suo sguardo non
abbandona il mio. «Non avrai vinto un premio Nobel per la pace, ma
non si può negare che tu non sia altrettanto buona.» Il suo sorriso
dolcissimo mi riempie il cuore di soddisfazione, ma allo stesso tempo
mi sento morire dentro – perché per quanto mi sforzi, so di non
essere una persona buona.
È vero, adesso sto facendo di tutto per dare una vita migliore a mio
fratello, ma il mio passato è fatto anche di cose meno belle – ho
commesso una malvagità che nessuna buona azione potrà mai
cancellare, e ogni volta che Marco mi fa notare il bene che faccio,
il male torna a galla come una macchia d'olio in un bicchiere
d'acqua.
Dopo
l'incontro-confessione con Danilo, Alice non è riuscita a prendere
sonno. Si dispiace per non aver saputo trattenere oltre il segreto,
ma allo stesso tempo sa che parlarne con qualcuno è stato un bene,
perché non si può continuare a nascondere la polvere sotto il
tappeto per sempre. Ha paura che il suo venir meno alla parola data
possa pregiudicare la sua amicizia con Daria, ma allo stesso tempo sa
che spiattellare tutto era l'unica soluzione possibile – e poi ha
parlato con Danilo, non con il direttore di Novella
2000.
Insomma, se avesse dovuto scegliere una persona sull'intero pianeta
cui parlare della relazione di Daria con Shannon, sicuramente Danilo
sarebbe stato compreso nel ventaglio delle possibilità. Eppure,
nonostante la certezza che non si potesse fare altro, Alice non è
riuscita a prendere sonno, e la mattina successiva si è presentata
in aula studio con due occhiaie da far spavento, tanto che i posti
più vicini a lei sono stati occupati soltanto dopo le undici, quando
tutto il resto della sala era pieno.
Tornata
a casa, Alice ha continuato a pensare alla sera precedente,
chiedendosi quando la furia di Daria si sarebbe abbattuta su di lei –
perché è logico pensare che, una volta scoperta la verità, Danilo
si sia precipitato dalla figlia a riferire le sue scoperte... o forse
no? Sarebbe stata la scelta di molte persone, ma è pur vero che
Danilo resta il padre di Daria, e si sa che Daria non è una che si
adegua alla massa – quindi è possibile che nemmeno suo padre sia
quel tipo di persona. E poi, del tutto inspiegabilmente, il pensiero
della reazione di Daria viene soppiantato da un altro pensiero – un
dubbio,
in verità. Anche lei, come molte altre persone, ha dei segreti che
tiene per sé e non rivela a nessuno, dei piccoli tarli che scavano
lentamente il solido tronco delle sue certezze, senza fare rumore, e
di cui si scopre la presenza soltanto quando ormai il danno è
ingente.
Per la seconda sera
consecutiva Alice si rigira tra le lenzuola, senza trovare una
posizione consona al sonno. Verso le due, stufa di non riuscire a
dormire perché logorata dai dubbi, si alza e prende il cellulare. È
ormai la mattina del ventisei gennaio, dunque è domenica mattina –
molto presto, ma è mattina. È domenica, non c'è scuola e non si
lavora. Aveva promesso di dedicare la giornata a Kant, ma si rende
conto che in fondo Kant è morto, e potrà aspettare ancora per un
giorno. I suoi dubbi invece no.
*
Los Angeles, 26 gennaio
2014
A
stento Jared si trattiene dal saltare di gioia: sapeva
che Shannon avrebbe sfruttato il biglietto, ma era certo che ci
sarebbe voluto molto più tempo – conoscendolo, almeno un paio di
mesi. Il fatto che sia partito così repentinamente, dopo soltanto
una settimana, lo fa ben sperare. Finalmente Shannon rivedrà Daria,
le confesserà il suo amore, i due torneranno insieme e lui potrà
riavere indietro il suo batterista, ma soprattutto suo
fratello.
Ma
presto, come succede sempre
quando si è all'apice della felicità, arriva qualcuno a tarpargli
le ali. «Fossi in te, io aspetterei prima di stappare lo champagne e
organizzare le nozze» commenta pacato Tomo, sorseggiando lentamente
il suo caffè. Quando ha accettato l'invito di Jared a pranzo, di
certo non si aspettava di trovarlo così su di giri.
«So
che non bisogna dire gatto se non l'hai nel sacco, ma... Tomo, quello
che sta succedendo è stupendo. E finirà bene. Sento
che finirà bene. Non so come spiegarlo, ma... è una sensazione che
ho, ecco. Sento
che andrà tutto bene. E raramente il mio sesto senso sbaglia.»
«Sappiamo
tutti che hai un sesto senso molto sviluppato, Jay, ma io credo che
Tomo abbia ragione» interviene Constance. «Non puoi avere la
certezza matematica che le cose andranno come pensi. Ci sono troppe
variabili in gioco. E poi, è sempre di Shannon che stiamo parlando.»
Tomo
stringe la mano di Vicki, seduta accanto a lui. «Tu che ne dici,
amore? Ha ragione Jared e noi ci stiamo preoccupando inutilmente,
oppure le cose andranno a catafascio come sempre?»
«Beh,
Constance ha ragione. Insomma, ci sono davvero troppe cose di cui
tener conto. Però... non lo so, questa volta voglio stare dalla
parte di Jared. Sfido qualunque ragazza a non cadere ai piedi di un
uomo che attraversa il mondo per dirti che ti ama. Non tornare con
lui vorrebbe dire che è una ragazza sciocca, e non è questa
l'impressione che ho avuto di lei.»
«Io
credo che stiamo perdendo di vista una cosa importante» interviene
di nuovo l'altra donna. «Continuiamo a parlare della questione come
se fosse passata soltanto una settimana da quando lei lo ha lasciato.
Continuiamo a dimenticare che sono passati due mesi, e in due mesi ne
possono succedere di cose.»
«Cos'è,
hai paura che lui arrivi a casa sua e la trovi con un altro?»
scherza Jared, rendendosi conto soltanto più tardi dell'espressione
della madre, che si è fatta molto seria. «Andiamo, mamma, non puoi
pensarlo sul serio. Con tutto il tempo che ci ha messo per decidersi
a dare una possibilità a Shannon... non può aver trovato un altro
uomo in due mesi. Non può aver intrecciato una relazione seria
in due mesi!»
«Non
ti sei mai trovato in una situazione del genere, Jay» replica lei,
usando il suo tono più dolce. «Da quel che mi avete raccontato di
lei, ho capito che è una giovane donna che ha subito molte
delusioni, e che dall'amore non si è mai aspettata molto. Quando una
donna colleziona una serie di relazioni sbagliate, o quando subisce
una forte delusione... beh, non sono molte le strade che può
intraprendere.»
«Pensi
che potrebbe essersi gettata in un'altra relazione per dimenticare
Shannon?» domanda Tomo, che ha sempre apprezzato la saggezza di
Constance.
La
donna fa spallucce, bevendo un sorso di caffè. «Può capitare. O
questo, oppure ha promesso a se stessa di non concedersi mai più ad
un uomo.»
Jared
sbuffa. «Non vedo perché dovremmo fasciarci la testa prima di
essercela rotta. Non è detto che lei abbia un altro uomo. Può anche
darsi che abbia passato questi ultimi due mesi a struggersi per
Shannon, no?»
«Per
lo stesso motivo per cui non dovremmo festeggiare finché non avremo
la certezza che sono tornati insieme, tesoro» risponde la madre. «So
che vi ho sempre insegnato a pensare in maniera positiva, ma tu stai
un po' esagerando.»
«Sto
esagerando?»
«Un
pochino. Ma parliamo di voi due» riprende Constance, guardando Tomo
e Vicki. «Come sta andando la gravidanza? Ti vedo davvero benissimo,
sai?»
«Siamo
al settimo cielo» risponde Vicki. «Però abbiamo già iniziato a
litigare. Io vorrei conoscere il sesso, appena ci sarà possibile.
Invece questo testone vuole la sorpresa.»
«Direi
che avete ancora un bel po' di tempo davanti. Io non ho voluto sapere
il sesso dei miei figli. Ho sempre preferito la sorpresa, e vedendo
le due meraviglie che ho tirato fuori, direi che è stata una
sorpresa davvero stupenda.»
«Mamma,
adesso stai esagerando» la prende in giro il figlio.
«Ti
metto in imbarazzo?»
«Un
pochino.»
*
Milano, 26 gennaio 2014
Quasi
non ha avuto il tempo di scendere dal treno, e già Alice sente la
voce di Federico chiamarla dal fondo del binario. «Amore! Amore,
sono qui! Mi dici che cosa sta succedendo?» le domanda non appena si
fa più vicina. «Avevi un'aria stranissima, al telefono.»
«Sì,
lo so, e mi dispiace da morire di averti chiamato alle due del
mattino. Mi sono resa conto solo dopo
aver chiamato che probabilmente ti eri preoccupato, ma era
importante.»
«Vieni,
andiamo a prendere la metro. Mamma e papà non vedono l'ora di
vederti» aggiunge lui, passandole un braccio dietro la vita per
accompagnarla.
Ma
lei scivola via dalla sua presa, e torna a mettersi di fronte a lui.
«No, senti, io... possiamo andare a prenderci un caffè? Ho bisogno
di parlarti, e non posso farlo se ci sono anche i tuoi genitori.»
«Alice,
va tutto bene? Hai l'aria strana. Scusa, l'ho già detto, ma non
riesco a trovare un sinonimo altrettanto efficace. C'è qualche
problema? È successo qualcosa di grave? Perché non riesco a...»
«Federico,
io credo che tra noi sia finita.» Ecco, l'ha detto. La frittata è
fatta, il colpo è stato sparato. Alice ha dato voce ai dubbi che la
logoravano da tempo, e da questo momento niente sarà più lo stesso.
Ora che ha espresso ad alta voce ciò che pensava, con Federico è
davvero finita. Potrebbero mettersi seduti e parlare della cosa,
stabilire che lei ha detto una cazzata e fingere che non sia mai
successo, ma le cose non sarebbero mai
più le stesse. «Non è
questo il modo in cui avevo pensato di introdurre l'argomento, ma...
forse è meglio così. Brutale ma onesta. In fondo, mi sono sempre
vantata del mio modo di affrontare le cose.»
«Alice,
io non riesco a capire perché... non riesco a capire perché tu mi
stia dicendo questo.»
«Ci
penso da tantissimo tempo, te lo assicuro. Insomma, non è che mi
sono svegliata stamattina con la convinzione che dovessimo lasciarci.
Io ti amo tantissimo, lo sai. Ti amo tantissimo, e ti considererò
sempre una persona importante. Abbiamo passato dei momenti bellissimi
insieme, ma... non funziona più. Me ne sono accorta io, e sono
sicura che qualche dubbio sia venuto anche a te. I motivi per cui ci
siamo messi insieme non hanno più senso. Avevo quindici anni, ora ne
ho quasi ventiquattro, e... le cose che volevo allora non sono quelle
che voglio adesso. Sono cambiata, e negarlo sarebbe stupido, oltre
che inutile. Sono cambiata. Lo so io, e lo sai anche tu. E sei
cambiato anche tu. Non in peggio o in meglio, ma... siamo cambiati.
Vorrei che ci fosse un modo carino per dirlo, ma non l'ho trovato. E
tu sai che io sono una che trova sempre
le parole giuste.» Alice si ferma, aspettando una risposta, ma il
ragazzo in piedi di fronte a lei sembra non saper che dire.
«Federico, per favore, di' qualcosa. Anche solo vaffanculo,
ma di' qualcosa.»
«Io
credo... credo sia meglio che andiamo a prenderci quel caffè,
adesso.»
*
Torino, 26 gennaio 2014
Il primo impulso, una volta
uscito dalla casa di Alice, è stato di camminare fino a casa di
Daria, pronto ad affrontare l'argomento a muso duro e dire alla
figlia che conosce la verità. Ma una volta arrivato davanti al
portone, Danilo ha cambiato idea, consapevole che la frustrazione
avrebbe potuto portarlo a dire cose che non pensava, o comunque ad
esprimersi in modo sbagliato, e litigare con Daria è davvero
l'ultima delle sue intenzioni, soprattutto in un momento delicato
come questo.
Tornato in laboratorio, ha
chiamato casa per avvertire che sarebbe rincasato tardi e si è
rimesso al lavoro, sapendo che muovere le mani è la sola cosa che lo
aiuti a rilassarsi e a scaricare le energie negative. Sa di essere
stato un buon padre, eppure a volte lo coglie il dubbio che avrebbe
potuto fare di più, che avrebbe potuto comportarsi meglio,
soprattutto nei confronti della figlia maggiore. Non che Daria sia
venuta su male, certo – con tutti i traumi che ha subito, a questo
punto della vita potrebbe essere una completa sbandata che si fa pere
di eroina negli occhi –, eppure non riesce a non pensare di aver
sbagliato qualcosa – perché lei non si fida completamente di lui,
è chiaro, altrimenti non ci avrebbe pensato su due volte prima di
chiedergli un consiglio. O forse no, lui è stato un ottimo padre,
non avrebbe potuto fare di meglio, e il fatto che Daria non si
confidi volentieri dipende soltanto dal suo carattere.
Danilo non sa più che
pensare, e per uno come lui, che ha sempre capito il mondo meglio
della maggior parte degli uomini, questo rappresenta una vera
sconfitta. «Ma che diavolo sta succedendo?» sussurra nello spazio
silenzioso del laboratorio. Lo consola sapere che probabilmente
nemmeno un genio riuscirebbe a capirlo.
*
Milano, 26 gennaio 2014
Federico
giocherella con una bustina di zucchero vuota, piegandola e
dispiegandola in continuazione, mentre il suo cappuccino si
raffredda. «Da quanto pensi quello che mi hai detto?» dice infine,
in un sussurro che quasi si perde nel brusio del bar.
«Non
so dirti una data precisa» risponde Alice, stringendo entrambe le
mani attorno alla propria tazza. «Di sicuro è da qualche mese.
Dalla scorsa estate, credo. Da quando siamo andati al mare insieme.»
«Sono
cinque mesi.»
«Lo
so, è stato orrendo da parte mia non parlartene prima, ma... non lo
so, in un certo senso non volevo crederci. Tra noi è sempre andato
tutto bene, e non volevo arrendermi all'idea che non fosse tutto
perfetto come mi era sempre sembrato. E poi c'è stata di mezzo tutta
la storia di Daria, e non volevo aggiungere altri problemi al
mucchio, e...»
«Scusa,
cosa c'entra Daria? È successo qualcosa?»
Alice
si morde la lingua, sapendo di aver parlato troppo – di solito è
molto attenta alle parole che usa, ma sembra che aprire il rubinetto
della verità l'abbia privata della sua proverbiale capacità di
giudizio. «Quest'autunno Daria ha conosciuto un ragazzo, ci è
uscita qualche volta e poi lo ha mollato perché non era sicura che
stessero bene insieme, e questa cosa l'ha scombussolata un po'»
risponde, sapendo che non è giusto ridurre così ai minimi termini
il problema – ma è l'unico modo per soddisfare la curiosità di
Federico senza esporsi troppo, perciò andrà bene. «Sono passati
due mesi, ma non l'ha ancora superata del tutto. E lo sai,
praticamente lei ha solo me, quando si tratta di queste cose.»
«Ma
adesso sta bene?»
«Sopravviverà»
risponde lei, e in fondo è vero. In quale modo non si sa, ma
sopravviverà. «Solo che sai, non pensavo che fosse il caso di
complicarsi ulteriormente la vita. E poi io ero in periodo esami, e
tu stavi compilando quelle domande di lavoro... avevamo entrambi
altre cose per la testa.» Alice fa una pausa, pensando al modo meno
indolore per continuare. Ma in fondo, si dice subito dopo, lei e
Federico si stanno lasciando, e lasciarsi non è mai indolore. «Non
posso negare che la storia di Daria con quel ragazzo abbia
contribuito ad alimentare i miei dubbi. Lei lo ha lasciato perché
stare insieme avrebbe significato stabilire una relazione a distanza
che non era sicura di poter reggere, e... beh, per me è stato
inevitabile pensare a noi. In fondo, quasi tutta la nostra storia è
stata una relazione a distanza.»
«Non
avevo mai capito che per te fosse un problema.»
«Non
lo è mai stato. O almeno, non lo è mai stato finché non mi sono
resa conto che non sono mai stata veramente te stessa, con te. Non
che ti abbia mentito, ma... tu ed io non ci conosciamo davvero,
Fede. Non fraintendermi, io ti adoro. Adoro te, adoro la tua
famiglia, adoro i tuoi amici, e non scambierei i momenti che abbiamo
passato insieme con tutto l'oro del mondo, però... però io non sono
completamente me stessa, quando sto con te. Quando sto con te
nascondo i miei difetti, perché è così poco il tempo che passiamo
insieme che mi sento quasi in dovere di mostrarti solo le cose belle,
e... e questo mi dispiace, perché non faccio del male soltanto a me.
Tu hai il diritto di stare con una persona che ti permetta di
conoscerla completamente,
e io... beh, io credo di avere il diritto di mostrare tutti i miei
difetti. Mi rendo conto che probabilmente sto passando come una vera
stronza, ma non credo ci sia un modo gentile di dire la verità, a
meno di voler continuare a mentirci.»
«Non
penso che tu sia una stronza, Alice» risponde Federico, rialzando
finalmente la testa. «Anzi, io credo... credo che tu abbia ragione.
Immagino di dover confessare che anch'io ho avuto qualche dubbio, di
recente.»
«Non
hai mai detto nulla in proposito.»
«Beh,
pensavo che fossero dubbi soltanto miei. Se avessi saputo che anche
tu non eri più sicura di noi due, forse avrei parlato.»
«Da
quando tu... insomma, da quando hai cominciato a pensarci?»
«Più
o meno da quando hai iniziato a pensarci tu, credo. Da quando siamo
stati in vacanza insieme. Non sono mai stato un asso nel capire la
gente, ma mi sembrava che tu... che fossi frenata,
in un certo senso. Quasi come se avessi paura di fare qualcosa di
sbagliato.»
«Forse
avevo paura che scoprissi che sono un'imbrogliona» sorride lei,
abbassando lo sguardo. «Non dico di non essere stata onesta con te.
Solo, non lo sono stata tanto quanto si dovrebbe esserlo quando si ha
una relazione con qualcuno.»
«Non
sei stata l'unica a nascondere qualcosa, tranquilla. Nemmeno io credo
di essere sempre stato completamente sincero, con te. Per il tuo
stesso motivo, credo. Non volevo sprecare il poco tempo che avevamo
mostrandoti la parte peggiore di me.»
«Sono
contenta che tu capisca il mio punto di vista. Questo rende le cose
più semplici, in un certo senso.»
«Di
sicuro mi rende più facile scegliere.»
«Scegliere?»
«Una
delle aziende a cui avevo spedito il curriculum mi ha contattato, e
mi ha offerto un posto. Non è un lavoro di grandi responsabiltà, ma
per iniziare non sarebbe male.»
«Perché
non me lo hai detto subito? Sono così contenta per te!»
«Sì,
anch'io sono stato felice di ricevere l'offerta, ma... il posto è a
Verona. Che non è esattamente dietro l'angolo. Insomma,
Milano-Torino è fattibile, ma Verona-Torino...» aggiunge con un
sospiro. «Mi hanno dato una settimana per pensarci, e io... beh, i
dubbi mi stavano mangiando vivo. Non potevo partire e costringerti ad
una relazione del genere, ma nemmeno volevo rinunciare al lavoro.»
«Allora
è un bene che ti stia lasciando» scherza Alice. «Per quanto la
cosa possa risultare romantica, non avrei mai accettato di vederti
dare un calcio alla tua carriera per me.»
«A
me piace pensare che ci stiamo lasciando di comune accordo» replica
lui, sorridendo a sua volta. «Se c'è un difetto che non ti sei mai
presa la briga di nascondere, è il tuo dispotismo. A volte sei
proprio prepotente, lo sai?»
«Ha
parlato mister Perfettino» ride lei. «Beh, adesso che ci siamo
chiariti credo di dover andare. C'è un treno fra dieci minuti, se mi
sbrigo posso farcela.»
«Vieni
a pranzo da noi, dai. Non è la prima volta, no?»
«Pensi
che sia appropriato? Ci siamo appena lasciati.»
«Sì,
e credo di aver bisogno del tuo supporto per dirlo ai miei. Se non
altro per fargli capire che è davvero
una decisione presa di comune accordo.»
*
Torino, 26 gennaio 2014
«Credo
di aver deciso» sentenzio mentre usciamo dal cinema. «Domani sera
mi autoinviterò a cena a casa e parlerò con Emanuele e Francesca.
Aspettare ancora sarebbe inutile e stupido. Qualche settimana non
cambierà la loro reazione. Insomma, farli incazzare ora o tra sei
mesi sarebbe la stessa cosa... giusto?»
«Immagino
di sì» risponde Marco, prendendomi la mano, «ma io credo che tu
parta prevenuta. Non puoi essere certa che si arrabbieranno. Non dico
che faranno certamente salti di gioia, ma potrebbero anche
sorprenderti... insomma, a volte può capitare che le persone ti
sorprendano.»
«Vorrei
tanto avere il tuo stesso ottimismo. Qualche volta sarebbe bello
vedere il bicchiere mezzo pieno.»
«Se
ti può consolare, è una dote che ho acquisito con il tempo. A furia
di aspettarmi sempre il peggio e rimanere sorpreso, ho imparato che
qualche volta sperare non fa male. Ti accompagno a casa?»
«Grazie,
sì» rispondo con un sorriso. «Oggi ho avuto la malaugurata idea di
fare le pulizie, e sono letteralmente distrutta. Però mia nonna
sarebbe fiera di me.»
«Passi
la domenica facendo le pulizie?»
«Non
sempre. Per questo oggi mi ha sfiancata.»
«Chi
l'avrebbe mai detto? Mi vedo con una perfetta donna di casa» mi
prende in giro. «Mi chiedo com'è che nessuno ti ha ancora sposata.»
«Trovalo,
un pazzo in grado di sopportare tutti i miei scleri» replico,
ridendo alla sua battuta.
«Beh,
almeno uno c'è» risponde, abbassando lo sguardo su di me. Mi
stringo un po' di più a lui e non rispondo, sapendo che è vero:
anche se fino a due settimane fa non lo avevo mai visto come un
possibile compagno, devo ammettere che si sta rivelando una scelta
positiva – è amorevole, premuroso, la maggior parte delle volte sa
capirmi e sa darmi i consigli giusti, e soprattutto riesce a
sopportare tutti i miei dubbi e le mie spesso inutili preoccupazioni.
Forse non sarebbe stata la mia prima scelta, in un mondo ideale dove
tutto può accadere, ma è di certo quanto di meglio mi potesse
capitare, in questo mondo reale che divora sogni e speranze con la
stessa voracità di una mantide religiosa.
Atterro
a Torino poco dopo le nove di sera, dopo un viaggio durato non so
quanto. Non sono mai stato bravo a capire le differenze tra fusi
orari, né sono mai stato un genio dell'organizzazione: di solito mi
limito ad andare dove mi dicono di andare, e siccome di solito è
Emma ad occuparsi di tutto, mi sono sempre lasciato trasportare come
una piuma che vola nel vento. Appena fuori dall'aeroporto salgo su un
taxi e gli do l'indirizzo, e la fortuna vuole che mi capiti un
tassista piuttosto giovane, che mastica piuttosto bene l'inglese e
ascolta buona musica. «Le dispiace se tengo la radio accesa?» mi
domanda.
Riconosco
Close to me dei The
Cure, e sorrido. «Assolutamente. Piacciono molto anche a me.»
«La
mia ragazza mi ha fatto una compilation per Natale» mi spiega,
immettendosi nello scarso traffico della sera. «Quando ci siamo
conosciuti nemmeno sapeva chi fossero. Ora è una fan più accanita
di me.»
«Avere
delle passioni in comune è positivo» commento, sicuro di ciò che
dico. «Almeno all'inizio, quando non ci si conosce ancora bene.»
«Beh,
noi ci conosciamo da un po', ormai. Sono due anni che stiamo insieme,
e sto per chiederle di sposarmi. Mi dicono tutti che è troppo
presto, che dovrei aspettare ancora, ma... non so, sento che è
quella giusta. Sarebbe stupido aspettare ancora, non crede?»
«Se
pensa che sia quella giusta, non deve aspettare. Trovare la persona
giusta è raro. Bisogna fare attenzione a non farsela scappare.»
«Quello
che dico anche io» risponde, spostandosi in un'altra corsia e
preparandosi a svoltare. «Non per farmi gli affari suoi, ma... sta
andando da una ragazza? Mi scusi, di solito non sono così invadente,
ma mi piace osservare la gente, e... beh, lei ha lo sguardo di uno
che sta andando a trovare una persona importante.»
Sorrido,
pensando che la mia condizione deve essere davvero evidente, se anche
un ragazzo mai visto prima nota la mia felicità e la mia
irrequietezza. Mi chiedo quante altre persone prima di lui abbiano
pensato questo di me. «In effetti sì, sto andando a trovare una
ragazza. Le faccio una sorpresa» aggiungo. «Non sa che sto andando
da lei.»
«Però,
una cosa davvero romantica. Una volta l'ho fatto anch'io con la mia
ragazza. Era in vacanza al mare con i genitori, ho preso la macchina
e sono andato fino in Toscana. Da qui è un bel viaggio. Da quanto
non la vede?»
«Due
mesi» rispondo. «In realtà due mesi fa mi ha lasciato, e io sto
andando da lei sperando di riprendermela.»
«Due
mesi? Perché ha aspettato tanto prima di tornare da lei?»
«Mi
ha chiesto di non cercarla. Mi ha chiesto di lasciarla sola, e io ho
cercato di rispettarla.»
«Dice
sul serio? Se Simona mi avesse mai chiesto una cosa del genere, io me
ne sarei fregato. Sarei andato anche sulla Luna, pur di
riprendermela.»
«Ripensandoci,
so che avrei dovuto ignorarla e fare quello che volevo, ma... ero
arrabbiato, credo. E sono sempre stato un tipo orgoglioso. Non ho mai
permesso al mio cuore di prendere il sopravvento, e continuare su
quella linea mi sembrava giusto. Solo che poi mi sono accorto che...
beh, stare senza di lei non ha senso. Ho una vita più che decente,
una bella famiglia, degli amici che mi vogliono bene, mi pagano per
fare un lavoro che amo, però...»
«Però
lei rende tutto più bello, vero?» sorride, cercando il mio riflesso
nello specchietto. Annuisco, lasciandomi andare contro il sedile, lo
sguardo fisso sulle luci della città. «E allora andiamo a vedere se
riusciamo a rimettere insieme questa coppia» aggiunge, svoltando in
un'altra strada.
Per
la terza sera consecutiva, Alice non riesce a rilassarsi
completamente. Le ha provate tutte: un lungo bagno caldo, riordinare
l'armadio sulle note delle canzoni di Regina Spektor, una buona
tisana ai frutti rossi... ma niente sembra funzionare. Eppure ha
risolto le sue questioni in sospeso, non dovrebbe faticare così
tanto a dormire. Poi vede la scatola con i ricordi di Daria e
Shannon, ancora appoggiata sulla sedia, e capisce che non sarà
completamente tranquilla finché anche quella questione non sarà
sistemata. Non che possa fare molto, certo: non può certo prendere
il bigliettino con i contatti di Emma Ludbrook e mandarle un'e-mail
per farle presente che Shannon dovrebbe muovere il culo e venire a
Torino perché Daria ha bisogno di lui. O meglio, potrebbe, ma questo
significherebbe diventare la persona invadente che non è mai stata,
e non è pronta per alienarsi completamente l'amicizia di Daria. Si
siede sul letto e passa in rassegna ancora una volta i cimeli della
favola della sua migliore amica, chiedendosi perché mai ci sia anche
un'orchidea di stoffa. Fissa per due minuti buoni la fotografia che
li ritrae ai piedi della statua equestre in piazza San Carlo,
pensando che persino un cieco si accorgerebbe dell'amore che Shannon
provava già, nonostante conoscesse Daria da meno di una settimana.
«Era innamorato cotto già allora» sussurra, rimettendo giù la
foto. Spinge di nuovo la scatola sotto il letto, nascondendola alla
vista, poi scivola sotto le coperte. «E poi dicono che sono le
bionde ad essere stupide.»
«Eccoci
arrivati» annuncia il tassista, fermandosi in prossimità del
portone. «L'indirizzo è questo.»
«Va
bene. Può aspettare qui un attimo?» gli domando. Prima di mandarlo
via, voglio assicurarmi che Daria sia in casa. Suono il citofono, poi
rimango in attesa. Suono una seconda volta, e poi una terza, ma dopo
due minuti non ho ancora ricevuto risposta, il che mi fa supporre che
in casa non ci sia nessuno.
«Non
è in casa?» mi domanda il ragazzo, vedendomi risalire in auto.
«Evidentemente
no» sospiro, chiedendomi se dovrei chiamarla per avvertirla che sono
davanti a casa sua. Guardo il telefono, poi cambio idea. «Può
cercare un parcheggio qui vicino? Aspetterò che rientri.»
«Va
bene. Però la avverto, devo tenere il tassametro acceso.»
«Non
importa. Non è un problema» rispondo, pensando che a questo punto
Jared si sarebbe già fatto venire un infarto. Lui probabilmente si
accamperebbe sul marciapiede, ma io non ci tengo affatto a prendermi
una polmonite. Insomma, è vero che amo Daria e farei qualunque
genere di sciocchezza per lei, ma ancora non me la sento di arrivare
a tanto.
Nel
tentativo di superare l'insonnia, Alice smanetta un po' con il
proprio iPhone, sperando di stancarsi e trovare finalmente pace tra
le braccia di Morfeo. Supera un paio di livelli a Candy
Crush, si stanca presto anche di
Ruzzle, e senza sapere
bene come finisce a leggere l'oroscopo. Non che abbia mai creduto a
quel genere di cavolate, certo: di solito è Daria, a dispetto della
sua onnipresente razionalità, ad affidarsi a simili mezzucci, però
Alice deve ammettere che Paolo Fox è un tipo abbastanza attendibile,
e di solito le sue previsioni si avvicinano molto alla realtà. Di sé
legge che sta per superare un periodo denso di impegni – e non è
difficile da prevedere, visto che è in piena fase esami – e che i
single non devono disperare, perché troveranno presto la felicità –
e qui sorride, perché essendo tornata single da meno di un giorno
dopo una storia di nove anni, trovare un altro uomo è l'ultima cosa
che desidera. Poi, per curiosità, consulta anche l'oroscopo dei
segni Vergine e Pesci, chiedendosi che cosa le stelle abbiano in
serbo per Daria e Shannon. Ciò che legge fa vacillare il suo
scetticismo, anche se solo per un attimo: in entrambi i casi si parla
di scelte sbagliate, di errori da correggere, di occasioni da
prendere al volo, di partenze e di ritorni – e nel leggere quelle
parole il suo sesto senso si attiva, portandola a chiedersi se forse,
a pochi chilometri da lì, ma anche a migliaia di miglia, non stia
accadendo qualcosa che potrebbe cambiare le carte in tavola.
Sono ormai le undici, e
Daria non è ancora rincasata. Il tassametro continua a correre, ma
ho smesso di prestargli attenzione. È dalle dieci e mezza che il
tassista ha smesso di parlare, comprendendo il mio stato d'animo. Con
la coda dell'occhio lo vedo smanettare con il telefono, forse dando
la buona notte alla sua ragazza. Un po' invidio la sua situazione, il
fatto che lui sia felice mentre io me sto qui ad aspettare una donna
che non so quando potrebbe arrivare – né che cosa potrebbe dire
vedendomi di nuovo dopo tutto questo silenzio.
Finalmente,
qualcosa sembra muoversi. Apro lo sportello e scendo sul marciapiede,
abbastanza vicino per distinguere le persone che si avvicinano al
portone, ma al contempo abbastanza lontano da poter sfruttare
l'effetto sorpresa. «Cos'è successo? È arrivata?» mi sento
domandare, ma non rispondo, troppo preso dalla mia analisi. Sento una
risata femminile, e anche a parecchi metri di distanza sento che è
lei. È Daria. Quasi non mi reggo sulle gambe per la sorpresa, e per
essere certo di rimanere in piedi devo aggrapparmi allo sportello
ancora aperto. Sono abbastanza lontano, ma anche da quella distanza
riconosco la sua bellezza, il suo portamento, la sua camminata, e
anche da quella distanza il suo cappello rosso mi fa sorridere,
convinto come sono che le stia benissimo.
Quando
finalmente mi riprendo muovo due passi in avanti, fermandomi subito
dopo. Daria è con un uomo, uno che non riesco ad identificare.
Soltanto adesso mi accorgo che lui non solo le ha camminato accanto
fino al portone, ma che le loro mani sono intrecciate, che le dita di
lei stringono quelle di lui nello stesso modo in cui un tempo
stringevano le mie. Mi sono appena accorto di questo dettaglio, e
subito dopo li vedo abbracciarsi, e baciarsi in un modo che non
lascia spazio ad alcun dubbio. Mi copro la bocca con una mano,
rendendomi conto che quello non è il tipo di bacio che si dà alla
fine di un appuntamento con una persona qualunque – quello è il
tipo di bacio che si dà ad una persona di cui ti importa, e anche
molto.
Dopo
quelli che forse sono due minuti, ma che potrebbero tranquillamente
essere un paio d'ore, li vedo separarsi e salutarsi. Lei apre il
portone ed entra, mentre lui torna indietro nella direzione da cui
sono arrivati. Serro forte le labbra, sentendo che le lacrime si
stanno facendo strada tra le mie ciglia, e senza dire una parola
torno indietro e risalgo a bordo del taxi. «Mi riporti
all'aeroporto, per favore» sussurro, e il tassista non fa domande.
Rimette in moto e parte, mentre la voce di Robert Smith continua a
fare da colonna sonora a questo assurdo viaggio. Parte Boys
don't cry,
e mai come in questo momento sento che la mia vita è accompagnata
dalla canzone giusta.
Dopo essermi chiusa il
portone alle spalle rimango per qualche istante ferma nell'androne,
colta da uno strano presentimento. Dopo qualche secondo riapro il
portone e guardo fuori, esplorando entrambi i lati della strada. Sarà
una cosa stupida, ma per un po' mi è sembrato che qualcuno stesse
osservando me e Marco, come se ci fosse qualcuno appostato all'altro
capo della strada.
Constatato che la strada è
deserta, rientro e salgo in casa, decisa a filare dritta a letto.
Domani sarà una giornata piuttosto importante, ed è bene che
raccolga tutte le forze possibili.
«Ecco
a lei» dico, porgendo al tassista una mazzetta di banconote. «Tenga
il resto, e grazie.»
«Grazie
a lei» risponde lui, ficcando i soldi in un borsello e azzerando il
tassametro. «Ehi, amico, io... mi dispiace che non sia andata. Sul
serio, mi dispiace davvero. Non che abbia mai creduto al lieto fine,
ma... ci speravo.»
«Non
può andare sempre bene» replico, prendendo il borsone e
preparandomi a scendere. «Sono passati due mesi, non potevo certo
pretendere che stesse lì ad aspettarmi. Se posso darle un
consiglio... glielo chieda. Alla sua ragazza. Glielo chieda il prima
possibile. A volte il momento perfetto bisogna crearselo da sé.»
«Grazie
per il consiglio. Lo seguirò. Buon ritorno.»
«Grazie.»
Scendo, rabbrividendo per il contatto con l'aria gelida della notte.
Mi stringo nel cappotto e inizio a camminare, rientrando a testa
bassa nella struttura da cui, non più di tre ore fa, sono uscito
pieno di speranza.
1Dove
siamo? Che cosa diavolo sta succedendo? |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Hide
and seek della cantautrice britannica Imogen
Heap,
tratto dall'album Speak
For Yourself
(2005).
|
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Capitolo 13 *** 13 | Il mio cuore dice una cosa, il cervello ne dice un'altra. Non è facile, no, mettere d'accordo cuore e cervello, per me. I miei non si danno neanche del tu. ***
La lunga strada verso casa - 1
Pensavo
che avrei covato il capitolo ancora per un paio di giorni, salvo
rendermi conto che ci saranno di mezzo Halloween, il finesettimana e
un'altra serata di presentazione per il mio libro, e che se aspettassi
ancora la pubblicazione slitterebbe almeno di un'altra settimana... e
per quanto sia una persona estremamente sadica, non mi sembra giusto
farvi aspettare tanto. Tanto più che questo è soltanto un
capitolo di transizione, dove non succede niente di davvero eclatante,
perciò... godetevelo, se ci riuscite.
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo tredicesimo
Il mio cuore dice una
cosa, il cervello ne dice un'altra.
Non è facile, no,
mettere d'accordo cuore e cervello, per me.
I miei non si danno
neanche del tu.1
Torino, 27 gennaio 2014
Con l'aiuto di mio padre
sono riuscita ad organizzare una semplice cena in famiglia: solo io,
papà, Emanuele e Francesca. Voglio che siano soltanto loro a
beneficiare della verità, almeno per adesso. Sarà già difficile
introdurre l'argomento, e proprio non me la sento di avere intorno
innocenti spettatori. Nonostante mio padre mi rivolga eloquenti
occhiate per l'intero pasto, per sganciare la bomba aspetto il
momento del caffè. Mentre Emanuele mescola con energia per far
sciogliere lo zucchero e Francesca attacca la sua seconda fetta di
torta, io prendo un respiro profondo. «Ragazzi, io vi devo parlare
di una cosa importante» sparo fuori all'improvviso, ed entrambi si
bloccano, guardandomi come se fossi appena apparsa davanti ai loro
occhi. «Io credo... credo sia ora che parliamo della mamma.» In
cucina cala il silenzio: Emanuele smette di muovere il cucchiaino e
Francesca deglutisce a fatica il boccone che sta masticando, mentre
mio padre resta ai margini della scena, osservandomi, pronto ad
intervenire in caso di bisogno. «Non abbiamo mai parlato di lei, ma
io credo che sia ora di farlo. Ci siamo sempre comportati come se lei
non esistesse, ma lei esiste. Anche se non è stata molto
presente, lei...»
«Non è stata molto
presente?» mi interrompe Emanuele, con una risolutezza che non
avrei mai pensato di attribuirgli. «So che hai l'animo della
scrittrice, ma questa va ben oltre la licenza poetica. Lei non c'è
mai stata. Io nemmeno me la ricordo.»
«Ma io sì» replico.
«Insomma, ho passato un po' più di tempo con lei, quindi qualcosa
me lo ricordo. Anche se questo non mi ha impedito di passare gli
ultimi quindici anni ad odiarla e a pensare che mi avesse rovinato
l'esistenza.»
«E allora perché ne vuoi
parlare?» pigola Francesca, giocherellando con le briciole sparse
attorno al suo piatto.
Prendo un altro respiro,
guardo mio padre e decido di continuare. «Perché lei è tornata.
Vive qui a Torino, e un paio di settimane fa è venuta a cercarmi.
Voleva parlarmi. Chiedermi perdono, in realtà. Si è pentita di
essersene andata, e voleva sapere se saremmo mai riusciti a... beh, a
perdonarla.»
«Incredibile» sussurra
Emanuele. «Davvero incredibile. Spero che tu l'abbia mandata al
diavolo.»
Vedo mio padre muovere le
labbra, come per dire a mio fratello di non essere così duro, ma
decido di precederlo, e dire la verità. «In effetti sì. L'ho
mandata al diavolo. Posso immaginare che tu sia arrabbiato con lei,
ma posso assicurarti che io lo sono ancora di più. Lo sono di più
proprio perché ricordo com'era la vita con lei. Ero piccola, ma
conservo un sacco di ricordi di quel periodo, e rivederla dopo tutti
questi anni... mi ha fatta incazzare. Mi ha fatta incazzare davvero,
perciò le ho detto di sparire.»
«E allora perché ne
stiamo parlando?» continua lui, evidentemente seccato dalla notizia
che ho appena dato.
«Perché poi mi sono
pentita di essermi comportata così, e sono andata a cercarla. Per
quanto fossi arrabbiata, in fondo volevo sapere perché se ne fosse
andata. Ero arrabbiata come non lo ero mai stata, ma volevo sapere.
Così sono andata a cercarla, ci siamo messe sedute e abbiamo
parlato. Beh, in realtà è stata lei a parlare. Io ho soltanto
ascoltato.»
«E... che cosa ti ha
detto?» interviene Francesca, la voce sempre più bassa, ridotta
quasi ad un pigolio.
«Mi ha spiegato i motivi
per cui ha deciso di andarsene. Mi ha raccontato quello che ha fatto
in tutti questi anni, mi ha parlato del suo lavoro, della sua vita,
e... della sua famiglia» concludo, sapendo che la parte difficile
arriva ora.
«Della sua famiglia?»
ripete Emanuele. «Questo che significa?»
«Significa che qualche
anno dopo il divorzio si è risposata, e... ha avuto un altro
bambino. Abbiamo un fratello.» Francesca sgrana gli occhi, che
continua a tenere fissi su di me, mentre Emanuele guarda in basso,
come se stesse a stento trattenendosi dall'esplodere. «Ha undici
anni, si chiama Luca. L'ho conosciuto qualche giorno fa, e... beh,
lui è un bambino straordinario. L'anno scorso ha perso suo padre, e
a parte la mamma lui... lui non ha nessuno.»
«Quindi che vuole? Adesso
che è rimasta vedova le fa comodo tornare per avere dei babysitter
gratis? Cos'è, vuole tornare con papà? Vuole che torniamo ad essere
una bella famiglia felice?»
Comprendendo la mia
difficoltà nell'affrontare la rabbia di Emanuele, mio padre
interviene. «No, Emanuele. Tua madre non ha chiesto nulla del
genere. Non è un'opportunista, non lo è mai stata. La conosco da
una vita, e ti assicuro che non cadrebbe mai così in basso.»
«La conoscevi da una vita,
eppure questo non ti è servito ad impedire che ti lasciasse.»
«Non è andata proprio
così. Ci sono cose che non sai.»
Emanuele si alza e inizia a
passeggiare su e giù per la stanza per scaricare la tensione.
«Avresti potuto parlarcene, allora. Forse non quando eravamo
bambini, ma adesso siamo abbastanza adulti per capire. Perché non ci
hai mai detto come sono andate davvero le cose?»
«Perché il divorzio è
stato un fallimento, e sono poche le persone che parlerebbero
volentieri di un fallimento. Ciò che posso dirti è che se siete
cresciuti senza una madre è anche colpa mia. È vero, è stata lei
ad andarsene, ma io sono altrettanto colpevole. Avrei dovuto fare di
più per impedirglielo, e invece non sono stato in grado di
combattere. Perciò, se devi arrabbiarti con qualcuno, quel qualcuno
dovrei essere io.»
«Scusa, è solo che... non
riesco a capire perché sia tornata. Perché sia tornata adesso. Io
non... io non riesco a capire, tutto qui.»
A questo punto, comprendo
che tocca di nuovo a me. «Perché ha bisogno di aiuto. I suoi
genitori sono morti, suo fratello vive in un'altra nazione e ha perso
suo marito. Luca è tutto ciò che le rimane, e lei teme che possa
rimanere solo, nel caso che... beh, se le dovesse succedere qualcosa.
È una madre, il suo istinto è proteggere la prole. Va bene, lo
riconosco, con noi non è stata una campionessa di istinto materno,
ma il tempo l'ha cambiata. È cresciuta, se vogliamo dire così.
Adesso vuole proteggere suo figlio, ma da sola non può farcela.»
Faccio una pausa, durante la quale Francesca abbassa lo sguardo ed
Emanuele smette di camminare. «Io ho conosciuto quel bambino, e ha
davvero bisogno di avere qualcuno accanto. Non dico che sarà facile,
ma farò di tutto per aiutarlo, per... per essere una buona sorella
maggiore. Non voglio obbligare nessuno dei due ad incontrarlo, né
tantomeno a volergli bene. E non voglio nemmeno obbligarvi ad
incontrare lei, se non lo volete. Non voglio obbligarvi, non posso e
non lo farò. Però l'hai detto anche tu, Emanuele. Adesso siete
abbastanza grandi per capire, e non potevo tenervi nascosta la
verità. Se non volete avere niente a che fare con questa faccenda, a
me sta bene. Vi vorrò bene comunque. Però lo dovevate sapere.»
Incrocio lo sguardo di mio padre, che annuisce per farmi comprendere
che approva il mio discorso.
«Io... io credo di aver
bisogno di un po' di tempo per pensarci» sussurra mio fratello,
grattando il pavimento con la punta del piede. «Ora scusate, ma devo
andare a studiare. Ho diversi codici da rivedere. Grazie per la cena.
Buonanotte.»
Seguiamo la sua ritirata
con lo sguardo, poi tutta l'attenzione si rivolge verso Francesca,
evidentemente a disagio. In risposta, lei si alza e mette il proprio
piatto nel lavandino. «Io... penso anch'io di aver bisogno di un po'
di tempo.» Le sorrido, cercando di farle capire che sono dalla sua
parte, e così anche lei sorride. «Ora dovrei... devo andare a
finire un disegno, scusate.»
Rimasti soli, io e mio
padre ci scambiamo una lunghissima occhiata. «Beh, direi che è
andata bene» sospira lui. «Non credevo avresti avuto il coraggio di
dirglielo.»
«Dovevano sapere la
verità. Se può esserti di consolazione, nemmeno io pensavo che ce
l'avrei fatta.»
«La verità è una buona
cosa» replica, alzandosi e cominciando a sparecchiare. «Bisognerebbe
sempre dire la verità.»
Mi alzo per aiutarlo. «La
verità può anche far male.»
«Se ne avessi la facoltà,
vorrei poter obbligare tutte le persone che amo a dirmi la verità,
sempre. Le bugie fanno male, ma quando è una persona a cui vuoi bene
quella che ti mente, è anche peggio.» Mi blocco, chiedendomi se
questo discorso non sia in realtà un modo per farmi ammettere una
mancanza. «So tutto, Daria» dice infine, immergendo i piatti nel
lavandino. «So della tua storia con quel musicista, so di Parigi,
so... so tutto, ecco» aggiunge, dandomi le spalle.
«E come fai a sapere
tutto?»
«Ho parlato con Alice»
ammette, voltandosi di nuovo verso di me. «Non arrabbiarti con lei.
Farla confessare è stato parecchio complicato. Hai un'amica davvero
speciale, e spero che tu te ne renda conto.»
«Perché sei andato a
farti raccontare i miei affari personali da Alice?»
«Perché tu non avresti
risposto alle mie domande.»
«Perché sono cose
private!»
«Però con lei ne hai
parlato.»
«Alice è la mia migliore
amica, è ovvio che abbia parlato con lei.»
«Ne hai parlato anche con
il tuo psicologo.»
«Con lui parlo da anni, e
la cosa non ti ha mai dato fastidio. Perché adesso sì?»
«Non sto dicendo che mi
abbia dato fastidio. Solo, non riesco a capire perché tu non mi
abbia mai detto niente. Una volta parlavamo di tutto.»
«Sei mai andato a parlare
con tua madre delle ragazze con cui uscivi?»
«Beh, no. Ma era diverso,
era...»
«Non c'è niente di
diverso, papà. È esattamente la stessa cosa. È naturale che i
figli abbiano dei segreti per i genitori. Soprattutto quando si
tratta della propria vita sentimentale.»
«Non si tratta soltanto
della tua vita sentimentale, Daria. Non sono andato da Alice a
chiedere informazioni sui tuoi ex ragazzi.»
«E allora che cosa le hai
chiesto?»
«Le ho chiesto perché non
sei più felice» risponde dopo un attimo di silenzio, spiazzandomi.
«Sei diversa, Daria, e questo salta agli occhi di tutti. Da quando
sei tornata da Parigi non sei più la stessa. Subito pensavo che
fosse soltanto una mia impressione, credevo di essere diventato più
sensibile soltanto perché ti eri trasferita e non potevo tenerti
d'occhio come prima. Però poi mi sono accorto che non era soltanto
una mia impressione. Sei cambiata davvero, e io avevo bisogno di
sapere perché. Non sapevo che la cosa avesse a che vedere con un
ragazzo, anche se lo sospettavo, finché non ho obbligato Alice a
sputare il rospo.»
«Che cosa ti ha
raccontato?»
«Tutto... o almeno credo.
Mi ha raccontato di lui, del lavoro che fa, della sua vita... e poi
mi ha raccontato di quanto ti rendesse felice, e di come tu lo abbia
lasciato. Mi ha raccontato di Parigi, del modo in cui sei fuggita, e
ha confermato le mie impressioni. Da quando hai deciso di darci un
taglio non sei più la stessa.»
«Ti ha detto quanti anni
aveva?»
«Sì, e anche se la cosa
mi sconvolge un pochino, mi rifiuto di credere che questo sia stato
il solo motivo che ti ha spinta a piantarlo. L'età è soltanto un
numero, in fondo. Guarda i miei genitori: mio padre era parecchio più
grande di mia madre, ma questo non ha impedito loro di essere felici
e di costruirsi una famiglia. Hanno avuto una splendida vita,
insieme.»
«Il punto è questo, papà.
Per quanto io e Shannon ci amassimo, costruire qualcosa insieme
sarebbe stato impossibile. Non ci saremmo mai riusciti.»
«Niente è impossibile,
Daria. Sarebbe stato difficile, questo non lo nego, e di sicuro
avreste avuto dei momenti no, ma sareste riusciti a risolverli.
Nessuno ha mai avuto vita facile a questo mondo, ma in fondo chi la
vuole una vita senza complicazioni?» sorride. «Quello che più mi è
dispiaciuto è stato capire che avevi gettato la spugna. Ti sei
arresa senza combattere, e questo mi fa sentire un fallito. Come
padre, sento di aver fallito il mio compito, perché pensavo di
averti insegnato che si deve sempre combattere, anche quando le cose
si mettono male. Ma sono certo che tu abbia preso la decisione più
giusta, alla fine. Insomma, se credi che potrai stare bene anche
senza di lui, allora va bene. Ciò che conta è la tua felicità.
Nient'altro. Solo la tua felicità.»
«Io sto bene, papà.
Credimi. Sto molto bene.»
«E allora perché non mi
guardi negli occhi mentre lo dici?»
Punta sul vivo, tiro fuori
un coraggio che non avrei mai sperato di trovare. «Io sto bene»
ripeto, assicurandomi di mantenere il contatto visivo per tutto il
tempo. «Non sei stato un fallimento come padre. Mi hai insegnato a
pensare con la mia testa e a prendere sempre la decisione migliore
per me, e ti assicuro che in questo caso ho davvero preso la
decisione giusta. Con Shannon sarei stata felice, per un po', ma mai
abbastanza a lungo. È stata la decisione giusta» ripeto, sapendo
però di non esserne tanto sicura. Per quanto mi piaccia pensare di
poggiare i piedi su solide certezze, so che più di una volta ho
vacillato, e che probabilmente accadrà ancora. Ma soltanto gli
automi non sbagliano mai, e io sono più che certa di non essere un
automa. Sono un essere umano, una persona vera, una ragazza fatta di
carne, sangue, cuore e cervello... per quanto il mio cuore e il mio
cervello siano sempre stati piuttosto in competizione tra loro.
«Starò bene.»
Poco più di mezz'ora più
tardi, Daria bussa alla porta della stanza di Francesca, intenta a
realizzare un ritratto. Daria si avvicina a passo leggero, sbirciando
il lavoro della sorella da sopra la sua spalla, e ciò che vede la
sorprende: Francesca sta realizzando un ritratto della madre a
partire da una vecchia fotografia, una di quelle che sapeva essere
sepolte in una scatola sul fondo dell'armadio del padre. «Papà
crede di averle nascoste bene» si giustifica la ragazzina,
continuando a lavorare. «Le ho scoperte quando avevo dieci anni. Ne
ho arraffate un paio e le ho nascoste nel cassetto delle mutande. Di
sicuro lì non metterà mai le mani.» Daria sorride, accarezzandole
la testa. «Credo che mi sia mancata più di quanto sia disposta ad
ammettere. E so che è stupido, perché di lei non ricordo niente,
ma... mi è mancata, tutto qui.»
«Non è affatto una cosa
stupida. È normale che ti sia mancata. È pur sempre una madre che
non ti vede crescere. Che la ricordi o meno, è normale sentire la
sua mancanza.»
«Ti ha chiesto qualcosa di
me? Insomma, quando avete parlato lei... lei ha voluto sapere
qualcosa di noi?» le domanda Francesca, smettendo finalmente di
disegnare per alzare lo sguardo.
«Sì, mi ha chiesto un
sacco di cose di te. Mi ha chiesto se ti impegni nello studio, che
cosa ti piace fare... ah, e mi ha raccomandato di tenere d'occhio il
tuo ragazzo. Credo si preoccupi molto per te. Credo si sia
preoccupata molto per tutti noi, in fondo.»
«E allora perché non è
mai tornata?»
Daria alza le spalle, come
a dire che non sa spiegarlo. «A me ha detto di essersi pentita ogni
giorno della sua fuga, ma non mi ha dato spiegazioni. Credo che
nemmeno lei sappia darsi una spiegazione. Forse pensava che non
l'avremmo mai perdonata, dunque non valeva nemmeno la pena tentare.»
«Posso farti una domanda?»
«Naturale. Cosa vuoi
sapere?»
«Come sei riuscita a
decidere di incontrarla? Insomma, come hai deciso di... di darle
un'altra chance?»
«Non ne ho idea. Non è
stato semplice, comunque. Insomma, non è che mi sono svegliata, un
mattino, e ho deciso di riammetterla nella mia vita. È stato un
percorso lungo e complicato, e se devo essere sincera mi sento ancora
un po' confusa.» Daria fa una pausa per riflettere. «Credo che a
convincermi definitivamente sia stato Luca. È per lui che lo faccio,
più che per lei. È un ragazzino molto solo, e io so come ci si
senta ad essere soli. Non è una bella sensazione» conclude,
appoggiandosi di schiena alla scrivania e incrociando le braccia
davanti al petto. «Comunque non voglio che ti senta obbligata a fare
alcunché, e lo stesso vale per Emanuele. Non siamo un'unica entità.
Ognuno di noi ha la sua testa e le sue idee, ed è giusto che agisca
di conseguenza.»
«Io non so che cosa fare»
sospira Francesca. «In un certo senso mi sento arrabbiata con lei,
vorrei prenderla a calci nel sedere e dirle di sparire. Però poi mi
dico che è un'occasione più unica che rara, e cambio idea. È vero,
si è persa una bella parte della mia vita, ma resta sempre mia
madre. Anche se è tardi, potrei finalmente conoscerla. Sai, sapere
qualcosa in più su di lei... mi sto rendendo conto solo adesso di
quanto mi sia mancata.»
«Dicono che non ci si
renda conto di quello che hai finché non lo perdi.»
«Ma anche che non ti rendi
conto di ciò che ti è mancato finché non ti capita davanti.»
«La mia sorellina sta
diventando saggia» scherza Daria, scompigliandole appena i capelli.
«Qualunque cosa deciderai andrà bene, e nessuno ti giudicherà per
questo.»
*
Los Angeles, 27 gennaio
2014
Sembrano
essere passati secoli da quando sono partito, e invece sono passate
soltanto poco di più di quarantotto ore. Entro in casa sbattendo la
porta, abbandono il borsone in corridoio e cammino fino in salotto,
fermandomi accanto al divano. Resto fermo per qualche istante nella
penombra, accorgendomi soltanto in questo istante di quanto sia vuota
la mia casa, e di conseguenza la mia vita. È vero, qualunque cosa
accada avrò sempre dalla mia delle persone che mi vogliono bene –
mia madre, mio fratello, Wayne, Tomo –, ma nessuna di quelle
persone potrebbe mai amarmi nel solo modo in cui abbia bisogno di
essere amato. Mi chiamo Shannon Leto, ho quasi quarantaquattro anni,
e passerò il resto della mia vita da solo.
Non è mai accaduto che una persona mi conquistasse tanto da arrivare
a prendersi il mio cuore, e in questo istante mi rendo conto che se
in tutta la vita non ho mai abbassato le mie difese, un motivo c'era.
Ho sempre cercato di evitare di buttare le cose troppo sul personale
per evitare di essere ferito, e l'unica volta in cui non ho ritenuto
necessario difendermi è successo. Daria mi ha rubato il cuore, lo ha
incatenato al suo e poi lo ha strappato via, lo ha fatto a pezzi e
non si è disturbata nemmeno a passarmi un po' di colla per
rimetterlo insieme.
Daria ha un altro uomo.
Soltanto ora sembro realizzare. Sono passati soltanto due mesi da
quando mi ha lasciato, e Daria ha concesso il proprio cuore ad un
altro uomo. C'è un altro nella sua vita: sono gli occhi di un altro
quelli che studiano ogni suo movimento, sono le labbra di un altro
quelle che la baciano, sono le mani di un altro quelle che la fanno
sentire protetta. C'è un altro uomo nella sua vita, e io non sono
stato in grado di reagire. Li ho visti baciarsi e non ho mosso un
dito, anzi: ho battuto in ritirata come uno stupido ragazzino inerme,
senza dire una parola. Vent'anni fa non lo avrei accettato: sarei
corso a dividerli e forse avrei anche rifilato un paio di pugni a
quel bastardo fortunato. Ma a quarant'anni le cose si affrontano in
modo diverso, anche se, come me, sei un tipo che vive in modo
decisamente alternativo, e che per antonomasia riesce sempre ad
ottenere ciò che desidera.
A quarant'anni le cose si
affrontano in modo diverso, ma la rabbia e la frustrazione che mi
scorrono nelle vene sono le stesse di un tempo. Usare le mani sembra
una necessità, quasi un bisogno fisico che mi fa prudere i palmi e
ha bisogno di essere sfogato. Mi sfilo il cappotto e lo lascio cadere
sul divano, poi cammino rapidamente fino alla stanza che uso come
studio. Accendo le luci, afferro le bacchette, e senza nemmeno
mettere i tappi mi siedo sul seggiolino e inizio a picchiare sui
tamburi come un forsennato, come se fosse l'unico modo per sfogare
ciò che provo. Non seguo un ritmo, una particolare partitura:
picchio e basta, come se su ogni tamburo fosse dipinta la figura di
quelle due persone che si abbracciano e si baciano davanti al
portone, sotto la luce fioca di un lampione. Picchio, picchio e
picchio ancora, finché la rabbia viene fuori. Scatto in piedi e do
un calcio ad un tamburo, rovesciandolo con un grido che somiglia ad
un ringhio. Continuo a gridare fuori la mia rabbia e a prendere a
calci tutto ciò che mi capita a tiro, senza pensare a quando dovrò
rimettere a posto il casino che sto combinando.
Quando finiscono i tamburi
da calciare, sembra finita anche la rabbia. Mi blocco, guardandomi
attorno con il fiatone. Dicono che sfogarsi sia un bene, che ti
faccia sentire meglio, ma io non mi sento affatto meglio. Sono ancora
arrabbiato, deluso, e il mio cuore giace ancora in pezzi sul
pavimento, insieme ai fogli che ho sparso in giro durante la mia
furia.
Torno in salotto e vado
deciso verso lo stipetto dove conservo i liquori. Senza pensarci
arraffo una bottiglia di scotch, e dopo aver brevemente valutato
l'idea di prendere un bicchiere ci ripenso. Chiudo gli occhi e bevo
un lunghissimo sorso, sentendolo bruciare mentre corre giù per la
mia gola, arrivando fino allo stomaco. Mi premo il dorso della mano
sulle labbra, stringendo più forte le palpebre, e a questo punto
faccio l'unica cosa che mi ero ripromesso di non fare mai più: mi
lascio andare al pianto. Le lacrime sono calde e umide, e quando mi
arrivano alla bocca persino le mie papille gustative bruciate
dall'alcol riescono a percepire il sale di cui sono intrise. Bevo
ancora, pur sapendo che questo non mi aiuterà. Bevo e spero di
dimenticare, arrancando fino al divano. Mi lascio scivolare sul
pavimento e continuo a bere, sperando di svegliarmi, domani mattina,
e di scoprire che è stato tutto un sogno, che sono ancora nella mia
stanza d'albergo, a Milano, e che niente di tutto questo è accaduto
veramente.
*
Torino, 28 novembre 2014
Seduta
a cena con le proprie coinquiline, Alice appare pensierosa e piena di
dubbi. «Posso chiedervi un consiglio?» domanda, sapendo che un
parere extra non fa mai male. «Se una vostra amica trovasse l'uomo
perfetto per lei e lo lasciasse perché è convinta che tra loro non
possa funzionare, e se voi aveste la possibilità di farli tornare
insieme, o se comunque aveste la possibilità di provarci, che cosa
fareste? Insomma, vi fareste gli affari vostri e le lascereste
commettere il più grande errore della sua vita, oppure ficchereste
il naso?»
«Io
ficcherei il naso» rispondono le due in contemporanea, rivolgendosi
poi uno sguardo divertito e scoppiando a ridere.
«Non
pensate che lei potrebbe arrabbiarsi? Insomma, è sempre della sua
vita privata che si parla.»
«Quanto
siete amiche?» le domanda Marta, studentessa di matematica.
«Ci
conosciamo da sempre. Siamo praticamente cresciute insieme.»
«E
allora ficcare il naso è un tuo diritto» ribatte Cristina,
all'ultimo anno di beni culturali. «Anzi, un dovere. Se la conosci
da sempre e sei sicura che abbia commesso un errore, è tuo preciso
dovere farglielo notare e consigliarle la giusta direzione.»
«E
se lei non mi volesse dare retta?»
«Allora
intervieni» interviene di nuovo Marta. «Se lei non imbocca da sola
il sentiero, ci vuole una spintarella.»
Alice
sorride, sapendo che nel caso di Daria ci vorrebbe molto più di una
spintarella. «Grazie. Avevo un dubbio da chiarire.»
Più
tardi, seduta sul letto con il portatile in bilico sulle gambe
incrociate, Alice si sente più nervosa di quando si trova a dover
scrivere ad un docente. È sempre stata molto brava con le lettere
formali ed ha una conoscenza quasi ottima dell'inglese, ma ora che si
trova a dover combinare le due cose non si sente più sicura di
nulla. Nell'arco di un paio di giorni si sente trasformata, come se
stesse diventando una nuova Alice, come se improvvisamente avesse
varcato un confine invisibile, una linea netta che separa i ragazzini
dagli adulti e divide per sempre i giochi dalla realtà. Sta per fare
una cosa importante, forse una cosa che non dovrebbe nemmeno esserle
passata per la mente, ma in fondo si tratta di Daria e della sua
felicità, e per lei che non ha mai avuto una sorella questa è
l'occasione di essere una brava sorella maggiore. Prende un respiro e
inizia a muovere le dita sulla tastiera, tornando spesso indietro per
modificare ciò che ha scritto, e quando finalmente preme il tasto
Invio sono passate le quattro di mattina.
*
Los Angeles, 29 gennaio
2014
Quando
sente il trillio ripetuto del computer, che la sta avvertendo
dell'arrivo di una nuova e-mail, Emma apre gli occhi e sbuffa. Jared
le ha finalmente concesso una giornata di riposo, che lei ha
programmato di dividere equamente tra il letto, un bagno caldo, una
grossa pizza al formaggio e l'ultima stagione di The Big
Bang Theory. Tuttavia, una vita
passata ad organizzare la vita dei Mars fino all'ultimo dettaglio,
pause pipì comprese, ha dato i suoi frutti, e il suo spirito
maniacale ha la meglio. Afferra il cellulare abbandonato sul comodino
e si alza, pensando che tanto vale andare a farsi un caffè. Cammina
per casa cercando di connettere il cervello al midollo spinale,
sbatte il piede contro lo spigolo del divano e impreca in una lingua
semisconosciuta, e una volta in cucina riesce finalmente ad accedere
alla sua casella di posta. Non le sembra di conoscere l'indirizzo, ma
si consola sapendo che probabilmente in quel momento, annebbiata dal
sonno e acceccata dal dolore alle dita dei piedi, probabilmente non
riconoscerebbe nemmeno suo padre. Inizia a leggere soltanto quando
può stringere nella mano libera una tazza calda, e già dall'oggetto
della lettera capisce di doversi sedere.
Da:
alice.lucarelli@yahoo.it
A:
emma_ludbrook@gmail.com
29-01-2014
| 04:13 AM (GMT+1)
Oggetto:
Emergenza Daria
Salve,
innanzitutto
chiedo scusa per il disturbo, ma si tratta di una vera emergenza.
Forse in una situazione normale non mi sarei presa tanta libertà e
confidenza, ma ci sono casi in cui una donna deve fare quello che
deve fare.
Mi
chiamo Alice Lucarelli, e sono la migliore amica di Daria. La Daria
di Shannon, intendo. Anche se non credo conosca molte ragazze che si
chiamano Daria. Daria non sa che sto scrivendo questa e-mail, e forse
è meglio che sia così. Già mi chiedo in quale modo deciderà di
torturarmi fino alla morte quando lo verrà a sapere...
Daria
ha commesso il più grande errore della propria vita, scappando da
Parigi, e per quanto abbia provato a farglielo capire, lei non sembra
in grado di accettarlo. Non ammetterà mai di aver fatto una
stupidaggine, soprattutto con se stessa. La conosco da molto tempo,
praticamente da una vita intera, e so che si è pentita di ciò che
ha fatto un attimo dopo essere uscita dall'albergo. Ma conoscerla da
una vita significa anche conoscere i suoi difetti, e se Daria ha un
difetto, è quello di essere testarda come un mulo. Potrei essere
l'oratrice migliore del mondo, e difficilmente mi darebbe ascolto.
Il
punto è che lei è convinta di essere completamente indifferente a
Shannon, e anche se non ho mai avuto il piacere di conoscerlo né di
parlargli faccia a faccia, sono più che certa che non sia così.
Questo perché conosco Daria da una vita, e so che è fisicamente
impossibile starle accanto per più di cinque minuti e non
affezionarsi a lei, o addirittura innamorarsene. È una persona
difficile da capire ed è ancora più difficile starle accanto, ma se
c'è una cosa di cui sono certa è che Shannon non può non essersi
accorto di quanto sia speciale e di quanto sia straordinario poter
godere della compagnia di una simile persona. Per non parlare poi
dell'amore. Perché, sento di doverlo ripetere ancora una volta, io
la conosco da sempre, e so capire con un solo sguardo quando ama
qualcuno. Non parlo dell'innamoramento, di una cotta, di quello stato
semi-diabetico che ti fa vedere il mondo attraverso lenti colorate di
rosa e ti fa escludere tutti i problemi, no. Daria non è così. Lei
non è una di quelle ragazze che si innamorano e annullano loro
stesse in funzione dell'uomo di turno, no. Lei non è una di quelle
persone che partono in quarta e fanno le cose di fretta. Lei impiega
moltissimo tempo per dare fiducia alla gente, e se con Shannon ci ha
messo così poco significa che per lui prova davvero qualcosa di
speciale, qualcosa di intenso, qualcosa che di certo non può essere
dimenticato nel volgere di pochi mesi.
Lei
non lo ammetterebbe nemmeno sotto tortura, ma la verità è che
Shannon le manca. Le manca come l'ossigeno, e senza di lui si sente
persa. Chi la conosce bene sa che da quando è tornata da Parigi non
è più la stessa, e tutti quelli che sanno di lei e Shannon possono
facilmente comprendere la ragione del suo cambiamento. Solo che,
appunto, lei ha la testa più dura del cemento, e non ammetterebbe
mai di aver commesso un errore di tale portata. Le piace credere di
avere la situazione sotto controllo, le piace credere di stare bene,
ma chi la conosce bene sa che non è così, perché quando il tuo
cuore è da un'altra parte, più precisamente dall'altra parte del
mondo, non puoi stare bene.
So
che suonerà certamente pretenzioso da parte mia, visto che in fondo
sono una ragazza sconosciuta che scrive da un altro continente e
Shannon nemmeno lo conosce, ma vorrei solo fargli sapere che se tiene
a Daria tanto quanto immagino, se ancora la ama (perché deve
amarla ancora, mi rifiuto di credere il contrario), allora dovrebbe
saltare sul primo aereo disponibile e venire qui a dirglielo,
qualunque cosa lei gli abbia chiesto nella sua stupida lettera.
Shannon dovrebbe farlo, e dovrebbe farlo subito, perché Daria lo ama
ancora e ha bisogno di lui, e senza di lui corre il rischio di non
essere mai più felice quanto merita.
Grazie
per l'attenzione,
Alice
Lucarelli
Emma impiega qualche
istante per assimilare il contenuto della lettera, ma appena i suoi
neuroni hanno la decenza di palesarsi capisce che deve correre a casa
di Jared. Lascia perdere il caffè e corre in camera, colpendo il
divano con il piede incolume, tornando ad imprecare, questa volta in
un inglese moderno e quantomai corretto. Si raccoglie i capelli alla
cieca, si lava i denti e si butta un po' d'acqua gelida sul viso, poi
fruga nei cassetti alla ricerca di qualcosa di pulito, senza badare
agli accostamenti di colore o stile. Esce di casa di corsa per
rientrare dopo un istante, accorgendosi di non aver indossato le
scarpe.
Dieci
minuti più tardi, sta già usando la doppia chiave per fare
irruzione in casa di Jared. «Jared!» urla, sapendo di usare gli
stessi toni di una a cui hanno incendiato la macchina. «Jared, ci
sei? Jared, ti devo parlare! È importante!»
Jared le viene incontro a
metà del salotto, finendo di sistemarsi un asciugamano attorno alla
vita. «Emma, che succede?» le domanda, sgranando gli occhi per la
sorpresa.
«Devi leggere questa,
subito!» ribatte svelta lei, ficcandogli in mano il proprio iPhone.
«Perché devo leggere la
pagina del meteo?» chiede lui, guardandola come se stesse decidendo
se chiamare il reparto di Psichiatria o meno.
«Scusa, ho sbagliato»
replica lei, riprendendosi il telefono per cercare la schermata
giusta. «Ecco, devi leggere questa e-mail. Mi è arrivata stanotte,
ma l'ho letta soltanto stamattina. La devi leggere, è importante.»
«La leggerò quando
smetterai di tremare come una vecchia con il Parkinson e mi darai il
telefono» risponde lui, cercando di mantenere la calma e prendendo
l'apparecchio. Emma tenta di rimanere zitta e ferma mentre aspetta il
responso di Jared, ma è consapevole di non essere mai stata più
nervosa. Capisce che nemmeno lui è tranquillo quando lo vede
arretrare fino al divano e sedersi, lo sguardo concentrato sullo
schermo e i lunghi capelli bagnati che ricadono davanti agli occhi.
«Ma che diavolo è questa, Emma?»
«La migliore amica di
Daria. A Parigi avevo dato a Daria uno dei miei biglietti da visita.
Probabilmente l'indirizzo l'ha preso da lì. Shannon deve andare in
Italia, ormai è sicuro. Deve mettere da parte l'orgoglio e le sue
stupide promesse e partire» aggiunge dopo un attimo di pausa. «Deve
partire.»
A
questo punto, Jared alza finalmente gli occhi sull'assistente. «Emma,
Shannon è già
partito. La notte tra il venticinque e il ventisei. A meno che non
sia caduto l'aereo, e sono certo che ne avremmo sentito parlare,
dovrebbe già essere da lei.»
Emma tenta di riflettere,
nonostante i neuroni abbiano di nuovo deciso per il letargo. «A
questo punto dovrebbe già averla vista, è vero. E se si fossero
visti, la sua migliore amica lo saprebbe. Insomma, se si dicono
tutto, dovrebbe saperlo. A meno che la loro priorità non sia stata
chiudersi in camera.»
«Per quasi tre giorni?
Ammetto che Shannon ci sappia fare, ma questo sarebbe troppo anche
per lui.»
«Pensi sia successo
qualcosa?»
«Non lo so» sospira lui,
passandosi una mano sulla fronte umida. «So solo che ultimamente il
mio sesto senso sembra essere entrato in sciopero. Forse mia madre ha
ragione, penso sempre in maniera troppo positiva.»
«Che intendi fare?
Insomma, è vero che ha scritto a me, ma è ovvio che si stia
rivolgendo a Shannon. Dovremmo chiamarlo?»
Jared le restituisce il
telefono, alzandosi in piedi. «No, non dobbiamo chiamarlo. Non so
nemmeno dove sia. Io... io vado a mettermi qualcosa addosso. Tu
rispondile e fatti dare il suo numero di cellulare. Scrivile ogni
trenta secondi finché non ti risponde.»
«Intendi telefonare ad una
ragazza che non conosci e che abita dall'altra parte del mondo?» gli
domanda lei, incredula per quanto ha appena sentito.
«Vedi una soluzione
migliore?» Emma si limita a fare spallucce. «Bene, nemmeno io.
Scrivile.»
*
Torino, 29 gennaio 2014
Alice
sente la notifica di una nuova e-mail e si illude che finalmente la
segreteria studenti abbia risposto alla domanda posta più di una
settimana prima. Quando apre la pagina, però, il cuore manca un
battito. Non soltanto Emma Ludbrook ha letto la sua delirante e-mail,
ma ha anche risposto. E vuole il suo numero di cellulare. Più che
certa che non si tratti di un fake che intende appropriarsi dei suoi
dati, Alice obbedisce e scrive il proprio numero su una pagina
bianca. Preme Invio, lascia perdere Kant e la sua filosofia e fa il
refresh della pagina ogni dieci secondi, aspettandosi chissà quale
mutamento nella schermata.
*
Los Angeles, 29 gennaio
2014
«Ho il numero!» esclama
Emma, agitando il telefono come una bandiera.
«Inoltramelo, per favore.
E anche l'e-mail di prima. E poi vai a casa e ti godi la tua giornata
di libertà» replica lui, indossando una maglietta.
«Sicuro di non volere
supporto morale?»
«Assolutamente sì.»
«Ma io voglio sentire cosa
vi dite...» protesta lei.
«Ma ci sono casi in cui
preferisco non avere spettatori» le sorride lui. «Avanti, esegui e
poi fila via. Una giornata di riposo ti serve. Ti sei persino messa
la maglia a rovescio.»
*
Torino, 29 gennaio 2014
Con lo sguardo
completamente perso nella schermata che mostra la sua casella di
posta, Alice salta letteralmente sulla sedia quando il suo cellulare
squilla, strappandola via allo stato di trance in cui non si era
nemmeno accorta di essere scivolata. Studia per qualche secondo il
numero, poi si arrischia a rispondere. «Pronto?» sussurra quando
finalmente accetta la chiamata.
Ma la voce che risponde non
appartiene ad una donna, e rendersi conto di chi ci sia all'altro
capo del filo quasi le causa una sincope. «Alice? Sono Jared Leto.»
Alice si aggrappa al bordo della sedia per non cadere, mentre lui
aggiunge: «Emma mi ha fatto leggere la tua e-mail.»
«Sì, io... io forse ho
esagerato, ma non sapevo davvero come fare per aiutare Daria.»
«Sono certo che lei lo
apprezzerà. Beh, forse quando lo scoprirà vorrà farti molto male,
ma poi sono certo che comprenderà le tue ragioni.»
«Grazie per
l'incoraggiamento» risponde lei. «Io... ecco, io ho soltanto
espresso un mio parere. Di certo non ho nessuna autorità per
costringere Shannon a venire qui, ma...»
«Shannon è già partito»
la interrompe lui. «Come te, anch'io ho pensato che avesse bisogno
di... come possiamo dire, una spintarella? Gli ho comprato un
biglietto aperto per Torino. Aveva bisogno di qualcuno che gli
suggerisse la giusta direzione, e immagino che quel qualcuno dovessi
essere io. Non credevo l'avrebbe usato tanto preso, ma
incredibilmente lui... l'ha fatto.»
«Shannon è già partito?
Quando?» domanda lei, incredibilmente piena di speranza.
«La notte tra il
venticinque e il ventisei» risponde lui. «Infatti la tua e-mail mi
ha un po' preoccupato, perché a questo punto dovrebbe già essere lì
da un po'. Da tipo due giorni, diciamo. Ammetto di non averlo
chiamato e di conseguenza di non sapere nulla di lui da due giorni,
ma...»
Questa volta è lei ad
interromperlo. «Ammettendo che sia in Italia da due giorni e che sia
andato subito da Daria... no, non esiste. Lei me lo avrebbe detto.
Nemmeno io le ho parlato in questi due giorni, ma una cosa del genere
me l'avrebbe detta. A meno che la loro priorità non sia stata
chiudersi in camera da letto.» All'altro capo del filo, Jared si
lascia andare ad una risata, e Alice si sente arrossire come una
scolaretta. «Che ho detto di tanto divertente?»
«Niente, è solo che anche
da questa parte del pianeta abbiamo avuto lo stesso dubbio» le
risponde, recuperando un po' di serietà. «Tu sei sicura che lei ti
avrebbe avvertito, se lo avesse visto?»
«Di solito non amo
ripetermi, ma conosco Daria quasi meglio di quanto conosca me stessa,
e so che una notizia del genere me l'avrebbe comunicata. Ne sono
certa.»
«Quindi questo significa
che qualcosa non è andato nel verso giusto» sussurra lui, e anche
senza vederlo in faccia Alice riesce a percepire tutta la sua
preoccupazione. La stessa preoccupazione che prova lei. «Pensi di
poter scoprire qualcosa al riguardo?»
«Sì, credo di sì.»
«Con discrezione,
naturalmente. Per quanto ne sappiamo, potrebbero non essersi ancora
visti.»
«Discrezione è il mio
secondo nome. No, veramente è Maria, ma... beh, lo farò. Sarò
discreta.»
Jared ride ancora, e Alice
sente lo stomaco fare una capriola, proprio come farebbe quello di
una sedicenne messa di fronte al suo idolo di sempre. «Sei
simpatica, lo sai? Sei divertente. Non mi stupisce che tu e Daria
siate tanto legate.»
«Lei è praticamente una
sorella, per me» risponde lei. «Mi piace pensare di conoscerla
meglio di chiunque altro, e mi piace pensare che anche lei mi conosca
meglio di chiunque altro. Tra sorelle dovrebbe essere così, no?»
«So cosa vuoi dire. Tra me
e Shannon è praticamente la stessa cosa. È la persona più
importante della mia vita, e sarei pronto a tutto pur di
risparmiargli ogni piccolo dolore.» Per quanto Alice trovi bizzarro
stare al telefono con una star della musica e ascoltare le sue
confidenze, non riesce a non comprendere il suo stato d'animo.
Nonostante i soldi e la fama, Jared non è diverso da lei: è una
persona che ama, che prende a cuore il benessere di coloro che lo
circondano e che farebbe di tutto per loro. È un fratello pronto a
saltare nelle fiamme dell'inferno, e nessuno meglio di lei può
capirlo. «Cerca di scoprire tutto quello che puoi, poi fammi sapere.
Scrivimi un sms, terrò il telefono addosso tutto il giorno.»
«Va bene. Lo farò.»
«Perfetto. È stato un
piacere parlare con te.»
«Grazie. Lo è stato anche
per me.»
Non appena si interrompe la
comunicazione, Alice fissa il cellulare con aria stranita,
chiedendosi se quella conversazione abbia davvero avuto luogo, oppure
se si sia trattato di un'allucinazione uditiva dovuta al troppo
studio. Salva il numero di Jared in rubrica, senza riuscire a
crederci davvero, e subito dopo inizia a prepararsi per recarsi in aula studio,
dove probabilmente non farà altro che pensare ad un modo per scoprire la verità sulla visita di Shannon in Italia.
*
Los Angeles, 29 gennaio
2014
Una volta messo giù, Jared
guarda il telefono e sorride. Sua madre gli ha spesso rimproverato di
essere troppo ottimista e di vedere sempre il bicchiere troppo pieno,
contestandogli il fatto che, a quarantadue anni suonati, un uomo
dovrebbe iniziare a vedere le cose con un minimo di realismo. Jared è
un'idealista, è vero – è un uomo adulto che non ha rinunciato al
diritto di sognare, e che nonostante tutto crede sempre che le cose
andranno bene, ma questo non fa di lui uno stupido né un ingenuo. Sa
che per sistemare la faccenda di Shannon e Daria ci vorranno pazienza
e molto impegno, qualità che lui possiede in abbondanza – ma il
vero asso nella manica è il complice che non credeva di avere,
ovvero Alice.
Alice desidera far
rimettere insieme quei due tanto quanto lui, perché, esattamente
come lui, sa che sono fatti l'uno per l'altra, e rimanendo separati
non faranno del male soltanto a loro stessi, ma anche a tutte le
persone che li circondano, perché quando due persone fatte per stare
insieme si lasciano, l'intero universo si ferma e piange una lacrima.
Alice è la sua carta vincente, la sua spia in territorio nemico, la
sua possibilità di sapere che cosa stia succedendo senza nemmeno
scomodarsi ad uscire. Viceversa, gli piace l'idea di essere utile a
lei per gli stessi motivi, per darle informazioni riguardo Shannon ed
aiutarla ad aiutare Daria.
Di lei non conosce che il
nome e la voce, ma Jared sente già di essere affezionato a quella
ragazza, così determinata e sicura di sé da essere riuscita prima
ad indirizzargli una e-mail e poi a parlare con lui senza ritrosie,
senza tentennamenti e senza farsi prendere dal panico. Si chiede se
sia l'Italia a rendere le donne così particolari, o se per caso
dipenda dal fatto di far parte della nuova generazione, o se
semplicemente si tratti di due ragazze straordinarie, che per puro
caso sono migliori amiche da sempre.
1Il
mio cuore dice una cosa, il cervello ne dice un'altra. Non è facile,
no, mettere d'accordo cuore e cervello, per me. I miei non si danno
neanche del tu. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad una
battuta pronunciata da Cliff
Stern
(interpretato da Woody
Allen)
nel film Crimini e
misfatti
(1989).
|
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Capitolo 14 *** 14 | Giorno uno, giorno uno, ricominciare da capo. ***
La lunga strada verso casa - 1
Meno di mezz'ora fa, sul gruppo Facebook Direzioni ostinate e contrarie,
ho asserito che il nuovo capitolo non sarebbe arrivato prima di due
giorni. Nel contempo ho postato uno spoiler del capitolo quindicesimo,
che certamente non arriverà prima della prossima settimana, e
leggendo le reazioni alla suddetta anticipazione mi sono sentita
così in colpa che proprio non me la sono sentita di rimandare
oltre la pubblicazione di questo ennesimo scempio.
Abbiate pietà di me: in fondo sono solo una povera derelitta in grado di reggere una penna.
Buona lettura,
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo quattordicesimo
Giorno uno, giorno
uno,
ricominciare da capo.1
Torino, 30 gennaio 2014
Sono le dieci di giovedì
mattina quando Alice si ferma davanti alla libreria di Marco. Prende
un respiro profondo e apre la porta, senza sapere bene che cosa
aspettarsi né cosa dire. Se confessasse la telefonata con Jared –
evento dal quale non si è ancora ripresa – dovrebbe parlare anche
di Shannon e del suo viaggio in Italia, e questo, nel caso lui non si
fosse ancora palesato – o, peggio, se le cose fossero andate male –
equivarrebbe ad un enorme sputtanamento, con conseguente fallimento
della promessa di discrezione fatta a Jared. D'altra parte, non
riesce a credere che Daria le avrebbe taciuto una visita di Shannon,
in ogni caso, anche se Daria, si sa, è una persona in grado di
riservare questa ed altre sorprese – non è forse stata lei a
tacere l'enorme dubbio di essere rimasta incinta?
Ad accoglierla, con il
solito sorriso e gli enormi occhi celesti che riuscirebbero a
risvegliare un morto, c'è proprio Marco. «Ehi, ciao! È un sacco di
tempo che non ti si vede in giro.»
«Ciao, Marco» replica
lei, facendo correre lo sguardo per l'intero locale alla ricerca
dell'amica. «Ho avuto un po' da fare con un paio di esami. Se voglio
laurearmi a luglio devo darci dentro. Sono piuttosto indietro sulla
mia tabella di marcia, ma penso di potercela fare. Daria non c'è?»
«Arriva subito. È solo
andata...» Non conclude la frase, ma fa un cenno con la testa in
direzione del bagno.
«Capito. Ti scoccia se te
la rubo cinque minuti? Il tempo di andare a prendere un caffè.»
«Figurati, fate pure. È
una mattinata piuttosto fiacca.» Sorride e riporta gli occhi sulle
carte che sta sfogliando, poi rialza la testa. «Probabilmente te lo
dirà anche lei, ma... l'altra sera siamo usciti, e ci è venuta in
mente un'idea. La prossima volta che Federico viene a Torino, se vi
va, potremmo andare a cena tutti insieme. Non so se la cosa può
interessarvi.»
«Oh, è un'idea molto
carina» replica lei, indecisa se confessare o meno la verità. Dopo
una breve lotta interiore, però, il suo lato pragmatico spinge per
uscire fuori. È inutile nascondere la verità quando non è
necessario, soprattutto quando è una verità che non può fare male.
«Ci siamo lasciati.»
«Ah» è la risposta di
Marco, che mai come in questo momento sente l'esigenza di sparire
dalla faccia della terra. «Mi dispiace, io non sapevo che...»
«Non preoccuparti, non lo
sa nemmeno Daria. È una novità di questi giorni. Infatti è per
questo che sono qui» aggiunge. «Quando torna, per favore, potresti
fingere che non te l'abbia detto? Non le voglio rovinare la
sorpresa.»
«Certo, nessun problema»
replica lui. «Ho la bocca cucita.»
Finalmente Daria torna dal
bagno, e alla vista di Alice spalanca gli occhi, sorpresa. «Che ci
fai qui? È successo qualcosa?»
«Non ti sentivo da qualche
giorno, perciò ho pensato di venire a rapirti per andare a bere un
caffè. Ho già chiesto il permesso al tuo carceriere, tranquilla»
aggiunge, sorridendo ad entrambi.
«Sicuro che posso?» si
accerta Daria, rivolgendosi a Marco.
«Ma certo che sono sicuro.
Stamattina sembra di essere nel deserto del Gobi. Basta che me la
riporti per l'ora di pranzo» aggiunge, guardando di nuovo l'altra
ragazza.
«Parola di coccinella.»
«Non sei mai stata una
coccinella» la smentisce Daria, andando nel retro per prendere il
cappotto.
«Mi serviva una frase
d'effetto per uscire di scena, e tu hai rovinato tutto!» replica
l'altra, senza perdere il sorriso. Questa è la Daria che conosce, e
che da un po' di tempo, come ha confermato anche Danilo, sembra
essere scomparsa – lei è amica della Daria che ride, scherza e fa
battute, non della Daria che scompare per giorni senza dare notizie
di sé. La aspetta accanto alla porta, cercando di spiare il modo in
cui lei e Marco si saluteranno, convinta che potrà carpire molte più
informazioni dal loro comportamento che da una conversazione di ore.
Li guarda sorridersi a vicenda e sussurrarsi un "A dopo"
che a malapena arriva alle sue orecchie, senza né un bacio né uno
sfiorarsi di dita, e immediatamente pensa che già questo sia un
segnale parecchio importante: come può Daria considerare importante
una relazione del genere, un rapporto in cui la passione sembra ferma
a livelli da terza elementare? Certo, è pur vero che Daria non è
mai stata il tipo di ragazza che ama lasciarsi andare ad effusioni in
pubblico, e conoscendo entrambi è probabile che abbiano deciso di
limitare i contatti sul posto di lavoro, ma non riesce ad impedirsi
di pensare che in qualche modo dovrebbe vedersi che stanno
insieme, che tra loro c'è di più di un semplice rapporto di lavoro
o di amicizia. Alice non ha mai visto Daria e Shannon insieme, ma
conosce abbastanza la sua amica da sapere, senza bisogno di
prove, che tra loro le cose erano diverse. Dovevano esserlo per
forza. Assistendo a quella totale mancanza di passione si chiede
se tutto questo non faccia parte del piano di Daria, che prevede il
ricominciare, su tutti i fronti: un nuovo carattere, un nuovo
ragazzo, un nuovo modo di affrontare la vita. Potrebbe essere così,
ma a lei non sta bene: lei rivuole la Daria vecchia, quella che ha
conosciuto in prima elementare e quella con cui ha diviso ogni
segreto. Rivuole la Daria i cui occhi brillavano per un semplice
messaggio di buongiorno, quella che temeva sempre di non essere mai
abbastanza, quella che sapeva tenersi stretto tutto il buono che la
vita aveva da offrirle. Rivuole la sua Daria, perché quella
che vede ora, ormai ne è certa, non è la Daria a cui vuole bene.
*
Los Angeles, 30 gennaio
2014
Sono passati due giorni da
quando mi sono svegliato sul pavimento del soggiorno, accanto ad una
bottiglia vuota di ottimo scotch, un mal di testa da paura e la
sgradevole sensazione di aver fatto qualcosa di molto stupido.
Contrariamente a quanto succede nei film, non sono bastati una doccia
calda e un caffè forte a rimettermi in sesto, e a distanza di
quarantotto ore mi sento ancora una merda. Ho trascorso l'intera
giornata di mercoledì a riordinare lo studio, rimettendo a posto la
batteria e gli spartiti, che nella mia furia sono volati ovunque,
ma nemmeno questo è servito a rimettere a posto le cose. L'immagine
di Daria che stringe un altro uomo nello stesso modo in cui un tempo
ha stretto me continua a perseguitarmi, seguendomi fin dentro ai
sogni, senza darmi pace. Mi sono alzato nel cuore della notte, e per
evitare di incappare in altri guai ho vuotato nel lavandino della
cucina ogni singolo goccio d'alcol trovato in casa: birra, whiskey,
vodka, tequila... per evitare di avvelenarmi ancora il corpo ho
preferito fare un regalo al sistema fognario di Los Angeles,
lasciando che l'unica cosa ad essere rovinata sia il mio spirito.
Sono a casa da quasi tre
giorni, e ancora non ho avvertito nessuno del mio rientro. I giornali
si accumulano sugli scalini e la cassetta della posta si riempie di
pubblicità, ma non ho intenzione di far sapere al mondo che sono
tornato. Non prima di aver fatto ordine nel mio cuore, almeno. Mia
madre si trasferirebbe qui per badare a me e Jared tirerebbe fuori il
completo da crocerossina, e per quanto sia consapevole che sarebbe
fatto tutto senza secondi fini e senza cattive intenzioni, non
intendo permettere che mi si tratti come se fossi una persona malata
o che ha bisogno di aiuto. Ho il cuore spezzato, questo è vero, ma
non è una condizione in grado di pregiudicare la mia permanenza su
questo pianeta. Nessuno è mai morto per un cuore spezzato. Forse
dopo una tale delusione la vita diventa una vera merda, ma quel che è
certo è che, in qualche strano ma incredibile modo, si continua a
vivere.
Devo solo scavare dentro me
stesso, e trovare la forza necessaria per ricominiciare.
*
Torino, 30 gennaio 2014
«Allora, di che mi devi
parlare?»
«Devo per forza avere
qualcosa di cui parlare per invitarti a prendere un caffè?» mi
domanda Alice, facendo spallucce. «Non ti ho sentita per un sacco di
giorni, ho pensato di venire a vedere se eri viva. Magari sei tu
quella che ha delle novità.»
«Nessuna in particolare,
se non che ho parlato con Emanuele e Francesca della mamma e del
fatto che abbiamo un fratello. Emanuele ha reagito malissimo, mentre
Francesca è confusa e non sa che fare. Direi che poteva andare
peggio.»
«Pensi che vorranno andare
avanti?»
«Se
li conosco, la curiosità vincerà ogni dubbio. Forse lui ci metterà
un po' più di tempo, ma Dio solo sa quanto lo capisco. Non è una
cosa facile da digerire. Però ci terrei che stabilisse un rapporto
con Luca. Più che di due sorelle, quel ragazzino ha bisogno di un
fratello. Gli serve una figura maschile. L'ideale sarebbe un padre,
ma visto che questo non si può avere... e poi quei due sono così
simili. Luca deve
avere la prova che essere diverso dagli altri ragazzini non lo rende
un perdente. Emanuele è sempre stato diverso dagli altri, eppure
guarda che uomo straordinario sta diventando.»
«Ci tieni davvero tanto,
eh?»
«Non pensavo di potermi
affezionare tanto a lui in così poco tempo, però è successo. A
volte non mi riconosco. Mi sembra di essere una persona completamente
diversa, mi sembra di... di essere cambiata così tanto, in questi
ultimi mesi.»
«Ti sembrerà una novità
immensa, ma nella vita la gente cambia.»
«Non posso darti torto»
rispondo. «Comunque se non fossi passata tu da me, oggi ti avrei
chiamata io. C'è una cosa di cui devo parlarti.» La guardo
raddrizzarsi sulla sedia, come se si aspettasse di sentirmi dire che
ho trovato una cura per il cancro. «Mio padre ha detto di aver
parlato con te, e di sapere tutto di me e di Shannon.»
Alice abbassa lo sguardo
con aria colpevole, consapevole di aver tradito il nostro patto di
fiducia reciproca e di meritare che le vomiti addosso tutta la mia
rabbia e la mia frustrazione. «Mi dispiace, Daria. Ho provato a
mentirgli, ma non ci sono riuscita. Mi ha smascherata già alla prima
bugia, e tu sai che in quanto a bugie soltanto tu riesci a tenermi
testa.»
«Non sono arrabbiata» la
rassicuro. «Insomma, forse lo sono stata per un po'... per qualche
minuto, forse mezz'ora. Forse per mezz'ora ti ho anche odiata, ma
poi... non lo so, mi è passata. In questo momento ho così tante
cose per la testa che... non lo so, forse il mio inconscio mi ha
detto che non valeva la pena di arrabbiarsi per questo. In fondo,
prima o poi lo avrebbe scoperto. Prima o poi gliene avrei parlato.
Ancora non so quando, o in che modo lo avrei fatto, ma prima o poi lo
avrei fatto. Forse ti dovrei ringraziare» aggiungo. «Mi hai
risparmiato l'imbarazzo di confessare a mio padre che andavo a letto
con un uomo della sua generazione.»
«Che ti ha detto? Insomma,
come ha affrontato la questione? È venuto a suonare alla tua porta
nel cuore della notte urlandoti contro perché non ti eri confidata
con lui?»
«No,
è stato molto... civile.
Sì, credo sia la definizione giusta. È stato molto pacato e civile.
E questo, se possibile, mi fa sentire ancora peggio.»
«Com'è possibile che la
sua gentilezza ti faccia sentire peggio?»
«Ha detto che mi trova
cambiata» confesso, abbassando impercettibilmente la voce. «Ha
detto che da quando sono tornata da Parigi non sono più la stessa, e
questo mi confonde. A me non sembra di essere cambiata. O forse sì,
ma non credevo che fosse tanto evidente. Tu credi che sia diversa?»
«Devo rispondere o posso
scegliere di tacere?» replica lei, e dal suo sguardo comprendo che
mio padre non è il solo ad aver avuto quell'impressione di me.
«Quello che è successo a Parigi ti ha cambiata, questo è poco ma
sicuro. Sinceramente, mi sarei preoccupata di più se avessi
continuato a comportarti come sempre. Hai preso una decisione
difficile, hai compiuto una scelta che in un certo senso potrebbe
aver condizionato il resto della tua vita, ed è nella natura di ogni
essere umano cambiare, nel corso della propria esistenza.»
«Va bene, questa era la
risposta da filosofa» ribatto. «La risposta da amica qual è?»
«Potrei dartela, ma non
credo ti piacerebbe.»
«Non ci siamo mai nascoste
niente, Alice. Sputa il rospo.»
Alice
abbassa la tazza e lo sguardo, raccogliendo le forze necessarie per
sparare il colpo che forse non mi ucciderà, ma che di certo mi
ferirà molto gravemente. «La Daria che sono andata a prendere in
stazione non è la stessa Daria che ho accompagnato» risponde. «Non
so che cosa sia, ma di certo qualcosa in te è diverso. Il fatto che
tu abbia seppellito tutti i ricordi in una scatola, tanto per
cominciare... non è da te, ecco. Tu sei una che non riesce a
buttarsi il passato dietro le spalle. Ci provi, ci provi con tutte le
tue forze, ma ti ci vuole una vita per dimenticare. Riesci a
nascondere le cose per un po', ma non riesci a cancellarle per
sempre. Tu non dimentichi mai, e questo è sia un dono che una croce.
E poi, il fatto che ti sia buttata subito in questa relazione con
Marco... non mi convince, ecco. So che sono una che di solito lascia
stare, una che non si impiccia a meno di essere stata invitata a
farlo, però... questa cosa non mi piace, Daria. Non dico di non
esserne felice, perché sono stata la prima a dire che avreste
formato una bella coppia, però... è troppo presto, Daria. Forse non
lo sarebbe per altri, ma per la ragazza che conoscevo anche vent'anni
non sarebbero stati abbastanza.»
«Stai dicendo che ho
iniziato ad uscire con Marco soltanto per dimenticare Shannon? Che
sto usando Marco per cancellare un ricordo che non voglio più?» Per
quanto so che non riuscirei ad arrabbiarmi con Alice nemmeno se mi
trucidasse la famiglia, sento che la sua ultima affermazione nasconde
una critica, e questo un po' mi infastidisce, perché non mi va di
essere vista come un'opportunista, una che usa le altre persone per i
propri fini. Non lo sono mai stata, e di certo non voglio iniziare
ora.
«Non
ho detto questo, e sai che non mi permetterei mai» replica lei, come
sempre in grado di mantenere una serafica calma, per quanto sia certa
che il mio attacco non l'abbia lasciata del tutto indifferente. «Non
dico che tu e Marco non siate una bella coppia, o che tu provi un
sincero attaccamento nei suoi confronti. Dei suoi sentimenti non
parlo nemmeno, perché che ti ami con tutto il suo cuore è indubbio.
Dico solo che hai lavorato con lui per cinque anni, ma soltanto
adesso ti sei decisa a
dargli una possibilità, per quanto fosse chiaro da tempo
che era cotto di te. Quello che mi sorprende è che... beh, è che ti
sei accorta di lui soltanto dopo... no, aspetta. Meglio che mi fermi,
altrimenti sembrerà davvero che pensi che tu lo stia solo usando.»
«Pensi che dovrei fermarmi
prima che sia troppo tardi?»
«Daria,
sei abbastanza grande per prendere da sola le tue decisioni. Io sono
una tua amica, la tua migliore
amica, e starti accanto in ogni caso è mio dovere. Posso esprimere
la mia opinione e darti un consiglio, ma non posso condizionare la
tua vita. Quella è una responsabilità solo tua. Tutto ciò che
posso dirti è che tutti prendiamo delle decisioni, e presto o tardi
può capitare di prendere quella sbagliata. In quel caso, bisogna
assumersene la responsabilità e conviverci, tutto qui.»
«Perché ho la sensazione
che questo discorso non riguardi più soltanto me?» domando,
convinta che la conversazione stia scivolando verso un piano più
generale, per finire forse su un terreno nel quale non avrei mai
pensato di addentrarmi.
«Ho lasciato Federico»
sputa fuori d'un tratto, forse sentendosi messa alle strette.
«Hai fatto cosa?»
esclamo, così forte che il barista si gira per controllare che vada
tutto bene.
«Forse
sarebbe più corretto dire che ci siamo lasciati»
si corregge. «Domenica mattina sono andata a Milano, ci siamo seduti
davanti ad un caffè e abbiamo parlato. È venuto fuori che entrambi
avevamo dei dubbi da tempo, ma che nessuno dei due aveva voglia di
passare come il piantagrane della situazione. Siamo ancora amici, e
forse lo saremo per sempre. Penso che forse è questo che siamo
stati, nell'ultimo periodo. Semplici amici.
Sì, ci vedevamo di tanto in tanto, facevamo dell'ottimo sesso e
passavamo dei bei momenti, ma tutto finiva qui. Lui non era la
persona da cui correvo quando avevo un problema, e io non ero la
prima persona con cui lui si confidasse. Io correvo da te e lui
correva da suo fratello. L'abbiamo risolta in maniera civile, se
vogliamo dire così. Abbiamo parlato, abbiamo convenuto che era
meglio lasciarci e poi sono andata a pranzo con i suoi genitori. Non
dico che non avrà sempre un posto speciale nel mio cuore, ma... non
è lui la mia persona.»
«La
tua persona?»
«Ma
sì, la mia persona. Dai, che Grey's Anatomy
lo hai visto anche tu. La mia persona,
quella che vorresti accanto nei momenti importanti.»
«Beh, ma se non era lui la
tua persona, allora chi...» Mi interrompo, comprendendo quello che
sta cercando di comunicarmi. Sorrido, abbassando lo sguardo. «Va
bene, ho capito. Sono io la tua Cristina.»
«Col cavolo che sei
Cristina!» mi corregge, sorridendo a sua volta. «Sono io Cristina.
Tu sei Meredith, perché tra noi due la più incasinata sei tu.»
«Come se Cristina non
avesse la sua dose di drammi morali...» rido, finendo il mio
cappuccino. «Ma perché non sei venuta subito a dirmelo? È vero che
ho già la mia buona dose di guai, ma sai che troverei sempre un
posticino per i tuoi.»
«Non è che ci fosse molto
di cui parlare. Ci sarebbe stato se fosse stata una rottura
difficile, ma non lo è stata, perciò...»
«Mi sarebbe piaciuto
saperlo subito, però.»
«La prossima volta verrò
subito da te, lo prometto. Diciamo che questa è la mia vendetta per
quando non mi hai detto che pensavi di essere rimasta incinta.» Ci
scambiamo una lunga occhiata complice e un sorriso, e comprendo che
non importa quanto Parigi possa avermi cambiata – per me Alice sarà
sempre presente, e questo conta più di ogni altra cosa.
*
Los Angeles, 30 gennaio
2014
A
Los Angeles sono le tre del mattino, ma Jared non dorme. Le ha
provate tutte, pur di prendere sonno: una tisana, un lungo bagno
caldo, qualche nota strimpellata al pianoforte, ma niente sembra aver
funzionato. Nemmeno starsene disteso sulla schiena a ripetere
sommessamente «Jared, dormi» pare sortire effetti. Perciò, quando
lo schermo del cellulare si illumina, rivelando di aver ricevuto un
messaggio da Alice, Jared non impiega più di dieci secondi prima di
far partire la chiamata.
«P-pronto?»
«Alice?
Sono io, Jared.»
«Non
è notte fonda, a Los Angeles? Avevo capito che fossi lì. Qui sono
le undici del mattino, quindi lì dovrebbero essere...»
«Le
tre del mattino» completa lui. «Le tre e otto minuti, in realtà.
Il fatto è che non riesco a dormire. Di solito non impiego più di
cinque minuti per addormentarmi, ma stavolta non ci riesco proprio. E
dire che ho dormito praticamente in ogni posto immaginabile.»
«Non
stento a crederlo, con la vita che fate...» sorride lei, chiedendosi
in quanti diversi letti gli sia capitato di stendersi nel corso della
sua vita – e in compagnia di quante persone. «Beh, allora non devo
sentirmi in colpa per averti svegliato. È una buona cosa. Detesto
arrecare disturbo alla gente.»
«Figurati,
anche se mi avessi svegliato non te lo farei pesare. Mi fa piacere
sentire una voce amica. Dimmi anche che hai buone notizie, e potrei
seriamente prendere in considerazione l'idea di farti un regalo.»
«Una
buona notizia c'è, a dire il vero» replica lei. «Daria non ha
respinto Shannon.»
«Dici
sul serio?» è la reazione di lui, che si mette rapidamente a
sedere, come se questo potesse aiutarlo ad assimilare meglio la
notizia. «Quindi sono riuscito a farli rimettere insieme? Lo sapevo,
sono un uomo assolutamente geniale.»
«Fossi
in te, aspetterei a stappare lo champagne e scegliere lo smoking per
la cerimonia» lo frena lei. Le piace giocare con le parole, ma sa
anche che non sarebbe giusto fargli credere qualcosa che in realtà
non è mai avvenuto. «Daria non ha respinto Shannon perché non lo
ha visto.»
Jared
ha bisogno di qualche secondo per recepire il messaggio. «Che cosa
stai dicendo? Come sarebbe che non lo ha visto?»
«L'ho
appena vista, siamo andate a bere un caffè e abbiamo fatto quattro
chiacchiere. Mi ha elencato per filo e per segno tutti gli eventi
della settimana, e il nome di Shannon non è saltato fuori da nessuna
parte.»
«Ne
sei sicura?»
«Mi
stai davvero chiedendo se ne sono sicura? Te l'ho detto, io e Daria
parliamo praticamente di qualunque cosa. Se Shannon fosse andato a
bussare alla sua porta implorandola di tornare insieme, lei me lo
avrebbe detto.»
«Anche
se lo avesse bidonato?»
«Assolutamente
sì. Lo avrebbe fatto, ne sono certa.»
«Beh,
magari non te lo ha raccontato perché pensava che l'avresti
sgridata.»
«Jared,
la conosco da quando avevamo ancora entrambe i denti da latte. È già
successo che mi raccontasse cose che le sono costate una sgridata, e
sono quasi certa che in questo caso non sia andata diversamente.»
«Beh,
ma quasi certa non ha
lo stesso valore di certa.
Le hai fatto delle domande in proposito?»
«Mi
hai chiesto di essere discreta, ricordi? Non potevo certo chiederle a
muso duro se Shannon le avesse suonato il campanello!» Se c'è una
cosa che Alice detesta, è che la gente non abbia fiducia nelle sue
parole. Ogni volta che qualcuno mette in dubbio la sua attendibilità
la sua diplomazia va a farsi benedire, e al suo interlocutore non
resta che chiamare in causa tutti i santi che conosce. E poco importa
che all'altro capo del filo ci sia Jared Leto: come sempre, lei è
pronta a dare battaglia. «Mi hai chiesto di scoprire che cosa fosse
successo, e io l'ho fatto. Il risultato è che non è successo un bel
niente. Shannon sarà anche salito sull'aereo, ma nel frattempo è
successo qualcosa che non l'ha fatto arrivare a destinazione. Il mio
dovere l'ho fatto. Se non ti fidi delle mie parole, muovi le chiappe
e la verità scoprila da solo. Ora devo andare. È stato un piacere.»
Del tutto inaspettatamente, Alice riaggancia, lasciando Jared con un
palmo di naso. Non è mai successo che qualcuno gli parlasse a quel
modo – soprattutto una persona che nemmeno ha mai visto in faccia
–, e la sensazione che prova non gli piace per niente. Gli piace
che una persona dimostri di avere carattere, ma quando la cosa si
ritorce contro di lui non gli sembra più così fantastica. Dopo
qualche secondo si riprende e compone di nuovo il numero. Non lascerà
cadere la questione senza lottare.
*
Torino, 30 gennaio 2014
Alice
lascia squillare il telefono per un po', prima di decidersi a
rispondere. Fanculo Jared Leto: essere una star della musica e del
cinema non lo autorizza a trattarla con tanta sufficienza, a chiedere
il suo aiuto e poi mettere in dubbio le sue parole. Tuttavia, non ha
nemmeno voglia di lasciar cadere la questione così presto: è una
ragazza abituata a combattere, e la sua natura di filosofa le
impedisce di abbandonare un dibattito senza aver prima giocato tutte
le proprie carte. «Ma tu fai sempre così?» domanda Jared
dall'altro capo della linea. «Sei sempre così drastica?»
«Studio
filosofia» replica, e immediatamente le sembra la cosa più stupida
che avrebbe potuto dire. «Sono abituata a confutare ogni teoria»
aggiunge, sperando di correggere il tiro e darsi un tono.
«Questo
può starmi bene, mi piace intavolare conversazioni serie con le
persone. Però tu non hai confutato un bel niente. Mi hai sbattuto il
telefono in faccia.»
«Ma
l'ho fatto dopo aver esposto la mia teoria» ribatte lei, cercando
una panchina asciutta sulla quale sedersi.
«E
senza darmi la possibilità di replicare.» Alice non risponde,
rendendosi conto che è esattamente questo che è successo: ferita
nell'orgoglio e arrabbiata per il fatto che Jared non volesse
accettare la realtà, ha preso la strada più semplice, chiudendo la
conversazione prima che degenerasse. «Se non rispondi, i motivi
possono essere soltanto due: è caduta la linea, oppure io ho ragione
e tu non sai come rispondere.»
«Non
hai assolutamente ragione» replica la ragazza con il tono più
tagliente del proprio repertorio.
«Ah,
allora non è caduta la linea...»
«Non
hai ragione per niente.»
«Però,
sei davvero una ragazza combattiva, allora. Cos'è, vuoi che ti
chieda scusa?»
«Non
voglio che tu mi chieda scusa soltanto per metterti il cuore in pace,
o perché pensi che voglia essere lusingata. Non voglio essere
lusingata. Odio essere
lusingata. Odio i leccapiedi.»
«Scusa,
non volevo farti arrabbiare.»
«Non
farlo, per favore.»
«Fare
cosa?»
«Quello
che stai facendo. Fai il carino per far sì che io ti perdoni.»
«Mi
trovi carino, davvero?»
Alice
si stacca per un attimo il cellulare dall'orecchio e lo guarda come
se avesse appena preso vita. Quella conversazione sta prendendo una
strana piega, e anche se non è certa che la cosa le dispiaccia, non
è certa nemmeno che sia il caso di continuare. «Senti, Jared, io
avrei delle cose da fare. Qui è giorno pieno, e io devo studiare. A
luglio devo laurearmi, ho ancora due esami da dare e una tesi da
finire. Quindi non ho tempo da perdere. Mi hai chiesto di darti una
mano e io l'ho fatto. Mi hai chiesto di indagare su Daria e Shannon,
io l'ho fatto e ti ho raccontato quello che ho scoperto. Se quel che
ho detto non ti piace, affari tuoi. Io il mio dovere l'ho fatto.»
«Scusa»
sussurra Jared, e Alice sente che questa volta è davvero sincero.
Certo, è un ottimo attore, e questo dovrebbe comunque farla
dubitare, ma per qualche strana ragione sente che non mentirebbe mai
in un simile frangente. Dopotutto, è pur sempre di suo fratello che
si parla. «Non volevo mettere in dubbio le tue parole. È solo che
sono preoccupato. Ormai sono quattro giorni che è partito, e non ho
notizie di lui da allora. Anche ammesso che prima di andare da lei si
sia preso qualche ora per sistemarsi, sono convinto che a questo
punto dovrei saperne qualcosa. Non è mai successo di stare così
tanto senza sue notizie, e inizio a stare un po' in pensiero.»
«Temi
che possa combinare qualche stupidaggine?»
Alice
non sa del Brasile né del passato turbolento di Shannon, ma Jared ne
ricorda ancora ogni torbido dettaglio. «Non sarebbe la prima volta
che si perde. Solo che questa volta recuperarlo potrebbe non essere
semplice. Non so che cosa fare, Alice» sussurra l'uomo dopo qualche
istante di silenzio. «Voglio aiutarlo, voglio aiutarlo in ogni modo
possibile, voglio che stia bene... ma credo di aver esaurito le
possibilità. Non so che cosa fare.»
Sentirlo
così dimesso e inerme le apre il cuore, e fa crollare in lei ogni
proposito di cattiveria e acidità. Jared si è appena spogliato di
tutte le sue maschere, di ogni travestimento da superuomo di cui di
solito fa sfoggio, e le si sta mostrando completamente nudo. È una
star della musica e del cinema, ma in questo momento sta giocando il
ruolo per il quale è nato, quello che gli riesce meglio di tutti:
l'uomo comune, quello che ha perso la propria bussola e si trova
davanti ad un bivio senza avere la minima idea di quale direzione
prendere. «Lo accetteresti il consiglio di un'amica?»
«Accetterei
un consiglio anche da Satana, in questo momento. Spara.»
«Alza
il culo e vai a casa di Shannon. Scusa il francesismo.»
A
Los Angeles Jared si lascia andare ad una risata, e a Torino Alice si
concede un sorriso, felice di avergli risollevato il morale. «Mi
piace una donna che parla chiaro. Dici che potrei trovarlo lì?»
«Vale
la pena di controllare, no? Sappiamo che è partito e sappiamo che
Daria non lo ha visto, perciò tutte le possibilità sono aperte.
Sono quasi certa che lei non lo abbia visto, perciò è logico
pensare che lui potrebbe essere di nuovo a casa, a questo punto.
Magari a metà del viaggio ha cambiato idea ed è tornato indietro.»
«Senza
avvertire?»
«Per
esperienza, ti posso dire che le persone non parlano volentieri dei
propri fallimenti. Per quel che so di lui, tornare indietro senza
aver tentato potrebbe averlo fatto sentire un vigliacco, e in quel
caso l'ultima cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata discutere
con un fratello polemico quanto te.»
«Non
avrei mai discusso con lui!» protesta Jared.
«Come
non stai facendo con me?» ribatte lei. «Andiamo, non ti conosco, ma
una cosa di te l'ho capita subito: sei il tipo di persona a cui piace
avere l'ultima parola, sempre e comunque, anche a costo di passare
per un egocentrico. Ti capisco, anch'io a volte sono così.»
«Mi
trovi polemico?»
«E
anche pedante» rincara lei, sorridendo all'idea di prendere in giro
una persona tanto famosa con la stessa naturalezza che userebbe in
una conversazione con una persona comune. «Sul serio, io sono
convinta che sia tornato a casa. Non ho idea di che cosa sia
successo, ma è l'unica spiegazione logica che mi venga in mente.»
«Quindi
dovrei andare a suonargli il campanello alle tre di notte per
controllare che sia in casa?»
«Alle
tre di notte, alle otto del mattino... vacci quando vuoi, ma vacci.
Insomma, se sei davvero preoccupato quanto dici, non capisco perché
tu non ci sia ancora andato.»
«Credo
di aver paura di essere mandato al diavolo. Conosco Shannon, lo
conosco da una vita. Di solito cerca aiuto, se ne sente il bisogno,
ma detesta essere assillato inutilmente. Detesta le persone
invadenti.»
«Conosco
una persona che si comporta esattamente come lui.»
«Direi
che lui e Daria sono davvero la coppia perfetta, allora. Mi chiedo
perché non siano ancora tornati insieme. Stanno così bene
insieme...»
«A
volte le persone si comportano in modo strano, specialmente quando ci
sono di mezzo i sentimenti. Quando si parla di cuore, è raro che le
persone si comportino in modo razionale.»
«E
di te che mi dici? Hai un ragazzo?»
«Ci
stai per caso provando con me?»
«Sto
provando a fare conversazione, ma tu mi rendi la cosa molto
difficile. È solo che è strano parlare di cose tanto personali con
qualcuno che non conosco. Vorrei solo sapere qualcosa in più di te,
ecco tutto.»
«Ti
urta parlare con me di cose personali e poi mi chiedi di raccontarti
i fatti miei? Cosa ti fa pensare che abbia voglia di risponderti?»
«Voglia
di fare nuove conoscenze?» suggerisce lui. «Se quei due idioti si
decidessero a rimettersi insieme, tu ed io diventeremmo praticamente
cognati, e sarebbe carino iniziare a conoscerci meglio. Sai, per
portarci avanti con il lavoro.»
Alice
sorride, divertita dall'estremo ottimismo di Jared. «Stai dando per
scontato che si rendano conto dei rispettivi errori e si accorgano di
non poter stare lontani.»
«Se
tu vuoi fare la parte della persona razionale, allora la parte
dell'idealista tocca a me, non credi?»
«Ottima
confutazione. Comunque non racconterò i fatti miei ad uno
sconosciuto senza avere qualcosa in cambio.»
«Mi
piace il modo in cui ragioni. Che proponi?»
Alice
ci pensa su per un istante, poi risponde: «Tu fai una domanda a me,
io faccio una domanda a te. La sola condizione che pongo è
l'assoluta sincerità. E devi rispondere a qualsiasi tipo di domanda,
non ti puoi tirare indietro.»
Jared
riflette per qualche istante sulla proposta. «Ci sto. Naturalmente
queste condizioni valgono anche per te.»
«Dubiti
della mia sincerità?»
«Con
voi donne non si sa mai. Facciamo così: ora io me ne vado a letto e
tu vai a studiare. Appena ti sarà venuta in mente una domanda mi
scrivi e io ti chiamo.»
«Andata.
Allora ci sentiamo.»
«A
presto. Buono studio, Alice.»
«Buonanotte,
Jared.» Alice chiude la conversazione e fissa di nuovo il telefono,
chiedendosi se tutto questo stia davvero succedendo a lei. Si era già
abituata all'idea che cose del genere potessero accadere quando Daria
ha iniziato una relazione con Shannon, ma un conto è quando succede
alla tua migliore amica, un altro quando accade a te – per quanto
si rifiuti di pensare che queste strambe conversazioni con Jared Leto
possano condurre ad un romantico finale, o che possano evolvere in un
qualsiasi modo. Ma forse ricominciare, nel suo caso, significa anche
questo: non soltanto una nuova situazione sentimentale, ma anche
nuove conoscenze e nuove sfide da affrontare. In fondo, l'oroscopo
letto poche sere prima parlava di un periodo ricco di sfide, per
quanto lei non abbia mai avuto fiducia nelle persone che dicono di
poter leggere il futuro nelle stelle. Lei è sempre stata il tipo di
persona convinta che ognuno il proprio destino se lo crei da sé,
ogni giorno, operando scelte e affrontando gli eventi a muso duro.
Quel che è certo è che le prossime settimane saranno davvero molto
impegnative.
*
Los Angeles, 30 gennaio
2014
Jared
torna a distendersi, le braccia incrociate dietro la testa, pensando
che in quarantadue anni non ha mai incontrato una donna con la vivace
intelligenza e lo spirito di Alice. Si chiede come sia fatta, se sia
alta, bassa, bionda o castana, e di che colore siano i suoi occhi. Se
la voce fosse un utile strumento per comprendere l'aspetto di una
persona, allora sarebbe certo di parlare con una ragazza dal volto
simpatico. Di certo è una ragazza che sorride molto, perché è
impensabile immaginare che una con la battuta così pronta sia una
musona. D'istinto, si chiede anche se la sua simpatia sarebbe stata
la prima cosa a colpirlo se l'avesse incontrata di persona – perché
si conosce, e sa che in fondo ogni uomo presta prima di tutto
attenzione all'immagine trasmessa dagli occhi, e soltanto dopo dà
ascolto a ciò che gli dice il cervello. Tuttavia, è certo che avrà
ancora la possibilità di parlare con lei, e che questo lo renderà
decisamente contento.
1Giorno
uno, giorno uno, ricominciare da capo. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Not
as we di Alanis
Morissette,
contenuta nell'album Flavors
Of Entanglement
(2008).
|
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Capitolo 15 *** 15 | La carne è debole. Solo l'anima è immortale, e la tua appartiene a me. ***
La lunga strada verso casa - 1
Il nuovo
capitolo sarebbe dovuto arrivare soltanto venerdì, ma siccome già
so che i prossimi giorni saranno carichi di impegni e cose da fare
preferisco anticipare, per non rischiare di far slittare
ulteriormente la data di aggiornamento e lasciarvi agonizzanti a
soffrire. Anche se, devo anticiparlo, finirete comunque ad agonizzare
sul pavimento piangendo tutte le vostre lacrime.
Chiedo
inoltre scusa a tutti coloro che recensiscono o fanno sentire il loro
appoggio tramite messaggio privato, perché sono una pessima persona
e non riesco mai a rispondere celermente quanto vorrei, e soprattutto
quanto dovrei. Sappiate comunque che apprezzo moltissimo le vostre
parole, e che spesso baso le mie scelte anche sui vostri gusti e sui
pareri che esprimete di volta in volta, quindi, anche se sono una
pessima persona che risponde di rado e non lo fa mai in modo
esaustivo, spero continuerete a dire la vostra, perché per me il
vostro sostegno è davvero importante.
Detto
questo, mi eclisso e vi lascio a combattere con il capitolo quindici.
Provehito
in altum,
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo quindicesimo
La carne è debole.
Solo l'anima è immortale,
e la tua appartiene a
me.1
Los
Angeles, 30 gennaio 2014
Prima di guidare fino a
casa di Shannon, Jared passa a casa di Constance per prendere in
custodia Bruce, che stranamente da un paio di giorni sembra giù di
morale, come se avesse avuto un qualche presentimento che lo deprime,
velando il suo muso solitamente allegro di una tristezza che nessuno
può spiegare. Constance, preoccupata quanto Jared per il prolungato
silenzio del figlio maggiore, gli espone i propri dubbi e cerca di
farsi rivelare la verità, ma l'unica verità che Jared senta di
poterle concedere è che, esattamente quanto lei, non ha notizie, e
che sta appunto andando dal fratello per verificare le sue
condizioni.
Arrivato a casa di Shannon,
apre lo sportello e Bruce si precipita a grattare il portone,
sperando di poter tornare presto alle sue abitudini – è solo un
cane, questo è vero, ma anche se Constance lo tratta benissimo gli
manca la sua routine, piange la lontananza dei suoi angoli
prediletti, e soprattutto l'essere umano che lo ha strappato ad
un'esistenza fatta di tristezza e grigiore e lo ha eletto suo
compagno. Jared suona il campanello, e pochi secondi dopo Shannon
viene ad aprire, per nulla sorpreso della visita. «Scusa
se sono sparito per qualche giorno, ma avevo bisogno di starmene per
conto mio per un po'» lo saluta, facendoli entrare entrambi. Bruce
ignora Shannon e corre a stendersi ai piedi del divano, uno dei suoi
posti preferiti. Jared appoggia il guinzaglio e i giochini del cane
sul mobile dell'ingresso, trovando molto strana l'improvvisa indole
dimessa del fratello. Si era aspettato di essere accolto in maniera
aggressiva, sentendosi domandare le ragioni della visita, e invece
sembra che Shannon si aspettasse il suo attacco – e che, ancora più
strano, sia pronto a sopportarlo senza reagire. «Prima di cominciare
a giocare al detective, sarà meglio che ti dica che ho usato i
biglietti. Ma se, come penso, hai parlato con mamma, questo già lo
sai.»
«Mi
ha chiamato all'una del mattino per dirmi che le avevi lasciato in
custodia Bruce e stavi andando in aeroporto» ammette Jared, sapendo
che mentire sarebbe inutile, nonché una perdita di tempo. «Confesso
che speravo di ricevere notizie, prima o poi. Il tuo silenzio mi ha
fatto preoccupare.»
«Ho
pensato di chiamare, ma non sarebbero state buone notizie, perciò ho
deciso di non lanciare allarmi inutili» risponde Shannon,
raggiungendo la cucina per versarsi una tazza di caffè. «Ne vuoi?»
«No,
grazie» declina Jared, scostando una sedia per prendervi posto. «Ti
va di parlarne? Prometto che starò zitto e ascolterò, e non
rovinerò tutto facendo il Jared.»
Shannon
sorride contro il bordo della tazza, felice che per una volta suo
fratello provi a mettere da parte l'ego e si limiti a fare la parte
della persona che ascolta, senza tentare di far prevalere la propria
opinione. «Ho preso l'aereo e sono andato a Torino. Sono arrivato di
sera, e la prima cosa che ho fatto è stata saltare su un taxi e
andare sotto casa sua. Lei non c'era, perciò ho deciso di
aspettarla. Ho aspettato per due ore, ma avrei potuto aspettare per
tutta la notte, se fosse stato necessario. Ero deciso a vederla, a
qualunque costo.»
«Che
hai fatto mentre la aspettavi? Ti sei preparato un discorso, o
qualcosa del genere?»
«Non
ci ho nemmeno pensato, a dire il vero» replica Shannon, facendo
spallucce. «Ero sicuro che le parole sarebbero uscite da sole, una
volta che fossi stato davanti a lei. E anche se avessi provato a
prepararmi un discorso, non avrei davvero saputo come iniziare, a
meno di usare tonnellate di frasi fatte. Lo sai, non sono mai stato
un granché come oratore. Sei tu quello con la parlantina sciolta e
brillante.»
Jared
sorride, ma è soltanto un momento, perché sa che ora arriva la
parte brutta della storia – quella che ha fatto tornare Shannon a
casa con il solo desiderio di starsene rinchiuso in casa con il
proprio dolore. «Che è successo, poi? Non ti ha voluto vedere?»
Shannon
si passa la lingua sulle labbra, cercando il coraggio di confessare
la vera ragione del proprio malumore. «Quando è tornata, ho visto
che era con un altro uomo. Daria ha un altro uomo» sussurra,
sperando che dirlo ad alta voce possa aiutarlo ad accettare la realtà
dei fatti. «Ne sono quasi certo. Da come lo baciava, da come
stringeva la sua mano, lei... non è uno con cui è uscita una volta,
tanto per occupare una serata. Daria ha una storia seria con un altro
uomo, e io non posso farci niente. Sono arrivato tardi. Ho aspettato
troppo, e lei è andata avanti con la sua vita. Avrei dovuto ignorare
tutto e correrle dietro a novembre, quando mi ha lasciato. Adesso è
tardi.»
«Quindi
non le hai parlato? Non hai nemmeno tentato.»
«Ho
già avuto la mia occasione di sconvolgere la sua vita, Jared. Per
quanto lei continui ad essere importante, io... io non posso di nuovo
rivoluzionare tutto. Per quanto mi piace pensare che se ne sarebbe
fregata di tutto e mi avrebbe riaccolto, io... io non posso. Non ho
potuto, non me la sono sentita. Pensa pure che sono un uomo debole,
ma non me la sono sentita.»
«Quindi
ti arrendi così?» ribatte Jared, incapace di trattenersi oltre.
«Lasci che la storia finisca così? L'hai detto anche tu, avrebbe
anche potuto decidere di tornare con te.»
«Daria
ha fatto la sua scelta, e io devo rispettarla. Lei ha deciso di
andare avanti, e io devo comportarmi di conseguenza. Devo andare
avanti anch'io.»
«Anche
se la cosa ti spezza il cuore?»
«Le
favole non esistono, Jared» sussurra Shannon. «Viviamo in un mondo
crudele. Mi consolo pensando che sarebbe potuta andare peggio.»
Peggio?,
pensa Jared. Esiste davvero qualcosa di peggiore che arrendersi
senza nemmeno tentare?
*
Torino,
14 febbraio 2014
Sono
passate due settimane dall'ultima telefonata con Jared, e negli
ultimi quattordici giorni sono state innumerevoli le volte in cui
Alice si è sorpresa a scorrere l'elenco delle ultime chiamate
ricevute, prossima a spezzare il lunghissimo silenzio. Se ogni volta
ha cambiato idea è per paura – puro, semplice terrore. Sono
milioni le domande che vorrebbe porre a Jared, quesiti che riguardano
gli argomenti più disparati: si va dal numero di scarpe che porta
alla più grande delusione della vita, dall'età della prima
esperienza sessuale alle sue opinioni politiche... Alice non avrebbe
che da sceglierne una e mandargli un messaggino, eppure non ci
riesce. Non ci riesce perché sa che ad ogni domanda posta sarebbe a
sua volta obbligata a fornire una risposta, e il pensiero di quello
che potrebbe sentirsi chiedere la spaventa a morte. Eppure è stata
lei ad avere l'idea di quel giochino, avrebbe dovuto metterlo in
conto.
È la
sera di san Valentino, una di quelle stupide ricorrenze che non ha
mai sopportato, ma che per amore della serenità di coppia ha sempre
festeggiato con una cena e una puntatina al cinema, e Alice – non
ha vergogna di dirlo – si sente sola. È vero, pochi metri più in
là ci sono due ragazze più che disposte a farle compagnie davanti
ad un film romantico, ma non è della loro compagnia che Alice sente
l'esigenza. Tutto ciò che vuole – e ciò che probabilmente le fa
più paura – è sentire ancora la voce di Jared all'altro capo del
filo, anche se dicesse solo sciocchezze o recitasse l'alfabeto,
perché sente che l'anima di quell'uomo le è affine, in un certo
senso. Hanno in comune molto, questo lo ha compreso, a partire
dall'affetto provato per due persone completamente cieche alle
rispettive esigenze sentimentali.
Stanca
di riempirsi la testa di paranoie, scrive un messaggino e resta in
attesa. Per quel che ne sa, potrebbero anche passare ore prima di
ricevere una risposta, ma non le importa: tutto ciò che desidera per
san Valentino è parlare con Jared, e sarebbe disposta ad aspettare
anche una vita intera, pur di realizzare quel piccolo capriccio.
Come
ogni venerdì sera, io e Marco stiamo cenando fuori; è san
Valentino, ma per noi non è altro che un venerdì sera come tanti
altri, l'ennesima occasione per trascorrere del tempo insieme.
Nessuno dei due sente lo spirito della serata, tantopiù che nessuno
dei due ha mai avuto qualcuno con cui valesse la pena festeggiare.
Finito
di cenare, usciamo e ci dirigiamo verso casa mia, tenendoci per mano
come molte delle coppiette che incontriamo lungo il nostro cammino.
Come sempre parliamo, ridiamo e scherziamo, arriviamo sotto casa mia
e lo invito a salire, finalmente libera dal dover cercare delle scuse
per nascondere la realtà dei fatti.
Un
paio d'ore dopo, finito di fare l'amore, siamo ancora abbracciati e
non riusciamo a smettere di guardarci. Continuo a seguire il profilo
delle sue braccia con le unghie, mentre i suoi occhi sembrano
scrutare le linee del mio volto con una precisione quasi chirurgica.
All'improvviso si solleva e si alza dal letto, cercando il cappotto
nel groviglio di vestiti ammassati a terra. «Ma che fai?» gli
domando, mettendomi a sedere.
«Mi
sono ricordato di doverti dare una cosa» risponde, frugando le
tasche della giacca. «Non è un regalo di san Valentino, tranquilla»
aggiunge, tornando sul letto con una scatolina rettangola stretta
nella mano destra. «Volevo dartelo già da qualche giorno, ma non
trovavo il momento giusto.» Prendo la scatola e la apro, trovandomi
davanti agli occhi un braccialetto d'argento, una semplice catenella
impreziosita da alcuni ciondoli a forma di note musicali e chiavi di
violino. «L'avevo visto qualche tempo in una vetrina, e ho
pensato... ho pensato che potesse piacerti. Ho notato che indossi
sempre almeno un paio di braccialetti.»
«Mi
piace tantissimo» rispondo con un sorriso. «Davvero, è molto
bello. Grazie» aggiungo, passandogli un braccio intorno al collo per
ringraziarlo con un bacio a fior di labbra. «Mi aiuti a metterlo?»
Toglie il gioiello dalla scatola e lo fa scivolare attorno al mio
polso destro, stranamente libero.
«Ti
sta molto bene. Non pensavo di avere gusto per questo genere di
cose.»
Scuoto
lievemente il polso, facendo tintinnare i ciondoli. «Hai scelto
davvero molto bene.»
Indugiamo
ancora per qualche minuto tra le lenzuola, perdendoci in baci e
carezze come una qualunque coppia di adolescenti, poi, quasi a
fatica, lui si separa da me. «Adesso me ne vado, così puoi dormire
tranquilla.»
«Puoi
dormire qui, se vuoi. Lo sai, non mi dà fastidio.» Ormai usciamo
insieme da quasi un mese, ed è successo soltanto un paio di volte
che si fermasse a dormire con me. È come se ritenesse il dormire
insieme un gesto più intimo del sesso, e non volesse in questo senso
snaturarlo, facendolo diventare una consuetudine e spogliandolo del
suo valore.
«Preferisco
andare a casa. Lo sai, russo come un treno. Non ti voglio
disturbare.»
«Sai
che non disturbi. Ho il sonno pesante, non sentirei nemmeno una
cannonata.»
«Comunque
non mi convinci» sorride, allacciandosi i pantaloni. «Tanto ci
rivedremo tra otto ore, più o meno. Non credo sentirai la mia
mancanza» aggiunge, abbottonandosi la camicia.
«No,
forse no» scherzo, alzandomi a mia volta per infilarmi qualcosa
addosso, giusto per evitare di accompagnarlo alla porta completamente
nuda.
Mentre
gli passo accanto per arrivare al cassetto dei pigiami mi ferma,
passandomi un braccio attorno alla vita. «Non ho mai tenuto a
qualcosa o qualcuno tanto quanto tengo a te, lo sai?» mi sussurra,
tenendomi stretta a sé. «Per me sei importante, e questo non voglio
che lo dimentichi.»
*
Los
Angeles, 14 febbraio 2014
Impegnato
con la registrazione di un'intervista per un'importante emittente
televisiva, Jared non ha molto tempo per controllare il cellulare, ma
quando gli dà un'occhiata veloce, appena prima di entrare nello
studio, nota immediatamente il messagino di Alice, che lo informa di
avere pronta una domanda per lui. Riconoscere il nome del mittente lo
rincuora, perché non si sentivano da due settimane, e in tutta
sincerità cominciava a pensare di averla offesa in qualche modo, per
quanto non gli tornasse in mente nessun comportamento che potesse
meritare una simile punizione.
Per
tutta la durata della registrazione tiene metà del cervello fissa
sul presentatore e sulle domande che gli vengono rivolte, mentre
l'altra metà non fa che chiedersi quale tipo di quesito abbia in
serbo per lui quella stramba ragazza italiana. Non lo ammetterebbe
nemmeno sotto tortura, ma nelle ultime due settimane l'assenza di
Alice e delle loro telefonate si è fatta sentire, come se stare al
telefono con una ragazza che non conosce fosse improvvisamente
diventata una costante della quale non riesce più a fare a meno. Per
quanto gli sia sempre piaciuto stare davanti alle telecamere a
parlare di sé, oggi Jared non vede l'ora che tutto ciò finisca,
come se fosse un'orribile tortura.
Finito
il lavoro, cerca di sganciarsi rapidamente dalle persone che gli
stanno intorno, desideroso soltanto di tornare in camerino, prendere
il cellulare e fare quella chiamata che aspettava di fare da
settimane. «Ciao» risponde lei, in maniera solitamente allegra. «Ci
hai messo più tempo del solito a richiamare.»
«Ero
impegnato con un'intervista» replica lui con aria di sufficienza,
come se fosse la normale prassi. «Che sorpresa sentirti. Iniziavo a
pensare che fossi morta. In realtà la prima cosa che ho pensato è
che ti fossi offesa per qualcosa che avevo detto. Però poi mi sono
reso conto che era impossibile, perché di solito sono un tipo molto
diplomatico, e non mi è mai successo di dire qualcosa che potesse
offendere la gente.»
«Guarda
che si può offendere qualcuno anche solo con un gesto o con un
atteggiamento. Non è necessario aprire la bocca.»
«Stai
dicendo che ho assunto un qualunque atteggiamento offensivo nei tuoi
confronti?»
«Mai
detta una cosa del genere.»
«E
allora perché sei sparita per due settimane?»
«Ho
avuto da fare. Non siamo tutti ricchissime star della musica o del
cinema che guadagnano fior di milioni anche standosene in panciolle.»
«Inizio
a capire cosa intendevi con atteggiamenti offensivi. A
proposito, buon san Valentino.»
«Detesto
san Valentino.»
«Perché,
lo hai sempre passato da sola ad ingozzarti di dolciumi e a guardare
film strappalacrime riflettendo sulla triste condizione di ragazza
single?»
«Al
contrario, l'ho sempre passato con il mio fidanzato. Entrambi lo
detestavamo, in realtà, ma era una delle poche occasioni che
avessimo di passare del tempo insieme. Era una relazione a distanza.»
«Capisco»
sospira Jared, sapendo che la lontananza è uno dei motivi che lo
hanno convinto, anni prima, a troncare la relazione con Cameron,
nonostante l'affinità dei loro caratteri e la straordinaria intesa
sessuale. «Allora, qual è la tua domanda per me? È per questo
motivo che hai scritto, no?»
Alice
prende fiato e cerca di regolare il tono di voce per porre la domanda
nel modo più serio possibile. «Preferisci recitare o fare musica?
Che cosa ti dà più soddisfazione?»
«Ehi,
queste sono due domande, piccola imbrogliona!» la prende in giro
lui. «Ma siccome sono un uomo gentile, risponderò ad entrambe nel
modo più sincero possibile. Recitare e fare musica sono due cose
molto diverse, fare paragoni è impossibile. Recitare significa
nascondere te stesso dentro un'altra identità e contemporaneamente
usare la tua personalità e le tue esperienze per arricchire quella
che in fondo è soltanto un'ombra sullo schermo. Fare musica invece
significa esporre completamente il tuo essere, dare tutto ciò che
sei in pasto ad un pubblico che nemmeno sai se ti apprezzerà. Sono
due attività che soddisfano in maniera molto diversa. Quando recito,
ciò che più mi rende felice è riuscire ad entrare il più
possibile nel personaggio. Quando canto, invece, mi piace vedere
quanto riesco ad essere me stesso, e soprattutto capire quanto il
pubblico apprezzi la mia personalità.»
«Qualsiasi
psicologo ti definirebbe l'emblema del narcisismo, lo sai?»
«Stai
forse cercando di farmi un complimento?»
«Non
serve che ti faccia dei complimenti, Jared. Ci riesci benissimo da
solo» lo prende in giro Alice.
«Ho
risposto alla tua domanda?»
«Mi
ritengo abbastanza soddisfatta, sì. Per la prossima volta dovrò
studiare qualcosa di più complicato, altrimenti non c'è gusto.»
«Beh,
se tu hai finito tocca a me interrogare, giusto?»
«Ti
sei fregato l'opportunità con la domanda su san Valentino.»
«Ehi,
questo non è giusto! Non avevamo ancora stabilito che il gioco fosse
iniziato!»
«Non
credevo ci servisse un fischio d'inizio. Non è una partita di
calcio, è una conversazione.»
«Sei
una donna perfida, lo sai?»
«Mi
sto soltanto adeguando agli standard del mio interlocutore» sorride
lei, felice di essere riuscita a metterlo in difficoltà. «Ma voglio
essere gentile, perciò ti concederò un'altra occasione. Ma bada che
sia una domanda intelligente.»
«Oh,
grazie per la gentile concessione! Dunque» sospira Jared,
chiedendosi in quale modo potrebbe metterla alle corde. «Se hai
sempre passato san Valentino in compagnia, perché in questo momento
sei al telefono con me? Se i miei calcoli sono esatti, e di solito lo
sono, lì devono essere circa le... nove di sera, giusto? Perché non
sei a cena a lume di candela con quel poveraccio del tuo ragazzo?»
Punta
sul vivo, Alice sa di non potersi tirare indietro, anche se vorrebbe
riattaccargli il telefono in faccia ed evitare di rispondere. «Beh,
questo è il mio primo san Valentino da single da quando avevo
quindici anni. Io e il mio ragazzo ci siamo lasciati più o meno tre
settimane fa.»
«Siete
usciti insieme per molto tempo?»
«Nove
anni, più o meno.»
«Accidenti»
sussurra Jared, rendendosi conto che lui non ha mai avuto una
relazione così lunga. «Allora era una storia seria. Hai detto che
era una relazione a distanza, giusto?»
«Lo
è stata negli ultimi cinque anni. Suo padre ha ottenuto una
promozione sul lavoro e si è dovuto trasferire a Milano, e tutta la
famiglia lo ha seguito. Milano non è così lontana da Torino, in
realtà, ma le nostre abitudini sono cambiate radicalmente. Per lui è
stato un bene cambiare città, comunque. Ha avuto l'opportunità di
studiare in un'università migliore, e di conseguenza potrà anche
avere migliori opportunità professionali.»
«Perché
vi siete lasciati?»
«Non
ti arrendi mai, eh?»
«Beh,
quando racconti una storia devi andare fino in fondo. Non è una soap
opera, non puoi lasciarmi in stand-by fino alla prossima settimana.
Allora, mi racconti perché vi siete lasciati?»
Alice
sospira, sapendo che Jared non mollerà l'osso molto facilmente. «Ci
siamo accorti che non c'era più la magia di un tempo.»
«Beh,
dopo nove anni è normale che le cose cambino. Non sono un esperto di
relazioni durature, ma sono abbastanza grande da sapere che è nella
natura delle cose cambiare.»
«Non
sarò grande quanto te, ma so che le cose cambiano. Solo che... ecco,
credo che il nostro problema fosse che molte cose erano rimaste le
stesse. Insomma, qualcosa tra noi era cambiato, ma noi... non lo so,
mi sembrava che continuassimo a comportarci come se non fosse
cambiato nulla. Non credo di essere riuscita a spiegarmi bene,
scusa.»
«No,
io... io credo di aver capito. Tu pensavi che dopo tanto tempo il
vostro rapporto dovesse giungere ad un punto di svolta, e quando ti
sei resa conto che non ci sarebbe stata nessuna evoluzione tu hai...
beh, hai capito che non sareste arrivati da nessuna parte.»
«Qualcosa
del genere, sì. Insomma, ho ventiquattro anni. È arrivato il
momento di iniziare a pensare al mio futuro, è arrivato il momento
di fare dei progetti, di pensare a come voglio costruire la mia vita.
Giusto?»
«Sbaglio,
o stai cercando la mia approvazione?»
«Sbagli.
Era soltanto una domanda retorica.»
«Se
la cosa può esserti di conforto, alla tua età avevo ancora le idee
piuttosto confuse circa il mio futuro. Non avevo la minima idea di
che cosa avrei fatto.»
«Non
raccontarmi balle, per favore. Alla mia età eri protagonista di una
delle serie televisive più seguite dagli adolescenti di tutto il
mondo e avevi già milioni di ammiratrici pronte a saltarti addosso.»
«Non
esageriamo, non erano milioni. Saranno state a malapena qualche
migliaio» minimizza lui, sapendo che la sua indifferenza la farà
uscire dai gangheri. «Ma spiegami un po' com'è che conosci così
nel dettaglio la mia carriera. Sono curioso. Non sarai una di quelle
esaltate che ai concerti lanciano reggiseni sul palcoscenico, vero?
Perché la cosa sarebbe imbarazzante. Lusinghiera, lo ammetto, ma
anche estremamente imbarazzante.»
«La
mia biancheria intima di solito resta nei miei cassetti, tranquillo»
replica lei, sapendo che i lanci di lingerie potrebbero forse
imbarazzare un tipo schivo come Tomo, ma non di certo uno dei
fratelli Leto. «E comunque non conosco la tua carriera nel
dettaglio, non sono una fan esaltata. È solo che My So-Called
Life l'ho visto in streaming un paio d'anni fa, e so che quando
l'hai girato avevi più o meno la mia età. Tutto qui, non cercare
significati nascosti che non esistono.»
«Va
bene, ho deciso di crederti. Comunque il fatto che a ventiquattro
anni avessi un ruolo di rilievo in una serie cult non significa che
avessi già deciso di fare della recitazione la mia professione.»
«Ma
non posso evitare di pensare che il successo della serie ti abbia
aiutato a prendere una decisione in merito. Saresti diventato un
attore, se la gente avesse odiato Jordan Catalano?»
«Devo
essere sincero?»
«In
realtà speravo che lo fossi già.»
«Dopo
My So-Called Life accarezzai l'idea di non recitare mai più.
Non facevano che offrirmi ruoli romantici e pieni di stereotipi, e io
non volevo finire intrappolato nel cliché del ragazzo bello e
dannato, o dell'eroe romantico. Sai che mi chiesero di interpretare
Jack in Titanic?»
«No,
è la prima volta che lo sento dire» replica Alice, senza sapere se
questo corrisponda a verità o se sia soltanto una balla inventata al
momento per rendere la conversazione più interessante.
«Davvero,
non ti sto mentendo! Ma non mi presentai nemmeno alle audizioni. Non
dico che il ruolo mi facesse schifo, o che non morissi dalla voglia
di lavorare con James Cameron, o che non volessi disperatamente
partecipare alla ricostruzione di una storia così importante,
però... volevo fare di più. Volevo essere di più.»
«Tutti
vogliono essere di più di quel che sono» sospira Alice. «Credo sia
nella natura di ogni essere umano aspirare ad un livello superiore.»
«Sì,
lo credo anch'io. Tu che cosa vorresti essere?»
«Io?
Io sono come Mary Poppins, amico. Praticamente perfetta sotto ogni
punto di vista. Non posso essere più di quel che già sono» lo
prende in giro lei.
«No,
sul serio. Ci sarà pur qualcosa che hai sempre voluto fare, o
essere.»
Alice
ci riflette su per qualche secondo, poi sussurra: «Una persona più
coraggiosa. Ho sempre voluto avere più fegato di quanto ne abbia in
realtà. Sono sempre stata una codarda, anche se mi piace far credere
al mondo di non esserlo affatto.»
«Io
non credo che tu sia una codarda, sai? Una persona codarda non
avrebbe mai fatto ciò che hai fatto tu. Un vero codardo non avrebbe
mai scritto quella e-mail.»
«Quello
non è stato coraggio, Jared» replica lei. «Quella è stata
invadenza, pura e semplice invadenza. Le decisioni di Daria non sono
affar mio. Non mi sarei dovuta impicciare nelle sue storie. Avrei
dovuto lasciare che le cose facessero il loro corso, e limitarmi ad
accettarne le conseguenze. Vuole stare lontana dall'unico uomo che
potrà mai darle una vita felice? Va bene. Vuole far rientrare sua
madre nella propria vita? Va bene. Vuole aiutare suo fratello a
superare indenne l'adolescenza? Va bene. Io dovrei starle accanto in
silenzio e parlare soltanto quando sono interpellata, e soprattutto
non fare nulla che lei non farebbe. Non dovrei intromettermi e
sostituirmi a lei nelle...»
«Scusa,
cos'hai detto a proposito di sua madre?» la interrompe
all'improvviso Jared, la cui attenzione si è fermata un paio di
frasi addietro.
«Oh,
giusto, tu non sai niente!» esclama Alice, e Jared può quasi
vederla battersi il palmo aperto sulla fronte, come a punirsi per la
propria sbadataggine. «Il mese scorso la madre di Daria si è
rifatta viva. È tornata dopo quindici anni ed è saltato fuori che
ha avuto un altro figlio, un ragazzino che adesso ha undici anni.»
«Daria
ha un fratellastro?»
«Esattamente»
annuisce la ragazza. «All'inizio è stato uno shock, non soltanto
per lei. Odiava sua madre per il fatto di essersene andata
all'improvviso senza voltarsi indietro, e vederla tornare l'ha
scombussolata non poco. Poi è saltata fuori la notizia di suo
fratello, e le cose sono cambiate. Lo ha incontrato e ha deciso di
prendersi cura di lui. Ha perso il padre l'anno scorso, e ha bisogno
di qualcuno che gli stia vicino e gli voglia bene senza chiedere
nulla in cambio. In un certo senso, non gli poteva capitare una
sorellastra migliore di Daria. Lei non sa amare a metà. Quando dona
il suo cuore a qualcuno, lei lo fa per intero, senza risparmiarsi.»
«Non
si risparmia neanche quando spezza i cuori altrui» ribatte Jared,
pensando al dolore di Shannon, ancora così vivo ed evidente da
ferire anche lui.
«Posso
assicurarti che Daria non è una che va in giro a spezzare cuori per
sport. Di solito quando si tratta di sentimenti ci va con i piedi di
piombo.»
«Però
ammetterai che nel caso di Shannon non si è fatta molti scrupoli.»
«Stai
forse cercando di litigare con me?»
«No,
sto soltando esprimendo una mia opinione.»
«Sarà,
ma il tuo tono non mi piace per niente» replica lei, improvvisamente
pronta ad imbarcarsi in una battaglia verbale con uno degli uomini
più celebri del mondo.
«Sbaglio
o ti stai arrabbiando?» domanda lui, che in questo momento più che
mai vorrebbe poterla vedere in volto.
«Non
mi sto arrabbiando» risponde lei a denti stretti. «Dico solo che
non mi piace il tono con cui stai parlando di Daria. La stai facendo
passare come una specie di vedova nera che si diverte a lasciarsi
dietro i cadaveri degli uomini che fa innamorare di sé, e io so che
non è affatto quel genere di ragazza.»
A
questo punto, Jared si rende conto di aver davvero calcato troppo la
mano, che in fondo Daria ha agito con le migliori intenzioni del
mondo, pensando di fare la cosa più giusta per sé e per gli altri,
e nessuno merita di essere condannato per aver cercato di fare la
cosa giusta. «Scusa, non volevo parlar male di Daria, e non volevo
farti arrabbiare» sussurra, sperando che Alice riesca a cogliere il
sincero pentimento insito nella sua voce. «Non volevo insinuare che
avesse agito in malafede, e sicuramente non volevo dire che è una
persona malvagia che gode nel far soffrire gli altri. Credo... forse
siamo solo entrambi troppo coinvolti, e ci scaldiamo facilmente
quando si tocca l'argomento. In fondo Shannon è mio fratello, e più
di una volta tu hai detto che Daria è come una sorella, per te.»
«Sì,
forse ci siamo entrambi troppo dentro» sospira Alice. «O forse tu
sei solo un vanesio egocentrico a cui piace tirar fuori il peggio
dagli altri» aggiunge con una risatina, tornando a prendersi gioco
di lui.
«Mi
congratulo per l'attenta analisi del paziente, dottor Freud» replica
lui, sorridendo. «Mi dispiace di averti fatta arrabbiare, non era
mia intenzione» aggiunge dopo qualche secondo di silenzio. «Ammetto
di essere un provocatore, ma a volte esagero sul serio. È una
qualità che ho sempre cercato di cambiare, purtroppo senza
riuscirci. Sono quarantadue anni che ci provo, ma sembra proprio che
non ne sia in grado.»
«Non
importa, sei perdonato. A questo punto io dovrei ammettere di essere
un po' troppo suscettibile quando si parla delle persone a cui voglio
bene.»
«Non
lo classificherei come un difetto. A volte è un bene essere così
protettivi, specialmente quando le persone a cui vogliamo bene non
riescono a difendersi da sole.»
«Non
che nel mio caso essere protettiva abbia sortito qualche effetto.
Daria e Shannon sono ancora separati o sbaglio?»
Ancora
seduto sul divanetto del camerino che gli è stato messo a
disposizione, Jared si lascia andare all'indietro, quasi sprofondando
nell'imbottitura morbida. Anche lui, come Alice, prende estremamente
a cuore le sorti delle persone che ama, eppure non sempre riesce a
rimettere insieme i cocci altrui. Ha tentato in ogni modo di far
tornare insieme Shannon e Daria, eppure ogni tentativo è miseramente
fallito, come se l'universo intero cospirasse contro di lui. «Mia
cara Alice, come strateghi siamo proprio due fallimenti» sospira.
«Non so tu, ma io sento di aver esaurito le idee.»
«Questo
significa che ti vuoi arrendere?» domanda lei.
«A
meno che tu non sappia tirar fuori un coniglio da un cilindro...»
Segue una lunghissima pausa, tanto che Jared si convince che sia
caduta la linea. «Alice? Ci sei ancora?»
«Sì,
scusa. Sono ancora qui. Stavo cercando di pensare, ma... credo di
aver esaurito le mie carte. Abbiamo davvero fallito, eh?»
«Non
si può vincere sempre, dicono.»
*
Torino,
15 febbraio 2014
Sono
ormai le due del mattino, e ancora non ho chiuso occhio. Marco è
andato via poco prima di mezzanotte, e da allora mi rigiro tra le
lenzuola senza trovar pace, come se stessi cercando di prender sonno
stando su un letto fatto di chiodi. È un periodo in cui ho già
troppe cose per la testa, e proprio non avevo bisogno che Marco
reiterasse la propria dichiarazione d'amore con una bella frase
romantica e un regalo così bello. O almeno avrebbe potuto scegliere
un bracciale con ciondoli diversi. Se non fossi più che certa che
non sa un bel niente della mia passata relazione con Shannon, mi
verrebbe da chiedermi se tutte quelle note e chiavi di violino non
siano una sorta di punizione, un modo per ricordarmi dei miei errori
e delle mie scelte. Chiudo gli occhi, anche se nel buio non riesco a
vedere nemmeno ad un palmo dal mio naso, ma ad ogni piccolo movimento
della mano sento i ciondoli tintinnare tra loro, riportando alla
mente memorie che credevo ormai archiviate per sempre – un
pomeriggio trascorso a svuotare scatoloni e sistemare oggetti in giro
per casa, starsene buttati sul divano come stracci vecchi guardando
un film divertente, mangiare pizza senza preoccuparsi dell'etichetta
o delle macchie sui vestiti, guardarsi negli occhi ad una distanza di
dieci centimetri e giurarsi di essere sempre sinceri, sempre,
a qualunque costo.
Mi
metto a sedere, incapace di trattenere ancora un paio di lacrime.
Shannon ha cambiato la mia vita, mi ha resa felice come credevo non
sarei mai stata, e per quanto abbia tentato,
so di non poter dimenticare tutto ciò che ho avuto con lui. Sono
passati tre mesi da quando l'ho lasciato – in questo periodo ho
permesso al mio corpo di cedere alla tentazione di un altro amore,
l'ho permesso e forse lo rifarei, ma se c'è una cosa di cui ora sono
certa, è che la mia anima non potrà mai lasciarsi andare
completamente – né la mia anima né il mio cuore apparterranno mai
a qualcun altro, perché nel fare le valigie, in un gelido mattino di
fine novembre, li ho scordati in una stanza d'albergo di Parigi,
avvolti in pregiate lenzuola di cotone egiziano, riscaldati
dall'unico uomo che potrei mai riconoscere come anima gemella.
Shannon
mi manca da morire, e a questo punto le lacrime diventano un vero e
proprio pianto dirotto, impossibile da frenare, un pianto che mi riga
le guance e inumidisce le lenzuola nelle quali sto affondando il
viso. Shannon è l'unico uomo che abbia mai amato, e ciò che più mi
ferisce è rendermi conto che non è tornato indietro. Ha letto la
mia lettera e seguito passo passo le mie istruzioni, senza nemmeno
tentare di inseguirmi per
farmi cambiare idea. Non ha nemmeno pensato di affrontarmi e farmi
cambiare idea, e questo è quasi più doloroso del sentirsi dire che
non si è amati.
Vorrei
avere la facoltà di tornare indietro nel tempo e rimanere in quella
stanza, reprimendo ogni paura e timore nei riguardi del futuro. In
fondo, mio padre ha ragione: niente mi dice che non avremmo potuto
essere felici, che non avremmo potuto avere quella straordinaria
storia d'amore in cui entrambi credevamo. Per quel che ne so, per noi
ci sarebbe potuto essere il lieto fine. Per quel che ne so, avremmo
anche potuto vivere per sempre felici e contenti. E io invece ho
lasciato perdere, ho smesso di combattere ancor prima che iniziasse
la battaglia, ho deposto le armi a terra e ho battuto in ritirata
senza nemmeno provarci. Per quel che ne so, avremmo anche potuto
vincere. In fondo, non ero la sola a combattere – eravamo insieme.
Quand'è successo? Quando sono diventata così vigliacca? Quando ho
perso quel poco di coraggio che avevo mai avuto? In quale momento
della vita ho smesso di credere in me stessa, quando ho smesso di
tenere alla mia vita e ai miei sogni, quando sono diventata una donna
che rinuncia al grande amore della vita e si accontenta di un uomo
qualsiasi? Perché sì, Marco è straordinario, ma per quanto possa
impegnarsi, non sarà mai Shannon – non importa quante volte mi
stringerà a sé nel sonno, o quante impiegate sfaticate licenzierà
pur di farmi sentire apprezzata... lui non sarà mai Shannon. E
capire che non sto soltanto prendendo in giro me stessa, ma anche una
persona davvero innamorata
di me mi fa provare un vago senso di nausea, come se mi stessi
rendendo conto di essere una persona disgustosa.
In questo momento mi faccio
semplicemente schifo. E il peggio non è rendersi conto di aver
sbagliato, ma conoscere la soluzione al problema e non avere il
fegato di metterla in pratica.
*
Los
Angeles, 15 febbraio 2014
Non
esiste che una parola per descrivere lo sguardo di Christine nel
momento in cui, uscendo dall'ufficio, si trova di fronte me:
sorpresa. «E
tu che cosa ci fai qui?» mi domanda, senza tentare nemmeno per un
istante di addolcire il tono.
«Avevo
voglia di vederti» rispondo. «Non ci sentiamo da un po', e in
realtà l'ultima volta che ci siamo parlati non mi sono comportato
bene, perciò volevo chiederti scusa.»
«Potevi
chiamare, Shannon. Non era necessario che mi aspettassi fuori
dall'ufficio. Da quant'è che sei qui?»
Getto
un'occhiata all''orologio, facendo spallucce. «Non saprei, forse un
paio d'ore. Non sapevo a che ora staccassi, quindi sono arrivato
verso le cinque. Ho pensato che finissi verso quell'ora.»
«Sì,
di solito stacco verso le cinque e mezza» replica, controllando a
sua volta l'orologio, «ma oggi mi sono dovuta trattenere un po' più
a lungo. Un ex cliente ha fatto causa alla società, perciò avevo
delle carte da controllare, dei documenti...» aggiunge,
evidentemente stanca per la lunga giornata.
«Credevo
ti occupassi soltanto di noiose questioni burocratiche» la prendo in
giro.
«Infatti»
ribatte con un breve sorriso. «Non sono preparata ad affrontare una
causa, quindi ho dovuto chiedere aiuto ad un amico che lavora in uno
studio specializzato in reati fiscali. E tu sai quanto detesti
ammettere di non essere qualificata per svolgere una mansione. Non
vedo l'ora di andarmene a casa, sono letteralmente sfinita. E ancora
non si è aperto il processo, figurati.»
«Quindi
ho scelto la sera sbagliata per invitarti a cena?»
Di
nuovo il suo volto assume un'espressione decisamente sorpresa, ma
proprio quando credo che verrò liquidato sono io quello che rimane
stupito: «Direi che è la sera giusta, invece. Non ho voglia di
cucinare, quindi finirei a mangiare pizza surgelata o cibo cinese.
Dove mi porti?»
«Direi
che vista la tua giornata infernale, ti sei guadagnata il diritto di
scegliere il posto. Sono aperto a tutto.»
Tornato
a casa, dopo l'intervista e un altro imprecisato numero di impegni,
Jared ignora la posta che si ammucchia sul tavolino dell'ingresso,
rimane sordo ai crampi dello stomaco e si dirige a passo sicuro verso
il bagno, lasciando cadere i vestiti nel cestone della biancheria e
infilandosi sotto la doccia. Rimane fermo sotto il getto bollente per
un tempo che non riesce a quantificare, finché l'acqua non inizia a
diventare tiepida, e poi quasi fredda. Esce soltanto quando sente i
polpastrelli diventare rugosi, come quando da bambino ignorava gli
avvertimenti di sua madre e restava a mollo nella vasca ben oltre il
tempo consentito. Si avvolge un asciugamano attorno ai fianchi e si
asciuga sommariamente i capelli, mentre osserva il proprio volto allo
specchio.
Soltanto
in questo momento si rende conto che probabilmente hanno ragione
quelli che dicono che l'età è soltanto un numero, e che essere più
vecchi non rende per forza di cose più saggi. Deve essere così,
perché altrimenti non si spiega come possa Alice, che ha diciotto
anni meno di lui e potrebbe quasi essere sua figlia, dimostrarsi più
matura di quanto lui non sarà mai. Perché lei si è dimostrata
infinitamente più saggia, questo è chiaro: lei è riuscita a
comprendere quanto sia stata sbagliata la propria intromissione nella
vita privata di Daria, e soprattutto è riuscita ad ammetterlo a se
stessa, per quanto sia stato doloroso. Lei è riuscita a capire che
le strategie non sono servite a nulla, e che le cose potranno tornare
quelle di prima soltanto quando Shannon e Daria vorranno farle
tornare tali. Shannon e Daria, non
Jared
e Alice, né tantomeno Constance, o Tomo, o Vicki, Emma, o chiunque
possa nutrire il desiderio di fare qualcosa in proposito.
Jared
guarda a lungo l'uomo riflesso nello specchio, studia le minuscole
rughe attorno ai suoi occhi, quelle linee così piccole da poter
essere viste soltanto da molto vicino, e non solo capisce che Alice è
stata più saggia di lui, ma anche molto più coraggiosa – lei,
che poche ore prima ha espresso il desiderio di essere più audace. È
buffo come non se ne renda conto, ma coraggiosa lo è stata davvero –
se non nello scrivere l'e-mail che li ha messi in condizione di
conoscersi, almeno nell'ammettere di aver esagerato con le proprie
preoccupazioni. Ammettere un errore non è cosa da tutti, e
sicuramente non è cosa da lui. Ed è strano rendersene conto
soltanto adesso,
dopo che per anni è andato in giro a cantare canzoni che parlano di
essere se stessi e di non avere paura, a parlare con ragazzi che
nella musica dei Thirty Seconds To Mars cercano soltanto un
incoraggiamento a vivere la vita con tutto il coraggio possibile.
A
quarantadue anni, di fronte ad uno specchio impietoso e alla
prospettiva di non essere poi quel grand'uomo che gli altri hanno
sempre voluto vedere, Jared sente, forse per la prima volta nella
vita, l'esigenza di tornare ad essere il ragazzino di un tempo,
quello che nessuno vedeva, quello che la folla riusciva a celare,
quello che non sapeva quello che voleva, e che soprattutto non sapeva
ciò che avrebbe perso crescendo.
«Non
so come faccia quel ristorante ad essere il tuo preferito, dico sul
serio. Hanno un caffè orrendo!» commento, fermando l'auto davanti a
casa di Christine.
«Per
quanto tu possa ritenerlo impossibile, Shannon, la gente normale non
vive di solo caffè» risponde lei, sganciandosi la cintura di
sicurezza e prendendo le chiavi dalla borsa. «Mi piace quel
ristorante perché il cibo è buono ed è un locale accogliente.
Ammetto che il caffè non sia il suo punto forte, ma non può
bastarti questo per metterlo sulla tua lista nera.»
«Ehi,
il caffè è una categoria alimentare importante, come la pizza e i
marshmellow» ribatto, facendola ridere di gusto. «Non dico che non
ci tornerò mai, ma di certo eviterò il caffè.»
«Dai,
vieni dentro, te lo offro io un buon caffè» replica, aprendo lo
sportello. «Così forse la smetterai di perseguitarmi con questa
storia.» Sfilo le chiavi dal quadro, scendo e blocco gli sportelli,
poi la seguo fino alla porta. La osservo mentre fa scattare la
serratura, concentrata sui movimenti. Come me è cambiata, cresciuta,
eppure passare del tempo con lei è ancora soddisfacente come quando
eravamo ragazzi: è ancora spigliata, simpatica, ha ancora il suo bel
sorriso e le sue battute sono divertenti come ricordavo. So che sono
trascorsi più di vent'anni, ma stare accanto a lei mi fa sentire
come quando avevo diciotto anni e non una sola preoccupazione al
mondo, e questa è una sensazione che adoro. «Ti avverto, non devi
essere allergico al disordine. Con i miei orari non ho il tempo di
tenere in ordine, e ancora non ho trovato una brava donna delle
pulizie, perciò...» Non le do il tempo di finire la frase: la
stringo tra le braccia e poggio le mie labbra sulle sue con
decisione, esattamente come ha fatto lei l'ultima volta che ci siamo
salutati.
Nonostante
la sorpresa, non cerca di allontanarmi né tenta di dire qualcosa.
Sento il suo corpo cedere, quasi rilassarsi tra le mie braccia, e
poco dopo sento le sue mani risalire fino al mio viso, poggiarsi
sulle guance e tenermi vicino, come se temesse di vedermi scivolare
via all'improvviso. Con una mano spingo la porta e a passo lento,
senza lasciarci, superiamo la soglia. Richiudo l'uscio, e
l'improvviso ritrovarsi in un luogo chiuso sembra risvegliare la mia
parte animalesca, quella che da troppo tempo cerco di tenere
rinchiusa dentro di me. Spingo Christine contro il pannello e premo
il mio corpo contro di lei, che non sembra dar segno di voler
interrompere quel contatto. Dalla bocca scivolo verso il collo,
mentre le mani la spogliano della giacca e tornano subito su,
impegnandosi a slacciare i bottoni della sua camicetta. «Non
dovevo... non dovevo prepararti un caffè?» sospira a fatica, mentre
le mie mani cercano il profilo familiare dei suoi seni e li stringono
attraverso la stoffa leggera.
«Lascia
perdere il caffè» ribatto, staccandomi da lei per il tempo di
sfilarmi il maglione, tirando via anche la maglietta. Torno ad
avventarmi sul suo collo, sentendo le sue mani muoversi alla cieca
per trovare la fibbia della cintura. È a quel punto che la mia mano
si avventura al di sotto della sua gonna, scansando la biancheria e
trovando subito il suo punto più sensibile. Basta il contatto con le
mie dita a strapparle un gemito, e non le ci vuole molto più tempo
per abbassarmi jeans e biancheria e stringermi a sé, facendomi
capire che vuole proseguire. Continuo a torturarla con le mie dita e
i miei baci, mentre la sua mano continua a sfiorarmi, delicata e
quasi timida come faceva già vent'anni fa. Improvvisamente, mi
accorgo di non avere con me profilattici, perché mai avrei pensato
che una semplice cena di scuse potesse portare a questo – a dire il
vero, non credevo nemmeno avrebbe accettato il mio invito.
«Christine, non ho preservativi» sussurro, staccandomi per un
istante dal suo collo.
«Non
è un problema, prendo la pillola» risponde lei, le gote arrossate e
gli occhi accesi di desiderio. «A meno che qualche groupie non ti
abbia trasmesso qualche brutta malattia, non è un problema»
aggiunge con un sorriso.
«Nessuna
malattia, tranquilla. Sono sanissimo» sorrido a mia volta,
trattenendomi dal dire che in realtà non c'è proprio stata nessuna
groupie, e che nei miei ultimi rapporti ho sempre preso precauzioni,
per quanto credessi di essere troppo ubriaco per riuscirci.
«Allora
smetti di parlare.»
Senza
dire altro, poggio le mani sul suo fondoschiena e la sollevo, senza
staccare i miei occhi dai suoi. Scivolo dentro di lei in modo quasi
prepotente, strappandole un piccolo lamento di dolore. Dopo un breve
istante di immobilità inizio a muovermi, sostenendola con un braccio
e appoggiando l'altra mano alla porta, tentando di mantere
l'equilibrio. Christine si regge alle mie spalle, rispondendo ad ogni
spinta con un gemito o un sospiro. Il suo seno preme contro il mio
petto ad ogni respiro, mentre i suoi capelli castani, più lunghi di
quanto ricordassi, scivolano in avanti, coprendole in parte il viso.
Quando sostenere il suo sguardo si fa troppo difficile, chiudo gli
occhi e mi concentro sulle sensazioni. Mi è sempre piaciuto
mantenere un contatto visivo durante il sesso, ma guardare troppo a
lungo i suoi occhi scuri riporta alla mente troppe cose che credevo
di aver dimenticato – e non soltanto il passato più remoto, ma
anche momenti troppo recenti per essere cancellati, e troppo intensi
per risultare inoffensivi.
Spalmato
sul divano, di fronte ad un vecchio film che nemmeno sta seguendo,
Jared cerca di riprendersi dalle fatiche della giornata.
Contravvenendo alle regole ferree che di solito regolano la sua
dieta, e soprattutto per niente in vena di cucinare, ha ordinato
un'enorme pizza farcita di ogni ben di Dio, che ora giace in stato di
abbandono sul tavolino del salotto, accanto ad una lattina di Pepsi e
al telecomando. È quasi sul punto di appisolarsi quando il cellulare
squilla. Dopo una forsennata ricerca, Jared lo trova incastrato tra i
cuscini del divano, e riesce a rispondere un attimo prima che smetta
di squillare. «Ciao, Emma. È successo qualcosa?» biascica, la voce
vagamente impastata dallo stato semicomatoso nel quale era scivolato.
«Spero
che tu sia seduto, Jared, perché... sono uscite.»
«Sono...
uscite?» ripete lui, senza capire di che cosa si parli, e
soprattutto perché Emma sia così eccitata dalla notizia.
«Le
candidature, Jared, le candidature agli Oscar! Jared, sei stato
nominato!»
«Cosa?»
«Cos'è,
stai diventando sordo? Sto dicendo che sei stato candidato
all'Oscar!»
Soltanto
a questo punto Jared inizia a metabolizzare la notizia. Candidato
all'Oscar. Lui, che proprio quella mattina ha affermato di aver
pensato, solo per qualche mese, ormai una vita fa, di mollare la
recitazione. Lui, che ha sempre scelto ruoli di solito mai capiti dal
pubblico, che ha sempre vissuto, nel mondo e sullo schermo, fuori dal
coro. Sa che in fondo non si tratta che di una formalità, di una
statuetta che, in caso di vittoria, finirebbe abbandonata su una
mensola accanto a decine di altri inutili premi, eppure la
prospettiva di vincere un riconoscimento del genere lo rende
insolitamente fiero. Sa di non aver bisogno di premi per incrementare
la propria popolarità, eppure è felice di avere una simile
opportunità, perché questo renderebbe finalmente chiaro agli occhi
del mondo che non è soltanto un eccentrico artista che si veste al
buio e che fa leva sul proprio bell'aspetto. No, proprio no. Perché
Rayon non ha nulla a che fare con la bellezza, o almeno con quella
esteriore. Rayon è soprattutto cuore. Rayon è solo cuore, e
solo Dio sa quanto Jared si sia annullato per riuscire ad
interpretarla nella maniera corretta, per non cadere nel cliché, per
far trasparire ogni sua sfumatura. Rayon è la prima persona alla
quale Jared abbia donato incondizionatamente la sua anima e il suo
cuore, e sa che se non fosse già seduto questo sarebbe il momento di
farlo, perché le gambe stanno iniziando a tremargli.
Improvvisamente,
Jared non si sente più così solo e abbattuto, mentre all'altro capo
del filo Emma continua a complimentarsi con lui e inizia ad
organizzare l'evento.
La
seconda volta succede tutto più lentamente, quasi con dolcezza, come
se dal semplice sesso fossimo tornati al tempo in cui facevamo
l'amore, scambiandoci sogni e desideri come forse sanno fare soltanto
i ragazzini. Ci muoviamo quasi a rilento sul letto dalle lenzuola
stropicciate, assaporando ogni contatto e ogni carezza come un
bicchiere di vino che non vorremmo si svuotasse mai. Tra labbra che
si sfiorano senza realmente toccarsi e dita che si stringono forte
per cercare la forza di continuare, Christine ed io torniamo ad
amarci, come credevo non sarebbe più successo. Dopo Daria,
credevo non sarei più stato in grado di dare ad una donna altro che
il mio corpo, ma ciò che sta accadendo mi rivela che è possibile
continuare a vivere anche dopo un grande dolore, e che forse esiste
un modo per riparare un cuore spezzato.
1La
carne è debole. Solo l'anima è immortale, e la tua appartiene a me.
|
Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da
Louis Cyphre
(interpretato da Al
Pacino)
nel film L'Avvocato
Del Diavolo
(1997).
|
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Capitolo 16 *** 16 | Immagino che adesso dipenda da me: devo correre il rischio, o soltanto sorridere? ***
La lunga strada verso casa - 1
Mi sento
terribilmente in colpa per avervi fatto aspettare per così tanto
tempo, ma queste due ultime settimane sono state colme di impegni
fino all'inverosimile: lavoro, studio, impegni in famiglia,
presentazioni del mio libro, cene da organizzare per cercare di
provarci con il tipo che mi piace, una long da finire per un contest
in scadenza tra due giorni (e che ancora non ho terminato XD)...
insomma, credo di avere quasi più impegni di Obama. Però vi farà
certamente piacere sapere che in questi giorni ho avuto alcuni
momenti per riflettere sulla direzione che prenderà la storia di
Daria e Shannon, il che significa che ora devo soltanto trovare il
tempo di mettermi a tavolino e scrivere, e poi avrete i vostri
temutissimi aggiornamenti =)
Domandandovi
ancora una volta scusa per abusare così della vostra pazienza e del
vostro tempo, vi saluto, e vi regalo un capitolo che spero
apprezzerete.
Con
affetto marsiano,
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo sedicesimo
Immagino che adesso
dipenda da me:
devo correre il
rischio, o soltanto sorridere?.1
Torino,
15 febbraio 2014
Dopo una notte passata
quasi completamente in bianco, vado al lavoro con due occhiaie in
grado di spaventare gli uomini più coraggiosi. Tento di
tranquillizzare Marco, terrorizzato all'idea che possa essere malata,
cercando nel contempo di non fargli capire che la causa della mia
notte agitata è stato il suo regalo, la sua dichiarazione e tutto
ciò che da essi è conseguito, ovvero la convinzione che Alice non
ha in fondo tutti i torti, e che mi sono lanciata in questa relazione
principalmente per tentare di scacciare dalla mente e dal cuore il
pensiero di Shannon – che solo ora mi rendo conto essere
incancellabile. Non in così poco tempo, almeno. La cosa giusta da
fare, ora me ne rendo conto, è troncare con Marco prima che sia
troppo tardi, prima di sentirmi troppo coinvolta, prima che la nostra
relazione diventi troppo complicata, prima che il nostro legame
diventi tanto profondo da spezzargli definitivamente il cuore quando
arriverà il momento in cui non riuscirò più a sopportare il mio
riflesso nello specchio. So che questa non sarebbe la soluzione,
perché lasciare Marco non farebbe tornare indietro Shannon, ma in
qualche modo sento che mi farà stare meglio, anche solo per un
momento, e in questo istante mi sento tanto distrutta da essere
pronta a qualunque cosa pur di trovare un attimo di pace.
Solo che, me ne rendo conto
soltanto questa mattina, non è facile trovare le parole giuste per
dire ad una persona che ti ama che tu in realtà non provi per lei
altro che affetto, e che nemmeno in un milione di anni potrebbe
imparare ad amarti nel modo in cui vuoi essere amata, e soprattutto
nel modo in cui sai di poter essere amata. Decido di
comportarmi nella maniera più naturale possibile e di lasciare le
conversazioni personali a fine giornata, convinta che così sarà
tutto più semplice, soprattutto perché ad essere seguirà il
finesettimana, e dunque entrambi avremo un paio di giorni liberi per
recepirne gli effetti. Effetti che, già lo so, saranno comunque
devastanti.
*
Los Angeles, 15 febbraio
2014
Apro
gli occhi, e mi occorre qualche secondo per capire che non sono mie
le lenzuola tra le quali sono disteso. Mi ci vuole un altro mezzo
minuto per rendermi conto che l'altro lato del letto è vuoto e che
sono a casa di Christine, e che abbiamo trascorso la notte facendo il
miglior sesso che mi sia capitato di fare di recente. L'ultima volta
che siamo stati insieme, ormai più di vent'anni fa, eravamo entrambi
due ragazzini alle prime armi che non avevano idea di come
comportarsi, ma adesso... oh, questa notte sarà difficile scordarla.
Ammetto di aver maturato una certa esperienza in questi anni, ma
Christine non è da meno. L'ho lasciata ragazzina, e l'ho ritrovata
decisamente donna –
una donna forte e indipendente che sa quello che vuole e soprattutto
non ha paura di prenderselo. Christine non si nasconde e non ha paura
di chiedere, e questo è quello che in una donna mi è sempre
piaciuto di più.
Nascondo
un breve sorriso dietro la mano e mi metto a sedere, chiedendomi dove
sia lei. Mi guardo attorno e trovo i miei vestiti accuratamente
piegati su una sedia lì vicino, corredati da un biglietto. «Grazie
per la splendida serata» leggo
a bassa voce. «Purtroppo devo andare al lavoro, ma ho
pensato di lasciarti dormire. Sei ancora bellissimo, quando dormi. In
cucina c'è del caffè – un buon caffè, tranquillo. Ci sentiamo.»
Sorrido ancora, alzandomi in piedi e vestendomi senza fretta, senza
riuscire ad impedire alla mia mente di tornare indietro di poche ore,
alle storie che questo letto potrebbe raccontare.
Accogliendo con piacere
l'invito, vado in cucina e mi verso una tazza di caffè.
Sorseggiandolo piano, vago a piedi nudi per tutta la casa, cercando
di capire che tipo di persona Christine sia diventata crescendo.
Osservo con attenzione i manuali di diritto accuratamente riposti
sullo scaffale e i giornali sparsi sul tavolino del salotto, poi il
mio sguardo finisce catturato dalla sua collezione di dischi.
Christine è sempre stata un'appassionata di buona musica, e in
effetti questo è uno dei motivi che ci hanno fatti finire insieme al
liceo. Trovo molti titoli dei Dire Straits, dei The Cure e dei Queen,
poi, nascosti in un angolo, quasi avesse cercato di celarli alla
vista, trovo i nostri cd, la collezione completa degli album dei
Thirty Seconds To Mars. Osservandoli, mi sento un po' strano: è come
se in un certo senso in tutti questi anni lei abbia avuto
un'opportunità per continuare a stare in contatto con me,
un'occasione per osservarmi, una possibilità che io non ho avuto. È
come se lei sapesse tutto ciò che ho fatto in questi anni, mentre
per me questo periodo è soltanto un enorme buco nero che non so come
colmare.
Finisco il caffè, sciacquo
la tazza e la infilo in lavastoviglie, poi metto le scarpe ed esco,
accorgendomi che sono quasi le dieci del mattino, e ho lasciato solo
Bruce fin troppo a lungo. L'aria è frizzante, insolitamente fredda
per gli standard degli inverni californiani, ma il sole che illumina
le colline di Hollywood sembra voler avanzare prepotentemente,
ricordando a tutti noi che è lui il vero re di questa porzione di
America. Socchiudo gli occhi per ripararli dalla luce, pensando che
sembra quasi primavera, sembra quasi che il mondo sia pronto a
risvegliarsi dopo la stagione del letargo, ed è proprio così che mi
sento in questo momento – pronto a ricominciare.
*
Torino, 15 febbraio 2014
«E anche per oggi abbiamo
finito» sospira Marco, iniziando a spegnere le luci mentre io mi
occupo di finire i conti e chiudere la cassa. «Stavo pensando»
aggiunge, avvicinandosi al bancone, «stasera potresti restare qui.
Ho provato a cucinare le melanzane alla parmigiana, mi serve un
parere sincero.»
A questo punto, mi rendo
conto che è inutile tacere oltre: so di dover affrontare il
discorso, e farlo dopo una buona cena e dell'ottimo sesso, magari
mentre mi sto rivestendo per tornare a casa mia, di certo non sarebbe
la soluzione ideale. Farebbe sentire peggio entrambi, e proprio non
mi va l'idea di passare per la stronza di turno – non più di
quanto senta di meritare. «Senti, Marco, io credo... credo ci sia
qualcosa di cui dobbiamo parlare.»
«Potremmo parlarne
cenando. Lo sanno tutti che a pancia piena si ragiona meglio. A meno
che non sia qualcosa di molto grave o di davvero molto, molto
importante» aggiunge, notando il mio sguardo serio. «A giudicare da
come mi stai guardando direi che è uno di quei casi. Che è
successo?»
«Beh, io...» inizio,
bloccandomi subito dopo. Mi sono ripetuta per tutto il giorno quanto
fosse necessario questo discorso che nemmeno per un istante mi sono
soffermata a pensare quali parole avrei usato – e nonostante io sia
una a cui le parole non mancano, in certe situazioni, ora non so
davvero come esprimermi senza cadere nella più totale banalità.
«Marco, io con te sto molto bene» sputo fuori d'un tratto, pur
sapendo che questa è l'espressione più stupida a cui avrei potuto
fare appello, la classica frase da film che precede una dolorosa
separazione. «Davvero, tu sei un uomo speciale, e qualsiasi donna
sarebbe felicissima di avere al proprio fianco una persona
straordinaria quanto te» continuo, dicendomi che ormai tanto vale
continuare a correre sul viale della banalità. «Però io non merito
un uomo come te. Tu mi fai sentire speciale, mi fai sentire così
amata che... tu mi fai sentire perfetta, e io tutto questo non
lo merito.»
«Daria, non...»
«Lasciami parlare, per
favore» lo interrompo, abbassando lo sguardo e cominciando a
giocherellare con una graffetta. «Se non mi lasci parlare ora,
potrei non trovare più il coraggio di dirti quello che provo.» Non
risponde, e dopo un paio di respiri profondi tento di continuare. «Io
non merito una persona che mi ami quanto mi ami tu, perché sono una
brutta persona. Mi sto prendendo gioco di te, Marco. Mi piace stare
con te, e andare a cena, e parlare, e ridere, e scherzare, mi piace
sapere di avere qualcuno che si prende cura di me, qualcuno che mi
ascolta e ride alle mie battute anche quando non sono divertenti, e
qualcuno che mi faccia regali stupendi e mi porti fuori e non chieda
niente in cambio, ma... il fatto è che io non provo quello che provi
tu. Sapere che tieni a me è fantastico, ma potrebbe essere perfetto
soltanto se anch'io ti amassi nel modo in cui tu mi ami.»
«Io credo di averti amata
dal momento in cui sei entrata qui chiedendo un lavoro» risponde.
«Non mi sono mai illuso che tu potessi tenere a me allo stesso modo.
Insomma, abbiamo iniziato ad uscire da poco, non... non ho mai
preteso che tu iniziassi ad amarmi dal primo momento allo stesso modo
in cui io amo te. Sarebbe da egoisti crederlo. Da egoisti, o da
cretini, e io credo di non essere né l'uno né l'altro.»
Sospiro, ricordando in
questo momento che Marco è anche un uomo intelligente, e che questo
rende le cose molto più complicate. «Marco, io ti sto prendendo in
giro. Quando abbiamo iniziato ad uscire insieme ero sincera, credevo
di poter ingannare me stessa e arrivare ad amarti, ma... non so
quando sia successo, ma ad un certo punto mi sono accorta che... sto
giocando con i tuoi sentimenti, e io ho sempre detestato le persone
che si prendono gioco dei sentimenti altrui. La verità è che...
beh, ecco, io...»
«Si tratta di quel
ragazzo, vero?» mi interrompe. «Quello di cui mi hai parlato quando
abbiamo iniziato a vederci. Quello a cui dicevi di aver spezzato il
cuore.» Un enorme groppo in gola mi impedisce di articolare un
discorso coerente e coeso, perciò mi limito ad annuire, senza osare
alzare gli occhi, spaventata all'idea di ciò che potrei trovare nel
suo sguardo. «Mi sono chiesto spesso quanto tempo fosse passato
dalla fine di quella storia, perché... non lo so, a volte avevo come
l'impressione che la tua testa fosse da un'altra parte, come se in
fondo pensassi ancora a lui. Quanto tempo è passato, Daria?»
«Ci siamo lasciati alla
fine di novembre» sussurro, cercando disperatamente di trattenere le
lacrime. «Quando ti ho chiesto quella settimana di ferie per andare
a Parigi, non ero con una mia amica. Ero con lui. Ci sono rimasta
soltanto quattro giorni, poi ho fatto le valigie e me ne sono andata.
L'ho lasciato con una lettera e gli ho chiesto di non cercarmi più.
È per questo che non merito un uomo come te. Io sono una persona
orribile, una che spezza il cuore delle persone che la amano. Ti ho
mentito per un mese intero, e so di non poter continuare. Non potrei
continuare nemmeno se tu fossi un uomo comune, a maggior ragione non
posso farlo con una persona speciale quanto te. Io ti voglio bene,
Marco, ma non...»
«Lo amavi molto, vero?»
«Più passa il tempo, più
mi convinco che non potrò mai amare un uomo tanto quanto amavo lui.»
«E allora perché lo hai
lasciato? Lui non provava lo stesso?»
«No, lui... io non lo so,
Marco. Mi dico che anche lui mi amava, ma lo sai anche tu che ci sono
casi in cui l'amore non basta per tenere insieme una storia.»
«L'amore non basta
soltanto se tu credi che non possa bastare, Daria» replica.
«Viviamo in un mondo orribile, pieno di disastri e di casini
innimaginabili, e se non possiamo contare nemmeno sull'amore, allora
che cosa può darci la forza di continuare?»
«Niente di quello che
potresti dire potrebbe farmi sentire peggio di quanto già non mi
senta.»
«Non è mia intenzione
farti sentire peggio, Daria. Sai quanto tenga a te, e ti assicuro che
farti soffrire è l'ultima delle mie intenzioni. Per quanto mi
ferisca sentirmi mollare, so che lo stai facendo per il mio
bene. Non sei una persona orribile. Hai sbagliato, questo è vero, ma
adesso stai facendo di tutto per rimediare e correggere i tuoi
errori. Una persona orribile questo non lo farebbe. Per quanto possa
soffrire, non potrei mai odiarti o augurarti del male. Vorrò
comunque vederti star bene, sempre.»
Forse è questo a farmi
soffrire, più di qualunque insulto mi fossi aspettata di ricevere.
La sua accondiscenza e il fatto che nonostante tutto lui continui a
volermi bene mi fanno sentire ancora più sporca, ancora più
orrenda, e già so che più tardi, al riparo nel mio appartamento
vuoto e solitario, piangerò tutte le lacrime del mondo, sentendomi
in colpa come la peggiore delle criminali. «Mi dispiace, Marco. Non
volevo prenderti in giro.»
«Forse un giorno riuscirò
ad odiarti per avermi spezzato il cuore, ma adesso non ci riesco»
risponde, e finalmente riesco ad alzare lo sguardo su di lui. «So
che suonerà strano e probabilmente ti infastidirà sentirtelo dire,
ma in questo momento non riesco proprio ad odiarti. Non posso
infierire su una persona che soffre già così tanto.» Riabbasso lo
sguardo, sapendo che, anche tra mille anni, Marco riuscirebbe a
leggermi dentro bene quasi quanto Alice. «Ti accompagno a casa,
adesso.»
«Non è necessario, Marco,
sto bene» protesto, sapendo che non è così che dovrebbero andare
le cose. L'ho appena lasciato, e a rigor di logica a questo punto le
nostre strade non dovrebbero più proseguire parallele, ma separarsi
e seguire direzioni divergenti.
«Siamo ancora amici,
Daria. Gli amici fanno queste cose. Non protestare, perché non te la
darò vinta. Vado a prendere i cappotti.»
Fermo sul marciapiede,
fingendosi intento ad osservare i manufatti esposti nelle vetrine di
un negozio d'antiquariato, Emanuele tiene in realtà d'occhio lo
studio d'architettura posto dall'altro lato della strada, aspettando
che le luci si spengano e l'attività chiuda. Sono ormai le sette di
sera, dunque non dovrebbe mancare molto. Quando vede una ragazza
uscire salutando, capisce che il momento è giunto, e si prepara a
dedicare tutta la propria attenzione ai movimenti che animeranno
l'altro marciapiede.
Quando vede sua madre
uscire, reggendo un mazzo di chiavi e una cartelletta porta-disegni,
Emanuele trattiene il respiro. Come Daria e Francesca prima e dopo di
lui, anche lui ha trovato le fotografie nascoste sul fondo
dell'armadio di suo padre, ed esattamente come le sorelle ne ha
trafugata una da tenere in un cassetto e guardare nei momenti di
sconforto o malinconia, o semplicemente quando sente i ricordi farsi
vaghi. Elisa è ancora una bellissima donna, forse ancora più bella
di quanto non appaia sulla pellicola, e il suo passo è quello di una
donna sicura di sé che ha trovato il proprio posto in un mondo
crudele e tenebroso, e che con tutte le proprie forze si aggrappa al
suo angolino di sole, ben decisa a non mollarlo. Emanuele ha sentito
la mancanza di una madre esattamente quanto le sorelle, nonostante
abbia sempre cercato di non darlo a vedere, nonostante non si sia mai
illuso di poter chiudere ermeticamente il dolore nel proprio cuore,
nascosto agli occhi delle persone che gli vogliono bene, delle
persone che lo conoscono forse meglio di quanto lui conosca se
stesso. Elisa gli è mancata, e per quanto il disgusto nel sentirsi
abbandonato da lei superi qualunque proposito di riammetterla nella
propria vita, Emanuele sa di non poter reprimere l'istinto di
rivederla, anche se da lontano, anche se solo per un momento.
E poi, quando crede che il
dolore sia passato, Emanuele trattiene ancora una volta il respiro,
perché assieme ad Elisa c'è Luca. Luca, quel fratello che ha
scoperto di avere soltanto da un pugno di giorni, e che per qualche
istante ha cordialmente detestato, perché al contrario di lui ha
avuto la possibilità di crescere come un bambino normale, in una
famiglia completa, senza sentirsi costantemente oggetto
dell'attenzione altrui, senza sentirsi mai insultato, o additato come
il bambino che la mamma non ha voluto. Daria ha ragione, Luca un po'
gli somiglia: i ricci ribelli, gli occhiali da intellettuale, il
passo nervoso di chi non ha ancora imparato come si stia al mondo...
gli undici anni di Luca gli ricordano i suoi, fatti di ragazzini più
grandi che strappavano le pagine ai suoi libri e pasticciavano i suoi
appunti, di ragazzine che non lo degnavano di uno sguardo perché lui
era quello strano, di pomeriggi solitari passati nella propria
cameretta a studiare e fare progetti, perché il futuro sembrava
l'unico posto sicuro in cui rifugiarsi.
Mentre Elisa e Luca si
allontanano camminando vicini, Emanuele si copre la bocca con una
mano e stringe le palpebre per evitare di scoppiare in lacrime,
mentre dagli auricolari la voce di Gary LeVox e le parole di What
hurts the most sembrano volergli rendere impossibile trattenere
la commozione. Davanti a Daria si è comportato da uomo duro, si è
mostrato arrabbiato e inflessibile, ma la verità è che si sente
ferito, e triste, e vuoto e inconsolabile – e per uno come lui, che
si è sempre rifugiato nella scienza per evitare l'incertezza, tutto
questo è nuovo e incredibilmente difficile da affrontare.
Salgo le scale a passo
lento, illudendomi che ritardare l'ingresso nel mio appartamento mi
aiuterà ad affrontare meglio ciò che mi attende. Sono quasi al
quarto piano, quando il portone di casa Lorenzoli si apre e Antonio
si fa avanti sul pianerottolo, salutandomi con un sorriso. «Oh,
Daria, che sorpresa! Stavo proprio salendo a casa tua.» Cerco di
fare mente locale, chiedendomi se mi sia forse dimenticata di pagare
l'affitto, mentre rispondo cordialmente al suo saluto. «Oh,
tranquilla, non è successo nulla di grave. Ada ha provato una nuova
ricetta, e mi ha chiesto di invitarti a cena. Sempre che tu non abbia
già impegni, naturalmente. Non si fida del mio giudizio, dice che
sono troppo accondiscendente, e che troverei delizioso persino il
cemento.»
«Non ho altri impegni, ma
non vorrei disturbare» replico, arrivando finalmente al suo stesso
piano.
«Ma quale disturbo,
ragazza? Se non avessimo voluto essere disturbati non ci saremmo mai
sognati di avanzare un invito. La verità è che a due vecchie
cariatidi come noi non può che far piacere un po' di compagnia,
soprattutto se giovane e simpatica come te» aggiunge, strizzando
l'occhio al mio indirizzo.
«Allora sarò felice di
essere dei vostri» mi arrendo, sapendo di non avere scelta.
Dopotutto, mi dico, forse farà bene anche a me un po' di compagnia,
se non altro per distrarmi dai miei problemi. «Salgo un attimo a
darmi una rinfrescata e sono subito da voi» aggiungo, ricominciando
a salire.
È sabato sera, e Alice non
riesce a concentrarsi. Marta e Cristina si stanno preparando per
uscire, con la speranza di riuscire, almeno per una sera, a
dimenticare lo stress causato dagli esami. Entrambe hanno cercato di
convincerla ad unirsi a loro, ma in entrambi i casi Alice ha
rifiutato. Da quando la storia con Federico è giunta al termine non
ha più molta voglia di uscire, e già non è mai stata una ragazza
festaiola. Chiunque non la conoscesse potrebbe pensare che l'essere
tornata single e la voglia di tapparsi in casa ad ammuffire sui libri
siano eventi strettamente correlati, ma lei sa che non esiste nessuna
connessione tra le due cose. Contrariamente a molte altre persone –
soprattutto rispetto a Daria – Alice si conosce molto bene, e sa
che la sua abulia non è da attribuire alla fine della storia con
Federico, ma alla consapevolezza di aver esaurito le strategie utili
a far tornare insieme Shannon e Daria. Da quando Jared le ha fatto
notare che entrambi, noti vulcani di idee, sono arrivati alla frutta,
Alice si sente esausta, svuotata di ogni energia, e terribilemente
contrariata all'idea di non avere più voce in capitolo – sempre
che poi ne abbia avuta.
Alice sa che servirebbe un
miracolo, a questo punto della storia, quel deus-ex-machina che in
ogni commedia romantica degna di questo nome risolve la situazione e
traghetta senza ostacoli al lieto fine. Ma lei, purtroppo, non è mai
stata incline a credere nell'intervento divino, e nonostante l'ultimo
periodo le abbia insegnato che molte cose ritenute impossibili
possono in realtà accadere, lei proprio non riesce a scorgere
all'orizzonte una felice conclusione. Forse, giunti a questo punto,
bisognerebbe arrendersi all'evidenza dei fatti: il mondo fa schifo, e
l'umanità deve arrangiarsi come può.
«Complimenti, signora
Lorenzoli» affermo dopo il caffè, sentendo lo stomaco pieno fin
quasi a scoppiare. «Era davvero tutto ottimo.»
«Ha iniziato un corso di
cucina» mi spiega il marito, versandosi la consueta goccia di grappa
che conclude ogni suo pasto. Rifiuto l'offerta di bere con lui, e
mentre ripone la bottiglia sorride. «Ada è sempre stata un'ottima
cuoca, ma rifiuta di ammetterlo.»
«Antonio, ti ho detto
mille volte che tu non fai testo. Riusciresti a trovare squisito
anche un sasso. E tu smettila di chiamarmi signora Lorenzoli,
ragazzina» aggiunge, rivolgendosi a me. «Lo sai, per te siamo
soltanto Ada e Antonio.»
«Chiedo scusa, è solo che
non riesco a... insomma, non...»
«Non riesci a trattare due
vecchietti come noi come amici?» scherza lui, tornando a sedersi.
«Non erano queste le
parole che volevo usare, ma devo ammettere che rendono l'idea»
replico, alzandomi per aiutare a sparecchiare, nonostante le proteste
della moglie. Mentre entro in cucina, sento un lieve rumore, come un
pigolio, provenire da un angolo della stanza. Mi volto per cercarne
la fonte, e vedo una vecchia cesta sistemata accanto al termosifone.
Poggio i piatti, mi avvicino e sgrano gli occhi vedendo cinque
bellissimi gattini, evidentemente nati da pochi giorni. «Non sapevo
che aveste un gatto» commento, inginocchiandomi per guardare meglio.
«Posso accarezzarli?»
«Ma certo, cara» risponde
Ada, mentre Antonio ci raggiunge. «Non sono nostri, però. Antonio
li ha trovati l'altro ieri in cortile, dietro i cassonetti.»
«E la madre dov'è?»
domando, da sempre molto sensibile ai problemi degli orfani, umani o
animali che siano.
«L'ho trovata morta vicino
a loro» spiega lui. «Probabilmente qualche inquilino l'ha vista
aggirarsi in cortile e ha piazzato un boccone avvelenato. Era messa
piuttosto male, immagino fosse una randagia. È orribile ciò che
certe persone riescono a fare.»
Accarezzo con dolcezza i
cuccioli, evidentemente spaventati e infreddoliti, nonostante le
amorevoli cure dei Lorenzoli. «Noi non ce ne possiamo occupare,
perché Antonio è allergico» spiega lei. «Abbiamo chiesto a nostra
figlia di venire a prenderli. Lei abita in campagna, hanno già molti
animali. Qualche gattino in più non potrà certo fare la
differenza.»
«Sempre ammesso che
sopravvivano» aggiunge lui. «Quando dei gattini così piccoli
perdono la madre, è difficile che riescano a riprendersi del tutto.
Anna ha parecchie gatte che hanno partorito da poco, ma è raro che
una gatta accetti di allattare dei cuccioli non suoi. I gatti non
hanno molto istinto genitoriale.»
«Questo mi sembra il più
debole di tutti» commento a mezza voce, sfiorando appena un gattino
completamente nero, rintanato in un angolo, lontano dai fratelli.
Senza dire altro, lo sollevo con delicatezza e lo metto vicino agli
altri gattini, sperando che la loro vicinanza lo aiuti a riprendersi.
«Ci abbiamo provato già
decine di volte» è il commento di Ada, che incrocia le braccia
davanti al petto con aria desolata, «ma gli altri lo spingono via.
Sembra quasi che non lo vogliano vicino.» So che stiamo parlando di
gatti, non di esseri umani, ma le parole di Ada mi mettono addosso
un'incredibile tristezza – so cosa significhi sentirsi rifiutati,
credere di non avere nessuno che ti ami, e anche se quello che sto
guardando è soltanto un gattino, non riesco a non sentirmi vicina a
lui. Restiamo tutti e tre in silenzio, mentre il gattino nero viene a
poco a poco allontanato dai fratelli e si trascina lentamente verso
l'angolo cui l'ho strappato, ricominciando a piangere disperato.
Mossa a pietà, infilo di nuovo la mano nella scatola, accarezzandolo
piano, e a questo punto succede una cosa stranissima: non appena le
mie dita sfiorano il suo pelo lucido e morbido, il gattino smette di
piangere, come se il contatto lo facesse improvvisamente al sicuro,
completo. «Ma guarda, sembra che tu gli piaccia» sorride
Ada, mentre il gattino si muove alla cieca contro le mie dita,
tentando di trarre nutrimento dalle mie dita. «Potresti prenderlo
tu, magari. Non siamo contrari agli animali in casa.»
Mi volto a guardarla, un
po' sorpresa per la proposta, e letteralmente senza parole. «Non
saprei, non ho mai avuto animali domestici.»
«Oh, i gatti non hanno
bisogno di molte cure» commenta Antonio. «Sono animali molto
indipendenti. Tu fagli trovare la ciotola piena di cibo, una lettiera
pulita e una cesta confortevole, e non ti darà fastidio. Certo,
sempre che arrivi all'età adulta. Per adesso non sembra molto in
forma.»
«Davvero non vi darebbe
fastidio?»
«Assolutamente no»
insiste Ada. «Non abbiamo mai potuto tenere animali in casa perché
Antonio è allergico al loro pelo, ma Dio solo sa quante volte Anna
ci abbia pregati di prenderle un cucciolo.»
«E poi è un gatto, non un
pitone» interviene lui, prima di nascondere il naso in un
fazzoletto.
«Forse ti darà qualche
grattacapo all'inizio, di certo andrà educato» continua lei, «ma
in fondo addestrare un animale non è molto diverso dall'allevare un
figlio. Se te la senti, il gatto è tuo.»
*
Los Angeles, 15 febbraio
2014
Trascorro la giornata
comportandomi come un vero e proprio casalingo: riordino, faccio il
bucato, sistemo l'armadio... da quando ho licenziato l'ultima donna
delle pulizie, una maniaca del controllo assunta da Jared in persona,
ho deciso di arrangiarmi, o al massimo di chiedere aiuto a mia madre.
In fondo, con la vita che faccio non sono quasi mai a casa, perciò
l'unico vero sforzo che mi venga richiesto è spolverare – ma non
essendo disordinato e amante dei ninnoli quanto mio fratello, non è
un lavoro complicato. Quando si avvicina l'ora di pranzo, decido di
chiamare Christine, sperando che la causa intentata alla società non
la impegni tanto da farle decidere di saltare il pasto.
«Christine Sandoval, chi
parla?» risponde quasi trafelata, evidentemente senza controllare il
mittente della chiamata.
«Molto professionale, non
c'è che dire» sorrido, felice di sentire di nuovo il familiare
suono della sua voce.
«Shannon!» esclama,
sorpresa di sentirmi. «Non credevo ti avrei sentito così presto.»
«Credevi che non avrei
chiamato?»
«Beh, è così che ci si
aspetti si comporti un uomo come te, no?» mi prende in giro, come
sempre giocando sulla mia fama di seduttore e sulla generale
convinzione che i musicisti di fama internazionale siano bestie
arrapate che saltano da un letto all'altro senza sosta. «Com'era il
caffè?»
«Non male, ma ci si può
lavorare» replico, scherzando a mia volta. «Mi sei mancata, questa
mattina.»
«Avrei davvero voluto
restare, ma questa causa mi sta letteralmente succhiando via l'anima.
Mi ci devo dedicare in ogni momento della giornata, e non mi posso
permettere nemmeno una distrazione.»
«Intendi una distrazione
come quella di ieri sera?» suggerisco, sperando che non recepisca
male il messaggio.
Dopo
un attimo di silenzio la sento rispondere, a voce più bassa, e posso
quasi vederla sistemarsi i capelli dietro l'orecchio, come fa sempre
quando è nervosa. «Quella di ieri sera è stata una piacevolissima
distrazione, Shannon. Non credo sarà quella a farmi perdere la
causa. Il problema potrebbe sopraggiungere se quella distrazione si
ripetesse, credo.»
«Quindi non verrai a
pranzo con me, dico bene?»
«Per quanto la proposta
risulti allettante, devo declinare» risponde, e il senso di colpa
che permea la sua voce è quanto di più sincero abbia mai sentito.
«Mi distrarresti troppo.»
«Un pranzo ti
distrarrebbe?»
«Non ho parlato del
pranzo.»
«Oh, quindi sono un
elemento di distrazione? Non mi avevano mai chiamato così.»
«Non dirmi che non ti sei
mai visto allo specchio.»
«Tutte le mattine, ma mai
in questi termini.»
«Perché non sei una
donna.»
«Stai cercando di farmi un
complimento?»
«Ci sto riuscendo?»
«Forse»
rispondo con un sorriso. È incredibile come vent'anni non siano
bastati a cancellare la naturalezza con cui riusciamo a mantenere
attiva una conversazione, senza cedere all'imbarazzo e senza cadere
in quei lunghi silenzi impossibili da riempire che spesso si creano
tra due persone che non si sono viste per lungo tempo. Nemmeno
l'esserci visti nudi sembra causarci problemi, il che avvalora la mia
tesi: sono pronto per ricominciare, e soprattutto Christine è la
persona giusta con cui fare un tentativo. «E se ci vedessimo per
cena? Dubito che tu intenda sprecare anche le tue notti su questa
causa.»
«Non sarebbe mia
intenzione, questo è indubbio, ma non posso risponderti con
certezza» replica lei. «Chiamami di nuovo verso le sette e saprò
essere più precisa.»
*
Torino, 15 febbraio 2014
A ventitré anni, le
persone comuni trascorrono il sabato sera fuori di casa – riempiono
le casse dei pub ordinando birra e cocktail, ridono con gli amici,
vanno al cinema, si muovono a ritmo in discoteca... a ventitré anni,
io trascorro il sabato sera prendendomi cura di un microscopico
gattino nero che sembra trattenere l'anima con i denti. Prendo una
scatola da scarpe dall'armadio, privando le mie vecchie scarpe da
ginnastica del loro comodo rifugio, e la fodero con un paio di
antichissime magliette mezze distrutte che avevo intenzione di usare
come strofinacci per le pulizie. Adagio il gattino nella cesta
improvvisata e resto a fissarlo per qualche minuto, sentendomi quasi
un'idiota – perché solo un'idiota totale passerebbe il sabato sera
a guardare dentro una scatola appoggiata sul bancone della cucina con
lo stesso interesse con cui seguirebbe l'ultimo episodio della
propria serie tv preferita. «Beh» esordisco, dopo un interminabile
silenzio, «suppongo che come ogni cucciolo ti nutra prevalentemente
di latte. Per tua fortuna, io mi sento ancora bambina, e ho sempre
del latte in casa» aggiungo, andando verso il frigo. Verso un po' di
latte dentro un piattino da caffè, poi sposto il gatto dalla scatola
al bancone, chiedendomi se tutto questo venir sballottato di qua e di
là non inizi ad infastidirlo un pochino. Aspetto pazientemente che
infili il muso dentro il piattino e inizi a mangiare, ma è
evidentemente troppo piccolo per mangiare da solo. Cerco di fare
mente locale, ma in casa non ho né siringhe né contagocce, quindi
dovrò trovare un altro modo per evitare che muoia di fame.
Seduto davanti ad un ottimo
piatto di melanzane alla parmigiana, la tv accesa su un canale che
non sta seguendo, Marco sente finalmente la tristezza farsi strada
nel suo cuore. Sul momento, mostrarsi accomodante e comprensivo era
l'unica soluzione possibile, il solo modo per evitare che Daria si
sentisse ancora più in colpa, ma adesso, ad ore di distanza,
vorrebbe aver messo da parte la gentilezza ed essersi fatto sentire.
Un istante più tardi si pente di averlo pensato, e si dice che non
avrebbe potuto comportarsi meglio: è evidente che Daria non ha
ancora superato la separazione, nonostante abbia ribadito più volte
di essere stata lei a volerla, e farla sentire peggio non avrebbe di
certo fatto sentire meglio lui – forse subito sì, ma sa che sulla
distanza se ne sarebbe pentito, forse anche vergognato. Perché in
fondo lui prova un grandissimo affetto per Daria, soltanto un
profondo, immenso affetto che ha commesso l'errore di scambiare per
amore, ma che non è mai stato altro che un senso di tenerezza
destinato a rimanere tale. Certo, accorgersi di questo non rende la
sua situazione meno triste: è stato lasciato da una ragazza
meravigliosa che ha asserito di averlo preso in giro, di essersi
presa gioco di lui, anche senza nessuna intenzione malvagia, e questa
resta una ferita dalla quale sarà difficile riprendersi. Ma in
fondo, ormai lo ha imparato, il destino delle ferite è quello di
cicatrizzarsi: forse ci vorrà molto tempo, forse di tanto in tanto
la crosticina si solleverà e darà fastidio, forse ci saranno giorni
che spargeranno sale sulle sue carni ancora martoriate, ma di certo
arriverà un giorno in cui si riprenderà, un glorioso mattino in cui
si alzerà dal letto e si ritroverà guarito.
Dopo un lungo elucubrare e
un conseguente inizio di mal di testa, ho optato per la soluzione più
semplice, e forse anche la più macchinosa: intingere ripetutamente
il dito indice nel latte e avvicinarlo al muso del gatto per
convincerlo delle mie buone intenzioni. Dopo molti tentativi,
finalmente riesco a far smettere il suo pianto disperato, e la sua
boccuccia senza denti si stringe con vigore attorno alla mia falange,
succhiando con estrema avidità, proprio come se fossi sua madre.
L'aver finalmente ottenuto un risultato mi rende fiera di me, e
contemporaneamente l'immagine di quel gattino senza madre rifiutato
persino dai fratelli mi commuove, forse perché mi ricorda me stessa,
pur se io ho avuto la fortuna di avere accanto una famiglia
amorevole. «Suppongo di doverti dare un nome, a questo punto»
sussurro, bagnandomi per l'ennesima volta il dito. «A quanto pare,
sembra che vivrai.» Il gattino sembra stringere di più la bocca
attorno al mio dito, quasi volesse farmi capire di essere d'accordo
con la mia ultima affermazione. «Non ho mai avuto un animale
domestico, non conosco nessun nome da animale» continuo, rendendomi
conto solo più tardi che, vista da fuori, in questo momento potrei
sembrare piuttosto stupida. «So che a volte la gente battezza gli
animali in un certo modo a seconda delle caratteristiche fisiche. Tu
sei tutto nero, perciò potrei chiamarti Calimero, o magari Tornado,
come il cavallo di Zorro... ma no, Tornado non mi sembra un nome
adatto per un gatto. Tu hai suggerimenti?» gli domando, intigendo
un'altra volta il dito nel piattino. «Prometto che domani andrò a
comprare un contagocce, così nessuno dei due passerà la vecchiaia a
fare questa cosa.» Continuo a dargli da mangiare, pensando ad un
nome adatto per un gattino. Quando, probabilmente sazio, il cucciolo
inizia a rifiutare i miei sforzi, trovo il nome perfetto per lui. «Ho
deciso come ti chiamerò» sentenzio, unendo le mani a coppa per
sollevarmelo davanti agli occhi. «Ti chiamerò Solo. Non Solo come
Han Solo, però. Solo come... beh, solo. Solo, solitario,
abbandonato... scegli tu il sinonimo. Che dici, ti piace?» In
risposta, il gattino si accoccola nell'incavo delle mie mani,
agitando pigramente le zampine ancora deboli nell'aria. «Bene,
allora è deciso. Ti chiamerai Solo. Sperando che tu non sia femmina,
altrimenti ci toccherà fare una modifica.» Lo guardo sbadigliare, e
nell'istante in cui lo rimetto nella scatola, facendo attenzione a
non sballottarlo eccessivamente, capisco che forse è solo questo che
mi serve: avere qualcuno di cui occuparmi, qualcuno che dipenda
totalmente da me, qualcuno che abbia bisogno di essere semplicemente
amato.
Quando mi metto a letto, un
paio d'ore più tardi, porto la scatola con me, al piano di sopra, e
la appoggio sull'altro lato del materasso. Scivolo nel sonno quasi
senza accorgermene, tenendo la mano nella scatola, le dita a contatto
con la peluria morbida e un po' arruffata di Solo, che continua a
dormire beato. Ho sempre preso in giro le persone che trattano gli
animali come esseri umani, e in una situazione normale probabilmente
mi darei dell'idiota, ma questa sembra una di quelle sere in cui
tutto è lecito, come la sera in cui si festeggia il diploma, o un
addio al nubilato – tenere la mano nella scatola mi fa sentire
meglio, mi fa sentire meno vuota, e in qualche strano modo sono
convinta che faccia sentire meno vuoto anche lui. È la mia buona
azione quotidiana, in fondo.
Tornato a casa, chiuso
nella penombra della sua stanza, Emanuele si finge intento a
studiare, ma la verità è che i libri aperti davanti ai suoi occhi
sono soltanto fogli coperti di geroglifici – nulla di importante,
se paragonati a ciò che ha capito poche ore fa. Ha visto sua madre e
ha visto suo fratello, poche ore fa. Li ha visti di persona, avrebbe
potuto muovere due passi avanti e parlare e interagire con loro.
Finché era soltanto Daria a parlarne, poteva scegliere di ignorarli.
Erano soltanto fantasmi, oscure presenze che si muovevano dietro un
telone bianco e non dicevano una parola, e fingere che la loro
esistenza fosse fittizia era più facile. Ma ora li ha visti, li ha
sentiti parlare tra loro, li ha visti camminare e muoversi nel mondo
reale, e sa di non potersi più tirare indietro. Inizia a capire il
punto di vista di sua sorella, inizia a comprendere perché lei
voglia così disperatamente prendersi cura di quel bambino, perché
voglia così disperatamente aiutarlo ad affrontare il mondo –
perché lui lo ha provato sulla sua pelle, sa che il mondo è un
posto crudele e tenebroso, se sei un ragazzino disarmato e solo.
Emanuele non è mai stato solo, eppure è così che si è sentito per
la maggior parte della propria adolescenza – solo e abbandonato,
come un gatto randagio che sopravvive come può cercando di schivare
i calcioni e le ruote delle automobili. La differenza tra lui e Luca
è che Luca è davvero solo, perché è vero che ha una madre, ma ad
un adolescente questo può anche non bastare. Quello di cui Luca ha
bisogno è un fratello, o forse un amico, qualcuno di cui fidarsi,
qualcuno a cui raccontare tutto ciò che gli passa per la testa e a
cui chiedere consigli.
Emanuele chiude il libro di
scatto, sapendo di avere la testa troppo occupata per studiare. Il
punto è che adesso, dopo averlo visto, dopo essersi reso conto che
Luca non è soltanto un'ombra sullo schermo, Emanuele sa di non
potersi tirare indietro, perché in fondo lui è come Daria, è come
Francesca, è come suo padre – è un ragazzo di buon cuore, uno che
non riesce a non aiutare, uno di quelli che si tuffano in acqua per
tirare fuori l'annegato anche se non sanno nuotare. Adesso Emanuele
sa che è suo dovere aiutare Luca a sopravvivere, pure se nemmeno lui
è ancora riuscito a capire come si faccia a vivere.
1Immagino
che adesso dipenda da me: devo correre il rischio, o soltanto
sorridere?. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Misread,
del duo norvegese Kings Of
Convenience,
contenuto nell'album Riot
On An Empty Street
(2004).
|
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Capitolo 17 *** 17 | L'inferno è vuoto, e tutti i demoni sono qui. ***
La lunga strada verso casa - 1
Io non
so davvero come chiedervi scusa. Dire che sono una persona orrenda e
che da voi merito soltanto disprezzo e improperi ormai non mi sembra
più abbastanza, perciò mi rimetto al vostro buonsenso, preparandomi
a ricevere con un sorriso ogni insulto che vorrete indirizzarmi.
Perché non merito altro, lo so bene. Non merito altro che insulti,
perché non posso sparire per un mese senza più dare mie notizie e
poi ricomparire all'improvviso come se nulla fosse successo. Di più,
non posso sparire per un mese e poi tornare con un capitolo
semplicemente indegno di essere postato. O meglio, non potrei, ma
ormai l'ho fatto.
Via alle
telefonate minatorie,
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo diciassettesimo
L'inferno è vuoto,
e tutti i demoni sono
qui.1
Los
Angeles, 17 febbraio 2014
«Perché sorridi?»
Christine, ancora immobile
sopra di me, scuote la testa e abbassa il capo, lasciando che i
capelli le coprano il volto. «Per un motivo molto stupido. Se te ne
parlassi, probabilmente ti metteresti a ridere.»
«Prometto di non farlo.»
«Non sei mai stato bravo a
mantenere le promesse.»
«Questo vent'anni fa. Ora
sono un uomo diverso. Perché non ci provi?»
Lei si sposta una ciocca
dietro l'orecchio, liberandosi il viso, e senza incrociare il mio
sguardo risponde: «Stare con te mi fa sentire strana. So
perfettamente di non avere più diciotto anni, eppure stare con te mi
fa sentire come se fossi ancora una ragazzina. E questo mi fa sentire
confusa. E tu lo sai, io ho sempre detestato sentirmi confusa.»
«A nessuno piace sentirsi
confuso, Christine. Non ho mai incontrato nessuno che fosse confuso e
felice di esserlo.»
«Lo so, Shannon. Vedi, il
fatto è che... è che stavolta non ho paura della mia condizione.
Per qualche strana ragione, stavolta sentirmi confusa non mi fa
sentire persa.»
«Non credo di aver
afferrato. Non ti piace il fatto di non sentirti persa? Di solito la
gente è sollevata, in questi casi.»
«Ma io non sono la gente,
Shannon. Noi non siamo la gente. Credo... in realtà credo che
quello che mi fa più paura sia il fatto di non avere paura.»
«Di cosa dovresti avere
paura?»
«Di te» risponde
semplicemente, scrollando le spalle.
«Di me?» ripeto, senza
capire. «Perché dovresti aver paura di me?»
«Perché non sei più il
ragazzo che conoscevo vent'anni fa. E io non sono più la ragazza che
tu conoscevi» sospira, spostandosi da sopra di me e stendendosi
nello spazio vuoto alla mia destra. «Quello che sta succedendo è...
beh, non nego che sia grandioso, eppure... non lo so, non mi sento
tranquilla al riguardo. Non possiamo ripartire da dove ci eravamo
interrotti e illuderci che andrà tutto bene. Non può funzionare.»
«Nessuno ha detto che
dobbiamo ripartire da dove ci eravamo interrotti» sussurro,
sollevandomi su un gomito per poterla osservare meglio. «Non mi
sognerei nemmeno di chiederti una cosa del genere. Sarebbe da pazzi
pretendere di ricominciare tutto da quel punto.»
«Il punto è proprio
questo, Shannon: siamo sicuri di voler ricominciare? Perché, ecco,
io... io non nego di aver avuto delle storie senza importanza, da
quando ho divorziato. È successo di avere delle relazioni basate
esclusivamente sul sesso, e mi stava bene. Mi sono concentrata sul
lavoro, ho smesso di cercare l'uomo giusto, ed è sempre andato tutto
alla perfezione. Solo che... ecco, con te so che non si tratta di una
cosa simile. Non potrà mai essere soltanto sesso, con te. Sei stato
troppo importante per me, e anche se sono passati più di vent'anni
non posso dimenticare quello che abbiamo avuto.»
«Mi stai chiedendo se
voglio impegnarmi in una storia seria con te?»
Si mette a sedere,
reggendosi il lenzuolo davanti al seno con una mano. «Ti sto
chiedendo se pensi di essere pronto a cominciare qualsiasi cosa
con qualsiasi donna. L'ultima volta che ci siamo sentiti,
un mese fa, hai parlato di una donna che ti ha spezzato il cuore.
Questo non l'ho dimenticato.»
«Quello è un capitolo
chiuso, ormai» sospiro. «Ora lei sta con un altro uomo. È
completamente finita. È finita per sempre.»
«Forse è finita per lei,
ma per te?» domanda, rivolgendomi una di quelle occhiate che
riescono a radiografare anche il cuore più scafandrato. «Perché il
fatto che lei adesso abbia una relazione con un altro uomo non
implica per forza che tu non provi più niente per lei.»
«Christine, è finita. Lei
è lontana migliaia di chilometri, non fa più parte della mia vita.
Io sto cercando di ricominciare. E sì, potrei aver voglia di
ricominciare con te. In fondo ti conosco, e tu conosci me. Non siamo
due estranei.»
«Non lo eravamo un tempo,
Shannon, ma sono passati vent'anni.»
«So che sono passati
vent'anni, Christine.»
«Sicuro di saperlo? Perché
a me non sembra che tu te ne renda conto.»
«Mi stai chiedendo di
andarmene?»
«Ti sto soltanto chiedendo
se sei certo di sapere quello che vuoi. Perché se iniziassi qualcosa
con te e ad un tratto mi rendessi conto che non è con me che vuoi
stare, sarei costretta a lasciarti di nuovo. E proprio non me la
sentirei di essere di nuovo io a giocare la parte della cattiva. Non
potrei farti questo. Non di nuovo.» A queste parole, mi alzo
e inizio a cercare i miei vestiti, indossandoli lentamente. «Che
cosa stai facendo?» Mi volto a guardarla, senza sapere cosa dire:
Christine mi sta chiedendo se sarei pronto a donarmi a lei anima e
corpo, ad impegnarmi per far funzionare questa relazione, e la verità
è che io non ho una risposta. La verità è che mi piace raccontarmi
di aver superato la storia di Daria, e di essere pronto a gettarmi a
capofitto in una nuova situazione, ma non è esattamente così: fuori
mi atteggio a persona dura e sincera, ma dentro sono ancora devastato
e sporco, infestato dai demoni del mio passato e dai fantasmi di un
amore che non riesco a dimenticare – un amore che non avrei mai
creduto di provare, arrivato quando ormai avevo smesso di sperare, e
che ora non sembra intenzionato a levare le tende.
*
Torino, 17 febbraio 2014
«Pronto?» risponde Alice
di fretta, senza badare al mittente della chiamata.
«Forse ho avuto un colpo
di genio.»
Riconoscendo senza fatica
l'accento di Jared, Alice alza gli occhi al cielo. «Ma tu non ti
arrendi mai? Che ore sono lì, le quattro del mattino?»
«Le cinque e tre quarti.
Mi sono alzato presto, avevo delle cose da fare. Ti disturbo?»
«No, io... in realtà esco
adesso da un esame, sono un po' distrutta. Sto andando ad attaccare
un vasetto di Nutella. O una pizza al tonno. O un muffin. Sono un po'
indecisa.»
«Noto
con piacere che la parola d'ordine è salutare.
Comunque, non ti ho chiamata per discutere della tua dieta. Ho avuto
un'idea geniale, e dovevo assolutamente condividerla con te.»
Per quanto l'idea che lui
abbia scelto lei come prima persona con cui condividere un pensiero
la lusinghi, Alice non vede l'ora di chiudere la conversazione,
desiderosa in effetti soltanto di trascinarsi a casa e crollare a
peso morto sul letto. «Sentiamo, Einstein, quale sarebbe il colpo di
genio?»
«Daria ha un passaporto?»
«Scusa, deve esserci stata
un'interferenza. Ho sentito un pazzo parlare di passaporti.»
«Non fare giochetti con
me, piccola. Hai capito benissimo quello che ho detto.»
«No, non credo che Daria
abbia un passaporto. Non siamo mai state in alcun posto che ne
richiedesse uno.»
«Oh, questo costituisce un
problema.»
«Cos'avevi in mente, Bond?
Farle credere di aver vinto un viaggio premio e farla venire negli
Stati Uniti? Non è cretina, non ci cascherebbe mai.»
«E io non cadrei mai così
in basso, Moneypenny» la schernisce lui. «Quello che avevo in mente
era un piano molto più semplice. Ho pensato che avresti potuto
proporle una vacanza. Una vacanza a Los Angeles. Non dirmi che non
avete mai sognato di vedere la città degli angeli.»
«Fin da bambine, abbiamo
sempre sognato di vedere un sacco di posti. Il problema, con noi
comuni mortali, è che non abbiamo un faraonico conto in banca che ci
consenta di girare il mondo.»
«Le spese non sono un
problema. Il viaggio ve lo pago io.»
«Grazie, ma no, grazie.
Non siamo le tue prostitute, signor
Sono-Una-Star-E-Posso-Permettermi-Il-Mondo» ribatte lei, piuttosto
seccata.
«Beh, ma per il bene della
tua amica potresti mettere da parte la tua onestà morale e accettare
caramelle da uno sconosciuto. Per una volta, non potresti lasciarti
andare?»
«Non mi stai offrendo una
caramella, Jared. Mi stai offrendo una maledetta fabbrica di
cioccolato.» Al di là della questione economica, sono molte le
obiezioni che Alice potrebbe sollevare pur di declinare l'invito di
Jared a trasvolare l'Atlantico: innanzitutto lei non potrebbe partire
prima di luglio, a meno di non sovvertire tutti i propri piani di
studio e rimandare la laurea di altri sei mesi o più, e poi rimane
da esaminare la "questione Daria" – ammesso e non
concesso di riuscire a convincerla a partire, facendole
temporaneamente abbandonare i suoi propositi da buona samaritana nei
confronti di Luca, come si riuscirebbe a persuaderla a soggiornare
proprio a Los Angeles, l'unico luogo al mondo in cui le probabilità
di incontrare Shannon superano quelle di prendere la scossa infilando
una forchetta in una presa elettrica?
«Sei ancora lì?» si
sente domandare un paio di minuti più tardi da Jared, evidentemente
preoccupato da quel suo prolungato silenzio.
«Ci sono, sono qui. Stavo
solo... beh, stavo riflettendo sulla tua proposta.»
«Davvero? E quale sarebbe
il responso? Sono riuscito a tentarti?»
La tentazione di accettare,
questo Alice è pronta a giurarlo, è più forte che mai: da almeno
otto anni lei e Daria continuano a giurarsi che un giorno salteranno
su un aereo diretto chissà dove, e questa sembra proprio una di
quelle occasioni da cogliere al volo, quell'opportunità che capita
una volta nella vita, e che, se mancata, condanna all'eterno
rimpianto. Ma tra il dire e il fare, come dice sempre sua nonna, c'è
di mezzo il mare, e sarebbe più semplice enunciare la teoria delle
stringhe in aramaico, piuttosto di convincere Daria ad andare proprio
a Los Angeles. «Il mio responso, mio caro genio del male, è che la
tua idea non è realizzabile. È geniale, ma assolutamente
impossibile, e posso dimostrarlo. Punto primo: ammettiamo che io
accetti che sia tu a pagare il viaggio. Daria mi conosce da una vita,
e soprattutto conosce piuttosto bene la mia situazione finanziaria:
sarebbe piuttosto difficile trovare una scusa plausibile per
giustificare la mia improvvisa ricchezza e prodigalità. Punto
secondo: io a luglio mi devo laureare, ergo non potrei partire prima
dell'estate. Tuttavia, dalle informazioni in mio possesso risulta che
a luglio voi sarete in tour in giro per il mondo, dunque crollerebbe
drasticamente a zero ogni possibilità di far incontrare Daria e
Shannon a Los Angeles. Punto terzo: a giugno voi sarete in Italia,
addirittura per una sera nella stessa città di Daria, e questa, a
mio avviso, potrebbe essere una splendida occasione per tentare di
farli riunire. Punto quarto: in questo momento Daria è molto
impegnata a conoscere il suo nuovo fratello. È un momento molto
delicato per lei e per tutta la sua famiglia, dunque dubito che
potrebbe accettare di partire proprio adesso – e riguardo a questo,
ti rimando al punto due. Dulcis in fundo, per riuscire a farle
mettere piede a Los Angeles dovrei sedarla, imbavagliarla, legarla
come un salame e farla viaggiare rinchiusa nella stiva insieme ai
bagagli, perché non accetterebbe mai di andare proprio lì di
sua spontanea volontà.»
Completamente investito dal
fiume di parole fuoriuscito dalla bocca di Alice, Jared impiega
almeno trenta secondi prima di trovare una risposta degna di questa
definizione. «Però, quando confuti una teoria lo fai davvero come
si deve...» sussurra, sinceramente stupito dalla proprietà di
linguaggio con la quale Alice riesce ad esprimersi anche quando viene
messa di fronte alla necessità di improvvisare un discorso.
«Sai com'è, con noi
filosofi. Noi confutiamo ogni cosa, sempre.»
«Giunti a questo punto,
credo di dover alzare bandiera bianca e accettare la sconfitta. Hai
addotto argomentazioni cui non posso controbattere in alcun modo.»
«Tutto qui?» si sorprende
Alice, stupita dall'inaspettata arrendevolezza del proprio
interlocutore: oltre che uno splendido diavolo tentatore, Jared è
anche una di quelle persone che non si arrendono mai, qualunque cosa
accada – e in fondo è questo che gli ha permesso di raggiungere la
fama, il successo e la gloria. Jared è uno di quegli uomini che non
smettono mai di combattere, anche quando la battaglia sembra persa,
anche quando la speranza è morta. Lui è uno di quelli che non
mollano l'osso finché non ci rimettono la vita, e quell'improvvisa
mancanza di tenacia è a dir poco sospetta. «Nessuna insistenza,
nessuna obiezione, nessun ma?»
«Non sono un cane rognoso,
Alice. Mi accanisco soltanto quando so di poter vincere la battaglia.
In questo caso ho perso in partenza, continuare a controbattere
sarebbe un inutile spreco di energie.»
«Stai dicendo che mi lasci
vincere?»
«Non ho mai lasciato
vincere nessuno, piccola, e di sicuro tu non sarai la prima. Mi
sei simpatica, ma non fino a questo punto.»
«Per caso cercavi di farmi
un complimento?»
«Perché, ci stavo
riuscendo?»
«Per niente» ribatte
Alice, senza riuscire a trattenere un sorriso. «Sa, mister Leto, lei
non è poi così affascinante come crede di essere.»
«Stai forse dicendo che mi
trovi affascinante?»
«Sto dicendo l'esatto
contrario, invece. Penso che tu sia soltanto un grosso pallone
gonfiato a cui piace pavoneggiarsi.»
Jared aspetta un attimo,
prima di rispondere: le parole sono dure, ma dal tono della sua voce
riesce facilmente ad intuire che Alice sta sorridendo, o che comunque
non pensa davvero ciò che sta dicendo – evidentemente lo sta
prendendo in giro, e per qualche strana ragione questo la diverte da
morire. «Verrà un giorno in cui tu ed io ci incontreremo, e io ti
farò rimangiare ogni singola parola» replica, abbassando la
voce e rallentando il ritmo delle ultime sillabe. «Stammi bene,
Alice. In bocca al lupo per la tua laurea.»
«Crepi. Ci sentiamo.»
«Ci sentiamo.»
La comunicazione si
interrompe, e Alice inizia a fissare il cellulare come se stesse per
farsi crescere una bocca e azzannarle una mano. Più passa il tempo,
più fatica a credere che sia vero: non può succedere davvero, non
può essere davvero Jared Leto, l'americano che di tanto in tanto la
chiama e si diverte a prenderla in giro e farla uscire dai gangheri.
Eppure, allo stesso tempo, sa per certo che si tratta di lui, perché
sa cose che nessun altro potrebbe sapere, dettagli che un impostore
non potrebbe assolutamente conoscere.
*
Los Angeles, 17 febbraio
2014
Stesa sul letto che da
ormai cinque anni condivide con il marito, Vicki si accarezza il
ventre appena incurvato con entrambe le mani, lasciandosi sfuggire di
quando in quando un singhiozzo e un paio di lacrime che prontamente
asciuga con un Kleenex. Era convinta che lei non sarebbe stata una di
quelle patetiche donne incinte facili al pianto, ma l'esplosione di
ormoni che le sta invadendo il corpo pare abbia alla fine avuto la
meglio, spingendola a tirar fuori dagli scaffali quei vecchi film
romantici che non pensava avrebbe mai guardato di sua spontanea
volontà. Tornando dalla quotidiana passeggiata mattutina con Dink e
Kasha, Tomo si affaccia alla porta della camera da letto, stupendosi
di trovare la moglie in tale stato. «Tesoro, va tutto bene?»
«Certo che va tutto bene.
Perché, non dovrebbe essere così?»
«Stai guardando Sabrina
e ti stai commuovendo» replica lui, sedendosi sul bordo del
materasso. «Se tu fossi qualunque altra donna, potrei pensare che
sia una cosa normale. Però non posso dimenticare che è di te
che stiamo parlando. Come ti senti?»
«Meglio. Da quando sei
uscito non ho più vomitato. Anzi, mi è quasi venuta voglia di una
bella crostata di fragole.»
«Crostata di fragole? Ma
tu detesti le crostate!»
«Oh, sta' a guardare i
dettagli! Mi prepareresti un dolce con le fragole? Per favore?
Guarda che non sono io a chiederlo, ma tuo figlio, il tuo erede, il
tuo stesso sangue.»
«Lo farei di corsa, amore,
ma dove trovo delle fragole in pieno inverno?»
«Il mondo congiura contro
di me» sospira lei, allargando le braccia. «Mi prepareresti
qualunque altro dolce, allora? Ho una fame che non ci vedo.»
«Vedrò di inventarmi
qualcosa» sospira lui a sua volta, sorridendo. «Ma sia chiaro, lo
faccio per il sangue del mio sangue, non certo per te» aggiunge un
attimo prima di abbassarsi su di lei per darle un bacio a fior di
labbra. «Come mai questo improvviso debole per i vecchi film? Non
stai iniziando con gli sbalzi d'umore, vero?»
«Forse sì, non lo so.
Forse avevo solo voglia di una storia con il lieto fine. Sai, una di
quelle storie che tutte le ragazze sognano, una di quelle storie che
finiscono bene.»
«E come mai?»
«Beh, ultimamente ho
pensato molto a Shannon, e a come sia finita la sua storia con Daria.
O meglio, a come non sia finita.»
«Non ti seguo, Vicki.
Shannon e Daria ormai si sono lasciati da mesi.»
«Non si sono veramente
lasciati, Tomo. Lei ha messo un punto, ma lui si è
dimenticato di sottoscriverlo. O forse non ha voluto farlo,
non lo so. Tutto quello che so è che non hanno chiarito la
situazione, quindi non è veramente finita.»
«Beh, ma Jared ha detto
che Shannon ha usato i biglietti aerei ed è andato in Italia, perciò
si può dire che un passo lo ha compiuto.»
«Sì, ma se ben ricordi
Jared ha anche detto che Shannon non le ha parlato, perché quando
l'ha vista con quell'altro uomo ha girato i tacchi e ha battuto in
ritirata.»
«Cosa pensi che avrebbe
dovuto fare, scusa? Dargli un pugno sul naso e sfidarlo a duello in
un posto isolato al sorgere del sole?»
«Tu che cosa avresti
fatto?»
«Vicki, io non posso
sapere...»
«Dai, Tomo, per un istante
smetti di fare il diplomatico» lo interrompe lei, mettendosi a
sedere. «Prova a metterti al posto di Shannon. Che cosa avresti
fatto, se al posto di Daria ci fossi stata io? Se io ti avessi
lasciato brutalmente e senza motivo e ti avessi chiesto di non
cercarmi, andando lontana migliaia di chilometri, tu che cosa avresti
fatto?»
Tomo finge di rifletterci
su, mentre in realtà conosce già perfettamente la risposta. «Ti
avrei rincorsa immediatamente, credo. Non ti avrei nemmeno dato il
tempo di superare il confine.»
«E dimmi, perché lo
avresti fatto?»
«Per dimostrarti che ti
amo, e che sarei pronto a combattere fino alla fine per stare con te.
Ma con questo cosa vorresti dire, che Shannon non ama Daria?»
«Non mi permetterei mai di
dire una cosa simile, Tomo. So che le persone non sono tutte uguali,
e che tutti esprimiamo il nostro amore in maniera diversa. Dico solo
che io li ho visti insieme, li abbiamo visti tutti, e se
quella non è una coppia destinata a stare insieme e a durare allora
non so giudicare l'amore. Ho parlato tantissimo con lei, potrei quasi
dire di conoscerla, e sono più che certa che non stesse fingendo.
Riguardo a Shannon, poi, non posso avere dubbi, perché voi lo
conoscete meglio di me, e avete visto quanto fosse coinvolto. Quello
che voglio dire è che certe storie non le puoi cancellare con un
colpo di spugna. Certe persone non te le puoi dimenticare soltanto
perché smetti di vederle. Mi chiedo se certe storie si possano mai
superare, in realtà. Lascia perdere» aggiunge sopo un attimo.
«Credo sia la gravidanza a rendermi così sentimentale.»
«Beh, se è così, sappi
che intendo metterti incinta un altro milione di volte almeno» le
sorride lui, tornando a farsi avanti per un altro bacio. «Mi piaci
quando sei così sensibile.»
«Non contarci troppo»
ribatte lei, fingendo di respingerlo. «Potrei anche non essere
d'accordo.»
«Poco male. Saprei trovare
un modo per convincerti» replica lui, senza smettere di sorridere.
Vicki gli accarezza
dolcemente una guancia, senza smettere di guardarlo negli occhi.
«Perché non possono essere tutti fortunati come lo siamo stati noi
due?»
«Pensa a come diventerebbe
noioso il mondo, se tutti fossero felici e contenti» sussurra lui,
poggiando la propria mano su quella della moglie. «Forse non è un
male che al mondo ci siano persone fortunate e persone sfortunate: in
questo modo i più fortunati hanno qualcosa da compatire, e i meno
fortunati qualcosa da invidiare.»
«E dove starebbe il bello,
in questa situazione?»
«Beh, per come la vedo io,
il bello sta nel fatto che la sorte può cambiare direzione, e la
gente può scambiarsi le disgrazie. Niente dura per sempre, giusto?»
«Così dicono. In realtà
spero sia falso, perché la mia fortuna non vorrei perderla per nulla
al mondo.»
*
Torino, 17 febbraio 2014
Sono trascorsi due giorni
da quando ho accettato di prendermi cura del gattino trovato dai
Lorenzoli e finalmente, dopo quarantotto ore passate a tenermi
sveglia con il suo coriaceo silenzio, Solo sembra aver preso la
decisione di sopravvivere, e soprattutto di riempire le mie giornate
con un tenace miagolio che sembra rafforzarsi ad ogni ora che passa.
Gli ultimi due giorni, comunque, non sono stati votati unicamente
alla cura del mio nuovo animale domestico: in questo snervante
finesettimana ho trovato finalmente un po' di tempo per pensare a me
stessa, e soprattutto a ciò che intendo fare della mia vita.
Ora
che ho lasciato Marco, l'idea di ripresentarmi al lavoro mi imbarazza
più di quanto mi imbarazzasse tornare dopo essermi fatta vedere
nuda. Alla libreria mi sono sempre trovata così bene da non aver mai
pensato ad un impiego alternativo, con il risultato che ora mi trovo
quasi costretta a continuare ad affrontare quel lavoro, ma
soprattutto un capo che so di aver ferito, un uomo che si è
dimostrato capace di fare qualunque cosa pur di rendermi felice, e
che invece io ho pugnalato alla schiena senza tanti complimenti. Non
soltanto il lavoro, anche la città in questo ultimo periodo sembra
starmi stretta, quasi togliermi l'ossigeno e la libertà di muovermi.
Da ragazza qualche volta ho provato il desiderio di andarmene, ma
alla fine la realtà mi ha sempre soddisfatta a tal punto da farmi
smettere certi pensieri, relegandoli al rango di follie
adolescenziali – ma adesso, in questo momento, adesso che ho
finalmente combinato quei casini che aspettavo di combinare da quando
avevo tredici anni, adesso
il desiderio di avere un posto lontano in cui rifugiarmi torna a
farsi più vivo e prepotente che mai. Ho sempre adorato Torino, ho
sempre adorato la mia vita, sono sempre stata bene, eppure adesso
vorrei fuggire via. È un desiderio così strano e improvviso che
nemmeno ho in mente una meta: tutto ciò che vorrei è stringere tra
le mani un biglietto aereo e una valigia e chiudermi la porta alle
spalle, diretta anche a Timbuctu.
Mentre
Solo ricomincia a miagolare disperato, reclamando il pranzo, mi rendo
conto che per tutta la vita non ho fatto altro che aspettare:
aspettare che mia
madre ritornasse indietro, aspettare
il grande amore, aspettare
che tutto finisse in pezzi... non ho fatto altro che aspettare,
sempre, e finalmente gran parte delle mie aspettative è stata
ripagata.
*
Los Angeles, 17 febbraio
2014
Sono
quasi le due del mattino, e Christine fissa la porta con aria
sospettosa, chiedendosi chi possa bussare ad un'ora così tarda.
Scosta le tende del salotto, riconosce l'auto di Shannon e sgrana gli
occhi, domandandosi il motivo che lo ha portato in quella parte della
città così tardi, soprattutto dopo la rocambolesca uscita di scena
di quella stessa mattina. «Shannon, sono le due del mattino. Che
diavolo ci fai qui?» gli domanda, aprendo finalmente la porta e
fissandolo con lo sguardo più truce del proprio repertorio.
«Ti
dovevo parlare. Scusa, lo so che è tardi e che domani devi andare al
lavoro, ma non potevo aspettare. Dovevo parlarti adesso.»
«E
va bene, entra» sospira lei, scostandosi per lasciarlo passare. «Di
che cosa dovresti parlarmi?»
«Direi
che è abbastanza chiaro, Christine. Intendo finire il discorso che
abbiamo iniziato questa mattina.»
«Credevo
che quel discorso lo avessimo concluso stamattina. Quando te ne sei
andato» aggiunge, cercando di sottolineare che è stato proprio lui
a mettere fine alla conversazione, e che dunque è molto bizzarro e
soprattutto un pochino incoerente che sia proprio lui, adesso,
a volerlo riprendere.
«Stamattina
ho sbagliato, sono stato troppo precipitoso. La verità è che non
sapevo come rispondere, perciò ho ritenuto che andarmene fosse la
scelta migliore. Solo che poi ho avuto tutta la giornata per
rifletterci su, e mi sono reso conto che è stato un gesto davvero
stronzo andarsene così, senza dire niente. Tu meritavi una risposta.
La meritavi, punto e basta.»
«Perciò
adesso sei qui per questo? Sei qui per metterti a posto la
coscienza?»
«Non
lo chiamerei mettersi a posto la coscienza.
Sono qui per dirti che io ci credo.» Christine aggrotta
impercettibilmente la fronte, chiedendosi se non sia il caso di
frenarlo, prima che dica qualcosa di cui potrebbe pentirsi.
«Christine, io non ti posso assicurare che andrà tutto bene, che il
lieto fine ci troverà subito e che staremo insieme per sempre. E
anche se ti promettessi una cosa del genere, tu sei troppo
intelligente, e non mi crederesti. Ciò che sento di poterti
assicurare è che ci saranno giorni buoni e giorni meno buoni, e che
la strada sarà quasi tutta in salita. Posso prometterti che ci
saranno giorni in cui sarò meno sicuro, e giorni in cui avrò
l'istinto di andarmene. Però posso anche prometterti che avrò
sempre bisogno di te, ogni giorno, perché tu riesci a capirmi e a
leggermi dentro meglio di quanto riesca a fare io.»
Christine
sospira, coprendosi gli occhi con una mano: avrebbe dovuto ascoltare
il proprio istinto e frenare Shannon quando ancora poteva farlo,
invece di convincersi che non avrebbe detto un mucchio di stronzate
romantiche. «Shannon, tu non...»
«Non
sto dicendo che ci dobbiamo sposare domani, o qualche stronzata
simile. Non sono stupido, Christine. So che non posso tornare
indietro a vent'anni fa, che non siamo i ragazzini di allora e che il
mondo è diverso. Solo... io sento che se c'è una possibilità che
vada bene, allora ci dobbiamo provare. Non capita a tutti di avere
un'altra occasione. Forse noi siamo stati fortunati. Forse
stavolta... magari potrebbe andarci bene.» Christine si scopre gli
occhi, sospirando ancora: non se la sente di condannare l'idealismo
di Shannon, perché in fondo anche lei ha sperato, anche se ormai
anni fa, di avere
un'altra occasione con lui – in fondo, è vero che non ha mai
smesso di amarlo. È stata capace di lasciarlo, di spezzargli il
cuore, di sposare un altro uomo e di costruirsi un futuro lontano, ma
non ha mai smesso di amare quel ragazzo con il sorriso sornione e gli
occhi d'ambra, quello che con un solo sguardo sapeva mandarla in
paradiso, e che non si è mai risparmiato pur di renderla felice.
«Non voglio farti promesse, Christine, perché so benissimo che
potrei non mantenerle. Voglio soltanto che mi guardi negli occhi e mi
prometti che possiamo provarci. Non voglio altro.» Christine
finalmente alza lo sguardo, trovando davanti ai propri gli occhi di
Shannon, ora così scuri da sembrare ossidiana pura. Senza parlare lo
circonda con le proprie braccia, sapendo che questa, come promessa,
gli basterà – e poco importa che in fondo lei non ci creda
davvero, convinta com'è che lui non si sia affatto lasciato alle
spalle il passato, sicura che tutto ciò da cui sta fuggendo presto o
tardi tornerà a mordergli il sedere. Forse è da stronza patentata
comportarsi così, forse non è giusto abbracciarlo, annuire e
illuderlo che tutto andrà bene quando già sa che finirà tutto a
puttane, ma a Christine questo non importa, non adesso
– tutto ciò che vuole adesso
è un'occasione per essere di nuovo felice, anche solo per un
istante, anche se solo per finta, perché in fondo ha sempre saputo
che era Shannon l'uomo perfetto per lei. Peccato solo che lei non
sarà mai la donna per lui.
1L'inferno
è vuoto, e tutti i demoni sono qui. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta della commedia La
Tempesta,
opera del celebre drammaturgo inglese William
Shakespeare
(1610-1611).
|
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Capitolo 18 *** 18 | Sono l'elefante, che posso fare, inchiodato al suolo e a questo amore. ***
La lunga strada verso casa - 1
Non dirò
nulla per tentare di farmi perdonare, questa volta. Mi limiterò a
citare quanto affermato dal personaggio interpretato da Hugh Grant in
“Notting Hill”, ovvero: “Sono una cazzona avariata”. Me ne
vergogno, ma vi giuro che ci sto lavorando.
Buona
lettura, o almeno spero,
EffieSamadhi
La lunga strada verso casa
Capitolo diciottesimo
Sono l'elefante, che
posso fare,
inchiodato al suolo e
a questo amore.1
Los
Angeles, 1° marzo 2014
«Ferma tutto, ho appena
avuto una grande idea!» Nel sentire quella frase, Emma interrompe
immediatamente la chiamata che ha appena fatto partire e rimane in
attesa – non di ordini, ma della prossima cavolata che uscirà
dalla bocca del proprio capo. Mancano poco più di ventiquattro ore
alla cerimonia degli Oscar, e Jared sembra essere andato
completamente fuori di testa – non soltanto ha cambiato mille volte
idea circa l'outfit con cui presentarsi alla serata, ma ha sovvertito
tutte le decisioni precedenti, rischiando più volte di causare nella
propria assistente un raptus omicida. Emma sospira, aspettando
l'ennesima rivelazione, rimpiangendo la semplicità di Shannon e
Constance, gli accompagnatori di Jared alla cerimonia, che sono
riusciti a decidere cosa indossare in meno di dieci minuti. «Niente
nero, il nero mi sbatte troppo. E poi ci sarà già Shannon vestito
di nero. E il nero è troppo mainstream, lo indossano tutti.»
«Quindi la tua grande idea
quale sarebbe? Presentarti in mutande?»
«Non sono così estremo,
cara la mia miscredente» la rimbecca lui, aprendo l'armadio e
tirandone fuori un completo bianco. «Eccola qui, la mia
grande idea. Che ne pensi?»
Emma piega la testa di
lato, fissando il vestito con aria concentrata e provando ad
immaginarsi come starebbe addosso a Jared. «Beh, di sicuro non ti
confonderesti in mezzo alla folla» commenta. «Sei davvero convinto
di volerti vestire di bianco?»
«Conosci qualcun altro
così coraggioso da fare una mossa tanto azzardata?»
«Tu non sei coraggioso,
Jay. Tu sei completamente pazzo, è diverso» lo corregge lei.
«Comunque no, non conosco nessun altro in grado di mettersi una cosa
del genere addosso. Ma d'altra parte tu sei uno che sale sul palco
avvolto in una tenda da doccia, perciò non capisco perché le tue
idee mi sconcertino ancora così tanto.»
«Quindi credi che farei
una buona figura?» domanda ancora lui, appoggiandosi il vestito
davanti al corpo e guardandosi allo specchio, esattamente come una
ragazzina alle prese con la scelta dell'abito per il ballo
scolastico.
«Sì, Jared, saresti
davvero carino» sbuffa Emma, quasi stanca di star dietro ai continui
cambiamenti di umore e di idee dell'uomo. «Ti avverto, però: questo
è l'ultimo cambio d'abito che ti concedo. Quello che deciderai di
indossare adesso è quello che indosserai domani sera. Niente
ripensamenti.»
«Ma io...»
«Niente ripensamenti,
Jared. Sei peggio di una donna. Sai quanto ci ha messo tua madre a
scegliere l'abito da indossare? Cinque minuti, più o meno.
Comportati da uomo, adesso. Intendi indossare questo completo, domani
sera?» Jared apre la bocca per rispondere, poi cambia idea, ci
riflette ancora su e infine annuisce, con un sorriso degno di un
bambino che ha appena ricevuto il regalo più bello della vita.
«Bene» sentenzia Emma, prendendogli la gruccia dalle mani. «Te lo
faccio trovare lavato e stirato per domani mattina alle otto»
aggiunge prima di lasciare la stanza.
Rimasto solo, Jared si
guarda attorno, osservando il disordine da lui stesso creato: non è
da lui essere così indeciso su cosa indossare, tanto più che spesso
non riflette affatto prima di vestirsi, ma questa storia della
cerimonia degli Oscar lo sta decisamente scombussolando. Strano,
perché lui è abituato a stare sotto i riflettori, al centro
dell'attenzione, ad avere gli occhi del mondo puntati addosso in ogni
luogo e in ogni momento. È stato a migliaia di festival, di feste
importanti, di ricevimenti, eppure questa volta si sente diverso –
in fondo, la cerimonia degli Oscar non è una serata come tutte le
altre: è una serata cui partecipano soltanto i più grandi, soltanto
i numeri uno, e ci si va soltanto per scoprire chi sia il migliore di
tutti. Sapere di essere stato invitato, ma soprattutto di essere uno
dei possibili numeri uno in assoluto, è una sensazione che
non si riesce a descrivere del tutto: è qualcosa che lo lusinga e lo
eleva, ma che allo stesso tempo lo schiaccia sotto il peso di una
responsabilità troppo grande, una responsabilità che lo fa sentire
quasi sporco, come se in fondo il suo successo non fosse il
frutto di un grande talento, ma soltanto di una buona dose di faccia
tosta e fortuna.
Non che accada spesso, ma a
volte anche a Jared Leto capita di sentirsi confuso e perso – solo
che adesso, a differenza del passato, sa che basterà un piccolo
gesto a fargli tornare il sorriso.
*
Torino, 1° marzo 2014
Sulla scrivania non è
rimasto spazio nemmeno per un granello di polvere, perciò ora tocca
al pavimento riempirsi di libri, fotocopie, quaderni e appunti
sottolineati, proprio come in quella canzone di Simone Cristicchi che
parla dell'infinito mondo di una studentessa. Alice è seduta a
terra, gambe incrociate e matita stretta tra i denti, ferma nella
stessa posizione da tanto di quel tempo che ormai la spina dorsale le
si è indurita come quella di sua nonna. Quando il cellulare squilla
dapprima nemmeno lo sente, concentrata sul proprio lavoro, e quando
si accorge della suoneria impiega qualche secondo per alzarsi e
raggiungere il comodino dove ha lasciato il telefono. Durante il
tragitto, ansiosa di rispondere, sbatte il piede contro la gamba del
letto, e quando accetta la chiamata il tono sofferente del suo
«Pronto?» arriva forte e chiaro all'orecchio di Jared.
«Sai che la tua voce ha i
toni acuti di una che ha fatto le scale di corsa urlando che la casa
va a fuoco?»
Alice fa una smorfia,
cercando di distribuire equamente il dolore tra il mignolo in fiamme
e la schiena anchilosata. «Pensavo fosse una telefonata importante.
Se avessi saputo che eri tu, non mi sarei precipitata a questo modo.
E non cercare di fare lo splendido citando i grandi attori. Conosco a
memoria La gatta sul tetto che scotta.»
«Non sapevo che ti
piacessero i vecchi film.»
«Non sono una fan del
genere, ma Paul Newman resta sempre Paul Newman» replica lei,
lasciandosi andare ad un sorriso. «Ma non cercare di cambiare
discorso. Perché hai chiamato?» riprende un attimo più tardi,
usando un tono sbrigativo dovuto più al fastidio per il recente
infortunio che alla scoperta dell'identità del proprio
interlocutore.
«Gentile come sempre,
vedo» la prende in giro lui.
«Scusa, ma per rispondere
ho sbattuto il piede contro uno spigolo, perciò non sono esattamente
in vena di fare la carina. E poi sono molto impegnata con le ricerche
per la mia tesi. Devi dirmi qualcosa o dovevi solo occupare una
mezz'ora vuota tra un'intervista e una festa?»
«In realtà avevo soltanto
bisogno di sentire la voce di una persona amica» confessa lui,
abbassando lo sguardo, «ma sembra che abbia sbagliato numero. O
almeno momento.»
In questo momento Alice si
sente una persona davvero orribile: continua a dimenticare che,
nonostante la persona all'altro capo del filo sia una celebrità, si
tratta pur sempre di un uomo che, come tutti, ha bisogno, di quando
in quando, di interagire con un altro essere umano, anche soltanto
per cinque minuti. In fondo è capitato anche a lei di attraversare
dei momenti simili, e di aver bisogno di un contatto con qualcun
altro, anche solo per sentirsi di nuovo viva. Ripensa a tutte
le volte che si è ritrovata a chiamare Daria o Federico anche alle
quattro del mattino, magari soltanto per un saluto, e si sente
davvero crudele, perché il fatto che Jared sia una celebrità non
dovrebbe consentirle di comportarsi così da stronza. «Scusa, non
volevo essere maleducata. È solo che... beh, è un momento piuttosto
complicato. Questa tesi del cavolo mi sta succhiando via ogni
energia. E quando sono stanca, poi divento scontrosa.»
«Perdonata» sussurra lui,
e lei non può impedirsi di sorridere ancora. «Ma non osare
trattarmi di nuovo così male, altrimenti... disonore su di te,
disonore sulla tua mucca!» Alice scoppia a ridere per quella
incredibilmente veritiera imitazione del draghetto Mushu, e tra le
sue risate si fa di nuovo strada la voce di Jared: «Ehi, non
prendermi in giro!»
«Non ti prendo in giro, è
solo che mi stupisce che tu conosca quel film!»
«Guarda che sono stato
bambino anch'io.»
«Sì, ma se i miei calcoli
sono esatti, quando è uscito Mulan tu avevi... ventotto
anni?»
«Ventisette» la corregge
prontamente. «E comunque non si è mai troppo adulti per innamorarsi
di un film della Disney.»
«Se lo dici tu...»
ridacchia ancora lei, sedendosi sul proprio letto. «Sentiamo, perché
avresti bisogno di una persona amica con cui parlare? Cos'è successo
di tanto terribile al nostro impavido eroe?»
«Credo di avere paura.»
«Paura? Sul serio? Paura
di cosa?»
«Beh, non so se lo sai, ma
domani sera consegneranno gli Oscar.»
«E hai paura di
impappinarti durante il discorso di ringraziamento?»
«Io non mi impappino mai.
Hai mai sentito certi monologhi che metto su durante i concerti? Sono
un oratore nato. E comunque non è di questo che ho paura, perché
difficilmente sarò io a vincere. Hai visto chi sono gli altri
nominati per la mia categoria? Parliamo di Michael Fassbender,
Bradley Cooper, Jonah Hill... non sono esattamente delle mezze
tacche.»
«Questo è vero, ma... ho
visto il tuo film, Jared. Dire che il tuo personaggio non è così
forte da meritare un riconoscimento così grande sarebbe come dire
che la Terra è piatta.»
«Stai forse cercando di
blandirmi?»
«Arrivati a questo punto,
dovresti conoscermi abbastanza da sapere che non è nel mio stile
blandire le persone. Io dico solo la verità. E la verità è che hai
fatto un lavoro stupendo con Rayon. Non sono una ragazza che si
commuove facilmente, ma... dannazione, in certi momenti eri così
perfetto da star male. Riconosco di non avere i requisiti per far
parte di una giuria, ma non posso immaginare che i giurati non si
facciano influenzare un po' anche dal loro cuore. Sarebbero inumani,
se non si lasciassero trasportare almeno un po'.»
«Davvero l'hai visto?»
«Naturale. Non mi perdo
mai un film con Matthew McConaughey. È uno dei miei attori
preferiti» ribatte lei con aria sicura, trattenendosi a stento dal
ridere. Adora prendere in giro Jared, si diverte un sacco a gonfiare
il suo già prorompente ego e bucarlo dopo un istante con un grosso
spillone.
«Molto divertente. Sul
serio, sto ridendo come un matto.»
«E va bene, torniamo seri
per un istante. Di che cosa hai paura? Di inciampare su uno scalino
come Jennifer Lawrence, di essere criticato per il bizzarro completo
che indosserai, di...»
«Come sai che cosa
indosserò?»
«Non lo so, ho tirato ad
indovinare. Sei uno che ai concerti si fa le trecce come una squaw e
indossa pantaloncini da boxe. Non credo che la formalità
dell'occasione potrebbe spingerti a vestire in modo normale.
Sembri il tipo d'uomo capace di sposarsi con indosso una muta da
sub.»
«Tu non nutri alcun tipo
di fiducia in me, vero?»
«Errato, io nutro molta
fiducia in te, come artista. È il tuo guardaroba quello cui non mi
avvicinerei nemmeno con una pertica.»
«Allora preparati a
restare sorpresa, perché ho scelto un completo molto sobrio. Farò
la mia figura, ma senza farmi ridere dietro dagli occhi del mondo. E
niente acconciature stravaganti.»
«Chi sei, e cosa ne hai
fatto di Jared Leto?»
«L'ho ucciso e ho usato le
sue spoglie per farmi un Jaredabito.»
«Smetti di rubare battute
ai film» lo ammonisce lei divertita, cercando di calcolare quante
volte abbia visto Men In Black. «Sul serio, come hai
intenzione di vestirti?»
«Nessuna anticipazione, se
vuoi saperlo dovrai guardare la diretta della cerimonia. Perché la
guarderai, vero?»
«Jared, qui da noi la
diretta inizia verso mezzanotte e finisce verso le sei del mattino.
Non puoi pretendere che passi la notte incollata alla tv soltanto per
vedere come ti sei conciato. Non puoi chiedere una cosa del genere ad
una laureanda in filosofia che sta impazzendo dietro ad una tesi sul
pensiero di Nietzsche.»
«Da qui a luglio c'è
ancora un sacco di tempo, una serata di svago potresti anche
concedertela.»
«E me la concederò, puoi
starne certo: uscirò a cena con qualche amica, magari andrò a farmi
un paio di birre... la mia idea di svago di solito è questa.»
«Quindi rinunceresti alla
prospettiva di guardarmi in diretta mondiale solo per fare ricerche
su un tedesco morto da più di un secolo?»
«Ad essere sincera,
l'alternativa sarebbe dormire. E comunque quale sarebbe il
valore pratico del vederti in diretta tv?»
«Godere della perfezione
del mio viso non ti sembra sufficiente? A questo proposito, ormai
sono mesi che ci parliamo, e ancora non ho idea di come sia fatta.»
«E quale sarebbe il valore
pratico del sapere come sia la mia faccia?»
«Nessuno, a parte che così
non mi sembrerebbe più di parlare con un fantasma.»
«Sarebbe un modo carino
per dirmi che mi vedi come una spaventosa entità paranormale?»
«Sarebbe un modo per dire
che vedere il tuo viso mi aiuterebbe a convincermi che sto parlando
con una persona che esiste davvero. Parlare con te mi fa bene,
non lo nascondo, e vorrei soltanto essere certo di confidare i miei
pensieri ad una forma di vita fatta di carne ed ossa.»
«Ti assicuro che sono
reale, Jared» sorride lei, stendendosi sul letto per riposare la
schiena. «Ti dirò, a volte mi sembra anche di esserlo troppo.»
«E dai, regalami qualche
dettaglio! Sei alta, bassa, bionda, mora... non ti sto chiedendo di
fare sesso telefonico, ti sto soltanto chiedendo come sei fatta!»
All'idea di fare sesso
telefonico persino una ragazza indipendente e senza paura come Alice
arrossisce, chiedendosi come sarebbe sentire quella splendida voce
sussurrare cose sconce dall'altra parte del mondo. «Beh, il mio ex
fidanzato mi diceva sempre che gli ricordavo un po' Emma Stone.»
«La Emma Stone di Crazy,
stupid love o quella di The help?»
«Direi più quella di The
Amazing Spiderman, visto che sono bionda.»
«Beh, in ogni caso
significa che sei una bella ragazza, a meno che il tuo ex non fosse
un bugiardo patentato.»
Alice si sente arrossire
un'altra volta, chiedendosi se Jared non si accorga dell'eccesso di
enfasi che mette nei suoi complimenti, quasi credesse davvero in
tutto ciò che dice. «Di solito era piuttosto sincero, ma non
escludo che questo possa essere uno dei rari casi in cui mi ha
mentito» risponde, sperando di riuscire a sviare il discorso dallo
scoglio sul quale sembra essersi arenato. «Comunque sia, c'è altro
che vorresti dirmi? Perché altrimenti tornerei alle mie ricerche. Ho
ancora così tanto da fare...»
«No, certo, ti lascio
andare, tanto tra un'oretta dovrei uscire... non ti stancare troppo,
Gwen Stacy.»
«Ci proverò, ma non ti
prometto niente.»
«Mi piace la tua casa»
dice Luca, spostandosi verso il bancone della cucina per sedersi su
uno degli sgabelli. Alzo gli occhi dai fornelli e gli sorrido, poi
torno a concentrarmi sulla cioccolata. «Vivi qui da tanto?»
«Mi sono trasferita a
novembre» rispondo. «Di solito è molto più disordinato, ma
sapendo che saresti passato ho dato una sistemata. Non sono molto
brava come casalinga. Sembra una contraddizione, visto che è
un'artista, ma in realtà è Francesca quella ordinata.»
«Tu devi aver preso dalla
mamma» replica lui. «Nemmeno lei è ordinata. Per fortuna c'è la
signora Corelli, altrimenti non so come faremmo.»
«Emanuele com'è, invece?»
«Beh, lui è... è un
informatico» replico, come se questo potesse essere abbastanza.
«Insomma, lui è un tipo molto... quadrato. Sì, penso si
possa descrivere così. Segue un rigido protocollo in tutto quello
che fa. Più di una volta ho pensato che anche il suo cervello sia un
computer» aggiungo con un sorriso. «A volte mi piacerebbe essere
come lui, perché pensa in codice binario, e la cosa potrebbe essere
utile per una come me, che sono un'indecisa cronica. Sai, per
prendere decisioni tipo 'cioccolato fondente o al latte', 'camicia o
maglietta', o quando ti trovi al supermercato e devi scegliere
l'offerta più conveniente.»
«Pensi che sia per questo
motivo che non mi è ancora venuto a cercare?» mi sento domandare
dopo un istante di silenzio. Mi volto di scatto, e vedo che Luca si
sta tormentando le mani con l'aria di uno che vorrebbe sprofondare
nel pavimento. «Insomma, forse non vuole che faccia parte del suo...
codice.»
A quelle parole mi si
stringe il cuore. Nonostante lo frequenti assiduamente da più di un
mese, continuo a dimenticare che Luca è un ragazzino molto più
intelligente e maturo dei suoi coetanei, nonché un'anima
estremamente sensibile, e che sicuramente il fatto che Emanuele non
lo abbia avvicinato lo ferisce a morte. Dopo la bomba che ho fatto
esplodere, Francesca non ha atteso più di una settimana prima di
chiedermi di farli incontrare, e se possibile è diventata una
sorella maggiore più apprensiva di me, al punto da scrivergli almeno
tre volte al giorno per informarsi circa tutto ciò che gli accade.
Emanuele, invece, non ha ancora fatto un passo – ma nonostante
sappia quanto sia importante per Luca sentirsi accettato in egual
misura da tutti e tre, non ho voluto fare nulla per immischiarmi.
Conosco Emanuele, e so che se insistessi per fargli conoscere suo
fratello finirebbe con l'odiare anche me, oltre a detestare la
situazione nel suo complesso. Emanuele è sempre stato un ragazzo
molto intelligente, ma sul piano personale è più incasinato di me –
per questo non ho insistito, perché so che ha bisogno dei suoi
spazi, e che presto o tardi farà la sua mossa... solo, forse non
tanto presto. «Sono certa che presto o tardi si farà avanti»
rispondo, cercando di non far trasparire la mia preoccupazione. «Sai,
lui è diverso da me e Francesca. Gli ci vuole un po' più di tempo
per abituarsi alle novità. Ma se c'è una cosa di cui sono sicura, e
di cui vorrei che ti convincessi, è che lui non ti odia. Insomma, se
non si è ancora fatto avanti è perché non si è ancora abituato
all'idea, ma di certo lo farà.»
«Non ho mai pensato che mi
odiasse» risponde lui, mentre spengo il fornello e verso la
cioccolata nelle tazze. «Più che altro penso di essergli
indifferente, che è peggio.» In questo momento ringrazio il cielo
di dargli le spalle, perché sento gli occhi farsi lucidi e le
lacrime premere per uscire, e farmi vedere in questo stato non
sarebbe proprio l'ideale, visto che il mio obiettivo è di
risollevargli il morale. «Insomma, non è peggio quando una persona
decide di ignorarti?»
Ancora di spalle, mi premo
una mano sulla bocca, per soffocare una specie di singhiozzo. Com'è
possibile che a soli dodici anni questo ragazzino sia più saggio di
me, che il doppio dei suoi anni e, si suppone, un'esperienza più
completa della sua? È in momenti come questi che arrivo quasi a
vergognarmi di me stessa, perché per Luca dovrei essere una guida,
una dispensatrice di buoni consigli, e invece, ancora una volta, è
lui a rimettere le cose nella giusta prospettiva, facendomi capire
che della vita, a dispetto della mia età, non so proprio niente.
*
Los Angeles, 2 marzo 2014
Il viaggio verso il Kodak
Theatre è incredibilmente silenzioso, ma la cosa non mi preoccupa:
quando si tratta di cerimonie Jared è sempre teso come una corda di
violino, sia che si tratti di ricevere premi o anche soltanto di fare
un semplice atto di presenza. Sembra strano, visto quanto si trova a
suo agio sul palcoscenico, ma partecipare a cerimonie di questo tipo
lo imbarazza sul serio, perché sfilare su un tappeto rosso vestito
di tutto punto non è esattamente come agitarsi su un palcoscenico
indossando imbarazzanti pantaloncini da boxe e agitando una bandiera.
In più, se aggiungiamo alla miscela il fatto che questa è la
cerimonia degli Oscar, ovvero uno degli eventi più attesi
dell'anno, nonché il fatto che stasera potrebbe vincere uno dei
premi più prestigiosi della sua carriera d'attore... beh, non
biasimo mio fratello per la sua voglia di restare in silenzio. Seduta
accanto a me, la mamma è altrettanto silenziosa, e se ogni tanto non
la sentissi muoversi penserei che si tratti di una statua di cera:
indossa uno stupendo abito nero, un capo elegante e sofisticato che
un sacco di modelle con la metà dei suoi anni non riuscirebbero ad
indossare con la stessa grazia, e nonostante i capelli bianchi sembra
ancora una ragazza, una che ha tutta la vita davanti e ancora mille
progetti da portare a termine. Sta guardando fuori dal finestrino
scuro, e io non riesco a staccare lo sguardo dal suo riflesso: era
soltanto una ragazzina quando si è scoperta incinta di me, ma invece
di farsi prendere dal panico è riuscita a mantenere i nervi saldi e
a rimboccarsi le maniche, regalandomi una vita piena e felice e tutte
le occasioni giuste per consentirmi di seguire le mie aspirazioni. A
volte mi domando quante cose abbia sacrificato per crescere me e
Jared, a quanti sogni abbia dovuto dire addio, a quante e quali rosee
prospettive abbia dovuto abbandonare per consentire a noi di
seguire i nostri progetti – ma soprattutto mi chiedo dove trovi
ancora la forza di sorridere, anche dopo aver rinunciato alla sua
vita per curarsi delle nostre. Osservo il suo riflesso e ritrovo
quell'espressione che conosco da sempre, quel mezzo sorriso che
sembra voler dire milioni di cose, e che allo stesso tempo è
maledettamente difficile da interpretare, un po' come quello di Monna
Lisa. Abbasso lo sguardo nel preciso istante in cui ricordo chi
altro possiede un simile sorriso, dandomi dello stupido – in
fondo, l'hanno sempre detto che le donne cercano un uomo che ricordi
il proprio padre, e che viceversa gli uomini cerchino in una donna lo
spirito della madre. Chiudo gli occhi per un istante, cercando di
scacciare dalla mente il sorriso di Daria, quell'espressione
leonardiana che tirava fuori ogni volta che si sentiva insicura ma
voleva mostrarsi forte. Mi passo una mano sul viso, sforzandomi in
ogni modo di non pensare al passato, ma sembra che più acuta sia la
voglia di dimenticare, più forte il pensiero di Daria si aggrappi a
me – ma non è tanto il pensiero di ciò che c'è stato tra noi a
disturbarmi, quanto il mio senso di colpa nei confronti di Christine.
Sono passate quasi due
settimane da quando ho bussato alla sua porta nel cuore della notte e
lei mi ha accolto tra le sue braccia accettando le mie scuse
insensate, e da quel momento sono iniziate le due settimane più
complicate della mia vita. Sarebbe una bugia affermare che Christine
non sia una donna importante, ma sarebbe una bugia peggiore affermare
che sia esattamente questo ciò che fa per me. Con lei sto bene, è
una donna straordinaria che farebbe la fortuna di molti uomini, ma
ogni volta che siamo insieme mi dico che persino un cieco si
accorgerebbe che non siamo affatto fatti l'uno per l'altra. È
straordinaria, mi conosce e sa come trattare con me, sa comprendere
il mio umore e sa cosa sia meglio per me, eppure nel profondo del
cuore so che stare con lei non è, e soprattutto non sarà mai,
la cosa migliore cui potrò aspirare. Le sto mentendo, e quel che è
peggio è che ne sono pienamente consapevole, e nonostante questo non
riesco a smettere di farlo. Ogni volta che ci separiamo e resto solo
mi chiedo come sia possibile, per un uomo che come ha conosciuto la
vera felicità, anche se per un mese appena, rinunciarvi e
condannarsi a sopravvivere, ad accontentarsi di
qualcosa che non potrà mai nemmeno lontanamente avvicinarsi alla
perfezione. Ma più di tutto, mi chiedo come sia possibile che
Christine non si sia accorta che non sono completamente con lei, che
il mio cuore sia sempre lontano, anche quando sono fisicamente
presente accanto a lei. O forse se n'è accorta, ma semplicemente non
vuole accettarlo, o forse anche lei, come me, si sta
semplicemente accontentando.
Seppur perso nei propri
pensieri e nell'ansia che l'idea dell'imminente cerimonia gli causa,
Jared si è accorto del repentino cambiamento d'umore di Shannon, che
all'improvviso ha distolto lo sguardo, fissandolo sul paesaggio che
scorre rapido dall'altra parte del finestrino oscurato – non che
prima fosse l'emblema dell'allegria, certo, ma è come se
all'improvviso uno strano pensiero gli avesse attraversato la mente,
portandosi via il flebile sorriso che adornava il suo volto. Non
hanno parlato molto dei loro affari privati, ultimamente, ma Jared sa
che Shannon ha ricominciato a vedersi con Christine, e che ormai da
un paio di settimane sembrano fare sul serio, esattamente come
vent'anni fa. Non ci sarebbe nulla di male, certo, in fondo Christine
è una donna seria, una di quelle persone che non fa mai male avere
accanto, solo che Shannon non ha affatto l'aria di essere un uomo
felice – e Jared, che era con lui a Parigi, sente di poter parlare
con cognizione di causa. L'ha visto felice, ha visto di quale
luce possano illuminarsi i suoi occhi e quanto contagioso possa farsi
il suo sorriso, ed è certo che in questo momento Shannon non sia
affatto felice, né tantomeno realizzato. Christine è
sicuramente grandiosa, e certamente accanto a lei Shannon non starà
male, ma non sarà mai, nemmeno in un milione di anni, quell'unica
donna al mondo in grado di rendere il suo mondo completo. Jared sa
che non dovrebbe impicciarsi negli affari di suo fratello, sa che
Shannon è grande abbastanza per decidere del proprio futuro senza
chiedere consiglio, ma allo stesso tempo gli si stringe il cuore nel
vederlo così, troppo fragile per ammettere a se stesso di essere sul
binario sbagliato.
*
Torino, 2 marzo 2014
Nonostante
le promesse fatte a se stessa, a mezzanotte Alice si lascia vincere
dalla curiosità: prende in mano il pc e digita rapidamente sui
tasti, cercando di trovare in fretta una buona piattaforma sulla
quale seguire la diretta dell'evento. Una sbirciata e via,
è ciò che si è ripetuta più e più volte, ma dopo ventiquattro
anni ormai ha imparato a conoscersi, e sa che una volta iniziata la
diretta non riuscirà a staccarsene, forse a malapena per una pausa
bagno. È a questo punto che le viene quella che considera un'idea
geniale: copia il link del sito e lo invia per messaggio a Daria,
sperando di suscitare la sua curiosità – così almeno si sentirà
meno idiota, sospettando che anche la sua migliore amica se ne stia
incollata allo schermo del portatile.
Il
primo istinto, quando Alice mi informa del suo nuovo passatempo, è
di cancellare il messaggio senza darle retta – poi mi dico che in
fondo non ho altro da fare e domani non devo andare al lavoro, perciò
potrei anche stare sveglia ancora un paio d'ore a guardare vip che si
rincorrono sul tappeto rosso. Cerco il sito che mi ha consigliato,
sperando nella benevolenza del wi-fi, e aspetto che si carichi il
sito. Nemmeno a farlo apposta, la prima coppia che vedo transitare è
quella formata da Colin Firth e sua moglie, Livia Giuggioli: lui è
uno dei miei attori preferiti, e lei l'invidia di ogni donna,
italiana o no – quale ragazza non sogna, in fondo al cuore, di far
innamorare di sé un uomo di tale fascino? Subito abbasso lo sguardo,
dandomi della stupida: ciò che quella donna ha trovato in Colin
Firth io l'avevo trovato lo scorso autunno, non in un celebre attore
ma in uno straordinario batterista – avevo anch'io un uomo che mi
guardava nello stesso modo in cui lui ora guarda lei, e come una vera
stupida gli ho dato un calcio, allontanandolo da me. Improvvisamente
mi torna in mente che anche Jared ha ricevuto una nomination, e che
probabilmente sarà presente alla cerimonia – e chi altri potrebbe
volere con sé, se non suo fratello? Il primo istinto è quello di
spegnere il portatile e mettermi a dormire, eppure le mie mani non si
muovono – nonostante mi senta persino indegna
di pensare a Shannon, figuriamoci di guardarlo attraverso uno
schermo, non riesco a rinunciare all'idea di poterlo vedere ancora
una volta, se non altro per assicurarmi che stia bene. Ci vogliono
ancora venti minuti, ma alla fine il mio più grande desiderio –
nonché la mia più grande paura – trova realizzazione. Jared
appare alla fine della lunga striscia rossa che conduce all'ingresso
del Kodak Theatre, accompagnato da sua madre, che potrebbe
tranquillamente essere scambiata per una celebre attrice o per una
sua fiamma, data l'innata eleganza e la straordinaria bellezza che la
contraddistinguono. E poi, appena un passo indietro, vedo Shannon, e
il cuore sembra fermarsi per un istante: è completamente vestito di
nero, il che lo fa apparire più magro, e porta i capelli più corti,
lasciando scoperta la triad tatuata dietro l'orecchio. Mi copro la
bocca con una mano, trattenendo un paio di lacrime: è completamente
diverso dallo Shannon scarmigliato – e soprattutto nudo
– che ho lasciato a Parigi, eppure vederlo mi fa ancora lo stesso
effetto di un tempo. Se non fossi seduta, sono certa che le ginocchia
mi cederebbero, facendomi crollare a terra come un sacco di patate –
per quanto sia lontano, per quanto sia soltanto un'immagine inviata
attraverso un satellite, il suo volto ancora mi pare una delle cose
più belle che abbia mai visto, e il suo sguardo è ancora una delle
poche cose in grado di confondermi al punto di non ricordare il mio
stesso nome. Prendo un paio di respiri profondi, cercando di calmarmi
e nel contempo trattenendomi dallo scrivere ad Alice un messaggio
minatorio, e proprio in quell'istante il telefono abbandonato accanto
a me vibra, avvertendomi dell'arrivo di un messaggio. Neanche a
dirlo, è proprio lei, la donna che diede origine al caos – in
fondo, se non fosse stato per lei, la sottoscritta Shannon lo avrebbe
incontrato soltanto nei propri sogni.
Adesso
Alice si sente in colpa, perché se Daria se ne sta incollata allo
schermo del portatile a guardare in faccia il suo passato è soltanto
colpa sua, che voleva sentirsi meno sola e perciò l'ha coinvolta in
una delle sue idee balorde. «Scusa, non volevo farti soffrire»
esordisce, rispondendo alla chiamata dell'amica.
«Non sto soffrendo,
tranquilla» risponde Daria, continuando a fissare lo Shannon fatto
di pixel che sorride al giornalista di chissà quale canale tv.
«Insomma, un po' sì, ma non è colpa tua. Beh, sì, in effetti è
colpa tua, visto che sei stata tu a mandarmi il link, ma non credo ti
ucciderò per questo.»
«Che
effetto ti fa?» domanda Alice, abbassando la voce come se si
trattasse di un segreto – e in effetti di mezzo c'è
un segreto, perché nonostante siano passati due mesi, ancora non ha
confessato delle telefonate tra lei e Jared, che tra l'altro stasera,
vestito di bianco, fa davvero una splendida figura, riuscendo a
sembrare quasi normale... capelli a parte.
«Rivederlo, dici? È
strano. Non so come altro descriverlo, solo... è strano, ecco
tutto.»
«Immagino sia un po'
diverso da com'era a Parigi.»
«Molto
diverso» annuisce Daria, sospirando. «Ha tagliato i capelli. Gli
stanno bene.»
«Io lo trovo anche
dimagrito. O forse è solo un'impressione, visto che è vestito di
nero. Insomma, il nero snellisce, giusto?»
«Non lo so, forse hai
ragione tu. Quel che è certo è che mi sembra...»
«...felice?»
completa Alice, azzardando quella parola che Daria, lo sa, non
riuscirebbe mai e poi mai a pronunciare – non da quando ha
completamente rinunciato a far parte di quella particolare equazione.
«Non sembra anche a te?»
«Mah, non saprei. Davanti
alle telecamere sorridono sempre tutti. Non saprei dire se sia
davvero felice o no.»
«Quindi secondo te
potrebbe avere il cuore a pezzi e sorridere soltanto per non far
insospettire i giornalisti?»
«Sinceramente? Ho paura di
rispondere a questa domanda, ho la sensazione che potresti mangiarmi
viva se dicessi qualcosa che non ti va a genio.» Attende in silenzio
una risposta, ma dopo quasi un minuto di niente decide di tentare la
sorte. «Che cosa ti fa credere che sia felice?»
«Non
lo so» ammette Daria, sospirando ancora. «In fondo è tornato alla
sua vita come se niente fosse, non è... insomma, è andato avanti.
Perché non dovrebbe essere felice?»
Alice
si morde un labbro, chiedendosi se non sarebbe il caso di dire
finalmente la verità, di rivelarle che in realtà Shannon è tornato
da lei, è tornato indietro con le migliori intenzioni del mondo, che
è tornato per riprendersela, e che si è arreso soltanto nel preciso
istante in cui si è accorto che era stata lei
ad andare avanti. «Anche tu sei andata avanti, no?» dice infine,
sperando di suscitare in lei chissà quali sentimenti.
«Sì, e guarda quanto sono
andata lontano.»
«A proposito, come va con
Marco? Lavorare a stretto contatto con lui è imbarazzante quanto
credevi?»
«Un po', ma è
sopportabile. Credo che per lui non sia un problema così grande.
Insomma, credo di essere io quella che fatica di più per far
funzionare la cosa.»
Nel tono di Daria, dimesso
e anche un po' arreso, finalmente Alice intravede uno spiraglio per
mettere in atto quella che in effetti era un'idea di Jared, ma che
non le dispiacerebbe fosse stata sua. «E... che cosa hai intenzione
di fare adesso?»
«In che senso?»
«Beh, adesso che hai
capito che Marco non faceva per te e sei di nuovo single...» Alice
mette da parte il computer, si alza e inizia a passeggiare per la
stanza, molto nervosa per le parole che sta per dire. «Insomma,
adesso che sei di nuovo single potresti... insomma, c'è ancora
quella scatola sotto il mio letto. Non potresti magari...»
«Cosa? Chiamare Shannon e
chiedergli scusa per quello che ho fatto?» ribatte Daria, stupita
dal fatto che Alice, da sempre sinonimo di schiettezza, non abbia
trovato il coraggio di dirlo chiaro e tondo, senza tanti giri di
parole. «Bella prova di serietà che darei. Prima me ne vado
sgattaiolando via come una ladra, poi ritorno implorando perdono? No,
non esiste. E poi non ha nemmeno senso» aggiunge subito, cercando di
mettere in chiaro che non ha alcuna intenzione di tornare con
Shannon. «Insomma, avrebbe senso se io fossi ancora innamorata di
lui, ma non lo sono. Cioè, io non... non potrebbe mai funzionare, lo
sai.»
«Sai cosa mi stupisce? Che
anche dopo tutti questi anni di amicizia continui a credere che ti
riesca facile mentirmi. Non cercare di convincermi che di lui non ti
importi niente, perché so che non è vero. Se lo avessi davvero
cancellato dalla tua vita, non avresti mai lasciato Marco.»
«Non psicanalizzarmi,
Alice. Te lo chiedo per favore» implora Daria, senza sortire alcun
effetto.
«Non sto cercando di
psicanalizzarti – cosa che tra l'altro mi riesce benissimo. Dico
solo che Marco è un uomo praticamente perfetto, uno che ogni donna
sarebbe felice di avere al proprio fianco. Perché lo avresti
lasciato, se non...»
«Forse non voglio un uomo
praticamente perfetto, non ci hai pensato? Sì, la perfezione è
intrigante, ma alla lunga può stancare. Lo sai, tu avevi Federico!»
«Punto primo: Federico non
è mai stato perfetto, e tu lo sai. Punto secondo: non è di me che
stiamo parlando, ma di te. E tu, cara mia, sei ancora innamorata di
Shannon, ed è assurdo che continui a negarlo. Sappi che se ti
rifiuterai di ammetterlo, continuerò a ricordartelo ogni giorno
della tua vita, finché non ti stancherai di me.»
«Se è per questo, stai
già iniziando a farti odiare» ribatte Daria con una risata, sapendo
che Alice sarebbe in grado di tenere fede anche a quella promessa.
«E allora perché sprecare
tempo prezioso e pazienza? Ammetti che sei ancora innamorata di lui e
che ti manca da morire, metti da parte l'orgoglio e chiamalo.»
«Non posso» sussurra la
ragazza dopo qualche istante di silenzio.
«Perché? Perché non
puoi?»
«Perché significherebbe
ammettere che ho sbagliato» sussurra ancora Daria, abbassando ancora
la voce. «E non so se sono pronta ad ammettere tanto.»
«Non sarebbe una cosa
tanto tremenda, sai? La storia è piena di uomini e donne che hanno
commesso degli errori e sono tornati sui propri passi per
correggerli.»
«Ma con quale faccia
potrei continuare a guardarmi lo specchio, Alice?» ribatte Daria,
tagliente. «E con quali occhi tornerebbe a guardarmi lui?»
aggiunge, senza trovare il coraggio di pronunciare ancora il suo
nome. «Resterei per sempre la donna che ha giocato con i suoi
sentimenti, quella che se n'è andata e poi ha cambiato idea. Non
riuscirebbe mai più a fidarsi di me.»
«Se ti amasse davvero,
cosa che io ritengo molto probabile, sono certa che riuscirebbe a
passarci sopra. La felicità del tuo ritorno offuscherebbe qualunque
altro pensiero, qualunque dubbio, qualunque incertezza» risponde
Alice, il cuore gonfio della speranza di rivederli insieme – perché
è fuori discussione che due persone come loro debbano passare la
vita separate, soprattutto se divise da una cosa stupida come la
paura. «Sono certa che capirebbe. È per paura che sei scappata da
Parigi, sono certa che comprenderebbe le tue ragioni. Sono certa che
anche lui si sia sentito come te, anche solo una volta.
Comprenderebbe.»
«Alice,
ti prego, ti chiedo un favore. Mettiamo una pietra sopra questa
discussione e non riprendiamola mai più. Non ti ho mai chiesto
niente, almeno questa volta cerca di accontentarmi. Per
favore.»
Alice vorrebbe ribattere,
esporre le proprie ragioni, gridare ai quattro venti la propria
intenzione di continuare quella discussione, di continuarla se
necessario all'infinito, perché lo vedrebbe anche un cieco quanto
amore inespresso si celi dietro le parole e i comportamenti di Daria,
perché persino il cuore più freddo si scioglierebbe di fronte alla
forza del loro sentimento... eppure, incredibilmente, per una volta
decide di tacere. Decide di tacere sapendo che potrebbe essere il più
grande errore della sua vita, sapendo di commettere un efferatissimo
crimine nei confronti dell'amore e di tutti coloro che combattono per
esso, anche quando non c'è speranza, anche quando sembra che si sia
giunti alla fine di tutto. Tace, Alice, e anche se dentro al proprio
cuore sa che non è affatto la cosa giusta da fare, sente di
doverglielo, sente di dovere questo terribile favore alla propria
migliore amica, a quell'unica persona che le è sempre stata accanto,
e che da lei merita questo ed altro.
*
Los Angeles, 2 marzo 2014
Jared sta parlando con
Matthew McConaughey e sua moglie, quando un tocco leggero sulla spalla lo distrae
dalla conversazione, facendolo voltare verso sinistra. Il suo sguardo
incontra il contagioso sorriso luminoso di Lupita, che lo costringe
ad un abbraccio di congratulazioni. «Sono davvero fiero di te,
tesoro» le sussurra all'orecchio, stringendola a sé per qualche
secondo. «Sei stata magnifica.»
«Detto da te, Bart, è un
complimento stupendo» replica lei. «Congratulazioni anche a te,
Matthew. Sono davvero molto felice per te. Hai fatto un lavoro
semplicemente superbo.»
«Basta con i complimenti,
Lupita, ti prego» sorride l'altro uomo. «Ho finito il mio
repertorio per i ringraziamenti.»
Lupita
sorride ancora, prendendo sottobraccio Jared con fare amichevole. «Va
bene, smetterò di elogiare il tuo talento e andrò in giro a dire a
tutti che il tuo premio non è stato meritato per niente e che sei un
attore di serie b, ma soltanto se adesso mi concedete di portarvi via
quest'uomo stupendo. Ho bisogno di parlare con te a quattr'occhi»
aggiunge, rivolgendosi all'amico.
Matthew risponde con un
cenno del capo. «Soltanto se prometti di parlare malissimo di me.»
«Userò parole di fuoco,
non temere» replica lei, alzando il bicchiere per suggellare la
promessa.
Non appena si trovano ai
margini della sala, lontani dalla calca di persone che intendono
complimentarsi con loro, Jared si scioglie delicatamente dalla presa
di Lupita, si appoggia alla parete e punta gli occhi in quelli della
donna, ispezionandoli attentamente alla ricerca di risposte. «Come
mai tutto questo mistero, signorina N'yongo? Stai per confessarmi di
aver corrotto la commissione al fine di vincere questo premio?»
«Niente affatto, signor
Leto. Ho un motivo molto più importante. Si tratta di tuo fratello.»
«Shannon? Che cos'ha
combinato?» replica Jared, facendo saettare lo sguardo per tutta la
sala per cercare di individuarlo.
«Non ha combinato niente,
tranquillo. In effetti è proprio di questo che ti volevo parlare»
aggiunge la donna. «Mi rendo conto che forse non è il luogo più
adatto per sostenere questo tipo di conversazione, ma sembra che
nella tua agenda non ci sia nemmeno un minuscolo buco per i tuoi
amici.»
«Scusa se sono una persona
molto impegnata. In effetti ci sto lavorando su, e...»
«Non è il momento di
scherzare, Jared» lo interrompe lei, lo sguardo improvvisamente
serio, simile a quello di una madre che sta per farti una ramanzina
degna di essere ricordata. «Non è assolutamente mia intenzione
rovinarti la serata, ma sento che se non lo dico ora non troverò un
altro momento, e non potrei mai perdonarmelo.»
«Hai intenzione di
piantarla con questa sceneggiata alla James Bond o vuoi tenermi sulle
spine ancora a lungo?»
«E
va bene, sarò diretta, ma non lamentarti se quello che dirò non ti
piacerà» taglia corto lei. «Qualche sera fa ero fuori con alcuni
amici, e ad un certo punto siamo passati davanti al Blue
Moon. Hai presente di quale
locale sto parlando?»
«Sì, non è quel club sul
Sunset Boulevard? Ci sono stato diverse volte, è un bel posto. Qual
è il punto, Lupita?»
«Il
punto, Jared, è che quella sera ho visto Shannon uscire dal Blue
Moon. Lui non mi ha vista, e
sono quasi sicura che nessuno dei miei amici lo abbia notato, ma...
beh, il punto è che non mi sembrava affatto in buone condizioni.»
«Che intendi dire?»
«Intendo dire che aveva
l'aria di uno che si è fatto un bicchiere di troppo. Lo so, lo so
che non dovrei giungere a conclusioni affrettate» aggiunge subito
dopo, appoggiando una mano sul braccio di Jared, che nel sentire
quella parte della storia si è inquietato, «ma ci conosciamo da
tanti anni, e penso di potermi ritenere una tua amica. E anche se non
conosco così bene lui, mi sento in dovere di preoccuparmi per il suo
benessere. Mi conosci, sai che non riuscirei a farmi gli affari miei
nemmeno con una pistola puntata alla testa. Ho semplicemente
pensato... beh, ho pensato che dovessi saperlo.»
«L'hai visto fare qualcosa
di particolare? Insomma, lui ha... ha combinato qualche guaio?»
«No,
non che io sappia. Solo... beh, se fossi stata con lui non gli avrei
permesso di guidare. Non aveva l'aria di una persona tranquilla, se
capisci cosa intendo.» Jared annuisce, senza riuscire a parlare.
Capisce perfettamente la preoccupazione di Lupita – di più, la
condivide, anche perché sa di cosa potrebbe essere capace Shannon.
Lo sa, l'ha visto accadere, e ha vissuto per anni con la paura che
potesse accadere di nuovo, che capitasse sulla sua strada qualcosa in
grado di distruggere quel precario equilibrio costruito con tanta
fatica. «Jared, è successo qualcosa? Per caso avete litigato, c'è
qualche problema tra di voi, o con la band?»
Lui
scuote la testa, abbassando lo sguardo. «Il motivo è molto più
semplice, quasi stupido,
se vogliamo metterla così. Una ragazza gli ha spezzato il cuore.»
«Stai parlando sul serio?
Shannon che si lascia spezzare il cuore da una donna?»
Jared
invita Lupita a sedere e con calma, cercando di tenere lontane le
orecchie che non devono sentire, riassume brevemente tutta la storia,
partendo dal concerto di novembre ad Assago ed arrivando alla serata
che stanno vivendo, senza dimenticarsi di far tappa a Parigi e a
Torino, confessandole anche di quella sfortunata sera che ha
distrutto ogni speranza. «Se devo essere sincero, avevo una paura
folle che si arrivasse a questo punto. Adesso Shannon dice di aver
ricominciato, dice di essere felice con Christine, ma che razza di
fratello sarei se non riuscissi a vedere la menzogna in ogni cosa che
dice? Io l'ho visto con i miei occhi, Lupita, ho visto quanto era
felice con quella ragazza. Sembrava avesse finalmente trovato
l'equilibrio che aveva sempre cercato, e adesso... no, adesso non è
felice, non lo è per niente. Cerca continuamente di convincermi di
sì, cerca di convincersi
che sia così, ma io lo so.
E quello che più mi ferisce è che non accetta il mio aiuto. Invece
di accettare un aiuto preferisce fare da sé, e così...» La voce
gli muore in gola, il tono si incrina al pensiero di quello che
potrebbe accadere se il terreno si spaccasse di nuovo sotto i loro
piedi, se l'abisso li inghiottisse di nuovo. Questa volta nessuno di
loro ne uscirebbe vivo, ne è certo.
«C'è qualcosa che posso
fare per aiutare?» domanda Lupita, gli occhi pieni di sincera
tristezza e voglia di rendersi utile.
«Non credo ci sia qualcosa
che puoi fare, Lupita. A meno che tu non possa andare a prendere
quella ragazza, convincerla che abbia bisogno di Shannon tanto quanto
lui ha bisogno di lei e portarla qui.» Si guarda le mani, quelle
mani che non hanno tremato nemmeno prendendo in consegna il premio, e
si rende conto che riportare indietro Daria è l'unica soluzione,
l'unico modo per salvare Shannon, per tirarlo indietro dall'orlo del
baratro prima che muova quel passo in più che distruggerebbe il
mondo che tanto faticosamente hanno creato.
1Sono
l'elefante, che posso fare, inchiodato al suolo e a questo amore. |
Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone
L'elefante
e la farfalla
del cantautore romano Michele
Zarrillo,
tratto dall'album
omonimo
(1996).
|
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Capitolo 19 *** 19 | Eravamo un famiglia. Come ha potuto rompersi e dividersi e ora siamo uno contro l'altro, ognuno fa ombra all'altro? Come abbiamo fatto a perdere il bene che ci era stato dato, lasciarlo scivolare ***
La lunga strada verso casa - 1
Questa
volta non potete lamentarvi per il ritardo con cui posto, ma... beh,
avrete comunque di che lamentarvi, perché questo è il capitolo
conclusivo di “La lunga strada verso casa”. E già dal titolo del
capitolo credo si evinca che non è un capitolo ricco di gioia e
felicità – ma non uccidetemi. Non prima di avermi lasciato
spiegare, almeno.
Se
finora avevo rispettato quasi al minuto il reale corso degli eventi,
da questo capitolo le cose cambieranno: non per regalarvi spoiler, ma
alcuni eventi verranno anticipati, con certe conseguenze... ma non è
questa la notizia bomba. La notizia che vi sconvolgerà è che
siccome ormai sono affezionata a tutte voi, alle vostre recensioni e
al vostro affetto, ho deciso di allungare ancora un po' il brodo (e
di conseguenza la vostra agonia) aggiungendo una stagione
all'infinita storia di Daria e Shannon, l'unica coppia al mondo a non
conoscere il significato della parola 'tempismo'. La nuova storia
sarà presto online, con tanto di trailer e colonna sonora =)
Per
ulteriori informazioni, cliccate su Direzioni
ostinate e contrarie!
Come al
solito, buona lettura,
EffieSamadhi
P.S.: Grazie a tutte voi per il sostegno che continuate a dimostrare,
aiutandomi di volta in volta, tramite le vostre recensioni e i vostri
commenti, a trovare la strada giusta per continuare i miei insensati
racconti. In particolare, un grande abbraccio a katvil, Sayuri_remenissions, Pirilla_Echelon e Love_in_London_night,
le quattro irriducibili che non fanno mai mancare il loro appoggio -
non sono sempre puntuale e precisa nel rispondere (anzi, non lo sono
mai), ma sappiate che vi adoro, e soprattutto adoro il fatto che siate
sempre pronte a dire la vostra, nel bene e nel male. Spero veramente
con tutto il cuore di non perdervi per strada =)
La lunga strada verso casa
Capitolo diciannovesimo
Eravamo una famiglia.
Come ha potuto
rompersi e dividersi e
ora siamo uno contro l'altro,
ognuno fa ombra
all'altro? Come abbiamo fatto
a perdere il bene che
ci era stato dato,
lasciarlo scivolare
via,
disperdersi,
distruggersi?
Cosa ci impedisce di
uscire,
toccare la gloria?.1
Torino,
3 marzo 2014
La conversazione con Alice
mi ha precipitata nel panico e nella confusione, anche più di quanto
fosse riuscita a fare la sola visione di Shannon. Ho seguito quasi
tutta la cerimonia in streaming, alternando momenti di lucidità a
brevi sonnellini, ma la mia proverbiale fortuna non mi ha consentito
di perdermi la premiazione di Jared, il suo toccante discorso di
ringraziamento e, soprattutto, la tenerezza del bacio che Shannon,
seduto in platea, ha stampato sulla guancia della madre. Anche
volendo, non potrei mentire a me stessa: ho invidiato Constance Leto,
in quel preciso istante. Avrei voluto con tutto il cuore essere io
la donna seduta accanto a lui, e avrei voluto con tutto il cuore che
fosse la mia guancia a ricevere quel bacio, o meglio ancora le
mie labbra. Mi sono stretta nella coperta e ho trascorso il resto
della notte a ripensare alle parole di Alice, rendendomi conto che se
è la mia migliore amica da una vita un motivo di certo c'è, e il
motivo è che lei è la sola persona al mondo in grado di rimettere
le cose in prospettiva, l'unica in grado di riportare la verità in
prima fila, dissipando le menzogne con le quali cerco continuamente
di coprirla. La verità è che io sono scappata da quella
meravigliosa fiaba parigina per paura, e non per mancanza
d'amore – perché io Shannon lo amo, ormai non posso più
concedermi il lusso di negarlo. Lo amo, e l'ho lasciato per paura –
paura di non essere abbastanza per lui, paura di non bastargli, paura
che il resto del mondo non mi credesse abbastanza per lui.
Accettare di stare con lui avrebbe significato accettare di dividerlo
con il resto del mondo, uscire allo scoperto e subire il giudizio di
un universo intero – e per quanto gli Echelon siano un popolo
completamente diverso dal resto del mondo, di certo non avrei mai
potuto sperare di piacere a tutti. Avevo paura di tutto questo, avevo
paura del giudizio di mio padre, avevo paura di perdere le poche
certezze che ho impiegato una vita a costruire. Avevo paura di
perdere la mia integrità, avevo paura di perdere la mia identità.
Avevo paura di perdere Alice – una paura folle di perdere le nostre
confidenze, le nostre conversazioni fatte di scemenze, le pizze
divise davanti ad un film strappalacrime, il semplice fatto di
esserci, sempre e comunque, l'una per l'altra. Stare con
Shannon avrebbe significato sopportare la lontananza, imparare a
fidarsi del prossimo – il che, per una che non a malapena si fida
di se stessa, sarebbe stata certamente una prova troppo grande. Stare
con Shannon avrebbe significato imparare a fidarsi del mondo,
abbandonarsi alla buona fede della gente, abbandonarsi completamente
ad un amore che persino in un film sarebbe sembrato troppo assurdo,
troppo bello per essere vero. E se un giorno mi avesse chiesto di
sposarlo? Che cosa sarebbe successo se mi avesse chiesto di metterci
di mezzo un anello, di dare un nome a ciò che saremmo stati? In quel
caso avrei quasi certamente dovuto scegliere di spostare la mia casa
in un Paese straniero – il che, per una che ha sempre creduto
fermamente nell'importanza di avere accanto la propria famiglia e i
propri amici, sarebbe stato semplicemente impossibile da accettare. E
di certo non avrei potuto costringere lui ad abbandonare la
sua famiglia, la sua patria, quella vita che ha
conosciuto per più tempo di me, e che sicuramente non gli sarebbe
mai stata restituita. Mi è costato una notte di sonno, ma finalmente
sento di essere riuscita a fare più chiarezza nel mio cuore: non ho
lasciato Shannon perché non lo amassi, ma per paura di non riuscire
ad amarlo nel modo in cui un uomo straordinario come lui merita di
essere amato.
*
Los Angeles, 3 marzo 2014
Jared
aspetta che mamma chiuda la porta di casa dietro di sé, prima di far
cenno all'autista di ripartire. «Ti fermi a dormire a casa mia?» mi
domanda all'improvviso, voltandosi verso di me. «Non ho voglia di
restare solo. Probabilmente non riuscirò nemmeno a chiudere occhio,
mi serve qualcuno da tormentare.»
«Se accetto, intendo
dormire» ribatto, slacciando il cravattino che mi sono costretto a
sopportare per l'intera serata. «Tu fai quello che vuoi, ma non ti
azzardare a rompermi le scatole.»
«E va bene, prometto che
tenterò di non essere troppo molesto» risponde con un mezzo
sbadiglio, gesto che mi rassicura: certamente a questo punto
l'adrenalina nel suo sangue deve essere scesa, facendogli abbandonare
quello stato di eccessiva eccitazione e ansia che lo accompagna da
almeno un paio di giorni. Se lo conosco bene, comunque, nonostante
l'ora tarda domani mattina salterà giù dal letto alle otto del
mattino, in forma come non mai e pronto a perseguire chissà quale
strano e impegnativo progetto.
Nascondo
un breve sorriso, tornando a guardare fuori dal finestrino: la notte
è scura, ma le mille luci di Hollywood illuminano quasi a giorno il
cielo, e di questo ringrazio. La notte è il momento peggiore per me,
da qualche settimana a questa parte: è come se l'oscurità
cancellasse la realtà dei miei giorni e costringesse le memorie a
farsi avanti, ferendomi più a fondo di quanto possa sopportare.
Riposare, la notte, si è fatto difficile: spesso me ne sto disteso a
letto rigirandomi continuamente tra le lenzuola, come se stessi su un
materasso fatto di chiodi, ed è per questo che spesso non rimango a
dormire da Christine, quando capita di uscire insieme – so che non
farei altro che agitarmi, impedendo anche a lei di dormire e
facendola preoccupare inutilmente. E quando anche riesco a prendere
sonno, spesso mi capita di fare un certo sogno – sempre lo stesso,
sempre ugualmente disturbante e doloroso: continuo a rivedermi
scendere da un taxi, muovere un paio di passi e poi fermarmi, come se
all'improvviso non riuscissi più a comandare le mie gambe. Ed è a
quel punto che arriva la vera pugnalata: in fondo alla strada compare
Daria, e appeso al suo braccio c'è quell'uomo al quale l'ho vista
dare un bacio, quella ormai famosa e terribile serata. Ridono,
scherzano, mi passano accanto senza accorgersi della mia presenza, e
tutto ciò che posso fare è restare in silenzio a guardare – in
silenzio, perché oltre a non muovermi non riesco nemmeno a parlare.
Ogni volta mi sento dannatamente impotente, e ogni volta preferirei
morire, piuttosto di
rivivere ancora una volta quella scena.
*
Torino, 3 marzo 2014
Negli
ultimi giorni la pioggia sembra aver dato una tregua alla città, e
sebbene quello che splende in cielo non si possa proprio definire
sole, è caldo
abbastanza da invogliare ad uscire e fare due passi al parco del
Valentino. Non avendo voglia di rimanere sola, chiedo di
accompagnarmi ad una delle ultime persone che mi sarei aspettata di
invitare fuori per una passeggiata: mia madre.
«Come mai questa
improvvisa voglia di passare del tempo con me?» domanda dopo un
intenso periodo di silenzio, lungo abbastanza da permetterci di
coprire metà del parco. «Insomma, è vero che stiamo lentamente
recuperando i rapporti, ma la tua telefonata mi ha comunque stupita
molto. C'è qualcosa che non va? Se posso permettermi, hai un aspetto
che non mi piace per niente. Non è che stai covando un po' di
influenza? Questo tempo gioca brutti scherzi.»
«No, non sono malata»
rispondo, scuotendo la testa. «Non ho dormito bene, questa notte.
Beh, a dire il vero non mi è capitato solo stanotte.»
«Hai qualche
preoccupazione? Se hai bisogno di qualcosa, lo sai, devi solo
chiedere. So che non ci sono mai stata, per te, ma adesso sono qui.
Puoi parlarmi di tutto.»
Alzo per un istante lo
sguardo su di lei, chiedendomi se la mia idea sia davvero così
geniale, se raccontare dei miei guai sentimentali ad una donna
altrettanto incasinata non finirebbe con il confondere ancora di più
le acque. Incrocio per un istante il suo sguardo, colmo
all'inverosimile di quel misto di preoccupazione e paura che soltanto
una madre può provare, e mi convinco che tentare non nuocerà.
«Avrei bisogno di un consiglio sentimentale.»
Ride, coprendosi la bocca
con una mano, nello stesso gesto che spesso compio anche io. «Santo
cielo, penso proprio di essere la persona meno indicata per dare
consigli sentimentali! Guarda che cosa sono stata in grado di fare a
tuo padre...»
«Beh,
è proprio per questo che vorrei un consiglio da te» ribatto,
sperando di farle capire che si tratta di una cosa seria, e che
davvero ho bisogno del
suo supporto e della sua esperienza.
«E va bene, se proprio
credi che sia la persona più indicata, dimmi cos'è che ti
preoccupa» risponde, recuperando la propria compostezza.
«Ho
conosciuto una persona, lo scorso autunno. Un uomo più grande di me»
sento subito il bisogno di puntualizzare, forse per farle inquadrare
meglio la situazione. «Un uomo molto
più grande di me, in effetti. Ha vent'anni più di me.» Mi fermo
per un istante, aspettando un qualunque commento, ma la sua assenza
di reazioni mi spinge a continuare. «Anche se è successo tutto
molto rapidamente, sono sicura di quello che provavo per lui. È
stato come se... non lo so, come se l'avessi guardato e
all'improvviso avessi capito di amarlo. E sono abbastanza sicura che
per lui fosse lo stesso. Non che abbia questa grande esperienza in
fatto di uomini, ma sono abbastanza sicura che mi amasse anche lui.»
«E allora perché lo hai
lasciato?» mi domanda. «Insomma, stai parlando di lui al passato,
quindi presumo che sia finita.»
«Ho
avuto paura» ammetto, abbassando il tono della mia voce. «Ho avuto
paura di quello che avrebbe potuto pensare la gente, ho avuto paura
di quello che avrebbe potuto dire papà, ho avuto paura che la mia
vita cambiasse, ho avuto paura di perdere tutte le mie certezze... e
poi ho avuto paura di non riuscire ad amarlo come meritava. Di non
riuscire ad amarlo abbastanza,
diciamo. Ho avuto paura di non essere la donna giusta per lui.»
Si prende qualche secondo
per riflettere sulla risposta, e comprendendo quanto sia importante
per lei darmi la risposta più corretta, decido di attendere,
nonostante stia morendo dalla voglia di sentire ancora la sua voce.
«Non darò giudizi sulla sua età, questo no» esordisce infine. «Il
mio secondo marito era più vecchio di me, e guarda i tuoi nonni!
C'erano quattordici anni di differenza tra loro, eppure hanno tirato
su una famiglia incredibile.» Fa un'altra pausa, raccogliendo le
ultime impressioni. «Avere paura è normale, quando si conosce una
persona che ci colpisce quanto ti ha colpita quest'uomo. La paura non
deve essere per forza negativa, sai? Anzi, a volte un po' di paura
può essere una buona cosa. Se ti sei sentita impaurita, significa
che non l'hai presa alla leggera, che ti sei posta dei dubbi e che
hai ragionato sull'intera faccenda, e questo è un bene. Sarebbe
stato peggio se non avessi avuto alcun timore, perché avrebbe
significato che ti eri buttata nella storia a testa bassa, e ti
assicuro che non è mai un bene essere troppo impulsivi.» Sento il
suo sguardo fisso su di me, ma continuo a camminare guardando dritto
davanti a me. «Dunque lo hai lasciato. Che cosa è successo poi?»
«Non l'ho più rivisto. Un
paio di mesi più tardi ho iniziato a vedermi con un altro ragazzo,
ma ci ho dato un taglio quando ho capito che... beh, quando ho capito
che non avevo dimenticato l'altro uomo. Sapevo che non l'avrei mai
più rivisto, ma siccome non ero ancora riuscita a sradicarmelo dal
cuore... beh, continuare quella relazione sarebbe stato come mentire
a me stessa, e soprattutto avrebbe significato mentire ad una persona
buona che non meritava di essere presa in giro. Perciò ho chiuso
anche con l'altro.»
«Ma continui a pensare al
primo.»
«Molto più di quanto
vorrei.»
«Hai pensato di chiamarlo,
di riprendere i contatti? Sono passati soltanto pochi mesi, forse
nemmeno lui ti ha dimenticata.»
«Sì,
in verità mi è passato per la mente, ma... non lo so, ho paura che
sia troppo tardi. O forse ho paura di averlo ferito così tanto da
non riuscire a perdonarmi nemmeno se tornassi da lui strisciando. O
forse ho soltanto paura di andare da lui e scoprire che non mi amava
tanto quanto credevo, e che si è già rifatto una vita con
un'altra.» Dimenticandomi,
aggiungo dentro di me, senza avere il coraggio di esprimere ad alta
voce un concetto tanto terribile. Mi sento già abbastanza distrutta
così, e credo che scoprendo Shannon già impegnato in una nuova
storia con un'altra donna non riuscirei a sopravvivere.
«Potrebbe
averci provato» ribatte lei, facendo spallucce. «In fondo, è la
stessa cosa che hai provato a fare anche tu. E come te, forse
potrebbe aver fallito. In questo preciso momento potrebbe essere
impegnato in una conversazione simile alla nostra, non ti pare?» Non
rispondo, troppo impegnata a fissare l'erba che si piega sotto le mie
scarpe. «Il solo consiglio che ti posso dare è questo: non
aspettare. Se davvero sei
pentita della tua decisione, se davvero lo ami ancora e credi di
poter costruire qualcosa di serio con lui, non aspettare che arrivi
chissà quale momento propizio. E fidati, sto parlando per
esperienza. Non esiste il momento giusto per chiedere scusa ad una
persona che hai ferito. Esiste soltanto il momento in cui ti alzi e
bussi alla sua porta.»
*
Los Angeles, 3 marzo 2014
Sono appena passate le
quattro del mattino, e come avevo previsto non sono ancora riuscito a
chiudere occhio. Dopo aver trascorso l'ultima ora a rigirarmi tra le
coperte come un'anima in pena, decido di alzarmi per sgranchirmi le
gambe e fumare una sigaretta. Conoscendo le restrittive regole di
Jared circa il fumo, esco in giardino, portandomi dietro un
posacenere immacolato recuperato dal salotto. Mi guardo attorno per
qualche secondo, in cerca del posto più adatto, e alla fine trovo il
mio rifugio sul muretto di cinta. La casa di Jared sorge su una
collinetta dalla quale si gode di un ottimo panorama, e siccome
questa sera la mia mente è più affollata che mai, fissare lo
sguardo su qualcosa di potenzialmente rilassante, mi sembra una buona
idea. Mi siedo a cavalcioni sul muretto e accendo la sigaretta,
inspirando a fondo: lo scorso autunno ero quasi riuscito a smettere
con questo brutto vizio, ma la separazione da Daria ha riportato in
superficie molti dei miei lati oscuri, con sommo dispiace di quel
salutista di mio fratello.
Fisso lo sguardo sulle
colline in lontananza, incredibilmente oscure se paragonate
all'estrema luminosità della città, che anche in piena notte, come
New York, sembra brulicare di vita. Osservo e fumo, portandomi la
sigaretta alle labbra con gesto meccanico, esattamente come quando
sto suonando e le bacchette sembrano trovare da sole il percorso
giusto tra i diversi tamburi. Questa sera mi sono divertito, ho
applaudito e gioito per la buona sorte di mio fratello, ma ora che è
tutto finito mi sento ancora più vuoto di prima, come se il prezzo
da pagare per poche ore di estrema felicità fosse il dover soffrire
per il resto della vita. Questa sera ho avuto modo di osservare molte
coppie felici, uomini e donne mossi da un puro e sincero amore nei
confronti del partner, e questo mi ha fatto giungere alla conclusione
che ciò che Christine ed io ci illudiamo di avere non è vero
amore – non più. Per questo, poco dopo la fine della
cerimonia, le ho inviato un sms per avvertirla che ho bisogno di
parlare faccia a faccia con lei. E lei, lo so, non è una donna
stupita, perciò deve aver capito che dietro quella richiesta di un
appuntamento si cela un unico scopo: lasciarla. Ci ho provato,
ho provato davvero con tutte le mie forze a tenere in piedi un
rapporto stabile, ma sono abbastanza onesto con me stesso da
ammettere che non ci posso riuscire, che stare con lei è una cosa
che esula dalle mie possibilità, una missione impossibile che
nemmeno in un milione di anni potrei portare a termine. Così
desidero essere onesto anche con lei, e lasciarla libera prima che il
veleno che mi scorre nelle vene finisca con l'infettare anche lei,
portandola sull'orlo di un abisso cui non merita di arrivare.
Schiaccio il mozzicone nel posacenere pulito, soffiando via l'ultima
boccata di fumo, e resto immobile a guardare il panorama. L'aria
della notte è frizzante, ma non mi dispiace: il freddo mi tiene
sveglio, mi costringe a ricordare che sono ancora vivo e che faccio
ancora parte di questo mondo, per quanto abbia smesso di sentirmi
vivo nell'istante in cui ho visto Daria baciare un altro uomo – uno
che, ne sono certo, non potrà mai amarla quanto l'ho amata io.
Scuoto la testa, cercando
di scacciare i cattivi pensieri, e nello stesso momento prendo
un'altra sigaretta dal pacchetto. Mentre la accendo la mia mano
trema, e lo so, non è per il freddo. Non è soltanto quello del fumo
il brutto vizio che ho ripreso, e di questo mi vergogno immensamente.
Nonostante avessi buttato via ogni forma di alcol per impedirmi di
ricadere nel baratro, non sono riuscito a resistere, e alla mia prima
visita al supermercato non sono riuscito a trattenermi
dall'attraversare il reparto degli alcolici. Ho comprato una
bottiglia di scotch, e quella è stata la mia fine: per qualche
giorno l'ho ignorata, poi il bisogno di aprirla è stato più forte
che mai. Soltanto un goccio, mi sono detto la prima volta,
soltanto un sorso prima di andare a letto. Ma poi, come
prevedevo, farmi un bicchiere prima di dormire è diventata
un'abitudine, e prima che me ne rendessi conto la bottiglia era
vuota. Bere è il solo modo che conosca per anestetizzare il dolore,
per addormentare le voci che sento dentro la testa, quelle dannate
voci che continuano a ripetere che non sarò felice mai più, ora che
ho perso Daria. È da vigliacchi nascondersi dietro una bottiglia, ma
la vigliaccheria è l'ultimo rifugio di un uomo disperato che sa di
aver perso ogni cosa, e che non ha più mezzi per combattere.
Abbasso la testa, cercando
di convincermi che il pizzicorino che mi fa prudere gli occhi siano
soltanto lacrime causate dal fumo: avevo promesso a Jared che non
sarebbe accaduto di nuovo, che non mi sarei di nuovo perso, ma
nonostante tutti i miei sforzi ci sono ricascato, e questo mi fa
sentire più in colpa che mai. Lui è sempre stato buono con me, mi
ha sempre offerto tutto l'aiuto possibile, e il solo modo in cui sono
in grado di ripagare il suo immenso amore è questo: il tradimento.
*
Torino, 4 marzo 2014
«Ciao,
Daria. Andato bene il finesettimana?»
«Ciao, Marco. Beh, diciamo
che non è successo molto» rispondo, sfilandomi il cappotto. «Senti,
io avrei un favore da chiederti.»
«Approfitti del mio buon
umore per darmi qualche cattiva notizia, eh?»
«Più o meno. Sai quelle
due settimane di ferie che ti avevo chiesto per l'inizio di maggio?
Sarebbe un problema anticiparle alla settimana prossima, o al massimo
a quella successiva?»
Marco strabuzza gli occhi,
senza riuscire a credere alle proprie orecchie. «Beh, credo... ma
sì, credo che si possa fare. Hai in mente qualche viaggio?»
«Più o meno» rispondo.
«Sempre che riesca a convincere Alice a venire con me, nonostante i
mille impegni che ha per via della tesi.»
«Sono sicuro che
accetterà. Quando mai ti lascerebbe partire senza di lei? Dove hai
in mente di andare, se posso farmi gli affari tuoi?»
«Los Angeles. Ho sempre
voluto visitarla e ho trovato una buona offerta per l'aereo e
l'alloggio» mento, sapendo che Marco non è esattamente la persona
più giusta cui rivelare lo scopo del mio viaggio. «Solo che per
beneficiarne dovrei partire per forza entro due settimane, quindi...»
«Non
dire altro, hai le ferie. Me la caverò anche senza di te» sorride,
tornando a trafficare con la casssa. È in questo momento che mi
rendo conto di quanto tenga a me, e di come sia riuscito a perdonarmi
anche se gli ho spezzato il cuore. Forse è proprio questo che
intendeva mia madre ieri, dicendomi che non esiste un momento giusto
per rimettere a posto le cose: deve succedere e basta, e il
più presto possibile è l'unico
momento davvero adatto per farlo.
*
Los Angeles, 4 marzo 2014
Sono
al parco, lo stesso in cui ho incontrato di nuovo Christine dopo
vent'anni di niente, e ce ne stiamo seduti insieme sull'erba baciata
dal sole, mentre Bruce corre intorno a noi abbaiando al vento e
rotolandosi come un cucciolo. «Il dobbiamo parlare
del messaggio significa quello che penso, vero?» mi domanda lei,
interrompendo finalmente il silenzio. Non ho il coraggio di guardarla
negli occhi, perciò tengo la testa bassa e annuisco. «Non so
perché, ma me lo sentivo che sarebbe arrivato questo momento. Era
tutto troppo bello per essere vero.»
«Mi dispiace.»
«Non ti devi dispiacere.
Preferisco che le cose vadano così, se devo essere sincera. Non
avrei sopportato di trascinare avanti troppo a lungo una cosa che non
funziona, e magari svegliarmi, una mattina, chiedendomi che fine
abbia fatto il resto della mia vita.»
«Suonerà incredibilmente
retorico, ma non è colpa tua. Se ci fossimo incontrati soltanto
quattro o cinque mesi prima, forse avrebbe funzionato. È solo
che...»
«Pensi ancora a quella
ragazza, vero?»
«Ogni giorno» ammetto.
«Provo con tutte le mie forze a non farlo, ma sembra che sia più
forte di me. Non riesco a togliermela dalla testa.»
«Forse perché è lì che
deve stare» suggerisce lei, ravviandosi i capelli con una mano.
«Insomma, se dopo tutto questo tempo il suo pensiero condiziona
ancora la tua vita, forse... beh, forse è perché non deve essere
cancellato.»
«Con lei è finita,
Christine» affermo, quasi stanco di dover continuare a ripetere
all'infinito lo stesso concetto – prima a Jared, poi a lei, e
infine a me stesso, ancora e ancora. «Lei sta con un altro,
non ci sono possibilità che possiamo tornare insieme.»
«Come vuoi» replica lei.
«Certo, se tutto ciò che fai è restare seduto ad aspettare il suo
ritorno, di sicuro le cose non cambieranno» aggiunge, alzandosi.
Stringo
il pugno per impedirle di vedere il tremolio della mia mano, che
costantemente mi ricorda la mia rapida discesa all'inferno. «Io ci
ho provato, a cambiare le cose.
Ci ho provato, ma non ha funzionato.»
«Strano, lo Shannon che
conoscevo non si sarebbe arreso così, senza lottare fino alla
morte.»
«Non sono più lo stesso
di vent'anni fa, lo hai detto anche tu.»
«Vero, l'ho detto. E mi
dispiace tantissimo che sia così, perché lo Shannon che conoscevo
era un uomo straordinario, uno che avrebbe fatto la fortuna di molte
donne. È un peccato che tu non sia più quell'uomo, perché avresti
potuto essere vergognosamente felice.» Sposta il peso da un piede
all'altro, indecisa su che altro dire. «Io adesso devo andare, ho
una riunione a cui non posso mancare. Vorrei dire che vederti è
stato bello, ma direi una bugia. So che odi sentirti fare la
paternale, ma tu non stai bene. Non sei in pace con te stesso,
Shannon, e come posso vederlo io sono certa che lo veda anche il
resto del mondo. Se hai bisogno di aiuto, io...»
«Ti
chiamerò» taglio corto, alzandomi per salutarla con un abbraccio
fraterno. La guardo allontanarsi in silenzio, sapendo che questo
segnerà davvero la mia fine. Finché avevo Christine, potevo
illudermi di avere un motivo per non lasciarmi andare completamente,
ma ora che anche con lei ho tagliato i ponti, non c'è più nulla in
grado di trattenermi dal saltare.
*
Torino, 4 marzo 2014
Quando
apre la porta e si trova di fronte il sorriso di Daria, Alice
comprende immediatamente
che qualcosa sta per cambiare, o che forse è già cambiato. Poi nota
la grossa scatola di cioccolatini che l'amica regge in bilico sulle
braccia, e le è chiaro che deve essere successo qualcosa di
veramente importante. «Hai preso una botta in testa o sei stata
rapita dagli alieni?»
«Nulla di tutto questo»
risponde l'altra con un sorriso. «Mi sono accorta di essere stata
una stronza intrattabile in questo ultimo periodo, e questo mi
sembrava l'unico modo per farmi perdonare.»
Alice studia con aria
sospettosa la confezione di dolciumi, poi si scosta per far passare
l'amica. «Nascondi quel ben di Dio in camera mia, prima che lo
trovino le mie coinquiline. Ti va una tisana? L'acqua sta bollendo
proprio ora.»
«Volentieri» risponde
Daria, dirigendosi a passo sicuro verso la stanza dell'amica.
Alice la raggiunge un paio
di minuti più tardi, reggendo due grosse tazze fumanti. «Siediti
dove trovi posto» dice, indicando il letto e le sedie colmi di
appunti e vestiti. «Dovrei fare ordine, in effetti.»
«Mi andrà bene il
pavimento» replica l'altra, sedendo a gambe incrociate sul tappeto e
accettando una delle tazze. «A dire il vero non sono qui soltanto
per chiederti scusa, ma anche per chiederti un favore.»
«Se è qualcosa che posso
fare, ben volentieri» ribatte Alice, appoggiando la tazza poco
lontano per iniziare a scartare la confezione. «Di che si tratta?»
«Di un viaggio. Lo so, so
che è il momento meno opportuno, che sei piena fin qui di impegni
per via della tesi, che devi studiare e che è tutto organizzato
all'ultimo minuto, cosa che entrambe detestiamo, ma... credimi, non
c'è un'altra persona a cui vorrei chiederlo.»
«Un
viaggio? Dove?» Daria abbassa la testa, poi la rialza con un breve
sorriso, e anche senza parole Alice capisce.
«Dimmi che stai scherzando, per favore. Dimmi che è un pesce
d'aprile in anticipo, ti prego. Non puoi aver davvero deciso di...
santo cielo, vuoi andare da Shannon!» esclama, senza dare
all'affermazione il tono di una domanda cui la risposta, lo sa, è
affermativa.
«Beh...
ci voglio provare. Ci devo
provare. Magari non otterrò nulla, magari scoprirò che mi ha
dimenticata o che non gli importa o che non mi ha mai amata, però...
io non ho smesso di amarlo, perciò devo sapere.»
«Mi sembra ovvio che io
verrò con te, a questo punto. Oh, devo avere il passaporto da
qualche parte. Sarà scaduto, ma non ci vorrà un secolo per
rinnovarlo. Tu invece come sei messa? Avrai un sacco di pratiche da
sbrigare, e ci sarà da prenotare l'aereo, e...»
«Il passaporto lo avrò
entro la fine della settimana, e per tutto il resto... beh, ho
Emanuele che è un genio dei computer. Mi darà una mano a fare
qualche prenotazione, no?»
Alice
si porta entrambe le mani davanti alla bocca, così felice della
proposta di Daria da dimenticare tutto il resto: gli esami, la tesi,
la laurea... per accompagnare Daria a riprendersi Shannon sarebbe
disposta persino a mollare tutto e finire a cuocere hamburger da
MacDonald's. E poi, incredibilmente, il suo pensiero corre subito a
Jared, che per forza di cose prima o poi dovrà vedere, se davvero
riusciranno ad imbarcarsi su un aereo e volare fino a Los Angeles –
e incredibilmente, l'idea di incontrare uno dei suoi cantanti
preferiti non la spaventa, perché in fondo tutte le telefonate che
si sono scambiate nelle ultime sei settimane lo hanno fatto scendere
da quel piedistallo, trasformandolo in un amico
– un amico famoso in tutto il mondo che non ha mai visto di
persona, certo, ma pur sempre un amico. Tornata in sé, infila la
mano sotto il letto e tira fuori la scatola con i ricordi di Shannon.
«Non dimentichiamoci che hai il numero di Emma. Potresti sempre
chiamarla e farti aiutare da lei per organizzare la cosa.»
«Ammetto di averci
pensato, ma non voglio» risponde Daria, sorseggiando la tisana
bollente. «Chiedere aiuto ad Emma vorrebbe dire rischiare di far
sapere tutto a Shannon, e voglio fargli una sorpresa. O forse non
voglio rischiare che mi chiami per dirmi di non andare, nel caso non
volesse vedermi. Insomma, se proprio devo essere rifiutata
preferirei... preferirei che lo facesse di persona.»
«Comprensibile»
risponde Alice, appoggiando comunque la scatola davanti all'amica,
sperando di vederla prendere in mano le memorie dell'autunno
precedente e convincersi che, a prescindere da come andranno le cose,
stia finalmente
facendo la cosa giusta. «Santo cielo, sono così fiera di te»
sospira, sedendosi di nuovo sul tappeto insieme a lei. «Hai già
pensato a cosa gli dirai, a come... non lo so, a come affronterai
l'argomento?»
«Non ne ho idea, a dire il
vero. Ma immagino che le parole verranno fuori da sole, quando sarà
il momento.»
Incurante dell'orologio,
indifferente di fronte ai mucchi di carta e inchiostro accumulati
sulla scrivania, Alice rimane seduta accanto alla propria migliore
amica con un grande sorriso stampato sulle labbra, felice che le cose
stiano tornando al loro posto, anche se dopo così tanto tempo. «Cosa
dirai alla tua famiglia? Insomma, come glielo spieghi che vai in
America?» le chiede dopo almeno un'ora di chiacchiere e risate.
«Penso che dirò la
verità, una volta tanto» replica Daria, alzando le spalle. «In
fondo mio padre sa praticamente tutto di Shannon, e da ieri lo sa
anche mia madre. Abbiamo fatto una chiacchierata» aggiunge. «Tu mi
avevi quasi convinta, ma avevo bisogno del parere di una persona
adulta.»
«Io non sarei una persona
adulta, quindi?» ribatte l'altra, tirandole un cuscino in faccia.
«Non quando prendi a
cuscinate in faccia le persone, questo è poco ma sicuro.»
*
Los Angeles, 5 marzo 2014
«Come mai tanto
silenzioso, oggi?» domanda Emma, stupendosi di essere riuscita ad
attraversare la stanza senza essere scelta come bersaglio per una
delle mille idee strampalate che affollano la mente di Jared.
«Pensavo che non avresti fatto altro che parlare dell'altra sera,
invece per tirarti fuori due parole ho praticamente dovuto usare le
pinze.»
Jared si passa una mano tra
i capelli, abbassando gli spartiti sui quali sta cercando di lavorare
da almeno mezz'ora. «Tu che ne pensi di Shannon?»
Emma torna indietro di
qualche passo, confusa da quell'improvvisa domanda. «Che penso di
Shannon in che senso?»
«Non
ti sembra... cambiato?»
«Ho
capito. Parliamo di Shannon in quel
senso» replica lei, attraversando il salotto per sedersi in
poltrona, in modo da stare esattamente di fronte a Jared. «Per caso
è capitato qualcosa?»
«Me
lo chiedo anch'io» sospira l'uomo, spostando i piedi dal tavolino al
tappeto e alzandosi, lasciando cadere i fogli sul divano.
«Apparentemente sembra che vada tutto bene. Ha ricominciato ad
uscire con Christine, sembra tutto normale,
eppure... non lo so, ho la sensazione che stia per esplodere una
bomba, e che il mio sesto senso sia guasto. Io di solito lo
so, so quando sta per accadere
qualcosa, e invece stavolta... niente.»
«Hai provato a parlare con
lui?»
«Negherebbe all'infinito
di avere un problema, lo conosci.»
«Ma se c'è qualcuno che
ha qualche possibilità di strappargli fuori una parola, quello sei
tu. O tua madre, in casi di emergenza.»
«Lo so, ma non posso fare
irruzione a casa sua e chiedergli se per caso abbia...» esclama il
cantante, bloccandosi un istante prima di dire quelle parole che, lo
sa, cambierebbero definitivamente le cose.
«Se
per caso abbia cosa?»
Jared si passa entrambe le
mani sul viso, indeciso se parlare o meno. La logica gli suggerisce
di tenere per sé certi dubbi, ma l'esperienza gli dice che se al
mondo c'è una sola persona riservata su cui fare affidamento, quella
è Emma. «Ho paura che si rimetta a bere» confessa infine. «Per
non parlare di tutto il resto. L'ultima volta che ha avuto una
delusione simile è finito in un brutto giro, ed è mancato poco che
ci restasse secco» aggiunge a bassa voce, ripensando a quella
terribile e ormai lontana notte in cui lo ha visto sdraiato in un
letto d'ospedale, più bianco delle lenzuola che lo avvolgevano, così
pallido e inerte da fargli credere che la vita lo avesse già
abbandonato. «Il motivo per cui ha abbandonato il tour quando
eravamo in Brasile è che aveva paura di ricadere nei vecchi vizi.
Per questo è tornato. Solo che non è riuscito a sfuggire al nemico,
perché il nemico non è in Brasile, bensì...»
«...dentro di lui»
conclude Emma, abbassando lo sguardo. «Soffre ancora, vero? Per
Daria, intendo. Pensa ancora a lei?»
«Non ne parla, ma io
credo... sì, credo che lei faccia ancora parte della sua vita, in
qualche modo. Non credo che vederla baciare un altro uomo sia stato
sufficiente a levargliela dal cuore. Lui la ama ancora, ed è questo
che lo ferisce di più. Nemmeno vedere che lei è andata avanti con
la sua vita riesce a placarlo.»
«E tu hai paura che si
rimetta a bere per cancellarla?»
«Alla
festa, l'altra sera, ho incontrato Lupita. Mi ha preso da parte e mi
ha detto che qualche sera prima lo aveva visto uscire dal Blue
Moon in condizioni che non le
piacevano affatto. E Lupita, lo sai, non è una che racconta storie.
Se mi dice che l'ha visto piuttosto giù di corda, io le credo.»
«Intendi fare qualcosa per
aiutarlo?»
Jared ci riflette su per
qualche istante, poi punta lo sguardo verso di lei, e in quegli
enormi occhi da bambino Emma riesce finalmente a vedere un uomo
preoccupato di perdere tutto ciò che gli è più caro. «Come si fa
ad aiutare uno che non vuole essere aiutato?»
*
Torino, 5 marzo 2014
Quando annuncio di voler
partire per gli Stati Uniti per inginocchiarmi davanti a Shannon
implorando perdono per la mia condotta, a mio padre va di traverso un
boccone. «Come sarebbe a dire che vai a Los Angeles?»
domanda tra un colpo di tosse e un sorso d'acqua, battendosi sul
petto per liberarsi la gola.
«Sarebbe a dire che
intendo salire su un aereo e volare dall'altra parte dell'oceano»
replico, incrociando lo sguardo sognante di Francesca, che
probabilmente pensa sia la cosa più romantica del mondo.
«Di certo non immaginavo
ci saresti andata a nuoto»
risponde lui, piccato. «Quello che non riesco a capire è perché
tu voglia fare una cosa del genere. Non sarebbe più pratico...
che ne so, fare una telefonata?»
«Sicuramente sarebbe
più pratico, ma sarebbe anche incredibilmente impersonale»
ribatto, smettendo per un istante di mangiare. «Papà, capisco che
tu sia spaventato all'idea che tua figlia vada all'altro capo del
mondo senza di te, ma è necessario che lo faccio. Se voglio
far capire a Shannon che sono davvero dispiaciuta per come mi
sono comportata, è necessario che vada a chiedergli scusa di
persona. Al telefono sono tutti bravi a chiedere scusa.»
Lo vedo appoggiare le
posate e passarsi una mano sul viso non rasato con aria pensierosa,
come se sapesse che ho ragione e stesse a tutti i costi cercando un
argomento valido con il quale smontare la mia tesi. «Almeno dimmi
che non ci vai da sola» sospira
infine, tornando a guardarmi.
«Certo che non ci vado
sola. Alice verrà con me»
rispondo con un sorriso, cacciandomi in bocca un grosso pezzo di
bistecca.
«Santo cielo...»
lo sento sussurrare mentre nasconde il viso dietro entrambe le mani.
«Si faranno rapire, poco ma sicuro»
aggiunge, scatenando in tutti un accesso di risatine isteriche.
«Allora dopo ti aiuto a
fare le prenotazioni online»
commenta Emanuele, sezionando la carne come un chirurgo all'opera.
Gli sorrido, annuendo, sapendo che dopo avermi aiutata nulla potrà
salvarlo dal fare una chiacchierata con me circa il suo rapporto con
Luca.
*
Los Angeles, 5 marzo 2014
Oggi sono così giù di morale da non aver voglia nemmeno di fingere
di stare bene, tanto più che non c'è nessuno da ingannare, a parte
un cane che sonnecchia ai piedi del mio letto e l'ombra che vedo
riflessa nello specchio. Sono le quattro del pomeriggio e me ne sto seduto a terra nello studio, la
schiena appoggiata alle parete e le gambe allungate di fronte a me,
ormai indolenzite a causa della prolungata immobilità. Accanto a me
un pacchetto di sigarette, un posacenere colo per metà di mozziconi
e una bottiglia che va svuotandosi un sorso alla volta. La mia mano
ha smesso di tremare, placata dallo scotch, ma in compenso ora è il
mio cuore quello incerto, quello che salta da un sentimento all'altro
senza darmi tregua. E se avessi sbagliato tutto, quella sera,
voltandomi e andando via? Cosa sarebbe successo se avessi aspettato
ancora un po', soltanto qualche minuto? Cosa sarebbe potuto accadere
se avessi avuto il coraggio di suonare quel campanello e aspettare?
Mentre me ne sto seduto nella penombra ad aspettare che l'ennesima
sigaretta si consumi, mi chiedo se quella sera non abbia frainteso
tutto, se quell'uomo non fosse soltanto un tentativo, per Daria –
un tentativo di andare avanti con la propria vita, un tentativo per
convincersi di aver fatto la cosa giusta e di avermi dimenticato. In
fondo io non ho provato a fare lo stesso con Christine? Bevo ancora,
aspettando il momento in cui il mio cervello smetterà di indugiare
nei dubbi, trascinandomi in quell'oblio che, ora come ora, mi pare la
prospettiva più rosea cui aspirare.
E
poi, chissà come, mi ritrovo in mano il cellulare. Scorro la
rubrica, ed eccolo ancora lì: Daria.
Lo leggo chiaramente, chiaro come il giorno in cui l'ho salvato tra i
miei contatti. Prima di lasciar scemare il coraggio, o forse solo
prima di sentirmi troppo stupido per farlo, sfioro l'icona verde,
facendo partire la chiamata. Uno squillo, due squilli, tre squilli...
«Pronto?»
La sua voce arriva forte e chiara al mio orecchio, quasi fosse seduta
accanto a lei, ed è ancora identica al ricordo che avevo: il tono
basso ed elegante, quella nota d'insicurezza di cui tutta la sua
persona è impregnata, quella bizzarra pronuncia della lettera
erre... c'è tutto di
lei in quella semplice parola, ma stavolta è tutto troppo,
per me, che non riesco a far altro che premere una mano sulle labbra
per impedirle di sentire il singhiozzo cui mi sono abbandonato.
«Pronto?»
ripete, e i miei occhi si fanno lucidi. Sto per trovare il coraggio
di parlare, quando in sottofondo sento chiaramente la voce di un uomo
– e a questo la magia si spezza, l'emozione scompare. Senza nemmeno
capire che cosa quell'uomo abbia detto, premo il tasto rosso,
ripiombando nella mia solitudine.
*
Torino, 5 marzo 2014
«Daria,
tesoro, puoi venire un attimo qui?»
Mi
allontano il cellulare dall'orecchio, studiando il numero del
mittente – è un numero che non ho salvato in rubrica e che non
riconosco, ma ho deciso di arrischiarmi a rispondere comunque, nel
caso si trattasse di qualcosa di importante – e invece niente,
soltanto silenzio. «Arrivo!»
rispondo a mio padre, rimettendo il telefono in tasca.
«Chi
era?»
domanda Emanuele, senza staccare gli occhi dalla schermata sulla
quale sta inserendo i miei dati.
«Non
lo so, forse qualcuno che ha sbagliato numero. Ha riattaccato senza
dire niente.»
«Fa'
attenzione quando ti chiamano numeri che non conosci»
mi ammonisce, guardandomi per un istante. «Ci sono un sacco di
truffatori che spillano soldi alla gente in questo modo. Se vuoi ti
scarico un software per filtrare le chiamate.»
«Grazie,
Q, ci penserò»
replico, sapendo quanto detesti essere paragonato al marchingegnere
dei film di James Bond. «Vado a vedere che vuole papà, torno
subito.»
Tornata
in corridoio, vedo che mio padre mi fa segno di andare in camera sua,
guardandosi attorno come un ricettatore di strada in procinto di
piazzare un pezzo che scotta. Appena varco la soglia mi mette in mano
cinque banconote da cento euro. «Tieni questi. Come fondo per le
emergenze.»
«Papà,
ti sei dimenticato che ho un lavoro? Non mi serve che...»
«Portali
con te per il viaggio. Un po' di soldi extra non fanno mai male.»
«Ma
papà, sono troppi, non posso...»
«Mi
hanno pagato un sacco di lavori, ultimamente. Tranquilla, non stai
togliendo il pane di bocca né a me né ai tuoi fratelli. E anche se
ci trovassimo a fare la fame, ci basterebbe attraversare il
pianerottolo»
mi interrompe, strizzandomi l'occhio. «E se non ti servono per il
viaggio, potresti sempre comprarci qualche bel regalo per il tuo
vecchio o per i tuoi fratelli, no?»
Abbasso
la testa sul denaro, che piego e ripongo in tasca. Poi, senza
aspettare inviti, abbraccio mio padre con tutta la forza che ho in
corpo. «Sei il papà migliore del mondo.»
Ricambia
la stretta, accarezzandomi la schiena e baciandomi i capelli,
esattamente come faceva quando ero bambina. Forse, in effetti, sono
ancora una bambina sotto molti punti di vista. «Questo è il minimo
che possa fare, tesoro. Non importa quanti anni tu abbia, o quanto
lontano tu viva. Io resto sempre tuo padre, e sai che attraverserei
l'inferno per te.»
Mi
stacco da lui, cercando di non piangere. «Papà, se riuscirò a...»
«Se
è l'uomo che ami, lo accetterò senza riserve»
mi interrompe, accarezzandomi il viso. «Certo, ci servirà sempre un
interprete, e forse quando avrò imparato ad accettare il fatto di
avere un genero che potrebbe essere mio fratello saremo entrambi
vecchi»
aggiunge con un sorriso, «ma se è lui l'uomo che ami, l'unico in
grado di renderti felice, allora ti dico solo: vai.
Vai a riprendertelo.»
*
Los Angeles, 5 marzo 2014
Mi
stacco la bottiglia dalle labbra, mandando giù il sorso che ho
bevuto come se stessi assumendo la dose di veleno che mi spedirà
finalmente al creatore. La bottiglia è ancora piena per metà,
eppure decido di alzarmi e lasciare la stanza, portando con me
soltanto le sigarette. Accendo la prima mentre mi sto infilando il
cappotto, le chiavi dell'auto al sicuro in tasca, certo che in questo
momento il mio nemico più grande non sia la bottiglia, ma la
solitudine.
*
Torino, 5 marzo 2014
«Grazie
di tutto, Ema»
sorrido, prendendo i fogli appena sputati fuori dalla stampante.
«Sapevo che avere un informatico in casa doveva avere una qualche
utilità»
aggiungo, passandogli una mano tra i capelli spettinati.
«Scema»
risponde, cercando di sottrarsi alla mia carezza. «Ora
evapora, dai, che devo studiare»
aggiunge, con un tono falsamente autoritario che tradisce il suo
divertimento.
«In
realtà speravo che avessi qualche minuto per parlare con me»
replico, facendomi seria.
«Posso
indovinare l'argomento?»
«Mi
stupirei se non lo facessi.»
Mi appoggio di schiena alla scrivania, incrociando le braccia al
petto, mentre lui giocherella con una matita. «Non devi pensare di
essere il solo a non sapere che pesci prendere, sai? Anch'io
all'inizio ero confusa, non ero sicura di che cosa volessi, però
poi...»
«Daria,
io non sono come te»
taglia corto lui, interrompendomi. «E non sono nemmeno come
Francesca. Io non ci riesco, non riesco ad affezionarmi alle persone
come fate voi. Io non... io non sono bravo
con le persone, lo sai. Io capisco soltanto i computer, perché sono
facili da capire, dicono solo sì e no.»
«Nemmeno
io sono un granché con le persone, lo sai»
rispondo, cercando di rassicurarlo. «Credo di sapere che cosa ti
spaventa. Tu hai paura di dover parlare con la mamma. È lei il
problema, vero?»
Improvvisamente si alza, fingendo di cercare un manuale sullo
scaffale per potermi dare le spalle. «Ti
capisco, sai? Nemmeno io ero entusiasta all'idea di avere di nuovo a
che fare con lei, dopo tutto quello che ho passato a causa sua...
però Luca è tutto un altro paio di maniche. Non è per causa sua se
lei ha lasciato papà. Lui è stato soltanto una conseguenza. Se
pensi che ignorare lui sia il modo migliore per punire lei, non...»
«Io
non intendo punire nessuno»
mi blocca, voltandosi verso di me.
«Ma
è così che si sente lui. Si sente punito, triste, ferito...
esattamente come ti senti tu, credo.»
Vinco l'istinto di avvicinarmi, sapendo quanto detesti gesti di
consolazionie universalmente amati come le carezze e gli abbracci.
«So quello che hai passato, so come ci si sente a crescere senza un
genitore. Ci si sente da schifo. Ma volendo trovare un lato positivo,
tu ed io avevamo papà, la nonna, gli zii, e soprattutto avevamo l'un
l'altra. Alla sua età, tu avevi molto più di quanto abbia lui
adesso. Lui ha perso suo padre, lo ha perso per sempre,
e tutto ciò che gli resta è una madre che gli ha tenuto nascosta la
verità, una madre di cui forse non tornerà a fidarsi mai più.»
Faccio una pausa, forse sperando che torni a guardarmi e dica
qualcosa – speranza vana, perché tutto ciò che continuo a vedere
sono le sue spalle. «Tu, io e Francesca siamo tutto ciò su cui
possa contare quel bambino. Non ti posso obbligare a vederlo, o
parlargli, questo no. Sei adulto, ed è giusto che tu prenda da te le
tue decisioni. Solo, tutte le volte che inizi a pensare a quanto sia
vuota la tua vita, pensa anche a quanto sia vuota la sua.»
Prendo le mie cose ed esco dalla stanza, chiudendomi la porta alle
spalle. Forse sono stata troppo brutale, troppo cattiva, ma era il
momento di mettere alcune cose in chiaro – e se Emanuele non è in
grado di farlo da sé, chi meglio di una sorella?
Mentre
cammino verso casa, stringendomi nel cappotto per sentire meno il
freddo, improvvisamente Emanuele e Luca scivolano via dalla mia
testa, lasciando la mente libera di concentrarmi sui fogli rinchiusi
al sicuro nella mia borsa. Mercoledì sta volgendo al termine, e
martedì dista solo cinque notti. Tra una settimana al massimo, con
un po' di fortuna, riavrò la vita che voglio.
*
Los Angeles, 6 marzo 2014
Esco dal pub alle tre del
mattino, dopo esserci rimasto per quattro buone ore. Ho bevuto molto,
sicuramente più del consentito, ma mi sento ancora abbastanza lucido
– forse troppo, giacché mi ero ripromesso di fare tutto il
necessario per cadere nel totale oblio. Senza pensare alle
conseguenze delle mie azioni mi metto al volante, ancora indeciso se
tornare subito a casa o vagare senza meta per le strade della città
degli angeli, quel magico paradiso che ha concesso a tutti i miei
sogni di diventare realtà, ma che ora non riesce più a darmi ciò
di cui ho bisogno. Guido e basta, senza badare né alla destinazione
né alla strada, affidandomi semplicemente al mio istinto.
Ma il mio istinto dimostra
di essere annebbiato quanto i miei riflessi quando per poco non
investo un ragazzo che stava attraversando la strada. Lo scampato
incidente mi spinge a premere di più sull'acceleratore, più che mai
deciso a lasciarmi alle spalle il malcapitato e i suoi insulti, che
ancora una volta mi ricordano che sono ancora presente su questa
terra, ancora vivo. Ma la mia fuga non ha vita lunga: pochi
metri più avanti una volante della polizia mi affianca,
abbagliandomi con la luce rossa dei suoi lampeggianti. Non ho scelta,
se non quella di accostare. Tengo le mani sul volante, appoggio la
testa al sedile e rimango in silenzio ad ascoltare il rumore sordo
del motore in folle. Potrei quasi chiudere gli occhi e addormentarmi,
se il poliziotto non bussasse al finestrino con le nocche, facendomi
segno di abbassarlo. «Favorisca patente e libretto»
mi ammonisce. Frugo stancamente nel vano portaoggetti e nel
portafogli, poi gli porgo i documenti. L'agente li studia alla luce
della torcia, poi punta la luce verso il mio volto. «Sa a che
velocità stava andando?» Di
nuovo non dico nulla, sapendomi condannato non appena sentirà
l'odore di alcol che impregna l'abitacolo. «Ha bevuto?»
domanda, studiandomi con attenzione. «Le dispiace scendere?»
Obbedisco, sottoponendomi a tutti i suoi stupidi controlli senza
lasciarmi sfuggire una parola. Nemmeno quando fa scattare le manette
ai miei polsi e mi fa salire sul sedile posteriore della volante
riesco a ribellarmi.
Ormai non mi importa più
di nulla. Sono un uomo a pezzi, e nulla potrà mai rimettermi
insieme.
1Eravamo
una famiglia. Come ha potuto rompersi e dividersi e ora siamo uno
contro l'altro, ognuno fa ombra all'altro? Come abbiamo fatto a
perdere il bene che ci era stato dato, lasciarlo scivolare via,
disperdersi, distruggersi? Cosa ci impedisce di uscire, toccare la
gloria? |
Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata dal
soldato Robert Witt
(interpretato da Jim
Caviezel)
nel film La
sottile linea rossa
(1998), del regista statunitense Terrence
Malick.
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