Luna rossa

di Sincro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - L'incubo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - La grotta ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Sala operatoria ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Il bacile della reminiscenza ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Il carillon ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Il lago ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - I fratelli ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Visione esterna ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Legame indissolubile ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - La camelia rossa ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Il disperso ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Dejà vu ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - Latente presenza ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 - L’estrazione ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 - La piccola Adele ***
Capitolo 16: *** Pausa di riflessione - Pensieri e ringraziamenti ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 - Il tavolo in mogano ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - L'incubo ***


Capitolo 1 - L'incubo
Presente
 

Notte fonda ma non oscura sulla cittadina di Bugarach, un paesino Francese immerso nella lussureggiante vegetazione, quasi al confine con la Spagna, un’enorme luna sovrastava ed illuminava ogni strada, albero e casa. Sembrava pieno inverno ma una leggera e calda brezza scuoteva le cime degli alberi. Addentrandosi nel cuore del paese si intravedevano, superata la piazza, un agglomerato di graziose villette a schiera. Tutto il paesaggio sembrava fosse immortalato in una fotografia polaroid.
Improvvisamente in lontananza una tenue luce gialla annullò l’armonia e l’equilibrio della città fotografia. Una abat-jour illuminava il piano terra di una piccola villetta circondata da una staccionata in legno bianco. In quella casa c’era qualcuno prossimo all’addormentarsi. Sembrava una stanza da letto, disordinata a dispetto delle apparenze. Al suo interno, inerme sotto le coperte, una giovane donna di aspetto delicato e di colorito pallido, quasi alabastrino. La sua espressione era serena ma accennava di tanto in tanto qualche espressione distorta e tesa, era probabilmente immersa in un sogno. Inaspettatamente spalancò gli occhi dalle pupille dilatate, era agitata e con una leggera angoscia nel cuore. Iniziò a svestirsi, indossava una delicata e trasparente vestaglia in seta bianca che lasciava intravedere le fisicità e delicate protuberanze del suo fragile corpo. La flebile luce proveniente dalla finestra illuminava il suo viso, due enormi occhi verdi osservano il luminoso satellite riflettente per poi esser catturati da un movimento tra le alte chiome degli alberi, un corvo nero corvino la esaminava con fare curioso. La giovane donna socchiuse il tendaggio per poi avviarsi verso, l’ancora caldo, letto. Un rumore proveniente dal bagno attirò la sua attenzione.
Tutto tranquillo se non per qualche spazzola fuori posto. Il vetro che sovrastava il lavabo era ancora opaco per il vapore della doccia precedente. Pulì la giusta porzione di vetro per potersi specchiare e sistemare le ribelli ciocche che coprivano i suoi splendidi occhi. Un riverbero seguito da una sensazione le fece rigelare il sangue. Impaurita uscì dal bagno per andare a mangiar qualcosa in cucina. Aprì il frigorifero e non notò niente di allettante. Proseguì il cammino verso la dispensa, dove si apprestò ad addentare un biscotto. Di ritorno verso camera sua notò delle impronte di stivali sul chiaro tassellato del corridoio. Corse verso il soggiorno in cerca del telefono per chiamare soccorso ma un suono di passi, seguito da rumori ed un lamento provenir dal ripostiglio, la immobilizzarono. Racimolò la giusta calma e compose il numero della polizia ma il telefono era isolato. Corse verso la porta d’ingresso che scoprì essere chiusa; il tentativo di cercar le chiavi fu inane.
Lentamente cercò di calmarsi per poi dirigersi verso la fonte del rumore con tra le mani un semplice coltello da cucina.
Fu di fronte alla porta, riusciva a sentire i battiti del suo cuore che spingevano contro il petto. Afferrò lentamente la maniglia per poi abbassarla facendo scattare l’ingranaggio con uno schiocco che echeggiò in tutta la casa. Adagio spinse la porta per poi scrutare oltre di essa, tutto buio. Il cuore pulsò sempre di più mentre la sua mano percorreva la parete in cerca dell’interruttore. Seguì il perimetro della porta fino a sovrastare il pulsante con le dita; sentì un delicato tocco sfiorarle il dorso della mano. Spaventata scappò verso la sua camera per poi chiudere la porta alle spalle e rannicchiarsi in posizione fetale tra le coperte ancora tiepide. Udì chiaramente dei passi provenir dal corridoio verso di lei. Quello scricchiolio era sempre più vicino, per poi cessare improvvisamente con un colpo; un temporale iniziò. Restò immersa con la testa sotto il cuscino fin quando non si tranquillizzò abbastanza da alzarsi. Sì avvicinò, nuovamente, alla finestra. Discostò la tenda e prolungò lo sguardo verso il basso, un branco di cani correvano illuminati dalla luce dei lampioni arancioni per poi svanir nella boscaglia. Un fulmine illuminò ogni cosa riflettendo un’ombra oltre il vetro della finestra. Sempre più impaurita la giovane donna si allontanò dalla finestra per poi avvicinarsi alla porta della sua camera. 
Ritornarono i cigolii. Ignorando la paura aprì la porta per correre in bagno. Decise di concedersi un caldo e rilassante bagno notturno.
Entrò nel suo bagno e dopo aver aperto il rubinetto della vasca cominciò a spogliarsi; iniziò dalle spalline della vestaglia in seta per poi farla scivolare e ricadere lungo il suo corpo. Con indosso solo l'intimo prese il sapone e iniziò a versarne un filo nell’acqua fumante. Come fosse una strana alchimia il sapone cominciò subito a schiumare infondendo il suo delicato profumo di muschio in tutto il bagno. Quella cappa d'umidità calda e profumata la coccolò come fosse un altro corpo. Socchiuse gli occhi e dopo aver sfilato gli ultimi due capi, nuda, iniziò ad avvertire il tepore dell'acqua con la punta del piede sinistro, per poi senza esitazione alcuna, immergere tutto il corpo in quell’acqua stupenda. Ambientata alla temperatura iniziò, con le mani, a sfiorarsi le gambe, le braccia e i seni; l’acqua saponata rese la sua pelle lucida ed invitante. Onde leggere d'acqua si infransero sul petto, ormai, quasi immerso completamente. Dopo un profondo respiro chiuse gli occhi ed immerse completamente anche il capo. Un profondo rilassamento invase il suo corpo. Le sembrava di essere immersa in una bolla di silenzio e tranquillità, era riuscita a distaccarsi mentalmente per poi socchiudere gli occhi e pensare. Esce dalla vasca e dopo essersi avvolta in un asciugamano per poi raggiungere la specchiera sul lavabo notò uno strano simbolo impresso nel vapore, sembrava un serpente avvolto ad una croce. L'ansia cominciò a riemergere. Velocemente asciugò i capelli e indossò la vestaglia. Ritornò alla porta d'ingresso ma, essa, era ancora bloccata. Cercò di forzarla ma tutto fu inutile. Un suono catturò la sua attenzione ed alimentò nuovamente la sua paura, il gracchiare di un corvo. Ripassò per la cucina constatando che il telefono era ancora isolato. Sentì dei lamenti provenire, ancora una volta, dal ripostiglio. Riprese il coltello e si diresse verso la fine del corridoio, proprio di fronte al bagno. Strinse sempre più il manico del coltello con entrambe le mani e con il piede spalancò la porta. Dall'oscurità non riuscì a scorgere nulla. Riavvicinò la mano all'interruttore con una paura, ormai tangibile, si apprestò ad accendere la luce. Aprì, lentamente, gli occhi che aveva serrato un attimo prima, un'unica e penzolante lampadina unita da un chiodo al soffitto ammuffito e putrido. Il ripostiglio era vuoto, ad eccezione di un grande baule al centro. Ad un certo punto la lampadina cominciò a dondolare lentamente. Dondolava sempre più velocemente fin quando non urtò contro il soffitto infrangendosi.
Dallo spaventò lasciò cadere la lama sul pavimento per poi correre in bagno. Chiuse la porta e corse verso la vasca ancora piena d’acqua; quegli odiosi scricchiolii riapparvero per poi fermarsi improvvisamente.
Tremò fin quando un suono non le fece rigelare il sangue nelle vene; la punta del coltello iniziò ad incidere qualcosa contro la porta in legno del bagno. Gli occhi quasi traboccavano di lacrime. Esasperata tirò un sospiro e urlò verso la porta. Il graffiare cessò seguito da un rumore di ferro contro il pavimento. Con le gote rigate dalle lacrime prese una spazzola e iniziò, quasi volesse scuoiarsi, a pettinar i suoi lunghi capelli. Trascorso un indeterminabile lasso di tempo scandito da tranquillità e nessun altro rumore molesto, aprì leggermente la porta e da una piccola feritoia intravide, verso il ripostiglio, il coltello cosparso dai cocci della lampadina. La porta in legno del bagno era intatta senza nessuna incisione. Sopraffatta dalla paura ritornò verso la sua camera dall’altra parte del corridoio. Si avvicinò, per un attimo, alla finestra prima di ritornare nel letto. Discostò, un'altra volta, la tenda e intravide una scura figura accovacciata ed illuminata dalla luce di un lampione; astutamente socchiuse le palpebre per cercar di vedere meglio. La figura si muoveva come se stesse mangiando qualcosa. Ad un certo punto diresse lo sguardo verso la finestra. Uno scambio di sguardi fuse la giovane donna a quell’essere incappottato, ma non era paura quella che provò. Non riuscì ad intravedere né il suo viso né i suoi occhi ma solo una parte della sua bocca; tutto d’un tratto la figura si alzò per poi scomparire nella boscaglia.
Un senso di impotenza cominciò ad invaderla, era isolata ed impaurita così decise di tuffarsi tra le coperte ed ignorare ogni altro strano rumore, chiuse la tenda e senza farsi distrarre da nulla si insinuò sotto le coperte. Affondò la testa nel cuscino freddo e tirò le coperte fin sopra la testa. Cercò di chiudere gli occhi e non pensare a nulla ma ecco emergere un rumore di passi fermarsi proprio davanti alla sua porta. La porta, cigolando, si aprì completamente urtando contro la parete. La giovane donna serrò gli occhi cercando convincersi che era caduta in un incubo fin dall’inizio. Sentì qualcosa scuotere il letto per poi avvertire un respiro affannoso proprio sopra di lei. Riuscì persino ad avvertire un gocciolare sul pavimento. Chiunque fosse nella stanza con lei proveniva dall’esterno. Sentì il flebile rumore di un guanto di cuoio che iniziò a stringere qualcosa con forza per poi ripiombare il silenzio più assoluto.
Quella mano iniziò a scoprirla lasciando cader alcune gocce di gelida acqua contro la sua caldissima fronte. Ormai era bloccata dalla paura. Quella presenza, ormai, fisica strinse il lembo della coperta per poi, dopo un ghigno, scoprirla completamente…

Si svegliò completamente madida di sudore, ansimante e con il cuore ancora pulsante. Dalla finestra intravide i raggi di un sole ormai maturo e alto nel cielo. Era solo un incubo. Era solo un maledetto incubo.
Quasi ridendo andò verso la porta di casa per constatare che era sbloccata, superò la porta del bagno in fretta e furia e scoprì che il vetro era limpido come non mai; aprì la finestra per arieggiare la stanza e corse verso il ripostiglio, la lampadina era magnificamente sospesa al soffitto ammuffito. Poggiò la schiena verso il muro e lentamente si lasciò scivolare sul pavimento con un sospiro, una delicata brezza le solleticò il viso. Rise quasi per scaricare quella enorme tensione fin quando quel vento non sbatté e chiuse la lignea porta del bagno mostrando un’incisione capace di farle rigelare il sangue.
«T-ti ho trovata.» sussurrò la giovane donna che apprese di non essere stata davvero sola.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - La grotta ***


Capitolo 2 - La grotta
Presente
 
 
A differenza del mattino, in cui un terso cielo sovrastava le cime dei sempreverdi, verso sera dei minacciosi nuvoloni neri stavano per ricoprire ogni cosa. Nella fitta e rigogliosa boscaglia si intravide un uomo che avanzava. Il suo era un correre strano, stava scappando. Scappando da qualcosa di invisibile. Si sentì chiaramente il fragore dei suoi passi e il respiro affannoso provocatogli da quella corsa che sembrava tutt'altro che breve. Mentre correva con le braccia si proteggeva il viso dai rami più bassi. Si potevano intravedere delle righe di sangue trasparire attraverso la maglietta bianca.
Improvvisamente si fermò. Si bloccò e fissò, per un attimo, quella luna che illuminava la sua strada. Adesso era solo, immerso in quella oscurità sviante. Avvertì piccole e sempre più frequenti gocce d'acqua bagnargli capo e viso, il temporale stava iniziando. Era cieco ma con l'aiuto delle mani e di quella poca luce che riusciva ancora a trasparire tra le nuvole aumentò il ritmo dei suoi passi. Da qualunque cosa stesse scappando ormai aveva un enorme vantaggio, ora doveva scappare dalla pioggia incombente. Corse fin quando non inciampò in qualcosa, una radice, che lo scaraventò nella terra bagnata. Non era una radice, era una coppia di binari; corrosi dal tempo e dalle intemperie. Percorse le rotaie con un passo più moderato e placido, nella speranza di guadagnar un po' di fiato. Dinanzi a lui si erse un cartello di legno con intagliate parole indecifrabili ma un disegno era ben chiaro, una croce su cui era avvolto un serpente. L'uomo ignorò l'avviso e proseguì la strada dettata dai binari fino a ritrovarsi di fronte all'ingresso di un tunnel sorretto da marcie e lunghe travi di legno. L'uomo diede un ultimo sguardo alle sue spalle e si addentrò nel buio di quel tunnel.
Un buio talmente pesto che non riusciva a scorgere nemmeno le sue mani. Dalle tasche del pantalone prese il suo zippo e dopo un paio di tentativi eccolo circondato da una tenue luce. Si addentrò sempre più nelle viscere della montagna dove uno strano tepore sembrava sfiorargli le mani. Proseguì il suo cammino per un tempo indefinibile, erano minuti che sembravano ore. Il vagare in un luogo oscuro e abbandonato come un tunnel scavato in chissà quale montagna e per quale motivo cominciava ad abbattere l'ego dell'uomo. Travi di legno che ogni due metri sorreggevano il basso soffitto. Tanti bivi incontrò ma lui proseguì seguendo sempre quei binari e quello strano tepore. Era stanco e le ferite al corpo bruciavano sempre più. Camminava con lo sguardo verso il basso e la fiammella a fargli luce, il tutto era angosciante.
Un rumore, un rumore d'acqua catturò la sua attenzione. Riportò i sensi in posizione d'allerta, per quanto la stanchezza glielo permettesse. Accelerò il passo fin quando da quello stretto cunicolo buio sfociò in una enorme grotta. Riusciva a sentir l'enormità della grotta per l'eco che i suoi passi producevano in quella ancor più caliginosa oscurità. Non c'erano scale o discese per proseguir in quella grotta ma notò, al cessare dei binari, una corda che scendeva giù. Non esitò e dopo averla afferrata saldamente si scivolò giù per una decina di metri fin quando i suoi piedi ebbero un appoggio. Riaccese la fiamma del suo zippo e perlustrò la nuova zona. C'erano delle rampe e alcuni carrelli in ferro sporchi di carbone, era una vecchia miniera abbandonata. Sempre con l'aiuto di quella poca luce a cui poteva attingere seguì la parete di roccia fin quando dalla parete non fuoriuscì una sporgenza adibita al trasporto d’olio. Avvicinò la fiamma all'interno dell'infossatura e dopo una folgorante lampa di luce il binario sporco d'olio iniziò ad illuminare tutto il perimetro della grotta. Era davvero enorme. Al centro una sorta di lago dall'acqua verde smeraldo, probabilmente una falda. Tutto era illuminato ad eccezione del soffitto, troppo alto per essere raggiunto dalle fiamme. L'uomo si diresse verso la riva del lago dove riuscì a scrutar un mini accampamento; lattine di conserve e qualche sacco a pelo. Estrasse dalla cintura un coltello con il quale aprì una lattina d'alluminio. Avidamente insinuò la mano a mo' di cucchiaio e si cibò del suo interno, dei fagioli riposti in quel luogo da tempo immemore. Dopo il tanto agognato pasto accese qualche ramoscello e si accomodò in uno di quei sacchi. Il sonno arrivò dopo molto tempo, merito della sua insonnia che non lo aveva ancora abbandonato. Finalmente si addormentò.
Una porta. Vide una porta. Una porta in legno. Vide la sua mano incidere qualcosa su di essa.
 
L'uomo si risvegliò e ad osservare il fuoco ancora vivo e scoppiettante capì di aver dormito poco. Sentì qualcosa muoversi all'interno del sacco, qualcosa che ora era dentro il suo pantalone e si faceva strada verso la gamba. L'uomo subito uscì dal sacco e con altrettanta rapidità si sfilò i pantaloni. Vide uno strano taglio sanguinante alla base della caviglia. Si avvicinò al fuoco per osservar meglio la ferita ed ebbe una visione raccapricciante; qualcosa che risaliva la sua gamba dall'interno. La luce del fuoco illuminava chiaramente una piccola protuberanza scorrere sotto la sua pelle. L'uomo prese il coltello e fece un taglio netto sulla sua gamba, all'altezza del ginocchio, vicino a quella gibbosità che ora cominciava a bruciare. Con l'aiuto della mani cercò di guidare l'intruso verso la fresca ferita ma improvvisamente sparì. L'uomo non riuscì a capire cosa stesse succedendo ma subito l'ignoranza sfumò e urla di dolore riempirono tutta la grotta. L'essere stava scavando nella sua carne dov'era più al sicuro e meno visibile. L'uomo cominciò prendere a pugni la gamba sempre con più forza fin quando il dolore si localizzò in un fisso punto dietro il polpaccio. L'uomo poggiò la punta del coltello in quella zona, e dopo aver chiuso gli occhi e stretto i denti, spinse in profondità la lama quasi volesse arrivar all'osso per estirpare il dolore, qualunque cosa glielo stesse procurando. Ormai aveva così tanta adrenalina in circolo che poté dimenticarsi del dolore da lui stesso inflittogli, aprì gli occhi e riuscì a vedere il corpo di un insetto alla base della profonda ferita, senza più vita. Lo estrasse e lo osservò con attenzione. Sembrava una falena, una strana larva di falena. La gettò nel fuoco dopo essersi denudato si immerse dolcemente nelle acqua di quel lago. Il bruciore della ferita sembrava anestetizzato da quella splendida acqua verde. Non toccava il fondo ma all'altezza dei piedi avvertiva un'acqua più calda e densa. Immerse anche il capo e scoprì un fondo fangoso che lasciava fuoriuscire tante minuscole bolle non visibili in superficie. Era proprio una falda termale.
Sì rilassò in quell'acqua tiepida tanto che cadde in un profondo sonno.
 
Una finestra non tanto alta. Una figura lo fissava da essa, era una figura femminile.
Riuscì a scorgere alcune sue forme quali i fianchi e i seni bagnati da una fioca luce. Clavicole appena percettibili per colpa di quella oscurità che predominava la stanza di quella donna.
L'uomo calò lo sguardo e notò delle scale. Scale che probabilmente conducevano alla casa di quella donna. Spezzò lo sguardo che li univa e andò verso le scale. Aprì un cancelletto e iniziò la ripida salita verso di lei. Arrivò all'unica porta di quel piano, sfilò i guanti e avvicinò la mano al battiporta in ottone.
Uno schiocco, due schiocchi, tre schiocchi.
La porta si sbloccò e l'uomo entrò con estrema lentezza in una camera da letto. Un unico letto al centro della stanza; al suo interno un corpo. Si avvicinò alle sponde di quel letto. Afferrò, con una mano, il lembo della coperta, lo strinse e…

 
L'immersione del naso in acqua lo svegliò violentemente, era un altro sogno. Un altro strano sogno.
Uscì dall'acqua e, con sorpresa, notò le ferite non più sanguinanti ma ancora di un rosso vivo. Le fasciò e dopo essersi rivestito si avviò verso l'uscita che arrivò, inaspettatamente, molto velocemente. Aria gelida entrò dal naso fino ad arrivare violentemente nei polmoni passando per la calda gola. Controlla la gamba e dopo aver riposto zippo e coltello era pronto per proseguire il suo percorso ma... avverte un pizzico all'altezza della spalla.
Un bruciore troppo simile alla larva. Notò un annebbiamento della vista e scorse con la mano un qualcosa conficcato nella sua spalla, un dardo nero.
Sentì il suo corpo cadere sulle ginocchia, il suo viso affondare nel freddo fango e le palpebre sempre più pesanti fino alla perdita di sensi.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Sala operatoria ***


Capitolo 3 - Sala operatoria
Presente

 
Un susseguirsi di luci al neon accecarono le dilatate e sensibili pupille dell’uomo semi cosciente dagli occhi socchiusi e dal respiro corto. Madido era il viso e il petto. Riuscì a scorgere tante voci intorno a lui. Il battito era sempre più lento. Il cuore si sforzava sempre più di pompare quel sangue necessario alla vita.
Sentì della mani sollevarlo di peso per poggiarlo dalla barella ad un tavolo leggermente più alto e duro. Gli occhi erano quasi aperti ma le uniche cose che riuscì a vedere erano solo ombre e figure per nulla nitide. Quelle tante voci rimbombavano nella sua testa. Desiderava silenzio ma dalla bocca non riusciva ad emettere nessun suono.
(Cosa mi è successo? Dove sono?)
Domande che a fatica riusciva a porsi. Era stanco. Sentiva, via via, le forze abbandonarlo sempre più. Provò a chiudere gli occhi nella disperata ricerca di un po' di pace ma il tutto venne interrotto da un pizzico di un ago all'altezza del polso. Un dolore pian piano iniziò a diffondersi come un fuoco in tutto il braccio, gli avevano iniettato qualcosa. Per, dopo aver superato la spalla, diramarsi tra collo e petto. Sentì il suo corpo tremar leggermente. Il suo braccio era steso e rovente per l’effetto di quel qualcosa iniettatogli. Chinò leggermente lo sguardo verso la sua mano e la scoprì con vene pulsanti e gonfie come non mai.
L'arrivo di quel qualcosa al cuore lo fece rinvigorire, adrenalina pensò l’uomo. Ma l'adrenalina non provoca quel terribile dolore. L'adrenalina non si inietta nelle vene del polso. Uno spasmo. Un altro ed un altro ancora scuotono il suo corpo. Aveva gli occhi ancora offuscati da una sorta di sipario in verde plastica. Ammiccò le palpebre per un numero di volte capaci a schiarirgli la vista.
La sala era vuota. Era solo in quella sala che prima era gremita di gente sconosciuta e logorroica. Notò che aveva polsi, caviglie e torace ancorati ad un tavolo operatorio con stuoie di cuoio molto consumate. Lungo tutto il petto aveva alcuni elettrodi che proseguivano a decorargli anche le costole e le gambe. Sui lati del letto notò ben due flebo che si separavano per poi unirsi in due tubicini. La soluzione di quelle flebo aveva un colore strano, tendente al nero.
Entrò una persona in sala. Lui tenta di parlare ma dalla sua gola non esce alcun suono.
«Inutile tentar di parlare, non puoi.» - disse un uomo dalla enorme stazza.
Dopo questa frase l'uomo si avvicinò ad un banchetto pieno di flaconcini vuoti ed alcuni monitor per poi uscire da dove era entrato.
(Non posso parlare? Cosa mi hanno fatto? Maledizione!)
Portò la lingua fuori dalle labbra per assaporar un amaro gusto di sangue. Era assetato. Provò ancora ad emettere suoni ma tutto fu vano. La forza di opporsi a quelle morse che opprimevano e bloccavano il suo corpo non c'era. Si abbandonò, chiuse gli occhi e cercò di restar calmo.
La sala si oscura improvvisamente. Avvertì una sorta di ronzio seguito dallo spalancarsi di quella porta da cui era entrato con la barella. Sentì la stretta di quelle stuoie in cuoio allentarsi per poi svanire. Prima il petto e i polsi e infine le caviglie.
La luce ritorna dopo poco ma in sala non c’era più nessuno. Provò a mettersi seduto e dopo tanta fatica e svariati tentativi fallimentari riesce. Riuscì a scrutar meglio la sala. Era una sala operatoria scavata nella roccia. Riusciva a vedere i mattoni coperti da una pellicola molto spessa fissata con tanti chiodi arrugginiti. Alcune travi in legno decoravano quel soffitto molto basso e sudicio. Il pavimento, bensì, era molto curato e pulito. Tentò di alzarsi in piedi ma rischiò di scaraventarsi sul pavimento. Non aveva alcuna forza. Già il solo restar seduto gli sembrava una tortura. Uno sforzo immane. Richiuse gli occhi e si concentrò. Restò in questa posizione di recupero per alcuni minuti. Aprì improvvisamente gli occhi e si alzò in piedi. Barcollando arrivò alla parte opposta della sala, poggiandosi sul bordo del banchetto pieno di fiale e monitor.
Quel fuoco che aveva avvertito prima nascere per poi diffondersi dal suo polso stava ritornando. Sentiva la mano bruciare e pulsare. Le vene del braccio erano verdi e spesse sotto la luce bianca di quella sala. Provò a battere la mano contro il banchetto ma non risolse nulla. Non svanì il dolore ma non nacque alcun nuovo dolore. Continuò a colpire il marmo con sempre più forza. Il dolore era insopportabile. Continuò fino al cessare di quel fuoco e notò che la mano era sporca da sangue nero brillante. Al cessare di quel dolore notò un cambiamento in lui. Le gambe si erano irrigidite e sentiva una forza provenire dal suo petto per poi diffondersi a macchia d'olio in tutto il corpo.
La vista e l'udito ormai erano pienamente funzionanti. Cercò in alcuni cassetti una garza o una qualunque altra cosa per tamponare il sanguinar della sua mano. Prese della carta da un rotolo fissato alla parete e si avvicinò ad un lavello con l'intento di sciacquar via quel sangue. Asciugò tutto e si apprestò verso la porta. Si trovava in una sorta di laboratorio sotterraneo. Il pavimento in PVC percorreva tutta la base ma i muri oltre la sala operatoria erano sporchi e pieni di scaffali vuoti. Camminò per un po' fino al raggiungere un vicolo cieco sormontato da una piccola grata in ferro; molto ben tenuta rispetto al resto dello scantinato.
Dalla grata riuscì a carpire il suono melodioso di un piano e alcune voci di sottofondo tra cui quella di una bambina che cantava. Tante voci riusciva a scorgere oltre quella grata ma non restò lì ad ascoltar per timore di essere scoperto. Così distolse l'attenzione e andò alla ricerca di una via d'uscita. Quel fuoco, quel dolore, quella fitta ritornò. Sempre più intensa al punto da offuscargli la vista e farlo, lentamente, accasciare al suolo privo di sensi. Con la vista non ancora annebbiata vide molti uomini in camice bianco urlare e andar verso di lui.
 
Avvertì tanto freddo, umidità e un leggero fastidio alla base della gamba. Sarà l'alba e la rugiada di quel fogliame su cui era riposto gli penetrava nelle ossa. Sentì un affannoso e caldo respiro alla base della caviglia. Era un grosso nero cane bramoso di carne. Sentì i suoi denti affondar nella carne senza trapassarla. Cerca di scrollarselo di dosso dimenando la gamba ma tutto fu vano.
«Via bestiaccia» urlò l’uomo «vai via!»
La bestia allentò la presa e fuggì nella fitta e oscura boscaglia. Giusto il tempo di ambientarsi e si alzò in piedi. Abbottonò un lungo cappotto nero e notò che le sue tasche erano vuote; non aveva più nulla se non quel cappotto sbucato dal nulla. Acuì la vista e scorse in lontananza un piccolo complesso di casette illuminate da una fioca luce.
Decise di andar verso di esse spinto da un'attrazione quasi inspiegabile.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Il bacile della reminiscenza ***


Capitolo 4 - Il bacile della reminiscenza
Passato
 

Era dicembre e il tempo sembrava essersi fermato. Metà pomeriggio ma già il sole era già una sfera rosso cremisi coperta da tanti nuvoloni scuri. Uno strano vento smuoveva i sempreverdi in quel viale in terra battuta. L'erba non curata aveva invaso ogni angolo con ciuffi alti anche mezzo metro. C'era vento e un’assenza di pioggia rendeva l’aria secca, quasi irrespirabile. Il sole sempre più scarlatto tracciava alcune ombre nel terreno oltre quelle degli alberi, una bicicletta ed un ragazzo.
Il ragazzo accasciò la bicicletta sul terreno, raccolse un ramo, e si fece strada in quelle fitte erbacce. Un po' con l'aiuto delle mani e del ramo avanzò sempre più fino al fermarsi al centro di questa distesa circondata a nord da sempreverdi altissimi, sud e ovest una strada asfaltata ed a est un muretto che si disperdeva nel bosco. Il ragazzo era lì, quasi sotto l'ombra degli alberi a scrutar tra alcuni sistemati sassi. Si abbassò scrutando con le mani il polveroso terreno, ricerca terminata con il ritrovamento di un qualcosa di piccolo che affrettò nell’inserire nel cappotto. Si protesse il viso con le mani fino ad uscire da quella fastidiosa gramigna.
Uccellini, sentì alcuni uccellini cantare al di sopra della sua testa. Uccellini che volano rapidi da un ramo all'altro in cerca di qualche insetto da catturare. Uccellini dai semplici e monocromatici colori, era inverno e gli uccelli nel freddo bosco erano pochi. Il ragazzo di tanto in tanto si guardava le spalle come se sentisse di essere osservato. Sembrava stesse percorrendo un percorso conosciuto, non si addentrava alla cieca. Camminò per un po' fin quando il sole, lontano, era ad un passo dallo scomparire. Ma ecco, immersa tra gli alberi, una grande stalla abbandonata circondata da un recinto per metà distrutto dal tempo.
La porta fu ignorata dal ragazzo che rapidamente voltò l'angolo e si diresse sul retro dove alcune tavole mancanti gli permisero l'accesso. Prima di entrare diede un rapido ed ultimo sguardo alle sue spalle ed intravide un corvo fissarlo appollaiato su quel che rimaneva dello steccato.
All'interno la stalla era piccola con il pavimento scricchiolante ed un enorme tappeto al centro. L'immagine mastodontica era, appunto, apparenza. Da alcuni fori sul tetto spiovente filtravano gli ultimi raggi di sole. Le pareti della stalla erano piene d'attrezzi e calendari osceni. Qualche scaffale con flaconi verdi e neri e la porta bloccata da due catene molto vecchie.
Il ragazzo sembrava conoscere molto bene il posto, tanto da aver un posto tra alcune balle di fieno che sembravano star lì da lungo tempo. Il sole man mano che calava spostava i suoi raggi verso le travi portanti del soffitto, c'erano tante corde e uncini in ferro corroso.
Calò l'oscurità e con essa un vento gelido si insinuò dalle tante aperture del soffitto smuovendo quelle ragnatele talmente fitte e spesse da sembrar lenzuoli. Il ragazzo non curante di tutto si accasciò nella paglia e fissò il perpetuo dondolar di quegli uncini. Il chiassoso cinguettare esterno si zittì non appena l'oscurità calò. Nulla si avvertiva se non il vento che urtava e fischiava.
Un accecante lampo seguito da un fragoroso tuono spaccò la testa del ragazzo che sobbalzò dal leggero pisolino nel quale si era ripudiato. Prima lentamente per poi aumentar sempre di più l'infrangersi di tante gocce d'acqua sul tetto. Un temporale iniziò. Dentro e fuori la stalla non c'era alcuna luce, l'acqua cominciò ad addentrarsi dal tetto fino a bagnare il pavimento ed ogni cosa sopra di esso.
Il ragazzo non sapeva cosa fare, o forse preferiva non farlo.
Trovò riparo sotto le mensole piene di fusti e flaconi di veleno e fertilizzante ormai inutilizzabili. Il ritorno del gelido vento costrinse il ragazzo a dirigersi verso il tappeto al centro della stanza. Leggermente lo discostò per liberare una botola bloccata da un vecchissimo lucchetto. Dal giubbotto prese una piccola e vecchissima chiave; un secco schiocco di ferro rimbomba in tutta la stalla. Alzò la botola e, come era solito fare, prima di entrare si guardò le spalle per poi chiudersi dietro la botola.

Era buio ma un soffio leggero di vento caldo raggiunse il ragazzo. All'improvviso un esplosione lontana generò un leggero sisma. Nulla crollò. Era tutto inaspettatamente molto solido. Orientarsi nell'oscurità era difficile ma il ragazzo, ancor più stranamente della solidità del lungo corridoio, sembrava saper la strada. Voltò due o più angoli fino ad intravedere una flebile luce in lontananza. Il calore man mano che si addentrava era sempre più intenso ed invitante.
«L'hai trovata, noto.» disse una voce.
«Sì, era tra i sassi.» disse il ragazzo.
«Ci hai messo tanto per venir qui» continuò la voce «ma non importa, siediti e togliti il cappotto.»
«G-grazie.» rispose ansiosamente il ragazzo.
Era una specie di cucina piena di ripiani pieni con ampolle, vasetti di vetro e dei cristalli. Al centro un focolare sormontato da un grande pentolone in bauxite. Non c'erano finestre ma solo dei fori per il riciclo d'aria. Un tavolo alla destra della cucina era circondato da tre sedie in legno e ferro. Ed una porta chiusa alle spalle di un vecchio signore dal viso molto lindo.
«È iniziato il temporale.» disse il vecchio
«Sì, dopo il tuono è cominciato. L'hai mandato tu, vero?!» chiese con ansia il ragazzo
«Certamente!» disse con fare ironico il vecchio porgendo al ragazzo una ciotola con all'interno una sorta di zuppa
Il ragazzo non esitò e impugnando un grande cucchiaio cominciò a mangiare assaporando ogni boccone. Lo sguardo del ragazzo non era nel suo piatto, però. Riempiva il cucchiaio per poi portarlo alla bocca ma i suoi occhi erano tra il vecchio e quei tanti barattoli ed ampolle. Era terribilmente affascinato da un'ampolla in particolare.
«Ti piacciono?» chiese il vecchio.
«Sì, tanto. Soprattutto quella rossa in alto.» indicò il ragazzo «Cosa c'è dentro?»
«Sangue di vergine.» rispose con uno strano sguardo il vecchio
Gli occhi del ragazzo di spalancarono per poi spostarsi sul vecchio. Era stato scosso da quella rivelazione fin quando il vecchio non scoppiò in una risata mentre si accingeva a prendere la boccetta tanto agognata. Tolse il tappo quasi sotto il naso del ragazzo quasi volesse fargli percepire qualcosa. Il ragazzo provò ad opporsi ma non poté sottrarsi a quel delicato profumo di fiori.
È l’estratto di un fiore, una sorta di aroma curativo.» disse il vecchio continuando a ridacchiare
Il ragazzo paonazzo in viso per l'essere stato preso in giro volse lo sguardo verso il suo piatto e continuò a mangiare. Il vecchio tappò l'ampolla e la poggiò sul tavolo ad una manciata di palmi dal ragazzo.
«Interessante.» disse il vecchio.
«Cosa?!» chiese con decisione il ragazzo.
«La tua scelta verso quella particolare ampolla. Ne ho tante, tra le più svariate e colorate ma tu hai scelto proprio questa» rispose il vecchio.
«Cosa c'è di strano?» replicò il ragazzo.
«Di strano proprio nulla ma non sei il primo ad esserne stato attratto, tutto qui.» concluse il vecchio.
«Chi altro è stato qui? Chi è stato attratto da quell'ampolla prima di me?» chiese il ragazzo.
«Termina il pasto.» disse il vecchio scuotendosi gli abiti con le grandi mani «dopo riponi il cucchiaio nel piatto e seguimi oltre la porta, ti aspetto lì.»
 
Il vecchio prese l'ampolla dal tavolo e si diresse verso quella porta che, prima, era alle sue spalle. Il ragazzo buttò giù un boccone dopo l'altro sempre più velocemente e con la bocca ancora piena lasciò cadere il cucchiaio sul pavimento per poi correre oltre la porta.
Una grande sala ricolma di quadri e libri. Il pavimento era di un pregiato legno appena lucidato e il soffitto, anche se non molto alto, era rivestito di legno anch'esso. Stesso per le pareti illuminate di tanto in tanto da alcune lampade ad olio coperte da un paralume in opaco vetro verde. Quasi al centro della stanza c’erano il vecchio uomo ed un bacile di pietra, ornato da rune e simboli vari. Il ragazzo si avvicinò al vecchio ancora impegnato nel masticare quell'enorme ed ultimo boccone quando l'uomo si voltò verso di lui con sguardo serioso.
«Va a pulirti e sistema il cucchiaio nel piatto» quasi gridò il vecchio
Il ragazzo mortificato rientrò nella cucina e dopo aver sistemato il cucchiaio notò che il fuoco era quasi spento generando un fumo bianco. Il calore era sempre minore nella cucina. Notò che non era il fuoco che si stava spegnendo ma era la sua vista che si stava offuscando. Si diresse alla sedia guidandosi con le mani, per sedersi. La vista era sempre più appannata ed uno strano freddo sembrava insinuarsi dentro di lui.
 
La vista riapparve all'improvviso. Non era più nella cucina. Era nella stalla ma era diversa. Appesi al soffitto non c'erano più corde e uncini vuoti ma tanti corpi a testa in giù con la gola recisa. Riusciva a vedere il sangue sgorgare dalla ferita fino a dei bacili sottostanti. Erano pieni per metà ed il sangue continuava a fiottar giù anche da bocca e dalle narici. I corpi erano, ormai, privi di vita. Erano numerosi, almeno 7. Tutte donne molto giovani e dalla variegata bellezza. Il ragazzo scrutò la stalla e notò altri particolari; al posto delle balle di fieno c'erano casse e bauli enormi e accasciati agli angoli della stalla altri corpi stretti in strane posizioni e sempre con la gola recisa. Questa visione impietrì il ragazzo che non sapeva cosa fare. Cercò di trovare quell'apertura da cui era entrato ma era tutto dannatamente intatto. Il portone d'ingresso era sempre chiuso dalle catene, ma erano molto meno vecchie.
Non poté non fissare gli occhi aperti di quelle ragazze appese come animali. Erano tutti diretti verso di lui, quasi seguissero i suoi movimenti, sembravano muoversi. Il ragazzo invaso dal panico rovesciò un paio di bacili fin quando ritrovò la botola sul pavimento. Era chiusa da un piccolo e luccicante catenaccio. Doveva scappare da quel posto, provò a romperlo con un bastone ma tutto fu vano. Sentì dei sibili dal tetto della stalla verso il quale voltò lo sguardo. C'era un corvo che si tuffò da una delle travi per appollaiarsi sul lucchetto che scattò non appena fu toccato. Il ragazzo osservò tutta la scena con gli occhi traboccanti di lacrime ma non si fece domande. Subito aprì la botola per tuffarcisi dentro in preda al terrore. Corse lungo tutto il corridoio. Arrivò alla cucina e notò che il cucchiaio era riposto nel piatto di zuppa.
 
La vista cominciò a ritornare, era caduto in un incubo. Uno strano effetto di quella zuppa deliziosa, pensò. Si alzò, ancora barcollando, dalla sedia e dopo essersi pulito la bocca con il braccio della maglietta si diresse verso la sala dove il vecchio lo aspettava. Il ragazzo superò la porta e si diresse verso il vecchio che, nel frattempo, si era seduto su una vecchia poltrona dall'apparenza regale.
«Sei sempre così lento nelle cose che fai?» chiese il vecchio.
«Non sempre.» rispose il ragazzo «Ho avuto delle strane visioni.»
«Non erano semplici visioni.» concluse il vecchio.
Il ragazzo non volle più far domande, era confuso e scombussolato.
«Sai perché siamo qui?» chiese il vecchio.
Il ragazzo rispose semplicemente scuotendo la testa.
«Sai perché siamo qui?!» replicò con più insistenza il vecchio.
«No, non so perché mi ha portato qui» disse il ragazzo.
I due si avvicinano al bacile di pietra. Il vecchio invitò il ragazzo a guardar dentro di esso. Il ragazzo non replicò e diresse lo sguardo al suo interno, non vide nulla se non un po' d'acqua stagnante e immobile. Il vecchio aprì l'ampolla e versò tre gocce di essenza in quella immobile acqua, smuovendola. Cadde la prima goccia, poi la seconda ed infine la terza. Ad ogni goccia l'acqua assumeva una tonalità diversa, nera, verde e rossa. L'uomo con un cenno della mano invitò il ragazzo a guardar di nuovo nell'acqua. L'acqua ritornò immobile come fosse di cristallo. Al suo interno, come fosse una finestra, adesso si poteva intravedere una ragazza. Il viso di una ragazza che scosse qualcosa nella mente vacillante del ragazzo.
«La vedi?» chiese il vecchio.
«Sì, chi è?» disse il ragazzo.
«È colei che prima di te scelse l'ampolla rossa.» continuò l'uomo «Colei la quale è tuo compito ritrovare.»

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Il carillon ***


Capitolo 5 - Il carillon
Presente
 

Era una bella giornata nei pressi di una minuscola fazione cittadina. Il complesso era piccolo ma ben organizzato; al centro di tutto c'era una fontana circondata da una graziosa piazzetta con panchine e alberi non troppo alti. Sulla piazza affacciavano alcune case e un paio di negozi. Questo piccolo agglomerato di fiorente società era allocato ai margini di una più grande, caotica ed industrializzata città, il tutto immerso in un bosco. La caratteristica predominante di questo paesino era tranquillità e serenità, i fattori ricercati dal Signor Miller e di sua figlia Veline. Il Signor Miller era un agente immobiliare alto e dai segni del tempo ben scolpiti nel suo viso. Gran parlantina e carisma a differenza della figlia Veline che era riservata e molto timida. 
Un taxi dal color giallo limone rallentò davanti ad una villetta mogano, molto elegante. Aveva, tutt'intorno, uno steccato color cioccolata ed un giardino all'inglese molto curato. Una stradina di mattoni attraversava tutto il giardino fermandosi davanti a tre gradini in legno che conducevano alla porta primaria di quella graziosa villetta. 
L'ingresso era molto accogliente e caldo. Un soggiorno decorato con un grande divano e un altrettanto grande tappeto persiano dai mille e più motivi intricati e sfumati. Poi un camino, appena Veline lo vide quasi non riuscì a trattenere un urletto di gioia. Il Signor Miller, invece, appariva molto serio e stanco. 
«Veline io vado a far una doccia, sono distrutto.» disse il Signor Miller.
«Io esploro la casa, allora. Ci manchiamo da molto! Ordiniamo la pizza?» disse Veline «ho il numero della pizzeria.»
«D'accordo, salsiccia e formaggio per me.» disse il Signor Miller.
«Chiarissimo papà!» concluse Veline prima di liquidare il padre con un cenno del capo.
Veline corse in cucina e dopo aver cercato il numero in un'agenda vicino al telefono cominciò ad esplorare la casa. Iniziò dalla cucina non tanto grande ma ottima per lei e il padre. Stile moderno con un tavolo in vetro e quattro sedie ai suoi capi. Uscì dalla cucina e si trovò davanti un corridoio con quattro porte. Iniziò dalla prima a destra, la camera matrimoniale. Come aprì così chiuse la porta, non le interessava quella stanza. Uscì ed andò nella porta di fronte, la sua camera. Un piccolo letto quasi sotto la finestra e un grande armadio. Veline si avvicinò alla finestra, poteva veder una stradina piena di lampioni che divideva la casa dal bosco. Gettò la borsa ai piedi del letto e continuò l'esplorazione. Sulla sinistra c'era il bagno, poteva ascoltare il rumore dell’acqua scorrere, così scelse l'altra porta. Avvicinò la mano alla maniglia e dopo un momento d'esitazione la spalancò scoprendo una stanza vuota tranne per la custodia di un violino poggiata contro il muro. Non c'era nemmeno una finestra ed uno strano profumo riecheggiava tra le quattro pareti. Una piccola e penzolante lampadina adornava il soffitto. Veline era ad un passo dall'entrar quando esplose il rumore del campanello in tutta la casa. 
 
«È buona papà?» chiese Veline.
«Anche se un po' bruciata la pasta è molto morbida, assaggia…» propose il Signor Miller.
«Vuoi un pezzetto della mia? Non è bruciata, la mia!»
«No, grazie.» concluse il Signor Miller con un tono malinconico ma Veline non gli diede troppo peso.
Dopo cena il padre andò a dormire mentre Veline decise di concedersi una rapida doccia. Si avviò verso il bagno che scoprì essere ancora saturo di vapore per il bagno del padre. Iniziò col pettinarsi i capelli quando la pesante stanchezza che aveva toccato il padre, adesso, era arrivata anche da lei. Una strana ed improvvisa stanchezza. Lavò i denti e dopo aver indossato una sgualcita vestaglia spense le luci e andò verso la sua camera, ignorando la stanza del violino. Era immersa tra le coperte quando udì un secco urlo provenire dalla camera di suo padre, subito si alzò e corse da lui. Il Signor Miller era seduto al centro del letto con il viso ed il petto madidi di sudore ed un bicchiere d'acqua tra le mani. 
«Papà cos'è successo?» chiese Veline «hai fatto un brutto sogno?»
«Nulla cara, nulla» rispose il Signor Miller «torna a dormire, sto bene.»
«Le hai sognate, vero?» continuò Veline «La mamma e Betty?»
«Torna a dormire, sto bene.» rispose con tono severo il Signor Miller.»
Veline afferrò la mano del padre e lo portò verso la cucina. 
«Adesso preparo uno cioccolata calda e tu mi racconti tutto.» affermò Veline.
Il padre si limitò ad annuire con un cenno del capo ed un leggero sorriso in volto. Veline mise il latte sul fuoco e mentre mescolava il cacao ed alcuni pezzi di cioccolata presi dalla dispensa osservò il padre; aveva lo sguardo perso nel vuoto e le mani ai lati della testa.
«Non è stata colpa tua.» disse improvvisamente Veline.
Il padre non rispose ma spostò lo sguardo verso la figlia. Seduti entrambi a gustar la fumante cioccolata che invadeva di profumo l'intera cucina iniziarono a guardarsi. Lo sguardo della figlia era dolce e profondo mentre quello del padre era triste e a tratti lucido.
«Se solo fossi arrivato prima» iniziò il Signor Miller «ora sarebbero qui con noi.»
«Loro sono con noi nei nostri ricordi» continuò Veline «e non è colpa tua. Non potevi saperlo, nessuno poteva.» il tono sembrava saltellare tra l'essere dolce e l'essere sconsolato.
«C'era quel sangue. Ma non dovrei dirti questo, scusami, andiamo a dormire.» proseguì il Signor Miller.
«Papà non andare al lavoro domani, giriamo un po' la città.» propose Veline «Ci farà bene.»
«Io conosco già molto bene questa città, qui nacque la madre di tua madre.» disse il Signor Miller «da giovane ci venivo spesso nei fine settimana a trovarla con tua madre.»
«Ancora meglio, mi farai da guida!»
«Amore non posso, ho degli appuntamenti importanti domani.»
«Ma è domenica! Per favore…»
«Andiamo a dormire, domani si vedrà.» concluse il Signor Miller.
 
Il padre accompagnò la figlia nella sua camera e dopo averle rimboccato le coperte, dato un bacio sulla fronte e sussurrato un grazie esce chiudendosi la porta dietro. Appena fuori si voltò verso sinistra e notò che la luce del bagno era accesa. Si incamminò e dopo aver spento le luci il pensiero di lanciarsi nel suo letto lo raggiunse fin quando, dalla stanza opposta, una strana fragranza catturò la sua attenzione. Un profumo familiare, troppo familiare. Aprì con uno scatto la porta ma non vide altro che una custodia in una stanza vuota. Il profumo sembrava aumentare all'avanzar verso la custodia. Era chiusa e molto pesante. Rivestita da pelle nera scamosciata e intarsi color oro. La poggiò sul tavolo della cucina e con un coltello provò a forzare la piccola serratura sul lato. Nulla da fare era sempre bloccata. Spinse la punta in ferro nel lato e spinse con forza fin quando qualcosa scattò. Dalla piccola fessura che aveva creato facendo leva con il coltello fuoriuscì del fumo, del vapore. Sempre più curioso avvicinò la lama alla piccola serratura, proseguendo per la fessura appena creata, e fece forza. Un clic preannunciò lo sblocco della resistente e preziosa custodia. Quel vapore spinse il Signor Miller a soffiar per cercar di veder qualcosa. Sembrava fumo provocato da ghiaccio secco, denso e molto freddo. Si faceva strada tra i cartoni della pizza e percorrendo il vetro del tavolo si tuffava giù a cascata verso il pavimento, dileguandosi. Il Signor Miller poteva scorgere qualcosa, un piccolo scrigno. Provò ad aprirlo ma era chiuso. Prese, allora, la lama ma nemmeno l'avvicina che un uomo alle sue spalle lo colpisce tramortendolo. 
 
Il Signor Miller si svegliò nel suo letto con un allucinante mal di testa e la zona del basso collo dolorante. A svegliarlo è stata la voce di Veline che lo chiama dalla cucina. Non vedendolo arrivare Veline entrò nella camera del padre e notò il cuscino sporco di sangue secco. Impaurita, subito, la figlia corse dal padre invitandolo a sollevare la testa. Dietro la testa del padre c'era un piccolo e coagulato taglio.
«Papà cosa ti è successo? Sei ferito!» esclamò Veline con non voluta prepotenza.
«Non lo so, ieri notte, in cucina…» disse con confusione il Signor Miller «…la custodia del violino, un uomo…»
«Hai aperto la custodia? Cosa c'era?» chiese Veline ignorando l'ultimo dettaglio detto dal confuso padre.
«C'era un piccolo scrigno.» continuò il Signor Miller «Stavo per aprirlo quando sono stato colpito…»
«Colpito? Colpito da cosa? Da chi?»
«Non lo so, immagino un uomo.»
«Un uomo in casa, ieri notte...» con ancora più paura disse Veline «Siamo venuti qui per star tranquilli papà!»
«Amore lo so, ora chiamo la polizia e vedremo cosa fare.» continuò il padre «Prendimi il telefono in soggiorno.»
Veline uscì dalla camera del padre e si diresse verso il soggiorno attraversando la cucina ma qualcosa la bloccò, un profumo strano. Un profumo familiare. Si avvicinò alla finestra della cucina ed intravide una figura tra gli alberi. Ammiccò un paio di volte per schiarire la vista ma quella sagoma si dissolse nel nulla, evanescente come il vapore quando si disperde. Ignora il telefono e corre dal padre in camera.
«C'era uno strano profumo in cucina.» affermò Veline catturando l'attenzione del padre.
«Lo hai sentito anche tu? Non l'ho sognato?» chiese con strana enfasi il Signor Miller.
«Era il profumo di mamma.»

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Il lago ***


Capitolo 6 - Il lago
Passato

 
Faceva molto caldo in quella mattinata d’aprile. La primavera era alle porte e tanti, tutti, gli animali erano in festa. Veline e Betty erano già sveglie da un po’ ma rimasero rintanate nel letto per non richiamare la mamma e il papà che la sera prima avevano lavorato fino a tardi. Veline era a pancia in giù immersa nella lettura di un libro, una sorta di manuale più che altro; mentre Betty era stranamente silenziosa ed immersa nei suoi pensieri a ridosso della finestra. Caratteri differenti possedevano, quasi opposti, ma andavano molto d’accordo. 
Dalla finestra si riusciva a scorgere il lago e la piccola rimessa del Signor Craft, un anziano eremita che basò la sua lunga vita sulla pesca. La pesca era la sua unica ragione di vita, dicerie narravano.
«Andiamo a trovare il vecchio Craft?» propose Betty.
«Sai bene che io ho paura di quel Signore!» rispose aspramente Veline. 
«Ma quale paura?! Ha solo un’apparenza leggermente strana.»
«Leggermente? Leggermente?!» e qui il tono di Veline da velato e lievemente acido trasmutò nel sarcastico.
«Gli manca una mano e, forse, un occhio. Che sarà mai! Forse era un pirata da giovane!» ridacchiò Betty. 
«Smettila Betty, ti ho detto di no.»
«Allora se non vieni dirò alla mamma dell’altra sera!» minacciò Betty. 
«No! Non puoi davvero farlo.» quasi implorò Veline.
«Oh sì che posso, certo che posso. Non volevo arrivare a questo ma voglio andare dal vecchio Craft!»
«Cosa ti blocca dall’andarci da sola?» chiese Veline.  
«E tu faresti andar la tua sorellina da sola da quello sgozza tonni?!» quasi esclamò Betty.
«Solo perché sei nata due minuti dopo di me non vuol dire che io sia la maggiore, almeno solo quando ti servo. D’accordo comunque, ma dobbiamo tornare prima che faccia buio.» concluse Veline.
«Quanto ti adoro sorellona! Ma quanto ti adoro!» ridacchiando disse Betty guardando lo sguardo della sorella.
 
La mattina passò molto velocemente. Nei pressi del porto c’era un anziano signore senza una mano e con una benda sull’occhio impegnato nel districare una rete da pesca. Il lavoro era già difficile con due mani, figuriamoci con una. Eppure il Signor Craft sembrava avere una manualità fuori dal comune. A lavoro terminato rientrò in casa, chiamarla casa era un eufemismo, decadente, sporca e intrisa d’acqua. Ma il vecchio amava star in quella casa costruita da lui anni prima. Il Signor Craft era tante cose, oscure e non, a detta del paese. Girava voce che nei primi anni 50 quel lago fosse una palude infestata e flatulenta; il Signor Craft bonificò il tutto con delle idee geniali. Ma girano anche altre voci, meno ben viste e meno raccontate. Voci che narrano di una sua passione per la carne, non carne unicamente animale. Ma erano solo voci. Solo voci di paese.
 
Nella boscaglia si udivano le voci delle due sorelle dirette al lago. Betty urtò contro qualcosa e cadde rovinosamente a terra slogandosi una caviglia e ferendosi la gamba. Subito Veline andò in panico, non sapeva cosa fare o chi chiamare. Casa era troppo distante e il sole non sarebbe rimasto ad illuminarle ancora per molto.  Lago, doveva andare da sola al lago a chiedere aiuto. Con una paura che cresceva man mano che si avvicinava. Veline si fece strada fino allo scorgere di alcune scarpe abbandonate tra le foglie, notò che erano tutte scarpe di donne. Una strana sensazione iniziò ad invaderla, si sentiva seguita, osservata più che altro. Osservata da qualcosa o qualcuno. Non voleva stare da sola nel bosco. La vegetazione era sempre meno fitta fin quando non calpestò delle travi di legno disposte l’una dopo l’altra in ordine. Sentiero che portava alla riva del lago e ad una casa palafittata nel suo melmoso fondale. C’era un’aria molto umida e viziata in quel lato del lago, strano per un luogo all’aperto. Si guardò velocemente intorno in cerca di qualcuno ma quando non vide nessuno cadde in disperazione e lanciò un debole urlo. All’urlo rispose un uomo che dopo aver chiuso alle sue spalle la porta di casa si avvicinò a lei con fare misterioso e minaccioso. Non era molto alto, avrebbe superato a stento il metro e 60. Indossava degli anfibi, un impermeabile verde e un paio di guanti in pelle. Barba lunga ma molto curata e nessun capello sulla zucca. L’occhio sinistro era di un azzurro profondo quasi quanto il cielo e una benda sull’occhio destro. Era quasi al cospetto di Veline tanto che la ragazza riusciva a carpirne l’acre olezzo di pesce. Parlarono poco. Veline senza presentazioni o convenzioni chiese subito aiuto all’uomo che senza dir una parola annuì con la testa e ritornò in casa per uscir poco dopo in compagnia di un borsone. 
I due si avviarono verso la ferita e dolorante Betty che nel frattempo si era seduta su un grosso tronco caduto. Betty non aprì bocca, così come Veline. L’uomo osservò e dopo aver analizzato e valutato aprì il borsone. Aveva tra le mani un’ampolla gialla. L’aprì per poi, con l’aiuto di un contagocce, bagnar la ferita della ragazza. Il sangue a contatto con la sostanza gialla fumò leggermente per poi diventar da rosso vivo ad un opaco nero. L’uomo, sempre senza parlare, invitò la ragazza ad alzarsi sulle sue gambe ma il dolore della slogatura rendeva ciò impossibile. L’uomo prese la ragazza tra le sue braccia e con grande difficoltà e qualche cenno di sforzo portò la ragazza, seguita dalla sorella, verso il lago. Veline era pietrificata e non sapeva cosa fare, se ringraziare o scappare abbandonando la sorella al suo destino. Accennò un sussurrato ringraziamento al quale l’uomo rispose con un enorme sorriso, aveva quasi tutti i denti marci. Sgradevole sorriso ma rassicurante per entrambe le sorelle. Nascondeva un qualcosa di amichevole. Stranamente amichevole.
Arrivati dinanzi alla palafitta si potevano udire degli strani versi, quasi dei pianti. L’uomo tuonò un urlo e tutto tacque.
L’interno era fradicio e malandato, un tavolo al centro con di fianco una piccola e vecchia stufetta a legna. In un angolo, rintanato con il muso tra le zampe, un levriero marrone e bianco. L’uomo posò Betty sul tavolo e mentre Veline osservava il tutto ancora vicina alla porta d’ingresso il cane uscì scodinzolando proprio verso di lei.
«Nosferatu!» inveì l’uomo osservando il cane.
«Non si preoccupi, adoro i cani.» rispose timidamente Veline.
L’uomo afferrò la caviglia di Betty e dopo aver chiuso gli occhi in cerca di una qualche concentrazione con l’aiuto delle mani tirò per poi spingere. Lo schiocco d’ossa fu coperto dalle urla della ragazza. Il cane iniziò a piangere nuovamente così che l’uomo gli buttò un pezzo di pesce fuori dalla finestra, sembrava del salmone molto fresco. Nosferatu in un paio di balzi seguì il pesce e sparì dalla vista dei tre. L’uomo pose Betty sulla sedia ed invitò l’altra, con un cenno, alla tavola. 
«È vero che le manca un occhio?!» chiese inopportunamente Betty.
«Ma cosa dici! Zitta!» disse sottovoce Veline.
L’uomo non rispose ma si avvicinò a Betty. Era così vicino che riusciva a sentire il suo alito sul collo. Afferrò la benda nera e con un movimento tanto rapido la discostò svelando un occhio chiuso. Betty sobbalzò leggermente ma non riuscì a distogliere lo sguardo da quell’unico occhio chiuso.
I muscoli intorno alla palpebra si stavano rilassando. L’uomo svelò un occhio dall’iride scolorito, come fosse coperto da una pellicola.
«L’occhio c’è ma non ha più il dono per cui è nato» disse l’uomo scoppiando in una risata. 
A Betty le venne quasi da ridere mentre Veline era tutta un tremore. L’uomo, poi, afferrò il polso con l’altra mano e torse leggermente fin quando, dopo un clic, si tolse la protesi che portava. Gli occhi spalancati di Betty osservavano l’uomo poggiare la finta mano sul tavolo la quale non esitò a sfiorare. Lentamente avvicinò la sua mano alla protesi e appena la toccò essa scattò facendo saltare entrambe le sorelle.
«Protesi creata da me.» disse l’uomo «Ha delle molle nelle articolazioni per aiutarmi a stringere e afferrare. Volete bere qualcosa? Ho dell’ottimo whisky!»
Entrambe le ragazze erano rosse in viso ma a differenza di Veline il rossore di Betty svanì subito. Veline rispose negativamente per entrambe ed invitò la sorella a guardare fuori dalla finestra, il sole stava per tramontare. L’uomo osservò, anch’esso, dalla finestra e notò la preoccupazione di Veline.
«Vi accompagno io con il furgone.» propose l’uomo «Andiamo!»
L’uomo sistemò la mano e dopo aver preso Betty tra le braccia, seguito da Veline, andò verso il retro della casa. Quella parte non era visibile dalla finestra di casa Miller. C’era un piccolo ripostiglio chiuso con un lucchetto e al riparo sotto un albero un vecchio furgoncino marrone. Betty era distesa dietro mentre Veline era nel sedile del passeggero. Lo sguardo di Veline era rivolto fuori dal finestrino così come quello della sorella era nello specchietto retrovisore in cerca dello sguardo dell’uomo. Sguardo che non faticò nel trovare e fissare.
C’era silenzio nell’abitacolo ma Veline notò che non stavano percorrendo la consueta, e più breve, strada di ritorno. 
«Io non faccio mai quella strada per andare in città.» disse l’uomo notando lo sguardo preoccupato di Veline «Io amo cingere tutto il lago.»
Questo non rassicurò molto Veline ma quella rottura di silenzio fu presa al volo da Betty che incalzò numerose ed invadenti domande che sembravano divertire, invece che infastidire, l’uomo.
«Perché vive lontano dalla città? Come ha perso la vista? E la mano?» sparò velocemente Betty.
«Calma Signorina! Una domanda alla volta. Io vivo lontano dalla chiassosa città perché anni fa fui esiliato da essa, ciò non mi dispiacque molto ad essere sincero, son sempre stato meglio da solo e poi ho il caro Nosferatu a tenermi compagnia. Era un campione, sapete? Era un cane da competizione. Poi con il passare degli anni perse il suo smalto e fu ripudiato dal suo padrone. A quel tempo lavoravo al cinodromo e così lo presi sotto le mie cure» Veline non sembrava minimamente interessata e osservava con ansia la strada scorrere velocemente dal finestrino «Per quanto riguarda la seconda domanda, sono affetto dalla sindrome di Usher. Prima parte dell’udito e poi l’occhio. E per la terza domanda devo ritornare ad una ventina d’anni fa, nei lontani anni ‘70. Ero alla ricerca di legna per il camino quando un serpente mi morse un dito. La scienza medica non era molto avanzata all’epoca e così l’unico modo per salvarmi, dopo aver neutralizzato il veleno, era l’amputazione. Accontentata la tua curiosità, spero. E tu» rivolgendosi alla tesa Veline «non hai interrogativi?»
«Cosa sono tutte quelle scarpe di donna nelle fronde vicino casa sua?» chiese con fare irruente Veline.
«Amo le scarpe di donna, son solito conservarle ma in casa non ho spazio» la menzogna fu amplificata dal cambio di tono e d’espressione dell’uomo appena gli fu posta la domanda.
Veline non ribatté e un nuovo silenzio si mischiò all’ormai oscurità che copriva tutto. Nel lago si rispecchiava una luminosa luna. Il silenzio fu, ancora una volta, spezzato dalle urla delle ragazze. Urla causate da un brusco movimento voluto dall’uomo per schivare un qualcosa, che comunque urtò, sulla strada, un animale. Un cervo, forse. L’uomo spense il motore e scese dal furgoncino diretto appena oltre la strada. C’era un ragazzo accovacciato svenuto nel terreno. L’uomo, tacitamente, fece sedere il ragazzo impotente per poi svegliarlo con degli schiaffi in viso. Occhi verdi furono illuminati dai fari del furgoncino. Le ragazze osservavano tutta la scena con paura e curiosità. Dopo aver rianimato il ragazzo l’uomo prese una cosa dalla tasca del cappotto. Strinse qualcosa tra le mani del ragazzo per poi invitarlo ad andar via. Prima di andar via il ragazzo passò davanti ai fari e guardò nel furgoncino. Betty era invisibile ma Veline era quasi percettibile. La vista del ragazzo era folgorata dai forti fari così fece per girare verso la portiera ma l’uomo afferrò il suo braccio e lo bloccò invitandolo, e questa volta nervosamente, ad andare via. Il ragazzo riuscì a scorgere velocemente il viso e gli occhi di Veline e corse via.
L’uomo ritornò nel furgoncino e dopo aver chiesto alle ragazze se si erano fatte del male riprese il viaggio.
«Cosa gli ha dato?» chiese Veline «Cosa ha dato a quel ragazzo?»
«Un omaggio in segno di scuse da parte mia.» rispose evasivamente l’uomo «Ma dimmi, tu dietro, la gamba come sta?» chiese velocemente l’uomo.
«Meglio, meglio grazie.»
Veline capì che tale argomento non era ben voluto dall’uomo così ritornò nel suo adorato silenzio osservando la citta avvicinarsi all’orizzonte. L'uomo fece sosta al distributore; subito dopo il rifornimento, il benzinaio si avvicinò per percepire il pagamento ma appena riconobbe il signor Craft si allontanò facendo segno con la mano di andar via. Le ragazze non ci fecero caso e il viaggio continuò. L’uomo non usava le strade principali ma percorreva stradine rovinate e dissestate che facevano sobbalzare tutta la cabina. 
Il silenzio fu interrotto, ancora una volta, da Betty; più precisamente dal suo stomaco affamato. L’uomo ridacchiò delicatamente e disse con tono dispiaciuto che nel furgoncino non aveva nulla da mangiare. 
Arrivarono quasi dinanzi la casa delle sorelle. Il Signor Craft parcheggiò dietro alcuni alberi. Saldò la sorella sotto il braccio dell’altra e dopo uno sguardo totale, per controllare che le due stessero bene, rientrò, senza accennar nemmeno una parola, nel furgoncino. Le due si avvicinarono al finestrino per ringraziarlo di tutto ma lui con lo sguardo diretto da tutt’altra parte svoltò e andò via senza nessun cenno o saluto, evasivamente. 
 
«Dove siete state tutto il giorno? Cos’è successo a tua sorella Veline? Perché zoppica?!» sbraitò la madre delle due.
«Mamma siamo state dal Signor Cr…» provò a dire Betty ma subito la sorella la bloccò e disse di esser state al lago ad aspettar la luna per poi spiegare della caduta.
«Siete state dal Signor Craft?!» chiese la madre.
Suonò, improvvisamente, il campanello e la mamma uscì dalla cucina per una manciata di minuti; era il padre di ritorno dal lavoro. Le due discussero, velocemente, su cosa rispondere ai genitori ma questi subito ritornarono non dando loro il tempo di architettare qualcosa.
«Siete state dal vecchio Craft?» chiese, questa volta, il padre.
«S-sì» risposerò all’unisono. 
Dopo quell’affermazione le due raccontarono ai genitori ogni dettaglio della giornata, dalla rovinosa caduta all’avvento del Signor Craft, della sua medicazione e del viaggio di ritorno verso casa.
Dopo aver spiegato tutto, fecero ai genitori una domanda che avrebbero voluto fare al Signor Craft. Chiesero loro perché fu stato esiliato ma i genitori risposero evasivamente con fare misterioso e impaurito.
«Il Signor Craft è un uomo molto cattivo.» rispose la madre «Ha fatto tante brutte cose, cose che non si possono nemmeno raccontare.» proseguì il padre. 
Le sorelle capirono la scarsa eloquenza dei genitori e dopo aver rimedicato la ferita andarono in camera. 
 
Erano distese nel letto, entrambe supine. Lume acceso e tante domande nella testa, soprattutto Betty. Nessuna delle due aveva le risposte per l’altra così dopo chiacchiere inutili Veline si alzò e spense la luce. Nel ritorno verso il letto si avvicinò alla finestra e vide in lontananza due figure esser bagnate dalla luce del furgoncino. Chiuse la tenda e mentre stava per immergersi nel letto uno sparo echeggiò in tutta la valle come un tuono a ciel sereno. Subito riaprì la tenda con lo sguardo diretto verso il porto.
Tutte le luci erano spente.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - I fratelli ***


Capitolo 7 - I fratelli 
Passato
 
 
Due uomini si muovevano furtivamente nei pressi di un granaio. Era quasi l’alba e il peso della rugiada piegava i fili d’erba, gli uccelli erano ancora rintanati nei tronchi e nidi a ridosso di qualche alta frasca. Un solo e nero corvo era vigile, appollaiato sul più basso ramo di un abete ad osservare i due uomini trascinare alcuni sacchi. Un vecchio furgoncino era parcheggiato nell’erba alta, quasi a nascondersi. Si udivano i due uomini mormorare qualcosa, forse indicazioni, per poi ritornare in silenzio. Uomini non molto alti ma robusti diretti all’ingresso di un grande e rosso granaio. I loro visi erano simili per aspetto ma non per espressione: il primo aveva le sopracciglia inarcate e gli occhi fissi verso il granaio mentre l’altro aveva degli occhi che quasi imploravano pietà. Il corvo saltava da un ramo all’altro per seguire la scena fin quando volò verso una piccola finestra che dava nel deposito. Riuscì a veder chiaramente i due uomini entrare per poi sbarrare la porta alle loro spalle. Dentro era molto pulito e si respirava un’aria di candeggina mista ad un essenza delicata di limone. Il pavimento in legno quasi risplendeva e le alte pareti erano piene di sacchi pieni pronti per l’importazione. I due uomini adagiarono il nuovo carico per poi sparire dietro una parete divisoria in legno. Si sentiva uno dei due dare direttive all’altro in maniera rapida, quasi rasentando il sadico. Nelle sue parole traboccava un qualcosa di strano, aveva un tono bramoso e aggressivo.
«Dovremmo smetterla Carl.»
«Fai silenzio Tom, ho tutto sotto controllo.»
«Certo, come l’altra volta in cui gli sbirri stavano per scoprirci» attaccò Tom «Io voglio tirarmene fuori, ho paura.»
«Ormai ne sei tanto dentro quanto me, non puoi più uscirne.» spiegò Carl avvicinandosi e avvolgendo una mano alla gola di Tom «Spero di esser stato chiaro perché non mi ripeterò con questa calma la prossima volta.»
«Sì, è tutto chiaro.»
«Ottimo! Prendi quelle corde e vieni ad aiutarmi, questi sono gli ultimi due del mese per il Signor Flamel.»
«Per quanto altro tempo dovremo far questo?»
«Per tutto il tempo necessario, ora basta parole ed aiutami che al Signor Flamel non piacciono le perdite di tempo.»
«Carl ma lui non è qui, non può vederci. Tranquillizzati!»
«Quanto sei sciocco fratello, lui vede e sente ogni cosa.»
I due uomini gettarono delle corde oltre le travi portanti del tetto e dopo averle fermate con alcuni particolari nodi si avvicinarono ai sacchi che prima stavano trascinando. Stavano per sciogliere il laccio quando un rumore d’auto attirò la loro attenzione. Strascicarono velocemente i sacchi colmi e si diressero verso l’uscita. Era la volante del poliziotto James Milo. Carl sbloccò la porta e, dopo aver dato delle direttive a Tom, uscì chiudendosi la porta alle spalle. Si avvicinò frettolosamente alla volante del poliziotto con esagerato fare amichevole e disponibile, quasi volesse nascondere qualcosa. I due iniziarono una calma conversazione in cui il poliziotto spiegava di aver visto il furgoncino e di voler far visita ai cari fratelli Craft. Raccontò di uno sparo la notte prima presso il lago e che, quindi, stava controllando un po’ tutta la zona. Semplice routine, diceva il poliziotto ma Carl sapeva bene che i sospetti di qualunque cosa accadesse ricadevano sempre su di lui. Appunto dopo aver gironzolato tutto intorno al granaio con il poliziotto quest’ultimo chiese di dare un’occhiata all’interno. Sempre per routine, diceva. Carl nascose il nervosismo e prima di entrare picchiò il piede per tre volte contro la porta in legno. Nessuna risposta dall’interno, doveva prendere altro tempo. Carl spiegò che il timido Tom era in bagno e che si era serrato a chiave. Il poliziotto sembrò capire la frottola ma decise di stare al gioco parlando del più e del meno fin quando non si sentì lo scorrere delle catene. L’odore di candeggina era sempre presente ma il profumo di limone era aumentato fastidiosamente. I due sacchi erano poggiati al muro insieme agli altri e le corde erano state riposte in una cesta vicino a seghe e altri utensili per il legno. Il poliziotto con le mani unite dietro la schiena perlustrò un po’ tutta la zona calciando, di tanto in tanto, qualche sacco. Nel vedere il poliziotto scalciare contro i sacchi Tom sembrò sobbalzare ma Carl con un’occhiata lo faceva ricomporre e con deliziose parole lo invitò a prender qualcosa per il poliziotto Milo. L’agente rifiutò e chiese di poter aprire i sacchi. Tom annuì preoccupato e sussurrò dei comandi al fratello. Il poliziotto riuscì ad aprire un paio di sacchi per poi udire il rumore gracchiante dell’autoradio della volante. Subito corse fuori e dopo aver salutato, seccato, i fratelli andò via.
«Carl chiudi la catena e getta via quel bastone, non serve più.»
«Tom ci è mancato poco.»
«Quel piedipiatti maledetto, un giorno sarà cibo per il tuo ammalato cagnaccio!» sbraitò Tom «E la prossima volta nascondi meglio i sacchi che portiamo»
«Nosferatu non è malato e poi sai che con una sola mano funzionante alzare quei sacchi è difficile per me.»
 
Nei pressi del granaio si aggirava un ragazzo troppo curioso, attirato dalle luci della volante del poliziotto e dal forte profumo di agrumi. Notò il furgoncino e dopo aver ispezionato l’interno, non trovando nulla, si incamminò furtivamente verso il granaio. Si avvicinò quanto bastava per ascoltare i due fratelli parlar tra loro. Sempre l’uno che dava direttive all’altro come fosse uno schiavo. Dava comandi alquanto strani se uditi al di fuori del contesto, così il ragazzo nel cercare una crepa nelle pareti destò l’attenzione dei due che si silenziarono. Il ragazzo sentì il rumore delle catene e scappò nell’erba alta sperando di non essere visto. Da quella posizione riusciva a scorgere gli stivali dell’uomo girare tutto intorno al granaio per poi rientrare in esso richiudendo tutto. Tranquillamente, il ragazzo ritornò alla sua postazione curioso più che mai. Avvicinò l’occhio ad una crepa, attraverso la quale riuscì a vedere chiaramente l’interno. In quella parte di granaio non vedeva altro che la figura di un uomo che teneva una corda tra le mani. La tirava come per issare qualcosa. Il gracchiare di un corvo distrasse e spaventò il ragazzo che nel girarsi notò uno degli uomini nei pressi del furgoncino. Seguì l’uomo con lo sguardo che con il furgoncino si diresse all’ingresso del granaio per poi chiuderlo. Il ragazzo attese un po’ per poi arrampicarsi su una catasta di legna in modo da raggiungere il tetto. Arrivò alla finestrella e scrutandone l’interno non riuscì a veder nulla d’importante, in compenso un’acre odore di limone misto ad una fragranza più dolciastra e metallica invase le sue narici.
Il ragazzo fremente di curiosità spinse la testa nella finestra ma tutto fu inutile. Prima di abbandonar ogni tentativo però distinse un corvo appollaiato sulle travi in legno che spiccò il volo. La luce del sole venne coperta da nuvoloni improvvisi e il ragazzo decise di tornare a casa prima dello scoppiare di un temporale. Discese dal tetto e intravide, in lontananza, il furgoncino far ritorno molto velocemente. Si nascose sotto la catasta di legno e attese. Il furgoncino frenò bruscamente davanti al granaio e si sentì Carl imprecare contro il sempre tranquillo Tom.
«Dov’è? Dove diamine è? Tom tu vai nel retro io controllo qui davanti.»
«Carl ma si sarà sbagliato. Non era qui con noi.»
«Se ha detto che c’era qualcuno, c’era qualcuno. Lui non sbaglia mai e guai a contestare.»
«Sì ho capito Carl ma detto tra noi ti sembra normale questa faccenda?»
«Zitto! Zitto! Zitto ho sentito qualcosa. Dividiamoci, svelto.»
Il ragazzo sotto la catasta di legno capì che i fratelli stavano cercando proprio lui. Cominciò ad aver paura e quando sentì uno dei due uomini venir nella sua direzione cadde nel panico, il cuore pulsò all’impazzata e le mani iniziarono a tremare. Il fratello, ora, era proprio davanti a lui e il ragazzo non riuscì a nascondere un isterico pianto mischiato a soffocati singhiozzi. L’uomo si girò, aveva un bastone chiodato tra le mani.
«C’è nessuno?» chiese sussurrando Tom.
 
Il ragazzo stava per abbandonarsi ad urla incontrollate quando riconobbe la voce di Tom. L’uomo, ormai, era ad un palmo dalla catasta. Impossibile non intravedere il nascosto ragazzo.
«La prego non mi faccia del male.» disse con gli occhi traboccanti di lacrime.
«Io non voglio farti del male, tranquillo. Cosa ci fai qui?»
«Nulla, ero solo curioso. La prego non mi faccia del male.»
«Ti ho già detto di star tranquillo. Cos’hai visto?»
«Niente! Non ho visto niente di niente.»
Tom si alzò e dopo essersi guardato le spalle tornò davanti al granaio in cerca del fratello. Urlò un paio di volte il suo nome. Carl chiese, in modo abbastanza scocciato, se avesse trovato qualcosa. Tom negò e dopo aver visto i nuvoloni farsi sempre più fitti e scuri propose al fratello di ritornar a casa.
Le prime gocce d’acqua cominciarono a cader nel terreno. Il ragazzo, gradualmente, uscì dalla catasta per andar via. Corse con lo sguardo verso il granaio. Lo vide rimpicciolirsi sempre più man mano che si allontanava. Si sentiva osservato, seguito.
Un fulmine luminosissimo seguito da un assordante tuono precedette un impetuoso temporale. Ogni rumore era mascherato dalla pioggia e dal vento. Si preannunciava come un lungo temporale.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Visione esterna ***


Capitolo 8 - Visione esterna
Passato
 
 
La pioggia batteva furiosamente contro i vetri di casa Miller. Talmente forte che i vetri sembravano quasi infrangersi. Non si vedeva da tempo un temporale così aggressivo. Il lago da calmo e piatto cominciò a gonfiarsi e ad infrangere onde sempre più alte contro la costa. Betty era ancora dolorante nel letto con la caviglia strettamente fasciata. Veline era in piedi davanti alla finestra ad osservare, come ipnotizzata, la pioggia scorrere contro le vetrate. Improvvisamente uscì dalla stanza con passo svelto e idee ben chiare, ignorando la domanda di un bicchier d’acqua provenire dalla malata sorella. Percorse tutto il primo piano fino a trovarsi sotto una botola.  Afferrò una cordicella in modo da svelare una lunga scala in legno.
Un forte odore di muffa gli entrò nelle narici e quasi le fece lacrimare gli occhi. Schiacciò un interruttore per illuminare la sala. La soffitta era molto ampia mentre il soffitto seguiva la fisionomia spiovente della casa, era alta al centro e bassa ai lati. Veline si accovacciò e gattonando raggiunse una grande e vecchia cassapanca in vimini. Al suo interno c’era di tutto e di più, era davvero enorme. Cartelline, documenti, un paio di vecchi cappotti ancora incellofanati, alcuni libri e alcune scatole di varia misura chiuse con del nastro nero. Veline iniziò a scavare fino a trovare un sacchettino color porpora dalla forma allungata. Sistemò tutto e si avviò verso l’uscita; tra tutta quella sporcizia in soffitta riuscì a scorgere una deliziosa scatolina con intarsi e disegni vari. C’erano davvero tantissime cose in quella soffitta ammuffita e polverosa.
Di ritorno in camera Veline, silenziosamente, aprì il sacchettino e svelò un antico ma ben tenuto cannocchiale. Sembrava quello che usavano i pirati per scrutar l’orizzonte in cerca di navi da depredare o di isole sulle quali approvvigionarsi, dorato con varie parti in pelle e legno.
Sempre ignorando le numerose domande e richieste della sorella diresse l’obiettivo verso il lago. La pioggia era talmente forte che tutta la zona sembrava coperta da un sipario d’acqua e vento.
Ecco, in lontananza, intravedeva il Signor Craft sotto la pioggia invitare con cenni di mano il cane in casa. Veline spostò l’attenzione verso il retro della palafitta e scorse un altro uomo. Non riuscì a veder chiaramente ma l’uomo di spalle voltandosi sembrava essere armato.
 
Tom supplicò Nosferatu di entrar in casa ma sembrava non dargli retta, il che era molto strano. Il cane continuò ad ignorare le suppliche di Tom fin quando non digrignò i denti. Tom era quasi intimorito da tale comportamento. Un boato. Il cane balzò in avanti superando Tom, addentò il braccio di Carl che per liberarsi lasciò cadere una rivoltella ancora fumante per poi scaraventare il cane verso un albero, tramortendolo. Tom era caduto sulle ginocchia con lo sguardo perso nel vuoto e la pioggia che ancora batteva violentemente su di lui. La camicia cominciò a tingersi di rosso.
«Mi dispiace fratello, mi dispiace davvero.»
Dopo queste parole Carl entrò nel furgoncino e sgommando sparì nel bosco. Tom restò immobile sulle ginocchia per qualche instante per poi crollare con la faccia nel fango, inerme.
 
Veline lasciò cadere il cannocchiale per correre in soggiorno dai genitori che erano rilassati sul divano davanti alla tivù. Si affrettò a spiegar ciò che aveva visto ma i genitori sembravano ignorarla. Senza pensarci due volte, prese cappotto e ombrello, uscì.
L’acqua batté forte contro il suo viso e petto. Le mani gelide serrate all’ombrello lottavano contro il vento che sembrava graffiarle la pelle. Evitò una pozza d’acqua ma alla fine, addentrata nel sentiero boscoso, inciampò e cascò con le mani nel fango che le sporcò anche il viso e i capelli. Non sapeva cosa avrebbe fatto una volta lì. Aveva paura ma un qualcosa di istintivo la stava attirando verso l’uomo ferito.
La folta vegetazione si diradò e agli occhi di Veline apparve la scena vista dalla sua finestra. Un paio di lampi illuminarono in modo sinistro la scena: il Signor Craft era supino e immobile nel fango così come Nosferatu. Veline si avvicinò all’uomo e notò che al tocco della sua mano contro il suo viso aprì leggermente gli occhi, era ancora vivo. Veline urlò al Signor Craft di non rinvenire e di non preoccuparsi. La pioggia sembrava aumentare sempre più così come i lampi e tuoni che rendevano il tutto più arduo, il lago era fuori controllo e il suo scaraventare onde dopo onde contro gli esili tronchi che sorreggevano parte della palafitta sembravano cedere. La ragazza afferrò le caviglie dell’uomo per trascinarlo verso un riparo. A fatica raggiunse l’ingresso della casa che, però, decise di superare per via dei gradini. Arrivò sotto la protezione di un albero. Sprigionando una forza soprannaturale, sistemò l’uomo con le spalle verso il tronco. Il cane sembrava respirare a fatica ma era vivo anche lui. Veline non sapeva cosa fare. Le onde continuavano, furiose, ad infrangersi contro la casa, trascinandola, poco dopo, sul fondo del lago. La ragazza cercò di tener sveglio l’uomo che sembrava essere svenuto un’ennesima volta, tutto era inane. La pioggia filtrò attraverso i rami fino al ricadere sulla testa di entrambi. Non esisteva una soluzione fin quando la ragazza avvistò due fari farsi strada tra la pioggia: era la macchina del padre con a bordo Betty e il Signor Miller.
 
La strada verso l’ospedale era ancora molto lunga e il Signor Craft perdeva ancora sangue. In macchina il padre rimproverò la figlia per la sua iniziativa ma subito dopo avanzò le sue scuse per averla ignorata. Tentò di giustificar la sua negligenza ma Veline ignorò ogni singola parola. Il cane, dal retro della macchina, stava piagnucolando. La macchina sfrecciava tra la pioggia ad una velocità elevata ma che sembrava troppo lenta per Veline che chiese ripetutamente al padre di spingere sull'acceleratore. I sempre presenti tuoni fecero piangere sempre più sonoramente Nosferatu che ormai sembrava essersi ripreso completamente.
 
Il Signor Craft era in sala operatoria da un’ora ormai. Il padre sembrava essere quello più in ansia dei tre. Ansia per chi ha salvato e non per chi non ha lasciato morire nel lurido e freddo fango. Il padre aveva paura delle ripercussioni di questo gesto da eroe.
(Salvare un colpevole ti rende colpevole? Sarò esiliato? Cosa ne sarà della mia carriera adesso?)
La sua testa creava domande su domande e decise di andare alla macchinetta a prendere qualcosa di caldo, nella tenue speranza di scaricare i nervi. Sole, le sorelle restarono in silenzio per un po’ fin quando Betty non spiegò alla sorella che aveva convinto lei il padre. Proseguendo diede della “stupida impulsiva” alla sorella dicendole che l’irriflessiva della famiglia era lei, tutto ciò detto con un tono d’ironia e tanto affetto. Il tempo sembrava passare sempre più lentamente fin quando un uomo in camice bianco uscì dirigendosi verso di loro.
«È vostro zio?» chiese il dottore.
«No, è un amico di famiglia.» disse Veline.
«È uno sconosciuto, nessun legame con noi, lo abbiamo soltanto soccorso come farebbe chiunque.» corresse il padre intento nel sorseggiare con mano tremante un bicchiere di tè fumante.
«Ha perso molto sangue ma è fuori pericolo di vita. Il proiettile ha sfiorato il cuore di un soffio, si rimetterà presto.» concluse il dottore.
«Bene, ora andiamo a casa. Torneremo domani.» disse frettolosamente il Signor Miller.
«Io voglio passare la notte qui.» annunciò Veline con tono sicuro.
«Non esser sciocca, devi cambiarti e fare un bagno caldo.» continuò il padre «Domani ti accompagnerò, promesso.»
Veline restò sulla sua decisione ma le parole del medico la tranquillizzarono e decise di non inscenare una lite familiare proprio lì, così i tre entrarono in macchina e tornarono a casa.
 
Immersa nella vasca tra l’acqua calda e la schiuma Veline si rilassò al punto da crollare in un sonno. Si riconobbe dall’alto di un albero come fosse uscita dal suo corpo. Riuscì ad osservarsi esternamente, stava percorrendo il sentiero che porta al lago. Osservò la strada che aveva fatto non troppe ore prima per soccorrere il Signor Craft. Dopo aver osservato l’esterna Veline sistemare l’uomo sotto l’albero la visuale mutò. I fitti rami si dileguarono dando spazio alle nuvole, sembrava letteralmente di volare, per poi ricadere in picchiata verso una costruzione in legno non troppo distante. Scorse il furgoncino del Signor Craft parcheggiato nei pressi di un fienile, una stalla. Si avvicinò sempre più fin quando non arrivò sul tetto della stalla. Notò un uomo molto simile al Signor Craft alzare una botola e tuffarcisi dentro. La visione volante seguì l’uomo in un cunicolo buio e lungo fin quando una fioca luce illuminò una piccola cucina. C’era l’uomo che aveva sparato al Signor Craft in compagnia di un vecchio alto e dall'aspetto rigoroso.
«Ho fatto come mi ha ordinato Maestro Flamel.» sussurrò Carl con lo sguardo rivolto verso terra, quasi intimidito da quella presenza.
«Hai fatto un buon lavoro, voglio premiarti.» disse il vecchio «Odio i bugiardi come tuo fratello.»
«Lui ha solo cercato di proteggere il ragazzo.»
«Lo stai forse difendendo?» chiese con tono accusatorio il vecchio.
«Certo che no Maestro, non lo farei mai. Perdoni la mia sfacciataggine.»
Il vecchio da una scodella di zuppa all’uomo e lo invitò a mangiar con un cenno di mano. L’uomo affamato non se lo fece ripetere due volte e impugnando un cucchiaio in legno iniziò a sorseggiarla. L’uomo sembrava gradirla ma più la beveva e più sentì la sua bocca secca. Chiese un po’ d’acqua al vecchio ma lui rispose che era normale e iniziò a percorrere la cucina fino ad arrivar alle spalle dell’uomo poggiando le grandi mani sulle sue spalle. L’uomo comincia a tossire ma continua a mangiare quella zuppa nella speranza di alleviar quel fastidio e senso di sete che sembrava aumentar invece di diminuire. Ad un certo punto Carl lasciò cadere il cucchiaio sul tavolo e spalancò gli occhi.
«Sai Carl, io odio i bugiardi. Ma odio ancor più la tua razza. Essere sporco capace di macchiarsi le mani con il sangue di un fratello per un ordine superiore.»
«Signore ma io ho solo ubbidito ai suoi ordini, se non l’avessi fatto mi avreste ucciso.» disse Carl con la consapevolezza di esser stato avvelenato.
«Hai ragione ma ti avrei eliminato in ogni caso, mi eri già inutile dopo l’ultima consegna.»
«Ma signore l’ho sempre servita con dedizione e puntualità.»
«Carl, caro Carl non sciupare i tuoi ultimi aliti di vita per dirmi cose inutili.»
Dopo questa spiegazione il vecchio si incamminò verso una porta. La visuale sembrava seguire il vecchio lasciando alle spalle la visione del morente Carl. La porta si chiuse ma le urla strazianti di Carl che imprecavano erano chiaramente udibili. La visuale traballante continuò fino al centro di una stanza buia, illuminata solo da uno spiraglio del soffitto attraverso il quale passava della luce che ricadeva al centro di un bacile. Poi si vide il vecchio avvicinare la mano verso la sua spalla e con l’allontanarsi di essa si allontanò anche quella visuale che si spostò proprio di fronte al suo viso.
«Ora aspetto solo te.» disse il vecchio fissando qualcosa sopra la sua mano.
 
Veline sobbalzò e affondò la testa sott'acqua. Con il cuore palpitante in petto uscì dalla vasca più impaurita che mai. Si sistemò e corse tra le coperte. Cercò di prender sonno ma quelle parole, che sembravano dirette a lei, e quella strana visione continuò a occuparle la mente: ora aspetto solo te.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Legame indissolubile ***


Capitolo 9 - Legame indissolubile
Presente
 
 
Notte fonda. Tutti riposano. Il temporale era giunto alla sua fine. Da alcuni sfiati sembrava fuoriuscire del vapore che ricadendo sul terreno formava una bassa ma densa nebbia bianca. Intorno alla stalla tutto tacque.
Il diradarsi delle nuvole permise ad una luna non piena di bagnar ogni cosa con la sua luce. Il furgoncino dei fratelli Craft era lì parcheggiato dalla mattina. La catena della stalla era immersa, quasi nascosta, nel fango. Intorno non c’era molto se non un esile ponticello che sovrastava un altrettanto magro fiume. Dai fori nel terreno nulla si intravide se non una tenue luce portata su dal vapore. Nella stalla c’erano tanti sacchi piegati e sistemati su alti scaffali, al centro la botola.
Carl aveva le labbra violacee con mani e i piedi grondanti di sudore. Non era più accasciato sul suolo della cucina ma disteso su una lastra di bianco alabastro marmo. Aprì gli occhi ma quel che riuscì a vedere era solo un altissimo soffitto finestrato attraverso il quale notò uno spicchio di luna. Ruotò leggermente il collo ma qualcosa lo tenne ancorato e non gli permise grandi movimenti, stessa sorte per mani e piedi. Ruotò gli occhi ed intravide dei grossi e lunghi perni traforargli le mani. Immagina stessa fatalità sia toccata anche ai piedi, vista l’impossibilità di muoverli. Ma non riuscì a capire cosa stesse bloccando la sua testa. Sentì dei passi lontani avvicinarsi sempre più. Ritmo lento e preciso, chi avanzava verso lui non aveva la benché minima fretta, talmente lenti che sembravano scandire i minuti.
«Stai comodo, spero.»
«Maestro cosa mi sta succedendo? Sono trapassato da parte a parte da perni, non riesco a muovermi.»
«Penso sia normale, non trovi?»
«Non avverto dolore ma sono invaso da una strana nausea, cosa diamine mi sta succedendo? Non ricordo niente!»
«Tranquillo, è tutto normale. Sei sotto le mie cure, adesso.»
Il maestro Flamel si accomodò tra le morbidezze di una sedia disposta al lato della lastra sulla quale giaceva Carl. Restò in questa posizione, con gli occhi chiusi, per parecchio tempo. Mormorò, quasi sussurrando, delle incomprensibili parole. Improvvisamente, ma con quella calma che lo contraddistingueva, si alzò e si avvicinò all’uomo per vederlo meglio.
«È stata una fatica trascinarti e innalzarti sul tavolo, apprendi?»
Carl aprì la bocca come per parlare ma quel che sentiva era solo il pensiero della sua mente e la voce del Maestro: «Inutili i tuoi tentativi di rispondermi, tra poco ricorderai ogni cosa. Devi solo pazientare ancora per un po’.»
Il Maestro aprì leggermente la bocca dell’uomo per poi far ricadere in essa tre gocce bianche provenire da un’ampolla. Le pupille di Carl si dilatarono e gli occhi si mossero scattosamente in ogni direzione. Le venature sul collo e sulla fronte si gonfiarono per poi terminare con il blocco degli occhi in una precisa direzione, la luna.
 
«Carl, Tom, venite a mangiare!» urlò una donna abbastanza giovane dall’altra parte di un campicello arato.
«Mamma terminiamo l’esplorazione e arriviamo» rispose, sempre urlando, un giovanissimo Carl.
«Carl la mamma ci ha sempre proibito di attraversare il fiume, non dovremmo farlo.»
«Sei sempre stato un codardo, Tom. Sta zitto e seguimi.»
«No, io torno dalla mamma.» disse Tom per poi iniziare una corsa verso la roulotte parcheggiata poco distante.
Il giovane Carl attraversò un ponticello per imbattersi in una recinzione piena di animali. Mucche, capre e qualche asino. Al centro dello steccato c’era una stalla ancora in costruzione. Il ragazzo si avvicinò ad alcuni operai i quali non gli donarono particolare importanza. Carl si avvicinò al recinto per poi carezzare la testa di un asino facendolo ragliare, subito ritrasse la mano e scavalcò lo steccato per rincorrere le capre. Corse, scappò e giocò nel perimetro dello steccato fin quando, distratto per lo sguardo rivolto verso una capra particolarmente mattacchiona, urtò nello stomaco di un vecchio. Carl alzò lo sguardo e cadde in un imbarazzato silenzio. Il vecchio colpì il suo capo con le dita per poi disegnar un sorriso sul suo volto.
«Come ti chiami ragazzino?» chiese il vecchio
«Carl, mi chiamo Carl. Mi scusi, non dovrei essere qui.»
«Non preoccuparti, apprezzo la tua audacia. La mamma ti ha detto di non oltrepassare mai il ponte ma tu l’hai fatto lo stesso. Sei coraggioso. Non come tuo fratello, vero?»
«Conosce mio fratello signore?»
«Non ancora ma lo conoscerò molto presto.»
 
Le pupille di Carl ritornano normali. Il Maestro non era lì con lui. Aveva la mente lucida per riflettere e cercar di ricordare, ma fu inutile. Riecco i lenti passi ritornare verso di lui. Provò a liberarsi ma avvertì un tenue bruciore provenire da mani e piedi.
«Inizi ad avvertire il dolore, immagino.» disse Flamel osservando le espressioni doloranti sul volto di Carl «Ma non preoccuparti la prossima fase sarà indolore.»
Detto questo il vecchio si diresse alle spalle dell’uomo, dietro il suo capo. Armeggiò con qualcosa proprio dietro la sua testa per poi aprir nuovamente la bocca dell’uomo e lasciar cadere altre tre gocce, rosse questa volta. Medesima reazione, pupille dilatate e occhi che roteavano rapidi e senza controllo per poi bloccarsi.
 
«Carl dove vai la notte? La mamma è preoccupata.» chiese Tom.
«Son fatti miei. Ho trovato un lavoro.»
«Ogni volta che torni con il furgoncino di papà questo ha sempre un odore strano. Cosa fai di preciso? Per chi lavori?»
«Fratello questi sono affari miei! Tu non devi immischiarti e dì alla mamma di pensare a se stessa.»
Quella notte Carl si alzò per uscire. Tom, silenziosamente, si era nascosto nel retro del furgoncino. Barcollò e traballò per quasi un’ora, poi tutto si fermò. Carl prese un grande borsone dal retro ed uscì sbattendo la porta. Tom, nascosto tra i sedili posteriori riuscì ad intravedere una grandissima villa circondata da alberi, il piano terra era oscurato a differenza di una finestra del primo piano che irradiava una forte luce gialla. Riuscì a sentire vari rumori, strani rumori. Voleva vederci chiaro, così uscì dal furgoncino e scappò a nascondersi dietro un grande cespuglio. La luce del primo piano era ancora accesa ma dalla porta d’ingresso riconobbe il fratello che trascinava, con enorme fatica, un borsone nero che ripose nel retro per poi sgommare via a tutta velocità. Tom provò a rincorrere il furgoncino ma perse sempre più terreno fino a vederlo sparire tra gli alberi. Tornò indietro, verso la villa. Il cancello era stato forzato, così come la porta d’ingresso. Tutto era buio ma riuscì ad arrivare alle scale. Un lunghissimo corridoio con in fondo un'unica porta aperta. Tom lo percorse fino al raggiungimento della stanza illuminata. Il letto era intonso, c’erano tanti abiti e libri sul pavimento. Tom osservò la scrivania sulla quale giacevano una tazza rovesciata e alcuni fogli pieni di note. Tra i libri notò un fazzoletto sporco leggermente. Lo afferrò per annusarlo, ma il solo accostarlo cominciò a fargli girar la testa, era cloroformio. Perlustrò la restante villa e dopo aver capito essere vuota ritornò nel cortile. Notò delle scarpette nere una lontana dall’altra, le raccolse. Dei fari in lontananza corrono verso di lui così corse a nascondersi dietro un cespuglio vicino il cancello d’ingresso, era il furgoncino di famiglia. Da esso uscì un nervosissimo Carl pieno di rabbia che imprecava come un forsennato. Passò davanti a Tom il quale sente chiaramente la parola “scarpe” uscire dalle labbra conserte del fratello. Vide Carl entrare in casa ed accendere, man mano, tutte le luci. Alla visione delle luci del primo piano Tom sgattaiolò fuori dal nascondiglio e per accovacciarsi tra i sedili.
 
Gli occhi di Carl ritornano a veder quella lontana luna ma questa volta Flamel era con lui. Dietro di lui.
«Cos’hai visto? Raccontami…» pronunciò Flamel.
«Ho visto una delle sue prime commissioni per me.» rispose Carl stupendosi per il ritorno della voce.
«Ricordi i dettagli di quella notte? Dov’era tuo fratello?
«Ricordo tutto, anche che mio fratello era nascosto tra i sedili, ma questo dettaglio me l’ha detto lei in seguito.»
«Noto che la parte adibita alla memoria è ritornata a funzionare, così come quella del linguaggio…»
«Cosa mi sta facendo Maestro? Perché mi sta facendo vedere queste cose?»
Flamel ignorò la domanda di Carl e, per un’ultima volta, aprì la bocca dell’uomo per far ricadere una singola goccia nero pece.
Le venature sulle braccia si dilatarono così come i muscoli si irrigidirono. Si riuscì quasi a percepire il pulsare del cuore oltre il petto e lo scorrere del sangue nelle vene. Cominciò a fuoriuscire della schiuma dai lati della bocca. Strinse i pugni e liberò, con uno strattone seguito da un rumore d’ossa, entrambe le mani dalla presa dei perni. Liberate le mani scoprì che stessa sorte era toccata a tutta la spina dorsale, perni più sottili conficcati precisamente tra una vertebra e l’altra, lo confinavano a quel tavolo. Disteso, cominciò a prender a pugni il duro marmo. Pugni sempre più potenti, tali che nel marmo si cominciarono ad intravedere delle crepe; increspature che preannunciavano un’imminente rottura. Una pressione da parte di Flamel, un tocco leggero alla base della testa, lo immobilizzò prima dello sferrar di un altro, magari il decisivo, colpo al marmo.
«Quanta forza che abbiamo!» disse eccitato Flamel.
«Maledetto mostro cosa vuoi da me?» disse Carl ma con una voce diversa, quasi non sua.
«Maledetto mostro? Osi definir così il tuo maestro?!»
Flamel bloccò la fronte del furioso Carl e con una si avvicinò al suo occhio. Prima aprì le bene le palpebre per poi toccare, con estrema delicatezza, la pupilla e la sclera dell’uomo. Con la punta del polpastrello massaggiava quell’occhio con strana esperienza. Il vecchio, poi, chiuse gli occhi e spinse due dita verso il retro dell’occhio di Carl. Le urla lancinanti dell’uomo rimbombano in tutta la sala, il suo corpo tremava in preda ad un dolore mai provato prima. Un secco rumore, simile allo stappar di uno spumante, e Flamel aveva tra le dita un occhio intriso e traboccante di sangue. Il viso di Carl era insanguinato, così come il petto e il tavolo. Il marmo assorbì, attraverso le numerose crepe, tutta la linfa dell’uomo.
 
Il sole gli bagnò il viso. Riuscì a sentire il cinguettare degli uccelli dalla finestra che affaccia nella folta chioma di un albero. Un delicato vento muoveva una tendina bianca. Si era svegliato.
«Signor Craft!» urlò una gioiosa Veline.
Tom non riuscì ad alzarsi e Veline nel dargli aiuto scoprì che tutto il cuscino era sporco di sangue, così come l’occhio vitreo dell’uomo. Subito chiamò un’infermiera che medicò l’occhio dell’uomo e controllò la fasciatura al petto.
«Cos’è successo al Signor Craft?» chiese preoccupata Veline.
«Cara non lo so. Non ricordo molto, solo alcuni abbagli. Nosferatu dov’è? Come sta?!» chiese il Signor Craft.
«È a casa con Betty, in ottime mani!» disse Veline mentre l’infermiera dopo aver aperto la valvola di una flebo va via «Non ricorda niente della scorsa mattina? L’incidente? Il temporale?»
«È normale, la memoria ritornerà non preoccuparti. Il Signor Craft ha subito un’anestesia generale ed un intervento non indifferente. Il peggio è passato, tranquilla.» assicurò il medico che era appena entrato.
Mentre il medico ispezionò le bende e quell’occhio stranamente sanguinante, Veline si avvicinò alla finestra per goder di quel delicato vento che le spettinava i capelli e le coccolava il viso. Sentì, anche lei, il cinguettare degli uccellini. Tra i rami intravide alcuni nidi e tanti pettirossi. Aguzzò lo sguardo per cercar di intravedere anche le uova ma l’attenzione fu rubata dalla vista di un corvo nero che la fissava. Il corvo nero.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - La camelia rossa ***


Capitolo 10 - La camelia rossa
Passato
 
 
La ragazza riconobbe la strada per la stalla. Il cielo terso e un sole alto le tenevano compagnia durante il viaggio. Non sapeva il perché di questo suo comportamento. Troppe cose strane stavano succedendo nella sua vita. Intravide uno steccato al di là della boscaglia, la stalla del sogno sembrava materializzarsi sempre più ad ogni passo che compiva. La porta era aperta ed una sensazione apparve non appena si accinse nell’entrare. I raggi del sole illuminavano tutto l’interno mostrando una stalla ordinata e ben tenuta. Notò alcune piume nere sul pavimento in terra e la botola vista in sogno. Tirò un sospiro chiedendosi il perché fosse arrivata a quel punto, ma senza indugiare oltre si calò giù. Sentì un’aria calda e decise di seguirla fino al ritrovarsi davanti una cucina già vista. C’erano un pentolone al centro stanza, un tavolo con delle sedie e in alto, quasi sul soffitto, appollaiato su di un trespolo un nero corvo. Gli occhi di Veline ricaddero su delle ampolle riposte ordinatamente su alcune mensole, tanti colori e forme diverse; tutte con un grande tappo di sughero. Una piccola boccetta color rosso cremisi attirò, più delle altre, la sua attenzione. Era talmente attratta che la sua piccola mano si avvicinò sempre più ad essa, quasi volerla possedere.
«Buongiorno!» esclamò improvvisamente una voce facendo ritrarre velocemente la mano della ragazza.
«S-salve. Mi scusi non volevo toccar nulla.»
«Accomodati Veline, accomodati.»
«Lei è il signore del sogno. Come fa a conoscermi? Perché aspettava me?»
«Con calma, con calma ti spiegherò tutto. Vuoi un po’ di zuppa?»
«Vuole avvelenarmi? Mi ha voluto qui per uccidermi?»
«Ricordi ogni dettaglio di quel sogno, noto. Mi stupiscono tutte queste domande, non era Betty la chiacchierona?» chiese Flamel con un pizzico di ironia negli occhi.
«Sì sono di natura timida. Ma il voler risposte è un desiderio quasi morboso. Già il venir qui senza una compagnia o protezione non è da me, non riesco a darmi una risposta che giustifichi questo mio comportamento.»
L’uomo poggiò due scodelle di zuppa sul tavolo e si sedé con la ragazza invitandola a mangiare dopo di lui.
«Sei molto speciale. Ti ho cercata per molto tempo.»
«Non mi sta dando risposte ma solo alimentando altri interrogativi, mi sto scocciando.»
«Termina la zuppa in silenzio, le risposte arriveranno.»
«Mi sta infastidendo. Non voglio questa zuppa voglio risposte!»
«Mangia la zuppa in silenzio.» ripeté Flamel colpendo il tavolo con le mani e fissando gli occhi di Veline con sguardo severo.
La ragazza, intimorita, iniziò a mangiare quella zuppa in silenzio. Cominciò ad invaderla una strana nausea, una sorta di mal di mare. Le cose intorno a lei sembravano ballare scompostamente.
 
Un enorme, sconfinata, brughiera disseminata di fiori dalla più variegata specie completavano un quadretto composto da due giovani. Un uomo ed una donna distesi nell’erba a guardar le nuvole e a farsi coccolare dal tiepido vento primaverile. Non c’era nulla intorno ad essi, c’erano sono soltanto loro. Dal silenzio si passò ad un delicato mormorio per poi passare ad un tono più alto e imponente.
«Amore quando la smetterai di perdere le tue notti per me?»
«Stai zitta. Io voglio salvarti. Studierò fin quando non troverò una cura.» 
«Sai bene che non c’è una cura per il mio male. Per favore smettila.»
«Maledizione! Perché non capisci che sei il mio unico stimolo? Tu salvasti me e io salverò te.»
«Io sarò con te anche quando il vento mi porterà via. Diverrò parte di questo vento che adesso ci carezza.»
Veline aprì improvvisamente gli occhi per poi ripiombare in un’altra strana visione
Questa volta non c’era la brughiera come sfondo ma un luogo angusto e buio dove si riuscì a distinguere un uomo. Un uomo volto di spalle dai folti capelli neri, immerso in libri e appunti. Sembrava essere un laboratorio, un laboratorio molto antico; un mortaio in marmo, un crogiolo e tante fiale di vetro. L’uomo non stava leggendo, aveva il capo chinato sui libri, ma dormiva. 
La scena sfuma per ricomporsi in una nuova visione. I due giovani erano uniti all’ombra di un grande albero. Il viso dell’uomo era rigato dalle lacrime ed una lunga e disordinata chioma che contornava il tutto mentre la donna aveva un ossuto viso, capelli quasi grigi e un enorme, ma malinconico, sorriso sulle labbra. Il silenzio li avvolse per poi spezzarsi con la voce di lei e di un suo dono.
«Amore oggi sarà il mio ultimo giorno in questo malato corpo…»
«Ho fallito! Ho fallito miseramente! Sono un dissesto irrecuperabile. Ho passato gli ultimi anni barricato in quel laboratorio invece di confortare te. Sono un mostro egoista.»
La donna avvicinò le mani congiunte al viso dell’uomo per poi aprirle e svelare una camelia rossa. La donna proseguì dicendo al suo amato che quel fiore era il simbolo del suo amore per lui. Il simbolo del suo sacrificio. L’uomo poggiò le sue mani a su quelle della donna per poi richiuderle intorno al bocciolo e abbandonarsi in un doloroso ed amaro pianto.
 
Veline aprì nuovamente gli occhi e scoprì di essere fissata dal vecchio. In silenzio l’uomo prese il braccio della ragazza e la trascinò con sé in una stanza. Arrivarono e superarono il bacile centrale per proseguire attraverso una strana porta di ferro battuto. Delle scale, discendono tante scale. Man mano che proseguirono tante lampade irradiavano il percorso per poi ritrovarsi davanti ad un’entrata di legno. L’uomo prese una chiave dorata e aprì la serratura. Veline era muta, quasi non fiatava. Osservò silenziosa, ancora scossa per le visioni precedenti. Una grande stanza si aprì davanti a loro infondendo nella ragazza un senso di vuoto e freddo. Sentì il cuore pulsare sempre più velocemente. L’uomo allentò per poi lasciare il braccio della ragazza e proseguì raggiungendo il lato opposto della stanza, Veline lo seguì. Un enorme telo bianco ricopriva qualcosa di molto grande, sembrava un tavolo. Flamel afferrò con la mano un lembo del lenzuolo e scoprì una grande teca in cristallo, al suo interno una donna con le mani unite all’altezza del petto che teneva tra le dita una camelia rosso cremisi. Veline non riuscì a capire ma acuendo la vista riconobbe la donna distesa, era la giovane delle visioni. Gli occhi di Flamel apparvero gonfi e lucidi mentre con le dita sfiora il freddo vetro.
 
Flamel aveva portato con sé l’ampolla rossa. La mostrò alla ragazza per poi chiederle il perché, secondo lei, prima sembrava attratta da essa. La ragazza non seppe dare una risposta chiara, sentiva solo qualcosa di strano. Flamel l’aprì, un’essenza di fiori saturò immediatamente l’aria.
«Nettare di camelia rossa. Il nostro fiore simbolo. Il fiore che ancora oggi ci unisce e che sarà capace di riunirci.» disse Flamel.
«Ha un profumo delicato ed estremamente piacevole, dolce ed avvolgente.» disse Veline fissando l’ampolla.
Veline non ebbe risposta alle sue numerose domande ma sembrava aver acquisito una strana tranquillità, quasi fosse ipnotizzata.
 
«Non doveva accompagnarmi fino all’ingresso, conoscevo la strada.»
«Cara promettimi di ritornare qui alla prossima luna piena e di non dir a nessuno quel che hai visto.»
«Sarà il nostro segreto.» disse Veline con un tono che parve stranamente amichevole.
 
Veline ripercorse la strada per arrivare a casa, un cammino di quasi un’ora. In casa c’erano solo la sorella e Nosferatu che saltando fece quasi cadere Veline. Betty raggiunse la sorella per poi rientrare in casa. Betty, com’era solita fare, tempestò la sorella con tante domande inerenti a suo esser stata via tutta la mattina. Veline sapeva di non poter dir nulla ma non restò in silenzio e chiese alla sorella se le camelie fossero un fiore di suo gradimento. Betty dubbiosa rispose che preferiva le margherite ma che non denigrava le camelie. Nulla più uscì dalla bocca di Veline, nessun’altra parola.
 
«Ellie l’hai vista? È perfetta. Io non abbandonerò mai le speranze di riaverti con me» Flamel era con gli occhi fissi verso la donna nella teca e continuò con tono sempre più strano il suo discorso «Ci riuscirò. Questa sarà la volta buona. Dobbiamo solo attendere che sia matura e pronta per l’operazione.»
Dei colpi di tosse fecero voltare Flamel verso la porta.
«Immagino tu sia già pronto.» disse Flamel voltandosi verso una figura nascosta dall’oscurità.
«Lo sono Maestro Flamel. Sono pronto per il vostro prossimo ordine.» rispose con una voce inespressiva e quasi meccanica Carl.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - Il disperso ***


Capitolo 11 - Il disperso
Presente
 
 
All’esterno del Joséphine Cafè, sedute ad un tavolo, due giovani studentesse erano immerse in una interessante conversazione.  Ad un tavolo di distanza un giovane uomo ascoltava in silenzio; indossava un lungo cappotto che copriva e nascondeva i suoi abiti. L’uomo ordinò un amaro espresso e un croissant vuoto. Appena servito ringraziò con cenno di capo la cameriera e ritornò all’ascolto di quella sempre più curiosa e, a tratti, sussurrata chiacchierata tra amiche. Parlavano di una strana oscurità che avrebbe coperto la valle entro la fine del mese corrente e, abbassando la voce, di un vecchio eremita tra le montagne. L’uomo dopo aver terminato la sua ordinazione si voltò verso le due ragazze che cessarono addirittura di respirare per poi andar via con passo svelto consce di esser stare ascoltate. L’uomo era ancora al tavolo a rimuginare su poche sere fa in cui fu prelevato e drogato con chissà quale sostanza ma le chiacchiere di quelle due ragazze gli parsero la strada da seguire. Un rumore di campanella e la porta del bar si aprì:
«Buongiorno Signor Miller! Ma cos’ha fatto alla testa?» disse un’affascinante donna dietro il banco notando una fasciatura intorno il capo dell’uomo.
«Buondì a te Jo...» rispose con tono malinconico e distratto il Signor Miller «Jo è il diminutivo di Joséphine, giusto? Per la testa, nulla. Ieri sera sono caduto in bagno.»
«Già, e l’ho sempre odiato.»
Qualche istante di silenzio. La donna aveva ancora la mano sul suo viso intenta a distendere una ciocca ribelle. «Il solito, Arthur?»
L’uomo al tavolino si alzò e si accomodò di fianco al Signor Miller. Ordinò due bicchieri d’acqua e con fare circoscritto scrutò l’uomo di fianco a lui «Ci conosciamo?»
«Non credo, è la prima volta che la vedo qui in giro, avrei ricordato un ragazzo con un cappotto così antiquato.»
«Eppure son convinto di averla già vista da qualche parte.»
Il Signor Miller non sapeva cosa dire e cominciò ad apparire abbastanza infastidito, porse la mano all’uomo. «Piacere, sono Arthur Miller.»
«Miller dice? Io mi chiamo…» l’uomo esitò un attimo come se non ricordasse il suo nome «Devon.»
«È di queste zone Devon? Ripeto non l’ho mai vista eppure, per il mio lavoro, vedo tanta gente ogni giorno.»
«Sono originario di un paesino verso nord, Pontoise, credo. Ma ora non so dove mi trovi.»
«Pontoise?! Io vivevo lì fino a poco tempo fa, com’è piccolo il mondo! Cosa vuol dire che non sa dove si trova? Ha bevuto troppo?»
«Mi son svegliato qualche giorno fa in un terreno poco distante, ma non ricordo nulla di precedente. È tutto confuso e offuscato.»
Il Signor Miller porse al ragazzo il suo biglietto da visita «Ora devo andare, prendi questo per qualunque problema chiamami.»
«La ringrazio tanto. È stato un piacere.»
Il Signor Miller salutò la proprietaria per poi svanir dietro la porta d’ingresso in vetro lasciandosi dietro solo il suono della campanella.
«Desidera altro?» chiese Joséphine.
«Conosce da molto il Signor Miller?»
«Ma è un detective o cosa?!» disse nervosamente mentre asciugava alcune tazze.
«Non so chi sono o chi ero. Vorrei solo ricordare qualcosa.»
«Il Signor Miller si è trasferito da poco nel nostro paesino ma è nato qui, era molto amico del mio defunto padre.»
«Quindi viveva tra le alpi francesi… e ora dove siamo? Come si chiama questo paesino?»
Sempre più perplessa e contrariata «Bugarach, poco distante dal confine con la spagna.»
L’uomo poggiò il capo sulle mani quasi volesse sorreggersi, chiuse gli occhi e cadde in uno strano silenzio. Il campanello della porta risuonò «Josié hai visto papà?!»
«Era qui 5 minuti fa, penso sia andato dai signori Lauper.»
«Grazie! Ciao!» disse frettolosamente una voce femminile prima di svanir via.
L’uomo era ancora immerso tra i suoi palmi con gli occhi chiusi a pensare, riflettere, cercare di ricordare. La voce di quella donna aveva scosso qualcosa in lui, sembrava una voce così familiare.
«Prima sentivo due ragazze blaterare su una qualche oscurità e un eremita, conosce qualcosa?»
Il viso della donna impallidì per poi invitare l’uomo ad uscire dal suo bar.
«Non so di cosa tu stia parlando, ora devo lavorare…» disse Joséphine «Se non ti dispiace…»
L’uomo si alzò e con passo pesante uscì dal bar dirigendosi verso la piazza. Scelse una panchina; il sole era caldo ma un vento graffiante gli stava spaccando le nocche delle mani. Da quella posizione riusciva a vedere quasi tutto il centro cittadino. Un negozio d’antiquariato attirò la sua attenzione al punto da farlo alzare e dirigere verso di esso. Il solito campanellino sopra la porta preannunciò il suo ingresso. Più che un negozio sembrava essere un ripostiglio disordinato di oggetti della più variegata origine. Tutto in legno, compreso un grande e lungo bancone sovrastato da un campanello e una cassa in ferro. Sembrava disabitato fin quando Devon non poggiò le mani sul tavolo.
«Giorno a lei signore, desidera qualcosa?!» chiese un gracile vecchietto dai lunghi baffi bianchi.
«Salve, sono entrato per uno sguardo. Mi hanno sempre affascinato gli oggetti antichi, credo.»
«È un collezionista? Ho dei nuovi arrivi che potrebbero interessarla.»
«No, non sono un collezionista. Ma non sarebbe una cattiva idea ora che mi ci fa riflettere.»
«Oh! Ottimo, mi segua!» disse con esagerato entusiasmo il vecchietto invitando Devon nel retro.
Gli occhi dell’uomo impallidirono dinanzi a ciò che vide; scaffali apparentemente infiniti pieni di oggetti etichettati con bigliettini scritti a mano. Tutto era ordinato e pulito, un lustro.
«Come mai il retro è così ordinato? A differenza del negozio, intendo.»
«Semplice mio caro, nel disordine il cliente si sente a casa. Ambienti troppo ordinati creano confusione nella mente. Nel disordine salta alla vista solo l’oggetto di cui abbiam realmente bisogno. Almeno questa è la mia filosofia e gli affari confermano la mia tesi. Ma non far complimenti e seguimi.»
Mentre Devon seguiva l’esile uomo dai simpatici baffi, lanciò sguardi sui numerosi scaffali. Quadri, vecchi libri, fotografie ingiallite, cimeli di guerra, vecchie radio e tante piccole cassettine in legno intarsiato. L’uomo era prossimo ad avvicinar la mano verso una di queste curiose scatole.
«Fermo! Seguimi con le mani in tasca.»
Arrivarono alla fine di un lungo corridoio, il pavimento da vecchio legno adesso era in pietra. Il suono della campanella percorse tutto il corridoio fino ad arrivare alle orecchie dei due ma il vecchio sembrò ignorare il tutto mentre scavava in una scaffalatura stranamente caotica.
«È entrato qualcuno, meglio ritornare.» consigliò Devon ma il vecchio sembrava non interessarsi a ciò che diceva «Non ha paura di esser derubato?»
«Caro ragazzo mio, nessuno può rubare nel mio negozio anche se lo volesse. Oh ecco ciò che cercavo, finalmente!» disse il vecchio tenendo tra le mani una particolare fialetta di vetro «È tua, prendila.»
L’uomo sembrava ancora più confuso, ma non tanto dal dono in sé ma dalla fretta con cui il vecchio gliela aveva data «Cosa contiene?»
«Non posso dirtelo ma ti chiedo di fidarti di me, l’ha preparato un mio vecchio amico. A me non è servita ma ti aiuterà, vedrai! Me l’ha detto lui di dartela.»
«Come dovrebbe aiutarmi? Gliel’ha detto lui? Qualcuno mi conosce?»
«Lo scoprirai quando realmente ti servirà, credimi. Per le altre domande brancolo al buio quanto te, mi dispiace figliolo.»
Devon ripose la fiala in una tasca e seguì il vecchio verso l’ingresso. Oltre il bancone, ancora ad aspettare, una giovane donna di spalle che scrutava con attenzione quel disordine. All’arrivo dei due non si voltò, era troppo distratta «Cara dimmi!» disse il vecchio arrivato al bancone e lasciando indietro Devon.
La donna quasi sobbalzo per poi voltarsi verso il vecchio «Signor Duval ha visto mio padre?»
«Tesoro mi dispiace ma non l’ho visto proprio oggi. Successo qualcosa?»
«Lo sto cercando da quasi un’ora ma non lo riesco a trovare. Sto ora tornando dalla villa dei signori Lauper ma non c’era nessuno, mi sto preoccupando.» disse scossa la giovane donna.
«Calma cara, vedrai che tornerà presto a casa. Perché non lo vai ad aspettare lì?»
«Penso che farò così. Arrivederci Signor Duval e grazie.»
«A presto cara e sta tranquilla!»
Devon uscì dal suo nascondiglio per poi superare il bancone e voltarsi verso il vecchio.
«La ragazza si riferiva al Signor Miller, forse?
«Oh lo conosci? L’hai visto?»
«L’ho conosciuto prima al bar. Si è perso?»
«Ma no! Starà facendo il suo giro di perlustrazione, è un agente immobiliare. La figlia è semplicemente ansiosa e preoccupata per lui. E pensare che prima non era così. Era una ragazza spensierata.»
«Prima di cosa? Cos’è successo?»
«Non lo sai? Ma allora non sei di qui caro ragazzo. Lo sa tutto il paese; la moglie e l’altra figlia caddero vittime di un incidente nel loro paese natio, Pontoise.»
«Il Signor Miller non è nato qui?»
«Si è originario di qui ma sì trasferì verso il sud tanti anni fa per seguire sua moglie.»
Il vecchio sembrava molto eloquente e le numerose domande non sembravano infastidirlo così Devon osò la domanda sull’oscurità che aveva scosso la proprietaria del bar.
Il vecchio cambiò lo sguardo e disse di non saper di cosa stesse parlando il ragazzo.
«A volte la troppa curiosità è deleteria, ricordati ragazzo mio. Alcune cose devono restare nascoste e alimentare solo leggende e miti.»
Devon annuì con il capo e si diresse verso l’uscita del negozietto, doveva sondare altri luoghi.
 
 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 - Dejà vu ***


Capitolo 12 - Dejà vu
Presente
 
 
Il sole era rosso all’orizzonte, il tramonto era imminente. Devon aveva girovagato un po’ per tutto il paese non scoprendo nulla se non i soliti sguardi tesi ed impauriti. Tornò al bar per un caldo bicchiere di latte, faceva molto freddo. Mentre era intento nel gustare quel latte sporco di cacao capace di riscaldare tutta la sua gola chiese ad una cameriera se ci fosse un albergo in zona; la ragazza annuì e dopo avergli indicato la strada gli consigliò di non aggirarsi a piedi dopo il coprifuoco. Devon con sguardo dubbioso chiese chiarimenti in merito a questo coprifuoco ma la ragazza rispose soltanto che era dovere rispettarlo per non correre rischi.
Il vento soffiava ancora e le fronde degli alberi in piazza sembravano quasi ballare. Dei lampioni ad olio dipingevano la cittadina con quella percezione di pittoresco ed antico. Le serrande dei negozi erano chiuse e la strada indicatagli dalla cameriera del bar era deserta, se non fosse stato per qualche gatto sarebbe stata una fotografia. Un rumore, un grosso camion si aggirava a fari spenti; nessuna scritta o dicitura. Devon era sul marciapiede con le mani riparate nelle tasche del cappotto quando il camion frenò quasi davanti a lui.
«Sono le 22, non dovrebbe essere in giro a quest’ora.» sussurrò una voce dal finestrino del camion.
«Sono nuovo di qui, non sapevo di questa regola, il motivo?»
«È nuovo? Strano. Comunque deve subito tornare a casa.»
«Non ho un posto in cui andare, ero diretto al Corneille.»
«Si affretti. Non è sicuro restare in strada a quest’ora.»
Devon ringraziò con cenno di capo per poi proseguire il suo cammino. Il vento sembrava essere cessato ma una leggera nebbiolina prese il suo posto. Le luci delle case erano spente, la città dormiva anche se erano appena le 21.
L’hotel era molto modesto in apparenza, i cancelli erano chiusi. Devon bussò due, tre, quattro volte ma non ricevette nessuna risposta. Anche l’hotel era buio se non per una tenue luce provenir dall’ingresso. Non sapeva dove andare ed il vento sembrava far la sua, non desiderata, ricomparsa. Pensò di tornare in piazza ma durante il ritorno scorse su una panchina un uomo seduto con le mani contro la fronte che piangeva. Devon si avvicinò con fare indiscreto fino al sedersi quasi al suo fianco, una puzza di alcool permeava l’uomo.
«Signor Miller?!» chiese stupido Devon non appena incrociò lo sguardo dell’uomo.
L’uomo si asciugò, come meglio poté, gli occhi umidi prima di guardar il ragazzo con sguardo vuoto e triste. Dalla sua bocca non uscirono parole ma tirò dalle tasche il suo portafoglio che lentamente aprì; c’era una foto con lui abbracciato ad una donna e due ragazze simili al loro fianco. Il Signor Miller avvicinò le dita alla figura della donna e ad una delle due ragazze per poi sussurrare parole incomprensibili, una sorta di supplica.
«Sono le sue due figlie? E quell’altra è vostra moglie?»
L’uomo annuì appena con il capo per poi ritornare con lo sguardo fisso sulla fotografia, gli occhi tornarono a lacrimare. Riprese con il blaterare parole illogiche fin quando Devon non afferrò il suo braccio e lo tirò su.
«L’accompagno a casa, sua figlia sarà preoccupata.»
Nulla, Arthur non aprì bocca ma non oppose resistenza al trascinamento del ragazzo. Percorsero e superarono la luminosa piazza fino ad arrivare in un complesso di piccoli appartamenti. Tutte le luci erano spente tranne una in fondo alla strada. Il campanello riportava il nome dell’uomo così che Devon si apprestò a bussare. Dal portone uscì una fanciulla con indosso una vestaglia bianco panna ed un cappotto troppo grande per lei, poggiato sulle spalle.
«Papà!» urlò la ragazza per poi afferrare l’altro braccio dell’uomo, ignorando completamente Devon.
«Veline sto bene, non preoccuparti…» disse il Signor Miller con tono distrutto e sguardo perso.
Devon seguì i due dentro casa senza dir una parola, era imbarazzato. Appena entrati il ragazzo si bloccò per poi esser invaso da una strana sensazione, un dejà vu forse. La casa era calda ed accogliente con il camino ancora scoppiettante. Devon lasciò il braccio dell’uomo restando sull’uscio della porta.
«Grazie per aver aiutato mio padre.» disse Veline dopo aver fatto seder il padre sulla poltrona accanto al fuoco.
«N-non preoccuparti! L’ho fatto con piacere. Ora devo andare, però…»
«Non vuoi restare per cena?» chiese con tono tenero Veline.
«Vorrei tanto ma non posso, devo andare via.»
«Veline prepara un piatto anche per questo ragazzo, svelta.» impose il tremante Signor Miller.
Devon sentì di non poter più rifiutare l’invito così ripose il cappotto sul divano e si accomodò davanti al camino sempre più imbarazzato e disagiato per la situazione. Non era riuscito a guardar negli occhi la ragazza ma scorse il suo viso prima che andasse in cucina; lunghi capelli uniti da un elastico così da formare una coda, carnagione chiara e lunghi calzettoni rosa a piccole rane verdi che arrivavano fino al ginocchio. Il fuoco emanava un calore gradevole e il suo scoppiettare era incantevole.
«Come mai eri in giro a quell’ora?» chiese il Signor Miller dopo aver riacquistato un po’ di colorito.
«Stavo tornando in piazza…»
«Hai trovato l’hotel chiuso, vero? »
«Sì, come lo sa?»
«Ci sono stato anche io, questa mattina, ed era già chiuso.» spiegò il Signor Miller.
«E lei cosa ci faceva su quella panchina?» chiese Devon ma subito si pentì di domanda così azzardata appena vide l’espressione del Signor Miller «Mi scusi…» concluse.
Dalla cucina la voce della ragazza annunciò che la cena era pronta, subito Devon si apprestò ad aiutare l’uomo che però gli lanciò uno sguardo freddo per allontanarlo. Il ragazzo voleva andar via ma ora era troppo tardi. Sul piccolo tavolo in vetro c’erano tre piatti fumanti di pasta con una collinetta di salsa e carne sull’apice. La cena fu molto silenziosa fin quando Veline chiese, voltandosi verso il padre, dove fosse stato tutta la giornata.
«Lavoro.» rispose frettolosamente il Signor Miller.
«Papà non dirmi bugie, me l’avevi promesso.»
«Amore ero a lavoro. Deliziosi questi spaghetti, brava!»
«Deliziosi, sì… deliziosi» disse con tono seccato e sarcastico Veline per poi voltarsi verso Devon «Dove hai trovato mio padre?»
Devon quasi restò affogato dal boccone per l’improvviso richiamo nel discorso. Non sapeva cosa rispondere, se mentire o dir la verità. Verità che comunque non sapeva, rifletté.
«In piazza. Ci siamo incontrati per caso in piazza.» rispose rapidamente Devon.
«In piazza, dici? E perché lo portavi sotto braccio?» chiese Veline per poi voltarsi verso il padre «Hai bevuto di nuovo papà?!»
«Solo un goccetto per via del freddo cara, niente di allarmante. Il ragazzo mi ha dato una mano perché mi girava leggermente la testa, tutto qui. Sarà stato un calo di pressione, sai la vecchiaia incombe!» rispose il Signor Miller con fare divertente.
«Domani andiamo dal medico, allora.» riabbatté Veline.
«Cara ma non posso, per una cosa talmente effimera poi? Suvvia! Perché domani non fai conoscere un po’ la città a Devon?» propose il Signor Miller indicando con una mano un sempre più paonazzo Devon.
«Ma non si preoccupi!» rispose Devon.
«Certo! Mi farà tanto piacere.» disse Veline «Ma appena sei libero dobbiamo andare dal dottore, sia chiaro!»
«Certo cara, certo.» sospirò il Signor Miller.
La cena proseguì con altre portate sempre più deliziose e succulente; carne ed infine una torta che fece gonfiare d’orgoglio il petto di Veline appena udì i rumori d’apprezzamento da parte dei due. Conclusa la cena il Signor Miller si diresse verso il camino in cerca di un ultimo tepore prima di andar a dormire. Veline era con le mani impegnate a lavar le stoviglie mentre Devon non sapeva se aiutare la ragazza, raggiungere il padre oppure andar via. Spinto dalla vergogna optò per la terza anche se un temporale appena nato lo fece riflettere. Silenziosamente si alzò dal tavolo e si diresse verso il divano per raccogliere il suo cappotto.
«Dove credi di andare?» chiese con tono burbero il Signor Miller «Resterai a dormire qui per questa notte, dovrò pur sdebitarmi con te in qualche modo.»
Devon avrebbe voluto rifiutare per non crear disturbo e ulteriore imbarazzo ma le circostanze climatiche lo obbligarono ad accettare, ripose il cappotto sul divano e si apprestò nel ritornare in cucina per dar una mano alla ragazza.
«Non serve, non preoccuparti» disse con tono dolce Veline bloccando ogni azione del ragazzo. Il ragazzo tornò verso il camino. Si sentiva come una pallina da tennis, lanciato da una parte all’altra della casa dai due battitori, padre e figlia.
«Ti consiglio di andare in bagno prima di Veline…» disse con ironia il signor Miller «È l’ultima porta a sinistra. Veline ti ha sistemato un mio vecchio pigiama sul calorifero, spero sia della tua misura.»
Devon annuì e si diresse verso il corridoio passando, ancora una volta, dalla cucina. Non era un corridoio molto lungo. Un’ennesima strana sensazione invase il ragazzo mentre camminava fino ad essere al cospetto della porta del bagno; porta in vetro opaco molto moderna rispetto alle altre della casa. Notò sul calorifero un pigiama blu scuro, quello che avevano preparato per lui. Il ragazzo si spogliò per poi abbandonarsi sotto il getto caldo della doccia. L’acqua scorreva lungo tutto il suo corpo. Non usò sapone o spugne varie, semplicemente si fece coccolare dal costante getto. Occhi chiusi e braccia lungo i fianchi, restò inerme. L’acqua gli aveva tappato le orecchie così da ritrovarsi immerso in un isolamento acustico particolare. Quasi riusciva ad udire il suo battito fin quando un mancamento nelle gambe non lo fecero inginocchiare violentemente sul suolo della doccia. Di nuovo quella strana sensazione.
Doccia, una grotta, un lago. Stava scappando, forse. Scappando da qualcosa, qualcuno.
Rinvenne e con ancora gli occhi chiusi scorse con le mani delle cicatrici lungo le gambe. La sua memoria era sempre più offuscata e questi flash di certo non gli erano d’aiuto. Chiuse il flusso d’acqua e dopo essersi asciugato tamponando un asciugamano su tutto il corpo si diresse al cospetto del grande vetro sul lavabo. La pelle era ancora umida ed i capelli bagnati così come le mani spaccate dal freddo. Notò uno strano segno sulla spalla, come fosse un tatuaggio. Sembrava un cerchio con strani simboli, ideogrammi di incomprensibile origine. Il pigiama calzava piccolo, il Signor Miller non era poi così alto. Sistemò il bagno come meglio poté e si diresse verso il camino passando, ancora, dalla cucina.
«Ohhh! Ma ti sta benissimo se ignoriamo le caviglie e i polsi scoperti!» disse Veline non mascherando affatto una risata.
Devon imbarazzato sorrise per raggiungere il fuoco del camino. Il Signor Miller non era più nella sua poltrona ma il segno del suo corpo era ancora visibile. Il calore del fuoco asciugò in un attimo gli umidi capelli di Devon che vide delle coperte sul bordo del divano, quello sarebbe stato il suo letto per quella notte. Notò le luci della cucina spegnersi per poi udire un augurio di serena notte da parte della ragazza. Ricambiò e sistemò le coperte sul suo corpo in attesa della venuta del sonno tanto desiderato.
Era tutto troppo strano, pensò. Tutte quelle strane sensazioni e impressioni di conoscere già quelle due persone, quella casa. Gli ultimi crepitii della legna ormai morente lo accompagnarono fino alla venuta del sonno, sì addormentò riflettendo.
 
«Dottor Misaka, sta arrivando» disse un enorme uomo con camice bianco.
«Ti ringrazio Mason. Inizia a preparare il tavolo, non avremo molto tempo»
Un gran frastuono sembrò provenire alla fine di un lungo corridoio bianco sormontato da luci al neon. Tre uomini in veste mimetica spingevano una barella sulla quale era disteso un giovane uomo tremante.
«Presto, spostiamolo sul tavolo operatorio. Al mio tre!» disse il Dottor Misaka «Veloce Mason della benzodiazepine.»
L’assistente porse la fiala al Dottor Misaka che subito la iniettò nell’uomo. Gli spasmi dell’uomo si alleviarono fino a scemare del tutto. Tranquilli i medici, rimuginarono su dei documenti e osservarono dei monitor pieni di numeri e diagrammi. Poco dopo ricominciarono i tremori e gli spasmi il che scosse i medici; l’effetto della benzodiazepine dovrebbe durare ore, non minuti. Subito il medico ordinò di preparar una doppia dose di alotano e di iniettarla nell’uomo. L’assistente avvisò il Dottor Misaka che una dose troppo alta potrebbe compromettere la memoria episodica dell’uomo ma non curante sfila la fiala dalle mani di Mason e la iniettò personalmente per poi ordinare di prepararlo alla vera operazione. L’uomo collassò quasi all’instante, braccia e gambe non più tremanti così come un petto piatto e quasi privo di espansione costale. Mason, con sguardo stranamente sospettoso, sistemò degli elettrodi sul petto e sulle tempie per poi iniziare la preparazione aiutato da due colleghi.
 
Un fracasso, del vetro infranto. Devon era madido di sudore.
«Scusa, ti ho svegliato?» sussurrò dispiaciuta Veline «Ero venuta a prender un bicchier d’acqua ma questo mi è scivolato dalle mani.»
«N-non preoccuparti!» rispose Devon con il cuore che ancora batteva forte.
«Scusami, davvero. Sono sbadata ma una strana sensazione di malessere mi ha scossa facendomi allentare la presa del bicchiere, scusa ancora.»
«Una strana sensazione?!» chiese Devon incuriosito «Una sensazione simile ad un dejà vu?
«Sembrava proprio quella sensazione, sì. Come lo sai?»
Devon cercò di trovare una risposta credibile per poi esser distratto da un rumore.
«È mio padre, si sarà svegliato! Presto fai finta di dormire io vado a ripulire il casino dalla cucina!»
Ormai aveva troppi pensieri e il tenue calore del fuoco non c’era più. Con le mani sotto il capo a mo’ di cuscino iniziò a riflettere sullo strano sogno fin quando ricordò.
(Mason! Ricordo chi è Mason!)

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 - Latente presenza ***


Capitolo 13 - Latente presenza
Presente


L’aria era satura dei profumi della mattina. Il bar iniziava a sfornare leccornie dopo leccornie mentre in piazza un improvvisato fioraio completava il mix di profumi. Ad un tavolino del bar si intravedevano Devon ed un uomo abbastanza anziano gustare un latte ancora fumante. La solita Jo era impegnata nello strofinare un panno nelle numerose tazzine di ceramica, una sorta di rito, per asciugarle. Il bar, tranne per Devon e l’uomo, era vuoto. Devon era arrivato poco dopo l’apertura; era d’accordo con Veline di vedersi lì alle 10. L’anziano signore aveva raggiunto il bar subito dopo l’ingresso di Devon, quasi lo stesse spiando da lontano, per poi sedersi al suo stesso tavolino.
«Latte bianco anche tu, noto.» disse l’anziano signore. 
«Ma se lei ha ordinato dopo di me? Ha copiato, semplicemente, il mio ordine.» disse Devon «Ma la prego di continuare il discorso che mi stava facendo.».
«La mia era una semplice osservazione ma non indugiamo, manca poco alle 10.» disse controllando l’ora sul grande orologio affisso alla parete del bar. «Come ti dicevo, ero molto amico di tuo padre. Non che tu mi abbia visto molto durante la tua infanzia, la nostra era un’amicizia particolare. Lavorativa, se vogliamo proprio definirla.»
«Ma mio padre è scappato lasciandomi solo con mia madre quando ero un bambino.» disse Devon con tono confuso «Come faceva a conoscermi? E dove ha conosciuto mio padre?»
«Non è il momento di darti queste risposte. Ti sto solo dicendo di fidarti di ciò che ti dico, non ho molto tempo nemmeno io. Come ti dicevo vige un’aria negativa in questa cittadina, ma non è nata da queste zone, viene da molto più lontano.» Mentre parlava il vecchio fissava il viso di Devon come volesse studiarlo «Tu hai già provato ad ottenere informazioni ma hai sempre incontrato porte chiuse. Io voglio semplicemente indicarti la via…»
«Perché mai dovrebbe? »
«Questa oscurità mi ha portato via un fratello, non la perdonerò mai.»
«Quindi lei cerca vendetta?»
«Giustizia. Cerco giustizia. Io voglio che tu percorra questa oscurità fino ad arrivare al suo nucleo marcio in modo da estirparlo ed eliminarlo.» Il vecchio ignorò lo sguardo sempre più confuso del ragazzo e dopo aver controllato l’orologio si affrettò a terminare il dialogo «Incamminati verso Est per una decina di chilometri, al bivio che incontrerai prosegui verso sinistra fino alle falde di un’alta parete rocciosa. Dovrai girargli intorno fino ad una stretta apertura…»
«Aspetti un attimo, mi sta dicendo che dovrei incamminarmi verso questa montagna per poi insinuarmi in questa “stretta apertura”?» chiese Devon con tono tra il sarcastico e teso.
«Esatto. Dovrai entrar ed analizzare ciò che vedrai per poi riferirmi ciò che hai visto.»
«Ma lei è pazzo?» disse Devon ma una strana idea stava generandosi nella sua mente.
«Caro ragazzo io non ti sto obbligando. Ti sto solo chiedendo…» il vecchio si bloccò dopo aver visto l’orologio per poi concludere «Il mio tempo è scaduto, io sarò qui domani alla stessa ora. Confido in te Devon.» Detto ciò l’anziano si alzò per poi dirigersi verso l’uscita.
«Come sa il mio nome?!» chiese Devon ma lui sì limitò ad ignorarlo. 
Il vecchio aprì la porta in vetro del bar per uscire ma scorse da lontano una ragazza venir proprio nella sua direzione, si affrettò a coprirsi il viso con un braccio per poi scappar via. Veline entrò nel bar salutando Jo ma una strana sensazione la invase, non aveva fatto caso direttamente al vecchio ma notò un fare strano nel suo comportamento. 
«Sei qui da molto?» chiese Veline mentre prendeva posto.
«Ma no, ho chiacchierato un po’ mentre gustavo il latte.» disse Devon «A proposito, tu cosa prendi?»
«Jo conosce molto bene i miei gusti, è già a lavoro. Non preoccuparti.» disse Veline.
«Allora di cosa volevi parlarmi? Mi sembravi teso questa mattina, prima di dirmi di vederci qui.»
«Sì, volevo parlarti di quella strana sensazione, il dejà vu. Sapresti descrivermela con più chiarezza?»
I due iniziano a parlare fin quando non arrivò l’ordinazione di Veline: una grande tazza che trasudava profumi che andavano dal caffè al cacao passando per un mix di vaniglia; il famoso cappuccino di Jo.
Mentre Veline, con un cucchiaino, cominciò a gustare quella densa schiuma color cacao dall’apparenza soffice Devon la fissò con strana disinvoltura. Devon non era soddisfatto dalle risposte della ragazza che era troppo presa dal cappuccino così si limitò al silenzio e all’osservazione. Devon vide un po’ di panna sulla punta del naso della ragazza ma non disse nulla, stava gustandosi la scena. 
«Prima ho parlato con uno strano signore.» disse Devon non aspettandosi risposta dalla ragazza troppo impegnata «Vecchio conoscente di mio padre, a suo dire. Mi ha detto di saper l’origine di questa strana oscurità che tutti evitano anche di pronunciare ad alta voce.» Devon aveva catturato l’attenzione della ragazza che però restò ancora in silenzio ad ascoltare «Mi ha parlato di un voler fare giustizia. Di estirpare questo male. E mi ha anche indicato una strada da seguire…»
«Andiamoci!» disse frettolosamente Veline quasi affogandosi.
«È troppo pericoloso. Io non penso di voler seguire quella strada, non mi fido di quel vecchio.»
«Fifone! Sei un fifone!» disse la ragazza.
«M-ma cosa dici?! Non sono un fifone!» disse Devon abbastanza imbarazzato.
«Allora cosa aspettiamo? Andiamoci.» disse Veline mentre poggiava la tazza sul tavolo.
Devon non era un codardo, semplicemente non voleva coinvolgere anche la ragazza in questa storia che riguardava solo lui, o almeno questo credeva. Durante il cammino esasperò continuamente la ragazza con avvertimenti e messe in guardia. Veline si limitò ad annuire ed affrettare sempre più il passo, sempre più eccitata per questa avventura. Svoltarono a sinistra per poi superare un’abbandonata taverna, proseguirono ed arrivarono alla parete rocciosa come aveva preannunciato il vecchio. Ora dovevano solo trovare la stretta apertura. Girarono per quasi un’ora invano. Sfiancati dalla fatica si distesero nell’erba ai piedi di un rigoglioso albero. Attraverso i rami si riusciva ad intravedere il terso cielo, il sole di mezzo giorno ed uno spicchio di luna appena percettibile. Devon decise di tornare indietro ma Veline si alzò per seguire una coloratissima farfalla, sembrava quasi una bambina. Svoltò l’angolo della parete per poi sparire. Era proprio una stupenda giornata, nemmeno un alito di vento ma un profumo d’ambra arrivò fino alle narici del ragazzo, ormai quasi, addormentato all’ombra. Il riposo del ragazzo fu infranto da un urlo proveniente dalla ragazza.
Devon raggiunse la ragazza per poi scoprire il motivo di tanto baccano: avevano trovato l’ingresso che cercavano. Era una sottile feritoia nella pietra, molto profonda e buia. La ragazza provò ad entrare ma fu subito afferrata per la collottola della maglietta e scaraventata per terra. 
«Ahia! Mi hai fatto male, stupido!» disse Veline mentre si massaggiava il sedere.    
«Devo entrare io, tu resta tranquilla qui.»
Sempre più offesa Veline si apprestò ad osservare il tentativo del ragazzo che fallì miseramente, era troppo robusto. Veline scoppiò in una fragorosa risata per poi scansare un imbarazzatissimo Devon con un braccio ed entrare in quella stretta feritoia. Mentre gattonava riusciva a sentire chiaramente la voce del ragazzo che le ripeteva di star attenta. Gattonò per quasi un minuto fino ad accorgersi che il lungo corridoio di roccia era terminato. Sfilò, dalle tasche, le chiavi di casa per poi afferrare e stringere un pupazzetto a forma di rana; era una piccola torcia. Sembrava una grotta ma un rumore di fondo attirò la sua curiosità. Ormai riusciva a camminare in modo eretto e con l’aiuto di quella flebile luce e con le mani lungo le pareti si incamminò nelle profondità di quella collina. Discese seguite da altrettante salite, svolte e qualche semplice arrampicata fino a ritrovarsi qualcosa di diverso sotto i piedi, un pavimento in ferro. Il suo calpestarlo echeggiò come un’eco in ogni angolo. Dopo il pavimento mutarono anche le pareti e il soffitto. Proseguì fino all’intravedere, alla sua destra, delle vetrate che affacciavano nell’oscurità più totale. Provò a puntare la luce attraverso il vetro ma tutto fu inane. Nella sua testa non giravano domande o dubbi, aveva la mente sgombra per poter carpire ogni strano suono. La lucina gialla della ranocchia sembrava affievolirsi sempre più, la batteria si stava esaurendo. Un’ansia cominciò a penetrarle la mente al punto da farle affrettare il passo in modo da arrivar prima verso l’origine di quello strano rumore udito all’ingresso. 
Si bloccò davanti ad una porta, sempre in ferro. Afferrò la maniglia e questa, magicamente, si abbassò senza troppe difficoltà. Tanti monitor luminosi risplendevano nell’oscurità, su di essi scorrevano grafici, diagrammi e tanti numeri in successione. Sembrava essere un laboratorio molto tecnologico per quei tempi. Veline sì avvicinò alle strumentazioni per poi armeggiare con qualche pulsante a casaccio. Non sapeva cosa stava facendo ma non si preoccupò particolarmente, era troppo curiosa. Pulsanti e levette della più variegata forma e colore, alcuni luminosi ed altri protetti da involucri in plastica. Dopo vari tentativi riuscì ad accendere la luce di quel laboratorio. Fiduciosa continuò a premere frettolosamente fino all’apparizione di una luce oltre quelle oscure finestre e di una scritta su un monitor: Project metempsicosi.
Veline si avvicinò alle finestre, i suoi occhi si spalancarono per poi fare qualche passo indietro in modo da poggiarsi contro il muro opposto; c’erano un susseguirsi di teche piene di giovani donne distese, apparentemente addormentate, collegate tra loro con dei grossi tubi verdi, tubi che confluivano ad una grande capsula verticale al centro della stanza. Veline restò sconcertata per poi sentir, dopo un rumore di passi, un senso di vomito invaderla e le palpebre sempre più pesanti.

Devon non sapeva cosa fare, ormai era trascorsa quasi un’ora da quando Veline era entrata. Provò ad urlare il nome della ragazza ma non ricevette alcuna risposta. Non poteva restar lì senza far qualcosa. Iniziò a scavare nella calcarea roccia con le unghie fin quando non si tinsero di rosso, doveva allargare quello stretto ingresso. Prese della pietre per aiutarsi nello scavo, il calcare bruciava a contatto con le dita insanguinate ma questo non lo fermò, doveva entrare. Ormai non aveva più forza nella braccia così spinse il corpo sempre più in profondità, mancava poco. Un atroce dolore fece urlare il ragazzo, la sua spalla ormai era lussata, ma riuscì ad entrare. Provò a sistemare la spalla ma non fece altro che acuire il dolore così lasciò perdere, ora doveva solo trovare la ragazza. Cominciò a correre nell’oscurità e dopo vari urti contro le pareti intravide una luce bianca in lontananza, il laboratorio. Il ragazzo notò anche le finestre che affacciavano nella più assoluta oscurità. Oltrepassò la porta in ferro fino a raggiungere uno sterile laboratorio; tutti i monitor e i comandi erano stati spenti, così come le luci oltre le finestre. Notò per terra un mazzo di chiavi con una ranocchia verde, la ragazza era stata lì. Perlustrò il laboratorio in ogni angolo, non c’erano porte se non quella da cui era entrato. Urlò il nome della ragazza ma l’esito non mutò. Uscì dalla porta e con l’aiuto di quella ranocchia fece luce contro le pareti in ferro fino ad intravedere un’altra porta. Provò a forzarla ma era chiusa così provò a sfondarla a suon di calci ma senza risultato. Non sapeva cosa fare fin quando non gli venne in mente il vecchio signore del negozio d’antiquariato. Prese quella piccola boccetta per poi senza pensarci troppo stapparla e berne un sorso. Un fortissimo senso d’acido mischiato ad un gusto amaro gli invasero la bocca e la gola. Giusto il tempo di richiudere l’ampolla e riporla nel cappotto che sentì un forte calore provenir da centro del petto. Calore che si tramutò in un dolore capace di farlo accasciare sul pavimento. Strinse una mano sul petto e con gli occhi chiusi cominciò a creder di esser stato imbrogliato ed avvelenato ma qualcosa stava cambiando, i muscoli di tutto il corpo cominciarono a gonfiarsi e ingrossarsi. Le fasce muscolari si gonfiarono a tal punto da riassestare la spalla lussata. Il ragazzo aprì improvvisamente gli occhi per poi alzarsi e sferrare un calcio contro la porta che per il forte impatto si incrinò al centro. Il ragazzo chiuse gli occhi come per cercare concentrazione e sferrò un altro calcio alla porta, l'incrinatura si fece più evidente ma non era abbastanza. Un terzo calcio fece tremare tutte le pareti circostanti. Il ragazzo avvertì il calore delle braccia ritornare al centro del petto per poi scendere verso i muscoli delle gambe facendoli tendere ancora di più. Il quarto calcio abbatté la porta che produsse un rimbombante tonfo. Il ragazzo si riaccasciò sul pavimento per poi avvertire il calore tramutarsi in bruciore. Un dolore talmente intenso da fargli ripensare al peggio. Cominciò ad urlare ma all’improvviso tutto svanì così com’era apparso. Devon riaprì gli occhi e constatò che i suoi muscoli erano ritornati normali, nessun dolore era presente in lui. Con mille dubbi nella mente sì alzò per rifocalizzare l’attenzione alla ricerca della ragazza. Oltre la porta abbattuta si distendeva un luminoso e lungo corridoio bianco senza porte né finestre. Camminò per svariati minuti fino ad entrare in una grande sala piena di sedie, un auditorium. 
Tantissime sedie costellavano questa enorme sala con alla fine un palco in legno incorniciato da alte e lunghe tende rosse. Devon cominciò a discendere una lunga scalinata fino ad intravedere una persona seduta in prima fila con lo sguardo verso il palco vuoto. 
«Tu devi essere Devon, accomodati,» disse l’uomo senza voltarsi «Hai esibito proprio tanta forza contro quella porta, interessante. Quasi non sembrava esser tua.»
Devon senza far domande si accomodò proprio dietro l’uomo. Troppe persone che non conosceva sapevano il suo nome, pensò. La voce dell’uomo era tranquilla e calda, quasi familiare. 
«Tu non ti ricordi di me ma io so benissimo chi sei e perché sei qui. La ragazza sta bene, non ti impensierire.» disse l’uomo «Dopo una chiacchierata con me potrete andare via.»
«Dove mi trovo?! Che posto è mai questo?»
«Non è tempo di rispondere a queste domande, ora.» rispose l’uomo con parole che Devon aveva già sentito «E forse non lo sarà mai. Ma ora ascoltami attentamente. Cerca di restare calmo altrimenti farai riapparire la tossina che hai assunto prima.» quella voce risuonò nella mente di Devon ma non riuscì a capire di chi fosse «Abbiamo poco tempo prima della nuova luna piena. Non voglio sapere come hai trovato questo luogo e nemmeno il perché del tuo esserti portato dietro quella ragazza, sono cose che posso benissimamente immaginare. Come ti dicevo abbiamo poco tempo e ti prego di non interrompermi e di restare calmo. Io devo ucciderti.»
Al suono di queste parole Devon sobbalzò dalla sedia intento nel colpire l’uomo che però lo fermò con un cenno di mano. «Ti ho detto di restare calmo, lasciami spiegare. Quando eri un ragazzino ti fu iniettato nel corpo un batterio latente. Con l’assunzione di quella sostanza lo hai svegliato ed ora è in fase di crescita fin quando non si approprierà di te completamente portandoti alla morte…»
«Chi è lei? Come sa queste cose?!»
«Sono tuo padre e ti iniettai io quel batterio anni fa.»

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 - L’estrazione ***


Capitolo 14 - L’estrazione
Presente
 
 
Devon restò sconvolto da tale rivelazione. Era con quel padre che abbandonò lui e la madre quando lui era ancora una piccola ed ingenua creatura. Aveva conosciuto il padre attraverso i tanti racconti della madre. Quella donna lodava molto suo marito. Lo disegnava sempre come un uomo dai forti valori e da una genialità che spesse volte nemmeno lei comprendeva. Era uno dei tanti ricercatori solitari per via dei nulli fondi che le associazioni davano alle sue idee, per quei tempi assurde: manipolazione ed alterazione genetica. La madre diceva che il padre scappò per proteggerli ma Devon non accettò mai il grande fardello che quell’uomo scaricò su di loro, la sua assenza. Crescere senza una figura paterna per Devon fu estremamente difficile, le volte che scappò di casa con l’obiettivo di cercarlo ormai non si contano più sulle dita di due mani. Era cresciuto con enorme amore dalla parte di una madre che dovette rimboccarsi le maniche per crescere come meglio poteva un figlio sempre più instabile. Tutto questo fino ai 13 anni, età in cui Devon smise di cercare per scarsità di risultati e poche risorse da cui attingere. Ed ora quel padre che lo aveva trascurato riappare e gli confessa di avergli iniettato una sorta di batterio e, soprattutto, che doveva ucciderlo? Nulla di quella storia era coerente e chiaro. Devon a stento riusciva a crederci e nessuna parola, pensiero, riusciva a costruire in risposta a quelle rivelazioni e domande. Si limitò a restar in religioso silenzio ad ascoltare questo presunto padre.
 
Il padre non gli espose la vera natura del batterio da lui stesso creato ed ora residente nel corpo del figlio ma tentò di spiegargli meglio il concetto di perché doveva essere ucciso. Il batterio era una versione modificata del parassita dracunculus medinensis, un verme proveniente dalla Guinea. Quella specie di parassita si insediava nel corpo per circa un anno per poi creare una bolla nella carne, di solito sulla gamba o sul piede. Il padre disse di aver modificato la natura biologica di quel verme rendendo la sua presenza innocua e latente fino al risveglio di quest’ultimo. La versione originale era eliminabile con trattamenti antibiotici molto potenti ma la versione modificata era resistente ad ogni tipo di cura, tranne la morte del corpo ospite. In parole povere il parassita sarebbe morto in un corpo che credeva morto e quindi sarebbe uscito a cercare altro corpo in cui vivere. Il padre continuò dicendo che lui poteva salvare il figlio ma quest’ultimo doveva fidarsi al punto da lasciargli fare tutto. Il ragazzo aveva mille domande, soprattutto su quella sostanza che aveva ingerito poco prima ma un bruciore all’altezza del petto lo convinse a fidarsi di quest’uomo che con le parole sapeva proprio farci.
 
Percorsero un lungo corridoio che li condusse in una sala operatoria dall’aria familiare. L’uomo fece distendere il figlio su un lettino imbottito e mentre preparava alcune siringhe e sistemava alcuni elettrodi sul letto del figlio spiegò che per simulare la morte del corpo, o almeno per far credere al parassita che l’ospite fosse defunto, doveva portare i battiti al di sotto di una soglia per almeno 3 minuti. Avrebbe usato una versione modificata di una neurotossina.
«Si chiama Tetradotossina.» mentre parlava il padre di Devon aveva già iniettato una siringa di liquido del braccio del ragazzo «A quest'ora ce l'avrai già in circolo. La si estrae dal fegato di alcuni pesci, come il pesce palla. Ti paralizza gli arti, ma in compenso ti lascia tutte le altre funzioni neurologiche perfettamente intatte per poi arrivar ad un passo dalla perdita di coscienza. Quindi d'ora in avanti tu non potrai più muoverti, però riuscirai a sentire ogni cosa visto che non fa assolutamente niente per alleviare il dolore. Stai per sperimentare la più grande sofferenza che tu abbia mai potuto immaginare, stringi i denti e fidati di me figliolo.»
Dopo queste “confortanti” parole il padre cominciò a monitorare i battiti del figlio attraverso un monitor, 120. Le palpebre del ragazzo cominciarono a farsi più pesanti, 60. Il viso cominciò a trasudar sudore, 15. Entro poco sarebbero iniziati i tre minuti necessari per la fuoriuscita del parassita. Devon era pallido come non mai con labbra e palpebre tendenti al violaceo. Il padre, con tra le mani un bisturi, attese quei minuti con estrema ansia ma con una stabilità impressionante, non ammiccò nemmeno una volta le palpebre. Sguardo fisso tra il figlio e l’orologio. Ecco una piccola protuberanza crescere nei pressi del polpaccio del ragazzo. Ma eccone un’altra crescere nel pressi dell’avanbraccio sinistro così come un’altra nella zona del pettorale destro, era invaso. Il padre, per un attimo lasciò intravedere tensione, ma subito strinse il suo bisturi ed iniziò ad incidere con una maestria mai vista. Tagliò il figlio in 7 diversi punti. Riuscì ad intravedere la testa dei vermi fuoriuscire dai tagli e farsi strada lungo il corpo del ragazzo. Subito il padre afferrò i vermi con delle pinze per poi gettarli in una soluzione alcoolica, i parassiti a contatto con quel liquido si contorcevano per poi sciogliersi. Il figlio era in morte simulata da oltre 5 minuti, doveva sbrigarsi a disinfettare le ferite e rianimare il ragazzo. L’intermittente bip del monitor divenne continuo, il ragazzo era in arresto. Il padre senza nemmeno pensarci iniziò un massaggio cardiaco ma tutto fu inefficace così dopo aver iniettato l’antidoto alla tetradotossina prese un’altra siringa con un ago stranamente più lungo e spesso del normale. Pose una mano sul petto del ragazzo all’altezza del cuore, per poi conficcare l’ago per tutta la sua lunghezza. Il continuo bip ridiventò intermittente per poi salir man mano ad una frequenza di 70-80 battiti, lo aveva salvato.
 
«Come ti senti?» sospirò il padre.
«Indolenzito, confuso e sto morendo di fame.»
«Mi hai fatto prendere uno spavento, sai? Maledetto te!» disse il padre.
«Allora tu saresti mio padre?»
«Non affaticarti, cerca di riposare un po’.» disse il padre «Ti dirò tutto una volta che ti sarai rimesso completamente.»
«Voglio sapere tutto, ora!» quasi urlò Devon per poi iniziare a tossire ed accusare forti dolori al petto.
«Non costringermi ad addormentarti, te ne prego.» implorò il padre.
«Sicuramente non mi invoglieresti con una canzone o una storiella, vero?» detto ciò Devon chiuse gli occhi per sprofondare in un lungo e strano sonno.
 
«Dottor Misaka l’intervento sembra esser stato concluso con successo, complimenti!» disse Mason.
«Non congratularti con me ma con il Dottor Duval. Solo grazie a lui e ai suoi “cocktail” siamo riusciti a render stabili i parametri vitali del ragazzo.» disse il Dottor Misaka. «Quindi se proprio vuoi congratularti con qualcuno vai al terzo piano nei pressi del laboratorio e cerca il Dottor James Duval.»
Sul pavimento i passi degli scarponi di Mason preannunciavano la sua venuta molti metri prima, era un uomo molto grosso, sicuramente rasentava i 130 chili ma un’elevata altezza rendeva il tutto, più o meno, proporzionato. Aveva una folta capigliatura nera con altrettanto folte sopracciglia che sovrastavano due piccoli occhi azzurri. Prese l’ascensore per raggiungere il terzo piano.
 
«Scusi sa dove posso trovare il Dottor Duval?» chiese Mason ad un uomo intento nel pulire una macchia rossa dal pavimento.
«È rinchiuso nel laboratorio da ore, ormai. È solo, bussa e chiedi il permesso prima di osarlo disturbare, mi sembrava molto teso.» disse l’inserviente.
«Il Dottor Duval teso? Sicuro di non aver avuto un abbaglio?» chiese Mason.
«Ti sembro forse in vena di scherzi?» disse con tono sprezzante l’inserviente «Ora va e non scocciarmi più.»
 
«Si può?» chiese Mason dopo aver picchiettato per tre volte contro la porta bianca del laboratorio.
…alcuni attimi di silenzio seguiti da un semplice e rapido “entra”.
Il Dottor Duval era davanti a dei monitor che scrutava con attenzione. Non sembrava molto propenso a chiacchierare ma Mason voleva solo congratularsi per poi andar via, semplice dovere verso un suo superiore.
«Come sta il ragazzo?» chiese improvvisamente il Dottor Duval.
«L’impianto è riuscito alla perfezione!» rispose con entusiasmo Mason «E tutto questo grazie a lei Dottor Duval.»
«Non dica baggianate. Non son dell’umore adatto per queste cazzate.» disse con tono severo il Dottor Duval.
Mason era un uomo enorme eppure queste parole gli serrarono la bocca e lo fecero arrossire dall’imbarazzo. L’omone così in silenzio si avvicinò agli schermi che osservava con tanta dedizione il Dottore ma non si permise di enunciar nessuna domanda, si limitò all’osservazione sperando di riuscir a capirci qualcosa.
«Metempsicosi? Project Metempsicosi?!» lesse a bassa voce Mason da un monitor.
Il Dottor Duval avvicinò le mani alla tastiera e dopo aver premuto un pulsante si allontanò dagli schermi per avvicinarsi ad alcune finestre oscure nella parte sinistra della stanza; Mason lo seguì. Pian piano, uno dopo l’altro, dei neon illuminarono una lunga sala sottostante piena di teche in vetro vuote con al centro una capsula contenente il corpo di una donna. Mason sgranò gli occhi ma non provò a far nessuna domanda per non inaridire il Dottore.
«Deve farmi un grande favore Mason.» disse il Dottor Duval.
Mason si limitò a voltare lo sguardo verso un Dottor Duval impegnato a fissar quelle teche invece che lui per poi annuire con un cenno di capo.
«Io disattiverò la corrente e simulerò un guasto all’ultimo piano come diversivo, tu aiuta il ragazzo a scappare, avrai poco tempo. Non deludermi.»
Mason non poteva immaginare il motivo né lo chiese, si limitò a correre verso l’ascensore ed attendere il distacco della corrente elettrica per agire.
 
Devon aprì gli occhi per scoprir di essere in una stanza diversa da quella in cui il padre lo aveva operato. Sembrava una stanza d’albergo. Sul tavolino vicino il letto c’erano un bicchiere con del latte, un flacone chiuso ed un foglio piegato in quattro parti. Devon con estrema fatica e dolore sparso provò a sistemarsi in posizione seduta al centro del letto. Le pareti della stanza erano ricoperte da un parato rosa e dall’aria molto infantile per via di orsacchiotti e cuoricini in ogni lato. Oltre il letto e il tavolino c’erano anche alcuni mobili in ferro. Nessuna finestra e due porte una di fronte all’altra.
Devon prese il bicchiere di latte che iniziò a sorseggiare mentre spiegò la lettera:

 
Caro Devon,
ti sarai accorto di essere in un’altra stanza. Vorrei spiegarti tante cose ma usare una lettera è troppo semplice e non rispettoso nei tuoi confronti per cui sarò breve. Parlarti è stato emozionante e rassicurante. Il mio vecchio amico mi ha detto di esser riuscito a parlarti ed indicarti la strada. In realtà non è propriamente un mio amico, ma non voglio caricarti la mente con informazioni inutili. Ti ripeto che la ragazza sta bene ma, per ora, non posso farvi unire.

 
Devon strinse la lettera tra le mani, quasi volesse strapparla ma continuò la lettura.
 
La tua operazione è andata bene ma, se guardi verso il tavolino, noterai un flacone in plastica. Al suo interno ci sono undici pillole che dovrai prendere alle 20 in punto di ogni giorno. E poi ti ho lasciato del latte caldo, sperando che non perda il suo calore fino al tuo risveglio, so che era il tuo preferito. Devon io non ho dimenticato te e tua madre, nemmeno un attimo. Ma tua madre ti avrà già spiegato tutto, lei è più brava in queste cose sentimentali.
Non appena ti sarai rimesso cerca il Signor Sebastian e chiedigli aiuto, potrai fidarti di lui.
Il tempo stringe e io devo andar via, sul retro del foglio ti annoto un numero che dovrai chiamare non appena avrai finito le pillole.
 
Ti voglio bene figlio mio e scusa per tutto, mi saprò far perdonare un giorno.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 - La piccola Adele ***


 
Capitolo 15 - La piccola Adele
Passato


Il vialetto che collegava le varie residenze differiva in base al rango della famiglia abitante; stradine in pietra come stradine d’erba o terra battuta. I segni del temporale erano ancora soprattutto visibili in quest’ultime, formando piccole pozze d’acqua nelle quali alcuni uccellini si abbeveravano. Le due gemelle correvano felici evitando le pozzanghere con molta maestria anche se alla fine una delle due ci finì dentro.
«Betty!» disse ridendo Veline «Sei caduta! Sei caduta!»
«Sta zitta stupida!» urlò Betty «Vado a casa a cambiarmi, tu prosegui, ci vediamo al burrone.»
Mentre la sorella sporca di fango si avviò, quasi claudicando, verso casa, Veline cercò di trattener le risate e di proseguire il cammino. Dopo una notte di pioggia la natura sembrava rinascere, quasi esplodere. Il sentiero era molto lungo ma era affiancato da tanti alberi che regalavano un’ombra molto gradevole. Veline aveva un passo lento e tra una pozzanghera e l’altra arrivò al capolinea. Gli alberi erano spariti per lasciar spazio ad una vista mozzafiato: un’enorme brughiera divisa dal fiume che, toccato dai raggi del sole, risplendeva. Veline si avvicinò sul ciglio del dirupo per poi sedersi comodamente con le gambe a penzoloni. Sarà stato un salto di almeno 50 metri ma la ragazza parve tranquilla, andava spesso con la sorella in quel luogo. Era il loro posto segreto dove non venivano mai disturbate, dove tutto sembrava al di fuori del tempo, ma non quella mattina. 
Distesa nell’erba, poco distante dalla ragazza, c’era una persona. Sembrava addormentata, era una bambina dai delicati tratti. Una lunga e folta chioma bionda che le arrivava quasi all’altezza delle ginocchia. Indossava un grazioso vestitino bianco e nero con una larghissima gonna, sembrava un vestito principesco. Corpo esile e un fermaglio nero con un grande fiore bianco impediva ai capelli di coprirgli il viso. Veline si avvicinò senza svegliarla ma era talmente graziosa che non resistette nello sfiorarle una guancia. Discostò i capelli che erano ricaduti sul viso e scorse un bastoncino di plastica fuoriuscirgli dalle labbra conserte. Non appena la mano della ragazza toccò la guancia della bambina dalla liliale bellezza essa aprì gli occhi, due enormi occhioni azzurri come il cielo. Non sembrò impaurita ma fece fatica a mettersi seduta; l’enorme gonna nascondeva le gambe avvolte in un paio di calze bianche con dei puntini neri e i piedi racchiusi in un paio di minuscole scarpette nere. Un rumore provenire alla destra di Veline catturò la sua attenzione: era Betty che correva come una pazza per raggiungere la sorella.
«Veline chi è questa graziosissima bambina?» chiese Betty ancora invalidata da un forte fiatone.
«L’ho trovata qui distesa nell’erba.» disse Veline per poi voltarsi verso la creatura. «Come ti chiami piccola?»
La bambina era ancora assonnata e si limitò a far saltellare lo sguardo tra le due sorelle. (Forse non capisce la nostra lingua)
Subito Betty afferrò il bastoncino che la bambina aveva tra le labbra ma appena lo fece la bambina ringhiò e, gattonando, corse a nascondersi dietro la schiena di Veline. 
«L’hai spaventata!» inveì Veline «Sei sempre la solita.»
Un’imbarazzata Betty provò a chiedere scusa ma la bambina non voleva saperne di uscire da dietro le spalle di Veline. Attimi di silenzio e di sguardi di dubbio cessarono con un flebile suono che fuoriuscì dalla bocca della bambina.
«Se non ti togli quel bastoncino dalla bocca non puoi parlare!» cercò di spiegare Betty con un tono quasi severo e scocciato.
«A-Adele.» sospirò timidamente la bambina mentre guardava Veline «B-borsa?» infine chiese.
Le due sorelle si scambiarono uno sguardo interrogativo per poi rivolgersi verso la piccola Adele.
«Ti chiami Adele, allora.» disse Betty.
«Piccola Adele hai perso la tua borsetta?» chiese Veline rivolgendosi in tono calmo verso la bambina.
«Veline! Veline!» si limitò a rispondere Adele con fare esclamativo.
Betty dopo uno sguardo della sorella iniziò a girare nei dintorni alla ricerca della borsa mentre lei provò a far parlare la piccola Adele. 
«Cos’hai in bocca piccola?» chiese Veline e la bambina subito afferrò il bastoncino per svelare un chupa chups nero. 
Veline provò ad afferrarlo ma la bambina richiuse subito la bocca e riprese a succhiare la caramella. Poco dopo ritorna una vittoriosa Betty con una borsetta e un chupa chups tra le mani: la borsetta era piena di quelle caramelle ancora incartate. Appena vide la scena, la piccola Adele cominciò ad urlare cose senza senso e Veline subito capì che il comportamento di Betty la scosse non poco. 
«Posa quella caramella nella borsa, subito!» comandò Veline mentre Betty era ad un passo dall’addentarne una.
«Che schifo!» esclamò Betty gettando la caramella nella terra «Ha un sapore bruttissimo! Come fa a tenerlo sempre in bocca?»

Dopo aver chiuso la borsetta di Adele, le due presero ognuna una mano della bambina ma quando Betty si avvicinò alla sua mano Adele la ritrasse subito abbracciando la coscia di Veline e affondando il viso nel suo pantaloncino. 
«Si può sapere che ha?!» strillò una sempre più scocciata Betty. 
«Betty non alzare la voce, non vedi che la spaventi?» disse Veline per poi abbassarsi all’altezza della bambina «Devi portare i tuoi occhi alla sua altezza per farla sentire tranquilla, con i bambini si fa così. Prova!»
Betty ubbidì e si accovacciò come la sorella e provò a parlare con la bambina ma questa scappò nuovamente dietro la schiena di Veline. 
«Basta! Mi arrendo, andiamo a casa ho fame.» concluse Betty.
Un brontolio risuonò dallo stomaco della piccola Adele che subito arrossì in viso. Le due sorelle la fissarono per poi scoppiare a ridere e dirigersi verso casa. 

Per tutto il viaggio di ritorno Adele restò incollata alla gamba di Veline, quasi stritolandogliela. Il cielo cominciò a riempirsi di nuvole così le tre affrettarono il passo prima dell’avvento della pioggia. Il clima era molto instabile ultimamente. Arrivate a casa la trovarono vuota, i genitori era partiti per un breve viaggio di lavoro. Veline aprì il frigorifero e trovò un biglietto con su scritto: 

Il pranzo è nella scodella verde, fate le brave mi raccomando! Torneremo prima di cena.

«Polpette!» urlò Veline richiamando le due nel soggiorno «A tavola!»
Non era la prima volta che la madre delle gemelle lasciava un pasto pronto accompagnato da un biglietto che nascondeva, dietro quell’apparente dolcezza e apprensione, intimidazioni. Dovettero mettere due cuscini sopra la sedia di Adele per farle raggiungere l’altezza del tavolo. Betty senza aspettar nessuno appena ebbe il piatto di polpette iniziò subito a divorarle. Veline tolse la caramella dalle fauci della bambina per poi cercare di imboccarla ma la bambina non voleva saperne. Ma il profumo di quelle polpette era troppo intenso e, messo da parte l’imbarazzo, afferrò una forchetta con la sua piccola mano e senza esitazione infilò un’intera polpetta in bocca. La divorò così come tante altre fin quando il suo stomaco non sembrò scoppiare. Veline inizialmente preoccupata per l’ingordigia della bambina si tranquillizzò e terminò anche lei la sua porzione. 
Dopo quel lauto pasto poggiarono la bambina sul divano per farla riposare un po’. Si rilassarono anche loro in compagnia del televisore ma ad un certo punto la loro attenzione fu catturata dalla bambina che iniziò a respirare affannosamente con il viso rosso e gli occhi chiusi. Le due sorelle provarono a svegliarla ma Adele era sotto shock così Betty chiamò subito un’ambulanza. 

In ospedale alcuni infermieri caricarono la bambina su una barella per poi sparire dietro una porta. Le due sorelle erano in sala d’attesa in silenzio. Pensavano a cosa avrebbe potuto causar quella reazione alla bambina. Le polpette le avevano mangiate anche loro, eppure stavano bene. Dopo un’apparente eternità un medico si avvicina verso di loro, era un medico che già ebbero modo di conoscere qualche tempo prima per via del Signor Craft.
Il medico subito le tranquillizzò dicendo che la bambina si era calmata. Le condusse nella sua camera; la bambina era ancora rossa in viso ma era sveglia e tranquilla. Subito salutò le due sorelle con un grande sorriso mentre era impegnata a colorare un disegno, in bocca aveva un nuovo chupa chups.
«Posso parlarti un attimo?» chiese il medico rivolgendosi a Veline.
«Betty resti tu con…» non fece nemmeno in tempo a terminar la frase che Betty annuì per poi avvicinarsi timidamente al letto della bambina. 
Il medico accompagnò Veline in una sala piena di libri e con al centro una scrivania alla quale era seduto un medico.
«Ti presento il Dottor Duval, ha monitorato lui la bambina, ti lascio con lui.»
Veline inizialmente era imbarazzata per essere in presenza di un medico che non conosceva ma subito spezzò quel silenzio.
«La ringrazio tanto per aver salvato la bambina.»
«Non devi, io non ho fatto nulla.»
«Ehm, eppure…»
«Io non posso curare quella bambina.»
«Non può curarla? Cosa intende? Non mi dica che si tratta di una malattia grave.»
«No, se si trattasse di una malattia umana, potrei trovar un rimedio.» disse il Dottor Duval «Ma lei non è umana. Lei è interamente e scientificamente artificiale.»
«Aspetti, Adele è… artificiale?
«Sì.» si limitò a rispondere il Dottor Duval.
«In pratica… sarebbe un essere umano creato artificialmente?»
«Esatto.»
«Andiamo non può essere…»
«Suppongo che sia normale reagire così. Il senso comune imporrebbe di credere che sia impossibile, ma, a volte, ci sono persone che tentano di superare tale senso.» il viso di Veline sembrò perdere colore «Analizzando le proteine costituenti il suo corpo, ho scoperto che nessuna di esse è riscontrabile in natura. Comunque, lei non sembra consapevole di essere diversa dagli altri. Il suo aspetto è assolutamente normale e anche le sue funzioni corporee non differiscono dalle nostre, ma c’è un problema. Come parte del suo processo metabolico le sue cellule secernono spontaneamente un veleno.»
«Un veleno?» chiese stupita Veline con una mano davanti la bocca.
«Sì, purtroppo. Se lasciato indisturbato si accumulerà nel corpo e ne arresterà le funzioni organiche, uccidendola. »
«Ma cosa?!» urlò Veline «Ma ora sta beniss…»
«È per via di quei lecca lecca. Contengono un composto in grado di neutralizzare il veleno. Si può dire che sono l’unica cosa a tenerla in vita.»
«Quindi non può sopravvivere senza?»
«Non so perché l’abbiano creata così. Potrebbe trattarsi di un difetto tecnico imprevisto, o forse è stato fatto intenzionalmente. In ogni caso gli unici a poter sanare questo difetto sono coloro che l’hanno creata.»
«Chi può aver creato questa bambina?!» chiese a se stessa Veline con tono arrabbiato «E per quale motivo?!» 
«Ricordo di aver sentito, qualche anno fa, di un gruppo di ricercatori che stavano tentando di creare artificialmente gli esseri umani. Ma poi dopo un po’, queste voci erano cessate.» disse il Dottor Duval «Dove avete trovato la bambina?» 
Veline non sapeva cosa rispondere, come sapeva il medico che l’avevano trovata? Poteva essere loro cugina o chiunque altro. Sì limito a borbottare parole senza senso.
«Non importa.» disse il Dottor Duval «Ogni caramella è capace di bloccare il veleno per 3 ore.»
Il Dottor Duval dopo questa ultima sconcertante notizia si alzò e lasciò l’inerme Veline avvilita ad una parete.
Dopo un po’ tornò in camera della bambina e scoprì che Betty era sul lato con gli occhi rossi e traboccanti di lacrime e che la bambina si era riaddormentata. Il senso di colpa l’aveva invasa e approfittando della solitudine si lasciò andare. Appena vide la sorella alla porta si asciugò gli occhi con la coperta del lettino. Veline ignorò volontariamente la sorella per non farla imbarazzare ulteriormente e posò lo sguardo sulla bambina che sembrava immersa in un piacevole sogno. Dopo quasi un’ora di silenzio ritornò il Dottor Duval che richiamò Veline con un cenno di mano.

«Ho consultato alcuni miei colleghi ai quali ho illustrato nei dettagli la situazione.» disse il Dottor Duval «La bambina partirà con me domani mattina.»
Veline sobbalzò e chiese al medico dove l’avrebbe portata ma il Dottor Duval si limitò nel dirle che sarebbero volati verso il sud della Francia; in quel luogo c’erano alcuni esperti desiderosi di studiare la bambina.
«Studiare? Potrà essere anche artificiale ma è pur sempre una vita!!» urlò Veline attirando a se l’attenzione di un’infermiera che passava lì vicino.
«Riuscirò a salvarla.» disse il Dottor Duval mentre afferrò le sudate mani di Veline. «So quanto possa essere terribile perdere una vita che ti sei promesso di proteggere. La salverò.» 
Il tono del medico infuse una strana tranquillità nel cuore della ragazza che si calmò per poi abbracciare il Dottor Duval. Non sapeva per quale motivo ma si fidava di quell’uomo. Sembrava sincero.

Veline subito dopo tornò nella camera della piccola Adele e scoprì che insieme alla bambina si era addormentata anche la sorella. Si avvicinò a quest’ultima e con un leggero tocco la svegliò facendola sussultare. Veline spiegò, mentendo, la situazione alla sorella, disse che la bambina era fuori pericolo e che i genitori l’avevano già reclamata, l’indomani sarebbero andati a prenderla. Gli occhi di Betty si riempirono di lacrime gioiose e dopo aver baciato la fronte della bambina poggiò la sua borsetta sul cuscino ed uscì dalla stanza.
«Non vieni Veline? Andiamo a chiamare mamma, è quasi sera.»
«Si avviati, la saluto e ti raggiungo.»
Betty capì e subito sparì dalla stanza lasciando sola la sorella. Veline si avvicinò al petto della bambina e scoppiò a piangere bagnando tutte le lenzuola del lettino.
«P-perché Veline piange?» chiese una vocina debole.
La bambina si era svegliata ma tra le labbra non aveva altro che un bastoncino di plastica vuoto, Veline subito si affrettò a scartare un lecca lecca.
«Ti senti meglio piccola?» chiese Veline asciugandosi gli occhi con le mani. 
«S-sì! Adele è felice che Veline sia venuta a trovarla!» disse Adele «Tornerà anche domani a trovare Adele?»
Veline non riuscì a trattenere le lacrime, si limitò ad annuire con la testa e dopo aver baciato sul capo la bambina la salutò per poi chiudere la porta dietro le sue spalle.

Ormai era sera e Veline si affacciò alla finestra dell’ospedale ad osservare il profondo cielo nero. Non c’erano stelle per via di una luminosa luna. La sera successiva sarebbe stata piena. Il giorno dell'appuntamento.

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Capitolo 16
*** Pausa di riflessione - Pensieri e ringraziamenti ***


Pausa di riflessione - Pensieri e ringraziamenti
“Presente!”
 
 
Innanzitutto un sincero e sentito grazie a tutti quelli che sono arrivati fino a questo punto della storia.
Se sei arrivato qui cliccando per fortuito errore… “grazie” anche a te!
 
Ma non perdiamoci in convenevoli e cerimonie.
 
«Perché questo testo? Dov’è il 16esimo capitolo? Lo vogliamo!» chiesero tutti i lettori.
 
Spero siano queste le Vostre domande ma proseguiamo:
Io non so se sia convenzione di altri utenti instaurare una breve pausa ad un certo punto delle loro storie.
Questo testo è per, come dicevo prima, ringraziarvi ma anche per fare un resoconto della storia.
 
Una sorta di sunto e miei pensieri personali. I pensieri del Vostro Autore Preferito!
Scherzi a parte vediamo di analizzare i personaggi incontrati sinora.
Le gemelle Kessler... ehm… Veline e Betty!
Il Signor Arthur Miller, padre delle gemelle.
Il Signor Tom e Carl Kraft, i fratelli.
Devon, il ragazzo che tutti amano confondere.
Il Maestro Flamel, il vecchio della storia.
Mason, il Dottor Misaka e la piccola Adele.
 
Alcune brevi apparizioni le ho volutamente omesse, non vogliatemene.
Avrete notato la dicitura Passato e Presente al di sotto di ogni titolo.
Prendiamo gli ultimi due capitoli, rispettivamente il 14esimo e il 15esimo.
Nel 14esimo scopriamo e assodiamo la notizia di questo padre. Padre di Devon scappato anni prima lasciando lui e la madre in solitudine, il perché ancora non si sa con chiarezza. C’è questo patogeno che vive nel corpo del ragazzo per un’ancora non “chiara” motivazione. Tutte incertezze, insomma!
Nel 15, invece, possiamo scoprir l’introduzione di un nuovo personaggio; la piccola Adele.
Questo è un personaggio a cui sono molto legato. Avrà un ruolo chiave man mano che la storia si intreccerà, non dimenticatela.
 
Tirando un po’ le somme di può cominciar a capire che il personaggio più enigmatico e oscuro sia questo Maestro Flamel. Si è riusciti a capir un qualcosa nel lontano decimo capitolo, ma di chiarezza assoluta neanche l’ombra.
Grotte, ampolle, teche in cristallo, vermi, bacili e carillon. Molti oggetti di uso comune sono apparsi.
Certo “uso comune” forse è un po’ azzardato da dire non conoscendoVi. Ma sicuramente avrete avuto a che fare con un carillon, questo intendevo! Semplicemente questo!
 
Non voglio dilungarmi troppo né fare un vero e proprio sunto di questo 15 capitoli.
Attraverso questa storia ho conosciuto, insieme ai personaggi che man mano sto creando, anche nuove fonti di ispirazione; le Vostre recensioni, commenti e messaggi privati non fanno altro che donarmi un pizzico di Voi capace di stimolare le mie idee nella creazione di nuovi collegamenti.
 
Si potrebbe dire che stiamo scrivendo questa storia tutti insieme!
Gli errori di forma sono soltanto miei, tranquilli…
 
Ho promesso che revisionerò tutto una volta terminata la storia.
Questo perché? Perché io stesso ho soltanto idee di come potrebbe finire questa storia e quindi vorrei non solo correggere la forma dei capitoli ma anche aggiungere vere e proprie parti. Frammenti e futuri collegamenti che dovrebbero rende la lettura il più semplice e armoniosa possibile.
Forse pretendo troppo dalle mie capacità ma il mio è un semplice tentativo d’espressione.
Potrete mai biasimarmi per questo?
C’è chi compone canzoni, chi disegna, chi recita o cucina… io provo a scrivere.
 
Spero di non averVi annoiati e, ancor più, spero che continuiate a seguire questa, non perfetta nella forma, storia.
 
Alla prossima pausa di riflessione!
 
Sincro.
 
 
 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 - Il tavolo in mogano ***


Capitolo 16 - Il tavolo in mogano
Presente
 
 
Gli occhi di Devon cominciarono a farsi pesanti. La lettera era ancora tra le sue mani ma il capo era già sprofondato nel soffice guanciale. Al di fuori della porta non si avvertivano particolari movimenti, sembrava un complesso abbandonato.
Il tempo scorse velocemente e Devon si svegliò da un riposo rigeneratore. Notò di avere il corpo pieno di medicamenti e bende sparse. Ripose la lettera e il flacone delle pillole nelle tasche e si apprestò ad oltrepassare la porta sulla destra, rivelatosi un bagno. La stanza non era molto grande ma aveva un’atmosfera accogliente. Sulle pareti, invece del parato ad orsetti, c’era un enorme mosaico raffigurante figure geometriche quadriformi. Alla destra di Devon si innalzava un muro separatore adibito a doccia, mentre sulla sinistra due lavabi e i relativi sanitari. Il ragazzo subito si avvicinò alla specchiera scoprendo un viso stanco ed abbattuto. Aprì l’acqua ma avvertì un flebile susseguirsi di bip provenire dalla porta camera da letto; bip sostituito poi dal rumore di un carrellino e di una voce che richiamava il suo nome con una certa tensione.
Devon chiuse l’acqua per non svelar la sua locazione e si nascose nella doccia. La donna lanciò uno sguardo rapido alla stanza da bagno per poi uscire e andar via con passo rapido lasciando la porta aperta. Il tempo di tranquillizzar le acque e il ragazzo decise di uscire dal suo nascondiglio.
La donna lasciò in camera un carrellino pieno di attrezzi chirurgici sul primo ripiano, mentre in quelli sottostanti c’erano garze e alcune flebo vuote. Devon afferrò, per poi nascondere nelle tasche, un bisturi in ossidiana. Si avvicinò allo stipite della porta per osservar l’esterno: un lunghissimo corridoio costellato da numerose porte, il tutto illuminato da luci particolarmente gialle. Il pavimento era in PVC, mentre le pareti erano in mattoni. Arrivò a metà del corridoio quando una donna in camice verde avanzò verso di lui. Impaurito sfoderò il bisturi.
«Calma! Devon calmati!» disse la donna.
«Chi è lei? Dove mi trovo? Dov’è mio padre?» chiese Devon, ma la donna lo ignorò e sussurrò qualcosa ad un auricolare.
Le luci da gialle passarono ad un rosso molto intenso, gli occhi di Devon cominciarono a lacrimare per poi lasciar ricadere l’arma sul pavimento. Avvicinò le mani agli occhi, quasi volesse proteggerli da quella luce.
«È inutile. Cerca solo di star calmo.» pronunciò la donna.
«Cosa mi ha fatto? Perché non riesco a veder nulla?»
«Merito della luce con spettro alterato.»
«Allora perché lei ci vede?»
«Semplice, io non sono un essere da tener sotto controllo.»
A queste parole Devon, anche se cieco, corse irato verso la donna, che non esitò colpirlo a per poi abbatterlo. Un atroce dolore all’altezza del petto invase il ragazzo che si accasciò sul pavimento per poi svenire.
 
Una grande sala con al centro un lungo tavolo in mogano era accerchiato da molti uomini in camice bianco. Al centro di questo enorme tavolo si ergeva un ologramma raffigurante alcuni grafici. A differenza delle altre sale, questa era invasa dalla luce del sole proveniente da tante finestre. Al capo di questo tavolo sedeva il Dottor Duval con ai lati, Mason e il Dottor Misaka. Sembravano immersi in un’agitata conversazione. Mason era assorto nei suoi pensieri mentre osservava quegli schemi scorrere davanti i suoi occhi con fare disinteressato. I restanti posti del tavolo erano riempiti da altre 5 persone, alcune impegnate nel compilare alcune scartoffie mentre altre ascoltavano le parole del Dottor Duval.
«Vorrei capire chi ha dato l’autorizzazione nel somministrargli i miei composti.» disse il Dottor Duval con tono composto ma trasudante ira.
«Sono stato io, James.» disse una donna dall’altro capo del tavolo.
«Per quale motivo ti sei permessa?»
«James modera i termini, la dottoressa Klein è pur sempre un tuo superiore.» disse un altro uomo sedente alla destra della suddetta dottoressa.
«Sebastian sta zitto, è un affare che non ti riguarda.» sbraitò il Dottor Duval «Kate potresti rispondere celermente alla mia domanda, non ho molto tempo da dedicare a questo tavolo.»
«James devi capire che sono stata costretta.» disse la Dottoressa Klein.
«Chi ti ha costretta? Potrei saperlo?» chiese con tono sarcastico il Dottor Duval.
«Puoi benissimamente immaginarlo James.» rispose il Dottor Misaka.
Il viso del Dottor Duval impallidì subito dopo queste parole per poi sprofondare nel silenzio. Mason fece notare l’ora, tutti si alzarono per poi dividersi all’uscita della sala.
 
«Quindi è stato un ordine provenuto direttamente da lui, Tomomi?» disse il Dottor Duval.
«Purtroppo sì. Sai benissimo che non possiamo ignorare un suo diretto ordine.» disse il dottor Misaka con un tono tendente al nostalgico.
«È davvero incredibile. Dobbiamo sottostare agli ordini di un simile essere. Ricordami il perché.» disse il Dottor Duval.
«Perché ci ha salvati tutti, non ricordi? Gli saremo eternamente debitori.»
Con il termine della conversazione, i due si divisero ad un bivio. Il Dottor Duval era affranto e con passi pesanti raggiunse l’inizio di un lungo corridoio. Si avvicinò alla prima porta sulla destra e, dopo aver digitato dei numeri su un piccolo tastierino, scoprì una piccola stanzetta piena di orsacchiotti e peluche vari. Al centro c’era un lettino con all’interno una graziosissima bambina dai crini color oro. Affissi alle pareti della stanza c’erano tanti schermi e alcuni macchinari pieni di spie luminose. Il Dottor Duval si avvicinò con discrezione e silenzio al lettino della bambina. Quest’ultima alzò le palpebre svelando due occhioni azzurri che lo iniziarono a fissare.
«Come ti senti Adele?» chiese il Dottor Duval quasi sussurrando.
«Adele si sente un pochino meglio oggi. Adele vorrebbe bere, però. Adele sente la sua bocca molto secca.»
«Adele sai che non puoi bere per un po’.» disse il Dottor Duval per poi avvicinarsi e premere alcuni tasti di una tastiera. «Ora va meglio?»
«Adele non ha più sete ma desidera ancora provare a mandar giù qualcosa. Adele lo desidera tanto.»
Il Dottor Duval ignorò le parole della piccola bambina e riprese a digitare qualcosa sulla tastiera. Adele chiuse gli occhi per poi addormentarsi profondamente.
James uscì dalla porta non prima di averla ribloccata usando il tastierino. Proseguì il suo cammino fermandosi davanti ad un’altra porta, digitò un diverso codice per poi entrare. Al suo interno non c’era molto mobilio tranne per una cassettiera ed un letto al lato della stanza. All’interno di esso una giovane donna addormentata ricoperta soltanto da un sottile lenzuolo bianco. Il Dottor Duval non si avvinò ad essa ma, dopo aver controllato l’ora dal suo orologio da polso, chiuse la porta e uscì.
Arrivò al centro del corridoio per poi esser prossimo ad inserire un ennesimo codice.
«James ti ho trovato, finalmente, dov’eri?» chiese Sebastian.
«Ero andato a monitorare le due donne.» disse il Dottor Duval «Non potremo tenere la bambina in questo posto ancora per molto, immagino tu l’abbia già capito.»
«Certo, lo so. Ah James scusami per la scenata alla riunione prima. Ma sai…»
«Sempre invaghito della Dottoressa Klein, noto!» disse il Dottor Duval «Ti ripeterò fino alla nausea che questa non è la tattica giusta per far breccia nel suo cuore. Ma torniamo seri, in questa stanza c’è mio figlio. Ti prego di prenderti cura di lui fino al mio ritorno, ti lascio questa lettera e questo flacone, poggiaglieli sul tavolino. »
«Sarà fatto James, ma dove stai andando?» chiese Sebastian con una vena d’ansia.
«Devo incontrare una persona. Devo chiarirmi con una persona. A presto Sebastian.»
 
Devon aprì gli occhi scoprendosi seduto ad una sedia. In sua compagnia vide un uomo di spalle intento a macchineggiare su di un palmare. L’uomo era molto magro e con una lunga, ma curata, barba.
«Ti sei svegliato, finalmente. Alla buon’ora, direi!» disse Sebastian.
«Lei è Sebastian, immagino. L’amico di mio padre.»
«Esattamente, tra non molto saranno le 21. Preparati per la cena. Ti lascio tranquillo.»
«Dove va? Perché nessuno vuol soddisfare le mie domande?!» urlò Devon.
«Tranquillo, scoprirai tutto tra non molto. Ora rivestiti e sistemati un po’.» disse Sebastian «Verrò a prenderti tra 20 minuti.»
 
Sebastian uscì dalla stanza per poi bloccare la porta alle sue spalle lasciando solo Devon.
(Le 21? Sono le 21? Dovevo prendere la pillola, maledizione!)
Subito Devon aprì il flacone per poi cercar di ingoiare una pillola. Questa era molto grande e dal colore tendente al giallo, molto amara ma appena arrivò nello stomaco del ragazzo questo sentì un gusto dolciastro risalirgli fino alla gola. Notò dei vestiti, molto eleganti, piegati e riposti su un tavolo. Si spogliò ed iniziò la preparazione in vista della cena.

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