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All’interno, la palazzina era ridotta ad
un immenso cimitero. I cadaveri di decine e decine di esponenti dei Ryuji giacevano a terra coperti di
sangue, tutti morti o morenti.
Chiunque lo avesse
visto coi propri occhi, avrebbe faticato a crederci;
uno dei più pericolosi e potenti gruppi criminali del Giappone era stato
completamente sterminato nel giro di pochi minuti. I Ryuji
erano noti per la loro brutalità, e per l’estrema efficienza dei loro reparti
combattenti; quella palazzina era il luogo in cui avvenivano
la gran parte dei traffici illeciti: droga, armi, sesso e quanto di peggio si
potesse chiedere.
Lì venivano eseguiti anche gli omicidi degli esponenti di
spicco delle altre famiglie criminali, ed ogni qualvolta vi si recassero i Ryuji la trasformavano in una fortezza, protetta a vista da
uomini armati di tutto, dalle automatiche fino agli RPG.
Quella sera erano
tutti presenti, incluso il grande capo della famiglia, KaitoRyuji, per assistere personalmente all’esecuzione di MomoriTaijo, esponente di spicco
dell’omonimo gruppo da tempo avversario dei Ryuji per il controllo della zona di Odaiba.
La condanna stava
quasi per essere eseguita, quando all’improvviso dall’esterno erano cominciati
a risuonare i colpi dei fucili d’assalto, seguiti a breve tempo dalle grida
strazianti degli uomini uccisi.
Sulle prime si
pensò che fosse un tentativo dei Taijo di liberare
uno dei loro capi, e allora era stato dato l’ordine di
respingerli con ogni mezzo, ma quale stupore per KaitoRyuji quando gli fu detto che ad attaccare la
palazzina era una sola persona.
A dirlo fu uno dei
suoi uomini, che risalito quasi morente all’ultimo piano fece appena in tempo a
dire di chi si trattasse: lo descrisse come un uomo, all’apparenza un normale
civile, armato fino ai denti e dotato di un’abilità a dir poco sensazionale.
«Sembra uno di
quei… Delta Force…» aveva detto il mafioso prima di
morire.
Meno di dieci minuti dopo anche il capo della famiglia Ryuji era morto dopo un inutile tentativo di fuga, ma una
delle sue guardie del corpo si era salvata, e ora cercava in tutti i modi di
lasciare quella specie di casa degli orrori con una pallottola conficcata nel
fianco.
Il dolore lo
faceva zoppicare, e la mano che tamponava la ferita era zuppa di sangue, così
come il suo bel vestito nero. Probabilmente era stato ferito anche alla gamba
destra, o si era infortunato cadendo dalle scale nel tentativo di fuggire,
perché zoppicava vistosamente, e questo rallentava di
molto la sua fuga.
Giunse alfine
all’esterno della palazzina, e anche qui si trovò davanti ai corpi dei suoi
compagni crivellati di colpi, come se l’aggressore avesse usato un caricatore
da trenta colpi per ognuno di loro; anche le pareti, tanto all’esterno quanto
all’interno, il cortile era pieno di cadaveri, e malgrado quell’uomo fosse
abituato alla vista di simili, macabri spettacoli, a stento si trattenne dal
vomitare.
Era quasi riuscito
ad oltrepassare i cancelli, quando udì alle sue spalle
il rumore di uno sparo, e subito dopo cadde a terra, colpito alla spalla.
Giratosi, aveva
visto quella specie di mostro camminare lentamente verso di lui.
Era poco più di un
ragazzo, non doveva avere più di venticinque anni, i capelli neri leggermente
arruffati, la pelle chiara ed un viso assente, senza
espressione. Vestiva in modo semplice, in jeans e maglietta, il tutto
contornato da una giacca con il colletto di pelo.
Stringeva un
TAR-21 nella mano destra e una piccola wakizashi
nella sinistra, quest’ultima con il sangue che ancora gocciolava dalla punta
dopo essere stata affondata in più di una gola.
Terrorizzato, il
mafioso sollevò la sua beretta e sparò un colpo dietro l’altro nella speranza
di fermarlo, anche se dentro di sé era consapevole che fosse solamente una
perdita di tempo.
Era come se quel
tipo avesse davanti a sé un vetro antiproiettile, perché per quanti colpi gli venissero sparati contro nemmeno uno riusciva a centrarlo.
In pochi secondi
il caricatore si esaurì, e se lo ritrovò davanti; il cavallo dei suoi pantaloni
era bagnato fuori dei modi, e il suo tremito si fece ancora più evidente quando
lo vide sollevare il mitragliatore verso di lui.
«Tu…» balbettò «Chi diavolo sei tu?».
Quello lo guardò coi suoi occhi senza espressione.
«Il fantasma della
Seaborn Star».
Nel sentire quel
nome il mafioso ebbe appena il tempo di sgranare gli occhi, e fu con quella espressione che morì dopo che cinque colpi sparati a
bruciapelo lo attraversarono da parte a parte.
E così, nello
spazio di una notte, la famiglia Ryuji fu spazzata
via.
Il ragazzo restò
da solo, in mezzo a tutti quei cadaveri che lui stesso aveva seminato.
Dopo pochi
secondi, appena uscì dal cancello, dalla stradina stretta che saliva lungo la
collina giunse un fuoristrada di grossa cilindrata nero pece con gli
abbaglianti accesi che si fermò poco distante da lui, lasciando il motore
acceso.
Ne scese un altro
ragazzo, biondo, non eccessivamente alto, che indossava eleganti calzoni neri e
una bella camicia nera a righe verticali.
«Hai combinato un
bel casino anche questa volta, eh Kyuzo?» disse in un
giapponese un po’ stentato.
«Hai avvertito la
polizia?»
«Saranno qua fra pochi minuti. Sarà meglio sparire, anche se pagherei
una cifra per vedere le loro facce quando si troveranno
davanti questo spettacolo».
Kyuzo, come lo aveva chiamato il ragazzo biondo, si disfò del fucile, senza preoccuparsi minimamente di
cancellarvi eventuali impronte, ma tenne con sé la spada e salì a sua volta sul
fuoristrada, che giratosi recuperò velocemente la strada principale in
direzione del centro di Tokyo, mescolandosi nel chaos
della metropoli.
«E con questi
fanno quattro» disse il guidatore «E ora su chi ci concentriamo?»
«Sugli ultimi
rimasti.» rispose Kyuzo pulendo con un panno bianco
la sua wakizashi prima di rinfoderarla
«Allora, si va’ a Roanapur?».
Kyuzo allungò una mano ed aprì il
porta-oggetti, da cui recuperò un cofanetto che aprì. Conteneva un
bell’esemplare di 9mm argentato con il calcio d’avorio su cui vi era un
altorilievo in argento raffigurante un teschio con due spade incrociate sotto
di esso.
Affianco alla
pistola c’era anche un proiettile, uno solo, e subito sotto il caricatore.
Il ragazzo
recuperò solo il proiettile e lo guardò; per un attimo, mentre lo stringeva con
forza nel pugno, una lacrima rigò il suo volto da statua.
«Harue…» sussurrò «Ti prego,
pazienta ancora un po’. Molto presto, avrai la tua vendetta. Quella cagna
pagherà per quello che ti ha fatto».
Subito dopo, però,
lo stesso volto fu attraversato da una smorfia di dolore. Il giovane si
raggomitolò su sé stesso tenendosi il cuore con un
vigore tale da far cedere che volesse strapparselo.
«Kyuzo!» disse il biondo «Va’ tutto
bene?»
«Non… non è
niente.» disse cercando di riprendere l’autocontrollo «Ora passa…»
«La
cosa comincia a farsi preoccupante, amico mio. Il tuo corpo sta collassando.»
«Lo sapevamo che
sarebbe accaduto…» rispose Kyuzo sparandosi
letteralmente in vena un’ampolla piena di un liquido rossastro «Mi serve solo un’altra settimana. Non chiedo altro. Una settimana per spedire quelle due troie dritte all’inferno!».
Un’altra giornata volgeva al termine, il sole ormai
morente gettava i suoi ultimi raggi su Roanapur e sul
suo bellissimo mare, che ben poco aveva da spartire in una città dove regnavano
solamente sangue, violenza e corruzione.
La Lagoon
stava quasi per rientrare al porto dopo l’ennesimo incarico, uno dei pochi che
si fosse concluso senza alcun bisogno di sparare un
colpo, con grande dispiacere per qualcuno ma con altrettanta soddisfazione per
qualcun altro.
Per la compagnia
le cose non erano mai andate così bene: il lavoro non mancava, i soldi
arrivavano a fiumi, e di tempo per sbronzarsi ce n’era che si sprecava.
Benny Boy si tolse
le cuffie della radio e le gettò sulla scrivania, dandosi poi una sonora
stiracchiata; tutto quel tempo seduto non gli faceva certamente bene.
«Accidenti, sono a
pezzi.» mugugnò tra sé «Meno male che anche oggi è finita.»
«Dacci un taglio
con le lamentele.» disse Revy lanciandogli una birra
che lui prese al volo «Chi deve lamentarsi sono io. A
conti fatti, avrei fatto meglio a restarmene a casa.»
«Perché, non ti
sei divertita?» domandò Dutch dalla cabina di pilotaggio
«E
me lo chiedi? Quegli stronzi si sono arresi alla prima minaccia! Avrebbero
anche potuto accennare una fuga o roba del genere. Almeno avrei potuto
sventolare qualche raffica.»
«Revy, sei sempre la solita.» commentò il gigante nero
accendendosi la decima sigaretta delle ultime tre ore «Ascolta, meno problemi
ci creiamo coi nostri lavori più facile è che ce ne
vengano affidati degli altri. Se non siamo costretti ad
usare la forza tanto meglio, più soldi per noi e la vita per loro.»
«Fingo di non
averti sentito».
Del tutto esente
da questi discorsi, Rock se ne rimaneva seduto a prua con la birra in mano,
contemplando quei piccoli spettacoli naturali che solo lui in tutto il gruppo
sembrava in grado di apprezzare appieno.
Il porto di Roanapur si faceva sempre più vicino, e molto probabilmente
la giornata si sarebbe conclusa con l’ennesima bevuta
di gruppo allo Yellow Flag.
Che ne era stato
della sua vita?
Più di una volta
quel panorama lo aveva spinto a riflettere su ciò che lo aveva portato laggiù,
in quel piccolo angolo di sud-est asiatico dimenticato da Dio e dalla legge, e
malgrado, fin dal suo ingresso nella Lagoon Company,
avesse sempre cercato di farsi valere, sfruttando al meglio quelle capacità di
diplomatico e negoziatore che solo lui possedeva, ogni tanto si domandava cosa
ci facesse in un posto simile.
Alla fine aveva
capito che quello che Revy gli ripeteva continuamente
era vero; avrebbe fatto meglio a tornarsene in Giappone, a rifarsi una vita,
gettandosi alle spalle i panni del mercenario e del pirata che proprio non gli
si confacevano, per quanto cercasse di dimostrare il contrario.
Aveva preso una
decisione, e quella sera ne avrebbe fatto partecipe il resto della squadra.
Era affezionato ai
suoi compagni, non poteva negarlo, ma sentiva la mancanza della sua vecchia
vita, che a dispetto di quello che Revy o Dutch potevano dire gli era piaciuta
fino a quando ci era stato dentro: una casa decente, un lavoro tutto sommato
rispettabile, e una relativa tranquillità.
«Ehi,
Rock? Hai intenzione di stare lì impalato per tutta la sera?».
Riavutosi dai suoi
pensieri, Rock si accorse che la
Lagoon era già entrata in porto e
aveva gettato le ancore; Revy e gli altri lo
osservavano dalla banchina.
«Muovi quel culo da giapponese e vieni qui!»
«Faresti meglio a
darle retta.» disse Benny «Stasera Revy è decisamente di cattivo umore.»
«Sì… arrivo…».
Uscirono dal molo
e salirono in macchina, ma girare per le strade di Roanapur
non faceva altro che contribuire ad aumentare la frustrazione del colletto
bianco, sempre più taciturno.
«Ehi Rock, che ti
succede?» domandò Benny «Sei così silenzioso. C’è
qualcosa che non va’?»
«Do’
quest’impressione?»
«Tieni.» disse Dutch passandogli una sigaretta «Una fumata e passa tutto».
Rock raccolse il
consiglio e aspirò abbondantemente, disperdendo nella macchina una nuvola di
fumo che molti avrebbero trovato sgradevole, ma che quel quartetto di persone
respirava più dell’aria comune.
Una breve sosta in ufficio, poi la squadra si concesse la
solita puntatina allo Yellow Flag,
infestato come al solito da gentaglia della peggior specie: colombiani, cinesi,
russi, giapponesi, italiani.
Roanapur era praticamentela Mecca delle peggiori mafie
del mondo, un covo di tagliagole che uccidevano per puro diletto o al minimo
sgarro.
Paradossalmente,
tutti lì si sentivano al sicuro, soprattutto la gente comune: bastava farsi i
fatti propri, fare buon viso a cattivo gioco pagando
qualche pizzo, fare il gioco delle tre scimmiette per tutto quello che
succedeva e si poteva stare tranquilli, se i mafiosi poi volevano massacrarsi a
vicenda affari loro.
E la Lagoon Company
in tutto questo ci nuotava in modo a dir poco vergognoso: un lavoro valeva
l’altro, e se si trattava di violare la legge, come accadeva quasi
sempre, tanto meglio, più divertimento e più soldi.
E la compagnia
aveva le mani in pasta praticamente dovunque: mercato
nero, contrabbando, spaccio, rapimenti, furti su commissione e, qualcuno andava
dicendo, anche omicidi.
La media era di
due lavori a settimana, e più della metà erano tutt’altro che legali.
Del resto se si
era in rapporti con Hotel Moskow
non si poteva certo dire di frequentare buone compagnie; Balalaika, il capo
dell’organizzazione, era ricercata dai servizi segreti di mezzo mondo, oltre
che dall’Interpol, e anche qualche membro della Lagoon figurava sul libro nero dei ricercati.
Proprio per questo
avevano cercato scampo lì, in quello sputo di terra al confine con l’Inferno,
l’ultimo posto al mondo dove si credeva che il maglio
della giustizia potesse andare a colpire.
Revy tracannò in un sol colpo un bicchiere di rum,
riempiendolo subito dopo come se fosse stato acqua.
«Ah,
devo affogare i miei dispiaceri. Ormai sono giorni che non abbiamo l’occasione
di menare le mani».
Rock però, che
pure solitamente sembrava divertirsi in quella specie di festini, continuava a
rimanere sulle sue, e da che erano arrivati non aveva bevuto neppure un sorso.
«Senti Rock, se
continui di questo passo dovrò pensare che tu sia
morto».
Ormai non poteva
più rimandare; se lo stava tenendo dentro da troppo tempo, e sentiva che
sarebbe impazzito se non lo avesse esternato.
«Sentite.» disse
di colpo, nell’unico momento in cui nessuno dei suoi compagni si stava
preoccupando di lui «C’è una cosa che dovrei dirvi».
Dutch e Benny, sentendo il suo tono di voce, capirono
subito che si trattava di qualcosa di serio, ma non Revy,
che al contrario sfoderò la sua pungente ironia.
«Che
sei un finocchio? Tranquillo, questo si sapeva.»
«È una cosa
seria!» tuonò Rock con foga e rabbia tale che persino TwoHands, alla fine, si decise a comportarsi seriamente.
Rock si decise
finalmente a bere un sorso di rum, poi prese a girare il suo indice destro
tutto attorno al bordo del bicchiere, mentre gli sguardi di Revy
e degli altri si concentravano su di lui.
«È
già da un po’ di tempo che rifletto su questa cosa. Avrei voluto parlarvene
prima, ma non trovavo la forza per farlo».
Per qualche
secondo il colletto bianco esitò, poi strinse i denti e cercò di cacciare fuori
quelle poche ma importanti parole.
«La verità è che io
voglio…».
Sfortunatamente,
fu il destino a stabilire che quella conversazione non vedesse mai arrivare il
momento fatidico, perché venne troncata all’improvviso
da un rumore sordo e molto forte alle spalle della comitiva, facilmente
riconoscibile come quello delle porte del locale che venivano violentemente
spalancate.
Non solo la LagoonCompany, ma tutti
gli avventori del locale si girarono verso l’ingresso, incrociando lo sguardo
vuoto e il volto marmoreo di un ragazzo venticinquenne con folti capelli neri
che portava un giubbotto col collo di pelo ed un paio di jeans.
Mentre tutti lo guardavano lui restò un momento immobile, poi mosse alcuni
passi avanti mentre le porte, come animate di vita propria, si chiudevano alle
sue spalle, malgrado Tao, il proprietario, non ricordasse di averle mai dotate
di molla o di chiusura automatica.
«E quello chi diavolo è?» domandò Revy
«Non ne ho idea.»
rispose Dutch «Non l’ho mai visto».
Si respirava una
strana atmosfera; era solo un ragazzo, ma per qualche strano motivo aveva un
che di minaccioso, di oscuro, e per chi poteva sentirlo
emanava odore di morte più dei peggiori sicari.
Abbassò la testa e
mosse le labbra.
«Feccia.»
sussurrò.
Quella sola parola
fu più che sufficiente per trasformare gli sguardi incuriositi in sguardi minacciosi, e l’aria di colpo cominciò a farsi
pesante.
Tao si affrettò a
nascondersi sotto al bancone, Dutch
e Revy misero una mano sul calcio delle loro pistole,
non perché volessero sparare al forestiero, quanto piuttosto per proteggersi da
quello che immaginavano stesse per accadere.
«Non siete altro che feccia.»
«Che cos’hai
detto?» gridò un colombiano alzandosi dalla sua sedia, imitato presto da molti altri
«Ecco fatto.»
disse Revy «È morto».
Un altro
avventore, stavolta un drogato del posto, afferrò il revolver che portava alla
cintura, ma prima che potesse puntarlo si ritrovò un
coltello di tre o quattro centimetri conficcato nel mezzo della fronte.
Stessa sorte per
un cinese, e nello spazio di due secondi le mani dello straniero, scomparse
dietro la sua schiena, riapparvero con una coppia di Spectre
M4 Beretta da cinquanta colpi ognuna.
Fiumi di
proiettili presero a piovere sugli ospiti del bar, molti dei quali caddero nei
primi cinque secondi d’inferno; qualcuno, agendo d’anticipo, fece in tempo a
ribaltare un tavolo da usare come scudo, l’intera Lagoon
Company invece corse a nascondersi dietro al bancone antiproiettile al quale
erano seduti fino ad un istante prima e trovarono Tao
già con in mano il suo shot-gun.
«Ma perché cose
simili succedono sempre nel mio locale!»
«Dacci un taglio!»
rispose Revy «Mi pare che qui siamo tutti sulla
stessa barca!»
«Ma chi diavolo è quello?» chiese Benny mettendosi le mani in
testa
«Chiunque sia una
cosa è certa, non uscirà vivo da qui dopo questa bravata!».
Continuò a sparare
per interminabili secondi, compiendo una vera e propria strage; i proiettili
delle sue armi dovevano avere la testa di titanio, perché bucavano anche i
tavoli più spessi, uccidendo quelli nascosti dall’altra parte prima che
potessero rendersene conto.
Poi, finalmente, i
caricatori si esaurirono, e l’inferno cessò. Le sue Beretta fumavano come
tizzoni ardenti, e l’aria era satura dell’odore del sangue misto a quello della polvere da sparo.
Il silenzio, di
colpo, si era fatto totale, e sembrava che non una sola persona in quel bar
fosse sopravvissuta.
Rock, che ancora
si rammaricava per non essere riuscito a dire ciò che voleva, diede una
sbirciata all’esterno, e tutto quello che vide fu una immensa
distesa di cadaveri.
Lo straniero era
sempre lì, in piedi davanti alla porta, con in mano le
sue armi ormai scariche che fumavano abbondantemente per le numerose raffiche
sparate in rapida successione.
Sfruttando il
riflesso delle poche bottiglie rimaste intatte sul ripiano di legno Dutch riuscì a gettare uno sguardo sicuro al di là del bancone, e altrettanto fece Revy,
che non aspettava altro che di poter rendere il favore a quel pazzoide.
«Lagoon Company!» gridò lo straniero liberandosi delle armi «Non vi farete certo ammazzare per così poco! Mettete fuori quei vostre facce da stronzi, che ve le sfondo!»
«Dannazione,
allora quello ce l’ha proprio con noi!» disse Benny.
Incredibilmente
anche qualcun altro era sopravvissuto, un cinese che si era nascosto dietro ad
una colonna, e non appena si avvide che lo straniero era disarmato uscì dal suo
nascondiglio puntandogli contro la sua beretta.
«Muori!» urlò, e
subito dopo partì un colpo.
Il tempo sembrò
fermarsi all’interno dello Yellow Flag;
Revy e Rock, che avevano assistito alla scena,
rimasero con la bocca spalancata, e anche il cinese, che per lo sgomento e la
tremarella vide l’arma cadergli di mano.
Come
era possibile?
Fu quello che si
domandarono tutti.
Lo straniero era
lì, e anche la pallottola era lì, ferma davanti al suo viso marmoreo, come se
qualcosa avesse bloccato la sua corsa.
«Ma che diavolo…»
balbettò Dutch dopo aver visto
a sua volta quella scena ai limiti del razionale.
Il cinese tremò
ancor più di prima, mosse un passo indietro come a voler fuggire, e allora lo
straniero aggrottò le sopracciglia; a quel gesto, la pallottola ancora sospesa
in aria partì nella direzione opposta con la stessa velocità di prima, colpendo
il cinese dritto al collo e lasciandolo morto a terra dopo averlo scaraventato
lontano per il contraccolpo.
«Questa…» disse
Rock sgomento «È stregoneria…».
A quel punto il
giovane si concentrò nuovamente sui membri della Lagoon.
«Adesso tocca a
voi».
Revy a quel punto perse l’indirizzo di casa, e messo mano
alle sue due bambine si mise con un piede sopra il bancone.
«Schiva queste se
ci riesci!» gridò svuotandogli contro i caricatori.
Il risultato,
però, fu esattamente lo stesso. Le pallottole che non
si fermavano cambiavano improvvisamente la loro traiettoria, andando a
conficcarsi nel muro o sul soffitto, questo oltretutto senza che il nemico
muovesse un muscolo.
Servirono solo
pochi secondi perché Revy e Dutch,
accorso in suo aiuto, esaurissero le munizioni, e allora tutti quei colpi che ancora
rimanevano fermi davanti al forestiero caddero inerti ai suoi piedi.
«Ma dove siamo
qui, su Matrix?» domandò Benny
«Immagino lo
abbiate capito.» disse vedendo le loro facce sgomente «Con
me queste cose sono inutili. Permettetevi di darvi un altro assaggio di quello
che posso fare».
Il ragazzo strinse
i pugni sollevando violentemente le braccia, e sembrò che nel locale si fosse
abbattuto un tifone; tavoli e sedie volarono, muri e soffitto si riempirono di
crepe, piovvero calcinacci e il parquet andò letteralmente in pezzi, come
sventrato da un’esplosione.
Il vento era così
forte che Revy e Dutch
furono scaraventati contro la parete alle loro spalle, e perfino il bancone
cominciò ad emettere preoccupanti scricchiolii che
fecero scappar via Tao a gambe levate.
«Dobbiamo
andarcene di qui alla svelta!» disse Benny
«Sono d’accordo.»
rispose Dutch mettendo mano ad
una granata fumogena.
Il gigante nero
aspettò che la tempesta si acquietasse un po’ prima di lanciarla, e subito lo Yellow Flag fu avvolto da una
spessa cortina di fumo.
«Presto,
approfittiamone!».
I quattro compagni
colsero al volo l’occasione e, seguendo il loro istinto, corsero verso il punto
in cui sapevano esserci l’uscita, pregando iddio di non ritrovarsi faccia a faccia con quella specie di mostro.
Ed
infatti, dopo pochi secondi, Dutch vide le porte
comparirgli davanti, e senza indugio le sfondò, ritrovandosi all’esterno del
locale.
«Presto,
raggiungiamo la Lagoon e andiamocene, prima di trovarcelo
nuovamente addosso!».
Tutti insieme
corsero verso la macchina, che si trovava dall’altra parte della strada, ma un
istante prima che potessero raggiungerla una scarica di mitra investì
l’autoveicolo, disintegrando un paio di finestrini e facendo una bella serie di
buchi sulla fiancata.
Rock e Dutch, che stavano dalla parte da cui erano venuti i colpi,
fecero appena in tempo a buttarsi dietro la macchina prima di finire
crivellati.
In mezzo alla
strada, come un gangster degli anni ‘30, era comparso il biondo in camicia
nera, con un AK47 per ogni mano.
«Voi non andrete
da nessuna parte, bastardi della Lagoon!»
«Ma stasera ce l’hanno proprio tutti con noi!» disse Dutch
mettendo nuovamente mano alla sua magnum «Bennyboy,
tieniti pronto a partire!»
«D’accordo.»
«Pronta Revy?»
«Tu che dici?»
rispose lei sfoderando il suo sguardo sadico.
Con un sincronismo
quasi perfetto i due scattarono in opposte direzioni, e presero a sputare
proiettili sul nuovo avversario, che a differenza del primo non sembrava in
grado di fermarle, tanto che si mise a correre e a saltare per poterle evitare.
La sua agilità,
però, aveva del prodigioso, compiva salti di parecchi metri che neanche un
campione olimpico sarebbe stato in grado di fare, correndo oltretutto ad una velocità fuori dal comune.
Dutch, ovviamente, esaurì per primo il suo caricatore, e
dovette nascondersi dietro ad una macchina per poterlo ricaricare; Revy gli offriva copertura sparando all’impazzata, ma tutti
i suoi colpi andavano miseramente a vuoto, facendola infuriare oltre ogni
limite.
«Bastardo, ti
decidi a stare fermo?» urlò la ragazza ricaricando le sue armi
«Che c’è, Two-Hands?» disse il biondino da dietro una palma «È tutta
qui la tua mira infallibile?»
«Tra poco la
smetterai di fare lo spiritoso, stronzo».
In quella Billy accecò l’assalitore coi fari della macchina, e
per poco non riuscì anche a metterlo sotto, ma questi spiccò uno dei suoi salti
mettendosi in salvo, dando però a Revy e Dutch il tempo sufficiente per battere in ritirata.
Provò a sparargli
contro mentre scappavano, ma riuscì solo a distruggere un fanalino posteriore,
e nello spazio di un secondo i membri della Lagoon erano spariti.
«Dannazione.»
mugugnò stringendo i denti.
Passarono alcuni
secondi, e dal fumo che ancora saturava il locale uscì il giovane dai capelli
neri, che si avvicinò al suo compagno guardandolo seriamente.
«Mi
dispiace Kyuzo. Sono riusciti a sfuggirmi.» si
giustificò il biondo
«Non
importa. Non andranno comunque lontano. Troviamoli e massacriamoli».
Dutch e gli altri convennero sul fatto
che l’unico modo per sfuggire a quelle due furie scatenate era lasciare Roanapur il più velocemente possibile.
L’idea di scappare
con la coda fra le gambe era insopportabile, soprattutto per Revy, ma del resto non si poteva fare granché per
contrastare uno in grado di fermare le pallottole e scatenare esplosioni
semplicemente stringendo i pugni.
Era una di quelle
situazioni in cui non ci si vorrebbe mai venire a trovare, e tutti in quella
macchina erano consapevoli che quel tipo, chiunque fosse, non si sarebbe dato
pace fino a che non li avesse stanati e uccisi, quindi, per il momento, la sola
cosa da fare era nascondersi.
Contrariamente a
quanto avrebbero immaginato raggiunsero il porto senza problemi, e lasciata la macchina si imbarcarono in tutta fretta sulla Lagoon, puntando immediatamente verso al largo.
Appena furono ad un paio di miglia dalla costa, Rock tirò un sospiro di
sollievo.
«Sembra che siamo
riusciti a sfuggirgli.»
«Non cantare
vittoria troppo presto.» replicò Revy frugando nel
contenitore delle armi pesanti «Potrebbe essere solo l’inizio».
Two-Hands cavò fuori un fucile d’assalto e un RPG carico.
«E ora Dutch, dove pensi di andare?»
«A
Bangkok. È il solo posto dove mi sentirò un po’ più al sicuro. Accidenti, non
riesco ancora a capacitarmi di quello che ho visto.»
«Quel tipo…»
balbettò Rock con la testa mezza nascosta fra le ginocchia «Non era umano…»
«Adesso non fatevi
prendere dalla tremarella.» disse Revy con falsa
sicurezza «Avrà usato qualche trucchetto da showman
per impressionarci.»
«Trucchetto lo chiami!? Ma hai visto quello che faceva?»
«Allora sentiamo,
che spiegazione hai tu?»
«Piantatela voi due!» tuonò Dutch
«Sono d’accordo con Rock, non si trattava di una messinscena. Ci sarà sicuramente
una spiegazione, ma sinceramente non ho alcuna intenzione di tornare indietro a
chiedergliela.»
«In ogni caso…»
riprese Rock col suo solito tuono pacato e riflessivo
«Quello non aveva l’aria di un comune killer.»
«Sì,
hai ragione. I suoi occhi avevano la tipica luce degli assassini a sangue
freddo, ma non dava l’aria di essere uno a cui piace
fare cose simili.»
«Di certo non deve
preoccuparsi delle conseguenze delle sue azioni.» disse Benny dalla sala
computer «Con tutta la brava gente che c’era allo Yellow
Flag le mafie di mezzo mondo andranno su di giri
entro le prossime sei ore, ma uno a cui le pallottole fanno un baffo non deve
neanche porsi il problema».
Prima ancora che
l’americano potesse ridere alla sua stessa battuta, la sua attenzione fu
attratta da un segnale radio proveniente dal computer.
«Imbarcazione in
avvicinamento rapido!»
«Che direzione?»
domandò Dutch
«Sud
sud-ovest. Credo venga da Roanapur».
Revy corse su per la scaletta metallica e si affacciò dal
boccaporto sul tetto della Lagoon, scorgendo in
lontananza la scia di una barca lanciata a tutta velocità. Mise quindi mise
mano al binocolo a vista notturna per capire meglio chi fosse a pilotarlo,
pregando il cielo che non fosse chi tutti lì dentro temevano, ma purtroppo,
aumentando la potenza delle lenti, fu proprio il volto del giovane dai capelli
neri a pararsi dinnanzi a lei.
«Merda!
È lui!».
Kyuzo era in piedi sulla prua di un grosso motoscafo
bimotore guidato dal suo compagno biondo.
«Eccoli,
sono loro! Steven, raggiungiamoli!»
«Con piacere!»
rispose l’amico mandando l’imbarcazione a tutta manetta
«Merda!» disse Dutch«È testardo quel moccioso.
In confronto a lui, il tirannosauro di Jurassic Park
era un animaletto da giardino!»
«Rock!
Il lanciarazzi, presto!»
«Eccolo!» rispose
il giapponese passando l’arma alla sua compagna.
Revy rimosse la sicura all’RPG e
prese bene la mira puntando al motoscafo.
«Bene, prova a
evitare questo se ci riesci!».
Il razzo partì, e
sembrò proprio che il nemico non fosse in grado di respingerlo, tant’è che
rimase immobile, senza perdere però il suo sguardo di ghiaccio.
«Steven.
È tuo.»
«D’accordo».
Il biondo,
impostata la guida automatica, prese dalla valigetta di emergenza una pistola
di segnalazione e vi caricò un razzo che appena sparato si trasformò in una
palla luminosa di colore rosso acceso.
L’RPG,
attirato dalla luce e dal calore, modificò la propria traiettoria, esplodendo
in aria molto distante dal motoscafo, che continuò imperterrito la sua corsa.
«Maledizione!»
imprecò Revy«Sono furbi
quei bastardi! Rock, il lanciagranate!»
«Subito!».
L’arma che Rock
diede alla sua compagna era provvista di caricatore a tamburo da dodici colpi
armato con granate al napalm altamente infiammabile, in grado di bruciare
persino nell’acqua.
Ne sparò tre una
dietro l’altra, rischiando fra le altre cose il surriscaldamento del fucile,
che aveva bisogno di qualche secondo prima di essere in grado di sparare
nuovamente, ma riuscire ad averla vinta su quella specie di superman era un
traguardo che per nulla al mondo avrebbe voluto mancare.
Essendo granate di
un certo peso Revy le lanciò verso l’alto, studiando
con precisione a dir poco estrema la parabola che
avrebbero dovuto percorrere per infrangersi sul motoscafo degli inseguitori e
ridurlo ad una torcia nella notte chiara del Golfo di Thailandia.
Steven, con le sue
abilità di pilota, fu in grado di evitarne due, che presero fuoco appena
toccata l’acqua del mare, ma la terza minacciò di colpirli.
«Kyuzo, il tuo aiuto ci farebbe comodo.»
«Ok».
Il ragazzo alzò il
violentemente braccio destro, e immediatamente una colonna d’acqua si sollevò
dalla superficie, inglobando la granata e sparandola verso l’alto, dove esplose
senza provocare nulla più che una pioggerella rinfrescante e un fantastico
spettacolo pirotecnico.
«Merda!» gridò Revy «Ma chi cazzo è quello?»
«Ehi, Kyuzo!» disse in quella Steven
«Dicono che la Lagoon sia una barca inaffondabile!»
«Davvero?
Vediamo se è la verità!».
Nuovamente Kyuzo agitò le braccia, ma stavolta, invece di una colonna,
si sprigionò un enorme, gigantesco muro d’acqua, alto almeno sei metri e con un
fronte che superava i dieci, mentre tutto attorno il
mare continuava incredibilmente a rimanere liscio come una tavola.
Era davvero
troppo, anche per tutto quello che avevano visto fino a quel momento, e Revy rimase così impressionata che la sigaretta le scivolò
via dalla bocca.
«Tsunami!» gridò a
pieni polmoni
«Revy, presto rientra!» le disse Dutch,
e lei praticamente si buttò sopra Rock, ancora fermo
ai piedi della scaletta «Chiudete quel boccaporto, o finiremo affogati!».
Rock si affrettò ad obbedire serrando in tutta fretta la paratia, e
contemporaneamente Dutck mise la nave a piena potenza
nel tentativo di sfuggire a quell’onda anomala che appena generata aveva preso
ad viaggiare verso di loro a incredibile velocità.
Man mano che si
avvicinava alla Lagoon, l’onda cominciò a modificare
la sua forma, descrivendo un’ampia curva tutto intorno alla barca, come a
volerle impedire un qualsiasi tentativo di fuga.
Prima che Revy e gli altri potessero rendersene conto, la loro barca venne travolta dalla potenza dello tsunami e dopo essere
stata sollevata precipitò nuovamente verso il basso, perforando l’acqua con la
prua e affondando per parecchi metri.
Tutti e quattro i
compagni si ritrovarono catapultati in avanti, Benny addirittura perse i sensi
battendo la testa contro la radio.
«Dannazione!»
disse Revy sorreggendosi ai pioli della scaletta «Se
la barca si capovolge siamo morti!»
«Tranquilla, non
succederà!» rispose Dutch pigiando due bottoni.
Ringraziando il
cielo, Bennyboy aveva da poco installato, in memoria
anche di altre brutte esperienze avute dalla compagnia, un sistema di
propulsori installati sulla chiglia dell’imbarcazione; erano in tutto quattro,
due a prua e due a poppa, e ognuno di essi era collegato ad
una bombola di aria compressa.
Il sistema era
stato pensato per attutire eventuali salti fuori programma, ma poteva tornare
utile anche in quella situazione.
Ogni valvola di
sicurezza era legata ad un bottone del pannello di
controllo, e dopo che Dutch ebbe premuto quei due
dalle bocchette di prua uscirono potenti getti d’aria che rimisero la Lagoon
in orizzontale, permettendole di riaffiorare nella giusta posizione.
«Accidenti.» disse
scherzosamente Steven vedendo la barca riaffiorare nuovamente «Hanno sette vite
come i gatti.»
«I
membri della Lagoon non sono certo prede da poco.
Sapevamo che avrebbero venduto cara la pelle».
Due secondi dopo Revy, ormai completamente fuori di sé, sbucò dal boccaporto
con in mano un grosso fucile semiautomatico.
«Va’ all’inferno, maledetto mostro!»
«Revy, sta attenta!» disse inutilmente Rock, ma ormai era
tutto inutile.
Il copione fu esattamente lo stesso delle volte precedenti. I proiettili
rimbalzavano davanti a Kyuzo come se lui avesse avuto
davanti una barriera invisibile.
Questo però non
faceva demordere minimamente Two-Hands, che però
ormai sparava guidata solo dall’istinto, non più dalla ragione.
Poi, d’un tratto, il suo fucile ebbe un violento contraccolpo in
avanti, come se qualcuno stesse cercando di strapparglielo di mano.
«Ma che…».
La scena si ripeté
più volte, Revy cercò di opporre resistenza, ma poi
l’arma volò letteralmente via dalla sua mano, raggiungendo quella di Kyuzo, ancora in piedi a una ventina di metri da lei dopo
che Steven aveva fermato il motoscafo.
Malgrado quel
fucile pesasse più di due chili il giovane lo sollevò
con una sola mano senza alcuna fatica, e piegando leggermente la testa sembrò
prendere la mira.
Subito dopo l’aria
fu sventrata dal rumore di uno sparo, e Revy di colpo
sgranò i suoi grandi occhi scuri socchiudendo leggermente la bocca in un
rantolo soffocato, poi il suo volto si fece di pietra.
Prima ancora che
gli cadesse nuovamente sopra, Rock avvertì distintamente caldi schizzi di
sangue sulle mani e sulla fronte, e quando si ritrovò seduto per terra con lei
fra le braccia anche la sua bella camicetta bianca si
tinse del sangue che usciva copioso dal fianco destro della sua compagna.
«Revy! Revy!»
urlò con gli occhi pieni di lacrime.
Nota dell’Autore. Salve a tutti. Chiedo
scusa per questa lunga assenza, ma subito dopo aver pubblicato il primo capitolo sono partito per le vacanze, e appena tornato mi
sono dedicato prevalentemente all’altra fic che sto
portando avanti. Da ora in poi cercherò di aggiornare
con più frequenza, e anticipo fin da ora che questa storia non dovrebbe durare
oltre i dieci capitoli.
Ringrazio Beat, Lady Inuyashina e Atlantisluxper le loro recensioni, e Andrea83
per aver inserito la fiction fra le preferite.
Steven e Kyuzo erano ancora
fermi sul loro motoscafo, mentre dall’interno della Lagoon
giungevano le grida disperate di Rock.
«Dutch, Benny! Revy è ferita!»
«Cazzo!» gridò il
nero innestando la quinta «Reggetevi!».
La barca della compagnia
ripartì a tutto gas, una ripresa notevole che lasciò stupiti persino i suoi
inseguitori.
«Non
facciamoceli scappare! Steven, inseguili!»
«Non chiedo di
meglio!».
La
corsa folle lungo il mare dunque proseguì, e andò avanti ancora per
diversi minuti. La Lagoon aveva dalla sua una maggiore
velocità, ma non aveva fatto il pieno dopo l’ultima battuta e la spia del
carburante continuava pericolosamente ad abbassarsi.
Dutch e gli altri avevano a bordo alcune taniche per i casi
di emergenza, ma quella non era certo la situazione migliore per fare
rifornimento.
«Maledizione!
Ancora poco e saremo a secco!».
Benny in quella riprese conoscenza, e vedendo Rock con Revy, svenuta e ferita, fra le braccia, immediatamente si
avvicinò per soccorrerla.
«Rock,
presto! Tamponale la ferita!»
«Ci sto provando,
ma l’emorragia non si arresta!»
«Dutch, Revy ha bisogno urgente di
soccorso!»
«Lo so, ma non
riesco a staccarmeli di dosso!».
Steven e Kyuzo erano decisi più che mai a porre fine alla questione,
e persistevano ad inseguire la Lagoon
spingendo il loro motoscafo al massimo, forse anche oltre le sue capacità,
perché i due motori a poppa stavano cominciando a fumare e di tanto in tanto al
loro interno risuonavano dei botti preoccupanti.
«Kyuzo, il motore sta al massimo! Rischio di fondere!»
«Non
rallentare. Ormai manca pochissimo. È da stamattina che non fanno il pieno, e
secondo i miei calcoli fra meno di cinque miglia esauriranno il carburante.»
«Ho
capito. Speriamo solo che questa bagnarola tenga».
Infatti, come
previsto, dopo poco più di quattro miglia fu il motore della Lagoon a borbottare, veri e propri
rantoli di agonia.
«Merda!
Siamo quasi a secco!»
«Ormai non ci
sfuggono!».
Kyuzo fece per destreggiarsi nuovamente con una delle sue
performance, quando d’improvviso i suoi lineamenti si contrassero fino allo
spasimo, tutto il suo corpo prese a tremare e i muscoli si irrigidirono
fin quasi a dare l’impressione che stessero per sventrarlo dall’interno. Il
giovane si inginocchiò digrignando i denti e
trattenendo a stento le urla di dolore.
«Kyuzo!» disse Steven cercando di soccorrerlo
«Non pensare a
me!» rispose sparandosi in vena un’altra ampolla di liquido rosso «Raggiungili!»
«Ma…
sei al limite. Il tuo fisico rischia di collassare. È pericoloso esporti
ancora.»
«Loro
sono qui, davanti a me! Non gli permetterò di fuggire!».
Steven esitò a
lungo, incerto sul da farsi, ma alla fine abbassò la leva della velocità fino a
far fermare il motoscafo.
«Che… che stai facendo?»
gridò il suo compagno col volto devastato dal dolore e dalla rabbia «Ti ho
detto di inseguirli!».
Di tutta risposta
Steven gli sparò contro una siringa verde che nel giro di due secondi fece
crollare Kyuzo in uno stato di incoscienza.
«Scusa, amico
mio.» disse girando nuovamente la prua verso Roanapur
«Ma non posso permetterti di rischiare la vita».
Vedendo la barca
degli inseguitori prima fermarsi e poi allontanarsi, Dutch tirò un sospiro di sollievo.
«Sembra
che stiano rinunciando. Se ne vanno!».
Quando fu certo
della scomparsa di ogni pericolo corse subito a sincerarsi delle condizioni
della sua partner.
«Rock,
continua a premere sulla ferita. Bennyboy, riempi i
serbatoi.»
«D’accordo!».
Grazie a dio il
proiettile non aveva colpito organi vitali, e dopo aver effettuato
una sutura di emergenza per fermare l’emorragia il sangue cominciò lentamente a
diminuire.
«Così
dovrebbe resistere almeno per qualche ora. Tu continua a tamponare.»
«Dutch, dobbiamo portarla subito da un medico.»
«Ho un amico a
Bangkok.» disse lui rimettendosi ai comandi dopo il ritorno di Benny «È un vero professionista per questo genere di cose. La
rimetterà a nuovo in men che non si dica».
Libera finalmente
dal peso degli inseguitori, la barca della compagnia riprese
la propria rotta verso nord scomparendo inghiottita dalla notte.
Era dolore quello che sentiva do provare.
Un dolore immenso,
così forte da fargli pensare che stesse per morire, e forse era anche vero.
Tutto era buio,
tutto era scuro, un infinito oceano di tenebre.
Poi, gradualmente,
un’immagine cominciò a materializzarsi dinnanzi a lui,
ma non appena poté distinguerla con chiarezza pensò che sarebbe stato molto
meglio rimanere prigioniero nel nulla.
A giudicare dalla
visuale che aveva poteva rendersi conto di essere
disteso sul pavimento di una sala grande e lussuosa, un tempo forse adornata a
festa, ma ora teatro del più spaventoso degli incubi.
I
candide tovaglie bianche erano ora intrise di sangue, molti dei tavoli sui
quali erano appoggiate erano ribaltati, e le pietanze rovesciate.
Ovunque, sulle
pareti, sul soffitto, vi erano decine e decine di
buchi, tutto odorava di sangue e di morte.
E poi uomini,
donne, bambini, vecchi, a terra senza vita, ognuno immerso nel proprio lago di
sangue, che inzuppava anche i loro sfarzosi vestiti.
Piatti, bicchieri,
ogni cosa potesse essere rotta era in frantumi.
Dall’alto del
soffitto a volta, un grande e maestoso lampadario in cristallo gettava una
cascata di luce su di una scena talmente sconvolgente che chiunque, nel
vederla, non sarebbe stato capace di rimanerne indifferente.
Nessuno era stato
risparmiato, nessuno era riuscito a scampare alla morte.
Nessuno… tranne
lui.
Il dolore che
avvertiva al fianco destro lo devastava, unito a ciò che era costretto a
vedere, oltre ogni limite, e quando dinnanzi agli
occhi gli si palesò la sua mano intrisa di sangue un terrore ancor più profondo
si impadronì di lui.
Rimessosi in
piedi, cominciò a correre più veloce che gli era possibile, barcollando e
cercando di scansare quei poveri corpi, e non appena guadagnò
l’uscita spalancò violentemente le porte, ritrovandosi di colpo in un lungo
corridoio con decine di porte con pareti che sembravano d’oro e un bellissimo
tappeto persiano a coprire la moquette verde smeraldo.
Di nuovo corse,
sempre più veloce, mentre al dolore si aggiungeva una
sensazione di angoscia che gli toglieva il fiato.
Giunto davanti ad
una di quelle porte violentemente la spalancò, ma oltre essa
vi era il buio più assoluto; la poca luce che giungeva dalle sue spalle
illuminava debolmente una sedia a rotelle girata di schiena ed un tavolino.
Lui si avvicinò,
le girò intorno, ed il terrore di un momento prima
divenne cento volte più forte vedendo che anch’essa, come la sala che aveva
lasciato, era rossa di sangue fresco, che ancora colava dai braccioli e lungo
le ruote.
Una pistola
d’argento con l’impugnatura d’avorio giaceva inerme sul tavolino lì accanto
insieme ad una valigetta aperta e svuotata del suo
contenuto.
Il dolore e
l’angoscia esplosero drammaticamente in un urlo agghiacciante in cui
risiedevano le più terribili emozioni: paura, dolore, rabbia, odio, vendetta.
Le stesse
sensazioni le provòKyuzo
quando sollevò gridando la testa dal cuscino, fradicio di sudore insieme alle
coperte che aveva addosso fino a un attimo prima.
Istintivamente si
mise una mano sugli occhi, quasi a voler scacciare quelle immagini orribili,
ricordo di quel giorno maledetto che aveva distrutto per sempre la sua vita,
cambiandola in modo irreparabile.
Dopo essersi
calmato prese a guardarsi attorno, per cercare di capire bene cosa fosse
successo.
L’ambiente era quello di una stanza d’albergo, una stanza piuttosto umile,
con un mobilio ridotto al minimo e una finestra da cui entravano raggi di sole
abbastanza luminosi da lasciare intendere che ormai fosse già giorno inoltrato.
Stava cercando di
focalizzare bene nella sua testa gli eventi della sera prima quando entrò il
suo amico Steven, con in mano un sacchetto di plastica
contenente, all’apparenza, il necessario per un pasto frugale.
«Ah, sei sveglio.» gli disse chiudendo la porta
«Dove… dove
siamo?» domandò Kyuzo massaggiandosi la testa
«A
Roanapur, in una locanda del porto. Per come eri
ridotto, è il rifugio più vicino che ho trovato.»
«Che…
che mi è successo? La testa… mi scoppia…»
«Hai
avuto un’altra crisi, dovuta con ogni probabilità allo sforzo eccessivo di ieri
sera. Ci sono volute due iniezioni in rapida successione per farla passare».
Steven vide il suo
amico mettere una mano sulla cicatrice che aveva al fianco destro trattenendo a
stento il pianto.
«Mi
dispiace. Neanch’io avrei voluto che finisse in quel
modo, ma se fossi andato avanti solo un secondo di più
saresti sicuramente morto.»
«Dannazione!»
gridò gettando a terra il comodino accanto al letto «Mancava
così poco! Maledetto sia questo mio corpo!».
La sua rabbia era
tale che, forse senza volerlo, provocò una piccola onda d’urto che fece
sbattere la porta e mandò in frantumi i vetri della finestra.
«Calmati,
adesso! Non è ancora finita, e tu lo sai. Quella di ieri sera era solo una
prova, ho ragione o no?».
Servirono parecchi
minuti, ma alla fine Kyuzo si calmò, ed alzatosi dal letto prese a rivestirsi.
«Hai
ragione. Trovarmeli davanti mi ha fatto dimenticare che non ero andato là per
ucciderli.»
«Se può consolarti, anche io ero piuttosto euforico. Ti confesso che
se tu non avessi collassato probabilmente avrei continuato ad
inseguirli.»
«Mi fa piacere che
tu dica così, almeno so di non essere il solo a fremere di rabbia ogni volta
che li vede.»
«La sai una cosa?»
riprese Steven con un sorriso compiaciuto «C’è anche
una sorpresa per te. Mentre eri fuori gioco ha
chiamato Samejima. Sarà qui a Roanapur
entro oggi.»
«Noboru viene qui?!».
In quella qualcuno
bussò alla porta, e i due ragazzi si misero subito sul chi vive; Steven mise la mano sul calcio della pistola che aveva alla
cintura, Kyuzo invece si concentrò al massimo per
essere pronto a sfoggiare le proprie capacità qualora ce ne fosse stato
bisogno.
«Tranquilli, sono
io.» disse da dietro l’uscio una voce forte e
gioviale, che ebbe l’effetto di allentare la tensione di entrambi
«Entra pure, è
aperto.» disse Kyuzo.
Nuovamente la porta
si aprì, e comparve un rispettabile signore di mezza età alto e piuttosto
magro, con occhi e capelli neri, questi ultimi però leggermente grigi e un po’
sfoltiti in cima alla testa.
Appena entrato girò si guardò indietro come ad accertarsi che non vi
fosse nessuno, quindi richiuse la porta.
«Parli del
diavolo.» commentò Steven.
Il nuovo arrivato
strinse la mano al biondino, quindi si avvicinò a Kyuzo
e gli rivolse un leggero abbraccio.
«È un piacere rivederti,Kaito.»
«Anche
per me. Se ti accontenti, c’è un po’ di caffè.»
«Volentieri.
Questo viaggio mi ha sfiancato».
Si sedettero
attorno al tavolino al centro, e Steven versò del caffè istantaneo in bicchieri
di plastica che servì ai suoi compagni, tenendo il terzo per sé.
Samejima, che pure era abituato a tutt’altri comfort, lo bevette con soddisfazione e gusto.
«Non è il caffè
che si beveva a Napoli, ma è il meglio che si trova in questo cesso di Paese.»
disse Steven sorseggiandolo
«Figurati,
non c’è problema. Dopo tutte quelle ore di macchina mi andrebbe bene anche un
secchio d’acqua sporca.»
«Come mai hai
lasciato Bangkok?» domandò Kyuzo con una certa freddezza
«Avevo
voglia di rivedervi. Era da due anni che non davate
vostre notizie.» Samejima accennò una risata «Di persona, intendo. L’eco di quello che avete fatto si è
sparso a macchia d’olio in tutto il mondo, metà delle organizzazioni criminali
si accoppano tra di loro accusandosi reciprocamente di
essere le menti dietro a tutte queste stragi, l’altra metà se ne rimane nascosta
a tremare di paura.»
«Facciamo del
nostro meglio.» rispose Steven tracannando in un sol colpo il suo caffè «Ma
ogni volta che vedo lo schifo di questo mondo mi domando se ne valga davvero la
pena.»
«Io invece so per
certo che stiamo facendo la cosa giusta.» disse Kyuzo
abbassando gli occhi «E ora che siamo così vicini al traguardo
non intendo tornare indietro. Noboru, a che punto
siamo coi preparativi?»
«Tutto predisposto
come da copione.» rispose Samejima «Possiamo dare
inizio alla festa in qualsiasi momento».
Kyuzo, forse per la necessità di sgranchirsi un po’ le
gambe, prese a camminare su e giù per la stanza, e quando raggiunse la finestra
vide casualmente due tipacci con la faccia dell’Est Europa salire su di una
macchina nera di grossa cilindrata ferma davanti all’albergo.
Appena li vide
allontanarsi i suoi occhi si accesero come fari nella notte, tornando a
brillare come la sera prima.
«In tal caso.»
disse prendendo la via dell’ingresso «Vado subito a recapitare il primo invito.»
«Kyuzo!» gli disse Steven prima che uscisse «Controllati. Bisogna che sopravviva.»
«Tranquillo,
avrò le mani di velluto. Chi deve preoccuparsi sono i suoi uomini, visto che per me non hanno alcun valore.»
«Sai, Steven?»
commentò Samejima appena i due furono soli «Ho come
la sensazione che entro domani la leggendaria imbattibilità dei Vysotniki sarà solo un ricordo.»
«Io
piuttosto mi domando se domani esisteranno ancora. Quando Kyuzo
fa così riesce a spaventare persino me, che lo conosco
da una vita».
Appena uscito dall’albergo, immediatamente Kyuzo si disperse tra la folla, prendendo a camminare,
lentamente, con andatura incerta, quasi fosse un morto vivente, verso il suo
obiettivo.
Non si curava che
qualcuno lo vedesse, non aveva paura di essere riconosciuto, per due ragioni:
nessuno in quella città, e forse nel mondo intero, era in grado di fargli un
graffio, e in secondo luogo gli abitanti di Roanapur
erano così abituati a farsi i fatti propri che forse quasi nessuno sapeva del
gran putiferio accaduto la sera prima allo Yellow Flag, ad eccezione naturalmente di chi doveva saperlo.
Chi lo incrociava,
però, gli cedeva ugualmente la strada, perché la sua figura, rinchiusa in quel
giubbotto così insolitamente fuori luogo in una città di porto affogata nel
caldo come quella, emanava un’aura terribilmente minacciosa.
Allo stesso tempo,
però, sembrava anche che quella folla lo nascondesse, oscurando la sua vista a coloro che avevano ragione di temerlo.
Dal giorno in cui
aveva deciso di diventare quello che era, ben consapevole delle conseguenze a cui andava incontro, aveva giurato di dedicare quanto
restava di quella vita che lui stesso si era accorciato a perseguire il suo
unico scopo: la vendetta.
La vendetta era la
sua ragione di vita, la sua compagna inseparabile, il primo pensiero del giorno
e l’ultimo della sera.
Qualcuno avrebbe
obiettato che i suoi metodi non erano molto diversi da quelli di coloro che voleva castigare, che la cosa più saggia sarebbe
stata lasciar fare alla giustizia, ma lui aveva capito a proprie spese che
giustizia era solo una parola, una parola che nessuno aveva interesse a
trasformare in fatti concreti, nessuno che avesse avuto i mezzi per farlo.
Mafiosi,
trafficanti d’armi, protettori, signori della droga.
Tutto quel mare di
sterco che dall’alba dei tempi aveva sempre insozzato
il mondo esisteva, e avrebbe continuato ad esistere per sempre, perché i primi
a volerlo difendere erano quelli che, in linea teorica, avevano i mezzi per
contrastarlo.
Kyuzo sapeva di non poter cambiare questa regola, sapeva
che dopo la sua morte le cose sarebbero rimaste
esattamente le stesse, ma non sarebbe sceso all’inferno senza portare con sé i
responsabili del suo dolore, i bastardi che avevano distrutto la sua famiglia
proprio nel momento in cui questa sembrava ad un passo dal raggiungere la
completa felicità.
Con questi
pensieri ad agitarsi nella sua mente giunse infine davanti al palazzo di Hotel Moskow, la peggiore organizzazione mafiosa dell’ex URSS che
lì in Thailandia, come da molte altre parti, dettava legge per quanto
riguardava ogni sorta di affare illecito.
Due uomini
facevano la guardia all’unico portone di ingresso, e
appena Kyuzo si avvicinò subito gli si pararono
davanti.
«Questa è proprietà
privata.» disse uno con un forte accento russo «Gira al largo.»
«Vogliate
perdonare la mia venuta inopportuna.» disse con voce strana, quasi sibilando
«Stavo cercando Miss Balalaika».
Le due guardie
erano entrambi veterani di Hotel Moscow, e appena
videro gli occhi del ragazzo capirono immediatamente che era qualcuno con cui
non bisognava scherzare, perché erano vuoti e privi di emozioni, al pari della
sua voce.
«Non abbiamo idea
di cosa tu stia parlando.» disse l’altro «Ora vattene.»
«Di nuovo chiedo
scusa, ma non posso proprio andare via».
Spazientiti e
irritati entrambi fecero per sfoderare le armi, maKyuzo non diede loro il tempo di farlo, e afferrate le loro
teste le fece scontrare violentemente fra di loro, riducendone i crani a una coppia
di budini tremolanti.
Nello stesso
momento, al sicuro nel suo ufficio, Balalaika stava discutendo con il sergente
Boris, il suo fidatissimo braccio destro fin dai tempi della guerra in
Afghanistan, quando Hotel Moscow non esisteva ancora.
L’argomento della
discussione erano, naturalmente, i fatti accaduti allo Yellow
Flag, visto e considerato che quel giochetto aveva
fatto finire al creature tre russi; pesci piccoli d’accordo, ma pur sempre
pesci suoi.
Entrambi gli
interlocutori erano facilmente riconoscibili dai segni che portavano addosso.
Balalaika, coma al
solito, aveva in bocca uno dei suoi sigari, ma non appena il sergente le
comunicò la parte più inverosimile della vicenda il fumo le rimase bloccato in
bocca.
«Come hai detto!?» disse la donna col suo accento russo «Fermava le
pallottole!?»
«Così
ha detto il padrone del locale. Sembra che ce l’avesse
in particolare con quelli della Lagoon, e che dopo
aver sterminato gli occupanti del locale si sia concentrato su di loro.»
«Fermava le
pallottole…» ripeté Balalaika a sguardo basso, con una voce che lasciò senza
parole lo stesso Boris «Continua, compagno Sergente.»
«Sì,
ecco… sembra che non fosse solo. Con lui c’era un altro ragazzo, forse un
americano, ma su di lui non siamo ancora riusciti a reperire
informazioni utili.»
«Di
loro non si sa nulla? I nomi, o dove si trovino in questo momento?»
«I
nostri uomini stanno setacciando la città alla loro ricerca. Altrettanto stanno facendo le triadi e il cartello colombiano, visto che
anche loro hanno perso molti uomini, ma fino ad ora non è stato ancora
possibile localizzarli».
Balalaika aspirò
nuovamente una boccata di fumo disperdendola subito dopo nella stanza; sulla
sua scrivania, nascoste agli occhi di Boris, c’erano dei ritagli di giornale in
varie lingue che avevano in comune il parlare di spaventose stragi di gruppi
criminosi accaduti in ogni parte del mondo.
Era preoccupata,
molto preoccupata.
«Prima
il clan dei Cabuto a Napoli, poi le Triadi di Shu-Kan di Hong-Kong, poi ancora
la famiglia Ryugi a Tokyo. Dimmi,
compagno Sergente. Cosa ricordi tu della Seaborn Star?».
Quel nome fu
sufficiente a far sobbalzare anche Boris, che persa la sua naturale compostezza
si lasciò a sua volta prendere dal panico.
«Capitano, sta per
caso dicendo che…»
«Compagno
sergente, se in questa faccenda è coinvolto chi penso io
potremmo già cominciare a scavarci la fossa, perché tanto siamo morti».
Nello stesso
momento dal piano inferiore giunse un rumore simile ad
un’esplosione, accompagnato subito dopo da raffiche di armi automatiche, grida
strazianti e imprecazioni in russo.
Pochi secondi dopo
un uomo entrò tutto trafelato nella stanza.
«Capo, c’è un
intruso nell’edificio!»
«Che aspettate,
fermatelo!» tuonò Boris
«Ci
stiamo provando, ma non ci riusciamo! Le pallottole gli rimbalzano addosso!»
«Che cosa!?»
«È lui.» disse
Balalaika senza scomporsi «È arrivato per castigarci».
L’atrio della sede di Hotel Moskow
si era trasformato in un campo di battaglia, tutti gli uomini a disposizione in
quel momento erano ammassati in ogni angolo, e anche sulla terrazza panoramica,
ma i loro sforzi per avere ragione di quel ragazzo demoniaco erano del tutto
vani.
Dopo aver
disintegrato il portone, costui aveva cominciato a camminare lentamente verso
il centro della stanza, incurante delle decine di armi che gli erano state
puntate contro.
Che motivo aveva
di preoccuparsene?
Per quanto gli
sparassero, i proiettili o si fermavano davanti a lui o rimbalzavano
in tutt’altra direzione, andando magari a colpire qualcun altro.
Mentre raffiche di
colpi continuavano a piovergli addosso da ogni dove, Kyuzo
raggiunse camminando il centro esatto della sala, chiuse gli occhi e lanciò un
grido; dal suo corpo si generò una spaventosa onda d’urto che investì ogni
cosa, sollevando gran parte del mobilio e facendo schizzare le pallottole
inermi a terra in tutte le direzioni.
Alcune di queste
colpirono gli uomini di Balalaika, altre si conficcarono sulle pareti e sul
soffitto.
Approfittando
della distrazione dei suoi aggressori il ragazzo allungò un braccio verso
l’alto, e immediatamente un’intera porzione della balconata di sinistra crollò
come un castello di carte, facendo precipitare i due uomini che vi erano sopra,
i quali vennero successivamente travolti dalle macerie
piovute dal soffitto.
Stessa sorte per
quelli dal lato opposto, e non appena i superstiti fecero per riprendere a sparare Kyuzo distese nuovamente
entrambe le braccia, facendo volare verso di sé le pistole di due nemici già
morti che usò per rispondere al fuoco e stroncare così gli ultimi superstiti.
Pochi minuti dopo
anche la porta dell’ufficio di Balalaika fu scardinata da un potente
spostamento d’aria che spedì un’anta contro la parete e l’altra giù dalla finestra.
«Scusate, è
permesso?».
Boris, che metteva
la sicurezza del suo capitano sopra ogni altra cosa, incurante della propria
incolumità fece per sfoderare la pistola, ma non appena ci provò Kyuzo distese il braccio verso di lui. Il sergente sentì come
una mano invisibile serrargli la gola, fece di tutto per cercare di resistere
ma fu sollevato in aria molto lentamente, mentre la stretta diveniva sempre più
forte, togliendogli qualsiasi possibilità di respirare.
Fiumi di saliva
presero ad uscirgli dalla bocca, gli occhi
cominciarono a colorarsi di rosso e sotto di lui cominciò a formarsi una pozza
di orina emessa involontariamente dagli spasimi di agonia.
Balalaika,
incredibilmente, assisteva senza battere ciglio; dopo venti e più secondi Kyuzo allungò anche l’altra mano, e Boris vide il proprio
braccio sinistro girarsi completamente, slogato su tutte e tre le articolazioni
principali. Era un soldato, addestrato a provare e sopportare il dolore, ma non
riuscì a fare a meno di urlare come un bambino che si fosse ferito cadendo
dalla bicicletta; Kyuzo allentò di proposito la presa
attorno al suo collo, in modo da potergli permettere di gridare, e quando si
sentì appagato, con un movimento repentino della stessa mano, lo spedì contro
uno dei divani apparentemente svenuto.
A quel punto si
avvicinò alla scrivania, mentre la leader di Hotel Moscow
continuava imperterrita a fumare il suo sigaro come se niente fosse accaduto.
Si guardarono
negli occhi, lui con rabbia incontrollabile lei con
incredibile indifferenza.
«Finalmente ci incontriamo, Balalaika.»
«Cominciavo a
domandarmi quando saresti arrivato.»
«Mi stavi
aspettando?».
Il modo in cui
entrambi parlavano rivelava palesemente l’odio che provavano
l’uno verso l’altra, malgrado quella parvenza di cortesia.
«Quando ho saputo
quello che era successo agli altri Discepoli, ho immaginato che ci fossi tu
dietro a tutta questa storia.»
«Te l’avevo promesso, ricordi? Avevo promesso che sarei andato anche
sulle stelle pur di farti pagare quello che hai fatto
a me e alla mia famiglia».
Un secondo dopo Kyuzo avvertì il rumore di una sicura alle sue spalle,
unito a dei malcelati gemiti di dolore.
Boris era in
piedi, nonostante il dolore atroce e braccio disarticolato, e lo teneva sotto tiro
con la pistola; era pronto a sparargli in qualsiasi momento,
maKyuzo non si scompose, e neppure lo fece
Balalaika.
«Fossi in te, non
lo farei.» disse il ragazzo con tranquillità «Se solo provassi a premere il
grilletto, quella pistola salterebbe in aria assieme a metà del tuo braccio».
Il sergente aveva
visto a sue spese ciò di cui quel mostro era capace, e nonostante la voglia di
piantargli una palla in testa fosse irresistibile
sapeva che la sua non era una minaccia a vuoto.
Incredibilmente fu
il suo capo a spronarlo perché obbedisse.
«Compagno
sergente?»
«S… sì, capitano?»
disse lui stringendo i denti
«Io
lo ascolterei. Con questo tipo le armi convenzionali sono del tutto inutili».
Boris però non
sembrava intenzionato ad abbandonare la sua posizione, e allora Kyuzo non ebbe altra scelta; senza voltarsi, senza neppure
muoversi, mandò in frantumi le ossa della sua unica mano superstite, quella che
impugnava la pistola, quindi, giratosi, assestò al sergente un colpo a mano
aperta in pieno stomaco che questa volta gli fece perdere i sensi per davvero
dopo averlo fatto precipitare contro il tavolino al centro della stanza.
La sua arma,
abbandonata a terra, si sollevò lentamente, raggiungendo la mano di Kyuzo, che la puntò velocemente contro Balalaika. Lei, di
nuovo, lo guardo solamente.
«Intendi
uccidermi?»
«Ne avrei
certamente voglia.» rispose il ragazzo gettandosi alle spalle la maschera della
cordialità
«Farmi saltare la
testa non riporterà in vita la tua famiglia».
Kyuzo sgranò gli occhi, i muscoli del suo viso si
contrassero in modo spaventoso; Balalaika doveva aver toccato un tasto
delicato, e lui rispose sollevando il cane della pistola.
«Lurida
troia sovietica! Non meriti nemmeno di essere considerata un essere umano!»
«Io
non c’ero su quella nave. Non c’entro niente con quello che è successo.»
«Hai
un bel coraggio a dirlo! Chi era la mente dietro all’attacco? Se tutte quelle
persone sono morte la colpa è soprattutto tua e degli
altri bastardi che ho spedito a bruciare nelle fiamme dell’inferno!»
«E allora che
aspetti a spedirci anche me?».
Seguì un nuovo
silenzio, mentre la tensione saliva alle stelle. Kyuzo
sembrava davvero sul punto di premere il grilletto e farle saltare la testa, e
Balalaika non pareva avere la minima intenzione di impedirglielo.
Poi,
incredibilmente, il ragazzo reinserì la sicura e gettò l’arma a terra.
«Tu
morirai, te lo posso assicurare. Ma non adesso. Non
oggi».
A quel punto mise
una mano nella tasca del giubbotto e ne prese fuori un piccolo cartoncino,
decorato e pitturato come un biglietto di auguri, che appoggiò sulla scrivania
a faccia in giù.
«Questo
è un piccolo regalo. L’ultimo della tua vita».
L’arrivo
improvviso di decine di altri mafiosi fece finire anzitempo l’incontro, e Kyuzo, sempre schivando e respingendo i proiettili che gli venivano sparati contro, corse verso la finestra.
«A presto,
puttana!» gridò saltando di sotto e scomparendo nei vicoli della città.
Balalaika rimase
sola coi suoi uomini, alcuni dei quali presero il
sergente per portarlo di corsa al più vicino (e accondiscendente) ospedale
della città.
Attese che tutti
se ne fossero andati prima di girare il cartoncino, sul quale erano scritte
solamente due parole.
DEATH GAME
Nota dell’Autore.
Eccomi di nuovo; come
promesso, ho fatto più in fretta che ho potuto a scrivere questo nuovo
capitolo, anche se sono costretto a precisare che con l’approssimarsi
dell’inizio del nuovo anno universitario potrei trovarmi nuovamente nella
condizione di dover aggiornare con minor frequenza, ma come sempre cercherò di
fare il possibile, constatando anche il successo che
questa storia, iniziata quasi per gioco, ha avuto.
Grazie a Inuyashina, Beat, Selly e Gufo_Tave per le loro recensioni
(ringrazio quest’ultimo anche per avermi fatto notare l’errore dell’RPG^_^), e grazie anche a Diaras per aver inserito la
fiction fra le preferite.
Infine, due
precisazioni.
·Il personaggio di Balalaika, come
si può intravedere già in questo capitolo (ma vi assicuro che è solo l’inizio),
sarà fortemente demonizzato, per quanto possa essere
possibile demonizzare ulteriormente un personaggio simile, risultando forse
leggermente OOC.
·Questa storia segue la linea
temporale del manga, e partendo da uno dei tanti, possibili finali
chiacchierati su internet (con la
Lagoon che rimane in attività e
Rock che continua a lavorarci) propone una possibile
conclusione dell’intera saga, coinvolgendo quasi tutti i personaggi comparsi
fino ad ora.
Il fronte della baia di Tokyo si stagliava in tutto il suo
splendore; i palazzi, accarezzati dalla luce del tramonto, sembravano tanti
fili d’erba in un incantevole prati chiamato Giappone.
Pur se sporca, sovraffollata,
e in piena crisi economica, quella città riusciva, nonostante tutto, a regalare
a chiunque la osservasse uno spettacolo senza pari, che solo chi viveva con
l’animo libero da ombre poteva assaporare pienamente.
Quel panorama
mozzafiato passava davanti ai suoi occhi come un immenso dipinto a olio mentre
lui, affacciato dal ponte superiore, si lasciava accarezzare dal tiepido
venticello primaverile.
Non era solo; a
tenergli compagnia in quella che si preannunciava
essere una serata epocale c’era un giovane, un ragazzo di forse diciotto anni,
che restava immobile accanto a lui con gli occhi piantati sull’orizzonte e le
mani infilate nelle tasche dei pregiati calzoni di velluto nero, facenti parte
dell’elegante abito da cerimonia che indossava con fierezza.
Malgrado fossero
l’uno vicino all’altro non era in grado di vederlo in
faccia; il suo volto era come nascosto da una maschera di oscurità che lasciava
intravedere solo la bocca e parte della sua folta capigliatura.
«Hai pensato al
dopo?» gli domandò ad un certo punto lo sconosciuto
«Il dopo?»
«A
quando sarà finito il tuo periodo di tirocinio. Intendi forse fare domanda di
assunzione?».
Lui tornò a
guardare il mare, mentre uno strano sorriso, che celava in sé gioia ma anche dispiacere, gli si stampava sul viso.
«Ci
ho pensato a lungo. Non credo di essere ancora pronto per lavorare nella vostra
società.»
«Perché
dici così? Sei un impiegato onesto, altamente
qualificato, e tutti hanno una grande stima di te.»
«Non è questione di competenze, amico mio. È che ancora non mi
sento degno di far parte di questa grande famiglia.»
«Non ti senti
degno?»
«Voi
siete diversi. Non vi fate inquinare da niente e pensate al bene degli altri,
prima che al vostro. Anche se cercassimo in tutto il mondo, non ne troveremmo
molte di aziende che si comportano allo stesso modo. Per questo sento di non
essere ancora pronto ad entrarvi».
Il ragazzo fece
una pausa, guardandolo con stupore, poi anche lui sorrise.
«Quand’è
così, non sarò io a farti cambiare idea. A mio padre dispiacerà, eri uno dei
suoi prediletti.»
«Dispiace
molto anche a me. Ma se un giorno dovessi riuscire a diventare degno di voi, mi
accogliereste ancora?»
«Senza ombra di dubbio. Le nostre porte sono sempre aperte
per le persone come te. Ma tu mi raccomando, non
cambiare mai.»
«Onii-chan.» disse d’un tratto una
voce gentile alle loro spalle.
Entrambi si
voltarono, incrociando i dolci occhi azzurri di una bambina sugli otto anni in
sedia a rotelle che li guardava sorridendo. Vestiva anche lei con un abito
piuttosto sfarzoso, e quei capelli marroni mettevano
ancor più in risalto la delicatezza dei suoi tratti.
«Harue. Cosa ci fai qui?»
«In cabina mi
annoiavo, così ho pensato di venirti a cercare.»
«Scusa se ti
abbiamo lasciata sola.» le disse avvicinandosi e
inginocchiandosi davanti a lei
«Non
fa niente. Se volete, posso farvi un po’ di compagnia.»
«D’accordo,
ma solo per dieci minuti. Lo sai che non puoi stare troppo tempo all’aperto.»
«Va’ bene».
Quei due ragazzi, i loro sorrisi gentili e le loro voci
affettuose, furono l’ultima cosa che Rock riuscì a focalizzare nella mente
prima che i lamenti della sua partner lo riportassero alla realtà.
«Dottore, come
sta?» domandò al medico che la stava visitando
«Ha
perso molto sangue. Il sonno è la conseguenza della mancanza di ferro
all’interno del suo organismo, ma entro domani dovrebbe essere completamente
ristabilita.»
«Ah, molto bene.»
«Fate solo
attenzione che non si sforzi troppo.» disse il dottore applicando un nuovo
cerotto sulla ferita al fianco «Ho dovuto mettere un paio di punti, e se si agitasse finirebbero per strapparsi.»
«D’accordo».
Rock coprì
nuovamente la sua compagna e seguì con lo sguardo il dottore fino a che non fu
uscito dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle, quindi si sedette
nuovamente accanto al letto.
Benny e Dutch
aspettavano la fine della visita giornaliera nel salottino di quel piccolo
appartamento alla periferia di Bangkok che un amico di Dutch aveva messo a loro
disposizione.
«Fan, ti ringrazio
per il tuo aiuto.» disse il gigante nero mettendo in mano al medico un
bigliettone da cento dollari
«Non
c’è di che. Se devo essere sincero sono sorpreso che
sia sopravvissuta fino al vostro arrivo. Revy è davvero una ragazza d’acciaio.»
«La conosci,
dovesse venire la fine del mondo quella non creperebbe
di sicuro.»
«Già,
per l’appunto. Beh, io vado. Domani verrò a fare un ultimo controllo.»
«D’accordo.
Grazie».
Per molti minuti
Rock rimase immobile ad osservare il volto
addormentato di Revy.
Già altre volte l’aveva vista così, e ogni volta non riusciva a fare a meno di
pensare che quando dormiva riusciva ad essere bellissima, perché metteva in
mostra quella parte di sé che da sveglia reprimeva inconsciamente.
Forse, si era
detto in più occasioni, la Revy
che emergeva durante il sonno era la
Revy che lei stessa avrebbe voluto essere, e Rock pensava che
non sarebbe stato male se lei non si fosse vergognata di questo lato del suo
carattere.
Probabilmente era
anche per questo che desiderava tanto lasciare Roanapur
e i suoi compagni: perché non poteva sopportare l’idea di non essere riuscito a
far cambiare Revy abbastanza da spingerla ad accettare tutto di sé stessa, compreso il suo lato più femminile, e perché non
ce la faceva più a vederla così.
Con questi
pensieri in testa si alzò ed uscì dalla stanza.
Benny stava
lavorando al suo portatile, Dutch era seduto davanti alla televisione con una
birra in mano; ne prese una anche lui dal tavolino, la aprì e ne sorseggiò una
goccia.
«Non ti
angustiare, Rock.» gli disse il suo capo «Vedrai, tornerà a spaccare il mondo
prima di quanto immagini.»
«Sì… lo so…».
La tv in quel
momento trasmetteva un telegiornale locale.
«Per quanto
riguarda le notizie provenienti dall’estero» disse la conduttrice «Gli inquirenti che indagano sullo sterminio della famiglia Ryuji a Tokyo non sono ancora stati in grado di risalire
all’identità dei presunti colpevoli. Con la scomparsa di questo potentissimo
clan Yakuza salgono a quattro i noti gruppi criminali
distrutti nel corso dell’ultimo anno.
Molte persone già
parlano di un ignoto gruppo di giustizieri all’origine di tutte queste stragi,
e c’è chi sostiene che questi presunti paladini dal bene faranno nuovamente la
loro comparsa entro breve».
Sentendo quella
notizia, tutti e tre gli uomini strinsero per un momento i pugni e sentirono il
sudore rigargli la fronte.
«Pensate quello
che sto pensando io?» disse Benny
«Puoi dirlo
forte.» rispose Dutch «Mi chiedo solo se quel ragazzo
ha la benché minima idea del casino che sta provocando. Queste cose lasciano un
marchio indelebile, e ho il sentore che la faccenda è destinata a complicarsi
ulteriormente.»
«Mi hai letto nel
pensiero.»
«Passiamo ad un’altra notizia. Con un anticipo di due mesi sui tempi
inizialmente previsti, il lussuosissimo Hotel Universeverrà inaugurato all’inizio della prossima settimana.
La struttura, che
sorge nella zona sud-occidentale di Bangkok, è stata voluta
e finanziata dalle giapponesi industrie Kinomiya, uno
dei maggiori colossi industriali del mondo ben noto a tutti per la massiccia
campagna umanitaria di cui si è reso protagonista in questi anni. L’albergo si
propone di valorizzare una zona della nostra città attualmente
al di fuori dei flussi turistici, offrendo ai suoi ospiti intrattenimenti e
comfort di grande lusso a prezzi tutto sommato contenuti.
Il signor NoboruSamejima, capo del
consiglio di amministrazione e presidente momentaneo della società, è giunto personalmente
in Thailandia per partecipare all’inaugurazione, per la quale è previsto l’arrivo di personalità da ogni parte del mondo.»
«Ci risiamo.»
riprese il nero «Il solito filantropo che si illude di
poter cambiare il mondo. Come se questo mondo avesse una possibilità di
cambiare.»
«Non c’è niente di
male a voler tentare la strada del cambiamento.» disse Rock con voce che sapeva
da severo rimprovero «Dovresti apprezzare quello che tenta di fare, invece che
criticarlo.»
«Ehi
Rock, sei sempre più strano ultimamente. Si può sapere che accidenti di prende?»
«Sarà ancora
scosso per l’esperienza dell’altra notte.» rispose Benny per lui «D’altronde, chi non lo sarebbe? Non capita tutti i giorni
di assistere a uno spettacolo simile.»
«Spero solo di non
vederlo mai più.» disse Dutch tracannando la sua birra
«Non illuderti.»
rispose Rock mantenendo la sua espressione cupa «Se
vuole trovarci, ci troverà. Ma che cosa gli avete fatto per farlo infuriare in
quel modo?»
«Fatto cosa!?» replicò il gigante andando leggermente su di
giri «Io quello non l’avevo mai visto prima!»
«Ne sei sicuro,
Dutch?».
Tutti e tre, a
sentire quella voce, si girarono verso l’ingresso.
Forse il
professore aveva lasciato inavvertitamente la porta socchiusa, fatto sta che dal
nulla era spuntata Balalaika, con il suo vestito rosso e la sua giacca
dell’esercito dell’ex Unione Sovietica indossata a mo di mantello.
Con lei c’erano
Boris e una faccia nuova, un quattrocchi biondo sporco dall’aria un po’ tonta
proveniente forse dalla zona del Caucaso.
Il sergente non aveva affatto una buona cera; il braccio sinistro era
sorretto al collo con una fascia, la mano destra era completamente bendata, e
aveva un grosso segno sul collo come se qualcuno avesse cercato di strozzarlo.
Dutch liberò in
tutta fretta il tavolino da lattine e mozziconi e fece accomodare Balalaika sul
divano assieme al suo ospite occhialuto, prendendo per sé una sedia del tavolo
della cucina; altrettanto fecero Revy e Rock, mentre Boris, come di
consuetudine, rimase in piedi.
«Davvero non ti
ricordi di lui, Dutch?» domandò nuovamente la donna
«Boia d’un mondo,
un tipo simile non lo si dimentica tanto facilmente».
Revy, in quello
stesso istante, si risvegliò dalla sua lunghissima dormita.
«Ma quanto ho dormito?».
Cercò di mettersi
a sedere, ma una fitta tremenda al fianco a momenti la fece gridare.
«Dannazione, fa
davvero un male cane!».
Cercando di non
sforzarsi, per evitare di dover provare ulteriore
dolore, si mise addosso qualche straccio ed uscì dalla stanza, proprio mentre
il quattrocchi al seguito di Balalaika apriva sul tavolino il computer
portatile contenuto nella sua valigetta.
«Sorellona, che ci fai qui a Bangkok?»
«Sono
venuta per darvi un’idea del problema che è venuto a sbarrarci la strada. E
aggiungo» disse guardando Rock «Che si tratta di un problema ben più grande di
quelli che chiunque si trovi in questa stanza abbia mai avuto.»
«Quindi tu sai chi è quel tizio.»
«È
quello che stavo dicendo a Dutch, Revy. Sia tu che lui
lo avete già incontrato.»
«Ancora
con questa storia. Ti ripeto che non sapevo nemmeno chi fosse prima dell’altra
sera!».
Balalaika prese un
sigaro dal contenitore nel taschino e se lo accese, aspirandone una gran
quantità.
«D’accordo,
vorrà dire che dovrò rinfrescarvi la memoria. Ditemi, cosa vi dice niente il termine Seaborn
Star?».
Di nuovo, quelle
due parole bastarono a far spalancare la bocca a tutti i membri della Black Lagoon; anche Rock sembrò sorpreso, ma non come i
suoi compagni, in lui sembrava infatti esservi
sgomento piuttosto che stupore.
«Vedo
che finalmente le vostre cellule grigie si sono messe in moto. La Seaborn Star
era la nave da crociera più prestigiosa delle
Industrie Kinomiya. Quattro anni fa stava navigando
al largo di Tokyo mentre a bordo si teneva un lussuoso ricevimento a cui partecipavano pochi, selezionatissimi
eletti.»
«Sì, ora mi
ricordo!» disse Benny «È stato il mio primo lavoro con la compagnia.»
«Ed è stata anche
l’unica volta che ci siamo spinti così lontano dalle tratte più sicure.» disse Dutch
«Mi dispiace, ma
io proprio non riesco a ricordare.» mugugnò Revy massaggiandosi la testa
«Eravate
stati voi di Hotel Moskow a commissionarci quel
lavoro. Ci avevate offerto un mucchio di soldi.»
«Ma di preciso in
che cosa consisteva questo fantomatico lavoro?»
«Ricordo che foste
molto scarni nelle spiegazioni.»
«La discrezione
era d’obbligo.» rispose Balalaika spegnendo il sigaro nel posacenere «Con
quello che c’era in ballo, non potevamo permetterci mosse avventate.»
«Dovevamo
recuperare una valigetta».
La donna prese una
fotografia dalla cartella che aveva davanti e la passò a Dutch, che la guardò
assieme a tutti i suoi compagni.
«E dentro quella
valigetta, c’era questo».
L’angolazione e la qualità dell’immagine lasciavano intendere
che provenisse da una telecamera di sorveglianza; vi era raffigurato un uomo in
tuta protettiva con casco e maschera per ossigeno all’interno di quello che
sembrava un laboratorio. Teneva in mano due cilindri di vetro con estremità
d’acciaio, contenenti una strana poltiglia azzurro brillante al cui interno si intravedevano migliaia e migliaia di granelli
iridescenti.
«Che cosa sono?»
domandò Rock
«Il
futuro, mio piccolo Japonski. Una scoperta
scientifica capace di sconvolgere per sempre il panorama mondiale.»
«Che poi tradotto
sarebbe?» disse Benny.
Balalaika chiuse
gli occhi e sorrise.
«Nanorobot».
Rock, Dutch e
Benny saltarono sul posto per lo stupore, ma altrettanto non fece Revy, per la
quale quella parola non aveva nessun significato.
«Nanoche!?»
«Nanorobot, two-hands.»
«Sono robot di
proporzioni infinitesimali che fino ad ora non si era
mai riusciti a costruire.» disse Benny per rispondere alla sua collega «Secondo
una teoria molto in voga negli anni novanta, si diceva che possedessero la
capacità di auto-replicarsi come i virus o le cellule del corpo.»
«Sbagli su una
cosa.» lo corresse Balalaika «Non è vero che nessuno
sia riuscito a costruirli. Questo traguardo è stato raggiunto quattro anni fa
dalle Industrie Kinomiya.»
«Porca miseria!»
esclamò l’americano biondo «Se non lo vedessi coi miei
occhi non ci crederei!»
«Questa ricerca è
stata portata avanti fin dalla metà degli anni novanta, e ha visto la
collaborazione degli scienziati più brillanti di
questa Terra.» proseguì Balalaika «Ma ora credo sia meglio passare il testimone
a chi ne sa più di me. Professor Turchinski, a Lei la
parola.»
«Grazie, miss
Balalaika.» disse il quattrocchi, che prese quindi a spiegare la situazione
«Dunque, per capire bene come e perché siano stati costruiti questi nanorobot,
è bene fare una piccola panoramica di colui che ne ha
voluto la realizzazione. TakeuchiKinomiya,
ex presidente delle Industrie Kinomiya.»
«Mi ricordo di
lui.» disse Benny vedendo sul monitor del portatile la foto di un uomo di mezza
età con barba e baffi «Era sempre in televisione per le sue opere umanitarie.»
«La sua società è
nata praticamente dal nulla. Ha fondato le Industrie Kinomiya partendo quasi da zero, ma ha avuto l’accortezza
di fare gli investimenti giusti, e nell’arco di dieci anni la sua società è
diventata un colosso dell’informatica, capace di rivaleggiare con giganti come la Microsoft e la Apple. Nel
1983, quando il suo successo è al culmine, sposa KurumiHokada, ma la prima gravidanza della donna non va’ a buon fine, e il bambino muore poche ore dopo il parto
a seguito di una malformazione congenita.
Due anni dopo la
coppia ha maggior fortuna, e nel 1986 nasce il loro primo figlio, destinato a ereditare
le redini dell’azienda. Il suo nome è Kaito».
Non appena
comparve la foto del ragazzo in questione i membri
della Lagoon strabuzzarono gli occhi.
«È lui!» esclamò
Revy «Il bastardo coi superpoteri!»
«Kaito si distingue fin da subito per le sue doti.» proseguì
il professore «È un genio dello studio e dello sport,
il suo quoziente intellettivo è pari a 180 e riesce a farsi un nome anche come
campione di arti marziali.
Gli anni novanta
sono gli anni della svolta per le Industrie Kinomiya. Il progresso delle tecnologie informatiche porta
nelle loro casse fiumi di soldi, e con le loro opere umanitarie si guadagnano i
favori di grossi strati della popolazione non solo in Giappone, ma in tutto il
mondo.
Sfortunatamente,
nel 1996, la loro dose di fortuna cessa all’improvviso. La moglie del
presidente rimane nuovamente incinta e a giugno di quell’anno partorisce Harue, ma subito dopo la nascita si scopre che la bambina è
affetta da sclerosi multipla.»
«Sclerosi?» disse
Dutch «Accidenti, è stata davvero sfortunata.»
«Il
decorso della malattia è piuttosto rapido, e già a cinque anni Harue è costretta su una sedia a rotelle. I medici le danno
una quindicina di anni al massimo.
Suo padre, nel
disperato tentativo di trovare una cura per questa malattia, fin dalla nascita
della figlia riunisce attorno a sé gli esperti di medicina e di tecnologia più
famosi del mondo, e trasforma interamente la sua società, che oltre ad essere
un polo del settore informatico diviene in breve anche un colosso farmaceutico
specializzato nell’ingegneria medica.
Il lavoro dura
otto anni, rischiando più volte di mandare sul lastrico la compagnia, ma
finalmente, nel 2004, alla fine del tunnel appare una luce, e vengono creati i primi nanorobot.»
«Allora è per
questo che li hanno creati.» disse Benny
«Queste
apparecchiature sono altamente innovative. Sono
cellule robotiche che hanno in sé sia parti meccaniche sia tessuto vivente. Si
scopre, durante i test, che possiedono la capacità di auto replicarsi. Una
volta iniettati nel corpo umano riconoscono sul nascere qualsiasi anomalia, la
intercettano e la distruggono. Se poi il corpo rimane danneggiato in un
qualunque modo, sono in grado di sostituire il tessuto morto o mancante
adattandosi perfettamente al resto dell’organismo».
Era come se un
vento gelido stesse soffiando nella stanza; tutti erano paralizzati per lo
stupore, e anche se molti capivano solo metà di quel discorso quella metà era più che sufficiente per far credere di trovarsi sul
set di un film di fantascienza piuttosto che nella vita reale.
«Per farla breve,
signori e signori, questi nanorobot sono il vaccino supremo, la cura contro
qualsiasi malattia.»
«Porca vacca
miseria!» esclamò Dutch «Ora capisco perché quel
lavoro valeva tanto. Possedere un simile ritrovato vuol dire stringere il mondo
nelle mani come fosse una mela.»
«Quale casa
farmaceutica vorrebbe rinunciarvi?» disse Rock
«È proprio per
questo che il progetto viene portato avanti nella più
assoluta segretezza. Ad eccezione dei membri della famiglia e degli scienziati
che vi lavorano nessuno, neppure il consiglio di amministrazione, ha idea di
che cosa vi sia realmente dietro a quello che nei
registri ufficiali viene chiamato Progetto Rebuild.
Logicamente una
ricerca del genere costa in modo esorbitante, e il costo è tale che neppure le
Industrie Kinomiya possono portare avanti l’impresa
da sole. Per questo, viene istituita una cordata di
soci finanziatori, ma neppure loro sanno con certezza in cosa consista la
ricerca.»
«Ora ricordo.»
disse Benny «Anche l’Università della Florida era coinvolta in questo progetto.»
«La presentazione
ufficiale del primo prototipo dinanorobot funzionanti sarebbe dovuta
avvenire a bordo della Seaborn Star. In
quell’occasione, tutto il mondo ne sarebbe venuto a
conoscenza, e non credo ci sia bisogno di dire che una rivelazione
simile avrebbe fatto un effetto uguale e contrario al crollo del ’29.»
«Un momento!»
intervenne Revy «Se la notizia era tanto segreta, come
facevate voi a sapere che avevano creato questi nanocosi
e che sarebbero stati su quella nave?»
«Avevamo
un informatore nelle Industrie Kinomiya, che ci
teneva costantemente aggiornati sull’esito delle ricerche. Quando ci ha detto
che la presentazione ufficiale era ormai prossima, abbiamo deciso di muoverci.
Sfortunatamente però, quello non era il tipo di ricerca da poter affidare al
primo che passa, quindi ci siamo visti costretti a fare un accordo con altre
organizzazioni.»
«Quindi nella
faccenda non era coinvolto solo Hotel Moskow.» disse Dutch
«No,
infatti. Tutte le organizzazioni che avevano affari qui a Roanapur
sono state contattate. Ognuno avrebbe messo a
disposizione una parte delle proprie risorse, e una volta terminata la ricerca si sarebbero divisi equamente i guadagni.»
«Di che ricerca parlate?» chiese Benny «I nanorobot erano già
pronti.»
«Quelli che
sarebbero stati presentati sulla nave» rispose Turchinski«Erano ancora a livello di prototipo. La compagnia si
era indebitata fino al collo per portare avanti gli studi, e aveva bisogno di
nuovi finanziamenti. Rendendo pubblica la scoperta, i soldi sarebbero arrivati
come noccioline.»
«Se questo fosse
accaduto» disse Balalaika «Quei nanorobot sarebbero
stati più al sicuro che sulla Luna, e avvicinarli sarebbe stato impossibile. Dovevamo
agire d’anticipo, sfruttando l’unica occasione che ci si presentava».
L’espressione
della donna a quel punto si fece seria e rimproverante.
«Sfortunatamente,
né noi né loro siamo riusciti a concludere granché,
visto che durante il vostro assalto alla Seaborn Star
i campioni sono andati perduti e tutti coloro che sapevano erano stati spediti
dritti nel coro delle voci bianche.»
«Senti,
Balalaika!» disse Dutch leggermente contrariato «Mi ricorderò
poco di quella storia, ma una cosa te la posso dire con certezza! Noi non
abbiamo ucciso nessuno! E per quanto riguarda la valigetta non abbiamo fatto in
tempo a cercarla, perché prima ancora di poter ottenere il controllo della nave la guardia costiera giapponese ci era già alle calcagna
e ce la siamo dovuta filare!»
«Davvero?» tuonò
Balalaika visibilmente infuriata «Forse questo ti rinfrescherà la memoria!».
Il professore girò
il computer verso quelli della Lagoon, che rimasero immobili ad
osservare le immagini davanti ai loro occhi.
Sul monitor, in
rapida successione, scorrevano pagine di giornale e fotografie scattate con
ogni probabilità dalla polizia, tutte raffiguranti veri e propri tappeti di
cadaveri che riempivano ogni angolo della nave, dalle cabine alla sala
ricevimenti, dal ponte di comando alla terrazza panoramica.
Scene terribili, a cui neppure loro, che pure erano abituati a nuotare nel
sangue, riuscivano a restare indifferenti.
Benny dopo un po’
girò gli occhi, Dutch deglutì e Revy restò con la bocca socchiusa.
«Ora vi
ricordate?» disse Balalaika facendo un cenno a Turchinski,
che girò nuovamente lo schermo verso di sé «Le analisi
della polizia confermarono che i proiettili usati per uccidere tutte quelle
persone erano stati sparati da tre sole armi. Una Smith & Wesson 629 revolver e una coppia di Beretta M92».
Lo sgomento
comparve negli sguardi di Revy e Dutch quando sentirono nominare le loro armi
favorite.
«Parlando delle
Beretta, pare che una delle due sia stata trovata nella cabina della famiglia Kinomiya, e…»
«E…» domandò Benny
«E
vicino alla sedia a rotelle della figlia del presidente, completamente
imbrattata di sangue».
La reazione più
sconvolta fu senza dubbio quella di Rock, che digrignando i denti sembrò sul
punto di lanciare un urlo di dolore mentre tutto il suo corpo prendeva a
tremare.
«Ehi, non
scherziamo!» urlò Revy «Tu mi conosci sorellona, non lascerei indietro una delle mie bambine
neppure se fossi inseguita da tutto l’esercito americano! Dutch, Benny,
diteglielo anche voi».
I suoi due
compagni, però, avevano un’espressione cupa e pessimista, e anche lei allora
iniziò a mostrarsi abbattuta.
«Ehi ragazzi,
cosa…»
«Veramente, Revy.»
disse Dutch con voce da oltretomba «Quando ti ho incontrata
quella volta tu…».
Quattro anni prima
A quanto pare avevano sottovalutato la velocità di intervento delle forze armate giapponesi.
Non era come nel
Sud-Est asiatico, dove le autorità, e soprattutto la guardia costiera, o se la prendevano
molto comoda o non arrivavano proprio.
Ma
che si poteva pretendere di diverso, vista la gran quantità di ricconi e nomi
illustri che stavano affollando la nave in quel momento?
Benny era stato
molto chiaro, due motovedette della guardia costiera nipponica, scortate anche
da un elicottero, stavano muovendo a tutta velocità verso la Seaborn Star,
e l’avrebbero raggiunta in meno di dieci minuti.
Abbandonata la
sala dei ricevimenti, in cui aveva fatto confluire tutti gli ospiti e il
personale di bordo, Dutch era ora alla ricerca della sua compagna.
Revy aveva
l’incarico di raggiungere la cabina della famiglia Kinomiya
per controllare che la valigetta fosse lì dentro, ma da diversi minuti non
rispondeva più alla ricetrasmittente e ora il suo partner cominciava a
preoccuparsi seriamente.
Percorse in lungo
e in largo i corridoio della nave dopo aver chiuso
l’unica porta d’accesso alla sala, in modo che nessuno potesse scappare e
compromettere la loro fuga, e quando finalmente la trovò non riuscì a credere
ai propri occhi.
Revy sul ponte di
babordo, appena fuori dall’ingresso della hall; stava seduta per terra,
completamente ricoperta di sangue, con la testa bassa e gli occhi vuoti; non
sembrava neanche più lei, non c’era traccia alcuna di Two-Hands
nel suo viso.
Nella mano destra
teneva una delle sue pistole, scarica, ma non c’era alcuna traccia dell’altra.
Già prima di
avvicinarsi Dutch la sentì mormorare qualcosa, ma solo dopo essersi accostato a
lei riuscì a capire cosa stesse dicendo.
«Che
cosa ho fatto? Che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto?»
«Revy!
Revy, dobbiamo andarcene!».
La ragazza non
rispose, non diede il minimo sentore di aver recepito,
e continuò imperterrita a mormorare sempre la solita frase. Al
secondo richiamo di Dutch finalmente si girò a guardarlo con un movimento quasi
meccanico.
«L’ho uccisa, Dutch. L’ho uccisa.»
«Ne parleremo
dopo, ora dobbiamo smammare!».
Il gigante nero
dovette caricarsi la sua partner in spalla per poterla portare via, e non
appena furono al sicuro a bordo della Lagoon lei
crollò in un sonno profondo come la morte.
Revy ascoltò la storia con incredulità e orrore, e a
racconto finito sembrava quasi aver visto un fantasma.
«Non… non è
possibile… ma cosa…»
«Hai
dormito fin quasi al ritorno a Roanapur, e al
risveglio non ti ricordavi più niente. Ho pensato che fosse meglio così, quindi
io e Benny ci siamo messi d’accordo per tacere».
Rock strinse ancor
più i pugni, abbassò la testa, e se qualcuno si fosse girato a guardarlo
avrebbe visto copiose lacrime scendergli dagl’occhi.
«Ad ogni modo, per
tornare al discorso principale» disse il professor Turchinsky
quasi a voler scacciare la tensione «Il caso venne
rapidamente archiviato dalla polizia giapponese come l’assalto di un gruppo di
pirati, ma l’effetto che ebbe per il progetto fu a dir poco catastrofico. Tutte le compagnia finanziatrici scapparono con la coda fra
le gambe ritirando la propria partecipazione, e la compagnia arrivò ad un passo
dal dover dichiarare bancarotta.»
«Un momento.»
disse Dutch «Che ne è stato dei campioni?»
«Uno
dei due scomparve dalla faccia della Terra. Probabilmente non era neanche mai
stato a bordo. Per quanto riguarda l’altro…».
Il professore fece
una pausa, esitò, e allora Balalaika rispose per lui.
«Ne avete
incontrato il possessore qualche giorno fa.»
«Che cosa!?» esclamò Benny «Vuoi dire che quel tipo…».
Il sorriso ironico
e maligno di Balalaika fu una risposta più che esauriente.
Sul monitor del
computer comparvero le immagini di Kaito e del
ragazzo biondo che due sere prima aveva tentato di
fare la pelle alla Lagoon insieme a Kyuzo.
«Questo è quel
tizio!» disse Revy indicando il biondo «Quello che saltava come un canguro.»
«Questi due» disse
Balalaika «Furono gli unici supersiti della Seaborn Star. KaitoKinomiya, figlio del deceduto presidente
Kinomiya, e Steven Hankfield,
erede dell’omonimo gruppo finanziario inglese. A dire il vero pare vi
sia stato anche un terzo superstite, ma non abbiamo
mai scoperto la sua identità. Comunque sia, entrambi hanno visto le loro vite
cambiare drasticamente dopo quel giorno. KaitoKinomiya si ritrovò di colpo orfano, mentre la società
degli Hankfield andò al fallimento, affossata dal
disastro.»
«Boia d’un mondo.»
disse Dutch «Ora capisco perché sono così incazzati con noi.»
«Subito
dopo l’incidente sono spariti entrambi dalla circolazione. Da quel momento in
poi hanno pensato solamente a soddisfare il loro desiderio di vendetta. Kaito formalmente è ancora a capo delle industrie di famiglia,
ma di fatto le redini vengono tenute da Samejima, il capo del consiglio di amministrazione. Ora si
fa chiamare Kyuzo.»
«Kyuzo… Dove ho
già sentito questo nome?»
«Era uno dei sette
samurai.» rispose Benny «I personaggi di Kurosawa che
difendevano un villaggio di contadini dalle scorrerie dei briganti. Quindi lui…
si è iniettato i nanorobot destinati alla sorella?»
«Esatto.» rispose Turchinsky «E lo ha fatto solo per
uno scopo. Per vendicarsi di voi.»
«Sarebbero quei
cosi microscopici a fargli fare quelle performance da prestigiatore fallito?»
domandò Revy
«Precisamente.»
«Ma come è possibile?»
«I nanorobot erano
stati pensati per essere iniettati nei corpi delle persone malate,
maKaitoKinomiya era
perfettamente sano quando se li è messi in circolo.
Non avendo nessun
obiettivo da contrastare, invece che curare il corpo del loro ospite lo hanno stimolato, aumentandone ogni aspetto. Potenza,
forza, agilità, intuito. Sono come dei supersteroidi.
Però, hanno fatto
anche qualcos’altro. Voi forse saprete che l’essere umano in media utilizza
solo il 30% della propria capacità cerebrale. Il restante 70% viene tenuto in animazione sospesa da una particolare
proteina che impedisce alle cellule addormentate di morire. I nanorobot, non
sapendo in che altro modo passare il tempo, hanno cominciato a sostituirsi a
questa proteina, e aumentando costantemente di numero grazie
all’auto-replicazione hanno finito per mettere in moto un buon 40% di cellule
cerebrali inattive, che hanno cominciato a correre più di una Ferrari sul
circuito di Monza.»
«Ma questo cosa c’entra con quei superpoteri? Non posso credere
che siano dovuti solo a una semplice… proteina.»
«Sbagli, Dutch.»
rispose Benny «È possibile eccome. La teoria secondo
la quale il nostro cervello sia in grado di manifestare abilità psichiche fuori
dal normale, quali la telecinesi, è in voga fin dalla seconda metà dell’800. Secondo i seguaci di questa teoria, il motivo che
ci impedisce di farne uso sta proprio nella ridotta porzione di cervello che
normalmente utilizziamo.»
«E proprio qui sta
il punto.» intervenne il professore «Pensate agli
squali, o alle razze. Sono in grado di percepire le vibrazioni elettriche. La
nostra atmosfera è piena di particelle naturali o elettromagnetiche, e cosa
succederebbe se qualcuno fosse in grado di controllarle?
Voi dite che
fermava le pallottole. Vi siete chiesti come faceva?»
«Francamente,
eravamo troppo impegnati a squagliarcela.» rispose spazientita Revy «Se volessi
dircelo tu ti saremmo grati.»
«Bene.
In sostanza, non è molto complicato. Ha semplicemente modificato la struttura
particellare attorno al suo corpo, creando una sorta di scudo invisibile che
imbrigliava la pallottola come una rete da pesca farebbe con un pesce. Per quel
che riguarda lo scatenare uragani, beh… è sufficiente comprimere l’aria usando
le stesse particelle accennate pocanzi per poi rilasciarla violentemente, una
specie di enorme bomba ad aria compressa.»
«Mi sembra
fantascienza.» disse Dutch
«Invece
è la pura realtà. E vi garantisco che questa non è che
la punta dell’iceberg. Il nostro amico possiede anche altre capacità. Ricordate
l’esempio degli squali? Non dico che possa vedere al buio o che possegga
sensori termici come i serpenti, ma i suoi cinque sensi sono affinati al
massimo, ed il suo corpo, oltre a produrre una gran
quantità di elettricità statica, che gli permette di spostare gli oggetti anche
a grande distanza, molto probabilmente è in grado di percepire le variazioni
nelle onde elettromagnetiche. È come se avesse un radar piantato in testa.
Per farvi un
esempio, anche se voi gli puntaste contro un fucile di precisione stando a tre
miglia di distanza lui quasi sicuramente se ne accorgerebbe.»
«Mi stai dicendo…»
disse Revy leggermente contrariata «Che quel tizio è immortale?!»
«Non
esattamente. Anche lui ha dei limiti. Può interagire con la materia, ma alle
regole della fisica non si sfugge. Può volare come superman? Non credo. Può
levitare come i preti buddhisti? Probabile. Ma il suo
limite più grande è proprio la fonte del suo potere. I nanorobot.»
«In che senso?»
chiese Benny
«I
nanorobot non sono certo forza lavoro a costo zero. Necessitano
di energia, e parecchia. Sostanze nutritive, ossigeno. Sotto questo aspetto sono come le normali cellule, e se li sfrutti
troppo, alla fine collassano.»
«Vuoi dire che se
lo costringessimo a usare i suoi poteri fino allo spasimo finirebbe per
crollare?» domandò Dutch intravedendo una possibilità
«Sì, è probabile.»
«Forse è per
questo che l’altra notte si sono ritirati prima di finire il lavoro.» ipotizzò Benny
«Quand’è così…»
disse Revy «Non c’è problema. Anzi, sarà divertente
vedere fino a quando riuscirà a reggere».
Fu solo allora,
quando la spiegazione ebbe fine, che tutti si accorsero finalmente
dell’espressione di Rock, fermo e immobile come una statua coi
pugni stretti come se volesse lacerarsi la pelle delle mani, i denti in bella
vista e i capelli imperlati di sudore che gli nascondevano il volto, piegato
verso il basso.
«Rock, che ti
prende?» domandò Benny
«Voi…» disse con
una voce che pareva più un ringhio bestiale «Voi avete… voi avete…».
Quella era la
prima volta che Dutch e Benny si spaventavano alla vista del loro compagno di
avventure; Revy invece, che aveva passato molto tempo insieme a lui e sapeva come certe cose lo facessero indignare, non
si preoccupò più di tanto, e anzi si avvicinò per cercare di capire bene cosa
avesse.
All’improvviso,
appena gli fu davanti, lui alzò gli occhi: erano di sangue, sembravano gli occhi di una belva infuriata.
Con una forza che
nessuno gli avrebbe attribuito assestò alla ragazza un
destro talmente forte che la fece volare contro Dutch, buttando a terra
entrambi.
«Maledetta
schifosa! Sei stata tu!».
Bastava guardarlo
per capire che Rock era davvero uscito di senno, e
prima che combinasse qualche altra sciocchezza Benny gli si avventò contro,
cercando in tutti i modi di trattenerlo; anche Dutch fu costretto a fare lo
stesso con Revy, perché anche lei grazie a quel bel gesto stava per dare libero
sfogo ai suoi istinti più animaleschi.
«Rock, calmati!».
Dapprincipio
sembrò che il giovane giapponese si stesse veramente calmando, ma appena Benny
commise l’errore di allentare un po’ la presa lui subito di
divincolò, strappò Revy dalle mani di Dutch e la buttò a terra,
serrandole il collo con la forza di un orso.
Lei cercava in
tutti i modi di liberarsi, graffiandogli la guancia e assestandogli poderose
ginocchiate sui testicoli, ma lui sembrava diventato un cyborg e non aveva
alcuna intenzione di mollare la presa.
«Puttana
schifosa, hai ucciso Harue! Hai ucciso Haru-Chan!».
Furono necessari
gli sforzi combinati di Dutch e Benny per riuscire a staccarlo dal collo della
ragazza; nessuno si preoccupò di tenere ferma Revy, perché era già un miracolo
che non fosse svenuta e a stento riusciva a respirare.
Poi, rapidamente,
la bestia che era in Rock si acquietò, e lui cadde inginocchiato a piangere
tutte le sue lacrime.
Come al solito, Balalaika non mosse un dito per cercare di
acquietare gli animi, limitandosi a fare da spettatrice, d’altronde sporcarsi
le mani non era mai stato nel suo stile.
«Rock, che diavolo
ti è preso?» domandò Dutch
«Harue… Harue era bambina così
dolce… così pura…».
Si rialzò in
piedi, ostentando la sua proverbiale fierezza, mentre Revy, che era costretta
ad appoggiarsi ad un soprammobile per poter stare in
piedi, lo guardava ringhiando con la guancia rossa e il sangue che le colava
dal naso.
«Era
un angelo in terra. Le sono stato vicino per due anni, e non l’ho mai sentita
lamentarsi per qualcosa. Rimproverava suo padre perché passava il poco tempo
libero che aveva a cercarle una cura invece che a riposarsi, e chiedeva scusa a
Kaito quando era costretto
ad annullare i suoi incontri per portarla all’ospedale dopo una crisi.
I Kinomiya avevano investito tutti i loro sogni, tutte le
loro speranze nel Progetto Rebuild… e voi avete
cercato di portarglielo via!».
Dutch e Benny, a
sentire quelle parole, abbassarono gli sguardi, vergognandosi come i ladri che
erano, ma altrettanto non fece Balalaika, che con assoluta indifferenza si
accese il suo terzo sigaro.
«Fino
a che si trattava di colpire multinazionali corrotte e pazzi assassini mi stava
anche bene. Ma le Industrie Kinomiya
erano forse l’unica società onesta ancora esistente in questo cesso di mondo!
Il loro presidente era pronto a fare di tutto per portare giustizia, non
avrebbe esitato a buttarsi nel fuoco per salvare Harue!»
«Come…» ringhiò
Revy «Come fai ad esserne così sicuro?»
«Perché
ho lavorato con loro per due anni, e perché me ne sono andato proprio perché
non mi sentivo degno di far parte di quella società! Con il progetto Rebuild il signor Kinomiya voleva
dare una speranza a tutti coloro che soffrono di sclerosi,
voi volevate farne un mero strumento commerciale per guadagnare i vostri
sporchi soldi, e non avete esitato ad uccidere degli innocenti per riuscirci!»
«Ti ho già detto
che noi non abbiamo ucciso nessuno!» rispose Dutch come a volersi giustificare
«Dovrei
crederti? Dopo tutto quello che ho visto in questi
mesi? Continuavate a ripetere che questo mondo è un luogo schifoso, ma ora so
che ciò che lo rende schifoso sono le persone come voi!».
Rock fece una
paura, respirò profondamente e cercò di prendere fiato, ma poi sfuriò
nuovamente.
«Ora che so come stanno
le cose mi dispiace che Kaito non vi abbia uccisi
l’altra notte, anzi mi dispiace che non abbia ucciso anche me perché sono
colpevole quanto voi!».
Senza
dire altro, e piangendo come mai nella sua vita, corse fuori dall’appartamento
sbattendo la porta. Benny cercò di andargli dietro, ma Balalaika lo
trattenne.
«Lascialo andare.»
«Ma…»
«È
troppo sconvolto. Non sente ragioni. Ma capirà ben
presto come stanno le cose. Il problema più grave in questo momento è cercare
un modo per proteggerci da quella belva assetata di sangue».
Uscito all’esterno, Rock corse per molto tempo, e quando
gli mancò il fiato camminò.
Camminava senza
meta, a capo chino, per le affollatissime vie di Bangkok, con
in testa mille domande e mille ricordi.
Per quanto
cercasse di scacciarle dalla sua mente, davanti ai suoi occhi continuavano ad
apparire visioni e immagini di Harue, e non ve ne era
una in cui il suo volto non fosse sorridente e la sua espressione gioiosa.
Quella bambina era
un vero angelo, e più volte aveva invidiato Kaito, perché era la sorella che tutti avrebbero voluto
avere: gentile, allegra, un po’ ingenua, semplice, e incredibilmente forte.
Sapeva benissimo
quale fosse il suo destino, perché era anche molto intelligente, e aveva letto
su internet cosa comportasse la sua malattia. Ciò nonostante, non vi era stato
un giorno in cui non avesse dispensato sorrisi e parole di conforto, e i suoi
stessi famigliari si sentivano sempre malissimo quando era lei a confortare
loro e non il contrario, come sarebbe dovuto essere.
Come aveva potuto
affiancarsi agli uomini che l’avevano uccisa?
«Se me lo avessero
raccontato, non ci avrei creduto».
Quella voce gli fece
gelare il sangue nelle vene.
Gli era passato
davanti, ma con la confusione che regnava dentro di lui
era tale che non si era neppure accorto di lui.
Kyuzo era lì,
pochi passi indietro, appoggiato ad un lampione, con
le braccia e le gambe incrociate e gli occhi chiusi.
Lo guardò a lungo,
senza trovare le parole, ma era il suo sguardo a parlare per lui.
«Mi domandavo dove fossi finito, e ti giuro che questo era
l’ultimo contesto in cui avrei immaginato di incontrare te.
RokuroOkagima.
Il terzo
superstite della Seaborn Star».
Nota dell’Autore.
Di nuovo salve. Mi
scuso per l’anomala lunghezza di questo capitolo, ma non è stato proprio
possibile spezzarlo in due tronconi.
Ora, so che
probabilmente dopo quanto scritto qui i fan di Revy mi
ammazzeranno, ma a tutti dico di aspettare prima di farlo, perché andando
avanti le cose cambieranno, e alla fine verrà fuori una storia diversa da
quella che può sembrare in questo momento.
Ringrazio Selly, Beat e Diaras per le loro recensioni.
Rock venne invitato da Kyuzo a
seguirlo in un ristorante poco lontano, e lui, sebbene un po’ recalcitrante,
alla fine accettò.
Appena entrarono,
un giovane cameriere li accolse gentilmente.
«Benvenuti.
Un tavolo?»
«Sì, grazie.»
rispose Kyuzo «Per due.»
«Come
desidera. Prego».
Si sedettero quasi
all’estremità opposta, e dopo poco ordinarono.
Per stuzzicare un
po’ l’appetito in vista dell’arrivo delle pietanze, Kyuzo ordinò un aperitivo e
delle tartine in agrodolce.
«È bello
rivederti, Okajima.» disse Kyuzo sorseggiando
l’aperitivo «Ti confesso che non avrei sperato di incontrarti ancora».
Rock però
continuava a teneva lo sguardo basso e le mani sulle
ginocchia, e Kyuzo decise allora di fargli coraggio.
«So
quello che stai pensando in questo momento, e puoi stare tranquillo. Contro di
te non serbo alcun rancore.»
«Che cosa!? Dunque tu… non ce l’hai con me?»
«Se
l’altra sera mi fossi accorto che eri tu ad accompagnarti a Dutch e agli altri
mi sarei trattenuto, o forse avrei anche abbandonato il campo. Purtroppo
nell’euforia del momento non ti ho riconosciuto.»
«Ah… capisco…».
Quell’affermazione
sollevò leggermente il morale di Rokuro, ed infatti, quando finalmente arrivarono i vari piatti che
Kyuzo aveva ordinato, anche lui cominciò a mangiare di buon gusto.
In fin dei conti,
erano pur sempre due amici che si rincontravano dopo molto tempo, e ricordare i
tempi in cui si consideravano quasi fratelli faceva
sorridere entrambi.
Parlarono di tante
cose, ma bene o male l’argomento finiva per sfociare
sempre lì, alla Seaborn Star.
«Era stato mio
padre a volerti a tutti i costi per la presentazione ufficiale.»
«Avanti, così mi
metti in imbarazzo.»
«No,
dico sul serio. Diceva che tu rappresentavi il modello ideale di impiegato. Onesto, sincero, sempre pronto a fare la cosa
giusta. Quando gli ho detto che volevi andartene gli è dispiaciuto molto.
Peccato non sapesse che soffrivi il mal di mare.»
«Eh, già.» disse
Rock ridendo leggermente «Sono finito in infermeria
subito dopo la partenza, e credo di aver preso anche un sonnifero. Quando mi
sono risvegliato, ero nella barca della guardia costiera.»
«Sei
stato fortunato. Tu non sei stato costretto a vedere ciò che ho visto io».
Di nuovo Rock si
fece cupo, evitando di dover incrociare gli occhi dell’amico.
«Non
ho mai avuto occasione di dirti quanto mi dispiacesse per l’accaduto. Perdonami.»
«Non
c’è nulla per cui tu debba chiedere il mio perdono. Tu non hai fatto niente.»
«Ho dato le dimissioni subito dopo l’incidente. Io… non ce la
facevo a vedere tutti quei sogni che si sgretolavano come fango secco.»
«Hai
fatto bene. Non aveva alcun senso rimanere lì.»
«Avrei voluto
vederti di nuovo, parlare con te un’altra volta, ma quando sono tornato a
cercarti mi hanno detto che eri partito.»
«Sono
dovuto sparire dalla circolazione subito dopo essermi iniettato i nanorobot. Il
potere che mi conferivano andava oltre il mio
controllo, e avevo bisogno di tempo per imparare a padroneggiarlo.
Solo Samejima ha continuato a tenere i contatti con me, e al
momento è l’unico a conoscere ogni mio spostamento.»
«Ora capisco
perché nessuno all’azienda mi ha saputo dire dove fossi.»
«Era
necessario. Dopo l’incidente sulla Seaborn Star, il
mio nome era sulla bocca di tutti. Per poter portare a
termine ciò che avevo in mente dovevo essere in visibile. Ho lasciato che le
acque si placassero rimanendo in disparte, e non appena la compagnia si è
ripresa abbastanza da poter essere portata avanti senza di me ho dato il via al
mio viaggio.»
«Anche io dapprincipio non ti avevo riconosciuto.» disse Rock
accennando nuovamente un sorriso «Sei molto diverso da come ti ricordavo.»
«Vuoi
dire per i vestiti e i capelli? Beh, non potevo certo andare in giro per i
ghetti di mezzo mondo in giacca e cravatta e ben pettinato. Ho dovuto
adattarmi, e se devo essere sincero questa nuova vita
mi sta molto piacendo?»
«La vita del
giustiziere?»
«C’è forse
qualcosa di male?» rispose Kyuzo con voce leggermente diversa, più cupa di
prima «Dimmi sinceramente, tu hai mai creduto alla versione dell’attacco dei
pirati?»
«Francamente
l’ho trovata ridicola fin da subito. Pirati al largo del Giappone. E poi, se il
viaggio era stato tenuto segreto fino all’ultimo, come facevano
questi pirati a sapere con precisione il tragitto che avrebbe percorso la
nave?»
«Ecco,
per l’appunto. La verità è che nessuno aveva interesse a complicare la cosa più
di quanto non lo fosse già. Con lo spettro del fallimento a pesare come un
macigno, lo stesso consiglio di amministrazione ha fatto il possibile per fare
in modo che questa storia finisse nel dimenticatoio il
prima possibile.
Inutile dire che
con il ritiro della quota di partecipazione dei vari soci finanziatori il
progetto Rebuild è stato prima congelato e poi
cancellato in modo definitivo.»
«Mi
dispiace molto. So bene quanto quel progetto fosse importante, soprattutto per Harue.»
«Non
devi dispiacerti. Ormai è acqua passata. In futuro forse sarà possibile
riprendere la ricerca, ma per il momento la mia priorità è un’altra».
Lo sguardo di
Kyuzo si fece incredibilmente malevolo, anche più terribile di quello di Revy o
Balalaika, e Rock si spaventò non poco.
«Tu vuoi
vendicarti, non è così?»
«Io
non biasimo l’azienda per quello che ha fatto. Se si fosse portata avanti la
questione della Seaborn Star più del dovuto le Industrie Kinomiya
avrebbero dichiarato bancarotta, e migliaia di dipendenti si sarebbero
ritrovati di colpo in mezzo alla strada.
Tuttavia, io non
potevo accettare l’idea che gli assassini della mia famiglia e coloro che avevano cercato di speculare sui sogni di
migliaia di malati continuassero a camminare indisturbati su questa Terra, ma
ero anche consapevole che se dovevo mettermi contro quella gente non avrei
potuto contare solo sulle mie forze o sui mezzi di cui disponevo.»
«E per questo ti
sei iniettato i nanorobot.»
«Esattamente.
E ho tagliato i ponti con la mia vita precedente. Ad eccezione di Steven e Samejima, nessun altro sa che KaitoKinomiya e il killer professionista Kyuzo sono la
stessa persona.»
«Io… se avessi
saputo quelli di cui Revy e Dutch erano colpevoli…»
«Non
fa niente. Non devi scusarti. Immaginavo che in un modo o nell’altro fossi
andato a finire in qualcosa di simile. Come forse saprai la settimana scorsa
ero a Tokyo, e ho approfittato di quel periodo di rimpatrio per venirti a
cercare.»
«Ci sei tu dietro
il massacro del clan Ryuji, vero?»
«Sei
perspicace. Comunque, Samejima mi ha detto che eri
stato assunto dalle Industrie Asahi, ma quando sono
andato da loro mi hanno detto che ti eri licenziato
due anni prima. Certo che il tuo periodo di lavoro con loro è stato davvero
breve.»
«Beh… è successo
un… come posso dire… un pasticcio…»
«So
quello che stai cercando di dire. È il motivo per cui non abbiamo mai avuto
rapporti con le Industrie Asahi, hanno un pessimo
modo di fare e sono corrotti fino all’osso.»
«Ah,
non dirlo a me. Mi hanno scaricato come un sacco di patate appena non gli sono
servito più.
A proposito,
Balalaika prima ha parlato di un informatore all’interno del Progetto Rebuild.»
«Direi
che è più che scontato. Altrimenti come sarebbero venuti a
conoscenza di un progetto di un progetto del quale neppure lo stesso
consiglio di amministrazione ne sapeva più di tanto.»
«Diceva anche che
uno dei due flaconi contenenti i nanorobot non si trovava a bordo della nave.»
«Balle,
i due contenitori erano entrambi sulla Seaborn Star
quando è stata attaccata. Uno ce l’avevamo noi per
mostrarlo ai finanziatori, l’altro…».
Kyuzo non riuscì a
finire la frase, e si nascose singhiozzando il volto con una mano.
«L’altro era in
cabina.» rispose Rock «Nella valigetta.»
«È
stata colpa mia. Se non avessi insistito…».
Quattro anni prima
Mancavano solamente pochi minuti all’inizio del
ricevimento, e nella loro sfarzosa cabina, che si componeva di salottino, camere da letto e bagno con vasca idromassaggio, i membri
della famiglia Kinomiya stavano ultimando gli ultimi
preparativi prima di fare il loro ingresso trionfale in sala, annunciando al
mondo quella che sarebbe stata sicuramente considerata come la più grande
scoperta in campo medico della storia dell’umanità.
La signora Hokada si guardò un’ultima volta allo specchio per
controllare la pettinatura ed essere certa che il suo magnifico vestito color
lilla non avesse la minima macchia o sgualcitura. Malgrado fosse giunta ormai alla soglia dei cinquant’anni era una donna ancora molto
bella, capace di ostentare un fascino rispettabile e genuino.
«Sei bellissima, Kurumi.» le disse il marito avvicinandosi a lei.
«Ma va’, sono vecchia come una mummia.» rispose lei sorridendo.
Il signor Kinomiya, a guardarlo, non si sarebbe
detto affatto il proprietario di una delle multinazionali più importanti
del mondo.
Era un uomo di
corporatura piuttosto robusta, cosa rara per i giapponesi; la barba grigia che
circondava quel suo viso gentile ne esaltava la figura, conferendogli un portamento
autoritario ma gentile.
Il completo color
crema che indossava quella sera contrastava molto con la sua pelle leggermente
scura, ma ciò non sminuiva quel particolare fascino tipico degli uomini di
mezza età.
Insieme a lui nella stanza il suo primogenito, l’erede del suo
patrimonio, il giovane Kaito.
Anche lui, come
suo padre, era una persona piuttosto colloquiale, ma solo con le persone con
cui valeva la pena di conversare, ed erano in pochi ad avere questo privilegio.
Per questo veniva considerato, tanto dai compagni di
liceo quanto dal personale dell’azienda, un tipo molto sulle sue, ma chi aveva
avuto modo di conoscerlo sul serio sapeva che poteva rivelarsi una persona
molto diversa da come appariva in superficie.
Fin da
giovanissimo aveva dimostrato di voler seriamente proseguire lungo il cammino
iniziato da suo padre, del quale condivideva le idee in merito alla condotta da
tenere col resto del mondo sul piano lavorativo, e la sua spiccata intelligenza
gli aveva permesso di ottenere, a soli sedici anni, un posto di prestigio
all’interno dell’azienda, dal quale poteva supervisionare direttamente il
progresso del Progetto Rebuild.
Kaito aprì nuovamente la valigetta appoggiata sul tavolo
circolare al centro della stanza, come a voler controllare che nessuna mano
invisibile avesse cercato di rubare i loro sogni, quindi la
richiuse, e nello stesso momento dalla sua stanza uscì Harue,
la sua adorata sorellina.
Non sembrava avere
una bella cera, la sua fronte era sudata, aveva le guance un
po’ rosse e il naso chiuso.
«Eccomi.» disse
«Sono pronta.»
«Tesoro, stai
bene?» le domandò la madre notando subito il suo pallore
«Sì
mamma, non preoccuparti. È tutto a posto».
Fu uno starnuto a
tradirla, e viste le sue precarie condizioni di salute tutti inizialmente si
preoccuparono, ma poi suo fratello tastandole la fronte calmò subito gli animi.
«Hai
la febbre. Deve essere un po’ di influenza.»
«Sì, forse».
Pur di passare del
tempo con lei quando era malata suo padre avrebbe venduto l’azienda, quindi
chiamò immediatamente KojiMasuro,
il capo della sicurezza, che attendeva fuori dalla cabina.
«Avverti gli
ospiti che la festa di stasera è rimandata.»
«Sì, subito.»
«No, papà
aspetta!» disse Harue «Non farlo, per favore.»
«MaHarue, tu stai male.»
«Posso
sempre restare in cabina. Non serve che voi rimandiate tutto.»
«Però… non
possiamo lasciarti da sola.» disse sua madre «Sarei troppo in ansia sapendoti
qui senza nessuno a tenerti d’occhio, soprattutto adesso che stai male.»
«Resterò io con
lei.» disse Kaito
«No
fratellone, tu non puoi restare qui. Avete aspettato questo giorno per così tanto tempo, mi dispiacerebbe se vi rinunciaste.»
«Se è per questo,
la crociera durerà tre giorni.» disse il signor Kinomiya
«Possiamo sempre rimandare a domani.»
«Non
credo che gli ospiti saranno contenti. Tu papà dici sempre che quando si prende
un impegno bisogna portarlo a termine.»
«Ah accidenti.»
disse lui passandosi la mano sulla nuca «Sei testarda come tua madre.»
«Avevate
detto di voler tenere uno dei due contenitori qui in cabina. Facciamo che io
resto a farci la guardia.»
«Ma chi resterà a
fare la guardia a te, sorellina?»
«Kaito, non ti devi preoccupare. So badare a me stessa».
Il ragazzo ci
pensò qualche secondo, poi si rivolse a suo padre.
«In effetti si era parlato di non scoprire subito tutte le
nostre carte. Tenere segreta per ora l’esistenza di uno dei due contenitori
potrebbe essere la cosa più sensata».
Anche suo padre
cominciò a prendere in considerazione la cosa, ma l’idea di lasciare sua figlia
da sola continuava a rimanere improponibile.
«Koji.» disse allora al suo guardaspalle, che ancora restava
in attesa di ordini definitivi «Tu resterai qui fuori
a sorvegliare la cabina. Assicurati che nessuno entri e che adHarue non accada nulla.»
«Vi prometto che
sarà più protetta che in una banca.»
«Quanto a te,
signorinella, fila subito a dormire.»
«Va’ bene.» rispose lei felice di aver convinto la sua
famiglia a non rinunciare alla festa.
Marito e moglie andarono per primi, Kaito invece
si trattenne per recuperare uno dei due campioni, che infilò nella tasca della
giacca, e per salutare un’ultima volta la sorella prima di uscire.
«Cercherò di tornare il prima possibile.»
«Non
ci pensare nemmeno. Tu pensa solo a divertirti, io starò bene».
Il ragazzo
sorrise; era davvero una bambina col cuore d’oro.
«D’accordo.
Tu però va’ subito sotto le coperte.»
«Va’ bene.» rispose lei, che subito girò la sua sedia
ritornando verso la propria stanza.
«È stata l’ultima volta che l’ho vista».
Rock ascoltò la
storia con il cuore pieno di tristezza, rievocando a sua volta tutti i bei
momenti trascorsi assieme ad Harue ogni volta che lui
andava a trovarla alla villa di famiglia o quando era lei a venire in ufficio
per tenere compagnia al padre.
«Se solo…» disse
Kyuzo piangendo di nascosto «Se solo non avessi insistito per lasciarla da sola
con uno dei campioni non sarebbero andati a cercarlo
in cabina, e lei non…»
«Non potevi saperlo,Kaito. Del resto, chi
avrebbe potuto immaginare un evento del genere?»
«Me l’hanno
portata via,Okajima. Mi
hanno portato via mia sorella e i miei genitori. Che uomo è uno che compie un
simile delitto? Con che coraggio lo si più definire un
essere umano?»
«Kaito…».
Quando risollevò
gli occhi però, Kaito era sparito; al suo posto c’era
solo Kyuzo, e Rock ne rimase terribilmente spaventato.
«Loro hanno
distrutto la mia vita, e ora io distruggerò la loro.»
«Che cosa vuoi
fare?» domandò Rock iniziando a preoccuparsi seriamente
«Fargliela
pagare. Pagheranno fino all’ultimo centesimo quello che hanno fatto a me e a
migliaia di altri innocenti.»
«Tu… vuoi
ucciderli?!»
«No.
Saranno loro ad uccidere sé stessi. Si scanneranno
l’un l’altro come una massa di lupi rabbiosi e affogheranno nel loro stesso
sangue».
Rock guardò in
basso e per lunghi minuti rimase in silenzio, combattuto fra i suoi due io; da
una parte c’era l’io del passato, quello che aveva visto sorridere Harue e che chiedeva a gran voce la morte dei suoi
assassini, dall’altro c’era l’io del presente, che sosteneva di conoscere gli
uomini della Lagoon abbastanza bene da sapere che mai si sarebbero abbassati a
sparare contro una bambina invalida.
«Kaito, io…»
«Cosa?»
«Io credo… ecco…
che forse… forse le cose sono diverse da come sembrano.»
«In che senso?»
«Revy
e Dutch. Per quanto possano sembrare insensibili e crudeli… io… non credo
sarebbero capaci di spingersi a tanto».
Kaito lo guardò con un misto di stupore e di compatimento,
ma non sembrava che quell’affermazione lo avesse fatto arrabbiare o lo avesse
offeso.
«Hai passato così tanto tempo in loro compagnia, ma a quanto pare non sai
ancora niente di loro. Ti assicuro che se li conoscessi per come sono
veramente, ti faresti un’idea molto diversa di loro, e sapresti che sono
capacissimi di compiere qualsiasi atrocità.»
«Forse…
forse è come dici tu. Ma uccidere una bambina,
oltretutto in sedia a rotelle. No, neppure Revy e Balalaika sarebbero capaci di
tanto.»
«Ma
davvero? E che mi dici di quei due bambini rumeni?».
Rock saltò sulla
poltrona nel e non poté fare a meno di ricordare quei due innocenti che la
malvagità degli uomini aveva trasformato in belve assetate di sangue, belve a cui nessuno a parte lui aveva voluto concedere una
possibilità per cambiare.
«La
tua espressione risponde per te. Ma possiamo fare
anche altri nomi. Ad esempio, YukioWashimine».
Di nuovo il
giovane impiegato non seppe cosa rispondere, ma il suo primo pensiero fu che se
Balalaika non avesse voluto espandere il suo dominio anche sul Giappone, quella
ragazza molto probabilmente non sarebbe stata condotta lungo il sentiero che
l’aveva portata alla morte.
Serrò i pugni,
stringendosi forte le ginocchia e mordendosi le labbra.
«Hotel
Moskow è un clan di mafiosi, e la mafia opera solo
nel male. E chi lavora alle sue dipendenze, a sua volta è capace di esercitare
solo il male. Questo mondo è stato portato sull’orlo della distruzione da gente
di quella risma, che pensa solo a sé stessa e non si
cura minimamente delle conseguenze delle proprie azioni, ma molto presto
scopriranno che esistono forze che neppure le pallottole possono fermare».
Rock non sapeva
più cosa pensare, il conflitto dentro di lui minacciava di distruggerlo, e non
riusciva a trovare la forza per appoggiare nessuna delle due condotte di
pensiero.
«Non ce la faccio,Kaito. Anche se voglio
vendicare la morte di Harue e dei tuoi genitori, sono
assolutamente convinto che la verità deve essere diversa
da quella che può sembrare.»
«Okajima!» gridò Kyuzo perdendo la pazienza «Perché difendi quei bastardi assassini? La morte di Harue non conta davvero niente per te!»
«Non ho detto
questo.» rispose Rock cercando di mostrarsi autoritario «Dico
solo che non credo nel fatto che ne sia Revy la responsabile. Prima, quando
l’ho aggredita, la rabbia mi ha impedito di ragionare, ma adesso che ci penso a
mente fredda mi rendo conto che non sarebbe mai capace di un’atrocità simile.»
«Se tu avessi
visto il mondo che ho visto io in questi quattro anni, sapresti che una volta
che si è intrapresa quella strada nessuna azione è
troppo vile. I loro cuori sono diventati di pietra, non provano alcuna emozione
nei confronti di qualcuno che non siano loro stessi.
Io raccoglierò il
loro sangue e lo verserò sulla tomba di mia sorella per dimostrare alla sua
anima che i suoi assassini hanno avuto quello che meritavano, e lo farò
indipendentemente da chi mi troverò davanti!».
Non era una
minaccia a vuoto, bastava guardarlo per capire che Kyuzo era davvero
determinato, e che niente al mondo sarebbe stato in grado di fargli cambiare
idea.
«Non
ti sto chiedendo di batterti al mio fianco, Okajima.
Se non te la senti di imbarcarti in quest’impresa ti capirò, rimarremo amici
come lo siamo sempre stati. Tutto quello che ti chiedo
è di restarne fuori».
Rock abbassò di
nuovo la testa, rimanendo in silenzio, poi guardò il suo vecchio amico con
decisa convinzione.
«Non posso, amico mio. Non posso restare indifferente a quello
che succede ai miei compagni, e sono fermamente convinto che Revy non ha nulla
a che vedere con la morte di Harue, quindi farò tutto
il possibile per impedirti di farle del male».
A quel punto Rock
si alzò dal divanetto e si diresse verso l’uscita senza che Kyuzo facesse alcun
tentativo per fermarlo, ma un istante prima che potesse prendere la porta lo
stesso cameriere che li aveva accolti gli sbarrò la strada piantandosi davanti
a lui e guardandolo diritto negl’occhi; aveva uno
sguardo inquietante, severo e furibondo, ma allo stesso tempo apparentemente
senza vita.
«Ma cosa…».
Spaventato da
quell’espressione cercò di aggirare il cameriere, ma
lui continuò ad ostacolarlo senza togliergli lo sguardo di dosso.
Intuendo che ci
fosse Kyuzo dietro a quello strano comportamento si girò verso di lui per
chiedere spiegazioni, scoprendo con suo grande terrore che tutti gli avventori
del ristorante, approssimativamente una ventina, si erano alzati in piedi e restavano ora immobili a guardarlo, come un esercito di
fantasmi.
E non erano
solamente gente del posto; a giudicare dalle loro facce e dagli abiti che indossavano dovevano provenire da varie parti del mondo e
appartenere a diversi ceti sociali, dai mendicanti da strada ai rispettabili
impiegati.
Rimanevano
immobili e in silenzio, ma i loro sguardi sembravano un esercito di lame
affilate che penetravano nell’anima di Rock devastandola.
Kaito era ancora seduto coi gomiti
sul tavolo e il mento sorretto dalle mani.
«Che… che
significa?» domandò terrorizzato «Chi sono queste persone?»
«Parenti e amici
di vittime della mafia.» rispose lui alzandosi in piedi.
Appena mosse un
passo, quelli che gli stavano davanti immediatamente gli fecero
strada, spostandosi leggermente di lato con movimenti quasi meccanici.
«Quando
gli ho offerto la possibilità di ottenere giustizia hanno subito accettato di
seguirmi. Sono venuti qui per dimostrare al mondo
intero che la giustizia è molto più di una parola. È un credo. Un credo che
molti si rifiutano di abbracciare, perché troppo
corrotti e troppo attaccati ai loro privilegi.
Ebbene io ti dico
che prima del sorgere del prossimo sole i malvagi che per troppo tempo hanno
soffocato questo Paese con il loro egoismo e la loro brama di potere saranno
spazzati via, così che le anime di quanti hanno perso la vita a causa loro
possano riposare in pace.»
«Kaito… che hai intenzione di fare?»
«Non puoi fermarci,Okajima. L’ingranaggio
ormai si è messo in moto, e non c’è assolutamente nulla che tu possa fare per arrestarlo.»
«Tu… tu non sei Kaito.»
«Hai ragione, non
lo sono».
Con incredibile
freddezza il giovane prese una pistola da dentro la
giacca e sparò contro Rock una di quelle siringhe verdi che lo fecero crollare
addormentato in pochi secondi; l’ultima cosa che vide fu il suo amico che,
giunto ai suoi piedi, lo guardava dall’alto ostentando un volto di pietra.
Regnava uno strano silenzio all’interno dell’appartamento
in cui sia Balalaika che i membri della Lagoon avevano cercato rifugio dal loro
inseguitore.
Tutti, in quel
momento, si stavano facendo i fatti propri, e nessuno sembrava curarsi di
nessuno.
Dutch tracannava
una birra dietro l’altra, Benny e il professore lavoravano al computer, Revy si
girava i pollici con espressione contrariata e Balalaika, naturalmente, fumava
i suoi adorati sigari.
Sembrava quasi che
tutti lì dentro stessero aspettando che accadesse qualcosa, ma questo qualcosa
non pareva avere alcuna intenzione di accadere.
Il solo rumore
nella stanza era il ticchettio dell’orologio affisso alla parete, che segnava
l’inesorabile scorrere del tempo.
Era un rumore incessante,
per non dire fastidioso, tanto che alla fine Revy uscì completamente di testa e, sfoderata la pistola, piantò due pallottole in
quell’oggetto malefico riducendolo in polvere e facendo due bei buchi nel muro.
«Basta!
Non ce la faccio più a restare qui senza far niente!»
«Sei un po’ troppo
nervosa, Two-Hands.» disse scherzosamente Balalaika
«Posso suggerire una camomilla?»
«Non
sei per nulla divertente, sorellona! Che ci stiamo a fare qui dentro? Andiamo a scovare quel bastardo e
spediamolo all’inferno!»
«Invece di fare
questi discorsi da esaltata, dovresti pregare che non sia lui a scovare noi.»
disse Benny
«Ma
che stai dicendo? Ora conosciamo il suo punto debole, giusto? Scarichiamogli addosso tutto quello che abbiamo e vedrete che resterà
stecchito.»
«Dì
un po’, ti ricordi di quello che ha fatto l’altra notte? Ha demolito un locale
e sollevato un’onda anomala stile Katrina prima di
dare qualche segno di cedimento. Sarebbero necessari
almeno un centinaio di RPG e qualche granata per sperare di ottenere lo stesso
risultato».
All’improvviso
qualcuno bussò leggermente alla porta, tre tocchi in rapida successione che per
poco non fecero scoppiare il cuore a molti, ma poi fu di nuovo il silenzio più
totale.
«Chi è?» domandò
Dutch
«Sono
l’usciere. Ho portato la posta.» rispose la voce di un
vecchio.
Dutch e gli altri
tirarono un sospiro di sollievo, e stando bene attento a non mostrare la sua arma il gigante nero andò ad aprire la porta. Era proprio il
vecchio Wei, l’usciere del palazzo, con la posta del
primo pomeriggio.
In tutto c’erano
tre lettere, una per ogni membro della Lagoon, tutte provenienti dagli Stati
Uniti.
«Ehi,
ragazzi. Notizie da casa.»
«Bello!» disse
Benny «Dai qua».
Ognuno aprì la
propria lettera, ma tutte e tre contenevano solamente dei cartoncini colorati
con due parole scritte in bella calligrafia.
«E questo che
diavolo sarebbe?» domandò Revy «Death Game?».
Nel sentire quelle
parole Balalaika e il sergente saltarono sul posto.
«È lui!»
«Che cosa?»
«Dobbiamo
andarcene subito! Lui è qui!»
«Ma ne sei sicura?» chiese Dutch
«Quel
biglietto è un lasciapassare per l’inferno. Se non ce ne andiamo
siamo morti!»
«Merda!
Proprio adesso che questo posto cominciava a piacermi!».
Revy e Dutch
misero immediatamente mano alle pistole, e altrettanto fecero Balalaika e il
sergente, quindi tutte e sei le persone presenti in
quel momento uscirono di corsa dall’appartamento.
Il corridoio,
stretto e angusto, era ancora deserto, e vi regnava un silenzio spaventoso;
neppure dagli altri alloggi giungeva il minimo rumore. Era come se nell’intero
palazzo ci fossero stati solamente loro, perché non incontrarono anima viva né
lì né lungo le scale.
La tensione si
poteva tagliare a fette, il frastuono assordante delle scarpe che battevano sul
legno della vecchia scalinata non faceva altro che far
salire ancora di più il senso di angoscia; ogni ombra, ogni soffio di vento,
ogni minimo rumore che non fosse prodotto da loro li faceva sobbalzare. avevano paura che da un momento all’altro avrebbero visto
uscire dal nulla quel mostro con sembianze umane, che nello spazio di un
secondo gli avrebbe fatto pagare tutte le loro malefatte vendicando la morte
della sua famiglia.
Correvano senza
fermarsi, più volte rischiarono di inciampare ma non gli importava; arrivavano
anche a strattonarsi e a spingersi fra di loro per
poter essere i primi a lasciare quella trappola mortale.
Purtroppo
quell’edificio disponeva di una sola uscita, e in ogni
caso le macchine erano parcheggiate proprio lì fuori, ma la strada davanti a
cui sorgeva la palazzina era sempre piuttosto trafficata, e questo, se non
altro, avrebbe dato qualche sicurezza in più.
Finalmente, al
termine dell’ultima rampa, comparve la porta
d’ingresso, la via della salvezza.
Dutch quasi la
sfondò per aprirla, ma una volta fuori, non appena i raggi del sole li
colpirono in pieno, si trovarono davanti ad una scena indescrivibile.
«Che mi colpisca
un fulmine!» disse il nero guardandosi attorno.
Quel tempo prima
tiranno sembrava di colpo essersi fermato in quell’angolo di Bangkok, dopo che
una forza invisibile aveva risucchiato via tutti i suoi abitanti.
Di macchine,
comprese le loro, non vi era alcuna traccia, i negozi e i marciapiedi erano
deserti, nessuno si affacciava dalle finestre delle case, e regnava uno
spaventoso silenzio.
«Ma che diavolo…»
«Sembra una scena
da L’avvocato del diavolo.» commentò Revy con un umorismo decisamente
fuori luogo.
Improvvisamente
udirono uno strano rumore, come di passi felpati, e tutti alzarono le armi
puntandole in varie direzioni.
Dal fondo della
strada, dalle porte e dai vicoli laterali cominciarono ad
comparire innumerevoli persone di ogni età, provenienza, sesso e ceto sociale.
Camminavano molto,
molto lentamente, tenendo i loro sguardi perennemente fissi sul gruppo di
compagni che istintivamente si portarono spalla contro spalla;
il loro primo impulso fu di tornare da dove erano venuti, ma appena cercarono
di muovere un passo videro uscire della gente anche dalla palazzina in questione.
Sembravano un
esercito di automi, perché non aprivano bocca e non lasciavano trasparire
alcuna emozione; sembrava addirittura che non respirassero, ma continuavano ad
avanzare, e il cerchio attorno alla Lagoon e a quelli di Hotel Moskow stava diventando sempre più stretto.
«Non
avvicinatevi!» urlò Dutch sollevando il cane della
magnum «Non un altro passo o vi faccio secchi!».
Quelli non diedero
segno di volersi fermare, e continuarono imperterriti a stringere il cerchio.
Alla fine, spinto
più dalla paura che dal raziocinio, Dutch sparò un colpo in direzione di un
uomo dai tratti sudamericani, ma il proiettile gli rimbalzò davanti prima di
poterlo colpire.
«No… questo no…».
Anche Revy e
Balalaika a quel punto tentarono di difendersi esplodendo vari colpi, ma il
risultato fu esattamente lo stesso, e intanto quella
marea di gente continuava ad avvicinarsi.
«Non vi
avvicinate!» gridò Dutch quasi piangendo, e sventolando la sua inutile pistola
«State indietro!».
Alla fine, quando
quelli più vicini furono a cinque o sei metri da loro, tutti si fermarono,
rimanendo immobili e silenziosi come un esercito di statue; dovevano essere
svariate migliaia, riempivano tutta la strada perdendosi all’orizzonte in
entrambe le direzioni.
«E adesso che cosa
fanno?» chiese il professor Turchinsky, che per lo
spavento aveva paura di farsela addosso da un momento all’altro.
Una voce oscura e
terribilmente fredda fece tremare tutti per la paura.
«Avete mai sentito
il detto, chi semina vento raccoglie tempesta?».
Di nuovo quella
massa aprì un corridoio dinnanzi a sé, richiudendosi
immediatamente dopo il passaggio della propria guida, che si portò davanti a
loro ostentando una sicurezza di sé del tutto legittima.
«Tu, lercio
porco!» tuonò Revy «Devo ancora ringraziarti per avermi dato un secondo
ombelico!»
«Non
ti è ancora bastata? Devo forse rincarare la dose perché tu capisca che è tutto
inutile?».
Revy ringhiava
come una tigre inferocita, ma memore di quello che era
accaduto alcune notti prima non ebbe altra scelta che esitare, malgrado
persistesse nel tenere una delle due pistole puntate contro di lui.
Kyuzo cominciò a
camminare avanti a destra e a sinistra, lanciando certe occhiatacce che
avrebbero spaventato perfino il diavolo.
«Voi.» disse
puntando l’indice come un giudice del paradiso «Voi
avete portato fin troppo dolore in questo mondo. Per troppo tempo siete andati
avanti credendo che mai sareste stati chiamati a rendere conto delle vostre
azioni.
Pensavate di
potervi proteggere in eterno, credevate che le vostre meschine ostentazioni di
forza vi avrebbero garantito la sicurezza per sempre.»
«Non sei il mio
prete.» rispose secca Revy «Né lo saresti se decidessi di averne uno.»
«Vi siete
domandati» proseguì il ragazzo come se non l’avesse sentita «Chi
siano queste persone, e come mai oggi si trovino qui, davanti a voi?
Malgrado alcuni di
voi siano in grado di immaginare la risposta, voglio dirvelo io.
Questi uomini,
queste donne e questi bambini sono coloro ai quali voi, in un modo o
nell’altro, avete sottratto una parte di vita.
L’egoistico
egocentrismo di cui vi siete fatti portavoce vi ha spinti a eliminare senza
rimorso e senza alcuna pietà tutti coloro che potevano
costituire una minaccia; criminali, anche, ma soprattutto innocenti, persone
coraggiose che rifiutavano di riconoscere il vostro regno del terrore e che
hanno pagato con la vita il prezzo del loro coraggio.
In fin dei conti,
per voi è tutto così semplice.
Basta premere un
grilletto, o anche semplicemente pronunciare una parola, e tutto finisce
istantaneamente, il problema è risolto e voi potete continuare a fare quello
che avete sempre fatto.
Ma
vi siete mai domandati quanti padri, quante mogli, quanti figli abbiano patito
le conseguenze delle vostre azioni, inondando la Terra con le loro lacrime?».
Il ragazzo rise
leggermente.
«Ma
che sto dicendo? No che non ve lo siete mai chiesto.
Per potersi porre
queste domande è necessario possedere una coscienza, e chiunque pensi unicamente a sé stesso ponendosi al centro del mondo
senza il minimo rispetto per la vita non conosce neppure il significato di
questa parola.
Guardate bene
questi volti, guardateli con attenzione. Ognuno di essi cela una storia, una storia fatta di dolore, di sofferenza e di pianto».
Kyuzo si avvicinò
allora ad una bambina di forse sei o sette anni, che
teneva per mano quella che doveva essere sua madre; a giudicare dai tratti
somatici e dal loro modo di vestire dovevano essere americane, e difatti Kyuzo
si rivolse alla bambina parlando in inglese.
«Piccola.» gli
disse inginocchiandosi «Dimmi, chi era il tuo papà?».
Lei lo guardò un
momento con quei suoi occhietti azzurri, così innocenti e gentili.
«Il mio papà.»
rispose lei «Era un poliziotto. Era molto bravo. Gli
hanno sparato perché ha cercato di mettere in prigione una persona cattiva.»
«Una
persona cattiva? E chi era?»
«Lei.» disse la
piccola indicando Balalaika, che non si scompose minimamente.
Tutti però si
voltarono a guardarla, e per la prima volta persino quelli della Lagoon
avvertirono una punta di disprezzo nei suoi confronti.
«E
questa è solo una delle tante storie che potrebbero essere raccontate.
Purtroppo, nessuna
di queste storie ha un lieto fine, e mai potrà
esservene uno. Nessun finale può dirsi lieto se c’è anche un solo morto per il
quale si è costretti a piangere.
Molte persone
hanno dedicato la loro vita a combattere quelli come voi, nella speranza di
poter condurre questo mondo verso un futuro che non fosse segnato solo dalla
paura, dall’egoismo e dalla violenza, ma quasi sempre
i loro eroici tentativi si sono conclusi tragicamente.
Tuttavia, qui
tutti sanno che, per quanto si possa tentare, non sarà mai possibile ottenere
giustizia confidando solamente nella legge.
Voi mescolate la
legge come un mazzo di carte, usate la burocrazia a vostro vantaggio, e se solo
qualcuno riesce a individuare una falla in questo schema che voi, nella vostra
vanagloria, ritenete perfetto, puntualmente lo uccidente,
dopo aver cercato inutilmente di fermarlo infangandone il nome e distruggendolo
negli affetti più cari.
Ebbene, io vi dico
che questo scempio è destinato a finire.
Ci sono forze che
nessuna pallottola è in grado di fermare, ed è giunta l’ora che proviate sulla
vostra stessa pelle il dolore che avete arrecato ad altri.
Soffrirete, soffrirete in modo indescrivibile.
Vi scannerete fra di voi come un branco di lupi famelici, punterete le
armi l’uno contro l’altro nel tentativo disperato di salvare la vostra vita, e
sarà per noi la ricompensa più grande.
Presto il mondo
saprà che la giustizia esiste ancora, l’onda che solleveremo oggi si spargerà
in tutto il mondo spazzando via chi rifiuterà di vivere secondo le sue regole,
a cominciare da voi».
Kyuzo schioccò
improvvisamente le dita e dal cielo piovvero una
miriade di siringhe verdi, la maggior parte delle quali colpì inesorabilmente i
propri obiettivi.
Revy e gli altri
si dimenarono a lungo, cercarono in tutti i modi di contrastare l’effetto degli
anestetici, ma alla fine crollarono
Nota dell’Autore
Eccomi qua! Questo
capitolo direi che conclude la prima parte della
storia, con il prossimo si passerà ad una trama basata maggiormente sull’azione
che sui dialoghi, anche se non mancheranno le scene introspettive.
Ringrazio Selly, Beat, Spectre e Gufo per le recensioni.
L’anestetico contenuto in quelle siringhe doveva essere
davvero efficace, perché anche dopo essersi risvegliato Rock
impiegò parecchi minuti per riuscire a mettere bene a fuoco la vista.
Poi però si rese
conto che ad impedirgli di vedere con chiarezza non
era solo l’effetto del farmaco, ma anche il fatto di trovarsi in una stanza
grande e quasi completamente buia.
La sola cosa che
gli riusciva di distinguere era una grande e complessa
consolle simile a quella delle stazioni televisive piena di pulsanti luminosi, oltre
a parecchie decine di piccoli televisori accesi, sui quali però regnava un
fastidioso effetto nebbia.
Appena ebbe
pienamente coscienza di sé cercò di muoversi, ma come
era prevedibile si accorse di avere i polsi ammanettati ai braccioli della
sedia sulla quale era seduto.
Stava cercando di
ricordare bene quello che era successo nel ristorante quando dalla porta
accanto a lui, che doveva dare su un corridoio molto illuminato, entrò un uomo
sulla quarantina con barba nera e capelli arricciati, che associati alla pelle
scura ne testimoniavano l’origine mediorientale.
«Ah, ti sei
svegliato, finalmente.» disse in tono amichevole andando a sedersi alla
poltrona davanti alla consolle «Mi domandavo quanto ancora avresti dormito».
A Rock quella
sembrò fin da subito una faccia famigliare, ed infatti
gli ci volle poco per ricordarsi di dove lo avesse visto.
«Io…
io ti conosco. Tu lavoravi alle Industrie Kinomiya.»
«Hai
buona memoria. Non ci hanno mai presentati. Mi chiamo HibraimAlwariki, ero a capo della divisione tecnica nel
Progetto Rebuild.»
«La divisione…
tecnica?»
«Il progetto Rebuild era composto da tre
divisioni, la divisione scientifica, quella medica e infine la divisione
tecnica. Ognuna di esse controllava una parte del progetto lavorando in maniera
autonoma allo sviluppo di una cura contro la sclerosi multipla e altre
malattie.»
«I nanorobot.»
«Esatto».
Hibraim prese un pacchetto di sigarette dal taschino della
camicia e ne offrì una a Rock avvicinandogliela alla bocca, quindi se ne accese
una per sé.
«Da dove vieni?»
domandò ad un certo punto il giapponese
«Dall’Iraq.
Mio padre era un fervente sostenitore del regime, così a dodici anni sono stato
spedito in America assieme ad altri miei coetanei per farmi una cultura degna
di questo nome.
Quel pazzo di
Saddam si era messo in testa di fare dell’Iraq il nuovo polo culturale del medio oriente.
Comunque sia andai
a studiare ingegneria robotica, e negli anni dell’università cominciai a
sviluppare il progetto dei nanorobot che presentai all’esposizione
internazionale di Taejon nel ’93. Fu in
quell’occasione che conobbi il signor Kinomiya.
Qualche anno dopo
mi contattò di nuovo, dicendosi pronto a finanziare
interamente la mia ricerca, a condizione che accettassi di entrare nel Progetto
Rebuild.
Corruppe mezzo
regime per convincerli a lasciarmi andare, di modo che potessi essere assunto a
tutti gli effetti nelle Industrie Kinomiya, e appena
seppi in che modo aveva intenzione di sfruttare i nanorobot promisi a me stesso
di dedicare la vita, se necessario, allo sviluppo della ricerca.
Quell’uomo era un
santo. Era disposto a fare qualsiasi cosa per salvare la figlia.»
«Sì, lo so.»
rispose Rock a sguardo basso «Anche io l’ho
conosciuto. Quindi anche tu… sei qui per vendicarti?»
«E
non sono il solo. Hai idea di quante persone siano state rovinate dall’attacco
alla Seaborn Star?
Kyuzo ha decisamente ragione, questo mondo è diventato così marcio da
non poter continuare a vivere. Se non fosse stato per lui, che ha recuperato i
cocci del progetto dopo che questo era stato cancellato, tutti quelli che ne
avevano fatto l’unica ragione di vita si sarebbero
ritrovati in mezzo alla strada.
Per questo noi lo
seguiremo fino alla fine. Fino alla morte, se sarà
necessario».
Pochi istanti dopo
la porta si aprì nuovamente, e questa volta entrarono Kyuzo e Steven,
accompagnati da un uomo grassoccio dalla buffa capigliatura rossiccia.
«Kaito!»
«Ah Okajima, ben alzato.»
«Ehilà, giapponesino.» disse Steven sorridendogli «Dormito bene?»
«Che
cosa… che significa tutto questo? Dove ci troviamo?».
A quella domanda
Kyuzo fece un cenno a Hibraim, che pigiando un
bottone della consolle attivò il satellite privato delle IndustieKinomiya in orbita attorno alla Terra. Due secondi
dopo, su uno dei monitor della stanza comparve una panoramica del sud-est
asiatico che andava dal Vietnam a Singapore che si fece via via
sempre più dettagliata: dapprima fu inquadrato il nord della Thailandia, poi la
città di Bangkok, e infine un grande complesso di quattro edifici disposti a
rombo all’interno di un giardino quadrangolare.
Rock lo riconobbe
subito, avendolo visto in televisione solo poche ore prima.
«Ma…
è l’Hotel Universe! Volete dire che noi…»
«In questo
momento» lo interruppe Steven «Ci troviamo cinquanta
metri sottoterra, al secondo dei cinque livelli sotterranei. Da qui è possibile
monitorare tutte le videocamere posizionate in ogni
angolo dell’edificio, e abbiamo il controllo di tutte le sue apparecchiature,
dagli sciacquoni dei bagni alle porte degli ascensori.»
«Ma
perché? A che scopo realizzare tutto questo?»
«Lo saprai molto
presto.» rispose Kyuzo, che poi diede uno sguardo al suo orologio «Quindici minuti alle ventidue. Ci siamo quasi.»
«L’anestetico
dovrebbe cessare i suoi effetti entro pochi minuti.» disse l’uomo grassoccio,
probabilmente un dottore
«Molto
bene. Hibraim, metti i giocatori sugli schermi.»
«Subito».
I vari monitor si
accesero tutti insieme, e fu allora che sul volto di
Rock si materializzarono stupore e sgomento; in ognuno di quegli schermi era
riflessa l’immagine di una persona che aveva incontrato nel corso degli ultimi
due anni.
Da Balalaika a Mr.Chang, da sorella Yolanda a sorella Eda, da Shenhua al capitano Watsup, e
naturalmente i membri della Lagoon Company. C’erano tutti, ognuno
apparentemente in un luogo diverso, dalle terrazze, alle piscine, alle stanze
da letto, tutti immersi nel sonno.
Vi erano però
anche molte facce sconosciute, che Rock non aveva mai visto, provenienti, a
giudicare dal loro aspetto, da tutte le parti del mondo; questi, a differenza
degli altri, erano ben svegli, e molti di loro erano intenti a controllare le
proprie armi come se si stessero preparando ad una
battaglia.
«Ma
cosa… che cosa significa? Che cos’hai in mente di fare?»
«Abbi
ancora un attimo di pazienza. Tra poco tutto ti apparirà chiaro».
Qualche minuto dopo Revy riaprì gli occhi, e la prima cosa
che sentì fu un tremendo mal di testa.
«Ma cosa… che cazzo è successo?».
Quando si ricordò
di quello che era successo in strada immediatamente
scattò in piedi e si guardò intorno.
Era distesa su di
un morbido letto all’interno di una stanza che definire lussuosa
era poco, con pareti che sembravano fatte d’oro, la moquette rosso
acceso e mobili in legno pregiato degni di un palazzo reale, fra i quali un
grande armadio con grandi specchi a fare da ante scorrevoli.
Ancora mezza
intontita dall’effetto del sonnifero si alzò in piedi, ma barcollava così vistosamente che dovette appoggiarsi alla parete per evitare
di cadere.
Camminando
lentamente, come se stesse portando uno zaino pieno di mattoni, aprì la prima
porta che trovò sulla sua strada, finendo, come previsto, nel bagno, anch’esso
incredibilmente lussuoso e sfavillante.
Aprì i rubinetti,
e non appena l’acqua fredda bagnò la sua mano se ne gettò subito una gran
quantità in faccia, liberandosi finalmente da quella terribile sensazione.
Ritornata nella stanza cercò di aprire quella che sapeva essere la porta
d’ingresso, ma era chiusa a chiave, e non avendo alcuna fessura dove inserirne
una Revy dedusse che doveva trattarsi di una serratura elettronica, di quelle
che non forzeresti neanche a provarci cent’anni.
Corse quindi a
spalancare le tende della finestra accanto al letto, ma appena guardò oltre non
pensò nemmeno di saltare. Come minimo, infatti, si trovava al decimo piano del
palazzo in cui era stata rinchiusa, e la fantastica vista di Bangkok illuminata
da milioni di luci non era certo sufficiente a sollevarle il morale.
Affitta, si girò
nuovamente, accorgendosi solo in quel momento che sopra il tavolino al centro
della stanza erano appoggiate le sue pistole, assieme ad una decina di
caricatori tutti pieni fino all’orlo.
«Beh, almeno sono
in compagnia.» disse raccogliendole.
Nel riporle nel
fodero, si avvide anche della presenza di uno strano orologio al polso
sinistro; era un modello elettronico, ma invece
dell’ora riportava solamente un numero, per la precisione un 100.
«E questo che
diavolo è?».
Assieme a lei,
poco dopo, si risvegliarono anche tutte le altre persone all’interno
dell’albergo, fra i quali Dutch, ritrovatosi in una
specie di sgabuzzino, e Benny, che invece era finito in uno spogliatoio.
Al loro risveglio
seguì un suono stridente, come quello di un microfono, e subito dopo udirono
una voce che a molti risultò subito famigliare.
«Benvenuti
a tutti. Spero che la dormita sia stata di vostro gradimento, e vi prego di
scusarmi se per avvicinarvi sono stato costretto a ricorrere a sistemi…
discutibili».
Revy, alzando lo
sguardo, si accorse della presenza, sul soffitto, di una microcamera, protetta
da una piccola cupola di vetro sicuramente antiproiettile. I microfoni invece
dovevano essere piazzati in varie parti della stanza, perché la voce di Kyuzo
sembrava provenire da ogni angolazione.
«Tu, brutto
stronzo!» gridò verso la telecamera «Si può sapere che cazzo vuoi da noi?»
«Oggi» rispose il
giovane come se non l’avesse sentita, cosa probabilmente vera «Siete stati
tutti invitati a prendere parte ad un gioco. Un gioco
molto speciale.»
«Un… gioco!?».
Sotto alla telecamera a quel punto si accese una piccola luce
verde, e un istante dopo al centro della stanza comparve una specie di schermo
olografico che sembrava uscito da un film di Lucas.
«L’ho chiamato, Death Game».
Non solo Revy, ma
anche tutte le altre persone videro materializzarsi lo stesso schermo, sul
quale presero a scorrere immagini dell’hotel.
«Per tutti quelli
che non ne sono ancora al corrente, immagino sia il
caso di fare una veloce panoramica del regolamento. In questo momento vi
trovate all’interno dell’esclusivo Hotel Universe,
alla periferia di Bangkok. L’albergo è costituito da quindici piani, e questi
quindici piani, uniti al tetto e al primo livello dei
sotterranei, costituiscono la griglia di gioco, una griglia che vi sconsiglio
caldamente di oltrepassare.
All’interno dei
vostri corpi infatti sono state inserite delle micro-cariche di esplosivo ad alto potenziale, i cui
detonatori sono collegati ad un computer centrale».
Quell’ultima parte
fece gelare il sangue a molti, inclusi i membri della Lagoon, che subito
cominciarono a guardarsi il in ogni parte in cerca di una cicatrice, o di un
qualche segno che potesse confermare la veridicità di quella minaccia.
«In
questo momento sicuramente molti di voi saranno alla ricerca di tracce, ma mi
dispiace dirvi che non ne troverete. Per l’impianto è stato utilizzato un
rivoluzionario apparecchio al laser, in grado di effettuare
incisioni senza lasciare il minimo segno del proprio passaggio».
Era troppo anche
per mafiosi e altra gentaglia abituata ad uccidere, ed
infatti un uomo di Mr.Chang, colto dal panico,
cominciò a correre su e giù per la stanza in cui si trovava.
«No!
Non voglio morire!».
Con la forza della
disperazione si buttò dalla finestra, ma prima ancora di poter precipitare
sulla strada sottostante sentì un bip all’interno del
proprio corpo, e subito dopo esplose con una potenza tale che non rimasero
nemmeno le briciole.
Revy e gli altri
assistettero alla scena dagli schermi olografici, e nel vederla furono in molti
a venire presi da un cupo terrore.
«Questa
era una dimostrazione. L’intero albergo è avvolto in un campo elettromagnetico
generato dal computer. Se i detonatori escono dal suo raggio di azione si attivano automaticamente, e i risultati li avete
appena visti.
Comunque state
tranquilli, il vostro destino non è segnato.
Questo è un gioco,
e come tutti sanno un gioco ha sempre una soluzione. Vi invito a guardare i vostri trasmettitori da polso».
Revy, che mai
aveva provato una paura simile, obbedì: il numero sul quadrante era cambiato,
dal 100 si era passati al 99.
«I
trasmettitori emettono un segnale che può essere captato da tutti gli altri.
Oltre al venire distrutti dall’esplosione, sono in grado di percepire il battito
cardiaco, e una volta che il battito si arresta
cessano di funzionare. In altre parole, vi sarà
sufficiente uno sguardo per sapere quanti concorrenti sono ancora rimasti in
gioco.
Nel momento in cui
ne sarà rimasto solo uno il suo detonatore si disattiverà,
e la porta d’ingresso nella hall dell’albergo si aprirà.
A questo punto,
immagino che lo scopo finale del gioco sia chiaro: l’obiettivo finale è
rimanere gli unici concorrenti in gara, perché solo così si potrà
uscire indenni dalla griglia di gioco.
Il vincitore,
oltre alla vita, si porterà a casa anche il premio in palio, un assegno da
trenta milioni di dollari».
Ora era chiaro.
Un massacro, una
mattanza.
Ecco quello che
Kyuzo aveva in mente per la sua vendetta.
Ecco come
intendeva fare in modo che i membri della Lagoon arrivassero ad
uccidersi fra di loro; in quella specie di perverso gioco della morte c’era
spazio per un solo vincitore, per questo Revy e gli altri, volenti o nolenti,
sarebbero stati costretti a considerarsi rivali, ad attentare alla vita l’uno
dell’altro, se volevano sperare di potare a casa la pelle.
Le reazioni dei
tre amici coinvolti nel gioco furono diverse per ognuno: Benny avrebbe voluto
piangere, Dutch digrignò i denti battendo i pugni sul muro, sentendosi come un
topo in gabbia, Revy invece si sentiva come se qualcuno la
stesse stringendo con forza nella propria mano, una sensazione terribile
che la spaventava e, contemporaneamente, la faceva infuriare.
«Che tu sia
maledetto!» urlò sparando contro la videocamera, ma come era
prevedibile il vetro antiproiettile respinse tutti i colpi.
«A
parte il non poter lasciare la griglia di gioco, non vi è nessuna regola
specifica. Potete scegliere la strategia che più vi soddisfa, e ricorrere ai
metodi che riterrete più opportuni. Ognuno di voi ha con sé la propria arma, ma
ce ne sono altre disseminate qua e là per l’albergo, e indubbiamente riuscire
ad accaparrarvele costituirà un vantaggio.
Per finire, una raccomandazione riguardo al tempo di gioco. La
batteria del computer che alimenta il campo magnetico è limitata, e durerà al massimo otto ore. Se entro queste otto ore non ci
sarà un vincitore il campo collasserà, e i detonatori
di conseguenza si attiveranno.
Bene, ora che vi
ho detto tutto, la partita più avere inizio!».
GAME START!
Nota dell’autore.
Salve a tutti.
Scusate questa ennesima assenza prolungata, ma dovendo portare avanti due
fiction nello stesso momento si finisce per far prevalere sempre una o l’altra,
con il rischio di rimanere indietro.
Cercherò di
aggiornare in tempi più convenienti nei prossimi giorni, lo prometto
Ringrazio come al solito Beat, Gufu_tave, Selly e Spectre per le
recensioni.
Non appena la serratura elettrica scattò, Revy spalancò
immediatamente la porta e cominciò a correre lungo il corridoio costellato di
porte; non importava dove andava, non sapeva nemmeno
quali fossero le sue reali intenzioni, sapeva solo che se fosse rimasta ferma
avrebbe finito con l’impazzire.
Avrebbe
voluto andarsene, uscire da quell’incubo, ma dentro di sé sapeva di non
esserne in grado, sapeva di essere stata imprigionata in una trappola senza
uscita, da cui poteva salvarsi unicamente stando alle regole.
Ma
cosa avrebbe fatto se si fosse trovata davanti Dutch, o Benny, o la sua sorellona?
Non voleva
pensarci, per nessun motivo.
Per il momento, si
diceva, doveva preoccuparsi di fare la cosa che le riusciva meglio: sparare.
A tutto il resto
ci avrebbe pensato poi. Per non parlare della soddisfazione che voleva
prendersi piantando qualche palla in testa a quello psicotico figlio di puttana
che li aveva chiusi lì dentro come tanti topi da laboratorio.
Gliel’avrebbe fatta pagare, oh se gliel’avrebbe fatta pagare, e nel modo
più atroce possibile.
Il suo primo
avversario fu un omuncolo da poco uscito da un’altra stanza, e difatti se ne
liberò con un solo colpo ben piazzato prima ancora che questo si accorgesse di
lei, quindi, fatti pochi passi, raggiunse gli ascensori, posti
di fronte alla maestosa scalinata a doppia rampa che scendeva sempre più
fino al pianterreno.
Revy fece per
prendere le scale, ma appena sentì degli spari poco più sotto decise che era
più prudente optare per gli ascensori.
Il bottone per la
chiamata metteva in moto la cabina libera più vicina fra le quattro
disponibili, e a giudicare dai led luminosi la prescelta era
la prima da sinistra; TwoHands,
dopo essersi accertata di non avere nessuno intorno, e stando sempre pronta a
fulminare chiunque le si sarebbe presentato davanti, si mise in attesa.
Tuttavia, quando
mancavano solo un paio di piani, fu colta da un leggero quanto allarmante sospetto, e subito si appiattì contro i battenti
accanto all’ascensore prestabilito.
Passarono alcuni
secondi, e non appena le porte si aprirono da dentro la cabina partì una
spaventosa raffica di mitragliatrice sparata da uno Spectre
che fortunatamente andò a vuoto.
Il colombiano che
la impugnava, stupito dal non vedere nessuno, smise di sparare quasi subito.
«Ma cosa…».
Revy comparve
allora da dietro i battenti con la pistola destra sollevata.
«Bel tentativo,
stronzo.» disse facendogli un terzo occhio in mezzo alla fronte.
Non appena quello
stupido fu a terra in un lago di sangue, alla ragazza venne quasi da ridere.
Il vecchio trucco
dell’ascensore; se fosse esistito un manuale del perfetto killer, sarebbe stato
sicuramente a pagina uno, o forse alla voce “cose da
non fare”.
Era stato
inventato dai sicari della mafia ancora negli anni ’30, quando i capi di Cosa
Nostra e delle altre grandi famiglie italo-americane frequentavano i lussuosi
alberghi di Manhattan piuttosto che le fogne del Bronx.
I killer entravano
nell’albergo spacciandosi per clienti comuni, salivano sull’unico ascensore che
veniva lasciato in funzione e aspettavano; se qualcun
altro entrava facevano finta di niente, ma appena le porte si aprivano sull’obiettivo
e sul suo seguito, ecco che dall’impermeabile spuntava un Thompson che veniva
svuotato in pochi secondi.
Molti famosi boss
erano stati spediti al creatore con questo sistema, approfittando di uno di
quei rarissimi momenti in cui non si immaginerebbe mai
di trovarsi a tu per tu con la canna di un mitra.
Revy pigiò il
primo bottone che le capitò sotto mano, quello del primo piano, e l’ascensore
incominciò a scendere.
Era quasi arrivata
a destinazione, quando un nuovo dubbio la colse: in fin dei conti, il trucco
dell’ascensore poteva funzionare anche al contrario. Subito prese a guardarsi intorno,
e appena vide una botola sul soffitto che poteva essere aperta
immediatamente la sfondò a suon di pallottole, salendoci subito e
mettendosi al sicuro sul tetto dell’ascensore proprio quando questo si stava
fermando.
E difatti, il
trucco ci stava tutto, solo che stavolta invece di una scarica di mitra arrivò
una raffica di pallettoni, che ancora una volta andarono a vuoto, e sfruttando
il riflesso degli specchi dell’ascensore, o di quel che ne restava, Revy fece
sporgere il suo braccio e rispose al fuoco con un terzo, micidiale colpo in
testa.
A causa dell’effetto dell’anestetico, ulteriormente
accentuato dal suo fisico non molto sviluppato e dalla grande quantità che gli era stata iniettata, Rock era continuamente soggetto ad
uno stato di dormiveglia che lo portava a svegliarsi e addormentarsi abbastanza
spesso.
Avrebbe
voluto rimanere cosciente, avrebbe voluto fare qualcosa per aiutare i
suoi compagni, ma l’essere ammanettato ad una sedia e quel continuo andare e
venire fra la realtà e il mondo dei sogni lo rendevano del tutto impotente, e
la cosa lo faceva stare male.
Come se non
bastasse, ogni volta che si addormentava non riusciva
a non sognare, o quanto meno ad intravedere, Harue,
in tutti quei momenti che avevano trascorso insieme.
Allora, Kaito era molto diverso: era generoso, altruista,
affidabile.
Il ritratto di suo
padre, di cui un giorno avrebbe preso il posto; era
solito ripetere che una volta divenuto responsabile dell’impero di famiglia
avrebbe fatto l’impossibile per adoperarsi contro le brutture del mondo, e i
mezzi per farlo li aveva tutti.
Le Industrie Kinomiya avevano denaro, potere e il favore dell’opinione
pubblica, controllavano direttamente o indirettamente le maggiori
multinazionali dei cinque continenti, avrebbero potuto muovere le fila del
mondo in tutta tranquillità.
Era sempre stato
il sogno del signor Kinomiya, cresciuto nella povertà
e nelle difficoltà dell’immediato dopoguerra, quello di trasformare la Terra in un posto migliore,
dove il male fosse perseguitato in ogni sua forma, indipendentemente da chi lo
esercitava, fosse un borseggiatore da strada o il presidente di una nazione, ed
era anche il suo.
Ma
cosa rimaneva di quel Kaito, quello che aveva
insegnato a Rock ad apprezzare e amare la giustizia?
Nulla più di un
assassino fanatico, molto simile agli altri che aveva conosciuto da quando era
entrato nella Lagoon, ma estremamente più pericoloso.
La sola cosa che gli interessava era la vendetta, e pur di ottenerla aveva dato vita ad un perverso gioco al massacro che avrebbe
spinto gli autori del suo dolore ad uccidersi tra di loro. Tuttavia,
analizzando la situazione con maggior riguardo, si poteva intravedere anche
qualcosa di più della semplice vendetta.
Prendere i
peggiori criminali del mondo, rinchiuderli in una trappola mortale in cui non erano nulla più che uomini comuni, era una chiara e precisa
ostentazione di forza, che nel corso degli anni avrebbe dovuto spaventare e
incutere soggezione in chiunque si fosse incamminato sulla stessa strada.
Quando tornò in sé
per la terza volta, Rock vide qualcosa che lo lasciò senza fiato, e che per un
attimo gli fece ritenere di stare ancora sognando.
La stanza di
controllo era nuovamente vuota, c’era solo Steven, seduto alla consolle; aveva
in mano un cacciavite, e ciò su cui stava lavorando era… la sua gamba!
La gamba sinistra,
accavallata sulla destra, era di metallo dal ginocchio in giù, una protesi mai
vista prima, molto più complessa e sofisticata di
quelle che si vedevano comunemente in giro; ricalcava in tutto e per tutto le
fattezze di un arto convenzionale, con tanto di piede completamente
articolabile.
Steven, accortosi
che Rock lo guardava come fosse un fantasma, sorrise.
«Bella,
vero? Purtroppo devo farci una continua manutenzione.»
«Ma quella… quello… che cos’è?»
«Industrie Kinomiya, programma recupero disabili.
Funziona sfruttando la carica elettrica del sistema nervoso, e si avvale di un
computer centrale alimentato a batteria per svolgere le funzioni di un arto
convenzionale.»
«Io…
non ne avevo mai sentito parlare. È stupefacente.»
«Un
amico del signor Kinomiya aveva perso le gambe
nell’11 settembre a causa del crollo di una parete. Il progetto era in cantiere
già da qualche anno, e questo ha fornito la scusa buona per portare avanti la
ricerca.»
«È grazie a quella
che eri così veloce nei movimenti l’altra sera?»
«Indovinato.
Sono di titanio, estremamente leggere, ma abbastanza
potenti e sofisticate da consentire prestazioni che vanno ben al di là persino
di quelle di un campione olimpionico.»
«Ma… perché non
l’hanno messa in produzione?»
«I signori del
consiglio e i soci finanziato hanno ritenuto che
permettere a un disabile di camminare di nuovo non valeva mezzo milione di
dollari.
Non che gliene
faccia una colpa. Si stima che al momento vi siano
almeno quasi un milione di amputati nel mondo, fai tu il calcolo.
Le Industrie Kinomiya sono ricche e potenti, ma a tutto c’è un limite».
Seguì un
raggelante silenzio, poi Rock abbassò lo sguardo.
«Com’è successo?».
Steven si
accigliò, nascondendo a stento una smorfia di disgusto.
«Erano
state le Compagnie Hankfield a costruire la Seaborn Star.
Quella nave era il
fiore all’occhiello dei nostri cantieri navali, aveva il sistema di navigazione
e i motori più sofisticati che si fossero mai visti a
memoria d’uomo. Una Queen Mary III, anzi meglio.
Mio padre era un
appassionato di meccanica, e io ancor più di lui.
La sera della
festa, la sala macchine segnalò un guasto tecnico ad
uno dei motori, quindi io e mio padre andammo controllare per capire cosa fosse
successo.
Il motore in
questione era stato sabotato, il sistema di raffreddamento non funzionava, si è
surriscaldato e prima che potessimo fare qualcosa ci è
esploso in faccia».
Il giovane a quel
punto si sollevò anche l’altro cavallo dei calzoni; anche la gamba destra era
una protesi, esattamente come la sinistra.
«Io me la cavai con l’amputazione di entrambe le gambe e
l’asportazione di parte del fegato a causa di una scheggia. Mio padre non ebbe
la stessa fortuna. Quando lo portarono a terra, fu necessario analizzare
l’impronta dentale per riconoscerlo; l’esplosione lo aveva colpito in pieno, riducendolo
ad un legno bruciato».
Rock non riuscì a
fare a meno di guardare a terra, non ce la faceva a guardare negli occhi Steven
senza sentirsi un verme.
«Queste gambe che vedi me le ha date Kaito, ha
pagato di tasca propria la realizzazione di due protesi su misura per me, e mi
ha preso con sé dopo che l’incidente della Seaborn
Star ha portato al fallimento la nostra compagnia. Darò
la vita se necessario per difenderlo, e per estirpare per sempre il marcio di
questo mondo.»
«La vendetta non
servirà a ridarti gli affetti persi.» sussurrò Rock senza però riuscire ad
alzare gli occhi
«Hai
ragione. Però mi farà sentire meglio. Non posso
tollerare l’idea che i responsabili della distruzione della mia famiglia se ne
vadano in giro come se niente fosse. E comunque» disse nascondendo di nuovo le
sue menomazioni e infilandosi le scarpe «La mia sorte è sempre meno terribile di
quella a cui è destinato Kaito».
Nel sentire
quell’affermazione, Rock ebbe come un mancamento.
«Di
che stai parlando? A che sorte è destinato Kaito?».
Steven aprì allora
una valigetta appoggiata ai piedi della console e ne cavò fuori un’ampolla di
liquido rosso che mostrò al prigioniero.
«Tu sai cosa è
questo?».
Rock ovviamente
fece cenno di no.
«Questa
è l’unica cosa che abbia tenuto in vita Kaito negli
ultimi quattro anni. È un acido. Un acido in grado di distruggere le cellule
robotiche.»
«Le cellule
robotiche?!Ma… non sono
quelle che lo rendono così potente? Perché distruggere la fonte del suo potere?»
«Per via del loro
grande difetto.»
«Un… difetto?»
«I nanorobot sono
come le cellule del corpo, replicano sé stessi in base
alla matrice originaria. L’unico problema è che si replicano all’infinito,
senza sosta.»
«Senza sosta!? Vuol dire che…»
«Esatto.
Vuol dire che se venissero lasciati liberi di
replicarsi finirebbero con l’intasare il corpo del loro ospite. Kaito quindi è costretto ad
iniettarsi questo acido regolarmente per contenere la loro proliferazione e
tenerli sotto controllo. Sfortunatamente, questa strada sta per sfociare in un
vicolo ceco.»
«Perché?»
«Perché
i nanorobot sono in fin dei conti delle intelligenze artificiali. Imparano
dall’esperienza, adattando la propria struttura a seconda
della situazione. Con l’andare del tempo, hanno cominciato a sviluppare
resistenza all’acido, tanto che si è reso necessario
aumentare costantemente la dose di ogni singola iniezione per renderlo
efficace. E aumenta oggi aumenta domani, è stata
raggiunta la soglia critica.»
«Che intendi per
soglia critica?»
«Intendo
dire che sono diventati così resistenti che l’acido ormai è quasi del tutto
inefficace. Il processo di replicazione è diventato inarrestabile, e dal momento che i nanorobot necessitano di energia per
sopravvivere stanno sopperendo alla mancanza di fonti di approvvigionamento
procurandosi quanto necessario alla replicazione direttamente dal corpo di Kaito, attaccando le cellule per assorbirne il nutrimento».
Rock sentì il
cuore fermarglisi per un istante quando capì a quale destino si stava riferendo Steven.
«Quei nanorobot…»
balbettò «Si sono trasformati… in un virus.»
«Un
virus letale e inarrestabile. A questa velocità gli restano quattro, massimo cinque giorni prima che i suoi vasi sanguigni
vengano del tutto ostruiti dalla loro continua moltiplicazione. Il sangue
smetterà di circolare, andrà prima in crisi respiratoria poi in arresto
cardiaco, e infine morirà. Non gli resta alcuna speranza, e lui lo sa.»
«Lo sa!? Ma allora… lo sapeva anche prima di iniettarseli!?»
«Certo che lo
sapeva.»
«E tutto questo…»
sussurrò Rock come tra sé «Solo per vendicarsi».
Seguì un silenzio
raggelante, carico di dolore, poi la porta si aprì nuovamente, e fu proprio lui
ad entrare.
«Steven.
Come procede?»
«Alla
perfezione. In venti sono già stati eliminati, ma i membri della Lagoon per ora
sono tutti vivi.»
«Perfetto.
Tra poco Ashford verrà a darti il cambio, così potrai
riposarti un po’.»
«Ok, grazie».
Kyuzo guardò
quindi Rock, e ad un suo cenno le manette che lo
imprigionavano si sciolsero, liberandolo.
«Porto
Okagima a fare un giro nei sotterranei. Avvertimi se
c’è bisogno di qualcosa.»
«D’accordo, va’ pure».
Rock, anche se titubante e ancora visibilmente
scosso per ciò che aveva sentito, accettò di seguire nuovamente il suo amico;
appena lasciata la stanza, si ritrovarono in un corridoio che sembrava quello
di una nave spaziale, illuminato a giorno da lampade installate sia sul
soffitto che sul pavimento.
Senza fiatare, e
stando sempre uno dietro l’altro, percorsero il corridoio fino a raggiungere un
ascensore che, sopra al pulsante di chiamata, aveva un piccolo schermo per la
lettura delle impronte digitali. Kyuzo vi appoggiò il pollice, e immediatamente
le porte si aprirono.
«Questo ascensore è l’unico collegamento con la superficie e
gli altri livelli dei sotterranei.» disse mentre la cabina cominciava a
scendere «È utilizzabile solo con il riconoscimento delle impronte, le uniche
registrate sono le mie e quelle dei miei compagni».
Quel discorso
aveva in sé, ovviamente, un ammonimento che invitava Rock a non tentare in
alcun modo la fuga, e da ciò si desumeva che, probabilmente, da quel momento in
poi non sarebbe più stato soggetto ad alcun tipo di costrizione fisica come
avvenuto fino a quel momento, e la cosa se non altro gli arrecò un certo
sollievo.
In fin dei conti,
l’amicizia che lo aveva sempre legato a Kaito
esisteva ancora, e la prova di ciò era il fatto stesso di trovarsi in quei
sotterranei, piuttosto che all’interno dell’albergo coinvolto nel Death Game.
La discesa durò
quasi mezzo minuto, poi, quando finalmente si arrestò, e le porte si
riaprirono, a Rock si palesò una scena mai vista.
Se prima sembrava
di essere su un’astronave, ora invece l’ambiente ricordava quello di un sofisticato e avveniristico centro di ricerca.
Piccoli corridoi
completamente bianchi, illuminati a giorno come fossero alla luce del sole,
collegavano fra loro decine di stanze più o meno
grandi ben visibili dall’esterno grazie ad ampie vetrate attraverso le quali si
poteva osservare tranquillamente quello che avveniva all’interno, e a giudicare
dal particolare riflesso doveva trattarsi di specchi magici.
Per la maggior
parte erano laboratori di ricerca provvisti delle apparecchiature più
all’avanguardia, dai computer, alle celle di contenimento, ai macchinari
medici, ma c’erano anche alcune sale operatorie e persino delle camere sterili.
«È… è
incredibile.» disse Rock senza parole «Ma… che posto è questo!?»
«Il
quarto livello del mio nuovo centro di ricerca. Sorge a quasi centocinquanta
metri sotto la superficie, e ricopre un’area di svariati chilometri quadri
sotto le strade di Bangkok. Ci sono voluti quattro anni per costruirlo».
Entrarono in una
stanza, e Kyuzo attivò quello che aveva tutta l’aria di essere un generatore di
ologrammi tridimensionali, su cui si materializzò in pochi secondi una
proiezione dell’intera struttura.
«Il centro di
ricerca è strutturato su quattro livelli, collegati fra di
loro da diversi ascensori ma con uno solo a collegarli alla superficie. Il
primo livello, dove ci trovavamo fino a poco fa, ospita i sistemi di controllo
e di sorveglianza, tanto dell’albergo quanto del centro stesso.
Il secondo livello
è costituito da due blocchi, e vi si trovano gli alloggi di coloro
che verranno a lavorare qui, camere spaziose e confortevoli.
Il terzo livello è
riservato allo svago e al sostentamento della struttura: c’è
una cucina, una sala mensa, anche un cinema e una biblioteca.
Il quarto livello,
quello in cui ci troviamo ora, costituisce il cuore della struttura, quattro
blocchi di laboratori provvisti dei più moderni strumenti per la ricerca in
materia di medicina, informatica, meccanica e ingegneria.
Infine, il quinto
e ultimi livello è occupato dal complesso energetico indispensabile al
funzionamento dell’intera installazione.»
«Ma a che scopo costruire tutto questo?».
Kyuzo lo guardò coi suoi occhi gelidi.
«Quando il Death
Game giungerà al termine, sarà qui che riprenderanno le ricerche sul Progetto Rebuild».
Sentendo nominare
il Progetto Rebuild Rock non poté fare a meno di
rievocare le parole di Steven, e allora non riuscì a guardare il suo amico negl’occhi.
«Steven…» disse
quasi balbettando «Mi ha raccontato la storia dei
nanorobot. Di quello che stanno facendo al tuo corpo.»
«Dunque ora sai.» replicò Kyuzo con incredibile tranquillità
spegnendo il generatore di ologrammi «Purtroppo i nanorobot sviluppati da mio
padre rimanevano pur sempre un prototipo. Eravamo al corrente
di questo difetto, ma con tutti i soldi che la ricerca ci era già costata non
era stato possibile portarla avanti ulteriormente.
Per questo era
stato organizzato il party a bordo della Seaborn Star.
Avevamo bisogno di creare una cordata di soci finanziatori, e rendere pubbliche
le scoperte fatte fino a quel momento era sembrato il
modo più facile per ottenere nuovi fondi.»
«Perché lo hai fatto,Kaito? Perché l’hai fatto,
pur conoscendo ciò a cui andavi incontro?»
«Non è ovvio?»
rispose lui con malcelata ostilità «Per fargliela
pagare. Dopo quel giorno, non mi è più importato niente di nulla. Tutto ciò che
volevo era restituire il favore a coloro che avevano
distrutto la mia famiglia e la mia vita, strappandomi tutto ciò che avevo senza
la minima esitazione».
Rock fece una
nuova pausa, quasi a volersi capacitare di ciò che stava succedendo, a voler
convincere sé stesso che tutto ciò stava accadendo
veramente.
«Quindi…» disse
cercando di cambiare discorso «L’albergo non è altro che una copertura.»
«È
il modo più facile per coprire il continuo andirivieni di gente che ci sarà
quando il laboratorio diverrà operativo.
L’incidente della Seaborn Star mi ha aperto gli occhi. Da ora in avanti, nessuno
a parte chi vi prenderà effettivamente parte saprà della ripresa del Progetto Rebuild.»
«E
allora come hai trovato i soldi per costruire tutto questo? Se davvero il
progetto deve rimanere segreto, non credo che il consiglio di amministrazione
ne sia al corrente. D’altra parte però, questa
struttura sarà costata svariati miliardi di dollari.»
«Le
Industrie Kinomiya hanno finanziato solamente la
realizzazione dell’albergo. Il laboratorio l’ho finanziato io personalmente,
utilizzando i depositi a fondo perduto di proprietà esclusiva della mia
famiglia. Sfortunatamente, la realizzazione mi è costata più di quanto potessi
immaginare, e ormai quei depositi sono esauriti.»
«E allora come
riuscirai a mandare avanti il progetto?»
«Per ognuno dei
paesi in cui sono stato in questi quattro anni ho
stipulato una polizza sulla vita usando ogni volta un nome diverso. Alla mia
morte, oltre quaranta milioni di dollari confluiranno qui, e confido che
basteranno per sostenere la ricerca il tempo necessario a trovare un espediente
al problema dell’auto-replicazione. Inoltre avranno a disposizione il mio corpo
come base di partenza, il che dovrebbe facilitare di molto il lavoro.
E naturalmente, in
aggiunta, ci saranno anche gli introiti delle scommesse.»
«Delle… scommesse!?».
Si aprì allora un
nuovo schermo olografico accanto a loro su cui compariva quella che dava tutta
l’aria di essere una pagina internet.
Una sotto l’altra,
a file di tre, capeggiavano le fototessere di tutti i partecipanti al Death
Game, inclusi Revy e gli altri; sotto ogni foto c’erano una serie di dati e una
cifra intesa in dollari che continuava ad aggiornarsi; alcune foto, poi, erano
più scure delle altre, e in alto a destra si poteva leggere il numero di
persone ancora in gioco, che in quel momento erano 79;
infine, tramite un’icona specifica, era possibile selezionare una delle tante
videocamere sparse per l’albergo e osservare quello che succedeva in tempo
reale.
Rock rimase rigido
come una statua.
«Ecco, vedi?» gli
disse Kyuzo «Su questo sito si può conoscere in tempo
reale lo stato del torneo. Oltre a potersi collegare alle videocamere di
sorveglianza, è anche possibile effettuare delle
scommesse su uno o più giocatori. Ognuno di essi è quotato ad
un certo livello, chi vince si prende il malloppo, le quote perse invece vengono
a noi e andranno a finanziare il progetto».
Il giovane
impiegato giapponese sentì le ginocchia tremargli furiosamente, il respiro
corto e la fronte rigata dal sudore, e a quel punto non ci vide più.
«Kaito, ti rendi conto di quello che stai facendo?» urlò
prendendolo per il bavero «Stai giocando con la loro vita!»
«Non vedo cosa ci
sia di male.» rispose lui liberandosi senza difficoltà e senza cattiveria «In
fin dei conti, loro hanno giocato per tanto tempo con le vite degl’altri».
Atterrito, in
preda allo sconcerto, Rock osservò le foto dei suoi compagni, notando un’altra
cosa che lo lasciò interdetto.
«Ma… Revy è quotata dieci a uno!»
«Mi
sembra ovvio. Al Death Game partecipano sicari e killer di professione fra i
più letali del mondo. Per fissare le quote ci siamo basati sui loro trascorsi
nel mondo degli omicidi, ma potrebbero anche esserci sorprese impreviste».
In quella, in basso
a sinistra della pagina si accese un led luminoso che catturò l’attenzione di
entrambi.
«Guarda un po’»
disse Kyuzo «Sta per cominciare un incontro di classe A.»
«Classe… A?»
«Negli incontri di
Classe A vi è la partecipazione di due concorrenti le cui prestazioni risultano particolarmente elevate. I concorrenti vengono isolati, in modo da evitare intrusioni da parte di
estranei, e in questo particolare caso è anche possibile effettuare delle
scommesse sui singoli incontri.»
«E… chi sono i
partecipanti?»
«Ora controllo».
Kyuzo lavorò un
momento ad una tastiera lì vicino, anch’essa un
modello avveniristico fatta interamente in vetro provvista di touch-sistem invece che di pulsanti veri e propri, e
qualche istante dopo la pagina andò in sfondo, mettendo in primo piano le foto
di due partecipanti, una delle quali minacciò di provocare a Rock un tremendo
infarto.
«Pare proprio che
Revy non sia stata per nulla fortunata.» commentò Kyuzo non senza ironia «Il suo avversario è uno dei favoriti per la vittoria
finale. Michelle “Colombe” Madinier, l’Assassino
Illusionista».
Nello stesso momento, un uomo di Hotel Moskow
si era trovato coinvolto suo malgrado in una
sparatoria colossale, e nel tentativo di sfuggire a quella carneficina era
finito nella grande sala da pranzo del secondo piano.
Era una stanza di
proporzioni colossali, ma vi regnava un’atmosfera strana, come di funesto
presagio, ulteriormente accentuata dall’oscurità quasi totale, solo in parte
lenita dalla luce proveniente dalle grandi vetrate che ricoprivano un’intera
parete.
A differenza
dell’esterno, lì dentro non sembrava esserci alcun pericolo imminente; tutto
era quieto, tranquillo. Diverse decine di tavoli circolari apparecchiati di
tutto punto con tovaglie pregiate e stoviglie luccicanti formavano una sorta di
labirinto invisibile, o di intricato disegno, il
tavolo del buffet al centro della sala traboccava di ogni sorta di
prelibatezza, alcune delle quali già elegantemente disposti su piatti di
ceramica arricchita con rifiniture d’oro che attendevano solo di essere
raccolti.
Dopo essersi
chiuso la porta alle spalle, il mafioso si era messo alla ricerca di una
seconda uscita, ma tutto in quella sala appariva così calmo che per un attimo
volle considerare l’idea di stare lontano dall’inferno lì fuori per concedersi
un momento di riposo. Avvicinatosi al buffet, si avventò senza esitazioni su
qualsiasi cosa gli capitasse a tiro, anche per via del tremendo buco nello
stomaco che i postumi dell’anestetico gli avevano lasciato.
Stava addentando
una coscia di pollo, quando gli parve per un istante di sentire un rumore alle
sue spalle, come uno spiffero di vento, ma giratosi velocemente non vide nulla
di allarmante; non appena tornò a concentrarsi sulla
sua cena, però, lo sgomento lo colse: la coscia di pollo era sparita dal
piatto!
Com’era stato
possibile?
Era rimasto
voltato solo per un istante, chi o cosa aveva potuto prenderla e scomparire in
un lasso di tempo così breve?
Spaventato, cercò
qualche secondo una spiegazione nazionale, ma quando per la seconda volta
avvertì quello spiffero di vento mise immediatamente
mano alla sua pistola, puntandola davanti a sé come se avesse avuto il nemico
davanti agl’occhi.
Sentendosi osservato cominciò a camminare in mezzo ai tavoli, mentre i
nervi erano tesi allo spasimo e il cuore gli batteva all’impazzata.
D’un
tratto, qualcosa gli capitò in mezzo ai piedi, rischiando quasi di farlo
inciampare, e vedendo di che si trattava la paura si trasformò in terrore.
A sbarrargli la
strada era stato il cadavere di un cinese, riverso a terra sulla schiena in una
pozza di sangue, con la gola recisa e una stupenda rosa bianca puntata sulla
giacca, aspetto quest’ultimo che assolutamente non faceva parte dello stile
delle triadi.
Bastarono pochi
passi, ed ecco spuntare un nuovo cadavere, questa volta di un sudamericano, a
giudicare dall’abbronzatura e dai baffi folti, trattato allo stesso modo.
Fu allora che,
oltre allo spiffero di vento, il mafioso avvertì anche il suono agghiacciante
di una giovane risata; pazzo di terrore si girò verso quell’orrendo suono
sparando due colpi, ma la sola cosa che colpì fu il muro.
Qualche secondo
dopo, ecco sopraggiungere di nuovo quella risata, e di nuovo il russo sparò
nella direzione da cui proveniva, ma di nuovo furono colpi a vuoto.
Ormai
completamente preda della paura il mafioso cominciò a verso la seconda uscita,
ma nel momento in cui stava perraggiungerla dal nulla vide comparire
dinnanzi ad essa una indistinta e minacciosa figura scura che sembrava
indossare un lungo mantello; atterrito, le sparò addosso, ma non parve sortire
alcun effetto.
Cercò allora di
raggiungere la porta dalla quale era entrato, ma non fece in tempo a girarsi a
guardarla che la stessa figura era già lì a bloccarla.
Era come essere
prigioniero di un incubo, dovunque si voltasse lo vedeva comparire come un
fantasma, e senza rendersene conto si ritrovò a correre da una parte all’altra,
fino a che, sfinito, si ritrovò appoggiato al piccolo palcoscenico posto ad un’estremità della sala.
Terrorizzato come
non mai, si girò nuovamente a guardare verso i tavoli: l’ombra era sparita, e
ora lì dentro sembrava esserci solo lui.
Che fosse stata
solamente un’allucinazione?
Forse la paura e
la tensione provocate dal trovarsi coinvolto in un simile gioco al massacro gli
stava giocando dei brutti scherzi, ai quali neppure i
suoi nervi allenati sembravano in grado di reggere.
In quella, il
sipario alle sue spalle si scostò leggermente, e una mano guantata,
dopo avergli sfiorato la spalla, gli mise davanti agli occhi la carta da gioco
che stringeva fra il secondo ed il terzo dito.
Il sangue gli si
gelò nelle vene nello scorgere la figura di una morte scheletrica che stringeva
fra le sue mani ossute una falce insanguinata.
«J… Joker?!»
«Questo è il tuo
destino.» disse la medesima voce con un forte accento francese.
Subito dopo quella
stessa carta, fatta invece di freddo metallo, gli recise la gola coi suoi bordi affilati, e prima ancora di poter emettere un
qualunque gemito di agonia il mafioso cadde senza vita.
Pochi minuti dopo,
quando il silenzio era tornato a regnare, qualcun altro entrò nella sala, per
la precisione Revy, e alla ragazza non servì molto per individuare uno dei tre
cadaveri.
«Questa cosa non
mi piace per niente.» disse fra sé e sé percependo una presenza di qualcuno che
la fissava.
Poi,
all’improvviso, con un sincronismo pressoché perfetto, il sipario si sollevò e
si accese una lampada che illuminò a giorno una porzione del palcoscenico,
assieme a colui che c’era sotto.
Era giovane, molto
giovane, a giudicare dalla statura e dai capelli castani, ma era impossibile
vederlo in volto; indossava infatti una maschera di
ceramica bianca raffigurante una faccia sorridente, un sorriso malevolo, simile
ad un ghigno, di quelle che immagineresti addosso ai fantasmi.
Vestiva in modo
elegante e leggermente eccentrico, almeno quanto la sua maschera: eleganti
mocassini, calzoni e giacca bianchi, camicia azzurro chiaro,
cravattino rosso spento; portava anche un paio di pregiati guanti di velluto
sempre bianchi e un lungo mantello sorretto sulle spalle da una coppia di
spille d’argento a forma di giglio. Il mantello in particolare era molto
strano, bianco all’esterno e nero all’interno. Come ultimo, stringeva in mano
un lungo bastone di legno sormontato da un grosso pomo d’oro massiccio.
Revy, vedendolo
comparire, gli puntò immediatamente le pistole contro, ma a dispetto di quanto
sarebbe potuto accadere fino a poco tempo prima trovandosi di fronte un tipo
simile, la cosa non la fece ridere per nulla.
«Bonsoir, mademoiselle.» disse con
un reverenziale cenno del capo «Tu devi essere la famosa Revy.»
«Come lo sai?»
«Sono ben poche le
donne che prendono parte a questo gioco, e dalle informazioni in mio possesso
Revy è l’unica di esse a fare uso dello stile Two-Hands.»
«Mh, ne sai di cose per essere un francese mangia-lumache.»
«Il mio nome è
Michelle Madinier, ma se preferisci
puoi chiamarmi Colombe.»
«Colombe!?»
«La Colomba. Altrimenti
noto come l’Assassino Illusionista.»
«Illusionista?
Nel senso che ti illudi di saper uccidere qualcuno
quando in realtà non ne sei capace?»
«Au contrair, mademoiselleRevy. Mi chiamano l’Assassino Illusionista perché i miei
omicidi sono come degli spettacoli. L’omicidio in sé è un atto sublime, in cui
un uomo deve saper esprimere il meglio di sé e in cui ogni cosa deve essere nel
posto giusto.»
«Ma
fammi il piacere. Uccidere è uccidere, il sublime non c’entra nulla. Premi il
grilletto, ed è fatta.»
«Questo
è il classico discorso da infimo sicario che dimostra quanto poco sappiate voi
pezzenti della grandezza e della maestosità del nostro compito. Ma se sei così convinta che ciò che dici sia vero, allora
sparami».
Revy, già nervosa
di suo, prese a ringhiare come una bestia puntando una delle due pistole contro
Colombe, che rimase assolutamente immobile, ma esitò a sparare; c’era qualcosa
in quell’individuo che assolutamente non la convinceva.
«Chi è di scena,
inizia lo spettacolo.» sussurrò il francese piegando leggermente il capo.
Un istante dopo Two-Hands sparò, ma prima di poter essere colpito Colombe
scomparve in una nuvola di fumo, proprio come un vero prestigiatore.
«Ma cosa…».
Sgomenta, Revy
prese a guardarsi attorno, e con grande stupore vide comparire una decina di
Colombe tutti attorno a lei che la fissavano coi loro
sorrisi dipinti.
«Allora, non
dovevi spararmi?» disse uno di loro, anche se fu impossibile per Revy capire
quale fosse visto l’eco che regnava in quella sala.
«Maledetto,
crepa!».
La ragazza
cominciò a sparare in ogni direzione, ma tutte le volte che colpiva una copia
questa si rivelava per l’appunto solo una copia, e nessuna di loro si rivelò
essere il vero Colombe.
Mentre cercava di
darsi una possibile spiegazione per quell’assurdo fenomeno, Revy vide una
miriade di carte affilate come pugnali pioverle contro dal soffitto e cominciò
a correre in mezzo ai tavoli nel tentativo di evitarle. Corse per qualche
secondo, poi, buttatasi sopra un tavolo, con una mano lo ribaltò
agilmente, usandolo come uno scudo per parare alcune di quelle carte infernali
e nascondendosi dietro di esso.
A quel punto la
tempesta di carte si interruppe quasi subito, e appena
la ragazza si sporse per capire cosa stesse succedendo vide Colombe correrle
contro; senza esitazioni sparò due colpi ben piazzati, ma per l’ennesima volta
quella si rivelò essere solamente un’illusione.
Come pochi minuti
prima, un dubbio spaventoso si fece strada nella sua
mente, e voltatasi fece appena in tempo a vedere Colombe, quello reale, volarle
addosso saltando da uno dei lampadari appesi al soffitto.
Istintivamente saltò
all’indietro, ed allora vide il suo avversario
afferrare saldamente la cima del suo bastone con la mano destra, estraendo
quella che aveva tutta l’aria di essere una spada lunga e sottile abilmente camuffata.
La lama saettò
nell’aria, e quando Revy rialzò lo sguardo vide che
della sua pistola sinistra rimanevano solo il calcio e il grilletto; persino le
nocche dei suoi guanti erano state tagliate via, e se fosse stata solo un
pochino più lenta non se la sarebbe cavata con così poco.
«Ottimi riflessi, mademoiselle Revy.» disse Michelle rinfoderando la spada «Ammetto di essere sorpreso. Non è da tutti sopravvivere a
questa mia tecnica di attacco a sorpresa.»
«Fenomeni da
baraccone.» disse lei sforzandosi di mostrarsi sprezzante, cosa che non le
riusciva più bene come in passato
«Davvero?
E che mi dici di questo?».
Il francese fece
comparire nella mano un nuovo set di carte e le lanciò tutte
insieme contro Revy; il bello è che, incredibilmente, da cinque che
erano divennero cinquanta, una vera e propria tempesta di lame affilate, alcune
delle quali ferirono TwoHands
prima che potesse vederle, lasciandola inginocchiata e sanguinante.
«Sei
ancora convinta che basti sventolare una pistola per considerarsi dei veri
angeli della morte?
Come ti ho già
detto, l’omicidio deve essere assoluta perfezione e bellezza estetica,
altrimenti non è altro che una volgare ostentazione di bestialità.
Per secoli, fin
dalla guerra dei cent’anni, lo stile Colombe è passato di maestro in allievo, e
obbedendo alla regola che il primo di noi aveva scritto al termine del lungo
viaggio che lo aveva portato a padroneggiare le conoscenze più antiche e
recondite delle civiltà del passato, i miei predecessori hanno servito la Francia, liberandola da
tutti i suoi nemici.
È stato lo scopo
di ognuno di noi, la nostra ragione di vita, ed era anche la mia.
Purtroppo i tempi
sono cambiati, e ormai siamo arrivati al punto in cui Colombe non ha più
ragione di esistere.
È destino di ogni grande leggenda nascere,
proliferare, ed infine morire, è quella di Colombe è
giunta ormai alla fine.
Perciò ho
accettato di prendere parte a questo gioco. Il Death Game rimarrà per sempre il
simbolo dell’ultima, grande impresa dell’Assassino Illusionista, l’ultimo atto
del suo lunghissimo spettacolo».
Revy però, come era sua abitudine, non prestava la minima attenzione al
monologo del suo avversario; l’unica cosa che le premeva era cercare una
soluzione che potesse aiutarla ad uscire da quell’impiccio, e riflettendoci con
calma, approfittando di quella pausa, pensò di averla trovata.
Afferrato un
vassoio da un tavolo lo lanciò come un frisbee verso
Michelle con tutte le sue forze; questi si protesse riparandosi dietro il suo
mantello e usandolo come una rete da pesca nella quale intrappolare la
minaccia, ma quando tornò a concentrarsi sulla sua avversaria si ritrovò la
canna della pistola appoggiata sulla fronte della maschera.
«Mi spiace, francesino, ma stavolta i tuoi trucchi non ti serviranno ad evitarti una palla in testa».
Colombe però non sembrava per nulla intimorito; anzi, da sotto quel sorriso
giunse una risata divertita.
«Ne sei sicura?».
Prima che Revy
potesse rendersene conto dalla manica del suo avversario
scivolò fuori una pallina giallastra che toccata terra produsse un’esplosione
di fumo, probabilmente gas lacrimogeno.
«Ma che diavolo…» imprecò Two-Hands
sparando a casaccio.
Uno dei proiettili
centrò in pieno una finestra mandandola in frantumi, e contribuendo a ripulire
un po’ l’aria, ma ormai il danno era fatto; Michelle era sparito
nuovamente, e Revy era completamente ceca.
Cosa
poteva fare ora?
Mentre se lo
domandava, rimanendo immobile al centro della stanza, uno strano odore le
attraversò le narici; era un odore buonissimo, di fiori freschi, e poco dopo
avvertì anche una grande quantità di oggetti non ben definiti, probabilmente
petali, che le sfioravano la pelle piovendo dal soffitto.
«Una pioggia di
petali di rosa.» disse la voce echeggiante di Colombe «Un dono per le vittime,
una promessa per il paradiso».
Michelle, nel più estremo silenzio, ricomparve alle spalle di Revy non
appena la pioggia si interruppe; aveva già la spada in mano, e si preparava a
vibrare il colpo di grazia.
Mosse un passo,
poi un altro, e intanto Two-Hands continuava a
restare immobile, come se stesse aspettando di essere finita una volta per
sempre.
Alla fine, quando
le fu a meno di un metro, alzò il braccio, respirò un istante quindi la lama
prese a viaggiare; un colpo orizzontale, atto a decapitare, morte istantanea e
senza dolore.
Revy si abbassò, e
quando ancora Michelle cercava di riprendersi per aver colpito a vuoto la
ragazza girò su sé stessa e gli rifilò un tremendo
colpo di nocche che lo fece finire seduto per terra; la sua maschera, segnata
da una crepa per la prima volta in sette secoli, cadde sulla moquette, mettendo
a nudo il volto di un giovane bellissimo, con grandi occhi azzurri, ma con la
fronte segnata da un piccolo taglietto da cui usciva un filo di sangue.
«Ma… ma come… come hai fatto?»
«Per
essere uno che si auto-definisce un assassino infallibile, sei piuttosto
ingenuo. Credevi davvero che la vista fosse il mio solo strumento di
percezione? Anche se ora sono ceca, posso percepire senza alcuna difficoltà dove ti trovi, forse anche meglio di quando
vedevo».
Revy nuovamente
gli puntò contro la pistola.
«E adesso, francesino, vattene pure all’inferno».
Prima che potesse
sparare, però, Colombe le lanciò contro la rosa che intendeva destinare alla
sua nuova vittima, e nel tempo che Two-Hands impiegò ad evitarla lui si era già rimesso in piedi.
«Non è ancora
finita!».
Con un salto
acrobatico raggiunse un lampadario, e prima ancora di esserci sopra lanciò una
nuova tempesta di carte, ma incredibilmente stavolta Revy non si mosse; invece,
sollevata la pistola, sparò cinque colpi in rapida successione, colpendo
altrettanti bersagli, che finirono in frantumi. Le altre carte invece
continuarono imperterrite la loro corsa, ma invece che
trafiggere il corpo della ragazza ci passarono attraverso senza arrecarle alcun
danno, e alla fine scomparvero.
«Ma cosa…»
«In fin dei conti.»
disse tranquillamente Revy «L’illusione è tale solo se
lo spettatore è in grado di vederla. Un ceco non incontra poi grandi difficoltà
nel distinguere oggetti veri da semplici illusioni.»
«No!» esclamò
Colombe nel vedere smascherato il suo inganno
«Non so come
riuscivi a creare quelle finte carte e non mi interessa.
Quel che conta, è che ormai questo trucco con me non funziona più».
Riavutosi dalla
sorpresa, nuovamente Michelle scomparve inghiottito dal suo mantello, ma
stavolta Revy non aveva alcuna intenzione di lasciarlo scappare, e dopo qualche
secondo, puntata la pistola alla sua destra, sparò senza esitazioni; un solo
colpo, l’ultimo del caricatore, ma comunque sufficiente a chiudere
definitivamente la partita.
Dopo poco la
ragazza riacquistò la vista, e la prima cosa che vide fu Colombe, inginocchiato
di fronte alla finestra rotta con una palla piantata nel fianco destro; una
brutta ferita, certamente mortale.
Il suo bell’abitino
bianco era ora zuppo di sangue, e quel viso, sorridente fino ad
un minuto prima, era ora serrato in una smorfia di dolore.
«Mi spiace, francesino, ma stavolta il tuo spettacolo si è concluso con un clamoroso flop».
Lui alzò la testa
quel tanto che bastava per guardarla negl’occhi.
«Sembra…
sembra proprio che dopotutto non finirà come avevo sperato.
Ma
non ho… non ho alcun rimpianto per quanto accaduto. Ho già tramandato i miei
segreti al mio successore… e anche se per Colombe è giunto ormai il momento
dell’oblio… le sue conoscenze… e il suo sapere… continueranno ad esistere.»
«Che discorso
patetico.» disse Revy senza riserve «Che ti importa di
quello che succederà quando sarai morto? Tanto non sarai certo qui per vederlo,
e in tasca non te ne verrà nulla».
Quell’affermazione
sembrò accendere per l’ultima volta una fiamma d’ira nel cuore dell’ultimo
Colombe della storia.
«Quelli
come te… non possono capire… e non capiranno mai. Tu… non hai alcun rispetto
per l’avversario contro cui ti batti. Per te… lui non
è un essere umano… è solo un ostacolo da eliminare. E
io non accetterò mai di consegnare la mia vita a una bestia come te».
Con le sue ultime
forze, Colombe si rimise in piedi, e mentre la moquette attorno a lui continuava
a colorarsi di rosso fece qualche passo indietro fino
a raggiungere la finestra.
I suoi capelli
castani e il suo lungo mantello ondeggiarono per l’ultima volta mossi da un
vento leggero e frizzante.
«Au revoir… mademoiselle…» mormorò
col suo ultimo alito di vita, e allargate le braccia lasciò che il suo corpo
cadesse all’indietro.
Revy sentì
qualcosa nel momento in cui lo vide sparire oltre il bordo, come un grido
disperato della sua coscienza, ma quando corse ad affacciarsi fece appena in
tempo a scorgere la figura aggraziata dell’Assassino Illusionista che scompariva
inghiottita dall’esplosione.
Allora, e solo
allora, per la prima volta dopo molto tempo, le venne da piangere.
Nota dell’Autore.
Ok, prometto di non
dire più che aggiornerò in tempi rapidi, perché sembra proprio che non ne sia
in grado.
Per l’ennesima volta
mi scuso per la lunga attesa a cui ho costretto i miei
lettori, e onde evitare altre figure del piffero premetto fin da ora che
probabilmente il prossimo cap non arriverà prima di
8-10 giorni.
Rinnovo i
ringraziamenti ai miei recensori, Beat,
Selly, Gufo, Spectre e al nuovo arrivato Carlitz.
Infine, prima di chiudere, due importanti precisazioni.
1 – L’idea degli arti meccanici NON proviene da Full Metal Alchemist;
se dovessimo cercare una fonte di ispirazione, allora direi che il mio primo
pensiero nello scrivere quella parte è andato a Will Smith in Io Robot.
2 – Il personaggio di
Colombe, che qui fa questa piccola apparizione, è il protagonista di un romanzo
che sto scrivendo al momento e che avrei intenzione di dare alle stampe una
volta finito. Malgrado le differenze in merito al
contesto e all’ambientazione (il romanzo è ambientato nella Francia di Luigi
XV) l’aspetto fisico, l’ideologia e lo stile di azione sono gli stessi,
pertanto mi farebbe molto piacere ricevere un vostro parere anche su questo
personaggio, in modo da saperlo adattare anche per quanto riguarda la storia
originale.
Correndo senza meta da una parte all’altra dell’albergo,
Dutch aveva già spedito all’altro mondo cinque possibili assalitori, ma proprio
come tutti i suoi compagni non aveva la minima idea di
cosa avrebbe fatto se si fosse trovato davanti uno di loro, uno dei ragazzi con
i quali aveva creato la sua squadra.
La sua corsa per
sale e corridoi lo condusse ad un certo punto nel
discopub del penultimo piano; malgrado non ci fosse nessuno le luci colorate
erano accese, la musica andava a tutto volume e sia sui tavoli che sul bancone
c’erano diversi bicchieri mezzi pieni come se lì ci fosse appena stata una
festa.
Essendo un soldato
abituato a combattere in qualsiasi situazione Dutch aveva un orecchio e un sesto senso particolarmente allenati, per questo, anche
in tutto quel baccano, non gli fu difficile accorgersi di una presenza
minacciosa che seguitava a fissarlo, spostandosi continuamente lungo le zone
buie per non farsi intercettare.
Prima di poterla
intercettare, però, vide quell’ombra sinistra piombargli addosso saldando giù
dalla balconata superiore, e istintivamente si gettò da un lato, evitando
all’ultimo secondo la lama affilata di un grosso coltello da guerra.
Rialzato lo
sguardo, rimase comprensibilmente sorpreso nello scoprire l’identità
dell’aggressore.
Era un uomo grande
e grosso quanto lui, ma di carnagione chiara; indossava
un paio di calzoni mimetici, stivaloni neri da soldato e una maglia nera
aderente, tutti particolari che rendevano quanto mai palese la sua provenienza:
era un berretto verde.
I capelli, biondi,
erano corti e a spazzola, a ulteriore testimonianza
dei suoi trascorsi da soldato. Ciò che però colpiva di più era il suo
armamentario; oltre al coltello che stringeva nella mano destra, dietro la
schiena, come uno zaino, trasportava un grosso mitragliatore gatling, e sotto di esso, stretta alla cintura, la cassetta
contenente le munizioni dell’arma.
Dopo aver fallito
il suo primo attacco, il soldato seguitava a restare inginocchiato, e a Dutch
non servì vederlo bene in faccia per capire di chi poteva trattarsi.
«È passato molto
tempo, Dutch-boy.» disse rialzandosi in piedi e
sollevando finalmente la testa.
I suoi occhi, di un azzurro così chiaro da sembrare quasi bianchi,
facevano gelare il sangue, così come quel ghigno malefico e la spaventosa
cicatrice che partendo da sopra l’occhio sinistro arrivava fino alla guancia
destra.
«Buffalo Kid.»
«Mi
fa piacere che ti ricordi ancora di me. Quant’è, trent’anni?»
«Dalla
caduta di Saigon, nel ’75. Quindi sì, più di
trent’anni.»
«Scusa se non mi
sono più fatto sentire, ma sai, ho avuto qualche problemino.»
«Davvero?
Mai quanti ne ho avuti io a causa tua.»
«Oh,
non ci contare. Purtroppo in questo schifo di mondo campare diventa sempre più
difficile.»
«Cos’è, il
tradimento non frutta più come in passato?»
«Mh. Tradimento?» disse Buffalo ridendo malignamente «Non so
di che tu stia parlando».
Quel tono così
dannatamente provocatorio fece bollire il sangue nelle
vene al gigante nero, che strinse i denti fin quasi a spaccarseli.
«Fai finta di non
saperlo, lurido bastardo!» urlò puntandogli contro la sua
magnum «Tu hai venduto me e la mia squadra ai vietcong!»
«Venduto,
che brutta espressione. Diciamo, che ho considerato l’offerta migliore.»
«Sono
quasi finito davanti al plotone di esecuzione per colpa tua. Sono stato
accusato di negligenza, e della morte di tutti i membri della
mia squadra. Se tornassi negli Stati Uniti, mi aspetterebbe la corte marziale!
Ed è tutta colpa tua!»
«Lo
dovresti sapere. Zio Sam non si fa troppi scrupoli nello sbarazzarsi di chi non
gli serve più. Lo ha fatto con me, e lo ha fatto con
te. Dopotutto, non siamo poi così diversi.»
«Non osare
paragonarmi a quelli come te, brutto pezzo di merda!».
Istintivamente
Dutch fece per sparare, ma Buffalo riuscì a prenderlo sul tempo, e lanciato il
coltello colpì la sua pistola, che volò via dalla mano del gigante nero cadendo
a parecchi metri di distanza.
«È
sempre stato il tuo grande difetto, Dutch-boy. Malgrado la maschera da uomo calmo e riflessivo, sottosotto
sei rimasto lo stesso impulsivo testa vuota di un tempo.
Avresti dovuto
capire subito che quel villaggio nascondeva una trappola, ma hai
voluto entrarci lo stesso. Se quegli uomini sono morti, la colpa è
soprattutto tua».
Dutch questa volta
non fu in grado di controbattere, perché non gli riusciva di
trovare un’argomentazione con cui farlo, trovandosi costretto ad ammettere che
quel tipo così pungente e odioso aveva, in parte, ragione.
Ricordava bene
quel giorno, il giorno che gli aveva cambiato per
sempre la vita.
Era l’aprile del
’75, a pochi giorni dalla caduta di Saigon che avrebbe segnato la definitiva
sconfitta delle forze statunitensi durante la guerra in Vietnam.
Dutch, che allora
era un sergente, comandava un piccolo distaccamento, composto per gran parte da
veterani coi quali aveva combattuto in diverse
occasioni, con l’incarico di presidiare un villaggio lungo le sponde del
Mekong.
All’improvviso,
via radio, era arrivata una richiesta di aiuto da
parte di Buffalo Kid, anch’egli sergente. Stando al
suo racconto la loro postazione nella giungla era stata attaccata dai vietcong e loro si erano visti costretti a ripiegare,
rifugiandosi in un villaggio abbandonato; il nemico però li aveva circondati, e
avevano urgente bisogno di soccorso.
La cosa, per la
verità, era parsa strana fin da subito a Dutch; erano già diversi giorni che
l’unità di Buffalo non inviava comunicazioni, e se
davvero erano sotto attacco a rigor di logica avrebbero dovuto cercare di
ripiegare verso sud, e invece lui e i suoi si erano spinti a nord, proprio in
bocca alle avanguardie sovietiche.
Normalmente la
prassi imponeva di rigirare la comunicazione al quartier generale e di
attendere istruzioni, ma se la situazione di Buffalo era davvero così disperata non c’era tempo per la burocrazia, quindi Dutch
aveva ordinato di muovere subito verso la pattuglia in difficoltà, lasciando
indietro solo un paio di uomini con l’ordine di mantenere la posizione e
informare i superiori di quanto stava accadendo.
Ci
era voluto più di un giorno per raggiungere il villaggio in cui Buffalo
e i suoi avevano trovato rifugio, una traversata insolitamente tranquilla e
senza contatti col nemico, ma una volta a destinazione la tragica verità era
venuta a galla: una trappola.
I
vietcong erano sbucati da ogni casa, da ogni capanna, riversando sul gruppo di
soldati fiumi di proiettili.
Tutti caddero
uccisi, tranne Dutch, che ferito gravemente trovò la salvezza nascondendosi
prima nel vicino canale e poi nella giungla. Gli servirono cinque giorni per
riuscire ad eludere la caccia all’uomo ordita dai
nordvietnamiti contro di lui, ma i guai purtroppo erano appena cominciati.
Sulla via del
ritorno, era passato per la base operativa da cui lui e gli altri erano
partiti, e fu un bene, perché fu solo grazie a questo se alcuni suoi compagni
riuscirono ad avvertirlo di non proseguire oltre: in quella settimana la
notizia dell’agguato si era sparsa a macchia d’olio fra le truppe americane, e
ora Dutch era ricercato dallo stato maggiore con
accuse di inadempienza e strage provocata, tutte cose per le quali era
passibile di fucilazione.
Solo, inseguito da
tutti, Dutch non aveva avuto altra scelta che abbandonare il Paese il più
velocemente per rifugiarsi in Thailandia con la sua fidata navetta da assalto,
che in seguito, dopo lunghi rimaneggiamenti, sarebbe diventata la Lagoon.
La colpa di tutto
ciò, anche se altri cercavano di addossarla a lui, era di un solo uomo, e
quell’uomo ora gli stava di fronte; per trent’anni
Dutch aveva sperato che prima di passare a miglior vita gli capitasse una tale
occasione.
Buffalo, una volta
liberatosi del coltello, mise mano al suo gatling,
impugnandolo saldamente per la maniglia con una mano e tenendo l’altra
sull’impugnatura alla base delle canne.
«Fatti
forza Dutch. Prima dell’alba, andrai a far compagnia ai tuoi amici.»
«No, Buffalo.»
rispose il nero a testa bassa «Tu andrai a far compagnia ai tuoi».
Quello si stampò
in faccia il suo solito ghigno, e tirata la sicura prese a sparare una
spaventosa raffica di colpi, capaci di demolire interi pezzi di muro.
Dutch, correndo a
destra, rotolò per terra recuperando la sua pistola, per poi saltare
rapidamente dietro al bancone del piano-bar; alla prima esitazione del nemico
si sporse rispondendo al fuoco, e allora anche Buffalo prese a correre
lateralmente.
In tutto Dutch
sparò due colpi, e subito dopo il gatling tornò a far
sentire la sua voce, perforando il bancone come fosse margarina.
Il gigante nero
non ebbe altra scelta che muoversi ancora, ma non potendo lasciare il suo
nascondiglio senza diventare un colabrodo lanciò una delle tre granate fumogene
presenti nel suo arsenale, assieme al fucile a canna corta, producendo una
cortina abbastanza spessa e asfissiante da distrarre Buffalo il tempo
necessario da infilare l’entrata secondaria ed uscire
nell’atrio.
Kid però non impiegò molto a riemergere da quel mare di
fumo, più infuriato che mai; Dutch girò in un corridoio laterale giusto in
tempo per evitare di finire crivellato, e una volta al sicuro sparò a sua volta approfittando di una nuova sosta; Buffalo non ebbe
problemi a difendersi, usando la sua grossa arma come uno scudo.
Dutch usò quindi
un’altra granata fumogena, e quando Buffalo riuscì a recuperare
la vista il suo avversario era scomparso.
«Dove ti nascondi,
codardo che non sei altro?».
Avvicinandosi
all’angolo dietro al quale Dutch si era nascosto trovò
delle tracce di sangue che proseguivano lungo il corridoio, e di nuovo rise
divertito.
«La
cosa si sta facendo divertente. Era dalla caccia al vietcong che non mi
eccitavo in questo modo».
Completamente
succube del suo delirio omicida Buffalo seguì la traccia come un cane che ha
fiutato la preda fino a che non la vide scomparire dietro ad una
porta anti-panico, e spalancatala raggiunse una scala di servizio a
doppia rampa che probabilmente partiva dal pianterreno per arrivare fino al
soffitto.
Prima ancora di
decidere se muoversi verso l’alto o verso il basso vide chiaramente Dutch un
paio di piani più sotto, e senza esitazioni gli spedì contro una nuova raffica,
mancandolo; il nero rispose esplodendo gli ultimi colpi del suo tamburo, maKid non ebbe
difficoltà ad evitarli appoggiandosi al muro, e non appena sentì chiudersi una
porta si gettò nuovamente all’inseguimento.
Dovette scendere
di quattro piani prima di trovare la porta in questione, dietro alla quale
trovò una grande e molto accessoriata cucina,
destinata con ogni probabilità a servire gli ospiti del pregiato ristorante che
si intravedeva oltre gli oblò dei battenti dalla parte opposta all’ingresso.
Di Dutch, però,
nessuna traccia, e anche la linea di sangue si era improvvisamente interrotta,
lasciando le mattonelle bianche del pavimento completamente linde.
Tutte le luci del
locale erano accese, e non sembrava esservi posto dove quel gigante nero
sarebbe stato in grado di nascondersi, quindi la sola conclusione logica era
che si fosse nascosto nel ristorante, che essendo buio e sicuramente molto più
ampio doveva risultare invece pieno di rifugi da cui
tentare un agguato.
Ciò nonostante
Buffalo volle comunque essere guardingo, del resto dal
vecchio Dutch-Boy ci si poteva aspettare qualunque
cosa, perciò prese a camminare con cautela, misurando attentamente ogni passo
per evitare sgradevoli sorprese.
Senza problemi
percorse quasi tutta la stanza da una parte all’altra, aggirando i grandi piani
cottura e i ripiani su cui venivano composti i piatti
da servire, e quando era quasi arrivato in vista dell’uscita avvertì un rumore
alle sue spalle che lo lasciò completamente spiazzato.
Un enorme braccio
nero che impugnava una magnum era comparso da dentro
un grosso forno ad armadio dopo che la porta si era leggermente ed
impercettibilmente aperta.
«Mi spiace, la
cucina è chiusa».
Buffalo ebbe
appena il tempo di girarsi, poi il suono assordante di uno sparo riempì la
cucina, e lui cadde all’indietro con un grosso buco in testa. Un secondo dopo,
da dentro il forno uscì Dutch; aveva una ferita non indifferente alla spalla
sinistra e il braccio rigato dal sangue, ma tutto sommato niente di irreparabile per un toro come lui.
«È
sempre stato così, Buffalo. Sempre a credere di essere un passo avanti agli
altri. Beh, mi dispiace per te, ma questa volta hai fatto male i conti».
Rinfoderata la
pistola, Dutch tornò sui suoi passi per lasciare la cucina, se
non che un secondo dopo la stessa, orribile sensazione che aveva fatto
provare al suo nemico, finì per provarla a sua volta, dieci volte più
incombente e tremenda di prima.
Il terrore e lo
sconcerto lo paralizzarono, mentre una figura minacciosa si ergeva alle sue
spalle digrignando i denti; usando il suo gatling
come una enorme clava, Buffalo per poco non sfondò lo
stomaco a Dutch nel momento in cui questi si girò nella sua direzione, ma il
colpo fu forte abbastanza da farlo volare come una piuma prima sopra i fornelli
e poi a terra, ribaltando un gran numero di pentole e posate.
Dutch finì per
sputare sangue, e quando gli riuscì di rialzarsi non
riuscì a credere ai suoi occhi vedendo Buffalo Kid di
nuovo in piedi; il buco che aveva in mezzo alla fronte fumava come una
locomotiva, ma non usciva un filo di sangue; il proiettile aveva perforato la
pelle, ma sembrava aver incontrato subito dopo una sorta di vetro
antiproiettile che lo aveva fermato e accartocciato.
«Ma… cosa diavolo…»
«Sei
sorpreso? Dì la verità, non avresti mai immaginato nulla di simile, ho ragione?»
«Chi… che cosa sei tu?»
«Sono
sempre io. Devi sapere che qualche tempo fa ho avuto un’animata discussione con
le truppe governative del Congo che mi è quasi costato mezza testa. Sarei
sicuramente crepato, se Kyuzo non avesse pagato di tasca propria una
costosissima operazione che ha sostituito un’intera porzione di scatola cranica
con una placca di titanio spessa un centimetro.»
«Un centimetro!?»
«È
come avere un casco antiproiettile dentro la testa. E come hai potuto vedere, è
un bel vantaggio.»
«B… bastardo…»
«Peccato che tu
non abbia lo stesso privilegio.» ghignò Kid
puntandogli l’arma contro «Tu quanto credi arriveranno
lontano le tue cervella? Io dico fin sul tetto».
Dutch si sentiva
in trappola, strinse i denti quanto più gli era possibile, poi
però la sua mano toccò un’inaspettata possibilità di salvezza, cadutagli
di dosso quando era caduto.
Per l’ennesima
volta Buffalo Kid mostrò la sua perfida e sadica
espressione, quindi fece per premere il grilletto chiudendo così la partita, e
proprio in quel momento Dutch, afferrato saldamente il suo fucile, sparando un
colpo che centrò in pieno le canne del gatling,
accartocciandole e scheggiandole, rendendo l’arma di fatto inutilizzabile.
Alcuni frammenti finirono anche in faccia a Buffalo, che urlando e bestemmiando
mollò il suo adorato mitragliatore tenendosi il volto con entrambe le mani.
Dutch avrebbe
voluto sparargli ancora, ma per somma disgrazia quello era l’ultimo colpo del
suo fucile, e la pistola chissà dov’era finita, quindi, gettata via quell’arma
inutile, si avventò sul nemico assestandogli una tremenda ginocchiata sul
mento.
Buffalo incassò il
colpo, e rialzatosi con gli occhi che scintillavano di rabbia
mise mano al suo secondo coltello da guerra che teneva nascosto all’interno
dello stivale; Duch rispose afferrando un grosso
coltellaccio da carne, i due corsero l’uno contro l’altro e diedero vita ad un
acceso confronto corpo a corpo.
Lo spazio era
molto ristretto, e quei due erano così imponenti che era impossibile
allontanarsi per riprendere fiato, ragion per cui
quella sarebbe diventata una gara di resistenza, in cui il primo a distrarsi
avrebbe pagato con la vita.
Sfortunatamente,
ad abbassare per primo la guardia fu Dutch; nel parare col proprio coltello un
affondo nemico si sporse troppo in avanti, e Buffalo non si fece scappare
l’occasione, e afferratogli il braccio glielo storse,
costringendolo a mollare il coltello, quindi gli mollò un calcio nella schiena
che lo spedì nuovamente a terra. Nel cadere andò a sbattere contro i fornelli,
girando casualmente i pomelli del gas.
«Che cos’è che ti
ha spinto fin qui?»
«Il passato,
presumo.» rispose Dutch girandosi a guardarlo
«Il
passato… beh, ormai non conta più! Muori, Dutch-boy!».
Buffalo gli saltò
sopra e cercò di trafiggergli la gola, Dutch riuscì ad afferrargli i polsi, ma
la forza del nemico era tale che non avrebbe resistito a lungo. Gli serviva una
soluzione, e gli serviva subito.
Con la forza della
disperazione il nero lasciò che fosse una sola mano a bloccare la lama nemica,
e con l’altra prese a cercare a tentoni qualsiasi cosa
avesse potuto cavarlo d’impiccio e salvargli la vita; la fortuna volta che a
finire nel suo raggio d’azione fosse un punteruolo da ghiaccio, e afferratolo
glielo conficcò in un polso con tutta la forza che quelle due zampe di orso gli
avevano lasciato.
Kid urlò come un dannato mollando la presa, e solo allora
Dutch si avvide del tremendo odore di gas che aveva riempito la cucina; senza
pensarci due volte si rimise in piedi, sollevando anche Buffalo, quindi gli
assestò un paio di pugni al volto per stenderlo definitivamente.
Avrebbe voluto dargli il colpo di grazia, ma lì dentro c’era tanto di quel
gas che sarebbe bastato un nulla per fare i fuochi d’artificio, ragion per cui
si vide costretto ad abbandonare il campo attraversando le porte che
immettevano nel ristorante.
Tuttavia, Dutch
non aveva alcuna intenzione di rinunciare a sapere morto il bastardo che aveva
ucciso tanti suoi amici, e affondata una mano in tasca ne cavò fuori il suo
zippo; accesolo, si girò nuovamente verso la cucina, e per quanto incredibile
potesse essere vide Buffalo nuovamente in piedi, con in
mano il coltello e apparentemente pronto a corrergli addosso; la sua faccia era
una maschera di sangue, sembrava un demonio.
«E adesso, vattene
all’inferno.» disse, e subito dopo lanciò l’accendino.
Come questo ruppe
il vetro degli oblò una terrificante esplosione
sventrò completamente la stanza dall’altra parte, trasformandola in un oceano
di fuoco.
Dutch si buttò a
terra appena in tempo per evitare di venire colpito
dalle fiamme che dopo aver sventrato le porte si abbatterono su parte del
ristorante, e rialzatosi fra il fumo e la polvere vide, con propria grande,
incommensurabile soddisfazione, che tutto ciò che restava della cucina e di chi
la occupava era un mucchietto di cenere.
«Riposate
in pace, amici miei. Giustizia è fatta».
Bangkok
Orient Hotel
Ore 23:41
L’Orient Hotel era uno degli
edifici più alti di tutta Bangkok, e dalla stanza numero 453 situata al
terzultimo piano si poteva godere certamente di una
delle vedute più magnifiche che la città potesse offrire.
Era ormai quasi
mezzanotte, l’ora delle feste e della vita notturna era già scoccata da un
pezzo, e sicuramente il centro era affollato da turisti e comuni cittadini in
cerca del vero sballo, lo stesso che richiamava persone da ogni parte del
mondo, trasformando Bangkok nella New York del Sud-Est
asiatico.
Tuttavia, il
signor Samejima non sembrava per nulla interessato
allo spettacolo che si stagliava oltre la sua finestra, e seguitava a rimanere
seduto sulla poltrona con le gambe incrociate e il telefonino all’orecchio.
«Sì,
tutto procede come preventivato.
Entro un paio
d’ore dovremmo essere pronti a cominciare. No, non sospetta ancora di niente.
Avremo i risultati definitivi prima di quanto immaginiate, e potrete visionarle
coi vostri occhi.
Riagganciato il
telefono, l’uomo, sistemandosi la cravatta, si girò un attimo a guardare la
giovane ragazza che sedeva poco distante da lui, sul divanetto al centro della
stanza.
Era davvero molto
bella, e non doveva avere più di venti o ventuno anni. I capelli erano neri e
corti, con due eleganti crocchie, gli occhi di un rosso rubino decisamente insolito e il viso gentile, ma senza
espressione, quasi fosse una bambola. Indossava un elegante abito cinese bianco
con dei ricami floreali rossi.
Restava
perfettamente immobile, le gambe unite, le mani sulle ginocchia e lo sguardo
basso; non sembrava neppure che respirasse.
«Quando verrà il
momento, dovrò contare sulla tua collaborazione, mia cara Yu-Ling».
Lei allora alzò i
suoi occhi vuoti e si girò a guardare verso Samejima.
«Sì, padre».
Sorella Yolanda non avrebbe mai
immaginato di trovarsi un giorno invischiata in una situazione tanto tragica.
Malgrado avesse
sempre mantenuto un atteggiamento guardingo e sicuro di sé all’interno degli
affari illeciti che gestiva con facilità grazie alla fin troppo efficace
copertura offerta calla Chiesa della Violenza e malgrado
la sua abilità con le armi quello in cui si trovava era un incubo dal quale
sperava di svegliarsi.
Non le importava
come e non le importava quando, tutto quello che voleva
era uscire di lì, e facendo appello a quella poca agilità che le sue vecchie
gambe avevano conservato correva come una forsennata lungo i saloni e i grandi
corridoi dell’hotel.
Finalmente, dopo
aver ucciso cinque persone, raggiunse l’atrio d’ingresso.
La sala era a dir
poco grandiosa, tappezzata di marmo e alta fino al tetto. Ogni piano aveva una
terrazza che dava su quella specie di enorme tromba vuota terminante in una
grande semisfera di vetro e illuminata a giorno da decine di lampade, e su
alcune di queste terrazze c’erano cose come tavoli da bar, divani sui quali
rilassarsi o semplicemente grandi vasi di fiori esotici.
Al centro dell’atrio
troneggiava una grande statua bronzea alta più di sei metri
raffigurante un cavaliere in armatura; doveva essere San Giorgio, a
giudicare dalla spada che teneva alta sopra la sua testa con la punta rivolta
al cielo e dalla testa di drago schiacciata sotto uno degli zoccoli del suo
cavallo.
Yolanda non si preoccupò minimamente di stare ad ammirare
la maestosità di quel luogo, e subito corse a perdifiato verso l’ingresso,
formato da due grandi portoni in legno marrone
decorati con rilievi in oro raffiguranti angeli e disegni floreali.
Afferrate saldamente
le maniglie tentò di aprire, ma come previsto il portone non si spostava
neppure di un millimetro.
Avrebbe potuto
facilmente sfondarle con un colpo di pistola, ma ormai era così preda del
delirio che una simile eventualità neppure le saltava alla mente, e forse per
lo stesso motivo si era dimenticata anche della brutta sorte a
cui andava incontro chi tentava di superare lo sbarramento costituito
dal campo elettromagnetico.
«Aprite!
Aprite! Fatemi uscire di qui!».
Non si rendeva
conto che urlando in quel modo era come un verme che si agitava attaccato all’amo,
e difatti, poco dopo, un pesce arrivò a mangiarselo.
Yolanda si zittì all’istante, rimanendo bloccata per il
terrore, quando sentì alle sue spalle un rumore famigliare e terrificante; il rumore di un motorino messo in funzione, il rumore… di una
motosega.
Giratasi, vide dinnanzi a sé Sawyer, che
brandeggiava la sua affilatissima motosega.
«No… no… sta
lontana!».
Poco distante,
Benny stava cercando, a suo modo, di uscire da quella pericolosa situazione.
Lui non era mai
stato un bravo pistolero, e quelle poche volte che Dutch o Revy avevano cercato
di insegnargli a sparare i risultati erano stati disastrosi; Dutch era solito
ripetere che il suo talento era la strategia, e che il cervello era
indubbiamente la sua arma migliore, proprio come accadeva per Rock; però, pur
se dapprincipio poteva sembrare impossibile, anche
quella si stava rivelando una situazione in cui le abilità informatiche di
Benny potevano risultare decisive.
Oltre ad una
pistola 9mm con una decina di caricatori, infatti, il
biondo americano aveva gentilmente ricevuto dai “giudici di gara” un personal
computer delle dimensioni di un telefono. A Benny non era occorso molto per
accorgersi della presenza, in giro per varie parti dell’albergo, di alcune
prese particolari, una volta inseritavi la spina del computer
aveva accesso ad una gran quantità di sistemi; poteva controllare gli
ascensori, connettersi alle telecamere di sorveglianza, e persino utilizzare
degli avveniristici proiettori olografici nascosti nei punti più impensabili.
Benny stava
camminando lungo il grande corridoio che dall’atrio portava verso il salone dei
ricevimenti quando udì l’urlo straziante di sorella Yolanda,
e il suo primo istinto fu quello di correre nella sua
direzione per capire cosa fosse successo.
Arrivato all’ingresso,
a stento trattenne i conati di vomito; il corpo della vecchia suora era a terra
in un oceano di sangue, decapitato, e Sawyer era ai
suoi piedi. Questa, accortasi del nuovo arrivato, rimise in funzione la
motosega; Benny cercò di spararle, ma lei, come già aveva fatto altre volte in
passato, usò la lama come uno scudo, e parato il terzo colpo si mise all’inseguimento
di Benny.
«Accidenti!» gridò
l’americano facendo la strada all’indietro «Ci mancava
anche la pazza con la motosega!».
Quello che aveva
imboccato purtroppo era un vicolo ceco, e trovatosi di fronte ad un muro non ebbe altra scelta che entrare nella porta a vetri
alla sua sinistra, ritrovandosi nella scalinata di servizio. Per sua fortuna,
ogni porta di ogni piano aveva accanto una colonnina di connessione, quindi fu
in grado di entrare nel sistema di sicurezza e di attivare le serrature di
sicurezza, ma proprio quando pensava di avercela fatta la punta della motosega
perforò quella robusta porta d’acciaio.
«Merda!».
Era chiaro che Sawyer non avrebbe impiegato molto ad
entrare, quindi, se voleva evitare di ridursi come un filetto di carne, Benny
doveva levare le tende al più presto.
Come previsto la
donna ci mise solo qualche minuto a produrre un varco sufficiente per poter oltrepassare l’ostacolo, e le furono necessari
appena due secondi per capire che Benny si era diretto verso l’alto, piuttosto
che verso il piano interrato.
Sawyer era una specialista nel campo dei killer, gli odori
nauseabondi della carne e della sua macellazione avevano segnato tutta la sua
vita, e proprio per questo sapeva seguire la traccia odorosa lasciata da una
persona qualsiasi meglio di un segugio della polizia.
Proprio per questo
motivo non ebbe difficoltà a seguire la traccia odorosa del suo nemico fino al
secondo piano, e come previsto trovò una seconda porta chiusa a sbarrarle la
strada, ma non era certo un problema.
«Merda.» mugugnò
Benny, appostato dietro ad un vaso, vedendo sbucare di
nuovo la punta di quella motosega «Così non me la leverò mai di dosso. Devo trovare
una soluzione».
Alzatosi, raggiunse
di corsa la fine del corridoio fino ad una biforcazione
a T, e casualmente, mascherato nella cornice di un quadro dietro l’angolo di
sinistra, trovò un’altra porta di connessione.
Un’idea folle
balenò nella sua mente, l’unica che gli potesse permettere di uscire da quella
situazione, e dopo essersi accertato di avere a disposizione quello che gli
serviva per metterla in pratica iniziò subito a lavorare.
Di norma era
sempre stato una persona fredda e razionale, capace di mantenere il sangue
freddo in ogni circostanza, ma quel terrificante rumore a pochi metri da lui
gli faceva gelare il sangue; le sue dita tremavano, la fronte sudava, più di
una volta si trovò costretto a ricominciare tutto daccapo a causa degli errori
commessi per via della tensione, e più passava il tempo più sentiva la lama di Sawyer vicina al suo collo.
Qualche secondo
dopo la donna fece irruzione; nel corridoio regnava un silenzio di tomba, e non
c’era anima viva. Sawyer però sapeva bene che il suo
nemico era ancora lì, ne sentiva l’odore, e mai come nel suo caso l’odore
poteva essere il silenzioso testimone della presenza della vittima designata.
Anche se fosse
stata sorda e ceca, Sawyeravrebbe potuto
risultare efficace come se non più di prima, e difatti individuò senza problemi
la presenza di Benny, correndo subito nella sua direzione.
Ma improvvisamente,
giunta ad un corridoio a T, si fermò, come impietrita:
la traccia odorosa era scomparsa nel nulla, come se il nemico si fosse
improvvisamente volatilizzato.
Insospettita,
puntò il proprio sguardo raggelante in entrambe le direzioni; a destra il
corridoio proseguiva fino alla sala da tè, a sinistra invece c’era una grande parete
a specchio che bloccava la via solo pochi metri più in là.
Per quanto gli
odori fossero un segno indelebile, pensò Sawyer, c’era
pur sempre la possibilità di non poterli percepire, e comunque quella era in
ogni caso una strada senza uscita. Benny doveva per forza essersi nascosto
nella sala, perché non c’erano altre via di fuga, e comunque la sua traccia
arrivava lì, segno che non poteva essersi mosso nella direzione opposta alla
porta dalla quale entrambi erano entrati.
Seguendo questo
ragionamento, Sawyer fece per raggiungere la sala da
tè, ma appena fece per muovere un passo un colpo di
pistola la trafisse in mezzo alla nuca; probabilmente non ebbe neppure il tempo
di rendersi conto di quanto accaduto, perché un istante dopo era a terra senza
vita.
Passò qualche
secondo, poi la parete a specchio svanì nel nulla come l’ologramma che era, e
da dietro di essa comparve Benny con la pistola alzata.
«Mi spiace tesoro,
ma stavolta hai fatto cilecca».
Nota dell’Autore
Roba da matti! Un
mese per aggiornare!
Un mese!
Mi vergogno di me
stesso; so di essere lento, ma fino a questo punto è quasi inaccettabile, e il
capitolo oltretutto non mi piace granché. Comunque, quel che conta è che la
storia comincia ad evolversi, presto subirà una bella
svolta e allora ci avvieremo verso le battute conclusive.
La seconda storia che
sto scrivendo ha subito un’obbligatoria battuta di arresto che non so quanto potrà durare, ma non prometto niente sulla
velocità di aggiornamento di questa, anche perché a giorni avrò due esami
quindi il tempo non mi è amico.
Ringrazio Dirias, Selly, Gufo, Carlitz, Beat e Lisy
per le loro recensioni
«Non c’è che dire.» commentò Steven «Quelli della Lagoon
sono davvero degli ossi duri.»
«Non avrei saputo
dirlo meglio.» disse Ashford
«Hanno sconfitto tre dei favoriti».
Rock,
segretamente, sospirava soddisfatto; in fin dei conti erano pur sempre i suoi
compagni, quindi era naturale che tifasse per loro, ma gli veniva naturale
domandarsi cosa sarebbe successo se si fossero incrociati.
Ciò era,
naturalmente, inevitabile, visto che solo uno poteva
uscire dall’hotel da vincitore, ma dentro di sé sperava che qualcosa o qualcuno
sarebbe intervenuto a modificare gli eventi.
Sembrava strano,
ma aveva fiducia in Kaito; tutti e tre i membri della
Lagoon si erano trovati ad un passo dalla morte, tutti avevano dimostrato di
essere capaci e determinati; forse, questo gli sarebbe bastato per sentirsi
appagato. Immaginava che da un momento all’altro avrebbe deciso di bloccare
tutti e lasciar andare i superstiti, che in quel momento si erano ridotti a
soli trentuno partecipanti.
Kaito, però, non sembrava avere la benché minima intenzione
di agire in questi termini, e anzi sembrava incredibilmente adirato dal fatto
che Revy e gli altri fossero sopravvissuti tanto a lungo; i suoi occhi
trasudavano rabbia, digrignava spesso i senti e
stringeva con forza i pugni.
«Ora basta!» tuonò
ad un certo punto colpendo il monitor su cui appariva
Revy, nascosta dietro ad un angolo «Sono stanco di tutti questi giochetti!
Steven, procedi!»
«Con piacere».
Che voleva fare?
Intendeva forse
far detonare la bomba di Revy?
No, questo era
impossibile, e Rock lo sapeva: Hibraim gli aveva
detto che l’unico detonatore esistente era gestito dal computer centrale che
teneva in piedi anche il campo elettromagnetico, e nessuno, neppure Kaito, aveva il controllo di quel computer.
«Che cosa vuoi fare,Kaito?»
«Togliermi una
soddisfazione.» rispose lui glaciale «E stai tranquillo,
non morirà. Non subito, almeno.»
«P3X rilasciato
con successo.» disse Steven dopo alcuni secondi
«Di
che state parlando? Che diavolo è il P3X?»
«L’ultimo
ritrovato nel campo della guerra chimica.» rispose Hibraim
«Guerra chimica!?» esclamò terrorizzato Rock
«Rilassati.» disse
Kyuzo quasi a volerlo rassicurare «Non si tratta né di
un’arma batteriologica né di un gas nervino di qualunque tipo. È un
allucinogeno.»
«Un…
allucinogeno?»
«Chiamato anche Morpheus.» rispose il dottor Ashford«P3X è il suo nome scientifico. La divisione
scientifica del progetto Rebuildlo
ha scoperto per puro caso durante gli esperimenti per lo sviluppo di un
nuovo tipo di anestetico. È efficace sia allo stato gassoso che
a quello liquido, e allo stato liquido la sua potenzialità aumenta
considerevolmente. Come tutti i composti di questo tipo attacca
il sistema nervoso, inducendo in uno stato di ipertensione che provoca allucinazioni
estremamente realistiche.»
«Quando abbiamo
impiantato le micro cariche esplosive» disse Kyuzo «A quella di Revy abbiamo
collegato anche una capsula contenente una discreta quantità di P3X allo stato
liquido, una capsula che ora abbiamo provveduto a
rompere.»
«Ma… che cosa
significa!? Che avete intenzione di fare? Volete
torturarla!?»
«Indovinato.»
rispose Steven con la stessa freddezza di Kyuzo «E posso assicurarti che la
cosa provoca un grande piacere in tutti i presenti.»
«Quella donna ha
ucciso Harue» disse Hibraim
«Chi uccide una bambina invalida a sangue freddo non merita di vivere, ma se
proprio deve morire lo farà dopo aver patito sulla sua
pelle lo stesso dolore arrecato a tutti noi.»
«Voi… voi non
potete…»
«Ci vorrà qualche
minuto perché faccia effetto.» disse Steven tornando a guardare il monitor «È
necessario che il P3X venga completamente assorbito
dall’organismo.»
«Meglio così.»
replicò Kyuzo «Sarà interessante vedere fino a quando riuscirà a resistere».
Dopo lo scontro con Colombe nella sala dei ricevimenti
Revy aveva cercato di evitare il combattimento quanto più possibile.
Battersi con una
sola pistola non era facile per lei, il suo stile si avvaleva obbligatoriamente
di entrambe le mani, e non a caso si chiamava stile Two-Hands;
se avesse ingaggiato battaglia con un avversario forte come Colombe con una
sola arma quasi sicuramente sarebbe finita con una palla in testa, ma dopo aver
provato varie possibili soluzioni con le armi prese ai
cadaveri dei nemici morti o in qualcuno di quei depositi segreti nascosti in
giro per l’albergo non le era ancora riuscito di trovare qualcosa in grado di
adattarsi alla perfezione.
Alla fine, quando
ormai si stava rassegnando, per puro caso trovò un contenitore segreto nascosto
sotto ad un tappeto, e al suo interno una Beretta
simile in tutto e per tutto a quella che aveva appena perso, ma con una
differenza; oltre ad avere due grilletti in fila, alla sommità della canna
c’era un grosso cilindro da cui spuntava una piccola punta metallica.
«Uno spara-rampini.» disse tra sé e sé dopo averla raccolta
«Beh, potrebbe sempre tornare utile».
Usando l’ascensore
lì vicino raggiunse in pochi secondi la grande piscina dell’ultimo piano, che
oltre ad essere attrezzata di ogni genere di comfort,
dai tavolini con gli ombrelloni agli sdrai, dai vasi con piante esotiche al
bar, dagli scivoli ai trampolini, era protetta dal clima di Bangkok da una
spessa cupola di vetro rinforzato che poteva all’occorrenza essere rimossa
elettricamente.
A prima vista
sembrava non esserci nessuno, ma subito dopo essere entrata Revy avvertì
distintamente uno sguardo minaccioso che la puntava nascosto da qualche parte,
e difatti fu prontissima a schivare una pallottola saltando e nascondendosi
dietro ad un tavolino.
Revy avrebbe
riconosciuto il particolare suono di quello sparo anche nel mezzo di una
battaglia; c’era una sola persona al mondo capace di usare pallottole d’acciaio
abbinate a una Beretta vecchio modello, e quella
persona era il suo maestro, colui che le aveva trasmesso l’arte del Two-Hands.
«Bella schivata,
Revy!» disse una voce squillante, fortemente ironica
«Ti ringrazio, Chang!» rispose lei senza sporgersi dal suo nascondiglio
«Ora puoi anche venire fuori!».
E difatti, qualche
secondo dopo, da dietro un vivaio uscì Mr. Chang, il
re delle Triadi di Roanapur, con quel suo lungo
cappotto nero sopra ad un elegante vestito da festa,
la lunga sciarpa bianca, gli occhiali da sole e la sigaretta accesa; in mano
stringeva le sue fedelissime pistole, e da una di esse ancora usciva un rivolo
di fumo.
«Felice
che tu sia ancora viva, Two-Hands. In tutta onestà
non credevo saresti durata tanto a lungo.»
«Ah, ma davvero?»
disse Revy uscendo a sua volta allo scoperto «E di te
che mi dici? Ti credevo già all’altro mondo.»
«Frena
Two-Hands, non montarti la testa. Hai forse
dimenticato chi è il maestro di chi?»
«Sì,
hai ragione. Ma sai come si dice. Arriva sempre il
momento in cui l’allievo supera il maestro.»
«In effetti è così, ma questa non è certo una costante
universale».
Chang sputò la sigaretta ormai spenta e con assoluta
indifferenza se ne accese un’altra, quasi come se il fatto di avere una pistola
puntata contro fosse una cosa del tutto trascurabile.
«Lo
sai Revy? Dopotutto, non mi dispiace che stia accadendo tutto questo. In fin
dei conti, era ora che qualcuno provvedesse a
rimuovere un po’ di pattume dalle strade di questo mondo.»
«Voglio
ricordarti che anche noi siamo coinvolti in questa specie di gioco al massacro.
Dicendo così, non finisci forse per considerare pattume anche te stesso?»
«E
allora, dov’è il problema? Io l’ho sempre saputo di essere pattume.»
«Che cosa!?» esclamò la ragazza spalancando gli occhi
«Che
c’è, ti sorprende? Chiunque scelga di intraprendere questa vita sa bene dove essa conduca, e sa bene che da quel momento in
avanti, per quanti soldi possa guadagnare, per quanto potere possa accumulare,
per quanti uomini possa uccidere, rimarrà sempre e comunque un rifiuto».
Revy era a dir
poco sconvolta, non voleva credere che quello davanti a lei fosse lo stesso Mr.
Chang che aveva sempre conosciuto; come poteva dire
una cosa del genere l’uomo la cui crudeltà e disonestà
erano paragonabili solo a quella di Balalaika?
«Questa
è una massima indistruttibile Revy, un vero e proprio dogma. Possiamo avere
tutto il denaro e il potere che vogliamo, possiamo disporre
degli agganci più alti, comandare tutti i politici, ma agli occhi della
maggior parte del mondo noi siamo e resteremo dei rifiuti, e tutti saranno
molto felici quando ci leveremo dalle palle finendo due metri sottoterra.
Chiunque di noi
che percorra questa strada senza essere consapevole di questa regola
fondamentale è destinato a fallire.»
«A… fallire?».
Abbandonata quella
sua posa tranquilla Chang si
piantò davanti a lei divaricando leggermente le gambe.
«Molto bene Revy. È giunto il momento di scoprire chi di noi due è il
vero maestro dello stile Two-Hands. E sappi, che non
mi tratterrò.»
«Perché, ti
aspetti forse che io lo farò?» rispose Revy sollevando le sue armi.
A lungo rimasero
immobili, Chang ostentando il proprio indomabile
autocontrollo Revy cercando di scorgere il suo sguardo raggelante oltre il nero
di quelle lenti, poi partirono contemporaneamente alla
carica correndo lateralmente nella stessa direzione e prendendo a regalarsi
l’un l’altro valanghe di colpi.
Si spostavano
lungo i bordi della piscina, senza accennare a rallentare o a fermarsi, perché farlo avrebbe significato morte certa; Revy venne ferita di
striscio alla guancia, Chang invece al ginocchio
destro, ma il cinese notò quasi subito l’insolita imprecisione di tiro della sua
ex-allieva.
«Che ti succede,
Revy?» domandò quando entrambi, conclusa la corsa, si nascosero dietro a dei
vivai «Di colpo ti servono un paio di occhiali?»
«Sai, c’è una cosa
che volevo dirti da un sacco di tempo!» rispose Revy con sicurezza più che falsa
«Il tuo senso dell’umorismo fa decisamente cagare!».
Chang in realtà aveva indovinato solo una delle due cose,
la più evidente, ovvero che la mira di Revy non era
più così infallibile, ma a determinare un simile calo di prestazione non erano
certo i suoi riflessi; lo spara-rampini della sua
nuova pistola era indubbiamente un deterrente che in futuro sarebbe potuto
tornare comodo, ma appesantiva l’arma in modo non indifferente, e la precisione
di conseguenza ne risentiva, soprattutto in movimento.
“Fanculo, quest’aggeggio è pesantissimo”.
Purtroppo non
c’era tempo per le riflessioni o per tentare di rimuovere il congegno, perché
l’inconfondibile tic prodotto dal nuovo caricatore che Chang
aveva inserito nelle sue armi annunciava l’immediato inizio del secondo round.
Fece dunque per rialzarsi
in piedi e lasciare a sua volta il proprio nascondiglio, se
non che all’improvviso una terribile sensazione le attraversò il corpo,
facendole sgranare gli occhi; non sapeva bene cosa fosse, e non sarebbe stata
capace di descriverla a parole, ma era qualcosa di assolutamente orribile.
Era come se il suo
corpo fosse paralizzato, o peggio ancora come se si muovesse di propria
volontà, la testa le faceva male, le bruciavano gli occhi e si sentiva la bocca
impastata.
Tutto ciò durò
solo qualche secondo, ma sfortunatamente fu più che sufficiente per peggiorare
terribilmente la già difficile situazione di Revy, che di colpo vide un’ombra
scura sovrastarla dall’alto; giratasi, si trovò a tu per tu con la bocca di una
delle pistole diChang.
«Mi dispiace
tesoro, scacco matto».
Era dunque davvero
finita? Era destinata a finire così?
Sarebbe morta in
quella specie di gabbia dorata, uccisa da quello che un tempo era stato il suo
maestro, con addosso lo sguardo sadico e divertito di
quel damerino coi superpoteri che per tutta la durata di quel gioco perverso
l’aveva stretta saldamente nelle proprie mani come una bambola da schiacciare
in qualsiasi momento?
No! Per niente al
mondo doveva finire in quel modo! Non poteva morire, non ancora! C’era una cosa
di cui voleva ancora essere certa!
Lo scontro con
Colombe l’aveva turbata, anche se cercava di non darlo a vedere, riportandole
alla mente gli eventi del giorno prima, soprattutto quelli legati ai fatti
della Seaborn Star, ma facendoglieli vedere da
un’ottica completamente diversa.
Malgrado non
ricordasse nulla, di colpo aveva avuto come l’impressione che vi fosse qualcosa
di strano, di distorto, qualcosa che doveva assolutamente riuscire a ricordare.
Del resto, troppi
pezzi di quel complesso puzzle continuavano a non combaciare, e quella specie
di rumore di fondo che le risuonava ossessivamente
nella testa sembrava dirle che per svelare completamente l’intero disegno
occorreva innanzitutto che lei ricordasse; che ricordasse cosa era accaduto
realmente su quella nave.
Per questo, dopo
la morte di Colombe, si era ripromessa di non morire fino ad aver risolto
quell’intricato rompicapo, una decisione dettata sia dall’orgoglio che da quella coscienza che per molto tempo aveva creduto di
non avere più; ne aveva sempre fatto una regola, di non uccidere mai e poi mai
degli innocenti, e anche se in passato l’aveva violata già un paio di volte
l’idea di aver sparato senza pietà ad una bambina in sedia a rotelle le faceva ribrezzo.
Non poteva essere
successo, non doveva essere successo, ma se davvero era
così allora voleva assolutamente scoprire perché, perché era stata così stupida
e così disumana.
Non avrebbe
permesso a nessuno di ucciderla, neppure a Mr. Chang,
e se per riuscire a portare a galla la verità era costretta ad
ucciderlo ebbene neppure per lui ci sarebbe stata pietà.
Revy cercò di
spendere quei pochi secondi a sua disposizione per cercare una soluzione che la
cavasse d’impiccio.
Di rispondere al
fuoco non se ne parlava; la pistola con lo spara-rampini era scarica, nell’altra invece era
rimasto il classico ultimo colpo, e poi sarebbe bastato accennare una qualche
reazione per andare a scambiare due chiacchiere direttamente con San Pietro.
Anche cercare di
temporeggiare fuggendo pareva impossibile; poca distanza da lei infatti c’era la parete vitrea della cupola, e sotto di
essa il vuoto più totale, ma vedendo la luna piena stagliarsi proprio di fronte
a lei Revy ebbe, incredibilmente, l’intuizione che poteva salvarla.
Quella parete, a
giudicare dalla posizione della luna, guardava verso ovest, cioè verso il lato
opposto all’ingresso dell’albergo, dove un gran numero di terrazze si affacciavano sul cortile sottostante, su cui si trovavano
un’altra piscina e un ristorante all’aperto.
Il cortile, come
spiegato all’inizio, non faceva parte della griglia di gioco, ma uno degli
avversari che Revy aveva affrontato era uscito in una terrazza senza saltare
per aria, il che significava che la zona immediatamente attigua alla parete,
almeno da quel lato, era coperta dal campo magnetico.
In quel momento
ringraziò di aver trovato lo spara-rampini, perché
sarebbe stato proprio quello che avrebbe potuto salvarle la vita.
Ormai non c’era
più tempo, Chang stava già cominciando a fare
pressione sul grilletto.
Tutto si svolse
come alla moviola.
Revy scattò in
piedi slanciandosi in avanti, e senza neanche prendersi il disturbo di guardare
il suo avversario dopo tre falcate spiccò un salto, proteggendosi immediatamente
il volto con le braccia.
Chang, spiazzato da quel gesto improvviso, impiegò qualche
secondo a riprendere il controllo, ma sparandole due volte non riuscì a
colpirla.
Pur essendo
rinforzato il vetro cedette quasi subito, grazie anche
alle incrinature prodotte dai proiettili di Chang, e
la ragazza di colpo si sentì come risucchiata dal forte vento che soffiava a
quelle altezze; la parete ebbe anche l’effetto di limitare di molto lo slancio
in avanti, difatti dopo neanche tre metri Revy prese a precipitare verso il
basso.
Ce
l’aveva fatta, era in salvo.
Ora bastava solo
girarsi e lanciare il rampino in modo da assicurarlo a qualcuna delle molte
sporgenze presenti sulla parete e usare il sistema del pendolo per rientrare
nell’edificio sfondando qualche finestra.
Voltatasi, vide però qualcosa che non avrebbe mai immaginato di vedere,
ma che conoscendo il suo avversario avrebbe dovuto aspettarsi.
Mr. Changnon si era affatto arreso,
non aveva abbandonato l’idea di avere la meglio su Revy, e a sua volta si era
buttato giù dallo squarcio nel vetro con una pistola in una mano e l’altra ben
stretta attorno ad una di quelle corde usate per delimitare le corsie delle
piscine, ed essendo quest’ultima assicurata per un capo al pavimento con un
nodo robusto non vi era neanche pericolo per il re della Triade di finire come
una sogliola.
Malgrado ciò il
piano non poteva cambiare, anche perché non c’erano altre variabili in gioco; o
Revy faceva come aveva deciso, o l’avrebbero raccolta col cucchiaio, quindi, puntata
la sua nuova arma verso l’alto, spinse il secondo grilletto, quello più
interno.
Il rampino partì
come un missile, aprendosi subito dopo lo sparo in forma di croce e tirandosi
dietro la sottile corda di keplar che srotolandosi
produceva un rumore simile ad un ronzio.
Changvenne quasi colpito da una
delle punte, che gli passò a pochi centimetri dalla guancia, quindi il rampino
andò ad assicurarsi al balcone di una finestra, e a quel punto Revy subito
spinse il bottone che azionava il blocco della fune.
Il contraccolpo fu
violentissimo, ma produsse anche quell’effetto pendolo che permise a Two-Hands di non schiantarsi sulla grande terrazza sotto i
suoi piedi ma piuttosto di sfondarne la grande porta finestra; sfortunatamente
la velocità di dondolio non era particolarmente elevata, e fu un vero miracolo
se i femori non le andarono in pappa nell’urto con quei doppivetri.
Oltretutto, nel momento stesso in cui sfondava
la finestra, il rampino perse l’appiglio, e quello che doveva essere uno tranquillo atterraggio divenne invece un tremendo colpo
di sedere, per quanto la moquette di quella stanza fosse straordinariamente
morbida.
Magari Chang aveva fatto male i suoi calcoli, magari la corda a cui si era aggrappato non era così lunga da permettergli un
volo del genere, ma non appena Revy girò nuovamente lo sguardo verso la
finestra dopo essersi liberata dei vetri che aveva addosso lo vide lì, in piedi
al centro del terrazzo, con nuovamente in mano entrambe le sue pistole.
«Lo ammetto,
questa non me l’aspettavo.» disse aspirando una
boccata di fumo «Non possiamo negare che tu abbia un gran fegato, ma purtroppo
coraggio e invettiva non sono tutto, specialmente in una situazione simile».
Revy digrignò i
denti, sentendosi nuovamente in trappola; aveva disposizione solo un colpo, ma
sapeva fin troppo bene che in un modo o nell’altro Chang
lo avrebbe evitato, lasciandola completamente scoperta e pronta a ricevere il
colpo di grazia.
«Peccato.
Sembra proprio che conserverò il mio titolo ancora per un po’».
Mr. Chang prese dunque ad avvicinarsi, tenendo una pistola
rivolta in alto e l’altra puntata verso Revy; camminava lentamente, perché
tanto sapeva che non c’era nessuna fretta, e intanto Revy si sentiva sempre più
prossima alle porte dell’inferno.
Poi, d’un tratto, sembrò come avere un’illuminazione, e di colpo
il suo sguardo parve accendersi di stupore; forse aveva visto qualcosa, o forse
Chang aveva fatto qualcosa, ma bastava guardarla per
capire che qualcosa era cambiato.
Anche il re della
Triade se ne accorse, e immediatamente si fermò, pur seguitando a restare,
all’apparenza, calmo e freddo come il ghiaccio.
«Posso sapere
cos’è che ti fa sorridere in quel modo?»
«Dimmi un po’, Mr. Chang. Sei davvero così
sicuro di riuscire a vincere?»
«Come,
scusa? Dì un po’, comprendi la situazione in cui ti trovi? Te l’ho sempre
detto, la calma e l’autocontrollo sono i compagni migliori di un killer, ma a
quanto pare mi hai preso fin troppo alla lettera.»
«Chissà, forse è
così.»
«Beh, comunque
sia…» disse il cinese sollevando il cane «Hai perso, Revy».
A quella frase la
ragazza sogghignò ancor più vistosamente, e allora
neppure Chang riuscì a far finta di niente.
«No,
Mr. Chang. Tu hai perso!».
Fu solo in quel
momento che il re della Triade pensò di guardare sotto di sé, e solo allora si
accorse di avere le gambe divaricate proprio sopra la
fune del rampino.
Istintivamente
cercò di alzarlo, ma ormai era troppo tardi; approfittando della sua
distrazione Revy azionò il recupero, e il cavo di
colpo prese a riavvolgersi con la stessa velocità con cui era uscito; come
previsto il rampino si impigliò nuovamente, questa volta sul parapetto della
terrazza, tendendosi allo spasimo.
Chang avvertì come una paurosa frustata alle parti basse e
subito dopo volò in aria come una piuma, girando su sé
stesso; le sue abilità di esperto lottatore gli permisero di tornare a terra
sulle sue gambe, ma prima che potesse anche solo rialzare lo sguardo Revy
utilizzò l’unica pallottola rimastale per fulminarlo in mezzo al torace.
Il cinese prima
gridò, poi, gemendo, si piegò barcollando in avanti, e solo mettendo avanti un
piede riuscì a non cadere; le sue due pistole, coperte di sangue, gli caddero
di mano.
«C… complimenti, Revy. Mi hai… davvero sorpreso. Il titolo di Two-Hands…. È tuo…».
Pochi istanti dopo
cadde a terra sul torace; i suoi occhiali, che mai una volta aveva tolto in presenza di altri, scivolarono via, rotolando sulla
moquette fino a venire fermati dallo scarpone di Revy, che con sguardo perso li
raccolse.
Aveva davvero
fatto la cosa più giusta?
Non aveva mai
alzato un dito su Mr. Chang, aveva sempre avuto per
lui il massimo rispetto, e ora lo aveva ucciso.
Avrebbe voluto
pensare ancora, cercare di dare una spiegazione per il gesto che aveva appena
commesso, ma ecco improvvisamente ricomparire la sensazione di pochi minuti
prima, mille volte più dolorosa e sconvolgente.
Di colpo Revy
sembrò perdere il controllo del suo stesso corpo, gli occhi si spalancarono fin
quasi ad uscire dalle orbite, la bocca si piegò in un
urlo che non le riusciva di esternare, trasformato in nulla più che un gemito
sommesso, quasi un rantolo di agonia.
Le sembrò di venire attraversata da una scarica elettrica, gambe e
braccia presero a tremare furiosamente, si sentiva completamente paralizzata e
un indicibile dolore, accompagnato da un fischio insopportabile, prese a
devastarle la testa.
Forse senza
volerlo Revy guardò le lenti degli occhiali, ma invece
del proprio volto vide quello urlante e terrorizzato di una bambina coi capelli
castani.
La riconobbe, la riconobbe subito.
Era lei!
Il fantasma dei
suoi sogni. Lo spirito senza pace che da anni continuava a tormentarla quasi
ogni notte.
Innumerevoli
immagini presero a scorrere nella sua mente, immagini orribili, che la
terrorizzarono fino alle lacrime; una stanza buia, una figura nera seduta su di
una sedia a rotelle, e quella stessa sedia imbrattata
di sangue.
Quello stesso
sangue d’improvviso ebbe l’impressione di sentirselo addosso, caldo e denso, e
subito cominciò ad agitarsi furiosamente nel tentativo di levarselo; in realtà
il suo corpo e i suoi vestiti erano perfettamente lindi, ma lei lo sentiva, e
nel tentativo di liberarsene strappò via il cerotto che aveva sul fianco,
scoprendo i resti, ormai prossimi alla cicatrizzazione, della ferita infertale
da Kyuzo.
Kyuzo.
Perché in quelle
immagini sconvolgenti vedeva anche lui? Perché lo vedeva così, inerme e
sconvolto, inginocchiato al centro di un cerchio di luce mentre abbracciava
quella sedia a rotelle piangendo tutte le sue lacrime?
Che cosa aveva
fatto?
Come aveva potuto
distruggere in quel modo la felicità di un’intera famiglia?
Che razza di
mostro era diventata?
Il dottor Ashford non era mai
stato quel genere di persona che ama starsene con le mani in mano,
per questo, non avendo niente da fare, era sceso al livello dei laboratori per
fare un controllo di routine, al termine del quale prese nuovamente l’ascensore
per ritornare in sala controllo dove gli altri erano riuniti.
Non appena le porte
si aprirono sul corridoio del primo livello uscì all’esterno, ma appena si girò
alla propria sinistra qualcuno gli arrivò alle spalle e lo colpì violentemente
alla nuca, lasciandolo immobile a terra privo di sensi.
«Ti chiedo scusa.»
disse Rock lasciando cadere l’estintore che aveva in mano «Ma non posso
permettere che Revy e gli altri continuino a rischiare la vita».
Mentre Ashford era ancora svenuto Rock gli fece appoggiare il
pollice sul lettore di impronte, e così facendo riuscì
a far riaprire le porte, quindi, recuperata la 9mm che il dottore aveva alla
cintura, entrò nell’ascensore, che immediatamente si richiuse.
Nello stesso
momento, in sala comandi, Steven tentava di alleviare la stanchezza per la
notte in bianco sorseggiando del caffè; Hibraim
faceva passare il tempo lavorando al suo notebook, Kyuzo invece rimaneva seduto
con le braccia incrociate e gli occhi chiusi, come se stesse dormendo, ma era
chiaramente ben sveglio.
«Ah, quasi
dimenticavo.» disse Steven prendendo una cartella dalla valigetta appoggiata
sotto il tavolo della consolle, nello spazio per distendere le gambe «Kaito, questa ha bisogno della
tua firma. Me l’ha data Samejima stamattina».
Il giovane riaprì
dunque gli occhi e prese il fascicolo, dandogli una rapida occhiata.
«Altri fondi per
la beneficenza.»
«La quota
mensile.» rispose Steven
«Sarà la mia
ultima firma.» commentò Kyuzo scribacchiando il proprio nome in fondo al foglio
a caratteri occidentali.
Malgrado
in Giappone fosse molto diffusa, per non dire anzi fosse prassi,
l’abitudine di firmare un documento servendosi di un timbro personalizzato con
sopra inciso il proprio nome, sia Kaito che suo padre
avevano sempre rifiutato questa alternativa, optando piuttosto per la cara
vecchia firma a penna che a loro dire era molto più “viva”.
«Ci pensi, Steven? Questa potrebbe essere la mia ultima firma.»
«Chissà.» replicò
l’amico recuperando la cartella «Potrebbe anche non
essere così. Giusto Hibraim?»
«Ben
detto. Dopotutto, potrebbe sempre succedere qualcosa».
Kyuzo sembrò
sorridere, un sorriso di complicità mista a rassegnazione, e qualche secondo
dopo il dottor Ashford entrò nella stanza tenendosi
la testa.
«Greg, che è
successo?» chiese Steven
«È
stato Okagima. Mi ha colpito alle spalle appena sono
sceso dall’ascensore.»
«Credo
sia entrato nell’albergo. Mi ha anche preso la
pistola.»
«Dannazione!
Che diavolo ha in mente quel pazzo?» e senza pensarci
troppo il giovane guadagnò di corsa l’uscita.
L’hotel Universe era davvero un
luogo da sogno. Fra le altre cose, disponeva anche di una zona shopping, una
sorta di galleria formata da due corridoi pieni di negozi che si intersecavano in una pianta a croce greca con al centro
un piccolo piazzale abbellito con piante esotiche, panchine e anche una
fontana.
In
effetti nella campagna pubblicitaria che ne aveva preceduto l’imminente
inaugurazione era stato detto più volte che non si trattava solo di un semplice
albergo, ma di una vera e propria città in miniatura, al cui interno si poteva
trovare tutto ciò di cui un visitatore smanioso di divertimento e relax poteva
avere bisogno; non per niente, i negozi della zona shopping erano rappresentati
da nomi d’alta classe, da Armani a Chanel, da Tiffany a Prada.
Le vetrine
traboccavano di beni di lusso, vestiti, scarpe, gioielli, e quegli eleganti
corridoi dove luci, marmo bianco e intarsi dorati la facevano padroni erano il tocco finale di quella grandiosa ostentazione di
prestigio.
In quella specie
di paesaggio da sogno si muoveva sorella Eda, anche
lei come Chang perennemente nascosta dietro i suoi occhiali da sole e con
in bocca la solita gomma americana, pronta a far risuonare forte i colpi della
sua glock al minimo fruscio.
Era stata addestrata
per essere una spia professionista, sapeva muoversi in silenzio senza mai
mostrare le spalle, del resto gli infiltrati della CIA erano da sempre la punta
di diamante dei servizi segreti di tutto il mondo; potevano penetrare dovunque, non c’era nulla in grado di fermarli, e avere a
che fare con loro era una pessima idea.
C’era però anche
qualcun altro a cui bisognava stare attenti a non
pestare i piedi, qualcuno forse ancor più pericoloso di una spia
professionista.
Appena avvertì un
rumore quasi impercettibile alle proprie spalle Eda eseguì un salto acrobatico poggiando a terra una
mano e girando su sé stessa, il che le permise di evitare una coppia di
piccolissimi coltelli diretti nella sua direzione; le due lame tagliarono senza
problemi la gonna della sua veste da chierica mentre era a gambe all’aria per
poi conficcarsi nella colonna della fontana, e subito dopo da dietro una pianta
comparve un’aggraziata figura femminile dai lunghi capelli neri che stringeva
una coppia di machete legati insieme da una corda di seta.
«Shenhua.» disse Eda rimessasi in
piedi
«Essele passato un po’ di tempo, suoltloia.» rispose lei mostrando il suo sorriso provocatorio
«Troppo poco per i
miei gusti.»
«Spilitosa come sempre. Se non sbaglio io
e te abbiamo ancola conto in sospeso.»
«Ora che mi ci fai
pensare, in effetti è proprio così. E a dirti la verità, non immaginavo di incontrarti ancora dopo
quella volta. Quando mi hanno detto che eri sopravvissuta al crollo della
baracca non ci ho voluto credere.»
«Io fatta di
acciaio, dovresti sapello.»
«D’acciaio,
eh? Chissà se sarà duro abbastanza da fermare anche le mie pallottole.»
«Staremo a vedere».
Eda fece la prima mossa sparando un paio di colpi, maShenhua schivò senza
alcun problema saltando lateralmente, e subito dopo rispose lanciando un altro
paio di quelle lame che portava al cinturino legato attorno alla coscia.
Sorella Eda ricordava molto bene il loro ultimo e unico scontro,
sapeva che quella piccola taiwanese dal visino dolce poteva essere
terribilmente pericolosa, e che bisognava guardarsi da quei suoi infernali
coltellini come dalla peste. Dopo essersi nascosta dietro ad uno dei quattro
vivai che circondavano la fontana cercò di sparare
ancora, ma non fece in tempo a mettere fuori il braccio che un altro di quei
coltellini per poco non glielo trapassò.
A quel punto non
ebbe altra scelta che entrare in uno dei negozi, questo a causa anche del fatto
che improvvisamente i due ingressi alla zona shopping si erano
chiusi da soli, intrappolando entrambe al loro interno.
Shenhua provò a fermarla lanciando una delle sue due spade, maEda fu abbastanza
previdente da coprirsi la fuga con una granata fumogena così a venire
trapassato fu solamente un manichino esposto in vetrina.
«Non cledeledi sfuggile me, suoltloia».
Anche lei entrò
dunque nel negozio, un atelier di altissima classe dove
abbondavano abiti da sera e completi sportivi degni della notte degli oscar o
della finale dei mondiali. Scaffali e camerini ce n’erano che si sprecavano,
ottimi posti in cui nascondersi, pertanto Shenhua
decise di vedere le cose da un’altra prospettiva, e con un paio di salti fu
sopra una delle grandi lampade al neon che pendendo dal soffitto formavano una
sorta di pontile sopraelevato da cui si dominava l’intera zona.
Grazie a questo
espediente non le servì molto per scorgere il drappo nero di Eda dietro alla tendina di un camerino.
«Fine dei giochi.»
disse ghignando, quindi, saltata giù, lanciò con forza uno dei due machete, sradicando
la tendina e mandando in mille pezzi lo specchio del camerino.
Tuttavia lo
stupore e lo sgomento per lei furono davvero tanti nel momento in cui si
accorse che il vestito da suora non lo indossava Eda,
ma un semplice manichino.
«Ma cosa…»
La vera Eda comparve un secondo dopo da dietro un bancone con
indosso gli abiti civili che portava sempre sotto la veste sacra proprio per
casi come quello.
«Vattene
all’inferno, cinese di merda!» gridò iniziando a sparare.
Shenhua fu costretta a recidere la corda che univa le due
spade lasciando l’altra incastrata fra i vetri dello specchio, quindi cominciò
a correre per tentare di portarsi al sicuro; Eda dal
canto suo non voleva concederle un attimo di tregua e continuava ad inseguirla, tenendosi però sempre vicina a qualsiasi cosa
potesse fungere da scudo contro le lame dell’avversaria.
Era quasi riuscita
a metterla alle corde, stava per spararle dopo che era uscita allo scoperto,
quando di colpo si ritrovò il caricatore scarico.
«Merda!» disse
rabbiosa infilandone uno nuovo, ma quei pochi secondi di indecisione
furono più che sufficienti a Shenhua per ribaltare la
situazione.
La ragazza fece
ondeggiare minacciosamente l’unica spada rimastale quindi
la lanciò tenendo ben stretta la corda di seta ed imprimendole un movimento a
semicerchio; Eda se ne accorse e cercò di spostarsi
per evitare il colpo, ma venne comunque ferita alla spalla destra e a causa di
ciò la pistola le volò via di mano, scivolando a parecchi metri da lei dietro
le sue spalle.
Dare la schiena a
una come Shenhua voleva dire suicidarsi, quindi Eda non poteva fare altro che tentare lo scontro diretto e
le corse contro; l’avversaria cercò di trafiggerla appena le fu addosso, ma lei
non si fece sorprendere e afferratole il braccio armato
glielo storse violentemente costringendola a mollare l’arma, che volò in aria
conficcandosi poi al suolo.
Tra le due iniziò
quindi un violento corpo a corpo in cui Shenhua dimostrò una notevole esperienza anche nelle arti
marziali, ma anche Eda era perfettamente addestrata
per questo tipo di situazioni e riuscì a tenerle testa; ad un certo punto Shenhua si vide costretta a giocare sporco e mise mano all’ultimo
coltello rimastole, quello mascherato da fermacapelli, quindi cercò di tagliare
la gola della donna americana, che per fortuna rimediò solo un leggero taglio
alla guancia per essersi spostata giusto in tempo.
Eda di tutta risposta afferrò la taiwanese per la vita e
dopo averla girata eseguì un poderoso germansuplex, ma pur accusando
pesantemente il colpo Shenhua le restituì il favore
colpendola alla fronte con il tacco della scarpa nell’atto di liberarsi.
Indubbiamente erano
entrambe combattenti di grande talento, e dopo tutti i colpi che si erano scambiate era chiaro che lo scontro fisico non sarebbe
bastato per segnare la sconfitta definitiva di una delle due.
Dopo essersi rialzate presero a guardarsi minacciosamente negli occhi.
Shenhua aveva il vestito lacerato e un grosso livido ad una guancia lasciatole da un destro micidiale, Eda invece sanguinava dalla fronte e dalla spalla.
«Tu blavasuoltloia,
lo ammetto.»
«Anche tu non sei
male, cinesina di merda.»
«Io
taiwanese, no cinesina. Già detto migliaia di volte.»
«Credo
sia giunto il momento di farla finita. Questa storia è durata anche troppo.»
«Io d’accoldo, olmai finito di esselediveltente».
Ognuna delle due
aveva alle proprie spalle l’arma dell’altra, in una immaginaria
linea retta lunga cinque o massimo sei metri; solo la più veloce l’avrebbe
avuta vinta, e con un sincronismo pressoché perfetto entrambe scattarono in
avanti correndosi addosso.
Si passarono
accanto proprio nel mezzo, saltando subito dopo, rotolando a terra.
Shenhua arrivò per prima, e afferrata saldamente la sua
spada rotolò per terra quindi, inginocchiatasi, caricò il braccio preparandosi
a lanciare.
Eda arrivò solo un istante dopo, compiendo a sua volta una
capriola e recuperando contemporaneamente la pistola, che puntò immediatamente
verso l’avversaria mettendosi in ginocchio.
Nello stesso
istante si udirono il fragore di uno sparo ed un
sibilo sinistro, poi il tempo sembrò fermarsi, cristallizzando ogni cosa.
Eda impiegò diversi secondi ad avvertire quel tremendo
dolore al fianco, ed abbassato lo sguardo vide la
spada di Shenhua conficcata poco sotto l’ultima
costola. Una brutta ferita, forse non mortale, ma certamente gravissima.
Shenhua, vedendola digrignare i denti, sogghignò, ma subito
dopo essersi rialzata il suo bel viso si irrigidì
facendosi di pietra, e l’abitino bianco che indossava cominciò a colorarsi di
rosso all’altezza della milza.
«Come… come
possibile…» balbettò tossendo sangue «Spada… è alma migliole…»
«Mi
spiace tanto, cinesina. A quanto pare avevi torto.»
«No… può… essele…»
«Bisogna stare al
passo coi tempi».
Shenhua sembrò quasi sorridere, forse l’unico sorriso
sincero della sua vita, e subito dopo cadde morta in un lago di sangue; non
poteva saperlo, ma con lei scomparivano le punte di diamante della Triade
cinese lì in Thailandia.
«Il mondo cambia
troppo in fretta.» disse Eda togliendosi la spada di
dosso e tamponando subito la ferita con una mano «Forse,
quello che sta facendo questo tizio non è poi così sbagliato. C’è così tanto marcio in questo mondo, che fare un po’ di
pulizia non sarà certamente una cattiva cosa».
Eda fece per rilassarsi dopo quella difficilissima sfida
che l’aveva portata vicino alla morte come mai nella sua vita, ma era ancora
abbastanza guardinga da accorgersi subito di avere qualcun altro alle sue
spalle, e senza alcuna esitazione si girò il più velocemente possibile,
sparando a bruciapelo.
La vittima non
fece neppure in tempo a reagire e finì all’altro mondo con una facilità a dir
poco disarmante, ma appena la donna si accorse a chi aveva sparato per poco non le prese un colpo.
Non l’aveva mai
vista di persona, ma aveva sentito parlare di lei diverse volte, e sbagliarsi era impossibile. Quel vestito rosso, quella giacca militare
indossata come un mantello, quei capelli biondi e soprattutto quelle orribili
bruciature che le deturpavano buona parte del volto. Era lei, senza ombra di dubbio.
«Ba… Balalaika!?».
Nota dell’Autore
L’avevo promesso,
vero?
Avevo detto che avrei
aggiornato più rapidamente, e finalmente sono riuscito a mantenere la promessa.
Ok, forse una settimana non è poi così poco, ma sempre meglio che in passato.
Anche questo cap, come il precedente, non mi soddisfa appieno, ma
anticipo subito che sarà l’ultimo dedicato quasi esclusivamente ai
combattimenti.
A partire dal prossimo comincerà la famosa
catena di eventi già lungamente preannunciata, e ormai siamo quasi in dirittura
d’arrivo. Non ne sono ancora completamente sicuro, ma credo che con altri tre o
quattro cap (che dovrebbero essere un po’ più lunghi
di quelli scritti finora, almeno in teoria) avrò finito.
Rivolgo i soliti
ringraziamenti ai miei recensori, Beat,
Selly, Gufo, Carlitz e Lisy.
Beat, mi rivolgo soprattutto a te; so
che volevi far vincere Chang, ma ho dovuto fare una
cernita dei personaggi da salvare e la sua morte mi è sembrata quella più
valida, soprattutto per via del suo particolare rapporto con Revy.Scusascusascusa! ^_^
Ringraziamenti anche
a Yuro per
aver inserito la storia fra i preferiti
L’ascensore di collegamento fra l’hotel e i laboratori
aveva condotto Rock ben più in alto di dove si aspettasse, al dodicesimo piano.
Le porte della
cabina erano nascoste dietro ad un grande bassorilievo marmoreo in stile ellenico
che adornava una sala fumatori con zona bar, tavoli
per il poker e pianoforte.
Non sapeva bene
cosa fare, per la verità non aveva neppure idea di ciò che stava facendo, ma
una cosa la sapeva per certo; non avrebbe permesso a Kyuzo e gli altri di
continuare a perseguitare Revy.
Comprendeva
perfettamente il loro dolore e la loro sete di vendetta, ma non poteva
accettare l’idea che coinvolgessero nel loro progetto persone innocenti.
Del resto, ormai
aveva la certezza assoluta che Revy non avesse avuto nulla a che fare con la
morte di Harue e con quello che era successo sulla Seaborn Star; Revy aveva tanti difetti, era violenta,
irascibile e a volte spietata, ma Rock sapeva che non
avere pietà neppure per una bambina invalida era troppo persino per una come
lei.
Dopo due anni
trascorsi al suo fianco sapeva ciò che Revy poteva o
non poteva fare, e uccidere a sangue freddo una bambina innocente come Harue rientrava decisamente nella seconda categoria.
Voleva trovarla,
chiederle spiegazioni, portarla in salvo, e poi tornare da Kaito,
nella speranza di riuscire a farlo ragionare.
D’altra parte
però, ciò che lui e i suoi compagni stavano facendo non era poi così sbagliato,
e se in tutto ciò non fossero stati coinvolti anche i membri della Lagoon sarebbe stato felice di vedere quell’esercito di
mostri senz’anima scannarsi fra di loro, portando così alla luce la loro vera
natura.
Non lo avrebbe mai
creduto possibile, ma la morte di Mr. Chang, Shenhua e di molti altri come loro gli aveva fatto un incredibile
piacere.
Eppure negli
ultimi anni anche lui si era sporcato le mani, anche lui si era reso partecipe
delle malefatte e della spirale di malvagità pilotata da quelle persone che
aveva tanto goduto nel veder morire.
La verità era che
dopo essere stato scaricato come un sacco di letame dai suoi stessi datori di lavoro si era convinto che il mondo avesse in sé tanto di
quel marciume che diventarne parte non avrebbe certo potuto peggiorare la
situazione.
Trasportare droga,
rapire bambini, trafficare ogni tipo di mercanzia, erano tutte cose che in quei
due anni per lui erano state la prassi, e più il tempo passava più si
convinceva che vista la degradazione e l’ipocrisia che ormai regnavano sovrani
su quella Terra abitata da esseri abbietti tanto valeva smettere di fare la
parte della persona onesta e di carattere.
A lungo aveva
creduto di poter mettere a tacere il suo ego, ma
incontrare Kyuzo aveva risvegliato qualcosa in lui, quella parte della sua
anima che in tutti quei mesi non aveva mai smesso di gridare forte il proprio
disgusto.
Kaito aveva tutti i motivi per odiare il mondo intero;
tutto ciò che aveva gli era stato portavo via
dall’ingordigia e dalla malvagità di gente che pensava solo a sé stessa, ma
invece che arrendersi passivamente e divenire membro di quel mondo schifoso,
come invece aveva fatto Rock, aveva scelto di combatterlo; a conti fatti la sua
era una causa nobile, e se non avesse avuto un destino crudele ad attenderlo di
lì a poco la sua forza d’animo e la sua determinazione gli avrebbero permesso
di cambiare veramente le cose, e portare un filo di giustizia in quella Terra
devastata.
Rock avrebbe tanto voluto diventare parte di quel progetto; forse
anche lui desiderava dei cambiamenti, o forse cercava solo una soluzione per riscattarsi
di tutti gli errori commessi e di tutta l’ipocrisia dimostrata in quei due
anni, ma non poteva accettare l’idea che la strada della giustizia dovesse
venire lastricata coi cadaveri dei suoi compagni, quei compagni che alla fine
di tutto gli avevano insegnato ad apprezzare il valore della vita e a pensare
con la sua testa.
Purtroppo tutti i
suoi buoni propositi andarono a schiantarsi pochi metri dopo contro Billy “Freeze” McLoan, un canadese dalla
mentalità perversa che se ne andava in giro con due grosse bombole piene di
azoto liquido congelando tutto quello che gli capitava a tiro, uomini compresi.
Il suo aspetto
fisico era come un monito, nonché un silenzioso
testimone della sua vera natura; oltre ai lunghi capelli di un bianco naturale,
causa albinismo, aveva occhi di un azzurro molto opaco e la pelle chiara di un
bambino. In netto contrasto con questo suo modo di apparire vestiva con una
sorta di sopravveste nera, a metà fra una tunica e un’impermeabile, che
arrivava fino al ginocchio, stretto in vita da una cintura che fungeva anche da
contenitore per una grossa sfera rotonda simile ad una
rudimentale bomba a mano, grossi scarponi e un paio di guanti in pelle; questi
ultimi probabilmente avevano anche la funzione di proteggerlo dal metallo
gelido di cui era fatto il fucile che usava per surgelare il suo bersaglio, e
non era un caso se, oltre a Freeze, fra i suoi
soprannomi vi fosse anche “BlackIce”.
Contro di lui vi
erano numerosi mandati di arresto emessi dalle polizie di mezzo mondo, ma era
ricercato anche dall’Interpol; correva voce fra la
malavita di Roanapur, dove aveva già dato modo di far
parlare di sé, che in passato fosse stato un sicario del governo americano, una
voce mai confermata.
Fosse vero o no,
la sorte che riservava alle sue vittime era a dir poco spaventosa; l’azoto
liquido surgelava letteralmente il malcapitato, la morte avveniva per
ipotermia, la temperatura del corpo calava a velocità inimmaginabile, sangue e
organi congelavano, e sopraggiungeva quindi la morte.
Normalmente
l’azoto liquido richiedeva una lunga esposizione per risultare
mortale, ma non era un caso se FreezeMcLoan, prima che un assassino, era stato un illustre e
famosissimo professore di Harvard specializzato in criogenia. Lui stesso aveva
operato un esperimento su questo materiale, modificandolo a livello di
struttura chimica per rendere i suoi effetti ancora più rapidi e letali,
creando così quello che lui stesso chiamava Odin’sBreath.
Rock ebbe il
rarissimo onore di essere testimone di uno dei suoi lavoretti; a dire la verità arrivò al casinò quando ormai la vittima era
già morta, ma ciò che vide fu più che sufficiente a paralizzarlo dal terrore.
Quel povero
disgraziato sembrava appena uscito da una cella frigorifera, era completamente
congelato, la pelle bruciata e screpolata dal freddo e l’espressione urlante di
chi è morto agonizzando.
McLoan stava godendosi la vista, leccandosi di tanto il
labbro superiore come farebbe un’artista di fronte ad un opera
ben compiuta; quando Rock fece per darsela a gambe urtò inavvertitamente lo
sgabello di un tavolo verde, e benché il pavimento fosse ricoperto da soffice
moquette rossa questo fu più che sufficiente a farlo scoprire.
«Guarda,
guarda. Cos’abbiamo qui?».
Il giovane
giapponese tremò come un bambino alla vista di quegli occhi senza espressione;
quel tipo non aveva assolutamente niente che si potesse definire umano.
«Tu non hai
proprio l’aria di un assassino professionista.» disse Freeze
facendo scattare la sicura del suo fucile spruzzatore «Sei forse anche tu uno
di quelli che sono stati trascinati qui con la
forza?».
Rock continuò a
non rispondere; era troppo, troppo spaventato.
«Beh,
poco male. Non che la tua storia mi importi più di
tanto. Ma una cosa è certa, se sei qui sei un avversario,
e quindi… preparati a finire surgelato!».
L’azoto liquido
uscì dalla bocca del fucile in forma più gassosa che liquida; sembrava un getto
di panna montata, ma Rock non si fece certo ingannare
e si gettò a terra, lasciando che fosse la slot machine
alle sue spalle a venire circondata di una spessa patina di ghiaccio.
La risposta di Okajima non si fece certo attendere; nascostosi dietro ad
un tavolo fece sporgere il braccio armato e sparò
alcuni colpi, ma le sue prestazioni di tiratore erano così disastrose che sparò
praticamente sul soffitto senza avvicinarsi neanche lontanamente a McLoan.
«E tu ti definisci
un sicario?» disse Freeze inginocchiato a terra e con
la schiena appoggiata ad una slot «O forse vuoi solo
farmi perdere tempo?».
Perché? Perché
doveva sempre finire così? Perché non era capace di difendersi da solo?
Era sempre stato
così, fin da quando era entrato nella Lagoon; tutte le volte in cui si era
ritrovato coinvolto in situazioni pericolose, che avevano richiesto l’uso della
forza, era stato qualcun altro a fare il lavoro sporco per lui.
Dutch diceva che
la sua forza era il cervello, ma la verità era che c’erano situazioni in cui il
cervello solo non bastava, e quella in cui Rock si era andato a cacciare era proprio una di queste.
Già cominciava a
pentirsi di quel dannato colpo di testa, di quel gesto sconsiderato che lo
aveva portato fin lì; era entrato nell’albergo per proteggere Revy, ma non era
neppure in grado di proteggere sé stesso. Come poteva
sperare lui, un ex impiegato che aveva vissuto negli agi della società
giapponese fino a poco tempo prima, di potersi far valere, o anche solo di
poter contare qualcosa in un simile inferno?
Si sentiva anche
più stupido quello che aveva sempre pensato, eppure anche in una situazione
tanto disperata la sua mente non riusciva a fare a meno di pensare
razionalmente, sforzandosi di trovare una soluzione.
Una soluzione che
forse era anche più vicina di quanto Rock avesse immaginato all’inizio.
Le bombole! Le
bombole su cui Freeze faceva così
tanto affidamento!
Il grande difetto
di quegli apparecchi, che siano pieni di gas, di ossigeno, di nafta o di
qualunque altra cosa, è il fatto di contenere sostanze in forma compressa;
quale che sia il loro contenuto, basta una piccola incrinatura a farlo
fuoriuscire, e nella maggior parte dei casi la forte compressione causa una
fuoriuscita violenta, quasi un’esplosione.
Era tutto così
dannatamente semplice; McLoan poteva assaggiare la
sua stessa medicina. Se Rock fosse riuscito a colpire le sue bombole
quasi sicuramente l’azoto liquido sarebbe letteralmente straripato, vista anche
la sua natura instabile, surgelando Freeze come un
ghiacciolo.
L’unico problema
era riuscire a prenderlo alle spalle in modo da poter inquadrare bene il suo
unico punto debole, ma posti per nascondersi lì dentro non ne mancavano.
Non appena McLoan gli tolse gli occhi di dosso Rock
immediatamente si mosse, aggirando il nemico e rimanendo sempre nascosto
dietro ai tavoli da gioco. Freeze si accorse subito
della sua scomparsa, e prese a guardarsi nervosamente attorno.
«Dove ti sei nascosto, maledetto microbo? Credi forse di potermi
sfuggire?».
Nel tentativo di
portarlo allo scoperto cominciò a lanciare azoto da tutte le parti,
imprimendogli traiettorie parabolari per poter colpire
anche nei punti più inaccessibili o dietro le barriere costituite dalle fila di
slotmachine.
In un paio di
occasioni arrivò molto vicino a colpire Okajima, che
per passare ancora più inosservato strisciava a terra approfittando della
moquette che favoriva un movimento silenzioso.
Rock era
spaventato come mai nella sua vita, sapeva che il minimo errore lo avrebbe
ucciso, ma non poteva permettere alla paura di dominarlo, e cercando di
conservare il maggiore autocontrollo possibile riuscì finalmente a raggiungere
la scala a chioccia che lo condusse alla balconata superiore, dalla quale aveva
un’ottima visuale dell’intero casinò.
Tenendosi sempre
basso e spostandosi lungo la parete aggirò tutta la stanza fino a portarsi alle
spalle di Freeze, che ancora seguitava a guardare da
una parte all’altra al piano di sotto.
Alla paura a quel
punto fece seguito la tensione; le mani di Rock tremavano mentre prendeva la
mira, la sua fronte sudava e la vista si faceva sfocata, come se ci fosse stata
nebbia.
Ma
non c’era più tempo per le esitazioni, procrastinare era impossibile.
«E adesso crepa!»
gridò, e sforzandosi di non chiudere gli occhi premette il grilletto.
Il colpo risuonò
forte nella stanza puntando diritto verso le bombole di azoto; se Revy fosse
stata al suo posto quasi sicuramente avrebbe puntato
alla testa, ma la mira di Rock non era neanche paragonabile a quella di Two-Hands; meglio puntare su un bersaglio più grosso, che
si era certi di colpire.
Effettivamente il
colpo andò a segno, il problema è che non produsse le conseguenze sperate; la
pallottola centrò in pieno una delle due bombole, ma invece
che perforarla le rimbalzò contro, provocando nulla più di un’invisibile
ammaccatura e un assordante rumore metallico.
«Ma cosa…» balbettò Rock sgranando gli occhi.
Ciò che doveva
essere il colpo di grazia si trasformò in un boomerang nel momento in cui servì
a rivelare la sua presenza.
Freeze, giratosi verso di lui, mostrò nuovamente il suo
sorriso malevolo.
«Ci hai provato,
ti è andata male».
Con un rapido
movimento del pollice abbassò una levetta dello spruzzatore, e quando sparò
nuovamente il getto di azoto fu così potente da
percorrere la grande distanza fra lui e Rock; questi, disorientato e
stralunato, accennò una fuga, riuscì ad evitarlo, ma le grosse lampade a parete
alle sue spalle esplosero per il freddo, e l’onda d’urto lo fece precipitare
oltre la balconata.
Il tavolo della
roulette subito sotto gli salvò il collo, ma non appena cercò di rialzarsi dopo
essersi tolto di dosso i pezzi di legno un dolore tremendo alla caviglia destra
per poco non lo fece piangere.
“Merda. Deve essere slogata.”
«Mi dispiace,
forse avrei dovuto dirtelo.» disse McLoan
avvicinandosi a lui «Queste bombole sono di metallo rinforzato.»
«Ri… rinforzato?»
«Mi
credevi davvero così stupido da non prendere una simile precauzione? Quando si
ha a che fare con un elemento instabile come l’azoto liquido, la prudenza non è
mai troppa».
Okajima cercò di rimettersi in piedi, ma il dolore alla
caviglia era così forte che non riusciva quasi ad appoggiarla a terra; Freeze naturalmente se ne accorse, e da assassino
profondamente sadico quale era volle trasformare quel
piacevole momento in una sorta di caccia al topo.
Rock in quell’occasione
fu sopraffatto dalla paura; voleva scappare, mettersi in salvo,
ma quel suo zoppicare incerto aveva l’unico effetto di far ridere sotto
i denti FreezeMcLoan, che
lo seguiva senza sosta standogli a pochi passi, e provvedendo quando necessario
a sbarrargli la strada verso l’uscita o una qualsiasi via di fuga. In pochi
minuti, Okajima si ritrovò seduto in un angolino senza più alcuna possibilità di salvezza.
«Mi
spiace, bello. Sembra che siamo arrivati al capolinea».
Freeze usò l’anello alla base dello spruzzatore per
assicurarlo al gancio che spuntava da una delle bombole, quindi mise mano alla
bomba che portava alla cintura.
«Sai
che cosa contiene questa bomba?
Te lo dico io. È
piena di elio liquido, un composto tre volte più efficace
dell’azoto. È talmente instabile che basterebbe un nonnulla per farlo
esplodere. A dire il vero avevo intenzione di usarla per il gran finale, ma
dopotutto credo di non averne bisogno.
Ritieniti
fortunato. Saggiare sulla propria pelle la mia arma più segreta è un onore
riservato a pochi, peccato solo che nessuno di loro abbia avuto la possibilità
di raccontare come sia stato».
Rock era
completamente paralizzato, il terrore gli impediva di parlare, il dolore di
muoversi; non aveva neanche più la forza per sollevare la pistola che stringeva
in mano, l’unica cosa che riusciva a pensare era che fosse infine giunta la sua
ora.
Non avrebbe mai
creduto di poter morire così, lontano dalla sua patria, coinvolto in un gioco
al quale non era neppure stato obbligato a partecipare.
Compativa la sua
ingenuità, e tutto ciò che sperava ormai era di non
soffrire troppo.
McLoan non spinse alcun pulsante, non tolse alcuna sicura:
evidentemente l’elio era talmente instabile che bastava il semplice urto contro
il pavimento per provocare l’esplosione.
«E ora…
surgelati!» urlò, e subito dopo la bomba volò in alto, descrivendo una
parabola.
Okajima la seguì con lo sguardo come ipnotizzato, incapace
di chiudere gli occhi; sembrava quasi stesse aspettando con impazienza che
cadesse, ma ciò non accadde, perché all’improvviso l’ordigno si fermò in aria
proprio davanti a lui, rimanendo sospeso nel niente.
Sia lui che il suo
nemico sgranarono gli occhi.
«Ma cosa…» balbettò McLoan, che di
colpo avvertì una presenza minacciosa alle proprie spalle.
Subito si girò,
incrociando lo sguardo terrificante e senz’anima di un giovane dai capelli
neri.
«Kaito!»
«E tu chi diavolo sei?» gridò Freeze
girandosi verso di lui.
Kyuzo non gli
rispose, seguitando a fissarlo con quei suoi occhi senza vita, e alla fine McLoan, spazientito, afferrò lo spruzzatore; prima che
potesse sparare però il giovane alzò il braccio
stringendo il pugno, e la canna si accartocciò velocemente su sé stessa.
Freeze assistette alla scena attonito e
terrorizzato.
«Ma che diavolo…»
esclamò, ma prima che potesse finire la frase la bomba
ancora sospesa in aria si mosse improvvisamente nella sua direzione, esplodendo
ai suoi piedi.
Tutto attorno a
lui si liberò un vapore denso come neve in grado di far sentire la propria
temperatura gelida anche a Rock, che pure stava a parecchi metri di distanza. Freeze prese a dimenarsi da una parte all’altra nel
tentativo di sottrarsi a quel tocco mortale, ma quasi subito le sue gambe
divennero dure e pesanti come il piombo.
Urlava così forte
che venne sentito probabilmente in tutto quel piano,
un urlo straziante che sembrava uscire dall’inferno; nell’arco di pochissimi
secondi tutto il suo corpo si congelò sia all’esterno che all’interno, raggiungendo
una temperatura tale che i gas e l’aria contenuti al suo interno, espandendosi,
lo fecero letteralmente esplodere.
Rock non credeva
di essersi salvato; la sua fortuna sfacciata aveva voluto allora graziarlo per
l’ennesima volta, ma lo sguardo che Kyuzo gli lanciò contro a
tempesta passata faceva intendere che in realtà il peggio doveva ancora venire.
Rialzatosi, cercò
di avvicinarsi per ringraziarlo, ma prima che potesse aprire bocca
l’amico lo afferrò per la camicia sbattendolo con forza contro la parete.
«Che
diavolo volevi fare? Che diavolo volevi fare, eh! Hai forse dimenticato chi si
aggira in questo albergo? Qui dentro ci sono gli
assassini più efficaci e spietati del mondo! Pensi forse di valere qualcosa al
loro confronto!»
«Kaito… io…»
«Mi
sembra di avertelo già detto. Non permetterò a nessuno di mettersi sulla mia
strada. Io avrò la mia vendetta prima dell’alba, e se proverai ancora a fare di
testa tua non confidare in un mio secondo atto di altruismo. E ora muoviti!».
In tutta la sua vita Revy non aveva mai vissuto un simile
inferno.
Quella serie di
terribili sensazioni non smettevano di tormentarla,
alternando momenti di lucidità ad altri di totale confusione.
La testa le faceva
sempre più male, doveva appoggiarsi per riuscire a camminare, e anche quando
teneva gli occhi aperti dovunque guardasse vedeva
immagini spaventose, una specie di esercito di zombi che circondandola si
avvicinavano sempre di più, cercando di afferrarla.
Lei si dibatteva,
cercava di resistere, ma per quanto una parte di sé continuasse a sostenere che
doveva trattarsi solo di semplici visioni il dolore che le devastava il corpo le impediva di pensare, e sentiva che entro poco
avrebbe finito con l’impazzire.
Ciò che
maggiormente la spaventava erano i ricordi legati a quel maledetto giorno e a
quella maledetta nave; qualunque cosa fosse a ridurla
così li stava riportando alla luce, ma in un modo orribile. Era come un incubo,
in cui nulla è tangibile e visibile e l’unica cosa in grado di percepire è la
paura.
Il suo peregrinare
rantolante la condusse infine alla famosa sala
fumatori dove fece appena in tempo a vedere Kyuzo che spariva assieme a Rock,
trattenuto per la camicia, oltre il bassorilievo.
Cercò di
raggiungerli prima che le due ante del monumento si
chiudessero ma le sue precarie condizioni la tradirono e non fece in tempo.
Per lunghissimi
minuti non riuscì a fare altro che restarsene immobile a fissare il
bassorilievo, pur non avendo la minima idea di cosa vi fosse raffigurato. In
primo piano c’erano due uomini, entrambi nudi, con uno scudo rotondo e degli
elmi dalle lunghe creste, e alle loro spalle una miriade di altre figure che si
contorcevano tra di loro come se stessero combattendo. L’uomo a destra era
disteso a terra e pareva urlare, con un braccio alzato e l’altro, quello con lo
scudo, contorto in una posa quasi innaturale; l’altro era in piedi, a gambe
divaricate, e la lancia che stringeva nella mano affondava la sua lama nel
collo dell’avversario.
Non appena riuscì
a tornare in sé si mise alla ricerca di un bottone, o
di un qualche dispositivo che le permettesse di capire cosa nascondeva quel
bizzarro monumento; fu solo per un vero caso che scoprì il trucco, ovvero due
pulsanti segreti nascosti negli occhi dell’uomo urlante da premere
contemporaneamente.
Dapprima si udì un
sibilo, il rumore familiare di un macchinario in movimento, e una decina di
secondi dopo le ante segrete si riaprirono, rivelando
l’ascensore nascosto dietro di esse.
Proprio come Rock,
neanche lei aveva ben chiaro quello che stava facendo, e lo stato confusionale
in cui si trovava di certo non l’aiutava; sapeva solo
che non poteva lasciare il suo partner in pericolo, e come già altre volte
aveva fatto in passato era suo dovere aiutarlo.
Perché avrebbe dovuto
farlo?
Per molti anni non
aveva mai pensato a qualcuno che non fosse lei stessa.
Era fredda,
cinica, spietata, e non aveva mai provato un briciolo di rimorso; poi però era arrivato lui, quell’insopportabile azzimato giapponesino sputasentenze che non l’aveva mai più lasciata
in pace.
Non voleva
ammetterlo, ma era cambiata. Lui l’aveva cambiata.
Non poteva
lasciarlo nei guai, per nessun motivo.
Senza pensarci
ulteriormente salì nell’ascensore e pigiò il primo pulsante che le capitò
sottomano. La discesa fu straordinariamente rapida, e appena le porte si
riaprirono Revy si ritrovò nel corridoio del primo livello sotterraneo.
Non sapeva né dove si trovasse né se Rock fosse stato effettivamente
portato lì, sapeva solo che voleva trovarlo, quindi scese immediatamente
preparandosi per andare a cercarlo.
Tuttavia, non fece
in tempo a muovere un passo che sentì la canna di un mitra appoggiata alla
nuca.
«Allora sei stata
tu a mettere in moto l’ascensore.» disse Steven.
Istintivamente
Revy fece per mettere mano alle pistole, una delle quali, quella con il
rampino, era stata liberata del suo gadget, ora assicurato alla cintura dei
pantaloni, ma prima che potesse fare una mossa Steven
premette ancora più forte la sua arma contro la testa della ragazza.
«Non
provarci. Azzardati solo a toccarle, e ti faccio saltare la testa».
Revy era confusa,
non riusciva a pensare, e se non fosse stata in quelle condizioni
probabilmente avrebbe anche potuto reagire; fortunatamente era ancora abbastanza
lucida da comprendere che il minimo gesto sospetto le sarebbe costato la vita,
quindi, con una rassegnazione che mai avrebbe pensato di poter dimostrare, si
lasciò disarmare, e subito dopo che Steven le ebbe portato via il suo cinturone
dovette appoggiarsi alla parete per non cadere.
«Devi essere
davvero fatta d’acciaio.» disse lui con un misto di rabbia e ironia «Neanche il P3X è riuscito a stenderti.
Poco male. Kyuzo
sarà felice di vederti in questo stato, e non solo lui».
Steven dovette sollevarla
a forza per riuscire a farla muovere, e dopo qualche minuto i due entrarono
nella sala comandi dove erano riuniti tutti gli altri;
c’era anche Rock, nuovamente ammanettato alla sedia dopo il suo maldestro
tentativo di fuga.
«Guardate un po’
chi abbiamo qui!»
«Revy!» esclamò
Rock, accorgendosi però fin da subito delle sue pessime condizioni.
I suoi occhi così
carichi di ardore erano quasi completamente spenti, la pelle era terribilmente
pallida, a stento camminava e faticava a respirare. Nulla della vecchia Revy
sembrava rimasto in quella specie di sacco di carne privo di
spirito.
Nel vederla, gli
sguardi di tutti parvero accendersi di rabbia; Hibraim,
che era seduto alla consolle, scattò in piedi cercando ed estrasse la pistola, maAshford riuscì
miracolosamente a trattenerlo.
«Aspetta!
Non ne vale la pena! Vuoi forse darle la soddisfazione di morire?».
L’iracheno
digrignò i denti, sembrava sul punto di premere il grilletto, ma alla fine si
decise ad abbassare l’arma.
Kyuzo al contrario
sembrava freddo e impassibile come sempre, ma Rock, che lo conosceva come
nessun altro, vedeva distintamente il fuoco infernale che gli bruciava dentro;
si avvicinò a Revy, che seguitava a guardare a terra, e lei, pur se con molta
fatica, sollevò la testa.
«Non so come tu
sia arrivata qui, e neanche mi interessa. Ma se devo essere sincero, la cosa non mi dispiace».
Steven, riposto il
mitra, fece alcuni passi indietro, e attorno ai due si formò un cerchio vuoto; Ashford e gli altri si tenevano a distanza, come se
avessero paura, continuando però a guardare verso Revy e Kyuzo coi nervi a fior di pelle ed espressioni di puro odio
dipinte sul viso.
«Quanto ho
aspettato questo giorno.»
Seguì un silenzio
angosciante, poi, all’improvviso, il pugno destro di Kyuzo affondò nello
stomaco di Revy con la forza di un maglio da guerra; la ragazza si ritrovò
piegata in due dal dolore, a stento riuscì a trattenere i conati di vomito, ma
non riuscì ad evitare di sputare sangue.
«Revy!» gridò
nuovamente Rock vedendola inginocchiata a terra
«Il giorno in cui
avrei finalmente potuto vendicarmi».
Dopo il pugno allo
stomaco fu la volta di una gomitata alla nuca che spedì la ragazza a terra in
uno stato di semi-incoscienza; Rock avrebbe voluto correre in suo aiuto, arrivò
a tagliarsi coi bordi delle manette per cercare di
alzarsi dalla sedia, ma prima che potesse tentare di manometterle si ritrovò la
pistola di Hibraim puntata alla testa: anche lui,
come tutti gli altri, non aveva più nulla del simpatico programmatore che aveva
visto in quelle ultime ore.
Kyuzo intanto
continuava ad infierire su Revy riempiendola di calci
a cui lei non si ribellava, probabilmente perché l’allucinogeno non gliene dava
la possibilità; restava raggomitolata su sé stessa in posizione fetale, gemendo
dal dolore ad ogni colpo, che portava con sé, oltre ad un tremendo dolore,
anche ferite ed escoriazioni.
«Fa
male? Fa male, schifosa bastarda? Non sarà mai
abbastanza per farti pagare quello che mi hai fatto!»
«Kaito! Ti prego, fermati! Così la
ucciderai!».
Lui però ormai era
completamente sordo a qualsiasi richiamo; la sua espressione non aveva più
niente di umano, e persino i suoi compagni parevano tremare leggermente,
terrorizzati a loro volta nel vedere tutta la rabbia accumulata dal loro
compagno negli ultimi quattro anni sprigionarsi in un colpo solo.
«Tu ci hai portato
via tutto!» urlò senza smettere di colpirla «Ti sei
presa quanto avevamo di più caro senza un briciolo di rimorso! Hai ucciso
persone innocenti, hai calpestato le loro speranze! Non hai avuto pietà neppure
per una bambina in sedia a rotelle!».
Un calcio dieci
volte più potente degli altri mise finalmente fine a quella spaventosa tortura;
Revy era ormai ridotta ad una maschera di sangue,
probabilmente aveva anche perso i sensi, ogni angolo del suo corpo era
menomato, perdeva sangue dal naso e dalla bocca.
Rock distolse lo
sguardo; non ce la faceva a vederla in quello stato.
Il silenzio tornò
a dominare, e nel buio di quella stanza le luci dei monitor illuminavano i
volti di Steven, Hibraim e Ashford,
che piuttosto che umani parevano quelli di immobili
statue.
Kyuzo respirò
profondamente, e a giudicare dalla sua espressione probabilmente era prossimo ad una delle sue crisi, ma cercò in tutti i modi di
trattenersi, ed infilata una mano nel giubbotto ne cavò fuori la famosa Beretta
d’argento con il teschio sull’impugnatura.
«E
adesso, dopo quattro anni, farò giustizia per mia sorella. Andrai all’inferno
uccisa dalla stessa pistola che tu hai puntato su di lei, con
in testa il proiettile che usasti per ucciderla».
Il proiettile.
Un dettaglio di
cui in pochi erano a conoscenza, e Rock non era fra questi.
Nel corso delle
indagini avviate dalla polizia giapponese dopo l’attacco alla Seaborn Star, il corpo di Harue
non era mai stato ritrovato, ma dal momento che la
finestra della cabina era aperta la conclusione degli inquirenti fu che fosse
stato gettato in mare, anche se il motivo di tale gesto non era mai stato
chiarito. L’unica cosa che era stato possibile recuperare
era il proiettile responsabile della sua morte, conficcato nell’imbottitura
dello schienale della sedia.
Vista la scarsa
qualità del proiettile non era stato possibile eseguire un esame balistico, ma
la perizia scientifica confermò che il sangue apparteneva senza
ombra di dubbio ad Harue, e questo per Kaito era stato più che sufficiente.
Da quel giorno non
aveva pensato ad altro che alla vendetta; aveva battuto ogni pista, pagato ogni
informatore, corrotto e strizzato ogni collaboratore, riuscendo alla fine a
scoprire la verità.
Le menti dietro
all’attacco erano alcune delle più terribili mafie del mondo, gli esecutori
invece erano il gruppo di mercenari conosciuto come Lagoon Company.
Quattro anni erano
passati, quattro anni di attesa, e ora finalmente l’assassino materiale della
sua adorata sorellina era lì, ai suoi piedi, pronto a
morire.
Kyuzo infilò il
caricatore contenente quel solo proiettile nella pistola e puntò l’arma dritto alla testa di Revy.
«Kaito!» disse Rock nell’ultimo, disperato tentativo di
fermarlo «Ti prego! Non farlo! Non macchiare la
memoria di Harue con un altro omicidio!».
Seguirono
lunghissimi attimi di tensione, durante i quasi ogni secondo poteva essere
quello buono, poi, con grande stupore di tutti, Kyuzo inserì la sicura e
abbassò la pistola.
«Non
ancora. Ucciderla adesso non mi darebbe soddisfazione. Aspetterò la fine del
Death Game, e poi la ucciderò».
Rock, forse senza
rendersene conto, tirò un sospiro di sollievo, Steven
e gli altri invece sembravano comprensibilmente sorpresi per una simile
decisione.
In quella, come a
voler scacciare la tensione, che tuttavia già cominciava a diradarsi, qualcun
altro entrò nella stanza.
«Scusate, è
permesso?»
«Samejima!?» disse Steven «Che ci
fai tu qui?»
«Chiedo
scusa per questa visita inopportuna. Non vi siete fatti sentire per tutta la
notte, così ho pensato che ci fosse qualche problema.»
«Scusa, abbiamo
avuto daffare.» rispose Kyuzo appoggiando la pistola sul tavolino accanto all’entrata
«Capisco.»
«Ma come hai fatto
a entrare nell’albergo?» domandò Hibraim «L’ingresso
dovrebbe essere sbarrato.»
«Sono usato la
porta nascosta che collega il parcheggio ai sotterranei.»
«Hai
corso un bel rischio. È vero che il parcheggio non è zona di combattimenti, ma
il sotterraneo sì.»
«Che
vuoi che ti dica. Prodigi della dea bendata. Ora però, riguardo a lei» disse Samejima indicando Revy «Come mai si trova qui?»
«Un piccolo
contrattempo.» rispose Ashford «Ma nulla di cui
preoccuparsi.»
«Lo
vedo. E conoscendovi, trovo strano che sia ancora viva.»
«Sai com’è.» disse
Steven «I piatti più prelibati vanno assaporati un pezzetto alla volta.»
Forse Revy non era
ancora morta, ma di certo non era lì ad ascoltare quei discorsi; infatti la sua mente in quel momento stava viaggiando
lontano, al giorno che aveva cambiato per sempre le vite di così tante persone.
Due anni prima
Tutto era andato esattamente come previsto; con un assalto
rapido Dutch e Revy avevano preso il controllo della nave senza bisogno di uccidere
nessuno.
In meno di due
minuti avevano ottenuto il controllo della sala dei ricevimenti, grazie anche e
soprattutto a Benny, il loro nuovo socio, che aveva disattivato tutti i sistemi
difensivi e il computer di navigazione prima che avesse inizio l’abbordaggio.
In questo modo erano riusciti a rallentare di molto l’invio dell’SOS
ed avevano potuto avvicinarsi senza essere notati.
L’unica pecca in
quel piano apparentemente perfetto era che il pacco da recuperare non si
trovava sul luogo preannunciato; Dutch aveva perquisito con estrema
meticolosità tutti i presenti, ma dei due contenitori che stavano tanto a cuore
a Balalaika e a Hotel Moskow nessuna traccia.
I soliti metodi
che il gigante nero utilizzava per estorcere informazioni non si erano rivelati
sufficienti, ma a lui e alla sua socia era bastato fare due più due per capire
che se del materiale tanto importante, il cui vero contenuto oltretutto era
noto solo a pochissime persone, poteva essere solo in un altro posto, quindi
Revy si era immediatamente diretta verso la cabina del presidente Kinomiya.
Stava quasi per
raggiungerla quando, facendo per girare un angolo, si accorse che la porta in
questione era sorvegliata da una guardia, la quale però, forse per la noia, si
era addormentata sulla poltrona lì accanto.
Gli ordini di
Hotel Moskow erano chiari, quella faccenda doveva
essere portata a termine senza lasciare cadaveri, quindi la ragazza si avvicinò
facendo il massimo silenzio; sarebbe bastato un bel colpo in testa per
rispedire quel tipo nel mondo dei sogni, ma Revy
purtroppo venne tradita dallo scricchiolare dei suoi scarponi.
La guardia si
svegliò, ma prima che potesse estrarre la pistola si
ritrovò quelle di Revy puntate contro.
«Non fare una
mossa, o ti faccio secco».
Quello non mosse
un muscolo; continuava a tenere la mano appoggiata sul calcio dell’arma, ancora
riposta nella fondina, e sembrava intenzionato ad
estrarla da un momento all’altro.
Revy dal canto suo
era pronta a sparare al minimo segnale, ma poi la guardia, constatando
che effettivamente non era possibile alcuna reazione, alzò le mani.
Nello stesso
momento Harue stava dormendo nel suo letto nella
stanza che condivideva con la madre, quando fu svegliata da un rumore sordo,
come di qualcosa che cadeva.
Dapprima pensò che
fosse stata solo la sua immaginazione, poi però sentì il rumore della porta
d’ingresso della cabina che veniva aperta molto
lentamente.
«Fratellone?»
disse «Sei tu?».
Nessuno rispose, e
non vedendo accendersi la luce del salotto la bambina
cominciò a chiedersi cosa stesse succedendo; alzatasi, accese la lampada sul
comodino e raggiunse la propria sedia a rotelle, ferma accanto al letto. Sopra
di essa era appoggiata la valigetta a cui aveva
promesso di fare la guardia, per questo, una volta sedutasi, se la mise sulle
ginocchia.
Stava per muoversi
verso la porta quando questa si aprì, e Revy entrò nella stanza; non aveva in
mano le sue due pistole, ora riposte nella loro fondina, dal
momento che la guardia, prima di essere messa al tappeto, l’aveva
pregata di non fare del male alla ragazzina che avrebbe incontrato.
Non che ci fosse
stato bisogno di dirglielo; Revy era una persona di pochi principi, ma fare del
male ai bambini non era certo nel suo stile.
Si aspettava di
dover ricorrere a sistemi un po’ drastici per tenerla
buona, dopotutto il suo non era certo un aspetto che incuteva simpatia; e
invece, quando si girò verso Harue, si vide piantati
addosso quei due occhi così innocenti e così puri che non si sarebbero detti
neanche gli occhi di un essere umano.
«Salve, piccola.»
disse sforzandosi di sembrare gentile
«Chi è Lei?»
domandò la bambina, non senza un pizzico di preoccupazione.
«Mi dispiace, ma
questo non posso dirtelo. Sono venuta per prendere una
cosa.»
«Per
prendere una cosa? Che cosa?»
«La
valigetta che tieni in mano. Potresti consegnarmela, per favore?».
Di colpo lo
sguardo di Harue cambiò radicalmente, passando da
ingenuo a determinato; e non era quella determinazione
tipicamente infantile, quella che spingeva un qualsiasi moccioso ad attaccare
chi gli aveva rubato il suo giocattolo; era qualcosa di diverso, che a Revy
fece quasi paura.
«No.» fu la sua
secca risposta.
Revy non era certo
il tipo di persona dotata di molta pazienza, senza contare che Dutch le aveva
dato non più di quindici minuti per recuperare il pacco e tornare nella sala
ricevimenti per la fuga, quindi una simile risposta, per quanto pronunciata da
bambina, le fece salire un po’ i giri.
«Piccola, senti.»
disse, stavolta con maggior cattiveria «Non ho tempo
di giocare. Consegnami quella valigetta.»
«Non posso.»
rispose Harue, ancora una volta senza apparente
timore «Ho promesso al mio fratellone di proteggerla a qualunque costo».
Two-Hands, di fronte a quell’ennesimo rifiuto, cominciò
davvero a perdere la pazienza; in fin dei conti poteva sempre strappargliela di
mano o spaventarla al punto tale da costringerla ad
ubbidire, ma più i senti passavano più quegli occhi la lasciavano senza parole.
Essendo nata e
cresciuta nei bassifondi più malfamati d’America Revy era cresciuta nella
convinzione che le ragazzine di buona famiglia fossero tutte delle piccole
pesti viziate e capricciose destinate a diventare delle oche spilla-quattrini per
qualche vecchio rincitrullito, e mai avrebbe immaginato di trovarsi di fronte
alla prova vivente della falsità di tale convinzione.
Non c’era
assolutamente nulla di infantile in Harue, bastava guardarla per capire che era sì spaventata,
ma anche molto determinata.
Senza capire
perché recuperò la sedia della scrivania e si piazzò in mezzo alla stanza,
frapponendosi fra Harue e la porta d’ingresso.
«Dimmi
piccola. Sai che se al posto mio ci fosse qualcun altro più determinato a quest’ora
probabilmente saresti morta?»
«Certo
che lo so. Ma io, vede… non ho paura di morire».
Una frase del
genere era troppo anche per Revy: come era possibile
che una mocciosa di otto anni se ne uscire con una simile affermazione?
«Come sarebbe a
dire che non hai paura di morire?»
«Io
sono malata. Ho la sclerosi. Fra dieci anni al massimo sarò completamente
paralizzata. Se questo è il destino che mi attende, la morte può forse farmi
paura?».
Two-Hands era così sconvolta che la sigaretta le scivolò
via dalla bocca, spegnendosi sulle lastre marmoree del pavimento.
«Tu… davvero non
hai paura?».
A quella domanda Harue abbassò il volto, e Revy poté notare una piccola
lacrima scenderle dagli occhi.
«Beh, a dire il
vero, negli ultimi tempi ho cominciato a provarne.»
«Come
hai detto? Di cosa può avere paura chi non teme neppure la morte?».
La bambina esitò,
stringendo i pugni.
«Ciò che mi fa
paura… è il contenuto di questa valigetta.»
«Il contenuto!? Perché, cosa c’è lì dentro?»
«Qui dentro… c’è
la speranza.»
«La… speranza?»
«Non
so bene cosa sia. Mio padre e mio fratello li chiamano nanorobot. Hanno
lavorato su questi nanorobot da quando sono nata. Kaito
dice che saranno in grado di guarirmi, di farmi camminare per la prima volta, e
di salvarmi dalla paralisi.»
«Ma se davvero lì
dentro c’è quello che può darti una vita normale…
perché ne hai paura?»
«Perché… potrebbe
essere solo un sogno.»
«Un sogno?»
«I
sogni e le speranze sono ciò che permette alle persone di affrontare le difficoltà
della vita. Su di essi poggia tutto ciò per cui lottiamo; eppure, nonostante
ciò, sono così fragili. Basta un niente perché vadano in pezzi.
La medicina
contenuta qui dentro potrebbe anche non funzionare, non essere sufficiente. Se
così fosse le mie speranze, ma soprattutto quelle dei
miei genitori, sarebbero destinate a svanire, e questo mi fa paura. Molta paura».
Se solo Revy
avesse avuto accanto persone come lei.
Un tempo si era detta che preferiva essere un’accattona piuttosto che una ricca
viziata, invece adesso provava una certa invidia nei confronti di Harue; di lei invidiava molte cose, il suo coraggio, la sua
purezza, la sua stessa famiglia.
«E che io possa
prendere la tua cura e portarla via non ti fa paura?».
Two-Hands si aspettata qualsiasi tipo di risposta per una
simile domanda, ma l’ultima cosa che poteva immaginare era il sorriso che la
bambina mostrò dopo pochi istanti.
«No.
Perché Lei non potrebbe mai farlo.»
«Cosa!?»
«Malgrado i miei genitori e il mio fratellone cerchino sempre
di convincermi del contrario, io so che ci sono tante persone cattive nel
mondo. Ma Lei non è cattiva, quindi non ho paura.»
«Come fai ad esserne sicura?»
«I suoi occhi.»
«I… miei occhi?»
«Nei
suoi occhi vedo il dolore, la sofferenza. Lei ha fatto del male a tante
persone, ma è la prima a soffrirne. Il problema è che non vuole ammetterlo,
perché la farebbe soffrire ancora di più. Ed è questa la sua paura».
Revy sgranò gli
occhi.
«La mia… paura!?»
«Circondarsi
di sofferenza altrui è spesso l’unico modo per non sentire la propria. Lo so
perché anch’io per un certo periodo ho cercato l’ho
pensato, ma poi ho capito che far soffrire gli altri non serviva a farmi stare
meglio. Anzi, sono la forza di volontà e il calore di chi mi sta intorno a
permettermi di andare avanti e di sperare in un futuro libera da questa
malattia».
Cosa
poteva fare? Cosa poteva dire?
Poteva davvero
cambiare? Poteva sperare anche lei in un futuro diverso, lontano da tutto quel
marcio nel quale era cresciuta?
Per la prima volta
si vergognava di sé stessa, non tanto per tutto il
male fatto in passato, quanto piuttosto per essersi continuamente
auto-commiserata; credeva di essere un’eterna sfortunata, una persona senza alcun
motivo per vivere, ma tutto ciò che aveva passato era niente in confronto alle
quotidiane sofferenze che aveva dovuto sopportare quella bambina fin dal giorno
della sua nascita.
Come poteva lei,
una persona come le altre, portarle via il suo sogno di normalità? Che diritto
aveva di infangare le sue speranze e consegnare il frutto di così tanti
sacrifici a qualcuno interessato solamente a sé
stesso?
Per molti secondi
Revy restò in silenzio, sembrava quasi che stesse dormendo, poi si alzò
sbottando.
«Ah, accidenti.»
mugugnò infilandosi una nuova sigaretta in bocca «L’ho sempre detto, sta alla larga dai mocciosi. Ti procurano solamente guai.»
e, detto questo, si mosse verso l’uscita «Beh, ti saluto.»
«Ma
come, non voleva questa valigetta? Si è già arresa?».
Revy si fermò,
rimase un attimo immobile poi si girò a guardarla con uno strano sorriso di
complicità.
«Beh, diciamo che
la valigetta non si trovava dove ci avevano detto di cercarla, e che il
tempestivo intervento della marina ci ha costretti a
ritirarci».
Harue, inizialmente attonita, sfoggiò uno dei più splendidi
sorrisi della sua vita.
«La
ringrazio molto. Ma ora che ci penso, non mi ha ancora detto il suo nome.»
«Il
mio nome? Tu chiamami Revy.»
«Allora… grazie,
signorina Revy».
Two-Hands fece il segno dell’ok e fece
per andarsene, ma un improvviso quanto spaventoso rumore appena oltre la porta
d’ingresso, facilmente riconoscibile come un colpo di pistola, paralizzò
all’istante tutto il suo corpo.
“Che diavolo…”
pensò mettendo mano alle sue armi
«Signorina Revy,
che sta succedendo?».
Prima che Revy
potesse rispondere l’uscio venne sfondato e una decina
di uomini in uniforme militare, armati fino ai denti e coi volti nascosti
dietro a dei passamontagna, fecero irruzione nella cabina.
Tutto avvenne in
pochi secondi.
Senza pensarci
ulteriormente Revy gli sparò contro, uccidendo quelli davanti a tutti; alcuni
suoi compagni ribaltarono il tavolo acquattandosi dietro di esso, e dopo poco
uno di loro rispose al fuoco.
«Fermo, idiota!»
urlò un altro parlando in russo «Non dobbiamo sparare!».
Che diavolo stava
succedendo? Che ci facevano dei paramilitari russi, oltretutto molto ben
addestrati, a bordo di una nave da crociera?
Che fossero… no,
era impossibile.
Quel pensiero, il pensiero del tradimento, fece esitare Revy, e fu un errore
imperdonabile, perché un altro soldato, nascosto dietro i battenti, le calò
addosso come un macigno, afferrandola saldamente e sbattendola contro il muro
opposto all’ingresso della stanza.
L’urto fu a dir
poco tremendo, tanto che le sue pistole le caddero di mano. Una di esse finì
sopra il letto, l’altra invece cadde ai piedi della ragazza, e quest’ultima
cadendo fece partire accidentalmente un colpo: la pallottola rimbalzò inizialmente
sul soffitto, quindi puntò diritta su Harue, che per
tutto il tempo era rimasta immobile per la paura. Per un vero miracolo la
valigetta che aveva alzato istintivamente in sua difesa deviò ulteriormente il
colpo, che finì per provocarle solo una ferita non troppo profonda
all’avambraccio destro prima di andarsi a conficcare nell’imbottitura della
sedia.
L’urlo di dolore
della bambina fu l’ultima cosa che Revy riuscì a sentire con chiarezza, perché
subito dopo essere stata buttata a terra il soldato che l’aveva aggredita le piantò una siringa nel braccio, e in pochi
secondi tutti i suoi sensi cominciarono gradualmente a svanire.
«Signorina Revy!».
Two-Hands cercò di combattere, di resistere, ma si sentiva
pesante come una montagna, e anche se il suo aggressore l’aveva mollata non riusciva a muovere un muscolo.
«Prendete la
bambina!» sentì «Il capitano la vuole viva!».
Gli altri soldati
a quel punto entrarono nella stanza; uno di essi si avventò su Harue con un panno sicuramente zuppo di cloroformio che la
fece rapidamente addormentare. Lo stesso uomo la prese tra le
braccia, mentre un altro recuperava la valigetta, aprendola.
«Qui ce n’è solo
uno.»
«Non importa,
basterà.» rispose uno dei due soldati che sovrastavano Revy «Ora
torniamo nella stiva. Dobbiamo aspettare che quelli della Lagoon se ne vadano
prima di iniziare.»
«Signore, che ne
facciamo di lei?» chiese l’altro
«La
dose era massiccia. Al risveglio non ricorderà più niente. Lasciamola qui.
Cancellate ogni traccia. Non dobbiamo lasciare indizi».
Dunque… era successo quello.
Avrebbe tanto
voluto che fosse un sogno, ma non lo era.
Ora ricordava alla
perfezione.
Un traditore.
Per quattro lunghi
anni aveva vissuto fianco a fianco con un traditore,
con il responsabile di quel massacro. Non voleva crederci.
Ora, per la prima
volta, comprendeva i sentimenti di Kyuzo.
Come si poteva non
odiare chi aveva fatto del male ad una bambina così
pura e gentile? Con che coraggio ci si poteva definire uomini dopo un simile
gesto?
Intanto, attorno a
lei, Kyuzo e i suoi compagni parlavano tra di loro, ma il clima che regnava tra
i presenti sembrava stranamente teso; era come se stessero aspettando qualcosa,
e qualcosa purtroppo accadde, ma nulla di ciò che i presenti avrebbero mai potuto
immaginare.
Rock aveva ancora
gli occhi piantati su Revy; respirava normale ma era
ancora incosciente, anche se negli ultimi secondi aveva cominciato ad accennare
qualche movimento, segno che probabilmente si stava riprendendo. Gli sembrava
anche di sentirla parlare, ripetendo continuamente una strana litania che però
diventava sempre più simile ad una parola a lui nota.
«Vy…so…tni…ki»
D’un tratto,
sollevando lo sguardo, Okajima vide Samejima avvicinarsi furtivamente a Kaitocon in mano una di quelle siringhe a pistola.
«Kaito, attento!».
Lui a malapena
fece in tempo a sentirlo, perché prima di poter accennare una qualunque
reazione Noboru gli iniettò
nella schiena il contenuto della siringa, e subito lui si ritrovò inginocchiato
a terra senza un briciolo di energie.
«Che diavolo…»
disse Steven.
Lui e gli altri
fecero per lanciarsi in soccorso del loro amico, ora inginocchiato a terra, ma
prima che potessero farlo Samejima gli puntò una
pistola alla testa.
«Non
fate una mossa! Il ritardante che gli ho iniettato blocca le funzioni dei
nanorobot, e voi sapete bene che in queste condizioni non ci sarebbe potere in
grado di salvarlo. Gettate le armi o gli pianto una palla in testa.»
«Samejima, sei uscito di senno?»
disse Hibraim senza abbassare la sua arma
«Non
mi avete sentito? Ho detto giù le armi!».
Lui e gli altri
erano così scioccati che se inizialmente non ubbidirono fu solo perché non
riuscivano a capacitarsi di quanto stava accadendo, ma
non appena trovarono la forza per rendersi conto che era tutto vero fecero
subito come gli era stato ordinato.
«Bravi, và molto meglio.»
«Samejima…» balbettò Kyuzo «Che… che stai facendo?»
«Scusami,Kaito. Niente di
personale. È solo che anch’io ho i miei obiettivi, e
sfortunatamente non coincidono con i tuoi.»
«I tuoi obiettivi?»
ripeté Steven «Di che diavolo stai parlando?»
«Con calma.»
rispose l’uomo con un sorrisetto malevolo «Avremo modo
di parlarne. Per ora c’è una persona che vorrei tanto
farvi conoscere»
«Una persona?».
In quella il pomo
della porta prese a cigolare, ma quando, dopo poco, entrarono quelle due
figure, nessuno riuscì a credere ai propri occhi; sembrava che tutti i presenti
avessero visto un fantasma, e in effetti fu proprio
questo il primo pensiero di molti di loro.
«Scusate
il disturbo, signori. Ho forse interrotto qualcosa di importante?»
«No.» disse Rock «Non
è possibile.»
«Immagino
che le presentazioni siano del tutto inutili, ma dopotutto siamo pur sempre fra
gentiluomini. Quindi, permettevi di presentarvi il mio socio in affari.»
«Tu…» disse Steven
con gli occhi sbarrati «Che ci fai tu qui? Tu…
dovresti essere… morta!».
Nota dell’Autore
Ecco, finalmente ci
siamo.
Come al solito dico che alcuni pezzi di questo cap non mi soddisfano appieno, soprattutto il finale.
Ci è voluto un po’, ma finalmente siamo
giunti alla fatidica svolta tanto preannunciata nei precedenti capitoli.
Immagino che molti dei lettori avranno già scoperto l’identità dei due
misteriosi nuovi arrivati, ma il mio sadico ego ha voluto concludere
qui la narrazione, proprio sul più bello.
No beh, scherzi a
parte questo capitolo è venuto più lungo di quanto immaginassi, ma dovrebbe
trattarsi di un caso isolato.
Rinnovo i soliti
ringraziamenti ai miei lettori, Selly, Gufo, Lisy, Carlitz e Spectre.
Era come vivere in un incubo, un incubo terribile.
Benché spossato e
allo stremo delle forze, Kyuzo era sicuro di ciò che vedeva; non era un
delirio, o un’allucinazione dovuta alle sue condizioni.
Ma com’era
possibile.
«Ba… Balalaika…».
Lei si girò nella
sua direzione, e appena si mise un sigaro in bocca Boris subito glielo accese,
malgrado avesse ancora la mano fasciata.
«Sembra proprio
che i ruoli in questa commedia si siano invertiti. Adesso sarò io a giocare con
la tua vita.»
«Tu… maledetta…
come fai ad essere ancora viva?»
«Noi ti abbiamo
vista morire.» disse Ashford
«Parlate forse di
quella ridicola altra me su nell’albergo? Allora è crepata.»
«Di… di che stai
parlando?» chiese Kyuzo
«Non l’hai ancora
capito? Quella era solo un’esca. La prima disperata incontrata nelle strade di
questa lurida città. È bastata una parrucca, un po’ di trucco, e ci siete
cascati come dei perfetti idioti.»
«Ma… non è
possibile.» disse Steven «Sono sicuro di aver messo te in quella stanza! Mi
sarei accorto subito se fosse stata solo un sosia!»
«Infatti lo
scambio è avvenuto dopo. Tutto grazie alla gentile collaborazione del qui
presente signor Samejima.»
«Sì figuri, miss
Balalaika. Tra soci è normale aiutarsi l’un l’altro.»
«Sono d’accordo.»
rispose lei col suo finto sorriso
«Tu, Samejima.
Verme schifoso.»
«Ero certo che
avreste reagito male, per questo ho deciso di aspettare fino all’ultimo,
confidando nell’unico momento in cui tu, Kaito, avresti tenuto la guardia
abbassata.»
«Maledetto…
traditore…»
«È ironico, non
trovi? Hai passato gli ultimi quattro anni a cercare vendetta, senza accorgerti
che il vero pericolo stava proprio accanto a te.»
«Tu… dunque… è
stata tutta opera tua.»
«Non proprio. A
dire il vero, se oggi siamo arrivati fino a qui, il merito è in gran parte
della qui presente miss Balalaika.»
«Ba… Bala…
Balalaika…»
«Sei più lento di
quanto pensassi. Vorrà dire che te lo dirò chiaro e tondo. Noi siamo gli
architetti. Tutto quello che è successo negli ultimi anni non è stato altro che
il procedere sicuro del piano architettato fin dall’inizio.»
«Ehi, Samejima.»
disse Balalaika «Non credevo fossi così vanaglorioso.»
«Tu mi conosci
Balaika. Mi piace ritagliarmi la mia fetta di gloria.»
«Ma qual è il
vostro obiettivo?» chiese Rock «A cosa aspirate?»
«Ah, sei anche tu
qui, piccolo Japonski. Beh, rispondere a questa domanda è un po’ complicato.
Perché non lo fai tu, Samejima.»
«A cosa aspiriamo?
C’è forse bisogno di chiederlo? Il nostro obiettivo ce l’hai davanti agli
occhi.»
«Davanti agli
occhi?».
Non servirono che
pochi secondi per capire a cosa si riferisse Noboru, e istintivamente Rock
rivolse il suo sguardo verso Kaito.
«Voi… no,
Balalaika. Sarebbe troppo anche per te…»
«Lurido bastardo.»
disse Hibraim «Tu vuoi il potere dei nanorobot!»
«Alla fine ci
siete arrivati. Esatto, è proprio quello che vogliamo.»
«I nanorobot…»
mugugnò Kyuzo «Non sono… delle armi…»
«È buffo che sia
proprio tu a dirlo. In fin dei conti, non sei poi molto diverso da me. Entrambi
cerchiamo il potere. O devo ricordarti il motivo per cui hai deciso di
iniettarteli?».
Il giovane strinse
i denti, non trovando argomentazioni con cui poter controbattere.
Era vero. Ciò che
Samejima diceva era la pura verità, e non poteva nasconderlo. Si era iniettato
i nanorobot pensando unicamente alla vendetta; sapeva quali effetti avrebbero
portato in un organismo sano come il suo, era consapevole di ciò che avrebbe
potuto realizzare con il loro aiuto, ma sapeva anche a quale destino andava
incontro.
«Tu… hai sempre
mirato a questo…»
«Vorresti forse
farmene una colpa?
Dì un po’, hai mai
avuto la benché minima idea del potenziale insito in questa scoperta? Ti sei
mai soffermato a riflettere su cosa sarebbe in grado di portare un simile
ritrovato sul panorama politico mondiale?
I nanorobot sono
senza alcun dubbio la più grande scoperta della storia dell’umanità.
Proprio come te,
tuo padre non aveva idea delle possibilità illimitate che garantiva il Progetto
Rebuild. Se solo lo avesse voluto, sarebbe potuto diventare l’uomo più ricco e
potente che la storia avesse mai visto.
Cercai in tutti i
modi di farglielo capire, provai a spiegargli quali incredibili benefici
avrebbe potuto ricavare spingendo il Progetto Rebuild nella giusta direzione.
E sai cosa mi ha
risposto lui?»
“Il progetto Rebuild
deve portare la speranza, non la distruzione.
Non permetterò mai
che gli sforzi fatti per salvare mia figlia vengano usati per fare del male”
«Quell’uomo era cieco. Non si rendeva conto di quello che
aveva creato, e non aveva alcuna intenzione di ascoltarmi. Ma io non potevo
permettere al suo stupido ideale di dilapidare quello che poteva costituire il
futuro della nostra specie, quindi mi sono messo alla ricerca di nuovi soci.»
«Tu, lercio
bastardo!» urlò Steven «Hai tradito la fiducia del signor Kinomiya!»
«Io non volevo che
finisse così. È stato lui a costringermi. Se solo avesse dimostrato un po’ più
di buonsenso sarei stato ben felice di continuare a seguirlo.
Tuttavia, non
avevo alcuna intenzione di essere ricordato in eterno come l’idiota che ha
permesso alla più straordinaria innovazione della storia umana di andare
perduta.
Per fortuna» disse
guardando Balalaika «Ho trovato subito qualcuno dotato di maggior spirito di
iniziativa.»
«Di che stai
parlando?!» disse Kyuzo «Non vorrai dirmi che sei stato tu a…»
«I… Vysotniki…»
rispose una voce sibilante.
Steven e gli altri si girarono verso Revy, che
dopo aver recuperato i sensi stava cercando di rimettersi in piedi.
«A bordo della
nave… c’erano… i Vysotniki.»
«I Vysotniki!?»
disse Hibraim «Che cos’è questa storia!?».
Samejima sorridendo
scosse leggermente il capo.
«Beh, ormai tanto
vale che ve la dica tutta. Ebbene sì, lo confesso. L’assalto alla Seaborn Star
è stata una mia idea.»
«Che cosa!?» disse
Rock
«Vuoi continuare
tu, Balalaika?»
«Con piacere.»
rispose lei schiacciando il sigaro sotto i piedi «Quando il qui presente signor
Samejima mi ha spiegato in cosa consisteva esattamente il Progetto Rebuild,
Hotel Moskow non ci ha pensato due volte a mettere i suoi occhi sulla
questione.
Purtroppo
l’operazione in questione non era neanche da paragonare agli squallidi
affarucci di cui ci occupavamo solitamente qui in Thailandia. Qui si parlava di
sfidare una delle più potenti multinazionali del mondo, recuperando un progetto
su cui sicuramente ci sarebbe stato molto da lavorare.
All’inizio abbiamo
cercato di avviare una ricerca parallela, ma è stato chiaro fin da subito che
non disponevamo delle conoscenze adatte per una simile impresa. Le Industrie
Kinomiya potevano vantare i cervelli più brillanti del mondo, noi avevamo solo
l’immondizia pakistana di Harvard e qualche avanzo di Cambridge. Di
conseguenza, l’unica cosa da fare era lasciar fare il lavoro ai nostri
concorrenti per poi appropriarcene, utilizzando in seguito i risultati dei loro
studi per concludere la ricerca.
Anche questa però
si stava rivelando una strada difficile; avevamo coinvolto molte altre
organizzazioni, c’era il rischio di farsi le scarpe a vicenda, per non parlare
del fatto che se anche un solo brandello d’informazione fosse arrivata alle
orecchie della stampa avremmo avuto addosso tutti gli eserciti del mondo.
L’unica cosa da fare era creare il vuoto attorno all’intero progetto, creare
uno scandalo tale da costringerlo alla chiusura e contemporaneamente mascherare
il nostro coinvolgimento. Ed è in tutto questo che entravate in gioco voi della
Lagoon, cara la mia Revy.»
«Voi…» disse la
ragazza rialzandosi a fatica.
Anche se l’effetto
dell’anestetico era ormai passato aveva preso tante di quelle botte da dover
stare appoggiata al muro per non cadere.
«Voi ci avete… usati.»
«Era tutto
stabilito fin dall’inizio. Se vi avessimo detto tutto sareste stati dei
testimoni scomodi, e fare a meno dei vostri servizi mi sarebbe dispiaciuto.
Di conseguenza vi
abbiamo mandati avanti. L’idea di base era che recuperaste i nanorobot, ma a
quanto pare Dutch si è fatto fregare sotto il naso da questo supereroe fallito
che aveva nascosto la fialetta che aveva con sé e tu, Revy, ti sei lasciata
rabbonire dalle sdolcinatezze di quella mocciosa paralitica.»
«E tu…» esclamò la
ragazza sgranando gli occhi «E tu come lo sai!?».
Quella domanda fu
accolta da Balalaika con una malevola risata.
«Mi credi davvero
così stupida da non prendere le dovute precauzioni? Vi ricordate al porto, il
giorno dell’assalto?».
Il porto?
Sforzandosi di rievocare
alla mente quante più memorie possibili Revy riuscì a ricordare quel momento.
Stavano giusto per
lasciare Roanapur, due giorni prima del giorno previsto per l’attacco alla
nave, quando Balalaika li raggiunse al porto, a suo dire per sincerarsi che
tutto fosse in ordine; dopotutto si parlava di assaltare una nave da crociera,
e nulla poteva essere lasciato al caso.
A discussione
finita la donna aveva dato una pacca sulla spalla a ognuno di loro, una cosa
effettivamente molto strana; Balalaika aveva sempre avversato il contatto
fisico, ed evitava il più possibile di toccare altre persone, oltretutto un
gesto simile non rientrava decisamente nel suo carattere.
Lì per lì anche
Revy lo aveva trovato un po’ insolito, ma alla fine non ci aveva fatto troppo
caso.
Solo in quel
momento riuscì a comprendere il vero significato di quel gesto, che di
amichevole non aveva avuto assolutamente nulla.
«Cimici…»
«Quella volta mi
hai davvero sorpresa, Revy. Non ti avrei mai creduta il tipo di persona che si
fa mettere i piedi in testa da una stupida ragazzina e dalle sue ridicole
paternali su sogni e speranze. Quel che conta, è che quella volta mi hai
deluso, e a quel punto non ho avuto altra scelta che accelerare i piani.»
«Quindi…» disse
Kyuzo «Quel massacro… è stato opera vostra.»
«Te l’ho detto,
bisognava fare qualcosa di tanto sconvolgente da spingervi a cancellare il progetto,
almeno ufficialmente. A dire la verità speravamo di affossare definitivamente
le Industrie Kinomiya, visto tutte le grane procurateci in passato le vostre
stupide opere umanitarie, ma a quanto pare vi siete dimostrati più coriacei del
previsto. Tu in particolare devi essere fatto davvero d’acciaio per aver saputo
resistere sia al gas che ai miei Vysotniki.»
«Il… gas!?»
«Il Giappone ha
una marea di difetti e una polizia che fa schifo.» disse Samejima «L’intervento
della guardia costiera in quell’occasione invece è stato fin troppo rapido. Non
potevamo lasciare testimoni, e vista la scarsa quantità di tempo a nostra
disposizione non potevamo certo permetterci di correre dietro ad ogni gallina
in fuga. Bisognava fare in fretta, quindi abbiamo fatto in modo che non
potessero scappare.»
«Ora capisco.»
disse Ashford «Questo brutto schifoso ha spruzzato il P3X nei condotti di aerazione
della nave. Ricordo che pochi giorni prima del party era stata denunciata la
scomparsa di una grossa quantità di anestetico dai laboratori di ricerca.»
«Tu che sei medico
dovresti saperlo, il P3X è inodore e incolore, non lascia tracce e il suo effetto
è praticamente istantaneo. Tutti gli occupanti della nave sono crollati in
pochi secondi, e a quel punto i Vysotniki sono potuti entrare in azione.»
«Li avete uccisi
mentre dormivano.» disse Rock «Mi fate schifo, tutti e due!»
«Non scaldarti
tanto, piccolo Japonski. Ringrazia piuttosto di essere sopravvissuto. Il piano
originale era di non lasciare superstiti.»
«Miss Balalaika»
intervenne Samejima «Era molto contrariata quando ha saputo che Kaito era
sopravvissuto, ma non appena ha visto come il P3X ti aveva devastato il
cervello cancellando ogni ricordo attinente all’attacco abbiamo deciso in
comune accordo di trarre beneficio dall’occasione.
Ti conoscevo
abbastanza bene da sapere che se ti avessi detto che tua sorella era stata
uccisa avresti fatto la cosa più stupida di questo mondo pur di vendicarti, e
come previsto ho indovinato.»
«Mia sorella…
Harue…»
«Harue è viva…»
disse Revy «Questi stronzi non l’hanno uccisa… l’hanno portata via…»
«Che cosa!?»
esclamò Kyuzo.
Non riusciva a
crederci, e non sapeva se provare gioia e dolore.
Aveva passato gli
ultimi quattro anni a piangere una sorella che invece era viva, e che
probabilmente lo stava ancora aspettando. Aveva odiato persone innocenti, che
altro non erano state se non semplici pedine, proprio come lui.
«Harue… è viva…»
disse con gli occhi gonfi di lacrime
«Certo che è
viva.» rispose Samejima quasi ridendo «Ucciderla sarebbe stata la cosa più
stupida che si potesse fare. La ricerca sui nanorobot aveva avuto come modello
di partenza il suo codice genetico, e visto che il progetto era ancora in alto
mare quando ce ne siamo impadroniti non potevamo permetterci di perderla. Al
momento giusto sarebbe stata la cavia perfetta per testare il risultato finale
delle nostre ricerche.»
«Do… dov’è
adesso…» domandò il ragazzo stringendo i denti per la rabbia.
In altri tempi
avrebbe fatto molto di più, ma quel maledetto ritardante bloccava qualsiasi
funzione dei nanorobot che aveva in corpo; con l’andare del tempo le macchine
avevano occupato una fetta sempre maggiore delle funzioni vitali, quindi,
essendone privo, la sua resistenza era al minimo, e a stento riusciva a
rimanere cosciente.
«È in Inghilterra,
in un college. Come te, anche lei crede che tutta la sua famiglia sia morta
nell’attacco alla Seaborn Star. Poverina, le si sarebbe spezzato il cuore se
avesse saputo che il suo adorato fratellino era diventato un sicario della
mafia.»
«Un… un sicario
della mafia!? Ma cosa…»
«È questo uno dei
motivi per cui abbiamo scelto di tenerti in vita. Subito dopo aver assunto la
guida della ricerca ci siamo resi conto che le possibilità del Progetto Rebuild
andavano ben oltre i nostri più sfrenati sogni. Era un boccone decisamente
troppo ghiotto per dividerlo con altri, quindi io e miss Balalaika abbiamo
deciso di comune accordo di sbarazzarci degli elementi di troppo, e qui sei
entrato in gioco tu.»
«Bastardi!» disse
Steven «Ci avete usati per fare il lavoro sporco al vostro posto!»
«In tutta
sincerità, caro il mio Kaito, ci sei stato utile sotto molti aspetti.
Sfortunatamente, le bande che tu e il tuo amico avete sterminato in questi
ultimi quattro anni portavano molta liquidità nelle nostre casse. Quei soldi ci
sarebbero serviti per portare avanti la ricerca, ma tu eri sopravvissuto, e grazie
a te avremmo potuto accedere a una cospicua fonte di guadagno molto più sicura
e affidabile».
Una fonte di
guadagno?
Ma certo, era
elementare. Tutti i presenti non impiegarono troppo a capire di quali soldi
Samejima stesse parlando.
«I fondi per la
beneficenza.» disse Hibraim.
Samejima sorrise
divertito.
«In base agli
accordi aziendali, solo tu e tuo padre potevate approvare lo stanziamento di
quei fondi. Se avessi modificato tali accordi dirottando anche verso di me
questo compito avrei attirato dei sospetti, facendo firmare tutti i documenti a
te invece tutto è filato liscio come l’olio. Sotto questo aspetto, credo che
dovrei ringraziarti».
Kyuzo avrebbe
tanto voluto saltare addosso ad entrambi, e altrettanto volevano fare i suoi
compagni; Samejima, però, seguitava a tenere la pistola puntata alla testa del
giovane, e anche Balalaika e Boris ad un certo punto avevano estratto le loro,
facendo pendere l’ago della bilancia tutto in una sola direzione.
«Ah, già, c’è
anche un’altra cosa.» disse Noboru «Tu ci sei stato utile anche per un terzo
motivo, che definirei il più importante in assoluto.»
«E… quale
sarebbe?»
«Non ci arrivi da
solo? Perché credi ti sia rimasto incollato per tutto questo tempo, seguendoti
dovunque andassi? Tu ti eri iniettato i prototipi, d’accordo, ma rappresentavi
pur sempre un ottimo banco di prova.
Le tue prestazioni
avevano dell’incredibile, e grazie a te è stato possibile raccogliere una
miriade di informazioni, informazioni che abbiamo potuto sfruttare per correggere
i difetti strutturali della matrice originaria.»
«La… matrice
originaria?»
«Non dirmi che…»
disse Rock «Avete risolto il problema dell’auto-replicazione!?»
«Bingo! Ci siete
arrivati finalmente. Che ne dici Balalaika, glieli mostriamo?»
«Per me va’ più
che bene. Sarà la loro ultima soddisfazione».
Balalaika schioccò
leggermente le dita, e qualche istante dopo due suoi uomini entrarono nella
stanza portando un grosso contenitore metallico simile ad un baule, sicuramente
una cella frigorifera, che fu appoggiato sul tavolo accanto a Rock.
Samejima lasciò a
Boris l’incarico di tenere sotto tiro Kaito, quindi, avvicinatosi, digitò il
codice segreto a otto cifre sulla pulsantiera superiore; immediatamente le
serrature ai quattro angoli si sbloccarono e il coperchio scivolò lentamente
all’indietro, disperdendo tutto intorno una densa e fredda coltre di vapore.
Al suo interno,
disposti su due file, uno accanto all’altro, comparvero dodici cilindri di
vetro pieni di una sostanza gelatinosa colore azzurro brillante in cui si
agitavano una miriade di granuli luminescenti.
«Eccoli qua.»
disse Noboru prendendone uno e mostrandolo a tutti «I nanorobot definitivi. La
conclusione del Progetto Rebuild. Abbiamo riscritto il programma del software,
inserendo un comando che limita il numero masso di unità operative all’interno
dell’organismo.»
«Vuol dire…» disse
Hibraim spalancando gli occhi «Che avete risolto il problema
dell’auto-replicazione!?»
«Precisamente. E
abbiamo anche eliminato l’anomalia che portava i nanorobot ad attaccare
l’organismo ospite in caso di mancanza di approvvigionamenti esterni.
In altre parole,
signore e signori, avete davanti a voi la cura suprema.»
«Allora era questo
il vostro obiettivo finale.» commentò Ashford «Ma a cosa vi serviva un piano
tanto macchinoso? Non siete certo dei filantropi, perciò non è sicuramente la
cura ad interessarvi.»
«Ma allora siete
davvero stupidi. Davvero non l’avete ancora capito? La risposta a questa
domanda è davanti ai vostri occhi da ben quattro anni».
A quel punto tutto
divenne chiaro come il sole, e per l’ennesima volta gli sguardi si posarono
contemporaneamente su Kyuzo.
«Ora capisco…
perché mio padre ti ha fermato…»
«Come ti ho già
detto, non avevate la benché minima idea della portata effettiva della vostra
scoperta.
Basta che guardi
te stesso. Potrebbero lanciarti contro un intero reparto di berretti verdi e ne
faresti scempio senza sollevare un piede.
Riesci ad
immaginartelo?
Un intero esercito
di soldati invincibili, tre volte più forti, resistenti e combattivi dei
normali esseri umani, dotati di poteri psichici capaci di influenzare la
materia e quasi immuni a qualsiasi tipo di arma. Quale organizzazione
terroristica, quale governo dittatoriale, quale stato di questo mondo non
sarebbe disposto ad offrire qualsiasi cifra per ottenere tutto ciò?»
«Samejima… sei
malato».
Noboru dapprima
sorrise leggermente a quell’affermazione, ma poi colpì Kyuzo al mento con un
calcio poderoso che lo buttò a terra.
«Lo sai, potrei
ucciderti adesso. Ma per tua fortuna, c’è ancora una cosa di questo nuovo
modello di nanorobot che dobbiamo verificare, quindi per adesso ci servi vivo.»
«Non perdiamo
altro tempo.» disse Balalaika «Facciamo quest’ultimo test e chiudiamo la
questione.»
«Sono d’accordo.
Abbiamo già perso troppo tempo. Allora, vogliamo andare?».
Balalaika incaricò
Boris di rimanere nella stanza a sorvegliare il contenitore coi nanorobot,
quindi lei, i suoi due uomini e lo stesso Samejima si avviarono lungo il
corridoio tenendo tutti, inclusi Revy e Rock, sotto la minaccia delle pistole.
Revy si era ormai
completamente ripresa, Kyuzo invece era ancora molto debole, e aveva bisogno di
appoggiarsi a Steven per poter camminare.
Saliti
sull’ascensore, scesero fino al secondo livello, quello che nei piani di chi
aveva voluto quel complesso avrebbe ospitato la “zona residenziale” dei
dipendenti del laboratorio.
Rock non aveva mai
visto quel livello, e non appena si aprirono le porte lui e Revy rimasero con
la bocca spalancata per la meraviglia.
La stanza in cui
erano arrivati era davvero immensa, di forma ottagonale, alta sei o sette metri
e lunga forse venti. Sembrava l’immenso atrio di un cinema, o di un centro
commerciale, abbondavano vivai, tavolini da giardino e soffici poltrone; vi
erano poi tutta una serie di corridoi più o meno grandi che conducevano
probabilmente ai vari blocchi in cui era suddiviso quel livello, ma erano tutti
sbarrati con pesanti saracinesche, forse perché non ancora completamente
operativi.
Ad attendere
l’arrivo del gruppo c’erano una ventina di uomini armati, facilmente
identificabili come Vysotiniki, disposti in circolo attorno al centro preciso
della stanza a formare una sorta di ring immaginario del diametro di circa
sette metri.
Non appena Balalaika
diede l’ordine quattro di questi uomini si scostarono da una parte come il
tendone di un palcoscenico, e dal nulla comparve, al centro del cerchio, la
ragazza con l’abito cinese, immobile come una statua. Vedendola, Kyuzo e i suoi
compagni non riuscirono a credere ai propri occhi.
«Yu-Ling!» disse
Steven.
Lei non rispose,
continuando a fissare il vuoto coi suoi occhi senza espressione; non sembrava
esserci nulla di vivo nella sua figura, e se non fosse stato per il colore vivo
della sua pelle avrebbe potuto passare per un cadavere.
«Yu-Ling…».
Kyuzo sembrò
sicuramente il più sconvolto nel vederla in quelle condizioni; si girò verso
Samejima con gli occhi iniettati di odio.
«Tu, bastardo. Che
cosa le hai fatto?»
«Mi sembra
piuttosto chiaro. Dovevamo pur testare i nuovi nanorobot su di un soggetto
estraneo al codice genetico di Harue, per essere certi che funzionasse senza
rischi. Una cavia di giovane età era la scelta più logica, e Yu-Ling, come sei,
era naturalmente portata al combattimento, quindi si è rivelata la scelta
migliore.»
«E perché non ci
riconosce?».
Samejima inarcò
leggermente le spalle.
«Devi capire,
Kaito. Se un soggetto in possesso dei poteri offerti dai nanorobot decidesse di
ribellarsi, si trasformerebbe in una minaccia praticamente inarrestabile.
Perciò, parallelamente alla prosecuzione del Progetto Rebuild, abbiamo portato
avanti un’altra ricerca, incentrata sullo sviluppo di un impianto cerebrale in
grado di annullare completamente la coscienza del soggetto, rendendolo del
tutto dipendente dall’autorità della persona registrata nel computer come suo
superiore.»
«Tu…» disse Revy
«Le hai fatto il lavaggio del cervello.»
«Oh, che brutta
espressione, lavaggio del cervello. Io lo chiamerei più un addomesticamento. Ai
cani pericolosi va’ messo il guinzaglio, si sa.»
«Brutto pezzo di
merda!» gridò Kyuzo facendo appello alle sue poche forze «Yu-Ling è tua
figlia!»
«Quante volte
dovrò ripetertelo ancora?» replicò Noboru serio come non mai «Questa ricerca
per me viene prima di tutto. E comunque, non è mai stata realmente mia figlia.»
«Tu… tu sei un
bastardo».
Revy, Rock e tutti
gli altri a quel punto furono fatti inginocchiare e gli vennero legate le mani
dietro la schiena col nastro adesivo. Kyuzo, invece, fu portato faccia a faccia
con Yu-Ling, e non appena Samejima gli infilò nel braccio una nuova siringa si
sentì velocemente ritornare in forze.
«Molto bene.
Eccoci qui. È giunto il momento di mettere alla prova i due rami della ricerca.
I nanorobot di
Yu-Ling sono di qualità superiore e non mettono in pericolo l’ospite, ma non
c’è garanzia che garantiscano prestazioni maggiori.
C’è un solo modo
per scoprire chi di voi due è superiore.
Combattete!».
Yu-Ling continuò a
rimanere impassibile, Kyuzo invece si girò verso Samejima guardandolo dritto
negl’occhi, tenuto costantemente sotto tiro da tutti i soldati.
«No! Non ti
aiuterò a realizzare il tuo stupido delirio».
Noboru fece un
cenno col capo, accompagnato da un enigmatico sorriso, poi, freddo come il ghiaccio,
sollevò la pistola colpendo Ashford dritto in mezzo alla fronte.
Hibraim e Rock,
accanto a lui, lo videro cadere morto all’indietro, e uno scioccato silenzio si
diffuse tra i presenti; Kyuzo rimase visibilmente sconvolto, quell’uomo era con
lui da un sacco di anni ed era stato il suo maestro in materia di medicina.
«Lo sai, vero? Era
importantissimo ai fini del progetto. Lui» disse Samejima puntando la sua arma
verso Rock «Non ha alcun valore.»
«Aspetta!
D’accordo, hai vinto».
Il vecchio sorrise
di soddisfazione, quindi si fece da parte assieme a Balalaika e a tutti i
Vysotnini, lasciando Kyuzo e Yu-Ling soli l’uno di fronte all’altro; la ragazza
assunse quasi da subito una posizione di guardia, Kaito invece rimase immobile,
apparentemente rassegnato.
«Non ce la farà
mai.» disse Steven
«Che stai
dicendo?» domandò Revy «Coi suoi poteri può fare a pezzi quella mocciosa quando
vuole.»
«Non è questo il
punto.» rispose Hibraim «È proprio perché il suo avversario è Yu-Ling che non
ce la farà mai.»
«Che vuoi dire?»
«Sono ottimi amici
fin dall’infanzia.» disse Rock, che conosceva bene la loro storia «Yu-Ling era
la figlia di un ricco imprenditore cinese ucciso dalle triadi. Samejima l’ha
adottata quando aveva cinque anni e l’ha portata in Giappone, dove è diventata
grande amica prima di Kaito e poi di Harue. Un legame molto forte li univa in
passato, ed è proprio per questo che Kaito non riuscirà mai a farle del male».
Seguirono attimi
di tensione pura, poi Yu-Ling partì improvvisamente all’attacco, e con una
velocità a dir poco spaventosa colpì Kyuzo dritto al torace con un pugno che,
su di una persona normale, avrebbe sicuramente sfracellato la gabbia toracica.
Il ragazzo rimase
sconvolto almeno quanto i suoi amici e tentò di reagire, ma prima che potesse
colpire la ragazza, con un salto acrobatico, si era già allontanata, per
tornare subito dopo alla carica. Stavolta Kyuzo fu più scaltro e si fece
trovare pronto a riceverla, ma la sua rapidità nel colpire aveva del
prodigioso: le sue mani e suoi piedi sembravano serpenti, si muovevano con
sinuosità e agilità senza pari, e ogni colpo che il giovane riceveva aveva
l’effetto di una cannonata.
Dovettero
trascorrere molti, moltissimi secondi, perché Kyuzo si decidesse ad opporre una
resistenza decisa ai continui attacchi che gli venivano mossi contro; forse a
spingerlo furono soprattutto i gesti e i comportamenti di Yu-Ling, che della
ragazza con cui era cresciuto non aveva assolutamente più nulla.
All’ennesimo
assalto il ragazzo stavolta rispose con un pugno degno di questo nome; Yu-Ling
si difese incrociando le braccia davanti al volto, ma fu comunque scagliata via
dalla potenza esplosiva del colpo, anche se riuscì a limitare i danni
atterrando in ginocchio.
Di nuovo Kaito
esitò ad infierire su di lei, e la cosa gli costò caro, perché Yu-Ling,
alzatasi, scomparve letteralmente nel nulla, come un disegno sulla lavagna.
«Ma cosa!?» disse
Revy «Dove diavolo è finita».
Anche Kyuzo se lo
domandò, se non che all’improvviso avvertì una sensazione sgradevolissima, ma
appena giratosi a sinistra ricevette un colpo spaventoso da una mano invisibile
che lo fece quasi piegare in due dal dolore.
«Dio santo.» disse
Steven a bocca spalancata «Ha modificato la struttura molecolare attorno al suo
corpo per rifrangere la luce e rendersi invisibile.»
«Ma i nanorobot
possono fare una cosa del genere?!» chiese Rock
«Di sicuro non
quelli di Kyuzo».
Al primo colpo ne
seguirono molti altri, e anche se lo spostamento d’aria permetteva talvolta a
Kaito di individuare la posizione della sua avversaria e di mettersi sulla
difensiva non era assolutamente in grado di muovere un qualunque tipo di
attacco.
Era come
combattere al buio, e più il tempo passava più i sorrisi di Samejima e Balalika
si facevano sempre più pronunciati.
C’era una sola
cosa che poteva permettere a Kaito di uscire da quella pericolosa situazione,
quindi il ragazzo ad un certo punto chiuse gli occhi, cercando di distendere al
massimo i propri muscoli.
Fino a quel
momento aveva combattuto come una persona normale, ma anche lui dopotutto
possedeva il potere dei nanorobot; doveva solo fare attenzione, percepire quei
silenziosi segnali che solo lui sapeva carpire, e allora individuare la
posizione del nemico non sarebbe stato un problema.
La sua fu la
scelta più saggia, perché d’un tratto, con grande anticipo rispetto alle volte
precedenti, avvertì distintamente una presenza che incombeva su di lui alle
spalle, attaccandolo dall’alto.
“Ti ho trovata!”.
Giratosi, strinse
forte i pugni inarcando la schiena, e all’improvviso davanti a lui si formò una
specie di cupola di cupola d’aria che funzionando come uno scudo investì in
pieno Yu-Ling, tornata di colpo visibile, mentre cercava di colpirlo con un
calcio arrivando dal soffitto.
La ragazza cercò
di oltrepassare la barriera, ma poi fu scagliata in aria dall’esplosione della
stessa volontariamente provocata da Kaito; atterrata, cercò di muovere subito
un nuovo attacco, ma il suo calcio fu fermato prontamente dall’avversario, che
le afferrò saldamente la caviglia.
«Mi dispiace,
Yu-Ling. Mi costringi a difendermi».
Con uno sforzo
apparentemente minimo il giovane la sollevò di peso con entrambe le mani, e
come fosse stata un enorme martello la lanciò con forza verso la parete dopo
aver fatto un paio di giri su sé stesso. La ragazza volò come un fuscello, ma
prima di schiantarsi riuscì a girare su sé stessa, e quando i suoi piedi
toccarono la parete si avvertì una specie di movimento d’aria molto
pronunciato.
Subito dopo, lo
stupore e lo sgomento si diffusero non solo fra Kaito e i suoi compagni, ma
anche fra gli stessi Vysotniki.
Yu-Ling… stava in
piedi sulla parete, come se fosse stata su di un pavimento orizzontale.
«No… non è
possibile.» disse Hibraim «Riesce a modificare la forza di gravità».
Kyuzo era così
sconvolto che si dimenticò persino di stare combattendo, e prima che potesse
tornare in sé Yu-Ling partì nella sua direzione come sparata da un cannone, gli
arrivò addosso e lo colpì in pieno con un calcio al volto che solo per miracolo
non gli spezzò l’osso del collo.
In meno di un
minuto il ragazzo fu completamente alla mercé dell’avversaria, che prese a
tempestarlo di colpi, portati ad una velocità dieci volte superiore a quella
utilizzata fino a quel momento.
Era come venire
investiti da una scarica di mitragliatrice, e difatti neppure Kaito fu in grado
di opporsi; fu letteralmente crivellato di colpi, ritrovandosi coperto di
sangue e ferite.
Quasi come se
stesse per morire, e forse era davvero così, il suo pensiero andò alla sorella,
alla sua adorata Harue.
Cosa le avrebbero
fatto? Avrebbero trasformato anche lei in una specie di cyborg senza cuore e
senz’anima, proprio come avevano fatto con Yu-Ling?
Non voleva che
succedesse. Voleva salvarla, ora che la sapeva viva, ma come se una mano
invisibile gli avesse letteralmente strappato via la linfa vitale il suo corpo
non rispondeva più, e le forze stavano tornando a mancargli, sostituite da un
dolore sia fisico che spirituale.
Che ironia.
Aveva passato gli
ultimi quattro anni ad odiare le persone sbagliate, mentre il vero architetto
di tutta quella diabolica macchinazione continuava ad operare indisturbato
proprio davanti ai suoi occhi.
Rock e gli altri
videro Kyuzo cadere in ginocchio; il giovane rivolse il suo sguardo dolorante a
Yu-Ling, che immobile come sempre non fece trasparire nessuna emozione, poi
crollò definitivamente sul freddo pavimento di marmo, fra gli inutili richiami
dei suoi compagni.
Balalaika sorrise
di soddisfazione, schiacciando sotto i piedi il suo secondo sigaro.
«Direi che la
sfida finisce qui.»
«Credo anch’io.»
replicò Noboru «Ora non vi è davvero alcun dubbio su chi sia il più forte».
Nota dell’Autore.
Eccoci qua, con un
nuovo capitolo.
Ormai siamo davvero
alle battute conclusive, tutti i misteri sono stati chiariti e la storia volge
inesorabilmente al termine.
Dico inesorabilmente
proprio perché in questo periodo sono letteralmente sommerso dal lavoro e dalle
nuove idee, quindi ho una cerca urgenza di finire questa fiction per dedicarmi
ad altro.
Se tutto va’ bene
dovrei poter inserire il nuovo capitolo già sabato, o al massimo domenica
pomeriggio, ed entro metà della settimana prossima seguirà il capitolo 12,
accompagnato dall’epilogo.
Ringrazio come sempre
i miei recensori, Beat, Selly, Gufo, Spectre, Selly e Carlitz.
I suoi compagni non riuscirono a credere ai loro occhi
vedendo Kyuzo ridotto così, sconfitto e inerme, a terra privo di sensi coperto
di sangue per le numerose ferite.
Yu-Ling,
l’artefice della sua sconfitta, lo guardava impassibile, con suo sguardo
spento, senza nessuna espressione, come una vera macchina da guerra creata
solamente per uccidere.
«È così che
finisce.» disse Noboru avvicinandosi al corpo del ragazzo «Proprio come tuo
padre. Distrutto dalla tua ingenuità. Ma avrete modo di chiarirvi l’un l’altro
infondo all’inferno.
Benfatto,
Yu-Ling.»
«Grazie, padre.»
rispose lei meccanicamente per poi crollare svenuta, probabilmente per il
grande sforzo sostenuto nello scontro appena concluso.
Fortunatamente, in
tutto quel tempo erano stati tutti troppo concentrati sullo scontro per
accorgersi che Revy, raccolto faticosamente e con fatica un minuscolo
coltellino che portava nella tasca dei pantaloni, aveva cominciato a tagliare
il nastro che le immobilizzava le mani dietro la schiena.
Visto che quando
l’avevano raccolta Steven l’aveva già privata delle sue pistole nessuno, al
momento di trascinarla all’ascensore, si era preso la briga di perquisirla, e
così era riuscita a nascondere quell’utile strumento, messo da parte proprio
per i casi di quel genere.
Purtroppo non era
facile lavorare in una simile posizioni, i polsi e le spalle facevano un male
del diavolo e solo per miracolo riuscì a non urlare per il dolore, ma poi,
finalmente, il nastro cedette, mettendola nelle condizioni di poter fare
qualcosa.
Con noncuranza e
massima discrezione guardò alla sua sinistra; il Vysotniki accanto a lei aveva
in mano il proprio AK-103 e guardava altrove, quello immediatamente dopo invece
la sua arma la teneva addirittura sotto l’ascella. Subito dopo guardò a destra,
incontrando come prima cosa lo sguardo di Steven, che le fece un cenno di
assenso; Revy dedusse che anche lui era riuscito a liberarsi, e che attendeva
solo il momento migliore.
I due non smisero
un momento di tenersi d’occhio, guardandosi vicendevolmente le spalle, e non
appena Balalaika le tolse gli occhi di dosso Revy scattò in piedi, piantando il
coltellino usato per liberarsi nello stomaco del nemico lì accanto e
uccidendolo prima che potesse reagire; contemporaneamente, grazie alle proprie
gambe di acciaio, Steven corse come un razzo verso il soldato a lui più vicino,
gli afferrò il braccio facendolo piegare in avanti e con un colpo di tallone
gli spezzò il collo.
Prima che gli
altri potessero reagire entrambi afferrarono le armi dei nemici morti
cominciando a sparare in tutte le direzioni, e in pochi secondi si scatenò
l’inferno.
Rock e Hibraim
corsero a nascondersi dietro ad un divanetto dove furono raggiunti da Steven,
che liberò anche loro.
«Ora sì che si fa
sul serio.» disse passando a Hibraim una pistola rubata alla sua prima vittima
«Proteggi Okajima.»
«D’accordo» e subito
dopo Steven lasciò nuovamente il nascondiglio, sparando all’impazzata per
attirare il fuoco nemico.
Immediatamente
Rock cercò di mettere fuori la testa per capire dove fosse Revy, e come
previsto la trovò intenta a svuotare il suo caricatore ben protetta da un
vivaio.
«Sta giù!» disse
Hibraim sbattendogli la testa a terra e salvandolo da una pallottola vagante
«Hai forse deciso di morire?»
«Che facciamo?
Siamo bloccati!».
In quella un
soldato sbucò da destra e cercò di colpirli, ma Hibraim fu più rapido di lui e
gli piantò una palla in testa; quando cadde in avanti, Rock si accorse che
assicurate alla cintura aveva le due Beretta di Revy, e senza pensarci le
raccolse. Nello stesso momento Revy esauriva il caricatore del suo fucile,
ritrovandosi in una situazione molto pericolosa.
«Revy!» sentì
gridare «Prendi!».
Le due pistole
volarono nell’aria brillando come stelle e Revy, saltando, le afferrò nello
stesso momento.
«A buon rendere,
Rock!» disse ridacchiando.
Con le sue armi
favorite Two-Hands compì una vera strage, e nell’arco di pochi minuti un intero
battaglione di Vysotniki venne quasi completamente sterminato.
«Questa cosa non
mi piace!» disse Samejima «Balalaika, leviamoci di torno!»
«Con piacere!».
Uno dei soldati
superstiti si caricò Yu-Ling in spalla e si avviò verso l’ascensore; Rock li
vide, e dapprima cercò di muoversi per cercare di fermarli, ma non appena vide
Balalaika attardarsi per cercare di colpire Revy con la sua pistola, la stessa
che aveva puntato in Giappone contro di lui, con un gesto del tutto istintivo
le corse incontro gridando come un forsennato.
«Okajima, no!»
«Balalaika!».
La donna si
accorse di lui, ma prima che potesse fare qualcosa Rock la investì con la forza
di un carro armato, buttandola a terra; la pistola volò lontano e lui, messosi
sopra di lei, prese a tempestarla di pugni in faccia; il suo sguardo era di
puro odio, odiava quel demonio per la strage commessa sulla Seaborn Star e
odiava sé stesso per averle fatto da leccaculo per tutti quegli anni, in un
modo non molto diverso dopotutto da come aveva fatto in Giappone coi suoi
superiori.
«Prendi questo, e
questo, e questo, e questo! Muori, puttana!».
Al sesto pugno
Balalaika riuscì a reagire mollandogli una poderosa ginocchiata alle parti basse
che pur non risultando sufficiente a stenderlo lo fecero esitare il tempo
necessario ad allontanarlo con un calcio.
La donna si rialzò
in piedi sputando sangue e corse verso Samejima, in piedi assieme al Vysotniki
superstite accanto all’ascensore; l’uomo, vedendo Kyuzo ancora disteso a terra,
fu vinto dalla tentazione di realizzare il sogno covato per quattro lunghi
anni.
«Va’ all’inferno,
maledetto».
Revy, che stava
inserendo un nuovo caricatore, si accorse di lui all’ultimo secondo, e malgrado
la pistola non fosse puntata verso di lei senza alcuna esitazione gli sparò,
colpendolo al fianco destro.
L’uomo lanciò una
imprecazione impronunciabile, e non appena le porte dell’ascensore si aprirono
immediatamente ci si infilò dentro assieme a Balalaika e al suo uomo,
mettendosi definitivamente in salvo.
«State tutti
bene?» domandò Hibraim sporgendosi dal suo nascondiglio
«Sì, più o meno.»
rispose Steven togliendosi una pallottola dalla gamba sinistra «Avevo appena
cambiato la corazzatura, accidenti a loro».
Rock, rimessosi
dal colpo di Balalaika, corse immediatamente a sincerarsi delle condizioni di
Kaito, raggiunto in pochi secondi da Revy e Hibraim.
«Kaito! Kaito,
rispondimi!».
Dopo qualche
istante il ragazzo riprese i sensi, ma era chiaramente ancora molto debilitato.
Steven cercò di
riattivare l’ascensore, ma per quanto premesse il numero sul monitor continuava
a rimanere invariato.
«Bastardi! Devono
averlo bloccato!»
«E adesso come
usciamo di qui?» domandò Revy
«L’… l’ascensore…»
si sentì mugugnare di risposta.
Tutti si girarono
verso Kyuzo, che Rock aiutava a stare in piedi sorreggendolo alla propria
spalla.
«L’ascensore… di
servizio…»
«Ma certo!» disse
Steven schioccando le dita «Ha ragione, me ne ero completamente dimenticato!»
«Ma di che diavolo
sta parlando?» domandò Revy
«Quando il
laboratorio era in costruzione c’era un ascensore che veniva usato dagli operai
per raggiungere i livelli più bassi, e che aveva una fermata ad ogni piano!».
Steven cominciò a
correre frettolosamente lungo la parete battendo il pugno di tanto in tanto,
poi, finalmente, sentì rumore di vuoto proprio dietro ad un grosso vivaio a
muro.
«Hibraim, dammi
una mano».
Unendo le forze i
due riuscirono a spostare il pesantissimo vaso, portando alla luce un pulsante
che appena premuto aprì una porta segreta dietro al quale si trovava uno di
quegli ascensori che si vedevano nei cantieri.
«Eccolo, è questo.
Ora possiamo salire.»
«E allora
sbrighiamoci a tornare di sopra.» disse Revy «Questo gioco è durato anche
troppo».
Lasciatisi alle spalle i loro inseguitori, Balalaika,
Samejima, Boris e il Vysotniki superstite si erano rifugiati nella sala
controlli al primo livello, dove i due uomini lasciati a fare la guardia ai
nanorobot ancora li attendevano.
Yu-Ling era
assieme a loro, ed aveva ripreso i sensi.
«Non sarebbe
meglio andarcene di qui?» domandò Balalaika
«Lassù… lassù si
stanno ancora ammazzando.» rispose Samejima tenendosi con forza la ferita al
fianco infertagli da Revy «E tutte le uscite sono sbarrate. L’unica via
d’uscita è il tetto».
In quella la
ricetrasmittente che Boris portava nella tasca interna della giacca iniziò a
gracchiare, e il soldato se la portò all’orecchio.
«Sono Boris…
d’accordo. Capitano. L’elicottero è atterrato sul tetto.»
«Molto bene.
Ordina loro di entrare nell’albergo e fare piazza pulita degli ultimi rimasti.»
«Sissignore. E
come ci comportiamo con quelli della Lagoon? Sembra siano ancora vivi.»
«A questo punto di
loro non abbiamo più alcun bisogno.»
«Signore?» disse
Boris con comprensibile stupore
«Fate fuori anche
loro. Non dobbiamo lasciare testimoni.»
«Io… sì capitano.»
«Yu-Ling, vai
anche tu.» disse Samejima «Prima ce ne andiamo meglio è.»
«Sì padre».
Non appena la
ragazza se ne fu andata l’uomo, barcollando vistosamente, raggiunse il
contenitore frigorifero, e apertolo nuovamente recuperò uno dei contenitori.
«Che stai
facendo?» domandò Balalaika
«Ora che sappiamo
che funziona non c’è alcun motivo per indugiare.»
«Sei sicuro di
quello che stai facendo? Il tuo codice genetico potrebbe non essere adatto.»
«Se non hai le
palle per correre il rischio affari tuoi. Io non ho intenzione di crepare
dissanguato, non con un simile ritrovato fra le mani».
Determinato come
non mai Samejima si tolse la sua bella giacca grigia e si sollevò la manica
destra della camicia, mettendo a nudo il suo braccio leggermente ossuto ma
comunque abbastanza robusto, quindi, sfruttando i numerosi e piccoli aghi da
iniezione che spuntavano da una delle due estremità metalliche del contenitore,
si iniettò i nanorobot.
L’operazione
doveva essere molto dolorosa, perché l’uomo strinse vigorosamente i denti, e
per i successivi secondi il suo volto si contorse in una smorfia di stentata
sopportazione.
Poi, ad un certo
punto, l’espressione sofferente fece posto ad una come di leggero godimento, e
Samejima, alzatosi in piedi, si strappò via la camicia imbrattata di sangue;
Balalaika e i suoi uomini poterono vedere la ferita al fianco rimarginarsi a
vista d’occhio, e tutto ciò che ne rimase dopo una trentina di secondi era una
piccola cicatrice.
«È…» disse la
donna «È incredibile».
Persino Samejima
non riusciva a credere ai propri occhi, e la sensazione che pervadeva tutto il
suo corpo non si poteva descrivere.
«Mi sento… come se
fossi rinato. È come se un fiume di lava mi scorresse nelle vene. Sento… di
poter fare qualsiasi cosa».
Con sguardo a metà
fra la completa incredulità e il delirio di onnipotenza l’uomo allungò il
braccio; Boris avvertì in quella un formicolio al fianco, e appena aprì la
giacca per capire di che si trattava vide la propria pistola scivolare via
dalla fondina per volare, lentamente, in mano a Samejima, a cui bastò
stringerla leggermente nel pugno per ridurla in pezzi come fosse stata di
marzapane.
«Sì! Sì!» disse
sgranando gli occhi «Questo potere… il potere di un dio… è nelle mie mani!».
La sua espressione
si fece rapidamente in tutto e per tutto simile a quella di un pazzo furioso,
del resto autodefinirsi un dio non era certo cosa tipica di una persona sana.
In pochi attimi ogni traccia di lucidità parve scomparire dal suo sguardo,
lasciando posto ad un sadico delirio capace di mettere paura persino a
Balalaika.
«Sa… Samejima…»
«Ne voglio ancora!
Voglio più potere!».
Prima che qualcuno
potesse intervenire Noboru afferrò quasi tutti i contenitori e se li infilò
tutti insieme nello stomaco con entrambe le mani. Il dolore, logicamente, fu
cento volte più forte della prima volta, tanto che cadde pancia a terra quasi
in posizione fetale, e dopo poco gli occhi i suoi occhi sembrarono farsi giallo
oro, simili a quelli di un leone.
Balalaika e i suoi
non fecero in tempo a fermarlo, e all’improvviso videro tutto il suo corpo
cominciare a contorcersi come se avesse avuto una miriade di insetti che gli
camminavano sotto la pelle; i suoi urli e i suoi mugugni doloranti parvero
tramutarsi in una specie di ringhiare sommesso, e in breve intere porzioni di
pelle cominciarono letteralmente ad esplodere sotto la spinta di lunghi e
minacciosi tentacoli marroni.
Quando si rialzò aveva
guadagnato quasi mezzo metro di altezza, e un corpicino dapprima piuttosto
minuto ora traboccava di muscoli che non smettevano un attimo di contorcersi;
l’urlo demoniaco che Samejima lanciò mettendosi in piedi riecheggiò per tutto
il laboratorio e fu udito anche da Revy e dagli altri, i quali stavano
lentamente risalendo verso la superficie usando l’ascensore di servizio, che a
differenza di quello usato precedentemente impiegava circa dieci minuti ad
andare da un livello all’altro.
«Che diavolo era
quello?» domandò Revy.
Gli uomini di
Hotel Moskow ne avevano viste di cose spaventose nei lunghi anni trascorsi in
giro per i peggiori campi di battaglia del mondo, ma nulla era paragonabile
all’essere che stava prendendo forma davanti ai loro occhi.
Sembrava un
incrocio fra Mr. Hyde e una piovra gigante, unghie e denti cadevano a ritmo
incessante per fare posto a dei sostituti molto più affilati, la pelle sembrava
pian piano venire ricoperta di croste marroni dall’odore nauseabondo mentre qui
e là continuavano a spuntare quei lunghi tentacoli carnosi che si agitavano
nell’aria come un esercito di serpenti.
Il Vysotniki
sopravvissuto alla battaglia nel secondo livello fu il primo a perdere
l’autocontrollo, e alzata la sua arma sparò cinque colpi praticamente d’istinto
diretti alla schiena di Samejima, ma nessuno di questi sortì l’effetto di
ucciderlo, e anzi dai fori di entrata sbucarono dopo alcuni secondi altri
tentacoli. Uno di questi, guizzando come una frusta, colpì l’aggressore,
aprendolo a metà con un taglio obliquo dall’ascella sinistra al fianco destro
come neanche una lama affilata avrebbe saputo fare.
Balalaika
assistette alla scena, e per la prima volta dai tempi della guerra il suo fu
uno sguardo di terrore; Boris, istintivamente, si parò in sua difesa, gli altri
due uomini invece presero le pistole e iniziarono a sparare all’impazzata a
quella creatura e ogni secondo che passava sembrava sempre meno umana.
Samejima, dietro
quella scarica di colpi, si girò nella loro direzione, e persino Boris per poco
non vomitò; la bocca grondava sangue, forse a causa della caduta dei denti,
sostituiti da vere e proprie fauci da squalo, gli occhi, gialli e brillanti,
erano quasi completamente fuori dalle orbite, gli erano caduti tutti i capelli
e del naso era rimasta solamente la parte ossea.
Non appena i due
mafiosi esaurirono i caricatori vennero a loro volta tranciati a metà, e a quel
punto rimasero solamente Boris e Balalaika. Entrambi cercarono di guadagnare
l’uscita, ma il mostro, con un’incredibile agilità, si piazzò davanti alla
porta bloccando loro ogni via di fuga.
Boris
istintivamente fece per sfoderare la pistola, ricordandosi solo in quel momento
di non avercela più; non fece in tempo a rendersene conto che venne trafitto al
petto da un tentacolo partito dal palmo della mano di Samejima come da una
spada. Dopo essere stato sollevato in aria fu fatto dondolare per qualche
attimo, poi, non appena smise di agitarsi, con uno scatto rabbioso venne scaraventato
contro il muro.
Balalaika osservò
terrorizzata la sua ultima linea difensiva venire abbattuta, e quando si
ritrovò faccia a faccia con quel mostro tremò come una bambina.
Lui la guardò, ma
non sembrava intenzionato a riservarle lo stesso trattamento; tuttavia, dopo
poco, cominciò a camminare lentamente verso di lei.
«No…» balbettava
lei camminando all’indietro «Non avvicinarti!».
Anche lei, spinta
dalla disperazione, sparò tutti i colpi della sua pistola, ma come era già
accaduto prima non vi fu alcun effetto, e in pochi secondi la donna si ritrovò
con le spalle al muro.
Il mostro a quel
punto si fermò, la guardò ancora poi, ringhiando, le sparò lo stesso tentacolo
con cui aveva colpito Boris diritto in bocca, e un istante dopo l’aria fu sventrata
da un urlo agghiacciante.
L’ascensore di servizio avrebbe dovuto condurre Revy e gli
altri direttamente nei sotterranei dell’albergo, ma quando la cabina passò
davanti alla porticina che sbucava in una stanzetta del primo livello dei
laboratori Kyuzo, ormai rimessosi quasi del tutto grazie agli straordinari
poteri curativi dei nanorobot, spinse la leva che azionava il freno.
«Kaito, che stai
facendo?» domandò Rock
«Io scendo qui.»
rispose lui aprendo la porta
«Perché, cosa vuoi
fare?»
«Bisogna
disinnescare le bombe che avete in corpo e sbloccare le uscite dell’albergo se
vogliamo andarcene, e la consolle nella stanza di comando è l’unico punto da
cui può essere fatto.»
«Ma perché devi
essere tu a farlo?» chiese Steven
«Forse perché sono
l’unico a conoscere i codici di sicurezza.»
«Vengo con te.»
«Non dire scemenze
Okajima. Tu hai ben altro da fare. Andate ora, avvertirò Dutch e gli altri
superstiti di lasciare l’albergo. E fate attenzione, perché sicuramente ci
saranno dei Vysotniki ad aspettarvi al varco.»
«D’accordo.»
rispose Hibraim dandogli la propria pistola «Ma porta questa con te. potrebbe
servirti.»
«Ti ringrazio».
Kyuzo fece per
chiudere la porta, ma Revy lo fermò all’ultimo secondo.
«Ehi, supereroe da
quattro soldi».
Si guardarono, e
dopo poco lei gli lanciò un sorriso provocatorio.
«Cerca di non
crepare. Ammazzarti è un privilegio che spetta a me.»
«Farò il
possibile.» rispose lui con la stessa espressione «Del resto, sono curioso di
sapere cosa vi siete dette tu e mia sorella».
Detto questo Kyuzo
chiuse la porta e si avviò in tutta fretta verso la sala controllo.
Appena uscì in
corridoio si ritrovò davanti a qualcosa di incredibile e sconvolgente; tutto lì
dentro era devastato, molte lampade erano distrutte, cavi e tubature pendevano
dal soffitto, e in più punti delle pareti si notavano profondi solchi a gruppi
di tre che parevano lasciati dagli artigli di un gigantesco animale.
«Che diavolo è
successo qui?» si domandò senza smettere di correre.
Nulla di tutto ciò
però poteva prepararlo a quello che trovò al suo arrivo in sala controllo; la
porta d’ingresso era stata divelta, e la parete tutto intorno sfondata.
All’interno, il pavimento era un tappeto di sangue, cadaveri e interiora, e
Kaito non riusciva a capire chi o che cosa avesse potuto compiere un simile
macello.
«Mio Dio, ma
cosa…».
Appena vide il
contenitore criogenico aperto subito ci si fiondò sopra, trovandovi però un
solo campione di nanorobot.
«Dannazione. Beh,
uno basta e avanza per adesso».
Fortunatamente la
consolle funzionava ancora, quindi, senza pensare ad altro, immediatamente
cominciò a lavorare ai codici di sicurezza, riuscendo in pochi minuti a
disattivare tutte le cariche esplosive ancora funzionanti e a sbloccare tutte
le porte, inclusa quella principale.
Stava per attivare
i microfoni dell’albergo per avvertire tutti i superstiti del Death Game
affinché abbandonassero immediatamente l’edificio, ma gettando uno sguardo ai
monitor vide, come previsto, che l’albergo pullulava di Vysotniki, intenti a
fare strage degli ultimi concorrenti.
Nello stesso
momento, alcuni di loro stavano seriamente impegnando Dutch, che nascondendosi
dietro ad un angolo nei corridoi del primo piano cercava di sfuggire a quelle
raffiche micidiali.
«Ma si può sapere
che diavolo succede?» brontolò il gigante ricaricando la sua magnum «Da dove
sono saltati fuori tutti questi Vysotniki? E soprattutto, perché ci sparano!»
«Perché vi
vogliono morti, mi sembra ovvio!» rispose una voce famigliare
«Ma cosa…».
Dutch guardò
attonito il suo orologio-segnalatore, vedendo riflessa sul piccolo monitor la
faccia, ora molto più amichevole, di Kyuzo.
«Tu, bastardo! È
anche questa opera tua?»
«No, decisamente
no.» rispose lui.
Non solo Dutch, ma
anche ma anche Revy, Eda e Benny, ovvero gli unici partecipanti al Death Game
ancora in gioco, si erano ritrovati di colpo a tu per tu con colui che li aveva
rinchiusi lì dentro; Benny si trovava nei bagni di servizio poco distante dalla
posizione del suo collega nero, Eda invece sul bordo di una delle terrazze che
davano sull’ingresso, dove si era appena liberata di un manipolo di aggressori.
«Se proprio volete
saperlo, questo gustoso scherzetto è opera di Balalaika.»
«Che cosa!?
Balalaika!?»
«Ma non dire
stronzate.» disse Eda «Balalaika l’ho ammazzata io, con le mie mani!»
«Quella era solo
una sosia.»
«Una sosia!?»
«La verità è che
ci ha menati tutti per il naso fin dall’inizio. Ora che ha avuto ciò che voleva
intende sbarazzarsi di ogni possibile testimone, quindi sarà meglio per tutti
levare le tende il prima possibile.»
«Non è
possibile!?» disse Benny «Mi stai dicendo che Balalaika… ci ha traditi?»
«Tradimento è una
parola inesistente nel suo vocabolario. Del resto, il voltafaccia è la sua
specialità.
Contro i Vysotniki
non resisterete a lungo, quindi sbrigatevi a raggiungere le uscite.»
«Cosa, le
uscite!?» esclamò Dutch «Così se non ci ammazzano loro lo faranno le tue
stramaledettissime bombe!»
«Le ho
disinnescate tutte. E ho anche sbloccato le porte. Fareste meglio ad andare
prima che se ne accorgano anche loro.»
«Fanculo, chi ci
dice che non sia un altro dei tuoi sadici giochetti?»
«Mettiamola così,
potete scegliere se fidarvi di me, oppure restare e venire ammazzati. La scelta
è vostra».
Dutch digrignò i denti, era chiaramente
indeciso se dare retta o meno a Kyuzo, ma mentre cercava di soppesare tutte le
possibili alternative dall’orologio giunse una nuova voce, anch’essa a lui ben
nota.
«Dutch, smettila
di fare il diffidente stronzo e dagli retta!»
«Cosa, Revy!?»
disse Benny
«Ah già, mi ero
dimenticato di dirvelo.» intervenne Kyuzo «Le radio degli orologi sono
collegate fra di loro.»
«Dutch, sta
dicendo la verità. Quella stronza ci vuole tutti morti, e se non ce ne andiamo
di qui al più presto ci ammazzeranno davvero!»
«Merda. D’accordo,
se lo dici tu mi fido.»
«Ottimo. Allora
sbrigatevi».
Benny fu il primo
a raccogliere l’invito e se la diede a gambe passando per la porta principale
senza incontrare fortunatamente alcuna resistenza, Eda usò la scala di
emergenza, Dutch invece, essendo bloccato dal fuoco ininterrotto dei Vysotniki,
dovette ricorrere a metodi più sbrigativi, buttandosi di sotto da una finestra.
Il suo volo di
sette metri venne fortunatamente attutito da una palma, ma non fu mai così
contento di poggiare il suo enorme fondoschiena sull’asfalto di Bangkok. Benny
gli corse incontro.
«Dutch! Tutto
bene?»
«Sono stato
meglio. A quanto pare quel piccolo bastardo diceva la verità. Dov’è Revy?»
«Io non l’ho vista.
Probabilmente è ancora all’interno».
Dopo poco furono
raggiunti da Eda.
«Ehi, chi si
rivede. Allora siete sopravvissuti anche voi.»
«Che c’è, sei
sorpresa?» domandò provocatoriamente Dutch «Piuttosto trovo incredibile che tu
sia stata capace di conservare la pellaccia per tutto questo tempo.»
«Ehi, bada a come
parli. Mi è rimasto ancora un colpo.
Cambiando
discorso, Two-Hands non è con voi?»
«Tu la vedi per
caso?».
Pochi minuti dopo finalmente Revy e gli altri occupanti
dell’ascensore raggiunsero il pianterreno dell’albergo, dove il punto di arrivo
era mascherato all’interno di una delle quattro grosse colonne del ristorante
francese.
«Forza.» disse
Steven «Sbrighiamoci ad uscire, prima che ci siano addosso.»
«Procedete con
estrema cautela.» disse Kyuzo, sempre attraverso la radio da polso di Revy «Ce
ne sono ancora molti in giro… cazzo, attenti, stanno arrivando!»
«Da dove?» chiese
Revy
«Porta d’ingresso!
Sono tantissimi!».
Prima che anche
gli altri potessero rendersene conto la grande porta a due ante fu sventrata da
una granata, e una quindicina di Vysotniki fece irruzione nel locale. Revy
ribaltò immediatamente il tavolo più vicino, giusto in tempo per evitare la
prima raffica, dietro al quale tutti si nascosero.
«Merda!» disse Revy
«Sono come gli scarafaggi, non te ne liberi mai!»
«Meno chiacchiere»
rispose Hibraim «Cerchiamo piuttosto di uscire vivi!».
Come la prima
volta furono Revy e Steven a dirigere le danze, ma a differenza del primo
scontro stavolta i Vysotniki sembravano molto più agguerriti, senza contare che
spazi angusti e pieni di nascondigli come quel ristorante costituivano il loro
campo di battaglia ideale.
Tre di loro,
rimasti sulla porta, offrivano copertura sparando continuamente, e intanto gli
altri si avvicinavano sempre di più, rendendo le loro sventagliate più precise
e letali.
Steven venne
ferito leggermente alla spalla quando si sporse per rispondere al fuoco, Revy
invece fu colpita di striscio alla gamba, e più i secondi passavano più la
situazione si faceva disperata.
«Merda, siamo in
trappola!» disse Steven «Ci vorrebbe un miracolo!»
«Ma non dire
cazzate!» rispose Revy ricaricando le sue armi «I miracoli ce li creiamo da
soli! Sta a guardare!».
Senza un briciolo
di esitazione Two-Hands lasciò il proprio nascondiglio e cominciò a correre
lateralmente, sparando all’impazzata; molti Vysotniki caddero sotto i suoi
colpi, alcuni di quelli che si distrassero per starle dietro furono prontamente
centrati da Steven.
All’improvviso,
mentre tutti erano ancora intenti a spararsi, un verso terrificante simile ad
un ruggito risuonò nell’aria, accompagnato da un impercettibile quanto
preoccupante tremolio delle pareti.
Sia i Vysotniki
che i loro bersagli rimasero immobili per lo spavento, non riuscendo a capire
di che potesse trattarsi, poi, di colpo, una parete andò letteralmente in pezzi
come colpita da un bulldozer, e dal polverone così prodotto uscì lentamente una
creatura che solo con molta fantasia si poteva definire umana.
Alto più di due
metri, quella specie di mostro aveva la pelle di un colore marrone, quasi
squamosa, in cui le vene, soprattutto nelle gambe, sembravano quasi brillare di
rosso; in alcuni punti sembrava addirittura che i muscoli, rossi e pulsanti,
fossero usciti all’esterno, soprattutto sul torace e sulla testa, dove la
scatola cranica era in parte esposta.
Ciò che più
spaventava di lui però era il braccio sinistro, grosso come quello di un
gorilla e la cui la mano sembrava quella di un rettile, con tre dita grosse e
lunghe, quello centrale più degli altri, armate tutte di minacciosi uncini; la
mano destra era tutto sommato normale, fatta eccezione per i cinque artigli che
sporgevano da ogni dito, ognuno dei quali superava i cinquanta centimetri di
lunghezza;.
Al posto dei denti
aveva quattro file di fauci acuminate, due in alto e due in basso, gli occhi
erano molto più grossi di quelli di un essere umano, quasi completamente fuori
dalle orbite e anch’essi simili a quelli di un rettile, e del naso si vedevano
solamente i fori ossei.
Qua e là, in varie
parti del suo mostruoso corpo, spuntavano lunghi tentacoli carnosi che non
smettevano di agitarsi.
«Ma cosa diavolo…»
disse Revy sgomenta.
A trovarselo più
vicino furono i Vysotniki, che terrorizzati non esitarono a fregarsene dei loro
obiettivi primari per sparare nella sua direzione, ma per quanto lo colpissero,
facendo schizzare fiotti di sangue, quello non sembrava neppure provare dolore.
Dopo alcuni
secondi, forse irritato per quelle raffiche che non smettevano di abbattersi su
di lui, il mostro lanciò un ringhio terrificante, e con un’agilità del tutto
inconsueta per la sua stazza si avventò sui russi, facendone strage; li
trapassava con gli artigli, gli fracassava le teste stringendole nella mano, o
li apriva coi suoi tentacoli, che colpivano peggio di un nugolo di fruste
affilatissime.
Revy e gli altri
assistettero immobili e terrorizzati, e persino Kyuzo, che osservava la scena
grazie alle telecamere, si sentì tremare leggermente le gambe.
«Mio dio, ma
cosa…».
Non appena i
Vysotniki furono tutti morti la creatura inevitabilmente si concentrò sui
superstiti. Per interminabili secondi rimase immobili a fissarli, e ogni
istante sembrava essere quello dell’assalto.
Invece, a
sorpresa, fu Revy a fare la prima mossa, sollevando le sue due pistole e
mettendosi a sparare, urlando contemporaneamente con tutta la sua voce.
«Revy!» cercò di
dire Rock «Non fare pazzie!».
Come previsto
quella nuova pioggia di pallottole non sortì alcun effetto, e in breve
Two-Hands si ritrovò nuovamente a secco di munizioni, ma questo non bastò
certamente a scoraggiarla; rinfoderate le pistole, sollevò in aria con il piede
il fucile a canna mozza di un Vysotniki morto, quindi riprese a sparare.
Questa volta la
pioggia di pallettoni sembrò produrre qualche risultato, perché il mostro,
investito in pieno, cominciò a camminare all’indietro, ma quando anche
quell’arma fu vuota era ancora in piedi, e dopo alcuni secondi tutte le ferite
che Revy gli aveva inferto cominciarono rapidamente a scomparire.
«Oh, merda!».
Un nuovo,
terrificante ruggito fu ciò che spinse lei e gli altri ad abbandonare in tutta
fretta il campo; purtroppo, essendo la strada verso l’uscita sbarrata dal
mostro, l’unica via di salvezza si rivelò la cucina, che fra le altre cose
aveva una porta che dava sulla scala interna di servizio.
Steven la aprì nel
momento esatto in cui anche la creatura entrava in cucina sfondando la doppia
porta, chiudendola immediatamente dopo che tutti furono entrati e usando la sua
tessera di riconoscimento per chiuderla a chiave.
Il mostro ci si
avventò sopra un istante dopo ma fortunatamente la porta era a doppia
blindatura e resistette, anche se l’urto spaventoso la fece piegare leggermente
verso l’interno.
«Che cazzo era
quello!?» domandò Revy
«Ho paura a dirlo»
rispose Kyuzo «Ma credo fosse Samejima.»
«Che cosa!? Quel
mingherlino giapponese tutto azzimato!?»
«Ma come ha fatto
a diventare così?» chiese Hibraim
«Temo si sia
iniettato una quantità esorbitante di nanorobot, così tanti da alterare il suo
codice genetico provocando una mutazione.»
«Gli ho sparato
più di trenta colpi senza fargli un graffio.» disse Revy
«La cosa non mi
sorprende, con tutti i nanorobot che si ritrova in corpo, e se proprio volete
saperlo credo che la sua mutazione sia solo all’inizio.»
«Noi cosa possiamo
fare per togliercelo di mezzo?» chiese Steven
«Non molto temo. La
sua velocità di guarigione è troppo rapida».
Un silenzio
angosciato si diffuse tra i presenti, e intanto quel mostro continuava incessantemente
a colpire la porta nel tentativo di sfondarla.
«Ragazzi…» disse
Kyuzo dopo un po’ «Sono costretto a riattivare le chiusure di emergenza e a
sigillare l’albergo. Non possiamo permettere a quel mostro di andarsene in giro
indisturbato per le strade di tutta Bangkok.»
«Sì, ti capiamo.»
rispose Rock con voce da funerale «Procedi pure».
Alcuni secondi
dopo Dutch, Eda e Benny, che ancora attendevano fuori dall’Hotel Universe
l’arrivo di Revy, videro tutte le porte e le finestre dell’edificio venire
sbarrate da delle robuste grate di metallo, trasformando di fatto l’albergo in
una sorta di insuperabile prigione.
«E ora che diavolo
sta succedendo?».
Benny, che aveva
ancora con sé il palmare, si collegò alle telecamere, e non appena vide quel
mostro intento a colpire la porta della scala di servizio a suon di spallate,
incrinandola sempre di più, per poco non se la fece sotto.
«Oh, mio Dio.»
«Che cazzo di
bestia è quella?» domandò Dutch.
Completata la
messa in sicurezza dell’albergo, Kyuzo si appoggiò sconsolato alla consolle,
senza più idee.
Cosa potevano fare
per riuscire ad avere la meglio su quella creatura all’apparenza immortale?
Un’idea, dopo
poco, gli balenò in testa.
Una soluzione
forse c’era, ma era molto rischiosa. Una volta sigillato l’albergo uscire era
praticamente impossibile, quindi, di conseguenza, tale soluzione imponeva quasi
sicuramente la morte di tutti coloro che ancora si trovavano al suo interno.
«Che possiamo fare
adesso?».
Anche Revy e gli
altri erano visibilmente sconvolti, con la rassegnazione dipinta sul viso;
ormai non prestavano neanche più attenzione ai ruggiti terrificanti del mostro
e al rumore dei suoi colpi contro la porta blindata, che più passava il tempo
più si incrinava.
Era dunque quello
il loro destino?
Sarebbero morti
tutti, proprio quando erano ad un passo dalla salvezza?
Kyuzo chiuse gli
occhi, cercando in tutti i modi di farsi venire un’idea, quando improvvisamente
una mano gli si avvinghiò alla caviglia.
Istintivamente
afferrò la pistola ricevuta da Hibraim e la puntò ai suoi piedi, incrociando lo
sguardo spento e quasi morente di Boris; nuotava nel sangue che continuava ad
uscire dall’orrenda ferita provocatagli da Samejima, e appariva chiaro che la
sua vita fosse ormai prossima a finire.
«Il…» mugugnò
sputando fiumi di saliva insanguinata «Il tetto…»
«Che cosa!?»
«C’è… c’è… un
elicottero…»
«Un elicottero!?
Mi stai dicendo che c’è un elicottero sul tetto…»
«Il nostro…
elicottero…».
Kyuzo cercò di
soccorrerlo, malgrado solo due giorni prima lo avesse quasi ucciso, e il russo,
infilata una mano nella giacca, ne cavò fuori due cd-rom nelle rispettive
custodie.
«P… prendi
questi…»
«Che cosa sono?»
«I… risultati
delle ricerche… la cura… è qui dentro…».
Il giovane,
attonito, prese i cd mettendoseli in tasca, e subito dopo la mano che stringeva
cominciò a perdere rapidamente di forza.
«Da… dasvidania…» fu
l’ultima parola che Boris pronunciò prima di morire.
Per lunghissimi
istanti Kyuzo stette immobile ad osservare il corpo senza vita di quell’uomo,
stringendo la sua mano ormai morta, ma poi, con rinnovato spirito, afferrò
nuovamente il microfono.
«Ascoltatemi bene,
c’è una possibilità.»
«Che cosa!?» disse
Revy «Sputa il rospo, di che si tratta?»
«C’è un elicottero
sul tetto, quello con cui probabilmente sono arrivati Samejima e Balalaika.
Possiamo usarlo per andarcene.»
«Alla grande! E
allora forza, muoviamoci!»
«Ma come facciamo
con Samejima?» chiese Rock «Non possiamo certo lasciarlo in vita.»
«Non temere, ci ho
già pensato. C’è una soluzione anche per questo.»
«Una soluzione?»
disse Steven, che dopo poco ebbe l’illuminazione «Ma certo, la bomba!»
«Di che bomba
parli?» domandò Revy
«Quella che era
stata piazzata nei sotterranei. Un piccolo espediente nel caso il Death Game
fosse sfuggito al nostro controllo.»
«Volevate farci
saltare in aria!? Ma io vi…»
«Ora non c’è tempo
per questo.» intervenne Kyuzo «Sbrigatevi a raggiungere il tetto. Io imposterò
il computer per programmare l’esplosione a distanza.»
«D’accordo.»
rispose Steven «Sbrigati a raggiungerci, e fa attenzione al mostro.»
«Ok, userò
l’ascensore principale.»
«Perfetto. Forza,
muoviamoci!».
Chiusa la
comunicazione, Kyuzo cominciò a lavorare al computer centrale della bomba, che
come tutte le altre apparecchiature poteva essere controllato direttamente
dalla consolle principale, ma ad un certo punto su di un angolo del monitor si
accese un led rosso. Il ragazzo lo osservò dapprima incredulo, poi chiuse gli
occhi accennando un sorriso.
«Beh, tanto
sarebbe comunque finita così».
Completato il
lavoro fece per lasciare la stanza, quando, fra le macerie, notò casualmente la
famosa pistola rinvenuta nella cabina della Seaborn Star, accanto alla sedia di
Harue, e come un fulmine a ciel sereno si ricordò della promessa fatta tanto
tempo prima. Quella promessa doveva ancora essere mantenuta, quindi, recuperata
l’arma, la infilò alla cintura dietro la schiena, e a quel punto si diresse
verso l’ascensore.
Steven, Hibraim, Rock e Revy presero a salire il più
velocemente possibile le scale di servizio in direzione del tetto, contando
freneticamente sia i piani che li separavano dalla salvezza sia quelli che
avevano messo fra loro e il mostro.
Quel bestione non
aveva alcuna intenzione di arrendersi, e difatti, ad un certo punto, la porta
blindata cedette, permettendogli di entrare.
«Oh, merda!» disse
Steven guardando di sotto «Correte!».
Tutti quanti
misero tutta la forza loro rimasta nelle gambe e presero a correre il più
velocemente possibile, ma nonostante ciò il mostro si faceva sempre più vicino,
questo perché invece che salire di gradino in gradino riusciva con un solo
balzo a percorrere un’intera rampa.
Era evidente che
non avrebbe impiegato molto a raggiungere il gruppo, e al tetto mancavano
ancora molti piani.
L’unica soluzione
per riuscire a guadagnare un po’ di tempo era quella di separarsi, quindi,
giunti al dodicesimo piano, Revy e Rock imboccarono la porta d’uscita, mentre
Hibraim e Steven continuarono a salire lungo le scale, e purtroppo fu su questi
ultimi che il mostro decise di concentrare la propria attenzione.
«Porca puttana,
quello non ci molla! Hibraim, corri!».
Le gambe di Steven
gli permettevano di correre molto veloce, ma l’iracheno purtroppo non aveva lo stesso
privilegio; Steven faceva il possibile per riuscire a stargli vicino, ma
intanto Samejima si avvicinava sempre di più, e ormai a dividerli c’erano solo
sei o sette rampe.
All’improvviso
Hibraim, sovraeccitato e terrorizzato, appoggiò male il piede su uno scalino,
cadendo molto malamente e provocandosi una slogatura.
«Hibraim!» disse
Steven tornando indietro.
Cercò di aiutarlo
a rialzarsi, ma il dolore alla caviglia era tremendo e non gli riusciva neppure
di muoversi.
«È inutile, non ci
riesco!»
«Non dire
stupidaggini! Forza, siamo quasi in cima!»
«Mi fa troppo
male! Non riuscirei neanche ad appoggiarla a terra!».
Steven fece per
aiutarlo a rialzarsi, ma Hibraim lo allontanò violentemente.
«Vattene, va’ via
di qui!»
«Non posso farlo! Non
puoi chiedermi di abbandonarti!»
«Finiscila di
sparare cazzate e vattene! Vuoi che quel mostro ci ammazzi entrambi?»
«Hibraim…».
Per la prima volta
dopo tanto tempo, dal giorno della morte del padre, Steven pianse nuovamente.
«Vai, Steven.» gli
disse l’iracheno in tono più pacato, non molto diverso da quello di un fratello
«È meglio così.»
«Amico mio…»
«Hai promesso di
rifondare la tua compagnia. Non puoi morire qui. Io quello che dovevo fare l’ho
fatto. Sta a voi scegliere l’uso migliore per le mie scoperte».
Alla fine,
piangendo tutte le sue lacrime, Steven accettò l’inevitabile e abbandonò il
proprio amico proseguendo nella salita. Rimasto solo, Hibraim sorrise.
«Certo che è una
bella sfortuna».
Quando il mostro
raggiunse il pianerottolo che stava subito prima della rampa dove l’iracheno
era stato lasciato lo trovò con in mano una cintura militare piena di granate,
sottratta probabilmente ad uno dei Vysotniki uccisi al secondo livello.
«Samejima, volevo
dirtelo da tanto tempo. Vaffanculo.» quindi tirò una delle linguette.
L’esplosione che
ne derivò distrusse quasi interamente la tromba delle scale; Steven, che nel
frattempo aveva raggiunto il penultimo piano, fece appena in tempo ad aprire la
porta e a buttarsi a terra, evitando di venire investito dalla nube di fuoco
proprio per un soffio.
«Hibraim!».
Nello stesso momento Revy e Rock, tenendosi insolitamente
per mano, stavano attraversando in tutta fretta il dodicesimo piano per
raggiungere la scala principale, posta dal lato opposto a quella di servizio, e
poter così riprendere la salita verso il tetto.
Non sapevano se il
mostro li avesse scelti o meno come bersaglio, quindi erano più che mai ansiosi
di andarsene da lì e mettere finalmente la parola fine a quell’incubo surreale.
Avevano corso così
tanto da avere entrambi il fiatone e quando, giunti sulla terrazza che si
affacciava sull’androne principale, ebbero la certezza di non essere seguiti,
decisero in comune accordo di fermarsi per riprendere fiato.
«Forse…» disse Rock
«Forse l’abbiamo seminato.»
«Sì, ma non
dormire sugli allori. Non è ancora finita»
«Hai ragione,
scusa».
Revy, calmato il
battito, si appoggiò al parapetto, mentre Rock al contrario ci stava mettendo
più del previsto a recuperare le energie; non era proprio tagliato per quel
genere di vita.
«Senti Rock. C’è
una cosa che volevo chiederti.»
«Di che si
tratta?» domandò lui ancora con il fiatone
«Beh ecco… non
credo tu sia stato coinvolto in questo stupido gioco, o sbaglio?»
«No, infatti.
Quando mi sono svegliato ero nei sotterranei. Forse per via della nostra
vecchia amicizia Kaito ha voluto lasciarmi fuori.»
«Capisco. Beh, se
è così, che ci facevi qui nell’albergo prima, quando ti ho visto insieme a
lui?».
Okajima a quella
domanda si ritrovò del tutto impreparato a rispondere, rimanendo con gli occhi
sbarrati e la bocca socchiusa.
Solo dopo molte
esitazioni infine trovò la forza per rispondere.
«Io… io ero
preoccupato per te.»
«Preoccupato… per
me!?» replicò lei con la medesima espressione
«Quando ho sentito
cosa avevano in mente di farti, ho cercato di venirti a salvare. Volevo
aiutarti, fare qualcosa, ma invece non ho fatto altro che mettermi nei guai, e
se Kaito non fosse venuto ad aiutarmi a quest’ora sarei sicuramente morto.
Mi dispiace, Revy.
La verità è che non so proteggere nessuno, neppure me stesso».
Two-Hands restò
così impressionata dalle parole del suo partner che, come lui, non riuscì a
trovare la forza per rispondere; solo poche ore prima l’aveva quasi uccisa, e
poi d’improvviso si era quasi fatto ammazzare per cercare di aiutarla?
Solo in quel
momento, dopo quasi due anni, Revy cominciava a scoprire sul serio la sua vera
personalità.
«Sei uno stupido,
Rock.» disse accendendosi la sua ultima sigaretta «Cosa ti fa pensare che io
potessi aver bisogno del tuo aiuto? Che tipo di aiuto potresti mai darmi?».
In altri tempi
Rock si sarebbe accorto fin da subito della scarsa convinzione che Revy aveva
infuso in quelle parole, ma per lo stato in cui era gli sembrarono terribili e
incredibilmente ammonitorie.
«Hai perfettamente
ragione. Ma tu hai rischiato tante volte la vita per aiutarmi, che ho pensato
fosse venuto il momento di ricambiare. In realtà, non ho fatto altro che
peggiorare le cose.»
«Forse. Ma devo
ammettere che quando hai fatto esercizi di boxe sulla faccia della sorellona
hai dimostrato un fegato che non ti avrei mai attribuito.»
«Non so cosa mi
sia preso. Tutto d’un tratto, non ci ho visto più. Quella donna ha rovinato la
vita di decine di persone per soddisfare il suo egoistico desiderio personale.
Non potevo permetterle di passarla liscia, non potevo.»
«Beh, se ti può
consolare, anch’io d’improvviso ho avuto una gran voglia di ammazzarla. Dovrò
ricordarmi di ringraziare Kyuzo per avermi fatto capire che razza di stronza
era».
Seguì, un nuovo
silenzio, poi Revy fece qualcosa che Rock non avrebbe mai più dimenticato.
«Rock… mi
dispiace».
Lui la guardò come
si guarderebbe un fantasma.
«Mi dispiace di
avertelo tenuto nascosto per tutti questi anni.»
«Ma cosa dici,
Revy. Tu non hai fatto niente.»
«Appunto. Potevo
salvarla. Potevo salvare quella ragazzina, e impedire che si compisse quella
strage. Nulla di tutto questo sarebbe mai accaduto se avessi dimostrato un
cazzo di coraggio.»
«Revy, non devi
essere in collera con te stessa. Ciò che conta ora è uscire di qui. Sono certo
che Harue non ti ha dimenticata. Sono anzi convinto che ti sia profondamente
grata per aver tentato di proteggerla, e che presto vi ritroverete.
Tra poco Kaito
potrebbe non esserci più, e lei avrà bisogno di un nuovo fratello.»
«Sì, forse.»
rispose lei a bassissima voce «Ma quello non è un ruolo che spetterà a me».
D’un tratto, un
rumore sommesso di passi fece terminare anzitempo quella insolita
conversazione.
Revy e Rock si
misero subito sul chi vive, poi, da un corridoio laterale dinnanzi a loro,
videro uscire qualcuno che non si aspettavano, ed entrambi a stento si
trattennero dal vomitare inorriditi.
Balalaika, la Balalaika che era stata
all’origine di ogni cosa, di ogni tragedia capitata in quell’hotel maledetto,
camminava barcollando verso di loro.
I suoi capelli
biondi, solitamente annodati, erano ora sciolti, ma anche imbrattati di sangue.
La giacca militare che portava di solito non c’era più, le mancava una scarpa,
e il suo vestito rosso appariva strappato in più punti.
Tuttavia, la cosa
spaventosa erano le sue menomazioni; invece che semplici cicatrici sembravano
ora un ammasso contorto di carne putrescente che ondeggiava e pulsava come un
enorme formicaio, emanando fra l’altro un odore nauseabondo; doveva anche
essere cieca dall’occhio destro, perché la pupilla era completamente bianca.
Inoltre, dalle orecchie, dal naso e dalla bocca fuorusciva costantemente una
strana poltiglia violacea.
«Balalaika!?»
disse Rock
«Ma che cazzo le è
successo!?».
Provarono a
chiamarla, ma lei non diede segno né di averli sentiti né tanto meno di
riconoscerli; tutto ciò che faceva era continuare a camminare verso di loro con
espressione quasi delirante, e ripetendo continuamente la solita litania.
«I miei nanorobot…
i miei nanorobot…»
«Ma cos’è, la Notte dei Morti Viventi?»
«Credo sia colpa
dei nanorobot.»
«Come fai a
dirlo?»
«Guarda quella
gelatina che ha in faccia. Samejima deve averle come iniettato alcuni dei suoi
nanorobot, ma evidentemente invece che guarirla le hanno devastato corpo e
mente, trasformandola in una specie di zombie.»
«Perfetto, siamo a
cavallo».
Revy alzò la
pistola e provò a sparare, ma prima che potesse farlo Balalaika balzò in avanti
e le diede un tremendo spintone, buttandola giù dal balcone; Two-Hands riuscì
fortunatamente ad aggrapparsi al parapetto con una mano, ma la donna sembrava
determinata a finire il lavoro e alzò la mano come a volerla trafiggere con le
sue unghie insolitamente lunghe.
Prima che potesse
riuscirci Rock le saltò addosso tentando di trattenerla, ma lei, con una forza
sovrumana, si liberò dalla stretta, e giratasi menò un colpo di unghie che ferì
il giovane al petto strappandogli la camicia.
Per il dolore
Okajima barcollò leggermente all’indietro, ricevendo a sua volta uno spintone
che lo buttò a terra, e subito dopo Balalaika gli si inginocchiò sopra,
afferrandogli il collo con entrambe le mani.
«Rock!» gridò Revy
cercando di tornare su.
Lui lottò con
tutte le sue forze per tentare di liberarsi, ma era come se quelle mani fossero
state le zampe di un orso, e ogni suo tentativo per allontanarle da sé
risultava vano.
Velocemente si
sentì mancare il respiro, la sua lotta si fece sempre meno cruenta, quando d’un
tratto il rumore di uno sparo rimbombò nel vuoto dell’androne, e la stretta di
Balalaika cominciò gradualmente a diminuire fino a che la donna non allontanò
le mani dal collo della sua vittima.
Istintivamente
Rock pensò fosse stata Revy a sparare, ma quando, giratosi, vide la sua partner
ancora intenta a riguadagnare una base per i piedi, capì che doveva essere
stato qualcun altro.
Balalaika, che era
stata colpita ad una spalla, si rimise lentamente in piedi, girandosi alle sue
spalle, e contemporaneamente Rock riuscì a distinguere dinnanzi a sé la figura
di Kyuzo, in piedi davanti alla donna con la pistola fumante in mano puntata
verso di lei.
«Questo era per
mia madre.» disse con il suo sguardo di ghiaccio.
Indifferente al
colpo subito, Balalaika per la seconda volta lasciò perdere il proprio
obiettivo per concentrarsi sul nuovo arrivato, cominciando a camminare verso di
lui.
«I miei nanorobot…
i miei nanorobot…».
A quel punto,
gettando via la prima arma, Kyuzo sfoderò quella che un tempo era stata di
Revy, prese la mira e sparò senza esitazioni, colpendo il suo obiettivo dritto
in mezzo alla fronte.
«E questo per mio
padre».
Nonostante ciò
Balalaika continuò a non voler morire, ma la forza di penetrazione della
pallottola fu tale da buttarla all’indietro, al di là del parapetto.
«I miei…
nanorobot…» continuò a dire mentre precipitava verso il basso.
La sua caduta si
concluse proprio sulla spada della statua di San Giorgio, che trafiggendola
alla schiena la passò da parte a parte fino all’elsa.
Balalaika emise un
gemito, una sorta di perfida risata, quindi, in un modo che forse neppure lei
aveva mai immaginato, spirò.
«Brucia
all’inferno, puttana».
Nello stesso
momento Revy riuscì finalmente a risalire sulla terrazza, e sia lei che Rock
osservarono dapprima il corpo senza vita della loro ex-socia impalato trenta
metri più in basso, poi colui che era stato l’artefice della sua morte.
«Andiamo, ora.
Dobbiamo raggiungere il tetto».
Nota dell’Autore
Come avevo promesso,
ecco qua il penultimo capitolo di questa fan fiction, la quale ha preso una
svolta che neppure io inizialmente mi sarei mai immaginato.
Mi dispiace di non
aver aspettato l’arrivo dei miei recensori abituali, ma come ho già detto
precedentemente gli impegni si susseguono, e visto che Death Game ormai è
praticamente alla fine sono più che mai ansioso di pubblicare al più presto i
capitoli conclusivi.
Per l’ultima parte e
l’epilogo credo avrò bisogno ancora di qualche giorno, ma se tutto va’ bene
dovrei poterli inserire entrambi entro martedì.
Kyuzo, Rock e Revy non si fidavano ad usare l’ascensore,
visto che forse a causa dell’esplosione nella tromba delle scale un po’ tutto
l’albergo si era destabilizzato, e la corrente andava e veniva in
continuazione.
Ringraziando il
cielo non incontrarono altri Vysotniki, probabilmente perché erano stati già
tutti uccisi da Samejima, quindi la salita verso l’alto procedette senza altri
inconvenienti.
Sfortunatamente la
scala di servizio distrutta era l’unica strada diretta per arrivare sul tetto,
ma era comunque possibile aggirare l’ostacolo passando per il grande planetario
semisferico, dove si trovava una porta di servizio che immetteva in una seconda
scalinata che partendo dall’ultimo piano arrivava sul tetto.
I tre fuggiaschi
entrarono nel planetario convinti di essere a due passi dalla salvezza, ma
sulla loro strada incontrarono qualcuno intento a fermarli.
Avrebbero dovuto
aspettarselo; per quanto fosse stata ridotta a niente più che un mero strumento
di morte, Yu-Ling era un avversario da non sottovalutare. Le era stato ordinato
di uccidere tutti gli occupanti dell’hotel, e lei con ogni probabilità sapeva
che gli ultimi rimasti, con tutte le uscite chiuse, non avrebbero avuto altra
via d’uscita che il tetto, e con la strada diretta inutilizzabile non era stato
molto difficile per lei aspettarli al varco.
Non doveva però
essere lì da molto, perché non c’era alcuna traccia di Steven e Hibraim, segno
che probabilmente loro erano riusciti ad arrivare all’elicottero, dove magari
li stavano già aspettando.
Vedendo sbucare
quella specie di demone vestito di bianco da dietro le poltrone che, disposte
ad anfiteatro, occupavano un’intera metà della struttura, Revy e gli altri
immediatamente si bloccarono, ben consapevoli di ciò che era in grado di fare.
Kyuzo la guardò
nuovamente dritta in volto, quindi si portò dinnanzi a loro.
«Me ne occupo io.
Voi andate.»
«Cosa!?» disse
Rock «Ma, Kaito…»
«Non
preoccupatevi, me la caverò.»
«Sbaglio o
l’ultima volta ti ha quasi ammazzato?» commentò Revy
«Stavolta sarà
diverso. Sta tranquilla. Inoltre, non posso vedere la mia amica Yu-Ling ridotta
in questo stato. È mio dovere fare qualcosa per cercare di aiutarla».
Revy e Rock erano
palesemente indecisi, ma dopo un rapido calcolo dedussero che Kaito era
probabilmente l’unico in grado ad opporsi ad una furia distruttrice come
Yu-Ling, e che loro sarebbero stati solo d’impiccio, quindi alla fine decisero
di dargli retta e di proseguire oltre.
«Ricordati quello
che ti ho detto. Sono io che devo ammazzarti, quindi cerca di non crepare.»
«Tranquilla, non
morirò prima di aver salvato Yu-Ling.»
«Lo spero».
Non appena i due
compagni cominciarono a correre verso l’uscita Yu-Ling corse a sua volta verso
di loro con l’intento di fermarli, ma Kaito fu più rapido di lei e allungato un
braccio generò una sorta di spostamento d’aria che oltre a scaraventare la
ragazza contro il muro sembrò quasi incollarla ad esso; questo espediente però
risultò di breve durata, perché nell’istante stesso in cui i membri della
Lagoon lasciavano il planetario Yu-Ling riuscì a liberarsi, ma invece che
correre dietro ai fuggitivi la sua attenzione fu catturata tutta da Kyuzo.
I due vecchi amici
rimasero immobili, osservandosi entrambi con occhi senza vita, senza alcuna
espressione. La cupola luminosa, ancora funzionante, proiettava su di loro la
luce iridescente di una volta celeste che, benché finta, li rendeva simili a
due eroi, due divinità pronte a darsi battaglia.
La pelle chiara di
Yu-Ling scintillava come il diamante, il volto serio e impassibile di Kyuzo
sembrava quello di un dio della guerra, ma con lo sguardo di un peccatore in
cerca di redenzione.
Quello che Rock
aveva detto era vero; non poteva dimenticare ciò che Yu-Ling aveva significato
per lui, e forse proprio per questo non sarebbe mai stato realmente in grado di
farle del male.
Si erano
conosciuti da piccoli, quando avevano rispettivamente sette e sei anni, e da
quel giorno avevano condiviso tutto, gioie e dolori, dubbi e speranze.
Ciò che
maggiormente aveva deluso e addolorato Kaito era stato l’atteggiamento di
Samejima, la crudeltà che aveva dimostrato nei confronti di quella che era
diventata a tutti gli effetti sua figlia.
All’inizio, quando
Harue ancora non era nata, e Progetto Rebuild non era neppure nella memoria del
presidente Kinomiya, Samejima era un uomo onesto, di grande carisma, e la
stessa passione che metteva nel lavoro la metteva anche nel suo ruolo di padre.
Yu-Ling era per
lui come un raggio di sole, una figura amica che lo attendeva al rientro in una
casa altrimenti vuota.
La perdita della
moglie a seguito di un brutto incidente stradale lo aveva devastato, e persino
il lavoro nel quale aveva sempre riversato tutte le sue energie divenne di
colpo qualcosa di effimero, senza alcun interesse.
Per tentare di
allontanarlo dai dolori che la sua casa, ma anche la stessa Tokyo, arrecavano
al suo spirito, il suo capo lo aveva mandato in viaggio di lavoro in Cina, dove
le Industrie Kinomiya avevano avuto modo di inimicarsi allo stesso tempo le
Triadi e il governo centrale di Pechino con la loro propaganda contro lo
sfruttamento e a favore dei diritti e del progresso compatibile.
Forse per lanciare
indirettamente un avvertimento a qualcuno che stava decisamente troppo in alto
per poter essere colpito direttamente, la mafia cinese organizzò l’omicidio del
facoltoso industriale Won-Shin Fei, prossimo partner aziendale dei Kinomiya, e
di tutta la sua famiglia; solo la piccola Yu-Ling, che allora aveva cinque
anni, sopravvisse, e per puro miracolo, perché al momento dell’esplosione della
macchina lei era scesa assieme alla sua governante per guardare i volatili
esposti in un negozio.
Non avendo parenti
in vita la sua destinazione poteva essere solamente l’orfanotrofio, o peggio
ancora, vista la famiglia anticonformista dalla quale veniva, le case di
correzione. Samejima, che con Won-Shin aveva avuto un rapporto di amicizia
profonda prima che di lavoro, decise di adottarla, un’impresa non facile che lo
costrinse a corrompere mezzo partito e a far espatriare la piccola
clandestinamente.
Yu-Ling all’inizio
sembrava incapace di superare quel trauma, ma la vicinanza a tutte quelle
persone che, come i suoi genitori, le volevano un bene sincero, oltre che
profondo, riuscì pian piano ad intaccare il muro che aveva eretto attorno al
suo cuore, permettendole di tornare a sorridere.
Samejima era un
padre modello, che chiedeva tanto ma che, allo stesso tempo, dava tanto,
ricompensando adeguatamente l’ottimo rendimento sia scolastico che sportivo
della sua adorata figliola sia con l’affetto sia coi regali.
Ma poi era nata
Harue, il Progetto Rebuild aveva preso il via, e Noboru non era più stato lo
stesso.
La sete di potere,
il desiderio di emergere, o anche solo la semplice voglia di rivalsa possono
spingere l’uomo a compiere atti orribili, a tradire i suoi ideali e la sua
famiglia, e persino a compiere i gesti più riprovevoli, come usare la propria
figlia al posto di una cavia e trasformarla in un essere privo di sentimenti il
cui unico scopo è uccidere.
Ma Kaito sapeva
che Yu-Ling, quella vera, quella che aveva conosciuto e, forse, amato, era
ancora lì, da qualche parte; il computer che aveva in testa aveva annullato la
sua personalità, ma non l’aveva distrutta. Poteva e doveva riuscire a
risvegliarla, e forse conosceva anche il modo per poterlo fare.
«Yu-Ling! So che
puoi sentirmi! Ti riporterò indietro! È una promessa!».
Lei, come al
solito, non batté ciglio, e anzi corse contro al suo obiettivo, cercando di
colpirlo con un calcio che però venne agilmente parato.
«Te ne sei
scordata, amica mia?» disse Kyuzo, che subito dopo sprigionò uno spostamento
d’aria tale da spedire la ragazza a parecchi metri di distanza «Con me lo
stesso trucco non funziona due volte».
Nello stesso momento Revy e Rock, salita l’ultima rampa di
scale, erano finalmente approdati sul tetto, o meglio su una delle tre torri
che lo costituivano; oltre a quella centrale in cui si trovavano, la più alta,
ce ne erano altre due, dove si trovavano rispettivamente la cupola del
planetario e quella in vetro della piscina in cui Revy aveva combattuto contro
Mr.Chang.
La terrazza della
torre centrale aveva una superficie di almeno trenta metri per lato, e a
giudicare dai materiali da costruzione disseminati qui e là appariva chiaro che
erano in programma altri lavori per un ulteriore innalzamento, lavori che con
molta probabilità non avrebbero mai avuto luogo.
In un angolo del
tetto, poi, c’era una piattaforma per elicotteri posta leggermente più in alto,
e sopra di essa un grosso Mil Mi-26;
Steven, accanto al mezzo, faceva dei segni ai due compagni per dire loro di
avvicinarsi.
«Avanti, venite!».
Loro, velocemente,
cercarono di raggiungerlo, ma all’.
«Dov’è Kaito?»
«È stato
trattenuto, ma arriverà.» rispose Revy
«Dov’è Hibraim?»
«Hibraim… è
morto.»
«Morto!?»
«È stato Samejima,
ma credo sia riuscito a farlo fuori.»
«In tal caso, pace
all’anima sua.» disse Two-Hands.
In quella,
dall’interno dell’elicottero giunse il segnale di un allarme; Steven salì a
bordo e infilò le cuffie per capire di che si trattava.
«Merda, tre
elicotteri in avvicinamento a ore due!»
«Che cosa!?» gridò
Rock.
Lui e Revy
alzarono gli occhi al cielo nella direzione designata, e dopo pochi secondi dal
cielo buio, ma che già cominciava a mostrare i primi chiarori dell’alba,
sbucarono le luci abbaglianti di due grossi Black Hawk e un Apache che si
avvicinavano sempre di più.
«E quelli che
cazzo vogliono?» domandò Revy.
La risposta arrivò
nel momento in cui uno dei due Black Hawk, fermatosi a una decina di metri più
in alto del tetto, spedì verso di loro una sventagliata di mitra, mancando
fortunatamente sia loro che i punti sensibili del Mi-26, sotto il quale si
erano nascosti; anche Steven ne uscì illeso, grazie alla corazzatura
antiproiettile dei finestrini dell’elicottero.
«Ma che accidenti…
quelli ci sparano!».
Rock avanzò
strisciando fino a che non fu in grado di distinguere bene i mezzi in
questione, quindi, assieme alla sua partner, usò il portello posteriore del
Mi-26 per salire a bordo.
«Non sono russi.»
disse affacciandosi dall’oblò
«E tu come fai a
dirlo?»
«Hotel Moskow usa
come armamenti l’immondizia dell’Unione Sovietica, quelli sono modelli
americani.»
«Ha ragione lui.»
rispose Steven «Ho intercettato le loro comunicazioni. Quelli sono cinesi.»
«Cinesi!?» esclamò
Revy «E che diavolo ci fanno qui i cinesi!?»
«Non sono riuscito
a capire bene, ma credo siano qui per i nanorobot.»
«Ma noi non li
abbiamo!»
«Questo loro lo
sanno?» rispose Rock senza smettere di guardare fuori.
Dopo la prima
raffica tutti e tre i mezzi non avevano più sparato un colpo, limitandosi a
rimanere sospesi in aria come se stessero ricevendo dei nuovi ordini.
«Ma perché non tirano un missile e non la
fanno finita?»
«L’hai detto tu,
probabilmente pensano che abbiamo i campioni a bordo.» rispose Steven infilando
un nuovo caricatore nella sua pistola «Non possono certo permettersi di
perderli».
Revy, Rock e
Steven non erano i soli ad essere nei guai.
Prima di poter
gioire appieno della loro ritrovata libertà, Dutch, Eda e Benny si erano visti
circondare da una decina di macchine blindate da cui erano scesi una miriade di
uomini dai tratti sudamericani che avevano iniziato a sputare su di loro
vagonate di proiettili.
Dutch e Eda si
erano nascosti dietro ad un grosso camion da trasporto e cercavano di
rispondere al fuoco, Benny invece cercava in tutti i modi di mettere in moto il
suddetto camion unendo i fili.
«Ma si può sapere
che diavolo succede!?» tuonò dopo poco il vocione di Dutch, che grazie
all’orologio fu udito anche da Revy e gli altri «Ci sono più colombiani quaggiù
che a Bogotà nell’ora di punta!»
«Che cosa!? Anche
i Colombiani!?» disse Rock «Ma che sta succedendo!?»
«A quanto pare»
rispose Steven «Cercando di sbarazzarsi dei suoi ex alleati, Balalaika ha
voluto fare il passo più lungo della gamba.
Signori, confermo
ufficialmente che siamo coinvolti in una guerra tra mafie.»
«Quella stronza!»
disse Revy aprendo il baule degli armamenti dell’elicottero «Riesce a romperci
la palle anche da morta!».
In quella i due UH
60 da trasporto ripresero ad avanzare, e quando furono proprio sopra il tetto
diverse decine di uomini presero a calarsi di sotto servendosi ognuno della
propria fune.
Two-Hands recuperò
dalla cassa un lanciarazzi monocolpo e una coppia di AK-103, uno dei quali
venne lanciato a Steven, che intanto aveva raggiunto a sua volta il retro
dell’elicottero.
«Allora, pronti
per l’ultimo atto?» disse il giovane
«Si va’ in scena.»
rispose Revy sfoderando le sue pupe «Rock, tu resta qui.»
«D’accordo, fa
attenzione».
Steven aprì di
colpo il portello laterale e si mise a sparare senza sosta in direzione
dell’apache, attirando la sua attenzione; Revy invece, uscita da dietro, prese
a svuotare i suoi caricatori sui cinesi che già erano scesi sul tetto, stendendo
per primi i due che sparavano dai portelli aperti con le mitragliatrici
pesanti.
«Revy, ci sei?»
disse d’un tratto Dutch
«Sono un po’
impegnata al momento!»
«Ascolta, noi ce
ne andiamo! Siamo riusciti a mettere in moto un furgone! Cercheremo di farci
seguire da questi colombiani!»
«D’accordo!».
Dutch e Eda
riuscirono a salire poco dopo sul furgone che Benny aveva finalmente messo in
moto e partirono a tutta manetta in direzione del porto, nella speranza che la Lagoon fosse ancora dove
l’avevano lasciata al loro arrivo a Bangkok.
Probabilmente i
colombiani pensavano che la
Lagoon fosse in affari con Hotel Moskow per la conquista dei
nanorobot perché subito tutte le macchine sopravvissute alle granate di Dutch
si misero immediatamente all’inseguimento dei fuggitivi abbandonando l’albergo.
Ne nacque un
inseguimento senza quartiere che si protrasse per svariati minuti lungo le
strade di mezza città, fortunatamente semi-vuote, prive sia della vita notturna
ormai prossima alla fine che di quella giornaliera, ancora assopita.
Una delle macchine
inseguitrici, prendendo una curva, sbandò e finì in uno dei numerosi canali che
costeggiavano le strade della città, un’altra invece, il cui conducente venne
colpito in pieno da un colpi di Dutch, finì di traverso sulla carreggiata,
coinvolgendo tutte le altre in un grande incidente che ebbe come risultato
un’esplosione tanto grande da poter essere vista anche dalla terrazza
dell’Hotel Universe.
Qui intanto Revy e
Steven stavano incontrando una resistenza maggiore di quanto avessero
preventivato.
Ben protette dagli
equipaggi degli elicotteri le truppe d’assalto stavano impegnando seriamente
tutti e due i combattenti, e più il tempo passava più il rischio di lasciarci
la pelle si faceva concreto.
Il pericolo più
grande per la loro sicurezza rimaneva l’apache, perciò ad un certo punto
Steven, rintanatosi nel Mi-26, ne uscì con un grosso lanciarazzi.
«Beccati questo,
bastardo!».
Il pilota dapprima
tentò di sparargli, ma nel momento in cui Steven lanciò il razzo nessun
proiettile lo aveva colpito; volò quindi in alto nel tentativo di mettersi in
salvo, ma non vi fu nulla da fare. Centrato all’elica stabilizzatrice, l’apache
dapprima prese a girare vorticosamente su sé stesso, quindi andò a colpire uno
dei due UH 60, facendolo cadere a sua volta.
Entrambi i mezzi
andarono a schiantarsi sulla cupola della piscina, e l’esplosione che ne derivò
fu così forte da far tremare l’intero albergo, provocando in diversi punti il
crollo di colonne o pareti e la caduta di calcinacci.
L’elicottero
superstite, vista la mala parata, tentò di darsi alla fuga ma Revy non se lo
lasciò scappare e, sfoderato a sua volta il lanciarazzi, lo colpì in pieno,
facendolo precipitare sul tetto di un grattacielo poco lontano.
I continui crolli
fecero sentire i loro effetti anche nel planetario, dove lo scontro fra Kyuzo e
Yu-Ling continuava a ritmo incessante.
A differenza di
poco prima, stavolta Kaito sembrava in grado se non altro di opporre una
resistenza decisa agli attacchi micidiali della sua avversaria, ma nonostante
ciò cercava per quanto possibile di mantenersi sulla difensiva.
Così come la sua
forza fisica e la sua abilità nel combattimento, anche i poteri telepatici di
Yu-Ling sembravano decisamente superiori a quelli di Kaito, visto che le
bastava inarcare gli occhi per scatenare veri e propri uragani.
«Yu… Yu-Ling…»
disse Kaito rialzandosi dopo aver subito l’ennesimo attacco «Ti prego…
ascoltami…».
Lei però era, come
sempre, fredda come il ghiaccio, il suo volto era immobile come quello di una
bambola, e nonostante Kaito non sembrasse più intenzionato a proseguire il
combattimento lei rimaneva in posizione di guardia, pronta a scattare in
qualsiasi momento.
«Yu-Ling… non
costringermi a farti del male… non posso farlo…».
La ragazza di
nuovo non rispose, e anzi partì alla carica; Kaito, incredibilmente, non fece
nulla per tentare di difendersi, e il pugno al petto che ricevette lo fece
strisciare coi piedi sul pavimento per almeno tre metri; subito dopo Yu-Ling
tentò un nuovo assalto, e allora Kyuzo, rialzato lo sguardo, le sparò contro
una delle sue bombe d’aria che colpendola la fecero esitare il tempo
sufficiente per colpirla allo stomaco e costringerla a indietreggiare.
«Te l’ho detto.
Non voglio combattere con te. Ti prego, Yu-Ling. Tu non sei così. Hai sempre
detestato la violenza».
Forse ciò che
diceva Kaito era vero, ma di sicuro non corrispondeva all’attuale situazione,
perché Yu-Ling dopo poco, muovendosi a grande velocità, gli fu nuovamente
addosso.
Fra i due si
generò un secondo, tremendo scontro fisico, interrotto di tanto in tanto dai
piccoli terremoti provocati dal cedimento di alcune strutture dell’albergo.
Ad un certo punto
Kyuzo cercò di assestare alla ragazza un pugno al volto, ma lei, afferratogli
il braccio, lo storse lateralmente, quindi colpì il nemico con un calcio,
buttandolo a terra, e prima che potesse rialzarsi gli si buttò sopra.
Alzò la mano,
pronta ad infliggere il colpo di grazia; se non che, incrociando in quella gli
occhi di Kyuzo, che malgrado tutto rimanevano carichi del loro solito ardore,
Yu-Ling di colpo parve esitare, e differentemente da come aveva fatto fino a
quel momento seguitò a perdersi in quei riflessi neri.
«Yu-Ling. Non
farlo.
Dicevi sempre che persino
la forza fisica poteva essere usata per fare del bene. Harue è viva, e ha
bisogno di te. Io ho bisogno di te».
La ragazza non si
mosse, come paralizzata, poi i suoi occhi sembrarono, lentamente, inumidirsi di
alcune lacrime, che alla fine presero a rigare le sue candide guance.
«Ka… i… to…».
Era quello che
Kyuzo stava aspettando, il segno evidente che la personalità e lo spirito di
Yu-Ling c’erano ancora, che non erano andati perduti nel corso della lunga
inerzia alla quale era stata costretta; lei era ancora in grado di riprendere
il controllo, bastava solo aiutarla, eliminare ciò che la teneva incatenata.
Senza più
esitazioni Kaito chiuse gli occhi afferrò saldamente la ragazza, avvicinandola
a sé quel tanto che bastava per far toccare le loro fronti.
Vi fu una specie
di scarica, poi, come d’incanto, fu possibile per il giovane vedere
direttamente dentro la sua testa; malgrado avesse gli occhi chiusi, riusciva a
distinguere distintamente ogni singola parte del cervello di Yu-Ling, come se
fosse stato personalmente dentro di lei.
“Dove sei? Vieni
fuori!”.
Non c’era molto
tempo.
La personalità di
Yu-Ling poteva essere rimessa a tacere in qualunque momento, e con ogni
probabilità non sarebbe mai più stata in grado di emergere, offrendo a Kaito
l’occasione propizia per poterla salvare.
Finalmente, dopo
interminabili secondi, ecco apparire un minuscolo congegno nero simile ad un
chip per computer, installato all’interno della scatola cranica.
Era lui, non
c’erano dubbi. Il computer famoso di cui Samejima aveva parlato, quello in
grado di annullare la coscienza dell’individuo per trasformarlo in un mero
strumento.
“Ti ho trovato!”.
Il resto del
lavoro fu facile; bastava solo spingere i nanorobot presenti nel corpo di
Yu-Ling a considerare quell’apparecchio come un’entità estranea, e quindi
pericolosa, da attaccare e distruggere.
Nessuno tuttavia
poteva sapere se la distruzione del congegno avrebbe avuto ripercussioni sulla
ragazza; poteva anche darsi che da esso dipendesse ormai la sua stessa vita, ma
Kaito conosceva Yu-Ling abbastanza bene da sapere che mai avrebbe accettato di
diventare una mera macchina dispensatrice di morte.
I nanorobot,
ricevuto il comando, immediatamente si diressero sul loro obiettivo,
aggredendolo, fagocitandolo e ricavando da esso il nutrimento necessario alla
loro sopravvivenza.
Terminata
l’operazione Kyuzo interruppe il contatto telepatico, e nel giro di pochi
secondi Yu-Ling, apparentemente svenuta, cadde sopra di lui. Era esausta,
spossata, ma viva.
«Yu-Ling. Yu-Ling,
apri gli occhi. Riprenditi».
Dopo qualche
minuto la ragazza riaprì gli occhi; erano tornati ad essere quelli di sempre,
gli occhi gentili, innocenti ma determinati della Yu-Ling che Kyuzo aveva
sempre conosciuto e, forse, amato.
«Kaito… sei tu…»
«Meno male. Stai bene.»
«Io… sì. Ma cosa è
successo? Ho come… un vuoto di memoria.»
«Abbi pazienza.»
rispose lui aiutandola a rialzarsi «Ci sarà tempo per parlare di questo».
Improvvisamente,
pochi piani più sotto, una delle tante cucine disseminate nell’hotel saltò
interamente in aria; con la struttura già così destabilizzata l’esplosione fu
così forte da mandare in frantumi la cupola del planetario, ed enormi pezzi di
cemento armato piovvero sui due ragazzi.
Yu-Ling gridò per
la paura, dimostrando di non avere la benché minima idea del potere che le
scorreva nelle vene; Kaito, invece, alzò il braccio, e lentamente i tre blocchi
più grandi si fermarono, per poi andare a cadere pochi metri più in là, dove
non c’era pericolo.
«Ma… come hai
fatto!?» domandò Yu-Ling piena di stupore
«Anche di questo
si parlerà in seguito. Andiamo ora, prima che crolli tutto!».
Alzatisi e presisi
per mano, Kaito e Yu-Ling guadagnarono a loro volta l’uscita della stanza,
salirono le scale e sbucarono sul tetto; l’elicottero di Hotel Moskow, senza
più nessuno a dargli fastidio, aveva già acceso i motori, ed era pronto a
partire.
«Venite, da questa
parte!» gridò Revy affacciandosi dal portellone «Presto, presto!».
I due ragazzi li
raggiunsero, e Yu-Ling, subito dopo essere salita, cadde in un sonno profondo,
dovuto probabilmente ai postumi dello scontro; Rock, invece, scese dal posto
accanto al pilota per correre incontro al suo amico.
«Felice di
rivederti, Kaito.»
«Felice di
rivedere te.»
«Possiamo
andarcene anche subito, Kyuzo!» disse Steven «Quel mostro è già morto!»
«Davvero!? Ne sei
sicuro?»
«Sicurissimo!
Ringrazia Hibraim!».
Invece, in quello
stesso istante, il medesimo, terrificante ruggito, mille volte più animalesco e
assordante di prima, rimbombò in tutto l’albergo, gettando tutti coloro che ne
comprendevano l’origine nel panico più nero.
«Non ci posso
credere, è ancora vivo!» disse Revy «Ma quante vite ha quel bastardo!»
«Muoviti, Kaito!»
disse Steven «Sbrigati a salire, così ce ne andiamo e lo facciamo saltare!».
Il ragazzo, però,
non diede alcun segno di risposta, ed abbassò il capo con espressione
sconsolata.
«E pensare che per
un attimo ci avevo sperato.»
«Kaito, che stai
dicendo?» domandò Rock.
Lui restò un altro
po’ con la testa bassa, poi, con uno strano sorriso, mise in mostra il proprio
orologio da polso; somigliava molto a quello usato da Revy e dagli altri, ma
aveva uno schermo leggermente in basso, sul quale lampeggiava incessantemente
un led rosso.
Steven, vedendo
quelle flebile lucina, sentì un colpo al cuore, il suo sguardo parve spegnersi
per un istante e la sua espressione si fece di indicibile angoscia.
«No… no…»
«Che… che
succede?» chiese Okajima vedendo le loro espressioni
«La bomba nei
sotterranei è difettosa.» rispose Kyuzo con un’indifferenza apparentemente
sconfinata «E il sistema di detonazione a lunga distanza è fuori uso.»
«Ma allora… come
farai ad attivarla?».
A Rock Bastò
guardare Kyuzo negli occhi per capire quale fosse la risposta alla sua domanda,
ed allora comprese il motivo dello sgomento che si era materializzato in meno
di un secondo sul viso di Steven.
«No… Kaito, tu
non…».
Prima che potesse
finire la frase, prima che potesse anche solo pensare alle parole per
pronunciarla, Kaito lo scaraventò letteralmente dentro l’elicottero, chiudendo
immediatamente il portello e attivando la chiusura di sicurezza in modo che
Rock non la potesse riaprire.
«Kaito!» urlò
Okajima buttandosi sul finestrino.
Il ragazzo affondò
una mano nella giacca, prendendone fuori i cd ricevuti da Boris e l’unico
flacone di nanorobot rimasto in circolazione.
«Da’ questi a mia
sorella!» disse passandoglieli dalla piccola fessura fra il portello e la cima
del finestrino «Dalli a mia sorella, capito?»
«Kaito! Non puoi
fare questo! Pensa ad Harue! Devi badare a lei!»
«Lo farai tu,
amico mio.» rispose lui con voce sommessa, quasi completamente oscurata dal
rumore dell’elicottero «Quello è compito tuo, ora. Abbi cura di lei».
Kyuzo si girò
quindi verso Revy, che lo osservava dal portello. Si guardarono a lungo, poi il
ragazzo posò per l’ultima volta i propri occhi su Yu-Ling, che dormiva
profondamente distesa su una branda a rete.
«Dille… dille che
le volevo bene. E che le auguro ogni felicità.»
«Non sarà necessario.»
rispose Two-Hands col suo sorriso provocatorio «Credo che lo sappia già».
Anche Kaito
sorrise un istante, poi però fissò Revy con sguardo ammonitorio.
«Two-Rands! C’è
sempre un’alternativa! Ricordalo!».
Lei rimase
attonita, e per lunghi istanti non le riuscì di proferire parola, ma poi,
nuovamente, sorrise.
«Lo terrò a mente.
E non preoccuparti, dirò alla piccola Harue che razza di fratello si ritrovava.»
«Ti ringrazio…
andate ora!».
Revy chiuse il
portello, quindi il Mi-26 cominciò lentamente ad alzarsi mentre Rock, con gli
occhi inondati di pianto, sembrava cercare in tutti i modi di tornare giù.
«Kaito! Kaito! Non
puoi farlo! Kaito! Amico mio!»
«Perdonami,
Okajima! Alla fine di tutto, avevi ragione!».
«No! Non farlo!».
Kyuzo stette
immobile ad osservare l’elicottero che si allontanava, poi, quando fu certo che
fosse abbastanza lontano, si strappò l’orologio da polso, sul quale caddero
alcune lacrime.
«E così, siamo
giunti alla fine».
Stava quasi per
premere il bottone laterale e mettere fine a tutto, quando un’intera porzione
di tetto venne sfondata con incredibile fragore, e Samejima riemerse in tutta
la sua spaventosa potenza.
Come preannunciato
la sua figura era ugualmente mutata dall’ultima volta; le tre dita carnose della
mano sinistra si erano trasformate in altrettante, affilatissime spade di
trenta centimetri ognuna, e i piedi inizialmente umani avevano assunto un
aspetto quasi felino, con solo le punte a toccare terra.
Prima che Kaito
potesse compiere il suo dovere il mostro gli lanciò contro uno dei suoi
tentacoli, che dopo avergli afferrato una caviglia lo sollevò in aria come
fosse una piuma, scaraventandolo poi contro il parapetto del tetto. L’orologio,
a causa del tremendo impatto, gli cadde di mano, scivolando sulla pietra liscia
fin quasi sul lato opposto.
“Merda!”.
Dopo poco la
creatura ripartì alla carica, cercando di usare la sua forza erculea per
fracassare la testa di Kyuzo, ma il ragazzo riuscì a spostarsi in tempo, così a
venire distrutta fu un’intera porzione di parapetto.
A causa della
grossa voragine aperta da Samejima nel fare irruzione il tetto era
pericolosamente instabile, e si generavano costantemente delle crepe profonde,
ma questo non impedì ai due avversari di battersi furiosamente.
D’un tratto, quando
Kaito cercò di correre per recuperare l’orologio, nuovamente fu afferrato per
la caviglia da un tentacolo e lanciato via; sarebbe caduto nella voragine al
centro se, per un vero miracolo, non fosse riuscito ad aggrapparsi ad una tubo
di metallo sporgente.
Sotto di lui si
apriva un vuoto spaventoso, segno che Samejima doveva aver sfondato uno dopo
l’altro i pavimenti di tutti i piani per riuscire ad arrivare fino a lì; le
fiamme e il fumo la facevano già da padroni in gran parte della struttura, e
ormai non mancava più molto tempo al cedimento definitivo.
Se l’albergo fosse
crollato la bomba avrebbe potuto diventare inutilizzabile, e così facendo
Samejima sarebbe sopravvissuto, quindi non c’era un secondo da perdere.
Il mostro si
avvicinò al buco determinato a finire il lavoro, ma prima che i suoi lunghi
artigli tranciassero il tubo al quale era aggrappato Kaito, sfruttando
unicamente la forza dell’unica mano che stringeva la sua precaria ancora di
salvezza, riuscì a compiere un salto fuori dalla voragine di parecchi metri, e
mentre era ancora in aria sparò un poderoso spostamento d’aria verso la
creatura, determinato a farla cadere nel buco da lei stessa provocato per
fargli guadagnare un po’ di tempo.
Quello fu centrato
in pieno, ma il colpo non fu sufficientemente potente da ottenere l’effetto
sperato; poi, all’improvviso, emise un ruggito più forte, quasi liberatorio, ed
ecco che anche dal suo corpo si sprigionò un uragano di proporzioni colossali.
Kyuzo venne
colpito mentre era ancora in aria, e nuovamente fu scagliato via come non
avesse avuto peso; stavolta, però, nulla gli avrebbe impedito di volare oltre
il bordo del parapetto.
“Non posso! Non
posso arrendermi ora!”.
Il giovane cercò
di fare appello a tutto il potere di cui disponeva, consapevole del fatto che
tanto non ne avrebbe più avuto bisogno, e che quindi valeva la pena di
spenderlo fino all’ultima goccia; così divenne in grado di fare ciò che ogni
essere umano avrebbe sempre voluto sperimentare di persona, e dopo aver
rallentato la sua caduta all’indietro Kaito rimase sospeso nel nulla, come il
migliore dei prestigiatori.
Non c’era niente a
trattenerlo, e niente a collegarlo a terra; lui… stava volando.
L’ultimo traguardo
raggiungibile dai nanorobot, o almeno dal modello originario.
Era certo che se
Yu-Ling si fosse impegnata seriamente cose come quella sarebbero risultate per
lei ordinaria amministrazione, ma non era quello il momento di pensare a cose
simili.
Il mostro, che a
sua volta pareva stupito nel trovarsi davanti ad un simile evento, restò a
guardarlo mentre scendeva placidamente verso il basso e tornava ad appoggiare i
piedi sul tetto dell’hotel, poi, visibilmente infuriato, gli corse nuovamente
addosso, ma prima che potesse colpirlo un uragano poderoso come non mai lo
investì, sparandolo via come una palla di cannone.
Samejima cadde a
terra sul torace, e a quel punto Kyuzo, allungato un braccio, sollevò in aria
una decina di lunghi pali metallici accantonati da una parte che come tante
lance trafissero il mostro in più punti, inchiodandolo al suolo; quello gridò
ancora più forte, schiumando e ringhiando come un cane rabbioso.
Ad un nuovo cenno
di Kyuzo, ormai completamente libero da qualsiasi minaccia, l’orologio ancora
immobile si sollevò leggermente da terra e finì nella sua mano, poi il ragazzo
guardò, con un misto di disprezzo e compatimento, il mostro, che fece
altrettanto, digrignando le sue fauci spaventose.
«Non sarò più il
tuo burattino.» disse alzando l’orologio «Questa… è la fine… per entrambi.»
quindi, chiusi gli occhi, spinse il pulsante.
Un secondo dopo,
un boato assordante scosse l’intera città, e ad esso fece seguito un’esplosione
che fece tremare la terra.
Il marciapiede
tutto intorno all’Hotel Universe fu spazzato via, poi, come un letale effetto
domino, uno dopo l’altro tutti i piani dell’edificio esplosero fragorosamente
assieme ai loro morti, da Mr.Chang a Buffalo Kid, da Shenhua a Balalaika,
trasformando quello che si proponeva di diventare il più lussuoso ed invitante
albergo di Bangkok in un grande, immenso braciere che illuminò a giorno la
capitale del divertimento nel sud-est asiatico.
«No, no! Kaito!»
urlò Rock vedendo crollare la struttura fra il fuoco e il fumo.
Tutti piansero,
anche Revy, per la prima volta dopo tanti anni.
«Addio, Kaito.»
disse Steven asciugandosi le guance «E grazie».
Al sorgere del sole, su indicazione di Two-Hands, il Mi-26
raggiunse una piccola piattaforma oceanica a poca distanza dalla baia
cittadina, un tempo usata per il rifornimento delle grandi navi contenier, ma
ridotta ormai ad un quadrato di metallo arrugginito perso nel blu senza fine
del Golfo di Thailandia.
Lì, sul bordo,
accanto alla Lagoon, attendevano Dutch, Eda e Benny.
Per lunghissimi
minuti tutti rimasero immobili a guardare quella colonna di fumo nero che si
sollevava da un punto imprecisato di Bangkok, accompagnata dal suono
ininterrotto delle sirene.
Regnava il
silenzio; nessuno aveva voglia di parlare.
Troppe cose erano
cambiate quella notte, troppe vite erano state sacrificate, troppi uomini
valorosi avevano dato la loro vita per concedere a chi li avrebbe succeduti una
seconda possibilità.
Steven, rimasto
nell’elicottero, cercava in qualche modo di fare forza a Yu-Ling, che prima
ancora di apprendere della morte del padre era scoppiata in lacrime quando
aveva saputo cosa era successo a Kaito.
Poco lontano, Revy
fumava la prima sigaretta del mattino, mantenendosi però a distanza dai suoi
compagni, per evitare forse che si accorgessero delle lacrime che non smettevano
di scenderle dal viso.
Lei era forse la
persona che più di tutte aveva avuto la possibilità di trarre gli insegnamenti
maggiori dalla terribile serie di eventi che si erano succeduti all’interno di
quell’hotel maledetto, da quella casa del dolore mascherata da culla del
benessere e del divertimento.
In quel momento,
osservando il sole che a oriente cominciava la sua lenta ascesa, promise a sé
stessa di non lasciar cadere nel vuoto le ultime parole che quel supereroe da
quattro soldi le aveva affidato.
Per lei, era
giunto il momento di cercare l’alternativa, la sua seconda scelta; non sarebbe
stato facile, ma alla fine ci sarebbe riuscita; doveva riuscirci, per rispetto
nei confronti di colui che l’aveva salvata, ma soprattutto per sé stessa.
Rock, Dutch e
Benny rimanevano seduti sulla prua della Lagoon, con gli occhi piantati sulla
bella Bangkok che si preparava, nonostante tutto, ad un nuovo giorno.
Okajima aveva
smesso di piangere; non era quello il momento del pianto. Gli era stata affidata
una missione, un compito importante, e doveva portarlo a termine.
«Ehi, Rock.» disse
ad un certo punto Dutch senza distogliere lo sguardo dalla città «L’altro
giorno, prima di venire interrotti, avevi detto di avere una cosa importante da
dirci. Di che si tratta?».
Già. La cosa da
dirgli.
La decisione che
aveva preso già da tempo.
Non era cambiata,
tutt’altro, ma ora la vedeva con occhi completamente diversi; se prima la
considerava una decisione dettata dalla testa, e senza alcuna certezza per il
futuro, ora invece era dettata dal cuore, ed il futuro che essa apriva dinnanzi
a lui appariva senza confini.
«Sì, hai ragione.»
«E allora?»
domandò Benny con uno strano sorriso, come se sapesse già in anticipo di che si
trattava «Avanti, fuori la voce.»
«Io do le
dimissioni».
Quelle quattro
parole non sortirono per nulla l’effetto che Rock aveva inizialmente
immaginato; neanche Revy, che pure doveva aver sentito, si scompose, ma anzi
sembrò quasi sorridere, e altrettanto fecero Benny e Dutch.
«Dimissioni
accettate.» rispose il gigante nero passandogli la sua sigaretta
«E adesso cosa
farai?» chiese Benny.
Rock guardò i due
cd e la capsula di contenimento appoggiati accanto a lui, li prese in mano e
sollevò gli occhi al cielo, quel cielo azzurro baciato dal sole che, forse, non
avrebbe più rivisto per molto tempo.
«Innanzitutto, c’è
una cosa che devo fare. Una cosa importante. Poi, si vedrà».
Qualche ora dopo,
all’orizzonte, comparve un lussuoso yacht con le insegne delle Industrie
Kinomiya dipinte sulla prua; dalla grande imbarcazione si stacco quindi una
lancia con a bordo un giovane marinaio che raggiunse in pochi minuti le sponde
della piattaforma.
Steven e Yu-Ling
furono i primi a salirvi, poi fu il turno di Okajima.
Tuttavia, quando
vi fu davanti, qualcosa lo trattenne.
Forse era il
ricordo, il ricordo di ciò che quei quattro anni avevano saputo dare alla sua
anima; quante esperienze incredibili aveva vissuto, quante genti aveva
incontrato. Tutto ciò non lo avrebbe mai abbandonato, ma ora che si preparava a
lasciare quel mondo fatto di avventura, rischio e malvagità per tornare a
quello che, paradossalmente, costituiva il suo principale nemico sentiva
crescere dentro di sé il seme del dubbio.
Preoccupato, quasi
sognante, si volse, incrociando gli sguardi dei suoi quattro compagni, che lo
guardavano sorridendo.
Avrebbe voluto
parlare, ma non trovava le parole.
«Ecco… io…»
«Abbi cura di te,
Rock.» disse Dutch sollevando il pollice
«E sappi che
comunque vada» disse Benny facendo l’occhiolino «Questa porta sarà sempre
aperta.»
«Vi… vi
ringrazio».
Revy gli si
avvicinò, lo guardò dritto in volto quindi gli mollò un piccolo schiaffo sulla
guancia.
«Revy, ma cosa…»
«Guai a te se
oserai tornare in questo buco, mi sono spiegata?»
«Revy…»
«Tu» disse
sorridendo la ragazza «Eri portato per questa vita. Ma non è quella per cui sei
nato. Vai, torna al tuo mondo, e fai il possibile per cancellare questo.»
«Io…»
«Una volta ti ho
detto che non esistono Robin Hood nel tempo in cui viviamo, quel cretino di
Benny che dobbiamo tenerci questo mondo così com’è, e Dutch che qualsiasi
strada si tenti di percorrere le cose non possono cambiare.
Beh, dimostra a
questi tre idioti che si sbagliavano».
Nuovamente, Rock
si sentì vicino al momento del pianto, poi, senza capire niente di ciò che
stava facendo, afferrò Two-Hands, tirandola verso di sé. Lei, malgrado il
comprensibile stupore, non si ribellò, né durante né dopo quel bizzarro gesto.
«Tornerò, Revy.
Quando sarà tutto finito, verrò a riprenderti. Verrò a riprendere tutti voi.
Costruiremo insieme un mondo migliore.
Lo dobbiamo a
Kaito; lo faremo per lui, e per noi».
Revy ringraziò che
nessuno potesse vederla piangere, e anche mentre la lancia di allontanava con
Rokuro Okajima che continuava a salutarli con il braccio alzato tenne gli occhi
rivolto a terra; non riusciva a vederlo mentre si allontanava, e avrebbe tanto
voluto gridare il suo nome.
Nota dell’Autore
Eccoci qua! Eccoci
dunque arrivati alla fine dell’ultimo capitolo della fiction più breve che
abbia mai scritto.
I capitoli
conclusivi, a mio avviso, sono sempre i più difficili da scrivere, perché hai
sempre paura di risultare banale o ripetitivo, quindi nessuna pietà nel dirlo
se noterete la stessa cosa anche qui.
Ringrazio come al
solito i miei recensori, Selly, Beat, Gufo, Lisy, Carlitz e Diaras per i loro commenti.
Un’altra giornata volgeva al termine, un altro sole
cominciava la sua lenta discesa oltre l’orizzonte.
Dalla finestra
della sua stanza, la giovane HarueKinomiya osservava la grande campagna inglese che dominava
incontrastata tutto intorno al prestigioso college St.Mary, nel Devonshire.
Lontano, oltre le
colline colorate del rosso del tramonto, si intravedevano
i tetti del villaggio di Erinsworth, in cui
alloggiavano molti dei dipendenti del collegio con le loro famiglie.
IlSt.Mary era una delle scuole più conosciute e stimate
non solo dell’Inghilterra, ma di tutto il mondo; prima o dopo, le menti più
eccelse dei cinque continenti erano transitate per le sue antiche mura, ora per
apprendere ora per insegnare.
I rampolli di
buona famiglia, i futuri capi del pianeta Terra, ricevevano lì la migliore
istruzione, oltre ad un’educazione di ferro, volta ad
esaltare le loro migliori qualità come futuri capi, ma soprattutto come uomini.
E fra tutti, Harue era certamente la punta di diamante del collegio. Non
solo era straordinariamente intelligente, particolarità questa che sembrava
accomunare tutti i membri della sua illustre famiglia, ma era anche l’unica
erede delle potentissime Industrie Kinomiya.
Soffriva di
sclerosi, questo era vero, ed era costretta su una sedia a rotelle, ma questo
non modificava il suo status; poterla annoverare fra i propri studenti era un
onore di cui ilSt.Mary
avrebbe potuto gloriarsi per generazioni, ed inoltre già da un po’ di tempo
correva la voce che le industrie di famiglia fossero a buon punto per la
creazione di un ritrovato portentoso in grado di restituirle una vita normale.
Impossibile
stabilire se tali voci fossero vere o meno.
Per quanto bella,
intelligente e ben accetta da tutti, Harue era una
persona sostanzialmente schiva, che molto raramente intavolava discussioni
sulla sua malattia o sulla propria vita personale.
Forse lei era la
prima a sapere che quelle erano, per l’appunto, soltanto delle voci, e non
volerne parlare poteva essere il modo migliore per far capire che in realtà non
c’era nessuna cura miracolosa.
Tutti, ovviamente,
erano a conoscenza della sua difficile situazione famigliare; gli eventi della Seaborn Star erano noti a tutti, ma fin dal giorno del suo
arrivo la direttrice del collegio aveva dato ordini
più che tassativi di non scivolare mai e poi mai nell’argomento con
l’interessata.
L’ordine, a quanto
si era detto, veniva direttamente dal consiglio di amministrazione della
società. Si diceva che fosse stato proprio suo fratello maggiore, Kaito Kinomiya, attuale presidente delle industrie omonime, a dare questo ordine, forse per non costringere la sua adorata
sorella a rievocare ricordi troppo dolorosi.
La cosa era però risultata strana ad alcuni, quei pochi che potevano vantarsi
di essere riusciti a penetrare il muro di silenzio che la stessa Harue sembrava avere eretto attorno alla vicenda, perché la
ragazzina, quando parlava del fratello, si riferiva sempre a lui usando il
passato, come se fosse morto.
D’un tratto, la
campana della torre avvertì tutti gli studenti che la cena era in tavola, maHarue quella sera non
aveva molto appetito, e già durante la ricreazione aveva detto che per quella
sera sarebbe rimasta in camera a studiare.
Stava appunto
spostandosi verso la scrivania, dove il suo libro di letteratura inglese
attendeva di essere sfogliato, quando qualcuno bussò sommessamente alla porta.
«Avanti.» disse
dopo un paio di secondi.
Era una cameriera,
una delle tante che si occupavano della pulizia e
delle varie altre mansioni di cui necessitavano la scuola e i vari altri
locali.
«Mi scusi, signorina
Harue.» disse in tono molto reverenziale «C’è una
persona che chiede di vederla.»
«Una
persona? Chi è?»
«Dice che è una
sorpresa.»
«Una sorpresa!? D’accordo, lo faccia entrare per favore.»
«Come desidera».
Passarono alcuni
minuti, poi nuovamente si sentì bussare, e appena Haruediede il permesso di entrare il suo sguardo si caricò
di incredula meraviglia.
Nella stanza era
entrato un giovane di bell’aspetto con occhi e capelli neri, sicuramente
giapponese, che indossava un elegante abito marrone sopra ad
una camicia bianca.
«Ciao, Harue.»
«Ro… Ro… Rokuro…»
«Ne è passato di
tempo, vero?».
Quando finalmente
si rese conto di avere realmente davanti il suo più
vecchio e affettuoso amico la ragazzina gli corse subito incontro, e lui,
inginocchiatosi, la abbracciò calorosamente, proprio come faceva quando lei era
piccola.
«Rokuro, sei davvero tu.»
«Mi fa piacere rivederti,Harue.»
«Anch’io
sono felicissima di rivedere te. È da tantissimo tempo che non ci vediamo.»
«Da
più di quattro anni. Sì, direi che è passato un bel po’ di tempo.»
«Ma cosa ci fai qui in Inghilterra?»
«Sono stato
inviato qui su ordine del consiglio di amministrazione.»
«Il consiglio di
amministrazione!?»
«Non
te l’ho detto? Adesso lavoro per le Industrie Kinomiya.
Mi occupo delle relazioni internazionali.»
«Dici sul serio!? Ma… quando è successo?»
«Circa
tre mesi fa. Avevo in mente di venire qui subito dopo
essere stato assunto, ma prima ho dovuto sistemare un po’ di cose.
Ad ogni modo, sono
venuto per portarti a casa.»
«Per portarmi a
casa?»
«Ho
appena parlato con la direttrice. Se tu sei d’accordo, è stato deciso il tuo
trasferimento in una scuola privata di Tokyo.»
«Cosa, il mio
trasferimento?»
«Naturalmente, se
tu vuoi restare qui, sarai libera di farlo.»
«No
di certo. Era da tanto che volevo tornare in Giappone,
ma… chi lo ha deciso?»
«Il tuo nuovo
tutore legale.»
«Il mio nuovo…
tutore legale?».
Di nuovo la porta
si aprì, e stavolta ad entrare fu una bellissima donna
in abito nero.
«Yu-Ling!».
Anche
lei, come Rokuro, corse subito a salutare Harue, abbracciandola e dandole degli affettuosi baci sulla
guancia.
«Sei sorpresa, vero?»
«Davvero tu sei il
mio tutore?»
«Indovinato.
E sono anche il nuovo vicepresidente della società.»
«Il
vicepresidente? Che ne è stato del signor Samejima?».
A quella domanda
entrambi gli interlocutori abbassarono lo sguardo, e per una ragazza
intelligente come Harue non fu difficile capire cosa
fosse accaduto al suo precedente tutore.
«Capisco.
Beh, mi mancherà. Era una così brava persona. Immagino manchi anche a te,
Yu-Ling.»
«Sì, molto.»
rispose lei con gli occhi leggermente umidi, un pianto che però fu interrotto
sul nascere dalla gioia per tutti di essersi finalmente ritrovati «Avremo modo
di parlare con calma una volta tornati a casa.»
«Prima che mi
dimentichi» intervenne Rokuro «Ho qui con me un’altra
sorpresa»
«Un’altra
sorpresa?».
Il giovane mise
una mano nella tasca interna della giacca, prendendone fuori dopo poco un
tubetto di vetro contenente una strana gelatina blu piena di cristalli
iridescenti.
«Da parte di
Kaito, con tutto il suo affetto».
Harue guardò l’oggetto con occhi carichi di stupore,
capendo subito di che cosa si trattava, quindi, presolo in mano, lo strinse
forte sul petto, dando libero sfogo a quel pianto che per quattro anni aveva
conservato dentro di sé.
Due anni dopo
Se qualcuno fosse tornato a Roanapur
a distanza di due o tre anni molto probabilmente avrebbe
stentato a riconoscerla, o magari avrebbe pensato di aver sbagliato strada,
ritrovandosi da tutt’altra parte.
Dopo la morte dei
capi delle più importanti organizzazioni criminali della città la situazione
era andata lentamente migliorando, e quando le Industrie Kinomiya
avevano annunciato la loro intenzione di costruire lì il loro centro di comando
per le operazioni nel Sud-Est Asiatico Triadi, mafia russa, cartelli colombiani
e immondizia varia avevano fatto i bagagli e se l’erano data a gambe senza
troppi complimenti.
Negli ultimi anni
il potere dei Kinomiya era più che triplicato, soprattutto
dopo l’annuncio della scoperta di una cura contro la sclerosi che aveva fatto
confluire nelle casse dell’azienda fiumi di soldi, e ormai dettavano legge in
ogni cosa.
Pestare loro i
piedi voleva dire mettersi contro il mondo intero,
dove arrivavano loro gli altri, soprattutto quelli con la coscienza sporca,
scappavano senza guardarsi indietro, perché fra le altre cose la loro fama di
incorruttibili difensori della giustizia si stava rivelando tutt’altro che una
mera invenzione giornalistica.
A vegliare sulla
sicurezza delle industrie e dei suoi capi vi era Avalon;
ufficialmente erano una unità di guardie del corpo, ma
nella realtà si trattava di mercenari più addestrati della Delta Force, un vero e proprio esercito privato che, secondo
alcune dicerie, aveva le mani in pasta in parecchie questioni riguardanti lo
stroncamento dei traffici illeciti, la distruzione di regimi tirannici e varie
altre cose.
In molti andavano
dicendo che il volto del mondo era destinato a cambiare per sempre grazie all’operato delle Industrie Kinomiya,
e più passava il tempo più le fila di coloro che facevano eco alla campagna per
la giustizia promossa dai vertici dell’azienda diventava sempre più grande,
costringendo anche i presidenti delle nazioni più potenti a pensarci due volte
prima di operare una scelta che andasse contro il loro volere o la loro
opinione.
Sfortunatamente
per la Lagoon,
la comparsa della legge nella città di Roanapur,
simboleggiata fra le altre cose dalla scomparsa, un bel giorno, del cappio che
penzolava dal ponte principale, aveva rappresentato un vero disastro per la
loro attività.
Da quasi un anno
si mantenevano in piedi con affarucci di poco conto,
che garantivano a malapena il guadagno necessario a tirare avanti, ma chissà
perché nessuno di loro si sentiva dispiaciuto per quanto stava accadendo.
Una mattina di
marzo, Dutch era seduto sul divano del salotto, e guardava la televisione
sorseggiando una birra. Accanto a lui Revy, che fumava senza ritegno con le
gambe distese sul tavolino e la testa buttata all’indietro.
«Più ci penso più
mi sembra incredibile.» disse Dutch guardando fuori dalla finestra «È bastato che le Industrie Kinomiya
pronunciassero il nome Roanapur perché tutti
decidessero di punto in bianco di scappare con la coda tra le gambe, e ormai
non si trova un mafioso neppure a pagarlo oro.
Non avrei mai
pensato di dirlo, ma persino questa città sta cominciando a sembrare un po’ più
civile.»
«E di che ti
meravigli?» rispose Revy persistendo nel guardare il soffitto «Avere a che fare
con loro è peggio che mandare a fanculo il presidente
degli Stati Uniti.»
«Forse sarebbe ora
che anche noi ci levassimo di torno.» disse Benny dalla propria stanza
«Francamente non sono ansioso di incontrare a tu per tu qualcuno degli Avalon.»
«E dove pensi che
potremmo andare?» domandò il nero
«Ah basta!» disse Two-Hands scattando in piedi «Ne
ho fin sopra i capelli di tutta questa inattività! Voglio fare qualcosa,
dannazione!» quindi, visibilmente contrariata, andò a
chiudersi in camera, accendendo probabilmente a sua volta il televisore.
Dopo poco iniziò
il telegiornale, e manco a dirlo una delle prime notizie riguardava i Kinomiya.
«Passiamo ora ad un’altra notizia.
Oggi la signorina HarueKinomiya, ultima
discendente della famiglia e futura erede delle famose Industrie Kinomiya, ha indetto una conferenza stampa per presentare
ufficialmente la nomina del nuovo capo della divisione internazionale.
Il posto, che
garantisce anche l’ingresso nel consiglio di amministrazione della società, è
stato assegnato al RokuroOkajima,
già vicedirettore dello stesso dipartimento ed ex dipendente delle Industrie Asahi.
Secondo le
disposizioni testamentarie, ancora per i successivi quattro anni alla guida
dell’azienda siederà l’attuale vicepresidente, la signorina Yu-Ling Samejima, questo a seguito della prematura scomparsa due
anni fa dell’ex presidente Kaito Kinomiya e del suo
secondo, NoboruSamejima, a
causa di un grave incidente.
Nella stessa
conferenza la signorina Harue ha anche annunciato gli
ottimi risultati fino ad oggi conseguiti dalla rivoluzionaria cura contro la
sclerosi multipla sviluppata dalla sua società, cura di cui essa stessa ha
potuto beneficiare e che le ha permesso di dire addio alla sedia a rotelle.
Tale cura è valsa
fra le altre cose il riconoscimento dell’OMS e il premio nobel per la medicina,
consegnato postumo, per i suoi due ideatori, il dottor Alexander Ashford e il dottor HibraimAlwariki.»
«Chi l’avrebbe mai
detto?» disse Dutch spegnendo il televisore «Il nostro
Rock è arrivato in alto. Membro del consiglio di amministrazione.
Se non sentissi
gli effetti della sbronza, penserei di stare sognando».
In quella Benny si
presentò da lui in preda all’euforia con in mano una
stampa di computer.
«Dutch,
grandi notizie. Le Industrie Kinomiya si sono messe
in contatto con noi!»
«In contatto con
noi!? Per quale motivo? Ci stanno forse dicendo di
levarci dalle palle?»
«No
tutt’altro. Ci propongono un’offerta d’ingaggio.»
«Che cosa!?» gridò il gigante balzando in piedi «Un’offerta
d’ingaggio!?»
«Esattamente.
A me offrono un posto nel dipartimento di sviluppo informatico, a te e a Revy
invece il reclutamento in Avalon. E con uno stipendio
da paura per tutti e tre, aggiungo.»
«Quel bastardo di
Rock.» disse Dutch sistemandosi gli occhiali «Quello che promette fa, anche se
ci ha messo un po’.»
«Dovevi
dargli il tempo di arrivare dove è arrivato. Dopotutto, non credo che avremmo
potuto farci assumere dalle Industrie Kinomiya, con
le nostre attuali credenziali».
In quella Revy
uscì nuovamente dalla sua stanza, lasciando i due uomini con gli occhiali
infondo al naso; aveva con sé una grossa valigia e una sorta di zaino da
escursionista che traboccavano di roba.
«Revy, vai a fare
un’esplorazione nella giungla?»
«Non dire cazzate
Dutch.»
«E allora dove
stai andando?»
«Rock
è arrivato in alto. E si sa, chi sta in alto finisce per farsi molti nemici.»
quindi si girò sghignazzando verso di loro «Gli ci vorrà una guardia del corpo».
Dutch e Benny per
un po’ la guardarono allibiti, poi entrambi sorrisero.
«Ok ragazzi,
facciamo i bagagli.» disse Dutch gettando via la lattina vuota «Si va’ a Tokyo».
Nota dell’Autore.
Eccoci dunque alla fine di questa fan fiction nata quasi per caso,
giusto per passare il tempo.
Qualcuno potrebbe
obiettare che questo sia un finale decisamente troppo
happy per un anime/manga come Black Lagoon, ma io
trovo che l’originale abbia in sé tanto di quel pessimismo che riservare ai
suoi personaggi un lieto fine non sia poi così sbagliato (soprattutto quando i
lieto fine sono una rarità persino per me)
Ringrazio tutti
quelli che hanno letto e recensito questa fan fiction, e chissà che un giorno
non mi venga l’idea per qualche nuova storia sull’universo di Black Lagoon.