Death Game

di Carlos Olivera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Undead ***
Capitolo 3: *** Despair ***
Capitolo 4: *** Guilty! ***
Capitolo 5: *** Justice ***
Capitolo 6: *** Game! ***
Capitolo 7: *** The Illusionist ***
Capitolo 8: *** Encounter ***
Capitolo 9: *** Guns & Swords ***
Capitolo 10: *** Truth ***
Capitolo 11: *** Evolution ***
Capitolo 12: *** Monster ***
Capitolo 13: *** Forever ***
Capitolo 14: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

PROLOGO

 

 

Tokyo

 

All’interno, la palazzina era ridotta ad un immenso cimitero. I cadaveri di decine e decine di esponenti dei Ryuji giacevano a terra coperti di sangue, tutti morti o morenti.

  Chiunque lo avesse visto coi propri occhi, avrebbe faticato a crederci; uno dei più pericolosi e potenti gruppi criminali del Giappone era stato completamente sterminato nel giro di pochi minuti. I Ryuji erano noti per la loro brutalità, e per l’estrema efficienza dei loro reparti combattenti; quella palazzina era il luogo in cui avvenivano la gran parte dei traffici illeciti: droga, armi, sesso e quanto di peggio si potesse chiedere.

  venivano eseguiti anche gli omicidi degli esponenti di spicco delle altre famiglie criminali, ed ogni qualvolta vi si recassero i Ryuji la trasformavano in una fortezza, protetta a vista da uomini armati di tutto, dalle automatiche fino agli RPG.

  Quella sera erano tutti presenti, incluso il grande capo della famiglia, Kaito Ryuji, per assistere personalmente all’esecuzione di Momori Taijo, esponente di spicco dell’omonimo gruppo da tempo avversario dei Ryuji per il controllo della zona di Odaiba.

  La condanna stava quasi per essere eseguita, quando all’improvviso dall’esterno erano cominciati a risuonare i colpi dei fucili d’assalto, seguiti a breve tempo dalle grida strazianti degli uomini uccisi.

  Sulle prime si pensò che fosse un tentativo dei Taijo di liberare uno dei loro capi, e allora era stato dato l’ordine di respingerli con ogni mezzo, ma quale stupore per Kaito Ryuji quando gli fu detto che ad attaccare la palazzina era una sola persona.

  A dirlo fu uno dei suoi uomini, che risalito quasi morente all’ultimo piano fece appena in tempo a dire di chi si trattasse: lo descrisse come un uomo, all’apparenza un normale civile, armato fino ai denti e dotato di un’abilità a dir poco sensazionale.

  «Sembra uno di quei… Delta Force…» aveva detto il mafioso prima di morire.

  Meno di dieci minuti dopo anche il capo della famiglia Ryuji era morto dopo un inutile tentativo di fuga, ma una delle sue guardie del corpo si era salvata, e ora cercava in tutti i modi di lasciare quella specie di casa degli orrori con una pallottola conficcata nel fianco.

  Il dolore lo faceva zoppicare, e la mano che tamponava la ferita era zuppa di sangue, così come il suo bel vestito nero. Probabilmente era stato ferito anche alla gamba destra, o si era infortunato cadendo dalle scale nel tentativo di fuggire, perché zoppicava vistosamente, e questo rallentava di molto la sua fuga.

  Giunse alfine all’esterno della palazzina, e anche qui si trovò davanti ai corpi dei suoi compagni crivellati di colpi, come se l’aggressore avesse usato un caricatore da trenta colpi per ognuno di loro; anche le pareti, tanto all’esterno quanto all’interno, il cortile era pieno di cadaveri, e malgrado quell’uomo fosse abituato alla vista di simili, macabri spettacoli, a stento si trattenne dal vomitare.

  Era quasi riuscito ad oltrepassare i cancelli, quando udì alle sue spalle il rumore di uno sparo, e subito dopo cadde a terra, colpito alla spalla.

  Giratosi, aveva visto quella specie di mostro camminare lentamente verso di lui.

  Era poco più di un ragazzo, non doveva avere più di venticinque anni, i capelli neri leggermente arruffati, la pelle chiara ed un viso assente, senza espressione. Vestiva in modo semplice, in jeans e maglietta, il tutto contornato da una giacca con il colletto di pelo.

  Stringeva un TAR-21 nella mano destra e una piccola wakizashi nella sinistra, quest’ultima con il sangue che ancora gocciolava dalla punta dopo essere stata affondata in più di una gola.

  Terrorizzato, il mafioso sollevò la sua beretta e sparò un colpo dietro l’altro nella speranza di fermarlo, anche se dentro di sé era consapevole che fosse solamente una perdita di tempo.

  Era come se quel tipo avesse davanti a sé un vetro antiproiettile, perché per quanti colpi gli venissero sparati contro nemmeno uno riusciva a centrarlo.

  In pochi secondi il caricatore si esaurì, e se lo ritrovò davanti; il cavallo dei suoi pantaloni era bagnato fuori dei modi, e il suo tremito si fece ancora più evidente quando lo vide sollevare il mitragliatore verso di lui.

  «Tu…» balbettò «Chi diavolo sei tu?».

  Quello lo guardò coi suoi occhi senza espressione.

  «Il fantasma della Seaborn Star».

  Nel sentire quel nome il mafioso ebbe appena il tempo di sgranare gli occhi, e fu con quella espressione che morì dopo che cinque colpi sparati a bruciapelo lo attraversarono da parte a parte.

  E così, nello spazio di una notte, la famiglia Ryuji fu spazzata via.

  Il ragazzo restò da solo, in mezzo a tutti quei cadaveri che lui stesso aveva seminato.

  Dopo pochi secondi, appena uscì dal cancello, dalla stradina stretta che saliva lungo la collina giunse un fuoristrada di grossa cilindrata nero pece con gli abbaglianti accesi che si fermò poco distante da lui, lasciando il motore acceso.

  Ne scese un altro ragazzo, biondo, non eccessivamente alto, che indossava eleganti calzoni neri e una bella camicia nera a righe verticali.

  «Hai combinato un bel casino anche questa volta, eh Kyuzo?» disse in un giapponese un po’ stentato.

  «Hai avvertito la polizia?»

  «Saranno qua fra pochi minuti. Sarà meglio sparire, anche se pagherei una cifra per vedere le loro facce quando si troveranno davanti questo spettacolo».

  Kyuzo, come lo aveva chiamato il ragazzo biondo, si disfò del fucile, senza preoccuparsi minimamente di cancellarvi eventuali impronte, ma tenne con sé la spada e salì a sua volta sul fuoristrada, che giratosi recuperò velocemente la strada principale in direzione del centro di Tokyo, mescolandosi nel chaos della metropoli.

  «E con questi fanno quattro» disse il guidatore «E ora su chi ci concentriamo

  «Sugli ultimi rimasti.» rispose Kyuzo pulendo con un panno bianco la sua wakizashi prima di rinfoderarla

  «Allora, si va’ a Roanapur?».

  Kyuzo allungò una mano ed aprì il porta-oggetti, da cui recuperò un cofanetto che aprì. Conteneva un bell’esemplare di 9mm argentato con il calcio d’avorio su cui vi era un altorilievo in argento raffigurante un teschio con due spade incrociate sotto di esso.

  Affianco alla pistola c’era anche un proiettile, uno solo, e subito sotto il caricatore.

  Il ragazzo recuperò solo il proiettile e lo guardò; per un attimo, mentre lo stringeva con forza nel pugno, una lacrima rigò il suo volto da statua.

  «Harue…» sussurrò «Ti prego, pazienta ancora un po’. Molto presto, avrai la tua vendetta. Quella cagna pagherà per quello che ti ha fatto».

  Subito dopo, però, lo stesso volto fu attraversato da una smorfia di dolore. Il giovane si raggomitolò su stesso tenendosi il cuore con un vigore tale da far cedere che volesse strapparselo.

  «Kyuzo!» disse il biondo «Va’ tutto bene?»

  «Non… non è niente.» disse cercando di riprendere l’autocontrollo «Ora passa…»

  «La cosa comincia a farsi preoccupante, amico mio. Il tuo corpo sta collassando.»

  «Lo sapevamo che sarebbe accaduto…» rispose Kyuzo sparandosi letteralmente in vena un’ampolla piena di un liquido rossastro «Mi serve solo un’altra settimana. Non chiedo altro. Una settimana per spedire quelle due troie dritte all’inferno!».

 

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Capitolo 2
*** Undead ***


1

1

 

 

Roanapur, due giorni dopo

 

Un’altra giornata volgeva al termine, il sole ormai morente gettava i suoi ultimi raggi su Roanapur e sul suo bellissimo mare, che ben poco aveva da spartire in una città dove regnavano solamente sangue, violenza e corruzione.

  La Lagoon stava quasi per rientrare al porto dopo l’ennesimo incarico, uno dei pochi che si fosse concluso senza alcun bisogno di sparare un colpo, con grande dispiacere per qualcuno ma con altrettanta soddisfazione per qualcun altro.

  Per la compagnia le cose non erano mai andate così bene: il lavoro non mancava, i soldi arrivavano a fiumi, e di tempo per sbronzarsi ce n’era che si sprecava.

  Benny Boy si tolse le cuffie della radio e le gettò sulla scrivania, dandosi poi una sonora stiracchiata; tutto quel tempo seduto non gli faceva certamente bene.

  «Accidenti, sono a pezzi.» mugugnò tra sé «Meno male che anche oggi è finita

  «Dacci un taglio con le lamentele.» disse Revy lanciandogli una birra che lui prese al volo «Chi deve lamentarsi sono io. A conti fatti, avrei fatto meglio a restarmene a casa.»

  «Perché, non ti sei divertita?» domandò Dutch dalla cabina di pilotaggio

  «E me lo chiedi? Quegli stronzi si sono arresi alla prima minaccia! Avrebbero anche potuto accennare una fuga o roba del genere. Almeno avrei potuto sventolare qualche raffica.»

  «Revy, sei sempre la solita.» commentò il gigante nero accendendosi la decima sigaretta delle ultime tre ore «Ascolta, meno problemi ci creiamo coi nostri lavori più facile è che ce ne vengano affidati degli altri. Se non siamo costretti ad usare la forza tanto meglio, più soldi per noi e la vita per loro.»

  «Fingo di non averti sentito».

  Del tutto esente da questi discorsi, Rock se ne rimaneva seduto a prua con la birra in mano, contemplando quei piccoli spettacoli naturali che solo lui in tutto il gruppo sembrava in grado di apprezzare appieno.

  Il porto di Roanapur si faceva sempre più vicino, e molto probabilmente la giornata si sarebbe conclusa con l’ennesima bevuta di gruppo allo Yellow Flag.

  Che ne era stato della sua vita?

  Più di una volta quel panorama lo aveva spinto a riflettere su ciò che lo aveva portato laggiù, in quel piccolo angolo di sud-est asiatico dimenticato da Dio e dalla legge, e malgrado, fin dal suo ingresso nella Lagoon Company, avesse sempre cercato di farsi valere, sfruttando al meglio quelle capacità di diplomatico e negoziatore che solo lui possedeva, ogni tanto si domandava cosa ci facesse in un posto simile.

  Alla fine aveva capito che quello che Revy gli ripeteva continuamente era vero; avrebbe fatto meglio a tornarsene in Giappone, a rifarsi una vita, gettandosi alle spalle i panni del mercenario e del pirata che proprio non gli si confacevano, per quanto cercasse di dimostrare il contrario.

  Aveva preso una decisione, e quella sera ne avrebbe fatto partecipe il resto della squadra.

  Era affezionato ai suoi compagni, non poteva negarlo, ma sentiva la mancanza della sua vecchia vita, che a dispetto di quello che Revy o Dutch potevano dire gli era piaciuta fino a quando ci era stato dentro: una casa decente, un lavoro tutto sommato rispettabile, e una relativa tranquillità.

  «Ehi, Rock? Hai intenzione di stare lì impalato per tutta la sera?».

  Riavutosi dai suoi pensieri, Rock si accorse che la Lagoon era già entrata in porto e aveva gettato le ancore; Revy e gli altri lo osservavano dalla banchina.

  «Muovi quel culo da giapponese e vieni qui!»

  «Faresti meglio a darle retta.» disse Benny «Stasera Revy è decisamente di cattivo umore.»

  «Sì… arrivo…».

  Uscirono dal molo e salirono in macchina, ma girare per le strade di Roanapur non faceva altro che contribuire ad aumentare la frustrazione del colletto bianco, sempre più taciturno.

  «Ehi Rock, che ti succede?» domandò Benny «Sei così silenzioso. C’è qualcosa che non va’

  «Do’ quest’impressione?»

  «Tieni.» disse Dutch passandogli una sigaretta «Una fumata e passa tutto».

  Rock raccolse il consiglio e aspirò abbondantemente, disperdendo nella macchina una nuvola di fumo che molti avrebbero trovato sgradevole, ma che quel quartetto di persone respirava più dell’aria comune.

 

Una breve sosta in ufficio, poi la squadra si concesse la solita puntatina allo Yellow Flag, infestato come al solito da gentaglia della peggior specie: colombiani, cinesi, russi, giapponesi, italiani.

  Roanapur era praticamente la Mecca delle peggiori mafie del mondo, un covo di tagliagole che uccidevano per puro diletto o al minimo sgarro.

  Paradossalmente, tutti lì si sentivano al sicuro, soprattutto la gente comune: bastava farsi i fatti propri, fare buon viso a cattivo gioco pagando qualche pizzo, fare il gioco delle tre scimmiette per tutto quello che succedeva e si poteva stare tranquilli, se i mafiosi poi volevano massacrarsi a vicenda affari loro.

  E la Lagoon Company in tutto questo ci nuotava in modo a dir poco vergognoso: un lavoro valeva l’altro, e se si trattava di violare la legge, come accadeva quasi sempre, tanto meglio, più divertimento e più soldi.

  E la compagnia aveva le mani in pasta praticamente dovunque: mercato nero, contrabbando, spaccio, rapimenti, furti su commissione e, qualcuno andava dicendo, anche omicidi.

  La media era di due lavori a settimana, e più della metà erano tutt’altro che legali.

  Del resto se si era in rapporti con Hotel Moskow non si poteva certo dire di frequentare buone compagnie; Balalaika, il capo dell’organizzazione, era ricercata dai servizi segreti di mezzo mondo, oltre che dall’Interpol, e anche qualche membro della Lagoon figurava sul libro nero dei ricercati.

  Proprio per questo avevano cercato scampo lì, in quello sputo di terra al confine con l’Inferno, l’ultimo posto al mondo dove si credeva che il maglio della giustizia potesse andare a colpire.

  Revy tracannò in un sol colpo un bicchiere di rum, riempiendolo subito dopo come se fosse stato acqua.

  «Ah, devo affogare i miei dispiaceri. Ormai sono giorni che non abbiamo l’occasione di menare le mani».

  Rock però, che pure solitamente sembrava divertirsi in quella specie di festini, continuava a rimanere sulle sue, e da che erano arrivati non aveva bevuto neppure un sorso.

  «Senti Rock, se continui di questo passo dovrò pensare che tu sia morto».

  Ormai non poteva più rimandare; se lo stava tenendo dentro da troppo tempo, e sentiva che sarebbe impazzito se non lo avesse esternato.

  «Sentite.» disse di colpo, nell’unico momento in cui nessuno dei suoi compagni si stava preoccupando di lui «C’è una cosa che dovrei dirvi».

  Dutch e Benny, sentendo il suo tono di voce, capirono subito che si trattava di qualcosa di serio, ma non Revy, che al contrario sfoderò la sua pungente ironia.

  «Che sei un finocchio? Tranquillo, questo si sapeva.»

  «È una cosa seria!» tuonò Rock con foga e rabbia tale che persino Two Hands, alla fine, si decise a comportarsi seriamente.

  Rock si decise finalmente a bere un sorso di rum, poi prese a girare il suo indice destro tutto attorno al bordo del bicchiere, mentre gli sguardi di Revy e degli altri si concentravano su di lui.

  «È già da un po’ di tempo che rifletto su questa cosa. Avrei voluto parlarvene prima, ma non trovavo la forza per farlo».

  Per qualche secondo il colletto bianco esitò, poi strinse i denti e cercò di cacciare fuori quelle poche ma importanti parole.

  «La verità è che io voglio…».

  Sfortunatamente, fu il destino a stabilire che quella conversazione non vedesse mai arrivare il momento fatidico, perché venne troncata all’improvviso da un rumore sordo e molto forte alle spalle della comitiva, facilmente riconoscibile come quello delle porte del locale che venivano violentemente spalancate.

  Non solo la Lagoon Company, ma tutti gli avventori del locale si girarono verso l’ingresso, incrociando lo sguardo vuoto e il volto marmoreo di un ragazzo venticinquenne con folti capelli neri che portava un giubbotto col collo di pelo ed un paio di jeans.

  Mentre tutti lo guardavano lui restò un momento immobile, poi mosse alcuni passi avanti mentre le porte, come animate di vita propria, si chiudevano alle sue spalle, malgrado Tao, il proprietario, non ricordasse di averle mai dotate di molla o di chiusura automatica.

  «E quello chi diavolo è?» domandò Revy

  «Non ne ho idea.» rispose Dutch «Non l’ho mai visto».

  Si respirava una strana atmosfera; era solo un ragazzo, ma per qualche strano motivo aveva un che di minaccioso, di oscuro, e per chi poteva sentirlo emanava odore di morte più dei peggiori sicari.

  Abbassò la testa e mosse le labbra.

  «Feccia.» sussurrò.

  Quella sola parola fu più che sufficiente per trasformare gli sguardi incuriositi in sguardi minacciosi, e l’aria di colpo cominciò a farsi pesante.

  Tao si affrettò a nascondersi sotto al bancone, Dutch e Revy misero una mano sul calcio delle loro pistole, non perché volessero sparare al forestiero, quanto piuttosto per proteggersi da quello che immaginavano stesse per accadere.

  «Non siete altro che feccia.»

  «Che cos’hai detto?» gridò un colombiano alzandosi dalla sua sedia, imitato presto da molti altri

  «Ecco fatto.» disse Revy «È morto».

  Un altro avventore, stavolta un drogato del posto, afferrò il revolver che portava alla cintura, ma prima che potesse puntarlo si ritrovò un coltello di tre o quattro centimetri conficcato nel mezzo della fronte.

  Stessa sorte per un cinese, e nello spazio di due secondi le mani dello straniero, scomparse dietro la sua schiena, riapparvero con una coppia di Spectre M4 Beretta da cinquanta colpi ognuna.

  Fiumi di proiettili presero a piovere sugli ospiti del bar, molti dei quali caddero nei primi cinque secondi d’inferno; qualcuno, agendo d’anticipo, fece in tempo a ribaltare un tavolo da usare come scudo, l’intera Lagoon Company invece corse a nascondersi dietro al bancone antiproiettile al quale erano seduti fino ad un istante prima e trovarono Tao già con in mano il suo shot-gun.

  «Ma perché cose simili succedono sempre nel mio locale!»

  «Dacci un taglio!» rispose Revy «Mi pare che qui siamo tutti sulla stessa barca!»

  «Ma chi diavolo è quello?» chiese Benny mettendosi le mani in testa

  «Chiunque sia una cosa è certa, non uscirà vivo da qui dopo questa bravata!».

  Continuò a sparare per interminabili secondi, compiendo una vera e propria strage; i proiettili delle sue armi dovevano avere la testa di titanio, perché bucavano anche i tavoli più spessi, uccidendo quelli nascosti dall’altra parte prima che potessero rendersene conto.

  Poi, finalmente, i caricatori si esaurirono, e l’inferno cessò. Le sue Beretta fumavano come tizzoni ardenti, e l’aria era satura dell’odore del sangue misto a quello della polvere da sparo.

  Il silenzio, di colpo, si era fatto totale, e sembrava che non una sola persona in quel bar fosse sopravvissuta.

  Rock, che ancora si rammaricava per non essere riuscito a dire ciò che voleva, diede una sbirciata all’esterno, e tutto quello che vide fu una immensa distesa di cadaveri.

  Lo straniero era sempre lì, in piedi davanti alla porta, con in mano le sue armi ormai scariche che fumavano abbondantemente per le numerose raffiche sparate in rapida successione.

  Sfruttando il riflesso delle poche bottiglie rimaste intatte sul ripiano di legno Dutch riuscì a gettare uno sguardo sicuro al di là del bancone, e altrettanto fece Revy, che non aspettava altro che di poter rendere il favore a quel pazzoide.

  «Lagoon Company!» gridò lo straniero liberandosi delle armi «Non vi farete certo ammazzare per così poco! Mettete fuori quei vostre facce da stronzi, che ve le sfondo!»

  «Dannazione, allora quello ce l’ha proprio con noi!» disse Benny.

  Incredibilmente anche qualcun altro era sopravvissuto, un cinese che si era nascosto dietro ad una colonna, e non appena si avvide che lo straniero era disarmato uscì dal suo nascondiglio puntandogli contro la sua beretta.

  «Muori!» urlò, e subito dopo partì un colpo.

  Il tempo sembrò fermarsi all’interno dello Yellow Flag; Revy e Rock, che avevano assistito alla scena, rimasero con la bocca spalancata, e anche il cinese, che per lo sgomento e la tremarella vide l’arma cadergli di mano.

  Come era possibile?

  Fu quello che si domandarono tutti.

  Lo straniero era lì, e anche la pallottola era lì, ferma davanti al suo viso marmoreo, come se qualcosa avesse bloccato la sua corsa.

  «Ma che diavolo…» balbettò Dutch dopo aver visto a sua volta quella scena ai limiti del razionale.

  Il cinese tremò ancor più di prima, mosse un passo indietro come a voler fuggire, e allora lo straniero aggrottò le sopracciglia; a quel gesto, la pallottola ancora sospesa in aria partì nella direzione opposta con la stessa velocità di prima, colpendo il cinese dritto al collo e lasciandolo morto a terra dopo averlo scaraventato lontano per il contraccolpo.

  «Questa…» disse Rock sgomento «È stregoneria…».

  A quel punto il giovane si concentrò nuovamente sui membri della Lagoon.

  «Adesso tocca a voi».

  Revy a quel punto perse l’indirizzo di casa, e messo mano alle sue due bambine si mise con un piede sopra il bancone.

  «Schiva queste se ci riesci!» gridò svuotandogli contro i caricatori.

  Il risultato, però, fu esattamente lo stesso. Le pallottole che non si fermavano cambiavano improvvisamente la loro traiettoria, andando a conficcarsi nel muro o sul soffitto, questo oltretutto senza che il nemico muovesse un muscolo.

  Servirono solo pochi secondi perché Revy e Dutch, accorso in suo aiuto, esaurissero le munizioni, e allora tutti quei colpi che ancora rimanevano fermi davanti al forestiero caddero inerti ai suoi piedi.

  «Ma dove siamo qui, su Matrix?» domandò Benny

  «Immagino lo abbiate capito.» disse vedendo le loro facce sgomente «Con me queste cose sono inutili. Permettetevi di darvi un altro assaggio di quello che posso fare».

  Il ragazzo strinse i pugni sollevando violentemente le braccia, e sembrò che nel locale si fosse abbattuto un tifone; tavoli e sedie volarono, muri e soffitto si riempirono di crepe, piovvero calcinacci e il parquet andò letteralmente in pezzi, come sventrato da un’esplosione.

  Il vento era così forte che Revy e Dutch furono scaraventati contro la parete alle loro spalle, e perfino il bancone cominciò ad emettere preoccupanti scricchiolii che fecero scappar via Tao a gambe levate.

  «Dobbiamo andarcene di qui alla svelta!» disse Benny

  «Sono d’accordo.» rispose Dutch mettendo mano ad una granata fumogena.

  Il gigante nero aspettò che la tempesta si acquietasse un po’ prima di lanciarla, e subito lo Yellow Flag fu avvolto da una spessa cortina di fumo.

  «Presto, approfittiamone!».

  I quattro compagni colsero al volo l’occasione e, seguendo il loro istinto, corsero verso il punto in cui sapevano esserci l’uscita, pregando iddio di non ritrovarsi faccia a faccia con quella specie di mostro.

  Ed infatti, dopo pochi secondi, Dutch vide le porte comparirgli davanti, e senza indugio le sfondò, ritrovandosi all’esterno del locale.

  «Presto, raggiungiamo la Lagoon e andiamocene, prima di trovarcelo nuovamente addosso!».

  Tutti insieme corsero verso la macchina, che si trovava dall’altra parte della strada, ma un istante prima che potessero raggiungerla una scarica di mitra investì l’autoveicolo, disintegrando un paio di finestrini e facendo una bella serie di buchi sulla fiancata.

  Rock e Dutch, che stavano dalla parte da cui erano venuti i colpi, fecero appena in tempo a buttarsi dietro la macchina prima di finire crivellati.

  In mezzo alla strada, come un gangster degli anni ‘30, era comparso il biondo in camicia nera, con un AK47 per ogni mano.

  «Voi non andrete da nessuna parte, bastardi della Lagoon!»

  «Ma stasera ce l’hanno proprio tutti con noi!» disse Dutch mettendo nuovamente mano alla sua magnum «Bennyboy, tieniti pronto a partire!»

  «D’accordo.»

  «Pronta Revy

  «Tu che dici?» rispose lei sfoderando il suo sguardo sadico.

  Con un sincronismo quasi perfetto i due scattarono in opposte direzioni, e presero a sputare proiettili sul nuovo avversario, che a differenza del primo non sembrava in grado di fermarle, tanto che si mise a correre e a saltare per poterle evitare.

  La sua agilità, però, aveva del prodigioso, compiva salti di parecchi metri che neanche un campione olimpico sarebbe stato in grado di fare, correndo oltretutto ad una velocità fuori dal comune.

  Dutch, ovviamente, esaurì per primo il suo caricatore, e dovette nascondersi dietro ad una macchina per poterlo ricaricare; Revy gli offriva copertura sparando all’impazzata, ma tutti i suoi colpi andavano miseramente a vuoto, facendola infuriare oltre ogni limite.

  «Bastardo, ti decidi a stare fermo?» urlò la ragazza ricaricando le sue armi

  «Che c’è, Two-Hands?» disse il biondino da dietro una palma «È tutta qui la tua mira infallibile?»

  «Tra poco la smetterai di fare lo spiritoso, stronzo».

  In quella Billy accecò l’assalitore coi fari della macchina, e per poco non riuscì anche a metterlo sotto, ma questi spiccò uno dei suoi salti mettendosi in salvo, dando però a Revy e Dutch il tempo sufficiente per battere in ritirata.

  Provò a sparargli contro mentre scappavano, ma riuscì solo a distruggere un fanalino posteriore, e nello spazio di un secondo i membri della Lagoon erano spariti.

  «Dannazione.» mugugnò stringendo i denti.

  Passarono alcuni secondi, e dal fumo che ancora saturava il locale uscì il giovane dai capelli neri, che si avvicinò al suo compagno guardandolo seriamente.

  «Mi dispiace Kyuzo. Sono riusciti a sfuggirmi.» si giustificò il biondo

  «Non importa. Non andranno comunque lontano. Troviamoli e massacriamoli».

 

Dutch e gli altri convennero sul fatto che l’unico modo per sfuggire a quelle due furie scatenate era lasciare Roanapur il più velocemente possibile.

  L’idea di scappare con la coda fra le gambe era insopportabile, soprattutto per Revy, ma del resto non si poteva fare granché per contrastare uno in grado di fermare le pallottole e scatenare esplosioni semplicemente stringendo i pugni.

  Era una di quelle situazioni in cui non ci si vorrebbe mai venire a trovare, e tutti in quella macchina erano consapevoli che quel tipo, chiunque fosse, non si sarebbe dato pace fino a che non li avesse stanati e uccisi, quindi, per il momento, la sola cosa da fare era nascondersi.

  Contrariamente a quanto avrebbero immaginato raggiunsero il porto senza problemi, e lasciata la macchina si imbarcarono in tutta fretta sulla Lagoon, puntando immediatamente verso al largo.

  Appena furono ad un paio di miglia dalla costa, Rock tirò un sospiro di sollievo.

  «Sembra che siamo riusciti a sfuggirgli.»

  «Non cantare vittoria troppo presto.» replicò Revy frugando nel contenitore delle armi pesanti «Potrebbe essere solo l’inizio».

  Two-Hands cavò fuori un fucile d’assalto e un RPG carico.

  «E ora Dutch, dove pensi di andare?»

  «A Bangkok. È il solo posto dove mi sentirò un po’ più al sicuro. Accidenti, non riesco ancora a capacitarmi di quello che ho visto.»

  «Quel tipo…» balbettò Rock con la testa mezza nascosta fra le ginocchia «Non era umano…»

  «Adesso non fatevi prendere dalla tremarella.» disse Revy con falsa sicurezza «Avrà usato qualche trucchetto da showman per impressionarci.»

  «Trucchetto lo chiami!? Ma hai visto quello che faceva?»

  «Allora sentiamo, che spiegazione hai tu?»

  «Piantatela voi due!» tuonò Dutch «Sono d’accordo con Rock, non si trattava di una messinscena. Ci sarà sicuramente una spiegazione, ma sinceramente non ho alcuna intenzione di tornare indietro a chiedergliela.»

  «In ogni caso…» riprese Rock col suo solito tuono pacato e riflessivo «Quello non aveva l’aria di un comune killer.»

  «Sì, hai ragione. I suoi occhi avevano la tipica luce degli assassini a sangue freddo, ma non dava l’aria di essere uno a cui piace fare cose simili.»

  «Di certo non deve preoccuparsi delle conseguenze delle sue azioni.» disse Benny dalla sala computer «Con tutta la brava gente che c’era allo Yellow Flag le mafie di mezzo mondo andranno su di giri entro le prossime sei ore, ma uno a cui le pallottole fanno un baffo non deve neanche porsi il problema».

  Prima ancora che l’americano potesse ridere alla sua stessa battuta, la sua attenzione fu attratta da un segnale radio proveniente dal computer.

  «Imbarcazione in avvicinamento rapido!»

  «Che direzione?» domandò Dutch

  «Sud sud-ovest. Credo venga da Roanapur».

  Revy corse su per la scaletta metallica e si affacciò dal boccaporto sul tetto della Lagoon, scorgendo in lontananza la scia di una barca lanciata a tutta velocità. Mise quindi mise mano al binocolo a vista notturna per capire meglio chi fosse a pilotarlo, pregando il cielo che non fosse chi tutti lì dentro temevano, ma purtroppo, aumentando la potenza delle lenti, fu proprio il volto del giovane dai capelli neri a pararsi dinnanzi a lei.

  «Merda! È lui!».

  Kyuzo era in piedi sulla prua di un grosso motoscafo bimotore guidato dal suo compagno biondo.

  «Eccoli, sono loro! Steven, raggiungiamoli!»

  «Con piacere!» rispose l’amico mandando l’imbarcazione a tutta manetta

  «Merda!» disse Dutch «È testardo quel moccioso. In confronto a lui, il tirannosauro di Jurassic Park era un animaletto da giardino!»

  «Rock! Il lanciarazzi, presto!»

  «Eccolo!» rispose il giapponese passando l’arma alla sua compagna.

  Revy rimosse la sicura all’RPG e prese bene la mira puntando al motoscafo.

  «Bene, prova a evitare questo se ci riesci!».

  Il razzo partì, e sembrò proprio che il nemico non fosse in grado di respingerlo, tant’è che rimase immobile, senza perdere però il suo sguardo di ghiaccio.

  «Steven. È tuo.»

  «D’accordo».

  Il biondo, impostata la guida automatica, prese dalla valigetta di emergenza una pistola di segnalazione e vi caricò un razzo che appena sparato si trasformò in una palla luminosa di colore rosso acceso.

  L’RPG, attirato dalla luce e dal calore, modificò la propria traiettoria, esplodendo in aria molto distante dal motoscafo, che continuò imperterrito la sua corsa.

  «Maledizione!» imprecò Revy «Sono furbi quei bastardi! Rock, il lanciagranate!»

  «Subito!».

  L’arma che Rock diede alla sua compagna era provvista di caricatore a tamburo da dodici colpi armato con granate al napalm altamente infiammabile, in grado di bruciare persino nell’acqua.

  Ne sparò tre una dietro l’altra, rischiando fra le altre cose il surriscaldamento del fucile, che aveva bisogno di qualche secondo prima di essere in grado di sparare nuovamente, ma riuscire ad averla vinta su quella specie di superman era un traguardo che per nulla al mondo avrebbe voluto mancare.

  Essendo granate di un certo peso Revy le lanciò verso l’alto, studiando con precisione a dir poco estrema la parabola che avrebbero dovuto percorrere per infrangersi sul motoscafo degli inseguitori e ridurlo ad una torcia nella notte chiara del Golfo di Thailandia.

  Steven, con le sue abilità di pilota, fu in grado di evitarne due, che presero fuoco appena toccata l’acqua del mare, ma la terza minacciò di colpirli.

  «Kyuzo, il tuo aiuto ci farebbe comodo.»

  «Ok».

  Il ragazzo alzò il violentemente braccio destro, e immediatamente una colonna d’acqua si sollevò dalla superficie, inglobando la granata e sparandola verso l’alto, dove esplose senza provocare nulla più che una pioggerella rinfrescante e un fantastico spettacolo pirotecnico.

  «Merda!» gridò Revy «Ma chi cazzo è quello?»

  «Ehi, Kyuzo!» disse in quella Steven «Dicono che la Lagoon sia una barca inaffondabile!»

  «Davvero? Vediamo se è la verità!».

  Nuovamente Kyuzo agitò le braccia, ma stavolta, invece di una colonna, si sprigionò un enorme, gigantesco muro d’acqua, alto almeno sei metri e con un fronte che superava i dieci, mentre tutto attorno il mare continuava incredibilmente a rimanere liscio come una tavola.

  Era davvero troppo, anche per tutto quello che avevano visto fino a quel momento, e Revy rimase così impressionata che la sigaretta le scivolò via dalla bocca.

  «Tsunami!» gridò a pieni polmoni

  «Revy, presto rientra!» le disse Dutch, e lei praticamente si buttò sopra Rock, ancora fermo ai piedi della scaletta «Chiudete quel boccaporto, o finiremo affogati!».

  Rock si affrettò ad obbedire serrando in tutta fretta la paratia, e contemporaneamente Dutck mise la nave a piena potenza nel tentativo di sfuggire a quell’onda anomala che appena generata aveva preso ad viaggiare verso di loro a incredibile velocità.

  Man mano che si avvicinava alla Lagoon, l’onda cominciò a modificare la sua forma, descrivendo un’ampia curva tutto intorno alla barca, come a volerle impedire un qualsiasi tentativo di fuga.

  Prima che Revy e gli altri potessero rendersene conto, la loro barca venne travolta dalla potenza dello tsunami e dopo essere stata sollevata precipitò nuovamente verso il basso, perforando l’acqua con la prua e affondando per parecchi metri.

  Tutti e quattro i compagni si ritrovarono catapultati in avanti, Benny addirittura perse i sensi battendo la testa contro la radio.

  «Dannazione!» disse Revy sorreggendosi ai pioli della scaletta «Se la barca si capovolge siamo morti!»

  «Tranquilla, non succederà!» rispose Dutch pigiando due bottoni.

  Ringraziando il cielo, Bennyboy aveva da poco installato, in memoria anche di altre brutte esperienze avute dalla compagnia, un sistema di propulsori installati sulla chiglia dell’imbarcazione; erano in tutto quattro, due a prua e due a poppa, e ognuno di essi era collegato ad una bombola di aria compressa.

  Il sistema era stato pensato per attutire eventuali salti fuori programma, ma poteva tornare utile anche in quella situazione.

  Ogni valvola di sicurezza era legata ad un bottone del pannello di controllo, e dopo che Dutch ebbe premuto quei due dalle bocchette di prua uscirono potenti getti d’aria che rimisero la Lagoon in orizzontale, permettendole di riaffiorare nella giusta posizione.

  «Accidenti.» disse scherzosamente Steven vedendo la barca riaffiorare nuovamente «Hanno sette vite come i gatti.»

  «I membri della Lagoon non sono certo prede da poco. Sapevamo che avrebbero venduto cara la pelle».

  Due secondi dopo Revy, ormai completamente fuori di sé, sbucò dal boccaporto con in mano un grosso fucile semiautomatico.

  «Va’ all’inferno, maledetto mostro!»

  «Revy, sta attenta!» disse inutilmente Rock, ma ormai era tutto inutile.

  Il copione fu esattamente lo stesso delle volte precedenti. I proiettili rimbalzavano davanti a Kyuzo come se lui avesse avuto davanti una barriera invisibile.

  Questo però non faceva demordere minimamente Two-Hands, che però ormai sparava guidata solo dall’istinto, non più dalla ragione.

  Poi, d’un tratto, il suo fucile ebbe un violento contraccolpo in avanti, come se qualcuno stesse cercando di strapparglielo di mano.

  «Ma che…».

  La scena si ripeté più volte, Revy cercò di opporre resistenza, ma poi l’arma volò letteralmente via dalla sua mano, raggiungendo quella di Kyuzo, ancora in piedi a una ventina di metri da lei dopo che Steven aveva fermato il motoscafo.

  Malgrado quel fucile pesasse più di due chili il giovane lo sollevò con una sola mano senza alcuna fatica, e piegando leggermente la testa sembrò prendere la mira.

  Subito dopo l’aria fu sventrata dal rumore di uno sparo, e Revy di colpo sgranò i suoi grandi occhi scuri socchiudendo leggermente la bocca in un rantolo soffocato, poi il suo volto si fece di pietra.

  Prima ancora che gli cadesse nuovamente sopra, Rock avvertì distintamente caldi schizzi di sangue sulle mani e sulla fronte, e quando si ritrovò seduto per terra con lei fra le braccia anche la sua bella camicetta bianca si tinse del sangue che usciva copioso dal fianco destro della sua compagna.

  «Revy! Revy!» urlò con gli occhi pieni di lacrime.

 

 

Nota dell’Autore. Salve a tutti. Chiedo scusa per questa lunga assenza, ma subito dopo aver pubblicato il primo capitolo sono partito per le vacanze, e appena tornato mi sono dedicato prevalentemente all’altra fic che sto portando avanti. Da ora in poi cercherò di aggiornare con più frequenza, e anticipo fin da ora che questa storia non dovrebbe durare oltre i dieci capitoli.

Ringrazio Beat, Lady Inuyashina e Atlantislux per le loro recensioni, e Andrea83 per aver inserito la fiction fra le preferite.

A presto

Carlos Olivera

 

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Capitolo 3
*** Despair ***


2

2

 

 

Steven e Kyuzo erano ancora fermi sul loro motoscafo, mentre dall’interno della Lagoon giungevano le grida disperate di Rock.

  «Dutch, Benny! Revy è ferita!»

  «Cazzo!» gridò il nero innestando la quinta «Reggetevi!».

  La barca della compagnia ripartì a tutto gas, una ripresa notevole che lasciò stupiti persino i suoi inseguitori.

  «Non facciamoceli scappare! Steven, inseguili!»

  «Non chiedo di meglio!».

  La corsa folle lungo il mare dunque proseguì, e andò avanti ancora per diversi minuti. La Lagoon aveva dalla sua una maggiore velocità, ma non aveva fatto il pieno dopo l’ultima battuta e la spia del carburante continuava pericolosamente ad abbassarsi.

  Dutch e gli altri avevano a bordo alcune taniche per i casi di emergenza, ma quella non era certo la situazione migliore per fare rifornimento.

  «Maledizione! Ancora poco e saremo a secco!».

  Benny in quella riprese conoscenza, e vedendo Rock con Revy, svenuta e ferita, fra le braccia, immediatamente si avvicinò per soccorrerla.

  «Rock, presto! Tamponale la ferita!»

  «Ci sto provando, ma l’emorragia non si arresta!»

  «Dutch, Revy ha bisogno urgente di soccorso!»

  «Lo so, ma non riesco a staccarmeli di dosso!».

  Steven e Kyuzo erano decisi più che mai a porre fine alla questione, e persistevano ad inseguire la Lagoon spingendo il loro motoscafo al massimo, forse anche oltre le sue capacità, perché i due motori a poppa stavano cominciando a fumare e di tanto in tanto al loro interno risuonavano dei botti preoccupanti.

  «Kyuzo, il motore sta al massimo! Rischio di fondere!»

  «Non rallentare. Ormai manca pochissimo. È da stamattina che non fanno il pieno, e secondo i miei calcoli fra meno di cinque miglia esauriranno il carburante.»

  «Ho capito. Speriamo solo che questa bagnarola tenga».

  Infatti, come previsto, dopo poco più di quattro miglia fu il motore della Lagoon a borbottare, veri e propri rantoli di agonia.

  «Merda! Siamo quasi a secco!»

  «Ormai non ci sfuggono!».

  Kyuzo fece per destreggiarsi nuovamente con una delle sue performance, quando d’improvviso i suoi lineamenti si contrassero fino allo spasimo, tutto il suo corpo prese a tremare e i muscoli si irrigidirono fin quasi a dare l’impressione che stessero per sventrarlo dall’interno. Il giovane si inginocchiò digrignando i denti e trattenendo a stento le urla di dolore.

  «Kyuzo!» disse Steven cercando di soccorrerlo

  «Non pensare a me!» rispose sparandosi in vena un’altra ampolla di liquido rosso «Raggiungili!»

  «Ma… sei al limite. Il tuo fisico rischia di collassare. È pericoloso esporti ancora.»

  «Loro sono qui, davanti a me! Non gli permetterò di fuggire!».

  Steven esitò a lungo, incerto sul da farsi, ma alla fine abbassò la leva della velocità fino a far fermare il motoscafo.

  «Che… che stai facendo?» gridò il suo compagno col volto devastato dal dolore e dalla rabbia «Ti ho detto di inseguirli!».

  Di tutta risposta Steven gli sparò contro una siringa verde che nel giro di due secondi fece crollare Kyuzo in uno stato di incoscienza.

  «Scusa, amico mio.» disse girando nuovamente la prua verso Roanapur «Ma non posso permetterti di rischiare la vita».

  Vedendo la barca degli inseguitori prima fermarsi e poi allontanarsi, Dutch tirò un sospiro di sollievo.

  «Sembra che stiano rinunciando. Se ne vanno!».

  Quando fu certo della scomparsa di ogni pericolo corse subito a sincerarsi delle condizioni della sua partner.

  «Rock, continua a premere sulla ferita. Bennyboy, riempi i serbatoi.»

  «D’accordo!».

  Grazie a dio il proiettile non aveva colpito organi vitali, e dopo aver effettuato una sutura di emergenza per fermare l’emorragia il sangue cominciò lentamente a diminuire.

  «Così dovrebbe resistere almeno per qualche ora. Tu continua a tamponare.»

  «Dutch, dobbiamo portarla subito da un medico.»

  «Ho un amico a Bangkok.» disse lui rimettendosi ai comandi dopo il ritorno di Benny «È un vero professionista per questo genere di cose. La rimetterà a nuovo in men che non si dica».

  Libera finalmente dal peso degli inseguitori, la barca della compagnia riprese la propria rotta verso nord scomparendo inghiottita dalla notte.

 

Era dolore quello che sentiva do provare.

  Un dolore immenso, così forte da fargli pensare che stesse per morire, e forse era anche vero.

  Tutto era buio, tutto era scuro, un infinito oceano di tenebre.

  Poi, gradualmente, un’immagine cominciò a materializzarsi dinnanzi a lui, ma non appena poté distinguerla con chiarezza pensò che sarebbe stato molto meglio rimanere prigioniero nel nulla.

  A giudicare dalla visuale che aveva poteva rendersi conto di essere disteso sul pavimento di una sala grande e lussuosa, un tempo forse adornata a festa, ma ora teatro del più spaventoso degli incubi.

  I candide tovaglie bianche erano ora intrise di sangue, molti dei tavoli sui quali erano appoggiate erano ribaltati, e le pietanze rovesciate.

  Ovunque, sulle pareti, sul soffitto, vi erano decine e decine di buchi, tutto odorava di sangue e di morte.

  E poi uomini, donne, bambini, vecchi, a terra senza vita, ognuno immerso nel proprio lago di sangue, che inzuppava anche i loro sfarzosi vestiti.

  Piatti, bicchieri, ogni cosa potesse essere rotta era in frantumi.

  Dall’alto del soffitto a volta, un grande e maestoso lampadario in cristallo gettava una cascata di luce su di una scena talmente sconvolgente che chiunque, nel vederla, non sarebbe stato capace di rimanerne indifferente.

  Nessuno era stato risparmiato, nessuno era riuscito a scampare alla morte.

  Nessuno… tranne lui.

  Il dolore che avvertiva al fianco destro lo devastava, unito a ciò che era costretto a vedere, oltre ogni limite, e quando dinnanzi agli occhi gli si palesò la sua mano intrisa di sangue un terrore ancor più profondo si impadronì di lui.

  Rimessosi in piedi, cominciò a correre più veloce che gli era possibile, barcollando e cercando di scansare quei poveri corpi, e non appena guadagnò l’uscita spalancò violentemente le porte, ritrovandosi di colpo in un lungo corridoio con decine di porte con pareti che sembravano d’oro e un bellissimo tappeto persiano a coprire la moquette verde smeraldo.

  Di nuovo corse, sempre più veloce, mentre al dolore si aggiungeva una sensazione di angoscia che gli toglieva il fiato.

  Giunto davanti ad una di quelle porte violentemente la spalancò, ma oltre essa vi era il buio più assoluto; la poca luce che giungeva dalle sue spalle illuminava debolmente una sedia a rotelle girata di schiena ed un tavolino.

  Lui si avvicinò, le girò intorno, ed il terrore di un momento prima divenne cento volte più forte vedendo che anch’essa, come la sala che aveva lasciato, era rossa di sangue fresco, che ancora colava dai braccioli e lungo le ruote.

  Una pistola d’argento con l’impugnatura d’avorio giaceva inerme sul tavolino lì accanto insieme ad una valigetta aperta e svuotata del suo contenuto.

  Il dolore e l’angoscia esplosero drammaticamente in un urlo agghiacciante in cui risiedevano le più terribili emozioni: paura, dolore, rabbia, odio, vendetta.

  Le stesse sensazioni le provò Kyuzo quando sollevò gridando la testa dal cuscino, fradicio di sudore insieme alle coperte che aveva addosso fino a un attimo prima.

  Istintivamente si mise una mano sugli occhi, quasi a voler scacciare quelle immagini orribili, ricordo di quel giorno maledetto che aveva distrutto per sempre la sua vita, cambiandola in modo irreparabile.

  Dopo essersi calmato prese a guardarsi attorno, per cercare di capire bene cosa fosse successo.

  L’ambiente era quello di una stanza d’albergo, una stanza piuttosto umile, con un mobilio ridotto al minimo e una finestra da cui entravano raggi di sole abbastanza luminosi da lasciare intendere che ormai fosse già giorno inoltrato.

  Stava cercando di focalizzare bene nella sua testa gli eventi della sera prima quando entrò il suo amico Steven, con in mano un sacchetto di plastica contenente, all’apparenza, il necessario per un pasto frugale.

  «Ah, sei sveglio.» gli disse chiudendo la porta

  «Dove… dove siamo?» domandò Kyuzo massaggiandosi la testa

  «A Roanapur, in una locanda del porto. Per come eri ridotto, è il rifugio più vicino che ho trovato.»

  «Che… che mi è successo? La testa… mi scoppia…»

  «Hai avuto un’altra crisi, dovuta con ogni probabilità allo sforzo eccessivo di ieri sera. Ci sono volute due iniezioni in rapida successione per farla passare».

  Steven vide il suo amico mettere una mano sulla cicatrice che aveva al fianco destro trattenendo a stento il pianto.

  «Mi dispiace. Neanch’io avrei voluto che finisse in quel modo, ma se fossi andato avanti solo un secondo di più saresti sicuramente morto.»

  «Dannazione!» gridò gettando a terra il comodino accanto al letto «Mancava così poco! Maledetto sia questo mio corpo!».

  La sua rabbia era tale che, forse senza volerlo, provocò una piccola onda d’urto che fece sbattere la porta e mandò in frantumi i vetri della finestra.

  «Calmati, adesso! Non è ancora finita, e tu lo sai. Quella di ieri sera era solo una prova, ho ragione o no?».

  Servirono parecchi minuti, ma alla fine Kyuzo si calmò, ed alzatosi dal letto prese a rivestirsi.

  «Hai ragione. Trovarmeli davanti mi ha fatto dimenticare che non ero andato là per ucciderli.»

  «Se può consolarti, anche io ero piuttosto euforico. Ti confesso che se tu non avessi collassato probabilmente avrei continuato ad inseguirli.»

  «Mi fa piacere che tu dica così, almeno so di non essere il solo a fremere di rabbia ogni volta che li vede.»

  «La sai una cosa?» riprese Steven con un sorriso compiaciuto «C’è anche una sorpresa per te. Mentre eri fuori gioco ha chiamato Samejima. Sarà qui a Roanapur entro oggi.»

  «Noboru viene qui?!».

  In quella qualcuno bussò alla porta, e i due ragazzi si misero subito sul chi vive; Steven mise la mano sul calcio della pistola che aveva alla cintura, Kyuzo invece si concentrò al massimo per essere pronto a sfoggiare le proprie capacità qualora ce ne fosse stato bisogno.

  «Tranquilli, sono io.» disse da dietro l’uscio una voce forte e gioviale, che ebbe l’effetto di allentare la tensione di entrambi

  «Entra pure, è aperto.» disse Kyuzo.

  Nuovamente la porta si aprì, e comparve un rispettabile signore di mezza età alto e piuttosto magro, con occhi e capelli neri, questi ultimi però leggermente grigi e un po’ sfoltiti in cima alla testa.

  Appena entrato girò si guardò indietro come ad accertarsi che non vi fosse nessuno, quindi richiuse la porta.

  «Parli del diavolo.» commentò Steven.

  Il nuovo arrivato strinse la mano al biondino, quindi si avvicinò a Kyuzo e gli rivolse un leggero abbraccio.

  «È un piacere rivederti, Kaito

  «Anche per me. Se ti accontenti, c’è un po’ di caffè.»

  «Volentieri. Questo viaggio mi ha sfiancato».

  Si sedettero attorno al tavolino al centro, e Steven versò del caffè istantaneo in bicchieri di plastica che servì ai suoi compagni, tenendo il terzo per sé.

  Samejima, che pure era abituato a tutt’altri comfort, lo bevette con soddisfazione e gusto.

  «Non è il caffè che si beveva a Napoli, ma è il meglio che si trova in questo cesso di Paese.» disse Steven sorseggiandolo

  «Figurati, non c’è problema. Dopo tutte quelle ore di macchina mi andrebbe bene anche un secchio d’acqua sporca.»

  «Come mai hai lasciato Bangkok?» domandò Kyuzo con una certa freddezza

  «Avevo voglia di rivedervi. Era da due anni che non davate vostre notizie.» Samejima accennò una risata «Di persona, intendo. L’eco di quello che avete fatto si è sparso a macchia d’olio in tutto il mondo, metà delle organizzazioni criminali si accoppano tra di loro accusandosi reciprocamente di essere le menti dietro a tutte queste stragi, l’altra metà se ne rimane nascosta a tremare di paura.»

  «Facciamo del nostro meglio.» rispose Steven tracannando in un sol colpo il suo caffè «Ma ogni volta che vedo lo schifo di questo mondo mi domando se ne valga davvero la pena.»

  «Io invece so per certo che stiamo facendo la cosa giusta.» disse Kyuzo abbassando gli occhi «E ora che siamo così vicini al traguardo non intendo tornare indietro. Noboru, a che punto siamo coi preparativi?»

  «Tutto predisposto come da copione.» rispose Samejima «Possiamo dare inizio alla festa in qualsiasi momento».

  Kyuzo, forse per la necessità di sgranchirsi un po’ le gambe, prese a camminare su e giù per la stanza, e quando raggiunse la finestra vide casualmente due tipacci con la faccia dell’Est Europa salire su di una macchina nera di grossa cilindrata ferma davanti all’albergo.

  Appena li vide allontanarsi i suoi occhi si accesero come fari nella notte, tornando a brillare come la sera prima.

  «In tal caso.» disse prendendo la via dell’ingresso «Vado subito a recapitare il primo invito.»

  «Kyuzo!» gli disse Steven prima che uscisse «Controllati. Bisogna che sopravviva.»

  «Tranquillo, avrò le mani di velluto. Chi deve preoccuparsi sono i suoi uomini, visto che per me non hanno alcun valore.»

  «Sai, Steven?» commentò Samejima appena i due furono soli «Ho come la sensazione che entro domani la leggendaria imbattibilità dei Vysotniki sarà solo un ricordo.»

  «Io piuttosto mi domando se domani esisteranno ancora. Quando Kyuzo fa così riesce a spaventare persino me, che lo conosco da una vita».

 

Appena uscito dall’albergo, immediatamente Kyuzo si disperse tra la folla, prendendo a camminare, lentamente, con andatura incerta, quasi fosse un morto vivente, verso il suo obiettivo.

  Non si curava che qualcuno lo vedesse, non aveva paura di essere riconosciuto, per due ragioni: nessuno in quella città, e forse nel mondo intero, era in grado di fargli un graffio, e in secondo luogo gli abitanti di Roanapur erano così abituati a farsi i fatti propri che forse quasi nessuno sapeva del gran putiferio accaduto la sera prima allo Yellow Flag, ad eccezione naturalmente di chi doveva saperlo.

  Chi lo incrociava, però, gli cedeva ugualmente la strada, perché la sua figura, rinchiusa in quel giubbotto così insolitamente fuori luogo in una città di porto affogata nel caldo come quella, emanava un’aura terribilmente minacciosa.

  Allo stesso tempo, però, sembrava anche che quella folla lo nascondesse, oscurando la sua vista a coloro che avevano ragione di temerlo.

  Dal giorno in cui aveva deciso di diventare quello che era, ben consapevole delle conseguenze a cui andava incontro, aveva giurato di dedicare quanto restava di quella vita che lui stesso si era accorciato a perseguire il suo unico scopo: la vendetta.

  La vendetta era la sua ragione di vita, la sua compagna inseparabile, il primo pensiero del giorno e l’ultimo della sera.

  Qualcuno avrebbe obiettato che i suoi metodi non erano molto diversi da quelli di coloro che voleva castigare, che la cosa più saggia sarebbe stata lasciar fare alla giustizia, ma lui aveva capito a proprie spese che giustizia era solo una parola, una parola che nessuno aveva interesse a trasformare in fatti concreti, nessuno che avesse avuto i mezzi per farlo.

  Mafiosi, trafficanti d’armi, protettori, signori della droga.

  Tutto quel mare di sterco che dall’alba dei tempi aveva sempre insozzato il mondo esisteva, e avrebbe continuato ad esistere per sempre, perché i primi a volerlo difendere erano quelli che, in linea teorica, avevano i mezzi per contrastarlo.

  Kyuzo sapeva di non poter cambiare questa regola, sapeva che dopo la sua morte le cose sarebbero rimaste esattamente le stesse, ma non sarebbe sceso all’inferno senza portare con sé i responsabili del suo dolore, i bastardi che avevano distrutto la sua famiglia proprio nel momento in cui questa sembrava ad un passo dal raggiungere la completa felicità.

  Con questi pensieri ad agitarsi nella sua mente giunse infine davanti al palazzo di Hotel Moskow, la peggiore organizzazione mafiosa dell’ex URSS che lì in Thailandia, come da molte altre parti, dettava legge per quanto riguardava ogni sorta di affare illecito.

  Due uomini facevano la guardia all’unico portone di ingresso, e appena Kyuzo si avvicinò subito gli si pararono davanti.

  «Questa è proprietà privata.» disse uno con un forte accento russo «Gira al largo.»

  «Vogliate perdonare la mia venuta inopportuna.» disse con voce strana, quasi sibilando «Stavo cercando Miss Balalaika».

  Le due guardie erano entrambi veterani di Hotel Moscow, e appena videro gli occhi del ragazzo capirono immediatamente che era qualcuno con cui non bisognava scherzare, perché erano vuoti e privi di emozioni, al pari della sua voce.

  «Non abbiamo idea di cosa tu stia parlando.» disse l’altro «Ora vattene.»

  «Di nuovo chiedo scusa, ma non posso proprio andare via».

  Spazientiti e irritati entrambi fecero per sfoderare le armi, ma Kyuzo non diede loro il tempo di farlo, e afferrate le loro teste le fece scontrare violentemente fra di loro, riducendone i crani a una coppia di budini tremolanti.

  Nello stesso momento, al sicuro nel suo ufficio, Balalaika stava discutendo con il sergente Boris, il suo fidatissimo braccio destro fin dai tempi della guerra in Afghanistan, quando Hotel Moscow non esisteva ancora.

  L’argomento della discussione erano, naturalmente, i fatti accaduti allo Yellow Flag, visto e considerato che quel giochetto aveva fatto finire al creature tre russi; pesci piccoli d’accordo, ma pur sempre pesci suoi.

  Entrambi gli interlocutori erano facilmente riconoscibili dai segni che portavano addosso.

  Balalaika, coma al solito, aveva in bocca uno dei suoi sigari, ma non appena il sergente le comunicò la parte più inverosimile della vicenda il fumo le rimase bloccato in bocca.

  «Come hai detto!?» disse la donna col suo accento russo «Fermava le pallottole!?»

  «Così ha detto il padrone del locale. Sembra che ce l’avesse in particolare con quelli della Lagoon, e che dopo aver sterminato gli occupanti del locale si sia concentrato su di loro.»

  «Fermava le pallottole…» ripeté Balalaika a sguardo basso, con una voce che lasciò senza parole lo stesso Boris «Continua, compagno Sergente.»

  «Sì, ecco… sembra che non fosse solo. Con lui c’era un altro ragazzo, forse un americano, ma su di lui non siamo ancora riusciti a reperire informazioni utili.»

  «Di loro non si sa nulla? I nomi, o dove si trovino in questo momento?»

  «I nostri uomini stanno setacciando la città alla loro ricerca. Altrettanto stanno facendo le triadi e il cartello colombiano, visto che anche loro hanno perso molti uomini, ma fino ad ora non è stato ancora possibile localizzarli».

  Balalaika aspirò nuovamente una boccata di fumo disperdendola subito dopo nella stanza; sulla sua scrivania, nascoste agli occhi di Boris, c’erano dei ritagli di giornale in varie lingue che avevano in comune il parlare di spaventose stragi di gruppi criminosi accaduti in ogni parte del mondo.

  Era preoccupata, molto preoccupata.

  «Prima il clan dei Cabuto a Napoli, poi le Triadi di Shu-Kan di Hong-Kong, poi ancora la famiglia Ryugi a Tokyo. Dimmi, compagno Sergente. Cosa ricordi tu della Seaborn Star?».

  Quel nome fu sufficiente a far sobbalzare anche Boris, che persa la sua naturale compostezza si lasciò a sua volta prendere dal panico.

  «Capitano, sta per caso dicendo che…»

  «Compagno sergente, se in questa faccenda è coinvolto chi penso io potremmo già cominciare a scavarci la fossa, perché tanto siamo morti».

  Nello stesso momento dal piano inferiore giunse un rumore simile ad un’esplosione, accompagnato subito dopo da raffiche di armi automatiche, grida strazianti e imprecazioni in russo.

  Pochi secondi dopo un uomo entrò tutto trafelato nella stanza.

  «Capo, c’è un intruso nell’edificio!»

  «Che aspettate, fermatelo!» tuonò Boris

  «Ci stiamo provando, ma non ci riusciamo! Le pallottole gli rimbalzano addosso!»

  «Che cosa!?»

  «È lui.» disse Balalaika senza scomporsi «È arrivato per castigarci».

 

L’atrio della sede di Hotel Moskow si era trasformato in un campo di battaglia, tutti gli uomini a disposizione in quel momento erano ammassati in ogni angolo, e anche sulla terrazza panoramica, ma i loro sforzi per avere ragione di quel ragazzo demoniaco erano del tutto vani.

  Dopo aver disintegrato il portone, costui aveva cominciato a camminare lentamente verso il centro della stanza, incurante delle decine di armi che gli erano state puntate contro.

  Che motivo aveva di preoccuparsene?

  Per quanto gli sparassero, i proiettili o si fermavano davanti a lui o rimbalzavano in tutt’altra direzione, andando magari a colpire qualcun altro.

  Mentre raffiche di colpi continuavano a piovergli addosso da ogni dove, Kyuzo raggiunse camminando il centro esatto della sala, chiuse gli occhi e lanciò un grido; dal suo corpo si generò una spaventosa onda d’urto che investì ogni cosa, sollevando gran parte del mobilio e facendo schizzare le pallottole inermi a terra in tutte le direzioni.

  Alcune di queste colpirono gli uomini di Balalaika, altre si conficcarono sulle pareti e sul soffitto.

  Approfittando della distrazione dei suoi aggressori il ragazzo allungò un braccio verso l’alto, e immediatamente un’intera porzione della balconata di sinistra crollò come un castello di carte, facendo precipitare i due uomini che vi erano sopra, i quali vennero successivamente travolti dalle macerie piovute dal soffitto.

  Stessa sorte per quelli dal lato opposto, e non appena i superstiti fecero per riprendere a sparare Kyuzo distese nuovamente entrambe le braccia, facendo volare verso di sé le pistole di due nemici già morti che usò per rispondere al fuoco e stroncare così gli ultimi superstiti.

  Pochi minuti dopo anche la porta dell’ufficio di Balalaika fu scardinata da un potente spostamento d’aria che spedì un’anta contro la parete e l’altra giù dalla finestra.

  «Scusate, è permesso?».

  Boris, che metteva la sicurezza del suo capitano sopra ogni altra cosa, incurante della propria incolumità fece per sfoderare la pistola, ma non appena ci provò Kyuzo distese il braccio verso di lui. Il sergente sentì come una mano invisibile serrargli la gola, fece di tutto per cercare di resistere ma fu sollevato in aria molto lentamente, mentre la stretta diveniva sempre più forte, togliendogli qualsiasi possibilità di respirare.

  Fiumi di saliva presero ad uscirgli dalla bocca, gli occhi cominciarono a colorarsi di rosso e sotto di lui cominciò a formarsi una pozza di orina emessa involontariamente dagli spasimi di agonia.

  Balalaika, incredibilmente, assisteva senza battere ciglio; dopo venti e più secondi Kyuzo allungò anche l’altra mano, e Boris vide il proprio braccio sinistro girarsi completamente, slogato su tutte e tre le articolazioni principali. Era un soldato, addestrato a provare e sopportare il dolore, ma non riuscì a fare a meno di urlare come un bambino che si fosse ferito cadendo dalla bicicletta; Kyuzo allentò di proposito la presa attorno al suo collo, in modo da potergli permettere di gridare, e quando si sentì appagato, con un movimento repentino della stessa mano, lo spedì contro uno dei divani apparentemente svenuto.

  A quel punto si avvicinò alla scrivania, mentre la leader di Hotel Moscow continuava imperterrita a fumare il suo sigaro come se niente fosse accaduto.

  Si guardarono negli occhi, lui con rabbia incontrollabile lei con incredibile indifferenza.

  «Finalmente ci incontriamo, Balalaika.»

  «Cominciavo a domandarmi quando saresti arrivato.»

  «Mi stavi aspettando?».

  Il modo in cui entrambi parlavano rivelava palesemente l’odio che provavano l’uno verso l’altra, malgrado quella parvenza di cortesia.

  «Quando ho saputo quello che era successo agli altri Discepoli, ho immaginato che ci fossi tu dietro a tutta questa storia.»

  «Te l’avevo promesso, ricordi? Avevo promesso che sarei andato anche sulle stelle pur di farti pagare quello che hai fatto a me e alla mia famiglia».

  Un secondo dopo Kyuzo avvertì il rumore di una sicura alle sue spalle, unito a dei malcelati gemiti di dolore.

  Boris era in piedi, nonostante il dolore atroce e braccio disarticolato, e lo teneva sotto tiro con la pistola; era pronto a sparargli in qualsiasi momento, ma Kyuzo non si scompose, e neppure lo fece Balalaika.

  «Fossi in te, non lo farei.» disse il ragazzo con tranquillità «Se solo provassi a premere il grilletto, quella pistola salterebbe in aria assieme a metà del tuo braccio».

  Il sergente aveva visto a sue spese ciò di cui quel mostro era capace, e nonostante la voglia di piantargli una palla in testa fosse irresistibile sapeva che la sua non era una minaccia a vuoto.

  Incredibilmente fu il suo capo a spronarlo perché obbedisse.

  «Compagno sergente?»

  «S… sì, capitano?» disse lui stringendo i denti

  «Io lo ascolterei. Con questo tipo le armi convenzionali sono del tutto inutili».

  Boris però non sembrava intenzionato ad abbandonare la sua posizione, e allora Kyuzo non ebbe altra scelta; senza voltarsi, senza neppure muoversi, mandò in frantumi le ossa della sua unica mano superstite, quella che impugnava la pistola, quindi, giratosi, assestò al sergente un colpo a mano aperta in pieno stomaco che questa volta gli fece perdere i sensi per davvero dopo averlo fatto precipitare contro il tavolino al centro della stanza.

  La sua arma, abbandonata a terra, si sollevò lentamente, raggiungendo la mano di Kyuzo, che la puntò velocemente contro Balalaika. Lei, di nuovo, lo guardo solamente.

  «Intendi uccidermi?»

  «Ne avrei certamente voglia.» rispose il ragazzo gettandosi alle spalle la maschera della cordialità

  «Farmi saltare la testa non riporterà in vita la tua famiglia».

  Kyuzo sgranò gli occhi, i muscoli del suo viso si contrassero in modo spaventoso; Balalaika doveva aver toccato un tasto delicato, e lui rispose sollevando il cane della pistola.

  «Lurida troia sovietica! Non meriti nemmeno di essere considerata un essere umano!»

  «Io non c’ero su quella nave. Non c’entro niente con quello che è successo.»

  «Hai un bel coraggio a dirlo! Chi era la mente dietro all’attacco? Se tutte quelle persone sono morte la colpa è soprattutto tua e degli altri bastardi che ho spedito a bruciare nelle fiamme dell’inferno!»

  «E allora che aspetti a spedirci anche me?».

  Seguì un nuovo silenzio, mentre la tensione saliva alle stelle. Kyuzo sembrava davvero sul punto di premere il grilletto e farle saltare la testa, e Balalaika non pareva avere la minima intenzione di impedirglielo.

  Poi, incredibilmente, il ragazzo reinserì la sicura e gettò l’arma a terra.

  «Tu morirai, te lo posso assicurare. Ma non adesso. Non oggi».

  A quel punto mise una mano nella tasca del giubbotto e ne prese fuori un piccolo cartoncino, decorato e pitturato come un biglietto di auguri, che appoggiò sulla scrivania a faccia in giù.

  «Questo è un piccolo regalo. L’ultimo della tua vita».

  L’arrivo improvviso di decine di altri mafiosi fece finire anzitempo l’incontro, e Kyuzo, sempre schivando e respingendo i proiettili che gli venivano sparati contro, corse verso la finestra.

  «A presto, puttana!» gridò saltando di sotto e scomparendo nei vicoli della città.

  Balalaika rimase sola coi suoi uomini, alcuni dei quali presero il sergente per portarlo di corsa al più vicino (e accondiscendente) ospedale della città.

  Attese che tutti se ne fossero andati prima di girare il cartoncino, sul quale erano scritte solamente due parole.

 

DEATH GAME

 

Nota dell’Autore.

Eccomi di nuovo; come promesso, ho fatto più in fretta che ho potuto a scrivere questo nuovo capitolo, anche se sono costretto a precisare che con l’approssimarsi dell’inizio del nuovo anno universitario potrei trovarmi nuovamente nella condizione di dover aggiornare con minor frequenza, ma come sempre cercherò di fare il possibile, constatando anche il successo che questa storia, iniziata quasi per gioco, ha avuto.

Grazie a Inuyashina, Beat, Selly e Gufo_Tave per le loro recensioni (ringrazio quest’ultimo anche per avermi fatto notare l’errore dell’RPG^_^), e grazie anche a Diaras per aver inserito la fiction fra le preferite.

Infine, due precisazioni.

·          Il personaggio di Balalaika, come si può intravedere già in questo capitolo (ma vi assicuro che è solo l’inizio), sarà fortemente demonizzato, per quanto possa essere possibile demonizzare ulteriormente un personaggio simile, risultando forse leggermente OOC.

·          Questa storia segue la linea temporale del manga, e partendo da uno dei tanti, possibili finali chiacchierati su internet (con la Lagoon che rimane in attività e Rock che continua a lavorarci) propone una possibile conclusione dell’intera saga, coinvolgendo quasi tutti i personaggi comparsi fino ad ora.

A presto.

Carlos Olivera

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Capitolo 4
*** Guilty! ***


3

3

 

 

Il fronte della baia di Tokyo si stagliava in tutto il suo splendore; i palazzi, accarezzati dalla luce del tramonto, sembravano tanti fili d’erba in un incantevole prati chiamato Giappone.

  Pur se sporca, sovraffollata, e in piena crisi economica, quella città riusciva, nonostante tutto, a regalare a chiunque la osservasse uno spettacolo senza pari, che solo chi viveva con l’animo libero da ombre poteva assaporare pienamente.

  Quel panorama mozzafiato passava davanti ai suoi occhi come un immenso dipinto a olio mentre lui, affacciato dal ponte superiore, si lasciava accarezzare dal tiepido venticello primaverile.

  Non era solo; a tenergli compagnia in quella che si preannunciava essere una serata epocale c’era un giovane, un ragazzo di forse diciotto anni, che restava immobile accanto a lui con gli occhi piantati sull’orizzonte e le mani infilate nelle tasche dei pregiati calzoni di velluto nero, facenti parte dell’elegante abito da cerimonia che indossava con fierezza.

  Malgrado fossero l’uno vicino all’altro non era in grado di vederlo in faccia; il suo volto era come nascosto da una maschera di oscurità che lasciava intravedere solo la bocca e parte della sua folta capigliatura.

  «Hai pensato al dopo?» gli domandò ad un certo punto lo sconosciuto

  «Il dopo?»

  «A quando sarà finito il tuo periodo di tirocinio. Intendi forse fare domanda di assunzione?».

  Lui tornò a guardare il mare, mentre uno strano sorriso, che celava in sé gioia ma anche dispiacere, gli si stampava sul viso.

  «Ci ho pensato a lungo. Non credo di essere ancora pronto per lavorare nella vostra società.»

  «Perché dici così? Sei un impiegato onesto, altamente qualificato, e tutti hanno una grande stima di te.»

  «Non è questione di competenze, amico mio. È che ancora non mi sento degno di far parte di questa grande famiglia.»

  «Non ti senti degno?»

  «Voi siete diversi. Non vi fate inquinare da niente e pensate al bene degli altri, prima che al vostro. Anche se cercassimo in tutto il mondo, non ne troveremmo molte di aziende che si comportano allo stesso modo. Per questo sento di non essere ancora pronto ad entrarvi».

  Il ragazzo fece una pausa, guardandolo con stupore, poi anche lui sorrise.

  «Quand’è così, non sarò io a farti cambiare idea. A mio padre dispiacerà, eri uno dei suoi prediletti.»

  «Dispiace molto anche a me. Ma se un giorno dovessi riuscire a diventare degno di voi, mi accogliereste ancora?»

  «Senza ombra di dubbio. Le nostre porte sono sempre aperte per le persone come te. Ma tu mi raccomando, non cambiare mai.»

  «Onii-chan.» disse d’un tratto una voce gentile alle loro spalle.

  Entrambi si voltarono, incrociando i dolci occhi azzurri di una bambina sugli otto anni in sedia a rotelle che li guardava sorridendo. Vestiva anche lei con un abito piuttosto sfarzoso, e quei capelli marroni mettevano ancor più in risalto la delicatezza dei suoi tratti.

  «Harue. Cosa ci fai qui?»

  «In cabina mi annoiavo, così ho pensato di venirti a cercare.»

  «Scusa se ti abbiamo lasciata sola.» le disse avvicinandosi e inginocchiandosi davanti a lei

  «Non fa niente. Se volete, posso farvi un po’ di compagnia.»

  «D’accordo, ma solo per dieci minuti. Lo sai che non puoi stare troppo tempo all’aperto.»

  «Va’ bene».

 

Quei due ragazzi, i loro sorrisi gentili e le loro voci affettuose, furono l’ultima cosa che Rock riuscì a focalizzare nella mente prima che i lamenti della sua partner lo riportassero alla realtà.

  «Dottore, come sta?» domandò al medico che la stava visitando

  «Ha perso molto sangue. Il sonno è la conseguenza della mancanza di ferro all’interno del suo organismo, ma entro domani dovrebbe essere completamente ristabilita.»

  «Ah, molto bene.»

  «Fate solo attenzione che non si sforzi troppo.» disse il dottore applicando un nuovo cerotto sulla ferita al fianco «Ho dovuto mettere un paio di punti, e se si agitasse finirebbero per strapparsi.»

  «D’accordo».

  Rock coprì nuovamente la sua compagna e seguì con lo sguardo il dottore fino a che non fu uscito dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle, quindi si sedette nuovamente accanto al letto.

  Benny e Dutch aspettavano la fine della visita giornaliera nel salottino di quel piccolo appartamento alla periferia di Bangkok che un amico di Dutch aveva messo a loro disposizione.

  «Fan, ti ringrazio per il tuo aiuto.» disse il gigante nero mettendo in mano al medico un bigliettone da cento dollari

  «Non c’è di che. Se devo essere sincero sono sorpreso che sia sopravvissuta fino al vostro arrivo. Revy è davvero una ragazza d’acciaio.»

  «La conosci, dovesse venire la fine del mondo quella non creperebbe di sicuro.»

  «Già, per l’appunto. Beh, io vado. Domani verrò a fare un ultimo controllo.»

  «D’accordo. Grazie».

  Per molti minuti Rock rimase immobile ad osservare il volto addormentato di Revy.

  Già altre volte l’aveva vista così, e ogni volta non riusciva a fare a meno di pensare che quando dormiva riusciva ad essere bellissima, perché metteva in mostra quella parte di sé che da sveglia reprimeva inconsciamente.

  Forse, si era detto in più occasioni, la Revy che emergeva durante il sonno era la Revy che lei stessa avrebbe voluto essere, e Rock pensava che non sarebbe stato male se lei non si fosse vergognata di questo lato del suo carattere.

  Probabilmente era anche per questo che desiderava tanto lasciare Roanapur e i suoi compagni: perché non poteva sopportare l’idea di non essere riuscito a far cambiare Revy abbastanza da spingerla ad accettare tutto di stessa, compreso il suo lato più femminile, e perché non ce la faceva più a vederla così.

  Con questi pensieri in testa si alzò ed uscì dalla stanza.

  Benny stava lavorando al suo portatile, Dutch era seduto davanti alla televisione con una birra in mano; ne prese una anche lui dal tavolino, la aprì e ne sorseggiò una goccia.

  «Non ti angustiare, Rock.» gli disse il suo capo «Vedrai, tornerà a spaccare il mondo prima di quanto immagini

  «Sì… lo so…».

  La tv in quel momento trasmetteva un telegiornale locale.

  «Per quanto riguarda le notizie provenienti dall’estero» disse la conduttrice «Gli inquirenti che indagano sullo sterminio della famiglia Ryuji a Tokyo non sono ancora stati in grado di risalire all’identità dei presunti colpevoli. Con la scomparsa di questo potentissimo clan Yakuza salgono a quattro i noti gruppi criminali distrutti nel corso dell’ultimo anno.

  Molte persone già parlano di un ignoto gruppo di giustizieri all’origine di tutte queste stragi, e c’è chi sostiene che questi presunti paladini dal bene faranno nuovamente la loro comparsa entro breve».

  Sentendo quella notizia, tutti e tre gli uomini strinsero per un momento i pugni e sentirono il sudore rigargli la fronte.

  «Pensate quello che sto pensando io?» disse Benny

  «Puoi dirlo forte.» rispose Dutch «Mi chiedo solo se quel ragazzo ha la benché minima idea del casino che sta provocando. Queste cose lasciano un marchio indelebile, e ho il sentore che la faccenda è destinata a complicarsi ulteriormente.»

  «Mi hai letto nel pensiero.»

  «Passiamo ad un’altra notizia. Con un anticipo di due mesi sui tempi inizialmente previsti, il lussuosissimo Hotel Universe verrà inaugurato all’inizio della prossima settimana.

  La struttura, che sorge nella zona sud-occidentale di Bangkok, è stata voluta e finanziata dalle giapponesi industrie Kinomiya, uno dei maggiori colossi industriali del mondo ben noto a tutti per la massiccia campagna umanitaria di cui si è reso protagonista in questi anni. L’albergo si propone di valorizzare una zona della nostra città attualmente al di fuori dei flussi turistici, offrendo ai suoi ospiti intrattenimenti e comfort di grande lusso a prezzi tutto sommato contenuti.

  Il signor Noboru Samejima, capo del consiglio di amministrazione e presidente momentaneo della società, è giunto personalmente in Thailandia per partecipare all’inaugurazione, per la quale è previsto l’arrivo di personalità da ogni parte del mondo.»

  «Ci risiamo.» riprese il nero «Il solito filantropo che si illude di poter cambiare il mondo. Come se questo mondo avesse una possibilità di cambiare.»

  «Non c’è niente di male a voler tentare la strada del cambiamento.» disse Rock con voce che sapeva da severo rimprovero «Dovresti apprezzare quello che tenta di fare, invece che criticarlo.»

  «Ehi Rock, sei sempre più strano ultimamente. Si può sapere che accidenti di prende

  «Sarà ancora scosso per l’esperienza dell’altra notte.» rispose Benny per lui «D’altronde, chi non lo sarebbe? Non capita tutti i giorni di assistere a uno spettacolo simile.»

  «Spero solo di non vederlo mai più.» disse Dutch tracannando la sua birra

  «Non illuderti.» rispose Rock mantenendo la sua espressione cupa «Se vuole trovarci, ci troverà. Ma che cosa gli avete fatto per farlo infuriare in quel modo?»

  «Fatto cosa!?» replicò il gigante andando leggermente su di giri «Io quello non l’avevo mai visto prima!»

  «Ne sei sicuro, Dutch?».

  Tutti e tre, a sentire quella voce, si girarono verso l’ingresso.

  Forse il professore aveva lasciato inavvertitamente la porta socchiusa, fatto sta che dal nulla era spuntata Balalaika, con il suo vestito rosso e la sua giacca dell’esercito dell’ex Unione Sovietica indossata a mo di mantello.

  Con lei c’erano Boris e una faccia nuova, un quattrocchi biondo sporco dall’aria un po’ tonta proveniente forse dalla zona del Caucaso.

  Il sergente non aveva affatto una buona cera; il braccio sinistro era sorretto al collo con una fascia, la mano destra era completamente bendata, e aveva un grosso segno sul collo come se qualcuno avesse cercato di strozzarlo.

  Dutch liberò in tutta fretta il tavolino da lattine e mozziconi e fece accomodare Balalaika sul divano assieme al suo ospite occhialuto, prendendo per sé una sedia del tavolo della cucina; altrettanto fecero Revy e Rock, mentre Boris, come di consuetudine, rimase in piedi.

  «Davvero non ti ricordi di lui, Dutch?» domandò nuovamente la donna

  «Boia d’un mondo, un tipo simile non lo si dimentica tanto facilmente».

  Revy, in quello stesso istante, si risvegliò dalla sua lunghissima dormita.

  «Ma quanto ho dormito?».

  Cercò di mettersi a sedere, ma una fitta tremenda al fianco a momenti la fece gridare.

  «Dannazione, fa davvero un male cane!».

  Cercando di non sforzarsi, per evitare di dover provare ulteriore dolore, si mise addosso qualche straccio ed uscì dalla stanza, proprio mentre il quattrocchi al seguito di Balalaika apriva sul tavolino il computer portatile contenuto nella sua valigetta.

  «Sorellona, che ci fai qui a Bangkok?»

  «Sono venuta per darvi un’idea del problema che è venuto a sbarrarci la strada. E aggiungo» disse guardando Rock «Che si tratta di un problema ben più grande di quelli che chiunque si trovi in questa stanza abbia mai avuto.»

  «Quindi tu sai chi è quel tizio.»

  «È quello che stavo dicendo a Dutch, Revy. Sia tu che lui lo avete già incontrato.»

  «Ancora con questa storia. Ti ripeto che non sapevo nemmeno chi fosse prima dell’altra sera!».

  Balalaika prese un sigaro dal contenitore nel taschino e se lo accese, aspirandone una gran quantità.

  «D’accordo, vorrà dire che dovrò rinfrescarvi la memoria. Ditemi, cosa vi dice niente il termine Seaborn Star?».

  Di nuovo, quelle due parole bastarono a far spalancare la bocca a tutti i membri della Black Lagoon; anche Rock sembrò sorpreso, ma non come i suoi compagni, in lui sembrava infatti esservi sgomento piuttosto che stupore.

  «Vedo che finalmente le vostre cellule grigie si sono messe in moto. La Seaborn Star era la nave da crociera più prestigiosa delle Industrie Kinomiya. Quattro anni fa stava navigando al largo di Tokyo mentre a bordo si teneva un lussuoso ricevimento a cui partecipavano pochi, selezionatissimi eletti.»

  «Sì, ora mi ricordo!» disse Benny «È stato il mio primo lavoro con la compagnia.»

  «Ed è stata anche l’unica volta che ci siamo spinti così lontano dalle tratte più sicure.» disse Dutch

  «Mi dispiace, ma io proprio non riesco a ricordare.» mugugnò Revy massaggiandosi la testa

  «Eravate stati voi di Hotel Moskow a commissionarci quel lavoro. Ci avevate offerto un mucchio di soldi.»

  «Ma di preciso in che cosa consisteva questo fantomatico lavoro?»

  «Ricordo che foste molto scarni nelle spiegazioni.»

  «La discrezione era d’obbligo.» rispose Balalaika spegnendo il sigaro nel posacenere «Con quello che c’era in ballo, non potevamo permetterci mosse avventate.»

  «Dovevamo recuperare una valigetta».

  La donna prese una fotografia dalla cartella che aveva davanti e la passò a Dutch, che la guardò assieme a tutti i suoi compagni.

  «E dentro quella valigetta, c’era questo».

  L’angolazione e la qualità dell’immagine lasciavano intendere che provenisse da una telecamera di sorveglianza; vi era raffigurato un uomo in tuta protettiva con casco e maschera per ossigeno all’interno di quello che sembrava un laboratorio. Teneva in mano due cilindri di vetro con estremità d’acciaio, contenenti una strana poltiglia azzurro brillante al cui interno si intravedevano migliaia e migliaia di granelli iridescenti.

  «Che cosa sono?» domandò Rock

  «Il futuro, mio piccolo Japonski. Una scoperta scientifica capace di sconvolgere per sempre il panorama mondiale.»

  «Che poi tradotto sarebbe?» disse Benny.

  Balalaika chiuse gli occhi e sorrise.

  «Nanorobot».

  Rock, Dutch e Benny saltarono sul posto per lo stupore, ma altrettanto non fece Revy, per la quale quella parola non aveva nessun significato.

  «Nanoche!?»

  «Nanorobot, two-hands

  «Sono robot di proporzioni infinitesimali che fino ad ora non si era mai riusciti a costruire.» disse Benny per rispondere alla sua collega «Secondo una teoria molto in voga negli anni novanta, si diceva che possedessero la capacità di auto-replicarsi come i virus o le cellule del corpo.»

  «Sbagli su una cosa.» lo corresse Balalaika «Non è vero che nessuno sia riuscito a costruirli. Questo traguardo è stato raggiunto quattro anni fa dalle Industrie Kinomiya.»

  «Porca miseria!» esclamò l’americano biondo «Se non lo vedessi coi miei occhi non ci crederei!»

  «Questa ricerca è stata portata avanti fin dalla metà degli anni novanta, e ha visto la collaborazione degli scienziati più brillanti di questa Terra.» proseguì Balalaika «Ma ora credo sia meglio passare il testimone a chi ne sa più di me. Professor Turchinski, a Lei la parola.»

  «Grazie, miss Balalaika.» disse il quattrocchi, che prese quindi a spiegare la situazione «Dunque, per capire bene come e perché siano stati costruiti questi nanorobot, è bene fare una piccola panoramica di colui che ne ha voluto la realizzazione. Takeuchi Kinomiya, ex presidente delle Industrie Kinomiya.»

  «Mi ricordo di lui.» disse Benny vedendo sul monitor del portatile la foto di un uomo di mezza età con barba e baffi «Era sempre in televisione per le sue opere umanitarie.»

  «La sua società è nata praticamente dal nulla. Ha fondato le Industrie Kinomiya partendo quasi da zero, ma ha avuto l’accortezza di fare gli investimenti giusti, e nell’arco di dieci anni la sua società è diventata un colosso dell’informatica, capace di rivaleggiare con giganti come la Microsoft e la Apple. Nel 1983, quando il suo successo è al culmine, sposa Kurumi Hokada, ma la prima gravidanza della donna non va’ a buon fine, e il bambino muore poche ore dopo il parto a seguito di una malformazione congenita.

  Due anni dopo la coppia ha maggior fortuna, e nel 1986 nasce il loro primo figlio, destinato a ereditare le redini dell’azienda. Il suo nome è Kaito».

  Non appena comparve la foto del ragazzo in questione i membri della Lagoon strabuzzarono gli occhi.

  «È lui!» esclamò Revy «Il bastardo coi superpoteri!»

  «Kaito si distingue fin da subito per le sue doti.» proseguì il professore «È un genio dello studio e dello sport, il suo quoziente intellettivo è pari a 180 e riesce a farsi un nome anche come campione di arti marziali.

  Gli anni novanta sono gli anni della svolta per le Industrie Kinomiya. Il progresso delle tecnologie informatiche porta nelle loro casse fiumi di soldi, e con le loro opere umanitarie si guadagnano i favori di grossi strati della popolazione non solo in Giappone, ma in tutto il mondo.

  Sfortunatamente, nel 1996, la loro dose di fortuna cessa all’improvviso. La moglie del presidente rimane nuovamente incinta e a giugno di quell’anno partorisce Harue, ma subito dopo la nascita si scopre che la bambina è affetta da sclerosi multipla.»

  «Sclerosi?» disse Dutch «Accidenti, è stata davvero sfortunata.»

  «Il decorso della malattia è piuttosto rapido, e già a cinque anni Harue è costretta su una sedia a rotelle. I medici le danno una quindicina di anni al massimo.

  Suo padre, nel disperato tentativo di trovare una cura per questa malattia, fin dalla nascita della figlia riunisce attorno a sé gli esperti di medicina e di tecnologia più famosi del mondo, e trasforma interamente la sua società, che oltre ad essere un polo del settore informatico diviene in breve anche un colosso farmaceutico specializzato nell’ingegneria medica.

  Il lavoro dura otto anni, rischiando più volte di mandare sul lastrico la compagnia, ma finalmente, nel 2004, alla fine del tunnel appare una luce, e vengono creati i primi nanorobot.»

  «Allora è per questo che li hanno creati.» disse Benny

  «Queste apparecchiature sono altamente innovative. Sono cellule robotiche che hanno in sé sia parti meccaniche sia tessuto vivente. Si scopre, durante i test, che possiedono la capacità di auto replicarsi. Una volta iniettati nel corpo umano riconoscono sul nascere qualsiasi anomalia, la intercettano e la distruggono. Se poi il corpo rimane danneggiato in un qualunque modo, sono in grado di sostituire il tessuto morto o mancante adattandosi perfettamente al resto dell’organismo».

  Era come se un vento gelido stesse soffiando nella stanza; tutti erano paralizzati per lo stupore, e anche se molti capivano solo metà di quel discorso quella metà era più che sufficiente per far credere di trovarsi sul set di un film di fantascienza piuttosto che nella vita reale.

  «Per farla breve, signori e signori, questi nanorobot sono il vaccino supremo, la cura contro qualsiasi malattia.»

  «Porca vacca miseria!» esclamò Dutch «Ora capisco perché quel lavoro valeva tanto. Possedere un simile ritrovato vuol dire stringere il mondo nelle mani come fosse una mela.»

  «Quale casa farmaceutica vorrebbe rinunciarvi?» disse Rock

  «È proprio per questo che il progetto viene portato avanti nella più assoluta segretezza. Ad eccezione dei membri della famiglia e degli scienziati che vi lavorano nessuno, neppure il consiglio di amministrazione, ha idea di che cosa vi sia realmente dietro a quello che nei registri ufficiali viene chiamato Progetto Rebuild.

  Logicamente una ricerca del genere costa in modo esorbitante, e il costo è tale che neppure le Industrie Kinomiya possono portare avanti l’impresa da sole. Per questo, viene istituita una cordata di soci finanziatori, ma neppure loro sanno con certezza in cosa consista la ricerca.»

  «Ora ricordo.» disse Benny «Anche l’Università della Florida era coinvolta in questo progetto.»

  «La presentazione ufficiale del primo prototipo di  nanorobot funzionanti sarebbe dovuta avvenire a bordo della Seaborn Star. In quell’occasione, tutto il mondo ne sarebbe venuto a conoscenza, e non credo ci sia bisogno di dire che una rivelazione simile avrebbe fatto un effetto uguale e contrario al crollo del ’29.»

  «Un momento!» intervenne Revy «Se la notizia era tanto segreta, come facevate voi a sapere che avevano creato questi nanocosi e che sarebbero stati su quella nave?»

  «Avevamo un informatore nelle Industrie Kinomiya, che ci teneva costantemente aggiornati sull’esito delle ricerche. Quando ci ha detto che la presentazione ufficiale era ormai prossima, abbiamo deciso di muoverci. Sfortunatamente però, quello non era il tipo di ricerca da poter affidare al primo che passa, quindi ci siamo visti costretti a fare un accordo con altre organizzazioni.»

  «Quindi nella faccenda non era coinvolto solo Hotel Moskow.» disse Dutch

  «No, infatti. Tutte le organizzazioni che avevano affari qui a Roanapur sono state contattate. Ognuno avrebbe messo a disposizione una parte delle proprie risorse, e una volta terminata la ricerca si sarebbero divisi equamente i guadagni.»

  «Di che ricerca parlate?» chiese Benny «I nanorobot erano già pronti.»

  «Quelli che sarebbero stati presentati sulla nave» rispose Turchinski «Erano ancora a livello di prototipo. La compagnia si era indebitata fino al collo per portare avanti gli studi, e aveva bisogno di nuovi finanziamenti. Rendendo pubblica la scoperta, i soldi sarebbero arrivati come noccioline.»

  «Se questo fosse accaduto» disse Balalaika «Quei nanorobot sarebbero stati più al sicuro che sulla Luna, e avvicinarli sarebbe stato impossibile. Dovevamo agire d’anticipo, sfruttando l’unica occasione che ci si presentava».

  L’espressione della donna a quel punto si fece seria e rimproverante.

  «Sfortunatamente, né noi né loro siamo riusciti a concludere granché, visto che durante il vostro assalto alla Seaborn Star i campioni sono andati perduti e tutti coloro che sapevano erano stati spediti dritti nel coro delle voci bianche.»

  «Senti, Balalaika!» disse Dutch leggermente contrariato «Mi ricorderò poco di quella storia, ma una cosa te la posso dire con certezza! Noi non abbiamo ucciso nessuno! E per quanto riguarda la valigetta non abbiamo fatto in tempo a cercarla, perché prima ancora di poter ottenere il controllo della nave la guardia costiera giapponese ci era già alle calcagna e ce la siamo dovuta filare!»

  «Davvero?» tuonò Balalaika visibilmente infuriata «Forse questo ti rinfrescherà la memoria!».

  Il professore girò il computer verso quelli della Lagoon, che rimasero immobili ad osservare le immagini davanti ai loro occhi.

  Sul monitor, in rapida successione, scorrevano pagine di giornale e fotografie scattate con ogni probabilità dalla polizia, tutte raffiguranti veri e propri tappeti di cadaveri che riempivano ogni angolo della nave, dalle cabine alla sala ricevimenti, dal ponte di comando alla terrazza panoramica.

  Scene terribili, a cui neppure loro, che pure erano abituati a nuotare nel sangue, riuscivano a restare indifferenti.

  Benny dopo un po’ girò gli occhi, Dutch deglutì e Revy restò con la bocca socchiusa.

  «Ora vi ricordate?» disse Balalaika facendo un cenno a Turchinski, che girò nuovamente lo schermo verso di sé «Le analisi della polizia confermarono che i proiettili usati per uccidere tutte quelle persone erano stati sparati da tre sole armi. Una Smith & Wesson 629 revolver e una coppia di Beretta M92».

  Lo sgomento comparve negli sguardi di Revy e Dutch quando sentirono nominare le loro armi favorite.

  «Parlando delle Beretta, pare che una delle due sia stata trovata nella cabina della famiglia Kinomiya, e…»

  «E…» domandò Benny

  «E vicino alla sedia a rotelle della figlia del presidente, completamente imbrattata di sangue».

  La reazione più sconvolta fu senza dubbio quella di Rock, che digrignando i denti sembrò sul punto di lanciare un urlo di dolore mentre tutto il suo corpo prendeva a tremare.

  «Ehi, non scherziamo!» urlò Revy «Tu mi conosci sorellona, non lascerei indietro una delle mie bambine neppure se fossi inseguita da tutto l’esercito americano! Dutch, Benny, diteglielo anche voi».

  I suoi due compagni, però, avevano un’espressione cupa e pessimista, e anche lei allora iniziò a mostrarsi abbattuta.

  «Ehi ragazzi, cosa…»

  «Veramente, Revy.» disse Dutch con voce da oltretomba «Quando ti ho incontrata quella volta tu…».

 

Quattro anni prima

 

A quanto pare avevano sottovalutato la velocità di intervento delle forze armate giapponesi.

  Non era come nel Sud-Est asiatico, dove le autorità, e soprattutto la guardia costiera, o se la prendevano molto comoda o non arrivavano proprio.

  Ma che si poteva pretendere di diverso, vista la gran quantità di ricconi e nomi illustri che stavano affollando la nave in quel momento?

  Benny era stato molto chiaro, due motovedette della guardia costiera nipponica, scortate anche da un elicottero, stavano muovendo a tutta velocità verso la Seaborn Star, e l’avrebbero raggiunta in meno di dieci minuti.

  Abbandonata la sala dei ricevimenti, in cui aveva fatto confluire tutti gli ospiti e il personale di bordo, Dutch era ora alla ricerca della sua compagna.

  Revy aveva l’incarico di raggiungere la cabina della famiglia Kinomiya per controllare che la valigetta fosse lì dentro, ma da diversi minuti non rispondeva più alla ricetrasmittente e ora il suo partner cominciava a preoccuparsi seriamente.

  Percorse in lungo e in largo i corridoio della nave dopo aver chiuso l’unica porta d’accesso alla sala, in modo che nessuno potesse scappare e compromettere la loro fuga, e quando finalmente la trovò non riuscì a credere ai propri occhi.

  Revy sul ponte di babordo, appena fuori dall’ingresso della hall; stava seduta per terra, completamente ricoperta di sangue, con la testa bassa e gli occhi vuoti; non sembrava neanche più lei, non c’era traccia alcuna di Two-Hands nel suo viso.

  Nella mano destra teneva una delle sue pistole, scarica, ma non c’era alcuna traccia dell’altra.

  Già prima di avvicinarsi Dutch la sentì mormorare qualcosa, ma solo dopo essersi accostato a lei riuscì a capire cosa stesse dicendo.

  «Che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto?»

  «Revy! Revy, dobbiamo andarcene!».

  La ragazza non rispose, non diede il minimo sentore di aver recepito, e continuò imperterrita a mormorare sempre la solita frase. Al secondo richiamo di Dutch finalmente si girò a guardarlo con un movimento quasi meccanico.

  «L’ho uccisa, Dutch. L’ho uccisa.»

  «Ne parleremo dopo, ora dobbiamo smammare!».

  Il gigante nero dovette caricarsi la sua partner in spalla per poterla portare via, e non appena furono al sicuro a bordo della Lagoon lei crollò in un sonno profondo come la morte.

 

Revy ascoltò la storia con incredulità e orrore, e a racconto finito sembrava quasi aver visto un fantasma.

  «Non… non è possibile… ma cosa…»

  «Hai dormito fin quasi al ritorno a Roanapur, e al risveglio non ti ricordavi più niente. Ho pensato che fosse meglio così, quindi io e Benny ci siamo messi d’accordo per tacere».

  Rock strinse ancor più i pugni, abbassò la testa, e se qualcuno si fosse girato a guardarlo avrebbe visto copiose lacrime scendergli dagl’occhi.

  «Ad ogni modo, per tornare al discorso principale» disse il professor Turchinsky quasi a voler scacciare la tensione «Il caso venne rapidamente archiviato dalla polizia giapponese come l’assalto di un gruppo di pirati, ma l’effetto che ebbe per il progetto fu a dir poco catastrofico. Tutte le compagnia finanziatrici scapparono con la coda fra le gambe ritirando la propria partecipazione, e la compagnia arrivò ad un passo dal dover dichiarare bancarotta.»

  «Un momento.» disse Dutch «Che ne è stato dei campioni?»

  «Uno dei due scomparve dalla faccia della Terra. Probabilmente non era neanche mai stato a bordo. Per quanto riguarda l’altro…».

  Il professore fece una pausa, esitò, e allora Balalaika rispose per lui.

  «Ne avete incontrato il possessore qualche giorno fa.»

  «Che cosa!?» esclamò Benny «Vuoi dire che quel tipo…».

  Il sorriso ironico e maligno di Balalaika fu una risposta più che esauriente.

  Sul monitor del computer comparvero le immagini di Kaito e del ragazzo biondo che due sere prima aveva tentato di fare la pelle alla Lagoon insieme a Kyuzo.

  «Questo è quel tizio!» disse Revy indicando il biondo «Quello che saltava come un canguro.»

  «Questi due» disse Balalaika «Furono gli unici supersiti della Seaborn Star. Kaito Kinomiya, figlio del deceduto presidente Kinomiya, e Steven Hankfield, erede dell’omonimo gruppo finanziario inglese. A dire il vero pare vi sia stato anche un terzo superstite, ma non abbiamo mai scoperto la sua identità. Comunque sia, entrambi hanno visto le loro vite cambiare drasticamente dopo quel giorno. Kaito Kinomiya si ritrovò di colpo orfano, mentre la società degli Hankfield andò al fallimento, affossata dal disastro.»

  «Boia d’un mondo.» disse Dutch «Ora capisco perché sono così incazzati con noi.»

  «Subito dopo l’incidente sono spariti entrambi dalla circolazione. Da quel momento in poi hanno pensato solamente a soddisfare il loro desiderio di vendetta. Kaito formalmente è ancora a capo delle industrie di famiglia, ma di fatto le redini vengono tenute da Samejima, il capo del consiglio di amministrazione. Ora si fa chiamare Kyuzo.»

  «Kyuzo… Dove ho già sentito questo nome?»

  «Era uno dei sette samurai.» rispose Benny «I personaggi di Kurosawa che difendevano un villaggio di contadini dalle scorrerie dei briganti. Quindi lui… si è iniettato i nanorobot destinati alla sorella?»

  «Esatto.» rispose Turchinsky «E lo ha fatto solo per uno scopo. Per vendicarsi di voi.»

  «Sarebbero quei cosi microscopici a fargli fare quelle performance da prestigiatore fallito?» domandò Revy

  «Precisamente.»

  «Ma come è possibile?»

  «I nanorobot erano stati pensati per essere iniettati nei corpi delle persone malate, ma Kaito Kinomiya era perfettamente sano quando se li è messi in circolo.

  Non avendo nessun obiettivo da contrastare, invece che curare il corpo del loro ospite lo hanno stimolato, aumentandone ogni aspetto. Potenza, forza, agilità, intuito. Sono come dei supersteroidi.

  Però, hanno fatto anche qualcos’altro. Voi forse saprete che l’essere umano in media utilizza solo il 30% della propria capacità cerebrale. Il restante 70% viene tenuto in animazione sospesa da una particolare proteina che impedisce alle cellule addormentate di morire. I nanorobot, non sapendo in che altro modo passare il tempo, hanno cominciato a sostituirsi a questa proteina, e aumentando costantemente di numero grazie all’auto-replicazione hanno finito per mettere in moto un buon 40% di cellule cerebrali inattive, che hanno cominciato a correre più di una Ferrari sul circuito di Monza.»

  «Ma questo cosa c’entra con quei superpoteri? Non posso credere che siano dovuti solo a una semplice… proteina.»

  «Sbagli, Dutch.» rispose Benny «È possibile eccome. La teoria secondo la quale il nostro cervello sia in grado di manifestare abilità psichiche fuori dal normale, quali la telecinesi, è in voga fin dalla seconda metà dell’800. Secondo i seguaci di questa teoria, il motivo che ci impedisce di farne uso sta proprio nella ridotta porzione di cervello che normalmente utilizziamo.»

  «E proprio qui sta il punto.» intervenne il professore «Pensate agli squali, o alle razze. Sono in grado di percepire le vibrazioni elettriche. La nostra atmosfera è piena di particelle naturali o elettromagnetiche, e cosa succederebbe se qualcuno fosse in grado di controllarle?

  Voi dite che fermava le pallottole. Vi siete chiesti come faceva?»

  «Francamente, eravamo troppo impegnati a squagliarcela.» rispose spazientita Revy «Se volessi dircelo tu ti saremmo grati.»

  «Bene. In sostanza, non è molto complicato. Ha semplicemente modificato la struttura particellare attorno al suo corpo, creando una sorta di scudo invisibile che imbrigliava la pallottola come una rete da pesca farebbe con un pesce. Per quel che riguarda lo scatenare uragani, beh… è sufficiente comprimere l’aria usando le stesse particelle accennate pocanzi per poi rilasciarla violentemente, una specie di enorme bomba ad aria compressa.»

  «Mi sembra fantascienza.» disse Dutch

  «Invece è la pura realtà. E vi garantisco che questa non è che la punta dell’iceberg. Il nostro amico possiede anche altre capacità. Ricordate l’esempio degli squali? Non dico che possa vedere al buio o che possegga sensori termici come i serpenti, ma i suoi cinque sensi sono affinati al massimo, ed il suo corpo, oltre a produrre una gran quantità di elettricità statica, che gli permette di spostare gli oggetti anche a grande distanza, molto probabilmente è in grado di percepire le variazioni nelle onde elettromagnetiche. È come se avesse un radar piantato in testa.

  Per farvi un esempio, anche se voi gli puntaste contro un fucile di precisione stando a tre miglia di distanza lui quasi sicuramente se ne accorgerebbe.»

  «Mi stai dicendo…» disse Revy leggermente contrariata «Che quel tizio è immortale?!»

  «Non esattamente. Anche lui ha dei limiti. Può interagire con la materia, ma alle regole della fisica non si sfugge. Può volare come superman? Non credo. Può levitare come i preti buddhisti? Probabile. Ma il suo limite più grande è proprio la fonte del suo potere. I nanorobot.»

  «In che senso?» chiese Benny

  «I nanorobot non sono certo forza lavoro a costo zero. Necessitano di energia, e parecchia. Sostanze nutritive, ossigeno. Sotto questo aspetto sono come le normali cellule, e se li sfrutti troppo, alla fine collassano.»

  «Vuoi dire che se lo costringessimo a usare i suoi poteri fino allo spasimo finirebbe per crollare?» domandò Dutch intravedendo una possibilità

  «Sì, è probabile.»

  «Forse è per questo che l’altra notte si sono ritirati prima di finire il lavoro.» ipotizzò Benny

  «Quand’è così…» disse Revy «Non c’è problema. Anzi, sarà divertente vedere fino a quando riuscirà a reggere».

  Fu solo allora, quando la spiegazione ebbe fine, che tutti si accorsero finalmente dell’espressione di Rock, fermo e immobile come una statua coi pugni stretti come se volesse lacerarsi la pelle delle mani, i denti in bella vista e i capelli imperlati di sudore che gli nascondevano il volto, piegato verso il basso.

  «Rock, che ti prende?» domandò Benny

  «Voi…» disse con una voce che pareva più un ringhio bestiale «Voi avete… voi avete…».

  Quella era la prima volta che Dutch e Benny si spaventavano alla vista del loro compagno di avventure; Revy invece, che aveva passato molto tempo insieme a lui e sapeva come certe cose lo facessero indignare, non si preoccupò più di tanto, e anzi si avvicinò per cercare di capire bene cosa avesse.

  All’improvviso, appena gli fu davanti, lui alzò gli occhi: erano di sangue, sembravano gli occhi di una belva infuriata.

  Con una forza che nessuno gli avrebbe attribuito assestò alla ragazza un destro talmente forte che la fece volare contro Dutch, buttando a terra entrambi.

  «Maledetta schifosa! Sei stata tu!».

  Bastava guardarlo per capire che Rock era davvero uscito di senno, e prima che combinasse qualche altra sciocchezza Benny gli si avventò contro, cercando in tutti i modi di trattenerlo; anche Dutch fu costretto a fare lo stesso con Revy, perché anche lei grazie a quel bel gesto stava per dare libero sfogo ai suoi istinti più animaleschi.

  «Rock, calmati!».

  Dapprincipio sembrò che il giovane giapponese si stesse veramente calmando, ma appena Benny commise l’errore di allentare un po’ la presa lui subito di divincolò, strappò Revy dalle mani di Dutch e la buttò a terra, serrandole il collo con la forza di un orso.

  Lei cercava in tutti i modi di liberarsi, graffiandogli la guancia e assestandogli poderose ginocchiate sui testicoli, ma lui sembrava diventato un cyborg e non aveva alcuna intenzione di mollare la presa.

  «Puttana schifosa, hai ucciso Harue! Hai ucciso Haru-Chan!».

  Furono necessari gli sforzi combinati di Dutch e Benny per riuscire a staccarlo dal collo della ragazza; nessuno si preoccupò di tenere ferma Revy, perché era già un miracolo che non fosse svenuta e a stento riusciva a respirare.

  Poi, rapidamente, la bestia che era in Rock si acquietò, e lui cadde inginocchiato a piangere tutte le sue lacrime.

  Come al solito, Balalaika non mosse un dito per cercare di acquietare gli animi, limitandosi a fare da spettatrice, d’altronde sporcarsi le mani non era mai stato nel suo stile.

  «Rock, che diavolo ti è preso?» domandò Dutch

  «HarueHarue era bambina così dolce… così pura…».

  Si rialzò in piedi, ostentando la sua proverbiale fierezza, mentre Revy, che era costretta ad appoggiarsi ad un soprammobile per poter stare in piedi, lo guardava ringhiando con la guancia rossa e il sangue che le colava dal naso.

  «Era un angelo in terra. Le sono stato vicino per due anni, e non l’ho mai sentita lamentarsi per qualcosa. Rimproverava suo padre perché passava il poco tempo libero che aveva a cercarle una cura invece che a riposarsi, e chiedeva scusa a Kaito quando era costretto ad annullare i suoi incontri per portarla all’ospedale dopo una crisi.

  I Kinomiya avevano investito tutti i loro sogni, tutte le loro speranze nel Progetto Rebuild… e voi avete cercato di portarglielo via!».

  Dutch e Benny, a sentire quelle parole, abbassarono gli sguardi, vergognandosi come i ladri che erano, ma altrettanto non fece Balalaika, che con assoluta indifferenza si accese il suo terzo sigaro.

  «Fino a che si trattava di colpire multinazionali corrotte e pazzi assassini mi stava anche bene. Ma le Industrie Kinomiya erano forse l’unica società onesta ancora esistente in questo cesso di mondo! Il loro presidente era pronto a fare di tutto per portare giustizia, non avrebbe esitato a buttarsi nel fuoco per salvare Harue!»

  «Come…» ringhiò Revy «Come fai ad esserne così sicuro?»

  «Perché ho lavorato con loro per due anni, e perché me ne sono andato proprio perché non mi sentivo degno di far parte di quella società! Con il progetto Rebuild il signor Kinomiya voleva dare una speranza a tutti coloro che soffrono di sclerosi, voi volevate farne un mero strumento commerciale per guadagnare i vostri sporchi soldi, e non avete esitato ad uccidere degli innocenti per riuscirci!»

  «Ti ho già detto che noi non abbiamo ucciso nessuno!» rispose Dutch come a volersi giustificare

  «Dovrei crederti? Dopo tutto quello che ho visto in questi mesi? Continuavate a ripetere che questo mondo è un luogo schifoso, ma ora so che ciò che lo rende schifoso sono le persone come voi!».

  Rock fece una paura, respirò profondamente e cercò di prendere fiato, ma poi sfuriò nuovamente.

  «Ora che so come stanno le cose mi dispiace che Kaito non vi abbia uccisi l’altra notte, anzi mi dispiace che non abbia ucciso anche me perché sono colpevole quanto voi!».

  Senza dire altro, e piangendo come mai nella sua vita, corse fuori dall’appartamento sbattendo la porta. Benny cercò di andargli dietro, ma Balalaika lo trattenne.

  «Lascialo andare.»

  «Ma…»

  «È troppo sconvolto. Non sente ragioni. Ma capirà ben presto come stanno le cose. Il problema più grave in questo momento è cercare un modo per proteggerci da quella belva assetata di sangue».

 

Uscito all’esterno, Rock corse per molto tempo, e quando gli mancò il fiato camminò.

  Camminava senza meta, a capo chino, per le affollatissime vie di Bangkok, con in testa mille domande e mille ricordi.

  Per quanto cercasse di scacciarle dalla sua mente, davanti ai suoi occhi continuavano ad apparire visioni e immagini di Harue, e non ve ne era una in cui il suo volto non fosse sorridente e la sua espressione gioiosa.

  Quella bambina era un vero angelo, e più volte aveva invidiato Kaito, perché era la sorella che tutti avrebbero voluto avere: gentile, allegra, un po’ ingenua, semplice, e incredibilmente forte.

  Sapeva benissimo quale fosse il suo destino, perché era anche molto intelligente, e aveva letto su internet cosa comportasse la sua malattia. Ciò nonostante, non vi era stato un giorno in cui non avesse dispensato sorrisi e parole di conforto, e i suoi stessi famigliari si sentivano sempre malissimo quando era lei a confortare loro e non il contrario, come sarebbe dovuto essere.

  Come aveva potuto affiancarsi agli uomini che l’avevano uccisa?

  «Se me lo avessero raccontato, non ci avrei creduto».

  Quella voce gli fece gelare il sangue nelle vene.

  Gli era passato davanti, ma con la confusione che regnava dentro di lui era tale che non si era neppure accorto di lui.

  Kyuzo era lì, pochi passi indietro, appoggiato ad un lampione, con le braccia e le gambe incrociate e gli occhi chiusi.

  Lo guardò a lungo, senza trovare le parole, ma era il suo sguardo a parlare per lui.

  «Mi domandavo dove fossi finito, e ti giuro che questo era l’ultimo contesto in cui avrei immaginato di incontrare te.

  Rokuro Okagima.

  Il terzo superstite della Seaborn Star».

 

 

Nota dell’Autore.

Di nuovo salve. Mi scuso per l’anomala lunghezza di questo capitolo, ma non è stato proprio possibile spezzarlo in due tronconi.

Ora, so che probabilmente dopo quanto scritto qui i fan di Revy mi ammazzeranno, ma a tutti dico di aspettare prima di farlo, perché andando avanti le cose cambieranno, e alla fine verrà fuori una storia diversa da quella che può sembrare in questo momento.

Ringrazio Selly, Beat e Diaras per le loro recensioni.

A presto!

Carlos Olivera

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Capitolo 5
*** Justice ***


4

4

 

 

Rock venne invitato da Kyuzo a seguirlo in un ristorante poco lontano, e lui, sebbene un po’ recalcitrante, alla fine accettò.

  Appena entrarono, un giovane cameriere li accolse gentilmente.

  «Benvenuti. Un tavolo?»

  «Sì, grazie.» rispose Kyuzo «Per due.»

  «Come desidera. Prego».

  Si sedettero quasi all’estremità opposta, e dopo poco ordinarono.

  Per stuzzicare un po’ l’appetito in vista dell’arrivo delle pietanze, Kyuzo ordinò un aperitivo e delle tartine in agrodolce.

  «È bello rivederti, Okajima.» disse Kyuzo sorseggiando l’aperitivo «Ti confesso che non avrei sperato di incontrarti ancora».

  Rock però continuava a teneva lo sguardo basso e le mani sulle ginocchia, e Kyuzo decise allora di fargli coraggio.

  «So quello che stai pensando in questo momento, e puoi stare tranquillo. Contro di te non serbo alcun rancore.»

  «Che cosa!? Dunque tu… non ce l’hai con me?»

  «Se l’altra sera mi fossi accorto che eri tu ad accompagnarti a Dutch e agli altri mi sarei trattenuto, o forse avrei anche abbandonato il campo. Purtroppo nell’euforia del momento non ti ho riconosciuto.»

  «Ah… capisco…».

  Quell’affermazione sollevò leggermente il morale di Rokuro, ed infatti, quando finalmente arrivarono i vari piatti che Kyuzo aveva ordinato, anche lui cominciò a mangiare di buon gusto.

  In fin dei conti, erano pur sempre due amici che si rincontravano dopo molto tempo, e ricordare i tempi in cui si consideravano quasi fratelli faceva sorridere entrambi.

  Parlarono di tante cose, ma bene o male l’argomento finiva per sfociare sempre lì, alla Seaborn Star.

  «Era stato mio padre a volerti a tutti i costi per la presentazione ufficiale.»

  «Avanti, così mi metti in imbarazzo.»

  «No, dico sul serio. Diceva che tu rappresentavi il modello ideale di impiegato. Onesto, sincero, sempre pronto a fare la cosa giusta. Quando gli ho detto che volevi andartene gli è dispiaciuto molto. Peccato non sapesse che soffrivi il mal di mare.»

  «Eh, già.» disse Rock ridendo leggermente «Sono finito in infermeria subito dopo la partenza, e credo di aver preso anche un sonnifero. Quando mi sono risvegliato, ero nella barca della guardia costiera.»

  «Sei stato fortunato. Tu non sei stato costretto a vedere ciò che ho visto io».

  Di nuovo Rock si fece cupo, evitando di dover incrociare gli occhi dell’amico.

  «Non ho mai avuto occasione di dirti quanto mi dispiacesse per l’accaduto. Perdonami.»

  «Non c’è nulla per cui tu debba chiedere il mio perdono. Tu non hai fatto niente.»

  «Ho dato le dimissioni subito dopo l’incidente. Io… non ce la facevo a vedere tutti quei sogni che si sgretolavano come fango secco.»

  «Hai fatto bene. Non aveva alcun senso rimanere lì.»

  «Avrei voluto vederti di nuovo, parlare con te un’altra volta, ma quando sono tornato a cercarti mi hanno detto che eri partito.»

  «Sono dovuto sparire dalla circolazione subito dopo essermi iniettato i nanorobot. Il potere che mi conferivano andava oltre il mio controllo, e avevo bisogno di tempo per imparare a padroneggiarlo.

  Solo Samejima ha continuato a tenere i contatti con me, e al momento è l’unico a conoscere ogni mio spostamento.»

  «Ora capisco perché nessuno all’azienda mi ha saputo dire dove fossi.»

  «Era necessario. Dopo l’incidente sulla Seaborn Star, il mio nome era sulla bocca di tutti. Per poter portare a termine ciò che avevo in mente dovevo essere in visibile. Ho lasciato che le acque si placassero rimanendo in disparte, e non appena la compagnia si è ripresa abbastanza da poter essere portata avanti senza di me ho dato il via al mio viaggio.»

  «Anche io dapprincipio non ti avevo riconosciuto.» disse Rock accennando nuovamente un sorriso «Sei molto diverso da come ti ricordavo.»

  «Vuoi dire per i vestiti e i capelli? Beh, non potevo certo andare in giro per i ghetti di mezzo mondo in giacca e cravatta e ben pettinato. Ho dovuto adattarmi, e se devo essere sincero questa nuova vita mi sta molto piacendo?»

  «La vita del giustiziere?»

  «C’è forse qualcosa di male?» rispose Kyuzo con voce leggermente diversa, più cupa di prima «Dimmi sinceramente, tu hai mai creduto alla versione dell’attacco dei pirati?»

  «Francamente l’ho trovata ridicola fin da subito. Pirati al largo del Giappone. E poi, se il viaggio era stato tenuto segreto fino all’ultimo, come facevano questi pirati a sapere con precisione il tragitto che avrebbe percorso la nave?»

  «Ecco, per l’appunto. La verità è che nessuno aveva interesse a complicare la cosa più di quanto non lo fosse già. Con lo spettro del fallimento a pesare come un macigno, lo stesso consiglio di amministrazione ha fatto il possibile per fare in modo che questa storia finisse nel dimenticatoio il prima possibile.

  Inutile dire che con il ritiro della quota di partecipazione dei vari soci finanziatori il progetto Rebuild è stato prima congelato e poi cancellato in modo definitivo.»

  «Mi dispiace molto. So bene quanto quel progetto fosse importante, soprattutto per Harue.»

  «Non devi dispiacerti. Ormai è acqua passata. In futuro forse sarà possibile riprendere la ricerca, ma per il momento la mia priorità è un’altra».

  Lo sguardo di Kyuzo si fece incredibilmente malevolo, anche più terribile di quello di Revy o Balalaika, e Rock si spaventò non poco.

  «Tu vuoi vendicarti, non è così?»

  «Io non biasimo l’azienda per quello che ha fatto. Se si fosse portata avanti la questione della Seaborn Star più del dovuto le Industrie Kinomiya avrebbero dichiarato bancarotta, e migliaia di dipendenti si sarebbero ritrovati di colpo in mezzo alla strada.

  Tuttavia, io non potevo accettare l’idea che gli assassini della mia famiglia e coloro che avevano cercato di speculare sui sogni di migliaia di malati continuassero a camminare indisturbati su questa Terra, ma ero anche consapevole che se dovevo mettermi contro quella gente non avrei potuto contare solo sulle mie forze o sui mezzi di cui disponevo.»

  «E per questo ti sei iniettato i nanorobot.»

  «Esattamente. E ho tagliato i ponti con la mia vita precedente. Ad eccezione di Steven e Samejima, nessun altro sa che Kaito Kinomiya e il killer professionista Kyuzo sono la stessa persona.»

  «Io… se avessi saputo quelli di cui Revy e Dutch erano colpevoli…»

  «Non fa niente. Non devi scusarti. Immaginavo che in un modo o nell’altro fossi andato a finire in qualcosa di simile. Come forse saprai la settimana scorsa ero a Tokyo, e ho approfittato di quel periodo di rimpatrio per venirti a cercare.»

  «Ci sei tu dietro il massacro del clan Ryuji, vero?»

  «Sei perspicace. Comunque, Samejima mi ha detto che eri stato assunto dalle Industrie Asahi, ma quando sono andato da loro mi hanno detto che ti eri licenziato due anni prima. Certo che il tuo periodo di lavoro con loro è stato davvero breve.»

  «Beh… è successo un… come posso dire… un pasticcio…»

  «So quello che stai cercando di dire. È il motivo per cui non abbiamo mai avuto rapporti con le Industrie Asahi, hanno un pessimo modo di fare e sono corrotti fino all’osso.»

  «Ah, non dirlo a me. Mi hanno scaricato come un sacco di patate appena non gli sono servito più.

  A proposito, Balalaika prima ha parlato di un informatore all’interno del Progetto Rebuild.»

  «Direi che è più che scontato. Altrimenti come sarebbero venuti a conoscenza di un progetto di un progetto del quale neppure lo stesso consiglio di amministrazione ne sapeva più di tanto.»

  «Diceva anche che uno dei due flaconi contenenti i nanorobot non si trovava a bordo della nave.»

  «Balle, i due contenitori erano entrambi sulla Seaborn Star quando è stata attaccata. Uno ce l’avevamo noi per mostrarlo ai finanziatori, l’altro…».

  Kyuzo non riuscì a finire la frase, e si nascose singhiozzando il volto con una mano.

  «L’altro era in cabina.» rispose Rock «Nella valigetta.»

  «È stata colpa mia. Se non avessi insistito…».

 

Quattro anni prima

 

Mancavano solamente pochi minuti all’inizio del ricevimento, e nella loro sfarzosa cabina, che si componeva di salottino, camere da letto e bagno con vasca idromassaggio, i membri della famiglia Kinomiya stavano ultimando gli ultimi preparativi prima di fare il loro ingresso trionfale in sala, annunciando al mondo quella che sarebbe stata sicuramente considerata come la più grande scoperta in campo medico della storia dell’umanità.

  La signora Hokada si guardò un’ultima volta allo specchio per controllare la pettinatura ed essere certa che il suo magnifico vestito color lilla non avesse la minima macchia o sgualcitura. Malgrado fosse giunta ormai alla soglia dei cinquant’anni era una donna ancora molto bella, capace di ostentare un fascino rispettabile e genuino.

  «Sei bellissima, Kurumi.» le disse il marito avvicinandosi a lei.

  «Ma va’, sono vecchia come una mummia.» rispose lei sorridendo.

  Il signor Kinomiya, a guardarlo, non si sarebbe detto affatto il proprietario di una delle multinazionali più importanti del mondo.

  Era un uomo di corporatura piuttosto robusta, cosa rara per i giapponesi; la barba grigia che circondava quel suo viso gentile ne esaltava la figura, conferendogli un portamento autoritario ma gentile.

  Il completo color crema che indossava quella sera contrastava molto con la sua pelle leggermente scura, ma ciò non sminuiva quel particolare fascino tipico degli uomini di mezza età.

  Insieme a lui nella stanza il suo primogenito, l’erede del suo patrimonio, il giovane Kaito.

  Anche lui, come suo padre, era una persona piuttosto colloquiale, ma solo con le persone con cui valeva la pena di conversare, ed erano in pochi ad avere questo privilegio. Per questo veniva considerato, tanto dai compagni di liceo quanto dal personale dell’azienda, un tipo molto sulle sue, ma chi aveva avuto modo di conoscerlo sul serio sapeva che poteva rivelarsi una persona molto diversa da come appariva in superficie.

  Fin da giovanissimo aveva dimostrato di voler seriamente proseguire lungo il cammino iniziato da suo padre, del quale condivideva le idee in merito alla condotta da tenere col resto del mondo sul piano lavorativo, e la sua spiccata intelligenza gli aveva permesso di ottenere, a soli sedici anni, un posto di prestigio all’interno dell’azienda, dal quale poteva supervisionare direttamente il progresso del Progetto Rebuild.

  Kaito aprì nuovamente la valigetta appoggiata sul tavolo circolare al centro della stanza, come a voler controllare che nessuna mano invisibile avesse cercato di rubare i loro sogni, quindi la richiuse, e nello stesso momento dalla sua stanza uscì Harue, la sua adorata sorellina.

  Non sembrava avere una bella cera, la sua fronte era sudata, aveva le guance un po’ rosse e il naso chiuso.

  «Eccomi.» disse «Sono pronta.»

  «Tesoro, stai bene?» le domandò la madre notando subito il suo pallore

  «Sì mamma, non preoccuparti. È tutto a posto».

  Fu uno starnuto a tradirla, e viste le sue precarie condizioni di salute tutti inizialmente si preoccuparono, ma poi suo fratello tastandole la fronte calmò subito gli animi.

  «Hai la febbre. Deve essere un po’ di influenza.»

  «Sì, forse».

  Pur di passare del tempo con lei quando era malata suo padre avrebbe venduto l’azienda, quindi chiamò immediatamente Koji Masuro, il capo della sicurezza, che attendeva fuori dalla cabina.

  «Avverti gli ospiti che la festa di stasera è rimandata.»

  «Sì, subito.»

  «No, papà aspetta!» disse Harue «Non farlo, per favore.»

  «Ma Harue, tu stai male.»

  «Posso sempre restare in cabina. Non serve che voi rimandiate tutto.»

  «Però… non possiamo lasciarti da sola.» disse sua madre «Sarei troppo in ansia sapendoti qui senza nessuno a tenerti d’occhio, soprattutto adesso che stai male.»

  «Resterò io con lei.» disse Kaito

  «No fratellone, tu non puoi restare qui. Avete aspettato questo giorno per così tanto tempo, mi dispiacerebbe se vi rinunciaste.»

  «Se è per questo, la crociera durerà tre giorni.» disse il signor Kinomiya «Possiamo sempre rimandare a domani.»

  «Non credo che gli ospiti saranno contenti. Tu papà dici sempre che quando si prende un impegno bisogna portarlo a termine.»

  «Ah accidenti.» disse lui passandosi la mano sulla nuca «Sei testarda come tua madre.»

  «Avevate detto di voler tenere uno dei due contenitori qui in cabina. Facciamo che io resto a farci la guardia.»

  «Ma chi resterà a fare la guardia a te, sorellina?»

  «Kaito, non ti devi preoccupare. So badare a me stessa».

  Il ragazzo ci pensò qualche secondo, poi si rivolse a suo padre.

  «In effetti si era parlato di non scoprire subito tutte le nostre carte. Tenere segreta per ora l’esistenza di uno dei due contenitori potrebbe essere la cosa più sensata».

  Anche suo padre cominciò a prendere in considerazione la cosa, ma l’idea di lasciare sua figlia da sola continuava a rimanere improponibile.

  «Koji.» disse allora al suo guardaspalle, che ancora restava in attesa di ordini definitivi «Tu resterai qui fuori a sorvegliare la cabina. Assicurati che nessuno entri e che ad Harue non accada nulla.»

  «Vi prometto che sarà più protetta che in una banca.»

  «Quanto a te, signorinella, fila subito a dormire.»

  «Va’ bene.» rispose lei felice di aver convinto la sua famiglia a non rinunciare alla festa.

  Marito e moglie andarono per primi, Kaito invece si trattenne per recuperare uno dei due campioni, che infilò nella tasca della giacca, e per salutare un’ultima volta la sorella prima di uscire.

  «Cercherò di tornare il prima possibile.»

  «Non ci pensare nemmeno. Tu pensa solo a divertirti, io starò bene».

  Il ragazzo sorrise; era davvero una bambina col cuore d’oro.

  «D’accordo. Tu però va’ subito sotto le coperte.»

  «Va’ bene.» rispose lei, che subito girò la sua sedia ritornando verso la propria stanza.

 

«È stata l’ultima volta che l’ho vista».

  Rock ascoltò la storia con il cuore pieno di tristezza, rievocando a sua volta tutti i bei momenti trascorsi assieme ad Harue ogni volta che lui andava a trovarla alla villa di famiglia o quando era lei a venire in ufficio per tenere compagnia al padre.

  «Se solo…» disse Kyuzo piangendo di nascosto «Se solo non avessi insistito per lasciarla da sola con uno dei campioni non sarebbero andati a cercarlo in cabina, e lei non…»

  «Non potevi saperlo, Kaito. Del resto, chi avrebbe potuto immaginare un evento del genere?»

  «Me l’hanno portata via, Okajima. Mi hanno portato via mia sorella e i miei genitori. Che uomo è uno che compie un simile delitto? Con che coraggio lo si più definire un essere umano?»

  «Kaito…».

  Quando risollevò gli occhi però, Kaito era sparito; al suo posto c’era solo Kyuzo, e Rock ne rimase terribilmente spaventato.

  «Loro hanno distrutto la mia vita, e ora io distruggerò la loro.»

  «Che cosa vuoi fare?» domandò Rock iniziando a preoccuparsi seriamente

  «Fargliela pagare. Pagheranno fino all’ultimo centesimo quello che hanno fatto a me e a migliaia di altri innocenti.»

  «Tu… vuoi ucciderli?!»

  «No. Saranno loro ad uccidere sé stessi. Si scanneranno l’un l’altro come una massa di lupi rabbiosi e affogheranno nel loro stesso sangue».

  Rock guardò in basso e per lunghi minuti rimase in silenzio, combattuto fra i suoi due io; da una parte c’era l’io del passato, quello che aveva visto sorridere Harue e che chiedeva a gran voce la morte dei suoi assassini, dall’altro c’era l’io del presente, che sosteneva di conoscere gli uomini della Lagoon abbastanza bene da sapere che mai si sarebbero abbassati a sparare contro una bambina invalida.

  «Kaito, io…»

  «Cosa?»

  «Io credo… ecco… che forse… forse le cose sono diverse da come sembrano.»

  «In che senso?»

  «Revy e Dutch. Per quanto possano sembrare insensibili e crudeli… io… non credo sarebbero capaci di spingersi a tanto».

  Kaito lo guardò con un misto di stupore e di compatimento, ma non sembrava che quell’affermazione lo avesse fatto arrabbiare o lo avesse offeso.

  «Hai passato così tanto tempo in loro compagnia, ma a quanto pare non sai ancora niente di loro. Ti assicuro che se li conoscessi per come sono veramente, ti faresti un’idea molto diversa di loro, e sapresti che sono capacissimi di compiere qualsiasi atrocità.»

  «Forse… forse è come dici tu. Ma uccidere una bambina, oltretutto in sedia a rotelle. No, neppure Revy e Balalaika sarebbero capaci di tanto.»

  «Ma davvero? E che mi dici di quei due bambini rumeni?».

  Rock saltò sulla poltrona nel e non poté fare a meno di ricordare quei due innocenti che la malvagità degli uomini aveva trasformato in belve assetate di sangue, belve a cui nessuno a parte lui aveva voluto concedere una possibilità per cambiare.

  «La tua espressione risponde per te. Ma possiamo fare anche altri nomi. Ad esempio, Yukio Washimine».

  Di nuovo il giovane impiegato non seppe cosa rispondere, ma il suo primo pensiero fu che se Balalaika non avesse voluto espandere il suo dominio anche sul Giappone, quella ragazza molto probabilmente non sarebbe stata condotta lungo il sentiero che l’aveva portata alla morte.

  Serrò i pugni, stringendosi forte le ginocchia e mordendosi le labbra.

  «Hotel Moskow è un clan di mafiosi, e la mafia opera solo nel male. E chi lavora alle sue dipendenze, a sua volta è capace di esercitare solo il male. Questo mondo è stato portato sull’orlo della distruzione da gente di quella risma, che pensa solo a stessa e non si cura minimamente delle conseguenze delle proprie azioni, ma molto presto scopriranno che esistono forze che neppure le pallottole possono fermare».

  Rock non sapeva più cosa pensare, il conflitto dentro di lui minacciava di distruggerlo, e non riusciva a trovare la forza per appoggiare nessuna delle due condotte di pensiero.

  «Non ce la faccio, Kaito. Anche se voglio vendicare la morte di Harue e dei tuoi genitori, sono assolutamente convinto che la verità deve essere diversa da quella che può sembrare.»

  «Okajima!» gridò Kyuzo perdendo la pazienza «Perché difendi quei bastardi assassini? La morte di Harue non conta davvero niente per te!»

  «Non ho detto questo.» rispose Rock cercando di mostrarsi autoritario «Dico solo che non credo nel fatto che ne sia Revy la responsabile. Prima, quando l’ho aggredita, la rabbia mi ha impedito di ragionare, ma adesso che ci penso a mente fredda mi rendo conto che non sarebbe mai capace di un’atrocità simile.»

  «Se tu avessi visto il mondo che ho visto io in questi quattro anni, sapresti che una volta che si è intrapresa quella strada nessuna azione è troppo vile. I loro cuori sono diventati di pietra, non provano alcuna emozione nei confronti di qualcuno che non siano loro stessi.

  Io raccoglierò il loro sangue e lo verserò sulla tomba di mia sorella per dimostrare alla sua anima che i suoi assassini hanno avuto quello che meritavano, e lo farò indipendentemente da chi mi troverò davanti!».

  Non era una minaccia a vuoto, bastava guardarlo per capire che Kyuzo era davvero determinato, e che niente al mondo sarebbe stato in grado di fargli cambiare idea.

  «Non ti sto chiedendo di batterti al mio fianco, Okajima. Se non te la senti di imbarcarti in quest’impresa ti capirò, rimarremo amici come lo siamo sempre stati. Tutto quello che ti chiedo è di restarne fuori».

  Rock abbassò di nuovo la testa, rimanendo in silenzio, poi guardò il suo vecchio amico con decisa convinzione.

  «Non posso, amico mio. Non posso restare indifferente a quello che succede ai miei compagni, e sono fermamente convinto che Revy non ha nulla a che vedere con la morte di Harue, quindi farò tutto il possibile per impedirti di farle del male».

  A quel punto Rock si alzò dal divanetto e si diresse verso l’uscita senza che Kyuzo facesse alcun tentativo per fermarlo, ma un istante prima che potesse prendere la porta lo stesso cameriere che li aveva accolti gli sbarrò la strada piantandosi davanti a lui e guardandolo diritto negl’occhi; aveva uno sguardo inquietante, severo e furibondo, ma allo stesso tempo apparentemente senza vita.

  «Ma cosa…».

  Spaventato da quell’espressione cercò di aggirare il cameriere, ma lui continuò ad ostacolarlo senza togliergli lo sguardo di dosso.

  Intuendo che ci fosse Kyuzo dietro a quello strano comportamento si girò verso di lui per chiedere spiegazioni, scoprendo con suo grande terrore che tutti gli avventori del ristorante, approssimativamente una ventina, si erano alzati in piedi e restavano ora immobili a guardarlo, come un esercito di fantasmi.

  E non erano solamente gente del posto; a giudicare dalle loro facce e dagli abiti che indossavano dovevano provenire da varie parti del mondo e appartenere a diversi ceti sociali, dai mendicanti da strada ai rispettabili impiegati.

  Rimanevano immobili e in silenzio, ma i loro sguardi sembravano un esercito di lame affilate che penetravano nell’anima di Rock devastandola.

  Kaito era ancora seduto coi gomiti sul tavolo e il mento sorretto dalle mani.

  «Che… che significa?» domandò terrorizzato «Chi sono queste persone?»

  «Parenti e amici di vittime della mafia.» rispose lui alzandosi in piedi.

  Appena mosse un passo, quelli che gli stavano davanti immediatamente gli fecero strada, spostandosi leggermente di lato con movimenti quasi meccanici.

  «Quando gli ho offerto la possibilità di ottenere giustizia hanno subito accettato di seguirmi. Sono venuti qui per dimostrare al mondo intero che la giustizia è molto più di una parola. È un credo. Un credo che molti si rifiutano di abbracciare, perché troppo corrotti e troppo attaccati ai loro privilegi.

  Ebbene io ti dico che prima del sorgere del prossimo sole i malvagi che per troppo tempo hanno soffocato questo Paese con il loro egoismo e la loro brama di potere saranno spazzati via, così che le anime di quanti hanno perso la vita a causa loro possano riposare in pace.»

  «Kaito… che hai intenzione di fare?»

  «Non puoi fermarci, Okajima. L’ingranaggio ormai si è messo in moto, e non c’è assolutamente nulla che tu possa fare per arrestarlo.»

  «Tu… tu non sei Kaito

  «Hai ragione, non lo sono».

  Con incredibile freddezza il giovane prese una pistola da dentro la giacca e sparò contro Rock una di quelle siringhe verdi che lo fecero crollare addormentato in pochi secondi; l’ultima cosa che vide fu il suo amico che, giunto ai suoi piedi, lo guardava dall’alto ostentando un volto di pietra.

 

Regnava uno strano silenzio all’interno dell’appartamento in cui sia Balalaika che i membri della Lagoon avevano cercato rifugio dal loro inseguitore.

  Tutti, in quel momento, si stavano facendo i fatti propri, e nessuno sembrava curarsi di nessuno.

  Dutch tracannava una birra dietro l’altra, Benny e il professore lavoravano al computer, Revy si girava i pollici con espressione contrariata e Balalaika, naturalmente, fumava i suoi adorati sigari.

  Sembrava quasi che tutti lì dentro stessero aspettando che accadesse qualcosa, ma questo qualcosa non pareva avere alcuna intenzione di accadere.

  Il solo rumore nella stanza era il ticchettio dell’orologio affisso alla parete, che segnava l’inesorabile scorrere del tempo.

  Era un rumore incessante, per non dire fastidioso, tanto che alla fine Revy uscì completamente di testa e, sfoderata la pistola, piantò due pallottole in quell’oggetto malefico riducendolo in polvere e facendo due bei buchi nel muro.

  «Basta! Non ce la faccio più a restare qui senza far niente!»

  «Sei un po’ troppo nervosa, Two-Hands.» disse scherzosamente Balalaika «Posso suggerire una camomilla?»

  «Non sei per nulla divertente, sorellona! Che ci stiamo a fare qui dentro? Andiamo a scovare quel bastardo e spediamolo all’inferno!»

  «Invece di fare questi discorsi da esaltata, dovresti pregare che non sia lui a scovare noi.» disse Benny

  «Ma che stai dicendo? Ora conosciamo il suo punto debole, giusto? Scarichiamogli addosso tutto quello che abbiamo e vedrete che resterà stecchito.»

  «Dì un po’, ti ricordi di quello che ha fatto l’altra notte? Ha demolito un locale e sollevato un’onda anomala stile Katrina prima di dare qualche segno di cedimento. Sarebbero necessari almeno un centinaio di RPG e qualche granata per sperare di ottenere lo stesso risultato».

  All’improvviso qualcuno bussò leggermente alla porta, tre tocchi in rapida successione che per poco non fecero scoppiare il cuore a molti, ma poi fu di nuovo il silenzio più totale.

  «Chi è?» domandò Dutch

  «Sono l’usciere. Ho portato la posta.» rispose la voce di un vecchio.

  Dutch e gli altri tirarono un sospiro di sollievo, e stando bene attento a non mostrare la sua arma il gigante nero andò ad aprire la porta. Era proprio il vecchio Wei, l’usciere del palazzo, con la posta del primo pomeriggio.

  In tutto c’erano tre lettere, una per ogni membro della Lagoon, tutte provenienti dagli Stati Uniti.

  «Ehi, ragazzi. Notizie da casa.»

  «Bello!» disse Benny «Dai qua».

  Ognuno aprì la propria lettera, ma tutte e tre contenevano solamente dei cartoncini colorati con due parole scritte in bella calligrafia.

  «E questo che diavolo sarebbe?» domandò Revy «Death Game?».

  Nel sentire quelle parole Balalaika e il sergente saltarono sul posto.

  «È lui!»

  «Che cosa?»

  «Dobbiamo andarcene subito! Lui è qui!»

  «Ma ne sei sicura?» chiese Dutch

  «Quel biglietto è un lasciapassare per l’inferno. Se non ce ne andiamo siamo morti!»

  «Merda! Proprio adesso che questo posto cominciava a piacermi!».

  Revy e Dutch misero immediatamente mano alle pistole, e altrettanto fecero Balalaika e il sergente, quindi tutte e sei le persone presenti in quel momento uscirono di corsa dall’appartamento.

  Il corridoio, stretto e angusto, era ancora deserto, e vi regnava un silenzio spaventoso; neppure dagli altri alloggi giungeva il minimo rumore. Era come se nell’intero palazzo ci fossero stati solamente loro, perché non incontrarono anima viva né lì né lungo le scale.

  La tensione si poteva tagliare a fette, il frastuono assordante delle scarpe che battevano sul legno della vecchia scalinata non faceva altro che far salire ancora di più il senso di angoscia; ogni ombra, ogni soffio di vento, ogni minimo rumore che non fosse prodotto da loro li faceva sobbalzare. avevano paura che da un momento all’altro avrebbero visto uscire dal nulla quel mostro con sembianze umane, che nello spazio di un secondo gli avrebbe fatto pagare tutte le loro malefatte vendicando la morte della sua famiglia.

  Correvano senza fermarsi, più volte rischiarono di inciampare ma non gli importava; arrivavano anche a strattonarsi e a spingersi fra di loro per poter essere i primi a lasciare quella trappola mortale.

  Purtroppo quell’edificio disponeva di una sola uscita, e in ogni caso le macchine erano parcheggiate proprio lì fuori, ma la strada davanti a cui sorgeva la palazzina era sempre piuttosto trafficata, e questo, se non altro, avrebbe dato qualche sicurezza in più.

  Finalmente, al termine dell’ultima rampa, comparve la porta d’ingresso, la via della salvezza.

  Dutch quasi la sfondò per aprirla, ma una volta fuori, non appena i raggi del sole li colpirono in pieno, si trovarono davanti ad una scena indescrivibile.

  «Che mi colpisca un fulmine!» disse il nero guardandosi attorno.

  Quel tempo prima tiranno sembrava di colpo essersi fermato in quell’angolo di Bangkok, dopo che una forza invisibile aveva risucchiato via tutti i suoi abitanti.

  Di macchine, comprese le loro, non vi era alcuna traccia, i negozi e i marciapiedi erano deserti, nessuno si affacciava dalle finestre delle case, e regnava uno spaventoso silenzio.

  «Ma che diavolo…»

  «Sembra una scena da L’avvocato del diavolo.» commentò Revy con un umorismo decisamente fuori luogo.

  Improvvisamente udirono uno strano rumore, come di passi felpati, e tutti alzarono le armi puntandole in varie direzioni.

  Dal fondo della strada, dalle porte e dai vicoli laterali cominciarono ad comparire innumerevoli persone di ogni età, provenienza, sesso e ceto sociale.

  Camminavano molto, molto lentamente, tenendo i loro sguardi perennemente fissi sul gruppo di compagni che istintivamente si portarono spalla contro spalla; il loro primo impulso fu di tornare da dove erano venuti, ma appena cercarono di muovere un passo videro uscire della gente anche dalla palazzina in questione.

  Sembravano un esercito di automi, perché non aprivano bocca e non lasciavano trasparire alcuna emozione; sembrava addirittura che non respirassero, ma continuavano ad avanzare, e il cerchio attorno alla Lagoon e a quelli di Hotel Moskow stava diventando sempre più stretto.

  «Non avvicinatevi!» urlò Dutch sollevando il cane della magnum «Non un altro passo o vi faccio secchi!».

  Quelli non diedero segno di volersi fermare, e continuarono imperterriti a stringere il cerchio.

  Alla fine, spinto più dalla paura che dal raziocinio, Dutch sparò un colpo in direzione di un uomo dai tratti sudamericani, ma il proiettile gli rimbalzò davanti prima di poterlo colpire.

  «No… questo no…».

  Anche Revy e Balalaika a quel punto tentarono di difendersi esplodendo vari colpi, ma il risultato fu esattamente lo stesso, e intanto quella marea di gente continuava ad avvicinarsi.

  «Non vi avvicinate!» gridò Dutch quasi piangendo, e sventolando la sua inutile pistola «State indietro!».

  Alla fine, quando quelli più vicini furono a cinque o sei metri da loro, tutti si fermarono, rimanendo immobili e silenziosi come un esercito di statue; dovevano essere svariate migliaia, riempivano tutta la strada perdendosi all’orizzonte in entrambe le direzioni.

  «E adesso che cosa fanno?» chiese il professor Turchinsky, che per lo spavento aveva paura di farsela addosso da un momento all’altro.

  Una voce oscura e terribilmente fredda fece tremare tutti per la paura.

  «Avete mai sentito il detto, chi semina vento raccoglie tempesta?».

  Di nuovo quella massa aprì un corridoio dinnanzi a sé, richiudendosi immediatamente dopo il passaggio della propria guida, che si portò davanti a loro ostentando una sicurezza di sé del tutto legittima.

  «Tu, lercio porco!» tuonò Revy «Devo ancora ringraziarti per avermi dato un secondo ombelico!»

  «Non ti è ancora bastata? Devo forse rincarare la dose perché tu capisca che è tutto inutile?».

  Revy ringhiava come una tigre inferocita, ma memore di quello che era accaduto alcune notti prima non ebbe altra scelta che esitare, malgrado persistesse nel tenere una delle due pistole puntate contro di lui.

  Kyuzo cominciò a camminare avanti a destra e a sinistra, lanciando certe occhiatacce che avrebbero spaventato perfino il diavolo.

  «Voi.» disse puntando l’indice come un giudice del paradiso «Voi avete portato fin troppo dolore in questo mondo. Per troppo tempo siete andati avanti credendo che mai sareste stati chiamati a rendere conto delle vostre azioni.

  Pensavate di potervi proteggere in eterno, credevate che le vostre meschine ostentazioni di forza vi avrebbero garantito la sicurezza per sempre.»

  «Non sei il mio prete.» rispose secca Revy «Né lo saresti se decidessi di averne uno.»

  «Vi siete domandati» proseguì il ragazzo come se non l’avesse sentita «Chi siano queste persone, e come mai oggi si trovino qui, davanti a voi?

  Malgrado alcuni di voi siano in grado di immaginare la risposta, voglio dirvelo io.

  Questi uomini, queste donne e questi bambini sono coloro ai quali voi, in un modo o nell’altro, avete sottratto una parte di vita.

  L’egoistico egocentrismo di cui vi siete fatti portavoce vi ha spinti a eliminare senza rimorso e senza alcuna pietà tutti coloro che potevano costituire una minaccia; criminali, anche, ma soprattutto innocenti, persone coraggiose che rifiutavano di riconoscere il vostro regno del terrore e che hanno pagato con la vita il prezzo del loro coraggio.

  In fin dei conti, per voi è tutto così semplice.

  Basta premere un grilletto, o anche semplicemente pronunciare una parola, e tutto finisce istantaneamente, il problema è risolto e voi potete continuare a fare quello che avete sempre fatto.

  Ma vi siete mai domandati quanti padri, quante mogli, quanti figli abbiano patito le conseguenze delle vostre azioni, inondando la Terra con le loro lacrime?».

  Il ragazzo rise leggermente.

  «Ma che sto dicendo? No che non ve lo siete mai chiesto.

  Per potersi porre queste domande è necessario possedere una coscienza, e chiunque pensi unicamente a sé stesso ponendosi al centro del mondo senza il minimo rispetto per la vita non conosce neppure il significato di questa parola.

  Guardate bene questi volti, guardateli con attenzione. Ognuno di essi cela una storia, una storia fatta di dolore, di sofferenza e di pianto».

  Kyuzo si avvicinò allora ad una bambina di forse sei o sette anni, che teneva per mano quella che doveva essere sua madre; a giudicare dai tratti somatici e dal loro modo di vestire dovevano essere americane, e difatti Kyuzo si rivolse alla bambina parlando in inglese.

  «Piccola.» gli disse inginocchiandosi «Dimmi, chi era il tuo papà?».

  Lei lo guardò un momento con quei suoi occhietti azzurri, così innocenti e gentili.

  «Il mio papà.» rispose lei «Era un poliziotto. Era molto bravo. Gli hanno sparato perché ha cercato di mettere in prigione una persona cattiva.»

  «Una persona cattiva? E chi era?»

  «Lei.» disse la piccola indicando Balalaika, che non si scompose minimamente.

  Tutti però si voltarono a guardarla, e per la prima volta persino quelli della Lagoon avvertirono una punta di disprezzo nei suoi confronti.

  «E questa è solo una delle tante storie che potrebbero essere raccontate.

  Purtroppo, nessuna di queste storie ha un lieto fine, e mai potrà esservene uno. Nessun finale può dirsi lieto se c’è anche un solo morto per il quale si è costretti a piangere.

  Molte persone hanno dedicato la loro vita a combattere quelli come voi, nella speranza di poter condurre questo mondo verso un futuro che non fosse segnato solo dalla paura, dall’egoismo e dalla violenza, ma quasi sempre i loro eroici tentativi si sono conclusi tragicamente.

  Tuttavia, qui tutti sanno che, per quanto si possa tentare, non sarà mai possibile ottenere giustizia confidando solamente nella legge.

  Voi mescolate la legge come un mazzo di carte, usate la burocrazia a vostro vantaggio, e se solo qualcuno riesce a individuare una falla in questo schema che voi, nella vostra vanagloria, ritenete perfetto, puntualmente lo uccidente, dopo aver cercato inutilmente di fermarlo infangandone il nome e distruggendolo negli affetti più cari.

  Ebbene, io vi dico che questo scempio è destinato a finire.

  Ci sono forze che nessuna pallottola è in grado di fermare, ed è giunta l’ora che proviate sulla vostra stessa pelle il dolore che avete arrecato ad altri.

  Soffrirete, soffrirete in modo indescrivibile.

  Vi scannerete fra di voi come un branco di lupi famelici, punterete le armi l’uno contro l’altro nel tentativo disperato di salvare la vostra vita, e sarà per noi la ricompensa più grande.

  Presto il mondo saprà che la giustizia esiste ancora, l’onda che solleveremo oggi si spargerà in tutto il mondo spazzando via chi rifiuterà di vivere secondo le sue regole, a cominciare da voi».

  Kyuzo schioccò improvvisamente le dita e dal cielo piovvero una miriade di siringhe verdi, la maggior parte delle quali colpì inesorabilmente i propri obiettivi.

  Revy e gli altri si dimenarono a lungo, cercarono in tutti i modi di contrastare l’effetto degli anestetici, ma alla fine crollarono

 

 

Nota dell’Autore

Eccomi qua! Questo capitolo direi che conclude la prima parte della storia, con il prossimo si passerà ad una trama basata maggiormente sull’azione che sui dialoghi, anche se non mancheranno le scene introspettive.

Ringrazio Selly, Beat, Spectre e Gufo per le recensioni.

A presto

Carlos Olivera

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Capitolo 6
*** Game! ***


5

5

 

 

L’anestetico contenuto in quelle siringhe doveva essere davvero efficace, perché anche dopo essersi risvegliato Rock impiegò parecchi minuti per riuscire a mettere bene a fuoco la vista.

  Poi però si rese conto che ad impedirgli di vedere con chiarezza non era solo l’effetto del farmaco, ma anche il fatto di trovarsi in una stanza grande e quasi completamente buia.

  La sola cosa che gli riusciva di distinguere era una grande e complessa consolle simile a quella delle stazioni televisive piena di pulsanti luminosi, oltre a parecchie decine di piccoli televisori accesi, sui quali però regnava un fastidioso effetto nebbia.

  Appena ebbe pienamente coscienza di cercò di muoversi, ma come era prevedibile si accorse di avere i polsi ammanettati ai braccioli della sedia sulla quale era seduto.

  Stava cercando di ricordare bene quello che era successo nel ristorante quando dalla porta accanto a lui, che doveva dare su un corridoio molto illuminato, entrò un uomo sulla quarantina con barba nera e capelli arricciati, che associati alla pelle scura ne testimoniavano l’origine mediorientale.

  «Ah, ti sei svegliato, finalmente.» disse in tono amichevole andando a sedersi alla poltrona davanti alla consolle «Mi domandavo quanto ancora avresti dormito».

  A Rock quella sembrò fin da subito una faccia famigliare, ed infatti gli ci volle poco per ricordarsi di dove lo avesse visto.

  «Io… io ti conosco. Tu lavoravi alle Industrie Kinomiya.»

  «Hai buona memoria. Non ci hanno mai presentati. Mi chiamo Hibraim Alwariki, ero a capo della divisione tecnica nel Progetto Rebuild.»

  «La divisione… tecnica?»

  «Il progetto Rebuild era composto da tre divisioni, la divisione scientifica, quella medica e infine la divisione tecnica. Ognuna di esse controllava una parte del progetto lavorando in maniera autonoma allo sviluppo di una cura contro la sclerosi multipla e altre malattie.»

  «I nanorobot.»

  «Esatto».

  Hibraim prese un pacchetto di sigarette dal taschino della camicia e ne offrì una a Rock avvicinandogliela alla bocca, quindi se ne accese una per sé.

  «Da dove vieni?» domandò ad un certo punto il giapponese

  «Dall’Iraq. Mio padre era un fervente sostenitore del regime, così a dodici anni sono stato spedito in America assieme ad altri miei coetanei per farmi una cultura degna di questo nome.

  Quel pazzo di Saddam si era messo in testa di fare dell’Iraq il nuovo polo culturale del medio oriente.

  Comunque sia andai a studiare ingegneria robotica, e negli anni dell’università cominciai a sviluppare il progetto dei nanorobot che presentai all’esposizione internazionale di Taejon nel ’93. Fu in quell’occasione che conobbi il signor Kinomiya.

  Qualche anno dopo mi contattò di nuovo, dicendosi pronto a finanziare interamente la mia ricerca, a condizione che accettassi di entrare nel Progetto Rebuild.

  Corruppe mezzo regime per convincerli a lasciarmi andare, di modo che potessi essere assunto a tutti gli effetti nelle Industrie Kinomiya, e appena seppi in che modo aveva intenzione di sfruttare i nanorobot promisi a me stesso di dedicare la vita, se necessario, allo sviluppo della ricerca.

  Quell’uomo era un santo. Era disposto a fare qualsiasi cosa per salvare la figlia.»

  «Sì, lo so.» rispose Rock a sguardo basso «Anche io l’ho conosciuto. Quindi anche tu… sei qui per vendicarti?»

  «E non sono il solo. Hai idea di quante persone siano state rovinate dall’attacco alla Seaborn Star?

  Kyuzo ha decisamente ragione, questo mondo è diventato così marcio da non poter continuare a vivere. Se non fosse stato per lui, che ha recuperato i cocci del progetto dopo che questo era stato cancellato, tutti quelli che ne avevano fatto l’unica ragione di vita si sarebbero ritrovati in mezzo alla strada.

  Per questo noi lo seguiremo fino alla fine. Fino alla morte, se sarà necessario».

  Pochi istanti dopo la porta si aprì nuovamente, e questa volta entrarono Kyuzo e Steven, accompagnati da un uomo grassoccio dalla buffa capigliatura rossiccia.

  «Kaito

  «Ah Okajima, ben alzato.»

  «Ehilà, giapponesino.» disse Steven sorridendogli «Dormito bene?»

  «Che cosa… che significa tutto questo? Dove ci troviamo?».

  A quella domanda Kyuzo fece un cenno a Hibraim, che pigiando un bottone della consolle attivò il satellite privato delle Industie Kinomiya in orbita attorno alla Terra. Due secondi dopo, su uno dei monitor della stanza comparve una panoramica del sud-est asiatico che andava dal Vietnam a Singapore che si fece via via sempre più dettagliata: dapprima fu inquadrato il nord della Thailandia, poi la città di Bangkok, e infine un grande complesso di quattro edifici disposti a rombo all’interno di un giardino quadrangolare.

  Rock lo riconobbe subito, avendolo visto in televisione solo poche ore prima.

  «Ma… è l’Hotel Universe! Volete dire che noi…»

  «In questo momento» lo interruppe Steven «Ci troviamo cinquanta metri sottoterra, al secondo dei cinque livelli sotterranei. Da qui è possibile monitorare tutte le videocamere posizionate in ogni angolo dell’edificio, e abbiamo il controllo di tutte le sue apparecchiature, dagli sciacquoni dei bagni alle porte degli ascensori.»

  «Ma perché? A che scopo realizzare tutto questo?»

  «Lo saprai molto presto.» rispose Kyuzo, che poi diede uno sguardo al suo orologio «Quindici minuti alle ventidue. Ci siamo quasi.»

  «L’anestetico dovrebbe cessare i suoi effetti entro pochi minuti.» disse l’uomo grassoccio, probabilmente un dottore

  «Molto bene. Hibraim, metti i giocatori sugli schermi.»

  «Subito».

  I vari monitor si accesero tutti insieme, e fu allora che sul volto di Rock si materializzarono stupore e sgomento; in ognuno di quegli schermi era riflessa l’immagine di una persona che aveva incontrato nel corso degli ultimi due anni.

  Da Balalaika a Mr.Chang, da sorella Yolanda a sorella Eda, da Shenhua al capitano Watsup, e naturalmente i membri della Lagoon Company. C’erano tutti, ognuno apparentemente in un luogo diverso, dalle terrazze, alle piscine, alle stanze da letto, tutti immersi nel sonno.

  Vi erano però anche molte facce sconosciute, che Rock non aveva mai visto, provenienti, a giudicare dal loro aspetto, da tutte le parti del mondo; questi, a differenza degli altri, erano ben svegli, e molti di loro erano intenti a controllare le proprie armi come se si stessero preparando ad una battaglia.

  «Ma cosa… che cosa significa? Che cos’hai in mente di fare?»

  «Abbi ancora un attimo di pazienza. Tra poco tutto ti apparirà chiaro».

 

Qualche minuto dopo Revy riaprì gli occhi, e la prima cosa che sentì fu un tremendo mal di testa.

  «Ma cosa… che cazzo è successo?».

  Quando si ricordò di quello che era successo in strada immediatamente scattò in piedi e si guardò intorno.

  Era distesa su di un morbido letto all’interno di una stanza che definire lussuosa era poco, con pareti che sembravano fatte d’oro, la moquette rosso acceso e mobili in legno pregiato degni di un palazzo reale, fra i quali un grande armadio con grandi specchi a fare da ante scorrevoli.

  Ancora mezza intontita dall’effetto del sonnifero si alzò in piedi, ma barcollava così vistosamente che dovette appoggiarsi alla parete per evitare di cadere.

  Camminando lentamente, come se stesse portando uno zaino pieno di mattoni, aprì la prima porta che trovò sulla sua strada, finendo, come previsto, nel bagno, anch’esso incredibilmente lussuoso e sfavillante.

  Aprì i rubinetti, e non appena l’acqua fredda bagnò la sua mano se ne gettò subito una gran quantità in faccia, liberandosi finalmente da quella terribile sensazione.

  Ritornata nella stanza cercò di aprire quella che sapeva essere la porta d’ingresso, ma era chiusa a chiave, e non avendo alcuna fessura dove inserirne una Revy dedusse che doveva trattarsi di una serratura elettronica, di quelle che non forzeresti neanche a provarci cent’anni.

  Corse quindi a spalancare le tende della finestra accanto al letto, ma appena guardò oltre non pensò nemmeno di saltare. Come minimo, infatti, si trovava al decimo piano del palazzo in cui era stata rinchiusa, e la fantastica vista di Bangkok illuminata da milioni di luci non era certo sufficiente a sollevarle il morale.

  Affitta, si girò nuovamente, accorgendosi solo in quel momento che sopra il tavolino al centro della stanza erano appoggiate le sue pistole, assieme ad una decina di caricatori tutti pieni fino all’orlo.

  «Beh, almeno sono in compagnia.» disse raccogliendole.

  Nel riporle nel fodero, si avvide anche della presenza di uno strano orologio al polso sinistro; era un modello elettronico, ma invece dell’ora riportava solamente un numero, per la precisione un 100.

  «E questo che diavolo è?».

  Assieme a lei, poco dopo, si risvegliarono anche tutte le altre persone all’interno dell’albergo, fra i quali Dutch, ritrovatosi in una specie di sgabuzzino, e Benny, che invece era finito in uno spogliatoio.

  Al loro risveglio seguì un suono stridente, come quello di un microfono, e subito dopo udirono una voce che a molti risultò subito famigliare.

  «Benvenuti a tutti. Spero che la dormita sia stata di vostro gradimento, e vi prego di scusarmi se per avvicinarvi sono stato costretto a ricorrere a sistemi… discutibili».

  Revy, alzando lo sguardo, si accorse della presenza, sul soffitto, di una microcamera, protetta da una piccola cupola di vetro sicuramente antiproiettile. I microfoni invece dovevano essere piazzati in varie parti della stanza, perché la voce di Kyuzo sembrava provenire da ogni angolazione.

  «Tu, brutto stronzo!» gridò verso la telecamera «Si può sapere che cazzo vuoi da noi?»

  «Oggi» rispose il giovane come se non l’avesse sentita, cosa probabilmente vera «Siete stati tutti invitati a prendere parte ad un gioco. Un gioco molto speciale.»

  «Un… gioco!?».

  Sotto alla telecamera a quel punto si accese una piccola luce verde, e un istante dopo al centro della stanza comparve una specie di schermo olografico che sembrava uscito da un film di Lucas.

  «L’ho chiamato, Death Game».

  Non solo Revy, ma anche tutte le altre persone videro materializzarsi lo stesso schermo, sul quale presero a scorrere immagini dell’hotel.

  «Per tutti quelli che non ne sono ancora al corrente, immagino sia il caso di fare una veloce panoramica del regolamento. In questo momento vi trovate all’interno dell’esclusivo Hotel Universe, alla periferia di Bangkok. L’albergo è costituito da quindici piani, e questi quindici piani, uniti al tetto e al primo livello dei sotterranei, costituiscono la griglia di gioco, una griglia che vi sconsiglio caldamente di oltrepassare.

  All’interno dei vostri corpi infatti sono state inserite delle micro-cariche di esplosivo ad alto potenziale, i cui detonatori sono collegati ad un computer centrale».

  Quell’ultima parte fece gelare il sangue a molti, inclusi i membri della Lagoon, che subito cominciarono a guardarsi il in ogni parte in cerca di una cicatrice, o di un qualche segno che potesse confermare la veridicità di quella minaccia.

  «In questo momento sicuramente molti di voi saranno alla ricerca di tracce, ma mi dispiace dirvi che non ne troverete. Per l’impianto è stato utilizzato un rivoluzionario apparecchio al laser, in grado di effettuare incisioni senza lasciare il minimo segno del proprio passaggio».

  Era troppo anche per mafiosi e altra gentaglia abituata ad uccidere, ed infatti un uomo di Mr.Chang, colto dal panico, cominciò a correre su e giù per la stanza in cui si trovava.

  «No! Non voglio morire!».

  Con la forza della disperazione si buttò dalla finestra, ma prima ancora di poter precipitare sulla strada sottostante sentì un bip all’interno del proprio corpo, e subito dopo esplose con una potenza tale che non rimasero nemmeno le briciole.

  Revy e gli altri assistettero alla scena dagli schermi olografici, e nel vederla furono in molti a venire presi da un cupo terrore.

  «Questa era una dimostrazione. L’intero albergo è avvolto in un campo elettromagnetico generato dal computer. Se i detonatori escono dal suo raggio di azione si attivano automaticamente, e i risultati li avete appena visti.

  Comunque state tranquilli, il vostro destino non è segnato.

  Questo è un gioco, e come tutti sanno un gioco ha sempre una soluzione. Vi invito a guardare i vostri trasmettitori da polso».

  Revy, che mai aveva provato una paura simile, obbedì: il numero sul quadrante era cambiato, dal 100 si era passati al 99.

  «I trasmettitori emettono un segnale che può essere captato da tutti gli altri. Oltre al venire distrutti dall’esplosione, sono in grado di percepire il battito cardiaco, e una volta che il battito si arresta cessano di funzionare. In altre parole, vi sarà sufficiente uno sguardo per sapere quanti concorrenti sono ancora rimasti in gioco.

  Nel momento in cui ne sarà rimasto solo uno il suo detonatore si disattiverà, e la porta d’ingresso nella hall dell’albergo si aprirà.

  A questo punto, immagino che lo scopo finale del gioco sia chiaro: l’obiettivo finale è rimanere gli unici concorrenti in gara, perché solo così si potrà uscire indenni dalla griglia di gioco.

  Il vincitore, oltre alla vita, si porterà a casa anche il premio in palio, un assegno da trenta milioni di dollari».

  Ora era chiaro.

  Un massacro, una mattanza.

  Ecco quello che Kyuzo aveva in mente per la sua vendetta.

  Ecco come intendeva fare in modo che i membri della Lagoon arrivassero ad uccidersi fra di loro; in quella specie di perverso gioco della morte c’era spazio per un solo vincitore, per questo Revy e gli altri, volenti o nolenti, sarebbero stati costretti a considerarsi rivali, ad attentare alla vita l’uno dell’altro, se volevano sperare di potare a casa la pelle.

  Le reazioni dei tre amici coinvolti nel gioco furono diverse per ognuno: Benny avrebbe voluto piangere, Dutch digrignò i denti battendo i pugni sul muro, sentendosi come un topo in gabbia, Revy invece si sentiva come se qualcuno la stesse stringendo con forza nella propria mano, una sensazione terribile che la spaventava e, contemporaneamente, la faceva infuriare.

  «Che tu sia maledetto!» urlò sparando contro la videocamera, ma come era prevedibile il vetro antiproiettile respinse tutti i colpi.

  «A parte il non poter lasciare la griglia di gioco, non vi è nessuna regola specifica. Potete scegliere la strategia che più vi soddisfa, e ricorrere ai metodi che riterrete più opportuni. Ognuno di voi ha con sé la propria arma, ma ce ne sono altre disseminate qua e là per l’albergo, e indubbiamente riuscire ad accaparrarvele costituirà un vantaggio.

  Per finire, una raccomandazione riguardo al tempo di gioco. La batteria del computer che alimenta il campo magnetico è limitata, e durerà al massimo otto ore. Se entro queste otto ore non ci sarà un vincitore il campo collasserà, e i detonatori di conseguenza si attiveranno.

  Bene, ora che vi ho detto tutto, la partita più avere inizio!».

 

GAME START!

 

Nota dell’autore.

Salve a tutti. Scusate questa ennesima assenza prolungata, ma dovendo portare avanti due fiction nello stesso momento si finisce per far prevalere sempre una o l’altra, con il rischio di rimanere indietro.

Cercherò di aggiornare in tempi più convenienti nei prossimi giorni, lo prometto

Ringrazio come al solito Beat, Gufu_tave, Selly e Spectre per le recensioni.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 7
*** The Illusionist ***


6

6

 

 

Non appena la serratura elettrica scattò, Revy spalancò immediatamente la porta e cominciò a correre lungo il corridoio costellato di porte; non importava dove andava, non sapeva nemmeno quali fossero le sue reali intenzioni, sapeva solo che se fosse rimasta ferma avrebbe finito con l’impazzire.

  Avrebbe voluto andarsene, uscire da quell’incubo, ma dentro di sé sapeva di non esserne in grado, sapeva di essere stata imprigionata in una trappola senza uscita, da cui poteva salvarsi unicamente stando alle regole.

  Ma cosa avrebbe fatto se si fosse trovata davanti Dutch, o Benny, o la sua sorellona?

  Non voleva pensarci, per nessun motivo.

  Per il momento, si diceva, doveva preoccuparsi di fare la cosa che le riusciva meglio: sparare.

  A tutto il resto ci avrebbe pensato poi. Per non parlare della soddisfazione che voleva prendersi piantando qualche palla in testa a quello psicotico figlio di puttana che li aveva chiusi lì dentro come tanti topi da laboratorio.

  Gliel’avrebbe fatta pagare, oh se gliel’avrebbe fatta pagare, e nel modo più atroce possibile.

  Il suo primo avversario fu un omuncolo da poco uscito da un’altra stanza, e difatti se ne liberò con un solo colpo ben piazzato prima ancora che questo si accorgesse di lei, quindi, fatti pochi passi, raggiunse gli ascensori, posti di fronte alla maestosa scalinata a doppia rampa che scendeva sempre più fino al pianterreno.

  Revy fece per prendere le scale, ma appena sentì degli spari poco più sotto decise che era più prudente optare per gli ascensori.

  Il bottone per la chiamata metteva in moto la cabina libera più vicina fra le quattro disponibili, e a giudicare dai led luminosi la prescelta era la prima da sinistra; Two Hands, dopo essersi accertata di non avere nessuno intorno, e stando sempre pronta a fulminare chiunque le si sarebbe presentato davanti, si mise in attesa.

  Tuttavia, quando mancavano solo un paio di piani, fu colta da un leggero quanto allarmante sospetto, e subito si appiattì contro i battenti accanto all’ascensore prestabilito.

  Passarono alcuni secondi, e non appena le porte si aprirono da dentro la cabina partì una spaventosa raffica di mitragliatrice sparata da uno Spectre che fortunatamente andò a vuoto.

  Il colombiano che la impugnava, stupito dal non vedere nessuno, smise di sparare quasi subito.

  «Ma cosa…».

  Revy comparve allora da dietro i battenti con la pistola destra sollevata.

  «Bel tentativo, stronzo.» disse facendogli un terzo occhio in mezzo alla fronte.

  Non appena quello stupido fu a terra in un lago di sangue, alla ragazza venne quasi da ridere.

  Il vecchio trucco dell’ascensore; se fosse esistito un manuale del perfetto killer, sarebbe stato sicuramente a pagina uno, o forse alla voce “cose da non fare”.

  Era stato inventato dai sicari della mafia ancora negli anni ’30, quando i capi di Cosa Nostra e delle altre grandi famiglie italo-americane frequentavano i lussuosi alberghi di Manhattan piuttosto che le fogne del Bronx.

  I killer entravano nell’albergo spacciandosi per clienti comuni, salivano sull’unico ascensore che veniva lasciato in funzione e aspettavano; se qualcun altro entrava facevano finta di niente, ma appena le porte si aprivano sull’obiettivo e sul suo seguito, ecco che dall’impermeabile spuntava un Thompson che veniva svuotato in pochi secondi.

  Molti famosi boss erano stati spediti al creatore con questo sistema, approfittando di uno di quei rarissimi momenti in cui non si immaginerebbe mai di trovarsi a tu per tu con la canna di un mitra.

  Revy pigiò il primo bottone che le capitò sotto mano, quello del primo piano, e l’ascensore incominciò a scendere.

  Era quasi arrivata a destinazione, quando un nuovo dubbio la colse: in fin dei conti, il trucco dell’ascensore poteva funzionare anche al contrario. Subito prese a guardarsi intorno, e appena vide una botola sul soffitto che poteva essere aperta immediatamente la sfondò a suon di pallottole, salendoci subito e mettendosi al sicuro sul tetto dell’ascensore proprio quando questo si stava fermando.

  E difatti, il trucco ci stava tutto, solo che stavolta invece di una scarica di mitra arrivò una raffica di pallettoni, che ancora una volta andarono a vuoto, e sfruttando il riflesso degli specchi dell’ascensore, o di quel che ne restava, Revy fece sporgere il suo braccio e rispose al fuoco con un terzo, micidiale colpo in testa.

 

A causa dell’effetto dell’anestetico, ulteriormente accentuato dal suo fisico non molto sviluppato e dalla grande quantità che gli era stata iniettata, Rock era continuamente soggetto ad uno stato di dormiveglia che lo portava a svegliarsi e addormentarsi abbastanza spesso.

  Avrebbe voluto rimanere cosciente, avrebbe voluto fare qualcosa per aiutare i suoi compagni, ma l’essere ammanettato ad una sedia e quel continuo andare e venire fra la realtà e il mondo dei sogni lo rendevano del tutto impotente, e la cosa lo faceva stare male.

  Come se non bastasse, ogni volta che si addormentava non riusciva a non sognare, o quanto meno ad intravedere, Harue, in tutti quei momenti che avevano trascorso insieme.

  Allora, Kaito era molto diverso: era generoso, altruista, affidabile.

  Il ritratto di suo padre, di cui un giorno avrebbe preso il posto; era solito ripetere che una volta divenuto responsabile dell’impero di famiglia avrebbe fatto l’impossibile per adoperarsi contro le brutture del mondo, e i mezzi per farlo li aveva tutti.

  Le Industrie Kinomiya avevano denaro, potere e il favore dell’opinione pubblica, controllavano direttamente o indirettamente le maggiori multinazionali dei cinque continenti, avrebbero potuto muovere le fila del mondo in tutta tranquillità.

  Era sempre stato il sogno del signor Kinomiya, cresciuto nella povertà e nelle difficoltà dell’immediato dopoguerra, quello di trasformare la Terra in un posto migliore, dove il male fosse perseguitato in ogni sua forma, indipendentemente da chi lo esercitava, fosse un borseggiatore da strada o il presidente di una nazione, ed era anche il suo.

  Ma cosa rimaneva di quel Kaito, quello che aveva insegnato a Rock ad apprezzare e amare la giustizia?

  Nulla più di un assassino fanatico, molto simile agli altri che aveva conosciuto da quando era entrato nella Lagoon, ma estremamente più pericoloso. La sola cosa che gli interessava era la vendetta, e pur di ottenerla aveva dato vita ad un perverso gioco al massacro che avrebbe spinto gli autori del suo dolore ad uccidersi tra di loro. Tuttavia, analizzando la situazione con maggior riguardo, si poteva intravedere anche qualcosa di più della semplice vendetta.

  Prendere i peggiori criminali del mondo, rinchiuderli in una trappola mortale in cui non erano nulla più che uomini comuni, era una chiara e precisa ostentazione di forza, che nel corso degli anni avrebbe dovuto spaventare e incutere soggezione in chiunque si fosse incamminato sulla stessa strada.

  Quando tornò in sé per la terza volta, Rock vide qualcosa che lo lasciò senza fiato, e che per un attimo gli fece ritenere di stare ancora sognando.

  La stanza di controllo era nuovamente vuota, c’era solo Steven, seduto alla consolle; aveva in mano un cacciavite, e ciò su cui stava lavorando era… la sua gamba!

  La gamba sinistra, accavallata sulla destra, era di metallo dal ginocchio in giù, una protesi mai vista prima, molto più complessa e sofisticata di quelle che si vedevano comunemente in giro; ricalcava in tutto e per tutto le fattezze di un arto convenzionale, con tanto di piede completamente articolabile.

  Steven, accortosi che Rock lo guardava come fosse un fantasma, sorrise.

  «Bella, vero? Purtroppo devo farci una continua manutenzione.»

  «Ma quella… quello… che cos’è?»

  «Industrie Kinomiya, programma recupero disabili. Funziona sfruttando la carica elettrica del sistema nervoso, e si avvale di un computer centrale alimentato a batteria per svolgere le funzioni di un arto convenzionale.»

  «Io… non ne avevo mai sentito parlare. È stupefacente.»

  «Un amico del signor Kinomiya aveva perso le gambe nell’11 settembre a causa del crollo di una parete. Il progetto era in cantiere già da qualche anno, e questo ha fornito la scusa buona per portare avanti la ricerca.»

  «È grazie a quella che eri così veloce nei movimenti l’altra sera?»

  «Indovinato. Sono di titanio, estremamente leggere, ma abbastanza potenti e sofisticate da consentire prestazioni che vanno ben al di là persino di quelle di un campione olimpionico.»

  «Ma… perché non l’hanno messa in produzione?»

  «I signori del consiglio e i soci finanziato hanno ritenuto che permettere a un disabile di camminare di nuovo non valeva mezzo milione di dollari.

  Non che gliene faccia una colpa. Si stima che al momento vi siano almeno quasi un milione di amputati nel mondo, fai tu il calcolo.

  Le Industrie Kinomiya sono ricche e potenti, ma a tutto c’è un limite».

  Seguì un raggelante silenzio, poi Rock abbassò lo sguardo.

  «Com’è successo?».

  Steven si accigliò, nascondendo a stento una smorfia di disgusto.

 «Erano state le Compagnie Hankfield a costruire la Seaborn Star.

  Quella nave era il fiore all’occhiello dei nostri cantieri navali, aveva il sistema di navigazione e i motori più sofisticati che si fossero mai visti a memoria d’uomo. Una Queen Mary III, anzi meglio.

  Mio padre era un appassionato di meccanica, e io ancor più di lui.

  La sera della festa, la sala macchine segnalò un guasto tecnico ad uno dei motori, quindi io e mio padre andammo controllare per capire cosa fosse successo.

  Il motore in questione era stato sabotato, il sistema di raffreddamento non funzionava, si è surriscaldato e prima che potessimo fare qualcosa ci è esploso in faccia».

  Il giovane a quel punto si sollevò anche l’altro cavallo dei calzoni; anche la gamba destra era una protesi, esattamente come la sinistra.

  «Io me la cavai con l’amputazione di entrambe le gambe e l’asportazione di parte del fegato a causa di una scheggia. Mio padre non ebbe la stessa fortuna. Quando lo portarono a terra, fu necessario analizzare l’impronta dentale per riconoscerlo; l’esplosione lo aveva colpito in pieno, riducendolo ad un legno bruciato».

  Rock non riuscì a fare a meno di guardare a terra, non ce la faceva a guardare negli occhi Steven senza sentirsi un verme.

  «Queste gambe che vedi me le ha date Kaito, ha pagato di tasca propria la realizzazione di due protesi su misura per me, e mi ha preso con sé dopo che l’incidente della Seaborn Star ha portato al fallimento la nostra compagnia. Darò la vita se necessario per difenderlo, e per estirpare per sempre il marcio di questo mondo.»

  «La vendetta non servirà a ridarti gli affetti persi.» sussurrò Rock senza però riuscire ad alzare gli occhi

  «Hai ragione. Però mi farà sentire meglio. Non posso tollerare l’idea che i responsabili della distruzione della mia famiglia se ne vadano in giro come se niente fosse. E comunque» disse nascondendo di nuovo le sue menomazioni e infilandosi le scarpe «La mia sorte è sempre meno terribile di quella a cui è destinato Kaito».

  Nel sentire quell’affermazione, Rock ebbe come un mancamento.

  «Di che stai parlando? A che sorte è destinato Kaito?».

  Steven aprì allora una valigetta appoggiata ai piedi della console e ne cavò fuori un’ampolla di liquido rosso che mostrò al prigioniero.

  «Tu sai cosa è questo?».

  Rock ovviamente fece cenno di no.

  «Questa è l’unica cosa che abbia tenuto in vita Kaito negli ultimi quattro anni. È un acido. Un acido in grado di distruggere le cellule robotiche.»

  «Le cellule robotiche?! Ma… non sono quelle che lo rendono così potente? Perché distruggere la fonte del suo potere?»

  «Per via del loro grande difetto.»

  «Un… difetto?»

  «I nanorobot sono come le cellule del corpo, replicano stessi in base alla matrice originaria. L’unico problema è che si replicano all’infinito, senza sosta.»

  «Senza sosta!? Vuol dire che…»

  «Esatto. Vuol dire che se venissero lasciati liberi di replicarsi finirebbero con l’intasare il corpo del loro ospite. Kaito quindi è costretto ad iniettarsi questo acido regolarmente per contenere la loro proliferazione e tenerli sotto controllo. Sfortunatamente, questa strada sta per sfociare in un vicolo ceco.»

  «Perché?»

  «Perché i nanorobot sono in fin dei conti delle intelligenze artificiali. Imparano dall’esperienza, adattando la propria struttura a seconda della situazione. Con l’andare del tempo, hanno cominciato a sviluppare resistenza all’acido, tanto che si è reso necessario aumentare costantemente la dose di ogni singola iniezione per renderlo efficace. E aumenta oggi aumenta domani, è stata raggiunta la soglia critica.»

  «Che intendi per soglia critica?»

  «Intendo dire che sono diventati così resistenti che l’acido ormai è quasi del tutto inefficace. Il processo di replicazione è diventato inarrestabile, e dal momento che i nanorobot necessitano di energia per sopravvivere stanno sopperendo alla mancanza di fonti di approvvigionamento procurandosi quanto necessario alla replicazione direttamente dal corpo di Kaito, attaccando le cellule per assorbirne il nutrimento».

  Rock sentì il cuore fermarglisi per un istante quando capì a quale destino si stava riferendo Steven.

  «Quei nanorobot…» balbettò «Si sono trasformati… in un virus.»

  «Un virus letale e inarrestabile. A questa velocità gli restano quattro, massimo cinque giorni prima che i suoi vasi sanguigni vengano del tutto ostruiti dalla loro continua moltiplicazione. Il sangue smetterà di circolare, andrà prima in crisi respiratoria poi in arresto cardiaco, e infine morirà. Non gli resta alcuna speranza, e lui lo sa.»

  «Lo sa!? Ma allora… lo sapeva anche prima di iniettarseli!?»

  «Certo che lo sapeva.»

  «E tutto questo…» sussurrò Rock come tra sé «Solo per vendicarsi».

  Seguì un silenzio raggelante, carico di dolore, poi la porta si aprì nuovamente, e fu proprio lui ad entrare.

  «Steven. Come procede?»

  «Alla perfezione. In venti sono già stati eliminati, ma i membri della Lagoon per ora sono tutti vivi.»

  «Perfetto. Tra poco Ashford verrà a darti il cambio, così potrai riposarti un po’.»

  «Ok, grazie».

  Kyuzo guardò quindi Rock, e ad un suo cenno le manette che lo imprigionavano si sciolsero, liberandolo.

  «Porto Okagima a fare un giro nei sotterranei. Avvertimi se c’è bisogno di qualcosa.»

  «D’accordo, va’ pure».

  Rock, anche se titubante e ancora visibilmente scosso per ciò che aveva sentito, accettò di seguire nuovamente il suo amico; appena lasciata la stanza, si ritrovarono in un corridoio che sembrava quello di una nave spaziale, illuminato a giorno da lampade installate sia sul soffitto che sul pavimento.

  Senza fiatare, e stando sempre uno dietro l’altro, percorsero il corridoio fino a raggiungere un ascensore che, sopra al pulsante di chiamata, aveva un piccolo schermo per la lettura delle impronte digitali. Kyuzo vi appoggiò il pollice, e immediatamente le porte si aprirono.

  «Questo ascensore è l’unico collegamento con la superficie e gli altri livelli dei sotterranei.» disse mentre la cabina cominciava a scendere «È utilizzabile solo con il riconoscimento delle impronte, le uniche registrate sono le mie e quelle dei miei compagni».

  Quel discorso aveva in sé, ovviamente, un ammonimento che invitava Rock a non tentare in alcun modo la fuga, e da ciò si desumeva che, probabilmente, da quel momento in poi non sarebbe più stato soggetto ad alcun tipo di costrizione fisica come avvenuto fino a quel momento, e la cosa se non altro gli arrecò un certo sollievo.

  In fin dei conti, l’amicizia che lo aveva sempre legato a Kaito esisteva ancora, e la prova di ciò era il fatto stesso di trovarsi in quei sotterranei, piuttosto che all’interno dell’albergo coinvolto nel Death Game.

  La discesa durò quasi mezzo minuto, poi, quando finalmente si arrestò, e le porte si riaprirono, a Rock si palesò una scena mai vista.

  Se prima sembrava di essere su un’astronave, ora invece l’ambiente ricordava quello di un sofisticato e avveniristico centro di ricerca.

  Piccoli corridoi completamente bianchi, illuminati a giorno come fossero alla luce del sole, collegavano fra loro decine di stanze più o meno grandi ben visibili dall’esterno grazie ad ampie vetrate attraverso le quali si poteva osservare tranquillamente quello che avveniva all’interno, e a giudicare dal particolare riflesso doveva trattarsi di specchi magici.

  Per la maggior parte erano laboratori di ricerca provvisti delle apparecchiature più all’avanguardia, dai computer, alle celle di contenimento, ai macchinari medici, ma c’erano anche alcune sale operatorie e persino delle camere sterili.

  «È… è incredibile.» disse Rock senza parole «Ma… che posto è questo!?»

  «Il quarto livello del mio nuovo centro di ricerca. Sorge a quasi centocinquanta metri sotto la superficie, e ricopre un’area di svariati chilometri quadri sotto le strade di Bangkok. Ci sono voluti quattro anni per costruirlo».

  Entrarono in una stanza, e Kyuzo attivò quello che aveva tutta l’aria di essere un generatore di ologrammi tridimensionali, su cui si materializzò in pochi secondi una proiezione dell’intera struttura.

  «Il centro di ricerca è strutturato su quattro livelli, collegati fra di loro da diversi ascensori ma con uno solo a collegarli alla superficie. Il primo livello, dove ci trovavamo fino a poco fa, ospita i sistemi di controllo e di sorveglianza, tanto dell’albergo quanto del centro stesso.

  Il secondo livello è costituito da due blocchi, e vi si trovano gli alloggi di coloro che verranno a lavorare qui, camere spaziose e confortevoli.

  Il terzo livello è riservato allo svago e al sostentamento della struttura: c’è una cucina, una sala mensa, anche un cinema e una biblioteca.

  Il quarto livello, quello in cui ci troviamo ora, costituisce il cuore della struttura, quattro blocchi di laboratori provvisti dei più moderni strumenti per la ricerca in materia di medicina, informatica, meccanica e ingegneria.

  Infine, il quinto e ultimi livello è occupato dal complesso energetico indispensabile al funzionamento dell’intera installazione.»

  «Ma a che scopo costruire tutto questo?».

  Kyuzo lo guardò coi suoi occhi gelidi.

  «Quando il Death Game giungerà al termine, sarà qui che riprenderanno le ricerche sul Progetto Rebuild».

  Sentendo nominare il Progetto Rebuild Rock non poté fare a meno di rievocare le parole di Steven, e allora non riuscì a guardare il suo amico negl’occhi.

  «Steven…» disse quasi balbettando «Mi ha raccontato la storia dei nanorobot. Di quello che stanno facendo al tuo corpo.»

  «Dunque ora sai.» replicò Kyuzo con incredibile tranquillità spegnendo il generatore di ologrammi «Purtroppo i nanorobot sviluppati da mio padre rimanevano pur sempre un prototipo. Eravamo al corrente di questo difetto, ma con tutti i soldi che la ricerca ci era già costata non era stato possibile portarla avanti ulteriormente.

  Per questo era stato organizzato il party a bordo della Seaborn Star. Avevamo bisogno di creare una cordata di soci finanziatori, e rendere pubbliche le scoperte fatte fino a quel momento era sembrato il modo più facile per ottenere nuovi fondi.»

  «Perché lo hai fatto, Kaito? Perché l’hai fatto, pur conoscendo ciò a cui andavi incontro?»

  «Non è ovvio?» rispose lui con malcelata ostilità «Per fargliela pagare. Dopo quel giorno, non mi è più importato niente di nulla. Tutto ciò che volevo era restituire il favore a coloro che avevano distrutto la mia famiglia e la mia vita, strappandomi tutto ciò che avevo senza la minima esitazione».

  Rock fece una nuova pausa, quasi a volersi capacitare di ciò che stava succedendo, a voler convincere stesso che tutto ciò stava accadendo veramente.

  «Quindi…» disse cercando di cambiare discorso «L’albergo non è altro che una copertura.»

  «È il modo più facile per coprire il continuo andirivieni di gente che ci sarà quando il laboratorio diverrà operativo.

  L’incidente della Seaborn Star mi ha aperto gli occhi. Da ora in avanti, nessuno a parte chi vi prenderà effettivamente parte saprà della ripresa del Progetto Rebuild.»

  «E allora come hai trovato i soldi per costruire tutto questo? Se davvero il progetto deve rimanere segreto, non credo che il consiglio di amministrazione ne sia al corrente. D’altra parte però, questa struttura sarà costata svariati miliardi di dollari.»

  «Le Industrie Kinomiya hanno finanziato solamente la realizzazione dell’albergo. Il laboratorio l’ho finanziato io personalmente, utilizzando i depositi a fondo perduto di proprietà esclusiva della mia famiglia. Sfortunatamente, la realizzazione mi è costata più di quanto potessi immaginare, e ormai quei depositi sono esauriti.»

  «E allora come riuscirai a mandare avanti il progetto?»

  «Per ognuno dei paesi in cui sono stato in questi quattro anni ho stipulato una polizza sulla vita usando ogni volta un nome diverso. Alla mia morte, oltre quaranta milioni di dollari confluiranno qui, e confido che basteranno per sostenere la ricerca il tempo necessario a trovare un espediente al problema dell’auto-replicazione. Inoltre avranno a disposizione il mio corpo come base di partenza, il che dovrebbe facilitare di molto il lavoro.

  E naturalmente, in aggiunta, ci saranno anche gli introiti delle scommesse.»

  «Delle… scommesse!?».

  Si aprì allora un nuovo schermo olografico accanto a loro su cui compariva quella che dava tutta l’aria di essere una pagina internet.

  Una sotto l’altra, a file di tre, capeggiavano le fototessere di tutti i partecipanti al Death Game, inclusi Revy e gli altri; sotto ogni foto c’erano una serie di dati e una cifra intesa in dollari che continuava ad aggiornarsi; alcune foto, poi, erano più scure delle altre, e in alto a destra si poteva leggere il numero di persone ancora in gioco, che in quel momento erano 79; infine, tramite un’icona specifica, era possibile selezionare una delle tante videocamere sparse per l’albergo e osservare quello che succedeva in tempo reale.

  Rock rimase rigido come una statua.

  «Ecco, vedi?» gli disse Kyuzo «Su questo sito si può conoscere in tempo reale lo stato del torneo. Oltre a potersi collegare alle videocamere di sorveglianza, è anche possibile effettuare delle scommesse su uno o più giocatori. Ognuno di essi è quotato ad un certo livello, chi vince si prende il malloppo, le quote perse invece vengono a noi e andranno a finanziare il progetto».

  Il giovane impiegato giapponese sentì le ginocchia tremargli furiosamente, il respiro corto e la fronte rigata dal sudore, e a quel punto non ci vide più.

  «Kaito, ti rendi conto di quello che stai facendo?» urlò prendendolo per il bavero «Stai giocando con la loro vita!»

  «Non vedo cosa ci sia di male.» rispose lui liberandosi senza difficoltà e senza cattiveria «In fin dei conti, loro hanno giocato per tanto tempo con le vite degl’altri».

  Atterrito, in preda allo sconcerto, Rock osservò le foto dei suoi compagni, notando un’altra cosa che lo lasciò interdetto.

  «Ma… Revy è quotata dieci a uno!»

  «Mi sembra ovvio. Al Death Game partecipano sicari e killer di professione fra i più letali del mondo. Per fissare le quote ci siamo basati sui loro trascorsi nel mondo degli omicidi, ma potrebbero anche esserci sorprese impreviste».

  In quella, in basso a sinistra della pagina si accese un led luminoso che catturò l’attenzione di entrambi.

  «Guarda un po’» disse Kyuzo «Sta per cominciare un incontro di classe A.»

  «Classe… A?»

  «Negli incontri di Classe A vi è la partecipazione di due concorrenti le cui prestazioni risultano particolarmente elevate. I concorrenti vengono isolati, in modo da evitare intrusioni da parte di estranei, e in questo particolare caso è anche possibile effettuare delle scommesse sui singoli incontri.»

  «E… chi sono i partecipanti?»

  «Ora controllo».

  Kyuzo lavorò un momento ad una tastiera lì vicino, anch’essa un modello avveniristico fatta interamente in vetro provvista di touch-sistem invece che di pulsanti veri e propri, e qualche istante dopo la pagina andò in sfondo, mettendo in primo piano le foto di due partecipanti, una delle quali minacciò di provocare a Rock un tremendo infarto.

  «Pare proprio che Revy non sia stata per nulla fortunata.» commentò Kyuzo non senza ironia «Il suo avversario è uno dei favoriti per la vittoria finale. Michelle “Colombe” Madinier, l’Assassino Illusionista».

 

Nello stesso momento, un uomo di Hotel Moskow si era trovato coinvolto suo malgrado in una sparatoria colossale, e nel tentativo di sfuggire a quella carneficina era finito nella grande sala da pranzo del secondo piano.

  Era una stanza di proporzioni colossali, ma vi regnava un’atmosfera strana, come di funesto presagio, ulteriormente accentuata dall’oscurità quasi totale, solo in parte lenita dalla luce proveniente dalle grandi vetrate che ricoprivano un’intera parete.

  A differenza dell’esterno, lì dentro non sembrava esserci alcun pericolo imminente; tutto era quieto, tranquillo. Diverse decine di tavoli circolari apparecchiati di tutto punto con tovaglie pregiate e stoviglie luccicanti formavano una sorta di labirinto invisibile, o di intricato disegno, il tavolo del buffet al centro della sala traboccava di ogni sorta di prelibatezza, alcune delle quali già elegantemente disposti su piatti di ceramica arricchita con rifiniture d’oro che attendevano solo di essere raccolti.

  Dopo essersi chiuso la porta alle spalle, il mafioso si era messo alla ricerca di una seconda uscita, ma tutto in quella sala appariva così calmo che per un attimo volle considerare l’idea di stare lontano dall’inferno lì fuori per concedersi un momento di riposo. Avvicinatosi al buffet, si avventò senza esitazioni su qualsiasi cosa gli capitasse a tiro, anche per via del tremendo buco nello stomaco che i postumi dell’anestetico gli avevano lasciato.

  Stava addentando una coscia di pollo, quando gli parve per un istante di sentire un rumore alle sue spalle, come uno spiffero di vento, ma giratosi velocemente non vide nulla di allarmante; non appena tornò a concentrarsi sulla sua cena, però, lo sgomento lo colse: la coscia di pollo era sparita dal piatto!

  Com’era stato possibile?

  Era rimasto voltato solo per un istante, chi o cosa aveva potuto prenderla e scomparire in un lasso di tempo così breve?

  Spaventato, cercò qualche secondo una spiegazione nazionale, ma quando per la seconda volta avvertì quello spiffero di vento mise immediatamente mano alla sua pistola, puntandola davanti a sé come se avesse avuto il nemico davanti agl’occhi.

  Sentendosi osservato cominciò a camminare in mezzo ai tavoli, mentre i nervi erano tesi allo spasimo e il cuore gli batteva all’impazzata.

  D’un tratto, qualcosa gli capitò in mezzo ai piedi, rischiando quasi di farlo inciampare, e vedendo di che si trattava la paura si trasformò in terrore.

  A sbarrargli la strada era stato il cadavere di un cinese, riverso a terra sulla schiena in una pozza di sangue, con la gola recisa e una stupenda rosa bianca puntata sulla giacca, aspetto quest’ultimo che assolutamente non faceva parte dello stile delle triadi.

  Bastarono pochi passi, ed ecco spuntare un nuovo cadavere, questa volta di un sudamericano, a giudicare dall’abbronzatura e dai baffi folti, trattato allo stesso modo.

  Fu allora che, oltre allo spiffero di vento, il mafioso avvertì anche il suono agghiacciante di una giovane risata; pazzo di terrore si girò verso quell’orrendo suono sparando due colpi, ma la sola cosa che colpì fu il muro.

  Qualche secondo dopo, ecco sopraggiungere di nuovo quella risata, e di nuovo il russo sparò nella direzione da cui proveniva, ma di nuovo furono colpi a vuoto.

  Ormai completamente preda della paura il mafioso cominciò a verso la seconda uscita, ma nel momento in cui stava per  raggiungerla dal nulla vide comparire dinnanzi ad essa una indistinta e minacciosa figura scura che sembrava indossare un lungo mantello; atterrito, le sparò addosso, ma non parve sortire alcun effetto.

  Cercò allora di raggiungere la porta dalla quale era entrato, ma non fece in tempo a girarsi a guardarla che la stessa figura era già lì a bloccarla.

  Era come essere prigioniero di un incubo, dovunque si voltasse lo vedeva comparire come un fantasma, e senza rendersene conto si ritrovò a correre da una parte all’altra, fino a che, sfinito, si ritrovò appoggiato al piccolo palcoscenico posto ad un’estremità della sala.

  Terrorizzato come non mai, si girò nuovamente a guardare verso i tavoli: l’ombra era sparita, e ora lì dentro sembrava esserci solo lui.

  Che fosse stata solamente un’allucinazione?

  Forse la paura e la tensione provocate dal trovarsi coinvolto in un simile gioco al massacro gli stava giocando dei brutti scherzi, ai quali neppure i suoi nervi allenati sembravano in grado di reggere.

  In quella, il sipario alle sue spalle si scostò leggermente, e una mano guantata, dopo avergli sfiorato la spalla, gli mise davanti agli occhi la carta da gioco che stringeva fra il secondo ed il terzo dito.

  Il sangue gli si gelò nelle vene nello scorgere la figura di una morte scheletrica che stringeva fra le sue mani ossute una falce insanguinata.

  «J… Joker?!»

  «Questo è il tuo destino.» disse la medesima voce con un forte accento francese.

  Subito dopo quella stessa carta, fatta invece di freddo metallo, gli recise la gola coi suoi bordi affilati, e prima ancora di poter emettere un qualunque gemito di agonia il mafioso cadde senza vita.

  Pochi minuti dopo, quando il silenzio era tornato a regnare, qualcun altro entrò nella sala, per la precisione Revy, e alla ragazza non servì molto per individuare uno dei tre cadaveri.

  «Questa cosa non mi piace per niente.» disse fra sé e sé percependo una presenza di qualcuno che la fissava.

  Poi, all’improvviso, con un sincronismo pressoché perfetto, il sipario si sollevò e si accese una lampada che illuminò a giorno una porzione del palcoscenico, assieme a colui che c’era sotto.

  Era giovane, molto giovane, a giudicare dalla statura e dai capelli castani, ma era impossibile vederlo in volto; indossava infatti una maschera di ceramica bianca raffigurante una faccia sorridente, un sorriso malevolo, simile ad un ghigno, di quelle che immagineresti addosso ai fantasmi.

  Vestiva in modo elegante e leggermente eccentrico, almeno quanto la sua maschera: eleganti mocassini, calzoni e giacca bianchi, camicia azzurro chiaro, cravattino rosso spento; portava anche un paio di pregiati guanti di velluto sempre bianchi e un lungo mantello sorretto sulle spalle da una coppia di spille d’argento a forma di giglio. Il mantello in particolare era molto strano, bianco all’esterno e nero all’interno. Come ultimo, stringeva in mano un lungo bastone di legno sormontato da un grosso pomo d’oro massiccio.

  Revy, vedendolo comparire, gli puntò immediatamente le pistole contro, ma a dispetto di quanto sarebbe potuto accadere fino a poco tempo prima trovandosi di fronte un tipo simile, la cosa non la fece ridere per nulla.

  «Bonsoir, mademoiselle.» disse con un reverenziale cenno del capo «Tu devi essere la famosa Revy.»

  «Come lo sai?»

  «Sono ben poche le donne che prendono parte a questo gioco, e dalle informazioni in mio possesso Revy è l’unica di esse a fare uso dello stile Two-Hands

  «Mh, ne sai di cose per essere un francese mangia-lumache.»

  «Il mio nome è Michelle Madinier, ma se preferisci puoi chiamarmi Colombe.»

  «Colombe!?»

  «La Colomba. Altrimenti noto come l’Assassino Illusionista.»

  «Illusionista? Nel senso che ti illudi di saper uccidere qualcuno quando in realtà non ne sei capace?»

  «Au contrair, mademoiselle Revy. Mi chiamano l’Assassino Illusionista perché i miei omicidi sono come degli spettacoli. L’omicidio in sé è un atto sublime, in cui un uomo deve saper esprimere il meglio di sé e in cui ogni cosa deve essere nel posto giusto.»

  «Ma fammi il piacere. Uccidere è uccidere, il sublime non c’entra nulla. Premi il grilletto, ed è fatta.»

  «Questo è il classico discorso da infimo sicario che dimostra quanto poco sappiate voi pezzenti della grandezza e della maestosità del nostro compito. Ma se sei così convinta che ciò che dici sia vero, allora sparami».

  Revy, già nervosa di suo, prese a ringhiare come una bestia puntando una delle due pistole contro Colombe, che rimase assolutamente immobile, ma esitò a sparare; c’era qualcosa in quell’individuo che assolutamente non la convinceva.

  «Chi è di scena, inizia lo spettacolo.» sussurrò il francese piegando leggermente il capo.

  Un istante dopo Two-Hands sparò, ma prima di poter essere colpito Colombe scomparve in una nuvola di fumo, proprio come un vero prestigiatore.

  «Ma cosa…».

  Sgomenta, Revy prese a guardarsi attorno, e con grande stupore vide comparire una decina di Colombe tutti attorno a lei che la fissavano coi loro sorrisi dipinti.

  «Allora, non dovevi spararmi?» disse uno di loro, anche se fu impossibile per Revy capire quale fosse visto l’eco che regnava in quella sala.

  «Maledetto, crepa!».

  La ragazza cominciò a sparare in ogni direzione, ma tutte le volte che colpiva una copia questa si rivelava per l’appunto solo una copia, e nessuna di loro si rivelò essere il vero Colombe.

  Mentre cercava di darsi una possibile spiegazione per quell’assurdo fenomeno, Revy vide una miriade di carte affilate come pugnali pioverle contro dal soffitto e cominciò a correre in mezzo ai tavoli nel tentativo di evitarle. Corse per qualche secondo, poi, buttatasi sopra un tavolo, con una mano lo ribaltò agilmente, usandolo come uno scudo per parare alcune di quelle carte infernali e nascondendosi dietro di esso.

  A quel punto la tempesta di carte si interruppe quasi subito, e appena la ragazza si sporse per capire cosa stesse succedendo vide Colombe correrle contro; senza esitazioni sparò due colpi ben piazzati, ma per l’ennesima volta quella si rivelò essere solamente un’illusione.

  Come pochi minuti prima, un dubbio spaventoso si fece strada nella sua mente, e voltatasi fece appena in tempo a vedere Colombe, quello reale, volarle addosso saltando da uno dei lampadari appesi al soffitto.

  Istintivamente saltò all’indietro, ed allora vide il suo avversario afferrare saldamente la cima del suo bastone con la mano destra, estraendo quella che aveva tutta l’aria di essere una spada lunga e sottile abilmente camuffata.

  La lama saettò nell’aria, e quando Revy rialzò lo sguardo vide che della sua pistola sinistra rimanevano solo il calcio e il grilletto; persino le nocche dei suoi guanti erano state tagliate via, e se fosse stata solo un pochino più lenta non se la sarebbe cavata con così poco.

  «Ottimi riflessi, mademoiselle Revy.» disse Michelle rinfoderando la spada «Ammetto di essere sorpreso. Non è da tutti sopravvivere a questa mia tecnica di attacco a sorpresa.»

  «Fenomeni da baraccone.» disse lei sforzandosi di mostrarsi sprezzante, cosa che non le riusciva più bene come in passato

  «Davvero? E che mi dici di questo?».

  Il francese fece comparire nella mano un nuovo set di carte e le lanciò tutte insieme contro Revy; il bello è che, incredibilmente, da cinque che erano divennero cinquanta, una vera e propria tempesta di lame affilate, alcune delle quali ferirono Two Hands prima che potesse vederle, lasciandola inginocchiata e sanguinante.

  «Sei ancora convinta che basti sventolare una pistola per considerarsi dei veri angeli della morte?

  Come ti ho già detto, l’omicidio deve essere assoluta perfezione e bellezza estetica, altrimenti non è altro che una volgare ostentazione di bestialità.

  Per secoli, fin dalla guerra dei cent’anni, lo stile Colombe è passato di maestro in allievo, e obbedendo alla regola che il primo di noi aveva scritto al termine del lungo viaggio che lo aveva portato a padroneggiare le conoscenze più antiche e recondite delle civiltà del passato, i miei predecessori hanno servito la Francia, liberandola da tutti i suoi nemici.

  È stato lo scopo di ognuno di noi, la nostra ragione di vita, ed era anche la mia.

  Purtroppo i tempi sono cambiati, e ormai siamo arrivati al punto in cui Colombe non ha più ragione di esistere.

  È destino di ogni grande leggenda nascere, proliferare, ed infine morire, è quella di Colombe è giunta ormai alla fine.

  Perciò ho accettato di prendere parte a questo gioco. Il Death Game rimarrà per sempre il simbolo dell’ultima, grande impresa dell’Assassino Illusionista, l’ultimo atto del suo lunghissimo spettacolo».

  Revy però, come era sua abitudine, non prestava la minima attenzione al monologo del suo avversario; l’unica cosa che le premeva era cercare una soluzione che potesse aiutarla ad uscire da quell’impiccio, e riflettendoci con calma, approfittando di quella pausa, pensò di averla trovata.

  Afferrato un vassoio da un tavolo lo lanciò come un frisbee verso Michelle con tutte le sue forze; questi si protesse riparandosi dietro il suo mantello e usandolo come una rete da pesca nella quale intrappolare la minaccia, ma quando tornò a concentrarsi sulla sua avversaria si ritrovò la canna della pistola appoggiata sulla fronte della maschera.

  «Mi spiace, francesino, ma stavolta i tuoi trucchi non ti serviranno ad evitarti una palla in testa».

  Colombe però non sembrava per nulla intimorito; anzi, da sotto quel sorriso giunse una risata divertita.

  «Ne sei sicura?».

  Prima che Revy potesse rendersene conto dalla manica del suo avversario scivolò fuori una pallina giallastra che toccata terra produsse un’esplosione di fumo, probabilmente gas lacrimogeno.

  «Ma che diavolo…» imprecò Two-Hands sparando a casaccio.

  Uno dei proiettili centrò in pieno una finestra mandandola in frantumi, e contribuendo a ripulire un po’ l’aria, ma ormai il danno era fatto; Michelle era sparito nuovamente, e Revy era completamente ceca.

  Cosa poteva fare ora?

  Mentre se lo domandava, rimanendo immobile al centro della stanza, uno strano odore le attraversò le narici; era un odore buonissimo, di fiori freschi, e poco dopo avvertì anche una grande quantità di oggetti non ben definiti, probabilmente petali, che le sfioravano la pelle piovendo dal soffitto.

  «Una pioggia di petali di rosa.» disse la voce echeggiante di Colombe «Un dono per le vittime, una promessa per il paradiso».

  Michelle, nel più estremo silenzio, ricomparve alle spalle di Revy non appena la pioggia si interruppe; aveva già la spada in mano, e si preparava a vibrare il colpo di grazia.

  Mosse un passo, poi un altro, e intanto Two-Hands continuava a restare immobile, come se stesse aspettando di essere finita una volta per sempre.

  Alla fine, quando le fu a meno di un metro, alzò il braccio, respirò un istante quindi la lama prese a viaggiare; un colpo orizzontale, atto a decapitare, morte istantanea e senza dolore.

  Revy si abbassò, e quando ancora Michelle cercava di riprendersi per aver colpito a vuoto la ragazza girò su stessa e gli rifilò un tremendo colpo di nocche che lo fece finire seduto per terra; la sua maschera, segnata da una crepa per la prima volta in sette secoli, cadde sulla moquette, mettendo a nudo il volto di un giovane bellissimo, con grandi occhi azzurri, ma con la fronte segnata da un piccolo taglietto da cui usciva un filo di sangue.

  «Ma… ma come… come hai fatto?»

  «Per essere uno che si auto-definisce un assassino infallibile, sei piuttosto ingenuo. Credevi davvero che la vista fosse il mio solo strumento di percezione? Anche se ora sono ceca, posso percepire senza alcuna difficoltà dove ti trovi, forse anche meglio di quando vedevo».

  Revy nuovamente gli puntò contro la pistola.

  «E adesso, francesino, vattene pure all’inferno».

  Prima che potesse sparare, però, Colombe le lanciò contro la rosa che intendeva destinare alla sua nuova vittima, e nel tempo che Two-Hands impiegò ad evitarla lui si era già rimesso in piedi.

  «Non è ancora finita!».

  Con un salto acrobatico raggiunse un lampadario, e prima ancora di esserci sopra lanciò una nuova tempesta di carte, ma incredibilmente stavolta Revy non si mosse; invece, sollevata la pistola, sparò cinque colpi in rapida successione, colpendo altrettanti bersagli, che finirono in frantumi. Le altre carte invece continuarono imperterrite la loro corsa, ma invece che trafiggere il corpo della ragazza ci passarono attraverso senza arrecarle alcun danno, e alla fine scomparvero.

  «Ma cosa…»

  «In fin dei conti.» disse tranquillamente Revy «L’illusione è tale solo se lo spettatore è in grado di vederla. Un ceco non incontra poi grandi difficoltà nel distinguere oggetti veri da semplici illusioni.»

  «No!» esclamò Colombe nel vedere smascherato il suo inganno

  «Non so come riuscivi a creare quelle finte carte e non mi interessa. Quel che conta, è che ormai questo trucco con me non funziona più».

  Riavutosi dalla sorpresa, nuovamente Michelle scomparve inghiottito dal suo mantello, ma stavolta Revy non aveva alcuna intenzione di lasciarlo scappare, e dopo qualche secondo, puntata la pistola alla sua destra, sparò senza esitazioni; un solo colpo, l’ultimo del caricatore, ma comunque sufficiente a chiudere definitivamente la partita.

  Dopo poco la ragazza riacquistò la vista, e la prima cosa che vide fu Colombe, inginocchiato di fronte alla finestra rotta con una palla piantata nel fianco destro; una brutta ferita, certamente mortale.

  Il suo bell’abitino bianco era ora zuppo di sangue, e quel viso, sorridente fino ad un minuto prima, era ora serrato in una smorfia di dolore.

  «Mi spiace, francesino, ma stavolta il tuo spettacolo si è concluso con un clamoroso flop».

  Lui alzò la testa quel tanto che bastava per guardarla negl’occhi.

  «Sembra… sembra proprio che dopotutto non finirà come avevo sperato.

  Ma non ho… non ho alcun rimpianto per quanto accaduto. Ho già tramandato i miei segreti al mio successore… e anche se per Colombe è giunto ormai il momento dell’oblio… le sue conoscenze… e il suo sapere… continueranno ad esistere.»

  «Che discorso patetico.» disse Revy senza riserve «Che ti importa di quello che succederà quando sarai morto? Tanto non sarai certo qui per vederlo, e in tasca non te ne verrà nulla».

  Quell’affermazione sembrò accendere per l’ultima volta una fiamma d’ira nel cuore dell’ultimo Colombe della storia.

  «Quelli come te… non possono capire… e non capiranno mai. Tu… non hai alcun rispetto per l’avversario contro cui ti batti. Per te… lui non è un essere umano… è solo un ostacolo da eliminare. E io non accetterò mai di consegnare la mia vita a una bestia come te».

  Con le sue ultime forze, Colombe si rimise in piedi, e mentre la moquette attorno a lui continuava a colorarsi di rosso fece qualche passo indietro fino a raggiungere la finestra.

  I suoi capelli castani e il suo lungo mantello ondeggiarono per l’ultima volta mossi da un vento leggero e frizzante.

  «Au revoirmademoiselle…» mormorò col suo ultimo alito di vita, e allargate le braccia lasciò che il suo corpo cadesse all’indietro.

  Revy sentì qualcosa nel momento in cui lo vide sparire oltre il bordo, come un grido disperato della sua coscienza, ma quando corse ad affacciarsi fece appena in tempo a scorgere la figura aggraziata dell’Assassino Illusionista che scompariva inghiottita dall’esplosione.

  Allora, e solo allora, per la prima volta dopo molto tempo, le venne da piangere.

 

Nota dell’Autore.

Ok, prometto di non dire più che aggiornerò in tempi rapidi, perché sembra proprio che non ne sia in grado.

Per l’ennesima volta mi scuso per la lunga attesa a cui ho costretto i miei lettori, e onde evitare altre figure del piffero premetto fin da ora che probabilmente il prossimo cap non arriverà prima di 8-10 giorni.

Rinnovo i ringraziamenti ai miei recensori, Beat, Selly, Gufo, Spectre e al nuovo arrivato Carlitz.

Infine, prima di chiudere, due importanti precisazioni.

1 – L’idea degli arti meccanici NON proviene da Full Metal Alchemist; se dovessimo cercare una fonte di ispirazione, allora direi che il mio primo pensiero nello scrivere quella parte è andato a Will Smith in Io Robot.

2 – Il personaggio di Colombe, che qui fa questa piccola apparizione, è il protagonista di un romanzo che sto scrivendo al momento e che avrei intenzione di dare alle stampe una volta finito. Malgrado le differenze in merito al contesto e all’ambientazione (il romanzo è ambientato nella Francia di Luigi XV) l’aspetto fisico, l’ideologia e lo stile di azione sono gli stessi, pertanto mi farebbe molto piacere ricevere un vostro parere anche su questo personaggio, in modo da saperlo adattare anche per quanto riguarda la storia originale.

Va’ bene, ho parlato anche troppo.

Grazie dell’attenzione

A presto

Carlos Olivera

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Capitolo 8
*** Encounter ***


7

7

 

 

Correndo senza meta da una parte all’altra dell’albergo, Dutch aveva già spedito all’altro mondo cinque possibili assalitori, ma proprio come tutti i suoi compagni non aveva la minima idea di cosa avrebbe fatto se si fosse trovato davanti uno di loro, uno dei ragazzi con i quali aveva creato la sua squadra.

  La sua corsa per sale e corridoi lo condusse ad un certo punto nel discopub del penultimo piano; malgrado non ci fosse nessuno le luci colorate erano accese, la musica andava a tutto volume e sia sui tavoli che sul bancone c’erano diversi bicchieri mezzi pieni come se lì ci fosse appena stata una festa.

  Essendo un soldato abituato a combattere in qualsiasi situazione Dutch aveva un orecchio e un sesto senso particolarmente allenati, per questo, anche in tutto quel baccano, non gli fu difficile accorgersi di una presenza minacciosa che seguitava a fissarlo, spostandosi continuamente lungo le zone buie per non farsi intercettare.

  Prima di poterla intercettare, però, vide quell’ombra sinistra piombargli addosso saldando giù dalla balconata superiore, e istintivamente si gettò da un lato, evitando all’ultimo secondo la lama affilata di un grosso coltello da guerra.

  Rialzato lo sguardo, rimase comprensibilmente sorpreso nello scoprire l’identità dell’aggressore.

  Era un uomo grande e grosso quanto lui, ma di carnagione chiara; indossava un paio di calzoni mimetici, stivaloni neri da soldato e una maglia nera aderente, tutti particolari che rendevano quanto mai palese la sua provenienza: era un berretto verde.

  I capelli, biondi, erano corti e a spazzola, a ulteriore testimonianza dei suoi trascorsi da soldato. Ciò che però colpiva di più era il suo armamentario; oltre al coltello che stringeva nella mano destra, dietro la schiena, come uno zaino, trasportava un grosso mitragliatore gatling, e sotto di esso, stretta alla cintura, la cassetta contenente le munizioni dell’arma.

  Dopo aver fallito il suo primo attacco, il soldato seguitava a restare inginocchiato, e a Dutch non servì vederlo bene in faccia per capire di chi poteva trattarsi.

  «È passato molto tempo, Dutch-boy.» disse rialzandosi in piedi e sollevando finalmente la testa.

  I suoi occhi, di un azzurro così chiaro da sembrare quasi bianchi, facevano gelare il sangue, così come quel ghigno malefico e la spaventosa cicatrice che partendo da sopra l’occhio sinistro arrivava fino alla guancia destra.

  «Buffalo Kid

  «Mi fa piacere che ti ricordi ancora di me. Quant’è, trent’anni?»

  «Dalla caduta di Saigon, nel ’75. Quindi sì, più di trent’anni.»

  «Scusa se non mi sono più fatto sentire, ma sai, ho avuto qualche problemino.»

  «Davvero? Mai quanti ne ho avuti io a causa tua.»

  «Oh, non ci contare. Purtroppo in questo schifo di mondo campare diventa sempre più difficile.»

  «Cos’è, il tradimento non frutta più come in passato?»

  «Mh. Tradimento?» disse Buffalo ridendo malignamente «Non so di che tu stia parlando».

  Quel tono così dannatamente provocatorio fece bollire il sangue nelle vene al gigante nero, che strinse i denti fin quasi a spaccarseli.

  «Fai finta di non saperlo, lurido bastardo!» urlò puntandogli contro la sua magnum «Tu hai venduto me e la mia squadra ai vietcong!»

  «Venduto, che brutta espressione. Diciamo, che ho considerato l’offerta migliore.»

  «Sono quasi finito davanti al plotone di esecuzione per colpa tua. Sono stato accusato di negligenza, e della morte di tutti i membri della mia squadra. Se tornassi negli Stati Uniti, mi aspetterebbe la corte marziale! Ed è tutta colpa tua!»

  «Lo dovresti sapere. Zio Sam non si fa troppi scrupoli nello sbarazzarsi di chi non gli serve più. Lo ha fatto con me, e lo ha fatto con te. Dopotutto, non siamo poi così diversi.»

  «Non osare paragonarmi a quelli come te, brutto pezzo di merda!».

  Istintivamente Dutch fece per sparare, ma Buffalo riuscì a prenderlo sul tempo, e lanciato il coltello colpì la sua pistola, che volò via dalla mano del gigante nero cadendo a parecchi metri di distanza.

  «È sempre stato il tuo grande difetto, Dutch-boy. Malgrado la maschera da uomo calmo e riflessivo, sottosotto sei rimasto lo stesso impulsivo testa vuota di un tempo.

  Avresti dovuto capire subito che quel villaggio nascondeva una trappola, ma hai voluto entrarci lo stesso. Se quegli uomini sono morti, la colpa è soprattutto tua».

  Dutch questa volta non fu in grado di controbattere, perché non gli riusciva di trovare un’argomentazione con cui farlo, trovandosi costretto ad ammettere che quel tipo così pungente e odioso aveva, in parte, ragione.

  Ricordava bene quel giorno, il giorno che gli aveva cambiato per sempre la vita.

  Era l’aprile del ’75, a pochi giorni dalla caduta di Saigon che avrebbe segnato la definitiva sconfitta delle forze statunitensi durante la guerra in Vietnam.

  Dutch, che allora era un sergente, comandava un piccolo distaccamento, composto per gran parte da veterani coi quali aveva combattuto in diverse occasioni, con l’incarico di presidiare un villaggio lungo le sponde del Mekong.

  All’improvviso, via radio, era arrivata una richiesta di aiuto da parte di Buffalo Kid, anch’egli sergente. Stando al suo racconto la loro postazione nella giungla era stata attaccata dai vietcong e loro si erano visti costretti a ripiegare, rifugiandosi in un villaggio abbandonato; il nemico però li aveva circondati, e avevano urgente bisogno di soccorso.

  La cosa, per la verità, era parsa strana fin da subito a Dutch; erano già diversi giorni che l’unità di Buffalo non inviava comunicazioni, e se davvero erano sotto attacco a rigor di logica avrebbero dovuto cercare di ripiegare verso sud, e invece lui e i suoi si erano spinti a nord, proprio in bocca alle avanguardie sovietiche.

  Normalmente la prassi imponeva di rigirare la comunicazione al quartier generale e di attendere istruzioni, ma se la situazione di Buffalo era davvero così disperata non c’era tempo per la burocrazia, quindi Dutch aveva ordinato di muovere subito verso la pattuglia in difficoltà, lasciando indietro solo un paio di uomini con l’ordine di mantenere la posizione e informare i superiori di quanto stava accadendo.

  Ci era voluto più di un giorno per raggiungere il villaggio in cui Buffalo e i suoi avevano trovato rifugio, una traversata insolitamente tranquilla e senza contatti col nemico, ma una volta a destinazione la tragica verità era venuta a galla: una trappola.

  I vietcong erano sbucati da ogni casa, da ogni capanna, riversando sul gruppo di soldati fiumi di proiettili.

  Tutti caddero uccisi, tranne Dutch, che ferito gravemente trovò la salvezza nascondendosi prima nel vicino canale e poi nella giungla. Gli servirono cinque giorni per riuscire ad eludere la caccia all’uomo ordita dai nordvietnamiti contro di lui, ma i guai purtroppo erano appena cominciati.

  Sulla via del ritorno, era passato per la base operativa da cui lui e gli altri erano partiti, e fu un bene, perché fu solo grazie a questo se alcuni suoi compagni riuscirono ad avvertirlo di non proseguire oltre: in quella settimana la notizia dell’agguato si era sparsa a macchia d’olio fra le truppe americane, e ora Dutch era ricercato dallo stato maggiore con accuse di inadempienza e strage provocata, tutte cose per le quali era passibile di fucilazione.

  Solo, inseguito da tutti, Dutch non aveva avuto altra scelta che abbandonare il Paese il più velocemente per rifugiarsi in Thailandia con la sua fidata navetta da assalto, che in seguito, dopo lunghi rimaneggiamenti, sarebbe diventata la Lagoon.

  La colpa di tutto ciò, anche se altri cercavano di addossarla a lui, era di un solo uomo, e quell’uomo ora gli stava di fronte; per trent’anni Dutch aveva sperato che prima di passare a miglior vita gli capitasse una tale occasione.

  Buffalo, una volta liberatosi del coltello, mise mano al suo gatling, impugnandolo saldamente per la maniglia con una mano e tenendo l’altra sull’impugnatura alla base delle canne.

  «Fatti forza Dutch. Prima dell’alba, andrai a far compagnia ai tuoi amici.»

  «No, Buffalo.» rispose il nero a testa bassa «Tu andrai a far compagnia ai tuoi».

  Quello si stampò in faccia il suo solito ghigno, e tirata la sicura prese a sparare una spaventosa raffica di colpi, capaci di demolire interi pezzi di muro.

  Dutch, correndo a destra, rotolò per terra recuperando la sua pistola, per poi saltare rapidamente dietro al bancone del piano-bar; alla prima esitazione del nemico si sporse rispondendo al fuoco, e allora anche Buffalo prese a correre lateralmente.

  In tutto Dutch sparò due colpi, e subito dopo il gatling tornò a far sentire la sua voce, perforando il bancone come fosse margarina.

  Il gigante nero non ebbe altra scelta che muoversi ancora, ma non potendo lasciare il suo nascondiglio senza diventare un colabrodo lanciò una delle tre granate fumogene presenti nel suo arsenale, assieme al fucile a canna corta, producendo una cortina abbastanza spessa e asfissiante da distrarre Buffalo il tempo necessario da infilare l’entrata secondaria ed uscire nell’atrio.

  Kid però non impiegò molto a riemergere da quel mare di fumo, più infuriato che mai; Dutch girò in un corridoio laterale giusto in tempo per evitare di finire crivellato, e una volta al sicuro sparò a sua volta approfittando di una nuova sosta; Buffalo non ebbe problemi a difendersi, usando la sua grossa arma come uno scudo.

  Dutch usò quindi un’altra granata fumogena, e quando Buffalo riuscì a recuperare la vista il suo avversario era scomparso.

  «Dove ti nascondi, codardo che non sei altro?».

  Avvicinandosi all’angolo dietro al quale Dutch si era nascosto trovò delle tracce di sangue che proseguivano lungo il corridoio, e di nuovo rise divertito.

  «La cosa si sta facendo divertente. Era dalla caccia al vietcong che non mi eccitavo in questo modo».

  Completamente succube del suo delirio omicida Buffalo seguì la traccia come un cane che ha fiutato la preda fino a che non la vide scomparire dietro ad una porta anti-panico, e spalancatala raggiunse una scala di servizio a doppia rampa che probabilmente partiva dal pianterreno per arrivare fino al soffitto.

  Prima ancora di decidere se muoversi verso l’alto o verso il basso vide chiaramente Dutch un paio di piani più sotto, e senza esitazioni gli spedì contro una nuova raffica, mancandolo; il nero rispose esplodendo gli ultimi colpi del suo tamburo, ma Kid non ebbe difficoltà ad evitarli appoggiandosi al muro, e non appena sentì chiudersi una porta si gettò nuovamente all’inseguimento.

  Dovette scendere di quattro piani prima di trovare la porta in questione, dietro alla quale trovò una grande e molto accessoriata cucina, destinata con ogni probabilità a servire gli ospiti del pregiato ristorante che si intravedeva oltre gli oblò dei battenti dalla parte opposta all’ingresso.

  Di Dutch, però, nessuna traccia, e anche la linea di sangue si era improvvisamente interrotta, lasciando le mattonelle bianche del pavimento completamente linde.

  Tutte le luci del locale erano accese, e non sembrava esservi posto dove quel gigante nero sarebbe stato in grado di nascondersi, quindi la sola conclusione logica era che si fosse nascosto nel ristorante, che essendo buio e sicuramente molto più ampio doveva risultare invece pieno di rifugi da cui tentare un agguato.

  Ciò nonostante Buffalo volle comunque essere guardingo, del resto dal vecchio Dutch-Boy ci si poteva aspettare qualunque cosa, perciò prese a camminare con cautela, misurando attentamente ogni passo per evitare sgradevoli sorprese.

  Senza problemi percorse quasi tutta la stanza da una parte all’altra, aggirando i grandi piani cottura e i ripiani su cui venivano composti i piatti da servire, e quando era quasi arrivato in vista dell’uscita avvertì un rumore alle sue spalle che lo lasciò completamente spiazzato.

  Un enorme braccio nero che impugnava una magnum era comparso da dentro un grosso forno ad armadio dopo che la porta si era leggermente ed impercettibilmente aperta.

  «Mi spiace, la cucina è chiusa».

  Buffalo ebbe appena il tempo di girarsi, poi il suono assordante di uno sparo riempì la cucina, e lui cadde all’indietro con un grosso buco in testa. Un secondo dopo, da dentro il forno uscì Dutch; aveva una ferita non indifferente alla spalla sinistra e il braccio rigato dal sangue, ma tutto sommato niente di irreparabile per un toro come lui.

  «È sempre stato così, Buffalo. Sempre a credere di essere un passo avanti agli altri. Beh, mi dispiace per te, ma questa volta hai fatto male i conti».

  Rinfoderata la pistola, Dutch tornò sui suoi passi per lasciare la cucina, se non che un secondo dopo la stessa, orribile sensazione che aveva fatto provare al suo nemico, finì per provarla a sua volta, dieci volte più incombente e tremenda di prima.

  Il terrore e lo sconcerto lo paralizzarono, mentre una figura minacciosa si ergeva alle sue spalle digrignando i denti; usando il suo gatling come una enorme clava, Buffalo per poco non sfondò lo stomaco a Dutch nel momento in cui questi si girò nella sua direzione, ma il colpo fu forte abbastanza da farlo volare come una piuma prima sopra i fornelli e poi a terra, ribaltando un gran numero di pentole e posate.

  Dutch finì per sputare sangue, e quando gli riuscì di rialzarsi non riuscì a credere ai suoi occhi vedendo Buffalo Kid di nuovo in piedi; il buco che aveva in mezzo alla fronte fumava come una locomotiva, ma non usciva un filo di sangue; il proiettile aveva perforato la pelle, ma sembrava aver incontrato subito dopo una sorta di vetro antiproiettile che lo aveva fermato e accartocciato.

  «Ma… cosa diavolo…»

  «Sei sorpreso? Dì la verità, non avresti mai immaginato nulla di simile, ho ragione?»

  «Chi… che cosa sei tu?»

  «Sono sempre io. Devi sapere che qualche tempo fa ho avuto un’animata discussione con le truppe governative del Congo che mi è quasi costato mezza testa. Sarei sicuramente crepato, se Kyuzo non avesse pagato di tasca propria una costosissima operazione che ha sostituito un’intera porzione di scatola cranica con una placca di titanio spessa un centimetro.»

  «Un centimetro!?»

  «È come avere un casco antiproiettile dentro la testa. E come hai potuto vedere, è un bel vantaggio.»

  «B… bastardo…»

  «Peccato che tu non abbia lo stesso privilegio.» ghignò Kid puntandogli l’arma contro «Tu quanto credi arriveranno lontano le tue cervella? Io dico fin sul tetto».

  Dutch si sentiva in trappola, strinse i denti quanto più gli era possibile, poi però la sua mano toccò un’inaspettata possibilità di salvezza, cadutagli di dosso quando era caduto.

  Per l’ennesima volta Buffalo Kid mostrò la sua perfida e sadica espressione, quindi fece per premere il grilletto chiudendo così la partita, e proprio in quel momento Dutch, afferrato saldamente il suo fucile, sparando un colpo che centrò in pieno le canne del gatling, accartocciandole e scheggiandole, rendendo l’arma di fatto inutilizzabile. Alcuni frammenti finirono anche in faccia a Buffalo, che urlando e bestemmiando mollò il suo adorato mitragliatore tenendosi il volto con entrambe le mani.

  Dutch avrebbe voluto sparargli ancora, ma per somma disgrazia quello era l’ultimo colpo del suo fucile, e la pistola chissà dov’era finita, quindi, gettata via quell’arma inutile, si avventò sul nemico assestandogli una tremenda ginocchiata sul mento.

  Buffalo incassò il colpo, e rialzatosi con gli occhi che scintillavano di rabbia mise mano al suo secondo coltello da guerra che teneva nascosto all’interno dello stivale; Duch rispose afferrando un grosso coltellaccio da carne, i due corsero l’uno contro l’altro e diedero vita ad un acceso confronto corpo a corpo.

  Lo spazio era molto ristretto, e quei due erano così imponenti che era impossibile allontanarsi per riprendere fiato, ragion per cui quella sarebbe diventata una gara di resistenza, in cui il primo a distrarsi avrebbe pagato con la vita.

  Sfortunatamente, ad abbassare per primo la guardia fu Dutch; nel parare col proprio coltello un affondo nemico si sporse troppo in avanti, e Buffalo non si fece scappare l’occasione, e afferratogli il braccio glielo storse, costringendolo a mollare il coltello, quindi gli mollò un calcio nella schiena che lo spedì nuovamente a terra. Nel cadere andò a sbattere contro i fornelli, girando casualmente i pomelli del gas.

  «Che cos’è che ti ha spinto fin qui?»

  «Il passato, presumo.» rispose Dutch girandosi a guardarlo

  «Il passato… beh, ormai non conta più! Muori, Dutch-boy!».

  Buffalo gli saltò sopra e cercò di trafiggergli la gola, Dutch riuscì ad afferrargli i polsi, ma la forza del nemico era tale che non avrebbe resistito a lungo. Gli serviva una soluzione, e gli serviva subito.

  Con la forza della disperazione il nero lasciò che fosse una sola mano a bloccare la lama nemica, e con l’altra prese a cercare a tentoni qualsiasi cosa avesse potuto cavarlo d’impiccio e salvargli la vita; la fortuna volta che a finire nel suo raggio d’azione fosse un punteruolo da ghiaccio, e afferratolo glielo conficcò in un polso con tutta la forza che quelle due zampe di orso gli avevano lasciato.

  Kid urlò come un dannato mollando la presa, e solo allora Dutch si avvide del tremendo odore di gas che aveva riempito la cucina; senza pensarci due volte si rimise in piedi, sollevando anche Buffalo, quindi gli assestò un paio di pugni al volto per stenderlo definitivamente.

  Avrebbe voluto dargli il colpo di grazia, ma lì dentro c’era tanto di quel gas che sarebbe bastato un nulla per fare i fuochi d’artificio, ragion per cui si vide costretto ad abbandonare il campo attraversando le porte che immettevano nel ristorante.

  Tuttavia, Dutch non aveva alcuna intenzione di rinunciare a sapere morto il bastardo che aveva ucciso tanti suoi amici, e affondata una mano in tasca ne cavò fuori il suo zippo; accesolo, si girò nuovamente verso la cucina, e per quanto incredibile potesse essere vide Buffalo nuovamente in piedi, con in mano il coltello e apparentemente pronto a corrergli addosso; la sua faccia era una maschera di sangue, sembrava un demonio.

  «E adesso, vattene all’inferno.» disse, e subito dopo lanciò l’accendino.

  Come questo ruppe il vetro degli oblò una terrificante esplosione sventrò completamente la stanza dall’altra parte, trasformandola in un oceano di fuoco.

  Dutch si buttò a terra appena in tempo per evitare di venire colpito dalle fiamme che dopo aver sventrato le porte si abbatterono su parte del ristorante, e rialzatosi fra il fumo e la polvere vide, con propria grande, incommensurabile soddisfazione, che tutto ciò che restava della cucina e di chi la occupava era un mucchietto di cenere.

  «Riposate in pace, amici miei. Giustizia è fatta».

 

Bangkok

Orient Hotel

Ore 23:41

 

L’Orient Hotel era uno degli edifici più alti di tutta Bangkok, e dalla stanza numero 453 situata al terzultimo piano si poteva godere certamente di una delle vedute più magnifiche che la città potesse offrire.

  Era ormai quasi mezzanotte, l’ora delle feste e della vita notturna era già scoccata da un pezzo, e sicuramente il centro era affollato da turisti e comuni cittadini in cerca del vero sballo, lo stesso che richiamava persone da ogni parte del mondo, trasformando Bangkok nella New York del Sud-Est asiatico.

  Tuttavia, il signor Samejima non sembrava per nulla interessato allo spettacolo che si stagliava oltre la sua finestra, e seguitava a rimanere seduto sulla poltrona con le gambe incrociate e il telefonino all’orecchio.

  «Sì, tutto procede come preventivato.

  Entro un paio d’ore dovremmo essere pronti a cominciare. No, non sospetta ancora di niente. Avremo i risultati definitivi prima di quanto immaginiate, e potrete visionarle coi vostri occhi.

  D’accordo. Avrete presto mie notizie. Buonanotte».

  Riagganciato il telefono, l’uomo, sistemandosi la cravatta, si girò un attimo a guardare la giovane ragazza che sedeva poco distante da lui, sul divanetto al centro della stanza.

  Era davvero molto bella, e non doveva avere più di venti o ventuno anni. I capelli erano neri e corti, con due eleganti crocchie, gli occhi di un rosso rubino decisamente insolito e il viso gentile, ma senza espressione, quasi fosse una bambola. Indossava un elegante abito cinese bianco con dei ricami floreali rossi.

  Restava perfettamente immobile, le gambe unite, le mani sulle ginocchia e lo sguardo basso; non sembrava neppure che respirasse.

  «Quando verrà il momento, dovrò contare sulla tua collaborazione, mia cara Yu-Ling».

  Lei allora alzò i suoi occhi vuoti e si girò a guardare verso Samejima.

  «Sì, padre».

 

Sorella Yolanda non avrebbe mai immaginato di trovarsi un giorno invischiata in una situazione tanto tragica.

  Malgrado avesse sempre mantenuto un atteggiamento guardingo e sicuro di sé all’interno degli affari illeciti che gestiva con facilità grazie alla fin troppo efficace copertura offerta calla Chiesa della Violenza e malgrado la sua abilità con le armi quello in cui si trovava era un incubo dal quale sperava di svegliarsi.

  Non le importava come e non le importava quando, tutto quello che voleva era uscire di lì, e facendo appello a quella poca agilità che le sue vecchie gambe avevano conservato correva come una forsennata lungo i saloni e i grandi corridoi dell’hotel.

  Finalmente, dopo aver ucciso cinque persone, raggiunse l’atrio d’ingresso.

  La sala era a dir poco grandiosa, tappezzata di marmo e alta fino al tetto. Ogni piano aveva una terrazza che dava su quella specie di enorme tromba vuota terminante in una grande semisfera di vetro e illuminata a giorno da decine di lampade, e su alcune di queste terrazze c’erano cose come tavoli da bar, divani sui quali rilassarsi o semplicemente grandi vasi di fiori esotici.

  Al centro dell’atrio troneggiava una grande statua bronzea alta più di sei metri raffigurante un cavaliere in armatura; doveva essere San Giorgio, a giudicare dalla spada che teneva alta sopra la sua testa con la punta rivolta al cielo e dalla testa di drago schiacciata sotto uno degli zoccoli del suo cavallo.

  Yolanda non si preoccupò minimamente di stare ad ammirare la maestosità di quel luogo, e subito corse a perdifiato verso l’ingresso, formato da due grandi portoni in legno marrone decorati con rilievi in oro raffiguranti angeli e disegni floreali.

  Afferrate saldamente le maniglie tentò di aprire, ma come previsto il portone non si spostava neppure di un millimetro.

  Avrebbe potuto facilmente sfondarle con un colpo di pistola, ma ormai era così preda del delirio che una simile eventualità neppure le saltava alla mente, e forse per lo stesso motivo si era dimenticata anche della brutta sorte a cui andava incontro chi tentava di superare lo sbarramento costituito dal campo elettromagnetico.

  «Aprite! Aprite! Fatemi uscire di qui!».

  Non si rendeva conto che urlando in quel modo era come un verme che si agitava attaccato all’amo, e difatti, poco dopo, un pesce arrivò a mangiarselo.

  Yolanda si zittì all’istante, rimanendo bloccata per il terrore, quando sentì alle sue spalle un rumore famigliare e terrificante; il rumore di un motorino messo in funzione, il rumore… di una motosega.

  Giratasi, vide dinnanzi a sé Sawyer, che brandeggiava la sua affilatissima motosega.

  «No… no… sta lontana!».

  Poco distante, Benny stava cercando, a suo modo, di uscire da quella pericolosa situazione.

  Lui non era mai stato un bravo pistolero, e quelle poche volte che Dutch o Revy avevano cercato di insegnargli a sparare i risultati erano stati disastrosi; Dutch era solito ripetere che il suo talento era la strategia, e che il cervello era indubbiamente la sua arma migliore, proprio come accadeva per Rock; però, pur se dapprincipio poteva sembrare impossibile, anche quella si stava rivelando una situazione in cui le abilità informatiche di Benny potevano risultare decisive.

  Oltre ad una pistola 9mm con una decina di caricatori, infatti, il biondo americano aveva gentilmente ricevuto dai “giudici di gara” un personal computer delle dimensioni di un telefono. A Benny non era occorso molto per accorgersi della presenza, in giro per varie parti dell’albergo, di alcune prese particolari, una volta inseritavi la spina del computer aveva accesso ad una gran quantità di sistemi; poteva controllare gli ascensori, connettersi alle telecamere di sorveglianza, e persino utilizzare degli avveniristici proiettori olografici nascosti nei punti più impensabili.

  Benny stava camminando lungo il grande corridoio che dall’atrio portava verso il salone dei ricevimenti quando udì l’urlo straziante di sorella Yolanda, e il suo primo istinto fu quello di correre nella sua direzione per capire cosa fosse successo.

  Arrivato all’ingresso, a stento trattenne i conati di vomito; il corpo della vecchia suora era a terra in un oceano di sangue, decapitato, e Sawyer era ai suoi piedi. Questa, accortasi del nuovo arrivato, rimise in funzione la motosega; Benny cercò di spararle, ma lei, come già aveva fatto altre volte in passato, usò la lama come uno scudo, e parato il terzo colpo si mise all’inseguimento di Benny.

  «Accidenti!» gridò l’americano facendo la strada all’indietro «Ci mancava anche la pazza con la motosega!».

  Quello che aveva imboccato purtroppo era un vicolo ceco, e trovatosi di fronte ad un muro non ebbe altra scelta che entrare nella porta a vetri alla sua sinistra, ritrovandosi nella scalinata di servizio. Per sua fortuna, ogni porta di ogni piano aveva accanto una colonnina di connessione, quindi fu in grado di entrare nel sistema di sicurezza e di attivare le serrature di sicurezza, ma proprio quando pensava di avercela fatta la punta della motosega perforò quella robusta porta d’acciaio.

  «Merda!».

  Era chiaro che Sawyer non avrebbe impiegato molto ad entrare, quindi, se voleva evitare di ridursi come un filetto di carne, Benny doveva levare le tende al più presto.

  Come previsto la donna ci mise solo qualche minuto a produrre un varco sufficiente per poter oltrepassare l’ostacolo, e le furono necessari appena due secondi per capire che Benny si era diretto verso l’alto, piuttosto che verso il piano interrato.

  Sawyer era una specialista nel campo dei killer, gli odori nauseabondi della carne e della sua macellazione avevano segnato tutta la sua vita, e proprio per questo sapeva seguire la traccia odorosa lasciata da una persona qualsiasi meglio di un segugio della polizia.

  Proprio per questo motivo non ebbe difficoltà a seguire la traccia odorosa del suo nemico fino al secondo piano, e come previsto trovò una seconda porta chiusa a sbarrarle la strada, ma non era certo un problema.

  «Merda.» mugugnò Benny, appostato dietro ad un vaso, vedendo sbucare di nuovo la punta di quella motosega «Così non me la leverò mai di dosso. Devo trovare una soluzione».

  Alzatosi, raggiunse di corsa la fine del corridoio fino ad una biforcazione a T, e casualmente, mascherato nella cornice di un quadro dietro l’angolo di sinistra, trovò un’altra porta di connessione.

  Un’idea folle balenò nella sua mente, l’unica che gli potesse permettere di uscire da quella situazione, e dopo essersi accertato di avere a disposizione quello che gli serviva per metterla in pratica iniziò subito a lavorare.

  Di norma era sempre stato una persona fredda e razionale, capace di mantenere il sangue freddo in ogni circostanza, ma quel terrificante rumore a pochi metri da lui gli faceva gelare il sangue; le sue dita tremavano, la fronte sudava, più di una volta si trovò costretto a ricominciare tutto daccapo a causa degli errori commessi per via della tensione, e più passava il tempo più sentiva la lama di Sawyer vicina al suo collo.

  Qualche secondo dopo la donna fece irruzione; nel corridoio regnava un silenzio di tomba, e non c’era anima viva. Sawyer però sapeva bene che il suo nemico era ancora lì, ne sentiva l’odore, e mai come nel suo caso l’odore poteva essere il silenzioso testimone della presenza della vittima designata.

  Anche se fosse stata sorda e ceca, Sawyer avrebbe potuto risultare efficace come se non più di prima, e difatti individuò senza problemi la presenza di Benny, correndo subito nella sua direzione.

  Ma improvvisamente, giunta ad un corridoio a T, si fermò, come impietrita: la traccia odorosa era scomparsa nel nulla, come se il nemico si fosse improvvisamente volatilizzato.

  Insospettita, puntò il proprio sguardo raggelante in entrambe le direzioni; a destra il corridoio proseguiva fino alla sala da tè, a sinistra invece c’era una grande parete a specchio che bloccava la via solo pochi metri più in là.

  Per quanto gli odori fossero un segno indelebile, pensò Sawyer, c’era pur sempre la possibilità di non poterli percepire, e comunque quella era in ogni caso una strada senza uscita. Benny doveva per forza essersi nascosto nella sala, perché non c’erano altre via di fuga, e comunque la sua traccia arrivava lì, segno che non poteva essersi mosso nella direzione opposta alla porta dalla quale entrambi erano entrati.

  Seguendo questo ragionamento, Sawyer fece per raggiungere la sala da tè, ma appena fece per muovere un passo un colpo di pistola la trafisse in mezzo alla nuca; probabilmente non ebbe neppure il tempo di rendersi conto di quanto accaduto, perché un istante dopo era a terra senza vita.

  Passò qualche secondo, poi la parete a specchio svanì nel nulla come l’ologramma che era, e da dietro di essa comparve Benny con la pistola alzata.

  «Mi spiace tesoro, ma stavolta hai fatto cilecca».

 

 

Nota dell’Autore

Roba da matti! Un mese per aggiornare!

Un mese!

Mi vergogno di me stesso; so di essere lento, ma fino a questo punto è quasi inaccettabile, e il capitolo oltretutto non mi piace granché. Comunque, quel che conta è che la storia comincia ad evolversi, presto subirà una bella svolta e allora ci avvieremo verso le battute conclusive.

La seconda storia che sto scrivendo ha subito un’obbligatoria battuta di arresto che non so quanto potrà durare, ma non prometto niente sulla velocità di aggiornamento di questa, anche perché a giorni avrò due esami quindi il tempo non mi è amico.

Ringrazio Dirias, Selly, Gufo, Carlitz, Beat e Lisy per le loro recensioni

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 9
*** Guns & Swords ***


8

8

 

 

«Non c’è che dire.» commentò Steven «Quelli della Lagoon sono davvero degli ossi duri.»

  «Non avrei saputo dirlo meglio.» disse Ashford «Hanno sconfitto tre dei favoriti».

  Rock, segretamente, sospirava soddisfatto; in fin dei conti erano pur sempre i suoi compagni, quindi era naturale che tifasse per loro, ma gli veniva naturale domandarsi cosa sarebbe successo se si fossero incrociati.

  Ciò era, naturalmente, inevitabile, visto che solo uno poteva uscire dall’hotel da vincitore, ma dentro di sé sperava che qualcosa o qualcuno sarebbe intervenuto a modificare gli eventi.

  Sembrava strano, ma aveva fiducia in Kaito; tutti e tre i membri della Lagoon si erano trovati ad un passo dalla morte, tutti avevano dimostrato di essere capaci e determinati; forse, questo gli sarebbe bastato per sentirsi appagato. Immaginava che da un momento all’altro avrebbe deciso di bloccare tutti e lasciar andare i superstiti, che in quel momento si erano ridotti a soli trentuno partecipanti.

  Kaito, però, non sembrava avere la benché minima intenzione di agire in questi termini, e anzi sembrava incredibilmente adirato dal fatto che Revy e gli altri fossero sopravvissuti tanto a lungo; i suoi occhi trasudavano rabbia, digrignava spesso i senti e stringeva con forza i pugni.

  «Ora basta!» tuonò ad un certo punto colpendo il monitor su cui appariva Revy, nascosta dietro ad un angolo «Sono stanco di tutti questi giochetti! Steven, procedi!»

  «Con piacere».

  Che voleva fare?

  Intendeva forse far detonare la bomba di Revy?

  No, questo era impossibile, e Rock lo sapeva: Hibraim gli aveva detto che l’unico detonatore esistente era gestito dal computer centrale che teneva in piedi anche il campo elettromagnetico, e nessuno, neppure Kaito, aveva il controllo di quel computer.

  «Che cosa vuoi fare, Kaito

  «Togliermi una soddisfazione.» rispose lui glaciale «E stai tranquillo, non morirà. Non subito, almeno.»

  «P3X rilasciato con successo.» disse Steven dopo alcuni secondi

  «Di che state parlando? Che diavolo è il P3X?»

  «L’ultimo ritrovato nel campo della guerra chimica.» rispose Hibraim

  «Guerra chimica!?» esclamò terrorizzato Rock

  «Rilassati.» disse Kyuzo quasi a volerlo rassicurare «Non si tratta né di un’arma batteriologica né di un gas nervino di qualunque tipo. È un allucinogeno.»

  «Un… allucinogeno?»

  «Chiamato anche Morpheus.» rispose il dottor Ashford «P3X è il suo nome scientifico. La divisione scientifica del progetto Rebuild lo ha scoperto per puro caso durante gli esperimenti per lo sviluppo di un nuovo tipo di anestetico. È efficace sia allo stato gassoso che a quello liquido, e allo stato liquido la sua potenzialità aumenta considerevolmente. Come tutti i composti di questo tipo attacca il sistema nervoso, inducendo in uno stato di ipertensione che provoca allucinazioni estremamente realistiche.»

  «Quando abbiamo impiantato le micro cariche esplosive» disse Kyuzo «A quella di Revy abbiamo collegato anche una capsula contenente una discreta quantità di P3X allo stato liquido, una capsula che ora abbiamo provveduto a rompere.»

  «Ma… che cosa significa!? Che avete intenzione di fare? Volete torturarla!?»

  «Indovinato.» rispose Steven con la stessa freddezza di Kyuzo «E posso assicurarti che la cosa provoca un grande piacere in tutti i presenti.»

  «Quella donna ha ucciso Harue» disse Hibraim «Chi uccide una bambina invalida a sangue freddo non merita di vivere, ma se proprio deve morire lo farà dopo aver patito sulla sua pelle lo stesso dolore arrecato a tutti noi.»

  «Voi… voi non potete…»

  «Ci vorrà qualche minuto perché faccia effetto.» disse Steven tornando a guardare il monitor «È necessario che il P3X venga completamente assorbito dall’organismo.»

  «Meglio così.» replicò Kyuzo «Sarà interessante vedere fino a quando riuscirà a resistere».

 

Dopo lo scontro con Colombe nella sala dei ricevimenti Revy aveva cercato di evitare il combattimento quanto più possibile.

  Battersi con una sola pistola non era facile per lei, il suo stile si avvaleva obbligatoriamente di entrambe le mani, e non a caso si chiamava stile Two-Hands; se avesse ingaggiato battaglia con un avversario forte come Colombe con una sola arma quasi sicuramente sarebbe finita con una palla in testa, ma dopo aver provato varie possibili soluzioni con le armi prese ai cadaveri dei nemici morti o in qualcuno di quei depositi segreti nascosti in giro per l’albergo non le era ancora riuscito di trovare qualcosa in grado di adattarsi alla perfezione.

  Alla fine, quando ormai si stava rassegnando, per puro caso trovò un contenitore segreto nascosto sotto ad un tappeto, e al suo interno una Beretta simile in tutto e per tutto a quella che aveva appena perso, ma con una differenza; oltre ad avere due grilletti in fila, alla sommità della canna c’era un grosso cilindro da cui spuntava una piccola punta metallica.

  «Uno spara-rampini.» disse tra sé e sé dopo averla raccolta «Beh, potrebbe sempre tornare utile».

  Usando l’ascensore lì vicino raggiunse in pochi secondi la grande piscina dell’ultimo piano, che oltre ad essere attrezzata di ogni genere di comfort, dai tavolini con gli ombrelloni agli sdrai, dai vasi con piante esotiche al bar, dagli scivoli ai trampolini, era protetta dal clima di Bangkok da una spessa cupola di vetro rinforzato che poteva all’occorrenza essere rimossa elettricamente.

  A prima vista sembrava non esserci nessuno, ma subito dopo essere entrata Revy avvertì distintamente uno sguardo minaccioso che la puntava nascosto da qualche parte, e difatti fu prontissima a schivare una pallottola saltando e nascondendosi dietro ad un tavolino.

  Revy avrebbe riconosciuto il particolare suono di quello sparo anche nel mezzo di una battaglia; c’era una sola persona al mondo capace di usare pallottole d’acciaio abbinate a una Beretta vecchio modello, e quella persona era il suo maestro, colui che le aveva trasmesso l’arte del Two-Hands.

  «Bella schivata, Revy!» disse una voce squillante, fortemente ironica

  «Ti ringrazio, Chang!» rispose lei senza sporgersi dal suo nascondiglio «Ora puoi anche venire fuori!».

  E difatti, qualche secondo dopo, da dietro un vivaio uscì Mr. Chang, il re delle Triadi di Roanapur, con quel suo lungo cappotto nero sopra ad un elegante vestito da festa, la lunga sciarpa bianca, gli occhiali da sole e la sigaretta accesa; in mano stringeva le sue fedelissime pistole, e da una di esse ancora usciva un rivolo di fumo.

  «Felice che tu sia ancora viva, Two-Hands. In tutta onestà non credevo saresti durata tanto a lungo.»

  «Ah, ma davvero?» disse Revy uscendo a sua volta allo scoperto «E di te che mi dici? Ti credevo già all’altro mondo.»

  «Frena Two-Hands, non montarti la testa. Hai forse dimenticato chi è il maestro di chi?»

  «Sì, hai ragione. Ma sai come si dice. Arriva sempre il momento in cui l’allievo supera il maestro.»

  «In effetti è così, ma questa non è certo una costante universale».

  Chang sputò la sigaretta ormai spenta e con assoluta indifferenza se ne accese un’altra, quasi come se il fatto di avere una pistola puntata contro fosse una cosa del tutto trascurabile.

  «Lo sai Revy? Dopotutto, non mi dispiace che stia accadendo tutto questo. In fin dei conti, era ora che qualcuno provvedesse a rimuovere un po’ di pattume dalle strade di questo mondo.»

  «Voglio ricordarti che anche noi siamo coinvolti in questa specie di gioco al massacro. Dicendo così, non finisci forse per considerare pattume anche te stesso?»

  «E allora, dov’è il problema? Io l’ho sempre saputo di essere pattume.»

  «Che cosa!?» esclamò la ragazza spalancando gli occhi

  «Che c’è, ti sorprende? Chiunque scelga di intraprendere questa vita sa bene dove essa conduca, e sa bene che da quel momento in avanti, per quanti soldi possa guadagnare, per quanto potere possa accumulare, per quanti uomini possa uccidere, rimarrà sempre e comunque un rifiuto».

  Revy era a dir poco sconvolta, non voleva credere che quello davanti a lei fosse lo stesso Mr. Chang che aveva sempre conosciuto; come poteva dire una cosa del genere l’uomo la cui crudeltà e disonestà erano paragonabili solo a quella di Balalaika?

  «Questa è una massima indistruttibile Revy, un vero e proprio dogma. Possiamo avere tutto il denaro e il potere che vogliamo, possiamo disporre degli agganci più alti, comandare tutti i politici, ma agli occhi della maggior parte del mondo noi siamo e resteremo dei rifiuti, e tutti saranno molto felici quando ci leveremo dalle palle finendo due metri sottoterra.

  Chiunque di noi che percorra questa strada senza essere consapevole di questa regola fondamentale è destinato a fallire.»

  «A… fallire?».

  Abbandonata quella sua posa tranquilla Chang si piantò davanti a lei divaricando leggermente le gambe.

  «Molto bene Revy. È giunto il momento di scoprire chi di noi due è il vero maestro dello stile Two-Hands. E sappi, che non mi tratterrò.»

  «Perché, ti aspetti forse che io lo farò?» rispose Revy sollevando le sue armi.

  A lungo rimasero immobili, Chang ostentando il proprio indomabile autocontrollo Revy cercando di scorgere il suo sguardo raggelante oltre il nero di quelle lenti, poi partirono contemporaneamente alla carica correndo lateralmente nella stessa direzione e prendendo a regalarsi l’un l’altro valanghe di colpi.

  Si spostavano lungo i bordi della piscina, senza accennare a rallentare o a fermarsi, perché farlo avrebbe significato morte certa; Revy venne ferita di striscio alla guancia, Chang invece al ginocchio destro, ma il cinese notò quasi subito l’insolita imprecisione di tiro della sua ex-allieva.

  «Che ti succede, Revy?» domandò quando entrambi, conclusa la corsa, si nascosero dietro a dei vivai «Di colpo ti servono un paio di occhiali?»

  «Sai, c’è una cosa che volevo dirti da un sacco di tempo!» rispose Revy con sicurezza più che falsa «Il tuo senso dell’umorismo fa decisamente cagare!».

  Chang in realtà aveva indovinato solo una delle due cose, la più evidente, ovvero che la mira di Revy non era più così infallibile, ma a determinare un simile calo di prestazione non erano certo i suoi riflessi; lo spara-rampini della sua nuova pistola era indubbiamente un deterrente che in futuro sarebbe potuto tornare comodo, ma appesantiva l’arma in modo non indifferente, e la precisione di conseguenza ne risentiva, soprattutto in movimento.

  Fanculo, quest’aggeggio è pesantissimo”.

  Purtroppo non c’era tempo per le riflessioni o per tentare di rimuovere il congegno, perché l’inconfondibile tic prodotto dal nuovo caricatore che Chang aveva inserito nelle sue armi annunciava l’immediato inizio del secondo round.

  Fece dunque per rialzarsi in piedi e lasciare a sua volta il proprio nascondiglio, se non che all’improvviso una terribile sensazione le attraversò il corpo, facendole sgranare gli occhi; non sapeva bene cosa fosse, e non sarebbe stata capace di descriverla a parole, ma era qualcosa di assolutamente orribile.

  Era come se il suo corpo fosse paralizzato, o peggio ancora come se si muovesse di propria volontà, la testa le faceva male, le bruciavano gli occhi e si sentiva la bocca impastata.

  Tutto ciò durò solo qualche secondo, ma sfortunatamente fu più che sufficiente per peggiorare terribilmente la già difficile situazione di Revy, che di colpo vide un’ombra scura sovrastarla dall’alto; giratasi, si trovò a tu per tu con la bocca di una delle pistole di Chang.

  «Mi dispiace tesoro, scacco matto».

  Era dunque davvero finita? Era destinata a finire così?

  Sarebbe morta in quella specie di gabbia dorata, uccisa da quello che un tempo era stato il suo maestro, con addosso lo sguardo sadico e divertito di quel damerino coi superpoteri che per tutta la durata di quel gioco perverso l’aveva stretta saldamente nelle proprie mani come una bambola da schiacciare in qualsiasi momento?

  No! Per niente al mondo doveva finire in quel modo! Non poteva morire, non ancora! C’era una cosa di cui voleva ancora essere certa!

  Lo scontro con Colombe l’aveva turbata, anche se cercava di non darlo a vedere, riportandole alla mente gli eventi del giorno prima, soprattutto quelli legati ai fatti della Seaborn Star, ma facendoglieli vedere da un’ottica completamente diversa.

  Malgrado non ricordasse nulla, di colpo aveva avuto come l’impressione che vi fosse qualcosa di strano, di distorto, qualcosa che doveva assolutamente riuscire a ricordare.

  Del resto, troppi pezzi di quel complesso puzzle continuavano a non combaciare, e quella specie di rumore di fondo che le risuonava ossessivamente nella testa sembrava dirle che per svelare completamente l’intero disegno occorreva innanzitutto che lei ricordasse; che ricordasse cosa era accaduto realmente su quella nave.

  Per questo, dopo la morte di Colombe, si era ripromessa di non morire fino ad aver risolto quell’intricato rompicapo, una decisione dettata sia dall’orgoglio che da quella coscienza che per molto tempo aveva creduto di non avere più; ne aveva sempre fatto una regola, di non uccidere mai e poi mai degli innocenti, e anche se in passato l’aveva violata già un paio di volte l’idea di aver sparato senza pietà ad una bambina in sedia a rotelle le faceva ribrezzo.

  Non poteva essere successo, non doveva essere successo, ma se davvero era così allora voleva assolutamente scoprire perché, perché era stata così stupida e così disumana.

  Non avrebbe permesso a nessuno di ucciderla, neppure a Mr. Chang, e se per riuscire a portare a galla la verità era costretta ad ucciderlo ebbene neppure per lui ci sarebbe stata pietà.

  Revy cercò di spendere quei pochi secondi a sua disposizione per cercare una soluzione che la cavasse d’impiccio.

  Di rispondere al fuoco non se ne parlava; la pistola con lo spara-rampini era scarica, nell’altra invece era rimasto il classico ultimo colpo, e poi sarebbe bastato accennare una qualche reazione per andare a scambiare due chiacchiere direttamente con San Pietro.

  Anche cercare di temporeggiare fuggendo pareva impossibile; poca distanza da lei infatti c’era la parete vitrea della cupola, e sotto di essa il vuoto più totale, ma vedendo la luna piena stagliarsi proprio di fronte a lei Revy ebbe, incredibilmente, l’intuizione che poteva salvarla.

  Quella parete, a giudicare dalla posizione della luna, guardava verso ovest, cioè verso il lato opposto all’ingresso dell’albergo, dove un gran numero di terrazze si affacciavano sul cortile sottostante, su cui si trovavano un’altra piscina e un ristorante all’aperto.

  Il cortile, come spiegato all’inizio, non faceva parte della griglia di gioco, ma uno degli avversari che Revy aveva affrontato era uscito in una terrazza senza saltare per aria, il che significava che la zona immediatamente attigua alla parete, almeno da quel lato, era coperta dal campo magnetico.

  In quel momento ringraziò di aver trovato lo spara-rampini, perché sarebbe stato proprio quello che avrebbe potuto salvarle la vita.

  Ormai non c’era più tempo, Chang stava già cominciando a fare pressione sul grilletto.

  Tutto si svolse come alla moviola.

  Revy scattò in piedi slanciandosi in avanti, e senza neanche prendersi il disturbo di guardare il suo avversario dopo tre falcate spiccò un salto, proteggendosi immediatamente il volto con le braccia.

  Chang, spiazzato da quel gesto improvviso, impiegò qualche secondo a riprendere il controllo, ma sparandole due volte non riuscì a colpirla.

  Pur essendo rinforzato il vetro cedette quasi subito, grazie anche alle incrinature prodotte dai proiettili di Chang, e la ragazza di colpo si sentì come risucchiata dal forte vento che soffiava a quelle altezze; la parete ebbe anche l’effetto di limitare di molto lo slancio in avanti, difatti dopo neanche tre metri Revy prese a precipitare verso il basso.

  Ce l’aveva fatta, era in salvo.

  Ora bastava solo girarsi e lanciare il rampino in modo da assicurarlo a qualcuna delle molte sporgenze presenti sulla parete e usare il sistema del pendolo per rientrare nell’edificio sfondando qualche finestra.

  Voltatasi, vide però qualcosa che non avrebbe mai immaginato di vedere, ma che conoscendo il suo avversario avrebbe dovuto aspettarsi.

  Mr. Chang non si era affatto arreso, non aveva abbandonato l’idea di avere la meglio su Revy, e a sua volta si era buttato giù dallo squarcio nel vetro con una pistola in una mano e l’altra ben stretta attorno ad una di quelle corde usate per delimitare le corsie delle piscine, ed essendo quest’ultima assicurata per un capo al pavimento con un nodo robusto non vi era neanche pericolo per il re della Triade di finire come una sogliola.

  Malgrado ciò il piano non poteva cambiare, anche perché non c’erano altre variabili in gioco; o Revy faceva come aveva deciso, o l’avrebbero raccolta col cucchiaio, quindi, puntata la sua nuova arma verso l’alto, spinse il secondo grilletto, quello più interno.

  Il rampino partì come un missile, aprendosi subito dopo lo sparo in forma di croce e tirandosi dietro la sottile corda di keplar che srotolandosi produceva un rumore simile ad un ronzio.

  Chang venne quasi colpito da una delle punte, che gli passò a pochi centimetri dalla guancia, quindi il rampino andò ad assicurarsi al balcone di una finestra, e a quel punto Revy subito spinse il bottone che azionava il blocco della fune.

  Il contraccolpo fu violentissimo, ma produsse anche quell’effetto pendolo che permise a Two-Hands di non schiantarsi sulla grande terrazza sotto i suoi piedi ma piuttosto di sfondarne la grande porta finestra; sfortunatamente la velocità di dondolio non era particolarmente elevata, e fu un vero miracolo se i femori non le andarono in pappa nell’urto con quei doppivetri.

  Oltretutto, nel momento stesso in cui sfondava la finestra, il rampino perse l’appiglio, e quello che doveva essere uno tranquillo atterraggio divenne invece un tremendo colpo di sedere, per quanto la moquette di quella stanza fosse straordinariamente morbida.

  Magari Chang aveva fatto male i suoi calcoli, magari la corda a cui si era aggrappato non era così lunga da permettergli un volo del genere, ma non appena Revy girò nuovamente lo sguardo verso la finestra dopo essersi liberata dei vetri che aveva addosso lo vide lì, in piedi al centro del terrazzo, con nuovamente in mano entrambe le sue pistole.

  «Lo ammetto, questa non me l’aspettavo.» disse aspirando una boccata di fumo «Non possiamo negare che tu abbia un gran fegato, ma purtroppo coraggio e invettiva non sono tutto, specialmente in una situazione simile».

  Revy digrignò i denti, sentendosi nuovamente in trappola; aveva disposizione solo un colpo, ma sapeva fin troppo bene che in un modo o nell’altro Chang lo avrebbe evitato, lasciandola completamente scoperta e pronta a ricevere il colpo di grazia.

  «Peccato. Sembra proprio che conserverò il mio titolo ancora per un po’».

  Mr. Chang prese dunque ad avvicinarsi, tenendo una pistola rivolta in alto e l’altra puntata verso Revy; camminava lentamente, perché tanto sapeva che non c’era nessuna fretta, e intanto Revy si sentiva sempre più prossima alle porte dell’inferno.

  Poi, d’un tratto, sembrò come avere un’illuminazione, e di colpo il suo sguardo parve accendersi di stupore; forse aveva visto qualcosa, o forse Chang aveva fatto qualcosa, ma bastava guardarla per capire che qualcosa era cambiato.

  Anche il re della Triade se ne accorse, e immediatamente si fermò, pur seguitando a restare, all’apparenza, calmo e freddo come il ghiaccio.

  «Posso sapere cos’è che ti fa sorridere in quel modo?»

  «Dimmi un po’, Mr. Chang. Sei davvero così sicuro di riuscire a vincere?»

  «Come, scusa? Dì un po’, comprendi la situazione in cui ti trovi? Te l’ho sempre detto, la calma e l’autocontrollo sono i compagni migliori di un killer, ma a quanto pare mi hai preso fin troppo alla lettera.»

  «Chissà, forse è così.»

  «Beh, comunque sia…» disse il cinese sollevando il cane «Hai perso, Revy».

  A quella frase la ragazza sogghignò ancor più vistosamente, e allora neppure Chang riuscì a far finta di niente.

  «No, Mr. Chang. Tu hai perso!».

  Fu solo in quel momento che il re della Triade pensò di guardare sotto di sé, e solo allora si accorse di avere le gambe divaricate proprio sopra la fune del rampino.

  Istintivamente cercò di alzarlo, ma ormai era troppo tardi; approfittando della sua distrazione Revy azionò il recupero, e il cavo di colpo prese a riavvolgersi con la stessa velocità con cui era uscito; come previsto il rampino si impigliò nuovamente, questa volta sul parapetto della terrazza, tendendosi allo spasimo.

  Chang avvertì come una paurosa frustata alle parti basse e subito dopo volò in aria come una piuma, girando su stesso; le sue abilità di esperto lottatore gli permisero di tornare a terra sulle sue gambe, ma prima che potesse anche solo rialzare lo sguardo Revy utilizzò l’unica pallottola rimastale per fulminarlo in mezzo al torace.

  Il cinese prima gridò, poi, gemendo, si piegò barcollando in avanti, e solo mettendo avanti un piede riuscì a non cadere; le sue due pistole, coperte di sangue, gli caddero di mano.

  «C… complimenti, Revy. Mi hai… davvero sorpreso. Il titolo di Two-Hands…. È tuo…».

  Pochi istanti dopo cadde a terra sul torace; i suoi occhiali, che mai una volta aveva tolto in presenza di altri, scivolarono via, rotolando sulla moquette fino a venire fermati dallo scarpone di Revy, che con sguardo perso li raccolse.

  Aveva davvero fatto la cosa più giusta?

  Non aveva mai alzato un dito su Mr. Chang, aveva sempre avuto per lui il massimo rispetto, e ora lo aveva ucciso.

  Avrebbe voluto pensare ancora, cercare di dare una spiegazione per il gesto che aveva appena commesso, ma ecco improvvisamente ricomparire la sensazione di pochi minuti prima, mille volte più dolorosa e sconvolgente.

  Di colpo Revy sembrò perdere il controllo del suo stesso corpo, gli occhi si spalancarono fin quasi ad uscire dalle orbite, la bocca si piegò in un urlo che non le riusciva di esternare, trasformato in nulla più che un gemito sommesso, quasi un rantolo di agonia.

  Le sembrò di venire attraversata da una scarica elettrica, gambe e braccia presero a tremare furiosamente, si sentiva completamente paralizzata e un indicibile dolore, accompagnato da un fischio insopportabile, prese a devastarle la testa.

  Forse senza volerlo Revy guardò le lenti degli occhiali, ma invece del proprio volto vide quello urlante e terrorizzato di una bambina coi capelli castani.

  La riconobbe, la riconobbe subito.

  Era lei!

  Il fantasma dei suoi sogni. Lo spirito senza pace che da anni continuava a tormentarla quasi ogni notte.

  Innumerevoli immagini presero a scorrere nella sua mente, immagini orribili, che la terrorizzarono fino alle lacrime; una stanza buia, una figura nera seduta su di una sedia a rotelle, e quella stessa sedia imbrattata di sangue.

  Quello stesso sangue d’improvviso ebbe l’impressione di sentirselo addosso, caldo e denso, e subito cominciò ad agitarsi furiosamente nel tentativo di levarselo; in realtà il suo corpo e i suoi vestiti erano perfettamente lindi, ma lei lo sentiva, e nel tentativo di liberarsene strappò via il cerotto che aveva sul fianco, scoprendo i resti, ormai prossimi alla cicatrizzazione, della ferita infertale da Kyuzo.

  Kyuzo.

  Perché in quelle immagini sconvolgenti vedeva anche lui? Perché lo vedeva così, inerme e sconvolto, inginocchiato al centro di un cerchio di luce mentre abbracciava quella sedia a rotelle piangendo tutte le sue lacrime?

  Che cosa aveva fatto?

  Come aveva potuto distruggere in quel modo la felicità di un’intera famiglia?

  Che razza di mostro era diventata?

 

Il dottor Ashford non era mai stato quel genere di persona che ama starsene con le mani in mano, per questo, non avendo niente da fare, era sceso al livello dei laboratori per fare un controllo di routine, al termine del quale prese nuovamente l’ascensore per ritornare in sala controllo dove gli altri erano riuniti.

  Non appena le porte si aprirono sul corridoio del primo livello uscì all’esterno, ma appena si girò alla propria sinistra qualcuno gli arrivò alle spalle e lo colpì violentemente alla nuca, lasciandolo immobile a terra privo di sensi.

  «Ti chiedo scusa.» disse Rock lasciando cadere l’estintore che aveva in mano «Ma non posso permettere che Revy e gli altri continuino a rischiare la vita».

  Mentre Ashford era ancora svenuto Rock gli fece appoggiare il pollice sul lettore di impronte, e così facendo riuscì a far riaprire le porte, quindi, recuperata la 9mm che il dottore aveva alla cintura, entrò nell’ascensore, che immediatamente si richiuse.

  Nello stesso momento, in sala comandi, Steven tentava di alleviare la stanchezza per la notte in bianco sorseggiando del caffè; Hibraim faceva passare il tempo lavorando al suo notebook, Kyuzo invece rimaneva seduto con le braccia incrociate e gli occhi chiusi, come se stesse dormendo, ma era chiaramente ben sveglio.

  «Ah, quasi dimenticavo.» disse Steven prendendo una cartella dalla valigetta appoggiata sotto il tavolo della consolle, nello spazio per distendere le gambe «Kaito, questa ha bisogno della tua firma. Me l’ha data Samejima stamattina».

  Il giovane riaprì dunque gli occhi e prese il fascicolo, dandogli una rapida occhiata.

  «Altri fondi per la beneficenza.»

  «La quota mensile.» rispose Steven

  «Sarà la mia ultima firma.» commentò Kyuzo scribacchiando il proprio nome in fondo al foglio a caratteri occidentali.

  Malgrado in Giappone fosse molto diffusa, per non dire anzi fosse prassi, l’abitudine di firmare un documento servendosi di un timbro personalizzato con sopra inciso il proprio nome, sia Kaito che suo padre avevano sempre rifiutato questa alternativa, optando piuttosto per la cara vecchia firma a penna che a loro dire era molto più “viva”.

  «Ci pensi, Steven? Questa potrebbe essere la mia ultima firma.»

  «Chissà.» replicò l’amico recuperando la cartella «Potrebbe anche non essere così. Giusto Hibraim?»

  «Ben detto. Dopotutto, potrebbe sempre succedere qualcosa».

  Kyuzo sembrò sorridere, un sorriso di complicità mista a rassegnazione, e qualche secondo dopo il dottor Ashford entrò nella stanza tenendosi la testa.

  «Greg, che è successo?» chiese Steven

  «È stato Okagima. Mi ha colpito alle spalle appena sono sceso dall’ascensore.»

  «Che cosa, Okagima!?» gridò Kyuzo balzando in piedi «E dov’è adesso?»

  «Credo sia entrato nell’albergo. Mi ha anche preso la pistola.»

  «Dannazione! Che diavolo ha in mente quel pazzo?» e senza pensarci troppo il giovane guadagnò di corsa l’uscita.

 

L’hotel Universe era davvero un luogo da sogno. Fra le altre cose, disponeva anche di una zona shopping, una sorta di galleria formata da due corridoi pieni di negozi che si intersecavano in una pianta a croce greca con al centro un piccolo piazzale abbellito con piante esotiche, panchine e anche una fontana.

  In effetti nella campagna pubblicitaria che ne aveva preceduto l’imminente inaugurazione era stato detto più volte che non si trattava solo di un semplice albergo, ma di una vera e propria città in miniatura, al cui interno si poteva trovare tutto ciò di cui un visitatore smanioso di divertimento e relax poteva avere bisogno; non per niente, i negozi della zona shopping erano rappresentati da nomi d’alta classe, da Armani a Chanel, da Tiffany a Prada.

  Le vetrine traboccavano di beni di lusso, vestiti, scarpe, gioielli, e quegli eleganti corridoi dove luci, marmo bianco e intarsi dorati la facevano padroni erano il tocco finale di quella grandiosa ostentazione di prestigio.

  In quella specie di paesaggio da sogno si muoveva sorella Eda, anche lei come Chang perennemente nascosta dietro i suoi occhiali da sole e con in bocca la solita gomma americana, pronta a far risuonare forte i colpi della sua glock al minimo fruscio.

  Era stata addestrata per essere una spia professionista, sapeva muoversi in silenzio senza mai mostrare le spalle, del resto gli infiltrati della CIA erano da sempre la punta di diamante dei servizi segreti di tutto il mondo; potevano penetrare dovunque, non c’era nulla in grado di fermarli, e avere a che fare con loro era una pessima idea.

  C’era però anche qualcun altro a cui bisognava stare attenti a non pestare i piedi, qualcuno forse ancor più pericoloso di una spia professionista.

  Appena avvertì un rumore quasi impercettibile alle proprie spalle Eda eseguì un salto acrobatico poggiando a terra una mano e girando su sé stessa, il che le permise di evitare una coppia di piccolissimi coltelli diretti nella sua direzione; le due lame tagliarono senza problemi la gonna della sua veste da chierica mentre era a gambe all’aria per poi conficcarsi nella colonna della fontana, e subito dopo da dietro una pianta comparve un’aggraziata figura femminile dai lunghi capelli neri che stringeva una coppia di machete legati insieme da una corda di seta.

  «Shenhua.» disse Eda rimessasi in piedi

  «Essele passato un po’ di tempo, suol tloia.» rispose lei mostrando il suo sorriso provocatorio

  «Troppo poco per i miei gusti.»

  «Spilitosa come sempre. Se non sbaglio io e te abbiamo ancola conto in sospeso.»

  «Ora che mi ci fai pensare, in effetti è proprio così. E a dirti la verità, non immaginavo di incontrarti ancora dopo quella volta. Quando mi hanno detto che eri sopravvissuta al crollo della baracca non ci ho voluto credere.»

  «Io fatta di acciaio, dovresti sapello

  «D’acciaio, eh? Chissà se sarà duro abbastanza da fermare anche le mie pallottole.»

  «Staremo a vedere».

  Eda fece la prima mossa sparando un paio di colpi, ma Shenhua schivò senza alcun problema saltando lateralmente, e subito dopo rispose lanciando un altro paio di quelle lame che portava al cinturino legato attorno alla coscia.

  Sorella Eda ricordava molto bene il loro ultimo e unico scontro, sapeva che quella piccola taiwanese dal visino dolce poteva essere terribilmente pericolosa, e che bisognava guardarsi da quei suoi infernali coltellini come dalla peste. Dopo essersi nascosta dietro ad uno dei quattro vivai che circondavano la fontana cercò di sparare ancora, ma non fece in tempo a mettere fuori il braccio che un altro di quei coltellini per poco non glielo trapassò.

  A quel punto non ebbe altra scelta che entrare in uno dei negozi, questo a causa anche del fatto che improvvisamente i due ingressi alla zona shopping si erano chiusi da soli, intrappolando entrambe al loro interno.

  Shenhua provò a fermarla lanciando una delle sue due spade, ma Eda fu abbastanza previdente da coprirsi la fuga con una granata fumogena così a venire trapassato fu solamente un manichino esposto in vetrina.

  «Non cledele di sfuggile me, suol tloia».

  Anche lei entrò dunque nel negozio, un atelier di altissima classe dove abbondavano abiti da sera e completi sportivi degni della notte degli oscar o della finale dei mondiali. Scaffali e camerini ce n’erano che si sprecavano, ottimi posti in cui nascondersi, pertanto Shenhua decise di vedere le cose da un’altra prospettiva, e con un paio di salti fu sopra una delle grandi lampade al neon che pendendo dal soffitto formavano una sorta di pontile sopraelevato da cui si dominava l’intera zona.

  Grazie a questo espediente non le servì molto per scorgere il drappo nero di Eda dietro alla tendina di un camerino.

  «Fine dei giochi.» disse ghignando, quindi, saltata giù, lanciò con forza uno dei due machete, sradicando la tendina e mandando in mille pezzi lo specchio del camerino.

  Tuttavia lo stupore e lo sgomento per lei furono davvero tanti nel momento in cui si accorse che il vestito da suora non lo indossava Eda, ma un semplice manichino.

  «Ma cosa…»

  La vera Eda comparve un secondo dopo da dietro un bancone con indosso gli abiti civili che portava sempre sotto la veste sacra proprio per casi come quello.

  «Vattene all’inferno, cinese di merda!» gridò iniziando a sparare.

  Shenhua fu costretta a recidere la corda che univa le due spade lasciando l’altra incastrata fra i vetri dello specchio, quindi cominciò a correre per tentare di portarsi al sicuro; Eda dal canto suo non voleva concederle un attimo di tregua e continuava ad inseguirla, tenendosi però sempre vicina a qualsiasi cosa potesse fungere da scudo contro le lame dell’avversaria.

  Era quasi riuscita a metterla alle corde, stava per spararle dopo che era uscita allo scoperto, quando di colpo si ritrovò il caricatore scarico.

  «Merda!» disse rabbiosa infilandone uno nuovo, ma quei pochi secondi di indecisione furono più che sufficienti a Shenhua per ribaltare la situazione.

  La ragazza fece ondeggiare minacciosamente l’unica spada rimastale quindi la lanciò tenendo ben stretta la corda di seta ed imprimendole un movimento a semicerchio; Eda se ne accorse e cercò di spostarsi per evitare il colpo, ma venne comunque ferita alla spalla destra e a causa di ciò la pistola le volò via di mano, scivolando a parecchi metri da lei dietro le sue spalle.

  Dare la schiena a una come Shenhua voleva dire suicidarsi, quindi Eda non poteva fare altro che tentare lo scontro diretto e le corse contro; l’avversaria cercò di trafiggerla appena le fu addosso, ma lei non si fece sorprendere e afferratole il braccio armato glielo storse violentemente costringendola a mollare l’arma, che volò in aria conficcandosi poi al suolo.

  Tra le due iniziò quindi un violento corpo a corpo in cui Shenhua dimostrò una notevole esperienza anche nelle arti marziali, ma anche Eda era perfettamente addestrata per questo tipo di situazioni e riuscì a tenerle testa; ad un certo punto Shenhua si vide costretta a giocare sporco e mise mano all’ultimo coltello rimastole, quello mascherato da fermacapelli, quindi cercò di tagliare la gola della donna americana, che per fortuna rimediò solo un leggero taglio alla guancia per essersi spostata giusto in tempo.

  Eda di tutta risposta afferrò la taiwanese per la vita e dopo averla girata eseguì un poderoso german suplex, ma pur accusando pesantemente il colpo Shenhua le restituì il favore colpendola alla fronte con il tacco della scarpa nell’atto di liberarsi.

  Indubbiamente erano entrambe combattenti di grande talento, e dopo tutti i colpi che si erano scambiate era chiaro che lo scontro fisico non sarebbe bastato per segnare la sconfitta definitiva di una delle due.

  Dopo essersi rialzate presero a guardarsi minacciosamente negli occhi.

  Shenhua aveva il vestito lacerato e un grosso livido ad una guancia lasciatole da un destro micidiale, Eda invece sanguinava dalla fronte e dalla spalla.

  «Tu blava suol tloia, lo ammetto.»

  «Anche tu non sei male, cinesina di merda.»

  «Io taiwanese, no cinesina. Già detto migliaia di volte.»

  «Credo sia giunto il momento di farla finita. Questa storia è durata anche troppo.»

  «Io d’accoldo, olmai finito di essele diveltente».

  Ognuna delle due aveva alle proprie spalle l’arma dell’altra, in una immaginaria linea retta lunga cinque o massimo sei metri; solo la più veloce l’avrebbe avuta vinta, e con un sincronismo pressoché perfetto entrambe scattarono in avanti correndosi addosso.

  Si passarono accanto proprio nel mezzo, saltando subito dopo, rotolando a terra.

  Shenhua arrivò per prima, e afferrata saldamente la sua spada rotolò per terra quindi, inginocchiatasi, caricò il braccio preparandosi a lanciare.

  Eda arrivò solo un istante dopo, compiendo a sua volta una capriola e recuperando contemporaneamente la pistola, che puntò immediatamente verso l’avversaria mettendosi in ginocchio.

  Nello stesso istante si udirono il fragore di uno sparo ed un sibilo sinistro, poi il tempo sembrò fermarsi, cristallizzando ogni cosa.

  Eda impiegò diversi secondi ad avvertire quel tremendo dolore al fianco, ed abbassato lo sguardo vide la spada di Shenhua conficcata poco sotto l’ultima costola. Una brutta ferita, forse non mortale, ma certamente gravissima.

  Shenhua, vedendola digrignare i denti, sogghignò, ma subito dopo essersi rialzata il suo bel viso si irrigidì facendosi di pietra, e l’abitino bianco che indossava cominciò a colorarsi di rosso all’altezza della milza.

  «Come… come possibile…» balbettò tossendo sangue «Spada… è alma migliole»

  «Mi spiace tanto, cinesina. A quanto pare avevi torto.»

  «No… può… essele…»

  «Bisogna stare al passo coi tempi».

  Shenhua sembrò quasi sorridere, forse l’unico sorriso sincero della sua vita, e subito dopo cadde morta in un lago di sangue; non poteva saperlo, ma con lei scomparivano le punte di diamante della Triade cinese lì in Thailandia.

  «Il mondo cambia troppo in fretta.» disse Eda togliendosi la spada di dosso e tamponando subito la ferita con una mano «Forse, quello che sta facendo questo tizio non è poi così sbagliato. C’è così tanto marcio in questo mondo, che fare un po’ di pulizia non sarà certamente una cattiva cosa».

  Eda fece per rilassarsi dopo quella difficilissima sfida che l’aveva portata vicino alla morte come mai nella sua vita, ma era ancora abbastanza guardinga da accorgersi subito di avere qualcun altro alle sue spalle, e senza alcuna esitazione si girò il più velocemente possibile, sparando a bruciapelo.

  La vittima non fece neppure in tempo a reagire e finì all’altro mondo con una facilità a dir poco disarmante, ma appena la donna si accorse a chi aveva sparato per poco non le prese un colpo.

  Non l’aveva mai vista di persona, ma aveva sentito parlare di lei diverse volte, e sbagliarsi era impossibile. Quel vestito rosso, quella giacca militare indossata come un mantello, quei capelli biondi e soprattutto quelle orribili bruciature che le deturpavano buona parte del volto. Era lei, senza ombra di dubbio.

  «Ba… Balalaika!?».

 

 

Nota dell’Autore

L’avevo promesso, vero?

Avevo detto che avrei aggiornato più rapidamente, e finalmente sono riuscito a mantenere la promessa. Ok, forse una settimana non è poi così poco, ma sempre meglio che in passato.

Anche questo cap, come il precedente, non mi soddisfa appieno, ma anticipo subito che sarà l’ultimo dedicato quasi esclusivamente ai combattimenti.

A partire dal prossimo comincerà la famosa catena di eventi già lungamente preannunciata, e ormai siamo quasi in dirittura d’arrivo. Non ne sono ancora completamente sicuro, ma credo che con altri tre o quattro cap (che dovrebbero essere un po’ più lunghi di quelli scritti finora, almeno in teoria) avrò finito.

Rivolgo i soliti ringraziamenti ai miei recensori, Beat, Selly, Gufo, Carlitz e Lisy.

Beat, mi rivolgo soprattutto a te; so che volevi far vincere Chang, ma ho dovuto fare una cernita dei personaggi da salvare e la sua morte mi è sembrata quella più valida, soprattutto per via del suo particolare rapporto con Revy. Scusascusascusa! ^_^

Ringraziamenti anche a Yuro per aver inserito la storia fra i preferiti

A presto! ^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 10
*** Truth ***


9

9

 

 

L’ascensore di collegamento fra l’hotel e i laboratori aveva condotto Rock ben più in alto di dove si aspettasse, al dodicesimo piano.

  Le porte della cabina erano nascoste dietro ad un grande bassorilievo marmoreo in stile ellenico che adornava una sala fumatori con zona bar, tavoli per il poker e pianoforte.

  Non sapeva bene cosa fare, per la verità non aveva neppure idea di ciò che stava facendo, ma una cosa la sapeva per certo; non avrebbe permesso a Kyuzo e gli altri di continuare a perseguitare Revy.

  Comprendeva perfettamente il loro dolore e la loro sete di vendetta, ma non poteva accettare l’idea che coinvolgessero nel loro progetto persone innocenti.

  Del resto, ormai aveva la certezza assoluta che Revy non avesse avuto nulla a che fare con la morte di Harue e con quello che era successo sulla Seaborn Star; Revy aveva tanti difetti, era violenta, irascibile e a volte spietata, ma Rock sapeva che non avere pietà neppure per una bambina invalida era troppo persino per una come lei.

  Dopo due anni trascorsi al suo fianco sapeva ciò che Revy poteva o non poteva fare, e uccidere a sangue freddo una bambina innocente come Harue rientrava decisamente nella seconda categoria.

  Voleva trovarla, chiederle spiegazioni, portarla in salvo, e poi tornare da Kaito, nella speranza di riuscire a farlo ragionare.

  D’altra parte però, ciò che lui e i suoi compagni stavano facendo non era poi così sbagliato, e se in tutto ciò non fossero stati coinvolti anche i membri della Lagoon sarebbe stato felice di vedere quell’esercito di mostri senz’anima scannarsi fra di loro, portando così alla luce la loro vera natura.

  Non lo avrebbe mai creduto possibile, ma la morte di Mr. Chang, Shenhua e di molti altri come loro gli aveva fatto un incredibile piacere.

  Eppure negli ultimi anni anche lui si era sporcato le mani, anche lui si era reso partecipe delle malefatte e della spirale di malvagità pilotata da quelle persone che aveva tanto goduto nel veder morire.

  La verità era che dopo essere stato scaricato come un sacco di letame dai suoi stessi datori di lavoro si era convinto che il mondo avesse in sé tanto di quel marciume che diventarne parte non avrebbe certo potuto peggiorare la situazione.

  Trasportare droga, rapire bambini, trafficare ogni tipo di mercanzia, erano tutte cose che in quei due anni per lui erano state la prassi, e più il tempo passava più si convinceva che vista la degradazione e l’ipocrisia che ormai regnavano sovrani su quella Terra abitata da esseri abbietti tanto valeva smettere di fare la parte della persona onesta e di carattere.

  A lungo aveva creduto di poter mettere a tacere il suo ego, ma incontrare Kyuzo aveva risvegliato qualcosa in lui, quella parte della sua anima che in tutti quei mesi non aveva mai smesso di gridare forte il proprio disgusto.

  Kaito aveva tutti i motivi per odiare il mondo intero; tutto ciò che aveva gli era stato portavo via dall’ingordigia e dalla malvagità di gente che pensava solo a sé stessa, ma invece che arrendersi passivamente e divenire membro di quel mondo schifoso, come invece aveva fatto Rock, aveva scelto di combatterlo; a conti fatti la sua era una causa nobile, e se non avesse avuto un destino crudele ad attenderlo di lì a poco la sua forza d’animo e la sua determinazione gli avrebbero permesso di cambiare veramente le cose, e portare un filo di giustizia in quella Terra devastata.

  Rock avrebbe tanto voluto diventare parte di quel progetto; forse anche lui desiderava dei cambiamenti, o forse cercava solo una soluzione per riscattarsi di tutti gli errori commessi e di tutta l’ipocrisia dimostrata in quei due anni, ma non poteva accettare l’idea che la strada della giustizia dovesse venire lastricata coi cadaveri dei suoi compagni, quei compagni che alla fine di tutto gli avevano insegnato ad apprezzare il valore della vita e a pensare con la sua testa.

  Purtroppo tutti i suoi buoni propositi andarono a schiantarsi pochi metri dopo contro Billy “FreezeMcLoan, un canadese dalla mentalità perversa che se ne andava in giro con due grosse bombole piene di azoto liquido congelando tutto quello che gli capitava a tiro, uomini compresi.

  Il suo aspetto fisico era come un monito, nonché un silenzioso testimone della sua vera natura; oltre ai lunghi capelli di un bianco naturale, causa albinismo, aveva occhi di un azzurro molto opaco e la pelle chiara di un bambino. In netto contrasto con questo suo modo di apparire vestiva con una sorta di sopravveste nera, a metà fra una tunica e un’impermeabile, che arrivava fino al ginocchio, stretto in vita da una cintura che fungeva anche da contenitore per una grossa sfera rotonda simile ad una rudimentale bomba a mano, grossi scarponi e un paio di guanti in pelle; questi ultimi probabilmente avevano anche la funzione di proteggerlo dal metallo gelido di cui era fatto il fucile che usava per surgelare il suo bersaglio, e non era un caso se, oltre a Freeze, fra i suoi soprannomi vi fosse anche “Black Ice”.

  Contro di lui vi erano numerosi mandati di arresto emessi dalle polizie di mezzo mondo, ma era ricercato anche dall’Interpol; correva voce fra la malavita di Roanapur, dove aveva già dato modo di far parlare di sé, che in passato fosse stato un sicario del governo americano, una voce mai confermata.

  Fosse vero o no, la sorte che riservava alle sue vittime era a dir poco spaventosa; l’azoto liquido surgelava letteralmente il malcapitato, la morte avveniva per ipotermia, la temperatura del corpo calava a velocità inimmaginabile, sangue e organi congelavano, e sopraggiungeva quindi la morte.

  Normalmente l’azoto liquido richiedeva una lunga esposizione per risultare mortale, ma non era un caso se Freeze McLoan, prima che un assassino, era stato un illustre e famosissimo professore di Harvard specializzato in criogenia. Lui stesso aveva operato un esperimento su questo materiale, modificandolo a livello di struttura chimica per rendere i suoi effetti ancora più rapidi e letali, creando così quello che lui stesso chiamava Odin’s Breath.

  Rock ebbe il rarissimo onore di essere testimone di uno dei suoi lavoretti; a dire la verità arrivò al casinò quando ormai la vittima era già morta, ma ciò che vide fu più che sufficiente a paralizzarlo dal terrore.

  Quel povero disgraziato sembrava appena uscito da una cella frigorifera, era completamente congelato, la pelle bruciata e screpolata dal freddo e l’espressione urlante di chi è morto agonizzando.

  McLoan stava godendosi la vista, leccandosi di tanto il labbro superiore come farebbe un’artista di fronte ad un opera ben compiuta; quando Rock fece per darsela a gambe urtò inavvertitamente lo sgabello di un tavolo verde, e benché il pavimento fosse ricoperto da soffice moquette rossa questo fu più che sufficiente a farlo scoprire.

  «Guarda, guarda. Cos’abbiamo qui?».

  Il giovane giapponese tremò come un bambino alla vista di quegli occhi senza espressione; quel tipo non aveva assolutamente niente che si potesse definire umano.

  «Tu non hai proprio l’aria di un assassino professionista.» disse Freeze facendo scattare la sicura del suo fucile spruzzatore «Sei forse anche tu uno di quelli che sono stati trascinati qui con la forza?».

  Rock continuò a non rispondere; era troppo, troppo spaventato.

  «Beh, poco male. Non che la tua storia mi importi più di tanto. Ma una cosa è certa, se sei qui sei un avversario, e quindi… preparati a finire surgelato!».

  L’azoto liquido uscì dalla bocca del fucile in forma più gassosa che liquida; sembrava un getto di panna montata, ma Rock non si fece certo ingannare e si gettò a terra, lasciando che fosse la slot machine alle sue spalle a venire circondata di una spessa patina di ghiaccio.

  La risposta di Okajima non si fece certo attendere; nascostosi dietro ad un tavolo fece sporgere il braccio armato e sparò alcuni colpi, ma le sue prestazioni di tiratore erano così disastrose che sparò praticamente sul soffitto senza avvicinarsi neanche lontanamente a McLoan.

  «E tu ti definisci un sicario?» disse Freeze inginocchiato a terra e con la schiena appoggiata ad una slot «O forse vuoi solo farmi perdere tempo?».

  Perché? Perché doveva sempre finire così? Perché non era capace di difendersi da solo?

  Era sempre stato così, fin da quando era entrato nella Lagoon; tutte le volte in cui si era ritrovato coinvolto in situazioni pericolose, che avevano richiesto l’uso della forza, era stato qualcun altro a fare il lavoro sporco per lui.

  Dutch diceva che la sua forza era il cervello, ma la verità era che c’erano situazioni in cui il cervello solo non bastava, e quella in cui Rock si era andato a cacciare era proprio una di queste.

  Già cominciava a pentirsi di quel dannato colpo di testa, di quel gesto sconsiderato che lo aveva portato fin lì; era entrato nell’albergo per proteggere Revy, ma non era neppure in grado di proteggere stesso. Come poteva sperare lui, un ex impiegato che aveva vissuto negli agi della società giapponese fino a poco tempo prima, di potersi far valere, o anche solo di poter contare qualcosa in un simile inferno?

  Si sentiva anche più stupido quello che aveva sempre pensato, eppure anche in una situazione tanto disperata la sua mente non riusciva a fare a meno di pensare razionalmente, sforzandosi di trovare una soluzione.

  Una soluzione che forse era anche più vicina di quanto Rock avesse immaginato all’inizio.

  Le bombole! Le bombole su cui Freeze faceva così tanto affidamento!

  Il grande difetto di quegli apparecchi, che siano pieni di gas, di ossigeno, di nafta o di qualunque altra cosa, è il fatto di contenere sostanze in forma compressa; quale che sia il loro contenuto, basta una piccola incrinatura a farlo fuoriuscire, e nella maggior parte dei casi la forte compressione causa una fuoriuscita violenta, quasi un’esplosione.

  Era tutto così dannatamente semplice; McLoan poteva assaggiare la sua stessa medicina. Se Rock fosse riuscito a colpire le sue bombole quasi sicuramente l’azoto liquido sarebbe letteralmente straripato, vista anche la sua natura instabile, surgelando Freeze come un ghiacciolo.

  L’unico problema era riuscire a prenderlo alle spalle in modo da poter inquadrare bene il suo unico punto debole, ma posti per nascondersi lì dentro non ne mancavano.

  Non appena McLoan gli tolse gli occhi di dosso Rock immediatamente si mosse, aggirando il nemico e rimanendo sempre nascosto dietro ai tavoli da gioco. Freeze si accorse subito della sua scomparsa, e prese a guardarsi nervosamente attorno.

  «Dove ti sei nascosto, maledetto microbo? Credi forse di potermi sfuggire?».

  Nel tentativo di portarlo allo scoperto cominciò a lanciare azoto da tutte le parti, imprimendogli traiettorie parabolari per poter colpire anche nei punti più inaccessibili o dietro le barriere costituite dalle fila di slotmachine.

  In un paio di occasioni arrivò molto vicino a colpire Okajima, che per passare ancora più inosservato strisciava a terra approfittando della moquette che favoriva un movimento silenzioso.

  Rock era spaventato come mai nella sua vita, sapeva che il minimo errore lo avrebbe ucciso, ma non poteva permettere alla paura di dominarlo, e cercando di conservare il maggiore autocontrollo possibile riuscì finalmente a raggiungere la scala a chioccia che lo condusse alla balconata superiore, dalla quale aveva un’ottima visuale dell’intero casinò.

  Tenendosi sempre basso e spostandosi lungo la parete aggirò tutta la stanza fino a portarsi alle spalle di Freeze, che ancora seguitava a guardare da una parte all’altra al piano di sotto.

  Alla paura a quel punto fece seguito la tensione; le mani di Rock tremavano mentre prendeva la mira, la sua fronte sudava e la vista si faceva sfocata, come se ci fosse stata nebbia.

  Ma non c’era più tempo per le esitazioni, procrastinare era impossibile.

  «E adesso crepa!» gridò, e sforzandosi di non chiudere gli occhi premette il grilletto.

  Il colpo risuonò forte nella stanza puntando diritto verso le bombole di azoto; se Revy fosse stata al suo posto quasi sicuramente avrebbe puntato alla testa, ma la mira di Rock non era neanche paragonabile a quella di Two-Hands; meglio puntare su un bersaglio più grosso, che si era certi di colpire.

  Effettivamente il colpo andò a segno, il problema è che non produsse le conseguenze sperate; la pallottola centrò in pieno una delle due bombole, ma invece che perforarla le rimbalzò contro, provocando nulla più di un’invisibile ammaccatura e un assordante rumore metallico.

  «Ma cosa…» balbettò Rock sgranando gli occhi.

  Ciò che doveva essere il colpo di grazia si trasformò in un boomerang nel momento in cui servì a rivelare la sua presenza.

  Freeze, giratosi verso di lui, mostrò nuovamente il suo sorriso malevolo.

  «Ci hai provato, ti è andata male».

  Con un rapido movimento del pollice abbassò una levetta dello spruzzatore, e quando sparò nuovamente il getto di azoto fu così potente da percorrere la grande distanza fra lui e Rock; questi, disorientato e stralunato, accennò una fuga, riuscì ad evitarlo, ma le grosse lampade a parete alle sue spalle esplosero per il freddo, e l’onda d’urto lo fece precipitare oltre la balconata.

  Il tavolo della roulette subito sotto gli salvò il collo, ma non appena cercò di rialzarsi dopo essersi tolto di dosso i pezzi di legno un dolore tremendo alla caviglia destra per poco non lo fece piangere.

  “Merda. Deve essere slogata.”

  «Mi dispiace, forse avrei dovuto dirtelo.» disse McLoan avvicinandosi a lui «Queste bombole sono di metallo rinforzato.»

  «Ri… rinforzato?»

  «Mi credevi davvero così stupido da non prendere una simile precauzione? Quando si ha a che fare con un elemento instabile come l’azoto liquido, la prudenza non è mai troppa».

  Okajima cercò di rimettersi in piedi, ma il dolore alla caviglia era così forte che non riusciva quasi ad appoggiarla a terra; Freeze naturalmente se ne accorse, e da assassino profondamente sadico quale era volle trasformare quel piacevole momento in una sorta di caccia al topo.

  Rock in quell’occasione fu sopraffatto dalla paura; voleva scappare, mettersi in salvo, ma quel suo zoppicare incerto aveva l’unico effetto di far ridere sotto i denti Freeze McLoan, che lo seguiva senza sosta standogli a pochi passi, e provvedendo quando necessario a sbarrargli la strada verso l’uscita o una qualsiasi via di fuga. In pochi minuti, Okajima si ritrovò seduto in un angolino senza più alcuna possibilità di salvezza.

  «Mi spiace, bello. Sembra che siamo arrivati al capolinea».

  Freeze usò l’anello alla base dello spruzzatore per assicurarlo al gancio che spuntava da una delle bombole, quindi mise mano alla bomba che portava alla cintura.

  «Sai che cosa contiene questa bomba?

  Te lo dico io. È piena di elio liquido, un composto tre volte più efficace dell’azoto. È talmente instabile che basterebbe un nonnulla per farlo esplodere. A dire il vero avevo intenzione di usarla per il gran finale, ma dopotutto credo di non averne bisogno.

  Ritieniti fortunato. Saggiare sulla propria pelle la mia arma più segreta è un onore riservato a pochi, peccato solo che nessuno di loro abbia avuto la possibilità di raccontare come sia stato».

  Rock era completamente paralizzato, il terrore gli impediva di parlare, il dolore di muoversi; non aveva neanche più la forza per sollevare la pistola che stringeva in mano, l’unica cosa che riusciva a pensare era che fosse infine giunta la sua ora.

  Non avrebbe mai creduto di poter morire così, lontano dalla sua patria, coinvolto in un gioco al quale non era neppure stato obbligato a partecipare.

  Compativa la sua ingenuità, e tutto ciò che sperava ormai era di non soffrire troppo.

  McLoan non spinse alcun pulsante, non tolse alcuna sicura: evidentemente l’elio era talmente instabile che bastava il semplice urto contro il pavimento per provocare l’esplosione.

  «E ora… surgelati!» urlò, e subito dopo la bomba volò in alto, descrivendo una parabola.

  Okajima la seguì con lo sguardo come ipnotizzato, incapace di chiudere gli occhi; sembrava quasi stesse aspettando con impazienza che cadesse, ma ciò non accadde, perché all’improvviso l’ordigno si fermò in aria proprio davanti a lui, rimanendo sospeso nel niente.

  Sia lui che il suo nemico sgranarono gli occhi.

  «Ma cosa…» balbettò McLoan, che di colpo avvertì una presenza minacciosa alle proprie spalle.

  Subito si girò, incrociando lo sguardo terrificante e senz’anima di un giovane dai capelli neri.

  «Kaito

  «E tu chi diavolo sei?» gridò Freeze girandosi verso di lui.

  Kyuzo non gli rispose, seguitando a fissarlo con quei suoi occhi senza vita, e alla fine McLoan, spazientito, afferrò lo spruzzatore; prima che potesse sparare però il giovane alzò il braccio stringendo il pugno, e la canna si accartocciò velocemente su sé stessa.

  Freeze assistette alla scena attonito e terrorizzato.

  «Ma che diavolo…» esclamò, ma prima che potesse finire la frase la bomba ancora sospesa in aria si mosse improvvisamente nella sua direzione, esplodendo ai suoi piedi.

  Tutto attorno a lui si liberò un vapore denso come neve in grado di far sentire la propria temperatura gelida anche a Rock, che pure stava a parecchi metri di distanza. Freeze prese a dimenarsi da una parte all’altra nel tentativo di sottrarsi a quel tocco mortale, ma quasi subito le sue gambe divennero dure e pesanti come il piombo.

  Urlava così forte che venne sentito probabilmente in tutto quel piano, un urlo straziante che sembrava uscire dall’inferno; nell’arco di pochissimi secondi tutto il suo corpo si congelò sia all’esterno che all’interno, raggiungendo una temperatura tale che i gas e l’aria contenuti al suo interno, espandendosi, lo fecero letteralmente esplodere.

  Rock non credeva di essersi salvato; la sua fortuna sfacciata aveva voluto allora graziarlo per l’ennesima volta, ma lo sguardo che Kyuzo gli lanciò contro a tempesta passata faceva intendere che in realtà il peggio doveva ancora venire.

  Rialzatosi, cercò di avvicinarsi per ringraziarlo, ma prima che potesse aprire bocca l’amico lo afferrò per la camicia sbattendolo con forza contro la parete.

  «Che diavolo volevi fare? Che diavolo volevi fare, eh! Hai forse dimenticato chi si aggira in questo albergo? Qui dentro ci sono gli assassini più efficaci e spietati del mondo! Pensi forse di valere qualcosa al loro confronto!»

  «Kaito… io…»

  «Mi sembra di avertelo già detto. Non permetterò a nessuno di mettersi sulla mia strada. Io avrò la mia vendetta prima dell’alba, e se proverai ancora a fare di testa tua non confidare in un mio secondo atto di altruismo. E ora muoviti!».

 

In tutta la sua vita Revy non aveva mai vissuto un simile inferno.

  Quella serie di terribili sensazioni non smettevano di tormentarla, alternando momenti di lucidità ad altri di totale confusione.

  La testa le faceva sempre più male, doveva appoggiarsi per riuscire a camminare, e anche quando teneva gli occhi aperti dovunque guardasse vedeva immagini spaventose, una specie di esercito di zombi che circondandola si avvicinavano sempre di più, cercando di afferrarla.

  Lei si dibatteva, cercava di resistere, ma per quanto una parte di sé continuasse a sostenere che doveva trattarsi solo di semplici visioni il dolore che le devastava il corpo le impediva di pensare, e sentiva che entro poco avrebbe finito con l’impazzire.

  Ciò che maggiormente la spaventava erano i ricordi legati a quel maledetto giorno e a quella maledetta nave; qualunque cosa fosse a ridurla così li stava riportando alla luce, ma in un modo orribile. Era come un incubo, in cui nulla è tangibile e visibile e l’unica cosa in grado di percepire è la paura.

  Il suo peregrinare rantolante la condusse infine alla famosa sala fumatori dove fece appena in tempo a vedere Kyuzo che spariva assieme a Rock, trattenuto per la camicia, oltre il bassorilievo.

  Cercò di raggiungerli prima che le due ante del monumento si chiudessero ma le sue precarie condizioni la tradirono e non fece in tempo.

  Per lunghissimi minuti non riuscì a fare altro che restarsene immobile a fissare il bassorilievo, pur non avendo la minima idea di cosa vi fosse raffigurato. In primo piano c’erano due uomini, entrambi nudi, con uno scudo rotondo e degli elmi dalle lunghe creste, e alle loro spalle una miriade di altre figure che si contorcevano tra di loro come se stessero combattendo. L’uomo a destra era disteso a terra e pareva urlare, con un braccio alzato e l’altro, quello con lo scudo, contorto in una posa quasi innaturale; l’altro era in piedi, a gambe divaricate, e la lancia che stringeva nella mano affondava la sua lama nel collo dell’avversario.

  Non appena riuscì a tornare in si mise alla ricerca di un bottone, o di un qualche dispositivo che le permettesse di capire cosa nascondeva quel bizzarro monumento; fu solo per un vero caso che scoprì il trucco, ovvero due pulsanti segreti nascosti negli occhi dell’uomo urlante da premere contemporaneamente.

  Dapprima si udì un sibilo, il rumore familiare di un macchinario in movimento, e una decina di secondi dopo le ante segrete si riaprirono, rivelando l’ascensore nascosto dietro di esse.

  Proprio come Rock, neanche lei aveva ben chiaro quello che stava facendo, e lo stato confusionale in cui si trovava di certo non l’aiutava; sapeva solo che non poteva lasciare il suo partner in pericolo, e come già altre volte aveva fatto in passato era suo dovere aiutarlo.

  Perché avrebbe dovuto farlo?

  Per molti anni non aveva mai pensato a qualcuno che non fosse lei stessa.

  Era fredda, cinica, spietata, e non aveva mai provato un briciolo di rimorso; poi però era arrivato lui, quell’insopportabile azzimato giapponesino sputasentenze che non l’aveva mai più lasciata in pace.

  Non voleva ammetterlo, ma era cambiata. Lui l’aveva cambiata.

  Non poteva lasciarlo nei guai, per nessun motivo.

  Senza pensarci ulteriormente salì nell’ascensore e pigiò il primo pulsante che le capitò sottomano. La discesa fu straordinariamente rapida, e appena le porte si riaprirono Revy si ritrovò nel corridoio del primo livello sotterraneo.

  Non sapeva né dove si trovasse né se Rock fosse stato effettivamente portato lì, sapeva solo che voleva trovarlo, quindi scese immediatamente preparandosi per andare a cercarlo.

  Tuttavia, non fece in tempo a muovere un passo che sentì la canna di un mitra appoggiata alla nuca.

  «Allora sei stata tu a mettere in moto l’ascensore.» disse Steven.

  Istintivamente Revy fece per mettere mano alle pistole, una delle quali, quella con il rampino, era stata liberata del suo gadget, ora assicurato alla cintura dei pantaloni, ma prima che potesse fare una mossa Steven premette ancora più forte la sua arma contro la testa della ragazza.

  «Non provarci. Azzardati solo a toccarle, e ti faccio saltare la testa».

  Revy era confusa, non riusciva a pensare, e se non fosse stata in quelle condizioni probabilmente avrebbe anche potuto reagire; fortunatamente era ancora abbastanza lucida da comprendere che il minimo gesto sospetto le sarebbe costato la vita, quindi, con una rassegnazione che mai avrebbe pensato di poter dimostrare, si lasciò disarmare, e subito dopo che Steven le ebbe portato via il suo cinturone dovette appoggiarsi alla parete per non cadere.

  «Devi essere davvero fatta d’acciaio.» disse lui con un misto di rabbia e ironia «Neanche il P3X è riuscito a stenderti.

  Poco male. Kyuzo sarà felice di vederti in questo stato, e non solo lui».

  Steven dovette sollevarla a forza per riuscire a farla muovere, e dopo qualche minuto i due entrarono nella sala comandi dove erano riuniti tutti gli altri; c’era anche Rock, nuovamente ammanettato alla sedia dopo il suo maldestro tentativo di fuga.

  «Guardate un po’ chi abbiamo qui!»

  «Revy!» esclamò Rock, accorgendosi però fin da subito delle sue pessime condizioni.

  I suoi occhi così carichi di ardore erano quasi completamente spenti, la pelle era terribilmente pallida, a stento camminava e faticava a respirare. Nulla della vecchia Revy sembrava rimasto in quella specie di sacco di carne privo di spirito.

  Nel vederla, gli sguardi di tutti parvero accendersi di rabbia; Hibraim, che era seduto alla consolle, scattò in piedi cercando ed estrasse la pistola, ma Ashford riuscì miracolosamente a trattenerlo.

  «Aspetta! Non ne vale la pena! Vuoi forse darle la soddisfazione di morire?».

  L’iracheno digrignò i denti, sembrava sul punto di premere il grilletto, ma alla fine si decise ad abbassare l’arma.

  Kyuzo al contrario sembrava freddo e impassibile come sempre, ma Rock, che lo conosceva come nessun altro, vedeva distintamente il fuoco infernale che gli bruciava dentro; si avvicinò a Revy, che seguitava a guardare a terra, e lei, pur se con molta fatica, sollevò la testa.

  «Non so come tu sia arrivata qui, e neanche mi interessa. Ma se devo essere sincero, la cosa non mi dispiace».

  Steven, riposto il mitra, fece alcuni passi indietro, e attorno ai due si formò un cerchio vuoto; Ashford e gli altri si tenevano a distanza, come se avessero paura, continuando però a guardare verso Revy e Kyuzo coi nervi a fior di pelle ed espressioni di puro odio dipinte sul viso.

  «Quanto ho aspettato questo giorno.»

  Seguì un silenzio angosciante, poi, all’improvviso, il pugno destro di Kyuzo affondò nello stomaco di Revy con la forza di un maglio da guerra; la ragazza si ritrovò piegata in due dal dolore, a stento riuscì a trattenere i conati di vomito, ma non riuscì ad evitare di sputare sangue.

  «Revy!» gridò nuovamente Rock vedendola inginocchiata a terra

  «Il giorno in cui avrei finalmente potuto vendicarmi».

  Dopo il pugno allo stomaco fu la volta di una gomitata alla nuca che spedì la ragazza a terra in uno stato di semi-incoscienza; Rock avrebbe voluto correre in suo aiuto, arrivò a tagliarsi coi bordi delle manette per cercare di alzarsi dalla sedia, ma prima che potesse tentare di manometterle si ritrovò la pistola di Hibraim puntata alla testa: anche lui, come tutti gli altri, non aveva più nulla del simpatico programmatore che aveva visto in quelle ultime ore.

  Kyuzo intanto continuava ad infierire su Revy riempiendola di calci a cui lei non si ribellava, probabilmente perché l’allucinogeno non gliene dava la possibilità; restava raggomitolata su sé stessa in posizione fetale, gemendo dal dolore ad ogni colpo, che portava con sé, oltre ad un tremendo dolore, anche ferite ed escoriazioni.

  «Fa male? Fa male, schifosa bastarda? Non sarà mai abbastanza per farti pagare quello che mi hai fatto!»

  «Kaito! Ti prego, fermati! Così la ucciderai!».

  Lui però ormai era completamente sordo a qualsiasi richiamo; la sua espressione non aveva più niente di umano, e persino i suoi compagni parevano tremare leggermente, terrorizzati a loro volta nel vedere tutta la rabbia accumulata dal loro compagno negli ultimi quattro anni sprigionarsi in un colpo solo.

  «Tu ci hai portato via tutto!» urlò senza smettere di colpirla «Ti sei presa quanto avevamo di più caro senza un briciolo di rimorso! Hai ucciso persone innocenti, hai calpestato le loro speranze! Non hai avuto pietà neppure per una bambina in sedia a rotelle!».

  Un calcio dieci volte più potente degli altri mise finalmente fine a quella spaventosa tortura; Revy era ormai ridotta ad una maschera di sangue, probabilmente aveva anche perso i sensi, ogni angolo del suo corpo era menomato, perdeva sangue dal naso e dalla bocca.

  Rock distolse lo sguardo; non ce la faceva a vederla in quello stato.

  Il silenzio tornò a dominare, e nel buio di quella stanza le luci dei monitor illuminavano i volti di Steven, Hibraim e Ashford, che piuttosto che umani parevano quelli di immobili statue.

  Kyuzo respirò profondamente, e a giudicare dalla sua espressione probabilmente era prossimo ad una delle sue crisi, ma cercò in tutti i modi di trattenersi, ed infilata una mano nel giubbotto ne cavò fuori la famosa Beretta d’argento con il teschio sull’impugnatura.

  «E adesso, dopo quattro anni, farò giustizia per mia sorella. Andrai all’inferno uccisa dalla stessa pistola che tu hai puntato su di lei, con in testa il proiettile che usasti per ucciderla».

  Il proiettile.

  Un dettaglio di cui in pochi erano a conoscenza, e Rock non era fra questi.

  Nel corso delle indagini avviate dalla polizia giapponese dopo l’attacco alla Seaborn Star, il corpo di Harue non era mai stato ritrovato, ma dal momento che la finestra della cabina era aperta la conclusione degli inquirenti fu che fosse stato gettato in mare, anche se il motivo di tale gesto non era mai stato chiarito. L’unica cosa che era stato possibile recuperare era il proiettile responsabile della sua morte, conficcato nell’imbottitura dello schienale della sedia.

  Vista la scarsa qualità del proiettile non era stato possibile eseguire un esame balistico, ma la perizia scientifica confermò che il sangue apparteneva senza ombra di dubbio ad Harue, e questo per Kaito era stato più che sufficiente.

  Da quel giorno non aveva pensato ad altro che alla vendetta; aveva battuto ogni pista, pagato ogni informatore, corrotto e strizzato ogni collaboratore, riuscendo alla fine a scoprire la verità.

  Le menti dietro all’attacco erano alcune delle più terribili mafie del mondo, gli esecutori invece erano il gruppo di mercenari conosciuto come Lagoon Company.

  Quattro anni erano passati, quattro anni di attesa, e ora finalmente l’assassino materiale della sua adorata sorellina era lì, ai suoi piedi, pronto a morire.

  Kyuzo infilò il caricatore contenente quel solo proiettile nella pistola e puntò l’arma dritto alla testa di Revy.

  «Kaito!» disse Rock nell’ultimo, disperato tentativo di fermarlo «Ti prego! Non farlo! Non macchiare la memoria di Harue con un altro omicidio!».

  Seguirono lunghissimi attimi di tensione, durante i quasi ogni secondo poteva essere quello buono, poi, con grande stupore di tutti, Kyuzo inserì la sicura e abbassò la pistola.

  «Non ancora. Ucciderla adesso non mi darebbe soddisfazione. Aspetterò la fine del Death Game, e poi la ucciderò».

  Rock, forse senza rendersene conto, tirò un sospiro di sollievo, Steven e gli altri invece sembravano comprensibilmente sorpresi per una simile decisione.

  In quella, come a voler scacciare la tensione, che tuttavia già cominciava a diradarsi, qualcun altro entrò nella stanza.

  «Scusate, è permesso?»

  «Samejima!?» disse Steven «Che ci fai tu qui?»

  «Chiedo scusa per questa visita inopportuna. Non vi siete fatti sentire per tutta la notte, così ho pensato che ci fosse qualche problema.»

  «Scusa, abbiamo avuto daffare.» rispose Kyuzo appoggiando la pistola sul tavolino accanto all’entrata

  «Capisco.»

  «Ma come hai fatto a entrare nell’albergo?» domandò Hibraim «L’ingresso dovrebbe essere sbarrato.»

  «Sono usato la porta nascosta che collega il parcheggio ai sotterranei.»

  «Hai corso un bel rischio. È vero che il parcheggio non è zona di combattimenti, ma il sotterraneo sì.»

  «Che vuoi che ti dica. Prodigi della dea bendata. Ora però, riguardo a lei» disse Samejima indicando Revy «Come mai si trova qui?»

  «Un piccolo contrattempo.» rispose Ashford «Ma nulla di cui preoccuparsi.»

  «Lo vedo. E conoscendovi, trovo strano che sia ancora viva.»

  «Sai com’è.» disse Steven «I piatti più prelibati vanno assaporati un pezzetto alla volta.»

  Forse Revy non era ancora morta, ma di certo non era lì ad ascoltare quei discorsi; infatti la sua mente in quel momento stava viaggiando lontano, al giorno che aveva cambiato per sempre le vite di così tante persone.

 

Due anni prima

 

Tutto era andato esattamente come previsto; con un assalto rapido Dutch e Revy avevano preso il controllo della nave senza bisogno di uccidere nessuno.

  In meno di due minuti avevano ottenuto il controllo della sala dei ricevimenti, grazie anche e soprattutto a Benny, il loro nuovo socio, che aveva disattivato tutti i sistemi difensivi e il computer di navigazione prima che avesse inizio l’abbordaggio. In questo modo erano riusciti a rallentare di molto l’invio dell’SOS ed avevano potuto avvicinarsi senza essere notati.

  L’unica pecca in quel piano apparentemente perfetto era che il pacco da recuperare non si trovava sul luogo preannunciato; Dutch aveva perquisito con estrema meticolosità tutti i presenti, ma dei due contenitori che stavano tanto a cuore a Balalaika e a Hotel Moskow nessuna traccia.

  I soliti metodi che il gigante nero utilizzava per estorcere informazioni non si erano rivelati sufficienti, ma a lui e alla sua socia era bastato fare due più due per capire che se del materiale tanto importante, il cui vero contenuto oltretutto era noto solo a pochissime persone, poteva essere solo in un altro posto, quindi Revy si era immediatamente diretta verso la cabina del presidente Kinomiya.

  Stava quasi per raggiungerla quando, facendo per girare un angolo, si accorse che la porta in questione era sorvegliata da una guardia, la quale però, forse per la noia, si era addormentata sulla poltrona lì accanto.

  Gli ordini di Hotel Moskow erano chiari, quella faccenda doveva essere portata a termine senza lasciare cadaveri, quindi la ragazza si avvicinò facendo il massimo silenzio; sarebbe bastato un bel colpo in testa per rispedire quel tipo nel mondo dei sogni, ma Revy purtroppo venne tradita dallo scricchiolare dei suoi scarponi.

  La guardia si svegliò, ma prima che potesse estrarre la pistola si ritrovò quelle di Revy puntate contro.

  «Non fare una mossa, o ti faccio secco».

  Quello non mosse un muscolo; continuava a tenere la mano appoggiata sul calcio dell’arma, ancora riposta nella fondina, e sembrava intenzionato ad estrarla da un momento all’altro.

  Revy dal canto suo era pronta a sparare al minimo segnale, ma poi la guardia, constatando che effettivamente non era possibile alcuna reazione, alzò le mani.

  Nello stesso momento Harue stava dormendo nel suo letto nella stanza che condivideva con la madre, quando fu svegliata da un rumore sordo, come di qualcosa che cadeva.

  Dapprima pensò che fosse stata solo la sua immaginazione, poi però sentì il rumore della porta d’ingresso della cabina che veniva aperta molto lentamente.

  «Fratellone?» disse «Sei tu?».

  Nessuno rispose, e non vedendo accendersi la luce del salotto la bambina cominciò a chiedersi cosa stesse succedendo; alzatasi, accese la lampada sul comodino e raggiunse la propria sedia a rotelle, ferma accanto al letto. Sopra di essa era appoggiata la valigetta a cui aveva promesso di fare la guardia, per questo, una volta sedutasi, se la mise sulle ginocchia.

  Stava per muoversi verso la porta quando questa si aprì, e Revy entrò nella stanza; non aveva in mano le sue due pistole, ora riposte nella loro fondina, dal momento che la guardia, prima di essere messa al tappeto, l’aveva pregata di non fare del male alla ragazzina che avrebbe incontrato.

  Non che ci fosse stato bisogno di dirglielo; Revy era una persona di pochi principi, ma fare del male ai bambini non era certo nel suo stile.

  Si aspettava di dover ricorrere a sistemi un po’ drastici per tenerla buona, dopotutto il suo non era certo un aspetto che incuteva simpatia; e invece, quando si girò verso Harue, si vide piantati addosso quei due occhi così innocenti e così puri che non si sarebbero detti neanche gli occhi di un essere umano.

  «Salve, piccola.» disse sforzandosi di sembrare gentile

  «Chi è Lei?» domandò la bambina, non senza un pizzico di preoccupazione.

  «Mi dispiace, ma questo non posso dirtelo. Sono venuta per prendere una cosa.»

  «Per prendere una cosa? Che cosa?»

  «La valigetta che tieni in mano. Potresti consegnarmela, per favore?».

  Di colpo lo sguardo di Harue cambiò radicalmente, passando da ingenuo a determinato; e non era quella determinazione tipicamente infantile, quella che spingeva un qualsiasi moccioso ad attaccare chi gli aveva rubato il suo giocattolo; era qualcosa di diverso, che a Revy fece quasi paura.

  «No.» fu la sua secca risposta.

  Revy non era certo il tipo di persona dotata di molta pazienza, senza contare che Dutch le aveva dato non più di quindici minuti per recuperare il pacco e tornare nella sala ricevimenti per la fuga, quindi una simile risposta, per quanto pronunciata da bambina, le fece salire un po’ i giri.

  «Piccola, senti.» disse, stavolta con maggior cattiveria «Non ho tempo di giocare. Consegnami quella valigetta.»

  «Non posso.» rispose Harue, ancora una volta senza apparente timore «Ho promesso al mio fratellone di proteggerla a qualunque costo».

  Two-Hands, di fronte a quell’ennesimo rifiuto, cominciò davvero a perdere la pazienza; in fin dei conti poteva sempre strappargliela di mano o spaventarla al punto tale da costringerla ad ubbidire, ma più i senti passavano più quegli occhi la lasciavano senza parole.

  Essendo nata e cresciuta nei bassifondi più malfamati d’America Revy era cresciuta nella convinzione che le ragazzine di buona famiglia fossero tutte delle piccole pesti viziate e capricciose destinate a diventare delle oche spilla-quattrini per qualche vecchio rincitrullito, e mai avrebbe immaginato di trovarsi di fronte alla prova vivente della falsità di tale convinzione.

  Non c’era assolutamente nulla di infantile in Harue, bastava guardarla per capire che era sì spaventata, ma anche molto determinata.

  Senza capire perché recuperò la sedia della scrivania e si piazzò in mezzo alla stanza, frapponendosi fra Harue e la porta d’ingresso.

  «Dimmi piccola. Sai che se al posto mio ci fosse qualcun altro più determinato a quest’ora probabilmente saresti morta?»

  «Certo che lo so. Ma io, vede… non ho paura di morire».

  Una frase del genere era troppo anche per Revy: come era possibile che una mocciosa di otto anni se ne uscire con una simile affermazione?

  «Come sarebbe a dire che non hai paura di morire?»

  «Io sono malata. Ho la sclerosi. Fra dieci anni al massimo sarò completamente paralizzata. Se questo è il destino che mi attende, la morte può forse farmi paura?».

  Two-Hands era così sconvolta che la sigaretta le scivolò via dalla bocca, spegnendosi sulle lastre marmoree del pavimento.

  «Tu… davvero non hai paura?».

  A quella domanda Harue abbassò il volto, e Revy poté notare una piccola lacrima scenderle dagli occhi.

  «Beh, a dire il vero, negli ultimi tempi ho cominciato a provarne.»

  «Come hai detto? Di cosa può avere paura chi non teme neppure la morte?».

  La bambina esitò, stringendo i pugni.

  «Ciò che mi fa paura… è il contenuto di questa valigetta.»

  «Il contenuto!? Perché, cosa c’è lì dentro?»

  «Qui dentro… c’è la speranza.»

  «La… speranza?»

  «Non so bene cosa sia. Mio padre e mio fratello li chiamano nanorobot. Hanno lavorato su questi nanorobot da quando sono nata. Kaito dice che saranno in grado di guarirmi, di farmi camminare per la prima volta, e di salvarmi dalla paralisi.»

  «Ma se davvero lì dentro c’è quello che può darti una vita normale… perché ne hai paura?»

  «Perché… potrebbe essere solo un sogno.»

  «Un sogno?»

  «I sogni e le speranze sono ciò che permette alle persone di affrontare le difficoltà della vita. Su di essi poggia tutto ciò per cui lottiamo; eppure, nonostante ciò, sono così fragili. Basta un niente perché vadano in pezzi.

  La medicina contenuta qui dentro potrebbe anche non funzionare, non essere sufficiente. Se così fosse le mie speranze, ma soprattutto quelle dei miei genitori, sarebbero destinate a svanire, e questo mi fa paura. Molta paura».

  Se solo Revy avesse avuto accanto persone come lei.

  Un tempo si era detta che preferiva essere un’accattona piuttosto che una ricca viziata, invece adesso provava una certa invidia nei confronti di Harue; di lei invidiava molte cose, il suo coraggio, la sua purezza, la sua stessa famiglia.

  «E che io possa prendere la tua cura e portarla via non ti fa paura?».

  Two-Hands si aspettata qualsiasi tipo di risposta per una simile domanda, ma l’ultima cosa che poteva immaginare era il sorriso che la bambina mostrò dopo pochi istanti.

  «No. Perché Lei non potrebbe mai farlo.»

  «Cosa!?»

  «Malgrado i miei genitori e il mio fratellone cerchino sempre di convincermi del contrario, io so che ci sono tante persone cattive nel mondo. Ma Lei non è cattiva, quindi non ho paura.»

  «Come fai ad esserne sicura?»

  «I suoi occhi.»

  «I… miei occhi?»

  «Nei suoi occhi vedo il dolore, la sofferenza. Lei ha fatto del male a tante persone, ma è la prima a soffrirne. Il problema è che non vuole ammetterlo, perché la farebbe soffrire ancora di più. Ed è questa la sua paura».

  Revy sgranò gli occhi.

  «La mia… paura!?»

  «Circondarsi di sofferenza altrui è spesso l’unico modo per non sentire la propria. Lo so perché anch’io per un certo periodo ho cercato l’ho pensato, ma poi ho capito che far soffrire gli altri non serviva a farmi stare meglio. Anzi, sono la forza di volontà e il calore di chi mi sta intorno a permettermi di andare avanti e di sperare in un futuro libera da questa malattia».

  Cosa poteva fare? Cosa poteva dire?

  Poteva davvero cambiare? Poteva sperare anche lei in un futuro diverso, lontano da tutto quel marcio nel quale era cresciuta?

  Per la prima volta si vergognava di stessa, non tanto per tutto il male fatto in passato, quanto piuttosto per essersi continuamente auto-commiserata; credeva di essere un’eterna sfortunata, una persona senza alcun motivo per vivere, ma tutto ciò che aveva passato era niente in confronto alle quotidiane sofferenze che aveva dovuto sopportare quella bambina fin dal giorno della sua nascita.

  Come poteva lei, una persona come le altre, portarle via il suo sogno di normalità? Che diritto aveva di infangare le sue speranze e consegnare il frutto di così tanti sacrifici a qualcuno interessato solamente a stesso?

  Per molti secondi Revy restò in silenzio, sembrava quasi che stesse dormendo, poi si alzò sbottando.

  «Ah, accidenti.» mugugnò infilandosi una nuova sigaretta in bocca «L’ho sempre detto, sta alla larga dai mocciosi. Ti procurano solamente guai.» e, detto questo, si mosse verso l’uscita «Beh, ti saluto.»

  «Ma come, non voleva questa valigetta? Si è già arresa?».

  Revy si fermò, rimase un attimo immobile poi si girò a guardarla con uno strano sorriso di complicità.

  «Beh, diciamo che la valigetta non si trovava dove ci avevano detto di cercarla, e che il tempestivo intervento della marina ci ha costretti a ritirarci».

  Harue, inizialmente attonita, sfoggiò uno dei più splendidi sorrisi della sua vita.

  «La ringrazio molto. Ma ora che ci penso, non mi ha ancora detto il suo nome.»

  «Il mio nome? Tu chiamami Revy.»

  «Allora… grazie, signorina Revy».

  Two-Hands fece il segno dell’ok e fece per andarsene, ma un improvviso quanto spaventoso rumore appena oltre la porta d’ingresso, facilmente riconoscibile come un colpo di pistola, paralizzò all’istante tutto il suo corpo.

  “Che diavolo…” pensò mettendo mano alle sue armi

  «Signorina Revy, che sta succedendo?».

  Prima che Revy potesse rispondere l’uscio venne sfondato e una decina di uomini in uniforme militare, armati fino ai denti e coi volti nascosti dietro a dei passamontagna, fecero irruzione nella cabina.

  Tutto avvenne in pochi secondi.

  Senza pensarci ulteriormente Revy gli sparò contro, uccidendo quelli davanti a tutti; alcuni suoi compagni ribaltarono il tavolo acquattandosi dietro di esso, e dopo poco uno di loro rispose al fuoco.

  «Fermo, idiota!» urlò un altro parlando in russo «Non dobbiamo sparare!».

  Che diavolo stava succedendo? Che ci facevano dei paramilitari russi, oltretutto molto ben addestrati, a bordo di una nave da crociera?

  Che fossero… no, era impossibile.

  Quel pensiero, il pensiero del tradimento, fece esitare Revy, e fu un errore imperdonabile, perché un altro soldato, nascosto dietro i battenti, le calò addosso come un macigno, afferrandola saldamente e sbattendola contro il muro opposto all’ingresso della stanza.

  L’urto fu a dir poco tremendo, tanto che le sue pistole le caddero di mano. Una di esse finì sopra il letto, l’altra invece cadde ai piedi della ragazza, e quest’ultima cadendo fece partire accidentalmente un colpo: la pallottola rimbalzò inizialmente sul soffitto, quindi puntò diritta su Harue, che per tutto il tempo era rimasta immobile per la paura. Per un vero miracolo la valigetta che aveva alzato istintivamente in sua difesa deviò ulteriormente il colpo, che finì per provocarle solo una ferita non troppo profonda all’avambraccio destro prima di andarsi a conficcare nell’imbottitura della sedia.

  L’urlo di dolore della bambina fu l’ultima cosa che Revy riuscì a sentire con chiarezza, perché subito dopo essere stata buttata a terra il soldato che l’aveva aggredita le piantò una siringa nel braccio, e in pochi secondi tutti i suoi sensi cominciarono gradualmente a svanire.

  «Signorina Revy!».

  Two-Hands cercò di combattere, di resistere, ma si sentiva pesante come una montagna, e anche se il suo aggressore l’aveva mollata non riusciva a muovere un muscolo.

  «Prendete la bambina!» sentì «Il capitano la vuole viva!».

  Gli altri soldati a quel punto entrarono nella stanza; uno di essi si avventò su Harue con un panno sicuramente zuppo di cloroformio che la fece rapidamente addormentare. Lo stesso uomo la prese tra le braccia, mentre un altro recuperava la valigetta, aprendola.

  «Qui ce n’è solo uno.»

  «Non importa, basterà.» rispose uno dei due soldati che sovrastavano Revy «Ora torniamo nella stiva. Dobbiamo aspettare che quelli della Lagoon se ne vadano prima di iniziare.»

  «Signore, che ne facciamo di lei?» chiese l’altro

  «La dose era massiccia. Al risveglio non ricorderà più niente. Lasciamola qui. Cancellate ogni traccia. Non dobbiamo lasciare indizi».

 

Dunque… era successo quello.

  Avrebbe tanto voluto che fosse un sogno, ma non lo era.

  Ora ricordava alla perfezione.

  Un traditore.

  Per quattro lunghi anni aveva vissuto fianco a fianco con un traditore, con il responsabile di quel massacro. Non voleva crederci.

  Ora, per la prima volta, comprendeva i sentimenti di Kyuzo.

  Come si poteva non odiare chi aveva fatto del male ad una bambina così pura e gentile? Con che coraggio ci si poteva definire uomini dopo un simile gesto?

  Intanto, attorno a lei, Kyuzo e i suoi compagni parlavano tra di loro, ma il clima che regnava tra i presenti sembrava stranamente teso; era come se stessero aspettando qualcosa, e qualcosa purtroppo accadde, ma nulla di ciò che i presenti avrebbero mai potuto immaginare.

  Rock aveva ancora gli occhi piantati su Revy; respirava normale ma era ancora incosciente, anche se negli ultimi secondi aveva cominciato ad accennare qualche movimento, segno che probabilmente si stava riprendendo. Gli sembrava anche di sentirla parlare, ripetendo continuamente una strana litania che però diventava sempre più simile ad una parola a lui nota.

  «Vy…so…tniki»

  D’un tratto, sollevando lo sguardo, Okajima vide Samejima avvicinarsi furtivamente a Kaito con in mano una di quelle siringhe a pistola.

    «Kaito, attento!».

  Lui a malapena fece in tempo a sentirlo, perché prima di poter accennare una qualunque reazione Noboru gli iniettò nella schiena il contenuto della siringa, e subito lui si ritrovò inginocchiato a terra senza un briciolo di energie.

  «Che diavolo…» disse Steven.

  Lui e gli altri fecero per lanciarsi in soccorso del loro amico, ora inginocchiato a terra, ma prima che potessero farlo Samejima gli puntò una pistola alla testa.

  «Non fate una mossa! Il ritardante che gli ho iniettato blocca le funzioni dei nanorobot, e voi sapete bene che in queste condizioni non ci sarebbe potere in grado di salvarlo. Gettate le armi o gli pianto una palla in testa.»

  «Samejima, sei uscito di senno?» disse Hibraim senza abbassare la sua arma

  «Non mi avete sentito? Ho detto giù le armi!».

  Lui e gli altri erano così scioccati che se inizialmente non ubbidirono fu solo perché non riuscivano a capacitarsi di quanto stava accadendo, ma non appena trovarono la forza per rendersi conto che era tutto vero fecero subito come gli era stato ordinato.

  «Bravi, molto meglio.»

  «Samejima…» balbettò Kyuzo «Che… che stai facendo?»

  «Scusami, Kaito. Niente di personale. È solo che anch’io ho i miei obiettivi, e sfortunatamente non coincidono con i tuoi.»

  «I tuoi obiettivi?» ripeté Steven «Di che diavolo stai parlando?»

  «Con calma.» rispose l’uomo con un sorrisetto malevolo «Avremo modo di parlarne. Per ora c’è una persona che vorrei tanto farvi conoscere»

  «Una persona?».

  In quella il pomo della porta prese a cigolare, ma quando, dopo poco, entrarono quelle due figure, nessuno riuscì a credere ai propri occhi; sembrava che tutti i presenti avessero visto un fantasma, e in effetti fu proprio questo il primo pensiero di molti di loro.

  «Scusate il disturbo, signori. Ho forse interrotto qualcosa di importante?»

  «No.» disse Rock «Non è possibile.»

  «Immagino che le presentazioni siano del tutto inutili, ma dopotutto siamo pur sempre fra gentiluomini. Quindi, permettevi di presentarvi il mio socio in affari.»

  «Tu…» disse Steven con gli occhi sbarrati «Che ci fai tu qui? Tu… dovresti essere… morta!».

 

Nota dell’Autore

Ecco, finalmente ci siamo.

Come al solito dico che alcuni pezzi di questo cap non mi soddisfano appieno, soprattutto il finale.

Ci è voluto un po’, ma finalmente siamo giunti alla fatidica svolta tanto preannunciata nei precedenti capitoli. Immagino che molti dei lettori avranno già scoperto l’identità dei due misteriosi nuovi arrivati, ma il mio sadico ego ha voluto concludere qui la narrazione, proprio sul più bello.

No beh, scherzi a parte questo capitolo è venuto più lungo di quanto immaginassi, ma dovrebbe trattarsi di un caso isolato.

Rinnovo i soliti ringraziamenti ai miei lettori, Selly, Gufo, Lisy, Carlitz e Spectre.

A breve gli ultimi tre capitoli!

A presto^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 11
*** Evolution ***


10

10

 

 

Era come vivere in un incubo, un incubo terribile.

  Benché spossato e allo stremo delle forze, Kyuzo era sicuro di ciò che vedeva; non era un delirio, o un’allucinazione dovuta alle sue condizioni.

  Ma com’era possibile.

  «Ba… Balalaika…».

  Lei si girò nella sua direzione, e appena si mise un sigaro in bocca Boris subito glielo accese, malgrado avesse ancora la mano fasciata.

  «Sembra proprio che i ruoli in questa commedia si siano invertiti. Adesso sarò io a giocare con la tua vita.»

  «Tu… maledetta… come fai ad essere ancora viva?»

  «Noi ti abbiamo vista morire.» disse Ashford

  «Parlate forse di quella ridicola altra me su nell’albergo? Allora è crepata.»

  «Di… di che stai parlando?» chiese Kyuzo

  «Non l’hai ancora capito? Quella era solo un’esca. La prima disperata incontrata nelle strade di questa lurida città. È bastata una parrucca, un po’ di trucco, e ci siete cascati come dei perfetti idioti.»

  «Ma… non è possibile.» disse Steven «Sono sicuro di aver messo te in quella stanza! Mi sarei accorto subito se fosse stata solo un sosia!»

  «Infatti lo scambio è avvenuto dopo. Tutto grazie alla gentile collaborazione del qui presente signor Samejima.»

  «Sì figuri, miss Balalaika. Tra soci è normale aiutarsi l’un l’altro.»

  «Sono d’accordo.» rispose lei col suo finto sorriso

  «Tu, Samejima. Verme schifoso.»

  «Ero certo che avreste reagito male, per questo ho deciso di aspettare fino all’ultimo, confidando nell’unico momento in cui tu, Kaito, avresti tenuto la guardia abbassata.»

  «Maledetto… traditore…»

  «È ironico, non trovi? Hai passato gli ultimi quattro anni a cercare vendetta, senza accorgerti che il vero pericolo stava proprio accanto a te.»

  «Tu… dunque… è stata tutta opera tua.»

  «Non proprio. A dire il vero, se oggi siamo arrivati fino a qui, il merito è in gran parte della qui presente miss Balalaika.»

  «Ba… Bala… Balalaika…»

  «Sei più lento di quanto pensassi. Vorrà dire che te lo dirò chiaro e tondo. Noi siamo gli architetti. Tutto quello che è successo negli ultimi anni non è stato altro che il procedere sicuro del piano architettato fin dall’inizio.»

  «Ehi, Samejima.» disse Balalaika «Non credevo fossi così vanaglorioso.»

  «Tu mi conosci Balaika. Mi piace ritagliarmi la mia fetta di gloria.»

  «Ma qual è il vostro obiettivo?» chiese Rock «A cosa aspirate?»

  «Ah, sei anche tu qui, piccolo Japonski. Beh, rispondere a questa domanda è un po’ complicato. Perché non lo fai tu, Samejima.»

  «A cosa aspiriamo? C’è forse bisogno di chiederlo? Il nostro obiettivo ce l’hai davanti agli occhi.»

  «Davanti agli occhi?».

  Non servirono che pochi secondi per capire a cosa si riferisse Noboru, e istintivamente Rock rivolse il suo sguardo verso Kaito.

  «Voi… no, Balalaika. Sarebbe troppo anche per te…»

  «Lurido bastardo.» disse Hibraim «Tu vuoi il potere dei nanorobot!»

  «Alla fine ci siete arrivati. Esatto, è proprio quello che vogliamo.»

  «I nanorobot…» mugugnò Kyuzo «Non sono… delle armi…»

  «È buffo che sia proprio tu a dirlo. In fin dei conti, non sei poi molto diverso da me. Entrambi cerchiamo il potere. O devo ricordarti il motivo per cui hai deciso di iniettarteli?».

  Il giovane strinse i denti, non trovando argomentazioni con cui poter controbattere.

  Era vero. Ciò che Samejima diceva era la pura verità, e non poteva nasconderlo. Si era iniettato i nanorobot pensando unicamente alla vendetta; sapeva quali effetti avrebbero portato in un organismo sano come il suo, era consapevole di ciò che avrebbe potuto realizzare con il loro aiuto, ma sapeva anche a quale destino andava incontro.

  «Tu… hai sempre mirato a questo…»

  «Vorresti forse farmene una colpa?

  Dì un po’, hai mai avuto la benché minima idea del potenziale insito in questa scoperta? Ti sei mai soffermato a riflettere su cosa sarebbe in grado di portare un simile ritrovato sul panorama politico mondiale?

  I nanorobot sono senza alcun dubbio la più grande scoperta della storia dell’umanità.

  Proprio come te, tuo padre non aveva idea delle possibilità illimitate che garantiva il Progetto Rebuild. Se solo lo avesse voluto, sarebbe potuto diventare l’uomo più ricco e potente che la storia avesse mai visto.

  Cercai in tutti i modi di farglielo capire, provai a spiegargli quali incredibili benefici avrebbe potuto ricavare spingendo il Progetto Rebuild nella giusta direzione.

  E sai cosa mi ha risposto lui?»

 

“Il progetto Rebuild deve portare la speranza, non la distruzione.

Non permetterò mai che gli sforzi fatti per salvare mia figlia vengano usati per fare del male”

 

«Quell’uomo era cieco. Non si rendeva conto di quello che aveva creato, e non aveva alcuna intenzione di ascoltarmi. Ma io non potevo permettere al suo stupido ideale di dilapidare quello che poteva costituire il futuro della nostra specie, quindi mi sono messo alla ricerca di nuovi soci.»

  «Tu, lercio bastardo!» urlò Steven «Hai tradito la fiducia del signor Kinomiya!»

  «Io non volevo che finisse così. È stato lui a costringermi. Se solo avesse dimostrato un po’ più di buonsenso sarei stato ben felice di continuare a seguirlo.

  Tuttavia, non avevo alcuna intenzione di essere ricordato in eterno come l’idiota che ha permesso alla più straordinaria innovazione della storia umana di andare perduta.

  Per fortuna» disse guardando Balalaika «Ho trovato subito qualcuno dotato di maggior spirito di iniziativa.»

  «Di che stai parlando?!» disse Kyuzo «Non vorrai dirmi che sei stato tu a…»

  «I… Vysotniki…» rispose una voce sibilante.

  Steven e gli altri si girarono verso Revy, che dopo aver recuperato i sensi stava cercando di rimettersi in piedi.

  «A bordo della nave… c’erano… i Vysotniki.»

  «I Vysotniki!?» disse Hibraim «Che cos’è questa storia!?».

 Samejima sorridendo scosse leggermente il capo.

  «Beh, ormai tanto vale che ve la dica tutta. Ebbene sì, lo confesso. L’assalto alla Seaborn Star è stata una mia idea.»

  «Che cosa!?» disse Rock

  «Vuoi continuare tu, Balalaika?»

  «Con piacere.» rispose lei schiacciando il sigaro sotto i piedi «Quando il qui presente signor Samejima mi ha spiegato in cosa consisteva esattamente il Progetto Rebuild, Hotel Moskow non ci ha pensato due volte a mettere i suoi occhi sulla questione.

  Purtroppo l’operazione in questione non era neanche da paragonare agli squallidi affarucci di cui ci occupavamo solitamente qui in Thailandia. Qui si parlava di sfidare una delle più potenti multinazionali del mondo, recuperando un progetto su cui sicuramente ci sarebbe stato molto da lavorare.

  All’inizio abbiamo cercato di avviare una ricerca parallela, ma è stato chiaro fin da subito che non disponevamo delle conoscenze adatte per una simile impresa. Le Industrie Kinomiya potevano vantare i cervelli più brillanti del mondo, noi avevamo solo l’immondizia pakistana di Harvard e qualche avanzo di Cambridge. Di conseguenza, l’unica cosa da fare era lasciar fare il lavoro ai nostri concorrenti per poi appropriarcene, utilizzando in seguito i risultati dei loro studi per concludere la ricerca.

  Anche questa però si stava rivelando una strada difficile; avevamo coinvolto molte altre organizzazioni, c’era il rischio di farsi le scarpe a vicenda, per non parlare del fatto che se anche un solo brandello d’informazione fosse arrivata alle orecchie della stampa avremmo avuto addosso tutti gli eserciti del mondo. L’unica cosa da fare era creare il vuoto attorno all’intero progetto, creare uno scandalo tale da costringerlo alla chiusura e contemporaneamente mascherare il nostro coinvolgimento. Ed è in tutto questo che entravate in gioco voi della Lagoon, cara la mia Revy.»

  «Voi…» disse la ragazza rialzandosi a fatica.

  Anche se l’effetto dell’anestetico era ormai passato aveva preso tante di quelle botte da dover stare appoggiata al muro per non cadere.

  «Voi ci avete… usati.»

  «Era tutto stabilito fin dall’inizio. Se vi avessimo detto tutto sareste stati dei testimoni scomodi, e fare a meno dei vostri servizi mi sarebbe dispiaciuto.

  Di conseguenza vi abbiamo mandati avanti. L’idea di base era che recuperaste i nanorobot, ma a quanto pare Dutch si è fatto fregare sotto il naso da questo supereroe fallito che aveva nascosto la fialetta che aveva con sé e tu, Revy, ti sei lasciata rabbonire dalle sdolcinatezze di quella mocciosa paralitica.»

  «E tu…» esclamò la ragazza sgranando gli occhi «E tu come lo sai!?».

  Quella domanda fu accolta da Balalaika con una malevola risata.

  «Mi credi davvero così stupida da non prendere le dovute precauzioni? Vi ricordate al porto, il giorno dell’assalto?».

  Il porto?

  Sforzandosi di rievocare alla mente quante più memorie possibili Revy riuscì a ricordare quel momento.

  Stavano giusto per lasciare Roanapur, due giorni prima del giorno previsto per l’attacco alla nave, quando Balalaika li raggiunse al porto, a suo dire per sincerarsi che tutto fosse in ordine; dopotutto si parlava di assaltare una nave da crociera, e nulla poteva essere lasciato al caso.

  A discussione finita la donna aveva dato una pacca sulla spalla a ognuno di loro, una cosa effettivamente molto strana; Balalaika aveva sempre avversato il contatto fisico, ed evitava il più possibile di toccare altre persone, oltretutto un gesto simile non rientrava decisamente nel suo carattere.

  Lì per lì anche Revy lo aveva trovato un po’ insolito, ma alla fine non ci aveva fatto troppo caso.

  Solo in quel momento riuscì a comprendere il vero significato di quel gesto, che di amichevole non aveva avuto assolutamente nulla.

  «Cimici…»

  «Quella volta mi hai davvero sorpresa, Revy. Non ti avrei mai creduta il tipo di persona che si fa mettere i piedi in testa da una stupida ragazzina e dalle sue ridicole paternali su sogni e speranze. Quel che conta, è che quella volta mi hai deluso, e a quel punto non ho avuto altra scelta che accelerare i piani.»

  «Quindi…» disse Kyuzo «Quel massacro… è stato opera vostra.»

  «Te l’ho detto, bisognava fare qualcosa di tanto sconvolgente da spingervi a cancellare il progetto, almeno ufficialmente. A dire la verità speravamo di affossare definitivamente le Industrie Kinomiya, visto tutte le grane procurateci in passato le vostre stupide opere umanitarie, ma a quanto pare vi siete dimostrati più coriacei del previsto. Tu in particolare devi essere fatto davvero d’acciaio per aver saputo resistere sia al gas che ai miei Vysotniki.»

  «Il… gas!?»

  «Il Giappone ha una marea di difetti e una polizia che fa schifo.» disse Samejima «L’intervento della guardia costiera in quell’occasione invece è stato fin troppo rapido. Non potevamo lasciare testimoni, e vista la scarsa quantità di tempo a nostra disposizione non potevamo certo permetterci di correre dietro ad ogni gallina in fuga. Bisognava fare in fretta, quindi abbiamo fatto in modo che non potessero scappare.»

  «Ora capisco.» disse Ashford «Questo brutto schifoso ha spruzzato il P3X nei condotti di aerazione della nave. Ricordo che pochi giorni prima del party era stata denunciata la scomparsa di una grossa quantità di anestetico dai laboratori di ricerca.»

  «Tu che sei medico dovresti saperlo, il P3X è inodore e incolore, non lascia tracce e il suo effetto è praticamente istantaneo. Tutti gli occupanti della nave sono crollati in pochi secondi, e a quel punto i Vysotniki sono potuti entrare in azione.»

  «Li avete uccisi mentre dormivano.» disse Rock «Mi fate schifo, tutti e due!»

  «Non scaldarti tanto, piccolo Japonski. Ringrazia piuttosto di essere sopravvissuto. Il piano originale era di non lasciare superstiti.»

  «Miss Balalaika» intervenne Samejima «Era molto contrariata quando ha saputo che Kaito era sopravvissuto, ma non appena ha visto come il P3X ti aveva devastato il cervello cancellando ogni ricordo attinente all’attacco abbiamo deciso in comune accordo di trarre beneficio dall’occasione.

  Ti conoscevo abbastanza bene da sapere che se ti avessi detto che tua sorella era stata uccisa avresti fatto la cosa più stupida di questo mondo pur di vendicarti, e come previsto ho indovinato.»

  «Mia sorella… Harue…»

  «Harue è viva…» disse Revy «Questi stronzi non l’hanno uccisa… l’hanno portata via…»

  «Che cosa!?» esclamò Kyuzo.

  Non riusciva a crederci, e non sapeva se provare gioia e dolore.

  Aveva passato gli ultimi quattro anni a piangere una sorella che invece era viva, e che probabilmente lo stava ancora aspettando. Aveva odiato persone innocenti, che altro non erano state se non semplici pedine, proprio come lui.

  «Harue… è viva…» disse con gli occhi gonfi di lacrime

  «Certo che è viva.» rispose Samejima quasi ridendo «Ucciderla sarebbe stata la cosa più stupida che si potesse fare. La ricerca sui nanorobot aveva avuto come modello di partenza il suo codice genetico, e visto che il progetto era ancora in alto mare quando ce ne siamo impadroniti non potevamo permetterci di perderla. Al momento giusto sarebbe stata la cavia perfetta per testare il risultato finale delle nostre ricerche.»

  «Do… dov’è adesso…» domandò il ragazzo stringendo i denti per la rabbia.

  In altri tempi avrebbe fatto molto di più, ma quel maledetto ritardante bloccava qualsiasi funzione dei nanorobot che aveva in corpo; con l’andare del tempo le macchine avevano occupato una fetta sempre maggiore delle funzioni vitali, quindi, essendone privo, la sua resistenza era al minimo, e a stento riusciva a rimanere cosciente.

  «È in Inghilterra, in un college. Come te, anche lei crede che tutta la sua famiglia sia morta nell’attacco alla Seaborn Star. Poverina, le si sarebbe spezzato il cuore se avesse saputo che il suo adorato fratellino era diventato un sicario della mafia.»

  «Un… un sicario della mafia!? Ma cosa…»

  «È questo uno dei motivi per cui abbiamo scelto di tenerti in vita. Subito dopo aver assunto la guida della ricerca ci siamo resi conto che le possibilità del Progetto Rebuild andavano ben oltre i nostri più sfrenati sogni. Era un boccone decisamente troppo ghiotto per dividerlo con altri, quindi io e miss Balalaika abbiamo deciso di comune accordo di sbarazzarci degli elementi di troppo, e qui sei entrato in gioco tu.»

  «Bastardi!» disse Steven «Ci avete usati per fare il lavoro sporco al vostro posto!»

  «In tutta sincerità, caro il mio Kaito, ci sei stato utile sotto molti aspetti. Sfortunatamente, le bande che tu e il tuo amico avete sterminato in questi ultimi quattro anni portavano molta liquidità nelle nostre casse. Quei soldi ci sarebbero serviti per portare avanti la ricerca, ma tu eri sopravvissuto, e grazie a te avremmo potuto accedere a una cospicua fonte di guadagno molto più sicura e affidabile».

  Una fonte di guadagno?

  Ma certo, era elementare. Tutti i presenti non impiegarono troppo a capire di quali soldi Samejima stesse parlando.

  «I fondi per la beneficenza.» disse Hibraim.

  Samejima sorrise divertito.

  «In base agli accordi aziendali, solo tu e tuo padre potevate approvare lo stanziamento di quei fondi. Se avessi modificato tali accordi dirottando anche verso di me questo compito avrei attirato dei sospetti, facendo firmare tutti i documenti a te invece tutto è filato liscio come l’olio. Sotto questo aspetto, credo che dovrei ringraziarti».

  Kyuzo avrebbe tanto voluto saltare addosso ad entrambi, e altrettanto volevano fare i suoi compagni; Samejima, però, seguitava a tenere la pistola puntata alla testa del giovane, e anche Balalaika e Boris ad un certo punto avevano estratto le loro, facendo pendere l’ago della bilancia tutto in una sola direzione.

  «Ah, già, c’è anche un’altra cosa.» disse Noboru «Tu ci sei stato utile anche per un terzo motivo, che definirei il più importante in assoluto.»

  «E… quale sarebbe?»

  «Non ci arrivi da solo? Perché credi ti sia rimasto incollato per tutto questo tempo, seguendoti dovunque andassi? Tu ti eri iniettato i prototipi, d’accordo, ma rappresentavi pur sempre un ottimo banco di prova.

  Le tue prestazioni avevano dell’incredibile, e grazie a te è stato possibile raccogliere una miriade di informazioni, informazioni che abbiamo potuto sfruttare per correggere i difetti strutturali della matrice originaria.»

  «La… matrice originaria?»

  «Non dirmi che…» disse Rock «Avete risolto il problema dell’auto-replicazione!?»

  «Bingo! Ci siete arrivati finalmente. Che ne dici Balalaika, glieli mostriamo?»

  «Per me va’ più che bene. Sarà la loro ultima soddisfazione».

  Balalaika schioccò leggermente le dita, e qualche istante dopo due suoi uomini entrarono nella stanza portando un grosso contenitore metallico simile ad un baule, sicuramente una cella frigorifera, che fu appoggiato sul tavolo accanto a Rock.

  Samejima lasciò a Boris l’incarico di tenere sotto tiro Kaito, quindi, avvicinatosi, digitò il codice segreto a otto cifre sulla pulsantiera superiore; immediatamente le serrature ai quattro angoli si sbloccarono e il coperchio scivolò lentamente all’indietro, disperdendo tutto intorno una densa e fredda coltre di vapore.

  Al suo interno, disposti su due file, uno accanto all’altro, comparvero dodici cilindri di vetro pieni di una sostanza gelatinosa colore azzurro brillante in cui si agitavano una miriade di granuli luminescenti.

  «Eccoli qua.» disse Noboru prendendone uno e mostrandolo a tutti «I nanorobot definitivi. La conclusione del Progetto Rebuild. Abbiamo riscritto il programma del software, inserendo un comando che limita il numero masso di unità operative all’interno dell’organismo.»

  «Vuol dire…» disse Hibraim spalancando gli occhi «Che avete risolto il problema dell’auto-replicazione!?»

  «Precisamente. E abbiamo anche eliminato l’anomalia che portava i nanorobot ad attaccare l’organismo ospite in caso di mancanza di approvvigionamenti esterni.

  In altre parole, signore e signori, avete davanti a voi la cura suprema.»

  «Allora era questo il vostro obiettivo finale.» commentò Ashford «Ma a cosa vi serviva un piano tanto macchinoso? Non siete certo dei filantropi, perciò non è sicuramente la cura ad interessarvi.»

  «Ma allora siete davvero stupidi. Davvero non l’avete ancora capito? La risposta a questa domanda è davanti ai vostri occhi da ben quattro anni».

  A quel punto tutto divenne chiaro come il sole, e per l’ennesima volta gli sguardi si posarono contemporaneamente su Kyuzo.

  «Ora capisco… perché mio padre ti ha fermato…»

  «Come ti ho già detto, non avevate la benché minima idea della portata effettiva della vostra scoperta.

  Basta che guardi te stesso. Potrebbero lanciarti contro un intero reparto di berretti verdi e ne faresti scempio senza sollevare un piede.

  Riesci ad immaginartelo?

  Un intero esercito di soldati invincibili, tre volte più forti, resistenti e combattivi dei normali esseri umani, dotati di poteri psichici capaci di influenzare la materia e quasi immuni a qualsiasi tipo di arma. Quale organizzazione terroristica, quale governo dittatoriale, quale stato di questo mondo non sarebbe disposto ad offrire qualsiasi cifra per ottenere tutto ciò?»

  «Samejima… sei malato».

  Noboru dapprima sorrise leggermente a quell’affermazione, ma poi colpì Kyuzo al mento con un calcio poderoso che lo buttò a terra.

  «Lo sai, potrei ucciderti adesso. Ma per tua fortuna, c’è ancora una cosa di questo nuovo modello di nanorobot che dobbiamo verificare, quindi per adesso ci servi vivo.»

  «Non perdiamo altro tempo.» disse Balalaika «Facciamo quest’ultimo test e chiudiamo la questione.»

  «Sono d’accordo. Abbiamo già perso troppo tempo. Allora, vogliamo andare?».

  Balalaika incaricò Boris di rimanere nella stanza a sorvegliare il contenitore coi nanorobot, quindi lei, i suoi due uomini e lo stesso Samejima si avviarono lungo il corridoio tenendo tutti, inclusi Revy e Rock, sotto la minaccia delle pistole.

  Revy si era ormai completamente ripresa, Kyuzo invece era ancora molto debole, e aveva bisogno di appoggiarsi a Steven per poter camminare.

  Saliti sull’ascensore, scesero fino al secondo livello, quello che nei piani di chi aveva voluto quel complesso avrebbe ospitato la “zona residenziale” dei dipendenti del laboratorio.

  Rock non aveva mai visto quel livello, e non appena si aprirono le porte lui e Revy rimasero con la bocca spalancata per la meraviglia.

  La stanza in cui erano arrivati era davvero immensa, di forma ottagonale, alta sei o sette metri e lunga forse venti. Sembrava l’immenso atrio di un cinema, o di un centro commerciale, abbondavano vivai, tavolini da giardino e soffici poltrone; vi erano poi tutta una serie di corridoi più o meno grandi che conducevano probabilmente ai vari blocchi in cui era suddiviso quel livello, ma erano tutti sbarrati con pesanti saracinesche, forse perché non ancora completamente operativi.

  Ad attendere l’arrivo del gruppo c’erano una ventina di uomini armati, facilmente identificabili come Vysotiniki, disposti in circolo attorno al centro preciso della stanza a formare una sorta di ring immaginario del diametro di circa sette metri.

  Non appena Balalaika diede l’ordine quattro di questi uomini si scostarono da una parte come il tendone di un palcoscenico, e dal nulla comparve, al centro del cerchio, la ragazza con l’abito cinese, immobile come una statua. Vedendola, Kyuzo e i suoi compagni non riuscirono a credere ai propri occhi.

  «Yu-Ling!» disse Steven.

  Lei non rispose, continuando a fissare il vuoto coi suoi occhi senza espressione; non sembrava esserci nulla di vivo nella sua figura, e se non fosse stato per il colore vivo della sua pelle avrebbe potuto passare per un cadavere.

  «Yu-Ling…».

  Kyuzo sembrò sicuramente il più sconvolto nel vederla in quelle condizioni; si girò verso Samejima con gli occhi iniettati di odio.

  «Tu, bastardo. Che cosa le hai fatto?»

  «Mi sembra piuttosto chiaro. Dovevamo pur testare i nuovi nanorobot su di un soggetto estraneo al codice genetico di Harue, per essere certi che funzionasse senza rischi. Una cavia di giovane età era la scelta più logica, e Yu-Ling, come sei, era naturalmente portata al combattimento, quindi si è rivelata la scelta migliore.»

  «E perché non ci riconosce?».

  Samejima inarcò leggermente le spalle.

  «Devi capire, Kaito. Se un soggetto in possesso dei poteri offerti dai nanorobot decidesse di ribellarsi, si trasformerebbe in una minaccia praticamente inarrestabile. Perciò, parallelamente alla prosecuzione del Progetto Rebuild, abbiamo portato avanti un’altra ricerca, incentrata sullo sviluppo di un impianto cerebrale in grado di annullare completamente la coscienza del soggetto, rendendolo del tutto dipendente dall’autorità della persona registrata nel computer come suo superiore.»

  «Tu…» disse Revy «Le hai fatto il lavaggio del cervello.»

  «Oh, che brutta espressione, lavaggio del cervello. Io lo chiamerei più un addomesticamento. Ai cani pericolosi va’ messo il guinzaglio, si sa.»

  «Brutto pezzo di merda!» gridò Kyuzo facendo appello alle sue poche forze «Yu-Ling è tua figlia!»

  «Quante volte dovrò ripetertelo ancora?» replicò Noboru serio come non mai «Questa ricerca per me viene prima di tutto. E comunque, non è mai stata realmente mia figlia.»

  «Tu… tu sei un bastardo».

  Revy, Rock e tutti gli altri a quel punto furono fatti inginocchiare e gli vennero legate le mani dietro la schiena col nastro adesivo. Kyuzo, invece, fu portato faccia a faccia con Yu-Ling, e non appena Samejima gli infilò nel braccio una nuova siringa si sentì velocemente ritornare in forze.

  «Molto bene. Eccoci qui. È giunto il momento di mettere alla prova i due rami della ricerca.

  I nanorobot di Yu-Ling sono di qualità superiore e non mettono in pericolo l’ospite, ma non c’è garanzia che garantiscano prestazioni maggiori.

  C’è un solo modo per scoprire chi di voi due è superiore.

  Combattete!».

  Yu-Ling continuò a rimanere impassibile, Kyuzo invece si girò verso Samejima guardandolo dritto negl’occhi, tenuto costantemente sotto tiro da tutti i soldati.

  «No! Non ti aiuterò a realizzare il tuo stupido delirio».

  Noboru fece un cenno col capo, accompagnato da un enigmatico sorriso, poi, freddo come il ghiaccio, sollevò la pistola colpendo Ashford dritto in mezzo alla fronte.

  Hibraim e Rock, accanto a lui, lo videro cadere morto all’indietro, e uno scioccato silenzio si diffuse tra i presenti; Kyuzo rimase visibilmente sconvolto, quell’uomo era con lui da un sacco di anni ed era stato il suo maestro in materia di medicina.

  «Lo sai, vero? Era importantissimo ai fini del progetto. Lui» disse Samejima puntando la sua arma verso Rock «Non ha alcun valore.»

  «Aspetta! D’accordo, hai vinto».

  Il vecchio sorrise di soddisfazione, quindi si fece da parte assieme a Balalaika e a tutti i Vysotnini, lasciando Kyuzo e Yu-Ling soli l’uno di fronte all’altro; la ragazza assunse quasi da subito una posizione di guardia, Kaito invece rimase immobile, apparentemente rassegnato.

  «Non ce la farà mai.» disse Steven

  «Che stai dicendo?» domandò Revy «Coi suoi poteri può fare a pezzi quella mocciosa quando vuole.»

  «Non è questo il punto.» rispose Hibraim «È proprio perché il suo avversario è Yu-Ling che non ce la farà mai.»

  «Che vuoi dire?»

  «Sono ottimi amici fin dall’infanzia.» disse Rock, che conosceva bene la loro storia «Yu-Ling era la figlia di un ricco imprenditore cinese ucciso dalle triadi. Samejima l’ha adottata quando aveva cinque anni e l’ha portata in Giappone, dove è diventata grande amica prima di Kaito e poi di Harue. Un legame molto forte li univa in passato, ed è proprio per questo che Kaito non riuscirà mai a farle del male».

  Seguirono attimi di tensione pura, poi Yu-Ling partì improvvisamente all’attacco, e con una velocità a dir poco spaventosa colpì Kyuzo dritto al torace con un pugno che, su di una persona normale, avrebbe sicuramente sfracellato la gabbia toracica.

  Il ragazzo rimase sconvolto almeno quanto i suoi amici e tentò di reagire, ma prima che potesse colpire la ragazza, con un salto acrobatico, si era già allontanata, per tornare subito dopo alla carica. Stavolta Kyuzo fu più scaltro e si fece trovare pronto a riceverla, ma la sua rapidità nel colpire aveva del prodigioso: le sue mani e suoi piedi sembravano serpenti, si muovevano con sinuosità e agilità senza pari, e ogni colpo che il giovane riceveva aveva l’effetto di una cannonata.

  Dovettero trascorrere molti, moltissimi secondi, perché Kyuzo si decidesse ad opporre una resistenza decisa ai continui attacchi che gli venivano mossi contro; forse a spingerlo furono soprattutto i gesti e i comportamenti di Yu-Ling, che della ragazza con cui era cresciuto non aveva assolutamente più nulla.

  All’ennesimo assalto il ragazzo stavolta rispose con un pugno degno di questo nome; Yu-Ling si difese incrociando le braccia davanti al volto, ma fu comunque scagliata via dalla potenza esplosiva del colpo, anche se riuscì a limitare i danni atterrando in ginocchio.

  Di nuovo Kaito esitò ad infierire su di lei, e la cosa gli costò caro, perché Yu-Ling, alzatasi, scomparve letteralmente nel nulla, come un disegno sulla lavagna.

  «Ma cosa!?» disse Revy «Dove diavolo è finita».

  Anche Kyuzo se lo domandò, se non che all’improvviso avvertì una sensazione sgradevolissima, ma appena giratosi a sinistra ricevette un colpo spaventoso da una mano invisibile che lo fece quasi piegare in due dal dolore.

  «Dio santo.» disse Steven a bocca spalancata «Ha modificato la struttura molecolare attorno al suo corpo per rifrangere la luce e rendersi invisibile.»

  «Ma i nanorobot possono fare una cosa del genere?!» chiese Rock

  «Di sicuro non quelli di Kyuzo».

  Al primo colpo ne seguirono molti altri, e anche se lo spostamento d’aria permetteva talvolta a Kaito di individuare la posizione della sua avversaria e di mettersi sulla difensiva non era assolutamente in grado di muovere un qualunque tipo di attacco.

  Era come combattere al buio, e più il tempo passava più i sorrisi di Samejima e Balalika si facevano sempre più pronunciati.

  C’era una sola cosa che poteva permettere a Kaito di uscire da quella pericolosa situazione, quindi il ragazzo ad un certo punto chiuse gli occhi, cercando di distendere al massimo i propri muscoli.

  Fino a quel momento aveva combattuto come una persona normale, ma anche lui dopotutto possedeva il potere dei nanorobot; doveva solo fare attenzione, percepire quei silenziosi segnali che solo lui sapeva carpire, e allora individuare la posizione del nemico non sarebbe stato un problema.

  La sua fu la scelta più saggia, perché d’un tratto, con grande anticipo rispetto alle volte precedenti, avvertì distintamente una presenza che incombeva su di lui alle spalle, attaccandolo dall’alto.

  “Ti ho trovata!”.

  Giratosi, strinse forte i pugni inarcando la schiena, e all’improvviso davanti a lui si formò una specie di cupola di cupola d’aria che funzionando come uno scudo investì in pieno Yu-Ling, tornata di colpo visibile, mentre cercava di colpirlo con un calcio arrivando dal soffitto.

  La ragazza cercò di oltrepassare la barriera, ma poi fu scagliata in aria dall’esplosione della stessa volontariamente provocata da Kaito; atterrata, cercò di muovere subito un nuovo attacco, ma il suo calcio fu fermato prontamente dall’avversario, che le afferrò saldamente la caviglia.

  «Mi dispiace, Yu-Ling. Mi costringi a difendermi».

  Con uno sforzo apparentemente minimo il giovane la sollevò di peso con entrambe le mani, e come fosse stata un enorme martello la lanciò con forza verso la parete dopo aver fatto un paio di giri su sé stesso. La ragazza volò come un fuscello, ma prima di schiantarsi riuscì a girare su sé stessa, e quando i suoi piedi toccarono la parete si avvertì una specie di movimento d’aria molto pronunciato.

  Subito dopo, lo stupore e lo sgomento si diffusero non solo fra Kaito e i suoi compagni, ma anche fra gli stessi Vysotniki.

  Yu-Ling… stava in piedi sulla parete, come se fosse stata su di un pavimento orizzontale.

  «No… non è possibile.» disse Hibraim «Riesce a modificare la forza di gravità».

  Kyuzo era così sconvolto che si dimenticò persino di stare combattendo, e prima che potesse tornare in sé Yu-Ling partì nella sua direzione come sparata da un cannone, gli arrivò addosso e lo colpì in pieno con un calcio al volto che solo per miracolo non gli spezzò l’osso del collo.

  In meno di un minuto il ragazzo fu completamente alla mercé dell’avversaria, che prese a tempestarlo di colpi, portati ad una velocità dieci volte superiore a quella utilizzata fino a quel momento.

  Era come venire investiti da una scarica di mitragliatrice, e difatti neppure Kaito fu in grado di opporsi; fu letteralmente crivellato di colpi, ritrovandosi coperto di sangue e ferite.

  Quasi come se stesse per morire, e forse era davvero così, il suo pensiero andò alla sorella, alla sua adorata Harue.

  Cosa le avrebbero fatto? Avrebbero trasformato anche lei in una specie di cyborg senza cuore e senz’anima, proprio come avevano fatto con Yu-Ling?

  Non voleva che succedesse. Voleva salvarla, ora che la sapeva viva, ma come se una mano invisibile gli avesse letteralmente strappato via la linfa vitale il suo corpo non rispondeva più, e le forze stavano tornando a mancargli, sostituite da un dolore sia fisico che spirituale.

  Che ironia.

  Aveva passato gli ultimi quattro anni ad odiare le persone sbagliate, mentre il vero architetto di tutta quella diabolica macchinazione continuava ad operare indisturbato proprio davanti ai suoi occhi.

  Rock e gli altri videro Kyuzo cadere in ginocchio; il giovane rivolse il suo sguardo dolorante a Yu-Ling, che immobile come sempre non fece trasparire nessuna emozione, poi crollò definitivamente sul freddo pavimento di marmo, fra gli inutili richiami dei suoi compagni.

  Balalaika sorrise di soddisfazione, schiacciando sotto i piedi il suo secondo sigaro.

  «Direi che la sfida finisce qui.»

  «Credo anch’io.» replicò Noboru «Ora non vi è davvero alcun dubbio su chi sia il più forte».

 

 

Nota dell’Autore.

Eccoci qua, con un nuovo capitolo.

Ormai siamo davvero alle battute conclusive, tutti i misteri sono stati chiariti e la storia volge inesorabilmente al termine.

Dico inesorabilmente proprio perché in questo periodo sono letteralmente sommerso dal lavoro e dalle nuove idee, quindi ho una cerca urgenza di finire questa fiction per dedicarmi ad altro.

Se tutto va’ bene dovrei poter inserire il nuovo capitolo già sabato, o al massimo domenica pomeriggio, ed entro metà della settimana prossima seguirà il capitolo 12, accompagnato dall’epilogo.

Ringrazio come sempre i miei recensori, Beat, Selly, Gufo, Spectre, Selly e Carlitz.

A presto^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 12
*** Monster ***


11

11

 

 

I suoi compagni non riuscirono a credere ai loro occhi vedendo Kyuzo ridotto così, sconfitto e inerme, a terra privo di sensi coperto di sangue per le numerose ferite.

  Yu-Ling, l’artefice della sua sconfitta, lo guardava impassibile, con suo sguardo spento, senza nessuna espressione, come una vera macchina da guerra creata solamente per uccidere.

  «È così che finisce.» disse Noboru avvicinandosi al corpo del ragazzo «Proprio come tuo padre. Distrutto dalla tua ingenuità. Ma avrete modo di chiarirvi l’un l’altro infondo all’inferno.

  Benfatto, Yu-Ling.»

  «Grazie, padre.» rispose lei meccanicamente per poi crollare svenuta, probabilmente per il grande sforzo sostenuto nello scontro appena concluso.

  Fortunatamente, in tutto quel tempo erano stati tutti troppo concentrati sullo scontro per accorgersi che Revy, raccolto faticosamente e con fatica un minuscolo coltellino che portava nella tasca dei pantaloni, aveva cominciato a tagliare il nastro che le immobilizzava le mani dietro la schiena.

  Visto che quando l’avevano raccolta Steven l’aveva già privata delle sue pistole nessuno, al momento di trascinarla all’ascensore, si era preso la briga di perquisirla, e così era riuscita a nascondere quell’utile strumento, messo da parte proprio per i casi di quel genere.

  Purtroppo non era facile lavorare in una simile posizioni, i polsi e le spalle facevano un male del diavolo e solo per miracolo riuscì a non urlare per il dolore, ma poi, finalmente, il nastro cedette, mettendola nelle condizioni di poter fare qualcosa.

  Con noncuranza e massima discrezione guardò alla sua sinistra; il Vysotniki accanto a lei aveva in mano il proprio AK-103 e guardava altrove, quello immediatamente dopo invece la sua arma la teneva addirittura sotto l’ascella. Subito dopo guardò a destra, incontrando come prima cosa lo sguardo di Steven, che le fece un cenno di assenso; Revy dedusse che anche lui era riuscito a liberarsi, e che attendeva solo il momento migliore.

  I due non smisero un momento di tenersi d’occhio, guardandosi vicendevolmente le spalle, e non appena Balalaika le tolse gli occhi di dosso Revy scattò in piedi, piantando il coltellino usato per liberarsi nello stomaco del nemico lì accanto e uccidendolo prima che potesse reagire; contemporaneamente, grazie alle proprie gambe di acciaio, Steven corse come un razzo verso il soldato a lui più vicino, gli afferrò il braccio facendolo piegare in avanti e con un colpo di tallone gli spezzò il collo.

  Prima che gli altri potessero reagire entrambi afferrarono le armi dei nemici morti cominciando a sparare in tutte le direzioni, e in pochi secondi si scatenò l’inferno.

  Rock e Hibraim corsero a nascondersi dietro ad un divanetto dove furono raggiunti da Steven, che liberò anche loro.

  «Ora sì che si fa sul serio.» disse passando a Hibraim una pistola rubata alla sua prima vittima «Proteggi Okajima.»

  «D’accordo» e subito dopo Steven lasciò nuovamente il nascondiglio, sparando all’impazzata per attirare il fuoco nemico.

  Immediatamente Rock cercò di mettere fuori la testa per capire dove fosse Revy, e come previsto la trovò intenta a svuotare il suo caricatore ben protetta da un vivaio.

  «Sta giù!» disse Hibraim sbattendogli la testa a terra e salvandolo da una pallottola vagante «Hai forse deciso di morire?»

  «Che facciamo? Siamo bloccati!».

  In quella un soldato sbucò da destra e cercò di colpirli, ma Hibraim fu più rapido di lui e gli piantò una palla in testa; quando cadde in avanti, Rock si accorse che assicurate alla cintura aveva le due Beretta di Revy, e senza pensarci le raccolse. Nello stesso momento Revy esauriva il caricatore del suo fucile, ritrovandosi in una situazione molto pericolosa.

  «Revy!» sentì gridare «Prendi!».

  Le due pistole volarono nell’aria brillando come stelle e Revy, saltando, le afferrò nello stesso momento.

  «A buon rendere, Rock!» disse ridacchiando.

  Con le sue armi favorite Two-Hands compì una vera strage, e nell’arco di pochi minuti un intero battaglione di Vysotniki venne quasi completamente sterminato.

  «Questa cosa non mi piace!» disse Samejima «Balalaika, leviamoci di torno!»

  «Con piacere!».

  Uno dei soldati superstiti si caricò Yu-Ling in spalla e si avviò verso l’ascensore; Rock li vide, e dapprima cercò di muoversi per cercare di fermarli, ma non appena vide Balalaika attardarsi per cercare di colpire Revy con la sua pistola, la stessa che aveva puntato in Giappone contro di lui, con un gesto del tutto istintivo le corse incontro gridando come un forsennato.

  «Okajima, no!»

  «Balalaika!».

  La donna si accorse di lui, ma prima che potesse fare qualcosa Rock la investì con la forza di un carro armato, buttandola a terra; la pistola volò lontano e lui, messosi sopra di lei, prese a tempestarla di pugni in faccia; il suo sguardo era di puro odio, odiava quel demonio per la strage commessa sulla Seaborn Star e odiava sé stesso per averle fatto da leccaculo per tutti quegli anni, in un modo non molto diverso dopotutto da come aveva fatto in Giappone coi suoi superiori.

  «Prendi questo, e questo, e questo, e questo! Muori, puttana!».

  Al sesto pugno Balalaika riuscì a reagire mollandogli una poderosa ginocchiata alle parti basse che pur non risultando sufficiente a stenderlo lo fecero esitare il tempo necessario ad allontanarlo con un calcio.

  La donna si rialzò in piedi sputando sangue e corse verso Samejima, in piedi assieme al Vysotniki superstite accanto all’ascensore; l’uomo, vedendo Kyuzo ancora disteso a terra, fu vinto dalla tentazione di realizzare il sogno covato per quattro lunghi anni.

  «Va’ all’inferno, maledetto».

  Revy, che stava inserendo un nuovo caricatore, si accorse di lui all’ultimo secondo, e malgrado la pistola non fosse puntata verso di lei senza alcuna esitazione gli sparò, colpendolo al fianco destro.

  L’uomo lanciò una imprecazione impronunciabile, e non appena le porte dell’ascensore si aprirono immediatamente ci si infilò dentro assieme a Balalaika e al suo uomo, mettendosi definitivamente in salvo.

  «State tutti bene?» domandò Hibraim sporgendosi dal suo nascondiglio

  «Sì, più o meno.» rispose Steven togliendosi una pallottola dalla gamba sinistra «Avevo appena cambiato la corazzatura, accidenti a loro».

  Rock, rimessosi dal colpo di Balalaika, corse immediatamente a sincerarsi delle condizioni di Kaito, raggiunto in pochi secondi da Revy e Hibraim.

  «Kaito! Kaito, rispondimi!».

  Dopo qualche istante il ragazzo riprese i sensi, ma era chiaramente ancora molto debilitato.

  Steven cercò di riattivare l’ascensore, ma per quanto premesse il numero sul monitor continuava a rimanere invariato.

  «Bastardi! Devono averlo bloccato!»

  «E adesso come usciamo di qui?» domandò Revy

  «L’… l’ascensore…» si sentì mugugnare di risposta.

  Tutti si girarono verso Kyuzo, che Rock aiutava a stare in piedi sorreggendolo alla propria spalla.

  «L’ascensore… di servizio…»

  «Ma certo!» disse Steven schioccando le dita «Ha ragione, me ne ero completamente dimenticato!»

  «Ma di che diavolo sta parlando?» domandò Revy

  «Quando il laboratorio era in costruzione c’era un ascensore che veniva usato dagli operai per raggiungere i livelli più bassi, e che aveva una fermata ad ogni piano!».

  Steven cominciò a correre frettolosamente lungo la parete battendo il pugno di tanto in tanto, poi, finalmente, sentì rumore di vuoto proprio dietro ad un grosso vivaio a muro.

  «Hibraim, dammi una mano».

  Unendo le forze i due riuscirono a spostare il pesantissimo vaso, portando alla luce un pulsante che appena premuto aprì una porta segreta dietro al quale si trovava uno di quegli ascensori che si vedevano nei cantieri.

  «Eccolo, è questo. Ora possiamo salire.»

  «E allora sbrighiamoci a tornare di sopra.» disse Revy «Questo gioco è durato anche troppo».

 

Lasciatisi alle spalle i loro inseguitori, Balalaika, Samejima, Boris e il Vysotniki superstite si erano rifugiati nella sala controlli al primo livello, dove i due uomini lasciati a fare la guardia ai nanorobot ancora li attendevano.

  Yu-Ling era assieme a loro, ed aveva ripreso i sensi.

  «Non sarebbe meglio andarcene di qui?» domandò Balalaika

  «Lassù… lassù si stanno ancora ammazzando.» rispose Samejima tenendosi con forza la ferita al fianco infertagli da Revy «E tutte le uscite sono sbarrate. L’unica via d’uscita è il tetto».

  In quella la ricetrasmittente che Boris portava nella tasca interna della giacca iniziò a gracchiare, e il soldato se la portò all’orecchio.

  «Sono Boris… d’accordo. Capitano. L’elicottero è atterrato sul tetto.»

  «Molto bene. Ordina loro di entrare nell’albergo e fare piazza pulita degli ultimi rimasti.»

  «Sissignore. E come ci comportiamo con quelli della Lagoon? Sembra siano ancora vivi.»

  «A questo punto di loro non abbiamo più alcun bisogno.»

  «Signore?» disse Boris con comprensibile stupore

  «Fate fuori anche loro. Non dobbiamo lasciare testimoni.»

  «Io… sì capitano.»

  «Yu-Ling, vai anche tu.» disse Samejima «Prima ce ne andiamo meglio è.»

  «Sì padre».

  Non appena la ragazza se ne fu andata l’uomo, barcollando vistosamente, raggiunse il contenitore frigorifero, e apertolo nuovamente recuperò uno dei contenitori.

  «Che stai facendo?» domandò Balalaika

  «Ora che sappiamo che funziona non c’è alcun motivo per indugiare.»

  «Sei sicuro di quello che stai facendo? Il tuo codice genetico potrebbe non essere adatto.»

  «Se non hai le palle per correre il rischio affari tuoi. Io non ho intenzione di crepare dissanguato, non con un simile ritrovato fra le mani».

  Determinato come non mai Samejima si tolse la sua bella giacca grigia e si sollevò la manica destra della camicia, mettendo a nudo il suo braccio leggermente ossuto ma comunque abbastanza robusto, quindi, sfruttando i numerosi e piccoli aghi da iniezione che spuntavano da una delle due estremità metalliche del contenitore, si iniettò i nanorobot.

  L’operazione doveva essere molto dolorosa, perché l’uomo strinse vigorosamente i denti, e per i successivi secondi il suo volto si contorse in una smorfia di stentata sopportazione.

  Poi, ad un certo punto, l’espressione sofferente fece posto ad una come di leggero godimento, e Samejima, alzatosi in piedi, si strappò via la camicia imbrattata di sangue; Balalaika e i suoi uomini poterono vedere la ferita al fianco rimarginarsi a vista d’occhio, e tutto ciò che ne rimase dopo una trentina di secondi era una piccola cicatrice.

  «È…» disse la donna «È incredibile».

  Persino Samejima non riusciva a credere ai propri occhi, e la sensazione che pervadeva tutto il suo corpo non si poteva descrivere.

  «Mi sento… come se fossi rinato. È come se un fiume di lava mi scorresse nelle vene. Sento… di poter fare qualsiasi cosa».

  Con sguardo a metà fra la completa incredulità e il delirio di onnipotenza l’uomo allungò il braccio; Boris avvertì in quella un formicolio al fianco, e appena aprì la giacca per capire di che si trattava vide la propria pistola scivolare via dalla fondina per volare, lentamente, in mano a Samejima, a cui bastò stringerla leggermente nel pugno per ridurla in pezzi come fosse stata di marzapane.

  «Sì! Sì!» disse sgranando gli occhi «Questo potere… il potere di un dio… è nelle mie mani!».

  La sua espressione si fece rapidamente in tutto e per tutto simile a quella di un pazzo furioso, del resto autodefinirsi un dio non era certo cosa tipica di una persona sana. In pochi attimi ogni traccia di lucidità parve scomparire dal suo sguardo, lasciando posto ad un sadico delirio capace di mettere paura persino a Balalaika.

  «Sa… Samejima…»

  «Ne voglio ancora! Voglio più potere!».

  Prima che qualcuno potesse intervenire Noboru afferrò quasi tutti i contenitori e se li infilò tutti insieme nello stomaco con entrambe le mani. Il dolore, logicamente, fu cento volte più forte della prima volta, tanto che cadde pancia a terra quasi in posizione fetale, e dopo poco gli occhi i suoi occhi sembrarono farsi giallo oro, simili a quelli di un leone.

  Balalaika e i suoi non fecero in tempo a fermarlo, e all’improvviso videro tutto il suo corpo cominciare a contorcersi come se avesse avuto una miriade di insetti che gli camminavano sotto la pelle; i suoi urli e i suoi mugugni doloranti parvero tramutarsi in una specie di ringhiare sommesso, e in breve intere porzioni di pelle cominciarono letteralmente ad esplodere sotto la spinta di lunghi e minacciosi tentacoli marroni.

  Quando si rialzò aveva guadagnato quasi mezzo metro di altezza, e un corpicino dapprima piuttosto minuto ora traboccava di muscoli che non smettevano un attimo di contorcersi; l’urlo demoniaco che Samejima lanciò mettendosi in piedi riecheggiò per tutto il laboratorio e fu udito anche da Revy e dagli altri, i quali stavano lentamente risalendo verso la superficie usando l’ascensore di servizio, che a differenza di quello usato precedentemente impiegava circa dieci minuti ad andare da un livello all’altro.

  «Che diavolo era quello?» domandò Revy.

  Gli uomini di Hotel Moskow ne avevano viste di cose spaventose nei lunghi anni trascorsi in giro per i peggiori campi di battaglia del mondo, ma nulla era paragonabile all’essere che stava prendendo forma davanti ai loro occhi.

  Sembrava un incrocio fra Mr. Hyde e una piovra gigante, unghie e denti cadevano a ritmo incessante per fare posto a dei sostituti molto più affilati, la pelle sembrava pian piano venire ricoperta di croste marroni dall’odore nauseabondo mentre qui e là continuavano a spuntare quei lunghi tentacoli carnosi che si agitavano nell’aria come un esercito di serpenti.

  Il Vysotniki sopravvissuto alla battaglia nel secondo livello fu il primo a perdere l’autocontrollo, e alzata la sua arma sparò cinque colpi praticamente d’istinto diretti alla schiena di Samejima, ma nessuno di questi sortì l’effetto di ucciderlo, e anzi dai fori di entrata sbucarono dopo alcuni secondi altri tentacoli. Uno di questi, guizzando come una frusta, colpì l’aggressore, aprendolo a metà con un taglio obliquo dall’ascella sinistra al fianco destro come neanche una lama affilata avrebbe saputo fare.

  Balalaika assistette alla scena, e per la prima volta dai tempi della guerra il suo fu uno sguardo di terrore; Boris, istintivamente, si parò in sua difesa, gli altri due uomini invece presero le pistole e iniziarono a sparare all’impazzata a quella creatura e ogni secondo che passava sembrava sempre meno umana.

  Samejima, dietro quella scarica di colpi, si girò nella loro direzione, e persino Boris per poco non vomitò; la bocca grondava sangue, forse a causa della caduta dei denti, sostituiti da vere e proprie fauci da squalo, gli occhi, gialli e brillanti, erano quasi completamente fuori dalle orbite, gli erano caduti tutti i capelli e del naso era rimasta solamente la parte ossea.

  Non appena i due mafiosi esaurirono i caricatori vennero a loro volta tranciati a metà, e a quel punto rimasero solamente Boris e Balalaika. Entrambi cercarono di guadagnare l’uscita, ma il mostro, con un’incredibile agilità, si piazzò davanti alla porta bloccando loro ogni via di fuga.

  Boris istintivamente fece per sfoderare la pistola, ricordandosi solo in quel momento di non avercela più; non fece in tempo a rendersene conto che venne trafitto al petto da un tentacolo partito dal palmo della mano di Samejima come da una spada. Dopo essere stato sollevato in aria fu fatto dondolare per qualche attimo, poi, non appena smise di agitarsi, con uno scatto rabbioso venne scaraventato contro il muro.

  Balalaika osservò terrorizzata la sua ultima linea difensiva venire abbattuta, e quando si ritrovò faccia a faccia con quel mostro tremò come una bambina.

  Lui la guardò, ma non sembrava intenzionato a riservarle lo stesso trattamento; tuttavia, dopo poco, cominciò a camminare lentamente verso di lei.

  «No…» balbettava lei camminando all’indietro «Non avvicinarti!».

  Anche lei, spinta dalla disperazione, sparò tutti i colpi della sua pistola, ma come era già accaduto prima non vi fu alcun effetto, e in pochi secondi la donna si ritrovò con le spalle al muro.

  Il mostro a quel punto si fermò, la guardò ancora poi, ringhiando, le sparò lo stesso tentacolo con cui aveva colpito Boris diritto in bocca, e un istante dopo l’aria fu sventrata da un urlo agghiacciante.

 

L’ascensore di servizio avrebbe dovuto condurre Revy e gli altri direttamente nei sotterranei dell’albergo, ma quando la cabina passò davanti alla porticina che sbucava in una stanzetta del primo livello dei laboratori Kyuzo, ormai rimessosi quasi del tutto grazie agli straordinari poteri curativi dei nanorobot, spinse la leva che azionava il freno.

  «Kaito, che stai facendo?» domandò Rock

  «Io scendo qui.» rispose lui aprendo la porta

  «Perché, cosa vuoi fare?»

  «Bisogna disinnescare le bombe che avete in corpo e sbloccare le uscite dell’albergo se vogliamo andarcene, e la consolle nella stanza di comando è l’unico punto da cui può essere fatto.»

  «Ma perché devi essere tu a farlo?» chiese Steven

  «Forse perché sono l’unico a conoscere i codici di sicurezza.»

  «Vengo con te.»

  «Non dire scemenze Okajima. Tu hai ben altro da fare. Andate ora, avvertirò Dutch e gli altri superstiti di lasciare l’albergo. E fate attenzione, perché sicuramente ci saranno dei Vysotniki ad aspettarvi al varco.»

  «D’accordo.» rispose Hibraim dandogli la propria pistola «Ma porta questa con te. potrebbe servirti.»

  «Ti ringrazio».

  Kyuzo fece per chiudere la porta, ma Revy lo fermò all’ultimo secondo.

  «Ehi, supereroe da quattro soldi».

  Si guardarono, e dopo poco lei gli lanciò un sorriso provocatorio.

  «Cerca di non crepare. Ammazzarti è un privilegio che spetta a me.»

  «Farò il possibile.» rispose lui con la stessa espressione «Del resto, sono curioso di sapere cosa vi siete dette tu e mia sorella».

  Detto questo Kyuzo chiuse la porta e si avviò in tutta fretta verso la sala controllo.

  Appena uscì in corridoio si ritrovò davanti a qualcosa di incredibile e sconvolgente; tutto lì dentro era devastato, molte lampade erano distrutte, cavi e tubature pendevano dal soffitto, e in più punti delle pareti si notavano profondi solchi a gruppi di tre che parevano lasciati dagli artigli di un gigantesco animale.

  «Che diavolo è successo qui?» si domandò senza smettere di correre.

  Nulla di tutto ciò però poteva prepararlo a quello che trovò al suo arrivo in sala controllo; la porta d’ingresso era stata divelta, e la parete tutto intorno sfondata. All’interno, il pavimento era un tappeto di sangue, cadaveri e interiora, e Kaito non riusciva a capire chi o che cosa avesse potuto compiere un simile macello.

  «Mio Dio, ma cosa…».

  Appena vide il contenitore criogenico aperto subito ci si fiondò sopra, trovandovi però un solo campione di nanorobot.

  «Dannazione. Beh, uno basta e avanza per adesso».

  Fortunatamente la consolle funzionava ancora, quindi, senza pensare ad altro, immediatamente cominciò a lavorare ai codici di sicurezza, riuscendo in pochi minuti a disattivare tutte le cariche esplosive ancora funzionanti e a sbloccare tutte le porte, inclusa quella principale.

  Stava per attivare i microfoni dell’albergo per avvertire tutti i superstiti del Death Game affinché abbandonassero immediatamente l’edificio, ma gettando uno sguardo ai monitor vide, come previsto, che l’albergo pullulava di Vysotniki, intenti a fare strage degli ultimi concorrenti.

  Nello stesso momento, alcuni di loro stavano seriamente impegnando Dutch, che nascondendosi dietro ad un angolo nei corridoi del primo piano cercava di sfuggire a quelle raffiche micidiali.

  «Ma si può sapere che diavolo succede?» brontolò il gigante ricaricando la sua magnum «Da dove sono saltati fuori tutti questi Vysotniki? E soprattutto, perché ci sparano!»

  «Perché vi vogliono morti, mi sembra ovvio!» rispose una voce famigliare

  «Ma cosa…».

  Dutch guardò attonito il suo orologio-segnalatore, vedendo riflessa sul piccolo monitor la faccia, ora molto più amichevole, di Kyuzo.

  «Tu, bastardo! È anche questa opera tua?»

  «No, decisamente no.» rispose lui.

  Non solo Dutch, ma anche ma anche Revy, Eda e Benny, ovvero gli unici partecipanti al Death Game ancora in gioco, si erano ritrovati di colpo a tu per tu con colui che li aveva rinchiusi lì dentro; Benny si trovava nei bagni di servizio poco distante dalla posizione del suo collega nero, Eda invece sul bordo di una delle terrazze che davano sull’ingresso, dove si era appena liberata di un manipolo di aggressori.

  «Se proprio volete saperlo, questo gustoso scherzetto è opera di Balalaika.»

  «Che cosa!? Balalaika!?»

  «Ma non dire stronzate.» disse Eda «Balalaika l’ho ammazzata io, con le mie mani!»

  «Quella era solo una sosia.»

  «Una sosia!?»

  «La verità è che ci ha menati tutti per il naso fin dall’inizio. Ora che ha avuto ciò che voleva intende sbarazzarsi di ogni possibile testimone, quindi sarà meglio per tutti levare le tende il prima possibile.»

  «Non è possibile!?» disse Benny «Mi stai dicendo che Balalaika… ci ha traditi?»

  «Tradimento è una parola inesistente nel suo vocabolario. Del resto, il voltafaccia è la sua specialità.

  Contro i Vysotniki non resisterete a lungo, quindi sbrigatevi a raggiungere le uscite.»

  «Cosa, le uscite!?» esclamò Dutch «Così se non ci ammazzano loro lo faranno le tue stramaledettissime bombe!»

  «Le ho disinnescate tutte. E ho anche sbloccato le porte. Fareste meglio ad andare prima che se ne accorgano anche loro.»

  «Fanculo, chi ci dice che non sia un altro dei tuoi sadici giochetti?»

  «Mettiamola così, potete scegliere se fidarvi di me, oppure restare e venire ammazzati. La scelta è vostra».

  Dutch digrignò i denti, era chiaramente indeciso se dare retta o meno a Kyuzo, ma mentre cercava di soppesare tutte le possibili alternative dall’orologio giunse una nuova voce, anch’essa a lui ben nota.

  «Dutch, smettila di fare il diffidente stronzo e dagli retta!»

  «Cosa, Revy!?» disse Benny

  «Ah già, mi ero dimenticato di dirvelo.» intervenne Kyuzo «Le radio degli orologi sono collegate fra di loro.»

  «Dutch, sta dicendo la verità. Quella stronza ci vuole tutti morti, e se non ce ne andiamo di qui al più presto ci ammazzeranno davvero!»

  «Merda. D’accordo, se lo dici tu mi fido.»

  «Ottimo. Allora sbrigatevi».

  Benny fu il primo a raccogliere l’invito e se la diede a gambe passando per la porta principale senza incontrare fortunatamente alcuna resistenza, Eda usò la scala di emergenza, Dutch invece, essendo bloccato dal fuoco ininterrotto dei Vysotniki, dovette ricorrere a metodi più sbrigativi, buttandosi di sotto da una finestra.

  Il suo volo di sette metri venne fortunatamente attutito da una palma, ma non fu mai così contento di poggiare il suo enorme fondoschiena sull’asfalto di Bangkok. Benny gli corse incontro.

  «Dutch! Tutto bene?»

  «Sono stato meglio. A quanto pare quel piccolo bastardo diceva la verità. Dov’è Revy?»

  «Io non l’ho vista. Probabilmente è ancora all’interno».

  Dopo poco furono raggiunti da Eda.

  «Ehi, chi si rivede. Allora siete sopravvissuti anche voi.»

  «Che c’è, sei sorpresa?» domandò provocatoriamente Dutch «Piuttosto trovo incredibile che tu sia stata capace di conservare la pellaccia per tutto questo tempo.»

  «Ehi, bada a come parli. Mi è rimasto ancora un colpo.

  Cambiando discorso, Two-Hands non è con voi?»

  «Tu la vedi per caso?».

 

Pochi minuti dopo finalmente Revy e gli altri occupanti dell’ascensore raggiunsero il pianterreno dell’albergo, dove il punto di arrivo era mascherato all’interno di una delle quattro grosse colonne del ristorante francese.

  «Forza.» disse Steven «Sbrighiamoci ad uscire, prima che ci siano addosso.»

  «Procedete con estrema cautela.» disse Kyuzo, sempre attraverso la radio da polso di Revy «Ce ne sono ancora molti in giro… cazzo, attenti, stanno arrivando!»

  «Da dove?» chiese Revy

  «Porta d’ingresso! Sono tantissimi!».

  Prima che anche gli altri potessero rendersene conto la grande porta a due ante fu sventrata da una granata, e una quindicina di Vysotniki fece irruzione nel locale. Revy ribaltò immediatamente il tavolo più vicino, giusto in tempo per evitare la prima raffica, dietro al quale tutti si nascosero.

  «Merda!» disse Revy «Sono come gli scarafaggi, non te ne liberi mai!»

  «Meno chiacchiere» rispose Hibraim «Cerchiamo piuttosto di uscire vivi!».

  Come la prima volta furono Revy e Steven a dirigere le danze, ma a differenza del primo scontro stavolta i Vysotniki sembravano molto più agguerriti, senza contare che spazi angusti e pieni di nascondigli come quel ristorante costituivano il loro campo di battaglia ideale.

  Tre di loro, rimasti sulla porta, offrivano copertura sparando continuamente, e intanto gli altri si avvicinavano sempre di più, rendendo le loro sventagliate più precise e letali.

  Steven venne ferito leggermente alla spalla quando si sporse per rispondere al fuoco, Revy invece fu colpita di striscio alla gamba, e più i secondi passavano più la situazione si faceva disperata.

  «Merda, siamo in trappola!» disse Steven «Ci vorrebbe un miracolo!»

  «Ma non dire cazzate!» rispose Revy ricaricando le sue armi «I miracoli ce li creiamo da soli! Sta a guardare!».

  Senza un briciolo di esitazione Two-Hands lasciò il proprio nascondiglio e cominciò a correre lateralmente, sparando all’impazzata; molti Vysotniki caddero sotto i suoi colpi, alcuni di quelli che si distrassero per starle dietro furono prontamente centrati da Steven.

  All’improvviso, mentre tutti erano ancora intenti a spararsi, un verso terrificante simile ad un ruggito risuonò nell’aria, accompagnato da un impercettibile quanto preoccupante tremolio delle pareti.

  Sia i Vysotniki che i loro bersagli rimasero immobili per lo spavento, non riuscendo a capire di che potesse trattarsi, poi, di colpo, una parete andò letteralmente in pezzi come colpita da un bulldozer, e dal polverone così prodotto uscì lentamente una creatura che solo con molta fantasia si poteva definire umana.

  Alto più di due metri, quella specie di mostro aveva la pelle di un colore marrone, quasi squamosa, in cui le vene, soprattutto nelle gambe, sembravano quasi brillare di rosso; in alcuni punti sembrava addirittura che i muscoli, rossi e pulsanti, fossero usciti all’esterno, soprattutto sul torace e sulla testa, dove la scatola cranica era in parte esposta.

  Ciò che più spaventava di lui però era il braccio sinistro, grosso come quello di un gorilla e la cui la mano sembrava quella di un rettile, con tre dita grosse e lunghe, quello centrale più degli altri, armate tutte di minacciosi uncini; la mano destra era tutto sommato normale, fatta eccezione per i cinque artigli che sporgevano da ogni dito, ognuno dei quali superava i cinquanta centimetri di lunghezza;.

  Al posto dei denti aveva quattro file di fauci acuminate, due in alto e due in basso, gli occhi erano molto più grossi di quelli di un essere umano, quasi completamente fuori dalle orbite e anch’essi simili a quelli di un rettile, e del naso si vedevano solamente i fori ossei.

  Qua e là, in varie parti del suo mostruoso corpo, spuntavano lunghi tentacoli carnosi che non smettevano di agitarsi.

  «Ma cosa diavolo…» disse Revy sgomenta.

  A trovarselo più vicino furono i Vysotniki, che terrorizzati non esitarono a fregarsene dei loro obiettivi primari per sparare nella sua direzione, ma per quanto lo colpissero, facendo schizzare fiotti di sangue, quello non sembrava neppure provare dolore.

  Dopo alcuni secondi, forse irritato per quelle raffiche che non smettevano di abbattersi su di lui, il mostro lanciò un ringhio terrificante, e con un’agilità del tutto inconsueta per la sua stazza si avventò sui russi, facendone strage; li trapassava con gli artigli, gli fracassava le teste stringendole nella mano, o li apriva coi suoi tentacoli, che colpivano peggio di un nugolo di fruste affilatissime.

  Revy e gli altri assistettero immobili e terrorizzati, e persino Kyuzo, che osservava la scena grazie alle telecamere, si sentì tremare leggermente le gambe.

  «Mio dio, ma cosa…».

  Non appena i Vysotniki furono tutti morti la creatura inevitabilmente si concentrò sui superstiti. Per interminabili secondi rimase immobili a fissarli, e ogni istante sembrava essere quello dell’assalto.

  Invece, a sorpresa, fu Revy a fare la prima mossa, sollevando le sue due pistole e mettendosi a sparare, urlando contemporaneamente con tutta la sua voce.

  «Revy!» cercò di dire Rock «Non fare pazzie!».

  Come previsto quella nuova pioggia di pallottole non sortì alcun effetto, e in breve Two-Hands si ritrovò nuovamente a secco di munizioni, ma questo non bastò certamente a scoraggiarla; rinfoderate le pistole, sollevò in aria con il piede il fucile a canna mozza di un Vysotniki morto, quindi riprese a sparare.

  Questa volta la pioggia di pallettoni sembrò produrre qualche risultato, perché il mostro, investito in pieno, cominciò a camminare all’indietro, ma quando anche quell’arma fu vuota era ancora in piedi, e dopo alcuni secondi tutte le ferite che Revy gli aveva inferto cominciarono rapidamente a scomparire.

  «Oh, merda!».

  Un nuovo, terrificante ruggito fu ciò che spinse lei e gli altri ad abbandonare in tutta fretta il campo; purtroppo, essendo la strada verso l’uscita sbarrata dal mostro, l’unica via di salvezza si rivelò la cucina, che fra le altre cose aveva una porta che dava sulla scala interna di servizio.

  Steven la aprì nel momento esatto in cui anche la creatura entrava in cucina sfondando la doppia porta, chiudendola immediatamente dopo che tutti furono entrati e usando la sua tessera di riconoscimento per chiuderla a chiave.

  Il mostro ci si avventò sopra un istante dopo ma fortunatamente la porta era a doppia blindatura e resistette, anche se l’urto spaventoso la fece piegare leggermente verso l’interno.

  «Che cazzo era quello!?» domandò Revy

  «Ho paura a dirlo» rispose Kyuzo «Ma credo fosse Samejima.»

  «Che cosa!? Quel mingherlino giapponese tutto azzimato!?»

  «Ma come ha fatto a diventare così?» chiese Hibraim

  «Temo si sia iniettato una quantità esorbitante di nanorobot, così tanti da alterare il suo codice genetico provocando una mutazione.»

  «Gli ho sparato più di trenta colpi senza fargli un graffio.» disse Revy

  «La cosa non mi sorprende, con tutti i nanorobot che si ritrova in corpo, e se proprio volete saperlo credo che la sua mutazione sia solo all’inizio.»

  «Noi cosa possiamo fare per togliercelo di mezzo?» chiese Steven

  «Non molto temo. La sua velocità di guarigione è troppo rapida».

  Un silenzio angosciato si diffuse tra i presenti, e intanto quel mostro continuava incessantemente a colpire la porta nel tentativo di sfondarla.

  «Ragazzi…» disse Kyuzo dopo un po’ «Sono costretto a riattivare le chiusure di emergenza e a sigillare l’albergo. Non possiamo permettere a quel mostro di andarsene in giro indisturbato per le strade di tutta Bangkok.»

  «Sì, ti capiamo.» rispose Rock con voce da funerale «Procedi pure».

  Alcuni secondi dopo Dutch, Eda e Benny, che ancora attendevano fuori dall’Hotel Universe l’arrivo di Revy, videro tutte le porte e le finestre dell’edificio venire sbarrate da delle robuste grate di metallo, trasformando di fatto l’albergo in una sorta di insuperabile prigione.

  «E ora che diavolo sta succedendo?».

  Benny, che aveva ancora con sé il palmare, si collegò alle telecamere, e non appena vide quel mostro intento a colpire la porta della scala di servizio a suon di spallate, incrinandola sempre di più, per poco non se la fece sotto.

  «Oh, mio Dio.»

  «Che cazzo di bestia è quella?» domandò Dutch.

  Completata la messa in sicurezza dell’albergo, Kyuzo si appoggiò sconsolato alla consolle, senza più idee.

  Cosa potevano fare per riuscire ad avere la meglio su quella creatura all’apparenza immortale?

  Un’idea, dopo poco, gli balenò in testa.

  Una soluzione forse c’era, ma era molto rischiosa. Una volta sigillato l’albergo uscire era praticamente impossibile, quindi, di conseguenza, tale soluzione imponeva quasi sicuramente la morte di tutti coloro che ancora si trovavano al suo interno.

  «Che possiamo fare adesso?».

  Anche Revy e gli altri erano visibilmente sconvolti, con la rassegnazione dipinta sul viso; ormai non prestavano neanche più attenzione ai ruggiti terrificanti del mostro e al rumore dei suoi colpi contro la porta blindata, che più passava il tempo più si incrinava.

  Era dunque quello il loro destino?

  Sarebbero morti tutti, proprio quando erano ad un passo dalla salvezza?

  Kyuzo chiuse gli occhi, cercando in tutti i modi di farsi venire un’idea, quando improvvisamente una mano gli si avvinghiò alla caviglia.

  Istintivamente afferrò la pistola ricevuta da Hibraim e la puntò ai suoi piedi, incrociando lo sguardo spento e quasi morente di Boris; nuotava nel sangue che continuava ad uscire dall’orrenda ferita provocatagli da Samejima, e appariva chiaro che la sua vita fosse ormai prossima a finire.

  «Il…» mugugnò sputando fiumi di saliva insanguinata «Il tetto…»

  «Che cosa!?»

  «C’è… c’è… un elicottero…»

  «Un elicottero!? Mi stai dicendo che c’è un elicottero sul tetto…»

  «Il nostro… elicottero…».

  Kyuzo cercò di soccorrerlo, malgrado solo due giorni prima lo avesse quasi ucciso, e il russo, infilata una mano nella giacca, ne cavò fuori due cd-rom nelle rispettive custodie.

  «P… prendi questi…»

  «Che cosa sono?»

  «I… risultati delle ricerche… la cura… è qui dentro…».

  Il giovane, attonito, prese i cd mettendoseli in tasca, e subito dopo la mano che stringeva cominciò a perdere rapidamente di forza.

  «Da… dasvidania…» fu l’ultima parola che Boris pronunciò prima di morire.

  Per lunghissimi istanti Kyuzo stette immobile ad osservare il corpo senza vita di quell’uomo, stringendo la sua mano ormai morta, ma poi, con rinnovato spirito, afferrò nuovamente il microfono.

  «Ascoltatemi bene, c’è una possibilità.»

  «Che cosa!?» disse Revy «Sputa il rospo, di che si tratta?»

  «C’è un elicottero sul tetto, quello con cui probabilmente sono arrivati Samejima e Balalaika. Possiamo usarlo per andarcene.»

  «Alla grande! E allora forza, muoviamoci!»

  «Ma come facciamo con Samejima?» chiese Rock «Non possiamo certo lasciarlo in vita.»

  «Non temere, ci ho già pensato. C’è una soluzione anche per questo.»

  «Una soluzione?» disse Steven, che dopo poco ebbe l’illuminazione «Ma certo, la bomba!»

  «Di che bomba parli?» domandò Revy

  «Quella che era stata piazzata nei sotterranei. Un piccolo espediente nel caso il Death Game fosse sfuggito al nostro controllo.»

  «Volevate farci saltare in aria!? Ma io vi…»

  «Ora non c’è tempo per questo.» intervenne Kyuzo «Sbrigatevi a raggiungere il tetto. Io imposterò il computer per programmare l’esplosione a distanza.»

  «D’accordo.» rispose Steven «Sbrigati a raggiungerci, e fa attenzione al mostro.»

  «Ok, userò l’ascensore principale.»

  «Perfetto. Forza, muoviamoci!».

  Chiusa la comunicazione, Kyuzo cominciò a lavorare al computer centrale della bomba, che come tutte le altre apparecchiature poteva essere controllato direttamente dalla consolle principale, ma ad un certo punto su di un angolo del monitor si accese un led rosso. Il ragazzo lo osservò dapprima incredulo, poi chiuse gli occhi accennando un sorriso.

  «Beh, tanto sarebbe comunque finita così».

  Completato il lavoro fece per lasciare la stanza, quando, fra le macerie, notò casualmente la famosa pistola rinvenuta nella cabina della Seaborn Star, accanto alla sedia di Harue, e come un fulmine a ciel sereno si ricordò della promessa fatta tanto tempo prima. Quella promessa doveva ancora essere mantenuta, quindi, recuperata l’arma, la infilò alla cintura dietro la schiena, e a quel punto si diresse verso l’ascensore.

 

Steven, Hibraim, Rock e Revy presero a salire il più velocemente possibile le scale di servizio in direzione del tetto, contando freneticamente sia i piani che li separavano dalla salvezza sia quelli che avevano messo fra loro e il mostro.

  Quel bestione non aveva alcuna intenzione di arrendersi, e difatti, ad un certo punto, la porta blindata cedette, permettendogli di entrare.

  «Oh, merda!» disse Steven guardando di sotto «Correte!».

  Tutti quanti misero tutta la forza loro rimasta nelle gambe e presero a correre il più velocemente possibile, ma nonostante ciò il mostro si faceva sempre più vicino, questo perché invece che salire di gradino in gradino riusciva con un solo balzo a percorrere un’intera rampa.

  Era evidente che non avrebbe impiegato molto a raggiungere il gruppo, e al tetto mancavano ancora molti piani.

  L’unica soluzione per riuscire a guadagnare un po’ di tempo era quella di separarsi, quindi, giunti al dodicesimo piano, Revy e Rock imboccarono la porta d’uscita, mentre Hibraim e Steven continuarono a salire lungo le scale, e purtroppo fu su questi ultimi che il mostro decise di concentrare la propria attenzione.

  «Porca puttana, quello non ci molla! Hibraim, corri!».

  Le gambe di Steven gli permettevano di correre molto veloce, ma l’iracheno purtroppo non aveva lo stesso privilegio; Steven faceva il possibile per riuscire a stargli vicino, ma intanto Samejima si avvicinava sempre di più, e ormai a dividerli c’erano solo sei o sette rampe.

  All’improvviso Hibraim, sovraeccitato e terrorizzato, appoggiò male il piede su uno scalino, cadendo molto malamente e provocandosi una slogatura.

  «Hibraim!» disse Steven tornando indietro.

  Cercò di aiutarlo a rialzarsi, ma il dolore alla caviglia era tremendo e non gli riusciva neppure di muoversi.

  «È inutile, non ci riesco!»

  «Non dire stupidaggini! Forza, siamo quasi in cima!»

  «Mi fa troppo male! Non riuscirei neanche ad appoggiarla a terra!».

  Steven fece per aiutarlo a rialzarsi, ma Hibraim lo allontanò violentemente.

  «Vattene, va’ via di qui!»

  «Non posso farlo! Non puoi chiedermi di abbandonarti!»

  «Finiscila di sparare cazzate e vattene! Vuoi che quel mostro ci ammazzi entrambi?»

  «Hibraim…».

  Per la prima volta dopo tanto tempo, dal giorno della morte del padre, Steven pianse nuovamente.

  «Vai, Steven.» gli disse l’iracheno in tono più pacato, non molto diverso da quello di un fratello «È meglio così.»

  «Amico mio…»

  «Hai promesso di rifondare la tua compagnia. Non puoi morire qui. Io quello che dovevo fare l’ho fatto. Sta a voi scegliere l’uso migliore per le mie scoperte».

  Alla fine, piangendo tutte le sue lacrime, Steven accettò l’inevitabile e abbandonò il proprio amico proseguendo nella salita. Rimasto solo, Hibraim sorrise.

  «Certo che è una bella sfortuna».

  Quando il mostro raggiunse il pianerottolo che stava subito prima della rampa dove l’iracheno era stato lasciato lo trovò con in mano una cintura militare piena di granate, sottratta probabilmente ad uno dei Vysotniki uccisi al secondo livello.

  «Samejima, volevo dirtelo da tanto tempo. Vaffanculo.» quindi tirò una delle linguette.

  L’esplosione che ne derivò distrusse quasi interamente la tromba delle scale; Steven, che nel frattempo aveva raggiunto il penultimo piano, fece appena in tempo ad aprire la porta e a buttarsi a terra, evitando di venire investito dalla nube di fuoco proprio per un soffio.

  «Hibraim!».

 

Nello stesso momento Revy e Rock, tenendosi insolitamente per mano, stavano attraversando in tutta fretta il dodicesimo piano per raggiungere la scala principale, posta dal lato opposto a quella di servizio, e poter così riprendere la salita verso il tetto.

  Non sapevano se il mostro li avesse scelti o meno come bersaglio, quindi erano più che mai ansiosi di andarsene da lì e mettere finalmente la parola fine a quell’incubo surreale.

  Avevano corso così tanto da avere entrambi il fiatone e quando, giunti sulla terrazza che si affacciava sull’androne principale, ebbero la certezza di non essere seguiti, decisero in comune accordo di fermarsi per riprendere fiato.

  «Forse…» disse Rock «Forse l’abbiamo seminato.»

  «Sì, ma non dormire sugli allori. Non è ancora finita»

  «Hai ragione, scusa».

  Revy, calmato il battito, si appoggiò al parapetto, mentre Rock al contrario ci stava mettendo più del previsto a recuperare le energie; non era proprio tagliato per quel genere di vita.

  «Senti Rock. C’è una cosa che volevo chiederti.»

  «Di che si tratta?» domandò lui ancora con il fiatone

  «Beh ecco… non credo tu sia stato coinvolto in questo stupido gioco, o sbaglio?»

  «No, infatti. Quando mi sono svegliato ero nei sotterranei. Forse per via della nostra vecchia amicizia Kaito ha voluto lasciarmi fuori.»

  «Capisco. Beh, se è così, che ci facevi qui nell’albergo prima, quando ti ho visto insieme a lui?».

  Okajima a quella domanda si ritrovò del tutto impreparato a rispondere, rimanendo con gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa.

  Solo dopo molte esitazioni infine trovò la forza per rispondere.

  «Io… io ero preoccupato per te.»

  «Preoccupato… per me!?» replicò lei con la medesima espressione

  «Quando ho sentito cosa avevano in mente di farti, ho cercato di venirti a salvare. Volevo aiutarti, fare qualcosa, ma invece non ho fatto altro che mettermi nei guai, e se Kaito non fosse venuto ad aiutarmi a quest’ora sarei sicuramente morto.

  Mi dispiace, Revy. La verità è che non so proteggere nessuno, neppure me stesso».

  Two-Hands restò così impressionata dalle parole del suo partner che, come lui, non riuscì a trovare la forza per rispondere; solo poche ore prima l’aveva quasi uccisa, e poi d’improvviso si era quasi fatto ammazzare per cercare di aiutarla?

  Solo in quel momento, dopo quasi due anni, Revy cominciava a scoprire sul serio la sua vera personalità.

  «Sei uno stupido, Rock.» disse accendendosi la sua ultima sigaretta «Cosa ti fa pensare che io potessi aver bisogno del tuo aiuto? Che tipo di aiuto potresti mai darmi?».

  In altri tempi Rock si sarebbe accorto fin da subito della scarsa convinzione che Revy aveva infuso in quelle parole, ma per lo stato in cui era gli sembrarono terribili e incredibilmente ammonitorie.

  «Hai perfettamente ragione. Ma tu hai rischiato tante volte la vita per aiutarmi, che ho pensato fosse venuto il momento di ricambiare. In realtà, non ho fatto altro che peggiorare le cose.»

  «Forse. Ma devo ammettere che quando hai fatto esercizi di boxe sulla faccia della sorellona hai dimostrato un fegato che non ti avrei mai attribuito.»

  «Non so cosa mi sia preso. Tutto d’un tratto, non ci ho visto più. Quella donna ha rovinato la vita di decine di persone per soddisfare il suo egoistico desiderio personale. Non potevo permetterle di passarla liscia, non potevo.»

  «Beh, se ti può consolare, anch’io d’improvviso ho avuto una gran voglia di ammazzarla. Dovrò ricordarmi di ringraziare Kyuzo per avermi fatto capire che razza di stronza era».

  Seguì, un nuovo silenzio, poi Revy fece qualcosa che Rock non avrebbe mai più dimenticato.

  «Rock… mi dispiace».

  Lui la guardò come si guarderebbe un fantasma.

  «Mi dispiace di avertelo tenuto nascosto per tutti questi anni.»

  «Ma cosa dici, Revy. Tu non hai fatto niente.»

  «Appunto. Potevo salvarla. Potevo salvare quella ragazzina, e impedire che si compisse quella strage. Nulla di tutto questo sarebbe mai accaduto se avessi dimostrato un cazzo di coraggio.»

  «Revy, non devi essere in collera con te stessa. Ciò che conta ora è uscire di qui. Sono certo che Harue non ti ha dimenticata. Sono anzi convinto che ti sia profondamente grata per aver tentato di proteggerla, e che presto vi ritroverete.

  Tra poco Kaito potrebbe non esserci più, e lei avrà bisogno di un nuovo fratello.»

  «Sì, forse.» rispose lei a bassissima voce «Ma quello non è un ruolo che spetterà a me».

  D’un tratto, un rumore sommesso di passi fece terminare anzitempo quella insolita conversazione.

  Revy e Rock si misero subito sul chi vive, poi, da un corridoio laterale dinnanzi a loro, videro uscire qualcuno che non si aspettavano, ed entrambi a stento si trattennero dal vomitare inorriditi.

  Balalaika, la Balalaika che era stata all’origine di ogni cosa, di ogni tragedia capitata in quell’hotel maledetto, camminava barcollando verso di loro.

  I suoi capelli biondi, solitamente annodati, erano ora sciolti, ma anche imbrattati di sangue. La giacca militare che portava di solito non c’era più, le mancava una scarpa, e il suo vestito rosso appariva strappato in più punti.

  Tuttavia, la cosa spaventosa erano le sue menomazioni; invece che semplici cicatrici sembravano ora un ammasso contorto di carne putrescente che ondeggiava e pulsava come un enorme formicaio, emanando fra l’altro un odore nauseabondo; doveva anche essere cieca dall’occhio destro, perché la pupilla era completamente bianca. Inoltre, dalle orecchie, dal naso e dalla bocca fuorusciva costantemente una strana poltiglia violacea.

  «Balalaika!?» disse Rock

  «Ma che cazzo le è successo!?».

  Provarono a chiamarla, ma lei non diede segno né di averli sentiti né tanto meno di riconoscerli; tutto ciò che faceva era continuare a camminare verso di loro con espressione quasi delirante, e ripetendo continuamente la solita litania.

  «I miei nanorobot… i miei nanorobot…»

  «Ma cos’è, la Notte dei Morti Viventi?»

  «Credo sia colpa dei nanorobot.»

  «Come fai a dirlo?»

  «Guarda quella gelatina che ha in faccia. Samejima deve averle come iniettato alcuni dei suoi nanorobot, ma evidentemente invece che guarirla le hanno devastato corpo e mente, trasformandola in una specie di zombie.»

  «Perfetto, siamo a cavallo».

  Revy alzò la pistola e provò a sparare, ma prima che potesse farlo Balalaika balzò in avanti e le diede un tremendo spintone, buttandola giù dal balcone; Two-Hands riuscì fortunatamente ad aggrapparsi al parapetto con una mano, ma la donna sembrava determinata a finire il lavoro e alzò la mano come a volerla trafiggere con le sue unghie insolitamente lunghe.

  Prima che potesse riuscirci Rock le saltò addosso tentando di trattenerla, ma lei, con una forza sovrumana, si liberò dalla stretta, e giratasi menò un colpo di unghie che ferì il giovane al petto strappandogli la camicia.

  Per il dolore Okajima barcollò leggermente all’indietro, ricevendo a sua volta uno spintone che lo buttò a terra, e subito dopo Balalaika gli si inginocchiò sopra, afferrandogli il collo con entrambe le mani.

  «Rock!» gridò Revy cercando di tornare su.

  Lui lottò con tutte le sue forze per tentare di liberarsi, ma era come se quelle mani fossero state le zampe di un orso, e ogni suo tentativo per allontanarle da sé risultava vano.

  Velocemente si sentì mancare il respiro, la sua lotta si fece sempre meno cruenta, quando d’un tratto il rumore di uno sparo rimbombò nel vuoto dell’androne, e la stretta di Balalaika cominciò gradualmente a diminuire fino a che la donna non allontanò le mani dal collo della sua vittima.

  Istintivamente Rock pensò fosse stata Revy a sparare, ma quando, giratosi, vide la sua partner ancora intenta a riguadagnare una base per i piedi, capì che doveva essere stato qualcun altro.

  Balalaika, che era stata colpita ad una spalla, si rimise lentamente in piedi, girandosi alle sue spalle, e contemporaneamente Rock riuscì a distinguere dinnanzi a sé la figura di Kyuzo, in piedi davanti alla donna con la pistola fumante in mano puntata verso di lei.

  «Questo era per mia madre.» disse con il suo sguardo di ghiaccio.

  Indifferente al colpo subito, Balalaika per la seconda volta lasciò perdere il proprio obiettivo per concentrarsi sul nuovo arrivato, cominciando a camminare verso di lui.

  «I miei nanorobot… i miei nanorobot…».

  A quel punto, gettando via la prima arma, Kyuzo sfoderò quella che un tempo era stata di Revy, prese la mira e sparò senza esitazioni, colpendo il suo obiettivo dritto in mezzo alla fronte.

  «E questo per mio padre».

  Nonostante ciò Balalaika continuò a non voler morire, ma la forza di penetrazione della pallottola fu tale da buttarla all’indietro, al di là del parapetto.

  «I miei… nanorobot…» continuò a dire mentre precipitava verso il basso.

  La sua caduta si concluse proprio sulla spada della statua di San Giorgio, che trafiggendola alla schiena la passò da parte a parte fino all’elsa.

  Balalaika emise un gemito, una sorta di perfida risata, quindi, in un modo che forse neppure lei aveva mai immaginato, spirò.

  «Brucia all’inferno, puttana».

  Nello stesso momento Revy riuscì finalmente a risalire sulla terrazza, e sia lei che Rock osservarono dapprima il corpo senza vita della loro ex-socia impalato trenta metri più in basso, poi colui che era stato l’artefice della sua morte.

  «Andiamo, ora. Dobbiamo raggiungere il tetto».

 

Nota dell’Autore

Come avevo promesso, ecco qua il penultimo capitolo di questa fan fiction, la quale ha preso una svolta che neppure io inizialmente mi sarei mai immaginato.

Mi dispiace di non aver aspettato l’arrivo dei miei recensori abituali, ma come ho già detto precedentemente gli impegni si susseguono, e visto che Death Game ormai è praticamente alla fine sono più che mai ansioso di pubblicare al più presto i capitoli conclusivi.

Per l’ultima parte e l’epilogo credo avrò bisogno ancora di qualche giorno, ma se tutto va’ bene dovrei poterli inserire entrambi entro martedì.

Ringrazio Selly e Beat per le loro recensioni.

A presto con l’ultimo capitolo!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 13
*** Forever ***


12

12

 

 

Kyuzo, Rock e Revy non si fidavano ad usare l’ascensore, visto che forse a causa dell’esplosione nella tromba delle scale un po’ tutto l’albergo si era destabilizzato, e la corrente andava e veniva in continuazione.

  Ringraziando il cielo non incontrarono altri Vysotniki, probabilmente perché erano stati già tutti uccisi da Samejima, quindi la salita verso l’alto procedette senza altri inconvenienti.

  Sfortunatamente la scala di servizio distrutta era l’unica strada diretta per arrivare sul tetto, ma era comunque possibile aggirare l’ostacolo passando per il grande planetario semisferico, dove si trovava una porta di servizio che immetteva in una seconda scalinata che partendo dall’ultimo piano arrivava sul tetto.

  I tre fuggiaschi entrarono nel planetario convinti di essere a due passi dalla salvezza, ma sulla loro strada incontrarono qualcuno intento a fermarli.

  Avrebbero dovuto aspettarselo; per quanto fosse stata ridotta a niente più che un mero strumento di morte, Yu-Ling era un avversario da non sottovalutare. Le era stato ordinato di uccidere tutti gli occupanti dell’hotel, e lei con ogni probabilità sapeva che gli ultimi rimasti, con tutte le uscite chiuse, non avrebbero avuto altra via d’uscita che il tetto, e con la strada diretta inutilizzabile non era stato molto difficile per lei aspettarli al varco.

  Non doveva però essere lì da molto, perché non c’era alcuna traccia di Steven e Hibraim, segno che probabilmente loro erano riusciti ad arrivare all’elicottero, dove magari li stavano già aspettando.

  Vedendo sbucare quella specie di demone vestito di bianco da dietro le poltrone che, disposte ad anfiteatro, occupavano un’intera metà della struttura, Revy e gli altri immediatamente si bloccarono, ben consapevoli di ciò che era in grado di fare.

  Kyuzo la guardò nuovamente dritta in volto, quindi si portò dinnanzi a loro.

  «Me ne occupo io. Voi andate.»

  «Cosa!?» disse Rock «Ma, Kaito…»

  «Non preoccupatevi, me la caverò.»

  «Sbaglio o l’ultima volta ti ha quasi ammazzato?» commentò Revy

  «Stavolta sarà diverso. Sta tranquilla. Inoltre, non posso vedere la mia amica Yu-Ling ridotta in questo stato. È mio dovere fare qualcosa per cercare di aiutarla».

  Revy e Rock erano palesemente indecisi, ma dopo un rapido calcolo dedussero che Kaito era probabilmente l’unico in grado ad opporsi ad una furia distruttrice come Yu-Ling, e che loro sarebbero stati solo d’impiccio, quindi alla fine decisero di dargli retta e di proseguire oltre.

  «Ricordati quello che ti ho detto. Sono io che devo ammazzarti, quindi cerca di non crepare.»

  «Tranquilla, non morirò prima di aver salvato Yu-Ling.»

  «Lo spero».

  Non appena i due compagni cominciarono a correre verso l’uscita Yu-Ling corse a sua volta verso di loro con l’intento di fermarli, ma Kaito fu più rapido di lei e allungato un braccio generò una sorta di spostamento d’aria che oltre a scaraventare la ragazza contro il muro sembrò quasi incollarla ad esso; questo espediente però risultò di breve durata, perché nell’istante stesso in cui i membri della Lagoon lasciavano il planetario Yu-Ling riuscì a liberarsi, ma invece che correre dietro ai fuggitivi la sua attenzione fu catturata tutta da Kyuzo.

  I due vecchi amici rimasero immobili, osservandosi entrambi con occhi senza vita, senza alcuna espressione. La cupola luminosa, ancora funzionante, proiettava su di loro la luce iridescente di una volta celeste che, benché finta, li rendeva simili a due eroi, due divinità pronte a darsi battaglia.

  La pelle chiara di Yu-Ling scintillava come il diamante, il volto serio e impassibile di Kyuzo sembrava quello di un dio della guerra, ma con lo sguardo di un peccatore in cerca di redenzione.

  Quello che Rock aveva detto era vero; non poteva dimenticare ciò che Yu-Ling aveva significato per lui, e forse proprio per questo non sarebbe mai stato realmente in grado di farle del male.

  Si erano conosciuti da piccoli, quando avevano rispettivamente sette e sei anni, e da quel giorno avevano condiviso tutto, gioie e dolori, dubbi e speranze.

  Ciò che maggiormente aveva deluso e addolorato Kaito era stato l’atteggiamento di Samejima, la crudeltà che aveva dimostrato nei confronti di quella che era diventata a tutti gli effetti sua figlia.

  All’inizio, quando Harue ancora non era nata, e Progetto Rebuild non era neppure nella memoria del presidente Kinomiya, Samejima era un uomo onesto, di grande carisma, e la stessa passione che metteva nel lavoro la metteva anche nel suo ruolo di padre.

  Yu-Ling era per lui come un raggio di sole, una figura amica che lo attendeva al rientro in una casa altrimenti vuota.

  La perdita della moglie a seguito di un brutto incidente stradale lo aveva devastato, e persino il lavoro nel quale aveva sempre riversato tutte le sue energie divenne di colpo qualcosa di effimero, senza alcun interesse.

  Per tentare di allontanarlo dai dolori che la sua casa, ma anche la stessa Tokyo, arrecavano al suo spirito, il suo capo lo aveva mandato in viaggio di lavoro in Cina, dove le Industrie Kinomiya avevano avuto modo di inimicarsi allo stesso tempo le Triadi e il governo centrale di Pechino con la loro propaganda contro lo sfruttamento e a favore dei diritti e del progresso compatibile.

  Forse per lanciare indirettamente un avvertimento a qualcuno che stava decisamente troppo in alto per poter essere colpito direttamente, la mafia cinese organizzò l’omicidio del facoltoso industriale Won-Shin Fei, prossimo partner aziendale dei Kinomiya, e di tutta la sua famiglia; solo la piccola Yu-Ling, che allora aveva cinque anni, sopravvisse, e per puro miracolo, perché al momento dell’esplosione della macchina lei era scesa assieme alla sua governante per guardare i volatili esposti in un negozio.

  Non avendo parenti in vita la sua destinazione poteva essere solamente l’orfanotrofio, o peggio ancora, vista la famiglia anticonformista dalla quale veniva, le case di correzione. Samejima, che con Won-Shin aveva avuto un rapporto di amicizia profonda prima che di lavoro, decise di adottarla, un’impresa non facile che lo costrinse a corrompere mezzo partito e a far espatriare la piccola clandestinamente.

  Yu-Ling all’inizio sembrava incapace di superare quel trauma, ma la vicinanza a tutte quelle persone che, come i suoi genitori, le volevano un bene sincero, oltre che profondo, riuscì pian piano ad intaccare il muro che aveva eretto attorno al suo cuore, permettendole di tornare a sorridere.

  Samejima era un padre modello, che chiedeva tanto ma che, allo stesso tempo, dava tanto, ricompensando adeguatamente l’ottimo rendimento sia scolastico che sportivo della sua adorata figliola sia con l’affetto sia coi regali.

  Ma poi era nata Harue, il Progetto Rebuild aveva preso il via, e Noboru non era più stato lo stesso.

  La sete di potere, il desiderio di emergere, o anche solo la semplice voglia di rivalsa possono spingere l’uomo a compiere atti orribili, a tradire i suoi ideali e la sua famiglia, e persino a compiere i gesti più riprovevoli, come usare la propria figlia al posto di una cavia e trasformarla in un essere privo di sentimenti il cui unico scopo è uccidere.

  Ma Kaito sapeva che Yu-Ling, quella vera, quella che aveva conosciuto e, forse, amato, era ancora lì, da qualche parte; il computer che aveva in testa aveva annullato la sua personalità, ma non l’aveva distrutta. Poteva e doveva riuscire a risvegliarla, e forse conosceva anche il modo per poterlo fare.

  «Yu-Ling! So che puoi sentirmi! Ti riporterò indietro! È una promessa!».

  Lei, come al solito, non batté ciglio, e anzi corse contro al suo obiettivo, cercando di colpirlo con un calcio che però venne agilmente parato.

  «Te ne sei scordata, amica mia?» disse Kyuzo, che subito dopo sprigionò uno spostamento d’aria tale da spedire la ragazza a parecchi metri di distanza «Con me lo stesso trucco non funziona due volte».

 

Nello stesso momento Revy e Rock, salita l’ultima rampa di scale, erano finalmente approdati sul tetto, o meglio su una delle tre torri che lo costituivano; oltre a quella centrale in cui si trovavano, la più alta, ce ne erano altre due, dove si trovavano rispettivamente la cupola del planetario e quella in vetro della piscina in cui Revy aveva combattuto contro Mr.Chang.

  La terrazza della torre centrale aveva una superficie di almeno trenta metri per lato, e a giudicare dai materiali da costruzione disseminati qui e là appariva chiaro che erano in programma altri lavori per un ulteriore innalzamento, lavori che con molta probabilità non avrebbero mai avuto luogo.

  In un angolo del tetto, poi, c’era una piattaforma per elicotteri posta leggermente più in alto, e sopra di essa un grosso Mil Mi-26; Steven, accanto al mezzo, faceva dei segni ai due compagni per dire loro di avvicinarsi.

  «Avanti, venite!».

  Loro, velocemente, cercarono di raggiungerlo, ma all’.

  «Dov’è Kaito?»

  «È stato trattenuto, ma arriverà.» rispose Revy

  «Dov’è Hibraim?»

  «Hibraim… è morto.»

  «Morto!?»

  «È stato Samejima, ma credo sia riuscito a farlo fuori.»

  «In tal caso, pace all’anima sua.» disse Two-Hands.

  In quella, dall’interno dell’elicottero giunse il segnale di un allarme; Steven salì a bordo e infilò le cuffie per capire di che si trattava.

  «Merda, tre elicotteri in avvicinamento a ore due!»

  «Che cosa!?» gridò Rock.

  Lui e Revy alzarono gli occhi al cielo nella direzione designata, e dopo pochi secondi dal cielo buio, ma che già cominciava a mostrare i primi chiarori dell’alba, sbucarono le luci abbaglianti di due grossi Black Hawk e un Apache che si avvicinavano sempre di più.

  «E quelli che cazzo vogliono?» domandò Revy.

  La risposta arrivò nel momento in cui uno dei due Black Hawk, fermatosi a una decina di metri più in alto del tetto, spedì verso di loro una sventagliata di mitra, mancando fortunatamente sia loro che i punti sensibili del Mi-26, sotto il quale si erano nascosti; anche Steven ne uscì illeso, grazie alla corazzatura antiproiettile dei finestrini dell’elicottero.

  «Ma che accidenti… quelli ci sparano!».

  Rock avanzò strisciando fino a che non fu in grado di distinguere bene i mezzi in questione, quindi, assieme alla sua partner, usò il portello posteriore del Mi-26 per salire a bordo.

  «Non sono russi.» disse affacciandosi dall’oblò

  «E tu come fai a dirlo?»

  «Hotel Moskow usa come armamenti l’immondizia dell’Unione Sovietica, quelli sono modelli americani.»

  «Ha ragione lui.» rispose Steven «Ho intercettato le loro comunicazioni. Quelli sono cinesi.»

  «Cinesi!?» esclamò Revy «E che diavolo ci fanno qui i cinesi!?»

  «Non sono riuscito a capire bene, ma credo siano qui per i nanorobot.»

  «Ma noi non li abbiamo!»

  «Questo loro lo sanno?» rispose Rock senza smettere di guardare fuori.

  Dopo la prima raffica tutti e tre i mezzi non avevano più sparato un colpo, limitandosi a rimanere sospesi in aria come se stessero ricevendo dei nuovi ordini.

  «Ma perché non tirano un missile e non la fanno finita?»

  «L’hai detto tu, probabilmente pensano che abbiamo i campioni a bordo.» rispose Steven infilando un nuovo caricatore nella sua pistola «Non possono certo permettersi di perderli».

  Revy, Rock e Steven non erano i soli ad essere nei guai.

  Prima di poter gioire appieno della loro ritrovata libertà, Dutch, Eda e Benny si erano visti circondare da una decina di macchine blindate da cui erano scesi una miriade di uomini dai tratti sudamericani che avevano iniziato a sputare su di loro vagonate di proiettili.

  Dutch e Eda si erano nascosti dietro ad un grosso camion da trasporto e cercavano di rispondere al fuoco, Benny invece cercava in tutti i modi di mettere in moto il suddetto camion unendo i fili.

  «Ma si può sapere che diavolo succede!?» tuonò dopo poco il vocione di Dutch, che grazie all’orologio fu udito anche da Revy e gli altri «Ci sono più colombiani quaggiù che a Bogotà nell’ora di punta!»

  «Che cosa!? Anche i Colombiani!?» disse Rock «Ma che sta succedendo!?»

  «A quanto pare» rispose Steven «Cercando di sbarazzarsi dei suoi ex alleati, Balalaika ha voluto fare il passo più lungo della gamba.

  Signori, confermo ufficialmente che siamo coinvolti in una guerra tra mafie.»

  «Quella stronza!» disse Revy aprendo il baule degli armamenti dell’elicottero «Riesce a romperci la palle anche da morta!».

  In quella i due UH 60 da trasporto ripresero ad avanzare, e quando furono proprio sopra il tetto diverse decine di uomini presero a calarsi di sotto servendosi ognuno della propria fune.

  Two-Hands recuperò dalla cassa un lanciarazzi monocolpo e una coppia di AK-103, uno dei quali venne lanciato a Steven, che intanto aveva raggiunto a sua volta il retro dell’elicottero.

  «Allora, pronti per l’ultimo atto?» disse il giovane

  «Si va’ in scena.» rispose Revy sfoderando le sue pupe «Rock, tu resta qui.»

  «D’accordo, fa attenzione».

  Steven aprì di colpo il portello laterale e si mise a sparare senza sosta in direzione dell’apache, attirando la sua attenzione; Revy invece, uscita da dietro, prese a svuotare i suoi caricatori sui cinesi che già erano scesi sul tetto, stendendo per primi i due che sparavano dai portelli aperti con le mitragliatrici pesanti.

  «Revy, ci sei?» disse d’un tratto Dutch

  «Sono un po’ impegnata al momento!»

  «Ascolta, noi ce ne andiamo! Siamo riusciti a mettere in moto un furgone! Cercheremo di farci seguire da questi colombiani!»

  «D’accordo!».

  Dutch e Eda riuscirono a salire poco dopo sul furgone che Benny aveva finalmente messo in moto e partirono a tutta manetta in direzione del porto, nella speranza che la Lagoon fosse ancora dove l’avevano lasciata al loro arrivo a Bangkok.

  Probabilmente i colombiani pensavano che la Lagoon fosse in affari con Hotel Moskow per la conquista dei nanorobot perché subito tutte le macchine sopravvissute alle granate di Dutch si misero immediatamente all’inseguimento dei fuggitivi abbandonando l’albergo.

  Ne nacque un inseguimento senza quartiere che si protrasse per svariati minuti lungo le strade di mezza città, fortunatamente semi-vuote, prive sia della vita notturna ormai prossima alla fine che di quella giornaliera, ancora assopita.

  Una delle macchine inseguitrici, prendendo una curva, sbandò e finì in uno dei numerosi canali che costeggiavano le strade della città, un’altra invece, il cui conducente venne colpito in pieno da un colpi di Dutch, finì di traverso sulla carreggiata, coinvolgendo tutte le altre in un grande incidente che ebbe come risultato un’esplosione tanto grande da poter essere vista anche dalla terrazza dell’Hotel Universe.

  Qui intanto Revy e Steven stavano incontrando una resistenza maggiore di quanto avessero preventivato.

  Ben protette dagli equipaggi degli elicotteri le truppe d’assalto stavano impegnando seriamente tutti e due i combattenti, e più il tempo passava più il rischio di lasciarci la pelle si faceva concreto.

  Il pericolo più grande per la loro sicurezza rimaneva l’apache, perciò ad un certo punto Steven, rintanatosi nel Mi-26, ne uscì con un grosso lanciarazzi.

  «Beccati questo, bastardo!».

  Il pilota dapprima tentò di sparargli, ma nel momento in cui Steven lanciò il razzo nessun proiettile lo aveva colpito; volò quindi in alto nel tentativo di mettersi in salvo, ma non vi fu nulla da fare. Centrato all’elica stabilizzatrice, l’apache dapprima prese a girare vorticosamente su sé stesso, quindi andò a colpire uno dei due UH 60, facendolo cadere a sua volta.

  Entrambi i mezzi andarono a schiantarsi sulla cupola della piscina, e l’esplosione che ne derivò fu così forte da far tremare l’intero albergo, provocando in diversi punti il crollo di colonne o pareti e la caduta di calcinacci.

  L’elicottero superstite, vista la mala parata, tentò di darsi alla fuga ma Revy non se lo lasciò scappare e, sfoderato a sua volta il lanciarazzi, lo colpì in pieno, facendolo precipitare sul tetto di un grattacielo poco lontano.

  I continui crolli fecero sentire i loro effetti anche nel planetario, dove lo scontro fra Kyuzo e Yu-Ling continuava a ritmo incessante.

  A differenza di poco prima, stavolta Kaito sembrava in grado se non altro di opporre una resistenza decisa agli attacchi micidiali della sua avversaria, ma nonostante ciò cercava per quanto possibile di mantenersi sulla difensiva.

  Così come la sua forza fisica e la sua abilità nel combattimento, anche i poteri telepatici di Yu-Ling sembravano decisamente superiori a quelli di Kaito, visto che le bastava inarcare gli occhi per scatenare veri e propri uragani.

  «Yu… Yu-Ling…» disse Kaito rialzandosi dopo aver subito l’ennesimo attacco «Ti prego… ascoltami…».

  Lei però era, come sempre, fredda come il ghiaccio, il suo volto era immobile come quello di una bambola, e nonostante Kaito non sembrasse più intenzionato a proseguire il combattimento lei rimaneva in posizione di guardia, pronta a scattare in qualsiasi momento.

  «Yu-Ling… non costringermi a farti del male… non posso farlo…».

  La ragazza di nuovo non rispose, e anzi partì alla carica; Kaito, incredibilmente, non fece nulla per tentare di difendersi, e il pugno al petto che ricevette lo fece strisciare coi piedi sul pavimento per almeno tre metri; subito dopo Yu-Ling tentò un nuovo assalto, e allora Kyuzo, rialzato lo sguardo, le sparò contro una delle sue bombe d’aria che colpendola la fecero esitare il tempo sufficiente per colpirla allo stomaco e costringerla a indietreggiare.

  «Te l’ho detto. Non voglio combattere con te. Ti prego, Yu-Ling. Tu non sei così. Hai sempre detestato la violenza».

  Forse ciò che diceva Kaito era vero, ma di sicuro non corrispondeva all’attuale situazione, perché Yu-Ling dopo poco, muovendosi a grande velocità, gli fu nuovamente addosso.

  Fra i due si generò un secondo, tremendo scontro fisico, interrotto di tanto in tanto dai piccoli terremoti provocati dal cedimento di alcune strutture dell’albergo.

  Ad un certo punto Kyuzo cercò di assestare alla ragazza un pugno al volto, ma lei, afferratogli il braccio, lo storse lateralmente, quindi colpì il nemico con un calcio, buttandolo a terra, e prima che potesse rialzarsi gli si buttò sopra.

  Alzò la mano, pronta ad infliggere il colpo di grazia; se non che, incrociando in quella gli occhi di Kyuzo, che malgrado tutto rimanevano carichi del loro solito ardore, Yu-Ling di colpo parve esitare, e differentemente da come aveva fatto fino a quel momento seguitò a perdersi in quei riflessi neri.

  «Yu-Ling. Non farlo.

  Dicevi sempre che persino la forza fisica poteva essere usata per fare del bene. Harue è viva, e ha bisogno di te. Io ho bisogno di te».

  La ragazza non si mosse, come paralizzata, poi i suoi occhi sembrarono, lentamente, inumidirsi di alcune lacrime, che alla fine presero a rigare le sue candide guance.

  «Ka… i… to…».

  Era quello che Kyuzo stava aspettando, il segno evidente che la personalità e lo spirito di Yu-Ling c’erano ancora, che non erano andati perduti nel corso della lunga inerzia alla quale era stata costretta; lei era ancora in grado di riprendere il controllo, bastava solo aiutarla, eliminare ciò che la teneva incatenata.

  Senza più esitazioni Kaito chiuse gli occhi afferrò saldamente la ragazza, avvicinandola a sé quel tanto che bastava per far toccare le loro fronti.

  Vi fu una specie di scarica, poi, come d’incanto, fu possibile per il giovane vedere direttamente dentro la sua testa; malgrado avesse gli occhi chiusi, riusciva a distinguere distintamente ogni singola parte del cervello di Yu-Ling, come se fosse stato personalmente dentro di lei.

  “Dove sei? Vieni fuori!”.

  Non c’era molto tempo.

  La personalità di Yu-Ling poteva essere rimessa a tacere in qualunque momento, e con ogni probabilità non sarebbe mai più stata in grado di emergere, offrendo a Kaito l’occasione propizia per poterla salvare.

  Finalmente, dopo interminabili secondi, ecco apparire un minuscolo congegno nero simile ad un chip per computer, installato all’interno della scatola cranica.

  Era lui, non c’erano dubbi. Il computer famoso di cui Samejima aveva parlato, quello in grado di annullare la coscienza dell’individuo per trasformarlo in un mero strumento.

  “Ti ho trovato!”.

  Il resto del lavoro fu facile; bastava solo spingere i nanorobot presenti nel corpo di Yu-Ling a considerare quell’apparecchio come un’entità estranea, e quindi pericolosa, da attaccare e distruggere.

  Nessuno tuttavia poteva sapere se la distruzione del congegno avrebbe avuto ripercussioni sulla ragazza; poteva anche darsi che da esso dipendesse ormai la sua stessa vita, ma Kaito conosceva Yu-Ling abbastanza bene da sapere che mai avrebbe accettato di diventare una mera macchina dispensatrice di morte.

  I nanorobot, ricevuto il comando, immediatamente si diressero sul loro obiettivo, aggredendolo, fagocitandolo e ricavando da esso il nutrimento necessario alla loro sopravvivenza.

  Terminata l’operazione Kyuzo interruppe il contatto telepatico, e nel giro di pochi secondi Yu-Ling, apparentemente svenuta, cadde sopra di lui. Era esausta, spossata, ma viva.

  «Yu-Ling. Yu-Ling, apri gli occhi. Riprenditi».

  Dopo qualche minuto la ragazza riaprì gli occhi; erano tornati ad essere quelli di sempre, gli occhi gentili, innocenti ma determinati della Yu-Ling che Kyuzo aveva sempre conosciuto e, forse, amato.

  «Kaito… sei tu…»

  «Meno male. Stai bene.»

  «Io… sì. Ma cosa è successo? Ho come… un vuoto di memoria.»

  «Abbi pazienza.» rispose lui aiutandola a rialzarsi «Ci sarà tempo per parlare di questo».

  Improvvisamente, pochi piani più sotto, una delle tante cucine disseminate nell’hotel saltò interamente in aria; con la struttura già così destabilizzata l’esplosione fu così forte da mandare in frantumi la cupola del planetario, ed enormi pezzi di cemento armato piovvero sui due ragazzi.

  Yu-Ling gridò per la paura, dimostrando di non avere la benché minima idea del potere che le scorreva nelle vene; Kaito, invece, alzò il braccio, e lentamente i tre blocchi più grandi si fermarono, per poi andare a cadere pochi metri più in là, dove non c’era pericolo.

  «Ma… come hai fatto!?» domandò Yu-Ling piena di stupore

  «Anche di questo si parlerà in seguito. Andiamo ora, prima che crolli tutto!».

  Alzatisi e presisi per mano, Kaito e Yu-Ling guadagnarono a loro volta l’uscita della stanza, salirono le scale e sbucarono sul tetto; l’elicottero di Hotel Moskow, senza più nessuno a dargli fastidio, aveva già acceso i motori, ed era pronto a partire.

  «Venite, da questa parte!» gridò Revy affacciandosi dal portellone «Presto, presto!».

  I due ragazzi li raggiunsero, e Yu-Ling, subito dopo essere salita, cadde in un sonno profondo, dovuto probabilmente ai postumi dello scontro; Rock, invece, scese dal posto accanto al pilota per correre incontro al suo amico.

  «Felice di rivederti, Kaito.»

  «Felice di rivedere te.»

  «Possiamo andarcene anche subito, Kyuzo!» disse Steven «Quel mostro è già morto!»

  «Davvero!? Ne sei sicuro?»

  «Sicurissimo! Ringrazia Hibraim!».

  Invece, in quello stesso istante, il medesimo, terrificante ruggito, mille volte più animalesco e assordante di prima, rimbombò in tutto l’albergo, gettando tutti coloro che ne comprendevano l’origine nel panico più nero.

  «Non ci posso credere, è ancora vivo!» disse Revy «Ma quante vite ha quel bastardo!»

  «Muoviti, Kaito!» disse Steven «Sbrigati a salire, così ce ne andiamo e lo facciamo saltare!».

  Il ragazzo, però, non diede alcun segno di risposta, ed abbassò il capo con espressione sconsolata.

  «E pensare che per un attimo ci avevo sperato.»

  «Kaito, che stai dicendo?» domandò Rock.

  Lui restò un altro po’ con la testa bassa, poi, con uno strano sorriso, mise in mostra il proprio orologio da polso; somigliava molto a quello usato da Revy e dagli altri, ma aveva uno schermo leggermente in basso, sul quale lampeggiava incessantemente un led rosso.

  Steven, vedendo quelle flebile lucina, sentì un colpo al cuore, il suo sguardo parve spegnersi per un istante e la sua espressione si fece di indicibile angoscia.

  «No… no…»

  «Che… che succede?» chiese Okajima vedendo le loro espressioni

  «La bomba nei sotterranei è difettosa.» rispose Kyuzo con un’indifferenza apparentemente sconfinata «E il sistema di detonazione a lunga distanza è fuori uso.»

  «Ma allora… come farai ad attivarla?».

  A Rock Bastò guardare Kyuzo negli occhi per capire quale fosse la risposta alla sua domanda, ed allora comprese il motivo dello sgomento che si era materializzato in meno di un secondo sul viso di Steven.

  «No… Kaito, tu non…».

  Prima che potesse finire la frase, prima che potesse anche solo pensare alle parole per pronunciarla, Kaito lo scaraventò letteralmente dentro l’elicottero, chiudendo immediatamente il portello e attivando la chiusura di sicurezza in modo che Rock non la potesse riaprire.

  «Kaito!» urlò Okajima buttandosi sul finestrino.

  Il ragazzo affondò una mano nella giacca, prendendone fuori i cd ricevuti da Boris e l’unico flacone di nanorobot rimasto in circolazione.

  «Da’ questi a mia sorella!» disse passandoglieli dalla piccola fessura fra il portello e la cima del finestrino «Dalli a mia sorella, capito?»

  «Kaito! Non puoi fare questo! Pensa ad Harue! Devi badare a lei!»

  «Lo farai tu, amico mio.» rispose lui con voce sommessa, quasi completamente oscurata dal rumore dell’elicottero «Quello è compito tuo, ora. Abbi cura di lei».

  Kyuzo si girò quindi verso Revy, che lo osservava dal portello. Si guardarono a lungo, poi il ragazzo posò per l’ultima volta i propri occhi su Yu-Ling, che dormiva profondamente distesa su una branda a rete.

  «Dille… dille che le volevo bene. E che le auguro ogni felicità.»

  «Non sarà necessario.» rispose Two-Hands col suo sorriso provocatorio «Credo che lo sappia già».

  Anche Kaito sorrise un istante, poi però fissò Revy con sguardo ammonitorio.

  «Two-Rands! C’è sempre un’alternativa! Ricordalo!».

  Lei rimase attonita, e per lunghi istanti non le riuscì di proferire parola, ma poi, nuovamente, sorrise.

  «Lo terrò a mente. E non preoccuparti, dirò alla piccola Harue che razza di fratello si ritrovava.»

  «Ti ringrazio… andate ora!».

  Revy chiuse il portello, quindi il Mi-26 cominciò lentamente ad alzarsi mentre Rock, con gli occhi inondati di pianto, sembrava cercare in tutti i modi di tornare giù.

  «Kaito! Kaito! Non puoi farlo! Kaito! Amico mio!»

  «Perdonami, Okajima! Alla fine di tutto, avevi ragione!».

  «No! Non farlo!».

  Kyuzo stette immobile ad osservare l’elicottero che si allontanava, poi, quando fu certo che fosse abbastanza lontano, si strappò l’orologio da polso, sul quale caddero alcune lacrime.

  «E così, siamo giunti alla fine».

  Stava quasi per premere il bottone laterale e mettere fine a tutto, quando un’intera porzione di tetto venne sfondata con incredibile fragore, e Samejima riemerse in tutta la sua spaventosa potenza.

  Come preannunciato la sua figura era ugualmente mutata dall’ultima volta; le tre dita carnose della mano sinistra si erano trasformate in altrettante, affilatissime spade di trenta centimetri ognuna, e i piedi inizialmente umani avevano assunto un aspetto quasi felino, con solo le punte a toccare terra.

  Prima che Kaito potesse compiere il suo dovere il mostro gli lanciò contro uno dei suoi tentacoli, che dopo avergli afferrato una caviglia lo sollevò in aria come fosse una piuma, scaraventandolo poi contro il parapetto del tetto. L’orologio, a causa del tremendo impatto, gli cadde di mano, scivolando sulla pietra liscia fin quasi sul lato opposto.

  “Merda!”.

  Dopo poco la creatura ripartì alla carica, cercando di usare la sua forza erculea per fracassare la testa di Kyuzo, ma il ragazzo riuscì a spostarsi in tempo, così a venire distrutta fu un’intera porzione di parapetto.

  A causa della grossa voragine aperta da Samejima nel fare irruzione il tetto era pericolosamente instabile, e si generavano costantemente delle crepe profonde, ma questo non impedì ai due avversari di battersi furiosamente.

 D’un tratto, quando Kaito cercò di correre per recuperare l’orologio, nuovamente fu afferrato per la caviglia da un tentacolo e lanciato via; sarebbe caduto nella voragine al centro se, per un vero miracolo, non fosse riuscito ad aggrapparsi ad una tubo di metallo sporgente.

  Sotto di lui si apriva un vuoto spaventoso, segno che Samejima doveva aver sfondato uno dopo l’altro i pavimenti di tutti i piani per riuscire ad arrivare fino a lì; le fiamme e il fumo la facevano già da padroni in gran parte della struttura, e ormai non mancava più molto tempo al cedimento definitivo.

  Se l’albergo fosse crollato la bomba avrebbe potuto diventare inutilizzabile, e così facendo Samejima sarebbe sopravvissuto, quindi non c’era un secondo da perdere.

  Il mostro si avvicinò al buco determinato a finire il lavoro, ma prima che i suoi lunghi artigli tranciassero il tubo al quale era aggrappato Kaito, sfruttando unicamente la forza dell’unica mano che stringeva la sua precaria ancora di salvezza, riuscì a compiere un salto fuori dalla voragine di parecchi metri, e mentre era ancora in aria sparò un poderoso spostamento d’aria verso la creatura, determinato a farla cadere nel buco da lei stessa provocato per fargli guadagnare un po’ di tempo.

  Quello fu centrato in pieno, ma il colpo non fu sufficientemente potente da ottenere l’effetto sperato; poi, all’improvviso, emise un ruggito più forte, quasi liberatorio, ed ecco che anche dal suo corpo si sprigionò un uragano di proporzioni colossali.

  Kyuzo venne colpito mentre era ancora in aria, e nuovamente fu scagliato via come non avesse avuto peso; stavolta, però, nulla gli avrebbe impedito di volare oltre il bordo del parapetto.

  “Non posso! Non posso arrendermi ora!”.

  Il giovane cercò di fare appello a tutto il potere di cui disponeva, consapevole del fatto che tanto non ne avrebbe più avuto bisogno, e che quindi valeva la pena di spenderlo fino all’ultima goccia; così divenne in grado di fare ciò che ogni essere umano avrebbe sempre voluto sperimentare di persona, e dopo aver rallentato la sua caduta all’indietro Kaito rimase sospeso nel nulla, come il migliore dei prestigiatori.

  Non c’era niente a trattenerlo, e niente a collegarlo a terra; lui… stava volando.

  L’ultimo traguardo raggiungibile dai nanorobot, o almeno dal modello originario.

  Era certo che se Yu-Ling si fosse impegnata seriamente cose come quella sarebbero risultate per lei ordinaria amministrazione, ma non era quello il momento di pensare a cose simili.

  Il mostro, che a sua volta pareva stupito nel trovarsi davanti ad un simile evento, restò a guardarlo mentre scendeva placidamente verso il basso e tornava ad appoggiare i piedi sul tetto dell’hotel, poi, visibilmente infuriato, gli corse nuovamente addosso, ma prima che potesse colpirlo un uragano poderoso come non mai lo investì, sparandolo via come una palla di cannone.

  Samejima cadde a terra sul torace, e a quel punto Kyuzo, allungato un braccio, sollevò in aria una decina di lunghi pali metallici accantonati da una parte che come tante lance trafissero il mostro in più punti, inchiodandolo al suolo; quello gridò ancora più forte, schiumando e ringhiando come un cane rabbioso.

  Ad un nuovo cenno di Kyuzo, ormai completamente libero da qualsiasi minaccia, l’orologio ancora immobile si sollevò leggermente da terra e finì nella sua mano, poi il ragazzo guardò, con un misto di disprezzo e compatimento, il mostro, che fece altrettanto, digrignando le sue fauci spaventose.

  «Non sarò più il tuo burattino.» disse alzando l’orologio «Questa… è la fine… per entrambi.» quindi, chiusi gli occhi, spinse il pulsante.

  Un secondo dopo, un boato assordante scosse l’intera città, e ad esso fece seguito un’esplosione che fece tremare la terra.

  Il marciapiede tutto intorno all’Hotel Universe fu spazzato via, poi, come un letale effetto domino, uno dopo l’altro tutti i piani dell’edificio esplosero fragorosamente assieme ai loro morti, da Mr.Chang a Buffalo Kid, da Shenhua a Balalaika, trasformando quello che si proponeva di diventare il più lussuoso ed invitante albergo di Bangkok in un grande, immenso braciere che illuminò a giorno la capitale del divertimento nel sud-est asiatico.

  «No, no! Kaito!» urlò Rock vedendo crollare la struttura fra il fuoco e il fumo.

  Tutti piansero, anche Revy, per la prima volta dopo tanti anni.

  «Addio, Kaito.» disse Steven asciugandosi le guance «E grazie».

 

Al sorgere del sole, su indicazione di Two-Hands, il Mi-26 raggiunse una piccola piattaforma oceanica a poca distanza dalla baia cittadina, un tempo usata per il rifornimento delle grandi navi contenier, ma ridotta ormai ad un quadrato di metallo arrugginito perso nel blu senza fine del Golfo di Thailandia.

  Lì, sul bordo, accanto alla Lagoon, attendevano Dutch, Eda e Benny.

  Per lunghissimi minuti tutti rimasero immobili a guardare quella colonna di fumo nero che si sollevava da un punto imprecisato di Bangkok, accompagnata dal suono ininterrotto delle sirene.

  Regnava il silenzio; nessuno aveva voglia di parlare.

  Troppe cose erano cambiate quella notte, troppe vite erano state sacrificate, troppi uomini valorosi avevano dato la loro vita per concedere a chi li avrebbe succeduti una seconda possibilità.

  Steven, rimasto nell’elicottero, cercava in qualche modo di fare forza a Yu-Ling, che prima ancora di apprendere della morte del padre era scoppiata in lacrime quando aveva saputo cosa era successo a Kaito.

  Poco lontano, Revy fumava la prima sigaretta del mattino, mantenendosi però a distanza dai suoi compagni, per evitare forse che si accorgessero delle lacrime che non smettevano di scenderle dal viso.

  Lei era forse la persona che più di tutte aveva avuto la possibilità di trarre gli insegnamenti maggiori dalla terribile serie di eventi che si erano succeduti all’interno di quell’hotel maledetto, da quella casa del dolore mascherata da culla del benessere e del divertimento.

  In quel momento, osservando il sole che a oriente cominciava la sua lenta ascesa, promise a sé stessa di non lasciar cadere nel vuoto le ultime parole che quel supereroe da quattro soldi le aveva affidato.

  Per lei, era giunto il momento di cercare l’alternativa, la sua seconda scelta; non sarebbe stato facile, ma alla fine ci sarebbe riuscita; doveva riuscirci, per rispetto nei confronti di colui che l’aveva salvata, ma soprattutto per sé stessa.

  Rock, Dutch e Benny rimanevano seduti sulla prua della Lagoon, con gli occhi piantati sulla bella Bangkok che si preparava, nonostante tutto, ad un nuovo giorno.

  Okajima aveva smesso di piangere; non era quello il momento del pianto. Gli era stata affidata una missione, un compito importante, e doveva portarlo a termine.

  «Ehi, Rock.» disse ad un certo punto Dutch senza distogliere lo sguardo dalla città «L’altro giorno, prima di venire interrotti, avevi detto di avere una cosa importante da dirci. Di che si tratta?».

  Già. La cosa da dirgli.

  La decisione che aveva preso già da tempo.

  Non era cambiata, tutt’altro, ma ora la vedeva con occhi completamente diversi; se prima la considerava una decisione dettata dalla testa, e senza alcuna certezza per il futuro, ora invece era dettata dal cuore, ed il futuro che essa apriva dinnanzi a lui appariva senza confini.

  «Sì, hai ragione.»

  «E allora?» domandò Benny con uno strano sorriso, come se sapesse già in anticipo di che si trattava «Avanti, fuori la voce.»

  «Io do le dimissioni».

  Quelle quattro parole non sortirono per nulla l’effetto che Rock aveva inizialmente immaginato; neanche Revy, che pure doveva aver sentito, si scompose, ma anzi sembrò quasi sorridere, e altrettanto fecero Benny e Dutch.

  «Dimissioni accettate.» rispose il gigante nero passandogli la sua sigaretta

  «E adesso cosa farai?» chiese Benny.

  Rock guardò i due cd e la capsula di contenimento appoggiati accanto a lui, li prese in mano e sollevò gli occhi al cielo, quel cielo azzurro baciato dal sole che, forse, non avrebbe più rivisto per molto tempo.

  «Innanzitutto, c’è una cosa che devo fare. Una cosa importante. Poi, si vedrà».

  Qualche ora dopo, all’orizzonte, comparve un lussuoso yacht con le insegne delle Industrie Kinomiya dipinte sulla prua; dalla grande imbarcazione si stacco quindi una lancia con a bordo un giovane marinaio che raggiunse in pochi minuti le sponde della piattaforma.

  Steven e Yu-Ling furono i primi a salirvi, poi fu il turno di Okajima.

  Tuttavia, quando vi fu davanti, qualcosa lo trattenne.

  Forse era il ricordo, il ricordo di ciò che quei quattro anni avevano saputo dare alla sua anima; quante esperienze incredibili aveva vissuto, quante genti aveva incontrato. Tutto ciò non lo avrebbe mai abbandonato, ma ora che si preparava a lasciare quel mondo fatto di avventura, rischio e malvagità per tornare a quello che, paradossalmente, costituiva il suo principale nemico sentiva crescere dentro di sé il seme del dubbio.

  Preoccupato, quasi sognante, si volse, incrociando gli sguardi dei suoi quattro compagni, che lo guardavano sorridendo.

  Avrebbe voluto parlare, ma non trovava le parole.

  «Ecco… io…»

  «Abbi cura di te, Rock.» disse Dutch sollevando il pollice

  «E sappi che comunque vada» disse Benny facendo l’occhiolino «Questa porta sarà sempre aperta.»

  «Vi… vi ringrazio».

  Revy gli si avvicinò, lo guardò dritto in volto quindi gli mollò un piccolo schiaffo sulla guancia.

  «Revy, ma cosa…»

  «Guai a te se oserai tornare in questo buco, mi sono spiegata?»

  «Revy…»

  «Tu» disse sorridendo la ragazza «Eri portato per questa vita. Ma non è quella per cui sei nato. Vai, torna al tuo mondo, e fai il possibile per cancellare questo.»

  «Io…»

  «Una volta ti ho detto che non esistono Robin Hood nel tempo in cui viviamo, quel cretino di Benny che dobbiamo tenerci questo mondo così com’è, e Dutch che qualsiasi strada si tenti di percorrere le cose non possono cambiare.

  Beh, dimostra a questi tre idioti che si sbagliavano».

  Nuovamente, Rock si sentì vicino al momento del pianto, poi, senza capire niente di ciò che stava facendo, afferrò Two-Hands, tirandola verso di sé. Lei, malgrado il comprensibile stupore, non si ribellò, né durante né dopo quel bizzarro gesto.

  «Tornerò, Revy. Quando sarà tutto finito, verrò a riprenderti. Verrò a riprendere tutti voi. Costruiremo insieme un mondo migliore.

  Lo dobbiamo a Kaito; lo faremo per lui, e per noi».

  Revy ringraziò che nessuno potesse vederla piangere, e anche mentre la lancia di allontanava con Rokuro Okajima che continuava a salutarli con il braccio alzato tenne gli occhi rivolto a terra; non riusciva a vederlo mentre si allontanava, e avrebbe tanto voluto gridare il suo nome.

 

Nota dell’Autore

Eccoci qua! Eccoci dunque arrivati alla fine dell’ultimo capitolo della fiction più breve che abbia mai scritto.

I capitoli conclusivi, a mio avviso, sono sempre i più difficili da scrivere, perché hai sempre paura di risultare banale o ripetitivo, quindi nessuna pietà nel dirlo se noterete la stessa cosa anche qui.

Ringrazio come al solito i miei recensori, Selly, Beat, Gufo, Lisy, Carlitz e Diaras per i loro commenti.

Domani, o anche stasera, l’epilogo.

A presto!^_^

Carlos Olivera

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Capitolo 14
*** Epilogo ***


EPILOGO

EPILOGO

 

 

Un’altra giornata volgeva al termine, un altro sole cominciava la sua lenta discesa oltre l’orizzonte.

  Dalla finestra della sua stanza, la giovane Harue Kinomiya osservava la grande campagna inglese che dominava incontrastata tutto intorno al prestigioso college St.Mary, nel Devonshire.

  Lontano, oltre le colline colorate del rosso del tramonto, si intravedevano i tetti del villaggio di Erinsworth, in cui alloggiavano molti dei dipendenti del collegio con le loro famiglie.

  Il St.Mary era una delle scuole più conosciute e stimate non solo dell’Inghilterra, ma di tutto il mondo; prima o dopo, le menti più eccelse dei cinque continenti erano transitate per le sue antiche mura, ora per apprendere ora per insegnare.

  I rampolli di buona famiglia, i futuri capi del pianeta Terra, ricevevano lì la migliore istruzione, oltre ad un’educazione di ferro, volta ad esaltare le loro migliori qualità come futuri capi, ma soprattutto come uomini.

  E fra tutti, Harue era certamente la punta di diamante del collegio. Non solo era straordinariamente intelligente, particolarità questa che sembrava accomunare tutti i membri della sua illustre famiglia, ma era anche l’unica erede delle potentissime Industrie Kinomiya.

  Soffriva di sclerosi, questo era vero, ed era costretta su una sedia a rotelle, ma questo non modificava il suo status; poterla annoverare fra i propri studenti era un onore di cui il St.Mary avrebbe potuto gloriarsi per generazioni, ed inoltre già da un po’ di tempo correva la voce che le industrie di famiglia fossero a buon punto per la creazione di un ritrovato portentoso in grado di restituirle una vita normale.

  Impossibile stabilire se tali voci fossero vere o meno.

  Per quanto bella, intelligente e ben accetta da tutti, Harue era una persona sostanzialmente schiva, che molto raramente intavolava discussioni sulla sua malattia o sulla propria vita personale.

  Forse lei era la prima a sapere che quelle erano, per l’appunto, soltanto delle voci, e non volerne parlare poteva essere il modo migliore per far capire che in realtà non c’era nessuna cura miracolosa.

  Tutti, ovviamente, erano a conoscenza della sua difficile situazione famigliare; gli eventi della Seaborn Star erano noti a tutti, ma fin dal giorno del suo arrivo la direttrice del collegio aveva dato ordini più che tassativi di non scivolare mai e poi mai nell’argomento con l’interessata.

  L’ordine, a quanto si era detto, veniva direttamente dal consiglio di amministrazione della società. Si diceva che fosse stato proprio suo fratello maggiore, Kaito Kinomiya, attuale presidente delle industrie omonime, a dare questo ordine, forse per non costringere la sua adorata sorella a rievocare ricordi troppo dolorosi.

  La cosa era però risultata strana ad alcuni, quei pochi che potevano vantarsi di essere riusciti a penetrare il muro di silenzio che la stessa Harue sembrava avere eretto attorno alla vicenda, perché la ragazzina, quando parlava del fratello, si riferiva sempre a lui usando il passato, come se fosse morto.

  D’un tratto, la campana della torre avvertì tutti gli studenti che la cena era in tavola, ma Harue quella sera non aveva molto appetito, e già durante la ricreazione aveva detto che per quella sera sarebbe rimasta in camera a studiare.

  Stava appunto spostandosi verso la scrivania, dove il suo libro di letteratura inglese attendeva di essere sfogliato, quando qualcuno bussò sommessamente alla porta.

  «Avanti.» disse dopo un paio di secondi.

  Era una cameriera, una delle tante che si occupavano della pulizia e delle varie altre mansioni di cui necessitavano la scuola e i vari altri locali.

  «Mi scusi, signorina Harue.» disse in tono molto reverenziale «C’è una persona che chiede di vederla.»

  «Una persona? Chi è?»

  «Dice che è una sorpresa.»

  «Una sorpresa!? D’accordo, lo faccia entrare per favore.»

  «Come desidera».

  Passarono alcuni minuti, poi nuovamente si sentì bussare, e appena Harue diede il permesso di entrare il suo sguardo si caricò di incredula meraviglia.

  Nella stanza era entrato un giovane di bell’aspetto con occhi e capelli neri, sicuramente giapponese, che indossava un elegante abito marrone sopra ad una camicia bianca.

  «Ciao, Harue

  «Ro… RoRokuro…»

  «Ne è passato di tempo, vero?».

  Quando finalmente si rese conto di avere realmente davanti il suo più vecchio e affettuoso amico la ragazzina gli corse subito incontro, e lui, inginocchiatosi, la abbracciò calorosamente, proprio come faceva quando lei era piccola.

  «Rokuro, sei davvero tu.»

  «Mi fa piacere rivederti, Harue

  «Anch’io sono felicissima di rivedere te. È da tantissimo tempo che non ci vediamo.»

  «Da più di quattro anni. Sì, direi che è passato un bel po’ di tempo.»

  «Ma cosa ci fai qui in Inghilterra?»

  «Sono stato inviato qui su ordine del consiglio di amministrazione.»

  «Il consiglio di amministrazione!?»

  «Non te l’ho detto? Adesso lavoro per le Industrie Kinomiya. Mi occupo delle relazioni internazionali.»

  «Dici sul serio!? Ma… quando è successo?»

  «Circa tre mesi fa. Avevo in mente di venire qui subito dopo essere stato assunto, ma prima ho dovuto sistemare un po’ di cose.

  Ad ogni modo, sono venuto per portarti a casa.»

  «Per portarmi a casa?»

  «Ho appena parlato con la direttrice. Se tu sei d’accordo, è stato deciso il tuo trasferimento in una scuola privata di Tokyo.»

  «Cosa, il mio trasferimento?»

  «Naturalmente, se tu vuoi restare qui, sarai libera di farlo.»

  «No di certo. Era da tanto che volevo tornare in Giappone, ma… chi lo ha deciso?»

  «Il tuo nuovo tutore legale.»

  «Il mio nuovo… tutore legale?».

  Di nuovo la porta si aprì, e stavolta ad entrare fu una bellissima donna in abito nero.

  «Yu-Ling!».

  Anche lei, come Rokuro, corse subito a salutare Harue, abbracciandola e dandole degli affettuosi baci sulla guancia.

  «Sei sorpresa, vero?»

  «Davvero tu sei il mio tutore?»

  «Indovinato. E sono anche il nuovo vicepresidente della società.»

  «Il vicepresidente? Che ne è stato del signor Samejima?».

  A quella domanda entrambi gli interlocutori abbassarono lo sguardo, e per una ragazza intelligente come Harue non fu difficile capire cosa fosse accaduto al suo precedente tutore.

  «Capisco. Beh, mi mancherà. Era una così brava persona. Immagino manchi anche a te, Yu-Ling.»

  «Sì, molto.» rispose lei con gli occhi leggermente umidi, un pianto che però fu interrotto sul nascere dalla gioia per tutti di essersi finalmente ritrovati «Avremo modo di parlare con calma una volta tornati a casa.»

  «Prima che mi dimentichi» intervenne Rokuro «Ho qui con me un’altra sorpresa»

  «Un’altra sorpresa?».

  Il giovane mise una mano nella tasca interna della giacca, prendendone fuori dopo poco un tubetto di vetro contenente una strana gelatina blu piena di cristalli iridescenti.

  «Da parte di Kaito, con tutto il suo affetto».

  Harue guardò l’oggetto con occhi carichi di stupore, capendo subito di che cosa si trattava, quindi, presolo in mano, lo strinse forte sul petto, dando libero sfogo a quel pianto che per quattro anni aveva conservato dentro di sé.

 

Due anni dopo

 

Se qualcuno fosse tornato a Roanapur a distanza di due o tre anni molto probabilmente avrebbe stentato a riconoscerla, o magari avrebbe pensato di aver sbagliato strada, ritrovandosi da tutt’altra parte.

  Dopo la morte dei capi delle più importanti organizzazioni criminali della città la situazione era andata lentamente migliorando, e quando le Industrie Kinomiya avevano annunciato la loro intenzione di costruire lì il loro centro di comando per le operazioni nel Sud-Est Asiatico Triadi, mafia russa, cartelli colombiani e immondizia varia avevano fatto i bagagli e se l’erano data a gambe senza troppi complimenti.

  Negli ultimi anni il potere dei Kinomiya era più che triplicato, soprattutto dopo l’annuncio della scoperta di una cura contro la sclerosi che aveva fatto confluire nelle casse dell’azienda fiumi di soldi, e ormai dettavano legge in ogni cosa.

  Pestare loro i piedi voleva dire mettersi contro il mondo intero, dove arrivavano loro gli altri, soprattutto quelli con la coscienza sporca, scappavano senza guardarsi indietro, perché fra le altre cose la loro fama di incorruttibili difensori della giustizia si stava rivelando tutt’altro che una mera invenzione giornalistica.

  A vegliare sulla sicurezza delle industrie e dei suoi capi vi era Avalon; ufficialmente erano una unità di guardie del corpo, ma nella realtà si trattava di mercenari più addestrati della Delta Force, un vero e proprio esercito privato che, secondo alcune dicerie, aveva le mani in pasta in parecchie questioni riguardanti lo stroncamento dei traffici illeciti, la distruzione di regimi tirannici e varie altre cose.

  In molti andavano dicendo che il volto del mondo era destinato a cambiare per sempre grazie all’operato delle Industrie Kinomiya, e più passava il tempo più le fila di coloro che facevano eco alla campagna per la giustizia promossa dai vertici dell’azienda diventava sempre più grande, costringendo anche i presidenti delle nazioni più potenti a pensarci due volte prima di operare una scelta che andasse contro il loro volere o la loro opinione.

  Sfortunatamente per la Lagoon, la comparsa della legge nella città di Roanapur, simboleggiata fra le altre cose dalla scomparsa, un bel giorno, del cappio che penzolava dal ponte principale, aveva rappresentato un vero disastro per la loro attività.

  Da quasi un anno si mantenevano in piedi con affarucci di poco conto, che garantivano a malapena il guadagno necessario a tirare avanti, ma chissà perché nessuno di loro si sentiva dispiaciuto per quanto stava accadendo.

  Una mattina di marzo, Dutch era seduto sul divano del salotto, e guardava la televisione sorseggiando una birra. Accanto a lui Revy, che fumava senza ritegno con le gambe distese sul tavolino e la testa buttata all’indietro.

  «Più ci penso più mi sembra incredibile.» disse Dutch guardando fuori dalla finestra «È bastato che le Industrie Kinomiya pronunciassero il nome Roanapur perché tutti decidessero di punto in bianco di scappare con la coda tra le gambe, e ormai non si trova un mafioso neppure a pagarlo oro.

  Non avrei mai pensato di dirlo, ma persino questa città sta cominciando a sembrare un po’ più civile.»

  «E di che ti meravigli?» rispose Revy persistendo nel guardare il soffitto «Avere a che fare con loro è peggio che mandare a fanculo il presidente degli Stati Uniti.»

  «Forse sarebbe ora che anche noi ci levassimo di torno.» disse Benny dalla propria stanza «Francamente non sono ansioso di incontrare a tu per tu qualcuno degli Avalon.»

  «E dove pensi che potremmo andare?» domandò il nero

  «Ah basta!» disse Two-Hands scattando in piedi «Ne ho fin sopra i capelli di tutta questa inattività! Voglio fare qualcosa, dannazione!» quindi, visibilmente contrariata, andò a chiudersi in camera, accendendo probabilmente a sua volta il televisore.

  Dopo poco iniziò il telegiornale, e manco a dirlo una delle prime notizie riguardava i Kinomiya.

  «Passiamo ora ad un’altra notizia.

  Oggi la signorina Harue Kinomiya, ultima discendente della famiglia e futura erede delle famose Industrie Kinomiya, ha indetto una conferenza stampa per presentare ufficialmente la nomina del nuovo capo della divisione internazionale.

  Il posto, che garantisce anche l’ingresso nel consiglio di amministrazione della società, è stato assegnato al Rokuro Okajima, già vicedirettore dello stesso dipartimento ed ex dipendente delle Industrie Asahi.

  Secondo le disposizioni testamentarie, ancora per i successivi quattro anni alla guida dell’azienda siederà l’attuale vicepresidente, la signorina Yu-Ling Samejima, questo a seguito della prematura scomparsa due anni fa dell’ex presidente Kaito Kinomiya e del suo secondo, Noboru Samejima, a causa di un grave incidente.

  Nella stessa conferenza la signorina Harue ha anche annunciato gli ottimi risultati fino ad oggi conseguiti dalla rivoluzionaria cura contro la sclerosi multipla sviluppata dalla sua società, cura di cui essa stessa ha potuto beneficiare e che le ha permesso di dire addio alla sedia a rotelle.

  Tale cura è valsa fra le altre cose il riconoscimento dell’OMS e il premio nobel per la medicina, consegnato postumo, per i suoi due ideatori, il dottor Alexander Ashford e il dottor Hibraim Alwariki.»

  «Chi l’avrebbe mai detto?» disse Dutch spegnendo il televisore «Il nostro Rock è arrivato in alto. Membro del consiglio di amministrazione.

  Se non sentissi gli effetti della sbronza, penserei di stare sognando».

  In quella Benny si presentò da lui in preda all’euforia con in mano una stampa di computer.

  «Dutch, grandi notizie. Le Industrie Kinomiya si sono messe in contatto con noi!»

  «In contatto con noi!? Per quale motivo? Ci stanno forse dicendo di levarci dalle palle?»

  «No tutt’altro. Ci propongono un’offerta d’ingaggio.»

  «Che cosa!?» gridò il gigante balzando in piedi «Un’offerta d’ingaggio!?»

  «Esattamente. A me offrono un posto nel dipartimento di sviluppo informatico, a te e a Revy invece il reclutamento in Avalon. E con uno stipendio da paura per tutti e tre, aggiungo.»

  «Quel bastardo di Rock.» disse Dutch sistemandosi gli occhiali «Quello che promette fa, anche se ci ha messo un po’.»

  «Dovevi dargli il tempo di arrivare dove è arrivato. Dopotutto, non credo che avremmo potuto farci assumere dalle Industrie Kinomiya, con le nostre attuali credenziali».

  In quella Revy uscì nuovamente dalla sua stanza, lasciando i due uomini con gli occhiali infondo al naso; aveva con sé una grossa valigia e una sorta di zaino da escursionista che traboccavano di roba.

  «Revy, vai a fare un’esplorazione nella giungla?»

  «Non dire cazzate Dutch.»

  «E allora dove stai andando?»

  «Rock è arrivato in alto. E si sa, chi sta in alto finisce per farsi molti nemici.» quindi si girò sghignazzando verso di loro «Gli ci vorrà una guardia del corpo».

  Dutch e Benny per un po’ la guardarono allibiti, poi entrambi sorrisero.

  «Ok ragazzi, facciamo i bagagli.» disse Dutch gettando via la lattina vuota «Si va’ a Tokyo».

 

Nota dell’Autore.

Eccoci dunque alla fine di questa fan fiction nata quasi per caso, giusto per passare il tempo.

Qualcuno potrebbe obiettare che questo sia un finale decisamente troppo happy per un anime/manga come Black Lagoon, ma io trovo che l’originale abbia in sé tanto di quel pessimismo che riservare ai suoi personaggi un lieto fine non sia poi così sbagliato (soprattutto quando i lieto fine sono una rarità persino per me)

Ringrazio tutti quelli che hanno letto e recensito questa fan fiction, e chissà che un giorno non mi venga l’idea per qualche nuova storia sull’universo di Black Lagoon.

Arrivederci a tutti, e grazie!^_^

Carlos Olivera

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