Pendragon's Coffee

di Relie Diadamat
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A Volte Ritornano ***
Capitolo 2: *** Il Passato Che Ritorna ***
Capitolo 3: *** Nero, ristretto e macchiato, il cuore di un barista ***
Capitolo 4: *** L'ultimo caffè della giornata ***
Capitolo 5: *** Regina del suo cuore, re della sua mente ***
Capitolo 6: *** La teoria del caffè ***
Capitolo 7: *** La mezzanotte del Vampiro ***
Capitolo 8: *** Un brivido caldo lungo la schiena ***
Capitolo 9: *** Di champagne, pane e aria (Parte I) ***
Capitolo 10: *** Di champagne, pane e aria (Parte II) ***
Capitolo 11: *** Di champagne, pane e aria (Parte III) ***
Capitolo 12: *** Aromi inaspettati, sapori segreti (Parte I) ***
Capitolo 13: *** Aromi inaspettati, sapori segreti (Parte II) ***
Capitolo 14: *** Giuramenti scritti sulla Vodka ***
Capitolo 15: *** Non si piange sul latte versato ***
Capitolo 16: *** Cambiamenti - La firma del drago (Parte I) ***
Capitolo 17: *** Cambiamenti - La firma del drago (Parte II) ***
Capitolo 18: *** "Era una notte buia e tempestosa..." ***
Capitolo 19: *** “… E mangiarono Amatriciana tutti  infelici e scontenti” (Parte I) ***
Capitolo 20: *** Quando brucia più dell'alcool nella gola ***
Capitolo 21: *** Un sogno d'oro in frantumi (Parte I) ***
Capitolo 22: *** Un sogno d'oro in frantumi (Parte II) ***
Capitolo 23: *** In Vino Veritas (Parte I) ***



Capitolo 1
*** A Volte Ritornano ***


Note d'autrice: rieccomi con una nuovissima storia!!
Prima di tutto... non so proprio come mi sia venuta in mente... comunque eccola qua. Come avrete visto saranno presenti diverse coppie nella storia, giusto perchè la mia testa malata diceva così.
Spero che questa nuova storia possa appassionarvi o quanto meno piacervi.
Questo è solo un mini- prologo, ma spero sia di vostro gradimento.
Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va :)
                                                                                    

                                                                               I. A Volte Ritornano 
 

 
 
Maggio.
La città si era svegliata come si svegliano le tenere passioni degli animi ingenui.
La primavera.
Gli uccelli cantano in modo più dolce, la brezza mattutina ti si posa in faccia con dolcezza…
Sì, Maggio è il mese della dolcezza.
Una sveglia continuava a trillare, da almeno un quarto d’ora, in quel modesto appartamento londinese.
Dei capelli neri erano spiaccicati contro un cuscino immacolato, piegato a comprimere due orecchie a sventola, nel chiaro tentativo di non udire più la sveglia.
Quando quello stupido aggeggio elettronico risuonò per l’ennesima volta, il giovane si decise a staccarla. Si mise a sedere sul letto, tirando un lunghissimo sospiro.
I suoi occhi azzurri, ancora velati di sonno, cercarono di mettere a fuoco la stanza nella penombra mattutina. Sembrava tutto così quieto, così rilassante…
“E’ ora di alzarsi, sono le sette e trentadue minuti. E’ ora di alzarsi…” la seconda sveglia, posizionata sul mobile accanto allo specchio – ovvero dall’altra parte della stanza – iniziò a trillare fastidiosamente.
Merlin ricadde sfinito sul suo letto, sentendo continuamente quella litania nelle orecchie, senza trovare la forza per alzarsi, comportarsi da uomo – come gli aveva sempre detto sua madre – ed andare a spegnere quella maledettissima sveglia.
Era inutile alzarsi, siccome se non si fosse alzato di sua spontanea volontà…
 «Basta poltrire!»
Merlin si sentì sfilare il cuscino dalla nuca, facendo ricadere scomodamente sul materasso – davvero invitante… -
«Arthur ci ammazzerà se non ci presentiamo in tempo, e lo sai che non scherzo!»
Il giovane si rigirò nel suo letto, ricoprendosi con le coperte di lino fino al collo. «Lascia che mi uccida tra cinque minuti…» biascicò, ancora nel sonno.
La voce ebbe un’inflessione di tenerezza: «Dai, esci subito dal letto!»
Il giovane, sentitosi messo alle strette, seppur controvoglia, decise di alzarsi e di rendersi attivo nella società.
«Da quando sei diventato così pelandrone?» stuzzicò la giovane, guardandolo di sottecchi.
Il ragazzo ammiccò un’occhiatina compiaciuta, tirandosela lievemente a sé. «Da quando mi hai fatto perdere il sonno.»
L’avrebbe baciata se la sua ragazza non gli avesse gettato un cuscino sul viso, per poi allontanarsi. «Vestiti!» ridacchiò lei.
«Io inizio ad avviarmi, devo comprare anche il giornale al signor Gaius.» disse, prendendo la sua copia di chiavi, prima di stampargli un bacio veloce sulle labbra. «Ci vediamo più tardi, amore.»
Il giovane corvino si fece bastare quel bacio soffiato sulle labbra, per poi sorriderle educatamente. «Freya…» richiamò il ragazzo, immobilizzando la mora all’istante.
«Non credi di dimenticare qualcosa?» le fece notare, indicando con lo sguardo la borsa dimenticata in un angolo della casa.
«Oh, cielo. Ma dove ho la testa?» corse a prendersela, poggiandosela sulla spalla sinistra, per poi lanciare un bacio al volo al suo ragazzo: «Ciao, amore!»
La porta si richiuse, lasciando il giovane, completamente solo. «Ciao…» soffiò, prima che il suo cellullare vibrasse.
Corrugò la fronte, del tutto estraneo su chi potesse mai cercarlo a quell’ora – se non Arthur – e gli venne un mini- infarto solo leggendo il nome MORGANA.
Lasciò squillare a vuoto, tenendoselo tra le mani.
Quel nome rimaneva fisso sullo schermo, quasi fosse un tatuaggio stampato sulla pelle.
Una fitta allo stomaco si fece sentire; tutto il buon umore si era tragicamente riversato in tristezza cosmica. Al quinto squillo, la ragazza riattaccò.
Si rivestì come se fosse un automa.
Quella chiamata voleva togliersela dalla mente, il prima possibile.
Prese la lametta dal lavabo, dimenticandosi di non essersi spalmato neppure la schiuma da barba.
Morgana.
Nella sua mente aleggiava solo quel nome. Quei cinque squilli.
Cosa voleva adesso da lui? Cosa voleva dopo quei dannatissimi due anni di silenzio?
Lei è fatta così, si convinse. Ritorna solo quando le fa più comodo, quando ormai la parte peggiore è già finita. Sai cosa c’è Morgana? La vita va avanti e la mia adesso è tutta discesa!
Si ferì la pelle, accorgendosi solo in quel momento della mancata attenzione per la schiuma da barba «Merda!» imprecò, ricordandosi di essere pericolosamente in ritardo a lavoro.
Certo, sarebbe stato ridicolo uscire in quello stato di casa, ma sarebbe stato sicuramente peggio sorbirsi una paternale dall’Asino.
Riuscì a vestirsi in meno di dieci minuti, forse utilizzando qualche trucco magico, siccome anch’egli lo reputasse umanamente impossibile.
Frettolosamente prese la sua copia di chiavi ed uscì dall’appartamento… dimenticando il cellulare sul comò, in cucina.
Nel frattempo aveva ripreso a squillare.
Un nome a caratteri cubitali comparve nuovamente, sostituendo la foto di Merlin e Freya che, sorridenti si abbracciavano.
CHIAMATA ARTHUR
 
*
 
«Non dire una parola…»
Arthur lo anticipò, vedendolo arrivare di tutta corsa nel bar. «Trentasette minuti di ritardo, cos’hai da dire in tua discolpa?»
Il corvino valutò quale fosse la scusa più idonea da utilizzare, ma non gliene vennero di migliori: «Sabato erano quarantacinque?» azzardò.
L’altro lo incenerì con uno sguardo intimidatorio. «Sta’ zitto, Merlin!»
Arthur Pendragon, il suo migliore… ehmm, no, nemmeno Merlin sapeva cosa fosse esattamente per lui. Era sicuramente un po’ di tutto.
Era l’unica persona con la quale sentiva di avere un legame di appartenenza. Era qualcosa d’insolito che non capita tutti i giorni.
Fatto stava che, quel tizio aveva deciso di aprire un bar con le proprie forze, tanto per dimostrare al padre che era capace di cavarsela da solo. Da solo, e con l’aiuto di Merlin e Freya.
Da quando l’ultima relazione, quella con la sua ex Ginevra era finita, il giovane biondo si era del tutto isolato dal campo dei sentimenti, ritrovando rifugio nel suo Merlin che, disgraziatamente – almeno così pareva al corvino – si era fidanzato.
Merlin aveva sempre sospettato che, ad Arthur, la presenza di Freya fosse indigesta, ma non si era fatto il problema di contemplare le idee strampalate di quel ventenne suonato.
Arthur sarebbe sempre venuto prima di tutto, era una priorità inscindibile nella sua vita; se vi fosse stata la necessità avrebbe anche chiuso una volta per tutte la sua relazione, ma per il momento non ne vedeva il bisogno.
Che i giusti del suo migliore amico fossero diversi dai suoi era una cosa che avrebbero dovuto accettare entrambi, nel bene e nel male.
Ad ogni modo, quello non sembrava affatto un giorno normale come tutti gli altri…
 
*
 
 «Da oggi ci sarà una novità.» aveva annunciato l’Asino- barman, all’arrivo di Freya.
«Che novità?» chiese incuriosita la ragazza, mentre riceveva uno sguardo denigratorio da Arthur.
«Non saremo i soli a gestire il bar.» continuò Arthur, serrando lievemente la mascella; evidentemente quella non era stata una scelta del tutto condivisa dal biondino. «Mia sorella Morgana ed il suo fidanzato Mordred saranno dei nostri.»
Il cervello del corvino si resettò in un lampo.
Morgana era fidanzata. Morgana stava tornando a Londra. Morgana stava ritornando con Mordred. Morgana sarebbe stata tutta la giornata nel bar, lavorando con lui… e Mordred.
«Qualcosa non va, Merlin?» Freya, preoccupata di una non risposta da parte del suo ragazzo, si era accinta a posargli una mano sulla spalla.
Il giovane si riscosse dai suoi pensieri, posizionando il suo sguardo prima negli occhi indagatori di Arthur, poi in quelli scuri e accoglienti della sua fidanzata. «No, va tutto bene.»
«Sicuro?» insistette la ragazza. «Sei diventato pallido come il marmo.»
Per fortuna, Arthur sembrò correre in suo soccorso: «Il tuo ragazzo è sempre pallido come il marmo, Freya.» la corresse, con un tono che… cadeva nell’infastidito?
Eppure Merlin sembrò non curarsi minimamente di ciò che lo circondava.
La sua mente rimaneva affollata da mille pensieri, il cui perno era sempre e solo lei: Morgana.

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Capitolo 2
*** Il Passato Che Ritorna ***


Note d'autrice: Salve a tutti! Comincio ringraziando tutti coloro che hanno aggiunto la storia nelle seguite e che hanno recensito il primo capitolo. Ringrazio chi mi affiancherà in questa nuova storia e chi, silenziosamente la seguirà passo dopo passo.
Spero di non deludere le aspettative di nessuno.
Detto questo, mi appresto a liquidarmi, augurandovi una buona lettura.
Lasciatemi, se vi va, il vostro parere, farete di me una ragazza felice! :)
 
II. Il Passato Che Ritorna
 
 
C’è sempre, nella vita di ognuno, quel momento in cui ci si interroga sul proprio passato, magari grazie ad una foto, una canzone o magari grazie al silenzio. Sta di fatto che quello diventa il più grande interrogativo o esame interiore che tu possa mai affrontare. L’unica cosa che devi capire è se il passato ti appartiene ancora o se, finalmente, la tua vita è andata avanti.
«Merlin, la ragazza aveva chiesto un caffè non un bicchiere d’acqua!» Arthur lo ammonì, colpendolo con un vassoio dietro al capo quando, il corvino, aveva versato distrattamente dell’acqua invece del caffè in una tazzina.
«So-sono desolato!» ne convenne subito il corvino. «Gliene preparo subito un altro.»
Il suo amico Somaro, si era sporto oltre il bancone, sussurrando alla ragazza: «Di solito è poco meno imbranato di così, sa… la sua ragazza lo riduce in questo stato, poveretto.» finse rammarico il biondo.
«Guarda che ti sento, Arthur!» calcò quell’ultima parola, cercando invano d’imitarlo nei suoi richiami, fallendo miseramente.
Il giovane Pendragon drizzò la schiena, voltando lo sguardo verso l’amico che armeggiava con la macchinetta del caffè, fingendo un’aria teatralmente sconvolta: «Ma era quello l’intento, Merlin!»
La ragazza dai mossi capelli castani che le ricadevano sulla schiena, rise dei loro battibecchi, quasi fossero stati due fidanzatini.
Il corvino le porse la sua tazza di caffè, scuotendo il capo. «Dovrebbero insegnargli l’educazione a quell’Asino!»
«Merlin!» richiamò l’altro offeso. «Guarda che ti sento!» e prima che il giovane potesse dibattere in qualunque modo, aggiunse: «E posso licenziarti!»
Mentre la mora rideva sinceramente divertita, Freya si avvicinò al bancone, porgendo un fogliettino al suo fidanzato. «Due tramezzini e due Coche, amore.»
Arthur roteò gli occhi nell’udir quel nomignolo, mentre Merlin, ormai abituato lo prendeva come il suo vero nome. Dopo tutto quel tempo condiviso insieme, il corvino aveva ormai imparato a riconoscersi con il nome ‘amore’ perché, a quanto pareva, Freya non sapeva chiamarlo diversamente.
Quest’ultima, mentre aspettava che il fidanzato mettesse il tutto nel vassoio, si rivolse ad Arthur con tono pacato: «Quando arriverà tua sorella?» s’interessò.
Le mani di Merlin si bloccarono di colpo.
«A momenti.» rispose rammaricato il biondo, innervosendo al sol pensiero di dover condividere il bar con sua sorella.
Freya ne sorrise felice prima di accorgersi della momentanea rigidità del suo ragazzo. «Merlin, ti senti bene?»
Il corvino ripuntò repentino lo sguardo verso la ragazza. «A momenti.» ripeté semplicemente, dando voce ai suoi pensieri. Accorgendosi imperdonabilmente della gaffe, cercò di rimediare inventandosi una scusa a caso: «Gaius.»
Mentre Freya lo guardava con seria aria interrogativa, al suo fianco Arthur se ne stava con le braccia conserte, osservandolo con una smorfia di scherno. «Parli peggio di un lattante, Merlin.»
«Ho avuto pessimi esempi.» disse a denti stretti, mentre l’Asino indignato iniziò ad adirarsi a quello stupido insulto, ma prima che potesse partire con la sua sfilza di minacce, Merlin lo anticipò, precisando ai due: «Gaius aveva bisogno di me ed io me n’ero completamente dimenticato.» finse, slacciandosi il grembiule.
«Non c’è bisogno che ci vada tu, posso andarci benissimo io.» si offrì gentile la ragazza, ma il corvino la fermò all’istante. «Non posso piantarlo in asso, gliel’avevo promesso. Sai com’è fatto Gaius, è un tipo molto… suscettibile.»
Il biondo, ancora fermo nella sua smorfia, continuava ad osservare la successione delle scene, senza emettere fiato.
«Mi dispiace che ti perderai le presentazioni con i nuovi colleghi…» Freya prese tra le mani il vassoio con l’ordinazione, arricciando le labbra con fare dispiaciuto.
«Niente che già non sappia.» rispose solo Merlin, con uno sguardo e un timbro indecifrabili, per poi baciarla al volo sulle labbra.
«Merlin…» richiamò d’un tratto il biondo con fare innervosito. «Non stai forse dimenticando qualcosa?» domandò, alludendo al permesso per congedarsi da lavoro.
Il corvino inarcò le labbra in un sorriso, aggrottando lievemente la fronte «Baciarti non rientra proprio nelle mie preferenze, Arthur.»
«Io non…» cercò di spiegarsi il biondo, trattenendo a stento la stizza, poi però con immensa sorpresa da parte del corvino si fermò. «Va’, muoviti.» disse secco.
Merlin stentava a capire cosa passasse nella mente di Arthur, per quanto si sforzasse a volte era davvero un tipo indecifrabile. Alzò le spalle, uscendo dal bar.
Per quanto l’ottusità del corvino potesse offuscargli gli occhi, Freya non era così ingenua come il fidanzato ed aveva colto al volo i sentimenti del biondo. Li aveva intesi fin dal primo giorno, fin dal primo insulto velato che il giovane le aveva gentilmente propinato.
Un po’ ci soffriva per quello. Ne soffriva perché amava Merlin e per questo era gelosa di ciò che voleva vedere solo suo, ma dall’altra parte ne soffriva perché s’immedesimava in Arthur. Merlin era un ragazzo ed un amico fantastico, ma alcune volte sapeva fare male, senza neanche accorgersene.
Ritornò con la mente al presente, dove ad attenderla c’era il suo lavoro. Armata di buona pazienza si diresse al tavolo, porgendo ai due ragazzi i loro tramezzini e la loro Coca.
 
*
 
Merlin si allontanò il più possibile dal bar. Era scappato come un codardo e questo lo sapeva bene, ma non sapeva esattamente cos’altro fare.
Si appoggiò contro un muro, volendo solo eliminare ogni possibile pensiero negativo dalla sua mente.
“Cosa sono quelle…” Morgana era quasi spaventata alla vista di quelle siringhe.
“Non è come pensi, Morgana, quella roba non è mia!” ribatté, cercando di farla calmare.
“No!” sbottò lei irata, togliendosi le mani del ragazzo di dosso “Sei un bugiardo! Mio padre aveva ragione, tu… tu… ti odio! Va’ via!”
Merlin lasciò scorrere lo sguardo verso la strada, mentre veloci veicoli sfrecciavano chissà dove, chissà perché.  La vita era così, in continuo movimento, sembrava non fermarsi mai. Non esisteva un solo attimo del giorno e della notte in cui tutto si fermasse. Semplicemente, il mondo è incapace di restare immobile, la mente umana invece, Merlin l’aveva capito a sue spese, sì.
Il passato è passato, continuava a ripetersi, quasi facendosi sostegno da solo.
Morgana sarebbe tornata da Parigi con Mordred. Avrebbe lavorato con lui, ma ciò non significava nulla. Lei se n’era andata, lasciandolo solo e col cuore a pezzi. Se n’era stata in silenzio per due maledettissimi anni, poi improvvisamente sbuca una sua chiamata ed Arthur annuncia il suo rientro a Londra, in dolce compagnia.
Strinse i pugni così forte, da far impallidire le nocche.
Aveva bisogno di distrarsi, pensare non aiutava a nulla ed il silenzio era il miglior conduttore di ricordi, così decise per davvero di far visita al buon vecchio Gaius.
 
 
*
 
«Da quanto tempo conosci Merlin?»
Alcune volte, in casi eccezionali, il bar vantava della totale assenza di clientela e quelli erano davvero momenti noiosi per chi stava dietro ad un bancone, così Freya aveva deciso d’intavolare una conversazione.
«Molto più di te.» le fece notare, per poi addentare nella noia un tramezzino rimasto di scarto. «Praticamente è come se lo conoscessi da sempre.»
 La ragazza colse la vena nostalgica nel suo tono di voce, così lo consolò «Ci tiene molto a te.» sorrise sincera, cercando lo sguardo del biondo. «Anche se non lo ammetterebbe mai, sei la persona più importante della sua vita.»
Gli occhi azzurri del giovane brillarono d’istinto, attraversati da una felicità inaspettata che però cercò di reprimere perché, Arthur Pendragon, non voleva averci niente a che fare con i sentimenti. «Sono la persona più importante della vita di tutti.» affermò spavaldo, fingendo che quella notizia non lo avesse rallegrato.
«Smettila di fingere che non t’importi.» la voce di Freya assunse un tono quasi materno, quello che tutti cercano quando si sentono disperatamente soli e vogliono essere confortati. «Io ti vedo Arthur, e so che soffri quando pensi che non ti dia importanza.»
Il giovane sostenne il suo sguardo e per un certo punto, la mora credette che stesse per cedere, poi però comparì una smorfia di dissenso sul suo volto «Io non soffro mai, Frida
La giovane lasciò che un accenno di sorriso le si disegnasse in volto, vedendo il biondo voltarsi di schiena ed avviarsi verso il cliente che, miracolosamente era entrato nel locale. Arthur l’aveva chiamata in quel modo dalla prima volta che Merlin li aveva presentati e se all’inizio pensava fosse una semplice défaillance, col tempo si era accorta che in realtà era solo un modo per il biondo, di ricordarle che non era la benaccetta.
Aveva sopportato anche quel continuo attacco indiretto da parte di Arthur, tanto in fin dei conti, Merlin era suo.
«Oh… perfetto.» apostrofò negativamente il biondo, guadando verso l’entrata.
La mora aggrottò la fronte con fare incuriosito. «Cosa c’è?»
Il giovane si mosse dal suo posto, serrando lievemente la mascella. «È arrivata la mia amata sorellina.»
 
*
 
«E così… Morgana è di nuovo a Londra.»
Merlin, per quanto cercasse di nascondere i suoi sentimenti, con Gaius falliva miseramente e quindi era costretto a dirgli tutto. Era un anziano che amava la solitudine – come la maggior parte dei vecchi – ma la presenza di Merlin lo rallegrava molto.
Quell’uomo, era per il giovane corvino, la persona più vicina ad un genitore che avesse mai avuto. Si era preso cura di lui dopo che, in seguito all'ennesima discussione con suo zio, era scappato di casa. Gaius gli offrì un lavoro, e col tempo anche un tetto. Con l’avanzare degli anni si era acciaccato come tutti gli ottantenni, ed aveva un costante bisogno d’aiuto. Freya si era gentilmente offerta di fargli compagnia svariate volte del giorno e l’anziano sembrava gradire la sua presenza. “La sua compagnia mi è ben più lieta del biondo ‘Mr. Re del Mondo.” Aveva detto una volta, provocando una risata immediata al giovane.
Merlin sapeva che Arthur, per quanto lo facesse in buona fede, continuava a mantenere una franchezza ed una superiorità non adeguata a tutte le persone con le quali interagiva.
Ad ogni modo, Gaius era a conoscenza di tutto ciò che lo riguardasse e di conseguenza, sapeva di Morgana. Forse quello era l’unico segreto che non condivideva con Arthur, ma gliel’aveva tenuto nascosto per una buona ragione.
Il sostegno dell’anziano invece, si rivelò fondamentale.
«Due anni di silenzio, ha il coraggio di ripresentarsi come se nulla fosse.» si lamentò il corvino, tenendo lo sguardo basso e gli occhi eclissati.
«Morgana… è sempre stata una ragazza particolare.» constatò il quasi ottantenne, prendendo la sua quotidiana nozione di farmaci. «Non dovresti stupirti di questo suo comportamento.»
Il giovane storse il viso indispettito. «Qui non si tratta di carattere, Gaius. Qui si tratta di cuore!»
Il canuto sembrò guardarlo con occhio vigile, scrutandolo per bene: «Merlin, penso che dovresti rallegrarti di ciò che hai invece di spossarti con problemi di vecchia data. In fondo, la vita è andata avanti, vero figliolo?» provocò l’anziano.
«Certo.» fu la risposta biascicata del corvino. «Il passato è solo passato.»
Gaius lo squadrò, inchiodando le sue iridi in quelle azzurre del ragazzo. Sapeva quando mentiva, e sapeva anche riconoscere i veri sentimenti di Merlin, senza che li esprimesse concretamente.
Sospirò, portandosi le mani lungo le cosce .«Bene.» valutò, massaggiandosi i pantaloni scuri. «Direi che la questione è risolta, dunque.»
Il corvino accennò a stento un sorriso, ritrovando con lo sguardo l’orario segnato dal vecchio orologio a pendolo del suo vecchio tutore. Sbarrò gli occhi accorgendosi della tarda ora, ripensando ai mille modi in cui Arthur avrebbe escogitato di ucciderlo l’indomani.
«Si è fatto tardi, è meglio che vada.» si congedò il ragazzo, prendendo il suo giubbotto di pelle tra le mani, per poi riservare un commiato affettuoso all’anziano.
«Va’ figliolo, prima che Mr. Re del mondo ti uccida.» ridacchiò, tossendo un pochino, lasciandogli generosamente, delle lievi pacche sulle spalle.
«Oh, quello è inevitabile.» fu la risposta divertita del giovane, per poi uscire definitivamente dalla casa del vecchio, per avviarsi al bar.
Stava percorrendo il vialetto di ghiaia della piccola villetta dove abitava Gaius, quando il suo cellulare vibrò. Merlin lo prese tra le mani, controllando il display.

1 messaggio da Arthur
Torna a casa, idiota. Faremo i conti domani.


Merlin deglutì a vuoto, azzardando a digitare un messaggio di risposta.

Porterò una calcolatrice funzionante.

Dopo nemmeno due minuti, il cellullare vibrò nuovamente.

1 messaggio da Arthur
Taci, imbecille. E preparati per domani.


Il corvino decise che per il momento era meglio finirla là, così adombrò il display, portandosi il cellulare nella tasca del suo giubbotto.
In fin dei conti gli era andata bene, l’incontro con Morgana era riuscito comunque, miracolosamente, a saltarlo. Non poteva evitare quella donna in eterno, ma più tempo aveva, meglio si sentiva, così tornò a casa sua, felice di potersi godere una serata in santa pace, al fianco della sua Freya.
 
*
 
«Sono a casa.» iniziò a dire, prima ancora di aprire la serratura della porta. Non sentendo risposta continuò ad avvisare la sua compagna della sua presenza: «Mi dispiace per prima Gaius aveva biso…»
Le parole gli morirono in gola quando, chiusa la porta alle sue spalle, aveva sporto lo sguardo verso l’entrata dove, seduta su una sedia, qualcuno a lui familiare se ne stava paziente, in attesa. Aveva i capelli più lunghi di quando l’aveva vista l’ultima volta, più lisci rispetto a due anni addietro.
Il viso era candido esattamente come un tempo e le labbra non avevano perso il loro rossore.
Nessuno dei due fiatò.
Si fissarono a lungo negli occhi, mentre le parole si rifiutavano di uscire dalle labbra. Merlin ebbe l’istinto di soffocarla col solo pensiero ma non lo fece. La vedeva con le labbra leggermente schiuse, mentre l’osservava seduta su quella sedia.
«Come ci sei entrata?» chiese semplicemente, reprimendo la voglia improvvisa di fare qualcosa di avventato.
«Non avevi cambiato la serratura e quindi…»
«Quanto ti fermi?» la interruppe gelido, cercando di controllare la rabbia.
L’altra si alzò, andandogli incontro, quasi ad un passo dal suo viso «Sono tornata per restare.»*


 
** Angolo Autrice**
* La frase è chiaramente presa dal telefilm "I Cesaroni", quando nella terza stagione Eva ritorna da New York incinta e ricontra Marco.
 

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Capitolo 3
*** Nero, ristretto e macchiato, il cuore di un barista ***


NdA: Buona sera a tutti! 
Inizio ringraziando tutti coloro che stanno dando fiducia a questa storia, aggiungendola nelle seguite, preferite o soltanto leggendola. Ringrazio coloro che hanno lasciato per iscritto il loro pensiero, ne sono molto felice. 
Vi lascio al nuovo capitolo, un po' breve , ma intenso.
Buona lettura :)

Nero, ristretto e macchiato, il cuore di un barista

 
 
Merlin se ne stava sdraiato nel suo letto, voltando le spalle alla sua dormiente ragazza, rimanendo con lo sguardo fisso nel vuoto. Il ticchettare dell’orologio era inesorabile e scandiva il suo distorto flusso di pensieri. La distanza tra lui e Freya sembrava essere diventata simile alle distese dell’Atlantico. Merlin sapeva perfettamente che la sua ragazza era sveglia, magari con lo sguardo perso nell’oscurità della notte. Respirava piano per non farglielo capire, lo sguardo fisso in un punto morto.
Il corvino sentiva forte il peso sul suo petto, quello che gli si era creato da quando le aveva mentito quella sera.
“Ciao amore!” Freya era rientrata raggiante dalla porta, qualche minuto dopo che lui avesse cacciata da casa sua l’ospite indesiderata. Stava per dirgli qualcosa, se lo sentiva, ma il suo cervello era ancora paralizzato nella conversazione avuta con la corvina che dalle sue labbra uscì solo un secco e distaccato: “Ciao.”
La ragazza s’incamminò verso l’appendiabiti in legno col viso corrugato. “Sei appena rientrato?” gli chiese, poggiando distrattamente il cappottino al suo posto.
“Sì.” Rispose prontamente, acciuffando dalla dispensa della maionese per condire i tramezzini. “Gaius mi ha tenuto impegnato per tutto il giorno.” Si giustificò.
La giovane sembrò non pensarci su, infatti la vide annuire consenziente col capo, fino ad avvicinarsi a lui e spiluccare un po’ di prosciutto. “Sei stato… solo in quest’arco di tempo?” lo guardò distratta, mesticando a bocca chiusa.
Un sorriso troppo calcato nacque dalle labbra del corvino. “Certo!” cosparse una sola fetta di pane con la maionese, senza neanche aggiungerci il prosciutto, per poi richiuderla con l’altra metà. “Come mai questa domanda?”
L’altra alzò le spalle, sorridendo con un solo angolo della bocca. Poi, appena lo vide allontanarsi, poggiò una mano sul marmo del bancone, chiedendosi perché cavolo avesse visto uscire, un attimo dopo aver parcheggiato la sua auto, Morgana Pendragon dal loro appartamento.
Freya si torturava la mente a quel solo pensiero, lasciando che la notte scorresse senza trascinarla nelle braccia ammaliatori di Morfeo.
Perché mi ha mentito? continuava a chiedersi non trovando risposta.
Mai come in quel momento si sentì così rigida e a disagio nel suo letto, come quella sera. La presenza di Merlin, dall’altro lato del letto, immobile senza alcun accenno di contatto tra loro, sembrava essere diventata un qualcosa di soffocante.
Il corvino, d’altro canto, smise d’incolparsi sulla pessima figura fatta con Freya, mentre la sua mente navigava imperterrita verso la figura di Morgana.
“Sono tornata per restare.” Gli aveva detto, con la stessa semplicità di chi non se ne fosse mai andato, annullando con pochi passi la gran parte della distanza tra i loro corpi.
Era una vicinanza soffocante.
“Il… tuo… ragazzo ti starà aspettando giù.” Ipotizzò trattenendo, l’amarezza o la rabbia o quella qualsiasi emozione alla quale non sapeva dare un nome, a denti stretti.
“Mordred è a Parigi.” Morgana l’aveva incalzato, cercando di farsi di poco più vicina, tentando un contatto con la sua mano. “Mi raggiungerà tra qualche settimana.”
Appena il corvino sentì il tocco della sua mano sulla sue pelle si ritrasse d’istinto, guardandola in volto come un cane bastonato. “Che sei venuta a fare qui?”
“Ho provato a chiamarti.” Precisò lei, leggermente infastidita dal rifiuto dell’altro.
“Voglio sapere il perché.”
Il sonno non riusciva a toccarlo, anche se una forte emicrania si era impossessata della sua testa. Sentiva i pensieri rimbombare come cannoni; bombe a mano che scoppiavano contro le pareti del suo cranio, fino a perforaglielo. La sfacciataggine di Morgana, però, non si allontanava dai suoi occhi.
“Devi andare.” Merlin soffiò a denti stretti quelle parole, aprendo a capo basso la porta; si era accorto che Freya doveva essere nelle vicinanze e l’ultima cosa che voleva era che lo ritrovasse solo in casa… con Morgana.
“Lo sai anche tu che è inutile evitarmi.” Ribadì risoluta, non accennando a muoversi.
Il corvino continuò a guardare un punto morto, sentendo la voce tremargli leggermente “Si è fatto tardi.” Tentò, cercando di congedarla.
Il suo Liu Jo le fece presente che in realtà erano solamente le otto della sera, ma lo ignorò, accogliendo volutamente la proposta del giovane; prese la sua borsa con movimenti lentissimi, puntando i suoi occhi di smeraldo in quelli cristallini dell’altro “Ci vediamo domani, Merlin.”
Il giovane aspettò che la corvina se ne fosse andata, senza emettere una sola parola, richiudendosi la porta alle spalle.
Il soffitto iniziò a colorarsi della giallognola luce mattutina che, lieve, filtrava dalle imposte serrate. Freya ancora non si era alzata; dormiva accovacciata dall’altra parte del letto con i pugni chiusi e la bocca lievemente dischiusa. Merlin non aveva chiuso occhio; sentiva tutto il suo corpo intorpidito e gli occhi incredibilmente pesanti. Tuttavia, sentì la ragazza mugugnare qualcosa nel sonno, per poi muoversi lievemente, strofinando la propria guancia contro il cuscino immacolato.
Si voltò piano verso di lei; gli era ancora di spalle e quella notte non aveva neanche cercato di coccolarla. Si sporse piano, guardandola in volto.
Era così tenera, tanto da scaldargli il cuore. Con la mano le carezzò una guancia, mentre lei prese a fare ciò che gli erano sempre sembrate delle fusa, al cuscino. Sorrise intenerito.
Freya era così dolce… tranquilla. L’aveva aspettata da così tanto tempo; lei era tutto ciò che aveva sempre cercato. Un amore pacifico, senza scannamenti, senza continue liti.
La vide rigirarsi insonnolita mentre piano apriva gli occhi.
«Buon giorno.» le sussurrò dolcemente, sorridendole.
L’altra vide un sorriso sfocato, poi man mano che la sua vista divenne più nitida realizzò di aver accanto a sé il suo Merlin. «Buon giorno.» gli sorrise di riflesso, prima ancora di realizzare che ora fosse.
Il corvino vide la fidanzata sgranare vistosamente gli occhi, mentre repentina si metteva a sedere sul letto. «Che ore sono?!» chiese preoccupata, ricordandosi che il suo caro ragazzo si svegliava sempre tardi.
«Le sette meno dieci.» le rispose il giovane, continuando a guardarla con un sorriso beota in viso.
L’altra si sporse incredula verso la sveglia, costatando infatti la veridicità delle sue parole. Si voltò preoccupata verso il suo fidanzato. «Ti senti bene?»
Gli occhi erano pesanti per il sonno mancato, le ossa se le sentiva intorpidite, quasi avesse fatto dieci ore di palestra filate, ma dinanzi a lui c’era la sua Freya, dolce ed ingenua che si preoccupava per lui, anche per un piccolo dettaglio fuori posto; le labbra rosee si avvicinarono a quelle sottili della mora. «Mai stato meglio.»

*
 
Arthur si rigirava quella tazzina tra le mani, strofinandola con un panno, da un tempo necessario da consumarla. Aveva lo sguardo puntato sulla sua cara sorellina che tanto amorevolmente era arrivata un quarto d’ora prima dell’apertura già dettando legge per una possibile modernizzazione.
«Questo bar non avrà mai notorietà se non vi andranno fatte le opportune modifiche!» sentenziò, guardando in modo giudizioso l’ambiente circostante.
«Giù le zampe dagli sgabelli, vecchia strega!» le ringhiò contro vedendola avventarsi con lo sguardo sugli sgabelli, ancora deposti sui tavoli. «Questo…» ricalcò, indicando a braccia aperte tutto il perimetro del locale, con ancora la tazza ed il panno tra le mani «non è il tuo antro!»
Gli donò generosamente una smorfia. «Neanche tu sei un genio, ma non te lo rinfaccio sempre.»
Il giovane rise stizzito- «Oh, invece lo fai!» precisò, per poi fare mente locale e registrare l’insulto nella sua mente «Ehi!» l’ammonì infastidito.
La vide ghignare maleficamente sotto i baffi mentre iniziava a mettere gli sgabelli al proprio posto. «Merlin è in ritardo.» disse, fingendo un’aria distaccata.
Arthur si decise – per immensa gioia della tazzina – di smettere di strofinarla, ormai inutilmente, col panno e posarla sul bancone. «Come sempre.» aggiunse, cambiando notevolmente il tono di voce.
«Strano.» insistette la sorella, facendo finta che non le interessasse veramente. «Era un tipo così mattiniero…»
«Già.» rispose il fratello, con un pizzico d’amaro nel palato. «Da quando si è fidanzato… è cambiato.»
L’altra smise improvvisamente di smanettare, voltandosi verso il biondo, con fare sorpreso: «Ah, si è fidanzato?» si bloccò sul posto, cercando di portarsi le mani, prima incrociate e poi lungo i fianchi.
Il biondo però, non sembrò curarsene, talmente tanto che era diventato assente in quel momento. La mascella era serrata, i muscoli più tesi, il blu dei suoi occhi meno brillante. «Le cose cambiano.» disse poi, parlando più a se stesso che alla sorella.
E così, Merlin era fidanzato, pensò la corvina e quanto pareva, le cose erano cambiate. Lei era stata presente quando suo fratello aveva iniziato a frequentare quel bizzarro e goffo ragazzo dagli occhi turchesi; ne aveva visto nascere quel forte attaccamento senza nome né ragione. Nessuno sapeva dire cosa effettivamente unisse quei due, ma era qualcosa all’infuori della norma.
Morgana trovò strano che quel sentimento si potesse essere piegato; non lo pensava francamente possibile.
«Non ne sembri molto felice.» azzardò la corvina, guardandolo di sottecchi.
L’altro accigliò lo sguardo, guardandola in modo minaccioso. «Donna!» la canzonò, puntandole un dito contro «Io non ho bisogno di nessuno per essere felice!»
Sorrise sorniona, inarcando le sopracciglia con fare provocatorio. «Certo, Arthur Pendragon.» continuò punzecchiandolo «Com’è vero che questo posto spicca d’eleganza.» constatò contrariata, portandosi le mani sui fianchi ed osservando l’ambiente circostante.
L’altro accigliò lo sguardo, riservandole una smorfia contrariata, finché una voce familiare non li distolse dal loro battibecco «Salve a tutti!»
I due si voltarono verso le porte scorrevoli del bar, dove entrarono una sorridente mora con a seguito un Merlin a capo basso.
«Elegantemente in ritardo.» la burlò il biondo, vedendola avvicinarsi e sfilarsi il cappottino leggero.
«Di dieci minuti!» precisò trionfante il corvino, arrivato alle sue spalle.
«Di ritardo.» rimarcò puntiglioso Arthur, guardandolo male.
Freya rise lievemente, indossando il suo grembiule «Stiamo migliorando.»
Solo in quel momento parvero accorgersi della presenza della corvina che, elegante nel suo tailleur nero, si avvicinava alla mora, con aria di superbia.
«Oh, tu dovresti essere la sorella di Arthur.» Freya porse educatamente la sua mano alla giovane, notando già dal primo impatto come fosse bella, anche con i capelli raccolti in uno chignon arrangiato.
Nell’udir quelle parole il corvino si voltò d’istinto verso le due, osservando attentamente la scena, a denti stretti.
Morgana incurvò gli angoli della bocca, con fare apparentemente amichevole «Tu dovresti essere la ragazza di Merlin.» le strinse cordialmente la mano, lanciando un’occhiata al corvino.
«Sì.» rispose su per giù imbarazzata, con un misto di fierezza.
Arthur voltò distrattamente lo sguardo, prima sulle due donne poi sul corvino, volendo sondare la situazione che si stava creando.
«Beh, dimmi, che università frequenti?» la corvina scrutò a fondo la donna che le era dinanzi, aspettando ansiosamente una risposta, ma l’unica cosa che ottenne fu un capo abbassato con fare impacciato.
«No… io ho abbandonato gli studi.» ammise, con un misto di vergogna e titubanza. Morgana era così impeccabile anche a primo impatto, da mettere a disagio e mai come in quel momento, Freya si sentì in difetto.
L’altra sgranò gli occhi con fare sorpreso «Ma come? Pensavo che la ragazza di Merlin fosse una prima donna.»
Freya diventò paonazza dall’imbarazzo e dall’insulto velato, trovandosi impreparata nel come rispondere.
 «Beh, lo è.» la voce di Merlin interruppe quell’interrogatorio assurdo; il corvino si avvicinò alla sua ragazza stringendola per le spalle con un braccio «Freya è fantastica, qualsiasi cosa faccia.»
Morgana lesse del risentimento e dell’ostilità negli sguardi di ghiaccio che il corvino le riservò, mentre con la mano stringeva la spalla della sua ragazza che, riconoscente nei suoi confronti, gli sorrise intenerita.
“Cosa faresti se io me ne andassi?” lo provocò iniziando a giocherellare con il colletto della sua camicia.
Merlin teneva lo sguardo fisso sulle sue labbra, quasi ne fosse ipnotizzato “Ti riporterei da me.”
Finse un sorriso a quella che parve la coppia più felice di Londra, allontanandosi dalla loro vista, correndo a prendere le ordinazioni di alcuni clienti, seduti nei tavoli all’aperto.
«Simpatica…» constatò ironicamente la mora, una volta che Morgana fu lontana abbastanza da non udire.
«Ti assicuro che così lo è.» Arthur prese voce tra i due, sorridendo beffardo alla reazione della sorella «Stamani più del solito.»
Il corvino rise insieme al suo amico, ricordando per un’instante di tutte le volte che aveva visto fratello e sorella scannarsi, sia verbalmente che fisicamente.
Freya alzò le sopracciglia, accantonando definitivamente il ricordo della corvina dalla sua mente, portandosi le mani sul grembiule. Era decisamente l’ora di darsi da fare.
Si stava dirigendo verso il bancone, seguita dal suo ragazzo, quando ad un certo punto si bloccò, voltandosi nella sua direzione per soffiargli un bacio.
Arthur, intento ad assicurarsi che fosse tutto apposto, si voltò nella loro direzione per intimarli ad iniziare a lavorare, ma le parole gli morirono in gola.
Fastidio. Provò un forte senso di fastidio nel vederli baciarsi, lì. Senza un motivo apparente. Non seppe dirsi il perché, ma qualcosa lo costrinse a serrare la mascella e per un po’ anche un pugno. Tutto ciò che riuscì a fare per catturare l’attenzione dei due fu sbattere il vassoio ricolmo di cornetti al cioccolato nella vetrata del bancone.
I due si scostarono repentini, tornando ognuno al proprio lavoro.
Merlin si accostò al suo Asino, sentendo una strana tensione da parte dell’altro. Niente battutacce, niente insulti velati o espliciti. Arthur sembrava ignorarlo.
In primo luogo non ci fece caso, ma quando appena un secondo dopo vide rientrare Morgana leggendo le ordinazioni al fratello, un brivido gli percorse l’interna spina dorsale.
Morgana avrebbe potuto dire tutto ad Arthur. Avrebbe potuto spiattellare cose non vere, rovinando tutto.
Deglutì a vuoto, notando l’insolita e pacifica collaborazione tra i due consanguinei.
Doveva assolutamente impedire che quella pazza parlasse di quella faccenda con Arthur. Il biondo non avrebbe capito, non gli avrebbe creduto. E il loro rapporto, qualsiasi cosa fosse, sarebbe finito all’istante.

 
**Angolo Autrice**
Visto che la volta scorsa ho accennato un telefilm che tanto adoro e che - ammetto - è stato fonte d'ispirazione per questa storia, vorrei proporvi di vedere un video mio, fatto appunto sulla coppia Marco/Eva. Vedendolo avrete più o meno un'idea sommaria del modello orginario, anche se Pendragon's Coffee, prenderà piege completamente differenti, infatti si avrà il Merthur e una rivelazione shock sul passato di Merlin che poco ha a che fare con la Garbatella romana.
Ad ogni modo, mi farebbe piacere che lo vedeste :)

Video --> https://vimeo.com/102946931

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Capitolo 4
*** L'ultimo caffè della giornata ***


Nda: Salve a tutti! 
Inizio ringranziando tutte le splendide persone che stanno aggiungendo questa storia nelle seguite, nelle ricordate e addirittura nelle preferite (siete davvero delle persone adorabili!)
Ringrazio anche quelle persone che mi lasciano per iscritto il loro pensiero, lo apprezzo davvero molto e quelle persone che solo leggono la storia, rimanendo in silenzio.
Esorto ancora una volta, chiunque stia dall'altra parte, a dirmi cosa ne pensa (sia in positivo che negativo).
Ad ogni modo in questo capitolo avrete:
- Merthur, piccoli accenni da parte di uno dei due;
- La rivelazione shock sul passato di Merlin... per chi non avesse ancora capito un tassello della storia, anche due xD
Vi lascio alla lettura del nuovo capitolo, sperando di non deludere le aspettative di nessuno.
 


L’ultimo caffè della giornata
 

“Il passato può far male,
ma dal passato puoi scappare… o imparare qualcosa.”

- The Leon King
 
 
 



«Non è facile quello che sto per dirti, anzi direi che è decisamente complicato…» Merlin camminò su e giù per un arco di tempo necessario da formare un' enorme fossa sul pavimento.
«Arthur… tu sai che ho avuto un passato difficile…» fece una breve pausa tanto per aspettarsi una risposta – che ovviamente non ricevette – per poi fermare quella sua snervante camminata da un punto all’altro della stanza, puntando un dito in avanti «Ecco vedi, la verità è che ti ho tenuto nascosto qualcosa di molto importante, ma sento di non poter più mentire…»
Serrò le labbra, tenendo lo sguardo fisso in avanti, e le mani poggiate sul bordo immacolato e gelido del lavabo di marmo «Beh, a dire il vero sono costretto a dirti la verità: Morgana rischia di anticiparmi!» si corresse da solo, assumendo un’aria alquanto bizzarra, per poi tornare serio.
Inspirò molta aria, per poi rilasciarla lentamente, prendendo tempo e coraggio necessario per quella rivelazione scottante. Le sue iridi azzurre si puntarono decise verso un punto da lui stesso prestabilito, non battendo mai ciglia «Sono un mago.»
Merlin sospirò affranto, abbassando lo sguardo dallo specchio, sporgendosi con la testa verso il lavabo «Ma chi voglio prendere in giro?» biascicò piano, arrendendosi totalmente ad ogni disperato tentavo per ‘dire-la-verità-ad-Arthur’.
«Non riesco neanche ad essere sincero con uno specchio!» si criticò da solo, lanciando un’occhiataccia alla sua immagine riflessa.
Sospirò per l’ennesima volta in quel giorno, iniziandosi a domandare da quando fosse diventato così disperato da nascondersi nel bagno del bar – in cui, tra parentesi, lavorava – ed esercitarsi in discorsi incompleti e demenziali.
Si passò sconsolato una mano sul viso, massaggiandosi con fare avvilito le palpebre.

“Voglio la verità, Merlin: perché questa roba era nel tuo zaino, perché?!” Morgana lo guardò accigliata, lasciando intravedere un velo di delusione nei suoi occhi allarmati, mentre tra le mani sventolava un sacchetto di plastica, contenente una sostanza erbosa.
Merlin sbarrò gli occhi, rimanendo pietrificato all’istante “N-non è roba mia.” Tentò di evitare lo sguardo della corvina abbassando il proprio, verso un punto indefinito del pavimento.
“Era nel tuo zaino!” gli fece ammenda lei, irritandosi della poca attenzione che le riservava. Il ragazzo continuava a tenere lo sguardo basso, evitando di guardarla negli occhi: Merlin era un pessimo bugiardo.
“Guardami in faccia quando ti parlo!” gli gridò contro, tirandoselo per un braccio verso di lei.

Ritirò repentino la mano dal suo viso, proiettando le sue iridi cristalline nel presente, nel bagno del Pendragon’s Coffee, senza urla né stupefacenti.
Inspirò altra aria, sino a sentirsi i polmoni pieni fino all’orlo, per poi rilasciarla con estrema lentezza, cercando invano di calmare tutta quell’ansia che sentiva nascere nel ventre ed attanagliargli l’interno.
Rivolse un’ultima occhiata alla sua immagine riflessa allo specchio, poi decise di tornare a lavoro.
 
 
 


Merlin era appena uscito dal bagno quando, smaniosa ed ansiosa, Freya ci fece capolinea, poggiandosi sul freddo marmo del lavabo, puntando i suoi occhi scuri nello specchio cristallino.
Da quando era arrivata a Londra, Morgana era diventata un punto fisso nella sua mente: c’era qualcosa che non quadrava, se lo sentiva. Perché quella sera la sorella di Arthur era stata a casa sua, ma soprattutto, perché Merlin le aveva mentito? Perché le sembrava di essersi persa qualcosa?
«Okay Freya, calmati… calmati, calmati.» aprì il rubinetto, voltandolo verso destra, mentre un getto d’acqua gelida s’infranse contro il marmo bianco del lavabo. La giovane lasciò scorrere l’acqua fredda nel palmo delle sue mani, per poi sbattersela in faccia, come ad eliminare ogni brutto pensiero.
Si sentì le ciglia bagnate appesantite, da non renderle facile una buona visione, così staccò della carta igienica e se la passò sul viso per asciugarselo.
«Va tutto bene… va tutto bene.» continuò a ripetersi, mentre sentì la carta spugnarsi nelle sue mani «Merlin ti ama, avete una casa bellissima e la vostra storia va a gonfie vele: non c’è nulla di cui tu ti debba preoccupare, Freya. Nulla.»
Sospirò, chiudendo il rubinetto.
Continuava a ripetersi che andava tutto bene, che non doveva aver timore di nulla, ma qualcosa dentro di lei la spingeva a pensare al contrario: tutto il suo corpo reagiva in maniera scostante dai suoi pensieri. Continuava a ripetersi di calmarsi, ma l’ansia cresceva imperterrita dentro di lei; continuava a convincersi nel non fare una tragedia su tutto, ma la sua mente faceva conti con cifre troppo alte, mandandole in tilt il cervello.
La verità era che sperava in una partenza definitiva della corvina; voleva saperla lontana da lei, lontana dal bar, ma soprattutto lontana da Merlin, il suo ragazzo.
Gettò tutti i residui di carta igienica ch’erano nelle sue mani nel water, ripensando che forse non era molto sano per lei farsi tutte quelle preoccupazioni e ragionamenti contorti.
Doveva essere più sciolta, più rilassata.
«Mi ama e non mi lascerà. Ama me e nessun’altra.»
Convincendosi di ciò – e volenterosa nello smettersi di torturarsi – premette lo scarico, per poi uscire dal bagno.
 
*
 

Merlin tenne sottocchio Arthur per tutto il tempo, sorvegliandolo con la coda dell’occhio mentre, distrattamente, rispondeva alle richieste dei clienti.
Le sue iridi azzurre guardavano di sottecchi dapprima la figura alta e baldanzosa dell’Asino, poi si spostavano ansiose vero quella elegante e pericolosa di Morgana.
La vedeva sorridere diplomatica in segno di cordialità mentre, con quella finezza che sempre, fin dai tempi del liceo l’aveva contraddistinta, si apprestava ad annotare gli ordini. La osservava ridere, dietro le sue ciocche ondulate e corvine, rispondendo a tono alle avances di qualche uomo.
Senza neanche accorgersene, solo per riflesso di vecchi ricordi, gli venne da sorridere, alzando un angolo della bocca.
 
“Ieri sera Gwaine si è presentato a casa mia.” I capelli corvini della giovane riposavano, morbidi e scomposti, sul petto nudo del ragazzo, mentre i suoi occhi di smeraldo lo guardavano in volto, cercando di coglierne una qualunque reazione.
“Uhm…” si limitò a risponderle, distogliendo immediato le iridi glauche dal suo volto candido e sensuale, provocatorio con quelle sue labbra rosse e carnose.
Lei ne sorrise divertita nel notare il drastico cambiamento d’espressione del suo Merlin. Si rigirò a pancia in giù, poggiando il suo mento contro l’addome del corvino “E’ diventato molto più carino di quel che ricordavo, poi le sue mani… beh, nessuno è mai riuscito a toccarmi come faceva lui.”
Il ragazzo sentì il fiato di lei sfiorargli la pelle e, se da una parte ciò lo eccitava, dall’altra, tutto ciò che Morgana diceva, gli faceva rodere le interiora, rendendolo imbronciato e taciturno.
Nel non ricevere risposta la corvina alzò di scatto il mento dal suo petto, accigliando lo sguardo “Allora? Non dici niente?!”
“I-io?!” il giovane boccheggiò interdetto, confuso dall’atteggiamento lunatico della sua ragazza “Sono convinto che Gwaine saprebbe esporti meglio il suo pensiero, magari con le mani…” provocò a sua volta, con la sua solita lingua lunga.
Il viso di Morgana ritornò sereno, rischiarato da un bellissimo sorriso da far girare la testa anche al più critico degli uomini “Mi piaci geloso.” Gli soffiò sulle labbra, sovrapponendo il suo corpo a quello del corvino “E mi piacciono le tue mani…”
Merlin sorrise nel bacio che la ragazza gli stampò sulle labbra, mentre una certa adrenalina iniziò a scorrere nelle vene e in tutto il suo corpo “A me piaci tu.”
“Lo so…” sussurrò tra un bacio e l’altro, per poi lasciare che la passione avesse il sopravvento.
 
 
Perché era sempre così distante?
Perché sorrideva da solo, come un completo beota, mentre la guardava da lontano?
Freya non era cieca e si era accorta del modo in cui, tutta l’attenzione del corvino si concentrasse su quella donna, quasi come se il sole fosse lei e lui la Terra pronto a girarle intorno. Girare intorno a lei ed Arthur, quasi non vi fossero altre persone nella sua vita. Ma lei? Quando ci pensava alla sua ragazza?
«Signorina?»
Freya si scosse dai propri pensieri, tornando con la mente al presente, dove un cliente la stava richiamando da un numero considerevoli di volte da fargli pensare che fosse caduta in trance.
«S-sì. Due cornetti a crema ed una ciambella a cioccolato, tutto chiaro.» sorrise cordiale, riprendendo tra le mani il menù per poi allontanarsi col viso colorato dall’imbarazzo, rimanendo a capo basso.
 
*
 
Arthur ci aveva pensato molto in quei giorni: era da tempo che lui e Merlin non passassero del tempo insieme – escludendo per ovvie ragioni il lavoro -. Gli sembrava quasi un secolo!
Da quando si era fidanzato, Merlin era cambiato… non nel senso che fosse diventato meno idiota o più ritardatario del solito – lì quell’imbecille, non cambiava mai! – ma la loro relazione… o per meglio dire il loro rapporto… o la loro amicizia… insomma, il loro legame – qualsiasi cosa fosse -  si era piegato.
Così, il giovane Pendragon, si era ripromesso di proporre a Merlin un’uscita degna dei bei vecchi tempi, quelli del liceo, quelli che lui stesso definiva noiosi e scialbi per orgoglio.
La verità era che Arthur, quando era al fianco di quel ragazzo con gli occhi cristallini e il sorriso da ebete, si sentiva pienamente se stesso. Si sentiva parte di qualcosa.
In fondo, non doveva mica chiedere il permesso a Frida per uscire con lui? Non ci stava mica provando…
«Dobbiamo parlare!»
Arthur si era appena smosso dalla sua posizione per raggiungere Merlin, ma sua sorella l’aveva anticipato, sbarrandogli la strada.
«Certo, ma adesso dovrei un attim-» il biondo tentò di oltrepassarla, fallendo miserabilmente, mentre Morgana, senza neanche dargli il tempo di finire, lo anticipò ancora «Ora!» precisò categorica.
Il fratello alzò un sopracciglio infastidito: odiava che gli si dicesse quando e cosa fare e, ad onor del vero, sua sorella, quella strega, non si smentiva mai e riusciva sempre ad irritarlo.
«Parli costantemente dalla mattina fin quando non t’addormenti! Cosa c’è di così urgente che tu non abbia già blaterato nel corso della tua giornata?!»
Lo sguardo della corvina si fece serio «Riguarda nostro padre.»
Arthur sbuffò, sentendosi messo alle strette: se Morgana era così seria c’era evidentemente un motivo di fondo, solo, avrebbe voluto quel pizzico di tempo per parlare a Merlin dell’uscita.
Con lo sguardo cercò il profilo del ragazzo, vedendolo indaffarato alla cassa. Scambiava cordialmente qualche parolina con dei ragazzi – suppergiù della loro stessa età – e ciò gli ricordò in qualche modo che, in fin dei conti Merlin era sempre lì, sempre al suo fianco, pronto ad appoggiarlo anche nella più assurda delle situazioni – come ad esempio aprire un bar contando solo sulle proprie forze – senza mai andarsene.
«E riguarda quel fatto.»
Le iridi bluastre del fratello si posarono sul volto serio della corvina, sbarrandosi in modo innaturale.
Teneva ancora tra le mani quel foglio di carta dove aveva scarabocchiato per più volte, durante l’assenza di clienti, mentre ripensava ad un modo per parlare a Merlin dei suoi piani. Lo accartocciò senza neanche volerlo fare apposta, vinto da un’improvvisa ansia.
«Vieni.» Arthur prese Morgana per un braccio, trascinandosela verso l’uscita secondaria del bar, dove nessuno avrebbe potuto udire ciò che si sarebbero detti.
Prima che il biondo spingesse la porta però, Merlin si voltò verso di loro, guardandolo uscire insieme. Il sangue gli si gelò nelle vene. Forse aveva aspettato troppo tempo. Morgana avrebbe detto tutto ad Arthur e lui avrebbe potuto solo dirgli addio.
Abbandonò all’istante il bancone, ricevendo il richiamo di un uomo sulla cinquantina con il gomito poggiato sul marmo ad aspettare il suo caffè.
Merlin non ci badò nemmeno per un secondo: c’era in ballo qualcosa di molto più importante che un semplice caffè. C’era in ballo la sua amicizia con Arthur.

Freya si spostò una ciocca castana dietro l’orecchio sinistro, avanzando verso il bancone per ripetere al suo ragazzo l’ordine appena preso, tenendo nella mano destra il menù plastificato del bar.
Non appena si avvicinò alla cassa però, vide un uomo brizzolato, abbastanza panciuto, vestito con una camicia a mo’ boscaiolo ed un jeans extra large e sbiadito, bofonchiare frasi sconnesse riguardanti la pessima gestione del locale.
«Signore, qual è il problema?» Freya si affrettò nel posizionarsi dietro al bancone posandoci sopra il menù e porre tutta la sua attenzione negli occhi scuri e infuriati dell’uomo.
«Sono in questo bar da almeno quindici minuti d’orologio e ancora non ho avuto il mio caffè!» si lamentò, diventando quasi paonazzo in volto.
Forse, pensò la mora, se ne prendeva fin troppi di caffè.
«Rimedio subito.» la ragazza s’affretto nel girarsi verso le macchinette del caffè «Come lo desidera?» chiese, spostando frettolosamente le varie cialde sul bancone.
«Espresso!»
 
*
 
Merlin li aveva seguiti, tenendosi abbastanza lontano da loro, acquattato contro la parete giallognola della parte esterna del bar, vedendoli parlare quatti, l’uno vicino all’altra, da almeno sei metri di distanza.
Si soffermò maggiormente sull’espressione facciale di Arthur: la mascella era serrata, le mani chiuse in due pugni, gli occhi azzurri puntati sul viso della sorella.
Il corvino deglutì a vuoto, sentendo di essere arrivato troppo tardi.
Morgana gli aveva detto tutto. Arthur non lo avrebbe più visto nello stesso modo. La sua vita era stata rovinata.
Si maledisse mentalmente per non averla fermata quando era ancora in tempo o quanto meno per non aver detto fin dal principio la verità ad Arthur. Ma proprio mentre il corvino iniziò a lanciarsi ogni qualsiasi tipo di maledizioni che conoscesse, vide i due iniziare a camminare nella sua direzione. Repentino, si gettò a peso morto contro la porta dell’uscita secondaria del bar, guadagnandoci solo una pessima figura dal momento che bisognava spingerla dall’interno.
Riscosso da quella gaffe – per sua fortuna vista da nessuno – rientrò nel bar, avvicinandosi con finta noncuranza alla cassa dove, una Freya esasperata, si affrettava a servire una fila considerevole di clienti.
«Ma dov’eri finito?!» gli sussurrò indispettita tra un caffè e l’altro rivolgendogli un’occhiata di dissenso. Prima ancora che potesse parlare però, vide oltre il suo ragazzo Arthur e la sorella rientrare, proprio dove aveva visto ricomparire un attimo prima il corvino.
«Lascia stare.» disse, scuotendo il capo.
Era stanca, stanca di sentire le sue bugie. E, in un certo senso, aveva paura di avere ragione su lui… e Morgana.
Non era cieca, cavolo, poteva vedere il modo in cui la guardava, il modo in cui evitava il suo sguardo. Non era una stupida! Ma a quanto pare, Merlin non era del suo stesso avviso.
«Come procede?» la corvina si avvicinò ai due, notando la fila impressionante di clienti lamentosi.
«Si stava meglio prima.» fu la risposta brusca di Freya che, prima lanciò un’occhiataccia al suo ragazzo e dopo alla donna, alludendo ad una questione totalmente esterna dal lavoro.
«Excusez-moi.» l’altra alzò le mani in segno di resa, roteando gli occhi al soffitto per la suscettibilità della mora, per poi allontanarsi e dirigersi verso i tavoli all’esterno.
Camminò elegantemente verso i tavolini, mentre una ciocca ribelle continuava a caderle dinanzi agli occhi verdi e accesi. Se la riaggiustò più o meno un paio di volte, per poi sorridere malinconica, ad un vecchio ricordo.
 
Merlin le scostò quella ciocca ribelle, quella che puntualmente ogni volta le ricadeva sul viso, mentre silenziosi se ne stavano nascosti dietro i gradini della palestra.
“Sarebbe stupendo poter passare un’intera giornata insieme.” Morgana s’imbronciò di proposito, vedendo il viso metà intenerito e metà dispiaciuto del corvino perdere in minima parte quel sorriso da ebete che aveva, ogni qualvolta vedeva il suo viso.
“Lo è anche nascondersi, sgattaiolare di tutta fretta nei bagni del primo piano o nascondere dietro la schiena le nostre mani intrecciate: tutto con te è stupendo.”
 
Era proprio vero che il tempo cambiava le cose.
Stava per fare marcia indietro, ritornando nel bar, rendendosi utile in altro, quando si sentì afferrata per il polso e strattonata più in là.
«Cosa gli hai detto?!»
La giovane si vide le iridi azzurre e brucianti di Merlin su di sé, ad un passo dal suo volto.
«Le buone maniere non ti si addicono.» Morgana lo ignorò volontariamente, arricciando le labbra con fare indispettito.
«Arthur non deve sapere niente. Il passato è passato e ormai non ha più senso.» insistette il corvino, parlandole a bassa voce per non farsi sentire da orecchie indiscrete, mantenendo tuttavia un timbro di rimprovero.
Morgana rimase in silenzio a guardarlo, il suo viso ad un passo dal proprio, così corrucciato ma allo stesso tempo implorante da ricordarle solo vagamente quel ragazzo del liceo che scriveva i loro nomi sui muri della scuola con un pennarello indelebile.
«Parli di noi… o della Morfina?»
Merlin allentò la presa al braccio della mora, serrando lievemente la mascella, sentendosi colto in fallo.
«Entrambi.»
Vide la corvina serrare automaticamente la mascella e la mano destra, per poi sentirla parlare in un filo di voce, caratterizzato dal suo solito timbro autoritario «Non sa nulla. Non avrebbe più senso.»
Rimasero rigidi in quella posizione per almeno due minuti contati, finché non fu proprio lei a muoversi. Lo guardò negli occhi, incatenando le sue iridi smeraldo in quelle cristalline e limpide del ragazzo, allontanandosi da lui.
 

A volte il passato riesce a lasciare tagli così profondi che, raramente, si risanano e se lo fanno si cicatrizzano, senza rimarginarsi del tutto.
Il passato, nel bene o nel male, influisce sul presente e per Merlin, il suo passato era doccia fredda in pieno dicembre e di accappatoi per coprirsi non ne aveva; gli rimaneva solo l’ultimo caffè della giornata, quello che si prende per rilassarsi, per attutire tutta la stanchezza accumulata durante il giorno, ma che altro non fa, se non farti sentire doppiamente a pezzi.

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Capitolo 5
*** Regina del suo cuore, re della sua mente ***


Nda: Salve a tutti e buona Pasqua! 
Allora questo capitolo sarà abbastanza corposo, avremo:
- Merthur's feels, ma ATTENZIONE con Merthur io non intendo un rapporto passionale tra i due, ma un amore 'silenzioso' da parte di uno dei due, almeno per il momento;
- Altri aspetti del passato di Merlin, appena accennati;
- Tanta sofferenza per Freya xD;
- Scopriremo un lato molto inedito di Morgana...
- I ricordi che più hanno caratterizzato Merlin e la sua storia con la sorella di Arthur.
Ringrazio tutte quelle persone che hanno aggiunto la storia nelle seguite/preferite/ricordate. Un ringraziamento particolare a quelle splendide persone che mi lasciano delle recensioni stupende! Ed infine un grazie anche a tutti quei lettori silenziosi... Come sempre, invito chiunque a darmi il proprio parere (fatemi notare errori, punti nei quali non siete d'accordo, qualsiasi cosa, insomma. Sia nel bene che nel male.)
Detto questo vi lascio alla lettura di questo nuovo capitolo, in cui, solo per questa volta, ci allontaneremo dal tema 'bar' , ma ci torneremo molto presto!
Vi consiglio di leggere il testo con il sottofondo di 'Let her go' dei Passenger, penso dia molto di più.
Buona lettura! :)
 
 




Regina del suo cuore, re della sua mente
 

“Hai sempre la solita sensazione di vuoto nel cuore
Perché l’amore giunge lentamente ma sparisce in fretta.”
-Passenger
 
 
 
Il buio era ricaduto su Londra, anche quella notte.
Era Maggio, ma Freya tremava dal freddo. Si teneva il lenzuolo di lino stretto al corpo, tirandoselo quasi tutto dalla propria parte. Lasciava, senza neanche chiudere le palpebre stanche, che la luce verdastra della radio le si sbattesse sulla fronte, rendendole lo sguardo stanco e assente.
Una strana sensazione le era nata alla bocca dello stomaco, come il più brutto dei presagi.
Dall’altra parte, il letto era ancora vuoto. Merlin ci stava mettendo più tempo del solito a tornare dal bagno. Odorava sempre di menta, ma la sua lingua, nel palato della giovane, in quei giorni, aveva un sapore diverso che tanto stonava con la familiarità del loro amore.
Freya scrutò la stanza nella penombra, illuminata dalla luce del corridoio che si proiettava oltre la porta lasciata semiaperta nella distrazione. Era tutto così immobile… statico. Lo specchio che faceva da ante al grande armadio posto di fronte al letto, era illuminato della luce arancio della lampada, comprata qualche mese addietro da lei stessa, del corridoio. Sorrise incosciente a quel ricordo: era così banale sorridere per un qualcosa di così futile che le venne quasi da lacrimare. Quei giorni le mancavano… quei giorni in cui non vi era nemmeno un ostacolo tra lei e Merlin; quei giorni in cui le pareti di quella casa non le parlavano di nulla, ma rimanevano in silenzio a fare da sfondo alla loro storia d’amore.
Cos’era successo a quei due ragazzi tanto innamorati? Dove era andata a finire la tenerezza di quelle carezze sul divano, mentre fuori pioveva? Cosa ne era stato di due occhi così azzurri e innocenti sul suo corpo nudo che, come la prima volta, la facevano arrossire e ridere in un modo strano, così strano da sembrare dolce anche se fuori luogo.
Dalla finestra, dalle imposte lasciate aperte, sentiva il fresco della notte caderle sul braccio lasciato scoperto. Alzò gli occhi scuri verso il vetro chiuso e trasparente, da cui si potevano osservare le palazzine dirimpetto al proprio appartamento. I lampioni della città illuminavano i muri della case, rendendoli così malinconici col loro arancio che tanto contrastava col nero prepotente e silente della notte, quella volta senza nemmeno una stella nel cielo.
Freya sentì il rumore di una macchina, passare proprio in quel momento sotto il proprio palazzo, con lo stereo accesso ed un rock arrabbiato echeggiare dalla radio. Aveva sempre odiato il rock: odiava le frasi urlate, anche in una canzone. Da piccola, sentiva spesso i propri genitori gridare che se avesse sentito altre grida anche in musica, sarebbe impazzita. Freya amava la musica delicata, quella dolce che la faceva sentire cullata e protetta, quella che Merlin, dilettandosi con una chitarra acustica, era riuscito a dedicarle una serata d’Aprile.
Sobbalzò quasi nel sentire la mano del proprio ragazzo spegnere l’interruttore del bagno. Finalmente, dopo minuti di completa agonia, era uscito. Freya riconobbe i passi delle sue pantofole sulle mattonelle fredde del corridoio. Era quasi impressionante di come fosse riuscita ad imprimersi nella memoria certe sfaccettature di Merlin; cose, che forse nessun altro avrebbe imparato. Quel ragazzo corvino, dagli occhi meravigliosi e così innocenti, era diventato il suo pane quotidiano e privarsene, era diventato impossibile.
Chissà, si chiedeva nel buio, se anche Arthur avesse figurato nella mente certi particolari di Merlin; se ne conoscesse il suono dei passi, se sapesse riconoscere il suo profumo di menta tra altri mille. Chissà, si chiedeva, se riuscisse a scorgere tra la folla quegli occhioni azzurri ed accecanti, più belli persino di un cielo d’Agosto. Chissà…
Freya sentì l’odore di Merlin invaderle le narici. Era così spaventoso… le sembrava di avere quel profumo fin dentro le ossa, attaccato alla pelle, anche quando non c’era.
Era disarmante e rassicurante allo stesso tempo. Che anche Arthur se lo sentisse addosso la notte, sdraiato nel suo letto; magari disteso di lato e lo sguardo perso nel vuoto? Magari, illudendosi di averlo al proprio fianco. Magari…
Il ventenne spinse dolcemente la porta, lasciandola spalancare quanto necessario.
Era notta inoltrata e la sveglia segnava, con la sua luce fastidiosa, le ore 1.20.
Merlin si mosse con familiarità in quella stanza semibuia, illuminata solo dalla luci della città e da quelle della sveglia, posta sul comò adiacente al lato della propria ragazza, sdraiata e rannicchiata sulla sua destra. Arrivò, camminando senza trovare ostacoli sul pavimento, accanto al letto, nel lato vuoto. I capelli di Freya riposavano sul cuscino di lei, scomposti e profumati. Il corvino poggiò il proprio ginocchio sul materasso, salendoci a carponi, tentando di non fare troppo rumore.
La giovane bruna, dall’altro lato del letto, sentì il cuore andare in panico, senza un apparente motivo di fondo. Il semplice sentire il proprio ragazzo così vicino la face andare in panico, come non le era mai successo prima, almeno con Merlin. Chiuse gli occhi, fingendo di dormire, convincendosi, per una qualche motivazione, che sarebbe stato meglio così.
Il corvino si sporse verso la propria ragazza; lei aveva già gli occhi chiusi e probabilmente si era addormentata da parecchio. Restò per un po’ ad osservarla, mentre la luce verdastra della sveglia le colorava il viso ed il braccio lasciato scoperto. Si era addormentata forse aspettandolo, ma questo Merlin non poteva saperlo. A lui cominciava a non piacere quella strana tensione che si stava creando tra loro, quei silenzi soffocanti durante la cena e le mezze parole dette durante il lavoro. Non ricordava nemmeno quando fosse stata l’ultima volta che avevano fatto l’amore.
Sollevò una mano, portandola sulla guancia di lei. Iniziò a carezzargliela dolcemente, mentre ripensava a cosa stesse mai succedendo loro: sapeva che la stava trascurando, era consapevole che la sua mente era impegnata a pensare ad altro, pensare ad altri…
Freya cercò di trattenere la saliva nel palato, tentando di non inghiottirla. Si sarebbe sgamata con le sue stesse mani e proprio non le andava di vedere lo sguardo spento e assente di Merlin ignorare anche quella sua mancanza. In quei giorni se n’era stata zitta durante la cena, di rado lo degnava di qualche parola durante il lavoro, ma lui non sembrava neanche accorgersene. I suoi pensieri sembravano fissi su qualcun altro che non era lei. I suoi occhi erano così concentrati a tenere sotto controllo movenze che non le appartenevano.
Se dapprima Freya si preoccupava del rapporto particolare ed incredibilmente forte che legava Merlin ad Arthur, in quei giorni aveva imparato a temere quello strano che intercorreva tra il suo ragazzo e Morgana. I loro sguardi, che spesso s’incatenavano e si snodavano con tale sintonia, sembravano creati apposta per incontrarsi e separarsi comunicandosi parole silenziose, codici indecifrabili se non da loro stessi.
La sua mente era come impazzita; cominciavano, a frullarle nel cervello, storie senza logica, momenti d’intimità tra i due corvini. Che fossero stati insieme? Che avessero condiviso qualcosa d’importante, magari per la prima volta?
Freya stava impazzendo. Impazzendo di paranoia, ansia, di gelosia.
E se anche Morgana avesse sentito, durante la notte, l’odore di Merlin sulla sua pelle? E se lo avesse cullato, tenendoselo stretto al petto, mentre i loro corpi nudi e sudati si univano?
Aveva paura. Paura di quello che non sapeva, paura del passato di Merlin.
Il giovane fermò il dorso della sua mano sulla guancia liscia e rosea della propria ragazza. Rimase a guardarla mentre se ne stava immobile, con gli occhi chiusi, cullata dal leggero vento della sera. Fissò le sue iridi azzurre sulle labbra serrate di lei. Rosee e sottili, se ne stavano le une contro le altre, serrate.
Merlin si sporse leggermente verso di lei, quel tanto da sfiorarle la guancia con le labbra, poi si fermò. Voleva baciarla, almeno quello era il suo primo intento, ma non si mosse. Si allontanò piano da lei, sorridendo debolmente, per poi carezzarle per l’ultima volta il braccio scoperto.
Freya aprì gli occhi, coscienziosa di non aver più lo sguardo di Merlin su di sé. Il cuore in petto le palpitava in modo strano, mentre in parte, tutti i suoi timori aumentavano. Non l’aveva baciata. Il suo fidanzato si era ritratto ed ora si alzava nuovamente dal materasso, allontanandosi dal loro letto e da lei.
Si convinse che chiudere gli occhi sarebbe stata la scelta più opportuna e così fece: abbassò le palpebre stanche, sentendosi improvvisamente gli occhi acquosi. Nel silenzio si portò il lenzuolo tra i denti, mordendolo, dando libero sfogo a quel tormento interiore che le attanagliava lo stomaco.
 
 
 
Merlin arrivò nel soggiorno, muovendo le proprie gambe come un automa, senza neanche rendersene conto. Fu automatico per lui guardarsi intorno per cercare qualcosa di nascosto tra i libri, disposti con cura sugli scaffali. Camminò piano, nel silenzio assordante della notte, scandito solo dalle lancette di un orologio appeso al muro.
Accanto alla finestra quadrata, così piccola da sembrare una tivù al plasma, c’era il divano beige che tanto era piaciuto a Freya, quello sul quale la coccolava durante le giornate piovose di Febbraio, fingendo entrambi di seguire con lo sguardo le scene trasmesse sullo schermo di un televisore, mentre le mani osavano avventurarsi sotto i vestiti, carezzando parti del corpo tanto bramate.
Dalla finestra si poteva osservare Londra di notte: così silenziosa e misteriosa, da poterci scrivere un libro solo per quelle ore scure, o magari disegnarci un quadro, dipingendo quell’armonia malinconica della notte, quella del 13 Maggio, senza stelle nel cielo e con una luna timida e pallida divisa in uno spicchio.
Al centro della piccola stanza c’era un tappeto. Era molto vivace, nonostante fosse colorato d’un improbabile grigio cenere, con sfumature di nero. Nel mezzo vi era una scritta di una spiaggia tipica del Regno Unito, mentre nei lati si ergeva maestoso il Big Ben; nei bordi, all’estremità, prendeva vita lo stampo di un bus londinese, rigorosamente rosso.
Il corvino calpestò con le sue ciabatte la bandiera di Londra, stampata sul tappeto, avvicinandosi allo scaffale in legno disposto contro la parete pallida, nel lato destro della stanza.
Mimetizzato, tra un volume di Jane Austen ed un romanzo di Charles Dickens, un vecchio libro di fisica riposava indisturbato sugli scaffali, riempiendosi di polvere. La mano gentile ed affusolata di Merlin lo afferrò, portandolo via da quei ripiani.
Un mezzo sorriso incurvò le labbra rosee del giovane, mentre col palmo destro, gentilmente, carezzava la copertina del suo libro. Quanti ricordi… quante ne aveva passate quel semplice – e talvolta anche odioso – libro di fisica…
Il ventenne si mise composto sul divano, con lo sguardo soggiogato dal libro e la schiena contro i cuscini imbottiti.
Il sorriso malinconico sul volto di Merlin permaneva, mentre già pregustava il sapore di vecchi ricordi. Ricordi così lontani seppur non di molto; ricordi di tempi andati e mai più tornati…
Sfogliò piano le pagine di quel libro, sottolineate malamente con una matita e talvolta con un evidenziatore giallo, mentre alcune frasi in grassetto risaltavano sui fogli bianchi. Formule e grafici occupavano gran parte di quel libro, e bastarono per riaccendere nella mente del giovane vecchi ricordi.
Arrivato a pagina 59, smise immediato di sfogliare il libro, trattenendo l’angolo della pagina tra il pollice e l’indice. Accanto agli esercizi, nel riquadro cobalto, c’erano delle scritte in matita; sorrise, rifigurandosi nella mente vecchi episodi. Gli sembrò quasi di rivivere quelle scene in quel momento… Le scritte erano le seguenti:

Allora oggi partitina con Lancelot, e chi perde offre una birra a tutti.’

‘Oggi non posso, devo dare una mano a Gaius in studio, e poi la birra non mi piace.’

‘Merlin, sei più pesante della Campbell!’

‘E tu, Arthur, sei più As-‘

Il battibecco si fermava lì, in quell’Asino scritto a metà siccome la Campbell – maledetta arpia – ebbe il lampo di genio d’interrogarli come punizione per il loro continuo ‘essere-distratti-durante-la-lezione’.
Merlin sentì le labbra incurvarsi d’istinto, guidate dal ricordo di quel giorno. Sorrise anche al quattro, scritto in rosso sul registro e sottolineato più e più volte dalla Campbell, preso in fisica: il corvino tentava di suggerire a quel Babbeo Biondo, con lo sguardo perso manco fosse un pesce fuor d’acqua, tutte le risposte alle domande insidiose della professoressa. (La Campbell, dannata donna di mezz’età, riversava tutte le sue frustrazioni della menopausa sui suoi poveri alunni).
Così, mentre Merlin suggeriva in labiale le risposte corrette ad Arthur, lui non ci capiva nulla, e finiva per dare risposte incoerenti e molto confuse. L’Asino Biondo* però, non si perdeva d’animo e cercava comunque di far valere le proprie assurdità: Arthur finiva così per alzarsi dalla sedia posta accanto alla cattedra e mettere in atto un monologo alquanto sconclusionato su forze e ‘la teoria della pera di Isaac Newton’.
Rise lievemente ricordandosi la faccia oltraggiata della Campbell – nominata da Arthur stesso con l’appellativo di ‘Strega Isterica’ – mentre l’Asino continuava ad esporre fiero e caparbio il suo discorso, quasi non se lo stesse inventando e fosse realmente convinto di ciò che diceva…

“Senti Pendragon, io ti metto quattro, ma per favore smettila di ciarlare assurdità!” La Campbell si sistemò smaniosa i suoi occhiali – stile Harry Potter – alzando una mano verso il biondo, tentando di zittirlo.
“Ma… non ho ancora finito! Le devo ancora spiegare le teorie di Comernico!”
Merlin si schiaffò una mano sulla faccia, vergognandosi lui stesso dell’ignoranza cronica dell’amico: come aveva potuto scambiare una ‘p’ per una ‘m’ ?!
“Giuro Pendragon, che se solo ti azzardi a dire un’altra parola ti boccio!”
Arthur le dedicò una smorfia ricolma di snobismo che sembrava tanto dire “sono un povero genio incompreso”, poi spintonò il povero Merlin, trascinandolo a posto, sussurrandogli un “Sei un idiota, mi hai suggerito un sacco di stronzate!”


Ed ancora ne rideva il corvino, immerso nel ricordo di quei tempi andati, i tempi in cui il suo legame con Arthur si stava consolidando. Era insopportabile, borioso ed egocentrico. Merlin odiava giocare a calcetto con lui: s’inventava falli inesistenti, pretendendo anche di aver ragione. E così, finivano sempre per litigare.
Solo negli spogliatoi, quando si toglievano le loro maglie aderenti alla pelle sudata, Arthur si sedeva sulla panca in legno accanto a lui e, nel togliersi le scarpette nere da calcio gli rivolgeva la parola senza degnarlo di uno sguardo, facendo finta di essere indaffarato nello spogliarsi, slegandosi i lacci nel modo più lento possibile al mondo.

“Era un bel tiro. Se in porta non ci fosse stato Gwaine, sarebbe stato goal.”
“Davvero?” Merlin voltò lo sguardo, dai suoi calzini maleodoranti e zuppi, al volto sudato del biondo ancora chino, ad osservarsi le scarpette, sciolte già da molto.
“Non dire assurdità!” lo burlò, fissando –finalmente – i suoi magnifici occhi bluastri, dalle venature d’Atlantico, in quelli azzurri come il cielo d’Inverno di Merlin. “Spero tu sia pronto per pagarci la nostra Heineken.” Disse ancora, con quell’espressione che tanto lo caratterizzava, quella con un angolo della bocca all’insù ed un sopracciglio inarcato.
 
Era impressionante di come alcune immagini fossero stampate così nitide nella mente del giovane, di come ricordasse alla perfezione alcuni momenti passati con Arthur. Non che non godesse di buona memoria, anzi, forse ne aveva anche fin troppa… Ma ogni cosa che riguardava Arthur era diversa della altre. Tutto era sempre stato diverso con lui al suo fianco. Avevano passato tante di quelle giornate insieme, trascorso così tanto tempo l’uno con l’altro che quasi gli sembrava impossibile vivere senza di lui: ormai Arthur faceva parte della sua quotidianità ed era impossibile farne a meno. Merlin si rese conto che, era riuscito a sopravvivere alla morte dei propri genitori, si era ripreso dalla rottura della sua storia con Morgana, forse sarebbe anche riuscito ad affrontare il futuro senza Freya al suo fianco, un giorno si sarebbe abituato addirittura all’assenza di Gaius, ma senza Arthur… proprio non riusciva a vedersi. Anche se, forse Merlin non l’avrebbe mai ammesso in pubblico, il biondo era sempre stato un suo punto di riferimento, lo stipite della porta sotto il quale sostare quando tutto intorno tremava. Ed era proprio per quella ragione che Arthur aveva la precedenza su tutti e su tutto. Ed era proprio per questo motivo che il corvino aveva paura che lui sapesse del proprio passato: Merlin non poteva accettare il fatto che Arthur sapesse della morfina, delle botte prese dal clan di suo zio a notte inoltrata, proprio mentre tutta Londra dormiva beata. Non poteva accettare che Arthur sapesse la verità sui lividi che talvolta gli vedeva in volto, sugli zigomi o delle vistose spaccature sulle labbra.
Arthur non l’avrebbe più visto sotto la stessa luce, molto probabilmente il loro rapporto si sarebbe spezzato e quella era l’ultima cosa che Merlin volesse veder accadere.
Si ritrovò a sorridere come un cretino a quella pagina scarabocchiata di fisica, nel silenzio e nella solitudine voluta in una notte senza stelle, di primavera.
Proprio ora che ci ripensava, era da moltissimo tempo che lui ed Arthur non facevano un’uscita come ai vecchi tempi; era da molto che l’Asino non lo costringeva a bere una Heineken sotto minaccia.
 Sfogliò velocemente il resto del libro, ritrovandosi alla pagina finale, lì si bloccò di nuovo. Il cuore fece una strana capriola nel suo petto, mentre il tempo sembrò rallentare di colpo.


 
‘ Sei un bugiardo e baci malissimo.
                                                   M.’

Gli occhi glauchi di Merlin sembrarono morire su quelle parole, scritte con l’inchiostro indelebile di un Uniposca nero. Sembrarono quasi perdersi nelle linee decise ed eleganti della calligrafia di Morgana. Quella donna, gli era sempre sembrata perfetta in tutto: amava il suo profumo, il modo in cui si portava il tappetto blu della sua Staedtler alla bocca, mangiucchiandoselo fino a renderlo antiestetico. Adorava il broncio che gli metteva quando litigavano, anche se avrebbe giurato che in quei momenti la ritenesse insopportabile. Era attratto da lei come ad una calamita, così come era del tutto assuefatto dal timbro della sua voce. Amava sentirla parlare, a volte lasciava che si arrabbiasse apposta, così, tanto per sentirla parlare per ore ed ore, per poi chiuderle la bocca come piaceva a loro: baciandosi senza lasciarsi più fiato; poi ovviamente lei lo spintonava via e continuava a tenergli il muso.
La dolcezza rude di quella ragazza pallida e corvina era diventata, per un arco di tempo nella vita del ventenne, l’unica che gli riparasse davvero il cuore. L’unica che ritenesse di meritare.
Anche con Morgana però era tutto complicato: la loro era una relazione lasciata all’ombra, una di quelle che non può scottarsi alla luce del sole. Lui aveva imparato ad amarla in silenzio ed in silenzio, aveva imparato ad amare. Ricordava bene la loro prima volta: era Dicembre e mai come in quel giorno Londra era stata più fredda. C’era chi parlava dei ‘Giorni della Merla’, c’era chi parlava della neve troppo gelida che avrebbe bloccato le strade londinesi. Merlin sentì solo il calore del corpo nudo di Morgana compatto al suo. Sentiva solo il tremare delle sue labbra e forse anche delle sue gambe. Dapprima fu dolce, esattamente come innamorarsi, poi divenne passione, proprio come l’amore e lo struggimento.
Come si era innamorato di lei? S’era innamorato dei suoi occhi… verdi, lucenti, vivi. S’era innamorato del modo in cui i suoi stessi occhi azzurri brillavano quando incontravano quelli smeraldo della giovane. S’era innamorato nelle ore di ginnastica, quando con la scusa di andare in bagno sgattaiolava su per le scale, fino ad arrivare quatto e silenzioso vicino alla porta della 5a b. Il professore di matematica lasciava sempre la porta aperta, così Merlin cercava di sbirciarci all’interno per vederla. Il più delle volte era distratta: Morgana odiava la matematica ed in quei momenti di noia si portava le mani fra i capelli arricciandoseli, tenendo quasi il broncio.
S’era innamorato tenendo tra le mani la sua chitarra acustica, quella che suo padre gli aveva regalato qualche mese prima di morire. Sfiorava con le dita le corde tese, immaginandosi il viso quasi angelico di quella ragazza che tanto gli sembrava irraggiungibile.
S’era innamorato dei suoi sorrisi ammaliatori dietro il reticolato di un campetto, quando standosene in piedi, aspettava il suo campione Gwaine. S’era innamorato, nonostante lei baciasse un altro, nonostante chissà quante notti avesse condiviso con lui.
S’era innamorato tanto da non dirglielo, tanto da non farla entrare nel suo mondo, quello in cui avrebbe sofferto. Merlin avrebbe preferito saperla felice tra le braccia di un altro che triste al suo fianco. Avrebbe preferito tenerla lontana dalla sua famiglia, dalla droga e dalle pistole. L’avrebbe preferito, ma egoisticamente l’aveva amata fin dall’inizio.
Per un attimo, uno soltanto, Merlin si chiese come sarebbe andata se Morgana non fosse partita per Parigi prendendo quell’aereo. Se non l’avesse abbandonato in quel modo, se solo gli avrebbe creduto. Se non gli avesse chiuso la portiera della sua auto in faccia, mentre piangeva inginocchiandosi e chiedendole perdono. Chissà come sarebbe andata…
 

*
 

Qualche ora prima…


«Mi hanno detto che Parigi nutre di un’ottima reputazione, soprattutto nei giornali. Il tuo ritorno mi è inaspettato quanto incompreso.»
Uther si versò da bere nel suo borgogna riempendolo meno della metà, così come il bon-ton richiedeva. Seduto a capotavola, osservava di sottecchi il suo figlio minore, prestando invece maggior attenzione alla sua primogenita.
Morgana tenne lo sguardo basso nel proprio piatto, tagliando col coltello un pezzo di roast beef infilzandolo con la forchetta, per poi portarselo alla bocca in piccole quantità. Alzò lo sguardo verso il padre, masticando a bocca chiusa, per poi parlare solo una volta aver ingurgitato il boccone «Parigi non ha più nulla da offrirmi. Londra in quest’ultimo periodo si presenta più stimolante e sicuramente molto più interessante.»
«Dipende da ciò che si cerca.» Il brizzolato alzò le sopracciglia, portandosi alla bocca un pezzo di carne, per poi masticarla con noncuranza.
La giovane sentì la collana di perle bianche pizzicarle lievemente sul collo: sapeva perfettamente dove suo padre voleva andare a parare, e non era un buon segno. Uther sapeva tutto, sapeva della sua storia con Merlin; era stato proprio lui a metterla in guardia sulla tossicodipendenza del ragazzo, e sempre lui a spingerla ad andare a Parigi.
«Penso che solo Londra possa darmi ciò che cerco. Ed io sto cercando stabilità.»
Il silenzio regnò nella stanza per qualche secondo e Morgana credette di aver avuto la meglio. Lanciò un’occhiata dall’altra parte della tavola, dove Arthur, con gli occhi fissi nel suo piatto consumava la sua cena. Suo fratello era del tutto estraneo delle allusioni a cui miravano lei e suo padre: Arthur non sapeva niente della sua storia con Merlin, quindi la sua ansia repressa in silenzio era dovuto ad altro.
«E, anche Mordred la pensa come te? Anche lui crede di trovare stabilità qui?» Uther puntò i suoi occhi scuri sul volto candido della figlia, sporcato solo dal mascara sulle ciglia e del rossetto scarlatto sulle labbra.
L’aria sembrò farsi pesante di botto: Morgana aveva colto appieno le allusioni del vecchio Uther. Magari suo padre stava già fantasticando su un possibile ritorno di fiamma, un nostalgico tuffo nel passato, ma non sapeva quanto si sbagliava.
«Sì.» rispose, serrando lievemente la mascella per l’irritazione, sostenendo fiera lo sguardo del brizzolato «Abbiamo già in programma di sposarci. Non abbiamo ancora fissato la data o fatto proposte, ma ne abbiamo già parlato. Ed io ho preferito che avvenisse qui.»
Arthur smise di giocherellare con la sua forchetta nel piatto, alzando lo sguardo verso sua sorella. Odiava le cene di famiglia, odiava le camice che era obbligato a portare per compiacere suo padre fin dentro i pantaloni, ma soprattutto odiava essere sempre all’oscuro di tutto.
«Cosa?»
«Beh…» Uther si pulì il viso con un tovagliolo di stoffa, ricamato di rosso nei bordi con decori floreali «Finalmente una buona notizia.»
Morgana sorrise di riflesso a quelle implicite congratulazioni, portandosi il bicchiere alle labbra bevendo piccoli sorsi di vino rosso.
Arthur lasciò scorrere lo sguardo interdetto prima sul volto del padre e poi su quello della sorella. A quanto pare era l’unico ad aver avuto una reazione che rientrasse nella norma: Morgana era fidanzata con Mordred da meno di tre mesi e sposarsi era forse un passo troppo affrettato, agli occhi del fratello.
«Arthur…» apostrofò il padre, voltando lo sguardo nella sua direzione «Non mi sembri molto entusiasta.»
«Tua figlia ti ha appena detto che sta progettando una vita insieme ad uno sconosciuto e tu non le poni neanche una domanda: non le chiedi se ne è sicura, se non è troppo affrettato. Insomma non fai nulla per impedirle di rovinarsi la vita!»
«Il matrimonio non rovina la vita, Arthur. Ci sono ben altre cose che possono farlo, quali ad esempio l’ignoranza, la superficialità…» l’uomo si sistemò sulla sua sedia, assumendo un’aria di supremazia, ricongiungendo le mani tra loro, iniziando col suo solito elenco; Arthur però, non lo lasciò parlare oltre che subito intervenne «E non ti pare superficiale che Morgana voglia sposarsi dopo soli tre mesi di fidanzamento?!»
«Stai dicendo che prendo le cose sottogamba?» la corvina s’intromise nel diverbio tra padre e figlio, riservando un’occhiata sinistra al fratello. Come poteva solo pensare una cosa simile di lei?!
«Sto dicendo che tu non sai nulla di lui. Per quel che ne sappiamo può essere chiunque, da un delinquente ad uno spacciatore. E poi come puoi solo pensare di sposarlo dopo così poco tempo?  Sei ancora troppo giovane ed il matrimonio è un passo important-»
«Prima di giudicare le mie conoscenze, faresti bene a guardarti le tue.» Morgana parlò di getto, senza neanche rendersene conto. Odiava che la si considerasse una donna superficiale ed Arthur stava toccando il fondo.
Vide il biondo fare una faccia stranita, bloccandosi di colpo «Cosa c’entrano adesso le mie conoscenze?»
 

“Merlin…” La giovane soffiò quelle parole nel buio di uno sgabuzzino, mentre lei ed il suo ragazzo si nascondevano da sguardi indiscreti “Perché mi ami?”
Merlin rise appena, quel tanto per non fare rumore, mentre le sue labbra per poco non sfioravano quelle della corvina “Ma che domande fai… ti amo e basta, non c’è un perché.”
Morgana gli picchiò il braccio con un pugno “Non fare l’idiota e dimmelo!”
“Ahi!” il giovane si passò una mano sul punto offeso, per poi guardarla con la fronte corrugata “Sei impazzita?!”
“Dimmelo!” insistette, picchiettando più e più volte.
“Okay, okay…” Merlin tentò di fermare quella raffica di colpi prendendola per i polsi “Ti amo perché sei insopportabile, perché non riesci mai ad accontentarti.”
Lei lo guardò male, accigliando lo sguardo quasi a volerlo fulminare.
“Ti amo perché sei cocciuta come una bambina: preferiresti morire piuttosto che sentirti dire di no. Ma ti amo anche per questo. Perché sei pazza e non ti accontenti della monotonia, perché ti arrabbi per ogni singola contestazione. Ti amo perché sei bella e non cerchi di negarlo; perché sei superba e fiera di te stessa. Ti amo perché mi costringi a nascondermi in uno sgabuzzino piuttosto che passeggiare in un parco e la cosa non mi dispiace. Ti amo perché non posso farne a meno, perché se non posso averti rischio d’impazzire. Ti amo perché sei diversa, perché non segui la moda ma preferisci inventarla. Perché sei buona, ma non lo ammetti. Ti amo perché sei intelligente, perché sei sincera. Ti amo perché ti amo e le parole mi muoiono in gola ogni volta che ti guardo…”
 

Morgana serrò tra loro le labbra, sentendo improvvisamente uno strano nodo alla gola. Dinanzi a lei c’era ancora un Arthur con il volto misto tra lo spaesato e l’irritato che aspettava risposta.
«Dico solo che non mi piace essere giudicata. E vorrei che mio fratello mi capisse invece di venirmi contro.» la corvina si alzò dalla sedia, incamminandosi verso la porta. Una volta fuori dalla stanza, accelerò il passo sui suoi tacco a spillo, fino ad arrivare nella sua stanza, richiudendosi la porta alle spalle. Accese l’interruttore, guardandosi un po’ intorno. Non era cambiato nulla… era tutto esattamente come se lo ricordava.
Le pareti erano ancora lilla, proprio come ai tempi del Liceo. Lo scaffale bianco, proprio di fronte a lei, era ancora ricolmo di libri, mentre attaccato al muro, qualche centimetro più in là se ne stava un poster dei Queen. Sembrava che il tempo non avesse mai toccato quelle quattro mura, come se i giorni non fossero mai passati dalla sua partenza a Parigi. Ed invece di tempo ne era passato e le cose erano cambiate…
Sentì vibrare nella sua pochette brillantinata, ma quando prese tra le mani il suo cellullare, Mordred aveva già staccato la chiamata.
Si sedette sul suo letto, quello posto sotto ad una grande finestra dove, da piccola, si divertiva a guardare la città di notte a Dicembre, quando la neve fioccava silenziosa sulle case londinesi. Iniziò a digitare un messaggio, sbagliando più volte a causa delle unghia troppo lunghe. L’unica cosa che ottenne, fu infatti quella di salvare il massaggio nelle bozze piuttosto che inviarlo a Mordred.
Ringhiò irritata al suo – stupido – cellulare, per poi calmarsi e controllare pazientemente nelle bozze.
Le sue mani tremarono lievemente, mentre il cuore le sembrò paralizzarsi in petto. Appena dopo il messaggio indirizzato a Mordred ce n’erano almeno altri dieci… tutti per Merlin. Quelli, erano tutti quei messaggi che Morgana non aveva mai avuto il coraggio d’inviargli dopo la sua partenza a Parigi.
Automaticamente, iniziò a scorrerli, rileggendoli con calma.
 
Ciao, come stai? Io benissimo, grazie.
 

Ieri notte ti ho sognato… è stato un incubo.
 

Parigi non è così bella come credevo, qui piove e fa molto freddo. Te la ricordi quella canzone che scrivesti in una giornata come questa. Io sì, la ricordo a memoria.
 

Non mi piace Parigi, voglio tornare a casa. Per favore Merlin, vienimi a prendere.
 

Dimmi che stai venendo da me ti prego. Perché hai smesso di chiamarmi?
 

Okay, forse ho sbagliato ad andarmene via in quel modo, ma tu non hai insistito abbastanza…
 

Senti Merlin, il tuo silenzio comincia ad irritarmi. Quando ti sbrighi a volare da me e portarmi via?!
 

Non riesco a dormire. Mi mancano le tue mani. Merlin, portami via ti prego.
 

Oggi è San Valentino, credimi a Parigi è davvero irritante. Fossi stata a Londra sarebbe stato stupendo. Mi ami ancora, Merlin? Allora corri da me, ti prego.
 

Mi manchi. Ti giuro, non me ne frega un cazzo della droga, ma ti prego vieni qui. Ho bisogno di te. Ti amo.
 




 
**Angolo Autrice**
* Nomignolo preso in prestito da Myrddin Emrys. Te l'avevo detto che l'avrei usato xD
 

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Capitolo 6
*** La teoria del caffè ***


Nda: Salve! No, non mi sono dimenticata di questa long-fic, aspettavo solo un momento di pace per continuarla.
Bene, sono tornata e con questo nuovo capitolo torna il Merthur, una nostra brutta conoscenza e... Chi lo sa... Magari new che vi lasceranno un po' interdetti!
Ci tengo a precisare una cosa: mi sto davvero impegnando molto per scrivere del Merthur e vi assicuro che, anche se non è la mia ship preferita ci sto mettendo molto. Sarà molto  presente in questa storia, quindi spero di andare bene.
Beh... Che dire più? Ringrazio tutti coloro che hanno aggiunto la storia nelle seguite/ricordate/preferite.Un grazie a tutte quelle persone che hanno recensito i capitoli precedenti migliorandomi la giornata - lo apprezzo molto - ed un grazie anche a coloro che solo la leggono. Grazie.
Detto questo, vi lascio alla lettura del capitolo.
Buona, spero, lettura!
 
 
 
6. La teoria del caffè
 
 
Si massaggiò le palpebre ancora per un po’, cercando invano di alleviare la stanchezza che si sentiva ancora addosso. Il sonno non lo aveva ancora abbandonato, e Merlin poté sentire chiaramente ogni suo muscolo chiamarlo e ricondurlo nelle braccia di Morfeo.
“Chiudi gli occhi”, gli sussurravano strane vocini nella sua testa, vocini che il corvino ritenne molto persuasive…
Londra faceva schifo quando pioveva, soprattutto di Maggio. Faceva schifo se, invece di poter indugiare in un bel letto comodo, doveva recarsi al Pendragon’s Coffee prima delle sette.
L’Asino, ovvero quel biondino viziato e idiota di Arthur, aveva deciso che Merlin meritasse una lezione. Il giovane Pendragon si era convinto che, costringendolo ad aprire il bar in sua presenza, il corvino non avrebbe trovato scuse per ritardare a lavoro. E poi, era un’ottima scusante per rimanere da soli… Come un tempo.
«Che splendida giornata!» Il biondo respirò a pieni polmoni l’aria piovosa, accendendo le luci del bar.
Merlin, mezzo insonnolito, si guardò alle spalle, tentando di comprendere se la pioggia fosse una sua illusione o meno; dalle vetrate scorrevoli, il moro poté vedere la pioggia battente sul suolo londinese. Ciò lo portò ad aggrottare la fronte e voltarsi verso quell’Asino «Sta piovendo…»
Arthur sospirò, indossando il suo grembiule rosso fuoco, per poi scuotere il capo e riprendere Merlin proprio come si fa con i bambini deficienti «Appunto, Merlin! La pioggia è un toccasana per i bar.»
«Davvero?» chiese, realmente incuriosito.
L’altro lo guardò per mezzo minuto del tutto interdetto, poi gli lanciò all’altezza della faccia il suo grembiule «Sarà meglio per te che sia così.»
Merlin afferrò tra le mani il riquadro di stoffa, borbottando un: «Certo, My Lord.»
Il biondino s’incamminò verso il bancone, ma si fermò a metà strada udendo il corvino parlare «Ehm… Merlin!»
Il giovane puntò immediato i suoi occhioni azzurri sul volto dell’Asino.
«Occupati dei tavoli, di grazia» gl’ intimò, con un falsissimo sorrisetto che gl’incurvava le labbra che, cielo, Merlin in quel momento avrebbe ferito volentieri con un pugno!
 
 
 


Erano le sette e tre minuti della mattina e di solito, a quell’ora, vi erano sempre poche persone nei bar; vi si trovavano i mattinieri, quelli del turno di notte che avevano bisogno di una tazza di caffè per svegliarsi. Vi si poteva trovare di tutto alle sette e tre minuti in un bar di Londra; tutto, solo in minore quantità.
Per il corvino fu quasi come una novità, un qualcosa di inedito: ignorava quanto lavoro potesse esserci mentre lui ancora dormiva beato nel suo letto.
«Anche con la pioggia sono così mattinieri?» chiese, avvicinandosi all’orecchio di Arthur.
L’altro lo guardò di sfuggita, prima di puntare le sue iridi bluastre verso i pochi posti occupati in fondo alla sala, accanto alle vetrate «Hanno una vita, Merlin; questa non cessa se cade qualche goccia dall’alto.»
«Sì, ma… Come fanno, insomma… guardali! Sono già in completo per andare a lavoro, sorseggiano piano il loro caffè ristretto, si portano una sigaretta alla bocca e si fanno compagnia col Tg delle sette: le persone mattutine sembrano così sole.» insistette.
Il biondo fece scoccare le labbra tra loro, guardando il ragazzo con aria perplessa e la bocca semi spalancata «Merlin, sei cosciente del fatto che stai lavorando e guardando il televisore anche tu, vero?»
«Sì, ma io non sto prendendo un caffè!» ribadì il ventenne, accorgendosi di aver alzato di troppo la voce. Imbarazzato, si guardò intorno ad osservare qualche occhiata interdetta dei pochi clienti, per poi sorridere come un ebete e ritornare a guardare Arthur.
 «Per caso ti droghi, Merlin?» gli chiese, con una smorfia d’incredulità sul volto.
Il corvino rimase a boccheggiare per un secondo e, per quel secondo, gli sembrò di avere lo stomaco pesante come il cemento armato.
«Guardali, Arthur. Sono tutti uomini, forse alcuni sulla cinquantina, altri sulla sessantina; bevono una tazza di caffè, si consolano con delle notizie catastrofiche e parlano di calcio – o di golf -, dipende dai gusti personali.»
Sembrava serio mentre esponeva quel concetto, così serio che Arthur non poté fare a meno di guardarlo e dargli corda. E per un attimo gli parve anche di rivederlo, il suo Merlin; quello con cui condivideva tutto, dalle note disciplinari alle mutande in spogliatoio, e capì quanto gli fosse mancato in tutto quel tempo.
Fu per questo che non aprì bocca, ma si limitò ad ascoltare e prestargli attenzione, inchiodando i suoi occhi in quelli del ragazzo che aveva di fronte.
«Ognuno è seduto ad un tavolo diverso, quasi nessuno perde tempo a guardare l’uomo che gli è seduto di fronte: loro bevono un caffè, da soli. Stanno praticamente iniziando la loro giornata e… Il “buongiorno” si vede dal mattino, e loro stanno bevendo un caffè e sono soli. Ed è per questo che mi chiedo “Come fanno ad essere così mattinieri anche quando piove?”»
Fu in quel momento, mentre la pioggia cadeva furente sul suolo asfaltato di Londra e il bar era colorato da un’accogliente luce calda, che Arthur lo fece. Poggiò una mano dietro la nuca di Merlin, guardandolo intensamente negli occhi, quasi ne fosse ipnotizzato.
E li lasciò navigare a fondo quegli occhi, quasi gli stessero leggendo l’anima.
Il corvino si sentì strano, quasi a disagio, ma il tumulto che aveva nel petto aumentò quando il biondo si sporse verso di lui, verso il suo viso.
Arthur arrivò, piano, all’altezza delle labbra, per poi deviare il percorso e ritrovarsi con la propria bocca accanto all’orecchio del ventenne «Credimi Merlin, ai problemi della vita ci hanno già pensato gli scrittori, Shonda Rhimes e Beautiful: non pensare più del dovuto, potresti farti male.»
Gli lasciò qualche pacca sulla spalla, per poi allontanarsi. A Merlin gli ci vollero almeno due minuti d’orologio prima di tornare a respirare regolarmente.
 
 


«Mi sta evitando. Lo capisci? Mi evita continuamente…»
Freya quella mattina non ne voleva proprio sentire di recarsi a lavoro. Difatti, si era catapultata a casa di Gaius come una chioccia affettuosa o una mamma gatta molto apprensiva, ed aveva insistito per “prendersi cura di lui”.  L’anziano, dal canto suo, non seppe evitare quella visita di cortesia e fu costretto a sorbirsi infinite lagne amorose.
«Cara… Potresti prendermi la mia medicina… Vedi, è proprio alle tue spalle, accanto alla riviste.» Gaius, seduto sulla sua poltrona, cercò di attirare l’attenzione della ragazza, ma questa sembrava in un mondo a parte.
«Non mi ha neanche baciata, Gaius! Insomma… tutti i miei precedenti ragazzi mi baciavano: è una cosa che si fa quando si è fidanzati!» Si lamentò la mora, preparando la tavola per la colazione e gesticolando con la tazza vuota.
Il quasi ottantenne se la vide brutta: aveva avuto una figlia femmina e sapeva perfettamente in quali deplorevoli ed imbarazzanti discorsi sarebbero finiti, e la cosa non lo emozionava per niente. Tossicchiò, sperando di essere udito e preso in considerazione «Forse dovresti chiudere un po’ la finestra, figliola. Con la mia età, basta un piccolo soffio di vento e mi ritrovo costretto a letto per un mese.»
Freya si voltò lentamente verso di lui, guardandolo di traverso.
Gaius ebbe quasi paura; quella mattina la dolce ed ingenua Freya non era in sé, probabilmente lo avrebbe anche ucciso se solo non si fosse calmata.
Una pantera assetata di sangue, ecco cosa sembrava… Ma all’anziano non dispiacque pensare che, l’unico sangue del quale quella bestia volesse nutrirsi era solo quello di Merlin.
«Sesso!» disse tutt’un tratto, puntandogli contro il coltello sporco di marmellata, facendo sobbalzare il povero vecchio dalla sua poltrona «Sa da quanto tempo Merlin ed io non facciamo niente?!»
La ragazza spalmò la confettura fruttata sulla fetta biscottata, con tanta pressione da spezzarla.
Gaius deglutì a vuoto, mezzo impaurito e metà imbarazzato. Le donne non andrebbero mai irritate, si ritrovò a pensare, come ad un vecchio motto al quale rimanere fedeli a vita.
La guardò, rimanendo irrigidito al suo posto, per qualche minuto, poi la sentì singhiozzare. Le sue spalle si muovevano ritmicamente con i suoi singhiozzi e, per quanto lo avesse impaurito ed ignorato qualche attimo prima, Gaius non poté fare a meno che avere pena per lei.
«Io non sono una persona esemplare, Gaius, non lo sono mai stata.» Freya parlava, tra un singhiozzo e l’altro, cercando di tirare su col naso, per poi voltarsi verso l’anziano accennando un mezzo sorriso «Una volta, alle elementari, ho picchiato un mio compagno di classe perché aveva baciato una bambina che mi stava antipatica invece di baciare me.»
«Freya…»
«So che nessuno ha una vita perfetta, capisco che un momento no possa capitare a tutti, ma io amo Merlin… Lo amo, come non ho mai amato niente e nessuno in tutta la mia vita; mi sono impegnata con lui, mi sono ripromessa di non essere diffidente, di rispettarlo. Ho accettato i suoi amici, la sua vita. Non mi lamento se non si sveglia mai prima di me o se non mi compra delle rose rosse per il mio compleanno, ma io ho bisogno di non essere la seconda scelta. Io… Non voglio sentirmi la ruota di scorta, perché io lo amo e non lo accetterei, Gaius… Io… Non potrei mai accettarlo.»
Freya lo guardò con gli occhi lucidi, cercando quel conforto che tanto le mancava, quello che le avrebbe fatto comodo in quel momento.
L’anziano non distolse lo sguardo da lei nemmeno per un secondo; aveva perennemente uno sguardo accigliato, ma in quel momento era l’unica cosa a cui Freya sentiva di potersi aggrappare e Gaius lo sapeva.
«Vedi figliola, lui condivide con Arthur un legame speciale, un legame che non ha mai instaurato neanche con me. Non devi sentirti messa da parte perché… loro sono Merlin e Arthur, sono sempre stati loro due contro il mondo, insomma i paladini delle cavolate», sorrise contagiando anche la ragazza con un mezzo sorriso, invitandola a sedersi al suo fianco per poi prenderle una mano «Non devi sentirti in difetto a causa del loro legame, non come una sua o una tua mancanza. Nessuno può competerci, non ci riuscirebbe. Arthur è stato per Merlin la prima persona che ha visto come una persona, dopo la morte dei suoi genitori: Arthur non lo guardava con aria compassionevole, Arthur non gli riservava belle parole o complimenti non meritati. È stato se stesso, fin dal principio ed è per questo motivo che è come ossigeno per Merlin. Arthur è sempre stato il suo unico punto di riferimento. L’unico ad averlo accettato per quello che era e non per quello che aveva da raccontare. Ciò però non vuol dire che Merlin non si possa innamorare.» rise lievemente, dandole un leggero pizzicotto sulla guancia.
«Non è Arthur a preoccuparmi, Gaius…» rispose sincera la mora, puntando i suoi occhi in quelli dell’anziano. Non le servirono altre parole, semplicemente perché non aveva più la forza di parlare. A farlo per lei fu un’unica lacrima, amara e tagliente, che le rigò la guancia.
Ed in quel momento le parole terminarono anche per Gaius, lui che aveva sempre la risposta pronta. Merlin, con il passato, non aveva ancora fatto pace e solo Dio sapeva quanto era ancora incisivo nella sua vita.
«Mi servirebbe la mia medicina, cara» le disse solo, sorridendole lievemente. Freya contraccambiò il sorriso, alzandosi dalla sua posizione e dirigendosi verso la mensola dove il vecchio conservava le sue medine. In quel momento, ne era sicura, gliene sarebbero servite un paio.
 
 
 


«Credo proprio che ci servano delle divise nuove!» Morgana adagiò le braccia sul bancone, rivolgendosi ai due ragazzi, mentre con la coda dell’occhio guardava solo Merlin. Da quando era tornata da Parigi non faceva altro che evitarla e la cosa stava iniziando a seccarle.
«Non ci pensare nemmeno, strega!» la minacciò il biondo, puntandole un vassoio contro «I miei dipendenti sono fieri delle divise che indossano.»
Merlin, col lo sguardo abbassato sulla cassa, si lasciò scappare un sorrisetto, prima di essere stoppato dall’insistenza della giovane «Non vorrei essere indiscreta, ma i tuoi unici dipendenti sono tuoi amici che non oserebbero mai contraddirti.»
Il corvino alzò lo sguardo a guardarla e la ritrovò a sorridere vittoriosa, con le sue labbra all’insù in un’espressione di compiacimento.
«Sei stata indiscreta.» puntualizzò il fratello, porgendole senza alcuna cura il vassoio ricolmo di birre.
«Oh…» si finse dispiaciuta, prendendo il piatto di plastica dalle mani del biondino «Sono desolata.» rimarcò beffarda, lanciando un’occhiata al corvino prima di allontanarsi.
Il ventenne sostenne il suo sguardo, serio, finché non fu lontana dalla sua vista. Con lei era sempre stato così: era tutto una lotta perenne, anche per un bacio. Gli rendeva la vita impossibile.
«Mi preoccupa.»
Merlin si voltò verso Arthur – finalmente riusciva a guardalo di nuovo negli occhi – perplesso «Uhm?»
Sospirò, vedendo due clienti in arrivo al bancone «Mia sorella: adesso ha deciso di sposarsi e mio padre non fa nulla per impedirglielo.»
Era certo che Arthur fosse andato avanti con la lamentela, ma il ragazzo aveva smesso di ascoltarlo da un bel pezzo.
 
Ha deciso di sposarsi.
Morgana si sposa. Con Mordred.
Si sposa. Lo ha deciso lei.
 
 
“Non ti azzardare a dirlo, Merlin. Potrei ammazzarti.”
“Ma… Io non ho detto niente!” si difese, scostandosi dalle sue labbra.
“Non chiedermi mai di sposarmi. Io odio i matrimoni!” ribadì, imbronciandosi per poi perdersi nella contemplazione del mare.
“Perché?” le chiese, guardandola in modo stupido e stupito. Il suo solito modo, insomma.
La diciottenne si voltò a guardarlo fisso negli occhi, mentre la luce del tramonto gli illuminava il volto col suo arancio “L’amore non deve avere una data di scadenza, non deve gravare sulle nostre spalle. L’amore deve essere vissuto, non promesso. Non voglio giurare di amare per sempre per poi ritrovarmi a pentirmene, a vedere quel sentimento soffocato dalla monotonia. Un pezzo di carta, la musica in chiesa, l’abito bianco in cui entrare... Sono tutte cose che mi mettono ansia. Io non ti sposerò mai, Merlin.”
Lo aveva ferito, certo, ma ne aveva anche colto il senso tenero. Sorrise, avvicinandosi di poco alla sua bocca che somigliava tanto ad una fragola “Farò in modo che non succeda.”
 


«Certe notizie lasciano senza parole.»
Merlin si scrollò dai suoi pensieri, abbassando lo sguardo sul suo cliente, ma gli si annebbiò la mente di nuovo.
«Perdere la donna che si ama, per ben due volte…» l’uomo, la barba rasata ed i capelli biondi quasi nel bianco tirati all’indietro, si sistemò sul suo sgabello, sfoggiando un sorriso irritante «La prima volta l’hai persa perché eri un drogato, ora la perdi perché lei ha trovato di meglio. Hai bisogno di un caffè, figliolo.»
Il corvino digrignò i denti, stringendo le mani in due pugni lungo i fianchi «Cosa ci fai qui?»
«Una delle bevande più consumate sul globo terrestre è il caffè; precisamente, il terzo in graduatoria.» Si servì da sé due bustine di zucchero, per poi fissare i suoi occhi neri in quelli del giovane «Esistono molti modi per prendere un caffè: lo si può gustare in una tazzina di ceramica quando incontri un amico al bar, in una tazza “pre-esame” prima della maturità o addirittura in un bicchiere di plastica a scuola, all’università… Di fronte ad un vecchio parente.» Allargò un angolo della bocca, provocatorio.
Merlin però, non aprì bocca. Sentì le mani prudergli, ma non alzò un dito, non avrebbe potuto, non lì, non sotto lo sguardo di Arthur.
«Ci sono svariati ingredienti che possono essere aggiunti a quello base: c’è chi il caffè lo prende espresso, chi con un filo di latte e chi ancora preferisce gustarlo alcolico.» Si accese una Marlboro rossa, tenendosela stretta tra le labbra «Per i palati raffinati è consigliabile accompagnarlo ad una sigaretta: il gusto è ottimo.»
Il corvino continuava a fissarlo con insistenza, aspettando che finisse quella sua teoria del cavolo. L’uomo gli soffiò del fumo in faccia, ridendo lievemente «Il caffè è una bevanda confidenziale; lo si beve per entrare in intimità: è un gesto quotidiano e mai invasivo. Andiamo Merlin, devi bere un caffè con tuo zio.»
«Io non voglio condividere proprio niente con te, Aridian.» sibilò, serrando lo sguardo.
«Strano…» Unì tra loro le mani, aggrottando la fronte «La droga la dividevi volentieri.»
 





**Angolo Autrice**
  •  nel testo è presente un riferimento ad un'altra serie televisiva, chiunque riuscisse a riconoscerlo stia sicuro che sarà stimato dalla sottoscritta.
  • La teoria del caffè era stata già accennata da un'autrice che adoro "Feynman" nella shot "Red rose lips, cold winter eyes"

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Capitolo 7
*** La mezzanotte del Vampiro ***


Nda: Salve a tutti/e!
Inizio col dirvi che mi sto impegnando davvero tanto nello scrivere questa storia e che, per il momento, ha la precedenza sulle altre: credo che mi concentrerò solo su Pendragon's per un po'.
Detto questo... Non voglio anticiparvi nulla, ma sappiate che sarà un po' angst questo capitolo. 
Okay, adesso che vi ho allarmato, passo ai ringraziamenti: grazie a tutte quelle anime buone che aggiungono la mia storia nelle preferite/ricordate/seguite; grazie ai lettori silenziosi e, soprattutto, un grazie speciale a quelle bellissime persone che hanno recensito i capitoli precedenti. Per voi e per i nuovi lettori, questo capitolo :) Aspetto i vostri pareri.
Buona lettura!
 
 


La mezzanotte del Vampiro 
 


C’era stato un tempo, nella vita di Merlin, in cui la massima priorità erano le caramelle: quelle zuccherate, quelle che sua madre gli nascondeva perché facevano male ai denti.
Così, nel tardo pomeriggio, quando sua madre usciva di casa stampandogli un bacio sulla fronte, Merlin sgusciava dalla sua cameretta, trotterellando alla ricerca di dolciumi gommosi – i suoi preferiti. –
Una volta, nel giocare a fare il detective, si era arrampicato sul ripiano in marmo della cucina, alzandosi sulle punte per raggiungere l’armadietto sospeso a settanta centimetri più in alto. Il bambino, non aveva però fatto i conti sulla sua bassissima soglia d’equilibro, così era finito per barcollare e cadere, con la faccina sul pavimento.
Merlin si era spaventato, ed avrebbe cominciato a piangere per il dolore se non fosse stato per la pozza rossastra, venutasi a creare sulle mattonelle giallognole della cucina. Il piccolo, sconcertato, strabuzzò gli occhioni azzurri, tastandosi terrorizzato il faccino: si era rotto il naso.
Per fortuna – o sfortuna, Merlin ancora non saprebbe rispondersi – sua madre era rientrata in casa perché aveva dimenticato le chiavi dell’auto sul mobile in soggiorno, e forse d’istinto, aveva allungato lo sguardo verso l’arcata in legno che separava la cucina dal salotto, paralizzandosi.
Quel giorno però, la mora quarantenne non si lasciò strafare dagli occhioni lucidi del piccolo corvino e – subito dopo essere rincasati dal pronto soccorso – gliene diede di santa ragione.
Da quel tardo pomeriggio – se la memoria non lo ingannava, d’Agosto – Merlin, con il suo naso medicato, non osò mai più avvicinarsi a quelle caramelline gommose che tanto bramava, anche se la passione che nutriva verso quei dolciumi non si affievolì, nemmeno per un giorno.
Ma, la sua passione per le caramelle gommose era una passione positiva, la passione innocente di un bimbo ingordo, eppure gli aveva procurato un naso rotto ed una bella punizione!
Se quel che diceva un noto personaggio inglese di Stratford- Upon- Avon era vero, il corvino avrebbe fatto bene a temere: passioni violente hanno fini violente.
 




Londra, autunno 2012
 
«Non preoccuparti, lui ti adorerà sicuramente. È un po’ burbero ed ha uno sguardo perennemente accigliato… ma è una brava persona.»
Morgana serrò le labbra, portandosele all’interno della bocca, tamponandosi il rossetto con la lingua; strinse forte la sua cartella tra le mani. Non era sicura che Merlin avesse ragione, anzi, era nel panico totale anche se non lo dava a vedere: per il suo ragazzo, Gaius era molto importante, dunque si era ripromessa di stringere forte i denti e di tenere duro.
«Ma ricorda: qualsiasi cosa lui ti chieda sulla medicina, rispondigli che non esiste dottrina più qualificabile.» Le aveva raccomandato Merlin, mentre le prese la mano stringendosela nella propria, continuando con le raccomandazioni: «E’ molto importante per lui; sai, è stato un medico militare, praticamente la medicina è tutta la sua vita e…»
Morgana roteò gli occhi al soffitto, sentendo la tensione crescere sempre di più ad ogni singola parola del corvino. Spazientita, ritrasse dispettosa la propria mano dalla stretta del ragazzo, guardandolo in cagnesco. «Adesso basta», gli aveva urlato, puntando i suoi occhioni arrabbiati in quelli interdetti di lui. «Giuro, Merlin, che se solo ti azzardi a dire un’altra parola io…»
Il diciassettenne divenne pallido come un cadavere, con gli occhi quasi fuori dalle orbite: Morgana aveva colpito con una mano, il trofeo d’oro riposto su un mobile del corridoio, facendolo rovinosamente cadere al suolo, spezzando un’ala giallastra del premio Lasker.
«Ah, siete già arrivati…» Le parole morirono nella gola del settantenne non appena messo piede nel corridoio, immobilizzandosi alla vista della suo trofeo, - quello che aveva guadagnato con tanto sudore. «Quello è il mio Lasker?»
Entrambi i ragazzi erano impalliditi, deglutendo a forza, guardandosi colpevoli negli occhi, per poi ricondurli sul volto arrabbiato dell’anziano.
«Io adoro la medicina!» enfatizzò Morgana, sorridendo sbilenca.
 



Londra, 2015


Stava ancora ripulendo il pavimento del bar, passando avanti e indietro il mocio bagnato, quando Arthur sistemò sul tavolo l’ultima sedia.
Lo aveva guardato di sottecchi, mentre la sorella si era avvicinata al biondo. «Allora, andiamo?», gli aveva chiesto, sistemandosi il cellulare nella borsa.
Arthur, suo malgrado, avrebbe voluto più tempo da spendere in compagnia di Merlin: in quegli ultimi giorni gli sembrava quasi impossibile anche rivolgergli la parola; erano sempre occupati e c’era sempre qualcuno pronto ad intromettersi tra loro.
«Devo chiudere il bar, prima».
L’altra puntò i piedi per terra, lanciandogli un’occhiata significativa. «Dobbiamo andarcene, Arthur. Subito.»
Merlin, dal canto suo, aveva immerso il mocio nel secchio, strizzandolo, per poi ricominciare con le sue lunghe ed interminabili passate; fingendosi indaffarato, non aveva distolto gli occhi dai due, nemmeno per un momento.
La vicinanza di Morgana gli sembrava insostenibile, soffocante. Avrebbe voluto più tempo, più calma… magari, avrebbe rivoluto indietro anche i suoi piccoli attimi con Arthur. Non amava mentirgli e senza Morgana non ce n’era neanche bisogno, lei però era tornata. E a breve si sarebbe sposata. Ma, cosa peggiore, era tornato anche suo zio.
Il biondo sospirò, voltandosi verso il corvino. «Chiudi tu, Merlin», gli aveva detto, lanciandogli le chiavi del locale che il ventenne lasciò scivolare sul pavimento umido, beccandosi una roteata d’occhi dal giovane Pendragon ed un mezzo ghigno dalla ragazza.
«Ci vediamo domani», aveva detto all’amico, prima di vederlo scomparire dall’uscita d’emergenza, insieme alla sorella.
«Non distruggermi il bar, Merlin», gli aveva gridato già fuori dalla porta, strappando un mezzo sorrisino al ragazzo: certe cose, per fortuna, non sarebbero mai cambiate.
Una volta rimasto da solo, Merlin era affondato nei suoi pensieri: suo zio era tornato e nel peggiore dei modi. Gli servivano dei soldi, gliel’aveva sussurrato sporgendosi al bancone del bar.
Il ragazzo aveva declinato la supplica dell’uomo, facendogli ingrossare la vena accanto alla tempia; pulsava talmente tanto da far paura.
Aridian allora lo aveva minacciato: «Se non mi procuri quei soldi entro le cinque di domani, prenderò provvedimenti». Lo sguardo dell’uomo si era spostato verso i due Pendragon ed il corvino non ci aveva più visto dalla rabbia.
Gli aveva detto di andarsene immediatamente, sibilando a denti stretti. Ma il cinquantenne non si era lasciato prendere dal panico: si era alzato dal suo sgabello, mostrando la pistola che nascondeva sotto la giacca al nipote, sorridendo meschinamente. «Dovrò darti degli incentivi, allora».
Merlin si era pietrificato, diventando una statua muta. Aveva paura di suo zio, sapeva perfettamente di cosa era capace: gli occhi neri e le costole rotte dei suoi sedici anni lo avevano messo all’allerta.
Così, solo in quel bar, si era ritrovato a parlare con un Dio a cui non si era mai rivolto, pregandolo di proteggere il suo Arthur.
 
 
 
«Dovresti metterti il casco».
Arthur aveva sbuffato all’ennesima paternale di sua sorella che, seriosa e severa, si agganciava il casco al collo.
«Smettila di fare la strega.» le aveva detto, lanciandole un’occhiata contrariata. «E sali su questa moto.»
Il biondo prese posto sulla sua Honda, poggiando le mani sul manubrio.  Da quel giorno in poi si sarebbero attenuti all’orario estivo, dunque, alle undici precise avevano suonato la campanella per l’ultimo giro di drink e mezz’ora dopo il bar era vuoto.
«Allora?!» chiese stizzito, voltando il capo verso la sorella. «Ti muovi o no?!»
«Mettiti il casco, Arthur».
Morgana era rimasta ancorata al suo posto, con la luce fredda dell’insegna del bar che le illuminava il viso naturalmente candido. «Indossalo.», insistette.
Il fratello, sotto il suo ciuffo dorato, rimase a guardarla torvo; sua sorella era così testarda… Sbuffò, decidendosi d’indossare quel maledettissimo oggetto-salva-testa: «Contenta?!»
L’altra sorrise vittoriosa, montando finalmente sulla due ruote, schiacciando la schiena al bauletto, sentendosi più sicura. Arthur accelerò nel cuore della notte, lasciando solo rumore alle sue spalle. Morgana si strinse al petto del fratello, mentre il vento le feriva il viso chiaro; la corvina amava la velocità, ma quella volta… le sembrava diverso.
Per questa ragione, racchiuse nel palmo della sua mano la stoffa rossa della maglia del biondo, convincendosi che, tutta quell’ansia che aveva addosso, fosse tutta colpa delle troppe novità e del troppo stress di quegli ultimi giorni.
 



Londra, 2000


«Ho detto che ti pagherò, Aridian. Non hai motivo di temere».
Aridian guardò indeciso l’uomo, le mani ancora nella sua tasca, fermo nella sua posizione. «Hai detto così anche la volta precedente, Uther.»
«Aridian, ho bisogno di quella roba!» gli aveva sibilato in faccia, a denti stretti. Le sue iridi erano infuocate, ogni singolo centimetro di corpo del Pendragon bramava la sua dose d’estasi.
Il biondo si leccò l’interno labbra con smania, mantenendo i suoi occhi cristallini in quelli dell’uomo. Portò una mano fuori dalla tasca della sua giacca a vento, porgendogli l’erba impacchettata.
«Vedo che ragioni», gli ringhiò contro, strappandogli il pacchetto di plastica dalle mani.
E Aridian sorrise. Sorrise malignamente sotto i suoi baffi dorati, nascondendo le dita nella giacca. Era inverno, Londra era uno strato di neve bianca.
«Sai… Ci sarebbe un modo per non pagare.»
«Quale sarebbe?» chiese diffidente l’altro.
«Hunit si è sposata da poco…» Aridian aveva compresso le labbra tra loro, pungendosi appena con la sua barba ispida. «Mi aveva promesso amore eterno, prima di giurarlo a mio fratello».
Non ci volle molto affinché Uther capisse dove il biondo volesse andare a parare. Strinse quella sostanza erbosa nelle mani, comprimendola, crucciando il volto: «Non ho intenzione di macchiarmi le mani di sangue, Aridian.»
L’altro rise; era una risata sinistra, la sua, quasi faceva paura. «Oh, nemmeno io», gli sorrise beffardo, versandosi dello scotch in un bicchiere di vetro. «Però i soldi della tua roba mi servono.»
Uther strinse i pugni: non aveva quei soldi, non sapeva dove prenderli. Era ricco, certo, ma la sua azienda stava avendo dei cali e se avesse prelevato una somma considerevole dal suo conto in banca, Igraine se ne sarebbe accorta. «Questo è un imbroglio!»
«Suvvia, io preferirei chiamarlo patto.» ghignò, scolandosi il liquido in un sol sorso. Fece una smorfia strana con la bocca, dovuta per il bruciore dell’alcool, per poi puntare i suoi occhi velenosi in quelli dell’altro: «Non costringermi a darti un incentivo».
 


Londra, 2015
 
Londra di notte era uno spettacolo senza eguali. Le luci della strada erano pennellate di giallo in tutto quel nero petrolio.
Quel senso d’inquietudine aveva abbandonato per un attimo Morgana, lasciandola beare del vento e della libertà che avvertiva sulla moto insieme a suo fratello. Momenti per loro ce n’erano pochi; lei aveva vissuto a Parigi tutto quel tempo, lontano da lui… Gli era mancato, anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce.
«Dì la verità, vecchia arpia», le gridò sovrastando il vento: «Ti è mancata Londra».
«Da morire!», ci aveva scherzato su lei, guardandolo dallo specchietto. Sorrideva divertito anche lui.
Le loro risate si confusero con la notte ed il cielo nero londinese. La vita, a vent’anni, sembra non avere mai fine, come se non se ne potesse mai fare a meno di quei capelli scompigliati dal vento, in una nottata di Maggio. Ma, ogni tanto, bisogna scontrarsi con gli ostacoli.
Inizialmente il biondo non ci aveva pensato: “Vorrà solo sorpassare” si era detto tra sé e sé. Si era fatto di lato, permettendo alla macchina nera di passare, ma quella aveva continuato a stargli dietro, avvicinandosi di troppo alla ruota posteriore della moto.
Arthur iniziò ad accelerare al secondo tamponamento.
«Arthur!», Morgana continuava a gridare il nome del fratello, in preda al panico.
Si sentirono spinti di lato, sballottati dall’auto scura, verso il marciapiede. Il giovane Pendragon non poté far niente: in un secondo, si sentì cadere dalla moto, sbattendo forte il ginocchio sull’asfalto.
Un casco slacciato rimbalzò due volte sulla strada, mentre l’auto sfrecciò via nel cuore della notte.
Sangue, c’era del sangue; Arthur lo vide, prima che vari istanti della sua vita si susseguissero a velocità disarmante nella sua mente.
Ma cos’è l’ultima cosa alla quale pensiamo? A cosa ci aggrappiamo, prima che diventi tutto nero?
 
Londra, 2011

«Lascia che ti aiuti».
Il biondo circondò le spalle del nuovo arrivato con un braccio, portandoselo verso il suo tavolo. Il ragazzino, uno sbadato di prima categoria, reggeva goffamente il vassoio col suo pranzo, sorridendo sbilenco al giovane Pendragon: «I-Io, veramente…»
«Sembri un completo idiota, ma hai la faccia di uno che la matematica la sa fare ad occhi chiusi».
«E tu chi saresti?», chiese il corvino, leggermente infastidito dall’offesa del biondo.
«Uno a cui serve qualcuno da cui copiare matematica», ammise il giovane, facendolo accomodare al tavolo dove si era appena seduto: «Saremo una grande squadra, vedrai… Ehmm... come hai detto che ti chiami?»
«Merlin», rispose seccato l’altro.
«Oh, certo: Merlin», gli diede una pacca sulla spalla, fingendo un sorrisino irritante. «Faremo grandi cose insieme».
Merlin lo guardò come se fosse pazzo, poi decise di fiondarsi sul suo panino; il biondo però, lo anticipò, soffiandogli il sandwich dalle mani: «Ah, io sono Arthur Pendragon», disse masticando il suo panino, annuendo come un grande assaggiatore: «E questo prosciutto è davvero ottimo».
Il corvino roteò gli occhi, cercando di bere almeno un po’ d’acqua. La mano di Arthur però, gli soffiò la bottiglia da sotto il naso, portandosela alla bocca, deglutendo quasi metà liquido.
«Ehi!», sbottò Merlin. «Questo è il mio pranzo!»
Il biondo gli lasciò una pacca sulla spalla, per poi allontanarsi: «Ricorda, Merlin: siamo una squadra. Noi dividiamo tutto».
 
 


Londra, 2015

Merlin era appena rientrato a casa. Aveva cercato di non fare troppo rumore, credendo che la sua ragazza stesse già dormendo. Aveva cercato di non pensarci per tutta la sera, ma le parole di suo zio gli martellavano il cranio.
«Ehi…»
Il ragazzo fu sorpreso nel ritrovare Freya ancora alzata… mezza addormenta sul tavolo, apparecchiato e abbellito con una candela accesa.
«Ehi.» Merlin rimase imbambolato sullo stipite della porta, notando che la fidanzata gli aveva preparato il suo piatto preferito: «Mi hai aspettato tutto questo tempo?»
«Già», disse lei, stropicciandosi gli occhi scuri e insonnoliti.
«E’ iniziato il turno estivo», spiegò lui, sentendosi in colpa. «Mi dispiace, credevo lo sapessi… Arthur non te l’ha det-».
«No, Arthur non mi ha detto niente».
Il ventenne alzò un angolo della bocca in un mezzo sorriso. Freya era rimasta ad aspettarlo per tutto quel tempo e lui, ad onor del vero, non faceva altro che trascurarla. Freya però, non lo meritava. Aveva il diritto di sapere.
«Freya…», la chiamò il ragazzo, avvicinandosi a lei. «Devo parlarti».
Gli occhi scuri della giovane si puntarono sul suo ragazzo: pendeva dalle sue labbra, non aspettava altro.
Il corvino aprì la bocca cercando di parlare, ma fu fermato dallo squillare del suo cellulare. Corrugò la fronte, chiedendosi chi mai potesse essere a quell’ora della notte, rimanendo interdetto nel leggere il nome di Morgana sul display.
Sospirò, allontanandosi da Freya. «Scusami», le disse, prima di allontanarsi e rispondere, bisbigliando, alla chiamata: «Santo cielo, Morgana, cosa vuoi a quest’ora?!».
«Arthur…», mormorò, in preda allo shock. «Ha avuto un incidente».
Ed in quel momento, tutto il resto del mondo collassò, anche per Merlin.
Solo una cosa, beffarda, gli tornò alla memoria. L’ultimo giro di drink: una ragazza si era sporta al bancone del bar e gli aveva chiesto l’ultimo bicchiere. Era un Vampiro.
Aridian amava il Vampiro.





** Curiosità**
-Il vampiro è un cocktail a base di Tequila.
-  Il 
premio Lasker-Koshland viene consegnato per meriti speciali nelle scienze mediche.
- Credo sia doveroso aggiungere il genere "drammatico" xD
- Non esiste un turno estivo o un turno invernale: i pub/bar in inghilterra aprono alle 11.00 e poi suona l'ultima campanella per l'ultimo giro di drink alle 23.00; alle 23.30 precise, chiudono tutto e ti sbattono fuori ^^ Che carini! Io, data la mia ignoranza, mi attenevo all'orario italiano e per rimediare mi sono inventata questa assurdità: perdonatemi!



 

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Capitolo 8
*** Un brivido caldo lungo la schiena ***


Nda: Salve a tutti! Dopo aver compreso che Giugno è appena terminato (ç__ç), eccomi con un nuovo capitolo! 
Volevo solo fare una premessa: non è il solito capitolo ambientato nel bar, ma è essenziale per questioni di trama. Mi spiace che, per evitare di spezzarlo, è venuto un po' lungo. Spero non sia un problema.
Riguardo al capitolo... Ci sto mettendo tutta me stessa, credetemi e... anzi, vorrei dirvi altro: questo capitolo è davvero molto importante per me. C'è davvero una fetta abbondante del mio cuore qui. Non credo sia opportuno dire il perché... Spero che lo capiate da voi, ad ogni modo, ci tengo davvero molto.
Vi consiglierei davvero di accompagnare la lettura con la canzone "To Build a Home" degli Cinematic Orchestra.
Ringrazio coloro che mi hanno lasciato per iscritto il proprio pensiero: siete delle persone stupende, davvero.
Un grazie a coloro che leggono in silenzio, a tutti gli utenti che hanno aggiunto la storia nelle preferite/ricordate/seguite.
Come sempre, aspetto un vostro parere (negativo o positivo, non importa).
Buona, spero, lettura! :)
 

Un brivido caldo lungo la schiena
 
 
La strada sembrava un dipinto di Dalì, dinanzi ai suoi occhi. L’arancio del semaforo si scioglieva in tutto quel nero, creando una tela astratta.
Merlin si era catapultato nella sua auto; Morgana aveva continuato a farfugliare qualcosa dall’altra parte della cornetta, ma lui non l’aveva ascoltata. L’unica cosa che aveva udito era stato il nome dell’ospedale, poi il vuoto totale si era impadronito del ragazzo.
Aveva staccato la chiamata senza neanche rendersene conto, corso come una furia nel corridoio prendendo le chiavi dell’auto, ignorando le continue domande di una Freya spaesata.
Dannazione. Dannazione.
Era impazzito. Il suo cervello stava impazzendo. Stava dando di matto.
Arthur ha avuto un incidente. Arthur ha avuto un incidente.
Quella frase ronzava nella testa di Merlin come un allarme persistente, perforandogli le tempie. Il cuore stava per esplodergli nel petto e, come un bambino, aveva cominciato a piangere in preda alla disperazione.
Tutto quello, non sarebbe dovuto succedere.
 
Londra, inverno 2000
 
Era rimasto con le mani appiccicate al vetro gelido, con i suoi occhioni verso il vialetto innevato. Sul divanetto, accanto a lui, riposava la sua chitarra acustica, quella che gli aveva regalato il suo papà qualche mese prima.
Suo zio, Aridian, si era materializzato nell’entrata di casa sua con un sorriso enigmatico, quasi nascosto.
Merlin, dal canto suo, non ci aveva capito niente. Era rimasto alla finestra, a guardare la neve bianca tingersi di rosso e blu, con le luci dell’ambulante della polizia.
Aridian aveva stretto la mano ad uno dei due agenti, ed era rientrato, portandosi con sé tutto il gelo di quel giorno.
Il piccolo corvino si era incantato, poggiato contro il vetro appannato dal suo stesso fiato: era successo qualcosa, se lo sentiva. I bambini avvertono certe cose.
Quando le scarpe lucide di suo zio fecero capolinea nella stanza, le manine del bambino stavano giocherellando con le corde allentante della sua chitarra.
Non fece domande, non chiese il perché quei poliziotti fossero venuti fin lì, né tanto meno perché i suoi genitori non fossero ancora tornati. Si limitò a pizzicare le corde senza peltro, facendo nota a suo zio: «E’ scordata».
Alzò i suoi occhioni limpidi sul volto sereno dello zio. «Non so accordarla.»
Gli occhi velenosi di Aridian scrutarono la figura minuta del piccolo, che goffamente sosteneva lo strumento ingombrante, molto più grande di lui.
«Papà mi ha promesso che mi avrebbe insegnato a suonarla», spiegò Merlin, guardando fisso l’uomo che aveva di fronte.
Un silenzio tombale scese tra loro, proprio come i fiocchi di neve calarono dal cielo plumbeo di quella maledetta mattinata d’inverno.
«So suonarla anch’io, sai Merlin?», aveva cominciato lo zio, alzando un angolo della bocca in uno strano sorriso, «Qualche volta, magari, ti darò una mano io».
 
 


Londra, Maggio 2015
 
Aveva parcheggiato malamente nel viale del Kilgharrah’s Hospital, scendendo dalla sua auto senza nemmeno ricordarsi di chiuderla o alzare i finestrini.
Era corso a perdifiato all’ingresso, superando le porte scorrevoli di vetro, per poi catapultarsi dall’infermiera accanto al bancone.
«Arthur, Arthur Pendragon. I-Io devo vederlo.» aveva farfugliato, decisamente nel panico.
L’altra lo guardò sospettosa, riagganciando al telefono. «Lei è un parente?»
«Sì», mentì, pentendosene un attimo dopo: «Cioè… no. Ma, non è importante: io devo vederlo!»
L’infermiera, forse sulla cinquantina, sospirò; lavorare in un ospedale era la cosa peggiore che potesse capitare ad anima viva e, solo per un attimo, si era immaginata distesa su una spiaggia tropicale a sorseggiare un brivido caldo, godendosi la salsedine marina. «Il paziente è stato visitato dalla dottoressa Princess; secondo piano, stanza 57.»
Merlin non se l’era fatto ripetere due volte: era corso come una furia al secondo piano, ignorando volutamente l’ascensore, beccandosi una considerevole alzate di spalle dalla povera infermiera – che tanto avrebbe voluto un po’ di riposo e compagnia…
Salì i gradini lucidi a due a due, ritrovandosi nel reparto di ortopedia. Camminò a passo lungo, percorrendo ansiosamente tutto il corridoio.
Doveva vederlo, sapere come stava.
Continuavano a pararsi dinanzi agli occhi le luci abbaglianti dell’auto della polizia, mentre una chitarra scordata veniva pizzicata da mani inesperte. Quel maledetto déjà-vu, il ventenne voleva evitarlo, ma gli era impossibile.
Stanza 57; l’aveva trovata. Spalancò la porta in preda all’ansia, non accorgendosi nemmeno di avere le guance bagnate ed il respiro affannoso.
«Merlin!», un Arthur in perfetta salute – se non per la gamba ingessata – era disteso beato su un lettino ospedaliero. «Non dirmi che mi hai distrutto il bar», lo canzonò.
L’altro rimase interdetto, fermo sulla soglia della porta, mentre lo sguardo attonito dell’altro paziente e di un infermiere lo squadravano, basiti.
Merlin corrugò la fronte, mentre due fossette comparirono sulle sue guance chiare, ancora umide. «I-io pensavo che tu… Sei vivo!» boccheggiò gioioso, mentre un sorriso prese vita sul suo volto.
«Tu… Tu sei vivo!» rimarcò, poggiandosi una mano sulla fronte, sorridendo come un ebete, avanzando verso il biondo. «Pensavo che tu fossi morto, invece hai solo una gamba rotta!», ne rise allegro.
«Solo una gamba rotta?!» ricalcò Arthur, leggermente stizzito, «Vorresti per caso provare, Merlin, ad avere solo una gamba rotta?!»
Merlin si guardò un secondo intorno, convinto dall’occhiata significativa che il biondo gli aveva lanciato. Il paziente, col quale il Pendragon condivideva la stanza, aveva una gamba amputata ed un braccio ingessato. L’infermiere stava controllando il tubo per il rilascio della morfina; tutto questo, prima che il corvino irrompesse nella stanza.
«Mi dispiace…» sussurrò impacciato, notando gli occhi castani del paramedico su di sé. «Bevo troppo caffè», si giustificò, stupidamente.
Arthur roteò gli occhi, bofonchiando un: «Signore, aiutami».
L’uomo in divisa azzurra, si avvicinò al corvino. Aveva la pelle scura e gli occhi molto stanchi e, sembrava quasi muoversi a comando nella sua tuta da lavoro. «Non può stare qui, signore. L’orario delle visite è finito.», gli fece nota, indicandogli il tabellone alla sua sinistra, affisso al muro.
«Rimarrà qui tutta la notte?», chiese preoccupato, «Ma… non è grave, vero?»
«Mi dispiace signore, ma non sono tenuto a renderle presente la situazione del paziente, se lei non è un parente.»
«Ma è ridicolo!» controbatté, con la sua sfacciataggine. «Io merito di sapere come sta, quanto lo meriterebbe un parente!»
«Mi dispiace, ma non sono neanche un medico», disse solamente e risoluto, dandogli una pacca sulla spalla. «Magari eviti di bere altro caffè».
L’infermiere lo esortò ad uscire, senza tuttavia nessun successo.
«Merlin, per l’amor del cielo, fa’ come ti dice: sto bene!» s’intromise il biondo. «Piuttosto…», Arthur era diventato serio in un lampo, mentre il tono di voce s’incupì: «Aggiornati sulle condizioni di Morgana. Non ho più sue notizie dall’incidente e, se devo esserne sincero, sono preoccupato».
«Certo», annuì l’altro, portandosi le mani lungo i fianchi, per poi volgere uno sguardo all’infermiere, mezzo addormentato e mezzo autoritario.
Sospirò, cominciando a dare le spalle al biondo, per uscire dalla stanza, finché la voce di Arthur non lo bloccò nuovamente, facendolo voltare: «Grazie, Merlin».
Il corvino sorrise, accostandosi allo stipite della porta, inchiodando le sue iridi azzurre in quelle bluastre e magnetiche del ventenne. «Sono certo che sta bene», lo rassicurò, prima di regalargli un nuovo sorriso ed uscire dalla stanza.
 
 
 

Il silenzio ritornò tra quelle quattro mura verde pallido, proprio mentre il sorriso di gratitudine di Arthur andò a scemare sul suo volto, illuminato dalla luce elettrica dell’ospedale, attaccata al soffitto.
«State insieme?»
Il biondo si voltò verso l’uomo dalla gamba amputata, in quel momento quasi impacciato con tutto quel gesso che gli fasciava il braccio.
Sorrise, smorzando l’imbarazzo. «Sa… gliel’ho chiesto perché anche Helena, la mia ragazza, si comporta così.» Gli occhi chiari del moro sembrarono quasi luccicare nella stanza di quell’ospedale.
«Beh, a dire il vero Helena non è solo impulsiva: lei è… un terremoto, un uragano… una forza della natura», continuò, mentre le spalle robuste sembrarono rilassarsi di colpo, «una donna semplice, ma complicata».
Arthur aggrottò la fronte, per metà divertito, rialzando un angolo della bocca all’insù: «Dev’essere un’avventura vivere insieme a lei», disse, per poi schiarirsi la voce. «E comunque, Merlin è solo un mio dipendente, un amico del liceo.»
«Ah», l’altro si vergognò della gaffe, rimanendo comunque serio e composto, «Mi scusi, allora».
«E’ che… il modo in cui vi guardate… Il vostro modo di esprimervi… Beh, anch’io guardo in quel modo Helena.» continuò l’uomo, premendo il bottone di quell’aggeggio che aveva tra le mani, per l’iniezione di morfina. «Ad ogni modo, io sono Parsifal».
Il biondo deglutì a vuoto, recuperando velocemente un’espressione distaccata e indifferente. «Arthur».
«Sì», rise l’altro, facendo rialzare ed abbassare il torace. «L’ho sentito dire».
Suo malgrado, il giovane Pendragon si lasciò andare ad una risata moderata; il suo cuore invece, risvegliato come una rondine in volo di primavera, vibrò nel petto.
 
 
 


Merlin aveva camminato su e giù per i corridoi azzurrognoli dell’ospedale, mentre alcuni infermieri del turno di notte si facevano forza con grosse tazze di caffè.
Era felice, certo: sapere che Arthur aveva solo una gamba rotta – invece che essere morto del tutto -, lo aveva rallegrato, ma non aveva ancora inquadrato la situazione. Il solo pensiero che Arthur fosse in fin di vita, - per colpa sua per giunta -, gli aveva mandato in tilt il cervello; non aveva ancora realizzato il fatto che, anche Morgana fosse coinvolta nell’incidente.
Non era un parente e non sapeva come avere sue notizie; tuttavia, avvertì lo stesso un senso di soffocamento e oppressione al suo interno.
Si era fermato davanti alla sala d’attesa, inchiodando le sue scarpe da ginnastica al pavimento lucido.
Morgana se ne stava seduta su una sedia blu, nel mezzo di una fila vacante, con una coperta isotermica sulle spalle. Le sue labbra tremavano, Merlin poteva vederle anche da lì.
Saperla viva, non gli alleviò quell’ansia nata alla bocca dello stomaco. Non sapeva cosa dirle, non sapeva cosa fare; in quel momento, forse, non sapeva neanche muovere un passo.
Se ne stette lì, accanto all’angolo sporgente del muro azzurro, guardandola da lontano, insieme a quella moltitudine di sedie blu, completamente vuote.
«Devi essere qui per Arthur.» Una voce cristallina, al suo fianco, lo fece sobbalzare di poco. «Io sono la ragazza del bar», riprese fiera e sorridente.
Merlin si voltò interdetto verso di lei, corrugando la fronte: «Eh?»
Gli occhi azzurri del corvino si scontrarono con un viso pulito ed elegante, con due occhioni nocciola ed una coda castana bella alta. Le labbra erano leggermente sporcate di lucidalabbra, mentre il camice bianco era in perfetto ordine.
«Sono la ragazza del bar», rimarcò la donna, puntandosi il petto con le mani. «Ho chiesto l’ultimo giro di Vampiro».
L’altro strabuzzò gli occhi, riconoscendo solo in quel momento, nella figura del medico quello della loro cliente abitudinale. «Ma certo!», si schiaffò una mano sulla fronte, «Io non… Non credevo tu lavorassi in ospedale».
La mora sorrise divertita, porgendo gentilmente la mano al ragazzo, presentandosi: «Sono Mithian, comunque».
Un sorriso sbarazzino nacque sul volto del giovane: «Merlin».
«Ho saputo che Arthur è fuori pericolo», ricominciò subito dopo.
«Sì, l’ho curato io stessa».
«E… Dovrà rimanere in ospedale per molto?»
«Merlin», lo canzonò lei, lanciandogli un sorrisino d’intesa, «non posso informarti delle sue condizioni, lo sai».
Merlin sorrise colpevole, abbassando il capo, grattandoselo nervosamente con una mano. A quanto pareva, la Tequila non aveva compromesso la sua lucidità.
Gli angoli rosa luccicanti, della bocca di Mithian, si rilassarono, tornando ad una solita linea retta. Con la sua scarpa da ginnastica spostò un sassolino immaginario dal pavimento, rialzando subito lo sguardo verso il ventenne: «Tu ed Arthur, siete fidanzati?»
«No», rispose repentino Merlin, ridendone imbarazzato. «No! Io e Arthur… Cielo, no!»
L’altra rise della sua sfacciataggine, unendo le mani tra loro, per torturarsele. «Scusami, è che… Battibeccate come una coppia sposata, a volte, quindi ho pensato che…»
«No.», continuò il corvino, scuotendo il capo. «Ho una ragazza».
Mithian annuì, portandosi le mani nelle tasche del suo camice immacolato. Si sentiva tanto stupida ed imbarazzata in quel momento.
Le iridi cristalline di Merlin, intanto, si posarono sulla figura tremante di Morgana, ancora sola su quella sedia scura.
«Come sta?», chiese, indicandole la corvina con lo sguardo.
«E’ sotto shock, ma non ha riportato lesioni gravi. L’incidente l’ha spossata parecchio; tra un po’ le passerà.»
Il ventenne la guardò tremare, proprio come un gattino bagnato. Gli parve quasi un dolce déjà-vu. D’istinto, mosse qualche passo verso la ragazza, prima che la dottoressa lo richiamasse: «E’ sotto shock, Merlin. Non credo…»
«Ci sono già passato».
Ed era vero: Merlin ci era già passato, per davvero.
Una notte di fine inverno, si erano nascosti nel garage in legno – quello che per Merlin era diventato la sua dimora, dopo essere stato accolto da Gaius -, sdraiati sul materasso gettato lì a terra, con i loro corpi nudi avvolti da coperte colorate.
Merlin non sapeva però, che la sua ragazza soffrisse di incubi. Da quando la madre, Igraine, era morta, Morgana non faceva altro che sognare incubi, svegliandosi sudata nel cuore della notte, talvolta sotto shock.
Così, anche quella volta si era svegliata, nel cuore della notte, tremante e sudata. Il fidanzato, suo malgrado, era caduto giù dal materasso, impaurito. Solo dopo aver appurato che no, Morgana non aveva visto un ragno e non c’era nessun assassino in giro, si risistemò sul suo “letto”, allungando una mano verso la piccola abat jour – Gaius era stato proprio magnanimo a lasciargliela -, accendendola.
“Ehi…”, le sussurrò, prendendole il viso tremante tra le mani. “Va tutto bene?”
“M-Mi dispiace”, balbettò in preda allo shock, “di solito sono sola quando…”
“Va bene.”
Appoggiò la testa della ragazza sul suo petto, baciandole la chioma corvina spettinata, dondolandosela tra le braccia. “Ci sono io qui, va tutto bene.”, le aveva detto, carezzandole la schiena con la mano. “Chiudi gli occhi”.
Morgana fremeva tra le sue braccia, ma si era fidata di lui: chiuse gli occhi, proprio come le aveva chiesto di fare, e allora lo sentì parlare ancora: “E’ mattina. Filtrano alcuni raggi di sole dalle finestre, quelle dalle imposte rosse, proprio come piacciono a te”, le sussurrò all’orecchio, tenendosela stretta a sé, “il vento si è calmato, ed i tuoi occhi chiari adesso risplendono nella luce dorata della stanza…” *
Adesso, mentre si dirigeva verso una Morgana sotto shock, le parole di quella notta gli ritornarono a pizzicare le orecchie…
 
“La nostra è una casa in pietra, con pavimenti e mobili in legno…”
 
Ogni passo su quel pavimento lucido, sembrava un tuffo a bomba al suo interno.
 
“In soggiorno, di fronte al camino, c’è un divano a tre piazze; lì ci sdraiamo la sera… quando tu mi costringi a massaggiarti i piedi perché sei troppo stanca…”
 
E poteva sentirlo di nuovo, quel solletico, proprio alla bocca dello stomaco. Quel flusso di ricordi, che aveva conservato nelle vene.
 
“C’è un albero, fuori in giardino. I rami s’intrecciano l’uno nell’altro, su uno sfondo verde…”
 
Verdi, proprio come due smeraldi, gli occhi di Morgana si sollevarono sul volto di Merlin. Il ragazzo se ne stava in piedi, a qualche passo dalla sua sedia, a fissarla senza dire una parola.
Il labbro inferiore tremò ancora un po’, prima che la corvina si alzasse repentina dal suo posto, trovando il riparo che cercava, proprio tra le braccia del ventenne. Posò il volto nell’incavo del suo collo, chiudendo gli occhi.
«Va tutto bene», le sussurrò piano, portando automaticamente le mani che riposavano lungo i propri fianchi a cingerle parte della schiena ed il capo. «Anche Arthur sta bene».
«Ho avuto paura», ammise, quasi lacrimando. Era così smarrita e spaventata… «Ho avuto paura di morire e non rivederti mai più».
Merlin non disse niente. Si limitò a calmarla tra le proprie braccia, muovendo la propria mano tra quelle onde corvine, senza neanche rendersene conto. Il cuore, nel suo petto, si fermò per un secondo mentre un brivido caldo, gli percosse la schiena: non un brivido freddo, un brivido caldo; malinconicamente ed inaspettatamente familiare.
Un sorriso intenerito nacque sul volto delicato di Mithian, che se n’era stata ferma al suo posto per tutto quel tempo. Si era improvvisamente ricordata il motivo per cui aveva scelto di studiare medicina, la ragione che la spingeva a non mollare. Tirò un sospiro di sollievo, sentendosi più leggera, per poi scomparire negli spogliatoi.
 



**Prognosi di Arthur Pendragon**
Rottura della rotula.
Causa: Incidente.
Cura: ginocchio ingessato, un mese d’immobilità, riabilitazione.
 
 


«Hai già finito le tue ore?»
Una Mithian stanca si stava incamminando agli spogliatoi, fermandosi però accanto al bancone, richiamata da un collega. «Con questa ho concluso.», decretò, guardando l’orologio.
Il ragazzo le sorrise di riflesso, mascherando l’allegria del vederla con semplice stanchezza: «Vivete da re in questo posto! Di certo, molto meglio di noi infermieri.»
«Non essere ridicolo, Elyan.», lo riprese cortesemente Mithian, poggiandogli una mano sulla spalla. «Siamo tutti importanti. Salviamo delle vite, tutti noi, sia infermieri che chirurghi.»
«Ehi!», rimbeccò lui baldanzoso, dopo un timido silenzio, «Io lavoro al turno di notte: dovrei pur avere qualche riconoscimento in più».
«Io lavoro ogni qualvolta mi suona il cercapersone. L’unico riconoscimento è poter andare a casa a dormire.»
Compresse le labbra tra loro, lanciando un’ultima occhiata di commiato all’infermiere, per poi allontanarsi. Elyan sbuffò nella sua tuta azzurra: era un cretino!
 
 


Morgana si scostò dal corvino, decisamente più calma di prima, puntando i suoi occhi verdi nelle iridi limpide di lui.
Morgana non era un tipo che cercava riparo, almeno non sempre; testarda, orgogliosa, voleva farcela sempre con le proprie forze, non mostrando mai agli altri quanto stesse male. Eppure… Era Merlin che cercava quando era terrorizzata. Era lui che voleva quando si sentiva spaesata.
A Parigi, era stato molto difficile senza di lui.
«Mi sei mancato.», ammise, con lo sguardo fisso sul ragazzo.
Boccheggiò senza sapere esattamente cosa dire, incollando i suoi occhi in quelli di Morgana.
Perché non lo aveva più cercato? Perché si era rifatta viva, solo dopo due anni? Perché erano arrivati a quel punto?
«Morgana!»
La voce perentoria di Uther tuonò alle spalle dei due ragazzi, spezzando il loro contatto visivo; Merlin si allontanò di qualche passo, sentendo l’occhiata gelida dell’uomo su di sé, mentre preoccupato stringeva sua figlia tra le braccia.
Capì di essere di troppo. Era sempre stato di troppo per Uther Pendragon. Si allontanò, calpestando il pavimento lucido e liscio dell’ospedale, per poi voltarsi un’ultima volta.
L’ultima cosa che vide, prima di tirare dritto e sparire da quel posto, fu il mezzo sorriso che Morgana gli riservò, al quale non rispose.
 
 
 


Si era catapultata oltre le porte scorrevoli dell’ospedale, sistemandosi malamente la borsa sulle spalle. Merlin era uscito di casa come un pazzo, farfugliando il nome del Kilgharrah’s Hospital e “incidente”. Aveva provato a chiamarlo, ma non rispondeva alle sue chiamate, così, non vedendolo tornare, si era decisa a seguirlo.
Freya si era avvicinata all’infermiera cinquantenne dietro il bancone, sperando che almeno quella donna potesse dirle qualcosa, ma poi il suo sguardo si era fermato distrattamente accanto al distributore automatico, dove seduto col capo chino, Merlin si rigirava un bicchiere di caffè.
Guardò in cielo, ringraziando chiunque la stesse osservando dall’alto per quella visione: almeno non avrebbe girato mezzo ospedale temendo di aver perso il suo ragazzo – il giorno prima del loro mesiversario – oltre che al suo datore di lavoro, - nonché acerrimo nemico -, dalle condizioni a lei ancora ignote.
«Come sta?»
Freya prese posto accanto a lui, su una sedia blu, sistemandosi la borsa sulle gambe.
 «Bene.», le rispose meccanicamente. «Stanno entrambi bene».
«Entrambi?»
«Uhm».
«C’era anche lei, vero?»
La voce di Freya si contaminò di una vena amara, mista alla tristezza, che Merlin non poté ignorare. Alzò gli occhi su di lei, guardandola seriamente per la prima volta, dopo tutti quei giorni. «Non eri tenuta a venire fin qui, Freya.»
«Sono qui per te».
La mano della ragazza cercò quella affusolata e fredda di lui, ricoprendone il dorso con il proprio palmo. «Sapevo che non saresti tornato. Tu e Arthur siete una squadra; all’inizio non capivo, ma adesso credo di aver colto il messaggio. Ma io ti amo, Merlin e sono la tua compagna: dormo al tuo fianco tutte le notti, alcune volte uso anche il tuo spazzolino…»
La faccia da ebete di Merlin la costrinse a fermarsi per ridere un secondo, per poi zittirlo con un gesto della mano: «Ma non è questo il punto. Io ti amo, Merlin, e non voglio essere tagliata fuori dal tuo mondo. Perché anche noi siamo una squadra, e allora no, non potevo stare a casa mentre tu eri qui. Resterò qui con te, anche per tutta la notte, perché sei il mio ragazzo; io ho bisogno di stare accanto all’uomo che amo».
Non pretese risposta, le bastarono quelle due fossette che si crearono sul suo volto chiaro, mentre piano lei gli poggiava la testa sulla spalla.
«Non volevo che si sentisse solo», disse solo, guardando un punto fisso davanti a sé.
«Lo so.»
 



Londra, ore 4.22

Squillava. Avrebbe risposto a breve.
«Merlin», la voce velenosa di suo zio echeggiò nel suo orecchio. «Sapevo che il mio incentivo ti avrebbe convinto».
«Avrai i tuoi soldi, Aridian. Li avrai con qualche ora di ritardo, ma te li darò». Merlin serrò i denti, stringendo la mano libera in un pugno. «Ma non osare mai più avvicinarti ad Arthur.», disse serio come mai, quasi ringhiando. «O ti giuro, Aridian, sarà l’ultima cosa che farai».




*** L'angolo di Relie***

Brivido caldo: è un cocktail a base di caffé, Whiskey, Grand Marnier e zucchero di canna. Sembra buono...
- * Questa parte è stata chiaramente ripresa dai versi della canzone sopracitata nelle note d'autrice. 
- Sì, nel mio immaginario Parsifal e Helena stanno insieme. Non sarebbero carini insieme? xD
- Ah già. Elyan come infermiere... Ovviamente il suo personaggio è un chiaro riferimento al medical drama che vede come protagonista il nostro Eoin (Galvano). Non ho saputo resistere, sorry.
- "I'm just a girl in a bar", ancora chiedo perdono.
- Vi sto intrattenendo più del solito, lo so, scusatemi ancora. Volevo solo chiedervi una cosa: quale coppia sostenete in questa fanfiction? Non nel fandom in generale, proprio qui. Sono curiosa. Mi è capitato di sentirmi dire da una Merthuriana di averle fatto piacere il Mergana (mi sono sentita tre metri sopra il cielo, lo ammetto) e quindi mi chiedevo se voi simpatizzate anche per un'altra coppia che non sia la vostra OTP. Sarebbe carino saperlo, non siate timidi!
Detto questo, vi lascio davvero.
Alla prossima!

 

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Capitolo 9
*** Di champagne, pane e aria (Parte I) ***


Nda: Salve e buona sera! 
Inizio col dirvi che questo sarà un capitolo molto particolare: in primis è diviso in due parti - avrei annoiato e non è quello il mio intento -, in secondo luogo, un pezzo è scritto in seconda persona, quasi stesse vedendo una puntata di "Grey's Anatomy", tanto per intenderci. E' qualcosa di azzardato, lo so, ma io ci provo. A voi, ovviamente la parola.
In questo capitolo ho cercato di ritagliare uno spazio un po' per tutti i personaggi, riservando una piccola sorpresa per le merganiane alla lettura ( non mi aspettavo foste così tante, giuro! *-*).
Ovviamente, ripeto, ci sarà spazio per tutte le coppie. Io non sono scontata, occhio!
Concludo ringraziando chiunque abbia letto, recensito i capitoli precedenti: siete persone fantastiche!
Ringrazio coloro che hanno aggiunto la storia nelle preferite/ricordate/seguite.
Come sempre, v'invito a dirmi la vostra opinione.
Detto questo... Buona, spero, lettura!
 


IX.Di Champagne, pane e aria (Parte I)
 


 

La prima volta che l'ho vista, è successo qualcosa.
Qualcosa è scattato dentro di me, come se io e lei fossimo destinati.

- Un medico in famiglia




Eri piccolo, forse avevi appena sette anni.
La prima volta che ti ha picchiato ne avevi due in meno; ti usciva del sangue dalla bocca.
Eri stato stupido, eri stato ingordo.
Troppa fame di curiosità ti ha steso al suolo, accanto al corpo morto di un uomo.
Non hai avuto tempo per molto; hai sentito il sogghigno di tuo zio e, nel buio che calava sui tuoi occhi, hai visto la tua mamma.
“Non essere ingordo, Mer.” ti aveva detto. “Non mangiare troppa Nutella.”
Hai avuto il tempo per un ultimo richiamo, un ultimo ricordo, poi è arrivato il dolore. Troppo forte, troppo acuto. Poi, non hai più sentito niente.
L’avevi svuotato tutto, quel barattolo di cioccolata, eri stato ingordo.
L’unica cosa che ti è rimasta è stata il buio…
 
 
 
 
Londra, Maggio 2015 ore: 9.15
 
 
Perché già di Maggio doveva fare così caldo? E, soprattutto, perché quella stupida ingessatura doveva prudere così tanto?!
Arthur sarebbe stato facile preda di una crisi nevrotica – ovviamente senza fine – se la dottoressa, allegra nel suo camice bianco, non avesse fatto il suo ingresso nella stanza.
«La prego», sospirò esasperata Morgana, «mi dica che può uscire di qui, altrimenti mi metterò ad urlare!».
Arthur, per quanto amasse indispettire sua sorella, si ritrovò in placido accordo con lei; per cui alzò il capo verso l’ortopedica ritrovando i suoi occhi nocciola. «Le assicuro ch’è più fastidiosa del solito».
«Cretino!» lo rimbeccò la corvina, tirandogli una rivista trovata nella sala d’aspetto, in faccia.
«Arpia.» biascicò di rimando.
La donna in camice prese tra le mani la cartella clinica del biondo, ridacchiando divertita. «Ho sempre desiderato avere un fratello».
«Concordo».
Il sorrisino stampato sul volto del fratello, le sembrò irritante quanto una mosca. Morgana assottigliò gli occhi a due fessure, riservandogli una smorfia, per poi concentrarsi sulla dottoressa che intanto aveva ripreso a parlare: «Direi che puoi anche tornare a casa. Le tue condizioni sono stabili e non abbiamo rinvenuto ulteriori traumi.».
«Quindi, può essere dimesso?», domandò la giovane Pendragon.
«Certamente», riprese il medico, portandosi le mani lungo i fianchi. «Ma dovrà seguire la cura: un mese d’immobilità, riabilitazione…»
«Immobilità?!», si lagnò il biondo. «Un mese?!».
Morgana sghignazzò sotto i baffi, lanciando un’occhiata di sfida al fratello. «Mi sa che ti rivedrò più spesso alle cene di famiglia».
Arthur puntò le sue iridi bluastre al soffitto bianco, piagnucolando dentro di sé: odiava le cene di famiglia… Uther, invece, le adorava. Forse, pensò il ventenne, amava rendere la vita dei suoi figli un inferno.
La dottoressa compattò le labbra, guardando stranita i due, rispondendo al posto del biondino: «Credo di sì».
Proprio mentre Arthur incrociava indispettito le braccia al petto, due orecchie a sventola sbucarono dalla porta semiaperta, spalancandola con due mani fredde e affusolate.
«Merlin?».
La fronte del biondo, ancora steso su quel dannato letto d’ospedale si aggrottò, mentre un sopracciglio volò all’insù. «Cosa cavolo ci fai già qui?».
Morgana si voltò verso il corvino: Merlin aveva gli occhi azzurri rabbuiati dalle occhiaie vistose, che risaltavano sulla sua pelle diafana. «Forse dovresti chiedergli cosa ci fa ancora qui.», lo corresse.
«Sei stato in ospedale tutta la notte?», gli chiese Arthur, facendo combaciare finalmente i loro sguardi.
Sul viso del ventenne spuntarono due fossette, accompagnate dal solito sorriso d’ebete. «Credo di sì», pronunciò mezzo assonnato. «Siamo una squadra».
Mithian fece schioccare le labbra, spostandosi dal suo posto. «Vado a prendermi un caffè».
L’ortopedica uscì di scena, mentre Morgana si sollevò dalla sedia scomoda sulla quale era seduta, portandosi una ciocca nera e ribelle dietro l’orecchio. Si sentiva quasi mancare l’aria nello stare così vicina a Merlin – e, per vicini s’intende essere contemporaneamente nelle stesse quattro mura. «Io, vado a cercare papà».
Si congedò dal fratello con uno sguardo, finché il verde chiaro che circondava la sua pupilla non cercò la figura snella del giovane corvino. I due si scambiarono un’occhiata strana, che nemmeno Arthur riuscì a decifrare; la sorella del biondo Pendragon si allontanò dai due ragazzi dirigendosi verso il corridoio, quando venne ostacolata da due sandali bianchi, fissi accanto alla porta.
Le due donne si squadrarono per una manciata di secondi e, solo per un attimo, il mondo sembrò andare a rallentatore. Freya, con i suoi lisci e spettinati capelli castani – liberati dalla stretta dell’elastico-, si mosse per raggiungere Merlin, mentre le onde corvine di Morgana cominciarono a solleticarle la schiena ad ogni suo passo, diritta verso l’ascensore.
 
 
 
 
 
«Oh, cielo. Allora le disgrazie non sono finite.» punzecchiò Arthur, non appena la chioma mora e arruffata di Freya fece capolinea nella stanza. «Anche Frida ha dormito qui?».
C’era abituata. La ragazza ormai non ci faceva neanche più caso all’astio che il biondino nutriva nei suoi confronti. Dunque, educatamente, avrebbe aperto la bocca struccata e…
«Freya».
Fu la voce di Merlin a riempire la stanza. La fidanzata si aggiustò distrattamente la maglietta, annuendo per poi alzare le mani in segno di resa. «Vi lascio soli, ho capito».
«No, non parlavo con te».
Freya lo guardò stranita nell’accorgersi che tutta l’attenzione del ragazzo era indirizzata al Pendragon.
Il corvino si avvicinò di qualche passo al materasso dove Arthur lo guardava confuso, con la sua faccia da schiaffi; Merlin indicò col palmo spiegato la ragazza un po’ più indietro di lui, guardando fisso il viso dell’Asino. «Freya. Si chiama Freya: non Frida, non disgrazia, ma Freya e che ti piaccia o no, lei è la mia ragazza».
Poggiò le mani sulla pediera, circondandola con le dita. «Tu sei il mio migliore amico, Arthur, dovresti stare dalla mia parte».
Il prurito che gli dominava la gamba sembrò aumentare vistosamente, per poi spostarsi alle mani che Arthur richiuse in automatico in due pugni. «Va bene.» disse solo, calmando la tempesta feroce nei suoi occhi. «Farò del mio meglio».
Sì, lo avrebbe fatto e Merlin lo sapeva bene.
Sapeva quanto Arthur fosse cocciuto ed orgoglioso, ma conosceva anche un lato nascosto di quel biondino viziato: Arthur Pendragon era la persona più importante della sua vita e, umilmente, sapeva che valeva lo stesso anche per lui.
Arthur era una persona eccezionale, unica, vera e avrebbe fatto di tutto per Merlin: erano una squadra.
Si sorrisero a vicenda, consci l’uno del pensiero dell’altro, lasciandosi andare nel loro spazio: l’ospedale, i medici, Freya… tutto era sparito, c’erano solo due facce della stessa medaglia.
E se non fosse tutta una sua fantasia?
Arthur cominciò a chiedersi se quel fastidio e l’astio nei confronti di Freya non fosse gelosia, se Merlin non fosse solo un amico per lui, ma…
Una risata spezzò quello spazio magico, riconducendo la mente del biondo al presente, dove uno stupido Merlin sghignazzava come un Paperino ubriaco.
«Hai fatto un passo falso, Arthur!» farfugliò, piegato in due dalle risate. «Hai iniziato la giornata col piede sbagliato!».
E fu così che, dando voce al suo interno, Arthur lasciò che la mano gli prudesse senza nasconderlo, afferrando quella rivista rovesciata sul lenzuolo azzurrognolo e scagliarla contro la faccia di quell’imbecille.
 
 
 
 
 
Era scesa al piano terra; si era guardata intorno prima di uscire dall’ascensore e calpestare il pavimento lucido dell’ospedale. Di Uther, neanche l’ombra.
Pensò di cercarlo accanto al distributore automatico, ma poi le saltò alla mente la realtà più banale e intuitiva del mondo: loro due erano simili, così tanto da far paura.
Arricciò le labbra; era ansiosa, probabilmente anche suo padre lo era, e quando suo padre era nervoso c’era una sola cosa che poteva calmarlo.
Oltrepassò le porte scorrevoli dell’entrata, sentendo il sole di Maggio sbatterle caldo sulla faccia, colorandogliela di un dorato confortevole.
Lo vide in piedi sulle sue scarpe nere, qualche passo più avanti di lei. Le rughe che gli rigavano la fronte si erano accentuate con gli anni. Ricordava che quando era piccola avrebbe voluto averlo solo per sé, ingelosita dalla mamma. Ma poi, il tempo era passato e le cose erano cambiate…
«Lo dimettono» disse, avvicinandosi al fianco del padre, «ed ha già borbottato a causa delle cene».
Il fumo della sua Marlboro uscì delle labbra sottili dell’uomo, creando una nuvola grigiastra.
«Non credo tornerà a casa. Penso che andrà nel suo appartamento… Potrei fargli compagnia io: Arthur è caparbio quanto stupido.» Morgana rise lievemente, guardando il padre con la coda dell’occhio. Era così serio, così autoritario…
C’era stato un tempo, dopo che Igraine li aveva lasciati, in cui il padre le incuteva timore. Ma, come aveva esaminato poc’anzi, le cose cambiano.
«Non ha ancora trovato una ragazza».
La voce di Uther Pendragon era fredda, pungente, quasi come il vento di Dicembre. «Quella screanzata lo ha tradito e lui resta con le mani in mano. Quel ragazzo gli fa male: sapevo che doveva allontanarlo anche da lui».
Il naso pallido della corvina venne avvolto da una nube di grigio, costringendola ad arricciarlo. «Ginevra è una mia amica, papà. Certo, ha sbagliato, ma è una mia amica!».
Assottigliò lo sguardo guerrigliera, mentre vide il volto rasato del padre voltarsi nella sua direzione.
«Per quanto riguarda Arthur, penso che dovresti dargli tempo. Sai com’è fatto: è orgoglioso, più di te! Ha messo in gioco se stesso e si è perso; se non ci fosse stato Merlin… Non puoi separarli: loro hanno bisogno l’uno dell’altro».
Il padre l’ascoltò in silenzio, con l mascella serrata ed i primi bottoni della sua camicia cobalto sbottonati, poi avvicinò le labbra al filtro ed aspirò, fino a riempirsi tutte le guance.
«Non vedo l’ora di conoscere Mordred.» Uther cacciò il fumo dalla bocca, guardandola severo. «Sarà divertente vederlo lavorare nel bar… con Merlin».
Stavolta fu Morgana a starsene zitta e serrare la mascella. Lo faceva sempre quando era in difficoltà, ed il padre lo sapeva bene.
«Tuo marito non sa che sei tornata dal tuo ex?».
«Non è mio marito», replicò repentina, «e non sono tornata qui per lui: Merlin è una storia finita, papà, tu dovresti saperlo meglio di chiunque altro».
Il brizzolato strinse con meno delicatezza il filtro della sua sigaretta, facendo cadere la cenere al suolo. Odiava essere guardato in quel modo dalla figlia: Morgana non lo capiva, mai.
«L’ho fatto per il tuo bene, Morgana.» disse, dirigendo il suo sguardo sul volto arrabbiato di lei. «Cerco solo di proteggerti, di proteggervi!».
Le labbra rosse della figlia fremettero per la rabbia, costringendola ad una smorfia strana; Morgana odiava quell’aspetto del padre, detestava il fatto che pensasse di poter decidere per loro. Non sopportava che il padre credesse di avere sempre ragione.
Sollevò un angolo della bocca in un ghigno di provocazione.  «Magari andando al gruppo di sostegno».
Uther s’irrigidì di colpo, la bocca semiaperta in un’espressione di stupore. La figlia l’oltrepassò, lasciando sfumare quel sorriso provocatorio dal volto chiaro, lasciandolo solo, in piedi sul grigio del marciapiede.
La Marlboro rischiò di cadergli dalla mano destra, che intanto aveva cominciato a tremare. Decise di chiudersi la bocca col filtro, ispirando quanto più fumo possibile, volgendo lo sguardo al verde prato che fronteggiava l’ospedale, dall’altra parte della strada.
Non aveva dubbi: lui e sua figlia erano uguali.
 
 
 
 
 
 «Odio le sedie a rotelle!», si lamentò Arthur seduto su quell’aggeggio, trascinato da Merlin.
«Suvvia, Arthur, non fare il drammatico!» commentò svagato il corvino, svoltando alla sua sinistra, seguito da Freya. «In fondo è… come essere in una macchina! Solo che non guidi, non ti muovi e… aspetti che qualcuno ti spinga».
Il biondo frenò le ruote con le mani, acciuffando la maglietta di quell’idiota trascinandolo alla sua altezza, con un finto sorriso d’apprezzamento. «Non è come essere in una macchina, Merlin, ma è come essere la macchina, però rotta.».
Strinse forte la stoffa rossa nelle sue dita, trasformando la sua finta espressione serena in un volto crucciato; Merlin, tra l’altro, passò dal divertito al preoccupato appena lo risentì parlare: «Sono già abbastanza rotto, vedi di non danneggiare altro».
Detto ciò, gli lasciò la maglia, dandogli ripetute pacche sulla spalla con una faccia che, Dio, Merlin avrebbe seriamente preso a pugni!
«Bene», disse mettendosi comodo – ovvero, facendo finta di non essere lì. «Spingi senza dare voce ai tuoi pensieri malsani, Merlin».
Il nome calcato del corvino venne sovrastato da uno sbadiglio mal contenuto di Freya, che a stento riusciva a tenere ancora gli occhi aperti. (Dormire sulla spalla di Merlin, non era così comodo come aveva previsto).
«Sarò meglio che porti la tua ragazza a casa», gli fece nota Arthur, lanciando una mezza occhiata alla mora insonnolita.
Merlin si controllò l’orologio da polso: erano le nove e trentacinque, avrebbe fatto meglio a sbrigarsi.
Nel vedere arrivare Mithian nella loro direzione, fece cenno con la mano di raggiungerli.
«Oh, eccovi qui!» La dottoressa si piantò di fronte ad Arthur, raggiante. «E’ come essere in una macchina, vero?».
Freya esalò l’ennesimo sbadiglio, socchiudendo appena gli occhi, prima di essere presa sottobraccio da un Merlin frettoloso che intanto si era sporto accanto all’ortopedica. «Mithian, noi dobbiamo andarcene. Morgana non si è fatta ancora viva e mi chiedevo se tu…»
«Sono una specializzanda, Merlin: ho il giro delle visite, non sono un’infermiera».
Merlin si morse il labbro, facendo scivolare lo sguardo da un impaziente Arthur ad una Freya mezza addormentata sulla sua spalla, per poi avvicinarsi alla donna e sussurrarle supplichevole: «Il prossimo giro l’offre la casa».
Mithian lo guardò titubante, incrinando appena la testa di lato, per poi annuire. «Affare fatto».
«Bene», disse volgendosi verso l’Asino, «io accompagno Freya a casa, allora».
«Sparisci», lo liquidò il biondo a braccia incrociate. «Ah, ehm… Merlin! Le macchine rotte possono far male».
La specializzanda corrugò la fronte senza capire, mentre invece il corvino annuì esasperato a quella metafora, per poi sparire dopo aver sussurrato a Mithian: «Grazie».
 
 
 


«Per fortuna esistono i giorni di chiusura.» Arthur ringraziò chiunque lo stesse – o non stesse – guardando dall’alto.
Una leggera risata risuonò dalla trachea della mora che intanto aveva spostato la carrozzella accanto ad una sedia blu, con lo schienale contro il muro chiaro.
Il biondo si girò alla sua destra mentre Mithian prese posto accanto a lui, guardandola bene in faccia. «Ci siamo già visti da qualche altra parte?».
«Direi proprio di sì», rispose l’altra mostrando la sua dentatura. «Vengo spesso nel tuo locale, quasi tutti i giorni».
Le labbra rosee del giovane si aprirono in un sorriso sincero, affascinante e calibrato. «Sei la ragazza del bar».
«Mi chiamate davvero così?».
«Non più», affermò il biondo porgendole la mano. «Sono Arthur Pendragon: il proprietario di quel fantastico bar».
La specializzanda rise divertita, stringendo tra le sue dita la mano calda e accogliente del ragazzo. «Mithian Princess: la ragazza di quel fantastico bar».
Arthur rimase in silenzio per qualche secondo a fissarla con i suoi occhioni blu e, per un attimo, Mithian credette d’imporporare. Era piacevole stare lì, osservare il biondo dorato dei suoi capelli e l’oceano dei suoi occhi ammalianti, ma lei era una specializzanda che amava il calcio ed il sudore e forse era di sette anni più grande di lui.
Si schiarì la voce, mentendo la sua posizione. «Dev’essere bello lavorare in un bar… specie insieme al proprio migliore amico e…»
«Non dire Morgana, ti prego. Vivere con lei per diciotto anni è stato abbastanza».
«Beh, non puoi negare che sia divertente. Poi, se aggiungi il fatto che tua sorella è fidanzata col tuo migliore amico…»
«Cosa?!» Arthur la bloccò interdetto.
«Oh… Scusami!», Mithian scacciò via l’imbarazzo della gaffe con un gesto della mano. «Li ho visti così vicini ieri notte che ho pensato… Questa è la seconda volta che prendo un granchio!».
Arthur avrebbe voluto chiederle altro, avere ulteriori spiegazioni, ma le sue intenzioni furono interrotte da una Morgana composta seguita dal padre.
«Ho sempre desiderato che arrivasse questo momento», ciarlò la sorella in una stupida smorfia da bimba felice. «Adesso comando io, Arthur».
Tuttavia, il biondo non disse nulla. Si limitò a guardare disorientato suo padre che intanto gli sorrideva a stendo dietro quella maschera da re autoritario, mentre il suo interno andava a rotoli.
Che cosa si stava perdendo?
 
 
 
Freya s’era addormentata sul sedile del passeggero, con la testa poggiata contro il vetro fresco del finestrino alzato.
Sarebbero tornati in ospedale nel pomeriggio a riprendere l’auto della mora, ma in quel momento la ragazza era fuori uso. Merlin tirò un sospiro di sollievo: saperla dormiente voleva dire niente testimoni.
Il Pendragon’s Coffee era silenzioso accanto alla sua auto.
Prese un bel respiro: non era sicuro che quella fosse la cosa giusta da fare, ma era l’unica cosa che impedisse ad Aridian di riavvicinarsi al bar, alla sua vita e ad Arthur.
Convinto di ciò, spense il motore dell’auto, cacciando fuori dalle tasche dei suoi pantaloni le chiavi del locale, quelle che Arthur stesso gli aveva lanciato la notte prima.
«Merlin…» mugugnò Freya, svegliata appena dal rumore della portiera. «Siamo a casa?».
Cavolo, era sveglia!
Il corvino si convinse che non poteva farlo: non poteva prelevare tremila sterline dalla cassa del bar senza che Freya se ne accorgesse; così, a denti stretti, decise di risalire in macchina. «Volevo assicurarmi di averlo chiuso».
Lei aprì meglio gli occhi, sgranchendosi di poco, per poi voltarsi verso il sedile dalla parte del volante. «Sei un pessimo bugiardo, Merlin».
Glielo aveva detto, finalmente. Non c’era più riuscita: quello era il giorno del loro terzo mesiversario e Merlin, da una settimana buona, non faceva altro che mentirle e comportarsi in maniera sfuggente.
E, in quel momento, occhi negli occhi di quella ragazza che tanto aveva cercato dopo la grande delusione con Morgana, capì di non potersi più tirare indietro, che non era giusto nei suoi confronti, perché Freya ci stava provando davvero ad amarlo.
Sospirò, portando lo sguardo verso il parabrezza dove i raggi del sole si erano accucciati, prima di parlare: «La prima volta che l’ho vista aveva i capelli sciolti, naturali. Il giorno seguente avrei tenuto un compito di fisica e Arthur mi aveva praticamente obbligato ad aiutarlo. Come sempre, mi aveva ordinato di fare qualcosa e quel qualcosa quel giorno era prendere il suo libro di fisica, gettato nella camera della sorella; ed io, come sempre, avevo eseguito il suo ordine e l’ho vista. Rideva di buon gusto con Gwen, la sua migliore amica, provandosi un vestito nuovo… Ricordo che mi ha incenerito con lo sguardo quando sono entrato senza bussare. Io allora ho balbettato qualcosa di sconnesso, abbassato il capo e sono fuggito dalla stanza con il libro tra le mani.»
«L’ho rivista il giorno seguente fuori scuola ed è lì che ho capito che non l’avrei più dimenticata: lei baciava un altro ed io mi sono sentito crollare il mondo addosso. Non avrei mai creduto che un giorno lei si sarebbe innamorata di me, ma è successo. Lei è stata la prima a credere in me, l’unica donna dopo la morte dei miei a farmi prendere tra le mani una vecchia chitarra».
Senza che neanche se ne accorgesse, una lacrima era scivolata dai suoi occhi, rigandole la faccia. «Perché è finita?».
«Perché mi sbagliavo», Merlin si voltò verso di lei guardandola bene negli occhi, «non eravamo fatti per stare insieme».
Freya si asciugò con la mano la lacrima solitaria sul suo volto, mentre Merlin rimase per un attimo con lo sguardo nel vuoto, prima di rimettere in moto.
Guidò in silenzio fin sotto casa, dove tirò il freno a mano, accostandosi al marciapiede. «Io devo fare una cosa, tu non muoverti. Aspettami a casa, tornerò presto».
Per quanto quelle parole le suonassero amare, decise di fidarsi di lui. Era il giorno del loro mesiversario e lui sarebbe tornato, ovunque fosse andato.
Si strofinò le labbra tra loro, per prendere il viso di Merlin tra le mani e baciarlo piano, lentamente. «Ti aspetterò».
Scese dall’auto guardandolo andare via, per poi portarsi una mano sul cuore: da quando tutto correva così veloce?
 
 
 
 
Parcheggiò malamente, scendendo dall’auto col cuore che gli batteva a mille nel petto.
Bussò più e più volte al campanello, fin quando non sentì un brontolio avvicinarsi con dei passi.
Quando la porta si aprì, Merlin credette di svenire per la troppa agitazione: era sotto shock.
«Merlin…»
«N-non so cosa fare. Ho paura. Ho bisogno di te».


 




 



** Angolo Relie**

- So che il titolo sembra non avere senso ma, credetemi, ce l'ha xD Lo capirete nel prossimo capitolo...
- Domandina! - Mi piace questo angolo di domande, ci sto prendendo gusto. Che tipo di finale preferite? Chiuso, circolare o aperto?
- Seconda domandina! Visto che nel prossimo capitolo dovranno entrare in scena i genitori di Freya - non vi dico perché, non vi dico per cosa -, mi chiedevo se voi preferiste personaggi canon o mi concedereste di creare degli OC. Io, francamente, preferirei i canon, ma non so proprio chi scegliere. Voi, cosa mi consigliate? 
Detto questo vi saluto, davvero.
Grazie ancora per tutto!

 

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Capitolo 10
*** Di champagne, pane e aria (Parte II) ***


Nda: Salve! Sono finalmente riuscita a finire questo capitolo!
Mi dispiace, ma ci sarà anche la terza parte... sarebbe stato lunghissimo altrimenti.
Ma, sono soddisfatta! In questo capitolo troverete:
a. Il senso del titolo;
b. Il primo incontro tra Gaius e Merlin
c. Accenni di altre coppie e...
d. I genitori di Freya.
Bene. Detto questo, passo col ringraziare particolarmente le persone che mi stanno sostenendo in questo viaggio bellissimo e che, capitolo dopo capitolo, mi stanno regalando parte del loro tempo lasciandomi le loro opinioni. Grazie anche a tutte le persone che hanno aggiunto la storia nelle seguite/ricordate/seguite. Grazie, davvero!
Dedico questo capitolo, in particolare, alla mia Nox - fiera babbana di Merlin, ma grazie a me sostenitrice della Mergana. Spero che lo gradirai, una piccola parte di questo capitolo è stato scritto solo per te, sappilo! 
Detto questo, vi lascio alla lettura di questo nuovo capitolo, sperando che sia di vostro gradimento.
Lascio a voi la parola.
Buona, spero, lettura!
 



X. Di Champagne, pane e aria (Parte II)
Soundtrack:Click 
 
 
 
Chi può dire perché il tuo amore rimpiange,
ciò da cui il tuo cuore è fuggito?
Solo il tempo.
- Enya 
 
 

«N-non so cosa fare. Ho paura. Ho bisogno di te».
Aveva sussurrato quelle parole con un fremito alle labbra carnose, sentendosi le gambe tremare come un coniglio impaurito, anche se, dietro quella maschera di cera pallida, il suo corpo restava inerte.
Lo sguardo burbero dell’anziano allora, s’addolcì con dosi istintive di preoccupazione paterna, verso quel ragazzo ch’era stato il figlio che non aveva mai avuto.
«Entra», gli aveva solo detto, afferrandolo per un braccio.
Il ventenne si lasciò trascinare nella casa familiare e confortevole di Gaius, guardando distrattamente il tavolo in legno non tanto alto, dove se ne stava un vaso colmo di viole.
Le viole.
 

“Merlin…”, la ragazza aprì la finestra, intravedendo nel chiarore della luna il corvino seduto sui talloni, sul davanzale. “Cosa ci fai qui?!”.
Merlin le porse il mazzo di fiori che sorreggeva nella mano, con un sorriso allegro e impacciato. “Buon mesiversario”.
Il buon profumo di quei fiori la costrinse a sorridere, portandosi i petali al naso, inspirando ad occhi chiusi; poi, Morgana ridiventò seria di colpo, lanciandogli un’occhiata glaciale. “Se mio padre ti becca sei morto!”.
Gli occhi azzurri di Merlin brillarono nella notte, insieme ai raggi lunari, fissandosi sul volto candido della ragazza rischiarata dalla notte.
Si sporse in avanti, prendendole il viso tra le mani per baciarla forte, come se non potesse più farlo per il resto dei suoi giorni.
“Ne sarà valsa la pena”, le aveva sussurrato, allontanando le proprie labbra da quelle morbide e struccate di lei.
Morgana sorrise, mentre Londra era coperta da una trapunta di stelle, e se lo trascinò a sé lasciandolo entrare, sbattendolo sul proprio letto.
 

«Merlin?».
Il ragazzo si voltò distrattamente verso Gaius, - che probabilmente lo aveva richiamato un numero considerevoli di volte, per convincerlo a preoccuparsi – abbandonando notti stellate e viole cadute sul pavimento, nella sua mente.
L’anziano invitò il corvino a sedersi sul divanetto verde, affiancandolo, poggiandogli una mano sulla spalla. «Che succede, figliolo?».
Merlin non n’era certo, ma una goccia di sudore parve scivolare dalla sua fronte. «A-Aridian».
L’ex medico militare s’irrigidì di colpo nell’udire quel nome.
Un velo di preoccupazione s’impossessò dei suoi occhi, proprio come un lampo avrebbe squarciato il cielo.
«E’ tornato, i-io… non so cosa far-»
Merlin respirava affannosamente, prendendo fiato di continuo, quasi stesse annegando.
Gaius spalancò i suoi occhi scostanti, redendo più salda la presa alla spalla del ragazzo. «Merlin, devi calmarti».
Il petto del giovane si alzava e s’abbassava ad una velocità spaventosa.
Gaius ebbe paura, solo per un attimo. «Ascolta la mia voce, Merlin. Rilassati».
Cercava di ascoltarlo, ma l’immagine di Arthur che cadeva dalla moto, rimanendo steso al suolo lo turbava, ed annebbiava tutto.
L’anziano cercò di calmarsi, almeno lui, riprendendo la lucidità che lo aveva sempre contraddistinto nel suo lavoro; s’alzò dal divano, raggiungendo svelto – per quanto la sua età glielo consentisse – il cestino con le sue medicine: da qualche parte doveva pur esserci un misero sacchetto di carta!
Gaius si sentì più sollevato nel trovarlo, mezzo accartocciato, sommerso da aspirine e pacchetti di pillole. Cercò di stenderlo alla bell’e meglio, tornando frettolosamente dal ragazzo.
«Tieni.» Gli poggiò il sacchetto sul volto, costringendolo a respirarci dentro.
Pian piano, il respiro di Merlin tornò naturale ed il terrore che invadeva i suoi occhi chiari, sembrò svanire.
Gaius tirò un sospiro di sollievo, stringendo a sé il ragazzo.
Era preoccupato, forse più del corvino. L’anziano ricordava fin troppo bene quel farabutto di Aridian…
 
 
 
Londra, Luglio 2011



L’estate, a Grosvenor Road, era tranquilla.
Seduto sulla sua sedia a dondolo, poteva sentire il vento fresco della sera posarsi sulla sua faccia rugosa.
Il sole era calato da poco ed il cielo di Londra si era colorato di cobalto e magenta, dedicando agl’inglesi l’ultima sfumatura di tramonto.
Quello era il suo momento di pace.
Non aveva ancora abbandonato la sua passione per la medicina, ma d’altronde come avrebbe potuto?
In quei momenti, quando il cielo prendeva il volto di un quadro di Pinchon, Gaius ricordava di essere solo.
Rientrava solo dopo aver scrutato in cielo la prima stella della notte, richiudendosi la porta alle spalle.
Esaminava, come un vecchio rituale, casa sua in ogni particolare: il colore scuro del divano, il suo Lasker in bella mostra su un mobile in legno, poi le viole.
Le piantava ancora, nel giardino piccolissimo sotto casa sua, quasi lei potesse vederlo davvero, dalla finestra della loro cucina.
Amava la solitudine, la medicina, teneva molto ad ogni suo cliente “clandestino” com’era vero che gli mancava ogni giorno, la sua Alice.
Avere quei fiori sempre freschi in casa, gli ricordava che in qualche modo ci fosse anche lei, con i suoi occhi caldi e la treccia biondo caramello.
Vivian, loro figlia, aveva preso strade diverse dai suoi genitori: si era trasferita lontano da casa, prima in Italia poi in America, seguendo la sua passione per l’architettura.
Quella sera del 12 luglio 2011, si era consolato con una tazza di tea, ed aveva ripreso tra le mani vecchie lettere…
 
Febbraio, 1988
Mio amato Gaius,
ho preso carta e penna tra le mani per scriverti questa lettera, in un momento d’incertezza.
Vorrei tanto averti qui con me, ma tu stai guarendo persone nel bel mezzo della guerra ed io non posso fare altro che confidare nel tuo ritorno e, sperare, che le mie parole sappiano portarti calore.
Vivian sta crescendo bene; troppi sono i ragazzi che s’appostano sotto casa.
Ultimamente frequenta un certo Leon… Sembra un bravo ragazzo, ti piacerebbe di sicuro.
Ma, vedi, non è nostra figlia a preoccuparmi ma la piccola Igraine.
Sono in pensiero, Gaius. Ho promesso a mia cugina che l’avrei tenuta d’occhio, che mi sarei presa cura di lei.
Non m’impensierisce il suo lavoro nel bar, insieme a me, ma il tizio col quale lo vedo parlare.
Le brillano gli occhi quando lo vede entrare nel locale, sorride troppo a lungo quando prende gli ordini.
Quell’uomo è diverso dalla nostra Igraine. Ha le spalle dritte, gli occhi freddi…
 
 
Gaius distolse bruscamente gli occhi dalla lettera, udendo un tonfo sordo dal corridoio.
Rimase a guardare oltre la porta della cucina per un po’ di tempo, poi si tolse gli occhiali che aveva indossato per la lettura sul tavolo, e andò a controllare.
Spesso, l’anziano era solito lasciare la porta che dava al retro della casa aperta fino a tardi, nel caso volesse controllare i fiori per un’ultima volta. Probabilmente, pensò, il rumore proveniva da lì.
Il cigolare del parquet sotto le sue ciabatte gli ricordò di essere più cauto: era stato un medico militare, aveva convissuto con le bombe ed i fucili, un misero intruso non avrebbe potuto inquietarlo.
Prese la scopa, dimenticata in un angolo della casa, come arma con la quale difendersi, sbucando piano dietro la parete fiorata che dava al corridoio.
La mazza che aveva precedentemente sollevato d’istinto per aria, finì per essere abbassata insieme alla sua difesa.
Accanto alla porta secondaria, seduto stremato sul pavimento in legno scuro, un ragazzo tremava di freddo, di paura.
Aveva il labbro spaccato ed un occhio nero. Si reggeva il fianco dolorante, mentre in una mano insanguinata stringeva una chitarra, lasciata rovinosamente cadere a terra.
«Chi diamine sei tu?».
Tremava, tremava solamente e nella luce calda che proveniva dal soggiorno, gli occhi azzurri del ragazzo sembrarono implorare aiuto.
Le parole morirono nella gola di Gaius quando udì uno sparo dalla strada, seguito da imprecazioni urlate alla luna.
L’anziano guardò un’ultima volta il ragazzo; il corvino aveva aumentato la presa alla sua chitarra ed i suoi occhi erano diventati lucidi.
L’ex medico militare non dovette rifletterci a fondo: chiunque fosse quel ragazzo, stava scappando da qualcuno che sparava nella notte ed urlava minacce di morte alle stelle. 
S’avvicinò alla porta in legno, riverniciata di verde, dove dal piccolo vetro s’intravedevano le viole germogliate in giardino. La chiuse, senza esitare.
Senza fiatare, corse dall’altra parte del corridoio, chiudendo a chiave la porta d’ingresso. Andò in cucina a prendere una ciotola piena d’acqua ed un panno, per poi sbirciare dalla finestra.
Gaius non avrebbe mai dimenticato gli occhi velenosi di quell’uomo. Scrutavano il viale alberato con una tale foga da far paura, anche ad un ex milite.
Tornò dal ragazzo sedendosi di fronte a lui, bagnando il panno e passarglielo sulle labbra spaccate.
Il giovane, forse ancora sedicenne, non tremò a contatto con l’uomo, quasi si fidasse di lui. Quasi sapesse chi fosse.
«H-Hunit…» fu solo un sussurro, niente di più. Gaius lo sentì appena.
«Sono il figlio di Hunit. Mia madre era una tua paziente.» disse, alzando un po’ la voce, facendosi sentire dal medico.
L’altro lo guardò ad occhi sbarrati per qualche secondo, prima che nocche prepotenti iniziassero a martellare il legno chiaro della porta d’ingresso.
L’anziano ingoiò molta saliva, cercando di calmare il ragazzo.
«Fa’ vedere», gli disse, scostandogli una mano dal fianco. «Ti ha preso?».
«E’ grave?».
Gaius controllò accuratamente il fianco del ragazzo, alzandogli la maglietta pregna di sangue. L’aveva preso di striscio, forse l’unica cosa buona della serata.
Gli poggiò il panno sulla ferita, dicendogli di premere: «Tieni premuto e corri nella stanza accanto».
Vedendolo allontanarsi, l’anziano cercò di darsi la forza necessaria per alzarsi e proseguire verso la porta, torturata ancora da quel tizio.
L’aprì piano, con estrema naturalezza, ritrovandosi dinanzi agli occhi un volto arrabbiato, quasi famelico. La pistola stretta in mano. Puzzava d’alcool, il suo fiato. «Dov’è?».
«Serve aiuto?», domandò.
«Mio nipote. Cerco mio nipote». Gli occhi sembrarono urlare per lui.
«Mi dispiace, signore, ma non ho visto nessuno. Stavo per coricarmi, sa… Alla mia età si è sempre stanchi». Gaius sorrise cortesemente, aprendo di più la porta. «Vuole controllare lei per me? Non vorrei avere per casa un tizio pericoloso…».
Il ragazzo sentì il cuore fracassargli il petto, punendosi da solo per aver dato fiducia a quell’anziano.
«No», biascicò con l’alito pesante. «Torni a dormire».
«Buona fortuna», finse l’altro, felice di poter terminare lì quel colloquio e chiudere la porta.
 
 
 

Londra, 2015.  Ore: 10.13
 
 
 

«Ho dei risparmi».
Dopo che si fu calmato, Merlin spiegò la situazione a Gaius, tra un sorso e l’altro di tea. Gli raccontò del ritorno di Aridian, dell’incidente di Arthur e Morgana, della sua idea di prelevare soldi dal Pendragon’s Coffee.
L’anziano allora lo ascoltò in silenzio, stando bene attento alle sue parole, per poi buttare lì quella frase: «Ho dei risparmi».
Gli occhi azzurri di Merlin si staccarono dal colore caldo del tea, per raggiungere quello più confortante degli occhi di Gaius. Non disse niente per qualche secondo, aspettando che fosse l’ex medico militare a parlare ancora.
«Io e Alice avevamo messo da parte un po’ di denaro…», rassicurante come una carezza, la voce dell’anziano usciva pacata dalla sua bocca. «Non abbiamo mai avuto modo di spenderli come volevamo».
«No», dissentì immediato il giovane, «non posso accettare quei soldi». «Sono i vostri risparmi, tuoi e di Alice… Io, non posso. No, non posso.»
«Certe volte la tua stupidità sa sorprendermi davvero.» Gaius si voltò verso il corvino, dedicandogli uno sguardo severo. «Cosa farai, quando Arthur si accorgerà che misteriosamente tremila sterline sono scomparse, dal suo bar?».
Prima ancora che Merlin potesse riprendere fiato per controbattere, l’anziano continuò: «E cosa credi succederà, quando Aridian si accorgerà che non hai neanche un soldo bucato?». «Io non ho bisogno di tutti quei soldi. Alice sarebbe stata d’accordo con me».
«Non gli basteranno, mai!» aveva sbottato improvviso il ventenne. «Tornerà ancora e ancora, chiedendo sempre di più, e allora i soldi che voi avete racimolato saranno stati inutili: Alice non approverebbe una cosa simile».
Gaius stette zitto, distogliendo gli occhi da quelli esausti del ragazzo, volgendo lo sguardo altrove, verso il vaso di viole. La foto di lui ed Alice al primo appuntamento, catturò la sua attenzione con tutto quel seppia antico. Cosa avrebbe fatto Alice, se fosse stata lì accanto a lui? Cosa gli avrebbe detto?
«Dovresti denunciarlo, Merlin».
L’infuso dolciastro sembrò diventare acido, nel suo palato. Lo mandò giù piano, scuotendo leggermente la testa. «A cosa servirebbe?», chiese, quasi come una supplica. «Ho visto poliziotti uscire da casa sua con un sorriso sulle labbra. Ha complici ovunque: la società è corrotta».
Il silenzio tornò a regnare tra loro, mentre il tic-tac dell’orologio da polso del corvino riempiva il vuoto della stanza, scadendo i pensieri inesistenti dei due.
«E… poi Aridian non è l’unico problema», la mise lì Merlin.
A Gaius bastò un’occhiata, anche distratta, al suo ragazzo per comprendere appieno quello che gli passava per la testa. In fondo, era come un padre per lui.
«L’ami?» La voce dell’ex medico era calma, paterna. I suoi occhi erano accoglienti: calde isole nelle quali approdare.
Merlin non riuscì a sostenerne lo sguardo. «N-Non lo so… è tutto così…», farfugliava, gesticolando con l’unica mano libera. «Va via, torna. Decide sempre tutto lei. Io adesso ho una ragazza, lei ha un ragazzo – anzi, un futuro marito – ed io…»
L’anziano sospirò, con un sorriso tirato, poggiandogli una mano sulla spalla. «Io non ho fatto alcun nome, Merlin».
Il corvino boccheggiò come un pesce fuor d’acqua, assumendo un’aria vagamente ridicola. «Ah… Intendevi Freya».
«Sai, figliolo, c’è stato un periodo nella mia vita in cui anch’io ho dubitato del mio amore per Alice…»
«Davvero?!», lo interruppe stupito.
«Sì… Capita più o meno a tutti…», si giustificò, per poi tirare avanti: «Avevo appena trent’anni e avevo deciso d’intraprendere la medicina militare; Alice non capiva la mia scelta. Scommetto che sarebbe stata tentata nel dirmi: “O me o la medicina, scegli”, ma sono contento che non l’abbia fatto…»
«Avresti scelto la medicina?!»
«Sto cercando di spiegarti», rimarcò. «Avevo trent’anni e mi sentivo ad un bivio: o destra o sinistra, o dentro o fuori. O lei, o la medicina. Quando c’è in gioco una vera passione, e si è ancora immaturi, è difficile comprendere ciò che ci sta più a cuore.
Mi distaccai da lei, credendo affievoliti i miei sentimenti nei suoi confronti, poi un giorno lei mi venne vicino, con la sua treccia bionda, e mi chiese solo una cosa: “Champagne, pane o aria. Cosa sono per te?”»
Merlin corrugò la fronte, veramente interessato. «Cosa significa?»
«Ci ho messo tempo per capirlo, ma è una cosa che non si può insegnare: devi saperlo da te».
Il ventenne cercò di posare lo sguardo altrove, guardando fuori dalla finestra. Il sole picchiettava sul verde degli alberi e, solo per un istante, il tempo sembrò correre al contrario…
 

“Merlin, va’ in soggiorno. Dovrebbe esserci una paziente.” Gaius aveva richiamato il diciasettenne, mentre era ancora impegnato con un paziente. “Dille che tra qualche minuto potrà venire da me, nel frattempo cerca di metterla a proprio agio. È una cliente affezionata.” Lo raccomandò.
Il corvino annuì energico. Ci teneva a rendersi disponibile per Gaius, era il minimo che potesse fare per lui, dopo che l’anziano lo aveva ospitato a casa sua qualche mese addietro.
Così, mentre Gaius curava un senzatetto, Merlin trotterellò in soggiorno. “Ancora un attimo di pazienza e-“
Le parole gli morirono in gola.
Si era ritrovato davanti agli occhi un viso serio e composto, e due occhioni verdi fissi su di lui.
“Ci conosciamo?” gli chiese.
“Sì… No, cioè… quasi”, balbettò, sorridendo come un cretino. “Ci siamo visti in camera tua, la scorsa settimana”.
“Oh… Tu devi essere quello che Arthur chiama idiota!” sorrise, riconoscendolo.
Era bellissima. Sembrava quasi un angelo, pensò.
“Sì, sono l’idiota”, disse convinto, per poi balbettare. “L’idiota di Arthur, non proprio un idiota.” Precisò. “Ehm… Gaius arriverà a momenti.”
Ma lei sembrava aver già perso interesse per lui, tant’era vero che il suo viso si era voltato a scrutare la stanza, posando lo sguardo sulla chitarra. “E’ bellissima.”, ammise, avvicinandosi lentamente.
La osservava come un reperto storico, come un Santo Graal o quant’altro, fatto stava che lui aveva adorato il modo in cui quella ragazza l’aveva guardata.
“Mia madre ne aveva una simile”, confessò.
“E’ mia.”
Da quel momento in poi, gli occhi verdi di Morgana s’incollarono in quelli azzurri di Merlin.
 


«Champagne», biascicò, con lo guardo ancora perso nel vuoto. «Morgana è champagne».
Continuò a parlare, quasi rivedendola in quell’esatto momento. «E’ invitante, costosa. Quando l’assaggi, non puoi che scolarti tutta la bottiglia e poi ne vorresti ancora, ancora, e ancora.»
Annuì da solo alle sue costatazioni, per poi torcersi le mani. «Fa male. Quando la bottiglia è finita te ne accorgi. E ti senti da schifo: ti gira la testa, vomiti… Eppure ti piace e ne berresti ancora. Fa male, ma non riesci a farne a meno.
Freya… Freya è pane: buono, quotidiano, un’abitudine. È sempre sul tavolo, anche se a volte neanche lo tocchi, ma è ciò che cerchi quando non hai niente. È ciò che ti sazia quando hai fame. È un rimedio, ma non necessario».
Gaius abbassò il capo, dando una pacca amichevole sulla spalla del ragazzo. L’altro cercò lo sguardo dell’anziano, colpevole. Gaius, probabilmente, ci era arrivato anche prima di lui.
Alzò un angolo della bocca per sdrammatizzare. «Poi… l’aria è solo aria. Non so chi potrebbe essere, probabilmente Arthur, ma sarebbe aria viziata: soffocante».
I due ne risero per un po’, poi Merlin decise che era ora di andare. S’alzò dal divanetto, ringraziando l’anziano, per poi dirigersi verso l’uscita. Si fermò sull’uscio, voltandosi incuriosito. «Tu cosa le hai detto?»
Gaius sorrise a quel vecchio ricordo. «La cosa giusta».
Il corvino sorrise incerto, salutando poi definitivamente l’ex medico, chiudendosi la porta alle spalle. Era ora di tornare a casa.
 




** Risposta di Gaius**
“Alice, tu per me sei come l’aria. Sei presente, sempre, anche se non ti vedo.
Sei un insieme di tantissime cose a cui nemmeno so dare un nome. Ed io ti amo, Alice.
Ti amo perché mi rendi vivo.
C’è differenza tra non riuscire a fare meno di una cosa e non poterne fare a meno.
Ed io non posso fare a meno di te, Alice. Non posso.”
 
 
 


Col gomito poggiato sul bracciolo della sedia, ed il mento sul dorso della sua mano, guardava storto le movenze della sua adorata sorella, mentre se ne stava costretto sulla sedia a rotelle.
«Vivi davvero qui?», lo schernì lei, guardandosi intorno. L’arredamento eclettico – e alquanto scadente, per i gusti della ragazza – sembrava infastidirla, così tanto che Arthur cercò d’incenerirla con lo sguardo, maledicendo quella stupida gamba ingessata.
«Suppongo tu sia abituata ad altro».
«Decisamente», calcò Morgana, ignorando volutamente il poster di un calciatore a lei sconosciuto.
«Mi spiace, ma ragnatele e calderoni non rientrano nel mio stile.»
La sorella si voltò verso di lui con sguardo omicida, regalandogli una smorfia di disdegno. «Adesso capisco perché sei ancora single dopo Ginevra».
«Sono single per scelta», la corresse, spingendosi da solo verso la cucina. Cercò di aprire il frigo sbattendosi l’anta in faccia, fingendo noncuranza e prendendo una bottiglia d’acqua minerale.
Morgana alzò le sopracciglia con l’aria di chi la sapeva lunga, per poi sedersi sullo sgabello rosso accanto al tavolo di legno. «Non credo che a Mordred piacerà, lui ama il sobrio e il moderno».
«Buon per lui», replicò portandosi la bottiglia alla bocca, per poi fermarsi per una manciata di secondi con le labbra incollate alla plastica trasparente, guardando la sorella di traverso. Si staccò dalla sua acqua minerale, guardando bene negli occhi quella strega. «Cosa intendi per “credo che a Mordred non piacerà”, Morgana?»
«Siamo fidanzati, Arthur. I fidanzati convivono», disse con un sorrisetto ironico e fastidioso, giocherellando con l’accendino che aveva trovato sul tavolo.
«Sì, ma non nella mia casa!», sbottò.
«” Mia, mio…” Devi imparare ad essere più generoso, Arthur!» Lo ammonì beffardamente, divertita dall’espressione oltraggiata del fratello. «Poi, se lasci restare Ginevra qui per qualche giorno, non vedo perché non dovresti accogliere il mio fidanzato».
Il biondino corrugò la fronte. «Ginevra?»
Morgana smise di torturare l’affare nelle sue mani, fingendosi vagamente dispiaciuta. «Oh… Mi ero dimenticata di dirtelo?»
«Questa è casa mia!» sbraitò indignato.
La sorella distese le labbra rosse in un sorriso armonioso, chinando la testa da un lato come un cucciolo innocente. «Nostra, vorrai dire.»
Arthur le puntò un dito contro, cercando bene nella sua mente il reclamo da farle, ma proprio non gli venne nulla di sensato e disarmante da dirle. Così, si limitò a sorridere malignamente, giocando allo stesso gioco della sorella. «Perché non guardi meglio cosa hai in mano?»
La corvina, ancora soddisfatta della su vittoria, decise di ascoltare quel povero Asino, guardando l’accendino che aveva tra le mani, che finì rovinosamente a terra seguito da un urlo della ragazza.
«Brutto bastardo! ...»
Arthur non ce la fece. Si gustò quel piccolo attimo di vittoria, sghignazzando all’idea di sua sorella che tremava alla vista di Topolino.
Lei lo guardò truce, seriamente intenzionata a strozzarlo con le proprie mani, quando il suo cellulare squillò. Il nome di Mordred comparve a caratteri cubitali sul suo display.
Era da tempo che non sentiva la sua voce, che non pensava seriamente a loro. Tutta colpa dello stress che Londra portava con sé, si giustificò.
«Amore!», trillò, portandosi il cellulare all’orecchio e baccandosi una faccia schifata dal fratello. «Stavo giusto pensando a te».
Arthur se ne stette buono sulla sua sedia a rotelle, prendendo tra le mani il suo cellulare. Senza farsi vedere dalla sorella, digitò un messaggio di aiuto inviandolo a Merlin, sperando che almeno quell’idiota lo aiutasse!
«Le chiamate perse… Sì, lo so, ma ho avuto giorni molto incasinati...»
Il biondo continuava a sentire la voce di sua sorella dall’altra parte della stanza, mentre il suo messaggio arrivava a destinazione. Il Pendragon pregò seriamente che Merlin lo leggesse.
«Ah, non torni questa settimana… Stai ancora lavorando, con Kara.» Morgana cercò di nascondere il dispiacere improvviso, liquidando la questione. «Mordred sono desolata, ma devo badare ad Arthur», disse, beccandosi un’occhiataccia dal fratello, «ci sentiamo presto».
Il fratello alzò un sopracciglio congiungendosi le braccia al petto, stuzzicando la ragazza non appena ebbe riagganciato. «Ho rischiato di commuovermi».
«Era occupato», disse sbrigativa.
«Chi è Kara?», chiese fastidioso il biondino, sfoderando un sorrisetto da vero sbruffone.
L’altra lo guardò male, incrociando anche lei le braccia con aria di sfida. «Una collega Arthur, sono una collega».
«Davvero?»
«Okay, è la sua migliore amica, ma questo non vuol dire niente!», replicò infastidita, scomparendo nel corridoio.
«Come no», la provocò, finché non suonò il campanello per ben due volte. Il biondo impallidì di colpo.
Sua sorella, d’altra parte, si avvicinò raggiante alla porta, cinguettando: «Gwen!»
La ragazza, una riservata mora dalla pelle mulatta, si fiondò nelle braccia dell’amica. «Mi sei mancata tantissimo!»
Arthur roteò gli occhi, chiedendosi stizzito perché quell’idiota non fosse già arrivato. Sentendo dei passi avvicinarsi alla cucina cercò di muoversi, ma sfortunatamente la carrozzella non fu così rapida come credeva… Proprio mentre cercava di svignarsela, sgattaiolando nella sua stanza, Morgana lo beccò di spalle, richiamandolo – proprio come una brava strega, avrebbe aggiunto Arthur.
«Arthur! Dove stai andando?»
L’altro s’immobilizzò, cosciente di non aver più vie di fuga. Sospirò, costretto al confronto diretto. Prese tra le mani le ruote della sedia, voltandosi goffamente, ritrovandosi dinanzi al volto due occhi scuri che conosceva fin troppo bene.
«Ciao», salutò piano lei.
«Ciao», le disse di rimando.
Ginevra non era cambiata, era rimasta sempre la stessa. I capelli ricci e mori le arrivavano ancora alle spalle, non era ingrassata neanche un po’ e sorrideva ancora allo stesso modo. Insomma, per farla breve, per Arthur era ancora la stronza che gli aveva spezzato il cuore.
«Io mi eclisso senza una ragione apparente», scherzò sorniona la corvina, abbandonando il fratello al suo destino.
«Morgana!» la richiamò a denti stretti, senza tutta via alcun risultato.
Ginevra decise di smuoversi dal suo posto – anche perché sarebbe impazzita restando un altro momento impalata davanti a lui -, chiudendo la porta alle sue spalle.
Arthur sentiva il suo orgoglio praticamente a pezzi, lasciato sul pavimento come spazzatura. Lei lo aveva tradito. Lo aveva tradito come un suo amico e lui non poteva evitarla, non poteva sbatterle una porta in faccia, non poteva cacciarla via. Non poteva fare niente.
«Ho saputo dell’incidente».
La voce della mora era incerta, quasi tremante. In fondo, l’ultima volta che gli aveva parlato, era stato quando lui l’aveva sbattuta fuori dal loro appartamento, mesi fa.
«Mi dispiace», disse ancora, mentre il silenzio rimpiombava sulle loro teste. Era un silenzio assordante e maledettamente imbarazzante. Ginevra si sentiva in dovere di dire qualcosa: «Non credevo avresti accettato…»
«Infatti non l’ho fatto.» Rispose piatto lui, serrando i pugni. «Morgana si diverte a rendermi la vita impossibile».
«Posso anche andarmene, se vuoi».
L’altro sorrise sarcastico. «Tipo dal tuo ragazzo?»
«Io e Lancelot non stiamo più insieme».
I loro occhi s’incontrarono di nuovo, mentre il biondo sentiva uno strano fastidio allo stomaco ed un prurito alle mani. «Succede.»
Non avevano nient’altro da dirsi. Probabilmente Ginevra sarebbe corsa da Morgana se qualcuno non avesse suonato il campanello. «Faccio io», si propose sorridendo lieve, per poi aprire la porta e ritrovarsi dinanzi agli occhi il volto trafelato di Merlin.
«Merlin!», sorrise sincera lei, felice di rivedere un suo vecchio amico. Praticamente, i due non si rivedevano da quasi un anno, o ancora meglio, da quando Ginevra e Arthur non si erano lasciati.
«Ginevra.» disse naturalmente, non mascherando il sorriso che nacque sul suo viso, per educazione. «Sto cercando Arthur».
«Lo immaginavo», si spostò facendo entrare il moro, eclissandosi dai due, dicendo: «Io vado a cercare l’altra Pendragon».
Solo dopo che il corvino ebbe capito che no, Arthur non gli aveva scritto “Aiutami. Subito” perché era in serio pericolo ma solo perché aveva bisogno di lui, tirò un sospiro esasperato, per poi corrugare la fronte. «Quella era Ginevra?»
«Sei più lento di una lumaca, Merlin.» Lo rimproverò, ignorando la sua espressione da ebete. «Ricordami di non contattarti in caso di emergenza, o rischierei di morire tra le tue braccia prima dell’arrivo dell’ambulanza». *
«Credevo tu stessi male!», sbottò.
Arthur crucciò lo sguardo, guardandolo torvo. «Mia sorella vuole farmi convivere col suo ragazzo ed organizza pigiama party con la mia ex: non mi sembra che io stia messo bene, Merlin!»
«Mordred starà qui?!», chiese sconvolto.
Il biondo scosse il capo contrariato. «Chiunque sano di mente li separerebbe! Si conoscono appena, adesso vogliono sposarsi, magari anche avere un figlio e…»**
«Avere un figlio?!»
«Smettila di ripetere tutto quello che dico, Merlin!» Lo sgridò, riuscendo infine a calmarsi, posando i suoi occhi blu sulla bottiglia di champagne che il corvino aveva nella mano sinistra. «Volevi brindare alla mia morte?»
«N-no», balbettò, cercando di scacciare dalla mente Morgana con un pancione abbracciata da… chiunque fosse Mordred. «Stavo andando da Freya».
«E’ l’unica cosa che le regali per il vostro mesiversario?», scherzò Arthur, mettendosi comodo sulla carrozzella.
«Il nostro cosa?» Stavolta ad impallidire fu Merlin.
Il biondo, sconvolto – più che altro perché non credeva che quell’idiota potesse essere davvero così idiota -, spalancò le braccia incredulo: «Il nost- il vostro mesiversario: si festeggia ogni mese col proprio partner».
«So cos’è un mesiversario, Arthur!», recitò offeso, per poi sprofondare nella disperazione. «Solo non credevo fosse il nostro… il mio… IL.»
Prima che Arthur potesse offenderlo in qualsiasi altro modo, Merlin sentì vibrare nella tasca dei suoi jeans. Sospirò sconfortato, leggendo il nome di Freya. Visto che, come fidanzato si stava rivelando davvero pessimo, lasciar partire la suoneria non gli sembrò la scelta più giusta, così rispose.
«Freya!», trillò – sembrando il più possibile euforico-, «Buon mesiversario!»
L’altra sorrise intenerita, con i capelli ancora arruffati, inciampando nelle lenzuola che aveva gettato a terra. «Amore, te lo sei ricordato!»
«Come potrei dimenticarlo…» le disse, mentre Arthur gli mimava l’okay con le mani.
Freya emise un verso che Merlin scambio per… fusa? Poi la sentì imprecare contro la boccetta di profumo finita a terra.
«Tutto bene?», le chiese, udendo il rumore di vetro frantumarsi al suolo.
«No, Merlin, devi tornare subito a casa!» Esasperata, raccattò tutti i panni sparsi per la stanza, appallottolandoli per bene per poi gettarli nell’armadio. «Mamma e papà stanno venendo qui».
Il corvino si sentì vagamente somigliante a quella boccetta di profumo. «Perché?»
«Sono i miei genitori?», chiese retorica lei, rischiando d’inciampare nuovamente nel tappeto.
«Ma… noi stiamo insieme solo da tr…» Merlin si corresse istantaneo, vedendo il biondo suggerirgli un quattro con le dita. «… quattro mesi! Non pensavo avessi già parlato di me alla tua famiglia.»
«Non avevo intenzione di presentarteli, ma mi hanno telefonato dicendo che stanno venendo a farmi una sorpresa e… Ti prego, devi tornare!»
Il ventenne rimase immobile per un tempo a lui indecifrato, smuovendosi solo dopo aver sentito Freya richiamarlo. «Non posso», mentì, «Arthur sta male. Malissimo.»
Il Pendragon gli riservò una smorfia d’incredulità mista alla disapprovazione: insomma, perché mai dovevano tutti farlo passare per un poppante per evitare una questione scomoda?!
«Credo stia morendo», aggiunse, troppo frettolosamente da essere sgamato.
Freya sospirò, capendo di avere a che fare con un caso perso. «Morgana è lì?»
«No!» tuonò il corvino, ad una voce così alta che le risa delle ragazze, nell’altra stanza, cessarono di colpo. Tossicchiò, cercando di parlare con un timbro normale. «No, non c’è».
«Allora portalo qui!» e fu con quella frase che la sua dolce e adorata Freya terminò la chiamata.
Le parole divennero mute, riposando nella bocca semiaperta del corvino, che intanto aveva preso a guardare il suo cellulare come un oggetto non identificato.
«Allora?», lo burlò, quasi come un vero bullo. «Sei riuscito a scappare da mamma e papà?»
Merlin alzò lentamente lo sguardo su Arthur, con la sua stessa espressione ebete e persa. Adesso come l’avrebbe spiegato a quell’Asino? Egoisticamente, si ritrovò a pensare che fosse un bene che il biondo si ritrovasse con una gamba ingessata: almeno, ridotto in quello stato, non sarebbe stato in grado di ucciderlo…
Scosse la testa, temendo seriamente per la sua incolumità. «No…» tentò di dire, con lo sguardo di Arthur puntato su di lui. «Devi venirci anche tu».
 
 
 
 
Era assurdo! Assurdo!
Quel cretino di Merlin lo aveva praticamente caricato in macchina, obbligato a fingersi moribondo e ad essere gentile.
“Non puoi essere superbo con i genitori della mia ragazza”, gli aveva detto.
Così, costretto da quegli stupidissimi occhi imploranti del corvino, Arthur si era convinto di potercela fare e magari, quando si sarebbe ripreso del tutto, ammazzarlo con calma.
Quando parcheggiarono sotto casa, Merlin sospirò, ma solo per riprendere quell’insopportabile nenia che il biondo si era subito durante tutto il tragitto: «Mi raccomando, Arthur, per una volta prova ad essere gentile. Anche se sono dei falliti, menti: di’ loro che sono straordinari. Se sono straordinari, non ti elevare a loro e non sfidarli in alcun modo.»
«C’è una cosa che mi sfugge», gli disse con lo sguardo rivolto verso il parabrezza, cercando di mantenere la calma.
«Cosa?»
«In tutta la mia vita, non ho mai tradito. Non ho ucciso nessuno, non mi drogo e sono un ragazzo bellissimo – perché lo sono, e non pecco di modestia affermandolo. Quindi, mi chiedo… Perché a me?»
Due fossette comparvero sul volto di quel povero ebete, che intanto sorrideva come un bambino al giorno di Natale. «Perché siamo una squadra, Arthur. Noi condividiamo tutto».
Il biondo roteò gli occhi, supplicando il cielo: «Che Dio mi aiuti, allora».
 



Dopo che Merlin ebbe aiutato l’Asino a scendere dall’auto, passare per la rampa metallica ed entrare nel palazzo, i due aspettarono qualche secondo che l’ascensore scendesse, per poi entrare nella scatola mobile, premendo il bottone che portava al quarto piano.
Fu nell’ascensore che, guardandolo di sottecchi, Merlin riuscì a domandare al Pendragon: «Credi che Morgana voglia sposarlo per davvero?»
Il biondino, seduto sulla sua inseparabile sedia a rotelle fissò il vetro delle ante dell’ascensore, guardando quell’aggeggio superare un piano dopo l’altro. «Morgana non è mai stata una tipa sprovveduta. Non ha mai corso più del dovuto, non ha mai messo qualcuno prima di se stessa. Forse sta solo crescendo, forse c’è qualcosa che non va.»
Sospirò, voltandosi verso il corvino, che lo guardava intensamente. Corrugò la fronte, mentre le parole di Mithian continuavano a torturargli la mente. «Ma a te che importa?»
Merlin scrollò le spalle, fingendo indifferenza. «Niente».
Quando le porte si aprirono, i dubbi di Arthur accrebbero sempre di più.
 
 


Merlin girò le chiavi nella toppa, aprendo piano la porta, quasi stesse girando un film dell’orrore. In fondo sono solo due persone imparentate con la tua ragazza, si consolò – o meglio, tentò di consolarsi.
«Forse sono morti loro» sdrammatizzò il biondo, non udendo né vedendo nessuno.
«Arthur!», lo richiamò, insistente come una mamma chioccia – o petulante come una moglie. «Ricorda quello che ti ho detto in macchina!»
L’ennesima roteata di occhi, prima che dal soggiorno una voce vagamente familiare richiamò la loro attenzione: «Credo siano arrivati…»
I due si fecero coraggio, decidendosi a fare il primo passo. Merlin fece per muoversi dal suo posto, ma Arthur lo bloccò per un braccio, bloccandolo. «Al padre di Ginevra non sono piaciuto».
L’altro aggrottò la fronte. «Non sono qui per te, Arthur».
Il Pendragon decise di lasciare la prese al corvino, biascicandogli un qualcosa che Merlin non colse, prima di varcare la soglia del soggiorno, dove intravidero due chiome bionde. Si bloccarono all’istante: il ventenne smise di spingere la carrozzella dell’Asino e l’altro… fu costretto a restare lì.
«Oh, eccoli», sorrise sollevata Freya, invitando i ragazzi verso i propri genitori, dopo aver sussurrato a Merlin un: «Stava morendo, eh.»
«Mamma, papà, loro sono Merlin e Arthur.» Freya tentò imbarazzata le presentazioni, senza tuttavia indicare nessuno in particolare. «Merlin, Arthur, loro sono papà Tristano e mamma Isotta».
La donna, una quarantenne bionda con i capelli raccolti in una spina di pesce laterale, si affrettò a stringere calorosamente la mano del Pendragon, sorridendogli radiosa. «Sono così felice di conoscerti, Merlin. Sei proprio come ti avevo sempre immaginato».
Freya guardò allarmata in direzione di Merlin, mentre Arthur rimase incerto se rispondere al complimento o chiarire il malinteso. «Grazie, signora, ma io…»
Il corvino cercò d’intervenire, ma Tristano, un uomo che i suoi quarant’anni sapeva portarseli dignitosamente, si catapultò verso il biondo, sfoderando il suo sorriso più fiero. «E’ un piacere conoscerti, figliolo».
La mora si portò una mano alla bocca, togliendosela stizzita subito dopo. «Papà, veramente…»
Isotta lasciò un lungo pizzicotto sulle guance di Arthur. «Ho sentito così tanto parlare di te, Merlin, ma non credevo fossi così bello».
«Me lo dicono spesso», constatò lui, ricevendo una pacca nascosta da Merlin, che intanto stava cercando di farsi notare, almeno dal padre di Freya: «Dev’esserci stato un equivoco…»
«Tu dovresti essere Arthur», stavolta lo sguardo dell’uomo sembrava vagamente più ombroso, il che portò il ventenne a deglutire in silenzio. «Abbiamo sentito parlare anche molto di te».
«Davvero?» Fu il Pendragon a proferire parola.
«Bene», Freya batté le mani tra loro richiamando la loro attenzione. «Ora che vi siete presentati, io andrei a prendere il tea…»
I genitori della ragazza si accomodarono sorridenti ai loro posti, trascinandosi con loro il povero Arthur in carrozzella, mentre invece Merlin seguì la sua ragazza.
«Bene?», le domandò confuso, fermandola per un braccio. «Loro credono che Arthur – cioè secondo loro io – sia il tuo fidanzato. Non mi sembra che vada così bene.»
La mora sospirò, cercando di sottrarsi dalla presa del fidanzato. «Senti, io non li ho mai visti più fieri di me che in questo momento. Loro sono il simbolo del vero amore, loro sono “Tristano e Isotta”, ed io non me la sento di deluderli ancora.» Freya gli puntò un dito contro, abbassando la voce. «E tu me lo devi, Merlin. Me lo devi, ed anche il tuo amichetto me lo deve».
Merlin annuì col capo, sorridendo amaramente. «Della delusione non me l’aveva mai dato nessuno».
Fu l’ultima cosa che disse, prima di sparire nel salotto e recitare la sua parte. Non fu facile, perché dopo tanto tempo avvertì uno strano sapore nel palato, un qualcosa di così simile… alla delusione.






** Angolo di Relie**
* Chiaro riferimento alla 5x13. Io, francamente, continuo a pensare che se Merlin avesse chiamato il Drago qualche giorno prima, Arthur non sarebbe mai morto v.v Cattivo e stupido Merlin!
** Riferimento al Drago, che dice a Merlin di separare l'unione tra Morgana e Mordred.
- Alice, così come Vivian, non sono personaggi inventati, ma canon. Al momento non ricordo in che stagione compaiono, sorry. Credo la prima nella terza e la Vivian nella seconda, ma non ne sono sicura.
- Sì, per me Morgana ha paura di Topolino, ma sarà un qualcosa che approfondirò nel prossimo capitolo...
- Tra Ginevra e Arthur, anche se entrambi ex, non ci sarà NIENTE. Non ammazzatemi.
- Visto che accennando al primo incontro tra Gaius e Merlin mi è tornato alla mente il romanzo del mio autore preferito, vi posto il link del trailer, perché ne ho preso spunto --> The best of me
- Se avete seguito bene la lettura, avrete capito che prima anche Igraine gestiva un bar. Credo che ne verrà fuori uno spin-off, perché mi piacerebbe scrivere a, di come lei e Uther s'innamorano e b, del perché Arthur ha deciso di aprire un bar.

 

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Capitolo 11
*** Di champagne, pane e aria (Parte III) ***


Note d'autrice: Da daann, eccomi qua! Lo so, sono passati tantissimi giorni, ma in compenso vi ho regalato un capitolo mooolto ricco ed intenso. Partiamo dal fatto che sarà molto lungo, ma non avrei proprio potuto dividerlo.
Alcune parti non mi hanno convinto molto - parlo di quelle con Tristano e Isotta, ma spero che voi le gradiate lo stesso.
Il simbolo (**) indica l'alternanza dal presente ai ricordi.
Dedico questo capitolo a tutti voi che mi sostenete, a tutti coloro che hanno aggiunto la storia nelle seguite/ricordate/preferite, a quelle persone magnifiche che recensiscono e quelle che leggono in silenzio.
A voi, questo capitolo.
Aspetto le vostre impressioni!
Buona, spero, lettura.


 
- Attenzione-
In questo capitolo sono presenti scene di violenza che potrebbero infastidire il lettore.



XI.Di champagne, pane e aria (parte III)
 
“La amo, va bene?
Se cerchi la parola che indichi il tenere a qualcuno oltre ogni ragione e volere che possa avere tutto ciò che vuole, a prescindere da quanto ti faccia star male, quello è amore!
E quando ami qualcuno, non puoi… Non puoi smettere, mai.
Neanche quando la gente alza gli occhi e ti prende per pazzo. Neanche allora. Soprattutto allora!
Non… non puoi mollare! Perché se potessi farlo… Perché se potessi prendere tutti i consigli del mondo e andare avanti, trovando qualcun altro, non sarebbe amore!
Sarebbe… sarebbe una cosa usa e getta, per cui non vale la pena di lottare.
Ma… non è quello che voglio.”

- How I Met Your Mother
 
 
 
 


Eri piccolo, forse avevi appena sette anni.
La prima volta che ti ha picchiato ne avevi due in meno; ti usciva del sangue dalla bocca.
Eri stato stupido, eri stato ingordo.
Troppa fame di curiosità ti ha steso al suolo, accanto al corpo morto di un uomo.
Cos’era cambiato dopo quasi tredici anni? Il pianto di Morgana, forse, insieme alla sue grida soffocate. Adesso che ci pensi, non avresti potuto conoscerla quando avevi solo sette anni.
Eppure non era cambiato molto. Tu eri lì, steso al suolo, col sangue che ti usciva dalla bocca ed il fianco che ti bruciava. Non hai nemmeno contato le volte che quel verme ha affondato le sue nocche nel tuo ventre, né i secondi che sono serviti al proiettile per entrarti nella pelle. Eri troppo occupato a vedere gli occhi di lei, fissi e terrorizzati su di te, su quei vetri infranti.
Non doveva vederti insieme a tuo zio. Tuo zio non avrebbe dovuto portarsi dietro Helios e Agravaine; non avrebbe dovuto toccare la donna che ami. E tu, come un cretino, non avresti dovuto provocarlo, picchiandogli una guancia, vinto dalla rabbia.
Adesso Morgana era sola, spaventata e tu avevi paura del buio. Paura di svegliarti subito dopo, e comprendere che lei non c’era più.
Non potevi.
Cosa ti avrebbe detto Arthur?
Come saresti sopravvissuto, senza di lei?
 
 
 
 


Qualche ora prima…
 



Erano bravi, erano innamorati.
Per Merlin non fu difficile inquadrare i genitori di Freya.
Parlavano principalmente con Arthur ignorandolo quasi volutamente, se non per le occhiatacce che di tanto in tanto Tristano gli propinava o per gli sguardi curiosi di Isotta; per il resto, c’erano solo Merlin e quella scomoda sedia di legno. Non esisteva neanche più Freya che smanettava in cucina.
A fargli compagnia, c’erano dello champagne e delle viole. Nella mente.
 
 


Qualche anno fa…
 





Il rumore della porta del garage che si apriva, ed il fastidioso raggio di sole di primo Ottobre, pizzicarono il volto e l’orecchio del ragazzo, costringendolo a corrugare la fronte.
«La colazione», annunciò Gaius col sole freddo alle sue spalle, «è pronta».
Era un codice, una specie di messaggio criptato che voleva dire: «Puoi entrare in casa mia. Ho preparato del caffè anche per te.»
Merlin allora si alzò dal suo posto, lasciando a terra la coperta grigia ed il materasso, avvicinandosi di qualche passo. «Grazie», gli disse sinceramente grato, sorridendo.
Gaius lo guidò – come ogni mattina – nella sua cucina. Era accogliente, in stile country: sembrava fatta quasi interamente di legno.
Vi erano delle viole anche lì, in bella mostra sul tavolo. Erano diverse da quelle in soggiorno, queste erano tendenti al blu.
L’anziano gli mise davanti una tazza azzurra ed una bottiglia di latte, porgendogli in seguito una scatola di cereali.
Li comprava per lui, solo per lui. Gaius ricordava che Vivian, all’età di Merlin, non mangiava altro a colazione e così, l’ex medico militare, ogni qualvolta usciva a comperare la spesa, si fermava al reparto cereali e ne comprava una scatola – di tanto in tanto anche due.
Il diciasettenne allora, rispose come Gaius desiderò: si servì contento.
«L’inverno arriverà presto.» Le parole dell’anziano si mescolarono al poco latte nel palato, mentre i suoi occhi burberi osservarono il ragazzo imboccarsi una cucchiaiata di latte e cereali al miele.
«Uhm, uhm», annuì lui, masticando a bocca chiusa. I vispi occhi azzurri si erano intanto fermati sulle viole blu in quel vaso di terracotta. Sembravano donare più luce alla stanza.
«Forse il garage sarà troppo umido.»
Merlin sollevò lo sguardo sul volto rugoso dell’ex medico, masticando più piano, mentre dagli angoli della bocca iniziarono a colargli dei fili di latte.
Dalla notte in cui lo aveva soccorso, il ragazzo dormiva nel garage dell’anziano, mantenendo così le giuste distanze: Gaius diceva di non fidarsi del corvino e di non poter avere uno sconosciuto per casa, così il garage era diventata la casa di Merlin. L’unico momento in cui il ragazzo varcava la soglia dell’ingresso era una volta la mattina ed una volta la sera.
“Dovrai pur sempre darti una rinfrescata.” Gli aveva spiegato.
Col tempo però, verso la fine di Agosto, Gaius decise di fidarsi. Parlavano più spesso e non solo quando il vecchio portava le coperte nel garage.
L’anziano lo fece accomodare in casa propria.
«Nel frattempo puoi darti da fare dando una ripulita», aveva detto spalancandogli le porte di casa. «Quando hai finito posa tutto ciò che hai trovato dove l’hai preso… E c’è dell’aranciata in frigo».
Ora, in quella cucina soleggiata, Merlin poteva comprendere il linguaggio segreto di Gaius.
 «Il freddo farà male alle corde della tua chitarra», aveva aggiunto poi l’anziano, posando la propria tazza sul tavolo. «In fondo al corridoio, c’è la stanza di Vivian. È vuota, ma è più calda del garage».
La bocca sporca di Merlin s’incurvò all’insù in un sorriso allegro, mentre nella sua mano strinse il cucchiaio pieno di cereali, zuppi di latte. «Lei è troppo gentile, Gaius. Non lo merito».
«Oh, smettila!» Gaius fece una smorfia strana, agitando una mano nell’aria.
«Di fare cosa?», chiese stupito e innocente il giovane, riportando gli angoli della bocca ad una normale linea retta.
«Di darmi del Lei. Per l’amor del cielo, bevi il mio latte!»
«Devo darle del Lei: mi ha salvato la vita!»
«Smettila di darmi del Lei: ti ho salvato la vita».
Restarono ammutoliti per qualche secondo, occhi negli occhi. Merlin amava perdersi in quelle isole ch’erano le iridi del suo “tutore”; calme, pacifiche, rilassanti.
«Cosa vogliono dire?», chiese fingendo noncuranza, indicando con lo sguardo i fiori nel vaso, a centrotavola.
Gaius drizzò impercettibilmente le spalle contro lo schienale in legno della sedia, prendendo silenziosamente un bel respiro. «Fedeltà».
«Quelle all’ingresso invece…»
«Modestia.»
Merlin giocherellò per qualche secondo col cucchiaio nella sua tazza, formando vortici lattiginosi decorati da anellini di miele. «Alice aveva gusti particolari», si lasciò scappare, sfacciato, per poi mordersi la lingua un attimo dopo.
«Sì, era una donna unica. Ma… tu come fai a saper-»
«E… Anche Morgana ha gusti particolari?» chiese, quasi esitante, temendo un’urlata in faccia.
«Cosa?!» Enfatizzò il medico, corrugando vistosamente la fronte, facendo danzare per qualche secondo le punte bianche dei suoi capelli. «Merlin, io non posso parlarti delle mie pazienti…»
«Ma lei non è solo una tua paziente: non voglio sapere cos’ha, voglio sapere se le piacciono le viole!» Si difese il giovane, tappandosi la bocca con latte e cereali. «Ha qualcosa di grave?» domandò subito dopo, smentendosi da solo.
Gaius gli puntò un dito contro, facendolo indietreggiare con la schiena, vagamente intimorito. «Ascoltami bene, Merlin. Devi stare lontano da quella ragazza, non è una buona idea la tua.»
Il corvino mandò giù a fatica quell’impasto di zuccheri, azzardando – metà preoccupato dall’aria sicura del vecchio: «Ha una malattia terminale? ...»
«Dio, no!» L’anziano poggiò entrambe le mani sul tavolo, quasi a volersi sostenere, guardando fisso negli occhi quel diciassettenne. «Ci sono cose che nessuno di voi due dovrebbe affrontare. Promettimi, Merlin, che starai lontano dai Pendragon».
«Ma, veramente…»
«Niente ma. Ed ora fila, o farai tardi a scuola!»
 
 

**
 
 


«Arthur!»
Merlin si scosse di colpo, sentendosi scuotere da Freya, che intanto aveva sbarrato gli occhi preoccupata – anche se il corvino non seppe rispondersi se lo fosse per la farsa che poteva andare a monte, o perché era rimasto imbambolato come una bambola di porcellana.
«Arthur», l’apostrofò il biondino sulla sua sedia a rotelle, rendendosi conto che no, il suo nome canzonato in quel modo non suonava affatto bene. «Ti hanno fatto una domanda».
Isotta sorrideva enigmatica, Tristano dava appello a tutto il suo disappunto col suo sopracciglio all’insù. Merlin si sentì le spalle al muro, cercando immediato lo sguardo di Arthur: quell’Asino avrebbe potuto aiutarlo!
«Ehm…»
«Suvvia, Arthur! Davvero non ricordi se sei single?» lo spronò il Pendragon, lanciandogli un’occhiata eloquente.
«Sì!» rise imbarazzato il corvino. «Certo che lo ricordo».
Passarono circa quindici secondi di silenzio prima che, tossicchiando, Freya non sussurrò flebilmente: «Credo stiano aspettando una risposta…»
Prima che Merlin potesse rispondere in qualsiasi – assurda – maniera, Isotta parlò per lui: «Non devi vergognarti, Freya ci ha detto tutto».
Stavolta fu Arthur a puntare gli occhi chiari sul volto della donna, leggermente infastidito, per poi scuoiare con lo sguardo quel deficiente seduto sulla sedia. Come aveva potuto dire a Freya della sua storia con Ginevra?!
Tuttavia, Merlin boccheggiò senza dire parola, sentendosi gli occhi ardenti di Arthur su di sé. Freya, nel frattempo, si era portata le mani alla bocca, cominciando a torturarsi le unghia con i denti.
Ti prego, non dirlo, mamma. Non dirlo, non dirlo.
«Certo, so che non sembra facile parlarne, ma noi siamo persone aperte…»
Mamma sta’ zitta. Non dire una parola in più, ti prego.
Suo padre, Tristano, sembrò subentrare in suo soccorso; poggiò la propria mano docilmente sul braccio della moglie, sorridendo… a mo’ di sfida?
«Cara, magari non è il caso d’insistere.» Gli sentì dire, e Freya tirò un enorme sospiro di sollievo immaginario: probabilmente, se fosse stata una protagonista di un manga, avrebbe messo le ali e sarebbe lievitata da terra, mentre una sfilza di uccellini canticchiavano sereni.
Grazie papà! Mi hai appena salvato vita e lavoro!
«Non sarà ancora pronto per parlare del suo ragazzo», le parole dell’uomo volteggiarono nella stanza, per posarsi dispettose sulle guance del ragazzo che aveva di fronte, «dico bene?»
Freya si nascose il viso con le mani, desiderando seriamente di prendere il volo e scappare verso un’isola esotica, magari sorseggiando un Alex kiss con degli occhiali da sole calati sugli occhi.
«I-Io non sono gay!» A sbottare, colorandosi in viso, fu Arthur e Merlin fu certo che, se l’Asino non fosse costretto su una sedia a rotelle, si sarebbe issato dalla carrozzella e avrebbe piantato le sue regali scarpe sul pavimento in mattonelle, battendo i piedi.
Isotta passò una mano sulla spalla del biondo, sorridendogli comprensiva. «Certo, Merlin. Sappiamo che non lo sei. Tu vuoi bene ad Arthur nonostante lui sia attratto da te, ma non devi sentirti in colpa per questo».
I due ragazzi spalancarono la bocca all’unisono, cercando immediati la figura esile di Freya che intanto si era nascosta in un angolino, come un cucciolo impaurito.
Annotatelo Arthur: non puoi ammazzarla, ma puoi licenziarla. Il biondino aveva già progettato la sua vendetta, mentre le sue gote andavano a fuoco ed i suoi occhi non osavano guardare Merlin.
«Freya ha una fervida immaginazione.» Merlin, recuperato il buonsenso e l’autocontrollo, parlò cauto, guidato da quello strano sentimento che avvertiva – inusualmente – per quella ragazza con cui aveva condiviso la casa per tre, quattro mesi: delusione. «Le piace vedere ciò che non esiste, rifiutandosi di dar conto alla verità».
La mora alzò gli occhi sul suo volto. Non lo aveva mai visto così, non avevano mai litigato prima d’ora. In tutti quei giorni aveva avuto paura, paura di affrontarlo, di dirgli chiaramente ciò che sentiva. I suoi dubbi, le sue domande, se l’era tenute tutte per sé. Adesso, non poteva più nascondersi come un animale ferito*: «Credo in ciò che mi spingono a credere».
Si morsicchiò il labbro inferiore, risentita dalla situazione in cui si stava riversando la loro relazione. Aveva gli occhi di tutti addosso: quelli sospettosi dei suoi genitori perfetti, quelli di Arthur l’amico perfetto, e poi quelli di Merlin, colpevoli e cacciatori allo stesso tempo. E, per una qualche ragione inspiegabile, si sentì addosso anche quelli smeraldo, pungenti e velenosi di Morgana. La osservavano vittoriosi, sussurrandole mellifluamente che aveva perso. «Vado a prendere i biscotti».
Che mesiversario di merda!
Camminò fuori dalla stanza con i capelli che le danzavano sulla schiena. Ogni passo, era un’altra occhiata consapevole su di sé. Ogni passo, era un passo lontano dal suo Merlin.
«Scusatemi…» il corvino si alzò dalla sua sedia, mentre Arthur lo guardò stupito: non aveva mai visto il ragazzo comportarsi in quel modo, mai. C’era qualcosa che gli stava sfuggendo, qualcosa che quei due sapevano e che lui ignorava.
 
 






«Freya…» Merlin la seguì in cucina, bloccandosi sulla soglia. «Mi dispiace, ho esagerato».
La mora si morse ancora il labbro, posando il pacco di biscotti malamente sul marmo, chiudendo gli occhi per qualche secondo. «Perché?»
«Perché ero arrabbiat…»
«Perché ti scusi? Perché?» chiese categorica, spostando le sue iridi scure sul volto pallido del ragazzo. «Ho mentito. Ho finto di stare insieme al tuo migliore amico, ho lasciato che i miei pensassero quello che volessero: perché ti scusi?»
Sbatté le mani sul marmo freddo, chinando lievemente la testa verso il basso, cercando di calmarsi. «Io ci sto provando. Ci provo davvero, ma…». Masticò le sue stesse parole, ributtandosele negli occhi di terra bruciata. «Tu non mi guardi come guardi lei. Non ti arrabbi come ti arrabbi con lei. Noi non litighiamo mai». «Voglio che tu lotti, che tu mi gridi contro! Voglio che tu la smetta di escludermi, che tu mi guardi come la prima volta che ci siamo visti. Voglio che tu sia sincero… C’era anche lei, vero? Tu sei andato da Arthur perché sapevi di trovarla, ecco perché lo fai!»
Merlin si sentì la terra mancare sotto i piedi, e gli venne automatico rispondere di rimando: «Questo non è affatto vero!»
«Neghi? Continui a negare? Lo capirebbe chiunque; l’ho capito io e molto presto lo capirà anche Arthur».
Inaspettatamente, il braccio della ragazza fu circondato dalla mano affusolata del corvino, stranamente tremante e meno calda del solito. «Il mio amore per Morgana non c’entra con Arthur. Lui è venuto prima di tutto, prima di lei e prima di te.»
Voleva fuggire via. Sparire in quell’esatto momento. Vergognarsi, prenderlo a schiaffi. Maledirsi, pentirsi, ma non fece nulla. L’unica cosa che fu in grado di fare fu sentire il labbro tremare leggermente e gli occhi pizzicarle. «E’ questo che provi per lei? L’ami ancora?»
Cosa diamine le hai detto, Merlin? Cosa cavolo hai fatto?
Dannazione, stava sbagliando tutto. Ogni singola cosa.
Lei era lì, con gli occhi lucidi e quelle labbra che aveva baciato per poco più di cento giorni che tremavano. La sua ragazza, colei che aveva messo da parte. La donna che credeva di amare, la donna che sarebbe stato contento di vivere come voleva.
Ed anche lui era lì. Era lì e non sapeva più parlare, non sapeva più cosa dire. Perché lei gli aveva mentito, perché lo aveva deluso, perché molto tempo prima un’altra donna lo aveva ferito più di chiunque altro. Perché Morgana aveva preso un aereo per la Francia e lo aveva lasciato da solo. Solo, disilluso e col cuore a pezzi.
«Oggi non è il nostro giorno.»
Gliel’aveva detto piano, a capo basso. Ferito. Solo. «Oggi non è il nostro giorno».
«No.» La giovane gli diede le spalle, asciugandosi stizzita gli occhi scuri e pesanti. «Oggi non è il nostro giorno.» Prese i biscotti, gettando con collera il pacchetto vuoto nel cesto dei rifiuti. Non è neanche il giorno di questo ammasso di carta plastificata.
 
 
 
 
 







Parlavano, a vanvera il più delle volte. Quando sei ferito, tutti parlano a vanvera.
Merlin, con gli occhi oscurati dalla delusione, dal rimpianto, sentiva ch’era così: quelle persone facevano rumore e basta. Che ci faceva Arthur in quel quadro scomposto?
Aveva fame e Freya non aveva fatto altro che servire biscotti alla mandorla…
Fermi tutti! Biscotti alla mandorla?!
Il biondino rideva sornione, elogiato come un gatto grazioso dai genitori della ragazza quando decise di prendere in mano un biscotto dal piatto bianco, sul tavolo.
Merlin sgranò gli occhi come se avesse visto una mina, e immediato si gettò verso il Pendragon, picchiandogli la mano.  «No!», aveva urlato, mentre il frollino cadeva a terra, crepandosi in più parti.
Gli sguardi attoniti dei biondi e di Freya bastarono per far sentire Merlin un completo idiota, ma cavolo, lo aveva fatto per il bene di quell’Asino rincretinito! Quell’Asino, appunto, che lo guardava come se fosse pazzo.
«Non puoi mangiarli, Art… Merlin!» dichiarò – fingendosi categorico, borioso… insomma, “più Arthur Pendragon” possibile – portandosi le mani lungo i fianchi. «Ti fanno male».
Il Babbeo – ovviamente – alzò un sopracciglio irritato, non capendo la premura del corvino. «Mi stai dicendo che sono grasso, per caso?» sibilò, infastidito.
Il viso di Arthur gli arrivava al ventre; dovette abbassarsi per sussurrargli all’orecchio: «Sei allergico alla mandorla, ricordi?»
L’azzurro cristallino dei suoi occhi brillò nel chiarore della stanza, spostandosi poi verso gli altri, che ancora lo guardavano in attesa. Deglutì, sospirò. «Mi aveva detto di tenerlo d’occhio, solo che… Insomma, è così idiota da non ricordarselo!» rise convinto, sperando di averla data a bere ai due paladini dell’amore perfetto: non sarebbe stato facile spiegare del perché Freya non sapesse dell’allergia alle mandorle del suo ragazzo.
Arthur sorrise mostrando l’intera dentatura, mentre Freya continuò a parlare chissà di cosa con i suoi genitori. «Non esagerare…» mormorò il biondo tra i denti, trascinando il corvino vicino al suo viso. «E dammi una valida motivazione per cui non dovrei uccidere te e la tua ragazza!»
Merlin si voltò impercettibilmente, ritrovandosi ad un passo dalla bocca di Arthur.
Tu vuoi bene ad Arthur nonostante lui sia attratto da te, ma non devi sentirti in colpa per questo. Quelle parole tornarono a ronzargli nella mente e, improvvisamente, stare così vicino al biondo diventò difficile. Lo aveva già provato quel senso di smarrimento, al bar. L’unica cosa che gli sfuggiva era il perché.
Tu vuoi bene ad Arthur nonostante lui sia attratto da te. Tu vuoi bene ad Arthur nonostante lui sia attratto da te.
«Saresti costretto a lavorare da solo con Morgana.» Quella mezza battuta gliela sussurrò sulla guancia, sentendo la presa del Pendragon allentarsi, eppure i suoi occhi azzurri si fissarono su altro. Aveva mai visto le labbra di Arthur così da vicino?
Lui è attratto da te. Tu gli vuoi bene, ma lui è attratto da te.
Gli occhi d’oceano di Arthur sembrarono ritrovarlo nella via dei suoi pensieri; gli zigomi alti del corvino erano così vicini alla sua guancia da sembrare prepotenti.
Era da tempo che ci pensava. Da quando Freya era comparsa nella loro vita tutto era cambiato: gli procurava un fastidio enorme vederli insieme. Mille formiche sembravano danzare nelle sue mani tutte le volte che quei due si sorridevano complici, che lo escludevano.
In ospedale gli era crollato tutto il mondo addosso: la voce di Mithian continuava a torturargli i pensieri.
In quella casa aveva sentito il cuore fermarsi nel petto. Che fosse vero? Che la vicinanza di Merlin gli provocasse una sensazione così… diversa perché n’era attratto? Che fosse geloso di Freya? Che, semplicemente lui lo…
«Non ci hai ancora mostrato il tuo regalo per Freya!»
La voce di Isotta ruppe ogni singolo filo invisibile nella mente di Arthur, facendo sollevare d’impulso il corvino, spezzando quel breve contatto inesistente.
Il giovane si voltò verso le altre tre persone sedute al tavolo. Gli ci vollero pochi secondi per recepire il messaggio ed impallidire: quell’idiota di Merlin aveva comprato solo un’insulsa bottiglia di champagne!
Gli occhi di legno della ragazza si posarono sul volto paralizzato del suo fidanzato, cogliendo al volo il messaggio: niente regalo, lo champagne era tutto. Che poi, cosa voleva mai significare una bottiglia di champagne come regalo?!
Le rughe sulla fronte di Tristano diventarono un chiaro segnale d’allarme per i due giovani, che si scambiarono una rapida occhiata allarmata.
«Non c’è.» Biascicò piano il ragazzo, dietro la sua chioma di grano, ferito nell’orgoglio: non era la sua ragazza, ma nessuno poteva cogliere Arthur Pendragon in fallo, lui era Arthur Pendragon!
Come delle lucertole richiamate da un rumore improvviso, le teste dei due coniugi drizzarono, osservando sospettosi i due ventenni.
 «Non c’è… perché sta arrivando!» Irruppe il corvino, sorridendo come un deficiente. No, non era effettivamente cosciente di quello che stava dicendo. «E’ rimasto a casa mia… Perché Merlin non voleva che Freya lo vedesse… quindi…»
«Quindi?» chiese provocatoria lei.
«Quindi ce lo porteranno subito».
«Chi?»
A quella domanda, Merlin fece appello a tutte le sue forze: in quella stanza, in quel momento, c’erano due persone che potevano ucciderlo; c’erano solo due alternative: fare la cosa giusta o dire la verità.
Il ragazzo si torturò un po’ le mani, poi decise di attuare la prima opzione.
 
 
 






«Questa potrebbe fare al caso nostro?»
Morgana, le braccia incrociate al petto, osservava indispettita e imbronciata il gingillo d’argento dietro una vetrata pulita della gioielleria sotto casa. «Prima spiegami cosa stiamo facendo».
La bruna si voltò verso l’amica. «Merlin è un nostro amico, Mor. Noi… abbiamo il dovere di aiutarlo.» Si passò una mano sui jeans, cercando lo sguardo imperioso della corvina. «Siamo sempre stati uniti noi quattro…»
«Lo siamo stati, ora non più!» cacciò fuori Morgana, gesticolando con la mano libera. «Sono passati due anni; tu hai tradito Arthur e io sono andata a Parigi. Le cose sono cambiate.»
«So che il tempo è passato e so anche che abbiamo preso strade diverse, ma siamo sempre noi. So di aver sbagliato e… so che tra te e Merlin sia finita, ma ricordo anche quanto ho tenuto e quanto tengo ad ognuno di voi.» Ginevra posò i suoi occhi calmi e scuri sul volto candido della ragazza, accennando appena un sorriso. «Ne abbiamo passate tante insieme…»
Era inutile tenere il muso: Gwen riusciva sempre nel suo intento con lei; ci riusciva grazie alla sua dolcezza e ai suoi modi gentili. Probabilmente, in un’altra vita, se Morgana fosse stata davvero una strega cattiva come tanto suo fratello decantava, avrebbe voluto Ginevra al suo fianco.
Così, la dispettosa Morgana Pendragon, sotto il sole di Maggio e l’insegna del Gold of Goblin finse di tenere ancora il broncio, indicando distrattamente con lo sguardo un ciondolo nella vetrina. «Quello fa meno schifo degli altri».
 



**
 




Nimueh Campbell. La professoressa più temuta dagli alunni. Docente di fisica ed arpia ad hoc, nutriva una simpatia sconfinata nei confronti di Morgana Pendragon – e alla corvina andava più che bene!
Il giorno seguente, nella 4a b, avrebbe sterminato mezza classe con un compito di un’ora.
La diciottenne ne aveva riso, pensando a suo fratello chino sui libri – era davvero capace di leggerli? -, piangendo e pregando che quella strega cadesse dalla scale. Per la corvina, non era solo una vittoria nel veder soffrire il fratello, ma era anche un’occasione per poter passare un pomeriggio chiusa nella propria stanza… insieme a Gwaine.
Arthur sarebbe corso a casa di Merlin, supplicandolo – o meglio, obbligandolo – a dargli una mano. La Campbell si divertiva nel fissare compiti in classe, anche se si giustificava dicendo che era una punizione per quelle capre vestite da umani ch’erano i suoi alunni.
Morgana allora, non si fece scappare l’occasione. Indossò il suo intimo migliore, sicura che la casa fosse tutta sua.
Appena uscita da scuola si affrettò ad acciuffare il suo fidanzato e trascinarlo a casa, apprestandosi ad una raffica di baci soffocanti. Gwaine era bello, affascinante. La loro non era una relazione seria, ma una di quelle che servivano a placare la monotonia.
Appena entrati in soggiorno si lasciarono cadere sul divano, l’uno sopra l’altra, assaggiandosi avidamente. Nel frattempo, la camicia della ragazza era già volata sul pavimento e la mano del diciottenne esplorava la sua pelle candida, appena sotto il ricamo nero del reggiseno quando…
 «Misericordia! Cosa diamine state facendo?!»
Il ruggito oltraggiato di Arthur si espanse per tutta la stanza, piombando sopra la schiena di Gwaine. I due amanti smisero di baciarsi, mettendosi frettolosamente a sedere, ritrovandosi un Arthur scandalizzato quanto indignato ed un Merlin a capo basso, morente dalla vergogna – e dalla gelosia.
 «Arthur!» squittì, recuperando stizzita la sua maglietta dal pavimento. «Cosa accidenti ci fai qui?!»
«Ci vivo!» puntualizzò, incenerendo con lo sguardo il moro seduto al fianco della sorella. «Lui no».
La risata di Gwaine bastò ad irritare maggiormente il biondino, rosso come un peperone. Il moro s’abbottò la camicia, alzando le spalle come se nulla fosse. «Suvvia amico, non c’è nessun motivo di allarmarsi tanto.»
Arthur boccheggiò esterrefatto per qualche secondo, prima di dare appello a tutta la sua forza interiore, e cacciare a calci – nel vero senso della parola – il ragazzo dalla porta. Poi, puntò un dito contro la sorella, che intanto continuava a rimproverarlo. «Ringrazia Dio che non lo sappia nostro padre, poi ringrazia me per non averglielo detto».
Imbronciata come una bimba dispettosa, guardò irritata il corvino seduto al tavolo, “l’idiota della chitarra”, incenerendolo col pensiero: perché cavolo non si era portato fuori quel cretino del fratello.
«Vi odio!» ringhiò a denti stretti, per poi serrare maligna lo sguardo e puntare un dito al petto di Arthur. «Non finisce qui, Arthur Pendragon. Ricordati che la tua cotta per Ginevra non è un segreto sicuro!»
Si voltò di nuovo sprezzante verso Merlin, riservandogli uno sguardo pieno d’odio. Il ragazzo, ammutolito al proprio posto, sentì il suo cuore creparsi un po’. Già l’amava, forse, mentre lei l’odiava. Non era un cattivo inizio, no?
Il biondino fece per rimproverare sonoramente la sorella, ma fu interrotto dalla figura sorridente di Gwen che comparve sulla soglia dell’arco in legno. «Ho visto la porta aperta… - e anche Gwaine che correva via – e quindi ho pensato di entrare.» Si giustificò, torturandosi le mani imbarazzata.
«Ginevra», un sorriso enorme comparve sul volto del Pendragon, mentre con una mano tappava la bocca a quella megera della sorella. «Hai fatto benissimo. Io e Merlin ti stavamo aspettando.»
La mora corrugò la fronte spaesata nel vedere Morgana dimenarsi tra le braccia del fratello, mentre veniva trascinata fuori dalla stanza. Andò verso Merlin, cercando in lui un’ancora sicura. «Cosa mi sono persa?»
«Gli ultimi attimi dei Pendragon».
«Credi che dovremmo intervenire?» chiese preoccupata la mulatta.
Il rumore di un piatto rotto fece sobbalzare entrambi i giovani dalle loro sedie, mentre la voce irata di Morgana risuonava in tutta la casa, insieme al gentile insulto riservato al fratello.
Devi stare lontano dai Pendragon, gli aveva detto Gaius. Perché non gli dava mai retta?
«Forse…»
Dopo aver udito cadere al suolo il barattolo della schiuma da barba, ed una lametta sbattere contro la porta, Merlin dovette arrendersi: «Okay, andiamo».
Frettolosi e preoccupati – Gwen e Merlin sapevano perfettamente che quei due si sarebbero uccisi senza problemi -, si precipitarono nel corridoio, dove un vaso di vetro oscillava minacciosamente e una Morgana con i denti digrignati si sfilava una scarpa dal piede, puntando verso Arthur, che intanto le urlava contro.
Gwen afferrò il vaso un attimo prima che cadesse, tirando un sospiro di sollievo, mentre a farsi forza e parlare con i due Pendragon fu Merlin: «Ragazzi, state esagerando. Vi state comportando come du…»
Le parole morirono nella bocca del corvino nell’esatto momento in cui, spostando Arthur per un braccio, ricevette una dannata Converse sulla fronte.
 
 


**
 



Il volume di fisica li osservava dagli scaffali accanto alla finestra quadrata, mentre sulla tavola si erano materializzate scodelle piene di gelato al limone e al pistacchio: dopo aver vietato ad Arthur di mangiare un biscotto – che lo avrebbe potenzialmente ucciso – i cari Isotta e Tristano avevano esortato il presunto fidanzato di Freya a mangiare almeno un po’ di gelato, ignorando quell’arrogante corvino.
Merlin aveva scosso la testa dopo aver visto Arthur acconsentire alle premure di “quelle brave persone”, e avergli sentito dire che sì, quel corvino gli rendeva proprio la vita impossibile.
Freya, seduta al fianco di Arthur, mangiucchiava il suo gelato al limone, osservando di sottecchi il fidanzato che le stava di fronte: voleva proprio vedere cosa si era inventato, quella volta.
«Freya ci ha raccontato così tanto di te, Merlin, che ci sembra di conoscerti da una vita.» La treccia dorata della donna sfiorò il proprio seno prosperoso, che s’intravedeva appena dalla maglia di seta. «Sarebbe bello sentire per una volta la tua versione dei fatti; raccontaci come hai conosciuto nostra figlia».
La crema di ghiaccio si bloccò nella gola del corvino, che dovette tossire diverse volte per poter tornare a respirare. Arthur, d’altro canto, rimase col cucchiaio sospeso in aria, con un’espressione enigmatica: stava pensando.
Merlin gliel’aveva detto, gli aveva riempito la testa con la sua Freya e mille altre cretinate da ragazzino innamorato, solo che il biondino aveva solo finto di ascoltare. Aveva colto la frase: «Ho conosciuto una ragazza accanto ad un lago. Ama le fragole, io invece le ho regalato una rosa.»
Certo, come frase non aveva senso, ma ad Arthur bastava per cogliere il messaggio.
Freya allarmata, si nascose il viso tra le mani, mormorando un impercettibile: «Sono morta…»
Aveva dato una versione ai suoi genitori: Arthur non poteva inventare, doveva attenersi alla realtà… che non conosceva.
«Fragole, rose, amore», riassunse schietto il biondino. «E’ stato un amore semplice il nostro».
«Hai dimenticato il lago», ironizzò il corvino.
«Oh, già. C’era anche un lago da qualche parte».
Merlin decise di affogare i dispiaceri nel gelato, mentre Freya diventò piccola piccola, come una formica data la vergogna. I due coniugi invece, lo guardarono sbigottiti.
A ridere, per primo, fu Tristano. Rideva di buon gusto, seriamente divertito. Isotta lo seguì a ruota con una risata più dolce e cristallina.
Merlin e Freya si lasciarono andare anche loro: solo Arthur era rimasto serio, con il gelato nel palato. Non stava mica scherzando, lui! Insomma, si era ricordato le cose essenziali…
L’uomo lasciò qualche pacca sulle spalle del biondo. «Sei davvero una persona gradevole, Merlin».
«E tu, Arthur?», la donna si mantenne la testa con le mani, posando il cucchiaio nel proprio bicchiere. «Non ci racconti niente di te?»
Il corvino fu salvato dallo scampanellare che udì alla porta. «Dev’essere il regalo.» Si dileguò all’ingresso, aprendo esasperato la porta.
«Possiamo entrare?», chiese la bruna, sorridente e impacciata.
«C-Certo».
Si spostò per lasciarla passare e, solo in un secondo momento si accorse della presenza di Morgana. Quest’ultima, silenziosa alle spalle dell’amica, aveva osservato l’entrata con occhio più vigile, sentendosi in terre sconosciute. Si bloccò su una foto in un angolo, non ben visibile, dove Merlin e Freya si baciavano. Un tempo, c’era una loro foto lì.
«Ciao».
La ragazza alzò gli occhi verdi su di lui. «Dov’è quell’idiota di mio fratello?»
L’ultima volta che l’aveva avuta così vicina era stato in un ospedale, tra le sue braccia, mentre lei gli diceva che gli era mancato. «E’ di là.» disse, indicandole il soggiorno.
«Hai cambiato tutto.» Costatò Morgana, notando un’altra foto, stavolta più grande. I due fidanzati sorridevano abbracciati.
Merlin seguì il suo sguardo; quasi non se la ricordava nemmeno quella foto.
«Ehm…» Ginevra si fece spazio tra loro, cercando di essere calcolata. «Questo è il regalo».
La mulatta gli porse una bustina di cartone rossa, con la sigla della gioielleria stampata in giallo ocra. Il ventenne la prese tra le mani, distogliendo lo sguardo da Morgana. «Grazie».
La Pendragon sospirò, aggiustandosi frettolosamente la bretella della propria borsa sulla spalla, camminando a passo sicuro verso il soggiorno. «Bene. Così posso riprendermi quell’essere inutile di mio fratello e rilassarmi a casa mia…»
Si bloccò sul posto, inchiodando le sue scarpe alte al pavimento chiaro, notando occhi sconosciuti su di sé. E… perché mai Arthur e Freya sedevano vicini?!
«Tu dovresti essere Morgana.» Il sorriso smagliante della donna con la treccia bionda la destabilizzò per un secondo. «Sei la sorella di…»
«Sua!» decretò il biondino, indicando col dito Merlin, che intanto arrivava seguito da Ginevra.
«Cosa…» la corvina non ci stava capendo più niente.
«Mia!» sorrise baldanzoso Merlin, poggiandole una mano sulla spalla, per poi ritrarla risoluto una volta incontrato lo sguardo di Freya. «Ehm… lei è Ginevra, una mia…»
«Amica», gli venne in soccorso lei, allargando le labbra in un sorriso imbarazzato.
«Ex», ne convenne acido Arthur.
«Accomodatevi», propose Tristano, «è sempre bello conoscere gente nuova». «Vi piace il gelato?»
Merlin e Arthur, allarmati e preoccupati dalle possibili reazioni di Morgana, pronunciarono un sincronizzato quanto rapido: «No!»
Freya sembrava quasi ringhiarle contro al suo interno: stringeva ansiosa le mani in due pugni e la mascella era serrata. A quanto pareva, la moretta non era stata in grado di dire ai suoi genitori la verità; Morgana ne sorrise divertita. «Sì invece», disse accomodandosi, fingendo un pacifico sorriso. «Adoro il gelato, vero Arthur?»
Merlin prese posto accanto a Morgana, mentre Ginevra si sedette sull’unica sedia rimasta libera: era una situazione alquanto imbarazzante.
Freya aveva dinanzi ai suoi occhi quelli verdi e velenosi di Morgana, Arthur quelli di Merlin, mentre al suo fianco poteva intravedere le ciocche castane di Gwen. Il tutto, era contornato con due paladini dell’amore perfetto che sedevano a capotavola.
«Siete capitate al momento giusto: Arthur ci stava per spiegare come si era innamorato.» A cadere in quel discorso, stranamente, fu Freya che continuava a smanettare nervosa col suo gelato. «Allora? Com’è stato il tuo grande amore?»
Arthur li aveva entrambi davanti agli occhi. Tutti i dubbi di quel giorno stavano costruendo muri altissimi, e adesso aveva l’opportunità sia di demolirli che di metterci un tetto.
Ginevra alzò gli occhi verso i due corvini: lei, a differenza di Arthur, sapeva tutto.
Merlin non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo su nessuno dei suoi amici, ma preferì puntarlo negli occhi limpidi e puliti di Isotta e Tristano: «Dolceamaro. È stato dolceamaro come lo champagne. All’inizio sembrava una favola, poi…»
«Poi?» domandò Isotta, realmente curiosa.
Il ragazzo alzò le spalle, sorridendo rassegnato. «Poi si è rivelata realtà. Amara».
Morgana giocherellò col gelato nel suo bicchiere, prima di portarselo alla bocca. Non era sicura che quella fosse una frecciatina alla sua fidanzata…
«Eri molto innamorato?»
«L’amavo. L’amavo davvero… La prima volta che l’ho vista… è stato come un sorso di champagne: lei era bella, rideva. Quando si è accorta di me mi ha incenerito con lo sguardo… Un dolce sapore amaro. Ogni volta che la guardavo era come la prima volta. Dolce e amaro allo stesso tempo».
Arthur, dall’altro lato del tavolo, guardava sospettoso il corvino. Poteva parlare di Freya, certo, ma non n’era sicuro. «Chi era, Merlin? Chi hai amato in questa maniera?» Gliel’aveva chiesto davvero, nella sua mente. Occhi negli occhi, Merlin aveva sorriso e alzato le spalle.
Morgana sapeva di chi stava parlando. L’aveva vissuto sulla sua pelle, quel sapore. L’aveva assaporato la prima volta che aveva suonato per lei, la prima volta che lui l’aveva stretta a sé, la prima volta che si erano baciati e l’ultima. Morgana sapeva di chi stava parlando. «Arthur, dobbiamo andare a casa».
Il fratello alzò gli occhi sulla Pendragon, ma si rese conto che no, non stava parlando con lui. Morgana si era alzata dal suo posto e aveva cercato lo sguardo di Merlin.  Quest’ultimo lanciò uno sguardo verso il biondo, poi verso Freya: aveva lo sguardo d’inverno.
«Sì», farfugliò il giovane, «devo anche prendere l’auto dal parcheggio dell’ospedale».
Ginevra li raggiunse subito dopo. «Vengo con voi».
Merlin strinse la mano ai due coniugi, sorridendo gentile. «E’ stato un piacere conoscervi».
«V- Ve ne andate?» Arthur balbettò per un secondo, incerto di aver udito bene. Quell’idiota non poteva lasciarlo lì!
«Sì», gli disse, per poi chinarsi, fingendo di baciargli una guancia. «Verrò a riprenderti appena se ne saranno andati.» gli sussurrò.
 
 
 
 






Ad alzarsi dal suo posto, stufa di quella farsa, fu Freya. Camminò a passo spedito nel corridoio, afferrando il suo fidanzato per un braccio. «Era lei. Tu parlavi di lei!»
Morgana e Ginevra si scambiarono una rapida occhiata, restandosene in disparte accanto alla porta.
Gli occhi di cioccolato di Freya lacrimavano, anche se cercavano di non farlo. Erano lucidi, come l’oro. «Che vuol dire che te ne vai con lei, eh? Tu… tu… sei il mio fidanzato, noi stiamo insieme… So che sei arrabbiato, ma io ho fatto solo una cazzata, niente di più!»
«Tu mi hai deluso, Freya. Hai finito di non essere la mia compagna perché non volevi deludere i tuoi genitori: sono così deludente?! Cosa avresti fatto se ci fossimo sposati? Avresti sposato Arthur davanti a loro e poi avresti chiesto il divorzio?» sussurrava, ma avrebbe tanto voluto gridargliele in faccia quelle parole. Le voleva bene, ma lei lo aveva deluso. «La tua non è solo una cazzata».
La ragazza lo fissò impietrita, con gli occhi di smeraldo di quella donna sulla pelle, dietro le spalle di Merlin. Scosse la testa, premendosi una mano sulle labbra, per poi ritrarla. «Ho sbagliato, mi dispiace, ma la mia è solo una cazzata. È solo una cazzata mentire, ma non lo è amare un’altra donna».
«Smettila di mentire!», gli ringhiò ad un passo dal viso. Avrebbe potuto baciarlo a quella distanza. Baciarlo davanti a Morgana e quell’altra, ma non lo fece. «Se… se non stai mentendo dimmelo, allora. Dimmi che mi ami, ma dimmelo guardandomi negli occhi».
La guardò negli occhi, ma nel palato sentiva il gusto di champagne. Aveva baciato Freya così tante volte… quella ragazza gli aveva regalato dei bellissimi giorni. Era stata la risposta a tutte le sue domande, tutte. Ma non sapeva di champagne. «Torno più tardi».
Morgana allontanò lo sguardo dai due, sorridendo, cosciente del potere che aveva sul corvino, soddisfatta, per una qualche ragione, che quello non sarebbe mai cambiato.
Uscirono di casa senza dire più nulla e Freya fu sicura di aver avuto la sua risposta, quella che temeva. Ed in parte, era stata anche colpa sua.
 
 
 




Ginevra sedeva nei sedili posteriori. Non aveva condiviso quel comportamento da parte di Merlin: non conosceva Freya, ma le sembrava una brava ragazza ed il suo amico… Beh, lui non si era mai comportato in quel modo.
Nessuno fiatò, fin quando Merlin non fermò la sua auto nel parcheggio dell’ospedale. Rimase fermo, con le mani sul volante, guardando verso il parabrezza. «Gwen…»
«Uhm».
«Prendila tu.» le disse, voltandosi verso di lei per porgerle le chiavi. «Tornerò a riprenderla».
«Okay…»
Gwen vide l’amico scendere dall’auto, prendere un altro mazzo di chiavi dalla sua tasca e andare verso un auto blu notte. Dopo qualche secondo, sentì la cintura di sicurezza di Morgana slacciarsi, mentre la corvina spalancava la portiera e raggiungeva il ventenne.
La mulatta avrebbe potuto parlare, dire qualcosa, ma non sarebbe servito a nulla. Sospirò, andando ad accomodarsi al posto di guida.
 
 
 







«Sai, Merlin, siamo davvero contenti che nostra figlia abbia trovato un ragazzo come te.»
Il gelato era ormai finito, le mani snelle ed eleganti di Isotta carezzavano il legno ciliegio del tavolo. «Freya non è mai stata fortunata in amore, ma forse la colpa è un po’ nostra».
«Mamma, ti prego…» Sospirò affranta lei, annoiata e per nulla entusiasta che Arthur – il borioso e stupido Arthur – a breve avrebbe assistito alla sua più grande umiliazione.
«Tua madre ha ragione.» Tristano strinse la mano della moglie nelle sue, carezzandone il dorso. «Devi sapere, Merlin, che noi non siamo mai stati il simbolo dell’amore perfetto come nostra figlia è solita dire. Noi… litigavamo spesso, talvolta troppo, e Freya lo sa bene».
«Davvero?» la curiosità di Arthur era genuina.
Anche Uther e Igraine litigavano spesso, prima che sua madre se ne andasse. Per sempre.
«Davvero. Solo che, noi siamo ancora qui l’uno per l’altra. Freya non ha mai avuto la nostra stessa fortuna: una volta ha sorpreso il suo ragazzo a letto con un’altra…»
«Papà!»
«Aveva fatto di tutto per quel ragazzo, sai. Era salita su un tavolo del college ed aveva cantato come una pazza una canzone di Avril Lavigne, era molto innamorata.»
Freya voleva scomparire. Era stanca di essere così umiliata. Arthur poi, che l’aveva sempre odiata, ne avrebbe riso di buon gusto.
C’era una cosa che però la ragazza non aveva previsto. Il biondo cercò la sua mano, sul tavolo, stringendogliela forte. «Io non tradirei mai vostra figlia».
Gli occhi di legno di Freya era sorpresi, forse anche grati. La giovane sorrise, stringendo a sua volta la mano del suo datore di lavoro.
Solo quando fu arrivato il momento di salutare i suoi genitori, Isotta trascinò dolcemente sua figlia in disparte, parlandole a cuore aperto: «Non ti fidi di lui.»
«Di cosa stai parlando?»
«Non sono una stupida, Freya, ho visto la foto appena entrata in casa. Ho voluto mettervi alla prova, metterti alla prova, ma non mi è piaciuto ciò che ho visto. Io ti voglio bene, ed anche Merlin te ne vuole se ha finto così per te, ma non voglio che tu soffra».
Le sorrise, dandole un bacio sulla fronte. «Qualsiasi cosa tu sceglierai di fare, Freya, quanto grande sarà l’errore che commetterai, io sarò sempre tua madre e starò sempre dalla tua parte.» Le scostò una ciocca di capelli dalla fronte, carezzandole una guancia. «Lotta sempre per ciò a cui tieni… Ma abbi anche il coraggio di dire basta». «Quando un ragazzo parla di una donna in quel modo, vuol dire che l’ama. Non ha smesso, non ancora».
 
 
 







Merlin aveva guidato in silenzio per tutto il tragitto. Non aveva una vera e propria meta, aveva solo voglia di sprecare tempo, di lasciarlo passare, pur di non affrontarla. Morgana, dal lato del passeggero, guardava fuori dal finestrino.
Erano le sette della sera, il sole stava tramontando, il suo cellulare non aveva ancora squillato. Decise di fermarsi. Accostò in un viale deserto, con pochi appartamenti, forse neanche abitati. Spense il motore.
«Così, io sarei il tuo champagne.» Fu Morgana a parlare per prima, con un timbro di voce indecifrabile.
Merlin ingoiò della saliva, guardandosi le mani. «Due anni. Sei sparita per due anni».
«Non mi sembra che tu abbia fatto molto».
Vinto dalla rabbia, strinse più forte il manubrio, voltandosi verso di lei. «Mai possibile che stiamo sempre allo stesso punto?!»
«Detto da un traditore fa ridere», ringhiò.
«Io non ho mai giocato sporco con te! Non ti avrei mai abbandonata.» Un nodo alla gola gli raschiò la voce. «Io ti avrei amata per sempre».
Il sole moriva alle loro spalle, i loro occhi si erano uniti. Verde nell’azzurro. Smeraldo nel cielo.
Morgana era lì, davanti a lui. Lo guardava seduta al suo fianco. Gli venne d’istinto; Merlin allungò una mano verso la guancia diafana della ragazza, spostandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Le labbra della ventunenne erano rosse, carnose, invitanti… Il giovane avrebbe voluto solo avvicinarsi di più, fermare il tempo, avvicinarsi ancora…
Il vetro del finestrino si frantumò in mille pezzi, cadendo nell’auto e tra le onde corvine della ragazza. Una mano sbucò dalla vistosa spaccatura, aprendo la portiera.
Morgana si sentì improvvisamente strattonare per i capelli fuori dalla macchina, mentre un braccio possente le cinse la gola. Spaventata, urlò il nome di Merlin, col cuore in tumulto.
Un secondo uomo, la pelle più chiara, i capelli neri come il carbone tirati all’indietro e gli occhi scurissimi, si avvicinò con una pistola, sibilando con un sorriso terribile: «Dove sono i soldi?»
«I-Io non vi conosco!» La ragazza tremava impaurita, continuando a gridare con tutto il fiato che aveva in gola il nome di Merlin.
L’uomo dai capelli di carbone, acciuffò il corvino, puntandogli la pistola alla gola. «I soldi, dove sono i soldi?!»
Il cuore nel petto voleva esplodere, le gambe fremevano. Merlin sapeva chi erano quei due, li conosceva troppo bene.
«Dimmelo!» Tuonò quello, scuotendo il ventenne. «Tuo zio non ti ha insegnato il buon senso?» chiese, premendogli il becco dell’arma contro la trachea.
Morgana rivide tutto come una vecchia pellicola ingiallita; in un secondo c’erano lei, sua madre ed una macchina sottosopra. C’era sangue, un’auto nera che correva impazzita, poi il dolore.
«Merlin, aiutami…» piangeva, supplicava, non sapeva fare altro. Il ragazzo sentiva un graffio al cuore ogni volta che apriva bocca.
«Helios…» fu un sussurro, uscì miracolosamente dalle labbra tremanti del corvino. «Lei non c’entra. Lasciatela andare».
In un attimo, Merlin si piegò in due dal dolore, colpito nel fianco prepotentemente. Il secondo pugno arrivò nel ventre, poi il terzo ed il quarto. Erano violenti, gli piegavano la pelle, quasi gliela laceravano.
Agravaine, l’uomo dai capelli di carbone, si fece da parte mollando la presa, lasciando spazio all’uomo biondo cenere, la barba pungente e spinosa, il sorriso velenoso: Aridian.
Lo zio poggiò il piede sull’addome del nipote, premendo – inizialmente – piano. «Voglio i miei soldi. Ora».
Il ragazzo non parlava. Stringeva forte i denti, sopportava il dolore, si voltava verso Morgana. Vederla così impaurita, in mezzo a quelle bestie, gli spezzava il cuore; era stata tutta colpa sua.
Aridian imitò Merlin, voltandosi verso la ragazza. Sorrise, brutto segno pensò il ventenne.
«Allora, Merlin» cominciò, con la sua voce bruciante, avvicinandosi alla corvina. «Ce li hai o no i miei soldi?»
Secondo sbaglio.
Merlin non rispose.
Lo zio rise ancora, una risata nociva. «Va bene. Partiamo con gl’incentivi, allora.»
Un pungo secco, ben assestato. Il viso di Morgana girò verso sinistra dalla violenza. Helios le stringeva forte le braccia con le mani, sostenendola, tenendola all’altezza di Aridian.
«Ce li hai sì o no?» tuonò ancora.
Il nipote era impietrito. Non sapeva cosa dire, non sapeva cosa fare. Morgana piangeva, guardandolo negli occhi, scuoteva la testa inorridita.
Fu colpita una seconda volta. Ancora in viso.
Merlin non poté sopportarlo.
Agravaine non avrebbe sparato, non senza ordine di Aridian: non gli era concesso. La pistola che aveva tra le mani, era inutile per lui.
Tremava febbrilmente, per la rabbia. Merlin non si era mai sentito così, neanche quando ad essere picchiato era lui. Strappò dalle mani la pistola ad Agravaine, alzandosi in uno scatto d’ira, picchiando la guancia dello zio con il manico.
Terzo sbaglio.
Non fu difficile per Aridian disarmarlo. Non fu complicato nemmeno metterlo a tappeto picchiandogli forte il ventre. Di solito li contava, i colpi, quella sera Merlin non lo fece.
Quarto sbaglio.
La pistola era nelle mani di Aridian.
«Sono nella mia borsa», le urla di Morgana erano soffocate dalla paura, ma i tre spacciatori aveva udito benissimo. Il biondo si voltò verso i suoi compari, facendo cenno di prendere il danaro, e sparire.
Helios lasciò cadere la giovane per terra, Agravaine si avventò sulla borsa. Aridian invece, sorrise mellifluo.  «Grazie, piccola».
Lasciò perdere suo nipote, ormai soddisfatto, incamminandosi verso gli altri due.
Morgana strisciò con le ginocchia sull’asfalto. Possibile che nessuno in quei dintorni l’avesse sentita? Possibile che quella fosse la zona di quei delinquenti?
Arrivò in lacrime da Merlin, guardandolo terrorizzata. «Mi dispiace tantissimo», le aveva detto, carezzandole i lividi sulla faccia. «Non piangere, ti prego».
Si tirò su, abbracciandola forte. Era viva. Era quello l’importante.
Si staccò, non riuscendo a calmarla, sentendo un dolore lancinante nel ventre. «Mi dispiace tantissimo, credimi».
Morgana piangeva. Era terrorizzata. L’ultima volta ch’era stata picchiata, sua madre era morta e suo padre le faceva paura.
«Ti giuro che andrà tutto bene.» Merlin premette la sua fronte contro quella della corvina, cercando di tranquillizzarla. «Andrà tutto bene».
L’accompagnò alla portiera, tenendole forte la mano, aiutandola a sedersi sul sedile. C’erano dei pezzi di vetro un po’ ovunque. Le allacciò la cintura, poi le chiuse la portiera. Aridian e gli altri stavano già salendo sulle loro auto, ghignazzando.
Merlin andò verso il lato del guidatore, aprendo la portiera.
Suo zio era nella sua auto nera. Guardava il nipote spalancare lo sportello della sua macchina, mentre un bruciore gli pizzicava la guancia. Aveva osato colpirlo, questo non gli andava giù.
Quinto errore. Aridian era arrabbiato.
Non ci pensò neanche tanto, la pistola era ancora nelle sue mani. Sollevò il becco dell’arma fuori dal finestrino, prendendo la mira. Aspettò due secondi, poi premette il grilletto.










Eri piccolo, forse avevi appena sette anni.
La prima volta che ti ha picchiato ne avevi due in meno; ti usciva del sangue dalla bocca.
Eri stato stupido, eri stato ingordo.
Troppa fame di curiosità ti ha steso al suolo, accanto al corpo morto di un uomo.
Cos’era cambiato dopo quasi tredici anni? Il pianto di Morgana, forse, insieme alla sue grida soffocate. Adesso che ci pensi, non avresti potuto conoscerla quando avevi solo sette anni.
Eppure non era cambiato molto. Tu eri lì, steso al suolo, col sangue che ti usciva dalla bocca ed il fianco che ti bruciava. Non hai nemmeno contato le volte che quel verme ha affondato le sue nocche nel tuo ventre, né i secondi che sono serviti al proiettile per entrarti nella pelle. Eri troppo occupato a vedere gli occhi di lei, fissi e terrorizzati su di te, su quei vetri infranti.
Non doveva vederti insieme a tuo zio. Tuo zio non avrebbe dovuto portarsi dietro Helios e Agravaine; non avrebbe dovuto toccare la donna che ami. E tu, come un cretino, non avresti dovuto provocarlo, picchiandogli una guancia, vinto dalla rabbia.
Adesso Morgana era sola, spaventata e tu avevi paura del buio. Paura di svegliarti subito dopo, e comprendere che lei non c’era più.
Non potevi.
Cosa ti avrebbe detto Arthur?
Come saresti sopravvissuto, senza di lei?















** Relie's Corner **
- Helios è un personaggio canon. Compare nella quarta stagione, è un bad boy.
- Il significato delle viole è stato preso da internt. Al sito web tutte le colpe per una possibile assurdità scritta.
- Il capitolo si svolge durante tutto l'arco di una giornata, non in poche ore.
- L'Alex kiss è un cocktail a base di Vodka, Campari e Cointreau.
- La scena in cui Arthur riassume la storia d'amore tra Freya e Merlin è un evidente riferimento alla serie tv.
- Gaius sa cosa Aridian ha fatto ad Igraine, per questo non vuole che Merlin frequenti i Pendragon.
- La gioielleria prende il nome di "Gold of Goblin" rifacendosi ad una puntata della serie, per l'appunto "L'oro del Goblin".
- Aridian è una persona spregevole, ma questo già si sapeva.
- Non mi sono dimenticata della fobia di Morgana nei confronti di Topolino, verrà chiarita nel prossimo capitolo, lo giuro.
- Spero di essere stata più IC possibile.
- Arthur è stato già tradito una volta - dalla donna che riteneva l'amore della sua vita -, dunque compatisce Freya.
- Il personaggio della Campbell è stato già inserito nel capitolo V.
- L'allusione a Freya come animale ferito (*) è un riferimento alla serie tv.
- L'immobilità di Merlin dinanzi alla paura di Morgana in pericolo, è un altro riferimento alla serie tv, precisamente la seconda stagione, quando Morgana inciampa e urla a Merlin di aiutarla, ma quest'ultimo non muove un muscolo.
- "Mi dispiace moltissimo, non piangere ", è un richiamo al pentimento di Merlin per aver avvelenato Morgana
- Credo di aver esaurito i punti da chiarire, se non fosse così, domandate!
- Vi lascio davvero, alla prossima!



 

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Capitolo 12
*** Aromi inaspettati, sapori segreti (Parte I) ***


Nda: Salve a tutti!
Inizio scusandomi in anticipo: il capitolo era di nuovo lunghissimo, così sono stata costretta nel dividerlo in due parti - ancora!
In questo nuovo capitolo entreranno in scena due personaggi importanti, teneteli bene a mente!
Secondo: per chi non lo sapesse, ho pubblicato una fanfiction pre-Pendragon's, dove appunto potrete leggere di come sia nata la love story tra Merlin e Morgana e questa sorta di attrazione di Arthur nei confronti del suo... Merlin.
Ringrazio davvero di cuore tutte quelle splendide persone che hanno aggiunto la storia nelle preferite/ricordate/seguite. Grazie a chi legge in silenzio, ed un ringraziamento particolare a Eresseie93 - ti adoro! -, Elisaherm, Nox (*-*), pendragon_11 (persona magnifica!), sfiorisci per aver recensito il capitolo precedente.
Vi lascio alla lettura del nuovo capitolo, sperando di non deludere le aspettative di nessuno.
A voi la parola.
Buona, spero, lettura.
Ps. Ah, l'immagine che vedete è un parallelismo Marco&Eva/Merlin&Morgana. In realtà, potete capirlo solo se conoscete "I Cesaroni", ma vabbeh, lo capirete leggendo xD
 

XII. Aromi inaspettati e sapori segreti
 
 
“Ma lo sai cosa ci è successo a noi due? Che siamo stati adottati da tutti i nostri sogni.
Da tutti tranne uno.”
- I Cesaroni
 
 
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Sette secondi.
Si dice che prima di morire tu abbia sette secondi di attività celebrale. Solo sette secondi, col cuore fermo.
A cosa avresti pensato in quei sette secondi?
Forse… alla macchina che sfrecciava impazzita ad una velocità assurda, nelle strade raffinate di Londra; forse ai tanti semafori rossi ignorati. Pensandoci bene, avresti potuto pensare anche ai singhiozzi di Morgana o alla sua guida pericolosa, oppure a Gaius… Cielo, Gaius.
Per un decimo di secondo il suo cuore si è fermato insieme ai tuoi occhi.
Ti ha steso sul tavolo in legno, quello della cucina. C’era odore di viole fresche e puzza d’ansia dappertutto.
Sette secondi, Merlin, sette secondi.
Gaius ti ha girato la testa di lato, pulendoti il sangue dalla bocca. «Ti farà male», aveva sussurrato dopo un po’.
Quanto tempo era passato?
Sette secondi, solo sette secondi.
Il countdown era iniziato.
Un dolore lancinante, ecco cosa avevi sentito.
Sette secondi.
D’improvviso hai rivisto gli occhi chiari e belli di tua madre, poi il viso misterioso e affabile di tuo padre.
Stavano zitti, manco ti guardavano.
Alice premeva la sua mano confortante sulla spalla di Gaius, mentre una bionda, bella come il Sole, carezzava le onde spettinate della corvina, baciandole i lividi.
Solo una persona si è accorta di te, si è seduta al tuo fianco e ti ha guardato negli occhi: «Non fare la femminuccia, Merlin, te la caverai. Mi fido di te».
Sai cosa c’è dopo quei sette secondi? Niente.
 
 
 
 
 
 




Poteva sentire l’aria fresca carezzarle la pelle diafana; i capelli corvini mossi dal vento. Le mani salde sul volante.
L’era venuto d’istinto: era entrata nella sua auto – quella senza vetri rotti e lacrime amare -, ignorando le parole che suo fratello e Gwen si erano scambiati in cucina qualche ora prima, coprendosi stizzita i lividi col fondotinta e gli occhi verdi con due lenti scure.
Il tono di voce di Arthur era freddo, quello della sua amica preoccupato, ma a lei non importava: un uomo le aveva picchiato due volte il viso, aveva rubato i suoi soldi; Merlin aveva perso molto sangue e ne sentiva ancora l’odore sulla sua pelle. Le aveva mentito, ancora.
La droga non faceva parte del passato. Lei era stata picchiata e derubata per questo.
Merlin si era beccato una pallottola nella pelle. Gaius s’era sentito mancare per un secondo non appena aveva visto il volto sconvolto di Morgana, che intanto sosteneva malamente un corvino ferito e sanguinante.
Non voleva più ricordare. Voleva solo sentirsi il vento sulla faccia e gli occhi sulla strada, mentre le spiagge di Brighton facevano il loro ingresso all’orizzonte, aldilà dei finestrini abbassati.
Non voleva pensare più a niente.
 



 
La sera prima…



«Cristo santissimo!»
Non ci aveva neanche pensato: le sue labbra invecchiate si erano mosse da sole.
Si sarebbe aspettato di tutto, realmente: Alice che gli tendeva la mano, la signora Morte con la sua falce ed il cappuccio nero calato, ma non questo. Gaius non si sarebbe mai aspettato di aprire la porta e ritrovarsi, dinanzi agli occhi, una tremante Morgana con vistosi lividi sul viso che sorreggeva un sanguinante Merlin. Merlin.
Non Alice, non la Morte. Merlin.
E glielo lesse in quell’azzurro smarrito e supplicante, il nome del problema: Aridian.
«L-Lui era in piedi, un attimo dopo e-era a terra. S-Sanguina dappertutto!» Morgana era sotto shock, terrorizzata, non avrebbe neanche dovuto guidare; tutta l’adrenalina che aveva in corpo le permetteva di sorreggere il corvino e non lasciarlo cadere.
Gaius si precipitò sul ragazzo, poggiandosi il braccio di lui sulle proprie spalle indolenzite.
Corse – quel tanto che la sua età glielo consentisse – in cucina, togliendo immediato quel vaso di viole dal tavolo, per poi adagiarci il ventenne. Gli alzò la maglia bagnata di sangue, sentendo il proprio cuore indurirsi come il cemento. «Dobbiamo portarlo in ospedale», sussurrò tra i denti, per poi voltarsi verso la giovane. «Dovreste andare entrambi all’ospedale!»
Uno sforzo doloroso, una piccola fitta lacerante e Merlin cinse debolmente la mano del suo tutore. «Puoi farlo tu, Gaius. Mi fido di te», gli aveva sorriso stanco, «mi hai già salvato una volta».
Non sono Dio, brutto zuccone. Sono un anziano ed ho tanta paura.
Il corvino lo guardava con quei suoi occhi azzurri, così innocenti, così supplichevoli.
Ti prego, Gaius, ti prego.
Il vecchio si morse la lingua, convinto che quella non fosse la cosa giusta da fare, ma la fece lo stesso: «Aiutami a spostarlo».
Morgana aveva ubbidito spaesata quanto scioccata: lei non ci stava capendo nulla. Non capiva perché Gaius avesse girato Merlin di schiena, non capiva perché l’anziano fosse sollevato nel non vedere un foro d’uscita.
Il vecchio borbottava tra sé e sé, scandendo bene i passaggi da seguire, le mosse d’attuare… Tante cose che la ragazza udiva e non capiva; lei pensava solo al volto velenoso di quell’uomo, ai pugni sulla sua faccia… Quell’uomo aveva chiamato Merlin per nome…
«Prendimi delle pezze, un paio di guanti… e una pinza.» Gaius continuava a tenere premute le sue mani sul corpo di Merlin, mani che diventano rosse come il sangue…
Helios. Merlin lo aveva chiamato per nome. I soldi…
«Presto, Morgana!»
La giovane si scosse al richiamo dell’ex medico militare, muovendosi automaticamente in quella casa che, tempo addietro aveva imparato a memoria. Prese tutto l’occorrente di fretta e furia, esitando solo nel prendere un paio di guanti: il cassetto dov’erano riposti, era quello il problema.
Non credeva che Gaius la custodisse ancora, eppure era lì, come un cimelio di famiglia: l’ultima foto, quella scattata al compleanno dell’anziano.
Si paralizzò, Morgana, col fiato mozzato ed il cuore pesante; la ricordava bene quella foto. La loro ultima foto.
Fosse stata più lucida, la giovane Pendragon non l’avrebbe neanche presa tra le mani, non ne avrebbe osservato la cornice curata, non avrebbe carezzato quel vetro freddo.
“Qualsiasi cosa accada, ovunque le strade ci porteranno, noi saremo sempre noi. Siamo destinati a stare insieme, ricordalo sempre. Ovunque e comunque.”
Avesse aperto quella cornice, avrebbe trovato quella scritta sul retro della foto. Ma a Morgana bastò chiudere per un secondo gli occhi verdi ed impauriti.
Ricordalo sempre. Ovunque e comunque.
Siamo destinati a stare insieme. Ricordalo sempre.
Ovunque.
Comunque.
Sollevò le sue palpebre chiare, prendendo un bel respiro. Aprì quel maledetto cassetto, prese quei maledettissimi guanti, poi abbandonò sia la foto che lo sgabuzzino.
Gaius la vide rientrare nella stanza con gli occhi verdi di vetro ed i vari oggetti richiesti tra le mani. Era pallido quanto buio, il suo volto.
L’ex medico per un attimo poté rivederla, la piccola ragazzina entrata nel suo studio, sotto volere del padre. Non parlava con lui, non sapevano nulla l’uno dell’altra: Morgana gli diceva di aver avuto un altro incubo e Gaius le porgeva un nuovo rimedio per il sonno. Il resto era silenzio.
C’era una cosa, però, che Morgana amava fare quando entrava in quella casa: vedere una foto dimenticata su un mobile mogano, vicino ad un quadro. La foto di una bionda bella come il Sole e dagli occhi di Agosto, la foto di sua madre.
«Tieni premute le pezze sulla ferita», le disse, mentre si sciacquava le mani nel lavabo, indossando poi i guanti in lattice. «Dobbiamo fermare l’emorragia».
La ragazza premette forte, forse un po’ troppo, tanto da far gemere Merlin dal dolore. Non le importava: era stata colpa sua, lui conosceva quella gente. Morgana non voleva che lui morisse, ma poteva soffrire liberamente.
«Non così forte, Morgana», le spiegò l’anziano, mentre sterilizzava la pinza.
La Pendragon poteva vederli, gli occhi limpidi del ventenne su di sé; sapevano che lei non lo aveva perdonato, sapevano che Morgana stava tessendo le sue tele, traendo conclusioni.
«Non è come pensi», soffiò impercettibilmente, mentre le pezze sovrapposte al foro d’entrata diventavano rosse e zuppe.
«Sei un traditore, Emrys».
Mai sussurro tanto lieve fu così tagliente.
Gaius s’avvicinò al corpo supino del ragazzo, tenendo in mano l’oggetto sterilizzato: «Bene, procediamo».
Morgana si scostò, lasciando campo libero all’ex medico. Ricordava ch’era sceso l’inverno in quella cucina.
«Ti farà male.» Il mare, negli occhi del vecchio, era mosso. Tremavano quelle isole sicure.
Merlin vide solo Gaius prendere tra le mani una bottiglia di Whiskey, poi solo ombre. Serrò gli occhi violentemente, emettendo continue grida di dolore.
 «Cielo, Morgana, non farlo urlare.» Gaius era nervoso, e le urla di Merlin non aiutavano: e se qualcuno li avesse sentiti?
«Morgana, non posso continuare in questa maniera» le disse, cercando di mantenere un tono pacato, disturbato dall’ennesimo gemito del ragazzo.
Morgana non sapeva cosa fare. Le pezze erano unte di sangue; quel traditore avrebbe morso le sue mani senza esitare, vinto dal dolore. Le urla di Merlin erano asfissianti, insopportabili: sarebbe ammattita se lo avesse udito ancora gridare.
Ricordalo sempre.
Ovunque.
Comunque.
Erano esattamente come se le ricordava, le sue labbra. Soffici, un po’ umide e gentili. Morgana si sentì mancare il fiato, le proprie mani a sorreggergli il volto. Un gemito le morì sulla bocca, poi le sembrò addirittura che il corvino avesse schiuso le labbra. Non si muoveva più, non s’agitava più. Aveva gli occhi chiusi, pareva incantato.
Merlin, dal canto suo, si sentì morire, appagato. Avesse avuto più forza in quel momento, avrebbe portato una mano dietro la sua nuca, poi l’avrebbe tenuta stretta a sé, tutto il tempo.
E invece, di forza non ne aveva.
Quando Morgana si staccò dalle sue labbra, tutto sembrava stesse per essere inghiottito dall’oscurità, dal nulla.
Vide ombrato per un po’ e credette di essere morto: al fianco di Gaius c’era una donna con una treccia color caramello. Gli sussurrava che poteva farcela, lo rincuorava con un amore sconfinato. Accanto alla corvina c’era una donna. Era bionda, bella come il Sole. I suoi occhi erano spruzzi del cielo d’Agosto, la sua bocca una rosa adagiata sui lividi della ventunenne.
Poi, in un angolo della stanza, c’erano sua madre e suo padre.
Balinor baciava la fronte di sua moglie, Hunit pareva preoccupata. Non lo stavano guardando.
Capì di essere vivo solo quando vide lui.
Aveva sciolto le sue braccia, incrociate, dal petto e si era seduto al suo fianco.
Merlin era così felice di vederlo…
«Non fare la femminuccia, Merlin, te la caverai», gli aveva detto, occhi negli occhi. «Mi fido di te».
Quel blu accesso delle sue iridi, fu l’ultima cosa che vide.
Poi, il nulla.
 
 
 
 
 





Il dolce profumo dei primi cornetti si diffuse nel locale con piacevole velocità, incontrando come sempre le narici in attesa del giovane biondino.
La teglia ripiena di croissant era invitante, tra le mani del ragazzo appena uscito dal laboratorio.
«George», canzonò Arthur afferrando il vassoio, «il mio pasticciere preferito».
Un leggero sorriso, poi le labbra piccole e sottili di George tornarono ad una solita linea retta; il Pendragon non ci fece neanche caso, ci era ormai abituato.
George Cookies, un metodico venticinquenne, era uno stakanovista riservato e perfettino; amava essere impeccabile, sempre pronto con il suo caschetto nero.
Arthur lo aveva sempre ritenuto noioso, ma in fin dei conti sapeva svolgere al meglio il proprio lavoro. La stessa cosa non poteva certo dirla per quell’idiota, rincretinito, imbranato e smemorato di Merlin.
Merlin.
Rimuginò a lungo su quel nome, sentendo uno strano nodo alla bocca dello stomaco.
Era una bella giornata, il sole illuminava fiero e deciso tutta Londra con i suoi raggi. Eppure c’era l’inverno nella mente di Arthur Pendragon.
I suoi occhi blu erano gelati, quella mattina.
Freya comparve dallo stanzino, ancora intenta ad aggiustarsi la sua coda bassa. Strinse per l’ultima volta il codino, poi si passò una mano sul grembiule, distendendo eventuali pieghe.
I suoi occhi di terra umida incontrarono lo sguardo invernale del biondo.
Il ragazzo seduto sul suo sgabello, dietro la cassa, e la cameriera si fissarono costruendo silenzi segreti; le parole della sera precedente pizzicavano ancora sulla pelle, come spilli dispettosi.
«Posso aiutarti con i clienti», Ginevra esordì, puntando gli occhi scuri sul viso di Arthur. «Non è un problema, per me».
Il proprietario del bar guardò la bruna con diffidenza, staccando l’ultimo scontrino per porlo al cliente. «Non serve» disse solo, sorridendo educato all’avventore, per poi tornare ad un’espressione seria. «Me la cavo benissimo da solo».
Gwen incassò il colpo, abbassando lo sguardo sul bancone. Sapeva perfettamente quanto il suo ex fosse orgoglioso ed era sicura che non l’aveva ancora perdonata.
«Mi piace qui.» confessò, sistemandosi meglio sullo sgabello. «Tu e Merlin avete fatto un buon lavoro».
«Già».
Era sulla difensiva, era palese. Ginevra si ritrasse a riccio, cominciando a torturarsi le mani tra le cosce. La corazza del Pendragon era inespugnabile e lei… aveva ormai perso quel potere che riusciva ad abbatterla. Oramai, erano solo due ex compagni di liceo che si ritrovavano in un bar.
«Ho saputo che presto cambierete le divis-»
«Come mai Morgana è rientrata così tardi, ieri sera?» domandò a bruciapelo il biondo, accavallando la voce della bruna.
L’altra ingoiò della saliva, fingendo un tono calmo e naturale: «Era passata da Uther. Doveva prendere alcune cose…»
«Strano», incalzò ancora lui, manco fosse Sherlock Holmes uscito da un romanzo di Conan Doyle, «mia sorella non si ferma mai così tanto a casa, poi non mi sembra di aver notato scatoloni in giro…»
Gwen prese una bella boccata d’aria, ispirando col naso. Adesso poteva persino vederla, una pipa costosa che riposava tra le labbra di Arthur, mentre sul suo capo compariva un berretto con tanto di visiera.
Morgana non era tornata a casa di Freya, né tanto meno lo aveva fatto Merlin. Così Ginevra si era sentita obbligata – non vedendo arrivare nessuno – a ripresentarsi nell’appartamento della ragazza.
Era tardi. Arthur non aveva battuto ciglio, anche se ferito nell’orgoglio nel farsi riportare a casa dalla sua ex, eppure aveva una strana luce negli occhi, quasi fosse diverso da prima. Quasi, fosse più amareggiato e deluso. Aveva lo sguardo di chi era stato calpestano con gli scarpini da calcio.
«Sai com’è fatta. Morgana ama perdersi nella contemplazione della sua immagine allo specchio…» scrollò le spalle, mordicchiandosi il labbro. «Avrà perso tempo nello scegliere un vestito, che poi neanche avrà ripreso».
La mano del Pendragon a sorreggersi il mento in un’espressione fissa e ferma. Avesse assunto alcolici, Ginevra l’avrebbe sentito chiaro e tondo, dirle: «Elementare, Watson».
«Anche Merlin ha fatto tardi», finse di metterla lì il biondo. Che stesse cercando di entrare nel cast di un giallo?
La ragazza assunse un’aria incuriosita, sforzandosi di sembrare attendibile: «Ah, sì?»
«Già!», stavolta quegli occhi freddi erano dritti in quelli color caffè della mulatta. «Credo non sia neanche tornato a casa. Che strane coincidenze, no?»
Gwen sorrise, convinta di non saper tacere a lungo: doveva inventarsi qualcosa, e alla svelta, o Arthur Holmes l’avrebbe scoperta!
«E’ proprio buono questo caffè!» inventò, facendo cadere gli occhi sul bicchierino di vetro davanti a lei. «Come hai detto che si chiama?»
«Marocchino».
«E’ favoloso. Ne prendo volentieri un altro!»
 



Brighton, 11.44
 





Mezz’ora passata al volante per un cielo d’argento, un vento rinfrescante ed una spiaggia deserta: Brighton.
Morgana aveva parcheggiato la sua auto sulla soglia del marciapiede, poi si era diretta verso la spiaggia. Le piaceva, quel posto, e lo odiava allo stesso tempo. Per questo e per altri motivi le ricordava Merlin; per questo e per altri motivi, Morgana compativa e comprendeva Catullo.
Il vento le muoveva quelle onde nere, cullandola come una bambina in pigiama, pronta a trascinarsi le coperte colorate fin sotto il naso.
Il sole splendeva appena dietro tutto quel grigio, la ragazza ne sorrise. Poteva sembrare qualcosa di cupo e sinistro, ma a Morgana il sole non l’era mai piaciuto: amava il freddo, il grigio, la pioggia.
Non da sempre, solo da quando sua madre era morta. Davanti ai suoi occhi.
Igraine era come il Sole, amava le belle giornate. Uther era sempre stato un uomo enigmatico, misterioso. La Pendragon sapeva perfettamente di essere più simile al padre che a sua madre.
Si sedette sulla rena chiara, mentre la luce del mattino le schiarì gli occhi verdi. Quella spiaggia era stata l’inizio e la fine di tutto.
Respirò la brezza marina, lasciandosela entrare nei polmoni.
Quella, era stata l’ultima cosa che aveva respirato tra le braccia di Merlin. Il sapore di salsedine, era stato l’ultimo che aveva gustato sulle sue labbra.
Guardò all’orizzonte, proprio dove mare e cielo sembravano toccarsi. Tra le mani stringeva una foto, quella che aveva rubato da casa sua due anni fa, appena prima di partire per Parigi.
Quella spiaggia era stato il luogo dell’inizio. L’inizio della fine.
 


Brighton, dicembre 2012
 





«Morgana!», la richiamò il corvino dietro il volante, vedendola uscire dall’auto indispettita. «Possiamo parlare come due persone normali?»
Morgana continuava a tenere il muso restando a braccia conserte, continuando ad allontanarsi senza dare conto a Merlin, che intanto era sceso dall’auto e si era poggiato alla portiera.
«Mi ascolti almeno?»
«No!», sbottò acida, incamminandosi verso la rena fredda e dorata.
Il vestito viola, sotto il sole pigro d’inverno, lasciava intravedere l’intimo nero della ragazza. Merlin sentì la gelosia impossessarsi di lui. Richiuse la portiera con un tonfo sordo, raggiungendo la corvina sulla sabbia.
«Guarda che quello arrabbiato dovrei essere io!» le gridò alle spalle. «Il tuo ex ti ha invitato al drive-in e tu ti sei gettata nelle sue braccia!»
«Io faccio quello che mi pare!» sputò fuori, voltandosi fugacemente verso di lui. «Idiota».
Eh no! Pure “idiota”, no!
Il ragazzo serrò le labbra arrabbiato, bloccando Morgana per il polso, riuscendo a rigirarsela davanti agli occhi. Non gliene fregava niente che quei due smeraldi fossero furiosi: era il suo ragazzo, diamine, non il suo servo!
«Ascoltami», guardò fisso e deciso quel volto adirato, «io sono innamorato di te. Ti amo, anche se sei una bambina capricciosa, ma questo non posso sopportarlo: non posso sempre rincorrerti, non posso sempre chiedere scusa anche quando ho ragione!»
La ragazza rilassò per un momento i muscoli in tensione, abbassando – solo per un secondo – la difesa. «Vieni a Parigi con me, allora».
«Morgana… Ne abbiamo già parlato».
«No, Merlin, affatto!» ringhiò indispettita, ritraendo con forza la propria mano dalla sua stretta, improvvisamente più fastidiosa. «Io ho mandato al diavolo mio padre, per te! Sono andata via dalla mia casa, ho usato i miei risparmi per vivere insieme. Sono stanca di nascondermi, stanca di vivere questa storia nell’ombra nemmeno fossimo due criminali!»
Merlin prese lentamente fiato, deglutendo. Cercava nel palato le parole giuste da dirle, sicuro di non poterle dire la verità: non poteva raccontarle di Aridian, della droga o dei ricatti di Agravaine. No, non poteva.
«Ma cosa faccio io a Parigi, eh?», azzardò, cercando di nascondere il tremore della propria voce. «Qui ho tutto. E… poi come farei con la scuola, con Gaius, con Arthur…»
«Avresti me.» Morgana serrò la mascella. Merlin l’aveva delusa, e molto. Aveva voglia di urlare, picchiarlo e andare via da lì. Lei aveva rinunciato a tutto per loro e invece lui se ne stava impalato sulla sabbia ad inventare scuse. Voleva sparire. «Ma, a quanto pare, per te non è abbastanza».
Il vento cominciò a soffiare un po’ più forte, facendo danzare le sue ciocche corvine.
Era arrabbiata e per giunta non sapeva neanche dove andare; accecata dalla rabbia si era avvicinata alla riva, capendo di essersi chiusa da sola la strada.
«Morgana…»
Poco importava. Avrebbe continuato ad ignorarlo, anche al costo di bagnarsi i piedi!                     
«Morgana, ti prego!»
Accigliata, continuò ad ignorarlo, volgendo lo sguardo al mare mosso di dicembre. Ecco, quello era uno dei tanti motivi per cui era arrabbiata con lui: Perché cavolo l’aveva portata al mare, in pieno inverno?!
Merlin sospirò, comprendendo che ormai la sua ragazza era entrata nella fase ti-odio-e-non-ti-rivolgo-più-la-parola che tanto odiava – e lo faceva impazzire, allo stesso tempo.
Sollevò incerto una mano dal fianco, sfiorandole piano il braccio: anche se ormai Morgana era sua, anche se condivideva un appartamento con lei, provava sempre uno strano brivido lungo la schiena toccandola, avendola vicino.
Lei si ritrasse dispettosa, allontanandosi di qualche passo, fermandosi solo quando sentì il mare bagnarle le scarpe – nuove, per giunta!
«Non mi toccare!» lo redarguì con quella smorfia da ragazzina viziata.
Merlin non si diede per vinto – anche se stare con lei era una bella sfida! Una guerra, ogni sacrosanto giorno.
Il ragazzo si avvicinò cauto, quasi Morgana potesse voltarsi improvvisamente verso di lui e lanciargli contro un incantesimo. Si accostò alla sua schiena lasciando, tra i loro corpi, quel microscopico spazio utile a non toccarsi. Odorava di pesca, la sua Morgana.
Profumava più del mare.
Accorciò le distanze tra la propria bocca e l’orecchio di lei, sussurrandole piano: «Possiamo trovare un altro modo». Le onde del mare sembrarono intonare una melodia solo per loro due. «Non deve per forza finire così».
Si avvicinò, peccaminosamente, con le labbra al suo collo chiaro. «Non voglio perderti, Morgana.» La baciò nell’incavo, soffiandole sulla pelle: «Mai».
Forse era diventato pazzo, ma per un momento gli sembrò che anche lei avesse ceduto.
Morgana si voltò verso il suo viso, poi lo baciò. Forte, senza fiato. Merlin era diventato un burattino nelle sue mani, un piccolo servitore al suo comando. Si lasciò trascinare verso riva, sfilare la giacca… e farsi gettare nell’acqua ghiacciata.
«Sei pazza?!», imprecò, tremando come in uno di quei cartoni animati dove il personaggio rabbrividisce, vibrando come un cellulare, colorandosi la faccia di blu.
Morgana lo guardò soddisfatta, ghignando trionfante: «Ti avevo avvertito, Emrys».
Era bagnato fradicio ed alzarsi era stato anche più traumatico: si gelava!
«D’accordo», finse innocenza avvicinandosi pacificamente alla corvina.
Lei gli lanciò uno sguardo assassino, capendo al volo le sue intenzioni. «Non ti azzardare!»
Fu difficile afferrarla, soprattutto una volta caduti sulla sabbia, ma alla fine Merlin riuscì nel suo intento: se la caricò sulle braccia – mentre lei minacciava di ucciderlo, prendendolo a pugni e dimenandosi come una pazza -, riuscendo appena in tempo a gettarla in acqua.
La vide strabuzzare gli occhi in modo buffo, puntandogli un dito contro: «Io ti ammazzo!»
Rideva Merlin, rideva di buon gusto. A pensarci bene, Morgana in quello stato pareva davvero una strega cattiva.
 
 



Più tardi, quando il sole cedette il posto a nuvole cariche di pioggia, i due ragazzi si rifugiarono nell’auto, zuppi ed infreddoliti, riscaldandosi con la stufa.
Morgana, quel giorno, scoprì che le labbra di Merlin ricoperte dal sale erano più gustose; accentuavano la sua sete, rendendola pazza. Pazza di lui.
Si staccarono l’uno dall’altra solo per riprendere fiato. La corvina restò a fissare la sua bocca, rosea e schiusa. Sentì uno strano formicolio allo stomaco, qualcosa che non aveva mai provato prima in vita sua. «Ti amo».
Il cuore di Merlin si ribaltò nel suo petto. Gli fracassava l’addome. «Cosa?»
Lei non glielo aveva mai detto prima.
Fu più forte di lui: le labbra si allungarono in un buffo e infantile sorriso, emozionato come un bambino. Fosse passato qualcuno in quel momento a dirgli che gli asini volvano per davvero o che Babbo Natale esistesse, lui ci avrebbe creduto. «Cosa hai detto?»
Morgana poggiò due dita sul labbro inferiore del ragazzo, mentre fuori la pioggia cadeva furiosa sul tetto dell’auto. «Vieni con me a Parigi, Merlin».
 
 


Londra, Maggio 2015






Freya prese tra le mani un blocchetto di carta ed una bic nera, avvicinandosi al tavolino rotondo, quello vicino ad un quadro del Colosseo, appeso al muro da Arthur Pendragon in persona – apparteneva a sua madre, aveva detto.
«Buon giorno.» disse poco allegra, mantenendo lo sguardo basso. «Cosa posso portarle?»
Il suo cliente, un moro con i capelli in disordine, le sorrise dietro la sua barba appuntita posando i suoi occhi scuri su di lei. «Io potrei anche dirtelo, ma poi sembrerei sfacciato… Non è possibile avere il tuo numero?»
Freya rimase a guardarlo impassibile, leggermente infastidita: ci mancava solo un cretino Don Giovanni dopo quella pessima nottata!
«Suppongo sia il solito», tagliò corto lei posando la penna sul foglio. Adesso che ci pensava, quel ragazzo lo aveva già visto qualche volta, il più delle volte quando Merlin non era di turno: era solito entrare nel bar, scambiare quattro chiacchiere con Arthur e ordinare – o meglio, scroccare – una birra.
La bruna scrisse frettolosamente il nome della bevanda, per poi congedarsi: «Arriva subito».
«La birra oppure un invito a cena fuori?»
Sorrise per un brevissimo istante perché “il cliente ha sempre ragione”, poi sparì dalla sua vista diretta verso il bancone. «C’è il tuo amico scroccone».
Arthur accennò una risata di chi la sapeva lunga, mentre Freya prendeva una Heineken dal frigo e la stappava. «Accertati che paghi», le raccomandò prima che Ginevra, ancora seduta sullo sgabello, non lanciasse un’occhiata all’avventore in questione.
«Gwaine! Anche lui viene qui?» chiese – più a se stessa che ai due baristi -, sentendo una strana nostalgia farsi spazio in lei. «Quanto tempo è passato…»
«Sette mesi, quindici giorni e dodici ore», precisò il Pendragon freddo, alludendo certamente ad altro.
Freya guardò di sottecchi i due ex, prima di avvertire nuovamente l’oppressione della notte precedente sulla pelle. «Io vado dal cliente…» Non sapeva nemmeno perché lo aveva detto.
Solo una volta arrivata al tavolo, col vassoio rosso tra le mani, si accorse che il giovane non le aveva tolto gli occhi di dosso.
«Dicono che le ragazze più belle abbiano le lettere “a” ed “e” nel proprio nome», iniziò lui, mentre la cameriera gli serviva bottiglia e bicchiere. «Il tuo nome deve essere per forza…»
«Europa», rispose piatta, ripensando a quel triangolo assurdo che ormai faceva da padrone alla sua vita: Italia/Inghilterra/Francia e… Dio, se lo odiava!
«Europa?» chiese, vagamente divertito.
«Sì, Europa. Esistono ragazze che hanno nomi maschili come Jo, Alex, Ronnie… Non vedo cosa ci sia di male nel nome “Europa”. In fondo la “a” e la “e” ci sono».
«Europa…», stavolta il moro parve assaggiarlo quel nome, vedere che sapore aveva nel palato. «Beh, mi sembra giusto».
«Desidera altro?»
«Senti… Credi suonerebbe strano invitare “Europa” ad una festa, stasera?»
«Sono fidanzata», rispose in automatico, fingendo dispiacere.
Gwaine bevve un bel sorso dalla bottiglia di vetro, per poi sorriderle con quel suo fascino barbaro. «E’ qui?»
«N-No».
«Deve essere un vero idiota, allora. Io non lascerei mai una ragazza così bella da sola».
Freya non era ingenua – almeno non al punto da credere che quel donnaiolo non facesse così con tutte -; eppure le aveva dato fastidio, come se anche quel moro sciupafemmine le stesse ricordando che Merlin non era tornato a casa quella sera ed era rimasto con lei, Morgana, la sua ex.
«Ad ogni modo», Gwaine frugò nella tasca dei suoi jeans larghi estraendone un foglietto di carta stropicciata, «questo è l’indirizzo».
La cameriera lo guardò diffidente, decidendosi però a prenderlo. Freya lo vide sorridere ancora, anche dietro il vetro verde della Heineken – che aveva già terminato.
«Ci becchiamo alla festa, Europa.» Le strizzò l’occhio per poi alzarsi dal divanetto. «Porta anche il tuo amichetto, se vuoi». Il giovane si fermò ad un passo dal suo volto, penetrandola col suo sguardo caldo e ammiccante. «Anche se vorrei tanto non lo facessi».
Gli occhi di Gwaine erano scuri e parlanti, odoravano quasi. Sembravano moka pregiata, caffè pressato al punto giusto: un aroma inaspettato. La ragazza non se ne capacitò mai del perché, ma in quel momento non lo riprese e non si scansò nemmeno quando lui le sfiorò volontariamente la mano. Non fece nulla neanche quando, irritato dietro al bancone, Arthur gli gridò di pagare il conto – che, ovviamente, Gwaine non pagò.
La cameriera sarebbe rimasta impalata se non fosse che, dal bagno del locale, un urlo disperato avesse attirato simultaneamente l’attenzione di tutti.
Arthur, ignorando ogni consiglio medico e rimprovero da Ginevra, prese tra le mani le sue stampelle, arrancando come un condottiero – anche se, la figura più idonea sarebbe stata quella di un soldatino con la gamba mozzata – verso la toilette.
Quel posto era il suo locale, i clienti erano i suoi clienti ed ogni problema lo riguardava in prima persona: gestire un bar era poco diverso che gestire un regno.
 
 
 
 





Cercò di rimettersi in piedi, mentre fuori dalla finestra il sole continuava a picchiettare su Londra.
Sentì un bruciore all’altezza del ventre, scoprendosi ancora disteso sulla tavola in legno della cucina; l’unica differenza dalla notte precedente erano un cuscino dietro il capo ed una coperta di lino sul corpo. Gaius, pensò intenerito e riconoscente Merlin.
Non ricordava molto di come ci fosse arrivato fin lì, ma ricordava alla perfezione il proiettile nel suo corpo, Aridian ed il pianto di Morgana… Già, Morgana.
Per sua sfortuna ricordava anche cos’era successo appena dopo aver ripreso conoscenza…
 


*




 
Merlin riaprì piano gli occhi, attendendo che le sfumature opache dinanzi a sé tornassero ad avere una forma chiara e precisa. E la prima cosa che vide furono due smeraldi irati, pronti ad incenerirlo; anche se, doveva ammetterlo: per un attimo gli parve gli confonderli con due occhi blu e sereni di vederlo ancora vivo, e altezzosi come sempre.
«Risparmia il fiato, Emrys. Ti servirà». La voce pungente di Morgana scacciò quei suoi pensieri dalla mente, lasciandolo solo nel fronteggiare quel viso crucciato. «Mi fai schifo.»
Un graffio, sottilissimo e letale, sul cuore.
«Ed io che speravo tu fossi cambiato, Merlin.» Scosse la testa, col suo viso che gli sputava addosso il ribrezzo che provava verso di lui.  «Sei il solito traditore. Tu non cambierai mai».
«Non è come pensi», si difese, tentando di alzarsi dalla posizione supina in cui era costretto.
«Smettila con questa cazzate!» La corvina si aggiustò stizzita la borsa sulle spalle, saettando verso la porta.
«Neanche tu sei stata sincera!» la rimproverò alzandosi dal tavolo, per poi poggiarsi alla sedia di legno chiaro, barcollando per un po’. «”Non credo al matrimonio, Merlin.” “Il matrimonio è la gabbia dell’amore”, e poi vengo a sapere da Arthur che ti sposerai con Mordred».
Morgana posò i suoi smeraldi furiosi sul volto di Merlin. «Questi non sono affari che ti riguardano. Hai una ragazza? Bene, pensa a lei».
«No, invece mi riguarda!» le disse, mantenendo comunque le distanze. Sentì gli occhi appesantirsi, un po’ come il cuore nel petto. «Tu… Tu non sai cosa vuol dire stare senza te, non hai idea di cosa significhi non averti accanto. Io sono stato una merda senza di te!»
Un nodo gli stringeva forte la gola, gli occhi si erano velati lacrime. Morgana era rimasta pietrificata da quelle parole mentre dentro di sé, proprio nei meandri più profondi, una vecchia ferita si era riaperta e ricominciava a sanguinare.
«Credi che per me sia stato facile? Credi che io sia stata bene, Merlin?» La voce di Morgana era rotta, fredda, ferita. «Io ero terrorizzata! Ero sola, senza nessuno. Non sapevo cosa fare, non sapevo di chi fidarmi per colpa tua! Io mi sono fidata di te, ho rinnegato mio padre e mentito a mio fratello, poi un giorno torno a casa e trovo della maledetta droga nel tuo zaino! Hai fatto crollare tutte le mie certezze e no, Merlin, tu non sai quanto sia stato difficile per me! Ero sola, impaurita e tu cosa hai fatto, eh? Niente».
Facevano male i suoi sguardi lucidi, forse ancora di più delle sue parole di ghiaccio. La corvina si voltò in fretta, per poi asciugarsi stizzita una lacrima dal volto.
«Mi sei mancata.» Fu un sussurro a voce spezzata, niente di più. «Non deve per forza finire così», Merlin prese coraggio avvicinandosi alle spalle di lei – gli sembrò quasi un buffo déjà-vu -,  «possiamo trovare un altro modo».
Morgana sentì la sua presenza dietro la propria schiena. Avrebbe potuto fare di tutto, di tutto… e invece chiuse gli occhi, asciugandosi le lacrime. «Non c’è un altro modo».
 



 
*
 






Merlin si mosse lentamente in quella casa, che ormai conosceva bene. Sporse lo sguardo oltre la porta semiaperta della stanza dell’anziano. Gaius era seduto sul letto, con la foto di Alice tra le mani e… le parlava.
Talvolta, diceva di vederla.
Il ventenne deglutì, incamminandosi poi verso la stanza di Vivian – che in quei tre anni era diventata la sua camera. S’intenerì nel notare che Gaius aveva lasciato tutto com’era: il letto era ancora rivestito da quelle lenzuola arancioni che tanto adorava, sulla scrivania c’erano ancora vecchi cd di Lucio Battisti e Charles Aznavour. Sull’armadio, alla sua sinistra, se ne stava ancora indisturbato l’adesivo della Cupola di San Pietro – o, come direbbero i romani “del Cupolone”.
Merlin ne aprì le ante, prendendo una maglia qualsiasi e indossarla, per poi andare via.
 
 






Girò la chiave nella toppa come da routine, richiudendosi la porta alle spalle. Era tutto così silenzioso… Freya doveva essere ancora al bar.
Poggiò le chiavi sul mobile, accorgendosi solo allora di una foto sul pavimento, qualche passo più avanti. Strano, pensò.
Il corvino si avvicinò, stringendo i denti in una smorfia di dolore una volta abbassato; eppure, in quella posizione, ci rimase per un po’. Quella foto… era la loro foto. Come ci era finita lì?
«Non può finire così».
Merlin si alzò di scatto, notando solo in quel momento la ragazza in piedi nel corridoio. «Non è finita», disse decisa.
Emrys rimase impalato come una statua di marmo, col cuore paralizzato nel petto – o forse, batteva troppo forte?
Morgana Pendragon si era mossa verso di lui, rendendo quasi nulla la distanza tra i loro corpi.
Gli occhi azzurri di Merlin erano fissi su di lei, il resto del corpo era come congelato. Poi, sentì il tocco della sua mano sul suo addome e fu come sporgere la testa oltre un precipizio. Le labbra della corvina sfiorarono le sue e Merlin si vide oscillare verso il basso, pronto al salto nel vuoto.
Fu lui ad annullare quello spazio inutile che li teneva lontani, prendendole il viso tra le mani e baciandole la bocca. Cadde, nel vuoto.
Non voleva respirare, voleva solo assaggiarla, riscoprire il suo sapore. La baciava senza fiato, come se fosse piombato nelle profondità dell’oceano.
Fu lei a staccarsi dalla sua morsa e Merlin sentì la corda dell’imbracatura tenerlo sospeso nel nulla.
Il corvino si accorse di tremare, proprio come la sua prima volta. Sentiva l’urgenza ed il bisogno di averla e la paura di attenderla, proprio come quando si aspetta di riprendere lo slancio e tornare verso l’alto.
Perché si era staccata? Aveva sbagliato qualcosa, doveva chiederle scusa?
«M-Morgana…»









** Relie's Corner**
- Il personaggio di George compare nella quarta stagione di Merlin, precisamente nella sesta puntata.
- Alcune frasi tipo "Non deve per forza finire così, possiamo trovare un altro modo", sono state strappate letteralmente dalle labbra di Merlin e riportate qui.
- Il Marocchino può essere considerato come un piccolo capuccino con aggiunta di polvere di cacao.
- Igraine, la madre di Arthur e Morgana, era originaria di Roma, ecco perché questo accanimento con la nostra capitale ^^
- Merlin possiede cd di Battisti perché, per corteggiare Morgana, ne aveva avuto bisogno. 
- Se a qualcuno interessa leggere il pre-Pendragon's eccovi il link--> Destinati ad essere Champagne
- Sì, ho la fissa per il nome "Europa", che male c'è? (Senza volerlo fare intenzionalmente, ho citato i Jolex - Jo, Alex... Pensare che manco mi piacciono insieme)
- Sicuramente avrò dimenticato qualcosa quindi, se avete qualche dubbio, non esitate a chiedere!



 

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Capitolo 13
*** Aromi inaspettati, sapori segreti (Parte II) ***


Nda: Buon salve a tutti!
Non ci credo nemmeno, ma questo è - per il momento - il capitolo più corto che io abbia scritto *-* (Mi sento soddisfatta).
Vorrei prima di tutto ringraziare Adebaran per la dritta medica (e magari maledirla visto che mi sta facendo piacere il personaggio di Freya). Grazie!
Ringrazio tutti coloro che, come sempre, leggono in religioso silenzio; un grazie alle dolci persone che continuano ad aggiungere la storia nelle preferite/ricordate/seguite ed un grazie a tutti coloro che recensiscono.
In questo capitolo ci saranno dei missing moments approfonditi successivamente. 
Premesse: il simbolo (*) indica un passaggio dal presente ai ricordi o viceversa; il simbolo (**) vuol dire che si è tornati alla situazione iniziale.
Il collage fa schifo, ma fate finta di apprezzarlo. Ho cercato le immagini più idonee e, spero, di esserci riuscita.
Infine, dedico questo capitolo ad una persona che - forse - non lo saprà mai. Una persona speciale - nel senso negativo del termine - con cui questa storia è iniziata. Lei era al mio fianco a commentare ogni cosa, ora non c'è più - no, non è morta ma viva e vegeta! - e la storia continua lo stesso. Non so se continua a seguirmi o se si accontenta delle vecchie pagine su Word quando gliele passavo, anyway, questo capitolo è soprattutto per lei: l'altra faccia velenosa della medaglia, che ha lasciato un brutto vuoto che saprò colmare.
A voi tutti una buona, spero, lettura.
 
 
 
XIII.Aromi inaspettati, sapori segreti (Parte II)
 
 


 "E' più facile perdonare un nemico che un amico"
- William Blake
 
 
 
Non guardarmi in quel modo, non fingere che non lo sapessi fin dall’inizio.
Lo aspettavi. Sapevi ch’era sbagliato, ma lo aspettavi.
Come quella volta in cui ha deciso: «Basta con la Nutella.» e poi ti sei diretto con passo felpato in cucina, dove sapevi di trovarla. Sei restato lì a fissarla, come a costringerla a farsi mangiare da te; si sa: se osservi una cosa per troppo tempo, alla fine la desideri.
Alla terza cucchiaiata ti sentivi in colpa.
Ricordi come ti giustificavi: «Solo per questa volta, da domani smetto».
C’è davvero bisogno che io ti dica la verità – quella che anche tu conosci perfettamente?
Non guardarmi in quel modo, l’aspettavi.
Sapevi perfettamente che l’importante non era non mangiarla, ma calibrare bene le dosi. Eppure ti sei ripromesso: «Solo per questa volta, da domani smetto».
Non guardarmi in quel modo.
Non hai mai smesso.
 
 
 
 
 





Se n’era stato così immobile su quelle stampelle, la spalla a sfiorare lo stipite della porta e la gamba ingessata, da non accorgersene.
Le labbra carnose erano distese in una strana linea retta, quasi mantenuta appena, quasi volesse dire qualcosa. L’osservava mentre il sudore gl’imperlava la fronte, le gote arrossate e la bocca smorta. L’osservava con un misto di sentimenti simile al menù assortito del Pendragon’s: vario, da avere quasi l’imbarazzo della scelta.
Era rimasto fermo a sorreggersi sulle stampelle per molti minuti, guardandolo dormire e combattere con la febbre.
Ricordava di aver ignorato ogni effetto sonoro del mondo guardando su quel letto, ricordava di aver sofferto nell’essersi riscoperto così tradito e coinvolto allo stesso tempo. Ricordava di aver chiesto all’aria: «Solo altri cinque minuti».
Morgana aveva avuto come l’impressione di essere stata soffocata. «E’ tardi, Arthur. Mordred ci sta aspettando.» Si strinse l’anulare tra le dita con forza. «Freya e Gaius sono appena tornati; si occuperanno loro di lui.»
Il biondo non reagiva, continuava a fissare il corpo di Merlin avvolto nelle lenzuola.
«Arthur, non dovresti neanche stare in pied-»
«Ti ho chiesto solo cinque minuti del tuo stupido tempo; ho preteso troppo?!» Gli occhi blu del Pendragon erano saettati verso il suo volto, arrabbiati, animati da una strana luce, quasi una scia di delusione.
Morgana si morse l’interno labbra afferrando il fratello per un braccio, senza mollare la presa neanche quando cercò di ritrarsi; lo costrinse sulla sedia a rotelle. «Mordred ci sta aspettando», rimarcò.
«Non m’importa nulla di Mordred», biascicò a denti stretti, mentre la sorella lo trascinava via da lì, via da Merlin.
Quando nel corridoio Gaius incrociò gli occhi del biondino, Arthur vi lesse ansia sul suo volto. Nessuno dei due proferì parola finché i due fratelli non ebbero l’ex medico di spalle.
«Sarà solo un po’ di febbre alta», li rassicurò l’anziano, con la sua voce pacata. «Freya tende ad ingigantire troppo le cose.»
Arthur tuttavia non si voltò, né chiese a Morgana di fermarsi. Mosse solo una mano, pigramente, in segno di saluto affidandogli il giovane Emrys senza ripensamenti.
 
 
 
 
 
Qualche ora prima…
 





La giornata al bar si stava rivelando intensa come non mai: un tizio, un certo Jonas, aveva tentato di ferirsi nel bagno del Pendragon’s Coffee, lamentandosi poi del dolore che si era inferto da solo. Per fortuna, Jonas pareva un povero idiota con una bassissima soglia di sopportazione del dolore, che non aveva fatto altro che prendere a pugni il muro chiaro della toilette.
Gwen e Freya erano state così premurose da catapultarsi sull’uomo come chiocce apprensive, mentre Arthur – allibito – diceva loro di farlo accomodare ed offrirgli qualcosa.
Era un uomo stravagante dall’aspetto discutibile.
Arthur si fermò a pensare che Merlin – se presente – l’avrebbe pensata come lui, per poi riprenderlo come una donna petulante.
Eppure, l’ossuto e appena guardabile avventore, s’era deciso a vuotare il sacco solo dopo tre Tequila – perché l’alcool aiuta ad affrontare i problemi – e a metabolizzare il fatto che sua moglie, Catrina, lo avesse lasciato per un altro solo con l’aiuto di quattro bicchieri di Vodka – perché l’alcool aiuta a dimenticare.
Freya, in quel momento, fu sicura solo del fatto che Jonas avrebbe vomitato, passando nel modo peggiore la sua giornata più orrenda. Arthur, dal suo canto, teneva il conto di quanti soldi avesse regalato nell’arco di quella giornata tra la birra di Gwaine, i due Marocchino di Gwen e i sette drink di quel tizio. Ginevra, invece, era l’unica che parlava con l’uomo – stomachevole – seriamente interessata.
Ad Arthur fecero specie i discorsi dell’ex sul tradimento e l’abbandono, tanto che dovette arricciare il naso e offrirsi da bere da solo.
Finta moralista.
Probabilmente avrebbe accettato di più buon grado discorsi sul vero amore da Gwaine, elogi sull’autostima da Freya e monologhi sulla sincerità da Merlin e Morgana.
«Non è colpa sua, Jonas. Magari doveva andare così: forse lei non era la donna giusta… Forse era solo arrabbiata, potrebbe ritornare…» e bla bla bla. Tante cazzate, aveva catalogato Arthur mentre sentiva Gwen parlare al tizio.
Ginevra, col suo falso ottimismo, aveva provato in tutti i modi di tirar su di morale l’uomo che aveva ancora le lacrime agli occhi, non facendo altro però che accentuarne il pianto.
«Non posso vivere senza di lei. Catrina è mia moglie, la mia casa, il mio tutto! Cosa farei se non dovesse tornare? Cosa ne sarebbe di me?!» Jonas era disperato; singhiozzava in modo così goffo per Arthur che quasi gli venne da roteare gli occhi o crederlo un attore di tragedie.
«Ora basta», a parlare, sorprendendo i due ex, fu Freya. La ragazza cercò di drizzare la schiena, assumendo un’aria vagamente sicura. «Deve smetterla di piangersi addosso perché lei non tornerà.»
«Io credo che…», cercò di venirle contro Gwen, vedendo l’espressione distrutta di Jonas; Freya però non volle saperne niente, così prese posto difronte al cliente, puntando i suoi occhi di terra umida in quelli addolorati dell’uomo: «Lei non tornerà, Jonas, Catrina ha scelto lui. Fa male, lo so, all’inizio sembrerà difficile, ma lei può farcela. Può vivere senza sua moglie, Jonas. Per quanto possa sembrarle assurdo e doloroso, può farcela, deve farcela. Perché non è colpa del Destino se lei ha scelto un altro uomo, la colpa è vostra: qualsiasi cosa accada in una relazione la si decide in due, ma lei non scelga di amarla anche quando sua moglie ha scelto un altro uomo al vostro amore».
Cercò di dedicargli un mezzo sorriso, poggiando la propria mano su quella dell’uomo. «Lei deve andare avanti. Non si limiti ad essere la seconda scelta, non si blocchi a quest’errore di valutazione: la vita va avanti, Jonas, non si ferma ad aspettarci.»
Arthur la guardò di sottecchi, seduto su uno sgabello. Ricordava le parole di Tristano e, per un momento, si accorse di quanto lui e Freya fossero simili in amore. Erano stati traditi entrambi, tutti e due dal loro primo amore. Quelle parole, quelle dell’insicura ed ingenua Frida, erano sicuramente più vere ed utili di quelle di Ginevra.
«Come… Come faccio?», chiese l’avventore, con lo sguardo triste e gonfio. «Come faccio ad imparare a vivere senza di lei?»
Freya prese aria inspirando velocemente. «Un passo alla volta. Una notte insonne alla volta… Magari anche un bicchiere di Vodka dopo l’altro…», rise, contagiando per un breve attimo anche l’uomo.
«Magari non tutti nel mio bar», mormorò il biondo, beccandosi un’occhiataccia dalla ex.
 
 
 
 




















Merlin aprì gli occhi controvoglia, sentendosi la testa pensante come una palla da Bowling.
Realizzò di essere nel suo letto, senza indumenti, solo dopo qualche secondo. Avvertì un fastidio al fianco, all’altezza del ventre. Cercò di ignorarlo, tentando invano di voltarsi verso l’altra parte del letto. Era vuota, disfatta.
Morgana non c’era, era andata via.
Si morse il labbro, sconsolato dalla prospettiva di essere stato abbandonato durante il sonno, cercando con lo sguardo qualsiasi cosa potesse riportarlo alla realtà. La sveglia.
Erano appena le quattro del pomeriggio… Quanto tempo aveva speso dormendo come un tasso?
Sentì un forte senso d’abbattimento lungo la pelle, quasi fosse diventato di colpo più vecchio. Con la guancia rasata contro il cuscino e gli occhi glauchi semiaperti, scorse qualcosa che non aveva ancora notato fino a quel momento: una canotta rosa, gettata senza cura, riposava su una sedia di legno accanto alle pile di cd e gli scatoloni delle scarpe.
Freya, pensò ed il cuore gli si strinse nel petto, sentendosi maledettamente in colpa. Freya non lo meritava, Freya non meritava un ragazzo stupido e codardo come lui. Avrebbe dovuto dirle tutto dal principio e invece se n’era stato zitto, trascurandola, cacciandola fuori dal suo mondo.
Freya sembrava la risposta a tutte le sue domande e lui le voleva molto bene, ma poi Morgana era tornata e tutte le sue certezze si erano sciolte come cera.
Doveva rivestirsi, immediatamente.
Si rimise in piedi a fatica, con la testa che girava come una trottola, cercando frettoloso i suoi vestiti.
Riuscì ad indossare solo i boxer ed i pantaloni prima che quel dolore insopportabile lo costringesse a fermarsi. Non poteva farsi ritrovare in quelle condizioni, non dopo la lite della sera precedente. Si concesse solo qualche secondo per sedersi e gestire il dolore fastidioso alle tempie.
Non fare la femminuccia, Merlin, si rimproverò da solo, tenendosi la testa tra le mani. Stava da schifo, ma non era solo senso di colpa il suo: stava da schifo per davvero.
Gli occhi diventavano sempre più pesanti, il cranio un disco impazzito nel lettore dvd.
Senza neanche accorgersene, s’accasciò sul letto, con le palpebre abbassate.
 
 






 
La sera prima…
 






«Perché hai detto una cosa simile ai tuoi genitori?», la interrogò il biondo, seduto sulla sua inseparabile carrozzella.
«Non lo so», ammise. «Mi sembrava la cosa giusta da fare».
«Io non… Non mi riferivo alla storia del finto fidanzato…»
«E a cosa?»
Arthur abbassò gli occhi per un istante, per poi inchiodarli sul volto di Freya. «Quella stronzata che sono attratto dal tuo ragazzo. Come ti è venuta in mente una cosa simile?»
La mora lo guardò intensamente, in quel blu straordinario delle sue iridi, lasciando le parole libere di uscire dalla propria bocca: «Perché io ti ho visto, Arthur. Ho visto cosa diventano i tuoi occhi quando lo guardi».
Arthur sbuffò una risata. «Tu sei tutta matta».
«Tu puoi negarlo finché non sarai costretto ad ammetterlo a te stesso, ma io so cosa si prova. Anche io lo guardo in quel modo.» E Merlin guarda lei così, avrebbe voluto aggiungere. «Certo, dover competere con te mi secca, ma ormai ci avevo fatto l’abitudine… Dover competere anche con Morgana è un altro conto», borbottò.
«Morgana? Cosa c’entra Morgana?»
Freya cacciò l’aria dalla bocca, abbandonandosi contro il divano. «Insomma io posso accettare di tutto, ma non saperlo solo con la sua ex – di notte, per giunta – e col cellulare spento!»
In quell’istante, in quel preciso istante, Arthur sentì il mondo cadergli sulle spalle, inchiodandolo al suolo. «Cosa… Cosa ti fa pensare che loro due siano ex?», cercò di schernirla. «Lui è… E’ Merlin e lei è Morgana. Sono due universi distinti e separat-»
«Me l’ha detto lui, Arthur. Non sono matta, non sono una povera pazza. Me l’ha detto lui.»
 


*



Arthur si mantenne la radice del naso tra l’indice ed il pollice, cercando di scacciare via i brutti pensieri. Si sentiva tradito, preso per i fondelli. Come aveva potuto, Merlin, fargli questo? Loro erano una squadra! Come aveva potuto?
«Io ho finito il mio turno», lo avvisò Freya slegandosi i capelli castani, lasciandoseli ricadere sulla schiena.
 


«Ma tu davvero non ne sapevi niente?»
«No», fu la risposta secca dell’altro.
 



«Ci vediamo domani».
Arthur sembrò sorriderle per una frazione di secondo, per poi tornare serio in un attimo. «Ehm, appendi questo alla vetrata», le disse porgendole un cartoncino.
La mora se lo rigirò tra le mani lasciandosi scappare una risata divertita. «D’accordo, capo.»
Una volta varcata l’uscita del Pendragon’s Coffee – ed aver appeso con lo scotch il foglio di carta sulla vetrata -, Freya percepì la leggera brezza del tardo pomeriggio. Era passata mezz’ora dalle cinque e l’aria s’era fatta più fresca rispetto qualche ora prima. Il sole sarebbe calato solo dopo le otto e, sorpresa di sé, Freya riscoprì di non aver alcuna voglia di tornare a casa. Qualcosa di dolce. Qualcosa di dolce e fresco, ecco di cosa aveva bisogno!
 
 







Se c’era una cosa che Freya adorava di Londra erano i parchi, quegl’immensi e verdi parchi popolati da graziosi scoiattoli; ci sarebbe sicuramente passata dopo aver comperato il tanto ambito sfizio.
Mentre camminava lungo il perimetro del parco, gettava continue occhiate verso il lato opposto della strada sperando, magari, di trovare qualcosa che facesse al caso suo. Si fermò notando l’Avalon’s Coffee. “Non si accettano troll, Mangiamorte e pessimisti”, recitava la lavagnetta vicino l’entrata. Alla ragazza fece sorridere così, decise di entrare.
Era un locale molto elegante, ma non troppo da stonare col quotidiano. Le poltroncine di pelle verdi erano disposte in una fila ordinata accanto alle vetrate, con tavolini rotondi a completare l’opera. Si avvicinò al bancone sorridendo a capo basso. «Un milkshake alla fragola, senza panna».
La donna, quasi eterea con i suoi setosi e lunghi capelli biondi, le sorrise dall’altro lato del bancone, mettendosi all’opera.
Roba d’altra classe…
Mentre aspettava pazientemente il suo frappè, un ragazzo in camicia scura e pantaloni a sigaretta si avvicinò, posando rassegnato il cellulare nelle tasche. «Non pensavo fosse così grande Londra.» Lo strano accento francese, che tanto discordava con quell’inglese quasi perfetto, giunse alle orecchie della mora come un qualcosa di fastidioso; una sorta di allarme che le ricordava, ancora una volta, il nome del problema: Morgana.
Decise d’ignorarlo, Freya, non degnandolo neanche di uno sguardo mentre attendeva il suo milkshake.
«Guardando Google Maps sembrava molto più semplice…», brontolò ancora.
«Senti. Se ci stai provando faresti meglio a tacere: sono stanca degli uomini conosciuti nei bar, portano solo guai!» La pelle di Freya si tinse lievemente di rosso quando si accorse che il ragazzo la stava guardando come se fosse un’extraterrestre.
«Non ci sto provando» la rassicurò, la fronte aggrottata nascosta dai ricci castani. «Sono fidanzato».
La mora, che dentro sé stava morendo dalla vergogna, si fiondò sul suo frappè rosa, prendendo un lungo sorso dalla cannuccia, dopo aver pagato il conto. Si era voltata sperando, con tutte le sue forze, che il bel francese si dimenticasse della sua inutile presenza.
«Veramente… sono un fidanzato disperso, nel senso che credo di essermi perso. La mia ragazza mi ha dato le giuste indicazioni, ma io non ci capisco niente», ammise.
A Freya scappò un sorriso. «Come quella commedia di Woody Allen. Quella in cui la ragazza si perde tra le strade di Roma.»
Il francese assentì: «Già.» Anche se in realtà non aveva la più pallida idea di che cosa stesse parlando. Ad ogni modo, era riuscito ad avere la sua attenzione: condividere un pensiero sembrava un’ottima mossa. «Devo raggiungere il Pendragon’s Coffee. Sai dirmi dov’è?»
«Potrei dirtelo, ma prima credo ti convenga ordinare qualcosa qui.» Scherzò su lei, indicandogli col mento la dolce commessa angelica.
«Veramente sarebbe piuttosto urgente. La mia ragazza ancora non lo sa che sono a Londra e volevo farle una sorpresa. Lei lavora lì e…»
Solo in quel momento, Freya parve collegare tutti i tasselli del puzzle.
«Tu sei Mordred!» esclamò, gli occhi scuri buffamente spalancati.
Il giovane sembrava quanto meno confuso dal comportamento bizzarro di quella ragazza. «Sì», affermò perplesso.
Quell’insolita serenità nata sul volto della mora lo lasciò disorientato quanto stranito, quasi quella ragazza gli stesse dicendo: «Sei la soluzione ad ogni mio problema».
 
 
 


















Quando verso le sei e quaranta della sera Morgana fece il suo ingresso nel bar, il fratello la guardò come se l’avesse vista per la prima volta.
Gwen aveva continuato ad insistere nell’offrire il suo aiuto, ma Arthur l’aveva prontamente rifiutato ogni volta, finché non si vide costretto a cedere ed accettare: servire i tavoli ed essere contemporaneamente presente alla cassa non era un’impresa facile – soprattutto se costretto su una sedia a rotelle e con una gamba ingessata.
Trattenne la rabbia, Arthur, già ferito nell’orgoglio di suo. «Alla buon’ora!» la canzonò, vedendo sua sorella prendere posto dietro il bancone.
«Va’ a casa, Arthur. Qui posso pensarci io.»
«Ma certo!», si lagnò l’altro. «Tanto, questo è solo un bar.»
Morgana sbuffò, legandosi i capelli in uno chignon improvvisato. «Si può sapere qual è il tuo problema?!»
«Voi! Tu e Merlin siete il mio problema!» sputò fuori, gli occhi come tizzoni ardenti. «Non fate altro che sparire… ritardare. Pensate solo a voi stessi, è questo il mio problema!»
Gwen era sicura di non aver mai visto Arthur tanto adirato – se non per quella volta in cui l’aveva scoperta a letto con Lancelot -, e per un momento si chiese se non sapesse ogni cosa.
«Questo è un bar! Non un gioco, non un passatempo. Questo il mio bar e ci sono delle regole e pretendo che vengano rispettate!» La faccia del biondo si era arrossata dalla collera mentre la sua maglia cominciava a diventare troppo stretta.
Morgana lo guardò impassibile, quasi come una macchina creata per non provare sentimenti. «Sono stata da nostro padre. Mi ha costretto a prendere tea e biscotti per sentirmi parlare di Mordred, poi ha preteso che restassi per pranzo per discutere su di te», mentì. «Non so dove sia il tuo amichetto, ma sicuramente le sue mancanze non mi riguardano.»
La Pendragon fece appena in tempo nel notare lo sguardo contrariato di Ginevra, per poi iniziare a smanettare inutilmente con qualche bicchiere. «Sono la sorella maggiore e comando io: Va’. A. Casa.»
Arthur avrebbe tanto voluto controbattere in qualche maniera, spiegarle che tra loro, l’unico che comandava, era lui; aprì la bocca nel tentativo di dire qualcosa, ma fu bloccato dalla figura alta e giovanile dall’altro lato del bancone, che sorrideva fiera. «Mi ci fionderei di corsa… se solo sapessi come arrivarci.»
Gwen vide l’amica voltarsi di scatto verso il bancone, dipinta da un’inusuale espressione di meraviglia. «Mordred… Ma tu… Cosa ci fai qui, non dovresti essere a Parigi?»
«E’ un invito ad andarmene?»
Il sorriso di Mordred era il più enigmatico e magnetico del mondo, gli occhi erano frammenti di ghiaccio. Di questo Ginevra n’era certa. Il francese spostò lo sguardo sul biondo, porgendogli educatamente la mano. «Oh, tu dovresti essere Arthur.»
«Sì, sono io», confermò il Pendragon, guardandolo bene in volto: quel tipo non gli piaceva. Nascondeva qualcosa, ne era sicuro.
«Io sono Ginevra», la mulatta strinse per Arthur la mano del giovane, tentando di smorzare la tensione. «Ma… tutti mi chiamano Gwen».
«Sì», incurvò le labbra in un sorriso ricambiando il gesto – felice che qualcuno calcolasse la sua cortesia. «Ho sentito molto parlare di te.»
«Davvero?»
«Davvero?» rimarcò Arthur, volgendosi però, irritato, verso la sorella. Ovviamente, quella strega non si era risparmiata la storia del tradimento di Ginevra e Lancelot.
 
 
 
 













Era tardi.
Mentre saliva le scale del suo appartamento, col cuore che le tamburellava come un pazzo nel petto, si convinse che non avrebbe mai dovuto andare a quella festa.
Si sentiva in colpa. Non avrebbe dovuto: era fidanzata e… Gwaine non avrebbe neanche dovuto avvicinarsi a lei… e lei non gliel’avrebbe dovuto lasciar fare.
Girò le chiavi nella toppa con un strano senso d’angoscia. Si sentiva sporca. La casa era scura, non c’era una sola luce accesa. Premette l’interruttore, chiudendosi la porta alle spalle.
Si sfilò le scarpe lasciandole sul pavimento, poggiando malamente la borsa su una sedia. Per giunta, l’era anche passata la fame.
Camminando nel corridoio, si accorse che la porta della camera da letto era aperta. Deglutì.
Non era pronta per quello. Aveva paura di avvicinarsi.
Passo dopo passo, si diresse verso la camera lentamente, trattenendo il fiato. Poteva essere lì, Merlin, insieme all’altra. Non l’avrebbe sopportato.
Una volta fatto capolinea nella stanza, il cuore le si sciolse come neve al sole. Merlin era lì, sul letto – da solo – che dormiva come un bambino.
Sorrise commossa, come se quella fosse la prova che non l’aveva tradita. «Sei tornato», sussurrò.
Gli andò vicino in punta di piedi, guardando il volto diafano del ragazzo nella luce della città che entrava dalla finestra. Lo amava. Cavolo se lo amava e si era sentita così stupida di averlo giudicato.
«Amore», lo richiamò, scuotendolo. Merlin, però, non rispose. Inizialmente Freya ne sorrise: il suo fidanzato era un pelandrone; neanche più sveglie contemporaneamente riuscivano a spezzare la dolce intesa con Morfeo.
«Amore, sono io» gli disse agitandolo. Niente. Gli toccò la fronte, accorgendosi che scottava. Era sudato, non si muoveva. Freya cominciò a scuoterlo con più decisone, richiamandolo con meno dolcezza, ma Merlin manco pareva sentirla.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


















Arthur era seccato e non solo per la storia di Gwen che lo riaccompagnava a casa come una brava mogliettina; lo infastidiva il pensiero di aver lasciato il bar nelle mani di Morgana e Mordred e, in più, quell’idiota di Merlin non si era ancora fatto vivo!
«Mordred è davvero un caro ragazzo.» Ginevra si era premurata di raccogliere un paio di scarpe, puzzolenti, lasciate per terra, sistemandole al loro posto – anche se Arthur non ne comprendeva il motivo.
«Ha prenotato una camera in albergo solo per aver un posto dove nascondere i bagagli e poi si è avventurato nella fascinosa Londra, senza neanche sapere dove stesse andando… E poi si è ritrovato costretto a lavorare.»
«Nessuno lo ha costretto», bofonchiò.
Gwen scosse il capo, cominciando a sistemare il divano in soggiorno.
 «Si può sapere cosa diamine stai facendo?» domandò il biondo, con un tono di disappunto.
La ragazza si sposò una ciocca ribelle dietro l’orecchio. «Cerco di rendermi utile», disse, continuando a distendere eventuali pieghe.
«Come con Jonas?»
La mulatta si fermò, raddrizzando la schiena. «Cercavo di essere gentile».
«Non m’importa un cavolo della tua carità!», scoppiò il giovane serrando i pugni. «Tu eri la mia ragazza. Avevamo dei progetti, io ti ho regalato un anello e poi ti ho trovata a letto con un mio amico. Questo m’importa!» La voce del Pendragon era talmente alta da farla sussultare.
Arthur distolse i suoi occhi dal volto di Ginevra appena la vide lacrimare.
«Aspettavo un bambino.» Le labbra sottili di Gwen tremolavano nella luce calda dell’appartamento. «E’ finita per questo, con Lancelot. Ho cercato di mettermi in contatto con te, spiegarti di lui – o lei, non l’ho mai saputo -, ma tu non c’eri. Rifiutavi le mie chiamate, mi evitavi continuamente. Ho avuto un aborto spontaneo qualche mese fa».
Non aveva il coraggio di guardarla in volto. Il cuore sembrava sanguinargli senza sosta; il mondo aveva rallentato di colpo.
Dopo un singhiozzo, Gwen si staccò la collana che portava al collo, gettandola a terra. «Ti sto chiedendo perdono, Arthur! Tu non me lo consenti. Ho sbagliato: non avrei dovuto mentirti riguardo i miei sentimenti per Lancelot, ho fatto un errore! Ma a tutti capita di sbagliare e tu mi stai condannando senza appello!» Si rompeva continuamente, la voce di Ginevra.
Non perse neanche tempo ad asciugarsi le lacrime. Si voltò solamente, uscendo dall’appartamento.
Arthur, in quel momento, fu sicuro di non essersi mai sentito peggio in tutta la sua vita. Sembrava che un camion gli avesse tagliato la strada, ricadendogli di peso sopra. Passandoci su, almeno una ventina di volte.
Si girò impercettibilmente a guardare l’anello caduto sul pavimento, insieme alla catenina d’oro bianco. Fu allora che si accorse di piangere. Una lacrima gli ricadde sulla mano, bagnandone il dorso.
Restò in compagnia dei suoi pensieri rumorosi per un po’, finché il viso di quel figlio mai nato non divenne insostenibile.
Sfilò dai suoi jeans il suo cellulare, componendo in fretta un numero che conosceva a memoria; Merlin. Aveva bisogno di Merlin. Necessitava di ascoltare la sua voce, sentirgli dire che sarebbe stato lì nel giro di qualche minuto, ma Merlin non rispose. Il cellulare squillò a vuoto, fin quando non gli venne voglia di scagliarlo contro il parquet.
Aveva voglia di urlare contro il mondo, fare a pugni col muro e magari scolarsi tutte le bottiglie del Pendragon’s – non necessariamente in quest’ordine.
Provò un assurdo barlume di speranza nel vedere il display del proprio cellulare illuminarsi, ma a caratteri cubitali, stampato sullo schermo, c’era solo il nome di Freya. Roteò gli occhi, nascondendo il timbro incrinato della voce con qualche colpo di tosse. «Cosa vuoi?»
«Arthur… Merlin sta male. Sta male e… non si muove ed io non so cosa fare. Aiutami.»



 
**
 







Quando Gaius alzò il lenzuolo, si accorse che le fasce usate la sera precedente erano pregne di sangue. Gli si gelò il sangue nelle vene e Freya, poco distante da lui, si allarmò: «Cos’è quella?»
L’ex medico militare si sentì con le spalle al muro: quell’idiota si era mosso mentre doveva rimanere a riposo e, molto probabilmente la ferita si era aperta, se non pure infettata.
Freya era dietro di lui che continuava con la sua raffica di domande e Gaius, ad onor del vero, si sentì sprofondare nelle sabbie mobili. «Dobbiamo portarlo all’ospedale», concluse pratico.
«All’ospedale, ma che storia è questa?! Perché sanguina, perché non si sveglia?!» E dov’è la mia macchina, avrebbe voluto aggiungere alla lista interminabile di quesiti, già che c’era.
L’anziano si morse la lingua, maledicendosi da solo per non avercelo portato lui stesso la sera prima. Guardava Merlin e più lo faceva più sentiva la mano calda di Alice sulla sua spalla, mentre pacata gli suggeriva di fare la cosa giusta.
«Gli hanno sparato, Freya», spiegò. «Dobbiamo portarlo in ospedale.»

 






**Relie's corner** 
Per i coraggiosi che sono arrivati qui:
- Mordred è un po' "soft", ma mi andava di renderlo così nel suo esordio. Spero che non sia stata tanto OOC;
- Se qualcuno se lo stesse chiedendo no, non sono a favore del tradimento e no, non ci sarà Arwen;
- Grey's Anatomy dopo Adebaran (passate da lei per leggere la sua fanfiction, non certo per consigli medici!) sono i miei unici manuali medici (oltre il fido internet). Se qualcuno avesse qualcosa da correggere o farmi notare, si faccia avanti (no, non è una minaccia);
- Jonas e Catrina sono personaggi canon. Compaiono ambedue nella seconda stagione;
- Sì, Morgana è cattiva ma noi l'amiamo così;
- Sì, Arthur ama Merlin ed ho fatto felici molte Merthuriane;
- Sì, Adebaran, provo pena per Freya e ti ho fatta metà felice con questo capitolo;
- Spero di aggiornare anche "Destinati ad essere Champagne" prima del mio compleanno (-2);
Domandina: ma voi, Freya, con chi ce la vedete in questa storia? Perché ci sono due possibili coppie che mi stuzzicano un sacco...
- Dovevo dire, sicuramente, molte altre cose, ma le ho dimenticate. Se ci fossero problemi, non esitate a chiedere!
Alla prossima!

 

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Capitolo 14
*** Giuramenti scritti sulla Vodka ***


Nda: Salve a tutti!
Dopo quasi un mese di ritardo... ma, eccomi!
Questo e il prossimo sono gli ultimi capitoli 'lenti', poi si entrerà nella VERA storia, ovvero nello struggimento ad hoc.
Il simbolo "**" sta per un netto stacco temporale. In questo caso, dal flashback al presente.
Vorrei ringraziare prima di ogni cosa la mia cara socia - merthuriana alternativa - Adebaran che ha sopportato i miei dubbi, le mie sciocchezze e le mie stupide ipotesi. La ringrazio per non avermi ancora uccisa quando fingo di rispettare una scadenza, ma soprattutto la ringrazio infinitamente per aver letto la storia in anteprima con genuino entusiasmo, aiutandomi molto con lo scritto.
Il capitolo lo dedico a lei. E' molto brava nello scrivere ed ha una creatività pazzesca. Vi consiglio di leggere la sua E così abbiamo più di un segreto, Emrys
Detto questo, ringrazio coloro che mi hanno sostenuta e continuano a sostenermi in questo progetto. Grazie a chi ha inserito la storia nelle seguite/ricordate/preferite. Grazie a chi mi lascia il proprio pensiero, grazie a chi legge in silenzio.
Aspetto come sempre i vostri giudizi :)
Buona, spero, lettura!
 
XIV.  Giuramenti scritti sulla Vodka
Soundtrack: click

 

 
La odio e la amo. "Come", mi chiedi. 
Non lo so, ma sento che accade ed è un tormento.
- Catullo
 


Scrivere sull’acqua, giuramenti effimeri.
Sono domande che hai già affrontato prima di gettare tutti gli appunti dalla finestra.
«La odio e la amo. “Come?” mi chiedi. Non lo so, ma sento che accade e mi tormento», o ancora: «Cosa prova Dante mentre Francesca esalta il suo amore anche all’Inferno?»
Sono domande che hai già affrontato, ma ad un certo punto si ripresentano davanti ai tuoi occhi e comprendi di essere fregato. Improvvisamente, ti accorgi di essere all’Inferno senza mentore, pieno di dubbi con la testa che ti scoppia. E allora ti domandi ancora una volta: «Com’è possibile?»
Non lo sai, ma accade e ti tormenti.























C’era chi parlava de ‘I giorni della merla’, chi copriva le mani con spessi guanti di lana e chi sognava una tazza di cioccolata fumante davanti a caminetti scoppiettanti. Poi c’erano loro.
La neve era stata così insistente da imbiancare tutta Londra e bloccare le strade col suo gelo.
Gaius bestemmiava più del solito, anche se poi si mordeva la lingua guardandosi intorno.
Merlin, a suo modo, ricordava solo che le gambe gli tremolavano e che il cuore nel petto  batteva come impazzito. Dinanzi a lui, gli occhi seri e desiderosi di Morgana gli seccavano la gola.
Ricordava di averla baciata, prima nell’incavo del collo e poi sulla clavicola scoperta. Ricordava di averla sentita tremare e plasmarsi al suo corpo. Ricordava di non essersi mai sentito così tanto a fiato corto come in quel momento.
Morgana chiuse gli occhi, reclinando lievemente il capo all’indietro, avvertendo la bocca di Merlin  morderle la pelle del collo; aveva immerso le sue mani nei corti e neri capelli del ragazzo. Si era sporta verso di lui, cercando dolcemente le sue labbra. Le aveva baciate e poi morse, leccate e poi gustate.
Merlin desiderava carezzarle ogni parte del corpo, conoscerla pienamente per la prima volta, eppure le mani tremavano e lui continuava a volerla tutta suasolo sua. Completamente sua.
Ricordava di avere la bocca aperta che lamentava l’assenza di quella rossa e morbida di Morgana, non appena lei si fu ritratta. Merlin aveva boccheggiato impreparato, con la corvina che lo teneva lontano con una mano sull’addome.
Morgana lo aveva guardato fisso negli occhi, percependo chiaramente il palpitare incostante del suo cuore al di sotto del proprio palmo. Lentamente, aveva lasciato scivolare le mani sul suo petto, privandolo della sua maglia scura.
Era calda, la pelle di Merlin. Morgana, invece, era gelida come la neve caduta sull’asfalto. A Merlin sembrava non importare. Lei era ciò che desiderava, ciò che aveva sempre desiderato.
Delicato, aveva lasciato scorrere le sue dita sulla stoffa scarlatta del maglione della ragazza, seguendo piano la linea delle sue curve. Arrivato ai fianchi, glielo aveva sfilato di dosso, ritrovandosi dinanzi la pelle chiara e fresca di lei.
Non sapeva più parlare.
Imbranato come un bambino si era avvicinato di più a quel corpo perfetto, stringendolo a sé. Voleva sapere a che velocità battesse il cuore della corvina.
Nel sentirlo accelerato sulla sua pelle nuda, si liberò di ogni freno.
L’aveva baciata ancora, ancora e ancora.
Morgana era sua ma, cosa più importante, lui le apparteneva. Era suo, quella notte e per sempre. In tutti i sensi possibili in natura, in tutti i modi.
Erano destinati, legati.
Merlin ricordava di essersi steso sul corpo di Morgana ed aver respirato tra i suoi seni. Ricordava di essersi sentito completo una volta perso in lei.
«Di’ qualcosa», aveva ansimato, stringendo una ciocca nera tra le dita.
Merlin, le labbra aperte sulle sue, desiderava restare incastonato a Morgana in quella maniera per tutta la vita. «I-Io…»
«Sta’ zitto».
 








 
**









La sala operatoria odorava di un misto tra sangue e disinfettante; c’erano macchinari che rilevavano la pressione con un costante bip.
I chirurghi erano muniti di cuffiette e mascherine, le mani ricoperte da guanti immacolati, sporcati di sangue sulle punte.
«Aspira».
Tra i tanti in cerchio al tavolo operatorio, spiccavano due occhi d’ambra e un paio di mani leggere. «C’è troppo sangue. Aspira», parlava tra i denti aguzzi, quasi scheggiati come la pietra.
Una donna si era voltata verso un quadrante alle sue spalle. «La pressione è in calo!»
«Dannazione», altra imprecazione soffocata.
«E’ in arresto!»
Le mani leggere, sapienti quanto un volume di storia, che qualche secondo prima danzavano tra pinze emostatiche e vasi sanguigni si erano fermate, mentre un chirurgo cominciava una serie di compressioni. Sul monitor, una linea retta segnava l’assenza di battito cardiaco.
L’intera equipe presente nella sala, insieme a quegli occhi di oro liquido, si erano immobilizzati, accogliendo il suono continuo e lungo di un cuore fermo.
Il chirurgo dagli occhi d’ambra alzò lo sguardo sulla ragazza che aveva difronte; dietro la sua mascherina bianca, sembrò che stesse quasi sorridendo. «Nessuno può sfuggire al proprio Destino».
La giovane quasi s’impressionò dell’incredibile freddezza e indifferenza che l’uomo ostentava dopo un insuccesso come quello. Per una qualche ragione, si sentì le gambe tremare.
Le iridi innaturali del medico si posarono sull’orologio appeso al muro. «Ora del decesso: 1.45».
Un urlo acuto. Il sudore colato dalla fronte, i capelli scomposti. Morgana si portò una mano al petto per sentire se il suo cuore battesse ancora.
















Mithian uscì dalla sala operatoria, ancora con la cuffietta bluastra del Chelsea legata in capo ed il camice verde sterilizzato, usato durante l’intervento.
Seduta in sala d’aspetto, Freya si mordicchiava le dita a testa bassa. Era sola, Gaius si era allontanato per prendere qualcosa da bere.
Mithian si fermò, inchiodando le sue scarpe da ginnastica al suolo lucido dell’ospedale. Fece un bel respiro, pensando alle parole giuste da dire alla ragazza.
«Princess!»
La specializzanda voltò il viso alla sua destra, ritrovando la figura slanciata e sorpresa dell’infermiere. «Elyan», lo salutò con un sorriso vedendolo avvicinarsi.
«Che ci fai qui?» le chiese. «Hai operato?»
Mithian compresse le labbra in una smorfia strana, per poi indicare al giovane la mora seduta sulla sedia imbottita. «Sai Elyan, credo di essere una sorta di porta-sfortuna. Te la ricordi quella ragazza?»
Elyan, la fronte aggrottata, si girò a guardare la donna con lo sguardo basso e le dita tra i denti. Sembrava ansiosa. «Non ricordo di averla mai vista».
«Ho operato il suo datore di lavoro neanche una settimana fa e stanotte ho messo le mani nel corpo del suo fidanzato.» Sospirò, sorridendo a mezza bocca. «E come se non bastasse l’ho scambiata per la sorella.Di questo passo avrò tagliato e ricucito tutti i dipendenti del Pendragon’s Coffee!»
«Aspetta!» Elyan aveva spalancato buffamente gli occhi scuri, sfiorando leggermente il braccio della collega. «Hai operato “bevo troppi caffè”?»
Mithian inarcò le sopracciglia perplessa, non cogliendo il nesso tra la frase dell’infermiere e Merlin, finché Elyan non continuò a raffica: «Caspita! Io pensavo stesse col biondino dalla rotula rotta!»
Stavolta, fu Mithian a lasciare una pacca sul petto del giovane. «E’ la stessa cosa che ho pensato anch’io!»
Elyan scosse la testa incrociando le braccia. «Quei due ci nascondono qualcosa».
La specializzanda assottigliò gli occhi in una malriuscita imitazione di Benedict Cumberbatch nei panni di Sherlock Holmes, puntando l’indice contro l’amico. «Scopriremo l’arcano che si cela dietro il bancone del Pendragon’s».
Si riguardarono seri negli occhi per qualche istante, per poi lasciarsi andare ad una risata sincera.
Anche se non avrebbe mai trovato il coraggio di dirglielo, Elyan era contento di averla rivista durante il turno di notte. In quelle ore estenuanti, gli capitava spesso di sentire la sua mancanza e provava il bisogno di scriverle un messaggio qualunque, rischiando di beccarsi in risposta una faccina seccata. In più, sapere che Mithian indossasse per davvero la cuffietta che le aveva regalato lo scorso Natale lo rendeva di buon umore.
La risata della donna si dissolse in un elegante sorriso tra le labbra rosa. «Io vado ad informarla dell’esito dell’intervento» gli disse, indicando distrattamente Freya con un movimento del pollice.
Mentre la vedeva muovere i primi passi verso la sala d’attesa, Elyan si chiese se tutto quel restare nell’ombra non fosse una mossa stupida e inconcludente: Mithian era bella. Bella e intelligente, ma soprattutto era diversa. Nessun uomo sano di mente si sarebbe lasciato sfuggire un’occasione fantastica come quella.
Si portò le mani lungo il tessuto azzurro della sua divisa. «Non hai ancora ucciso nessun dipendete del Pendragon’s allora?»
Ancora prima di voltarsi verso di lui, Elyan poté sentirla ridere. «Non Merlin!» Fece finta di guardarsi le spalle per poi bisbigliare: «Mi ha offerto un giro gratis».
Con sorpresa della mora, Elyan non si lasciò trasportare dalla sua ironia ma rimase ad osservarla con un’espressione seria. «Hai altri interventi?»
Mithian fece cenno di no. «Dopo aver parlato con la ragazza, posso tornare a casa».
Cavolo, si lagnò Elyan.
Si morsicchiò il labbro, annuendo; fece per andarsene quando la voce cristallina di Mithian lo colse alla sprovvista, facendolo voltare: «Ma… potrei restare nella stanza del medico di guardia e…»
«Non voglio che tu resti per me».
Che cretino! Aveva davvero detto una cosa simile?!
Mithian alzò un angolo della bocca struccata all’insù, scrollando le spalle. «Beh, a me piace passare del tempo con te. E poi in questo modo potrò presentarmi prima degli altri al giro di visite», si giustificò.
Sorrise come un beota, Elyan, senza neanche accorgersene. «Magari prima potremmo fare colazione al bar dell’ospedale.» Mosse significativamente le sopracciglia scure in memoria del sapore discutibile del cibo in quel posto. «… Certo, non sarà come il tuo Pendragon’s ma-»
«Ci sto», rispose pronta la Princess. «Ci sto, Elyan».
L’infermiere, che dentro di sé esultava come se avesse vinto il più ambito dei primi – o sollevato la Coppa del Mondo -, unì le labbra salutandola con un vago gesto della mano. «Allora buonanotte».
Mithian annuì, allegra. «Buon turno, Elyan».
Erano passati ormai diversi anni da quando Mithian lo aveva conosciuto eppure l’affetto che nutriva nei suoi confronti non si era mai affievolito. Elyan era un bravo ragazzo, un infermiere competente e lei credeva molto in lui.
Elyan era stato il primo a sostenerla nella sua scalata verso un posto da strutturata in ortopedia e Mithian gliene era grata. Elyan era un buon amico e teneva molto lui.
Lo vide allontanarsi verso Edwin, strutturato di pediatria – anche se tutto il Kilgharrah’s Hospital continuava a parlare dell’innato talento in neurochirurgia che il pediatra aveva mostrato negli anni di specializzazione -, per poi incamminarsi verso le scale.
Rilassò le spalle, consolandosi del fatto che presto si sarebbe abbandonata tra le braccia di Morfeo. Sorrise di riflesso a quella convinzione, posando distrattamente lo sguardo accanto alle scalinate di marmo.
Confusa, Mithian si chiese del perché il capo, Kilgharrah, stesse parlando col tutore di Merlin se prima, in sala operatoria, le aveva chiesto di parlare con la fidanzata del paziente.
Il primario osservava il vecchio con uno sguardo insolito, mostrando a schiena ritta un atteggiamento di supremazia non del tutto inusuale. Kilgharrah era un uomo enigmatico, conosciuto nel suo ospedale soprattutto per il talento innaturale nell’ambito della chirurgia; in più di vent’anni di carriera, il suo dossier contava meno di cento morti.
Era noto per i suoi modi scostanti e riservati  i quali, col tempo, gli avevano garantito l’appellativo di “Grande Drago”.
C’era qualcosa, però, nel suo comportamento che a Mithian insospettiva molto. Comunque stessero le cose, non era suo compito contestare gli ordini di un superiore.
Riservò un’ultima occhiata a Freya, risollevando le iridi verso il primario e l’anziano. A dispetto dei suoi dubbi, decise che quelli non erano affari suoi. Così si voltò, apprestandosi agli spogliatoi.














Mordred si rigirò tra le lenzuola, riemergendo con la faccia dal morbido cuscino perlato.
Una volta arrivati all’appartamento del Pendragon, Arthur aveva insistito – nonostante la presenza del francese non fosse di suo gradimento – di condividere la stanza con Mordred o, ancora meglio, di dividerla con Morgana, trasferendo il parigino nella stanza dall’altro lato del corridoio.
La sorella aveva messo il broncio, ricordandogli che Mordred era il suo fidanzato, facendogli nota di avere ventun’ anni: «Non arriverò vergine all’altare, Artie caro!»
Scioccato dalla sfacciataggine della Pendragon, il biondino cominciò a dimenare le mani a bocca aperta, seduto sulla carrozzella. Dopo un attimo, riuscì perfino ad aggiungere: «Come avresti potuto dopo Gwaine…»
Mordred vide la sua fidanzata sgranare gli occhi oltraggiata, mutando il suo sorrisetto provocatorio in un ringhio famelico.
«Beh, se può aiutare… credo di non rientrare nemmeno io nel club.» Mordred aveva cercato di smorzare la tensione, ma si accorse che l’espressione di Arthur si era crucciata.
Morgana aveva sbuffato alla faccia deficiente del fratello. «Ha quasi trent’anni, Arthur! Non c’è motivo di allarmarsi… o vuoi farmi credere di essere ancora ‘una pagina bianca’?»
Il Pendragon ignorò volutamente la provocazione della sorella, concentrandosi sulla prima parte della frase. «Trent’anni?!», aveva sbottato sbigottito. «Tu ne hai quasi dieci di meno!»
Morgana chiuse gli occhi in preda ad una crisi di nervi, portandosi stizzita le mani tra i capelli. «Dio, Arthur! Parli come nostro padre ora!»
«No! Nostro padre vi metterebbe al rogo, è diverso», puntualizzò.
«Sei una moglie!» lo accusò Morgana, minacciandolo con un dito. «Una dannata moglie petulante!»
«Io non sono la moglie di nessuno!», si era difeso indispettito il fratello.
«Dannata e petulante!»
«Strega isterica…» aveva biascicato a denti stretti.
Alla fine, Morgana l’aveva avuta vinta sul fratello e i due fidanzati si erano infilati nel lettone.
Mordred, però, sentiva che c’era qualcosa che non andava: il biondino, dopo essere tornato da casa dell’amico, era ancora più irritabile e suscettibile di quando lo aveva conosciuto al bar. Morgana, d’altro canto, si comportava in modo strano.
«Scusami, ma sono stanca», gli aveva detto, dopo che il ragazzo le aveva baciato il collo, pronto a coccolarla come solo lui sapeva fare. Morgana si era ritratta, carezzandogli una guancia. «Scusa».
Mordred aveva sorriso, di poco sollevato dal suo corpo. «Non fa niente.» Si poggiò delicatamente su di lei, compattando per un breve attimo le labbra alle sue. «Abbiamo tanto tempo».
Adesso, steso nel letto, Mordred osservava ad occhi appena socchiusi l’altra metà vuota.
Normalmente non ci avrebbe fatto caso, ma l’istinto gli suggeriva che qualcosa non quadrava.
Il francese si girò di schiena, portandosi una mano tra i ricci castani.
Erano le 2.50 della notte e Morgana non era a letto. Probabilmente si era svegliata a causa di un incubo.
Vinto da quel pensiero decise di alzarsi dal materasso, tamponando i piedi nudi sul pavimento fresco della stanza in cerca degli infradito. Trovandone – misteriosamente – solo uno, si avviò verso la porta a piedi scalzi.
Una volta nel corridoio, anche se ancora un po’ insonnolito, Mordred notò una foto di una vecchia chitarra appesa alla parete; qualche passo più avanti rischiò d’inciampare in una pila di vecchie riviste. Grugnì un lamento a voce bassa intravedendo, sul parquet chiaro, un fascio di luce. Proveniva dalla cucina.
Scelse d’ignorare quell’astuta trappola di giornali, dirigendosi verso il filo giallognolo.
Morgana se ne stava in piedi di fianco al bancone, con gli occhi fissi alla finestra. Mordred si accorse solo in quel momento che fuori pioveva.
Morgana cominciò a picchiettare nervosamente il piede sul legno chiaro, non accorgendosi dell’uomo alle sue spalle. «Avanti. Merda. Rispondi. Rispondi.»
Mordred restò in silenzio a braccia conserte mentre la fidanzata continuava a battibeccare con la segreteria telefonica: «Dannazione, rispondi!»
La sua laurea in giurisprudenza e il fascino verso la criminologia lo spinsero ad esaminare ogni possibile prova, e tessere delle ipotesi.
Mordred sapeva di non aver ancora conosciuto chi avrebbe voluto incontrare dalla sua partenza da Parigi. Un pomeriggio, a casa di Morgana, aveva trovato il suo nome tra vecchi messaggi. La Pendragon non gliene aveva mai parlato, ma Mordred sapeva perfettamente che non si trattava di una storia di poco conto.
Gli occhi azzurro metallico del francese si spostarono sul bancone in marmo della cucina, dove Morgana in tanto in tanto tamburellava le dita smaltate, riconoscendo le capsule verdastre che la corvina era solita assumere in Francia.
La sentì riagganciare definitivamente, posando malamente il cellulare sul tavolo. «Maledizione», si lasciò scappare tra i denti.
Mordred comprese che Morgana gli stava nascondendo qualcosa, qualcosa che non voleva condividere con lui.
E la cosa lo infastidiva.
Kara lo aveva sempre messo in guardia sulla londinese: «Quella è tutta matta, Reddie. Te lo dico io! Prima o poi ti ritroverai a testimoniare contro di lei. È solo una ragazzina».
Teneva molto a Kara e le sue parole erano come l’oro per lui, ma con Morgana era nato tutto per scherzo. Era uscito con lei per divertirsi e nel giro di una settimana si era ritrovato impantanato in sentimenti mai provati prima. I suoi occhi di smeraldo e la sua lingua tagliente erano diventati come un porto sicuro. Morgana era dolce ma forte, sapeva farsi valere e non ammetteva sconfitte. Catapultata nel mondo del giornalismo, la Pendragon lo aveva ammaliato col suo talento.
Fece qualche passo verso il freezer, costruendosi un alibi.
Morgana sussultò come previsto al rumore dell’anta del frigo aperta, voltandosi verso il fidanzato. Era più pallida del solito ed era tesa come una corda di violino. Tentò di sciogliersi distendendo le labbra in un sorriso fin troppo calcato. «Ehi…»
«Qu’est-ce qui se passe?» Mordred tirò fuori una bottiglia d’acqua dal frigorifero, poggiandola sul marmo. «Qualcosa non va?»
«No», Morgana scosse prontamente il capo, attenta mantenere un’aria serena. «Tutto bene».
Mordred non sembrò cascarci e Morgana si ricordò del cellulare e della chiamata. «Un idiota si diverte a farmi scherzi telefonici. Lo sai che mi rende nervosa».
«Oui», il francese annuì, prendendo un bicchiere dalla credenza. «Lo so».
«Non dovresti berla fredda», lo rimproverò Morgana. «Ti fa male.»
Un angolo della bocca sottile del fidanzato s’incurvò verso l’alto, mentre continuava a versarsi da bere. Morgana, diventava stranamente apprensiva con lui, quasi come una mamma. A Mordred divertiva quella situazione: era lui il più grande tra i due, eppure quella ragazza sapeva metterlo in riga.
Dal canto suo, Mordred era consapevole di provocare un certo effetto alla londinese; Morgana diventava quasi una bambina quando era tra le sue braccia e ciò lo rendeva soddisfatto e fiero di sé. Tuttavia, l’accoglienza che la Pendragon gli aveva riservato, lo aveva lasciato con l’amaro nel palato. Non che si aspettasse salti di gioia o pianti di commozione eh! Sapeva che quelle cose non appartenevano all’essere di Morgana, però... si sarebbe aspettato qualcosa in più di un semplice sorriso.
La ignorò, bevendo piccoli sorsi.
Morgana si soffermò per qualche secondo sul pomo d’Adamo del suo uomo, accorgendosi di non averlo ancora baciato dall’ultima volta a Parigi.
Con la coda dell’occhio, Mordred si accorse di avere lo sguardo di Morgana puntato su di sé. Interiormente, ghignò compiaciuto.
Mordred era astuto, furbo. Non a caso Madre Natura lo aveva equipaggiato di uno sguardo magnetico e un volto ermetico. «Tuo fratello deve tenerci davvero molto al suo amico». Portò il bicchiere mezzo vuoto in avanti, ricalcando con quel gesto il succo del discorso. «A Merlin».
Rimase immobile, Morgana, con i muscoli tesi.
Scacco matto.
Un lampo illuminò la stanza, rischiarando col suo bianco la faccia seria del francese. La corvina accolse il tuono in silenzio, rivestita della sua vestaglia viola. Rise, scuotendo il capo: «Quei due sono sposati e fingono di non saperlo.» Alzò gli occhi al soffitto, cominciando a smanettare con le medicine, rimettendole nello scatolino.
«Sei preoccupata per lui?»
Morgana sollevò lentamente le iridi verdi dal bancone, dominando segretamente la sua ansia.
«Non ci sarebbe nulla di male», precisò Mordred. «Gli amici fanno così: si preoccupano».
Morgana si morse l’interno labbra ripensando a quello stesso pomeriggio. Ricordò del modo in cui era sgattaiolata nell’appartamento del corvino, dello strano luccichio negli occhi di Merlin appena gli ebbe detto che per lei non era finita e per un istante, uno soltanto, le sembrò di avere ancora le sue labbra contro le proprie.
Si voltò verso Mordred con un viso inespressivo. «Non sono una sua amica, non lo sono mai stata. Non m’importa di Merlin. Non sono in pena per lui.»
«D’accordo».
Morgana spostò lo sguardo altrove, quasi stesse cercando un appiglio al quale aggrapparsi. «Come sta Kara?» chiese, tornando a guardarlo negli occhi.
Questa volta, ad abbassare il capo e schiarirsi la voce fu Mordred. «Aglain dice che la prossima volta non si farà scrupoli a sbatterla in cella».
«Non ha smesso».
Mordred continuò a fissare il pavimento. «No».
Morgana sospirò, portandosi le mani sui fianchi. «Beh, dovrebbe smetterla.»
«Ci sta provando!» La voce di Mordred si fece più dura e il suo sguardo più freddo. «Ne verrà fuori».
La corvina mosse in segno di scetticismo le sopracciglia. «Come l’altra volta, dopotutto.»
«Kara ne verrà fuori!» tuonò, sbattendo il bicchiere sul tavolo. Le riservò l’ultima occhiata di ghiaccio, poi le diede le spalle sparendo oltre la soglia della cucina.
La Pendragon rimase inerte, senza muovere un muscolo. Mordred diventava una bestia feroce quando si parlava della sua Kara, ma Morgana non si pentiva affatto delle sue parole: quella donna necessitava di un aiuto concreto e il suo Reddie non faceva altro che coprirla, continuamente.
Mordred era diverso quando Kara era nei paraggi. Morgana sapeva che erano amici fin dall’infanzia, migliori amici. Non si era mai intromessa nella loro amicizia, non si era mai lamentata del loro indissolubile e privato legame, anche se la infastidiva; la Pendragon avrebbe scommesso la sua vita che Kara non vedesse Mordred solo come un amico speciale.
Glielo aveva fatto notare più volte, ma il francese continuava a darle della “pazza gelosa”, consigliandole di smetterla con le sue solite sciocchezze e paranoie inutili.
Ma non erano solo sue congetture mentali.
Morgana lo aveva coperto con Arthur, evitando di dire al fratello che il suo fidanzato era rimasto a Parigi con la sua migliore amica sgangherata, per aiutarla a rimettersi in sesto dopo l’ultima dose di ecstasy.
Irritata, la ragazza si girò verso la finestra, tentando di non pensare più a niente. La rabbia era peggio della caffeina.
Distrattamente, il suo sguardo si posò sul cellulare.
Non sapeva esattamente cosa volesse, ma in quel momento avrebbe solo desiderato ritrovarsi magicamente tra le braccia di Merlin, come anni addietro. Felice, stupida e innamorata, quasi  il mondo non avesse un senso oltre il suo abbraccio e la sua voce nelle orecchie.

















Freya si sentiva un pesce fuor d’acqua in quel posto. Odiava gli ospedali e detestava l’insopportabile odore di disinfettante presente in ogni angolo. La infastidivano i rumori delle ambulanze e i lunghi silenzi in sala d’attesa, ma soprattutto odiava l’idea di Merlin, il suo Merlin, segregato in quel posto.
Erano le sei della mattina e Freya era rimasta tutta la notte in ospedale. Si sentiva senza forze, svuotata e in colpa.
Maledettamente in colpa.
Inserì delle monete nel distributore automatico, digitando il codice corrispondente ad una barretta di cioccolata e caramello.
Gaius ancora ronfava seduto al capezzale di Merlin. La notte precedente, l’anziano le aveva rivelato di conoscere bene il primario di chirurgia e che, in onore alla loro secolare amicizia, gli avesse permesso di restare col ragazzo.
Afferrò la sua merenda, scartandola in meno di un secondo. Addentandola, si chiese come stesse Arthur e se fosse riuscito a dormire.
Certo, il Pendragon non sapeva nulla della sparatoria, ma…
Masticò più lentamente al ricordo di quel particolare: la sparatoria.
Gaius le aveva raccontato che la notte in cui Merlin non era rincasato, era stato aggredito da un tizio ubriaco che aveva tentato di derubarlo e che il suo fidanzato avesse cercato subito il suo aiuto.
«Perché non siete andati immediatamente in ospedale, allora?» gli aveva chiesto lei.
L’ex medico militare era stato piuttosto convincente. «Ora sta bene, è questo l’importante».
Diede un ultimo morso alla barretta, sentendosi sempre più colpevole.
Quella sera, non sarebbe mai dovuta andare a quella festa…


Freya era felice di aver conosciuto Mordred. Le piaceva e la rendeva molto più tranquilla riguardo la faccenda ‘Merlin e Morgana’.
Soddisfatta dell’ultima piega che la sua vita aveva assunto, si recò al parco come previsto prima del frappè, rilassata e serena all’idea di poter osservare graziosi scoiattolini senza essere perseguitata dalla faccia superba e melliflua della Pendragon, rivedendola in quei musetti dolci.
Mentre camminava tra il verde dell’Ealdor Park si portò una mano nella tasca della sua giacchetta leggera, ritrovandoci un bigliettino. Estraendolo, le tornò alla mente l’amico scroccone di Arthur e il suo invito alla festa.
Si torturò il labbro inferiore per un po’, ragionando sul da farsi: se si fosse presentata, Gwaine avrebbe sicuramente pensato che “Europa” avesse ceduto alle sue avances, ma… in fin dei conti, lei avrebbe potuto mettere in chiaro le cose. Che male le avrebbe mai fatto una semplice festa?
Freya prese la strada più lunga, convincendosi smaniosamente di tornare indietro. Se lo ripeteva continuamente, ad ogni vetrina superata.
Alla fine, si ritrovò dinanzi un’officina. Perplessa, ricontrollò il cartoncino di carta rendendosi conto di non aver sbagliato indirizzo.
Corrugò la fronte confusa, le Converse fisse sul marciapiede.
«Europa!»
Freya sobbalzò goffamente sul posto, sbiancando di colpo. Si voltò di scatto, ridendo per l’imbarazzo. A pochi centimetri di distanza, col cielo blu sullo sfondo, Gwaine le sorrideva mostrando la dentatura. «Sapevo che non avresti resistito al mio fascino!»
«No!», preciso lei. «Io… passavo qui per caso», buttò lì.
Il moro aggrottò la fronte, indicandole il bigliettino che stringeva tra le dita con l’indice. «Fammi indovinare, lo hai preso tra le mani... per caso».
Freya si rese conto di risultare terribilmente patetica e, come se non bastasse, quello stupido Don Giovanni non faceva altro che fissarla con i suoi occhioni di moka densa. Finse un sorriso, lasciando cadere il cartoncino al suolo. «Tanto, stavo andando via».
Abbassò il capo imbarazzata, superando a passi veloci il ragazzo.
Mentre gli passava accanto, Gwaine poté notare il lieve rossore sulle sue gote. Con la mano sinistra nella tasca della sua giacca e l’altra penzoloni di fianco alla stoffa blu dei suoi jeans, torse il busto per continuare a guardare la schiena della giovane, richiamandola: «Sai, sei ancora più bella con i capelli sciolti.»
Freya si fermò, scuotendo il capo. «Certo!», ridacchiò. «Sei scontato e… io sono immune ai donnaioli».
«Ma io sono serio!»
«Oh, anche io».
«Facciamo così», Gwaine la raggiunse, tagliandole la strada, «se riesci a resistere al mio charme per tutta la serata, non ti tormenterò più. Lo giuro».
«Lo giuri?» domandò scettica Freya.
Gwaine abbozzò un sorrisetto convinto. «Sai di non poter resistere?»
Freya sapeva che non sarebbe stato corretto nei confronti di Merlin: quel tipo ci provava spudoratamente e lei non aveva fatto altro che dirigersi nella tana del lupo. Era sbagliato. Sbagliatissimo! E poi quel Gwaine pareva flirtare con ogni donna esistente sul globo terreste!
Conosceva i tipetti come lui, Freya; ci era già passata e col tempo aveva compreso che non erano il suo prototipo di uomo ideale. Ma Merlin non c’era. In quei giorni non c’era mai. Freya si sentiva trasparente e inodore, così tanto che persino la Vodka liscia era più facile da notare.
Era solo una festa. Solo un gioco e niente di più.
Con le guance ancora un po’ accese, ricambiò il sorriso dell’uomo.  «Va bene, ma tu preparati a dirmi addio!»



«Freya».
La ragazza si riscosse dai suoi pensieri sollevando il mento, incontrando con i suoi occhioni di terra umida il viso struccato di Mithian.
«Hai l’aria stanca», le disse.
Freya distolse lo sguardo dalla specializzanda, accartocciando la carta plastificata della cioccolata, rigirandosela tra le mani. «Dorme ancora. Dorme dalla fine dell’intervento e nessuno ci ha ancora detto niente.»
«Io pensavo che… Pensavo che Gaius fosse stato informato», risposte dubbiosa la dottoressa.
«L’unica cosa che sappiamo è che non si è ancora svegliato.»
Mithian era confusa. Dopo l’intervento era stanca, questo era vero, ma ricordava perfettamente di aver visto il capo parlare con il tutore del ragazzo.
Rimase con la bocca schiusa e le sopracciglia piegate in una smorfia di disorientamento, mentre la mora si allontanava per gettare nel cestino ciò che aveva in mano.
«L’intervento è andato bene. Ha perso molto sangue, ma siamo riusciti a fermare l’emorragia. È stato un intervento lungo e sotto anestesia,  è normale che il paziente non si sia risvegliato subito, ma sta bene. Tra un po’ passeranno le infermiere con la colazione, vedrai che per allora si sarà svegliato.» Mithian accennò un sorriso, sperando di aver quietato almeno in parte l’ansia della giovane. Non immaginava cosa volesse dire trovarsi dall’altra parte, ma sapeva che era difficile e talvolta doloroso.
Freya provò a rivolgerle un mezzo sorriso, ma il mento cominciò a tremolare e gli occhi le si fecero pesanti.  «Sono una pessima persona», pigolò. «Sono una pessima fidanzata».
«No», la rassicurò Mithian. «Non è vero, Freya. Sono situazioni difficili e-»
«Pensavo mi avesse tradita e invece lui stava male e io…»
«Okay, okay.» La specializzanda si avvicinò alla ragazza, poggiandole una mano sulla spalla. «Può capitare. Capita a tutti, non devi sentirt-»
«E’ capitato anche a te?»
«No, però…» Mithian si accorse che la situazione non faceva altro che degenerare, così si sforzò di fare mente locale e rimembrare ciò che le avevano insegnato in quel posto: parlare con metafore. Avvicinarsi empaticamente al paziente e ai suoi familiari. Mithian percorse mentalmente ogni sua conoscenza, ma le uniche metafore che le venivano al momento erano le partire del Chelsea e i danni provocati da un bisturi. «D’accordo… Allora pensa a Dante!»
«Dante?» domandò esitante Freya.
«Sì», affermò decisa il medico. «Ripensa a Dante all’Inferno. Ricordi Paolo e Francesca?»
Freya fece cenno di sì e la dottoressa continuò: «Francesca era all’Inferno, eppure continuava ad esaltare il suo amore per Paolo… Non sono molto brava in questo genere di cose ma... se quella donna ha difeso la sincerità del loro amore anche all’Inferno, puoi farlo anche tu!» Si bloccò vedendo l’espressione poco convinta della mora, così decise di esprimersi con altre parole: «Quello che voglio dire è che l’amore non deve per forza essere puro per essere eterno, straordinario e difeso! Anche se hai commesso un errore, anche se eri lì a tirare un calcio di rigore ed hai sbagliato… non vuol dire che tu abbia fatto schifo durante tutta la partita. Siamo esseri umani e commettiamo errori, ma non per questo siamo sbagliati».
Freya elaborò quelle frasi nella sua mente cercandone un senso, ma alla fine sorrise intenerita. «Ti piace il calcio, vero?»
«E’ uno sport elettrizzante, completo e adrenalinico!», ammise Mithian.
«Ma… non vale più di un bisturi tra le mani, giusto?»
«No», condivise. «Quando corri dietro una palla entra in gioco il desiderio di rivalsa, la voglia di scartare gli avversari e tirare un calcio secco nella rete. Più sudi più ti senti invincibile. » Gli occhi nocciola della donna brillavano più di un cielo stellato, le sue labbra e ogni tratto della pelle erano più vivi di un mare in tempesta. «Vincere vuol dire sentirsi imbattibili, superare i propri limiti ma… Quando entro in una sala operatoria faccio molto più di questo. Salvo delle vita e non esiste cosa più gratificante. Quando vedo il sorriso di un paziente, so di essere migliore. Mi sento migliore ed è quella la mia vittoria».
Mithian sembrava più giovane di quanto già non fosse e odorava d’estate. Fosse stato possibile, Freya avrebbe voluto solo persone come lei in posti così, dove ti senti l’ultimo anello della catena alimentare e non sai cosa fare.
«Dovresti conoscere Arthur», propose Freya. «Lui ama il calcio. Credo che andreste d’accordo».
La bocca sottile di Mithian si allargò mostrando parte della dentatura bianca. «Dici?»
L’altra annuì. «A dire il vero, credo che dovresti fargli visita al Pendragon’s, sai? Quel tizio è uno zuccone! Non sta per nulla seguendo i consigli medici».
«Vorrà dire che mi vedrai presto al bar», disse prima che il suo cercapersone cominciasse a suonare. Lo controllò con una lieve smorfia, per poi poggiare una mano sul braccio di Freya. «Ci vediamo più tardi. Mi raccomando».
Un piccolo sorriso di cortesia e la dottoressa sparì dalla sua vista, in corsa lungo i corridoi silenziosi dell’ospedale.












A dispetto del temporale della notte precedente, quella mattina Londra era semplicemente splendida e radiosa.
Il bar cominciava a riempirsi di adolescenti muniti di zaini e libri tra le mani.
Arthur aveva insistito nel dividere i turni, ma Morgana aveva inchiodato i piedi al suolo e incrociato le braccia al petto, impuntandosi nell’andare al bar con lui e Mordred.
Messo alle strette e minacciato da quella strega antipatica, Arthur aveva capitolato, accosentendo nel farla venire con loro.
Costretto sullo sgabello, dietro al bancone, il Pendragon osservava annoiato le stupide ragazzine che civettavano e squittivano come criceti ubriachi alla vista del francese.
Quell’idiota di Mordred, per giunta, sorrideva loro come un dio disceso dall’Olimpo, alimentando i loro versi striduli.
Arthur lo detestava. Come poteva sua sorella essere seriamente intenzionata a sposare quel tizio? Come?!
Ma, d’altra parte, non era questa la causa del suo nervosismo - o almeno non del tutto. Quando sua sorella, la sera prima, gli aveva ricordato di averlo già fatto prima di Mordred, gli erano tornate alla mente le parole di Freya e un buco si era esteso nello stomaco.
Si era ritrovato a pensare che forse Merlin e Morgana avessero condiviso anche quell’attimo d’intimità insieme e le mani si erano strette da sole in due pugni.
Aveva provato rabbia. Rabbia e risentimento.
Si sentiva tradito e preso per i fondelli. Era questo, continuava a convincersi, il suo problema. 
Ma, era davvero così?













Scrivere sull’acqua, giuramenti effimeri.
Sono domande che hai già affrontato prima di gettare gli appunti dalla finestra, ma ad un certo punto si ripresentano davanti ai tuoi occhi e comprendi di essere fregato. E allora, ancora una volta, ti domandi: «Com’è possibile?» 
Non lo sai, ma accade e ti tormenti.



 

Relie's corner
- Le frasi che Mordred dice in francese significano rispettivamente: "Cosa succede?", "Sì.";
-  Aglain è un personaggio canon. Compare nella seconda stagione, terzo episodio;
- Reddie sta per Mordred. Vezzeggiativo di 'red;
- Inizialmente, l'intervento è un incubo di Morgana;
- Nell'incubo di Morgana vengono effettuate le compressioni da un solo medico, anziché utilizzare le piastre perché nel suo inconscio, Morgana pensa che non ci sia più nulla da fare, dunque solo un chirurgo tenta l'impossibile;
- Il titolo è un riferimento ad uno scritto di Catullo "Scrivere sull'acqua", dove appunto vien detto che i giuramenti di una donna, sono giuramenti effimeri;
- Edwin è un personaggio canon e compare nella prima serie;
Sicuramente c'erano molte altre cose da dire, ma le ho dimenticate...
Chiedete pure per eventuali dubbi e chiarimenti.
Alla prossima!
 

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Capitolo 15
*** Non si piange sul latte versato ***


Nda: Buon salve a tutti!
Credo di aver dimenticato l'ultima volta che ho postato un capitolo nuovo... ma mi giustifico offrendovi il quindicesimo che... attenzione! Segnerà la fine della prima parte della storia. Se volete, ci vediamo a fine capitolo per eventuali spoilers (si, vi offro spoilers) e chiarimenti.
Comincio con l'avvisarvi che questo capitolo è, per il momento, il più lungo che io abbia mai scritto... Ed ho tagliato delle parti xD Ma, spero, vi piacerà!
Ringrazio tutte le bellissime persone che, capitolo dopo capitolo - ma anche occasionalmente - mi hanno lasciato per iscritto il loro pensiero: davvero, vi adoro! *-*
Grazie a tutte quelle persone pie che hanno aggiunto la storia nelle preferite/ricordate/seguite e che, anche se non recensiscono sono lì ed io le vedo e questo mi fa un piacere enorme, per davvero.
Grazie a tutte le persone che leggono la storia con curiosità ed entusiasmo. Vuol dire molto per me.
E poi vorrei ringraziare particolarmente Adebaran che mi sopporta e mi supporta in ogni occasione. Grazie! *-* 
NB: il simbolo (*) indica un passaggio dal presente ai ricordi, o viceversa, ma non indica un distacco totale della scena; se vedete delle frasi in corsivo sono citazioni riprese da capitoli precedenti :)
Spero di essere stata abbastanza chiara, ma se così non fosse, chiedete pure.
Vi lascio al capitolo, lasciando a voi l'ardua sentenza.
Buona, spero, lettura!
 


XV.  Non si piange sul latte versato
 
Soundtrack: Click

E l'amore guardò il tempo e rise,
perché sapeva di non averne bisogno.
Finse di morire per un giorno, e di rifiorire alla sera, senza leggi da rispettare.
Si addormentò in un angolo di cuore per un tempo che non esisteva.
Fuggì senza allontanarsi, ritornò senza essere partito, 
il tempo moriva e lui restava.
- Luigi Pirandello.
 
 
 






Venti centesimi di secondo. Colpo di fulmine.
Bastano pochissimi attimi affinché la tua vita cambi per sempre.
Scientificamente, in un quinto di secondo, nel cervello si attivano processi chimici che rilasciano nel corpo sostanze in grado d’indurre effetti simili a quelli della droga. Benessere. Eccitazione.
Ma cosa succede quando tutto giunge al capolinea?
Secondo la psicologia gli effetti sono correlabili alla depressione.
Ma come ti accorgi che l’amore è al tramonto? Quanto tempo ti occorre prima di sprofondare nell’oblio? E, soprattutto, sei davvero sicuro della tua scelta?
 
 
 
 







«Misericordia, Gracie! Quante volte devo dirti di chiudere quella tua stupida boccaccia?!»
Terzo tavolo accanto alle vetrate; per un attimo lo sbotto irritato dell’uomo era arrivato fino al bancone. La bionda, seduta imbarazzata al suo posto, teneva la testa bassa.
Qualche paia di occhi si erano soffermati sulla coppia per poi tornare disinteressanti verso la persona accomodata al proprio tavolo.
L’uomo era leggermente rosso in volto – quasi come un tovagliolo candido sporcato di vino -, la vena del collo appena pulsante.
Arthur li fissò più a lungo degli altri. Dalla volta di Jonas – e il… “mal tentato suicidio d’amore” -, il biondo captava qualsiasi avvenimento, anche effimero, come segnale d’allarme.
La donna si mordicchiò il labbro inferiore cinque volte e congiunse le mani in una stretta compulsiva. Sembrava ansiosa.
Da quanto era uscito da casa di Merlin, il cervello di Arthur era come impazzito. Il Pendragon notava crimini e prove nascoste ad ogni angolo. Se Merlin gli aveva mentito spudoratamente per tutti quegli anni, perché mai non si sarebbe dovuto preoccupare di una bionda ansiosa in compagnia di un tipo isterico, paonazzo quanto un lattante in lacrime?!
Le sue riflessioni insanamente mal calibrate furono interrotte dal civettuolo mormorio di due ragazzine – forse quindicenni – impalate a ridacchiare come criceti impossessati, a qualche passo di distanza dal bancone.
Arthur distolse lo sguardo da quella che prima gli era sembrata una probabile nuova coppia per un romanzo giallo degno della Fletcher, indirizzando i suoi occhi chiari verso le due morette svampite. «Desiderate ordinare qualcosa, dolci donzelle?» Il sorriso sul volto di Arthur non era mai stato più fasullo.
Le due adolescenti squittirono qualcosa nella loro lingua segreta finché la ragazzina con le lentiggini non spinse quella col naso aquilino verso il barista.
Questa si strofinò il braccio tesa, arrossendo lievemente. «Ehm… Volevamo sapere solo se… Volevamo sapere chi serve ai tavoli».
«Beh, la Regina è una donna molto impegnata, ma qualche volta William e Kate ci onorano della loro presenza».
La quindicenne dal naso aquilino storse la bocca in una smorfia infantile, ritornando avvelenata dall’amica borbottando insulti sul personale del locale.
Arthur grugnì in risposta, spostando il capo in direzione del suo nuovo dipendente parigino. Quel tizio non gli piaceva affatto: sembrava un saputello schizzinoso capace di piegare in pochissimi mesi le volontà di Morgana, convincendola persino a portare un anello al dito – anche se, ringraziando il Cielo, l’unico gioiello che sua sorella era fiera di sbandierare ai quattro venti era il suo stupido e costosissimo orologio da polso.
Mordred non poteva entrare nel suo bar e adombrarlo come se fosse un dipendente qualunque, solo grazie al suo stupido accento francese!
Era inammissibile!
Che poi, cosa poteva mai unire un Pendragon ad un simile soggetto con la erre moscia e la puzza sotto al naso? Sua sorella era ammattita. Del tutto.
«Il est à son goût?» Mordred aveva sorriso cordiale alla cliente, servendole il suo cappuccino. «Mi hanno detto che le piace zuccherato».
Arthur emise un verso di disappunto nel vedere l’occhiolino complice che l’amica della cliente e Mordred si scambiarono, per poi sentirgli pronunciare con il suo odiosissimo accento nasale: «Molly? Il est un beau nom!»
Patetico. Ruffianarsi in quel modo le clienti! Ma chi lo aveva mai detto, poi, che quello francese era l’accento più sensuale del mondo?! L’inglese! Quello… quello era classe!
«Quei soldi ci servivano, brutta stupida!»
I dipendenti del Pendragon’s si voltarono in direzione del terzo tavolo accanto alle vetrate, mentre tutto il locale si ammutoliva scivolando in un insolito silenzio.
L’uomo aveva colpito il tavolo con un pugno chiuso, tenendo le labbra ben serrate tra loro quasi gliele avessero ricucite con ago e filo metallico. La bionda era scossa, i capelli crespi a coprirle il volto.
Il bar riprese vita in pochi secondi, dimenticandosi quasi nell’immediato dell’accaduto; Mordred e Arthur si scambiarono un’occhiata seria, forse pensando incredibilmente la stessa cosa, mentre gli avventori ripresero a sorseggiare le loro bibite ghiacciate e mangiucchiare i biscotti omaggio nel piattino bianco.
Il francese si sistemò il vassoio di plastica rosso Pendragon parallelamente al fianco, notando la figura snella di Morgana impalata a qualche decina di passi dall’uomo irato. Con le sue onde corvine raccolte in uno chignon affrettato, continuava a rimanere immobile con i suoi caffè traballanti.
Mordred alzò un sopracciglio confuso.
«Morgana?»
Nel preciso istante in cui la mano di Mordred si poggiò sulla sua spalla, Morgana si ritrasse repentina con un sussulto. Gli occhi verdi erano spalancati, la sua pelle più bianca del solito ed ogni centimetro del suo corpo si era come ibernato di colpo.
Non sembrava neanche lei in quel momento. Forse, avrebbe stentato a riconoscersi da sola.
«Helios… Lei non c’entra. Lasciatela andare»
Il liquido scuro del caffè era fuoriuscito da una tazzina capovolta, estendendosi sulla superfice rossastra del vassoio.
«Voglio i miei soldi. Ora».
Gli occhi. Gli occhi di Morgana erano terrorizzati.
«Mi dispiace tantissimo, credimi».
Morgana poteva ancora risentirli sul volto, quei due pugni maledetti. La sua pelle bruciava come fuoco ardente e la sua gola si chiudeva in un nodo soffocante. La sua mente era diventata un guazzabuglio d’incubi: rivedeva il viso aguzzo di quell’uomo spregevole adombrato dalla notte, le lacrime di Merlin mentre la teneva stretta a sé…
«Morgana, guardami.» Mordred tentò di avvicinarsi ma la corvina scosse energicamente il capo, sfuggendo dal suo sguardo.
Posò con poca grazia il vassoio sul tavolo a lei più vicino, sottraendosi dagli occhi magnetici di Mordred che la scrutavano disorientati, senza articolare risposta. Oltrepassò la sala a passi lunghi e svelti consapevole di essere osservata, scomparendo oltre la porta degli spogliatoi.
Una donna col caschetto platinato sollevò le sopracciglia in un movimento snobistico, portandosi il suo bicchiere alla bocca. «Ormai assumono chiunque», commentò.
«Ma l’hai vista?» La rossa seduta di fronte alla donna replicò offensiva, dando un morso al frollino omaggio. «Sicuramente l’avranno presa per… meriti speciali».
«Dicono sia pazza», s’intromise una terza biondina con le labbra spigolose. «Ho sentito dire che da piccola è stata vittima di un incidente. Sua madre morì e lei fu costretta alle sedute psicoterapeutiche. Era andata via da Londra per qualche anno; probabilmente ritornare le avrà fritto il cervello».
La platinata ghignazzò coprendosi la bocca con un tovagliolo, seguita a ruota dalla rossa.
Arthur provò, per la prima volta in vita sua, il desiderio di alzare più di un dito su una donna. Si chiese come potessero ridere in quel modo sui problemi di altre persone; l’istinto gli suggeriva di schiarirsi la voce e intimarle ad uscire il prima possibile dal suo bar, ma qualcosa lo frenò.
Si ricordò della sua gamba ingessata e delle stampelle poggiate accanto alla mensola dei liquori e, per un minuto, la sua mente si assentò.
«Dì la verità, vecchia arpia», le gridò sovrastando il vento: «Ti è mancata Londra».
«Da morire!»
Morgana era tornata a Londra quasi senza preavviso e lui non si era certo scomodato a chiederle ulteriori informazioni.
«Penso che solo Londra possa darmi ciò che cerco. Ed io sto cercando stabilità.»
Non avevano mai parlato di Parigi, loro due. Morgana era tornata a Londra dopo anni di lontananza e Arthur aveva pensato soltanto al peso della presenza costante di sua sorella nel bar. Ma c’era qualcosa che non andava, qualcosa a cui non aveva pensato…
«Dico solo che non mi piace essere giudicata. E vorrei che mio fratello mi capisse invece di venirmi contro.»
«Mamma, mamma!»
La voce sottile di una bambina dai riccioluti capelli neri seppe riportare Arthur al presente, dove una madre veniva strattonata dalla figlia, che le indicava con un ditino un dolce al cioccolato.
«Ti prego mamma, me l’avevi promesso!»
«Non insistere, Elena.» La donna strinse la mano della vispa bambina, trascinandosela lontana dalle vetrate.
Arthur rimase a guardarle senza dire una parola.
Sul bancone, accanto alla cassa, riposava immobile l’anello di Gwen.
Erano molte le cose alle quali non aveva pensato.


 
 





 
 
Nei corridoi del Kilgharrah’s Hospital riecheggiava il rumore dei carrelli della colazione, trasportati dagli infermieri pronti al cambio delle lenzuola.
Mithian era corsa in tutta fretta nella stanza del signor Allen, dove l’allarme del codice blu rimbombava tra le pareti. Lo aveva rianimato per la seconda volta nell’arco di cinque ore, ma tutto sommato quella vecchia volpe era forte: Mithian sapeva con certezza che il suo paziente ce l’avrebbe fatta.
Aveva sorriso soddisfatta quando la pressione si era stabilizzata, tirando silenziosamente un sospiro di sollievo.
L’unica cosa di cui aveva bisogno era un caffé, caldo e inteso. Indirizzò lo sguardo verso l’orologio appeso al muro qualche centimetro sopra il bancone dell’infermiera; Elyan doveva aver terminato il suo turno da un paio di minuti, probabilmente la stava già aspettando al bar dell’ospedale. Il giro delle visite sarebbe iniziato da lì a poco e proprio non le andava di arronzare il suo piccolo momento di pace.
Le piaceva passare del tempo con Elyan, ma odiava andare di fretta - il che poteva considerarsi un controsenso stratosferico considerando il suo lavoro in ospedale.
Ricontrollò scrupolosamente le lancette dell’orologio, mentre il suo stomaco cominciava a brontolare.
«Qualcosa devo pur sempre metterla tra i denti», constatò quasi volendosi giustificare, ma terminata quella semplice frase il cuore del signor Allen impazzì per la terza volta.
 















Sentiva ogni muscolo del suo corpo intorpidito e le ciglia incollate tra loro. Sollevò piano le palpebre udendo una voce al suo fianco.
«Grazie al Cielo. Un giorno mi farai morire di crepacuore, Merlin».
Il ventenne riconobbe il tono paternale di Gaius, mentre pian piano il volto metà rasserenato e metà ansioso dell’anziano diventava una figura chiara e omogenea.
«Mi sembra di avere del cemento sullo stomaco», disse solo, ancora un po’ intontito dai farmaci.
«Beh, meno male!» Gaius lo guardò con disappunto, anche se con una mano gli carezzò il braccio. «Questo vuol dire che sei stato operato da gente qualificata».
Merlin s’irrigidì di colpo. «Sono in ospedale?»
«La ferita si era aperta e infettata», gli fece nota l’anziano con quel suo sopracciglio incurvato verso il basso. «A volte mi chiedo proprio cos’hai nella testa. Cosa credevi di fare?»
Un pensiero balenò nella mente del corvino, mozzandogli il fiato. «Dov’è Freya?»
L’ex medico militare combatté contro la voglia di fargli una scenata o attentare seriamente alla sua vita, ma alla fine cedette alla compassione. Quel ragazzino incosciente era pur sempre il suo Merlin. «E’ andata a prendere qualcosa da mangiare, è stata qui con me per tutta la notte. Pensa che un uomo ubriaco abbia tentato di derubarti e che ti abbia sparato».
Merlin riprese aria dalla bocca dando un senso a quelle che parevano parole messe a casaccio, annuendo debolmente. «Grazie».
«Non ringraziare me. Qualcuno da lassù deve volerti bene per davvero.» Gaius fece cadere il suo sguardo sulle iridi glauche del ventenne.
Merlin si accorse solo in quel momento quanto l’anziano fosse stato in pena per lui. I suoi occhi erano lucidi e brillavano acquosi nella luce fredda della stanza.
Non lo sapeva neanche lui cosa gli era saltato per la testa; Morgana era fuggita via come suo solito, riversandogli addosso tutte le sue frustrazioni, incolpandolo della fine della loro storia… e in qualche modo Merlin si era convinto che quella fosse la verità. Era stata colpa sua, lo riconosceva, eppure continuava a sbagliare.
Morgana era tornata a Londra. Si era intrufolata nel suo appartamento - o meglio ancora, in quel che era stato il loro posto sicuro -, dicendogli di essere tornata per restare. Per restare.
Ci aveva provato sul serio ad ignorarlo, far finta che non fosse vero convincendosi che Freya fosse tutto ciò di cui avesse bisogno. Ma era bugia: lui l’amava e l’avrebbe sempre amata, e niente al mondo sarebbe mai stato in grado di fargli cambiare idea. Doveva scegliere, non poteva più nascondersi in quel modo.
«Aridian non si fermerà mai, Merlin», disse Gaius con voce pacata, quasi gli avesse letto nel pensiero. «Morgana non può sopportalo. Non dovrebbe.»
Il corvino strinse i denti e sotto le lenzuola strinse anche la mano sinistra in un pugno.
Aridian.
Aveva rivisto il suo volto ghignante nei suoi incubi, ne aveva riascoltato le parole di ghiaccio e il rumore sordo dello sparo. Aveva sognato di morire nella sala operatoria, con suo zio che sorrideva trionfante con la pistola tra le dita. Lui gridava agitandosi, ma nessuno riusciva ad ascoltarlo.
Una volta aver riaperto gli occhi e aver rivisto il viso familiare di Gaius, aveva pensato che tutto fosse al suo posto, ma non era così.
Aridian era ancora vivo. Era ancora tra le strade di Londra che beveva indisturbato il suo primo bicchiere del mattino in un qualche locale, nascondendo la sua arma chissà dove. Lo avrebbe sopportato: avrebbe accettato il fatto che Dio, o il Destino o qualsiasi altra cosa, lo avesse tenuto in vita ma non avrebbe accettato la gamba ingessata di Arthur e i lividi sulle gote chiare di Morgana.
Non poteva vedere le persone che più amava al mondo soffrire a causa sua, per colpa degli ‘incentivi’ di Aridian. Sapeva perfettamente a cosa mirava suo zio: il minimo comune multiplo di tutti i suoi obiettivi erano i soldi, collegati meschinamente con la droga, ma per riuscire ad averli Aridian aveva bisogno di sicurezza e silenzio. Merlin non era altro che un ostacolo: o sarebbe passato dalla sua parte come gli aveva chiesto la prima volta nel bar, o si sarebbe preso ciò che voleva a qualsiasi costo.
Merlin lo sapeva molto bene.
«Non volevo che finisse in questo modo.» Il corvino tenne lo sguardo fisso sulle sue gambe coperte, avvertendo un nodo fastidioso alla gola. «Non volevo che soffrisse».
«Lo so.» Gaius poggiò la propria mano rugosa su quella calda del ragazzo. Lo aveva visto crescere, innamorarsi e soffrire ed ogni volta era sempre più difficile.
Merlin reclinò la testa, alzando lo sguardo al soffitto per non far cadere le lacrime. «Non so più che cosa fare, Gaius. In questo momento mi sembra complicato anche solo respirare».
L’anziano sospirò, stringendo più forte la sua mano. «Lo so».
Il mento del ventenne tremolò, mentre lievemente si voltava a guardare il suo tutore dritto negli occhi, proprio come la notte in cui gli aveva salvato la vita. «Dimmi cosa devo fare, Gaius.» Sembrava quasi una supplica, la sua. La supplica di un ragazzo troppo giovane per problemi così gravi. «Ti prego».
L’ex medico militare lo fisso in silenzio per un istante. Mandò giù la saliva depositata nel palato, aprendo di nuovo la bocca: «Penso che tu debba fare la cosa giusta».
 











«Elyan!»
L’infermiere, sentendosi richiamare, si voltò alle sue spalle riconoscendo la figura raggiante di Mithian… già in divisa.
«Princess!» Elyan l’aspettò fermo al suo posto, accanto all’ascensore. «Riesci ad arrivare in ritardo anche se siamo nello stesso ospedale. Qual è la tua scusa?»
Mithian alzò le mani in segno di resa, accostandosi alla parete chiara dell’ospedale. «Il cuore del signor Allen è impazzito altre due volte. Credo che lo faccia di proposito», scherzò.
Elyan annuì, comprimendo le labbra. «Così niente colazione, eh?»
Il paramedico sollevò le spalle sentendo l’ascensore aprirsi. «Sarà per un’altra volta».
Prima ancora che il mulatto potesse premere un pulsante qualsiasi, la specializzanda si fiondò tra le porte, al fianco dell’amico. «Non ho detto questo. Voglio fare colazione con te».
Elyan sbuffò una risata scettico. «Ma non abbiamo tempo!»
«Beh, se resti lì impalato no!» Mithian indicò con un gesto della mano il piano terra, per poi riportarla nella tasca del suo camice.
Un sorriso nacque spontaneo sul viso dell’infermiere senza che neanche lo volesse. Era contento che Mithian avesse deciso di passare del tempo con lui nonostante i suoi impegni sfiancanti. Il turno di notte era impegnativo e stressante ed erano poche le occasioni in cui poteva parlare serenamente con Mithian, senza il terrore dell’orologio. Ci aveva pensato spesso e, proprio la notte precedente, aveva deciso di fare domanda per il turno di giorno. Non aveva intenzione di dirlo alla Princess: voleva farle una sorpresa; si sarebbe gustato il sorriso allegro e genuino che gli avrebbe dedicato, insieme - magari - ad un abbraccio amichevole.
Premette il pulsante, aspettando impaziente che l’ascensore si fermasse.
 





 
 
Il getto d’acqua gelida della doccia le cadeva sulla pelle, mentre accovacciata si perdeva nei suoi pensieri.
Si era sentita mancare l’aria in un momento, ritrovandosi sospesa nel vuoto come un’equilibrista. Ed era stato terribile.
Era scappata via dal bar ignorando gli sguardi di suo fratello e di Mordred, accorgendosi di sentirsi maledettamente a disagio al posto di guida.
Due pugni. Quell’uomo le aveva dato due pugni sul volto; Merlin era stato sparato e tutto stava collassando. Non riusciva più a baciare il suo fidanzato perché quell’idiota di Emrys era stato sparato e un uomo le aveva colpito la faccia per due volte. Violentemente.
Non riusciva più a dormire nello stesso letto di Mordred perché il pomeriggio antecedente era sgattaiolata nell’appartamento del suo ex, confessandogli che per lei non era ancora finita.
L’acqua le scivolava sulla pelle nuda, le appesantiva i capelli.
Ci era già stata in quella situazione, ed aveva già fatto la sua scelta. Anni fa, prima di Parigi, prima di Mordred, prima di quei due pugni maledetti.
 


*



Morgana continuava a tenergli il broncio a braccia incrociate, arricciando le labbra come una bimba dispettosa. Merlin aveva sbuffato per la millesima volta quella sera, continuando però ad insistere nel volere delle scuse - e finendo per scusarsi come suo solito.
«Morgana, per favore! Possiamo smetterla di comportarci come se avessimo tre anni e discutere come persone mature e vaccinate?»
«Mature e vaccinate?» Morgana alzò un sopracciglio infastidita, guardandolo con la coda dell’occhio. «Non mi sembra di vederne in giro».
Merlin roteò gli occhi, sospirando esasperato. «Non voglio che si sappia in giro, tutto qua».
«Tutto qua?!» sbraitò lei. «Tu rinneghi la nostra storia e sai solo dire “tutto qua”?!»
«I-Io non sto rinnegando nessuna sto-»
Morgana lo fulminò con uno sguardo assassino, puntandogli un dito al petto. «Sai che ti dico, Merlin Emrys, che se non vuoi dirlo al tuo stupido amichetto e a mio padre, tu con me hai chiuso. Capito? E’ finita!»
Merlin si allarmò, cominciando a boccheggiare. «Cosa? N-No!» La fermò per il polso, costringendola a guardarlo bene in faccia. «Io voglio stare con te. Non è vero che è finita!»
Morgana si ritrasse stizzita, ghiacciandolo con le sue parole di veleno: «E’ finita!»
La corvina si allontanò verso la porta di casa, sentendo i passi di Merlin alle sue spalle mentre continuava a dirle che non poteva lasciarlo in quel modo perché lui non lo meritava, perché stavano insieme e le cose andavano affrontate in due.
Morgana lo ignorò, sbattendogli la porta in faccia come risposta. Indispettita, lanciò la sua borsa sulla poltrona in soggiorno, maledicendo quell’imbecille di Emrys con tutta l’anima.
«Cos’è questa storia?»
Morgana sussultò appena, accorgendosi solo in quel momento della presenza del padre nella stanza. Aveva un’espressione accigliata, la mano destra impegnata a sorreggere una sigaretta accesa. «Ti ho fatto una domanda, Morgana».
La ragazza scrollò le spalle, minimizzando. «Niente».
Uther si alzò dalla sua poltrona di velluto, spegnendo la sigaretta nel posacenere di vetro. «So chi è quel tizio. Non voglio che tu lo frequenti».
«Ti ho detto che non è niente d’importante!»
«Ed io ti sto dicendo che non sono uno stupido, Morgana».
Messa alle strette, la corvina si arrese nel dire la verità: «Che c’è di male? Mi sento a mio agio con lui, Merlin mi fa stare bene… Io lo amo».
«Lo ami?» Il tono di Uther si alzò paurosamente, mentre la sua pelle si colorava di rosso. «Sei solo una ragazzina! Tu non sai chi è quel tizio, tu non sai come funziona la vita, tu non sai niente dell’amore!»
Su gli occhi di Morgana scese un velo d’inverno, rendendo quei due smeraldi due coltelli affilati. «Io lo amo. Lui mi rende felice. Voglio stare insieme a lui anche quando vorrei picchiarlo con le mie stesse mani. Tu non hai mai fatto una cosa simile per la mamma! Tu non l’hai resa felice, tu le hai reso la vita un inferno! Sei tu a non sapere niente dell’amore!»
Arrivò netto e tagliente, lo schiaffo. Risuonò in tutto il soggiorno. Morgana si portò una mano sulla guancia offesa, crucciando lo sguardo. «Va’ all’inferno».
Si catapultò verso la porta, sentendo le grida del padre alle sue spalle: «Se esci da quella porta, dimenticherò che tu sei mia figlia! Se tu esci da quella porta», tuonò iroso, «non ci sarà più posto per te nella mia casa».
Morgana si fermò, osservando la superficie lignea dell’uscita. «Non aspettavo altro.» Con un gesto secco, aprì il chiavistello, precipitandosi per strada chiamando a gran voce il nome di Merlin.
Lo vide qualche ventina di passi più avanti, accanto alla libreria del vecchio Geoffrey. Il ragazzo si voltò con la fronte aggrottata, perplesso nel sentirsi chiamare e sorpreso nel vedere Morgana correre tra le sue braccia.
L’accolse tenendosela stretta, sentendo il fiato di Morgana sfiorargli il collo. Prima ancora che lui potesse dire qualsiasi cosa, la Pendragon lo anticipò: «Mi sta bene. Non diciamo nulla a nessuno, ma tu devi restare insieme a me. Non ti è concesso lasciarmi, d’accordo?»
Merlin affondò la mano destra nei suoi capelli neri e profumati di pesca, respirandone l’odore. «D’accordo».
 











Quando Freya entrò nella stanza e si accorse che Merlin era sveglio, gli sorrise come se avesse visto la cosa più bella e preziosa esistente sulla faccia della Terra.
Gaius si era alzato dalla seggiola su cui aveva dormito per tutta la notte, lasciando ai due ragazzi del tempo per parlare e stare da soli. «Io vado a sgranchirmi un po’ le gambe o diventerò una mummia costretta su una sedia a rotelle», disse, lasciando delle pacche amorevoli sulle cosce di Emrys.
L’ultima cosa che l’anziano ascoltò, prima di uscire dalla stanza, fu lo sciocco di un bacio sulle labbra.
«Ero così preoccupata, amore.» Freya staccò la sua bocca da quella del corvino, tenendogli il viso tra le mani. «Sono così contenta di rivederti sveglio!»
Merlin allargò le labbra secche e rosee, ma solo per un istante. «Dov’è Arthur?»
Freya fece scivolare lo sguardo sulle labbra del ventenne, allontanando lentamente le sue mani dalle guance ricoperte da un sottile accenno di barba. Prese posto accanto al letto, sulla sedia lasciata vuota da Gaius, cambiando totalmente espressione.
Merlin corrugò la fronte alla reazione della mora. «Gli è successo qualcosa?»
«Ho baciato un altro».
Le parole l’erano uscite spontanee dalla bocca. Non ci aveva neanche pensato: era successo come prendere una boccata d’aria, naturale e spontaneo. Glielo disse senza alcun ripensamento: «Ho baciato un altro».
Il ragazzo si ammutolì di colpo. Freya era lì, seduta su una sedia scomoda che gli diceva di aver baciato un altro uomo e, stranamente, non gli venne voglia sparire.
«Ho baciato un altro e forse dovrei dirti che non lo volevo, ma sarei una bugiarda perché ti mentirei.» Freya si morsicchiò il labbro inferiore, stringendosi nelle spalle, com’era solita fare quando si sentiva in difficoltà. «Ho avuto paura, mi sono sentita sola. Tu mi hai lasciata sola, continuamente. Quando ti ho rivisto ieri notte nel nostro letto, ho capito che ho fatto bene a baciare un altro uomo, perché adesso so che non mi è piaciuto. Perché io voglio baciare te, Merlin Emrys, per il resto della mia vita e non m’importa cosa diranno gli altri su di noi, io voglio che funzioni perché ieri notte entrando in casa nostra e vedendoti nel nostro letto ho capito che ci sono delle cose per cui vale la pena lottare.» Fece una breve pausa, torcendo le dita tra loro. «Io so che tu l’hai amata, so che lei è stato il tuo primo vero amore. Ma, per quel che vale, io voglio lottare per te. Non voglio morire senza aver lottato ed io ci proverò, però tu devi dirmelo in questo istante quello che vuoi. Devi dirmi se l’ami ancora o se c’è spazio anche per me. Devi dirmelo, perché io ne accetterò le conseguenze.»
Quella era la sua scelta: bianco o nero, sì o no, fuori o dentro… Freya o Morgana.
Aprì la bocca per dire qualcosa, per prendere la sua decisione, ma non emise alcun suono. Doveva fare la scelta giusta, e l’avrebbe fatta. «Freya, io...»
«Buongiorno!» Una Mithian sorridente comparse nel suo camice immacolato dalla porta della stanza, prendendo tra le mani la sua cartella clinica. «Tutto bene?»
Merlin lanciò un’occhiata in direzione di Freya, tornando poi a guardare la specializzanda facendole cenno di sì col capo.
«Perfetto! Allora...», Mithian scorse col dito i fogli della cartella clinica leggendo sommariamente ciò che c’era scritto. «Merlin Emrys, vent’anni. Ferita d’arma da fuo...»
La specializzanda aggrottò la fronte confusa, rileggendo accuratamente la cartella. «Dev’esserci uno sbaglio...»
«Qualcosa non va, dottoressa Princess?»
Le iridi nocciola della donna abbandonarono le righe d’inchiostro, concentrandosi sulla figura del primario. «No, signore. Solo… sembra che manchi la diagnosi iniziale».
Kilgharrah sorrise cortese ai due ragazzi, prendendo tra le mani la cartella clinica. «E’ tutto al suo posto, dottoressa Princess, non si preoccupi.»
«Veramente, non mi sembra di aver trovato tale dicitura tra-»
«Le ho detto che è tutto al suo posto, dottoressa Princess», la incalzò duramente il primario. «So che ha passato la notte qui, sarà stanca. Vada a casa».
«Signore, io non ho ancora finito le mie ore».
«Le ho detto: vada a casa.»
Merlin e Freya si accorsero che qualcosa non andava. Il ventenne, soprattutto, leggeva negli occhi ambrati di quell’uomo un qualcosa d’indefinito che, per una qualche ragione, lo rendeva irrequieto.
Mithian non si oppose oltre al suo superiore e lasciò la stanza, dubbiosa.
 








«Chocolat?»
Arthur guardò di sottecchi quell’insopportabile francesino che gli porgeva una scatola di cioccolatini.
«Sono francesi», assicurò Mordred. «Sono buoni».
Arthur sollevò le sopracciglia scettico. «Tu dovresti servire ai tavoli e, se mai avessi voluto del buon cioccolato, avrei detto a mia sorella di trovarsi un tipo svizzero».
Mordred ritirò la sua offerta, limitandosi a dedicargli un falso mezzo sorriso. Quel ragazzino cominciava seriamente a diventare indigesto.
Kara gli aveva sempre detto di stare attento agl’inglesi; non le erano mai piaciuti, diceva.
«Come vuoi», aveva bisbigliato offeso, dirigendosi verso gli avventori.
Il biondino sbuffò, ripensando ancora una volta a quello stupido anello che rimaneva lì a fissarlo come un orologio rotto.
Un ricordo, improvviso e inaspettato, si fece largo nei suoi pensieri…


*



«Arthur, devo dirti una cosa».
Il Pendragon squadrò il corvino dalla testa ai piedi, sorridendo a mezza bocca. «Hai visto un fantasma, Merlin? Hai una faccia orribile», gli fece notare per poi ripensarci meglio: «Beh, quello è normale».
Comprese che Merlin non scherzava quando non lo vide reagire alla sua provocazione. Allora smise di guardare la partita, considerandolo per la prima volta da quando era iniziata quella nenia insostenibile di “Arthur-devi-ascoltarmi”.
«Avanti», lo intimò. «Che c’è?»
Vide Merlin deglutire e sostenere a malapena il suo sguardo. «Riguarda Gwen».
«Cosa l’è successo?», chiese preoccupato, dimenticandosi completamente della tv di quel locale poco alla moda.
Merlin pareva paventare di aprir bocca, quasi qualcuno potesse tagliargli la lingua.
«Allora?!» chiese impaziente il biondo. «Parla!»
Il corvino prese un lungo respiro, guardando dinanzi a sé la birra quasi terminata. Non era solito bere quel genere di cose, non ne aveva mai amato il gusto nel palato, ma quella sera aveva deciso che poteva essergli d’aiuto. «L’ho vista al supermercato».
Arthur lo guardò come se fosse un idiota. «Dev’essere stato terribile», commentò sarcastico.
«Poi l’ho vista anche al parco… e poi fuori scuola».
«Fammi indovinare...» Arthur si portò un dito sul mento, emulando un’espressione pensierosa. «Non ti ha salutato, vero?»
«No», ammise il corvino, scuotendo il capo. «Lei… non era sola».
«Che vuoi dire?»
Merlin ripensò al gusto amaro della birra nel palato. «Era insieme ad un altro».


*


 
Le porte scorrevoli del bar si aprirono come tutte le altre volte in quel giorno, ma quella fu l’unica volta che Arthur sorrise alla sua cliente.
Mithian ricambiò la cortesia, sedendosi sullo sgabello accanto al bancone. «Mi hanno detto che ignori i miei consigli».
«Davvero?» chiese retorico il biondo, senza tuttavia impedire ai suoi occhi bluastri di soffermarsi sulle curve leggere delle labbra della donna.
«Non sta bene fare il cattivo ragazzo, sai?»
«Lo terrò a mente», le disse, senza alcuna traccia di fastidio o superbia. «Sai, ti farei un Vampiro ma… il medico mi ha detto di non muovermi per un mese».
Mithian accennò ad una risata. «Davvero molto divertente, Arthur Pendragon».
«Non sta bene fare il cattivo ragazzo».
La mora si sistemò meglio sullo sgabello, guardandosi intorno. «Vedo che siete a corto di personale».
«Già», mormorò lui, lanciando un’occhiata al francese che intanto annotava nuovi ordini.
Mithian fece schioccare le labbra, incontrando per una seconda volta lo sguardo di Arthur. Le piaceva guardarlo negli occhi e - sfortunatamente - si accorse che le piaceva anche guardarlo e basta. «Beh, mi sembra anche normale. Starete facendo i turni per Merlin, lo capisco».
Nel sentire quel nome, il Pendragon si dimenticò persino della sua antipatia nei confronti di Mordred e dell’esistenza dell’intero locale. «Merlin?»
«Insomma, gli hanno sparato, ha lottato tra la vita e la morte e voi siete suoi amici. Mi sembra ovvio che vogliate stargli vicino in un momento difficile come questo».
Il sorriso sul volto di Mithian scomparì nell’esatto momento in cui lo sguardo del Pendragon si fece assente, impallidendo di colpo. «Tu...», la Princess deglutì a vuoto, comprendendo di aver parlato - per l’ennesima volta- a sproposito. «Tu non lo sapevi...»
Anche da seduto, Arthur sentì la terra mancargli sotto i piedi, rischiando di oscillare verso il basso. Il mondo era diventato muto in un istante, riempito solo da rumori confusi e occasionali.
«Dov’è?», chiese, più a se stesso che a Mithian. «Lui dov’è?»
Era una domanda stupidissima, ma in quel momento gli sembrava essenziale: aveva bisogno di sentirselo dire.
«In ospedale».
Solo dopo aver incontrato le sue iridi d’oceano, Mithian si rese conto che erano velate di lacrime, anche se il Pendragon ostentava a nasconderlo.
«Portami da lui», le disse. «Ora».











Merlin comprese, in quelle ore trascorse in ospedale, quanto fosse noioso non far nulla e starsene a letto per tutto il giorno. Era un aspetto da rivalutare, si disse.
Freya era uscita dall’ospedale sotto consiglio di Gaius, che le aveva gentilmente assicurato di restare con il ventenne finché non sarebbe ritornata.
Erano restati in silenzio a guardarsi per molto tempo, pensando alla stessa cosa: Aridian.
Ad un certo punto, l’ex medico militare si era alzato ed aveva raggiunto con molta lentezza il bagno. Fu in quel momento che Merlin si rese conto quanto Gaius stesse invecchiando; talvolta, sembrava persino più grande della sua età.
Forse era così, si diceva. Forse quando s’invecchia lo si fa gradualmente e poi tutto d’un colpo. Un familiare senso di malinconia gli attanagliò il cuore: gli sarebbe piaciuto vedere invecchiare sua madre e suo padre, ne sarebbe stato davvero contento.
Chiuse gli occhi per un minuto, pensando a dove fosse Arthur.
Non c’era una logica precisa, ma ogni qualvolta gli succedesse qualcosa di terribile o la sua vita si trovasse in bilico, la prima persona alla quale pensava era Arthur.
In tutti quegli anni avrebbe solo voluto parlargli liberamente, senza vincoli o oppressioni; avrebbe voluto condividere con quell’Asino i suoi timori, le sue gioie e i suoi dolori a trecentosessanta gradi, ma gli era impossibile: come avrebbe potuto parlare ad Arthur di suo zio, dei pugni presi nelle costole e sul volto senza accennare alla droga? E come l’avrebbe visto Arthur dopo che l’avesse saputo?
Riaprì gli occhi, benedicendo e maledicendo al contempo la sua assenza in quella stanza, fin quando la porta non si aprì di scatto.
Merlin fu quasi pronto a sorridere, salutando l’Asino con una qualche battuta inventata al momento ma… gli occhi, quegli occhi che lo stavano a guardare e quelle labbra ferme, non erano quelli di Arthur Pendragon.
Il corvino rimase col fiato sospeso, aspettando una qualche reazione.
Vide la sua schiena poggiarsi contro il muro, mentre con una mano richiudeva la porta alle sue spalle.
Non parlò per un paio di secondi, dopodiché lo guardò intensamente al suo solito modo, quello che sapeva togliergli il fiato senza neanche il bisogno di un bacio o di una parola.
«Mi hai messo nella stessa situazione, un’altra volta».
Merlin non cercò di rispondere o dibattere, aspettò solo che Morgana dicesse la sua.
«Come hai potuto farlo? Come?!» Sembrava impaurita come un gattino smarrito nella notte più fredda dell’anno. Sembrava impaurita come una donna ch’era stata picchiata da un uomo.
«Sono terrorizzata, Merlin. Io sono terrorizzata.» Quei due smeraldi tremolavano, zuppi di lacrime. «Io ti amo. Questo, mi terrorizza.» Morgana scosse la testa smaniosa, sorridendo in balia dei nervi e della tensione. «Sarà la seconda volta che te lo dico - e che lo dico - in tutta la mia vita e mi rende irrequieta, mi fa impazzire, mi porta ad una crisi nevrotica… Tu! Tu mi fai perdere il respiro! E questo mi terrorizza perché io sono Morgana Pendragon e ti sto dicendo ‘ti amo’.»
Merlin represse il sorriso che stava per nascere tra le sue labbra; cercò di replicare in qualche modo ma Morgana non glielo permise. Allungò un dito in segno di ammonizione. «Sta’ zitto, altrimenti è probabile che io cambi idea… Ho tutto qui, nella mia testa, è salito tutto a galla in un secondo e ho paura che se non te lo dico adesso non te lo dirò mai più.» Sorrise, per la prima volta da quando era arrivata. «Tu mi ami. Io e te siamo destinati a stare insieme. Lo dicevi sempre, lo cantavi nelle tue canzoni strimpellate… per cui, io voglio affrontare tutto insieme a te. Noi due, insieme, contro tutto e tutti. Io e te dobbiamo stare insieme. Io sono destinata a te e tu a me. Mi appartieni, non riesco a mandarti via tanto che a volte m’infastidisci e mi rendi stressata. Ma tu mi ami e noi dobbiamo stare insieme».
Merlin mandò giù saliva inesistente. Morgana era lì, ad un passo dal suo letto, ad un passo da tutto. Morgana era lì ed aveva scelto lui. Era tornata per restare. Per restare.
Il ventenne, sotto le lenzuola, serrò la mano in un pugno. «Io ho scelto Freya.»
«No, non è vero.» La Pendragon spalancò la bocca, corrugando la fronte.
«Freya è la mia ragazza, io voglio restare con lei».
«Tu l’hai tradita la tua ragazza! Perché tu ami me!»
Strinse così forte i pugni da farsi da male, Merlin, tenendo lo sguardo ben fisso sulla corvina. «No, tu sei una ragazzina! Vai via, torni. Usi le persone come se fossero oggetti, pensando che loro stiano sempre lì ad aspettarti. Tu...» Merlin rise nervosamente, scuotendo il capo. «Tu non hai la minima idea di cosa voglia dire amare. Pretendi di avere tutto e subito ma tu, tu non sai niente dell’amore».
Gli era sembrato uno sforzo titanico, dirle quelle parole. Gli era sembrato impossibile farlo senza mordersi la lingua e pensando a quanto si sentisse cretino e imbecille. «Certo che ti amo, certo che sceglierei sempre te», avrebbe voluto dirle, «certo che sei la donna della mia vita!» Ma non disse nulla. Restò solamente a guardarla, mentre le spezzava il cuore.
«Sei una merda, Emrys», sputò fuori. «Sei una merda!»
«Morgana...»
Lo guardò per un’ultima volta, prima di scomparire oltre la porta della sua stanza. «Va’ al diavolo».
Fu spiazziante e doloroso, un po’ come cadere: essere consapevole di aver detto addio all’unica persona che si ama veramente. E’ stato un po’ come morire, ma senza una fine.
Gaius s’incamminò piano verso il ragazzo, ritrovandolo in lacrime. Spezzato, come lo aveva visto due anni addietro quando l’amore della sua vita aveva preso un aereo per Parigi.
«Ho fatto la cosa giusta.» Si sforzò di sorridere, ma non servì a nulla. Lo fece Gaius per lui: un bel sorriso. Poi gli prese il viso tra le mani, e lo strinse forte. Sperando che servisse a qualcosa.
 
 





 




Arthur era ansioso, qualcosa che gli era capitato solo in pochissime occasioni.
Avrebbe desiderato di non ritrovarsi su quella stupida carrozzella, in modo da poter correre dritto verso la camera assegnata a quell’idiota di Merlin.
Gli hanno sparato. Merlin. Gli hanno sparato.
Mithian gli aveva lanciato di tanto in tanto qualche occhiata mentre era al volante, notando il continuo serrare della mascella e delle mani.
«Quando sono uscita dall’ospedale stava meglio, Arthur», tentò di calmarlo con lo sguardo alternato dalla strada al biondo preoccupato.
«Puoi andare più veloce? Grazie».
Mithian aveva sospirato, premendo il piede sull’acceleratore.
Pensava che una volta arrivati in ospedale il biondino si sarebbe acquietato almeno un po’, ma successe il contrario: Arthur non sapeva dove guardare ed i suoi occhi blu schizzavano da un angolo all’altro. Era impaziente, doveva vederlo.
«Arthur non c’è motivo di agitarsi», gli disse la specializzanda fermando la sedia a rotelle. «Non c’è alcuna fretta».
«Devo vederlo», fu l’unica risposta che Mithian ottenne. «Devo vederlo, adesso».
Cercò di alzarsi dalla carrozzella facendo leva sull’unico piede sano, ma Mithian lo costrinse a sedere e rimanere immobile. «Ehi, non ho intenzione di rimettere le mani su un dipendente del Pendragon’s», lo avvisò con uno sguardo autoritario.
Il respiro del giovane era leggermente affannoso e non accennò a calmarsi, neanche quando le porte dell’ascensore si spalancarono al terzo piano. Arthur afferrò da solo le ruote della carrozzella spintonandola verso il corridoio, fino a non sapere più dove andare.
Mithian gli corse dietro gridando di fermarsi, che non poteva comportarsi in quel modo e che lei gli stava facendo un enorme favore. «Non farmene pentire, Arthur Pendragon», lo avvertì frenando la sua corsa impazzita, parandosi dinanzi a lui. Abbrancò i braccioli della sedia a rotelle, fissandolo inflessibile ad un passo dai suoi occhi.
Il ventenne si rese conto di risultare un povero pazzo e, come una spina dispettosa, le parole della cliente del bar su Morgana gli tornarono a pizzicare la pelle. «Va bene», acconsentì a fare a modo suo, togliendo le mani dalle ruote.
Mithian ringraziò la buona sorte per quella piccola agevolazione, mollando la presa ai braccioli. Si sollevò a schiena ritta, accennando un sorriso affabile. «Te l’avevo detto che era un po’ come guidare una macchina».
Arthur percepì un moto di leggerezza scontrarsi con tutta quell’ansia irrefrenabile, lenendola appena; le sue labbra si allargarono in un sorriso sincero in memoria del suo primo incontro con quell’aggeggio infernale, poi, precipitò tutto.
L’allarme del codice blu rimbombò dappertutto: tra le pareti dell’ospedale, nella camera dalla porta spalancata e le veneziane serrate e nel cervello di Arthur.
Mithian aveva spalancato la bocca, guardando allibita verso il proprio paziente steso nel letto incosciente.   «Oh, no», aveva mugugnato rassegnata, mandando il biondino nel panico più totale.
Cosa voleva dire “Oh, no”?!
Perché suonava quel cavolo di codice blu?!
«Okay», Mithian provò a recuperare la calma, togliendosi la sua giacchetta leggera. La porse al ragazzo, dicendogli di aspettare: «Non ti muovere, arrivo subito».
Il Pendragon la vide correre spedita verso la stanza, ordinando all’infermiera di caricare le piastre.
Lo stava perdendo. Arthur si accorse che lo stava perdendo.
Mithian si mordeva il labbro inferiore a causa della tensione, soffocando imprecazioni. Il defibrillatore toccò il petto del paziente, facendolo sobbalzare di poco.
 Era finito. Era tutto finito.
I medici aumentarono la carica, ma il risultato non cambiò.
Arthur si sentì ghiacciare il cuore di colpo; non riusciva a respirare, pensare né fare niente. Lui stava morendo.
La Princess si pietrificò, con le piastre tra le mani. Non c’era più niente da fare.
Silenzio. L’unico rumore in tutto il corridoio era quello di un monotono e incessante bip prolungato. E si era spezzato un po’ tutto in quel momento: il sorriso di Mithian, la vita del suo migliore amico e il cuore di Arthur.
Merlin è morto. Non esiste più una squadra. Non esiste più niente.
Mithian si voltò verso Arthur con sguardo dispiaciuto; lei non sarebbe neanche dovuta entrare in quella stanza: non era in servizio, però teneva molto a quel paziente ed addolorata della sua perdita, ma…
Perché mai Arthur piangeva la morte del signor Allen?!
 










Freya non aveva nessunissima voglia di tornarsene a casa, non dopo quella mattina in ospedale, non dopo quello che lei e Merlin si erano detti.
Si era diretta verso il Pendragon’s, volendo in qualche modo rendersi utile. Prima o poi, si disse camminando verso il bar, avrebbe dovuto portare la sua macchina in una qualche officina. Come se non bastasse!
Entrò dalla porta sul retro, accanto al laboratorio, sedendosi in un angolo sul pavimento. La piccola stanzetta che fungeva da spogliatoio non era un granché, ma era un ottimo posto dove rifugiarsi quando il mondo diventava una cacofonia di frasi e rumori stonati. Era un po’ come i sotterranei di un castello dove nessun nobile o plebeo passava mai, dove neanche la luce del sole sognava entrarci per una visita fugace.
Freya si portò il mento sulle ginocchia, nascondendo il viso con le braccia.
La porta di mogano scuro si aprì distrattamente, senza che Freya se ne importasse, mostrando il fisico slanciato del moro parigino. Mordred la notò a malapena nella poca luce della stanza; accese l’interruttore e, indeciso se avvicinarsi o meno alla ragazza, si diresse verso l’armadietto di metallo rimasto aperto.
Freya sollevò appena lo sguardo sull’uomo, vedendolo intendo ad estrarre una scatola di cioccolatini e ad accomodarsi su una sottospecie di piccola panca di legno.
Non l’aveva degnata neanche di uno sguardo.
Mordred scartò il primo dolciume, addentandolo con noncuranza, godendosi il sapore tipico della sua Parigi.
La ragazza rimase a guardarlo masticare indisturbato, con i ricci ribelli che gli sfioravano la fronte e a tratti nascondevano i suoi occhi blu elettrici. Sembrava non gliene importasse davvero niente del locale che intanto necessitava la sua presenza.
«Sono francesi?», si azzardò a chiedere, sperando che la sua voce non sembrasse tanto flebile.
Mordred annuì, infilandosi nella bocca un secondo quadrato di cioccolata. «Nessuno li apprezza».
«Io adoro il cioccolato bianco».
Mordred la guardò per la prima volta da quando era entrato nello stanzino, accorgendosi che a stento gli era seduta ad un passo dai piedi. «Ce ne sono tre».
Freya sorrise, allungando una mano.
Il francese le lasciò sul palmo tre fiori di cioccolata, avvolti da una carta lattescente. La mora ne poggiò due al suolo e si rigirò il terzo tra le mani, quasi volesse esaminarlo. «Arthur e Morgana staranno impazzendo di là.» Lo scartò, mangiucchiandolo lentamente.
«Al momento il bar è deserto, c’è solo… Geneviève.» Calcò l’ultima parola, eccedendo con l’accento nasale.
Freya ridacchio, capendo al volo la strategia del moro.  «Tu sai parlare perfettamente in inglese».
«Lo so».
«Ma… Arthur odia il francese».
«Lo so».
Si scambiarono un’occhiata complice, lasciandosi andare ad una risata genuina.
Freya non ci aveva mai fatto caso, ma quella era la prima volta che rideva dopo un bel po’ di tempo. L’era mancata come sensazione. «Sono buoni», disse mostrando la carta vacante.
«Sono francesi», appurò quello, mangiandone un terzo.
Per un minuto Freya si chiese, data la disinvoltura con cui Mordred divorava quei quadratini calorici, se in Francia ci fosse lo stesso regime alimentare dell’Inghilterra. Adocchiò i due dolciumi dimenticati al suolo, arricciando le labbra pensierosa.  
«Come stai?» le domandò Mordred a bruciapelo.
«Perché me lo chiedi?»
«Da quello che ho capito Merlin è in ospedale. Credo sia il tuo ragazzo.» Il francese non rise della faccia esterrefatta della ragazza, ma dentro di sé provò l’impulso di farlo. «A Ginevra piace chiacchierare», le spiegò.
Freya mosse le spalle in segno di dissimulazione. «Sto bene».
Mordred osservò l’ultimo cioccolatino finire nella fauci della mora, prima che anch’ella potesse rendersene conto. Freya appallottolò il resto dell’involucro, cedendo allo sguardo indagatorio del francese. «Mi sento come un pesce fuor d’acqua».
I cioccolatini erano quasi terminati. Mordred si concesse il lusso dell’ultimo piacere fondente. «Anch’io».
 
 







 
Venti centesimi di secondo. Colpo di fulmine.
Bastano pochissimi attimi affinché la tua vita cambi per sempre.
 
Merlin stava fissando il tubo per il rilascio della morfina da almeno quindici minuti, ripensando a tutte le persone morte per mano di suo zio. Rimembrava il volto sanguinante di uomo, steso sul pavimento.
I testimoni, gli ripeteva spesso Aridian, erano come l’erbaccia: antiestetica e fastidiosa agli occhi, andava eliminata.
Non pensava che rimanere da solo in un luogo triste e noioso come l’ospedale potesse fargli bene, ma da quando aveva convinto Gaius a tornarsene a casa, comprese il privilegio che talvolta la solitudine portava con sé.
Restare da solo con i suoi pensieri, era quella la mossa migliore; rimuginare, illudersi che tutto possa tornare com’era prima, ma…
 
Scientificamente, in un quinto di secondo, nel cervello si attivano processi chimici che rilasciano nel corpo sostanze in grado d’indurre effetti simili a quelli della droga. Benessere. Eccitazione.
 
La porta si spalancò con irruenza, facendolo sobbalzare lievemente.
In un certo senso, sapeva di aver atteso quel momento dall’istante in cui il proiettile gli aveva attraversato la pelle. In un certo senso, sapeva di aver aspettato quegli occhi. Gli unici che lo vedessero come una persona e non come un qualsiasi individuo necessitante di affetto e comprensione.
«Sei davvero un imbecille, Merlin.» Fu la prima cosa che gli disse. «Pur di saltarti qualche giorno di lavoro ti fai sparare».
Merlin rise, sincero, per la prima volta in quel giorno. «Sei in ritardo».
Mithian non disse una parola. Si limitò ad arretrare e chiudersi la porta alle spalle per lasciarli soli. Si appoggiò al bancone dell’infermiera, osservandoli dalle veneziane aperte.
C’era qualcosa di strano nel modo in cui si guardavano, nel modo in cui si sorridevano. C’era qualcosa che andava oltre alle apparenze, qualcosa di più profondo di quello che ostentavano.
Il silenzio calò nella stanza, lasciando spazio solo a quattr’occhi incatenati. Arthur si rese conto, in quella momentanea assenza di parole, che forse Freya non aveva tutti i torti e che nelle sue parole ci fosse un fondo di verità. Forse, forse amava davvero il suo migliore amico.
«Ginevra ha avuto un aborto spontaneo qualche mese fa.» Arthur si convinse che se lo amava per davvero, doveva dirgli ogni cosa e, in fondo, non aspettava altro fin dall’inizio. «Ci darà una mano al bar da oggi in poi».
«Credo sia la scelta giusta».
Arthur vide Merlin dedicargli un sorriso innocente che poi sfociò in ilarità: «Mi hanno detto che hai affisso un cartello con su scritto “Vietato morire al Pendragon’s”».
«E tu hai pensato bene di tentare d’infrangere questa regola», gli fece presente.
La morfina. Poteva sentirsela anche nel sangue. «Sarei stato lieto di lavorare per te fino alla mia morte».
 
 
 
Ma cosa succede quando tutto giunge al capolinea?
 
Ginevra era seduta dietro il bancone del bar, aspettando che qualche cliente si facesse vivo. Nella noia, si era dedicata alle parole crociate, risolvendo metà delle quaranta e passa soluzioni.
Stava per completare la quindicesima verticale quando Morgana entrò nel locale, dirigendosi spedita verso di lei. Gwen non ebbe bisogno di chiederle nulla, le bastarono le sue lacrime e il naso arrossato.
«Non dire niente.» Morgana stringeva i denti per reprimere i singhiozzi.
Ginevra non disse niente.
 
Secondo la psicologia gli effetti sono correlabili alla depressione.
 
«Non dire niente», ripeté con gli occhi pieni di lacrime. Smeraldi acquosi, sciolti nella tristezza, ecco cos’erano.
Gwen non disse niente. L’attirò a sé, cingendole parte della schiena e del capo, carezzandola in silenzio mentre la corvina singhiozzava sulla sua spalla.
 
 
Ma come ti accorgi che l’amore è al tramonto? Quanto tempo ti occorre prima di sprofondare nell’oblio? E, soprattutto, sei davvero sicuro della tua scelta?
 
 
 
 


FINE PRIMA PARTE



 

Relie's corner
- Le prime frasi in corsivo, quelle correlate a Morgana, sono state riprese dal capitolo XI; Le citazioni in corsivo, correlate ai pensieri di Arthur, sono state riprese corrispettivamente dai capitoli: VII e V;
- Le frasi in francese di Mordred sono, in ordine di comparsa: "E' di suo gradimento?", "Molly? E' un bel nome!", "Cioccolatini?".
- Non sottovalutate i due medici e soprattutto il primario: non sono stati inseriti per riempire pagine Word a casaccio;
- Non reputo il comportamento di Morgana OOC in quanto mi sono basata più sulla Morgana delle prime due stagioni. Ergo, non credo di essere stata molto fantasiosa e aver creato scenari impossibili ^^;
- Ovviamente non c'è scritto perché avrei rischiato di fare un poema: Gwen è stata chiamata da Arthur per dare una mano nel locale;
- Il cartello affisso sulla vetrata del bar, è lo stesso del capitolo XIII. 
- Arthur esce fuori di senno e immagina che, a morire, sia Merlin piuttosto che il signor Allen (OC di mia invenzione).
- Ah! C'è un piccolo rimando alla coppia Mark&Lexie di Grey's Anatomy quando Morgana rimprovera Merlin di averla messa nella stessa situazione per due volte. Eh sì, ho copiato Lexie, lo ammetto xD
- Credo di aver concluso con i chiarimenti ma, se qualcosa non fosse chiaro, non esistate a chiedere. Se continuate a leggere, troverete gli spoiler ^^


*
SPOILER* ( Non sono eccessivi, possono anche essere letti come semplici informazioni)

- Nella seconda parte della storia (che credo conterà più di quindici capitoli ma... vabbé), ci sarà sicuramente più 'commedia' ma... l'angst sempre dietro l'angolo!
- Le vicende s'incentreranno più sul Pendragon's a dispetto della prima parte e ci saranno lezioni di Cappuccino Art. 
- Ci sarà il Merthur CONCRETO e il personaggio di Gwaine avrà maggior rilievo. Arthur recupererà il suo rapporto con Ginevra, la quale lo aiuterà con il suo amore per Merlin; non sarà tutto rose e fiori ma, ad entrare nella vita di Arthur, ci sarà anche Mithian.
- Il personaggio di Morgana verrà approfondito ulteriormente, siccome affronterà un fase molto importante della sua vita. Il Mergana, attenzione, non finisce qui.
- Il Freylin non sarà da eliminare o da ritenere scontato ma... Freya potrebbe trovare la sua felicità altrove.
- Saranno presenti nuove sparatorie.
- E, ultima notizia, questa sarà una death-fic ^^
Spero che le informazioni siano state di vostro gradimento. Ad ogni modo, aspetto i vostri pareri!
Alla prossima! 

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Capitolo 16
*** Cambiamenti - La firma del drago (Parte I) ***


Nda: Salve a tutti! Sì, dopo quasi un secolo di attesa... eccomi ritornata! Beh, che dire? La scuola e tutti gli altri impegni assorbono tutto il mio tempo. Ad ogni modo, eccoci qua!
Sì, sono tornata con la seconda parte della storia e già divido un capitolo in due parti: è da me.
Spero solo che questa introduzione alla seconda parte di Pendragon's possa piacervi, ovviamente ci risentiamo nell'angolo di Relie per eventuali chiarimenti e/o spoiler :)
Dedico questo capitolo a tutti coloro che hanno aggiunto la storia nelle preferite/ricordate/seguite. Grazie a tutte le persone che leggono in silenzio e a tutte le splendide persone che mi hanno lasciato il loro parere. Siete state dolcissime ed io vi adoro!
A voi tutti, questo capitolo.
Fatemi sapere cosa ne pensate!
NB: il simbolo (*) indica un minimo distacco temporale (es. qualche minuto, qualche ora ecc...); il simbolo (**) indica un passaggio dai ricordi al presente o viceversa. La parte in corviso è un ricordo vago, collegato al presente. Diciamo che io lo vedo come un "ricordo immediato". Spero di essermi spiegata.
Buona, spero, lettura!
 


XVI.Cambiamenti 
La firma del drago (Parte I)
Soundtrack: click


 
Perciò non ti lascerò avvicinare 
abbastanza da ferirmi.
No, non ti chiederò di lasciarmi solo e basta 
Non posso darti quello che tu pensi di avermi dato.
- Adele






Cambiamenti. Trasformazione.
Ti è mai capitato? Svegliarti un giorno e guardare tutto da un altro punto di vista?
Tutto sembra assumere una forma diversa, preannunciando l’avvento di un nuovo inizio.
Te ne sei accorto senza desiderarlo; la tua vita ha preso una piega differente.
Ma il vero problema è: cosa farsene del cambiamento?
Lo accoglierai a braccia aperte oppure distruggerà ogni tua certezza?




 
 
 
 
«E’ ora di alzarsi, sono le sette. È ora di alzarsi, sono le sett-»
Freya si era raccolta frettolosamente i capelli castani in una coda arrangiata, muovendosi a grandi passi verso la camera da letto, pronta a buttare giù dal letto quel pelandrone del suo fidanzato ma…
Merlin era già in piedi, provvisto di una maglietta leggera e semplici jeans, che spegneva la prima di una lunga serie di sveglie.
Freya rimase impalata nella sua anonima t-shirt dei Paramore e nei suoi comodi pantaloni marroncini, ancora impreparata a quella novità che ogni mattina, dal giorno in cui Merlin era uscito dall’ospedale, continuava a ripetersi.
Merlin intercettò il suo sguardo, accennando un quotidiano sorriso. «Buongiorno».
Freya tuttavia non gli sorrise. «Buongiorno».
«Mi ero dimenticato di dirtelo, ma ieri ho portato la tua auto dal meccanico», Merlin aprì l’armadio estraendone un leggero giubbotto di pelle. «Ha detto che non è nulla di grave. Ce la caveremo con meno di settanta sterline».
«Bene», annunciò lei, imitandolo. «Grazie».
Merlin sorrise sghembo guardandola aggiustarsi la giacca estiva, mentre con gli occhi scuri cerava di ricordare dove avesse dimenticato la piccola tracolla.
«Sulla sedia, accanto all’entrata», la informò il corvino cogliendola alla sprovvista. «La lasci sempre lì. Tutte le volte».
Freya si sistemò il colletto, guardandolo silenziosamente negli occhi.
Un mese. Era passato un mese esatto da quel terribile incidente, qualche settimana in più dal tempo in cui credeva che Merlin la capisse meglio di chiunque altro. Troppe cose cambiano in poco tempo, pensò.
«Già.» Gli dedicò un sorriso storto, prima che la seconda sveglia cominciasse a trillare in tutta la stanza.


 
Mentre scendevano le scale, Freya ebbe come l’impressione che Merlin avesse cercato la sua mano. Una mano che non arrivò.
 
 
 








Se c’era una cosa che Morgana odiava più di suo fratello – o le cene di famiglia -, quel qualcosa erano i cambiamenti improvvisi.
Quella mattina il suo stomaco sembrava volesse costringerla l’intera giornata nel bagno, con la testa ficcata nel water – che intanto era diventato il suo migliore amico.
Quando alle sei in punto si era staccata dal gabinetto per tornare nel letto, la sua sveglia le aveva fracassato il cranio rendendola tremendamente isterica. Mordred, che nel frattempo si era goduto una bella nottata di sonno, si era voltato dalla sua parte aprendo pigramente i suoi occhi azzurri, ancora pregni di sonno.
«Buongiorno».
Mordred era rimasto con la guancia rasata contro il cuscino, alzando un sopracciglio all’insù. «Hai un aspetto orribile».
Morgana aveva grugnito qualcosa d’incomprensibile che Mordred ignorò baciandole la fronte. «Ma sei bellissima lo stesso».
Morgana sapeva che era una bugia. Sapeva che il suo fidanzato le aveva cortesemente – e saggiamente – mentito perché, la notte precedente, non aveva fatto altro che vomitare anche l’anima in quello stupidissimo water e, come se non bastasse, si era dovuta subire le continue frecciatine che Mordred e Arthur continuarono a lanciarsi anche a colazione – che, tra parentesi, le aveva restituito un valido motivo per correre al bagno per l’ennesima volta.
Fu costretta a sciacquarsi la faccia per due volte pur di eliminare del tutto quell’acre e disgustoso odore di vomito dalle labbra. Si guardò allo specchio rassegnata, notando che le occhiaie si erano spaventosamente accentuate. Si spalmò un generoso strato di correttore, distendendolo con cura, per poi passare ad un filo di rossetto sulle labbra. Nascose i segni rossi sul viso con del fondotinta, prima che quel sapore disgustoso le invadesse nuovamente la bocca.
Ripensò a Merlin. Vomitò per l’ennesima volta.
Una volta resasi nuovamente presentabile, uscì dal bagno raggiungendo Mordred e Arthur che intanto avevano già preso tutto l’occorrente per uscire di casa, all’entrata.
In macchina, seduta sul sedile del passeggero, maledisse suo fratello per aver avuto la brillante idea di riunire tutti i suoi dipendenti baristi al bar nel loro giorno libero. Evitò di intavolare un qualsiasi argomento rispondendo a monosillabi – il più delle volte acidi -, beccandosi continue lamentele da Arthur.
Una volta arrivati al Pendragon’s, Morgana aveva scorto una raggiante Gwen accanto alla porta secondaria del bar, quella adiacente al laboratorio.
«Sono emozionata!» le aveva rivelato andandole incontro. «Secondo te con i nuovi turni riusciremo a stare l’intera giornata insieme? E… Oh! Non vedo l’ora di provarmi la nuova divisa!»
«Sono tutte spettacolari, le ho scelte io», tagliò corto Morgana, avvertendo ancora una volta nel palato un disgustoso sapore acido.
Gwen colse al volo il pallore e le occhiaie vistose della sua amica, distinguibili anche sotto lo strato di fondotinta. «Tutto bene?», le chiese. «Hai un aspetto orribile».
Seccata e infastidita dal ricordo di dover rincontrare l’intero staff di baristi, l’ammonì con un’occhiata truce. «Che ci fai tu qui?»
Gwen si strinse nelle spalle, osservando distrattamente Arthur sorreggersi su una stampella mentre istruiva Mordred – tra una punzecchiatura e l’altra – su come aprire la porta del locale. «Ho lavorato al bar per un mese e…»
«Pensi davvero che Arthur ti farà restare al bar adesso che può tornare al lavoro?»
Ginevra deglutì un boccone amaro, datole in pasto dal tono tagliente e sarcastico della ventunenne, sentendosi ferita.
Morgana non se ne dispiacque, né tanto meno perse tempo a scusarsi: Gwen si comportava come una povera illusa. Credeva che lavorare per un mese nel locale del suo ex ragazzo potesse riaggiustare le cose, che tutto sarebbe tornato come prima. Ginevra, a ben pensare della Pendragon, era solo un’ingenua. Niente sarebbe mai tornato come due anni fa. Tutto era cambiato.
Raggiunse Mordred, lasciandosi la mulatta alle spalle.
Gwen si mordicchiò l’interno labbra risentita, mormorando: «Comunque, hai un aspetto orribile».
 
 
 

7 anni prima…





«Quel bastardo doveva pagarci due giorni fa», la voce di Aridian si espanse nel garage lercio come una malattia che si diffonde nel corpo. «Io non ho visto né i suoi luridi soldi né la sua schifosa faccia d’animale!»
Agravaine, in piedi difronte all’uomo, tremava sperando che non si notasse; teneva la pistola lungo il fianco e gli occhi scuri fissi sulla vena ingrossata di Aridian.
Merlin era alle spalle dello zio, le spalle possenti dello zio. Per assurdo, in otto anni di surreale convivenza, il ragazzino aveva imparato a comprendere quanto Aridian fosse agitato dalla postura della sua schiena e delle sue spalle. Talvolta, anche dai suoi passi.
«Io ho fatto come mi hai detto, Aridi-»
«Sai cosa succede se quella merda dice tutto alla polizia? Siamo fottuti, Agravaine, fottuti!» Ruggiva, sondava la preda e si preparava all’attacco. Aridian era il re della criminalità. Meschino, sleale e bugiardo. Il ritratto perfetto del peggio del mondo. «Quante volte devo dirti che le femminucce non mi piacciono?» Il leone si avvicinava alla sua preda, l’annusava con disprezzo e poi le sputava in un occhio.
Agravaine subì l’umiliazione senza pulirsi il volto. Per quel che valesse, Merlin lo riteneva già sporco.
«Non è stata solo colpa mia, Aridian.» La preda spaventata cercava riparo dalla bestia, guardandosi con occhi spaventati intorno, cercando possibili scappatoie. «E’ stato il ragazzo a suggerirgli di uscire dal giro».
Merlin poté già riassaporare il gusto familiare del sangue nel palato o lo strano senso di dolore allo stomaco quando Agravaine lo indicò col mento. Aridian si voltò come un leone famelico. Rincorrendo una lemure si era imbattuto in una gazzella impaurita.
Merlin non avrebbe mai dimenticato il rumore delle sue scarpe sul pavimento umido di quel posto che puzzava di urina. Aspettava di cadere con la faccia sul pavimento. Forse ne avrebbe assaggiato la fragranza discutibile con la lingua, magari con un dente rotto, magari con un occhio nero.
Aridian si fermò dinanzi al ragazzino. Merlin gli arrivava al petto. Sentiva i suoi occhi velenosi al di sopra del suo capo. Lo stavano picchiando. Lo stavano picchiando e ridevano di lui, quegli occhi.
«Sai cosa vuol dire fare la cosa giusta, Merlin?»
Il tredicenne non ebbe il coraggio di rispondere. La voce perentoria dello zio gli fracassò le orecchie. «Ti ho fatto una dannata domanda!»
Tremò. Merlin si maledisse per essersi concesso tale debolezza: Aridian gioiva della fragilità degli altri. Merlin era uno stupido. Suo zio glielo ripeteva ogni giorno.
Strinse forte i denti, sollevando lo sguardo sull’uomo. Gli tremolava il mento eppure riuscì a non degnarlo di una parola, guardandolo con disprezzo.
«Sei un ragazzino stupido, Merlin. Quasi quanto tuo padre», rise, poggiandogli una mano sulla spalla stringendogliela forte. «Patetico come tua madre».
Nell’udire nominare i suoi genitori, Merlin cercò di ritrassi con forza senza riuscire a contrastare la morsa dolorosa e prepotente dell’uomo. «Occorre apportare un radicale cambiamento.» Aridian sollevò un angolo della bocca all’insù e il nipote rabbrividì. «Date una pistola al ragazzino stupido».
Merlin vide passare una pistola dalle mani di Helios a quelle di Agravaine fino ad arrivare tra le dita di suo zio. Aridian gliela porse con malata cortesia. Quell’arma, quell’arma nelle sue mani era così fredda…
Merlin non ebbe il coraggio d’impugnarla. La lasciò riposare sul suo palmo per un po’, sentendo il resto del corpo ibernarsi di colpo. Possibile che all’Inferno facesse così freddo?
Strinse il manico, senza alcuna reale intenzione di farlo.
 «Oggi diventa un uomo».




 
 
**



 
 
 
 
Merlin spense il motore, rimanendo con le mani fisse sul volante e lo sguardo oltre il parabrezza. «Abbiamo dimenticato qualcosa».
«No, non è vero».
Freya si slacciò la cintura di sicurezza, pronta ad aprire la portiera e avviarsi verso l’entrata secondaria del Pendragon’s, quando la voce del ragazzo riempì nuovamente l’auto. «Forse… Forse dovrei tornare indietro e controllare meglio nell’appartamento, probabilmente in cucina o in soggiorno. Ho sicuramente dimenticato la patente».
Freya scosse il capo, muovendo automaticamente una mano verso quella del corvino. «Ti ho visto prenderla, Merlin. È tutto okay».
Un tempo mi chiamavi amore.
No, non è tutto okay. Niente è okay. Perché non riesci a vederlo, Freya?
Perché non riesci a vedermi?
Durò un brevissimo attimo. Le dita di Freya sfiorarono il dorso caldo della sua mano e Merlin si illuse che, solo per un istante, fosse tornato tutto alla normalità.
«Ma se non entriamo entro i prossimi cinque minuti, il tuo amico porrà fine alle nostre “stupide e insulse vite”».
Merlin sogghignò, grattandosi la tempia con un dito. «Credo che tu abbia ragione».
«Poi ci sono le nuove divise, oggi».
Le labbra rosee di Merlin s’incresparono, ritornando ad una consueta linea retta. Le divise, certo.
Quelle scelte da Morgana, dopotutto. Come dimenticare?
Il sol pensiero di rivederla lo metteva in ansia. Lo agitava.
Li ricordava ancora, quegli smeraldi acquosi. Li ricordava perfettamente mentre cadevano a pezzi perché lui la stava mettendo da parte.
Aveva scelto Freya. Freya.
Freya.
Si slacciò la cintura con un gesto secco, infilandosi le chiavi nei jeans, saltando giù dall’auto.
La mano di Freya rimase per qualche secondo immobile, sollevata di qualche millimetro dal volante.
 







 
Quando Merlin e Freya fecero il loro ingresso nel bar, le loro mani erano timidamente intrecciate l’una in quella dell’altro. Era un contatto gracile, spezzabile con una minima folata di vento.
Gwen era l’unica, dopo Arthur, che Merlin notò sorridere. Se ne stava seduta su un divanetto in pelle intenta a fissare lo scatolone poggiato sul tavolo. Appena li vide entrare il suo viso s’illuminò e Merlin credette di rivederla con uno zaino sulle spalle, fuori i cancelli del liceo.
«Merlin!»
Prima ancora che il corvino potesse emettere fiato, la mulatta gli gettò le braccia al collo, stringendolo contenta. «Sono così felice di rivederti».
Merlin ridacchiò impreparato a tutto quell’affetto, aggrottando lievemente la fronte. «Ehm… Anch’io?»
Gwen, rimasta ad occhi chiusi nell’abbracciare il suo vecchio amico, si staccò repentina dalla stretta sentendo le gote imporporarsi vergognosamente alla vista di Freya. Gesticolò confusa, muovendo la mano prima verso Merlin poi in direzione del proprio petto. «S-Siamo amici. Non che io saluti così tutti i miei amici… Beh, non saluto neanche Merlin così tutti i giorni, ma lui è più di un amico… N-Nel senso che è stato il mio migliore amico, non che ci sia mai stato qualcosa di più profondo tra di noi! E’ sol-»
«Va bene, Gwen. Ha capito».
Il giovane Emrys ritenne opportuno intervenire, e bloccare l’intrecciato e disorientante flusso di parole di Ginevra, data l’espressione impacciata di quest’ultima e quella altrettanto confusa di Freya. «Come mai sei ancora qui?»
Gwen assunse un’aria perplessa. «Ci sono i nuovi turni», spiegò. «… E le nuove divise…»
«Arthur ha aspettato tutto questo tempo per pagarti?» chiese quasi sconvolta Freya, adagiando la sua borsetta su un tavolino.
Merlin scosse il capo, portandosi le mani ai fianchi. «E’ proprio un asino».
Gwen aprì la bocca interdetta, cercando mentalmente le parole più adeguate per controbattere, ma i suoi vani tentativi di legittima difesa andarono in fumo nell’esatto momento in cui la voce un po’ troppo alta di Morgana rivestì le pareti del Pendragon’s: «Questa divisa è perfetta! Anche tu sei quasi perfetto vestito così».
Quando gli occhi azzurri di Merlin cercarono l’origine di quel timbro familiare, trovarono la figura di una Morgana sorridente, occupata a dispiegare eventuali pieghe dal petto del suo Mordred.
«Aspetta di rivedermi con niente addosso», aveva sentito bisbigliare da Mordred, senza alcuna traccia d’impaccio.
Fece male, solo per un po’.
Come se li avesse richiamati, quei due smeraldi rari e luminosi si scontrarono con le sue iridi chiare e il sorriso che prima regnava indisturbato sul volto della corvina morì lentamente in una smorfia di delusione, come un bambino che ha appena scoperto la verità su Babbo Natale.
Il cuore rallentò, solo per un istante.


 
«Morgana! Morgana, ti prego, fermati!» Merlin ansimava, scendendo in lacrime dalla macchina, che aveva soffiato al vecchio Gaius senza una spiegazione, non appena aver letto i messaggi di Arthur. «Posso spiegarti, ti prego, fermati!»
La ragazza non aveva fiatato. Si era trascinata le valige verso il taxi in folle, accostato al marciapiede accanto al cancello di Villa Pendragon.
Morgana aprì la portiera dell’auto senza degnarlo di uno sguardo, mentre l’autista le sistemava i bagagli nel cofano.
Merlin si sentì morire: la stava perdendo.
Cadde in ginocchio, strisciando fino allo sportello del taxi spalancato. «Ti scongiuro, credimi! Non andare via, ti prego».
Si era mai umiliato così tanto?
Morgana non volle sapere scuse. Intercettò i suoi occhi lacrimanti e spezzati con due smeraldi contaminati dall’odio. Non parlò, Morgana. Urlare nel loro appartamento dopo aver scoperto quella roba nello zaino del suo ragazzo era stato abbastanza. Chiuse la portiera con forza, provocando un tonfo sordo.
Merlin si allarmò, picchiettando la mano contro il vetro. «No! No!»
Il taxista chiuse il cofano, ritornando al suo posto di guida.
«Morgana ti prego fermati, ascoltami!» Merlin schiaffava il palmo della sua mano contro il vetro, ma l’unica risposta che ricevette dalla corvina fu una sciarpa indossata al collo e un cappello adagiato con cura sul capo. «All’aeroporto», la sentì dire all’uomo al volante.
«No! No!», Merlin scosse con veemenza il capo, rivolgendosi all’autista: «Si fermi, la prego, si fermi!»
«Parta!» Ordinò Morgana, tradendosi con un timbro spezzato dal pianto imminente.
L’auto cominciò a muoversi, mentre il cielo di Londra si colorava d’argento. C’era bianco ovunque, soffice e gelida neve sul suolo. Merlin si sentì cadere a pezzi. «Io ti amo, non andartene! Non andartene…»
Cercò di inseguire il taxi. Voleva inseguire il taxi, ma il suo corpo era gelido come la neve. Rimase immobile, con i piedi sull’asfalto. Le parole, tutte le parole che aveva pronunciato, si persero nel vento.


Morgana si voltò verso il suo uomo, prendendogli la testa tra le mani, sovrapponendo le sue labbra a quelle di Mordred. «Quasi perfetto».
Già, si ritrovò a pensare Merlin, era quasi perfetto.
Sentì un soffocante nodo allo stomaco ed avvertì l’immediato bisogno d’aria.
Scivolarono via, le sue dita, lontane da quelle di Freya.
Aveva bisogno d’aria e non si era neanche accorto dell’occhiata dispiaciuta che la sua fidanzata gli aveva riservato. Non si accorse neppure di un paio d’occhi blu come l’Atlantico che, seminascosti da ciocche dorate, aveva incontrato un amareggiato sguardo di terra umida.
 




 
 
«Bene», Arthur si sfregò le mani, volgendosi ai suoi dipendenti, seduto su uno sgabello accanto al bancone. «Come avete potuto notare», disse indicandosi la divisa da lavoro appena indossata, «sono stati apportati alcuni cambiamenti».
«Extralarge…», mormorò Freya, osservando di sottecchi la camicia fin troppo larga con lo stemma di un drago dorato che le ricopriva buona parte del seno sinistro.
La risatina vittoriosa di Morgana venne accompagnata dal semirimprovero impreparato del biondino: «… Che provvederemo a ridefinire con cura e dedizione».
Gwen, in piedi al fianco di Merlin, si guardò intorno spaesata con le sopracciglia corrucciate. «Io non ho la divisa…», osservò in un sussurro.
«Ad ogni modo», riprese fiero e impettito l’Asino, «ci impegneremo affinché il Pendragon’s Coffee brilli di luce propria oscurando le altre stelle che, signori, per voi dovranno essere anonime».
«Sembra un incrocio tra un’osservazione filosofica e un piano d’attacco militare», commentò Merlin.
Arthur sollevò un dito verso i baristi, lasciandolo scorrere lentamente dinanzi ai loro occhi. «Chiunque riderà alle sue battute verrà licenziato. Seduta stante».
Gwen si premurò di cancellare immediata ogni traccia d’ilarità dal suo volto.
«Non sarò transigente. Non tollererò eccessivi ritardi o assenze non comunicate in precedenza.» Arthur li squadrò uno ad uno con autorevolezza, memore di rimproveri paterni. «Chi oserà pensare, anche solo per un secondo, di mettere in secondo piano i problemi del bar sarà annotato nella lista nera».
I baristi rimasero muti nell’attesa di veder spuntare fuori dal nulla – forse per magia – un block notes e una stilografica nera petrolio ma, alla vista dei post-it magenta, si guardarono straniti.
«Come ho già detto prima, provvederemo a ridefinire alcuni dettagli», liquidò la faccenda l’Asino, con un vago gesto della mano. «Per evitare la lista nera dovrete: rispettare i turni, non essere negligenti; soddisfare la clientela, sempre e comunque. Questioni personali accantonate», Arthur tossicchiò tentando di evitare lo sguardo di un dipendente in particolare, continuando la sua conta sulle dita, «possibilmente, nell’orario lavorativo. Rispettare il vostro datore di lavoro. Questo è il Pendragon’s Coffee, signori. Chi non vuole restare – o crede di non poterlo sopportare – è libero di andarsene».
Arthur dovette ammettere a se stesso che desiderava da una vita pronunciare austeramente quelle parole. Chi non l’aveva mai sognato, almeno una volta nella vita? Continuava a chiedersi.
Timidamente, una mano si sollevò in alto.
Arthur lo scrutò con sincera meraviglia, sorridendo beffardo. «Merlin!», lo canzonò. «Divulga pure le tue perplessità».
«Ci è concesso respirare?» ironizzò quello.
«Chiunque riderà a questa battuta…»
A levarsi in alto, proprio come quella di un nerd egocentrico e ansiogeno, fu la mano di Gwen.
Arthur la guardò vagamente a disagio mentre continuava a tenere fissa la sua mano spiegata in attesa di risposta, col viso concentrato e contornato da riccioli castani vaporosi.
«Sì, Gwen
«Io non ho la divisa», fece nota. «E’ un dettaglio da rettificare, giusto?»
Sorprendentemente, il biondino rimase a bocca semiaperta – forse meditando risposta – senza articolare mezza sillaba.
Gli occhi chiari di Merlin cercarono il volto di Arthur. L’Asino era in una posizione incomoda e non gli servì capirlo dal modo in cui si mosse sullo sgabello; gli bastò guardarlo in faccia per una frazione di secondo.
«Ecc-»
«Io ho una domanda migliore!»  Morgana sciolse le braccia dal petto, agguantandosi i fianchi. «Perché siamo qui nel nostro giorno libero?»
Il Pendragon parve rasserenarsi dell’intervento di quell’arpia di sua sorella – che ogni tanto dava l'idea di stare dalla parte del bene -, abbandonando Ginevra e la sua domanda in secondo piano, sorridendo sornione al quesito di Morgana. «Qualcuno di voi sa cos’è un marchio di fabbrica?»
«L’elemento principale con il quale viene identificata e memorizzata un’azienda…» Mordred alzò un angolo della bocca all’insù. «L’arroganza, per i Pendragon».
Il francese non si lasciò intimidire dalle occhiatacce che Morgana e Arthur gli riservarono, ma si concesse addirittura il lusso di lanciare uno sguardo complice al sorrisino di Freya.
«No», lo redarguì l’Asino. «E’ la chiave per il successo».
Arthur si sfilò il cellulare dalla tasca dei suoi pantaloni, muovendo l’indice sullo schermo, mostrandolo ai suoi colleghi qualche secondo più tardi.
I baristi dimenticarono frivolezze e battutine, avvicinandosi abbastanza da avvertire l’eccessiva luminosità dello smartphone.
«Ma è…»
«Un drago», Merlin concluse la frase di Gwen, lasciando che la sua bocca si aprisse in una sottospecie di O. Un po’ come tutti gli altri, del resto.
«Un drago», confermò il Pendragon picchiettando il dito sul display. «Il nostro marchio di fabbrica».
«Ma… nessuno di noi sa disegnare un drago sulla schiuma», osservò Freya insicura, dando un fugace sguardo a tutti i colleghi. «Giusto?»
Morgana ghignò compiaciuta. «Potrebbe essere divertente».
«Esatto!» esclamò il Pendragon, indicandola. «E’ questo lo spirito giusto. Questo è l’atteggiamento che dovrete assumere ogni Mercoledì sera per tre settimane».
Merlin aggrottò vistosamente la fronte, forse anche impallidendo. «Ogni Mercoledì sera?!»
«Per tre settimane», aggiunse lesto il biondino, sogghignando. «A meno che io non abbia sottovalutato i vostri tempi di apprendimento, ma, come ho già detto in precedenza, se qualcuno non si sentisse all’altezza è libero di andarsene».
«Io ci sto!»
La risposta di Gwen fu pronta, piatta. Impossibile da replicare.
La mulatta sapeva bene cosa aveva visto: un drago sputa fiamme di schiuma bianca che galleggiava su una tazza ripiena di caffelatte.  L’idea di riprodurre un qualcosa di simile l’agitava; non sapeva neanche come fare la schiuma, lei! Ad ogni modo, quella era la sua occasione di rivalsa, la chiave del successo, la certezza che le serviva.
Quel drago… Quel drago era la sua Excalibur!
Gli altri, diversamente da Ginevra, non sembrarono prenderla altrettanto bene.
Mormorii di sottofondo riempirono il bar in un batter d’occhio; Arthur l’aveva previsto, certo, e proprio per questo motivo impugnò i post-it come una spada magica, intimando ai suoi dipendenti: «Non vi è concesso lamentarvi! O imparate a disegnare un dannatissimo drago su ogni cappuccino o vi segnerò sulla lista nera, e ogni segnalazione equivarrà ad un passo verso il licenziamento».
Morgana cacciò nervosamente aria dal naso stile toro furioso, stringendo le mani in due pugni. «Mi viene da vomitare!» Si lagnò, scomparendo indispettita verso la porta del bagno del Pendragon’s.
Arthur prese tra le mani una penna rossa – uscita fuori dal nulla – scribacchiando chissà cosa sul post-it magenta.
Freya e Mordred preferirono non proferire parola.
«Quando cominciamo?» s’informò Gwen.
«Oggi stesso», Arthur rinfoderò l’arma del delitto – comunemente chiamata bic rossa – adagiando i fogliettini colorati sul bancone.
Freya si guardò la maglia esageratamente larga per la sua corporatura minuta, ricordando quanto fosse irritante lavorare con Morgana Pendragon – donna che le aveva ordinato di proposito una divisa di forse quattro taglie in più alla sua -, sentendosi gli occhi di Arthur – uomo perdutamente innamorato del suo ragazzo che, tra parentesi, non aveva fiatato alle frecciatine della sua ex – addosso. Increspò le labbra in una smorfia scuotendo il capo, ficcandosi con la testa negli scatoloni: da qualche parte doveva pur esserci una divisa small.
Mordred si limitò a rispondere allo sguardo di sfida del biondino, a cui ogni mattina da quella parte, rubava i cereali con un sorriso diplomatico.
Merlin, tuttavia, fu l’unico a non arrendersi a quella minaccia.
Indignato, boccheggiò alla ricerca di concetti sensati. «Tu… TU non puoi farlo! Siamo tuoi dipendenti non tuoi servi! Noi… Noi abbiamo diritto alle nostre lamentele quotidiane e ai nostri sbagli, ma soprattutto abbiamo bisogno del nostro giorno libero!»
L’Asino non si scompose. Ascoltò pacificamente lo sfogo del ragazzo in silenzio.
Un mese.
Arthur aveva trascorso un mese nella convinzione di essere innamorato del suo migliore amico. Non poteva negarlo, non poteva nascondersi come un codardo, ma in quell’arco di tempo era anche giunto alla conclusione di non essere gay e che mai e poi mai lo sarebbe stato – forse Uther lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani, ripetendogli quanto lo avesse deluso. Come tutte le volte. Ginevra era stato già un duro colpo per il loro rapporto.
In quel mese era riuscito ad accantonare persino la storiella segreta di Merlin e Morgana, in parte grazie alla presenza costante di Mithian.
Doveva solo comprendere il motivo della quella strana attrazione. Forse era innamorato di Merlin ma non lo amava. Forse lo amava ma non ci sarebbe mai andato a letto, forse…
«Suoni ancora la chitarra, Merlin?» L’Asino lo guardò curioso, attendendo una reazione.
Merlin sembrò pensarci per davvero, dimenticandosi quasi nell’immediato la discussione di poco prima. «Beh, non la suono da parecchio, in effetti».
«Bene. Direi che è ora di riprenderla tra le mani.» Arthur allargò le labbra in un sorrisino insopportabile, con l’evidente intenzione di chiudere lì la questione.
«Cosa?!»
«Non vorrai esibirti dinanzi ai miei clienti senza esercitarti?»
Incredibile.
Merlin rimase letteralmente senza parole. Che invece di un ortopedico, dopo l’incidente, l’Asino avesse avuto bisogno di un controllo neurochirurgico?
«N-Non c’era scritto nel contratto!» si difese il corvino.
Il Pendragon lasciò ricadere casualmente la mano sui post-it, carezzandoli come gattini desiderosi di coccole.
Merlin gli dedicò una smorfia oltraggiata. «Non ho paura dei tuoi post-it!»
«Davvero?» il sopracciglio dorato dell’Asino s’inarcò a mo’ di sfida.
Merlin non diede cenno di cedimento. «Davvero».
Ginevra, che nel frattempo si era distratta avvicinandosi a Freya per controllare se in un remoto angolo dello scatolone ci fosse una divisa anche per lei, fece qualche passo indietro avvicinandosi ai due ragazzi. «A che ora le lezioni?»
La voce di Gwen toccò appena le loro orecchie. Erano concentrati tanto da far invidia allo studente più attento del corso: quando Merlin e Arthur si guardavano negli occhi, il resto del mondo spariva nel nulla.
Ginevra tentò di mantenere vivo il suo sorriso cortese, ma i ventenni rimasero fermi nella loro posa infantile. Sospirò, Gwen, senza curarsene più di tanto: ci era già passata e sapeva perfettamente cosa accadeva quando la squadra litigava…
 



 


2 anni prima…




Merlin rimase con lo sguardo fisso nel vuoto, le mani molli e la cintura di sicurezza allacciata.
Morgana era andata via, lo aveva lasciato. Morgana sapeva della droga. Morgana non sarebbe più tornata.
Se suo zio l’avesse visto in quel momento, gli avrebbe dato del ragazzino stupido che frigna come un poppante.
Le sue guance erano ancora umide, le sue labbra serrate senza forza.
Cosa avrebbe fatto adesso? Che senso avrebbe avuto tornare a casa?
Dal sedile del passeggero, il suo cellulare vibrò illuminando lo schermo. Merlin si precipitò a leggere il nome del mittente, credendo si trattasse di Morgana, ma alla vista del nome ‘Arthur’ avvertì nuovamente il freddo pervadergli ogni centimetro di pelle, penetrando nelle ossa.
Si lasciò ricadere contro il poggiatesta, con gli occhi assenti.
Era tutto bianco. Non c’era nessun rumore. Era tutto fermo.
Sgranò gli occhi innaturalmente: Arthur gli aveva inviato un messaggio.
La lettera! Merda! Merda! Merda!
 


 
*





Merlin temette di finire in gattabuia per eccesso di velocità: non aveva mai guidato così imprudentemente in tutta la sua vita.
Come gli era saltato in mente?! Scrivere una lettera ad Arthur dove gli spiegava tutta la situazione che stava vivendo, il perché avesse deciso di abbandonare Londra e tutte le persone che amava per coronare il suo sogno d’amore a Parigi. Come gli era saltato in mente?!
Parcheggiò malamente l’auto – e forse Gaius l’avrebbe ucciso una volta tornato da lui -, scendendo frettolosamente, lasciando la portiera aperta e le chiavi sul cruscotto.
Avanzò verso il portone col cuore che gli batteva a mille nel petto, senza più ossigeno nei polmoni. Bussò al citofono cinque volte prima che gli aprissero. Il corvino si catapultò su per le scale, ignorando bonariamente l’ascensore – che avrebbe sicuramente bestemmiato come stava facendo con se stesso in quel momento.
Gwen lo aspettava sulla soglia della porta, i capelli umidi ancora raccolti in un asciugamano.
«Devo vederlo», esalò col poco fiato a disposizione. «Dov’è?», chiese allarmato.
Ginevra aggrottò la fronte confusa. «E’ in cucina che cerca di cucinare almeno una bistecca, ma… che è successo?»
Merlin carezzò affrettatamente il braccio dell’amica come segno di ringraziamento, raggiungendo a grandi passi la cucina. Arthur, provvisto di un imbarazzante grembiule rosa con i fenicotteri, lo guardò come se fosse pazzo. «Che diamine ti prende?! Se hai fame e il vecchio non ti dà ciò che vuoi va’ al ristornante o al Fish&Cips
«Mi serve il tuo libro di Fisica».
Il biondino schiaffò la carne sulla griglia, provocandone un ammasso di fumo. «Cosa?!»
«Mi serve!», insistette il corvino. «Adesso!»
«Io sto cucinando!»
«Lo vedo! E mi dispiace per quella povera bistecca, ma io ho bisogno del tuo libro!»
Arthur sbuffò una risata isterica, indicando il cibo con la forchetta. «Lei è al sicuro con me. Il libro è in soggiorno, nella cartella».
Merlin allargò le labbra in un sorriso sincero per quella notizia che sembrava la prima cosa buona della giornata, sbrigandosi a dirigersi verso la stanza.
Arthur scosse il capo con disapprovazione, concentrandosi sulla sua cena: doveva fare bella figura con Gwen. Rigirò la carne, facendo sì che altro fumo si disperdesse in cucina, quando sentì ritornare indietro quell’idiota di Merlin.  Aveva una faccia spaurita.
«Che c’è?» gli chiese brusco.
«Non l’hai aperto, vero?»
Arthur aggrottò le sopracciglia dorate, chiedendosi cosa fosse mai successo a quell’idiota del suo amico. «Oggi sei più stupido del solito: certo che non l’ho aperto!»
Il corvino emise un sospiro di sollievo interiore, sorridendo come un beota. «Lo sapevo!» decretò, felice che il suo piano “non lo leggerà finché non torneremo a scuola” avesse funzionato. «Ti prego, Arthur: sii sempre te stesso!»
Il Pendragon, rassegnato dal capire quello che la mente contorta di Emrys stesse escogitando, si limitò a guardarlo con sarcasmo e compassione. «E tu prova ad esserlo di meno».
Merlin diede un’occhiata intorno a sé, notando che il piccolo tavolo in cucina era stato abbellito con delle candele. «Tom?» chiese.
Arthur finse un sorriso a denti stretti. «Via per il weekend.»
«Oh…» Il diciottenne comprese di aver interrotto ciò che l’Asino agognava da giorni interi. «Io a questo punto dovrei…»
«Dovresti», confermò il biondino, rafforzando il suo falso sorrisino.
Merlin sollevò le mani in segno di resa, indietreggiando lentamente. «Comunque si sta bruciando», gli fece nota.
Arthur sbarrò gli occhi, voltandosi repentino verso la sua bistecca, imprecando contro tutte le mucche del mondo.
Ne rise divertito Merlin, uscendo dalla cucina con la lettera nascosta nella tasca della sua giacca.








Relie's corner
- Credo si sia capito, ma è sempre un bene precisare: il capitolo è ambientato un mese dopo la fine della prima parte della storia;
- Gwen è stata assunta per aiutare nel bar, ma la ragazza ignora che ormai non serve più: sono al completo;
- Nel "ricordo" dell'addio tra Merlin e Morgana, nel mio immaginario Arthur ha avvertito Merlin che sua sorella stava lasciando Londra, ma solo per curiosità;
- Ovviamente il regolamento di Arthur non è per nulla verosimile (almeno spero).
- Nel prossimo capitolo ci sarà una rivelazione shoccante.

Angolo domande **
- Secondo voi, chi riuscirà per primo a disegnare un drago sulla schiuma?
- Quale sarà la rivelazione shoccante?
- Riuscirà Relie a pubblicare il capitolo prima di Natale?


SPOILER (prossimo capitolo):

Sollevò lo sguardo dalla tazza fumante ritrovandosi il volto attento di Arthur concentrato su di sè. 
L'Asino si era soffermato così tanto sulla curva delle sue labbra, sperimentando se nascesse in lui l'impellente desiderio di raggiungerle, da non accorgersi di essere stato colto con le mani nel sacco.

«Perché mi fissi?» chiese Merlin, leggermente infastidito dal comportamento del Babbeo quel giorno.
«Io non ti fisso» si difese, ritraendosi dal bancone su cui si era bonariamente appoggiato con i gomiti.



Alla prossima!


 

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Capitolo 17
*** Cambiamenti - La firma del drago (Parte II) ***


Nda: Buon salve a tutti!
Lo so, sono sparita per un tempo immemore ma in questi giorni non c'è stato un attimo di pace. 
Come mio regalo di Natale, però, vi offro questo capitolo molto corposo - quindi mi faccio perdonare per l'attesa -, sperando che sia di vostro gradimento. Tutte le domande del capitolo precedente otterranno risposta. In basso troverete uno spoiler 'particolare', in quanto non si tratta di una citazione del prossimo capitolo o altro, ma solo un avvertimento. 
In questo capitolo troverete:
- una scena Merthur che a me è piaciuta molto scrivere;
- sano e fraterno ArMor;
- Freine;
- e... piccoli scorci natalizi sul passato di Igraine.
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento. Nel frattempo ringrazio tutte le persone che hanno aggiunto la storia nelle seguite/ricordate/preferite, quelle che mi seguono in silenzio e tutti coloro che hanno recensito gli scorsi capitoli.
Aspetto i vostri pareri!
Buona, spero, lettura!       


    XVII. Cambiamenti
               La firma del drago (Parte II)
 


Lo scorso Natale io ti ho donato il mio cuore,
ma il giorno seguente tu l'hai gettato via.

- Wham
 
 



Londra, 21 Dicembre 1987
 


Alice girò la chiave nella toppa tre volte, lasciando entrare una folata di vento invernale dalla porta. «Eccoci arrivati! Casa dolce casa… Fa’ come se fossi a casa tua».
Igraine si trascinò la valigia a mano nell’entrata. Rimase quasi colpita dal calore che percepì in quella casa non appena averci messo piede; più che una semplice casetta confortevole somigliava più alla dimora di Babbo Natale, pensò. La cosa le piacque fin da subito.
«Noi amiamo il Natale», cominciò a spiegarle la donna aiutandola con il giubbotto. «Spero non ti spiacciano tutte queste cianfrusaglie. Ci teniamo che tu ti senta a tuo agio».
Igraine incontrò con lo sguardo un peluche di renna con le gote più rosse di quelle di Heidi, avvinghiato ad un pacco verde smeraldo. Sorrise intenerita. «A Roma ne avevo uno uguale» disse con un inglese incerto, tentando di spiegarsi indicando il pupazzo con un dito.
«Oh», Alice parve compiacersi di quell’informazione superflua. «E’ il peluche di Vivian. Gaius gliel’ha regalato molto tempo fa. Le piace da morire!»
«Parla per te».
Igraine si voltò verso il divanetto. Identificò la biondina appoggiata al muro come la figlia di Alice; masticava una gomma americana a bocca aperta, lo sguardo scocciato.
«Lei è Vivian», Alice fece cenno ad Igraine. A stento non le brillavano gli occhi. La ragazza pensò che quella donna fosse una delle più dolci che avesse mai conosciuto.
«Hi», Igraine le sorrise cordiale, realmente contenta di non avere difficoltà nel presentarsi in inglese.  «Nice to meet you, Vivian».
Vivian alzò un sopracciglio all’insù, limitandosi a dedicarle un mezzo sorriso frettoloso.
Il sorriso, dalle labbra di Igraine, si disperse all’istante. Che avesse sbagliato qualcosa? Strano… Eppure Tristan le aveva detto che ci presenta così in Inghilterra! Che suo fratello le volesse far fare la figura dell’idiota?
«Sii gentile, Vivian!» la rimproverò Alice, corrucciando lievemente le sopracciglia, mentre sfilava sciarpa e capotto da dosso Igraine.
La biondina sospirò al richiamo della madre, mettendo in scena una stupidissima faccia esageratamente sorridente. «Hi!!»
Alice scosse il capo, brontolando chissà che cosa in inglese che Igraine non riuscì a cogliere. Parlavano terribilmente veloce quelle persone…
«Avrete tempo e modo di conoscervi meglio.» Alice afferrò la valigia di Igraine posandole una mano sulla schiena. «Nel frattempo sarà meglio posare borse e valigia nella camera di Vivian, che da oggi in poi sarà anche la tua stanza».
Vivian si staccò dal muro accigliata. «Cosa?!»
La donna minimizzò la questione con un gesto della mano, quasi volesse scacciare via una mosca, accompagnando Igraine verso il corridoio. «Quella stanza è troppo grande per una persona sola, conosco gente che potrebbe perdersi lì dentro. A Vivian non dispiacerà un po’ di compagnia».
Anche dopo sette passi, Igraine riuscì ad avvertire la mano gentile e delicata di Alice sulla sua schiena e la presenza più scostante e contrariata di Vivian alle sue spalle che intanto continuava a lagnarsi: «Ehi, dov’è finita la giustizia per tutti gli uomini?! Io non condividerò la mia stanza con un randagio!»
 
 



 

Londra, Giugno 2015
Prima settimana
 



L’ Asino era totalmente uscito fuori di senno.
Merlin non lo pensava solamente perché aveva avuto il coraggio di riunire l’intero staff di baristi al Pendragon’s nel loro giorno libero minacciando di eseguire ogni sua richiesta, né tanto meno perché girava nei paraggi provvisto di stampella, penna rossa e post-it magenta. No: Merlin ne era fermamente convinto perché Arthur stava programmando le loro vite su una… lavagnetta!
A quanto pareva, il biondino aveva comperato una lavagnetta economica ed un pacchetto di gessetti e, soddisfatto come un gatto strapieno, aveva annotato i futuri turni del bar.
Merlin non capiva perché dovesse lavorare quasi sempre di mattina – e di sera – ma ancor di più non riusciva a credere all’ingenuità di Ginevra: la ragazza aveva fatto notare più volte l’assenza del suo nome all’ex, facendosi aggiungere sbrigativamente al turno pomeridiano.
Quanto a lui… Sapere di dover lavorare tutte quelle ore con Morgana non lo aiutava a placare quello strano senso di oppressione che avvertiva alla bocca dello stomaco. Si sarebbe abituato, avrebbe quotidianamente masticato i suoi sguardi velenosi e i suoi silenzi assordanti.
Ce l’avrebbe fatta, come sempre.
 
 








Ginevra era conscia del fatto che bere più di tre tazze di caffè potesse gravare vistosamente al suo sano equilibrio mentale, ma l’ansia l’aveva portata a divorare grosse quantità di liquido scuro in meno di dodici ore.
Si era alzata i capelli fermandoli in una cipolla improvvisata con un elastico nero, presentandosi al bar prima di tutti gli altri. (Questo perché Arthur era stato così magnanimo da concedere loro almeno la mattinata libera).
Una volta che tutti furono entrati nel bar– più o meno mezz’ora dopo l’arrivo di Gwen -, la mulatta si torturò le mani al pensiero di essere l’ultima ruota del carro e, prendendo un bel respiro, si concesse il lusso di rassicurarsi che sarebbe andato tutto bene.
«Quella del drago è stata una bella idea».
Ginevra si era avvicinata al bancone, fermandosi al fianco di Arthur.
Il ragazzo, dopo un attimo di esitazione, si limitò a ringraziarla.
«Anche le divise sono molto belle. Si sposano perfettamente con il locale… Morgana ha intuito per queste cose. L’ha sempre avuto», continuò lei.
«E’ vero», Arthur si lasciò scappare un sorrisino. «Ma se te lo chiede, io non ho mai detto nulla di simile».
«Certo!» Gwen gli lanciò una rapida occhiata sentendosi in difetto, per poi voltare lo sguardo in avanti. «E… tu mi sembri in ottima forma. Ti vedo meglio».
Il biondino sollevò lentamente gli occhi sugli altri dipendenti seduti comodamente sui divanetti. Merlin e Freya si sfioravano come se avessero paura di cadere in mille pezzi una volta essersi toccati. «Già. Sto meglio».
«Credo sia anche merito di quella dottoressa… L’ho vista spesso nel bar e so che ti ha imposto un rigido riposo. Non che io ti spii, s’intende. Sembra una ragazza a posto e ho notato che passate molto tempo insieme.» Ginevra rischiò di imporporare, incartocciandosi nel suo stesso discorso. «Con questo non voglio dire che io l’abbia notato di proposito, so che sono cose che non mi riguardano – non più almeno. Volevo solo precisare che ti trovo bene grazie a lei, credo… ma non voglio farmi i fatti tuoi, semplicemente…»
Arthur, che molto probabilmente sarebbe diventato una statua vivente se la sua ex avesse continuato con il suo monologo di cortesia, corrucciò le sopracciglia spaesato nell’osservare una pallida Morgana uscire dal bagno ed un Merlin silenzioso alzarsi dal suo posto per incamminarsi verso la toilette – o verso sua sorella?
Si voltò verso Gwen per placare il fiume in piena delle sue parole, sorridendole da copione. «Certo, sì. Mithian è un bravo medico e… Merlin
Il biondino richiamò il giovane accorgendosi degli sguardi gelidi e taglienti che Morgana gli aveva riservato una volta incrociato il suo cammino e, per un minuto, tutte le incognite frustranti del mese andato tornarono a galla. «Trascina la tua inutile persona al bancone. Cominciamo».
Il corvino lo guardò seccato, indicando il bagno. «Io veramente dovr-»
«Ora
«Ma io dev-»
«MERLIN!»
Il ventenne sbuffò roteando gli occhi, raggiungendo controvoglia il bancone.
 
 






Londra, 22 Dicembre 1987




Igraine si rigirò nel letto sentendo la propria schiena annichilita.
Si stiracchiò tra le lenzuola pesanti, strusciando la guancia sul cuscino morbido che si accorse – per sua grande meraviglia – di avere ancora sul materasso e non per terra.
Con gli occhi ancora chiusi avvertì uno strano venticello gelido infastidirle il viso, insinuandosi fin sotto le coperte. Si voltò dall’altra parte, raggomitolandosi come un feto nel grembo materno, sperando che servisse a qualcosa. Sprofondò la faccia nel cuscino imponendosi da sola di continuare il bel sogno che stava facendo, ma anche quel metodo si rivelò inefficace, così, decise di aprire gli occhi – quasi potesse affrontarlo con una rimboccata di maniche quel gelo antipatico – scoprendo la stanza esattamente come la sera precedente se non per… una Vivian che – (secondo la poca lucidità di Igraine in quel momento) doveva essere stata aiutata da un folletto invisibile – rientrava dalla finestra spalancata, sfilandosi le scarpe alte con i talloni.
Igraine si chiese che ora folle della notte fosse prima di accorgersi del cielo azzurro che padroneggiava su tutta Londra.
Sconvolta dal fatto che quella ragazzina avesse passato tutta la notte fuori casa, restò avvolta nelle calde coperte ad osservarla svestirsi con una rapidità studiata a perfezionata col tempo, chiedendosi se un giorno anche i suoi ipotetici figli avrebbero fatto lo stesso.
Vivian s’infilò svelta il pigiama, immobilizzandosi nell’intercettare lo sguardo attento di Igraine.
«Se dici qualcosa a mia madre renderò la tua vita un Inferno, stray».
Igraine non fu sicura di comprendere pienamente ciò che la ragazzina le avesse detto, ma si convinse che quel ‘stray’ fosse un’offesa. Si limitò a restarsene muta senza alcuna espressione dipinta sul volto.
«Brava».
«Spero che mia figlia non prenda da te» le confessò – stupidamente – parlando nella sua lingua. Era quello che diceva spesso anche a Tristan quando diventava insopportabile o tornava a casa con graffi e lividi sulla faccia.
Vivian, che non capì nemmeno mezza sillaba, alzò un sopracciglio al suo solito modo preparandosi a risponderle a tono – più che altro per puro istinto snob – quando sentì i passi di sua madre nel corridoio. La ragazzina si catapultò sotto le coperte, dando le spalle alla porta appena in tempo.
Igraine vide spuntare una treccia color caramello e due occhi vispi dall’uscio. «Dormito bene?»
La ventunenne annuì.
«Io sto andando al bar… vuoi venire con me?»
«Sì, certo. Mi piacerebbe molto!»
Il volto di Alice s’illuminò. «Bene. Datti una rinfrescata ma non fare colazione, al Rising Sun abbiamo dei dolcetti natalizi deliziosi! E… ricorda di prendere i pattini prima di uscire».
I pattini? Da quando aveva dei pattini?
Igraine tentò di aprire bocca ma nel vedere Alice scuotere il capo alla volta di Vivian restò ad ascoltare: «Non capisco come faccia a dormire così tanto. Beh, le lascerò il solito bigliettino in cucina».
Igraine scrollò le spalle. «Ha diciassette anni. La mattina si ha sempre sonno a diciassette anni».
«Sì, ma anche a quindici, sedici e diciotto anni.» Alice allargò le labbra in un sorrisetto caldo, apprensivo e comprensivo. Un sorrisetto materno.  «Ti aspetto in soggiorno», le disse, prima di richiudere la porta e sparire nel corridoio.
Igraine alzò un angolo della bocca all’insù, scendendo lentamente dal suo letto per avvicinarsi a quello della biondina. Afferrò uno strano peluche di Babbo Natale con un occhio scucito e un sonaglino sul cappellino, scuotendolo ad un soffio dall’orecchio di Vivian. «Mi devi un favore» le disse, con un inglese sorprendentemente eccellente.
«Get out, stray» la sentì borbottare con la testa schiacciata contro il cuscino e ciocche di capelli dorati a coprirle buona parte del viso.
Igraine abbandonò il pupazzo accanto alla bocca della diciasettenne per poi accostarsi alla porta. Posò una mano sulla maniglia e, prima di abbassarla, sorrise soddisfatta. Poi, uscì dalla stanza.


*

 
Non pensava che una cosa simile potesse succederle il suo primo vero giorno a Londra. O, almeno, Igraine lo sperava.
Alice aveva aperto festosa il Rising Sun accendendo tutte le luci, permettendo così ad Igraine di ammirarne i luccicanti addobbi natalizi. La De Bois spalancò la bocca a forma di piccola o; credette di essere ancora nel suo letto a sognare La Fabbrica di Giocattoli di Santa Claus.
Accanto all’entrata, a sinistra, faceva da padrone un abete sintetico bianco neve agghindato da una serie di lucette blu che brillavano a intermittenza.
Era di poco più alto di lei e, incantata, Igraine portò istintivamente una mano verso l’albero sfiorandolo con le dita. «Zia Alice ma è… bellissimo».
«Gaius mi ha aiutata con le luci prima di partire», Alice si allacciò il grembiule sistemando tavoli e sedie. «Sono felice che ti piaccia… ma aspetta di assaggiare i dolci!»


*

 
Quello che la giovane De Bois aveva completamente ignorato erano i pattini che Alice calzò ai piedi.
«Sono il nostro marchio di fabbrica», le aveva spiegato. «I clienti si sentono più allegri se li serviamo pattinando come delle dive d’America».
Igraine aveva scosso il capo preferendo invece rintanarsi dietro il bancone, possibilmente alla cassa.
Alice fluttuava agilmente su quei dannati cosini con le rotelle – si ritrovò a pensare Igraine – tanto che la ragazza non faticò ad affibbiarle l’immagine di una fata turchina provvista di bacchetta magica al posto dei vassoi.
Ma il vero dramma, ahilei, arrivò quando Alice indaffarata ai tavoli non udì il richiamo di un avventore alquanto frettoloso. Igraine tentò di attirare l’attenzione della donna, ma questa con un cordiale sorriso le chiese la cortesia di fare da sé.
Igraine abbassò lo sguardo sui pattini. Non era caduta restando in piedi per più di un’ora, perché mai non avrebbe potuto avanzare di qualche stupido passo?
La giovane italiana si fece coraggio avvisando il cliente con un gesto, ma prima che potesse fare anche mezzo passo si ritrovò con la schiena contro il pavimento.
La prima cosa che vide dopo la caduta, ancora distesa a terra, furono labbra carnose e profondi occhi color carbone. «Una dolce fanciulla K.O.».
Era una faccia pulita che le parlava, con il mento e le guance ricoperte da un sottile strato di barba corvina. La fronte era nascosta da lisce ciocche nere, così sottili da sembrare spaghetti – un po’ come i suoi capelli.
«Ahi», mugugnò lei, un po’ per la vergona e un po’ per l’idea di doversi rimettere in piedi con quei dannati aggeggi.
Il ragazzo le sorrise, afferrandola per un braccio, aiutandola a rialzarsi. «Forse, è meglio fare conoscenza in verticale, che ne dici?»
Una volta rialzata, Igraine si aggrappò agli avambracci dello sconosciuto tenendosi forte. Non ebbe il coraggio di sollevare i suoi occhi chiari in quelli del ragazzo, ma sentiva di doverlo fare, almeno per ringraziarlo. «Grazie… Grazie mille per… Grazie».
Lo vide sorridere mostrando parte della dentatura, senza accennare ad un minimo di fastidio per la stretta della ragazza. «Sono un cavaliere, lo ammetto. Sir Gorlois per le donzelle, ma gli amici mi chiamano Lois».
Era bello, tanto da costringerti ad arrossire. Dio, se era bello.
Igraine si sentì in dovere di dire qualcosa, in parte impaurita per il tremito che si era impossessato delle sue gambe. Forse sarebbe stato carino dirgli il suo nome, forse avrebbe dovuto presentarsi, forse…
«Igraine!»
Alice si precipitò su di lei come una mamma chioccia iperapprensiva; aveva gli occhi velati di preoccupazione e le rughe più vistose attorno alle labbra. «Tutto bene, tesoro?»
«Sì», farfugliò, guidando timidamente i suoi occhi in quelli di Gorlois. Erano neri come la notte. «Credo di sì, grazie a te».
Alice sospirò come se, cacciando tutta quell’aria dalla bocca, potesse renderla più leggera. «Sei sempre al posto giusto nel momento giusto, Lois».
Il ragazzo scrollò le spalle ridacchiando un po’. «Mi rendo utile».
 
 
 
 
 
 
 
 
Londra, Giugno 2015
Prima settimana
 



«Il segreto è tutto nell’altezza. La punta del bollitore deve trovarsi poco distante dalla superficie liquida altrimenti rischiate…»
«Che disastro!» pigolò Freya tra i denti, mordendosi il labbro.
«Un disastro», Arthur sospirò poggiando lo sguardo sulla mora china sul suo pasticcio.
Morgana ghignò beffarda e Merlin non poté fare nulla per evitarlo o zittirla: a quello aveva già pensato Mordred…
Il francese seguì la figura della corvina con la coda dell’occhio. «Fa’ la brava», le aveva mormorato.
Le risa di Morgana arrivarono fastidiose come il ronzio di mille sciami di api alle orecchie di Merlin. «Altrimenti?» la sentì sussurrare al fidanzato con un tono tutt’altro che indifferente o infastidito.
Merlin tentò di ignorarla, tenendo fissa la sua attenzione sul caffelatte e quello stupido drago da disegnare per lo stupido marchio di fabbrica di quello stupido bar, gestito da uno stupido Asino… Ma forse, non tutto era così stupido.
«Te lo dico stanotte».
Merlin aveva volontariamente evitato di osservare un Mordred suadente soffiare all’orecchio di Morgana allusioni a notti tutt’altro che caste, concentrandosi sul cappuccino – stupido cappuccino! – che aveva di fronte. In quel colore caldo, dolce e accogliente, lasciò riposare le sue iridi glauche realizzando per la prima volta l’idea di una Morgana tra le braccia di un uomo che non fosse più lui, tra le lenzuola, con il corpo nudo e le luci spente e…
Non doveva pensare a certe cose! Altrimenti… avvertiva l’impellente bisogno di qualcosa d’illegale, proibito, dannoso e pensare a quella roba nelle sue vene lo faceva sentire sporco e osservato.
Osservato.
Sollevò lo sguardo dalla tazza fumante ritrovandosi il volto attento di Arthur concentrato su di lui.
L’Asino si era soffermato così tanto sulla curva delle sue labbra, sperimentando se nascesse in lui l’incontrollabile desiderio di raggiungerle, da non accorgersi di essere stato colto con le mani nel sacco.
«Perché mi fissi?» chiese Merlin, leggermente infastidito dal comportamento del Babbeo quel giorno.
«Io non ti fisso» si difese, ritraendosi dal bancone su cui si era bonariamente appoggiato coi gomiti.
«Seh».
«Metti in dubbio la mia parola?»
«Giammai».
Lo scambio di battute terminò con quella frase, ma i pensieri di Arthur ricaddero nuovamente sul corpo del ragazzo. Quando pensava ad una donna, in un certo senso, succedeva una consueta conseguenza biologica; l’Asino credeva che se si fosse applicato meticolosamente sulla figura di Emrys, magari avrebbe compreso qualcosa.
Sarebbe successo fissando le sue mani affusolate? E gli zigomi sporgenti? Il petto e le spalle e…
«Arthur…» Merlin respirò lentamente, adagiando il bollitore sul marmo del bancone. «Non riesco a concentrarmi sul mio lavoro se mi guardi in quel modo».
Il Pendragon, leso dall’esser stato preso in fallo, increspò le sopracciglia con fare di disappunto. «Io non ti guardo, Merlin, io ti osservo. Ed è il mio lavoro: il mio lavoro è osservare il tuo».
«Sì, è questo il problem-»
«Ricorda la lista nera, Merlin.» Arthur tamburellò per tre volte i post-it sul marmo come avvertimento, dedicando al corvino una smorfia.
Si alzò dallo sgabello aiutandosi con la stampella, avvicinandosi alla sorella; nell’allontanarsi, però, colse i due occhi castani di Ginevra su di sé. Occhi che sapevano di aver visto.
 



 
Seconda Settimana, Mattina
 



Freya si sentiva decisamente meglio quel Mercoledì rispetto al precedente: la prima sera di “lezione” aveva combinato un pasticcio dopo l’altro al punto da costringere Arthur ad esentarla dal continuare.
Così, si era rimboccata le maniche e si era esercitata a casa mentre Merlin, rientrato sfinito dai suoi turni, riprendeva in mano la chitarra solo per fissarla, senza mai sfiorare neanche una corda.
Si era impegnata molto nel riuscire a disegnare un qualcosa che avesse, anche vagamente, le sembianze di un drago sputa fiamme sulla schiuma e, nonostante i suoi malriusciti tentativi, Freya non aveva demorso: doveva riuscirci, ormai era diventata una sfida personale.
Era stanca di essere guardata con aria compassionevole dagli altri, sentirsi continuamente derisa o in difetto. Freya era stanca di essere stanca.
Come se non bastasse, quel Gwaine continuava a lasciare bigliettini al tavolo tra una birra e un’altra, scrivendo quanto Europa fosse stata scortese nell’averlo sedotto e poi abbandonato. Freya li recuperava ad uno ad uno per poi accartocciarli e cestinarli.
«Chi cavolo è questa Europa, adesso?», domandò – più a se stesso che a qualcuno in particolare – il Pendragon.
«Magari avrà bevuto troppa birra ultimamente», aveva proposto sarcastico Merlin.
«O magari saranno deliri d’amore. Forse ha trovato quella giusta», fu la timida e rosea opinione di Gwen accantonata dai due ragazzi con occhiate e “Nahh” sincronizzati.
Freya aveva preferito optare pe un ragionevole e saggio silenzio, standosene in disparte.
Quel Mercoledì mattina era tutto diverso: i silenzi tra lei e Merlin le pesavano meno delle sue recenti attenzioni – che stavano cominciando a insospettirla al punto da portarla a conclusioni capaci di scaraventarla al suolo con durezza.
Quel Mercoledì mattina era diverso. Al bar c’erano solo lei, Arthur, Mordred e…
Repentina, si abbassò come una talpa (o topo, o qualsiasi altro animale sia) in quello strano gioco col martello, fino a toccare il suolo con le ginocchia, facendo rotolare la penna accanto ai piedi di Mordred che intanto alzava un sopracciglio con fare confuso.
Freya si rese conto di sembrare una perfetta idiota, ma sperò che almeno Mordred la capisse. Restò nella sua goffa e patetica posizione, supplicandolo con i suoi occhi di terra umida di coprirla.
Lo vide disorientato e in parte desideroso di capire cosa stesse succedendo, Freya poteva coglierlo dal tipo di sguardo che le stava riservando.
Quella poteva essere la prova del nove: Mordred era una persona di cui fidarsi o no? Era dalla sua parte o le remava contro come tutti gli altri? Era un suo amico o l’ennesimo traditore?
«Ehi, amico. Una birretta, per favore».
Gwaine si era inusualmente fermato al bancone, prendendo posto su uno sgabello. “Perché?!” si domandò allarmata Freya.
«Certamente».
Mordred prese una Heineken dal frigo stappandola, lasciandola scivolare accanto ai gomiti dell’avventore.
«Grazie», Gwaine sollevò la bottiglia in segno di brindisi. «Alla salute!»
Freya, ancora ferma in quella posa discutibile, vide Mordred sorridere di rimando per poi afferrare una pezza e asciugare il boccale del cliente precedente.
«Tu devi essere il francese, il futuro sposo dell’altra Pendragon. Non sei così male come ti descrive la bionda principessa».
«Oh, beh. Quella la offre la casa allora».
«Ci speravo in realtà».
Nel sentire la risata sincera e bighellona di Gwaine, Freya provò l’impulso di scuotere il capo con esasperazione, portarsi una mano al fianco e l’altra alla fronte con teatrale arresa. Gwaine le faceva esattamente quell’effetto: le faceva dimenticare di essere nascosta dietro al bancone del locale in cui lavorava per evitare l’uomo che aveva baciato ad una festicciola da quattro soldi, rendendola senza pensieri o preoccupazioni. La trasportava, per un brevissimo istante, in un mondo sbagliato dove l’unico errore da correggere era la sua sfacciataggine. Eppure, Freya rise silenziosamente per altro: Mordred.
Era rimasto lì, tranquillo, senza smascherarla o chiederle nulla. Non che fosse un gesto di grande lealtà, ma in quel momento per Freya significò molto.
«Ricordati di salutarmela», Gwaine svuotò la birra. «Quella donna non smetterà mai di sorprendermi. È sempre stata una donna intraprendente ma… il matrimonio… Wow».
Un secondo. Morgana? E… Gwaine?? Cosa c’entrava lei con Gwaine?!
Gwaine lanciò qualche penny sul marmo alzandosi, cominciando ad incamminarsi verso l’uscita. «Felicitazioni!»
Mordred aggrottò la fronte, tenendo lo sguardo sul moro. «Chi era quel tizio?»
Arthur, arrivato da lì a poco dal bagno insieme alla sua inseparabile stampella stile Dottor House, scrollò le spalle con noncuranza. «Quello con cui la tua ragazza andava a letto».
«Cosa?»
«CHE?!»
Non servì a nulla mordersi la lingua con tutta la forza di cui era capace, Freya era perfettamente consapevole di aver squittito come una psicopatica e il modo in cui Arthur abbassò lo sguardo su di lei non l’aiutò affatto.
«Cosa stai facendo
Freya recuperò svelta la penna accanto alla scarpa di Mordred, dileguandosi a gambe levate verso i tavoli, distendendo eventuali pieghe sul grembiule con aria innocente.
Il Pendragon, letteralmente interdetto, si voltò in direzione del francese. «Si stava nascondendo?»
«Je ne sais pas».
Mordred sogghignò quando Arthur, irritato dall’accento francese, grugnì in una smorfia.
 





Londra, 23 Dicembre 1987
 



Dopo aver trascorso un giorno nella sorprendente quanto natalizia Londra, Igraine aveva appreso ben tre cose importanti:
  • Alice amava il Natale e i fiori in maniera a dir poco maniacale;
  • Gorlois – Lois – era un cliente affezionato del bar. Passava lì maggior parte del suo tempo per Vivienne, una riccia biondina che vedeva sempre in compagnia di due uomini;
  • Vivian, quell’altezzosa diciasettenne che continuava a dirle della “stray” (si sarebbe documentata il prima possibile sul suo significato), le doveva un favore.

Vivian aveva appena riscaldato la punta dell’ago sul fornello pronta a forarsi l’elica quando Igraine, arrivandole alle spalle, le picchiettò sulla schiena.
«Ma sei impazzita?!» sbraitò lei, da quel momento in collera col mondo intero per essere stata interrotta nella sua missione piercing segreta. Se Alice l’avesse scoperta… probabilmente le viole nel vaso in cucina sarebbero state il suo ultimo pasto. «Se mia madre mi scopre renderò la tua vita un Inferno».
Quella frase sembrava quasi un mantra per quella ragazzina, pensò Igraine. Tuttavia, la giovane De Bois preferì non emettere giudizio mostrandole invece, ad una spanna dal viso, i suoi pattini a rotelle. «Insegnami».
«Cosa
«Insegnami》 , ripetette, porgendole quei dannati cosi.
Vivian la squadrò come se le avesse chiesto di sterminare una famigliola di coniglietti felici. «Non se ne parla proprio. Io ho già il mio bel daffare. Sparisci, stray».
Igraine non mollò la presa. Rimase immobile, senza spostarsi di un solo centimetro. «Beh… è un peccato perché vedi, io so cose che Alice non sa… tipo la storia della finestra».
Vivian le riservò una smorfia scocciata.
«… E del piercing».
Vivian mise su una faccia imbronciata, puntandole contro la punta sterilizzata dell’ago. «Tu
Igraine allargò le labbra in un buffo sorriso, sollevando i pattini come a brindare all’augurio di una vita eterna.
Vivian sbuffò, comprendendo di essere con le spalle al muro.


*

 
Igraine non avrebbe mai pensato che a Londra potesse fare così freddo o potesse esserci così tanta neve; il viale, a Grosvenor Road, era interamente ricoperto di bianco fatta eccezione per l’asfalto. La strada era una lunga lingua grigia dove, di rado, qualche auto passava alla stessa velocità di una cane al passeggio.
Il sole non era ancora sorto e le due ragazze si erano incappottate come due escursioniste pronte a scalare l’Everest.
In tutta sincerità, abbandonare il suo lettuccio caldo e accogliente, trascinarsi fuori strada e sostenersi ad una sprucida Vivian al fine di non rompersi la testa, non era una prospettiva allettante per la giovane De Bois, ma doveva farcela: doveva imparare a camminare su quei pattini a rotelle al costo di ripetere quella discutibile esperienza ogni mattina.
Lei e Vivian non si scambiarono molte parole: la prima si concentrava nel non fracassarsi il cranio a due giorni da Natale, mentre l’altra le ordinava cosa fare di tanto in tanto. Eppure, per Igraine andava benissimo anche così. Collaborare, anche sotto minaccia, le faceva ben sperare che un giorno il loro rapporto si sarebbe approfondito e che ne sarebbe venuta fuori un’ottima amicizia. Questo perché il Natale era alle porte e perché Igraine era una ragazza ottimista.
 







Londra, Giugno 2015
Seconda settimana, pomeriggio
 



Stava fissando quella torta col chiaro intento di divorarla, questo era palese. Poco ci mancava che si leccasse i baffi come una tigre impaziente di sbranare la sua preda. Fu per questo che George – che TANTO aveva sudato per realizzarla – si frappose tra la Pendragon e il dolce, mentre una gocciolina di sudore gli rigava la fronte. «Serve qualcosa?»
«Non ci sono più dolci di là».
«Provvederemo subito».
George fece per voltarle le spalle, ma nel notare lo sguardo assatanato di Morgana fisso sul surfista in pasta di zucchero decise scrupolosamente non allontanarsi dalla sua dolce bambina.
«Mi chiedevo quante calorie potessero esserci», lo anticipò Morgana, ripensando alla moltitudine di zuccheri che aveva assunto in quella settimana. Non voleva di certo indossare una squallida divisa extralarge come quella stupida di Freya! Ma chissà, forse quell’idiota di Merlin preferiva le ragazze ingombranti.
«V-Veramente… MOLTE.» George tentò di nascondere l’inquietudine che la Pendragon sapeva lasciargli sulla pelle. «Noi trattiamo bene i nostri clienti… perché le torte sono per loro, per i clienti».
L’espressione estasiata di Morgana si tramutò in un ringhio malevolo: «Cosa intendi dire?»
Prima ancora che George potesse proferire anche solo mezza sillaba, Morgana corrucciò le folte sopracciglia in mondo ostile, bofonchiando cose tipo: «Parli come quell’idiota, sembra di sentirlo. Voi uomini, siete tutti uguali! Mi è passata anche la fame!» detto (o sarebbe più corretto, sbraitando ciò), Morgana Pendragon uscì impettita dal laboratorio sbattendo senza alcuna grazia la porta.
 
*


Quando Arthur staccò l’ennesimo scontrino ad una finta rossa sui quaranta accompagnata da una diciannovenne piena di brufoli, provò un forte senso di appagamento: i suoi polli si stavano rivelando meno incapaci di quel che pensava. Forse si sarebbe addirittura dovuto preoccupare per chi, tra i suoi dipendenti, sarebbe riuscito per primo a disegnare quel drago sulla schiuma. Non avrebbe sopportato l’idea di doversi congratulare con sua sorella, né tanto meno con Mordred.
Merlin, invece, si stava rivelando stranamente efficiente; in quell’ultima settimana si erano telefonati diverse volte e, quasi sempre, Merlin gli aveva fatto ascoltare qualche accordo.
«E’ incredibile», commentò Morgana, divorando il terzo pasticcino alle nocciole di fila.
Masticava famelica, mantenendo gli occhi ridotti a due fessure su Emrys.
«Quelli sono per i clienti», le fece presente il fratello.
Morgana, ignorandolo del tutto, azzannò un bignè alla crema sporcandosi parte della bocca. «Dovrebbero insegnare l’educazione a certi individui».
«Tipo Mordred?»
La Pendragon gli serbò un’occhiata omicida; con il muso sporco di crema e zucchero a velo, Arthur se la immaginò a svolazzare nel cielo con una scopa provvista di un grosso sacco pieno di dolciumi alle spalle.
«Mi ruba i cereali ogni mattina… e lo shampoo», si difese Arthur irritato, incrociando le braccia come un bambino capriccioso.
«Si chiama ‘condividere’, Arthur.» Morgana gettò la carte del pasticcino sul bancone, rimanendo assorta nei suoi pensieri per un po’.
Da quando era tornata a Londra non era riuscita a trovare un momento di pace per parlare con Arthur di quella cosa riguardante Uther. Prima c’era stato l’incidente, poi la sparatoria, l’arrivo di Mordred e… quel test di gravidanza che aveva nascosto sopra il suo armadio.
Ma adesso erano soli. Erano nel loro momento.
«Un amico di Mordred è riuscito a rintracciarla, quella Vivienne».
Arthur diventò serio di colpo.
«E’ stata un’inviata di spicco a Londra per molti anni, riuscendo a ricevere il ruolo di caporedattrice al Camelot’s. Attualmente riveste il ruolo di direttrice ad un giornale di Cardiff. A quanto pare, è restata dietro le quinte per un bel po’; molti dicono che abbia tentato il suicidio con un’overdose. Sua figlia Morgause lavora qui, al giornale di Londra».
Arthur serrò la mascella senza neanche accorgersene, stringendo forte i pugni facendo impallidire le nocche. «Questo non prova niente».
«Ma conferma l’esistenza di Morgause.» Gli occhi verdi di Morgana studiarono accuratamente il corpo di Merlin, seguendone ogni movimento. «La gente tradisce di continuo, ma raramente ha il coraggio di prendersi le proprie responsabilità. Vivienne potrebbe aver detto il vero, lei potreb-»
«E’ una drogata! Ha tentato il suicidio!» C’era rabbia nella voce di Arthur, una rabbia repressa per molto tempo. «I Pendragon non sono così, i Pendragon non tradiscono. Quella donna, qualsiasi sia il suo scopo non lo otterrà. Noi siamo gente per bene e d’onore».
Morgana non ebbe il coraggio di aggiungere nulla. Una parte di lei la spingeva a toccarsi il ventre come un riflesso involontario, ma quella razionale continuava a sussurrarle la realtà dei fatti: suo fratello non sarebbe stato dalla sua parte. Gli voleva bene, sinceramente e tanto, ma in quel momento sentì di odiarlo. Odiarlo per averla inconsapevolmente condannata al suo destino.
«Potresti scriverlo sulle t-shirt», cacciò fuori con acidità mentre avrebbe solo voluto correre a casa e distruggere quel maledettissimo test.
 
 






Londra, 24 Dicembre 1987


C’erano molte persone al Rising Sun, più di quelle che Igraine si aspettasse.
Si sentiva la schiena indolenzita a causa della seconda lezione mattutina con Vivian, ma doveva ammettere che tutto quell’ambaradan cominciava a dare i suoi frutti.
«I De Bois apprendono in fretta» le diceva sempre suo padre e, fortuna per lei, sembrava essere vero.
Quella mattina Gorlois era seduto al solito tavolino rotondo, il primo al centro dopo il bancone, bevendo la sua solita Sprite offertagli dalla casa, beandosi in silenzio della vista di Vivienne qualche tavolo più avanti.
Igraine non si era mai interessata più di tanto di che colore fossero i capelli di un cliente né tanto meno del modo in cui gli occhi cercassero un porto sicuro nel quale approdare, ma Vivienne…  Aveva occhi verdi come due smeraldi pregiati e labbra carnose rosse come petali di rosa, eppure il suo sguardo era terrorizzato. Sembrava si sentisse sol in compagnia di quegli uomini, quasi fosse invisibile ai loro occhi.
Igraine li aveva visti di sfuggita, quei due tizi. Era sempre Alice a servirli o prendere i loro ordini.
Probabilmente avevano la stessa età, ma non gli stessi interessi. Qualcosa li univa, di questo Igraine ne era certa, ma c’era un abisso immenso tra gli occhi freddi e autoritari del tipo a destra dai sorrisi aguzzi del biondo dalla fronte larga.
L’uomo dagli occhi di ghiaccio non rideva mai: si limitava a sorridere piegando un angolo della bocca in un mezzo sorriso, il più delle volte rivolto al suo interlocutore. Evitava gli occhi di smeraldo della donna, ma di tanto in tanto si incantava sulle labbra piene di Vivienne e sulle sue clavicole scoperte.
L’uomo dalla fronte spaziosa, invece, osservava languidamente ogni cosa; assaporava con lo sguardo tutto ciò che la sua vista avesse da offrirgli. Gustava ogni donna del locale con occhiate penetranti, terminando il suo liquore. Possedeva una risata sinistra, quasi un ghigno.
Cosa potesse mai unire tre persone così diverse tra loro, la giovane De Bois, proprio non riusciva a comprenderlo.
Successe nel momento in cui meno se l’aspettava, con il mento appoggiato sulla mano e le luci azzurrine che si accendevano ad intermittenza: l’uomo dagli occhi di ghiaccio si girò verso di lei e la guardò.
Non che fosse durato più di cinque secondi, ma Igraine provò una strana sensazione. Non riusciva a sentirsi le gambe o sollevare le labbra verso l’alto. Era successo qualcosa.
Qualcosa che le fece battere il cuore in modo strano, forse un po’ più veloce del solito.
 




 
Londra, Giugno 2015
Terza settimana, pomeriggio



 
Merlin tentò di sfiorare le corde della sua chitarra, ma i suoni che ne uscivano sembravano tutte note fuori tempo.
Ogni volta che riprendeva in mano quello strumento, erano tanti i ricordi che salivano a galla, tutti ricordi che in certo senso lasciavano un retrogusto dolceamaro nel palato.
Riaffiorava nella mente l’immagine ammaliata di Morgana, i capelli un po’ più corti e mossi, ipnotizzata dalla musica che lui suonava per lei. Ritornava alla mente la prima volta che le aveva sfiorato la mano, la prima volta che aveva conosciuto il profumo di rose selvatiche che riposava sull’incavo del suo collo.
Freya si era stesa sul divano, addormentandosi nel giro di qualche minuto.
Merlin perse molto tempo a guardarla dormire; sembrava così indifesa, dolce e innocente. Si era ripromesso di provarci sul serio con lei, ma come avrebbe potuto funzionare se l’immagine di Morgana si sovrapponeva a quella di Freya ogni volta? Come avrebbe potuto perdonare se stesso per ciò che le aveva fatto?
L’unica persona di cui aveva bisogno in quel momento era Arthur. Aveva bisogno di sentire la sua voce e le sue scemenze per concentrarsi sulla musica, tanto che quando il suo cellullare s’illuminò mostrando il nome del Pendragon a caratteri cubitali, Merlin rispose in meno di mezzo secondo.
«Come ti sei guadagnato il titolo d’imbecille? Credi siano state le persone ad affibbiartelo o è una dote naturale?»
Merlin attivò il vivavoce, posando il cellullare sul tavolo. «Buon pomeriggio anche a te».
«Dico sul serio, Merlin.»
«Nessuno mi ha mai dato dell’imbecille!», fu la risposta con cui Merlin si difese legittimamente.
«Non essere ridicolo, io ti do sempre dell’imbecille!», gli fece ammenda Arthur, quasi fosse una cosa del tutto naturale. «Ad ogni modo, ho bisogno di sapere come ti senti. Lo avverti anche tu?»
Il ventenne, perdendo ormai il filo del discorso – assai arzigogolato e contorto del biondino -, decise di non prendersela per l’asinina sfrontatezza del Pendragon. Si portò il peltro alla bocca, posizionando le dita sul manico della chitarra in modo da ottenere un La. «Nel senso, se esiste una remota possibilità di renderti apprezzabile? Ne dubito».
«Nel senso che molto probabilmente dovrei avere da qualche parte in casa una t-shirt con su scritto “sei il miglior fratello del mondo, alla seconda”».
Merlin, che nel frattempo si era già messo a maneggiare la chitarra, si tolse il peltro dalla bocca. «Che vuoi dire?»
«Lascia perdere».
«Okay».
Regnò il silenzio per qualche istante, dopodiché la voce irritata e frettolosa di Arthur riempì nuovamente la stanza: «Il problema è mio padre, e Morgana, e tutte le cose che credevo di sapere, le persone su cui pensavo di poter fare affidamento…».
Il corvino deglutì in silenzio, percependo il sapore stucchevole della colpa nel palato; aveva mentito spesso ad Arthur, anzi, gli mentiva in continuazione. La sua vita era una menzogna e quella consapevolezza era insopportabile: tante erano state le volte in cui aveva desiderato di raccontare al suo migliore amico come si fosse sentito quando Morgana gli aveva sorriso, chiamando il loro appartamento “casa nostra”, dell’umiliazione provata nel ricevere pugni e calci da suo zio, della volta in cui era stato costretto a vedere un uomo morire davanti ai propri occhi. Avrebbe desiderato il suo appoggio dopo la partenza di Morgana, avrebbe voluto lui al suo fianco, a sorreggerlo. Mantenne un tono calmo ignorando tutto il resto, pensando solo a ciò che gli era rimasto di autentico nella vita: «Io sono dalla tua parte, Arthur. Puoi dirmi tutto».
Lo sentì prendere fiato, e non gli fu difficile immaginarselo con lo sguardo basso, seduto in completa solitudine per evitare che qualcuno lo vedesse fragile, fallibile e umano.
«Credo di avere una sorellastra», gli rivelò a denti stretti, quasi fosse una vergogna o un peccato da pagare.
Merlin lo ascoltò senza fiatare, figurandosi la silhouette slanciata del biondino un po’ piegata in avanti come a sostenere il fardello di una colpa, come se gli fosse crollato il mondo sulle spalle. Probabilmente, se gli fosse stato accanto in quel momento, si sarebbero seduti vicini e si sarebbero guardati negli occhi. Merlin avrebbe allungato una mano verso il braccio di Arthur e gliel’avrebbe stretto forte. Ma loro sapevano consolarsi anche con i silenzi, anche con parole non dette ma recepite tramite il respiro udibile come un fruscio lievissimo dall’altra parte del telefono. Perché loro erano una squadra, e una squadra sa sostenersi nei momenti di difficoltà. Una squadra consolida la tattica fuori dal campo per poi diventare invincibile durante la partita. E Merlin sapeva che Arthur condivideva questo con lui, perché loro erano questo: complementari. E quello, era il loro momento. Il lor-
«Un’altra?!»
A sbottare quella frase mezza strozzata fu Freya, svegliata dalla chiacchiere dei due ragazzi, con gli occhi sbarrati come se avesse visto un fantasma.
Merlin, boccheggiando impreparato, tentò in tutti i modi possibili di disattivare il prima possibile il vivavoce, ma non fece altro che gettare accidentalmente il cellulare sul pavimento.
«MERLIN!» sentì ragliare l’Asino irritato. «Ti avevo detto di non dire nulla a nessuno!»
Perché quello stupido cellulare non si era distrutto? Perché la chiamata non era saltata?
«Sei stato tu a parlare!»
«Sì, perché credevo di potermi fidare!»
«Io non ho fatto niente! Non è colpa mia se mi riveli un colpo di scena stile soap opera mentre stiamo parlando al telefono!» E blablabla, perché la discussione andò avanti per le lunghe, tanto che Freya, saggiamente, decise di abbandonare divano e soggiorno nel più assoluto silenzio onde evitare coinvolgimenti di qualsiasi natura.
 
 



Terza settimana, sera
 




Arthur sapeva che quella sarebbe stata la sera decisiva.
Qualcuno, tra i suoi dipendenti, sarebbe riuscito nell’impresa. Quella sera, sarebbe stato disegnato il primo drago del Pendragon’s sulla schiuma di un cappuccino.
A vederli così concentrati sulle proprie tazze fumanti gli scappò un sorrisino: sembravano scolaretti delle elementari volenterosi di far ammirare i loro capolavori all’insegnante.
Mordred, che tra un furto di cereali e un altro gli aveva detto di essersi laureato in giurisprudenza e di aver lasciato uno studio a Parigi, maneggiava il bollitore con cura estrema. I ricci sulla fronte sembravano essersi congelati. Arthur se lo immaginò ad una scrivania a studiare pratiche noiose o esclamare «Obbiezione!» in tribunale.
Forse aveva davvero del talento, ma continuava a non piacergli.
Quando si era presentato a Merlin per la prima volta porgendogli amichevolmente la mano, Arthur aveva letto l’indecifrabile nella sua espressione posata e cordiale.
Quel tizio non gli piaceva. Convivere con lui era stato uno sforzo più che apprezzabile da parte sua; Morgana avrebbe fatto bene a considerarlo come un regalo di Natale.
Tsk, figuriamoci se quella strega l’avrebbe mai apprezzato!
Sua sorella era davvero un enigma per lui.
Da piccoli si tiravano ciocche di capelli a vicenda per poi fare la pace senza mai chiedersi scusa. Era una tregua silenziosa la loro, stipulata attraverso una battuta, un rintanarsi nel letto dell’altro o cedere il proprio cioccolatino.
Crescendo, le cose si erano complicate. Era da una settimana che Morgana gli rispondeva a tono senza alcun motivo. Evitava la sua presenza quando le era possibile e raramente perdeva tempo a scoccargli qualsiasi tipo di occhiata. Quella sera non si era neanche allontanata dalla sua stanza.
Era per la questione di Morgause, si era convinto Arthur, ma per qualche ragione sentiva che c’era dell’altro. Forse perché in quegli ultimi tempi si erano nascosti troppe cose: Morgana aveva avuto, a sua insaputa, una storia col suo migliore amico, poi di punto in bianco aveva deciso di sposarsi con un uomo che conosceva da pochi mesi. E lui si era tenuto per sé le proprie preoccupazioni, le proprie domande.
Erano cresciuti, lui e Morgana, e si era creato un varco tra loro.
Freya si mordeva un labbro tenendo il bollitore alla giusta altezza, cercando di ricreare con uno stuzzicadenti l’immagine di un drago.
Freya… Quella ragazza gli era sempre stata indigesta. Prima non ne comprendeva il motivo, ma ora era chiaro come il Sole: Merlin era la persona che più amava al mondo ed era tremendamente difficile accettare l’idea di condividerlo con qualcuno.
Sperava fosse Merlin a riuscirci, perché sarebbe stato giusto così: loro due erano una squadra. Loro due. Solo loro, contro tutto il mondo. (Anche se a quell’idiota servivano corsi di buon senso – prima lezione: mai usare il vivavoce quando la tua ragazza è nei paraggi).
Questo significava amarlo?
«Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!»
Le labbra di Gwen tremolarono dall’emozione, lo sguardo fisso sulla tazza. «Ce l’ho fatta!»
Anche se la bocca di Arthur rimase normalmente serrata, il pallore sul suo volto e la paura di lasciar cadere la stampella da un momento all’altro suggerivano uno stato d’animo differente.
Non doveva riuscirci Gwen! Il primo a disegnare quel cavolo di drago doveva ess-
«Finito anche io!» Freya sollevò le mani dalla tazza portandole verso l’alto. «Sono seconda! Sono seconda!»
Forse sarebbe svenuto.
Si voltò verso gli ultimi due rimasti, notandoli in difficoltà. «Ma siete due incapaci!», si lagnò, più che altro perché a causa della loro inabilità nel disegnare uno stupidissimo lucertole piromane adesso avrebbe dovuto occuparsi della scomoda situazione nella quale si era cacciato.
«E’ difficile!» si difese Merlin.
«Ho paura che la testa del mio drago sia diventata una pera», considerò Mordred, osservando con occhio critico la sua creazione.
Arthur era indeciso se schiaffarsi una manata sulla fronte o cacciarli a pedate dal bar, ma anche questo suo dilemma interiore fu ostacolato da una Gwen letteralmente su di giri.
«Ce l’ho fatta! Ho estratto Excalibur dalla roccia!» disse, con la voce che man mano si alzava di un semitono, indirizzando i suoi occhi verso Arthur, non accorgendosi di essere finita al centro dell’attenzione di tutti. Tossicchiò, abbassando impercettibilmente lo sguardo imbarazzata. «Io ho estratto Excalibur dalla roccia», ripeté con più calma, indirizzando i suoi occhi scuri in quelli straniti e impreparati di Arthur. «Io ho estratto Excalibur dalla roccia e per questo tu non puoi licenziarmi. Sono stata la migliore: mi sono impegnata, ho bevuto molto caffè per riuscirci e ce l’ho fatta. Merito di stare qui e nessuno può negarmi questo posto. Io ho bisogno di questo lavoro.»
Il castano denso degli occhi di Ginevra cominciò a divenire una pozza di caffè amaro, la voca a diventare più roca. «Siete la mia famiglia, Arthur. Tu, Merlin e Morgana. Non mi… Non riesco a immaginarmi un mondo senza di voi.
Sono andata via. Ho rotto ogni legame, ogni contatto, perché avevo sbagliato e volevo fare qualcosa per te. Allontanarmi dalle persone che amavo era il mio gesto; non volevo metterti nella condizione di assistere a schieramenti. Io, io ti sono grata di quel che abbiamo condiviso e mi dispiace moltissimo di averti ferito. Così sono andata via, sono sparita ma ora sono qui perché che tu ci creda o no io non ho mai smesso di amarvi. Voi siete la mia famiglia: ci siamo aiutati nei compiti in classe, abbiamo riso, scherzato, ne abbiamo passate tante insieme. Io rivoglio la mia famiglia e… ho estratto Excalibur dalla roccia e quindi non mi muoverò di qua finché non mi sarà data una divisa».
Merlin cercò il viso di Arthur. Il Pendragon era muto, fermo come una statua di marmo. I muscoli tesi, una linea retta sul volto.
Non si domandò neanche per un istante se Arthur avrebbe fatto la cosa giusta, Merlin sapeva con certezza che l’avrebbe fatto.
Il biondino avanzò di qualche passo aiutandosi con la stampella, in modo da avere una visuale migliore della tazza di Ginevra. Esaminò la schiuma senza la minima espressione facciale. Alzò il capo sulla mulatta, dicendole: «Presentati domani mattina prima dell’apertura. Odio i ritardatari».
Le labbra sottili della ragazza si allargarono d’istinto in un sorriso di gioia. «Certo», annuì.
Prima di allontanarsi dal bancone, Arthur lanciò uno sguardo anche alle creazioni degli altri baristi.
«Passabile», giudicò con superbia il disegno di Freya. «Questo cappuccino dovrebbe essere illegale», disse assumendo una smorfia denigratoria alla vista della tazza di Merlin, «e… caro il mio Mordred quella testa non assomiglia affatto a una pera, ma ad una mela».
«Beh», Mordred posò lo stuzzicadenti sul marmo allargando sportivamente le labbra in un sorriso, «potrei dire di aver creato il primo cappuccino Apple».
Ginevra incurvò lievemente gli angoli della bocca all’insù cogliendo l’allusione alla sua metafora, mentre persino Merlin si lasciò andare ad un accenno di risata.
Il Pendragon, d’altro canto, soffiò aria dal naso contrariato, brontolando una Pendragata che Merlin accolse con un sospiro di rassegnazione.


*

 
«Io cominciò ad avviarmi a piedi», Freya uscì dal bar sistemandosi i capelli sulle spalle alla bell’e meglio, fermandosi al fianco di Merlin.
Quest’ultimo fece per staccarsi dal muro sul quale si era appoggiato, dicendole che non c’era motivo di andarsene da sola e che a lui avrebbe fatto piacere andarci insieme.
«Preferisco così», mentì. «Poi, so che devi parlargli».
Freya indicò con lo sguardo il Pendragon che usciva dalla porta secondaria insieme alla sua inseparabile stampella, lasciando a Mordred l’onore di chiudere il bar in completa solitudine. Merlin piegò la bocca in un mezzo sorriso.
«Ci vediamo dopo», gli disse lei.
«Sì», Merlin rimase con la schiena contro il muro, «Ci vediamo dopo».
Forse avrebbe dovuto abbracciarla, baciarle una guancia o ancora meglio insistere per accompagnarla, ma non fece nulla. Freya rimase impalata guardarlo senza ricevere il commiato che avrebbe voluto, decidendosi a voltargli le spalle e incamminarsi da sola.
«Ha scoperto che ti droghi?»
Merlin voltò fulminio il viso alla sua sinistra, irrigidendosi come un cadavere alla vista di un Arthur in piedi al suo fianco alla dottor House style.
L’Asino increspò le sopracciglia. «Era una battuta», spiegò come se fosse un’ovvietà.
«Haha!»
«Sembrano esserci problemi con la dama del lago», lo burlò, «o era la ragazza delle fragole, non ricordo».
Fosse stato un altro giorno, Merlin gli avrebbe risposto a tono, probabilmente chiamandolo “Asino” da copione, ma quella volta non lo fece. Si ritirò a riccio, cercando nella parete alle proprie spalle un appiglio salvavita. «Possono due persone sentirsi sole stando insieme?»
«Potrebbero», Arthur rimase al suo fianco, guardando in avanti.
«Ci sono volte in cui mi sembra difficile anche salutarci la mattina, incrociandoci in cucina o in bagno. Questo cosa significa?»
«Che non è una cosa da poco».
Quando Merlin si voltò a guardarlo, Arthur aveva i suoi occhi fissi su di lui.
«L’amore, se è vero, non è mai facile. Solo perché s’incontrano delle difficoltà non vuol dire che sia tutto sbagliato. Freya è quella giusta». Gli costarono, gli costarono molto quelle parole, ma nel giro di tre settimane Arthur era giunto alla conclusione di essere innamorato del suo migliore amico e per questo provare una sorta di fastidio nei confronti della sua ragazza, ma grazie al discorso di Ginevra aveva capito anche un’altra cosa: amare vuol dire mettere il bene dell’altro prima del proprio.
«Lo pensi sul serio?»
«Sì».
Era una serata di Giugno come le altre, ma quel giorno soffiava un venticello leggero che rendeva l’afa estiva ben lungi dall’essere patita. Merlin non seppe dirsi se furono le parole di Arthur o il fatto che indossasse una leggerissima t-shirt a mezze maniche, ma sentì una lama di ghiaccio adagiarsi sulle braccia, scendendo fino ai polsi, sciogliendosi nel palmo della mano. «Mi dispiace per la telefonata».
Arthur contorse le labbra in una smorfia. «Anche a me».
Ci furono due minuti di silenzio. Due minuti in cui Merlin si convinse che le parole di Arthur contassero più dei suoi sentimenti. Due minuti di silenzio, prima che Mordred fece capolinea alle spalle del Pendragon, portandoselo via.
 








Freya non ne era certa al cento per cento, ma più diminuiva la distanza che la separava dall’officina più si convinceva di aver già percorso in precedenza quella strada. Una volta trovatasi sotto le luci fredde dell’insegna al neon, desiderò di possedere il potere dell’invisibilità.
Quella strada, quell’indirizzo, quell’officina…
«Percival mi odierà. Finirà per incolparmi del braccio rotto e della gamba amputata».
«E’ abbastanza stupido da non farlo».
«Ti odio!»
«No, mi ami».
«Credo che abbiamo bisogno della nostra intimità e per farlo…»
«Ok, Helena. Lo terrò io, ma non posso assicurarti di tenerlo lontano da motori e chiavi inglesi».
«Ama sentirsi coccolato e adora le canzoni di Natale».
Freya non riuscì ad ascoltare altro che la bionda seduta sul tavolo degli attrezzi balzò giù rischiando di rompersi il capo, sistemandosi goffamente la gonna troppo larga per la sua corporatura. La vide calarsi gli occhiali da sole sugli occhi, salutando l’uomo chinato sul motore di un auto con una pacca sul fondoschiena.
Non la degnò di uno sguardo quando le passò dinanzi e, senza la minima traccia di cattiveria, Freya ringraziò chiunque la stesse guardando dall’alto per questo.
Si fece coraggio – con grande sforzo –, rimproverandosi di non aver mai chiesto a Merlin il nome dell’amico che gli aveva generosamente riparato l’auto ad un prezzo più che ottimo.
Si avvicinò con cautela, a passi lenti – quasi in punta di piedi – fermandosi alle spalle del ragazzo in tuta che canticchiava quel che parevano essere i versi di Last Christmas.
Aveva la testa infilata nel cofano, i folti capelli castani lasciati liberi di solleticargli parte del collo.
«Last Christmas, nananana, but the very next day nananana. This year nananana I’ll give it to- Europa!»
Un sorriso pruriginoso si disegnò sul volto di Gwaine che, voltatosi, aveva incontrato la figura taciturna e ibernata di Freya.  «Allora lo possiedi un cuore», canzonò quello sistemandosi a qualche passo da lei.
Freya notò qualche macchia nera sulla tuta e sulle guance del moro. Quest’ultimo continuò, con fare piuttosto convinto: «Sai, pensavo proprio a te mentre cantavo. Te che prima mi seduci e il giorno dopo fingi di non conoscermi. È davvero orribile ciò che hai fatto».
«Io…», la voce di Freya era così flessibile da potersi spezzare col vento. «Mi dispiace, non avrei voluto».
Gwaine sembrò quasi intenerito dal viso angelico e mortificato della ragazza. «Con quegli occhi che ti ritrovi è difficile non perdonarti».
Freya aprì la bocca per dire qualcosa, ma non uscì alcun suono. Era come se qualcuno le avesse tirato via la lingua a morsi e le avesse strappato le corde vocali.
«Mi piacerebbe rivederti».
Il tono di Gwaine era serio ma allegro, i suoi occhi di moka scura vagavano sulla faccia della ragazza cercando di strapparle un consenso con un mezzo sorriso o con del rossore sulle gote. «Magari per un caffè. Potremmo parlarci come l’altra sera, senza impegno».
Gwaine non era un tipo apposto, quella Helena n’era la prova lampante: probabilmente si divertivano alle spalle di quel pover uomo con la gamba amputata o forse Freya vedeva traditori ovunque. Comunque stesso le cose, Freya sapeva di non essere l’unica per Gwaine. Le sue parole, poi, quanto potevano valere?
Eppure una parte di lei combatteva per nascondere il leggero tremolio della voce e la voglia incontrollabile di sorridergli apertamente. «Gwaine i-»
«Lo so, lo so: sono sempre in ritardo ma ho le mie buone ragioni e… Oh, sei già qua».
Quando Merlin entrò nell’officina sorridendo spensierato fermando affianco a lei, Freya distinse un tonfo sordo nello stomaco, come se avesse divorato tonnellate di cemento armato. Si sentì dolorosamente in colpa e sporca come mai in vita sua.
Vide Gwaine nascondere la delusione con la sua solita allegria bighellonante mentre sbeffeggiava Merlin come un vecchio amico del liceo.
Colse un sapore acre nel palato quando Gwaine scosse il capo rifiutando i soldi del corvino, fingendosi offeso per il gesto. «Per chi mi hai preso? Non sono mica un Pendragon, io!»
«Beh, con tutte le birre che scrocchi…», mormorò sarcastico Merlin, prendendo inaspettatamente la mano di Freya. «Grazie per averci tenuto la macchina per tutto questo tempo e… grazie per averla aggiustata».
«E’ stato un piacere», Gwaine spostò lo sguardo verso Freya come se non la conoscesse. «A questo proposito, sarebbe opportuno presentarsi. Sono Gwaine. Ti porgerei la mano, ma temo che non gradiresti», le disse, mostrandole i guanti unti.
«Freya».
«Freya», ripetette lui, stavolta rivolgendosi al corvino, lasciandogli una pacca sulla spalla. «Non te la far scappare, amico. A farle scomparire ci penso già io».
Merlin ridacchiò imbarazzato, afferrando al volo le chiavi dell’auto che Gwaine gli aveva lanciato. «Sei un caso disperato».
«Qualcuno doveva pur tenere testa alla principessa».
Si salutarono con una stretta al braccio.
Freya seguì il suo fidanzato nell’auto, accorgendosi quanto fosse sereno quella sera. Non ebbe il coraggio di sollevare lo sguardo sul parabrezza e incontrare gli occhi delusi di Gwaine. In quel momento, fosse stato possibile, sarebbe scomparsa all’istante.
«C’è una sorpresa per te», le disse Merlin sereno, mettendo in moto.
Solo in quel momento Freya notò la busta di plastica adagiata ai suoi piedi. La prese tra le mani, sentendo un tuffo al cuore alla vista della confezione di fragole.
«Forse dovremmo provarle con la Nutella, sai?»
Freya cacciò via quella morsa alla bocca dello stomaco con un sorriso. «Credo sia un’ottima idea».
 




Londra, 25 Dicembre 1987
 


Alice, Vivian e Igraine si erano riunite a tavola per festeggiare il Santo Natale.
Si erano date del bel daffare ai fornelli e con le decorazioni – Vivian più che altro si limitò a piluccare nei vassoi, fingendosi innocente.
Per Igraine quello era il primo Natale passato senza la sua famiglia, ma Alice era riuscita a rendere il tutto più che gradevole.
Prima di mangiare, la donna congiunse le mani in segno di preghiera, cominciando a parlare ad occhi chiusi: «Dio, ti ringraziamo per il cibo presente su questa tavola e per i bei giorni felici che ci hai donato. Ti sono grata per aver allontanato Gaius dalla mia casa, almeno per il giorno di Natale. Spero che tu lo protegga, ma so che lo farai. Benedici la mia amata famiglia e veglia su tutte le madri e i bambini del mondo, amen».
Igraine guardò spaesata la donna, alternando lo sguardo da Alice a Vivian.
«In realtà, Gaius odia il Natale. Per lui sarebbe stato una tortura passarlo qui, a casa con noi», confessò Alice.
Igraine era a conoscenza che Alice fosse cristiana, esattamente come lo era lei, ma ignorava quel lato singolare della donna. Alice non era una persona ordinaria, Alice aveva qualcosa di speciale.
Quella biondina astiosa, invece, non faceva altro che darle della “stray” ogni volta che ne aveva l’opportunità e, come se non bastasse, la minacciava come se non ci fosse un domani, allorché Igraine decise di schiarirsi la voce e congiungere le mani per parlare con Dio: «Dio, ti ringrazio per avermi dato la possibilità di venire qui a Londra e conoscere persone meravigliose come zia Alice e…», Igraine mise su un mezzo sorrisetto provocatorio, «e molte altre, ma avrei una piccola richiesta da farti: aiutami a comprendere il significato della parola stray che Vivian continua ad attribuirmi ogni volta che deve minacciarmi e, ti prego, fa’ in modo che lei non utilizzi quella tinta verde rame che nasconde tra la biancheria-»
«Cosa?» fu la domanda accusatoria di Alice.
«Ehi!» Vivian esplose come un vulcano in eruzione, colorandosi di rosso la faccia per la rabbia. «Ti avevo detto di non dirlo alla mamma!» Ringhiò alla bionda.
«Amen.» Igraine fece il segno della croce con estrema tranquillità. «L’ho detto a Dio, non ad Alice», si giustificò con innocenza.
«Io ti ammazzo!»
«Potrei considerarlo come un gesto d’intolleranza».
Alice si sporse sul tavolo ad osservare bene sua figlia. «Cos’è questa storia?»
Da lì, fu chiaro per Igraine che la convivenza con Vivian non sarebbe stata cosa facile, ma almeno quella biondina aveva compreso che la giovane De Bois non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da nessuno.
 



Londra, Giugno 2015
Ore 23.40







Arthur si svegliò di scatto nel suo letto, destato da un pianto incessante e familiare.
Si sbracciò per arrivare all’interruttore della abat-journ, riuscendo ad accendere la luce solo dopo aver urtato il suo orologio e la sveglia.
Il pianto continuava. Non riusciva a sopportarlo.
Si sedette sulla sponda del letto, cercando con gli occhi azzurri allarmati la sua stampella. Quando si mise in piedi per raggiungerla, questa cadde al suolo insieme al biondo. Il Pendragon strinse i denti, sentendo la gamba ingessata come una vera spina nel fianco. Afferrò la stampella, cercando di rimettersi in piedi con uno sforzo titanico.
Ricordò della volta in cui Morgana entrò paralizzata in casa insieme a Uther. Igraine non c’era, non era tornata a casa con loro.
Arthur chiese più volte dove fosse sua madre, ma Uther lo ignorò rintanandosi nella sua stanza, lasciando soli e confusi i due bambini. Morgana gli disse di aver visto la faccia di Topolino dal finestrino, poi la strada capovolgersi e un dolore enorme alla testa. C’era del sangue sul volto della mamma, gli occhi erano chiusi.
La prima volta che sua sorella pianse, Arthur fu schiaffeggiato dal padre. Morgana s’intrufolò nella stanza del fratello, sgattaiolando sotto le lenzuola.
Uther in poco tempo raccolse tutti gli oggetti, le foto e gli abiti di Igraine dalla villa, riponendoli nel garage. Guai a chi osava pronunciare il suo nome, Uther non avrebbe risposto di sé.
Morgana, che tra i due era sempre stata la più ribelle, escogitava mille diversivi per nascondersi in garage, rovistando tra gli scaffali riposti lì dal padre. Una volta riuscì a recuperare una vecchia videocassetta; la coprì con la maglietta, trotterellando nella stanza del fratello.
Abbassavano il volume al massimo e restavano a guardarla fino a tardi con gli occhi stanchi, addormentandosi vicini con l’immagine di Igraine impressa nella mente e sullo schermo.
Dal giorno dell’incidente, Morgana soffrì di incubi per molto tempo. Si svegliava nel cuore della notte agitata, gridando per la paura o chiamando con un urlo spezzato la madre.
Erano tutti quei ricordi a trascinare Arthur in corridoio, farlo sforzare come se da quello dipendesse la sua vita, raggiungendo a fatica la stanza dove Morgana stava piangendo tra le braccia di Mordred. Arthur aprì la porta con un gesto secco, piombando tra le braccia della sorella, spostando a forza il francese di lato.
«Ha cominciato a piangere nel sonno, io non…»
«Ci penso io a lei», tagliò corto Arthur, zittendo l’altro. Prese tra le mani il viso di Morgana, asciugandole le lacrime con i pollici. «Mi dispiace, okay? Avevi ragione, ho sbagliato. Proveremo a contattarla, te lo prometto».
Morgana chiuse gli occhi, mordendosi forte il labbro, tanto che Arthur temette che da lì a poco si sarebbe ferita. «Mi dispiace, sono stato un idiota.» Il fratello la strinse in un abbraccio, tenendosela stretta al petto.
Morgana pianse senza sosta, come se fosse impossibilitata nello smettere. Arthur tentò di consolarla abbracciandola, carezzandole i capelli corvini, asciugandole le lacrime, sussurrandole scuse, ma fu tutto inutile. Così, si alzò dal letto, permettendo a Mordred di raggiungere la sua futura sposa, allontanandosi nel corridoio, fermandosi dinanzi al telefono fisso.
Compose i numeri con urgenza, sollevando la cornetta. Squillò per due volte.
«Pronto?»
«Non riesce a calmarsi. Piange e io non so cosa fare. Lei ha bisogno di te».
«Arrivo».
Arthur rimase fermo all’entrata, aspettando con ansia che suonasse il campanello. Era stato l’unico a consolare Morgana dopo la morte della madre, lui era l’unico in grado di calmarla. Ma c’era stata un’altra persona nella vita di sua sorella, una persona a cui Morgana era molto affezionata. L’unica persona che dopo Arthur sapeva confortarla.
Quando udì scampanellare, Arthur si fiondò alla porta aprendola in meno di un secondo.
«Dov’è?»
«Di là, con Mordred», Arthur si fece da parte, zoppicando sull’unica gamba sana, in modo da permettere a Gwen di entrare. Il Pendragon non si sorprese di vederla in pigiama. «Grazie per essere venuta».
Ginevra, la faccia pulita e i capelli arruffati, gli dedicò un sorriso sincero per poi farsi strada sa sola.
Quando Gwen entrò nella stanza, Morgana sollevò lo sguardo affranto su di lei. La mulatta salì a gattoni sul letto, circondando l’amica con le sue braccia. Morgana si lasciò abbracciare senza opporre resistenza, rilassandosi pian piano che la mano di Ginevra le carezzava la schiena. Mordred si fece da parte, lasciando le due ragazze da sole, richiudendosi la porta alle spalle per raggiungere Arthur in soggiorno.
Passarono quindici minuti legate l’una contro l’altra e man mano il pianto di Morgana sfumò fino a ridursi ad un naso gocciolante e un viso arrossato.
Con il mento poggiato sulla spalla dell’amica, Morgana tirò su col naso, ritrovando la forza che l’era mancata quando nel sonno aveva rivisto se stessa distesa in una sala ospedaliera, con il volto grondante di sudore e le gambe divaricate. Era sola, nessuno aveva osato restare al suo fianco. Con l’accentuarsi delle contrazioni, anche i medici lasciavano la sala.
Era sola.
«Aspetto un bambino».
Morgana si staccò dalla stretta di Gwen, incatenando i suoi occhi di smeraldo in quelli scuri e accoglienti dell’amica e tutto salì a galla. Riaffiorarono nitide nella mente le immagini dell’uomo che l’aveva colpita due volte al volto, dello sparo, Merlin accasciato al suolo, il bacio sul tavolo da cucina di Gaius. Poi riemersero dalla sua memoria le parole che lei e Merlin si erano detti, le sue mani affusolate sul proprio corpo e la sua lingua sul collo. Ricordò di aver percepito la sua presenza come una scossa elettrica, mentre tutto intorno diventava caldo e incolore. Ricordò di averlo stretto al petto e di averlo baciato due volte, abbandonandosi completamente al piacere di assaporarlo ancora e ancora e ancora.
«Non so di chi sia.» Non c’erano più lacrime a rigarle il volto già bagnato, ma i suoi occhi spavaldi nascondevano la paura.


 
 
 
Cambiamenti. Trasformazione.
Ti è mai capitato? Svegliarti un giorno e guardare tutto da un altro punto di vista?
Tutto sembra assumere una forma diversa, preannunciando l’avvento di un nuovo inizio.
Te ne sei accorto senza desiderarlo; la tua vita ha preso una piega differente.
Ma il vero problema è: cosa farsene del cambiamento?
Lo accoglierai a braccia aperte oppure distruggerà ogni tua certezza?




 




* Relie's corner*
Il Rising Sun è il nome della taverna di Camelot nella serie;
- La prima - e unica - battuta in inglese di Igraine è "Piacere di conoscerti, Vivian";
- Per chi non lo sapesse "Hi" vuol dire "Ciao". Nella scena Igraine/Gorlois ho giocato con la somiglianza fonetica di "Ahi" e "Hi";
- "Get out, stray" vuol dire letteralmente "Sparisci, randagio". (Se ve lo state chiedendo sì, Vivian insulta Igraine chiamandola "randagio", ma voi pensate alla povera Igraine abituata alla lingua italiana e... capirete a cosa pensa quando le viene dato della "stray");
- Igraine, in questa storia, nasce in Italia ed ha radici francesi (per forza, se pensate al suo cognome) e non sa molto bene l'inglese. Quando Alice parla con lei lo fa in italiano, per il resto Igraine o va ad intuito o la frase è semplice da comprendere;
- Igraine non so quanto possa essere considerata IC o OOC (tale discorso vale anche per Gorlois e in futuro per Vivienne), in quanto è un personaggio che è comparso così poco nella serie che mi sento addirittura di considerarla OC. Tirando le somme, spero solo che la 'mia' Igraine possa piacervi;
- Non so voi, ma dopo questo capitolo mi è partita la Georgana XD;
- Sì, la notizia shock era la gravidanza di Morgana, ma io ho voluto giocarvi un brutto scherzo rifilandovi la storiella della sorellastra. (Giusto perché a Natale si è tutti più buoni);
- Complimenti a tutti quelli che hanno subito pensato a Gwen per la storia del drago. Tifiamo tutti per lei <3;
- Tempo fa accennai ad una sorta di fobia di Morgana nei confronti di Topolino. In questo capitolo(ne) ho tentato di spiegarvene la motivazione: Morgana, il giorno dell'incidente, nota per strada un uomo travestito da Topolino e poi accade l'impensabile;
- Inutile dirvi che Gwaine non è un personaggio negativo e che io sto imparando ad amarlo. Non vuol giocare sporco: dopo aver saputo che Freya è la fidanzata di Merlin ha deciso di "mettersi da parte";
- Arthur consiglia a Merlin di non lasciarsi con Freya perché crede di doversi comportare da "migliore amico";
- Spoiler: sarà presente la coppia Gwaine/Morgause; qualcuno potrebbe scoprire i sentimenti di Arthur nei confronti di Merlin e... il loro rapporto potrebbe subire dei cambiamenti;
- Domandina: secondo voi, cosa ha lasciato Helena a Gwaine?
- Non so cos'altro aggiungere se non... Buone feste a tutti!


 

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Capitolo 18
*** "Era una notte buia e tempestosa..." ***


Nda: Buon salve a tutti! 
Quanto tempo è passato? Due mesi? Sì, credo di essermi fatta attendere abbastanza!
Non voglio tediarvi molto con le mie note d'autrice, anche perché sto morendo di sonno e non bisgnorebbe mai pubblicare a quest'ora - e probabilmente farò molti errori xD Scusatemi!
Ci tengo solo a ringraziare tutti coloro che continuano ad aggiungere la storia nelle preferite/ricordate/seguite. Un grazie di cuore a coloro che continuano a migliorarmi le giornate con le loro splendide recensioni e a chi legge in silenzio. Grazie!
Un grazie speciale va a Celtica (click) che continua a mostrarmi un affetto incredibile in ogni sua recensione. A lei va questo capitolo! Consiglio vivamente a tutti voi di passare nel suo profilo, soprattutto se amate Lady Oscar. Vi dico solo che, io ho amato André - non ricordo più dove va l'accento, scusate, ho troppo sonno! - grazie a lei!
Lasciatemi, se vi va, una recensione anche come la mia piccola cagnolina Lexie: piccu piccu. (Ho sonno, non badate a me!)
Buona, spero, lettura!
 
                    XVIII. “Era una notte buia e tempestosa…”
Il primo che ha scritto "E vissero per sempre felici e contenti..." dovrebbe essere preso a calci nel sedere.
"C'era una volta... e vissero felici e contenti..." le storie che raccontiamo sono fatte della stessa sostanza dei sogni.
Le favole non si avverano.
La realtà è molto più burrascosa, più oscura, più spaventosa... La realtà è molto più interessante del "E vissero per sempre felici e contenti."
Grey’s Anatomy
 
 
 
 
 
Quando tutta Londra s’addormentava e a cullarla non c’era più nessun domestico che ciabattava per i corridoi delle sontuosa villa Pendragon, Morgana rimaneva stesa nel suo letto tormentata dagli incubi che la seguivano ovunque andasse, che chiudesse o meno gli occhi. Allora lei, così piccola e così sola, combatteva contro la paura del buio e le voci dei paramedici e degli sconosciuti che ancora le rimbombavano nelle orecchie, scendendo a piedi scalzi dal suo letto per intrufolarsi nella stanza del fratello.
Arthur l’attendeva ogni sera sdraiato nel suo bel lettuccio comodo, dando le spalle alla porta che Morgana si premurava di aprire delicatamente – o di getto, se appena svegliata da un incubo.
La bambina lo richiamava in un sussurro incerto, altre volte non lo faceva affatto.
«Chiudi quella porta, sto congelando», era una fra le tante frasi criptate che smuovevano Morgana dalla paura di essere scoperta. La piccola Pendragon chiudeva repentina la porta e sgambettava sotto le coperte, appoggiando il viso stanco sulle spalle del fratello.
Raramente ne seguiva una conversazione bisbigliata, ma nel sonno Arthur si voltava sempre per abbracciare sua sorella.
Ma quante cose erano cambiate...
Morgana pensò che fossero passati secoli dal tempo in cui immaginava Arthur come l’unico uomo della sua vita: il cavaliere errante con una spada forgiata dal fuoco di un drago capace di proteggerla da ogni male, persino da Uther.
Lanciò un’occhiata dall’altra parte della tavola apparecchiata, tra una bottiglia di vino e d’acqua minerale, ritrovando un Arthur che si versava da bere annuendo col capo alla domanda del padre circa gli affari del bar, avvertendo la figura elegante e profumata d’acqua di colonia di Mordred, al suo fianco, come un peso. Era così rilassato, così a suo agio da metterla in soggezione: mentre il piatto del fidanzato era quasi vuoto, quello di Morgana sembrava non esser stato mai nemmeno toccato.
«Morgana», Uther richiamò la sua attenzione, poggiando i polsi sul bordo del tavolo. «Non hai toccato cibo».
Prima ancora di avere il tempo per evitare lo sguardo del fratello portandosi il bicchiere alla bocca, sentì Mordred chiederle con premura: «Stai bene?»
«Sì. Non ho molto appetito».
«Con tutti i dolci che ti sei divorata al bar…»
«Erano disgustosi», precisò acidamente la Pendragon, trafiggendo il biondino con i suoi occhi gelidi e arrabbiati, attirando in questo modo la totale attenzione degli altri commensali.
«Ne sono sicuro», aggiunse ancora Arthur, infilzando due chicchi di mais e del cavolo lesso con indifferenza, per poi mangiarli in un sol boccone.
«Il purè è molto buono.» Mordred indicò la pietanza nel suo piatto con i denti argentati della forchetta, sperando di quietare l’animo dei due Pendragon, evitando una Terza Guerra Mondiale, sorridendo educatamente in direzione di Uther a capotavola.
«È Aveline che dovresti lodare, non di certo mio padre. Lui non sa neanche come accendere un fornello».
«Morgana!»
«Dicevo così», minimizzò la ventunenne con innocenza, «per dire. Non ho mica spifferato di avere una sorellastra».
Non sapeva esattamente perché lo avesse detto. Forse le pesava la consapevolezza di aspettare un bambino e non sapere chi fosse il padre, forse si sentiva ancora in collera con Ginevra per la discussione avuta la notte precedente, quando le aveva confessato la sua gravidanza. Gwen le aveva remato contro, dicendole quanto fosse stato sbagliato il suo comportamento, rimproverandola come una madre severa, mentre le ripeteva di doversi informare sulla data del concepimento e di dire tutto a Merlin e Mordred. Morgana allora era scattata in piedi, col viso colorato di rosso, urlandole tutti gli errori che aveva compiuto specie quando aveva tradito suo fratello per Lancelot, accusandola di non essere mai stata sincera e di non meritare il suo giudizio; Ginevra aveva deglutito in silenzio, cambiando notevolmente espressione, uscendo dall’appartamento della Pendragon così come ci era entrata.
Come se non bastasse, Arthur le aveva implicitamente messo in chiaro la sua posizione: era contrario, non sarebbe mai stato dalla sua parte.
Merlin aveva scelto Freya e Mordred aveva rinunciato al suo studio e alla sua carriera per seguirla a Londra e ritrovare la tranquillità che Parigi gli aveva sottratto – o per meglio dire, che la droga, i furti e Kara gli avevano tolto -, accontentandosi di un posto sicuro e ordinario al bar. (Questione che, per più di due cene, avevano fatto storcere il naso ad Uther – che alla fine si era convinto ad accettarlo nella sua famiglia).
Forse voleva essere lei a far soffrire qualcuno, e desiderava che quel qualcuno fosse suo padre. Lo sguardo smarrito, le labbra rimaste congelate nella loro posizione, le mani che non sapevano se chiudersi o dispiegarsi: con quella confessione Morgana aveva messo a nudo suo padre, facendogli capire di sapere tutto e poco ci sarebbe mancato affinché si fosse alzata dal suo posto e avesse spiattellato di essere stata a contatto con dei drogati a Parigi, per lavoro, ed aver incontrato la sua sorellastra. Ma per fortuna Arthur era il figlio buono, quello nato per salvare la situazione, così lo sentì schiarirsi la voce e cominciare a parlare: «Hai visto la partita alle cinque? Ho saputo che il Liverpool ha pareggiato per un soffio».
«Ne ho sentito parlare in ufficio, ma non ho avuto il tempo di vederla. Dicono che stia perdendo punti, che il Chelsea meritasse di vincere».
«Già!Fortuna che sul finale Coutinho ha pareggiato, altrimenti il Chelsea avrebbe sorpassato il City, e al ritmo che stanno viaggiando sarebbe stato molto difficile il controsorpasso».
Morgana scolò l’intero bicchiere di vino, voltandosi distrattamente verso Mordred, ritrovandolo inusualmente impacciato rispetto a qualche minuto prima. Aggrottò la fronte, ancora col Grand Ballon a mezz’aria. «Che ti prende?»
Nel vedere Mordred quasi sul punto di mordicchiarsi il labbro inferiore, giocherellando smanioso col tovagliolo alla destra del piatto, la Pendragon avvertì il bisogno impellente di bere altro vino ritenendosi troppo lucida per non immaginare una Kara che ripeteva al suo Reddie quanto lei fosse sbagliata per lui, quanto la sua famiglia andasse a rotoli, ma per versarsi da bere avrebbe dovuto scomodare il diretto interessato o cosa peggiore Arthur, dunque decise di dare libero sfogo alla sua irritazione: «Guarda, Mordred, che s’è per la storia di prima io…»
«Io... non so nulla di calcio», confessò il francese.
Morgana, perplessa, si girò a guardare suo padre e Arthur chiacchierare di squadre e partite come una famiglia normale, domandandosi come facessero a rilassarsi parlando di competizioni; Uther e Arthur erano sempre stati uniti quando si parlava di Manchester o qualsiasi cosa riguardante il calcio: ne conversavano con euforia, vero interesse, tanto che da bambina Morgana - che amava rintanarsi nei luoghi più appartati per divorare intere saghe fantasy – li immaginava come due nobili seduti ad un enorme tavolo di legno che discutevano d’incontri tra cavalieri, mentre lei ascoltava attenta, così da prendere mentalmente appunti per aggiungersi alla conversazione. Ricordò che una volta si era addirittura rinchiusa in camera sua con Owain, il figlio di un maggiordomo, costringendolo a parlare di tutte le squadre e tutte le partite che avesse mai visto in tutta la sua breve esistenza, appassionandosi a sua volta a quello sport tanto odiato dalle donne.
Venire a conoscenza di quel piccolo particolare da parte del suo fidanzato la divertiva parecchio, tanto da non trattenere il piccolo ghigno che le allargava parte della bocca. «Ma fai sul serio?»
«Non riderne. Ognuno ha le proprie passioni», si difese Mordred, corrugando contrariato la fronte dietro i suoi ricci castani.
«L’altra volta ti ho sentito parlare con mio padre del Manchester, però...», costatò dubbiosa Morgana, finché le sue labbra non si stiracchiarono in un sorrisetto beffardo. Gli puntò un dito contro appena sopra al tavolo, sfiorandogli la camicia: «Oh, Mordred! Non dirmi che tu-»
«Ho le mie fonti», riassunse risoluto quanto imbarazzato l’uomo, sbottonandosi l’ultimo bottone della camicia, liberando il collo da quella morsa divenuta insopportabile. «Scambiare quattro chiacchiere con i clienti non fa mai male, poi quando tuo fratello attacca con il Manchester non la finisce più!»
«Ma non mi dire», stuzzicò ancora Morgana cercando di mantenere un tono provocatorio senza steccarlo in una risata. «Convivo con uomo che da ragazzino si fingeva ammalato per non giocare a calcetto con gli amici».
Quand’erano a Parigi e Mordred la portava a cena fuori anche durante un derby, Morgana aveva creduto che il francese si registrasse tutte le partite per potersele rivedere in completa solitudine la mattina seguente, dopo che lei si fosse rivestita e l’avesse salutato e invece...
Mordred si chinò verso di lei sfiorandole una mano, avvicinando la sua bocca all’orecchio. Morgana fu invasa dall’odore ammaliante del fidanzato, quello che sin dal primo giorno le aveva fatto perdere la testa e l’aveva costretta ad accettare consenziente il suo invito alla Galerie Michel Rein dove si era ammaliata del suo sapere e del suo amore verso l’arte. «Ed io potrei passare tutta la mia vita con una londinese irascibile con poco appetito».
Morgana si voltò immediata verso di lui, proprio dove sentiva provenire il suo alito che il quel momento era un misto tra fragranza di broccoli lessi e patate frullate col burro, sentendo il  cuore batterle così forte nel petto da poter esplodere da un momento all’altro. «Mordred…»
«Dicevo così, per dire», finse, sollevando innocentemente le spalle.
Ma Morgana sapeva riconoscere un angelo fasullo quando lo vedeva e Mordred, con quella sua aria enigmatica e sarcastica, non la fregava. Per quanto lo avesse desiderato in quel momento, non riuscì a staccargli gli occhi di dosso, sui suoi capelli curati, le sopracciglia folte e le iridi così chiare. Un brivido le percorse tutta la schiena, ma per una volta ebbe paura di non comprendere il linguaggio del suo stesso corpo.
«Mordred», la voce fin troppo canzonatoria di Arthur interruppe il collegamento invisibile che si era creato tra il verde smeraldo dello sguardo di Morgana e l’azzurro chiarissimo di quello del francese, scuotendo la sorella dalla sua ansia inconsueta. «Cosa ne pensi a riguardo?»
«Cosa ne penso...» cominciò il moro, indirizzando gli occhi verso Uther sperando in un suo chiarimento.
«Costa o Rooney?» chiese Arthur, mantenendosi il mento tra l’indice e il pollice, un’espressione da professorino seccante in volto, in attesa di risposta.
Mordred esitò per un attimo, alternando lo sguardo dal signor Pendragon fino alla sua Morgana, accontentando infine il più giovane fra loro quattro proferendo sicuro e soddisfatto un: «Le meilleur».
La ventunenne vide il padre concedersi una sincera risatina occhi negli occhi con il francese (il tipico modo per Uther Pendragon di far sapere a qualcuno che gli stesse a genio), mentre Arthur serrò la mascella con astio borbottando sottovoce qualche minaccia in cagnesco.
 


**

 
Morgana si era avvicinata all’entrata per prima, infilandosi la giacca nera ansiosa di andarsene da quella villa in stile vittoriano che pareva tanto un vecchio castello, sfilarsi quei tacchi dai piedi e stendersi nel suo letto, a pensare. Pensare a cosa fare con quel bambino, come agire, se tenerlo.
«Morgana».
La ragazza sussultò impercettibilmente, provando inspiegabilmente l’impulso di portarsi la mano sul ventre in gesto di protezione per poi riprendere la calma e realizzare, voltandosi, che a chiamarla era suo padre.
Uther la guardava come non l’aveva più fatto da parecchio: con le labbra sottili distese in una linea retta che a stento formavano un piccolo sorriso, gli occhi vagamente lucidi contornati dalle rughe che iniziavano egocentriche a comparire sempre più numerose.
Vestito di tutto punto in un completo cinereo da cui s’intravedeva la cravatta annodata al collo che lei stessa gli aveva regalato un Natale di molti anni fa, quando era ancora una bambina innamorata del suo papà, se ne stava fermo accanto alla rampa di scale che portava al piano superiore. «Potete restare. Tu e Arthur potrete sempre restare qui».
Morgana prese la sua borsa sistemandosela sulla spalla destra, aggiustandosi il colletto della giacca scura.
«Puoi rimanere, Morgana», insistette il padre.
«Lascio il bar», disse tutto d’un fiato. «Torno a lavorare come giornalista, magari continuo gli studi».
Uther sembrò invecchiare di colpo mentre alle sue spalle, a sinistra, Mordred e Arthur si fermavano sotto l’arco in marmo bianco che separava l’ingresso dal salone, l’uno a sorreggere l’altro. Morgana non ebbe bisogno di guardarli in faccia per capire quanto fossero rimasti amareggiati dalla sua confessione e sapeva che, una volta tornata nell’appartamento del fratello, avrebbe dovuto sorbirsi un’altra discussione – con due persone diverse, per due motivi diversi.
La Pendragon prese interiormente un bel respiro, posando la borsa sull’attaccapanni di ciliegio. «Vado nella mia stanza, allora.» disse, dileguandosi salendo comodamente le scale, appoggiando la mano sulla balaustra in legno.

                                                                                                               
*


 
Dopo l’uscita di scena di Morgana, Uther aveva accompagnato suo figlio nella sua vecchia stanza, aiutandolo a salire i gradini poggiandosi il suo braccio sulle spalle, sostenendolo anche quando Arthur insisteva di potercela fare da solo.
Una volta aperta la porta in legno noce, ed aver lasciato il giovane Pendragon in piedi sulla sua gamba funzionante e sulla stampella grigio cenere, aveva acceso l’interruttore con la nocca dell’indice indicandogli con il mento l’armadio contenente ancora parte dei suoi vestiti, se mai avesse avuto bisogno di un cambio, confidandogli che Debra, la cameriera, una sera gli aveva rivelato di soffrire la mancanza del disordine inumano della stanza del piccolo Arthur, ma che non invidiava per niente la povera Morgana che adesso doveva rimboccarsi le maniche da sola.
«In realtà non è così disperata la situazione», aveva spiegato Arthur. «Morgana non ha mai fatto niente per niente: appena ha saputo di dover pulire per tre ha raccattato un certo William ricattandolo con non-so-cosa e prima che tornassimo dal bar la casa era un brillante».
Uther si irrigidì come un sasso, impallidendo, non capacitandosi dell’imprudenza di quella ragazzina: cosa diamine le passava per la testa?!
Ma prima che il padre cadesse a terra privo di sensi, Arthur lo rassicurò con una risata: «Guarda che stavo scherzando. Se l’è cavata e a volte Mordred le dà una mano».
«Non è stato divertente, Arthur», lo rimproverò il Pendragon con un’occhiataccia, mentre il biondino avrebbe scommesso tutti i suoi averi – Pendragon’s Coffee e appartamento inclusi – che il padre avesse combattuto contro l’impulso di portarsi una mano al petto e sospirare di sollievo.
Era stato divertente, altro che! Ma tutta la verità non gliel’aveva detta: non lo aveva messo al corrente che, in realtà, ad aiutare sua sorella era stata Ginevra e non Mordred. Arthur lo aveva sempre sospettato dal giorno del pigiama party saltato – quando quell’imbecille di Merlin lo aveva trascinato a quella stupidissima rimpatriata con i genitori di Freya -, fino ad averne la conferma la sera in cui Gwen gli aveva svelato la storia dell’aborto staccandosi la catenina che portava al collo, lanciandola sul pavimento.
Suo padre non l’avrebbe mai saputo.
«Bisognerà cambiarle», disse d’un tratto Arthur, additando l’ampio letto ad una piazza ricoperto da lenzuola bianche e una coperta rossa.
«Nient’affatto.» Uther dissentì andando verso l’armadio, prendendo una t-shirt e un paio di boxer. «Debra pensa alla tua stanza una volta a settimana».
Arthur increspò le ciglia dorate. «Io non abito più qui, lo sai».
«Questo non vuol dire che non sia più casa tua».
«Io...»
Prima che Arthur, boccheggiante, potesse riflettere su cos’altro dire si vide faccia a faccia con suo padre che, col suo strano sorriso tirato, gli mostrava i vestiti puliti: «Suppongo ti servirà aiuto».
«Abbiamo trovato una lettera».
Uther Pendragon rimase immobile sul posto.
«Una certa Vivienne ti scriveva di sua figlia, Morgause, ritenendoti il padre».
Pesarono ad Arthur quelle parole, gli pesarono come cemento armato, ma non poteva ignorarle o trattenerle ancora tra i denti: doveva sapere; suo padre gli doveva una risposta. Gliela doveva per sua madre.
Il sorriso, sul volto di Uther, scomparve come per magia. Al suo posto comparve uno sguardo di cera, freddo come il marmo. «E tu hai dato retta ad un pezzo di carta».
«Mi sembrava lecito offrirgli il beneficio del dubbio», rincarò il ventenne.
«Io amavo tua madre, Arthur. Non passa giorno che io non pensi a lei.» Gli occhi di Uther, tanto temuti in lontananza dal giovane Pendragon, non gli erano mai parsi tanto vulnerabili e fragili. Indifesi. «Non avrei mai potuto ferirla in questo modo».
Arthur abbassò lo sguardo ferito, mordendosi la lingua per l’insolenza, pensando a quanto tutta quella storia fosse diventata assurda. «Certo, mi dispiace».
Sapeva di aver offeso suo padre, di avergli dato del traditore ed aver gettato fango sull’amore che provava per Igraine, ma dalla nottata precedente, quando Morgana aveva pianto senza interruzione vinta dagli incubi, si era detto che doveva andare fino in fondo a quella storia. Doveva farlo per lei. Per sua sorella. E invece non aveva fatto altro che rendersi ridicolo.
«Credo che una rinfrescata non ti farà male» sentì dire al padre. «Ricordi ancora la strada per il bagno?»
Arthur non ebbe il coraggio di annuire, improvvisamente più piccolo di una formica.
 
 




Londra, Gennaio 1988
 


Igraine cominciava ad ambientarsi in quella Londra grigia e strana, a tratti fredda e distaccata, instaurando un buon rapporto con Gorlois – per gli amici, burlato in “Lois”.
La maggior parte del tempo nel Rising Sun, in assenza di clienti o con pochi avventori, Igraine la passava facendosi dare lezioni d’inglese da Alice e parlottando con Gorlois – che per lei, nel giro di una sola settimana, era diventato K.G: la giovane De Bois si divertiva a raccontargli della sua Roma, di quello che si era lasciata alle spalle, offrendosi più di una volta come cuoca personale del ragazzo per fargli assaporare le specialità della sua terra.
«Non puoi dire di aver vissuto, se non hai mai mangiato un’Amatriciana!», sosteneva patriotticamente Igraine, puntando un dito verso il cielo e toccandosi la pancia con l’altra mano.
Gorlois le rispondeva sempre in modo scherzoso di dover rimediare, ma ignorava che la giovane italiana ci sperasse sul serio. Igraine sapeva che il suo K.G. aveva occhi solo per la bella e misteriosa Vivienne, eppure non poteva far a meno che arrossire ad un suo buffetto sulla guancia o ad un complimento inaspettato. Il cuore le martellava così forte nel petto senza che Gorlois facesse nulla di speciale: guardarlo mangiare una fetta di torta che gli aveva premurosamente lasciato da parte – spesso una Red Velvet – o farsi imboccare dall’altra parte del bancone perché «doveva assolutamente provarlo», erano momenti più che sufficienti per sentirsi una giovane ragazza felice.
E come tutte le altre volte, Alice quel giorno l’aveva ripresa mentre ridacchiava col muso sporco di panna, picchiando piano Gorlois con una pezza umida: «Me l’hai già distratta abbastanza per oggi», lo rimproverò, dicendo poi a Igraine di andarsi a ripulire la faccia.
«Va bene», disse alla barista, distendendo le sue labbra rosee in un sorriso tanto grazioso e contagioso da essere seguito a ruota da quello di K.G. Perché era un po’ un gioco, la loro amicizia: non esisteva istante in cui l’uno non seguisse l’altra.
Igraine si diresse alla toilette del bar ancora sorridente, ripensando a quanto fosse speciale ciò che era successo tra lei e Gorlois, in un mondo dove ogni cosa girava intorno al singolo individuo, alla diffidenza e alla paura dell’ignoto, ma non appena fu vicina alla porta si sorprese di ritrovarla socchiusa, udendo un singhiozzare mal trattenuto provenire dall’interno.
 La De Bois, indecisa se bussare o meno, rimase con la mano a mezz’aria.
«Cosa devo fare? Cosa devo fare?», sentì ripetere tra i singhiozzi come un mantra.
E lei? Cosa avrebbe dovuto fare? Irrompere con indifferenza nel bagno spezzando in questo modo il piccolo momento di sfogo che quella persona, chiunque fosse, si era ritagliato... o fare finta di essere arrivata solo in quel momento e bussare?
Igraine, a discapito di tutte le alternative attuabili, scelse la peggiore e la più comune: non fece nulla. Rimase esattamente nella stessa posa iniziale, a differenza della mano calata lungo il fianco. Eppure l’aveva studiato anche al liceo che non prendere una posizione era sbagliatissimo; la sua professoressa di Letteratura l’avrebbe divorata se l’avesse saputo!
E come Dante aveva poeticamente scritto, ecco la sua punizione e la sua condanna al crimine commesso: due smeraldi acquosi e petali di rosa al posto della bocca che si lasciavano torturare dai denti e dal sale delle lacrime cadute. Vivienne, con la sua riccia chioma dorata, trafisse quella piccola ragazzina ficcanaso che indecentemente l’aveva ascoltata.
Igraine cercò di dire qualcosa, ma appena aprì bocca Vivienne si passò due dita sotto gli occhi per togliersi il mascara colato, uscendo dalla toilette, scansandola senza alcuna cura.
 




Londra, Giugno 2015
Giovedì, Ore 23.48 (Villa Pendragon)
 
 
Dopo aver aiutato suo figlio – che, cocciuto come un mulo, si era ostinato a darsi una rinfrescata da solo e infilarsi t-shirt e boxer senza l’aiuto di nessuno (fallendo miseramente) -, Uther si ritrovò fermo nel corridoio, in silenzio, con i mocassini fissi sul lungo tappeto persiano rosso, quello che Igraine stessa aveva scelto, a fissare la seconda porta a destra: quella di Morgana.
Nella luce calda delle lampade da muro che coloravano di un giallo malinconico il legno della porta, Uther si chiese come fosse possibile che lui e Morgana non riuscissero a colmare quel vuoto immenso che si era creato tra loro.
Erano così simili: parlavano allo stesso modo, si vendicavano in egual maniera e talvolta, a tavola, tagliuzzavano e masticavano il cibo all’unisono – proprio come succede nei film. Il problema, se ne convinse con gli anni, erano le direzioni che avevano deciso di prendere.
Morgana, fin da ragazzina, aveva sempre pensato a lui come ad un nemico, qualcuno che le remasse contro quando invece era lei a correre controcorrente: aveva perso la testa per un Emrys – un membro di quella viscida e schifosa famiglia che gli aveva portato via la sua Igraine – e lui, come ogni buon padre avrebbe fatto, l’aveva protetta allontanandola da lui. Il problema era che Morgana non vedeva nulla di tutto questo.
Scese la rampa di scale, intrufolando una mano nella tasca della giacca grigia, estraendone dopo un secondo un pacchetto di Marlboro. Si infilò una sigaretta tra i denti, avvicinandosi alla porta d’entrata, lo sguardo fisso sul vialetto di ghiaia illuminato dai lampioni che s’intravedeva dal vetro piombato.   
Merlin, ripensò, stringendo più forte del dovuto il filtro tra le labbra.
Gli Emrys nascevano come l’erbaccia pronta ad imbruttire il prato più bello del mondo e proprio come tale andavano eliminati, si convinse Uther. Morgana stava con un altro uomo, presto si sarebbe sposata e quello stupido ragazzino non sarebbe più stato un problema per sua figlia, ma per Arthur... Per Arthur era tutto molto più complicato. Uther non aveva mai pensato a come allontanare quel disgraziato dalla vita di suo figlio e quello era stato un errore imperdonabile da parte sua.
Quel ragazzino, per Arthur, era diventato troppo importante. Cacciarlo per sempre dalla sua vita era arduo, ma Uther sentiva di poterci riuscire. Aridian, quel lurido bastardo, gli doveva un ultimo favore. E gliel’avrebbe ricambiato.
A qualsiasi costo. Con ogni mezzo. Lecito o meno che fosse.
Due colpi di tosse.
Uther rischiò di far cadere sul parquet la sigaretta e l’accendino che aveva appena preso tra le mani, voltandosi spaurito verso l’arco in marmo dove un Mordred composto lo guardava velando il disorientamento e l’imbarazzo.
«Che diamine ci fai ancora qui?», sputò fuori il signor Pendragon che, per la seconda volta quella sera, aveva corso il rischio di un infarto.
«Morgana è scomparsa al piano superiore più di mezz’ora fa e lei ha accompagnato suo figlio nella sua stanza – più di venti minuti fa -, senza dare cenno di seguirla», spiegò il francese.
Uther sembrò volerlo squadrare da capo a piedi per costatare se mentisse poi, socchiudendo gli occhi e avvicinando il fuoco dell’accendino alla sigaretta, gli fece cenno di salire le scale. «Vieni».
Mordred lo seguì in silenzio, lasciandosi accompagnare al piano superiore sino alla terza porta a sinistra che Uther aprì senza alcuna cura. «Se vuoi, puoi cambiare le lenzuola. Trovi tutto nel cassettone sotto lo specchio. Se hai bisogno di vestiti puliti puoi chiedere ad Arthur, due porte prima della tua», cominciò a spiegare risoluto. «E quello è il bagno», disse, indicandogli con un movimento del capo l’ultima porta a destra.
«Grazie», riassunse il moro, comprendendo finalmente da chi Arthur e Morgana avessero ereditato tutta la loro gentilezza.
Uther liquidò la faccenda muovendo distrattamente la mano in aria, quasi in segno di saluto, iniziando a percorrere il corridoio facendo un lungo tiro dalla sua Marlboro, finché Mordred, avanzato un piede nella stanza a lui assegnata, non lo sentì parlare ancora: «Ah, e Mordred...»
«Sì?», chiese, sporgendosi oltre l’andito per guardarlo in faccia.
«Ho il sonno molto leggero», gli disse, calcando sull’ultima parola. «Ci siamo intesi?»
«Certo, signore».
Un sorriso tirato, gesto che per Uther Pendragon era paragonabile ad uno sforzo titanico, un secondo tiro dalla sua sigaretta e una buonanotte implicita nella suo accomiatarsi al pian terreno, bastarono a Mordred affinché optasse al dormire in mutande, senza mai uscire dalla sua stanza.
 

*

 
Quella mattina si era svegliato con la consueta voglia di bere un bel caffè freddo a colazione, accompagnato da una mela verde e una bella rinfrescata al viso addormentato.
Merlin si era alzato, ancora una volta, prima della sveglia mentre Freya ancora dormiva dall’altra parte del letto. La baciò sulla fronte, sentendola mugugnare nel sonno e stringersi al suo cuscino.
«Buongiorno», le sussurrò sulla pelle, scendendo con le labbra sul collo.
Freya si strinse nelle spalle e si voltò nel lato opposto al suo, nascondendo il volto nel cuscino rilasciando un versetto da animale pigro e neghittoso.
«Da quando sei diventata così pelandrona?», stuzzicò allora lui, accarezzandole il braccio scoperto, aspettando che si girasse per rubarle un bacio inaugurale per vederla sorridere, come la notte precedente e quella prima ancora. C’era da dire ch’era solo grazie al consiglio di Arthur se Merlin si era impegnato nel ritrovare l’intimità ormai persa con Freya... e andava anche abbastanza bene, considerando che nelle ultime notti passate a letto con la sua fidanzata non aveva pensato neanche un momento a Morgana.
Arthur era un idiota, questo era appurato, ma non era detto che anche lui non potesse dire qualcosa di buono e sensato, ogni tanto!
Eh sì! Chi l’avrebbe mai detto che quella testa di legn-
«Arthur...»
Lo sguardo di Merlin scattò verso la chioma castana e disordinata ch’erano i capelli di Freya, domandandosi se avesse sentito bene o se soffrisse di allucinazioni. «Cos’hai detto?», chiese circospetto.
«Basta!»
«Basta?» ripeté confuso Merlin, convinto che la sua ragazza ce l’avesse proprio con lui... o, almeno, prima di sentirla mugugnare ancora il nome di Arthur.
Merlin si allontanò dalla ragazza come se avesse preso una scossa elettrica, a sopracciglia aggrottate e sempre più confuso, dicendosi che sarebbe stato meglio scolarsi quel bel caffè freddo come da programma.


**

 
Quando Merlin varcò la porta secondaria del Pendragon’s Coffee, cercò ansiosamente con lo sguardo la figura di Arthur, felice di ritrovarlo seduto sul suo solito sgabello a leggere un foglio di carta rovinato, i capelli biondi stranamente spettinati.
«Credo che tu mi debba delle spiegazioni», cominciò andandogli incontro.
Arthur sollevò i suoi occhi azzurri su di lui, guardandolo come se fosse un completo idiota.
«La mia ragazza ti sogna», lo mise al corrente, sfilandosi il giubbotto da dosso.
«Buon per lei».
Merlin boccheggiò tentando di trovare le parole adatte, ma finì per arrendersi in quella ricerca disperata nell’accorgersi della presenza di Mordred. Il francese, le occhiaie calcate, la faccia assonnata sorretta da entrambe le mani e i vestiti pieni di pieghe, se ne stava seduto ad un tavolino rotondo, fissando un punto morto oltre le porte scorrevoli.
Il corvino indicò Mordred ad Arthur, sogghignando beota. «Voi... Mi sono perso qualcosa?»
Merlin ebbe pochissimo tempo per ridere delle sue sciocche allusioni perché, in men che non si dica, un mazzo di chiavi andò a sbattere contro il suo naso, stoppando la sua risatina, cadendo al suolo un secondo dopo.
«Il senno, e già da molto», sentì borbottare dall’Asino. «Piuttosto, renditi utile prendendo secchio e scopa, dando una bella ripulita al pavimento».
Merlin sbuffò una risata di dissenso, non mostrando alcuna intenzione di raccogliere le chiavi dello stanzino. «Io sono appena arrivato!» si difese, puntando con un braccio il francese. «C’è anche Mordred. Perché mai dovrei fare tutto da solo?!»
«Si è rotto».
Merlin alzò le sopracciglia, incredulo alle sue orecchie, domandandosi cosa ci mettessero nell’aceto – perché era ovviamente colpa della cena consumata la sera precedente se ogni persona che incontrava diceva cose assurde, si era convinto. «Rotto
Vide il Pendragon spostare le iridi da quel pezzo di carta, degnandolo finalmente di uno sguardo. «Sì, è fuori uso», spiegò con naturalezza, quasi fosse colpa sua se non capisse le sue ovvie-e-sconnese parole!
E infatti, nel rimanere a bocca semiaperta, sopracciglia arcuate verso l’alto, Merlin riuscì ad ottenere nuovamente l’attenzione dell’Asino che, nel lanciargli una seconda occhiata furtiva alternata alla lettura in cui era assorto, lo guardò con aria interrogativa – sì, proprio quella in grado di urtare i nervi al più santo dei santi.
«Si è… rotto?»
«Sì, è successo ieri sera».
Ma il corvino continuava a non capire: rotto di cosa? Non era mica una macchina, cavolo! Qualsiasi cosa gli fosse successa poteva benissimo dargli una mano per sistemare il bar alla sua apertura!
«Continuo a non capire».
«E questa non è una novità».
Il Pendragon ignorò bellamente l’espressione contrariata che Merlin gli riservò, sospirando, per poi ripiegare la lettera e adagiarsela sulle cosce, trattenendola tra il pollice e l’indice. «Rooney o Ghandi?» chiese Arthur al francese, alzando volutamente la voce in modo da attrarre la sua attenzione, muovendo il capo verso destra, in modo da averlo sott’occhio.
Merlin sempre più confuso decise di imitarlo, incontrando in questo modo la figura di Mordred; l’uomo si passò rassegnato una mano sugli occhi, gemendo affranto:  «Ma cosa ci faccio qui?»
Un falsissimo sorrisetto di chi pretendeva aver ragione si dipinse sul viso di Arthur. «Visto?»
Mordred, agli occhi del giovane Emrys, parve improvvisamente più vecchio di trent’anni, depresso e vinto dalla vita – più o meno come tutti i clienti che ricevevano al bar dopo che questi avessero letto la somma dell’ultima imposta.
«Cosa gli è successo?»
«Morgana. Lo ha fregato».
Merlin trattenne il fiato, sentendo il sangue gelarsi nelle vene. «In che senso?»
L’Asino aveva ormai ripreso la sua lettura, rispondendogli senza prestargli la minima attenzione. «Nel senso che ha fregato tutti: ci ha lasciati».
«Cosa? …» La domanda che fuoriuscì dalle labbra carnose del corvino fu solo un flebile sussurro.
Arthur scosse il capo, senza guardarlo in volto. «Non potevo credere alle mie orecchie quando l’ho saputo».
Mio Dio.
Merlin sentì di doversi aggrappare disperatamente a qualcosa, rischiando di cascare col sedere a terra nell’afferrare solo aria, per poi protendersi in avanti e sostenersi al bancone.
Mio Dio, era l’unica cosa che riusciva a pensare. Nulla, ciò che riuscì ad articolare.
Percepì la voce di Arthur come un ronzio in allontanamento, su uno sfondo nero più di una notte senza stelle, mentre il Pendragon continuava indisturbato: «Mordred ci è rimasto secco, mi sa… Beh, quello è stato divertente», sogghignò.
«Arthur!», sbottò Merlin in un moto di disperazione. «Come puoi dire una cosa simile?!»
Il biondino abbandonò il suo tentativo di lettura in santa pace, corrugando la fronte così tanto da sembrare accartocciata su se stessa nell’incontrare i suoi occhi acquosi. «Cosa. Cavolo. Stai. Facendo, per l’amor del cielo?»
Solo in quel momento, quando alla sua espressione stralunata Arthur gli fece cenno alle guance, si rese conto di avere gli occhi lucidi – dal momento che le guance erano asciutte -, capendo quanto fosse stato stupido. «Io pensavo che…»
«Che mia sorella fosse morta ed io me ne stessi qui, indifferente, a lavorare nel bar?»
«I-»
«So di considerarla una rompicoglioni per la maggior parte del tempo e di chiamarla strega, ma questo non vuol dire che brinderei alla sua morte».
Merlin aprì la bocca nel chiaro intento di dire qualcosa, puntando l’indice in direzione dell’Asino, ma tutto ciò che fece – considerando la stupidità dei suoi ragionamenti troppo alta persino per Arthur – fu chinarsi per prendere le chiavi del pavimento, dirigendosi verso lo stanzino senza dire una parola.
Il biondino, meravigliatosi lui stesso dell’ottusità del ragazzo, decise di non pensarci più del dovuto, scrollando le spalle, ricominciando – per l’ennesima volta – la lettura di quella dannatissima lettera finché non sentì dei passi avvicinarsi e, nell’alzare lo sguardo, si ritrovò proprio faccia a faccia con Merlin.
«E comunque, la mia ragazza ti ha sognato», fece nota, ritornando poi da dove era venuto.
Interdetto, Arthur continuò a guardare davanti a sé, chiedendosi se sarebbe mai riuscito a leggere più di Caro e odiato amore mio.
«In fondo perché rovinarsi la vita per prendersi una laurea», sentì mormorare alla volta di Mordred.
Arthur roteò gli occhi, al limite di un’escalation di nervi, gettando vinto la lettera sul bancone. Quella mattina, forse, avrebbe fatto meglio a portarsi appresso un barattolo stracolmo di antidepressivi. «MERLIN!», urlò a gran voce.
Appena sarebbe accorso, come tutte le altre volte, gli avrebbe chiesto – o meglio, imposto – di preparargli un bel caffè bollente, facendogli sicuramente storcere il naso e vederlo lamentarsi come suo solito. Una piccola parte di lui, però, si domandò cosa avrebbe fatto Merlin se lui fosse scomparso.
 
 
*

 
Quando era triste, o arrabbiata o in collera con se stessa, sentiva di dover sfogare tutto il suo malumore in qualcosa, e siccome rimpinzarsi di ciambelle o vaschette di gelato al caramello non era poi così salutare come i film americani volevano far credere, saltava in sella alla sua adorata bicicletta, pedalando fino al Supermarket in Dolphin Square.
Lì, Ginevra perdeva la cognizione del tempo, quasi si trovasse in una dimensione parallela, in cui tutti i problemi che l’avrebbero spinta a divorarsi tutte le torte sfornate da George, nel laboratorio del Pendragon’s Coffee, svanivano paradossalmente come per magia.
Come tutte le altre volte, Gwen pedalò lungo Grosvenor Road, sorridendo sghemba non appena aver riconosciuto la villetta del vecchio Gaius in lontananza, proseguendo però verso sinistra per Dolphin Square East Side.
Amava sentirsi il vento tra i ricci capelli castani, lasciati liberi, mentre i palazzi e il verde della città venivano superati dalla sua corsa man mano che procedeva. Pedalare le faceva quest’effetto: sentiva di aver il controllo su qualcosa, almeno una volta nella sua vita.
Scesa dal veicolo a due ruote, lo parcheggiò nel primo posto libero trovato, quello apposito per le bici, passandosi una ciocca riccioluta dietro l’orecchio, dirigendosi verso l’entrata del supermarket.
Entrando, il rumore dei carrelli e il chiacchiericcio della gente la fecero sorridere d’istinto, come se avesse trovato la sua America. O la mia Excalibur, riflettette mentalmente, ripensando a qualche giorno addietro e al discorsetto fatto ad Arthur.
Sospirò, ricordando la lite avuta con Morgana Mercoledì notte.
Ginevra sapeva che la sua amica era fatta in quel modo: quando si ritrovava con le spalle al muro, l’unica difesa che credeva di avere era l’attacco; alzava i pugni contro il mondo, rinchiudendosi nel suo antro di paura e disorientamento. Morgana scappava, di fronte al dolore.
Lanciò curiosa uno sguardo alle vetrine della pasticceria, fermandosi a braccia conserte ad osservare una torta glassata al cioccolato. Non che stesse pensando di mangiarla, bisogna precisare! Gwen stava… riflettendo.
Altre persone l’avrebbero fatto sulle sponde di un lago, nel silenzio di una biblioteca o meglio ancora nel proprio letto, fissando il soffitto. Gwen riusciva a calmarsi e a ritrovare la serenità solo in quel supermarket. Era il suo posto, il suo rifugio sicuro, l’ancora alla quale aggrapparsi.
Raramente usciva dal supermercato con le buste strapiene di dolciumi e biscotti – o strapiene a prescindere da cosa ci mettesse dentro. C’erano giorni in cui comperava solo un pacchetto di chewingum o salatini integrali, consumandoli – nel secondo caso – seduta sulla panchina di fronte alla “fontana dei delfini”.
Certe volte è quasi impossibile aiutarla!
Gwen scosse il capo, decidendo che la torta non le desse la giusta ispirazione. Avanzò di qualche passo, superando vetrine piene zeppe di pizzette e rustici vari, ignorando il reparto dedicato all’acquisto del pesce, continuando la sua camminata girando a sinistra, ritrovandosi nel reparto alimentari.
Superò con lo sguardo confezioni e confezioni di tonno, fino a che le sue iridi scure non si bloccarono alla vista di fagioli e mais in barattolo. Si avvicinò, ne lesse la marca.

 
«Era per questo che mi avevate cacciato, quella sera… Morgana, lo sapevi che era sbagliato».
«Così adesso sarebbe tutta colpa mia?!»
«Non sto dicendo questo».

 
Era buona. Era francese.
Di solito Gwen comprava anche le insalate preconfezionate, di quella marca.
 

«Oh, allora faresti meglio ad essere più chiara perché comincio a non capire!»
Morgana la trafisse con i suoi occhi velati dall’amarezza, dalla rabbia e dal rimorso.
Gwen restò seduta sul bordo del letto. «Dico solo che certe cose non andrebbero fatte, che adesso hai delle responsabilità e non puoi sottrartene... Voi due... non immaginate nemmeno quanto male causerete alle persone che vi amano. Per questo devi parlare, non puoi tacer-»
«Tu!» Morgana rise stizzita, la gola infuocata a causa delle urla strozzate. «Tu giudichi me?! Proprio tu che hai fatto lo stesso!»
«Non stiamo parlando di me. Stiamo parlando di Mordred e di Freya. Non pensi a loro? A come soffriranno quando lo sapranno?!»
«E tu ad Arthur ci hai pensato?!» le ringhiò contro la Pendragon, facendosi più vicina. «Quando sei andata a letto con Lancelot ci hai pensato a lui?!»
«Morgana…»
«Ti sei fatta beccare! Lui ti ha vista nuda nelle braccia di un altro uomo nel vostro appartamento e tu, dici a me, che non penso al mio fidanzato o a quell’altra quando hai spezzato il cuore di mio fratello!» Morgana, il viso rosso dalla rabbia, gli occhi fiammanti d’ira, sembra un vulcano in piena eruzione. «Hai preteso perdono dopo essere sparita per mesi e mesi, e adesso hai il coraggio di dirmi che ho sbagliato?! Io ti sono stata vicina anche se tutte le persone che ti conosco avrebbero voluto sputarti in faccia!»
Gwen si morse il labbro tremante, tentando di sostenere lo sguardo dell’altra. Ma tutto ciò che riuscì a fare, una volta ingoiato quel boccone amaro, fu alzarsi dal letto e uscire a testa bassa senza dire una parola.
 

Ginevra si tolse lo zainetto vintage dalle spalle, controllando nella prima tasca se vi avesse lasciato qualche moneta e non trovandone nemmeno una, decise di controllare nel portafogli.
Morgana ignorava un particolare importante di tutta quella faccenda. Un dettaglio che lei stessa aveva chiarito, ma che non riusciva ad elaborare in modo corretto.
Si posò una manciata di pence sul palmo della mano, contandoli.
Riusciva a raggiungere la somma necessaria per acquistare il barattolo di fagioli.
Prima che potesse rimetterli nel suo portafogli, però, venne urtata da un carrello. Le monete caddero a terra in un tintinnio, facendo colorare di rosso le gote della ragazza.
Si abbassò per raccoglierle, rifiutando l’aiuto della donna che l’aveva inavvertitamente presa su un fianco, assicurandole che non c’era alcun problema. Le rinchiuse in un pugno, affrettandosi ad alzarsi ma... il suo cuore batté più lento.
Lancelot.
L’uomo era lontano da lei più di venti passi e le dava le spalle. Era solo, i capelli castani più corti di come li ricordava e un piccolo accenno di barba che prima non c’era.
Era solo, Lancelot, mentre faceva la spesa per se stesso; e dall’altro lato anche Ginevra era sola, che comprava un barattolo di fagioli perché le desse la forza di far notare a Morgana quel piccolo particolare che ancora le sfuggiva.
Soli, pagarono i prodotti acquistati e uscirono dal supermarket. Senza mai incontrarsi.
 

*
 
 
«Ecco il suo caffè irlandese».
Merlin sorrise cordiale al suo cliente, adagiando il bicchiere di vetro sul tavolino.
L’uomo, che non poteva avere più di quarantacinque anni, ricambiò la cortesia allargando le labbra in egual misura. «Grazie. Ci vuole un caffè speciale per festeggiare un evento speciale».
«Ha vinto alla lotteria?» azzardò il corvino divertito, vedendo l’altro elettrizzato. Glielo si leggeva dalla luce che traspariva dagli occhi chiari, verdi come foglioline di menta.
«Meglio. Molto meglio!»
«Diventa papà?» chiese gioviale.
L’uomo scosse il capo lasciandosi scappare una risatina di chi la sa lunga. «No. Credo che mia moglie ne abbia abbastanza di tutte le volte che sono diventato papà! No, oggi è un giorno speciale perché ritorna Kristopher».
Merlin, invadente e ingenuo come suo solito, non si pose minimamente il problema di risultare inappropriato e disse: «Dev’essere molto importante questo Kristopher, per lei. I suoi occhi... brillano!»
Il cliente non sembrò badarci, felice com’era, e annuì sorridente: «Lo è. Kris è il mio migliore amico... da una vita. Rivederlo è la cosa che più ho desiderato in tutti questi anni».
«Non è di qui?»
«Lo era. Ma poi... sa, per l’amore si fa tutto. È partito con la moglie per Washington circa vent’anni fa. Si è arruolato nell’esercito e quando non è in servizio passa il tempo con la sua famiglia.» L’uomo si strofinò le labbra con la mano destra, mascherando l’emozione con una risata d’ansia. «Sono vent’anni che non lo vedo e ieri mi arriva questa chiamata e... Lui è vivo», disse dopo una pausa. «Il mio migliore amico è ancora vivo».
Merlin, commosso, non poté che sorridere alla volta del suo cliente. «Questo è decisamente un evento speciale da festeggiare!»
«Lo è», concordò l’avventore dagli occhi del colore di menta. «Trovare del tempo per stare con le persone che si amano è un evento speciale da festeggiare».
«Questa è... un’ottima osservazione».
Trovare del tempo per stare con le persone che si amano.
Merlin poteva capire benissimo. Era da molto che ci stava provando, con Arthur soprattutto. Da quando l’Asino aveva aperto il Pendragon’s e lui si era fidanzato con Freya non c’era stato un attimo di pace, per loro. Il ritorno di Morgana, l’incidente, la sparatoria con Aridian... avevano solo reso il tutto più difficile.
Nuove bugie. Nuovi distacchi.
Merlin aveva bisogno del suo Arthur. Necessitava di non sentirsi un suo servo al bar o un condannato a morte quando si trattava di Morgana: il corvino aveva bisogno di risentirsi una squadra. Lui e Arthur erano la squadra.
La verità era che con la fine del liceo tutto era cambiato: i loro problemi erano diversi dal copiare un compito in classe e passarsi gli appunti della sera precedente; non riuscivano nemmeno a ritagliarsi il tempo per bere decentemente una bottiglia di birra o giocare a calcetto. Passare del tempo insieme e-
«Merlin!»
La voce ragliante dell’Asino arrivò alle orecchie a sventola del corvino come un pizzicotto fastidioso. «I tavoli non si serviranno da soli!» lo rimproverò dal bancone, con la sua occhiata da testa di legno.
Sospirò. «Davvero un’ottima osservazione», ripeté a quell’uomo straripante di gioia, prima di allontanarsi e riprendere il suo lavoro da dove l’aveva interrotto.


**

 
Dopo essersi cambiato, Merlin uscì dallo stanzino contento di aver finito il suo turno. Andò verso l’Asino, dietro il bancone, lasciando ricadere il mazzo di chiavi sul marmo. «Il mio lavoro, qui, è finito».
«I clienti ringraziano», lo burlò quello.
«Un “grazie”, ogni tanto, sarebbe gradito».
«Non parlo molto spesso con Dio. Temo che non mi sentirebbe.» Il Pendragon si stampò sul volto un sorrisetto da prendere a pugni, raccogliendo le chiavi dal bancone.
Merlin scosse il capo, ridacchiando, avanzando verso l’uscita. «Ci vediamo più tardi!»
«Sii puntuale!» sentì dire dall’Asino, prima di varcare le porte scorrevoli del bar.
Aria fresca.
Certe volte, lavorare per Arthur, era davvero sfiancante. Il biondino non si preoccupava minimamente dello stress che gli faceva accumulare tra consegne, ordinazioni e vassoi di caffè. Decine e decine di vassoi di caffè. Per non contare il pavimento lavato e lucidato appena arrivato al bar senza l’aiuto di nessuno perché, il suo caro quasi cognato francese si era rotto.
Tsk!
Certe volte una bella vacanza da Arthur non gli avrebbe fatto male!
Merlin salì in auto, allacciandosi la cintura di sicurezza, desideroso solo di una dormita e un tramezzino al volo. Aggiustò lo specchietto, poi mise in moto.
Quando posò lo sguardo sul parabrezza, qualcosa lo frenò: c’era ancora il suo cliente, quello del caffè irlandese, che aspettava a schiena ricurva seduto su una panchina alla fermata del bus.
 Trovare del tempo per stare con le persone che si amano è un evento speciale. Da festeggiare.
**
Arthur stava staccando l’ultimo scontrino quando Merlin, correndo come un pazzo, fece il suo ingresso nel bar gridando il suo nome. Il Pendragon sperò vivamente che lo avessero minacciato con una pistola, altrimenti avrebbe dovuto iniziare a preoccuparsi per la sua sanità mentale.
«Cosa ca-»
«Stasera c’è la partita», pronunciò senza fiato Merlin, con un sorriso beota che gli allargava la bocca.
«Il Manchester, sì».
«Vediamola insieme. Solo io, te, una Heineken e una pizza. Come ai vecchi tempi!»
Il Pendragon, occhi negli occhi di Merlin, non poté far altro che essere onesto: desiderava che glielo chiedesse come desiderava passare del tempo con lui. «Si può fare».
«Casa mia?»
«Questo vorrà dire che dovrò portare da mangiare?»
«E da bere», precisò il corvino.
«A che ora ci vediamo?»
Merlin e Arthur sbarrarono gli occhi all’unisono, voltandosi, incontrando un Gwaine gaio e barbuto sedersi allo sgabello più vicino. «Alle 20.00?», continuò a proporre.
«Alle 20.00 cosa?», s’intromise Mordred, appena arrivato dall’ultimo cliente servito, le occhiaie ancora più vistose sulla pelle chiara.
«Il francese può portare da bere», propose Gwaine, senza che nessuno glielo chiedesse. «La principessa porta il cibo e Merlin ci presta casa. Mi sembra perfetto!»
«Bere per cosa?» Mordred, la fronte corrugata, continuava a non capirci niente. Quel giorno era proprio rotto, constatò Merlin, maledicendo Gwaine e il suo udito impeccabile.
«E tu cosa porteresti?» Arthur, un timbro di fastidio nella voce, guardò Gwaine di traverso.
Il moro scroccò un paio di noccioline dalla ciotolina sul bancone, infilandosele in bocca tutte in una volta.  «Me. Non siete contenti?»
«Da morire», borbottarono l’Asino e il giovane Emrys, mentre Gwaine continuava a rubare arachidi salate.
A restare sulle spine, anche quando Merlin si fu dileguato in un sospiro di rassegnazione e Arthur rivolse la sua attenzione al nuovo cliente, fu Mordred. Smarrito e disorientato.
 «Contenti per cosa?» chiese all’aria, senza ricevere risposta.
 

**

 
Merlin uscì dal bar rassegnato all’idea di vedere sfumata ogni suo buon proposito per passare del tempo da solo con Arthur, dirigendosi mogio alla propria auto. Si infilò ancora una volta la cintura, riaggiustando lo specchietto retrovisore.
Fece per mettere in moto, ma ciò che vide dall’altra parte della strada bastò a fargli gelare il sangue nelle vene: Aridian gli sorrise provocatorio, salutandolo con un gesto della mano.



 

Relie's corner
- L'unica frase detta da Mordred in francese vuol dire "Il migliore";
- Nella mia immaginazione Arthur e Uther tifano Manchester. Le partite sono frutto della mia immaginazione anche se mio fratello mi ha messo al corrente che, nel Giugno 2015, il Chelsea (?) ha vinto un qualcosa;
- K. G sta per "Knight Gorlois";
- Non saprei più cos'altro dirvi, davvero. Solo... "gli spoiler ci sono stavolta?" Certo che ci sono! Potete trovarli tutti qui ---> Relie Diadamat, la mia pagina fb. Potrete trovarci anteprime (quella di Pendragon's - del prossimo capitolo - già c'è). Potrete essere informati sulle mie fanfiction, sugli aggiornamenti e chiedere spoiler.
- Per ultima cosa vorrei chiedervi un piccolissimo favore: mi servono OC. Ovviamente mi servono per i clienti del Pendragon's. Dunque, se mai vorreste aiutarmi, potrete inviarmi un vostro OC o per messaggio privato o sulla pagina fb - assolutamente NON nella recensione!
Rispettate almeno tale griglia, se volete:
- Nome e cognome: Pinco Pallino (esempio)
- Età: 21
- Cosa ci fa nel bar: è stato lasciato da X
- Attinenza con la storia: ha una cotta per Arthur. 
Ecco, tipo xD
Grazie mille per la vostra attenzione!
Alla prossima e buon San Valentino!


 

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Capitolo 19
*** “… E mangiarono Amatriciana tutti  infelici e scontenti” (Parte I) ***


Nda: Buon salve!
No, non sembra vero neanche a me. 
Sono passati davvero molti mesi dall'ultimo aggiornamento e di questo mi dispiace, anche perché a questa storia tengo molto. Voi avete continuato a recensire, ad aggiungerla nelle varie categorie ed io non potrei essere più soddisfatta di così.
Ritorno con un capitolo abbastanza lunghetto (mi faccio perdonare per l'assenza, lol), che originariamente doveva essere ancoora più lungo. (Chi ha letto lo spoiler in pagina sa!).
Perché intrattenervi ancora? Perché voglio che sappiate che non ho dato il meglio di me, che stavolta non sono sicura del risultato (quel che andava scritto è stato scritto, ma è il modo che non mi aggrada).
Celtica avrà sicuramente modo di contraddirmi e la ringrazio enormente per questo.
Che altro dire? Dedico questo capitolo (poveri voi) a tutti coloro che ci sono per questa storia, in paricolar modo: la dolcissima Eurydike (risponderò il prima possibile alla tua stupenda recensione, promesso!) che mi ha spinta a riprendere questa storia tra le mani con le sue bellissime parole e alla mia carissima Celtica che mi è stata accanto, che mi ha supportata e sopportata, che ormai è una cara amica. Poi alla mia piccu Lexie, perché mi riempie la vita come nessun altro è stato mai in grado di fare.
Detto questo, giuro che smetto di scrivere e, se volete, ci vediamo alle note finali. NB: Il simbolo (*) indica un passaggio da passato a presente e viceversa.
A voi la parola.
Buona, spero lettura!
 

IXX. “… E mangiarono Amatriciana tutti  infelici e scontenti”.
Soundtrackclick

"La vita dell'uomo è fatta di scelte: sì o no. Dentro o fuori. Su o giù. E poi ci sono le scelte che contano. Amare o odiare. Essere un eroe o essere un codardo. Combattere o arrendersi.
Vivere o morire.
Vivere o morire. Essere un eroe o un codardo. Combattere o arrendersi.
 
Lo dirò di nuovo per essere sicuro che tu mi senta: la vita umana è fatta di scelte. Vivere o morire: questa è la scelta importate.
E non sempre dipende da noi. "
- Grey's Anatomy
 
 
ATTENZIONE
Il capitolo non ha lo scopo di offendere né vegani, né animalisti, né donne.
Vi prego di non maledire l'autrice per ciò che ha scritto.

 






Caldo, era decisamente strano che nel mese di Giugno sentisse così caldo. Di solito indossava sempre il suo giubbotto, anche in auto, con l’aria condizionata spenta; anche se la macchina non era sua, chiedeva sempre di spegnerla o, al massimo, stringeva le braccia al petto. Quel giorno, il giubbotto lo portava a mano, con la fronte grondante di sudore.
Il lavoro, il bar… Tutto sembrava essersi complicato in un battito di ciglia e, sempre in un baleno, era diventato difficile da sostenere e tremendamente faticoso. Erano quelli i suoi pensieri, quando recuperò il mazzo di chiavi dalla tasca dei jeans scoloriti, facendo qualche passo a testa bassa verso il portone.
Neanche ci aveva fatto caso a lei, salito il terzo gradino, finché non sollevò distrattamente lo sguardo in avanti.
La ragazza era seduta sulle scale di marmo, asciutte e rivestite da uno strato di nero che, probabilmente, le aveva sporcato parte della camicia bianca o della gonna blu, ma ciò che catturò la sua attenzione furono quegli smeraldi a metà tra l’essere sorpresi e lieti della fine di un’attesa. E forse anche un po’ impauriti, come gli occhi di una persona che sta per affrontare una scelta dolorosa, difficile, alla quale non può sottrarsi. Qualcosa che in lontananza somiglia ad un compito di Fisica mentre pomeriggi e pomeriggi fa si era fatto di tutto tranne che aprire il libro, ma che da vicino sembra qualcosa di più grande.
Vide le sue labbra carnose, tinte di un rosso che conosceva fin troppo bene, schiudersi e comprimersi in un gesto nervoso, e le sue mani chiare volare sulle sue ginocchia, senza rimettersi in piedi.
La distanza tra loro era tale da permettere ai visi di non abbassarsi o alzarsi eccessivamente.
A ripensarci bene, pensò a quel punto, l’aria era abbastanza umida per essere Giugno.
«Ho fatto una scelta», la sentì parlare.
Le sue parole non erano delicate, non erano dolci. Sembravano solo parole.
Non rispose. Si limitò a guardarla, a guardare i suoi capelli neri che le cadevano sulle spalle.
«Ho fatto una scelta», ripeté. «E vorrei che tu fossi dalla mia parte».
 
 




2 giorni prima…
 




«Io… non so cosa sia successo».
Il fumo biancastro del tea danzava fluidamente in aria, in un movimento ondulatorio, innalzandosi dalla tazza di ceramica, sulla quale sembrava essere stata dipinta da molto tempo una frase italiana, estrapolata da una canzone, con il blu.
Gaius era seduto in soggiorno, sulla sua poltrona, a massaggiarsi stancamente gli occhi. La mattina non se ne stava mai seduto in casa e difficilmente metteva qualcosa sotto i denti; preferiva uscire in giardino, quello sul retro, a prendersi cura dei fiori, quelli che Alice amava.
Camminare tra l’erba fresca e verde, sfiorare con i polpastrelli i petali colorati dei fiori baciati dal sole, era un momento intimo ed esclusivo, riservato solo a lui e ad Alice. Quando era in compagnia, Gaius non ci metteva mai piede. Li osservava da lontano, dalla finestra, col pensiero.
«Lui era lì, ad un passo da me… lui è sempre lì, ad un passo da me».
Freya parlava a voce bassa, lo sguardo chino sul piccolo tavolo, facendo scivolare i suoi occhi di terra umida tra biscotti e fette di limone galleggianti. Parlava come un colpevole risentito, un carnefice che finiva con l’identificarsi con la vittima.
Gaius non aveva detto una parola contro di lei, nemmeno quando se l’era ritrovata a bussare il campanello, timidamente, per due volte. L’aveva fatta entrare, lasciandosi sfiorare la guancia destra con quella della ragazza in un saluto imbarazzato, fingendo di credere alle sue parole, alle sue buone intenzioni, al fatto che volesse per davvero assicurarsi che mangiasse qualcosa la mattina. «Merlin continua a ripetermi di imboccarti a forza, se necessario», gli aveva detto dirigendosi in cucina, sorridendo da copione, per circostanza.
In quel momento, con i lunghi capelli castani che le coprivano parte del volto, Freya stringeva le mani in grembo come per frenarsi, tacere, immobilizzare la sua coscienza. Gaius, però, la capiva: leggeva il suo corpo cogliendo i suoi sentimenti, e ciò che vedeva non gli piaceva affatto. «Direi che è un bene, no? Si sta dimostrando premuroso».
«Sì, lo è…» ammise, con una smorfia strana.
 Gaius sollevò le iridi chiare sulla figura della giovane. Poteva vedere i raggi che penetravano dalla finestra riflettersi nei suoi capelli d’ebano, la pelle chiara in contrasto con la maglietta rossa che teneva indosso quella mattina, ma non i suoi occhi. Quelli erano bassi, fissi su fette biscottate e sul latte contenuto nella bottiglia di vetro. «Non…» L’anziano cercò con cura le parole, navigando ad occhi aperti indietro nel tempo, quando sul divano verde del soggiorno c’era seduta una ragazzina dai capelli biondi e le labbra rosse come petali di rosa. «Non ne sei felice?»
La vide sospirare come una persona alla quale manca l’aria. «Ma sì, certo che sono contenta, ma…»
«Ma?»
Freya scosse il capo, trovando finalmente il coraggio che le mancava. Lo guardò negli occhi, come chi decide di mettersi a nudo per la prima vera volta. «Non è ciò che voglio. Credevo, pensavo di volerlo, ma non è così. Mi sento… oppressa e stanca. È come se, ogni volta che lui mi toccasse, ogni volta che si avvicinasse, prendesse qualcosa da me. Ed io mi sento sempre più vuota, e più stupida e più usata. È come se sentissi sul suo corpo un altro odore e io…»
Gaius non proferì parola. La lasciò riflettere, combattere contro le parole che picchiavano contro i denti stretti pur di uscire e farsi sentire. Parole esauste, stufe di starsene nascoste in un corpo, in silenzio.
«Ed io ho finto. Ho finto di non ascoltarlo, di avere gli occhi chiusi, di parlare nel sonno. Ho cercato la via d’uscita più facile… e l’ho colpito!»
L’ex medico militare strabuzzò gli occhi nell’udire quel che a prima vista pareva la fine del discorso, chiedendosi se fosse realmente il caso di preoccuparsi e chiamare alla svelta il 999, temendo di ritrovare il suo Merlin in una pozza di sangue, mentre Freya continuava a pugnalarlo con freddezza, mordendosi il labbro accecata dalla rabbia, dal rosso... Ignorando del tutto il fatto che la ragazza fosse andata avanti col suo monologo.
«… Per ben due volte!»
«… Due volte?» chiese in un filo di voce l’anziano, più pallido del solito – probabilmente, già immaginando dove la ventenne potesse aver nascosto il cadavere, o se fosse ancora in bella mostra sul pavimento della cucina.
«Sì, è una cosa stupida, lo so – ero anche tentata nel ripeterlo più volte -, ma il fatto è che lui… non ha fatto niente. Lui… si è staccato in modo brusco, si è allontanato come se avesse ricevuto una scarica elettrica. Non gli è cascato il mondo addosso, lui non ce l’ha a morte con me, lui è altrove. Anche quando siamo solo io e lui, è altrove. Pensa ad altro, non è mai con me neanche quando è al mio fianco, neanche mentre mi stringe a sé. E io so già dove navigano i suoi pensieri, so a chi pensa mentre mi stringe o tutte le volte che mi guarda negli occhi senza dire nulla, e io non voglio più che lui mi tiri a sé, non ho bisogno di lui così e io… ho bisogno di aver bisogno di lui».
Gli’era piaciuta fin dal primo momento quella ragazza (soprattutto ora che aveva appreso che Merlin fosse ancora vivo); c’era qualcosa in lei, oltre il castano scuro dei suoi occhi, che splendeva. Non era una luce accecante come quella del Sole, era un frammento di colore depositato in lei e molto spesso tenuto a riposo per paura, per timore che qualcuno potesse eclissarla.
L’anziano tirò su un angolo della sua bocca invecchiata, tentando di sporgersi verso di lei. «Mi ricordi tanto una vecchia amica».
Sorrise imbarazzata. Il primo sorriso del mattino.
«Lei…» Gaius lasciò scivolare lo sguardo appena oltre la ventenne, tentando di afferrare con la mente vecchi ricordi lontani di anni andati, di un’altra Londra e di un’altra vita. «Lei era speciale ma non sapeva di esserlo. Sorrideva spesso e quand’era di cattivo umore canticchiava.» Una leggera risata muta, a labbra chiuse. «Sapessi quante volte abbiamo litigato per quella chitarra che si portava dietro… Eppure era impaurita. Amava e odiava questa vita con tutta la sua anima da esserne spaventata.
«E tu… Tu me la ricordi molto», le disse allora, indicandola col palmo aperto e vide comparire sul volto di Freya vero interesse, mentre un’onda di fumo caldo gli sfiorava la pelle. «Se c’è qualcosa che non va, qualcosa che ti opprime e t’impedisce di essere te stessa, devi affrontarla. Devi guardare in faccia il tuo ostacolo e dirgli ciò che pensi anche se credi che ti possa far male. Lottare per due è bello, è onorevole, ma combattere per se stessi è un diritto. Quindi… scendi in campo per te stessa e prendi ciò di cui hai bisogno».
L’ex medico militare vide la mora accennare un sorriso nel momento in cui una ciocca ribelle le solleticava le gote pulite. «Merlin aveva ragione su di te», gli confessò. «Sei il padre che tutti dovrebbero avere».
Gaius non riuscì a trattenere il sorriso che allargò spontaneo le sue labbra sottilissime. All’inizio Merlin era solo un ragazzo sbagliato, capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato, poi col tempo era diventato qualcosa di più. Era diventato il figlio che non aveva mai avuto.
L’unica cosa che riuscì a dire fu: «Ha davvero detto questo di me?»
Freya annuì. «È l’unica cosa che non ha mai smesso di dirmi».
 




 
Londra, Gennaio 1988
 
Igraine poggiò la padella sui fornelli tentando di essere il più silenziosa possibile.
Alice era fuori, in veranda, a godersi la vista della sera – o almeno era ciò che le aveva detto.
Quella piccola peste di Vivian non si era ancora fatta viva e, molto probabilmente, si trovava chissà dove a civettare e a fare baldoria con un gruppo di svitati egocentrici solo per farsi notare dal più desiderato tra le studentesse.
Ad Igraine non piaceva saperla per strada ad una certa ora ed era certa che per sua zia Alice fosse lo stesso, ma parlare con Vivian era quasi impossibile: era testarda e difficilmente ascoltava chi aveva da consigliarle qualcosa per il suo bene, sempre convinta che nessuno potesse capirla e che tutti le fossero contro.
Sospirò portandosi le mani ai fianchi, voltandosi alla volta il guanciale tagliuzzato a piccole strisce sul tagliere in legno e il suo pensiero si diresse involontariamente verso Gorlois, il suo K.G.
Le capitava spesso di pensare a lui e sentire le guance andare a fuoco senza un motivo preciso; in quei momenti avrebbe voluto tirarsi i capelli per punirsi, mordersi la lingua e scuotere il capo con forza… ma tutto ciò che riusciva a fare era arrendersi all’istinto di sollevare gli angoli della bocca all’insù, come un riflesso involontario del suo cuore.
Perché in quei momenti Igraine resettava tutto: il fatto che lei e Gorlois si conoscessero appena, che il ragazzo aveva occhi solo e soltanto per la bella e irraggiungibile Vivienne.
In quei momenti c’era solo Gorlois e l’affetto che nutriva per lui.
Cucinò per una buona mezz’ora col sorriso sulle labbra, passando i quindici minuti successivi a guardarsi allo specchio e a domandarsi quale maglione indossare, se utilizzare un lucidalabbra o un rossetto, se sciogliere o meno i suoi lisci capelli di grano.
Scelse il suo maglione preferito, quello rosso, lasciando sulle sue labbra un leggero strato di colore rosato. Si ravvivò i lunghi capelli biondi liberandoli dalla morsa opprimente dell’elastico scuro, convincendosi che i pantaloni a vita alta e le sue scarpette anonime andassero più che bene.
Informò Alice riguardo i suoi piani, arrossendo visibilmente quando la donna le disse: «Dev’essere proprio un uomo fortunato, questo Lois».
«Siamo solo amici» Igraine cercò di svignarsela, senza successo.
La treccia color caramello sembrava divenire aranciata alla luce della lanterna mentre sul volto di Alice pareva adagiarsi la sera con il suo cielo scuro e la sua luna di latte. «Oh, beh… allora deve essere un ottimo amico per meritarti».
Igraine si lasciò andare ad una dolce risata. «Suppongo di sì».
«Divertiti», la salutò allora Alice, guardandola camminare per il vialetto di ghiaia. «E non fare tardi!»
«No, zia Alice».
Quelle fuorono le ultime parole che riservò alla donna dopodiché, con una Amatriciana in un contenitore di plastica e due forchette in una busta, persino le strade di Londra le parlavano di K.G, conservando il sapore del loro prossimo incontro e sembrando più lunghe passo dopo passo.




*



 
 
La pelle diafana della ragazza era colorata dalla luce azzurrognola del desktop del suo computer portatile, i suoi occhi verdi danzavano famelici da una parola all’altra.
Spostò il cursore leggermente verso il basso, lasciando che la foto della giovane bionda venisse tagliata in due sullo schermo. Una volta trovata l’informazione che cercava, si annotò il nome del settimanale su una piccola agenda ad anelli. La richiuse subito dopo ticchettando nervosamente col tappo della penna, prima di lanciarla lontano, in direzione della pediera.
Si distese sospirando, portandosi le mani verso il ventre, calando le palpebre.
 
Caro e odiato amore mio,
scrivere questa lettera è la cosa più difficile che abbia mai fatto in tutta la mia vita, ma sento di non poter fare altrimenti.


Con le dita,fece lievemente pressione sulla sua pelle chiara.
Se la sentiva strana, adesso, quasi non le appartenesse più. 
La sua pancia pallida non era più la stessa di prima, il suo tocco non la riconosceva e, in quel momento, si chiese se l'avrebbe mai più riconosciuta.
Il suo corpo sarebbe rimasto sempre il suo corpo, quello che amava mettere in mostra indossando un bikini sulle spiagge affollate di Brighton... o sarebbe cambiato per sempre?
Aprì bruscamente gli occhi risollevandosi di scatto; riprese tra le mani il computer ed aprì una nuova pagina internet digitando le parole alla svelta, cliccando sul primo risultato della ricerca.
C’erano foto, c’erano consigli, c’erano mille frasi che prima di quel giorno credeva di comprendere. C’erano lettere, lettere che in quel momento la spaventavano.
Abbassò lo schermo con un gesto secco, abbandonando l’aggeggio accanto alla penna come se si trattasse di una mina anti-uomo.
 
Cosa le stava succedendo?
Come era potuto accadere?
Cosa avrebbe fatto?
 

Scese dal letto decidendo di voler bere qualcosa di forte, qualcosa che potesse annebbiarle i pensieri. Indossò i suoi infradito per uscire dalla stanza ma una volta vicina allo specchio si fermò.
Aveva paura, paura di sollevare la canotta e vedere una pancia enorme e sproporzionata, il suo viso più gonfio ed il seno ingrossato. Invece ad osservarla c’era il riflesso di una ragazza pallida col viso smorto.
Si rese conto di aver bisogno di correttore e fondotinta prima di attaccarsi ad una bottiglia della vecchia collezione di liquori del vecchio Uther.
Fu mentre si spalmava il cosmetico sul volto che ricordò la nausea della notte precedente; aveva tentato di placarla con l’indifferenza, aggrappandosi al cuscino e fingendo che non stesse capitando a lei.
Diede un tocco di colore anche alle labbra carnose, rimirando la sua immagine riflessa allo specchio.
A guardarla, adesso, c’era una maschera da Commedia che si preparava per entrare in scena. Levò le tende del sipario abbandonando quelle quattro mura che ormai sapevano troppo scendendo le scale, per poi fare la sua apparizione in cucina, dove si pietrificò all’istante.
«Cosa stai facendo?»
Uther drizzò la schiena voltandosi di scatto come un ladro colto con le mani nel sacco. «Ti sei decisa ad uscire da quella stanza, finalmente».
Morgana ignorò le parole del padre, concentrandosi invece sul coltello che l’uomo stringeva nella mano destra e il bizzarro grembiule allacciato dietro la schiena, sulla camicia chiara. «Ti sei dato alla cucina, adesso?»
«Beh», Uther sollevò le sopracciglia riprendendo a smanettare e tagliuzzare, «mi hai messo in imbarazzo col tuo fidanzato ed ho accettato la sfida».
Morgana si sporse ad osservare l’operato del padre e nel vedere cipolla e guanciale tagliati in pezzi asimmetrici serrò la mascella. «Conosco questa ricetta».
«Certo che la conosci», le disse. «Era il piatto preferito di tua madre».
«Non mi pento di ciò che ho detto», si affrettò a dire in risposta. «Non m’importa quanto bravo tu sia a mentire. Potrai abbindolare Arthur ma non me».
«Morgana…»
«L’ho conosciuta a Parigi», lo incalzò, «e so perfettamente dove si trova in questo momento».
La mano di Uther tremò; il viso rivolto a quello della figlia si era dipinto d’insicurezza e timore.
Il silenzio sembrava essere diventato assordante finché il cellulare della corvina non vibrò nella tasca dei suoi pantaloni. Morgana lo sfilò controvoglia, rinunciando al trafiggere il padre con lo sguardo, spostando le iridi di smeraldo sullo schermo del telefonino.
Diede le spalle al Pendragon, roteando gli occhi nel leggere il mittente.
 

Ho bisogno di parlarti. Esci un secondo.

 
Oscurò il display sbuffando.
«Esco a fare due passi» informò il padre infilandosi la sua giacca leggera, oltrepassando la porta d’entrata.
Una volta arrivata al cancello vi trovò ad attenderla una Gwen ansiosa che stringeva qualcosa tra le mani.
«Che ci fai qui?» le chiese, richiudendosi il cancello alle spalle, fronteggiandola.
La mulatta era struccata, con del lieve sudore a bagnarle la fronte e, ciò che Morgana aveva intravisto in lontananza tra le sue mani, si rivelò essere un barattolo di fagioli.
«Siamo state avventate, l’altra sera. Ci siamo espresse male e-»
«E io torno dentro».
«No, no, Morgana. Ti prego.» Gwen fece qualche passo verso l’amica, la quale era pronta ad andarsene. «Resta».
La corvina si fermò, rigirandosi con aria scettica alle intenzioni dell’altra.
«Vieni al bar stasera», propose quest’ultima. «Sono sicura che Arthur e Merlin si organizzeranno diversamente per il City.» Sorrise a vecchi ricordi. «Sai come sono fatti: non avranno occhi che per la partita».
«Ho deciso di lasciare il bar».
Per un secondo Gwen rimase imbambolata non sapendo cosa dire, poi si smosse, avanzando di un passo. «Beh, vieni lo stesso allora».
«Oh, ma davvero?!» Morgana sbottò, accigliandosi. «Una serata di sole donne? Sai, credo che dovrei presentarmi con una t-shirt con su scritto: “Ehi, forse il tuo ragazzo mi ha messa incinta”!» provocò la Pendragon con un sorrisetto ironico.
«Non sai ancora chi sia il padre?» chiese sconvolta Gwen, sbarrando gli occhi.
«Fantastico, torniamo al punto di partenza!»
«Morgana, devi saperlo e soprattutto devono saperlo loro!»
«Non so nemmeno se lo voglio questo bambino!»
Sarebbe stato difficile descrivere il modo in cui si sentiva Morgana in quel momento: in colpa, preoccupata che qualcuno l’avesse sentita e sollevata.
L’espressione di Ginevra, invece, era decisamente più semplice da decifrare. «Cosa?»
Delusione. La voce della sua amica suggeriva solo delusione. Morgana recuperò il controllo per il suo bene, aggiungendo: «Sarebbe un errore, in tutti i casi».
Gwen corrugò la fronte, piegando le labbra sottili in una smorfia indecifrabile, un misto tra amarezza ed incredulità. «Tu non vuoi un figlio da Mordred…»
Morgana la guardò impassibile, rimanendo muta e immobile al suo posto. «Credo che tu ora debba andare».
Ginevra era ancora lì, a cercare parole da dirle, ma quando aprì la bocca per proferire mezza sillaba, la Pendragon la fermò all’istante: «Ho detto va’».
Gwen boccheggiò per qualche secondo mentre Morgana continuava a fissarla intimandola ad andarsene, arrendendosi poi alla volontà della ventunenne, arretrando di qualche passo fino a voltarsi di schiena e continuare verso la sua bici.
Morgana la vide posare il barattolo di fagioli nel suo zaino, salire in sella e pedalare via.
 
 







 «E così… si ritorna alle vecchie abitudini». Freya controllò Merlin dallo specchio mentre si aggiustava l’orecchino. «Birra, pizza e City».
«Già» il ragazzo le sorrise di rimando, immergendosi nuovamente con la testa nell’armadio. «Bei vecchi tempi…»
La mora voltò la schiena allo specchio, fissando stranita il suo fidanzato. «Cosa stai cercando?»
«La sciarpa di Arthur», le rispose disperato, riemergendo dal guardaroba. «Ma sembra scomparsa».
«La tieni sempre nel cassetto della biancheria, così sai dove trovarla».
Merlin, che intanto si era seduto esausto sul pavimento, la vide spaesata e perplessa. «Giusto», assentì. «Hai ragione».
«Fa un caldo pazzesco, cosa deve farci?»
«Non importa se diluvia o se una palla infuocata sta collassando sul nostro pianeta, Arthur deve avere quella sciarpa. È… un mantello. Dice senza, il City andrà in rovina».
«Giusto…» ripeté poco convinta Freya, senza tuttavia chiedere ulteriori spiegazioni al fidanzato, lasciandosi bastare quelle in suo possesso.
Lui si alzò e la ragazza fu sicura che si sarebbe diretto verso il suo piccolo comò quando lo vide cambiare direzione e avvicinarsi a lei.
«A proposito di Arthur…» Merlin sembrava impacciato, un sorrisetto imbranato sulle labbra. «Stamattina ti mancava particolarmente».
Freya tentò di mascherare il rossore improvviso comparso sulle gote, allontanandosi rapida dal corvino. «Devo andare. Sono pericolosamente in ritardo, magari ne riparliamo».
Merlin guardò nella sua direzione con l’angolo della bocca tirato all’insù. «Tranquilla, Arthur non sarà presente. Credo che brontolerà con Mordred ancora per un po’ prima di venire qui».
«Oh, quindi anche Mordred sarà dei vostri?»
«A quanto pare sì» disse Merlin, alzando le spalle.
«Dunque… al bar saremo solo io, Ginevra e Morgana?»
«No», Merlin scosse il capo. «Morgana ha lasciato il Pendragon’s».
«Oh…» Freya rimase letteralmente senza parole. Non saprva come doversi sentire, se rasserenata o decisamente preoccupata per quell’improvviso cambio di programma. Non sapeva cosa pensare e, nella confusione totale d’idee, finì col dare voce ai suoi pensieri: «E… anche Morgana sarà dei vostri?»
Merlin allargò piano le sue labbra piene in un sorriso, avanzando verso la ragazza fino ad esserle così vicino da prenderle il viso tra le mani e baciarla.
Dapprima fu dolce, poi i suoi baci divennero insistenti, finché la sua bocca non scivolò sul collo scoperto di lei.
Freya non riuscì ad impedire la nascita di un sorriso involontario, cercando ad ogni modo di mantenere il controllo e ricordare quello che lei e Gaius si erano detti quella mattina stessa. «Sono in ritardo Merlin, e Arthur non brontolerà per sempre».
Avvertì la mano calda e affusolata del ventenne scendere lungo la schiena e un bacio adagiarsi nell’incavo del suo collo. «Potrei sempre chiudere tutto a chiave e fingermi moribondo», le sussurrò con una voce che quasi non gli apparteneva, una voce che Freya credeva di non conoscere affatto.
«No», gli posò una mano sul petto, su quella maglietta che ricordava avergliela regalata lei stessa, allontanandolo di poco. «Devi goderti questa serata con i tuoi amici, con Arthur. Io devo andare al lavoro».
Merlin le sorrise senza opporsi, gli occhi azzurri posati sul suo viso chiaro mentre con il pollice le dedicava una carezza leggera sulla guancia. «Ti lascio andare, allora».
Fu lei a soffiargli un bacio fugace sulle labbra senza sorridere come un tempo. «Ci vediamo più tardi».
«Ci vediamo più tardi» fece eco il giovane vedendola andare via senza voltarsi indietro e richiudersi la porta alle spalle.
Una volta fuori casa, Freya sospirò sentendosi svuotata, come se ogni bacio e ogni tocco di Merlin potessero risucchiarle tutte le forze dal corpo.
Solo di una cosa era certa: Merlin e Freya non esistevano più. Erano morti col ritorno di Morgana Pendragon e non sarebbero più stati gli stessi. A nulla sarebbero servite le sue scuse e a niente importava quanti stratagemmi si sarebbe inventata, quella era l’unica verità e a quella avrebbe dovuto arrendersi.
Con tale convinzione nel petto, anche l’idea di scendere le scale le pesava come un macigno, così si avvicinò all’ascensore per chiamarlo, premendo il bottone.
Era completamente sovrappensiero quando le porte dell’ascensore si aprirono rivelando la presenza di un uomo costretto su una sedia a rotelle, una gamba amputa ed un braccio ingessato e… Gwaine.
Freya rimase incantata nel vederlo, boccheggiando impreparata e, per una frazione di secondi, anche il moro reagì allo stesso modo.
«Ehi…» fu la cosa più sensata che le venne da dire.
Gwaine riacquistò la sua faccia da schiaffi e il suo sorriso bonario dietro la barba pungente. «Ehi!»
Rivederlo le aveva provocato uno strano effetto, ma era pur logico: l’ultima volta che si erano visti lei aveva finto di essere un’altra, di chiamarsi Europa, ed aveva quasi accettato un suo invito per un appuntamento (uno vero) – dopo averlo baciato ad una festa della quale il suo fidanzato non era al corrente – prima che lui scoprisse di averci provato con la ragazza di un suo vecchio amico.
Essere imbarazzati o voler sparire dalla faccia della Terra ogni volta che incontrava il suo sguardo, era decisamente d’obbligo.
«Mi sa che farò le scale», disse impacciata, additando i gradini alla sua sinistra.
«No, entra pure. Noi siamo arrivati».
Solo in quel momento Freya si accorse che Gwaine stringeva qualcosa tra le braccia, avvolto in una coperta color fragola. Dopo l’esperienza del mantello/sciarpa di Arthur, la mora si era detta che sapere era solo un male e che ignorare senza fare domande fosse la mossa più giusta d’attuare. Così restò zitta e a capo chino mentre Gwaine spingeva la carrozzella dell’amico fuori dall’ascensore.
Si morse il labbro nel sentirsi così stupida e in difetto in sua presenza da non impedirsi nel sollevare lo sguardo di terra umida sulla sua schiena e il suo corpo dai lineamenti maledettamente perfetti, richiamandolo: «Gwaine».
Quest’ultimo si girò a mezzobusto per guardarla e Freya non poté sentirsi più ridicola. «Volevo dirti…» cominciò a gesticolare con la mano, facendo tintinnare le chiavi dell’auto, «per l’altra volta…»
«Non ce n’è bisogno» l’anticipò lui, i capelli castani che gli arrivavano alle spalle e gli occhi di moka densa che la fissavano come un giudice severo, un giudice che l’aveva già dichiarata colpevole. «Non ci conosciamo, ricordi?»
Piccola.
Non si era mai sentito tanto piccola come in quel momento.
Deglutì il sapore della vergogna senza aver il coraggio di masticarlo, accennando un mezzo sorriso di circostanza. «Divertitevi, allora».
Non aspettò neanche il “Grazie” di risposta che si fiondò immediata nell’ascensore premendo il pulsante per il piano terra, con la figura di Gwaine che spariva col chiudersi delle porte.
 
 





«Ehi…»
«Hi, man! Pronto per una nuova vittoria?»
Merlin, la bocca spalancata e la fronte aggrottata, era rimasto impalato nel tenere la porta aperta mentre uno spensierato Gwaine entrava festoso in casa sua, facendo strada ad un perfetto sconosciuto sulla sedia a rotelle – che, Merlin doveva ammettere, aveva qualcosa di vagamente familiare…
Gwaine, che intanto si era avvicinato al divano con l’intenzione di gettarvisi a peso morto, notò il palpabile imbarazzo dell’amico e l’evidente faccia spaesata del padrone di casa, così cullò qualsiasi cosa ci fosse in quell’involucro di stoffa, allargando l’unico braccio libero. «Gwaine porta amici e siamo tutti più felici».
Il giovane col braccio ingessato sorrise cortese, allungando la mano sana all’ancor interdetto Merlin, presentandosi: «Parsifal».
Il corvino la strinse con poca convinzione. «Merlin».
«Troppi caffè, sì lo so: ci siamo già incontrati in ospedale».
«In ospedale?»
Mentre Merlin tentava di far mente locale e associare il volto del grosso Parsifal all’ospedale e chiudere la porta, sentì una manata fare forza sul legno, costringendola a spalancarsi, picchiando contro il capo del corvino.
«Bisogna mettere le birre in frigo. Mordred è stato così intelligente da dimenticarsene».
Arthur avanzò deciso in casa con la sua inseparabile stampella, soffiando la busta con le lattine di birra dalle mani di Mordred, qualche passo dietro di lui, cercando Merlin con lo sguardo. «Dov’è finito l’idiota?»
«Sono qui», borbottò quello massaggiandosi la parte della testa offesa, guardando indispettito il Pendragon che lo ignorò bellamente, lasciandogli con poca grazia le birre.
«Per fortuna ho provveduto alle pizze».
«Confermando l’indirizzo dal bagno», tenne a specificare il francese, sorridendo a mo’ di saluto alla volta del giovane Emrys, beccandosi un’occhiataccia da parte del biondino.
«Vado a metterle in frigo», Merlin prese la busta tra le mani indicando col mento gli altri presenti. «Mettetevi…» Li osservò uno ad uno: chi già accomodato a gambe accavallate sul divano, chi stava per prender posto guardandosi in giro come se si trovasse sulla scena di un delitto e chi, ancora, non gli stava dando la benché minima considerazione. «Mettetevi pure a vostro agio».
Pensò si trattasse solo di una sua impressione eppure, quando si allontanò verso la cucina, sentì Arthur presentarsi al tipo con la gamba amputata riconoscendolo e gli occhi di Mordred fissi sulla sua schiena.
 
 







«Come sarebbe a dire?!»
Merlin armeggiò con i fili del televisore, ma quel coso proprio non ne voleva sapere di funzionare, con lo schermo che si alternava tra immagini deformate e il verde assoluto. «È un vecchio televisore ma ha sempre funzionato benissimo».
«Certo», Arthur roteò gli occhi. «Come tutti i tuoi piani infallibili con la Campbell».
«I…» Merlin serrò i denti, volandosi verso l’Asino che intanto si era adagiato per benino la sciarpa sulle spalle (dando più l’idea di una vecchietta ultras e infortunata piuttosto che di un Dottor House con un mantello), additandolo con fare accusatorio. «La mia tv funzionava fino a ieri e se non sbaglio, quelli erano i tuoi piani infallibili».
«Sh…» Gwaine cullò l’affare che si ritrovava tra le mani, tentando di calmare gli altri – anche se nessuno gli aveva dato la minima importanza.
 «Va bene, allora lo riparerà Mordred» propose – o per meglio dire, decise – l’Asino spalancando le braccia in segno di resa.
«Excusez- moi?» Mordred alzò un sopracciglio all’insù guardando il biondino con l’intendo di sembrare contrariato, ma Arthur fece spallucce indicando la tv con la mano. «Sei l’unico laureato qui dentro» spiegò, come se avesse un senso.
«In giurisprudenza», precisò Merlin, seduto sulle ginocchia accanto ai cavi. «Non credo che tale facoltà richieda abilità da elettricista!»
«Obiezione: l’essere laureato implica un’età anagrafica che superi la tua. Dunque, dovrà per forza saper riparare una cavolo di scatola con i fili».
«Obiezione?» farfugliò confuso il francese.
«Cosa c’entra l’età col fai da te?» domandò Merlin in disaccordo, trascurando l’intervento di Mordred.
«Più anni, più esperienza!» espose semplicemente l’altro con l’arroganza di chi pretende di aver ragione. (Alla solita maniera dei Pendragon, insomma).
«Shh…» Gwaine si era ormai alzato dal suo posto allontanandosi di qualche passo dal divano.  «Parlate piano».
«Sembra di risentire la lite tra me ed Helena» Parsifal si sporse verso il parigino sorridendo al battibecco dei due ragazzi.
Merlin ed Arthur stavano ancora discutendo quando Gwaine fu costretto ad abbassarsi sui talloni e distendere la piccola coperta color fragola, liberando la bestiolina che vi era avvolta; grugnendo e zampettando, l’animaletto si fiondò verso i cavi del televisore.
Merlin balzò all’indietro spaventato dal porcellino, mentre Mordred e Arthur spalancarono gli occhi increduli.
«Cosa ci fa quel bacon con le zampe in questa casa?!»
«Prego, Principessa, per te è miss bacon», lo corresse Gwaine sghignazzando sotto i baffi, mentre Parsifal si schiaffava una mano contro la faccia.
«Credo che miss bacon voglia assaggiare spaghetti elettrici stasera», Mordred, ancora basito, indicò con un dito il porcellino mentre si avventava sui fili.
«No, no, no» Merlin gattonò fino all’animaletto tentando di scacciarlo con una mano, ma il quadrupede non faceva altro che aggirare l’ostacolo e ritornare sui suoi passi.
«Hartie, da brava, vieni qua». Gwaine si inginocchiò sul pavimento cercando di attirare l’attenzione del mammifero. «Non fare la scrofa cattiva».
«Hartie? Davvero?!» Arthur lo guardò come se fosse impazzito, con una faccia così buffa da far ridere persino Mordred.
«Sì, Hartie come Joe Hart», spiegò.
«Dimmi che non è vero», lo supplicò il Pendragon mentre Merlin continuava la sua lotta contro la piccola Hartie.
«Non l’ho scelto io il nome, mi è stata affidata».
«E chi sarebbe il pazzo che te l’avrebbe affidata?» chiese l’Asino, gli occhi quasi fuori dalle orbite.
«Helena», fu la sua risposta.
Arthur scosse il capo decisamente attonito. «Helena? Chi cavolo è questa Helena? Con chi diamine vai a letto?!»
«È la mia mogliettina vegana.» La voce di Parsifal si frappose tra quella del Pendragon e i grugniti di Hartie. Imbarazzato tenne lo sguardo basso comprimendo le labbra, mentre Arthur, pietrificato, cominciava a domandarsi dove fosse capitato.
«… E con cui sono stato solo una volta», precisò infine Gwaine, attirando su di sé gli sguardi sconcertati e sbigottiti dei presenti.
«Sei una prostituta», l’espressione di Arthur non era variata di una virgola, «lo sai, vero?»
Gwaine alzò le spalle. «Ognuno fa ciò che può».
«Possiamo pensare al maiale, adesso?!» Merlin richiamò la loro attenzione, ostacolando Hartie con le mani.
«Io volevo solo pensare alla partita» cominciò a borbottare l’Asino, senza accorgersi della pericolosa vicinanza di Gwaine. «Mi sarei steso da qualche parte, avrei mangiato pizza calda e bevuto della sana e fresca birra, guardando il City dal mio piccolo televisore portatile e… NO!»
Gwaine sfilò con un gesto secco la sciarpa dalla spalle del biondino avvicinandola al muso di Hartie, improvvisandosi un torero esperto, lasciando che la bestiolina l’afferrasse e scappasse in cucina.
Arthur balzò in piedi con l’aiuto della sua stampella, puntando minaccioso l’indice verso la piccola mammifera. «Prendete quel prosciutto!»
«No, fermi tutti!» Merlin si mise in posizione eretta stanco ed esausto di quella situazione, diventando stranamente autoritario. «Tu», disse indicando Gwaine, «recupera Joe Hart, Bacon o come si chiama quell’animale e tu», continuò indirizzando il dito verso il petto di Arthur, «chiama chiunque tu voglia e fatti portare quel cavolo di televisore!»
Normalmente non avrebbe mai perso le staffe in quel modo, ma era decisamente troppo: voleva passare una serata da solo con Arthur come ai vecchi tempi, ma poi si erano imbucati persone e maiali e il televisore aveva deciso di dir loro addio e Merlin non poteva, per nessuna ragione al mondo, mandare a monte i suoi piani già rovinati.
 







Erano passati più di una ventina di minuti da quando Hartie aveva preso in ostaggio la sciarpa portafortuna del giovane Pendragon costringendolo a mordersi le mani e a maledire tutte le pietanze fatte con carne di maiale, vittima di uno stato di trance in cui i suoi amici non lo avevano mai visto; gli occhi blu pronti ad incenerire con la sola forza del pensiero quella piccola mammifera ogni volta che la sentiva grugnire beata, masticando un cimelio sacro come se fosse della misera poltiglia di scarti.
Mordred, un angolo della bocca portato all’insù con la gratitudine verso quel piccolo quadrupede rosa che gli aveva regalato l’irripetibile scena di un Arthur ammutolito, si lasciò scappare l’accenno di una risata, seduto coi gomiti sulle cosce. «Andiamo, Arthur. Era solo una sciarpa».
Merlin sospirò, già conscio della futura reazione dell’Asino, preparandosi psicologicamente a sentirlo ragliare per trenta secondi buoni. «Oh no, ti prego…»
Se solo avesse avuto il dono della magia…
«Una sciarpa?» Arthur si voltò a rallentatore verso il francese, più o meno allo stesso modo di una bambina posseduta, protagonista di un qualsiasi film horror americano. «Solo una sciarpa? Hai idea di quante partite ha vinto il City grazie a quella sciarpa?!»
Il parigino sbuffò una risata alzando gli occhi su Merlin.
Il corvino non capiva perché Mordred fosse sempre in cerca del suo parere, sempre pronto ad osservarlo o a scambiarci quattro parole: si sentiva studiato e messo alle strette. Il giovane Emrys allora scrollò le spalle, pronto a schierarsi dalla parte del Pendragon: «Da quando l’abbiamo trovata non solo il City ha acquistato punti ma siamo anche riusciti a passar tutti i test della Campbell per un pelo».
«O magari sono solo coincidenze» fece notare Mordred.
«Nah», s’intromise Gwaine mangiucchiando un tramezzino sgraffignato dal frigo. «La Wilson ha solo provato compassione e ha passato loro alcune domande».
«La Wilson?» Mordred si voltò verso il moro, cercando delucidazioni.
«Gwen», spiegò risoluto Merlin, dando un’occhiata all’orologio che aveva al polso. «Dove sono finite le pizze?»
«La Principessa e Merlin la facevano sgobbare alla grande.» Le guance barbute di Gwaine erano gonfie come quelle di uno scoiattolo ingozzato di ghiande. «Ricordo ancora quando Lancelot tornava afflitto in officina».
Solo dopo aver terminato la frase e aver visto un’ombra scura calare sul volto di Arthur, Gwaine capì di essere stato indiscreto ma i sensi di colpa non sarebbero bastati: Merlin gli si parò dinanzi sottraendogli il sandwich dalle sue grosse mani. «Giù le zampe dal mio cibo».
Merlin non aveva voglia di litigare e di far nascere nuove questioni; il piano iniziale era quello di passare una serata in compagnia di Arthur – solo in compagnia di Arthur – e tutti quegli incidenti di percorso iniziavano ad irritarlo. Passi il televisore rotto, passi anche una maialina che distrugga la “sacra sciarpa” dell’Asino, passi l’invasione d’imbucati in casa sua, ma non avrebbe trascorso il resto della serata con un Arthur che sembrava evitare il suo sguardo ogni volta che si girasse a guardarlo, né tanto meno con liti riguardanti vecchie fiamme e triangoli irrisolti.
Stava per fare un passo verso la cucina quando sentì urtare qualcosa con la punta della sua scarpa da ginnastica. Abbassò gli occhi incontrando quelli piccoli e scuri di Hartie ferma ad osservarlo come un cane obbediente; il musetto rosa caratterizzato da una grossa macchia nera sull’occhio sinistro, il corpicino che ricordava tanto il manto di un Dalmata e le orecchie a punta addolcirono il corvino al punto da strappargli un sorriso sghembo, riportandogli alla mente il viso bagnato di un micino impaurito che Arthur aveva recuperato dai rami di un albero solo per far felice Gwen e che avevano poi nascosto nel garage del vecchio Gaius.
Lo stesso micino che gli aveva permesso di restare serate intere in compagnia della bella e irraggiungibile Morgana, illudendosi che quelle ore bastassero per entrare a far parte della sua vita.
Parsifal batté l’unica mano sana sulla coscia, smorzando la tensione. «Così, sei laureato in giurisprudenza?» chiese al francese.
Merlin si occupò di recuperare la sciarpa maltrattata del Pendragon che Hartie aveva lasciato ai suoi piedi, sentendo Mordred rispondere: «Sì, a Parigi avevo anche uno studio, ma io e Morgana abbiamo deciso di voltare pagina».
Arthur sorrise sarcastico. «Diciamo che Morgana volta pagina in continuazione».
«È una ragazza volubile», ammise il francese. «Non sai mai cosa le passa per la testa».
«Quello vale per tutte le donne».
Merlin girò il capo verso il divano, rialzandosi con la sciarpa tra le mani, cercando lo sguardo di Arthur. Il biondino ascoltava Gwaine esporre la sua tesi sul mondo femminile senza accorgersi di nulla.
«Prima vengono a letto con te recitando la solita storia della donna indipendente e poi si arrabbiano se non le richiami», continuò Gwaine lagnoso, mettendosi a cavalcioni sulla sedia.
«Diventano pazze se chiedi una bistecca ai ferri.» Le sopracciglia di Parsifal si mossero verso l’alto mentre gli occhi sembravano rivedere scene dell’ultima lite.
«O magari ti tradiscono.» La voce di Mordred arrivò alle orecchie di Merlin come una lama affilata, il suo sguardo enigmatico fisso sulla faccia del corvino. «Credendo che tu non te ne accorga».
Merlin deglutì a vuoto sentendo il sangue gelarsi nelle vene; si chiese se Mordred sapesse, se fosse una semplice provocazione, se si divertisse a giocare a fare lo strizzacervelli con lui; ma i suoi pensieri s’interruppero quando notò le iridi bluastre di Arthur sul suo corpo. Fisse, come a sondare ogni minima traccia di dubbio, un movimento falso che potesse sgamarlo e per un istante ebbe paura che il Pendragon sapesse.
«Hai anche affrontato cause penali, allora.» A spezzare il silenzio fu Parsifal, rivolto al parigino.
«Uhm, sì», rispose. «Mi è capitato di dover difendere più volte il colpevole».
«Brutta storia», commentò Gwaine mentre Merlin prendeva posto su un’altra sedia di legno.
«Già».
«Qual è stato il più difficile?» Parsifal sembrava seriamente interessato.
«C’è stato… il caso di Jaenette Renard.» Mordred non era assente, Mordred guardava il suo interlocutore fisso negli occhi. «Arrestata per omicidio, è stata ritrovata con le mani sporche del sangue di Bastien, suo figlio. Ma la donna sosteneva di non aver mai toccato il bambino: incolpò il marito per averla drogata volontariamente al fine di renderla incosciente, sostenendo la sua colpevolezza».
«Com’è finita?» A parlare, dovendosi schiarire la gola, fu Merlin.
Mordred intercettò il suo sguardo, sorridendo amaramente. «Persi».



 
 
*


 
Sorrideva, sorrideva come se non potesse farne altrimenti, come se tutte le gioie del mondo quella sera si fossero concentrate tra i suoi denti bianchi e le labbra rosa, mentre il fresco vento Londinese le accarezzava dolcemente le gote giovani.
Sentiva il cuore accelerare ad ogni passo, ad ogni metro in meno verso casa sua.
Continuava a ripetersi mentalmente la parole che gli avrebbe detto una volta rivisto, il modo in cui lo avrebbe salutato.
 
Ciao, sono io. Perché non scendi? Gli avrebbe potuto dire dal citofono o ancora, Ciao K.G., ti andrebbe di vedermi anche adesso?
 
Igraine si fermò di colpo e per poco la busta non cadde dalle sue mani.
Gorlois era lì, fuori dal portone di casa sua, con indosso il giubbotto di sempre, quello gonfio che Igraine aveva immaginato soffice e caldo, pieno del suo profumo.
Gorlois era lì, sul marciapiede deserto con la luce calda dei lampioni tra i capelli neri, ad accarezzare dolcemente il viso pallido della bellissima Vivienne, la donna dei suoi sogni.
Igraine era ancora lì quando Gorlois la strinse tra le sue braccia, immergendo una mano in quei ricci d’oro.
Gorlois era ancora lì, ad annusare ad occhi chiusi il buon odore della donna che aveva sempre desiderato, quando gli occhi di Igraine cominciarono a pizzicare e la gola stringersi in un nodo soffocante.
Gorlois era ancora lì quando Igraine tornò indietro sui suoi passi, col cuore a pezzi.
 

 
*


 
 
Erano ancora seduti in quella sorta di semicerchio con Hartie addormentata sulle cosce di Parsifal quando il campanello suonò.
Merlin guardò in direzione di Arthur prima di alzarsi. «Forse saranno le pizze».
Si alzò dalla sedia e raggiunse la porta d’entrata in poco tempo, aprendola senza chiedere chi fosse.
Se ne pentì, solo un po’.
Davanti a lui, due smeraldi vivi brillavano illuminati dalla luce del soffitto; onde nere ricadevano dolcemente sul petto coperto da una camicia bianca, lasciata sbottonata quel tanto che bastava per mostrare le clavicole e il collo diafano.
Morgana gli porse il piccolo televisore portatile senza perdersi in inutili discorsi e parole scontate.
Merlin lo afferrò senza tuttavia staccare gli occhi dal suo viso. «Grazie».
La vide alzare forzatamente un angolo della bocca in un mezzo ghigno, pronta ad allontanarsi quando il corvino parlò ancora: «Ho saputo che lasci il bar».
Morgana si fermò, sostenendo il suo sguardo. «Resterò ancora per qualche giorno, giusto il tempo che Arthur trovi qualcun altro».
Guardarla negli occhi faceva male, lo faceva soffrire. Gli ricordava la sua scelta e quanto fosse stata dolorosa.
Spostò un sassolino immaginario con il piede destro, abbassando lo sguardo per un secondo, per poi ritornare in quegli smeraldi freddi e distaccati. «Grazie per essere venuta… Il televisore si è “spento per sempre” e Gwaine ha minacciato Arthur di raccontare la storia della “Principessa” se non ti avesse chiamata e-»
«Merlin io…»
Morgana lo interruppe bruscamente, anche se le parole morirono nel palato. Sembrava non sapesse cosa dire, cosa scegliere di dire.
«Io non voglio esserti amica», disse infine. «Non voglio nemmeno fingere provarci ad esserlo».
Merlin incassò il colpo in silenzio, ingoiando l’ennesimo boccone amaro.
In fondo, era giusto così: aveva scelto Freya e lei sarebbe rimasta con Mordred.
«D’accordo».
Morgana però non si mosse, non si allontanò, come se avesse dell’altro da dirgli, come se il suo discorso non fosse finito lì ma, nell’esatto momento in cui la Pendragon aprì la bocca, il fattorino delle pizze salì l’ultimo gradino, andando incontro al corvino.
Quest’ultimo lo ringraziò, prese le pizze ed il portafogli dalla tasca dei jeans pagandolo. Ma quando sollevò lo sguardo per rivedere quegli smeraldi accesi, Morgana era già andata via.





 
Relie's Corner
Hi guys!
Se siete arrivati qui ci sono solo due spiegazioni logiche:
- Pendragon's vi era veramente mancato;
- Avete saltato tutto per poi arrivare alle note.

- Il personaggio di Parsifal era già stato introdotto nel capitolo VIII e il soprannome " Troppi caffè " viene affibbiato a Merlin da Elyan nel XIII capitolo;
- La storia della "Principessa" racchiude un trascorso Merthur;
- Joe Hart è il portiere del Manchester City;
- Hartie nasce da una passione dell'autrice verso i piccoli maialini, così come l'idea di una Helena vegana. Inoltre, vorrei seriamente suggerirvi la lettura di Myricae, una storia stupenda scritta da Celtica. Se amate, o se avete mai amato un cane, è la storia perfetta per voi;
- Sinceramente, non saprei cos'altro chiarire xD


Alla prossima!

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Capitolo 20
*** Quando brucia più dell'alcool nella gola ***


Nda: Buon salve a tutti! (...Sempre se qualcuno ci sia ancora).
Non aggiorno da mesi, ma per farmi perdonare posso garantirvi che questo è un capitolo lungo tanto da saziarvi abbastanza. Vi ho inserito due soundtrack che spero ascolterete, magari accompagnate alla lettura.
Cosa troverete in questo capitolo?
MERTHUR, ancora one-sided, ma abbiate pazienza. 
Mergana, of course. Un po' doloroso, ma a noi piace lo stesso anche così, no?
Un Gwaine in versione Barney Stinson in compagnia della sua adorata Hartie e... Una Gwen un po' pressante.
Mi auguro che apprezziate il ritorno di Pendragon's. Stavolta non ci saranno riferimenti ad Igraine perché le sarà dedicato un capitolo a parte (il 22esimo).
Il simbolo (*) indica un distacco temporale netto, in questo caso il giorno seguente.
Ringrazio tutte le persone che hanno aggiunto la storia nelle preferite/ricordate/seguite, so che ci siete e questo mi riempe il cuore. Un grazie a coloro che leggono in silenzio e a coloro che hanno recensito i capitoli precedenti. Siete delle persone dolcissime.
Vi lascio, finalmente, a questo capitolo.
Aspetto i vostri pareri.
Buona, spero, lettura!
 
XX.  Quando brucia più dell’alcool nella gola.
 Soundtrack: Walking Blind
                 Battlefield

 
Don't tell me the truth 
tell me that it didn't happen 
there's been a mistake 
there's been a misunderstanding 

 - Aidan Hawken





«Ho fatto una scelta», ripeté. «E vorrei che tu fossi dalla mia parte».
Gwen abbassò il braccio accanto al fianco, accompagnata dal tintinnare delle chiavi che aveva tra le mani, lo sguardo fisso sugli occhi smarriti dell’amica.
«Puoi farlo, Gwen?» La voce di Morgana scivolava sul suolo sporco, per poi aggrapparsi ai jeans scoloriti della mulatta, scalando il suo corpo fino a gettarsi nel suo petto. «Puoi farlo per me?»
Gwen ricordava bene cosa era successo.
Ricordava le parole che si erano dette, i litigi e le incomprensioni; in quel momento, però, dinanzi a lei c’era la sua migliore amica col mento tremante e gli occhi lucidi, che non le chiedeva nient’altro se non il suo aiuto.
Ginevra compresse le labbra sottili in una smorfia dolce, la stessa che riservava sempre a un cucciolo solo e affranto, quella che indossava tutte le volte che provava a convincere la sua amica ad ospitare un randagio nella villa Pendragon.
Prese posto accanto a lei, avvolgendola in un abbraccio pieno d’affetto. La sentì tirare su col naso due volte.
«Entriamo in casa».
Gwen le accarezzò i capelli, tenendola stretta.
 
1 giorno prima…
 



La pioggia picchiettava sui vetri lisci e trasparenti dell’ospedale, scendendo incostante dal cielo scuro e cupo di quella mattinata di Giugno.
Il Kilgharrah’s Hospital non si era mai addormentato. Dalla stanza in cui Elyan si trovava, poteva udire il rumore delle rotelle dei carrelli sul pavimento, i passi affrettati degli altri medici, qualche chiacchiera a voce bassa di alcuni parenti.
Nel Kilgharrah’s Hospital si respirava la stessa aria di tutti gli altri policlinici del mondo: un misto di disinfettante e ansia, ma chiunque avrebbe scovato dell’altro dietro gli occhi sorridenti del giovane infermiere.
«Quindi potrò mangiare la pizza, dottoressa Princess?»
Elyan alzò un angolo della bocca all’insù nel vedere il sorriso genuino che Mithian offrì alla bambina.
«Certo che potrai, Jodie».
«Una intera?»
La specializzanda sorrise divertita. «Anche le patatine fritte se vuoi, ma ricorda: solo dopo una settimana».
«Ma se mangio solo passato di verdure diventerò verde come Hulk?»
Elyan scosse il capo intenerito, trattenendo una risata.
«No, Jodie.» La dottoressa posò la cartella clinica avvicinandosi alla bimba, chinandosi verso di lei. «Però mi hanno detto che uomini come Diego Costa stravedono per chi mangia sano».
Il sorriso gentile e smagliante della specializzanda si eclissò quando Jodie, la fronte corrugata e – Elyan temette – disgustata, le rispose: «Diego Costa?! Ma è vecchio! E poi è brutto. Sergio Agüero è molto più bravo di lui!»
L’infermiere decise d’intervenire; Mithian aveva abbassato lo sguardo, mordendosi l’interno labbra. Elyan la conosceva da un numero di anni sufficienti a comprendere che quello non era per niente un buon segno: Mithian era stata cresciuta dal padre a pane e Chelsea; amava la birra, urlare allo stadio e sudare in un campo di calcio, ma soprattutto… era fedele alla sua squadra.
«Dottoressa Princess, una parola!»
Elyan la afferrò per un braccio, invitandola a uscire dalla stanza.
«Beh, deve essere un vero peccato che il City abbia vergognosamente perso la partita di ieri sera! Dov’era il mitico Agüero, mentre la sua squadra veniva ridotta ad un marmocchio in lacrime, eh?!»
Mithian non le pensava davvero quelle cose, solo che era una donna molto… passionale, ma la piccola Jodie non poteva saperlo. Gli occhi scuri della bambina si erano spalancati alla reazione della dottoressa – tanto bella e gentile -, costringendo Elyan a una risatina quasi isterica, al limite dell’impreparazione.
Se la trascinò fuori dalla camera, sorridendo grato al cielo alla vista della madre della piccola. «Oh signora Brown, che piacere vederla! Jodie è in splendida forma e l’intervento è andato molto bene, tra qualche minuto passerà il dottor Fox per informarla de-»
La donna indicò stranita una Mithian trascinata per un braccio fuori dalla camera, interrompendo così la raffica di parole dell’infermiere: «Ma la dottoressa Princess…?»
«È… molto impegnata. Bisogna strattonarla via dai suoi pazienti per permetterle di salvarli tutti.» Rise, certo di non essere stato per niente convincente, trascinando Mithian abbastanza lontana da quella stanza.
«Mi dispiace. Non volevo comportarmi in quel modo», si sincerò la specializzanda, abbassando lo sguardo colpevole. «È solo che… cavoli, è il sogno di ogni ragazza quello di finire al fianco di Diego Costa! Non può essere definito vecchio, lui è un campione!»
Elyan le lanciò un’occhiata di rimprovero, incrociando le braccia al petto.
«Okay, hai ragione. Scusami».
La mora alzò le mani in segno di resa, ridendo di se stessa.
Era tremendamente bella quando lo faceva, pensava Elyan tutte le volte che Mithian muovesse o aprisse bocca. A dire il vero, talvolta se lo ripeteva anche quando la rivedeva stanca e sfinita da un intervento, insonnolita e struccata.
È tremendamente bella, si diceva ogni volta. Soprattutto quella giornata che, rallegrata dalla sconfitta del City della sera precedente, aveva preso a canticchiare l’intera compilation di Ed Sheeran tra quelle mura tristi dell’ospedale, donando un po’ di luce a quel posto.
O forse era solo lui a vederla in quel modo?
Elyan fu riscosso dal tocco gentile della mano di Mithian sul suo braccio. Una leggera carezza tra colleghi, un gesto innocente tra due persone che si rispettano. «Grazie, Elyan. Sei un ottimo amico».
Fu così che, con un sorrisetto sfacciato da ragazzo ribelle, l’infermiere la vide allontanarsi per i corridoi del Kilgharrah’s Hospital sentendola canticchiare alcune strofe di Photograph. Era una sensazione strana quella che avvertiva alla bocca dello stomaco, come se bruciasse più dell’alcool nella gola.
 
 
 






Stare in ospedale la metteva a disagio, la rendeva irrequieta.
Appena entrati nel Kilgharrah’s Hospital, Morgana si era sentita stringere forte alla gola; c’era un alone particolare che avvertiva negli ospedali, specialmente in quello.
Le pareti riverniciate erano le stesse che aveva visto una mattinata di molti anni addietro, l’odore che aleggiava nel policlinico non era cambiato di una virgola.
Ricordava il rumore assordante delle sirene accese, le luci fastidiose dell’ambulanza… e poi ricordava quella stretta alla gola. Lo shock. L’incapacità di avvertire un minimo soffio di vento sulla pelle chiara.
Erano passati quindici anni, ma quella morsa continuava a toglierle il fiato.
Adesso, seduta su quella sedia blu, aveva fatto la conoscenza di un nuovo senso d’inquietudine.
Successe quasi in un lampo: dei gemiti di dolore le arrivarono alle orecchie come una doccia gelida; dinanzi ai suoi occhi una donna in travaglio veniva accompagnata da un’infermiera in sala parto, sulla sedia a rotelle.
Durò poco meno di qualche secondo; rivide i suoi occhi verdi in quelli castani e lucidi dal dolore di quella donna sconosciuta. I lisci capelli d’ebano scompigliati diventarono onde corvine e sudaticce, i gemiti di quell’estranea divennero i suoi gemiti. Solo una cosa le accumunava in quel momento: erano sole, entrambe.
 



«Ti va una cioccolata calda, piccola?»
Gli occhi della bambina erano fissi nel vuoto. Il giovane infermiere confuse quel silenzio come un viaggio tormentato nei ricordi, e forse fu per questo che smise di tenderle il braccio per porgerle un bicchiere ricolmo di liquido bollente.
La verità era che Morgana non stava pensando a niente. La sua mente e il suo corpo erano completamente ibernati, immersi in una dimensione parallela.
Sentì il giovane occupare il posto al suo fianco e respirare pesantemente. Probabilmente la sua tuta verde si era alzata e abbassata a ritmo col suo petto.
Ne seguirono dei secondi di mutismo surreale, dopodichè l’infermiere estrasse qualcosa di tintennante dai suoi pantaloni, rompendo quell’attimo di strana quiete.
«Ti piace Topolino?», tentò a quel punto il giovane dalla tuta verde, riservandole un tono gentile.
Fu la cosa peggiore che avesse potuto fare.
Morgana guardò il pupazzetto che pendeva da un mazzo di chiavi con la coda dell’occhio. Non si accorse neanche di tremare.
In un attimo la sua mente fu invasa da immagini confuse, a tratti indistinte: un uomo che distribuiva volantini indossando un costume di Topolino, le mani snelle di sua madre sul volante, la radio accesa sulla sua stazione preferita… poi l’urto inseguito dal caos, il mondo sottosopra. Del sangue. Il niente.
L’infermiere sospirò stancamente, lasciandosi ricadere sullo schienale. «Vedrai che il tuo papà arriverà presto».
La piccola Pendragon rabbrividì in silenzio, seduta su una sedia blu qualsiasi di un ospedale che non avrebbe mai dimenticato.
 



«Morgana», la voce di Arthur la risvegliò dai suoi pensieri. «Cosa ti sta succedendo?»
La corvina deglutì impercettibilmente, lo sguardo ancora indirizzato verso il vuoto, finché non voltò il capo a guardare il fratello. «Che cosa potrebbe mai succedermi, Arthur?»
«Non lo so», ammise il biondo. «Ma dev’esserci qualcosa che non va. Per essere una donna sei troppo silenziosa in questi giorni, e per essere un maschiaccio stai diventando spaventosamente femminile».
«E tu, per essere un tipo ossessionato da te stesso, stai prendendo troppo a cuore la vita altrui» lo rimbeccò, arricciando le labbra rosse in una smorfia strana.
«Non rovinare tutto come tuo solito».
Morgana si concesse una risatina degna da sorella maggiore – o perfida arpia, com’era solito precisare il suo amato fratellino. «Ti eri preparato il discorso?» lo interrogò, alzando un sopracciglio corvino in aria di sfida.
«Più o meno», concesse Arthur di malavoglia, stringendo i denti. «Ad ogni modo, non è questo l’importante: sei mia sorella e, per quanto orticante tu possa essere, rimani la bambina che sgattaiolava nel mio letto a notte fonda.» Stavolta l’espressione di Arthur era seria. I suoi occhi blu le trasmettevano tanta premura e sincerità, il lato migliore di ciò che suo fratello era veramente. «Se c’è qualcosa che ti turba, qualcosa che non va… puoi parlarne con me».
Sono incinta.
Non so cosa fare, non so di chi sia e non so nemmeno se lo voglio, un figlio.
Ecco, cosa mi sta succendo.
Tu cosa ne dici, Arthur?
«Sono incinta».
Morgana rimase ferma a guardare suo fratello, un’espressione indecifrabile, come se avesse appena pronunciato la frase più semplice e banale dell’intero universo. Sono incinta.
D’altronde erano molte le cose che Morgana sapeva su Arthur; conosceva i cibi ai quali era allergico e che – quando era piccola – gli nascondeva nei suoi pasti sghignazzando come una vera streghetta. Era a conoscenza dell’incapacità del fratello di mantenere una casa in uno stato abitabile e la sua innata arguzia per questioni palesemente ovvie.
Per queste e ben altre ragioni impossibili da elencare, Morgana aveva già previsto la scontata reazione del fratello.
«Ci trovi così tanta soddisfazione nel prendermi in giro?» Arthur s’imbronciò come un bambino a cui hanno appena portato via un bel cono al cioccolato – o come avrebbe avuto modo di esaminare Merlin, un totale Asino. «Sai cosa?» continuò alzando le mani in segno di resa. «Va bene. Tieniti per te le tue lune storte, ma almeno cerca di essere meno egoista con chi ti sta intorno. Mordred ha rinunciato ad una carriera, per te. Non merita un voltafaccia simile».
«Cos’è? Mordred ti ha sedotto col suo fascino parigino o ha giurato eterna fedeltà al City?» lo beffò, schernendo l’improvviso interesse di Arthur per il suo fidanzato.
«No, Morgana. Semplicemente, non credo che Mordred lo meriti».
«Sinceramente, Arthur, non credo che siano affari tuoi».
Fin da piccoli i due Pendragon si divertivano a rendere la vita dell’altro un inferno, battibeccando e scontrandosi come cane e gatto. E proprio come ai quei tempi, Morgana sostenne il suo sguardo determinata e astiosa. Era inutile specificare che lei avesse sempre la meglio, no?
«Pendragon?»
Il biondo aprì bocca per proferire parola, ma rinunciò non appena l’infermiera fece il suo nome. Rispose all’appello, rialzandosi piano dalla sedia evitando l’aiuto della sorella. Quando fu in piedi, sorretto dalle stampelle, guardò la ragazza consapevole che bastasse un solo sguardo per capirsi.
Ed era così, tra loro. Infatti, Morgana si risistemò la borsa sulle spalle, distanziandosi un po’ dal fratello. «Se non dovessi vedermi, mandami un messaggio».
«D’accordo».
Arthur e Morgana si separarono, andando via di schiena.
 
 
 





«She’s like cold coffee in the morning…»
Arthur, il sopracciglio dorato all’insù, osservava la dottoressa canticchiare indisturbata le strofe di una canzone a lui sconosciuta, così contenta che sembrava quasi contaggiosa. Per questo, forse, sorrise di riflesso alla sua dolce voce. «È una nuova tenica di supporto al paziente?»
Mithian incrociò il suo sguardo, interrompendo per un attimo la manifestazione della sua gioia, di cui il biondo ignorava la causa. «Può darsi», gli rispose semplicemente.
Non conosceva quella canzone, ma dopo averla sentita canticchiare a Mithian da quando era entrato in quella stanza, poteva perfettamente cantarla a sua volta. Era orecchiabile, le parole gli erano entrate nella testa ostinandosi a non uscirne più. O forse era solo merito della voce cristallina della specializzanda?
«Mi piace», confessò spavaldo il Pendragon, incatenando i suoi occhi blu a quelli nocciola di lei. «Hai davvero una bella voce».
«È una fortuna!» considerò raggiante Mithian. «Almeno so cosa farò dopo aver aperto e ricucito tutti i dipendenti del Pendragon’s».
«Tsk», Arthur sbuffò una risata. «Confessi, dottoressa Princess: non vede l’ora di liberarsi di me perché mi ritiene un pessimo paziente».
Mithian rise, allontandosi dal Pendragon dopo aver terminato la sua visita. «Ho preso lezioni di canto a posta».
Tuttavia, il sorriso disegnato sulle labbra piene di Arthur non svanì. Rimase impresso sul suo viso mentre guardava la dottoressa armeggiare qualche carta con su scritto chissà cosa, nella mente ancora la sua voce cristallina che canterellava quelle strofe dolci.
«Vuole liberarsi di me, dottoressa Princess?»
Le labbra sottili di Mithian presto incurvate verso l’alto gli offrirono un’insolita speranza. Quel sorriso silenzioso rispose per lei, facendo gonfiare il petto del giovane Pendragon.
«Ti piace l’acqua, Arthur?»
Quella domanda galleggiò tra loro, mentre dalla finestra la pioggia sembrava calmarsi.
Una volta finita la visita e uscito dalla stanza, Arthur inviò un messaggio a sua sorella non avendola vista nei paraggi, indugiando però sullo schermo del suo cellulare. Guidato dalle strofe imitate dalla specializzanda poco prima, cedette all’impulso di cercare la canzone sul web sorridendo di riflesso al titolo. Non sapeva il motivo, ma quella canzone lo ispirava, gli piaceva a pelle.
Dunque, decise che non sarebbe stato poi un grosso sbaglio abbassare il volume e risentirla in quel momento. Ma – come ogni strega che si rispetti – Morgana lo colse alla soprovvista e il biondo sobbalzò al suo richiamo, premendo una cosa per un’altra…
 
 



 

Merlin era intento ad asciugare un boccale di vetro con uno strofinaccio quando Gwaine – puntualmente seduto sul solito sgabello -, interrompendo la strage in atto di noccioline nella ciotola, aveva spalancato la bocca ridendo di gusto issando il suo cellulare all’altezza degli occhi.
«L’ombra di un cliente?», scherzò Merlin alzando un angolo della bocca, senza tuttavia nessuna traccia di offesa.
Il meccanico non ci fece caso. Con la risata ormai tramutata in un buffo ghigno incorniciato dalla barba, mostrò al barista la pagina internet che stava scorrendo, attendendo la reazione del corvino. «La principessa ha finalmente espresso il suo lato femminile».
Merlin, incredulo ai suoi occhi, continuava a chiedersi se era stato davvero Arthur a condividere quella canzone sul suo profilo, memore delle mille precisazioni idiote che l’Asino gli aveva rifilato negli anni: “Un Pendragon non ascolta musica melensa, Merlin. Un Pendragon conserva sempre la propria virilità.” A poco erano serviti i tentativi del giovane corvino di spiegargli che i gusti musicali c’entravano davvero poco con la sessualità e che certi stereotipi erano da declassare: Arthur lo aveva liquidato con una stupidaggine delle sue, come promettergli di non infierire troppo in futuro quando lo avrebbe ritrovato a canticchiare piagnucolante My heart will go on in un angolo buio.
«Siamo sicuri che sia lui?», fu l’unica frase che Merlin – scettico – riuscì ad articolare. «Magari è stato posseduto dallo spirito di una fan uccisa durante un concerto» espose con naturalezza, quasi fosse un’ipotesi da poter prendere tranquillamente in considerazione. Lo sguardo sbigottito che Gwaine gli dedicò bastò per sentirsi un vero idiota.
A rispondere alle preoccupazioni sciocche del barista fu il grugnito della piccola Hartie, salita a fatica sul bancone, con la testa ficcata nella ciotola rossa ricolma di noccioline.
Merlin strabuzzò gli occhi allarmato, provando il desiderio di portarsi le mani tra i capelli immaginando l’ira di Arthur semmai lo avesse scoperto, rischiando di far cadere il boccale al suolo. «No, no, no!»
Gwaine, dapprima confuso, seguì lo sguardo dell’amico per poi sorridere alla vista della piccola Hartie, prendendola in braccio. «Una signorina ha fatto la porcellina, qui».
«Se l’è spazzolate tutte», costatò a bocca spalancata il povero Emrys, incurante degli occhietti dolci che la piccola mammifera utilizzava come scudo. Gwaine, infatti, cedeva sempre.
«Non è tollerabile, Gwaine!» sussurrò a denti stretti. «Non è igienico. Arthur mi aveva già avvisato di non farti entrare con…», mosse la mano in aria con gesti confusi, prima d’indicare la piccola Hartie. «lei».
«Oh, suvvia!» Il moro si sistemò il maialino sulle cosce come un neonato, sfoggiando – forse non proprio nella maniera più consona per la povera Hartie – tutto il suo orgoglio da neopapà. «Tutti amano i maialini».
«Certo! Li amano fritti, arrostiti e accompagnati da uova strapazzate», ne convenne il corvino paventando la furia omicida che il Pendragon gli avrebbe riservato, licenziandolo all’istante. «Ma nessuno ama vederli mangiare il proprio cibo».
Come a smentire ogni sua parola detta fino a quel momento, una ragazza dai lisci capelli rossi si avvicinò al bancone emettendo un verso stridulo, abbassandosi all’altezza della piccola Hartie. «Ma è dolcissimo!»
Gwaine assunse una delle sue espressioni più false, fingendo una voce rotta dall’emozione: «Non so cosa ne sarebbe di me, se lei non ci fosse più. Non riesco a starle lontano nemmeno un minuto, ma purtroppo non tutti accettano la loro presenza» e qui quell’idiota donnialo mise su una faccia da cane bastonato degno di un Oscar.
La ragazza scosse il capo, sdegnata. «È inammissibile. Mi verrebbe voglia di smettere di frequentare quei posti all’istante».
«Non dirlo a me!»
Mentre la ragazza dedicava tutta la sua attenzione e coccole varie alla piccola Hartie, Gwaine si voltò per fare l’occhiolino a Merlin; il corvino, ignorando le spiccate capacità da playboy dell’amico, roteò gli occhi al soffitto.
 





La corte di Gwaine era durata un quarto d’ora.
Christine – quello era il nome della povera mal capitata – aveva ceduto alle avances del moro fin da subito, scrivendogli il numero di telefono su un tovagliolo offertole dal barista. Gwaine, fiero del risultato, aveva recitato la parte del timido ragazzo insicuro finché la rossa non gli strinse una mano e non gli propose di aggiungersi al corteo che Domenica pomeriggio avrebbe marciato contro «quegli assassini schifosi che vendono pelle di cadavere».
Quando Christine se ne fu andata, Gwaine stracciò in mille pezzi il tovagliolo.
Merlin, beandosi della vista dell’amico impaurito, ne rise divertito.
Il resto del tempo passò tranquillo tra un’ordinazione e l’altra, una ciotola di noccioline e una di salatini svuotate dal moro – con l’aiuto della fida Hartie -, fintantoché l’Asino non fece la sua entrata nel bar con un grosso sorriso.
Merlin e Gwaine si scambiarono delle occhiate d’intesa, facendo corrugare la fronte del biondino. Arthur ignorava cosa, quei due idioti, avessero in testa – purtroppo per lui.
Gwaine tossicchiò, preparandosi per la sua parte. Poggiò i gomiti sul bancone, sorridendo colpevole. «Ehm… Merlin?»
«Sì, Gwaine? Dimmi pure.» Fu la risposta fin troppo accondiscendente del corvino.
«Potresti prepararmi un bel caffè?»
«Certo! Che domande».
«Però non lo berrò subito, sai… a me piace freddo».
Arthur, i capelli biondi un po’ umidicci a causa della pioggia, cominciò a capire dove quelle due teste vuote volessero andare a parare. Così, metà imbarazzo e metà infastidito, digrignò i denti.
«Ma davvero?» La voce fastidiosa di Merlin arrivò alle orecchie di Arthur come il ronzio di una zanzara. «Pensa che invece Freya preferisce sempre una tazza di tè con due zollette di zucchero».
«Siete due completi idioti», li rimproverò il Pendragon, punto nell’orgoglio nell’udire le loro stupide risatine. «Lo annoterò sulla lista nera», dichiarò minaccioso alla volta di Merlin, per poi puntare il dito verso Gwaine. «E comincerò un lungo elenco di prodotti acquistati e mai pagati!»
«Noi magari potremmo mettere su il cd di Ed Sheeran, se questo ti rende felice.» Merlin alzò le spalle, indicando con lo straccio che aveva in mano lo stereo in un angolo del bar.
«Io…» Arthur serrò la mascella in cerca delle parole giuste per zittirli a dovere. «Non sto facendo outing solo perché ascolto una canzone di Ed Sheeran!» sibilò, le gote leggermente imporporate.
Merlin gli si avvicinò con un sospiro, battendogli una pacca sulla spalla. Da quanto tempo aveva atteso quel momento?
Annullò le distanze tra i loro visi quel tanto che gli bastasse per sussurrargli: «Caro il mio Arthur, nemmeno se ti dicessi che ieri – anche se il City ha vergognosamente perso – mi sarebbe piaciuto passare del tempo solo con te, starei facendo outing».
Se in quel momento si fossero trovati nel mondo dei fumetti, probabilmente il volto del Pendragon sarebbe stato talmente rosso che dalle sue orecchie sarebbe uscito del fumo, stizzito più dai modi di quell’imbecille che dalle sue parole. Se lo scrollò di dosso, avviandosi come un toro zoppo verso gli spoiatoi – Dio solo sapeva perché – urlando di rimando: «E fate sparire quel bacon con le zampe dal mio bar, prima che lo arrostisca!»
Gwaine ebbe il tatto di coprire le orecchie della piccola mammifera con le sue mani, assicurandole che «la principessa era soltanto in quei giorni».
Arthur, invece, continuò a borbottare: «Per fortuna quell’impiastro di Mordred non conosce bene la lingua, altrimenti…»
Merlin e Gwaine non udirono più alcuna parola siccome l’Asino si era chiuso la porta alle spalle e, ancor di più, nessuno dei due ebbe cuore di far notare al Pendragon che il francese conosceva perfettamente la loro lingua.
Solo quando la porta si richiuse con un tonfo alle sue spalle, Arthur guardò dinanzi a sé la piccola panchina di legno, abbonzando un sorriso spontaneo. Anche se Merlin era un deficiente, talvolta sapeva usare le parole giuste.
 
 






Dopo la scenata del Pendragon – altre due birre scroccate da Gwaine e minuti interminabili che l’Asino aveva speso chiuso nello stanzino -, la vita era ritornata alla sua quotidiana e ordinaria routine.
Al bar erano arrivati i clienti di sempre occupando i loro tavoli preferiti – l’ultimo accanto alle vetrate e il secondo in fondo alla sala -, chiacchierando e ordinando le solite cose. Alcuni avventori con i quali Merlin aveva stretto un buon rapporto, si avvicinarono al bancone per esaminare la new entry del Pendragon’s ridendone teneramente, altri preferirono restarsene seduti ai propri posti.
Arthur aveva inghiottito il boccone amaro della sconfitta del City la sera precedente che un cliente gli aveva ricordato, ignorando persino le continue frecciatine che Gwaine e Merlin ogni tanto continuavano a mandargli per via della canzone erroneamente condivisa.
Merlin dovette ammettere che, per quanto fosse divertente stuzzicare il Pendragon, quest’ultimo aveva un ottimo senso del dovere e riusciva a mascherare diplomaticamente la voglia di strangolarli all’istante.
«Ehi!»
Merlin sollevò gli occhi dal bicchiere di Coca che stava riempendo quando Gwaine gli sfiorò il polso con i polpastrelli, indicandogli con un sorriso da schiaffi uno dei tavoli al centro del locale. «Sembra carina.» Gwaine annuì da solo alle proprie constatazioni, aspettando impaziente anche l’assenso dell’amico.
Merlin spostò lo sguardo incontrando il nuovo bersaglio del moro. I capelli fulvi incredibilmente fuori posto per il taglio corto, il tappo blu della penna morsicchiato nervosamente durante la lettura dei tomi che occupavano il tavolo; due occhi verdi messi in risalto da una montatura di occhiali che ricordava tanto quelli di Harry Potter, che sbranavano ogni pagina con attenzione.
Il corvino abbozzò un sorriso per poi chiedere conferma al suo amico: «Eleanor?»
«Contiene la ‘e’ e la ‘a’», osservò il meccanico, quasi fosse un particolare di ovvia importanza che ciononostante Merlin non colse. «Augurami buona fortuna».
«Non ti conviene, amico».
«Merlin bello, nessuna donna può resistere a cotanto fascino.» Gwaine s’indicò il corpo ammiccando, ma tutto quello che ricevette in risposta fu il grugnito di Hartie – che, sfiorando con le sue orecchie lo stomaco del moro, cominciava ad averne abbastanza di quella assurda posizione ristrettiva - e un Merlin scettico che scuoteva il capo.
«Sai…», Merlin si sporse sul bancone, avvicinandosi all’amico. «Certe volte penso che tu e Arthur sareste perfetti insieme».
Il corvino sapeva perfettamente che quelle parole non avevano alcun poter su Gwaine: il meccanico, proprio come l’Asino, era un caso perso. Per questa ragione non si meravigliò delle leggere pacche che gli lasciò sulla mano chiusa a pugno e del sorrisetto sfacciato accompagnato da un: «Non essere geloso. La Principessa ama solo te».
Merlin scosse il capo, ridendosela, perché consapevole di ciò che sarebbe avvenuto da lì a poco: Mordred si avvicinò al tavolo della ragazza, porgendole un muffin imbottito di marmellata ai mirtilli, sorridendole cordiale. Eleanor ricambiò la gentilezza con imbarazzo, le gote sempre più rosse  e gli occhi verdi puntati sul bel francese.
«Sei la mia client favori, Elly».
«G-Grazie», balbettò la ragazza, sistemandosi la montatura troppo spessa e troppo scura. «È un piacere, per me. Nel senso che trovo piacevole risultare piacevole. È… un piacere.» Eleanor si morse il labbro, inveendo contro se stessa con un lungo sproloquio nella sua mente.
Il francese, però, dimostrò tutta la sua abilità nel trattare gli avventori e le sorrise gioviale. «Spero troverai piacevole anche il dolce».
Gwaine, rimasto fermo come ibernato sullo sgabello, si voltò verso Merlin imbronciato dando tanto l’aria di essere un Peter Pan barbuto a cui hanno appena soffiato la propria Wendy. «Odio quell’uomo», decretò infine.
Anche io, avrebbe voluto dire il corvino, ma sapeva di non poterselo permettere: sarebbe stata l’ennesima bugia di una vita costruita sulla menzogna. Merlin non odiava Mordred, il sentimento che provava per l’attraente parigino era tutt’altro che astio. Aveva visto persone morire davanti ai suoi occhi per mano di suo zio, una piccola luce di speranza nello sguardo di coloro a cui aveva venduto la droga spegnersi dose dopo dose.
L’unica persona che Merlin biasimava più di tutte era se stesso. Era stata colpa sua se Morgana adesso non era tra le sue braccia, non certo di Mordred. Quell’uomo… forse sarebbe stato in grado di offrirle ciò che lui non era mai stato capace di darle; eppure nel vederlo sorridere alla timida Eleanor i ricordi della sera precedente presero il sopravvento, avendo la meglio su tutto.
 



Merlin si era rifugiato in cucina per fuggire dall’umore nero del Pendragon: non solo non era riuscito a vedere la partita dall’inizio alla fine come previsto, ma la sua sciarpa portafortuna era stata rovinata dalla piccola Hartie e il City aveva miserabilmente perso. Poteva esistere serata peggiore di quella per l’Asino?
Merlin non avrebbe saputo rispondersi. Si avvicinò al frigo aprendolo, estrendone tre lattine di birra. L’unico modo per combattere la collera di Arthur, in certi casi, era proprio l’alcool.
«Serve una mano?»
Una lattina cadde rovinosamente a terra. Merlin deglutì a vuoto, abbassandosi per raccoglierla. «No, grazie».
Nonostante avesse rifiutato il suo aiuto, il corvino poté avvertire la presenza di Mordred nella stanza e il suo sguardo sulla schiena. Quando lo sentì avvicinarsi per sfilargli due lattine dalle mani, Merlin si chiese se fosse riuscito a guardarlo negli occhi mentre l’odore della sua acqua di colonia gl’invadeva le narici.
«Dev’essere molto dura, per Arthur».
Il ventenne si costrinse ad incrociare il suo sguardo di ghiaccio. Se possibile, quegli occhi bruciavano più dell’alcool nella gola. Mordred sembrava una statua imperosa a distanza così ravvicinata.
«Cosa?» Finse un tono calmo.
Merlin si sentiva studiato dalle sue iridi enigmatiche. Lo vide sorridere solo dopo pochi secondi. «Per la partita. Non sono un genio in queste cose ma da quel che ho capito il Manchester City ha perso».
«Gli passerà», lo rassicurò Merlin, indicandogli distrattamente le birre. «Un paio di quelle e la testa di legno torna come nuovo».
Sul viso rasato del francese nacque un accenno di risata. «Conosci Arthur molto bene».
Merlin scrollò le spalle. «Anni di esperienza».
Quel tipo sapeva metterlo in soggezione come pochi e non era solo per la questione di Morgana; Merlin aveva condiviso buona parte della sua vita al fianco di spacciatori, assassini e delinquenti: sapeva riconoscerne uno quando lo vedeva. Il problema era che nemmeno il giovane Emrys sapeva il motivo di quella sua inquietudine.
«Arthur è molto legato a te», continuò indisturbato il francese, quasi volesse ricavarne qualcosa. «Finge di non sopportarti, eppure sei l’unica persona che ascolta».
Merlin sbuffò una risata, schernendosi, ma prima che potesse aggiungere qualsiasi altra cosa Mordred lo precedette: «Davvero. Lui si fida ciecamente di te».
Dalla stanza accanto si sentivano le proteste di Arthur contro la sua piccola tv e le canzonature che Gwaine prontamente gli offriva ogni qualvolta l’Asino aggrediva verbalmente la piccola mammifera. Merlin decise che fosse l’ora d’intervenire – quanto meno per il povero Parsifal che, impotente, si ritrovava solo tra due fuochi. E poi il corvino non riusciva più a sostenere quello sguardo glaciale che lo trafiggeva.
«Sarà meglio andare di là», suggerì, incamminandosi verso la porta, finché la voce di Mordred non lo bloccò: «Dovrai conoscere bene anche Morgana».
Merlin andò a sbattere contro il tavolo in legno, mordendosi inavvertitamente la lingua. Sentiva il sangue gelarsi nelle vene mentre la cucina veniva inghiottita nel nulla. Preferì non fiatare – perché non avrebbe davvero saputo cosa dire – e lasciar fare al parigino.
«Sai, da quando è tornata mi sembra diversa. Alcune volte fatico persino a sopportarla. È una ragazzina capricciosa che non si accontenta di un “no”. La verità è che non sa nemmeno lei cosa vuole».
Il ventenne trattenne il fiato, insicuro se parlare o meno, stringendo l’unica mano libera in un pugno. Non aveva dimenticato cos’erano diventati gli occhi della Pendragon quando le aveva spezzato il cuore scegliendo Freya e mai, mai lo avrebbe fatto.
«Ha visto la madre morirle davanti agli occhi quando aveva solo sei anni. Suo padre non si è mai preso cura di lei, non le ha mai fatto da genitore.» Si voltò per guardarlo negli occhi, stavolta senza alcuna insicurezza. «Non è una ragazzina capricciosa, è solo una donna ferita. Dovresti darle più tempo, più fiducia… e magari un giorno crederà ciecamente in te, tanto da non dover sentire il bisogno di scappare».
Mordred restò a guardarlo con un’espressione ermetica, poi abbassò lo sguardo e giocherellò con le lattine che aveva tra le mani, sfiorandole con i pollici. Quando alzò il capo, le sue labbra sottili erano incurvate all’insù. Il sorriso di chi aveva ottenuto esattamente ciò che desiderava. «Grazie per il consiglio, Merlin» gli disse indicandolo con una lattina. «Lo terrò a mente».
 
 
 






In quei giorni che avrebbero decretato il suo addio definitivo al Pendragon’s Coffee, Morgana aveva passato la maggior parte del tempo lontana da Mordred e dagli altri dipendenti del bar. Non aveva minimamente pensato alle conseguenze della sua scelta: il suo fidanzato avrebbe continuato a lavorare per Arthur oppure sarebbe scappato a gambe levate da quella città?
Si rese conto di non averci mai badato; le decisioni di Mordred non le sembravano la cosa più importante in quel momento. Prima avrebbe risolto il suo problema e poi, magari, le avrebbe prese in considerazione.
Quella mattinata aveva accompagnato suo fratello all’ospedale per la visita alla rotula – finalmente lo avevano liberato da tutto quel gesso – e dopo averlo lasciato al bar non era più tornata a casa.
Aveva colto la palla al balzo per fermarsi sotto l’edificio del settimanale scovato online e fissarlo a lungo. Quello sarebbe stato il prossimo passo: lavorare in quel posto, fare conoscenza con Annis Lowe e tentare d’impressionarla abbastanza per entrare nelle sue grazie… Il resto del piano sarebbe venuto da sé, ma poi c’era stato l’imprevisto.
Morgana tolse il piede dal freno, guardando distrattamente il semaforo dei pedoni colorarsi  di rosso mentre con la mente ritornava all’ospedale e a quello che la dottoressa dalle labbra spigolose le aveva detto riguardo la sua scelta. Sollevò lentamente il piede dalla frizione e accellerò. Sbarrò gli occhi, frenando con urgenza quando vide una riccia chioma di capelli pararsi dinanzi a lei e cadere al suolo.
Morgana sgranò gli occhi, certa di aver appena investito la sua migliore amica.





 
 
Quando Merlin tornò a casa quel pomeriggio, sentiva la propria schiena ridotta in mille pezzi – o almeno, questa era la versione che aveva adottato con Freya, entrando nell’appartamento. La ragazza gli aveva consigliato di mettere qualcosa sotto i denti e sdraiarsi per qualche minuto, poi gli aveva soffiato un bacio sulle labbra ed era uscita.
Merlin era rimasto impalato nel soggiorno per un arco di tempo indecifrabile finché non decise di seguire uno dei saggi consigli di Freya. Si spostò meccanicamente in cucina e rovistò tra i cassetti e nel frigo, riuscendo a ricavare un pranzo composto da una scatola di cereali al miele e una confezione di latte scaduto.
Poco male, si disse. Sperimentare un pranzo vegetariano per un giorno, non lo avrebbe di certo ucciso.
Durante quei pochi minuti che si ritagliavano per una pausa pranzo, Arthur gli aveva offerto più volte un sandwich, sventolandoglielo quasi sotto al naso. Non che l’Asino non fosse avezzo a tali gesti di cortesia – in realtà, le volte in cui Merlin non si serviva da solo dalla vetrina del Pendragon’s, Arthur compariva sempre, in un modo o in un altro, per offrirgli un dolce o un panino. La maggior parte delle volte, era Merlin a preoccuparsi che l’Asino si nutrisse sventolandogli il cibo sotto gli occhi -, ma quel giorno il corvino aveva rifiutato più volte il pasto dicendo di non averne voglia.
Anche adesso, ritrovatosi a sgranocchiare cereali da una scatola quasi vuota, non se ne pentì. Stava riempendo il suo stomanco solo per non sentirlo brontolare, ma lo faceva controvoglia, memore dei vecchi richiami di Gaius quando saltava i pasti.
Per tutto quello che Merlin aveva vissuto grazie a suo zio, continuava a considerarsi un ragazzo ottimista, eppure in quei giorni non riusciva ad essere pienamente sereno. C’era qualcosa che lo turbava, come se la – quasi – quiete raggiunta fino a quel momento potesse spezzarsi all’istante. Il prima possibile. E buona parte del merito ce l’aveva suo zio, Aridian.
Non si era sbagliato, Merlin. Quel verme non si sarebbe mai accontentato di qualche banconota rubata a Morgana, quello era solo uno dei suoi tanti avvertimenti. Non aveva mai voluto del denaro, Aridian desiderava solo non avere testimoni.
Aridian desiderava qualcuno che stesse dalla sua parte.
Posò la scatola di cereali sul comò. Era arrivato nella loro camera.
Fece qualche passò in avanti, fermandosi accanto al letto e furgarci sotto fino a toccare qualcosa. Senza pensarci due volte, estrasse il cofanetto di legno aprendolo con uno scatto secco.
Era una vera fortuna che Freya non amasse ficcanasare in giro, perché non avrebbe proprio saputo spiegarle cosa ci facesse, lui, con una pistola.
La prese tra le mani con delicatezza, quasi potesse esplodere da un momento all’altro. Se stringeva saldamente il manico, poteva risentire sul palmo il sangue caldo e nauseante che goccia dopo goccia cadeva sul pavimento.
Oh sì, Merlin sapeva esattamente a che gioco Aridian stesse giocando.
 
 
 
 
 




«Mi stavi seguendo?»
«Sono preoccupata per te, Morgana».
La corvina sbuffò come una bambina capricciosa, roteando gli occhi al tettuccio dell’auto. Dopo averla soccorsa e ad aver appurato che Gwen era ancora viva e vegeta, le due si erano rintanate in auto per via del nuovo temporale in arrivo. Morgana aveva ripreso a guidare senza una meta precisa – o almeno, questa era stata l’impressione di Ginevra Wilson.
«Gwen, questa storia sta diventando ridicola».
Ginevra non ne volle proprio sapere di mollare l’osso. Continuò a tenere i suoi occhi scuri sul profilo pallido della donna, mantenendo un tono premuroso seppur a tratti petulante: «È ridicolo il fatto che tu non voglia fare niente. Non ti sei nemmeno presentata al bar, l’altra sera».
Morgana alzò l’angolo della bocca in un mezzo ghigno sarcastico, voltando verso destra. «Perché sarei dovuta venire?»
«Perché siamo amiche, Morgana! Siamo tutti amici: io, te e Merlin. Lo siamo sempre stati».
«Ti sbagli».
«E se stessi sbagliando tu?»
Morgana parcheggiò l’auto in modo a dir poco sconsiderato e Gwen pregò chiunque la stesse guardando dall’alto che nessun vigile l’avesse vista; la mulatta ebbe poco tempo per gioire del fatto che quella manovra fosse stata ignorata dall’intera Inghilterra che Morgana esplose come un vulcano in eruzione: «Vuoi sapere che razza di amici ho? Mio fratello, che probabilmente mi disconoscerebbe insieme a mio padre se sapesse che sono incinta. Ci sei tu, che non fai altro che ripetermi che ogni scelta presa finora è un colossale errore… e poi c’è Merlin.
Merlin che è fidanzato con la perfetta e adorabile Freya».
Morgana si morse il labbro trattenendo le lacrime che rischiavano di rigarle il viso. Gwen non seppe dirsi se fossero dettate dalla rabbia o dal rancore, ma l’ascoltò lo stesso. La lasciò sfogare standosene in silenzio, poi parlò: «Io ci sono già passata, Morgana. So cosa vuol dire portare in grembo un bambino che non avevi previsto, so cosa significa vedere la propria vita stravolta nel giro di qualche giorno. So cosa vuole dire sentirsi giudicati, credere di essere nel torto… ma so anche cosa significa dire addio al tuo bambino prima ancora che venga al mondo».
Avrebbe voluto abbracciarla, Morgana, con tutta la forza di cui era capace… eppure non n’era in grado. Gwen poteva sapere cosa volesse dire essere in una situazione simile, ma non avrebbe mai vissuto quella situazione. Lei era Gwen e non sarebbe mai stata Morgana.
«Tu saresti stata fantastica, Ginevra.» La guardò negli occhi come tanto tempo fa, quando erano solo due ragazzine con uno zaino sulle spalle e la mente piena di progetti. «Ma io non sono come te, non lo sarò mai. Sarei una pessima madre», ammise.
Dirlo ad alta voce faceva uno strano effetto, lo rendeva ancora più reale.
«Adesso devi andare».
Morgana le indicò il palazzo colpito dalla forte pioggia, aspettando che la ragazza scendesse dall’auto e la lasciasse sola con i suoi pensieri.
Ginevra sembrò sul punto di dire qualcosa: le labbra schiuse e le iridi scure fisse sul suo viso. La Wilson però la sorprese, esaudendo il suo desiderio.
 
 
 
 
 
*
 
 




Quella giornata era passata in un batter d’occhio.
Al Pendragon’s erano giunti i clienti di sempre ordinando le solite cose, nuovi volti con nuove storie che Arthur non avrebbe mai conosciuto.
Merlin aveva diviso un panino con lui durante quel piccolo quarto d’ora che si erano ritagliati per loro, riuscendo a scambiarsi qualche parola senza avere nulla di preciso da dirsi, e per una ragione assurda Arthur ne fu felice.
Dopo averlo preso in giro per la smorfia che fece quando gli offrì un sorso della sua birra, Arthur chiese al corvino di accompagnarlo in piscina per gli esercizi che la dottoressa Princess gli aveva consigliato e si riscoprì inconsciamente sorridente quando gli rispose – scontato – che per lui andava bene.
Magnanimo, quel giorno aveva riservato a quell’idiota di Gwaine solo uno scappellotto a tradimento, quando il donniaolo aveva tentato di flirtare con alcune clienti utilizzando il bacon con le zampe come esca.
Almeno, si concesse di pensare, quelle due teste vuote avevano smesso di dargli il tormento per quella storia della canzoncina melensa condivisa per sbaglio.
Quello che il giovane Pendragon ignorava era il motivo per cui tutti i suoi dipendenti si fossero radunati al bar verso l’orario accordato per l’ultimo giro.
«Goditi lo spettacolo», gli aveva sghignazzato quell’arpia di sua sorella prendendo posto su uno sgabello, sorseggiando chissà che cosa offertole da Mordred. Il francese, notò confuso l’Asino, sembrava non aspettarsi niente.
Con la fronte aggrottata oltre l’inverosimile, Arthur vide Merlin sorreggere la sua chitarra e sedersi su uno sgabello posizionato accanto allo stereo e alcune casse – montate su ordine del Pendragon il giorno stesso in cui aveva deciso che Merlin si sarebbe esibito dinanzi ai clienti -, seguito da un Gwaine che sorrideva con una faccia da schiaffi, impugnando un microfono.
E fu esattamente in quel momento che inizò a sudare freddo.
Aveva visto confabulare quei due idioti molto a lungo in quei due giorni, ma non si sarebbe mai aspettato un colpo così basso. Il peggiò arrivò quando, presa dall’euforia, Freya si unì al duo canticchiando insieme a Gwaine quella maledetta canzone di Ed Sheeran.
Arthur tentò di nascondersi per tutta la durata di quell’imbarazzante messa in scena, specie quando quell’idiota di Gwaine ammiccò nella sua direzione strizzando un occhio. Morgana, accanto a lui, se la godeva da brava strega.
C’era una cosa, però, che spinse Arthur a sollevare le sue labbra in un sorriso di compiacimento: le mani guizzanti di Merlin che sembravano quasi magiche quando toccavano le corde della chitarra, il sorriso spensierato e familiare nato sul suo viso che Arthur aveva tanto ricercato in tutti quei mesi… Il modo in cui lo guardava, anche se lo stava ricoprendo di ridicolo.
Anche Morgana si perse ad osservarlo, a ricordare tutte le volte che Merlin aveva pizzicato quelle stesse corde dinanzi a lei, canticchiando sottovoce le canzoni che sua madre amava – quelle di Battisti -, tradotte in inglese data la sua incapacità nell’apprendere la lingua italiana. Non lo avrebbe mai ammesso, ma Morgana non riusciva a togliergli gli occhi di dosso mentre le bisbigliava quelle dolci melodie accompagnate dal suono ammaliante della chitarra.
Non lo avrebbe mai ammesso, ma non si era mai persa così per qualcuno. La Pendragon era talmente incantata da Merlin da non accorgersi dei due occhi di ghiaccio che la guardavano attenti.
 
 
 







Quando l’ultimo giro giunse al termine e le gote di Freya furono ritornate ad un colore più o meno consono al suo solito pallore, la ragazza si apprestò a ripulire il tavolo che si era appena liberato.
Le mani le tremavano ancora e senza volerlo fare di proposito lasciò cadere una bottiglia di birra sul tavolo, rovesciando parte della bibita rimasta. Si guardò intorno colpevole; per fortuna, nessuno sembrava averci fatto caso.
Merlin, la testa china su uno degli ultimi tavoli accanto alle vetrate, passava uno straccio sulla superficie di legno in modo da eliminare tutte le briciole. Era strano pensare che quel ragazzo fosse lo stesso che avesse suonato davanti ad un bar gremito di persone qualche attimo prima.
Nonostante i loro cinque mesi di fidanzamento, Freya non si era mai accorta di quanto Merlin sapesse suonare bene la chitarra. A dire il vero, un mese addietro era all’oscuro di molti aspetti del suo passato: i suoi amici del liceo, il suo primo vero amore. E nonostante tutto continuava ad ignorare parti fondamentali della sua vita: chi erano i suoi genitori e com’erano morti? Come ha conosciuto Gaius, realmente? Quante altre cose gli nascondeva?
Mi hai mai tradita?
In realtà, a spingerla verso quel duo improvvisato e a condividere un microfono con un vecchio amico del suo ragazzo era stato proprio Gwaine. C’era qualcosa in quell’uomo che la faceva sentire viva, serena e in pace con se stessa… se non fosse stato che gli avesse mentito spudoratamente fin dall’inizio.
Voleva chiarirsi con lui perché Gwaine non sembrava affatto quello che tentava di ostentare. Era divertente, spontaneo e pieno di vita.
Gwaine non era per niente uguale a Merlin.
Allargò timidamente le sue labbra struccate in un sorriso incontrando la figura slanciata del meccanico, decidendosi a muovere qualche passo verso di lui. Sentiva il bisogno di scusarsi, di mettere in chiaro le cose su ciò che era successo, ma…
Freya lo vide sorridere ad un’altra ragazza. Bionda, i capelli in disordine e le guance arrossate - probabilmente per l’alcool, dato il modo in cui si era appoggiata al moro. La tipa dell’officina, fece mente locale la cameriera.
Gwaine le cinse la vita col braccio, avvicinandosela a sé. Lei gli baciò la guancia sporcandogliela di rossetto e si strinse a lui. Se ne andarono via così, lasciando Freya impalata al centro del Pendragon’s mentre si dava della stupida da sola.
 
 



 


Arthur uscì dalla porta secondaria del bar, Mordred e Morgana qualche passo più indietro.
Si lasciò accarezzare la fronte dal leggerlo venticello della notte, cullato dalla certezza che in poco tempo sarebbe ritornato nel pieno delle sue forze. La dottoressa Princess gli aveva consigliato di abbandonare l’uso delle stampelle con calma, senza ulteriori sforzi.
Quella sera si era portato con sé una sola stampella e certe volte si era mosso senza il suo ausilio. Finalmente un bagno in completa e beata autonomia, pensò trionfante.
Dal momento esatto in cui Mithian gli aveva tolto il gesso, Arthur avrebbe voluto fare i salti gioia e camminare, camminare e camminare. Finalmente.
Percorrere anche quel piccolo tratto di strada, benché fosse solo un vicolo illuminato dalle luci del bar, era la cosa più appagante che il biondino avesse fatto da un mese a questa parte. Si gustò ogni singolo passo, anche se un po’ lenti, respirando a pieni polmoni l’aria maleodorante che proveniva dal cassonetto della spazzatura alla sua sinistra.
Alla fine della viuzza, Arthur scorse una Gwen a capo basso che spostava sassolini immaginari con le sue scarpe da ginnastica. I ricci capelli castani erano raccolti all’insù, il labbro inferiore mordicchiato. Il Pendragon parve quasi rivederla tra i banchi di scuola e un fermaglio tra i capelli ribelli; sorrise senza darlo a vedere, avvicinandosi lentamente alla ragazza.
«Quei due» cominciò Arthur schiarendosi la voce, «sono dei veri idioti. Mi chiedo ancora perché non li abbia sbattuti fuori dal mio locale».
Gwen alzò il capo di scatto nell’udire la voce del barista, distanziando di poco la sua schiena dal muro. «Non ti ho sentito arrivare», si giustificò, non badando al sorriso impacciato di Arthur e al suo strano approccio. A quelli era abituata.
«Non ti ho vista al bar, prima».
«Avevo bisogno di un po’ d’aria».
Ogni silenzio è diverso dall’altro, quello che cala tra due ex è il più imbarazzante del mondo. Arthur cercò qualcosa da dirle, qualcosa di sensato senza cadere in quei discorsi messi in piedi solo per annullare l’assenza di parole - come parlare di quanto abbia piovuto in quei giorni. Aprì la bocca, proferendo l’unica frase che – a suo dire – fosse lecita: «Sai, sei la migliore».
Gwen lo guardò perplessa, attendendo delucidazioni e la risposta di Arthur non tardò ad arrivare: «Nel bar, tra i miei dipendenti», chiarì. «Sei la migliore».
Le labbra sottili della ragazza s’incurvarono verso l’alto. «Dici sul serio?»
«Sì», confessò. «I clienti ti adorano, non salti un solo turno… Avrei dovuto assumerti molto tempo fa».
Nell’udire quelle parole Gwen sentì una stretta al cuore, un senso di colpa che l’attanagliava da tempo e da cui non riusciva a liberarsi. Nella luce fredda dell’insegna del Pendragon’s che illuminava quella stradina stretta, riemerse tutto a galla. «È stata solo colpa mia».
Arthur sembrò leggerle nel pensiero e si affrettò a contraddirla: «No, non è vero. Sono stato io a rifiutare le chiamate, ad evitarti…»
«No», Gwen scosse il capo. «Tu non potevi saperlo. Non ho insistito abbastanza».
Il Pendragon abbassò il capo, cosciente del fatto che Ginevra stesse dicendo il vero. Nel giro di due mesi gli erano capitate così tante cose che il ricordo di quel bambino mai avuto lo aveva appena toccato, un pizzicotto sulla pelle che veniva a fargli visita alla sera. Ma Gwen aveva riaperto la ferita, servendogli su un piatto d’argento una verità orribile: suo figlio era morto ancora prima che sapesse della sua esistenza. Quella consapevolezza bastò ad umidirgli gli occhi. «Sai se era…»
«Un maschetto».
Arthur sorrise con poca convinzione e le lacrime agli occhi, limitandosi ad annuire.
«Saresti stato un papà eccezionale.» Il tono di Ginevra era caldo, sincero.
Arthur tirò su col naso, camuffando il tutto con un lieve colpo di tosse. Scoccò una breve occhiata alle sue spalle vedendo Morgana e Mordred avvicinarsi. «Vuoi un passaggio?», le chiese, tornando con gli occhi su di lei.
«No, grazie» declinò gentilmente l’offerta. «Mi piace pedalare».
Il biondo annuì, informandola che semmai avesse cambiato idea Merlin era rimasto al bar per pulire. Ginevra lo ringraziò, salutando i tre ragazzi quando furono tutti vicini.
 
 





Appena rientrati in casa, il Pendragon si era fiondato in bagno ringhiando contro la sorella di non aver bisogno del suo aiuto – e di non averne mai avuto -, uscendone mezz’ora dopo più a pezzi di prima. Optò per un riposo ristoratore e crollò spalmato sul letto.
Morgana si concesse il lusso di una crema profumata massaggiata sulle cosce mentre Mordred era in bagno. Le sue mani stavano ancora stendendo la crema ormai asciutta quando il francese si fermò sullo stipide della porta, le braccia incrociate.
«Dobbiamo parlare».
Morgana deglutì in silenzio, mantenendo un’aria indifferente. «È tardi.» Indicò distrattamente la sveglia sull’altro comò. «A quest’ora ti risponderei con la stessa prontezza di Arthur».
«Dico sul serio, Morgana.» L’uomo le si avvicinò di qualche passo, ancora a torso nudo e i capelli umidicci. La corvina si rimproverò per aver indugiato sulle goccioline che gli cadevano sul petto. Mordred non tardò a notarlo.
«Io non sono il tipo d’uomo paterno che ti consola e ti protegge da ogni male. Non mi vedrai mai in ginocchio dinanzi ai tuoi piedi, né supplichevole ai tuoi rifiuti. Non ti darò mai tutto me stesso se non farai altrettanto con me.» Mordred scrollò impercettibilmente le spalle, indicandosi il petto. «Sono ciò che vedi e non ho intenzione di cambiare, per nessuno. Però voglio te e voglio che sia qualcosa di vero».
Avanzò, fino a sfiorarle un ginocchio con le gambe.  «Ma per averti devo anche fidarmi, altrimenti sarebbe inutile».
Morgana lo guardò in silenzio, aspettando che dicesse dell’altro, che continuasse il suo monologo studiato e invece la soprese: si abbassò a prenderle il viso tra le mani e poggiare le labbra sulle sue. Si staccò piano, incantenando i suoi occhi di ghiaccio in quei due smeraldi meravigliati. «Non ti chiederò niente e questa è la mia prova di fiducia, ma tu devi dimostrare lo stesso con me».
La Pendragon sentì il cuore martellarle forte nel petto, una strana sensazione contorcerle le interiora. Poi Mordred le dedicò un mezzo sorriso, lasciando scivolare la mano sul suo braccio fresco. «Cos’è questa storia della Principessa
 
 
 




Gwen rientrò nel bar stando ben attenta a non fare rumore; vi ritrovò solo Merlin, munito di mocio e secchio d’acqua, che puliva il pavimento.
La mulatta lanciò delle occhiate tutt’intorno, ma di Freya non c’era neanche l’ombra. Certe volte la sconvolgeva il modo in cui quei due prendessero le distanze l’uno dall’altra alla prima occasione possibile.
Le venne da ridere al pensiero che un tempo faceva lo stesso con lui, quando ne era cotta persa. Prima di Arthur, prima di Lancelot… quasi in un’altra vita.
«Ancora all’opera?»
Merlin sobbalzò spaventato, preso alla sprovvista. Una volta che ebbe incrociato lo sguardo di Gwen parve calmarsi, sospirando di sollievo. «Dio, Gwen. Che ci fai ancora qui?»
La ragazza si strinse nelle spalle. «Speravo in un tuo passaggio. Freya è già andata via?»
«Sì», rispose. «Era molto stanca».
Ginevra sviò il discorso sul nascere, indicando col mento la chitarra dimenticata sul bancone. «Era da tempo che non ti sentivo suonare. Sei stato molto bravo».
«Grazie.» Merlin le sorrise, tornando al suo lavoro. «In realtà temevo Tequila e noccioline».
Risero entrambi, una risata malinconica che andava a sfumarsi troppo presto.
Gwen si torturò le mani, improvvisamente tesa come una corda di violino. Merlin era stato il suo migliore amico, prima che lei tradisse il Pendragon, e dopo tutto quel tempo la loro amicizia continuava a risentirne. Ma lei gli voleva bene, con tutto il suo cuore. «Mi è mancato tutto questo… Posso abbracciarti?» chiese in fretta, quasi l’avessero minacciata per chiederglielo. «Insomma, così… Se ti va, altrimenti…»
Prima che la sua amica potesse immergersi in un tortuoso sproloquio senza fine, Merlin posò il mocio accanto ad un tavolo andandole incontro. Allargò le braccia pronto a stringerla, ma quando le fu abbastanza vicino Gwen sputò il rospo: «Morgana aspetta un bambino. Non sa chi sia il padre, ma ha deciso di non tenerlo».
Merlin si allontanò lentamente, impietrito. Gwen si mordeva il labbro colpevole, maledicendosi per la sua linguaccia lunga.
La guardò senza dire una parola, senza saper più muovere neanche un muscolo. L’unico rumore che si udì, fu quello del mocio caduto al suolo.
 




 
Relie's Corner
Bene, se siete arrivati fin qui vuol dire che Pendragon's vi era mancato davvero e per questo... vi offro un piccolo spoiler del prossimo capitolo: Arthur e Merlin avranno un faccia a faccia e verrà a galla una grossa verità. Aridian farà il suo ritorno.
E adesso, passiamo alle precisazioni del capitolo:
- La frase in corsino all'inizio del capitolo è ripresa da quello precedente;
- Diego Costa è uno dei giocatori più talentuosi del Chelsea. L'unico che mi è capitato sott'occhio;
- Sergio Aguero è l'unico giocatore affascinante della rosa del City del 2015;
- Il momento in cui Morgana confessa di essere incinta ad Arthur è un riferimento all'ottava puntata della prima stagione di Merlin. Ricordate la storiella del paravento?;
- La regola della "e" e della "a" è stata già nominata nel capitolo XII;
- La canzone con cui vi ho rotto le scatole che ci ha accompagnato per tutto il capitolo è Cold Coffee, che io considero perfetta per questa storia --> click
- Eleanor non è un OC di mia invenzione, ma dell'autrice EurydikeSpero di averla giostrata bene ^^
- Annis è un personaggio canon, comparso per la prima volta nella quarta stagione;
- Mia piccola considerazione: nelle recensioni precedenti ho visto parte dei lettori divisi tra #TeamMerlin e #TeamMordred riguardo la gravidanza di Morgana, e devo ammettere che mi ha fatto sorridere: nessuno ha preso in considerazione l'eventualità che la Pendragon decidesse d'interrompere la gravidanza. Cambierà idea?
- Okay, questa è solo una mia curiosità: molto tempo fa chiesi quale fosse la vostra coppia preferita. La maggior parte fa il tifo per Merlin/Arthur e buona parte per Merlin e Morgana... ma qual è la coppia che più odiate? Sono curiosa!
Adesso vi lascio sul serio.
Alla prossima!

 

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Capitolo 21
*** Un sogno d'oro in frantumi (Parte I) ***


 
Nda: Buon salve a tutti!
No, Relie non è impazzita: avevo già pubblicato il capitolo il giorno del mio compleanno (Domenica), ma poi ci sono stati dei problemi col sito e ho deciso di cancellarlo. Chiedo scusa a tutti i lettori.
Torno un po' a testa bassa, a dire il vero, perché questo ventunesimo capitolo è uno dei più lunghi che abbia mai scritto. Se finirete di leggerlo tutto, vorrà dire che la storia vi piace per davvero.
Purtroppo ho dovuto dividerlo per ovvi motivi e quindi uno degli spoiler dati in precedenza... non ci sarà. Mi spiace, dovrete pazientare ancora un po', ma in compenso posso assicurare ai fan del Merthur che questo capitolo sarà di loro gradimento!
Tengo molto a ringraziare tutte le persone che hanno aggiunto la storia nelle categorie preferite/ricordate/seguite. Ringrazio coloro che leggono in silenzio e tutti gli utenti che mi lasciano le loro stupende recensioni, in particolare CelticaLittleGinGin Claudia H Shady che hanno recensito lo scorso capitolo. Grazie mille!
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento, aspetto i vostri pareri.
Buona, spero, lettura!
 


XXI. Un sogno d’oro in frantumi
Soundtrack: Closer
                               Give me love
 
Dammi amore come mai prima d’ora,
perché ultimamente ne ho un bisogno disperato.
Ed è passato un po’,
ma i miei sentimenti sono rimasti gli stessi.
[…] No, voglio solo stringerti.
- Ed Sheeran, Give me Love
 
 
 



Ci sono molte cose che un figlio pretende dai propri genitori: il desiderio che quegli umani siano perfetti in tutto, ma non tanto da far gravare sulle sue spalle la responsabilità di eguagliarli; pensa a loro come a macchine esemplari provviste di sentimenti – ma incapaci di ferirsi. Un figlio vuole supereroi all’azione, in grado di combattere tutte le battaglie al suo fianco.
Arthur, d’altra parte, aveva sempre creduto e rispettato suo padre più di chiunque altro. Si era fatto abbindolare da ogni sua parola, obbidendo a ogni singola raccomandazione. Uther non gli aveva mai dedicato una carezza sincera o un semplice complimento che facesse intendere quanto fosse orgoglioso di lui. Sono fiero di te.
Arthur avrebbe dato qualsiasi cosa per sentirselo dire. L’approvazione di suo padre – in qualche modo – era l’unica via che il Pendragon conosceva per ricevere un suo sorriso di soddisfazione, e forse affetto.
“Un Pendragon non mangia tanta cioccolata”, gli borbottava seduto sulla sua poltrona, sfogliando un giornale, mentre bambini travestiti da zombie e mummie scorrazzavano per le strade di Londra elemosinando dolcetti. “Un Pendragon non mendica né implora niente a nessuno”.
“Un Pendragon non mostra mai le sue mutande alla gente”, era stata la frase che Uther aveva ripetuto per quattro mesi interi, ogni volta che per strada incontrava un ragazzo che indossava pantaloni dalla vita bassa.
Persino quando una volta a pranzo, seduti tutte e tre a tavola, Arthur aveva fatto accenno al suo compagno della squadra di football che aveva deciso di guadagnarsi da vivere con la musica, suo padre aveva storto la bocca liquidando in fretta la questione: “Un Pendragon non perde tempo dietro a tali sciocchezze.”
Arthur col tempo perse l’abitudine di raccontargli le cose, informarlo di come andasse la sua vita e quali erano gli amici che frequentava. Si limitava a concedergli le informazioni basilari, senza mai scendere nei dettagli… tranne che la volta in cui – a denti stretti – era stato costretto a rivelare al padre il tradimento di Ginevra. Per qualche assurda ragione, Uther non si era mai dimenticato dal suo amico Lancelot e, mettendo alle strette suo figlio, era riuscito a fargli vuotare il sacco.
“Un Pendragon non conosce il disonore”, gli disse senza la minima empatia, quasi fosse stata colpa sua. Quasi ne fosse deluso.
Arthur ne soffriva ogni volta, sentendosi irrimediabilmente colpevole. Stringeva i pugni e ingoiava la mortificazione, promettendo col capo chino di fare meglio – talvolta senza neanche dirlo.
Sua sorella, di contro, disobbediva ad Uther tutte le volte che ne aveva l’occasione. Aveva preso a pugni un ragazzo più grande solo perché ricco – esattamente come lei – e per la sigaretta che le aveva rifiutato, dopo essersi offerto di donarle ben altro. Uther si era detto mortificato col preside, non riuscendo tuttavia a passare dai genitori di Ethan. Irritato dalla situazione, aveva costretto Morgana ad un weekend rinchiusa in casa.
La ragazza gli aveva ringhiato contro e poi era corsa nella sua camera, sbattendo la porta con stizza. A notte fonda, Morgana aveva chiamato suo fratello per riportarla a casa, troppo sbronza per poterci tornare da sola.
Ma quella non fu l’unica emergenza alla quale Arthur accorse.
Pur d’indispettire il padre, Morgana cominciò una relazione senza impegno con Gwaine – uno dei compagni di squadra del fratello -, non perdendo modo di rinfacciarlo al padre, anche quando scoprì che l’attraente moro era più grande di quanto pensasse.
Arthur non aveva mai capito se Morgana facesse quelle cose solo per attirare su di sé l’attenzione di Uther o se, semplicemente, desiderasse farle davvero.
A differenza di sua sorella, il Pendragon non aveva mai tollerato quel suo comportamento – affezzionato com’era al padre -, vacillando anche dinanzi alla prova schiacciante che Morgana gli aveva sventolato sotto al naso un giovedì pomeriggio: una semplice lettera, dove una certa Vivienne affermava di avere una figlia – Morgause – e che Uther ne fosse il padre.
All’inizio aveva riposto tutta la sua fiducia in Morgana, assecondandola nel suo piano di smascherare il vecchio e fedifrago Uther, ma una volta ritrovatosi faccia a faccia con suo padre che lo guardava amareggiato e deluso per aver solo pensato che fosse stato capace di tradire Igraine, Arthur si era sentito morire.
Forse lui e Morgana non combattevano lo stesso nemico.
Adesso, seduto sulla fermata del bus, Arthur guardò da dietro i suoi capelli biondi il viso gentile e raso di Lancelot, che intanto se ne stava dall’altra parte della strada, passeggiando col suo cane.
 
 

Londra, autunno 2012
 
«Abbassa quella pistola, Merlin. Sei ridicolo».
La voce arrogante di Arthur arrivò alle orecchie del corvino prima ancora che potesse prendere la mira e provare per l’ultima volta a colpire una lattina; Merlin sorrise impacciato, seguendo il consiglio dell’Asino, portandosi immediato le mani nelle tasche del suo giubotto. «Sparare non è il mio forte» gli concesse, allontanandosi dalla bancarella del tiro a segno.
«Non solo quello, Merlin.» Arthur alzò un braccio verso di lui, scarmigliandogli i capelli neri con poca grazia. «Non solo quello».
Gwen, accanto a lui, sorrideva con le guance arrossate dal freddo.  Merlin non poté far a meno di notare che Arthur non le aveva staccato gli occhi di dosso se non in rare occasioni. Lancelot, invece, cercava sempre di guardare altrove.
«Si è fatto tardi.» Lancelot finse di dare una rapida occhiata al suo orologio da polso, sollevando le labbra in un breve sorriso. «Direi che è meglio se vada».
«Non se ne parla affatto!» aveva obiettato a quel punto Gwaine poggiandogli un braccio sulle spalle, indicando l’orizzonte con la sua bottiglia di birra. «La serata non è ancora finita: qui fuori è pieno di romantiche ragazze in cerca d’amore e cornetti caldi da pappare. Non puoi andare via!»
«Mai possibile che tu pensi sempre a mangiare, Gwaine?»
Ginevra, stretta al braccio di Arthur, aveva aggrottato la fronte divertita.
«Non mi nego i semplici piaceri della vita!» Gwaine sollevò la sua birra verso la ragazza, ma il piano del moro non servì a convincere né la mulatta né tantomeno Lancelot, che si defilò dal gruppo salutando gli amici con leggere pacche sulle spalle e cenni della mano.
Gwaine aveva speso qualche minuto per lagnarsi di quanto fosse noiosa la vita di un single che non amava mettersi in gioco – che nel vocabolario del giovane significava: niente spalla -; Arthur e Gwen avanzarono verso un’altra attrazione del Luna Park, così giovani e innamorati. Merlin, rimasto volontariamente qualche passo indientro rispetto alla comitiva, nascose un sorriso dietro la sciarpa rossa che aveva al collo, riparandosi dal freddo di quella sera. Perse tempo ad immaginarsi in un bel letto caldo o in una vasca piena e accogliente… magari con qualcuno in particolare, quando si sentì strattonare per il gomito.
«Dove credi di andare?»
A Merlin bastò voltare il capo per incontrare delle deliziose labbra rosse e uno sguardo furbo illuminato dalle luci dei lampioni. Morgana era lì, ad un passo da lui, bella come sempre. «Non mi freghi, Emrys».
Il corvino accennò ad una risata perplesso, ricordando l’ultima volta che Morgana lo avesse fermato in quel modo: aveva messo su un broncio adorabile, gli occhi verdi che lo trafiggevano come lame mentre gli rimproverava di aver ricambiato il sorriso di Sefa – una ragazza che frequentava gli stessi corsi di Merlin. “Quella gatta morta ti fa le fusa!” aveva brontolato, fingendo di ignorarlo.
Tutti a scuola sapevano della cotta della timida e riservata Sefa Thompson per lo sbadato e maldestro Merlin Emrys. Tutti, fuorché Merlin.
Quella sera, però, dipinto sul volto diafano della corvina vi era un ghigno che il giovane Emrys conosceva bene. Lo stesso ghigno che gli procurava brividi lungo la schiena.
Morgana si avvicinò al tizio grassoccio del tiro a segno, pagando una nuova serie di tiri, intimando il ragazzo a raggiungerla. Quando le fu vicino, lei gli porse la pistola giocattolo. «Non sono Arthur, capisco quando menti. So perfettamente che sei meno idiota di quel che vuoi far credere alla gente, e poi voglio quel draghetto bianco.» Morgana gli indicò un pupazzetto grande quanto un gatto adulto che spuntava tra tigri, stelle e orsetti di peluche ai lati del bancone, e Merlin poté giurare di aver visto i suoi occhi illuminarsi come quelli di una bambina.
Era patetico, ma una piccola parte di lui sapeva che avrebbe sempre capitolato ad ogni sua parola, ad ogni suo desiderio detto o colto tra le pieghe del suo volto. Un piccolo pezzetto di lui, era cosciente che Morgana sarebbe sempre stata la sua caduta di potere e anche il miglior modo di sbagliare di tutta la sua vita. Prese l’arma tra le mani, guardandola di sottecchi. «Non le assicuro niente, My Lady».
Quando raggiunsero gli altri, che nemmeno si erano accorti della loro assenza, Merlin teneva nascosta una mano dietro la schiena intrecciata tra le dita snelle e gelide della corvina. Nell’altra mano, Morgana reggeva un draghetto bianco di peluche.
 
 

*
 
 
Si rigirò nel letto avvertendo un caldo fastidioso sulla pelle e del sudore imperlargli la fronte, che nascose contro il cuscino bianco prima che anch’esso diventasse insopportabilmente soffocante. Si girò di schiena, liberando parte del suo corpo dal lenzuolo bianco, mentre i raggi di sole che filtravano dalla finestra gl’infastidivano gli occhi. Li strizzò per un po’, facendosi schermo col braccio finché non fu costretto a riaprirli.
Una volta messa a fuoco la stanza in cui si ritrovava, si meravigliò nel vedere le imposte della finestra spalancate, intanto che il sole illuminava l’altra parte vuota e disfatta del letto. Represse uno sbadiglio e poi si massaggiò le palpebre con l’indice e il pollice.
In poco tempo, l’odore del caffè appena fatto arrivò al suo naso, riempendo l’intera stanza del suo aroma; Merlin s’irrigidì di colpo, lo sguardo fisso nel vuoto come chi ha appena realizzato una verità sconcertante. Oh mamma!
Udì dei passi in cucina e si affrettò ad agguantare il suo cellulare e premere il tasto centrale. Saltò giù dal letto in un nanosecondo dopo aver visto l’orario, gridando: «Perché non mi hai svegliato?!»
La chioma castana di Freya spuntò sull’uscio della porta insieme a due occhi di terra umida, una maglietta a maniche corte, pantaloni a sigaretta beige e una tazza di caffè tra le mani. «Ieri sera avevi detto che non saresti andato al bar, di mattina.» Bevve un sorso, osservando il corvino raccattare i primi vestiti sott’occhio, sfilandosi il pigiama da dosso. «Mi hai anche detto più volte di non dimenticarmi di andarci al posto tuo, altrimenti-»
«Arthur mi ucciderà!»
«Esatto».
«No, intendo dire che Arthur mi ucciderà!» Indossò frettoloso i suoi jeans, alzando la zip con un gesto secco. Oh, Arthur mi affogherà con le sue stesse mani!, e a quel pensiero Merlin si bloccò come paralizzato. «Il costume…»
«Il costume?» Freya aggrottò le sopracciglia confusa, chiedendosi a quel punto quali fossero mai i grandi impegni che costringessero Merlin e Arthur lontani dal Pendragon’s. Scacciò il pensiero di un Arthur caduto accidentalmente su Merlin, mentre con un sorriso malizioso lo teneva premuto contro i ciottoli di una paradisiaca spiaggia di Brighton, lasciando avvicinare piano le sue labbra rosse e carnose ad un soffio dalla bocca in attesa di Merlin e… Perché cavolo pensava a quelle cose?! Scosse impercettibilmente la testa, prima di chiedere: «A cosa ti serve un costume?»
«Te l’ho detto ieri sera, prima che tu ricadessi in un coma profondo», le fece nota Merlin, aprendo le ante di tutti gli armadi presenti in quella stanza, ficcandoci la testa dentro e scavare con le mani tra i vestiti, sperando di trovarvi un costume. Anche se continuava a punzecchiare l’Asino su quanto fosse disordinato, Merlin dovette ammettere che non poteva permetterselo dato che l’unico motivo per cui quell’appartamento era ancora in piedi era Freya. Sa riordinare una casa intera come per magia, ma non riesce a svegliarmi quando glielo chiedo.
«Veramente, mi hai detto soltanto che tu non saresti andato al bar e che avrei dovuto sostituirti sott’ordine di Arthur».
«No, Freya», Merlin scosse il capo, accennando ad una risata nervosa. «Ti ho anche detto che Arthur aveva bisogno di me per l’idroterapia e che io lo avrei accompagnato».
«Non me l’avevi detto».
«Sì, invece».
«Ti dico di no».
«Ti dico di sì».
«Dannazione Merlin, non me l’hai detto!» sbottò, allargando le braccia, sentendosi stupida e vulnerabile. Era stanca d’interpretare il ruolo dell’animale ferito, della ragazza rifiutata dal mondo che elemosina l’amore di un tipo perbene. Era stufa della Freya messa da parte da Merlin, esausta di essere sempre la persona sbagliata. «Tu non mi dici mai niente».
Gli faceva male ferirla e l’aveva ferita anche quella volta.
Freya non aveva colpe, gran parte del fallimento totale della sua vita era dovuto alle sue scelte. Probabilmente quella sera non le aveva detto niente su Arthur e l’idroterapia, ancora intontito dalla notizia che Gwen gli aveva dato riguardo Morgana.
Eppure non aveva esistato a puntarle un dito contro, a deluderla come sempre.
Freya era lì, sull’uscio della camera che condividevano da ormai diversi mesi, i capelli un po’ mossi e ancora umidi per via della doccia di qualche mezz’ora prima, e Merlin non sapeva fare altro che guardarla colpevole. Si chiese dove fossero finiti i ragazzi di un tempo, quelli che riuscivano ad essere felici senza parlarsi e che si accontentavano di fragole e Nutella come cena.
Merlin si chiese dove fosse finita quella sensazione stupenda alla bocca dello stomaco quando l’aveva vista per la prima volta, quando l’aveva presa per mano e le aveva regalato una rosa convinto che niente era più bello di un suo sorriso.
Dov’era finita la magia che si creava quando le loro labbra si sfioravano?
Per un istante, Merlin si chiese se avesse mai provato per davvero tutte quelle cose per la ragazza a cui aveva spezzato di nuovo il cuore.
In un attimo che gli parve durare più di quanto un attimo significasse, il corvino schiuse la bocca per chiederle scusa, per chiederle di dimenticare quanto detto e per darsi dell’idiota da solo – perché Arthur non aveva affatto torto quando lo chiamava così. Ma Merlin e Freya non riuscivano più nemmeno a restare nello stesso quadro senza sembrare indatti; la ragazza abbassò i suoi occhi scuri, arricciando la bocca verso destra. «È sepolto tra le sciarpe e le muffole. Non ho mai capito perché».
Si portò il bicchiere di caffè alle labbra senza berne nemmeno un sorso, poi riabbassò il braccio e si apprestò ad uscire di casa per raggiungere il bar.
Un altro errore.
In un secondo la schiena di Merlin si ritrovò contro il materasso, le gambe a penzoloni ai margini del letto e lo stomaco più vuoto di quanto già non fosse; il sospiro pesante che fuoriuscì dalle sue labbra gli ricordò il fischio di un treno arrivato alla stazione, quello dell’ultima fermata. Quello che ascolti quando il viaggio è volto al termine e non te ne rimane che il ricordo.
Il fischio che risucchia tutta l’adrenalina.
 
 
 
 
 

Se c’era una cosa che Arthur odiava più delle cene in famiglia, era aspettare – escludendo dall’elenco il Chelsea e, dopo un mese infernale poteva dirlo con certezza, una gamba ingessata.
Il biondino scoccò un’occhiata al cellulare, la trentaseisima volta durante quella mezz’ora passata accanto alla fermata di un bus, espirando innervosito aria dal naso.
Quell’idiota di Merlin, lamentò nella sua testa. Quando serve non c’è mai.
Arthur aveva provato ad ingannare il tempo nel miglior modo che conoscesse: perse due volte di seguito a gare di quiz online, lesse gli ultimi articoli del mese sul calciomercato e ricontrollò per puntiglio i messaggi inviati a quell’imbranato di Merlin.
Sbuffò, facendo su e giù per il marciapiede, portandosi le mani nelle tasche dei pantaloni per evitare un uomo travestito da enorme hot dog con più di venti volantini, sorridente e pressante al limite della sopportazione. Cavoli, certe cose si sopportano solo a Natale!
Non era la prima volta che Merlin ritardasse tanto da fargli pensare che aspettare una tizia sotto casa fosse più divertente. Quando entrambi frequentavano il liceo, spesso Arthur era costretto a battere forte i pugni contro il garage del vecchio Gaius per destare quell’imbranato e vederlo comparire qualche minuto più tardi con gli occhi ancora socchiusi dal sonno, una maglia al contrario e i lacci delle scarpe sciolti. Una volta aveva persino cercato di difendersi, accigliando a malapena lo sguardo, chiarendo con la voce ancora impastata di sonno: «Arthur, non c’è motivo di essere così sgraziato. Mi sono appena dormito dal letto… ehm, lettato dal sonno. Cioè… Buongiorno».
Arthur gli aveva risposto con uno scappellotto sulla nuca.
Una sera gli aveva persino dato buca durante la partita, lasciandolo solo sul divanetto scomodo di un pub insieme a Gwaine – capace di ciarlare più di una ragazzina pettegola -, avvisandolo solo dopo un’ora tramite messaggio.
Nell’inverno di tre anni fa si era persino assentato per una settimana; non aveva risposto alle sue chiamate e a niente erano serviti gli appostamenti sotto casa del vecchio. Merlin lo aveva informato dopo qualche giorno, sempre tramite sms, di avere la febbre molto alta e di essere ipercontagioso.
C’era stato un periodo in cui Merlin aveva ritardato ad ogni partita di calcetto… poi si era messo con Freya e aveva cominciato a tardare anche al bar. C’era stata la sparatoria, mentre lui lo attendeva a casa della sua fidanzata in compagnia di Tristano e Isotta.
Merlin sapeva come farlo restare sulla soglia di un rasoio, ma tornava sempre.
Si bloccò fulmineo.
Ne aveva abbastanza di quei continui ritardi e ad onor del vero non sapeva più cos’altro inventarsi per rendere l’attesa meno snervante. Sicuramente avrebbe architettato un modo per fargliela pagare, una punizione esemplare che gli ricordasse quanto fosse sbagliato e di cattivo gusto costringere una persona a sopportare lunghissimi ritardi.
Alzò lo sguardo fiero - come un Pendragon che si rispetti -, alcune ciocche bionde a sfiorargli la fronte. Merlin aveva intenzione di farsi attendere anche quel giorno? Beh, Arthur non lo avrebbe di certo accontentato! Si sarebbe diretto da solo al centro medico, magari mandandolo a quel paese con un autoscatto prima dell’inizio della terapia… Ma forse non ce ne sarebbe stato alcun bisogno: Merlin lo avrebbe raggiunto comunque, era quello che faceva sempre. Si sarebbe goduto il piacere di picchiarlo con le sue stesse mani.
Avanzò qualche passo verso le strisce pedonali pregustandosi la scena e per un qualche motivo sconosciuto il suo ghigno soddisfatto sfumò nel nulla.
C’era un lato di lui che rimaneva ancorato alle parole dette da Isotta e da Parsifal, un lato che si sentiva sopraffatto dai sentimenti che provava per Merlin – reali o non che fossero – tanto d’avvertire la sua assenza come un difetto da correggere.
C’era un lato di lui che non avrebbe mai saputo ignorare il modo in cui la vicinanza di Merlin lo completasse. Un lato che non si vergognava per quel che sentiva, seppur insensato che fosse.
Quando i suoi occhi scattarono verso destra, il suono del clacson che gli fracassava il cranio e rendeva le sue gambe di cemento, Arthur riuscì appena ad intravedere il volto dell’uomo alla guida dell’auto nera.
Non ci fu il tempo per pensare a nient’altro.
 

 
Scese le rampe di scale in tutta fretta, senza neanche farci caso. I suoi passi rimbombavano in tutto il palazzo.
Quando si è di corsa, certe cose non si notano nemmeno: le orecchie diventano sorde a causa dell’ansia, le gambe si muovono ancora prima che il cervello registri il movimento. Quando si è in ritardo nasce l’emergenza, l’emergenza determina una situazione di pericolo.
La prima volta che Merlin aveva sceso i gradini di un appartamento così di fretta era stato anni addietro, con la schiena di suo zio davanti agli occhi, la mano sudata di Agravaine arpionata al suo avambraccio e l’alito fetido di Helios che penetrava nelle narici fino a nausearlo.
Se si inciampa sui gradini sbattendo la faccia da qualche parte, il sapore che si espande nella bocca somiglia a ruggine incolore sparsa nel palato. Merlin l’aveva assaporata col braccio a penzoloni tra le scale, il corpo meno agile di Agravaine ruzzolato giù con lui.
Aridian si era fatto vicino, afferrando Merlin per la giacca. Sotto il cappotto dello zio, il corvino poteva facilmente intravedere il manico della pistola.
Aveva sibilato qualcosa a denti stretti, strattonandolo via da lì.
Questa volta, Merlin rischiò di incespicare sull’ultimo gradino, poggiando il piede sul bordo. Con la schiena ricurva verso il basso avanzò traballante, tentando di ritrovare l’equilibrio momentaneamente perso.
Non cadde.
Tirò un lungo sospiro di sollievo, sorridendo impacciato alla volta di Pernilla – la donna con i capelli abitualmente raccolti in una cipolla castana e unta, due piccole fessure scure al posto degli occhi che lo guardavano puntualmente in cagnesco… che, purtroppo per il ragazzo, era anche la sua vicina.
Cuoca in un ristorante rinomato del quartiere, il giovane Emrys si era presentato alla sua porta con un viso d’angelo e un mazzo di fiori appena comperato – il povero Merlin non sapeva proprio cos’altro regalare in segno di cortesia ad una vicina/cuoca -, chiedendole scusa per il disturbo e pregandola d’insegnargli a preparare un Tiramisù.  Giusto la sera prima aveva scoperto che Morgana ne andava pazza e il corvino si era ripromesso di preparargliene uno così buono da conquistare il cuore della Pendragon per sempre.
Pernilla aveva accartocciato le sue spigolose e sottili labbra in una smorfia che seppe mettere i brividi al giovane Emrys, borbottando un’offesa verso i poveri girasoli che Merlin le porgeva speranzoso – davvero, non sapeva cos’altro portarle.
Dopo un quarto d’ora speso a supplicarla – arrivando persino a mostrarle un pietoso labbruccio come asso nella manica -, Pernilla sembrò pensarci su e, seppur riluttante, la donna concesse di aiutarlo – a patto che lui avesse badato al suo piccolo e adorato Petyr i pomeriggi in cui era via per lavoro.
Merlin, entusiasta all’idea di una Morgana che mugugnava di piacere tra una cucchiaiata e l’altra di dolce ripetendogli quanto lo amasse, accettò senza pensarci due volte.
Il peggio arrivò in un pomeriggio di Novembre, quando esausto dallo studio Merlin si era lasciato cullare dalle mani fresche e morbide di Morgana che gli scostavano i capelli dalla fronte. Gli disse di non preoccuparsi e di riposare e che al piccolo PetePete – così chiamava quel Chihuahua dal manto beige e gli occhi furbi e ingannatori, diventando spaventosamente smielata e amorevole come non lo era mai stata con lui - avrebbe pensato lei. Morgana amava i cani, ma Uther non le aveva mai permesso di tenerne uno.
Merlin aveva accettato di buon grado il suo aiuto, sprofondando in un sonno profondo. Qualche minuto dopo, Morgana lo buttò giù dal divano terrorizzata, con le lacrime agli occhi,  farfugliando e urlando allo stesso tempo che PetePete si era sentito male.
Per fortuna il veterinario li rincuorò che fortunatamente il Chihuahua non avrebbe rischiato la vita, ma che un altro pezzetto di cioccolato gli sarebbe stato fatale.
Da quel giorno Pernilla non gli rivolse più la parola… e Morgana rivalutò l’idea d’invadere casa con mille trovatelli come da anni fantasticava con Gwen.
Merlin incassò in silenzio lo sguardo gelido della cuoca mentre chiamava l’ascensore, passandogli davanti.
Il corvino continuò a sorridere di circostanza, apprestandosi verso il portone… e fu sicuro di aver udito un ringhio provenire dalla borsa dalla donna.
Uscì dall’appartamento incamerando aria fresca nei polmoni.
Adesso che ci ripensava, da quando Arthur era entrato a far parte della sua vita, erano state sempre meno le volte in cui era caduto.
Merda.
Il giovane Emrys scattò come una furia in direzione della fermata del bus, perché se quel malefico Petyr non l’aveva già sbranato, Arthur non si sarebbe posto alcun problema di farlo al posto suo.
 

 
Londra, inverno 2011
 
 
Si era raccolta i capelli corvini, quella sera.
Si stringeva infreddolita nel suo cappotto viola, il naso probabilmente arrossato per via del freddo. Lei e Gwaine se ne stavano appoggiati con la schiena contro la ringhiera del piccolo parco dall’altra parte della strada rispetto al Fish&Chips da dov’erano appena usciti, in mano due panini grondanti di salse.
Morgana guardò di sottecchi il moro mentre scartava una patatina dal panino e poi trangugiarla in un sol boccone. Non le sarebbe affatto dispiaciuto se le avesse offerto anche il suo giubbotto.
«Questo cosa significa?»
Gwaine si leccò i baffi come un gatto goloso e due dita sporche di ketchup, addentando nuovamente il panino con così tanto appetito da macchiarsi il giubbotto con gocce di salsa. «Che sposerei questo panino, se non fossi già innamorato della torta di mele di mia madre».
«Dico sul serio, Gwaine».
Il ragazzo si voltò a guardarla, la mascella ricoperta da un generoso strato di barba che andava su e giù, l’angolo destro della bocca sporco. «Pensavo avessi fame».
«Infatti è così».
«Dov’è il problema, allora?»
Morgana lo guardò di traverso. Andava a letto con Gwaine da un arco di tempo sufficiente per capire dove fosse il problema: la loro non era una vera e propria relazione, almeno non come la gente pensava. Lei e Gwaine non condividevano niente oltre amplessi passionali, baci necessari per staccare la spina e qualche boccone.
Entrambi avevano chiarito le cose fin dal primo giorno, dalle prime effusioni che si erano scambiati con urgenza; sia Morgana che Gwaine avevano bisogno di sconnettersi dal mondo, smetterla di pensare. Sfogarsi.
E funzionava alla grande, perché tutti e due volevano le stesse cose… almeno così era sembrato alla ragazza. Erano settimane che Gwaine si comportava in modo strano: chiacchiere superflue dopo il sesso, una carezza di troppo quando erano in compagnia… e poi vere e proprie uscite, come quella.
Una cosa su Gwaine l’aveva capita, dopo tutto quel tempo: se il moro condivideva del cibo e tentava di vere insieme ad una ragazza un caffè, faceva sul serio.
Gwaine alzò le spalle. «Non vedo dove sia il problema. Stiamo bene insieme e abbiamo molte cose in comune».
«È ridicolo, Gwaine.» Morgana lo aggredì come se le avesse chiesto di puntare un’arma contro un cucciolo indifeso. «Perché voi uomini volete sempre rovinare tutto?»
Il pomo d’Adamo andò su e giù, e Morgana non ebbe bisogno d’incrociare i suoi occhi per comprendere quanto Gwaine si sentisse ferito. «Non sono buono solo per il sesso, sai?»
Morgana lottò con tutte le sue forze per non mordersi il labbro, ne andava del suo orgoglio… e quello era un gesto di debolezza.
Già, debolezza. Proprio come i sentimenti.
Inspirò preparandosi alla parte più difficile. In fondo Gwaine l’aveva saziata quando ne aveva sentito il bisogno, gli doveva almeno quel piccolo gesto di cortesia: «Gwaine tu sei un ragazzo fantastico – soprattutto a letto -, ma io non sono quella persona».
«Io credo che tu abbia solo paura di esserlo».
Sorrideva, adesso, l’idiota.
«Che intendi dire?» sputò fuori, infastidita da quelle stupide insinuazioni.
«Non sei la mia prima, signorina Pendragon. Certe cose si avvertono, si riconoscono a pelle».
Morgana crucciò le sopracciglia corvine. «Di cosa stai parlando?»
«Di te. L’umore incostante, poco appetito… i tuoi occhi sono diventati dei fanali, Pendragon! Non sei tu a “non essere quella persona”, sono io a non essere quel ragazzo».
Morgana schiuse la bocca per dire qualcosa ma non fiatò. Gwaine aveva colto nel segno, l’aveva scoperta con le mani nel sacco… Si era accorto di tutto.
Il moro sorrise dell’espressione trafilata della Pendragon. «Ho fatto centro, a quanto pare».
«Tutte stronzate».
«Non lasciarti frenare dalla paura, Pendragon… E poi, se dovesse andare male, sai già chi ti leccherà le ferite».
Nel veder danzare le sopracciglia del moro in modo allusivo, Morgana lo spintonò con la mano dandogli del deficiente… eppure era stato uno dei pochi a vedere ciò che tentava di nascondere da un bel pezzo, persino a se stessa. E mentre la convinzione di amare Merlin si faceva spazio nel suo cuore scaldandole l’interno, Morgana parve leggere nelle iridi castane dell’altro in cui si rifletteva la luce dei lampioni, il desiderio di trovare qualcuno che gli facesse provare le stesse cose.
La persona giusta.
 
 
 *

 
«Mi hai salvato la vita».
Era la seconda volta che lo ripeteva, ma quella suonava più come un lamento che come un ringraziamento.
Mordred finse di non farci caso, sorridendo sghembo mentre il medico si allontanava. La piscina era a pochi passi da loro e Arthur aveva messo su una faccia schifata nel ricordare ciò ch’era successo molto tempo prima alla fermata del bus: Mordred, che si era trovato a passare di lì dopo aver deciso di allungarsi volontariamente la strada per il bar, lo aveva raggiunto di corsa e strattonato per un braccio, impedendo a quell’imbecille di farsi investire.
Quando si era proposto di accompagnarlo e  stargli vicino durante l’idroterapia, Arthur non aveva battuto ciglio e aveva accettato il suo aiuto.
Bastò un breve elenco degli esercizi che avrebbe dovuto eseguire e dopo aver rifiutato testardamente l’aiuto del medico e aver visto Mordred insistere per assisterlo, assicurando l’infermiere di saper gestire la situazione, per far cambiare idea al biondo circa la compagnia di Mordred.
Il parigino non se ne curò. «Non è così male come sembra. Dopo la prima settimana, mio zio non vedeva l’ora di tornarci».
Arthur storse la bocca.
Essere lì insieme a Mordred non era di certo uno dei suoi sogni rinchiusi nel cassetto, ma d’altro canto era solo grazie a lui se ora poteva lagnarsi di quell’imprevisto.
Mordred non gli era mai piaciuto, ma dopo quei due mesi, si era abituato alla sua presenza… e poi gli aveva salvato la vita, un minimo di riconoscenza gliela doveva. Tutta colpa di Merlin.
Appena avuto tra le mani, quell’idiota avrebbe maledetto il giorno della sua nascita.
«Non sapevo avessi uno zio».
«Ci sono molte cose che non sai di me.» Senza preavviso, Mordred si sfilò la maglia bianca da dosso, lasciando in bella mostra l’addome chiaro e più maturo del suo. «Avrai modo di scoprirle».
Nessun effetto.
Mentre guardava il petto nudo del francese, era questo che pensava: non gli faceva alcun effetto.
Era dal giorno in cui aveva temuto di perdere per sempre Merlin che si era interrogato sui suoi sentimenti: se provava davvero qualcosa per il corvino come si era convinto, avrebbe provato le stesse cose anche per altri uomini?
Se dinanzi a lui ci fosse stata la bella dottoressa Princess col seno scoperto, avrebbe avuto anche qualcosa da nascondere imbarazzato… e invece non era successo niente.
Arthur si chiese se le cose fossero state diverse con Merlin, senza una maglia a coprirgli la pelle pallida del petto, al posto di Mordred.
Arrossì a quel pensiero e scostò repentino lo sguardo dal francese che ormai era bello che pronto in costume, voltandogli le spalle; si avvicinò alla piscina, afferrando l’asta di metallo.
Forse, rimanere nel dubbio era solo un bene.
Mosse un piede sicuro, certo della presenza di Mordred al suo fianco, intenzionato a scendere le scale che lo avrebbero condotto nella vasca quando…
«Cosa significa tutto questo?!»
Gli sguardi sbigottiti di Mordred e Arthur si posarono all’unisono sulla figura ansimante e sudata di un Merlin seguito da un’infermiera preoccupata – ci mancava soltanto che chiamasse la sicurezza! -, la maglia sgualcita dalla corsa che si abbassava e si alzava a ritmo col petto.
«Merlin?!»
Arthur ancora aggrappato all’asta d’acciaio, lo squadrava incredulo, la stessa espressione che avrebbe usato se qualcuno gli avesse detto che il Chelsea avrebbe vinto il Campionato.
Solo quando il corvino avanzò nella loro direzione immusonito, l’Asino si accorse che tutta l’irritazione del giovane era rivolta a Mordred.
Incrociò le braccia, Merlin, indispettito. «Credevo volessi la mia, di compagnia!»
Che faccia tosta che aveva quell’imbecille! Prima lo faceva penare per una buona mezz’ora alla fermata del bus e poi aveva pure il coraggio di mostrarsi infastidito per essere stato rimpiazzato!
Incredibile.
«La prossima volta impari» gli disse semplicemente Arthur. «Certo, Mordred ha fatto un po’ tardi per trovare un costume, ma intanto non mi ha lasciato ad aspettare sulla fermata del bus!»
Non che ne avesse tutta quella voglia, ma se serviva a rinfacciare qualcosa a Merlin, Arthur avrebbe lodato Mordred tutte le volte che l’avesse ritenuto necessario.
Credeva che quell’idiota di Merlin avesse colto l’antifona e invece – con suo grande stupore – la fronte del corvino si aggrottò vistosamente. «Io ho fatto tardi!» precisò offeso, puntandosi una mano al petto.
«Esatto, Merlin!» Arthur allargò le braccia per la disperazione, rischiando di rovinare a pancia in acqua se non fosse stato per i riflessi scaltri di Mordred che seppe afferrarlo con rapidità – e per un attimo Arthur s’immaginò Merlin infervorarsi ancor di più, stringendo simultaneamente i denti all’idea di dover essere in debito con Mordred per la seconda volta.
Quella mattina, però, il ventenne aveva proprio deciso di farlo diventare matto: distese la fronte, abbandonando l’aria crucciata per far spazio ad una completa faccia da ebete.
«Ma… se io e te siamo qui, e anche Mordred non è al bar… Chi c’è al Pendragon’s oltre Freya?»
Arthur rimase impalato sul posto, labbra schiuse pronte a proferire una risposta che gli costava più del suo stesso guardaroba.
Cosa gli era saltato in mente, poi, non sapeva spiegarselo.
 



«Birra ghiacciata!»
«B-Birra ghiacciata».
Nell’esatto momento in cui Gwen fece il suo ingresso al Pendragon’s – pregata gentilmente da un Arthur piuttosto preoccupato di tenere la situazione sotto controllo finché Mordred non sarebbe arrivato – vi trovò di tutto.
Gwaine, munito di un sorriso smagliante, tentava di fare colpo su alcune clienti senza scrivere neanche mezza riga sul blocchetto che aveva tra le mani, più in là Freya era vittima di un andirivieni costante con… tanti vassoi mantenuti in equilibrio con molta fantasia, dietro al bancone un Gaius spaesato riempiva un boccale di birra a spina.
«Gaius…» articolò sconcertata la mulatta, incurante del fatto che fosse troppo distante per essere udita dal povero anziano.
Adesso poteva dire di aver visto di tutto.
Recuperata la lucidità, Gwen si avvicinò al meccanico strattonandolo per la camicia, lontano dal tavolo occupato da due povere ragazze. «Gwaine, ma ti sembra questo il momento di fare il cretino? Quella poveretta di Freya sta impazzendo e Gaius… non capisco nemmeno come ci sia finito lì.» Così come non riusciva a capire perché improvvisamente quel bar si riempisse di gente solo nei momenti meno opportuni.
Il moro si lasciò andare ad una risata spensierata, quella di chi crede di aver programmato tutto nei minimi dettagli. «Tranquilla, Wilson. Stavo solo prendendo le ordinazioni con gentilezza, per chi mi hai preso? È stata la principessa a chiedermi questo favore».
Gwen non si sognò nemmeno di chiedergli dove avesse messo la piccola Hartie.
«Bene, allora renditi utile.» Capì di dover prendere le redini della situazione – Arthur contava su di lei. «Vai ad aiutare Freya ai tavolini – magari con meno “gentilezza” -, io nel frattempo vado a cambiarmi. Bisogna allontanare il povero Gaius da lì».
Autorevole come una buona maestra d’asilo – anche se avrebbe preferito paragonarsi ad una solenne regina – Gwen si diresse soddisfatta verso lo stanzino, euforica per il ruolo che l’era stato assegnato.
Trascorsi sette minuti, il Pendragon’s sembrò ritrornare ad una calma quotidiana. Due mani in più fanno miracoli, si disse compiaciuta tra sé e sé Gwen, certa che parte del merito fosse suo.
Fatto accomodare Gaius nel posto che gli aspettava – ovvero dall’altra parte del bancone -, la mulatta si premurò di offrirgli un caffè, facendosi raccontare come fosse finito a riempire boccali di birra ghiacciata nel bar in cui, in tutta onestà, non metteva quasi mai piede.
Come biasimarlo.
Gaius la ringraziò per il caffè portandosi la tazza alle labbra, spiegandole di essere passato al Pendragon’s per una breve visita – Merlin in quel periodo sembrava sotto pressione, e l’ex medico militare voleva sincerarsi che fosse tutto a posto -, ma Freya, ritrovatasi da sola con Gwaine “ad aiutarla”, lo aveva pregato di darle una mano e l’anziano non aveva saputo declinare la richiesta d’aiuto della mora.
Gwen si morse il labbro.
Era dalla sera scorsa che non aveva notizie di Merlin… e nemmeno di Morgana. Effettivamente, poteva essere successo di tutto: quei due erano completamente pazzi e c’erano alte probabilità che si fossero già uccisi a vicenda – per colpa sua.
«Temo di aver fatto una cosa orribile, Gaius».
L’anziano per poco non si strozzò con il caffè.
Da quando Merlin era entrato nella sua vita era diventato il confidente preferito dei giovani, soprattutto di quelli che ronzavano attorno al ventenne. Non che la cosa gli pesasse, ma non avrebbe mai pensato che avere un figlioccio fosse così impegnativo… Quei ragazzi erano pieni di problemi e anche se a suo modo si era affezionato a loro, doveva ammettere che crescere sua figlia Vivian era stata un’impresa meno ardua.
Gaius tossicchiò, leccandosi le labbra. «Vuoi parlarne?»
«No», rispose sbrigativa la ragazza.
«D’accordo. Semmai vorrai parlarn-»
«Sì» Gwen si contraddisse nell’arco di cinque secondi. Quel senso di colpa la stava opprimendo. Dire la verità a Merlin le era sembrata la cosa giusta da fare, ma in quel momento… Aveva bisogno di un parere esterno, obiettivo. Abbassò lo sguardo e qualche ciocca riccia le nascose parte del volto. «Mettiamo caso che una persona a me molto cara mi abbia confidato un enorme segreto – enorme quanto un castello, anzi no, come un regno intero! -, facendomi promettere di non dirlo a nessuno… Solo che questo segreto riguarda anche un’altra persona – forse due, o addirittura tre… - ma questa persona non sa niente di tutto questo…»
Gwen si fermò aspettando un cenno da parte dell’anziano.
Gaius, nonostante il sopracciglio crucciato e l’aria vagamente perplessa, annuì.
«Ecco…» la mulatta si torturò le dita, sospirando colpevole. «Io potrei aver raccontato quel segreto alla persona interessata… Ma Merlin non c’entra niente!» si affrettò a precisare Gwen, mordendosi la lingua.
Non era poi così brava a mantenere un segreto… E i fatti lo dimostravano.
L’ex medico militare indugiò per un po’, poi poggiò la tazzina di caffè sul bancone. Dedicò alla mulatta uno sguardo comprensivo, calmo. Lo sguardo che Gwen aveva imparato a conoscere molti anni addietro nelle fredde giornate di Novembre, in compagnia dei suoi migliori amici e una tazza di cioccolata calda.
«È normale commettere degli errori, non commiserarti troppo per questo. L’importante è saper rimediare».
Alzò piano gli occhi castani sul volto  invecchiato dell’ex medico e, forse grazie al sorriso che le rivolgeva, Gwen si sentì meglio. Espirò piano, sentendosi seppur di poco più leggera.
«Il tizio strano al tavolo cinque si è lagnato. Ha chiesto se servire un Vampiro adesso fosse più impegnativo di un Golden Dream».
Gwaine arrivò al bancone con un sopracciglio all’insù e una smorfia di disappunto sul volto. «Sarà ricco marcio, ve lo dico io.»
Gwen scosse lievemente il capo, ridacchiando. «Non essere classista, Gwaine».
«È parte del mio eterno fascino», scrollò le spalle prima di ammiccare.
Gwen non avrebbe perso tempo prima di roteare gli occhi al soffitto se Freya non fosse arrivata esausta al fianco del meccanico, poggiando sfinita il vassoio sul bancone prima di collassarci su. «Questa è la quarta volta che sbaglio tavolo, non ne posso più. Odio questo bar!»
L’anziano arricciò il naso all’odore che quel cocktail emanava: agrumi mischiati alla Tequila, con un leggero accenno di pomodoro.
«Sembra disgustoso» commentò il moro alla volta del liquido rossiccio e della fetta di lime sul bordo del bicchiere.
Freya sembrò riemergere dallo stato di catalessi nel quale era caduta, osservando il cocktail ad un passo dal naso. L’odore del sale, mescolato alla voce di Gwaine, sembrarono risvegliarla. «È il drink preferito di Mithian, spesso ne abbiamo bevuto un po’ insieme».
Da quando la dottoressa Princess era apparsa sempre più di frequente nel bar per controllare il Pendragon, Freya aveva avuto l’occasione di conoscerla meglio e stringerci un buon rapporto.
«Oh», Gwen sembrò quasi dispiaciuta di quella scoperta. «Davvero? La dottoressa non mi sembrava una tipa da Vampiro».
«Ah-Ah!» Gwaine scoccò un’occhiata allusiva al bicchiere nel vassoio e la mulatta non si sarebbe meravigliata di sentirgli urlare “Eureka!”. «Così è questo il famoso Vampiro… Un cocktail da ricchi, avevo ragione. Lascia, lo porto io».
Freya aveva appena ripreso il vassoio tra le mani quando il moro le si avvicinò per prenderlo, ma in meno di pochi secondi in tutto il bar riecheggiò il rumore di un vetro in frantumi e quello più fastidioso di un vassoio al suolo.
«Sono un disastro!» piagnucolò quasi Freya, prima di abbassarsi a racimolare i pezzi di vetro mettendoli nel vassoio.
Gwen si offrì premurosamente di aiutarla, anche quando il meccanico fece lo stesso. Freya rifiutò entrambe le volte, dicendo di potercela fare da sola. Era stata colpa sua, o almeno così pensava… ma Ginevra sapeva bene cosa aveva visto e a mollare la presa, dopo aver sfiorato le dita di Freya, erano state le mani di Gwaine.
L’unica cosa di cui era certo Gaius, invece, infastidito dall’odore nauseante del cocktail caduto sul pavimento, era che a controllare scrupolosamente il suo orologio da polso al tavolo numero cinque, c’era Aridian.
 

 

 
È solo acqua.
Continuava a ripeterselo come un mantra, i muscoli tesi e le gambe completamente sommerse. È solo acqua.
Mordred era andato via, offrendosi spontaneamente di tornare al bar. «Adesso c’è Merlin. Non c’è motivo che resti» aveva detto.
E forse era stato meglio così.
Merlin era lì, nella vasca insieme a lui che lo aiutava quando poteva, talvolta sorreggendolo per non farlo scivolare.
Arthur aveva evitato di guardare il petto del ragazzo per tutto il tempo e il solo pensiero lo mandava in tilt, colorandogli gote e orecchie di un rosso imbarazzante.
Merlin non aveva quasi aperto bocca da quando erano rimasti soli e tutto questo rendeva Arthur ancora più nervoso: avrebbe avuto bisogno di distrarsi, l’imbecille gli aveva concesso il silenzio che tanto aveva agognato.
Tratteneva il fiato, Arthur.
Lo tratteneva tutte le volte che avvertiva la pelle di Merlin a contatto con la sua.
Non respirare equivale a non pensare, ed era esattamente quello che il Pendragon desiderava: smetterla di pensare a Merlin in quel modo, preoccuparsi di nasconderlo e a tratti temere di essere scoperto.
Fece un altro passo su quella specie di pedana sott’acqua. Cosa avrebbe detto Merlin se lo avesse scoperto?
Gli occhi blu del Pendragon si sollevarono dall’acqua calda e trasparente della piscina attraverso la quale poteva vedersi i piedi, incontrando quelli attenti di Merlin fissi su di lui.
«Pensi che sarei stato un buon padre?»
Le parole fuoriuscirono dalle labbra del biondino a bruciapelo, lasciando il corvino spiazzato da quella domanda improvvisa; eppure quell’espressione smarrita ebbe vita breve: Arthur vide Merlin ricomporsi e lanciargli un’occhiata sincera, in meno di un secondo.
«Ne sono convinto».
«Davvero?»
«Arthur, se mai dovessi diventare padre – senza qualcuno accanto – e morire in un modo o nell’altro… non esiste persona diversa da te alla quale affiderei mio figlio».
Se in quel momento al posto dell’acqua ci fosse stato un enorme specchio, Arthur era certo che avrebbe visto il suo petto gonfio d’orgoglio… e forse anche gli occhi un po’ lucidi dall’emozione.
«Credo sarebbe più saggio affidarlo a Gwen».
Merlin si lasciò scappare un sorriso che di allegro aveva ben poco. «Credo di sì».
Tuttavia, Arthur non si accorse dell’improvviso velo di dolore calato sul volto del corvino.
 
 
 
Quando Mordred varcò la soglia dello stanzino ormai utilizzato da tutti i dipendenti del bar come spogliatoio, Freya era stesa sulla panchina; le mani lungo i fianchi, le palpebre calate e qualche ciocca di capelli castani che restava in bilico nel vuoto senza toccare il pavimento.
La presenza della ragazza non sembrò infastidire il francese che, richiudendo la porta alle sue spalle, si sfilò la maglia di dosso cercando la sua divisa. Nemmeno il rumore della cintura sembrò destare Freya dal trance nel quale era ricaduta, e per qualche ragione Mordred fu sicuro che lo avesse riconosciuto.
Si infilò la camicia nera tenendo da parte il gilet rosso con il logo del bar, abbottonandosela alla bell’e meglio prima di passarsi una mano nei folti ricci castani e deviare lo sguardo sulla mora.
Quella non si mosse neppure quando il parigino le si avvicinò, accomodandosi ai piedi della panchina, la schiena che a stento sfiorava le mani di lei.
«Devo farti vedere una cosa» le disse.
La sentì muoversi sulla panchina senza sollevare le palpebre. «Okay».
«Soffri di vertigini?»
«Perché?»
Mordred non si era voltato a guardarla, ma qualcosa gli disse che Freya lo avesse guardato di sottecchi sorridendo a mezza bocca. Fu per questo che il francese incurvò le labbra in un sorrisetto. «Chiudi gli occhi».
Aspettò qualche secondo per essere certo che Freya avesse fatto quanto le aveva detto, poi distese a sua volta le gambe lungo le mattonelle fredde dello stanzino. Inclinò la testa all’indietro e imitò la ragazza, poi continuò: «Non parlare e non pensare, dimenticati di tutto… e prova a immaginarti Parigi. Di notte, vista dall’alto».
La voce di Mordred si era tramutata in un sussurro, una carezza delicata che danzava tra di loro, in quella stanza. Freya avrebbe potuto storcere le labbra in una smorfia strana, ma l’altro era così immerso nei suoi pensieri che il dubbio non gli sfiorò neanche la mente.
«Le vedi tutte quelle luci?»
L’impulso di sbirciare l’espressione di Mordred fu forte, ma Freya la controllò decidendo di fidarsi.
«Sei solo tu, in cima alla capitale più magica del mondo, puoi vedere ogni cosa da quassù. Gli altri non sono che semplici puntini invisibili, sovrastati da altrettanti puntini luminosi e tutto questo è…»
«Meraviglioso».
Mordred aprì gli occhi, voltandosi verso di lei. «Meraviglioso».
Freya ridacchiò, piegando il capo nella direzione del francese. «Siamo sdraiati nello stanzino del bar».
«Credo che ci servirà una ripulita».
«È la cosa più stupida che io abbia mai fatto.» Ma Freya seppe di mentire.
Mordred non si scomodò a guardarla con fare scettico e accusatorio, si limitò a spostare lo sguardo al soffitto, sentendo la mano della ragazza vicino ai suoi riccioli castani. «Ti sei nascosta da un tizio dietro un bancone.» Sollevò il sopracciglio destro e un angolo della bocca. «Sei una bugiarda».
Freya ne rise senza controbattere. Mordred era ancora l’unico che sapeva rasserenarla. «Touché».
Il francese sghignazzò ripensando alla faccia di Arthur semmai l’avesse udita.
«Comunque», Mordred si spostò da quella posizione che lo rendeva così rilassato, sedendosi rivolto al volto di Freya. «Voglio farti vedere anche questo… Sei la prima persona qui a Londra a cui lo mostro e in un certo senso sono contento. Spero in un tuo consiglio».
Dapprima la cameriera lanciò una semplice occhiata alle mani dell’altro, ma quando vide un cofanetto nero aprirsi dinanzi ai suoi occhi mostrandole un meraviglioso diamante incastonato su un anello d’oro bianco, Freya si tirò a sedere, coprendosi la bocca con una mano, ritraendola un attimo dopo.
«Mio Dio, Mordred… è…»
«Un anello di fidanzamento».
«Meraviglioso» lo corresse, cercando le sue iridi azzurre che parevano di ghiaccio grazie al gioco di luci che la lampada dello stanzino permetteva.
«Sai, esistono molti significati legati agli anelli di fidanzamento. Ad esempio c’è l’anello composto da tre diamanti. Essi rappresentano l’amore tra passato, presente e futuro. E poi c’è questo.» Mordred indicò il gioiello col mento, prendendolo in mano. «Un anello sovrastato da un diamante trasparente, luminoso, puro e immutabile come l’amore che rappresenta».
Freya era sinceramente meravigliata. «Wow», si lasciò sfuggire. Non riusciva a staccare gli occhi dal gioiello, quasi fosse stregato.
«Spero che lei lo gradisca come te».
Mordred si lasciò scappare una lieve risata nel vederla trasalire, imporporata sulle gote, per poi ricomporsi giocherellando con  le punte dei capelli castani che le ricadevano sul gilet sbottonato, nascondendo in parte il drago dorato stampato sulla divisa. «È bellissimo», ammise ancora una volta lei, impacciata. «Ma non capisco in cosa posso esserti utile, in tutto questo».
«In realtà avevo le idee molto chiare quando l’ho comprato. “Voglio sposarla”, mi sono detto, ma improvvisamente mi sono reso conto di non conoscerla come credevo. Mi sono accorto che non saprei cosa dirle una volta…» Gli occhi del francese si erano abbassati sull’anello e proprio quando meno Freya se l’aspettava, si risollevarono su di lei. «Avrei chiesto consiglio alla mia migliore amica, ma è troppo impegnata per una videochiamata su Skype, e poi qui ci sei tu».
«Io?»
«Già. Sei una delle poche persone qui a Londra che mi fanno sentire a mio agio».
Il sorriso timido che Freya gli regalò in qualche modo gli scaldò il cuore più di un “grazie”. Mordred sentiva di averne avuto bisogno da un bel po’.
«Comunque non credo che sia importante conoscerla meglio di chiunque altro. La ami, no? Ed è questo l’importante.»
A dire il vero aveva paura di aver detto una stupidaggine: aveva adottato quella tattica con Merlin per così tanto tempo… Lo amava, ma non faceva altro che dubitare di lui.
Un sorriso storto nacque sulle labbra del parigino. «Sei forte, sai? Mi piaci».
 


 
«Vuoi che ci fermiamo?»
Era quasi ora di pranzo. Erano usciti dal centro medico e Arthur aveva insistito di tornare a casa a piedi senza chiamare nessuno per un passaggio – al massimo avrebbero preso un bus.
Merlin si era detto contrato e lo aveva costretto ad una nenia insopportabile su quanto sarebbe stato meglio se non si fosse affaticato dopo gli esercizi svolti, ma l’Asino non ne volle sapere niente.
Quando però il ginocchio cominciò a procurargli un po’ di fastidio, decise di fermarsi.
Il corvino lo affiancò, prendendolo per un braccio. Lo trascinò verso le panchine, ripetendosi: «È meglio fermarsi. Te lo avevo detto, brutta testa di legno. Siamo due spugne di sudore».
Arthur avrebbe preferito morire piuttosto che dargli ragione; si asciugò la fronte con l’avambraccio, godendosi l’ombra degli alberi che li riparavano dai raggi del sole.
La panchina indicata da Merlin era deserta, a poca distanza vi era una cabina telefonica. Una donna li superò reggendo due buste di plastica belle piene.
Arthur si fermò a guardare l’altro riprendendo fiato poi, mentre una gocciolina disegnava una scia bagnata sulla guancia del corvino, il biondo si mosse.
Merlin non ebbe neppure il tempo di registrare ciò che stesse accadendo che si ritrovò le braccia di Arthur strette a lui, petto contro petto.
Erano tante le cose che Arthur sentiva di aver perso e sbagliato: aveva deluso suo padre con la decisione di aprire un bar anziché dargli una mano in azienda, poi si era reso ridicolo con la storia del tradimento; un fottuto incidente lo aveva costretto ad un mese infernale nel quale gli erano successe di tutti i colori: aveva rivisto Ginevra, l’aveva fronteggiata e scoperto la morte di un figlio che non sapeva di avere, un figlio che non avrebbe mai conosciuto. Sua sorella era ritornata per sconvolgergli la vita con tutte le sue novità e Merlin…
Merlin cominciava ad essere concretamente qualcosa che avrebbe potuto perdere.
Un lieve venticello fece danzare appena le foglioline verdi appese ai rami degli alberi e Arthur sentì il dorso di Merlin scosso dalla sua risata.
«Arthur. Ma ti rendi conto che mi stai abbracciando?»
Il Pendragon non rispose.
Continuò a stringerlo, a respirare quel momento. Era come stesse cercando di tenerlo stretto a sé in tutti i modi possibili su questa Terra, quasi avesse il bisogno di toccarlo per impedirgli di uscire dal suo spazio.
Merlin non fiatò più, perché anche se era un idiota certe cose le coglieva a pelle. Erano una squadra.
Il corvino legò il corpo di Arthur al suo, cingendogli la schiena con le braccia.
In fondo, si ritrovò a pensare il biondo mentre tutto il mondo sembrava essere scomparso nel nulla, era come se gli stesse rubando una fetta d’amore che avrebbe tanto desiderato tutta per sé… e che al momento si serviva da solo.
 
 
 
La prima cosa che i suoi occhi incontrarono, appena varcata la soglia del bar, fu il volto eterno dell’imperioso Colosseo dipinto su un quadro e appeso alla parete, abbellito da una cornice dorata.
Si passò la lingua sul palato, guardandosi intorno; era tutto come lei avrebbe sempre desiderato: tavolini gremiti di gente, delle casse che suonavano Cheerleader in tutto il locale – l’aveva già sentita quella canzone. Nei pochi giorni in cui i suoi figli erano tornati a casa, dai loro Ipod non si udiva altro –, e il sorriso stampato sul volto dei clienti che chiacchieravano sorseggiando bevande fresche, addentando panini.
Represse un conato di vomito, serrando la mascella.
Aridian era lì, seduto al tavolo, che lo salutava agitando la mano. Quanto lo odiava. Odiava tutto di lui, compresa la sua famiglia.
«Signor Pendragon…»
La spalla di Uther andò a sbattere contro qualcosa, e forse avrebbe anche farfugliato delle scuse sbrigative se una volta girato il capo non avesse incontrato due occhi castani e ricci vaporosi raccolti alla buona: Ginevra Wilson.
«Che ci fai qui?»
La voce di Uther era spinosa, velenosa.
«Io», Ginevra cercò le parole giuste da dire, quelle che si erano sciolte tra i denti quando gli occhi dell’uomo l’avevano trafitta. «Lavoro. Arthur mi ha assunta da poco».
«Ti ha assunta?» Sibilò incredulo quella domanda. Cosa diamine passava per la testa di suo figlio? Era inconcepibile.
«Sì.»
Nella risposta della ragazza il Pendragon lesse qualcosa che gli mandò il sangue al cervello: determinazione, sicurezza. La certezza di essere nel giusto. La vide alzare il mento fiera di sé, prima di superarlo. «Se vuole scusarmi, io andrei».
La giornata non era affatto iniziata nel verso giusto. Raggiunse stizzito il tavolo occupato da quel verme di Aridian, sentendo la rabbia pizzicargli la pelle nell’udire la risata fastidiosa che lo accolse.
«Questo sì che si chiama dejavu, amico mio».
Strinse così forte la mano in un pugno da far impallidire le nocche. «Non sono amico di un verme come te, Aridian» ringhiò.
«Che peccato», si finse teatralmente addolorato, picchiettando i polpastrelli sul legno del tavolo a ritmo con la musica. «Cosa ti serve questa volta?»
Ad Igraine non era mai piaciuto, e glielo aveva fatto presente fin dal primo giorno che si erano conosciuti. Le metteva i brividi, diceva. “Sembra uscito da un film dell’orrore”.
Aridian era sempre stato il tizio col quale condivideva una sigaretta, una canna e in rare occasioni anche una donna, ma da quando Igraine era entrata nella sua vita aveva creduto che per lui fosse possibile un finale diverso, che lo meritasse.
Quando quel rettile velenoso aveva capito le intenzioni di Uther si era allarmato: non poteva abbandonare il giro, non ora che stava andando tutto alla grande col mercato nero. Lo aveva ricattato, messo alle strette e ricondotto nel tunnel buio e lurido da dove stava cercando di riemergere.
Gli aveva strappato via, via ogni cosa... rendendolo vittima della dipendenza, facendogli credere di essere felice così.
Si era sporcato le mani di sangue per una nuova dose… e quel verme gli aveva portato via la cosa più bella della sua vita.
«Tieni tuo nipote lontano da mio figlio.»
Aridian sembrò sorpreso; smise di tamburellare le dita sul tavolo, guardandolo bene negli occhi. Stava soppesando la sua proposta, Uther lo sapeva bene. Conosceva fin troppo quello sguardo pensoso e serio, ciononostante non si sarebbe mai aspettato che la sua bocca si sarebbe allargata in un sorriso spinoso, mentre le mani correvano ad accartocciare lo scontrino dimenticato accanto al bicchiere vuoto. «Non se ne parla nemmeno».
Lo vide alzarsi e, vinto dall’ira, il Pendragon circondò il braccio dell’uomo costringendolo a fermarsi. Gli occhi di Uther urlavano per lui, mentre il corpo quasi tremava per la rabbia. «Me lo devi. Mi devi un favore».
«Davvero, Uther?» lo stuzzicò, un ghigno sbilenco che il Pendragon avrebbe volentieri preso a pugni. «Per quale motivo, rinfrescami la memoria».
Come avrebbe potuto ammettere il suo crimine? Come avrebbe potuto dargliela vinta in quel modo, spogliandosi di ogni menzogna e ricadendo ai piedi di quel bastardo proprio nel bar di suo figlio?
Strinse i denti, inghiottendo un boccone amaro.
«Vedi, vecchio mio», Aridian si liberò con facilità dalla sua morsa, spingendo con due dita lo scontrino accanto al braccio dell’altro. «Non siamo poi così diversi, io e te».







 

Relie's Corner
Intanto vi ringrazio di essere arrivati fin qua, vuol dire che tenete davvero molto a questa storia, e questo non può che rendermi felice. Ma, partiamo con le precisazioni:

- Fin da quando ho deciso di introdurre il personaggio di Gwaine nella fanfiction, il moro era più grande dell'allegra comitiva del Pendragon's. Capitoli fa ho commesso l'errore di affibbiargli gli stessi anni di Morgana... Sorry!;
- Ethan è un personaggio canon, comparso nel quarto episodio della terza stagione. In realtà non è un bad guy, ma proprio non ricordavo il nome del compare del tizio che voleva uccidere Arthur, so...;
- Da qualche parte deve esserci un rimando alla Freya canon (animale ferito) e a Pirandello (che mi scusi!);
- Se da qualche parte trovate scritto "centro di riabilitazione" mi dispiace; navigando per il web mi sono confusa, in realtà è un centro medico dove si fa riabilitazione;
- E niente, io credo che Gwaine e Morgana abbiano davvero molto in comune, ma insieme non ce li vedo proprio. Sorry fan della coppia!;
- La storiella dell'anello di fidanzamento l'ho presa da internet. Al sito tutte le colpe;
- Il cagnolino Petyr è un chiaro riferimento al Trono di Spade, che dedico volentieri alla mia Celtica. (A lei devo anche l'idea dell'inserimento dell'immagine della tazzina). Passate da lei se vi piace il fandom!;
- Pernilla doveva essere la cuoca di Camelot, ma su internt non ho trovato il suo nome... dunque ho preso in prestito quello che Luminosa le ha affibbiato nella sua bellissima saga "Merleen";
- Io ODIO Mordred, ma adoro la gelosia (canon, a mio dire) che suscita in Merlin quando gironzola troppo vicino ad Arthur. Spero vi sia piaciuto questo mio rimando;
- Il Vampiro è un cocktail molto complicato (a mio dire); gli ingredienti sono bene o male descritti nel capitolo;
- Il Golden Dream (sogno d'oro) è un cocktail composto da: Galliano, Cointreau, succo d'arancia e crema di latte fresca. Il titolo si rifà a questo drink;
- E niente, i Merthur mi stanno prendendo ogni giorno di più e tutto il merito va a quel genio di Elyxyz. Ci tenevo a farlo presente xD


SPOILER
- Dal prossimo capitolo entrerà in scena un personaggio che prima è stato solo nominato;
- Ci sarà la fatidica proposta di matrimonio;
- Una coppia giungerà al capolinea;
- Arthur e Merlin avranno quel famoso faccia a faccia;
- Nel prossimo capitolo si capirà, finalmente, il collegamento che Merlin ha con la droga!


Se qualcuno è interessato, vorrei ricordare la mia pagina facebook --> Relie , qui troverete 'scene tagliate' che non ho potuto inserire, essere aggiornati sulle pubblicazioni e suggerirmi OC. (Potete suggerirmeli anche tramite messaggio privato qui su Efp, se vi va, basta che non sia in recensione).
Credo di avervi trattenuti abbastanza.
Spero di ricevere vostri pareri.
Alla prossima!

 

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Capitolo 22
*** Un sogno d'oro in frantumi (Parte II) ***


Nda: Sono ancora viva, lettori di Pendragon's!
Incredibile ma vero!
Mi dispiace tantissimo per avervi fatto aspettare così tanto, ma chi ha seguito i miei post in pagina sa il motivo delle mie distrazioni, della mia assenza... Insomma, eccomi di nuovo qui.
Anche stavolta il capitolo è abbastanza lungo e corposo di... informazioni (per me, del tutto essenziali).
Spero solo che questo ventiduesimo appuntamento con Pendragon's Coffee possa farvi piacere. Vi regalo un piccolo banner e ringrazio con tutto il cuore tutti coloro che ci sono sempre stati per questa fanfiction, anche in silenzio. Ringrazio come sempre chi legge silenziosamente, chi ha inserito la storia nelle preferite/ricordate/seguite e chi ha recensito gli scorsi capitoli. Questo lo dedico a tutti coloro che ci credono ancora, che ci hanno creduto. 
Grazie.
Come sempre aspetto i vostri pareri e vi auguro una buona, spero, lettura!
 


XXII. Un sogno d’oro in frantumi (Parte II)
Ma noi smetteremo di bere tutte queste bottiglie di vino economiche
ce ne staremo seduti a parlare tutta la notte,
dicendo cose che non abbiamo detto per un po', un po', sì
stai sorridendo ma siamo vicini alle lacrime,
anche dopo tutti questi anni
noi adesso abbiamo la stessa sensazione 
di quando ci incontrammo per la prima volta
- The Script, For the first time
 
 
 
 
 





Sensi di colpa.
Gwen si era convinta che l’origine dei suoi mali fosse proprio il rimorso, così aveva deciso di combattere le sue pene svegliandosi prima dell’alba; aveva indossato una tuta comoda, raccolto i ricci castani e si era fiondata verso il parco per la sua corsa-annienta-colpe.
Dopo dieci minuti, ansimante e zuppa di sudore, era crollata accanto ad una panchina. Chiuse gli occhi, godendosi l’ombra degli alberi.
I sensi di colpa sono sfiancanti.
Stremata al sol pensiero delle conseguenze delle sue azioni, si lasciò ricadere a peso morto sulla panchina a rimuginare: non avrebbe dovuto dire la verità a Merlin… almeno non direttamente. Lui meritava di sapere, ma Morgana non gliel’avrebbe mai perdonato. Aveva sbagliato davvero?
Forse, si rispose. Ma a fin di bene.
Sospirò, sollevando le palpebre. Era rimasta inerte ad osservare una farfalla dalle ali bianche volteggiare in tutto quel verde – incerta se riprende quel masochistico esercizio fisico -, quando, come per magia, scorse Merlin sgranchirsi le gambe dall’altro lato del parco.
Sarebbe dovuta restare al suo posto, farsi gli affaracci suoi e prendere seriamente in considerazione le quattro regole fondamentali della filosofia buddhista.. ma quel ragazzo goffo dall’altra parte del parco era il suo migliore amico, e non c’era niente di male nell’avvicinarsi per sincerarsi sull’andamento della sua vita.
D’altronde era stato sparato più di un mese fa e lei n’era venuta a conoscenza solo dopo un po’ di tempo: qualcuno avrebbe potuto averlo minacciato mentre entrava in un negozio o mentre camminava per la strada, senza che lei ne sapesse nulla. E in fondo, Morgana non lo aveva ancora ucciso.
 «Ehi».
Gwen vide l’amico sobbalzare nell’udire la sua voce e per poco non ebbe paura che si rompesse una gamba. «Gwen?!»
Avrebbe fatto in minuto di corsa in più per averlo spaventato, si annotò mentalmente la mulatta, mettendo su una sincera espressione mortificata. «Scusami, scusami, scusami! Non volevo spaventarti, davvero!»
Merlin sembrò non farci caso, come se avesse accantonato la questione ancor prima che nascesse. «D’accordo».
«Mi alleno», si ostinò a precisare Gwen, un sorriso convinto sulle sottili labbra pulite. «Purifico la mia coscienza. Sconto le pene dei miei peccati».
Il corvino si limitò a ritirare la gamba a terra senza guardarla, gli occhi azzurri diretti verso un bambino che portava a spasso il suo cane. «Va bene».
Gwen non riusciva a capire. Non capiva perché Merlin la trattasse in quel modo; non era sfrontato e presuntuoso come Arthur: atteggiamenti simili sarebbero stati normali per il Pendragon, ma a Merlin non appartenevano, e vederlo imbronciato o giù di morale la rattristava… e la tristezza non era mai stata la miglior amica dei buoni propositi.
«È successo qualcosa?»
Merlin si voltò a guardarla, distogliendo lo sguardo immediatamente, tanto da indurre Gwen a credere di esserselo immaginato.
«No», le disse. «È tutto a posto».
«Sicuro?»
E fu in quel momento  che Gwen realizzò il motivo per cui si era vestita come una pazza quarantenne uscita da un film americano. «Ah, già».
Si affiancò all’amico vedendolo riprendere il passo, tempestandolo con le sue continue domande: «È per Morgana, vero? Voi due… non avete ancora parlato? Hai già pensato a cosa dirle?» Gwen sembrò rifletterci per un secondo e poi aggiunse: «Forse non è saggio fronteggiarla disarmato».
«Gwen».
Il ragazzo si bloccò sul posto imitato dalla mulatta.
C’era qualcosa nell’azzurro dei suoi occhi, qualcosa che Gwen non aveva ancora notato: era nuvoloso, come se ad un tratto l’estate avesse ceduto il posto al rigido inverno, senza luci né regali. Solo inverno.
«Io…» Merlin schiuse la bocca con l’intento di dirle qualcosa, di vomitare tutto quel freddo che sentiva nelle ossa, ma poi compresse le labbra, passandosi fugacemente una mano sul naso. «Devo andare.»
Non riuscì nemmeno a salutarlo; Merlin era già lontano, come se non avesse aspettato altro fin dal loro incontro.
Gwen sentì il peso della fuga sulle spalle e il buon umore svanire in un battito di ciglia.
Il bambino che prima aveva catturato l’attenzione di Merlin la superò, e persino il piccolo dalmata sembrò lanciarle un’occhiata di rimprovero.
Mimò un “Mi dispiace” con le labbra, sollevando lo sguardo nel momento in cui anche il cagnolino aveva deciso di non concederle la minima importanza.
Posò gli occhi scuri su un albero qualsiasi e si ritrovò a sgranarli dalla sorpresa: non si sarebbe mai aspettata di ritrovare Morgana Pendragon provvista di tuta e codino, appoggiata al tronco di un acero di monte.
 

 



Sbadigliò portandosi una mano alla bocca, procedendo verso la cucina per inerzia; si passò le dita tra i capelli grattandosi lievemente il capo, gli occhi ancora socchiusi dal sonno. Sembrava letteralmente uscito da un episodio di The Walking Dead, se non fosse per un piccolo – ma non tanto – basso particolare che i pantaloni del suo stupido pigiama non sapevano nascondere.
Si fermò per qualche minuto nel corridoio, quasi bastasse per risolvere il “problema”.
Il primo pensiero di Arthur, una volta sveglio, era il bar. Lo era sempre stato, ma da un mese a questa parte, il Pendragon pensava ad altro mentre si scioglieva dall’abbraccio confortante di Morfeo.
Ed era umiliante, destabilizzante e doloroso.
Non avrebbe mai creduto di poter pensare a Merlin in quel modo, ma stava accadendo e la situazione rischiava di sfuggirgli dalle mani.
Non avrebbe mai permesso ad anima viva di scoprire le sue nuove e strane pulsioni; non avrebbe mai lasciato che Merlin se ne accorgesse.
Cercò di orientare i suoi pensieri altrove, focalizzandosi sul bollitore del Pendragon’s, i tavoli e le sedie da sistemare, la macchinetta del caffè…
Sembrò funzionare, così decise d’incamminarsi verso la cucina per beneficiare di una sacrosanta colazione in pace.
«Bonjourn».
Ovviamente tutti i suoi piani si sciolsero come neve al sole. Arthur storse la bocca in una smorfia di fastidio, muovendo vagamente la mano in aria. «Sì, come ti pare».
«Il latte è finito.» Mordred ignorò l’ormai quotidiana reazione del biondino al suo buongiorno, sorridendogli invece in modo cordiale e diplomatico come un bravo coinquilino.
Arthur sbuffò una risata di scherno. «Non bevo latte a colazione», lo informò offeso. «Non sono un poppante».
Mordred non si sognò neanche di contraddirlo; continuò a spalmare del miele sulla fetta biscottata che teneva con tre dita, beandosi del brontolio scontato del biondino: «Il latte è finito.»
Arthur chiuse seccato il frigo, cominciando a rovistare nei mobiletti della cucina alla ricerca di cibo. Disperatamente.
«Ho preparato una spremuta», lo avvisò il parigino, indicandogli col mento la caraffa mezza piena di succo d’arancia. «E ieri Morgana ha fatto un dolce, anche se mi sembra strano: a Parigi restava sempre a debita distanza dai fornelli».
«Figurati» sbruffò, prendendo posto. «Qualsiasi cosa abbia creato quella donna o è immangiabile o velenosa.» Arthur corrugò la fronte, passandosi una mano sul volto. «Chi cavolo ha fatto la spesa l’ultima volta?»
«Sicuro di volerlo sapere?»
«Morgana», Arthur pronunciò il nome della sorella a denti stretti, quasi fosse una carie fastidiosa di cui liberarsi. «Lo sapevo. I turni per la spesa sono stati una pessima idea».
«In realtà, toccava a te», gli fece nota Mordred.  «E anche l’idea dei turni è stata tua».
Arthur parve restare senza parole, forse pensando ad una valida giustificazione per l’errore, ma invece espirò aria dal naso, appoggiando la guancia sulla mano. Scoccò un’occhiata alla spremuta. Lui adorava svegliarsi con una tazza di cappuccino, tutti i giorni. Era sempre stato così, persino ai tempi della scuola, quando lui e Merlin erano soliti fare colazione nel bar che ad Arthur sapeva ricordare sua madre.
Era sempre stato così.
«È giusto cambiare, a volte».
Mordred protese un braccio per afferrare la caraffa rossa, versando un po’ di spremuta in una tazza vuota. «Aiuta a crescere».
La fece scivolare sul legno plastificato del tavolo, fino al gomito del Pendragon.
«Anche se i cambiamenti possono fare paura».
«I cambiamenti non mi fanno paura».
In parte era vero: Arthur non si era mai tirato indietro di fronte ad una difficoltà. Era sopravvissuto alla scomparsa di sua madre e al temperamento incostante della sorella; era riuscito ad andare avanti dopo il tradimento di Gwen e la perdita di quel che sarebbe stato il suo bambino. Talvolta, il cambiamento lo eccitava, gli dava la giusta carica di adrenalina.
Ma i sentimenti che provava per Merlin… i sentimenti che sentiva di provare per Merlin, lo lasciavano senza fiato.
«Io sono terrorizzato, invece.» Mordred rispose all’occhiata stranita del biondo con un mezzo sorriso. «Credo che le chiederò di sposarmi, stasera».
«Davvero?»
«Già».
«Morgana?!»
«Già!»
Arthur scosse lievemente il capo, ridendo appena. Gli sembrava quasi assurdo che sua sorella avrebbe indossato un abito bianco e percorso una navata.
Morgana era una donna indipendente, la più autosufficiente che avesse mai conosciuto nella sua vita. Da quando Igraine li aveva lasciati, la Pendragon si era intestardita di fare tutto da sola; il compito di Arthur era quello di tenerle compagnia di notte, proteggendola dall’insonnia e dai ricordi.
Dopo tutto quel tempo, Arthur sentiva di dover ricoprire ancora quel ruolo. Spettava a lui difenderla dal male del mondo, tenerla al sicuro sotto la sua ala protettiva. Era suo fratello e lo sarebbe stato per sempre, qualsiasi cosa sarebbe successa.
Era probabile, però, che fosse arrivato il tempo di lasciarle il suo spazio, fidarsi delle sue scelte. Offrirle il beneficio dello sbaglio.
Arthur prese la tazza tra le mani, bevendo un lungo sorso.
«Forse hai ragione», gli disse. «È giusto essere spaventati».
 




 
 
«Non dovresti sforzarti molto nelle tue condizioni!»
«Condizioni momentanee».
«Non puoi saperlo! E se cambiassi idea?»
«Non succederà.»
Gwen abbassò lo sguardo. Discutere con Morgana la sfiniva.
Continuare a ripeterle di non mollare, di pensare ad un bambino che non era ancora nato e che non poteva decidere per sé, ma la Pendragon era sorda dinanzi alle sue suppliche.
E ogni volta si spezzava qualcosa, dentro Gwen. Ogni volta, era come se il suo bambino morisse. Da solo, senza mai aver conosciuto la luce del sole, senza mai aver cantato una canzoncina di Natale o addobbato l’albero insieme a lei; senza mai aver conosciuto le mani forti e gentili del suo papà.
Era come se il suo bambino morisse ogni volta, senza che lei potesse far niente per evitarlo.
«Gwen».
Quando la ragazza sollevò lo sguardo sull’amica, non si accorse nemmeno di piangere.
«Gwen», ripeté Morgana, spiazzata dalle sue lacrime. Ginevra sapeva che la corvina non voleva ferirla, ma moriva man mano, un pezzetto per volta, tutte le volte.
Si lasciò andare nell’abbraccio incerto che Morgana le offrì, una gracile stretta poco convinta.
«Non è lui», le sentì dire ad un soffio dall’orecchio. «Non puoi più fare niente per salvarlo».
Gwen tirò su col naso, cercando di calmarsi. Ricambiò il gesto dell’amica, con le gote arrossate dal pianto.
Lei non avrebbe potuto fare nulla per quel bambino, ma Merlin sì.
 






 
 
Sospirò, guardando fisso l’anello d’oro bianco. Il cofanetto blu era ancora sul tavolo della cucina e Mordred lo stava fissando da circa un quarto d’ora a braccia conserte, sperando in un’improvvisa rivelazione, attendendo che le parole giuste s’imprimessero nella sua mente.
Ma niente.
Percepì il cellulare vibrare. Un messaggio.
Era una chiamata persa, da parte di Kara. Mordred notò solo in quel momento che non c’era campo, in quella stanza.
Kara…
Era da un po’ che non la sentiva, che non sapeva come stesse. O dove.
Lei gli avrebbe detto di non farlo, di non rinunciare ai suoi sogni per una bambina confusa e viziata come Morgana e, da un lato, Mordred concordava con la sua amica.
Poi c’era il loro primo sguardo in un museo di Parigi, il primo bacio che le aveva rubato e la galleria in cui aveva stretto la sua mano e aveva capito di volerci provare sul serio. C’erano i mesi passati insieme a lei, i giorni trascorsi ad ambire una fetta della sua vita e i momenti in cui aveva anelato al fare proprio il suo talento, la sua intelligenza e quel lato oscuro che celava al suo interno.
Forse Kara aveva ragione, forse aveva bisogno di qualcuno che sapesse ascoltarlo e capirlo.
Bussarono alla porta.
Mordred si affrettò a richiudere il cofanetto e nasconderlo in un posto sicuro, lontano dalla vista dei Pendragon – ovvero l’armadietto dedicato al sapone per i piatti e spugnette varie -, avviandosi poi verso la porta per aprirla, ritrovandosi faccia a faccia con il più grande dei Pendragon.
«Signor Pendragon».
«Mordred».
«Arthur e Morgana non sono in casa, al momento», lo mise al corrente, spostandosi in modo da farlo accomodare nell’appartamento.
«Non importa.» Uther si guardò intorno, ispezionando silenziosamente l’ambiente circostante, mostrando al francese la piccola busta che aveva tra le mani. «In realtà cercavo te.»
«Mi dica pure».
Uther gli fece cenno di prenderla e Mordred non se lo fece ripetere due volte. «È per Morgana», spiegò. «So che non è una ragazza facile, che è difficile starle dietro… ma non dovresti arrenderti. Lei è pronta a sposarti, ma devi aiutarla. Non dirà di sì con facilità e tu non mi sembri un tipo che ha paura degli ostacoli. Questo », disse indicando la busta che ora era nelle mani di Mordred, «potrà servirti».
«Grazie, signore».
«Morgana è mia figlia.» Uther era serio, deciso. «Sarei pronto a tutto, per lei. Ci siamo intesi?»
Mordred non batté ciglio. «Perfettamente».
 






 
«Che tipo di ex siamo?»
Arthur alzò gli occhi al di là del bancone e incontrò il viso pulito di Gwen. «Credo… ex-fidanzati».
Gwen scosse il capo. «No, intendo… siamo quel tipo di persone che si limitano a salutarsi o possiamo provare ad essere amici cordiali e civili?»
Lo prese completamente alla sprovvista, come sempre. Gwen sapeva come sorprenderlo. «Suppongo che la seconda opzione sia quella più sensata».
«Bene!» Il voltò della mulatta si illuminò. «Altrimenti sarebbe stato sconveniente dirtelo, ma me ne sono accorta e…» Le labbra sottili e struccate della ragazza s’incurvarono dolcemente verso l’alto, gli occhi scuri a scrutare ogni mossa impercettibile del biondino. «Provi qualcosa per Merlin?»
«Cosa?!» Per poco il Pendragon non sputò un polmone e gli occhi non gli uscirono fuori dalle orbite. «Come ti viene in mente una cosa del genere? No!»
«Ci vedo bene e so quello che ho visto, Arthur!»
«Io credo che tu sia ubriaca.» Ma Gwen non demordeva. Se ne stava lì a studiarlo, ad aspettare che sputasse il rospo… e Arthur non sapeva più come difendersi. «Andiamo, è Merlin
«Infatti, Arthur, è Merlin. È sempre stato Merlin
Il biondino la fissò incredulo, aggrottando la fronte per lo stupore. «Tu sei una mia ex», le fece notare, indicandola fugacemente con un dito. «Dovresti saperle certe cose. E comunque ti sbagli, mi vedo con qualcuna.» Mise lì, sperando di essere stato abbastanza convincente.
«La dottoressa?»
«Già!»
Non era vero, anche se ci aveva pensato qualche volta. Merlin… o l’idea che  si era fatto di Merlin scompariva quando c’era Mithian nei paraggi.
«Oh», Gwen ne sembrò quasi dispiaciuta. «Non lo sapevo. Sono contenta per te. Sembra una brava persona».
«Lo è», e stavolta Arthur seppe di non mentire. «Sto bene con lei».
«Grandioso!»
«Sì!»
Calò un silenzio imbarazzante e per un po’ nessuno dei due seppe cosa dire; Ginevra spostò il proprio peso da un piede all’altro e aggiunse: «Merlin mi sta evitando. Mi evita come le fragole».
«Come le fragole?» Le fece eco confuso, prima di ricordare che la Wilson odiava quel frutto come la morte.
Gwen non ci prestò la minima attenzione. «Sono preoccupata per lui, mi sembra… un po’ giù. Potresti parlarci?»
Nonostante quella conversazione lo avesse scosso non poco, Arthur le promise ugualmente che avrebbe parlato al corvino, dimenticando la faccenda dei sentimenti e della vista bionica di Gwen.
 






 
Quando uscì dalla porta secondaria del bar, Arthur si sentì rigenerare da un venticello leggero; Merlin era qualche passo più avanti, la schiena contro il muro e una sigaretta alla bocca.
Nel momento in cui si accorse della sua presenza, Arthur percepì una strana sensazione, qualcosa che non gli apparteneva: un’insolita agitazione si fece spazio al suo interno, rendendo le mani tra cui reggeva un tramezzino sudate.
Arthur non aveva mai le mani sudate, tanto meno quando vedeva Merlin.
Il corvino gli infondeva sicurezza; era l’idiota capace di inciampare su un sassolino, il compagno di banco su cui contare nei compiti in classe. Merlin era Merlin, la persona che nonostante tutto restava sempre al suo fianco.
Merlin poteva provocargli di tutto, tranne che agitazione.
Cercò di concentrarsi su tale convinzione, ricadendo con lo sguardo sul tragitto invisibile che  la sigaretta percorreva in aria fino ad adagiarsi tra le labbra piene del ragazzo.
Sembrava assorto, gli occhi azzurri puntati sulla strada.
Non gli capitava spesso di osservare quel lato di Merlin, quella vena malinconica che non lasciava trapelare con facilità.
«Hai ripreso a fumare».
Arthur gli si era avvicinato, appoggiandosi al muro.
Il corvino era così preso dai suoi pensieri che trasalì impercettibilmente, tossendo ripetute volte.
Chissà a cosa stava pensando…
«Il vecchio lo sa?»
Merlin alzò con aria sarcastica un sopracciglio nero all’insù, accettando ben volentieri il tramezzino che Arthur gli stava porgendo. «Penso che Gaius mi ucciderebbe».
«Mi rallegrerebbe il fine mese».
«Simpatico».
Il Pendragon prese un sorso dalla birra che si era portato dietro, gettando distrattamente un’occhiata al cielo londinese. «Ti ama troppo per farlo. Sei come un figlio per lui».
«Già», Merlin annuì, dando un morso al suo panino. «Per fortuna».
Si stava bene lì fuori, con l’aria fresca di una giornata nuvolosa, accanto a Merlin.
«Ti chiedi mai come sarebbe, se loro fossero qui?» Arthur lo chiese con lo sguardo rivolto altrove, la bottiglia di vetro nella mano sinistra. «A cosa penserebbero di te».
Merlin lo guardò in silenzio, prima di rispondere: «A volte».
«Io me lo domando ogni giorno».
Ma questo già lo sai.
Arthur bevve un lungo sorso, poi la birra passò nelle mani di Emrys. «Sarebbe fiera di te, tua madre».
Ne aveva incontrate di persone nella sua vita, eppure Merlin era diverso da tutti; Merlin era una piacevole certezza e qualsiasi cosa stesse succedendo, Arthur sentiva di doverla tenere a bada.
«Era da un po’ che non parlavamo più così, io e te».
Stavolta fu il turno di Merlin di bere un sorso. «Vero».
Mi è mancato.
Non gli sorrise di rimando. Arthur restò con le spalle contro il muro, ignorando l’intonaco che avrebbe certamente rovinato la sua camicia nera, senza accennare ad un minimo gesto.
Gli sarebbe piaciuto guardarlo in faccia e non provare niente, senza convivere con la costante tentazione di abbassare la testa per timore che Merlin vedesse ciò che stava cercando di nascondere agli occhi del mondo, persino ai suoi.
«Gwen mi ha detto che la eviti».
«Come?»
«Le parole esatte sono state: “Mi evita come le fragole”-»
«Come le fragole?»
«Ad ogni modo», tagliò corto il Pendragon, «parlale. Mi è sembrata preoccupata».
Merlin scosse il capo, gettando via la sigaretta. «Non ci posso credere».
Arthur corrugò la fronte.  «Cosa?»
«Ci sei ricascato!» Un sorrisetto convinto nacque sulle labbra del corvino. «Provi ancora qualcosa             per      lei».
«No,   invece».
«È evidente».
«Non è così!» ribatté il Pendragon, con una tale decisione da zittire l'altro che intanto lo guardava attonito.
«Non ci sarebbe nulla di male, comunque».
«E invece sì», insistette. «Una cosa rotta non potrà mai tornare a com'era prima. Se è finita, se si è spezzato qualcosa... ci sarà una ragione. Tengo ancora a lei e forse sarà così per sempre, ma non l'amo».
«Come fai a dirlo?»
«Perché non ho più paura di quello che ci lega. Non ho più bisogno di abbassare gli occhi per difendermi da lei... Non ho più il cuore a pezzi, ed ho smesso di sperarci.»
Londra respirava, intorno a loro; un via vai continuo di persone popolava i grandi marciapiedi della metropoli, i taxi gialli trasportavano turisti e pendolari a destinazione.
Merlin e Arthur rimasero nel piccolo vicolo isolato, condividendo una birra fresca in compagnia di un gatto randagio.
Era la seconda volta che Arthur lo notava nelle vicinanze; il pelo era liscio e corto, di un arancio caldo che contrastava con il bianco latte delle zampette. Miagolò, restandosene distante dai due ragazzi.
«Credo voglia il tuo pranzo», suggerì il Pendragon.
Merlin deglutì il boccone. «Lo penso anche io.» Si abbassò all’altezza dell’animale, prendendo tra il pollice e l’indice un po’ di tonno.
Arthur lo vide distendere il braccio e richiamare il gatto con un tono di voce talmente rassicurante che gli venne da sorridere, ma represse sul nascere il gesto roteando gli occhi al cielo mentre il micio dalle orecchie a punta afferrava tra i denti il cibo, consumandolo qualche centimetro più in là.
«È per questo motivo che abbiamo bacon e salsicce come clientela fissa», borbottò.
«Ti lamenti troppo».
In fondo, sapevano entrambi che il Pendragon era il primo ad offrire alla piccola Hartie “gli scarti dei veri avventori”.
«Sarà meglio rimettersi a lavoro», Arthur controllò il suo orologio da polso. «E tu faresti meglio a lavarti quelle manacce, prima di servire i miei clienti».
«Sissignore.» Merlin lo seguì nel bar, finché l’Asino si immobilizzò accanto al bancone e il corvino gli pestò il retro della scarpa sinistra.
«Morgana, mia cara! Che bello rivederti!»
Arthur non avrebbe mai dimenticato quella voce melliflua, gli occhi taglienti e quei modi da puntigliosa perfezionista degni di una regina sadica.
Anche se i capelli, perfettamente in ordine, erano stati tinti di un rosso sangue, il Pendragon avrebbe riconosciuto quella donna anche ad occhi chiusi.
«Il ritrovo delle streghe», farfugliò dinanzi agli abbracci convenevoli tra sua sorella e Nimueh Campbell.
Quando l’attenzione della professoressa si focalizzò su i due giovani, entrambi esibirono un sorriso forzato, agitando una mano in segno di saluto.
«Bisogna festeggiare!» annunciò allegra la donna, avvolta in un sobrio ed elegante vestito nero. «Oggi il mio ex marito si sposa. Spero che questo locale non sia pessimo come i vostri voti!»
«Devo lavarmele ancora le mani?» chiese in un bisbiglio Merlin.
«Sta’ zitto», fu la risposta a denti stretti di Arthur.
 






 
Se c’era una cosa che aveva imparato quel giorno, era che una lezione di Anatomia impartita da Gaius non era il peggior castigo dell’universo, almeno non quanto servire l’arguta e perfida professoressa Campbell.
«Allora, Emrys, tu e la Pendragon non vi annusate più negli sgabuzzini?»
E perspicace.
Scomodamente perspicace.
«Oh, andiamo», continuò la donna. «Se n’è accorto mezzo istituto. Non fare quella faccia».
«Non faccio nessuna faccia», allargò le labbra più che poté, armandosi di blocchetto per le ordinazioni e penna. «Cosa posso portarle, professoressa?»
«Sapevo che non sarebbe durata».
«Come il suo matrimonio, intende?»
Si accorse di essere andato oltre quando le sopracciglia ordinate e scure della donna si curvarono in modo strano e qualcosa, nei suoi occhi, sembrò cambiare. Merlin si morse la lingua, senza scusarsi.
«Intendo festeggiare, Emrys.» Fu ciò che Nimueh gli disse. «Di solito si festeggia con dello champagne».
Merlin non annuì neanche; abbassò lo sguardo, allontanandosi dal tavolo. Si stava dirigendo al bancone quando la notò.
Morgana era lì che ripuliva un tavolo per l’ultima volta e il ventenne non riusciva a far altro che a pensare alle parole di Gwen, a quanto lo intimorissero.
Gli parve quasi di vederla, Morgana, bellissima come sempre, con un bambino tra le braccia a sorridergli. Era come la scena perfetta di un bel film a cui mancavano soltanto i titoli di coda… poi la realtà prese il sopravvento e ci fu spazio solo per il presente.
Si rese conto che anche Morgana lo stava guardando e la gola gli diventò secca in un secondo.
Distolse lo sguardo e tornò a lavoro.
 




 
«Freya».
La ragazza si fermò, voltandosi alle sue spalle per incontrare la figura slanciata di Mordred.
«Stai andando via?», le chiese.
Freya strinse le spalle. «Sì, perché?»
Mordred era nervoso, si umettava le labbra di continuo. Freya non lo aveva mai visto in quello stato, l’uomo che aveva conosciuto era calmo, razionale.
«Ho deciso di chiederglielo», le disse. «Stasera».
«È una cosa bella».
«Credo che darò i numeri.»
Freya si fece vicina e poggiò le mani sulle spalle del francese. Gliele massaggiò con lentezza, fissando i suoi occhi di terra umida in quelli polari di lui. «Prendi un bel respiro e concentrati su quello che vuoi veramente. Non devi chiederglielo per forza, se non vuoi. Lo sai, questo, vero?»
Un angolo della bocca sottile del parigino s’inarcò verso l’alto e la sensazione di benessere che le trasmetteva toccò Freya di nuovo, come un caldo abbraccio confortante.
«Vorrei tanto che mi aiutassi».
 







 
La professoressa Campbell continuò ad ordinare un bicchiere di champagne dopo l’altro e, al sesto, Merlin decise di dire qualcosa in merito: «Perché festeggia, professoressa? Io… non riesco a capirlo».
Rise. Una risata che il corvino avrebbe definito seducente se non si fosse trattato di Nimueh Campbell. La donna si leccò le labbra, perdendosi nel giallo frizzante dell’alcool. «Vedi, Emrys», fece una breve pausa, cercando lungo il vetro del flute le parole che sembravano scapparle nella gola. «Sono stata una strega cattiva – come vi divertivate chiamarmi qualche anno fa. Non facevo altro che ignorarlo, tenerlo ancorato alla mia indifferenza. Sono sempre stata proiettata verso la Fisica, verso la scuola; lui era soltanto uno dei miei ultimi pensieri. Si accontentava degli amici che non avevamo e dei figli che non gli avrei mai dato.»
Erano lucidi, adesso, gli occhi della Campbell, vulnerabili come Merlin non li aveva mai visti.
«L’ho distrutto man mano e oggi è il giorno del suo matrimonio, quindi festeggio: brinderò un bicchiere dopo l’altro alla dannata sposa del mio ex marito, alla loro maledetta Luna di Miele e ai cazzo di figli che avranno».
«Perché
«Perché l’ho amato, Emrys. Non sempre, non ora, ma l’ho amato. E se ami una persona – se l’hai mai amata – non la distruggi, anche se pensi di volerlo. La lascia andare, lasci che si distrugga per qualcun altro. Le dai una possibilità».
Sollevò il flute in segno di brindisi, poi bevve tutto d’un fiato ogni singola goccia di champagne. «Anche le streghe cattive hanno un cuore, Emrys.»
Merlin sentì un vuoto improvviso allo stomaco, una morsa terribile che lo lasciava svuotato come il bicchiere che stava ad aspettare sul tavolo.
Senso di colpa.
Si schiarì la voce, prendendo il flute.  «Le chiamo un taxi?»
«No», rispose lei. «Portami della Vodka. Adesso devo brindare per me».
 





 
Il silenzio era il suo posto sicuro.
Freya era cresciuta con questa convinzione, muta in un banco senza amici da invitare alle feste, convivendo con le grandi aspettative che i suoi genitori avevano di lei. Ma, in quel momento, sbirciando con la coda dell’occhio la tovaglia a pois gialli e verdi, le sembrò soffocante.
Lei e Merlin consumavano la loro cena senza sguardi, senza parole. Lui non si era neanche accorto che non aveva toccato cibo: teneva lo sguardo fisso sulle pietanze che tagliava, infilzava con la forchetta e che si portava alla bocca.
«Credo di aver dimenticato il sale», esordì Freya con una frase che non pensava, solo per spezzare il ghiaccio che c’era fra loro. «È immangiabile».
Merlin non rispose; si limitò a finire con morsi lenti la sua porzione.
Chi aveva scelto quella tovaglia per la cucina?
Freya aveva sempre odiato il giallo, così come tutti i colori accesi. Quello era uno dei motivi per cui detestava il Natale, le luci e gli addobbi che sua madre le costringeva ad apprezzare. “Tutti amano il Natale, Freya!”, le diceva.
«Ho pensato di tingermi i capelli», mentì. «Voglio farmi bionda».
Un’altra bugia.
Freya era cresciuta in una famiglia che chiunque avrebbe definito perfetta; i suoi genitori avevano conosciuto il vero grande amore e se l’erano tenuto stretto.
Lei non era come loro. Non era mai stata la prima della classe o la ragazza popolare della scuola. Freya era diffidente, cinica. Aveva paura dell’amore.
I capelli biondi non c’entravano niente con lei. Le avrebbero donato una luce che non le sarebbe stata bene addosso. Avrebbero stonato con tutto, come quell’anonima tovaglia a pois gialli e verdi.
«Mordred le chiederà di sposarlo».
Freya alzò lo sguardo solo per testare con i suoi occhi quel che già sapeva: per la prima volta in quella sera, Merlin guardava lei, il dipinto di un cucciolo abbandonato disperatamente in cerca del suo padrone.
La terra umida dei suoi occhi tremò, diventò lucida. Diventò fango.
Era come se l’avesse pugnalata al petto senza rimorso e senza un ghigno sadico… senza emozione.
Tentò di combattere con le lacrime per quel briciolo di dignità che l’era rimasto, per non distruggersi dinanzi a due occhi indifferenti.
Freya avrebbe apprezzato l’odio, il fastidio, il rifiuto. Ma ciò che Merlin sapeva offrirle era l’indifferenza, perché non era per lei che il suo sguardo si era spezzato.
Il ragazzo tornò a guardare il suo piatto e Freya trattenne il fiato. Rimase in apnea per tutto il tempo, anche quando il corvino si alzò dalla sedia accostandosi a lei, inginocchiandosi con il viso pallido e le mani insicure.
«Freya» cominciò, cercando nel palato le parole giuste. Quelle che Freya meritava di sentire da tempo. «Mi dispiace…»
Una lacrima fuggì dalla morsa orgogliosa e gracile di lei, rigandole la guancia sinistra.
«Mi dispiace così tanto…»
Pianse.
Pianse seppur mordendosi il labbro, anche chiudendo gli occhi, ripetendosi di non cadere così in basso, ma pianse.
Merlin rimase in silenzio, forse per darle il suo spazio, forse rispettando il suo dolore. Forse soffrendo con lei.
Sono un disastro, si ripeteva. Sono un disastro.
«Sono un disastro.» Questa volta lo disse ad alta voce, un sussurro spezzato dai singhiozzi del pianto.
Merlin le prese dolcemente il viso tra le mani, spingendola a guardarlo negli occhi. Le asciugò le lacrime con i pollici, carezzandole la pelle affranto.
«Non sei un disastro, Freya».
Lei non lo ascoltava.
«Sono un disastro», ripeteva tra le lacrime.
Freya era stata il pane che lo aveva sfamato quando non aveva nient’altro che l’aria che respirava. Era stata la cura per la sbronza che lo aveva ridotto senza forze e con la testa pesante.
Freya lo aveva salvato e, per una volta, Merlin decise di renderle il favore.
«No, ti sbagli. Io invece credo che tu sia la donna perfetta per me. Sono io a non essere il ragazzo giusto per te. Ma lì fuori c’è quel ragazzo, la persona che ti completerà e che ti farà sentire pienamente e serenamente sazia. E se io non ti lasciassi andare, se non ti dessi l’opportunità di essere felice, vorrebbe dire che non tengo a te.» Deglutì, trattenendo il respiro dinanzi a quel viso che aveva amato, quei capelli castani che ritrovava sul suo cuscino ogni mattina. «E sarebbe la cosa più sbagliata di questo mondo».
Cercò di abbozzare un sorriso, Freya, ma i singhiozzi, il naso e le gote arrossati furono più forti. Si concesse l’ultima umiliazione nella stretta in cui Merlin la cullò, passandole dolcemente una mano tra gli scuri capelli mossi.
Si aggrappò alla stoffa cinerea della sua maglia, nascondendo il viso nell’incavo del collo chiaro su cui aveva adagiato i suoi baci molte notti e diversi giorni.
Merlin rimase in ginocchio, con le dita affusolate tra i capelli di Freya.
Continuava a guardare altrove, lasciando che le lacrime della ragazza gli bagnassero la pelle.
Morgana era a cena con un altro uomo. Aspettava il bambino che aveva sempre desiderato da lei e che stava decidendo di buttare via, senza neanche dirglielo.
Morgana lo avrebbe lasciato di nuovo solo, impietrito, col mondo in frantumi. Ma quella volta sarebbe stata diversa: Freya non lo avrebbe più salvato e non si sarebbe più distrutta per lui.
Sentì gli occhi pizzicare, così li richiuse per un solo istante; poi puntò le iridi azzurre verso il soffitto, domandandosi se i suoi genitori sarebbero mai stati fieri di lui.





 
 
Si sentiva a pezzi.
Arthur aveva insistito affinché tornasse a casa da sola. “Ti raggiungerò più tardi”, aveva detto. Morgana gli aveva risposto di fare come meglio credeva.
Era stanca e l’era venuta l’emicrania a furia di passare tutta la sera al bar con Merlin, pensando all’aborto imminente, a ciò che Mordred avrebbe pensato, alle continue pressioni di Gwen e a Morgause. La sorellastra che era intenzionata a ritrovare.
Si sfilò il giubbotto gettandolo sul divano; liberò i piedi dalla scarpe alte e assassine, sentendosi già più leggera. Camminò scalza fino al bagno dove si svestì del tutto.
Entrò nella doccia e chiuse gli occhi, lasciando che l’acqua lavasse via tutto. Massaggiò col sapone il collo, su cui sentiva impressa la bocca calda e familiare di Merlin; scese lungo le clavicole e ancora più in basso, ripercorrendo la scia umida che lui aveva tracciato con i suoi baci. Insaponò ogni traccia del proprio corpo dove il calore di Merlin si era avvinghiato, penetrando nella carne… e quando arrivò al ventre sussultò.
Restò ad occhi chiusi, cercando di non pensare a niente, sperando che il getto d’acqua che le scivolava addosso potesse risolvere ogni cosa.
Quando uscì dalla doccia si avvolse in un accappatoio bianco, guardandosi allo specchio.
Si sentiva un’assassina. Il modo in cui Gwen la guardava la faceva sentire un’assassina, ma la ragazza ignorava il quadro generale: Merlin l’aveva rifiutata e Mordred…
Allungò un braccio per prendere un flacone di crema e lo vide: un bigliettino. Non aveva idea del perché fosse in quel posto, suo malgrado, lo prese tra le mani e lesse.
“Provami”.
Morgana crucciò le sopracciglia e, solo dopo un po’, si accorse della boccetta di profumo sul ripiano plastificato. Era il suo preferito, a Parigi. Se lo spruzzava addosso tutti i giorni. Da quando era tornata a Londra, non lo aveva più usato.
Sorrise compiaciuta al ricordo della fragranza floreale, riscoprendo una piacevole sensazione nel momento in cui  ne asperse alcune gocce sull’incavo del collo e sui polsi.
In camera da letto c’era un altro post-it azzurro, lasciato a riposare sul letto accanto ad un vestito leggero color corallo.
“Indossami”, c’era scritto.
Era lo stesso abito che indossava al loro primo appuntamento. Lo indossò come suggerito dal post-it, trovando un nuovo bigliettino in cucina vicino ad uno dei tanti poggia bicchieri che Arthur portava via dal Pendragon’s.
“Raggiungimi”.
Era Giugno eppure l’aria era molto fresca. Morgana si strinse nel suo giubbotto, gli orecchini pendenti d’argento a sfiorarle il collo che profumava di fiori, di Parigi.
Le luci del bar erano accese. Morgana si guardò intorno ma i gruppi di adolescenti, pedoni frettolosi o persone solitarie, non erano vicine al Pendragon’s. Poco distante dalle porte scorrevoli del locale c’era un uomo che fumava in solitudine una sigaretta.
Il Pendragon’s Coffee era praticamente deserto, eppure c’erano le luci accese.
Fece qualche passo avanti sui suoi tacco a spillo e quando le porte si aprirono di fronte a lei, decise di entrare.
I tavoli erano spogli, il bancone pulito e le sedie vuote. Solo un tavolino rotondo faceva eccezione, con su una candela giallo ocra e una rosa rossa.
Allargò le labbra carminio, avvicinandosi. Sfiorò il gambo lungo del fiore, poi fece scivolare la mano sulla superficie liscia del tavolo, incontrando un vecchio album fotografico e il lettore mp3 dei tempi del liceo. Il cuore sobbalzò in gola, come se una cascata di ricordi le avesse attraversato il petto.
Non c’era nessun post-it, stavolta. Solo pezzi della sua vita in bella mostra sul tavolo del Pendragon’s Coffee.
Sentì dei passi farsi più vicini e un profumo deciso accarezzarle le narici.
Le iridi di smeraldo si spostarono verso l’uomo che le stava accanto, accolte dal celeste sicuro di due occhi che incorniciavano un volto maturo. Tra le mani, l’ultimo biglietto: “Sposami”.
Morgana restò lì dov’era, senza parole, a bocca dischiusa.
«Ti avevo detto che non mi sarei inginocchiato.» Il fiato di Mordred cadde sulla sua pelle, sulle sue guance. «Non sono un uomo legato alle parole, io agisco. Non ho nulla da prometterti e se hai deciso di lasciare il bar mi starà bene. Non ti costringerò a parlarmi del tuo passato perché non m’interessa. Io voglio te, Morgana Pendragon. Sarò pronto a tutto: ad affrontare il presente e quello che la vita ci riserverà, devi solo dirmi di sì».
Era il momento.
Mordred la stava guardando e non c’era nessun altro all’infuori di loro; sul tavolino c’era il passato e dinanzi a lei un uomo che le stava chiedendo di metterlo da parte.
Spettava a lei decidere cosa scegliere.
 





 
Avrebbe potuto correre, compiere l’ennesima follia e gettare in aria quel maledetto anello che Mordred le avrebbe offerto. Gli sarebbe bastato una chiamata alla persona giusta e avrebbe saputo dove andare.
Ma Londra era fredda di notte e non c’erano stelle in cielo. La città era colorata dalle luci della strada, dalle macchine impazienti. Londra pullulava di vita, tutto intorno.
Avrebbe potuto correre e sperare di riaverla con sé. Avrebbe potuto raggiungerla e riprendersi ciò che aveva sempre desiderato, ma non lo avrebbe fatto.
Il cellulare vibrò nella sua tasca e Merlin si chiese chi fosse. Gaius.
Il corvino fu meravigliato di leggere il nome dell’anziano sullo schermo del suo cellulare, ma poi ci ragionò su: Gwen aveva sicuramente aperto bocca.
Rifiutò lo chiamata, ripose il cellulare nella tasca del giubbotto e tirò dritto per la sua strada. Camminò soffocando i pensieri, l’impulso di voltarsi indietro e fare quella chiamata, di rincorrere una donna che lo avrebbe abbandonato in mezzo alla neve senza il beneficio del dubbio.
Si ritrovò in un locale notturno in cui non era mai stato, seduto su uno sgabello, ad ordinare una sprit.
«Due Gin tonic».
Scorse con la coda dell’occhio la banconota che il tizio seduto affianco a lui porse al barman, riconoscendo senza il bisogno di voltarsi la ruggine che quella voce portava con sé.
«Offro io per il ragazzo» disse l’uomo, una linea tagliente al posto delle labbra. «Per me un altro vampiro».
Merlin fissò il ghiaccio, la fetta di limone e il vetro del bicchiere, consapevole del fatto che Aridian lo stesse fissando allo stesso modo.
«Cosa vuoi?», fu la domanda sprezzante che seppe rivolgergli.
Suo zio gli dedicò un ghigno raggelante, l’alito che puzzava di alcool. «Ti sto offrendo due gin tonic. Cin cin» e nel dirlo, fece tintinnare i bicchieri.
Avrebbe potuto correre, voltarsi indietro e fare quella telefonata, ma Londra era fredda di notte e non c’erano stelle nel cielo.
Merlin prese il suo gin tonic tra le mani, finendolo in un sol sorso. Poi toccò al secondo bicchiere.
 


Relie's Corner
Siete ancora qui? Non siete scappati, chiudendo la pagina del sito? Bene: questo vuol dire che Pendragon's Coffee vi era mancato e che la fanfiction vi piace per davvero. Grazie anche solo per questo, grazie!
Come ho anticipato, questo sarà l'ultimo capitolo dell'anno e mi spiace che sia così lungo... e anche "tagliato". Doveva essere il capitolo della svolta... e invece vi lascio col fiato sospeso. Mi perdonate, vero?

Piccole precisazioni:
- "Se ami una persona non la distruggi", chiaro riferimento al buon vecchio Grey's Anatomy. Forever and ever!
- L'idea dei post-it mi è stata data dal mio sempre amato Nicholas Sparks con il suo bellissimo romanzo "Come la prima volta"; lo consiglio vivamente a tutti/e i/le romanticoni/e.
- Quando Merlin lascia Freya, la considera "il pane che lo ha sfamato" e tante altre belle cose; ovviamente, è un rimando alla spiegazione "champagne, pane e aria" che Merlin dà a Gaius nel capitolo X.
- Sì, i piccoli riferimenti al Natale sono fortemente voluti.
- Sì, reputo fondamentali tutte le pippe mentali di Arthur. In questa storia lui non parte come un ragazzo omosessuale: comincia a provare dei sentimenti per il suo migliore amico e tutto il mondo che si era costruito in precedenza comincia a crollare... Ma avete notato i primi passi Merthur? 
- Morgana è tutta la mia vita. Amatela, vi prego.

ATTENZIONE:
Prima di lasciarvi, vorrei consigliarvi una shot invernale (una coffeeshop!AU) degna di essere letta, della mia adorata Celtica (a cui devo anche la mia fissa per i banner in pagina. Grazie Celtica! <3) ---> Fiore d'inverno. La consiglio anche a chi non conosce il fandom, perché ne vale veramente la pena, inoltre può anche essere letta come una magica e dolcissima originale.
Vi lascio anche la mia pagina fb, nel caso foste interessati --> click

Insomma, spero che il capitolo vi sia piaciuto! Aspetto i vostri pareri - anche rimproveri per essere stata via tanto a lungo vanno bene xD

Alla prossima e... BUON ANNO/ BUONE FESTE A TUTTI!

 

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Capitolo 23
*** In Vino Veritas (Parte I) ***


Nda: Buon salve a tutti!
No, non ci credo nemmeno io di essere tornata, ma di certo so che tutto questo mi è mancato tantissimo. 
Questa storia è nata per gioco e pian piano si è fatta spazio nel mio cuore. Ad oggi, resta la mia storia più seguita e amata sul sito. E ve ne sono molto grata. 
Un grazie speciale a simoasr94 che col suo dolcissimo messaggio mi ha incoraggiata a tornare. (I miracoli possono accadere, dopotutto.)
Se c'è ancora qualcuno che avrà voglia di seguirmi, sappiate che mi impegnerò con tutta me stessa per portare al termine questa benedetta long. Ce lo meritiamo tutti. XD
Ho deciso di ritornare con un capitolo breve, così sarà più facile ripartire.
Prima di lasciarvi alla lettura del capitolo, proverò a riassumere tutto quello che è successo fino al XXIII capitolo. 
Grazie a chi è rimasto e grazie a chi deciderà di restare. E scusatemi tantissimo. 
 
 
PREVIOUSLY ON PENDRAGON'S COFFEE:
Merlin è un ragazzo di vent'anni reduce da un'infanzia problematica. 
La sua vita sembra procedere per il verso giusto, da quando Gaius - un ex medico militare vedovo -  lo ha accolto nella sua dimora: lavora nel bar del suo migliore amico, Arthur Pendragon,
insieme alla sua attuale fidanzata: Freya. Tutto si complica quando Morgana torna a Londra col suo promesso sposo Mordred.
Tra Morgana e Merlin ci sono troppo segreti, quali tra questi la loro relazione passata e il coinvolgimento di Merlin in un presunto spaccio di droga.
A risentirne, però, sarà il rapporto tra Freya e Merlin. 
Come se non bastasse, Aridian torna nella vita di Merlin per garantirsi il suo silenzio, minacciandolo. 
Anche Uther - il padre dei Pendragon - sembra avere dei segreti: in passato ha conosciuto Aridian e ancora adesso quest'ultimo gli deve un favore, in più sembra che abbia una figliastra di nome Morgause.
Proprio quando Arthur si accorge di provare qualcosa per Merlin, il suo migliore amico, scopre che lui e Morgana avevano una relazione. 
Ma quello, non è l'unico segreto che Merlin gli nasconde... 
Ciliegina sulla torta: Morgana aspetta un figlio, ma non sa chi sia il padre.

 



XXIII. In Vino Veritas (Parte I)
 
Mi spezza il cuore
Perché so che tu sei l’unico per me
You will never know, Imany
 
 

Tutto può cambiare in una notte.
Le borse crollano, i supereroi diventano orfani e le luci abbaglianti della volante della polizia colorano di blu e di rosso il viale della tua casa.
Potresti sapere tutto ciò che non avresti dovuto udire. Potresti diventare una pedina fastidiosa sul fondo di una scacchiera minacciosa.
Bianco e nero.
Mossa giusta, mossa falsa.
Se ti guardassi bene attorno potresti scorgere i giocatori leccarsi i ghigni sardonici, le labbra affilate danzare al ritmo di un bramato e sinistro scacco matto.
Tutto può cambiare in una notte… ma era giorno quando hai seguito con gli occhi il riflesso delle luci dell’ambulante della polizia col viso poggiato contro il vetro della finestra, mentre tuo zio stringeva la mano ad un agente. Era già mattina quando ha iniziato a nevicare e lui ti ha promesso che ti avrebbe insegnato a suonare la chitarra. Era già mattina quando siete andati insieme all’ospedale, dove ti sei ritrovato da solo con un assistente sociale.
Eppure qualcosa era successo, la notte precedente.
Tu sapevi cosa sarebbe accaduto quel giorno. Avevi ascoltato tutto.
 
**


Quando le prime gocce di pioggia picchiettarono contro le persiane accostate del soggiorno, Freya era ancora stesa sul divano, la testa poggiata sull’avambraccio sinistro e la mano destra chiusa intorno al polso. Stropicciò gli occhi al suono vicino di un tuono, accogliendo con esso un fastidiosissimo cerchio alla testa. Le ci volle qualche minuto, il primo lampo del mattino e una mano premuta contro la fronte, per riconoscere il salotto di casa sua. E di Merlin.
Era strano dormire lì, sul divano, invece che nel suo comodo letto matrimoniale. Con Merlin.
Si tirò su a sedere, avvertendo un acuto dolore martellante alle tempie: era come se un operaio col berretto giallo si fosse trasferito in pianta stabile nel suo cranio e avesse deciso di azionare il martello pneumatico senza alcuna pietà, contro le pareti ossute del teschio. Non le servì neanche aspettare il prossimo flash accecante del nuovo fulmine per riconoscere la bottiglia di vino ai piedi del divano. Con una smorfia decise di alzarsi, dirigendosi verso il bagno per  restare sotto il getto gelido della doccia finché non le sembrasse di essere realmente sveglia.
In meno di un’ora fu fuori casa, lo stomaco che non sapeva se reclamare cibo o espellere tutti i pranzi e le cene della sua vita; l’ombrello la riparava dal grigio di Londra e del temporale. Le strade avevano un odore diverso, adesso che ci prestava la giusta attenzione. Erano sempre le stesse, quelle che percorreva ogni mattina, ma erano anche diverse.
Tutto era diverso.
La prima macchia di colore che riconobbe quel giorno furono gli occhi azzurri di Mordred, che intanto se ne stava in piedi accanto ad Arthur aspettando che il proprietario aprisse il bar. Gli dedicò un mezzo sorriso poco convinto e lui sembrò ricambiare alla stessa maniera. Arthur nel frattempo parlava di tazze, clienti e caffè. Nemmeno la pioggia pareva ascoltarlo.
«Tutto bene?»
Freya si avvicinò a Mordred, che con i capelli neri arruffati e un leggero cenno di occhiaie sembrava non passarsela meglio di lei. O magari sì. Ci sono tante ragioni per cui restare svegli tutta la notte. «Sta piovendo» gli disse, come se fosse una risposta esaustiva. «Tu come stai?»
«Non lo so.» Mordred si lasciò scappare una breve risata senza allegria, le mani nelle tasche. «Non dovrebbe neanche essere una risposta “non lo so”. Non significa nulla, soprattutto se l’altra persona ti sta facendo una proposta di matrimonio».
Freya si voltò a guardarlo e, nel farlo, si accorse di un piccolo particolare che non aveva mai notato prima d’ora: Mordred era triste, deluso e solo. Era nel posto sbagliato per la persona sbagliata. Come me. «Ci siamo lasciati», gli bisbigliò, un attimo prima che la faccia stranamente allegra di Arthur li invitasse a sbrigarsi e a mettersi all’opera.
«Questa sarà una splendida giornata!» Il Pendragon si sfregò le mani, premendo gli interruttori e in un attimo il bar prese vita e colore. «Piove, e la pioggia è sempre un buon segno» recitò come una vecchia favola della buonanotte, un sorriso stampato sulla faccia riposata e i capelli biondi perfettamente in ordine.
Freya e Mordred si scambiarono un’occhiata eloquente.  «Non si è nemmeno accorto della mia presenza», brontolò. «Cos’ha da essere tanto felice?»
«È un Pendragon.» Le tenne la porta aperta per farla passare, e poi si tolse la giacca. «Non tentare di capirlo, assecondalo e basta o ti ritroverai con un coltello conficcato nel petto.»
«Mi manca la mia bottiglia di vino» mugugnò, dirigendosi verso lo stanzino con Mordred, ridacchiando per la prima volta da quando si era alzata dal divano.
 
**

 
Il risveglio era stato peggiore del previsto, il mal di testa insistente e un peso allo stomaco.
Aridian gli aveva offerto mezza bottiglia di gin tonic, osservandolo in silenzio mentre trangugiava un bicchierino dopo l’altro; non gli aveva rivolto la parola, si era limitato ad alzare quelle labbra velenose in un sorriso storto, un sorriso di compiacimento, certo del tacito accordo che avevano appena stretto: Merlin non lo avrebbe ostacolato, non sarebbe stato un problema e non si sarebbe nemmeno fatto da parte. Se Aridian aveva bisogno di un burattino, Merlin sarebbe stato il suo pupazzo di pezza.
Quella era la sua vita, la sua famiglia e non sarebbe mai cambiata. E Merlin non si sarebbe opposto: Aridian conosceva le persone che lo circondavano, le persone che amava, e Merlin non era pronto a sacrificarle. Non lo sarebbe mai stato.
Quella notte non tornò a casa sua, dove Freya era rimasta a leccarsi le ferite che le aveva inferto. Che codardo.
Allungò il passo verso una strada familiare, bussando alla porta dell’unica persona che avrebbe voluto al suo fianco anche mentre si vergognava di se stesso. Gaius non pretese spiegazioni. Lo lasciò entrare nella propria casa, nel cuore della notte e con gli occhi preoccupati, la stanchezza che si rifletteva sulle rughe del suo viso. Anche quando fu solo con se stesso, Merlin continuò a pensare di aver fatto la scelta giusta, per quanto disgustosa e dolorosa. Sperò che l’alcol aiutasse il sonno, ma rimase per molto tempo steso nel letto e con le braccia conserte a guardare il soffitto. E per quanto si fosse ripromesso di chiudere per sempre quel capitolo della sua vita, il volto di una Morgana adolescente baciata dal tramonto si fece spazio nella notte, pregandolo di scappare insieme verso Parigi.  
Si alzò poco dopo l’alba, sperando che Gaius dormisse ancora. S’incamminò verso quella cucina che lo aveva ospitato nei giorni più belli che avesse mai vissuto, e quasi tremò dall’emozione nel rivedere una scatola di cereali al miele poggiata sul tavolo, proprio accanto alle viole. I suoi occhi si inumidirono contro la sua volontà.
C’era stato un tempo in cui credeva di essere scappato da Aridian, dal suo passato e da tutto quel sangue… La sua vita era ricominciata dalla notte in cui Gaius lo aveva accolto con sé, il sopracciglio diffidente all’insù e una casa che profumava di fiori freschi.
C’era stata l’amicizia con Arthur, c’era stata Morgana… poi c’era stato il Pendragon’s e infine Freya. Pian piano, sentiva di aver perso tutto – si trattava di una questione di tempo, ma prima o poi avrebbe dovuto dire addio anche a tutto quello. Addio al bar, addio per l’ennesima volta a Morgana e…
Tirò su col naso, decidendo che quello non sarebbe stato il giorno degli addii. Lo avrebbe fatto, un po’ per volta, ma non adesso.
Prese una tazza dalla credenza versandosi una bella manciata di cereali, a cui aggiunse un po’ di latte. Una volta terminata la sua colazione, lavò la tazza e ripose tutto al proprio posto. Uscì sulla veranda, accolto dal venticello fresco della mattina. Londra era già sveglia, ma non abbastanza rumorosa; sembrava che il nuovo giorno avesse cancellato tutte le ore precedenti, e per un po’ Merlin si lasciò coccolare da quell’illusione.
Un tuono, poi le prime gocce di pioggia. Rimase a guardarla mentre cadeva sulle case, sulla strada e sui fiori. Una goccia dopo l’altra, grigio sui colori dell’estate. Per un breve istante, desiderò di avere uno zaino da afferrare in tutta fretta con la speranza che le domande del compito di chimica fossero meno complicate della volta precedente.
 
 
Non fu difficile tenersi occupato fino al pomeriggio.
Sfruttò tutto il tempo che aveva a disposizione per preparare una degna colazione a Gaius, assicurandosi che mandasse giù qualcosa prima dei medicinali, evitando volutamente l’argomento Aridian. L’anziano però lo conosceva talmente bene, e ormai anche da tanto tempo, da accorgersi che qualcosa non andava, così Merlin si sentì costretto a raccontargli di ciò che Gwen gli aveva confessato riguardo la gravidanza di Morgana e della sua rottura con Freya.
Gaius lo ascoltò in silenzio, seduto sulla solita sedia di legno, mentre la pioggia continuava a picchiettare contro il vetro delle finestre. «Mi dispiace per come siano andate le cose tra di voi», gli disse. «Sappi che se hai bisogno di un posto dove stare, questa casa sarà sempre aperta per te. Qui c'è abbastanza spazio per entrambi».
Merlin allargò le labbra grato, abbassando gli occhi sulle dita. «Grazie, Gaius».
L'anziano ricambiò con lo stesso sorriso e mentre prendeva tra le mani un pacchetto di medicine e si riempiva il bicchiere d'acqua, Merlin si chiese quanto doloroso sarebbe stato dire addio anche a lui.
«Vedi Merlin, tutto prima o poi finisce. Non possiamo fare nulla per impedirlo. È il corso della vita.» Gaius sembrò leggergli nel pensiero, gli occhi chiari puntati chissà dove, forse immaginando tempi andati, qualcuno che già non c'era più da tempo. «Non sta bene lasciare le cose in sospeso. Non per troppo tempo. Il tempo è tiranno».
Nonostante si sentisse come chi è appena caduto con la faccia in una pozzanghera di letame, Merlin si sorprese a ridacchiare per la confusione. «Che intendi dire? Non ti seguo».
«Alcune volte mi chiedo come tu abbia fatto a sopravvivere per tutti questi anni.» Gaius scosse il capo come un maestro paziente che si lamenta del suo alunno più incapace, prima di alzarsi con lentezza dal suo posto. «Devi parlarle. Ma senza fare l'idiota».
Non fu necessario pronunciare un nome. Merlin sentì l’intestino indurirsi e un senso di disagio prendere il sopravvento. Cercò di mascherare l’evidenza, recitando il ruolo del ragazzino imbecille.
«Oh Gaius, adesso mi offendi!» brontolò, un tono volutamente risentito. «Sai che non lo farei mai.»
«Mi piacerebbe che fosse vero».
Col senno di poi, e con una bella manciata di sarcasmo, Merlin avrebbe dovuto ammettere che sarebbe piaciuto tanto anche a lui.
E invece era stato il solito Merlin, anche quella volta.
 
 
 
La pioggia continuò ad offrire il suo spettacolo alla capitale per tutta la mattina, esibendosi in grossi goccioloni. Merlin si rimboccò le maniche, dando una sistemata alla casa del povero Gaius, spolverando persino i vecchi tomi di medicina che l’anziano custodiva nel suo studio. Non si sorprese più di tanto quando notò che alcuni libri erano stati letti di recente.
L'immagine di un Gaius seduto sulla veranda, gli occhiali calati sul naso e la faccia ad un soffio dalle pagine di un vecchio saggio sulla medicina, gli strappò un sorrisetto malinconico.
Era così che lo avrebbe sempre ricordato. Era così che gli sarebbe piaciuto vederlo per l'ultima volta.
Vivian avrebbe fatto lo stesso?
Merlin non sapeva rispondersi. Quale ricordo si conserva del proprio padre?
Si volse a guardare la stanza con le sue pareti silenziose. Il mappamondo immobile sulla scrivania, un quadro di Cezanne abbellito da una cornice appena spolverata, il bouquet di dalie esposto alla luce della finestra… Il tempo sembrava essersi fermato in quella casa, come se qualcuno avesse congelato le lancette dell’orologio per tutti quegli anni.
Provò un senso di tenerezza misto allo smarrimento, come chi torna a casa dopo un lungo viaggio ritrovando tutto esattamente com'era, ma con la consapevolezza che la permanenza non si sarebbe prolungata.
Gli era mancato quel posto. Gli mancava ancora. E gli sarebbe mancato terribilmente in futuro.
Quando ebbe finito con i lavoretti domestici, lasciando un Gaius dedito alla lettura di un saggio sull’anatomia umana, Merlin controllò l'ora per accertarsi che Freya fosse già al bar per dirigersi verso l'appartamento.
Salire le scale, infilare le chiavi nella fessura e camminare tra quelle mura non era più lo stesso per lui. Mentre raccoglieva le sue cose per caricarle in auto si sentiva a disagio, si sentiva un ladro.
Nella sua testa continuava a ripetersi un'unica frase: Freya non merita tutto questo.
Portò via solo l'indispensabile, la testa che gli girava. Se possibile, avvertiva ancora il sapore amaro dell’alcol nella gola.
Si mise al volante sperando di essere abbastanza lucido per guidare, le mani sul manubrio e gli occhi persi da qualche parte oltre il parabrezza. L'ombrello che Gaius gli aveva prestato gocciolava al suo fianco, come un vecchio amico inzuppato e col fiato corto.
Almeno non lo avrebbe giudicato.  
«Sento che andrò in prigione, sai?» Parlò all’ombrello come se fosse reale, inserendo la marcia. «Se mi fermeranno per una multa, non so per quanto riuscirò a tacere. Te lo insegnano nei film. Mai bere quando hai un segreto da custodire».
Merlin si era ubriacato tre volte nell'arco di vent'anni di vita, e si era ritrovato con le mani affondate nei capelli per la disperazione ogni volta, rimpiangendo quei bicchierini di troppo. Ma quella era stata la peggiore di tutte.
Avrebbe dovuto immaginarlo da subito, quando ripercorrendo la strada a ritroso aveva scorto una chioma corvina tra la folla londinese e aveva deciso di seguirla fino alle vicinanze del bar, accostando.
Nemmeno dopo una sbronza bisognerebbe intavolare una discussione, Merlin doveva saperlo bene, ma quando Morgana si guardò intorno nascondendo la pancia dietro una grossa borsa, tutte le sue convinzioni crollarono come una torre di carte.
Ritornò fastidioso il ricordo della notte precedente, della proposta di matrimonio di Mordred e le parole di Gwen.
 
«Morgana aspetta un bambino. Non sa chi sia il padre, ma ha deciso di non tenerlo»
«Mordred le chiederà di sposarlo»
 
Stringere i pugni non servì a nulla, perché per quanto la sua testa gli dicesse di tornare sui propri passi, Merlin scese dall'auto con una sola destinazione.
 
 
**

 
L'odore deciso del caffè le riempì le narici con insistenza, risvegliando il cerchio alla testa dovuto alla bottiglia di vino economico scolata la notte prima.
Freya approfittò di un momento di calma apparente per isolarsi in un angolo del bancone, dando le spalle alla cassa dove Arthur stava seduto allegro ed energico, per lasciar cadere un'aspirina nell'acqua che si era versata nel bicchiere.
Intorno a lei i tavoli cominciavano a spopolarsi, man mano che il pomeriggio avanzava. La gente masticava sandwich al prosciutto per tappare il buco allo stomaco dovuto ad un pranzo veloce, facendosi compagnia con un drink analcolico e lo schermo del proprio cellulare.
Le poche coppie presenti chiacchieravano tranquille, in perfetta armonia.
Perché gli sconosciuti sembrano sempre così felici?
Aspettò che l'aspirina si sciogliesse prima di portarsi il bicchiere alla bocca.
Alle orecchie le arrivò una risata cristallina proveniente da uno dei pochi coperti occupati; Freya riconobbe le due ragazze che aveva udito parlare di viaggi nel tempo, universi paralleli e anime gemelle mentre sparecchiava i tavoli lasciati liberi.
A ridere era stata la giovane dai capelli biondi, quella che adesso aveva allungato distrattamente la mano sul tavolo. Le dita dell'altra la raggiunsero quasi subito, intrecciandosi timidamente in un abbraccio di falangi e carne.
Un primo appuntamento, forse.
Sembravano davvero felici. Come se non esistesse altro posto al mondo dove trovarsi.
Un tempo si era sentita così anche lei, mentre Merlin le stringeva la mano. Si era sentita a lungo nel posto giusto prima di accorgersi che era tutto sbagliato.
Adesso le sembrava strano il modo in cui quelle due ragazze si guardavano, la loro allegria nel raccontarsi pareri sui misteri dello spazio e del tempo.
Avrebbe voluto avere voglia di tornare a casa… Se solo si fosse sentita a casa nel suo appartamento. L'unica certezza era il nodo alla gola e la voglia di sparire sotto le coperte.
Come ogni cavaliere errante che si rispetti, la figura magnetica di Mordred si diresse verso di lei impedendole di annegare in un mare di lacrime davanti ai clienti e ad Arthur.
Poteva immaginarlo senza problemi: Sir Mordred, il cavaliere più enigmatico di tutti. Quello con gli occhi polari e la faccia troppo pallida, sempre preso in giro dai compagni d'armi. Il cavaliere che lottava per restare in un posto che non gli apparteneva.
Si avvicinò al bancone senza proferire parola, posando il vassoio sul marmo.
Era quello il lato che Freya stava imparando ad adorare: Mordred non imponeva il dialogo, lasciava agli altri la possibilità di aprirsi senza pretendere nulla.
Lo aveva imparato nella sua carriera da avvocato?
Freya non lo sapeva, ma come strategia era vincente. «Tu ci credi a questa storia degli universi paralleli? Credi davvero che in un posto, lontano anni e anni luce da qui, noi stiamo vivendo una vita diversa da questa?» Giocherellò con le dita, formando cerchi sul bancone con i polpastrelli, certa di avere tutta la sua attenzione. «Insomma, in questo universo saprei tutto di Merlin, magari staremmo ancora insieme. Saprei come ha conosciuto Gaius, chi erano i suoi genitori, come ha potuto permettersi un appartamento col suo stipendio da barista...».
Freya alzò lo sguardo sul collega, mordendosi le labbra per non piangere. «Io non so niente di lui, adesso me ne accorgo. E non dovrebbe essere così quando decidi di dividere la tua vita con qualcuno.» Fece una pausa, guardandolo bene in quegli occhi chiari che quasi l’accecavano.  «Tu sei sicuro di conoscere Morgana al punto da sposarla?»
Mordred mantenne il contatto visivo, ma non rispose. I ricci ribelli che gli ricadevano sulla fronte lo rendevano ancora più triste. E bello, Freya dovette ammetterlo.
Come poteva Morgana non vedere cosa stava trascurando? Come poteva mettere da parte un uomo come lui?  
«Non voglio spaventarti» gli disse, «ma forse dovresti prenderti del tempo per  rivalutare i tuoi piani. Non sei costretto a tenere in piedi un rapporto, se non ne sei convinto. Lei non aspetta un bambino, non ci sono pressioni. Voglio solo… che tu faccia la scelta che ti renda più felice».
La bocca di Mordred si allargò in un mezzo sorriso indecifrabile, che in quel momento Freya interpretò come un gesto amichevole.  «Io e te dovremmo parlare più spesso.» Le porse un cioccolatino sfilato dalla tasca del grembiule, scoccando poi un'occhiata eloquente nella direzione di Arthur.  «Mi piace pensare che in un altro universo sia davvero una principessa».
Freya rise sincera, immaginando una Arthur Pendragon in gonnella rosa mentre sbraitava ordini alle governanti.  «Con un garofano tra i capelli… »
«Sempre che padre non lo rimproveri per quel look da contadinella».
«Allora la principessa si armerà di pugnale e li taglierà uno ad uno…»
«Scandalo a corte!»
«Il regno non può tollerare una Angela Lansbury tra le mura del castello.»
Come se richiamato dalla conversazione, Arthur si incamminò verso di loro, un blocchetto per le annotazioni tra le mani, mentre i due si ricomponevano fingendo innocenza. «Allora», esordì scorrendo la pagina, «voglio che qualcuno di voi faccia felice la signora in giallo».
Freya e Mordred si scambiarono un'occhiata e, prima ancora che il Pendragon potesse proseguire con l'ordinazione, i due scoppiarono in una fragorosa risata.
Arthur li guardò accigliato. «Cosa diamine vi prende?»
«Universi paralleli», si limitò a spiegare Mordred.
L'altro fece scoccare la lingua contro il palato con aria di rimprovero, inforcando la penna blu. «Certo. Quando avrai smesso di giocare a Rose Tyler ricordati di fare questa piccola consegna senza perderti in un'altra dimensione o imbatterti in un Dalek, intesi?»
Mordred prese il biglietto, con aria solenne.  «Ignoro il significato delle tue parole, ma lo farò».
Freya vide Arthur sbarrare gli occhi incredulo.  «Non conosci questa serie? Perché ti fanno ancora restare in Inghilterra?»
«Je ne sais pas».
Mordred si allontanò vittorioso, Arthur che sbuffava come un cavallo infastidito dal puntuale francese impeccabile dell'altro.
«Non lo sopporto quando fa così» brontolò, tornando alla cassa e lasciando Freya sola col cioccolatino che le aveva regalato Mordred.
Lo addentò mentre l'uomo caricava una torta sull'auto che Freya aveva messo a disposizione per il bar, lasciandosi coccolare dal gusto dolce del cioccolato.
Ti prego, avrebbe voluto implorarlo. Non sposarla.
Arthur tossicchiò con finta noncuranza seduto alla cassa per ammonirla della sua perdita di tempo. Controvoglia, Freya raddrizzò la schiena pronta a rendersi utile quando il rumore di un piattino caduto al suolo polarizzò l’attenzione di tutti i presenti su di sé.
Udì distintamente la voce di Morgana urlare qualcosa. Ma contro chi?
Si guardò intorno, cercando Mordred con lo sguardo. Era con lui che stava discutendo?
Poteva trattarsi di un cliente dalla mani lunghe, un pazzo che aveva perso la pazienza, ma il modo in cui il volto di Arthur si era adombrato le suggerì una conclusione. Capì di aver fatto centro dallo scatto felino del Pendragon fino ai tavolini esterni.
Sarebbero mai cambiate certe cose? Se lo chiese retoricamente, sapendo fin dal principio la risposta. Gli occhi cominciarono a pizzicarle, ma nelle vicinanze non c’era nessun cavaliere pronto a consolarla.   
 
 
 



Relie's Corner
Eh già, sono proprio tornata.
Come avete potuto notare, questo era un capitolo di bentornato. Il prossimo sarà più "divertente" lo giuro. 
L'unica frase detta in francese da Mordred è "Non lo so". Ricordate che Arthur non sopporta quando il nostro parigino preferito parla in francese, vero?
Mi rendo conto di aver italianizzato troppo il Pendragon's e di questo mi scuso, ma non saprei proprio cos'altro inventarmi. Prendete tutto con le pinze. 
Come avete potuto notare, inoltre, ci sono dei chiari riferimenti ad una serie tv che ultimamente mi ha preso tanto: Doctor Who. Se può interessarvi, ho pubblicato una long (che terminerò!) anche lì ---> Nel posto giusto
Ultima novità della giornata: ho creato una piccola playlist su Spotify per Pendragon's. Se vi interessa, la trovate qui ---> click
Detto questo vi saluto, augurandomi che il capitolo sia stato di vostro gradimento.
Grazie per essere arrivati fin qui.
Al prossimo capitolo!

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