Celestiale

di Blackvirgo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pace ***
Capitolo 2: *** Ricordi ***
Capitolo 3: *** Baci ***
Capitolo 4: *** Una storia... e molti modi per raccontarla ***
Capitolo 5: *** La spada ***



Capitolo 1
*** Pace ***


Il guerriero in nero sedeva fuori dalla capanna, con la schiena appoggiata al tronco liscio del ciliegio e guardava le stelle. O guardava solamente lontano, senza preoccuparsi di quei puntini gialli nel cielo scuro e senza nuvole.
Era rilassato, come non lo era da molto tempo. La chiacchierata che aveva avuto con Valzigor quel pomeriggio aveva avuto il potere di rasserenarlo, nonostante avesse riaperto vecchie ferite, vecchi dolori. Eppure quel faticoso percorso che li aveva portati ad essere maestro e allievo prima e nemici poi si era concluso ed erano tornati ad essere semplicemente fratelli. Un cerchio perfetto.
Zomurn chiuse gli occhi, beandosi di sentire sul viso, di tanto in tanto, un refolo dell'aria fresca della notte.
Era strana tanta serenità: sapeva che non sarebbe durata a lungo, ma non era un buon motivo per non godersela. Anzi, si lasciava pervadere da essa, sentendola in ogni fibra del suo essere: le braccia e le gambe erano pesanti, pigre, calde. Aveva raggiunto un piacevole vuoto mentale al quale il suo corpo rispondeva con una rilassatezza che sembrava fatta apposta per recuperare le energie.
Aprì gli occhi, lentamente, combattuto tra il benessere che quella sorta di torpore gli dava e la volontà di non sprofondare nel sonno per godersi ancora quel momento. E per ripensare a un altro giorno che ora sembrava lontano – quanto lontano! - in cui aveva provato quelle stesse sensazioni.
Il giorno in cui era uscito allo scoperto per riportare Valzigor a casa. In quell'umile capanna in cui viveva con sua moglie e col bambino che ormai, a tutti gli effetti, era suo figlio.

Non aveva mai avuto molto a che fare con gli umani e non aveva mai compreso la scelta del fratello di vivere fra loro, come uno di loro, sposando una di loro. Ma il legame che lo univa a quello che era stato un ragazzino pensieroso di cui avrebbe dovuto fare un guerriero era – evidentemente – diventato più forte dei legami di dovere e sangue e che lo legavano al resto del clan.
Ripensandoci in quel momento, alla luce delle stelle di un cielo lontano, gli sembrava sciocco il litigio che li aveva divisi per tutti quegli anni. O forse gli sembrava sciocco perché era lui ad essere cambiato e aveva imparato a fidarsi dei propri dubbi piuttosto che delle altrui certezze.
E, pensò amaramente, ci sono anche certezze che non possono fare a meno di far sorgere dubbi.
Le stelle nel cielo per un attimo si unirono a formare il contorno di un viso amato e mai dimenticato e il guerriero si portò automaticamente una mano ai due anelli che portava al collo, legati a una sottile cordicella di cuoio: erano lisci, tiepidi e la trasparenza del cristallo di cui erano fatti pareva risplendere di luce propria.
Eppure, quella sera, Zomurn si sentiva immune anche dalla tristezza e dal rimpianto: i ricordi erano dolci e per un attimo sembrò che Neera fosse veramente lì, seduta accanto a lui. Immaginò per un istante di averla accanto, di respirare il suo odore, di affondare le dita fra i suoi capelli, di sfiorarla con le labbra, di stringerla a sé, pelle contro pelle, anime che anelano a toccarsi, a mischiarsi, a confondersi l'una nell'altra fino a non sapere più a chi appartenere...

Se era questo che legava Valzigor e Shahan allora suo fratello aveva fatto bene a sposare un'umana e a essere pronto a pagarne le conseguenze ogni giorno, ogni momento, ogni respiro. Perché quello era l'unico modo per amare qualcuno e perderlo e continuare ad amarlo senza rimpianti e senza riserve.
E sì, ci avrebbe scommesso che era proprio quel sentimento a legarli. E Zomurn non faceva scommesse se non era sicuro di vincerle.

In quel giorno, che ormai sembrava tanto lontano, aveva visto per la prima volta da vicino Shahan e quei due amici che avevano cercato di liberare Valzigor rischiando invece di rimetterci inutilmente la pelle. Uno di loro era stato diffidente, l'altro invece si era fidato subito, senza conoscerlo, senza averlo mai visto. Allora aveva aveva ritenuto Raik un pivello che si sarebbe fatto ammazzare alla prima occasione, poi si era  ricreduto. Conoscendolo, ovviamente. Così come si era ricreduto su Selior, il diffidente, il signorotto scappato dal patrio dominio.
Che strano gruppo formavano quei quattro.

Shahan, invece, era indescrivibile, ora come allora. Piccola e minuta, dai lunghi capelli biondi e dagli occhi verdi e ciechi. Sembrava che il suo stesso respiro le potesse fare male ed era capace di poteri che molti non sarebbero neppure stati in grado di sognare. E non ci avrebbe creduto se non l'avesse visto coi propri occhi, sperimentato sulla sua stessa pelle.
Sul marito, quel giorno, aveva operato una sorta di miracolo: ci aveva messo parecchio tempo – giorni, molti giorni – a riprendersi dalla brutale tortura a cui era stato sottoposto, ma subito dopo le cure di Shahan, Valzigor aveva ripreso a respirare – con un certo affanno, è vero – ma aveva smesso di rantolare, era rimasto pallido come il lenzuolo che lo copriva, ma aveva perso quella sfumatura grigiastra che pareva l'ombra stessa della morte. Aveva un'espressione sofferente – e come poteva essere altrimenti? – ma sembrava anche sereno. Come se sapesse perfettamente dove fosse e con chi benché non avesse mai ripreso conoscenza da quando lo aveva trovato.
Zomurn sospirò: non si era aspettato di dover intervenire, non credeva che avrebbero trovato Valzigor. Non in quel momento almeno.
Ma i Celestiali non perdonavano mai un torto subito e abbandonare il clan era uno dei tre tradimenti maggiori. Si pagava con la vita l'abbandono del clan.

Zomurn sorrise tra sé: dicevano che il dovere fosse l'inizio e la fine della vita di un Celestiale, che ogni Celestiale nasceva per compiere un dovere e moriva solo dopo averlo compiuto e che non assolverlo lo avrebbe portato a un tremendo castigo. E molti nel clan praticavano l'arte della divinazione per scoprire quel destino e si leggevano le stelle e le carte e le menti dei bambini per poi metterli su quella che doveva essere la loro strada.
Peccato che l'unico castigo che era arrivato a Valzigor fosse stato per mano della propria gente e non degli dei o dei demoni da quali discendevano.
Forse, in fondo, le stelle erano solo stelle. E il destino di chi se lo sapeva costruire, con le proprie mani, usandole giorno dopo giorno, sotto il sole e sotto la pioggia, curandole quando si screpolavano fino a sanguinare e osservando a uno a uno i calli come fossero gloriose cicatrici.
Anche i segni che Valzigor portava sarebbero divenute cicatrici: segni di frustate e di bruciature e di tagli che dovevano servire per sapere come un Celestiale possa vivere tra gli umani. Per distruggere quella scomoda verità: i Celestiali possono vivere tra gli umani.
Baherim si era guadagnato a ragione il titolo di Maestro di Torture. Perché manteneva vive e coscienti le sue vittime fino alla fine nonostante la brutalità dei suoi “trattamenti”. Ma da Valzigor non aveva avuto una parola, solo urli e gemiti. E ora Baherim era morto mentre Valzigor avrebbe portato a lungo quei segni sulla sua pelle chiara. Ma il dolore sarebbe presto passato: aveva difeso ciò che gli stava a cuore. Era di nuovo con Shahan e Kimi ed ivi sarebbe rimasto.

Aveva riportato Valzigor alla sua famiglia, Zomurn, e aveva visto che stava già meglio: per lui era arrivata l'ora di andarsene, ma Shahan lo aveva fermato.
Aveva notato che anche lui era ferito e, sebbene allora non sapesse come fossero andate esattamente le cose, in seguito gli confidò che la sua presenza gli aveva fatto sospettare che fosse stato lui il principale fautore del salvataggio di Valzigor.
“Non andate via, Zomurn. Mostratemi prima le vostre ferite,” gli aveva detto con voce stanca e dolce.
Zomurn si era tolto il mantello e la giubba ed era rimasto a torso nudo, chiedendosi cosa sapesse fare quella donna.
“Sedetevi,” gli aveva detto Shahan, accennando un sorriso.
Zomurn aveva obbedito e le aveva indicato le ferite di maggiore entità.
Shahan le aveva sfiorate con le sue mani, leggere e abili. Aveva preso dell’acqua  e un panno pulito e le aveva lavate, delicatamente, e poi le aveva cosparse con un unguento di cui Zomurn riuscì solo a percepire una vaga fragranza di rosmarino, mentre cantilenava parole in un'antica lingua.  
Zomurn non era mai stato curato da guaritori umani prima di allora, ma se mai avesse avuto dubbi sulle loro capacità avrebbe dovuto ricredersi: le mani di Shahan avevano svegliato il suo corpo a nuova vita, come se una linfa – che non sapeva di avere – avesse iniziato a scorrere  fra i suoi tessuti chiedendo loro di rigenerare più in fretta. Non sapeva quanto merito fosse nello strano unguento e quanto nella cantilena, erano le mani della donna il vero mistero che catalizzavano quell'insolito risveglio.
Zomurn si era rilassato, come non gli capitava da tanto tempo.

Come gli stava capitando di nuovo ora.

Aveva appoggiato la testa al muro dietro di lui, abbandonandosi a quella nuova e piacevole sensazione, lasciando che scorresse più profondamente, fino alla propria anima, pur sapendo che lì vi erano ferite che nessun guaritore avrebbe potuto curare. Ma in quell'attimo di pace non pensava a questo: sentiva il suo corpo rinvigorito e il suo spirito più adamantino che mai. Aprì gli occhi per guardare Shahan, concentrata nel suo lavoro, con lo sguardo fisso davanti a sé: irradiava quiete e potenza assieme.
Le labbra e il viso si distesero in un sorriso ricordando lo stupore di Shahan quando lei aveva sfiorato i due anelli che lui portava appesi al collo. Aveva ritratto la mano, come se si fosse scottata, e aveva interrotto il suo canto, mentre un’espressione turbata si era disegnata sui lineamenti delicati: aveva sentito un profondo potere in quei due cerchietti di metallo, un potere che non aveva mai percepito in nulla che non fosse un essere animato.
Zomurn aveva sorriso alla scena, senza sarcasmo, senza ironia. “Forti sono i legami che uniscono i Celestiali,” aveva mormorato con una nota di tristezza nella voce melodiosa.
“Siete sposato?” Gli aveva chiesto Shahan, incapace di svelare il mistero.
“Vedovo,” era stata la risposta di Zomurn.
Shahan era rimasta in silenzio. Evidentemente Valzigor  non glielo aveva mai detto.
Zomurn le prese allora la mano e le fece di nuovo toccare i due anelli. “Capite di cosa sono fatti?” le aveva chiesto, mentre le sue dita scorrevano su quei due cerchi perfetti: erano lisci e irradiavano uno strano tepore, come se contenessero un'energia che bruciava senza consumarli.
“Metallo,” aveva risposto Shahan dopo qualche istante di concentrazione, la testa lievemente piegata da un lato e lo sguardo vacuo fisso davanti a sé. “Metallo e un altro materiale liscio, un pietra ben levigata forse... oppure vetro.”
“Valzigor vi ha mai raccontato cosa rappresenti il cristallo per i Celestiali?”
“La forma dell’anima,” aveva mormorato la guaritrice. E aveva capito.
Aveva ritratto di nuovo la mano, timorosa di ledere un’intimità che non le apparteneva e probabilmente chiedendosi il motivo di queste confidenze.
Di nuovo Zomurn aveva sorriso quando lei, in seguito, gli aveva confidato di sapere molto poco di lui tranne alcune cose per le quali era famoso:  la letalità in combattimento, la scarsa pazienza e l'assoluta riservatezza.
E il guerriero in nero fu grato che in quel momento lei non gli avesse chiesto nessuna spiegazione: non avrebbe saputo darne, non avrebbe saputo dire perché stava si stesse aprendo con una sconosciuta che aveva appena curato le sue ferite. E che amava suo fratello – anzi! – due dei suoi fratelli: uno come marito, l'altro come figlio.
“Posso toccare il vostro viso?” Gli aveva invece chiesto a bruciapelo.
Quello fu il momento di Zomurn per essere stupito e Shahan aveva approfittato del silenzio per considerarlo un assenso. Aveva avvicinato le mani al suo viso con la consueta lentezza e gli aveva appoggiato delicatamente le dita sulla fronte. Coi polpastrelli aveva percorso i lineamenti spigolosi ma aggraziati, gli occhi allungati, le sopracciglia folte.  Una lunga cicatrice correva dal centro della fronte fino al lato destro del collo, spaccandogli a metà un sopracciglio, una palpebra, e lo zigomo per poi continuarsi in una linea di pelle liscia in mezzo a quella più ruvida dove cresceva appena la barba.
“Assomigliate molto a Valzigor, ma non a Kimi,” aveva commentato Shahan alla fine del suo meticoloso esame.
Zomurn aveva sorriso, senza replicare.
“Avete bisogno di riposo, di una bella dormita per lo meno. Fermatevi qui con noi.”
Zomurn aveva annuito, poi, ricordando che la donna non lo poteva vedere, aveva risposto “Ci penserò.”
Allora Shahan si era alzata dal suo sgabello per tornare da Valzigor, mormorando “Grazie.”
E Zomurn capì che non era perché gli aveva permesso di vedere il suo volto o l’aveva resa partecipe di uno dei suoi molti segreti: quel ringraziamento era per la vita di Valzigor. “A voi,” aveva risposto Zomurn con un lieve ma ammirato inchino.

Quella notte non si era fermato: aveva bisogno di rimanere da solo e di riflettere. Di fare sempre tutto da solo, come lo aveva rimproverato Valzigor durante la chiacchierata di quel pomeriggio.

Questa notte, invece, si sarebbe fermato.
“Mi avevi detto che un giorno Valzigor mi avrebbe stupito, Neera” mormorò alla leggera brezza che continuava ad accarezzargli la pelle, guardando i due anelli che parevano risplendere di luce propria, una luce pallida e calda come quella delle stelle. “Avevi ragione, amore mio.”

 
***

Nota dell'autrice: questo racconto è una side story di un fiction decisamente lunga, complessa, in fieri da anni e mai pubblicata. Spero di essere riuscita nell'intento di renderla godibile anche se estrapolata dal suo contesto originale. Unica precisazione: i Celestiali sono una razza molto longeva e potente, che annoverano fra i loro avi dei o demoni. Per chi conosce Dungeons&Dragons potremmo definirli come una commistione di Aasimar e Tiefling. L'ambientazione è la classica medieval-fantasy.
I nomi... concordo con chi li trova di dubbio gusto. Ma sapete com'è: quando un personaggio nasce con un nome poi se lo porta dietro – dentro – e non lo si può cambiare impunemente. E io amo troppo questi personaggi per cambiare il loro carattere anche solo di un accento. Vi chiedo di tollerarli e se, prima o poi, vi troverete ad amare questi personaggi, magari li apprezzerete anche!

Un ringraziamento a kiara-chan e Ale2, giudici del concorso, per le loro critiche positive e negative, e agli altri partecipante per la bella gara.

Un ringraziamento particolare ad Alex che da anni mi sostiene nella scrittura di questo racconto e che ama questi personaggi quanto li amo io.

Un ringraziamento a Miriel67 per la pazienza di leggersi tutte le mie storie e di riuscire a convincermi – ogni volta! – a non cestinare tutto.

Creative Commons License
Celestiale by F.S. aka Blackvirgo is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.

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Capitolo 2
*** Ricordi ***


Autrice: Blackvirgo
Fandom: originale
Genere: fantasy
Rating: VM14 (arancione)
Senso: vista
Titolo: Ricordi

Zomurn era in attesa di istruzioni. Era solo, nei suoi alloggi, e si sentiva in gabbia. L'Anziano voleva averlo vicino: non si sa mai, aveva detto. Gli erano oscuri i piani e gli accordi che l'Anziano aveva preso con quei Sacerdoti. Non credeva che avrebbero portato qualcosa di buono: non era ancora riuscito a scoprirne i dettagli, ma era sicuro che stessero confabulando su un qualche modo per liberare Dei e Demoni dal loro esilio.
Come se nessuno ci avesse già provato! O meglio: nessuno c'era ancora riuscito.
E c'era anche chi era morto per evitare che si facesse questo folle tentativo.

“Come Neera,” si disse.
Pensava a lei in ogni momento in cui la sua mente non era impegnata altrove.
Alla prima volta che l'aveva vista, quando si erano studiati a lungo, in silenzio, senza lasciar trasparire nulla. Non l'aveva trovata particolarmente bella in quell'occasione, ma aveva subito compreso di avere di fronte a sé un suo pari. E ne aveva avuto dimostrazione poche ore dopo, quando si erano incontrati nell'arena con le armi sguainate, sfruttando un'usanza antica, un tacito accordo che permetteva di evitare un matrimonio combinato sfidando a duello e uccidendo il promesso sposo o la promessa sposa.
Fra loro non era neppure servito prendere un appuntamento, chiamare dei padrini: era bastato guardarsi negli occhi. E incontrarsi, un'ora dopo il tramonto.
Neera aveva occhi bellissimi. Li rivedeva davanti a sé quando chiudeva i suoi, si rivedeva in loro ogni volta che la sua mente si abbandonava a quello sguardo chiaro, cristallino. Era una sensazione strana, come tuffarsi improvvisamente in acque gelide:  l'aria spremuta fuori dai polmoni e crampi che contraevano anche il cuore.
Non era mai stata una persona morbida Neera e neppure il suo corpo lo era stato: gli anni di allenamento per diventare una guerriera non avevano lasciato nulla di tenero in lei. Neppure il seno. Ma i suoi occhi, che potevano riversargli ghiaccio nell'anima, sapevano essere dolci. Sapevano essere teneri. Sapevano dissolvere quella patina di indifferenza e arroganza che lo alienava dal resto del mondo.
E quando non ci riusciva con lo sguardo, lo faceva con le parole, urlando, soffiando e graffiando. Come una gatta arrabbiata. E, nella sua mente, quello era il ritratto della femminilità: gli occhi che bruciavano, le guance rosse e le labbra strette.
Quando l'aveva avuta davanti, non lo aveva pensato. Aveva trovato irritante quelle sue sfuriate, quel suo prendersela a morte per qualunque cosa, come se ogni vicenda rappresentasse un modo di mettersi in discussione, di decidere se lei fosse una persona degna oppure no.
Ora avrebbe dato qualunque cosa per vederla di nuovo in quella posa da battaglie domestiche. O in attesa di una battaglia vera. O ancora mentre si allenava, mentre dormiva, mentre cucinava...
Gli era difficile richiamare alla mente un'immagine chiara di Neera.  Solo gli occhi erano sempre visibili, sempre presenti. Il resto era un turbinio di colori, senza luci e senza ombre. Solo tinte sgargianti, esuberante e prepotenti, proprio come era stata lei in vita. E forse era questo che era diventata dopo la morte: un essere senza forma, un'anima che non aveva più bisogno di chiudersi in un corpo, di chiudersi in mille inutili doveri.
Quel turbinio di colori lo faceva stare bene: si perdeva in esso e – al contempo – si ritrovava. Solo se stesso, senza inutili farmalità, senza inutili doveri.
Qualcuno bussò alla porta: senza neppure entrare gli comunicò il desiderio dell'Anziano di parlargli, Una questione urgente.
Il guerriero in nero si alzò, recuperò le sue armi e si incamminò, lasciandosi dietro quei ricordi pericolosi e portando con sé solo quei colori che nessuno avrebbe potuto vedere.

Stava scendendo le scale, lentamente, serio in volto, impassibile. Chi lo incontrava gli cedeva il passo o lo evitava direttamente. Ormai tutti sapevano che non era uno che facesse vittime a caso, per il puro gusto di sporcare di sangue la sua spada, ma la sua fama e il suo atteggiamento noncurante sembravano nascondere una minaccia. Come una belva assopita che non aspetta altro di essere risvegliata

Da quando aveva incontrato di nuovo Valzigor l'inquietudine che lo aveva accompagnato in tutti quegli anni sembrava essersi caricata di una furia che faceva fatica a controllare. Eppure doveva. Non poteva buttar via tutto per un qualcuno che... che aveva buttato via tutto senza alcuna remora. Anche la sua vita: si era fatto catturare. E lo avrebbero ammazzato. Dopo averlo torturato lentamente, crudelmente, nell'anima e nel corpo. Questo gli aveva detto l'Anziano: che era stato preso e affidato a Varaim. Il Maestro di Torture. E il suo nemico di sempre. Per lungo tempo solo Varaim l'aveva considerato un nemico: Zomurn si era sempre limitato a ignorarlo. Finchè non avvenne quell'episodio, quando Valzigor era poco più di un bambino e ancora suo allievo. Ed era stato sfidato a un duello impari e sleale. L'aveva trovato malconcio e ferito, incapace di parlare e di ricordare cosa fosse successo. Ufficialmente non era mai stato scoperto chi aveva ridotto così il ragazzino, ma sapeva chi era stato. C'era solo una persona in grado di portare qualcuno vicino alla morte senza ucciderlo e senza farsi scoprire. E abbastanza impudente da attaccare l'allora figlio minore di un Generale.
Aveva portato il ragazzino a casa sua e Neera lo aveva aiutato a curarlo. Ricordava il pallore di Valzigor e i suoi occhi che parevano smisuratamente grandi su quel viso magro e tirato. E ricordava la rabbia di Neera che imprecava contro coloro che erano in grado di fare una cosa del genere. E la sua delicatezza nel curare un bambino che non era suo. “Così questo sarebbe l'allievo che non è all'altezza del maestro,” aveva commentato, china su di lui. “Secondo me, un giorno, ti stupirà.” Era stata profetica. E non c'era da stupirsi: i suoi poteri captavano il tempo, gli avvenimenti, la verità sul passato e gli stralci sul futuro. Poteva evocare immagini chiare come la luce della luna quando focalizzava il suo potere su una domanda, ma anche l'istinto seguiva la stessa strada e più di una sua affermazione si era avverata nel tempo. Anche dopo la fine del suo stesso tempo.

Valzigor era stato catturato. Sollevato dal fatto che Selior e Raik fossero riusciti a scappare e che Kimi e Shahan fossero al sicuro, non aveva opposto una grande resistenza. Se non lo avevano ucciso subito era solo perché non avevano voluto farlo. L'avevano condotto a quella che pareva l'entrata posteriore di un tempio e poi giù, per le scale, fino a una sala circolare illuminata da numerose torce. Il fumo che aleggiava nella stanza pareva avvolgerla in un'atmosfera illusoria, una nebbia sporca e irrespirabile che pareva celare solo minacce.
Una voce nell’ombra, una voce gutturale, ordinò: “Portatelo qui. Spogliato.”
Valzigor rabbrividì quando riuscì a vedere chi aveva parlato, ma nello stesso tempo tirò un sospiro di sollievo: conosceva la fama di Varaim come maestro di brutalità quando si trattava di interrogare o torturare i prigionieri, ma avrebbe temuto molto di più avere davanti Zomurn. Aveva  già dato per scontato che non sarebbe uscito vivo da quella situazione, ma almeno il suo carnefice non sarebbe stato il fratello che era stato il suo maestro. Colui al quale era legato da un legame incancellabile, fatto di ammirazione, di affetto, di odio. Presente anche quando avrebbe voluto reciderlo.

Mentre i suoi carcerieri eseguivano gli ordini e lo appendevano per i polsi a una catena che scendeva dal soffitto, Varaim gli girava attorno mentre la sua frusta tagliava l’aria con pittoresche coreografie. I suoi occhi erano avidi – famelici – come un pittore che davanti alla tela bianca si raffiguri il quadro che sarebbe diventato, frutto del suo lavoro.
“è da parecchio tempo che non ci vediamo, Valzigor,” disse, sorridendo maligno, mentre le guardie li lasciavano soli. “Ma ora possiamo recuperare il tempo perduto.”
Valzigor non rispose.

La frusta sibilò nell’aria per poi colpire con uno schiocco la sua schiena.

“Hai imparato bene il silenzio, durante l’addestramento,” disse Varaim. “Ed evidentemente certe lezioni rimangono impresse anche dopo anni di diserzione.”

La frusta colpì per la seconda volta.

I Celestiali hanno memoria lunga, pensò Valzigor. E, di solito, preferiscono non dimenticare.
“Come ti trovavi fra gli umani? Li sentivi simili a te?” Lo beffeggiò Varaim avvicinandosi e mozzandogli il respiro con un pugno nello stomaco. “Credi forse che non riuscirò a sapere tutto quando avrò finito con te?”

Quarta frustata.

Valzigor iniziò a attuare quel piano folle che aveva iniziato a comporre nella sua mente dal momento in cui lo avevano catturato. Conosceva bene le regole del clan: l'aveva abbandonato, ma si sentiva ancora vincolato da quella legge che metteva il bene del clan al di sopra di tutto e di tutti. Era da molto tempo che viveva con gli umani, ne aveva addrittura sposata una. E quando era tornato al clan – e ancora si chiedeva perché avesse risposto a quella specie di appello – aveva portato via un bambino da una guerra. Era nato per essere suo fratello minore, ma l'aveva cresciuto come se fosse stato suo figlio. Il clan non avrebbe dovuto saperlo. Solo Zomurn lo sapeva, ma aveva giurato di non rivelarlo. E finora non lo aveva fatto.
Non poteva essere lui a cedere, a rivelare il suo segreto... avrebbero creduto Kimi figlio suo e di Shahan – un bastardo mezzosangue – e lo avrebbero portato a Syamal solo per farne uno schiavo. Sempre se Syamal era sopravvissuta a quella maledetta guerra.
Sempre che qualcuno non rivelasse che Kimi era un celestiale. E a quel punto lo avrebbero fatto diventare uno di loro. Non poteva accettarlo.
Era giunto il momento di cancellare i suoi ricordi per garantire un futuro a Shahan e Kimi. Un futuro pacifico per lo meno. La felicità l'avrebbero costruita senza di lui.

La frusta di Varaim scandiva il tempo come la sabbia della meridiana, come un pendolo, ritmico, preciso. Una frustata, due e tre. Una domanda e nessuna risposta. E di nuovo: una frustata, due e tre. E il gioco continuava.

Per Valzigor era giunto il momento di fare quel piccolo esercizio che veniva insegnato a ogni Celestiale il primo giorno di addestramento. Concentrare il suo potere – ogni suo potere – nella sua mente. Col rischio di distruggerla. Si insegnava ai bambini perché imparassero il dolore e capissero il pericolo che si celava nel potere.
E ora doveva usarlo, per farsi male, per morire conscio di aver fatto il suo dovere per proteggere coloro che amava.  Per distruggere pensieri così preziosi che nessuno avrebbe mai dovuto toccarli.

“Non hai neppure il coraggio di difenderti?” urlò Varaim, assestandogli un pugno nelle costole e ridendo mentre sentiva affondare la mano in maniera innaturale.
Valzigor strinse i denti, gemendo, incapace di respirare per un attimo che sembrò infinito e poi ricominciando, piano, mentre un dolore lancinante si accompagnava ad ogni inspirazione.
Ma non si diede per vinto: iniziò a usare ogni sua energia per arrivare a quello stato di concentrazione in cui neppure il dolore lo avrebbe disturbato, per poi cominciare a prendere ogni immagine, ogni sentimento, ogni desiderio o paura e chiuderla in uno spazio della sua mente. Lacrime di dolore gli rigavano il volto mentre mormorava un silenzioso addio alla parte più importante della sua vita: il primo incontro con Shahan, nella foresta, quando lui aveva percepito la presenza di un animale e si era ritrovato davanti una donna. I suoi occhi verdi e ciechi che erano stati uno specchio per la sua anima. La sua dolcezza, il suo senso pratico, la sua risata... lei con Kimi in braccio, Kimi che dormiva sereno, Kimi che mangiava di gusto. Kimi che piangeva in mezzo a una guerra ignorato dalla sua stessa madre.
No, si corresse Valzigor, non importa se siamo fratelli. Quella donna era mia madre, la madre di Kimi è Shahan.

Varaim continuava nei suoi attacchi con foga sempre maggiore, ignaro che Valzigor stesse facendo a se stesso molto più male di quanto lui gliene avrebbe mai potuto fare. Continuava a fare domande: perché aveva disertato, perché aveva traditoil clan… ma Valzigor non rispondeva.  Ogni silenzio era seguito da tentativi sempre più mirati di entrare nella sua mente, di leggere ogni suo pensiero, e poi dal sibilo della frusta che tagliava l’aria e  da urla – di dolore di Valzigor e di frenesia di Varaim.
Poi per un minuto nulla.
“Facevi il fabbro,” lo beffeggiò Varaim, “quindi sarai abituato al metallo infuocato!” E rise, mentre ricominciò la solita solfa: attacco mentale, tortura fisica e grida. Solo che la frusta era stata sostituita da un lungo coltello incandescente.

Valzigor faceva fatica a mantenere la lucidità, ogni energia era stata spesa per dividere la sua mente. Urlò di dolore, quando la lama incise le sue carni, ustionandole, tagliandole. E urlò di dolore quando – sfinito – quella scena di lui e Kimi e Shahan che giocavano nel prato di fronte alla loro capanna andò a finire insieme alle altre.
Ora doveva trovare solo il modo di distruggerle. In un colpo solo. Avrebbe fatto meno male. Ma non riusciva a decidersi: logorato dalla tortura fisica e mentale non poteva immaginare di morire senza di loro. Era peggio di un suicidio e, nonostante fosse un sacrificio indispensabile, gli riempiva il cuore di orrore.

Proprio quell'orrore che Varaim percepiva,  soddisfatto di esserne la causa, frenetico nel perpetrare nel suo atto di sfrenato sadismo.
“Non hai più difese, eh? La debolezza, ragazzo, è il primo nemico da sconfiggere,” lo beffeggiò, sondando la sua mente con la stessa delicatezza con cui la sua frusta e il suo coltello incandescente avevano accarezzato il suo corpo e causando al prigioniero l'ennesimo lungo spasimo di dolore

Fu allora che Zomurn entrò nella stanza delle torture.“Non hai ancora finito con lui?” chiese con una voce che tradiva disprezzo e orrore mentre Varaim gli lanciava uno sguardo tanto famelico da fare invidia a un predatore.

Valzigor mosse appena il capo, in uno degli ultimi bagliori di lucidità, a stento riconoscendo la voce.
Sul viso di Varaim invece si dipinse un largo sorriso. “Visto che bella preda abbiamo conquistato oggi? Un traditore che credevamo morto. È stato furbo a non farsi vedere per anni, ma il destino si compie per tutti. È scritto.”
“Non potevi ucciderlo in maniera più pulita?” chiese Zomurn, valutando con disgusto il corpo di Valzigor coperto di lividi, ferite sanguinanti e bruciature.
“Conosci le regole: i prigionieri di un certo valore vanno prima interrogati,” rispose l’altro, compiaciuto del risultato ottenuto.
“Ci sono modi più puliti per interrogare qualcuno,” commentò Zomurn, prendendo rudemente con una mano la faccia di Valzigor. È vivo, pensò. E la conferma gli venne proprio da Valzigor che aprì gli occhi per un attimo, con lo sguardo annebbiato e inconsapevole.
Come quella volta , da bambino, pensò il guerriero in nero.
“Ognuno ha i suoi metodi,” rispose Varaim, appoggiandosi distrattamente al muro.
Zomurn lasciò Valzigor, voltandosi per fronteggiare il suo interlocutore.
“Ma stavolta non c’è neanche stato gusto,” continuò l’altro imperterrito di fronte allo sguardo glaciale di Zomurn. “Non ha nemmeno tentato di difendersi… Che incapace!”
“E tu? Perché sei qui?” continuò Varaim, sospettoso. “Vuoi dare anche tu un’occhiata prima che lo finisca? O sei venuto per il colpo di grazia?”
“Cosa hai scoperto finora?” chiese Zomurn con voce fredda e tagliente.
“Non era riuscito a portare a termine la missione per cui aveva lasciato Syamal e sì è lasciato convincere da un vecchio a rimanere in un villaggio sperduto. Da allora ha sempre lavorato come fabbro poi... il resto lo sai.”
“Fatti da parte,” gli ordinò Zomurn. Si concentrò un momento e, gentilmente, sondò i confusi pensieri che fluttuavano nella mente del fratello incosciente, pensieri che ruotavano attorno a un fulcro che appariva più compatto eppure più oscuro… e terribilmente fragile.

“Idiota,” mormorò Zomurn a denti stretti, ritirandosi in tutta fretta. Valzigor avrebbe protetto la donna e il bambino a tutti costi. Anche di distruggersi.

Hai ragione, Neera, pensò, il ragazzino che tu hai conosciuto è davvero in grado di stupirmi.

“Già,” convenne l’altro, fraintendendo completamente il senso di quell’affermazione. “Ma si sapeva che non è mai stato un gran che. E avrebbe anche potuto sfruttare meglio la fuga dal clan invece di limitarsi a fare l’umano,” concluse con risata spregiativa.
Zomurn gli scoccò un’occhiata minacciosa, ma l’altro non ci fece caso e proseguì imperterrito: “Allora? Che ne dici di rendere giustizia a questo traditore?”
Zomurn fremette nel sentire l’ultima frase.
“Quale giustizia, Varaim?”
“La nostra, mio caro Zomurn. Ne conosci un’altra?”
“Parlare di giustizia qui mi pare fuori luogo,” rispose il guerriero in nero, continuando a osservare il corpo martoriato del fratello.
“Chiamala come vuoi: esecuzione va benissimo per quel che mi riguarda.”
“Che oggi non avverrà,” gli sibilò Zomurn.
“Stai per caso cercando di mettere in discussione la legge?”
“No,” rispose Zomurn. “Non mi piacciono le cose a metà: io sto mettendo in discussione la legge.”
Varaim riprese il suo atteggiamento aggressivo, di nuovo impugnando le sue armi in maniera più decisa.  
“Perché siamo stati mandati qui, Varaim? Sai rispondere a questa domanda?” Chiese Zomurn, osservando i movimenti dell’altro, senza perdere la calma: se il suo avversario lo avesse caricato non avrebbe potuto schivarlo, pena lasciare che finisse Valzigor.
Ma Varaim, pur roteando le sue armi come se fosse pronto a combattere, si fermò a rispondere: “Perché siamo i migliori.”
Zomurn lo travolse con un attacco per poi spostarsi e lasciare Valzigor al di fuori dell’imminente combattimento.
“E chi verrà a vendicare la tua morte?” Chiese Zomurn, con un sorriso.

“Avanti, Varaim! Non ti piacerebbe morire qui?” Lo beffeggiò il guerriero in nero. “È pur sempre meglio in battaglia piuttosto che di sete o di fame, non trovi?”
Varaim lo attaccò e l’altro lo schivò.
“Perché mi parli di ordalie? Io non ho mai tradito nessuno,” dichiarò il Maestro di Torture con un ruggito.
“Neppure il tuo comandante?” incalzò Zomurn.
“Non è ai comandanti che noi giuriamo fedeltà!” rispose, parando il colpo di Zomurn con il coltello e cercando di nuovo di colpirlo con la frusta. Ma non fu abbastanza lesto per parare una seconda lama, come apparsa dal nulla.  Varaim lasciò cadere il coltello con un ruggito e di nuovo tentò di colpire Zomurn con la frusta, ma il guerriero in nero parò il colpo con la sua spada e lasciò che lo scudiscio vi si avvolgesse attorno.
Ricordava Varaim più forte. O forse stava sottovalutando la ferocia con cui lui stesso stava combattendo.
Il Maestro di Torture tentò di liberare la sua arma, ma Zomurn la trattenne con una mano guantata: non aspettava altro che di costringere il proprio nemico su un terreno che gli era molto più congeniale della battaglia nuda e cruda. Una guerra fra menti, ecco cosa voleva.
Varaim si preparò agli attacchi di Zomurn, ma questi lo stupì: non lo stava attaccando, gli stava solo mostrando una serie di immagini…Valzigor bambino ferito e malmenato, altre torture che erano state compiute sui nemici o sugli alleati che erano stati ritenuti inetti. E poi una grotta e un rituale: tredici persone contro una guerriera, una battaglia impari per chiunque – anche per il più forte – un sacrificio decretato dal clan contro chi aveva messo in discussione le sue leggi.
E quando la guerriera era caduta Varaim l'aveva legata e poi, uno a uno, erano usciti, lasciandola sola, senza cibo, senza acqua. “Ti torneremo a vedere tra tredici giorni,” aveva detto l'Anziano prima di abbandonarla a morte certa. “Se ti troveremo ancora viva, la ragione sarà dalla tua parte e la legge verrà cambiata.”
Zomurn odiava pensare che l'ultima cosa che Neera avesse sentito fosse stata la risata di Varaim e l'ultima cosa che aveva visto fosse stato quel viso maligno, ripugnante.

Varaim non capiva perché Zomurn gli stesse mostrando quelle immagini, senza attaccarlo, senza muoversi: lui c’era, sapeva bene quello che era successo… perché mai…? Poi capì quello che non andava: Zomurn non era stato presente e lui non avrebbe dovuto sapere…
Improvvisamente gli occhi di Varaim si dilatarono per il terrore e cominciò a tremare, non solo per i sentimenti – evidentemente non i suoi – che quelle scene gli stavano procurando: aveva sempre ritenuto Zomurn un suo pari, ora si rese conto che aveva fatto male i conti.
Tirò di nuovo la frusta per riprenderne il controllo e per attaccare il suo nemico.
Zomurn non lo ostacolò neppure e si fermò a osservare la scena che iniziò a consumarsi sotto i suoi occhi: la frusta, trasformatasi in un serpente, si avvolse attorno al suo stesso padrone e iniziò lentamente a stritolarlo e a dilaniarlo. Zomurn allora si concentrò solo sulla mente dell’altro, la afferrò e la chiuse in una morsa micidiale. Solo una volta allentò la presa per inviare mentalmente un’immagine a Varaim finché questi avesse ancora un bagliore di discernimento per capirla – e per rabbrividire – prima che la vita lo abbandonasse.
L'immagine di uno scheletro disteso sulla nuda pietra e di un guerriero che piange al suo fianco. Un'immagine che era un turbine di colori: il nero dell'odio e il rosso della rabbia.  L' azzurro dell'oblio e il bianco della morte. E due occhi chiari e freddi come l'acqua di sorgente che gli fecero sentire il freddo della morte prima di morire.
Comunque troppo in fretta, pensò Zomurn, accarezzando gli anelli che portava appesi al collo.

Zomurn si voltò e liberò Valzigor dalle catene, il quale si accasciò privo di sensi addosso al fratello. Un’altra immagine aleggiò solo per un attimo nella mente di Zomurn, la stessa che aveva mostrato a Varaim prima che morisse. Ma non aveva tempo di indugiare.
“Valzigor!” Lo chiamò e il fratello aprì di nuovo gli occhi con lo sguardo annebbiato e inconsapevole. Stava male, troppo male. Doveva portarlo via da lì.

Si alzò in piedi, prese il cadavere di Varaim e lo appese alle catene. Sapeva che la sua era solo una mossa simbolica, ma vederlo a quei ceppi che lui amava tanto mettere agli altri portando i segni della sua stessa – che nel frattempo era tornata una semplice arma ma gli era rimasta avvolta addosso –  riempì il cuore di Zomurn  di amaro divertimento.  Ma solo per un attimo: in quel momento aveva cose più importanti a cui pensare.
Raccolse gli indumenti di Valzigor e li usò per coprire il fratello alla meno peggio. Poi si concentrò per dissolvere la materia di cui erano fatti e per ricomporla in un altro luogo, distante solo un attimo.
Tra le braccia teneva Valzigor, ora come allora, ferito e sanguinante. Non ci sarebbe Neera a curarlo questa volta. Non ci sarebbe stata Neera ad arrabbiarsi per tanta crudeltà gratuita, per regole che non avevano un senso solo finchè si viveva dentro il clan e che lo perdevano appena se ne usciva.
Neera non c'era più. Zomurn si era vendicato. Per se stesso, avrebbe detto, ché la vendetta non è per i morti, ma per i vivi.
E, ora come allora, aveva un fratello da salvare. E non aveva più tempo per indugiare sulle immagini di un tempo lontano.



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Capitolo 3
*** Baci ***


Assaporò il bacio di Shahan una volta ancora, come molte prima, come molte a venire. Aveva un gusto difficile da descrivere: nessun sapore particolare spiccava sugli altri. Quel bacio era la somma di tutto quello che avevano passato durante gli anni assieme, dal momento in cui si erano conosciuti, fino a quel preciso istante.

La bocca gli si era improvvisamente seccata, la prima volta che l’aveva incontrata. Le labbra si erano attaccate tra loro e ogni sapore era andato perduto. Gli era apparsa dal nulla, quasi fosse un animale selvatico e lui era stato pronto ad attaccarla, per difendersi, per uccidere se necessario. Gli avevano detto di trovare un Antico e di portargli un messaggio da parte del clan. E invece si trovava davanti a una ragazza dall’età indefinibile, silenziosa e pericolosa come una fiera. Era arrivata, avevano scambiato poche parole e se ne era andata. Silenziosa come era venuta.

Si era inaridita la bocca a Valzigor, quella volta, e l’unica cosa che avrebbe voluto era un sorso d’acqua al posto di quella sensazione di sabbia. Ancora non poteva sapere che Shahan, in quel momento, gli aveva mostrato quale fosse stata la sua vita finora: una vita di labbra secche, di sabbia in bocca e, in ultima analisi, senza alcun sapore.

Poi c’era stato l’incontro con l’Antico a cui doveva portare il messaggio da parte del clan. La stessa persona che Shahan chiamava “Maestro”. La stessa persona che anche per lui sarebbe diventato un Maestro. Era stato un incontro burrascoso: non poteva sapere quanto livore il Vecchio Stregone nutrisse per quelli come lui, non poteva sapere che, qualunque fosse il messaggio della sua missiva, il suo ardire lo avrebbe condannato a morte. Era stata una lotta impari, la loro, ma forse è vero che la fortuna aiuta gli audaci, perché Valzigor poteva permettersi di ricordare quell’episodio: un dolore lancinante al cervello – una stilettata – e quel sapore dolciastro e fastidoso. Familiare: il suo sangue. Gli era rimasto in bocca fino al risveglio, monito che era stato battuto, ma che aveva un’altra possibilità: di comprendere, di combattere, di avere una rivincita o una vendetta. O semplicemente di vivere.

E così aveva fatto: non era tornato al clan obbedendo agli ordini. Era rimasto, prima perché troppo debole per rimettersi in viaggio, poi per curiosità: molte erano le leggende che aleggiavano sugli Antichi e Valzigor voleva saperne di più. Era solo un ragazzino, a quel tempo, che aveva vissuto una vita che non sentiva sua. Per il clan avrebbe dovuto diventare un guerriero – le sue capacità magiche erano troppo limitate per diventare un mago utile a qualche cosa – ma odiava combattere. C’era una filosofia che comprendeva nell’autodisciplina, negli allenamenti fatti per apprendere il proprio corpo e la propria anima, nella costruzione – giorno dopo giorno – dell’arma che avrebbe brandito per tutta la vita. Era conoscersi, smontarsi e ricostruirsi ogni giorno. Poi c’erano i combattimenti, allenamenti che non erano solo tali: ognuno non mirava a battere l’avversario, ma a umiliarlo, a ferirlo, a ucciderlo se possibile.

Aveva gustato tante volte il sapore del sangue in quelle occasioni e aveva imparato a odiarlo. Di odio era stata anche la prima reazione – riflesso incondizionato della sua mente – che aveva avuto nei confronti dell’Antico. Odio che era passato subito lasciandogli molte domande e tanta voglia di cercare la risposta lontano dal suo clan. Era rimasto, prima sperando che lo avessero creduto morto, poi perché se avesse rivelato che si era innamorato di un’umana lo avrebbero ucciso davvero. Ma ormai il suo posto era accanto a Shahan. 

Eppure, un giorno, era tornato a Syamal. Era stata sua madre a chiamarlo, una richiesta di aiuto. Quando era arrivato ne aveva capito il motivo: la città era a ferro e fuoco: erano grida, clangori di lame e scudi, fiamme e fumo che gli aveva invaso il naso e la bocca con la sua acredine, che non aveva tardato a stringergli il cuore quando aveva scoperto che, della sua famiglia, gli unici sopravvissuti erano Zomurn e un neonato. “Fa in modo che non diventi come gli altri,” gli aveva chiesto la madre prima di morire, indicandogli il bambino di pochi mesi. E lui aveva deciso di portarlo via. Aveva lottato con Zomurn per questo e, ancora si chiedeva perché prima il suo precedente maestro avesse voluto fermarlo e poi, all’improvviso, avesse deciso di lasciarli andare. E di giurare di non avvicinarsi mai più a loro. Un giuramento fatto sul loro sangue, di nuovo monito di cambiamento. Ma un cambiamento dal sapore terribile: lo stesso che ha la perdita delle persone care, di quelle importanti e, in ultima analisi, di ogni certezza.

Aveva assaporato la neve quella volta, mentre camminava, mentre arrancava perdendo il fiato ad ogni boccata di aria gelida, ad ogni passo nella neve morbida e faticosa, ad ogni pensiero che pesava più delle vesti bagnate, del braccio ferito. Era caduto con la faccia sulla neve e l’aveva mangiata. E aveva gustato quel sapore di nulla, di bagnato, incapace di dissetarlo, di lavargli via il retrogusto dolciastro – e amaro! Quanto amaro! – di sangue. Eppure quella neve sulla faccia e nella bocca lo aveva ributtato nella realtà. Nel nulla e nel gelo che sentiva nella bocca e nel cuore.

Si era svegliato e non poteva credere ai suoi occhi: era notte fonda e Shahan era al suo fianco. Non era morto eppure non era mai stato così vicino a morire come quel giorno, e aveva rischiato di farlo con il sapore della bile nella bocca. Forse era stata la tortura a far risalire le sue secrezioni dall’intestino fino alla bocca per fargliele assaggiare… oppure era stato lo stesso percorso che lui stava facendo con i suoi ricordi più preziosi: all’indietro, uno a uno, preso e imprigionato, pronto per essere sacrificato assieme alla sua vita. E non poteva esistere nulla di più amaro che morire senza neppure i ricordi di coloro per le quali avresti sacrificato tale vita.

E, ancora una volta, il sapore del sangue: aveva creduto che l’unico cambiamento che potesse annunciare – ormai – era la morte. Invece era vivo e Shahan gli stava raccontando che Zomurn – prima maestro, poi nemico – lo aveva salvato. Lo aveva riportato a coloro che amava.
Poi Shahan aveva smesso di parlare e aveva avvicinato le sue labbra alle sue. Si erano baciati. E quel bacio conteneva tutti quei sapori: di deserto (e di boschi lussureggianti), di fumo (e di resina di pino), di neve (e di prati fioriti), di bile (e di lacrime salate) e di sangue.
Eppure era dolce, come solo le cose belle acquisite al prezzo di grandi sacrifici possono esserlo.
 
 
Note dell’autrice:
* Questa fic è l’esatto proseguimento di “Ricordi” (gusto: vista): il tempo di un bacio, tutto dal punto di vista di Valzigor. Parecchio smielata, diciamocelo!
* Gli Antichi (chiamati Vecchi o Stregoni dagli uomini) sono una sorta di divinità minori che risiedono sulla terra per espiare errori molto gravi che hanno commesso nella notte dei tempi.
* Syamal è una sorta di città fortificata ed è la dimora del clan di Valzigor.
* nelle ultime righe i pensieri tra parentesi sono di Shahan. 
* da quando questa storia è stata scritta a oggi il mio stile è cambiato parecchio... ma ho preferito lasciare la versione "originale" limitandomi a correggere solo i refusi, anche solo per continuità rispetto alle altre storie di questa raccolta scritte nello stesso periodo. 

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Capitolo 4
*** Una storia... e molti modi per raccontarla ***


Erano alfine giunti di fronte all’arcana porta: una luce accecante proveniva da oltre la sua soglia e disegnava nitidamente i contorni dell’entrata di un mondo che, dalla notte dei tempi, era sconosciuto a Dei e Mortali.
Erano arrivati di fronte a una porta fatta di luce e silenzio.
 
Logran sorrise il suo solito sorriso beffardo e mormorò assorto: “Ci siamo.”
Pensieri chiassosi affollavano la sua mente, ma non turbarono il suo cuore. “Scappare  rimane sempre un’alternativa allettante quando ci si trova a guardare la porta dell’inferno,” pensò, ma la fuga non era nel suo stile. E continuò a sorridere perché sembrava che la sorte gli giocasse l’ennesimo scherzo: il dovere lo aveva raggiunto alla fine. “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate” aveva scritto un poeta, reduce da un viaggio in un aldilà pieno di pianto e di stridor di denti.  “Così la disperazione è il vero inferno”, si disse, sempre sorridendo, sempre silenzioso. “Allora non è una novità da affrontare.”
 
“Forse non riusciremo a portare con noi la speranza, ma almeno la lasceremo a questa terra,” mormorò Valzigor, quasi leggendo nella mente dell’amico. Avrebbe potuto farlo, se solo lo avesse voluto, ma nonostante i freni  che aveva imposto ai propri poteri, non era in grado di limitare il suo intuito.
Di fronte a sé vedeva il compiersi di un destino tracciato millenni prima per il suo lignaggio, un destino che affrontava ora con un certo sollievo, perché finalmente era arrivato ed ora  – nel bene o nel male – si sarebbe compiuto.
 
“E ai suoi figli,” aggiunse la donna che teneva per mano, fissando un punto lontano. Per lei luce e ombra non erano mai state diverse e da sempre le aveva trattate alla stessa maniera. Percepiva un potere lontano e sopito al di là di quella soglia, un silenzio che in altri luoghi avrebbe significato pace ma che in quel luogo significava soltanto tregua, un silenzio che era la mancanza assoluta di voci, di vita. Un silenzio che la gettava nel buio più totale, per lei che da sempre era stata guidata dai suoni. Sentiva un’immensa tristezza oltre quella soglia, una disperazione che chiedeva di riversarsi all’esterno e di gioire di nuovo della luce del sole… ma quella nostalgia odorava di amarezza, di tradimento e di sangue. Shahan strinse più forte le dita attorno al suo bastone e i suoi pensieri volarono lontano, scaldandosi alla luce di quel sole che non aveva mai visto.
 
Raik, col sole che strappava bagliori dai suoi biondi capelli, alzò la spada – saluto e sfida – e  urlò “Avanti!!” raccogliendo ogni goccia della sua sfrontata vitalità e lanciandosi avanti, di corsa. Era giovane e impulsivo e assetato di avventura… e le grandi riflessioni non avevano mai trovato posto nella sua vita. Nonostante l’età, aveva viaggiato in lungo e in largo e quello che aveva visto non era bastato a colmare la sua insaziabile curiosità. Ora si apriva la porta su un altro mondo: poco importava che per farsi strada si dovesse combattere. Quello succedeva sempre e dovunque. E, per il suo carattere allegro, c’era troppo silenzio oltre quella soglia: portarvi un po’ di rumore sembrava una necessità.
 
Gli altri lo videro lanciarsi verso l’ignoto, verso la luce e il silenzio, e un po’ invidiarono quell’incoscienza che taluni chiamano ardore… ma riscossi dai loro cupi pensieri lo seguirono e, insieme, varcarono la fatidica soglia.
 
 
Kimi aveva sentito molte volte raccontare quella storia e di solito non l’aveva apprezzata. Una volta aveva sentito un menestrello raccontare, con voce possente e sin troppo accorata, di guerrieri imponenti e dalla terribile potenza, splendidi e fieri, vestiti di armature di fuoco e cristallo che avevano varcato quella soglia per scopi ignoti e forse malvagi. Aveva riso nel gettare ombre sugli eroi della sua stessa leggenda, di una risata lugubre e sadica, e Kimi aveva dovuto utilizzare tutto il suo autocontrollo per non sfidarlo a duello. Era la prima volta che sentiva raccontare quella storia e troppi ricordi gli causavano una fitta dolorosa al cuore. Ricordi che la risata di uno sciocco in cerca di qualche spicciolo o di un fiasco di vino non poteva certo guastare.
Un altro cantore aveva invece temuto di pronunciare i loro nomi: dichiarava di averli seguiti da lontano, fino alla loro meta, e descriveva quattro guerrieri tanto possenti che persino i boschi si aprivano al loro passaggio, dagli occhi profondi e penetranti. Diceva di aver percepito in loro l’aura soprannaturale di coloro che vanno in battaglia accompagnati dagli Dei. Li aveva ribattezzati Vilie, Hemut, Haeron e Siam: Acqua, Terra, Fuoco e Aria nell’antica lingua… nomi che poi, Kimi, aveva sentito pronunciare solo nelle storie raccontate attorno al camino nelle tenebrose notti d’inverno, nomi diventati leggenda e che gli sciocchi temono di pronunciare ad alta voce…
Aveva sentito raccontare davvero in molti modi e da voci diverse la dipartita dei suoi genitori e dei loro fidi compagni. Li aveva sentiti chiamare eroi, mercenari, maghi e fuorilegge. Erano pochi coloro che li avevano conosciuti e che li chiamavano semplicemente per nome.
Kimi non credeva che qualcuno li avesse davvero visti sparire: il Vecchio Stregone gli aveva detto che erano partiti senza salutare nessuno, soli, senza armature ed ornamenti. Solo a lui avevano confidato la meta del loro viaggio.
 
Quella sera era seduto in una locanda con Zomurn e, di nuovo, avevano ascoltato qualcuno raccontare quella storia. Era un bardo, col liuto alla tracolla e un boccale di birra davanti: si era rifiutato di accompagnare con la musica il racconto, perché le parole erano troppo gravi per essere alleggerite dalle note, e nessuna melodia che lui conoscesse poteva rendere la gravità del sacrificio dei quattro compagni.  Kimi e Zomurn si guardarono negli occhi, con uno sguardo di silenziosa intesa: entrambi erano certi che quel bardo dall’aspetto trasandato e dagli occhi lucidi – commosso dalla sua stessa narrazione – non annoverava fra le vecchie conoscenze di Valzigor, Shahan, Logran o Raik e neppure tra le loro. Eppure pareva quasi che li avesse conosciuti. Aveva una bella voce, quel bardo, era un piacere ascoltare le sue parole, lasciare che entrassero nelle orecchie, che passassero per il cervello e che si fermassero in gola, perché lì formavano un groppo con le emozioni che salivano dal cuore.
Era turbato, Kimi, e lo fu ancora di più quando vide che neppure Zomurn era rimasto indifferente a quella narrazione. A Kimi toccò sorridere, perché sapeva quanto fosse pericoloso raccontare quella storia davanti a Zomurn: sarebbe bastata un’intonazione sbagliata o un accento ambiguo e il temerario menestrello avrebbe rischiato di non poter raccontare più nulla nei suoi giorni a venire.
Era fatto così Zomurn: non gli piaceva sentire qualcuno che potesse infangare la memoria di persone a lui care.
 
“Tutto sommato la prendesti bene,” commentò Zomurn, con la sua voce profonda, riferendosi al momento in cui Kimi ricevette la notizia della partenza dei genitori, una partenza che non lasciava presagire alcun ritorno.
“Insomma… non mi ero mai sentito tanto vuoto. Certo che avere qualcuno vicino mi ha aiutato,” rispose sorridendo, la voce e lo sguardo limpidi come acqua cristallina.
“Se parli di me, allora ti stai confondendo,” rispose Zomurn, ironico e affettuoso nello stesso momento,  mentre Kimi annuiva vigorosamente. “Non mi pare di essere rimasto con te molto tempo dopo che furono partiti.”
“Forse no,” concordò Kimi. “Ma almeno sapevo che tu saresti tornato. E poi al villaggio c’erano persone che mi volevano bene e che mi hanno aiutato. E che hanno sofferto con me. Come Lariel ad esempio. O il Maestro. O il vecchio Orrem.”
“Hai mai pensato di andare a cercarli?”
“Sì, ma nella loro lettera mi chiesero di non farlo. E ho troppo rispetto per il loro sacrificio per vanificarlo così. “
Zomurn annuì. “Già. A volte mi chiedo dove siano.”
“Mancano anche a te, vero?” La voce di Kimi si fece carica di nostalgia.
“Sì. Hanno seguito una strada eroica, ma a volte mi chiedo se non sia stata una mossa stupida. Perché sacrificarsi per tutti? Perché non lasciare che ognuno lotti per se stesso?” Tremava appena di rabbia la voce di Zomurn, rabbia verso se stesso che ancora non comprendeva. Che forse non avrebbe mai compreso.
“Sei il solito egoista,” provò a sdrammatizzare Kimi.
“Io lo chiamo istinto di sopravvivenza.”
“D’accordo. Allora diciamo che i miei genitori lo hanno fatto per me.”
“E Raik? E Selior?”
“Il legame che univa quei quattro era molto forte, evidentemente più forte di quello che li univa a questa terra. Probabilmente facevamo eccezione solo noi due e pochi altri... Come mai sei così malinconico oggi?”
“Non saprei. Sarà che tu me li ricordi e mi fai sentire vecchio.”
Kimi si lasciò andare a una grassa risata. “Vecchio? Tu?”
 
Ma la risata si spense subito, mentre il bardo intonò una melodia che sapeva di antico, accarezzando le corde del suo liuto. Aveva smesso di raccontare per lasciare il posto a una musica che doveva descrivere una porta di luce e silenzio e quattro compagni che la attraversarono. Poche note che sembrarono durare ore, seguite da poche parole:
 
Quel che è certo è che nessuno li vide mai tornare, né mai si seppe quali desolate lande o ridenti contrade potesse nascondere la Porta di Luce, quali nemici dovettero affrontare e con quali poteri e soprattutto quale destino - atroce o gioioso, umano o divino – fosse in serbo per loro.
Si sa solo che il mondo non è finito né è diventato terra di conquista per nessuno.
 
***
 
Note dell’autrice: altro pezzo di storia di questi personaggi… Giusto per ricordarvi le parentele, Kimi è fratello minore di Valzigor (e quindi anche di Zomurn) che viene adottato e cresciuto da lui e Shahan. Benché in questi stralci di storie non sia potuto venir fuori, il rapporto che lega Zomurn e Kimi è molto stretto e fraterno.
Inutile ricordare a tutti che “lasciate ogni speranza voi ch’entrate” è di Dante.
Grazie dell’attenzione.

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Capitolo 5
*** La spada ***


Valzigor si alzò all’alba, uscì e andò nella sua piccola fucina. Inspirò profondamente l’aria fresca, annusando gli odori del bosco, dell’erba e dell’aria stessa. Poi si mise all’opera: prese il carbone, accese il fuoco nella fucina e iniziò a preparare i vari materiali da fondere assieme.
Mentre il calore compiva la sua azione sull’acciaio, lui si sedette a gambe incrociate e lasciò che i suoi muscoli si rilasciassero, che la sua mente prendesse consapevolezza del suo corpo e viceversa. Si concentrava sul battito del cuore per perdersi in esso e poi nel respiro, per rimanere in contatto con la terra. Perché esiste un senso, il più antico fra tutti – gli avevano insegnato – che ci mantiene legati al mondo attraverso il respiro stesso: l’olfatto.
Respirare era annusare. Annusare era conoscere. Conoscere era capire.
Gli era stato insegnato che meditare era l’esercizio propedeutico a qualunque altra azione, che prima di qualunque compito la mente doveva trovare la sua perfetta armonia con il corpo. Il cuore con il respiro. La comprensione con la conoscenza.
Costruire gli piaceva, era un modo per mettere un po’ di se stessi in un attrezzo che un’altra persona avrebbe poi usato. Ma forgiare un’arma significava capire come un’altra persona vedesse la vita e come volesse affrontarla. Perché in fondo la vita era piena di battaglie: un’arma indicava solo come sostenerne alcune, ma era abbastanza per intuire come chi la brandiva si ponesse di fronte a tutto il resto.
Valzigor ancora ricordava la meditazione, gli esercizi che avevano preceduto la forgiatura della propria arma. Nella sua terra d’origine ogni ragazzo si sottoponeva per anni a un duro allenamento che gli avrebbe permesso di diventare guerriero, ma non avrebbe mai potuto aspirare a quel titolo senza forgiare la propria arma. Così ognuno doveva lavorare nella fucina del Mastro fino a quando non avesse imparato le tecniche alla perfezione. Quando l’allievo veniva ritenuto pronto allora dove scegliere cosa forgiare. Poi veniva rinchiuso in una cella con tutto l’occorrente e cibo e acqua sufficienti per una settimana. Non tutti riuscivano a sopravvivere.
Valzigor aveva superato brillantemente quella prova, mentre non era mai arrivato a eccellere nel puro combattimento. Semplicemente perché combattere solo per combattere non gli era mai piaciuto.
Un’arma deve rispecchiare chi la brandisce, diceva il vecchio Mastro Armaiolo. Valzigor lasciò vagare la sua mente su Selior… Gli aveva chiesto una spada, e col carattere tagliente che si ritrovava la spada era sicuramente la soluzione migliore. Ma c’era dell’altro: Selior era una persona schietta e impetuosa che ancora doveva trovare la propria la strada, che ancora doveva liberare la sua vera indole dalle costrizioni imposte precedentemente. Valzigor non aveva avuto modo di osservarlo attentamente nel combattimento, ma sembrava che lottasse come qualcuno gli aveva insegnato, non come lui aveva imparato. Per questo un’arma comune non sarebbe andata bene:  non lo avrebbe costretto a far quel salto di qualità che trasformava un soldato in un guerriero.
Inoltre Selior usava lo scudo e aveva bisogno di qualcosa che potesse essere impugnata a una sola mano. “Che spreco di forza,” pensò Valzigor, aprendo gli occhi.
Selior sapeva di sangue, la prima volta che lo aveva visto. Puzzava di sporco, di sudore e di paura, come l’animale braccato che era diventato.
Conoscenza, il primo passo.
La comprensione era arrivata dopo.
Il giorno prima  lo aveva scovato appollaiato sulla cima di una collina poco lontana dalla loro casa – sua e di Shahan – una posizione che permetteva di dominare un paesaggio meraviglioso fatto di prati e boschi a perdita d’occhio.
A Valzigor piaceva respirare tutto quel verde, gli piaceva la sensazione di pulito che gli lasciava.
Selior non lo aveva sentito arrivare, ma ne aveva percepito immediatamente la presenza.
“è successo qualcosa?” aveva chiesto.
“Nulla di particolare,” rispose Valzigor guardando l’amico dall’alto, reggendo due bastoni.
Selior lo guardò con aria interrogativa.
Valzigor ricambiò con uno sguardo contrito: “È che non riesco a decidermi che arma forgiare per te.”
Selior si mise a ridere: “Vuoi sfidarmi?”
“No,” rispose Valzigor, pensieroso. “Voglio conoscerti”.
“Basta una spada, una spada qualunque…” rispose Selior, senza capire i dubbi dell’altro.
“Mai sottovalutare l’arma, il forgiatore o il combattente,” rispose Valzigor. “Qual è la tua arma preferita?”
“Ho sempre usato una spada,” rispose Selior.
“Scudo?”
“Ovviamente,” rispose Selior, accettando il bastone che l’altro gli porgeva. “Continuo a non capire dove tu voglia arrivare…”
“Impugna il bastone!”
Selior lo afferrò saldamente a due mani, come fosse una spadone. Nonostante l’ingombro evidente dell’arma impropria riusciva a mantenere una certa agilità.
“Ora prova solo con una mano!”
“È troppo lungo e sbilanciato…” iniziò a protestare Selior, ma le parole gli morirono sulle labbra quando vide Valzigor bloccare l’estremità del bastone contro il proprio corpo con una mezza piroetta e romperlo con un colpo secco col taglio della mano a circa due spanne dalla cima.
“Ancora troppo lungo?”
Selior lo guardò ancora sbalordito, incapace di comprendere da dove venisse tanta velocità e potenza a mani nude.
“Così va meglio.”
“Ottimo!” Lo interruppe Valzigor sorridendo. “Esercitazione finita!”
 
Aveva deciso cosa forgiare. Una spada di lato. Una spada che poteva essere impugnata a una sola mano, solo con l’esercizio, solo dopo averla ben soppesata e compresa. Troppo pesante per la maggioranza delle persone, Valzigor era sicuro che non lo sarebbe stata per Selior: la struttura muscolosa di questo ultimo lasciava a intendere gli anni di addestramento nell’esercito. Una spada di lato. Non sarebbe stato in grado di usarla sin da subito con una sola mano, ma forse questo sarebbe servito per spronarlo oltre quelli che sembrava essere il suo grande limite: la poca conoscenza di se stesso.
Quando il caldo gli invase le narici, seppe che era giunto il momento. Per Valzigor annusare il ferro che si scioglieva era un po’ come per un cuoco assaggiare una pietanza: era il controllo che la cottura fosse al punto giusto,
Prese il metallo informe e incandescente e cominciò a martellarlo per dargli grezzamente la forma. Ripiegò varie volte il metallo su stesso per amplificare la sua durezza e la sua flessibilità. Lo plasmò, lo temprò e lo rinvenne nel fuoco e nell’acqua più e più volte. E ogni volta il fumo portava un odore diverso: ogni volta che il metallo si scaldava lasciava nell’aria le impurità, ogni volta che il metallo si raffreddava regalava uno sbuffo del suo carattere.
Infine affilò la spada e la immerse per un attimo in bagno d’acido per esaltare le venature dell’acciaio.
Lunga fu anche la lavorazione dell’elsa: semplice ma funzionale, foderata da un lungo nastro di seta rossa che riprendeva le decorazioni del fodero di legno.
Era notte quando completò il lavoro.
Soddisfatto della propria creazione l’avvolse in un panno scuro e se andò a dormire.
Il giorno dopo porse l’arma a Selior. Questi la guardò, meravigliato dalla perfezione della linea, dall’eleganza degli intarsi e dal bilanciamento della lama. La prese in mano e si rese conto solo allora di come fosse più lunga e pesante di una comune spada. Tentò di impugnarla a due mani, ma era scomodo: era stato lasciato spazio per questa scelta, ma la forma dell’impugnatura suggeriva di essere usata a una sola mano. Valzigor studiò attentamente i movimenti e le perplessità di Selior e, più che mai, si convinse di aver fatto la scelta giusta.
“Non è una spada normale. La chiamano spada bastarda o spada a una mano e mezza. Non è comune in queste terre. Come hai già capito può essere impugnata a una mano o a due mani.” disse allora, sorridendo. “A te la scelta”.
“è splendida. Grazie”. Fu la risposta di Selior, realmente convinto di quello che stava dicendo ma non ancora a proprio agio con la lama che aveva in mano. “Ma non riesco… Non ho mai usato niente di simile!”
“Pazienza” mormorò Valzigor, toccandosi il naso. “Dovete solo conoscervi. Fidati di me: abbi pazienza.”

***
Nota dell'autrice:
...e con questa abbiamo finito gli spin off della storia principale. Di tutte e cinque le storie questa è quella che mi soddisfa di meno, ma ho comunque preferito pubblicarla come è stata scritta per il concorso correggendo solo i refusi che mi sono saltati agli occhi.
Prossimamente su questi schermi con la long-fic da cui questi spin off hanno preso origine: rimettere le mani su questi personaggi e sulle loro storie mi ha fatto venire voglia di riprendere a scrivere seriamente di loro. Grazie in particolare a Cabol per i complimenti e l'incoraggiamento!
Un abbraccio a tutti quelli che passano di qua!

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