The strange case of Dr. Reid and Mr. Outside

di AlexEinfall
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sangue ***
Capitolo 2: *** Jordan ***
Capitolo 3: *** Tempo ***
Capitolo 4: *** Metro ***
Capitolo 5: *** Angelo ***
Capitolo 6: *** Scintille ***
Capitolo 7: *** Manette ***
Capitolo 8: *** Resa ***
Capitolo 9: *** Alias ***
Capitolo 10: *** Monitor ***
Capitolo 11: *** Lucas ***
Capitolo 12: *** Start ***



Capitolo 1
*** Sangue ***


Introduzione: quando un eroe diviene il peggior nemico dell'umanità, quando ogni indizio conduce allo smantellamento di una maschera di bontà, quando è il cacciatore a divenire preda, chi potrà essere ancora dalla sua parte? Se Spencer Reid, un giorno qualunque, si risvegliasse con le mani sporche di sangue, chi potrebbe salvarlo dall'oblio?  Tra lo spettro della dipendenza e qualcosa di molto diverso e più oscuro, la strada per la soluzione dell'enigma non potrà essere percorsa in solitudine.

Note: Questa fic era nel mio cassetto elettronico da troppo tempo. Ci ho messo un bel po' d'anima, di fatica e di divertimento per partorirla e poi ho deciso di rinchiuderla. Credo sia arrivato il momento di rischiare, di condividerla e di liberarla. Le storie non sono fatte per ammuffire in un angolo!
Questa long non è molto long: appena 11 capitoli. Spero che piaccia e magari emozioni, ma, come sempre, senza pretese.
Buona lettura!
Ax.





The strange case of dr. Reid and mr. Outside


1
Sangue

                                    
Non c'è uomo più sperduto di chi ha smarrito la via
nell'intrico della propria mente,
dove nessuno può raggiungerlo e nessuno può aiutarlo.
Non c'è uomo più disperato di chi non riesce a ricordare.
Isaac Asimov



   Sangue. Nella nebbia della droga si era chiesto, tre o forse quattro anni prima, che odore potesse avere il sangue di un'altra persona sulla sua pelle. Possibile, si era chiesto, che le molecole odorose di qualcun altro, mischiate alle mie, possano dare come risultato un buon aroma? Soprattutto lo incuriosiva il pensiero che la morte, a contatto con la sua pelle, forse avrebbe avuto l'odore della vita.
 
  I minuti scorrono in modo irregolare: a volte in sessanta secondi, altre sembrano impiegarci meno di un istante. Ma il tempo non può piegarsi su se stesso, saltellendo impazzito come una rana; almeno non in questo universo e non in una mente sana. Questo il dottor Spencer Reid lo sa bene e potrebbe snocciolare in meno di tre minuti, ora reale si intende, nozioni ben precise sul tempo. Eppure le certezze accumulate nel cervello sembrano sgretolarsi davanti allo specchio, che gli rimanda l'immagine di un sé sporco, stanco, irreale. Da quando ha aperto occhio nulla gli è sembrato vero.
  Si stringe nelle spalle, mentre un brivido percorre ogni centimetro del corpo, fissandosi nelle ossa. Sente freddo, nudo nel suo bagno, di fronte a quello specchio. Trema, ma non riesce a muoversi.
  Nel lavandino giace una maglia color panna, intrisa di un rosso che diventa sempre più marrone. Non sa da dove venga, ma è con quella maglia indosso che si è svegliato nel suo appartamento meno di un'ora fa. Tutta la parte centrale del tessuto è occupata da un lungo getto di sangue, che si è espanso nel tempo- ha calcolato che ci siano volute almeno otto ore. Ha voluto credere non fosse vero, ma usando la sua scorta di luminol su quel maglione, non ha avuto più dubbi: nel giro di tre minuti, nel buio ermetico del bagno, è apparsa la luminescenza rivelatrice.
  Si guarda le mani: tra le falangi si è depositato del liquido, che ora è diventato una pasta marrone. Sembra essergli penetrato nella carne. Preso da un'impeto di disgusto, afferra il flacone di candegina e sta per versarla sul maglione, ma ci ripensa. Dall'armadietto prende un paio di forbici e ricava una striscia di tessuto, che infila in un sacchetto ben chiuso. Questo semplice gesto ha il potere di tranquillizzarlo: porterà il campione in un laboratorio e lo farà analizzare. Ma la prospettiva di quello che potrebbe accadere lo getta nello sconforto. Si abbandona al muro, si lascia scivolare a terra e resta immobile a fissare il soffitto.

Possibile che io abbia ucciso?

 
 Vorrebbe dire di aver passato una serena notte nel suo letto, di aver letto fino ad addormentarsi con un volume aperto sul torace che si sollevava ed abbassava, mentre le fasi del sonno scivolavano via fino al prodigioso mattino pieno di luce e normalità. La verità  è che se qualcuno gli facesse la famosa e tormentosa domanda: «Dov'era ieri notte dalle nove a...bhe, al mattino?» Spencer Reid potrebbe solo rispondere, tra affannose ricerche: «Non ne ho idea.»

  Lui è quasi certo di aver lasciato gli uffici del BAU verso le otto di sera. Ha discusso con Rossi, circa la responsabilità morale e intellettuale di condannare una persona che non abbia memoria dei suoi crimini.
  L'ironia della vita.
  Ha preso la metro per tornare a casa, ma non è sicuro di aver varcato la soglia. La sua vita nello spazio temporale compreso tra le nove della sera prima e il momento attuale è un pericoloso buco nero, che risucchia nell'oblio anche i ricordi più fermi. Forse si è fermato in un bar, dove ha bevuto frettolosamente un cognac, oppure questo è accaduto la sera prima: le immagini nella mente sono deboli e offuscate. Quando dubiti della tua memoria, nulla è più certo.  

Non ricordare, per Spencer, è come non vivere.

  La testa gli esplode. Fino al quel momento, non avrebbe potuto credere che una frase così imprecisa e comune potesse essere la descrizione più fedele di un dolore fisico. Se fisico si può chiamare quel pesante macigno che gli comprime il cervello. Gli sembra che il liquor cerebrospinale si stia condensando, premendo sulle pareti fragili della sua mente. Riconosce come la paranoia lo stia inquinando, ma non riesce a liberarsene.

  Il telefono prende a squillare sul lavvabo, diffondendo il suono suono acuto attraverso la porcellana. Si alza così in fretta che per un attimo tutto diventa nero. Si preme i pugni sugli occhi e pian piano la vista torna nitida.
  Morgan.
  «Sì?»
  «Hei, ragazzino. Quanto ti ci vuole per prepararti?»
  Spencer aggrotta le sopracciglia. Forse ha dimenticato di avere un appuntamento, forse non sa neanche che ora sia. «Scusa?»
  «Sto passando a prenderti» dice, ma poi si accorge dal silenzio che l'altro è disorientato. «Hotch mi ha chiamato, abbiamo un caso.»
  Spencer vorrebbe controllare l'orologio da polso, ma non sembra essere nei paraggi. In realtà, non ricorda di averlo tolto mentre si spogliava. «Ok, bene.» risponde frettoloso e riaggancia bruscamente.
  Rimane inebetito con il telefono nel palmo della mano sporca. Poi si riscuote e apre il rubinetto della doccia. Sentire la voce di Morgan, così reale e familiare, lo ha riportato nel mondo in cui lui non ha mai commesso alcun crimine, dov'è il piccolo genio di una squadra formidabile che da' la caccia a persone realmente colpevoli. Più tardi darà uno sguardo ai notiziari: forse c'è stato un incidente e lui non lo ricorda, per via dello shock.
  E se...
  Un dubbio gli fulmina la mente. L'altroce sensazione di aver commesso un errore, così vecchio e così sporco, lo sconvolge. Sotto l'acqua calda controlla l'incavo del gomito. Le vene gonfiate dall'agitazione e dalla temperatura sono l'unico segno che vi trova. Controlla anche le caviglie: niente punture. Sospira, mentre un pensiero macabro e ironico lo colpisce: avrò anche ucciso, ma almeno non sono ricaduto nel vizio della droga.

  Venti minuti dopo è in piedi sul marciapiede, stretto nel cappotto, la tracolla sulla spalla che gli pesa più del solito, quando vede il SUV frenare e Morgan sorridergli dalla cornice del finestrino. Sembra quasi tutto normale, ma sul dorso delle mani sente ancora la sensazione del sangue, come uno strato appiccicoso di miele che non va via.

  «Tutto bene?»
  Spencer si risistema sul sedile, a disagio. «Sì, certo.»
  «Hai una brutta cera. Sicuro di aver fatto riposare quel super-cervello?»
  Gli angoli della bocca vengono tirati in un sorriso stanco e forzato, poi il ragazzino scuote la testa. «Più o meno.»
  L'altro si fa più serio. «Ancora mal di testa?»
  Spencer vede un'occasione di fuga da quell'indagine scomoda. «Sì, non ho dormito bene. Ma ora va meglio.»  
  «Sicuro? Guarda che puoi tornare a casa e riposare, parlerò io con Hotch. Sono sicuro che lui-»
  «No» quasi urla Spencer. Si schiarisce la voce. «Non è necessario. Sto meglio, davvero. Preferisco lavorare.»
  Morgan è perplesso, ma capisce che è meglio non insistere. «Come vuoi.»
   Involontariamente, il suo istinto si attiva e, mentre il dottore fissa oltre il finestrino, lui ne approfitta per scrutarlo. Non gli sfugge il rossore degli occhi e il torturarsi incessante delle mani, che sembrano volersi nascondere a vicenda.
  C'è un certo alone che circonda il ragazzo e a Morgan ricorda un periodo ben più nero, quando Spencer si sentiva in colpa per il suo segreto, per quell'ago che gli perforava la vena, sicuramente all'altezza della caviglia dove nessuno avrebbe cercato. Nessuno a parte Morgan.
   Si da uno schiaffo mentale. Non essere stupido, quella è storia vecchia. Perché Spencer non potrebbe mai essere così stupido, non due volte. Questo farebbe di lui un idiota. Mentre si ripete queste rassicuranti teorie, Derek sa che l'intelligenza non ha nulla a che vedere con la capacità di sconfiggere i propri demoni.
  Decide quasi automaticamente di tenere d'occhio Spencer, a costo di stargli col fiato sul collo.


Da qualche parte nel cielo tra Washington e Georgia.

  Ad Atlanta una donna è stata strangolata con una cinghia di cuoio, il corpo scaricato in un vicolo. Non c'è sangue in quelle foto, nemmeno una goccia, ma le mani di Spencer non riescono a non avere un lieve tremito. In un angolo del jet, seduto lontano dai finestrini, dovrebbe meditare sul caso presentatogli poco più di un'ora prima, ma la sua mente scivola ostinata verso altri pianeti. Si massaggia le tempie, abbandonando il fascicolo sulle ginocchia, e cerca di pensare lucidamente.
  Forse è solo suggestione, si dice. Essere un profiler e vedere, a volte subire, tanta violenza rende paranoici.
  Vorrebbe davvero crederci, ma qualcosa sembra spingere dentro di lui per buttarlo in un'altra direzione, faccia a terra. Cerca di rassicurarsi: prima di partire ha lasciato il campione di sangue ad un laboratorio fidato e discreto. Ma questo non diminuisce la sua ansia, perché la mente comincia automaticamente a congetturare: a quest'ora avranno già un riscontro positivo per il sangue umano e al ritorno sarà pronto il profilo del DNA, e allora...
  «Reid? Ci sei?»
  Alza di scatto lo sguardo e incontra gli occhi di JJ, che attende la risposta a una domanda che il dottore non ha neance percepito. Tutti lo stanno fissando e tutti tornano ai loro fascicoli, quando Spencer riesce a tirare fuori qualche parola convincente e ipotesi improvvisate. Tutti attribuiscono quella temporanea assenza alle bizzarrie del dottore, tutti tranne Morgan, che ascolta e osserva in silenzio, mentre i pezzi di un puzzle comportamentale vagano nella sua mente, senza riuscire a incastrarsi.
   Forse è solo suggestione, pensa. Essere un profiler e vedere tanta violenza rende sensibili, ti fa sviluppare un sesto senso per il pericolo. Eppure...
Morgan sospira, mentre una rabbia stanca gli monta in petto. Potrà anche trattarsi di paranoia, ma la paura che sente è reale e gli dice che Spencer si è cacciato di nuovo nei guai.







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Capitolo 2
*** Jordan ***


2
Jordan

Di me stesso so solo quel tanto che riesco a capire
nelle mie attuali condizioni mentali.
E le mie attuali condizioni mentali non sono buone.
Douglas Adams



Atlanta, Georgia.

  Secondo le prime formulazioni dell'antropologia criminale¹, un assassino nato è irrecuperabile e primitivo, presenta tratti fisiognomici caratteristici che lo allontanano dalla possibilità di vivere con gli altri esseri umani, perché in realtà non sono suoi simili. Più di cento anni di storia della mente separano il BAU da queste antiche teorie, eppure Spencer rimane inebetito dietro lo specchio unidirezionale. Oltre la lastra di vetro, Hotch siede di fronte al sospettato: un ragazzo giovane dalla storia personale intrisa di disturbi mentali. Il dottore non può fare a meno di guardare con curiosità morbosa quel viso: i lineamenti dolci da adolescente mai sviluppato, i ricci castani che appaiono setosi, seppure non curati, e gli occhi grandi, ma sfuggenti.
  Il suo nome è Douglas Adams. Il solo sentirlo, gli ha scatenato una manciata di ricordi, pescati dai libri letti da ragazzo.

Il mio Universo sono i miei occhi e le mie orecchie. Tutto il resto è supposizione.²

  Questa la frase che gli è venuta in mente, guardando per la prima volta la foto di quel ragazzo. Vorrebbe avere una soluzione così semplice, ma i suoi occhi e le sue orecchie lo portano a una sola conclusione: la sua mente lo sta lentamente abbandonando. Si chiede se quel ragazzo, Douglas Adams, abbia provato la sua stessa terribile paura, nel momento in cui si è reso conto di aver strangolato una perfetta sconosciuta. Questo pensiero riesce a terrorizzarlo ancor di più: non si era mai reso conto, prima d'ora, quanto profonda potesse essere la paura di aver tolto una vita. Cerca di pensare che le sue sono solo supposizioni, ma non credere ai propri sensi è troppo difficile, perché sente ancora l'odore del sangue, il suono dell'ammoniaca che scivola nel lavabo e il fastidio della pelle tesa da troppi lavaggi.
   Tornando a Douglas Adams, il dottore si scopre a chiedersi se anche lui abbia lo stesso sguardo anormale. Quel ragazzino non è certo il ritratto di un mostro, ma Spencer non ha dubbi: «E' lui,» mormora «è stato lui.»
  Morgan aggrotta le sopracciglia. «Quale connessione ha creato il tuo bel cervello?»
 «Nessuna. Gli indizi e il profilo conducono in una direzione, ma è solo un orientamento. Le certezze possono arrivare senza prove, sono...esistono. Non posso spiegarmelo.»
  «Un uomo di scienza come te si affida al sesto senso?» lo beffeggia Morgan.
  Reid ha un moto di fastidio e volta la testa di scatto, fissandolo con un astio che lo sorprende. Lui è lì che lo canzona, che gli ricorda ciò che era prima di quella mattina, e non riesce a tollerarlo. In un attimo si accorge di odiare Derek e l'immagine che ha del gracile e bonario dottor Reid, un essere ingenuo e innocente con il quale lui non si ritrova. «Non credere di potermi conoscere così a fondo.»
  «Vuoi dirmi che ti prende?» ribatte l'altro, fronteggiandolo con la sua possente aria da troppo testosterone in circolo, tanto che Spencer riesce quasi ad avvertirne l'effetto sulla parte istintuale del cervello.
  «A me cosa prende?» lo beffeggia alzando le sopracciglia. «Credi di sapere tutto, vero? Credi che perché una persona sia innocente o...qualunque altra cosa, basti che tu lo senta? Tu non capisci nulla.»
 «E' di questo che si tratta? E' con me che hai un problema?»
  «Io non ho nessun problema» afferma poco convinto. «Forse dovresti pensare ai tuoi di problemi» rincara piccato. «Credi che io sia stupido?»
 «Di che diavolo parli?»
  In quel momento la porta della piccola stanza, che sembra sempre più stretta, si apre e Hotch fa capolino.
  «Possiamo ritenere il caso chiuso» annuncia il supervisore capo. Poi squadra entrambi e annusa la situazione. «Cosa succede qui?»
  Reid si affretta a parlare: «Nulla di importante» dice, con l'intenzione di ferire il più possibile. Poi guarda Morgan e aggiunge: «Non starmi col fiato sul collo, non sono una tua responsabilità.» Sorpassa Hotch, costringendolo a farsi da parte, e scompare oltre il corridoio a passo svelto e risoluto. Il supervisore lo guarda andar via e rivolge uno sguardo interrogativo all'agente.
  «Hai sentito, no? Lui non è mia responsabilità» quasi ringhia Morgan, uscendo anche lui e combattendo ferocemente contro l'istinto di rincorrere il dottore.


  Il viaggio di ritorno in jet è silenzioso. Tutti avvertono la tensione, poiché si trovano nel mezzo di quel muto conflitto: in un angolo siede Spencer, con lo sguardo perso nelle proprie mani; all'angolo opposto Morgan guarda oltre il finestrino, con le mascelle serrate e le sopracciglia corrucciate.
  Dopo quel diverbio, non hanno più parlato l'uno con l'altro e Spencer si è chiuso in un mutismo estremo, rifiutandosi di proferir parola con chiunque. Negli ultimi tre giorni la sua mente si è divisa: una piccola parte ha lavorato al caso come a qualunque altro e ha costruito la facciata di una normalità vacillante. Ma la parte maggiore della grande testa del dottore è rimasta invischiata nella spirale della paranoia: mentre guarda le dita sottili aggrovigliarsi tra loro, sente la morsa al petto, che lo opprime da quella dannata mattina, stringersi a cappio. Ora sa che, nel momento della caduta, sarà inevitabile trascinare con sé la sua famiglia. Vorrebbe solo far soffrire di meno, limitare i danni, arginare i confini. Si sente travolto da ogni sorriso che gli viene porto, ogni tentativo di avvicinamento, ogni premurosa attenzione rivoltagli. Se ne sente colpevole, aggredito, impotente. Ma, soprattutto, si sente irrimediabilmente solo.
  Mentre il jet sorvola una tempesta in formazione, gli occhi del dottore cominciano a inumidirsi.


  Appena giunti in ufficio, dentro Spencer sorge il terrore del ritorno a casa. Il mal di testa non lo lascia un attimo, sprofondandolo nel dubbio di non essere in grado di giungere al proprio appartamento senza drammi.
  E se dovesse accadere di nuovo? Se ancora perdessi l'orientamento e la memoria?
  Riesce a bloccare JJ prima che salga sull'ascensore. Ha atteso che tutti andassero via e che la ragazza, rimasta per sbrigare delle pratiche, fosse pronta per ritornare dalla vera famiglia.
  «Spence, tutto bene? Non sapevo fossi rimasto fino a quest'ora.»
  «Volevo rivedere il caso» mente il ragazzo. «Stai tornando a casa?»
  «Sì, Henry ha fatto un po' di capricci e non vuole andare a dormire» risponde sorridente.
  «Oh...»
  «Qualcosa non va?»
  «Nulla. Volevo chiederti un passaggio, ma se vai di fretta non importa, prenderò la metro.»
  JJ gli da una pacca amichevole sulla spalla, facendolo lievemente sobbalzare. «Sei un fascio di nervi, Spence. Meglio che mi assicuri che arrivi a casa sano e salvo.»

   Il parcheggio sottorraneo è silenzioso e umido. Mentre cammina, stringe le braccia al petto e cerca di non pensare. Sa che, se qualcosa dovesse trasparire dal suo volto, JJ lo noterebbe subito. Per distrarsi, si guarda attorno, soffermandosi a leggere le targhe delle auto parcheggiate. Sono per lo più piccole auto compatte, tutte scure, appartenenti ai dipendenti notturni. Quasi giunti alla monovolume di JJ, qualcosa attira l'attenzioe di Spencer. Fa un passo indietro e controlla meglio, sicuro che qualcosa non vada.
   «Spence?»
   Si riscuote e guarda la collega con tono interrogativo. «Questa di chi è?» chiede indicando un'auto rosso scuro. JJ fa spallucce e sorride.
   «Perché?»
   «Hanno assunto qualcuno di nuovo?» insiste Spencer: è sicuro di non aver mai letto prima quella targa. In fondo lo avrebbe ricordato certamente.
   «No...non lo so. Ha importanza?» chiede JJ ridendo.
   Reid abbozza un sorriso, guarda ancora quella targa e poi fa spallucce, raggiungendo l'auto dell'amica.
   Forse la sua paranoia comincia ad essere fin troppo estrema.   


  Appena chiude la porta dell'appartamento, il telefono prende a squillare. Fruga freneticamente nella tracolla, rischiando di far cadere il cellulare nel rispondere.
  «Sì?»
   Una voce femminile, posata e calma, risponde: «Hey! Sono io, Jordan.»
   Sa di conoscere quel timbro particolare, ma non riesce ad associare quel nome a qualcuno.
   «Mi scusi?»
   «Jordan Norris, ricordi?»
  Uno spiraglio si apre nella mente del dottore, aprendo un grosso occhio sul passato: Jordan, l'unico amore di Owen³, il ragazzo che lui allora credeva d'aver salvato. Ora sa che, in realtà, non c'è salvezza per quelli come lui.
  Per noi.
  «Oh, sì, certo. Mi ricordo di te.»
  Dall'altro capo del telefono proviene una risatina. Tutta quella spensieratezza, malgrado i drammi del ricordo, lo intenerisce. «Vorrei ben dire. Sono appena atterrata a Washington. So che è tardi, quindi possiamo vederci anche domani mattina.»
  Spencer strizza gli occhi, confuso: di cosa sta parlando?
  «Jordan, non credo di capire...»
  «Ma come? Mi hai chiesto di venire a Washington, per...sai, qualcosa che riguarda Owen...» gli dice, bisbigliando in modo circospetto.
  Spencer conferma e la saluta, con la sola intenzione di riagganciare quell'assurda telefonata.
  Poggia la schiena alla penisola della cucina e cerca di ricordare.
 Jordan Norris soffre di un lieve ritardo mentale, nulla fa supporre deliri o idee di riferimento.
   Spencer conclude che l'ipotesi più probabile è riconducibile a quella notte d'amnesia: deve aver contattato la ragazza e ora non ne ha memoria. Ma perché chiamare Jordan? E, soprattutto, cos'altro ha fatto? Molla tutto dove capita e si dirige in bagno: ha davvero bisogno di una doccia.
  Sistemerò tutto domani, si dice. Deve esserci una spiegazione.
  Mentre l'acqua calda gli penetra in ogni poro, i muscoli riescono a rilassarsi e la mente sembra sciogliersi.
  Tutto si sistemerà.
 




¹Si parla della teoria di Cesare Lombroso, oramai sorpassate. Per chi vuole approfondire, Cesare Lombroso su Wikipedia
²Citazione tratta da Ristorante al termine dell'universo di Douglas Adams.
³Episodio 16 della Terza stagione Memoria da elefante.

Note: Ringrazio chi mi sta seguendo, chi sta commentando la mia storia e chi, in fondo, mi sta spronando a pubblicarla.
Vi sono davvero grata.
Ax.

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Capitolo 3
*** Tempo ***


3
Tempo


La realtà è quella cosa che,
 anche se smetti di crederci,
non svanisce.
Phillip K. Dick



 Derek non si è ancora seduto al tavolo rotondo della sala riunioni, che già Spencer prende parola: «Dove siamo diretti?» guardando di sfuggita il monitor. Si siede e inizia a dondolare nervosamente la sedia, tanto che Derek può quasi sentire il piede tamburellare sul pavimento.
  JJ controlla che siano tutti presenti, quindi fa un cenno al capo Hotch.
  «Non sarà necessario prendere il jet» comincia rivolta a Spencer, che si raddrizza, improvvisamente attento. «Lei» continua indicando lo schermo con il telecomando, «è Madison Lorenz, trentadue anni, single, senza figli. E questa è la foto del suo corpo privo di vita. E' stato trovato all'alba da un passante, in un vicolo dietro la biblioteca Arcana. Secondo il coroner, l'omicidio è avvenuto cinque giorni fa, la notte prima della nostra partenza per Atlanta. Malgrado il grosso squarcio all'addome, la causa accertata della morte è una singolo colpo al petto, che attraverso le costole ha trafitto il cuore con estrema precisione.»
  «L'ha uccisa in fretta e poi l'ha sventrata?» si informa Rossi.
  «Esatto. In più c'è questo» JJ preme un pulsante e sullo schermo appare un ingrandimento del volto della vittima. «Sulla fronte è stato inciso il numero cinque. Ho chiesto riscontro: non sono ducumentate altre quattro vittime morte in circostanza simili.»
  «Ciò vuol dire che dobbiamo aspettarci altri quattro delitti.»
  «Il comportamento è organizzato» interviene Spencer, senza riuscire a guardare negli occhi nessuno. «Non ha lasciato tracce e, malgrado la ferocia dello sventramento, nella scena nulla fa presumere disorganizzazione. La ferita all'addome è un eccesso di violenza, che indica rabbia, ma fa anche parte della sua firma: non era necessario, la vittima era già morta e lui lo sapeva.»
  «Che strano...» mormora Prentiss guardando il fascicolo. Alza gli occhi e si spiega. «Mi sembra di averla già vista.»
  «Infatti è così» risponde JJ, attirandosi l'attenzione di tutti. «E' surreale, ma l'unità ha già conosciuto la vittima, con il nome di Maddy. Ha collaborato come testimone nel caso Ronald Weems¹. Era l'amica della seconda vittima.»
  «Me la ricordo» mormora Prentiss. «Strana coincidenza.»
  «La riterremo tale fino a prova contraria» sancisce Hotch. «Non lasciamoci suggestionare.»
  Rossi poggia i gomiti al tavolo. «Ricordo di aver letto quel caso: tre prostitute pugnalate, ciocche di capelli asportate e tutte abbandonate nella zona del Campidoglio. Qui il modus operandi è completamente diverso.»
  Derek lancia uno sguardo a Spencer, che tiene le mani congiunte e sembra intento in chissà quale ragionamento. «Reid, pensi sia possibile che sia stato Nathan Harris?» Sono le prime parole che gli rivolge dopo Atlanta, eppure per lui quella è, almeno in parte, storia passata. Ma non riesce a nascondere una certa rudezza.
  Il ragazzo sembra offeso da quella domanda e corruga la fronte. «Assolutamente no.» Poi, accorgendosi degli occhi della squadra puntati su di lui, si schiarisce la voce. «Nathan è stato ospedalizzato ed è ancora in istituto. Non è mai uscito. Il rischio di etero e auto agressività è ancora alto...»
  Le sue parole lasciano aleggiare uno strano silenzio di sguardi, interrotto solo dalla voce di Prentiss, quasi conciliante. «Guardate il braccio. JJ, puoi ingrandirlo? Ecco, lì. C'è un orologio al polso, ma sembra un po' fuori misura. Inoltre, è l'unico oggetto indossato dalla vittima. Non è strano?»
  «La scientifica lo ha analizzato, non credo sia della vittima» concorda JJ. «Non è stata trovata neanche un'impronta, del tessuto epidermico o sudore. Come se fosse stato ripulito e messo di proposito. Un messaggio, forse.»
  Lo stomaco di Spencer si contorce e un'ondata di disgusto gli sale alla gola. Morgan si accorge troppo tardi del suo malessere. Mentre le ipotesi continuano, l'unica voce esclusa è quella del ragazzino e, come se un'ombra gelida di negatività gli sedesse accanto, Derek si sente spinto a voltarsi. Ciò che vede lo sconcerta: il collega appare paralizzato, gli occhi sbarrati che sembrano fissare il foglio, ma in realtà non vedono nulla. Pallido come se mai avesse visto il sole, il battito accellerato del cuore sembra quasi udibile. Il tocco leggero della mano di Derek sulla sua lo fa sobbalzare vistosamente, interrompendo il dialogo nella stanza.
  «Reid, tutto bene?»
  Il ragazzo si guarda un attimo intorno, come non sappia dove si trovi.
  «No...sì...devo andare in bagno.» E quasi vola via dalla sedia ed esce dalla sala, lasciando una scia di sgomento e preoccupazione dietro di sé.


  L'orologio.
  Il mio orgologio.
  Nathan. Owen.  
  Il riflesso operato dalla lastra metallica dietro il vetro è stanco. Oltre lo specchio c'è solo lui, Specer Reid, ma non riesce davvero a riconoscersi. Trema così forte che neanche aggrapparsi al bordo di porcellana del lavobo sembra fermarlo. Sente il sudore congelarsi sulla fronte e i capelli appiccicarsi alla nuca, lì dove un alito freddo gli accappona la pelle. Vorrebbe davvero credere alla reale esistenza del fenomeno detto coincidenza: l'accadere simultaneo e fortuito di due o più fatti o circostanze diverse. Qualcosa che avviene senza volontà o ragione apparente.
  Ma per la stessa struttura della sua mente, Spencer Reid non può credere che la coincidenza esista davvero.
  Forse, si dice, i fatti possono essere spiegati senza drammi: devo aver assistito a un incidente, forse sono addirittura stato coinvolto, anche se non sono ferito; in conseguenza di ciò, ho perduto l'orologio e il ladro deve averlo messo al polso della vittima; magari è stata la vittima stessa a trovarlo e l'assassino, temendo di lasciare tracce, lo ha ripulito prima di abbandonare il corpo.
  Ma l'intuito del profiler sa che ci deve essere molto più, sotto tutto questo. L'unico modo per essere certi è ottenere il referto del laboratorio sul campione che ha portato giorni prima.
  Però prima, riflette, dovrebbe riuscire ad uscire inosservato dal BAU.


  Ha quasi raggiunto l'ascensore, quando la voce di Morgan lo blocca. Preme il tasto di chiamata e spera che il meccaniscmo sia più veloce del solito.
  «Hei, Reid, dove vai?»
  «A casa. Non sto molto bene.»
  «Che succede?»
  «Mal di testa» dice seccamente, senza aggiungere nulla.
  Morgan incrocia le braccia sul petto. «Dovremmo parlare di quello che è successo.»
  Spencer annuisce e sente l'ascensore salire veloce i piani. Vorrebbe solo che quelle porte si aprano e lo inghiottano, lasciandolo solo e libero dal fardello della menzogna. Vuole tornare a casa e mettere in atto il suo piano, vuole scoprire che quel sangue è di un povero disgraziato investito da un taxi o di un cane abbandonata per strada.
  Ma Morgan non sembra della stessa idea. «Sai che questo silenzio può solo far male al nostro rapporto.»
  Spencer volta di scatto la testa, avvertendo un rossore al volto molto fastidioso, a metà tra imbarazzo e ira. «Morgan, non ne voglio parlare. Io...non voglio parlare. Voglio solo tornare a casa a riposarmi.»
   «D'accordo» si arrende Derek. «Promettimi che quando starai meglio parleremo.»
   «Lo prometto» dice distrattamente, abbassando lo sguardo come un bambino che non vorrebbe dover fare promesse.
  Finalmente le porte metalliche si aprono e Spencer salta dentro subito. Riesce a rivolgere al gollega l'ultimo sorriso, che cede non appena l'ascensore riparte.
  Ha la strana sensazione che nessuno, nemmeno Derek, lo guarderà più con quegli occhi. Gli occhi dell'affetto. Gli occhi con cui si guarda un innocente.


  Spencer decide di passare per casa prima di andare in laboratorio. Ha bisogno della sua auto e di un libro che lo aiuti a smorzare un'eventuale attesa. Prende dalla libreria una raccolta di Faust e la infila nella tracolla, quando il telefono di casa inizia a squillare. Si precipita a rispondere.
  «Sì?»
 «Spencer, sono il dottor Lidford.»
  Il battito accellera.
  «Ho i risultati del test. Puoi venire a ritirarli già domattina.»
  «No» pigola. «Voglio dire, devo saperlo: è sangue umano?»
  Il neurochirurgo, avvezzo alla segretezza e a modi ben più cauti e gentili, rimane incerto. «Sì, è umano. Di una donna, per la precisione. Schizzo arterioso. Con una ferita simile ci sono pochi dubbi che sia ancora in vita.»
  Spencer riattacca con un precipitoso ringraziamento. Deve appoggiarsi per non svenire. Il cuore batte così forte che gli duole il petto.
 
  E' tutto vero. Ho ucciso una donna.


  Malgrado i tentativi disperati di restare ancorato alla realtà, sviene, accasciandosi al suolo come un bambino stremato.

  «Ti ha detto il motivo?» chiede Hotch, incrociando le braccia al petto. Non è mai molto entusiasta di sapere che un suo agente decide di abbandonare un caso senza informarlo, tanto meno se la persona in questione è il dottor Spencer Reid, che non ha mai lasciato un'indagine a metà.
  «Mi ha detto solo di sentirsi poco bene» risponde Morgan, il volto rigido.
  Hotch squadra il suo agente e annuisce piano. «Per quanto accaduto ad Atlanta-»
  «Questo non ha nulla a che vedere con Atlanta.»
  «Non interrompermi» sancisce il supervisore capo, alzando una mano. «Che abbia a che vedere con l'assenza di Reid o meno, non tollero questo genere di conflitti nella mia squadra. Sai meglio di me quanto sia importante per dei profiler esprimere i diverbi, piuttosto che scontrarsi senza successo.»
  Morgan serra i pugni fino a sbiancarsi le nocche. «Io lo so bene, Hotch. Dovresti spiegarlo a lui
  In quel momento ad Aaron torna in mente la voce di Gideon, il giorno in cui decise di assumere uno Spencer Reid giovane e chiuso.
 
 Quelli che tu chiami limiti, sono solo potenzialità inespresse. Aveva detto Jason. Spencer conosce bene tutte le regole del vivere sociale, sa vedere reti di connessioni tra persone dove io e te vediamo solo dinamiche. Lui, Aaron, conosce tutto, ma non sa cosa significhi l'amicizia, o l'amore, perché non sa guardarsi dentro oltre la propria mente. Ma imparerà, sono certo che con noi imparerà.

  Si chiede se non abbia deluso il suo vecchio amico.
  «Un'ultima cosa» dice prima che Morgan decida spontaneamente di congedarsi. «Perché sei venuto a riferirmi queste cose? Non spettava a te.»
  L'agente si acciglia, come se gli fosse stata posta una domanda ovvia.
  «Perché Spencer fa parte della famiglia. E anche se a volte vorrei ammazzarlo, resta un mio amico.»







¹Episodio 11 della Seconda Stagione, Eros e Tanatos.



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Capitolo 4
*** Metro ***



Note: Mi scuso profondamente per aver tardato tanto, ma purtroppo ero priva di qualunque connessione e con un trasloco in atto. Ringrazio di cuore chi ha commentato e mi sta seguendo, spero mi accompagnerete fino alla fine della storia.
A beneficio di chi ha cominciato a leggere questa storia all'inizio, riassumo brevemente: Spencer si è cacciato nei guai (ti pareva!) e Morgan lo intuisce, ma ancora non sa nulla. Sì, perché il genio perde conoscenza e si risveglia con le mani sporche di sangue (letteralmente e non). Un efferato killer sta uccidendo a gran velocità e lascia dietro di sé solo un indizio: un numero sulla fronte della vittima. Sotto il ponte della morte, è già scorsa via una vita, quella di Madison Lorenz, sulla sua fronte il numero 5 come oscuro presagio.



4
Metro


La vendetta è un atto che si desidera compiere
quando si è impotenti e perché si è impotenti:
non appena il senso di impotenza viene meno,
svanisce anche il desiderio di vendetta.
George Orwell.


   Ci sono persone con le quali la vita è poco clemente, ma la morte si mostra molto più gentile. Nel caso di Madison Lorenz questo non può dirsi. Il corpo della ragazza è disteso sul tavolo d'acciaio, in quell'immobilità che solo l'assenza di battito vitale può dare, qualcosa di diverso da ogni altra cosa. Rossi si abbandona alla riflessione, nel tempo necessario all'attempato medico legale per sfogliare velocemente il fascicolo.
 
 L'esistenza di una persona finisce in questo. Neanche cenere e polvere, nemmeno la terra e il fango. Solo un insieme di cellule morte distese su un asettico tavolo. Come molte prima e molte altre in futuro.

  Dopo anni di profiling, è sempre questo il suo primo pensiero alla vista di un corpo. Col tempo è diventato solo più bravo a nasconderlo, così tanto che quasi non lo tocca più. Non a livello cosciente, almeno.
  Il medico comincia con il classico uhm di chi ha davvero poco da dire e se ne dispiace. «La causa della morte è la più ovvia: l'arresto del cuore. Tutto considerato, ha sofferto poco.» Si gratta la barba grigia, mentre passa in rassegna il corpo. «Lo sventramento è avvenuto postmortem, i tessuti erano ormai privi di vita, per questo il sanguinamento è stato piuttosto esiguo. Il tossicologico è negativo, non aveva segni di aggressione sessuale e non sembra essere stata spogliata e rivestita. Mancano anche segni di difesa o costrizione...»
  «Come è possibile?» chiede Morgan. «Nessuno si lascia accoltellare al petto senza difendersi.»
  «Non so come sia possibile, ma è quello che ho di certo da dirvi.»
  «Che ci dice del marchio sulla fronte?» interviene Rossi, chinandosi sul corpo.
  «Fatto con uno strumento molto affilato, non dissimile da un bisturi. Postmortem anche questo, è certo.»
  «Nessun segno di esitazione» riflette l'italiano ad alta voce. «Il taglio è preciso, vedi? È un lavoro pulito, eseguito con estrema freddezza.»
  «Poi ci sono lo sventramento e il colpo al cuore, altamente simbolico.»
  «Scusate, non capisco» interviene il medico legale, togliendo gli occhiali. «Tutto questo cosa vi dice?»
  Rossi si raddrizza e lancia uno sguardo a Morgan. «Che abbiamo a che fare con un criminale diverso dal solito, e molto pericoloso. Ha conoscenze mediche e una rabbia feroce. Non si fermerà finché non lo fermeremo noi.»

   Morgan chiude con uno scatto il cellulare: nessuna risposta al suo messaggio.
  «È Reid?» chiede Prentiss, alzando lo sguardo dal referto autoptico.
  «Gli ho chiesto se va meglio, ma non mi ha risposto.»
  «Magari sta dormendo. Non ti stai preoccupando, vero?»
  Morgan sbuffa. «Certo che no, è adulto e vaccinato.»
  A Prentiss scappa un risolino che fa accigliare il collega, quindi si affretta a rispondere: «Voglio solo dire che diventi un po'...mamma chioccia quando si tratta di Reid.»
  In quel momento JJ fa il suo ingresso nella sala.
  «Hei, JJ, ti sembro una mamma chioccia?»
  La ragazza passa lo sguardo tra i due. «Che state combinando?»
  «Reid è malato e Morgan è...in apprensione.»
  «Non sono in apprensione.»
  «Uhm» mugugna JJ. «Tranquillo, papà orso, vedrai che si rimetterà in fretta.»
  «Ma insomma!» sbotta Morgan, lasciando che loro ridano di lui.
  Tutto sommato, pensa, forse ho fatto un dramma su nulla. Può capitare anche ad un genio di prendersi una semplice influenza, i germi in fondo non conoscono differenze. Eppure vorrebbe davvero che quel sasso sul fondo dello stomaco scomparisse, lasciandolo libero di lavorare e ridere senza quell'amaro in bocca.                         
    Quando Hotch li richiama, Morgan si riscuote e ricorda ciò che per un attimo era passato in secondo piano: c'è un assassino a piede libero che deve essere preso. Decide che una volta catturato anche questo SI, andrà a fare visita a Spencer, gli porterà magari un rifornimento di caffé, e saprà dal suo naso gocciolante e dalla febbre che tutto, in fondo, va bene. E se non fosse malato ma solo stanco, lui gli siederà accanto e lo lascerà parlare finché non avrà più voce, come ormai non fa da tempo.
  Ma prima il dovere. Tutto il resto può aspettare.


    L'espressione sul volto del supervisore capo non promette nulla di buono.
  «C'è stato un altro omicidio» annuncia alla squadra.
  «Chi è la vittima?» chiede JJ.
  «Jordan Norris.»
  Lo sbigottimento investe la sala. «La ragazza di Owen Savage?» sbotta Prentiss, ricordando troppo bene quel caso di tre anni prima.
  «Esatto. La polizia ha ritrovato il cadavere in un vicolo nei pressi di una fermata della metro, stamattina all'alba. È morta nella notte, secondo i primi rilievi del coroner. Stesso modus operandi, stessa firma. Questa volta il numero è quattro.»
  «È un conto alla rovescia» medita Rossi. «Questo vuol dire che abbiamo solo tre possibilità per catturarlo.»
  «Non può essere una coincidenza» afferma Morgan, trovando ampio consenso.
  «Infatti non lo è» ribadisce Hotch. «Prima di continuare con le indagini sulla seconda vittima, dobbiamo fare il punto della situazione. Non possiamo tralasciare il fatto che un SI stia colpendo persone coinvolte in nostre precedenti indagini.»
  I profiler si radunano nel loro silenzio meditabondo, ognuno alle prese con i propri ragionamenti e le proprie resistenze. Non è mai facile affrontare la possibilità che delle persone muoiano per un delirio legato a sé, alla propria squadra, in definitiva, alla propria famiglia. Morgan vorrebbe maledettamente che Reid fosse lì con loro, a trovare strade nascoste nell'intrico di logiche perverse, a semplificare tutto e ricordurlo a qualche fantasma nascosto. Ma la sua sedia è vuota e questo ha il potere di distrarlo il tempo necessario per pentirsene.
  JJ è la prima a prendere parola. «Forse abbiamo affrettato le cose. Guardiamola da un altro punto di vista: il caso Nathan Harris e quello Owen Savage sono stati divulgati dalla stampa e dalle reti nazionali, hanno fatto scalpore.»
   «Quindi chiunque potrebbe aver preso di mira le due donne» continua Prentiss.
  «Questo può valere per Jordan, ma l'identità della prima vittima, Madison, non è stata divulgata all'epoca dei fatti.» Hotch preme l'interfono e la voce squillante dell'informatica invade la stanza. «Garcia, è possibile che qualcuno sia entrato nel sistema dati?»
  «Mio signore, se qualcuno ci provasse io lo saprei immediatamente. Ma faccio comunque un controllo...Niente, nessun accesso non autorizzato. Mi devo preoccupare?»
  «Qualcuno ha ottenuto informazioni sulle identità di persone coinvolte in indagini passate» le spiega Morgan.
  «Oh, bhe non per via informatica, questo è certo. Ma ho una soluzione per voi. Visto che sono una persona curiosa e un'informatica diligente, sto per inviare ai vostri tablet qualcosa di molto interessante. E con questo, passo e chiudo.»
  Ogni tablet segnala immediatamente di aver ricevuto la mail. È la copia di un articolo uscito recentemente sulla posta locale. «Il coraggio del cambiamento» legge JJ. «Tre anni fa Madison sfugge a un pericoloso serial killer. Oggi decide di cambiare vita investendo in un negozio di abbigliamento.»
  «Madison Lorenz. Voleva la fama e ha avuto la morte» sancisce Rossi. «Ecco come il SI è venuto a conoscenza della sua identità.»
  «D'accordo.» Hotch controlla l'orologio. «La scientifica dovrebbe finire a momenti. JJ, Prentiss, andate sul luogo del ritrovamento. Noi lavoreremo al profilo. Dobbiamo muoverci velocemente, ma restiamo certi di non perdere alcun dettaglio.»
  Le ragazze annuiscono e si alzano, raccogliendo i fascicoli.
  «A cosa pensi?» chiede Rossi al supervisore.
  «Che chiunque sia il nostro uomo, catturarlo non sarà semplice. In questi casi, si rimette sempre qualcosa.»


  Quando Spencer riapre gli occhi, la coscienza emerge a fatica dal torpore. Prova a sollevarsi, ma la stanza comincia a girare vorticosamente. Il rumore è assordate e deve premersi i palmi sulle orecchie per non sentirsi aggredito. Dopo qualche istante, riesce a tirarsi a sedere e a guardarsi intorno. Ciò che vede non potrebbe essere più spaventoso: intorno a sé non ci sono i suoi libri, ma strette mura piastrellate; la superficie al suo fianco non è il suo tavolino da the, ma un wc maleodorante; per finire, non si trova seduto sul suo divano, ma con il sedere appiccicato a un umidiccio pavimento di linoleum. Dal rumore che si diffonde oltre le porte, ipotizza di essere nel bagno di una stazione. Della metro, probabilmente. Quando finalmente riesce ad alzarsi, prende a guardarsi attorno, nel piccolo spazio, con frenesia. Nota subito la cassetta dell'acqua leggermente spostata. Solleva il coperchio e vi trova una busta nera aggrovigliata, che gocciola quando la solleva. La apre con timore ma anche con gesti febbrili e il contenuto conferma i suoi peggiori dubbi: una camicia bianca macchiata di sangue e un coltello di quindici centimetri, anch'esso intriso di liquido ematico.
  Rimette la busta dov'era, senza pensarci, e corre fuori, precipitandosi nel traffico di persone di metà mattino. Gli speakers annunciano le partenze delle linee metropolitane e un'orda di avventori taglia l'aria in entrambe le direzioni. Con sgomento apprende dal tabellone luminoso che è trascorso quasi un intero giorno. Dieci ore delle quali non ha memoria. Lacrime silenziose scorrono sul viso di Spencer, mentre la folla inconsapevole continua la sua folle marcia.


  Su alcune persone la morte sembra un atto ancor più crudele. Jordan Norris è distesa a terra, i capelli sparpagliati come una grossa macchia bionda e il volto sporco di sangue e terra. L'agente Edwards, malgrado la giovane età, ha l'aria di chi ha visto molti omicidi e, per questo, riesce a restare impassibile. Il volto affilato ma gentile è contratto in un'espressione rigida, mentre le gambe lunghe e sottili sembrano non avere sosta.
   «La vittima è stata colpita qui» dice, facendo due passi avanti e fermandosi. «Un singolo colpo al cuore, lei non ha opposto resistenza.»
  «Cos'è quella macchia?» chiede Prentiss, indicando il cappotto della vittima. «Vedete? Sembra che qualcosa sia entrato in contatto con la ferita, lasciando questa strana impronta.»
  Edwards gira intorno al corpo e si accovaccia. «Ho già visto macchie simili» mormora, voltandosi poi verso le due donne. «Succede quando un altro corpo cade su quello già a terra. Il sangue su entrambi si fonde in un'impronta simile.»
  JJ si stringe nel cappotto. «Jordan deve aver afferrato il SI mentre veniva colpita, e cadendo lo ha trascinato con sé. Lui è inciampato e le è caduto addosso.»
  «La prima volta deve aver colpito mantenendo le distanze e scostandosi subito» medita Prentiss. «Questa volta è stato meno attento.»
  «Scusate» interviene Edwards, sollevandosi. «Sapere questo vi è utile?»
  «Sì» risponde JJ, cordiale. «Ha voluto vederla morire, rimanerle vicino. Quando un SI commette errori oppure accorcia le distanze con la vittima, entrando maggiormente in contatto, vuol dire che uccidere comincia a piacergli. Sta iniziando a prenderci gusto.»
   «Inizialmente uccideva per una qualche missione, uno scopo» aggiunge Prentiss. «La verità è che vuole uccidere, tutto il resto è una copertura. E lui lo sta scoprendo ora.»
   «Quello?» JJ punta interrogativa un dito verso la parete alle spalle dell'agente Edwards.
   «Oh, certo, dimenticavo. Per la scientifica è recente.»
   Prentiss osserva la scritta nera, non troppo grande ma ben leggibile, fatta di fretta e probabilmente con una bomboletta spry. «Lui è nel giusto
   «Il SI parla di sé in terza persona?» chiede Edwards, grattandosi la nuca bruciata dal sole.
   «Dissociazione. Accade più di frequente di quanto si pensi. Alcuni assassini riescono a descrivere nei dettagli gli omicidi, ma mai in prima persona.»
   «Chiamo Hotch» annuncia JJ.

   
  «Un'ex prostituta e una giovane impiegata in un negozio di abiti» mormora Rossi. «Cosa hanno in comune?»
  «La prima è nata e cresciuta a Washigton. L'altra non ha mia lasciato il Texas» puntualizza Morgan, sfogliando distrattamente il fascicolo.
  Rossi congiunge le mani sotto il mento. «Fino ad ora. Credo che la domanda più importante sia: perché una ragazza che non si è mai allontanata dalla sua cittadina dovrebbe dirigersi a Washigton, trovando la morte ad attenderla?»
  «Perché l'assassino ce l'ha portata» esclama Morgan, alzandosi in piedi e dirigendosi al tabellone. «La prima vittima è stata uccisa dietro una biblioteca, ma non c'è motivo per cui qualcuno dovrebbe agirarsi lì a quell'ora. Poi c'è Jordan, uccisa nei pressi della stazione metropolitana.»
  «L'assassino le ha contattate» conclude Hotch, premendo l'interfono. «Garcia, i tabulati telefonici delle vittime.»
  «Sto già smanettando. Cosa cerco?»
  «Numeri in comune, chiamate frequenti e da numeri nell'area di Washigton» spiega Morgan.
  «Mi prodigo, mio zuccherino. E...uhm, questo è strano: nessun numero in comune. Ma entrambe hanno ricevuto, poche ore prima della morte, delle chiamate da varie cabine telefoniche. Vi invio le posizioni. Può esservi utile?»
  «In un certo senso sì, bambolina.»
  «Sempre al vostro servizio. Torno a scavare nelle vite di queste povere donne, appena trovo qualcosa vi contatto.»
   Hotch chiude la chiamata. «Questo spiega l'assenza di segni di difesa. Le vittime si fidavano del SI:»
  «Abbiamo a che fare con un paranoico molto furbo» considera Morgan. «Non lascia tracce e sa esattamente cosa non lasciare. Sa dove colpire la vittima in modo da attraversare le costole e maneggia il bisturi come un chirurgo, ma non ha problemi a sventrarle.»
  «Perché loro due?» chiede Rossi, quasi rivolto all'assassino. «Cosa rappresentano per lui?»
  «Bhe, sono entrambe delle sopravvissute.»
  «Sono qualcosa di più» commenta Hotch, corrugando la fronte. «Se il SI è un sociopatico, può vedere queste donne come delle traditrici: entrambe sono sopravvissute e hanno avuto una loro vita, mentre Nathan e Owen hanno scontato il prezzo della loro diversità. È una vendetta, e non possiamo escludere che sia anche un messaggio contro la nostra unità.»
  «Cosa te lo fa pensare?» si incuriosisce Rossi.
  «JJ mi ha chiamato.» Porge il tablet ai colleghi, aperto sulla foto dell'ultimo omicidio. «Vuole farci sapere di essere nel giusto. È un messaggio per noi.»
   Morgan solleva lo sguardo dalla foto. «Lo sventramento, i numeri e ora questo: ci vuole mostrare qualcosa, vuole che tutti sappiano.»
  «E ci dice che abbiamo salvato le persone sbagliate» conclude Rossi.
  Hotch si alza e poggia le mani ai fianchi. «Dobbiamo diramare il profilo alla polizia di Washigton.»
 





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Capitolo 5
*** Angelo ***


Avvertenze:  La droga fa male, molto male.
Sempre un grazie sentito a coloro che seguono la storia e mi lasciano commenti lusinghieri e graditi (:
Ax.


5

Angelo


Preserva la purezza dell'anima tua.
Colui che racchiude in sé il talento
deve essere tra tutti il più puro d'anima.
Ad altri vien molto perdonato,
ma a lui non è dato perdono.
Nikolaj Gogol


    
  Spencer fissa il suo caffé fumare nell'aria del piccolo bar dell'ospedale. Dal suo ultimo risveglio, sconvolto dal terrore, non ha più chiuso occhio. Ormai versa in uno stato di anedonia totale. Non riesce a formulare un solo pensiero logico, almeno non come prima. Vorrebbe trovare parole convenzionali, un tono di voce neutro e un atteggiamento cordialmente distaccato; vuole, in definitiva, sembrare innocente. Sotto gli occhi grigi del neurochirurgo, si sente come sotto interrogatorio. La verità è che il dottor Lidford gli ricorda tremendamente Hotch, e ha in sé anche una nota di melanconia, perché rappresenta il ricordo di una Diana Reid attiva, acculturata, speranzosa nel figlio. Un vecchio amico di sua madre potrebbe ora firmare la sua condanna.
  «Diana come sta?» gli chiede dopo una lunga pausa Lidford, con il pragmatismo tipico degli uomini di scienza.
  Spencer è costretto a tornare alla realtà. «Dopo dieci anni, un ulteriore miglioramento nella sintomatologia psicotica è altamente improbabile, considerando poi che circa il trenta percento ha remissione parziale o totale...» si interrompe, rendendosi conto di star divagando e di apparire troppo freddo. Accenna un sorriso. «Se la cava bene. Ci scriviamo spesso.»
   Il dottore annuisce e stringe intorno alla tazza le lunghe dita, che malgrado l'età appaiono solo lievemente increspate e nodose. «E tu, Spencer?»
  Il ragazzo resta un attimo interdetto e, non riuscendo a sostenere quegli occhi pungenti che sembrano inghiottirlo, rivolge lo sguardo al suo caffé. «Quantificare mi è impossibile.»
 «Capisco. Diana mi parlava spesso di te, sai? Era brillante, appassionata, intelligente. E me ne accorsi soprattutto dal modo in cui parlava di suo figlio.»
  Spencer non può far a meno di sorridere imbarazzato, ma poi quel caldo tepore si dissolve davanti al ricordo di quella mattina: il sangue, la confusione.
  Cosa direbbe ora di me?
  Qualcosa in quell'uomo, in quella situazione e nella sua stanchezza lo spinge a parlare con voce incrinata. «Io ricordo ogni libro che mi ha letto, parola per parola. A mia madre dissero che è un'abilità rara e incredibile, che mi avrebbe dato un vantaggio nella vita.» Si schiarisce la voce, riuscendo finalmente a guardarlo negli occhi. «Sa cosa non le dissero? Che se un giorno avessi dimenticato qualcosa, per me sarebbe stato come perdere un arto.»
  Il dottor Lidford rimane in silenzio, poi mostra un sorriso caldo, come Spencer non credeva fosse capace. «Ragazzo mio» dice con un misto di affetto e diligenza. «Il problema dei geni è che dimenticano una cosa fondamentale: la mente non funziona senza l'emozione. La tua fortuna è di avere una memoria incredibile. Se cerchi un'emozione, è dove hai perso memoria che devi cercarla.»
  Reid sente un fuoco feroce montargli dentro. Da un lato vorrebbe quasi abbracciare un uomo che è riuscito a toccarlo tanto; dall'altro vorrebbe solo urlare che, sì, potrebbe aver commesso un crimine tremendo e che sapere di averlo rimosso per la sua portata emotiva non lo aiuta.
  Mentre è combattuto da questi pensieri, il cercapersone del dottore trilla.
  «Bene» annuncia alzandosi e sistemandosi la camicia. «Arnold è rientrato in laboratorio: il profilo del DNA è pronto.»
  Spencer sente il nodo al collo stringersi pericolosamente.    


  «Il nostro SI è un uomo di un'età compresa tra i venticinque e i trent'anni, ma è cauto e intelligente» comincia Hotch, guardando a turno i sergenti che guizzano gli occhi tra lui e i loro taquini. «Ha conoscenze sufficienti nel campo delle indagini.»
  «Quindi è già stato arrestato?» chiede un giovane agente, sollevando la penna.
  «Non necessariamente» interviene JJ. «Potrebbe aver frequentato l'ambiente giudiziario o semplicemente essere di cultura superiore. Maneggia molto bene il bisturi e ha conoscenze mediche sufficienti a non farlo esitare nel colpire un cuore umano.»
  Prentiss fa un passo avanti e si punta due dita al petto. «Sfondare la gabbia toracica richiede molta forza, ma nei due omicidi il coltello è stato infilato di traverso tra due costole. Ciò indica una certa esperienza e bravura, nonché sicuramente un modo per oltrepassare un deficit fisico.»
  «È un uomo poco atletico e di non notevole forza» continua Morgan. «Ciononostante, la rabbia gli rende più facile affondare la lama in profondità. A giudicare dalle tracce lasciate sulla seconda vittima, l'altezza è stimata attorno al metro e ottantacinque. Non è muscoloso o molto pesante, difatti Jordan Norris è riuscita a farlo cadere.»
  Prentiss si massaggia le mani. «Stiamo parlando di un sociopatico, ma la componente sessuale non è centrale nei suoi omicidi. Crede di avere una missione: punire le false vittime. Jordan Norris e Madison Lorenz sono sfuggite a due morti tragiche, ma il nostro SI si identifica con i sociopatici implicati nei due casi, Nathan Harris e Owen Savage. Crede che loro abbiano subito un'ingiusta punizione.»
  «Per questo potrebbe incolpare le istituzioni di non aver dato loro il giusto supporto» interviene Rossi. «Lo stesso che è mancato anche a lui. Gli omicidi potrebbero essere stati scatenati dall'articolo pubblicato sulla prima vittima, in concomitanza con un evento stressante subito dal SI.»
  «Per la sua incapacità di socializzare, potrebbe occupare una posizione non di rilievo nel suo lavoro, ma sicuramente si sarà distinto per intelligenza e diligenza. Queste caratteristiche, però, potrebbero averlo messo in cattiva luce più del normale. Potrebbe avere una vita sociale ristretta, perché certamente i suoi disturbi non passano inosservati» puntualizza Hotch. «Dovete cercare tra coloro che hanno una buona formazione culturale, ma svolgono lavori al di sotto delle loro capacità. Persone che hanno mostrato turbe del carattere e con una ristretta rete sociale.»
  «Vogliamo sottolineare» interviene JJ. «Che trovare questa persona non sarà semplice. È paranoico e agisce di conseguenza, in più ha intelligenza e cultura per attuare i suoi piani. È affabile quando ha bisogno di esserlo, ma non sente alcun bisogno di relazionarsi agli altri. Potrebbe anche essere una persona apparentemente normale, che sa come apparirlo.»
  «Potrebbe essere chiunque» commenta l'agente Edwards.
  «Purtroppo sì» risponde Hotch. «Ma sta già commettendo degli errori, sta scoprendo che uccidere gli piace.»
  «Quindi possiamo solo aspettare che commetta un errore grave?»
  Gli agenti della squadra rivolgono un sguardo preoccupato ad Hotch. «è possibile. Ma faremo di tutto per evitare altre vittime, è la priorità. Concluso il numero di vittime prestabilite, forse in base ad un delirio, potrebbe scomparire o migrare altrove. Dobbiamo impedirlo.»
 

   Nella tracolla la prova schiacciante del suo crimine. Nella mano un bicchiere di bourbon. Nella mente l'oblio.
   A Spencer è bastato un solo sguardo al profilo del DNA per memorizzare ogni singola informazione, eppure, incredulo, ha dovuto rileggerlo varie volte. Nella mente quell'immagine si è sovrapposta in modo quasi perfetto al referto autoptico su Madison Lorenz.
  Riscontro positivo. Stesso sangue. Stessa persona.
  Nel ritorno a casa, avvolto dalla foschia dello shock, qualcosa si è rotto nella mente del dottore. Ad un certo punto, non sa dire quando, semplicemente si è arreso. Come un attimo prima di morire, nella capanna al cimitero Marshall, prima che Tobias gli ridesse il dono della vita. Un attimo prima di esalare quell'ultimo bruciante respiro, Spencer Reid si arrese. Non lo ha mai detto a nessuno, neanche a Morgan.
  Oh, Derek. Se solo potessi salvarmi.
  Ma Derek non può, nessuno può, e Spencer lo sa.
  Beve il bourbon a piccole gocce, lasciando che la vita nel piccolo locale scorri senza toccarlo. Ora ha solo un desiderio bruciante, vuole solo un'unica cosa: scomparire. E lui conosce un solo modo per uccidere virtualmente i suoi neuroni, per frenarne il moto folle, per spegnere la luce della coscienza.
  Dilaudid.
  Prima di rendersene conto, il bicchiere stretto nel palmo comincia a tremare.
  «Forse la terra è l'inferno di un altro pianeta
  «Aldous Huxley» mormora Spencer, riuscendo a storcere le labbra in un sorriso. Si volta verso l'interlocutore e qualcosa si smuove alla bocca dello stomaco: il ragazzo è seduto al bar, il gomito che quasi sfiora il suo, gli occhi di ghiaccio circondati da lunghe ciglia nere.
  Si scosta un ciuffo corvino dalla fronte. «Posso provare simpatia per i dolori delle persone, ma non per i loro piaceri: c'è qualcosa di curiosamente noioso nella felicità di qualcun altro. »
  Spencer inarca un sopracciglio. Meno che mai desidera la compagnia di qualcuno, ma quel viso ha qualcosa di profondamente simbolico. «Ci conosciamo?»
 «Dirti il mio nome non basterebbe a conoscermi» rimbecca il ragazzo, sorridendo sardonico. «Eppure sono stato ingiusto: io ti ho già visto e conosciuto, ma tu non sai chi io sia.»
  Spencer comincia a sudare freddo: un agente in borghese?
  «Non sono qui per arrestarti o fermarti» chiarisce il ragazzo. «Non faccio parte del vostro club.»
  Qualcuno sa ciò che ha fatto?
  Il ragazzo si volta e lo fissa con un'invadenza che non ha nulla di spiacevole. «Considerami un angelo, della mente» dice, catturando la sua attenzione. Mette una mano nella tasca del cappotto e sembra stringere qualcosa. Si avverte il suono di monetine che tintinnano contro boccette di vetro busto. «E ho la manna dal cielo.»
  Spencer lo segue fuori dal locale, con le pupille dilatate e le gambe pesanti come piombo. Nella mente la leggerezza e le punture continue dell'emicranea che sembrano non tangerlo più.
  Perché, ormai, il dottore si è arreso. Totalmente.


  Dall'ago zampillano poche gocce. Daniel sa quello che fa, eppure non ha nulla del degrado impresso nei volti della disperazione. Steso sul letto, Spencer ha un'esitazione, una debole protesta della parte di mente ancora lucida, subito soppressa dalla voce del bisogno. «Questo mi renderà innocuo» riflette ad alta voce.
  Daniel si volta e gli sorride e lui sa, in un attimo, che tutto andrà bene. Non ha freddo, quasi nudo sotto le coperte. L'altro non prova vergogna, esponendo il suo corpo alla luce del pomeriggio, che pigra occhieggia attraverso le persiane, evidenziando le sporgenze del volto di entrambi.
  Il laccio è ben stretto intorno al braccio.
  La penetrazione.
  Il rash, potente, che invade tutto il corpo.
  La testa che mollemente si abbandona al cuscino.
  Le braccia di Daniel. Poi solo la felicità.

  Le braccia di Daniel diventano scure, più possenti, ti stringono con forza e gentilezza. Alzi lo sguardo e incontri occhi scuri, sopracciglia decise, un sorriso bianco incandescente. Hai un brivido e riesci solo a sussurrare il suo nome.
  Derek.
   Forse lo urli, forse lo stai solo pensando.
  Derek è un ricordo. Ma qui, in questo spazio di antimateria, anche lui c'è. Sempre.
   
  «Derek...»

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Capitolo 6
*** Scintille ***


6
Scintille


Il dubbio e l'orrore sconvolgono
i suoi pensieri turbati, e dal profondo in lui
si agita l'inferno, ché egli si porta l'inferno
dentro di sé ed attorno, e non si può staccare
dall'inferno o da sé di un solo passo, fuggire
mutando luogo.
John Milton



  Rossi è in piedi davanti al tabellone. Le foto significative delle scene del crimine sono state appese, corredate di didascalie sintetiche. Qualcuno ha scritto degli appunti, forse Morgan. Non riesce a staccare gli occhi da quei visi, dall'ingrandimento di quei segni sulla fronte, proprio al centro. Dovrebbero dirgli qualcosa, ma non ne è certo.
  «A cosa pensi, Rossi?» chiede Prentiss, fiancheggiandolo.
  L'italiano si volta verso i colleghi, che aspettano interrogativi. «Stavo riflettendo: e se i numeri fossero importanti per il SI? Guardate bene: il numero è stato inciso esattamente nel mezzo della fronte, con precisione.»
  «Possono essere solo un messaggio intimidatorio» ricorda JJ.
  «Ma perché proprio questo numero? Il tre, il sette e il nove possono essere collegati alla numerologia cristiana.» Rossi punta lo sguardo nel vuoto per un attimo, poi torna ai suoi colleghi. «Cosa rappresenta il cinque?»
  «I cinque sensi» ipotizza Prentiss. «Oppure i cinque elementi.»
  Rossi riflette e scuote la testa.
  Hotch solleva lo sguardo sul tabellone. «I cinque stadi del dolore.»
  La squadra si volta a guardarlo, annuendo implicitamente.
  «Avrebbe senso. Ritorce la sua sofferenza verso chi ne è sfuggito» dice Rossi. «È anche un modo per esorcizzarla: alla fine della sua opera, si attende di non soffrire più.»
  Prentiss si dirige all'uscita.
  «Dove vai?»
  La mora guarda l'orologio al polso. «Tra non molto arriveranno i genitori di Jordan, magari conoscono chi ha contattato la figlia.»
  «Porta JJ con te» dice Hotch.
  «Dovevo andarci con Morgan...Ma dov'è?»
  «Ha insistito per andare a trovare Reid.»
  Le ragazze si scambiano uno sguardo eloquente e annuiscono. Ultimamente hanno notato che tra i due agenti c'è qualcosa, come un non detto sospeso che ne sta incrinando i rapporti. Ma sono fiduciose che quei due testoni riusciranno a tornare gli amici improbabili che sono sempre stati.


  «Reid, avanti, apri questa porta?»
  Morgan comincia davvero a spazientirsi. Un anziano vicino si affaccia curioso sul pianerottolo e, intimidito dalla stazza dell'agente, decide saggiamente di rientrare in casa borbottando.
  «Ragazzino, posso sfondare la porta» urla, dando un'altra poderosa manata al legno.
  Sta sul serio prendendo in considerazione l'idea di scardinare l'uscio, quando sente una chiave girare e la porta si apre di uno spiraglio. Ma il viso che compare non è certo ciò che si aspettava. Un ragazzo moro fa capolino e lo osserva con calma. Morgan si acciglia e spinge la porta, costringendo l'altro a indietreggiare e lasciarlo entrare. Si guarda attorno, ma non vede segni di lotta, o di Reid.
  «Chi diavolo sei?» sputa fuori.
  L'altro sorride e incrocia le braccia al petto, accennando alla mano dell'agente che si è istintivamente posata sul calcio della pistola. «Non sono io quello armato che ha fatto irruzione. Dovresti dirlo tu a me.»
  «Dov'è Reid?» ringhia l'agente.
  «Spencer? Uhm.» Finge di riflettere, grattandosi il mento puntigliato dei primi segni di barba incolta. «Spiacente, non è in casa al momento. Gli direi che sei passato, ma non ti sei presentato. Sai, dire è passato un tizio nero potrebbe risultare un po'...razzista.»
  Derek è sul punto di tirare fuori l'arma e mettersi a sparare, perché qualcosa nell'atteggiamento di quel ragazzo lo innervosisce. E poi chi diavolo è? E...quella camicia...
  «Hai indosso gli indumenti di Spencer» dice lentamente. «Se gli hai fatto del male..»
  «Buono, amico» dice il ragazzo, prendendo un biscotto e sedendosi sul tavolo. Prende a sgranocchiarlo, dondolando le gambe nel vuoto. «Io non gli ho fatto nulla.» Poi sorride in modo malizioso. «Nulla che lui non volesse.»
  A quel punto Morgan non ci vede più: estrae la pistola e gliela punta al cuore. L'altro non sembra minimamente turbato.
  «Lo sapevo!» esclama il ragazzo, battendo le mani. «Devi essere Derek Morgan. Spencer mi ha parlato di te, solo tu potresti reagire così.» Indica la pistola e si passa il dorso della mano sulle labbra, ripulendole. «Poi mi hai puntato la pistola al cuore, non alla testa. Perché è lì che ti senti ferito, o sbaglio?»
  Incosciamente, Derek abbassa la pistola fino a puntarla al suolo, i nervi tesi.
  «Comunque, io sono Daniel» dice il ragazzo, scendendo dal tavolo e porgendogli la mano. Quando l'altro non risponde al saluto, lui scrolla le spalle e si dirige alla porta, aprendola. «Ora, ti pregherei di andartene. Stai compiendo un'effrazione, senza considerare il tentanto...uhm...omicidio, o forse è solo minaccia. Bhe, non importa.»
  Derek lo fronteggia e non gli stacca un attimo gli occhi di dosso. Quelli di Daniel sono freddi come stalattiti e altrettanto pungenti. Non rispondono minimamente all'intimidazione. Morgan potrebbe giurare su sua madre che quel tipo non vincerebbe mai un premio per la sanità mentale.
  «Spencer è fuori per delle commissioni. È in farmacia a prendere delle compresse. Brutta febbre» dice senza mostrare esitazione. «Gli dirò che sei passato.»
  Derek esce e sull'uscio si volta, senza riuscire più a guardarlo dritto negli occhi. Ciò che sta per chiedergli lo ferisce troppo. «Tu sei suo amico?»
  Daniel sorride, tirando le labbra sottili e rosee. «Diciamo così.»
  Poi il suo volto scompare dietro la porta, che si richiude con un suono secco, lasciando Derek solo sul pianerottolo vuoto, con i suoi demoni e i suoi dubbi.
  Spencer, perché non me lo hai detto?

  Sale sul SUV e infila le chiavi, ma prima di girarle esita. Con le mani sul volante, guarda l'edificio dall'altra parte della strada. Passano venti minuti prima che Morgan cominci a pensare di star esagerando, che in fondo non sono affari suoi. In questi venti minuti cerca di convincersi che tutto vada bene. Spencer è malato e un suo amico lo sta aiutando.
  Amico...
  No, non è un amico. Quel Daniel è qualcosa di più. Derek lo sente, lo sa. Non riesce a capacitarsene. C'erano segni premonitori?
  Spencer omosessuale.
  Il solo pensiero del ragazzino intento in una relazione amorosa è bizzarro, ma addirittura con un uomo...per Derek è troppo. In fondo, però, ha sempre saputo che il dottore non è tipo da guardare a queste sottigliezze. Uomini e donne sono interessanti a pari passo con la loro mente, direbbe Spencer, drizzando la schiena e inarcando le sopracciglia.
  Volge lo sguardo oltre il finestrino e qualcosa attira la sua attenzione. Una figura, nel crepuscolo, cammina lievemente china, trascinando le gambe come fossero troppo pesanti. Sulla spalla la tracolla e in una mano una busta. Una strana sensazione pervade Derek, un calore intenso al petto e alla testa.
  Afferra il cellulare e compone il numero di Reid. Pochi istanti dopo, il dottore si ferma davanti al portone. China la testa verso la mano che stringe il telefono.
 Avanti, rispondi.
 «Hei.»
  Hei?!
 «Ragazzino, che fine hai fatto?» Deve sforzarsi per non perdere la calma.
 «Ehm...sono...» Tossisce rumorosamente. «Sono ancora abbastanza debole.»
 «Tutto bene? Se vuoi ti raggiungo e parliamo.»
  «No» dice troppo in fretta. Derek lo vede irrigidirsi. «Non serve. Va tutto bene.»
  Vorrebbe scendere dall'auto e corrergli dietro, prenderlo per la camicia e sbattergli in faccia la sua sfacciataggine, ma si limita a chiudere la chiamata. Spencer esita ancora sulla porta, poi entra e sparisce.
  Per Derek il caso è chiuso. Nella sua mente le parole dette ad Atlanta: non sono una tua responsabilità.

  Derek entra nella sala riunioni con i pugni ancora serrati. Rossi solleva lo sguardo, attirato da quell'aria di negatività.
  «Come sta Reid?»
  L'agente apre il fascicolo e risponde noncurante. «Ancora malato.»
  «Uhm...» L'italiano poggia la schiena alla poltroncina e congiunge le mani sotto il mento.
  «Che c'è? Non è un bambino!»
  «Ascolta, Morgan, qualunque cosa sia successa dovreste-»
  «Chiarire, lo so. Mi è bastata la ramanzina di Hotch. Ora, per favore, vorrei tornare al caso e non perdere altro tempo.»
  Rossi scrolla le spalle e lancia al ragazzo un mazzo di fogli. «Sono gli ultimi messaggi telefonici delle due vittime, gentilmente hackerati da Penelope. Io ho Madison Lorenz, tu Jordan Norris. Bisogna leggerli tutti.»
  Morgan sfoglia velocemente il plico e solleva un sopracciglio.
  «Volevi lavorare, no?»


  «Senti questo» dice Morgan cerchiando uno scambio di messaggi. «Ore otto e ventidue, venti febbraio.»
  «Il giorno prima della partenza.»
  L'agente annuisce. «Julia scrive: Devi proprio andarci? E Jordan: Mi ha detto che è importante. Ancora Julia: Ancora O.? Dovresti dimenticarti di quel pazzo.»
  «Parla di Owen. Forse è così che il SI è riuscita a convincerla: in cambio di informazioni.»
  «È quello che credo anche io, in fondo Jordan era facilmente raggirabile.»
  «E il SI ha sfruttato questa sua debolezza.»
  «C'è un'altra cosa» dice Morgan, foglio alla mano. «Qualche messaggio dopo Jordan fa riferimento a un certo dottor R.»
  «Curioso» mormora Rossi, sfogliando le pagine alla ricerca di qualcosa che aveva visto, ma al quale non aveva dato importanza. «Anche Madison ne parla ad un'amica...eccolo: Il dottor R. mi sembra un tipo a posto, magari questo finanziamento va' bene. Ancora una volta il SI ha proposto alla vittima qualcosa di interessante.»
  «Jordan aveva un diario elettronico. Probabilmente avrà scritto di questo dottor R.»
  Morgan preme l'interfono, ma nessuno risponde. Dopo meno di due minuti, nella sala entra Penelope Garcia, imbracciando la sua apparecchiatura portatile e sistemandosi al tavolo rotondo, sotto gli occhi interrogativi dei colleghi.
  «Per una volta che ci capita un caso a Washigton, voglio entrare nella mischia, miei maschioni» dice accendendo il pc. «In cosa posso esservi utile.»
  Rossi guarda eloquente Morgan. «Hai il diario elettronico di Jordan Norris?»
  «Vergognosamente crackato e copiato nei miei file, signore.» Smanetta coi tasti. «Ancora non l'ho spulciato, ci vorrà un po'.»
  «Puoi cercare se cita un certo dottor R.?»
  Penelope si mette al lavoro e dopo poco ottiene un risultato. «Eccolo! Dunque...l'unica volta che ne parla dice: il dottor R ha insistito perché non rivelassi il suo nome a nessuno, proprio nessuno. Dice che ci sono persone in grado di rintracciarlo nei miei messaggi e col mio computer. Mi mette un po' paura essere spiata. Lui dice che ciò che ha da dirmi è della massima segretezza e che in molti non vogliono che si sappia. Dice che dell'FBI non ci si può fidare, che non hanno fatto il possibile per salvare Owen. Mi ha detto di chiamarlo dottor R e poi ha riso. Mi fido di lui perché so che poteva capire Owen.» Penelope si interrompe e fa una smorfia. «Agghiacciante.»
  «È il nostro uomo» dice Rossi guardando il collega.
  «Bambolina, cerca tutti i dottor R dell'area di Washigton, e incrocia i dati con i tesserati della biblioteca Arcana.»
  «Un po' vago, ma ci provo.»
  «Restringi il campo a uomini tra i venticinque e i trenta anni, e includi solo quelli con laurea in medicina» suggerisce Rossi.
  «Oh, siamo a...zero.»
  «Così non va» dice Morgan, scuotendo il capo. «Il nostro uomo non può essere un vero medico.»
  «Ma ha sicuramente studiato medicina o affini.»
  «Cerco tra gli studenti» si affretta Garcia.
  «Considera anche studenti espulsi. Concentrati su persone non sposate, che magari hanno avuto problemi disciplinari e reati minori in giovane età.»
  «Bingo: ho dieci nomi. Per vostra fortuna la biblioteca non è vicina al campus.»
  «Stampa la lista.» Morgan si alza di scatto. «Chiamo Hotch.»


  Spencer misura la stanza a grossi passi, stropicciandosi il viso e i capelli.
  «Perché ti agiti tanto?» gli chiede Daniel, portandosi la bottiglia di birra alle labbra.
  Il dottore si ferma in mezzo alla stanza e apre le braccia. «Perché? Tu non lo conosci, Derek potrebbe scoprire tutto. Lui-»
  «Scoprire tutto?» Daniel solleva un sopracciglio. «Tutto cosa? Che sei un assassino? Probabile. Sai che a me non importa e sai che non è colpa tua.»
  Spencer si blocca come attraversato da una potente scarica. «Non è colpa mia? Ho ucciso due donne. La dissociazione non è una scusante valida, tanto meno in tribunale.»
  «Non mentire a te stesso. Tu non temi il tribunale, tranne quello della tua mente.» lo rimprovera Daniel, accigliandosi. « E poi ci sono loro, la squadra» aggiunge sarcastico.
  Ma il ragazzo non sembra dargli retta. Si ferma davanti al salotto, passando in rassegna con lo sguardo i suoi amati libri.
  «Dobbiamo andarcene.» La sua voce è calma e distaccata, improvvisamente stanca. «Dobbiamo fuggire.»
  Non si rende realmente conto della portata di ciò che sta dicendo, o della situazione. Sente solo l'impellente e istintuale bisogno di combattere o fuggire. Scappare lontano, lasciarsi tutto alle spalle. Derek, il BAU, gli omicidi. Spera che i suoi demoni restino alle spalle, insieme al suo cuore.
  «So io cosa ti serve» mormora Daniel alle sue spalle. Gli cinge la vita e gli respira sulla nuca, provocandogli un lungo brivido. Non sa come sia possibile, ma in quel ragazzo e nella sua mente c'è qualcosa di unico, eccezionale e non quantificabile che ha il potere di sciogliere le sue resistenze.
  «Solo un'altra volta» dice Spencer, mentre davanti agli occhi lampeggia l'immagine della boccetta trasparente e dell'ago sottilissimo.
  «Bravo. L'ultima scintilla prima della fine.»

 Sono tutti intenti a sfogliare la lista dei nomi forniti da Garcia e a indagare nelle vite di quei dieci ragazzi, quando sotto le mani di Morgan capita un fascicolo che lo raggela. Dalle labbra scivola un grugnito soffocato, un'esclamazione molto simile al rantolio di sofferenza di un animale colpito a morte, che cerca ancora di mordere e uccidere. La squadra si volta a guardarlo interrogativa, mentre l'intuizione diviene certezza nella mente dell'agente. Salta dalla sedia e urla: «È lui, diamine, è lui!»
  «Morgan, di chi parli?» chiede Prentiss, preoccupata più che incuriosita.
  «Quel fottuto bastardo, ce l'avevo sotto le ma-» Poi la rabbia lascia il posto al terrore. «Dobbiamo andare da Reid, subito.»
  «Morgan, calmati» gli impone Hotch, alzandosi. «Spiegati.»
  Le parole scivolano via veloci. «Penelope, hai una foto di Daniel Roland?»
  Garcia resta un attimo inebetita, poi carica la foto sullo schermo della sala. Morgan impallidisce, prima che il calore gli si diffonda ovunque, bruciandolo.
  «Quando sono andato da Reid, lui era lì» urla indicando lo schermo. «Quello...stronzo era lì e si prendeva gioco di me!»
  «Aspetta un attimo» lo interrompe JJ, la voce incrinata. «Reid stava bene? Lo hai visto?»
  «No. Cioè sì, più o meno. L'ho visto rientrare a casa.»
  «Garcia, l'indirizzo. Subito» ringhia Hotch, mentre Penelope digita furiosamente. «JJ e Rossi, alla casa del sospettato. Morgan, Prentiss, noi andiamo da Reid. Chiamate rinforzi e non perdete la calma.»
  Ma tutti, nella sala, schizzando via dalle sedie, sanno che calma è la parola meno appropriata alla situazione. Reid è in pericolo e nessuno di loro vuole tornare a casa senza di lui, sano e salvo.





Note: Ragazze che mi seguite, non finirò mai di ringraziarvi.
Alla prossima.
Ax.

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Capitolo 7
*** Manette ***


7
Manette
 

Non c'è in natura una passione più diabolicamente impaziente
di quella di colui che,
tremando sull'orlo di un precipizio, medita di gettarvisi.
Edgar Allan Poe

  Le valigie, consistenti in due sacche riempite in fretta, sono davanti all'entrata. Reid stringe la pistola con entrambe le mani e lo sguardo si perde sui mobili e sullo schienale del divano. A terra libri sparsi, segni della collutazione, impronte insanguinate.
  Contro una parete il corpo senza vita di Daniel. Gli occhi color ghiaccio si spengono nel bianco e nel petto si apre uno squarcio bruciato, dal quale il sangue ha smesso ormai di zampillare. La pozza si allarga, inzuppa le pagine, i mobili, i suoi piedi.
  Colpi alla porta. La bassa dose di dilaudid che piano piano smette di aver effetto, bruciata dall'adrenalina. A terra la siringa con ancora la dose completa, quella che lui ha cercato di iniettargli, quella che lo avrebbe certamente ucciso.
  Urla oltre le mura, sirene che squarciano il cielo rimbalzando sulla finestra.
  La porta viene scardinata e qualcuno si affolla nell'appartamento. Lo chiamano, ma lui non li sente. Non vuole.
  Stringe la pistola come se il semplice atto di mollarla possa far finire quell'istante in cui, per un attimo, può restare sospeso oltre la realtà.

  La porta viene giù con facilità: i cardini vengono divelti e il legno si spacca in più punti. Con tutta l'adrenalina che Morgan si ritrova in circolo, potrebbe sfondarne altre dieci. La prima cosa che vede è il sangue e l'allarme inizia a pulsargli nel craneo. La seconda è Spencer.
 Spencer che tiene una pistola tra le mani. puntata contro un cadavere. Il cadavere di Daniel Roland.
 Spencer che non sembra essere in quel mondo e che non si volta per degnar loro della minima attenzione.
 «Reid» mormora Prentiss, abbassando la pistola, mentre Hotch fa segno agli agenti di polizia di mantenere la posizione.
  «Non sparate» mormora appena, ma potrebbe benissimo gridare: Spencer appare sordo al mondo circostante.
  Gli occhi spalancati sono cerchiati di nero e sul volto si estende una macchia rossastra e una piccola ferita, segno della collutazione, come la camicia sgualcita.
  Hotch viene catturato dalla siringa abbandonata a terra e studia velocemente la situazione, decidendo di rinfoderare l'arma e tentare di avvicinarsi. Cerca di dimenticare che quello è il dottor Spencer Reid, il suo agente più giovane e brillante, il pupillo di Gideon.
  Jeson, perdonami...
  «Reid, sono Hotch» dice con calma, avanzando un passo dopo l'altro. Tende la mano in avanti, invitandolo a consegnargli l'arma. «Reid, mi senti?»
  Da quella vicinanza, Aaron riesce a vedere il laccio ancora legato attorno al braccio e i fori rossastri.
  Jason, non ci sono riuscito.
  «Dammi la pistola, Spencer. Sistemeremo tutto, ma devi darmi la pistola. Sai che devo chiedertelo.»
  Non sa più a cosa appellarsi. Lui, il supervisore capo Hotchner, non ha parole.
  Jason, cosa devo fare?
  «Ascoltami, quegli agenti sono addestrati per reagire ad un uomo armato, questo lo sai. Sai come andrà a finire se non mi consegni l'arma. Gideon non deve rivederti in una cassa.»
  Nel sentire il nome del suo mentero, Spencer ha un lieve sussulto e le sue labbra sembrano mormorare qualcosa, ma la voce non raggiunge l'orecchio di Hotch e gli occhi del ragazzo restano fissi nel vuoto. Improvvisamente ha uno scatto e sembra tornare alla realtà, a guardare qualcosa di reale.
  Hotch si volta e costanta con orrore che Morgan si è posto tra il corpo di Daniel e la pistola di Spencer, disarmato, le braccia lungo i fianchi e lo sguardo sicuro.
  «Morgan, cosa fai?»
  «Spencer» dice Derek, riuscendo finalmente ad ottenere la sua attenzione. Gli occhi del dottore si arrossano e le spalle hanno un lieve sussulto. «Hai fatto una stronzata e lo sai. Ma possiamo rimediare. Vuoi che ti ascolti? Vieni con me e avrai la mia totale attenzione. Mantieni la tua promessa.»
  Spencer abbassa la pistola, prontamente afferrata da Hotch, che la mostra ai polizzioti. Morgan sorregge il dottore, che sembra volersi accasciare al suolo, e lascia che pianga. È un pianto secco, con poche lacrime, ma che riesce a spazzare l'aria e a renderla insostenibile. Quando finalmente si calma, si distacca dal corpo dell'amico e si raddrizza. Slaccia il cordone di plastica dal braccio e se lo massaggia distrattamente.
  Poi, inaspettatamente, congiunge i polsi e li mostra a Derek, che resta allibito.
  «Reid, non è necessario» lo informa Hotch.
  Ma il ragazzo è irremovibile e fissa negli occhi Derek. «Devo subire un interrogatorio regolare. Fallo.»
  Con le manette ai polsi e la testa china, Spencer Reid lascia il suo appartamento con la sensazione che non vi farà più ritorno. L'ultimo sguardo che rivolge al corpo di Daniel è privo di amore, mentre nel cuore gli aleggia uno strano senso di quiete.
  Ora posso arrendermi.
 
 
  «Dobbiamo proprio farlo così?» sbotta Morgan, lo sguardo che evita la sala oltre il vetro a una via. Hotch, invece, non distoglie lo sguardo dalla figura quasi china sul tavolo di metallo.
  «Lo ha chiesto lui, vuole essere trattato come qualunque altro criminale.»
  «Ma, Hotch, lui non è un criminale!»
  Il supervisore capo si volta a guardare l'agente. «In termini giuridici, lo è. Se non manteniamo un certo distacco il caso verrà passato a un'altra unità.»
  «O agli affari interni» precisa JJ, stringendosi il grembo con le braccia. Ha lo sguardo lucido, ma non vuole davvero darlo a vedere.
  «Voglio parlarci» dice Morgan.
  Il capo scuote la testa. «No, andrò da solo.»
  «Oh avanti Hotch, credi che farei dei casini?»
  «No, credo che la tua presenza non lo aiuti. È troppo presto.»
  «Ma di che diavolo parli?» ringhia il ragazzo, prendendo la postura di un animale inferocito. «Se è per quello che è successo ad Atlanta-»
  «Non voglio che entri ora perché non sei lucido. Ha bisogno di qualcuno che appaia il più imparziale possibile.»
  «Certo, come no» mormora a denti stretti il ragazzo.
«Hotch ha ragione» dice JJ, facendoli voltare entrambi. «Sei l'unico che può farlo» aggiunge guardando Hotch, che in quel momento si prepara a indossare la sua maschera migliore.


  Nella piccola sala il freddo è secco e pungente, ma inutile: Reid continua a sudare e a bere acqua per reintegrare i liquidi. Hotch si siede di fronte, ottenendo che l'altro alzi la testa e lo guardi, con occhi che perdono pian piano il rossore e diventano due aghi perforanti.
  «Reid, vuoi parlarmi di cosa è successo?»
  Il giovane agente si morde un labbro e parla quasi in un sussurro. «Lui ha cercato di procurarmi un'overdose. La pistola era sul tavolo. Mi sono difeso.»
  Hotch annuisce e capisce che, per ora, non otterrà molto altro. Decide di cambiare argomento.
  «Ecco cosa faremo» dice il supervisore, aprendo la cartella dell'FBI. «Se sei d'accordo, ti mostrerò le informazioni che abbiamo acquisito e la nostra ricostruzione degli eventi.»
  Reid annuisce e congiunge le dita ossute sul tavolo, decidendo di rivolgere il suo sguardo ad esse.
  «Bene.» Hotch finge di leggere qualcosa, poi alza lo sguardo e fissa il ragazzo per tutto il tempo, monitorandone le reazioni. «Due donne sono state assassinate a distanza di tre giorni l'una dall'altra. La firma del SI è un numero sulla fronte, rispettivamente il cinque e il quattro. La nostra ipotesi è che stesse intentando un conto alla rovescia, ripercorrendo i cinque stadi del dolore. È un percorso espiatorio e un modo di ritorcere il proprio dolore su chi ritiene esserne responsabile.» Hotch prende dal fascicolo una foto e la gira verso Reid. Il ragazzo la guarda appena, ma poi distoglie lo sguardo. «Daniel Roland, lo riconosci di sicuro. Venticinque anni, intelligente e sociopatico. All'età di sei anni il padre muore e la madre cerca di crescerlo al meglio, ma le viene revocato l'affidamento a causa di gravi turbe maniaco-depressive. Due settimane fa la madre muore nella clinica che la ospitava da quindici anni. Mai una visita del figlio, una lettera o una chiamata. Siamo al fattore di stress. Gli omicidi vengono scatenati da questo articolo.» Hotch pone davanti alle mani di Reid anche l'articolo su Madison Lorenz. «Daniel perde il controllo e decide di uccidere Madison Lorenz, santificata a vittima ingiustamente. Nella sua mente si è già formato il piano. Contatta anche la seconda vittima, Jordan Norris, e la convince a precipitarsi a Washigton.»
  Reid poggia un polpastrello tremante sulla foto di Madison, poi lo ritrae quasi inorridito, sotto gli occhi vigili di Hotch.
  «Il suo piano diventa via via più grandioso: ora vuole colpire il sistema che lo ha abbandonato.»
  Spencer si acciglia davanti alla foto del murales.
  «Si dissocia, non riuscendo a sostenere il divario tra il suo bisogno di vendetta contro la madre e il potere, incarnato dal padre, e il senso di colpa per averla abbandonata. Parla di sé in terza persona, si giustifica, e cresce la sua frustrazione. Decide allora di avvicinare il membro più giovane di quella squadra che lui ritiene più in torto, perché quella che avrebbe dovuto capire e salvare i sociopatici come lui. È qui che entri in scena tu.» Hotch fa una pausa e osserva le mani del dottore torturarsi a vicenda. «In qualche modo viene a sapere delle tue debolezze e le sfrutta a sua vantaggio.» La vergogna sparge un lieve rossore sul viso emaciato. «Proabilmente tu saresti stato la sua ultima vittima, l'estremo atto vendicativo. Colpire l'FBI al cuore e compiere una vendetta a nome di Tobias Henkel.»
   Hotch, che nel parlare si era sporto in avanti, ora lascia andare la schiena alla sedia e attende, ritto e rigido, che Reid abbia una reazione. Inaspettatamente, il ragazzo esce dall'immobilità scuotendo la testa e mormorando un no che sembra una preghiera.
  «Ora tocca a te dare la tua versione dei fatti» gli ricorda Hotch.
  Le labbra del ragazzo hanno un tremito, un tentativo di sorriso che appare solo grottesco. Alza lo sguardo e lo punta in quello di Hotch. Le mascelle si serrano per un attimo, i nervi si tendono.
  «Tutto ciò che hai detto è...sensato» ammette Spencer. «Ma hai sbagliato su un punto fondamentale: Daniel non c'entra, se non come spettatore. Io ho ucciso quelle donne.»
  Hotch si acciglia. «Spencer, sei sotto shock. Quello che dici non è la realtà.»
  Il ragazzo non cede e ribadisce: «Le ho uccise io. E non sono sotto shock.»
   Oltre i vetri Morgan spalanca la bocca in un'espressione di stupore. Cerca gli occhi di JJ, spalancati.
  «Si è fuso il cervello!»

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Capitolo 8
*** Resa ***



8
Resa


Così addio speranza, e con la speranza, paura addio,
Addio rimorso: ogni bene a me è perduto:
Male, sii tu il mio bene.
John Milton




  «Due settimane fa ho avuto un crollo. Mi sono svegliato nel mezzo della notte, alle tre e trentadue. Sudavo e mi tremavano le mani. Era ormai da più di due anni che non avevo un flashback.»
  «Cosa hai visto?»
  «Tobias. Mi drogava, ancora. Il passo dall'incubo al craving è stato davvero breve. Ma non ho assunto nulla, ero pulito quella notte.»
  «Ti riferisci alla notte in cui è morta Madison Lorenz?»
  «Sì. Non ho alcun ricordo di quei fatti. Mi sono risvegliato nel mio salotto, indossando le prove.»
  «Quali prove?»
  Spencer chiude gli occhi, come a ricordare un elenco. «Nel terzo mobile della cucina, secondo sportello a destra, troverete una scatola, che contiene un pezzo di tessuto: risulterà positivo al sangue di Madison Lorenz. In una busta sono contenuti coltello e camicia usati nel secondo omicidio, quello di Jordan Norris. Grazie al cattivo stato dei bagni della linea A, li ho ritrovati dove li avevo lasciati. È lì, vicino alla seconda scena del crimine, che ho avuto un secondo risveglio dopo un'amnesia lacunare post-omicidio.» Apre gli occhi, duri come marmo. «L'orologio indossato dalla prima vittima è il mio. Sul cellulare troverete una chiamata che ho ricevuto da Jordan Norris il giorno precedente l'omicidio, da una cabina pubblica nei pressi dell'areoporto.»
  «Cosa mi dici di Daniel?»
  Spencer non batte ciglio. «Ha assistito per puro caso al primo omicidio, e preso dalla devozione mi ha seguito fino a riuscire ad avvicinarmi. Quella sul muro è la sua grafia, un segno di ammirazione.»
  Hotch richiude il fascicolo e lo lascia sul tavolo, poggiandovi sopra le mani chiuse.
  «Questa è una confessione.»
  Spencer sorride amaramente. «Dammi carta e penna e lo diventerà.»
  Il supervisore capo si alza e lascia la sala, richiudendosi la porta alle spalle.

  Non ha fatto un passo nel corridoio, che si scontra con Morgan.
  «Non gli crederai?»
  Hotch lo spinge indietro, per evitare che Spencer, o peggio altri, possano sentirli. Quando è certo che loro tre sono soli, guarda l'agente negli occhi infervorati.
  «La sua è una confessione. Reid non è stupido, nel suo appartamento troveremo esattamente ciò che ci ha indicato. Apportando delle modifiche fattibili al profilo, combacerà.»
  «Ma cosa vi prende a tutti?» sbotta Morgan, cercando l'approvazione di JJ che, invece, abbassa rammaricata lo sguardo. «JJ, avanti, diglielo! Digli che Reid non potrebbe mai...farlo!»
  «Derek» mugola la ragazza in una sorta di preghiera.
  «Non è così semplice» interviene Hotch, salvando la collega in difficoltà e costringendo Morgan a  guardarlo. «Non importa ciò che pensiamo noi. Ovvio che non credo sia il colpevole, ma una confessione è una condanna. Abbiamo poche ore prima che il capo Strauss intervenga. Dovremmo convincerlo a ritrattare. Finché non c'è nulla di scritto, possiamo ancora salvare la situazione.»
  Il cellulare di JJ comincia a squillare.


  Rossi è in piedi, di fronte al letto di Reid, e tiene le mani guantate sui fianchi. Non riesce davvero ad abituarsi all'idea di dover frugare nello spazio intimo del ragazzo. Gli sembra una violazione gratuita, seppur necessaria.
  Meglio noi che altri, pensa per darsi forza.
  La scientifica è ancora al lavoro in tutta la casa, pochi tecnici per ora. Uno è appena entrato e lo sta richiamando. «Mi scusi, dovrei spegnere la luce un attimo.»
  L'attenzione dell'italiano cade sulla piccola torcia annessa di filtro blu. Sa troppo bene il suo utilizzo e, malgrado il moto di protesta che gli sale dallo stomaco, sa di non potersi opporre senza far danno all'indagine, e quindi a Reid. Perciò annuisce e resta nel buio, ad osservare la luce irradiare aloni blu per tutta la stanza. Il tecnico solleva con cautela la coperta abbandonata sul letto, fino a scoprire il materasso sottostante. Rossi non riesce a distogliere lo sguardo, anche se vorrebbe davvero: al centro del materasso nell'alone blu compaiono macchie più corpose.
  «Mi avverta quando ha finito» ringhia Rossi, lasciando la stanza mentre il tecnico estrae dal taschino un tampone.
   
  Prentiss esamina ogni dettaglio. Non riesce a fermarsi, a non lavorare. Ora, più che mai, gli è necessario. Cercando di mantenere la freddezza che le è tipica, apre con cura ogni cassetto, sfoglia ogni libro sparso in giro, rivolta i tappeti.
  «Come procede qui?» chiede Rossi, che oggi sembra stanco e provato.
  «Non ho ancora trovato nulla di rilevante.» Prentiss si alza, lasciando andare un libro. «Hai ricevuto il messaggio di JJ?»
  Rossi annuisce e la mora allarga le braccia incredula. «Io non riesco a crederci. Perché proclamarsi colpevole?»
  «È confuso, Daniel lo ha raggirato.»
  I due profiler restano in silenzio, finché non giunge loro la voce dell'agente Edwards, che li richiama dall'angolo cucina.
  «Credo di aver trovato qualcosa, era in uno sportello, neanche tanto nascosto.»
  Quando l'agente solleva il coperchio della scatola, Prentiss guarda allibita Rossi. «Chiamo JJ.»

  JJ abbassa lentamente il cellulare. Ora non possono più fingere che sia tutto un malinteso, eppure non può davvero crederci. Non il suo Spence, tutti ma non lui.
  «JJ, che succede? Era Prentiss? Parla» la incita Morgan.
  «Loro...» deve schiarirsi la voce per ricacciare le lacrime. «Loro hanno trovato la scatola con le prove. La scientifica ha rilevato tracce di sangue nel bagno.»
  «Dannazione! È uno scherzo?» ringhia Morgan. «Ce li avrà messi quel pazzo di Daniel!»
  «Cos'altro?» chiede Hotch. «JJ, cos'altro? Cosa possono usare in tribunale?»
  La ragazza si riscuote e aggrotta le sopracciglia, nel tentativo di far chiarezza nella mente. «Boccette di idrocodone e siringhe usate. Ah, e nel letto tracce di...liquido seminale.»
  Morgan resta per un attimo impietrito.
  Spencer.
  Poi si volta di scatto verso il capo. «Fammi entrare.»
  Hotch incrocia le braccia al petto, riflettendo. «D'accordo» concede alla fine, ed è costretto a bloccare l'agente per un braccio prima che si fiondi nella stanza. «Morgan, ricorda cosa c'è in gioco. Sii duro, spaventalo se serve, ma ricordati con chi hai a che fare.»
  «L'ho già dimenticato una volta, non farò ancora lo stesso errore.»
 
  Spencer comincia a manifestare i primi segni di disagio, trattenuti a stento. Si nota nelle mani arrossate che si torturano ancor più nervosamente, negli occhi stanchi che saettano a destra e sinistra, come a seguire due fantasmi che giocano a ping-pong, e nel piede sinistro che tamburella silenzioso il pavimento freddo.
  Con tutta sincerità, non saprebbe dire se è il craving a parlare attraverso il suo corpo o se, piuttosto, non sia il corpo a cercare di comunicargli qualcosa.
  E poi, cosa?
 Quando la porta si spalanca, ha un sussulto e il suo disagio aumenta. Nella stanza entra Morgan, invadendo uno spazio che per un attimo è stato solo suo, come se si stesse infiltrando in pensieri, ricordi e immagini che si sono espansi fino a graffiare i muri della piccola stanza. Nove metri quadri sono troppo stretti per la sua mente.
  L'agente si siede di fronte a lui senza dire una parola, senza accennare un saluto, in definitiva senza considerarlo. Spencer si sente abbastanza infastidito, cosa che non si attenua quando considera che quello è un atteggiamento standard. È intento a cercare di intuire quale sia il profilo che Morgan sta applicando su di lui, quando il frusciare di fogli spezza i suoi pensieri. Derek ha aperto il fascicolo, alla ricerca di un plico di fogli tenuti assieme da una graffetta. Il primo è una foto di Daniel, che però posiziona in modo che Spencer possa vederla solo al rovescio, e distorta dalla grossa macchia di luce provocata dalla lampadina sulle loro teste.
  «Ti dirò subito che non mi interessa come pensi di aver commesso i due omicidi, o il perché.» Morgan tiene la schiena dritta e la voce ben modulata sulle tonalità più basse.
  Sta cercando di intimidirmi.
  Non può davvero pensare che ci cascherà, eppure Spencer sente un lieve pizzichio alla base del collo.
  Morgan estrae dal plico una foto e la pone al fianco della prima. Il dottore ha un lieve accelleramento del battito, davanti all'immagine di diverse boccette trasparenti e bustine contenenti polveri marroni.
  «Daniel Roland è stato arrestato due anni fa per possesso di droga finalizzata allo spaccio in ambienti accademici» dichiara Morgan, come se stesse tenendo una lezione studentesca. «Per la precisione...» legge da un foglio: «diciotto boccette di idrocodone e cinquanta grammi di eroina. Per questo motivo è stato espulso dall'università, dove studiava per diventare medico. Ha scontato solo un anno e mezzo. Sembra che il suo avvocato sia riuscito a farlo scagionare.» Morgan solleva le sopracciglia. «Incredibile che tipo di feccia lasciano circolare per strada.»
  Spencer sente l'agitazione invadergli il corpo e annebbiargli la mente.
  «Oh, c'è anche un altro capo d'accusa, ma risale a diversi anni prima. Era minorenne e fu scagionato senza drammi. Pensa un po': prostituzione. Pare che il vizio della droga sia nato più o meno in quel periodo. Mi chiedo come sia sopravvissuto fino ad ora.»
  Il dottore non riesce più a trattenersi. «Basta» mormora.
  Morgan si sporge in avanti. «Scusa, come hai detto?»
  «Smettila!» strilla Spencer, battendo un palmo sul tavolo e guardandolo colmo d'ira. «So cosa stai cercando di fare.»
  «Lo sai? Io ti sto solo dicendo la verità» lo rimbecca Morgan. «Credo sia tardi per fingere ancora che non esista la realtà.»
  «Questi...giochetti non funzionano con me.»
  «A me sembrano funzionare» dice Morgan, accorciando le distanze, così da sentire il suo fiato sul viso. «Ti senti punto nel vivo, vero? Al cuore della tua intelligenza. Tu, il genio, ti sei fatto raggirare da un gigolò drogato.»
  Spencer spalanca gli occhi e balza su dalla sedia. «Basta! Stai...no!» Ha un giramento di testa e si appoggia al bordo del tavolo, ma non vuole mostrarsi debole. Non può.
  Derek, perché?
  Riesce a ritrovare un briciolo di calma e a risedersi, piano, come se le gambe minacciassero di cedergli e sciogliersi lì a terra. «Tu...non capisci» mormora a testa china.
  «Cosa non capisco? Spiegamelo, avanti.»
  «Non...posso. Io...»
  «Tu cosa, Spencer?»
  «Daniel non c'entra» ringhia Spencer, con un suono tra lo stridulo e il cupo. Alza di scatto la testa e fissa il collega. «Io non sono amareggiato o deluso o...o depresso perché Daniel è morto, perché io l'ho ucciso.»
  «Allora perché? Avanti, parla!»
  «Perché io sono andato fuori di testa. Perché ho ucciso due donne innocenti. Perché sono tornato su un sentiero al quale avevo detto addio. Perché tu sei qui e mi parli come se sapessi tutto, come se avessi già capito ogni cosa. Non mi parli come mi avresti parlato prima, non mi guardi come facevi prima. Io per te non sono più la stessa persona. Sono un mostro.»
  Gli occhi si riempiono di lacrime e quelli di Morgan hanno un'esitazione. Dopo un lungo, strenuante silenzio,  uno strano ottundimento pervade l'agente.
  «Reid...» dice alla fine.



  Oltre il vetro, JJ è un fascio di nervi e sobbalza vistosamente quando Reid comincia ad agitarsi.
  «Hotch, devi fare qualcosa.»
  Il supervisore capo alza una mano. «Stai tranquilla.»
  «Come posso? Morgan è furioso e io non posso star qui a guardarli azzannarsi a vicenda.»
  «Hai ragione, c'è tensione. Ma ci sarà utile.»
  JJ cerca di confidare nell'esperienza e nell'acuzia del capo, ma un timore primordiale le domina il petto.










Note: Eccomi di nuovo. Mi scuso per il ritardo, ma ho avuto ben poco tempo. Sarò più precisa, promesso! Grazie infinite a chi ha la pazienza di seguirmi.
 A presto.
Ax.



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Capitolo 9
*** Alias ***


9
Alias



Dare un significato alla vita può sortire follia,
ma la vita senza significato è la tortura
dell'irrequietezza e del desiderio vago –
è una nave che anela il mare eppure lo teme.
Edgar Lee Masters
 


 Morgan, uscito dalla stanza interrogatori per pochi, interminabili minuti, rientra. Se Spencer fosse più lucido, se solo avesse il coraggio di guardarlo negli occhi, allora noterebbe che l'espressione del collega è radicalmente cambiata. Si siede, sospira e poggia sul tavolo una nuova cartella.
  «Ricominciamo.»
  Reid solleva la testa. È stanco, molto più di quanto avrebbe mai potuto prevedere. Quel diverbio è stato l'urto finale, che lo ha sbalzato a terra, cancellando ogni resistenza. Il collo è indolenzito dallo sforzo di sorreggere una mente immersa negli incubi, e le mani cominciano a fargli male.
  «Dato che non vuoi sentire quello che ho da dire, parlami tu.»
  «Di cosa?»
  «Comincia da quello che è successo stasera.»
  Spencer prende una boccata d'aria che gli brucia i polmoni. La voce si trascina a stento attraverso la gola riarsa. «Quando ho saputo della tua visita, ho pensato di fuggire. In realtà, la via di fuga che avevo in mente era molto più estrema di un cambio di città.»
  Morgan sente la bocca seccarsi.
  «Ma, mentre preparavo le valigie, mi sono reso conto dell'assurdità. Ero finito in un circolo parossistico, grottesco. Ho deciso che avrei fatto quello che dovevo fare fin dall'inizio: costituirmi.»
  «Se credevi così fermamente nella tua colpevolezza, perché non l'hai fatto prima?»
  Spencer sorride debolmente.«Credevo di potervi salvare. Non ci sono riuscito.» Prende una pausa. «Daniel ha insistito perché prendessi una dose di idromorfone.» Scuote la testa, incredulo di sé. «Mi ha convinto. Riusciva a convincermi. Non sapevo come, ma ora ne sono certo: era uno psicopatico da manuale. Eppure non me ne sono accorto.»
  «Non volevi vederlo.»
  «Già.»
  «Cosa è successo dopo?»
  Spencer aggrotta le sopracciglia, come intento a leggere qualcosa di davvero importante. «Mentre legava il laccio mi sono accorto che qualcosa era cambiato nel suo linguaggio del corpo. Le pupille dilatate, il respiro corto e lo sguardo...ne abbiamo visti a centinaia di simili. L'istinto ha fatto il resto.»
  «Hai capito che stava per ucciderti.»
  «Non aveva mai preparato una siringa lontano dalla mia vista. C'era qualcosa di strano. Quando ho capito che doveva aver mischiato il dilaudid a un'altra sostanza, mi sono ribellato. Non ero molto lucido, poco prima...era una bassa dose, ma ancora non era svanita. Non sono riuscito a bloccarlo, era più forte. Così c'è stata una collutazione...» Si interrompe e lascia che il silenzio parli per lui.
  «Sai cosa penso?»
  Spencer solleva lo sguardo su Morgan.
  «Credo che tu non abbia ucciso nessuno, se non il vero SI.» Si alza e lo guarda con una nota si speranza. «Credo che Daniel ti abbia incastrato e che, quando sei sfuggito al suo controllo, abbia deciso di sacrificarti. In ogni caso le prove avrebbero portato a te. Quando ha iniziato a meditare di uccidere si è reso conto della possibilità, sicuramente già studiata più volte, di commettere un errore. Ha scelto il capo espiatorio che meglio si addiceva alle circostanze. Deve averti studiato bene, non a caso tu hai preso a cuore Nathan ed Owen, in un modo che è facilmente reperibile tra media e internet. Ti ha seguito, è riuscito a drogarti e a rubarti l'orologio. Magari ha usato un gas volatile o ti ha sciolto qualcosa nel bicchiere al bar. Casi da manuale. Aveva premeditato che entrassi in confusione e, per evitare che gli sfuggissi, ti ha avvicinato. Così eri più gestibile e non solo rappresentavi una via di fuga, ma eri anche una gratificazione per il suo ego.» Morgan mostra al ragazzo delle foto che lo ritraggono. «Le ha trovate la polizia nell'appartamento di Daniel. Te le ha scattate pochi giorni prima del primo omicidio. Ti bastano come prova?»
  Spencer spalanca gli occhi, incredulo, mentre Morgan lascia la stanza.
 

   Come ho fatto a non pensarci prima?
   Il dottore si tiene la testa tra le mani, cercando di racchiudere i propri pensieri e di non lasciarli disperdere.
   È incredibile come, a volte, un semplice cambiamento di prospettiva possa rivoluzionare una situazione. Era così sicuro della propria colpevolezza, così ossessionato dai suoi crimini, così terrorizzato dalla prospettiva di aver perso la ragione, da non riuscire a pensare in grande. Gli sono sfuggite variabili importanti, ha tralasciato fasci interi di idee, come guardare un arcobaleno e perdersi metà dello spettro di luce. Si perde l'insieme.
  Un sistema è più della somma delle sue parti.
  Comprende ora che il sistema non è lui, non lo è mai stato. Lui era solo una sua parte, un numero nell'equazione, un atomo in una molecola molto più lunga.
  Uno strano sorriso si allarga sulle labbra screpolate.
  Sono innocente.
   
  Passa almeno un'ora, nella quale Spencer riesce a poggiare la fronte al tavolo di ferro e a chiudere gli occhi. Sta quasi per addormentarsi, dopo troppo tempo.
  «Hei, ragazzo.»
  Alza la testa di scatto e sorride, sinceramente. Anche questo non lo fa da troppo. E da altrettanto tempo non vede il viso di Morgan illuminarsi a quel modo.
  Hei, ragazzo...Non gli è mai mancato tanto.
 «Tutto bene?»
  Spencer si stropiccia gli occhi arrossati. «Sì, certo. Sono solo molto...stanco.»
  «Hai ragione, prometto che sarò rapido e indolore.» Derek sorride e si siede. «Ho la tua chiave di buona uscita. La polizia ha perlustrato l'appartamento di Daniel. Oltre alle foto è venuto fuori un bel altarino in tuo onore. Sapeva un po' troppo su di te. Aggiungendo questo al profilo, ai suoi precedenti e al suo tentativo di omicidio, direi che l'accusa nei suoi confronti reggerà bene in tribunale. Non c'è prova fisica che colleghi te agli omicidi o che possa mettere in dubbio la sua colpevolezza. Ha cercato di incastrarti, ed è ovvio.»
  Il dottore annuisce, ma sente nell'aria un però in arrivo.
  «Ora il tasto dolente: ci trasferiamo nel dipartimento di polizia del settimo distretto, quello in cui hanno avuto luogo gli omicidi. Dovrai lasciare agli agenti una deposizione dei fatti della scorsa sera. Pensi di farcela?»
  «Voglio solo chiudere questa storia» afferma Spencer. «Se per aumentare la mia credibilità e debellare ogni dubbio sull'imparzialità dell'indagine, dovrò farmi un viaggio dall'altra parte della città, sono disposto ad andare anche subito.»
  Morgan sorride: il suo piccolo genio non lo delude mai.
  Si chiede se Spencer lo sappia, se sappia che in fondo non è deluso. Ma decide di affrontare queste questioni più tardi, all'alba di un giorno migliore. Questo è stato già troppo lungo.
  «Bene, allora siamo d'accordo.»
  I due si alzano, Spencer un po' traballante sulle gambe.
 Morgan gli si avvicina e gli mormora piano. «Per la questione del dilaudid...nessuno saprà quanto ne hai assunto in questi giorni. Intesi?»
  Il dottore annuisce, abbassando gli occhi. La vergogna brucia ancora alla bocca dello stomaco.


 Prentiss e Rossi tirano un grosso sospiro di sollievo e ripongono i cellulari nei taschini. Si scambiano uno sguardo luminoso.
  «È finita.»
  «Povero ragazzo» mormora l'italiano, raccogliendo le sue cose per lasciare, finalmente, l'appartamento di Spencer. «Dovranno ripulire per bene questo posto, ma almeno un giorno potrà tornarci.»
  Prentiss annuisce, ma qualcosa sembra adombrarle il viso.
  «Emily, qualcosa ti turba?»
  «Come? No, nulla, stavo solo riflettendo. Credi che tornerà come prima? Intendo Reid.»
  Rossi sorride. «Se c'è qualcuno che ne è capace, è lui. Sottovaluti la forza d'adattamento di quel ragazzo.»
  L'agente Edwards da' ordine alla scientifica di abbandonare il campo e si avvicina ai due agenti. «Le analisi di laboratorio saranno pronte tra qualche giorno, ma sicuramente confermeranno la versione del dottor Reid.» Poi guarda la pozza di sangue che va seccandosi a pochi centimetri dai suoi piedi. «Jimi Hendrix» sussurra.
  «Come ha detto?» chiede Rossi.
  «Oh, una sciocchezza» risponde sorridente Edwards. «C'è chi pensa che il manciniscmo sia la mano della creatività, non credevo lo fosse anche del male. Bhe, io vado in centrale» dice poi, strofinandosi le mani. «È stato un piacere.»
  Edwards lascia l'appartamento con lunghe falcate, come se avesse questioni più urgenti da sistemare.
  Emily lancia uno sguardo interrogativo a Rossi. «Mancinismo?»
  Rossi medita, poi i suoi occhi si illuminano. Estrae dalla tasca il cellulare e compone il numero.
  «Garcia, Daniel Roland era mancino?»
  «Domanda interessante» ironizza la ragazza, rendendosi poi conto della serietà del collega. «Cerco subito...Dunque, in effetti sì, ma nella sua scheda è riportato un incidente in carcere: un detenuto gli infilò un...wuf...un coltello nella mano sinistra. Vennero recisi alcuni nervi e da allora ha imparato a scrivere con la destra. Non sapevo fosse possibile.»
  «Sì, se sei ambidestro ma hai sempre usato una sola mano» risponde Emily.
  «Grazie, Garcia.»
  «Al vostro servizio.»
  Rossi ha ancora il cellulare in mano e una strana sensazione lo turba, come all'avvicinarsi di un temporale.
  «Daniel era alto un metro e settanta.»
  Prentiss ha uno scatto. «Hai visto Edwards scrivere? È mancino.»
  Rossi impallidisce e un mio Dio sincero gli scivola dalle labbra.


  Spencer è seduto nella sala interrogatori alla centrale di polizia del settimo distretto di Washigton. È così stanco che ormai non riesce neanche più a tenere la schiena dritta. Chiude gli occhi e, inevitabilmente, immagini svariate di quegli ultimi, tremendi giorni gli passano dietro le palpebre, come un rullino sbobinato in fretta. Ha la strana e pungente sensazione che il sistema ruoti male, che un ingranaggio sia malfunzionante. Una melodia stridula, nella quale è difficile individuare il membro dell'orchestra che si è assentato.
  Ma non è un'assenza, piuttosto una manomissione. Spencer non sa ancora cosa voglia dire nel suo caso, ma lo sente nel suo cervello primordiale. Lo avverte.
  Cerca di isolare ogni variabile, ma è difficile.
  La porta si apre e fa capolino un giovane agente. Quando i loro occhi si incrociano, Spencer ha la strana sensazione di conoscere quel viso, qualche tratto che nell'insieme perde forza.
  «Dottor Reid, sono l'agente Edwards» si presenta, sorridendo a mostrare denti bianchissimi. Gli porge un block notes e una penna tenuti distrattamente sottobraccio. Gli posa davanti anche un caffé fumante. «Deve essere stanco, le ho portato un carico di energia. Scriva pure con calma.»
  «Grazie, molto gentile.»
  Uno strano lampo serpeggia negli occhi dell'agente, che sosta un attimo di più prima di uscire. Ma Spencer ora non riesce a farci caso. Butta giù a grossi sorsi il caffé, rischiando di bruciarsi la lingua. La sua mente è ancora in esplorazione.


  Emily e David entrano con furia nella sala riunioni, dove Penelope, Araron e Jennifer discutono con tranquillità e volti visibilmente sollevati.
  «Siete tornati» li accoglie Hotch. «Spencer è al distretto con Morgan.»
  I due agenti si scambiano un'occhiata.
  «Che succede?» chiede JJ preoccupata.
  «Garcia, puoi reperire informazioni sull'agente Phillip Edwards?» chiede Rossi.
  Mentre Garcia comincia a digitare, Hotch incrocia le braccia al petto, stanco e innervosito dalla brutta nottata. «Dave, cosa succede?»
  «Edwards ha fatto riferimento al mancinismo del SI. Ma Daniel era ambidestro e da due anni usava la mano destra, perché la sinistra è stata lesionata.»
  «Quindi non potrebbe impugnare con forza un coltello usando la mano sinistra» aggiunge Prentiss.
  «Nessuno ha menzionato che il SI potesse essere mancino» obietta JJ.
  «Eccolo!» esulta Garcia. «Oh, questo è preoccupante.»
  «Cosa hai trovato?»
  «È quello che non ho trovato.» L'informatica alza gli occhi sulla squadra, prima di tornare a fissare il pc. «L'agente Phillip Edwards è morto in servizio tre anni fa a Las Vegas, ma è ricomparso esattaente tre mesi fa qui a Washigton. Stesso numero di previdenza sociale, stessa persona.»
  «Era mancino?» chiede Rossi.
  «Negativo, ecco la foto.»
  La squadra guarda allibita il volto chiaro e la capigliatura bionda.
  «L'agente Edwards che abbiamo conosciuto non esiste» conclude Prentiss. «Chiunque sia, ha rubato l'identità di un agente morto.»
  «Ha fotto di più» interviene Garcia. «Devo ammettere che è stato maledettamente bravo. È entrato negli archivi digitali della polizia, ha eliminato ogni traccia dell'agente Edwards e ha creato un falso curriculum. Ogni traccia della morte di Edwards è reperibile solo tramite articoli.»
  «È riuscito così a entrare nella polizia come agente in prova.»
  «Dove si trova ora?» chiede duro Hotch.
  «In centrale con Spencer» mormora Prentiss.
 

  Spencer ha il foglio davanti ancora vuoto. Vorrebbe riuscire a trovare la risposta alle sue domande, ma non sa neanche quale sia la domanda. Sa solo che quel senso di fastidio non va via. Decide di prendere in mano la penna e inzia a girarsela tra le dita. Quando gli cade, con un tonfo secco, si rende conto di essersi macchiato le mani, come quando era bambino.
  Cerca di strofinare via l'inchiostro e ha un'intuizione così forte da sconvolgerlo. Come un potente orgasmo, si diffonde ovunque nel corpo, legando a un'idea altre cento.
  Rivede le mani dell'agente Edwards mentre gli porgeva il caffé: mano sinistra sporca d'inchiostro. Mancino. Rivede un dettaglio della propria camicia quella mattina: uno spruzzo di sangue sull'avambraccio sinistro. Nella sua mente vede un uomo, mancino, pugnalare una donna al petto, il braccio destro si macchia nella parte interna, per necessità il sinistro, il braccio sollevato, si macchia all'esterno.
  L'assassino era mancino.
  Rivede Daniel con la siringa in mano, che tiene la boccetta nel palmo della mano sinistra, percorsa da una lunga e mal cucita cicatrice, mentre il pollice dell'altra mano tira su lo stantuffo.
  Daniel non era mancino.
  Rivede il guizzo negli occhi dell'agente.
  Pensa al fatto di non aver mai visto Daniel prima di quella notte d'alcol e droga e di come, invece, ricordi di aver bevuto un bourbon in un bar pieno di polizziotti. Un bar dove c'era anche l'agente Edwards. Un bar nel quale qualcuno gli ha offerto da bere.
  Tutti i tasselli vanno al loro posto, la melodia diventa incalzante e precisa. Il sistema gira perfettamente.
  Come gira il suo stomaco, al ritmo della sua mente. Un dolore acuto gli arpiona le membra. I muscoli si contraggono dolorosamente e la vista diventa nebbia.
  Scivola a terra trascinando con sé i fogli gialli e la sedia di metallo, mentre qualcuno chiama il suo nome.





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Capitolo 10
*** Monitor ***


Note: Salve, lettore! Mi sento in dovere di proferire altre scuse profondamente sincere. Purtroppo è stato un periodo intenso sotto molti aspetti, che mi ha lasciato distratta e occupata (direi più immersa); ora eccomi, pronta a tornare a pubblicare e soprattutto, grazie Entità Superiore chiunque tu sia (o se tu sia), a scrivere. Ora cercherò di pubblicare più prontamente e annuncio che questo è il penultimo capitolo, quindi presto questa storia giungerà alla fine (niente più lunghe attese, se qualcuno ancora non ha deciso di mandarla al diavolo e dimenticarla).
  Piccolo sunto, per chi si fosse comprensibilmente dimenticato a che punto della storia siamo: in seguito alle indagini, il profilo e la testimonianza di Morgan hanno portato la squadra da Daniel Roland, ma ormai era tardi. Il ragazzo ha tentato l'ultimo estremo gesto di follia: uccidere Spencer provocandogli un'overdose. Reid è riuscito a evitare questa tragica fine, uccidendo Roland. Portato in centrale per essere interrogato, dopo un duro confronto con Morgan ed Hotch, ha realizzato di non aver mai commesso gli omicidi dei quali si riteneva colpevole. Pronto a firmare la dichiarazione di innocenza, raccontando gli avvenimenti con rinnovata speranza, riesce a giungere all'allarmante conclusione finale: l'agente Edwards della polizia non è chi sembra...




10

Monitor

Niente è più doloroso per la mente umana
della calma mortale dell'inattività e del disincanto
che fa seguito alle emozioni provocate da una rapida successione di eventi,
cancellando dall'anima ogni speranza e anche ogni paura.
Mary Shelley
 
   

  JJ ha due polpastrelli poggiati delicatmente sul vetro, dove le persiane sottili lasciano intravedere solo piccoli strati della stanza bianca. Chiude gli occhi colmi di lacrime, ricordando la prima volta che ha incontrato Spencer. Nella sua mente non c'è un'immagine precisa, né una circostanza particolare, ma solo la sua primissima impressione. Tenerezza. Ecco cosa gli ispirò. Molte persone reagiscono in modi particolari alla presenza del suo amico: irritazione, diffidenza, compassione. Eppure lei non lo ha mai guardato così, non ha mai dubitato della sua normalità. Spencer è eccezionale, certo, ma JJ non lo hai mai considerato un animale raro, quasi da circo, non come molti altri.
  Ora questa particolarità, che ha permesso al ragazzo di aprirsi con lei senza timore d'esser giudicato, sembra pesarle sul cuore come un'accusa. Forse, si dice, avrebbe dovuto rendersi conto prima che Spencer non è come gli altri.
  Prima di tutto, non è come lei, che ha Will, che ha Henry, che ha la sensazione che, malgrado gli orrori del suo lavoro, ci sia un luogo da chiamare casa, uno spazio mentale in cui sentirsi...giusta. Comincia a chiedersi se Spencer abbia la minima idea di cosa significhi.
Perché, tra tutti noi, proprio tu? Perché ha scelto te?

  La mano sulla spalla la fa sussultare e voltare di colpo. Cerca di asciugarsi le lacrime, come una bambina sorpresa a commuoversi per un nonnulla. Lo sguardo di Derek si ammorbidisce.
  «JJ...»
  «L'hai trovato riverso sul pavimento, vero? Era svenuto. Non sono arrivata in tempo.»
  «Non hai colpe.»
  Derek fissa il vetro della stanza senza realmente vederlo, poi si guarda attorno in cerca di un aiuto: il medico è ancora al capezzale del ragazzo, a monitorare le sue reazioni. Lo hanno ricoverato d'urgenza.
  Ha ancora nella mente quel terribile viaggio in ambulanza, a sirene spiegate. I paramedici che lo intubavano, il movimento intorno a sé, a lui che gli stringeva la mano. Una mano che non ha reagito.
  Fissa gli occhi in quelli di JJ, attirandoli nei suoi buchi neri. La mano sulla spalla non riesce a confortarla, aumentando il senso di frustrazione di Morgan.
  In quel momento il medico esce dalla stanza, richiudendo piano la porta alle sue spalle e stringendo la cartella al petto. Un uomo sui cinquant'anni che, Morgan calcola velocemente, deve avere alle spalle un'impeccabile carriera. Spencer è in buone mani, decide, prima di fiondarsi sul medico, invadendo la sua traiettoria.
  «Come sta?» quasi ringhia.
  L'altro da una rapida occhiata alla cartella, organizzando le idee, poi sospira e assume uno sguardo molto professionale.
  «Le sue condizioni ora sono stabili. È fortemente disidratato, ma siamo riusciti a intervenire in tempo. L'intossicazione era estesa, ma non ha compromesso organi vitali. È  stato fortunato che siate riusciti a intervenire rapidamente.»
  «Ma cos'è successo?» chiede Morgan, lievemente rassicurato.
  «Il risultato degli esami tossicologici potrà stabilirlo con certezza» risponde evasivo.
  «Esami tossicologici? Quindi pensate sia stato drogato?»
  Il medico sbatte le ciglia, visibilmente sorpreso. «Drogato no. Direi avvelenato.»
  JJ ha un sussulto e si porta la mano alle labbra, come a sopprimere un urlo muto.
  «Come ho detto bisogna aspettare il tossicologico, ma per ora mi sento abbastanza sicuro di avanzare un'ipotesi. Secondo la mia esperienza e le reazioni fisiologiche, si tratta di Veleno della Belladonna. Gli abbiamo somministrato l'antidoto e continueremo con la terapia in caso avessimo una conferma dal laboratorio. Ma sono quasi certo si tratti di questo.» Il medico aspetta che i due assorbano la notizia.
  Una sostanza inodore e insapore, facilmente diluibile nel caffé, medita Morgan.
  «Mi faccia entrare.»
  «Sarebbe meglio aspettare...» dice con poca resistenza, trovandosi davanti la determinazione dell'agente. «Ma posso lasciarvi entrare, per poco. Non agitatelo in alcun modo, il suo cuore ora è sotto sforzo.»
 
«Vai tu per primo. Chiamo Hotch, è in sala d'aspetto con gli altri» gli dice JJ, carezzandogli un braccio. «Ha bisogno di te.»

    
   Il bip dei monitor, il tubo della flebo che termina nell'ago infilato nella vena, lì dove un piccolo puntino violaceo spicca sulla pelle bianca, futura cicatrice di un'antica angoscia; i capelli adagiati sul cuscino come una corona umida, gli occhi cerchiati di nera stanchezza. A vederlo così, Morgan avverte tutta la realtà della situazione: Spencer ha rischiato la vita. Ricaccia indietro il dolore e si avvicina cauto. Le tapparelle della finestra sono socchiuse e la poca luce infastidisce gli occhi dietro le palpebre lisce e sottili, dove piccoli capillari sembrano sul punto di scoppiare.
  Derek sta pensando a cosa dire, seduto sulla pratica sedia di metallo al capezzale del ragazzo, quando sente la voce fioca emergere pastosa dal letargo narcotico.
  «Non sono morto» dice Spencer aprendo piano gli occhi. Apre e chiude la bocca per sciogliere la lingua, ma le parole sembrano attaccarsi al palato.
  «Hey, ragazzino» riesce solo a dire Derek, stupidamente dolce. Vorrebbe prendergli una mano, ma esita e la poggia sul letto. Quella di Spencer è forata dall'ago sottile di un'altra flebo, la cui boccetta pensola sulle loro teste. Le vene in rilievo sono gonfie di soluzione fisiologica.
  «Come ti senti?»
  «Come mi sento...» biascica. «Non sento molto il mio corpo.»
  «Ti hanno imbottito per bene. Dovresti restare così per non cacciarti nei guai.» Morgan sorride mentre lo dice, ma se ne pente subito. Eppure la reazione di Spencer lo sorprende: anche lui sorride, debolmente, incrinandosi in una smorfia di dolore, o forse fastidio. Non deve essere facile emozionarsi in quelle condizioni. Spencer è meno debole di quanto si aspettasse.
  È più forte di quanto pensi. Si dice. Ha più bisogno di quanto immagini.
 «Ed-Edwards» sussurrano le labbra secche. «Era lui, vero?»
  «Sì. Era lui fin dall'inizio. La nostra ipotesi è che lui e Daniel fossero una squadra.»
  Spencer fa una smorfia. «Perché?»
  Derek sa bene a cosa si riferisce. «Non so darti una risposta, Spencer. Forse non sapremo mai il movente, forse erano solo due psicopatici.»
  «È ancora a piede libero» sussurra alla fine.
  Derek quasi sobbalza.
  «Se lo aveste catturato...» Tossicchia. «Me lo avresti già detto.»
  «Mi conosci» gli concede Morgan.
  Spencer fugge lo sguardo e muove le dita a sfiorare la sua mano. Lacrime faticose gli scivolano lungo il viso, formando due righe rosse agli angoli degli occhi. Lo sguardo puntato al soffitto si nascondende un attimo dietro le palpebre, prima di tornare su Derek.
  «Perdonami.»
  Morgan gli stringe la mano, sentendola fredda, le dita che si serrano con debole resistenza.
  «Va tutto bene, Spencer.»
  Va tutto bene. Sente Spencer nel petto. Sei qui, va tutto bene. Anche se domani ci perderemo, ora ci sei.

  Vorrebbe chiedergli di non lasciare mai la sua mano, ma questo lo spaventa. Non piange perché Daniel è morto, e qualcuno, uno sconosciuto, ha cercato di ucciderlo. Piange perché ora è felice. Si dice che sono i farmaci, che è la condizione di labile confine tra vita e morte che lo fa sentire così bisognoso del suo contatto, come quando Tobias gli salvò la vita e, annebbiato, Spencer provò qualcosa di vicino all'estremo bisogno della sua presenza.
  Ma Derek non è Tobias, Derek è lì, gli stringe la mano e lo guarda, senza mai abbandonarlo. Qualcosa di strano, simile a un'energia senza nome, scivola tra le loro mani e Spencer avverte un soffio al cuore, un senso di pace, come abbandonarsi a un fiume di miele e galleggiare sotto le nuvole.
  «Non abbandonarmi» sussurra senza rendersene conto, con gli occhi chiusi e la mano in quella di Derek.

  Sono passati due giorni e la squadra ha fatto un lungo via vai tra ufficio e ospedale.
  Ora che Reid è in grado di ragionare lucidamente e di stare seduto senza crollare, Hotch ha deciso di affrontare un argomento dolente. «Appena verrai dimesso dovrai stendere un rapporto con la tua testimonianza. Vuoi ancora farlo?»
  Spencer lo guarda come se stesse chiedendo l'ovvio, corrugando la fronte. «Certo che sì. Più che mai.»
  Hotch si concede uno dei suoi rari sorrisi e si avvicina al letto del ragazzo, accomodandosi sulla sedia.
  «Come stai?»
  «Sai, mi sono sempre chiesto che effetto potesse avere una simile domanda da parte tua. Non che tu sia uno di quei capi disinteressanti, ma hai scelto l'approccio duro e flessibile, autorevole più che autoritario, che tra le altre cose si è dimostrato molto utile ai fini della produttività-»
  «Reid.» Hotch alza la mano, interrompendo lo sproloquio del ragazzo, che sorride imbarazzato.
  È ancora Reid, pensa tra sé e sé, decisamente sollevato.
  «Scusami. Sto bene» dice il ragazzo sorridendo.
  «Ne sei certo?»
  «No» ammette. «Ma starò meglio. In realtà, non sono certo di cosa dovrei sentire.»
  «Sei confuso?»
  Spencer si tortura le mani abbandonate sulle coperte. «Sai, una volta Gideon mi disse: non sapere cosa senti non vuol dire non sentire nulla
  «Aveva ragione. Jason è una persona saggia.»
  Spencer sorride, tenendo lo sguardo fisso; quando lo rialza i suoi occhi sembrano pregarlo. «Ma poi lo sentirò, vero? Sentirò tutta la sofferenza, l'imbarazzo.» Gli fugge un sorriso amaro. «I cinque stadi del dolore.»
  «Quando avverrà, sai che il mio ufficio è sempre aperto.» Hotch trattiene molto bene un moto di commozione e si alza in piedi. «Ora ti lascio riposare. Vedrai, ogni cosa si aggiusterà.»
  Anche se il dottore sorride e annuisce, non è certo di cosa voglia dire quest'affermazione. Ora, più che mai, sente che la sua vita ha bisogna di una drastica sistemata.



   Penso seriamente che Daniel sia stato un valido strumento, ma l'orchestra...oh no, quella è tutt'altra cosa. Spencer è stato l'organo di punta, Daniel la sinfonia d'accompagnamento che spinge a suonare ancora, finché non si cade a terra stremati. In quanto a me, bhe, è ovvio: sono il direttore. Silenzioso. L'orchestra potrebbe suonare all'infinito senza accorgersi che, senza il direttore, è solo un ammasso di suoni.
  Sono poco modesto, lo so. La modestia è un concetto volgare, non lo comprendo.
  Ma, a volte, la sinfonia prende una strada imprevista. L'improvvisazione. Credete che a quel punto il direttore si faccia da parte e, semplicemente, esca di scena? No, trova sempre il modo di inserirsi e riprendere le briglie. È in quei momenti che ne emerge la bravura.
  Spencer non doveva morire, non così, non tanto presto. Forse ho sottovalutato Daniel e la sua incapacità di resistere alle passioni. No, chi prendo in giro? Io lo sapevo, il suo punto debole era la sete di dominio. Io non ce l'ho. Perché? Perché sono sempre dissetato. Avevo previsto anche questo e sapevo che Spencer sarebbe sopravvissuto. Lo fa sempre, l'ho studiato.
  Ah, quanta intelligenza, quanta umanità, quanto attaccamento morboso alla vita. Mi fa vomitare.
   La messa in scena degli omicidi, tutto quel pensare a come inscenare il quadro perfetto, sistemare a dovere ogni particolare solo per far giungere loro al giusto profilo...mi ha stufato. E poi, Daniel che era lì a guardarmi e bagnarsi i pantaloni, quanto è stato divertente! Perché lui non sapeva che stavo firmando sotto i suoi occhi e con il suo sangue la sua condanna. Avrei dovuto accertarmi che fosse mancino. Ma va bene così. Penserete che il mio scopo, la ma uscita di scena, fosse la morte del dottor Reid? Certo che no, altrimenti non avrei usato la Belladonna, ma piuttosto l'aconito, mortale e incurabile. Avevo solo bisogno di una distrazione, di qualcosa che mi permettesse la fuga. Un diversivo. Avevo previsto potessero scoprirmi, ma dal vedere il mio volto a sapere chi sono, ce ne passa molto. E in quel passo io scappo via. Mi ritiro nell'ombra.
  Spencer, prima o poi avrò la mia vendetta. Per ora, sappi che ho tratto un profondo e sublime piacere nel vederti dar di testa. Un giorno ogni tua certezza crollerà e la follia, solo la cara follia, ti farà d'amica. Come adesso è la mia. Addio alla solitudine.
  Il ragazzo si sistema il camice e appunta una penna al taschino. Sorride allo specchio nel piccolo spogliatoio.
  «Hei, chico, che fine avevi fatto?»
  «Ero in malattia.»
  Il portoricano, togliendosi il camice, lo squadra ironicamente. «Malattia mentale?» E comincia a ridere, una risata grassa e fastidiosa.
  Il ragazzo deve fare un grosso sforzo per sorridere.
  «Hei, amico, scherzo. Non vorrei mai vederti in mezzo a quelli lì» dice indicando dietro le spalle, oltre la porta a vetri. «Sei ancora col direttore?»
  «Sì, studio il caso di Diana Reid. Sai, per la specializzazione.»
  «Quella lì, fiu! Sai cosa? Penso che da giovane fosse davvero prestante» e sottolinea le parole con un esplicito movimento del bacino.
  Il ragazzo stringe i pugni fino a farsi male, ma poi si rilassa e un sorriso perverso gli curva le labbra. Chiude lo sportello di metallo e si incammina lungo i corridoi della clinica psichiatrica.

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Capitolo 11
*** Lucas ***


Note: Prima di ogni altra cosa, devo ringraziarvi, sia per la pazienza sia per l'incoraggiamento. Secondo, devo annunciare che questo è il penultimo capitolo. Sì, lo so, avevo detto che sarebbe stato l'ultimo e che questa storia avrebbe avuto 11 capitoli, ma c'è stato un cambio di programma. Come detto all'inizio, ho scritto questa long un po' di tempo fa e, prima di pubblicarla, mi sono limitata a correggerla e sistemarla un po', lasciandola sostanzialmente inalterata. Eppure il finale non mi convinceva, così l'ho ampliato, modificato e rivisto. Quest'operazione ha comportato un po' di pagine in più, quindi ho deciso di staccare la chiusura in due capitoli. Non odiatemi - anzi, fatelo, ma non prendetevela con la storia :D
Saluti, Alex.


11
Lucas


Così non andremo più vagando,
Nella notte fonda
Anche se il cuore vuole ancora amore
 E la luna splende luminosa...
George Gordon Byron
 

   Penelope Garcia vorrebbe alzarsi dalla sua sedia, spegnere tutti i monitor e scappare. Sente l'instinto di chiudersi la porta alle spalle e non guardarsi più indietro, perché a volte la realtà è fin troppo dura, fin troppo vicina. Sono passati tre giorni da quando Reid è stato ospedalizzato e ha rischiato la vita, per l'ennesima volta. Il suo ruolo è quello di osservatrice distante, la persona incaricata di scovare il male e portarlo alla luce, di pregare che tutto vada bene e che la squadra scenda intera dal jet, varcando le soglie del BAU stanca ma viva. A volte, semplicemente, gli orrori sono troppi e nessun colore, nessun video virale o immagine carina può allontanarla da quei demoni. Ora essi hanno attaccato uno di loro e lei si è sentita impotente, ancora.
  Sente la porta aprirsi e chiude gli occhi, attendendo la stretta rassicurante di Morgan sulla sua spalla. Posa le dita sul dorso della sua mano e sorride, cercando di trovare conforto in quel gesto così semplice e normale. Derek si china sulla sua spalla e osserva la foto sullo schermo.
  «Lucas Carter» mormora, le mascelle serrate. «E' lui?»
  Garcia annuisce, digitando sulla tastiera per materiallizare tutte le informazioni che è riuscita a raccogliere. «Nato a Las Vegas il 10 Marzo 1979, la madre era Elisabetta Andres, padre ignoto. La donna è morta nel 1985, uccisa da un certo Victor Ortega. La cartella medica indica segni di abusi ripetuti sia sulla madre che sul figlio, ma la donna non ha mai denunciato il compagno. Dopo l'omicidio, Carter è entrato nel sistema ed è stato affidato ad una coppia del Texas, Elisabet e George Carter. I coniugi sono morti in circostanze sospette un anno fa nella loro casa.»
  «Li ha uccisi lui?»
  Penelope scrolla le spalle e non riesce davvero a rispondere. Quante vite simili ha visto attraverso il suo monitor? Quanti passati travagliati hanno attraversato quello schermo? Le storie spesso sono tragiche e si somigliano, intrecciandosi in una spirale di umiliazioni e abbandoni, dolori e solitudini. Poi c'è l'altro lato, quello che non ha più una voce: le vittime. Qualunque briciolo di pietà che lei potrebbe provare per le persone distrutte dal loro passato, dalle loro follie, si annienta di fronte alle immagini di corpi mutilati e volti rigidi, una volta sorridenti. Nei minuti che seguono, Penelope risponde a tutte le domande di Derek, così ansioso di sapere ogni macabro dettaglio di quella figura così misteriosa. Lei si ritrova a dirgli esattamente le stesse cose che ha detto alla squadra, ma non perde un dettaglio. Sa che Derek è appena tornato dall'ospedale, dopo aver accompagnato Spencer a casa, e sa che ora ha bisogno di focalizzarsi su qualcosa che può controllare, su informazioni che riesce a gestire.
   Così gli mostra tutti i successi accademici di Lucas Carter, diplomatosi con ottimi voti, laureato in psicologia, mai arrestato per alcun reato, neanche una multa. Ai suoi occhi sembra che Carter si sia impegnato a controllare i suoi istinti, costruendosi attorno una terrificante facciata di normalità. Tuttavia, intorno a lui cose strane erano accadute: animali scomparsi, ragazzi aggrediti e, nella sua cittadina, una serie di atti violenti senza alcun indiziato. Penolope si ritrova a rabbrividire per l'ennesima volta: chiunque sia realmente quest'uomo, è chiaro che ha intelligenza, conoscenze informatiche e nervi saldi sufficienti a renderlo irraggiungibile.
  Quando ha finito con il file di Carter, Penelope si abbandona allo schienale della sedia. Sospira e sente Derek rilassarsi, la stanchezza prendere il sopravvento.
  «Come sta Reid?» chiede alla fine, alzando lo sguardo su di lui. Derek abbozza un sorriso, poi scuote la testa. Sembra dominato da emozioni contrastanti, i lineamenti sfiancati dalle notti insonni e dalle preoccupazioni.
  «E' stata dura per lui.»
  Penelope lo ha visto in quel letto di ospedale, appena ricoverato. Da allora, è stata allontanata dalla sua stanza, come tutti gli altri. Reid li ha voluti tenere a distanza, non volendo che vedessero il suo calvario. La disintossicazione non è esattamente un momento felice e lei non riesce a evitare di pensare a Derek, seduto nel corridoio ad ascoltare le grida e i lamenti di Reid, impotente.
  Gli dona un sorriso che, date le circostanze, è un regalo che Derek accetta con silente gratitudine.
  Le stringe ancora la spalla ed esce dalla stanza.
 


   Il dottor Antonio Cruz siede alla sua scrivania, le spalle squadrate incorniciate dal crepuscolo di La Vegas oltre i vetri dell'ampia finestra. Davanti a lui c'è il fascicolo personale di quello che considerava il suo miglior tirocinante. Scioglie le mani giunte sotto il mento e le unisce ancora, sopra quel fascicolo. Gli occhi scuri incrociano quelli bui dell'agente Hotchner.
  «Non so come sia potuto succedere» ammette a se stesso. «Non avrei mai immaginato...se avessi saputo che una persona del genere era a contatto con i miei pazienti...è orribile.»
  Hotch studia il volto dell'uomo e il suo sguardo fermo. Non dubita che sia assolutamente sincero e, in quanto team leader, capisce perfettamente cosa l'uomo possa provare. «E' comprensibile che sia riuscito a imbrogliare anche lei. Stiamo parlando di uno psicopatico.»
  Il dottore annuisce, perdendosi a guardare il proprio attestato appeso orgogliosamente al muro. I suoi occhi tornano un attimo sul fascicolo, prima di incontrare ancora lo sguardo dell'agente.
  «Dottor Cruz, da quanto conosceva Lucas Carter?»
  Cruz sospira, raddrizzandosi sulla sedia. «Circa sei mesi. Ha ottime referenze, si è laureato con il massimo dei voti, mai alcuna pecca nella sua carriera accademica. Con il senno di poi, non mi meraviglia, persone come lui sono in grado di eccellere e rimanere nella normalità.»
   Hotch annuisce, lasciando al dottore il tempo per raccogliere le idee. Lo vede aprire la cartella e scutare la foto di Carter. «Ha sempre avuto un comportamente eccellente. Era sinceramente interessato a tutti i pazienti, voleva imparare il più possibile e continuava a studiare e ad aggiornarsi anche oltre l'orario stabilito. In particolare, seguiva il caso di Diana Reid.» Cruz alza uno sguardo duro sull'agente, prima di continuare. «Tre mesi fa mi ha chiesto un periodo di pausa, adducendo gravi motivazioni personali. Essendo così dedito al lavoro, ho acconsentito senza indagare. Avevamo concordato di sospendere il tirocinio fino al suo ritorno.»
  «Ha legato con qualcuno in particolare nell'istituto?»
  Cruz scuote energicamente la testa. «Andava d'accordo con tutti, dalle infermiere agli altri tirocinanti. Aveva un buon rapporto con i pazienti e con me era rispettoso, ma non si è fatto esattamente degli amici. Non credo che riuscirete a spillare molto da queste mura.»
  Hotch se lo aspettava. Da quando Garcia è riuscita a rintracciare Lucas Carter, l'uomo che si è finto Philip Edwards, lui ha capito che non sarebbe bastato. Lucas Carter è un ragazzo dalla vita tranquilla, un buon appartamento -pulito e ordinato al limite del maniacale- e nessuna relazione stretta. Nei luoghi che frequentava, tutti lo ricordano come un ragazzo a posto. Persone come lui non destano sospetti, mantenendo senza sforzo la loro facciata di normalità.
   «Quando ha lasciato l'istituto?»
   «L'ultimo turno che ha servito è stato tre giorni fa. Era appena tornato a Las Vegas e sembrava del tutto tranquillo. Alla fine del turno ha salutato, è andato via e non è più tornato.» Cruz prende una pausa, accigliandosi. «Lei sa dov'è ora?»
  Hotch valuta se rispondere. Lo sguardo di Cruz sembra sinceramente interessato, come se avesse bisogno di una conferma che l'uomo non tornerà mai più nella sua vita. «Ha lasciato gli Stati Uniti con un passaporto falso.»
  Il dottore sembra colpito dalla risposta, e Hotch non può dargli torto. Lui stesso ne è rimasto sorpreso. Lucas Carter ha avuto la freddezza di tornare a Las Vegas, riprendere il tirocinio e pochi giorni dopo sparire. Ha preso un volo per Madrid, da lì è ripartito per la Croazia, poi il Cairo e lì le sue tracce si sono perse. Garcia non è stata in grado di rintracciarlo. Lucas Carter sembra essere sparito nel nulla.
  «Vorrei poter essere utile» ammette il dottor Cruz. Hotch prova sincera simpatia per l'uomo e gli regala uno dei suoi pochi leggeri sorrisi. Gli stringe la mano, alzandosi e raccogliendo il fascicolo di Lucas Carter.
   «Lo è stato, dottor Cruz. La ringrazio.»
   Hotch si volta e ha già una mano sulla maniglia, quando l'uomo lo richiama. «Saluti il dottor Reid da parte mia. Spero sinceramente che stia bene.»
  Anche io, vorrebbe dire Hotch.



   Erin Strauss passa lo sguardo tra il fascicolo sul legno pregiato della scrivania e l'agente Hotchner. Dopo un lungo silenzio, prende un grosso respiro e congiunge le dita. «Aaron, non ti nascondo che non apprezzo il modo in cui quest'indagine è stata gestita.»
   Hotch la fissa senza proferir parola. Se lo aspettava.
   «Ma riconosco che le circostanze erano fuori dal nostro controllo.»
   «E' così.»
   La donna gli lancia uno sguardo duro, prima di aprire il fascicolo e sfogliarlo in fretta. Hotch sa che sta solo cercando di trovare le parole giuste e, quando sembra soddisfatta, ricongiunge le mani e lo scruta. «Non sappiamo nulla del movente di Lucas Carter? Voglio sapere quali sono le tue ipotesi.»
  Hotch incrocia le braccia. «Sarò sincero. Io non credo che Daniel Ronald e Carter fossero una classica squadra omicida. Il profilo ricavato dagli omicidi si adatta perfettamente a Roland, anche alla luce delle valutazioni psichiatriche antecedenti i fatti. Ma, come sappiamo grazie al dottor Reid e alle successive analisi della scientifica, non è stato Roland l'esecutore materiale degli omicidi.»
  «Uno guardava mentre l'altro eseguiva» conclude Strauss. «Mi pare non sia un profilo anomalo.»
  «No, infatti. Ma qualcosa non quadra: Carter è molto più metodico, organizzato, sadico. Ha torturato psicologicamente Reid, quando per incastrarlo ciò non era necessario. E' un puro psicopatico. Gli omicidi, invece, calzano con il profilo di Roland.»
  «Cosa sta cercando di dirmi?» chiede la donna, sporgendosi in avanti.
  «Che Daniel Roland era solo una pedina nelle mani del Carter. Lo ha tenuto sotto controllo non lasciandogli la possibilità di uccidere, ma gratificandolo con il voyerismo, sfogando al contempo il suo stesso desiderio di uccidere. Sapeva che le prove avrebbero portato a Reid e che, in caso di necessità, la colpa sarebbe potuta ricadere su Daniel Roland. Carter si è assicurato due capri espiatori e un piano di riserva.»
  «Una messa in scena? E' questo che crede?»
  «Sì, è ciò che credo» afferma sicuro Hotch.
  «Mi scusi, ma non ne vedo lo scopo. Perché rischiare tanto?»
  Hotch sa che non esiste una risposta semplice a questa domanda. Il tipo di accanimento mostrato da Carter indica motivazioni personali. Garcia ha scavato a fondo nella vita dell'uomo, ma non ha trovato alcun legame con Reid.
  «Per narcisismo. Ha avuto la squadra nel suo pugno e ha dimostrato di essere più intelligente e furbo. Ha montato gli omicidi, manomesso le prove e mosso le sue pedine solo per dimostrare che poteva farlo. In questo modo, ha anche evitato di lasciare prove che lo collegassero direttamente a lui. Alla fine si è tradito, ha commesso un errore ed è fuggito.» Fa una pausa e gli occhi gli cadono sul fascicolo. «Ora che ha soddisfatto questo suo appetito, passerà un certo periodo di latenza prima che torni a colpire.»
  Il capo Strauss fa una smorfia involontaria. «Aaron, devo essere sincera, l'idea che l'uomo che è entrato impunemente in una stazione di polizia e ha cercato di uccidere un mio agente, e che è riuscito a raggirare il sistema, sia ancora a piede libero, non mi piace.»
  «Neanche a me» ammette Hotch. «La mia squadra ha fatto il possibile.»
  «Ne sono certa.»
  Hotch non le crede, ma tiene per sé le proprie considerazioni, limitandosi a scrutarla. Il tono della donna cambia, ma il suo linguaggio del corpo continua a trasmettere nervosismo e disapprovazione.
  «Per quando riguarda il dottor Reid, ho deciso di non prendere provvedimenti. A quanto ne so, non ha commesso errori. La sparatoria è stata giustamente motivata dall'autodifesa, un'azione accidentale. Daniel Roland lo ha ingannato, e non c'è prova che il dottor Reid potesse agire in modo diverso e migliore. Dal rapporto del dr Reid risulta che Roland lo abbia sequestrato e sottoposto a iniziezione forzata di idromorfone.» Strauss alza gli occhi dal fascicolo, scrutando l'agente. «E' corretto?»
  Hotch annuisce. Mentire al proprio capo è sempre una scelta che può avere conseguenze inattese, ma Reid non merita d'esser punito da una persona che, meno degli altri, può conoscere e comprendere lo stato emotivo che lo ha portato a quel punto.
   «Quanto alla sua richiesta, approvo in pieno. Il dr Reid merita del tempo per riprendersi da questa situazione traumatica. Generalmente l'ammissione di una dipendenza, da qualunque sostanza, comporta gravi ripercussioni sulla carriera di un agente, ma in questo caso credo si possa dire che le azioni del dr Reid non fossero soggette alla sua volontà.» Per la prima volta Hotch ha la netta sensazione che Erin Strauss sappia quanto del rapporto sia vero e quanto no; ancor più sorprendente è che la donna abbia deciso di fingere il contrario. «Ha qualcuno che si occupi della riabilitazione?»
  «Lo farò io personalmente.»
  Strauss lega i loro sguardi e sembra sul punto di dire qualcosa che, Hotch lo sa, non gli piacerebbe. Ha un ripensamento, chiude il fascicolo e lo pone su una pila. «D'accordo, Aaron, sono certa che saprai gestire al meglio la situazione.»
  «Grazie, Erin» dice Hotch, alzandosi. «Se è tutto, io tornerei dalla squadra.»
  «Certo, vada pure. Data l'assenza di tracce, posso considerare il caso momentaneamente chiuso.»
  Hotch lo considera ancora aperto, almeno nella sua mente. E sa che la squadra continuerà a pensarci, a tenere gli occhi e le orecchie aperte in attesa di possibili sviluppi. Ma altri killer vanno presi e altre vittime salvate, che sia dalla morte o, ormai tardi, dall'oblio.
 


   Tre giorni prima
      
   Poggiato al muro bianco di questa clinica asettica, ripenso a quanto mi mancherà Las Vegas. E' una città fatale e illusoria, come una grande maschera su un volto scheletrico. Il deserto del Mojave è Las Vegas, e Las Vegas è piante forzate nel terreno, luci abbaglianti per nascondere il cielo, edifici pieni di gente e vita per combattere il vuoto. Chi viene qui, spesso, vuole solo scomparire. Mi piace Las Vegas, avrei voluto crescere in questo posto, non nel Texas. Un'altra differenza tra la mia vita e quella del caro Spencer.
  Il Texas è deserto e verità. Quale che sia, questa verità, è solo un'altra illusione.
  Diana Reid è seduta sulla sua poltrona come ogni crepuscolo, le lunghe dita strette tra loro e lo sguardo sognante rivolto alla finestra. E' una bella donna e conserva negli occhi la vivida luce dell'intelligenza. Penso a William Reid e un moto di disgusto sorge dal mio stomaco. Penso a Spencer e a quanto somigli poco a suo padre, eppure hanno una parte di DNA in comune.
  Non ho nulla contro Diana, la trovo affascinante in una certa misura. Avrei voluto essere suo figlio. Mia madre, chissà dov'è seppellita, era solo un altra anima persa di Las Vegas. I miei genitori adottivi avevano grossi sorrisi e braccia spalancate per abbracciarmi. Mi dissero, quando avevo sei anni e uno zaino in spalla, che loro mi avrebbero amato, che nessuno mi avrebbe più fatto del male. Mi portatono in Texas e io non piansi.
  Mantennero la promessa, ma non è amore che mi serve. Così li ho uccisi, un anno fa. Li ho uccisi perché...bhe, perché potevo.
  «Diana?»
  La povera donna si volta e mi sorride. «Oh, Lucas» sussurra. E' in uno dei suoi giorni buoni, lo vedo dal modo in cui guarda accigliata la borsa sulla mia spalla. «Vai già via?»
  «Il mio turno è finito, Diana» le dico ricambiando il sorriso. So che il mio è caldo e rassicurante. Eleonor, la donna che pretendeva di amarmi e non ferirmi, me lo diceva sempre. Quando l'ho uccisa, sorridevo così.
  «Resta ancora un po'. Ti leggo un'altra lettera del mio Spencer.» Dal cardigan tira fuori un foglio ripiegato. Porta sempre con sé l'ultima lettera che ha ricevuto e di solito lo fa quando lui non le scrive da un po'. Il mio sorriso interno diventa un ghigno. Povera donna.
  Diana si sporge e batte un palmo sul cuscino della poltrona accanto alla sua. «Siedi, vuoi?»
  Accenno un sì e poggio a terra la tracolla, sedendomi come un paziente davanti alla finestra. Mentre ascolto lei leggere le stesse parole che ho già ascoltato una settimana fa, la guardo con cura.
  Spencer ha la sua stessa bocca. Ha lo stesso fisico sottile e grazioso. Ha la stessa luce negli occhi, almeno quando lei è lucida. Mentre legge, sorride e ogni tanto scuote la testa, divertita. Lei lo ama.
  Ripenso al giorno in cui ho trovato il mio vero certificato di nascita. Dodici mesi fa, giorno più giorno meno. Quella stronza della donna che mi ha messo al mondo ha fatto un favore a un polizziotto, che le ha restituito un certificato di nascita finto come il suo amore per me. Elisabetta Andres, questo il suo nome, è stata picchiata a morte da uno dei suoi uomini. Io avevo sei anni. Eleonor e George mi dissero che loro mi avrebbero amato. Così va la vita.
  Diana ama davvero Spencer. Chissà cosa si prova.
  Spencer ha metà DNA di Diana e metà di William.
  Io ho metà del corredo genetico di William e niente a che fare con Diana, eppure provo più stima per questa donna folle che per tutto il resto del mondo. Curioso, vero? Non parlo di affetto, per cortesia, ma di un legame intellettuale. Diana finisce di leggere la lettera e la stringe al petto, il sorriso malinconico e gli occhi gentili si spostano su di me.
  «Il mio Spencer è un bravo ragazzo» dice.
  Le stringo la spalla e lei posa la sua mano fredda sulla mia. «A domani, Diana.»
  Mi volto e so che non tornerò più. Vorrei ringraziarla per tutte le informazioni che mi ha dato, ma non credo apprezzerebbe.

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Capitolo 12
*** Start ***


12
Start



Forse ai nostri giorni l'obiettivo non è quello di scoprire
che cosa siamo,
ma di rifiutare quello che non siamo.
Dobbiamo immaginare e costruire
quello che potremmo essere.

Paul-Michel Foucault




   Ottantaquattro ore e dieci minuti. Questo il tempo trascorso dal suo risveglio in ospedale. Spencer è seduto sul divano, la testa reclinata e gli occhi chiusi, per cacciare indietro le lacrime. Non è triste o afflitto, malgrado il costante tremore e lo strato di sudore attaccato alla pelle. Tutto ciò che sente è distante, come se la sua mente fosse sospesa nella nebbia. È nella stessa posizione dall'alba, quando Morgan è uscito dal suo appartamento dopo averlo accompagnato dall'ospedale. Si è alzato solo lo stretto necessario e ora stringe il manico di una tazza di the bollente. I medici gli hanno sconsigliato la caffeina, almeno per un po', e lui teme che occorrà molto tempo prima che possa assaporare ancora un caffé.
   Riapre gli occhi, fissando lo sguardo sulla brochure che Hotch gli ha dato in ospedale. Ora è sul tavolino, su una pila di libri, e le sue tonalità accese contrastano con le copertine antiche.
   Prati sempreverdi e attività ricreative - a stretto contatto con la natura - un'oasi di pace.
  Questo dicono quasi tutte le brochure di quei posti, facendoti dimenticare che sono luoghi dove anime perse cercano di uscire dal limbo delle proprie miserie.
   Spencer resta immobile, perché davvero non sa che altro fare. Il ticchettio dell'orologio, un clacson che dalla strada erutta in un suono acuto, la TV a volume altissimo della vicina del piano di sopra...questo tutto ciò che riempie il silenzio. Sembra tutto troppo lento, tutto troppo quieto, e lui non sa cosa dovrebbe fare.
   Ci sono troppe cose da processare, anche per il suo cervello, che ora non è nelle migliori condizioni. Sa che il momento della verità non è ancora giunto e che la sua mente lo sta proteggendo con l'apatia.
   Daniel e ciò che lui ha provato per quello sconosciuto; il terrore di aver perso la testa e aver ucciso persone innocenti; il Dilaudid e le proprie colpe, il proprio abbandono a quella fuga così semplice; quell'uomo misterioso, Lucas Carter, che era stato così vicino a lui, così vicino a sua madre...Il solo pensiero riesce ad accellerargli il cuore.
   Quando Spencer sente suonare il campanello, la tazza di thè gli traballa nella mano e una goccia gli finisce sul dito, ustionandolo. Sopprime un gemito di dolore e poggia la porcellana sul tavolino, affrettandosi alla porta. Ritornare a vivere normalmente in quella casa gli ha causato un certo grado di paranoia.
  Il viso di Morgan gli sorride dallo spioncino.
  «Che ci fai qui?» chiede guardingo. Non ha il tempo di aggiungere altro, che l'agente si è già intrufolato nell'appartamento.
  Sospira, richiudendo la porta.
  «Non sei felice di vedermi?» chiede raggiante Derek, aprendo le braccia tranquillo.
  Spencer annuisce e recupera la tazza dal tavolino. «In realtà stavo per iniziare una pacifica lettura.»
  «Avanti, ragazzino, parlare con un libro non ti servirà!» lo rimbecca. «Ci sono io.»
  Spencer non riesce a impedirsi di sorridere e scuotere la testa, sedendosi sullo sgabbello e trascinandosi davanti la tazza di thé, seguito a ruota da Derek, che gli si siede accanto e lo fissa pieno d'aspettativa.
  «Vuoi chiedermi qualcosa?» domanda Spencer, grattando con l'unghia del pollice la ceramica della tazza. Non sa bene cosa Derek si aspetti che lui dica o faccia. Forse dovrebbe chiedergli scusa, di perdonarlo...non lo sa, e ricorda vagamente il giorno in cui, sul letto d'ospedale, ha farfugliato parole futili, alla ricerca disperata di un perdono che nessuno avrebbe potuto accordargli.
  «A quale domanda hai bisogno di rispondere?» gli rilancia Derek, perché sa che c'è qualcosa che l'altro vuole dirgli, che ha disperato bisogno che gli venga posta quella domanda. Ma lui non è certo di quale si tratti e temporeggia, scrutando il ragazzino che si morde il labbro inferiore e fissa la tazza. «Hei, guardami.» Non avrebbe mai voluto, ma il tono risulta più duro del previsto, e fa sobbalzare Spencer, che gli rivolge uno sguardo incerto. Sembra trattenga il respiro e d'improvviso il linguaggio del corpo muta, rendendolo simile a un accusato.
  Morgan si accorge di questo cambiamento e decide di prendere la palla al palzo. «Non va molto bene, vero?» Fa un cenno alle braccia del ragazzo, che se le stringe al petto, a disagio.
  «Sto bene» dice Spencer, distogliendo lo sguardo. L'ultima volta che un ago è entrato nel suo braccio, è stato all'ospedale. A volte gli sembra di sentirlo ancora, come se lo avessero dimenticato sottopelle. È rimasto in ospedale tre giorni, dando il suo consenso a cominciare la disintossicazione. Ggli sembrano passati anni. Malgrado il peggio sia passato, i dolori e le ferite mentali sono ancora lontani dall'essere un ricordo; è triste, pensa, che una volta lo erano, prima che tutto questo cominciasse.
  «Hey, non devi mentirmi, altrimenti è inutile che sia qui. Credevo ci fossimo accordati su questo.»
  Spencer annuisce debolmente e si massaggia distratto un braccio. Morgan deve attendere ancora prima che il dottore cominci finalmente a parlare. «No, non sta andando molto bene. Ho questi continui sbalzi d'umore, l'emicranea è tornata e...sono tornato da quanto? Otto ore? Cosa dovrei fare non lo so. Non riesco più a pensare, mi distraggo, dimentico quello che stavo facendo mentre lo faccio.» Alza lo sguardo, incerto, ma trova negli occhi dell'amico solo attenzione. «Io non credo di poter ricominciare. Sono stanco.»
  Derek lo osserva, sospendendo ogni giudizio. «Non devi arrenderti, d'accordo?»
  «Io non voglio arrendermi, non posso. Non sto valutando l'idea di farlo. È solo che doverci riprovare è sfinente. Lo sai che la probabilità di una disintossicazione definitiva, in chi ha già intrapreso un percorso e ha avuto una ricaduta, cala drasticamente?»
  «Ragazzo, no» gli dice Derek. «Dimenticati tutto ciò che sai. Lascia stare le probabilità. Sei tu, non un numero percentuale.»
  Il dottore stringe le palpebre e sembra meditare, poi annuncia: «Ho raggiunto un momento di pura felicità. So che non era reale. In realtà, nulla lo era, ma non volevo pensarci. Comunque, è stato il momento più bello che io ricordi. Pensi sia triste, vero?» Non riesce a guardarlo negli occhi. Non può dirgli che in quell'attimo di felicità lui aveva un ago nel braccio e il corpo di Morgan nella mente, un'immagine partorita spontaneamente dalla sua fantasia. Non sa ancora cosa pensarne.
  Morgan interpreta in maniera erronea il suo imbarazzo e una punta di fastidio gli inacidisce il cuore. «Eri con lui?»
  «Cosa?» chiede Spencer sbigottito.
  «Eri con Daniel, vero? Con lui ti sei sentito felice.»
  Spencer si sente offeso senza saperne il reale motivo. Sa solo che il sangue comincia a rombargli nelle orecchie. «Io no-...non voglio parlarne.»
  Derek scende dallo sgabello e afferra la giacca, sotto gli occhi smarriti di Spencer.
  «Cosa fai?»
  Ormai sulla porta, il ragazzo si volta di scatto. «Vado via, dato che non vuoi parlare.» La parte razionale del cervello gli dice che si sta comportando in modo immaturo, ma Derek non riesce a sentirla.
    «Sì, provavo attrazione per lui» sputa fuori Spencer, guardando Derek con concentrazione. «Ho dormito con lui, l'ho baciato e...» malgrado l'ostentata forza d'animo, le guance si imporporano. «Bhe, è questo che volevi sentire?»
  «Ci hai fatto sesso» conclude Derek, una nota di veleno nelle parole, ignorando la sua provocazione.
  Spencer abbassa lo sguardo un attimo, corruga la fronte e stridulo quasi urla: «E allora? Possibile che tu non riesca a pensare ad altro?» Il ragazzo si alza dallo sgabello, facendolo stridere sul pavimento. «Insomma, mi piaceva, ci stavo bene. Parlavamo. Il sesso cosa c'entra?»
  «Tu lo sapevi da prima. Sapevi di essere-»
  «Omosessuale?» sbotta Spencer, gesticolando animatamente. «Oh, ora è tutto chiaro. Sei venuto qui solo per saperlo. Tranquillo, la mia presenza devirilizzata non intaccherà in alcun modo la tua mascolinità. È come pensavo, tu vuoi solo sapere che avermi come collega non ti minacci come uomo, giusto?»
  «Non lo pensi davvero» dice stupito Derek, prima che la rabbia gli incrini il viso. Getta via la giacca per fronteggiarlo e qualcosa, nello stomaco di Spencer, si agita a quella presenza troneggiante di forza. «Tu non puoi davvero pensarlo. Sei solo arrabbiato con te stesso. Perdonati, una buona volta.»
  «C-cosa dovrei perdonarmi?» farfuglia confuso.
  «Di aver commesso un errore, di non aver pensato. Hai agito d'istinto e questo non lo tolleri.»
  «E' ridicolo. Io...l'istinto non c'entra.»
 «Allora cosa?» chiede Derek, aprendo le braccia in un disperato invito. «Qual è il motivo?»
  Spencer non sa davvero cosa rispondere.
 «Sai perché sono venuto qui?» Chiede Derek, avvicinandosi. «Non riuscivo a dormire. Dormo male a causa di una domanda che mi tortura.» Fa una pausa e cerca il suo sguardo, riuscendo faticosamente a incatenarlo. «Mi chiedo perché non me ne hai parlato. Perché hai affrontato tutto da solo? Mi sono detto che sei testardo, che non ti fidi abbastanza né di me né di nessun altro, mi sono detto tante cose. Ma solo tu puoi rispondermi.»
  Il dottore si siede, le gambe gli cedono. Ha la risposta, anche se non sa come interpretarla. Vale la pena divulgare un dato che non si comprende? Ma qui dati e variabili si confondono sullo sfondo e lui si sente confuso. Non gli resta altro che parlare e lasciare il compito dell'interpretazione a Derek.
  «Avevo paura.»
  «Di me?» chiede l'altro incredulo.
  «Non volevo mi guardassi come un colpevole.»
  Derek resta pietrificato, incredulo.
  «Io non ti avrei mai chiuso fuori» dice alla fine, poggiando una mano sulla sua spalla. «Accidenti, ragazzo, farei qualunque cosa per aiutarti.»
   Su quel letto d'ospedale Spencer sembrava solo un essere bisognoso. E tu, Derek, tu volevi solo essere quel bisogno, sentirti ancora il suo bisogno, come quando aveva gli incubi, come quando Tobias lo teneva prigioniero e tu non dormivi alla sua ricerca.
  Reid resta in silenzio, cercando di dominare l'istinto di liberarsi della mano sulla sua spalla. È un gesto così intimo e così tipico di Derek, da raggerarlo. Troppo vicino. Si alza e annuncia: «Ora vorrei restare solo.»
  «No» dice deciso Derek. «Spencer, io resto qui stanotte.»
  Spencer vorrebbe protestare, ma si arrende. «Come vuoi» si volta e si dirige verso la sua stanza, la porta si chiude piano. Derek fissa le proprie mani chiudersi in pugni deboli.
  Cosa devo fare perché tu smetta di nasconderti?
 




Melbourne, Australia

  
   Lucas Carter ha fame, davvero troppa. Si guarda attorno nell'assolata strada, dietro le spalle ancora visibile il tetto luminescente dell'aereoporto. Diciotto ore di viaggio e neanche un misero boccone gli hanno fatto ridefinire il concetto di fame. Ora si pente di non aver mangiato al Cairo, prima di partire. D'altra parte, non avrebbe mai messo le mani su quelle buste scintillanti piene di cibo lucido che le hostess osano chiamare cibo.
  Fa scivolare gli occhiali da sole appena comprati sulla fronte e scruta i dintorni, individuando subito un menù esposto davanti una vetrina. Sorride e risistema gli occhiali, ravvivando i capelli ora biondi. Si massaggia il mento, dove la barba comincia già a ricrescere. Quel nuovo look non lo convince, ma è certo che presto se ne farà una ragione. Infilando le mani in tasca, si dirige alla tavola calda. Un fastidioso campanello annuncia il suo ingresso, ma nessuno si volta a guardarlo mentre si siede ad un tavolino e attende una cameriera.
  Poggia il mento sul palmo della mano, chiedendosi cosà avverrà ora. Una coppietta felice è seduta a qualche tavolo di distanza, ridono dei tentativi del figlioletto di mangiare un grosso panino al tonno. Lucas sorride, nascondendo il disgusto.
  «Salve, signore, posso esserle utile?»
  La cameriera ha una voce cristallina e giovane. Merita di essere osservata, pensa Lucas. Ha grandi occhi verdi e lunghe ciglia chiare, i capelli rossicci raccolti in una coda di cavallo che le da un aspetto ancor più innocente. Lucas sorride in quel modo che riserva solo alle donne.
  «Certo, Lydia» dice, leggendo il nome sulla targhetta.
  La ragazza sorride e le guance si imporporano, mentre risistema un ciuffo dietro le orecchie. Lucas è convinto di aver fatto centro.
  Mentre ordina un panino al prosciutto e un caffé forte, pensa che forse Lydia potrebbe essere un buon inizio per la sua nuova vita. In fondo, lui ora è un ragazzo pieno di vita e sorrisi, pronto a mettere su famiglia, magari. Guarda le strade di Melbourne oltre la grande vetrata e pensa al giorni in cui tornerà da Spencer. Dovrà attendere, uscire dai radar e crearsi una nuova vita di facciata, ma è certo ne varrà la pena.
   Sente già l'acqualina in bocca, ma questa volta non è quel tipo di fame.





Washington, USA

 Washington è sotto la neve, che scende ondeggiando. Le finestre rimandano il bagliore tenue della notte, sotto la luna che crea quell'effetto ottico di irridescenza del nevischio posato sui vetri. Spencer, disteso su un fianco in posizione fetale, finge di dormire, ma gli occhi sono puntati sulla finestra, quel rettangolo d'aria sigillata.
  Stringe un pugno vicino alle labbra e sospira, sentendo il proprio alito caldo raffreddarsi sulla pelle ghiacciata. I piedi nudi sono freddi, ma non li copre. Vuole sentire quella strana sensazione, come se fossero a contatto con un pavimento di ghiaccio secco. Gli piace ricordarsi del proprio corpo, della propria esistenza sospesa. Abbassa le palpebre e scivola in un dormiveglia inquieto, dove le allucinazioni ipnagogiche lo risucchiano nel vortice della surreale fusione tra reale e fantastico.
  L'immagine del corpo di Morgan gli colpisce la mente, improvvisa, ricacciata da un angolo sconfinato del cranio. L'immagine vista nelle ore di allucinante benessere, quando Daniel lo stringeva e lui immaginava le mani del collega, ruvide per aver stretto troppo la pistola, in mesi e mesi di addestramento duro. Allora non si chiedeva il perché, ora la domanda è impellente.
  Morgan? Derek Morgan?
  No, pensa una voce nella sua testa, la sua voce. Non lui. Non potrebbe mai accadere. Ma il confine diventa labile, e la mente precipita nelle nuvole elastiche della fantasia.
  Le mani di Morgan. D'un tratto le sensazioni si rovesciano e le vede, quelle mani forti e scure, stringersi intorno al proprio collo. Si vede nudo lottare su di un pavimento gelido e sporco e gli occhi di Derek incendiarlo. L'aria gli manca, si dibatte, le membra esili ed esposte. È impotente. Si vede sopraffare dalla sua virilità.
  Aria!
  Senza rendersene conto, comincia ad agitarsi convulsamente, scalciando e dimenando le braccia come ad afferrare qualcosa. «No, no!» urla sempre più forte, per sovrastare il silenzio, che gli sembra uscire come fiato dalle labbra.
  «Spencer! Hey, Spencer!» gli risponde una voce. La sua voce. La riconosce ma non riesce a muoversi. Mani gli afferrano le spalle, lo scuotono, e lui riemerge dalle tenebre, aggrappandosi furiosamente alla sua t-shirt.
  Gli occhi sono rossi, iniettati di sangue, il respiro corto che brucia nei polmoni e lo sguardo terrorizzato.
  «Spencer, sono io. Sono Derek» gli dice rassicurante, ma guardandolo con una profonda nota di stupore e sospetto. «Va tutto bene.»
  «Ho bisogno...» prova a dire, ma la gola secca raschia le parole. «Acqua. No...thé.»

  Alle due di notte, Spencer e Derek sono seduti sul divano, quest'ultimo rivolto verso il ragazzino, che tiene le ginocchia unite e il corpo leggermente rivolto nella parte opposta. Il linguaggio del corpo, questa volta, non mente.
  Il dottore stringe tra le mani la tazza di thé fumante, mentre fuori la bufera infuria implacabilmente lenta.
  L'unica luce è la lampada che pende su una poltrona, una luce calda che lascia scivolare strane ombre sul viso del ragazzo, rivelandone le sporgenze e gli angoli. Non si è ancora del tutto ripreso, considera Derek, che ben poche volte lo ha visto così magro e stanco. Una stanchezza che, in questa notte piatta, appare in tutta la sua drammatica insistenza.
  E' una notte in cui tutto si può dire. Il tempo è sospeso, le nuvolette del thé e la foschia della neve nascondono il mondo, chiudendo l'universo nei confini dell'appartamento carico di libri; libri che aprono le finestre di altri universi, tuttì lì sugli scaffali, tutti a portata di mano. L'ecosistema di quelle mura sorregge due uomini, seduti vicini ma distanti, ognuno a combattere con le proprie domande, ognuno potrebbe rispondere all'altro, bastandosi a vicenda. Ma il primo passo è arduo.
  Troppo in sospeso, troppo in gioco, considera Derek, al quale il senso pratico ora viene meno.
  «Le cose tra noi non sono mai andate male» dice, guadagnandosi una rapida occhiata circospetta. «Semplicemente da un po' non andavano. Non abbiamo parlato molto, in questi ultimi mesi.» Si china a cercare il suo sguardo e, quando lo ottiene, dice deciso: «Mi dispiace, Spencer.»
  Il ragazzo tira le labbra in un sorriso e si passa un palmo sulla fronte, risistemandosi un ciuffo ribelle, le sopracciglia aggrottate. Tossicchia nervoso.
  «No-non importa. Capisco» sussura, rivolgendo gli occhi alla catasta di libri sul tavolino. La broschure è ancora lì, ma sembra perdere colore.
  «Cosa?»
  Che non sono così importante. Vorrebbe dire Spencer. Ma sa che si tratta di una riflessione stupida, una di quelle osservazioni da adolescente introverso, da piccolo genio cresciuto troppo in fretta, che si porta sempre dietro gli strascichi di una vita vissuta al margine, solo. Spencer Reid è una di quelle poche persone che sono state davvero sole, perché nessuno poteva capirlo, perché nessuno era al suo passo e lui era sempre lasciato indietro. Scuote la testa, rimproverando se stesso: un adulto non pensa così. Un bambino non avrebbe mai dovuto avere la testa che avevi tu anni fa, quando il gioco più divertente era fantasticare la soluzione di un intricato caso di omicidio plurimo.
   «Hai ragione, abbiamo parlato poco in questo periodo» si costrige a dire, guardandolo fugacemente. «E' colpa mia.» Morgan lo ascolta attento. «Tu mi hai sempre mostrato di non giudicarmi, ma io...io giudico me stesso quando parlo con te. Credevo che non parlandoti dei miei demoni loro sarebbero rimasti affar mio, che avrei trovato la forza di combatterli da solo o che...sarebbero solo scomparsi.» Fa una pausa e rigira la tazza tra le dita, mentre il thé si intiepidisce. Alza uno sguardo ironico sull'amico. «Guarda dove siamo finiti.»
  «Hey, ragazzo, ascoltami» dice Derek, posandogli un palmo sul ginocchio, ma poi ritirandolo subito per non invadere il suo spazio. «Avere delle debolezze è normale, avere paura del buio è solo un modo di essere vivi. Tu non sei come nessun altro, tu sei diverso, ma come credi sia io? Anche io ho paura, anche io sono diverso dagli altri. Questo lavoro...ci rende unici e soli. Non potremo mai toglierci di dosso questa solitudine, ma possiamo cercare di accorciare le distanze. Tu hai me, mi avrai sempre, capito?»
  Spencer ricambia il sorriso aperto di Derek, ma gli occhi si infiammano di lacrime. L'abbraccio viene spontaneo ed è lungo e difficile da sciogliere, mentre il ragazzino piange sulla spalla dell'amico, che con cura gli accarezza i capelli.
  «Tu hai me.»

  Quando Morgan apre gli occhi, il mattino è appena sorto. Vorrebbe strofinarsi il volto con le mani, ma scopre che la destra è bloccata. Spencer è lì sul divano, addormentato contro il suo braccio, il volto finalmente sereno. Vorrebbe restare a guardarlo così a lungo da dimenticare tutto il resto, eppure sa che non è tempo. L'orologio alla parete segna le cinque e mezza e, tra mezz'ora, dovranno partire alla volta del luogo dove Spencer passerà i prossimi tre mesi.
   Delicatamente, gli scuote un braccio, trovandosi quasi ad abbracciarlo. Lui apre piamo gli occhi ancora arrossati e lo guarda confuso. Sul suo volto passa un lampo di sorpresa, poi sostituito da sollievo e infine imbarazzo. Si stacca immediatamente dalla sua spalla e Morgan sente la circolazione tornare normale nel braccio intorpidito.
  «Buongiorno» mormora Spencer, alzandosi sulle gambe incerte. Senza attendere risposta, guarda l'orologio e si volta per dirigersi in bagno. È allora che Morgan gli afferra un braccio, con più forza del previsto. Il dottore si volta e lo guarda confuso.
  «Andrà tutto bene, Spencer» dice Morgan, la bocca ancora impastata. Spencer non risponde, ma dai suoi occhi Morgan capisce che lui non lo crede. Lo attira in un abbraccio, trovandolo stupito e privo di forza per respingerlo. Lacrime involontarie annebbiano la vista del moro, mentre la mano gli carezza la schiena. «Te lo prometto, Spencer, andrà tutto bene. Quando tornerai, io ci sarò.»
 




.........


Note finali: Prima di passare a ringraziamenti che sento davvero di cuore di dover fare, voglio annunciare che la storia non finisce qui. Questa parte della storia sì, per vari e misteriosi motivi (anche per me), credo debba finire qui. Ma...To be Continued! Ovvero, presto ci sarà un sequel, al quale sto già lavorando e che dovrebbe iniziare a comparire molto a breve. Quando scrissi la prima volta questa long, avevo già in mente di continuarla con un'altra long, ma al tempo non ebbi né tempo né ispirazione sufficienti. Ora ho molta ispirazione e un po' più di tempo, quindi...why not? Non mi perdonerei mai se lasciassi la vicenda in sospeso. Dunque, Lucas Carter sta per tornare! Nella prossima storia si parlerà meglio di lui, tirandolo fuori dall'alone di mistero che, suppongo, questa storia lasci; altri nodi verranno al pettine, come il recupero di Spencer, il rapporto con Morgan e il confronto con William Reid.  
 Inserirò il tutto in una serie, tanto per mettere ordine. Se vorrete seguirmi ne sarò infinitamente felice.

Detto ciò, ho altre due cosette da dire.
Una parola speciale per MartiAntares e cam_mi_cam: Siete stata sempre molto presenti e incoraggianti e non avete idea quanto apprezzi la vostra costanza che, in qualche modo, mi ha aiutata a cercare di essere più puntuale. Chiedo perdono per la lunga pausa invernale, grossa parte dovuta alla quasi totale inesistenza di un posto fisso e, di conseguenza, una rete fissa. Spero di risentirvi presto!Ps per MartiAntares: All'inizio mi avvertisti del fatto che lo slash non è il tuo debole e sono davvero molto contenta del fatto che, malgrado grossa parte della storia girasse intorno a una coppia slash, tu abbia trovato comunque qualcosa di interessante e hai deciso che valesse la pena continuare a leggere.
E un grazie sincero a tutti quelli che hanno seguito, inserito tra i preferiti o tra le seguite questa storia. lunablack_21, mrslightwood_, DAlessianaestelle holly, Giulia Who e stydia, i vostri commenti sono davvero molto graditi e questa storia è anche merito vostro.
A presto, spero.
Alex.
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