Mistycal Weapon

di mattmary15
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fine o inizio? ***
Capitolo 2: *** Domande senza risposta ***
Capitolo 3: *** Una persona speciale ***
Capitolo 4: *** Il legame ***
Capitolo 5: *** Non è un'esercitazione ***



Capitolo 1
*** Fine o inizio? ***


Tokyo, Febbraio 2515

Il sangue sulle mani colava a sporcare i polsini dell’uniforme. Il battito del suo cuore, accelerato e assordante, lo faceva respirare a fatica. Gli occhi sbarrati e fissati sul corpo esanime della donna. Uno squarcio profondo l’aveva aperta dalla clavicola destra al fianco sinistro.
“Mei”, sussurrò senza avere il coraggio di guardare il cadavere.
Prese un respiro più profondo e abbassò il capo. Mei aveva gli occhi blu ancora aperti. Il viso contratto in una smorfia di paura e dolore. Desiderava con tutto il suo cuore passarle una mano sul viso. Forse per chiuderle gli occhi, forse per darle quella carezza di cui l’aveva sempre privata.
Il contatto fisico tra un celebrante e un alfiere è proibito se non è finalizzato alla battaglia. Strinse in un pugno una ciocca dei suoi capelli ramati e fissò lo sguardo sulla profonda ferita che l’aveva quasi spezzata in due. Voleva imprimersi nella mente quel dolore. Voleva fare in modo di ricordare per sempre cosa significa far parte dell’Elité.
“Siamo solo carne da macello, Mei. Non esistiamo come individui. Siamo armi da combattimento. Possiamo morire o vivere per ricominciare a combattere”, disse ripensando alle parole con cui lei lo aveva rimproverato qualche ora prima di essere troppo pessimista riguardo alla loro intera esistenza. Aveva sorriso. Cosa restava ora di quel sorriso?
“Niente, Mei. Non siamo mai stati niente, io e te. Tu eri la mia celebrante. Niente di più. Non ho motivi per piangere. Me ne daranno un’altra”, fece posando il corpo di Mei per terra dove giaceva Nefrit la mistycal weapon che le era stata affidata.
Le sirene delle squadriglie Elité risuonarono nell’aria. Lui si alzò, voltò le spalle al corpo della donna e prese a camminare.
Takahata e Rintaro della squadra verde gli corsero incontro scendendo da un furgone che aveva parcheggiato tra le macerie. Takahata corse ad inginocchiarsi vicino al corpo della sua compagna, Rintaro rimase fermo vicino a lui e parlò con voce triste.
“Com’è potuto accadere?”
“E’ una guerra, Rintaro. Solo gli stupidi pensano che non ci si possa rimettere la pelle in una guerra.  E lei era una stupida.”
“Sato!” ringhiò Shogi Rintaro, alfiere della squadra verde.
“Non capisco perché te la prendi tanto!”
“Ma che cazzo dici? E’ Mei Hinata quella sventrata per terra! Ed era tuo dovere di alfiere proteggerla! Come puoi parlare così?”
“Shogi!” esclamò Takahata Yui, celebrante della squadra verde “Smettila, lascialo stare. E’ sotto shock.” Kei Sato, alfiere della squadra rossa, si asciugò il sangue di Mei sui pantaloni della divisa e sorrise.
“Non sono così sensibile, Takahata. Ad ogni modo, vi conviene starmi alla larga. Sono di pessimo umore”, disse allontanandosi e salendo su uno dei furgoni dell’Elité. Rimasto solo si guardò le mani. Sporche.
Gettò la testa all’indietro più e più volte sbattendo contro il metallo del veicolo.
“Sono io l’alfiere. Dovevo morire io.”
Il furgone partì per tornare alla base ma Kei Sato decise quel giorno che non importava cosa dicesse il rapporto del suo superiore. Kei Sato e Mei Hinata erano morti insieme. Come avrebbe dovuto essere.


Osaka, aprile 2512

“Benvenuti nell’Elité, signori e signore. Avete ricevuto tutti l’uniforme. Verrete divisi, in base ai risultati dei vostri test psico e fisico attitudinali in quattro squadre di cui indosserete il rispettivo colore. Rossa, verde, bianca e nera. Frequenterete i corsi per prepararvi all’esame finale che vi vedrà competere per diventare gli otto soldati più forti del Paese cui verranno affidate le mystical weapon, le sole armi in grado di combattere i Golem. Mi congratulo per il vostro successo e vi auguro un buon anno di studi.”
La voce metallica si era diffusa in tutta la torre. Gli studenti l’avevano sentita in qualunque parte dell’edificio. Un notevole numero di ragazzi con un coefficiente psico fisico adeguato arrivavano ogni anno da tutto il Giappone ma solo una piccolissima parte riusciva ad entrare nell’Elité che accettava solo studenti con un coefficiente superiore a 250/350.  Il viavai di ragazzi vestiti di quei quattro colori, dava l’idea di un luogo allegro e tranquillo ma la Torre Accademia era, in realtà, un posto dove regnavano disciplina ed ordine.
Monitor e un sistema d’intelligenza artificiale, seguivano gli studenti passo passo nelle varie discipline e controllavano che non trasgredissero le regole.
C’era un solo luogo che sfuggiva all’occhio onniveggente di AI, il computer centrale. La terrazza aperta. In realtà si trattava di un luogo inesistente per la maggior parte degli studenti perché, data l’estrema pericolosità della terrazza senza protezione, AI aveva creato un ologramma che la oscurava agli occhi di tutti.
Di tutti tranne che a quelli di Ryu Kawari, coefficiente psico-fisico 325/350. Ryu era sempre stato uno studente modello ma era entrato nell’Elité, squadra bianca, solo per ordine di suo padre. La sua famiglia serviva l’imperatore dall’epoca dei samurai. Occhi verdi e profondi nascosti da un paio d’occhiali sottili e capelli neri, Ryu aveva capito subito dall’altezza della torre e dalla sua struttura portante che l’ultimo piano su cui campeggiava l’enorme scritta della Torre Accademia non fosse reale e aveva scoperto anche la splendida terrazza non sorvegliata su cui passare un po’ di tempo tranquillo. Col tempo tuttavia, quel posto aveva smesso di essere tranquillo poiché era diventato il ritrovo in cui lui e il suo gruppo potevano parlare di tutto.
Quella mattina c’erano Ryu che leggeva un libro, Kei, Mei e Nanase , Jin e Shogi. Si erano conosciuti durante le superiori e, anche se avevano tutti caratteri diversi, qualcosa li aveva legati.
Kei faceva parte della squadra rossa, coefficiente 346/350. Normalmente non chiacchierava molto e sulla terrazza dormiva. Apparteneva alla famiglia Sato, una delle preferite dall’imperatore. Nessuno sapeva come mai aveva deciso di entrare nell’Elité ma per lui, riuscire a diventare l’alfiere rosso sembrava questione di vita o di morte.  Per questo finiva sempre nelle mire degli scherzi di Shogi Rintaro, coefficiente 320/350 che si ritrovava nella squadra verde solo perché la sua famiglia aveva bisogno di soldi e l’Elité pagava molto bene le famiglie che fornivano giovani leve alla divisione. Nessuno però tornava mai sull’argomento che feriva molto il giovane. Soprattutto Jin Matsumoto che si trovava lì per la medesima ragione ma cui tutti davano addosso in quanto, pur avendo ottime doti psichiche, peccava nelle discipline fisiche e il suo coefficiente si fermava a 300/350. Lo stesso problema aveva Nanase Otada che però manteneva un coefficiente di 330/350. Stesso coefficiente della cugina Mei Hinata. Le due ragazze erano molto unite e ridevano spesso degli scherzi che Shogi e Jin ordivano ai danni di Kei o Ryu.
“La prossima volta che mi gettate un sacchetto pieno di vermi addosso, giuro che cambio il codice olografico della terrazza! Finirete di sotto senza neanche accorgervene!” esclamò Ryu all’ennesimo scherzo delle due matricole.
“Ma dai! Non fare il pesante!” rise Shogi “Per due vermetti!”
“Perché non glieli fai ingoiare?” chiese senza aprire gli occhi Kei che rimaneva sdraiato in un angolo.
“Che schifo!” gridò Mei entrata l’anno prima all’Accademia e parte della squadra rossa.
“Perché non ti fai gli affari tuoi, Kei?” chiese Shogi mettendo il muso ed incrociando le braccia.
“Non cominciate a litigare”, intervenne Jin che non aveva ancora una squadra.
 “Già, non litigate,” si aggiunse Nanase intenta a tirare fuori da un sacchetto dei tramezzini “piuttosto, venite a mangiare.”
Tutti si affrettarono a raggiungere la coperta che le ragazze avevano disteso sull’erba. Tutte tranne Ryu.
“Kawari, non ti lasciamo niente!” esclamò Shogi ingozzandosi. Kei gli strappò la polpetta di riso che teneva ancora in mano.
“Lascialo stare. Sta studiando.”
“Ehi! Quella è mia. E che ha da studiare? Ha già un coefficiente altissimo, lui. Io dovrei studiare!”
“Ha una prova domani,” fece Kei rabbuiandosi “se la supera, sarà un alfiere.”
“Prima di te?”
“Sta zitto.”
“A che ti serve avere il coefficiente più alto dell’Accademia se poi fallisci sempre la prova finale?” chiese Shogi scatenando l’ilarità di Jin.
“Ti ho detto di stare zitto, Rintaro!” sbottò Kei lanciandogli la polpetta.
“Smettila, Kei!” intervenne Nanase “Non essere aggressivo. Shogi sta scherzando.”
“E’ pur vero che sai quanto ci tiene, Shogi. Vuoi finirla di punzecchiare Kei?” fece Mei.
“Ho capito,” fece Ryu chiudendo il libro “se non studiate voi, non posso studiare neanche io.” Jin gli mise una mano sulla spalla e con l’altra gli porse una bibita. Il ragazzo l’accettò e si sedette vicino a Nanase.
“E tu Nanase, hai studiato? Domani non devi sostenere una prova anche tu?” Tutti si voltarono a guardare la ragazza dai capelli biondo cenere. Lei sorrise mostrando un sacchetto pieno di teru-teru, amuleti scaccia pioggia.
“Dove li hai presi? Hai saccheggiato un negozio?” chiese Jin.
“Guarda che per domani è previsto bel tempo!” esclamò Shogi. Fu la risata di Kei a sorprenderli tutti. Una risata genuina che fece spuntare persino le lacrime agli occhi del ragazzo dai capelli corvini.
“Ma certo! Come ho fatto a non capirlo?” fece Mei “Li hai rubati!”
“Rubati?” intervenne Ryu “Nanase Otada è un comportamento riprovevole anche se non riesco a capire come gli amuleti contro il maltempo possano aiutarti.”
“Questo perché tu non hai un coefficiente abbastanza alto per comprendere i processi mentali di Nanase!” fece Kei che ancora non riusciva a smettere di ridere “Nanase deve sostenere una prova fisica di resistenza. Se piove, la prova verrà annullata! Ha rubato i teru-teru per annullare il loro effetto!” Tutti scoppiarono a ridere.
“E allora? La speranza è sempre l’ultima a morire! Io non sono fatta per le prove fisiche. Di certo diventerò una celebrante. A che mi serve diventare più forte?”
“Non è così, Nanase,” la redarguì Mei “anche il celebrante deve essere preparato fisicamente. Le squadre operative che possono maneggiare una mistycal wepon sono rappresentate da coppie composte da un celebrante e un alfiere. Il celebrante utilizza la weapon rappresentata da una pietra che amplifica il suo potere psichico. Quel potere si incanala nella mystical, l’arma maneggiata dal alfiere. Ricordati però che se il celebrante è troppo debole, i colpi inferti all’alfiere vengono trasferiti al celebrante e comunque può sempre capitare di doversi difendere direttamente da un attacco.”
“Non se l’alfiere è forte!” esclamò Kei.
“Potrebbero esserci più Golem sul campo,” intervenne Jin.
“Attaccano individualmente. Un ESP non può attivare che un solo Golem.” Spiegò Ryu.
“Maledetti ESP!” fece Shogi tirando un calcio alla lattina di Ryu.
“Ehi attento o scopriranno che siamo qui!” fece Jin vedendo la lattina sparire fuori dall’ ologramma “E comunque noi siamo qui appunto per sconfiggere gli ESP.”
“Dicevano così anche quelli che hanno combattuto prima di noi. Noi però abbiamo la possibilità di usare le mistycal weapon!” esclamò Kei.
“Calmo Kei. Nessuno di noi ha mai visto un ESP finora. Pensiamo a superare gli esami.”
“Io diventerò l’alfiere rosso e li distruggerò tutti!” insistette Kei.
“Quanto entusiasmo!” lo spintonò Shogi “Prima dovrai riuscire ad andare d’accordo con un celebrante!”
“La vedo dura con quel carattere!” riprese Jin.
“Io faccio parte della squadra rossa. Potrei essere io la tua celebrante, Kei!” disse Mei con un sorriso di sfida.
“Prima porta il tuo coefficiente oltre i 340/350 e poi ne riparliamo,” disse il ragazzo.
“E io che faccio?” chiese Nanase che non smetteva di passare con lo sguardo dal viso di Kei a quello di Mei.
“Ma se tu non hai ancora una squadra, tutina!” la prese in giro Shogi alludendo alla tuta grigia che portavano quelli che non avevano ancora una squadra.
“Vi faccio vedere io! Domani avrò la mia bella uniforme bianca!” Rispose la ragazza.
“Non credo che tu abbia l’intelligenza che serve per usare Jadeis, la weapon bianca.” Nanase mise un muso adorabile e tutti risero.
“Vedremo!” fece lei sollevando la busta dei teru-teru e lasciando la terrazza. Mei la seguì a ruota lasciando soli i ragazzi.
“Rientriamo anche noi?” chiese Jin e Shogi annuì. Quando Kei e Ryu rimasero soli, quest’ultimo sospirò.
“Non essere preoccupato. Ce la farai e prima di me.”
“Non mi preoccupa l’esame. Lo passerò.”
“Quindi?”
“Hai letto le ultime notizie?” Kei si rabbuiò “Dicono che Tokyo sia stata attaccata da un ESP fortissimo. Dicono che abbia addirittura governato due Golem. Si fa chiamare Wendigo. Ha un braccio bionico.”
“Non credi davvero che sia lui?” chiese il ragazzo vestito di rosso.
“Non credi che sia lui? Attacca solo i luoghi in cui siamo cresciuti. Ha ucciso soprattutto giovani donne. Lascia ovunque messaggi che per molti non significano niente ma io so che si tratta di Kazuki.”
“Kazuki è morto,” fece Kei prendendo a camminare verso la scala che dava al piano inferiore “è morto nell’Esplosione.”
“Disperso.”
“Morto. Kazuki è morto, Ryu. Va a prepararti per l’esame”, concluse lasciando la terrazza.
 

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Capitolo 2
*** Domande senza risposta ***


Tokyo, Marzo 2515

“La detenzione è necessaria?” chiese il ragazzo vestito di blu alla guardia del distaccamento militare dell’Elité a Tokyo.
“Sì, sign.Yoshiki.”
“No, non lo è. Disattivate la griglia elettrica di protezione.”
“Sì, signore.” La guardia sparì in un’altra stanza e immediatamente dopo i laser, che bloccavano la cella, svanirono. Il giovane uomo dai capelli castani e dagli occhi nocciola, si sistemò gli occhiali sul naso e parlò.
“Sato Kei, sono passate due settimane dall’attacco alla Todai. Intende rifiutarsi ancora di tornare a combattere? Tra l’altro abbiamo restituito il corpo di Hinata alla sua famiglia,” fece l’uomo prendendo una sedia e accomodandosi.
“Non sono io a non voler combattere. Pare che nessun celebrante intenda fare coppia col sottoscritto.”
Yoshiki Seijuro era un ragazzo di grande sensibilità ma di altrettanto grande compostezza. Apparteneva alla famiglia reale in quanto Seichi Yoshiki , padre di Seijuro, era il fratello dell’imperatrice. Era entrato nell’Elité a sedici anni anche se si era occupato sempre e solo di mansioni burocratiche.
“Il suo CPF è sceso a 320/350,” disse guardando un file su un ologramma da polso.
“E’ comunque più alto di quello che molti alfieri sognano per una vita intera,” rispose ghignando Kei.
“Il suo CPF 346/350 non è servito a salvare Hinata, comunque.”
Le parole del suo interlocutore si conficcarono nel cuore che Kei credeva di essersi strappato dal petto due settimane  prima.
“E’ inutile parlare dei morti,” fece allungando una mano verso un pacchetto di sigarette che languiva su un tavolinetto di metallo “ha da accendere?”
“Qui non si fuma.”
“Teme che abbatterà ancora di più il mio CPF?”
“Non è stato in grado di stabilire un contatto con nessuno dei celebranti che le hanno assegnato, signor Sato,” fece Yoshiki allungando un accendino con un gesto elegante e misurato.
“Sono loro a non aver voluto stabilire un contatto con me.” Kei diede il primo tiro e la punta della sigaretta s’illuminò.
“Il contatto è una questione di fiducia. Ho parlato con le ragazze. A malapena conosceva il loro nome. Due di loro si sono fatte male nella prima esercitazione.”
“Erano delle incapaci.”
“Davvero?”
“Inutili sotto ogni punto di vista,” rispose Kei chiudendo gli occhi ed espirando il fumo verso il viso dell’altro.
“L’unico ad essere inutile qui è lei, signor Sato. Un alfiere che non ha un celebrante è inutile,” concluse Yoshiki alzandosi e guadagnando l’uscita della cella. La voce di Kei lo bloccò sul posto.
“Se sono tanto inutile, perché mandare il numero uno dell’Elité a darmi la scossa?”
“Perché il numero uno dell’Elité voleva vedere con i suoi occhi cosa sei diventato,” disse Seijuro mostrando finalmente di conoscere il suo interlocutore “Sei sempre stato presuntuoso ma non credevo che saresti rimasto indifferente alla morte di Mei.” Kei spense la sigaretta sul pavimento.
“E’ inutile parlare dei morti.”
“Infatti stavo parlando di te, Kei. Non hai neppure tentato di salvarla. Come puoi vivere così? E ti ostini ancora a non fare rapporto! Era nostra amica.”
“Te lo ripeto, Seijuro, è inutile parlare dei morti.”
“Fa come vuoi. Io ci ho provato,” fece Yoshiki.
“Seijuro.”
“Sì?”
“Il tuo accendino. Non dovresti fumare però. A lei non piace. Congratulazioni per il tuo fidanzamento,” fece il ragazzo vestito di rosso.
“Nanase voleva venire con me. Con lei avresti parlato?”
“Perché, con te non ho parlato?”
“Va all’inferno, Kei!” Fece il ragazzo vestito di blu lasciando la stanza. I laser tornarono al loro posto e Kei si lasciò cadere sulla branda.


Osaka, aprile 2512

Nonostante il furto di tutti i teru-teru, il sole splendeva alto sull’Accademia e la corsa ad ostacoli prevista per le tutine, gli studenti che non erano ancora stati assegnati ad una delle squadre dell’Elité, stava per cominciare. Non si trattava, ovviamente, di una tradizionale corsa ad ostacoli. Il percorso, lungo più di otto chilometri, girava intorno al campo di addestramento della torre e prevedeva il superamento da parte degli studenti di una serie di trappole, alcune olografiche altre reali. In realtà la prova consisteva proprio in questo. Dosare le proprie doti fisiche per superare solo le prove reali e usare quelle psichiche per bypassare le altre risparmiando perciò energie. Orario di arrivo massimo per considerare la prova superata: 12.00. Il grande orologio di Torre Accademia segnava le 7.50. Alle 8.00 la partenza.
Nanase si era posizionata, più decisa che mai a passare il test, sui blocchi di partenza insieme a Jin. Vicino a loro, una ragazza bellissima dai capelli lunghi e neri si sistemava le scarpe. Nanase le finì addosso tentando di strappare a Jin il dischetto con la mappa olografica del percorso.
“Scusa!”
“Di nulla. E comunque quello non ti servirà. Il percorso cambia ogni trenta minuti. Le trappole vere si alternano alle olografiche e viceversa,” disse la ragazza “Piacere, comunque, io mi chiamo Dezaki Sakura.”
“Otada Nanase,” fece la ragazza bionda chinando il capo.
“Matsumoto Jin,” la imitò l’amico.
Il segnale di partenza diede il via alla prova. Sakura dimostrò una notevole velocità e diede rapidamente distacco a Nanase e Jin.
“Ricordati Nanase, non è una prova di velocità ma di resistenza!”
“Lo so, Jin,” rispose lei correndo al suo fianco “ma stavolta non voglio fallire. Nonostante il mio CPF, non riesco ad essere assegnata ad una squadra. Ed è già passato un anno.”
“Nanase, lo so che forse questo non è il momento giusto ma posso farti una domanda?”
“Spara.”
“Perché lo fai? Voglio dire, la mia famiglia non ha abbastanza soldi per mantenere me e i miei sei fratelli così, visto che ho un buon CPF, ho deciso di entrare nell’Elité per garantire loro un buon livello di vita. Tu perché lo fai? Sei nobile, ricca, potresti vivere a Sole Rosso, la cittadella imperiale.”
“La mia famiglia è nobile, hai detto bene. Il primogenito della famiglia diventa sempre un generale dell’Impero ma mio fratello è morto per una grave malattia quando aveva dieci anni. Tocca a me sostituirlo.”
“Scusami, non lo sapevo.”
“Non preoccuparti, è passato molto tempo. Ora concentriamoci sul test.”
I due ragazzi corsero fino ad una radura dove un altro gruppo di studenti stavano fermi sul bordo di un lago che sembrava impossibile da aggirare.
“Attraversarlo a nuoto sarà difficilissimo. Te la senti, Nanase?” chiese Jin.
“Dov’è l’alternativa?” chiese la ragazza.
“Che intendi dire?”
“La prova prevede che dobbiamo scegliere se l’ostacolo è reale o no.”
“Quindi?” chiese Jin che aveva già messo i piedi nell’acqua.
“Se non volessi considerare questa prova reale, come faccio a sapere dov’è l’ologramma?”
“Credimi, l’acqua è fredda. Prima ci tuffiamo meglio è. Sono già passati venti minuti.”
“Rimettiti le scarpe, Jin. Non è reale.”
“Come fai a dirlo?”
“Il lago vicino all’Accademia c’è ma sono le 8.20 del mattino. Il riflesso sul pelo d’acqua è quello che ci sarebbe col sole a mezzogiorno. E’ un ologramma.”
“Hai ragione, Nanase. Cazzo non ci avevo pensato! Andiamo.”
Si bagnarono entrando in acqua fino alle ginocchia ma, dopo un attimo, l’ologramma svanì.
“Grazie per l’aiuto, brocchi!” si sentirono urlare da un ragazzo moro e alto che li superò in velocità.
“Capito Nanase? Se uno degli studenti scopre un olo, tutti ne beneficiano. Che sistema del cazzo!”
“Corri, Jin. Uno è andato!”
I due ragazzi ripresero a correre ma, dopo un altro paio di ostacoli, di cui uno reale che comprendeva la scalata di una parete rocciosa, Nanase cominciò a rimanere indietro rispetto a Jin.
“Avanti, coraggio,” la esortò Jin.
“Jin, tu vai. Io ho il mio ritmo. Non voglio rallentarti.”
“Non dire stronzate. Se non fosse per te starei ancora nuotando in quel lago. Semmai ci fermiamo a riprendere fiato.”
“No, Jin. Non bisogna fermarsi o spezzeremo il fiato. Tu devi tenere il ritmo. Mancano due ore e siamo ancora lontani dal traguardo. Vai.” Il ragazzo la guardò per cercare un’ulteriore rassicurazione nei suoi occhi. Con un sospiro allungò il passo.
Nanase superò altri due ostacoli nell’ora successiva che, sfortunatamente per lei, si rivelarono tutti e due reali.  Ormai mancavano solo cinquanta minuti alle 12,00 quando si ritrovò in una radura che dava su due grotte. Chiaramente una era una trappola mentre l’altra conduceva dall’altro lato. Di fronte ad uno dei due ingressi se ne stava piantata con le mani sui fianchi Sakura Dezaki, la ragazza che aveva conosciuto qualche ora prima.
“Pensavi di andare a destra?” chiese Nanase avvicinandosi.
“E tu che cavolo vuoi?”
“Ehi, non c’è bisogno di essere maleducati.”
“Mi stai distraendo, pulce!” fece lei di rimando.
“Lasciala perdere, quando è nervosa è meglio starle alla larga.” La voce era del ragazzo bruno che l’aveva chiamata ‘brocco’ al lago “Se non la conosci bene, non ti consiglio di starle intorno. Sakura è affetta da DPM*. Sotto stress cambia personalità. In genere è una coniglietta adorabile.”
“Ti ammazzo, stronzo!” esclamò Sakura.
“Sì, sì, ok. Perché non tiri fuori dal cilindro la cervellona e ci dici qual è la strada giusta?” chiese il ragazzo che sembrava conoscere bene Dezaki.
“E tu chi saresti?” intervenne Nanase.
“Konai Akito. Uno stronzo!” rispose Sakura.
“Visto che voi due signorine avete l’aria di volervi perdere in chiacchiere, io vado a sinistra.”
“Aspetta!” urlò Nanase.
“Che c’è? Fece il ragazzo fermandosi.
“Da quella grotta non arriva un filo di vento. E’ chiusa.” Akito diede un calcio all’ingresso e l’ologramma sparì.”
“Ora rimane solo una via d’uscita,” constatò il ragazzo avviandosi verso la grotta di destra.
“Perché l’hai aiutato?” chiese con gentilezza Sakura che sembrava tornata quella del loro primo incontro.
“Perché noi siamo compagni. I nemici sono fuori dall’Accademia,” rispose candidamente Nanase.
“Lui non l’avrebbe fatto per te e forse neanche io.”
“Io sono fatta così.”
Nanase si mise a correre e, insieme a Sakura, raggiunse l’uscita dall’altra parte della grotta. Ormai mancavano venti minuti e davanti alle due si parò innanzi una parete di ghiaccio che Akito aveva quasi interamente scalato. Era reale.
Sakura si diede subito da fare e Nanase le andò dietro. Mano a mano che l’altezza aumentava, Nanase sentiva le mani bruciare sempre di più. Era al suo limite. Arrampicarsi non era mai stato il suo forte e le dita sul ghiaccio diventavano sempre più rigide e meno salde.
Sakura sparì oltre il bordo del crinale. Si scoraggiò. Era di nuovo sola. Si disse che non doveva mollare. Che c’era quasi. Nel tentativo di raggiungere l’ennesimo appiglio per una delle mani, perse quello del piede destro. Non ci volle molto per capire che era finita. Non solo avrebbe fallito il test ma, probabilmente, si sarebbe fatta anche molto male.
Una mano afferrò il suo polso destro. Lei sollevò il capo e vide il viso abbronzato di Akito che le sorrideva malignamente.
“Sei proprio brocca!” disse tirandola su oltre il crinale.
“Perché mi hai aiutata?”
“Perché quelli come te mi fanno compassione. E con questo ho saldato il mio debito con te. Ora muovi il culo perché manca un quarto d’ora,” fece allontanandosi e cercando di raggiungere Sakura per superarla e poi tirarle uno scappellotto.
Nanase sorrise toccandosi il polso e si rimise a correre. Ormai mancavano pochi metri. Poteva vedere sulla linea del traguardo Jin che agitava le braccia per esortarla. I minuti scorrevano a ritroso sul timer del traguardo. Per controllare l’ora, inciampò e cadde. Il ginocchio faceva un male cane.
“Alzati.” La voce alle sue spalle era di Kei.
“Non ce la faccio più.”
“Alzati.”
“Kei, per te è facile. Io non ce la faccio.”
“Alzati. Forse avrei dovuto tirare fuori Kazuki da quell’inferno e non una mocciosa come te.” Nanase sgranò gli occhi. Per un istante risentì l’esplosione, rivide il fumo e percepì la terra tremare. Il rumore delle lamiere che si contorcevano e delle pareti che crollavano. E la mano di Kei che si allungava verso Kazuki per poi afferrare lei e trascinarla in salvo. Si mise in ginocchio e poi in piedi. Riprese a correre e riuscì a tagliare il traguardo un minuto prima che il tempo scadesse. Svenne tra le braccia di Jin e fu portata in infermeria.
Quando Nanase si svegliò, una donna era al suo fianco. Le stava infilando un ago nel braccio.
“Cosa, cosa è successo?”
“Stia calma, signorina Otada. Il suo CPF è schizzato a 345/350 per cui ha avuto un mancamento. Le sto somministrando un calmante.”
“Che ne è stato dell’esame?”
“L’ha superato.”
“Davvero? E a che squadra sono stata assegnata?” la donna l’attaccò ad una flebo e le sorrise. Aveva splendidi capelli ramati e un paio di occhiali a farfalla che le rimpicciolivano due occhi verdi come topazi.
“Mi chiamo Ise Izumi. Signorina Otada, riposi. Il suo test è stato illuminante per l’Accademia. Domattina verrà ricevuta in direzione.”
“Che, che significa?” chiese confusa Nanase. La donna le carezzò la fronte.
“Domani, signorina Otada. Domani.”
Nanase sentì gli occhi farsi pesanti e cadde in un sonno profondo.

Note: La DPM è la sindrome da personalità multipla.
 

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Capitolo 3
*** Una persona speciale ***


Tokyo, Aprile 2515

La porta della camera rispose perfettamente alla scheda digitale che Kei aveva ricevuto insieme alla busta con i suoi effetti personali. La stanza era spaziosa e vi era già stata spostata tutta la sua roba. Sorrise amaramente notando che ‘tutta la sua roba’ consisteva in una sola scatola e in un trolley di piccole dimensioni. Raggiunse la scrivania su cui era stata poggiata la scatola. Ne estrasse una custodia con i dischetti degli ultimi file a cui aveva lavorato, un cellulare, il suo orologio da polso, un quadernetto con un elastico rosso in cui era infilata una matita. Il portatile giaceva sul fondo del contenitore insieme ad una cornice digitale. Prese quest’ultima e rimase a fissarla. Nella superficie riflettente del dispositivo spento si intravedeva l’immagine del suo viso. Il taglio che aveva riportato nell’ultimo scontro era ancora ben visibile sull’occhio destro. Nel poggiarla sulla scrivania, la cornice si attivò e mandò l’ultima foto in memoria. Era la foto dell’ultimo giorno all’Accademia.
Sorrise, questa volta davvero. Shogi, vestito di verde, teneva un braccio intorno al collo di Jin, vestito con l’uniforme nera, e cercava di fare il solletico a Nanase, l’unica vestita di blu.
Aveva scattato lui la foto perché non amava finire in posa. Accanto a Nanase, una sorridente Mei faceva bella mostra del suo abito rosso. Perché non le aveva mai detto che quel colore le stava bene? L’immagine di Mei in rosso si sovrappose a quella di lei immersa nel suo stesso sangue. Con il dorso della mano lanciò lontano la cornice ma si pentì subito di quel gesto. Nel momento stesso però in cui la raccolse, s’accorse che l’immagine era cambiata. Ora ritraeva tre ragazzini che si stringevano e sorridevano felici alla macchina fotografica. Lui all’epoca portava ancora i capelli lunghi fino alle spalle. L’altro bambino faceva il segno della vittoria con una mano e con l’altra tirava a sé lui e la ragazzina nel mezzo. Si trattava di una bellissima bimba dai capelli biondi che aveva l’espressione più felice che avesse mai visto fare ad una persona. Spense la cornice e la posò di nuovo sulla scrivania. Raggiunse la finestra e tirò le tende, dopodiché si gettò sul letto con le mani dietro la nuca e chiuse gli occhi. Non voleva pensare. Pensare era doloroso. Il beep dell’interfono lo scosse.
“Chi è?” chiese senza muoversi ma attivando comunque l’interfaccia vocale del sistema di chiusura della camera.
“Matsumoto.” Kei si alzò e raggiunse la porta facendo scattare l’apertura. Jin accennò un debole sorriso. Kei si voltò sollevando comunque una mano e tornò alla scrivania. Dal giaccone tirò fuori sigarette ed accendino.
“Cordiale come ti ricordavo! Qui non puoi fumare”, gli rammentò il compagno.
“Cosa sei venuto a fare qui, Matsumoto?”
“E’ il tuo primo giorno a Skytree. Volevo darti il benvenuto e farti sentire che non sei solo.” Kei sorrise pensando che anche se Jin sembrava cambiato fuori, era sempre lo stesso dentro. Aveva tagliato i lunghi capelli e raccolto i ricci ribelli in un codino. Aveva persino tolto l’orecchino che portava all’Accademia. Complessivamente aveva perso l’aria fanciullesca che lo aveva reso spesso il bersaglio degli altri studenti, eppure qualcosa nei suoi occhi, ricordava ancora il bambino che aveva smesso di essere troppo presto. Tutti sapevano che la sua famiglia lo aveva praticamente venduto all’Elité e che non era fatto per essere un soldato, tuttavia il suo CPF lo aveva tradito dimostrando che era più idoneo di tanti bulli dediti ai giochi di guerra. Jin aveva accettato da molto tempo il suo destino ed era maturato molto nell’ultimo anno. Kei avrebbe detto che si fosse intristito. Come se avesse improvvisamente preso consapevolezza del grigiore del mondo.
“Lo sai che non sono bravo con queste cose,” fece Kei “comunque non avevo bisogno di alcun benvenuto. Sono in grado di capire da solo come vanno le cose in questo posto.”
“Lo so che ne sei capace. Ho sentito il bisogno di farlo.”
“L’hai fatto. Ora vorrei dormire.” Jin abbassò gli occhi e parlò tutto d’un fiato come per paura di essere interrotto.
“Non sei venuto al funerale di Hinata.” Kei strinse un pugno.
“Non sarei stato il benvenuto.”
“Nessuno pensa che sia stata colpa tua”, fece Jin alzando la testa e guardandolo dritto negli occhi.
“Lo pensano tutti.”
“Io no.”
“Davvero?” chiese Kei ironicamente “E comunque la tua opinione non conta. Tu sei troppo buono. Kawari che ne dice?” Jin sospirò.
“Perché fai così?”
“Perché sono così.”
“Vuoi che tutti credano che non t’importasse di Mei? Ti senti più forte se tutti pensano che sei talmente insensibile?”
“Jin, non me ne importa nulla. Questa è la verità. Ho combattuto, ho fatto delle scelte, ci ho provato. Alla fine ho scoperto che non me ne importa nulla. Non c’è niente che m’interessi e sai perché? Perché niente di quello che faccio ha importanza. Nulla può cambiare le cose. Quando lo capirai anche tu, allora forse comprenderai il motivo per cui non vedo la necessità di agitarsi tanto.” Jin non replicò. Raggiunse la porta e l’aprì.
“Torno di sotto. La cena è alle 19.00.”
Kei rimase di nuovo solo. Si chiuse in bagno e, come faceva da un po’ di tempo a questa parte, si gettò con tutti gli abiti sotto la doccia. Ne uscì solo quando l’interfono annunciò che era quasi l’ora di cena. Si asciugò i capelli corvini e indossò la divisa rossa. Scese fino al trentacinquesimo piano dove si tenevano le riunioni ma non c’era nessuno. Risalì al quarantaduesimo dove c’era il grande salotto dell’Elité.
Aprì la porta e trovò seduto ad una grande poltrona stile Luigi XIV, Kawari. Al pianoforte, una ragazza dai capelli bianchi tagliati sulle spalle, suonava una melodia di Chopin.
Vicino al camino Jin giocava a scacchi con una ragazza che portava la sua stessa uniforme. Kei rimase sulla porta fino a che Kawari non posò il libro che aveva in mano e si alzò.
“Bentornato.”
“Grazie.”
“Vieni, ti presento i ragazzi che non conosci.” Alle parole di Ryu, la ragazza al pianoforte smise di suonare e lo raggiunse. “Lei è Takahata Yui. E’ la mia celebrante.”
“Piacere,”  disse educatamente la ragazza facendo un leggero inchino. Ryu continuò indicando a Jin e alla sua compagna di giochi di raggiungerli.
“Conosci già Matsumoto. Lei invece è Namura Akane. Opera nella squadra nera. Ho convocato tutti gli altri, stanno arrivando.”
Mentre Yui Takahata aveva dato a Kei solo un’occhiata distratta, Akane si era fermata parecchio ad osservare il nuovo arrivato. Kei aveva compreso subito che anche Akane doveva essere una celebrante e si chiese quale fosse allora il ruolo di Jin. Possibile che fosse diventato l’alfiere nero nonostante la sua inferiorità fisica rispetto alla maggior parte dei ragazzi dell’Accademia? Kei raggiunse un tavolinetto di vetro e si versò da bere.  Ryu si rimise seduto e non lo degnò più di attenzione.
Kei avrebbe voluto urlare, aveva i nervi a fior di pelle. Si ritrovò a valutare l’idea di tornare in camera e assumere uno di quei maledetti psicofarmaci che il dottore dell’Elité gli aveva prescritto per riequilibrare il suo CPF.
In quel momento la porta si aprì di nuovo e una ragazza dall’uniforme rossa e i capelli castani legati in una coda alta entrò chiassosamente nella stanza.
“Mi sono rotta il cazzo, Akito, hai capito? Non ci provare mai più o giuro che ti rompo quel tuo fottuto culo così ti sbattono fuori da qui!”
“Hosoda! Per favore moderati!” esclamò Yui redarguendo la ragazza. La risata sguaiata del suo accompagnatore fece arrabbiare ancora di più la nuova arrivata.
“Pazienta, Takahata, questa qui non è mica una signora! E’ un animale bisognoso di sangue che per di più non ama perdere”, disse Akito Konai, alfiere della squadra nera, buttandosi sulla poltrona che dava di fronte al camino.
“Io sarei la bestia? Hai mandato all’ospedale tre persone stasera!”
“Ora finitela voi due,” fece Ryu “venite qui. Vi presento Kei Sato. Da oggi abiterà qui a Skytree con noi. E’ l’alfiere della squadra rossa.”
A quelle parole Akito scosse le spalle mentre la ragazza raggiunse Kei e lo squadrò dall’alto in basso.
“Così tu sei Sato! Piacere di conoscerti. Io mi chiamo Maki Hosoda e, da domani, tu farai coppia con me.”
Kei la guardò fisso negli occhi. Che cazzo stava dicendo quella specie di ragazza? Chi aveva preso una simile decisione senza neppure consultarlo? Come se Ryu avesse letto nella mente di Kei, parlò.
“Ha deciso Yoshiki. Era mio compito parlartene ma Maki è fatta così. Spero che farai di tutto per andare d’accordo con lei.”
“Andremo benissimo, vedrai Kawari. Ora che ho un alfiere vero, la squadra rossa otterrà i risultati più brillanti di tutte le formazioni. Magari, Akito, disse rivolgendosi di nuovo al suo precedente interlocutore, stavolta ti faccio il culo davvero!” esclamò la celebrante della squadra rossa tutta orgogliosa.
“Io non faccio coppia con te.” La voce di Kei risuonò decisa nell’aria. Akito scoppiò a ridere.
“Visto Maki? Persino lui ha capito subito che fai schifo!”
“Che cosa?” urlò la ragazza “Che storia è questa?”
“Non faccio coppia con te. Questo è quanto”, ripeté Kei.
“Intendi disobbedire a Yoshiki?” chiese Ryu. Kei guadagnò l’uscita.
“Che può farmi? Arrestare?” chiese alludendo alla sua detenzione recente “O farmi condannare a morte? E’ il benvenuto!” La porta si chiuse dietro di lui.
“E’ un figlio di puttana”, disse Akito alzandosi e raggiungendo il tavolo degli scacchi. A Jin mancavano poche mosse per vincere la partita. Gli carezzò il viso e prese un alfiere. “Scacco matto, Akane. Jin ha vinto di nuovo, stanotte dorme lui con me!”
“Akito, non sei migliore di lui” osservò la ragazza e lui sorrise mentre Jin rimaneva silenzioso a guardarsi le mani.
“Nessuno dorme con nessuno!” fece Ryu alzandosi e avvicinandosi anche lui alla porta “Conoscete le regole. I contatti fisici tra Alfieri e Celebranti sono vietati se non propedeutici alla battaglia.”
“Io ho combattuto oggi,” Insistette Akito “ho bisogno delle cure di un Celebrante.”
“Falla finita, stronzo!” urlò Maki “Quello è il combattente più forte al mondo, coefficiente psico fisico 346/350 e può permettersi di essere ciò che vuole anche un figlio di puttana. Sarà il mio alfiere, vedrete!”
Yui raggiunse Ryu, lo prese sotto braccio e uscirono dalla stanza.
“Grazie Yui.” Lei sorrise. Non parlava se non era strettamente necessario. Per questo Ryu l’adorava. In un ambiente in cui le persone dovevano sempre ostentare ciò che erano, Yui era la medicina perfetta contro lo stress da prestazione di cui parevano soffrire tutti. Raggiunsero insieme la sala da pranzo dove erano già seduti Rintaro e Takahata, i membri della squadra verde.
“A giudicare dalla tua faccia, Ryu, Kei è arrivato”, fece Shogi invitandoli a sedere vicino a lui.
“E’ arrivato. E ha già creato problemi. Ha detto che non farà coppia con Hosoda.” Shogi sorrise.
“E Hosoda che ha detto?” A parlare era stata Dezaki Sakura, celebrante della squadra verde.
“Che non le importa cosa dice. Faranno coppia e basta.”
“Tipico di Maki”, fece Sakura aprendo in due un panino.
“Sta bene?” chiese improvvisamente in modo serio Shogi. Stranamente a rispondere fu Yui.
“Non sta bene. Ha bisogno di amici. Sono certa che Maki gli farà bene.”
Ryu sorrise. La sua compagna aveva fatto centro eppure lui aveva ancora dei dubbi. Lui conosceva la verità. Il male di Kei non aveva radici nella morte di Mei. Era antico. La morte di Hinata aveva solo peggiorato le cose.
 
Osaka, aprile 2512

Mei era seduta ormai da un’ora fuori dalla porta della presidenza con le mani unite sulle sue ginocchia. Non immaginava che Nanase aveva assunto la stessa posizione sulla sedia davanti alla scrivania di Akane Izumi preside dell’Accademia. Mei era un anno più grande di Nanase e aveva sempre svolto la parte della sorella maggiore con lei. Le veniva naturale poiché faceva parte del suo carattere. Si preoccupava sempre per tutti. Nanase le somigliava in questo ma erano diverse sotto un aspetto fondamentale. Nel suo preoccuparsi per gli altri Mei non avrebbe mai detto o fatto qualcosa che potesse ferirne i sentimenti. Nanase invece riteneva che proteggere gli altri significasse anche contraddirne le opinioni o i sentimenti. Per questo Mei risultava sempre, ad una prima occhiata, più matura e adulta.
Quando Nanase le aveva fatto sapere di aver superato l’esame ma che era stata convocata in presidenza, si era offerta di accompagnarla. Sua cugina non aveva potuto nascondere proprio a lei il suo nervosismo e le aveva lasciato la mano a fatica al momento di essere ricevuta dalla preside.
Mei si chiedeva il perché di quella convocazione. Aveva seguito l’esame di Nanase e non le sembrava che avesse commesso alcuna irregolarità. Guardò ancora la porta e poi l’orologio e sospirò.
All’interno della stanza la preside Izumi sorseggiava una tazza di tea. Nanase si guardava le mani.
“E’ nervosa, signorina Otada?” Nanase sussultò.
“E’ che non capisco. La dottoressa mi ha detto di aver superato l’esame.”
“E’ così. Le faccio le mie congratulazioni.”
“Allora perché sono qui?” la preside schioccò le dita e su uno schermo comparve il video del test.
“Vede, signorina, il suo test è stato molto interessante. Lei ha superato l’ultima prova con l’aiuto di un altro studente e, inoltre, AI ha registrato un picco nel suo CPF di 340/350.”
“Credete che abbia barato ottenendo l’aiuto di quel ragazzo?” chiese Nanase con gli occhi fissi in quelli della Preside.
“Assolutamente no. Le regole non proibiscono di usare gli altri studenti per superare le prove.”
“Io non ho usato nessuno.”
“Signorina Otada, lei sa chi è quel ragazzo?”
“Non lo conosco.”
“Si chiama Konai Akito. Ha superato anche lui la prova ed è entrato nella squadra nera.”
“La squadra nera?”
“Esatto. Non ha mai cooperato con nessuno finora. In nessun test. Inoltre lei ha stabilito un contatto molto forte con la signorina Dezaki e con il signor Matsumoto. Questa sua capacità di attrarre le persone è risultata molto interessante. Per questo abbiamo deciso di promuoverla.”
“E a quale squadra mi avete assegnata?” chiese Nanase che non riusciva ancora a capire bene il perché di tutte quelle chiacchiere.
“E’ così importante conoscere la squadra?” chiese la preside lasciando la tazzina.
“Non capisco. A tutti viene assegnata una squadra.”
“Faremo un’eccezione con lei, signorina Otada. Qual è il suo colore preferito?”
“Tra i quattro?”
“Il suo colore preferito in assoluto.”
“In assoluto? Direi il blu.”
“Bene allora, domani riceverà un’uniforme blu.”
“Ma non esiste una squadra blu!” replicò Nanase stringendo la stoffa della tuta.
“Certo che non esiste ma AI non è stata in grado di stabilire quali siano le sue doti dominanti e pertanto non ha potuto associarla ad una particolare mistycal weapon. Pertanto si è deciso che continuerà a frequentare i corsi di tutte e quattro le squadre.”
“Tutte e quattro?” Esclamò Nanase “E come farò?”
“Seguirà gli allenamenti previsti dal programma fisico della squadra rossa. Sarà esentata da quelli per il miglioramento della massa muscolare mentre dovrà comunque imparare le tecniche di tutte e quattro le mistycal weapon. E’ risultata molto brava in tutte le materie umanistiche. Da oggi non le frequenterà più e seguirà i corsi psichici delle quattro squadre. E’ tutto chiaro? Se ha difficoltà me lo faccia sapere. Non c’è altro.”
Nanase si alzò ancora in preda ad un certo sconcerto. Aveva quasi guadagnato la porta quando si fermò e parlò dando le spalle alla preside.
“Perché?”
“Perché lei è speciale. Non se lo dimentichi. Coltivi i suoi doni. E ancora congratulazioni.”
Nanase aprì la porta e si ritrovò di fronte Mei.
“Allora com’è andata?” chiese quest’ultima.
“Non lo so, Mei. Ha detto che ho superato brillantemente il test.”
“A quale squadra ti hanno assegnata?”
“A nessuna.”
“Come sarebbe a dire?”
“Nessuna. Ha detto che dal test non è risultata una predisposizione particolare a nessuna delle squadre. Sono confusa.” Mei le strinse le mani e le sorrise.
“Congratulazioni Nana-chan. Sei entrata nell’Elité, non preoccuparti di nient’altro per adesso.” Nanase le sorrise. Sapeva che Mei voleva semplicemente tirarle su il morale.
“Grazie Mei-san. Vado a cambiarmi e poi andiamo a festeggiare, ti va?”
“Certo, sbrigati però. Ci vediamo tra mezz’ora in giardino.”
Nanase la vide correre via e prese il corridoio dietro l’angolo senza guardare finendo addosso alla persona che stava appoggiata alla parete.
“Kei! E tu che ci fai qui?”
“Congratulazioni per l’esame.”
“Stavi origliando?”
“Stavo controllando la situazione. E’ diverso.” Nanase tolse il broncio e s’intristì.
“Kei, cosa ho sbagliato?”
“Che intendi dire?”
“Non mi hanno assegnata ad alcuna squadra.”
“Ho sentito.”
“E non è normale.”
“Perché tu sei normale?” disse Kei dandole un buffetto. Nanase sbuffò.
“Sorridi. Sei stata brava. Va a festeggiare con Mei.” A quelle parole Nanase abbassò il capo e sentì la voglia di piangere.
“Vieni anche tu?”
“Io domani ho un esame.”
“Capisco.”
“Portami dei dolcetti, capito?”
“Ok.” Kei si voltò e fece per andarsene quando lei lo trattenne per una manica “Kei, non ce l’avrei mai fatta se non mi avessi spronato tu.”
“Eri semplicemente inciampata”, rispose lui rimanendo di spalle.
“No. Avevo mollato.”
“Perché non credi in te stessa.”
“Tu però credi in me e continui a proteggermi da quel giorno.”
“Quello è un problema mio. Tu pensa a vivere la tua vita, Nanase.” La ragazza lo lasciò andare.
“Grazie, Kei.”
“Divertiti e non scordarti i dolcetti!” fece lui allontanandosi. Nanase si voltò e corse a cambiarsi. Rimase fuori per tutto il giorno facendo shopping con Mei. Nel pomeriggio le ragazze furono raggiunte da Jin e Shogi.
Giornate come quelle erano rare all’Accademia. Un po’ perché era difficile che i ragazzi avessero gli stessi turni di studio liberi, un po’ perché gli attacchi dei Golem si facevano sempre più frequenti.
La situazione di Tokyo era ancora abbastanza stabile ma nelle regioni meridionali ormai vigeva la legge marziale e il coprifuoco. La gente ormai era abituata a vedere apparire questi grandi mostri meccanici dal nulla. L’esercito addestrava anche i bambini a come comportarsi in caso di un attacco Golem.
Rifugi antiradiazioni erano stati disposti praticamente ovunque dissimulati tra gelaterie, sale gioco e uffici. In caso di attacco bastava recarsi nel punto di raccolta più vicino segnalato da una sirena rossa e mostrare il tesserino di appartenenza alla regione di residenza.
Gli attacchi inizialmente duravano diversi giorni poi, dopo la creazione dell’Elité, si ridussero a raid di poche ore. Definire i Golem macchine, comunque, non era esatto.
Con lo scoppio della guerra tra la Khamsa e l’ordine Thule, l’uso di armi biologiche aveva decimato la popolazione mondiale. Il Giappone, che non credeva né alle regole economiche dell’ordine Thule né a quelle religiose della Khamsa, era inizialmente rimasto neutrale. Era riuscito a sviluppare una tecnologia in grado di migliorare le abilità dei propri soldati per difendersi dalla guerra che bruciava il resto del mondo. Per questo erano stati selezionati soldati in grado di utilizzare particolari attrezzature meccaniche altamente sofisticate. Grazie a questa tecnologia, i soggetti erano in grado di controllare un elemento tra metallo, fuoco, elettricità, acqua e aria. Questi soldati vennero chiamati ESP e furono messi in condizione di governare i Golem, macchine con un nucleo elementale, create dal potere stesso degli ESP in modo tale che anche quando un Golem veniva distrutto, l’ESP poteva crearne un altro. In questo modo, l’esercito giapponese, seppure notevolmente inferiore di numero rispetto a quello di Khamsa e dell’Ordine Thule, poteva difendere con efficacia i propri confini. Gli ESP riuscirono anche ad entrare in possesso dell’oggetto del contendere: l’Apocalypse, una fonte di energia sviluppata da un gruppo di scienziati europei morti durante il tentativo di far funzionare la loro creazione. Gli eserciti della Khamsa e dell’ordine Thule non potettero fare altro che rinunciare di fronte a tale superiorità bellica.
Tutto questo accadde fino al 2510 quando un gruppo di terroristi non identificato, riuscì ad infiltrarsi in un corpo speciale dell’esercito giapponese e provocò l’Esplosione, la più grande catastrofe del Giappone dai tempi di Hiroshima e Nagasaki. L’attentato di Saitama, la base degli ESP, uccise la quasi totalità di questi soldati. Coloro che si salvarono dichiararono di essersi uniti agli attentatori e fuggirono.
L’Elité nacque esattamente sei mesi dopo dalle ceneri di quella tragedia come forza militare al diretto comando dell’imperatore e con protocolli di sicurezza completamente diversi da quelli dell’esercito ordinario. Aveva lo scopo di trovare gli ESP sopravvissuti ed eliminarli. Questi comunque non si nascondevano affatto. Continuavano a spargere il terrore per le città del Giappone nel tentativo di impossessarsi dell’Apocalypse. Avevano trovato comunque pane per i loro denti nell’Elité che disponeva di nuove armi e risorse messe a disposizione direttamente dall’imperatore.
Nanase a volte pensava a cosa sarebbe successo se invece di sviluppare la tecnologia ESP, il Giappone avesse deciso semplicemente di prendere parte alla terza guerra mondiale parteggiando per la Khamsa o per l’ordine Thule. Sarebbe stato meglio o peggio? Una pacca sulla spalla la distrasse da questi pensieri.
“Signorina, è la tua festa. Dove ci porti?” chiese Shogi. Nanase sussultò poi, con un sorriso enorme, rispose.
“In pasticceria!”
“Pasticceria? Nanase sei crudele, lo sai che sono a dieta!” esclamò Mei.
“Sì! Tutti in pasticceria!” fece Jin la cui golosità era nota a tutti.
“Non sarebbe meglio un Maji burger? Io ho fame”, si lamentò Shogi toccandosi la pancia.
“Al Maji potrei prendere un’insalata, che ne dici Nanase?” provò ad insistere Mei.
“Ho un’idea!” propose Jin “C’è un Maji proprio all’angolo della pasticceria Asakusa, che ne dite? Mangiamo qualcosa e poi chi vuole prende un dolcetto di fronte.”
“Andata!” gridò Mei.
La serata al Maji passò veloce. Tutti si divertirono e si complimentarono con Nanase per aver superato l’esame anche se c’era da festeggiare anche Jin entrato nella squadra nera. Ad un certo punto Nanase s’accorse che la pasticceria stava chiudendo. Si alzò di corsa.
“Aspettate qui per favore e non pagate. Faccio io!”
“Nessuno se lo sognava!” esclamò Shogi raggiunto prontamente da uno scappellotto di Jin. Nanase rientrò con un cestino.
“Grande Nanase!” fece Shogi allungando le mani sull’involto.
“Non ci provare!” urlò la ragazza bionda alzando il cestino fuori dalla portata delle mani di Shogi “Non è per te. Me li mangerò tutti io! Per voi ho preso questi!” disse allungando quattro biscotti della fortuna.
I ragazzi ruppero contemporaneamente i loro biscotti e lessero le rispettive fortune.
“Preoccupati di meno e agisci. L’istinto ti aiuterà” lesse Shogi.
“Ancora di meno? Sei già così avventato!” fece Mei.
“Smetti di prendermi in giro e leggi il tuo!” la rimbeccò lui.
“Impara a godere di ogni attimo per ciò che è” lesse piano.
“Dovresti, sai?” fece Shogi sorridendole “A volte tendi a voler tenere tutto sotto controllo! Il tuo che dice, Jin?”
“Cerca il buono dove non pensi che sia.”
“Wow! Criptico!” esclamò Mei voltandosi verso Nanase che aveva ancora le briciole del biscotto tra le dita. La ragazza s’accorse che ora tutti la guardavano. Srotolò il biglietto e lesse.
“Ogni cosa ha un prezzo ma un oni veglia su di te.”
“Inquietante”, disse Jin. Mei le tolse subito il biglietto di mano.
“Si tratta solo di frasi a caso! Non significano niente,” disse alzandosi e trascinando Nanase con sé “E’ ora di tornare a casa!”
I ragazzi pagarono anche per Nanase e Mei e i quattro tornarono chiacchierando all’Accademia. Nessuno fece più cenno ai biscotti della fortuna e si salutarono dandosi appuntamento per la lezione del giorno dopo. Nanase non raggiunse subito la sua camera. Si fermò davanti alla porta della camera di Kei e bussò. La porta era aperta e, anche se non era abitudine della ragazza curiosare, entrò ugualmente perché voleva lasciargli il cestino dei dolcetti. La stanza era vuota. Dal bagno veniva il rumore della doccia e lei capì che il ragazzo doveva essere lì. Lo immaginò stanco per un intenso allenamento pomeridiano.
Scrisse un biglietto e lo lasciò sulla scrivania insieme al cestino. Se ne andò chiudendo piano la porta.
Il rumore tuttavia arrivò fino alla stanza da bagno. Kei chiuse l’acqua, si avvolse un asciugamano intorno ai fianchi ed entrò nella sua camera. Anche se non c’era più nessuno, notò subito il cestino sulla scrivania. Si avvicinò e strappò la carta. Era pieno di dolcetti alla crema. Accanto al cestino stava un biglietto. Quando Kei lo prese, le dita umide ammorbidirono la carta e l’inchiostro si allargò oltre le righe. Kei le lesse e sorrise. Il biglietto diceva solo ‘Per il mio oni’.  Afferrò un dolcetto alla crema e ne fece un solo boccone.
“Grazie Se-chan”, disse guardando fuori dalla finestra e sentendosi, improvvisamente, più sereno.

Note folli dell'autrice:
Voce insensibile: Skytree abbiamo un problema... l'autrice fa fatica a ricordare i nomi e i cognomi di tutti i personaggi.
L'autrice: Ho fatto uno schemino e vedrete che ce la farò a non fare confusione!
Voce insensibile: Suggeriamo l'intervento di AI.
L'autrice: Quel coso l'ho inventato io!
Voce insensibile: Tipico caso di macchina che supera l'uomo.
L'autrice: Fa la brava che chiamo Kei...
Voce insensibile: ....
L'autrice: Bene. Ora che ho ricondotto questa maledetta al silenzio, ringrazio tutti coloro che hanno deciso di dare una possibilità a questa storia che nasce da una scommessa. Mi aiutate a vincerla? Mi hanno chiesto di dimostrare di poter creare una sceneggiatura per un manga. Voi pensate che potrebbe funzionare?
Voce insensibile: Non s'è capito ancora nulla!
L'autrice: Siamo solo al terzo capitolo... Keiiii!
Kei Sato: Se non hai dolcetti per me non vengo.
L'autrice: Non essere spocchioso con me!
Kei Sato: Io sono così. E comunque mi manca ancora la celebrante.
L'autrice: Uffa! L'angolo non da anticipazioni, serve per i ringraziamenti. Grazie davvero. Vi aspetto alla prossima.
Ps. Io non sono brava con il disegno ma mi piacerebbe dare un volto ai miei personaggi. Qualcuno ha voglia di darmi una mano? Un abbraccio. Mary.

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Capitolo 4
*** Il legame ***



Tokyo, Maggio 2515

Non c’era verso di fare andare le cose per il verso giusto.
Per quanto Maki provasse, Kei sembrava chiuso in se stesso e senza alcuna volontà di darle una chance. Questo suo atteggiamento le dava talmente sui nervi che, in un paio di circostanze, aveva persino sfogato la sua frustrazione su Akito durante gli allenamenti comuni.
Shogi le aveva detto che doveva avere pazienza in quanto la morte di Mei era ancora tropo recente perché il suo CPF si riprendesse completamente, eppure Kei era tornato al suo livello di sempre. Solo con lei si comportava in modo talmente indolente da rendere praticamente insufficienti le loro prestazioni in battaglia. Maki aprì la finestra della grande veranda dello Skytree e respirò a pieni polmoni.
“Forse la morte di Mei non lo ha lasciato indifferente come dice,” sussurrò a se stessa “forse dovrei informarmi su com’era questa Mei!”
A Maki non piaceva rivangare il passato. Né quello delle altre persone, né il suo. Probabilmente perché il suo passato faceva schifo. Strinse il maniglione della porta finestra e si fermò senza rientrare. I suoi capelli rossi le finirono sugli occhi e si ritrovò a pensare che probabilmente non aveva il diritto di tormentare Kei Sato. Non lei che era nell’Elité per scontare i suoi crimini. Non lei che aveva il sangue di suo padre sulle mani. Rientrò nel lungo corridoio e raggiunse la stanza di AI. Non appena varcò la soglia della camera del computer centrale, AI la salutò.
“Benvenuta celebrante Hosoda. Cosa posso fare per te?”
“Ho bisogno del file di Mei Hinata, AI.”
“E’ materiale classificato, celebrante Hosoda”, rispose la fredda voce robotica frustrando le aspettative della ragazza.
“Ne ho bisogno per esigenze, diciamo, tattiche. Devo studiare il modo di migliorare l’approccio con il mio alfiere.”
“Impossibile. Per questo genere di documentazione, occorre un’autorizzazione di livello alfa.” Maki si strinse nelle spalle e si voltò per uscire. La voce di AI la trattenne.
“Ho controllato tutti i dati di Hinata Mei. C’è un file non classificato. L’ho scaricato sul tuo pad, celebrante Hosoda.”
Maki attivò il suo pad da polso e visualizzò il file di cui le aveva appena parlato AI. Hinata si era diplomata con il massimo dei voti all’Accademia ed era entrata nella squadra rossa dell’Elité. Il suo legame con Sato era quello con il coefficiente di sincronia più alto. Avevano abbattuto diversi Golem defcon cinque e sempre grazie ad una sorta di sviluppo della mistycal weapon durante il combattimento. Da quello che diceva il rapporto, più Kei affrontava pericoli maggiori, più la forza psichica di Mei cresceva.
Maki ripensò alla spiegazione del funzionamento delle mistycal weapon. Il celebrante indossava metà dell’arma, la weapon in grado di canalizzare la forza psichica del celebrante nella seconda metà dell’arma, la mystical. Attivato il legame, l’alfiere usava la forza psichica del celebrante per dare energia alla mystical.
Più il legame si intensificava, maggiore era la forza a disposizione dell’alfiere nella mystical. Ovviamente il celebrante risultava facilmente esposto ad attacchi diretti di un eventuale avversario dovendo isolarsi dal resto del terreno di scontro per mantenere la concentrazione necessaria a tenere in essere il legame. L’alfiere inoltre, dovendo canalizzare la forza della mistycal sul nemico, doveva usare la maggior parte delle sue energie per combattere. Hinata era morta proprio per questo. Il nemico si era avventato direttamente su di lei e quella ragazza, piuttosto che spezzare il legame per proteggere se stessa, aveva preferito mantenere il legame fino all’ultimo per tenere al sicuro Kei.
Che tipo di sentimento li legava? Maki si chiese se Hinata non amasse quel ragazzo scontroso se era arrivata al punto di morire per lui.
E Kei amava Mei? Per questo era così insofferente all’idea di sostituirla? Spense il pad e lasciò la stanza. Raggiunse la palestra poiché sapeva che l’avrebbe trovato lì.
Come poteva fargli capire che non voleva prendere il posto di Hinata ma solo quello di celebrante della squadra rossa? Lei voleva solo combattere. Ne aveva bisogno, proprio come diceva Akito. Lei era un animale da arena. Se non poteva battersi, non esisteva.
Kei era al bilanciere come suo solito.
“Sato, eccoti qua”, disse con il suo solito tono aggressivo. Lui non rispose e continuò a sollevare i suoi pesi disteso sulla panca e abbassando e alzando le braccia con un ritmo regolare “ho bisogno di parlare con te.”
“Io no”, rispose lui senza guardarla.
“Non essere insolente! Sono stufa di fare figuracce durante gli allenamenti!”
“Trovati un altro compagno, allora!”
“Non posso. La mistycal rossa è tua!”
“Allora convinci Yoshiki ad assegnarla ad un altro alfiere. L’Accademia pullula di giovani volenterosi come te.”
“No. Io voglio te!” Gridò Maki stringendo i pugni. Il bilanciere cadde per terra e lei si ritrovò ad un palmo dal naso dagli occhi fiammeggianti di Kei.
“Ti ho già detto che non faccio coppia con te. Se insisti farai solo altre figure di merda.”
“Perché? Sono in grado di dare energia alla mystical come qualunque altra celebrante. La differenza è che, con me, potresti toccare un livello di sincronia che non hai mai sperimentato! Neppure con la tua Mei!”
Uno schiaffo la raggiunse in pieno viso ma lei rimase in piedi a fronteggiare la sua collera.
“Sparisci”, disse lui incapace di controllare la sua rabbia.
“Io non sono ancora morta. Sparirò come tutti gli altri rifiuti umani dell’Elité quando non servirò più” gli sputò in faccia Maki. A quelle parole, Kei sentì la collera scemare. La guardò dritta negli occhi e capì che non stava scherzando. Quella mocciosa sapeva che era così. Erano davvero macchine da guerra da usare fino a che non si fossero rotte. Dopo sarebbero divenuti rifiuti. Le afferrò un polso e glielo sollevò.
“Schiaffeggiami”, disse chiudendo i suoi occhi blu. Maki lo guardò con aria interrogativa “Se devi fare coppia con me, devi essere in grado di farmi del male. Dovrai giurarmi che non anteporrai mai la mia vita alla tua.” Maki sgranò gli occhi. Possibile che avesse sbagliato a giudicarlo insensibile e indolente e che quel ragazzo volesse semplicemente proteggerla? Kei sorrise malignamente immaginando i pensieri della ragazza. “Non farti strane idee. Non si tratta di nulla di sentimentale. Credo fermamente che verrai uccisa durante la nostra prima vera missione. Tuttavia, se devo sopportare una celebrante, meglio che sia una che ha il fegato di guardarmi in faccia. Sappi che non ti parerò quel bel culetto che ti ritrovi. Se fai schifo o mi dai problemi in battaglia, sono cazzi tuoi.” Maki annuì e si liberò dalla presa di Kei. Lui continuò a fissarla e lei, di rimando, gli restituì il ceffone di prima. Kei si toccò la guancia arrossata.
“Ben fatto, stronzetta.”
“Non osare più chiamarmi così!” gridò lei. Kei raggiunse il suo asciugamano, lo prese e guadagnò l’uscita della palestra.
“A domani, stronzetta!” Maki urlò ma, quando la porta elettronica si chiuse, sorrise. Ancora un po’ e sarebbe tornata a calpestare l’arena.
Alcuni giorni dopo fu fissata una prova speciale. Seijuro Yoshiki si presentò personalmente a Skytree per supervisionare l’uso delle mystical weapon nella versione 2.0 messa a punto dopo la morte di Hinata. Prima di allora non era mai accaduto che uno degli ESP traditori che ora combattevano contro l’Elité attaccassero con più di un Golem. Eppure Hinata era morta per questo. Qualcuno l’aveva attaccata mentre il suo alfiere combatteva a propria volta un Golem. Il super computer AI aveva raccolto tutte le informazioni a disposizione dell’Elité sull’accaduto e aveva implementato le armi con una nuova funzione. Con il nuovo sistema operativo, il celebrante poteva usare la weapon per attivare una sorta di scudo elementale. Fu Ryu, che era sempre il più attento di tutti ad aprire il valzer di domande.
“Uno scudo elementale? In pratica trasformerete i celebranti in una nuova generazione di guerrieri ESP”, disse sistemandosi gli occhiali sul naso e guardando di sottecchi Yui Takahata che rimaneva sempre in disparte durante quelle riunioni.
“Non è esatto”, disse una voce alle spalle di Yoshiki. L’uomo, che vestiva un camice bianco, si palesò e Ryu credette di avere un’allucinazione. Davanti a loro se nestava con una cartellina dati in mano il dottor Masamune Miyazaki. Ufficialmente il professor Miyazaki era morto durante l’Esplosione. Si trattava di uno degli scienziati che aveva dato alla luce la tecnologia dei Golem. Poiché lavorava alle dirette dipendenze dell’imperatore, Miyazaki era sempre stato indipendente dal resto dell’esercito e si raccontava che i terroristi che avevano dato luogo all’Esplosione volessero principalmente porre fine alla sua vita ed impadronirsi di alcuni suoi studi. “Il mio nome è Miyazaky Masamune. Da oggi seguirò io i vostri cicli di allenamento fisico e psichico. La dottoressa Izumi mi farà da assistente. La conoscete tutti, non è così?”
La donna dai capelli ramati e occhi verdi, anch’ella in camice bianco, che gli si affiancò, fece un occhiolino e sorrise.
“Li ho seguiti tutti io fino ad oggi, professore. Mi auguro che trovi il lavoro svolto soddisfacente.”
“Se non si tratta di trasformarci in ESP, di cosa si tratta allora?” intervenne Shogi che ciondolava i piedi seduto su uno sgabello.
“Dottoressa Izumi, proceda”, disse il professore e Ise Izumi ordinò ad AI di aprire la custodia delle mstycal weapon. Una nuvola di vapore si sprigionò nell’aria non appena il sigillo fu aperto e la parte superiore della custodia si sollevò.
Sul parte superiore della custodia stavano fissate le mystical, in quella inferiore le weapon. La prima da destra era una specie di cilindro metallico striato di nero lungo venti centimetri e con un diametro di quattro.  Era la mistycal della squadra nera chiamata ‘Amon’. Nella parte inferiore della valigia, in linea con Amon, c’era la weapon corrispondente, Kunzis, avente la forma di bracciale da avambraccio su cui era inciso una sorta di microchip nero.
Affianco ad Amon faceva bella mostra di sé la mystical della squadra bianca, chiamata Rashaverak, avente la forma del riser di un arco. In corrispondenza stava un guanto completamente bianco definito Jadeis.
Seguiva la mystical della squadra verde, Barbatos, un sorta falcetto di metallo striato di verde. La sua weapon era un collare di colore verde detto Zoisis. Infine, sul lato opposto della custodia, stava un’elsa di spada di metallo rosso. Era chiamata Astharot. In corrispondenza una cintura sottile rossa e argento: Nefrit.
I ragazzi le guardarono come fossero pietre preziose e ognuno di loro rimase nella trepidante attesa di poterle impugnare. Miyazaki parlò.
“Abbiamo implementato le armi. Nefrit è stata riparata”, disse e Kei strinse un pugno pensando che lo squarcio che aveva aperto il delicato corpo di Mei aveva tranciato di netto anche Nefrit “ora potete usarle di nuovo. Dobbiamo capire i limiti della nostra tecnologia per evitare che tragedie come quella del mese scorso si ripetano”, concluse guardando Sato. Yoshiki fece un passo avanti.
“Bene, formeremo le coppie. Takahata, a te Jadeis. Kawari, prendi Rashaverak; Rintaro, Dezaki, a voi Barbato e Zoisis; Sato e Hosoda, mi raccomando con Astharot e Nefrit; Konai, a te Amon mentre per Kunzis stavolta useremo Namura. Matsumoto, tu farai da riserva.”
Il ragazzo, abituato a rimanere nelle seconde linee, si sedette su uno sgabello e osservò i suoi compagni che si preparavano.
Kei afferrò Astharot e sentì qualcosa tirare dentro. Usare quell’arma di nuovo significava rinnegare la sua decisione di sparire insieme a Mei, di rinunciare, di cadere con lei nell’oblio. La stava tradendo? Guardò i suoi vecchi compagni. Kawari aiutava Takahata a regolare Jadeis. Sembrava perfettamente a suo agio in quella situazione, probabilmente perché Yui era il tipo di persona che, per quanto sembri evanescente, sa sempre fare la cosa giusta. Shogi litigava con quella strana ragazza che era la sua celebrante. I suoi occhi però sembravano sereni. Si voltò e fissò il suo sguardo su Jin. Sembrava l’unico sofferente. Se ne dispiacque. Aveva sempre pensato che Jin fosse fuori posto nell’esercito. Yoshiki gli si avvicinò per controllare il suo CPF così glielo chiese.
“Se c’è già una celebrante per la squadra nera, perché tenete qui Matsumto?”
“Non sono affari tuoi. Pensa a non far saltare in aria Hosoda. Non abbiamo celebranti rossi altrettanto dotati al momento.”
“Al momento. Può darsi che se i Golem sventrino anche lei, ne spunti fuori uno migliore!”
“Non sarai esentato dai tuoi doveri neppure se ti rendi disgustoso, lo sai vero? 345/350. Sei leggermente sotto il tuo limite.”
“Basterà. E’ solo una fottuta esercitazione”, concluse Kei raggiungendo Hosoda. La ragazza dissimulava il nervosismo ridendo a squarciagola.
“Sato, li distruggeremo, non è vero?”
“E’ solo un’esercitazione. Chi vorresti distruggere?”
“Akito! Quel maledetto. Giurami che li batteremo oggi!”
“Tu pensa a non farti male con quella cosa”, le disse indicando la cintura. Lei la toccò orgogliosa e lo guardò con uno sguardo di sfida. Sato prosegui, “Tu concentrati e basta. Al resto penso io, stronzetta.” La voce di Miyazaki li richiamò.
“Raggiungete i posti che AI vi trasmetterà via radio. Non ci sono minacce Golem al momento ma state comunque in guardia. Un’ultima cosa. Abbiamo dotato le weapon dello scudo elementale. Fuoco per Nefrit, aria per Jadeis, fulmine per Kunzis e acqua per Zoisis. Non usateli se non è necessario. Sappiate che i danni subiti dallo scudo si scaricano sull’alfiere. Al momento non siamo stati in grado di impedire il vicendevole scambio di energia tra le weapon e le mystical.”
Gli otto ragazzi si guardarono e uscirono dalla sala di AI pronti a ricevere le rispettive istruzioni.

Osaka, aprile 2512

Kei ricadde sulla sedia gettando l’asciugamano bagnato di sudore in terra.
“Maledizione”, sussurrò digrignando i denti “è impossibile.”
Era stato davvero convinto di potercela fare questa volta. Diventare l’alfiere. Essere ammesso alla sala delle mistycal weapon e impugnare Astharot. Aprì il palmo della mano destra e immaginò come potesse essere maneggiare un oggetto simile.
Guardò la cornice elettronica sulla sua scrivania e l’afferrò. L’accese e lasciò che le immagini scorressero davanti ai suoi occhi. Prima quella di una bimbetta bionda che si stringeva a due ragazzini, poi quella che lo ritraeva insieme ad un ragazzo un po’ più alto di lui dai capelli biondo chiaro che sorrideva. Nella memory card di quella cornice c’erano tutti i suoi ricordi più cari. La spense e il vetro gli rimandò l’immagine del suo viso stanco. La posò malamente sulla scrivania e la sua mano indugiò sul cestino dei dolcetti di Nanase.
Aveva fallito. Di nuovo. Era quella la sua condanna per aver tradito il suo migliore amico? Per aver fatto in modo che fosse il suo nome e non quello di Nanase a comparire sul monumento enorme di marmo bianco e platino elevato a memoria delle vittime dell’Esplosione? Chiuse gli occhi.
“Mi tormenterai per sempre, vero Kazuki?” disse un attimo prima che bussassero alla sua porta. Probabilmente era Shogi che voleva sapere l’esito del suo esame. Si rifiutò di aprire. Bussarono di nuovo. In preda alla stizza del momento, raggiunse la porta e l’aprì di scatto pronto a sputare veleno sul suo amico.
Fuori però, nella sua fiammeggiante divisa rossa, c’era Mei. Kei sbatté gli occhi un paio di volte per capire se potesse realmente essere lei.
“Mei, cosa ci fai qui?”
“Posso entrare?”
“Sì, certo”, disse lui spostandosi e lasciandola passare “hai bisogno di qualcosa?” Mei scosse il capo.
“Sono venuta per dirti che il fallimento di oggi non è colpa tua.”
Le parole di Mei lo colsero di sorpresa. In effetti Mei, appartenendo alla squadra rossa, aveva potuto assistere alla prova di Kei e si era fatta un’idea precisa dell’accaduto. La ragazza proseguì.
“Hai fatto tutto ciò che dovevi. La celebrante che ti hanno assegnato non ha fatto che ostacolarti. Avresti dovuto dirlo al capitano che ha supervisionato la prova. Io l’ho percepito chiaramente.” Kei rise.
“Mei, se l’hai percepito tu, credi che non l’abbia registrato AI?”
“E allora? AI è solo un computer”, fece la ragazza raggiungendo la finestra e guardando fuori.
“AI decide se la prova deve essere considerata come superata o meno. Il suo parere, Mei, è l’unico che conta. Devo diventare più forte. Conta solo questo.”
Mei si voltò e gli prese una mano. La sollevò e la girò posando il suo pollice sul polso dove le vene più grandi passavano appena sotto pelle.
“Cosa ti scorre nelle vene, Kei?” chiese lei guardandolo negli occhi.
“Credi che sia un insensibile?”
“Dimmi solo cosa ti scorre, fisicamente, nelle vene.” Kei sollevò lo sguardo al cielo in un gesto d’impazienza.
“Sangue.”
“Non circuiti, giusto? Non sei una macchina. Non puoi battere AI al suo gioco ma AI non può battere noi al nostro. Siamo esseri umani, non mostri. Il sangue che ci scorre dentro, quello che forse un giorno perderemo in battaglia, ci rappresenta, ci fa umani. Io non voglio diventare come gli ESP che si sono ribellati ad AI e hanno distrutto il nostro mondo, spezzato ciò che eravamo. Non voglio vivere nel terrore delle sirene che suonano, di quei lampi rossi che oscurano il cielo. Io vorrei essere d’aiuto. Forse tu non avrai più bisogno di me un giorno, ma hai bisogno di me ora. Lascia che sia io la tua celebrante la prossima volta. Io so cosa ti scorre nelle vene, so chi sei. E non ho paura di te.” Kei lasciò che lei tacesse poi, chiudendo gli occhi, parlò.
“Io non sono in grado di fidarmi di nessuno.”
“Non è vero”, disse Mei guardando il cestino di dolcetti sulla scrivania “tu ti fidi di lei. Dato che è mia cugina, non potresti darmi almeno il beneficio del dubbio?”
“Perché?”
“Perché sono simpatica?” scherzò lei.
“Perché lo fai?” disse in tono grave lui.
“Nanase è una sorella per me. Lei non ha nessuno. Ora che Kazuki è morto, non serve più alla sua famiglia. L’hanno generata col solo scopo di darla in moglie ad un membro della famiglia imperiale. Tu l’hai salvata. Non voglio che te ne penta per il resto della tua vita. E poi c’è qualcosa in lei che non va. Io voglio proteggerla. Non riuscirei a farlo da sola ma posso farlo con te.”
“Non mi sono mai pentito di avere scelto Se-chan. Non hai nulla da temere. Ho intenzione di proteggerla comunque. E lei non sarebbe felice se ti accadesse qualcosa.”
“La mia posizione nella famiglia Hinata mi impone di far parte dell’Elité comunque. Tanto vale allearmi con il migliore, non credi?” Kei sorrise e le tese una mano.
“Sia ben inteso che non credo a nessuna delle cose in cui credi tu. Cambierei il mio sangue con mille circuiti se servisse a diventare l’alfiere rosso.” Mei la strinse e sorrise.
“E tu perché lo fai, Kei?”
“Perché io sono un Oni*. E ho fatto un giuramento. Non ti serve sapere altro.”
“Non posso prendere un dolcetto, vero?” Chiese lei con ironia.
“Non pensarci neppure!” fece Kei ridendo.
“Allora vado. Ci vediamo domani, ok?”
Mei lasciò la stanza senza aspettare neppure la risposta del ragazzo. Quando la porta si chiuse, Kei tornò alla finestra.
“Non ho mai pensato di creare un’alleanza con qualcuno in questo posto. Non credo neppure che sia una buona idea. Mei sembra convinta e su una cosa ha ragione. Nanase non ha più nessuno.”
Si girò di nuovo a guardare il cestino e sentì l’esigenza di uscire a prendere aria. Caricò il lettore digitale di musica e infilò gli auricolari. Tirò il cappuccio della tuta rossa sulla testa e scese nel parco. Non aveva intenzione di correre. Era stremato. Camminò per una buona ventina di minuti addentrandosi nel bosco intorno al lago artificiale dell’Accademia. Il rumore di alcuni rami spezzati lo attirò vicino ad una siepe di rose. Un cucciolo di pastore tedesco tentava di divincolarsi dai rovi e guaiva. Kei si sfilò gli auricolari e si chinò ad aiutarlo. Mentre lo tirava fuori dal roseto, alcune spine gli punsero il dorso di una mano. In quel momento due studenti del terzo anno della squadra nera, uscirono dal folto del bosco. Uno di loro indicò il cane.
“Ehi! Quel cane è nostro. Consegnacelo!” esclamò un tizio alto e biondo. Kei sentì il cucciolo tremare tra le sue braccia.
“Sicuro che è vostro?” chiese Kei con il tono seccato che di solito riservava alle persone che non gli piacevano.
“Dacci quel cane!” s’intromise l’altro ragazzo che invece era bruno e più basso del primo.
“Altrimenti?” fece Kei posando il cane a terra.
“Avrai un mucchio di guai”, gli rispose il bruno.
Kei li osservò con attenzione. Sembravano sicuri di sé. Non poteva conoscere il loro CPF ma erano nella squadra nera e ciò significava che non doveva sottovalutarli. Kei aveva imparato, nel primo anno all’Accademia, che AI sceglieva le squadre cui assegnare gli studenti in base ad alcune caratteristiche fisiche e psicologiche. Accadeva così che i ragazzi particolarmente introversi e sensibili finissero nella squadra bianca così come quelli più espansivi e socievoli fossero attribuiti a quella verde. Nella nera si ritrovavano quelli più aggressivi e spregiudicati. Kei doveva fare quindi molta attenzione a provocare due ragazzi come quelli. Fu il cane a distrarli nel momento in cui prese a correre verso l’interno del bosco. Il ragazzo alto e biondo si lanciò al suo inseguimento mentre quello bruno bloccò Kei.
“Lascia perdere quel cane!” urlò quest’ultimo.
“E tu lascia perdere me”, disse Kei preparandosi a fare a pugni. L’urlo li fece voltare entrambi. Kei sentì una paura che non provava da quell’orribile giorno. Vide tutto nero e l’immagine di quella mano tesa versa di lui come l’ultima disperata richiesta d’aiuto che lui non è in grado di afferrare. Si precipitò nella direzione da cui era provenuta la voce e la vide.  Seduta in terra come fosse stata urtata da qualcuno con il cucciolo di pastore tedesco stretto al seno. Il ragazzo biondo la teneva per un polso. Lei nella sua uniforme blu cercava di divincolarsi. Kei si fiondò sul ragazzo vestito di nero e lo colpì con un pugno in pieno viso. Il biondo tentò di reagire e fu prontamente aiutato dal suo compagno che afferrò Kei per le spalle e lo tenne fermo affinché l’altro potesse colpirlo ripetutamente. Nel vedere Kei coperto di sangue, la ragazza gridò ancora.
“Basta!” fece lasciando andare il cucciolo “Basta, ho detto!”
Come fossero due androidi privati di energia, i due membri della squadra nera si bloccarono e la guardarono.
“Basta, vi prego. Lasciatelo andare.” I ragazzi del terzo anno mollarono la presa su Kei che ricadde in ginocchio.
“Non è più divertente, andiamocene”, disse il biondo a quello più basso e tutti e due si allontanarono sparendo nel fitto del bosco.
“Kei, stai bene?”
“Che diavolo ci facevi qui da sola, Se-chan”, disse Kei passandosi il dorso della mano sul labbro inferiore spaccato e guardando finalmente Nanase negli occhi.
“Correvo, come te.”
“A quest’ora?”
“Avevo bisogno di stare un po’ sola.”
“Ti sei fatta male?”  Nanase rise mentre lui  e lui la guardò con un’espressione perplessa “Perché ridi?”
“Perché sei coperto di lividi e chiedi a me se mi sono fatta male. No, io non mi sono fatta male. Tu sì, invece.”
Kei si guardò la mano sporca di sangue e sorrise a propria volta. Nanase gli tamponò le ferite con l’asciugamano che portava sempre intorno al collo durante le sessioni di allenamento.
“Tu perché ridi?”
“Perché, a quanto pare, nelle mie vene c’è sangue.”
“Testone! Che altro dovrebbe esserci?”
“Circuiti magari! O veleno.”
Nell’udire quelle parole che erano state dette con un tono ironico e allegro, Nanase cercò con la mano il cucciolo che si era nascosto tutto il tempo dietro di lei e lo tirò a sé.
“Non mi piace quando parli così,” disse guardando l’animale che faceva le fusa. Kei tornò serio.
“Era solo una battuta. Non dovresti prendermi troppo sul serio.”
“E’ solo che vorrei che tu fossi un po’ più felice, Kei” fece come se fosse una cosa di vitale importanza per lei. Kei comprese il suo stato d’animo.
“Lo sarei se tu non facessi sempre il possibile per finire nei guai. Ammetto però di non sapere come hai fatto a convincere quei tizi a lasciarmi andare.” Nanase sorrise ma la sua espressione mantenne un non so che di triste.
“La preside Izumi dice che ho la capacità di entrare in sintonia con le persone. E’ per questo che mi ritrovo questa addosso”, disse indicando la felpa blu.
Kei fu attraversato da un brivido. Gli tornò alla mente una sera d’estate di qualche anno prima. Lui e Kazuki passeggiavano nel giardino zen del palazzo imperiale e parlavano del fatto che Nanase fosse cresciuta. Che sembrava improvvisamente una donna. Kei lo prese in giro dicendogli che non aveva il minimo senso del pudore. Nanase era cresciuta con loro, come poteva guardarla con occhi diversi da quelli di un fratello? Kazuki aveva risposto dicendogli che era felice di apprendere che lui non aveva altri occhi che quelli del fratello per guardare la loro amica. Gli aveva confessato che, quando si trovava con lei, si sentiva come portato a darle sempre ragione e a provare un sentimento di tranquillità e pace. Kazuki gli disse che si sentiva come se Nanase gli avesse gettato addosso un incantesimo.
Poteva averlo fatto anche con lui? Poteva averlo convinto in qualche modo a tirare lei fuori dalle macerie invece che il suo migliore amico?
Come ogni volta in cui cercava di ricordare cosa era accaduto il giorno dell’Esplosione, nella sua mente si riformò solo l’immagine della mano di Kazuki tesa versa di lui e delle macerie che la ricoprivano.
Scacciò quel ricordo e tornò a guardare la ragazza al suo fianco. Ora sembrava davvero triste.
“Il blu è sempre stato il tuo colore. E io non sarei così ansioso, al tuo posto, di vestire una di queste uniformi. Prenditi il tuo tempo. Magari sarai la prima studentessa a scegliere la sua squadra. Ci hai mai pensato? Seriamente, dico, a quale ruolo saresti più adatta? Non credo che ti piacerebbe combattere, Nanase. Se proprio dovessi farlo, come lo faresti? Combattere nell’Elité non significa solo proteggere gli altri ma anche uccidere.”
“Non sarò mai in grado di uccidere, Kei.”
A quelle parole dette con assoluta determinazione, Kei scattò in piedi e il cucciolo guaì.
“Questo non è il tuo posto, allora! Vattene. Il prima possibile.” La reazione di Nanase colpì Kei peggio dei pugni dei ragazzi della squadra nera.
“Credi che, se avessi potuto, non lo avrei fatto? Credi che io sia felice di essere qui? L’unico motivo che mi rende sopportabile questa vita è sapere che ci siete tu, Mei, Shogi, Jin e Ryu. Le uniche persone che mi abbiano voluto bene per ciò che sono. E poi, spiegami, dove potrei andare una volta lasciato questo posto?”
“Qualunque posto, per te, sarebbe meglio di questo!” urlò Kei puntando il viso contro il suo.
“Non esiste alcun altro posto!” gridò Nanase, a propria volta, con gli occhi pieni di lacrime “Mio padre mi ha ceduta all’Elité! Se lascio l’Accademia, sarò accusata di diserzione e messa in prigione.”
Le parole le erano uscite d’un fiato e Kei non poté fare altro che vederla piangere senza emettere un solo singhiozzo chiedendosi se Mei gli avesse parlato quello stesso pomeriggio conoscendo la verità. Fece un passo verso di lei ma Nanase si portò le mani al petto e si strinse nelle spalle. Lui esitò, poi, guardando il cucciolo di pastore tedesco e non lei, la tirò a sé e la strinse. Non un abbraccio vero e proprio, più che altro le fece da sostegno come a volerle fare intendere che non era sola. Nanase gli si abbandonò contro e strinse la stoffa dell’uniforme rossa.
Rimasero così per qualche minuto, fino a che lei non consumò le lacrime. Senza dire una sola parola.
Il sole cominciò pigramente a calare e l’aria prese a rinfrescare. Nanase si staccò da Kei tenendo il viso basso. Strinse i pugni e trovò il coraggio di parlare.
“Ti prego di non dire a nessuno quello che ti ho detto oggi. Mei si è sempre preoccupata per me. Da quando eravamo bambine è stata più di una sorella maggiore. Lei non conosce la verità ma credo abbia capito che non sono entrata nell’Accademia per mia libera scelta. Non voglio che si preoccupi più del normale. Come al solito parlare con te mi ha aiutata a chiarirmi le idee. Devo aspettare e avere pazienza”, concluse lei sforzandosi di sorridere.
“Non dimenticare che c’è sempre qualcuno che ti guarda le spalle. Non sei sola. Ora hai anche quel cucciolo, no?” Nanase guardò il pastore tedesco fare le fusa. Era adorabile.
“Guarda che è tuo!” disse la ragazza “Non pensare di poterlo affibbiare alla sottoscritta!”
“Non se ne parla proprio. Mai avuto intenzione di prendermi cura di una cosa come quella!” rispose Kei incrociando le braccia e scuotendo la testa. Nanase trovava adorabile anche lui.
“Ma io non posso badare a lui. Ho più corsi di te da seguire!”
“E io che ci posso fare? Per di più quella cosa è femmina!” Nanase sollevò il cucciolo e si accorse che Kei aveva ragione. Esultò.
“Che ne dici se la teniamo a turno? Quando tu hai lezione, la tengo io e viceversa. Sono sicura che anche Mei ci darà una mano e pure Shoji. Va bene?” Il modo in cui Nanase sorrise, convinse Kei.
“A condizione che il  mio turno sia il meno lungo possibile!”
“Andata!” trillò Nanase.
“Andata. Vieni qui, Bara**, da brava!” fece Kei inginocchiandosi e facendosi avvicinare dalla cagnolina.
“Bara?” chiese Nanase.
“Sì, l’ho travata nel roseto là in fondo. Si chiamerà Bara!”
“Mi piace. Dai Bara, vieni dalla tua padroncina!”
Kei la guardò giocare con la nuova arrivata e dimenticò, per qualche ora, la tensione di quella giornata.


Note dell'autrice:
* Oni significa demone. Prevalentemente nella tradizione giapponese gli Oni sono demoni protettori;
** Bara significa rosa.
AI : spiegazioni irrilevani. Il pubblico di questa fanfiction dispone certamente di queste nozioni.
Autrice: vuoi smetterla di intrometterti? Guarda che stacco la corrente!
Voce inquietante: credi che basti così poco per disattivare AI? Ahahahahahah!
Autrice: tu vuoi stare zitta? chi ti ha fatta entrare?
Voce inquietante: io sono nel pacchetto, prendere o lasciare.
Autrice: AI attiva il sistema di difesa per favore!!!
AI : non necessario.
Autrice: questo vorrei deciderlo io!
AI : impossibile. Ogni funzione organizzativa di Skytree compete a me.
Autrice: Aiutooooo!
Bara: Bau!
Autrice: Bara, grazie al cielo, almeno tu ci sei!
Bara: Bau, bau, bau.
Autrice: ok, ho capito, anche stavolta devo vedermela da sola! Un ringraziamento a tutti coloro che leggono, recensiscono e mettono la storia tra le seguite o preferite. Siete tutti adorabili!
Vi aspetto nel prossimo capitolo sperando che questo vi abbia dato qualche cenno in più su cosa sono le mistycal weapon. E finalmente , nel prossimo capitolo, arrivano i cattivi e si combatte!
 

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Capitolo 5
*** Non è un'esercitazione ***


Piccole note d'intro:
Innazitutto grazie a tutti quelli che seguono la storia e l'hanno recensita, inserita tra le seguite o semplicemente letta.
Mi rendo conto che è una storia un po' difficile da seguire perchè presenta molteplici personaggi, è ambientata in un futuro non facile da immaginare e presenta, per ogni capitolo, un salto temporale che complica le cose.
Tengo molto a questa storia e spero che troviate la pazienza per continuare a seguirla.
Per dare una mano vi anticipo alcune cose del capitolo che state per leggere.
Arrivano i cattivi (ed era ora!). I nemici oltre a disporre dei Golem (già presentati nei precedenti capitoli) usano i Mecha. Si trattano di semplici robot (li immagino come i Robotech). Alla prossima.

Non è un'esercitazione

~~
Tokyo, Maggio 2515

Akito Konai era stato molte persone da quando era entrato nell’Elité. Era stato uno assassino capace di attaccare nel buio e recidere la giugulare di un uomo con una scheggia di vetro, una spia dalla voce melliflua in grado di fare innamorare uomini e donne per ottenere informazioni, un cecchino letale dal potere di regolare il respiro del proprio diaframma con quello della sua vittima. In ogni caso, mai era stato capace di essere paziente. La maggior parte dei suoi incarichi, prima di diventare l’alfiere nero, si erano risolti, quasi sempre, in un bagno di sangue di pochi minuti.
Per questo ora torturava il bordo del cilindro di platino che si passava da una mano all’altra. L’indicazione di AI era stata chiara: raggiungere il punto alfa della mappa che gli aveva trasmesso online e aspettare. Il gioco di ruolo che dovevano fare non era particolarmente complesso. Avrebbero liberato nella zona un paio di Golem e la caccia avrebbe avuto inizio.
Al suo fianco, Akane Namura ripassava le informazioni sul territorio. Il punto alfa altro non era che un distributore di carburante abbandonato nella periferia di Shinagawa. Akane era certa che, sotto i loro piedi,  le cisterne fossero ancora piene di benzina. Se non ci fosse stata una qualche sorta di pericolo, AI non li avrebbe mandati lì. Individuò un posto che riteneva valido per attivare il legame e cercò eventuali vie di fuga nel caso in cui AI tentasse di simulare un attacco diretto come quello in cui era morta Hinata.
La voce di Akito la fece sussultare.
“Non pensarci neppure per un istante.”
“A cosa?”
“Che qualcosa possa attaccarti direttamente mentre io impugno Amon. Tu pensa a concentrarti e andrà tutto come al solito. Finirà prima che tu ti renda conto di aver attivato il legame.”
“Non sono preoccupata, Akito, male interpreti il mio silenzio.”
“Allora perché hai la faccia di una che sta per essere sgozzata?”
“Pensavo allo scudo elementale.”
“Hanno detto di non usarlo” fece Akito continuando a giocherellare con Amon.
“Mi domando come lo sapessero”, disse Akane.
“Sapessero cosa?”
“Che il mio elemento è il fulmine. Non siamo mai stati sottoposti a questo tipo di esame. Lo studio della tecnologia elementale è stato eliminato dopo l’Esplosione.”
“Forse è solo un caso.”
“Non credo che AI faccia qualcosa per caso. Inoltre so per certo che l’elemento di Yui è l’aria. Non può essere una coincidenza che abbiano scelto il suo elemento per la sua weapon.”
Akito si rabbuiò ma non era il tipo da dare peso alle cose che non poteva controllare. Questo gli aveva salvato la vita un mucchio di volte e lo aveva portato vicino alla morte in altrettante.
“Sai, Akane, non dovresti nemmeno sapere cosa sono gli elementi. Li hanno banditi perché i nostri predecessori li hanno usati per sovvertire l’ordine e imporre una dittatura. Lascia perdere ciò che non riguarda la missione. Piuttosto, dimmi, dove deve posizionarsi la squadra rossa?”
“Perché me lo chiedi? La nostra missione non è cacciare i componenti della squadra rossa!”
“Questo AI non l’ha detto!” sorrise Konai.
In quel momento il beep del comunicatore da polso di Akito li interruppe. La voce che fuoriusciva dall’apparecchio era di Ryu.
“Qui è l’araldo bianco, Amon, rispondi.”
“Amon online, parla pure Rasha.”
“Qualcosa di veloce si muove nella vostra direzione. La sto inseguendo lungo la costa ma tra poco sarà fuori dalla portata di Jadeis per cui dovrò lasciarla andare. Fate attenzione è più grande di un mecha ma non emette le radiazioni dei Golem.”
“Bene. Lasciala a noi. Ora la vedo sul trasponder. Qualunque cosa sia, considerala distrutta. Offline.”
Akane raggiunse la postazione che aveva individuato poco prima e attivò il microchip nero su Kunzis.
“AI, attivo Kunzis.” La voce metallica del computer centrale non tardò a rispondere alla celebrante.
“Sequenza Kunzis attivata correttamente.”
“Legame” sussurrò la ragazza nell’uniforme nera mentre scintille di luce si disperdevano dal bracciale stretto al suo avambraccio. Akito percepì immediatamente il cambiamento in Amon. Dalle due estremità del cilindro si espanse la lancia da battaglia che era tanto più grande e resistente quanto più lo era il legame tra l’alfiere e il celebrante. Il ragazzo si lanciò incontro al suo obiettivo a gran velocità e lo intercettò a poche decine di metri da loro.
Ryu aveva detto che non era un mecha e non sembrava un golem. Si fermò di fronte ad una nuvola di polvere credendo di aver trovato il suo nemico, l’oggetto da annientare.
Quando però la polvere si dissolse e Akito riuscì a vedere il suo nemico, capì che aveva commesso un errore a dare per scontato che, per quel giorno, il suo avversario fosse AI.
Non fece un passo indietro, non mostrò alcun cedimento. Non era nella sua natura. Strinse solo un po’ più forte Amon e la voce di Akane gli arrivò dritta nella sua testa.
“Che succede, Akito?”
“Abbiamo visite”, disse con calma il ragazzo ma il ghigno nella sua voce non sfuggì alla sua celebrante.
“E’ nel database?”
“Non l’ho mai vista prima.”
“Lasciami guardare”, disse Akane chiedendo il permesso ad Akito di usare la sua vista attraverso il legame.
“Tu pensa a concentrarti. Qui me la sbrigo io.”
Akito fissò il suo avversario dritto negli occhi. Erano occhi color ametista piantati in un viso tagliente e pallido. Aveva lunghi capelli color argento che scivolavano fino alla base della schiena. Il corpo fasciato in una tuta viola era atletico e formoso. L’alfiere nero sapeva di non sbagliare. Era una esp. Una dei sette traditori che avevano fatto saltare in aria la base di Saitama. L’unica tra loro ad essere una donna. Non era un avversario da sottovalutare. Akito sorrise. Finalmente un vero avversario, niente più giochi di ruolo.
“Se ridi, allora non ti rendi conto di ciò che sta per succedere!” disse la donna sfilando una frusta dalla cintola della sua uniforme.
“Al contrario!” esclamò Akito “Rido proprio perché lo so!”
“Sei felice di morire, dunque?” Akito rise di nuovo, stavolta il suo ghigno peggiore.
“Non sono io quello che sta per morire”, fece Akito sollevando Amon. Una scarica elettrica si liberò dalla punta della lancia e si scaricò a terra, poco lontano dall’alfiere. La donna fece un paio di passi verso di lui, per nulla intimorita e fece una cosa che spiazzò il suo avversario. Intonò una canzone. Una specie di nenia di quelle che si usano per fare addormentare i bambini.
“Ti ricordi il mio nome? Ti ricordi il mio nome? L’ho appuntato sul cuore perché non te ne scordi. Ti ricordi il mio viso? Ti ricordi il mio nome? E’ conficcato nel cuore cosicché non lo perdi.”
Mentre cantava, Akito la vide sollevare una mano e dei fulmini si spigionarono da essa. Dal terreno si sollevò una massa informe di energia statica. Un Golem. Non uno di quelli artificiali creati da AI per i loro addestramenti ma uno di quelli veri, di livello cinque. Akito fece un balzo all’indietro ed evitò il primo assalto della creatura. I Golem erano la materializzazione dell’elemento controllato dall’esp e assumevano qualunque aspetto l’esp gli desse nella sua fantasia. Quello di questa donna aveva le sembianze di un gigante di metallo. Akito puntellò i piedi e fece un balzo usando come leva proprio la lancia. Colpì il golem in pieno petto e fece una capriola all’indietro per evitare un secondo affondo della creatura.
“Non potrai evitare il mio cucciolo all’infinito, stupido!”
“Non intendo farlo!” gridò Akito che non voleva ulteriormente ritardare lo scontro diretto “Ora vedrai cosa può fare un alfiere!”
La donna dagli occhi color ametista rise ma Akito non le prestò attenzione. Qualcosa in lui gli suggerì di fissare quanti più particolari di quella esp ma, in quel momento, Akito riuscì solo a pensare alla sua prossima mossa. E la studiò, nella sua mente, fino nei minimi dettagli.
Concentrò tutta la sua forza psico fisica nei pugni e diede energia ad Amon. La lancia sembrò allungarsi ancora e la sua punta prese a risplendere come un diamante. Akito si chinò su un ginocchio e liberò la forza della lancia. Scattò verso l’alto e, saltando prima sull’avambraccio destro del golem e poi sulla sua spalla sinistra, conficcò Amon nella fronte del nemico.
Il golem prese a scuotere la testa e il corpo di Akito con forza. Mano a mano che però i suoi spasmi diminuivano di frequenza, aumentavano di intensità.
“Lascia andare la presa, Akito!” La voce di Akane rimbombò nella testa dell’alfiere perentoria.
“Non ancora!”
“Ora! E’ instabile! Salterà in aria!”
Akito non l’ascoltò. Strinse ancora la lancia e lasciò che il suo potere devastante distruggesse il golem che esplose scaraventandolo contro alcuni edifici diroccati che segnavano il confine tra la costa e la cittadina abbandonata.
La fronte di Akito sanguinava copiosamente. La mano che stringeva Amon doveva essere rotta perché non teneva più saldamente la presa.
Tutto ciò che il ragazzo percepì, insieme alla soddisfazione per aver spazzato via un golem di livello cinque, fu la nenia della esp che si approssimava.
“Ti ricordi il mio nome? Ti ricordi il mio nome? L’ho appuntato sul cuore perché non te ne scordi. Ti ricordi il mio viso? Ti ricordi il mio nome? E’ conficcato nel cuore cosicché non lo perdi. Lasciami dunque prendere il tuo cuore” disse la donna allungando una mano verso Akito “così potrò aggiungerlo alla collezione di quelli che ho spezzato!”
La mano della donna, però, non riuscì a toccare il ragazzo. Una tremenda scarica elettrica la fulminò allontanandola. Lei si sollevò e chiuse gli occhi in cerca della persona che aveva salvato l’alfiere.
“Banshee! Ora basta. Non è lui il nostro obiettivo!” urlò una voce severa “Andiamo via!”
“Non ho finito con lui, Wendigo!”
“Hai finito, invece, Banshee. Va’ via.”
La donna si morse il labbro inferiore come fanno i bambini quando stanno per piangere per un capriccio che non possono soddisfare. Guardò un’ultima volta il ragazzo a terra e si allontanò oltrepassando il suo compagno.
“Non ucciderlo, Wendigo, voglio farlo io la prossima volta”, disse allontanandosi verso l'aereonave che aveva condotto lì il suo superiore. Questi non si mosse ma controllò, con la coda dell’occhio, che ci salisse.
Lui non avrebbe ascoltato quella richiesta. Anche se veniva da Banshee, la più piccola del loro gruppo, la più viziata, la più crudele tra loro. Quella che aveva più demoni seppelliti sotto le ombre della sua anima. Probabilmente per ogni cuore che aveva spezzato nella sua vita precedente all’Esplosione, quando ogni uomo che incrociava il suo sguardo, cadeva ai suoi piedi, ne aveva strappato un altro dal petto dopo che i miserabili capi dell’esercito giapponese l’avevano tradita, ne avevano tagliato le ali, l’avevano ridotta ad un vegetale impossibile da rimettere in piedi.
Le piaceva Banshee. Era l’unica del loro gruppo per cui non provasse una totale, disgustosa, indifferenza. Tuttavia non le avrebbe concesso nulla di più di un inflessibile distacco.
Aveva l’occasione di uccidere un alfiere e prendere una delle mistycal. Non l’avrebbe sprecata. Allungò il braccio bionico che da tempo aveva sostituito quello di carne, ossa e sangue e percepì la scarica elettrica. Sorrise. Davvero la sua celebrante credeva di poterlo proteggere con quello schermo di energia così debole?
Lo spezzò. Ora tra lui e il collo di Akito non c’era più nulla. O forse no. Il calore lo sentì arrivare d’improvviso, prepotente. Saltò per evitare il fendente. Avrebbe riconosciuto il taglio di quella lama anche se fosse stato confuso tra mille.
Astharot.
“Allontanati da lui!” gridò Kei sollevando di nuovo la spada. Alle sue spalle, pochi metri indietro, Maki stringeva i pugni per tenere vivo il legame.
“Credevo che avessi imparato dal tuo errore. Esponi così la tua celebrante?”
“Cosa ti fa credere che sia esposta?”
In quello stesso istante una freccia di luce si conficcò ai piedi di Wendigo. Ryu non era vicino ma la sua mira era perfetta anche da molto, molto lontano e con armi meno precise e potenti di Rashaverak. L’uomo dal braccio bionico rise.
“Meraviglioso rendez-vous. Purtroppo non posso fermarmi. Ad ogni modo, confido che ci rivedremo presto. Splendida celebrante, Kei. Ma non è lei che voglio. Se per avere quella che voglio dovrò uccidere anche questa, lo faro e lo sai.”
Un’ esplosione ad un chilometro fece voltare tutti. Nessuno ebbe un dubbio sul fatto che a saltare in aria, con un tempismo perfetto, fosse stata la pompa di benzina vicino da cui Akane manteneva il legame con Akito.

Osaka, giugno 2512

Il fumo è denso e nauseante. Cosa sta bruciando? Case, alberi, automobili? Le fiamme divorano completamente ogni scaffale su cui i libri che tanto adora hanno trovato posto per secoli. Non ne rimarrà neppure la cenere. Fa forza sulle mani e si alza a sedere. Il rumore dell’esplosione l’ha assordata e percepisce solo indistintamente qualcosa nell’aria. Sono urla? Di certo se c’è ancora gente nell’edificio, sono urla di chi fugge. Questo pensiero la fa istintivamente portare lo sguardo alle gambe. Sono sepolte sotto un consistente strato di calcinacci e un’intera anta del settore ‘poesia classica’ della libreria. Dovrebbe provare terrore perché prendere consapevolezza di essere bloccata in quel luogo significa anche accettare l’idea di essere condannata a morte.
Una seconda esplosione fa tremare il pavimento. Urla. Cosa è accaduto? Un attacco improvviso? E dov’è l’esercito? Possibile che nessuno provi a spegnere le fiamme?
Tentare di liberarsi è fuori discussione. Troppo minuta lei, troppo pesanti le macerie. Chissà perché le viene in mente all’improvviso la tragica fine della regina Cleopatra suicida per non subire l’onta della schiavitù o della morte per mano dei suoi nemici. Lei non ha in comune proprio niente con Cleopatra. Non è bellissima, non è coraggiosa e non sarebbe mai capace di togliersi la vita.
“Nanase!”
Inizialmente pensa di averla immaginata. La voce decisa e calda di Kazuki.
Se non fosse sommersa da quelle macerie, se non fosse in punto di morte, forse potrebbe ancora pensare di diventare una regina. Un’imperatrice anzi. Incoronata insieme a Kazuki nel giorno della sua successione. Kazuki, il primo figlio dell’imperatore, il suo erede, capace di vivere un’esistenza da uomo nonostante il suo rango divino. Questo almeno dicono i libri. Per lei invece Kazuki è un amico d’infanzia. Nulla importa se la sua famiglia l’ha promessa in sposa a quel semidio, se è stata allevata al solo scopo di far ottenere a suo padre quel legame tanto agognato con la famiglia reale.
“Nanase!”
La seconda volta capisce che la voce non è nella sua testa. Si sforza di guardare oltre il fumo e lo vede. E’ ad un paio di metri sopra di lei. Evidentemente il pavimento è crollato e lei è finita tra il terzo e il secondo piano dell’edificio, sospesa tra pezzi di marmo e legno e tappeti che un tempo hanno reso più confortevole passare le ore tra i libri. Prova a sollevare una mano e solo allora si accorge di essere ferita. Tutto il braccio destro è coperto di sangue che fuoriesce dalla spalla o, più probabilmente, dal collo.
“Nanase, non muoverti. Vengo io.”
Quelle parole sono rassicuranti. Sembrano quelle che, da bambini, Kazuki le urlava durante gli infiniti pomeriggi passati a giocare. Allora lei era la principessa in pericolo e lui il suo principe. Da quanti draghi, mostri, belve feroci, tremendi assassini, l’aveva salvata?
Vede Kazuki scivolare lentamente al suo fianco e cominciare a sollevare, pezzo a pezzo, ogni cosa che la tiene bloccata lì sotto.
Quando finalmente riesce a vedere di nuovo i lembi del suo vestito, piange. Il dolore agli arti feriti non è nulla rispetto alla vista delle ossa spezzate che fuoriescono da sotto la stoffa. Kazuki si frappone fra lei e quella visione e le sorride.
“Andrà tutto bene. Ti porto fuori di qui.”
Lei si chiede se ci crede davvero. Si può uscire dall’inferno? Se è Kazuki a dirlo, allora è vero.
Allunga, nonostante il dolore, nonostante la paura, le braccia verso di lui. Toccare la pelle del suo collo le dà come una sorta di speranza che s’infrange un istante più tardi nella terza esplosione.
E’ la più forte e sconquassa ciò che rimane dell’edificio. Quando riapre gli occhi, il terzo piano del palazzo non esiste più. E’ sempre stata una ragazzina ingenua, fiduciosa in tutto e tutti ma non è stupida. Non rimane più molto della vecchia biblioteca. Ciò che le fiamme hanno risparmiato ormai è sprofondato nella voragine di quelle che sono state le fondamenta. Anche ciò che rimane del primo e del secondo piano si mantiene in bilico su pochi pilastri malmessi.
L’odore di bruciato diviene insopportabile, probabilmente perché adesso sa che a bruciare sono persone.
“Nanase!”
Di nuovo il pensiero di morire si allontana. Com’era quel gioco? Lei era la principessa in pericolo poi c’era il suo principe pronto a tutto. Infine, tra loro, sempre l’Oni cattivo che voleva prenderla.
“Nanase, allunga una mano!”
Impossibile. Nessun gesto le verrebbe fuori in modo naturale ora. Solleva lo sguardo e lo vede. Indossa già la divisa delle guardie personali dell’imperatore nonostante sia davvero solo un ragazzo.
“Kei.”
Solo una parola. E’ sempre la voce calda e rassicurante di Kazuki a pronunciare quel nome. Lei si gira a cercarlo e impallidisce, se possibile, ancora di più. Kazuki è rimasto schiacciato da una trave di cemento armato, un braccio tranciato di netto dal gomito in giù.
“Kazuki! Resisti, scendo.”
Solo poche parole. Le uniche che possono uscire dalle labbra sottili di Kei. Le uniche che possono venire fuori dal suo cuore di migliore amico, di fratello, di guardia del corpo.
Non che lei pensi a questo ora. Trema per l’emorragia e la paura. Trema per il non riuscire a staccare gli occhi dal quel braccio amputato e sanguinante.
“No!” L’urlo di Kazuki è un ordine perentorio. Kei si blocca. “Porta in salvo Nanase.”
Come si può descrivere l’espressione di Kei? Da un lato il suo migliore amico che gli ordina di trarre in salvo la ragazza che ama, la sua promessa sposa, dall’altro lei che è quasi priva di sensi.
“Scendo e vi tiro fuori entrambi.”
La speranza è sempre l’ultima a morire, si dice. Kei appartiene di sicuro alla schiera di quelli che la pensano così.
Chi di speranza vive, disperato muore. E’ così, invece, che la pensa Kazuki. Che si trascina nonostante l’emorragia e i resti di quel luogo a schiacciargli la cassa toracica, a pesargli sul cuore. Si trascina fino a lei che non riesce a sostenere il suo sguardo.
“Se vieni quaggiù, ci resti”, gli sente dire come in lontananza, come se non è lei quella che Kazuki sta tentando di sollevare verso Kei “e finirai per non salvare nessuno.”
“Kazuki, il mio dovere è pensare prima a te.”
Quelle parole hanno il potere di calmarla. Ora non sente più i conati di vomito rimbalzarle in gola. Ora sa che Kazuki si salverà. Lo sa perché conosce Kei. L’inflessibile, perfetto Kei. Non è mai accaduto che uno di loro due si sia fatto male mentre giocavano in sua compagnia. Sembra che Kei non badi mai a nulla ma in realtà vede tutto. Lei morirà sapendo che Kazuki è salvo. Vede il braccio del suo migliore amico quasi sfiorare la spalla sana del suo promesso sposo.
“Tira su Nanase prima. E’ un ordine.”
Sleale Kazuki. Come suo solito. Non ha mai avuto la forza di volontà e l’intransigenza di Kei. Conta solo sul suo sangue divino per riuscire in ogni cosa. Sa però che il rispetto su cui sta facendo leva è un sentimento ben radicato in Kei. La sua mano si sposta verso di lei e l’afferra con una forza che è fatta di rabbia perché lui lo sa. E’ un soldato ormai. Sente il pavimento tremare, sa che non appena il peso, per quanto lieve, della ragazza verrà sollevato, cederà senza dargli alcuna possibilità di afferrare anche l’altro.
Esita e Kazuki se ne accorge. Lei se ne accorge. Sorride perché Kei è un puro. Non ha mai dato un prezzo alle cose come Kazuki. In fondo se fossero a posizioni invertite, lui l’avrebbe già tirata su senza darsi troppo pensiero per la fine di Kei.
Quando questo pensiero le si formula nella mente, il rimorso le ha già fatto tornare la nausea.
Lei è la peggiore tra loro. Dovrebbe gettarsi di sotto e lasciare che Kei salvi Kazuki. Ma anche per questo è tardi, il pavimento cede, lei si sente tirare su per il braccio ferito e grida.
“Andra tutto bene, Nanase,” la voce di Kazuki è fredda ora “lui ti proteggerà. Ha scelto te.”
Precipita. Muore. Sparisce. E di nuovo si sente gridare.
Nanase si ritrovò ad urlare tra le coperte completamente madida di sudore. L’estate era ormai alle porte e alle sei del mattino il cielo era già chiaro.
Bara la fissò interdetta. Era ancora presto per l’uscita mattutina. Lei l’accarezzò e il pastore tedesco tornò ad accucciarsi ai piedi del letto.
Perché doveva continuare a sognare l’esplosione di Saitama? Si era accorta che più era in tensione e più la frequenza con cui riviveva quel sogno aumentava.
Raggiunse la doccia e si diede una rinfrescata. Infilò l’uniforme e si guardò allo specchio. Sospirò. Stava per cominciare l’ennesima giornata d’inferno. Da quando aveva ricevuto quell’uniforme blu, tutti la guardavano in modo strano. Alcuni la deridevano, altri si limitavano a mormorare. Per alcuni era la dimostrazione che era raccomandata, per altri che era inferiore agli altri membri dell’Elité.
Si annodò i capelli in una coda e raggiunse lo studio della dottoressa Izumi.
Con lei seguiva un corso speciale che doveva aiutarla a migliorare le sue doti fisiche. Da quando la preside le aveva ordinato di frequentare prevalentemente i corsi in grado di affinare le sue doti psichiche, aveva ridotto al minimo la frequenza di quelli fisici e la dottoressa Izumi si occupava di prescriverle vitamine e integratori.
Suonò il citofono dello studio e si annunciò. Dopo poco la porta si spalancò mostrandole la dottoressa che indossava il suo sorriso smagliante.
“Buongiorno, Otada.”
“Buongiorno, dottoressa Izumi.”
“Dormito bene? Mi sembri stanca.”
“Mi sono alzata presto stamattina, però sto bene.”
“Ottimo. Per oggi ho in mente una cosa diversa dal solito. Ti va di fare una nuova amicizia?” Nanase sorrise. “Molto bene, vieni avanti Seijuro.”
Nanase era il genere di persona in grado di aprirsi agli altri con facilità. La sua schiettezza tuttavia e il fatto di non avere alcun genere di pregiudizio nell’approcciarsi alla gente, cosa che tra l’altro risultava non facilmente credibile, rendevano difficile per gli altri entrare senza sforzo in sintonia con lei.
Seijuro era un po’ più alto di lei e abbastanza esile per essere un ragazzo in forza all’Accademia. A Nanase ricordò un po’ Jin. Aveva occhi verdi e profondi e capelli biondo scuro. Si teneva le mani e Nanase notò un gesto che il ragazzo faceva del tutto involontariamente. Si passava, appena poteva, una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Piacere, io mi chiamo Otada Nanase.”
“Il mio nome è Yoshiki Seijuro.”
“Bene, ora che vi siete conosciuti, vi lascio un po’ da soli. Faccio un salto nel mio laboratorio. Voi, da bravi, fate amicizia”, disse la dottoressa sparendo dietro la porta. Un silenzio irreale calò nella stanza. Nanase sentì l’urgenza di porvi fine.
“Anche tu indossi l’uniforme blu?” Il ragazzo annuì.
“Finora ero l’unico. Mi dicevano che non c’erano altri come me.”
“Cioè?” chiese lei.
“Capaci di controllare le cose.” Nanase sgranò gli occhi.
“Che significa ‘controllare le cose’?”
“Controllarle. Vedi quel vaso laggiù? Io posso romperlo.” Nanase rise e Seijuro la guardò contrariato.
“Bhè non mi sembra una gran cosa. Anche io posso romperlo.” Seijuro storse le labbra in una smorfia e Nanase le trovò belle, sembravano due petali di rose.
“Io posso farlo in mille pezzi senza toccarlo”, disse schioccando le dita. Il vaso tremò e poi si fece in  mille frammenti. Nanase rimase a bocca aperta.
“Incredibile! Ma allora tu sei un esp!” esclamò la ragazza incapace di contenere lo stupore e dicendo quello che pensava come al solito senza considerare le conseguenze. Gli esp erano i traditori. Soldati che avevano voltato le spalle ai loro doveri. I ragazzi che possedevano le capacità necessarie per diventare esp venivano educati a sopprimerle. Lo studio degli elementi era stato bandito. Seijuro non sembrò offeso per essere stato chiamato così.
“Te l’ho mostrato solo perché so che anche tu hai capacità dello stesso tipo.”
“Ti sbagli!” disse lei agitando le mani “Non sono assolutamente in grado di fare nulla di simile.”
“Non mi sbaglio. Te l’ho visto fare. Tu controlli le persone come io faccio con le cose.”
Nanase divenne di pietra. Che diavolo stava dicendo quel tizio? Improvvisamente non le sembrava più così simpatico. Lei non era affatto in grado di controllare le persone. Se avesse potuto farlo, non avrebbe permesso a suo padre di odiare il resto della sua famiglia, non avrebbe permesso a Kazuki di sacrificarsi al suo posto, non avrebbe permesso alla sua preside di farle indossare quella divisa.
“Ti sbagli, ti dico. Tu non mi conosci. Qualunque idea tu ti sia fatto di me, ti assicuro che non ho questo potere. E ti dico di più. Se mai lo avessi, non potrei mai usarlo. Sarebbe orribile!” Seijuro sorrise, questa volta in modo sincero.
“Allora il grande demone celeste ha dato questo dono alla persona giusta!”
Nanase sospirò. Non riusciva a capire se si trovasse di fronte ad una persona dall’animo gentile o crudele. Quel ragazzo dallo sguardo triste sembrava possedere entrambe le anime.
“Non so se voglio più parlare di questa cosa con te, Yoshiki.”
“Allora parleremo di qualcos’altro. Ti va?”
“Credo di sì.”
“Bene. Ti va di cominciare col dirmi perché hai scelto il blu?” disse indicando la divisa.
“Non ti piace?” chiese lei.
“E’ il mio colore preferito”, rispose Seijuro. Nanase allontanò dalla mente la conversazione che avevano appena avuto e si sforzò di dare a quel ragazzo un’altra possibilità.


AI: doveva essere un'esercitazione.
Autrice: non è colpa mia!
AI: e di chi allora?
Kei: Wendigo. E mi farebbe piacere ammazzarlo la prossima volta, va bene?
Autrice: Ma siamo ancora al quinto capitolo!
Voce inquietante: Siete noiosi! Voglio Akito così scorre un po' di sangue, no?
Autrice: Akito è ferito.
AI: doveva essere un'esercitazione.
Banshee: io mi annoio, datemi Akito!
Autrice: Kei!!
Kei: Se non si tratta di ammazzare Wendigo, io non mi muovo.
Autrice: Fate un po' come vi pare. AI spegni tutto.
AI: per una volta siamo d'accordo. OFFLINE.

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