Memento mori

di ShioriKitsune
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo + Capitolo uno, Smeraldo ***
Capitolo 2: *** Capitolo due - ninna nanna ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre - Nuove conoscenze ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro - Primi passi ***



Capitolo 1
*** Prologo + Capitolo uno, Smeraldo ***


Quello era decisamente il suo posto preferito quando aveva bisogno di stare solo con i suoi pensieri.

L'odore del caffé era un piacevole stimolante, così come la brezza fresca della sera appena calata, che tracciava nel cielo striature dal rosa tenue all'arancione, fino a sfociare nel blu intenso.

Le dita di Levi battevano velocemente sui tasti del portatile, tentando di restare al passo con i suoi pensieri. Flussi di coscienza o frasi più complesse, non aveva importanza. Ciò che contava era essere lì, immerso in quella pace che tanto amava, isolato dal resto del mondo.

Un'occhiata veloce al testo, poi all'ambiente circostante. Schiarendosi la voce, afferrò la tazza bollente nella solita strana maniera, portandosela alle labbra e soffiando prima di prendere una lunga sorsata.

La bevanda calda dal gusto dolce gli scottò la lingua, ma vi era abituato. Amava quel calore che, dalla bocca, si diffondeva poi per tutto il corpo.

Posò la tazza e riportò lo sguardo sul suo lavoro.

Poco dopo, una vocina lo distolse dai suoi pensieri. «Vuoi un altro po' di thé, Levi?».

La cameriera, Petra, era una delle persone più gentili che lui avesse mai incontrato. Gli sorrise, com'era solita fare, mentre le guance le si imporporavano appena e lo sguardo cercava un punto fisso che non fosse il viso dell'uomo più grande.

In un'altra vita, magari, a Levi sarebbe piaciuta molto. «Sì, grazie».

Scomparve poco dopo.

Levi aveva preso l'abitudine di andare in quel posto ormai da diversi mesi. L'aveva scoperto durante un pomeriggio di giugno e ne era rimasto affascinato. Essere lì era come essere a casa, per uno che non aveva un vero e proprio posto in cui tornare.

Si era seduto, quel pomeriggio di giugno, al tavolino all'angolo più isolato del piccolo locale e aveva iniziato a scrivere e da allora non aveva più smesso.

I dottori gli avevano detto che scrivere lo avrebbe aiutato molto e lui, poco alla volta, aveva iniziato a crederci.

Non sorrideva quasi mai, Levi, ma in quel momento gli angoli delle sue labbra si piegarono leggermente all'insù. Ormai gli capitava sempre più raramente di dimenticare.

Petra tornò con la sua tazza di thé, che posò delicatamente alla sinistra del portatile. Levi alzò lo sguardo per un secondo, ringraziandola.

«Come stai oggi?», domandò lei, gentile.

«Probabilmente meglio di ieri».

Sorrise.

Era quasi una domanda di rito, ormai. E la risposta era sempre la stessa.

 

Una volta si era confidato con Petra.

Era successo una sera che a Levi era sembrata più buia delle altre, e che lo aveva costretto a restare in quel piccolo café fino all'orario di chiusura. I suoi occhi, forse meno espressivi del solito, avevano preoccupato la cameriera dallo sguardo limpido, velato in quel momento da sincera preoccupazione, abituata a vederlo sempre lì, solo, ormai da un paio di mesi.

Aveva capito che quell'uomo silenzioso non era un tipo con cui era semplice iniziare una conversazione. Era risevato e schivo, diffidente quasi, ma i suoi occhi celavano un dolore non indifferente.

La giovane gli si era avvicinata, esitante.

«Signore, c'è qualcosa che la preoccupa?». Le braccia stringevano un vassoio vuoto al petto, gli angoli della bocca piccola piegati all'ingiù. Era realmente preoccupata, Levi lo sentiva, non era la curiosità morbosa di un estraneo invadente a spingerla a parlare.

Levi non ci aveva pensato molto prima di risponderle. «Ho paura di dimenticare».

In quel momento una miriade di domande affollò la mente di Petra, ma non diede voce a nessuna di quelle.

Fu Levi, dopo qualche attimo di incertezza, a riprendere il discorso. «Dimentico le cose, mi succede da un po' di tempo. Ma ce ne sono alcune che non posso permettermi di dimenticare».

Un paio d'occhi smeraldo si sovrapposero a quelli color oro della ragazza e Levi perse un battito.

Sbatté le palpebre un paio di volte, prima di focalizzare l'attenzione sul cartellino che portava sul petto. «Petra», ripeté a voce bassa, pronunciando il suo nome come a volerselo imprimere nella memoria.

Fece una pausa. «Io.. mi chiamo Levi».

Petra sorrise appena, dolcemente, spostando la sedia accanto a quella dell'altro e prendendovi posto.

«Non sono un dottore, Levi, ma magari ti farebbe bene parlare di questa cosa che non vuoi dimenticare. Potrebbe aiutarti a renderla più... vivida».

Levi si prese un momento per osservarla, studiando la sua proposta. Dopo alcuni minuti - minuti in cui Petra pensò di essere stata troppo sfrontata e che le servirono a formulare mentalmente delle scuse - l'uomo sospirò.

«Il suo nome era Eren Jeager».

 

 

Memento mori

 

Capitolo 1 - Smeraldo

 

(Diciotto anni prima)

 

Buio totale, completamente nero.

Ero morto?

No, riuscivo a sentire delle voci, non potevo essere morto.

Cercai di aprire gli occhi ma mi resi presto conto che non sarebbe stata un'impresa facile, dal momento che non ero in grado di muovere nessuna parte del mio corpo. Mi domandai se non fosse meglio così: sicuramente ero gravemente ferito, anche se non sapevo come diavolo fossi finito lì, ovunque "lì" fosse.

«È ancora vivo, fate presto per favore. Sì, sono un dottore, ma c'è bisogno di un'ambulanza, credo si tratti di overdose».

Qualcuno, un uomo, quasi grivada parlando a telefono. "Overdose" fu l'unica parola che riuscii a capire: si riferiva a me?

Il freddo arrivò tutto insieme, così come la sensazione di dita che mi tastavano il polso, probabilmente alla ricerca del battito. Quella voce parlò ancora, ma le sue parole erano senza senso. Mi fu puntata una luce agli occhi e nonostante il fastidio ne fui grato, perché riuscii finalmente a socchiudere le palpebre.

La prima cosa di cui mi resi conto, fu di essere steso sull'asfalto nel bel mezzo del nulla.

La seconda, furono due grandi occhi verdi che mi fissavano.

«Grazie al cielo», disse l'uomo, che in quel momento era entrato nella mia visuale. Da quel che riuscivo a vedere, portava gli occhiali e i capelli legati in un codino, un cappotto nero ben chiuso e teneva la mano ad un bambino. Ah, il bambino. Era lui che possedeva quegli occhi verdi.

«Eren, resta qui con lui, tienilo sveglio. L'ambulanza ha bisogno di indicazioni, devo parlare con loro. Se succede qualcosa fammi un cenno».

Il bambino annuì, deciso, puntando lo sguardo limpido, ma al contempo preoccupato, nel mio. «Come ti chiami?».

Mi sarebbe piaciuto rispondergli, anche solo per dirgli che non capivo la sua lingua, ma non ne ero in grado. Tutto ciò che volevo era chiudere gli occhi...

All'improvviso avvertii dolore alla guancia. Il moccioso mi aveva appena dato uno schiaffo? Puntai lo sguardo su di lui – non che il mio sguardo avesse qualche particolare inflessione, in quel momento – e lui rispose aggrottando le sopracciglia.«Mi dispiace, ma non posso lasciarti dormire. Non capisci la mia lingua, vero?». Unì le labbra, incrociando le braccia come se stesse pensando e la cosa gli provocasse un enorme sforzo. Poi s'indicò. «Eren».

Oh, Eren era il suo nome? Poi indicò me.

Il mio nome... ricordavo il mio nome, almeno quello. Schiusi le labbra, ma avevo la gola troppo secca per parlare o, quantomeno, per emettere suoni udibili. Ma il moccioso capì, e portò l'orecchio alle mie labbra.

«Rivaille», mormorai in un sussurro. Dio, era la mia voce quella? Non ero neanche sicuro che Eren avesse capito. Ma, in quel momento, non ero in grado di fare altro.

Il bambino s'illuminò, voltandosi verso il padre. «Il suo nome è Rivaille!».

 

Tch, maledetto moccioso, non è quella la giusta pronuncia.

 

«Rivaille? Dev'essere francese. Ma ancora non capisco come sia finito qui, in queste condizioni». L'uomo sospirò, chinandosi accanto a me e scompigliando i capelli del più piccolo. «Dobbiamo solo attendere che l'ambulanza arrivi. Lo salveranno, Eren, e poi gli troveremo un posto in cui stare, non preoccuparti».

Il moccioso Eren annuì, poi tornò a guardarmi. Non avevo capito mezza parola del loro discorso, ma quando mi sorrise fui quasi tentato di ricambiare. Quasi.

Delle sirene annunciarono l'arrivo dell'ambulanza, ed in pochi minuti mi ritrovai caricato al suo interno.

L'ultima cosa che vidi, prima di perdere conoscenza, furono quegli occhi smeraldo puntati nei miei.





 

* * * *


Note: Ok, se siete arrivati a leggere fin qui, vi ringrazio tantissimo.
Ho letto così tante Riren AU su AO3 che mi sono detta "Perché non iniziarne una?" e così è nata questa trama. Beh, già da subito si capisce che finirà male, ma spero che la leggerete lo stesso ç_ç
Il primo capitolo è abbastanza corto, spiega semplicemente più o meno come stanno le cose. Dal prossimo, le cose si faranno più interessanti e, per ora, abbastanza divertenti e fluffose xD
Ah, penso che lo preciserò nel prossimo capitolo, ma qui Eren ha 10 anni, Levi 17 e l'uomo è Grisha.
Ah numero due, il cambio di persona dal prologo al capitolo uno è voluto xD
Eh, ah numero tre, il rating si alzerà più avanti!

Al prossimo capitolo, spero!

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo due - ninna nanna ***


nda: le frasi in corsivo sono in francese. Non mi andava di metterle davvero in francese per non rendere la lettura difficile!
 

Capitolo due – Ninna nanna

 

(Una settimana dopo)

 

Due colpi alla porta. «Levi!»

Roteai gli occhi, rimanendo steso a letto, lo sguardo verso il muro spoglio.

Sapevo che il moccioso non si sarebbe arreso.

«Levi, la mamma ha detto che il cibo è pronto!».

Cibo era una delle poche parole che avevo memorizzato in quella che si era rivelata la settimana più strana della mia vita.

 

Dopo essermi risvegliato nel letto di un ospedale, due giorni dopo l'overdose, pensavo che sarei semplicemente tornato a fare ciò che avevo sempre fatto: vagare, guadagnare qualcosa illegalmente, drogarmi e poi daccapo.

Ma il signor Jaeger, l'uomo che mi aveva trovato assieme al bambino, sembrava avere altri piani per me.

Mi trovavo a Berlino – non sapevo precisamente come: ricordavo di aver preso un treno, ma non pensavo di aver cambiato stato – e non sapevo assultamente nulla di tedesco. Non sapevo come comunicare, come dir loro che stavo bene. Non che stessi bene davvero, ma avevo bisogno di evadere: troppa gente mi aveva notato e non potevo permettere che qualcuno risalisse alla mia vera identità.

«Ehi», borbottai, attirando l'attenzione dell'infermiera. Questa mi guardò con aria confusa, forse sorpresa che fossi già sveglio, e dopo qualche parola lasciò la stanza. «Che cazzo?»

Ma non rimasi solo a lungo: il signor Jaeger – Grisha – entrò e si sedette ai piedi del mio letto. «Ciao, uhm, Rivaille?», domandò in un francese non molto fluente, sbagliando ovviamente la pronuncia del mio nome.

Mi trattenni dallo sbuffare solo perché dovevo la vita a questo tizio e, nonostante le mie azioni dicessero il contrario, non ero ancora pronto a morire. «Rivaille», lo corressi, ma non ci speravo. Dovevo trovare qualcosa di più semplice, anche se per poco, perché proprio non potevo sopportare che storpiassero il mio nome in quel modo. «Chiamami semplicemente Levi».

Grisha sorrise. «Levi, è più facile. Allora, uhm, Levi. Non parlo molto bene il francese, ma lo capisco discretamente. Ti va di... raccontarmi cosa ti è successo? Dall'inizio».

Sospirai.

In realtà non c'era molto da raccontare, e nemmeno mi andava di farlo. In fondo, era uno sconosciuto: chi diceva che potevo fidarmi di lui?

«Non ho nulla da dire».

L'uomo strinse le labbra. «Quanti anni hai? Come ti trovi a Berlino? Non voglio essere... invadente, ma se vuoi che io ti aiuti-».

«No», lo bloccai. «non voglio il tuo aiuto, né quello di nessun altro. Fatemi uscire di qui e basta».

Mi fissò per un momento che parve infinito, e dentro di me sperai che il messaggio fosse stato recepito: non ero alla ricerca di un'ancora, potevo cavarmela benissimo da solo.

«Mi dispiace, ma non posso lasciarti tornare per strada. Sono un dottore, tu hai problemi con la droga e a quanto pare né soldi né un posto in cui stare. Quindi, finché non deciderai di aprirti e chiedere aiuto, starai a casa mia. In modo che io possa tenerti sotto controllo».

Se fossi stato in un cartone animato, probabilmente la mia mascella sarebbe arrivata al pavimento. Quale persona sana di mente sarebbe stata disposta ad ospitare un ragazzino drogato e sconosciuto? Sarei potuto essere un serial killer o chissà cosa. E aveva un figlio e una moglie di cui preoccuparsi, no?

Lo fissai con sospetto crescente, affilando lo sguardo.

Lui parve accorgersene. «Lo so che ti sembrerà strano, ma non lo è. Non è la prima volta che raccatto ragazzini per la strada. Posso dire che casa mia è una specie di... orfanotrofio».

Sollevai un sopracciglio. Per nessuna ragione al mondo sarei finito in un posto del genere. «Non ho bisogno di-».

Sollevò una mano, bloccando le mie parole. «Mi dispiace Levi, ma non accetterò un "no" come risposta. Ho già firmato i moduli, d'ora in avanti sei sotto la mia responsabilità. Ti porterò a casa domani».

In quel momento mille emozioni contrastanti m'invasero. La prima, e maggiore, fu la rabbia: cos'ero, una specie di cagnolino da adottare? Chi dava il permesso a quest uomo di decidere della mia vita?

Non avevo mai avuto bisogno di nessuno, e questa volta non sarebbe stato diverso.

Ma poi, un'altra parte di me, era quasi... lusingata. Nessuno aveva mai dimostrato tanto interesse per me, da quando la mamma era morta.

Spostai lo sguardo fuori dalla finestra, combattendo internamente con i vari me stesso. Non avevo ragioni per accettare la sua offerta – che non era una vera offerta, ma un obbligo – ma neanche per rifiutarla: in fondo, avrei avuto un tetto e del cibo.

E sarei stato lontano dalla droga.

Sospirai.

«Va bene».

 

Così, mi ero ritrovato a vivere in casa Jeager.

Non era confusionaria come mi ero aspettato quando avevo sentito la parola "orfanotrofio": in effetti, c'erano soltanto pochi altri bambini e due ragazzi più o meno della mia età.

Avevo associato i loro nomi a delle immagini, per memorizzarli in caso di necessità: c'era la bambina con la sciarpa rossa, Mikasa, taciturna, non invadente, ma dall'aria minacciosa... mi ricordava me stesso.

Poi c'era il fungo biondo, Armin, e faccia da cavallo, Jean. In realtà non ero stato io a dargli quel soprannome, ma il moccioso Eren, che si era preso la briga di farmi tradurre l'offesa da suo padre, sghignazzando. C'era Annie, una biondina altrettanto silenziosa e poi Hanji ed Erwin, che erano un anno più grandi di me ma che non avevo ancora conosciuto. Meglio così, non avevo nessuna intenzione di fare amicizia.

Nessuno dei marmocchi mi aveva infastidito eccetto uno, che proprio non voleva saperne di scollarsi e lasciarmi in pace.

Lo stesso marmocchio che continuava a bussare alla mia porta.

«Levi, sto entrando».

Prima o poi se ne andrà, pensai, ma il momento dopo avvertii un peso indesiderato ai piedi del mio letto.

Uccidetemi, ora.

«Ehi, Levi, guarda cosa mi ha comprato papà!», annunciò tutto felice, facendo oscillare una specie di libro davanti ai miei occhi. Era un dizionario?

Oh, no, non avevo bisogno di comunicare con lui. Con tutti, ma non con lui.

Si sedette a gambe incrociate sul materasso, sfogliando le pagine con il cipiglio che adottava ogni volta che si concentrava. «Io... sono... Eren. Tu... sei... Levi. Andare... bene?».

Sospirai. «Non sapevo che un moccioso idiota come te sapesse leggere», borbottai, conscio del fatto che non avrebbe capito. Eppure si sforzò, senza risultato, di cercare ogni parola.

Sospirò affranto. «Comunque», iniziò, schiarendosi la voce e ricominciando a sfogliare il dizionario. «Cibo... tavola... tu... fame?».

Rotolai su un fianco, tirandomi le coperte e facendolo cadere per terra. Non l'avevo fatto di proposito, ma il broncio offeso che si dipinse sul suo volto fu abbastanza soddisfacente da rubarmi un ghigno. «...Cattivo», brontolò.

 

Alla fine, decisi di scendere per cena. Non avevo molta fame, ma liberarmi della sola compagnia del moccioso era cosa ben gradita. Inoltre, i pasti della signora Jeager – Carla – erano davvero deliziosi.

«Levi, caro, come stai oggi?», domandò, con quel suo modo di fare esageratamente gentile.

Mi limitai ad annuire. Anche lei sapeva qualcosa di francese: a quanto avevo capito, lei e Grisha si erano conosciuti proprio a Parigi, durante una vacanza-studio.

Eren era seduto di fronte a me. Mi fissava continuamente ma, non appena alzavo lo sguardo, lui sembrava preso da altro. Era così fastidioso che avrei potuto lanciargli del cibo per farlo smettere, se non fosse stato così buono.

Ad un certo punto si avvicinò a Carla, chiedendole di porgerle l'orecchio. Lei mi guardò, sorridendo. «Eren vuole sapere quanti anni hai».

Che moccioso invadente.

Da quando ero lì non avevo parlato poi molto, almeno non con chi poteva capirmi. Mi divertivo a insultare Eren, che tanto non aveva idea di cosa io stessi dicendo, ma niente di più. Così, dover rispondere a quella domanda – solo perché posta, indirettamente, da Carla – mi provocò un enorme sforzo. «Diciassette».

Dopo un attimo di sorpresa, la donna tradusse la risposta al marmocchio, la cui bocca assunse la classica forma ad "O" per i successivi trenta secondi.

Lo fissai a mia volta, occhi stretti.

«Pensavo fosse più piccolo, visto che è così basso!»

Carla sgranò gli occhi, tirandogli un pizzicotto «Eren Jeager!».

Improvvisamente, morivo dalla voglia di sapere cos'avesse detto quel cosetto su di me. La donna sembrò imbarazzata, e si schiarì la voce. «Beh, devi scusarlo, non è molto educato. Ha detto che sei... basso, per la tua età. Non dargli retta!».

Ouch.

Lo trapassai con uno sguardo.

 

Ah, moccioso, sei decisamente sulla mia lista nera.

 

 

Quella notte l'astinenza iniziò a farsi sentire.

Iniziai a sudare freddo, mentre crampi e spasmi prendevano possesso del mio corpo, e non avevo la più pallida idea di come riprendere il controllo di me stesso.

Cadere nella droga era stato il mio errore più grande: amavo avere il controllo su ogni cosa, avevo bisogno di avere controllo su ogni cosa, e questo era l'unico caso in cui il controllo mi veniva sottratto. Non potevo sopportarlo, eppure ero tanto stupido da ricaderci ogni volta.

Ma no, questa volta sarebbe stato diverso.

Strinsi i denti, stringendo i pugni e cercando di regolare il respiro. Non sarebbe stato facile.

E proprio quando pensavo di aver ricominciato a respirare regolarmente, tutto tornò al punto di partenza.

E, in quel momento, una figura sgusciò nella mia camera.

Mi fissò ed io fissai quegli occhi, l'unica cosa che riuscivo chiaramente a distinguere nel buio.

La sua voce mi arrivò ovattata, distante. «Levi... stai bene?».

Non risposi, non ne avevo la forza, ma continuai a fissarlo. Lui sembrò agitarsi e, riconobbi la parola "padre" in una sua frase sconnessa. Gli afferrai il polso con le poche forze che mi restavano. «No».

Non c'era bisogno di svegliare Grisha, non c'era molto che lui potesse fare. Mi aveva avvertito, sapevo cosa sarebbe successo e sarei stato abbastanza forte da affrontarlo da solo.

Le mie dita erano ancora allacciate intorno al suo braccio, ma la presa divenne talmente debole da non potersi nemmeno più definire tale.

Dopo qualche attimo di titubanza, Eren prese posto sul letto, sedendosi al mio fianco.

 

Che diavolo vuoi, moccioso? Va' via.

 

Non si mosse per diversi minuti, limitandosi ad osservare impotente il mio corpo in preda agli spasmi.

Poi, come se fosse la cosa più normale del mondo, iniziò ad intonare una melodia.

M'immobilizzai

Cosa stava facendo, mi stava davvero cantando una ninna nanna?

Lo fissai, il sudore che mi rigava la fronte, e cercai di concentrarmi su quelle note malinconiche, seppur dolci allo stesso tempo.

Lo feci fin quando non mi accorsi che il respiro era tornato normale.

Lo feci fin quando le mie palpebre non si chiusero.

 

La mattina dopo, quando mi svegliai, Eren era ancora accovacciato al mio fianco.




nda:
Eccomi qui con il secondo capitolo, spero sia valso l'attesa!
Avrei aggiornato prima, ma oltre ad avere problemi di fuso orario (sette ore avanti non sono facili da gestire <_<) ho avuto un sacco di impegni!
Cercherò di aggiornare prima, promesso u.u
In ogni caso, grazie a tutti coloro che stanno leggendo questa storia, spero possa continuare a piacervi! :)

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Capitolo 3
*** Capitolo tre - Nuove conoscenze ***


nda: ricordo che il corsivo è usato per i dialoghi in francese!
Buona lettura :3

 

Capitolo tre – Nuove conoscenze

 

«Oi, moccioso, alzati dal mio letto».

Eren mugugnò qualcosa, ancora addormentato, poi si voltò dall'altra parte.

Sospirai, decidendo di scavalcarlo e lasciarlo lì, visto che sembrava non avere nessuna intenzione di aprire gli occhi. Controllai che fosse ancora vivo, ma evidentemente aveva soltanto il sonno pesante.

Mi ero svegliato stanco, ma restare tutto il giorno a letto non sarebbe stato da me. Inoltre, avevo urgentemente bisogno di una doccia.

Stavo per uscire dalla stanza, quando qualcosa – forse la mia coscienza? - mi costrinse a voltarmi di nuovo verso il moccioso addormentato.

Era rannicchiato, sembrava che avesse freddo e, per quanto insopportabile fosse, non potevo lasciarlo così. Roteando gli occhi, lo coprii con il lenzuolo e me ne andai senza ulteriori indugi.

Durante la settimana trascorsa non ero uscito dalla mia camera molto spesso se non per andare in sala da pranzo o alla toilet del piano di sotto, ma il posto era decisamente grande e mi ritrovai a guardarmi intorno alla ricerca del bagno.

«Perché diavolo le porte sono tutte uguali?», borbottai. Non avevo nessuna intenzione di entrare in camera di qualcuno, dovendo poi scusarmi per l'intrusione.

Così, decisi di scendere in cucina, sperando di trovarvi Carla. Lei era una persona con cui non avevo problemi a rapportarmi, a differenza di tutti gli altri mocciosi.

Ma non avrei mai immaginato che, quella stessa mattina, avrei conosciuto qualcuno che avrei definito decisamente più insopportabile del moccioso Eren.

L'anta del frigorifero era aperta, una figura femminile trafficava al suo interno.

«Carla?».

Quando una testa spuntò, mi resi conto che quella non era Carla.

Il viso della ragazza parve confuso per qualche attimo, poi s'illuminò come quello di un bambino il giorno di Natale. «Tu devi essere Levi!».

«Uhm...».

Due secondi dopo, mi ritrovai stretto in un abbraccio mortale. «Che cazzo...?»

«Oh, perd- ehm, perdonami, Levi!».

Ricominciai a respirare, mentre la nuova-seccatura si allontanava di qualche passo. «Però, aveva ragione Eren quando ha detto che sei basso».

Non capii, ma non m'interessava. Incrociai le braccia al petto, alzando un sopracciglio in attesa di una qualche spiegazione.

Passò circa un minuto, prima che la ragazza si rendesse conto che doveva dire qualcosa. «Oh, mi dispiace tanto! Io sono Hanji, abbiamo la stessa età – più o meno - e sono così felice di conoscerti! Quando mi hanno detto che era arrivato un altro coetaneo saltellavo dalla gioia! Sai, siamo soltanto io ed Erwin da un po' e iniziavamo ad annoiarci, ma ora che ci sei tu potremmo diventare un trio! Oh, sarà così divertente! Potremmo costruire una casa sull'albero, ubriacarci guardando le stelle, giocare ai videogio-».

La interruppi con uno sguardo mortale, spaventato dal fatto che una tizia così fastidiosa potesse parlare quasi perfettamente il francese. «Quattrocchi», la apostrofai «non ho nessuna intenzione di giocare al migliore amico con te e questo Erwin. Quindi, se non ti dispiace, starei cercando Ca-».

«Carla è uscita poco fa! Ha detto che sarebbe rientrata presto, ma per qualsiasi cosa posso aiutarti io!

Ho studiato francese a scuola – lo studio ancora, in realtà – e mi è sempre piaciuto un sacco, soltanto che qui non c'è molta gente con cui posso fare pratica ma adesso sei arrivato tu e le cose saranno decisamente diver-».

«Sta' un po' zitta!», sbottai, sgranando appena gli occhi. Non avevo mai conosciuto qualcuno che potesse parlare così tanto e così velocemente: ero in sala da pranzo da meno di cinque minuti e già sentivo di avere mal di testa. «Volevo solo trovare il bagno, torna pure a fare qualsiasi cosa tu stessi facendo».

Così dicendo mi affrettai ad allontanarmi, ma Hanji mi seguì circondandomi le spalle con un braccio. «Siamo un po' asociali, eh?», ghignò. «Ma non temere, d'ora in poi la tua vita sarà super movimentata! Sai, sarei volentieri venuta prima a cercarti ma Grisha ha detto di lasciarti in pace – ha detto che posso essere assillante e spaventare la gente, come ha potuto? - e quindi ho aspettato, e aspettato, sperando di vederti comparire prima o poi. E adesso... eccoti! Oh, il bagno è da quella parte».

Sentivo l'irritazione montarmi dentro. Feci tutto ciò che era in mio potere per non esplodere, ma si rivelò ben presto più difficile di quanto sembrasse.

Hanji rimase dietro la porta del bagno per tutto il tempo. Io me l'ero presa comoda, sperando che prima o poi se ne andasse, ma lei era ancora lì e ciarlava, ciarlava, ciarlava.

Sentivo che avrei commesso un omicidio entro l'ora di cena.

«...e così, Erwin ed io siamo finiti nella stessa classe. È parecchio intelligente, sai? Il suo senso dell'umorismo lascia un po' a desiderare ma con il tempo ci si fa l'abitudine. Comunque, ti stavo raccontando di quella volta in cui Eren ha iniziato a tirare pomodori a Jean e poi ha dato la colpa ad Annie. Lei si è così arrabbiata che lo ha preso a calci – quella bambina è davvero in gamba – e poi è tornata a giocare con Mikasa e le sue bambole come se niente fosse. E poi Eren ha iniziato a ridere, e Jean a piangere, ed era tutto un gran casino! Ti rendi conto di quanto possano essere pestiferi certi bambini? Quando è successo non avevano nemmeno otto anni!».

Aprii la porta del bagno, i capelli ancora umidi ma che si sarebbero asciugati presto. Avevo provato ad escludere la voce della quattrocchi dalla mia testa, ma era quasi impossibile. In ogni caso, finsi di non vederla e proseguii dritto per la mia strada, verso il cortile.

Quando non ci fu nient'altro che il silenzio sospirai, pensando di essermi finalmente liberato di quella radio.

Tirai fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca -fortunatamente Grisha era stato tollerante, su questo – e me ne accesi una, sedendomi sul gradino più basso della scalinata d'ingresso.

Da quanto avevo capito di quello che aveva detto Hanji, lei ed Erwin andavano a scuola.

Avrebbero mandato a scuola anche me?

Certo, non che la mia intenzione fosse di restare per chissà quanto tempo.

Buttai fuori una boccata di fumo.

«Ma chi voglio prendere in giro».

Non avevo un altro posto in cui andare e, dopo aver vissuto per un'intera settimana in una casa, con dei pasti regolari e una sottospecie di famiglia, l'idea di tornare per strada non era più tanto allettante.

Certo, se fossi restato probabilmente sarei impazzito in non poi così tanto tempo, ma forse...

«Levi!».

Oh, no.

E non era sola. Un ragazzo biondo – che sembrava più un fotomodello che un normale diciottenne – la seguiva sorridendo, vagamente imbarazzato.

«Levi, lui è—Oh, Levi! Il fumo fa male! Comunque, dicevo, lui è Erwin! Anche lui parla francese – non bene quanto me, ovviamente – ma sono sicura che diventerete ottimi amici. Quindi, vi lascio fare conoscenza!».

E, detto questo, sparì all'interno nel giro di mezzo secondo.

Oh, allora sa essere veloce quando vuole.

«Ehi», salutò il biondo, sedendosi accanto a me.

«Ehi».

Rimanemmo seduti in silenzio per un po', fin quando della mia sigaretta non rimase che la cicca. Stavo per alzarmi ed andare via – il tizio era evidentemente di poche parole, ma a me andava benissimo così – quando questi parlò.

«Io sono Erwin».

«Sì, l'ha detto Hanji».

Ridacchiò. «Scusala, è fatta così. Con il tempo ti ci abituerai».

Roteai gli occhi. «Com'è che siete qui?».

Mi resi conto che la mia domanda non era delle più appropriate, ma non me ne fregava abbastanza per sentirmi in colpa.

Erwin non rispose per un po', e arrivai a pensare che non lo avrebbe fatto. Ma alla fine lo fece. «Hanji è qui da più tempo. Non so bene il perché, ma penso che i suoi genitori siano morti in un qualche tipo di incidente. Che io sappia, è arrivata quando aveva undici anni. Io sono qui soltanto da cinque anni, avevo tredici anni quando i miei sono morti e nessun parente prossimo era disposto ad occuparsi di me. Il dottor Jaeger mi ha accolto come uno di famiglia», sorrise. «Condividiamo tutti lo stesso destino, qui dentro».

Non tutti, pensai, ma non lo dissi ad alta voce. Il mio passato era una delle poche cose che doveva rimanere tale, se avevo davvero intenzione di ricominciare.

«Capisco».

«Sai, posso aiutarti con la lingua», propose, sorridendo appena.

Oh sì, era decisamente la versione più giovane del tizio che recitava nel ruolo di Capitan America.

«Sicuramente anche Hanji vorrà dare una mano, e devo dire che è un'ottima insegnante».

Avevo un commento sarcastico proprio sulla punta della lingua, ma decisi di ingoiarlo. Annuii, rendendomi conto che mi sarebbe servito imparare la lingua in fretta, poi mi alzai per tornare in camera e cacciare quel coso dal mio letto.

«Ah, Levi?».

«Mh?».

«Se qualche volta ti andasse di uscire, fare un giro o non so, la mia camera è la seconda porta sulla sinistra, subito dopo le scale. Bussa quando vuoi, sono sempre in casa se non quando sono a scuola».

Mi voltai, guardandolo per un secondo.

C'era una luce particolare nei suoi occhi, ma non sapevo dire se mi piacesse oppure no.

Di certo, quel tizio mi incuriosiva.

«Mhm», mormorai, chiudendomi la porta alle spalle.

 

«Hai sbavato sul mio cuscino?».

La voce mi si alzò di un'ottava, e finalmente Eren si ridestò dal suo sonno. Mi fissò, gli occhi grandi e i capelli ridotti in una massa scompigliata e indefinita, mentre un rivolo di bava ancora gli colava dalla bocca.

Disgustoso.

«Uhm? Ehm, oh... buongiorno», sbadigliò, mettendosi seduto.

Sospirando, presi il cuscino con la punta delle dita e lo buttai sul pavimento. Avrei anche potuto bruciarlo, ma non mi sembrava il caso di farlo in casa.

Eren saltellò giù dal letto, tirando fuori il dizionario da non-so-bene-dove e iniziando a sfogliarlo.

«Cosa... fare... stamattina? Per favore, parlare... piano... semplice».

Sbuffai. Stavo davvero per farlo?

Beh, quel moccioso si stava impegnando parecchio per comunicare; era come se un po' glielo dovessi – anche se ne avrei fatto volentieri a meno.

«Conoscere, Hanji, Erwin».

«Oh!», incontrò il mio sguardo all'udire i nomi familiari, sorridendo. «Essere... simpatia?»

Simpatia?

«No».

Lui ridacchiò.

«Erwin sì. Un po'», aggiunsi.

Dopo aver cercato le parole, qualcosa cambiò nel suo viso. Fu quasi impercettibile, ma quel moccioso era molto semplice da leggere. «Erwin... preferire a...me?».

In quel momento avrei riso. «Preferirei chiunque a te, moccioso rompipalle».

Eren mi guardò, inclinando appena la testa. Così, con uno sguardo divertito, gli dissi semplicemente «».

Lui gonfiò le guance per un attimo, poi chiuse il dizionario con uno scatto. «Antipatico», borbottò, quasi tra sé.

Se non fosse stato così noioso comunicare con lui, gli avrei detto di alzare il culo e andare a giocare da qualche altra parte. Ma, date le circostanze, mi limitai a far finta che non ci fosse, magari prima o poi sarebbe andato via.

Ma, così come Hanji – c'era qualcuno in grado di capire quando la sua presenza non era desiderata, in quella casa?! - rimase attorno a me per più tempo del necesario.

Quando Carla ci chiamò per cena, lo incitai a scendere prima di me.

Era rimasto a sfogliare il vocabolario per tutto il pomeriggio, sembrava anche parecchio stanco. Così, si limitò ad alzarsi e avviarsi verso le scale ma, prima di chiudere la porta alle sue spalle, si voltò e mi fissò.

«Tu cambiare idea. Su Erwin e me».

Non ebbi il tempo di rispondere che la porta fu chiusa.

Nella solitudine della mia stanza, mi concessi il lusso di ridacchiare.

Dove diavolo sono finito?



Note:

Buonasera e scusate per l'immenso ritardo, mi sento tremendamente in colpa ma ho avuto tanto da fare, soprattutto con la scuola ç_ç
Allora, ho introdotto uno dei miei personaggi preferiti in assoluto, Hanji! Non stavo più nella pelle, eheh.
Penso che il prossimo capitolo avrà un salto temporale più lungo rispetto all'ultimo, anche perché la vera storia inizierà quando Eren ha 17 anni. Ma non temete, ci arriveremo presto, devo solo far sviluppare un altro paio di cose u.u
Comunque, che ne pensate del capitolo?
Grazie a tutti per le recensioni, e grazie a chi ha inserito la storia tra le ricordate/seguite/preferite <3
Alla prossima!

 

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro - Primi passi ***


Capitolo quattro – Primi passi

 

- Sei anni dopo

 

Toc-toc.

«Levi, sei sveglio?».

No, moccioso, non lo sono. Sparisci.

Toc-toc-toc.

«Levi, so che sei sveglio».

Non risposi.

Toc-toc-toc-toc.

«Dai, Levi, fammi entra-».

Non ne potevo più. Scalciai le coperte e mi lanciai verso la porta, aprendola con uno scatto e rivolgendo il più pericoloso degli sguardi allo scocciatore sulla soglia. «Cosa diavolo vuoi, alle sette del mattino di sabato?».

L'altro ghignò. «Avevi promesso che mi avresti dato delle lezioni di guida!».

Mi bloccai, guardando il volto esaltato del moccioso e alzando un sopracciglio. «Io non ho promesso niente del genere».

«No, ma Hanji sì. Ha detto che, visto che la mamma non mi avrebbe mai permesso di entrare in una macchina con lei – anche tu sai come guida Hanji – tu saresti stato un ottimo sostituto». Il suo sorriso non sarebbe potuto essere più ampio.

Sospirai, maledicendo mentalmente Hanji ed ogni sua promessa fatta a mio nome.

Fottuta quattrocchi.

«Quindi, andiamo?».

«Non ti ho mai detto di sì».

«Oh, Levi, ti prego!».

I suoi occhi verde smeraldo furono puntati nei miei e per un secondo la mia risolutezza vacillò.

Eren era cresciuto molto in questi sei anni; aveva raggiunto i sedici e un'altezza sufficiente per potermi guardare dall'alto – non che bisognasse essere chissà quanto alti, per farlo. Ma non era solo fisicamente che era cresciuto: il suo carattere e la sua risolutezza, la passione che metteva in ogni cosa erano rari e da ammirare.

Ma, in fin dei conti, restava sempre il solito moccioso.

«No».

Le sue guance si gonfiarono e mi ricordò un più giovane lui, ma un'altra porta fu aperta prima che potesse controbattere.

«Cos'è questo chiasso? Sono le sette del mattino».

Erwin aveva la voce assonnata e, notai subito – impossibile non farlo – era senza maglietta.

Avevo ventitré anni, non mi sarei certo scomposto per un bel paio di muscoli, ma Erwin era una qualche specie di dio greco ed era difficile non fissarlo almeno per un po'.

Non ho mai ben capito cosa ci fosse tra me ed Erwin. A volte sguardi, a volte frasi vagamente fraintendibili, ma niente di più. Eravamo usciti insieme, qualche volta, ma solo come amici. Eppure ero quasi certo che lui fosse interessato a me in quel senso. Per quanto mi riguardava, non ero sicuro. Ma ammirare un bel fisico non avrebbe fatto male a nessuno.

Dopo qualche secondo, sentii lo sguardo di Eren trapassarmi in un modo che mi fece quasi rabbrividire. Ma quando mi voltai nella sua direzione, aveva già smesso di fissare.

«Coraggio, moccioso, va' a dare noia ad Erwin. Può insegnarti lui a guidare, se ci tieni tanto».

«A dire il vero, devo essere a lavoro tra un'ora. Mi dispiace, Eren».

Eren, al mio fianco, sembrò emettere un quasi impercettibile sospiro di sollievo.

Erwin non gli piaceva, ma neanche un po'. Non sapevo con certezza il perché; da quello che mi avevano raccontato, non c'erao mai stati episodi o discussioni di nessun tipo, tra di loro.

Roteai gli occhi quando Eren tornò a guardarmi, speranzoso.

«La mia risposta è sempre la stessa».

«Ma Levi!».

Dei passi su per le scale ci avvertirono che qualcun altro stava arrivando.

Fa che non sia Hanji, fa che non sia Hanji.

Non avrei sopportato anche lei, quella mattina.

Qualche secondo dopo, la testa occhialuta spuntò dall'angolo del corridoio e, per fortuna, non era Hanji.

«Ehilà, ragazzi!», ci salutò Grisha con un sorriso. «Che ci fate tutti in piedi a quest'ora? A parte te, Erwin, so che devi andare a lavorare».

Eren colse la palla al balzo.

«Sono venuto a chiedere a Levi se poteva darmi qualche lezione di guida e ci stavamo appunto accordando sull'orario!».

Incrociai il suo sguardo per un secondo e lui ghignò.

Piccolo stronzo diabolico.

«Che splendida idea! È gentile da parte tua, Levi!».

Forzai un sorriso, ma ero sicuro di sembrare in agonia. «Non è nulla».

Quel moccioso mi aveva messo nel sacco: sapeva bene che, ai suoi genitori, non avrei mai negato nulla. In fondo, mi avevano salvato la vita e dato un'altra possibilità di viverla, e tutto senza chiedere nulla in cambio.

Mi avevano pagato le spese mediche, scolastiche e tutto il resto; mi avevano detto che potevo restare lì per tutto il tempo che volevo, anche se avevo già iniziato a mettere da parte qualcosa per prendere un appartamento per i fatti miei. Dovevo loro tutto.

E non era la prima volta che Eren si approfittava di questa cosa, Ma oh, questa volta l'avrebbe pagata cara. Molto cara.

«Comunque», riprese Grisha, interrompendo i miei pensieri sulla progettazione dell'omicidio di suo figlio. «Più tardi, io e Carla porteremo gli altri a fare un picnic al parco e in serata al cinema. Ovviamente, siete i benvenuti anche tu, Erwin ed Hanji, se non vi sentite a disagio. È come una grande uscita di famiglia».

Il signor Jeager era sempre esaltato da questo genere di cose che prevedevano lo stare tutti insieme, e raramente gli avevamo detto di no. In fondo, a nessuno di noi pesava, anzi.

Erwin fu il primo a rispondere. «Purtroppo per il picnic passo, il mio turno finisce alle diciassette. Ma sarò felice di raggiungervi al cinema, in serata».

Grisha annuì e posò lo sguardo su di me, speranzoso.

Feci spallucce. «Perchè no?».

«Perfetto! Allora vi aspettiamo per le undici, non fate troppo tardi con le vostre lezioni di guida!».

E, detto questo, se ne andò fischiettando.

Non appena fui certo che suo padre si fosse allontanato abbastanza, il palmo della mia mano trovò il collo di Eren, stringendolo come se fosse un cucciolo da trasportare. «Pensi di poterla passare liscia?»

Ma Eren fu più veloce e, altezza ad avantaggiarlo, si liberò dalla mia stretta e iniziò a correre, un ghigno stampato su quel volto che avrei volentieri preso a pugni. «Ci vediamo alla tua macchina tra dieci minuti!».

Scomparve nel giro di mezzo secondo.

«Piccola merdina», borbottai a denti stretti.

Erwin, ancora sulla soglia della sua camera a braccia conserte, alzò un sopracciglio. «Era da tanto che non ti sentivo parlare in francese, Levi».

Sospirai. «Capita spesso quando il moccioso del cazzo mi fa innervosire».

Il biondo ridacchiò.

Stavo per seguire Eren – prima l'avrei picchiato, poi forse gli avrei insegnato a guidare – ma la voce di Erwin mi bloccò.

«Levi?».

«Mh?»

Fece ricadere le braccia lungo i fianchi, avvicinandosi di qualche passo. «Stasera, dopo il cinema, ti va di uscire a bere qualcosa?».

Poteva sembrare un semplicissimo invito, ma qualcosa mi diceva che non era quello il caso. Era la luce che aveva negli occhi, la stessa luce che avevo scorto la prima volta. Quella che ancora non avevo capito se mi piacesse oppure no.

Esitai, prima di rispondere. «Certo».

Il suo sorriso non illuminò gli occhi. «Perfetto».

 

* ° * ° *

 

La prima lezione di guida di Eren non era andata poi così male, ma doveva imparare a dosare la forza nel premere i pedali. Più di una volta avevo temuto di spiaccicarmi contro il tergicristalli.

Gli avevo promesso, di mala voglia, che l'indomani l'avrei fatto guidare un altro po'.

Alle undici e mezza, eravamo nuovamente in auto.

Nella macchina di Grisha c'erano Carla, Annie, Mikasa e Armin, e nella mia Hanji, Eren e Jean.

Mi domandai perché il fato fosse così dannatamente crudele con me: i tre esseri che meno sopportavo chiusi in uno spazio ristretto con tutte le intenzioni di farmi venire mal di testa.

Strinsi il volante con più forza del necessario, cercando di concentrarmi sulla guida.

«...ti dico di no, faccia da cavallo. E se continui ad insistere, vuol dire che non hai letto bene il manga».

«No, sei tu che non lo hai letto bene! Sono convinto che nello scantinato non ci sia assolutamente nulla. È solo una cosa che serve a mantenere il filo della trama, tipo il One Piece».

«Ma che senso avrebbe dare false speranze all'umanità? Sei il solito idiota!».

«Eren, giuro che se mi chiami un'altra volta idiota...».

«Ragazzi, ragazzi, non litigate! Perché invece, non parliamo del nuovo capitolo di Love Stage?».

«Hanji, solo tu leggi yaoi».

«E non sapete cosa vi state perdendo! L'altro giorno leggevo una fanfiction, e c'era il protagonista che pregava l'altro di mett-».

Inchiodai la macchina al centro della strada, guardando avanti ancora per qualche minuto per calmare i nervi. Dopodiché, uno scappellotto raggiunse la nuca di Eren.

«Ehi!», si lamentò, massaggiandosi la parte lesa. «Perché picchi solo me?».

«Perché sei il più vicino». Mi voltai, per poter guardare anche Hanji e Jean nei sedili posteriori. I miei occhi bruciavano e percepii un irrigidimento generale. Ottimo.

«Non lo ripeterò una seconda volta: se mi fate sentire un altro dei vostri stupidi discorsi da otaku, giuro che vi butto fuori a calci. E siccome Hanji è una donna, i suoi calci se li beccherà Eren. Ma, dato che in realtà non considero Hanji una donna, anche lei sarà presa a calci. È tutto chiaro?».

«Signorsì signore!».

«Perfetto».

Rimisi in moto la macchina e, con mia grande gioia, il resto del viaggio trascorse in un tranquillo silenzio.

 

Arrivammo una decina di minuti dopo la macchina di Grisha e Carla e, in quel lasso di tempo, gli altri avevano già scelto un posto e steso la tovaglia, iniziando a tirare fuori il cibo.

Non ci volle molto prima che tutti si sedessero: Annie e Mikasa, ovviamente, erano vicine. Sospettavo che tra le due ci fosse una qualche tipo di relazione, ma l'avrei scoperto con il tempo; Jean ed Armin, accanto a Grisha e Carla, chiacchieravano di un anime su non-so-cosa che avevano intenzione di guardare insieme. Io ero appoggiato contro il tronco di un albero, riparato dai raggi del sole, ed Eren e Hanji erano uno alla mia destra, l'altra alla mia sinistra. Non mi sarei mai liberato di loro.

Il cibo preparato da Carla era ovviamente delizioso, così come l'atmosfera che si era venuta a creare. Nemmeno i due impiastri sembravano così fastidiosi, in quel momento.

Eren mi rubò l'ultima coscetta di pollo ed io rubai delle patatine dal suo piatto mentre era girato, dando poi la colpa a Jean. Per poco non si presero a botte, ma ne era valsa la pena.

Una volta finito di mangiare, ci dividemmo in varie attività: Armin andò a passeggiare con Carla e Grisha, - doveva parlargli del suo desiderio di diventare medico o qualcosa del genere - Mikasa, Annie, Jean e Hanji fecero due squadre per giocare a pallavolo. Io rimasi poggiato contro il mio albero, neanche minimamente intenzionato a muovermi. Era tutto silenzioso, fin troppo, e mi accorsi della presenza di Eren al mio fianco solo quando, alzando gli occhi dal libro che stavo leggendo, lo trovai a fissarmi.

Era seduto a gambe incrociate, la testa inclinata ed un sorriso gentile dipinto sul volto. Gli occhi gli brillavano, come sempre, e in quel momento per la prima volta mi ritrovai a pensare che Eren fosse... bello.

Molto bello, in realtà.

Sbattei le palpebre e distolsi lo sguardo, lievemente imbarazzato, tornando a leggere il mio libro.

«Che ci fai qui? Va' a giocare con gli altri».

«No, non mi va. Sono stanco».

Eren Jeager stanco? Era quasi impossibile da credere.

Dopodiché, non mi accorsi di cosa stava facendo fin quando non poggiò la testa sulle mie gambe e chiuse gli occhi, soddisfatto. «Voglio fare un pisolino».

Avevo tante risposte pronte sulla punta della lingua: come, ad esempio "trovati un altro fottuto cuscino" o "se non ti sposti entro cinque seconti ti ritroverai senza testa", eppure non dissi nulla.

Ripresi a leggere il mio libro, lasciandolo riposare in quella posizione.

Non ne ero sicuro, ma avrei potuto giurare di averlo visto sorridere più del dovuto.

 

*°*°*

 

Arrivammo al cinema con un po' di ritardo, ed Erwin era già lì ad aspettarci.

Il film che avevano scelto di vedere era una specie di commedia molto poco divertente e, a soli quindici minuti dall'inizio, mi ritrovai a sbadigliare.

Non amavo particolarmente i film di quel genere, ma non ero l'unico: tre posti più avanti, notai Mikasa sbadigliare, pronta a poggiare la testa sulla spalla di Annie, per poi fermarsi a metà del gesto e far ricadere la testa sul proprio poggiaschiena.

Jean e Hanji, invece, sembravano parecchio divertiti. La cosa non mi sorprendeva, in realtà.

Non sapevo perché Eren continuasse a seguirmi in giro, ma il suo posto era accanto al mio e continuava a rubarmi il bracciolo della poltrona.

Gli diedi una gomitata. «Prendi il bracciolo dell'altro lato», sussurrai. «Questo è mio».

«E chi lo ha deciso?», ribatté lui, rimettendo il braccio al suo posto.

Gli lanciai un'occhiataccia. «Moccioso».

Cacciò la lingua, ghignando. «Facciamo a metà».

Non mi sembrava una cattiva idea, così accettai. Le nostre mani si sfiorarono per buona parte del film.

E ad Erwin, seduto dall'altra parte al mio fianco, questa cosa non sfuggì.

Ad un certo punto, Eren si alzò per uscire dalla sala, tornando qualche minuto dopo con un cestino di popcorn grande quanto la sua faccia.

«Non hai un po' esagerato? Neanche tu puoi mangiare tutti quei popcorn da solo».

Lui mi guardò incredulo, come se avessi detto chissà quale idiozia. «Sì che posso, ma non è questo il giorno. Dato che il film è così noioso, ho deciso di cimentarmi nel lancio dei popcorn».

Sarebbe finita male, me lo sentivo.

Ma tutto mi aspettavo, tranne che l'essere colpito dai popcorn. Quando aveva parlato di lanciarli, non credevo che fosse tanto desideroso di morire da avere le palle di lanciarli a me.

Voltandomi lentamente, schioccai le dita una per una, pronto a picchiarlo. Ma, invece, mi limitai ad afferrare una manciata di popcorn e ficcarglieli in bocca.

Per un momento ebbi quasi paura che sarebbe morto, soffocato a causa di un popcorn, perché non riusciva a decidersi tra lo sputarli o l'ingoiarli. Nel dubbio, rideva.

Passammo il resto del film a giocare come mocciosi, scappando non appena le luci furono accese per non farci incolpare del disastro di popcorn sul pavimento.

Gli altri uscirono qualche secondo dopo, chiacchierando. Erwin fu l'ultimo, e ricordai che gli avevo promesso di bere qualcosa insieme.

«Ti aspetto alla macchina», mi sussurrò, prima di salutare gli altri e avviarsi.

Hanji mi fissò, un'espressione strana sul volto: aveva sicuramente sentito. Roteando gli occhi, le porsi le chiavi della macchina. «Non uccidere nessuno, ti prego».

Eren arrivò in quell'esatto momento, sentendo le mie parole e vedendo le chiavi in mano ad Hanji. Un brivido lo percorse. «Levi, perché fai guidare lei?».

Aprii la bocca per rispondere, ma Hanji fu più veloce. «Perché lui ha un appuntamento con Erwin a cui andare!».

In una frazione di secondo, l'atmosfera cambiò drasticamente. Eren mi fissò, serrando la mascella. «Capisco», fu tutto ciò che uscì dalle sue labbra, prima d'infilarsi in macchina.

Hanji osservò la scena, ma non disse nulla. Gliene fui grato, perché neanche io sapevo bene cosa dire.

Cercai il suo sguardo – senza sapere neanche il perché – attraverso il finestrino dell'auto, ma lui era voltato dall'altra parte.

Sospirando, salutai gli altri e mi avviai verso la macchina di Erwin.

Cosa diavolo era appena successo?







*°*°

ndA: Oggi in Giappone è la festa della commemorazione della Nazione (tipo la nostra festa della repubblica) quindi niente scuola, quindi ho avuto il tempo di aggiornare, yeah >:)
Che ne pensate del nuovo capitolo?
P.s. io non sono AFFATTO una EruRi shipper, è solo per movimentare un po' la trama xD

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