Comics TMNT: a whole new world di Switch (/viewuser.php?uid=619656)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Raphael- His first memory ***
Capitolo 2: *** Yoshi/Splinter- Hamato family ***
Capitolo 3: *** Raphael- All I want for Xmas is... ***
Capitolo 4: *** Casey- I promise, mom ***
Capitolo 5: *** Who we've been, what we are, why we fight ***
Capitolo 6: *** Leonardo- Mother ***
Capitolo 1 *** Raphael- His first memory ***
Dedicata
a Sarajane,
senza
la quale,
questa
raccolta
non
esisterebbe.
Grazie
di cuore, musa.
Il
suo primo ricordo era un fazzoletto di cielo, una linea sottile
schiacciata tra due alti palazzi. Azzurro e luminoso, e
benché
limitato nella sua forma, gli aveva dato la sensazione di infinito e
libertà.
A
volte, se strizzava gli occhi con forza, il negativo di
quell'immagine si formava dietro le palpebre, e rimaneva per alcuni
istanti a osservare dettagli che non sapeva nemmeno di aver
assimilato, come una maglia rossa messa a stendere nel filo che
correva tra i due palazzi, che garriva nel vento, comparendo nella
porzione di cielo con arroganza e impedendogli di ammirare per bene
quella meraviglia.
Però
quel colore gli era istintivamente piaciuto.
Si
acquattò dietro il cassonetto, scrutando da dietro il suo
riparo con
paura, le orecchie tese: doveva tenere d'occhio quel piccolo gruppo
che si era infilato in fretta e di sorpresa nel vicolo dove lui si
trovava in cerca di cibo; aveva avuto appena il tempo di nascondersi,
non ce n'era stato abbastanza per scappare.
Erano
quattro ragazzi, con piercing e creste colorate, che trascinavano un
quinto al riparo da occhi indiscreti, strattonandolo con poca grazia.
Quello tremava tantissimo, incapace di reagire alle angherie subite.
Uno
dei quattro lo afferrò per il bavero della giacca e lo
sbatté
contro il muro, sovrastandolo come un predatore in piena caccia,
alitandogli contro con astio.
“Come
sarebbe a dire che non ci darai più soldi? Papino ti ha
tagliato i
fondi? O tutt'un tratto ti sei fatto coraggioso, stronzetto?”
gridò, facendo ridere il resto del suo gruppo.
Lui
si contorse dalla rabbia, lì nascosto dietro il cassonetto.
Una
delle cose che aveva fatto più fatica ad imparare, era stato
parlare
e capire il linguaggio umano. Le parole non avevano avuto senso
all'inizio, erano suoni e rumori che si intersecavano e si univano,
ma che non gli trasmettevano niente; era stato più il modo
in cui
venivano pronunciate, che gli aveva fatto capire cosa l'interlocutore
volesse dire.
E
quelli lì non volevano solo spaventare il ragazzino, ma
anche
ripassarlo e umiliarlo, se non avesse dato loro ciò che
volevano;
c'era poco da scherzare.
Saltò
fuori dal suo riparo con rabbia, con i pugni in alto per affrontare
quei quattro bastardi, ma bastò la sua sola vista a decidere
l'esito
dello scontro: i quattro urlarono di paura con gli occhi sbarrati,
poi scapparono a rotta di collo, sparendo dal vicolo in un lampo.
Rimase
un attimo attonito con lo sguardo sulla luce tra i due palazzi, sulla
piccola fessura che portava alla via principale dove lui non osava
avventurarsi, mentre la rabbia sembrava in un certo senso
affievolirsi e al contempo rinascere, per un motivo differente.
Si
riscosse, girando il capo verso destra.
“Stai
bene?” chiese con voce stentata al ragazzino. Non era ancora
bravo
a parlare, non rivolgeva mai la parola a nessuno.
Al
sentire la sua voce rauca, quello spalancò ancora
più gli occhi e
si rialzò tremante tenendosi contro il muro.
Lui
gli si avvicinò, temendo che cadesse, ma il ragazzino
scartò a
destra, allontanandosi con paura.
“No-non
mi toccare, mostro!” urlò con l'orrore nello
sguardo e la voce,
spronando le gambe malferme ad allontanarsi da lui, senza voltarsi
indietro.
Il
rumore dei suoi passi frettolosi che rimbombava in quello stretto
viottolo scomparve, e gli rimase solo il silenzio.
Rimase
a guardare il vuoto, con quella rabbia graffiante nel petto, che gli
faceva tremare il corpo, di disgusto. Si accorse di aver stretto le
mani a pugno forte, dalla rabbia, e che si stava facendo del male con
le sue stesse unghie. Le aprì e osservò il palmo
arrossato e i
segni dei due solchi, gonfi e pulsanti, ma senza farci caso davvero.
Mostro.
Quella
parola la conosceva benissimo. Era stata la sua prima parola.
Ricordava
bene quel fazzoletto di cielo, la prima volta che aveva aperto gli
occhi alla vita. Tutto il suo mondo allora era un vicolo oscuro e
puzzolente e uno straccio di azzurro lassù.
E
suoni spaventosi. E cose che non capiva. E fame, anche se non sapeva
cosa fossero quel vuoto e quel rombo dentro di sé, allora.
Tutto
intorno a lui era nuovo e spaventoso, ma mai come quel grido che lo
terrorizzò al punto di fuggire: una donna che si era
affacciata per
ritirare i panni stesi lo aveva scorto e aveva gridato come se la
morte l'avesse presa, urlando quella parola come se fosse una
maledizione.
Mostro.
Mostro. Mostro.
Le
sue grida sempre più alte e terrorizzate lo avevano
inseguito per
tutta la fuga, oltre il viottolo, oltre la recinzione in metallo,
oltre le persone che aveva superato con tutta la sua
velocità mentre
cercava un riparo da tutti quegli occhi crudeli e spaventati da lui,
che non aveva fatto loro niente, che non capiva.
Si
era fermato solo quando era stato sicuro di essere solo, quando tutto
ciò che lo circondava fu solo spazzatura e piccoli topolini
innocui,
che pure erano fuggiti quando lui si era lasciato cadere al suolo,
riprendendo fiato con disperazione, con fitte lancinanti per tutto il
corpo.
Aveva
artigliato il terreno polveroso con disperazione e rabbia e le aveva
viste, le sue mani: verdi, a tre dita. Ancora non sapeva cosa
fossero, ma era certo che non dovessero avere quell'aspetto.
Come
se in qualche modo sapesse o ricordasse che un tempo non aveva avuto
mani come quelle.
Si
era alzato con fatica e il suo sguardo era stato catturato da un
manifesto consunto appiccicato secoli prima alla vetrina di un
negozio abbandonato, con i vetri così pieni di sporco che
non si
poteva vedere l'interno: due ballerini stinti compivano una presa al
volo, statici nella loro posa.
Aveva
guardato con attenzione la loro carnagione pallida, le loro mani a
cinque dita, i loro sorrisi patinati, ma perfetti, le acconciature
impeccabili. Poi aveva poggiato la sua strana mano verde contro il
vetro della vetrina e con una strofinata poderosa aveva scrostato uno
strato di sporco, rivelando la superficie riflettente sepolta al di
sotto.
E
li aveva visti. I sui occhi scuri ricolmi di paura e meraviglia, che
rimandavano il suo sguardo sorpreso. La mano era scivolata sulla
superficie ancora, portandosi via altro sporco, e poi di nuovo,
scoprendo pezzo per pezzo la sua figura: carnagione verde, piedi con
due dita, uno spesso piastrone sul davanti e un durissimo guscio
sulla schiena, appena visibile oltre le sue spalle; e quella testa
dalla forma strana.
Non
ricordava nemmeno quanto tempo era rimasto a guardare la sua immagine
riflessa nel vetro pieno di strisciate di sporco e poi il manifesto,
e poi di nuovo sé stesso e il manifesto, in circolo.
Perché
lui non era per niente come quelle persone ritratte sopra e lo aveva
capito, istintivamente, che non era giusto. E quella parola gli era
saltata in mente, benché non ne avesse capito il
significato,
allora. Ma il suono con cui la donna lo aveva pronunciato era stato
peggio che una coltellata nel cuore, peggio della sensazione di fame
che lo attanagliava.
“M-mostro”
aveva balbettato incerto alla sua figura, piena di confusione e
ferita.
Persino
col suo tono malfermo, quella parola gli aveva fatto rabbia e
terrore, tanto da fargli perdere il controllo e battere i pugni
contro il vetro finché le sue mani non avevano preso a
sanguinare e
la vetrina non si era rotta, mandando in pezzi anche il suo riflesso.
Era
stato il suo primo giorno sul mondo e aveva sperimentato sia il
dolore fisico che quello dell'anima, e nessuno dei due gli era
piaciuto.
Da
allora aveva ascoltato e ripetuto centinaia e poi migliaia di parole,
nascosto nelle ombre, affamato di conoscenza, eppure spaventato dal
chiederla o cercarla presso quelli che aveva capito essere umani,
diversi da lui.
Si
riscosse e sollevò le spalle con nonchalance, per far finta
che quei
ricordi e quelle sensazioni non gli importassero, anche se in
realtà
gli ferivano il cuore e la mente ogni istante. Fare finta era l'unico
modo che aveva e conosceva per andare avanti.
Si
allontanò a grandi passi, diretto verso il cassonetto dove
stava
cercando da mangiare prima di venire interrotto, e prese a frugare
tra gli scarti della cucina della pizzeria del quartiere: riusciva a
trovare sempre qualcosa, da quelle parti.
Agguantò
una scatola mezza acciaccata dal fondo e la aprì, senza
molta
speranza: gli scappò un sospiro al vedere due fette di pizza
un po'
bruciacchiate, gettate come se fossero spazzatura. Le
trangugiò in
un secondo, divorato dalla fame, con gli occhi fissi sul cielo
già
scuro sopra di sé.
Le
giornate si stavano accorciando e sentiva freddo sempre più
spesso
negli ultimi tempi, avrebbe fatto meglio a cercare un riparo al
più
presto.
Se
avesse poi trovato altri come lui o una spiegazione di cosa fosse non
sarebbe stato male, ma in quei mesi in cui aveva vagato senza tregua
in ogni parte della città, non si era mai imbattuto in niente
del
genere, perciò forse non esistevano altri come lui. Aveva
scoperto
che c'erano umani di molti colori diversi, che coesistevano
più o
meno pacificamente, ma in quella tavola variopinta non c'era il
verde. Nessuno era verde come lui.
Forse
era unico al mondo. Solo al mondo.
Ma
allora cosa era e perché era nato? A volte se lo chiedeva,
nelle
sue scorribande solitarie per cercare di sopravvivere, per cercare
cibo e riparo dagli occhi che lo guardavano con disgusto. E allora
sollevava lo sguardo al cielo e ricordava quello stralcio azzurro che
aveva visto, il suo primo ricordo, quella sensazione di paura eppure
eccitazione, per essere vivo.
Il
suo primo ricordo era un fazzoletto di cielo, una linea sottile
schiacciata tra due alti palazzi.
E
se era nato sotto quel cielo, come chiunque altro, doveva pur esserci
una ragione.
Note:
Buona
sera!
Eccoci
ad un nuovo progetto, una raccolta di OS ispirate dai nuovi comics
IDW. Ne sono entrata in contatto da poco, sono solo al quarto, eppure
mi hanno ispirata moltissimo, ho già prodotto cinque OS e
spero che
continuino a darmi idee.
Le
Os non sono lineari, sono nell'ordine in cui mi sono venute in mente
o in cui le ho scritte.
Questa
è ispirata al periodo in cui Raphael vaga da solo, senza
sapere cosa
sia in realtà, prima ancora del numero 1, quindi.
Voglio
giocare con questa raccolta, perciò non assicuro che nel
futuro io
non decida di sperimentare in prima persona o anche con altre forme
narrative. Chissà, vedremo.
Per
questa Os in particolare, non ho mai messo il nome di Raphael,
perché
lui non sa il suo nome, ancora, e noi siamo con lui nella sua
ignoranza.
Spero
vi piaccia!
Un
uragano di abbracci!
Un disegno della bravissima Sarajane92, dedicato al
capitolo! Grazie, tesoro! E' stupendo!
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Capitolo 2 *** Yoshi/Splinter- Hamato family ***
Il
sibilo di una lama affilata e il dolore della morte che invadeva ogni
cosa, fino a diventare solo gelido nulla avvolgente.
Buio,
oscurità, oblio.
Aprì
gli occhi, una bruma bianca ovunque, bianchi i muri, bianche le
piattaforme, bianchi i camici delle persone che si muovevano in
quell'ambiente asettico. Sentì l'odore di fieno sotto di
sé e
percepì i limiti fisici della teca di vetro nella quale si
trovava.
Al di là era tutto enorme e distorto, confusionario.
“Bene,
vieni qua” tuonò la voce profonda di un uomo,
allungando la mano
verso di lui dall'apertura in alto.
Squittì spaventato e corse in
circolo per sfuggirgli, ma non c'era via di fuga dalla teca,
perciò
finì per rannicchiarsi in un angolo, mentre quell'enorme
arto si
avvicinava, come artigli di falco su una preda.
Le
dita si chiusero sul suo corpo e lo sollevarono in aria e il viso
dell'uomo apparve nel suo campo visivo, gli spessi occhiali che
riflettevano il suo muso da topo, gli occhietti neri spaventati.
“Ci
vorrà un attimo” disse, avvicinando la pistola per
le iniezioni
che teneva nell'altra mano, il liquido trasparente che riempiva la
fialetta che oscillava per le vibrazioni.
Il
grosso ago scintillò nella luce fredda del laboratorio e poi
lo
trafisse, di colpo e dolorosamente, mentre un bruciore si diffondeva
nel suo corpo. Finì in fretta, per fortuna.
La mano lo rimise
nella teca. Appena toccò nuovamente il fieno sotto le zampe,
corse
via nell'angolo, a rannicchiarsi.
“Sei
stato bravo, Splinter” lo rassicurò la voce,
allungandogli un seme
di girasole.
Il topolino lo annusò titubante poi, accertato che
non fosse una minaccia, lo afferrò coi denti e lo
portò via,
andando a sgranocchiarlo nel suo riparo.
Il
fruscio del vento che spazzava l'erba verde e le fronde degli alberi
nella collina, sfiorando con gentilezza la pelle.
Tutto il
contrario delle corde che gli mordevano la carne dei polsi, strette
tanto da solcarla, la pelle, per tenere fermi i suoi movimenti.
“Traditore,
è ora di morire” disse l'uomo con l'armatura
giapponese, sfilando
la Katana dal fodero con un sibilo minaccioso.
“Oroku
Saki, per undici stagioni ho reso onore all'ultimo desiderio di mia
moglie e ho evitato di affrontarti per proteggere i nostri
figli”
iniziò a dirgli, sovrastato dalla sua figura in piedi con la
spada
puntata contro il collo.
“Ma
ora che sono morti, non sono legato a quella promessa. Sappi
che”
continuò, mentre l'uomo alzava la lama per colpirlo,
“quando ci
incontreremo di nuovo, ti distruggerò.”
“Idiota, non
ci incontreremo mai più” esclamò
l'uomo, pronto a colpire.
Ma
lui era pronto. Certo che si sarebbero incontrati ancora, parola
d'onore di Hamato Yoshi.
Il
sibilo di una lama affilata e il dolore della morte che invadeva ogni
cosa, fino a diventare solo gelido nulla avvolgente.
Buio,
oscurità, oblio.
“Allora,
come stai oggi, Splinter?” domandò l'uomo col
camice bianco,
prelevandolo per la consueta iniezione.
Il dolore era
sopportabile, ormai. Erano già due settimane che ogni giorno
subiva
quel trattamento e se non ci si poteva certo abituare al dolore,
perlomeno aveva capito che era temporaneo.
E non era l'unica cosa
che aveva capito.
Aveva dei
pensieri, pensieri
profondi, che sapeva che non gli appartenevano, prima. Capiva le
differenze tra sé e quegli umani, capiva cosa gli stessero
facendo e
capiva il loro linguaggio.
Era stato umano, una volta.
Sognava
sempre da quando avevano
iniziato a fargli quell'esperimento. Sognava di morire, in cima ad
una collina, sotto un cielo terso.
Il suo esecutore aveva
sterminato la sua famiglia e poi lo aveva ucciso e lui gli aveva
giurato vendetta. Allora si era reincarnato per compierla? Ma era un
topo, si era specchiato nel vetro della sua teca, come avrebbe
potuto?
Aspettò
che l'uomo col camice
si allontanasse, poi con un balzo arrivò all'apertura e la
aprì con
facilità, sgusciando fuori velocemente.
Erano
giorni che usciva da solo
dalla sua gabbia per esplorare i dintorni, per familiarizzare con
l'ambiente.
Stava cercando qualcosa, ma non sapeva ancora che
cosa.
Il
fruscio del vento che spazzava l'erba verde e le fronde degli alberi
nella collina.
Il
cielo terso si rifletteva negli occhi dei suoi figli, che lo
guardavano con paura e rabbia, per ciò che li aspettava. Le
braccia
legate dietro la schiena, in ginocchio davanti ai loro nemici, i loro
occhi erano tutti per lui. Il loro padre.
Toshio
lo guardava con rassegnazione e rispetto, comunicandogli che sapeva
non fosse colpa sua.
Riku sembrava più preoccupato per lui, che
per sé stesso.
Sora aveva le sopracciglia aggrottate e la
mascella contratta, deciso a non mostrare paura nemmeno in punto di
morte.
Hoshi, invece, piangeva silenziosamente.1
Le
lame calarono improvvise, spezzando le vite dei suoi figli, senza che
potesse fare nulla. E il suo cuore si fermò in quell'esatto
momento.
Morì in quell'esatto momento, perciò non era
più importante cosa
gli avrebbe fatto Oroku Saki.
Era un uomo già morto, ormai.
Le
sue ultime parole furono una promessa di vendetta, per la sua
famiglia, prima che la lama calasse sulla sua testa, portandosi via
ogni cosa, anche il dolore.
Buio,
oscurità, oblio.
Gironzolava
per il laboratorio,
con la codina rosa che frusciava dietro di sé. Una donna col
camice
lo guardò per qualche istante, poi sorrise e gli
aprì una porta che
lui non poteva raggiungere.
Si erano
abituati, ormai, al
vederlo vagare per gli ambienti del laboratorio. All'inizio avevano
gridato sorpresi. All'inizio c'era stato il panico ed era stato
riportato nella sua teca con urgenza, rinforzata con un lucchetto
perché non si ripetesse.
Ma lui aveva aperto ogni lucchetto e
ogni serratura che avevano messo per impedirgli di uscire e invece di
arrabbiarsi, le persone coi camici si erano entusiasmate per la sua
manualità ed intelligenza.
E gli
avevano concesso di
muoversi liberamente, per controllare cosa facesse.
Non che
facesse niente di particolare: esplorava, cercava di capire cosa
cercassero di ottenere coi loro esperimenti, apprendeva sempre
più
concetti che gli erano estranei.
Entrò
in una stanza in cui
prima non era mai stato, lunga, spaziosa, lampade al neon al soffitto
e tubi che spuntavano da qualche parte e correvano per i muri per
sparire chissà dove.
C'era una teca come la sua, poggiata su un
bancone in un angolo, e si avvicinò per vedere cosa
contenesse. Le
sue zampe erano agili e scattanti e con un solo balzo riuscì
a
raggiungerla, bilanciandosi con la coda per la parabola del salto.
Atterrò
con leggiadria e
osservò attentamente all'interno della teca, curioso. In un
primo
istante vide solo il suo riverbero, perciò si
avvicinò ancora un
po', appoggiando il muso nero al suo riflesso.
Quattro
piccole tartarughine
stavano placidamente pensando ognuna ai fatti propri. Mangiavano
lattuga, riposavano su un sasso, fissavano il vuoto.
Quattro
innocue, piccole tartarughine, col guscetto verde scuro.
“Oh,
ecco dov'eri, Splinter. Sei venuto a vedere i nostri nuovi
ospiti?”
disse la voce di una donna, avvicinandosi alla teca su cui lui aveva
poggiato una zampina.
Un brusco
respiro. Un
urlo.
“Chet! Vieni qui, corri!” gridò la donna
sotto shock a
qualcuno, avvicinandosi per osservarlo meglio.
Forse era
davvero strano vedere
un topo piangere, in fin dei conti. Tanto da dover chiamare il capo
del suo reparto perché vi assistesse.
Ma Splinter non se ne
curava. Con la mano premuta contro il vetro della teca come se
volesse essere inghiottito dentro, guardava i suoi quattro figli,
restituitigli in forma di tartarughe.
Toshio,
Riku, Sora, Hoshi. E
lui, Yoshi.
La famiglia
Hamato era di nuovo
unita.
Anche
se non per molto.
Aveva
perso Sora. Aveva smarrito Sora. Lo aveva abbandonato.
Sora.
“Sensei,
stai bene?” si fece strada una voce gentile, destandolo dalla
sua
meditazione.
Il maestro si riscosse e aprì gli occhi sul suo
figlio maggiore. Un tempo forse era stato Toshio, ma ora era
Leonardo.
Gli sorrise
e lo invitò a
sedersi per meditare con lui. La tartaruga mutante non se lo fece
ripetere ancora e si inginocchiò di fronte.
“Stavi mormorando
sotto voce, padre. Qualcosa ti turba?” domandò con
riguardo,
sperando di non essere inopportuno.
“Stavo ricordando. Cose del
passato che non ci può più toccare e cose di un
passato che ancora
ci sfiora” rispose Splinter, enigmatico.
Leonardo
capì che era il suo
modo per discutere senza svelarsi mai davvero, per indurre il suo
ascoltatore ad arrivare alla verità con le sue forze.
“Stiamo
per uscire per le ricerche, sensei. Vieni con noi?” propose
per
distoglierlo dai suoi pensieri, che sembravano averlo rabbuiato.
Il maestro
afferrò il bastone
appoggiato per terra al suo fianco e lo usò per tirarsi su.
“Buona
idea, ho proprio voglia di rivedere il cielo2”
rispose raggiungendo i suoi figli, Riku, che ora era Donatello e
Hoshi, che pure chiamandosi Michelangelo, non aveva perso un
dettaglio del suo carattere spensierato.
Tutti
insieme fuori, a cercare
Sora.
Raphael.
Per poter
essere di nuovo una
famiglia.
1: i nomi
dei figli non sono mai
scritti nei comics, non sono canon. Sono nomi che io ho dato loro per
esigenza di trama. Tre di questi nomi li ho presi dalla mia serie
Heart's mutation, appariranno nel futuro.
2: Sora, il
nome che ho usato
per Raphael, vuol dire cielo. Perciò il cercare il cielo o
il voler
vedere il cielo, ha un doppio significato, per Splinter. Vuole vedere
suo figlio.
Note:
Buona sera!
Sono felice
di poter pubblicare
la seconda OS, perché oggi sono arrivata al sesto comics e
ne ho
buttato giù una nuova, di getto. Son cose che rendono felici!
Grazie per
aver letto la prima,
grazie per la fiducia! Spero di riuscire a mantenere le aspettative.
Questa OS
è su Splinter/Hamato
Yoshi, nel periodo in cui era ancora un topo, nel laboratorio della
Stock Gen, prima ancora che mutassero, quindi. Una doppia narrazione,
passato e presente, che si uniscono nella mente di questo uomo, che
uomo più non è. Il discorso nella parte in
corsivo tra Oroku e
Yoshi è presa dal comics 3.
A
prestissimo, un grande
abbraccio
*Spoiler *
(Per
chi non avesse letto il comics, Splinter e le quattro turtles sono le
reincarnazioni di Hamato Yoshi e i suoi figli, uccisi nel Giappone
feudale da Oroku Saki.)
|
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Capitolo 3 *** Raphael- All I want for Xmas is... ***
All
the lights are shining
so
brightly everywhere
and
the sound of children
laughing
fill the air
And
everyone is singing
I
hear those sleiht bells ringin
Santa
won't you bring me the one I really need...
New
York era un città poliedrica, capace di cambiare faccia
praticamente
ogni giorno, ormai lo aveva capito. Non c'era niente di fisso, in
quella città, niente di costante. I cambiamenti si
susseguivano
senza sosta: negozi che chiudevano e altri alla loro prima
inaugurazione; fiumane di persone che correvano e tornavano, si
scontravano e si scindevano; cartelloni pieni di colori che
sponsorizzavano una marca famosa, che il giorno dopo erano
già
scomparsi, sostituiti da altre marche, altri colori, altri prodotti.
Dopo
mesi passati a correre nei suoi vicoli ad osservare in solitudine,
ormai aveva capito e fatta sua quella routine, quelle metamorfosi
continue.
Ma
niente lo aveva preparato alla maschera che, di punto in bianco, New
York aveva indossato. Il giorno prima era tutto spoglio e monocolore,
dalle tinte cupe e terrose dell'autunno, il giorno dopo era un
tripudio di colori sgargianti e luminosi, e biancore, fiocchi in ogni
dove; il rosso, il bianco e il verde che si abbracciavano in una
stretta cromatica contrastante eppure bellissima.
Musichine
dolci e trillanti si diffondevano nell'aria, luci abbaglianti e
dorate pulsavano nelle strade, avvolgendo perfino i palazzi, e le
vetrine dei negozi scoppiavano di tutte quelle cose combinate,
trasformandosi in piccoli mondi a parte di splendore e dolcezza.
Non
sapeva il perché di quel cambiamento, era piuttosto confuso
e
spaventato dalla improvvisa marea di gente, molta più del
solito,
che riempiva le strade fin quasi a scoppiare, rendendogli
più
difficile nascondersi e rendersi invisibile.
Persino
i vicoli non erano più così sicuri.
E
anche se non era consigliabile, era attratto da quella
novità, al
punto da rischiare ben più di una volta di essere visto pur
di
osservarsi intorno.
Sentiva
un richiamo irrefrenabile verso quelle vetrine, quelle luci, come una
falena verso il fuoco.
C'erano
quei gruppetti che le fissavano come in trance, con i piccoli umani
che strillavano di gioia, chiedendo a quelli grandi di comprare
questo o quello, puntando le loro manine guantate contro il vetro,
incollandoci i nasi tanto da appannarlo col loro respiro caldo.
E
anche lui voleva appiccicarsi alla vetrina con loro e riempirsi gli
occhi di quei colori e quelle meraviglie e forse chiedere a qualcuno
qualcosa che non gli serviva, a qualcuno che teneva a lui.
I
piccoli umani li chiamavano mamma e papà, e sembravano
felici di
stare con loro. Alcuni avevano solo la mamma, alcuni solo il
papà,
altri avevano due mamme o due papà, e sembravano fare
affidamento su
di loro per ogni cosa.
Se
avevano bisogno di cibo, lo chiedevano alla loro mamma.
Se
avevano freddo, si stringevano al loro papà che li stringeva
con
amore, frizionando le loro piccole manine tra le loro enormi per
scaldarle.
Se
avevano paura chiamavano quel nome e il loro genitore si fiondava in
loro aiuto, senza riserve.
Per
ogni più piccola cosa, potevano fare affidamento a quegli
umani che
sembravano amarli incondizionatamente, guidandoli verso la scoperta
del mondo.
Lui
non aveva niente del genere. Non lo aveva mai avuto, per quanto
riuscisse a ricordare. Eppure, non sapeva nemmeno spiegare come,
sentiva nostalgia di quella dolcezza che riusciva a toccare solo con
lo sguardo.
Una
mamma e la sua bambina passarono davanti al vicolo da cui spiava,
parlando concitate tra loro di regali da comprare, di candele per
arredare e ingredienti per meravigliose cibarie che avrebbero
preparato, tanto assorte da non accorgersi delle luci delle luminarie
che si riflettevano nei suoi occhi. La bambina era un tripudio di
rosa: rosa il cappottino, rosa scuro la cuffietta enorme e le
muffole, in coordinato agli stivaletti con le frange; sorrideva alla
madre euforicamente, stringendo al petto un pacchetto enorme per lei.
Probabilmente
il suo regalo per natale.
Le
seguì nel loro vagabondare con lo sguardo, attirato dalle
loro
chiacchiere e dall'aura di felicità che emanavano, invidioso
e
affamato di quel sentimento.
Però
non era semplice seguirle nel fiume di persone che scorrevano davanti
a quel suo pezzo di mondo, sparivano inghiottite da una comitiva di
turisti che fotografavano qualunque luminaria o decorazione con
stupore, per poi riapparire qualche metro più avanti assorte
nel
decidere davanti ad una vetrina.
Poi
le perse all'improvviso, sepolte dalla folla in continuo movimento.
Sospirò
e il fiato si condensò in una nuvoletta bianchiccia, svanita
presto
nell'aria gelida e piena di smog; portò le mani alla bocca e
ci
soffiò sopra, strofinandole una contro l'altra per resistere
all'intirizzimento.
Era
sempre più difficile sentirsi bene, anche se non sapeva
perché.
Aveva notato che il buio arrivava prima, da qualche settimana, e che
rimanere all'aperto gli causava tremori per il corpo e che gli arti
si irrigidivano, soprattutto le dita, ma non capiva il motivo.
Aveva
visto gli umani seppellirsi progressivamente sotto strati sempre
più
spessi di stoffe, ma lui non aveva nulla del genere. Anche frugando
nell'immondizia non era stato capace di trovare niente, solo vestiti
rovinati tanto da non poter essere indossati, una coperta che puzzava
di vomito.
Si
strofinò le braccia con forza, mentre il respiro creava
nuvolette
bianchicce.
Doveva
assolutamente trovare un riparo.
Si
allontanò con un sospiro, indietreggiando nel vicolo
repentinamente,
forse anche troppo, dato che davanti ai suoi occhi ballavano ancora
le luci pulsanti delle decorazioni, nella semioscurità che
lo
avvolgeva.
Camminò,
con l'intento di trovare da mangiare e un posto asciutto e riparato
dove passare la notte. Alla meno peggio avrebbe dovuto dormire di
nuovo dentro un cassonetto, per tenersi al caldo.
Alle
sue orecchie arrivavano lievi canzoncine, sfuggite da finestre
semiaperte dove le persone ridacchiavano e parlottavano. C'erano due
persone che attaccavano palle colorate ad un meraviglioso abete,
lì
alla finestra del terzo piano, per esempio.
Quella
zuccherosa e romantica canzone che ascoltavano l'aveva già
sentita
nei giorni precedenti e il ritornello e i suoi campanellini gli si
erano attaccati in testa, assillandolo persino nei sogni.
I
don't want a lot for Christmas
There's
just one thing I need
I
don't care about the present
underneath
the Christmas tree
I
just want you for my own
more
than you could ever know
Make
my wish came true
All
I want for Christmas is you
La voce
della donna che cantava
salì di qualche ottava, tenendo la nota in maniera
incredibile. A
qualcuno quelle tonalità così alte avrebbero
potuto dare anche
fastidio, ma a lui erano più le parole, ad irritarlo. Anche
senza
capire appieno perché.
Parlavano di desideri per quella
festività e di cose più importanti di quelle
terrene. Parlavano di
un legame più forte del possesso di cose materiali.
Ma lui non aveva nient'altro che
il cibo che riusciva faticosamente a trovare e i fugaci rifugi che
scopriva di tanto in tanto, abbandonati in fretta quando un barbone
veniva a reclamarli urlandogli dietro.
Perciò
no, non c'era niente di
più importante di quello che riusciva ad afferrare con le
sue mani,
per lui.
Arrivò
alla grossa costruzione
che stava inconsciamente cercando, dove sapeva che avrebbe trovato un
pasto, per quella notte. Era completamente avvolta di luci e la
grossa croce in cima luccicava come un faro nella notte.
Gli umani la chiamavano chiesa e
ci entravano dentro per ore, di tanto in tanto. Ma mai come in quel
periodo. E chissà perché, ultimamente le scorte
di cibo che
arrivavano a quel posto, e quindi gli scarti dello stesso, erano
andati crescendo; c'era sempre una fila enorme di persone che
aspettava un pasto, ogni giorno mattina e sera.
Quando tutti andavano via,
riusciva a trovare cose buone nel bidone dietro l'edificio. Non
tante, a volte mischiate le une con le altre, il dolce col salato, ma
sempre cibo.
Trotterellò
furtivamente nelle
ombre, fino ad arrivare all'imboccatura della stradina che portava al
retro della chiesa.
E lì, sui gradini centrali
della stessa, vide un informe pacchetto, con un biglietto attaccato
sopra.
Non si sarebbe avvicinato, se la
carta del pacchetto non gli fosse parsa familiare. Aveva gli stessi
decori di piccoli orsetti coi capellini rossi che c'erano sul
pacchetto che la bambina rosa teneva in braccio.
Sarebbe
stato strano, se fosse
stato esattamente lo stesso. Ma anche le dimensioni gli suggerivano
che lo fosse.
A passi guardinghi si fece
vicino, occhieggiandosi attorno per scorgere occhi che potevano
individuarlo, con un po' di ansia.
Afferrò
il pacchetto e lo portò
velocemente nella penombra della stradina, teso ad ogni suono. Lo
stringeva talmente forte contro il petto che la carta scricchiolava
rumorosamente sotto le sue dita.
Lo allontanò da sé per non
rovinarlo e lo sguardo gli cadde sul bigliettino rosa pinzato in un
angolo.
Rosa. Allora forse era davvero
della bambina.
Strizzò
le palpebre un paio di
volte, mettendo a fuoco le lettere. Non sapeva leggere, non con
chiarezza almeno. Giorno dopo giorno aveva acquisito una lieve
infarinatura ascoltando attentamente in giro, sapeva come si
pronunciavano certe parole scritte su cartelli e insegne, sapeva cosa
c'era scritto sulle scatole del cibo che trovava nel bidone nel suo
vicolo preferito: pizza. Gli piaceva la pizza.
“A...
a c-c-chi...” iniziò
a compitare con difficoltà, il grosso dito che scivolava
sotto la
scrittura infantile per facilitarsi nella lettura; “... ha-a
p-po-poco” finì di leggere la prima riga, cercando
subito quella
sotto.
“...
co-con s... no,
t-ta-n-tant-o af-f-f-fetto. B-bu-on nat-a-l-e.”
Rilesse
tutta la nota per
intero, di nuovo, nella testa.
“A
chi ha poco, con tanto
affetto. Buon natale” recitava il messaggio completo, con uno
smile
vicino alla firma.
“C-ca-ro-l-le.
Carole.”
Sembrava un
messaggio riferito a
nessuno in particolare, solo a chi avesse preso quel pacchetto.
Qualcuno che avesse poco.
Come lui.
Allora poteva permettersi di
aprirlo?
Prima ancora di finire di
formulare quella domanda nella mente, le mani erano già
corse verso
i bordi, afferrando la carta con bramosia, eppure attento a non
romperla. Aprì in un secondo e rimase meravigliato a
guardare il
contenuto.
Aveva visto
tante volte gli
umani portare quei cosi. Indossò con molta fatica la felpa
grigia
col cappuccio: non capì subito come dovesse infilare le
braccia
nelle maniche, si incartò un paio di volte, si contrasse
freneticamente di qua e di là col fiatone, finché
non gli cadde
addosso perfettamente.
Tirare su la zip fu difficile
tanto quanto indossare la felpa. Le sue mani erano molto grandi e il
piccolo perno sfuggiva dalle sue dita e non capiva come i dentini da
una parte all'altra dovessero incastrarsi, rischiando di incepparla
parecchie volte.
Alla fine,
prese anche il lungo
trench beige e lo infilò sopra alla felpa, stringendoselo
addosso.
Percepì immediatamente un gran
tepore sfiorarlo e avvolgerlo e per la prima volta da quando le
giornate erano diventate scure e mordenti, si sentì bene.
Sentiva un
gran calore al centro del petto, che scivolava poi in ogni
più
piccola cellula del corpo, e niente lo aveva mai fatto sentire
meglio, prima.
Si ricordò del grosso sorriso
della bambina mentre stringeva il pacchetto a sé, forse
pensando a
come sarebbe stato contento chiunque lo avesse aperto.
Sentì
le guance tirare e le
labbra stendersi sui denti, sempre più, sempre
più forte.
Stava sorridendo. Lo aveva visto
fare agli umani quando erano felici, ma lui non l'aveva mai provato,
prima.
Non aveva mai avuto molto per
cui sorridere.
Gioì
del dolore alle guance e
probabilmente, se qualcuno lo avesse visto, lo avrebbe preso per
pazzo, con quel sorriso felice e folle sul viso.
Si chinò a raccogliere il
fogliettino e lo infilò in tasca con riguardo, quasi come
fosse un
tesoro.
Poi, con quella canzoncina
romantica e zuccherosa nella testa, si allontanò a grandi
passi,
verso il prossimo obiettivo, verso una notte ancora e poi un altro
giorno e via così.
Note:
Ecco la
terza OS. Alla fine non
l'ho cambiata poi molto, anche se non riesce ancora a convincermi del
tutto.
Non
sappiamo come Raphael sia
entrato in possesso della felpa e del trench con cui lo vediamo nel
primo comics, -quasi sicuramente li ha trovati in un bidone per la
raccolta di abiti usati,- ma mi piaceva dare un'atmosfera dolce al
momento del ritrovamento, una sorta di regalo.
Perché volevo cercare delle
piccole scene che spiegassero come mai Raph non fosse diventato arido
e incattivito, nonostante avesse vissuto per quindici mesi in
solitudine, con fatica.
Spero vi
piaccia!
Ne
approfitto per augurarvi
buone feste, qualunque cosa festeggiate!
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Capitolo 4 *** Casey- I promise, mom ***
La
porta tremava sotto ogni pugno. Poteva quasi sentire il rantolo del
legno che si tendeva sotto lo schianto delle manone chiuse, poteva
quasi sentirlo scricchiolare mentre tornava a posto, quando le mani
si caricavano all'indietro per poter colpire ancora.
Un
tonfo, un altro e un altro ancora, e poi ancora e ancora.
“Vieni
fuori, bastardo di un moccioso!” gridò la voce
ubriaca,
biascicando le parole.
Casey
si rannicchiò con più vigore, nascosto in un
angolo della sua
camera in penombra, con gli occhi spaventati fissi sulla porta.
Poteva
quasi vederla muoversi, quando suo padre la colpiva con foga.
Tonfo.
Tonfo. Tonfo. Tonfo.
“Mi
hai sentito? Vieni fuori, sacco di letame!” tuonò
di nuovo l'uomo,
colpendo ancora più forte.
Casey
tremolò, impercettibilmente. Non poteva nemmeno immaginare
il dolore
che gli avrebbero causato quei pugni se avessero colpito lui, invece
della porta. Gli era bastato lo schiaffo che suo padre gli aveva dato
quando era tornato avvolto dall'odore di alcol, come se ci fosse
annegato dentro, e lui gli aveva chiesto se fosse ubriaco.
La
guancia gli bruciava come se il fuoco la stesse divorando. La
toccò
con la mano fredda, aveva perso ogni altro calore per la paura, e il
contatto gli diede refrigerio e una scarica di dolore.
Era
riuscito a nascondersi in camera in un lampo, grazie anche ai
riflessi rallentati di suo padre, e a chiudercisi dentro, un secondo
prima che quello provasse a buttarla giù. Prima la maniglia
aveva
traballato convulsamente con un fragore orribile, mentre il
batticuore lo divorava, poi si era scagliato con tutta la sua forza,
come una carica di rinoceronti.
Tonfo.
Tonfo. Tonfo.
“Quando
verrai fuori me la pagherai, dannato! Ti odio, ti ho sempre odiato,
piccolo bastardo!”
Il
cuore di Casey si strinse, preda di sofferenza e orrore.
Quello
non era suo padre, non lo era affatto. Era il mostro della malattia
di sua madre che se lo era mangiato vivo, poco a poco come aveva
logorato lei in mesi di debilitazione crescente e vitalità
che si
spegneva, finché non l'aveva portata via.
Lo
sapeva che era così, ma le sue parole lo ferirono
ugualmente. Sentì
gli occhi pizzicare e prese un brusco respiro per ricacciare indietro
le lacrime.
Ormai
era abituato al fatto che suo padre bevesse, lo aveva fatto ogni
giorno mentre sua madre era malata, per non affrontare la
realtà. Lo
aveva visto ubriaco così tante volte da perdere il conto. Ma
era la
prima volta che alzava le mani su di lui.
Tonfo.
Tonfo.
“Vigliacco,
apri la porta! Sei solo un fallito” lo aggredì
ancora l'uomo, con
voce sempre più incerta.
Era
anche la prima volta che lo insultava in quel modo. Con quell'odio,
con quell'accanimento.
Una
lacrima cadde con un lieve picchiettio sulla gamba, sul tessuto
serico del pantalone nero. Solo in quel momento si rese conto che
stava piangendo.
Passò
il dorso della mano sul viso e deterse le lacrime con stizza.
Non
poteva permettersi di sporcare il completo a noleggio che aveva messo
per il funerale di sua madre.
E
non poteva permettersi di piangere, anche se probabilmente gli
avrebbe fatto bene, anche se probabilmente avrebbe lavato via il
dolore di aver appena seppellito sua madre o almeno il guscio che era
rimasto di lei dopo che il cancro l'aveva impietosamente consumata.
Tonfo.
“Sei
un dannato buono a nulla, Casey Jones” borbottò
suo padre, con
voce malferma, le sillabe storpiate.
Un
suono strascicato riempì il silenzio teso della stanza e
Casey capì
che erano i pugni del padre che slittavano sul legno, mentre si
accasciava al suolo vinto dall'alcol.
Era
finita, almeno per quella volta. Ma con terrore si chiese se non
fosse solo l'inizio, invece, di una discesa verso l'inferno, se suo
padre non ci avrebbe provato ancora.
E
quella porta non lo avrebbe protetto per sempre. Un giorno, forse,
avrebbe dovuto difendersi da solo.
Ma
le parole di sua madre, le ultime prima di chiudere gli occhi lucidi
e febbricitanti per sempre, riecheggiarono nella sua mente.
“Prenditi
cura di tuo padre, Casey. Capiscilo, vagli incontro, non litigare con
lui anche se sarà il primo a cercare battaglia. Promettimi
che ti
prenderai cura di lui.”
Casey
tirò su col naso e annuì al nulla, nella
semioscurità che lo
avvolgeva.
“Lo
prometto, mamma” disse stringendo le ginocchia al petto,
nascondendoci il viso contro, perché niente e nessuno
potesse
davvero vedere le lacrime che non poté più
evitare di versare.
Note:
Buona
sera!
Questa
è la quarta OS, in realtà, e non la terza.
Perché la metto? La
terza si ispira a questo clima di festa e l'ho ripresa
perché tra
tutte è quella che meno mi convince. Spero di riuscire a
migliorarla, penso di aver fatto una scemenza.
Comunque,
appena pubblico l'altra, questa ritornerà quarta, quindi
tutta
questa premessa è in effetti inutile.
Salve!
Questa
OS è su Casey, più o meno nello stesso periodo in
cui, da un'altra
parte, le turtles erano state rapite dal laboratorio e finivano nel
mutageno.
Casey
stava seppellendo sua madre, consumata dal cancro e suo padre
iniziava la sua discesa verso l'inferno, con alcol e botte al figlio.
Ah,
se solo Casey non avesse promesso a sua madre in punto di morte di
proteggere suo padre e non combatterlo. Povero cucciolo, lo adoro in
questa serie a fumetti, è meno spavaldo che nella serie
2003, un po'
più maturo e triste.
E
niente, spero che vi piaccia. È molto angst, a ben pensarci.
Vi
ringrazio per leggere le OS, per il riscontro che sto trovando in
voi! Sono felicissima!
Caldi
abbracci a tutti!
|
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Capitolo 5 *** Who we've been, what we are, why we fight ***
Lo
sciaguattio dei piedi nell'acqua melmosa li seguiva ad ogni passo,
incessantemente.
Non
importava quanto camminassero, le acque di scolo delle fogne erano
ovunque, arrivavano da tutte le parti.
Avrebbe
mai trovato un riparo perfetto, asciutto e nascosto quel tanto che
bastava per permettergli riposo e sicurezza?
Splinter
ci sperava, mentre camminava in testa alla comitiva, poggiato ad un
bastone trovato in un condotto. Doveva essere stato trascinato fin
lì
da una corrente improvvisa, un temporale particolarmente violento.
Parlava
nel tragitto, cercando di spiegare ai suoi figli, i suoi benedetti,
ritornati a nuova vita figli, che lo seguivano con curiosità
e
pazienza, ripetendo alcune parole che lui diceva.
Anche
se non sapeva fin quanto lo capissero sul serio.
Se
il liquido del laboratorio era stato in grado di far crescere ed
evolvere i loro corpi in una sola notte in uno stadio maturo e simile
agli umani, non era certo che avesse fatto lo stesso con le loro
menti.
I
loro enormi occhi continuavano a guardarsi intorno sorpresi e rapiti
per ogni cosa, anche la più infima e lurida, come quelli di
un
bambino che scopre il mondo, lo stesso identico sorriso infantile e
meravigliato sulle loro facce.
E
per un istante, un frammento di malinconia lo trafisse, riportandogli
alla memoria immagini nostalgiche di una vita lontana e precedente,
di quei suoi bambini che imparavano a parlare, a camminare, a
scoprire ciò che li circondava.
Quando
erano ancora umani, prima che le loro vite venissero strappate con la
violenza.
Eppure,
eccoli lì i suoi bambini, di nuovo vivi, di nuovo curiosi,
di nuovo
attenti e avidi di conoscenza, a guardarlo con quell'amore
incondizionato che i figli sanno dare ai loro genitori,
perché
percepiscono che sono lì per loro, che darebbero qualunque
cosa per
loro.
A
lui spettava proteggerli e insegnar loro di nuovo come scoprire e
capire
il mondo, anche se in maniera leggermente diversa, questa volta.
Perché
era certo che non avrebbe potuto essere completamente come quando
erano umani, ma non importava. Avrebbero fatto attenzione, avrebbe
spiegato loro la verità e alcune regole, quando sarebbe
stato il
momento giusto.
Il
suo naso da roditore fiutò un lieve fiotto di aria pulita e
lo seguì
fiducioso, tendendo il collo nella giusta direzione; la combriccola
di enormi bambinoni gli andò dietro, saltellando di tubatura
in
tubatura, nel caso di Michelangelo.
Arrivarono
ad una vecchia stazione sotterranea creata come deposito per le
riparazioni della linea della metropolitana che prima correva da
quelle parti; Splinter studiò l'ambiente per essere certo
che
nessuno si avventurasse lì giù da un lasso di
tempo considerevole:
lo spesso strato di polvere intonsa sul pavimento e le enormi macchie
di muffa che spuntavano come un tappetto verde, -nonché due
tubi
rotti e arrugginiti dai quali non fuoriusciva più nulla,- lo
rassicurarono.
Certo,
ci sarebbe stato molto da fare, per rimettere quel posto in ordine e
cercare anche tutto ciò che necessitavano, come cibo e
attrezzi per
la casa e mobilio, e nel frattempo avrebbe dovuto anche educare e far
crescere mentalmente i suoi figli, e allenarli di nuovo nell'arte del
ninjitsu.
Certo,
non era così semplice. Una parte di lui continuava a
ripetersi che
era giusto e onorevole camminare pian piano e guidare così i
ragazzi
lentamente, con la giusta calma che necessitavano, -d'altronde erano
appena mutati in qualcosa di diverso ed era tutto così
confuso e
nuovo per loro; ma l'altra parte gridava letteralmente di dolore, al
pensiero del suo quarto figlio perduto.
Raphael.
Lo aveva perduto. Lo aveva abbandonato. Il suo senso di colpa e
preoccupazione crebbe ancora, esponenzialmente, come se già
non lo
stesse dilaniando da quando aveva dovuto fare una scelta tra il
seguire le tracce del figlio disperso o trascinare in salvo gli altri
tre, prima che venissero catturati dai ninja in nero.
Alla
fine aveva preferito nascondere i tre rimasti nel sacco dalle mani
degli umani, anche se non c'era stata una scelta, in fondo: non era
una vera scelta se entrambe le opzioni portavano al dolore e al
rimorso.
Voleva
correre in superficie e cercare Raphael, ma come avrebbe potuto
lasciare gli altri suoi figli da soli, senza qualcuno che li tenesse
d'occhio e stesse loro vicino? Ancora non erano pronti a stare da
soli, probabilmente avrebbero cercato di seguirlo fin su, con
catastrofiche conseguenze, minando tutti i suoi sforzi in ogni caso.
L'unica
soluzione rimasta era lavorare sodo e il più in fretta
possibile per
riportare i suoi figli in forma e coscienza, così che
potessero
lavorare tutti assieme per ritrovare il loro fratello perduto.
Raphael
era indubbiamente forte, il più tenace e resistente dei suoi
ragazzi, eppure il suo cuore si strinse in una morsa al pensiero di
saperlo solo, là fuori, smarrito e disorientato, alla
mercé di
chiunque; una preghiera silenziosa piegò le sue labbra,
nient'altro
che un augurio che stesse bene e rimasse illeso e vivo,
finché non
avesse potuto abbracciarlo ancora.
L'aria
fredda di Dicembre scendeva fin nelle tubature, si infiltrava con
forza nei condotti e soffiava fino ad arrivare lì sotto,
congelando
ogni cosa.
Uno
spiffero freddo arrivò perfino nel vecchio deposito del
settore nord
e qualcuno starnutì.
“Donnie!
Non possiamo costruire una porta?” si lagnò
Michelangelo con la
voce nasale, tirando su il moccolo che minacciava di scendergli.
Donatello
si fermò un secondo, distraendosi per guardarlo in cagnesco,
e la
pagò cara: Leonardo approfittò di quel breve
momento e lo afferrò
per un braccio, catapultandolo lontano.
Don
volò in parabola discendente, ma non riuscì a
girarsi come avrebbe
voluto e batté con il guscio contro il muro, scivolando a
testa in
giù sul pavimento.
“Grazie
mille, Mikey!” soffiò irato, metà del
corpo ancora poggiata alla
parete.
“La
colpa non è sua, Donatello. Dovresti sapere che non bisogna
farsi
distrarre quando si combatte. E se proprio succede, bisogna cercare
di riportare la situazione a proprio vantaggio, in ogni modo
possibile e rapidamente” lo riprese Splinter, seduto in un
angolo
ad osservarli.
Don
annuì pacatamente e si rimise in piedi, mentre Leo passava
un
fazzoletto a Mikey, infastidito da rumore che faceva col naso.
Ad
un suo comando i figli ripresero l'allenamento a mani nude, con zelo,
mentre lui studiava con scrupolo i loro movimenti, in meditazione.
Erano
già passati quattro mesi da quel giorno in cui erano mutati.
Ed
erano sembrati troppo lunghi e troppo corti allo stesso tempo.
I
suoi figli erano cresciuti: parlavano, pensavano e agivano come dei
maturi adolescenti, perfino Michelangelo, che era quello più
indisciplinato e incline a distrarsi; gli allenamenti avevano
riportato a galla le loro abilità acquisite nella loro vita
precedente, ogni mossa appresa, ogni precetto e segreto di lotta
della loro famiglia, sotto i suoi occhi commossi e meravigliati.
Non
avevano invece riacquistato alcuna memoria di ciò che erano
stati,
al contrario suo; eppure i loro caratteri erano perfettamente
identici ad allora, senza possibilità di sbagliarsi:
Leonardo aveva
mantenuto la sua mentalità da fratello maggiore e si
sforzava il
doppio degli altri per aiutarlo e seguire la sua guida con rispetto e
devozione; Donatello possedeva ancora quella innata
curiosità per
tutto ciò che lo circondava, unita alla sua spiccata
intelligenza,
forse addirittura più accentuata in questa sua nuova vita;
Michelangelo era il suo figlioletto più piccolo e aveva
ancora
dentro di sé quella meraviglia e quella dolcezza che aveva
illuminato le sue giornate più buie del passato.
Sorrise
fugacemente, senza riuscire a staccare lo sguardo orgoglioso da loro,
col cuore gonfio di dolorosa felicità.
Ne
mancava solo uno. Eppure era come non avere un'intera metà
di cuore.
Raphael.
Non
era passato giorno di quei mesi che non avesse pensato a lui,
costantemente, chiedendosi come stesse e dove potesse essere,
pregando di ritrovarlo.
Quel
giorno, finalmente, sarebbe stato quello in cui avrebbe verificato di
persona se le sue preghiere avrebbero infine trovato compimento.
Richiamò
i suoi figli, che interruppero l'allenamento con uno sguardo sorpreso
per il suo tono urgente, forse, e si sbrigarono a radunarsi davanti a
lui, inginocchiandosi con rispetto. Lui, invece, afferrò il
bastone
e si alzò lentamente dal suolo, sovrastandoli in silenzio,
prendendo
un grosso respiro prima di parlare.
“Oggi
è un grande giorno per noi, miei cari figli. Abbiamo
lavorato sodo,
tutti quanti” iniziò con solennità il
maestro, mostrando con un
gesto il rifugio ripulito e arredato con mobili di fortuna, salvati
da varie incursioni nel mondo di superficie, mescolati nelle ombre.
“Finalmente
questo giorno è arrivato” sussurrò
accorato, allontanandosi a
piccoli passi felpati da loro, il bastone che ticchettava nel
pavimento come unico suono.
Leo,
Don e Mikey si scambiarono un'occhiata confusa, con mille domande
inespresse, ma ritornarono di nuovo immobili e col viso rivolto di
fronte a sé, quando il maestro ritornò sui suoi
passi, le mani che
stringevano qualcosa.
Trattennero
tutti e tre il fiato.
Splinter
si inginocchiò di fronte a loro e poggiò con cura
le scintillanti
armi a terra, così attento che non produssero nemmeno un
suono.
Nelle
mani trattenne invece quelli che sembravano stracci rossi, lunghi e
sottili.
“Oggi
è il giorno della ricerca. Il giorno della
speranza” annunciò,
tendendo loro le mani, allungando ad ognuno di loro quella che
scoprirono essere una bandana, tutte dello stesso colore rosso
sangue.
Le
indossarono, quieti, il rumore della stoffa che veniva stretta in
nodi dietro la nuca, poi si voltarono uno verso l'altro per
osservarsi e si sorrisero, soddisfatti da quello che videro.
“Sembriamo
dei supereroi” chiocciò Michelangelo contento, lui
che aveva
sviluppato un amore spropositato per comics e fumetti dei suddetti.
Il
sensei attese che si calmassero, prima di prendere le armi dal suolo,
e consegnarle ognuna nelle mani del giusto proprietario.
Loro
non lo sapevano, ma già nel passato si erano allentati con
quelle
armi, ognuno indirizzato verso una disciplina specifica.
Prese
le Katana tra le mani aperte, e le passò a Leonardo, come se
stesse
facendo un'offerta ad una divinità: il figlio si
alzò e fece un
inchino, prima di afferrarle con presa sicura. La mano si chiuse su
un'elsa intrecciata e sfilò morbidamente la spada dal suo
fodero,
osservando la lucentezza del filo tagliente, e vide il suo stesso
riflesso nell'acciaio della lama. Il rosso della maschera faceva
risaltare il verde foresta della sua pelle e rendeva il suo sguardo
più minaccioso; o forse era l'emozione di avere una vera
arma tra le
mani, pericolosa e letale, a seconda del suo uso.
Se
suo padre si fidava a lasciargli usare infine le Katana, lui non lo
avrebbe in nessuno modo disatteso, né lo avrebbe fatto
pentire della
sua scelta: avrebbe lavorato con tutte le sue forze per non deludere
le sue aspettative.
La
fece sibilare nell'aria, fendendo un nemico invisibile, saggiando il
suo peso e la sua bilanciatura, calmo e fuso con la sua arma.
Con
un sorriso e uno schiocco della spada che ritornava nel fodero, Leo
si inchinò ancora una volta, poi tornò al suo
posto, con le spade
poggiate al suolo di fronte a sé.
Fu
il turno di Donatello: Splinter gli porse con garbo un Bō,
un lungo bastone al cui centro erano intrecciati dei fili per
facilitargli la presa; il secondo dei suoi figli si alzò e
si
inchinò come suo fratello prima di lui, poi
afferrò la sua arma.
Percepì
immediatamente la ruvidità del legno sotto il palmo verde
oliva e la
stretta ferma delle dita. Adesso, con quella, era una tartaruga
mutante nerd con un bastone. Abbastanza per far ridere chiunque,
eppure lui sentiva quell'arma come un'estensione della sua persona,
del suo braccio: indietreggiò di un passo e, senza nemmeno
pensarci,
iniziò a fare roteare il bastone, sempre più
veloce, tra le mani,
attorno al corpo, facendolo fischiare come un violento vortice di
vento che si propagava attorno a lui. E quel sibilo gli parlava,
quasi, tranquillizzandolo, come se gli dicesse che nessuno avrebbe
potuto toccarlo finché fossero stati assieme.
Fermò
il Bō
nella mano e riprese fiato, posando infine lo sguardo, che era
rimasto vacuo, su suo padre, i cui occhi invece scintillavano.
Con
un altro inchino grato, Don indietreggiò e
ritornò al fianco di
Leo, poggiando il bastone al suo lato, vicino alla sua gamba.
L'ultimo
era Michelangelo, rimasto in trepidante attesa, con gli occhioni che
si illuminavano al vedere le armi dei suoi fratelli e il modo in cui
le maneggiavano. Stava fremendo aspettando il suo momento, lo avevano
capito tutti.
Perfino
Splinter sembrava sul punto di sorridere e spezzare quell'aria
solenne, alla vista della sua espressione da bambino avvolto dalla
meraviglia.
Quando
il padre lo chiamò, porgendogli i due Nunchaku con
serietà, il
mutante saltò su e si inchinò così
tanto nella foga che quasi
sbatté la fronte contro le ginocchia.
Nel
momento in cui le sue mani si chiusero sulle armi, il suo sorriso era
il più grande e aperto che avesse mai fatto prima: li fece
roteare
con urgenza ed entusiasmo, talmente tanto che finì per
sbattersi in
testa uno dei pezzi in legno, con un tintinnio di catene e un suono
sordo nel silenzio.
Questa
volta Leo e Don non ce la fecero proprio a trattenere una risata,
soffocata per non offenderlo più del concesso. Ma Mikey si
strofinava la parte lesa, continuando a sorridere, all'idea di tutto
quello che avrebbe potuto fare da quel momento in poi: si sarebbe
allenato ancora e ancora, fino a diventare bravissimo.
Si
ricordò di inchinarsi in segno di ringraziamento quando era
già sui
suoi passi per tornare al posto. Don scosse la testa, gettandogli una
breve occhiata, al vedere che si stringeva al petto i Nunchaku, come
se fossero un dolce e tenero bambino.
“Da
questo momento in poi, userete le armi, per difendervi e combattere,
mentre cerchiamo. Anche se spero che non ce ne sarà
bisogno”
annunciò Splinter alla fine, catturando la loro completa
attenzione.
“Ma
cosa dobbiamo cercare?” domandò confuso Mikey,
certo che ancora
non gliel'avesse detto.
“Non
cosa, ma chi: vostro fratello perduto” confessò il
loro padre, col
volto divorato dalla tristezza e il rimorso.
“Ve
ne ho già parlato, quando siete mutati, ma allora
probabilmente non
avete capito, non sapevate nemmeno cosa significasse la parola
fratello;
ma adesso, adesso che capite l'importanza della famiglia;"
iniziò a raccontare, indicandoli come a voler mostrare loro
che bel
gruppo fossero diventati; “Adesso, lasciate che io vi spieghi
ogni
cosa dall'inizio.”
“Vuoi
dire che c'è un altro come noi? Lì fuori da
solo?” si intromise
allibito Michelangelo, prima ancora di farlo parlare.
Splinter
abbassò il capo con aria grave, lasciando andare le spalle
in un
momento di dolore.
“Sì.
Raphael ci è stato strappato via con forza, e tocca a noi
ritrovarlo
e riportarlo qui con noi, la sua famiglia. Una volta che saprete la
verità, mi aiuterete a cercarlo?”
Leo
annuì all'istante, senza nemmeno pensarci; Don lo
seguì, anche se
il suo razionale cervello gli sussurrava maligno le
probabilità che
un mutante potesse essere rimasto in vita per tutto quel tempo da
solo, senza una guida, nel mondo di superficie, -con una scrollata
della testa cercò di scacciare via quei pensieri ed essere
più
positivo; Mikey acconsentì entusiasta, con un grosso sorriso
all'idea che ci fosse lì fuori un altro fratello: non vedeva
l'ora
di trovarlo e conoscerlo e parlarci e coinvolgerlo in chiacchierate e
giochi.
Splinter
sospirò, rincuorato dai suoi figli e il loro assopito amore
per il
fratello, anche se ancora non lo sapevano.
Ma
lavorando tutti assieme, sarebbe stato facile trovare il loro pezzo
mancante ed essere di nuovo una famiglia completa, un nucleo
perfetto.
Si
sedette di fronte a loro e li guardò negli occhi.
“Allora,
tutto inizia in un laboratorio e con un furto...”
cominciò a
raccontare, con la loro totale attenzione su di sé, col
cuore pieno
di speranza per il futuro, con la promessa di un avvenire roseo.
Se
erano riusciti a rinascere a nuova vita e rincontrarsi, quanto
difficile poteva essere ritrovare il loro caro disperso, in fondo?
Niente,
gli diceva il cuore. Niente, sperava la mente.
Note:
Scusate
l'imperdonabile ritardo!
Sono
tornata, comunque, non vi libererete presto di me!
Non
ho molto da dire su questa OS, è un piccolo missing moment
senza
pretese! Spero vi piaccia!
Abbraccione,
buon anno nuovo anche se in ritardo! Di propositi ne ho tantissimi, e
voi?
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Capitolo 6 *** Leonardo- Mother ***
Mi
chiama.
Lei,
mi chiama.
Un
tono amorevole e divertito, avvolgente e protettivo. La sua voce
è
musica, musica che scandisce il mio nome.
Lei
mi chiama.
“Vieni
qui” sussurra dolcemente, tendendomi le mani.
E
io mi sento attirare da lei, come una falena verso il fuoco.
Lei
è il mio centro, la mia gravità, il mio nucleo.
E
le sue braccia, quando infine mi stringono, sanno di
felicità, di
morbido calore, così esili eppure così
protettive. Sembrano fatte
apposta per accogliermi e ripararmi.
“Il
mio ometto” bisbiglia contro la mia fronte, e io riesco a
sentire
le vibrazioni dolci della sua voce contro la mia pelle.
Inizia
a cantare una tenera ninna nanna, con tono soave, in quella lingua
che so di non avere mai imparato, ma che nonostante tutto conosco.
Ascolto ogni respiro, rapito e assorto, ogni immagine che le sue
parole suscitano nella mia mente, ogni vibrato della sua voce gentile
e amorevole, mentre la sua mano esile e aggraziata danza davanti al
mio viso, librandosi in forme e leggeri voli che seguono e
accompagnano la canzone.
Ogni
cosa, in lei, è eleganza e delicatezza; il modo in cui
sorride, in
cui inclina il capo tenuemente, le sue mani cortesi dalle pose
leggiadre, l'intensità del suo sguardo quando mi guarda.
Lei
mi ama. Il suo amore traspare in ogni gesto, in ogni occhiata, in
ogni tocco, nel battito calmo e rassicurante del suo cuore, che mi
culla assieme alla ninna nanna.
Sento
che sto per addormentarmi, ma combatto contro il sonno,
perché
voglio guardarla ancora, voglio ascoltarla, non voglio che se ne
vada.
Lei
si accorge della mia impazienza e sorride con indulgenza. E
canticchiando ancora la melodia, mi sfiora la guancia con la mano, i
suoi occhi sembrano carezzarmi.
“Sarò
ancora qui quando ti sveglierai” mormora rassicurante, mentre
continua a cullarmi.
E
io non posso contrastare ancora questo benessere primordiale, questa
pace ancestrale che stare nelle sue braccia mi trasmette.
Gli
occhi si chiudono, la sua voce continua a vezzeggiarmi, al successivo
battito di ciglia lei è ancora lì che mi sorride,
poi le palpebre
si fanno troppo pesanti e la dolce ninna nanna mi porta infine in un
mondo di sogno.
Ma
lei, lei non c'è.
“Okaasan!”1
chiamo spaventato.
Ma
lei non risponde, la sua voce soave è sparita, il tepore del
suo
abbraccio è scomparso, mi rimane un nulla freddo e spento.
E
lo so, con gelida rassegnazione, che lei non sarà qui quando
mi
sveglierò.
Okaasan.
Leonardo
si svegliò e aprì gli occhi, confuso. La testa
era insolitamente
pesante, la mente ingombra di frammenti ingarbugliati di sogno e
sensazioni.
Sentiva
che stava dimenticando qualcosa, qualcosa di molto importante, ma
più
cercava di focalizzarlo, più gli sfuggiva dalla mente, come
acqua
tra le mani.
Si
sentiva stanco e stranamente smarrito. E solo.
Solo
quando passò le mani sul viso per cercare di strofinare via
la
stanchezza, si accorse delle lacrime calde che gli inumidivano gli
occhi e le guardò splendere sulla punta delle dita,
sconvolto.
Qualcosa
lo aveva turbato nel sonno, ma non riusciva a ricordare cosa avesse
sognato, se non stralci confusi, brandelli caotici che non riusciva a
mettere assieme, a far combaciare.
La
voce del sensei lo chiamò gentilmente, per l'allenamento
mattutino,
e lui si sbrigò a rispondere, detergendo le lacrime con il
dorso
della mano.
E
mentre correva verso l'anziano padre, con una rinnovata energia e il
desiderio di dare il meglio di sé anche quel giorno,
sentì una
dolce melodia solleticargli la mente, anche se non sapeva da dove
venisse.
Mormorando
tra sé quel motivetto che sapeva quasi di ninna nanna,
uscì dalla
sua stanza, con un ignaro sorriso in viso.
1:
Okaasan significa madre, in giapponese. Nella traduzione in italiano,
nel volume 6, Leo la chiama mamma, ma dall'immagine in inglese che
son riuscita a trovare della stessa scena, c'era scritto mother,
madre.
In
fondo chiamava Yoshi padre, perciò ci si aspetta lo stesso
rispetto
per la madre, soprattutto da una persona del Giappone antico.
Quindi
la chiama Madre, non mamma.
Note:
Buonasera!
Dunque,
questa OS nasce dal sesto volume, quando Leo inizia un po' a
ricordare sua madre e alcuni momenti con lei di quando era un umano,
prima che si reincarnasse. Mi ha colpito moltissimo, soprattutto le
scene con solo loro due e questa storia è venuta fuori di
getto.
Non
ho mai usato la prima persona, mai prima d'ora, né il
presente. Ma sentivo che nel
ricordo/sogno era giusto metterli come forma di narrazione, spero di
non aver fatto male.
Grazie
per leggere e seguire la raccolta. Grazie ai preferiti, grazie ai
vostri commenti.
Un
sincero abbraccio
|
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