Comics TMNT: a whole new world

di Switch
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Raphael- His first memory ***
Capitolo 2: *** Yoshi/Splinter- Hamato family ***
Capitolo 3: *** Raphael- All I want for Xmas is... ***
Capitolo 4: *** Casey- I promise, mom ***
Capitolo 5: *** Who we've been, what we are, why we fight ***
Capitolo 6: *** Leonardo- Mother ***



Capitolo 1
*** Raphael- His first memory ***


Dedicata a Sarajane,

senza la quale,

questa raccolta

non esisterebbe.

Grazie di cuore, musa.





Il suo primo ricordo era un fazzoletto di cielo, una linea sottile schiacciata tra due alti palazzi. Azzurro e luminoso, e benché limitato nella sua forma, gli aveva dato la sensazione di infinito e libertà.
A volte, se strizzava gli occhi con forza, il negativo di quell'immagine si formava dietro le palpebre, e rimaneva per alcuni istanti a osservare dettagli che non sapeva nemmeno di aver assimilato, come una maglia rossa messa a stendere nel filo che correva tra i due palazzi, che garriva nel vento, comparendo nella porzione di cielo con arroganza e impedendogli di ammirare per bene quella meraviglia.

Però quel colore gli era istintivamente piaciuto.


Si acquattò dietro il cassonetto, scrutando da dietro il suo riparo con paura, le orecchie tese: doveva tenere d'occhio quel piccolo gruppo che si era infilato in fretta e di sorpresa nel vicolo dove lui si trovava in cerca di cibo; aveva avuto appena il tempo di nascondersi, non ce n'era stato abbastanza per scappare.
Erano quattro ragazzi, con piercing e creste colorate, che trascinavano un quinto al riparo da occhi indiscreti, strattonandolo con poca grazia. Quello tremava tantissimo, incapace di reagire alle angherie subite.
Uno dei quattro lo afferrò per il bavero della giacca e lo sbatté contro il muro, sovrastandolo come un predatore in piena caccia, alitandogli contro con astio.

Come sarebbe a dire che non ci darai più soldi? Papino ti ha tagliato i fondi? O tutt'un tratto ti sei fatto coraggioso, stronzetto?” gridò, facendo ridere il resto del suo gruppo.

Lui si contorse dalla rabbia, lì nascosto dietro il cassonetto.
Una delle cose che aveva fatto più fatica ad imparare, era stato parlare e capire il linguaggio umano. Le parole non avevano avuto senso all'inizio, erano suoni e rumori che si intersecavano e si univano, ma che non gli trasmettevano niente; era stato più il modo in cui venivano pronunciate, che gli aveva fatto capire cosa l'interlocutore volesse dire.
E quelli lì non volevano solo spaventare il ragazzino, ma anche ripassarlo e umiliarlo, se non avesse dato loro ciò che volevano; c'era poco da scherzare.

Saltò fuori dal suo riparo con rabbia, con i pugni in alto per affrontare quei quattro bastardi, ma bastò la sua sola vista a decidere l'esito dello scontro: i quattro urlarono di paura con gli occhi sbarrati, poi scapparono a rotta di collo, sparendo dal vicolo in un lampo.
Rimase un attimo attonito con lo sguardo sulla luce tra i due palazzi, sulla piccola fessura che portava alla via principale dove lui non osava avventurarsi, mentre la rabbia sembrava in un certo senso affievolirsi e al contempo rinascere, per un motivo differente.

Si riscosse, girando il capo verso destra.
Stai bene?” chiese con voce stentata al ragazzino. Non era ancora bravo a parlare, non rivolgeva mai la parola a nessuno.
Al sentire la sua voce rauca, quello spalancò ancora più gli occhi e si rialzò tremante tenendosi contro il muro.
Lui gli si avvicinò, temendo che cadesse, ma il ragazzino scartò a destra, allontanandosi con paura.

No-non mi toccare, mostro!” urlò con l'orrore nello sguardo e la voce, spronando le gambe malferme ad allontanarsi da lui, senza voltarsi indietro.

Il rumore dei suoi passi frettolosi che rimbombava in quello stretto viottolo scomparve, e gli rimase solo il silenzio.
Rimase a guardare il vuoto, con quella rabbia graffiante nel petto, che gli faceva tremare il corpo, di disgusto. Si accorse di aver stretto le mani a pugno forte, dalla rabbia, e che si stava facendo del male con le sue stesse unghie. Le aprì e osservò il palmo arrossato e i segni dei due solchi, gonfi e pulsanti, ma senza farci caso davvero.
Mostro.
Quella parola la conosceva benissimo. Era stata la sua prima parola.

Ricordava bene quel fazzoletto di cielo, la prima volta che aveva aperto gli occhi alla vita. Tutto il suo mondo allora era un vicolo oscuro e puzzolente e uno straccio di azzurro lassù.
E suoni spaventosi. E cose che non capiva. E fame, anche se non sapeva cosa fossero quel vuoto e quel rombo dentro di sé, allora.
Tutto intorno a lui era nuovo e spaventoso, ma mai come quel grido che lo terrorizzò al punto di fuggire: una donna che si era affacciata per ritirare i panni stesi lo aveva scorto e aveva gridato come se la morte l'avesse presa, urlando quella parola come se fosse una maledizione.

Mostro. Mostro. Mostro.

Le sue grida sempre più alte e terrorizzate lo avevano inseguito per tutta la fuga, oltre il viottolo, oltre la recinzione in metallo, oltre le persone che aveva superato con tutta la sua velocità mentre cercava un riparo da tutti quegli occhi crudeli e spaventati da lui, che non aveva fatto loro niente, che non capiva.
Si era fermato solo quando era stato sicuro di essere solo, quando tutto ciò che lo circondava fu solo spazzatura e piccoli topolini innocui, che pure erano fuggiti quando lui si era lasciato cadere al suolo, riprendendo fiato con disperazione, con fitte lancinanti per tutto il corpo.
Aveva artigliato il terreno polveroso con disperazione e rabbia e le aveva viste, le sue mani: verdi, a tre dita. Ancora non sapeva cosa fossero, ma era certo che non dovessero avere quell'aspetto.
Come se in qualche modo sapesse o ricordasse che un tempo non aveva avuto mani come quelle.

Si era alzato con fatica e il suo sguardo era stato catturato da un manifesto consunto appiccicato secoli prima alla vetrina di un negozio abbandonato, con i vetri così pieni di sporco che non si poteva vedere l'interno: due ballerini stinti compivano una presa al volo, statici nella loro posa.
Aveva guardato con attenzione la loro carnagione pallida, le loro mani a cinque dita, i loro sorrisi patinati, ma perfetti, le acconciature impeccabili. Poi aveva poggiato la sua strana mano verde contro il vetro della vetrina e con una strofinata poderosa aveva scrostato uno strato di sporco, rivelando la superficie riflettente sepolta al di sotto.

E li aveva visti. I sui occhi scuri ricolmi di paura e meraviglia, che rimandavano il suo sguardo sorpreso. La mano era scivolata sulla superficie ancora, portandosi via altro sporco, e poi di nuovo, scoprendo pezzo per pezzo la sua figura: carnagione verde, piedi con due dita, uno spesso piastrone sul davanti e un durissimo guscio sulla schiena, appena visibile oltre le sue spalle; e quella testa dalla forma strana.
Non ricordava nemmeno quanto tempo era rimasto a guardare la sua immagine riflessa nel vetro pieno di strisciate di sporco e poi il manifesto, e poi di nuovo sé stesso e il manifesto, in circolo.
Perché lui non era per niente come quelle persone ritratte sopra e lo aveva capito, istintivamente, che non era giusto. E quella parola gli era saltata in mente, benché non ne avesse capito il significato, allora. Ma il suono con cui la donna lo aveva pronunciato era stato peggio che una coltellata nel cuore, peggio della sensazione di fame che lo attanagliava.

M-mostro” aveva balbettato incerto alla sua figura, piena di confusione e ferita.

Persino col suo tono malfermo, quella parola gli aveva fatto rabbia e terrore, tanto da fargli perdere il controllo e battere i pugni contro il vetro finché le sue mani non avevano preso a sanguinare e la vetrina non si era rotta, mandando in pezzi anche il suo riflesso.
Era stato il suo primo giorno sul mondo e aveva sperimentato sia il dolore fisico che quello dell'anima, e nessuno dei due gli era piaciuto.

Da allora aveva ascoltato e ripetuto centinaia e poi migliaia di parole, nascosto nelle ombre, affamato di conoscenza, eppure spaventato dal chiederla o cercarla presso quelli che aveva capito essere umani, diversi da lui.
Si riscosse e sollevò le spalle con nonchalance, per far finta che quei ricordi e quelle sensazioni non gli importassero, anche se in realtà gli ferivano il cuore e la mente ogni istante. Fare finta era l'unico modo che aveva e conosceva per andare avanti.

Si allontanò a grandi passi, diretto verso il cassonetto dove stava cercando da mangiare prima di venire interrotto, e prese a frugare tra gli scarti della cucina della pizzeria del quartiere: riusciva a trovare sempre qualcosa, da quelle parti.
Agguantò una scatola mezza acciaccata dal fondo e la aprì, senza molta speranza: gli scappò un sospiro al vedere due fette di pizza un po' bruciacchiate, gettate come se fossero spazzatura. Le trangugiò in un secondo, divorato dalla fame, con gli occhi fissi sul cielo già scuro sopra di sé.

Le giornate si stavano accorciando e sentiva freddo sempre più spesso negli ultimi tempi, avrebbe fatto meglio a cercare un riparo al più presto.
Se avesse poi trovato altri come lui o una spiegazione di cosa fosse non sarebbe stato male, ma in quei mesi in cui aveva vagato senza tregua in ogni parte della città, non si era mai imbattuto in niente del genere, perciò forse non esistevano altri come lui. Aveva scoperto che c'erano umani di molti colori diversi, che coesistevano più o meno pacificamente, ma in quella tavola variopinta non c'era il verde. Nessuno era verde come lui.

Forse era unico al mondo. Solo al mondo.
Ma allora cosa era e perché era nato? A volte se lo chiedeva, nelle sue scorribande solitarie per cercare di sopravvivere, per cercare cibo e riparo dagli occhi che lo guardavano con disgusto. E allora sollevava lo sguardo al cielo e ricordava quello stralcio azzurro che aveva visto, il suo primo ricordo, quella sensazione di paura eppure eccitazione, per essere vivo.

Il suo primo ricordo era un fazzoletto di cielo, una linea sottile schiacciata tra due alti palazzi.
E se era nato sotto quel cielo, come chiunque altro, doveva pur esserci una ragione.



Note:
Buona sera!

Eccoci ad un nuovo progetto, una raccolta di OS ispirate dai nuovi comics IDW. Ne sono entrata in contatto da poco, sono solo al quarto, eppure mi hanno ispirata moltissimo, ho già prodotto cinque OS e spero che continuino a darmi idee.

Le Os non sono lineari, sono nell'ordine in cui mi sono venute in mente o in cui le ho scritte.

Questa è ispirata al periodo in cui Raphael vaga da solo, senza sapere cosa sia in realtà, prima ancora del numero 1, quindi.
Voglio giocare con questa raccolta, perciò non assicuro che nel futuro io non decida di sperimentare in prima persona o anche con altre forme narrative. Chissà, vedremo.
Per questa Os in particolare, non ho mai messo il nome di Raphael, perché lui non sa il suo nome, ancora, e noi siamo con lui nella sua ignoranza.

Spero vi piaccia!
Un uragano di abbracci!

Un disegno della bravissima Sarajane92, dedicato al capitolo! Grazie, tesoro! E' stupendo!


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Capitolo 2
*** Yoshi/Splinter- Hamato family ***


Il sibilo di una lama affilata e il dolore della morte che invadeva ogni cosa, fino a diventare solo gelido nulla avvolgente.

Buio, oscurità, oblio.


Aprì gli occhi, una bruma bianca ovunque, bianchi i muri, bianche le piattaforme, bianchi i camici delle persone che si muovevano in quell'ambiente asettico. Sentì l'odore di fieno sotto di sé e percepì i limiti fisici della teca di vetro nella quale si trovava.
Al di là era tutto enorme e distorto, confusionario.

Bene, vieni qua” tuonò la voce profonda di un uomo, allungando la mano verso di lui dall'apertura in alto.
Squittì spaventato e corse in circolo per sfuggirgli, ma non c'era via di fuga dalla teca, perciò finì per rannicchiarsi in un angolo, mentre quell'enorme arto si avvicinava, come artigli di falco su una preda.

Le dita si chiusero sul suo corpo e lo sollevarono in aria e il viso dell'uomo apparve nel suo campo visivo, gli spessi occhiali che riflettevano il suo muso da topo, gli occhietti neri spaventati.
“Ci vorrà un attimo” disse, avvicinando la pistola per le iniezioni che teneva nell'altra mano, il liquido trasparente che riempiva la fialetta che oscillava per le vibrazioni.

Il grosso ago scintillò nella luce fredda del laboratorio e poi lo trafisse, di colpo e dolorosamente, mentre un bruciore si diffondeva nel suo corpo. Finì in fretta, per fortuna.
La mano lo rimise nella teca. Appena toccò nuovamente il fieno sotto le zampe, corse via nell'angolo, a rannicchiarsi.

Sei stato bravo, Splinter” lo rassicurò la voce, allungandogli un seme di girasole.
Il topolino lo annusò titubante poi, accertato che non fosse una minaccia, lo afferrò coi denti e lo portò via, andando a sgranocchiarlo nel suo riparo.


Il fruscio del vento che spazzava l'erba verde e le fronde degli alberi nella collina, sfiorando con gentilezza la pelle.
Tutto il contrario delle corde che gli mordevano la carne dei polsi, strette tanto da solcarla, la pelle, per tenere fermi i suoi movimenti.

Traditore, è ora di morire” disse l'uomo con l'armatura giapponese, sfilando la Katana dal fodero con un sibilo minaccioso.
Oroku Saki, per undici stagioni ho reso onore all'ultimo desiderio di mia moglie e ho evitato di affrontarti per proteggere i nostri figli” iniziò a dirgli, sovrastato dalla sua figura in piedi con la spada puntata contro il collo.

Ma ora che sono morti, non sono legato a quella promessa. Sappi che” continuò, mentre l'uomo alzava la lama per colpirlo, “quando ci incontreremo di nuovo, ti distruggerò.”
Idiota, non ci incontreremo mai più” esclamò l'uomo, pronto a colpire.

Ma lui era pronto. Certo che si sarebbero incontrati ancora, parola d'onore di Hamato Yoshi.

Il sibilo di una lama affilata e il dolore della morte che invadeva ogni cosa, fino a diventare solo gelido nulla avvolgente.

Buio, oscurità, oblio.


Allora, come stai oggi, Splinter?” domandò l'uomo col camice bianco, prelevandolo per la consueta iniezione.
Il dolore era sopportabile, ormai. Erano già due settimane che ogni giorno subiva quel trattamento e se non ci si poteva certo abituare al dolore, perlomeno aveva capito che era temporaneo.
E non era l'unica cosa che aveva capito.

Aveva dei pensieri, pensieri profondi, che sapeva che non gli appartenevano, prima. Capiva le differenze tra sé e quegli umani, capiva cosa gli stessero facendo e capiva il loro linguaggio.
Era stato umano, una volta.

Sognava sempre da quando avevano iniziato a fargli quell'esperimento. Sognava di morire, in cima ad una collina, sotto un cielo terso.
Il suo esecutore aveva sterminato la sua famiglia e poi lo aveva ucciso e lui gli aveva giurato vendetta. Allora si era reincarnato per compierla? Ma era un topo, si era specchiato nel vetro della sua teca, come avrebbe potuto?

Aspettò che l'uomo col camice si allontanasse, poi con un balzo arrivò all'apertura e la aprì con facilità, sgusciando fuori velocemente.

Erano giorni che usciva da solo dalla sua gabbia per esplorare i dintorni, per familiarizzare con l'ambiente.
Stava cercando qualcosa, ma non sapeva ancora che cosa.


Il fruscio del vento che spazzava l'erba verde e le fronde degli alberi nella collina.

Il cielo terso si rifletteva negli occhi dei suoi figli, che lo guardavano con paura e rabbia, per ciò che li aspettava. Le braccia legate dietro la schiena, in ginocchio davanti ai loro nemici, i loro occhi erano tutti per lui. Il loro padre.

Toshio lo guardava con rassegnazione e rispetto, comunicandogli che sapeva non fosse colpa sua.
Riku sembrava più preoccupato per lui, che per sé stesso.
Sora aveva le sopracciglia aggrottate e la mascella contratta, deciso a non mostrare paura nemmeno in punto di morte.
Hoshi, invece, piangeva silenziosamente.1

Le lame calarono improvvise, spezzando le vite dei suoi figli, senza che potesse fare nulla. E il suo cuore si fermò in quell'esatto momento. Morì in quell'esatto momento, perciò non era più importante cosa gli avrebbe fatto Oroku Saki.
Era un uomo già morto, ormai.

Le sue ultime parole furono una promessa di vendetta, per la sua famiglia, prima che la lama calasse sulla sua testa, portandosi via ogni cosa, anche il dolore.

Buio, oscurità, oblio.


Gironzolava per il laboratorio, con la codina rosa che frusciava dietro di sé. Una donna col camice lo guardò per qualche istante, poi sorrise e gli aprì una porta che lui non poteva raggiungere.

Si erano abituati, ormai, al vederlo vagare per gli ambienti del laboratorio. All'inizio avevano gridato sorpresi. All'inizio c'era stato il panico ed era stato riportato nella sua teca con urgenza, rinforzata con un lucchetto perché non si ripetesse.
Ma lui aveva aperto ogni lucchetto e ogni serratura che avevano messo per impedirgli di uscire e invece di arrabbiarsi, le persone coi camici si erano entusiasmate per la sua manualità ed intelligenza.

E gli avevano concesso di muoversi liberamente, per controllare cosa facesse.
Non che facesse niente di particolare: esplorava, cercava di capire cosa cercassero di ottenere coi loro esperimenti, apprendeva sempre più concetti che gli erano estranei.

Entrò in una stanza in cui prima non era mai stato, lunga, spaziosa, lampade al neon al soffitto e tubi che spuntavano da qualche parte e correvano per i muri per sparire chissà dove.
C'era una teca come la sua, poggiata su un bancone in un angolo, e si avvicinò per vedere cosa contenesse. Le sue zampe erano agili e scattanti e con un solo balzo riuscì a raggiungerla, bilanciandosi con la coda per la parabola del salto.

Atterrò con leggiadria e osservò attentamente all'interno della teca, curioso. In un primo istante vide solo il suo riverbero, perciò si avvicinò ancora un po', appoggiando il muso nero al suo riflesso.

Quattro piccole tartarughine stavano placidamente pensando ognuna ai fatti propri. Mangiavano lattuga, riposavano su un sasso, fissavano il vuoto.
Quattro innocue, piccole tartarughine, col guscetto verde scuro.

Oh, ecco dov'eri, Splinter. Sei venuto a vedere i nostri nuovi ospiti?” disse la voce di una donna, avvicinandosi alla teca su cui lui aveva poggiato una zampina.

Un brusco respiro. Un urlo.
“Chet! Vieni qui, corri!” gridò la donna sotto shock a qualcuno, avvicinandosi per osservarlo meglio.

Forse era davvero strano vedere un topo piangere, in fin dei conti. Tanto da dover chiamare il capo del suo reparto perché vi assistesse.
Ma Splinter non se ne curava. Con la mano premuta contro il vetro della teca come se volesse essere inghiottito dentro, guardava i suoi quattro figli, restituitigli in forma di tartarughe.

Toshio, Riku, Sora, Hoshi. E lui, Yoshi.

La famiglia Hamato era di nuovo unita.


Anche se non per molto.

Aveva perso Sora. Aveva smarrito Sora. Lo aveva abbandonato.

Sora.


Sensei, stai bene?” si fece strada una voce gentile, destandolo dalla sua meditazione.
Il maestro si riscosse e aprì gli occhi sul suo figlio maggiore. Un tempo forse era stato Toshio, ma ora era Leonardo.

Gli sorrise e lo invitò a sedersi per meditare con lui. La tartaruga mutante non se lo fece ripetere ancora e si inginocchiò di fronte.
“Stavi mormorando sotto voce, padre. Qualcosa ti turba?” domandò con riguardo, sperando di non essere inopportuno.
“Stavo ricordando. Cose del passato che non ci può più toccare e cose di un passato che ancora ci sfiora” rispose Splinter, enigmatico.

Leonardo capì che era il suo modo per discutere senza svelarsi mai davvero, per indurre il suo ascoltatore ad arrivare alla verità con le sue forze.
“Stiamo per uscire per le ricerche, sensei. Vieni con noi?” propose per distoglierlo dai suoi pensieri, che sembravano averlo rabbuiato.

Il maestro afferrò il bastone appoggiato per terra al suo fianco e lo usò per tirarsi su.
“Buona idea, ho proprio voglia di rivedere il cielo2” rispose raggiungendo i suoi figli, Riku, che ora era Donatello e Hoshi, che pure chiamandosi Michelangelo, non aveva perso un dettaglio del suo carattere spensierato.

Tutti insieme fuori, a cercare Sora.
Raphael.

Per poter essere di nuovo una famiglia.



1: i nomi dei figli non sono mai scritti nei comics, non sono canon. Sono nomi che io ho dato loro per esigenza di trama. Tre di questi nomi li ho presi dalla mia serie Heart's mutation, appariranno nel futuro.


2: Sora, il nome che ho usato per Raphael, vuol dire cielo. Perciò il cercare il cielo o il voler vedere il cielo, ha un doppio significato, per Splinter. Vuole vedere suo figlio.



Note:

Buona sera!

Sono felice di poter pubblicare la seconda OS, perché oggi sono arrivata al sesto comics e ne ho buttato giù una nuova, di getto. Son cose che rendono felici!

Grazie per aver letto la prima, grazie per la fiducia! Spero di riuscire a mantenere le aspettative.

Questa OS è su Splinter/Hamato Yoshi, nel periodo in cui era ancora un topo, nel laboratorio della Stock Gen, prima ancora che mutassero, quindi. Una doppia narrazione, passato e presente, che si uniscono nella mente di questo uomo, che uomo più non è. Il discorso nella parte in corsivo tra Oroku e Yoshi è presa dal comics 3. 

A prestissimo, un grande abbraccio

*Spoiler *

(Per chi non avesse letto il comics, Splinter e le quattro turtles sono le reincarnazioni di Hamato Yoshi e i suoi figli, uccisi nel Giappone feudale da Oroku Saki.)

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Capitolo 3
*** Raphael- All I want for Xmas is... ***


All the lights are shining
so brightly everywhere
and the sound of children
laughing fill the air
And everyone is singing
I hear those sleiht bells ringin
Santa won't you bring me the one I really need...



New York era un città poliedrica, capace di cambiare faccia praticamente ogni giorno, ormai lo aveva capito. Non c'era niente di fisso, in quella città, niente di costante. I cambiamenti si susseguivano senza sosta: negozi che chiudevano e altri alla loro prima inaugurazione; fiumane di persone che correvano e tornavano, si scontravano e si scindevano; cartelloni pieni di colori che sponsorizzavano una marca famosa, che il giorno dopo erano già scomparsi, sostituiti da altre marche, altri colori, altri prodotti.

Dopo mesi passati a correre nei suoi vicoli ad osservare in solitudine, ormai aveva capito e fatta sua quella routine, quelle metamorfosi continue.
Ma niente lo aveva preparato alla maschera che, di punto in bianco, New York aveva indossato. Il giorno prima era tutto spoglio e monocolore, dalle tinte cupe e terrose dell'autunno, il giorno dopo era un tripudio di colori sgargianti e luminosi, e biancore, fiocchi in ogni dove; il rosso, il bianco e il verde che si abbracciavano in una stretta cromatica contrastante eppure bellissima.

Musichine dolci e trillanti si diffondevano nell'aria, luci abbaglianti e dorate pulsavano nelle strade, avvolgendo perfino i palazzi, e le vetrine dei negozi scoppiavano di tutte quelle cose combinate, trasformandosi in piccoli mondi a parte di splendore e dolcezza.
Non sapeva il perché di quel cambiamento, era piuttosto confuso e spaventato dalla improvvisa marea di gente, molta più del solito, che riempiva le strade fin quasi a scoppiare, rendendogli più difficile nascondersi e rendersi invisibile.
Persino i vicoli non erano più così sicuri.

E anche se non era consigliabile, era attratto da quella novità, al punto da rischiare ben più di una volta di essere visto pur di osservarsi intorno.
Sentiva un richiamo irrefrenabile verso quelle vetrine, quelle luci, come una falena verso il fuoco.
C'erano quei gruppetti che le fissavano come in trance, con i piccoli umani che strillavano di gioia, chiedendo a quelli grandi di comprare questo o quello, puntando le loro manine guantate contro il vetro, incollandoci i nasi tanto da appannarlo col loro respiro caldo.

E anche lui voleva appiccicarsi alla vetrina con loro e riempirsi gli occhi di quei colori e quelle meraviglie e forse chiedere a qualcuno qualcosa che non gli serviva, a qualcuno che teneva a lui.
I piccoli umani li chiamavano mamma e papà, e sembravano felici di stare con loro. Alcuni avevano solo la mamma, alcuni solo il papà, altri avevano due mamme o due papà, e sembravano fare affidamento su di loro per ogni cosa.

Se avevano bisogno di cibo, lo chiedevano alla loro mamma.
Se avevano freddo, si stringevano al loro papà che li stringeva con amore, frizionando le loro piccole manine tra le loro enormi per scaldarle.
Se avevano paura chiamavano quel nome e il loro genitore si fiondava in loro aiuto, senza riserve.
Per ogni più piccola cosa, potevano fare affidamento a quegli umani che sembravano amarli incondizionatamente, guidandoli verso la scoperta del mondo.

Lui non aveva niente del genere. Non lo aveva mai avuto, per quanto riuscisse a ricordare. Eppure, non sapeva nemmeno spiegare come, sentiva nostalgia di quella dolcezza che riusciva a toccare solo con lo sguardo.

Una mamma e la sua bambina passarono davanti al vicolo da cui spiava, parlando concitate tra loro di regali da comprare, di candele per arredare e ingredienti per meravigliose cibarie che avrebbero preparato, tanto assorte da non accorgersi delle luci delle luminarie che si riflettevano nei suoi occhi. La bambina era un tripudio di rosa: rosa il cappottino, rosa scuro la cuffietta enorme e le muffole, in coordinato agli stivaletti con le frange; sorrideva alla madre euforicamente, stringendo al petto un pacchetto enorme per lei.
Probabilmente il suo regalo per natale.

Le seguì nel loro vagabondare con lo sguardo, attirato dalle loro chiacchiere e dall'aura di felicità che emanavano, invidioso e affamato di quel sentimento.
Però non era semplice seguirle nel fiume di persone che scorrevano davanti a quel suo pezzo di mondo, sparivano inghiottite da una comitiva di turisti che fotografavano qualunque luminaria o decorazione con stupore, per poi riapparire qualche metro più avanti assorte nel decidere davanti ad una vetrina.
Poi le perse all'improvviso, sepolte dalla folla in continuo movimento.

Sospirò e il fiato si condensò in una nuvoletta bianchiccia, svanita presto nell'aria gelida e piena di smog; portò le mani alla bocca e ci soffiò sopra, strofinandole una contro l'altra per resistere all'intirizzimento.
Era sempre più difficile sentirsi bene, anche se non sapeva perché. Aveva notato che il buio arrivava prima, da qualche settimana, e che rimanere all'aperto gli causava tremori per il corpo e che gli arti si irrigidivano, soprattutto le dita, ma non capiva il motivo.
Aveva visto gli umani seppellirsi progressivamente sotto strati sempre più spessi di stoffe, ma lui non aveva nulla del genere. Anche frugando nell'immondizia non era stato capace di trovare niente, solo vestiti rovinati tanto da non poter essere indossati, una coperta che puzzava di vomito.

Si strofinò le braccia con forza, mentre il respiro creava nuvolette bianchicce.
Doveva assolutamente trovare un riparo.
Si allontanò con un sospiro, indietreggiando nel vicolo repentinamente, forse anche troppo, dato che davanti ai suoi occhi ballavano ancora le luci pulsanti delle decorazioni, nella semioscurità che lo avvolgeva.

Camminò, con l'intento di trovare da mangiare e un posto asciutto e riparato dove passare la notte. Alla meno peggio avrebbe dovuto dormire di nuovo dentro un cassonetto, per tenersi al caldo.

Alle sue orecchie arrivavano lievi canzoncine, sfuggite da finestre semiaperte dove le persone ridacchiavano e parlottavano. C'erano due persone che attaccavano palle colorate ad un meraviglioso abete, lì alla finestra del terzo piano, per esempio.
Quella zuccherosa e romantica canzone che ascoltavano l'aveva già sentita nei giorni precedenti e il ritornello e i suoi campanellini gli si erano attaccati in testa, assillandolo persino nei sogni.

I don't want a lot for Christmas
There's just one thing I need
I don't care about the present
underneath the Christmas tree
I just want you for my own
more than you could ever know
Make my wish came true
All I want for Christmas is you


La voce della donna che cantava salì di qualche ottava, tenendo la nota in maniera incredibile. A qualcuno quelle tonalità così alte avrebbero potuto dare anche fastidio, ma a lui erano più le parole, ad irritarlo. Anche senza capire appieno perché.
Parlavano di desideri per quella festività e di cose più importanti di quelle terrene. Parlavano di un legame più forte del possesso di cose materiali.
Ma lui non aveva nient'altro che il cibo che riusciva faticosamente a trovare e i fugaci rifugi che scopriva di tanto in tanto, abbandonati in fretta quando un barbone veniva a reclamarli urlandogli dietro.

Perciò no, non c'era niente di più importante di quello che riusciva ad afferrare con le sue mani, per lui.

Arrivò alla grossa costruzione che stava inconsciamente cercando, dove sapeva che avrebbe trovato un pasto, per quella notte. Era completamente avvolta di luci e la grossa croce in cima luccicava come un faro nella notte.
Gli umani la chiamavano chiesa e ci entravano dentro per ore, di tanto in tanto. Ma mai come in quel periodo. E chissà perché, ultimamente le scorte di cibo che arrivavano a quel posto, e quindi gli scarti dello stesso, erano andati crescendo; c'era sempre una fila enorme di persone che aspettava un pasto, ogni giorno mattina e sera.
Quando tutti andavano via, riusciva a trovare cose buone nel bidone dietro l'edificio. Non tante, a volte mischiate le une con le altre, il dolce col salato, ma sempre cibo.

Trotterellò furtivamente nelle ombre, fino ad arrivare all'imboccatura della stradina che portava al retro della chiesa.
E lì, sui gradini centrali della stessa, vide un informe pacchetto, con un biglietto attaccato sopra.
Non si sarebbe avvicinato, se la carta del pacchetto non gli fosse parsa familiare. Aveva gli stessi decori di piccoli orsetti coi capellini rossi che c'erano sul pacchetto che la bambina rosa teneva in braccio.

Sarebbe stato strano, se fosse stato esattamente lo stesso. Ma anche le dimensioni gli suggerivano che lo fosse.
A passi guardinghi si fece vicino, occhieggiandosi attorno per scorgere occhi che potevano individuarlo, con un po' di ansia.

Afferrò il pacchetto e lo portò velocemente nella penombra della stradina, teso ad ogni suono. Lo stringeva talmente forte contro il petto che la carta scricchiolava rumorosamente sotto le sue dita.
Lo allontanò da sé per non rovinarlo e lo sguardo gli cadde sul bigliettino rosa pinzato in un angolo.
Rosa. Allora forse era davvero della bambina.

Strizzò le palpebre un paio di volte, mettendo a fuoco le lettere. Non sapeva leggere, non con chiarezza almeno. Giorno dopo giorno aveva acquisito una lieve infarinatura ascoltando attentamente in giro, sapeva come si pronunciavano certe parole scritte su cartelli e insegne, sapeva cosa c'era scritto sulle scatole del cibo che trovava nel bidone nel suo vicolo preferito: pizza. Gli piaceva la pizza.

A... a c-c-chi...” iniziò a compitare con difficoltà, il grosso dito che scivolava sotto la scrittura infantile per facilitarsi nella lettura; “... ha-a p-po-poco” finì di leggere la prima riga, cercando subito quella sotto.

... co-con s... no, t-ta-n-tant-o af-f-f-fetto. B-bu-on nat-a-l-e.”

Rilesse tutta la nota per intero, di nuovo, nella testa.
A chi ha poco, con tanto affetto. Buon natale” recitava il messaggio completo, con uno smile vicino alla firma.
C-ca-ro-l-le. Carole.”

Sembrava un messaggio riferito a nessuno in particolare, solo a chi avesse preso quel pacchetto. Qualcuno che avesse poco.
Come lui.
Allora poteva permettersi di aprirlo?
Prima ancora di finire di formulare quella domanda nella mente, le mani erano già corse verso i bordi, afferrando la carta con bramosia, eppure attento a non romperla. Aprì in un secondo e rimase meravigliato a guardare il contenuto.

Aveva visto tante volte gli umani portare quei cosi. Indossò con molta fatica la felpa grigia col cappuccio: non capì subito come dovesse infilare le braccia nelle maniche, si incartò un paio di volte, si contrasse freneticamente di qua e di là col fiatone, finché non gli cadde addosso perfettamente.
Tirare su la zip fu difficile tanto quanto indossare la felpa. Le sue mani erano molto grandi e il piccolo perno sfuggiva dalle sue dita e non capiva come i dentini da una parte all'altra dovessero incastrarsi, rischiando di incepparla parecchie volte.

Alla fine, prese anche il lungo trench beige e lo infilò sopra alla felpa, stringendoselo addosso.
Percepì immediatamente un gran tepore sfiorarlo e avvolgerlo e per la prima volta da quando le giornate erano diventate scure e mordenti, si sentì bene. Sentiva un gran calore al centro del petto, che scivolava poi in ogni più piccola cellula del corpo, e niente lo aveva mai fatto sentire meglio, prima.
Si ricordò del grosso sorriso della bambina mentre stringeva il pacchetto a sé, forse pensando a come sarebbe stato contento chiunque lo avesse aperto.

Sentì le guance tirare e le labbra stendersi sui denti, sempre più, sempre più forte.
Stava sorridendo. Lo aveva visto fare agli umani quando erano felici, ma lui non l'aveva mai provato, prima.
Non aveva mai avuto molto per cui sorridere.

Gioì del dolore alle guance e probabilmente, se qualcuno lo avesse visto, lo avrebbe preso per pazzo, con quel sorriso felice e folle sul viso.
Si chinò a raccogliere il fogliettino e lo infilò in tasca con riguardo, quasi come fosse un tesoro.
Poi, con quella canzoncina romantica e zuccherosa nella testa, si allontanò a grandi passi, verso il prossimo obiettivo, verso una notte ancora e poi un altro giorno e via così.


Note:

Ecco la terza OS. Alla fine non l'ho cambiata poi molto, anche se non riesce ancora a convincermi del tutto.

Non sappiamo come Raphael sia entrato in possesso della felpa e del trench con cui lo vediamo nel primo comics, -quasi sicuramente li ha trovati in un bidone per la raccolta di abiti usati,- ma mi piaceva dare un'atmosfera dolce al momento del ritrovamento, una sorta di regalo.
Perché volevo cercare delle piccole scene che spiegassero come mai Raph non fosse diventato arido e incattivito, nonostante avesse vissuto per quindici mesi in solitudine, con fatica.

Spero vi piaccia!

Ne approfitto per augurarvi buone feste, qualunque cosa festeggiate! 


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Capitolo 4
*** Casey- I promise, mom ***


La porta tremava sotto ogni pugno. Poteva quasi sentire il rantolo del legno che si tendeva sotto lo schianto delle manone chiuse, poteva quasi sentirlo scricchiolare mentre tornava a posto, quando le mani si caricavano all'indietro per poter colpire ancora.

Un tonfo, un altro e un altro ancora, e poi ancora e ancora.
Vieni fuori, bastardo di un moccioso!” gridò la voce ubriaca, biascicando le parole.

Casey si rannicchiò con più vigore, nascosto in un angolo della sua camera in penombra, con gli occhi spaventati fissi sulla porta.
Poteva quasi vederla muoversi, quando suo padre la colpiva con foga.
Tonfo. Tonfo. Tonfo. Tonfo.

Mi hai sentito? Vieni fuori, sacco di letame!” tuonò di nuovo l'uomo, colpendo ancora più forte.

Casey tremolò, impercettibilmente. Non poteva nemmeno immaginare il dolore che gli avrebbero causato quei pugni se avessero colpito lui, invece della porta. Gli era bastato lo schiaffo che suo padre gli aveva dato quando era tornato avvolto dall'odore di alcol, come se ci fosse annegato dentro, e lui gli aveva chiesto se fosse ubriaco.
La guancia gli bruciava come se il fuoco la stesse divorando. La toccò con la mano fredda, aveva perso ogni altro calore per la paura, e il contatto gli diede refrigerio e una scarica di dolore.

Era riuscito a nascondersi in camera in un lampo, grazie anche ai riflessi rallentati di suo padre, e a chiudercisi dentro, un secondo prima che quello provasse a buttarla giù. Prima la maniglia aveva traballato convulsamente con un fragore orribile, mentre il batticuore lo divorava, poi si era scagliato con tutta la sua forza, come una carica di rinoceronti.

Tonfo. Tonfo. Tonfo.
Quando verrai fuori me la pagherai, dannato! Ti odio, ti ho sempre odiato, piccolo bastardo!”

Il cuore di Casey si strinse, preda di sofferenza e orrore.
Quello non era suo padre, non lo era affatto. Era il mostro della malattia di sua madre che se lo era mangiato vivo, poco a poco come aveva logorato lei in mesi di debilitazione crescente e vitalità che si spegneva, finché non l'aveva portata via.
Lo sapeva che era così, ma le sue parole lo ferirono ugualmente. Sentì gli occhi pizzicare e prese un brusco respiro per ricacciare indietro le lacrime.

Ormai era abituato al fatto che suo padre bevesse, lo aveva fatto ogni giorno mentre sua madre era malata, per non affrontare la realtà. Lo aveva visto ubriaco così tante volte da perdere il conto. Ma era la prima volta che alzava le mani su di lui.

Tonfo. Tonfo.
Vigliacco, apri la porta! Sei solo un fallito” lo aggredì ancora l'uomo, con voce sempre più incerta.
Era anche la prima volta che lo insultava in quel modo. Con quell'odio, con quell'accanimento.

Una lacrima cadde con un lieve picchiettio sulla gamba, sul tessuto serico del pantalone nero. Solo in quel momento si rese conto che stava piangendo.
Passò il dorso della mano sul viso e deterse le lacrime con stizza.
Non poteva permettersi di sporcare il completo a noleggio che aveva messo per il funerale di sua madre.
E non poteva permettersi di piangere, anche se probabilmente gli avrebbe fatto bene, anche se probabilmente avrebbe lavato via il dolore di aver appena seppellito sua madre o almeno il guscio che era rimasto di lei dopo che il cancro l'aveva impietosamente consumata.

Tonfo.
Sei un dannato buono a nulla, Casey Jones” borbottò suo padre, con voce malferma, le sillabe storpiate.
Un suono strascicato riempì il silenzio teso della stanza e Casey capì che erano i pugni del padre che slittavano sul legno, mentre si accasciava al suolo vinto dall'alcol.

Era finita, almeno per quella volta. Ma con terrore si chiese se non fosse solo l'inizio, invece, di una discesa verso l'inferno, se suo padre non ci avrebbe provato ancora.
E quella porta non lo avrebbe protetto per sempre. Un giorno, forse, avrebbe dovuto difendersi da solo.

Ma le parole di sua madre, le ultime prima di chiudere gli occhi lucidi e febbricitanti per sempre, riecheggiarono nella sua mente.
Prenditi cura di tuo padre, Casey. Capiscilo, vagli incontro, non litigare con lui anche se sarà il primo a cercare battaglia. Promettimi che ti prenderai cura di lui.”

Casey tirò su col naso e annuì al nulla, nella semioscurità che lo avvolgeva.

Lo prometto, mamma” disse stringendo le ginocchia al petto, nascondendoci il viso contro, perché niente e nessuno potesse davvero vedere le lacrime che non poté più evitare di versare.



Note:

Buona sera!

Questa è la quarta OS, in realtà, e non la terza. Perché la metto? La terza si ispira a questo clima di festa e l'ho ripresa perché tra tutte è quella che meno mi convince. Spero di riuscire a migliorarla, penso di aver fatto una scemenza.

Comunque, appena pubblico l'altra, questa ritornerà quarta, quindi tutta questa premessa è in effetti inutile.

Salve!

Questa OS è su Casey, più o meno nello stesso periodo in cui, da un'altra parte, le turtles erano state rapite dal laboratorio e finivano nel mutageno.

Casey stava seppellendo sua madre, consumata dal cancro e suo padre iniziava la sua discesa verso l'inferno, con alcol e botte al figlio.

Ah, se solo Casey non avesse promesso a sua madre in punto di morte di proteggere suo padre e non combatterlo. Povero cucciolo, lo adoro in questa serie a fumetti, è meno spavaldo che nella serie 2003, un po' più maturo e triste.

E niente, spero che vi piaccia. È molto angst, a ben pensarci.

Vi ringrazio per leggere le OS, per il riscontro che sto trovando in voi! Sono felicissima!

Caldi abbracci a tutti!


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Capitolo 5
*** Who we've been, what we are, why we fight ***


Lo sciaguattio dei piedi nell'acqua melmosa li seguiva ad ogni passo, incessantemente.
Non importava quanto camminassero, le acque di scolo delle fogne erano ovunque, arrivavano da tutte le parti.
Avrebbe mai trovato un riparo perfetto, asciutto e nascosto quel tanto che bastava per permettergli riposo e sicurezza?

Splinter ci sperava, mentre camminava in testa alla comitiva, poggiato ad un bastone trovato in un condotto. Doveva essere stato trascinato fin lì da una corrente improvvisa, un temporale particolarmente violento.

Parlava nel tragitto, cercando di spiegare ai suoi figli, i suoi benedetti, ritornati a nuova vita figli, che lo seguivano con curiosità e pazienza, ripetendo alcune parole che lui diceva.
Anche se non sapeva fin quanto lo capissero sul serio.
Se il liquido del laboratorio era stato in grado di far crescere ed evolvere i loro corpi in una sola notte in uno stadio maturo e simile agli umani, non era certo che avesse fatto lo stesso con le loro menti.

I loro enormi occhi continuavano a guardarsi intorno sorpresi e rapiti per ogni cosa, anche la più infima e lurida, come quelli di un bambino che scopre il mondo, lo stesso identico sorriso infantile e meravigliato sulle loro facce.
E per un istante, un frammento di malinconia lo trafisse, riportandogli alla memoria immagini nostalgiche di una vita lontana e precedente, di quei suoi bambini che imparavano a parlare, a camminare, a scoprire ciò che li circondava.
Quando erano ancora umani, prima che le loro vite venissero strappate con la violenza.

Eppure, eccoli lì i suoi bambini, di nuovo vivi, di nuovo curiosi, di nuovo attenti e avidi di conoscenza, a guardarlo con quell'amore incondizionato che i figli sanno dare ai loro genitori, perché percepiscono che sono lì per loro, che darebbero qualunque cosa per loro.
A lui spettava proteggerli e insegnar loro di nuovo come scoprire e capire il mondo, anche se in maniera leggermente diversa, questa volta.

Perché era certo che non avrebbe potuto essere completamente come quando erano umani, ma non importava. Avrebbero fatto attenzione, avrebbe spiegato loro la verità e alcune regole, quando sarebbe stato il momento giusto.

Il suo naso da roditore fiutò un lieve fiotto di aria pulita e lo seguì fiducioso, tendendo il collo nella giusta direzione; la combriccola di enormi bambinoni gli andò dietro, saltellando di tubatura in tubatura, nel caso di Michelangelo.
Arrivarono ad una vecchia stazione sotterranea creata come deposito per le riparazioni della linea della metropolitana che prima correva da quelle parti; Splinter studiò l'ambiente per essere certo che nessuno si avventurasse lì giù da un lasso di tempo considerevole: lo spesso strato di polvere intonsa sul pavimento e le enormi macchie di muffa che spuntavano come un tappetto verde, -nonché due tubi rotti e arrugginiti dai quali non fuoriusciva più nulla,- lo rassicurarono.

Certo, ci sarebbe stato molto da fare, per rimettere quel posto in ordine e cercare anche tutto ciò che necessitavano, come cibo e attrezzi per la casa e mobilio, e nel frattempo avrebbe dovuto anche educare e far crescere mentalmente i suoi figli, e allenarli di nuovo nell'arte del ninjitsu.
Certo, non era così semplice. Una parte di lui continuava a ripetersi che era giusto e onorevole camminare pian piano e guidare così i ragazzi lentamente, con la giusta calma che necessitavano, -d'altronde erano appena mutati in qualcosa di diverso ed era tutto così confuso e nuovo per loro; ma l'altra parte gridava letteralmente di dolore, al pensiero del suo quarto figlio perduto.

Raphael. Lo aveva perduto. Lo aveva abbandonato. Il suo senso di colpa e preoccupazione crebbe ancora, esponenzialmente, come se già non lo stesse dilaniando da quando aveva dovuto fare una scelta tra il seguire le tracce del figlio disperso o trascinare in salvo gli altri tre, prima che venissero catturati dai ninja in nero.

Alla fine aveva preferito nascondere i tre rimasti nel sacco dalle mani degli umani, anche se non c'era stata una scelta, in fondo: non era una vera scelta se entrambe le opzioni portavano al dolore e al rimorso.
Voleva correre in superficie e cercare Raphael, ma come avrebbe potuto lasciare gli altri suoi figli da soli, senza qualcuno che li tenesse d'occhio e stesse loro vicino? Ancora non erano pronti a stare da soli, probabilmente avrebbero cercato di seguirlo fin su, con catastrofiche conseguenze, minando tutti i suoi sforzi in ogni caso.
L'unica soluzione rimasta era lavorare sodo e il più in fretta possibile per riportare i suoi figli in forma e coscienza, così che potessero lavorare tutti assieme per ritrovare il loro fratello perduto.

Raphael era indubbiamente forte, il più tenace e resistente dei suoi ragazzi, eppure il suo cuore si strinse in una morsa al pensiero di saperlo solo, là fuori, smarrito e disorientato, alla mercé di chiunque; una preghiera silenziosa piegò le sue labbra, nient'altro che un augurio che stesse bene e rimasse illeso e vivo, finché non avesse potuto abbracciarlo ancora.



L'aria fredda di Dicembre scendeva fin nelle tubature, si infiltrava con forza nei condotti e soffiava fino ad arrivare lì sotto, congelando ogni cosa.
Uno spiffero freddo arrivò perfino nel vecchio deposito del settore nord e qualcuno starnutì.

Donnie! Non possiamo costruire una porta?” si lagnò Michelangelo con la voce nasale, tirando su il moccolo che minacciava di scendergli.

Donatello si fermò un secondo, distraendosi per guardarlo in cagnesco, e la pagò cara: Leonardo approfittò di quel breve momento e lo afferrò per un braccio, catapultandolo lontano.
Don volò in parabola discendente, ma non riuscì a girarsi come avrebbe voluto e batté con il guscio contro il muro, scivolando a testa in giù sul pavimento.

Grazie mille, Mikey!” soffiò irato, metà del corpo ancora poggiata alla parete.
La colpa non è sua, Donatello. Dovresti sapere che non bisogna farsi distrarre quando si combatte. E se proprio succede, bisogna cercare di riportare la situazione a proprio vantaggio, in ogni modo possibile e rapidamente” lo riprese Splinter, seduto in un angolo ad osservarli.

Don annuì pacatamente e si rimise in piedi, mentre Leo passava un fazzoletto a Mikey, infastidito da rumore che faceva col naso.
Ad un suo comando i figli ripresero l'allenamento a mani nude, con zelo, mentre lui studiava con scrupolo i loro movimenti, in meditazione.

Erano già passati quattro mesi da quel giorno in cui erano mutati. Ed erano sembrati troppo lunghi e troppo corti allo stesso tempo.
I suoi figli erano cresciuti: parlavano, pensavano e agivano come dei maturi adolescenti, perfino Michelangelo, che era quello più indisciplinato e incline a distrarsi; gli allenamenti avevano riportato a galla le loro abilità acquisite nella loro vita precedente, ogni mossa appresa, ogni precetto e segreto di lotta della loro famiglia, sotto i suoi occhi commossi e meravigliati.

Non avevano invece riacquistato alcuna memoria di ciò che erano stati, al contrario suo; eppure i loro caratteri erano perfettamente identici ad allora, senza possibilità di sbagliarsi: Leonardo aveva mantenuto la sua mentalità da fratello maggiore e si sforzava il doppio degli altri per aiutarlo e seguire la sua guida con rispetto e devozione; Donatello possedeva ancora quella innata curiosità per tutto ciò che lo circondava, unita alla sua spiccata intelligenza, forse addirittura più accentuata in questa sua nuova vita; Michelangelo era il suo figlioletto più piccolo e aveva ancora dentro di sé quella meraviglia e quella dolcezza che aveva illuminato le sue giornate più buie del passato.

Sorrise fugacemente, senza riuscire a staccare lo sguardo orgoglioso da loro, col cuore gonfio di dolorosa felicità.
Ne mancava solo uno. Eppure era come non avere un'intera metà di cuore.
Raphael.
Non era passato giorno di quei mesi che non avesse pensato a lui, costantemente, chiedendosi come stesse e dove potesse essere, pregando di ritrovarlo.
Quel giorno, finalmente, sarebbe stato quello in cui avrebbe verificato di persona se le sue preghiere avrebbero infine trovato compimento.

Richiamò i suoi figli, che interruppero l'allenamento con uno sguardo sorpreso per il suo tono urgente, forse, e si sbrigarono a radunarsi davanti a lui, inginocchiandosi con rispetto. Lui, invece, afferrò il bastone e si alzò lentamente dal suolo, sovrastandoli in silenzio, prendendo un grosso respiro prima di parlare.

Oggi è un grande giorno per noi, miei cari figli. Abbiamo lavorato sodo, tutti quanti” iniziò con solennità il maestro, mostrando con un gesto il rifugio ripulito e arredato con mobili di fortuna, salvati da varie incursioni nel mondo di superficie, mescolati nelle ombre.
Finalmente questo giorno è arrivato” sussurrò accorato, allontanandosi a piccoli passi felpati da loro, il bastone che ticchettava nel pavimento come unico suono.

Leo, Don e Mikey si scambiarono un'occhiata confusa, con mille domande inespresse, ma ritornarono di nuovo immobili e col viso rivolto di fronte a sé, quando il maestro ritornò sui suoi passi, le mani che stringevano qualcosa.
Trattennero tutti e tre il fiato.

Splinter si inginocchiò di fronte a loro e poggiò con cura le scintillanti armi a terra, così attento che non produssero nemmeno un suono.
Nelle mani trattenne invece quelli che sembravano stracci rossi, lunghi e sottili.

Oggi è il giorno della ricerca. Il giorno della speranza” annunciò, tendendo loro le mani, allungando ad ognuno di loro quella che scoprirono essere una bandana, tutte dello stesso colore rosso sangue.
Le indossarono, quieti, il rumore della stoffa che veniva stretta in nodi dietro la nuca, poi si voltarono uno verso l'altro per osservarsi e si sorrisero, soddisfatti da quello che videro.

Sembriamo dei supereroi” chiocciò Michelangelo contento, lui che aveva sviluppato un amore spropositato per comics e fumetti dei suddetti.

Il sensei attese che si calmassero, prima di prendere le armi dal suolo, e consegnarle ognuna nelle mani del giusto proprietario.
Loro non lo sapevano, ma già nel passato si erano allentati con quelle armi, ognuno indirizzato verso una disciplina specifica.

Prese le Katana tra le mani aperte, e le passò a Leonardo, come se stesse facendo un'offerta ad una divinità: il figlio si alzò e fece un inchino, prima di afferrarle con presa sicura. La mano si chiuse su un'elsa intrecciata e sfilò morbidamente la spada dal suo fodero, osservando la lucentezza del filo tagliente, e vide il suo stesso riflesso nell'acciaio della lama. Il rosso della maschera faceva risaltare il verde foresta della sua pelle e rendeva il suo sguardo più minaccioso; o forse era l'emozione di avere una vera arma tra le mani, pericolosa e letale, a seconda del suo uso.

Se suo padre si fidava a lasciargli usare infine le Katana, lui non lo avrebbe in nessuno modo disatteso, né lo avrebbe fatto pentire della sua scelta: avrebbe lavorato con tutte le sue forze per non deludere le sue aspettative.
La fece sibilare nell'aria, fendendo un nemico invisibile, saggiando il suo peso e la sua bilanciatura, calmo e fuso con la sua arma.
Con un sorriso e uno schiocco della spada che ritornava nel fodero, Leo si inchinò ancora una volta, poi tornò al suo posto, con le spade poggiate al suolo di fronte a sé.

Fu il turno di Donatello: Splinter gli porse con garbo un Bō, un lungo bastone al cui centro erano intrecciati dei fili per facilitargli la presa; il secondo dei suoi figli si alzò e si inchinò come suo fratello prima di lui, poi afferrò la sua arma.

Percepì immediatamente la ruvidità del legno sotto il palmo verde oliva e la stretta ferma delle dita. Adesso, con quella, era una tartaruga mutante nerd con un bastone. Abbastanza per far ridere chiunque, eppure lui sentiva quell'arma come un'estensione della sua persona, del suo braccio: indietreggiò di un passo e, senza nemmeno pensarci, iniziò a fare roteare il bastone, sempre più veloce, tra le mani, attorno al corpo, facendolo fischiare come un violento vortice di vento che si propagava attorno a lui. E quel sibilo gli parlava, quasi, tranquillizzandolo, come se gli dicesse che nessuno avrebbe potuto toccarlo finché fossero stati assieme.

Fermò il Bō nella mano e riprese fiato, posando infine lo sguardo, che era rimasto vacuo, su suo padre, i cui occhi invece scintillavano.
Con un altro inchino grato, Don indietreggiò e ritornò al fianco di Leo, poggiando il bastone al suo lato, vicino alla sua gamba.

L'ultimo era Michelangelo, rimasto in trepidante attesa, con gli occhioni che si illuminavano al vedere le armi dei suoi fratelli e il modo in cui le maneggiavano. Stava fremendo aspettando il suo momento, lo avevano capito tutti.
Perfino Splinter sembrava sul punto di sorridere e spezzare quell'aria solenne, alla vista della sua espressione da bambino avvolto dalla meraviglia.
Quando il padre lo chiamò, porgendogli i due Nunchaku con serietà, il mutante saltò su e si inchinò così tanto nella foga che quasi sbatté la fronte contro le ginocchia.

Nel momento in cui le sue mani si chiusero sulle armi, il suo sorriso era il più grande e aperto che avesse mai fatto prima: li fece roteare con urgenza ed entusiasmo, talmente tanto che finì per sbattersi in testa uno dei pezzi in legno, con un tintinnio di catene e un suono sordo nel silenzio.
Questa volta Leo e Don non ce la fecero proprio a trattenere una risata, soffocata per non offenderlo più del concesso. Ma Mikey si strofinava la parte lesa, continuando a sorridere, all'idea di tutto quello che avrebbe potuto fare da quel momento in poi: si sarebbe allenato ancora e ancora, fino a diventare bravissimo.

Si ricordò di inchinarsi in segno di ringraziamento quando era già sui suoi passi per tornare al posto. Don scosse la testa, gettandogli una breve occhiata, al vedere che si stringeva al petto i Nunchaku, come se fossero un dolce e tenero bambino.

Da questo momento in poi, userete le armi, per difendervi e combattere, mentre cerchiamo. Anche se spero che non ce ne sarà bisogno” annunciò Splinter alla fine, catturando la loro completa attenzione.
Ma cosa dobbiamo cercare?” domandò confuso Mikey, certo che ancora non gliel'avesse detto.
Non cosa, ma chi: vostro fratello perduto” confessò il loro padre, col volto divorato dalla tristezza e il rimorso.

Ve ne ho già parlato, quando siete mutati, ma allora probabilmente non avete capito, non sapevate nemmeno cosa significasse la parola fratello; ma adesso, adesso che capite l'importanza della famiglia;" iniziò a raccontare, indicandoli come a voler mostrare loro che bel gruppo fossero diventati; “Adesso, lasciate che io vi spieghi ogni cosa dall'inizio.”
Vuoi dire che c'è un altro come noi? Lì fuori da solo?” si intromise allibito Michelangelo, prima ancora di farlo parlare.

Splinter abbassò il capo con aria grave, lasciando andare le spalle in un momento di dolore.
Sì. Raphael ci è stato strappato via con forza, e tocca a noi ritrovarlo e riportarlo qui con noi, la sua famiglia. Una volta che saprete la verità, mi aiuterete a cercarlo?”

Leo annuì all'istante, senza nemmeno pensarci; Don lo seguì, anche se il suo razionale cervello gli sussurrava maligno le probabilità che un mutante potesse essere rimasto in vita per tutto quel tempo da solo, senza una guida, nel mondo di superficie, -con una scrollata della testa cercò di scacciare via quei pensieri ed essere più positivo; Mikey acconsentì entusiasta, con un grosso sorriso all'idea che ci fosse lì fuori un altro fratello: non vedeva l'ora di trovarlo e conoscerlo e parlarci e coinvolgerlo in chiacchierate e giochi.

Splinter sospirò, rincuorato dai suoi figli e il loro assopito amore per il fratello, anche se ancora non lo sapevano.
Ma lavorando tutti assieme, sarebbe stato facile trovare il loro pezzo mancante ed essere di nuovo una famiglia completa, un nucleo perfetto.

Si sedette di fronte a loro e li guardò negli occhi.
Allora, tutto inizia in un laboratorio e con un furto...” cominciò a raccontare, con la loro totale attenzione su di sé, col cuore pieno di speranza per il futuro, con la promessa di un avvenire roseo.

Se erano riusciti a rinascere a nuova vita e rincontrarsi, quanto difficile poteva essere ritrovare il loro caro disperso, in fondo?
Niente, gli diceva il cuore. Niente, sperava la mente.


Note:

Scusate l'imperdonabile ritardo!
Sono tornata, comunque, non vi libererete presto di me!
Non ho molto da dire su questa OS, è un piccolo missing moment senza pretese! Spero vi piaccia!
Abbraccione, buon anno nuovo anche se in ritardo! Di propositi ne ho tantissimi, e voi?


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Capitolo 6
*** Leonardo- Mother ***


Mi chiama.
Lei, mi chiama.

Un tono amorevole e divertito, avvolgente e protettivo. La sua voce è musica, musica che scandisce il mio nome.
Lei mi chiama.

Vieni qui” sussurra dolcemente, tendendomi le mani.
E io mi sento attirare da lei, come una falena verso il fuoco.

Lei è il mio centro, la mia gravità, il mio nucleo.
E le sue braccia, quando infine mi stringono, sanno di felicità, di morbido calore, così esili eppure così protettive. Sembrano fatte apposta per accogliermi e ripararmi.

Il mio ometto” bisbiglia contro la mia fronte, e io riesco a sentire le vibrazioni dolci della sua voce contro la mia pelle.

Inizia a cantare una tenera ninna nanna, con tono soave, in quella lingua che so di non avere mai imparato, ma che nonostante tutto conosco. Ascolto ogni respiro, rapito e assorto, ogni immagine che le sue parole suscitano nella mia mente, ogni vibrato della sua voce gentile e amorevole, mentre la sua mano esile e aggraziata danza davanti al mio viso, librandosi in forme e leggeri voli che seguono e accompagnano la canzone.

Ogni cosa, in lei, è eleganza e delicatezza; il modo in cui sorride, in cui inclina il capo tenuemente, le sue mani cortesi dalle pose leggiadre, l'intensità del suo sguardo quando mi guarda.
Lei mi ama. Il suo amore traspare in ogni gesto, in ogni occhiata, in ogni tocco, nel battito calmo e rassicurante del suo cuore, che mi culla assieme alla ninna nanna.

Sento che sto per addormentarmi, ma combatto contro il sonno, perché voglio guardarla ancora, voglio ascoltarla, non voglio che se ne vada.
Lei si accorge della mia impazienza e sorride con indulgenza. E canticchiando ancora la melodia, mi sfiora la guancia con la mano, i suoi occhi sembrano carezzarmi.

Sarò ancora qui quando ti sveglierai” mormora rassicurante, mentre continua a cullarmi.
E io non posso contrastare ancora questo benessere primordiale, questa pace ancestrale che stare nelle sue braccia mi trasmette.

Gli occhi si chiudono, la sua voce continua a vezzeggiarmi, al successivo battito di ciglia lei è ancora lì che mi sorride, poi le palpebre si fanno troppo pesanti e la dolce ninna nanna mi porta infine in un mondo di sogno.
Ma lei, lei non c'è.

Okaasan!”1 chiamo spaventato.
Ma lei non risponde, la sua voce soave è sparita, il tepore del suo abbraccio è scomparso, mi rimane un nulla freddo e spento.
E lo so, con gelida rassegnazione, che lei non sarà qui quando mi sveglierò.

Okaasan.



Leonardo si svegliò e aprì gli occhi, confuso. La testa era insolitamente pesante, la mente ingombra di frammenti ingarbugliati di sogno e sensazioni.
Sentiva che stava dimenticando qualcosa, qualcosa di molto importante, ma più cercava di focalizzarlo, più gli sfuggiva dalla mente, come acqua tra le mani.
Si sentiva stanco e stranamente smarrito. E solo.

Solo quando passò le mani sul viso per cercare di strofinare via la stanchezza, si accorse delle lacrime calde che gli inumidivano gli occhi e le guardò splendere sulla punta delle dita, sconvolto.
Qualcosa lo aveva turbato nel sonno, ma non riusciva a ricordare cosa avesse sognato, se non stralci confusi, brandelli caotici che non riusciva a mettere assieme, a far combaciare.

La voce del sensei lo chiamò gentilmente, per l'allenamento mattutino, e lui si sbrigò a rispondere, detergendo le lacrime con il dorso della mano.
E mentre correva verso l'anziano padre, con una rinnovata energia e il desiderio di dare il meglio di sé anche quel giorno, sentì una dolce melodia solleticargli la mente, anche se non sapeva da dove venisse.

Mormorando tra sé quel motivetto che sapeva quasi di ninna nanna, uscì dalla sua stanza, con un ignaro sorriso in viso.


1: Okaasan significa madre, in giapponese. Nella traduzione in italiano, nel volume 6, Leo la chiama mamma, ma dall'immagine in inglese che son riuscita a trovare della stessa scena, c'era scritto mother, madre.
In fondo chiamava Yoshi padre, perciò ci si aspetta lo stesso rispetto per la madre, soprattutto da una persona del Giappone antico.
Quindi la chiama Madre, non mamma.


Note:
Buonasera!

Dunque, questa OS nasce dal sesto volume, quando Leo inizia un po' a ricordare sua madre e alcuni momenti con lei di quando era un umano, prima che si reincarnasse. Mi ha colpito moltissimo, soprattutto le scene con solo loro due e questa storia è venuta fuori di getto.

Non ho mai usato la prima persona, mai prima d'ora, né il presente. Ma sentivo che nel ricordo/sogno era giusto metterli come forma di narrazione, spero di non aver fatto male.

Grazie per leggere e seguire la raccolta. Grazie ai preferiti, grazie ai vostri commenti.

Un sincero abbraccio

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