Another Story

di blackhina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alice. ***
Capitolo 2: *** Filippo. ***



Capitolo 1
*** Alice. ***


Buondì! Allora, in questa – ennesima – storia che ho cominciato e che spero di riuscire a continuare, voglio raccontare di come sarebbero le vite dei vari personaggi Disney se qualcosa, nelle loro storie, fosse diverso, anche se purtroppo non scriverò di tutti.
In ogni capitolo racconterò di un personaggio diverso ed in questo caso ho voluto cominciare con Alice nel Paese delle Meraviglie.
Beh, in ogni caso spero che vi piaccia questa idea, lo spero veramente tanto.
 
 
Alice.
Le carte stavano seguendo Alice. I soldati della Regina di Cuori le stavano alle calcagna, urlandole intimidazioni e simili.
Alice pensò che bisognava essere scemi – ma proprio bacati cerebralmente – per credere che lei potesse pensare di fermarsi, e farsi staccare letteralmente la testa dal collo.
Eppure erano particolarmente insistenti, tanto che la preda dai capelli biondi fu costretta ad urlare un ‘piantatela di dirmi di fermarmi’.
Il paesaggio intorno a lei cambiava così velocemente che a guardarlo ti entrava il mal di testa: prima c’erano grandi alberi colorati da chiome di ogni forma e ogni colore, poi laghetti sormontati da cascate una più bassa una più alta, che formavano arcobaleni in bianco e nero oppure tutti verdi o rosa.
Lei, pensò mentre saltava un gruppetto di Palmipedoni, non sarebbe riuscita ad uscire da quel pasticcio con una semplice pensata. No. Lei avrebbe dovuto avere un’idea geniale.
Quello era un pensiero piuttosto scoraggiante: non era mai stata famosa per la sua intelligenza.
Dopo un tempo che solo in quello strano posto poteva esistere, Alice notò una mezzaluna bianca e chiara come la panna appena montata.
Aveva voglia di panna, una voglia incredibile, ma chissà se l’avrebbe rimangiata, chissà se nel Paese delle Meraviglie esisteva una mucca in grado di fare del latte.
C’era il tè, ed era pure buono, ma senza latte – o panna – non avrebbe potuto andare avanti.
In ogni caso quella strana forma biancastra era sospesa a mezz’aria e la seguiva, oh se la seguiva. Ad ogni passo d’Alice, lei ne faceva un quarto in più e se arrivava troppo lontano si fermava ad aspettare la fuggitrice.
D’improvviso s’aprì; quella diavoleria volteggiante per aria si spalancò in un ghigno tanto inquietante quanto allegro – anche se a modo suo.
- Buonmai Alice. Come stai passando la giornata?- una voce non più di tanto profonda, uscì interrogativa da quella ormai bocca.
Alice aveva un fiatone che poteva essere udito anche a più di 10 merìgori di distanza ( erano abbastanza da poter essere più del normale).
- Io… - deglutì rumorosamente - … io sto bene. Va alla grandhhhe.- l’ultima parola fu trascinata sfiatata per qualche metro, o per qualcosa che potesse sembrarlo.
Quasi subito dopo la ragazza, ormai allo stremo delle forze, inciampò in un sasso che non era propriamente un sasso, ma un esserino grigio più duro del marmo, con due occhi grandi quanto la falangetta del suo mignolo.
Il suono che emise non fu tanto felice.
- La ragione per cui corri mi è ignota, ahimè. In ogni caso lo sai che a pochi passi da te c’è una scorciatoia? Basta che tu mi dica di tirare una leva e potrai riposare le tue gambe…- nel fra mentre erano comparsi anche il naso violaceo tendente all’azzurro indaco e due occhi color dell’insalata appena tagliata e lavata che ogni domenica imbandiva come contorno il pesce e le carni rosse e bianche che coloravano la tavola di casa Liddell – quando Alice ancora ci abitava, prima di finire in quel guazzabuglio di stramberie e ammattiti.
Alice guardò perplessa quanto stufa dei suoi scherzi, lo Stregatto, il quale intanto stava comparendo poco a poco, con ciuffi viola, turchesi e verdi smeraldo di pelo lucente e soffice che spuntavano a chiazze.
- Solo una leva…- sussurrò, mentre si sfiorava il muso torto in un sorriso beffardo con la coda gonfia di un manto lucido, scomparendo pian piano cullato da una litania anch’essa sussurrata.
Alice non sapeva che fare.
Le arrivò una lancia dalla punta rossa laccata, che tra l’altro la mancò anche di poco.
Il tempo a disposizione per salvarsi la pelle stava finendo, e avrebbe dovuto trovare alla svelta una soluzione, perché altrimenti altro che cappellini e tè: niente tè senza testa.
Alice sentì sfiorarsi la schiena, e probabilmente era stata la mano di una sfortunata carta soldato.
- La leva! Stregatto la leva!- urlò con il poco fiato rimastole nei polmoni.
- Quale leva, cara?- una voce tranquilla e pacata spuntò alla sinistra di Alice. Il ghigno ora era sulla sua spalla, e se avesse continuato a fare lo spiritoso avrebbe avuto vita breve.
Alice digrignò i denti. - La leva, la scorciatoia per salvarmi da questo incubo!-
- Oh quella leva… beh non è una vera leva, bensì un ramoscello di ebano. Purtroppo qui non c’è alcun ebano di cui poter abbassare un rametto…- con un artiglio affilato, argenteo e ricurvo si grattò la gola.
- TIRA QUELLA MALEDETTA LEVA!- Alice tirò una manata sul gatto dai colori bizzarri, anche se l’unica cosa che beccò fu la sua spalla.
D’improvviso quello che fino a quel momento era stata una strada gialla e sconnessa, divenne una specie di botola a tempo, che si aprì, richiudendosi con uno scatto sordo sotto i piedi pulsanti e doloranti di quella che era stata l’innumerabile vittima capitata laggiù.
Era buio sotto la strada, e l’unica cosa che si poteva vedere chiaramente erano i soldati della Regina affacciati al passaggio segreto, troppo grandi per poterci passare.
Alice aveva ricominciato a cadere, come quando – mandandosi un accidente – aveva voluto infilarsi in quella tana per scoprire chi fosse quello strano coniglio col panciotto.
 
Dopo quella caduta, Alice era arrivata in una piccola casetta azzurra, ed era passata dal camino, per poterci entrare.
Chissà se quella profonda botola in cui era cascata grazie allo Stregatto era sin dall’inizio un camino nascosto, pensò Alice, e se fosse stato davvero così allora doveva essere un camino mooolto alto. Alice stessa rise al suo pensiero.
Beh, se lo fosse stato davvero Biagio, la lucertola spazzacamino, si sarebbe entusiasmato al solo conoscere quella stranezza.
Alice, mentre si spolverava il vestitino azzurro, si domandò di chi potesse essere quella casa. Era graziosamente arredata di mobili in legno chiaro, e se c’era della stoffa, potevi stare sicuro che era del colore dei muri, azzurra.
Tirò uno starnuto. La cenere era un po' troppa per i suoi gusti.
Dopo pochi secondi la ragazza sentì dei passi che andavano dal veloce al lento su quelle che potevano essere delle scale anch’esse di legno.
Non avrei dovuto starnutire, devo essere ammattita.
Dopo un attimo di silenzio, la porta si spalancò, lasciando entrare una ragazza non troppo bassa, sinuosa e magra, dai capelli corvini, riccioli e gonfi, e dalla pelle color bronzo scuro, opaco e ad occhio soffice come una crema al cioccolato.
E la cosa più bella che Alice potesse notare in lei, erano gli occhi: un trionfo di luce e di scintille dorate, avvolte da fiamme divampanti di un rosso così acceso che se veniva guardato troppo rischiava di dar fuoco. 
E, invece, la cosa più stupida che Alice potesse fare era rimanere a bocca aperta fissandola ininterrottamente.
- Beh? Che cos’hai da fissare? Ti ha punta un Pietrolesto?- la voce tuonante di quella ragazza dai capelli a molla riempì le orecchie ovattate di Alice, che misteriosamente si stapparono.
Dopo qualche balbettio, la ragazza dai capelli biondi riuscì ad emettere una parola comprensibile.
- Ah, no… beh, ecco io sono qui per… per, oddio, per scappare dalle carte di cuori, e lo Stregatto…- inspirò intensamente - santo cielo lo Stregatto! Lui mi ha fatto cascare in una botola, che era il camino, e poi… poi sono arrivata qui e…- ma quell’incredibile discorso ben articolato fu interrotto piuttosto bruscamente.
- Si, si, non mi importa delle tue spiegazioni, perché nel frattempo mi hai insudiciato tutto il parquet!- avanzò verso Alice, che nel fra mentre si stava torturando le mani, e cominciò a smanettare per aria, tirando poco dopo uno spintone alla povera fanciulla.
Alice rimase basita.
Mentre la ragazza di colore ripuliva alla meno peggio il caminetto, borbottava accidenti e robe varie.
Alice non riusciva a capire un’emerita mazza, ma ad un certo punto catturò al volo un nome familiare.
‘ Cappellaio Matto ’
Lei lo conosceva bene, il Cappellaio, e per quanto cercasse di ricordare, non ci trovava niente, ma proprio niente, di simpatico.
- Ehi gallinella, mi senti o sei ancora sulla nave con capitan Libeccio?- tirò una pacchetta proprio sul fiocchetto nero sulla testa di Alice.
- No no, ci sono… è che ecco non ho voglia di andare da quel vecchietto con le rotelle che vanno e vengono.- abbassò lo sguardo sulle proprie mani, che finalmente aveva smesso di maciullarsi.
La ragazza di colore scoppiò in una fragorosa ed invadente risata.
- Vecchio? Hai dato del vecchio al Cappellaio? O santa meraviglia, come puoi dire che è… oh, ho capito… di nuovo un Fantastico. Ti hanno messo un Fantastico nel tè.- e continuò a ridere.
Cosa diamine è un Fantastico, si domandò Alice e lo avrebbe pure chiesto, se disgraziatamente non l’avesse interrotta, di nuovo.
- È un affarino che ti fa venire le allucinazioni, gallinella.- si asciugò le lacrime fiera, anche se non si sa di cosa potesse esserlo.
- Okay andiamo, che è quasi ora del tè.- tirò su di peso Alice.
È forzuta la ragazza. E con questo Alice si avviò dal Cappellaio Matto, sperando che non le capitasse più un Fantastico, qualunque cosa potesse essere.
 
La musica che si sentiva era un allegro motivetto classico, il resto era incomprensibile, ma era già tanto sentire quella, perché voci e schiamazzi vari rendevano quel giardinetto sul retro un guazzabuglio di suoni indistinti.
Il cigolio del cancelletto d’ingresso di legno fu lento e particolarmente agonizzante, ma quelle decorazioni incise sopra erano così precise e ben fatte che Alice non si rese conto del suono acuto.
Più vicino le due ragazze andavano, e più la musica si faceva chiara, le note si distinguevano e Alice notò che era un valzer.
Quella musica era sprecata pensò, ed effettivamente lo era davvero, dato che nessuno stava la ballando né tantomeno ascoltando.
- Versami un quarto di tè verticale!- un urlo improvviso fece sobbalzare Alice, mentre la ragazza di colore era più calma di un bradipo in letargo.
- Non finché non mi porgi il piattino, Lepre!- un altro vocio.
- Cappellaio! Cappellaio sono Anitra! Leprotto! Ehi di là, ci siete?- ennesimo tono non così basso come Alice desiderava.
La musica si fermò improvvisamente, e tutti gli occhi – secondo Alice erano molti più di quanti se ne vedessero – si girarono verso di loro.
- ANITRA!- e boom! La musica riscoppiò ad echeggiare tra le frasche violacee intorno al giardinetto. Il Cappellaio balzò sulla lunga tavolata imbandita di tazzine di ogni forma e colore, alcune anche divise a metà, e teiere colme di tè per ogni gusto, rovesciandone mezze e facendo cadere all’indietro la sedia dallo schienale alto e imbottito di stoffa bordeaux.
Alice non era affatto sorpresa, tranne per una cosa: quello non era il Cappellaio. O meglio, non era quello che si ricordava.
Quella versione era di un uomo alto, snello e robusto, con una chioma bianca come la perla delle ostriche.
Con pochi passi raggiunse il capo del tavolo opposto, e ne saltò giù con un balzo silenzioso, e con altrettanta agilità raggiunse le due fino a trovarvisi a poca distanza.
Sorrise tanto da sembrare inquietante, poi di colpo si girò verso la ragazza più agitata delle due, fissandola intensamente.
- Alla fine non hai bevuto il tuo tè.- un sussurro fievole.
Alice constatò che non solo era diverso, ma che era anche parecchio, ma parecchio eccitante.
E al diavolo le buone maniere.
 
 
Ecco il primo capitolo! Non è molto in stile Disney, puro ed innocente, ma è un po' più in stile ventunesimo secolo.
È piuttosto corto, ma per ora preferisco scrivere poco, magari mi si moltiplicano le idee… ( non ho idea di quello che ho appena scritto )
Okay, per ora non ho altro da aggiungere, se non che sono felice che abbiate letto questo primo capitolo e ve ne sono grata :)
Beh, non mi resta che dire alla prossima!
 
*Mano che saluta*, Tex.

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Capitolo 2
*** Filippo. ***


Ebbene dopo un’eternità sono riuscita ad avere un’illuminazione per scrivere il secondo capitolo di questa stramba storia.
Dato che non so cosa scrivere vi dico semplicemente alleluia e buona lettura!
 
 
Capitolo 2.
 
- Come sarebbe a dire ‘non ti piace Aurora’?!- la vocetta stridula della fata Flora stappò le orecchie di Filippo.
- Che non mi piace.- punto, chiuso e arrivederci.
- Filippo tu devi baciare quella benedetta ragazza e risvegliarla.- Serena. Quella paffuta, impertinente, scavezzacollo di fatina vestita di blu. Filippo la tollerava poco.
- Ehi, abbassa il tono, moscerino.- detto ciò, il principe dai capelli color miele girò i tacchi e si diresse verso il cortile, dove crescevano alti rampicanti di piccoli fiori bianchi e profumati.
Il rumore dei suoi passi riecheggiò nel grande ingresso di pietra lucida e scura, fino a che i piedi non affondarono nella soffice erbetta coperta da un sottile velo bianco e candido.
Filippo sospirò.
Non era mica colpa sua se non gli piaceva Aurora… magari gli sarebbe piaciuta – anche se era molto difficile a suo parere – ma di sicuro non gli ispirava quello che una donna doveva ispirare in caso di amore.
A naso all’insù e con le palpebre calate inspirò profondamente, finché non si sentì i polmoni traforati da innumerevoli spilli gelati.
Poi una piccola sensazione di freddo nacque sulla punta del suo naso. Aprì gli occhi lentamente e guardò cos’era quel punto di ghiaccio sulla sua pelle: un piccolo fiocco di neve.
Peccato che c’era qualcosa di stranamente inquietante.
Quel fiocco, così delicato e preciso, come se fosse stato scolpito da mani esperte, era nero.
Nero come la pece, come la notte senza luna ne stelle.
Si spaventò, tanto da schiaffarsi una mano sul naso per farlo volare via.
- Cosa… cosa diamine era?- aveva il respiro affannato.
La reazione era eccessiva, forse, ma aveva un motivo valido per essere così agitato: l’ultimo fiocco di neve nero che quel regno aveva visto, era stato alla morte di Malefica.
E la presenza di un altro fiocco di quel colore voleva dire che ce n’era un altro, di ‘malefico’.
E che quel tizio era vivo, sano e chissà, magari perfido quanto la strega originale.
Un ‘dannazione’ gli scivolò fuori dalla bocca. Un accenno di sussurro , nulla di più.
Il primo istinto fu quello di urlare. Dopotutto non erano passati che pochi anni dalla vittoria sulla strega e quella non era la situazione migliore per l’ascesa di un nuovo mago.
Anche perché nessuno, compreso re Stefano e suo padre, sapeva dell’esistenza di più di uno di essi.
Basandosi solo su ipotesi, poteva essere un fratello, e se fosse stato così sarebbe il minore dei due, altrimenti sarebbe uscito fuori prima della sorella.
In ogni caso era l’ora di darsi una mossa: con poche falcate svelte, Filippo raggiunse il cavallo bianco dalla criniera e la coda sfumate di nero.
Il suo fedele destriero fu entusiasta di vederlo, anche se parve capire quasi subito la sua afflizione.
Filippo adorava cavalcare, la stretta automatica delle cosce attorno al busto del cavallo per tenersi su, i brividi che la sella di cuoio liscia gli scaricava per tutto il corpo, quando slittava di poco avanti e indietro.
Era la sua passione. Principe o no, passava gran parte della sua giornata nei boschi , poco lontani dalle grandi mura attorno alla sua città.
Ed era proprio quello che stava facendo, e pure quasi con spensieratezza, quando le sue orecchie che nel frattempo si erano unite al ritmo dello scalpitio degli zoccoli, il cielo si oscurò e una raffica di vento tagliente lo lisciò più volte su entrambi i lati del corpo.
L’ombra dei due compagni creata dalla luce calda del sole su entrambi sparì, come il tepore solare a cui Filippo si stava piacevolmente riscaldando.
Il giovane ebbe un sussulto, quando alzato lo sguardo, notò proprio sopra di lui un imponente drago nero e azzurro.
Ricordò lo scontro con Malefica, quando essa si fece drago, con una pelle squamosa e nera, che con la sua lucidità rifletteva la luce delle fiamme a cui aveva dato vita.
Solo lo spazio che correva dal petto al basso ventre era esonerato dalla colorazione scura: era infatti di un violaceo del tutto diverso dallo sgargiante viola delle stoffe che vestivano le dame.
E le ali… oh, le ali. Grandi quanto sottili e forti membrane della stessa tonalità della pancia, attraversate da innumerevoli venature scure. Compievano dei movimenti lenti, le interi ali, creando correnti d’aria così forti che era impossibile non barcollare una volta investiti da essi.
Così era la creatura che volava sopra il principe, immersa nel cielo, sfidante le nuvole che si dissolvevano al tocco con quel corpo possente.
C’era una differenza, il colore azzurrastro al posto del viola, ma era quasi impercettibile guardata in quella maestosa visuale generica.
Non lo stava guardando.
Quella gigante bestia aveva il muso, come lo sguardo – presunse Filippo – rivolti davanti a se, verso l’orizzonte infinitamente esteso.
Pensato che forse avrebbe potuto invertire la rotta, in modo da andarsi a nascondere tra la selva dei boschi, il ragazzo ebbe un barlume di speranza.
Quel barlume morì pochi attimi dopo, quando il drago mosse con uno scatto la grande testa, che poteva essere tranquillamente messa a confronto con una torretta del suo palazzo, tanto che gli enormi occhi gialli dorati non ebbero alcuna difficoltà a trovare il giovane.
Cosa più terrificante di quello sguardo maligno non c’era, le pupille nere che sembravano sottilissime porte verso l’inferno di tenebre, tagliavano a metà le iridi gialle radiose venate di filamenti millimetrici d’oro, che bruciavano d’un ardore tale da avvampare i boschi circostanti.
- Dio… abbi pietà…- parole morenti scivolarono lente dalla sua bocca ormai secca.
E non aveva ancora notato la bocca: un trionfo di guglie affilate come lame di spade sacre, bianche di una luce lunare, che giravano intorno ad una lunga lingua biforcuta e verde smorta, che si muoveva guizzando mentre piccoli schizzi di bava volavano e atterravano sul prato.
E quella bocca, quel dannatissimo limbo tra la vita e la morte, era piegata in un ghigno. Filippo pregò in ogni modo che conosceva per uscire vivo da lì, e la sorte sembrò farsi beffa di lui, quando quell’immensa creatura allungò una delle grosse e sfilate zampe, con falangi spigolose, armate da lunghi artigli perlati ed affilati come i denti.
Il giovane smontò da cavallo e con una gran pacca sulla sovra coscia, lo fece partire al galoppo.
Mai avrebbe lasciato che il suo fedele destriero venisse catturato e magari anche mangiato.
A quel pensiero fu scosso da un brivido.
Non voleva morire mangiato, non in quella bocca, ne in nessun’altra.
Si portò istintivamente la mano al fianco, dove di solito teneva la sua amata spada bianca, e appena il palmo toccò la stoffa dei suoi pantaloni si ricordò che l’aveva lasciata a casa, appoggiata al letto, in modo da ricordarsi di lucidarla al suo ritorno.
Non aveva neanche qualcosa con cui proteggersi, anche se una spada per lui era uno stuzzicadenti per il drago, ma avere uno stuzzicadenti era meglio che nulla.
Mentre i suoi pensieri facevano il loro corso, lo zampone della creatura si avvicinava pericolosamente, cosa che Filippo non aveva del tutto ignorato: cominciò a muovere le gambe, un passo dopo l’altro, e ben presto si trovò a correre verso la selva.
Vedeva la possibilità, una via per tornare a casa. Ce la posso fare, pensò, se mi muovo.
Poi accadde una gran puttanata: un soffio gelato ghiacciò l’entrata, creando una spessa lastra di ghiaccio trasparente come acqua.
Sono fottuto.
Quel dannato essere mostruoso non voleva fargli avere vita facile, e nemmeno perdere tempo in giochetti vari: lo afferrò, avvolgendolo nel suo pugno e chiudendolo in una gabbia di pelle squamosa.
Filippo urlò.
Con quanto fiato e forza aveva in corpo urlò e si agitò, cercando di allargarsi e di aprirsi una via di fuga.
Non scapperai, è la tua fine e prega che sia veloce.
I pensieri che vennero dopo erano di egual positività.
Sentiva il rumore della natura che scorreva fuori da quello spesso muro di carne viva e mai aveva ammirato in vita sua la straordinarietà della libertà.
L’aria lì dentro era opprimente, come una morsa e Filippo decise di lasciarsi andare a quello che doveva essere uno svenimento.
Non si risvegliò all’aria aperta o in una grotta dove chissà perché si aspettava di ritrovarsi: era in una stanza fatta esclusivamente di pietra grigia, con un’inquietante sfumatura verdastra.
La vista annebbiata gli permetteva di vedere poco all’inizio, ma con il passare dei secondi riusciva a mettere a fuoco sempre più elementi; si chiese se fosse stato meglio lasciare quel mondo, anziché finire in una specie di cella.
Questa era la definizione che secondo il giovane si poteva meglio dare a quel posto: un cubo di pietra con una porta composta con sbarre di ferro arrugginito e una piccola finestrella anch’essa rigorosamente sbarrata nell’angolo in alto a destra, che dava su un cielo stellato.
Oh, c’era anche una fiaccola, su cui zampillava non proprio allegramente una fiamma verde. Verde. Quando mai s’era visto un fuoco di un colore simile.
Ad ogni modo non importava di che razza di colore fosse una fiaccola, il vero problema era come fare ad uscire di lì.
Rimarrò qua dentro a marcire.
Sempre pensieri molto positivi.
Era stato rinchiuso in una cella anche quando dovette uccidere Malefica, ma allora c’erano le fatine ad aiutarlo.
Stavolta era solo. Completamente isolato.
Era seduto su una specie di branda appesa al soffitto grazie a quattro catenacci che dondolava scricchiolando lagnosamente, e quell’agonia di suono lo stava cullando da più o meno dieci minuti, quando Filippo parve sentire il rumore di passi nel corridoio fuori dalla cella: rimbombavano nei muri di pietra muschiosa e umida ed erano leggeri e svelti.
Un’improvvisa ansia assalì quella che poteva essere chiamata la sua pace interiore, e ne ebbe il sopravvento.
Chi era? Cosa aveva in mente?
Ma la domanda che forse lo tormentava di più era se chiunque si stesse avvicinando era lo stesso che l’aveva portato lì. E se così fosse stato, il drago nero e azzurrastro era davvero potente quanto lo era stata Malefica, e sarebbe stato un guaio, un abnorme ed esagerato guaio. Si alzò dalla branda e appoggiò la schiena al muro.
Respirò profondamente e chiuse gli occhi . appena abbassate le palpebre però successe un qualcosa che a Filippo non piacque affatto: il rumore dei passi cessò.
Ed il ragazzo si rifiutava vivamente di riaprire gli occhi e andare alle inferriate della porta per dare un’occhiata.
C’era davvero un silenzio tombale, rotto solamente dai piccoli ciottoli che si staccavano dal muro esterno e che rotolando per le pareti, si tuffavano nell’acqua.
Doveva esserci un fossato pieno di essa, intorno alla struttura. E sicuramente la sua cella non era ad un piano basso, dato che i sassolini che cadevano dalla sua finestra ci mettevano tanto a tuffarsici.
Non sapeva da quanto aveva gli occhi chiusi, forse secondi o forse persino minuti.
Ad ogni modo l’istinto di aprire gli occhi fu talmente forte, che con uno scatto li spalancò.
Il suo cuore si fermò.
Una figura esile vestita di nero e senza volto era in piedi, ad un metro da lui.
La bocca di Filippo su socchiuse di poco, giusto per far uscire un quasi inesistente filo di sospiro.
Le sue gambe erano percosse a tratti da violenti brividi.
La vista si adattò alla luce verde che illuminava l’intera stanza e riuscì a mettere a fuoco quella figura davanti a se.
Non era senza volto: aveva le labbra così pallide che si confondevano nella pelle e gli occhi erano cadaverici.
Due pupille chiare come i capelli arruffati di un azzurro sbiadito, circondate da iridi appena di un tono sopra il bianco.
Forse era davvero morto.
Il principe si scoprì la bocca asciutta e i muscoli del viso e del corpo completamente tesi.
La gabbia toracica era gonfia, con i polmoni pieni d’aria. Si lasciò sfuggire un lungo sospiro.
Quel…ragazzo era immobile, tanto che Filippo fu tentato di andare e punzecchiarlo.
Poi si mosse, il morto, e fece un passo, e un altro poco dopo.
Ciondolava le braccia, non come altalene, ma in ogni caso le lasciava rilassate.
Stranamente il giovane non si accorse quasi dell’avvicinarsi del ragazzo bianco in nero.
Sussultò non appena si rese conto che gli era così vicino.
Era in apnea, Filippo, involontariamente tratteneva il respiro come se fosse l’unica chance per fuggire che non voleva lasciar correre via.
E poi una voce uscì da quei sottilissimi spicchi di luce. Un suono candido, puro.
- Benvenuta, mia dolce, fredda vendetta.-
Quella preziosa via di fuga a cui Filippo teneva tanto, scappò, senza se e senza ma.
Lo lasciò lì, a boccheggiare pendendo da quella bocca marmorea.
 
 
 
Ed ecco il secondo capitolo di questa storia!
Oddio sono così felice, mi sento realizzatissima… perché questa è la mia prima storia slash, quindi è un gran bel traguardo per la sottospecie di scrittrice che sono – manco mi posso definire così :’).
Okay, per ora non ho da dire nulla di che, anche perché è appena cominciata l’avventura di Filippo.
L’unica cosa che posso dire è che il giovincello ha incontrato per la prima volta uno strano ragazzo ‘cadaverico’ e che si presenterà solo nel prossimo capitolo. Quindi spero che vi sia piaciuta, sta roba, e soprattutto spero che continuerete a leggerla :)
Con questo vi lascio e alla prossima volta.
 
Tex
 

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