Don't you worry child

di Pachiderma Anarchico
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ⊱Prologo⊰ ***
Capitolo 2: *** I. SIMILAR ~ SIMILE ***
Capitolo 3: *** II. FRIGIDA - FREDDO ***



Capitolo 1
*** ⊱Prologo⊰ ***








⊱Prologo⊰


Berlino è silenziosa stanotte, le luci dorate di lampioni solitari sono inanimati soldati nella mezzanotte di fragile cristallo.
Il profilo di un ragazzo si staglia nella luminescenza della luna piena, il morbido profilo contorniato dagli aurei riflessi di sole dei suoi capelli. Il silenzio è l'unico sopravvissuto al giorno, signore indiscusso delle tenebre. 
Il ragazzo respira, osserva il marciapiede grigio e deserto senza davvero vederlo. I suoi occhi malamente illuminati si posano su un passero solitario nei pressi della maestosa fontana nel giardino maestoso della maestosa villa. E' solo un attimo prima che voli via. 
E allora che prezzo ha poter distendere le ali e volare via?  Quanto potrà valere il poter andarsene dall'altra parte del mondo senza nessuno con pistole e fucili in mano che tenta di fermarti? Quanto costa la libertà?
Desidera essere come quel piccolo passero il ragazzo che non vede oltre il vetro della finestra, con l'animo arido quanto il marciapiede al di sotto. 
Per un istante ci riesce a credere di alzare lo sguardo è vedere un cielo non offuscato da polveri da sparo e grida all'orizzonte. Un cielo dove solo le stelle bombardano con la loro luce. Per un attimo ci crede, di non essere stato tradito da quei pezzi di lui che aveva giurato di proteggere. Ma la realtà è che il polso destro è rosso, sfregiato, consumato dal bracciale di ferro ancorato alla pelle con una catena d'argento e il rosso di una goccia che bacia il pavimento. 
Sta sanguinando, ancora.
Il buio è solo un sospiro, un lieve sottofondo alla mente che non tace e il cuore e così vivo mentre una seconda figura gli compare alle spalle, accosta la bocca alla pelle del ragazzo raffreddata di sudore e fa scorrere le lunghe dita bianche sui fianchi, sulla braccia, sui polsi, l'uno immobile, l'altro gocciolante vita. E il ragazzo dai capelli di sole chiude gli occhi, sigilla la vista dell'ombra che si fa materia passando le labbra in corrispondenza della sua carotide che pulsa improvvisamente destata dal suo sonno.
È più facile fingere con le luci spente, il ragazzo lo sa bene, è più facile fingere che quella lingua non sia sul suo collo, che la lingua del tedesco non stia delicatamente stuzzicando il segno impressovi dall'attizzatoio.









▁▁▁▁▁▁▁▁▁▁
Okay, Pachiderma Anarchico è tornato con la sua prima originale! -Inserire applausi qui-
Non so decisamente dove mi porterà questa storia né fino a quando sopporterete voi anime intrepide che si avventureranno in questa..cosa..strana.. MA, sappiate che chiunque concederà un po' del suo tempo a me e alla mia storia avrà la mia immensa gratitudine. 
Ora, bado alle ciance e ciance alle bando (?) cosa potrei dire? Questa fan fiction è nata col desiderio di scrivere sul mio periodo storico preferito: gli anni 1938-45, ovvero Seconda Guerra Mondiale. 
Sono abbastanza soddisfatta di cosa sta uscendo fuori (almeno per il momento) e lo so lo so, questo prologo è troppo confuso, è troppo spaesato, è troppo tutto ma spero vivamente che riusciate a cavarne qualcosa per cui valga la pena di andare avanti. 
Penultima cosa: i farebbe immensamente piacere trovare qualche recensione al mio ritorno, nonostante sappia che sono l'Anticristo delle recensioni, sarei davvero davvero lieta di sapere cosa ne pensate del mio caotico scritto casinista.
Ultima cosa: cercherò di ricreare le atmosfere che dovevano aleggiare in quei giorni, gli usi, i costumi e il pensiero di quel tempo non tanto vicino da poter essere vissuto ma non tanto lontano da poter essere dimenticato.
-
Detto questo, ringrazio caldamente Blackbird per la disponibilità concessami e per il fenomenale banner. 
http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=160593 <----- Qui potete trovare il suo profilo EFP.}


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Pachiderma Anarchico

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Capitolo 2
*** I. SIMILAR ~ SIMILE ***


There was a time
I used to look into my father's eyes.
In a happy home
I was a king, I had a golden throne.
Those days are gone,
Now the memories are on the wall.
I hear the songs
Of the places where I was born.
Upon a hill across a blue lake,
That's where I had my first heartbreak,
I still remember how it all changed.

My father said,
"Don't you worry, don't you worry child.
See heaven's got a plan for you.
Don't you worry, don't you worry now."


 

 


 

Trova ciò che ami e lascia che ti uccida.

 

 


 

Alla musica,

fonte inesauribile di ispirazione. 

A quei tedeschi che

rischiando la loro stessa vita, soccorsero e salvarono gli ebrei.

Ad Anna Frank,

prova che la speranza è davvero l'ultima a morire.

A Napoli,

prima città europea ad essersi ribellata e ad aver vinto contro l'occupazione nazista.

A Banskà Bystrica, 

città slovacca guerriera mai arresasi da quel 29 agosto 1944.

A Varsavia,

mai rassegnata alla perdita della propria indipendenza, con il suo coraggio ha donato un nuovo valore alla parola "insurrezione".

Alla storia, 

che ci permette di ricordare anche quando non vorremmo.




 

 

[ I ] -SIMILAR-
 



 

Bottrop, Germania 1940

Qualcuno li aveva traditi.
Lo sentiva nell'aria di ferma elettricità, nella medesima tensione che si accumulava tra granelli di polvere fluttuanti nell'aria. Quei granelli che, seduto sul pavimento freddo, non vedeva a causa dello strato di stoffa che gli abbracciava il viso. Però li immaginava mentre si ammassavano lenti gli uni contro gli altri, si stringevano, flirtando e sfiorandosi e poi si allontanavano, fulminei, senza preavviso. 

Il rifugio era stato, da qualche tempo, l'unico posto sicuro in cui nascondersi, in cui scomparire, nel quale divenire invisibili alla società, alle regole, alle Leggi di Norimberga*
Il rifugio era, da qualche tempo, l'unico posto.
L'agiatezza e la rinomanza della sua famiglia gli avevano permesso di mostrarsi per strada più a lungo degli "altri", ma anche per loro, ad un certo punto, era giunto il momento di prendere precauzioni. 
Niente scuola, niente lavoro, niente uscite.
Solo una radio, un blocco da disegno, il mimino per vivere. 
Perchè quel giorno iniziato con la stessa, lenta, monotonia di tutti quelli passati tra le rosse pareti della casa nascosta, era deviato in una direzione ben più diversa. 
Perché qualcuno li aveva davvero traditi e quel ragazzo, lo stesso giorno della soffiata, si lanciò in qualcosa che avrebbe lacerato il cuore di sua madre, ma l'avrebbe mantenuta in vita. 
Più a lungo. Più disperatamente. Ma non si sopravvive senza sacrifici. 
La mattina in cui vide le uniformi nere come la notte senza stelle appostate nei dintorni del luogo dove i suoi cari riponevano, ignari, la loro fiducia e le loro ultime speranze, non gli diede fiato, né tempo, né paura. 
Era terrorizzato, ma non aveva paura. 
Non potè averne.
Sarebbe uscito da una porta sul retro, avrebbe varcato silenziosamente i vicoli bui di quel quartiere intricato, si sarebbe abbandonato al soffio velenifero di quella parte della Germania che aveva sperato sino all'ultimo di non rincontrare mai più da così vicino. 
Nessuno lo avrebbe fermato, e nessuno lo fermò.
Conosceva bene Bottrop, la cittadina tedesca in cui aveva vissuto sino ai sedici anni, e conosceva bene l'esatto punto in cui si intersecavano quattro strade in un possente incrocio, al centro della cartina di palazzi che era il quartiere in cui era nato e che gli aveva offerto, a soli diciannove anni, la sua protezione. 
Le SS lo avrebbero visto ma non avrebbero mai saputo dove si nascondevano gli altri, in quale della case attorno a quell'incrocio, almeno non subito, almeno non adesso. 
Sua madre, suo padre, sua zia, la sua adorata cugina.. Avrebbero avuto il tempo di scappare, il tempo di sopravvivere, il tempo che lui recise con cesoie insanguinate. 
Eccoli, alti, veloci, spietati. 
Eccole le due "S" scarlatte ricamate con precisione maniacale sulla divisa scura.
Eccolo. 
Nell'esatto baciarsi del cemento grigio, sotto la manifesta luce di un lampione, immobile nell'aria fredda sferzante calore, i piedi si saldarono a terra, improvvisamente di ferro. 
Non aveva paura, aveva terrore. Ma non si mosse.
Ci volle poco più che un sussurro perché i soldati si voltassero, poco più di un battito di ciglia perché le gambe iniziassero a correre, scaricando l'ansia crescente nell'impreciso passo di chi ansima la fine. Non voleva salvarsi -non era così stupido da crederlo possibile- voleva solo portarli il più lontano concessogli da lì, e quindi corse, e corse, e corse ancora, inoltrandosi nel buio, gareggiando con i muri più stretti e passando tra casa e casa, fra vita e morte, fino a non poterne più, fino a sentire male ai polpacci, fino a rendersi conto di conoscere Bottrop troppo bene. Lo inseguivano, li avvertiva, ma non erano mai troppo vicini, mai da agguantarlo. 
E sapeva perché.
Non erano riusciti a prenderlo rimanendo sulle costose auto con cui si muovevano, non in quel labirinto di cunicoli e stradicciole. Sarebbe stato come prendere una volpe nel mezzo del bosco. 
Un cacciatore sa che, se vuole avere la meglio su un animale, deve spingerlo dove non può nascondersi. 
E lo sapevano anche loro. 
Avevano puntato la preda, e la attaccarono. 
Qualcuno sparò, il proiettile colpì il muro, rotolò ai piedi della figura che respirava piano il peso dei suoi sospiri. Essa indietreggiò d'istinto, si insinuò in un secondo vicolo, il passo sostenuto, le orecchie tese, il sangue impazzito. Ma era un vicolo cieco.
E non bastò correre, non bastò ascoltare, non bastò sperare che tutto quello finisse. 
Capì di essere al capolinea quando un altro respiro, più veloce e impaziente, si sommò al suo, e poi un altro, e un altro ancora, accerchiandolo, emergendo come demoni fluttuanti nel silenzio dell'incrocio di mattoni rossi. 
Allora gridò.
Gridò per avvisare gli altri, gridò per sua madre, ebrea, la prima che avrebbero ucciso, gridò per la propaganda politica in bella vista sui manifesti incollati ai muri. 
Fu il viso serio del Führer l'ultima cosa che videro i suoi occhi prima che un colpo alla testa e un cappuccio sul volto gli annebbiassero completamente i sensi.

*

Per sorte o per sangue non svenne quando il manico della pistola di un Nazista gli si schiantò sulla nuca, e quando lo avevano scaraventato nella cella palpitava ancora di dolore. 
Aveva creduto di morire, credeva ancora di morire, ma adesso l'adrenalina crescente e il senso del dovere verso le persone che amava si era affievolito, lasciando il posto ad un'ansia soffocante che faceva tintinnare le manette che gli legavano i polsi, simbolo del tremore che gli attraversava la pelle. Gli avevano lasciato il cappuccio ad impedirgli la vista, lì, nel silenzio lugubre come di fantasmi nell'oscurità. Non lo avevano ucciso, nonostante il trattamento riservatogli, respirava ancora. 
Nell'umidità, legato, assicurato a una catena che non gli permetteva neanche di tirarsi in piedi senza segarsi i polsi, respirava ancora. Non ci credeva. 
-Siamo arrivati, è lui.- sentì la voce baritonale di un uomo.
-Sopra lo vorranno vedere.- rispose un altro, dal tono più conspiratorio.
-Che dici Gunter, lo uccideranno?-
-Sta a loro decidere, ora muoviti. C'è la fai da solo o ti serve una mano?- continuò l'altro con una lasciva nota derisoria.
-Con chi credi di star parlando? Se prova solo a muoversi gli stacco i denti.- e fece scattare una serratura. 
La prima voce rimase in silenzio, ma il ragazzo avvertì il respiro di entrambi, l'uno leggero, l'altro molto più pesante.
Il respiro pesante gli si avvicinò e con nessuna delicatezza lo tirò in piedi, lasciando che la catena gli si conficcasse nella carne dei polsi. Camuffò una smorfia.
-Aaah, ti hanno conciato per bene..- con uno scampanellio di chiavi fece cadere la catena e lasciò che a bloccargli le mani fossero le manette. 
-Come se potessi scappare.- 
S
e lo portò dietro, guidandolo velocemente attraverso un corridoio, una scala, un secondo corridoio più lungo del precedente e una porta che, da sotto il tessuto ruvido del cappuccio, riconobbe dal morbido cigolio che provocò quando si aprì al loro passaggio. 
Non appena un brusio di voci dall'accento inconfondibile gli giunse alle orecchie strattonò per allontanarsi, fece resistenza al tedesco e una seconda mano gli si strinse sull'altro braccio, probabilmente appartenente all'uomo dal respiro più leggero, improvvisamente vicino.
-E meno male che non ti serviva una mano..-
-E' questo stronzo che non cammina-.
-Un altro di questi sporchi ebrei?-
-Silenzio Elard.- una voce diversa da tutte le altre, una voce fredda e torbida. Una voce che conosceva. -Chi è-.
Che conosceva bene.
In un attimo gli fu levato il cappuccio come a un tacito consenso ad un ordine inespresso, e ad una breve occhiata riuscì a comprendere dove si trovasse e in quanti paia di occhi inespressivi lo stessero osservando, come se quel ragazzo dai capelli dorati fosse stato un cavallo da corsa di cui valutarne la consistenza, e ne trovò uno in particolare, dalle iridi chiare, fredde, sorprese, che gli si lapidarono dentro come piombo. 
Quelle iridi non si aspettavano di trovarlo lì, trascinato come carne da macello. Come un ebreo.
-Benedikt Müller.-
Sentì il suo nome pronunciato da qualcuno ma non si premurò di scoprire chi dei sette uomini in quella lussuosa stanza lo avesse sillabato poiché ogni sua forza era nel ricambiare con altrettanta intensità lo sguardo di fuoco che il Nazista aò centro, dietro ad una lunga scrivania, gli stava lanciando. Il Nazista che aveva chiesto chi fosse quella presenza portata lì con la forza e al quale tutti sembravano mostrare tacita riverenza. Il Nazista, quel Nazista, aveva spalancato impercettibilmente le palpebre quando la faccia dell'ultimo catturato gli era stata rivelata davanti. 
-E' un ebreo?- domandò, la voce pacata che non tradiva alcunché.
-Non sembra un ebreo-.
-Ti sembra ebreo?-
-Stai delirando..-
-Guardalo.-
-E' un sangue-misto, Alois.-
Alois. 
"No.." supplicò Benedikt dentro di sé. "No.. no no no."
Alois Kaiser era un pezzo grosso del governo tedesco, faceva parte da pochi anni delle Waffen-SS*, il braccio militare più spietato delle guardie personali del cancelliere, si diceva parlasse col Führer ogni notte, e non si spostava da Berlino se non per affari della massima urgenza. non poteva trovarsi a Bottrop, lontano dal suo capo, lontano dal cuore palpitante degli ideali per cui uccideva.
A meno che.. 
A meno che non stesse per tornare a Berlino, e la sua permanenza lì fosse solo un occasione momentanea per qualche faccenda importante che doveva sbrigare.
Non lasciarmi qui, pensò. Ma era un'illusione errante quella di credere che Alois lo stesse guardando come il ragazzo che aveva conosciuto e non come quello infettato da una razza che dicevano impura.
Era l'unica figura che lo salvava e condannava nello stesso istante, nel mentre di uno sguardo. Conosceva, conosceva quel Nazista ed era colpa sua.
Venne trascinato da brusche mani in una stanza senza finestre la cui porta venne richiusa immediatamente alle sue spalle. Non avrebbe comunque potuto fare niente, i polsi legati dietro la sedia su cui lo spinsero non erano di grande aiuto e il sudore freddo sulle tempie reagiva come un vero e proprio dolore. Niente però a confronto con quello che avrebbe provato di lì a poco. 
Nel rettangolo della stanza entrarono due uomini. belli, alti, magri, in quella divisa. Lo stesso passo rigido, la stessa aria pericolosa. Una sola cosa era diversa: lo sguardo. Gli occhi di uno dei due, di Alois, erano fissi su Benedikt, ma non animati della stessa perversione che invece albergava in quelli dell'altro, ma vivi come quella particolare volta di due anni fa, quando si incontrarono per la prima volta, indelebile nella mente, nello studio della preside Alzey del liceo di un tempo che sembrava molto lontano. I suoi occhi lo scrutarono allora, incomprensibilmente curiosi, e lo scrutavano adesso, mentre l'altro si stava sfregando le mani, compiaciuto di qualcosa che Benedikt non voleva conoscere.
Gli occhi di Alois che lo osservavano taciturni, disarmanti e distruttivi. 
Non si aspettava che il suo sangue fosse sporco. Non lui. Non il ragazzo che aveva imparato a conoscere come un tedesco.
-Bene bene.. un Müller.. sai che negli ultimi tempi ti abbiamo cercato parecchio?- l'altro uomo sorrise, le labbra si distesero, pigramente. 
-Speravamo più in tuo padre, se devo essere sincero, ma suo figlio..- una scintilla di buio si spanse sul suo viso, illuminato malamente dalla luce fioca. Rendeva i tratti del volto più spigolosi. 
-E' dal '39 che vogliamo mettervi le mani addosso.. un anno di continua e inesausta ricerca e adesso..- 
Fu in quel momento che Benedikt capì cosa volesse dire essere un Nazista, quando due dita fredde gli sollevarono il mento.
La superiorità della razza, la discendenza pura, la Germania ricca. 
Tutte stronzate. 
L'essere Nazista significa una cosa e una cosa soltanto: dominare. 
Il ritenersi superiori era solo un pretesto utilizzato per giustificare l'ingiustificabile.
Gli sollevò il viso, lo scostò con veemenza, lo afferrò di nuovo, con più più forza, le dita divenute pietra. 
-Sai, assomigli parecchio a tuo padre.. gli stessi capelli d'oro.. il corpo..- il sorriso si trasformò in ghigno mentre proseguiva, -ma c'è qualcosa.. anzi, più di qualcosa direi, che rovina il quadro. Gli occhi non sono azzurri.. ma verdi. E queste labbra.. la pelle.. i lineamenti.. Non ti senti profanato?- 
Lo guardò disgustato lui e Benedikt ricambiò con la stessa smorfia di disprezzo, impossibile da nascondere.
-Ma puoi rimediare.. Dicci dove si nascondono, e tu non ti farai del male. D'altronde.. un ramo del tuo sangue è così puro che mi dispiacerebbe versarne un po'..- il suo intento fu chiaramente quello di incutere timore. E ci riuscì. 
Dopo le sue parole, quasi bisbigliate nel silenzio, l'aria vibrò di una consistenza sinistra, i bracciali di ferro intorno ai polsi gli sembrarono molto più freddi, la posizione più scomoda, i crampi alle braccia lo trafiggevano come sottili lame. Ma Benedikt continuò ad osservare la divisa scura, poi quegli occhi chiari e magnetici, in silenzio, con il sudore gelido sotto la maglia che sembrava così sottile in confronto alla temperatura della stanza, ma in silenzio, con gli occhi del Nazista addosso, quelli di uno squalo che brama sangue, ma in silenzio.
Quel silenzio lo fece irritare. 
Anche se non lo diede a vedere, anche se le labbra sottili si piegarono in su più volte, anche se il suo corpo era a una macchina immobile, si irritò. 
Non sa ancora da cosa lo capì, quale dettaglio gli puntellò la mente, se il fatto che si fosse raddrizzato in fretta, se l'occhiata che gettò ad Alois, braccia conserte e schiena contro il muro, o se quella che riservò a Benedikt, sorridente, inquietante. Ma qualunque cosa fosse quel sorridente e quell'inquietante, non sbagliò. 
Un secondo dopo il dolore passò dallo stomaco trascinandosi con voracità per tutto l'addome, mozzandogli il respiro come se non riuscisse più ad incanalare ossigeno. Sussultò, ansimò, legato non potè nemmeno piegarsi, attutire il dolore o disintegrarsi. Riuscì solo a serrare i pugni e le labbra, ad ingoiare bile amara come l'odore della polvere da sparo.
Lui sollevò il pugno con cui lo aveva colpito, rilassò le dita, non aveva smesso un attimo di sorridere. E alla vista del risultato la sua allegria si trasformò in estasi.
-Ci hai ripensato?-
Benedikt tento di rammentare come si respirasse, come frenare la folle corsa del sangue. Le tempie lampegiavano di riflessi di dolore. L'addome ne era l'epicentro.
-Non hai paura Benedikt? Diciannove anni sono troppo pochi per morire.-
Benedikt alzò il viso.. lentamente, lasciò che il tedesco si specchiasse nei suoi occhi, troppo ansioso di vederlo sbroccare, di trovare un'altra scusa per colpirlo. Troppo ansioso di vederlo morire, di pungolare la pelle del suo collo con il bacio dentato della morte.
-..Certo. ho.. paura..- le labbra tremarono di qualcosa che non seppe spiegarsi. -..ma non condannerò le persone che amo.-
-Questo perché tu non la conosci la paura!- Il tedesco sembrò, ad un tratto, un bambino portato per la prima volta sulle montagne russe, eccitato e fremente nello stesso istante. Era semplicemente ammaliato di avere le persone in suo pugno. di ferro. d'acciaio. di acido muriatico.
-Certo, che vuoi che ne sappia un ragazzo benestante come te, dove non c'era la paura c'erano i soldi a nascondere la schifezza che hai dentro.. ma non temere, te la faccio conoscere io questa zoccola che se ne va di persona in persona. E' molto bella.. avvenente.. sinuosa.. penso proprio che ti piacerà, la paura.- Fece un passo avanti, a separarli il nulla. -Te la presenterò davvero, davvero bene. Alla fine vedremo se non vorrai condannare l'universo intero pur di farla finita.- 
Si guardarono per un momento troppo lungo in cui in Benedikt era palese il rifiuto di svendere la sua famiglia per un'effimera salvezza e il Nazista che recepiva la scintilla determinata nel verde degli occhi del mezzo ebreo come una bellissima, irresistibile sfida. 
Annullò l'insignificante manciata di centimetri che li separavano, il ragazzo chiuse il mondo dietro le saracinesche delle palpebre, serrò la vista del sangue che fra poco avrebbe macchiato il pavimento opaco di quella stanza dimenticata da Dio.
-Karol.-
Ma neanche una goccia di sangue imbrattò le pareti, neanche il più piccolo dolore gli trapassò la pelle. Benedikt non sentì più niente se non quella voce, non avvertì nient'altro che il fermarsi del respiro. 
-Alois, voglio fargli capire chi è che comanda.-
-Sono io che comando. O te ne sei dimenticato?- apre gli occhi, Alois ha scollato la schiena dal muro, le braccia sono ancora conserte, i muscoli secchisono visibili attraverso il tessuto pensante della divisa nera. 
-Non avrai intenzione di ucciderlo spero- ucciderlo, -è l'unica vera pista che abbiamo per arrivare alla più grande rete di conoscenze ebraiche della Germania Occidentale. E sono anche in ritardo, e tu sei in ritardo. Per cui..- Alois non lo stava guardando, si rifiutava di far coincidere il suo sguardo con quello del ragazzo legato alla sedia nel mezzo del gioco, -lo porteremo a Berlino con noi, lì decideremo il da farsi.-
Benedikt ricordò che lo trascinarono fuori, i polsi stretti in una morsa asfissiante, le mani dure, ruvide, grandi, a spostarlo come una merce di scambio. 
Fuori l'aria era gelida quando un furgone attendeva sulla soglia di quella casa.. o raduno centrale.. o qualsiasi cosa fosse. 
La prima cosa che udì furono altre voci, mormorii spenti, impauriti, concitati nel nulla che si ammantava di nero. 
-Muovi il culo.- gli intimò uno di loro, spingendolo malamente a salire sulla piattaforma rialzata del retro del veicolo. -Non voglio saltare la cena per te.-
Il ragazzo si fermò, in preda al panico. Gli occhi cercarono veloci una via di fuga, l'insanito della sopravvivenza gli urlava di scappare, scappare lontano e non tornare mai più. Tentò di farlo, quando nella luce debole del furgone vide due occhi umidi, brillanti, terrorizzati, acquattarsi per vedere meglio. Due occhi di un ebreo. Due occhi di un bambino. 
Indietreggio, si dimenò, colpi d'anca e di testa, il petto serrato nel fetido alito della morte innocente, il terrore di non vedere sorgere mai più il sole. 
-Cazzo..-
-Tienilo!-
-Quante mani ci vogliono per farlo stare fermo!?-
E poi la testa scattò di lato, il corpo si abbattè al suolo con un tonfo secco, il volto arrossato, l'ombra di cinque dita sul bordo della mascella. 
Gli occhi verdi si chiusero e si aprirono, incapaci di dare forma al dolore, incapace di dare un nome a quello schiaffo. 
Una mano lo tirò da un braccio, portandoselo vicino. -Azzardati un'altra volta a ribellarti e ti faccio ingoiare il tuo stesso sangue.- 
Benedikt pensò che Alois potesse scorgergli l'anima negli occhi e spaccarla in mille pezzi come un vaso andato in frantumi. Il sibilo sussurrato, il veleno di quella bocca, l'aria che si restringeva nonostante ci fosse un cielo sopra di loro, nulla aveva più senso. 
O forse sì. 
Forse aveva sempre avuto senso, sin da quando lo aveva incontrato, sin da quando aveva conosciuto il sapore delle sue labbra.  
D'altronde, Alois non aveva mai smesso di essere un Nazista e Benedikt non aveva mai smesso di essere un ebreo.
O sangue-misto, o quello che pareva loro, ma non era puro, non era tedesco, non era né carne né pesce, né argento né oro, né luce né buio. Né colpevole né innocente. 
-Sali.- ordinò Alois, senza più toccarlo, la forma del disgusto sul volto slavo. -Veloce.-
E il ragazzo salì, facendo forza sulle gambe, spintonato brutalmente sbatte la schiena, forse, serro le palpebre, forse.
Forse voleva scomparire, forse voleva che sua madre comprendesse la scelta che aveva fatto, quella di consegnarsi quasi spontaneamente nelle mani nei loro aguzzini, stretto da braccia di fanatismo razziale e fatalità. 
-Come ti chiamano.. tesoro..?-
Una voce così pacata, flebile, gentile, piegata dall'inerzia della dolcezza. Una voce così diversa da quelle che avevano accompagnato Benedikt sino a quel furgone buio. Un suono che poteva appartenere solo ad una donna nella sua medesima condizione.
-Benedikt.- rispose il ragazzo alla cecità delle forme. 
Non la vedeva, ma sentiva il suo respiro.
-Benedikt? Sei.. il figlio di Lysander Müller?-
-Sì.. lui è mio padre.
-…Perché sei qui Bendikt?- 
-Credo per lo stesso motivo per cui c'è lei.-
La donna, probabilmente avanti con l'età, non ci mise poco a rispondere. Ma quando lo fece non ebbe alcun dubbio. 
-Io non credo.-
Benedikt s'immaginò un volto solcato da rughe di vita, anni passati nella totalitaria libertà, vecchi amori e nuovi rimpianti di una persona che nel bene o nel male, aveva vissuto la sua vita. Ma tutti quei bambini.. non pensava avrebbero mai assaporato uno squarcio di libertà. D'altronde, chi l'aveva fatto?
-Cosa? Lei.. non crede..?- 
Ma non ci fu il tempo per domande, e neanche per pensieri. Il respiro della donna si affievolì di botto, un alito di vento troppo debole a sostenerla. Benedikt giurò di aver sentito il cuore dell'anziana ebrea rallentare e il suo cuore battere come impazzito in una cassa toracica troppo stretta, che lo ingabbiava come una massa di ossa in frantumi. 
-E' svenuta.. non l'hanno ridotta bene- mormorò una seconda voce, stanca e affannata, esausta e lieta quasi che la donna avesse perso conoscenza, come se fosse cosa migliore del vivere in quella realtà. Quello era l'unico dono che Dio poteva farti in risposta alle tue preghiere di alleviare la sofferenza terrena. 
-Deve.. deve tenerle la testa alzata e.. le gambe, alzate.- 
Privato dell'uso delle braccia, privato persino dei suoi ricordi, Benedikt cercò di rendersi utile con quello che riusciva a ricordare delle lezioni di aiuto in caso di emergenza, e la sua voce ancora corposa fu un suono sinistro e scomodo nella pancia di quella ferraglia che lo faceva sobbalzare ad ogni scossone. Sperava che quel viaggio non finisse mai, che la loro destinazione fosse dall'altra parte del mondo, che l'eternità si concentrasse in un momento perché la pace non è eterna, e forse neanche la speranza. Perché non poteva ricordare qualcuno che, solo un anno fa, gli aveva salvato la vita proprio da quelle persone a cui ora lo stava consegnando. E non poteva ricordare neanche sé stesso, ciò che aveva desiderato, ciò in cui aveva creduto, perché non c'è giustificazione per chi sbaglia essendone consapevole, non ci sono pietà e misericordia per chi sbaglia guardando lo sbaglio negli occhi. Non c'è perdono per chi si condanna da solo. 
Perché nulla era cambiato, le cose divennero solo diverse alla luce del sole. 
Perché si sa, e Benedikt lo ricordò mentre l'oscurità del furgone lo avvolse con le sue spirali interrotte da mormorii e lamenti, che la notte è complice di cose che il giorno non approverebbe.
Venne sballonzolato da mani furiose nel ventre di un buio, buio oltre il tessuto pesto del cappuccio. Sarebbe stato buio lo stesso, anche sotto il sole nascente. Mani tiravano, altre spingevano, una tangenziale di insulti e linguaggi raffinati, spinte e ammonimenti. 
La figura, inerzia in una forza centrifuga, non si ribellava più al ferro e alle mani che avevano libero accesso al suo corpo. Aveva perso di vista gli altri ebrei non appena il furgone si era fermato. Sapeva solo che li avevano portati via, da qualche parte, in uno di quei campi. Non aveva visto neanche dove si trovasse. 
Eppure lo sapeva.
Nonostante il cappuccio, nonostante l'essere trattato come merce di scambio.. nonostante la notte e la moltitudine di voci che sopraggiungevano -declamando ordini- sapeva esattamente dove si trovava. 
L'avrebbe riconosciuta anche da morto.
L'avrebbe riconosciuta anche nella guerra, sotto le bombe e il verde opaco dei carri armati.
La riconobbe anche quando il silenzio divenne il padrone immenso e spietato, d'improvviso.
Dov'erano le voci?
Dov'era l'accento che -non poteva negarlo- era sempre stato anche il suo?
Dov'era quel buio che sapeva di schiaffi e lamenti soffocati? 
Solo il silenzio del suo respiro ansante, solo il silenzio a tener testa ai polsi indolenziti e all'aria accaldata sulle labbra.
Almeno fino a quando il buio non assunse le forme di mobili, e i mobili di una stanza, e la stanza di un letto, e il letto dalle lenzuola di un tenue azzurro, e l'azzurro negli occhi di chi gli tolse il cappuccio dalla faccia. 
Quegli occhi non gli diedero il tempo di reagire -neanche di chiedersi se fosse finita- che due mani fredde come la morte gli afferrarono le braccia e ne strinsero la pelle tanto che Benedikt dovette stringere i denti per non gemere e accartocciarsi su sé stesso. 
Per contenere il dolore che quei polpastrelli gli infiammarono arrivó a poggiare la guancia sulla spalla del Nazista. 
Ed Alois strinse ancora, le unghie nell'avambraccio della giovane creatura che aveva alla sua mercé, che gli implorava con gli occhi di finirla.
Non esaudì quel desiderio.
Anzi, vedendo gli smeraldi verdi del mezzo ebreo traboccanti dolore, osservando da così vicino le venature di luce intorno alle sue pupille come raggi intorno a un pianeta, fece salire vertiginosamente la pressione, impedì completamente al sangue di irrorare quel punto. Benedikt fu costretto ad abbassarsi, chinato verso il dolore come si ci china dinnanzi ad un re, l'unico sovrano del suo corpo. Si piegò verso il bruciore come se avesse potuto fargli avere remora della sua pelle. 
Ma si sbagliava.
Perchè Alois smise di comprimere le unghie nella sua carne solo quando Benedikt gli fu davanti, in ginocchio.

 

 

 

 

*leggi di Norimberga: emanate nel 1935 da Adolf Hitler, furono rivolte contro gli Ebrei. Erano, quindi, leggi razziali che costituirono il culmine della politica discriminatoria in Germania. La prima legge stabiliva che solo i cittadini tedeschi potevano partecipare alla vita politica, mentre gli Ebrei furono privati della cittadinanza e dei diritti politici e della cittadinanza. La seconda legge, invece, vietava i matrimoni misti e i rapporti sessuali tra Tedeschi ed Ebrei. Questa legge aveva lo scopo di salvaguardare il sangue tedesco da contaminazioni con le razze ritenute inferiori.

Sangue misto\mezzo ebreo: le persone con quattro nonni tedeschi vennero considerate di "sangue tedesco", mentre era considerato ebreo chi aveva tre o quattro nonni ebrei. Le persone con uno o due nonni ebrei erano considerate di "sangue misto". In mancanza di differenze esteriori percepibili, i nazisti stabilirono che, per determinare la razza originaria degli slavi, la fede religiosa praticata dagli stessi era sufficiente a qualificarli come ebrei.

*Waffen-SS: ("SS Combattenti") erano una forza armata della Germania nazista nata nel marzo 1933 come braccio militare delle SS. Dall'iniziale adozione di una rigida selezione razziale e fisica dei loro componenti, parteciparono a quasi tutte le battaglie della seconda guerra mondiale; i suoi soldati diedero prova di combattività, efficienza e forte motivazione ideologica al punto che, da una parte, esse si macchiarono di efferati episodi di violenza sommaria contro civili e prigionieri di guerra e, dall'altra, sovente dimostrarono un ingiustificabile disprezzo del pericolo.


 

 

[[Ora dovrei scrivere qualcosa di figo… vero?
 Qualcosa che lasci tutti senza parole sulla mia incapacità a commentare ciò che scrivo. 
 
Volete una notizia, ma la volete grossa? 
 
Io.non.so.riempire.lo.spazio.autore.
 
Credetemi se vi dico che avrei tante cose da dire, come ad esempio il fatto che, per una che detesta le   schematizzazioni e i piani come me, ambientare una storia nella storia non è affatto una passeggiata, ma alla fine giungo sin qui e.. puf. Lo sentire il suono? Puf.
 
E vi chiederete perché ci ho messo tanto a pubblicare il primo capitolo (ma chi se l'ha mai chiesto.)
 Bene, allora dato che insistete tanto ve lo dirò: oltre ad interrogazioni varie (che non sono finite, perché non  finiscono mai) ho  fatto un casino (quanto mi piace questa parola) con la prima e la terza persona e con la cronologia santa. 
 Sì, perché ho stravolto il tempo e lo spazio e perché prima ho scritto in terza persona, poi in prima, poi di nuovo in terza, poi di nuovo in prima, poi in terza & in prima. 
 
E no, poi mi sono fatta di can..no, cioè non mi sono fatta di canne, capirete ciò che voglio dire nei prossimi capitoli se, ovviamente, avrete ancora la malsana (sublime) voglia di seguirmi.
 Perché seguire me è autolesionismo mentale e (si spera) emotivo. 
 
Adoro il romanticismo non romantico, il nero, le lotte interiori, il mondo, i luoghi lontani, sentirmi parte di una realtà più grande,  e le guerre. 
 E le dediche all'inizio di un libro. Trovo che sia terribilmente affascinante sapere a chi l'autore dedica la sua creatura. Quindi, se mi permettete, ho lasciato anche io la mia dedica su questa fiction, giusto perché è la prima originale che scrivo e la prima dedica che scrivo, e scegliere a chi dedicare, non so voi, ma è stata una scelta non facile.
 Amo la seconda guerra mondiale, e il mio piccolo tentativo di scrivere qualcosa su questi immenso pezzo di storia spero non risulti del tutto sgradevole, ma almeno leggibile, che vi faccia passare quei cinque, dieci, quindici minuti in compagnia delle mie parole. 

Dunque, veniamo alla prassi formale: 
- Il testo inglese che ho inserito all'inizio della pagina è una parte di "Don't you worry child", canzone degli Swedish House Mafia. 
Ma l'idea per la storia non è stata partorita, ma
immaginata sulle note della cover acustica di Madilyn Bailey. 
Passate da questa versione se non l'avete fatto. 
La traduzione è: 
C’è stato un tempo, 
in cui guardavo negli occhi mio padre.

In una casa felice, ero il re e avevo un trono d’oro.
Quei giorni sono andati, 
e ora i ricordi sono sui muri
Io sento i suoni dal luogo in cui sono nato
Sopra la collina su attraverso il lago blu,  è lì che ebbi per la prima volta il cuore spezzato,
Ricordo ancora come tutto cambiò.
Mio padre disse;
"Non preoccuparti, non preoccuparti piccolo,
Il cielo ha un piano per te.
Non preoccuparti, non preoccuparti ora."

- "Trova ciò che ami e lascia che ti uccida.", ovvero "Find what you love and let it kill you." è una frase di Charles Bukowski, poeta e scrittore statunitense di origine tedesca. La scelta di un autore di origini tedesche non è stata intenzionale.

- Bottrop è una città tedesca realmente esistente che durante la seconda guerra mondiale fu colpita dai bombardamenti mirati ad una fabbrica nella quale veniva prodotto carburante diesel per usi militari.

Visto che il mio computer ha deciso di retrocedere proprio adesso, ve li dirò così (causa forze maggiori):
Mio tumblr: pachidermanarchico

Mio instagram: anarchesss

Ringrazio moltissimo la disponibilissima BlackBird per il banner\copertina, qui potete trovare il suo profilo: http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=160593

 

PS: Oggi con la scuola abbiamo visto un film al cinema in tema Shoah: Anita B. 
Dura 1 ora e 20 circa, prodotto nel 2014, ambientato nel dopoguerra. Se non vi è capitato di vederlo ve lo consiglio.
In ogni caso, ho segnato le frasi che mi hanno colpito di più durante la visione del film, e mi piacerebbe inserirle qua e la tra i capitoli. 

PS2: Ricevere tante recensioni al prologo è stata una cosa meravigliosa, ormai mi ero abituata all'essere l'Anticristo delle recensioni. 
Se vi va (e spero di sì) lasciatemene altre, anche solo un breve scorcio, un breve parere mi farebbe contentissima, giusto per sapere se qualcosa di buono l'ho scritta alla fine, e la prossima volta vi risponderò qui. 

Grazie infinite, davvero.
Pachiderma Anarchico (che vi manda tanti cioccolatini)

 

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Capitolo 3
*** II. FRIGIDA - FREDDO ***


There was a time
I used to look into my father's eyes.
In a happy home
was a king, I had a golden throne.
Those days are gone,
Now the memories are on the wall.
I hear the songs
Of the places where I was born.
Upon a hill across a blue lake,
That's where I had my first heartbreak,
I still remember how it all changed.

My father said,
"Don't you worry, don't you worry child.
See heaven's got a plan for you.
Don't you worry, don't you worry now."


 


Trova ciò che ami e lascia che ti uccida.






 

[ II ] FRIGIDA - FREDDO






Bottrop, Germania 1937

 

Il sole morente screziava deboli opali nella stanza attraverso le sottili tende di velo color del bronzo; il cielo si incoronava del tramonto rosa e i lampioni, in file ordinate ai margini della strada, avevano iniziato già da qualche mezz'ora a facilitare il cammino dei trafficanti nella notte che sorgeva. 

L'ultimo canto di qualche fringuello accompagnava il gioioso motivetto di un JueBox lontano. 

Il vestito ambrato era una sinuosa cascata d'oro oltre la vita stretta, la gonna morbidamente orlata di nero intonava morbide onde intorno alle lunghe gambe coperte e la vita, fasciata da una sottile striscia di velluto scuro, risaltava le delicate forme della giovane donna che si specchiava nel proprio riflesso.

-Madre.. quando arriva Bendikt?-

-Sta arrivando tesoro.- le rispose una voce di donna proveniente dall'ampia cucina.

La ragazza continuò a rimirarsi nella propria visione, incredula di stare indossando un vestito così bello, ricamato d'oro. Non che la sua famiglia fosse esente dal poter permettersi bei vestiti e degne occasioni in cui indossarli, ma mai, prima di un qualunque Gala o di una qualunque delle celebri feste a sfondo politico a cui aveva partecipato, si era detta così nervosa. Non capitava mica tutti i giorni di doversi sposare. 

Il lieve cigolio della porta annunciò l'ingresso di qualcuno nella stanza.

-Cugina..-

-Bendikt!-

Il ragazzo sorrise nell'abbraccio che ben presto ricevette dalle sottili ma forti braccia della cugina. 

-Com'era l'America?- chiese.

-Meravigliosa. E' grande, è colorata e..lì non esistono leggi razziali.-

Il ragazzo potè quasi avvertire il fremito dell'aria silenziosa. 

-Non esistono neanche per noi.. 

-L'America è libera.-

-Sai che non devi parlarne Mariam, noi siamo tedesc..-

-Sì sì sì, vieni con me.-

Lo sguardo del ragazzo si appropriò della sua immagine in giacca e cravatta accanto a quella elegantemente vestita di sua cugina. Slanciato, dalle lunghe gambe, la pelle di crema che si accostava con naturale maestria all'oro della sua liscia chioma tirata discretamente all'indietro e gli occhi, di uno sfavillante, abbagliante verde giada. 

-Cosa ne pensi?-

-Sei bellissima cugina.- le labbra piene si sfiorarono nel pronunciare quelle parole e lo stesso silenzio si tramutò in qualcosa di più bello, almeno per un po'.

-Quando Caledon lo vedrà né sarà molto soddisfatto.-

-Sai che non devi farlo.- replicò Bendikt con assoluta convinzione. -Troveremo un altro modo, non devi sposare un tedesco solo per avere la cittadinanza.-

-Devo, cugino mio. La nostra famiglia ha finto per troppo tempo..adesso che sono un'adulta voglio fare qualcosa.-

-Non funziona più come un tempo, non ti daranno la cittadinanza tedesca solo perché sposi uno di loro..-

-Ma nessuno sospetterà mai di noi.-

Benedikt scosse la testa, sottraendosi al contatto che la ragazza cercò di avere con lui, sottraendosi a qualsiasi forma di sottomissione nel negare sé stesso e la propria discendenza. 

-Siamo sopravvissuti sino ad ora Mariam, sopravviveremo anche dopo. Ufficialmente siamo tedeschi, nessuno ha mai creduto il contrario.-

Mariam si lasciò andare ad un sospiro. Suo cugino era sempre stato un rivoluzionario, un ribelle, fiero delle sue origini anche quando il mondo voleva fargli credere il contrario. Aveva sempre, segretamente ammirato la sua forza, ma forse molto di più il suo coraggio, estremo, insensato, ma terribilmente puro. Non potè fare a meno di lasciarvi una carezza su quegli zigomi alti, su quel viso giovane, sulla vitalità della giovinezza camuffata dal peso dei tempi.

-Devo garantirvi un futuro..a te, a Sarah..a tutti noi. Alla nostra famiglia.-

-Non così..Mariam non così.-

Il verde in ramificazioni di smeraldo intorno alle pupille era così brillante, così determinato che per un attimo, un solo istante, Mariam credette davvero di poterci vedere un'altra possibilità dentro, una scelta. Ma non c'era scelta nella Germania. 

Non in quel modo. Non in quegli anni.

-Tu non sarai mai un vero tedesco Benedikt.. Lascia che lo diventi io per te.-

 

***

 

 

Berlino, Germania 1938

 

L'aula era immersa in una pacifica quiete interrotta di tanto in tanto solo dal fruscio di qualche foglio. Matematica. Test di matematica con propaganda "politica". 

Cambiò ogni cosa da quel 1933 che ora sembrava così lontano, solo una reminiscenza del tempo che non si ferma, trascinando via con sé sogni, speranze e libertà. 

Matematica. Numeri, formule, logica dell'anno che precede il diploma e ragazzi come quello seduto in terza fila, lato della finestra, precisi tratti nordici aleggianti nei morbidi, ebraici lineamenti del viso. Lo stesso ragazzo che era poco più di un bambino nell'anno in cui un uomo, ambiguo ma dalle parole di rubino, impresse nelle redini della Germania la sua mano. Speranza nei discorsi, forza nella promessa di un nuovo slancio sociale, di una nuova vetta economica. Vetta che fu vista e palpata realmente; commercio rinato, strade luminose di sfarzo e costosi cappelli sulle chiome scintillanti delle signore fresche di parruccheria. 

Ma a quale prezzo? 

L'assistere, in silenzio e in impassibile devozione, all'ambiguità del silenzio di notte, sottostare alle rigide, ferree leggi che da quel '33 misero piede in questo stato, nello stato delle industrie, nello stato dell'emblematica perfezione, radicalizzandosi nella vita dei suoi cittadini sempre più imperfetti.

Benedikt era un tedesco, doveva comportarsi come tale, indifferente a ciò che non accadeva a lui, indifferente a ciò che accadeva a coloro i quali le "Leggi d Norimberga"* condannavano. Non era affar suo se la condizione agiata della sua casata gli permetteva di nascondere certi dettagli, non importava se altri non erano stati altrettanto fortunati da poterselo permettere. E mentre le persone scomparivano e le urla cessavano misteriosamente, i suoi occhi chiari erano lì, con la loro bella maschera, intendi a risolvere l'ultimo quesito di un inutile test di matematica

Sapeva che non era così, che non si sarebbe mai abituato ai vicoli che divenivano più bui mano a mano che i palazzi diventavano più lucenti. 

-Buongiorno.-

Alzò gli occhi, di scatto, d'istinto Benedikt. La fredda inflessibilità delle voci della GESTAPO le avrebbe riconosciute ovunque, anche e soprattutto nei suoi incubi.

-Ci addolora dover interrompere un incontro di cultura, ma siamo costretti a dover fare alcuni accertamenti con i ragazzi. Lei comprende, vero signora?- 

La professoressa si alzò sulle corte braccia muscolose, un 1.67 di puro nazismo. 

-Dovranno uscire uno alla volta e raggiungerci nello studio del preside.-

L'uomo che parlava con una piega quasi inesistente delle labbra proprio dinnanzi a loro mentre un'altra guardia se ne stava in piedi sulla soglia, una gamba dentro e una fuori, quasi che volesse sbrigare la questione nel minor tempo possibile, visibilmente propenso a spendere il suo tempo in modi più proficui che parlare con dei liceali. Entrambi scrutarono la classe dall'alto con accurata circospezione, meccanici, simili come dei robot programmati alla stessa freddezza. E fu quando gli occhi del secondo uomo si posarono sul banco in terza fila, lato della finestra, che Benedikt si sentì improvvisamente scoperto. Quell'uomo stava guardando nella sua direzione. Quell'uomo stava guardando lui. 

Scoperto come se avesse tatuato in fronte cosa palpitava nel petto.

Abbassò il viso, tormentando con le dita il lato del foglio che non aveva più valore, poi lo rialzò, incapace di prendere una decisione, proprio quando l'indice della guardia faceva capolino nell'indicare lui. 

Merda. 

Il primo uomo, in una divisa grigio fumo stirata con maestria, seguì il segno dell'altro, ora non più fuori l'aula ma giusto un po' più dentro, per essere sicuro di non sbagliare la mira. Come un grilletto poggiato in fronte. 

Benedikt si sentiva così scoperto dinnanzi a quel grilletto che quando il poliziotto della GUESTAPO gli intimò molto gentilmente di alzarsi e seguirli potè giurare anche tempo dopo di aver avuto il "No" palpabile sulla punta della lingua. 

Ma non poteva farlo, non lo si poteva fare mai, e forse fu per questo, o più probabilmente per follia, che si sollevò con impulsiva destrezza dal porto tranquillo della sedia e richiamò l'attenzione dei presenti su di sè.

-Io vado professoressa.-

-Ah bene Müller. Cortesemente lascia sulla cattedra il compito e avviati con questi gentili signori.-

E lo fece davvero, a testa bassa e in religiosa calma il foglio del suo compito finì sulla cattedra e i suoi passi risuonarono nel lungo corridoio. Non ebbe scelta e non gli sembrò il caso di cercarne una quando il suo turno sarebbe comunque arrivato. 

Meglio tagliarsi subito. Meglio sanguinare prima. 

I soldati gli davano le spalle, avanzando davanti a lui, veloci e rigidi come marionette di un legno troppo duro. Ma era la schiena più slanciata e asciutta che attirò la sua attenzione, e la testa di un biondo quasi platino in cui sfociava.

Lo studio della signora Alzey accolse la calma irreale con le sue rosse poltrone e la larga scrivania in ciliegio. Le ampie finestre gettavano luce sul curato parquet scuro e alcuni fogli vennero riposti in un muto cassetto.

-Buongiorno Benedikt.-

-Buongiorno preside.-

-Lo chiama per nome?- domandò immediatamente un uomo accomodato su una delle due poltrone, una gamba accavallata e una penna in mano.

-Io chiamo tutti i miei studenti per nome.-

L'uomo rimase impassibile e Benedikt dentro sorrise, nonostante l'aria si fosse congelata e la luce che non era abbastanza forte da spazzare via il freddo che cominciava a solleticargli gli avambracci coperti, la preside non aveva cambiato atteggiamento neanche dinnanzi alla polizia segreta dello stato.

-Nome.-

Freddo. 

Col freddo sotto pelle si voltò, spaesato, verso alcune sedie in legno addossate con precisione millimetrica alla parete dove altri tre uomini gli osservavano il profilo con placida fermezza. "Credo si rivolga a me."

-Benedikt.- rispose con altrettanto inverno.

-Cognome.-

-Müller.-

Qualcun altro di loro, forse l'uomo con la penna in mano sprofondato nella porpora del cuscino, controllò che stesse dicendo la verità. 

"Se conoscono ogni più piccola informazione sul mio conto a memoria, perché mai si scomodano a chiederle direttamente a me?"

-Età.-

-Diciassette.-

-Residenza?-

-Berlino, Frankfurter Allee numero 8.-

-E' una bella postazione.-

Il ragazzo annuì senza neanche guardare in faccia chi ebbe commentato. Il freddo, nel frattanto, si era fatto gelo, improvvisamente il gelo gli si era accalcato alla schiena e ogni vertebra premeva per uscire di lì. 

-Vivi a Berlino dalla nascita?-

-Prima risiedevo a Bottrop.-

-Quando.-

-Un anno fa.-

-Causa trasferimento?-

-Lavoro dei miei.-

-Ti piace?-

-Cosa.-

-Berlino.-

Ci mise qualche secondo a rispondere, e la risposta lo sorprese. 

-Sì.-

La verità era che gli piaceva davvero Berlino, la sua grandezza e la convergenza del mondo fra le sue strade, con i suoi alberi alti e i maestosi palazzi, con lo spettacolo che diventava di notte, quando nel corso cristallino del fiume si specchiava l'oro delle case ai suoi fianchi, vigili come schiere di alfieri leali. Erano le persone che Berlino aveva in seno che non gli piacevano più.

L'uomo in divisa che lo stava interrogando puntò i vispi occhietti nei suoi, come se non volesse perdersi neanche la più piccola reazione alla domanda che stava per seguire.

-Sei tedesco?-

E il gelo si fece fango. 

Così, di netto, senza una spiegazione, senza un presentimento. Sapevano già la risposta, quegli uomini, conoscevano, o almeno credevano di conoscere il ragazzo che stavano interrogando, eppure glielo fecero lo stesso, il quesito che poteva valere la tua incolumità. 

Benedikt sapeva cosa dire, consapevole della gravità di quelle due parole, del peso che avevano negli animi e nelle ossa, e non si scompose neanche in una piega nello sdrammatizzare una domanda da un milione di franchi. Di quei tempi, la risposta a questa domanda poteva essere fatale.

-Mi ha guardato? Sono più tedesco di lei.-

Benedikt si aspettò che l'uomo si alzasse in tutta la sua divisa avvicinandosi minacciosamente o fulminandogli addosso con qualche occhiata sdegnata, e invece la reazione inaspettata che scaturì dalla cremisi poltrona in un angolo smorzò brutalmente la risposta di quella guardia. Perché Benedikt dovette guardare colui che si era insinuato nella scena con tanta naturalezza, una sonora risata, sprezzante e ragazzina allo stesso tempo, come una strada che porta in due direzioni differenti, come il bianco e il nero in un quadro in cui avrebbe dovuto regnare solo il grigio, in una sorta di indolenza occulta. 

-Ha ragione Alfred, i suoi capelli biondi tu te li sogni.-

Il calore nello stomaco accompagnò le parole di quell'uomo che prima il giovane non aveva notato, seduto compostamente, una gamba sull'altra, una mano lasciata pigramente penzolare da un bracciolo. Non seppe se essere grato dell'intromissione e dell'allusione al biondo dei suoi capelli, e quasi fu sollevato nell'udire la risata che l'aveva salvato, ma quando riconobbe il blu notte degli abiti che indossava e le due SS scarlatte sulla camicia che ammiccarono venefiche, non ebbe più dubbi: voleva andarsene via da lì. Scostarsi dal silenzio che sapeva di parole non dette. Fuggire dal sole di mezzogiorno. E poi ad un tratto, il vuoto di un precipizio ghiacciato si colorò del rosso più denso che avesse mai visto. 

Fu un attimo. 

Un attimo in cui l'inferno si tinse della sfumatura tipica del Paradiso. Un attimo in cui due incredibili occhi marini si frantumarono nel suo campo visivo, sulla linea del lampo che precede il boato del tuono. Quell'attimo infinito di silenzio in cui una piuma sul cristallo rimbomba in una carcassa di attesa infinita. Come se il tempo stesso stesse aspettando qualcosa. Due occhi azzurri tanto chiari, tanto celesti, tanto innocenti da appartenere ad un uomo delle SS, ad un uomo facente parte delle guardie personali di Adolf Hitler. 

Due occhi tanto innocenti che di innocente non avevano assolutamente niente, gli scivolavano lenti addosso. 

Era l'uomo che si era intromesso ad avere due occhi così, tulipano blu e verde marino in una miscela di opalescente policromia. 

A Benedikt bastò un'occhiata alla preside per affrettarsi a riparare il "danno".

-Stavo scherzando..ovviamente..Ma, tra persone di razza pura quali siamo noi si può scherzare, no?-

L'agente sembrò attonito dalla sua audacia, ammutolito dinnanzi ad un qualunque diciassettenne di buona famiglia che non solo l'aveva risposto a tono, ma continuava anche a tenere le redini del discorso.

-Certo.-

Annuì, quasi con riverenza e Benedikt si fece schifo, in un riflesso incondizionato, perchè riusciva a fingere così bene, quando sembrava che non dovesse neanche sforzarsi di ammirarli, di apprezzarli..di essere uno di loro..

-..Cosa ne pensi del Fürer, Benedikt?-

..in nome di una Germania troppo viva.

-E' un..brillante oratore con abili capacità persuasive.- 

"Nessuno deve scoprirlo Benedikt, ricordalo, nessuno."

-Puoi andare.-

Si voltò velocemente lui, nella stanza piccola per tutti quei segreti e aveva già impresso le dita sulla maniglia d'ottone quando una voce, la sua, serpeggiò vibrante sino a lui.

-Aspetta.-

Si fermò. 

Chiuse gli occhi.

Si volse, di nuovo.

Non lo guardava.

Non guardava più nessuno.

Ma non ne ebbe bisogno, perché fu lui ad alzarsi, l'uomo dagli occhi di mare ghiacciato, a sciogliere le gambe e a sollevare il busto che aveva l'aria di essere più tonico di quanto la divisa -che sembrava sinistramente fatta apposta per essere indossata da lui- lasciava intendere. E nel mentre si lasciò andare a una pigra domanda, raggelando le membra dell'altro sul posto.

-Cos'hai lì?-

Il sangue è ghiaccio nelle vene, una patina di sudore si irradiò nei rigidi muscoli del collo. 

-Co-cosa?-

Abbassò lo sguardo Benedikt, prima di trovarsi il suo davanti, cercando con gli occhi cosa poteva avergli suscitato una simile reazione. 

"Non ho armi..non ho biglietti..non ho.. e poi non ho più niente. Sensi, tattica, recitazione, maschere, batticuore, niente." 

Ebbe solo terrore e calore, un combinazione che non avrebbe saputo descrivere neanche con i vocaboli più arditi, una sensazione che lo uccise dentro quando la mano del tedesco arrivò alla tasca sinistra del suo pantalone e, con due dita pazienti, ne estrasse il contenuto. Una di quelle lunghe falangi si soffermò sul tessuto troppo sottile Benedikt alzò di scatto due pupille allarmate quando fu chiaro che la sensazione di quel calore era provocato dai polpastrelli del tedesco. E lo guardò, lo guardò negli occhi, fu costretto a farlo e, non avrebbe mai voluto farlo, quello che vide gli provocò quasi dolore fisico. 

Il colore della selva, del lago, della fresca sorgente di montagna in cui da piccolo aveva conquistato i suoi ricordi più felici si trovava in un solo sguardo, ed era immobile, ed era folgorante ed era freddo, freddo come la neve, freddo come la guerra. 

-Mi era sembrato di capire che non si potesse fumare in questa scuola.-

L'uomo delle SS si voltò donandogli una perfetta visuale delle sue spalle, oscillando come un trofeo il pacchetto di sigarette estratto dalle tasche di Benedikt. Ridacchiò qualcuno, la preside scosse bonariamente il capo, Bendikt si sforzò di assumere un'aria spensierata, di piegare le labbra di marmo in un mezzo sorriso quantomeno credibile. Non doveva essere nervoso, sempre sulla linea di fuga, con il corpo rigido e le vene contratte. 

"Non ho niente da nascondere, non ho niente da nascondere.. Sarebbe più facile se ci credessi davvero? Ma dopotutto, come potrei mai credere alla più grande menzogna della mia vita?"

-Benedikt..Benedikt..- mormorava intanto la voce della preside, dolce, pacata, rassegnata alla nicotina che le infiltrava ormai da quattro anni nella scuola.

-E' un ribelle?-

-No Benedikt è..- 

-Sei un ribelle Müller?-

Si volse, l'uomo delle SS che si era scomodato dalla sua poltrona a doppia imbottitura per venire a sequestrare un pacchetto di sigarette a uno studente sulla soglia della maggiore età, si volse verso quello studente, con un falò di ghiaccio nello sgarro. E Benedikt rispose allo sguardo di quell'uomo, alto, magro, l'uno convincente nell'espressione da bravo ragazzo, l'altro acciaio di granito impassibile.

Benedikt sentì il sospiro leggero che accompagnò le sue parole quasi strascicate in gola, un aroma di dolce fittizio. 

-Fatichi a sottostare alle regole?-

-No.- rispose. -Certo che no.- 

Aspettava sulla soglia, in evidente attesa, la porta ancora drammaticamente chiusa, che gli facesse un cenno, un segno, qualsiasi cosa gli permettesse di schiodarsi da lì, da quella stanza e schizzare via, ma l'uomo si limitò a tenere la durezza del suo sguardo su di lui, sulla sua aria da ragazzo impaziente di volatilizzarsi in qualche vizio di gioventù, di scomparire in qualche vicolo senza uscita. 

-Vai.-

Lo disse qualcun altro e il ragazzo non aspettò oltre. Uscì con veloce disinvoltura e una volta fuori respirò l'aria del corridoio come fosse l'aria di quella montagna dove suo padre lo portava quando la libertà non era ancora un'ambizione.

Era libero. Era nato libero. Fingere di essere uno di loro non avrebbe cambiato chi era realmente. 

Magari lo avesse fatto. Sua cugina aveva ragione, non sarebbe mai stato un vero tedesco.

Si avviò verso l'uscita dell'edificio a passo svelto intenzionato a mettere quanta più distanza tra sé stesso e l'austerità della divisa nazista; e stava per farcela, davvero, era vicino, vicinissimo al traguardo che avrebbe decretato il non sorgere di complicazioni ma, beh, sembrava proprio che le complicazioni fossero i principali adepti del suo culto religioso. 

-Müller.-

No, ti prego. 

-Non ritorni sui banchi da bravo scolaro?-

Benedikt sospirò, impercettibilmente, e gli donò il viso, incapace di rispondere con un secco "Ho da fare", "Sono in ritardo", "Ho il gatto che deve mangiare". Sapeva chi avrebbe trovato nel corridoio vagamente deserto prima che le due SS color del sangue rilucessero con sinistra forza oltre l'oscurità della stoffa su cui erano accuratamente appuntate. 

-Oggi esco prima.-

-E non le rivuoi queste?- 

Il tedesco sballonzolava tra due mani le sigarette e Benedikt ne seguì il movimento lieve prima di decidersi ad affondare nella sfumatura di chiaro turchese fra pupille che non gli lasciavano il respiro, serrandogli la gola in una morsa contratta con la loro esplicita visione del mondo.

-Credevo che le volesse lei..-

-Non mi servono le sigarette di un ragazzino, ragazzino.- puntualizzò l'altro nel timbro ferreo tipico degli ufficiali. -Volevo solo capire se tu fossi un fumatore incallito.-

-E questo perché..-

-Perchè, un fumatore molto.. dipendente, farebbe qualsiasi cosa per un po' di nicotina. Se tu lo fossi stato, avresti protestato quando ti ho sottratto il pacchetto, anche con mezza parola, ma l'avresti fatto. E una persona del genere in cambio di tabacco buono, magari gratuito, sarebbe disposto anche ad acconsentire a patti..deplorevoli.-

La voce che si assottiglia sino a diventare un sussurro sibilante, le parole legate l'una all'altra da corde invisibili, le labbra carnose da essere quasi esibizioniste nel colorare le sillabe a metà fra il grezzo e i vellutati petali di una rosa, lasciavano trasparire quanto di più amaro aleggiava nel grigio di Berlino in quella ipotetica "Rinascita della Germania". E a Benedikt non restò che assecondare il serpeggiante sadismo tipico dei Nazisti convinti e quel sinistro modo di deviare il discorso fra le sue zanne d'avorio.

-Di quali patti deplorevoli stiamo parlando?- 

-Mm.. Nascondere ebrei..per esempio?-

-Già..il problema dell'anno.- sbuffò, sarcastico. -Bè, ma voi in tal caso lo scoprireste, vero?-

-Sì.- un'ombra aleggiò per un istante sugli affilati lineamenti delle guance. -Lo scopriremmo.-

Benedikt mise un piede dietro l'altro e incrociò le caviglie che avrebbero dovuto farlo tornare a casa senza l'intervento di una qualche guardia personale di Hitler di bell'aspetto ad insinuare discorsi complottisti scaturiti da un innocuo pacchetto di sigarette. 

-Bene è stato..un piacere ma ecco io.. andrei.-

Il tabacco gli venne lanciato fra le dita prima che scorgesse una delle sigarette incastrata tra i denti del biondo, adagiata su un labbro inferiore che sporgeva con voluttuosa superbia. 

Benedikt non era sicuro che quelle fossero le sigarette giuste per due labbra così, si ci immaginò facilmente un filtro lungo, sottile, bianco..una di quelle sigarette col manico duro.. insomma, le sigarette delle prostitute e dei gran signori. 

Era affascinante sì, terribilmente affascinante l'uomo, con quell'accento del sud marcato da una buona dose di curiosità e disinteresse e i lineamenti del volto acuminati da un distacco che voleva pungere. 

Eppure, quando un -Come hai detto di chiamarti?- nacque smorzato dalle labbra con il mozzicone spento sulla lingua, divenne quasi un controsenso, un paradosso, un ossimoro imperfetto che nei meandri di una voce creata, usata e plasmata per impartire ordini, esalare minacce e prendersi tutto ciò che voleva con la violenza di un imperativo, si ci trovasse un qualcosa di troppo alto e per questo inudibile. Una nota di giovinezza, diversa e per questo stonata.

-Mi chiamo Benedikt.-

Il tedesco gli si avvicinò, troppo calmo.. 

-Attento ragazzino.. il vento del cambiamento ha sempre un prezzo.-

Benedikt era sul punto di lasciarsi alle spalle l'incorporeo fascino del Nazista, dimenticarsi di una realtà che si faceva sempre più viva ogni giorno, con i suoi divieti e le proprie proibizioni, chiudersi nella sua stanza e disegnare, disegnare fino a quando i crampi alle mani non gli avessero implorato di smetterla, ma, dannazione, sembrava impossibile abbandonare la vista di quello sguardo acuto e scialbo, facilmente mutabile dall'acceso interesse al più totalitario menefreghismo.

-Allora farò del mio meglio per contribuire al pagamento.-

Il minuscolo tizzone della sigaretta si agghindò di rosso. 

Fece un cenno. 

-Vai, Benedikt.. esci fuori di qui.-

Benedikt rimase fermo, inspiegabilmente immobile e ancora immobile quando il tedesco gli si avvicinò minaccioso.

-Ho detto: fuori.-

Una lingua di tagliente, una lama erosiva e Benedikt si sorprese ad avanzare velocemente sulla strada per casa, un piede davanti all'altro, desiderando di non fare più ritorno.









// Eccomi, di nuovo qui, sempre qui, ritardatariamente qui. 
    La storia sembra (non è vero) che stia prendendo forma, e spero che i salti temporali
    non creino grandi problemi. 
    
    Ringrazio coloro i quali hanno recensito il prologo e il primo capitolo e le numerose 
    visite di cui mi avete fatto dono. Significa molto per me.
    Non voglio stancarvi\seccarvi\appassirvi, ma solo chiedervi se capita solo alla
    sottoscritta di trovare un tedesco figo in ogni film che parla della Shoah.
    E, puntualmente, ogni tedesco figo in ogni film che parla della Shoah è un nazista
    convinto e un uomo spietato.
    Non è colpa mia. 
    Fatto l'exploit totalmente inutile, grazie ancora. 
    (I titoli dei capitoli sono in latino.)

     Ringrazio
BlackBird per il banner sensazionale di questi due bei biondi.

    
Don't you worry child è la canzone da cui ho tratto il pezzo di testo a inizio pagina. 

     Oggi vi do il mio accont TWITTER! (come se ve ne possa interessare un cefalotubo,
     ma fate finta che la cosa vi entusiasmi):
Mio Twitter 
     
    
Le recensioni sono sempre cosa gradita, giusto per capire se è davvero uno scempio come
     credo fermamente o se è peggio. Non vi obbligo a lasciarmene solo perchè non posso.  

     Sappiatelo, amabili lettori. (Io e la 2 guerra mondiale love you.)

    Non ho ricontrollato il testo. Vi autorizzo a lanciarmi cover per iphone 4s in testa. 

    
Pachiderma Anarchico

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