La maga citarista

di Emilia Zep
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le figlie di Ecate ***
Capitolo 2: *** Sofia ***
Capitolo 3: *** La custode dei canti ***
Capitolo 4: *** Atene ***
Capitolo 5: *** Il fiore di Tempe ***
Capitolo 6: *** Urania ***
Capitolo 7: *** Ricerche ***
Capitolo 8: *** Ritorno ***



Capitolo 1
*** Le figlie di Ecate ***


Chiunque viva dalle nostre parti conosce bene le figlie di Ecate. Non ricordo la prima volta che sentii parlare di loro ma è da quando ho memoria che vedo mia madre inchinarsi di fronte ai gatti notturni, animali prediletti per le loro trasformazioni. E quando una stella lascia una scia nel cielo da noi si dice che una maga stia sfrecciando su un cocchio trainato da draghi. So che ad Atene e a Corinto dicono che le nostre streghe mangino carne umana e rendano gli uomini impotenti. I Tessali ridono di storie simili, gli sembrano favole da creduloni. Ricordo di averne riso anch’io da bambina, senza immaginare quanto poco mi sarei divertita anni dopo, per gli stessi racconti. Ma allora ero molto giovane e non avevo mai visto una di quelle creature misteriose, sebbene rimanessi le notti alzata a pregarle. Di giorno sgattaiolavo per le campagne insieme ad Aster, un gattino spelacchiato che avevo salvato dalla febbre. Ero così veloce a tessere che ogni volta finivo i miei compiti al telaio in poche ore. Allora uscivo dal retro e, con Aster sulla spalla, correvo per i campi, ogni giorno un po’ più lontano, sperando di arrivare in quei villaggi da dove avevamo visto ritornare coloro che erano guariti grazie ai farmaci salvifici delle maghe, là dove si diceva che le figlie di Ecate avessero dimora.   Mai avrei immaginato che, non molto tempo dopo, proprio una di loro avrebbe bussato alla porta di mio padre per chiedere di me.
Era una donna molto anziana, dal sorriso pacato. Doveva aver viaggiato da sola, al contrario di mia madre che non usciva mai di casa se non era accompagnata da una serva o da mia zia  Arete. –  Sono qui per la figlia di Arione – Aveva detto a mio padre, con modi gentili ma fermi.
Mio padre l’aveva guardata attentamente – Sono io Arione – Aveva detto piano -   Perché cerchi mia figlia, vecchia? –
- Perché appartiene alla potente Ecate e ho il compito di farne una sua sacerdotessa. –
Mio padre era rimasto immobile. – Gli dei siano lodati – Aveva mormorato. Poi aveva chinato il capo in segno di rispetto. Quando lo vidi apparire nelle stanze delle donne quasi tremava. Avevo sempre visto mio padre come un uomo alto, forte. Un soldato. Invece vidi i suoi occhi smarriti, sopra la barba scura. – Eurinome – Disse a mia madre con voce fioca. – Vesti Ermione con l’abito da festa. Un grande onore la attende. –
La vecchia mi pose una mano sulla spalla e mi condusse in silenzio per le campagne.  Astafi, la figlia del vicino, che tante volte s’era unita alle mie scorribande con Aster in cerca delle maghe, mi vide andar via con occhi pieni d’ammirazione e d’invidia. Aveva capito. Io ero solo stupita. Come tutti i Tessali sapevo che anche tra gente comune alle volte può nascere un figlio di Ecate. Ma nei canti dei poeti si trattava sempre di bambini speciali, quasi divini, in grado di fare cose che non si vedono in natura. Io non avevo nulla di tutto ciò.  Mi lodavano per come ero brava a tessere, per la precisione nell’ordito, la finezza della tela, da non credere per una bambina della mia età.  E ricordavo con facilità i canti degli aedi, quando mi incantavo ad ascoltarli nei giorni di festa. Sapevo più versi di Omero io dei ragazzi della mia età che li imparavano dai maestri. Ed ero più veloce a correre di tutti i miei cugini maschi. Ma a parte questo non avevo mai fatto nulla che uscisse dall’ordinario. Nessun animale m’aveva mai parlato, nessun fuoco fatuo mi era mai apparso, mai nessuna rivelazione da un dio. Nulla. Quando restavo sveglia ad aspettare le maghe era per la curiosità di vederle, per toccare qualcosa che venisse da quell’altro mondo, non certo perché pensavo di essere proprio io una di loro. Non credo nemmeno di averlo mai desiderato. Mentre camminavo accanto alla vecchia pensai che mi sarebbe mancato il gineceo, le fila colorate della tela, gli abbracci di mia madre e la risata grassa della balia Fililla. E poi la campagna, Astafi, i miei cugini. Quando avevo oltrepassato la soglia Aster mi s’era aggrappato al tessuto della veste con gli artigli. La donna m’aveva fatto intendere che potevo portarlo con me e così ce l’avevo ancora lì, appollaiato sulla spalla che si teneva stretto con le unghie al mio vestito.
 
All’alba del giorno dopo arrivammo in un villaggio. La vecchia mi consegnò ad una donna – Questa sarà la tua nuova madre – Mi disse – Vivrai in casa sua fino a che non avrai compiuto dodici anni. –
 Oltre a una nuova madre scoprii che avevo anche un nuovo padre, un  fratello e una  sorella.  La mia nuova sorella si chiamava Attoride e aveva otto anni, come me. Sia suo padre che sua madre erano sacerdoti della dea e praticavano le arti magiche. E lo stesso avrebbero fatto lei e suo fratello Antinoo. Mi spiegò che mi avevano presa in casa perché quando arrivava un bambino dai villaggi dei koinous, della gente comune, una delle famiglie dei maghi doveva offrirsi di adottarlo. Anche suo padre era stato un koinòs, un tempo, e una famiglia di maghi lo aveva accolto fino ai suoi dodici anni.
- Oramai sei una di noi – Mi disse Attoride – Il tuo vero popolo è questo. I bambini che arrivano qui devono dimenticare per sempre la loro vecchia gente. –
Questa questione del dimenticare non mi convinceva.
- Vuoi dire che non potrò più rivedere mio padre, mia madre né nessun altro? –
- Ma certo che sì! Potrai andarli a trovare un giorno. Fare incantesimi per loro, se lo vorranno.  Ma quando dovrai sceglierti uno sposo sarà un tuo simile e così saranno anche i tuoi figli. E noi due saremo sempre sorelle, anche quando entreremo nel tìaso. –
- Entreremo dove? –
- Nel tìaso – rispose Attoride - E’ dove verremo educate noi ragazze votate ad Ecate. Lì impareremo tutto sulle arti magiche. Aglaia dice che il nostro non è l’unico tìaso ma ce ne sono altri in Tessaglia e nel resto dell’Ellade. Non tutti sono dediti a Ecate. Ce ne sono di votati a Dioniso oppure ad Eracle, anche tra la gente comune. Conosci Saffo di Mitilene, la poetessa?
- L’ho sentita nominare. –
- Lei guidava un tìaso dedicato alla dea Afrodite. Ma loro non erano maghe come noi, erano semplici fanciulle dei Koinous. –
- Sai molte cose… - dissi ammirata.
- Me le ha speigate Aglaia. -
 
Agliaia, scoprii, era la donna che era venuta a prendermi alla casa di mio padre ed era la sacerdotessa più anziana del villaggio. Noi bambine facevamo lezione con lei nei boschi mentre Antinoo e gli altri maschi erano affidati ad un sacerdote.
Mi resi conto ben presto che sarebbe passato molto tempo prima che avessi imparato a fare delle vere magie. Aglaia ci teneva per ore sotto gli alberi ad ascoltare i canti del nostro popolo e voleva che ne imparassimo il più possibile. Io che amavo star sveglia fino a giorno per sentire i poemi degli aedi m’incantavo con i versi di Aglaia. C’erano poemi su Circe, su Alcinaa, su Medea. Storie di donne e di amori, di avventura e di scoperta. Ma anche descrizioni dettagliate su come preparare i filtri, sulle caratteristiche di un erba magica o sull’incantesimo per trasformare un uomo in una cornacchia marina. Aglaia diceva che nei canti c’era la tutta la sapienza degli antenati e che i versi e la poesia servivano a far sì che un solo uomo potesse ricordare molte parole e conservarle per tutta la sua gente finché durava la sua vita, senza bisogno di trascriverle sulle tavole e renderle di pietra.
- Ma se quella persona muore? – Avevo chiesto io.
-Si dovrebbe essere sempre in due – aveva risposto Aglaia – Un maestro e un allievo. Il tempo necessario per impararle dura tutta una vita. –
Venni a sapere che Aglaia era stata scelta come custode dei canti quando aveva sedici anni. Dopo che la sua maestra era scesa nell’Ade aveva subito preso con sé una giovane allieva dalla voce di miele a cui dicevano tenesse più che a se stessa. Le aveva già insegnato molto, quando la ragazza morì di una febbre che nemmeno i potenti filtri delle maghe di Tessaglia erano riusciti a curare. Da allora Aglaia non aveva mai potuto sostituirla. Qualsiasi ragazza era troppo sciatta, aveva la voce troppo dura o non aveva abbastanza memoria.   Ma sapeva bene che doveva sbrigarsi a trovarne un’altra perché, ancora qualche anno e rischiava di non fare in tempo a tramandare tutto il suo sapere.
Un’altra cosa che imparammo in quegli anni fu come costruirci una bacchetta magica. Con Aglaia avevamo ascoltato interi passi in cui si narrava di come Medea alla nostra età costruì la sua prima bacchetta, le tecniche che adoperò, i legni che scelse. Quelli che invece aveva preferito sua zia Circe anni prima e la composizioni di tutte le bacchette delle maghe più famose.
Chi aveva scelto il salice e chi l’ulivo. Chi aveva realizzato il nucleo con denti di drago, chi con piume d’uccello del lago Stinfalo.
Aglaia ci lasciava intere giornate da sole nei boschi. Perché imparassimo da noi a riconoscere i legni di cui avevamo sentito parlare – Il vostro cuore sentirà qual è quello a cui appartenete -. Ma per questo ci voleva solitudine.  Altre volte ci portava a vedere il lavoro di Larissa che era famosa fino in Colchide per la sua arte nel costruire bacchette, aveva mani di piuma e tocco divino. Né lei né Aglaia ci spiegavano molto. Lasciavano che guardassimo, per giorni.
Poi arrivò un mattino in cui Aglaia ci radunò tutte, ci diede cibo e bevande e ci ordinò di inoltrarci nella Foresta Profonda, molto più in là del confine in cui di solito ci era permesso andare.  Avevamo sette giorni per trovare i materiali per la nostra bacchetta e costruirla. Chi di noi sarebbe tornata con la bacchetta magica sarebbe stata pronta per il tìaso.
- Io vorrei un nucleo con piume di Pegaso. - Annunciò Attoride quando ci salutammo, prima di separarci, sul limitare della Foresta
- Io vorrei legno d’ulivo e crini di Centauro. – Dissi io.
Attoride tornò con una bacchetta di mirto e denti di leone. La mia, invece, aveva legno di vite e corde di cuore di drago. Ero partita alla ricerca dei figli d’Issione ma mi ero imbattuta in creature metà uomini e metà capre. Le avevo viste da lontano, nel buio, illuminate qua e là dalle fiaccole. Si sentivano grida, schiamazzi, musica e crepitare di fuochi. Mi parve di aver trovato i Centauri che stavo cercando, finalmente. Così m’ero avvicinata e avevo notato che invece avevano corna ricurve e zampe di capro. Suonavano tamburi in pelle d’asino. Li colpivano forte con le mani e col tirso mentre donne scarmigliate ballavano, instancabili, facendo tintinnare dei grossi sonagli che avevano legati alle caviglie. Non appena mi videro mi vennero incontro facendo festa. – Una giovane figlia di Ecate in cerca della sua bacchetta magica! – Gridò qualcuna di loro – Vieni con noi, ti aiuteremo. –
Certamente erano dee, o ninfe della foresta. Feci ciò che ordinavano senza fare domande. Per la prima volta nella mia vita, assaggiai il vino. Era dolce e acre allo stesso tempo, mi stordì. Me ne versarono ancora e ancora. Danzai insieme a loro e colpii pure io il tamburo col tirso. D’un tratto una visione mi attraversò la mente, violenta. Solo anni più tardi ne compresi il significato ma allora ciò che mi diede una sferzata alla schiena fu la sensazione di quanto fosse reale. Perché me ne accorsi subito. Non sognai quella notte, né immaginai. Io vidi.
Un uomo dai lunghi capelli scuri e la barba lunga fino alla vita, giaceva in ginocchio, umiliato, di fronte ad una donna voltata di spalle. Non la scorgevo bene ma qualcosa dei suoi tratti mi pareva famigliare. L’uomo invece lo vedevo chiaramente in viso, aveva sopracciglia folte e occhi roventi.  Con voce rotta giurava vendetta agli dei, la sua rabbia metteva spavento. Tuonava, sempre più forte, e sputava. Lo vidi avventarsi contro di me. Mi tappai le orecchie, gridando, impaurita, e aprii gli occhi ansimando. Affondai le unghie nel terreno come per provarmi di non essere mai andata via di lì. Le ninfe mi si fecero attorno con urla di gioia – Ecate si è manifestata in te! – A quanto pareva dalle mie dita erano venute fuori delle saette di colore rosso. Quei segni magici di cui cantavano i poeti e la cui mancanza, nel profondo, mi aveva sempre fatto temere che Aglaia si fosse sbagliata sul mio conto, finalmente erano comparsi anche in me.
Le donne mi porsero una coppa -E’ sangue di drago – Mi dissero. Avevano ucciso un drago, al tramonto, e ora ne offrivano il sangue e il cuore agli dei.  Trangugiai la coppa con avidità e subito mi sentii forte e pervasa d’una gioia che non avevo mai provato prima, estatica.  Poi, dopo aver preso il cuore e averlo innalzato verso il cielo, mi porsero anche quello – Prendi da qui il nucleo per la tua bacchetta da maga – mi disse uno degli uomini- capri – Hai avuto la tua prima visione sotto il segno di questo sacrificio. Il cuore del drago è tuo.  –
- Quando un mago ha una visione come quella – mi disse poi una delle donne – E’ perché un dio parla attraverso di lui.  C’è chi vive una vita intera senza mai provare nulla del genere. Tu l’hai avuta subito e in una notte di danza e di vino. Non è stato Apollo a parlarti, né Atena né la potente Ecate, ma Dioniso. Scegli il legno della sue viti per la tua bacchetta magica. Sei più figlia di Dioniso di quanto non pensi. –
Con il cuore del drago feci due corde, col legno di vite costruii il corpo intorno al nucleo.
Quando uscii dai confini della foresta ero sporca, arruffata e stordita ma con me riportavo una bacchetta magica.
Avevo dodici anni ed ero pronta per il tìaso.
 

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Capitolo 2
*** Sofia ***


Ogni volta che entrava un nuovo gruppo di giovani, il Tiaso era guidato da una maestra diversa. Nei giorni che precedettero l’inizio delle lezioni io e Attoride non facemmo altro che fantasticare su come sarebbe stata quella che sarebbe toccata a noi. Conoscevamo di vista le maestre delle annate precedenti, Esandra, Laodice, Ippodamia. Maghe bellissime e misteriose. Oppure altere e inflessibili come Eurimedusa e Glauce.
Della nostra sapevamo solo che si chiamava Sofia e che mancava dal villaggio da molto tempo. Si diceva che avesse lasciato il tiaso a diciassette anni e che, invece di mettersi al seguito di una maga più anziana, avesse abbandonato le nostre zone per imparare le arti di terre lontane. Doveva aver viaggiato molto, fino in Colchide, secondo alcuni, fino in Persia, secondo altri, dove aveva studiato le tecniche dei Magi e dei Negromanti.
Io e Attoride non stavamo nella pelle. Ci avrebbe insegnato a tramutarci in gatti selvatici o in leonesse? O forse addirittura in Sfingi. Certamente conosceva incantesimi di cui nessuno in Ellade aveva ancora sentito parlare. E chissà se era bella come Esandra, di cui tutte le ragazze erano state innamorate, oppure elegante come Ippodamia. O chissà se sapeva mettere paura al solo guardarti come si diceva di Eurimedusa.
Quando finalmente la conoscemmo, Sofia mi sembrò diversa da qualsiasi altra maga avessi visto al villaggio. Non aveva la grazia di Esandra, né il fulgore prorompente di Laodice. Eppure, in altro modo, mi parve bella più di tutte loro messe insieme. I capelli non erano intrecciati nelle acconciature eleganti delle altre né portava vesti di stoffe raffinate. Le sue erano semplici, fatte di tele grezze per lo più, e i capelli scuri le ricadevano liberi sulle spalle. Quando ti guardava negli occhi sembrava comprendere a fondo ogni moto della tua anima, c’era qualcosa di limpido nel suo sguardo e d’autentico. Non sorrideva spesso ma quando lo faceva sembrava venirle dal cuore. A volte rideva, di gusto, con una risata scomposta e genuina. Normalmente parlava poco, con una voce profonda e un po’ roca e, anche nel parlare, non aveva nulla dei modi misteriosi e seducenti della altre maestre né della distante solennità delle anziane. Si esprimeva in modo calmo, riflessivo. Tutto appariva alla nostra portata ma non mentiva mai di fronte alla fatica o allo sforzo che ci aspettavano né offriva soluzioni facili. Prendeva estremamente sul serio ognuna di noi e sembrava non avere mai fretta. – Ci vuole tempo – Diceva spesso, quando ci impantanavamo in scogli che ci sembravano insormontabili – La magia è complessa e non bisogna forzarla. Per raggiungere risultati alti bisogna imparare ad attendere. -
Contrariamente a quanto si diceva nelle terre dei Koinous, e a quanto credevo anch’io quando ero bambina, erano pochissime le streghe in grado di trasformarsi a proprio piacere in un animale col solo aiuto della bacchetta magica. Si trattava di un’arte più diffusa tra i Colchi e in Oriente ma, anche lì, i maghi in grado di esercitarla si contavano sula punta delle dita. Da noi in Tessaglia ce n’erano solo quattro e si diceva che Sofia fosse una di loro.
Non mancò molto che cominciammo a sommergerla di domande. Di fronte alla nostra insistenza ammise che sì, poteva trasformarsi in un gatto selvatico ogni volta che lo desiderava, proprio così come si diceva facesse Medea. Ma non nascose che per il momento non ci avrebbe insegnato a farlo. Era una tecnica molto complessa, ci disse, richiedeva anni e anni di studio, allenamento, e una predisposizione per l’arte della trasfigurazione che forse solo qualcuna di noi avrebbe scoperto di avere o magari nessuna. Sorrise di fronte alla delusione sui nostri volti - Non c’è nulla di male in questo. – Disse seriamente – Se non si è portati verso qualcosa vuol dire che si è predisposti verso qualcosa altro. In fondo trasformarsi in animale può far fare una gran figura! – Aggiunse ridendo - Ma preparare un farmaco in grado di salvare una vita è ben altra cosa, non trovate? -.  Anni dopo scoprii che aveva mentito. Quella tecnica complessa metteva una maga in contatto con lati oscuri e remoti di se stessa ed era tra le esperienze più profonde che si potessero fare.
-In compenso – Proseguì Sofia – Tra non molto saprete preparare unguenti e filtri in grado di trasformare voi o chiunque altro in gufi, porci o altri animali per la durata di qualche giorno. E imparerete a conoscere i demoni, quell’insieme vario di creature che si trovano a metà fra gli uomini e gli dei. Piano piano sarete in grado di percepirli, riconoscerli, troverete il modo di comunicare con loro. – Esistevano anche dei demoni tutelari, ci disse Sofia. Ognuno di noi avrebbe scoperto il suo. Se evocati nel giusto modo si manifestavano sotto forma di fumo argenteo nella figura di un animale protettore, diverso per ognuna di noi, in grado di difenderci contro le forze oscure.
Ci sentimmo eccitate, non vedevamo l’ora di indagare quel mondo e allo stesso tempo ne avevamo timore.
Con mia grande sorpresa mi scoprii portata per moltissime discipline. Proprio io che non avevo mai dato segni di magia durante l’infanzia, avevo facilità nella trasfigurazione, amavo il mondo dei demoni e la percezione delle forze oscure, avevo pazienza e passione nella distillazione dei farmaci. Ciò di cui invece proprio non riuscivo a venire a capo era la mantica. La cosa mi soprese non poco, dopo quella notte nella foresta avevo pensato di avere un futuro come indovina e mi ero detta che se mi era stato dato un dono doveva essere proprio quello. E invece, la visione di quella notte era rimasta un’eccezione che non si era ripetuta mai più. Nei visceri delle pecore non riuscivo a trovare alcun senso e per quanto mi sforzassi, il volo degli uccelli non mi suggeriva nulla. Le mie compagne intuivano forme, coglievano segni, sviluppavano immagini. Io non vedevo niente.
- Tu sei molto intelligente, Ermione. – Mi disse un giorno Sofia – Sei acuta, ti poni domande, hai spirito critico. Ma forse per interpretare i segni devi contattare qualcosa di te che ha meno a che vedere con la tua mente. –
“Ma come?” mi chiedevo “Come?”. Provavo e riprovavo, passavo le ore a contemplare le interiora delle carcasse sacrificate. Ma nulla. Dopo un po’mi si storcevano gli occhi e avevo voglia di gridare per la stizza.
Sofia mi osservava pensosa, cercando la chiave per aiutarmi. – E’ strano – Mormorò un giorno, quasi parlando più a se stessa che a me – Hai una bacchetta di vite. Dev’essere forte quella parte di te, se quel legno ti ha scelta. –
Mi sentii lusingata. Non avrei mai immaginato che Sofia mi tenesse così in considerazione da aver notato addirittura il materiale della mia bacchetta.  Mi sentii avvampare le guance con una violenza che non avevo mai provato. Per un attimo mi scoprii turbata ma mi affrettai subito a scacciare quei pensieri.  Ormai avevamo quattordici anni e già altre ragazze avevano preso a guardarla con occhi rapiti, arrossendo ogni volta che le erano vicine. Ma Sofia non aveva mai mostrato interesse per nessuna di noi. Al di fuori delle lezioni era schiva e solitaria, sempre in ascolto con chi andava a cercarla ma di suo non sembrava ambire alla compagnia di nessuna. Una volta l’avevo sentita dire ad Ippodamia, scherzando, che con Eros non aveva da fare più nulla perché le aveva già dato e già tolto tutto.
Mi dissi che nemmeno io dovevo cedere al dio, non dovevo nemmeno farmi sfiorare da lui o sarei rimasta tremendamente delusa. Per di più Sofia avrebbe pensato che ero una sciocca.
Ricacciai quei pensieri e non me ne ricordai più.
Col tempo ognuna di noi scoprì in quale arte si sentiva più a suo agio. Io diventai la migliore nella preparazione dei filtri. Passavo ore ed ore sulle pendici del Pelio a studiare e riconoscere le erbe rare. Tante volte accompagnavo Sofia, che tra le maghe del villaggio era una delle più esperte nella distillazione del farmaci e aveva il compito di prepararne ogni giorno in gran quantità, sia per la nostra gente ma anche per i Koinous che chiedevano il nostro aiuto. La assistevo nella ricerca delle erbe e la sera, dopo le lezioni, lavoravo con lei alla preparazione dei rimedi più vari. Sofia aveva molto lavoro e restava sveglia fino a notte inoltrata. Quando la luna cominciava ad alzarsi mi diceva di andare a dormire ma io insistevo sempre per rimanere, non volevo perdere un minuto di quel che faceva. Allora lei sbuffava e mi permetteva di restare. I primi tempi mi spiegava con pazienza ogni passaggio del suo lavoro e, pur di farmi imparare, si arrischiava a delegarmi compiti via via più difficili, senza mai irritarsi se qualche volta era costretta a buttar via il preparato perché non ero stata abbastanza precisa. Adesso eravamo in grado di lavorare fianco a fianco, in silenzio.
Se qualche volta parlavamo era perché non resistevo alla tentazione di farle domande sui paesi lontani in cui era stata. In quasi tre anni che la conoscevamo non aveva fatto che qualche accenno a quella sua vita passata ma mi accorsi che se eravamo noi a chiedere rispondeva volentieri. Mi raccontò dei filtri con cui le maghe Colche sapevano fermare il corso dei fiumi, delle scoperte incredibili di certi astronomi chiamati Caldei e dei cerchi magici dei Sacerdoti Zoroastriani. Io l’ascoltavo rapita. Ogni tanto si soffermava su un particolare buffo o sulle abitudini bizzarre di qualche tribù dell’Asia Minore e allora scoppiavamo a ridere tutte e due.
Si accorgeva subito se qualcosa mi preoccupava, come aveva fatto sempre con tutte noi. Un giorno mi trovò con la faccia scura dei giorni infausti. Io non volevo lamentarmi ma lei capì immediatamente che mi sentivo avvilita perché tutte le mie compagne avevano interpretato il loro primo oracolo mentre io ero riuscita appena ad intravvedere qualche immagine flebile.
- Sei troppo dura con te stessa. – Mi rimproverò – In ogni cosa in cui ti cimenti riesci a sviluppare un’abilità superiore alla media. Perché non puoi accettare che esista qualcosa in cui fatichi di più?  –
Serrai le labbra in silenzio e scossi la testa. Sofia sospirò e venne a sedersi accanto a me –Vedi – continuò dolcemente -  La mantica è una tecnica ardua.-  Mi fissò negli occhi  per alcuni istanti come per essere certa che la stessi ascoltando – Per dominarla bisogna essere disposti, in qualche modo, a lasciarsi dominare.  E’ una sensazione difficile da spiegare. Ma è come se dovessi abbandonare la mente e addentrarti in una sorta di follia. –
- Ma io sono disposta a farlo, io provo, di continuo. –
- Tu hai molto dominio della tua mente, Ermione. E questo è un talento, è un dono degli dei. Ma forse in alcuni ambiti può essere un ostacolo. Questo però è normale, ognuno ha delle tendenze. E’ probabile che sia ancora presto per te. In fin dei conti sei migliorata molto, all’inizio non vedevi nulla… -
 – Ma no no! – Mi ribellai – Io lo so come dev’ essere, lo so! –Sbottai tutto d’un colpo – L’ho già provato, tre anni fa! - Sofia mi guardò stupita.
Restai qualche secondo in silenzio. Poi mi feci coraggio e le raccontai tutto della notte in cui costruii la mia bacchetta magica. Della visione che avevo avuto e di quanto mi fosse sembrata reale. Le descrissi ogni particolare di ciò che avevo visto e sentito.
Sofia mi ascoltava colpita.
- Credi che abbia sognato, stordita dal vino? – Le chiesi.
Sofia si alzò in piedi e prese a camminare lentamente –No- Rispose piano – Non credo che tu abbia sognato. –
- Allora pensi che sia una premunizione? Qualcosa che deve succedere? –
Lei scosse la testa. – Quello che hai visto è già successo, molti anni fa. E, per quel che ne so, accadde proprio così. –
- Ma chi erano quelle persone? Le conoscevi? –
Sofia indugiò qualche istante – Una maga del villaggio e un nemico che lei sconfisse. – Disse e per un attimo mi parve turbata – Storie passate.  – Concluse.
Di colpo mi sentii svuotata. Era la prima volta che parlavo a qualcuno di quella visione nel bosco e nel raccontarla m’era parso di riviverne ogni sensazione.
-Ma perché quella volta e basta? – Chiesi a Sofia.
Lei si soffermò su di me, come a scrutare un essere misterioso – Solo ai veggenti molto dotati capita ciò che hai descritto. – disse – Evidentemente, dentro di te, c’è una forza di enorme potenza. Ma mi chiedo quanto forte possa essere il suo opposto se tuttavia riesce ad ostacolarla. –
Mi guardò con dolcezza – Devi essere un’anima in guerra, piccola Ermione.- Disse accarezzandomi i capelli - Chissà che fatica, lì dentro… - Aggiunse. Avvertii la sua mano lievemente tremare mentre indugiava sui miei riccioli neri.
Io mi sentii avvampare le guance e le orecchie, così come m’era successo tempo prima, e provai l’impulso di buttarmi tra le sue braccia e stringerla forte.
Sofia si ritrasse di colpo –Perdonami – Mormorò voltandosi in fretta – Non avrei dovuto. –
Fu come se m’avessero rovesciato addosso un bacile d’acqua gelata. Perché no, perché? Cosa avevo di meno delle ragazze che al tempo del loro apprendistato avevano avuto le attenzioni di Laodice, di Ippodamia o della bella Esandra?
- Perché? – Chiesi con un filo di voce. Di colpo mi giudicai arrogante. Sofia mi pareva migliore di ogni altra donna. Cosa mi faceva credere allora che proprio io avrei potuto accendere il suo cuore se non l’avevano fatto i capelli d’oro di Attoride, né gli occhi azzurri di Leucippe.
-Scusami Sofia, non intendevo… -
Lei alzò gli occhi da terra e vidi che erano arrossati – Non è per te, Ermione. Devi credermi. – Sembrava commossa e che parlare le fosse molto difficile – E’ da tempo che non faccio che pensarti, in realtà. –
-E allora perché? – Mormorai
- Non riesco, davvero. – Disse. Poi prese un respiro - Anni fa amai un uomo con tutta me stessa – Mi confidò– Quando un giorno lo persi, davvero fu come morire. Non posso più permettere che mi capiti ancora. –
Annuii, trattenendo le lacrime, e feci per andarmene. Poi, in preda a non so quale impudenza, mi voltai e corsi a gettarmi tra le sue braccia, come avevo desiderato. La strinsi forte. Profumava di spezie e fiori d’arancio. Lei ricambiò l’abbraccio e mi avvolse. Poi prese il mio viso fra le mani e mi baciò con passione.
L’amore mi cambiò. Ero costantemente in subbuglio e piena di gioia e l’equilibrio trai miei opposti mi parve mutare. Mi sentivo eletta dagli dei e compiangevo il resto del mondo perché non aveva le carezze e la dolcezza di Sofia.
La sua vicinanza era una grazia continua. Parlavamo di tutto, della nostra infanzia, dei nostri desideri. Ci sentivamo attraversate da un’eterna primavera. Pian piano nel tempo Sofia mi disse tanto di sé, anche se c’erano zone misteriose in cui non si addentrava mai, quasi parlarne le facesse troppa fatica.
Una notte mi accorsi che non era accanto a me nel letto. Mi alzai per cercarla e la trovai nel bosco, con i piedi nudi e la veste slacciata, inginocchiata di fronte agli altari di Ecate.  Pregava la dea dalle tre teste e chiedeva protezione per una certa Urania. “La mia Urania” la chiamava. Non potei crederci. Corsi via in lacrime, il mondo mi crollava addosso. Chi era quella Urania? Perché la chiamava ‘mia’? Senza dubbio aveva incontrato un’altra ragazza e mi aveva dimenticata. Passai tre giorni pieni d’angoscia. Poi, in seguito alle domande di Sofia, che non aveva smesso di saper leggere nella mia anima, scoppiai a piangere e le raccontai tutto. Lei mi ascoltò con attenzione e poi sorrise delle mie congetture. Non avevo nulla da temere, mi disse, nessun’ altra ragazza aveva preso il mio posto nel suo cuore né mai nessuna lo avrebbe fatto. Mi spiegò che quella Urania le era molto cara – forse la persona più cara che avesse al mondo-   ma non aveva niente a che vedere con ciò che c’era tra me e lei. Mi chiese di perdonarla se non riusciva a parlarmene. Prima o poi l’avrebbe fatto, promise, tante volte ci aveva pensato.
Volli crederle. La franchezza del suo sguardo non mi aveva mai fatto dubitare della sua sincerità.  Mi dissi che seppure quella Urania fosse stato un amore passato, poco importava se ora eravamo insieme. Decisi di rispettare quella sua reticenza perché ne vedevo tutta la difficoltà, eppure non riuscivo a impedirmi di essere gelosa di quelle zone solo sue, in cui non mi faceva entrare. Anche dell’uomo che aveva amato parlava con fatica. Sapevo che l’aveva conosciuto in Oriente e che per lei era stato molto importante. Quando le chiesi perché l’avesse perso mi rispose che era tutta colpa sua e che se non fosse stata così ostinata forse tra loro sarebbe andata diversamente. Sembrava che ci fosse qualcosa che non riusciva a perdonarsi, quasi avesse un peso sul cuore.
A me però non riservava che sorrisi e tenerezza. Provò a insegnarmi tutto ciò che sapeva. Un giorno mi annunciò che avrebbe voluto iniziarmi al lungo percorso che porta alla trasformazione di un mago in un animale. Ne fui entusiasta. Scelsi la lontra, che era la forma del mio demone tutelare, e cominciai ad addentrarmi in quella complicata branca della trasfigurazione. Non fu semplice ma sotto la guida attenta di Sofia ogni giorno facevo qualche progresso. Le arti magiche mi diedero grandi soddisfazioni in quel tempo e anche se non recuperai il dono della Vista non me ne dispiacqui più. La tecnica dei farmaci non aveva più segreti per me. Ormai riconoscevo a colpo d’occhio i petali candidi del moly e trovavo le viole del pensiero anche di notte. Ero esperta nella distillazione d’ogni genere di succo ed ero ormai convinta che quella sarebbe stata la mia strada.
Finché un giorno non venne a trovarci Aglaia.
Ci salutò una per una, poi si appartò con Sofia in mezzo agli alberi. Tutte noi ragazze le osservammo, incuriosite, parlarsi fittamente e gettare di tanto in tanto uno sguardo verso di noi.
 Fu Sofia ad annunciarlo. Aglaia era venuta per comunicarci una decisione, finalmente aveva trovato chi avrebbe potuto succederle come custode dei canti. Quella persona ero io.
Ci fu un mormorio stupito
Sembrava che Aglaia avesse pensato a me fin da quando mi aveva conosciuta, da bambina. Era rimasta colpita dalla dolcezza della mia voce, dal mio senso della musica e del ritmo oltre che dalla velocità con cui memorizzavo.
Le altre ragazze mi guardavano ammirate, era un grande onore quello che mi aspettava. Io cercai, smarrita, gli occhi di Sofia. Lei mi sorrise con dolcezza, come intuendo i miei pensieri. Eppure mi parve che un’ombra  le stesse attraversando lo sguardo. Io mi sentivo stordita. Era dunque già arrivato il momento di lasciare il tiaso? Così presto dovevo separarmi da Sofia? Già finiti gli scherzi e i giochi con le mie compagne?
 Le altre ragazze mi fecero mille feste, eccitate.  Sarei stata la prima a lasciare il tiaso, dovevo per forza raccontare loro ogni cosa di quel mondo di adulti del quale tra non molto avrei preso a far parte. Avrei conosciuto i maghi, finalmente. Chissà com’erano i ragazzi della nostra età? Di certo avrei trovato presto uno sposo bellissimo!
Anch’io cominciai a fantasticare su tutte le avventure che sembravano aspettarmi. Mi chiedevo come sarebbe stato diventare la Custode dei Canti, se avrei imparato a comporre anch’io come i poeti che si accompagnavano con la lira. Mi figuravo l’aspetto del mio futuro sposo e inventavo sempre nuovi particolari.
Pure Sofia mi festeggiò, mi disse che sarei stata felice e che nulla avrebbe potuto renderla più grata di tutto il prestigio che mi aspettava.
La sera prima della mia partenza non feci che parlarle della mia trepidazione, le confidai i miei sogni e la mie aspettative. Non smisi per un attimo di animarmi per quello che avrei trovato, per come lo immaginavo.  Sofia condivise la mia gioia, ascoltò i miei timori e mi rassicurò su ogni cosa. Intrecciò ghirlande per i miei capelli.
Eppure quella notte, quando eravamo nel letto, la sentii singhiozzare con la faccia premuta contro il cuscino.

 

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Capitolo 3
*** La custode dei canti ***


Aglaia mi portò in alto sul monte. Lì conobbi musici, costruttori di cetre e maghi che conservavano nella memoria canti di tempi antichissimi. Io avevo voce di miele e memoria di ferro, Aglaia ne era colpita. Ma questo non bastava. Mi insegnò a mettere cuore e gesti dentro al mio canto, a catturare gli ascoltatori con lo sguardo e i toni della voce, a trasportarli davvero sull’isola di Alcinaa, a condurli nei corridoi del palazzo di Eeeta.
Imparai l’arte della musica e del ritmo, Aglaia era molto esigente sulla precisione del metro e passava le ore a farmi esercitare battendo col bastone i sei piedi del verso. Capii come seguirne dolcemente le onde facendomi trasportare dai colpi dei suoi accenti ma anche come contrastarlo, morderlo e poi tornarci dentro in controtempo.
Quel ritmo, quella musica, diceva Aglaia, erano importantissimi. Erano la formula magica che permetteva di evocare le grandi maghe del passato e riattraversare le loro avventure, l’incantesimo in grado di richiamare la voce di coloro che non erano più.
A questo scopo imparai a suonare la lira, non solo da Aglaia ma anche dai musici del monte. Da loro osservai pure le tecniche per costruirne una e mi parve d’essere tornata ai tempi in cui apprendevamo come fabbricare una bacchetta magica. Si doveva scegliere il legno, valutarne le caratteristiche e l’elasticità, proprio come per la bacchetta, intagliarlo e fabbricare le corde con budelli di pecora. Ancora più complessa era la fabbricazione del plettro. Ce n’erano di legno, d’osso, d’avorio e anche di preziosissimi in smeraldo ma erano rari gli artigiani in grado di realizzarne uno. Io ne apprezzavo i suoni pregiati, diversi a seconda delle forme e dei materiali con cui erano costruiti, ma per me preferivo pizzicare le corde con le dita. Dalla lira passai anche alla cetra e ben presto fui in grado di improvvisare come facevano i rapsodi.  Potevo cantare, componendo, per ore intere, dilatare un episodio facendolo durare versi e versi oppure stringerlo nella misura di sei piedi.
Spesso mi esercitavo con Menandro, che proprio come me stava imparando l’arte dei canti. Io sarei diventata la custode della memoria delle maghe e Menandro, invece, di quella dei maghi. Era di poco più grande di me e viveva sul monte già da un paio d’anni con il suo maestro Eumene.
Facemmo amicizia fin da subito.  Aveva occhi curiosi e pareva sempre alla ricerca di qualcosa. Mi sembrò diverso da me e dalle mie compagne del tìaso ma allo stesso tempo ebbi l’impressione di aver trovato un anima affine. Proprio come me non riusciva a non chiedersi il perché delle cose, a non dare mai nulla per scontato. Ma mentre per me l’apprendimento della magia fin ora conosciuta rappresentava lo scopo più alto, per Menandro sembrava semplicemente un passaggio obbligato per arrivare ad altro. Neanche aveva imparato un incantesimo che già era lì a chiedersi in cosa lo avrebbe potuto migliorare. Spesso lo trovavo nei boschi che tentava esperimenti, tutto preso da qualche nuova idea. Parlava in maniera appassionata - Pensa! Pensa se potessimo scomparire in un luogo e riapparire in un altro! –
Io lo prendevo in giro –Solo gli dei possono fare cose simili. Prima o poi verrai fulminato per la tua tracotanza! –
Lui rideva – Ma scusa, non siamo in grado di far scomparire un oggetto con la magia?-
- Be’.. sì –
- Siamo anche in grado di evocarlo. –
- E’ più difficile però… sì.-
- Adesso –Proseguiva animato – sappiamo anche far muovere i corpi nello spazio con la bacchetta magica, giusto? –
- Certo. –
- E allora basterebbe mettere queste tre cose insieme! –Concludeva entusiasta. Poi si fermava pensoso – C’è solo da capire in che modo – Mormorava come se gli sfuggisse una parola che aveva sulla punta della lingua.
Anche sulla tecnica dei canti amava sperimentare. Quando ci esercitavamo insieme nell’improvvisazione proponeva sempre accostamenti arditi. Quello che per tradizione si cantava alla fine lui provava a vedere che effetto aveva all’inizio, scene che di solito andavano via in pochi versi le ampliava per ore aggiungendo dettagli e viceversa.  Cominciai a provare anch’io insieme a lui, a rimescolare, ad andare avanti e indietro nel tempo. A volte non arrivavamo a niente ma certe altre invece ci pareva di trovare meraviglie e allora ci prendeva una specie di entusiasmo febbrile, volevamo capire il perché del nostro successo e imparare a rifarlo. Così ci mettevamo le ore a provare e riprovare senza sosta. Un giorno ci chiedemmo se non sarebbe stato utile mettere i nostri tentativi per iscritto. Sapevamo che alcuni tra i Koinous avevano trascritto i propri poemi. Ma i nostri maestri erano contrari. Aglaia diceva che trascrivere i canti li rendeva di pietra e bloccava per sempre una forma che doveva essere in continuo divenire “Come un cuore che batte, come il respiro” diceva “Quello che canti oggi non sarà uguale a quello che canterai domani e come lo faccio io sarà diverso da come lo farai tu. E che ne sarebbe del suono che pronunci, che ne sarebbe del ritmo? Come si può mettere l’anima in una tavola di pietra?”
C’era qualcosa in quelle parole che mi pareva vero eppure non riuscivo ad esserne del tutto convinta.
 Sofia conosceva l’arte della scrittura e secondo lei non c’era nulla di male nell’utilizzarla. “Come ogni strumento” Diceva “Dipende dall’uso che se ne fa”. Così aveva insegnato anche a me tutte le lettere dell’alfabeto. Ancora ricordo la gioia di quando incisi con fatica il mio nome completo su una colonna.
- Così mi penserai ogni volta che passerai di qui. –
Proposi a Menandro di insegnare anche a lui quel che sapevo sulla scrittura e allora ogni giorno ci esercitavamo un poco, senza farci vedere da nessuno.
Andavamo nei boschi e incidevamo le cortecce degli alberi. Accadde in uno di quei giorni che gli presi la mano per condurla dolcemente lungo le curve delle lettere e mi sentii invadere da quell’avvampare violento che avevo conosciuto solo con Sofia. Sentii che anche lui respirava a fatica. Rimanemmo immobili senza trovare il coraggio di guardarci. Poi lentamente ci voltammo e ci avvicinammo, timidissimi. Ci baciammo tremando. Quando ci togliemmo le vesti Menandro mi parve simile a un dio, sentii mancarmi il respiro. Eppure non ebbi paura quando carezzò il mio corpo nudo. Mi sembrava di conoscerlo da sempre, con nessuno avevo mai avuto tanta complicità. Restammo sdraiati nei boschi fino a che non venne buio e quando era ormai notte fonda ci addormentammo nell’erba, l’uno vicino all’altra.
Dopo anni di silenzio in cui ogni mia preghiera era stata vana, quella notte il dio tronò a parlare attraverso di me ed ebbi la mia seconda visione. Il mago dalla lunga barba nera che avevo visto quattro anni prima, m’apparve di colpo. Sembrava più vecchio e questa volta non si prostrava in ginocchio ma era in pedi trionfante. Sotto di lui i maghi e le maghe del mio villaggio giacevano per terra scoloriti, con la pelle che s’aggrinziva. Un boato tremendo mi svegliò.  Pure Menandro aveva aperto gli occhi.
– Cosa è successo? – Gli chiesi – Non lo sapeva, anche lui era stato svegliato dal fragore. - Devo cercare Aglaia – Dissi con decisione. – Tu vai da Eumene intanto, chiedigli aiuto. -  gli consigliai, senza neppure sapere perché. Corsi alla casa di Aglaia ma non la trovai. Tutto era sottosopra. Il tavolo rovesciato, panche e sgabelli all’aria. Certamente qualcuno era stato lì.  Allora, più veloce che potei, mi precipitai a valle correndo. Ciò che vidi mi fece sbiancare.
Il mago dalla lunga barba nera, quello delle mie visioni, era davvero lì, proprio come lo avevo sognato. Attorno a lui, prostrati, debolissimi, c’erano tutti i maghi del villaggio. Vidi Sofia, carponi per terra, le mie compagne del tiaso. C’era anche Eumene, disteso al suolo, ma Menandro non era con lui “Evidentemente non l’ha trovato in casa” pensai.
 Al c’entro c’era Aglaia accucciata, contorta dai dolori. Il mago del sogno le puntava contro la bacchetta e sembrava essere proprio lui a farle del male con qualche incantesimo  – La potente Aglaia – la sbeffeggiava .
Eumene alzò la testa a fatica –Vergognati Adrasto. – Sputò -  Aglaia ti ha allevato come un figlio. Gli dei ti puniranno. –
Il mago prese un respiro e spostò la bacchetta verso di lui – Grave errore, vecchio – Gli disse, poi alzò la bacchetta -  Avada Kedavra – Pronunciò. Un lampo verde e vidi Eumene ricadere a terra, privo di sensi. Sofia emise un grido. Gli altri parevano non capire. A fatica gli si fecero attorno cercando di scuoterlo ma lui non dava segni di vita – E’ morto! - gridò qualcuno – E’ morto! E’morto! Dei del cielo, l’ha ucciso! –
Io ero incredula. Non poteva essere vero, pensai. Non si poteva togliere la vita così, con un colpo di bacchetta. Che magia terribile era quella?
Adrasto si fece largo tra i corpi che giacevano in terra – Aglaia mi allevò come un figlio, è vero. Ma poi mi rinnegò proprio nel momento in cui una madre avrebbe dovuto sostenermi e innalzarmi. –
- I tuoi scopi erano empi. Non potevo permetterti di perseguirli. – Boccheggiò Aglaia. –Io ti ho lasciato vivere. -
Adrasto pestò forte per terra col piede –Sciocchezze! - Gridò – Avresti fatto meglio a uccidermi invece. Non volevo la tua pietà. Meglio morto che tuo debitore. T’avevo avvertito che non ti avrei ricambiato il favore. –
Aglaia si alzò tremando e allargò le braccia – Se è me che vuoi, prendimi, ma risparmia gli altri, non c’entrano. -
Adrasto scoppiò a ridere. – Con te non ho finito- disse - Ma non ti ucciderò. Voglio che guardi la fine del tuo popolo.   – Brandì la bacchetta – Kryo – Ruggì e immobilizzò tutti quanti. Poi la alzò contro  gli uomini, uno ad uno  – Avada kedavra –  pronunciò a denti stretti. Li vidi cadere a terra, come fantocci, uno per volta. Trasalii e in quel momento capii cosa intendevano i poeti quando dicevano che a un uomo si scioglievano il cuore e i ginocchi.
Aglaia  si scagliò contro Adrasto a mani nude – Stupida vecchia. – Gridò lui scaraventandola a terra – Peggio sarà per le tue figlie e sorelle che vedrai vendute come schiave nelle terre dei Koinous. –
- Lyo – Mormorò e le donne  furono sciolte dall’immobilità. – Avanti fanciulle. Mostrate le vostre bellezze, I mercanti vi aspettano.-  E si fecero avanti tre figuri in nero che Adrasto presentò come mercanti di schiavi. Dietro di loro c’erano uomini armati come soldati. A un cenno di Adrasto i soldati si lanciarono contro le donne, che si dispersero urlando e cercando di scappare.
Io guardavo attonita, nascosta fra gli alberi, e mi chiesi perché Aglaia non usava la magia, perché nessuno prendeva la bacchetta per difendersi. Con impeto lasciai il mio nascondiglio e feci per gettarmi tra la folla.
Quando fui abbastanza vicina, Sofia si accorse di me. Lei era rimasta ferma e sembrava molto concentrata. – No no – Mi fece segno allarmata –Metti via la bacchetta o capirà.-
- Ma che cosa? –
- Che hai ancora la magia. –
- Ma perché? Cos’è successo? –
- Non usarla! – Disse Sofia con fermezza – Non usare la magia. Anche quando sarai lontana o ti rintraccerà. –
- Ma cos’è accaduto? Perché non utilizzate i vostri poteri, non li avete più?-
Sofia scosse la testa senza muoversi troppo – Ne sto conservando quel poco che mi resta. Scappa, Ermione, scappa. Io lo distraggo. -
- Aspetta Sofia…-
Si gettò contro Adrasto sfoderando la bacchetta magica. Lui la guardò incredula – Com’è possibile? -
- Conosco gli incantesimi che usi, Adrasto, e so da dove vengono. Vieni e battiti -  Sofia cercò ancora il mio sguardo per farmi cenno d’andare. Ci fu gran trambusto. Le donne in fuga e i soldati che ci inseguivano per prenderci. Indugiai. Volevo combattere insieme a Sofia, volevo cercare Menandro. Un soldato mi prese e mi spinse con forza dentro un carretto. Ebbi l’istinto di alzare la bacchetta e schiantarlo ma poi pensai alle parole di Sofia. “Verranno tempi migliori.” mi dissi e mi lasciai gettare all’interno, dove già erano ammassate molte altre di noi.  Un uomo si mise alla guida e fece partire i cavalli.
Accanto a me c’era Leucippe, che ai tempi in cui eravamo nel tiaso era famosa per i suoi occhi azzurri come quelli d’Atena. Ora invece erano rossi e gonfi di pianto. –Cos’è accaduto? – Le chiesi. Lei mi guardò esterrefatta – Non hai visto? – E mi raccontò che Adrasto aveva fatto un incantesimo su tutta la valle, una magia di una potenza inaudita. Con la bacchetta aveva strappato dal petto d’ogni mago il suo potere. Leucippe aveva visto uscire la magia dai loro corpi e dal suo come fosse stata una scia fiammeggiante e l’aveva poi guardata raccogliersi tutta dinanzi ad Adrasto, sotto forma di un’enorme palla di fuoco.  Il mago poi, brandendo ancora la bacchetta, aveva lanciato quella palla con forza, verso l’alto, nel cielo, fino a che non era diventata un minuscolo puntino luminoso, disperso in qualche angolo dell’universo.
Cominciarono a scendermi le lacrime lungo le guance.
- Davvero non hai visto nulla? –
Scossi la testa – Appena ho perso i poteri sono svenuta. Non ricordo niente.–  Mentii.
Ci portarono a Larissa. Lì ci smistarono e ci vendettero ad altri mercanti. Ci mischiarono a nuovi convogli di prigioniere. Alcune di noi furono mandate a Pella, altre a Sparta, altre ancora verso le isole della Ionia. Io sola, tra le mie compagne, fui condotta ad Atene.
 

 

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Capitolo 4
*** Atene ***


Era passato più di un anno da quando ero stata portata all’agorà durante il giorno del mercato. Avevo avuto fortuna. Non ero stata comprata per lavorare in casa né per offrirmi a poco nelle locande del Pireo. Ma grazie alla mia abilità con la cetra e col canto fui destinata alla casa di Tasia per divenire un’etèra.
In poco tempo imparai a vestirmi e truccarmi con eleganza. Divenni maestra di seduzione e appresi  i molti modi in cui si possono far godere le gioie d’amore. Tasia si prodigò per insegnarmi. Ero già grande per imparare il mestiere ma era stata cosi colpita dalle leggerezza del mio tocco sulla cetra che aveva voluto rischiare.
Ora mi guardavo nello specchio e ne rimanevo turbata. Mi aspettavo la ragazzina curiosa che  scorrazzava per i boschi componendo canti d’eroi e invece vedevo una donna dallo sguardo misterioso, con le trecce eleganti e gli orecchini di foggia lidia, in grado di ammaliare l’intero simposio non appena pizzicava le corde della lira e accennava a cantare un verso d’Anacreonte.
La mia bacchetta magica era nascosta nel fondo di una cassapanca e da lì non l’avevo più tirata fuori. I primi tempi mi ero affannata per avere notizie della mia gente. Ogni giorno andavo al Pireo e chiedevo informazioni ai naviganti, se qualcuno avesse conosciuto un schiava tessala nel posto da cui veniva “una ragazza di nome Attoride, è bionda. Quando ride mette allegria” “Una donna di nome Sofia, capelli scuri, occhi profondi”. Oppure andavo all’agorà, nei giorni di mercato, guardavo gli schiavi uno per uno sperando di ritrovare in loro qualcuno dei miei. Interrogavo chiunque fosse passato per la Tessaglia ma nessuno sapeva dirmi nulla sul destino della valle di Tempe.
 Mi chiedevo se fossi rimasta l’unica a conservare i poteri magici e mi dicevo che allora spettava a me liberare la mia gente da quel maleficio, se mai fosse esistito un antidoto. Mi sforzai di ricordare tutti gli incantesimi che avevo imparato. Ripetei fra me tutti i passi che avevo a memoria sulle maghe più potenti del passato e anche quelli sui maghi che avevo ascoltato da Menandro. Speravo di trovare tra i versi il racconto di una maledizione simile a quella che era si era inflitta su di noi, ma nulla.
Avrei avuto bisogno di un saggio a cui chiedere, di un anziano che ne sapesse di più di me. Ma in quella nuova città in cui ero capitata sembrava che nessuno si intendesse di magia.
Gli uomini, sotto i portici, ragionavano di giustizia, di morale, discutevano riguardo al Bene e alla convenienza ma delle arti della mia gente sembravano non avere alcuna cognizione. Persino i seguaci di Asclepio, che come noi s’interessavano di erbe rare, non conoscevano i nostri farmaci se non attraverso le descrizioni che se ne facevano nelle antiche leggende. Al mercato ogni tanto s’incontrava qualcuno che sosteneva di vendere unguenti magici ma si trattava solo di ciarlatani dai quali non potevo sperare in alcun aiuto.
Poi un giorno, mentre nelle casa di Tasia io e alcune compagne ci preparavamo per un banchetto, Mirrina, una milesia dal sorriso sempre allegro, disse distrattamente, appuntandosi la spilla sul vestito -  Vi ricordate Aretusa, la vecchia che guarì Lissa? –
Arinna si spazzolò i capelli con forza –Per Ercole – Mormorò.
-L’ho incontrata questa mattina – Proseguì Mirrina – E’ tornata ad Atene -
- Che fine aveva fatto? – Chiese Bacchide, alle prese con i lacci dei calzari -Dopo la peste, nessuno l’ha vista più. –
- C’è stato anche chi ha detto che fosse Atena sotto mentite spoglie. – Aggiunse Arinna, solenne.
- Allora dev’esserti apparsa Atena questa mattina! – Scherzò Bacchide
Arinna si fece seria - E cosa ti ha detto? –
- Che, anche se è di Mileto, con la bocca ci sa fare quanto una lesbia! – Rispose Bacchide al  posto dell’amica.
- Non ti permettere! - Protestò Mirrina tirandole contro un braccialetto. – Ci so fare molto di più! – Scoppiarono a ridere tutte e due e anch’io sorrisi.
 –Ma allora? –Incalzò Arinna – Cosa ti ha detto?  –
Mirrina si ricompose – Mi ha chiesto come stesse Lissa, se era ancora viva. Mi ha detto che negli ultimi tempi la gente era impazzita, che avevano cominciato a circolare certe voci… -
- Che voci? –
- Dice che vide Pericle quando era già in fin di vita. Fu Aspasia a mandarla a chiamare. Per lui però non poté fare nulla. E allora cominciò a spargersi la diceria che lo avesse ucciso lei e che fosse una strega pagata da Aspasia. E che, anzi, ancora prima, avesse ucciso anche i figli di Pericle, Paralo e Santippo, quelli legittimi, così che il popolo era stato costretto ad accogliere tra i cittadini il figlio di Aspasia. –
-Ma figuriamoci! – Protestò Bacchide
- Insomma se n’è andata prima che accadesse il peggio. -
- E dov’è andata? –
- E’ tornata in Tessaglia, dalle sue parti. Mi ha detto che del suo villaggio non è rimasto più molto. Non so cosa sia successo, è stata di poche parole. Fatto sta che adesso è di nuovo qui. Credo che venga da una di quelle valli tra il Pelio e l’Ossa, Tempe mi sembra – Aggiunse Mirrina e si voltò verso di me – Non vieni anche tu da lì, Ermione? –
Io, che già da un po’ m’era fatta tutt’orecchi, annuii speranzosa e non esitai a domandare di chi stessero parlando. Le ragazze mi raccontarono che qualche anno prima ad Atene era scoppiata una terribile epidemia di peste. Gli Spartani avevano invaso l’Attica incendiando le fattorie e molti abitanti delle campagne che avevano perso la casa si erano ammassati fuori dalle Lunghe Mura abitando in baracche di fortuna e casupole puzzolenti. Era stato allora che aveva cominciato a diffondersi la pestilenza e in poco tempo era esplosa in tutta la sua virulenza. Proprio a quel tempo, spiegò Mirrina, c’era in città questa vecchia di nome Aretusa, che spacciava rimedi per guarire gli infetti. Era diventata piuttosto nota in città. Tanti dicevano che era una ciarlatana, alcuni che era una strega in combutta con gli spartani. Ma presto si sparse la voce la voce che i suoi rimedi funzionavano, malati che sembravano spacciati si diceva fossero guariti. E così si erano fatti sempre di più quelli che si affidavano a lei nelle ore della disperazione.  Anche le ragazze erano andate a cercarla, quando una di loro, Lissa, s’era ammalata. “ Non posso promettervi nulla “ aveva detto la vecchia seccamente “Dipenderà dalla predisposizione della fanciulla.”. E l’aveva guarita.
- Secondo me era una gran brava donna. – Commentò Bacchide appuntandosi la cintura – Non meritava di dover fuggire così. La gente non conosce gratitudine, ci mette niente a dimenticare. -
La mattina dopo ero già per le strade a cercarla. Non stavo nella pelle, mi avrebbe dato notizie della mio popolo se era vero che era stata da poco a Tempe. In ogni caso ero certa che si trattasse di una maga, in qualche modo avrebbe saputo aiutarmi. La trovai nei bassifondi della città, in una casa buia e umida. Comparve sulla porta una donna anziana, dai lunghi capelli grigi, sciolti sulle spalle. Quando le dissi da dove venivo parve turbata – Sei una di loro? – Mormorò tremando. Dovetti accompagnarla a sedersi perché non perdesse i sensi. – Se mi avessero detto che avrei dovuto vedere le nostre ragazze schiave in terra straniera… - Disse dopo che le ebbi portato un sorso d’acqua. – Poi mi guardò negli occhi – Anch’io sono di Tempe – Mi disse gravemente – Sono stata lì da poco. So cosa vi hanno fatto, ho visto… – Le si riempirono gli occhi di pianto – Nulla è più come prima. – Singhiozzò.
Mi confidò che era andata via dalla valle molti anni prima e aveva vissuto a lungo ad Atene. Mai si sarebbe aspettata di ritrovare la sua gente in quello stato.
- Ma dimmi di te. – mi chiese – Come ti hanno presa? Come ti hanno tolto i tuoi poteri? -
Io le dissi che la magia l’avevo ancora e che forse ero l’unica tra le mie compagne ad averla conservata. Le raccontai nei dettagli cos’avevo vissuto quella notte.
Aretusa mi guardò stupita – E allora perché sei ancora qui? Perché non usi tuoi poteri per liberarti? –
 Adrasto avrebbe potuto rintracciarmi, le spiegai, e così avevo deciso di rimanere nascosta fino a che non avessi capito come poter liberare il mio popolo, se mai fosse stato possibile.
Restò in silenzio per qualche istante, poi prese un respiro – Adrasto è morto – Disse piano.
- Morto? –
- Sì, quella notte. Una maga che aveva appreso antiche tecniche orientali è riuscita a conservare la magia per il tempo necessario ad ucciderlo. –
- Sofia… – mormorai.
Aretusa mi guardò colpita e annuì – La conoscevo da quand’era bambina – spiegò. Poi sorrise, con una nota triste negli occhi – Ha sempre voluto fare di testa sua – disse fra sé - Ma questa volta ci ha salvati tutti.- proseguì - E’ stata eroica. Sapeva che uno sforzo simile era più di quanto si potesse richiedere ad un corpo umano –
Avevo paura di sentire oltre – Cosa vuoi dire? – chiesi tremando.
La vecchia abbassò lo sguardo – Non ce l’ha fatta. Trattenere la magia nel corpo e usarla con tanta violenza l’ha indebolita al punto che le ferite che ha ricevuto nel duello l’hanno uccisa. –
Gridai. La testa mi girò e sentii cedermi le gambe.  Pensai di vomitare.
- E Aglaia? – Chiesi – E’ ancora viva? –
Aretusa annuì  - Sì ma non ha più il senno. – spiegò tristemente – Il senso di colpa l’ha fatta impazzire. Vive da sola nella foresta e non fa che sragionare. –
- Ma perché?- Domandai – Che colpa ne aveva lei? –
Aretusa mi guardò stupita – Non lo sai? –
E mi spiegò che tanti anni prima Aglaia aveva trovato un bambino in un villaggio di Koinous, esposto alla pioggia e al freddo. I genitori dovevano averlo abbandonato, così lei lo aveva preso con sé e gli aveva messo nome Adrasto. -  Ma qualche tempo dopo – Continuò Aretusa - Una delle nostre streghe ebbe una visione nefasta a proposito del piccolo, sarebbe stato la rovina del nostro popolo, disse. Alcuni consigliarono ad Aglaia di disfarsene ma lei non volle saperne. Disse che non avrebbe abbandonato suo figlio a causa di una profezia su cui nessuno poteva avere certezze. Ben presto nel bambino si manifestarono i primi segni di magia e tutti ne gioimmo come avessimo avuto un assenso dagli dei. Aglaia aveva avuto ragione, il piccolo Adrasto era uno di noi.  Il bambino crebbe ma non sembrò divenire eccelso come mago. Aveva poteri forti ma pareva non riuscire a gestirli bene, era molto insicuro. Divenne ossessionato dalle forze dell’Ade. Cominciò a dire che avremmo dovuto governare l’intera Ellade con i nostri poteri o, meglio ancora, scalare il Monte Olimpo come avevano fatto i Giganti. Aglaia era molto severa di fronte a tanta tracotanza. Un giorno arrivò addirittura a minacciare di spezzargli la bacchetta. Adrasto le gridò che non capiva nulla, che lui avrebbe fatto di lei una dea e che nessuno di noi riusciva a comprendere. Eravamo soltanto dei pavidi che si accontentavano di una squallida vita mortale quando invece avremmo avuto il diritto di bere anche noi nettare e ambrosia alla mensa degli dei. Cominciò ad allearsi con le forze oscure. Scoprimmo che non era stato un caso che avesse nominato i Giganti. Un giorno ci annunciò che se non gli avessimo ubbidito saremmo andati incontro a disastri mai visti. Aveva stretto alleanza con i Giganti sepolti nei visceri della terra a cui aveva promesso vendetta contro Zeus. Ad un suo ordine avrebbero sussultato fino a far tremare la terra con una forza inimmaginabile. Ci ordinò di proclamarlo nostro re. Ci rifiutammo “Non ci sono sovrani tra noi” Gli gridò Aglaia. E la terra tremò, fu un devasto che durò giorni e giorni. –
- Mi ricordo – Dissi io –Non ero ancora nata ma quando vivevo tra i Koinous con i miei genitori si raccontava ancora di quel terremoto. Fu terribile. –
- Morirono in tanti. – Proseguì Aretusa - Furono distrutti interi villaggi. Allora Aglaia affrontò suo figlio e dopo un lungo, estenuante duello, lo costrinse a terra sconfitto e indebolito. –
Per un attimo mi tornò alla mente la scena a cui avevo assistito nella mia prima visione e capii.
- Gli puntò contro la bacchetta per ucciderlo.- andò avanti Aretusa -  Ma quando lo guardò negli occhi non ne fu capace. Gli spezzò la bacchetta e lo condannò all’esilio. Adrasto le giurò vendetta, la avvertì che avrebbe fatto meglio ad ammazzarlo subito perché se l’avesse risparmiato non sarebbe finita lì.  Poi se ne andò e non se ne seppe più nulla fino al suo ritorno. Dagli incantesimi che ha fatto – Aggiunse Aretusa – Credo che debba aver affinato molto le sue arti. Ho sentito parlare di un maleficio che uccide sul colpo, al solo pronunciare una formula barbara. –
Annuii –E’ così che ha ucciso tutti gli uomini, in qualche istante appena. –
Reastammo in silenzio.
- Chi è rimasto a Tempe? – Chiesi poi.
- Qualche donna che è riuscita a fuggire, anziane, per lo più. Vivono miseramente, come donne dei Koinous che non hanno più nulla. –
- E di uomini, si è salvato qualcuno? – Avevo un peso sul cuore.
La risposta arrivò, inesorabile –Nessuno. -
- Un giovane di nome Menandro? –
Aretusa scosse la testa – Non c’erano uomini. Le uniche superstiti che vivono ancora lì sono solo donne. –
Non dissi più nulla. Forse era fuggito, pensai, doveva aver visto la casa del suo maestro messa a soqquadro e così aveva capito. O forse, invece, quando io ero andata a cercare Aglaia, aveva trovato Adrasto, ancora in casa di Eumene, ed era stato proprio lui il primo a morire.  Chissà, magari aveva tentato di salvare il suo maestro ed evitare che fosse portato a forza verso la valle e così il mago lo aveva seccato con quella formula barbara letale. Eppure mi sembrava impossibile che Adrasto potesse essere ancora sul monte al momento in cui Menandro era entrato in casa di Eumene. Doveva pur aver avuto il tempo di scagliare il maleficio su tutta la valle. Ecco che pensai a quel maleficio. Dovevo sapere.
- L’incantesimo che ha fatto Adrasto -  Mi decisi a chiedere ad Aretusa –  Di cosa si tratta? Lo conosci? Mi sono sforzata con ogni mezzo di riuscire a capire da dove venisse ma nella memoria della nostra gente non ne ho trovato traccia-
- E’ un incantesimo empio. – Rispose Aretusa - Fu utilizzato solo tre volte dall’alba dei tempi e non ne venne mai nulla di buono. –
- Ma esiste un antidoto? Deve pur esserci un modo per sovvertirlo.  –
Aretusa sospirò. – Ci sarebbe – ammise tristemente – Ma temo che Adrasto ne abbia portato il segreto con sé nella tomba. La magia delle nostre sorelle esiste ancora, da qualche parte. Adrasto ne ha fatto una stella che ora brilla in qualche angolo del cielo. Se se ne conoscesse la posizione, un mago e una strega della valle dovrebbero unire le loro bacchette in quella direzione e pronunciare un incantesimo che disperda il fuoco della stella e lo faccia tornare a noi sotto forma di magia. E’ necessario eseguire l’incantesimo nel luogo esatto in cui il maleficio fu compiuto ed indirizzarlo verso il punto preciso in cui risiede la magia rubata. Ma come si fa a ritrovare una stella tra le miriadi  che ci sono nel cielo? Senza contare che serve l’unione di una strega e di un mago e, come ti ho detto, di maghi, da noi, non ce ne sono più. –
 
Me ne andai con gli occhi bassi e presi a girovagare senza meta per le strade di Atene. Non avevo voglia di tornare ai miei alloggi, non avevo desiderio di fare più nulla. Tutto mi pareva perduto. Perché non avevo combattuto con Sofia quella notte? Avevo ancora la magia, sarebbe dovuto spettare a me affrontare Adrasto. Come avevo potuto non farlo? Mi dissi che non conoscevo le tecniche per batterlo, che sarei morta inutilmente e questo non avrebbe di certo aiutato Sofia. Ecco la ragione per cui lei stessa mi aveva ordinato di scappare e non mi aveva chiesto di restare. Eppure in fondo al cuore sapevo che se aveva agito così era solo perché desiderava mettermi in salvo. Spettava a me insistere e impormi. E Menandro? Cosa avevo fatto per cercarlo? Magari era ancora vivo e avrei potuto aiutarlo.  Invece mi ero fatta sbattere in quel carretto senza opporre alcuna resistenza “Verranno tempi migliori” mi ero detta e avevo sacrificato tutto in nome di un piano che avrei saputo mettere in atto a tempo debito. Ci voleva prudenza in quel momento. A cosa sarebbe servito morire da eroina per mano di Adrasto se poi della nostra gente non sarebbe rimasto più nessuno in grado di aiutarla? Ma era proprio vero? Oppure avevo voluto soltanto salvarmi la pelle?
Tanto più che tutte quelle speranze sulla salvezza del mio popolo mi parevano adesso così stupide, così infantili.  Aretusa aveva ragione, trovare un puntino luminoso nel cielo era un’impresa impossibile. E i morti, quelli, non sarebbero di certo ritornati in vita, nemmeno con il più potente degli incantesimi. Nessuno avrebbe potuto mai restituirceli.
Tornai alla casa di Tasia e mi diressi verso i miei alloggi. Presi tra le mani la mia bacchetta magica. La carezzai, era liscia e sottile. Avrei potuto usarla liberamente adesso, mi dissi, avrei potuto farlo già da molto tempo. Per un attimo pensai di utilizzare la magia per liberarmi. Ma come ci sarei riuscita? Da sola contro tutti? Quanta gente avrei dovuto immobilizzare, addormentare, schiantare? E quanto tempo avrebbero impiegato a ritrovarmi, una volta fuggita? A quel punto sarebbe stato palese che era una strega. La massa mi avrebbe trucidata, come aveva fatto a Corinto con i figli di Medea o nel migliore dei casi, mi avrebbero costretta a bere la cicuta. Se solo fosse esistito davvero un incantesimo in grado di farmi scomparire in un luogo e ricomparire in un altro, proprio così come un tempo aveva sognato Menandro. O se non avessi dovuto seguire così presto Aglaia sul monte e avessi potuto finire il mio apprendistato con Sofia nella trasformazione in un animale! Adesso sarei potuta fuggire inosservata sotto forma di lontra.  Ma anche in quel caso, fuggire per andare dove? Una casa io non l’avevo più. Sofia era morta, di Menandro non sapevo più nulla e tutte le altre erano disperse chissà dove, per sempre prive dei loro poteri.
 
Fu allora che riposi la bacchetta magica nel fondo della cassapanca e da lì non la tirai più fuori. Piano piano si accumularono sopra vesti, pepli pregiati e mantelli e del mio legno di vite e cuore di drago quasi mi dimenticai.
 

Ciao a tutti! Intanto grazie davvero a chi continua a seguire questa storia. Lascio qui sotto qualche nota rispetto a termini o personaggi che possono apparire poco chiari.
Alla prossima settimana! :-)
 
Etèra: presso gli antichi greci, cortigiana, donna per lo più forestiera, libera o schiava, di cultura in generale assai superiore a quella delle donne di condizione sociale media, elegante nel vestirsi e nell’ornarsi, raffinata nei modi. (Treccani.it)
 
Pericle: Uomo politico ateniese (495- 429 a.C.). Morì a causa della pestilenza scoppiata ad Atene intorno al 430 e alla quale si riferiscono le compagne di Ermione.
 
Aspasia di Mileto : Fu la concubina di Pericle, da questi sposata dopo una lunga convivenza.  Non tutti gli studiosi concordano nel ricondurla alla figure sociale dell’etera. Ebbe da Pericle un figlio, Pericle il giovane, che fu eccezionalmente iscritto alle liste dei cittadini in quanto lo stratega, avendo già visto la morte dei due figli legittimi Paralo e Santippo, a causa della peste, implorò il popolo di concedere la cittadinanza al figlio illegittimo.
 
 

 
  

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Capitolo 5
*** Il fiore di Tempe ***


La nuova vita non era poi male. Tasia in fin dei conti mi trattava bene e le mie compagne erano piacevoli.  Si trattava di ragazze colte, intelligenti, di buon cuore per lo più, e le amicizie erano da noi più frequenti delle rivalità. Io diventavo sempre più apprezzata come etera, in tutta Atene si parlava del mio canto soave e della leggerezza della mia lira. I miei amanti mi trattavano con rispetto e, per qualche compagnia spiacevole, ce ne erano altrettante gradevoli e interessanti.
 
Furono molti gli uomini che conobbi in quel tempo. Venivano da me filosofi, politici, soldati.  Alcuni giovani, altri più vecchi. Per un periodo frequentai un medico di nome Erissimaco che restò molto colpito dalla mia conoscenza delle erbe e dei farmaci. Ma ce ne fu uno soltanto per cui ebbi sempre una preferenza e che non smise mai di cercarmi, fin dai miei primi giorni ad Atene. Si chiamava Ferecide e fu il primo uomo a cui fui destinata nella casa di Tasia. Più di una volta pensai a quanto potesse essere stata ironica la vita nel far sì che il mio primo amante fosse proprio un artista di Dioniso, un attore. Quando le mie compagne avevano saputo che ero stata promessa a lui per la mia prima notte da etera erano scoppiate a ridere scambiandosi occhiate divertite. “Perché?” Avevo chiesto intimorita “ E’ vecchio? Brutto? Ha strane abitudini?”
“No no” Mi aveva risposto Bacchide ridendo “E’ giovane e anche carino. Ma ho paura che non lo troverai troppo interessato a te.”
E così venni a sapere che Ferecide era molto chiacchierato in città perché, nonostante fosse ormai un uomo, non aveva mai voluto lasciare Diodoro che era stato il suo amante e si diceva continuasse ad esserlo.
“ Ti giuro” Aveva proseguito Arinna “Nessuno lo ha mai visto con una flautista né tantomeno ha mai corteggiato un ragazzo più giovane. Per lui esiste solo Diodoro di cui ancora oggi è l’amato, come avesse quindici anni!”
“O come fosse una donna!” Scoppiò a ridere qualcun'altra.
Quando, tempo dopo, diventammo intimi, fu lo stesso Ferecide a parlarmi del suo amore per Diodoro. Era appena un ragazzo quando lo aveva conosciuto, da poco aveva smesso di fare le parti dei bambini e aveva cominciato con le comparse. Diodoro invece aveva quasi trent’anni ed era già secondo attore. Si era fatto notare da tutta la città  per la sua interpretazione di Cassandra nella tragedia di Eschilo e anche per certi momenti di Clitemnestra  nello stesso spettacolo. Ferecide lo aveva adorato sulla scena, infinitamente, e anche adesso che la condividevano – Diodoro come primo attore e Ferecide come secondo –   più volte si era scoperto ad osservarlo incantato mentre recitava la lunga tirata di Eracle nelle “Trachinie” o nei momenti più intensi della follia di Fedra nell’ultimo lavoro di Euripide, sempre cinque passi dietro di lui – questa era la distanza fra il primo e il secondo attore - sempre con la stessa abnegazione di quando era adolescente. Tutto quello che sapeva, Ferecide l’aveva imparato da lui. Al suo fianco era diventato terzo attore e poi secondo. Il loro amore era stato intenso, ardente. Diodoro lo aveva amato teneramente e anche quando a Ferecide era spuntata la prima barba non aveva smesso di adorarlo come fosse stato un giovane dio. E così non si erano mai lasciati, anche se gli anni erano trascorsi e Ferecide si era fatto uomo. Ora aveva venticinque anni e il tempo in cui essere amati era già passato da un pezzo. Era il momento di amare, adesso, in maniera virile, ragazzi più giovani oppure le donne. Altrimenti si era additati da tutti come cinedi, effeminati. Lo stesso Diodoro aveva cominciato a dirgli di farsi vedere in giro con una flautista oppure con un ragazzo. Ne sarebbe andata della sua carriera altrimenti, i coreghi volevano attori che fossero popolari in città, uomini retti che portassero voti al proprio spettacolo negli agoni drammatici. Ma Ferecide non poteva pensare di vedersi con un ragazzo, gli sarebbe sembrato di tradire il suo amore e non riusciva a capacitarsi di come Diodoro potesse chiederglielo. Sotto sotto pensava che il suo amico non parlasse soltanto per il suo bene ma anche per preservare la propria di reputazione. Non era certo Diodoro ad essere bersaglio delle chiacchiere, non era lui il cinedo della coppia, ma Ferecide sapeva quanto tenesse alla propria fama e in fin dei conti nemmeno avere un amato troppo cresciuto poteva essere considerata un’azione onorevole.  Cominciò a dirsi che, se per Diodoro fosse stato davvero importante, con una donna, forse, avrebbe potuto provare. Ne aveva avuta qualcuna in passato ma non aveva mai sentito il desiderio di cercarle ancora. Cio’ che aveva lo appagava, Eros abitava in lui e tanto gli bastava. Perché guardare altrove? Tanto più che la conversazione mondana delle etere lo imbarazzava. Gli parevano nella vita come attori sulla scena, parlavano con voci sicure e gesti ampi, erano sempre informate su tutti gli argomenti e non mancavano mai di avere la parola giusta al momento giusto. Così lui, dopo un po’, non sapeva cosa dire e si sentiva a disagio.
Una sera era andato ad una cena con Diodoro. C’erano Tasia e altre ragazze, tra acrobate, flautiste e citariste. Tasia si era informata su cosa stessero preparando Diodoro e Ferecide in occasione delle grandi Dionisie e Diodoro rispose che stavano lavorando alla prima delle tre tragedie con cui avrebbe concorso Agatone, intitolata “Ermione”, sulla figlia di Elena di Sparta.
Tasia era scoppiata a ridere e aveva detto “Ma questo è un segno! Pensate che proprio ieri mi è arrivata una ragazza tessala di nome Ermione.”
Diodoro aveva sorriso “E’ un segno davvero!” Aveva detto “Dovresti presentarla a Ferecide, gli sarebbe certamente di buon auspicio.”
E così, forse anche un po’ per stizza, Ferecide aveva accettato di incontrarmi.
Quando finalmente lo conobbi, tutto mi parve meno che effeminato. Aveva sguardo intenso e la barba scura. Era gentile e ogni tanto gli si imporporavano le guance nel parlare. Entrambi ci sentivamo stretti nei nostri ruoli e forse proprio per questo si creò tra noi un’intimità tutta particolare. Io non avevo ancora il piglio brillante di molte mie compagne, una dote che forse non avrei mai acquisito del tutto, ma Ferecide parve sinceramente interessato ad ogni cosa che dissi. Non mi chiese di suonare per lui ma mi domandò cosa amassi in ciò che cantavo e s’appassionò alle mie risposte. Anch’io gli chiesi della sua vita e del teatro che non avevo mai visto. Rise dicendomi che la vera dote per un attore consisteva, in realtà, nell’imparare a cambiarsi molto velocemente, visto che ognuno di loro, nello stesso spettacolo, interpretava più ruoli e non si trattava mai dello stesso personaggio. Lo trovai buffo. Chi faceva il primo attore, mi spiegò, non interpretava il ruolo principale dell’opera ma il personaggio più importante di volta in volta per ogni scena. Lui, per esempio, che era secondo attore, aveva in ogni dialogo il personaggio che per importanza veniva dopo il primo. E così poteva capitare che facesse Antigone in un episodio e Creonte in quello subito dopo – Tanto ci sono le maschere e i costumi e non ha così importanza chi c’è sotto –
- Ma la voce, il modo di muoversi, non sarà diverso? –
Parve riflettere – Lo è. – Sorrise dolcemente – Eppure non ti capita mai – mi chiese parlando forse più a se stesso che a me - di sentirti fatta in un modo e poi totalmente diversa già poco dopo, quasi fossi davvero interpretata da tante persone differenti?     –
Mi osservai da fuori, con la coppa di vino in mano e le vesti eleganti, per la prima volta in quel ruolo che non mi si addiceva e che mi faceva sentire, in fondo, così intimorita. Incrociai i suoi occhi grigi e dal modo in cui mi guardò mi parve indovinasse ognuno di quei pensieri che mi stavano attraversando. Con qualche esitazione, mi toccò la mano e io di colpo mi sentii compresa. Una volta da soli, usò con me solo gentilezza e premura. Gli fui grata per questo così come, mi confessò tempo dopo, lui fu riconoscente a me per la stessa ragione.  Restò colpito, mi disse, da come non cercassi di nascondere il mio impaccio. Trovava belli quei silenzi che spesso avevo e che invece Tasia tante volte mi rimproverava. “Da persona riflessiva” li definiva lui. Li notava anche quando suonavo ai banchetti. Ero diversa da qualsiasi altra citarista avesse mai conosciuto perché sembrava non importarmi nulla dei commensali, parevo essere sola con la mia cetra e i versi avevano l’aria di uscirmi direttamente dal cuore, in una dimensione tutta mia, che non aveva nulla di dimostrativo.
Ormai non cantavo più poemi di eroi, ad Atene avevo imparato nuovi metri e nuove parole ma di cui altrettanto potevo dirmi innamorata. Mi piaceva recitarli per Ferecide perché nei suoi occhi vedevo spesso un brillio di turbamento per gli stessi versi che muovevano anche me.
“C'è chi dice che sulla nera terra*
la più bella cosa sia una schiera di cavalieri
chi dice fanti, chi dice navi, io invece dico
che è quello che si ama…” 
Una volta gli cantai un’ode di quella Saffo di Mitilene di cui per prima mi aveva parlato Attoride. Gli vidi inumidirsi gli occhi di fronte alla descrizione della malattia d’amore provocata dalla gelosia.
“Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,**
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.”
 – Com’è vero… - Lo sentii mormorare assorto. E mi chiesi se fosse stato Diodoro ad avergli fatto provare qualcosa del genere, se forse lo avesse visto sorridere a qualche altro ragazzo ad un banchetto così come un tempo doveva aver sorriso a lui. Allora presi a stringerlo e a baciarlo con tutta me stessa perché, almeno con me, si sentisse l’unico uomo sulla terra.
Passavamo insieme molte notti appassionate. Ferecide mi faceva spesso domande sulla mia vita passata. Intuiva che esisteva qualcosa di misterioso nel mio trascorso e sembrava esserne affascinato, ma soprattutto era come se avvertisse che c’era un peso da qualche parte sulla mia anima. Io gli rispondevo che ero cresciuta libera sui monti e che da noi si tramandava la scienza delle erbe rare ma chi fossi davvero non glielo rivelai mai. Lui invece mi aprì sempre di più il suo cuore e mi raccontò, nel tempo, molto di sé. Quando arrivò a parlarmi di Diodoro davvero potei vedere Eros nel suo sguardo e sentirlo nella sua voce spezzata. Mi colpì il coraggio con cui continuava ad amarlo, offrendo se stesso ai commenti della gente, e mi domandavo, in fondo, perché non si potesse seguire liberamente ciò si che sentiva. Quando era venuto per me il momento di lasciare Sofia non mi ero chiesta se lo desiderassi o meno. Era così che andavano le cose, da sempre. Arrivava un tempo in cui era bene che quell’amore finisse. Non avevo opposto resistenza né tantomeno lo aveva fatto lei. Eppure l’avevo sentita piangere, la notte prima di andarmene, quando credeva che stessi già dormendo. Mi chiedevo, ora, come avrei agito se avessi avuto la possibilità di scegliere. E cosa mi era accaduto quando poi avevo incontrato Menandro. Avevo forse, in così poco tempo, già dimenticato Sofia? Com’era possibile, se ancora adesso la sentivo ogni giorno abitare il mio cuore?  E per Menandro, cosa provavo davvero?  Potevo dire realmente di tenere ancora a lui o non l’avevo invece già dato per morto e messo da parte ogni speranza di rivederlo? Nessuno degli uomini che mi trovavo a frequentare aveva nulla a che spartire con ciò che avevo vissuto con lui, non c’era niente di paragonabile, di questo ero certa.  Eppure, certe volte, Ferecide mi faceva dubitare.
Andai a vederlo a teatro e fu a causa sua se io piansi per Ecuba. Era un lavoro di Euripide che come poeta gli piaceva di più di Agatone “Ma ti prego, non riferirglielo o ci rimarrebbe male!” Tutti lodarono il temperamento di Diodoro nella scena madre, la voce tonante, gli ampi gesti appassionati. Eppure io so che se mi turbò il furore di Ecuba alla fine fu perché la vidi tremare e indietreggiare all’inizio, nella scena con Polissena, cinque passi dietro la figlia, pronta a sacrificarsi per lei, con accenti discreti ma tanto intensi, un dolore tenuto ma in grado di scolorire il volto e far venir meno il cuore e i ginocchi. Fu in quel momento che sentii vibrarmi l’anima e davvero venni avvinta. Se poi mi lasciai travolgere dall’esplosione virtuosa di Diodoro sul finale, quella, compresi, fu solo una conseguenza.  Diodoro fu inondato di applausi e corone d’ulivo mentre Ferecide prendeva discretamente la sua parte di gloria. Mi sentii infastidita. Apprezzavo Diodoro, che pure conoscevo e trovavo un uomo intelligente e sensibile. Alle volte però mi scoprivo a provare una terribile avversione per lui. Mi pareva che oscurasse Ferecide, una vita cinque passi dietro di lui, e sebbene lo vedessi pieno d’amore quand’erano insieme, ogni tanto avevo l’impressione che si sentisse un po’ troppo sicuro di ciò che aveva. E allora mi veniva voglia di ostentare la mia complicità con Ferecide, quando eravamo in pubblico, ai banchetti, per mostrare a Diodoro che non aveva da starsene così tranquillo a spingere il suo amato tra le braccia di altri perché c’era il rischio che, prima o dopo, qualcuno avrebbe potuto apprezzarlo più di lui. Ma quando poi vedevo la tenerezza e il trasporto che avevano insieme, quell’ amore mi commuoveva e lo sostenevo con tutta me stessa. E allora mi dicevo che l’unica ragione della mia avversione per Diodoro era che sapevo bene che il cuore di Ferecide gli apparteneva e che quindi mai sarebbe stato mio.
 
 Se questi pensieri mi confondevano la situazione non migliorò quando conobbi Melisso. Lo incontrai ad una cena. Era un ragazzo che dimostrava circa la mia età, ancora non portava la barba. Veniva da Chio e faceva l’aedo. Era stato chiamato ad Atene per perfezionare le trascrizioni dell’Iliade e dell’Odissea che erano state redatte ai tempi del tiranno Pisistrato.  L’Arconte aveva convocato, per l’occasione, i migliori cantori dell’Ellade e Melisso, tra tutti, era il più giovane. Al suo posto, infatti, avrebbe dovuto trovarsi suo padre, le cui esecuzioni erano ancora sulla bocca degli ateniesi dal tempo in cui aveva vinto le gare dei rapsodi alle Feste Panatenee. Ma il vecchio aedo era morto prima di potersi mettere in viaggio e così ad Atene c’era venuto Melisso che da lui aveva imparato l’arte. Al banchetto in cui lo incontrai se ne stava in piedi con l’aria un po’ schiva di chi non si trova nel proprio ambiente. Aveva riccioli neri e grandi occhi color del mare, gli sguardi degli uomini erano tutti per lui e quando arrivò il momento in cui gli chiesero di cantare allora davvero non ce ne fu per nessuno. Tanto che Bacchide non mancò di farglielo notare – Se continui così per noi ragazze non ci sarà più nulla da fare stasera – Gli disse scherzando quando fece una pausa – Ci sono sorrisi soltanto per te –
Lui si schermì un po’ imbarazzato. Bacchide guardò verso di me.
 – Sai che anche Ermione sa cantare i poemi? –Continuò allegramente – Nel posto da dove viene insegnano queste cose pure alle donne, non è buffo? Non ha mai voluto farci ascoltare nulla ma da come declama le odi, scommetto che è brava. -
Melisso mi lanciò uno sguardo incuriosito prima di riprendere la lira e ricominciare a cantare. Io ero senza parole. Lo ascoltavo, stregata, e mi pareva che tutto ciò che ci sforzavamo di trovare io e Menandro fosse in lui completamente realizzato. Improvvisava con maestria, era ardito nelle sue scelte. Aveva al contempo forza e leggerezza e la sua voce davvero poteva dirsi di miele. La narrazione era travolgente, intensa. Mi fece piangere con l’addio di Ettore ad Andromaca e subito dopo ridere a crepapelle con le disavventure di Margite.
Quando ebbe finito non potei mancare di dirgli quanto mi fosse piaciuto. Gli invitati stavano andando via e noi c’eravamo ritrovati di fuori per prendere una boccata d’aria. Gli parlai animata della potenza della sua composizione, dell’agilità che aveva avuto sul ritmo. Mi soffermai a lodare dettagli che mi avevano entusiasmata. Melisso accettava con una punta di pudore i miei complimenti eppure mi ascoltava colpito – Ma allora è vero quello che dice la tua amica. Da come parli sembri conoscere bene gli strumenti degli aedi  –
Annuii – Ma è da tempo che non lo faccio più. – dissi poi.
Mi guardava come avesse di fronte una bestia rara. Gli lanciai un’occhiataccia che lo fece arrossire – Perdonami se ti fisso così – si scusò in fretta – Non ho mai sentito di una donna che canta come un aedo, mi sembra talmente strano… – quasi gli venne da ridere.
- Da noi in Tessaglia si cantano anche poemi di eroine – Gli spiegai – E quelli si tramandano alle donne –
Spalancò gli occhi - Sei tessala? – mi chiese, curioso.
Feci segno di sì.
-Ma è vero quello che si racconta?– mi domandò piano –  che da voi ci sono maghe che mangiano i bambini e rendono gli uomini impotenti?  –
Scoppiai a ridere -  Così si dice – risposi divertita – Io però non ho mai saputo di nessun bambino che sia stato mangiato. Sugli uomini non so. Magari non lo raccontano per pudore! –
Melisso rise –  Ma io ho sentito pure che possono distillare pozioni in grado di fare qualsiasi cosa, anche trasformare le persone in bestie o fermare il corso dei fiumi – sembrava affascinato – o certe volte combattere la morte. Tu sai se è vero?  -
- L’ho sentito anch’io. –Ammisi – Ma non so dirti se è vero. Purtroppo non ho mai avuto la fortuna di incontrarne una –
-Oh – Parve deluso.
- Però – Gli dissi – Nei nostri canti è proprio come dici. –
-I tuoi canti parlano di maghe? –
- Tutti –
- Vorrei tanto sapere di loro! Chi, per esempio? –
- Medea…- 
Parve animarsi – Davvero? E’ una delle mie preferite. Di lei si narra nelle avventure di Argo. E’ una figura che adoro cantare, mi da’ un gran senso di libertà. Eppure è una donna terribile, se pensi che ha ucciso i suoi figli –
- Ecco, da noi si racconta di lei in tutt’altro modo, come di una maga sapiente e saggia ma anche appassionata –
Mi guardò interessato.
- Non fu lei ad uccidere i suoi figli, furono i corinzi a linciarli davanti ai suoi occhi –
- Come vorrei ascoltarlo… -
- E poi Circe… -
- Circe? – Spalancò tanto d’occhi – Compare anche nell’Odissea, sai? Ma viene nominata appena… -
- Lo so –Sorrisi – Invece da noi si tramanda un intero poema su di lei e c’è anche un episodio in cui incontra Odisseo –
Melisso si illuminò in viso – Non posso crederci. Ho sempre desiderato sapere come fosse andata tra loro. Da noi si canta solo del fatto che trasforma i compagni di Odisseo in porci e che poi lui li libera con l’aiuto di Ermes, ma come tutto questo accada e come avvenga il loro incontro non lo descrive mai nessuno. – Mi guardò –Ti prego raccontami –  Chiese timidamente
Esitai. Un poco mi vergognavo a cantare davanti a lui che mi era parso tanto bravo. Ma di fronte ai suoi occhi pieni d’aspettativa presi la mia cetra e cominciai
‘ All’isola Eeta abitava; qui stava ***
Circe riccioli belli, terribile dea dalla parola umana
Sorella germana d’Eeta dal cuore crudele;
entrambi son nati dal sole che illumina gli uomini’
Raccontai di come un giorno arrivò alla sua isola una nave nera e di come più di cento marinai bussarono alla sua porta, sporchi, pieni d’alghe e affamati e lei spaventata li trasformò in porci, lupi ed altri animali. E di come il loro re, Odisseo, andò da lei a reclamarli e la chiamò a gran voce bussando alla porta:
‘ Si fermò sulla porta della dea belle trecce,
e là fermo gridò: la dea sentì la sua voce.
Subito uscita fuori, aprì le porte splendenti,
e lo invitava: lui la seguì sconvolto nel cuore.
Lo condusse a sedere su un trono a borchie d’argento,
bello, ornato: e sotto c’era il panchetto pei piedi.
Fece il miscuglio per lui, in tazza d’oro perché bevesse,
e un filtro v’infuse, rimedi meditando nel cuore.
Ma come glielo ebbe dato e lo bevve – ma non potè fargli incantesimo,
perché Ermes dalla verga d’oro un’erba gli aveva dato
e consigli contro i veleni, prima d’entrare in casa di Circe –
con la bacchetta colpendolo, parlava parola diceva:
“Va ora al porcile, stenditi con gli altri compagni”
Così diceva e lui la spada acuta dalla coscia sguainando,
si scagliò contro Circe, come deciso ad ucciderla.
Lei gettò un urlo acuto, gli corse ai piedi e gli afferrò le ginocchia
 E singhiozzando parole fugaci diceva:
“Chi sei e da dove tra gli uomini? Dove hai la città e i genitori?
Stupore mi prende, perché, bevuto il veleno non hai subito incantesimo.
Nessuno, nessun altro uomo poté sopportare il veleno,
chiunque lo bevve, appena passata la siepe dei denti.
Ma forse nel petto hai mente refrattaria agli incanti;
oppure tu sei Odisseo l’accorto, che doveva venire,
come mi prediceva sempre Ermes dall’aurea verga,
tornando da Troia con l’agile nave nera.
Ma via, ora nel fodero riponi la spada e noi ora
sul mio letto saliamo affinché uniti in amore
nel letto confidare possiamo l’uno nell’altra”
Così parlava, ma lui ricambiandola disse
“Oh Circe, come m’inviti a esserti amico,
tu che porci m’hai fatto nel tuo palazzo i compagni,
e me ora qui avendo con inganno m’adeschi
a entrare nel talamo, a salire il tuo letto,
per farmi poi così nudo, vile e impotente?
Non vorrò certo salire il tuo letto,
se non hai cuore o dea, di giurarmi il gran giuramento,
che nessun sortilegio trami ancora a mio danno”.
Così le diceva e lei allora giurò come chiese,
e quando ebbe giurato e la formula intera ebbe detto,
solo allora di Circe salì il letto bellissimo.’
 
Esitai un momento. Vidi uscire gli ultimi invitati che si erano attardati. Ci passarono accanto distrattamente. Melisso aspettava, rapito. Ripresi a pizzicare la lira ma un poco più piano perché ormai la notte si era fatta fonda.
 
‘Le ancelle, intanto, in sala si affaccendavano
e avanti a Odisseo fu poi stesa una mesa pulita.
Pane la dispensiera fedele venne a portare,
molti cibi servendo, larga di quello che c’era;
e lo invitava a mangiare; ma non piaceva al suo cuore,
sedeva ad altro pensando, mali vedeva il cuore.
Circe, come s’accorse di lui, che sedeva e sul cibo
Non gettava le mani, ma aveva troppo dolore,
vicino gli venne e parole fugaci parlava:
“Perché così, Odisseo, siedi simile a un muto
Il cuore mangiandoti e cibo e vino non tocchi?
Forse altro inganno sospetti? Non devi
temere: già l’ho giurato il gran giuramento”
 Così parlava e lui rispondendo le disse
“Circe, chi è l’uomo, purché abbia giustizia,
il quale ardirebbe empirsi di cibo e di vino,
prima che sian liberati i compagni e li abbia visti con gli occhi?
Se con il cuore sincero a bere e a mangiare mi inviti,
scioglili, che li veda con gli occhi i fedeli compagni”
Così diceva; Circe uscì attraverso la sala,
la bacchetta in mano tenendo, le porte aprì del porcile
e fuori li spinse, simili a porci grassi di nove stagioni.
Quelli le stavan davanti e lei in mezzo a loro
andando, li ungeva uno ad uno con altro farmaco.
E dalle loro membra le setole caddero, nate
dal veleno funesto, che diede loro Circe sovrana:
uomini a un tratto furono, più giovani di com’erano prima
e anche molto più belli e più grandi a vedersi.
Lo conobbero essi, e ciascuno gli strinse la mano
E in tutti, gradita, nacque voglia di pianto: la casa
terribilmente echeggiava; la dea stessa provava pietà.
E gli andò vicino e gli parlò la dea luminosa
“Divino Laerziade, astuto Odisseo,
ora va all’agile nave e alla riva del mare.
La nave per prima cosa tirate all’asciutto,
i beni nelle caverne mettete e tutti gli attrezzi;
poi torna indietro e conduci i fedeli compagni.
Ma non cominciate ora un gran pianto: so anch’io
quanti dolori patiste sul mare pescoso,
quanto vi massacrarono a terra genti selvagge.
Ma adesso mangiatevi il cibo e bevete il vino,
finché spirito ancora riprendiate nel petto,
come in principio quando lasciaste la terra paterna
dell’aspra Itaca: ora siete sfiniti e avviliti,
sempre al crudele mare pensando; mai il vostro cuore
è in letizia perché avete molto sofferto.”
Così diceva e fu persuaso il loro animo altero.
E là tutti i giorni fino al compirsi di un anno,
sedettero a godersi carni infinite e buon vino.
Ma quando fu un anno, le stagioni tornarono,
consumandosi i mesi, i giorni si rifecero lunghi,
allora in disparte chiamandolo, dissero i fedeli compagni
“Sciagurato, alla fine ricordati della terra paterna,
se pure è destino che ci salviamo e arriviamo
alla solida casa e alla terra dei padri”
Così dicevano e fu persuaso il suo cuore altero
Tutto quel giorno fino al calare del sole
Sedettero a godersi carni infinite buon vino.
Quando il sole andò sotto e venne giù l’ombra,
i compagni dormirono nella sala buia.
Ma Odisseo, salito di Circe il letto bellissimo
le abbracciò le ginocchia; la dea ascoltò la sua voce,
e lui parlandole parole fugaci diceva:
“O Circe, compimi la promessa che hai fatta
di rimandarci a casa; l’animo mio balza ormai,
e quello degli altri compagni, che mi finiscono il cuore,
intorno a me singhiozzando, appena tu sei lontana.”
Così diceva e subito gli rispondeva la dea luminosa:
“Divino Laerziade, ingegnoso Odisseo,
non rimanete dunque per forza nella mia casa;
però altro viaggio c’è prima da fare e arrivare
alle case di Ade e della tremenda Persefone
a interrogare l’anima del tebano Tiresia,
il cieco indovino, di cui salda resta la mente:
a lui solo concesse Persefone d’aver mente saggia
da morto; gli altri invece, come ombre nere svolazzano.
Là subito verrà l’indovino, o capo di schiere,
e ti dirà il cammino e la durata del viaggio
e il ritorno, come potrai tornare sul mare pescoso.”
Così diceva: e subito venne Aurora trono d’oro.
Allora le vesti gli fece vestire, tunica e manto;
e lei, un manto candido, ampio, vestiva la ninfa,
sottile, grazioso, e cinse la cintura sui fianchi,
bella, d’oro e sul capo il suo velo.
Lui, per la casa andando, incitava i compagni
con parole di miele, stando accanto a ciascuno:
“Basta, non godetevi più il dolce sonno dormendo,
ma andiamo; ormai lo permette Circe sovrana”
E mentre all’agile nave e alla riva del mare
andavano angosciati, molto pianto versando
ecco, andò pure Circe e accanto alla nave nera
un ariete legò e una pecora nera,
facilmente sfuggendoli: chi un dio, se non vuole,
potrebbe vedere con gli occhi mentre va o mentre viene?’
 
Mi fermai. Vidi una lacrima negli occhi di Melisso – Com’è triste – disse piano –Che abbiano dovuto così, separarsi. –
MI strinsi nelle spalle – Avevano destini diversi – dissi – Lui di tornare dalla sua sposa, nella sua terra. E anche per lei il vero amore fu un altro, un mago. Ma quell’incontro la cambiò moltissimo. Da allora non trasformò più chiunque bussasse alla sua porta. Anzi, finalmente si decise a lasciare l’isola e andò incontro al suo destino. –
Melisso mi guardava in silenzio – Il tuo canto è bellissimo – Mi disse poi, commosso – Starei a sentirti fino a domani mattina. Credimi, di aedi ne ho ascoltati tanti. Da noi a Chio c’è una comunità di cantori che si tramandano il mestiere di generazione in generazione, ci chiamano i figli di Omero. Ma non ho mai sentito nessuno mettere tanto cuore come fai tu. Mi è parso davvero che una maga mi prendesse e, su un’agile nave nera, mi portasse nella casa di Circe. –
Lo guardai negli occhi, colpita da quelle parole.
- Qualcuno ha mai trascritto questi poemi? – Chiese poi.
Scossi la testa – Da noi si crede sia meglio non farlo –
- Oh, ma è davvero un peccato! – Disse animato – Bisognerebbe invece, perché non vadano persi, perché possano diffondersi! -
Sospirai – E’ quel che credo anch’io -
-Oh ti prego! –Disse poi, illuminandosi –Perché non proponiamo il tuo episodio su Circe per la revisione delle trascrizioni di Omero che stiamo facendo in questi giorni. Sarebbe meraviglioso se entrasse a far parte del poema su Odisseo e restasse nella memoria. Se tu me lo insegni io cercherò di scriverlo proprio come lo canti tu -
Esitai qualche istante e sorrisi. Era vero che avevo giurato di non mettere i canti per iscritto, pensai, ma la mia promessa valeva per me, non certo per Melisso! E poi, ormai, che importanza avrebbe avuto. Aglaia aveva perso il senno, io sarei morta ad Atene e con me anche tutta quella tradizione.  Meglio allora che qualcuno ne lasciasse impressa da qualche parte almeno una traccia.
-Te lo insegnerò – Dissi decisa.
- Sono sicuro che verrà inserito! –Disse Melisso entusiasta – E se non sarà così prenderò io a cantarlo quando mi troverò a raccontare gli episodi del ritorno di Odisseo. Ci pensi, quanta ricchezza in più nel far conoscere com’era questa maga? Starei qui ad ascoltare ancora tutte le sue avventure. Ma ti prego cantami invece della tua Medea   –
- Adesso? – Chiesi stupita
Mi guardai attorno e vidi la strada deserta. Accanto alla porta, per terra erano rimaste delle coppe vuote, dimenticate lì da qualche invitato.
Melisso mi guardava rapito – Solo pochi versi… -
Non si sentiva più alcun rumore per la via.  – Va bene ma farò molto piano – Acconsentii – Se non vuoi che ci tirino dell’acqua sporca dalle case intorno! –
Ridemmo.
Presi la lira e cominciai a sussurrare. “Nelle alte stanze stavano le ancelle e le due figlie di Eeeta****
Calciope e Medea.
Era l’aveva tenuta a casa; prima non era solita
restare a palazzo, anzi per tutto il giorno si prendeva cura
del tempio di Ecate: ne era la sacerdotessa”
Melisso si fece più vicino per potermi ascoltare. 
“Intanto giunse Eros per l’aria chiara, invisibile.
e scagliò il dardo contro Medea: un muto stupore le prese l’anima.
 la freccia ardeva profonda nel cuore della fanciulla
come una fiamma; e lei sempre gettava il lampo dagli occhi
in fronte al figlio di Esone, e il cuore, pur saggio,
le usciva per l’affanno dal petto; non ricordava nient’altro
e consumava il suo animo nel dolore dolcissimo.
Ardeva in segreto; e, smarrita la mente,
le morbide guance diventavano pallide e rosse.”
 
Feci una piccola pausa. Mi persi negli occhi di Melisso, dal colore del mare, che parevano guardarmi, lontani, dal regno d’Eeta. Mi sentii ardere anch’io. Per quella notte smisi di cantare perché  Melisso mi si avvicinò e prese a baciarmi, appassionato.
 
Giorni più tardi mi annunciò che il canto su Circe era stato trascritto -Ho cercato di renderlo proprio come avresti fatto tu! - Mi disse entusiasta – Ho cambiato solo qualche piccola cosa perché nel poema di Omero è Odisseo a raccontare ma per il resto giuro che ti sono stato fedele.–
Nel tempo che trascorremmo insieme gli insegnai ancora molti canti, adorava scoprire l’altro punto di vista dei racconti che era abituato a narrare e si infiammava alla possibilità di riuscire a metterli insieme. Quanto sarebbe stato più profondo l’eroe potendo mostrare uno sguardo diverso dell’eroina, come tutto sarebbe parso più ricco, più complesso. – Per favore – Mi chiedeva spesso con quel suo sorriso malinconico – Solo qualche verso… - Poi prendeva a scherzare – Narrami o musa… - Diceva - Sicura di non essere davvero una musa?  Perché a vederti potrebbe sembrare… - mormorava carezzando il mio corpo nudo, sul letto – E ad ascoltarti se ne ha la certezza. Ecco, ora devo stare attento a non fare brutte figure o potresti togliermi il dono .–
- Stai molto attento – Gli dicevo io ridendo.
Allora prendeva a baciarmi dappertutto, rapito.
Prima di tornare a Chio volle regalarmi un plettro d’avorio che si tramandava nella sua famiglia da generazioni. All’inizio non mi sentii di accettare – Ti prego – insistette e poi sorrise –  Così quando suonerai la lira ti capiterà, alle volte, di ripensare a me. –
 
 

Ciao a tutti! Eccomi di nuovo qui con l’aggiornamento :-)
Vi lascio qualche nota per chi volesse sapere qualche informazione in più sulle cose di cui si parla in questa storia o per chi avesse curiosità di andare a ritrovare le odi e i canti che piacciono tanto alla nostra Ermione e ai suoi amici”!
 
*      Saffo, frammento 16 Voigt, traduzione di Salvatore Quasimodo
**    Saffo, Frammento 31 Voigt, traduzione di Salvatore Quasimodo
*** Si riferisce al libro decimo dell'Odissea, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti
****I versi su Medea sono tratti, con tagli brutali e assassini, da Le Argonautiche di Apollonio Rodio.

 
Due parole su rapporti come quelli di Ferècide e Diodoro  o di Ermione con Sofia:
Anzi, mi scuso per non aver scritto una nota prima, mi sono resa conto che alcuni punti della storia di Ermione sono forse risultati poco chiari.
Si tratta di relazioni piuttosto particolari, tipiche della cultura greca e non sempre immediate per il nostro modo di intendere la coppia oggi. Tra i greci erano considerate normali e incoraggiate relazioni omosessuali tra persone di età diverse, in alcune fasi della vita: un ragazzo (o una ragazza come nel caso di Ermione) e un uomo o una donna più adulti. Il più grande aveva il compito di condurre il più giovane verso l'età adulta e così anche nelle cose d'amore. Si dava molta importanza a questo tipo di rapporti che erano sentimentali a tutti gli effetti ma era necessario che avessero anche una forte componente spirituale perché potessero formare bene il giovane cittadino. In ambito maschile - di cui a differenza di quello femminile abbiamo moltissime testimonianze - i ruoli erano estremamente codificati e c'erano proprio dei termini precisi per definire i componenti della coppia. L'adulto era detto 'amante' e aveva ruolo attivo mentre il ragazzo era chiamato 'amato' e aveva ruolo passivo. Mantenere un ruolo passivo oltrepassata la maggiore età era considerato disonorevole, non virile. Infatti quando il ragazzo cresceva era normale che la relazione tra i due terminasse e restasse solo l'amicizia. Diventato adulto il giovane si sarebbe sposato, avrebbe avuto rapporti con l'altro sesso e quando sarebbe stato pronto, magari sarebbe stato a sua volta amante di un ragazzo più giovane. Insomma c'erano regole molto rigide. Non erano visti di buon occhio rapporti tra adulti dello stesso sesso e quelle coppie che restavano insieme anche dopo che il più giovane aveva superato l'età consona ad essere amato (come ogni tanto accadeva e come succede a Ferècide e Diodoro) non erano puniti dalla legge ma erano oggetto di scherno e di riprovazione, in particolare il più giovane che non aveva assunto il ruolo attivo, virile, come avrebbe dovuto. Per quanto riguarda le donne ci sono molte meno testimonianze. Rapporti del genere erano diffusi e accettati anche in ambito femminile ed erano probabilmente molto simili, come significato e modalità, a quelli maschili ma questo avvenne solo fino a quando la condizione della donna si mantenne un po' più libera, quindi in epoca un po' più antica rispetto, per esempio al V secolo ad Atene in cui le donne erano segregatissime. Uno degli esempi più famosi è proprio Saffo che dirigeva un tiaso in cui le giovani di Lesbo venivano educate alla danza, al canto, alla poesia e in un certo senso anche all'amore (il tìaso era dedicato proprio ad Afrodite ce era la dea dell’amore). Era frequente che lo sperimentassero tra di loro prima di essere pronte per il matrimonio. Molte delle sue odi sono addii a ragazze che vanno via da lei, e questo non perché la povera Saffo avesse una terribile sfortuna in amore, ma perché a un certo punto le fanciulle del tiaso, com'era normale che fosse, lo lasciavano per andarsi a sposare. Anzi, speso le odi venivano scritte proprio in occasioni particolari, come l'abbandono del tiaso da parte di una fanciulla. Era un momento che aveva a che fare anche con molte altre cose, come il distacco dall'infanzia, l'ingresso nell'età adulta, il diventare donna.
Spero di essere riuscita a dare almeno un’idea, è un argomento un po’ complesso e so che questa spiegazione sarà certamente un po’ riduttiva ed imprecisa. Ma per chi volesse saperne di più, ci sono tantissimi esempi nella letteratura greca (Platone per esempio parla ampiamente di questo tipo d’amore, così come la maggior parte dei poeti lirici ) e a me è capitato di leggere un bel saggio sull’argomento che si intitola “Secondo natura” di Eva Cantarella.
 
Grazie!! Al prossimo aggiornamento
 

 

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Capitolo 6
*** Urania ***


Erano passati pochi mesi dalla partenza di Melisso, quando una mattina venne Mirrina a chiamarmi in camera, smangiucchiando un biscotto.
- C’è una ragazza che chiede di te, di sotto. –
 Io mi stropicciai gli occhi. Nonostante fosse quasi mezzogiorno, m’ero alzata da poco ed ero ancora assonnata.
- Non ti ha detto il suo nome? –
- Filò, mi sembra. O qualcosa del genere. Da come è vestita sembra una ragazza libera. Una per bene -  Mi porse metà del biscotto che aveva in mano.
- Se è venuta da sola non sarà tanto per bene! – Risi
-Non è proprio da sola. – Rifletté – C’è una bambina con lei –
Ci guardammo perplesse. Non conoscevo nessuno con quel nome e, soprattutto, era molto strano che una donna libera si esponesse a parlare con ragazze come noi. – Tira fuori lo scudo – Scherzò Mirrina – Magari è una moglie gelosa - Scesi di sotto, incerta. Seduta sulla via mi aspettava una ragazza.  Non l’avevo mai vista prima e, dagli abiti che portava, sembrava davvero una donna per bene. Avrà avuto la mia età o poco meno. Mi parve bellissima. Il sole batteva sui suoi riccioli fulvi illuminandoli di rosso acceso. Poco più in là, una bambina di sei o sette anni giocava a impastare casette col terriccio della strada. La ragazza le gettava un’occhiata di tanto in tanto mentre se ne stava ad attendermi seduta sul gradino davanti alla porta. Appena mi vide si alzò a salutarmi – Sei tu Ermione di Tempe? – mi chiese allegramente – Io mi chiamo Filò. – Si presentò abbracciandomi – Sono la figlia di Brontino, il vasaio. O almeno lo ero, prima che mio padre mi ripudiasse – Aggiunse ridendo - Felice di conoscerti –
Le sorrisi.
- Sono qui per conto del mio maestro, Pantoo di Samo. Ne hai mai sentito parlare? –
Scossi la testa – A dire il vero no. – Ammisi
-Già – Rifletté Filò – In effetti non frequenta molto le cene mondane. Intendiamoci, qualche volta sì, ma forse non vi sarete mai incrociati. –
- Credo di no. –
- E’ un matematico – continuò – Viene da Samo ma vive ad Atene da diversi anni. Prima però ha viaggiato moltissimo, ha studiato dai geometri egiziani, è stato anche in Persia. L’altro giorno ha sentito dire che c’era in città una ragazza di Tempe ed è rimasto turbato. Non so dirti il perché, non me ne ha fatto parola. Ma dopo un po’ mi ha chiesto se potevo fargli un favore. Vorrebbe parlarti.  Sarebbe venuto lui stesso a domandartelo ma temeva che potessi fraintendere le sue intenzioni. Non voleva che pensassi che ti cercasse per un incontro d’altro genere, cosa che, non mette in dubbio, non potrebbe che essere un onore. Ma mi prega di dirti che sono altre le ragioni per cui chiede di parlarti. –
Non riuscivo ad immaginare cosa potesse volere da me quel matematico samio. Acconsentii a seguirla. –Urania! – Gridò Filò alla bambina che ancora giocava con la terra – E’ ora di andare –
Rimasi immobile per un attimo fissando la bambina. Aveva capelli scuri e due occhi grandi – E’ tua figlia? –
Filò scoppiò a ridere – Oh no no. – rispose – E’ la figlia di Pantoo. Sai Urania è la musa della geometria e dell’astronomia, così la porto sempre con me sperando che mi ispiri! – scherzò – In realtà – Mi spiegò poi mentre camminavamo – Quando sono fuggita per studiare da Pantoo lui mi ha accolto in casa sua. Non voleva che facessi nulla per sdebitarmi ma io ho insistito e gli ho chiesto di potermi prendere cura di Urania fintanto che vivevo da lui. Urania mi si è talmente affezionata che lui alla fine ha acconsentito. E poi sai, non ha la mamma, poverina. –
Le chiesi perché fosse fuggita di casa. Mi raccontò che quando suo padre aveva scoperto che andava a lezione da Pantoo l’aveva picchiata e le aveva bruciato le tavolette di cera e i libri. Lei però aveva continuato ad andarci di nascosto allora lui l’aveva frustata e chiusa in camera a chiave per giorni e giorni. Non poteva vedere nessuno, nemmeno sua madre e sua sorella. Ma una notte Filò era riuscita a fuggire, calandosi dall’alto. Allora suo padre l’aveva ripudiata. Questo voleva dire che non era più sua figlia e che chiunque avrebbe potuto fare di lei ciò che voleva. Contava quanto una straniera che non era di nessuno e se mai avesse avuto dei bambini, da grandi non avrebbero potuto avere la cittadinanza. Se Pantoo non l’avesse aiutata non avrebbe potuto fare altro che prostiuirsi.
- E’ una cosa terribile – mormorai
- Oh no, non tanto – disse Filò – Mio padre avrebbe anche potuto farmi uccidere, sai? Invece ha deciso diversamente. Probabilmente mi ama molto se ha agito così. - Aggiunse con una nota amara –Io l’ho disonorato davanti a tutti. Sono fuggita, ho scelto di occuparmi di cose virili. Senza contare che ora vivo in casa di un uomo che non è mio marito come fossi una concubina, non c’è differenza agli occhi della gente, anche se Pantoo mi ha davvero accolto come una figlia, invece.
 – Devi amare molto quello che studi – Le dissi. Mi guardò con occhi pieni di luce – Follemente. –
In effetti, pensai, non avevo mai sentito di una matematica donna, prima d’ora. Da noi era una scienza che non si praticava e il solo immaginare una ragazza ateniese in quell’occupazione mi pareva stridente. Le donne libere quasi mai erano istruite. Le più colte che conoscevo erano le mie compagne etère ma anche su di loro l’interessarsi ad una scienza simile mi sarebbe parso fuori luogo.
- Perché Pantoo ha accettato di istruire una donna? – chiesi
Filò sorrise – Lo so, è molto strano – mi disse – Ma lui crede che noi possiamo essere intelligenti quanto gli uomini. Dice che nei suoi viaggi ha incontrato donne molto più sapienti e sagge di tanti uomini e da cui non ha avuto che da imparare. Perché poi abbia accettato di istruire me non lo so – scoppiò a ridere – Deve averlo colpito la mia insistenza più che altro. Ero talmente indietro, all’inizio, rispetto agli altri ragazzi che lo seguivano. Ho dovuto faticare moltissimo per raggiungerli. Ma cosa vuoi, non ero mai andata a scuola! In compenso tutto quello che avevo imparato fino ad allora l’avevo orecchiato, rubato, oppure compreso da sola, e questo mi ha fatto sviluppare un grande intuito. Così ora riesco ad essere più rapida di molti altri. Pantoo però ogni tanto mi rimprovera quando salto troppi passaggi, dice che sono irruenta e così arrivo a conclusioni affrettate. – Sorrise – Be’ ogni tanto è vero. – Ammise fermandosi – Eccoci qui, siamo arrivate. –
Entrammo in una casa accogliente, dal braciere si spandeva nell’aria odore di cedro. Ci accolse un uomo sui trentacinque anni o poco più. Alto, ancora bello. Ispirava calma a guardarlo. Ci sorrise, gentile – Ben arrivata – mi disse guardandomi negli occhi – Io sono Pantoo.- si presentò, poi mi pose una mano sulla spalla – Grazie per essere venuta. -  Urania sgusciò dalla stretta di Filò e gli andò in incontro correndo – Padre! – lo chiamò attaccandosi a un lembo del suo mantello. Lui si chinò alla sua altezza per darle un bacio, poi la prese in braccio, facendola ridere – Urania, hai già conosciuto Ermione, immagino – Le disse poi mentre ci invitava ad accomodarci in casa –
La bambina mi guardò titubante – Sì – disse ed esitò – Non ci siamo presentate però -
Pantoo le sorrise –  Be’ allora fallo adesso- le disse – E dai il benvenuto alla nostra nuova amica –
Urania mi si fece davanti tutta contenta – Io sono Urania, figlia di Pantoo – annunciò solennemente.
- Lieta di conoscerti, Urania – le risposi con un piccolo inchino – Io sono Ermione, figlia di Arione –  Al pronunciare il nome di mio padre per un momento mi passò per la mente che non lo avevo più rivisto da quando ero andata via, a otto anni. Lo immaginai invecchiato e mi chiesi se sarei stata in grado di riconoscerlo, incontrandolo per strada, e soprattutto se lui sarebbe riuscito mai a riconoscere me. Per un attimo mi parve di provare un poco di invidia per quella bambina.
Urania continuava a guardarmi – E’ vero che sei una citadista – mi chiese, come si trattasse di un segreto.
- Citarista – la corresse Filò – Vuol dire una persona che suona la cetra –
- E’ vero?- Insistette Urania
Sorrisi – Sì, certo, è vero. – risposi
- Lo sapevo che era vero! – esclamò – Io ho sentito dire che le ragazze che suonano la cetra e il flauto sono tutte bellissime! –
-E questo da chi l’hai sentito? –Scherzò Filò 
- Da Milone! –Rispose Urania – Ha detto che tu, Filò, eri più bella di tutte le citadiste e le flautiste che ci sono ad Atene –
Filò arrossì violentemente – Urania non si dicono le bugie! – protestò – E poi si dice ‘citariste’ con la ‘r’! –
- Ma non era una bugia! – Si difese Urania – Te lo giuro, l’ho sentito. – Poi tornò a rivolgersi a me –Ma tu sai suonare la cetra come gli aedi? –
- Perché invece di sommergere la nostra ospite di domande –Intervenne Pantoo, che aveva osservato la scena ridendo –Non la invitiamo a sedersi e a riposare. -
Mi offrirono da mangiare e da bere. Durante il pranzo parlammo amabilmente. Raccontai ad Urania che avevo imparato a suonare molti anni prima e che adesso ero specializzata in versi d’amore ma un tempo raccontavo le gesta di eroi ed eroine. Commentammo l’impresa che era stata fatta da poco sulle trascrizioni dell’Iliade e dell’Odissea. Filò disse con entusiasmo che aveva sentito parlare di alcune aggiunte, ai poemi di Omero, di episodi meno noti della storia “Pare che un aedo di Chio abbia tramandato un intero canto sulla maga Circe! “ Pantoo mi chiese poi quali fossero le mie odi preferite e mi confidò che anche lui amava Saffo moltissimo e che sapeva i suoi versi a memoria fin da quand’era ragazzo. Tra l’altro, mi disse, l’isola da cui proveniva era proprio vicina a quella della poetessa. Poi si lasciò andare ad una dissertazione appassionata sulla presenza della matematica nella musica e io mi sentii avvinta più che se stessi ascoltando un racconto sui viaggi di Argo. Sembrava lui stesso stupirsi mentre parlava, come se si ritrovasse a scoprire al momento la meraviglia inspiegabile di quel legame. Mentre discorrevamo ebbi una strana sensazione, quasi che Pantoo non vedesse in me la donna che ero diventata in quegli anni ateniesi ma che, per qualche ignota ragione, sapesse rivolgersi alla ragazza che avevo lasciato sui monti della Tessaglia. Mi sentii turbata ma allo stesso tempo anche liberata e di colpo mi scoprii estremamente a mio agio sia con lui che con Filò. Ormai si era fatto pomeriggio. Urania era uscita a giocare in cortile con i bambini dei vicini e Filò si era appartata leggermente con la scusa di mettere via le stoviglie. Pantoo mi guardò in silenzio per qualche secondo poi prese un respiro – Ti starai domandando perché desiderassi parlarti – cominciò piano – Non so se lo sai, ma in città sei nota come “il fiore di Tempe”. E’ da lì che vieni? –
- Sì – risposi guardandolo negli occhi –Conosci la valle? – chiesi.
Pantoo scosse la testa – Molti anni fa però conobbi una donna di Tempe.- Fece una pausa - Se vieni da lì presumo che tu sia una maga .-
Per la prima volta da quando ero in quella città non mentii – Sì – ammisi – sono una maga –
Il matematico abbassò lo sguardo, con l’espressione di chi ricorda qualcosa – Allora prima di tutto –mi disse - devo chiederti questo. Ti è capitato di sconoscere a Tempe una donna di nome Sofia? Ha capelli scuri e sguardo profondo, una risata genuina… -
Gli occhi mi si inumidirono.
-La conosci? –
 -Sì – Risposi –  E’ stata la mia maestra. Oltre che l’amica più cara che potessi desiderare.–
Pantoo mi fissò in silenzio, con una strana luce nel volto – E dimmi, - mi chiese animato - Cosa fa? Come sta? –
Lo guardai negli occhi senza riuscire a parlare. Presi un respiro ed esitai, la voce mi si spezzava in gola – E’ morta – dissi poi, piano.
 Lui si raggelò, parve mancare – Ne sei sicura? – Chiese
Feci segno di sì – Non avrei mai voluto darti questa notizia. –
 Rimase in silenzio con lo sguardo perso non so per quanto. Mi sembrarono ore. Poi si alzò lentamente e con passo incerto uscì di fuori, senza dire una parola.
Filò mi guardò senza capire. Poi vedendo che anch’io avevo gli occhi tristi mi abbracciò e mi preparò un infuso con il miele.
- E così sei una maga? – mi chiese stupita.
- Già –
- E pensare che avrei giurato che esistessero solo nelle vecchie storie! –
Dopo un po’ Pantoo rientrò. Il suo sguardo era tornato presente, anche se addolorato. –Perdonami – mi disse sedendosi - Ma quello che mi hai detto mi ha sconvolto nel cuore.  Vedi, Sofia significava molto per me. Non ho mai amato nessuno così. Ho pensato a lei ogni giorno da quando non ci siamo più visti. – Guardò verso il cortile dove si sentivano giocare i bambini – Urania – disse – E’ sua figlia. -
Restammo in silenzio. Filò sembrava stupita.
E così, pensai, era lui l’uomo che Sofia teneva segretamente nel cuore. E la misteriosa Urania di cui era stata tanto gelosa era proprio quella bambina con cui avevo parlato e scherzato fino a poco prima. Sorrisi nel ripensare a quella mia scenata e a tutte le lacrime che avevo pianto.
- Anche lei ti amava, Pantoo – mi sentii di dirgli – moltissimo. E pregava per Urania ogni notte davanti agli altari di Ecate. Una volta mi disse che separarsi da te era stato peggio che morire e, non so perché, ma credeva fosse tutta colpa sua. –
- No no, affatto– Intervenne Pantoo – Io non lo penso. Mi dispiace molto che lo credesse. Doveva tornare dalla sua gente, invece. Lei era fatta per la magia, ci si applicava, si appassionava, sapeva fare cose portentose. Non era una donna che avrebbe potuto vivere chiusa dietro a un telaio, sarebbe morta. –
E ci raccontò che si erano conosciuti in Asia dove si erano ritrovati ad apprendere lo studio del cielo dagli astronomi caldei, lui per la scienza e lei per la magia. Si erano amati ardentemente ed avevano vissuto insieme tre anni appassionati, continuando a girare per le terre d’Oriente. Ma a un certo punto Sofia aveva cominciato a sentirsi in dovere di tornare a casa. Sembrava molto preoccupata per via di un mago, di cui si sentiva parlare in Asia, e che lei temeva potesse minacciare la sua gente. Da tempo si tormentava ma continuava a rimandare quel ritorno perché sapeva che l’avrebbe portata a separarsi da Pantoo.
- Non potevi andare con lei? –Chiese Filò
- Purtroppo – rispose lui – un giorno mi spiegò, disperata, che a una maga non è permesso sposarsi con un uomo comune né tanto meno avere figli con lui. –
Guardai Pantoo, davanti a me, e mai come in quel momento mi parve inadatta la definizione di ‘uomo comune’.
- Se fosse restata con me non sarebbe mai più potuta tornare dalla sua gente. E io sentivo che questo per lei avrebbe significato rinunciare a se stessa. E io lo capisco, e’ come se a me fosse stato chiesto di non occuparmi più di scienza. – guardò Filò –A te è stato imposto  dalla tua famiglia. E sei fuggita. Io non avrei mai voluto che lei si sentisse così. Per questo, quando rimase incinta e pensò di essersi ormai preclusa ogni possibilità di ritorno le dissi che avrei preso io il bambino con me. Le promisi che l’avrei allevato con ogni cura e le giurai che prima o poi l’avrebbe rivisto. Nacque una bambina e la chiamammo come la musa sotto cui era nato il nostro amore. Per lei fu dolorosissimo staccarsi da Urania ma non avrebbe potuto portarla con sé. C’erano regole ancora più rigide tra la sua gente, da quando un trovatello era stato causa di eventi nefasti.   –
Mi chiese poi come fosse morta Sofia e io gli raccontai che aveva combattuto fino alla fine e aveva salvato l’Ellade dall’imporsi di un essere malvagio. Narrai nei dettagli di Adrasto e di quel che era successo a noi e alla nostra valle.
Pantoo mi ascoltò attentamente. Quando ebbi finito mi guardò pieno di tenerezza – Mi dispiace –disse toccandomi un braccio – Deve essere stata molto dura per te in questi anni –
Mi guardai indietro e sentii che era vero. Anche se tanto spesso mi ero ritenuta fortunata per la sorte che mi era toccata, quei due anni ad Atene erano stati in realtà i più duri della mia vita. Per la prima volta dopo tanto tempo scoppiai a piangere e diedi sfogo a tutte le lacrime che mi ero tenuta dentro. Pantoo e Filò lasciarono che mi liberassi dal peso che avevo sul cuore, pur standomi vicini. Quando ebbi finito mi sentii più leggera.
- C’è dell’altro che devo chiederti. – mi disse poi Pantoo, quando mi fui tranquillizzata – Si tratta di Urania. - cominciò - Vedi, lei è una bambina molto particolare. Ogni tanto fa cose… fuori dal comune… –
Capii subito di che stava parlando.
- Quando vive emozioni forti, per esempio. – Proseguì.
- Sposta oggetti senza toccarli. – Ipotizzai – O, non volendo li rompe. O sembra evocare, alle volte delle forze strane, piccoli lampi rossi, per esempio. -
Pantoo annuì colpito – Proprio così. –
Gli sorrisi – E’ normale. Molti piccoli maghi manifestano questi segni di magia involontaria. –
- Tante volte non capisce cosa le accade e si spaventa. Quanto avrei bisogno di Sofia in questo momento… – mormorò – Vedi – mi disse - io vorrei che Urania imparasse a coltivare il suo dono, a gestirlo. Ma io non sono in grado di aiutarla. E così, mi chiedevo se tu potessi fare qualcosa per lei.-
Sospirai.  – Quasi tutto quello che so me l’ha insegnato Sofia. Sarebbe un onore per me poterlo passare ad Urania e ti assicuro che mi dedicherei giorno e notte all’istruzione di tua figlia ma purtroppo io non sono libera. Appartengo a Tasia e non mi è permesso di gestire il mio tempo come credo. Non potrei, ad esempio, frequentare troppo spesso la tua casa senza che a lei ne venisse nulla. –
Pantoo mi guardò – Ti propongo un accordo.- mi disse - Ma solo se lo vorrai, non devi sentirti in alcun modo obbligata ad accettare.-
Rimasi in attesa.
-  Io cercherò di riscattare la tua libertà e tu insegnerai a mia figlia a dominare i suoi poteri. –
Rimasi di sasso – Ne sei sicuro? –
- Se riuscirò a convincere Tasia. -
 
Non seppi mai perché si offrì di riscattarmi. Avrebbe potuto pagare a Tasia il prezzo delle mie ore, come facevano in tanti, e io, da parte mia, non avrei voluto nulla in cambio, per istruire la figlia di Sofia. Col tempo mi convinsi che aveva agito così perché in fondo gli stava a cuore la libertà della gente. Non lo vidi mai possedere schiavi e tante delle sue scelte mi sembrarono volte a lasciare gli altri liberi.
Del resto mai avrei creduto che Tasia si sarebbe convinta a cedermi. Eppure qualche giorno più tardi venne a cercarmi.
- C’è un matematico samio che si offre di pagare per la tua libertà –mi disse – Ne sei al corrente? –
- A dire il vero sì- risposi
- E ti sta bene? –
Annuii –Mi sta bene. -
Tasia sospirò – Devi averlo fatto davvero innamorare –disse – non vuole pagare per acquistarti, vuole proprio liberarti. – Mi guardò negli occhi –Non potrà mai offrirmi tutto quello che vali –mi disse – Si vede da com’è vestito. A te non importa? –
Scossi la testa.
- E sia. Accetterò ugualmente.- disse - Non mi hai mai delusa e, se sei riuscita a rendere un uomo tanto folle da volerti liberare, vuol dire che i miei insegnamenti sono valsi a qualcosa! Purché non finisca per innamorarti anche tu! -  mi ammonì.
Le ragazze mi salutarono con mille feste – Non ce l’avevi detto che avevi un innamorato così devoto! –
- Mi raccomando, fatti sposare da questo Pantoo – mi disse Arinna.
- Ma sei matta! Assolutamente no!  – saltò su Mirrina
- E perché no? In fondo anche lui è straniero, non potrebbe sposarla se la ama? –
- Ma che sciocchezza!-
- Fatti pagare per ogni notte piuttosto –Intervenne Bacchide ridendo – E metti su un’attività come ha fatto Tasia.-
- Così quando ci libereremo anche noi verremo a lavorare per te! – propose Mirrina
- Vienici a trovare, non dimenticarti! –
 

 

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Capitolo 7
*** Ricerche ***


Vissi in casa di Pantoo giorni molto felici. Era sempre piena di giovani, ragazzi che lo seguivano, come Filò. E avevano tutti quell’entusiasmo febbrile, quella smania di cercare e scoprire che mi ricordava tanto Menandro. Forse seguendo l’esempio del loro maestro, trattavano Filò come fosse una di loro, da pari. E di conseguenza anche me. Questo non era poi troppo lontano da quanto accadeva nei nostri villaggi di maghi. Ma fra i Koinous non si era mai visto nulla del genere e da quando vivevo ad Atene mi pareva più che mai surreale. Filò mi raccontò che c’era voluto molto perché accadesse, non era stato semplice guadagnarsi la stima dei compagni. – Ma per forza! – esclamò – All’inizio anche a me sembrava strano prendere la parola in mezzo a tanti uomini. E, nonostante fossi molto determinata, ti assicuro che molte volte non l’avrei fatto se non fosse stato Pantoo a interpellarmi direttamente. I primi tempi aveva sempre la premura di chiedere davanti a tutti la mia opinione e ci si soffermava con particolare entusiasmo. E certe volte, ti assicuro, non dicevo proprio nulla di interessante! –rise. Tra i ragazzi che frequentavano Pantoo c’era anche quel Milone che, a sentire Urania, aveva detto che Filò era più bella di tutte le citariste e le flautiste di Atene. Lui e Filò si punzecchiavano continuamente eppure sembravano avere una complicità fortissima, quasi che l’uno intuisse i pensieri dell’altra. Quasi sempre lavoravano insieme.
- Non gli interesso – Ripeteva Filò – E’ovvio. Altrimenti farebbe qualcosa. Direbbe almeno una parola.- si stizziva -  La verità – mi disse un giorno – E’ che lui viene da una delle migliori famiglie di Atene e non sposerebbe mai una come me. –
Eurito, invece, che era amico di Milone da quando erano bambini, diceva di avergli sentito dire che Filò era al di sopra di qualsiasi donna avesse mai conosciuto e che certamente lei non avrebbe mai consegnato il suo cuore ad un ragazzo ordinario come lui, quindi non c’era neanche da pensarci.
Mi faceva tenerezza far muovere i primi passi alla figlia di Sofia allo stesso modo in cui avevo li avevo mossi io alla sua stessa età.  Con l’aiuto di Pantoo spiegai ad Urania chi era e insieme le raccontammo di sua madre. Più passava il tempo e più mi sommergeva di domande su di lei. Io cercai di raccontarle tutto, ogni dettaglio che ricordavo, il suo modo di ridere e la maniera in cui scherzava, quello che la divertiva e ciò che la emozionava, le frasi che diceva più spesso. Tentai di farle rivivere tutti i particolari della vita quotidiana che, ero certa, Sofia avrebbe voluto più d’ogni altra cosa condividere con lei, se avesse potuto.
Cominciai a narrarle tutti i canti della nostra gente, come aveva fatto con noi Aglaia quando eravamo bambine. Urania mi ascoltava appassionata, mi faceva mille domande e cercava di ricordare tutto anche lei. Spesso mi suggeriva finali diversi e rocamboleschi e allora provavamo a  comporli  in esametri e li declamavamo, insieme, fra mille risate. Iniziai ad insegnarle anche alcuni incantesimi semplici. Fu così che fui costretta a rispolverare la mia bacchetta magica e a ricominciare a usarla. Solo allora mi accorsi di quanto mi fosse mancata. Nel tempo libero ripresi a studiare il processo di trasfigurazione in animale che con Sofia ero stata costretta a lasciare a metà. Pensai che se Filò, prima di incontrare Pantoo, era stata in grado di imparare  i primi rudimenti di matematica e geometria senza l’aiuto di nessuno, anche io avrei potuto portare a termine da sola quell’incantesimo. Vedevo che i ragazzi di Pantoo studiavano e provavano e se sbagliavano ricominciavano. Avrei solo dovuto fare come loro, in fondo anche Menandro agiva così quando cercava di combinare insieme magie a cui nessun altro aveva mai pensato prima.
Un giorno Filò, mi corse incontro col cuore che le batteva –Ermione, Ermione! Ho avuto un’idea!-  Esclamò agitata -  Come abbiamo fatto a non pensarci prima! –
Si sedette vicino a me e mi spiegò – Tu sostieni di non poter spezzare il maleficio che vi è stato fatto perché credi sia  impossibile ritrovare una stella nel cielo ma io dico che ti sbagli. -
La guardai perplessa - Certamente è molto difficile, lo ammetto, ma io penso che delle possibilità ci siano. – disse – Guarda qui – srotolò un papiro davanti a me – In questi anni abbiamo messo a punto mappe stellari molto dettagliate – continuò – Se noi riuscissimo ad individuare un’area in cui cercare potremmo almeno provare a vedere se le costellazioni che conosciamo sono rimaste immutate.  Se ne trovassimo, ad esempio, una con una stella in più, quella potrebbe essere la sfera della vostra magia! – Concluse animata – Certo –Ammise – Bisognerà procedere per tentativi e potrebbe anche non servire a nulla. Ma le stelle che conosciamo non sono poche. Io credo che ci siano delle probabilità! –
Ci mettemmo a lavorare per giorni al piano di Filò. Mi chiese di mostrarle come ero in grado di far levitare in aria diversi tipi di oggetti con l‘uso della magia. Mi invitò a farlo molte volte eseguendo lanci più o meno potenti. Annotò le traiettorie e, insieme a me, cercò di ricostruire la porzione di cielo visibile da Tempe nel momento in cui venimmo maledetti. Mi chiese di ricordare il mese e il giorno in cui era accaduto e quanto inoltrata fosse la notte. Ci sentimmo così in grado di ipotizzare una porzione di cielo in cui cominciare a cercare. Parlammo anche a Pantoo del nostro progetto e lui restò molto colpito dall’idea e dalle ipotesi che avevamo formulato.  Trascorremmo nottate a contare le stelle e a confrontarle con le mappe di Filò. Ben presto pure Milone volle unirsi ai nostri sforzi. Ma nulla. Orione continuava a corrispondere ai disegni annotati sulle mappe, le Pleiadi risultavano sempre sette e nessuna delle altre innumerevoli costellazioni che esaminammo pareva essere cambiata in alcun modo.
Cominciavamo a scoraggiarci. Filò cercò di correggere l’area di ricerca “Forse non sono stata precisa sulla traiettoria del lancio”. Milone e Pantoo l’aiutarono a riformularla. Contammo e ricontammo, osservammo, confrontammo.  Eppure, anche questa volta, non sembrava esserci traccia di alcun astro di troppo.
- Chissà quanto lontano l’avrà lanciato! – consideravo io, sconfortata – Abbiamo basato i nostri calcoli su levitazioni eseguite da me ma Adrasto aveva poteri ben diversi dai miei! Per quanto ne sappiamo la nostra stella potrebbe essere stata lanciata anche dalla parte opposta del cosmo! –
-Mmmm – mugugnava Filò, poco convinta – Quella tua amica, sul carretto, non ha detto di averla vista arrivare nel cielo? –
- Be sì… -
- E allora, se l’ha vista – concludeva decisa Filò – Doveva per forza trovarsi in un luogo visibile dalla valle quella notte. –
 Una sera eravamo seduti di fuori, sui gradini che davano sul cortile. Milone e Filò erano tutti intenti su una stessa tavoletta di cera a concludere un qualche lavoro mentre io raccontavo  ad Urania una storia, poco prima di mandarla a dormire. Milone alzò distrattamente lo sguardo verso il cielo e rimase a contemplarlo per qualche secondo – Guarda come brilla Merope! – Esclamò poi – In tutte le mappe viene sempre segnata Alcione come la stella più luminosa delle Pleiadi. E invece no, Merope lo è molto di più. –
- Mi prendi in giro? – Rise Filò che ancora stava finendo di annotare qualcosa sulla sua tavoletta. – Ma se Merope è la meno luminosa di tutte tanto che certe notti non si vede proprio! Ho passato tutto l’inverno scorso a seguire il corso delle Pleiadi e non la trovavo mai. La odiavo! –
- Eppure guarda – Obiettò Milone indicando – E’ proprio quella lì. A meno che non sia Alcione che si è spostata, ma mi sembra improbabile! –
Filò alzò lo sguardo – Non ci credo – mormorò stupita e ricontrollò fra sé, come per convincersi di aver visto giusto – Elettra, Celeno, Taigete, Asterope, Maia, Alcione e… sì, lì c’è proprio Merope, non c’è dubbio-
- Sai, - scherzò Milone – si dice che Merope alle volte porti il velo per la vergogna di aver sposato un uomo mortale.  Che questa non sia la prima volta che ci si mostra senza veli? –
Filò sorrise, poi un pensiero parve attraversarla di colpo – Per Ercole! – esclamò -  Quella non è Merope, e nemmeno Alcione che si è spostata. Come ho fatto a non accorgermene! Si tratta della stella che cerchiamo! –
Sia io che Milone la guardammo perplessi. Avevamo controllato le Pleiadi mille volte durante le nostre indagini e in nessun caso le sette sorelle, come le chiamavano, avevano avuto la decenza di presentarcisi in otto. Così, pure adesso, Filò le aveva appena contate, erano sette e sempre le stesse.
- Non capite, Merope si vede soltanto in notti molto molto limpide. Questo lo so bene perché ho faticato moltissimo per segnarne le posizioni quando ne studiavo il corso. – spiegò con veemenza – E’ già difficile scorgerla se la luce della luna è troppo forte, figuriamoci se proprio accanto a lei dovesse trovarsi un’altra stella, più lucente persino di Alcione. Abbiamo sempre visto sette astri perché Merope è oscurata. Ma in realtà sono otto. –
Rimanemmo in silenzio – Non abbiamo prove però – Obiettò Milone.
-Lo so, lo so! –Ammise Filò con stizza – Ma sento che è così. –
Sottoponemmo il caso anche a Pantoo che trovò molto probabile l’ipotesi di Filò. Nemmeno lui aveva mai visto una Merope tanto luminosa e la cosa gli appariva stupefacente.  Rise – Sono notti e notti che le contiamo ma in realtà non le abbiamo mai guardate. - disse – bisognerebbe trovare il modo per dimostrarlo – mormorò pensoso.
- Oppure si potrebbe provare a vedere se l’incantesimo funziona – tagliò corto Filò.
- Sì certo – Concordò Milone – Perché non provi? –mi disse
- Dovrei essere a Tempe – Spiegai – Ma soprattutto non posso farlo da sola, ho bisogno di un mago della valle che lo esegua con me. E, come vi dicevo, Adrasto ha ucciso tutti i nostri uomini. O almeno così credo. –
Milone ci guardò allibito – Ma allora, che senso ha avuto tutta questa indagine? –
- Ehm sì – ammise Filò – In effetti questo era il problema numero due della questione. Ma già sarebbe un passo avanti aver risolto almeno il numero uno, non trovate? –
Ci guardammo tutti e quattro in silenzio. – Non è detto – intervenne Pantoo – Che non ci sia da qualche parte un mago di Tempe ancora in vita. Se pure non si fosse salvato nessuno di quelli che erano presenti quel giorno, non è improbabile che esista qualcuno andato via dalla valle anni prima e che per questo quella notte non fosse stato presente. Come Aretusa, la maga con cui hai parlato. –
- O magari qualcuna delle superstiti ha avuto un figlio maschio in questi anni. – suggerì Milone.
- Certo! – fu d’accordo Filò – Se per esempio Urania fosse nata maschio avremmo già il nostro mago –
-Be’… magari ci vorrebbero un po’ d’anni d’apprendistato – Precisai – Però sì. –
- Non devi perdere le speranze – mi disse Pantoo venendomi vicino – dobbiamo solo continuare a cercare. –
I mesi passarono. Urania faceva ogni giorno qualche progresso. Una mattina mostrò a Pantoo con orgoglio come riusciva a trasformare un ago di pino in uno spillo di rame utilizzando la mia bacchetta magica. Io ne ero rimasta impressionata – Questo incantesimo di solito si impara a undici anni. – Esclamai colpita – E Urania ne ha appena otto. –
- Puoi cambiarli anche in oro quegli spilli? – scherzò Filò e andò ad abbracciarla per farla sentire brava.
Urania pareva pensosa. - Ma come mai gli oggetti si trasformano? – chiese poi a suo padre. – Be’ – le rispose lui – E’ a causa della tua magia. Sei stata tu a fare l’incantesimo. Non ti ricordi come hai fatto? –
- Sì sì questo lo so. –continuò lei – ma perché se io faccio quello che dice Ermione poi l’ago si trasforma? Cosa gli succede? –
Pantoo le sorrise – Questo proprio non so dirtelo –  le rispose dolcemente – Forse dovresti chiederlo ad Ermione, che è più esperta di me in questo campo. –
Ma nemmeno io sapevo rispondere.  Riflettei sul fatto che noi maghi eravamo in grado di far accadere molte cose ma difficilmente ritenevamo importante indagarne il perché.  Chi si poneva domande simili era considerato uno stravagante, come Menandro. Io ero stata fortunata ad aver incontrato Sofia che aveva sempre preso sul serio ogni mio dubbio. Pantoo e i ragazzi che lo seguivano, invece, si interrogavano continuamente su molte questioni e sembravano non dare mai nulla per scontato. Io restavo affascinata dai loro discorsi. Alle volte Pantoo, quando mi vedeva ascoltarli rapita, cercava di integrare anche me nelle conversazioni. Si soffermava sulle cose che non sapevo e parlava in modo che potessi capire anch’io. Pian piano cominciai ad interessarmi sempre di più a quello che facevano e, anche se non comprendevo proprio tutto, cercavo di seguire il più possibile. – Non farti problemi a chiedere qualunque cosa – mi disse Pantoo un giorno – Sarebbe il minimo, dopo tutto ciò che fai per Urania! – Avrei voluto fargli notare che, per quello, aveva già riscattato la mia libertà ma capii che sarebbe stato inutile. Cominciò ad accorgersi che leggevo e scrivevo a fatica -  Potresti imparare meglio –mi disse.
Io arrossii. Gli spiegai che da noi non c’era una buona considerazione dell’arte della scrittura.
-Be’, sai fare già molto allora . – mi sorrise – Ma se vuoi migliorare posso aiutarti – Accettai con entusiasmo. Pantoo si intenerì quando gli raccontai che le lettere dell’alfabeto me le aveva insegnate Sofia.
- Sai, anche io scrivevo pochissimo – mi confidò Filò, solidale, una volta che mi trovò intenta ad esercitarmi – A casa non mi avevano mai insegnato a farlo. Avevo imparato un po’ copiando da mio fratello. – rise fra sé – Quando faceva qualcosa che nostro padre non doveva sapere lo ricattavo costringendolo a insegnarmi qualche parola. Cedeva subito! – vidi un velo di nostalgia nei suoi occhi – Ecco, lui mi manca molto, ad esempio. Ogni tanto penso che vorrei andare a trovarlo ma poi non ne ho mai il coraggio. Chissà cosa pensa di me… -
La mia trasformazione in lontra era quasi completa. Ogni tanto chiedevo dei pareri a Milone e Filò che si dimostrarono  molto esigenti e non mi facevano passare nessuna imprecisione.
- C’è ancora qualcosa di umano nel muso… forse gli occhi… –
-No, ma quali occhi, sono i denti! –
- Gli occhi ti dico… -
- Ma guardale i denti, hai mai visto una lontra così? –
- Non darle retta, Ermione, gli occhi sono la chiave di tutto… -
- Voglio vedere come fa a cacciare con quei denti, se muore di fame è colpa tua! –
 
Una sera eravamo in casa. Io stavo leggendo ad alta voce insieme a Filò per fare un po’ di esercizio e Milone si era attardato da noi per discutere con Pantoo di una teoria.
D’un tratto sentimmo una voce chiamare da lontano  “C’è nessunooo!!”. Ci guardammo tutti e quattro, stupiti. Pantoo si mosse a vedere se c’era qualcuno alla porta ma quando andò ad aprire  non vide  anima viva.  Ci precipitammo anche all’uscita che dava sul cortile ma pure lì sembrava non esserci proprio nessuno. Tornammo in casa. Ed ecco che sentimmo ancora “c’è qualcunooo!”. Ci guardammo attorno increduli. Il suono era ovattato e molto lontano. “ Mi sentiteee! “  Non sembrava  venire da fuori, in effetti, ma da qualche posto proprio dentro la casa. – E’ il tavolo, viene dal tavolo – ipotizzò Milone seguendo la voce. – Guardate! – Esclamò Filò osservando una coppa sul tavolo che pareva tremare e muoversi da sola. “Ehi laggiuuuù!” Non potevamo crederci, il suono aveva proprio l’aria di provenire dalla coppa. – Voi maghe avete qualche teoria a proposito di coppe parlanti che si muovono da sole? – mi chiese in fretta Milone.
- Mai sentito nulla del genere – risposi esterrefatta.
La coppa cominciò a tremare e a muoversi sempre più forte fino a che non esplose  cadendo dal tavolo e rompendosi in mille pezzi. Arretrammo di qualche passo, spaventati. Per un attimo credemmo di non essere in noi, tanto che dovetti stropicciarmi gli occhi più volte per provarmi di non stare sognando. Dai cocci, come per miracolo, era apparso un giovane, con i capelli arruffati e la tunica tutta impolverata – Scusatemi, non immaginavo, davvero. – Continuava a ripetere cercando di togliersi la polvere e i resti di ceramica dalla veste – E’ la prima volta che lo faccio, devo aver sbagliato qualcosa. –
Sollevò il viso. Ci misi un po’ a riconoscerlo, quando lo vidi in faccia. Aveva le spalle più larghe e portava la barba ma il guizzo negli occhi era sempre lo stesso. – Menandro – mormorai incredula. Lui mi fissò stupito per qualche secondo, come se anche lui stentasse a ritrovare in me la ragazza che ricordava – Dei dell’Olimpo… - gli riuscì di dire, con un filo di voce.
 

 

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Capitolo 8
*** Ritorno ***


- Menandro! – gridai con le lacrime agli occhi e corsi ad abbracciarlo stretto, come mai avevo fatto in vita mia – Sei vivo! Sei vivo! –
Anche lui mi strinse forte e sentii le sue lacrime bagnarmi i capelli – Non sai da quanto tempo ti cerco Ermione, non immagini! –
Quando lasciammo la presa e ci guardammo di nuovo in viso tornò a fissarmi, come per essere certo che si trattasse davvero di me – Sei… bellissima… - mormorò e riprese ad abbracciarmi – Non posso credere di averti trovata. – Ripeté commosso – Questa volta lo ha voluto il destino. Chi avrebbe mai immaginato che in tutta Atene, sarei sbucato proprio tra le tue braccia! –
- Ma come sei arrivato qui? – Gli chiesi guardando in direzione della coppa rotta – Cosa hai fatto? Sei davvero riuscito a comparire dal nulla come sognavi un tempo! –
Menandro sorrise – Sì, ti ricordi quell’incantesimo a cui stavo lavorando? – chiese – Be’, prima o poi lo riprenderò ma per il momento l’ho accantonato, era troppo complesso.  In compenso però ho scoperto un sistema più semplice per fare la stessa cosa. – disse animato – come una sorta di passaggio tra due oggetti lontani, una via magica collegata da due elementi che fungono da porta d’entrata e … - si fermò a guardare i resti della coppa di Pantoo con aria critica – Be’, quella avrebbe dovuto essere la porta d’uscita. Bisognerebbe incantare sia l’oggetto di partenza che quello di arrivo, in effetti, ma non riesco a capire come, visto che al momento di eseguire l’incantesimo si presume che non si sia ancora arrivati lì dove si vorrebbe arrivare! Altrimenti non avrebbe senso...–
Sorrisi. Non era cambiato affatto.  – Come sapevi che ero qui? –
- Qualche giorno fa, a Chio, ho ascoltato un aedo cantare del primo incontro fra Medea e Giasone. Ho ritrovato le tue parole nelle sue, certi particolari di quando componevamo insieme sui monti, ti ricordi? Alcune immagini venute fuori proprio da quei nostri tentativi. –
Annuii. Certo che ricordavo.
- Così gli ho subito chiesto da chi avesse sentito quella storia e lui mi ha risposto che l’aveva imparata ad Atene da una citarista tessala. Non ho avuto dubbi che si trattasse di te. –
Lo guardai con un po’ di apprensione - Ti ha per caso detto altro? –
- Be’… sì - ammise – Si è rammaricato che non avessi potuto ascoltare il canto direttamente da te. “Io faccio quello che posso” mi ha detto “Ma ti giuro che lei era in grado di prenderti e portarti via, come per magia. Non ho mai sentito nessuno cantare in quel modo.” L’ho pregato di indicarmi dove avrei potuto trovarti e lui mi ha detto che appartenevi ad una certa Tasia, di cercarti da lei. Così ho tentato il modo più veloce per venire ad Atene. Certo – rise –Non avrei mai immaginato di ritrovarmi direttamente in casa di questa Tasia . Ma ora sono qui, ti aiuterò a scappare, se vuoi. Sarai di nuovo libera. –
Vide che esitavo.
- Sempre se è quello che vuoi, ovviamente.-
- Sono già libera. – gli dissi – e non vivo più da Tasia. Questa è casa di Pantoo.-
Menandro si guardò attorno e per la prima volta si ricordò della presenza di altre persone. Milone, Pantoo e Filò erano rimasti muti senza avere il coraggio di intervenire. Nel frattempo Urania si era svegliata per il rumore e se ne stava aggrappata al mantello di suo padre guardandoci con aria curiosa.
Menandro passò in rassegna la ragazza, il ragazzo, l’uomo e la bambina, cercando una logica con cui ricostruire i rapporti famigliari.
- Perdonatemi – mormorò – Io non mi sono nemmeno… - poi mi guardò – Certo, è giusto, ti sarai sposata. Questa è casa di tuo marito, immagino. Loro sono la tua famiglia? –
Scoppiai a ridere – No no, non mi sono sposata – Corsi a baciarlo – E loro non sono la mia famiglia, sono amici. Ti racconterò tutto, ci sono talmente tante cose che devo dirti. –
Milone sorrise guardandoci – Che belli –mormorò trasognato.
 Filò gli lanciò un’occhiataccia –Già – sussurrò –Belli, loro.-
Presentai Menandro agli altri. Ci furono grida di giubilo alla notizia che si trattasse di un mago di Tempe ancora in vita. Gli fecero mille domande su come fosse riuscito a realizzare l’incantesimo che lo aveva portato lì e ne restarono affascinati. Urania disse che da grande avrebbe voluto fare anche lei l’inventrice di incantesimi e si fece promettere da Menandro che l’avrebbe presa come assistente. Io, da parte mia, sentivo il cuore in festa per la gioia di averlo ritrovato.
Poi, finalmente, Menandro ci raccontò cosa gli fosse successo la notte in cui il maleficio ci aveva colpiti. Quando era andato a cercare Eumene aveva sentito trambusto in casa, poi aveva visto il suo maestro che veniva portato via a forza da uomini armati. I loro sguardi si erano incrociati. L’ultima cosa che ricordava era Eumene che alzava la bacchetta contro di lui. Quando aveva ripreso i sensi e si era reso conto dell’orrore che era accaduto alla valle, aveva capito che Eumene lo aveva schiantato perché gli uomini di Adrasto non lo trovassero, e così gli aveva salvato la vita. – Diceva sempre che avrebbe dovuto schiantarmi per farmi eseguire senza discutere. – sorrise con amarezza – chi avrebbe mai immaginato che si sarebbe trovato a doverlo fare davvero. –
Mai nella vita si era sentito tanto solo al mondo. Poi, nella foresta, aveva incontrato Cleonice, un’anziana del villaggio che si era salvata. E lei gli aveva detto che tante delle donne erano ancora vive. Aveva raccontato nei dettagli cosa era successo quella notte insieme a tutte le vicende del passato che riguardavano Adrasto e che a me erano state riportate da Aretusa. Così Menandro si era reso conto di essere l’unico mago ancora in vita e probabilmente, il solo fra tutti, ad aver mantenuto i poteri magici. Aveva cercato nella sua memoria ogni nozione possibile sull’incantesimo di cui gli aveva parlato Cleonice ma tra gli insegnamenti che ci erano stati dati non aveva trovato proprio nulla. Allora si era ricordato che Adrasto aveva affinato le sue tecniche in Oriente e così aveva ipotizzato che in quelle zone, forse, avrebbe potuto trovare delle risposte.  
Fu un saggio egiziano a insegnargli l’incantesimo per annullare la maledizione. Menandro aveva   imparato a rifarlo ma poi anche lui aveva scoperto che, per eseguirlo, sarebbe stato necessario ritrovare una stella perduta nel cielo e soprattutto avrebbe avuto bisogno di una strega della valle ancora in possesso dei suoi poteri.  Si era sentito scoraggiato. Per quanto ne sapeva, nessuna delle donne di Tempe era sfuggita al maleficio. Per un po’ aveva cercato informazioni su qualche maga che avesse lasciato la Tessaglia tempo prima e che quindi non fosse stata colpita dalla maledizione. Aveva persino consultato un oracolo. Gli era stato consigliato di mettersi sulle tracce dell’ottava di sette sorelle. Ci si era lambiccato per giorni ma in nessun modo era venuto a capo dell’arcano. Così come aveva passato nottate ad osservare il cielo senza riuscire a raccapezzarcisi. Alla fine aveva desistito e aveva deciso di impiegare il suo tempo a seguire quello che gli suggeriva il cuore. Si era messo sulle mie tracce. Più di ogni altra cosa desiderava ritrovare me. Mi immaginava schiava da qualche parte, prigioniera e priva dei miei poteri, e voleva fare qualsiasi cosa gli fosse possibile per liberarmi. Così aveva cercato in ogni dove. Gli avevano detto che le ragazze di Tempe erano state vendute in Lidia, poi aveva sentito dire che ci avevano mandato in Colchide e infine nelle isole della Ionia. Aveva quasi perso le speranze quando, per caso, a Chio, aveva incontrato Melisso che gli aveva indicato dove cercarmi.
Restammo in silenzio.
- L’ottava di sette sorelle – mormorò Filò tra sé – Ma certo! Questa è la conferma! – Esclamò – l’oracolo non si riferiva alla maga che avresti dovuto cercare ma alla stella! Le Pleiadi vengono chiamate le sette sorelle –spiegò – Se ce n’è una in più è l’ottava di sette sorelle! –
Menandro la guardò confuso. – Si tratta del nostro potere – Chiarii e, insieme agli altri, gli raccontai  delle nostre ricerche e di quanto avevamo scoperto.  
Lui ci ascoltava colpito – E’ stupefacente – disse ammirato – Siete stati grandi! –
Gli rivelai che avevo ancora la magia. Scoppiò a piangere.  –Potente Ecate, grazie! –
- Ora non vi resta che andare lì e provare – disse Filò con un luccichio di commozione negli occhi.
Ci guardammo speranzosi. Dopo tante ricerche, finalmente potevamo farlo, la nostra valle sarebbe tornata a vivere.
Ci lasciarono soli. Ci guardammo, senza quasi avere il coraggio di avvicinarci. Poi cominciammo a cercarci, a tentoni, a ritrovare quello che di noi ci era familiare, a scoprire quello che invece ignoravamo del tutto o che forse era cambiato, mentre eravamo lontani, le molte avventure che erano passate sui nostri corpi e nelle nostre vite.
 Qualche giorno più tardi ci preparammo a partire. Pantoo mi prese in disparte – Ho da farti una preghiera – mi disse. Esitò prima di parlare come se ciò che stava per dirmi gli costasse troppa fatica – Se puoi,- mi chiese - porta Urania con te.  –
Lo guardai e vidi i suoi occhi inumidirsi – Sei sicuro? –
- Qui sarebbe costretta per sempre a nascondere chi è. Fra non molto dovrei darla in sposa a qualcuno, condannandola ad una vita di reclusione fino alla fine dei suoi giorni. Mentre io vorrei che crescesse libera e che fosse felice. –
Annuii seriamente – Ti prometto che lo sarà. –
Mi accorsi che Filò ci guardava fremendo – Ti prego, Ermione –Sbottò tutto d’un colpo – Ci ho pensato molto. Permetti anche a me di venire con voi. Io qui sono una reietta, nessuno mi sposerà mai, non ho alcun futuro. Un tempo giurai a Pantoo di proteggere Urania a costo della mia vita, non posso lasciarla proprio adesso. Potrei aiutarti a occuparti di lei e poi – aggiunse – C’è da dire che voi maghi sapete fare un mucchio di cose ma per tante altre siete dei gran pasticcioni. Avete bisogno di qualcuno che vi calcoli le posizioni delle stelle o la velocità giusta per creare passaggi magici tra oggetti lontani! Ora che vi troverete a spezzare il maleficio, sarebbe un bel disastro se sbagliaste direzione e andaste a colpire la stella sbagliata! –
Andai ad abbracciarla – Non sai quanto sarei felice se venissi con noi -
- So che sono solo una ragazza comune ma vedrete che saprò esservi utile -
Io e Menandro ci guardammo – Se riusciremo a rifondare il nostro villaggio – dissi decisa  - penso che dovremo tutti riconsiderare di molto il significato che diamo alla parola ‘comune’-
Nel frattempo era arrivato Milone, voleva salutarci anche lui prima della partenza. Era entrato in casa e si era trovato ad assistere a quella scena.
- Ma come? - Guardò Filò esterrefatto - Vai via anche tu ? –
- Ho deciso così. – rispose lei sicura
Milone esitò disorientato –  Non mi sembra…   magari dovresti ripensarci. – biascicò.
- E perché mai? –
Milone la guardò senza rispondere.
- C’è forse qualcosa che desideri dirmi? – incalzò Filò con le lacrime agli occhi.
Lui continuava a tacere.
- Milone?-
 – Vengo con te! – disse poi, tutto d’un fiato.
-Non se ne parla proprio! –
-Sì invece. –
- E perché dovresti? –
– E’ troppo pericoloso! – Balbettò
- Sono insieme a due maghi – Gli fece notare Filò – Pensi di sapermi proteggere meglio? –
- Appunto! – esclamò lui – E’ pericoloso per loro. – chiarì, poi si rivolse verso di noi – Dovete sapere che Filò ha una mente geniale, magari fa scoperte incredibili ma poi siccome vuole tutto e subito non riesce a trovare il modo di applicarle nel modo giusto e combina un sacco di guai. –
- Ma non è vero! – protestò lei.
- Io lo dico per voi. Ha bisogno di qualcuno di un po’ più mediocre ma con più metodo che le dia una mano. –
- Ti sbagli –
- Tutti possono avere necessità d’aiuto, ogni tanto. Persino tu, Filò. Vuoi davvero mettere il tuo amor proprio al di sopra della salvezza del popolo di Tempe? –
Lei fremette di rabbia – Io ti odio! – disse con stizza – Ve bene. Prendi le tue cose e sbrigati. –
Pantoo e Urania si salutarono con molte lacrime e la promessa di scriversi tutti i giorni. Lui le assicurò che, ne era certo, si sarebbe trovata a scoprire cose nuove e bellissime e che già non vedeva l’ora di sentirsele raccontare. Lei era triste di andarsene ma allo stesso tempo sembrava  eccitata per quella nuova vita che l’attendeva.
- Te la faremo rivedere al più presto – Rassicurai Pantoo con dolcezza – E’ una promessa. -
- Be’, se Menandro migliora i suoi progetti sui trasporti, magari anche una volta a settimana! – Aggiunse Filò ridendo e corse ad abbracciare  il suo maestro a lungo. – Grazie – gli disse poi guardandolo negli occhi – Non dimenticherò mai quello che hai fatto per me. –
Lui le sorrise – Mi raccomando. - scherzò - Scopri un teorema, come minimo. Qualcosa di utile, che cambi la vita a tutti! –
 
Per l’intero viaggio non facemmo che raccontare ad Urania ogni particolare sulla nostra valle, ci tornarono alla mente aneddoti e personaggi buffi, dettagli di cui avevamo nostalgia, l’odore dell’erba dopo la pioggia, i fiori viola e gialli che crescevano sui monti o il colore del cielo in certi momenti della giornata.
Quando arrivammo a Tempe non riuscimmo a ritrovare nulla di ciò che ricordavamo. La desolazione che ci apparve ci addolorò nel cuore. Al villaggio erano rimaste poche anziane che vivevano ritirate.
Quando bussammo alle loro porte ci accolsero con diffidenza e quasi stentarono a riconoscerci. Ma dopo che raccontammo loro la nostra storia si sciolsero in lacrime e pregarono Ecate che il nostro incantesimo funzionasse. Aspettammo il giorno e il momento propizi per eseguirlo. La notte prescelta io e Menandro unimmo le nostre bacchette magiche mentre Filò e Milone si dilungavano in accese discussioni sulla corretta angolazione secondo cui avremmo dovuto inclinarle per prendere la mira giusta.
- Ci vogliono almeno trenta gradi di più
- Ma non vedi che così puntano troppo in alto!
- Non tieni presente che il lancio tende sempre un po’ a scendere.
-Sì, ma non così tanto!
Finalmente si riuscì a giungere ad un accordo. Richiamammo il nostro potere con tutte le forze di cui disponevamo  e lo proiettammo verso il cielo, più lontano che potemmo. Dalle nostre bacchette fuoriuscì una freccia argentea che saettò rapidissima verso l’alto e andò dritta a colpire la stella che brillava al posto di Merope. L’astro parve esplodere in mille filamenti dorati che si dispersero in cielo e ricaddero verso la terra svanendo alla nostra vista.  Al posto della stella esplosa se ne intravedeva una più piccola che splendeva d’un bagliore  timido.
Ci guardammo tutti e quattro come chiedendoci se ciò che avevamo fatto avesse avuto davvero degli effetti. Ne avemmo la prova il giorno dopo, quando alcune delle maghe del villaggio uscirono di casa gridando che avevano ritrovato la loro magia. Ci abbracciammo e festeggiammo per tutta la giornata fantasticando il futuro meraviglioso che ci si sarebbe presentato.
Eppure per un po’ al villaggio sembrò cambiare ben poco. Le poche donne che abitavano lì stavano riprendendo a poco a poco l’abitudine ad usare i propri poteri ma la vita che avevamo conosciuto un tempo sembrava cosa ormai ben lontana. Dovettero passare molti mesi prima che, lentamente, le nostre sorelle cominciassero a ritornare. La prima che vidi arrivare fu Attoride.  La trovai cresciuta, il volto più stanco e scavato, ma lo stesso identico sorriso gioioso. Portava con sé due bambini e uno sposo che aveva trovato fra i Koinous. Nel tempo ne giunsero molte altre. Si erano accorte di aver riacquisito i propri poteri e, grazie a quelli, erano riuscite a liberarsi. Alcune avevano figli, altre conducevano con loro dei compagni, gente comune o maghi di terre diverse dalle nostre. Ognuna aveva una lunga storia da raccontare. Tante altre invece non le rivedemmo mai più. Ancora oggi non so che fine abbia fatto Leucippe né ho mai incontrato nessuno che sia stato in grado di  darmi sue notizie.
Andammo a cercare Aglaia nella foresta. Circondata dal nostro affetto e da molte cure pian piano riacquistò la ragione e col tempo anche la memoria. Negli ultimi anni della sua vita finì di passarmi quel che restava della tradizione dei nostri canti. Io imparai tutto a memoria ma decisi che mai più avrei corso il rischio che i nostri versi andassero perduti ancora una volta.
Quando il primo gruppo di bambini tornò dai sette giorni nella foresta e Urania mi venne incontro correndo, per mostrarmi con orgoglio la bacchetta magica che aveva costruito, l’abbracciai forte e scoppiai a piangere. Solo allora ne fui davvero certa. Ce l’avevamo fatta.
 
 
 ***
 
 
- Questi erano gli alloggi delle ragazze che vivevano nel tìaso –
Hermione osservò la guida. Il suo accento straniero la faceva sorridere. Doveva essere un giovane archeologo appassionato. Sfoggiava un inglese estremamente forbito che pronunciava in maniera terribile, con effetti piuttosto buffi. In più si affannava ad agitare le braccia e le mani in modo incontrollato.
- Era una comunità per giovani streghe nata intorno al culto della dea Ecate -  Diceva mostrando i resti di una costruzione antica – Si poteva accedere alla comunità solo dopo aver costruito la propria bacchetta magica. Era una sorta di prova di iniziazione… -
- Ma ci pensi! -  Le sussurrò all’orecchio Ron, entusiasta – Queste streghe si costruivano da sole una bacchetta magica! A dodici anni! Altro che Ollivander. –
La guida annuì – Bè… non avevano le tecniche sofisticate di cui disponiamo noi adesso ma  per essere il V secolo avanti Cristo si trattava di conoscenze  piuttosto avanzate  – Sorrise.- Questa era una comunità molto particolare.- Proseguì - La prima in cui troviamo tracce dell’uso della scrittura. Come saprete, tra i maghi la civiltà orale perdurò molto più a lungo rispetto a quanto accadde fra i Babbani. Le prime testimonianze di incantesimi scritti, in Grecia, risalgono al periodo alessandrino. Ma qui ne troviamo invece di antecedenti e di  molto importanti. Gli studiosi ancora oggi si interrogano sui motivi che abbiano portato questo villaggio a differenziarsi dagli altri. Sono stati ritrovati frammenti di un poema epico sulla figura di Medea, oltre che studi su un primo rudimentale incantesimo di smaterializzazione. Questo è anche uno dei luoghi in cui sono stati rinvenuti i più antichi resti di oggetti usati come Passaporte. Tracce contemporanee dello stesso incantesimo sono state ritrovate in un vaso di Chio e in una coppa di ceramica attica. Da questa parte, invece, c’è l’altare dei sacrifici. Prego, di qua -
- Che bello Hermione, vieni a vedere!- Esclamò Ron seguendo la guida.
- Arrivo subito – disse lei, facendo defluire il gruppo di visitatori. La commuoveva quell’entusiasmo di Ron, quella luce che aveva certe volte negli occhi, come fosse un bambino. Ogni tanto l’avrebbe ucciso per alcuni suoi lati infantili ma, ora che comparivano sempre meno, tante volte si era ritrovata a rimpiangerli. Troppo spesso le capitava di vederlo chiudersi in se stesso, con una cupezza che non gli aveva mai conosciuto. E nel guardare i suoi occhi assenti le pareva, ogni tanto, di  rivedere se stessa. Quello che era successo li aveva cambiati nel profondo, tutti. Solite chiacchiere, risate, battute, ma dentro avevano dei vuoti che nemmeno loro, molte volte, riuscivano a comprendere. Hermione aveva cominciato a sentire un attaccamento fortissimo alle proprie origini, anche quelle Babbane. Forse perché c’era stato un momento in cui aveva temuto di scomparire per sempre dalla memoria di coloro che erano stati i testimoni di quella sua prima vita e ora che se ne era riappropriata le pareva come di doverla tenere stretta e non lasciarla fuggire più. Sentiva il desiderio di far conoscere a Ron tutto quello che non sapeva sul mondo da cui lei proveniva. Aveva preso a leggergli gli autori più importanti della cultura Babbana, a fargli vedere i quadri degli artisti che amava di più. Gli parlava con entusiasmo delle scoperte che avevano segnato la storia di coloro che non erano nati maghi. Ron all’inizio la ascoltava quasi solamente per farle piacere, ma poi pian piano aveva preso ad appassionarsi anche lui a tutto quel mondo a cui lei lo aveva introdotto, tanto che diceva ora di capire suo padre quando lo vedeva accendersi nel parlare di telefoni o automobili usate. Quell’estate Hermione gli aveva proposto di fare un viaggio in Grecia. Ron era rimasto colpito da quella civiltà che era stata così importante per i Babbani, che aveva inventato la scienza e la filosofia, cose di cui tra i maghi si parlava così poco. Oltre ai luoghi più importanti della storia Babbana c’erano anche moltissimi siti magici da visitare, specialmente in Tassaglia, la regione in cui si trovavano ora, e che era famosa in tutto il mondo per la tradizione delle sue streghe.
Il gruppo di turisti era andato avanti e Hermione era rimasta sola in mezzo ai resti  del tìaso di Tempe. Il sole picchiava forte e un po’ la stordiva. Si  sentì lievemente mancare così si chinò per appoggiarsi a terra. Poco sopra al capitello di una colonna lesse “Ermione” inciso con i caratteri dell’alfabeto greco.  Anche se i suoi genitori avevano scelto di chiamarla così per via di una commedia di Shakespeare, Hermione sapeva che il suo nome era di origine greca e già da bambina aveva voluto imparare a scriverlo con quelle lettere strane. A volte pensava che, forse, se non avesse dedicato la sua vita alla magia, avrebbe studiato il greco. Oppure la letteratura. O, magari chissà, si sarebbe interessata di astrofisica. Quando considerava tutto ciò che ci sarebbe stato da sapere si struggeva per l’impossibilità  di conoscere tanto. Ron la prendeva in giro – Vuoi lasciare qualcosa da fare anche agli altri? Non puoi mica occuparti di tutto soltanto tu! - . Hermione sorrise. Aveva ragione, ogni scelta, per sua natura, implicava delle rinunce. Lei amava profondamente ciò che aveva studiato. Il lavoro a cui si dedicava la appassionava, eppure, alle volte, si chiedeva se fosse stata davvero lei a scegliere la magia o se non ci si fosse piuttosto ritrovata per caso, all’età di undici anni.
Si sentì toccare la spalla. – Mi scusi - Si voltò e vide una ragazza che le porgeva una bacchetta. La guardò meglio, era la sua.
- Deve esserle caduta – le disse la ragazza con gentilezza.
Hermione non poteva crederci, non aveva mai perso la sua bacchetta magica. Quelle erano cose che potevano capitare a Ron oppure a Harry, non certo a lei.
- Grazie – balbettò.
La ragazza soppesò la bacchetta tra le mani e la guardò con aria da intenditrice. – Legno di vite e corde di cuore di drago, vero? –
Hermione spalancò gli occhi – Come fa a saperlo?-
L’altra si strinse nelle spalle – Ho avuto a che fare con un legno simile – Sorrise e gliela porse. Hermione la sistemò con cura nella borsetta, la richiuse. Fece poi per girarsi a ringraziare la ragazza. Si voltò ma dietro di lei non vide più nessuno. Hermione si guardò intorno. Forse il caldo le aveva dato un po’ troppo alla testa o le aveva annebbiato la vista. Eppure si erano appena parlate, non poteva mica averlo sognato.  Udì dei passi che si allontanavano tra i cespugli, guardò con attenzione. Nulla. Tutto ciò che vide fu una lontra che correva via nel bosco, veloce. Sorrise. La lontra era un animale che le era molto caro e, fin da quando era bambina, le dava una sensazione di calma e protezione. Non doveva essere un caso che fosse proprio quella la forma con cui, da sempre, si manifestava il suo Patronus 
 

 

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