Profumo di sacrificio.

di Teddy_bear
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo I. ***
Capitolo 3: *** Capitolo II. ***
Capitolo 4: *** Capitolo III. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Trailer: http://www.youtube.com/watch?v=JrnDDpjIwkc



[Introduzione]

 

Londra possiede, all'incirca, otto milioni di abitanti, e quello che accadde ad uno di questi potrebbe incuriosire, quanto terrorizzare.

Sto per raccontarvi una storia; ma non è una semplice storia.

Nessuno mai si sofferma sul lato nascosto di una persona: forse per timore, forse per incoscienza, o codardia. Eppure il lato nascosto potrebbe, in questo caso, esser il 'bene'; ed il lato mostrato, d'altro canto, il 'male'.

Sto per narrarvi di Aaron Cabell; colui che riuscì a colmare, di colori, il suo vuoto mondo, in bianco e nero.

«Quando si conosce il peggio di una persona, hai due possibilità: liberartene definitivamente, o iniziare a volerle bene per davvero.»

Predazione infraspecifica. Bastano queste due parole per riassumere il tutto.

 

Prologo.*

 

La pioggia picchiettava in terra, quel giorno di metà ottobre, a Londra.

Aaron si alzò dal letto, maledicendo la sveglia ed il suo fastidioso rumure che gli vibrava nelle orecchie, ogni volta, troppo presto.

Si mise a sedere sul bordo, osservando i vetri della finestra, di camera sua, appannati e le persiane ancora chiuse, mentre l'oscurità era presente in quella camera fredda.

Scosse la testa, passandosi una mano tra i capelli mossi, ed arruffati, data l'ora del mattino.

«Aaron, ben svegliato.»

Gwen, la madre, gli sorrise cordialmente, mentre si affrettava a sistemarsi i capelli in uno chignon.

Aaron, spesso, si chiedeva come ella potesse esser così energica alle sei di mattina. Egli, infatti, mugugnò, in risposta, una sorta di 'buongiorno' seguito, successivamente, da un 'ho sonno' scivolato fuori così, dalle sue labbra un po' più arrossate.

«Hai dormito stanotte?» gli chiese Gwen, abbottonandosi la giacchetta del taglier.

«Sì, abbastanza.» rispose, dirigendosi verso il bagno, chiudendo poi, delicatamente, la porta.

Aaron contempò la sua immagine, che lo specchio rifletteva, per qualche secondo; scosse il capo, ancora una volta, non capendo il motivo di quei pensieri. Si scompigliò i capelli ricci, e si sciacquò il viso, nella speranza che l'acqua lo potesse, finalmente, privare di tutti i suoi problemi, o meglio, di quel problema. Ma, a quanto pare, non vi era stata trovata ancora la soluzione, e più il tempo passava, più la sua malattia si faceva spazio nella sua mente, distruggendolo piano, e torturandolo con dei pensieri così insani da spaventare chiunque; eccetto qualcuno.

Aveva dichiarato apertamente chi era un paio di anni prima, quando aveva all'incirca sedici anni, dove il problema era solo una piccola radice pronta a far crescere un grande albero. La maggior parte dei suoi conoscenti non si era fatta molti scrupoli ad abbandonarlo, come le persone crudeli fanno con un cane, quando devono partire per qualche vacanza; l'avevano lasciato lì, a crogiolarsi nella solitudine che era diventata la sua migliore amica e non c'è cosa peggiore di lasciare solo un individuo che, nonostante tutto, preserva un cuore all'interno del suo corpo.

Ma, ad Aaron, la solitudine non spaventava; presto imparò a conviverci, trovandosi addirittura bene. Le persone che gli rimasero accanto, invece, furono i membri della sua famiglia: sua madre e sua sorella.

Sua madre, Gwen, era una donna eccezionale: amava il suo lavoro di avvocato, nonostante spesso chiamava, nella sua testa, il figlio, con l'appellativo 'causa persa' -ovviamente in modo affettuoso- amava cucinare, amava fare shopping la domenica pomeriggio, amava le belle giornate di sole rare a Londra... Ma, soprattutto, amava i suoi figli.

Daisy, invece, era la sorellina di Aaron. Una bambina di nove anni che si divertiva a guardare i cartoni animati con le amichette, una bambina spensierata, gentile e giocosa che appena poteva agghindava con strani nastri, ed elastici, i capelli ricci di suo fratello.

Aaron, a volte, si diceva di non c'entrare nulla con quella famiglia così bella. Lui era a conoscenza di ciò che lo stava, lentamente, divorando. E questo guscio, questa barriera, che aveva creato all'esterno, ed all'interno, di se stesso lo faceva apparire ciò che egli in realtà non era.

Aaron Cabell soffriva di predazione infraspecifica; in tutti i sensi. Ne era affetto come malattia, e ne soffriva perchè lo faceva soffrire. Ma con gli anni era riuscito anche a rimarginare, come si rimargina una ferita, questa sofferenza... Il punto è che ogni ferita, lascia una cicatrice.

Egli non riusciva ad aprirsi con nessuno e, se lo faceva, le conseguenze erano devastanti, sia per lui, che per gli altri.

«Non ce la faccio più.»

Si ritrovava, qualche volta, a sussurrare frasi di questo tipo, a fargli eco nelle proprie orecchie, a diventare una macchia indelebile nel cervello.

Le ricadute furono sempre più presenti, in quei mesi. Ed i quesiti che si poneva sulle persone erano diventati più reali, la vita che lo circondava un'allucinazione, i suoi desideri più espliciti, e tutto ciò che bramava sempre più vicino al suo cuore, piuttosto che alla mente.

Lui non voleva esser così, ma doveva. Tutto ciò era come se gli fosse stato imposto da una divinità, un qualcosa più grande di lui... Come se la sua stessa malattia fosse una forza ma, al tempo stesso, una debolezza.

E mentre la sua sindrome si faceva spazio attraverso il suo corpo, raggiungendo piano piano il cuore, la zona dove c'erano i sentimenti puri, sinceri, leali e soprattutto buoni, lui si sentiva sempre più sconfitto. Sempre più distrutto.

Aaron lottò sin da piccolo, per questo suo lato. Lui non scoprì di esser un antropofago, lui lo seppe; lo seppe quando si ritrovava a leccarsi le labbra vedendo qualcuno, lo seppe quando certi interrogativi erano delle fastidiose voci in testa, lo seppe quando l'istinto tentava di prendere il sopravvento. Ed era proprio perchè lo sapeva, che egli cercava di non pensarci e di comportarsi normalmente.

«Aarry, tutto bene?» la madre bussò piano alla porta del bagno, per accettarsi che fosse tutto a posto, visto che erano passati alcuni minuti; d'altro canto, il ragazzo sembrò risvegliarsi da una sorta di trance, un viaggio da cui era difficile fare ritorno. Sbuffò, infatti, al nomigliolo che la madre gli diede, ricordandosi della sua infanzia. Deglutendo, tentò di formulare una risposta.

«Sì, esco.» e così, lasciò quella stanza della casa dirigendosi, poi, in camera sua.

Indossò la solita divisa scolastica, un po' lisa e sgualcita, maledicendo mentalmente il motivo percui doveva alzarsi ogni mattina. Dopo aver preso lo zaino, si diresse verso la camera di sua sorella, per salutarla; aprì lentamente la porta, cercando di creare meno rumore possibile, e avanzò verso il letto dove ella ancora dormiva, piegandosi sulle ginocchia, per arrivare a quel volto per tratti simile al suo.

«Ciao Daisy.» le accarezzò delicatamente i capelli lisci, sentendosi in colpa nei suoi confronti, perchè lei era solo una bambina che non riusciva a rendersi conto della situazione. Aaron si guardò intorno, catturando ogni dettaglio di quella camera, tra le sue ciglia: osservò le pareti rosa confetto cosparse di poster raffiguranti qualche cantante di cui non ricordava il nome, i mobili pieni di pupazzi, la scrivania disordinata, e tutto il resto di quello che lo circondava, in quel momento. Scosse la testa, pensando a quanto lui e sua sorella fossero diversi, e non capì se pensare che fosse una sfortuna o, viceversa, una fortuna. Guardò l'orologio al suo polso; era tardi. Si alzò dal tappeto dove poco prima si era inginocchiato, e si affrettò a dirigersi verso scuola.

«Non mangi nulla, per colazione?» gli domandò Gwen.

Mangiare. Dio, quanto avrebbe voluto cancellare quella parola dalla sua esistenza. Volere, potere. I peggiori nemici di Aaron.

«No, vado che è già tardi.» le rispose.

Si sbrigò ad uscire di casa, percorrendo quelle stradine di Londra che sapeva a memoria.

Si mise gli auricolari nelle orecchie, mentre 'Read All About It' gli faceva eco, procurandogli dei brividi, facendolo catapultare in un mondo dove era lui il vero padrone.

 

You've got the words to change a nation
But you're biting your tongue 
You've spent a life time stuck in silence 
Afraid you'll say something wrong 
If no one ever hears it how we gonna learn your song? 
So come on, come on 
Come on, come on 
You've got a heart as loud as lions 
So why let your voice be tamed? 
Baby we're a little different 
There's no need to be ashamed 
You've got the light to fight the shadows 
So stop hiding it away 
Come on, Come on 

 

Quella canzone la sentiva sua; ogni parola, ogni timbro vocale era per lui.

Grida, Aaron.

Urla, Aaron.

Scoppia, pensava.

 

I wanna sing, I wanna shout 
I wanna scream till the words dry out 
So put it in all of the papers, 
I'm not afraid 
They can read all about it 
Read all about it oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 

 

Ed egli scoppiò; non lo diede a vedere, come suo solito, ma lo fece.

Mosse i cappelli con fare frustato, si sistemò nel modo migliore lo zaino sulla spalla e strinse i pugni, fino a farsi diventare le nocche bianche. Sembrava quasi che volesse uscire dal suo corpo, scappare dai suoi pensieri e non tornare mai più.

 

At night we're waking up the neighbours 
While we sing away the blues 
Making sure that we remember yeah 
Cause we all matter too 
If the truth has been forbidden 
Then we're breaking all the rules 
So come on, come on 
Come on, come on, 
Let's get the tv and the radio 
To play our tune again 
It's 'bout time we got some airplay of our version of events 
There's no need to be afraid 
I will sing with you my friend 
Come on, come on 

 

Per qual motivo sembrava che il mondo ce l'avesse con lui? Perchè le persone lo rendevano così... Instabile?

 

I wanna sing, I wanna shout 
I wanna scream till the words dry out 
So put it in all of the papers, 
I'm not afraid 
They can read all about it 
Read all about it oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 
Oh-oh-oh 

 

Un respiro profondo, un altro respiro profondo ed un altro ancora.

Ce la puoi fare, Aaron. Sei forte, pensava.

Il cuore che martellava, quasi volesse uscire dal suo petto, e l'ansia a divorargli ogni organo del corpo.

Supera anche questa giornata, si ripeteva.

L'entrata di scuola piena di studenti era un incubo; alcuni lo guardavano con disgusto, altri con gli occhi terrorizzati ed altri ancora con pietà. Si sentiva chiuso in gabbia, solo, contro dei leoni affamati di lui e delle sue debolezze. Poi scosse il capo, abbassandolo verso la punta della sue scarpe, e camminò svelto verso l'edificio. I bisbigli erano ogni giorno più distruttivi, quali: "è arrivato il cannibale", "che schifo", oppure "chissà chi avrà intenzione di mangiare oggi". Si era pentito di aver detto a tutti chi era, il secondo dopo averlo dichiarato; e, nonostante fossero passati due anni, la gente ricordava. Perchè la gente non perdona. Non aveva mai fatto del male a nessuno, ma per le persone era come se fosse un omicida.

Sei solo, Aaron.

Fai schifo.

Nessuno mai ti vorrebbe nella sua vita.

Quando ascoltava questa voce dentro di sè, si sentiva anche peggio. Erano più i momenti in cui si odiava, che quelli in cui andava fiero di esser ciò che era.

Ad ogni corso che frequentava era sempre seduto da solo, così come a mensa e durante le conferenze scolastiche. A volte desiderava avere un vero amico; uno di quelli che non giudica, con cui si fanno stupidaggini su stupidaggini, poi si diceva di avere già Daisy, la sua sorellina, quindi andava fin troppo bene così.

«Aaron.»

Al suono della penultima ora di un'altra giornata stressante, lo psicologo della scuola, il dottor Wright, lo chiamò.

Non di nuovo, pensò Aaron.

«Dica.» si voltò, cercando di esser il più cortese possibile.

«Volevo solo dirti che se ti dovesse interessare un aiuto, il mio studio è disponibile.» il dottore diede ad Aaron un biglietto da visita, con tutti i riferimenti per avere una seduta.

«La ringrazio, ma non ce n'è bisogno.» si affrettò a dire il moro, mentre si dirigeva verso l'altro corso, l'ultimo di quella giornata.

«So chi sei, Cabell.» disse l'altro.

«No, mi creda, non lo sa.» rispose subito il ragazzo «Se lo sapesse davvero, non sarebbe qui ora, a discuterne.» agginse poi «E saprebbe che la cosa migliore è solo starmi alla larga, mio caro dottore.» concluse, leccandosi le labbra, mentre la sua voce prendeva un tono più grave e più rauco.

«Non mi fai paura.» ribattè Wright.

Aaron aggrottò le sopracciglia, portandosi inconsapevolmente i capelli mossi davanti agli occhi scuri e «non le credo.» affermò dirigendosi di pochi passi verso l'uomo.

«Cabell, ho visto casi peggiori del tuo. Ho visto persone schizofreniche, bipolari, tossicodipendenti, fobiche ed alcolizzate. Ho conosciuto persone che facevano del male e che si facevano del male. Tu sei in entrambe le categorie.» spiegò pazientemente.

«Io non faccio del male.» disse Aaron «le persone mi stanno distanti ed io sono distante dalle persone, è un giusto compromesso, no?» domandò poi.

«No. Tu non hai ancora capito ciò che ti fa bene, e ciò che ti fa male.» sospirò lo psicologo.

«Vado a lezione, è tardi.» tagliò corto il ragazzo, dirigendosi verso l'ultimo corso.

Wright sospirò, lasciando andare.

Aaron poteva farcela, ma non voleva farcela. Ecco il suo vero problema.

Quando anche l'ultima ora suonò, Aaron fece un grande respiro di sollievo. Si precipitò verso il cancello dell'edificio, spintonando qua e là qualche studente che neanche conosceva.

La sua dimora non gli era mai sembrata così incantevole come in quel momento; suonò il campanello dicendo, successivamente, un «mamma, sono io.» con la voce spezzata per via della corsa.

Gwen aprì la porta, ritrovandosi davanti il figlio completamente distrutto; lo leggeva nei suoi occhi, lo notava dalle sue labbra mai curvate verso l'alto, lo osservava dal suo capo sempre chino verso il basso. Così, come a scavare nell'anima tormentata del suo bambino, ormai cresciuto, lo abbracciò; sentiva che da un momento all'altro, Aaron, si sarebbe sgretolato, sarebbe caduto a pezzi e non si sarebbe più ricomposto. Suo figlio era instabile e lei cercava di salvarlo, tramite degli abbracci materni che sapevano di amore, cura e protezione.

«Ogni volta che tu cadrai, io ci sarò a curare le tue ferite.»

Era la frase che Gwen gli sussurrava, ogni volta che lo trovava in questo stato.

Aaron abbracciò piano la madre, quasi avesse paura di poterla perdere, e quelle parole gli portarono i ricordi della sua infanzia.

 

Era solo un bambino tutto capelli ricci ed occhietti vivaci, aveva circa nove anni, quando si recava nei boschi vicino a casa sua con Jeremy, il suo amico d'infanzia.

Erano soliti a fare delle gare in bicicletta; chi arrivava primo alla "grande pianta" -così la chiamavano loro- avrebbe avuto l'onore di mangiare più fette di torta per merenda.

Aaron aveva una bicicletta rosso fuoco, mentre Jeremy una blu cobalto. E spesso si ritrovavano a discutere per chi l'avesse più bella, o per quale fosse la più veloce, non sapendo che la velocità dipendeva solo da loro e da quanto forte pedalavano.

«Stavolta vinco io!» esclamava Jeremy, mentre sfrecciava verso quella fatidica pianta.

«Ti piacerebbe!» ribatteva Aaron, ridacchiando, sentendo già il sapore della torta al cioccolato in bocca.

Poi il bambino dai capelli ricci cadde, sbucciandosi le ginocchia e facendosi male.

«Aarry, ti sei fatto male?» aveva domandato preoccupato, l'amico, andandogli accanto.

«Chiama mia mamma.» invece aveva detto, con le ginocchia doloranti, Aaron.

«Subito.» aveva risposto l'altro.

E quando Gwen era arrivata, con un sorriso dolce e rassicurante, suo figlio si sentiva già meglio.

«Si è fatto male, il mio piccolo Aarry?» gli aveva chiesto, baciandogli la fronte piena di boccoli.

«Sì.» aveva sussurrato il bambino.

«Ogni volta che tu cadrai, io ci sarò a curare le tue ferite.» aveva detto la donna.

 

E mai come in quel momento, Aaron aveva capito il senso della frase.

Sua madre ci sarebbe stata, sempre. A prescindere da ogni cosa.

«Entra e sfogati, Aarry.» gli disse, prendendolo per il braccio diventato muscoloso e pieno di vene sporgenti.

«Sono stanco di quella scuola, mamma.» le spiegò, sedendosi sul divano di pelle in salotto «odio quando le persone mi guardano sapendo chi sono.» aggiunse scuotendo la testa e sospirando «e odio quando le persone credono di conoscermi.» concluse, portandosi le mani sugli occhi e respirando irregolarmente, ansioso.

«Shh, calmati, va tutto bene.» la madre riprese a confortarlo, abbracciandolo, e dandogli dei piccoli baci sui capelli profumati di shampoo.

«Io non ce la faccio più. Sto scoppiando, capisci? Tutti quanti sanno come appaio, ma non chi sono veramente.» le disse, stringendola, e martoriandosi il labbro inferiore.

«In questo mondo dove ciò che appari diventa indiscutibilmente ciò che sei, l'unica speranza è trovare qualcuno che sappia invadere la tua anima e unirla alla sua, Aaron.» gli spiegò, saggiamente.

«Stronzate. Non troverò mai quella persona e nemmeno voglio incontrarla.» sussurrò, inebriandosi del profumo della madre.

«Quando si conosce il peggio di una persona hai due possibilità: liberartene definitivamente, o iniziare a volerle bene per davvero. Aarry, tu sei speciale e presto anche le persone se ne accorgeranno.» gli accarezzò una guancia, cullandolo di dolci parole.

«Speciale? Come può un cannibale esserlo?» le chiese, sentendo l'odio verso se stesso invaderlo.

«Non sei un cannibale, tesoro.» gli sussurrò «Sei Aaron Cabell, un ragazzo di diciott'anni con una mente che va solo capita ed ascoltata.» aggiunse «e un cuore che va solo amato.» concluse, poi.

«Come no. Dici così perchè sei mia madre.» sputò amaramente.

«Oppure dico così perchè sono sincera.» ribattè Gwen.

«Grazie, mamma. Ma io non voglio star un attimo di più in quella scuola.» disse.

A Gwen, d'altro canto, venne un'idea; magari assurda, o magari geniale.

«Ti ricordi quella vacanza che facemmo a Dublino con papà? Dai tuoi zii? Ti eri divertito moltissimo.» sorrise al ricordo «che ne dici di andare a vivere là? Frequenterai la stessa scuola di Bonnie e ti farebbe bene cambiare aria. Io e Daisy ce la caveremo.» lo rassicurò, sistemandoglì il colletto della divisa scolastica.

«Non credo sia una buona idea... Mi manchereste troppo.» ammise il ragazzo.

«Ohw. Non preoccuparti; da quando ho imparato come si usa Skype avremmo modo di sentirci tutte le volte che tu vorrai. Vivi la tua vita, Aarry. Prova ad esser felice.» gli sorrise, ammicando.

«Non mi piace quella faccia; a cosa stai pensando, mamma?» le chiese, con sospetto.

«Oh, nulla. Lo capirai.» canticchiò, alzandosi dal divano e prendendo la cornetta del telefono.

Nuova vita, nuova scuola, nuove conoscenze...

«No, scordatelo, mamma.» affermò, puntandole un dito contro.

«Io non ho detto nulla, hai pensato tutto tu, bambino mio.» rise, mentre un'altra voce gli arrivò presto al suo orecchio destro.

Aaron alzò gli occhi al soffitto, imprecando contro i viaggi mentali della madre.

«Joseph, mi passi mia sorella?» udì dalla madre, aspettò qualche secondo, e poi «Ciao Liz, sto per farti una proposta.»

E ciò che accadde dopo, fu solo l'inizio.

«Come sarebbe a dire che Aarry se ne va?!» domandò Daisy, già con le lacrime agli occhi, per la partenza del fratello.

«Dais, lo faccio solo per stare meglio. Ci sentiremo spesso, te lo prometto.» rispose Aaron, mentre chiudeva la sua valigia.

«Piccola mia, guardami.» sospirò Gwen «nemmeno io desidero che tuo fratello se ne vada, ma è la cosa migliore. Ha bisogno di un po' di distrazione e questo non significa che lui si dimenticherà di noi, di te.» le spiegò, abbassandosi all'altezza della figlia, accarezzandole i capelli.

«Io non voglio.» disse Daisy, in preda ai singhiozzi.

«Scricciolo.» la canzonò, prendendola per le spalle e facendola voltare verso di lui, chiamandola con quel nomigliolo affettuoso che le riservava «Tu sei la persona che amo di più. Sei una rompi balle, mi rendi i capelli ridicoli, mi fai guardare i cartoni animati, hai la passione per quel cantante idiota di cui non mi ricordo il nome, e mi fai esser sempre lo sposo per le tue bambole, ma... Io ti adoro e non so cosa farei senza di te. Io voglio sempre vederti felice e so che lo stesso vale per te, con me. Percui lasciami provare ad esser felice.» le disse dolcemente.

«Non lo sei qui? Con me e mamma?» gli domandò, asciugandosi gli occhietti.

«Certo che lo sono. Ma preferisco trovare un altro tipo di felicità e, questa, non è qui.» le baciò la fronte abbracciandola.

«Va bene.» disse, capendo, la piccola «Justin Bieber, comunque.» affermò.

«Mh?» le domandò, ridacchiando.

«Il cantante che mi piace è Justin Bieber. Tutti lo conoscono; sei pessimo, Aarry.» ridacchiò, ricambiando l'abbraccio.

«Io non lo sopporto, Daisy.» ammise.

«Ti adoro anch'io, fratellone.» rispose a quella dichiarazione d'affetto lasciata in sospeso, sfregando il naso sulla maglietta del fratello.

«Ah, che schifo Dais!» affermò, ripulendosi.

«Allora, hai tutto pronto?» gli chiese la madre.

«Sì, tutto.» le rispose, guardando verso la sua valigia «Domani si parte.» sospirò poi, malinconico.

«Andrà tutto bene, vedrai.» lo rassicurò, come sempre.

«Sicuramente meglio di adesso.» ridacchiò il riccio.

«Daisy, forza andiamo a dormire, che tuo fratello si deve svegliare presto domani.» disse Gwen, prendendo la figlia per mano.

«Buonanotte, Aarry.» aggiunse poi, la donna.

«'Notte, fratellone.» gli sorrise la sorella.

«Buonanotte.» sospirò il ragazzo.

Quando la porta della sua camera si chiuse, Aaron si sentì colmo di pensieri. I suoi zii erano a conoscenza della sua malattia ed aveva il presentimento che non lo avrebbero mai accettato, a far parte della loro famiglia. Alla fine era come un intruso, antropofago per giunta, si poteva biasimarli? Li avrebbe capiti e si sarebbe nuovamente sentito solo. Scacciò questo pensiero, dicendosi che fosse solo una paranoia e che sarebbe andato tutto bene, mentre si metteva sotto le coperte e spegneva la luce, cercando di dormire.

La mattina seguente, tutto sembrò più limpido ed armonioso.

Era l'inizio di una nuova vita; lontano dai preguidizi, dai pettegolezzi, dalle persone senza cuore... Lontano da tutto.

Solo lui e nessun altro. O, certo, anche i suoi zii e la cugina, ma rimaneva il suo inizio. La sua partenza verso l'ignoto.

«Mi mancherai tantissimo, Aarry. Fai buon viaggio.» la madre gli baciò entrambe le guance, stringendolo ancora. Gli addii all'aereoporto erano la cosa peggiore: strazianti, dolorosi e tristissimi.

«Mi soffochi così, mamma.» ridacchiò, staccandosi da lei, sorridendole.

«Ciao fratellone.» disse, invece, la sorella «Ti voglio bene.» aggiunse poi.

«Anch'io, scricciolo, anch'io. Sii sempre felice.» le sussurrò, prendendola in braccio.

«Sei il mio migliore amico, Aarry.» affermò, stringendogli il collo con le braccia esili.

«E tu sei la mia ancora di salvezza, Daisy.» la strinse ancora una volta, prima di farle toccare di nuovo terra coi piedi.

Poi sentì chiaramente una donna parlare del suo volo, e capì che era ora di andare.

«Ciao famiglia, io vado.» fece un respiro, e si voltò.

«Ciao, piccolo mio.» Gwen aveva già la voce rotta, ma capì che era la scelta giusta per il figlio.

Amare significa sacrificarsi. Amare significa lasciare andare.

«Ciao Aarry.» disse, invece, la sorellina muovendo la mano a mo' di saluto, nonostante stesse piangendo.

Aaron guardò un'ultima volta la madre e la sorella, e provò il vero significato della

mancanza.

«Tornerò, ve lo prometto.» gridò, infatti.

Aaron si sentiva vuoto.

Aaron era un ragazzo che non aveva speranze.

Ed è da qui, che parte la sua vera e propria storia.

Angolo autrice:
ebbene, sì, sono tornataaaaaa :D *alla gente non frega nulla di questo, hanno letto la storia e fa loro schifo*.
Hahaha, no, va beh, sono tornata davvero ed ho anche una nuova storia -questa qui- nella mia testolina, più contorta però ed anche malata, ehehe.
Mi piacciono da matti le storielle malate *u* quindi, niente, sono fatta così.
Vi prometto che aggiornerò presto le altre due, e che mi dedicherò anche a questa.
Ditemi solo se, secondo voi, ne vale la pena. Siate sincere, e ditemi cosa ne pensate.
Inoltre, non temete, Rain arriverà presto nella vita di Aaron ^^ hahah.
Se volete, mi trovate anche qui: ask.fm/Teddy_bear_efp
Un abbraccio ed un bacione, mi siete mancate.
Teddy x.

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo I. ***


Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=JrnDDpjIwkc



Primo capitolo}


«Osservate con quanta previdenza la natura,

madre del genere umano,

ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia.

Infuse nell'uomo più passione che ragione,

perchè fosse tutto meno triste, difficile, brutto,

insipido, fastidioso.»

-Erasmo da Rotterdam

 

Il volo gli sembrò lunghissimo, quasi eterno. Le nuvole fuori dal vetro dell'aereo sembravano soffici, aveva quasi voglia di toccarle. Aaron stava per iniziare un percorso nuovo; sperava con tutto il suo cuore di trovarsi bene, perchè non sarebbe riuscito a vivere in una situazione simile, con una famiglia che non era propriamente la sua.

«Cari passeggeri prepararsi all'atterraggio, controllare se le cappelliere sono chiuse e i tavolinetti rimessi contro lo schienale.»

La voce del pilota gli aumentò l'ansia; era solo questione di minuti e presto avrebbe trascorso dei giorni completamente diversi. Il rumore delle ruote sulla pista fu la goccia che fece traboccare il vaso; Aaron cominciò a tremare, sentendo i palmi delle sue mani sudare e la vista farsi quasi più opaca. Aveva paura, non si poteva negarlo. Quasi non si accorse delle persone che si affrettavano a prendere i loro bagagli, scendendo dall'aereo, recandosi verso la vera Dublino.

Quando anch'egli recuperò la sua valigia e scese le scalette, per toccare nuovamente terra, si disse di cercare di apparire il più normale possibile. Cercò, infatti, un volto femminile simile a quello della madre, in quanto fossero -sua zia e lei- sorelle gemelle, e sperò di trovarlo il prima possibile.

Si guardò intorno, notando l'areoporto pieno di gente che si salutava, persone che si scambiavano effusioni e quant'altro, finchè non riconobbe il volto della donna in questione.

«Zia.» disse mentre, a passo svelto, si avviava verso di lei, che era in compagnia con Joseph, suo zio, e Bonnie, la cugina più piccola di lui di un paio d'anni.

«Aaron? Sei proprio tu?» chiese al ragazzo, guardandolo da capo a piedi con stupore.

«Beh, direi di sì.» ridacchiò, salutandola con un abbraccio svelto.

«Sei cresciuto tantissimo.» affermò Joseph.

«Sono anche passati tanti anni.» disse il moro.

«Già, mi ricordo che eri un piccoletto tutto capelli ed ora guardati, sei un uomo.» sorrise Elizabeth, dando una pacca sulla spalla al nipote. «E tu, Bo? Non lo saluti tuo cugino?» chiese poi, alla figlia.

«Ciao, Aaron.» lo salutò, freddamente, con un cenno del capo.

Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, non capendo il motivo di quel gelo da parte della cugina, ricordandosi che durante l'infanzia andavano abbastanza d'accordo. Decise, ad ogni modo, di lasciar perdere: ella era un adolescente, ed era in una fase difficile della crescita.

«Vogliamo andare a casa?» domandò Joseph, sorridendo.

Aaron annuì, prendendo la sua valigia e dirigendosi verso la macchina dei suoi zii. Quest'ultimi, durante il viaggio verso casa, cominciarono a riempirlo di domande, su domande. Il ragazzo cercò di esser cortese e sorridente, sebbene si sentisse a disagio e quasi in imbarazzo.

«Ti piace disegnare? Wow, è fantastico Aaron. Hai preso sicuramente da tuo padre: Trevor lo amava.» gli sorrise la zia, dallo specchietto «cosa raffiguri generalmente?» domandò successivamente.

«C'è anche bisogno di chiederlo?» chiese Bonnie, acidamente, seduta accanto ad Aaron.

«Bon, smettila.» la rimproverò Joseph, con voce autoritaria.

«Neanche si può dire ciò che si pensa, adesso.» sbuffò la cugina, beccandosi uno sguardo ferito da parte del moro.

Aaron capì quasi subito il motivo dell'ostilità di Bonnie: lei non lo accettava per il suo disturbo mentale. Non si domandò il motivo di tale cattiveria, perchè comprendeva. Alla fine... Quante persone sarebbero state orgogliose di avere come parente un cannibale?

«Non sei un cannibale, tesoro.»

Stupidaggini, mamma.

Pensò Aaron.

«Sei Aaron Cabell, un ragazzo di diciott'anni con una mente che va solo capita ed ascoltata.»

Non è vero, io non merito nulla.

Si disse, stringendo con un pugno sul tessuto della sua felpa.

«E un cuore che va solo amato.»

L'amore è stupido, mamma.

Io non ho nessun cuore.

Gridò nella sua testa, chiudendo gli occhi e mordendosi il labbro inferiore.

Desiderava esser di nuovo nell'età infantile; quando non era ancora a conoscenza della sua malattia, o dei suoi insani pensieri.

 

«Aarry, mi raccomando, fai attenzione.» gli aveva raccomandato il padre, mettendo un cappellino di lana sulla testa piena di boccoli del figlio.

«È una normale gita scolastica, papà. Andiamo sulla neve!» aveva esclamato il bambino, entusiasta.

«Beh, c'è anche nel nostro giardino la neve.» aveva ridacchiato Trevor, allacciando il cappotto pesante di Aaron.

«Ma la neve in montagna è più bella.» aveva detto, saltellando «ci sono gli orsi! Papà, dici che ne vedrò uno?» aveva chiesto poi, intrepido.

Trevor aveva riso, scuotendo appena il capo.

«Certo.» aveva detto poi, baciandogli la fronte.

 

Sorrise malinconicamente Aaron, ad uno dei pochi ricordi che possedeva del padre.

Saresti fiero di me, ora, papà? Si chiese nella sua testa, guardando fuori dal finestrino, mentre i suoi zii parlavano di politica, o economica, forse.

Dublino era più bella di come la ricordava: gli sembrò meravigliosa grazie a quelle distese verdi che tanto amava o, forse, per il tempo nuvoloso che, d'altro canto, non era molto differente da quello di Londra. Le stradine erano provviste di case, villette e palazzi, con dei giardini stupendi.

«Siamo quasi arrivati.» sentì dire da Elizabeth, che si rifaceva il trucco.

Annuì meccanicamente, tornando a guardare il paesaggio esterno. Era incredibile come la sua vita stesse prendendo un'altra direzione; forse sarebbe guarito, o migliorato. In cuor suo lo sperava, nella sua mente lo temeva. Fece un respiro profondo, prese poi il suo cellulare, mandando un messaggio a sua madre che recitava: "Sono quasi arrivato a casa degli zii, spero che vada tutto bene. Un abbraccio a te e Daisy." la risposta non tardò ad arrivare: "sarà così, non preoccuparti. Ti abbracciamo anche noi.".

Sorrise cercando di apparire tranquillo ma, quando la macchina si fermò davanti ad una casa modesta, non si sentì calmo per niente.

Ammirò il giardino verde e rigoglioso, catturando tra le sue ciglia ogni dettaglio. Osservò, poi, la facciata della casa colorata di un pesca tenue, ed i tre gradini di pietra che davano alla porta d'ingresso. Respirò, respirò e respirò ancora.

«Spero che sia di tuo gradimento.» una mano calda sulla sua spalla lo fece sussultare, le sue pupille si dilatarono mentre si voltava verso il suo interlocutore.

«Mi piace zio, davvero. E grazie per l'ospitalità.» tentò di dire, mentre tentava di deglutire la poca saliva, presente all'interno della sua bocca.

«È un piacere, Aarry. Sei nostro nipote, sai che ti vogliamo bene.» gli sorrise Joseph, salendo i gradini che precedevano la porta d'ingresso. Aaron annuì, incapace di rispondere un "vi voglio bene anch'io", in quanto troppo sincero sui sentimenti.

Aaron voleva bene ai parenti, a sua madre, o a sua sorella, solo che non se ne rendeva conto. E, ancora una volta, era il cervello a prevalere sul cuore. Esistono la bontà e la cattiveria in un solo corpo? La realtà ci insegna che una persona o ha dei sentimenti buoni, puri e leali, oppure è subdola, perfida e spietata. E se Aaron fosse un insieme dei due? Quale sentimento ne uscirebbe illeso? Le ferite del cuore sono quelle più difficili da curare, o arginare, e lui era ferito nel profondo, senza che le persone potessero dare peso a questa cosa. Aaron si nascondeva, come un criminale. E le belle persone devono mostrare ciò che c'è in loro; il problema di egli era che non si considerava tale.

 

«Mamma, noi siamo buoni?» aveva chiesto, quando aveva dieci anni, alla madre, intenta a preparare la cena.

«Beh, non tutte le persone sono buone, Aarry. C'è la gente cattiva e quella buona, non credi anche tu?» gli aveva sorriso, scompigliando i capelli ricci e voluminosi del figlio.

«Questo lo so, mamma. Intendo... Secondo te le persone sono buone da mangiare?» aveva detto ridacchiando, felice.

«Non penso proprio, piccolo. Ma perchè questa domanda?» Gwen era rimasta stupida, dalle domande del figlio, ma, in fondo, era solo un bambino. È normale porsi strani quesiti, quando si è bambini.

«Ero curioso.» aveva alzato le spalle, sorridendo ancora e andando in salotto a guardare i cartoni animati.

La madre aveva strabbuzzato gli occhi, scuotendo poi la testa. La solite sciocche domande dei bambini.

 

L'ingresso della casa, dei suoi zii, era diverso dal fieviole ricordo che aveva di esso. Le pareti erano arancioni spatolate, circondate da dei quadri raffiguranti paesaggi montani e rive di mare con un tramonto sullo sfondo; la televisione della sala notevolmente grande, con la console della playstation, in un ripiano del tavolo, sotto di essa. Il tavolo da caffè di colore noce aveva, al centro di sè, una tovaglietta di pizzo con un vassoio, sopra di essa, ricoperto da molte varietà di caramelle. La cucina era fantastica, molto più grande e moderna di quella di casa propria, ed anche molto più accogliente e vissuta. Le camere erano luminose ed immense, mentre i bagni erano piccoli, ma comodi.

«Questa è la tua stanza, Aarry.» Elizabeth aprì la porta, rivelando la camera degli ospiti.

Aaron si guardò intorno, posando le sue valigie. Si stupì di quanto, quella camera, fosse confortevole. Le pareti color albicocca, il letto ad una piazza e mezza ordinato e rivestito da lenzuola azzurrine, il tappeto dei "Beatles", la scrivania vuota ed una televisione non molto grande. Era... Perfetta. Ad Aaron bastava un posto per dormire e quello era il paradiso.

«È bellissima!» esclamò, infatti, visibilmente stupito.

«Sono contenta che ti piaccia.» sorrise, sua zia.

«Adesso sistema le tue cose, goditi la camera e poi ti chiamo per la cena.» gli ammiccò, chiudendo la porta.

Il moro ridacchiò, incominciando a disfare i bagagli, aprendo piano la valigia più piccola delle tre che si era fatto carico. Vi trovò dentro un sacchettino, che lui conosceva bene, lo guardò attentamente, insicuro sul da farsi. Scuotendo la testa, facendo andare qualche boccolo qua e là, lo aprì, trovandovici dentro una catenina dorata con un ciondolo a forma di quadrifoglio, anch'esso, d'oro.

«Mi manchi papà.» sussurrò, contemplando l'oggetto in questione.

 

«Aarry, vieni qui!» aveva gridato Trevor, ridendo per le corse del figlio che giocava all'acchiappa-acchiappa, nel bosco vicino a casa.

«Tanto non mi prendi, tanto non mi prendi.» canticchiava Aaron, continuando a correre.

«Mi arrendo, ma vieni qui, che devo darti un regalo.» aveva detto, sedendosi sull'erba, affannato. E «sei veloce» aveva aggiunto al figlio, che si avviava verso di lui.

Di risposta, il piccolo, aveva fatto una linguaccia, guadagnandosi le risa del padre.

«Questo è un ciondolo che voglio regalarti.» aveva detto poi, staccando dal collo i gancetti della collana che erano legati tra loro, per poi riattaccarli a quello del figlioletto, di collo.

«Campione, voglio dirti una cosa.» aveva sospirato, per poi continuare «tu e Daisy siete dei figli meravigliosi, oltre che dei bambini davvero incredibili. Crescerete, eccome se lo farete, affronterete la vita con forza e coraggio ed anche se, ogni tanto, vi sembrerà che essa sia stupida, ricordatevi di vivere. Sempre.» aveva aggiunto, sentendo gli occhi pizzicare «Io vi amo, sai? Ti voglio un bene dell'anima campione, questo ricordatelo. Ed anche se non sarò presente visivamente, lo sarò sempre qui.» aveva detto, indicando il cuore di Aaron «Tu e Daisy siete i miei angeli, è giunta l'ora che sia io, il vostro. E, questa» aveva precisato, toccando con l'indice il ciondolo «è una parte di me immoratale che sarà sempre con te, Aarry. Prenditi cura di tua madre e di tua sorella; sei un bambino fantastico e sarai anche un adulto responsabile. Sei l'ometto di casa ormai, non trovi?» aveva ridacchiato, cercando di non mostrare le lacrime, mentre Aaron si affrettava ad abbracciarlo, stringendo forte il suo papà «Promettimi di amare chi preferisci, promettimi di vivere come vorrai. Ma, soprattutto, promettimi di esser sempre te stesso. Perchè tu sei perfetto così come sei, campione.» aveva concluso, baciandogli il capo, mentre si sforzava di essere forte.

«Non mi stai dicendo addio vero, papà? Perchè questo discorso? Te ne vuoi andare?» aveva chiesto il bambino, con le lacrime agli occhi.

«No, non me ne voglio andare.» aveva risposto Trevor, stringendolo più forte, rigandosi anch'egli le guance, con le proprie lacrime.

 

Guardò in alto, cercando di mandar via il magone, dovuto alla nostalgia ed ai ricordi. Gli era stata sempre portata via ogni cosa bella, anche per questo non credeva più in nulla. Indossò la catenina, dopo averle dato un lieve bacio, e sistemò il resto dei suoi oggetti. Ripose i vestiti nell'armadio di color ciliegio della sua camera, alcuni soprammobili sulla scrivania, ed il suo quaderno contenete i suoi disegni nel cassetto del comodino. Sospirò, soddisfatto della sua opera, e si sdraiò sul letto, chiudendo piano gli occhi.

 

«Cosa nascondi davvero, Aaron?» chiedeva, una voce.

«Non credo che tu lo voglia sapere.» rispondeva, mentre si avventava su quella persona, mordendole una clavicola.

La pelle si staccò, entrando subito nella sua bocca, il sangue era come se prendesse vita nella gola del ragazzo. Ed egli non voleva staccarsi, mai. Mai. Mai.

Era una bella sensazione, quasi come una droga. Si inebriò di quel profumo, masticando e mordendo ancora, mentre quella persona urlava, imprecava e supplicava al moro di smetterla. Presto, a quella figura, mancò anche il tessuto muscolare, che aveva raggiunto lo stomaco di Aaron. Doveva staccarsi, ora o mai più.

E scelse il mai più.

 

Si svegliò di soprassalto, sudato ed ansimante.

«Merda.» sussurrò, passandosi una mano sulla fronte e cercando di regolarizzare il respiro. Aprì la porta della sua nuova camera, con l'intento di dirigersi in bagno a lavarsi il volto.

Non dava mai peso ai suoi incubi; eppure quello sembrava così reale, così sadico... Così malato. Posò i palmi della sue mani sul lavello, guardando poi la sua figura riflessa nello specchio.

Sei un mostro, si disse, scuotendo il capo. Aprì, poi, il rubinetto dell'acqua fredda, sciacquandosi il viso.

«Aaron.» disse Bonnie, aprendo la porta.

Egli sussultò, saltellando sul posto lievemente, facendo ondeggiare i suoi capelli sul volto, portandosi poi una mano al centro del petto, sul cuore.

«Questa è bella! Un cannibale che si spaventa!» disse ridendo sarcasticamente la cugina, facendo un cenno del capo al ragazzo, come per dire "spostati". La rossa si lavò le mani, dicendo poi ad Aaron che fosse pronta la cena, aggiungendo un "so che non sarà di tuo gradimento" in modo acido e brutale.

Aaron sbuffò, lasciando perdere, e si recò anch'egli in cucina, prendendo posto a tavola, accanto a Bonnie.

«Che faccia che hai Aarry, va tutto bene? Sei pallido.» disse sua zia, spostando di poco i capelli che ricadevano sulla fronte del nipote.

«Ah, lascia perdere, mamma. Sono entrata mentre era in bagno e si è spaventato, il povero cucciolo.» rispose Bonnie, in modo sprezzante, mentre girava la forchetta nel piatto, intenta a prendere un po' di spaghetti.

«Bon, devi smetterla, ok?» disse serio Joseph, guardandola negli occhi.

Ella si toccò il piercing sul lato superiore della bocca, come era solita fare quando era nervosa, o arrabbiata. Di risposta alzò gli occhi al cielo, sbuffando e mimando un "ok" con la bocca, mentre mangiava ciò che aveva nel piatto.

Il resto della cena fu silenzioso, ogni tanto, zia Betty, parlava con il marito e cercava di rendere partecipe anche Aaron, con scarsi risultati.

Lui che era ancora rimasto al suo sogno. O, meglio, al suo incubo. Lui che si poneva milioni di domande. E, lui, che non trovava mai le risposte giuste.

A fine cena, aiutò la zia a sparecchiare, la quale disse che non ce n'era bisogno, e che l'avrebbe aiutata Bonnie. Aaron, infatti, la ringraziò e, dopo essersi lavato i denti, si diresse subito in camera sua. Attraversò il corridoio con sguardo vacuo e perso nel vuoto, mentre con la mente tentava di percorrere di nuovo il suo incubo di poco prima. Spalancò con un gesto quasi automatico la porta della sua nuova camera, chiudendola una volta entrato.

Va tutto bene, si disse.

Aprì il cassetto del comodino, prendendo i suoi fogli da disegno, e si mise a scarabocchiare qualcosa. Prese posto sulla sua scrivania e... Una linea, due linee, tre linee...

«Non è possibile.» sussurrò, guardando la bozza grafica.

Si alzò da dove era seduto, aprì nuovamente con uno scatto la porta di camera sua e tornò in cucina, con l'intento di raccontare tutto, finchè non sentì dei sussurri.

«Non lo voglio in casa nostra.» udì dalla voce di Bonnie, insieme all'inconfondibile suono del lavaggio dei piatti.

«È tuo cugino, tesoro.» disse invece Joseph, che si era alzato da tavola, dove era intento a leggere una rivista di automobili.

«Non me ne fotte un cacchio se è mio cugino, rimane un essere orribile, che sarebbe capace di ucciderti e mangiarti, papà.» alzò di poco la voce la cugina, con fare esasperato. Aaron sentì un crack, proprio all'altezza del petto, un peso opprimente nello stomaco e la voglia di rigettare tutta la cena.

«Aarry non è così, Bon.» ribattè sua zia, con fare sicuro.

«Non lo sa nemmeno lui cos'è, mamma.» affermò, invece, la rossa.

Il moro si disse che ne aveva sentite abbastanza, per quella sera, così tornò in camera sua, trascindando i suoi stessi piedi, e sopirando con fare stanco.

Si distese sul letto, buttando la testa sul cuscino, e pensò a quanto sarebbe stato bello se lui fosse stata una persona normale.

Avrebbe avuto degli amici, dei parenti affettuosi... Una bella vita, si può dire. Inoltre non poteva esser arrabbiato con Bonnie; lei aveva ragione. Era solo... Dispiaciuto, ecco. Era dispiaciuto di essere Aaron Cabell, nonostante la promessa fatta al padre, quando aveva dodici anni.

«Aarry.» una mano gli toccò la spalla, scuotendolo appena e risvegliandolo dai suoi pensieri.

«Oh, zia.» rispose, alzandosi e mettendosi seduto sul letto.

«Dopodomani inizi la scuola di Bonnie, ti ho portato la tua divisa scolastica.» disse Betty, posando, gli indumenti piegati, sulla scrivania.

«Grazie» sussurrò, facendo un lieve sorriso.

«Che succede?» domandò sua zia, preoccupata.

«Uhm? No, niente.» rispose Aaron «Sono solo un po' stanco.» aggiunse poi, sospirando.

«Non mentirmi. Avanti, come mai hai quell'aria depressa?» richiese infatti Elizabeth, per niente convinta dalla risposta del nipote.

«Ho sentito cosa vi siete dette tue e Bonnie, poco fa, in cucina.» sospirò, portandosi le mani al volto e stropicciandosi gli occhi.

«Oh.» disse Betty «Senti, Aaron, Bonnie è una ragazza difficile, non pensa quelle cose veramente. È in un'età critica, ha un carattere un po' ribelle... Ma non è cattiva e nemmeno pensa ciò che ha detto.» spiegò poi, con calma.

«Anche se non lo pensasse davvero, rimane il fatto che ha ragione.» disse a sua volta, il moro.

«Non è vero! Tu sei una brava persona, lo sappiamo tutti. Anche Bonnie lo sa; è solo ancora un po' scioccata dalla notizia, tutto qui.» affermò la donna.

«Ho fatto un sogno prima... O, meglio, ho fatto un incubo.» confessò il ragazzo, raggiungendo il disegno fatto poco prima, con l'intento di mostrarlo alla zia.

«Cosa?» chiese Elizabeth, mentre Aaron le consegnava il suo disegno in mano.

«Ogni volta che faccio dei sogni, riguardanti la mia malattia, disegno tutto quello che mi ricordo. È una sorta di terapia personale.» spiegò «Molte volte, mentre dormo, la mia mente sforna delle immagini dove aggredisco le persone.» aggiunse «Ma mai, prima d'ora, ho sognato un volto femminile.» concluse, scuotendo la testa, passandosi la lingua tra le labbra.

«Sul serio?» domandò l'altra, incredula.

«Già. Erano sempre uomini, oppure persone delle quali non ricordo il volto... Ma lei... Non so, lei era davvero reale.» si morse il labbro inferiore, quasi fino a farlo sanguinare «Ho paura che si tratti di una premonizione, oppure di qualcosa di simile.» ammise poi, concludendo.

«Ah, non ci pensare. Era solo un brutto sogno Aaron, a nessuno vuoi fare del male.» lo abbracciò la donna, cullandolo di dolci parole.

«Ogni volta che vorrai parlare con qualcuno, io sono qui.» gli sorrise poi, alzandosi dal letto.

«Dormi adesso, e cerca di stare tranquillo, ok?» gli diede un bacio in fronte e si diresse fuori dalla camera.

«Ci proverò. Buonanotte zia.» disse, pronto andare a coricarsi.

«'Notte, Aarry.» rispose ella, chiudendo la porta.

Aaron si tolse la felpa che indossava, e fece lo stesso anche con i suoi jeans e le calze, per poi mettersi una maglia ed un paio di pantaloni del pigiama. Si mise sotto le coperte, spegnendo poi la luce della lampada sul comodino, tentando di addormentarsi.

Andrà tutto bene, Aaron.

Magari domani, o quello dopo, ma andrà tutto bene, si ripetè.

E piano piano, chiuse gli occhi, cullato dal ticchettio della sua sveglia.

Angolo autrice:
yay, yay :D ecco qua il primo capitolo. Per sfortuna mia e fortuna vostra sono di fretta, perché devo studiare chimica e fare la doccia D:
Ad ogni modo, non so se la storia vi piace, perché nello scorso capitolo non ho avuto i vostri pareri, cavolo. E mi dispiace di questo!
Se mi lasciaste una recensione? Anche piccola, davvero. Ne sarei onorata, e desidero capire se ne vale la pena.
Oh! Fatemi un applauso perché ho detto al tipo che amo da due anni che lo amo :D e lui è confuso :D ma va tutto bene :D.
Sì, okay, l'amore rende dementi. Beato Aaron che non lo può provare... Forse, ehehe. Vedrete, vedrete u.u
Detto/scritto questo, vi saluto, lasciandovi il mio cuoricino un po' spezzato.
Un bacione x.

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Capitolo 3
*** Capitolo II. ***


Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=JrnDDpjIwkc



Secondo capitolo}
 

«Nella solitudine, il solitario divora se stesso.

Nella moltitudine, lo divorano i molti.

Ora scegli.»

-Friedrich W. Nietzsche

 

Quella notte, Aaron, la passò abbastanza serena. Dormì profondamente, e si svegliò solo una volta, dopo l'ennesimo incubo, raffigurante la stessa figura femminile. Non si chiese il perchè, era abituato a quei viaggi della mente durante il sonno, inoltre la zia l'aveva rassicurato, la sera prima.

Così la mattina venne svegliato dai rumori provenienti dalla stanza da bagno accanto alla sua camera; si doveva trattare della cugina, la quale si stava preparando per andare a scuola. Lui sarebbe andato il giorno dopo, dopo essersi ripreso dal viaggio; si sentiva ansioso, ed aveva un po' di paura. Si morse il labbro inferiore, rigirandosi tra le coperte e chiudendo nuovamente gli occhi.

Coraggio, Aaron, andrà tutto bene; si ripetè, alzando ancor più le coperte.

Il vociare delle persone presenti in quella casa gli mostrò come doveva esser una vera famiglia: nessun malato, problemi piccoli e risolvibili, e molto linguaggio tra i componenti. La sua famiglia non era mai stata così; quando, ad appena undici anni, cominciarono a presentarsi i primi sintomi della predazione infraspecifica, tutto cambiò. E quando il padre di Aaron morì l'anno successivo, fu il caos completo. Il moro, infatti, si chiuse in se stesso, evitando qualsiasi tipo di contatto fisico e verbale. Probabilmente la sua sindrome cominciò a prendere il sopravvento da lì, e lo ridusse a tanti pezzettini invisibili sparsi ovunque. Di Aaron rimasero solo i resti, ma sua madre e sua sorella, tra questi suoi resti, restarono. Ed egli non potè mai ringraziarle abbastanza. Da quel periodo iniziò quasi una variazione completa del carattere; lui, infatti, passò da bambino vivace -quale era- ad un preadolescente -e, successivamente, un adolescente- triste e morto interiormente. Trovò conforto e compagnia nella solitudine, nelle cose deprimenti e nel dolore. Dolore che piano piano seppe sopportare ed amare. Aaron, infatti, amava il suo dolore, la sua malattia ed il suo vivere, ma al tempo stesso li odiava. Quello che a lui sembrava giusto, per gli altri era indiscutibilmente sbagliato.

Perchè era sbagliato fare certi pensieri sugli uomini, ovviamente.

Perchè era sbagliato chiudersi in se stessi, giustamente.

E perchè era sbagliato esser malati, normalmente.

Aaron era "fuori dalla norma", ed era proprio questo a renderlo speciale. Per quale ragione tutto ciò che è diverso, o insolito, deve esser reputato automaticamente sbagliato? Le persone si guardano con occhi ciechi, si ascoltano con orecchie sorde e parlano troppo. È questo ciò che colpevolizza ancor di più certi, come Aaron. La gente che capisce davvero, o quella che ama, piuttosto che quella che non solo sente, ma ascolta, non rende la tua esistenza un errore, ma un bellissimo dono. Aaron Cabell non si considerava un dono, ma lo era; lo era per tutte le persone che gli erano vicine. Come può una persona sentirsi sola, nonostante non lo sia? Talvolta, nella vita, esiste l'inspiegabile. L'amore, ad esempio, lo è; o il destino, il fato... Gli esseri umani sono attratti da questo "inspiegabile"; lo sono talmente tanto da farsi male, delle volte, pur di scoprirlo. E tutto ciò che non ha spiegazioni si trova nel cuore e nella mente. Cuore e mente. Due rivali sempre in guerra nel corpo di Aaron. Quest'ultimo, dopo l'ennesimo cambio di posizione, decise quindi di alzarsi. Aprì la porta di camera sua, e si diresse verso il bagno vicino, trovandovici dentro la cugina intenta a truccarsi ed a pettinarsi.

«Buongiorno.» bofonchiò, il ragazzo.

Bonnie gli rispose con un cenno del capo, per poi tornare a sporgersi verso lo specchio, con intenzione di mettersi meglio il mascara sulle ciglia.

«Se ti dicessi che sei bella anche senza trucco, mi faresti usare il bagno? Ne avrei seriamente bisogno.» disse poi, sbadigliando poco dopo.

«Prima di tutto, oggi nemmeno vieni a scuola. E, seconda cosa, no. Fattela addosso, non m'importa.» proferì l'altra, acidamente.

«Sei sempre così comprensiva, Bonnie.» ribattè sarcasticamente il moro.

In risposta la ragazza gli sorrise, facendo l'occhiolino. E, dopo una buona manciata di minuti spesa in ritocchi, si decise ad uscire dal bagno.

«Grazie a Dio, finalmente!» esclamò Aaron, sollevato, una volta che la cugina uscì.

Era evidente che non poteva esser il benvenuto in quella casa; certo, i suoi zii erano stati gentili e disponibili, ma sua cugina era una ragazza acida ed indisponente. E lui credeva di esser accolto a braccia aperte, invece. O, perlomeno, credeva di esser accolto.

Sei un illuso, Aaron; si disse, infatti.

Si sciacquò le mani ed il volto, sentendo, successivamente, un brontolio allo stomaco dovuto forse alla fame. Così decise di dirigersi in cucina e, sebbene fosse presto, di iniziare a far colazione.

Il corridoio contornato da quadri, opere d'arte e vari oggetti, gli sembrò bellissimo e gradevole, così come il salotto, e la sua camera, che gli parve il suo piccolo rifugio già alla prima occhiata. Fu quello che si dice "amore a prima vista". Ed anche la cucina non era da meno, soprattutto perchè al suo interno c'erano delle persone che si amavano, e che vivevano serenamente, almeno prima del suo arrivo. Lo rattristò questo pensiero, incupendo il suo sguardo. Entrò piano, infatti, in quella stanza, come se sperasse che nessuno facesse caso a lui, o alla sua inevitabile presenza. Ma, ovviamente, fu il contrario.

«Buongiorno Aarry.» parlò per primo Joseph, che era intento a leggere il quotidiano.

«Tesoro, ti sei alzato presto! Dormito bene?» chiese invece la zia, sorridente come sempre.

«Sì, abbastanza. Voi?» domandò cordialmente a sua volta, il ragazzo.

«Anche noi, grazie.» gli sorrise lo zio.

«Vuoi un po' di latte e cereali?» aggiuse poi, gentilmente.

«Magari, grazie.» sorrise lievemente, mentre la zia gli porse la colazione.

«Beh, io vado a scuola, ciao.» sentenziò Bonnie, alzandosi e salutando la sua famiglia.

La ragazza ricevette dei "buona giornata" ed un "fai la brava", in risposta. Così, Aaron respirò sollevato, una volta sentita la porta sbattere.

«Pensavo di uscire stamattina, e di fare un giro per il quartiere.» confessò il moro, portandosi alla bocca il cucchiaio con i cereali.

«É una bellissima idea! Almeno ti svaghi un po' e conosci qualcuno.» appoggiò l'iniziativa, Elizabeth.

«Sì, infatti. Ti farebbe bene, Aarry.» concordò lo zio.

Aaron annuì, sorridendo lievemente. Finì la sua colazione, si lavò i denti e, dopo essersi cambiato, uscì dicendo ai suoi zii che tornava per pranzo.

Scese i gradini di pietra dell'ingresso ed attraversò il giardino, finendo subito in strada. Sebbene fosse ottobre il freddo pungente gli entrò nelle ossa, nonostante fosse coperto con il suo cappotto nero ed una sciarpa grigia di lana. Le villette accanto a quella dei suoi zii erano simili, se non identiche, e la nebbiolina che adornava il posto, lasciando un'atmosfera tetra e misteriosa, lo fece sentire incredibilmente a suo agio. Respirò profondamente, dando modo all'aria fredda di entrare nei suoi polmoni ed a quell'ambiente di invadere la sua anima tormentata e vacillante tra il bene ed il male. Guardò alla sua sinistra, intravedendo, tra la nebbia, un bosco. Aggrottò le sopracciglia, e si avviò verso di esso, incuriosito e voglioso di scoprirlo. Camminò piano, assottigliando lo sguardo, di tanto in tanto. Una volta giunto, si fermò esattamente dove questo iniziava; la stradina di terriccio ed erba lo intrigava a tal punto da pensare che, aldilà di quel miscuglio di piante ed erbacce, ci fosse l'infinito; gli alberi erano maestosi, la maggior parte erano querce, e vi erano presenti anche alcuni salici piangenti e pini. Fu una sorprendente coincidenza quella che, anche lì, a Dublino, a pochi passi dalla casa dei suoi zii, ci fosse un bosco quasi del tutto abbandonato. Si guardò intorno Aaron, spiando se ci fossero delle persone presenti; poi, una volta sicuro di esser completamente solo, fece un respiro profondo ed entrò in quell'immensa distesa verde insidiosa e stuzzicante.

Il gracchiare di uno stormo di corvi invase completamente il suo udito, mentre la sua mente lo riportava ad immagini passate, di quando il suo disturbo era agli inizi e procedeva, portando egli verso il peggioramento ed il completo distacco dalla realtà.

 

Era un giorno qualunque, Aaron andava alla scuola secondaria di primo grado, era al primo anno, e stava passando l'intervallo con i suoi migliori amici: Jeremy ed Andrew. Erano tutti e tre arrabbiati, perchè la signora Dyer aveva dato loro delle brutte, gigantesche e rosse "F" al compito di storia. Ovviamente, da bambini monelli quali erano, avevano dato tutta la colpa all'insegnate, non a loro stessi che, i giorni prima, avevano giocato, invece che studiare.

«La odio!» aveva esclamato Jeremy, iroso contro ella.

«E non sei l'unico; mia mamma mi toglierà tutti i videogiochi, quando lo saprà.» aveva ribattuto Andrew, sbuffando.

«Se potessi la mangerei viva.» era stata, invece, l'affermazione di Aaron, detta sadicamente.

Andy -soprannominato così- e Jeremy, avevano strabbuzzato gli occhi, facendo poi una smorfia di disgusto. Chiendendo poi, ad Aaron, se l'avrebbe fatto davvero.

Ed egli, quasi ghignando, aveva risposto «non sarebbe male.» lasciando perplessi i suoi amici.

 

Ebbe un brivido lungo la schiena, al ricordo. Inoltre si alzò un vento freddo, che lo fece tremare ulteriormente.

Gli venne quasi il magone all'idea che era stato lui a rovinare la famiglia. Lui credeva di esser la rovina, vera e propria, della famiglia.

Dovresti vergognarti di ciò che sei, Aaron. Si disse.

Troppe voci nella sua testa. Troppe cicatrici nel suo cuore.

 

«Quindi mi sta dicendo...» aveva tentato di proferire la madre di Aaron, lasciando la frase a metà.

«Suo figlio soffre di predazione infraspecifica; meglio conosciuta come antropofagia, o cannibalismo.» aveva detto lo psichiatra del ragazzino. Quest'ultimo era diventato suo paziente un mese dopo la morte del padre; Gwen aveva pensato che per far affrontare meglio la perdita al figlio, c'era bisogno di un aiuto esterno. Un aiuto più capace ed esperto, come quello del dottor Shapiro.

«Sta scherzando. Non è possibile...» aveva ribattuto la donna, guardando il figlio seduto sulla poltroncina, alla sua destra, che era intento a giocare ai videogiochi, ignaro quasi del tutto.

«Signora, mi ascolti: questa malattia potrebbe rivelarsi, con il tempo, pericolosa e fatale. Certo, Aaron potrebbe migliorare; alla fine, ora come ora, è solo un bambino. Ma, ovviamente, non c'è da escludere anche un progressivo peggioramento. Non è colpa sua, nè tanto meno colpa di suo figlio. È un qualcosa che nasce e si manifesta poi. Tutto quello che possiamo fare noi è provare ad aiutarlo, mi capisce? Standogli vicino e con le cure giuste potrebbe esser un problema risolvibile.» aveva spiegato meglio, Shapiro.

«Il mio bambino... Mi ero accorta che qualcosa non andava! Me lo sentivo... Io... Io lo sapevo!» le lacrime avevano preso a rigarle le guance, mentre nella sua mente tutto si faceva più limpido ed ogni cosa "strana" ora aveva una spiegazione.

Non aveva fatto in tempo a singhiozzare di nuovo, che Aaron -il quale non aveva prestato molta attenzione a quella conversazione tra adulti- si era precipitato verso di lei, veloce come un fulmine.

«Mamma, perchè piangi?» le aveva chiesto, abbracciandola forte.

«Perchè ho paura di perderti.» aveva risposto, Gwen, sincera.

Aaron aveva scosso il capo, stringendola più forte, come per dirle che no, non lo poteva perdere e che lui era lì. Il dottor Shapiro, commosso da quella scena, aveva dato alla donna un fazzoletto, e l'aveva rassicurata dicendole che si sarebbe risolto tutto.

Gwen aveva perso suo marito, ed il padre dei suoi figli, solo un mese prima. Aaron sembrava un bambino forte, ma era solo un guscio, dove all'interno c'era il vero lui, quello sofferente, che si stava chiudendo sempre di più in se stesso e che stava aumentando lo spessore della sua scorza protettrice. Inoltre, si era aggiunta la sua malattia, ed avrebbe dovuto lottare contra di essa. Ma non era solo. Gwen aveva deciso che l'avrebbe aiutato e che, da questa battaglia, ne sarebbero usciti vivi ed illesi, con solo un brutto ricordo alle spalle.

«Voglio che Aaron continui la terapia.» aveva detto, facendo sedere il figlio sulle ginocchia.

«È il mio lavoro, signora Cabell. Ce la faremo.» aveva sentenziato lo psichiatra.

 

Farcela. Non è così facile.

Cadere da una bicicletta e rialzarsi, è facile.

Fare pace dopo una piccola litigata, è facile.

Ma guarire... Guarire no. Guarire è la cosa più complessa; che sia guarire da un amore, guarire da una delusione, guarire da una perdita, guarire da una sconfitta, o guarire da una malattia. Si ammalano ogni giorno, le persone. A volte non si da peso, perchè le ferite nel cuore potrebbero esser piccole ma, anche queste, se si accumolano diventano insopportabili. Se si prende un barattolo di zucchero ed una formica ci entra, non succede nulla, perchè una sola di queste, anche volendo, non riesce a mangiare l'intero contenuto del barattolo. Ma se una colonia di formiche entra in quest'ultimo, lo zucchero ha buona probabilità di finire o, perlomeno, di abbassarsi di livello. E così è anche per ogni lacerazione, che sia nel cuore, o che sia all'esterno. Aaron incominciò con un piccolo taglio dentro di sè e, non curandolo, se ne aggiunse un altro, e poi un altro, e poi un altro ancora. Era profondamente ferito, e non si sapeva se queste brutte cicatrici si potevano ancora curare. Una cosa era certa: egli si poteva salvare, solo se si lasciava salvare. Perchè, anche con tutta la buona volontà del mondo, non si può portare a galla una persona a cui piace affogare. Ed Aaron nella marea della sua sindrome stava annegando. Chiuse gli occhi, una volta raggiunto il centro del sentiero, e si fece cullare da quel lieve vento gelido che sembrava portarlo via da un momento all'altro.

 

«Aarry, piano, piano.» aveva emesso queste parole, la voce di Trevor.

«Dai, papà, sbrigati. Altrimenti ce lo perdiamo.» aveva ribattuto il ricciolino in braccio all'uomo.

«Sei incredibile.» aveva ridacchiato il padre. E poi «eccoci arrivati.» aveva aggiunto, posando il figlio a terra.

«Giusto in tempo.» aveva proferito Aaron, intento a guardare davanti a sè.

E poi era arrivato, il tramonto. Le sfumature del cielo arancioni, quasi rossastre, erano uno spettacolo meraviglioso e quel venticello era gradevole e fantastico.

«È splendido.» aveva sussurrato Trevor, posando una mano sulla spalla del figlio.

«Ti voglio bene, papà.» proferiva Aaron, invece, accoccolandosi alla figura paterna.

«Voglio che tu sappia che, anche quando non ci sarò, ti basterà guardare il tramonto per sapere che ti sono accanto. Ed, ogni volta, che sentirai un soffio di vento sappi che saranno le mie carezze.» aveva detto, baciando la fronte al bambino.

 

In quel momento, Aaron, capì di non esser del tutto solo. La brezza fredda corrispondeva al tocco gentile ed affettuoso del padre, ed il rumore dell'ondeggiare delle foglie poteva esser paragonato alla sua voce. Il ragazzo aprì gli occhi, quasi di colpo, come se si fosse appena svegliato da un sogno, e si sentì più rilassato, più tranquillo. Sospirò poi, guardandosi dietro le sue spalle larghe, notando che la nebbia diventava, di poco a poco, più lieve, e pensò che fosse meglio tornare a casa. Così, s'incamminò, mentre sistemava meglio la sciarpa e portava, alla bene meglio, il ciuffo all'indietro. Mise le mani gelide all'interno delle tasche del suo scuro cappotto, chiedendosi qual era stata l'ultima volta in cui qualcuno non solo gli aveva scaldato le mani, ma gli aveva scaldato anche il cuore.

 

«Tu riprovaci, e sei un uomo morto.» aveva detto Brittany, la morosa di Aaron, di quando egli aveva quattordici anni.

«Dai, Brit, un po' di solletico non ha mai ucciso nessuno.» aveva ridacchiato il ragazzo, beccandosi un buffetto sulla nuca da parte dell'altra.

«Io lo odio, cucciolo.» aveva ribattuto lei, scompigliando i capelli ricci del ragazzo che diceva di adorare.

«Detesto quel soprannome.» aveva, invece, sentenziato il moro, disgustato da quella parola «Ed è per questo che meriti altro solletico!» aveva aggiunto poi, buttandosi sulla sua ragazza, muovendo le dita sui suoi fianchi, per crearle prurito.

«Ti odio, Cabell!» aveva riso Brittany, dimenandosi.

 

Brittany Davies. Una morsa divorò lo stomaco di Aaron, al ricordo della persona che portava quel nome. La sua prima "cotta", come dimenticarselo. Anche se, dimenticare, fu la cosa migliore da fare, dopo i sei mesi più intensi che egli provò. Non era un vero sentimento d'amore, il suo, -aveva anche solo quattordici anni-, era qualcosa solo d'intenso. Inspiegabile ed intenso.

 

«Aaron, senti... Dobbiamo parlare.» aveva sospirato ella, martoriandosi le dita tra di loro.

«Parlare? Ma davvero? Credo che non ci sia nulla da dire.» aveva detto arrabbiato e ferito, il ragazzo, dopo che aveva visto una scena alla quale non voleva assistere.

Brittany, la sua ragazza, la sua prima esperienza, il suo domani, la sua metà... Aveva baciato un altro. Un altro e davanti ai suoi occhi. Dannazione.

«Io e Glenn ci conosciamo da un paio di mesi. Eravamo solo amici, nulla di più, ma poi...» aveva tentato di dire, la biondina.

«Sta' zitta, ti prego. Non voglio sentire una sola parola in più.» aveva ribattuto l'altro, sentendo qualcosa fare un sonoro "crack", all'interno del suo petto. Poi, aveva aperto la porta di casa sua, indicandole l'uscita. E «Vattene dalla mia vita.» le diceva, mentre guardava a terra, mordendosi l'interno della guancia destra.

«Mi dispiace, Aaron, davvero.» gli aveva parlato un'ultima volta, prima di andarsene.

«Dispiace più a me. Sii felice, Brittany.» le disse invece lui, chiudendo la porta di casa una volta uscita la sua ex-ragazza. Da quel giorno, non solo la porta di casa si chiuse, ma anche la porta del suo cuore.

 

Non piangeva mai, Aaron. L'ultima volta che pianse aveva dodici anni, ed ora si ritrovava un diciottenne freddo e senza sentimenti. Vuoto, si descriveva lui. I sentimenti, secondo il suo punto di vista, erano per i deboli: l'amore faceva schifo, l'amicizia era inutile e le uniche persone che contavano davvero erano quelle della sua famiglia. Per sua madre e sua sorella avrebbe anche dato la sua vita, e con loro non aveva paura di mostrare sentimenti od emozioni, perchè loro non gli avrebbero mai e poi mai voltato le spalle. Ma gli altri... Gli altri non avevano spazio nel loro cuore per Aaron. Così, dopo l'accaduto con quella ragazza, egli si chiese: "perchè io devo donare il mio cuore alle persone, se queste non hanno nemmeno un spazio dentro di esso per me?". Non era un ragazzo presente, perchè gli altri gli davano modo di andarsene. Chi se ne va da tutti, vuole solo esser fermato da qualcuno. Ed egli, credeva di non meritarsi una persona che si ferma con lui e per lui. Una persona che punta i suoi piedi a terra e che rimanga, nonostante lui le gridi contro di andarsene. Ai suoi "vattene via", le persone se ne andavano. Nessuno restava; magari per paura, timore, o codardia. Ma le paure vanno affrontate, non da soli, certo. Una persona che ha paura del buio, in una stanza senza luci, impazzisce; due persone che hanno paura del buio, in una stanza senza luci, si fanno forza.

Aaron credeva che la forza fosse solo nelle sue debolezze; come la sua malattia, o la sua solitudine, ad esempio. Ma non capiva che la sua vera forza fosse quella di alzarsi sempre al mattino, e di lottare contro se stesso ogni giorno.

Guardò l'ora sul suo cellulare: era mezzogiorno. Si accorse che era passato davvero molto tempo da quando era entrato nel bosco, e che aveva fatto un bel po' di strada. Intravide la casa dei suoi zii, e si sentì più sollevato, all'idea di non essersi perso.

Sospirò, una volta arrivato nuovamente all'ingresso e, con cautela, aprì la porta di casa, sorprendendosi che non fosse chiusa a chiave.

«Oh, guarda chi si vede.» disse Bonnie, sarcasticamente, mentre era in cucina, intenta a preparare il pranzo.

«Non dovresti esser a scuola tu?» chiese il ragazzo, confuso.

«Teoricamente sì. In pratica siamo usciti un'ora prima, perchè l'insegnante del corso di francese mancava.» spiegò ella, sbattendo l'uovo al lato della padella, per poi aprirlo, dove c'era la crepa, delicatamente.

«Capisco.» disse Aaron, sospirando.

«Dove sei stato?» gli domandò nuovamente.

«Nel bosco vicino casa vostra. Una passeggiata, niente di che.» rispose lui, pacatamente.

«Mia madre pensa che io debba scusarmi con te.» proferì improvvisamente, la rossa.

«Non sei obbligata a farlo, ti capisco. Non è bello avere un cugino malato, pazzo e pericoloso.» confessò Aaron, gesticolando eccessivamente.

«Già, infatti. Ma mi scuso lo stesso perchè, anche se sei strano, rimani mio cugino.» disse la ragazza, incominciando ad apparecchiare, mentre il pranzo cuoceva.

«Mi dispiace, Bonnie.» sussurrò il moro, in modo ferito.

«Di cosa?» chiese invece lei, aggrottando le sopracciglia.

«Di essere come sono.» rispose egli.

La rossa, strabbuzzò inizialmente gli occhi, ma poi annuì, lasciando correre il resto del tempo in un silenzio fastidioso. Il ticchiettio dell'orologio in cucina fu l'unico rumore presente, e l'ansia, l'imbarazzo erano molto percepibili.

«I miei torneranno tra poco.» bofonchiò la cugina, guardando l'oggetto appeso che segnava le dodici ed un quarto.

Aaron assentì, dicendo un "okay" impercettibile seguito da un "vado in camera mia", un po' più udibile.

Una volta arrivato in camera sua -se si poteva descrivere così- si buttò immediatamente sul letto, chiudendo poi gli occhi, improvvisamente stanco. Ricordare era l'incubo peggiore con cui doveva vivere ogni giorno. Si ricordava più vicende brutte, che vicende belle e, spesso, quelle belle erano automaticamente diventate brutte. Perchè, si sa, le cose belle non durano a lungo. Tutto ciò che è bello, finisce, inesorabilmente. Ma è normale, perchè non devono esser belli solo gli avventimenti, i sentimenti, o le sensazioni. Ma devono esser belle anche le persone che li provano, li sentono ed, in quel determinato momento, li vivono. Aaron non si considerava una bella persona e gli facevano paura i piaceri della vita. Eccolo, il vero inghippo. Quando si ha paura di esser felici, significa che si pensa di non meritare la felicità.

«Aaron, sono arrivati.»

La voce di Bonnie, oltre la porta, di camera sua, che aveva, precedentemente, chiuso, lo risvegliò dai suoi pensieri.

Si alzò dal letto sbuffando e stropicciandosi gli occhi, nonostante non avesse dormito. Si diresse in corridoio e sentì come un peso sopra la sua testa, e la vista diventare più opaca, mentre le orecchie si tapparono e fischiarono insopportabilmente. Poi cadde, a terra. Svenne.

 

«Aaron...»

Ma di chi era questa voce?

«Aaron!»

Ancora, ma stavolta più forte.

«Non sei solo.»

Ma cosa stava accadendo? Un'allucinazione, un sogno..? E poi eccolo, il volto dell'altra sera.

 

«Aaron, svegliati.» udì più chiaramente, stavolta, mentre gli occhi sembravano aprirsi da soli.

Sembrò quasi perplesso nel vedere i volti famigliari dei suoi zii e della cugina; sbattè le palpebre, cercando di orientarsi e capire meglio cosa gli fosse successo. Si mise seduto sul divano infatti, studiando la situazione.

«Sei svenuto, Aarry. Ci hai fatto stare in pensiero.» sospirò sollevata zia Betty, abbracciando il nipote.

«Mi dispiace... Sarà stato sicuramente un calo di pressione, capita.» si portò una mano alla fronte, il ragazzo, mentre chiudeva gli occhi ancora confuso.

Ma chi era quella persona? Si chiese. Poi però, cercò di convincersi che era solo un altro scherzo di pessimo gusto che aveva da offrirgli la sua mente.

«Dovresti mangiare qualcosa.» disse Joseph, mettendogli una mano sulla spalla.

I suoi occhi si aprirono, ancora una volta, di scatto; le pupille si dilatarono ed il respiro si mozzò, mentre un leggero tremolio si impadronì delle sue mani.

«Tranquillo, tesoro, va tutto bene. È tutto okay.» lo rassicurò la zia, prendendolo tra le sue braccia nuovamente. Era un abbraccio così simile a quello della madre che egli immediatamente ci sprofondò dentro, come se fosse l'ultimo abbraccio della sua vita.

«Shh, siamo qui. Siamo qui.» gli accarrezzò i capelli ricci, stringendolo.

«Sì, Aaron, ci siamo noi.» disse Bonnie, per la prima volta, gentilmente, mentre gli accarezzava un braccio.

«Grazie.» fu l'unica parola che uscì dalla bocca del moro.

«Siamo la tua nuova famiglia, adesso.» proferì lo zio, rassicurandolo.

Ed Aaron, per la prima volta, ci credette.

Angolo autrice:
ecco qua il secondo capitolo di questa storia :). Come vi sembra? Scorre bene? Dai, lasciatemi anche solo una piccolissima recensione :3.
Detto questo, lo so che magari pensate: "ma cavolo! Rain non arriva più!", beh, credetemi, arriverà.
*sente un coro dietro che le dice: "Non ce ne frega nullaaaaaaa, a casaaaaaaa!"*.
Hahahah, dai, davvero, ditemi se secondo voi ne vale la pena continuare oppure no ;).
Grazie a tutti i complimenti, comunque. E grazie delle visualizzazioni, ne sono onoratissima! :D.
Detto/scritto questo, buon sabato!
Bacioni x.

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Capitolo 4
*** Capitolo III. ***


Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=JrnDDpjIwkc



Terzo Capitolo}
 

«Amare significa distruggere,

ed essere amati significa essere distrutti.»

-Cassandra Clare

 

Il suono di qualcuno che bussa ad una porta svegliò, quella mattina, Aaron. Aprì infatti gli occhi, cercando di mettere a fuoco l'interno di camera sua, mentre mormorava un "avanti" disconesso e assonnato.

«Buongiorno, come ti senti?»

Bonnie era lì, in piedi, di fronte a lui, che gli chiedeva come stava. Non poteva crederci.

«Meglio, grazie. È stato solo un calo di pressione, te l'ho detto. Che ore sono?» domandò egli, alzandosi dal letto, cercando poi il suo cellulare per vedere l'ora.

«Sono le sette. Te la senti di venire a scuola, quindi?» chiese la rossa, a sua volta, mostrandosi stranamente gentile.

«Certo.» rispose Aaron, sforzandosi di sorriderle.

La ragazza, già pronta per dirigersi verso l'istituto scolastico, annuì. Mormorando poi un «ti aspetto.» cordiale. Il moro strabbuzzò gli occhi, disorientato da quella smielata, ed apparentemente falsa, gentilezza. Pensò che magari Bonnie si era sentita in colpa, per il suo atteggiamento dei giorni precedenti, e che ora ella voleva rimediare. Gli si strinse il cuore, ricordandosi che il giorno prima tutti si erano preoccupati per lui. I suoi parenti erano come estranei per lui, in fin dei conti. Non li conosceva alla perfezione, eppure loro sembravano conoscere molto di lui; soprattutto sua zia, che sembrava captare i sentimenti che si nascondevano all'interno di un ragazzo così complicato come egli. Sospirò, prendendo la sua divisa scolastica e la biancheria intima pulita, per poi dirigersi in bagno con l'intenzione di farsi una doccia veloce e ricostituente.

«Mi faccio una doccia.» dichiarò infatti, alla cugina, alzando di poco la voce, considerando che, la ragazza, si trovava in cucina.

«Tranquillo, c'è tempo.» disse ella, rassicurandolo sulla tempistica.

Così strisciò i piedi fino al bagno, chiudendo, successivamente, la porta di quest'ultimo. Aprì il getto dell'acqua calda, della doccia, e, dopo essersi spogliato, sprofondò quasi dentro di essa. Insaponò i capelli un po' lunghetti, e si portò il ciuffo ricaduto davanti agl'occhi all'indietro, mentre pensava a come sarebbe stato il suo primo giorno di scuola. Stavolta nessuno doveva sapere della sua malattia, nessuno doveva pensare alle apparenze. Dovevano scoprire chi era davvero Aaron Cabell, guardandolo con occhi normali; non con occhi colmi di pietà o, viceversa, disgusto. Lui voleva davvero potersi fidare di qualcuno, senza che questo lo pugnali alle spalle o che lo derida in modo crudele e cattivo. Poteva provarci e voleva riuscirci. Magari viveva meglio.

Finì di insaponarsi e si sciacquò, chiudendo poi il getto dell'acqua e lasciando le gocce, sul suo corpo, cadere sul piatto della doccia. Uscì lentamente, indossò l'accappatoio ed incomiciò a frizionarsi i capelli con un asciugamano preso dal mobiletto del bagno. Guardò lo specchio appannato di fronte a sè; sembrava che le persone lo vedessero così. In modo appannato, opaco, e offuscato. Lui era in bianco e nero, mentre il resto del mondo era a colori. Chi desidera osservare una persona grigia, se in tutte le altre ci sono le sfumature? Scacciò quest'ultimo pensiero, scuotendo eccessivamente il capo e, dopo essersi asciugato, indossò i vestiti presi in precedenza. Poi prese il phon, che trovò -dopo un po' di ricerca- nel cassetto in basso a destra, ed incominciò ad asciugare i suoi capelli ricci e scuri.

Andrà tutto bene, continuò a ripetersi nella sua testa.

Sbuffò, scompigliando la sua chioma di capelli asciutta. Era pronto. O, almeno, provava ad esserlo. Mise ogni cosa al proprio posto ed uscì dal bagno, dirigendosi in cucina, dove Bonnie era intenta a giocherellare con il cellulare.

«Io odio il mio ragazzo.» ammise improvvisamente la ragazza, mentre Aaron cercava una tazza per la sua colazione.

«Perché?» domandò sorpreso, l'altro, mentre nella tazza versava un po' di latte e, successivamente, i cereali.

«Perché stamattina doveva venire a prendermi per portarmi a scuola ma, ovviamente, il signorino si è svegliato tardi.» rispose con una punta d'ironia, Bonnie.

«Non te la prendere, capita.» la rassicurò.

«Siete dei cretini voi maschi. Dei grandissimi deficenti.» sbuffò la rossa, martoriando il piercing sul lato superiore destro, della bocca.

«Sei tu che sei troppo nervosa.» le disse, beccandosi un'occhiataccia.

«Ricordami perchè ho iniziato ad esser gentile con te.» ribattè lei, assottigliando gli occhi azzurri.

«Sinceramente non lo so neanche io ma, se vuoi, puoi anche smettere. Vivo lo stesso, anche senza la tua gentilezza.» proferì Aaron, mimando le virgolette, con le dita, alla parola "gentilezza".

«Sì, credo che la smetterò. Considerati fortunato però, perchè ho smesso di volerti uccidere.» gli disse sarcasticamente.

«Grazie, è molto nobile da parte tua.» rispose anch'egli sarcasticamente, finendo la sua colazione.

«Se hai bisogno, io ci sono. Nonostante tu sia un idiota, senz'offesa, sei anche mio cugino. Ed è giusto che ti sfoghi, qualche volta.» bofonchiò Bonnie, roteando gli occhi.

«Non preoccuparti, me la cavo sempre da solo, ma grazie lo stesso.» ridacchiò il moro, dirigendosi verso il bagno per lavarsi il denti, lasciando l'altra stupita e confusa.

Si portò una mano ai capelli, Aaron, mentre sentiva l'ansia marciare all'interno del suo petto, creando una sensazione paragonabile a quella dell'affondare sott'acqua. Affondare nei problemi e, piuttosto che sfogarsi, affogare dentro di essi. Sputò il dentifricio nel lavandino, e si sciacquò la bocca con il collutorio.

Ce la farai, coraggio. Pensò.

Attraversò il corridoio, prese lo zaino accanto al divano del salotto ed, infine, fece un cenno del capo alla cugina, come per dire "andiamo" o "sono pronto".

«La scuola è abbastanza vicina a casa, di questo non devi preoccuparti.» sentenziò Bonnie, mentre uscivano da casa.

«Ti presenterò il mio ragazzo: lui vive più lontano da questo quartiere, ma ha la macchina, ed arriva in orario, se si alza puntualmente, 'sto cretino.» aggiunse poi, in maniera disprezzante, ricordandosi dell'accaduto di poco prima «Si chiama Luke e stiamo insieme da dieci mesi. È una testa di cazzo, ma lo amo a modo mio.» concluse, con un sorriso vittorioso.

«Sei così sensibile, Bon.» disse Aaron, ridacchiando per l'eccessiva spontaneità della ragazza che camminava al suo fianco.

«Dico quello che penso, sempre. Non m'importa di apparire fredda, stronza, o acida.» ribattè la rossa, sistemandosi meglio la tracolla sulla spalla.

«Buon per te.» proferì lui, annuendo con il capo.

«Le altre conoscenze dovrai farle da solo, capito? Io non voglio rovinarmi la fama, o la reputazione, per te.» gli disse, gelida.

«La tua bontà colma il mio cuore di gioia, cuginetta. Non preoccuparti, te l'ho detto, mi arrangerò da solo.» si morse l'interno della guancia, a quel pensiero.

Sei solo anche sta volta, Aaron. Si disse.

Fai schifo. Pensò.

Non meriti nulla. Urlò dentro di sè.

«Eccoci qui, arrivati.» affermò la ragazza, guardando l'edificio di fronte a loro.

«È davvero vicina.» confermò egli, riferendosi alle parole precedenti di Bonnie.

«Già.»

Entrarono dal cancello principale, notando subito diversi gruppetti di studenti parlottare tra di loro. Era un caos completo, ma per Aaron quello era già silenzio. Nessuno che lo indicava, o che lo guardava male. Era quasi... Pacifica, la sensazione.

«Ciao, tesoro.»

Un ragazzo alto, più o meno, come Aaron, con i capelli biondi e lisci, e due occhi tra

l'azzurro ed il verde, stava osservando Bonnie in modo poco equivocabile, attendendo una risposta -o forse un bacio?- da parte della ragazza.

«Sei solo uno stronzo, e non attacca quel "ciao tesoro".» sbuffò lei, offesa, facendo sentire il cugino di troppo.

«Mi sono svegliato tardi, perdonami, amore. Lo sai che ti amo, no?» parlottò Luke, prendendo Bonnie per le spalle fino a farla sprofondare tra le sue braccia. E «buongiorno.» poi, le disse, baciandole la fronte.

«Gn.» biascicò ella, contro il tessuto del maglione del suo moroso.

«Lo prenderò per un "ti amo anch'io".» ridacchiò il biondo, stringendola ancora più forte.

Era una scena disgustosa, agli occhi di Aaron. O, meglio, più che disgustosa, era raccapricciante. Nulla è più inutile, stupido e doloroso dell'amore. Le persone sono così masochiste da volerlo provare ogni giorno, senza pensare alle conseguenze. Quindi, egli, sentendosi il cosiddetto "terzo incomodo", si schiarì la gola, procurando un suono lieve, ma udibile, che fece staccare la coppietta.

«Luke, lui è Aaron, mio cugino. È arrivato da Londra, ed è un idiota.» lo presentò Bonnie, facendo assottigliare gli occhi al moro, che la incenerì con lo sguardo.

«Aaron, lui è Luke, il mio ragazzo e bla bla bla.» concluse le presentazioni frettolosamente, la ragazza.

«Non farci caso, lei è sempre così, ma tu dovresti saperlo meglio di me, dato che sei suo cugino. Piacere di conoscerti.» ridacchiò l'altro, porgendogli la mano.

«Piacere mio.» gli sorrise, Aaron, stringendogliela.

Egli si era quasi dimenticato di come fosse ricevere un po' di cordialità, considerando che nessuno era gentile con lui da un paio d'anni, da quando aveva ammesso apertamente di soffrire di antropofagia.

«Che anno frequenterai?» gli domandò poi, Luke.

«Il quinto. Sono all'ultimo anno.» rispose il moro.

«Bene, amico, anch'io! Magari staremo negli stessi corsi.» ridacchiò l'altro.

«A proposito di corsi, Aaron, devi andare a prendere il tuo orario in segreteria.» disse Bonnie, sistemandosi la frangia dei suoi capelli rosso tiziano.

«Hai ragione.» concordò il ragazzo in questione «Ma non so dove si trovi la segreteria.» ammise poi, ridacchiando in imbarazzo.

«Vieni, ti accompagno.» s'offrì Luke, educatamente.

«Bravi, io vado a salutare le mie amiche.» Bonnie salutò il suo ragazzo ed Aaron, dirigendosi poi verso una piccola cerchia formata da tre ragazze.

«Probabilmente, se sapesse quello che sto per chiederti, mia cugina mi ucciderebbe, ma... Come fai a sopportarla?» chiese il riccio, ridendo leggermente.

«Non la sopporto infatti, la amo. Ha un carattere particolare, è vero, ma è questo che la rende differente dalle altre. E, se tornassi indietro, tra tutte sceglierei sempre lei.» ammise Luke, sorridendo, camminando a fianco di Aaron nel lungo corridoio scolastico che, dall'ingresso, dava alle aule.

«È una cosa profonda.» sorrise Aaron, sforzandosi.

Le parole di Luke potevano esser vere, oneste e commoventi, ma ad Aaron non toccarono. Era come se avesse un gigantesco cubo di ghiaccio a ricoprire il cuore, e non importava quanto forte esso batteva, quel involucro freddo ed insensibile era indistruttibile. O, almeno, così sembrava. A volte ciò che sembra, o pare, può esser diverso da come è in realtà.

«E tu?» domandò il biondino «Hai la ragazza?».

«No, e non è una cosa che m'interessa.» gli rispose in modo secco, l'altro.

«Uh, paura d'amare?» chiese Luke, mentre si stavano avvicinando alla segreteria.

«No. Credo sia più la paura d'esser amato.» ammise, sinceramente.

Luke annuì, non andando oltre con le domande inopportune che, di certo, avevano infastidito il ragazzo accanto a lui.

«Eccoci qui.» quindi disse, una volta di fronte alla segretaria.

Quest'ultima guardò dai suoi occhiali i due ragazzi, aggrottando le sopracciglia una volta raggiunto, con lo sguardo, il volto nuovo di Aaron. Schioccò la lingua al palato, poi prese a parlare.

«Cosa posso fare per voi, giovanotti?» chiese.

«Emh... Sono Aaron Cabell e...»

«Ma certo! Tu sei quello nuovo, il nipote di Elizabeth Tate. Beh, dimmi, ricciolino.» disse la donna, sistemandosi meglio sulla sedia, accavallando le gambe.

Aaron spalancò gli occhi, guardando quella signora che avrà avuto cinquanta, cinquantacinque, anni. Si domandò se era solita avere questo atteggiamento imbarazzante con tutti gli studenti, poi si rispose di lasciar stare perchè, davvero, quella donna era persino l'anti-cannibalismo, dato il conato di vomito, che provò, alla parola "ricciolino".

«Beh, avrei bisogno del mio orario scolastico.» sentenziò il moro, cercando di trattenere la voglia di scappare.

«E del numero del tuo armadietto, Aaron!» s'illuminò il ragazzo di Bonnie, schioccando le dita.

«Giusto! Anche il numero del mio armadietto.» si affrettò a dire, quindi, alla segretaria.

La cinquantenne, dai capelli corvini, annuì, leccando lievemente la punta del dito indice, per poi sfogliare un raccoglitore, contenente numeriosi fogli all'interno.

«Okay: questo è il tuo orario.» gli disse, mentre gli passava un foglio con sopra raffigurate delle tabelle. «E, questo, è il numero e la combinazione del tuo armadietto. Non perdere nulla.» aggiunse, passandogli un altro foglio, sorridendogli.

«Grazie, signora.» la ringraziò Aaron, affettandosi a prendere il tutto.

«Figurati.» proferì la donna.

«Arrivederci.» la salutò poi Luke, sbrigandosi ad andarsene insieme ad Aaron.

Mancavano quindici minuti al suono della campanella, ed ognuno poi sarebbe andato ai rispettivi corsi, a seguire le lezioni.

«Propongo una raccolta di firme per cacciare la segretaria pedofila.» rise Luke, mentre accompagnava Aaron al suo primo corso.

«Io sostengo la tua iniziativa.» ridacchiò anche Aaron, notando come sembrava facile scambiare qualche parola con il prossimo.

Poi notò qualcosa, infondo al corridoio. Ed il mondo si fermò.

Una ragazza parlottava tranquillamente con Bonnie. Ma no, non era una ragazza.

Era quella ragazza. Quella che sognava da qualche notte, quella della quale si era nutrito, assaporandone le clavicole, o il collo.

Le sue pupille si dilatarono eccessivamente, mentre il suo corpo era bloccato, rendendolo immobile. Presto il respiro si affannò, e dei pensieri sadici e carnefici fecero largo nella sua mente, uccidendo tutti i buoni presupposti che si era fatto prima di arrivare lì, in quel liceo.

Quasi non lo sentì il «Tutto bene?» di Luke, mentre chiudeva gli occhi cercando di calmarsi. Morse l'interno della sua guancia sinistra, contenendo i suoi istinti bramosi di sfamarsi. Quando il suo respiro si regolarizzò, riaprì gli occhi: la ragazza non c'era più, e Bonnie si stava avviando verso di loro.

Egli sentì come un peso opprimente sul petto che, piano piano, andava a rimpicciolirsi.

Si sentiva più tranquillo, aveva saputo controllarsi, alla fine.

«Aaron, che ti è successo?» domandò il biondo, guardando il diretto interessato in maniera confusa.

«Una sorta di attacco di panico, mi capita qualche volta.» mentì l'altro, improvvisando.

«Oh sì, Aaron ne soffre.» annuì Bonnie, reggendogli il gioco.

«Stai meglio, adesso?» chiese poi, Luke, ignaro.

«Sì, grazie, ho imparato a gestirli.» rispose il moro, sorridendo debolmente.

L'altro annuì, dandogli poi una pacca d'incoraggiamento sulla spalla, dirigendosi verso il suo corso di francese, subito dopo aver detto, al cugino della sua ragazza, dove fosse l'aula in cui doveva dirigersi per seguire la lezione.

«Grazie.» disse Aaron, al biondo, per poi voltarsi verso la cugina, che lo guardava con un'espressione scettica.

«Non saluti il tuo ragazzo?» le domandò.

«Attacchi di panico? Ma non mi dire.» ridacchiò ironicamente la ragazza, ignorando il quesito di lui.

«È stata la prima cosa che mi è venuta in mente, Bo.» si difese questo.

«L'avevo intuito, ma non sei abile a mentire. Allora... Che cosa t'è preso?» chiese lei.

«La ragazza che parlava con te, la sogno da qualche notte.» rispose Aaron.

«Che cosa romantica.» roteò gli occhi, ella, incrociando le braccia.

«Non in quel senso. Sogno di...» sospirò, abbassando la voce «Sogno di farle del male.» poi concluse, deglutendo.

Bonnie spalancò gli occhi, sbattendoli, successivamente, per più volte, mentre il cervello elaborava la notizia.

«Che cosa?!» quasi gridò, una volta essersi resa conto della situazione.

«Shh, fa' silenzio. Non voglio che nessuno sappia chi sono, per favore.» mormorò, sentendosi indifeso.

«Okay, okay. Scusami. È solo che... Non posso crederci! Ma sei sicuro che sia lei? Nei sogni è tutto confuso...» gli spiegò, seppur disordinatamente, la cugina.

«Lo so e su questo hai ragione, ma ho fatto un disegno, appena sveglio. Ed è lei, ne sono certo.» le disse.

«Ti conviene starle lontano, allora.» sospirò Bonnie.

«Credo sia la cosa migliore.» acconsentì Aaron, guardando poi l'ora sul suo cellulare.

«Vado in classe, a dopo, Bo.» aggiunse poi, salutando la rossa.

«Cerca di non cacciarti in nessun guaio, riccio.»

«Lo farò.» la rassicurò «E grazie.» le sorrise, ottenendo un mugugno come risposta.

Fece un respiro profondo, avviandosi nell'aula dove si teneva il corso di letteratura inglese. Attraversò il corridoio, guardando il numero sopra le porte, cercando il duecentododici.

«Senz'altro, ciao Charlotte.»

Oh no, pensò Aaron.

La "famosa" ragazza stava uscendo dalla porta della sua classe, salutando quella che si presuppone fosse una sua amica. Passò accanto ad Aaron, senza dar peso ad egli, lasciando una scia di profumo alla vaniglia che inebriò i sensi di quest'ultimo.

Quel profumo... Il moro si sentì in uno stato di confusione, mentre si leccò le labbra.

Accadde di colpo, poi, la scoperta del nome di lei.

«Rain, cavolo, le tue cuffie!» disse la biondina con cui stava parlando, poco prima, la persona interpellata, questa si catapultò ancora una volta in quell'aula, passando nuovamente accanto ad Aaron, lasciando così che il suo profumo gli facesse uno strano eco nel suo senso olfattivo.

«Grazie, Lottie.» ridacchiò, per poi uscire dall'aula, ma notando il moro, sulla soglia della porta, per la prima volta.

Aaron guardò gli occhi di lei, scorgendovici dentro ogni suo desiderio proibito.

Rain lesse gli occhi di lui, come se fossero l'ultimo libro della sua collana preferita. Ma, di primo impatto, in questo libro, ella non ci trovò niente, se non il vuoto.

Aaron era esattamente un libro dalle pagine bianche, doveva solo trovare qualcuno che

prendeva una biro, anche se scarica o con poco inchiostro all'interno, e che scriveva. E che gli scriveva.

Scosse leggermente la testa, quindi, la ragazza. Lo sorpassò, procedendo nel corridoio fino a sparire dalla sua vista.

D'altro canto, Aaron, strinse gli occhi, riprendendo a respirare. Una volta calmo, entrò in classe, e prese posto vicino ad un ragazzo, che sedeva al terzo banco.

«Ciao, è libero questo posto?» chiese soltanto.

«Certo, amico, siediti pure.» annuì l'altro, sorridendogli cordialmente.

Aaron ridacchiò per il tono molto confidenziale del tizio accanto a lui, poi posò lo zaino accanto alla sedia ed i libri sul banco.

«Sono Thomas, comunque.» fece un cenno del capo, il ragazzo dai capelli neri corvini, al moro.

«Aaron.» proferì questo, sistemandosi meglio sulla sedia.

«Sei nuovo, giusto?» domandò, poi, il compagno.

«Già.» si sforzò di sorridere il ragazzo, mentre giocherellava con la manica, della felpa, della sua divisa scolastica.

«Qui siamo tutti abbastanza accoglienti, non preoccuparti.» lo rassicurò Thomas.

«Sono il cugino di Bonnie Tate, non so se la conosci...» sentenziò, sistemandosi il ciuffo riccio ricaduto sugl'occhi.

«La ragazza di Luke Mason?» chiese, a sua volta, l'altro.

«Sì, lei.» annuì Aaron, sorridendo.

«La conosco, allora.» sorrise, a sua volta, l'amico.

Il moro annuì, in risposta, mentre il professore di lettaratura inglese entrava in aula, leggermente in ritardo. Era un uomo sulla sessantina, basso e paffuto; sembrava buono, un pezzo di pane, per così dire. Quest'ultimo si scusò per la dilazione, biascicando qualche parola, poi proferì, con un sorriso grande a far largo sulle sue guance.

«Da oggi abbiamo un nuovo studente.»

Oh no, pensò Aaron.

«Signor Cabell, prego, si alzi.» l'uomo sorrise al giovane, muovendo la mano, in un gesto cordiale.

Questo si alzò, quindi, dal proprio posto, imprecando mentalmente.

«Io sono il professor Clint Fisher; insegno letteratura, storia e filosofia. Spero che lei si trovi bene con il mio metodo d'insegnamento.» spiegò l'insegnante, gentilmente.

Aaron acconsentì con un cenno del capo, sperando che quella tortura finisse presto.

«Ora, se desidera, ci parli di lei, Cabell.» disse l'uomo.

Il moro rimase spiazzato, mentre girava lo sguardo verso Thomas, quasi in cerca d'aiuto, quest'ultimo alzò le spalle, facendogli, con un cenno del capo, un segno d'incoraggiamento.

Sono Aaron Cabell, un diciottenne qualunque, che nasconde un segreto.

No, questa decisamente no, si disse.

Sono un cannibale che deve star attento ai suoi istinti.

Per l'amor del cielo, no, pensò.

Faccio schifo a me stesso ed agli altri, perchè soffro di antropofagia.

Smettila, Aaron, sentenziò dentro di sè.

«A dire il vero non c'è molto da dire su di me. Sono Aaron, ho diciotto anni, e mi sono trasferito a Dublino da poco. Spero di trovarmi bene qui.» egli fece la scelta più giusta, utilizzando una presentazione normale, e che non avrebbe dato sospetti a nessuno.

Il professore, infatti, annuì, ringraziando Aaron, e dicendogli che poteva tornare a sedersi. Il ragazzo fece un sospiro di sollievo, trovando improvvisamente interessante il suo banco. Lo imbarazzavano, queste situazioni. Si sentiva a disagio e desiderava sempre che finissero presto. Forse perchè odiava mentire, e fingere di esser qualcuno che in realtà non era... Ma, questa volta, doveva e voleva rischiare.

Si guardò intorno, osservando le persone in quell'aula e cercando di capire quali sarebbero stati i suoi pensieri su di esse.

Non si può scappare da ciò che si è, alla fine.

Provò una pace interiore, così meravigliosa che non sembrava vera, quando la sua mente era rimasta in silenzio, guardando i suoi coetanei. Beh, era stata zitta osservando le persone in quell'aula, ma non era stata capace di tacere quando Aaron osservò quella ragazza: Rachel, forse... O Rose. Poi, ebbe un flash, del tutto imprevisto ed automatico.

«Rain, cavolo, le tue cuffie!»

Rain, ecco il suo vero nome. Ripercorse con la mente il suo sogno, mentre si ricordava di averle morso le clavicole, ed una spalla. La sensazione paradisiaca che provò lì, in quel momento del tutto irreale, ma così reale nell'istante che sembrava vissuto, sarebbe stata la stessa anche al di fuori dei sogni?

Forse la scelta più giusta sarebbe stata non rimurginarci troppo, lasciar correre ed evitare ogni idea sadica formatasi nella sua mente. Dall'altra parte avrebbe voluto seguire il suo sensore bramoso di quel corpo che pareva delizioso solo al profumo.

O si sacrificava lui.

O, quella sacrificata, sarebbe stata lei.

Si scompigliò i capelli con fare nervoso, mentre l'ora passò veloce e scorrevole. Non era troppo pesante, e non era eccessivamente noiosa. Erano i suoi pensieri ad esserlo. Essi gli davano noia, ed erano troppo difficili da sorreggere. Per questo motivo, quando suonò la campanella, salutò frettolosamente Thomas e si fiondò fuori dalla classe.

La sua testa cominciò a girare, mentre sentiva la voglia di scappare, di evadere, da tutto ciò che intanto girava nel suo mondo. Le vene pulsarono, mentre chiudeva gli occhi e cercava di rimettersi in sesto. Solo quando sentì il suo cuore mancare alcuni battiti, capì che stava peggiorando, e che la situazione non era più sotto il suo controllo.

«Merda.» sussurrò, mordendosi le labbra fino a farle sanguinare.

Io non voglio il sapore del mio sangue.

Parlò una voce, dentro di sè.

Io voglio il sapore del sangue di qualcun altro.

Aprì gli occhi di scatto, spaventandosi di quello che stava diventando. Si allontanò dalle persone che camminavano nel corridoio, le quali erano dirette ai loro corsi. Aaron vagava in quell'edificio ed, al tempo stesso, vagava dentro di sè. Doveva trovare qualcosa per calmarsi, per frenare il tutto. Si appoggiò al muro, accanto ad una finestra, dato che sentiva che sarebbe caduto da un momento all'altro. La sua espressione era pallida, i suoi occhi erano vuoti e smarriti.

E la persona che, ad un certo punto, trovò davanti a lui, guardandolo cercando così di cogliere la sua anima tormentata, non lo aiutò di certo.

«Stai bene?» chiese quella ragazza.

Calmati, Aaron.

Si disse.

Non ora, non perdere il tuo autocontrollo.

Si ripetè.

«Sì.» le rispose con un filo di voce, distogliendo lo sguardo da quel volto.

«Il mio nome è Rain.» parlò, cordialmente, ella «Hai bisogno?» domandò poi.

Egli scosse la testa, allontanandosi subito, lasciando Rain in mezzo al corridoio, perplessa.

Si precipitò in bagno, il moro. Si lavò il volto, togliendosi quella maschera che si era costretto ad indossare, mentre parlava con quella ragazza.

Perchè non poteva esser libero di esser quello che era? Egli se lo chiedeva sempre.

Il punto è che prima di esser liberi di esser se stessi, bisogna capire ciò che davvero si è.

Ed egli, presto, si sarebbe accorto di chi era non in solitaria.

Angolo autrice:
scusate il ritardooooooo D: sono un disastro, lo so. Ma, avendo poche recensioni, mi è anche passata un po' la voglia di aggiornare.
Insomma, cosa ne pensate? Vi piace? Non vi piace? Ditemi se ne vale la pena, ecco c: ne sarei onoratissima!
Intanto, ecco qui la "lei" della storia: Rain. Cosa accadrà? :).
Onoratemi della vostra opinione, per me è importantissima!
Ora vado, buon proseguimento, bellissime! E grazie sempre, DI TUTTO.
Bacioni grandi x.

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