She is electric, can I be electric too?

di Hermione Weasley
(/viewuser.php?uid=1689)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Devil Has His Eye On You, Girl ***
Capitolo 2: *** You Make Me Wanna Scream ***
Capitolo 3: *** Living On Ecstasy ***
Capitolo 4: *** No Vacancy, Just Emptiness ***



Capitolo 1
*** The Devil Has His Eye On You, Girl ***


The Devil Has His Eye On You, Girl.

Better run for cover
You're a hurricane full of lies
And the way you're heading
No one's getting out alive
Living in a fantasy
Don't even know reality
When you start talking I start walking
Don't even wanna know the truth
The devil has his eye on you girl


Lies (McFly)



Quando aprì gli occhi, la luce traballante e giallognola del neon lo colpì in pieno.
Li richiuse di colpo, lamentandosi quasi impercettibilmente, mentre tentava (con scarsi risultati) di muovere le braccia e le gambe.
Una macchia rossa, poi verde, e ancora viola, pulsava, si muoveva e rimpiccioliva nel buio del suo sguardo.
Tentò di non farci caso, ma l'improvvisa consapevolezza di essere intrappolato gli impedì di restare indifferente.

Era successo di nuovo.

*

C'era sua madre. Virginia gli sorrideva e gli accarezzava i capelli, quasi fosse stato ancora quel bambino un po' troppo cagionevole di salute che una volta ogni due mesi si ammalava.

Gabriel detestava restare fermo a letto, ma le premure che la donna gli riservava riuscivano a lenire qualsiasi fastidio, tanto che - certe volte - aspettava a gloria che la febbriciattola di turno lo colpisse.

Una strana e innaturalmente reale sensazione di calore si impossessò di lui.
Cercò di tendere le labbra in un sorriso di risposta, ma i muscoli del suo viso erano inspiegabilmente intorpiditi ed immobili.

Solo in quel momento si rese conto di quel grande paio di forbici conficcato nel petto di sua madre.

E Virginia sorrideva. Lo accarezzava e gli sorrideva.

Trasalì bruscamente quando lo toccò di nuovo.

Gli fece male, quasi fosse stata un'improvvisa scarica elettrica a colpire la sua fronte accaldata.

*

Sussultò prepotentemente, stringendo i pugni, sforzandosi disperatamente di togliersi l'immagine della donna dalla testa.

Solo dopo qualche secondo realizzò che due occhi curiosi lo fissavano insistentemente, quasi stessero cercando di perforarlo e arrivargli al cervello, fino a carpire i suoi più reconditi segreti.

La riconobbe dopo un attimo di totale smarrimento.

La Compagnia. Lo scontro. L'elettricità. La piccola Bishop. Le corde. Il neon.

"Sei sveglio?" Gli chiese, prima di chinarsi un po' su di lui, assicurandosi che fosse ancora cosciente. "Non è divertente se dormi ventiquattr'ore su ventiquattro," commentò di nuovo, rivolgendogli un largo sorriso infantile.

Non lo fece star meglio. Sollevò le spalle, cercando di divincolarsi dalla morsa delle cinghie che lo tenevano saldamente immobilizzato a quello scomodissimo letto di ferro.

La vide ridere.
Una risata leggera, squillante e del tutto fuori luogo. Per un attimo, gli sembrò di essere circondato da uno di quegli stupidi capannelli di ragazzine che ridono, piangono, esultano e gioiscono in sincronia. Quelle che affollano le scuole e pensano di essere attraenti, ma che in realtà sono soltanto molto tristi.

Elle si chinò leggermente su di lui, appoggiandosi coi gomiti sul letto.

"Ti pensavo più interessante," riprese, quasi fosse abituata a parlare con muti interlocutori, "papà dice che sei il più pericoloso in giro."

Rise ancora, ma Sylar - stavolta - vi colse una nota di pura derisione.

Aspettò che i suoi occhi si fossero abituati all'orrenda luce artificiale dell'asettica cella in cui l'avevano rinchiuso. Pensò che c'era già stato in un posto simile, e l'idea di esser stato giocato un'altra volta, gli mandò il sangue al cervello.

Lei continuava a studiare la sua espressione, soffermandosi su questo o quel particolare del suo viso: gli occhi scuri, la fronte aggrottata nel disperato tentativo di non perdere la pazienza, le labbra leggermente tirate, lo sguardo innaturalmente concentrato.

Alzò una mano in sua direzione, muovendo leggermente le dita: una scintilla d'elettricità azzurra le si animò nel palmo, brillando e crepitando sulla sua pelle.
L'avvicinò al pugno chiuso di Sylar.
Strinse la bocca in un sorrisetto a malapena trattenuto: già pregustava il risultato del suo passatempo preferito.
Per questo un'espressione di pura delusione le si dipinse sul volto quando - afferrando bruscamente la mano di Sylar - l'elettricità non parve sorprenderlo più di tanto. Gli causò un breve fremito, ma niente più.

Lo sentì stringere la presa e torcerle le dita non appena l'effetto del suo potere si fu esaurito.

"Lasciami andare," borbottò Elle, terribilmente infastidita e al contempo molto, molto spaventata. Sapeva che non doveva scherzare con quell'uomo, sapeva che era davvero l'uomo più pericoloso in circolazione, sapeva che doveva starne alla larga, ma suo padre le aveva anche detto che lei era la migliore, che ce l'avrebbe fatta, che poteva stargli dietro, che doveva tenerlo d'occhio, e che era il suo prigioniero.
Elle, dopo tutta la fatica che aveva fatto per trovarlo, aveva tutto il diritto di divertirsi un po' con lui.

"Non sono la tua bambola," sibilò Sylar digrignando i denti. Aveva riconosciuto la sensazione, non era stata Virginia ad accarezzargli i capelli, divertendosi ad elettrizzarlo ogni tanto. C'era qualcosa di profondamente sbagliato nei suoi occhi azzurri. Vi riconobbe una luce strana, che sapeva un po' di Gabriel, e che non amava affatto.

Le torse maggiormente le dita, senza mollarla, sebbene le sue capacità motorie fossero ridotte al minimo.
Un lampo di soddisfazione gli attraversò il volto, all'espressione contrita di Elle.

"Non ho mai avuto bambole così brutte," ribatté lei mentre si ricordava che non sapeva che faccia avessero le sue bambole, perché le aveva decapitate tutte, o fatte morire su piccoli roghi di carta e legnetti. Bob aveva smesso di comprargliele poco dopo il suo decimo compleanno: le povere streghe, regine e rivoluzionarie decedute sotto lo sguardo poco compassionevole di Elle, avevano raggiunto un numero piuttosto preoccupante.

"Paura della concorrenza?"
"Paura di un bel niente. Mollami."
"Perché non lo fai di nuovo, mh?" La esortò, alludendo alla sua succulenta capacità di creare scintille elettriche.
"Perché non posso, papà ti vuole vivo... per ora," precisò, chinandosi per sbeffeggiarlo apertamente.
"Dovresti fare attenzione, ragazzina."
"Non sono una ragazzina."
"Non le ho nominate io, le tue bambole," fece notare.

Elle strinse le labbra e i pugni, come fa chi non riesce ad esprimere adeguatamente la propria indignazione.

"Sono il miglior agente della Compagnia," sentenziò piena di sé, sperando di recuperare, in qualche modo.
"Se tu sei il migliore, non oso immaginare chi lavora per tuo padre," mormorò in risposta, fissando lo sguardo nei suoi occhi.
"Papà dice che sono la migliore," sibilò molto lentamente, scandendo quasi maniacalmente ogni singola sillaba che le usciva di bocca.

Sylar voltò leggermente il capo per poterla guardare meglio. L'aveva vista solo una volta, e lei lo aveva sbattuto contro una porta a vetri senza troppi complimenti.
Non gli era interessato poi molto, visto che aveva appena riacquistato i suoi poteri. Separarsi da Mohinder, Maya e Molly, poi, non era mai stato tanto piacevole come in quell'occasione.
Elle gli aveva rimediato un'uscita di scena più teatrale e apocalittica del previsto, ma non aveva avuto né la voglia, né il bisogno di preoccuparsene.
Era tornato.

"Se ti fa piacere crederlo," sentenziò in risposta, lasciandole andare la mano.
"Ti ho catturato, signor Sylar," ribatté lei, alzando il mento in un gesto che trasudava puro disprezzo. Non amava venir messa in ridicolo. Stavolta non aveva fallito. C'era stato bisogno di aiuto, era vero, ma la missione era stata compiuta, ed era fiera di sé.
Avrebbe voluto dire lo stesso di suo padre, ma Bob l'aveva liquidata con poche parole affatto entusiastiche, e l'aveva ignorata per tutto il giorno.
"Io scappo sempre."
"Non stavolta."
"Oh sì, invece."
"No."

Una stupida vocina nella sua testa, sembrò ordinargli di ribattere con un inferocito , ma decise che non aveva tempo di mettersi a fare l'idiota con una che aveva evidentemente perso un po' dei suoi giorni e qualche rotella di troppo.

Si limitò a sorriderle, caricando la smorfia con tutto il disprezzo, la rabbia, la frustrazione e il fastidio che quella situazione gli causava.

Stavolta Elle non rispose in alcun modo. La sua espressione traboccava d'impazienza e indignazione, tanto che sarebbe bastato pochissimo per farla esplodere definitivamente.

Gli sembrò di trovare qualcosa di familiare in quel viso, ma si sforzò di sostenere il suo sguardo con altrettanto furore, fino a quando non fu lei a guardare altrove.

Qualcosa, in quell'uomo, riusciva a destabilizzarla. Le mani le tremavano, quasi fosse stata soltanto molto eccitata di trovarsi di fronte all'oggetto delle suo ricerche: il temibile Sylar. L'aveva atteso così tanto, sognato così tanto, quel successo, da non essersi minimamente soffermata sulle complicazioni che un compito del genere comportava.

"Molto bene," finì per dire, dopo un lungo attimo di silenzio, "staremo a vedere."

Concluse, tremando internamente al solo pensiero di saperlo fuggito lontano dalla sede della Compagnia, lontano dal Livello 5.

"Ricordati del mio viso," sussurrò lui, tornando a socchiudere gli occhi, "perché mi rivedrai molto presto... fuori di qui."

Aveva visto come funzionava, e conosceva le possibilità di un potere del genere.
Farle fare la fine che lei stessa riservava alle sue bambole, gli avrebbe causato un immenso piacere.

Elle lo capì al volo e si trattenne oltre. Uscì, lasciando che la porta a vetri si richiudesse dietro di lei.

Suo padre l'avrebbe protetta.
Sylar non sarebbe mai arrivato a lei.

Ne era convinta.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** You Make Me Wanna Scream ***


You Make Me Wanna Scream.

I feel safe with you
I can be myself tonight
It's alright, with you
Cuz you hold, my secrets tight
You do, You do


LaLa (Ashlee Simpson)



Elle non si sarebbe scordata l'espressione con cui Sylar l'aveva fissata quando se l'era ritrovato davanti.

Aveva tremato, e stretto i pugni e si era ripromessa che avrebbe reso di suo padre, un genitore orgoglioso.

Ovviamente, aveva fatto male i suoi calcoli.

Perché quella fu l'ultima cosa che vide prima di perdere i sensi.

*

Sbattè lentamente le palpebre, cercando di focalizzare il luogo in cui si trovava. Operazione non facile, visto che i contorni di qualsiasi cosa cercasse di guardare si confondevano e moltiplicavano mille volte, impedendole di realizzare un bel niente.

Sapeva solo di essere arrabbiata e umiliata, perché Sylar l'aveva giocata. Stavolta era stato lui, e non lei, ad avere la meglio, e questo non la divertiva affatto.

Combatté tenacemente contro la spossatezza e lo shock, ma dovette cedere.

Tutto si rifece buio. Ancora.

*

... nonostante i numerosi accertamenti, gli inquirenti non sono ancora ...

Un ronzio fastidioso le riempiva la testa e la costrinse a stringere gli occhi.

... il colpevole. L'uomo è stato freddato con un colpo d'arma da fuoco alla ...

Si aspettava di trovarsi le mani immobilizzate, ma - nonostante ogni singolo movimento le costasse un dispendio enorme di energie - realizzò di essere libera.

... sulla scena non era presente alcun testimone ...

Solo allora si rese conto del fastidioso grattare di una vecchia TV accesa.
Le immagini le apparvero, improvvisamente, incredibilmente nitide.

... le circostanze fanno pensare al ...

Era sicura che non sarebbe riuscita a muovere nemmeno un passo, neanche se avesse voluto.

... già noto serial killer ...

Sylar.
Lo individuò solo in quel momento. Era chino su una vecchia scrivania.
Non sapeva dove si trovasse, men che meno il perché.

... Sylar ...

Perché non l'aveva uccisa, tanto per cominciare? Non era forse il suo potere l'unica attrattiva che poteva esercitare su di lui?

Non fece in tempo a formulare il pensiero, che l'uomo si voltò verso di lei.
Le rivolse un largo sorriso che le fece venir voglia di vomitare.

"Buongiorno Bishop," esordì con tono divertito, "credevo non ti saresti più svegliata."
"Già, e io che speravo di essere morta."

Sylar si mise a ridere. Era una di quelle sue basse risate, quelle a capo chino e occhi accesi, come di qualcuno che è il solo a capire una battuta, qualcuno che sa qualcosa di cui tutti gli altri (Elle compresa) sono all'oscuro.

Si stava prendendo gioco di lei.

"Mio padre verrà a cercarmi," asserì stancamente, sollevando il mento in uno sprazzo d'orgoglio.
"Davvero?" Domandò in risposta, senza mostrarsi particolarmente sorpreso.
"Certo!" La voce le uscì rabbiosa e stizzita.

Perché non sarebbe dovuto venire? Era sua figlia, era la sua bambina. Era ovvio che sarebbe arrivato in capo al mondo pur di riaverla tra le braccia.

Il pensiero la fece sentire un po' meglio, mentre Sylar si alzava dalla sua postazione, per poterla raggiungere.

Era seduta su una vecchia poltrona di un blu sbiadito che odorava di caffé e polvere.

"Mi avrà sicuramente messo delle guardie alle costole. Saranno qua e -"
"Chi, quello?" La interruppe prontamente, indicandole la foto sgranata che il telegiornale ancora mostrava nell'angolo più alto dello schermo.

Elle storse la bocca. Chiunque fosse stato non si ricordava di averlo mai visto.

"Mi ha dato un po' di problemi. Ho dovuto ucciderlo," si giustificò a mezza voce, cercando il telecomando per poter spengere l'apparecchio.

Quindi Noah aveva ragione. Non aveva un partner soltanto perché non lo sapeva.
Strinse le labbra, assottigliando lo sguardo: il pensiero di aver avuto bisogno fino a quel momento di un angelo custode che la seguisse ovunque le mandò il sangue al cervello.

Con la coda dell'occhio notò la pistola, probabilmente quella che aveva usato contro per ammazzarlo, abbandonata sul comodino sbilenco che affiancava il letto.

"Perché non mi hai uccisa?" Domandò con voce acuta, maledicendosi mentalmente. Avrebbe voluto alzarsi. Alzarsi e fargli vedere ciò di cose era capace.

Ma i suoi muscoli erano così indolenziti e doloranti che non riusciva minimamente a muoversi.

"Perché mi servi."
"Per cosa?"
"Per distruggere la Compagnia."

Un'espressione di puro disgusto si dipinse sul suo volto, mentre Elle inorridiva.

"Da solo?" Gli chiese, cominciando a ridere. Come pensava di sconfiggere la Compagnia da solo? Era semplicemente ridicolo! Non ci sarebbe riuscito nemmeno in un milione di anni.
"No, non da solo," obbiettò, sedendosi sul letto e appoggiando i gomiti alle ginocchia, "ci sarai tu a darmi una mano."
"Scordatelo."

Sylar piegò leggermente il capo da una parte, osservandola attentamente.

"Mi chiedo cosa ti spinga a lavorare per quell'essere," sibilò, in un tono che non si addiceva affatto allo spietato compatimento che gli segnava il volto.
"Quell'essere è mio padre."
"Quell'essere è un mostro che manipola la gente."
"Non è vero!"
"Oh, sì che è vero, Elle."

Pronunciò il suo nome con una cadenza così odiosa che uno tiepido sfrigolio le attraversò le dita. Avvertì un'ondata di sollievo all'idea che i suoi poteri fossero ancora lì, ancora integri e più o meno funzionanti.

"Ti ucciderà," sentenziò la ragazza, maltrattenendo la smania di fargli male che le animava lo sguardo.
"No. Non succederà. E comunque...," si alzò, ed aprì uno dei cassetti del comodino. Ne tirò fuori un lungo coltello.

Elle raggelò, sgranando visibilmente gli occhi mentre Sylar le si avvicinava. Si fermò quando le era ormai di fronte.
Appoggiò una mano su uno dei braccioli della poltrona, chinandosi su di lei finché pochi centimetri furono rimasti a separare i loro visi.

"... tu mi sottovaluti, Bishop," mormorò con un'occhiata eloquente.

La ragazza si spinse istintivamente indietro, premendosi contro lo schienale della poltrona, per sfuggire a quell'improvvisa vicinanza.
L'ultima volta che era riuscita a sentire il respiro di un uomo sul volto, era stato con Peter. Quando ancora era prigioniero della Compagnia.
Una sensazione che pensava di aver dimenticato si impadronì di lei, costringendola a serrare i pugni per nascondere i lievi bagliori azzurri che si stavano debolmente ravvivando sui palmi delle sue mani. Si mischiò al terrore che provava in quel momento, mentre lo stomaco le si stringeva bruscamente.

Sylar sorrise di nuovo, accarezzandole una guancia con la lama, senza ferirla. Un brivido di soddisfazione lo percorse al tremore di Elle.
Si sollevò la manica della camicia scura che indossava, scoprendosi il braccio.

"Non hai idea di ciò che sono capace di fare," bisbigliò.
Senza smettere di fissarla, affondò la lama nella propria carne, tracciando un lungo solco rosso che si fece subito vermiglio quando il sangue prese a scorrere copiosamente dalla ferita.

Si rimise, dritto, mostrandole il profondo taglio che si era appena procurato.

"Che schifo," balbettò Elle a mezza voce. Non si rese conto che - in un battito di ciglia - il sangue e la ferita erano già scomparsi, lasciando la pelle di Sylar così com'era, prima di quella truculenta dimostrazione.

Fu costretta a respirare più profondamente, per non farsi prendere da uno scompenso. Alzò gli occhi chiari verso di lui, comprendendo immediatamente cosa doveva esser successo.

"Hai trovato la cheerleader."
"Bingo."
"Possiamo ancora tagliarti la testa."
"Suppongo che correrò il rischio," nel dirlo, si strinse nelle spalle, come a dire sono spiacente.

Si rimise seduto, senza smettere di osservarla. C'era qualcosa di strano in Elle. Qualcosa che lo incuriosiva sinceramente.
Era un misto di innocenza e sadismo che cozzavano ingenuamente l'una contro l'altro, creando un effetto bizzarro. Era totalmente diverso da ciò che aveva visto in Maya.

"Perché non mi hai legata?"
"Non sono solito legare la gente," constatò, "ma se ti piace cercherò di fare uno sforzo," si offrì, trovando il commento piuttosto divertente.

Elle non era d'accordo.
Alzò gli occhi al soffitto, muovendo impercettibilmente le gambe.

"Non riusciresti comunque ad alzarti," le assicurò, "ti ho sedata."
"Stronzo."
"Non c'è di che."

Rimasero in silenzio. Sylar riaccese la TV.

"Ti userò come moneta di scambio," disse, "o come leva. Scegli tu la definizione che più ti aggrada."

... dentifricio Colgate, per denti sani, bian - ...

Cambiò canale.

La ragazza abbassò il capo, fissando la trama ingiallita del tappeto sul pavimento. Sapeva che aveva centrato nel segno e era anche consapevole di quanta importanza avesse Sylar per la Compagnia.

Era fregata.

*

Si svegliò di soprassalto nel bel mezzo della notte. La pioggia batteva insistentemente contro i vetri opachi della finestra. Il rumore le riempiva fastidiosamente le orecchie.

Era ancora seduta su quella poltrona.
Le facevano male le gambe e la schiena.

"Ma tu non dormi mai?" Domandò Sylar.

Elle fece saettare lo sguardo da un punto oscuro all'altro della stanza dove si trovava, ma non riuscì comunque a capire da che parte provenisse la voce.

"Taci," si sforzò di intimargli con ben poca convinzione.

L'uomo non disse nient'altro, lasciando che fosse la pioggia a riempire il silenzio.

Si rese immediatamente conto che preferiva sentirlo parlare piuttosto che non sapere dove fosse. Non vederlo e non sentirlo le faceva fin troppa paura.

"Ehi," riprese, "ho sete."

Niente si mosse. Credette che fosse rimasto immobile, rifiutandosi di darle retta e decidendo di lasciarla morire di sete, ma dopo un attimo, un'ombra le oscurò la ridotta visuale che aveva.

Una mano le passò sul collo, mentre l'altra le sollevava il mento.
Le appoggiò il bicchiere che aveva in mano alle labbra, lasciando che l'acqua le scivolasse in bocca.

Quando ebbe finito, si allontanò senza dire una parola o fare il benché minimo rumore.

Elle rimase immobile. Voleva insultarlo, ma le parole le si erano bloccate in gola. Una microscopica parte di lei le suggeriva di ringraziarlo, ma la mise prontamente a tacere.
Voleva che le toccasse di nuovo il viso in quel modo, ma non avrebbe mai perso la faccia per una stupidaggine simile.

Il pensiero la tormentò per un buon quarto d'ora, finché la stanchezza non ebbe nuovamente la meglio.

*

Quando si svegliò, era distesa sul letto.

Aveva smesso di piovere.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Living On Ecstasy ***



Living On Ecstasy.

One heart angel
One cool devil
Your mind on the fantasy
Livin on the ecstasy
Give it all, give it,
Give it what you got
Come on give it all a lot
Pick it up move it
Give it to the spot
Your mind on fantasy
Livin on ecstasy

Rock N'Roll Train (AC/DC)



C'era qualcosa nell'odore della sua pelle, che riusciva a rassicurarla.

Le piaceva osservarlo mentre si muoveva per la stanza, silenziosamente. Non faceva alcun rumore: i suoi piedi sfioravano appena la moquette. Sembrava quasi che non la toccassero affatto.
Le sue mani, poi, parevano avere una coscienza propria.
Toccavano gli oggetti, aprivano giornali, accarezzavano pareti, e strumenti che Elle non sapeva riconoscere.

Il pensiero che fosse proprio con quelle che uccideva, che immobilizzava le sue vittime prima di scoperchiare loro la testa, la faceva rabbrividire.
Ma non era una sensazione spiacevole... la rendeva eccitata e spaventata allo stesso tempo. Un qualcosa di adrenalinico che le incatenava lo stomaco in una morsa gelida e bollente allo stesso tempo.

Avrebbe passato ore a guardarlo senza dire niente.
Era come se la lingua le si attaccasse al palato quando lui era nei paraggi.
Si dimenticava tutti gli insulti che aveva preparato appositamente per lui la sera precedente, offese su cui si era diligentemente spremuta per tutta la notte.
Accostava termini taglienti, e studiava il modo in cui avrebbe dovuto rivolgerglieli.
Era sua prigioniera, era vero, ma nessuno le impediva di essere un ostaggio fastidioso.
Tutto quello che Elle voleva fare, era scuoterlo.
Scuoterlo, costringerlo a guardarla, e a toccarla così come faceva con qualsiasi altro oggetto della stanza.

Si mordeva la lingua tutte le volte che quelle riflessioni sfociavano in qualcosa di estremamente sbagliato.

Ma c'era il suo odore ovunque, e le sue mani nella sua testa, e lei detestava non essere guardata.

Avrebbe dato chissà cosa per sentire la sua voce.

Vicino al suo viso.

Di nuovo.

*

Quando riaprì gli occhi, si ritrovò i suoi - neri, profondi, bui - piantati nei propri.

Il cuscino era scomodo e si era fastidiosamente appiattito sotto la pressione del suo capo.

Le sue mani erano ancora legate l'una all'altra e i polsi le facevano male.

C'era qualcosa, in quello sguardo, che la metteva terribilmente a disagio. Era come se riuscisse a trapassarla, a vedere oltre, a scavare sotto tutti quegli strati di incomprensione e odio e insicurezza, fino ad arrivare ad Elle.

Quella vera, quella che voleva essere, quella che era.

Si sentiva vulnerabile.

Voleva dirgli di andarsene per sempre, o di ucciderla una volta per tutte.

(L'idea che fosse il suo viso - i suoi occhi, la sua bocca, la sua barba sfatta - l'ultima cosa che avrebbe visto, non le dispiaceva affatto.)

Si rese conto di essere come di fronte ad uno specchio.

Si rivedeva in quelle pozze di pece che nascondevano e proteggevano Gabriel Gray, e benché le sue iridi fossero così chiare e limpide, sapeva benissimo che il marcio che celavano era torbido e nauseante e orrendo.

Per un attimo l'idea di essere se stessa le sembrò così semplice, così immediata... perché fingere?
Lui già vedeva, che differenza avrebbe fatto?

Socchiuse gli occhi, impedendogli di arrivare fin dove nessuno era mai stato. Perché lei non voleva, perché non aveva il coraggio di farlo, perché non ne aveva l'intenzione, perché allo stesso tempo supplicava che un giorno, qualcuno, sarebbe stato in grado di scavare, e trovarla e scoprirla e dire di conoscerla.

Nemmeno suo padre poteva dire di averlo fatto. Sebbene tentasse di convincersi del contrario, Elle sapeva che non gli interessava.
Era un'arma, era mortale, era solo uno strumento. Uno strumento che suo padre amava e di cui necessitava.

Sussultò impercettibilmente quando le mani di Sylar scivolarono sul suo collo, proprio come quando l'aveva fatta bere.
Le solleticarono il collo e andarono ad incastrarsi tra i suoi lunghi capelli biondi, serrando la presa, quasi avesse avuto paura di vederla scivolare via.

Era come se le stesse dicendo: ti ho presa e non ti lascio andare per niente al mondo.

Tenne chiusi gli occhi, perché non voleva vedere e non voleva essere vista, ma non si mosse.

E poi sentì le sue labbra sulle proprie. Proprio come era successo con Peter... ma stavolta, stavolta c'era qualcosa di profondamente diverso.
Sbagliato.

Peter stava soltanto cercando di distrarla, di approfittare della sua ingenuità per poter scappare.

(Era una mancanza che suo padre non gli aveva ancora perdonato.)

La sua bocca era perfetta e le sue labbra morbide.
La barba le pungeva le guance, ma non ci fece caso perché la sensazione era troppo piacevole.
Tentò di soffocare l'impazienza e la paura di averlo così vicino, sforzando di rilassarsi e calmarsi.
Chiuse le mani a pugno, l'una sull'altra, dischiudendo le labbra contro le sue, come aveva visto fare nei film.

Le sembrò di non aver mai fatto fino ad allora.

La sua lingua le sfiorò le labbra e poi toccò la sua.
Trasalì bruscamente, quasi avesse preso la scossa, ma sapeva benissimo che stavolta lei non c'entrava niente, che il suo potere non era stato chiamato in causa, che era lui e nessun altro.

Si sporse maggiormente verso di lui, maledicendo i lacci che le immobilizzavano le mani: voleva toccarlo, voleva avvicinarlo, voleva sentire se i suoi capelli erano morbidi e soffici quanto la sua bocca.

Sylar l'afferrò per la vita, strattonandola contro di sé, facendo aderire i loro corpi con un gesto deciso.

Poteva sentire il suo cuore battere in corrispondenza del suo, e le sue dita tremare contro il suo collo e i suoi fianchi, là dove ancora la toccava.

La baciò a lungo, quasi volesse avere tutto e subito.
Il suo sapore si mischiava al suo, il loro respiri pesanti si fondevano, i loro nasi si sfioravano, in un incastro perfetto.

Si scostò solo per un attimo e Elle desiderò ardentemente che non l'avesse fatto.
Voleva che ricominciasse da capo, voleva che riprendesse a stringerla in quel modo, che le facesse scordare come ci si sentiva ad ostinarsi ad essere qualcuno che non sei.

La figlia del capo, la sociopatica, la psicopatica, la punta di diamante della Compagnia.
Non era niente di tutto ciò, era solo Elle, e avrebbe dato chissà cosa perché qualcuno - finalmente - se ne accorgesse.

Sentì il suo respiro solleticarle le labbra arrossate, e il suo sapore invaderle la bocca.

"Elle," mormorò il suo nome quasi fosse sempre stato là, sulla punta della sua lingua, pregando di poter uscire.

Non disse niente.
Avrebbe voluto, ma i muscoli del suo viso sembravano essere immobili.

"Elle," ripeté ancora, in un debole sussurro. La sua voce suonava così lontana e morbida e... debole.

"Elle."

Ancora. Mentre qualcosa sembrava scuoterla per trascinarla via da quel calore rassicurante.

"Elle."

*

"Elle."

La colpì alla spalla con una mano, sperando che avrebbe finito per aprire gli occhi una volta per tutte.

La vide sussultare, e spalancarli di colpo. Non sapeva dire se si sentiva sollevato o spaventato o solamente perplesso.
Magari tutte e tre.

Aveva un'espressione strana sul viso, quasi di placido appagamento. Si chiese cosa stesse sognando per renderla così soddisfatta e tranquilla.

"Credevo fossi morta," la prese in giro, rimettendosi dritto, aggirando nuovamente il letto.

Era tempo di muoversi. Proporre lo scambio.

Elle in cambio di Bob. Sempre di Bishop si trattava, che differenza avrebbe fatto? Suo padre avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei, per riaverla indietro, e Sylar se ne sarebbe approfittato.

"Che diavolo -," borbottò lei, rimettendosi seduta sul materasso, troppo morbido per essere comodo.
Tentò di muovere la mani, ma si rese conto di averle ancora saldatamente immobilizzate l'una contro l'altra.

"Stavi dormendo," tagliò corto Sylar, "ed è tempo di alzarsi Bella Addormentata," la apostrofò, rivolgendole un'occhiata divertita.

Lo fissò con disprezzo, sebbene avvertisse ancora quella piacevole sensazione allo stomaco.

Si era immaginata tutto. Di nuovo.

Ricadde all'indietro sui cuscini, più esausta che mai.

Era successo con Adam, poi con Peter, e adesso con Sylar.

Sbuffò sonoramente, maledicendosi per la propria stupidità.

Le vecchie abitudini, pensò, sono dure a morire.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** No Vacancy, Just Emptiness ***


Ancora una one-shot da aggiungere alla lista.
Un grazie particolare ad Ino Chan & Amarantha che mi hanno recensito! GRAZIE DAVVERO :)


No Vacancy, Just Emptiness.

Waiting here
For you to call me
For you to tell me
That everything's a big mistake

Waiting here
In this rainfall
Feeling so small
This dream was not suppose to break

But you don't love me anymore
You don't want me anymore
There's a sign on your door
No vacancy, just emptiness
Without your love
I'm homeless


Homeless (Leona Lewis)



Il vento gelido le pungeva le guance già arrossate, costringendola a rabbrividire.

Si strinse nelle spalle, cercando di riscaldarsi in qualche modo, ma le braccia tiravano indietro, e Sylar ancora la teneva saldamente immobile con una mano sopra le sue, barbaramente congiunte.

Non era ancora l'alba e la strada, vicino alla stazione di servizio, era deserta.
Il cielo grigio ed immobile sembrava non dare alcun segno di vita.

Sylar si stava rigirando la pistola tra le mani. Temeva che Bennet sarebbe comparso dal niente, con l'Haitiano al suo fianco, e non era decisamente propenso a farsi trovare impreparato: nel caso i suoi poteri avessero dato forfait, avrebbe avuto comunque un asso nella manica.

"Ora arriva," disse Elle, fissando la linea che indicava la brusca curva che la strada faceva in lontananza.

Spostò il peso del corpo da un piede all'altro, deglutendo a fatica.

Era trascorsa più di mezz'ora dall'ora stabilita per l'appuntamento, le 5 e 30, e non si era ancora presentato nessuno.

"E' la terza volta che lo ripeti," mormorò Sylar, per niente divertito da quell'imprevisto ritardo.

Elle serrò le labbra, riducendole ad una linea sottile. Fissava la strada con attenzione quasi maniacale, smaniando e strepitando mentalmente affinché fosse comparso anche un solo puntino nero in lontananza: suo padre, che veniva a prenderla.

*

Ma Bob non si presentò, e nemmeno Bennet, o l'Haitiano o Suresh.

Sylar le aveva prese in considerazione tutte, ma dopo un'attesa che si era protratta per quasi due ore, realizzò che non sarebbe arrivato nessuno.

La pistola era soltanto un peso scomodo ed inutile nella sua mano, ed Elle era un tesoro privo di qualsiasi valore.

Non aveva aperto più bocca dopo averlo rassicurato, per la decima volta almeno, che Bob sarebbe arrivato di lì a poco.

Un violento tuono annunciò che stava per piovere.
Il sole era sorto al di là di una coltre argentea di nubi che si stavano facendo gonfie e nere.

Probabilmente non voleva esporsi, pensò, nemmeno per la sua unica figlia.
Forse sperava che - non vedendolo arrivare - l'avrebbe semplicemente lasciata andare.

Elle era seduta a terra, con il capo chino e lo sguardo perso su chissà quale assurdo particolare dell'asfalto.

"Non verranno," annunciò Sylar, con un misto di disapprovazione e disappunto nella voce. C'era una nota quasi reverenziale nel tono in cui pronunciò quelle parole, come le stesse soppesando attentamente.

L'ennesimo tuono camuffò il singhiozzo che le sfuggì dalle labbra, ed Elle ne fu terribilmente riconoscente.
Era stata catturata, usata come esca ed ostaggio, come moneta di scambio, e come se non fosse stato abbastanza, suo padre non si era nemmeno presentato nel luogo prestabilito, per riaverla indietro.

Evidentemente la sua vita, valeva molto di più di quella di sua figlia.

C'era una motivo, pensò. C'era un motivo se non era ancora arrivato. Era sicuramente parte di un piano che aveva escogitato per riaverla sana e salva senza, però, scendere a patti con un assassino come Sylar.

Eppure, una parte di lei le suggeriva che no, non era proprio così. Alla resa dei conti, lei non valeva più di nessun altro membro della Compagnia.

La consapevolezza di quel pensiero le scese addosso come una cascata d'acqua gelida.

Non sarebbe venuto.

Suo padre non sarebbe venuto.

Prese a ripeterselo come una nenia monotona e cantilenante, fino a quando la sua mente non fu piena che di quelle parole.

*

Era trascorso un misero minuto da quell'agghiacciante rivelazione, ma ad Elle sembrò un'eternità.

La pioggia aveva preso a scendere insistentemente, bagnando la strada, i suoi capelli, i suoi vestiti, le sue lacrime...

Quasi non si rese conto che Sylar le stava liberando le mani, dando un amaro sollievo alla pelle irritata dei suoi polsi.

Fece strusciare le dita sull'asfalto, sentendo le braccia dolerle all'altezza delle spalle.

Non disse niente e non si rialzò. Pensò soltanto che non aveva più un posto dove andare, nessuno che le avrebbe potuto offrire un rifugio, un abbraccio di conforto.
Avrebbe dato chissà che cosa, pur di sentire suo padre rivolgerle quelle parole astiose che non faceva altro che sentirsi ripetere.

Mi hai deluso, Elle. Mi hai veramente deluso.

Le lacrime calde si mischiavano alle fredde gocce di pioggia.

Le sembrò che niente avesse più senso. L'aveva rifiutata, l'aveva messa da parte per essere sicuro di non correre alcun rischio.

Lei, sangue del suo sangue.

Sylar, alle sue spalle, era altrettanto immobile. Era stata una svolta tanto indesiderata quanto inaspettata. Credeva che Bishop tenesse alla figlia, e non gli sembrava possibile che l'avesse sacrificata in quel modo, pur di non doverlo fronteggiare.

Abbassò lo sguardo sulla sua testa bionda, provando una sensazione strana.

L'avrebbe chiamata "compassione" se si fosse ricordato com'è che ci si sentiva ad averne.

Mise via la pistola, respirando pesantemente.

Non c'era più niente da fare lì. Niente da aspettare o aspettarsi.

"Sei libera," le disse, lasciando che il tono si ammorbidisse sensibilmente, risultando quasi gentile, anche se scorbutico, "puoi andartene."

Fece per voltarsi ed andarsene, ma rimase piantato lì dov'era, senza osare muovere un muscolo.

Sapeva, insensatamente, che non si sarebbe mossa di lì, perché era esattamente quello che lui avrebbe fatto al suo posto.

Anche sua madre l'aveva rifiutato, gli aveva urlato di andarsene, l'aveva supplicato di farlo, perché non voleva più avere niente a che spartire con un figlio del genere.
L'aveva terrorizzata, mostrandole un misero stralcio di ciò che era veramente.

Bob, invece, aveva sempre avuto sotto gli occhi la vera Elle. Ciò che c'era di falso, erano i suoi sentimenti verso di lei: un fittizio attaccamento paterno che era sufficiente a farla orbitare attorno lui, in continuazione.

Fece schioccare la lingua, scacciando rabbiosamente il pensiero di sua madre, morta, in una pozza di sangue e un paio di forbici da cucito conficcate nel petto.

Corrugò la fronte, indietreggiando di un paio di passi.
Non avrebbe potuto far niente per lei neanche se avesse voluto.

Conforto? Comprensione? Che aveva da darle? Niente. Niente che avesse voglia di condividere, comunque.

Cercò le chiavi dell'auto che aveva abilmente sottratto ad un passante, passandosele da una mano all'altra.

Se ne sarebbe andato. L'avrebbe mollata lì. Non c'era niente che avrebbe potuto fare per lei, e per di più, gli era totalmente inutile.

L'idea di aprirle la testa, e acquisire il suo potere, non lo sfiorò nemmeno. Era troppo triste e disperata, e lui non era per niente in vena di delitti.

Le dette le spalle, premendo il pulsante unlock sulla grossa chiave nera della Station Wagon. Spalancò la portiera dalla parte del conducente, salendo rapidamente a bordo.

Le gocce d'acqua rigavano il parabrezza e i finestrini, facendo colare la polvere depositata nelle intercapedini e sui vetri.

Rimase immobile per un lungo attimo, prima di decidersi a mettere in moto.

Nemmeno si voltò per controllare che Elle fosse ancora lì: era più che sicuro che non si fosse mossa affatto.

Fece rapidamente marcia indietro, ingranando la prima. La ghiaia dello sterrato scricchiolava fastidiosamente sotto gli pneumatici.

Azionò i tergicristalli. Non riusciva a vedere niente in quelle condizioni.

Tirò giù il finestrino, accostando di fronte al punto in cui Elle stava ancora seduta, in attesa di qualcosa (qualcuno) che non sarebbe arrivata.

"Ehi," la apostrofò, in tono tutt'altro che gentile, "hai intenzione di salire o devo aspettare ancora molto?"

Elle non alzò il capo per poterlo guardare, anzi, nemmeno sembrò averlo sentito.

Sylar la mandò mentalmente al diavolo, facendo suonare il clacson per attirare la sua attenzione.

"Ehi!" Ripeté, sporgendosi verso il sedile del passeggero per poter aprire la portiera.
"Me ne vado tra un secondo," l'avvertì, "e non tornerò indietro."

Ci fu solo l'ennesimo a tuono a far eco alle sue parole e il solito fastidioso mutismo da parte della ragazza.

"Al diavolo," borbottò a mezza voce, facendo per richiudere l'auto, e partire alla volta di chissà che cosa. Avrebbe dovuto scoprire cosa avevano intenzione di fare quelli della Compagnia e poi cercare un modo per ottenere la sua vendetta.

Non c'era più niente per lui in quel dannato posto dimenticato da Dio.

Afferrò la maniglia e la tirò a sé, ma qualcosa oppose resistenza dalla parte opposta.

Un attimo dopo Elle, sedeva al suo fianco, guardando ostinatamente di fronte a sé, oltre il vetro lercio, senza nemmeno vederlo realmente.

Ci pensò lei a richiudere la portiera, con un schiocco secco.
Aveva il viso e i capelli bagnati, gli occhi arrossati, e il respiro irregolare.
Il suo cuore batteva con una cadenza strana. Sylar riusciva a sentirlo e, per una volta, non gli dispiacque affatto.

Spinse il piede sull'acceleratore, senza una parola.

Elle trattenne il fiato per una manciata di secondi prima di allacciarsi la cintura di sicurezza.

"Grazie," mormorò soltanto, appena udibile.

Sylar non rispose.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=279477