Falce di luna

di Aleena
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Di Riti e Demoni ***
Capitolo 2: *** Di Sangue e Vampiri ***
Capitolo 3: *** Musica dall'oltretomba ***



Capitolo 1
*** Di Riti e Demoni ***


 

 
CAPITOLO I

DI RITI E DEMONI
 

 
  C’era una particolare bellezza nelle strade di Londra a quell’ora del mattino.
Tre ore prima dell’alba tutta la città sembrava sospesa in un limbo, in bilico fra la luce tremula dei lampioni e la nebbia carica di sogni, che saliva dal Tamigi a inumidire le pietre delle strade, ovattando rumori e odori.
Sagome spettrali danzavano attorno a Will, che le osservava con l’interesse vago tipico degli stanchi o dei fumatori d’oppio. Era alla prima categoria che il ragazzo apparteneva: le ultime ventuno ore le aveva passate chiuso in una sala grande come una piazza, lavorando senza quasi sosta per trasformarla in tre spazi divisi e completi prima che sorgesse il sole.
Ce l’avevano fatta, arrangiandosi come potevano. Tutto perché Geoffrey Aylmer potesse dire che la sua squadra non aveva battuto la fiacca e che il merito era suo, solo suo. Sarebbe stato promosso? Will sperava di sì. Sarebbe stato un ottimo modo per toglierselo di torno prima che gli capitasse un incidente.
Non voleva avere il sangue del caposquadra sulle mani, ma non avrebbe mai fatto la spia se avessero trovato Aylmer disteso in un vicolo, con la testa spaccata da un sasso. Era un bastardo della peggior specie, e non solo di nascita: li faceva lavorare come bestie per una paga che era di almeno due scellini inferiore a quella degli altri operai, che non erano nemmeno costretti a graffiare via dal muro la cenere umida dell’incendio1.
Da quattro anni la sua squadra lavorava alla ristrutturazione del palazzo di Westminster, disperando di riuscire a vederne la fine. Will tossiva tutte le notti catarro nero come carbone, dal sapore acre; le sue mani erano diventate di un grigio che sembrava non volerlo abbandonare più, i capelli una volta biondicci erano ora di un’indefinibile marrone scuro e la vista gli si annebbiava, a volte. Dimostrava molto più dei suoi ventuno anni ma non lo trovava strano: il suo destino era molto migliore di quello dei minatori e la paga gli consentiva di mantenersi due stanze tutte per sé, a Soho. Non era un bel quartiere, nonostante le promesse, ma era abbastanza vicino a Westminster da permettergli di tornare a casa agilmente nelle pause, per riposare.
Faceva volentieri quella mezz’ora a piedi: era un modo per svuotare la testa e respirare un po’ d’aria fresca prima di ributtarsi nell’odore acre del suo quartiere – soprattutto a quell’ora di notte, quando solo i fornai erano svegli e ladri e perdigiorno si erano tolti di torno, svanendo in qualche lurido vicolo buio che chiamavano casa. Ne vedeva i piedi spuntare dalle ombre, a volte, e questo lo rassicurava: contrariamente alla voce comune, quella era l’ora in cui un inglese timorato di Dio come Will doveva aver meno paura.
Delle notti riusciva a sentire perfino il rumore del fiume, un lusso che pochi londinesi avevano provato: l’acqua della piena che sbatteva contro i pilastri di roccia del Ponte di Westminster era in inverno un boato che produceva una musica dissonante con l’eco dei suoi passi lungo Parhammer Street. Un suono che gli ricordava tanto – troppo – il basso cantilenare di sua madre, che serpeggiava fra le stanze di una casetta dimenticata nella sua infanzia. Cantava, sulle note meccaniche di una scatola armonica, per suo fratello, per farlo dormire – e sebbene Edward si dicesse troppo grande per quelle smancerie, se ne restava in silenzio ad ascoltare quelle parole stonate che sbocciavano sempre e solo per lui.
 
E della luna un giorno scese
Circondato da mille luci
La mano al Sovrano prese
E gli parlò con mille diverse voci…
 
Anche ora, in quella notte ovattata, gli sembrava di sentire il canto della madre, lontano come lo era stato in quei giorni. Lo odiava, come aveva finito per odiare lei, ma ne era affascinato.
Una volta, al lavoro, John Carrent gli aveva detto che nella nebbia vagano gli spiriti dei morti. Sosteneva che la foschia si sollevasse direttamente dai luoghi di sepoltura strappando le anime al riposo e le trascinasse in giro, in cerca dei cari amati o di vittime a cui infliggere lo stesso tormento che loro stessi pativano. Will aveva riso vedendo John farsi il segno della croce tre volte, e l’aveva preso in giro. “Siamo alle soglie di un’epoca di meraviglie tecnologiche e tu credi ancora ai fantasmi!” gli aveva detto, non senza una punta di amaro sarcasmo. John si era limitato a scuotere il capo, assumendo quell’aria di superiorità che lo rendeva tanto sgradito al resto della compagnia – ma a Will piaceva. La trovava di una coerenza stupefacente, come la sua superstizione: cosa ci si doveva aspettare da un artista del vetro?
Quella notte, però, le parole di John sembravano contenere almeno un fondo di verità. Se ne era accorto non appena aveva svoltato in Swallow Street: la musica che sentiva non poteva essere solo nella sua mente. Era reale, dura e aspra, e scivolava come uno spirito in mezzo alla nebbia. Non era l’esatto tono di sua madre, ma chi poteva dire quale modifica la morte desse alla voce?
A meno di trecento yard da casa sua, Will sperimentò per la prima volta nella sua vita una curiosità che non era in grado di controllare. Improvvisamente non gli importava più delle cinque ore scarse di sonno che si assottigliavano, né del vicolo stretto in cui si stava immergendo lentamente: voleva trovare quello spettro. Aveva delle domande da farle e quelle risposte potevano dargli un po’ di pace… forse.
Vale la pena tentare, si disse, scivolando fra i resti di un banchetto da mercato mangiato dall’umidità fino a una porta di legno.
Will era una persona pratica, una di quelle del tipo peggiore: non si curava del perché le cose andavano fintantoché esse funzionavano. Dunque non trovò nulla di strano nel fatto che un fantasma avesse avuto bisogno di scardinare una porta per entrare. Spinse l’uscio senza farsi nessuna domanda e scivolò silenziosamente attraverso un corridoio che sapeva di muffa e polvere fino ad una piccola stanza, dalla quale proveniva il canto.
Affacciandosi con la metà destra del volto il ragazzo vide che c’erano chiazze nere sulla parete che aveva davanti, laddove l’acqua era entrata dalle finestre spaccate, ristagnando. I resti di un mobilio spartano erano accatastati di lato, lontano dai piccoli scalini di legno che conducevano a una pedana e…
Con un brivido, Will si rese conto che quell’edificio doveva essere stato una Chiesa, un tempo.
Deglutì, inghiottendo in un groppo amaro tutte le proteste e le ipotesi che fiorivano nella sua mente, e cercò di farsi coraggio. Era in ballo e doveva ballare. Rimpiangerai tutta la vita di non aver guardato diceva una voce irrazionalmente calma nella sua testa.
Così il ragazzo si chinò di più, poggiando i palmi sul muro viscido e infetto.
C’erano due persone nella piccola navata. L’uomo, che gli dava quasi le spalle, era in ginocchio per terra, le mani calate fra le gambe. Doveva essere ricco, a giudicare dai vestiti, uno che non avrebbe dovuto trovarsi in un quartiere come quello. Era impossibile dire se fosse legato o meno, ma Will non aveva dubbi sul fatto che fosse drogato: roteava la testa come un folle, gli occhi gettati all’indietro e i capelli per metà davanti alla faccia. L’uomo era pallido come un cadavere, le labbra cianotiche spaccate in più punti e la camicia coperta di chiazze marroni che potevano derivare solo da vecchie ferite.
Aveva un coltello ai piedi, macchiato di rosso vivo, e una ferita al braccio che zampillava pigramente. Lui non sembrava esserne cosciente: rispondeva all’invocazione blasfema con rantoli singhiozzanti, chinando a volte il busto fino al suolo.
La donna era esile, di una bellezza volgare che l’abito signorile e l’acconciatura alla moda non potevano nascondere. Aveva lunghi capelli di un biondo che ricordava il sole in un giorno velato, quando la sua luce splendente non riesce a riscaldare. Lei stessa dava quell’impressione: il corpo voluttuoso era tanto invitante quanto repellente, e Will sentiva l’eccitazione combattere contro la certezza che, se anche l’avesse avuta fra le braccia, la sua carne non avrebbe avuto un sapore migliore delle pareti arse vive di Westminster.
Ma non era quello. C’era qualcosa, nei suoi occhi, nella piega ferina delle labbra, che lo spaventava, dandogli la certezza di trovarsi non alle prese con uno spettro, bensì con un demone. Quale inferno l’avesse creata così perfetta non avrebbe saputo dirlo, ma non aveva dubbi in proposito.
Quella… creatura scivolava al suolo come su una lastra di ghiaccio, muovendosi velocemente in circolo. Parlava in una lingua dimenticata da secoli che rimbombava demoniaca e feroce, come un violino dalle corde di ferro suonato da un sordo, o il grido delle Banshee delle leggende – e come similitudini del genere gli venissero in mente, Will stesso non avrebbe saputo dirlo.
Era impossibile smettere di guardarla: la curva appena accennata dei seni, il candore delle manine delicate, l’incavo del collo lungo erano bastati per far venire a Will un’erezione, che premeva con urgenza contro la stoffa ruvida. Una parte del ragazzo sarebbe corsa ora in quella stanza per gettarsi ai piedi della donna, supplicandola di prenderlo – anche a costo della vita. Forse era stato lo stesso desiderio smodato ad attirare l’uomo in quel luogo. Cosa ne avrebbe fatto quel demone? Will l’avrebbe scoperto a breve.
Non sarebbe stato in grado di allontanarsi dalla figura di lei nemmeno se lo avesse voluto.
La donna stava spargendo polvere di mattoni al suolo, creando circoli e spirali che sembravano non avere un senso compiuto. Danzava leggera attorno a candele rosse e nere, la cui fiamma restava immobile al suo passaggio. Non smetteva di salmodiare, ma ora le sue parole erano passate dal canto alla recitazione.
L’uomo aveva preso a tremare violentemente, gli spasmi sempre più frequenti che frammezzavano le sue parole, riducendole a rantoli incomprensibili.
Il demone finì di tracciare una linea vermiglia e il disegno di un pentacolo avvolto in cerchi apparve, nitido come se brillasse di luce propria. Quando la donna versò sul suo corpo il resto della polvere rossiccia, tutto il disegno prese a contorcersi come fosse fatto di materia vivente.
Una figura avvolta dalla nebbia vermiglia si delineò, bestiale e oscena, mentre il grido di dolore si levava contemporaneamente da vittima e carnefice. I frammenti di mattone brillarono come piccoli fuochi illuminando con bestiale chiarore il volto della donna, trasmutato dal dolore in una maschera orrenda e dannata.
L’eccitazione di Will scemò rapida come era arrivata, permettendo al cuore e al cervello di ossigenarsi di nuovo. I denti del demone erano affilati come rasoi, le sue dita scheletriche simili a lame. Gridando il proprio dolore sorrideva, lasciando che la polvere le lacerasse la carne facendone sgorgare una sostanza nera e velenosa. E Will, con uno strappo al cuore, si rese conto che il demonio ora rideva, compiaciuta.
La figura nel cerchio gridava come se la nebbia rossa la stesse bruciando, e Will cercò in tutti i modi di distogliere lo sguardo, senza riuscirvi.
Non guardare in faccia il Diavolo, o lui si prenderà la tua anima, pensava, scavando nella mente alla ricerca di preghiere che non riusciva a ricordare.
Non aveva il conforto di Dio, non lì.
Il Diavolo che la donna stava invocando era una bestia a metà fra uomo e verme, un essere squallido e nudo che si contorceva, cercando di uscire da quelle fiamme dell’inferno che l’avevano generato e finendo a sbattere su pareti invisibili delimitate dal pentacolo. Ogni volta che il corpo osceno cozzava contro la barriera, un forte odore d’ozono ed escrementi riempiva l’aria. Allora la donna ne traeva una lunga boccata e rideva più forte, una risata cristallina da vergine che finiva nell’eco volgare delle prostitute.
Pezzi di pelle del demone-donna erano sparsi per terra mentre tratti di ossa macchiate di rosso brillavano attraverso il corpetto ancora integro. L’uomo si era accasciato al suolo, il corpo scosso da brividi così feroci da sembrare onde sulla pelle… o larve, che lo scavavano cercando di mangiargli l’anima. Nulla sembrava impossibile, non lì, alla presenza di quel rito blasfemo che non sapeva interrompere.
Interrompere…
Quell’idea parve aprire un solco nella mente paralizzata di Will. L’immagine di un ragazzino disteso in un letto, gli occhi sbarrati e vitrei e la bava bianca alla bocca, per un attimo sostituì il presente, oscurandolo. Avrebbe avuto circa l’età di quell’uomo, adesso… no, non era vero, ma sarebbe comunque cresciuto. Avrebbe avuto un futuro, un lavoro, una casa… un vita.
Edward era stato una vittima, come lo era adesso quello sconosciuto. E, nell’associazione irrazionale, Will seppe che doveva muoversi. Agire.
L’adrenalina prese il posto della paura, facendo martellare il cuore del ragazzo più forte. Senza pensare alle conseguenze, il giovane lasciò la sicurezza del rifugio e corse avanti, puntando al demone.
La donna fluttuava, sospesa ad un paio di centimetri dal suolo. Il suo viso era una maschera di nera essenza e osso, sulla quale solo un’ombra dell’avvenenza era ancora visibile. Un occhio, il sinistro, era collassato, sciogliendosi sulla guancia scavata mentre l’altro era esposto, spalancato come per la sorpresa. Non vide Will arrivare, troppo presa dall’estasi del rito, e una nota di stupore percorse le sue ultime parole mentre le braccia del ragazzo le avvolgevano la vita.
Rivoli neri come catrame sgorgarono dalle pieghe dell’abito. La cute del demone era calda come brace, percorsa da una miriade di frammenti che scivolavano sottopelle, come insetti brulicanti. L’odore che emanava era di decomposizione e marciume, troppo simile a quello che aveva sentito vicino al porto, dove i pescatori scaricavano la merce avariata.
Will trattenne un conato e tirò, vincendo l’orrore e la paura di trovarsi con solo metà del corpo del demone fra le braccia. Era così fragile!
Il demone reagì gridando il suo incanto e muovendo le braccia ossute, cercando di scavare nel volto di Will solchi vermigli mentre l’unico occhio restava incollato all’evocazione. La figura si contorceva ancora, ora spaventosamente nitida. Si rigirava fra volute di fumo che somigliavano ad una città orribilmente martoriata, spazzata da piogge rosse e dense.
L’uomo si alzò in piedi, tremante, e protese un braccio verso il demone. Will lo vide e, nonostante il timore per la sua vita, non cedette: si puntellò sulle gambe e allontanò la figura da quella di Edward2, spingendolo al contempo lontano. L’uomo scivolò e afferrò una gamba di Will che scalciò, impazzito, lasciando la presa sul demone, che rise ancora, un’eco blasfemo e disumano che avrebbe potuto far sciogliere la terra.
Will si girò, cercando di fuggire, e la su mano destra toccò qualcosa di caldo e farinoso, spingendolo lontano.
E improvvisamente tutto fu sommerso da un rombo acuto e perforante. Il suono di mille grida di dolore invase la chiesa, scuotendone i vetri, e una densa foschia rossa scese a coprire ogni cosa. Gocce vermiglie e calde avvolsero i presenti, riempiendo l’aria dell’odore di ferro e acqua. Will rotolò sulla schiena, cercando di tappare le orecchie e lavare via quell’orrenda pioggia dal volto, e lo vide.
Il Diavolo non era più costretto entro il cerchio spezzato e correva intorno a loro, urlando di gioia vendicativa.
Era libero.

 
 


 
 
 
 1 Un incendio distrusse il palazzo di Westminster il 16 ottobre 1834. La sua ristrutturazione avvenne fra il 1840 e il 1870. La storia si svolge nel 1844.
2 A scanso di equivoci, no, non è un errore: Will, sovraeccitato, crede quasi di vedere il fratello nell’uomo sconosciuto.

 
 
 
Piccolo Spazio-Me: Innanzitutto, ciao! Sono Aleena/Releeshahn, l'autrice di questo capitolo. 
Come avrete capito, questa storia è nata grazie a My Pride e al suo contest Round Robin "Your destiny in my hands, your chance in the choice that you need". La minilong, composta da quattro capitoli, è scritta da me, Melian e Aurora_Boreale, di cui vi invito a visitare le pagine, se volete :) Ovviamente, ogni capitolo riporterà il nome dell'autore e il link al suo profilo EFP! 
Inizialmente guardavo all'idea con un po' di paura, ma sono felice di aver preso parte al progetto: è stato divertente e piacevole collaborare con le altre autrici! Perciò un grazie a loro...
... e a te, caro lettore, che sicuramente vorrai farci sapere cosa ne pensi di questo nostro piccolo esperimento ;)

Le immagini per i bannr sono state prese in prestito dalla galleria Deviantart di Zephyrhant. Fateci un giro, ne vale la pena ;)

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Capitolo 2
*** Di Sangue e Vampiri ***


 

 
CAPITOLO II

DI SANGUE E VAMPIRI
 

 
  L'essere che si era appena liberato, spezzando il cerchio magico, si innalzò con un orrido scricchiolio di ossa sul punto di incrinarsi: era una massa scura che stava rapidamente assumendo sembianze umanoidi, sbozzandosi dall'aspetto primigenio tanto grottesco.
«Avete fallito. Pagherete», sibilò la belva con una voce ultraterrena che fece vibrare le pareti dell'edificio. «Tu, invece, mi sarai utile.»
Will si accartocciò sul pavimento, tappandosi le orecchie con le mani: la voce era talmente penetrante che rischiava di bucargli i timpani. I suoi occhi si mossero velocemente, come nella fase del sogno più intenso, prima di ribaltarsi. L'eco di quelle parole gli rimbalzò nel cervello. Con un gemito, si premette una mano contro la fronte: l'orribile sofferenza di un'ustione si impadronì di lui.
Non riuscì a vedere nulla, se non le due figure – la donna oscena e l'uomo pallido – che furono sbalzate via da una sventagliata d'energia. Qualcosa brillò sulla loro pelle, marchiato a fuoco.
Poi tutto finì in un silenzio improvviso, fondo e sgradevole.
La creatura sollevò la mano da cui colava una sostanza vischiosa, nera come la pece. Il tessuto della realtà si dilatò e strappò, schiudendosi in un cancello attraverso cui il mostro sparì, fagocitato dalla tenebra.
Will rimase schiacciato sul pavimento sudicio per un'infinità, spalancando gli occhi e boccheggiando solo alla fine nel tentativo di regolarizzare il battito impazzito del suo cuore. Si guardò attorno con terrore strisciante e non vide nulla.
Sembrava tutto tranquillo, il posto deserto. Aveva sognato? Possibile che fosse tutto frutto della sua immaginazione? Magari era scivolato, aveva battuto la testa e...
«Piccolo ficcanaso bastardo.»
Una mano, colma di una potenza inusitata, gli serrò la gola e gli mozzò il respiro. Will si ritrovò sollevato di peso da terra e scalciò debolmente con i piedi; gli occhi sgranati, le narici dilatate, mentre cercava di incamerare disperatamente aria. Fissò l'uomo che lo aveva afferrato con brutalità e sentì il rombo del sangue nelle orecchie. Ora che lo aveva così vicino, tanto che poteva solleticargli la faccia con il proprio respiro rantolante, si accorse di come si fosse ingannato: non somigliava per niente a suo fratello. E quel marchio sulla sua fronte, seminascosto dai lunghi capelli castani... cosa diavolo era?
«L-lasciami», esalò in un singulto, mentre la sua presa al polso del suo aggressore si faceva sempre più lassa.
In quel preciso istante, il marchio sulla sua fronte brillò e una potenza invisibile costrinse l'uomo a mollare la presa.
Will cadde di schianto per terra, tossendo convulsamente, con gli occhi invasi dalle lacrime.
Non ci pensò su, reagì d'istinto: fuggì senza voltarsi indietro, incespicando a più riprese sui propri piedi.

«Non è possibile», sussurrò Dorian con la voce ridotta a un roco ringhio, fissandosi la mano con cui aveva stretto Will solo pochi minuti prima.
«Deve avergli imposto un marchio di protezione», suggerì la sua complice, emergendo dalle tenebre come se ne fosse stata parte e camminando con la grazia di una creatura ultraterrena.
«A che scopo usare quell'uomo?», domandò Dorian subito dopo, percorrendo il perimetro di quello che rimaneva del cerchio magico bruciato.
«Dovremo scoprirlo. Sospetto che ci servirà per terminare quanto abbiamo cominciato.»
Dorian non sembrò sentire quelle parole o, forse, semplicemente, evitò di rispondere. Il suo sguardo tradiva un risentimento palpabile. Si chinò a raccogliere la polvere scura, impastata con il suo sangue, con cui erano state tracciate le complesse linee del sigillo e la fece scorrere tra le dita.
«Tutto rovinato. La mia fatica è andata sprecata. Avevo scelto accuratamente ogni componente, l'ora e il luogo esatto. Per un misero mortale, è andato tutto in fumo!», esclamò, rimettendosi dritto di colpo e fissando la donna con furia: nel fondo dei suoi occhi grigi indugiava un accenno di cremisi del Sangue Oscuro, uno sguardo di belva.
«Non c'è nulla di buono, in tutto questo. Adesso che lui è libero, non sarà semplice poter portare a termine il piano. Ci ha marchiati: ci troverà e vorrà vendicarsi, lo hai sentito.»
«Non se troviamo prima il modo di terminare il Vinculus. Ci serve l'umano; ho il sospetto che in quel marchio ci sia parte del potere della Belva: ha bisogno di rigenerarsi, ha bisogno di vittime e sacrifici. Userà il ragazzo per averle. E noi seguiremo la scia di morti che si lasceranno dietro.»
«Ecco come mai andiamo così d'accordo: hai il gusto del macabro», ironizzò la sua compagna con una risata argentina, distorta da un'eco innaturale. «Dividiamoci, allora. Riusciremo a trovare il nostro caro ragazzo più in fretta o, almeno, ad escogitare un modo per attirarlo da noi.» La creatura indugiò, mentre inclinava delicatamente il capo di lato e imbronciava le labbra. «Ammetto che mi piacerebbe davvero poterlo... stringere tra le mie braccia.»
Dorian si limitò a sorridere, allusivo, e il profilo aguzzo dei canini si intravide quando socchiuse la bocca.

Dorian lasciò le pietre arse di Soho per le aperte strade di Londra. Camminare nel dedalo di vicoli umidi e sudici, nella onnipresente nebbia che gli serpeggiava tra le caviglie, fu un piacere che non pensava si sarebbe potuto concedere, date le circostanze.
Ma aveva sete, ogni fibra del suo corpo gridava il bisogno di nutrirsi: aveva sprecato troppo sangue durante la cerimonia del Vinculus e i suoi sensi erano tesi, pronti a catturare la più remota presenza umana.
Non era, invero, difficile riuscire a trovare qualcuno tra i bassifondi della metropoli, soprattutto spingendosi lungo le sponde del Tamigi, dove si affastellavano le bettole più squallide e chiassose, in cui, per pochi denari, ti servivano birra e prostitute insieme. Lì dentro non esisteva riposo al gozzoviglio, che fosse giorno o notte.
Eppure, Dorian si spingeva tra quelle viuzze vestito come un uomo ricco e raffinato senza paura, beffandosi dei tagliagola che si nascondevano dietro agli angoli, pronti a rapinare chiunque capitasse loro a tiro. Passava accanto alle fumerie d'oppio e osservava l'ingresso dei postriboli con occhi cinico e clinico.
Aveva smesso di preoccuparsi dell'umanità che si affannava nella lotta per la sopravvivenza da almeno un centinaio di anni e aveva scoperto che guardare il susseguirsi di quelle vite tutte uguali e insignificanti non gli dava alcun piacere. Era un osservatore fuori dal tempo, che entrava nel mondo mortale solo per prendere il necessario e poi tornare a camminare solitario nella notte, nato bastardo e morto assassino.
La prostituta che gli si parò dinanzi, abbigliata con un corsetto e una gonna ampia, gli sorrise come se fosse stata la più pura tra le donne. Dorian non badò nemmeno a come fosse pesantemente truccata o alla volgarità della sua scollatura, come nemmeno della sottile disperazione sul fondo del suo sguardo annacquato dall'oppio.
«Siete un bel giovane, non dovreste stare qua, a quest'ora», lo apostrofò la ragazza che, a ben guardare, doveva aver poco meno di venticinque anni. «Siete in cerca di qualche avventura fuori dall'ordinario, milord
«Come ti chiami?»
«Sofie», concesse lei, incoraggiata dall'aspetto seducente del cliente.
«Sofie, eccoti una corona, mia cara. Adesso lascia che ti prenda», replicò Dorian, posandole nella mano una moneta d'oro.
Sofie sorrise, incredula, rigirandosi il denaro tra le dita. Non ebbe il tempo di dire nulla.
Dorian le sfiorò la guancia con le dita, quindi le avvolse la nuca e la trasse a sé, con un gesto imperativo e urgente. Le scoccò un lungo sguardo: la sottile malia dei Vampiri scavò nella mente della preda e abbatté ogni sua riserva.
Il predatore indugiò con le labbra lungo il collo di Sofie, rubando il calore di quella pelle che aveva conosciuto ogni oltraggio e ogni vergogna, ma che, in quegli attimi, conosceva invece il brivido di un piacere insano, molto più oscuro dei peccati che altri uomini avevano sfogato in passato.
Quando la sentì abbandonarsi completamente, Dorian affondò le zanne nella fragile gola: il morso fu talmente brutale da staccare un pezzo di carne e far zampillare il sangue in un improvviso fiotto. Bevve e bevve. Bevve fino a che il rantolo che gli gorgogliava in gola divenne un gemito di godimento. Dovette reggere Sofie non appena lei non riuscì più a tenersi in piedi, la strinse come se volesse spremerne l'intero corpo e torcerne ogni singolo organo.
La visione abbacinante che catturò assieme al sangue della prostituta lo stordì: Dorian non era preparato ad accogliere quel torrente di sensazioni, voci, immagini... Non amava quella comunione con i mortali. Erano solo carne da macello, da usare e poi gettare.
Contrariato, dovette staccarsi da quella fonte di vita: Sofie aveva gli occhi sbarrati, le labbra socchiuse in un ultimo anelito di piacere, ma le sue membra erano fredde e il cuore aveva ceduto di schianto.
Dorian aprì le braccia e la lasciò scivolare per terra. La contemplò l'ultima volta: coi riccioli scuri che, dalla crocchia sfatta, si allargavano in una pozzanghera in cui era immerso il viso, Sofie aveva perso di colpo ogni attrattiva.

Con la mente più lucida grazie al pasto appena consumato – il sangue correva in ogni cellula del suo corpo, riverberando come una sferzata d'energia – Dorian riusciva a vedere tutto molto più chiaramente e a figurarsi quello che avrebbe dovuto fare.
Il ragazzo che aveva interrotto la sua delicata opera, in fondo, non poteva essere andato troppo lontano.
Dorian sapeva leggere i segni, rintracciare simboli, trovare il modo d'incastrare nel suo sapere ogni formula magica, ogni simulacro mistico. Un Magister Officiorum come lui era, tra i Vampiri, una personalità di spicco piuttosto controversa: esperto di occultismo, era però anche inviso, guardato con sospetto e additato, poiché non tutti apprezzavano la connivenza dei Vampiri con altre creature sovrannaturali. Dorian non faceva eccezione.
Tuttavia, aveva deciso di allearsi con la Succube per ottenere tutto ciò che aveva sempre desiderato: incatenare un potere superiore ai propri voleri e ottenere il dominio sulla vecchia Londra. Avrebbe così scacciato tutte le congreghe di Vampiri e sarebbe stato signore indiscusso della città; anzi, probabilmente, con un'arma di quella portata tra le proprie mani avrebbe potuto sconfiggere la maledizione della sua razza e affrontare la luce del sole. Aggirarsi di giorno avrebbe significato liberarsi dell'unico punto debole che non avrebbe mai potuto superare e ottenere un vantaggio su qualsiasi altro Vampiro. Il suo piano era troppo importante per essere abbandonato.
Dorian si fermò davanti alla vetrina di una bottega e osservò il proprio riflesso: i lunghi capelli castani, i vestiti eleganti e sopratutto il marchio impresso sulla fronte. Si toccò il viso, percorse in punta di dita quel simbolo; sapeva perfettamente che poteva essere facilmente rintracciabile da chi lo aveva apposto, purtroppo. Per un momento si sentì braccato, un predatore costretto allo spiacevole ruolo di preda.
Percorse con passo più celere la strada acciottolata, scansando una carrozza trainata da un cavallo baio e un vecchio ubriacone che aveva deciso di cantare a squarciagola sotto una finestra e attirarsi l'ira del padrone di casa.
Ben presto optò per una rapida scalata dei tetti: la sua agilità gli consentì di saltare come un gatto e di spiare agevolmente i vicoli, una ragnatela intricata e fitta.
Fu allora che lo vide: presenza intangibile ad occhio nudo, l'aura mefitica che si dipanava nell'aria era inconfondibile. Si innalzava come una grande ombra a oscurare il cielo di quella notte senza luna, come se una cappa di tenebrosi presagi avesse ammantato l'intera Londra e si stesse approntando un bagno di sangue. C'era odore di morte e Dorian lo intuiva: stava per scatenarsi la tempesta.
«Non c'è tempo da perdere. Se completerà la sua formazione, sarà incontrollabile», considerò a mezza voce, distogliendo lo sguardo dalla linea dell'orizzonte e dal filo di tensione elettrica che lo percorreva sotto forma di sottili scintille bluastre.
Snudò il polso sinistro e lo incise con l'unghia in un taglio netto e preciso, lasciando fluire il Sangue Oscuro in un rivolo in cui intinse il polpastrello. Con l'indice, disegnò sul braccio un intricato simbolo e, infine, vi premette il dito nel centro.
«Shanzhai, vieni!»
Per un istante, sembrò che non fosse accaduto nulla, poi le gocce scarlatte caddero come a rallentatore e schizzarono qua e là, turbinando. Attraverso quella cortina, il Magister Officiorum richiamò la sua complice.
Shanzhai mise piede sul tetto della casa di mattoni rossi e si guardò attorno con un piglio fintamente svampito. «Che posto, per incontrarci!»
«Non è il momento per formalizzarsi. Come puoi intuire, lui si sta già dando da fare. Dobbiamo trovare il ragazzo.»
Shanzhai si pose una mano lungo il fianco tornito, appena pronunciato, dedicandogli un sorriso sordido e furbo. «Allora sarai felice di sapere che l'ho individuato e ho scoperto qualcosa di interessante su di lui. Ora so come attirarlo e, anche se non possiamo toccarlo, avremo modo di lasciare che se ne occupi qualcun altro.»
«Mi rendi un uomo felice», chiosò Dorian con un accenno di cupa ironia.
 
 


 
 
 
Eccoci arrivati al secondo capitolo di questa strana e fantastica avventura!
Non avevo mai scritto una round robin, ma la possibilità offerta dal contest di My Pride era davvero troppo golosa per lasciarsela scappare.
Sono felice di aver contribuito, anche se nel mio piccolo, a portare avanti questa sfida che vede coinvolte non solo me, ma anche le mie talentuose colleghe: Aleena e Aurora_Boreale


In questo capitolo ho cercato di offrire uno scorcio di uno dei nostri baldi protagonisti, Dorian, un Vampiro... ma guarda un po'! Per chi mi conosce, infatti, si ritroverà a pensare che fosse una scelta praticamente ovvia. Comunque, ho tentato di presentare un Vampiro occultista, l'idea mi stuzzicava molto.

Vedremo come proseguirà questa folle corsa contro il tempo!


Melian

 
Le immagini per i bannr sono state prese in prestito dalla galleria Deviantart di Zephyrhant

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Capitolo 3
*** Musica dall'oltretomba ***


 

 
CAPITOLO III

MUSICA DALL'OLTRETOMBA
 

 
  Il cimitero di Kensal Green1, tanto amato dai londinesi durante il giorno, aveva tutt’altro aspetto a quell'ora della notte. I raggi della luna, che era finalmente apparsa dalla cortina di nubi, erano l'unica fonte di luce, oltre al bagliore di qualche fiaccola di candele, disposte qua e là tra le tombe. La nebbia si diramava tra le lapidi come un’eterna compagna, nascondendo alla vista i viali stretti e ben curati. Il silenzio, rotto solo dal richiamo lugubre di un allocco, la faceva da padrone.
Nessun mortale con un minimo di buon senso si sarebbe addentrato in quel luogo al calar del sole e forse era grazie a tale convinzione che Dorian e Shanzhai si erano inoltrati nel cimitero come se fossero i possessori del posto. I loro passi erano sicuri, segno che la loro vista era ottima in quel chiarore, così lieve da rendere solo più pronunciata l'intensità delle tenebre.
Le due figure si allontanarono dalla zona adibita alla sepoltura dell’aristocrazia e della borghesia più abbiente, caratterizzata da cappelle private e mausolei in stile dorico, arricchite da una sovrabbondanza di statue raffiguranti madonne e cherubini, per raggiungere gli acri riservati al ceto medio. Qui le lapidi si susseguivano le une alle altre, disposte in file ordinate, senza troppi ornamenti ad abbellirle.
«È questa», sentenziò Shanzhai, bloccando il suo incedere per indicare una stele recante una scritta semplicissima:

 
Qui riposa Edward Smith
 1821 - 1837

«Era il fratello maggiore di quel piccolo ficcanaso bastardo, come l’hai gentilmente apostrofato», proseguì la donna, la voce che non poteva trattenere una nota di profonda soddisfazione.
Dorian, non appena sentì quelle parole, gioì biecamente; all’esterno non manifestò nessuna di quell’ilarità, fatta eccezione per il suo labbro superiore che si arricciò in un piccolo ghigno, mentre gli orli della sua camicia di lino ondeggiavano nel vento e una ciocca di capelli gli sferzava la guancia pallida. I refoli d’aria non erano così impetuosi da rovinare l’elaborata annodatura della cravatta2, che si mantenne perfetta nella sua inamidatura.
Quella, pensò, era una notizia troppo bella per essere vera. Dopo secoli tra i mortali era perfettamente conscio di quanto essi fossero legati ai propri familiari estinti: un uomo avrebbe fatto qualunque sacrificio pur di far rivivere una persona amata.
«Ottimo lavoro, mia cara. Come sempre ti sei dimostrata degna della tua nomea.»
A tale palese lode, la Succube si esibì in un inchino faceto, poi rise, gettando il viso all’indietro, il collo di cigno messo in piena mostra; la sua ilarità riecheggiò tra le fronde degli alberi coprendo ogni altro suono. In quell’attimo, ergendosi lì nel ricco abito color borgogna, i capelli biondi rilucenti dallo spicchio lunare, apparve per quello che era: di una bellezza crudele.
Pian piano la risata si spense, mentre nell’aria ne persisteva un vago eco. Portandosi un ricciolo sfuggito dall’elaborata acconciatura dietro all’orecchio con fare distratto, si volse verso il suo complice. «Tu pensa a creare il cerchio, io intonerò l’evocazione.»
«A me il dovere, a te il piacere?»
«Mi sembra ovvio. Dopotutto qui, tra noi, sono io la massima esperta nel piacere», fece lei con voce languida, accompagnando quell’affermazione con un sorriso tanto innocente che avrebbe sciolto il cuore dell’uomo più stoico.
Dorian, però, essendo immune al potere del suo fascino, si limitò a uno sbuffo condiscendete. «Non perdiamo altro tempo: dobbiamo risolvere il problema prima che arrivi l’alba.» Senza esitazione si tolse un guanto e lo infilò nella tasca dei pantaloni; la mano esposta era talmente pallida da rivaleggiare con il candore dell’indumento appena levato, con dita affusolate e unghie curate, prive della minima imperfezione. Si portò l’indice alla bocca, ignorando lo sguardo della Succube che lo fissava con ampi occhi luminosi, nei quali si annidava un misto di soggezione e fascinazione. Il canino perforò la pelle con precisione chirurgica e piccole gocce cremisi cominciarono a cadere sull’erba umida di rugiada. Dorian, tenendo il braccio proteso in avanti, iniziò a girare attorno alla lapide; al contempo Shanzhai cominciò a cantare: dapprima le note erano basse, appena udibili, poi, mano a mano che il Magister offriva la propria essenza per il cerimoniale, la sua voce si elevò in potenza, diventando sempre più graffiante. Al suo canto sembrava che si unissero gli echi di altre mille voci, che venivano dal nucleo della terra stessa. L’aria crepitò d’energia, ma la Succube non ci fece caso, troppo concentrata nel portare a termine il suo compito; si muoveva svelta in cerchio al fianco di Dorian, l’ampia gonna ondeggiante con i suoi passi. Se qualsiasi essere umano avesse ascoltato quella litania avrebbe perso sia l’udito che il senno: non erano suoni confacenti alla delicata costituzione dei mortali.
Finalmente, dopo secondi che parvero ore, la terra si smosse come se fosse stata scossa da un tremito. Una mano ingrigita si protese dalle zolle d’erba, seguita presto dalla sua gemella, come se volesse ghermire qualcosa. Con sibili e gemiti gutturali lo zombie iniziò a fuoriuscire dalla sua prigione naturale, mentre la terra cadeva come un torrente tutt’attorno.
Un tempo Edward doveva essere stato un bel ragazzo, pensò Shanzhai, mentre osservava la lenta uscita del cadavere, ma di quel fascino giovanile era rimasto ben poco: la pelle appariva cinerea, macchiata di marrone, le orbite oculari vuote rendevano il viso ovale grottesco a vedersi.
Quando lo zombie fu fuori del tutto, ella smise di cantare. «Potremmo lasciarlo così», disse malignamente. Già si prefigurava la reazione del ragazzo cui davano la caccia nel momento in cui avrebbe riconosciuto il fratello; ci sarebbero state di sicuro urla terrorizzate e niente era più meraviglioso dell’odore della paura. Forse solo il culmine di un amplesso.
«Sai che non possiamo», gli fece presente Dorian, avvicinandosi al cadavere, che se ne stava seduto con il busto accasciato contro la lapide. Emetteva ancora bassi gorgoglii, la testa che ciondolava ad un ritmo esasperante. Era solo un corpo rimesso assieme con il potere della magia, privo di una qualsiasi volontà. «Ma ti prometto che, se portiamo a termine questo compito, potrai resuscitare tutte le salme che vorrai e terrorizzare l’intera Londra.»
Oh, questa sì che è un’idea allettante, pensò Shanzhai, le labbra che si distendevano in un sorriso ferino. Si immaginava avanzare tra le strade della città a capo di un esercito di cadaveri: avrebbe marciato alta e fiera, seminando panico e distruzione. Nella sua scia avrebbe lasciato le vie piene di corpi di uomini, di donne e bambini; non ci sarebbe stata nessuna distinzione tra la nobildonna e la prostituta, tra il fornaio e il marinaio, tra il garzone e il figlio di un ricco borghese. Dopotutto, nonostante le credenze di quegli sciocchi superstiziosi, tutti erano uguali davanti alla morte.
«Prima però pensiamo al fuggiasco. Non vedo l’ora di vederlo contorcersi e soffocare sotto le mani del suo stesso fratello.» Dorian si passò la lingua sui denti, quasi a ricercare sulla propria pelle il sapore della vittoria. Edward Smith sarebbe stata l’arma per conquistare tutto ciò che bramava: la fine dell’uomo che aveva osato rovinare la sua evocazione più magnificente e, tramite essa, il controllo della Belva che gli avrebbe garantito un potere inimmaginabile, talmente grande che avrebbe finalmente potuto esporsi senza timore alla luce abbacinante del sole.
Lo zombie, in quanto un essere in bilico tra il mondo mortale e quello immortale, non era soggiogato a nessuna legge. Lo avrebbe usato per aggirare il marchio di protezione che la Creatura aveva impresso sul giovane.
L’aura mefitica che aveva precedentemente avvertito per la città si fece d’improvviso più ricca e pesante, portando con sé un presagio di sciagura; Dorian scoccò una rapida occhiata a Shanzhai e non ci furono bisogno di parole per capirsi: il tempo a loro disposizione era agli sgoccioli. Con un movimento fluido ed elegante, dato da millenni di pratica, disegnò con il polpastrello uno stilizzato pentacolo sulla fronte del cadavere; il segno rosso ebbe un baluginio prima di sparire senza lasciare traccia. «Evigila et age!3» comandò il Magister.
La reazione al sortilegio avvenne nel tempo di due battiti di ciglia: le orbite inquietanti lasciarono il posto a due iridi nocciola, i capelli, precedentemente un groviglio indomabile, ricaddero come fili di seta castana a incorniciare un viso che aveva ritrovato un colore rosato. Un aspetto tanto sano probabilmente Edward non l’aveva posseduto nemmeno in vita. Ovviamente Dorian sapeva che era solo un’illusione: gli occhi si potevano confondere, ma non l’olfatto; attorno al corpo evocato, infatti, aleggiava un odore di putrefazione che nessuna magia sarebbe stata in grado di sopperire.
Nonostante i recenti miglioramenti, il volto dello zombie era rimasta privo di espressione; non era altro che uno strumento, un fantoccio nelle mani del suo proprietario, pronto a compiacerne ogni ordine e desiderio.
«Presta attenzione al tuo Magister.» La voce di Dorian era perentoria, il tono di uno che si aspettava di essere ubbidito. «Ora ucciderai in mio nome per la mia causa e io ti darò la libertà più grande data all’uomo: io ti dico che è giusto uccidere tuo fratello4. Va’ a cercarlo. Stanalo come un gatto inseguirebbe un topo e, una volta trovato, finiscilo!»
Lo zombie si alzò e iniziò a incamminarsi; il suo incedere era claudicante, come se non rammentasse più come utilizzare i piedi e la sua avanzata era accompagnata da una serie di grida soffocate, inframmezzate a sbuffi d’aria, il prodotto di un apparato vocale non più adatto per creare suoni coerenti. Dorian e Shanzhai si limitarono a seguirlo: sembrava la macabra rappresentazione di una scena di passeggio, con i due padroni a portare a spasso il cane.

Will corse come se avesse avuto il Diavolo alle calcagna; la sua celere falcata rimbombava tra le strade anguste e maleodoranti. Troppo scioccato per ragionare, lasciò il proprio istinto condurlo verso casa. In quel momento era come un animale braccato che lottava per mettere in salvo la propria vita. Si sentiva addosso un senso di mortale pericolo; lo percepiva quasi come un essere vivo, viscido e strisciante sottopelle. Rabbrividì. Era una sensazione orribile che non aveva mai provato prima.
La nebbia sembrava farsi sempre più fitta, l’aria attorno inasprirsi di umidità. Preso dalla sua concitazione, troppo tardi si accorse di un uomo che camminava con passo ondeggiante sul ciglio della strada; lo urtò di striscio, incespicò e per poco non ruzzolò a terra, ma per fortuna i suoi riflessi erano tali da permettergli di mantenersi in equilibrio, sebbene con movimenti piuttosto sgraziati.
L’altro, invece, perse il proprio baricentro e cadde, lasciandosi scappare una serie di maledizioni e bestemmie tali che Will fu tentato di farsi il segno della croce. In altre circostanze si sarebbe scusato, ma anche ad un metro di distanza poteva avvertire l’odore di alcol e il ragazzo sapeva che non c’era niente di peggio di un ubriaco di cattivo umore. Aveva già abbastanza problemi senza crearsene di nuovi.
Inspirò velocemente due grosse boccate d’aria, cercando di ignorare la zaffata di piscio che gli aggredì le narici, poi riprese a correre. Così concentrato su sé stesso, non udì il rantolo dell’uomo che si era lasciato alle spalle, né vide la sua espressione farsi scioccata prima di accasciarsi al suolo come una bambola di pezza, gli occhi grandi a fissare il nulla, mentre una nebbia bluastra aleggiava tutt’attorno.
La mente di Will era focalizzata solo su un’unica cosa: arrivare a casa. Sollevato nel constatare che non mancasse ancora molto, svoltò l’ultimo vicolo che lo avrebbe condotto al palazzo dove risiedeva. Gli sfuggì un sorriso alla vista della finestra della propria camera da letto. Le stanze che era riuscito ad affittare si trovavano al terzo piano di un palazzo che aveva visto tempi migliori, privo di basamento e di rifiniture, ma Will sapeva che non poteva lamentarsi troppo. Il proprietario, che possedeva il negozio di frutta e verdura posto al piano terra, era un uomo rubicondo d’aspetto ma buono d’animo, che non mancava mai di fargli omaggio di qualche ortaggio in cambio di piccole manutenzioni del proprio locale. Viveva con la famiglia e i quattro figli al secondo piano e la convivenza era pacifica. A volte Will, chiuso tra le mura delle sue stanze, si permetteva di ripensare alla sua dimora d’infanzia e a suo padre che, con il suo lavoro di contabile, era riuscito a elevare la propria condizione. Ricordava ancora la casa a quattro piani dove aveva vissuto quei primi anni spensierati; con gli occhi della mente ripercorreva gli scalini dell’ingresso, si raffigurava le finestre decorate, il piccolo fazzoletto di terra che abbracciava la casa sul retro, delimitata da un muro in mattoni non intonacato. In quel piccolo giardino aveva giocato con Edward, tra i panni stesi al sole e il sottofondo del chiacchiericcio delle due cameriere mentre sbattevano i tappeti.
Poi la buona sorte, volubile come una nobildonna, aveva girato loro le spalle e era arrivata la malattia; e la morte che, traditrice, aveva portato con sé sia il padre che il fratello.
Con impeto Will salì le scale che conducevano al suo piano e, dopo aver aperto la porta con una foga tale da rischiare di scardinarla, si precipitò dentro. Fu solo allora, in quell’ambiente tanto familiare, fatto di pareti spoglie e di mobili essenziali, che riuscì a tirare un sospiro di sollievo. Il cuore gli rimbombava nel petto, il corpo era imperlata di sudore; sapeva che, se si fosse guardato allo specchio, l’oggetto avrebbe riflesso un paio di occhi grandi e spiritati.
Con passi strascicati si portò a letto e lì vi si abbandonò, esausto.
È stata un’allucinazione, solo un’allucinazione, tentò di convincersi. Hai lavorato troppo. Adesso ti fai una bella dormita e al risveglio tutto sarà migliore.
Will cercò di rilassarsi e non pensare alla scena a cui aveva assistito; si rigirò più volte tra le coltri nella speranza di trovare una posizione confortevole, mentre la sua mente gli propinava un caleidoscopio  di immagini di figure spettrali, di donne belle e crudeli e di creature mostruose sputate dal ventre della terra. Forse, rimuginò tra sé, il suo collega John Carrent non era così esagerato nei suoi moniti superstiziosi.
Quando si rese conto che, nonostante la stanchezza, non riusciva a prendere sonno, si alzò a sedere sul materasso. Allungando solo il braccio, raggiunse la scatola armonica posta sul cassettone accanto al letto, unica reminiscenza tangibile di una infanzia più abbiente e spensierata. Il carillon era stato un regalo del padre per lui ed Edward e ora, osservando la scatoletta di legno intarsiata, Will si rese conto di quanto fossero diverse le sue mani, ingrigite e indurite dal lavoro, da quelle di quel bambino di quattro anni al momento della ricezione di quel dono inaspettato.
Con l’animo ricolmo di nostalgia, Will iniziò a girare la manovella: la musica si propagò tra le mura, le note non più limpide a causa dell’usura del tempo che ne avevano inceppato gli ingranaggi. Non ci fece caso, cominciando a mormorare le parole che aveva sentito tante volte dalla madre.

 
E della luna un giorno scese
Circondato da mille luci
La mano al Sovrano prese
E gli parlò con mille diverse voci…

Era stonato proprio come la genitrice, ma non era importante visto che nessuno era lì per sentirlo. Quella melodia riuscì a calmarlo e si addormentò così, seduto contro la testata del letto, il viso ciondoloni, la bocca socchiusa e, tra le mani, il suo bene più prezioso.
 
 
 


 
 
 
 1 Il primo dei grandi cimiteri vittoriani a scopo commerciale, aperto nel  1833 in 54 acri di terreno nel nord di Londra (ora sono 72), del quale solo 39 acri erano consacrati, i rimanenti erano riservati ai non credenti o non anglicani. Il cimitero fu costruito su piani di Sir John Dean Paul che volle uno stile greco classico, mentre altri avrebbero preferito lo stile neo-gotico, tanto in voga in quegli anni. 

Il fazzoletto da collo o cravatta diventa un accessorio indispensabile dell'abbigliamento maschile. All'epoca si trattava di una lunga striscia sottile di lino o seta che si girava più volte attorno al collo e si annodava sul davanti. C'erano diversi tipi di nodi con cui poteva essere annodata una cravatta, alcuni considerati più formali, altri più adatti alle occasioni informali. Alcuni semplici, altri complicatissimi.

3 Dal latino: Svegliati e agisci!

4 "Ora ucciderai in mio nome per la mia causa e io ti darò la libertà più grande data all’uomo: io ti dico che è giusto uccidere tuo fratello" è una citazione tratta da "La regina dei dannati". Era uno degli obblighi del contest.

 
  
 
Bene, ed ecco qui anche il terzo capitolo di questa storia, che sta diventando sempre più folle e imprevedibile! 
Devo dirlo: non ho mai scritto nel genere horror ed ero terrorizzata di non essere in grado di scrivere nemmeno mezza riga. Ammetto che, da totale inesperta, questo capitolo è stato ostico - non pensavo che scrivere di riti e zombie fosse tanto difficile! - ma spero non abbia deluso le aspettative. 
Ringrazio molto il contest di My Pride che mi ha permesso non solo di cimentarmi in qualcosa di nuovo, ma soprattutto mi ha dato la possibilità di conoscere le altre autrici che partecipano con me a questo meraviglioso progetto: Aleena
e Melian
Vi auguro buona lettura!


Le immagini per i banner sono state prese in prestito dalla galleria Deviantart di Zephyrhant: fateci un salto, perché la disegnatrice è davvero brava!

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